THE NAME OF JESUS

di SkysCadet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ANTEFATTO ***
Capitolo 2: *** UN SOGNO ***
Capitolo 3: *** MANDATO ***
Capitolo 4: *** RAPITO ***
Capitolo 5: *** ESPERIENZA ***
Capitolo 6: *** UNIVERSITA' ***
Capitolo 7: *** CASUALITA' ***
Capitolo 8: *** REGNI ***
Capitolo 9: *** SCELTE ***
Capitolo 10: *** DUBBI ***
Capitolo 11: *** RIVELAZIONI ***
Capitolo 12: *** LA CONFRATERNITA ***
Capitolo 13: *** SCHIAVO ***
Capitolo 14: *** NE' FREDDO, NE' FERVENTE ***
Capitolo 15: *** ADDIO ***
Capitolo 16: *** UN PASSO INDIETRO: JOSHUA ***
Capitolo 17: *** QUEL NOME ***
Capitolo 18: *** FILADELFIA ***
Capitolo 19: *** LUCI E TENEBRE ***
Capitolo 20: *** UN REGALO ***
Capitolo 21: *** IL DARK LITHIUM ***
Capitolo 22: *** NON HAI PAURA? ***
Capitolo 23: *** DAL GHIACCIO AL FUOCO ***
Capitolo 24: *** UN PASSO INDIETRO: ARIEL ***
Capitolo 25: *** L'AMORE NON ESISTE ***
Capitolo 26: *** IL POTERE DEL NOME ***
Capitolo 27: *** LA FORZA DELL'AMORE ***
Capitolo 28: *** LA FORZA DELL'AMORE pt.II ***
Capitolo 29: *** LA FORZA DELL'AMORE pt.III ***
Capitolo 30: *** LA POSSIBILITA' DELL'IMPOSSIBILE ***
Capitolo 31: *** AL SICURO? ***
Capitolo 32: *** LA FEDE DI FILADELFIA ***
Capitolo 33: *** IL TEMPO DI DIO ***
Capitolo 34: *** COME LA PIOGGIA ***
Capitolo 35: *** UN ALTRO AMORE ***
Capitolo 36: *** IL PIU' SANTO PECCA ALMENO 7 VOLTE ***
Capitolo 37: *** TRASFORMARE IL MALE IN BENE ***
Capitolo 38: *** "CHE CI FAI QUI?" ***
Capitolo 39: *** PAZZIA ***
Capitolo 40: *** UN PASSO INDIETRO: ACAB ***
Capitolo 41: *** UN COLPO AL CUORE ***
Capitolo 42: *** LE RISPOSTE DI UNA VITA ***
Capitolo 43: *** NESSUNO PUO' SALVARTI ***
Capitolo 44: *** UNA LETTERA ***
Capitolo 45: *** EPILOGO ***
Capitolo 46: *** UN PASSO INDETRO: ARIEL E CALEB ***



Capitolo 1
*** ANTEFATTO ***


In un pezzo di terra, lambita da un mare schiumante, dove colline verdi circondavano una fertile pianura e un aspro monte sovrastava il paesaggio, lì sorgeva Filadelfia.

Le stradine di impronta medievale dei borghi periferici scendevano giù, lasciando gradualmente il posto allo stile liberty delle abitazioni signorili del centro città. Proprio lì, gli abitanti pacifici si riunivano nella piazza centrale, decorandola di ombrelloni variopinti e allestiti per il mercato ortofrutticolo settimanale, sotto gli occhi vigili dei gargoyles della Cattedrale delle Sette Chiese.

Tra le tante persone, un uomo con gli occhi color nocciola fissi nel vuoto di una delle numerose bancarelle, sembrò non accorgersi del mercante che gli porgeva una busta trasparente piena di frutti di stagione. Era inutile, nonostante lo stesse richiamando più volte, Simon non riuscì ad alzare lo sguardo verso l'anziano venditore. I capelli sferzavano il mento lievemente barbuto, riuscendo a nascondere le gocce trasparenti che gli rigavano la guancia.

Camminò a passo lento, ascoltando riecheggiare le suole sul marciapiede, vestito di una camicia sgualcita e dei pantaloni marroni, ascoltando giovani passanti ridacchiare e anziani signori parlare degli ultimi misteriosi rapimenti avvenuti in città.
Non si meravigliò: gli abitanti sapevano solo quello che avrebbero dovuto sapere.

Simon percorse quella strada ad occhi bassi per non incrociare il suo sguardo riflettersi nelle vetrine dei negozi di abbigliamento e di ristoranti rinomati e, mentre le maestose campane della Cattedrale intonavano il canto di mezzogiorno, si passò una mano tra i capelli castani aumentando il passo.

Poi un boato, come un'esplosione e un violento spostamento d'aria, lo fecero cadere al suolo. Venne rapidamente sormontato da una coltre di fumo grigio e calcestruzzo.

Avendo subito il colpo d'aria, si ritrovò a terra, carponi, tra i gli ampi ombrelloni del mercato, caduti come alberi sradicati. Lo sguardo vagò attraverso il grigiume, con occhi sottili e una mano sulla fronte a bloccare i detriti provenienti da una zona antistante la via percorsa dall'uomo. Le narici inalarono inevitabilmente le polveri e i bronchi soffocati iniziarono a tossire.

Si era verificato tutto nella Centrale di Polizia, situata nella via parallela a quella che l'uomo stava percorrendo.
Lì vi era il Commissario Capo della Polizia di Filadelfia: un uomo ben voluto da tutta la comunità. A parte loro...

«Bene, bene...» pronunciò una voce calda ma alquanto tagliente e ostile. Quella voce venne rivolta al figlio del Commissario, trovato ad attendere il padre nella piccola stanza pregna dell'odore di carta impolverata e librerie alte fin al tetto; l'unica finestra aperta si affacciava sulla strada principale.
L'uomo alto e slanciato, vestito di un completo nero lucido teneva i palmi poggiati sulla scrivania piena di carte e fascicoli impilati, con un sorriso arrogante; il pizzetto, i baffi e i capelli neri di media lunghezza circondavano il viso scarno. Gli occhi dal taglio fine erano azzurri come acqua cristallina e, in quel momento, il giovane capì chi aveva di fronte.
Abbassò il capo per non incrociare il suo sguardo magnetico e si alzò di scatto spostando la sedia rumorosamente.
«Cosa ci fai tu qui?» domandò il giovane dai riccioli bruni.
L'uomo di fronte a lui si drizzò, portando le mani dietro la schiena; dopo un paio di passi prese un fascicolo tra le mani e glielo mostrò. «Devi dire a tuo padre che se non fa sparire questa inchiesta, io farò saltare in aria la Centrale con dentro il suo amato figlioletto». L'uomo si riferiva a quel che era successo quella mattina: era stato arrestato un uomo facoltoso, accusato di traffico di stupefacenti e rapimenti. Dall'inchiesta, portata avanti dal Commissariato, si palesava lo stretto legame tra i criminali accusati di violenze, rapimenti, traffico di droga e membri della loggia Lucifer.
«Mai!» ringhiò tra i denti il giovane, con i pugni stretti ai fianchi.

Subito dopo, udì un fischio che giunse acuto fino ai suoi timpani e, in quel preciso istante, una forza invisibile lo prese dal colletto della camicia e lo scaraventò fuori dalla finestra. Quell'uomo senza nome l'aveva spostato col solo gesto della mano sinistra.

Una volta sul marciapiede, il ragazzo non fece in tempo ad alzarsi e scappare, perché l'esplosione lo scaraventò a molti metri di distanza.


Quando Simon arrivò di fronte alle macerie della Centrale di Polizia, il fumo, ancora fitto e impenetrabile, mostrava l'ombra di un uomo statuario e dal fisico longilineo. I due occhi zaffiro lo squadravano con astio, mentre i pugni chiusi si stringevano e la nuvola di detriti e polveri pian piano si diradava.
Quegli occhi, sgranati, gli furono mostrati nel grigiume spazzato via da un vento improvviso e impetuoso. Mentre un rivolo di sudore ghiacciato gli imperlava le tempie, Simon avvertì una fitta all'altezza dello stomaco.
Poi, d'un tratto, quell'uomo dai capelli corvini, vestito interamente di nero, divenne improvvisamente pallido e tremante; nel muovere un passo indietro, incespicò in un mattone e, trovandosi ormai sull'asfalto, iniziò a balbettare qualcosa di indefinito e indicare un punto alle spalle di Simon, che lo fissava con sguardo confuso e fronte aggrottata.

Qualcosa aveva costretto l'attentatore a creare un varco spirituale di fronte a Simon e ad immergersi in una nube nera, una condensa oscura e tenebrosa. Simon si passò le mani incrociate tra i folti capelli castani prima di accorgersi di non essere solo.

Abbassò lo sguardo ai suoi mocassini marroni, attorno ai quali saettavano fulmini incandescenti, mentre, alle spalle, un calore dolce e penetrante fino alle midolla lo costrinse a rivolgere lo sguardo dietro di sé e incontrare gli occhi albini di tre figure luminescenti dalle armature sfolgoranti: tre esseri alati che l'avevano circondato, in una bolla di luce abbagliante.
 

***
 

«Ogni potere mi è stato dato, in cielo e sulla terra.»
-Gesù Cristo

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Capitolo 2
*** UN SOGNO ***


«Padre, ho questo sogno ricorrente da tre giorni ormai...»

«Di cosa si tratta Lucia? Perché ti turba, piccola?»

«Ecco, perché sembra reale...»

«Allora raccontami, sono tutto orecchi»

«Vedo i piedi scalzi di una signora, che cammina lentamente su un pavimento di cristallo luminosissimo. Il suo abito sfiora il suolo. Un abito bianco, velato. Lei ha la pelle chiarissima, quasi brillante di una luce propria. Ma non è lei che brilla. Si dirige a passi lenti verso un enorme spiazzale, in cui, vedo una scalinata chiarissima, su cui si erge un trono d'oro...»

«Perché ti sei fermata? È finito il tuo sogno?»

«No, è che mi emoziono sempre a pensare a Lui

«Lui chi?»

«Colui che siede sul Trono...»

«Ah, capisco, ma non ti preoccupare delle tue emozioni, fammi vedere con i tuoi occhi puri chi è seduto sul Trono d'oro»

«Lui è... è bellissimo, sorride, come se quella signora fosse il suo orgoglio; poi apre le braccia, delle braccia lunghe e forti. Il viso è come il sole, ma riesco ad intravedere una barba sfatta da qualche giorno e i capelli lunghi fino alle spalle. I capelli e la barba sono bianchi, ma... ma...»

«Ma?»

«Ecco, sembra che lui abbia trent'anni. E poi, aspetta, sì, ora sto ricordando altre cose!»

«...Non avere fretta, sono qui. Il tuo dono è così potente che c'è bisogno di curarlo pazientemente come un fiore»

«Ecco, sì, nei palmi delle mani del re ci sono dei fori...»

«Quindi è un re che aspetta la sua regina?»

«No, non proprio padre, no, lui non ha una corona, è scalzo pure lui, come la donna, ma è come se la donna fosse sua figlia...»

«E da cosa l'hai capito?»

«Lo so e basta.»

«Bene, è finito il sogno? Vuoi che te lo interpreti?»

«No, no, aspetta! Lui dice qualcosa. Lui dice: "Leone di Dio, siedi con me e giudica il mondo

 

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Capitolo 3
*** MANDATO ***


«Gesù Cristo stesso dice di noi: "Chi ascolta voi, ascolta me, chi non ascolta voi, non ascolta me". Dunque, noi, che crediamo in Lui, siamo come Lui, fratelli, abbiamo la stessa missione: salvare nel nome dell'amore».

L'uomo parlò alla platea della Chiesa di Filadelfia, scrutando i volti dei suoi fratelli. 

La piccola Cappella era gremita di fedeli dai volti scuriti, a pochi giorni dalla perdita del predecessore di Simon. Proprio lui, un uomo sulla trentina, con barba incolta e capelli lisci castani, si sentiva non compreso da coloro che lo avevano sempre visto come un semplice fedele ma che era, in quel momento, colui che era stato designato per sostituire Peter, il precedente Capo della Chiesa.

Quel pulpito era un peso enorme, una responsabilità che ancora non sentiva di poter portare. Strinse le mani al leggio in cui era adagiata la Bibbia di Peter. Il passo a cui si riferiva era nel Vangelo di Luca al decimo capitolo, ma gli occhi annebbiati e il nodo pressante alla gola non gli permisero di concludere il messaggio che avrebbe voluto lasciare.

«Che Dio vi benedica fratelli. Ci possiamo alzare». I fedeli si alzarono per concludere la funzione. Dopo la preghiera finale e i saluti, Simon si incamminò lungo il corridoio centrale con passo svelto. Il suo unico desiderio, in quel momento, era rimanere solo nel suo studio: un ufficio con annesso lettino e libreria ricca di libri teologici ricevuto in eredità da Peter.

Attraversò il cortile di cemento della Struttura del Centro di Aggregazione Giovanile in cui sorgeva anche la Cappella e si strinse dentro la giacca marrone alzando il colletto.

Appena entrò all'interno della Struttura, venne accolto dal calore emesso dai fornelli della cucina in cui le cuoche volontarie stavano preparando la cena a base di minestrone caldo per i residenti. Uomini e donne, bambini, famiglie intere ospitate in stanze accoglienti; anime salvate dalla strada, in cui vigeva la legge dei Lucifer.

Salì subito le scale che apparvero appena dopo l'ingresso, sulla destra. Fece una, due, tre, quattro rampe di scale e dovette reggersi dal corrimano. Il digiuno prolungato per i tre giorni del lutto non giovò alla corsa che stava facendo.

Giunse al terzo piano col fiatone; una mano dentro le tasche alla ricerca della chiave. Aprì la porta e la richiuse subito dietro di sé; poggiò la schiena al legno, facendo un lungo sospiro.

Padre... iniziò fra sé, togliendosi la giacca per appenderla all'attaccapanni posto al lato della porta d'ingresso. Le mani giunte sulle labbra. Non posso...Non sono in grado... girò i tacchi sul posto e gli occhi nocciola andarono dritti alla foto del Pastore Peter. Lo osservò a lungo, fino a quando il desiderio di riascoltare la sua voce arrivò alla sua mente come un ordine perentorio.

Il pc portatile era ancora in stand-by. Gli bastò premere un tasto per far partire nuovamente il video in cui l'uomo, con gli occhiali trasparenti e il capo canuto, parlava a una telecamera e lo nominava come nuovo Capo di una delle Sette Chiese della Confraternita.

Simon era ancora in piedi, con le mani ai fianchi. Un lungo sospiro e poi uno sbuffo rumoroso. Quella sera, sarebbe comunque tornato a casa; anche se non la sentiva più sua.

Fece il percorso inverso per uscire nel cortile. Un vento freddo scompigliò la sua giacca e, attraversato dai brividi, si strinse le braccia al petto una volta oltrepassato il cancello grigio.

Pensò a quanto sarebbe stata lunga la strada da fare a piedi, ma non poté fare altrimenti visto che la macchina era della sua ex moglie.

Fece la lunga discesa che consentiva l'ingresso alla periferia della Città di Filadelfia. Il Centro di Aggregazione era posto su una collinetta, una delle sette che circondavano la Città.

Mentre il buio aveva già ammantato le vie del borgo periferico, si guardò spesso intorno preso dal timore di incontrare qualche scagnozzo dei Lucifer.

Considerò,  quanto potesse essere assurdo ammirare i membri di quella sottospecie di Loggia Segreta: da un lato all'interno del loro collegio tuonavano nomi di spicco dell'alta società, dall'altro, a loro erano collegati i nomi più beceri della criminalità organizzata. A volte, però, le due cose coincidevano pericolosamente.

Sulla via, piccole gocce trasparenti iniziavano a rigare il suo cappotto beige, così si mise il cappuccio sugli occhi e, camminando a testa bassa, con le mani dentro le tasche, aumentò il passo ascoltando le suole che battevano il marciapiede ormai bagnato dalla prima pioggia settembrina.

«Perché a me, Signore? Perché io? Cos'ho di speciale rispetto ai miei fratelli?» bisbigliò fra sé.

Un tuono, preceduto da un bagliore, illuminò la strada a giorno per mostrargli, su quella via fatta di pietra, un ragazzo appoggiato al muro di un palazzo. Era seduto in terra, con il mento verso il basso. Gli si avvicinò e, piegato sulle ginocchia, lo osservò. Il ragazzo pareva avere una quindicina d'anni; i capelli folti che coprivano il volto pulito, gocciolavano copiosamente. I vestiti inzuppati erano incollati al corpo e la maglia di cotone mostrava l'andamento del respiro difficoltoso, che portava il ragazzo a  colpi di tosse seguiti da rantoli.

Simon avvertì una scarica d'ansia all'altezza dello stomaco: non avrebbe potuto lasciarlo lì. Se uno dei Controllori dei Lucifer l'avesse visto in quelle condizioni, chissà cosa gli avrebbero fatto.

Già da semplice discepolo di Peter aveva avuto modo di ascoltare le diverse testimonianze delle loro vittime. Chi riusciva a scappare - per puro miracolo - raccontava di sacrifici umani, uomini e donne che bramavano sangue umano e vittime innocenti a cui fare ogni sorta di abuso al fine di farne delle armi di distruzione.

Quindi è questo. Vuoi che faccia il buon samaritano?  Chiese al Creatore, senza pensare al ragazzo che emetteva dei gemiti e fragorosi colpi di tosse.

Ok, ok. Intanto lo prendo e lo porto in Chiesa. Poi vedo il da farsi... si convinse. Un fragore più forte del precedente lo fece sobbalzare e la pioggia aumentò. L'uomo chiamò il giovane strattonandolo dalla spalla, ma il ragazzo non sembrò riuscire a svegliarsi.

«Oh Signore Gesù Cristo...» sospirò.

Gli toccò la giugulare, premendo con due dita: il battito c'era, ma era accelerato. In un attimo di smarrimento, Simon rivolse gli occhi al cielo plumbeo e la pioggia divenne lieve, fin quando non cessò. Un sorriso compiaciuto e un ringraziamento silenzioso al Padre Celeste.

Quell'attimo di quiete convinse Simon a prendere di peso il giovane e portarlo sulla schiena.

 

***

 

L'aveva con sé da buoni dieci minuti, ma nonostante avvertisse la fatica che gli faceva tremare le gambe, si rese conto della straordinaria forza che si ritrovò a possedere.

Quanto meno, pensò, Mi stai aiutando a reggerlo...

Una risata sommessa intervallò la riprensione della voce di un tuono più forte dei precedenti. Perdonami...Hai ragione. Tu hai sempre ragione.

                                                                                            ***

«Sei massiccio, ragazzo mio!» commentò al giovane mentre avvistava il palazzo del Centro di Aggregazione.

Arrivato al cancello scorrevole, con respiri affannosi, il neo padre spirituale poggiò la fronte al metallo freddo, in attesa che qualcuno rispondesse al citofono.

«Mi chiamo Joshua...» si pronunciò il giovane dalla voce roca; Simon sorrise e alle sue orecchie gli risuonarono le parole utilizzate quella mattina nel parlare dell'amore di Gesù Cristo e della missione affidata a ogni credente.

Un cigolio precedette l'apertura del cancello e, il padre, crollato sotto il peso del giovane che portava sulle spalle, cadde con le mani  sul suolo umidiccio del cortile. Davanti ai suoi occhi, le minute pantofole di Lucia.

«Lucia!» esclamò, quando la vide vestita con un pigiama leggero e solo una vestaglia a coprire il corpicino minuto. «Cosa ci fai ancora sveglia e per di più fuori dalla struttura? Torna subito sopra o ti prenderai un malanno, signorina!»

«Ma te lo saresti preso pure tu se io non ti avessi aperto!» ribatté perentoria, con le mani ai fianchi. Gli occhi verdi e furbi erano ben evidenti nel viso chiarissimo, adornato da ciocche bionde e lisce.  «Chi è lui?» chiese, indicando la schiena di Simon su cui giaceva Joshua. 

«Corri a chiamare tuo padre, lui saprà aiutarlo. Ti spiegherò tutto dopo»

«Ecco chi era! Dal mio sogno sembrava diverso...» poggiò il mento sul pollice, quasi stesse riflettendo. «Ok, vado!» e mentre la ragazzina correva verso la porta interna, Simon rimase a fissarla con la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Ha sognato anche l'arrivo del ragazzo? Scosse la testa. Si raddrizzò, tenne il giovane dai polsi e avanzò con passi trascinati.

Percorse il cortile cosparso di pozzanghere. Arrivato all'ingresso, salì il gradino dell'uscio e, non riuscendo più a reggere il peso del ragazzo, adagiò Joshua su uno dei divanetti della sala d'attesa, proprio poco oltre il portone, alla sua sinistra. 

Crollò a terra, seduto, con la fronte poggiata sulle braccia adagiate alle ginocchia sporche di fango. Aiutami, Signore, a fare la tua volontà... sospirò.

Qualche momento dopo, sentì dei passi provenire dalle scale. Alzò il capo e Gilbert si palesò al pian terreno, trafelato. Quello si aggiustò gli occhiali sul naso e con le mani ai fianchi gli domandò con sconcerto: «Che diavolo ti è successo?!» 

Fu inevitabile per il medico beccarsi uno degli sguardi di fuoco di cui era famoso Simon.

«Perdonami, hai ragione...» Inspirò profondamente. Si passò le mani sul volto per congiungerle sulle labbra. «Cosa è successo?» 

Simon si strofinò gli occhi stanchi con una mano prima di rispondere. «A me nulla di grave. Questo ragazzo era a terra, sulla via che stavo percorrendo...» 

«Nessuna traccia dei Lucifer?» si preoccupò, il medico. Si avvicinò al giovane per posare il palmo sulla fronte bollente del ragazzo. 

«No. Per grazia di Dio, no»

Gilbert si piegò sui talloni e avvicinò un orecchio al petto di Joshua. Gli prese il polso con una mano e con gli occhi fissava lo sguardo all'orologio da polso, muovendo le labbra ad ogni rintocco.

Quando si rimise in piedi, si tolse gli occhiali per massaggiare le palpebre con tre dita.

«Il ragazzo ha fatto uso di stupefacenti ma, ad una prima occhiata, non so ben dire se è da molto che ne fa uso, e... Simon, mi stai ascoltando?»

Il Padre aveva lo sguardo fisso nel vuoto. «Non posso farlo. Peter, sì, forse lui avrebbe potuto...» pronunciò quelle parole come se non lo stesse ascoltando nessuno.

«Simon, hai salvato un ragazzo dalla morte. Ha anche un principio di bronchite. In questo stato, al freddo, e con quei criminali in giro sarebbe sicuramente morto...» si grattò il capo biondo, non sapendo l'effetto che avrebbero avuto le sue ulteriori parole al cuore di Simon. «Anche nostro Signore non voleva andare in croce per salvarci. 'Allontana da me questo calice', ricordi? Alla fine, però, fece la volontà del Padre che l'aveva mandato. Non è forse così, Simon?» 

Il giovane Padre spostò lo sguardo verso Gilbert che in quel momento stava porgendo la mano a Lucia per andare a preparare l'infermeria, dove avrebbe riposato il nuovo arrivato. Sapeva che Gilbert aveva volutamente utilizzato la parola mandato per una ragione ben precisa.

«Io credo in te» aggiunse il  medico, stringendo la spalla di Simon con vigore. «Credo nella tua parola» con un sorriso fiero. «Credi anche tu nel tuo mandato e ci salverai tutti» e, prima di dirigersi verso le scale, spiegò: «Questo ragazzo si chiama Joshua. I suoi genitori non ci sono più. Viveva con i nonni. Lo so perché veniva nel mio reparto per chiedermi le loro medicine. Ha solo quindici anni e tu puoi cambiare il corso della sua storia».

«Hai troppa fede in me, Gilbert» si ritrovò a dire Simon, incrociando le mani tra i capelli per posizionarle dietro la nuca. Gli occhi al soffitto. «Io... Sono solo un uomo» considerò.

A quelle parole, la piccola Lucia storse il naso in una smorfia di disapprovazione. Si staccò dalla mano del padre e corse ad abbracciare Simon per rivolgergli parole con voce dolce e sicura. «Ma anche Gesù lo era!» Lo guardò negli occhi con una luce particolare, così calda che il Padre dovette crederle e chiudere nel suo cuore quella vocina, per ricordarlo in futuro.

«Buona notte, Padre Simon!» esclamò poi, allontanandosi mano nella mano con Gilbert. Lui alzò una mano in segno di saluto considerando quanto quella ragazzina lo sconvolgesse di giorno in giorno quasi avesse il potere di infondergli coraggio e fede.

Avrebbe dormito lì quella notte, contrariamente a quanto progettato qualche ora prima, non prima di aver dato uno sguardo all'infermeria dove avrebbe riposato Joshua.

Circa mezz'ora dopo, Simon era davanti alla vetrata dell'infermeria. Osservò Joshua dormire sotto un lenzuolo bianco, con respiro lento e regolare.

L'avevano fatto cambiare, prestandogli degli indumenti di un ragazzo della sua stessa età che alloggiava lì.

«Caleb...» mormorò, accigliato. «Chissà se quel teppistello è ancora sveglio»

Percorse il corridoio per giungere in una delle tre stanze adibite ad alloggio in cui c'era anche la stanza dove dormiva il ragazzino e, facendo attenzione a non emettere suono, aprì piano la porta. Il capo dai capelli corvini era posizionato dalla parte inferiore del lettino. Stava dormendo abbracciando due cuscini. Simon, quindi, richiuse lentamente la porta con una risata sommessa. Anche lui era figlio di quella piccola opera chiamata Filadelfia.

Quando Simon giunse al terzo piano, sentì come se tutta la forza che aveva avuto in quei tre giorni lo stesse abbandonando. Si sedette sul letto, togliendosi le scarpe con i piedi per coricarsi nel morbido materasso completamente vestito.

E va bene, sarò il Mandato di Filadelfia. Farò tutto nel nome di Gesù Cristo.

 

 

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Capitolo 4
*** RAPITO ***


Passati ben due anni da quella notte piovosa, Simon, aveva lasciato tutto per dedicarsi a quella missione, circondato dai figli della sua grande famiglia. Sempre più persone vedevano in lui e in quell'opera qualcosa a cui aggrapparsi per ricominciare una nuova vita, anche se i Lucifer spargevano malelingue e menzogne sul suo operato, Simon non sembrava crucciarsi delle voci che giungevano fino a lui. La sua fede poteva vincere qualsiasi cosa e non erano certo delle menzogne ad abbattere la sua caparbietà.

Forte di quel vigore, attraversava il cortile con braccia strette al petto, in un tranquillo pomeriggio di fine marzo, controllando con sguardo vigile la parte frontale della Cappella. Poi, i suoi occhi furono attratti dalla consueta partita pomeridiana tra i due ragazzi più grandi; con un sorriso sghembo si soffermò a guardarli che giocavano a pallone proprio vicino al muretto che fungeva da divisore tra la Chiesa e il palazzo del Centro.

«Prova a parare questa, se ci riesci!»

«Tu pensa a farla entrare in porta!»

Il ragazzino dai capelli corvini e gli occhi celesti allargava le braccia con i muscoli delle gambe ben tesi e pronti a guizzare, posizionato proprio a contatto del muro; il secondo, di fronte a lui, dai capelli castani e gli occhi verdi, si dondolava sui piedi mordendosi il labbro e socchiudendo gli occhi, quasi calcolando l'angolazione della traiettoria per far arrivare il pallone dritto nella porta che i due avevano delimitato con due mattoncini.

Nonostante le varie misurazioni, il pallone arrivò oltre la testa di Caleb che gettò un grido di gioia che riecheggiò nel cortile, accompagnato da fragorose risate.

«Non ho più voglia di giocare!» commentò Joshua con le mani ai fianchi, togliendosi in uno sbuffò un ciuffo sudato dagli occhi.

Simon, sciolte le braccia, si avvicinò al secondo ragazzo scompigliandogli i capelli con una mano mentre lo oltrepassava.

«Caro Joshua, lo sai qual è il segreto della gloria?»

Il ragazzino lo osservò con sguardo interrogativo, mentre il Padre poneva il piede destro sul pallone color bianco sporco e nero. «No, padre.»

Il ragazzo sbarrò occhi celesti e attaccò la schiena a un muretto ruvido non appena vide l'intervento del padre. «Attento Caleb, stai pronto. Ok?» un occhiolino per rassicurarlo delle sue buone intenzioni. Il giovane annuì più volte e la palla venne bloccata dalle sue mani che impiegò qualche istante per capacitarsi dell'accaduto.

«Il segreto della gloria è l'umiltà, Joshua. L'orgoglio, invece, precede la rovina. Sei stato bravo Caleb, la tua umiltà ti ha dato il coraggio di bloccare la palla al momento giusto.»

Disse questo mentre camminava verso il ragazzino che teneva la palla e con un mezzo sorriso osservò Joshua che calciava una pietra con sguardo basso.

«Padre Simon!» in quel momento, sentire la voce di Lucia che lo stava raggiungendo di corsa lo turbò più delle altre volte. La giovane giunse a lui con sguardo terrorizzato.

Solitamente, a quell'ora del pomeriggio Lucia si rifugiava nella Cappella per pregare e leggere i passi citati da Simon durante le funzioni; passava molto tempo a pregare sotto la grande Croce di legno, posta dietro l'altare.

«Padre Simon!» con voce roca e gli occhi verdi vicini alle lacrime, oltrepassò i due ragazzi per avvolgere le braccia ai fianchi del padre e nascondere il viso sul suo petto.

«Lucia...» cercò i suoi occhi e, appoggiando i palmi alle spalle la allontanò un po' per scrutarla con sguardo accigliato.

«Una cosa terribile... Ho visto una cosa terribile.» gli confidò, quasi in un sussurro. Non avrebbe lasciato ascoltare a nessuno nemmeno una sola parola di quel che la visione le aveva mostrato perché, negli anni, aveva capito che solo il Mandato aveva il potere di discernere se le immagini che la sua mente produceva erano state mandate da Dio o erano il frutto delle sue paure.

Lo spirito del profeta è sottoposto al profeta... le aveva detto Simon un giorno in cui, senza dirgli nulla, aveva parlato di una profezia a un nuovo fedele, producendo in lui tanto sgomento da allontanarlo per sempre dalla Chiesa.

Era quello che c'era scritto nelle Scritture ed era quello che potenziava le sue capacità profetiche: l'essere sottoposta a Simon, il Mandato di una delle Sette Chiese.

Dal canto suo, Simon, a volte, si sentiva troppo piccolo per gestire una così grande fede e un così grande dono. In fondo, Lucia aveva solo quindici anni, ma la sua devozione a Dio, alla Chiesa, e a quel piccolo uomo che aveva accolto la sua famiglia e l'aveva tolta dalla strada, faceva sì che quel fiammifero di fede diventasse in lui un bagliore nelle notti più oscure.

«Le tenebre, Padre...»

«Spiegati meglio, Lucia. Cosa hai visto?» le mani sul viso per tranquillizzarla, poi il suo pallore si unì a quelle parole: «Le tenebre stanno arrivando.»

Gli occhi lucidi della ragazza puntarono Caleb con sguardo accigliato ma terrorizzato al contempo. Caleb notando quegli occhi sbarrò i suoi, poggiando una mano sul cuore accartocciato. Scosse il capo un paio di volte e si rivolse a Simon: «Stanno venendo a prendermi. Non è così, Padre?»

Il ragazzo gli si era avvicinato stringendo il lembo della giacca beige. «No Caleb, non prenderanno nessuno.» gli accarezzò il capo corvino senza smettere di puntare lo sguardo verso il cancello grigio.

Era come se quel cancello e quelle mura, che circondavano la proprietà del Centro di Aggregazione e della Chiesa, fossero stati costruiti come un recinto protettivo.

Le mura di cinta di un regno...Il Suo Regno.

Il suono del motore di una macchina di grossa cilindrata si avvicinava sempre di più e, quando si sentì il fischio delle ruote che si fermavano bruscamente, il Simon intimò ai tre di entrare subito nelle stanze interne. Quando si trovarono al primo piano Joshua insistette a non voler andare nella sua camera: voleva stare vicino a padre Simon, seppur nella stanza adiacente alla sua.

Mentre era seduto nella panca dello spogliatoio situato accanto all'ufficio di Simon, Joshua si domandava cosa stesse succedendo. Con la schiena appoggiata al muro comunicante con la stanza di Simon, giocherellava con la collanina d'argento, raffigurante una spada, che, posta con la punta verso il basso, dava proprio l'impressione di essere una croce.

Ripensò alla giornata del suo sedicesimo compleanno e alle parole che Simon gli aveva rivolto porgendogli quel regalo. "Sai Joshua, vedo che hai una bella propensione nell'aiutare gli altri, ma soprattutto, ho visto come le tue parole abbiano il potere di curare le anime della tua età. Ma, sai, credo che questo sia proprio perché Gesù Cristo ti ha fatto il dono della Sua Parola." la scatola di cartoncino rettangolare conteneva la collana di argento. "Sta scritto che la Sua Parola è come una spada, capace di dividere l'anima dallo spirito. E' così, caro mio, che le anime diventano libere di scegliere." gli aveva spiegato e, da allora, l'aveva sempre indossata.

Poi la sua attenzione si spostò alla stanza adiacente dove, da parecchi minuti, sentiva pregare il Padre, quasi fosse vicino alle lacrime. Lo sentì chiaramente implorare Dio di dargli la forza di tenere testa a colei che sarebbe venuta a reclamare la sua proprietà: la madre di Caleb.

Con le dita intrecciate in atto di preghiera, Simon aveva la fronte bagnata di sudore e le mani giunte toccavano le labbra. Era preso da tremore e da un senso di nausea che gli correva lungo l'esofago. Tre colpi decisi alla porta di legno massiccio, color noce scuro, lo fecero sobbalzare sul seggio di pelle nera.

Non ebbe il coraggio di rispondere, ma si limitò a fissare il soffitto, cercando aiuto al cielo.

Poi la porta si aprì violentemente, andando a sbattere contro la libreria adiacente e facendo cadere la foto di Padre Peter sul tappeto amaranto.

«Pace a te, Moira.» la sua voce, dura e tagliente fu rivolta alla donna che si ergeva statuaria con la mano ancora aperta e il palmo rivolto verso di lui. Non era strano per i Lucifer spostare gli oggetti con la sola forza del pensiero e non era una novità che lo facessero proprio per provare il loro immenso potere. Simon, comunque, continuava a non fissarla; cercò di mantenere la calma, stringendo il pugno chiuso sulle labbra.

«Non mi serve la tua pace.» gli rispose la donna dai lunghi capelli neri, gli occhi di ghiaccio e la pelle diafana, entrò a grandi falcate nello studio senza attendere il permesso del Padre, facendo risuonare i tacchi alti.

«Perché sei tornata?» Simon non osava alzare lo sguardo per fissarla, ma teneva le palpebre serrate.

«Perché non me lo dici tu, Mandato?» domandò di rimando in un ghigno, incrociando le braccia al petto.

Fu allora che una fitta al cuore lo spinse a fissarla nelle iridi con sguardo torvo. Sapeva dove sarebbe andata a parare. «Quel che pensi di me non importa. Basta che gli artigli della tua Casata non tocchino...»

La donna non lo fece continuare portando l'indice sulle labbra di Simon. «Cosa?» Lui scostò il suo braccio con uno scatto. «I miei figli.» ringhiò tra i denti.

«Ah, ecco.» rise, la donna. «E da quando sarebbero tuoi figli?» commentò lei tenendo il mento tra pollice e indice, prima di chiudere la porta con il solo cenno dell'altra mano. Inarcando un sopracciglio con lo sguardo di chi sa di avere il potere su ogni cosa e persona.

«Non ti permetto di usare i tuoi sporchi prodigi qui dentro.» ordinò l'uomo e lei, senza curarsi di quelle sue parole così inutili, si mise comoda nella sedia di fronte alla scrivania, incrociando le gambe scoperte fin al ginocchio. I gomiti nei braccioli e il mento sulle mani incrociate; le labbra di un rosso acceso, gli occhi dalla forma perfetta.

Il pensiero che i Lucifer agissero sempre in quel modo, servendosi dei loro poteri e della loro sensualità, provocò una smorfia di disgusto nel volto di Simon. I pugni chiusi sulla scrivania, il busto proteso verso la donna che, con un ghigno, si stava placidamente sistemando i capelli, scoprendo il collo candido. «L'ho appena fatto e tu non hai potuto impedirlo. Cosa ti fa pensare che in questo momento il ragazzo non sia già dentro l'auto ad attendere sua madre?»

Una fiamma incenerì i suoi buoni propositi di mantenersi calmo. «Non oserai.»

«Non mi hai ancora risposto. Com'è che ti chiamano? Padre? Questa poi non l'ho mai capita. Ho perso il momento in cui la Confraternita delle Sette Chiese permette ai suoi Capi di far sì che vengano chiamati Padri?» E sì, i Lucifer avevano da tempo allungato i tentacoli anche verso la Confraternita, Simon l'aveva scoperto molti anni prima, quando era ancora un semplice fedele.

«Non mi aspetto certo che tu conosca la vita di San Paolo, il quale diceva "Quand'anche aveste diecimila maestri, non avete però molti padri"...» una pausa per fissare quegli occhi gelidi. «"Perché sono io che vi ho generato, in Cristo Gesù".» Lo sguardo di chi non si sottomette a nessun potere terreno «E sinceramente, non mi aspetto nemmeno la comprensione dei miei Confratelli.» e la voce di chi non teme rivali. Lei gli rivolse una smorfia di disgusto dopo aver sentito quel Nome e quella citazione. «Secondo me,» iniziò poi, avvolgendo una ciocca di capelli scuri al dito «hai iniziato a pensarlo da quando la tua dolce mogliettina ti ha mollato per uno dei nostri, lasciandoti senza prole.»

Lo sguardo di Simon , mutò. Angela...

La sua ex moglie era l'unica donna a cui aveva dato il cuore e per la quale avrebbe dato anima e corpo. I suoi occhi bruni, le sue labbra rosee e i suoi ricci neri...

A quel punto, gli occhi lucidi di Simon lasciarono il posto a palpebre chiuse e a labbra strette, morse dal canino, nella dura prova di reprimere il sentimento che lo stava facendo crollare. Aveva riconosciuto in quei pensieri il manifestarsi dei poteri oscuri di Moira: frugare nei ricordi del passato por riaprire le ferite.

«Cosa c'è Simon? Ti fa ancora male?» gli occhi ammiccanti e il ghigno sinistro. «Tranquillo, Judas la sta trattando bene.» Parlò guardandosi le unghie, senza accorgersi però che Simon si era mosso nella sua direzione frapponendosi tra lei e la scrivania, per sovrastarla con i muscoli tesi come una corda di violino.

«Esci. Subito. Da questo luogo.»

La donna lo osservò dal basso con aria interrogativa, bagnandosi le labbra con la lingua.

«Cosa ti fa pensare che io ti ubbidisca? Non sono come i tuoi figlioletti a cui fai il lavaggio del cervello.»

«E io non sono il capo di una delle altre Chiese della Confraternita che puoi sedurre a tuo piacimento, per carpire la mia anima e piegarla al tuo volere. E adesso alzati...»

Simon la prese dal braccio e la costrinse ad alzarsi stringendo la presa fino a farle diventare la parte dell'avambraccio rossa. La donna non sembrò curarsene, tant'è che gli si rivolse con tono sensuale. «Non conoscevo questo tuo lato...» Simon la tenne per il braccio mentre componeva il numero delle forze dell'ordine nel telefono posto sulla scrivania, ma la donna chiuse la chiamata con l'indice.

«Simon, Simon...» si pose tra lui e il telefono fisso, incatenando gli occhi nocciola ai suoi. «Noi siamo le forze dell'ordine. Siamo Noi gli Stati. Siamo Noi la nuova religione e il potere di questo mondo. Ancora non l'hai capito?» la mano ad accarezzargli il mento barbuto.

Simon, a quel punto, non si ritenne responsabile delle sue azioni: aprì la porta con violenza e spinse la donna all'esterno dove ad attenderlo c'era Caleb con una benda nera sugli occhi, tenuto per mano da un uomo in completo nero.

«Visto? I miei seguaci sono più veloci dei tuoi.» parlò, poggiando un palmo sul capo del ragazzo e l'altro rivolto verso di lui.

Simon avvertì una morsa all'altezza del petto, come spire di un rettile che si contorceva nelle sue viscere. Tenne gli occhi sbarrati e dopo aver digrignato i denti, urlò fino a ferirsi la gola, mentre vedeva come a rallentatore una scena che non ebbe il potere di impedire: Caleb in lacrime che gridava il suo nome mentre la donna e l'uomo lo tiravano dalle braccia; Joshua uscito dalla stanza adiacente, con occhi in lacrime, urlò alla vista del Padre che giaceva ormai al suolo. «Joshua, salvalo!»

Furono le sue ultime parole di Simon, prima di chiudere gli occhi e abbandonarsi al buio.

Dovettero passare tre anni per far sì che tutto tornasse a una semi normalità. Il giovane Nathan, figlio del Capo della Polizia di Filadelfia, avendo avuto - personalmente - a che fare con uno dei capi dei Lucifer, si era offerto di avviare le indagini alla ricerca del ragazzo. Tuttavia, sembrò che ogni traccia di lui si fosse persa nelle tenebre che solo i Lucifer potevano creare. Infatti, il nome di Moira non compariva in nessun registro comunale, men che meno il nome del ragazzino: rapito e scomparso, per sempre.

 

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Capitolo 5
*** ESPERIENZA ***


Passarono inverni, primavere e Joshua, alla soglia dei diciotto anni, aveva cominciato a colmare il vuoto di suo fratello Caleb attraverso l'impegno all'interno del Centro di Aggregazione.

Come faceva solitamente, in uno di quei giorni di giugno in cui il sole pomeridiano di Filadelfia inizia a far sentire l'umidità addosso, dopo aver sistemato le derrate alimentari nel magazzino della mensa, decise di andare a riposare nella sua stanza. Dopo circa mezzora in cui - girandosi e rigirandosi - le lenzuola non erano più tanto fresche, si mise seduto, sbuffando rumorosamente; passandosi le mani sul viso rasato, si accorse di essere madido di sudore. Già fa questo caldo a giugno...Quanto ne farà ad agosto?

La città di Filadelfia si trovava all'estremo sud della Penisola e non era strano avvertire il caldo afoso già dai mesi di maggio e giugno. Cosa che Joshua, però, mal sopportava. Amava le giornate tiepide di ottobre e quel primo sentore di freddo. Tuttavia non amava nemmeno il gelo rigido di gennaio, che soffiava dal monte Aspro situato al centro della Regione e da cui si poteva ammirare il mare cristallino che baciava le coste.

Si alzò e dopo qualche passo, si mise ad osservare il cortile dalla finestra, appoggiato con la spalla al muro: il manto di cemento era adombrato dalla figura del palazzo che permetteva alle cuoche della mensa di confabulare sedute sulle panche di legno e ridacchiare delle proprie esperienze culinarie. Una brezza soffiava da est, rendendo quell'angolo di cortile un punto di aria condizionata naturale. Gli alberi di pepe rosa più in là erano sotto il sole e ci sarebbero volute almeno altre due ore purché i rami facessero la giusta ombra per sedersi sulle panchine poste al di sotto delle fronde.

Girò lo sguardo e vide Nathan dirigersi verso l'auto di Simon: entrava dal lato guida per spostarla e girarla verso l'ingresso. Questa Operazione suggerì al giovane che Simon era in procinto di uscire, e - se alla guida c'era Nathan - voleva dire solo una cosa: un'intervento importante al quale lui non era stato invitato. Sorpreso e lievemente irritato si fiondò in bagno per sciacquarsi la faccia e indossare la maglia bianca lasciata poco prima sulla sedia.

Non avrebbe voluto indossare i jeans lunghi, bensì dei bermuda comodi e freschi, ma era l'unico modo per rendersi presentabile in qualsiasi situazione.

Una sistemata ai capelli arruffati con la mano, uno spruzzo di profumo agli agrumi e sandalo e di corsa percorse il corridoio per farsi trovare in tempo davanti alla soglia della porta di ingresso.

Per le scale si scontrò con Heliu che gli apostrofò un insulto amichevole e a cui rispose un sorriso furbo; per di più, tenendo lo sguardo basso alle scale non si accorse di andare a sbattere contro le spalle larghe di un individuo dal capo riccioluto.«»

«Se non è quel teppista di Heliu, sarà di sicuro suo compare...» constatò l'uomo prima di voltarsi e guardarlo con un cipiglio.

«Perdonami Nathan!»

«Come mai così di fretta?»

«Volevo fare in tempo a venire con voi. Dove andate?» con una mano sul fianco e trafelato.

Nathan aggrottò la fronte, mentre si alzava le maniche della camicia celeste sopra i gomiti: «Ci sono posti in cui tu non puoi venire, Joshua. Se nostro Padre non ti ha chiamato, ci sarà un ragione.» lo licenziò con una pacca sulla spalla.

Quello, ancora con il fiato corto, gli rivolse uno sguardo interrogativo.

«Comunque adesso è impegnato con un'anima. Tarderà l'uscita.» spiegò. Non avrebbe potuto dirgli che, le indagini per Caleb, avevano scoperchiato un vaso di Pandora in cui compariva il movente del traffico di organi.

Così, Joshua attese sul gradino appena fuori l'uscio. Era seduto e si passava il tempo giocherellando con la catenella della sua collana, un po' rigirandola nell'indice, un po' poggiandola sul mento, fin quando non sentì dei passi avvicinarsi alle sue spalle.

«Spero che qui ti troverai bene. Noi faremo di tutto per proteggerti. Stai tranquilla.»

La voce sicura di Simon precedette il suo arrivo allo scalino in cui c'era Joshua. Il ragazzo alzò gli occhi e si mise subito in piedi.

Dopo aver sorriso a Simon con lo sguardo di chi attende la chiamata alle armi, i suoi occhi furono attratti dalla figura che gli stava accanto, raggomitolata su se stessa.

«Ah, ecco Joshua. Potrai stare con lui oggi pomeriggio.» Le rivolse un sorriso sicuro, accarezzandole le spalle. «Ricorda: qui sarai sempre al sicuro, se tu lo vorrai.»

A quello sguardo dolce e rassicurante, lei sorrise timidamente, prima di puntare gli occhi marroni verso quelli verdi di Joshua, da sotto la frangetta castana.

Nonostante il ragazzo fosse incuriosito dalla giovane nuova arrivata, il suo pensiero fu subito rivolto a ciò che avrebbe dovuto fare per seguire Simon.

«Ah! Il rubacuori di Filadelfia!» lo schernì Simon con un paio di pacche alla schiena e stringendo il palmo sulla spalla sinistra, lo avvicinò a sé: «Stai attento a quello che fai. E' giovane e nuova, potrebbe non comprenderti. Lo sai.»

Lui sorrise di sbieco, leggermente infastidito da quell'affermazione, ma glielo concesse. Era la verità, dopo tutto. La sua particolare inclinazione all'ascolto delle anime fragili era spesso confuso con un approccio di interesse affettivo.

Rimase fermo sul posto, fino a quando, dopo aver rivolto un rapido sorriso alla ragazza, si diresse verso Simon in un accenno di corsa. Si fermò fuori dalla vettura in cui il Padre era già entrato, poggiando i palmi sul vetro abbassato. «Ma...Simon, io voglio venire con te.»

Gli occhi al cielo di Simon e le labbra nascoste dietro la barba prima di dargli un insegnamento: «Dimmi Joshua: come pensi di diventare grande nel regno di Dio, se non vuoi fare le cose minime, mh?»

La risposta del giovane fu il silenzio e la mascella serrata. Abbassò il capo un paio di volte e lasciò andare via l'auto grigio metallizzato.

Ritornando verso l'interno si accorse della giovane, sola, poggiata al muro della facciata che lasciava vagare gli occhi al cielo. La maglia di cotone più grande di almeno una taglia era inserita dentro dei jeans a vita alta. I capelli lisci, lunghi fino alla vita contornavano il viso dolce che doveva essere di una giovane poco più piccola di lui. Con un palmo si frizionava la pelle del braccio destro.

«Perdonami, non sono stato carino.» le mostrò la mano con un sorriso tale da provocarle un certo imbarazzo. «No, tranquillo, va bene così.» gli occhi ridenti, ma sfuggevoli alla stretta di mano.

C'era qualcosa di inspiegabilmente attraente in lei; qualcosa di nascosto che lui voleva scoprire, una sensazione mai provata prima; un istinto indefinito, come chi avverte la vibrazione della vertigine semplicemente per il piacere di scoprire come si vola. E con quel pensiero elettrizzante che gli frullava nella mente, si morse il labbro, divertito.

«Vieni, ti mostro un posto per farmi perdonare della pessima accoglienza.» con un cenno del capo, la invitò a seguirlo. «Già perdonato.» gli confidò in un sussurro.

Era troppo strano: quel sorriso e quelle guance arrossate, lo lusingavano parecchio. Forse troppo. Si grattò il mento mentre raggiungevano insieme lo spiazzale che dava di fronte alla Chiesa e dove le fronde degli alberi di pepe rosa sfioravano le panche di legno e metallo rifinito con ghirigori astratti.

La fece accomodare e lui si sedette accanto. Lei con l'aria tesa di chi non conosce nessuno, gambe incrociate come le braccia strette al petto, si guardava le ginocchia.

Rimasero in silenzio a osservare il cielo illuminato dal sole calante i cui raggi tagliavano le nuvole rosa, posandosi su di loro. Nell'osservarla meglio, baciata dal sole, notò che il naso lievemente all'insù era caratterizzato da lentiggini e gli occhi marroni avevano assunto una colorazione chiara, tendente all'oro. Il viso fine, chiarissimo, stava colorandosi nuovamente, forse perché i suoi occhi stavano diventando fin troppo curiosi. Così, si schiarì la voce e iniziò a parlare, poggiando una mano alla fronte per schermare il sole. «Che stupido!» si disse «Non ti ho chiesto nemmeno come ti chiami.»

Lei si voltò, piegando gli angoli delle labbra in un sorriso «Evelyn, piacere mio. Di nuovo!» rise divertita, quando lui le porse la mano e quando lei gliela strinse, Joshua capì di avere in volto un sorriso diverso dal solito; glielo confermarono gli ammiccamenti di Heliu, affacciato dal balcone della sua stanza al primo piano. Fortunatamente lei non aveva notato nulla.

Ma quando lei staccò la mano in uno scatto, lui spense il sorriso, attraversato da una scossa elettrica lungo la nuca.

«Non ti devi vergognare di quello che provi solo perché qualcuno non ti ha mai compresa...»

Le sue parole, erano uscite spontaneamente, come sempre, quando il suo cuore avvertiva la sensazione che un'anima avesse bisogno di essere amata con l'amore di Dio. Sapeva di avere questo dono che già si era manifestato in altre occasioni. Tuttavia quella volta bastò davvero troppo poco: quella parola capace di mettere insieme pezzi di un cuore rotto, poteva essere facilmente frainteso, ma, in quel caso, gli avrebbe fatto davvero piacere esserlo.

La ragazza spalancò gli occhi appannati di pianto. Poi inarcò un sopracciglio, con sguardo rovente. «Cosa sei, tu? Un medium?»

Joshua roteò il busto nella sua direzione. «No. E' che...» improvvisamente giunsero alla memoria le parole di Simon che lo mettevano in guardia sulle sue azioni, ma non volle badarci, preoccupato di scoprire quello che la giovane nascondeva dietro quella corazza di timidezza. «Ho solo la strana capacità di capire da parte dello Spirito ciò di cui hanno bisogno le anime dal cuore rotto.»

La giovane, con gli occhi languidi, si alzò per non mostrare a quel perfetto sconosciuto anche le lacrime, dopo che parti insondabili di lei erano già state scoperte.

Lui la bloccò dal braccio. Poi, in piedi davanti a lei, le prese le mani tra le proprie e mentre la ragazza non riusciva a decifrare i comportamenti di Joshua, lui sentì in dovere di dimostrarle che esistono alternative fuori dal mondo degli uomini e dei Lucifer.

Rimasero in quel modo per qualche secondo, fino a quando lui iniziò ad avvertire uno strano peso sul cuore alla vista degli arti tremanti. I pollici che le sfioravano il dorso delle mani si accorsero di alcune cicatrici concentriche, come bruciature. Fissò lo sguardo sul suo viso basso, mentre una lacrima le attraversava la guancia e i capelli nascondevano i suoi lineamenti. «Chi è stato?»

«C... Come?» gli chiese alzando il mento. Lui le sfiorò i polsi in cui vi erano macchie violacee.

Non avrebbe dovuto agire in quel modo, lui lo sapeva bene. Avrebbe potuto farle del male. Simon l'aveva avvertito più volte di non aprire il cuore alla condizione di coloro che si avvicinavano a lui.

Il respiro di lei si fece concitato e iniziò a guardare oltre le mura della struttura del Centro, quasi con il terrore di non scorgere qualcuno che l'avesse seguita.

«Lasciami andare... Ti prego...» cercò di divincolarsi.

Le lacrime bagnavano le sue guance, mentre l'espressione di aiuto comparsa nei suoi occhi tradiva la richiesta appena pronunciata.

Lui non smise di guardarla dritto negli occhi indagando, quasi con rabbia. Era la prima volta che avvertiva la smania di capire chi avrebbe potuto farle del male. Lei non incrociò i suoi occhi, per non far trasparire anche il nome del suo aguzzino.

«È un Lucifer.»

La ragazza strinse le palpebre, e annuì, in un'espressione disperata. Lui le prese il viso tra le mani. «Puoi fidarti di me. Ci sono qui io, adesso.»

La giovane sembrò perdersi in quel viso e in quegli occhi, ma non comprendeva quegli atteggiamenti così carichi di bontà e interesse e quando la avvolse in un abbraccio, nascondendo la testa tra i suoi capelli lisci e dalle sfumature ramate, pensò davvero di potersi fidare.

Quell'abbraccio, vigoroso, in cui nascondere le proprie paure, le sembrò riempire i vuoti lasciati da chi aveva abusato delle sue emozioni per compiacersi dei propri poteri.

Inalò a pieni polmoni quel profumo agrodolce di bergamotto e sandalo e, con fare insicuro, appoggiò i palmi alla schiena di Joshua.

«Stringimi.»

Le sussurrò all'orecchio e lei lo fece. «Brava, così, non avere paura...» osò e nuovamente la voce di Simon fece capolino nella sua mente: l'avrebbe illusa, ma non poteva farne a meno.

Il suo animo si inebriava al solo pensiero di poter essere stato uno strumento di salvezza.

Evelyn, dopo qualche istante si staccò da lui, rimanendo sul posto senza incrociare il suo sguardo. Si scrocchiò le dita, in preda ad un forte nervosismo, che lui tradusse come la sensazione di chi si aspetta sempre di ricevere il male.

La guardò, ancora e ancora, con le mani ai fianchi studiò la sua figura per cercare di capire quale altra ferita le avessero procurato.

«Smettila di fissarmi!» gli ordinò prima di correre lontano da lui per entrare nelle sale interne del Centro. Quando lui la raggiunse, lei era appena arrivata al terzo piano, proprio di fronte alla sua stanza.

Un guizzo di sorpresa lo colse nel vedere che la ragazza tentava di aprire la porta. «Se ti mostro una cosa, prometti che non lo dirai a nessuno?» era come se nel volto di quella innocente vittima dei Lucifer fosse cambiato qualcosa...

Lui però la assecondò: la fece entrare dopo averle aperto. Lei si guardò intorno e sfiorò con i polpastrelli l'armadio posto accanto al letto per poi appoggiarvi la schiena.

«Siediti.» gli disse, indicandogli il letto. Lui mosse qualche passo senza però staccare lo sguardo da lei con occhi scuriti da un improvviso presentimento. Una volta seduto, lei lo spinse, facendolo ricadere sulla schiena poi poggiò le ginocchia sul materasso per posizionarsi sui suoi fianchi.

Il letto sprofondò sotto il loro peso. «Ma...cosa fai?» pronunciò lui, in una risata nervosa.

«Ecco cosa mi hanno fatto...» un fuoco di ansia mista a eccitazione lo colse improvviso quando lei iniziò ad alzarsi la maglia bianca fin sopra l'ombelico, per mostrargli dei tagli cicatrizzati male che costeggiavano il fianco e finivano oltre il bordo dei jeans; e mentre una mano teneva il tessuto, l'altra prese quella del ragazzo per permettergli di sfiorare una delle cicatrici.

Lui seguì quella linea con l'indice fino a quando lei non decise di levare del tutto la maglia, mostrando ferite in ogni parte del busto e, a quel punto, Joshua si sentì imprigionato in una morsa di rabbia unita a un desiderio irrefrenabile di curare tutte quelle ferite in un modo non del tutto convenzionale.

Così fece in modo di ribaltare la sua posizione: cinse i suoi fianchi per poi adagiarla sulle lenzuola e quando si posizionò sopra di lei, petto contro petto, le tolse dagli occhi una ciocca di capelli e le riservò una carezza col dorso della mano. «Adesso ci sono io. Nessuno ti farà più del male.»

Un sorriso diverso dai precedenti comparve nel volto pallido della ragazza; le gambe gli strinsero i fianchi e le mani gli accarezzarono il volto rigato da un rivolo di sudore.

Le labbra morbide di lei si posarono su quelle di Joshua generando in lui un groviglio di sensazioni contrastanti che lo portarono a confondere realtà e illusione. Avvenne tutto troppo velocemente: fu come essere avvinto da una volontà estranea che lo spaventava e lo attraeva al tempo stesso.

Alla fine, la giovane Lucifer, aveva adempiuto al suo compito: nel gioco della seduzione, lei era alle prime armi, ma, a quanto pare, bastarono quelle a liberare Joshua dai lacci dell'inibizione. Gesti e respiri rimasero avvolti nelle ombre di quella notte che sconvolse per sempre la vita di Joshua.

Il mattino seguente, si era ritrovato solo in quel letto disfatto, con un senso di vuoto nel petto che gli attanagliò i pensieri. Si sedette, scoprendosi nudo e temendo le conseguenze di quella pazzia, si alzò di scatto, cercando di rivestirsi il prima possibile. Uscì alla sua ricerca, ma era scomparsa, così come lo era stato il suo controllo. Cercò invano di rimettere insieme i pezzi di quello che era successo, ma, in quel momento, all'alba di un nuovo giorno nel Centro di Aggregazione, si sentì come Adamo nel giardino dell'Eden quando alle sue orecchie giunse in lontananza la voce di Simon. «Joshua, dove sei?»

***

«Hai idea di cosa voglia dire quello che hai fatto? Qui, in questo luogo? Questa Struttura non è casa tua! Lo è nella misura in cui tu hai rispetto del significato di queste mura! Questa è la Sua casa, nata con i sacrifici dei tuoi fratelli per aiutare chi una casa non c'è l'ha più!»

Le parole che seguirono furono anche peggiori delle precedenti e avrebbero tuonato per sempre nei ricordi e nei suoi sogni«Quella ragazza era un Lucifer ben addestrato e... Dannazione!» esclamò fuori di sé «Io l'avevo capito! Ed era per questo che ti avevo dato delle istruzioni precise. Tu l'ha fatta entrare nel tuo cuore e...» e in un sospiro «Nel tuo corpo...»

«Non mi avvicinerò più ad una ragazza...» gli aveva detto dopo una lunga pausa di silenzio.

«Vedi? Sbagli di nuovo. Dio non vuole questo per te. Non puoi essere come San Paolo che ebbe la forza di non avere moglie e dedicarsi solo al Vangelo. Tu potrai innamorarti, potrai fare innamorare, ma dovrai rendermi partecipe di ogni tua decisione e dubbio. Gesù Cristo non vuole questo genere di sacrifici. Egli vuole solo benedirti mentre accetti la Sua Parola.»

E come ogni volta che si ritrovava a sognare quell'episodio, si svegliò di soprassalto, rigato da un rivolo di sudore ghiacciato; l'unica differenza era che, quel giorno, si trovava nel suo appartamento del quartiere residenziale per studenti.

 

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Capitolo 6
*** UNIVERSITA' ***


Finiti gli studi d'obbligo aveva chiesto a Simon cosa fosse più utile per lui: se continuare a studiare o aiutarlo all'interno della Struttura. Il Padre si era mostrato ben disposto ad accettare qualsiasi sua scelta. I contributi della Confraternita delle Sette Chiese permettevano a Simon di curare tutti quei ragazzi che, orfani, avevano bisogno di un'istruzione fino ai cinque anni universitari. Fu così che Joshua prese la decisione di lasciare il Centro e trasferirsi nel quartiere residenziale dedicato agli studenti della Grande Università di Filadelfia.

Posta sull'acropoli della Città, faceva sfoggio degli alti palazzi di vetro posti in successione e articolati in diverse sezioni. Ci si poteva iscrivere a cinque facoltà: Giurisprudenza, Ingegneria, Architettura, Medicina e Psicologia.

I padri fondatori di quella istituzione avevano costruito le case dei futuri discenti assieme alla struttura universitaria e, chi avrebbe avuto bisogno dell'alloggio, l'avrebbe pagato unitamente alla retta universitaria mensile.

Joshua, appena uscito dalla doccia del suo alloggio, rifletté proprio su quanto fossero stati lungimiranti quegli uomini che avevano progettato un modo sostenibile di permettere a chiunque di studiare.

Stava frizionando i capelli bagnati con l'asciugamano quando, avvicinatosi alla finestra, aveva notato che alla fermata dell'autobus si erano già avvicinati un bel gruppo di persone.

Il quartiere era articolato in diverse viuzze che confluivano tutte in un'unica strada in salita verso l'università. Le case erano delle villette a due piani e, a seconda della grandezza, potevano ospitare fino a gruppi di dieci studenti.

Certo, questo era per chi, dalle superiori, si era curato di avere il proprio gruppo di studio; lui non l'aveva fatto. Preferiva stare solo e godersi il momento in cui poteva diventare responsabile e non pesare sui contributi di Simon.

Il toast con burro e marmellata si era abbrustolito rendendo difficile il piacere di una buona colazione.

Scese di corsa le scale e, per un soffio, riuscì a prendere il mezzo. Lucia era già arrivata in facoltà grazie al fatto che, vivendo al Centro, veniva accompagnata dal padre ogni mattina, prima che il medico si recasse al Grande Ospedale di Filadelfia. Si sarebbero incontrati, non appena avessero portato a termine tutte le questioni burocratiche.

Nonostante Simon e il Centro di Aggregazione godessero di una buona reputazione, quel che non giovava ai due ragazzi era il fatto che i rettori e molti docenti fossero membri della Loggia dei Lucifer.

Con quel peso sul cuore e una sorta di ansietà all'altezza dello stomaco, camminò verso la porta su cui capeggiava l'insegna "FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA DI FILADELFIA"; non sarebbe stato facile, per lui, incontrare uno degli adepti e rimanere indifferente.

Con lo zaino in una spalla, passò oltre la porta di ingresso di vetro e si diresse in segreteria per prendere il suo numero di matricola dopo essersi registrato al portale online.

Appena entrato, una fila di almeno una ventina di persone attraversarono l'atrio per dirigersi all'info-point. Quando arrivò il suo turno, la signora allo sportello gli indicò la porta in cui doveva entrare. Ringraziò e vi si diresse a passo svelto, urtando un paio di ragazzi che venivano nella sua direzione vestiti con un completo nero. Eccoli qua... sospirò, quando, al loro passaggio avvertì lo stomaco contorcersi. Nel loro viso comparve una smorfia di disgusto e nonostante Joshua si scusò prontamente, i due lo fulminarono con lo sguardo.

«Ma come, ancora non si è ripristinato? E io come faccio a dare esami se non ho il numero di matricola?»

Appena fu poco fuori l'ufficio della segreteria, sentì la voce nervosa di una giovane che si rivolgeva alla segretaria. Lui rimase lì, fuori dalla porta e, appoggiato al muro del corridoio, osservava la scena.

La ragazza dai lunghi capelli neri era così bassa che per farsi sentire doveva alzare la voce e mettersi sulle punte. Joshua si ritrovò a sorridere divertito tanto da portare una mano alla bocca per non farsi notare. In quel momento, nel corridoio si udì il suono si scarpe eleganti e, infatti, gli occhi di Joshua si alzarono verso un ragazzo dai capelli corvini e gli occhi blu che incedeva fiero come un militare e vestito con lo stesso completo dei ragazzi urtati qualche minuto prima. Appena lo vide, lo sconosciuto abbassò il mento in segno di saluto per poi entrare nell'ufficio.

«Cosa succede qui, signorina?» lo vide intervenire con voce melliflua, senza levare lo sguardo da quello della giovane. «Se ha bisogno di aiuto, sono a sua completa disposizione.» le disse poggiandole la mano sulla spalla.

Joshua inarcò un sopracciglio e poi comprese che quel tizio sapeva il fatto suo. Al collo recava una targhetta di quelle che consegnano a chi si occupa dell'help desk e del supporto alle matricole e quindi, quanto meno, doveva essere più grande di lui, anche se non sembrava.

Intanto, la ragazza spazientita si rivolgeva al ragazzo con tono acidulo in uno sguardo accigliato: «Grazie dell'interessamento, ma stavo già risolvendo la situazione. Non è così, signora?» e, sentendosi chiamata in causa, la donna dagli occhi semicoperti da una spessa montatura e i capelli tinti di un rosso acceso digitava qualcosa al computer alla sua destra; la ragazza in quel frangente mostrò il profilo dolce, caratterizzato da grandi occhi marroni. Gli aveva gettato uno sguardo mentre sistemava delle carte all'interno della tracolla nera rimanendo seria.

«Sono sicuro che sta facendo del suo meglio,» era intervenuto il ragazzo con voce calda, rivolgendo il busto alla segretaria e allungando un braccio «Ecco, mi dia quel foglio sotto la sua agenda: è lei D'Asti Ariel?» aveva chiesto riservandole un sorriso compiaciuto.

La ragazza squadrò il personaggio da capo a piedi e rivolse uno sguardo accigliato prima alla signora della segreteria e poi a Joshua, che aveva seguito la scena con occhi sbarrati.

A quanto pareva, lei non era l'unica ad aver notato qualcosa di strano; quindi prese in uno scatto il foglio dalle mani dell'individuo senza nome e ringhiò un 'Grazie' prima di scappare fuori dalla porta, lanciando un ultimo sguardo in direzione di Joshua.

Lui, invece, non ebbe molti problemi per il ritiro del numero di matricola e con il foglio delle materie da seguire durante l'anno, si diresse alla ricerca dell'aula di Diritto Costituzionale.

«Sala D1. Sala... D1» bisbigliava, percorrendo il lungo corridoio ai cui lati comparivano le targhette recanti i nomi delle sale e, una volta trovata la porta con su scritto il codice, attese l'arrivo di Lucia.

Nell'attesa, i suoi pensieri andarono allo sguardo del ragazzo che era intervenuto in segreteria: l'aveva già visto da qualche parte.

«Eccolo! Pace, Joshua!» strillò una voce femminile molto riconoscibile; Lucia stava sbracciando per farsi vedere dal ragazzo mentre saliva le scale. La biondina dagli occhi verdi non era sola.

«Perdonami il ritardo!» si scusò lei, facendo comparire dalle sue spalle la ragazza che la accompagnava e, quando i due si riconobbero, Joshua le porse la mano con la curvatura di un sorriso che la fece arrossire. «Visto, Ariel? Come ti dicevo, è un orologio svizzero. Joshua, questa è la mia amica Ariel. Ariel, lui è il mio fratellone: Joshua.»

«Piacere di conoscerti, Ariel.» fece lui, stringendole la mano. «Il piacere è tutto mio! Ma ci siamo già visti da qualche parte, se non sbaglio...» disse lei, inarcando un sopracciglio, ma lui non ebbe tempo di rispondere, perché un uomo di mezz'età gli passò accanto con una borsa di cuoio; intuendo di aver incrociato il professore, fece cenno alle due di entrare con l'indice sulle labbra, in segno di silenzio.

Dentro l'aula il chiacchiericcio degli studenti andò scemando, e dato che i posti erano quasi tutti occupati, le due amiche dovettero separarsi da Joshua.

Seduto poco più lontano da loro, Ariel lo osservò attentamente: così come era stato quando aveva incontrato Lucia, lui sembrava avere qualcosa di diverso dagli altri ragazzi.

Si sistemarono nel banchetto e quando la lezione iniziò, Ariel cercò di concentrarsi, ma le fu difficile. Guardava sempre in direzione di Joshua. Lo vedeva ora scrivere con sguardo attento, ora mettere la penna tra i denti.

Era del tutto come gli altri ragazzi, ma quando i loro occhi si incontrarono e Joshua le regalò un ampio sorriso, capì il perché di tanta curiosità nei suoi confronti: non era una semplice pietruzza di carbone, lui era un diamante in mezzo alla cenere.

***

Durante la pausa tra una materia e l'altra, Joshua uscì dall'aula prima delle due ragazze, determinato a cercare informazioni su quel ragazzo visto in segreteria. Aveva qualcosa di tremendamente familiare.

Le ragazze, invece, uscirono cinque minuti dopo e si diressero alla caffetteria dell'Università che fungeva anche da mensa e luogo di studio.

Mentre Lucia si dirigeva verso la toilette, Ariel, scrutando i volti dei giovani già accomodati nella sala, cercava il sorriso di Joshua, diretta alla cassa per fare lo scontrino. «Due caffè, per favore.»

Lucia le aveva accennato del fatto che Joshua avesse un fascino particolare, ma Ariel non pensava fosse realmente così; dovette ricredersi incrociando quegli occhi verdi in segreteria. Come non notarlo, appoggiato al muro con il suo fisico statuario, la camicia bianca e il volto da bravo ragazzo in attesa, a braccia conserte. Avrebbe voluto iniziare a conversare con lui, invece di scambiare quelle poche battute col tizio dell'help desk, che risultava essere il suo opposto: completo nero, barba sfatta e capelli neri di media lunghezza. «Quello che prende la signorina, lo offro io.» sentenziò una voce calda dietro di lei spezzando il fluire dei suoi pensieri.

Gli occhi marroni fulminarono il personaggio che aveva pronunciato quelle parole. Non è possibile...

Ariel si era seduta sullo sgabello di fronte al bancone del bar in attesa del suo turno, ma tutto si sarebbe aspettata meno che di trovare il tipo strano dell'assistenza a pochi centimetri dal suo viso.

Un rigurgito di fastidio la colse quando ebbe riconosciuto gli occhi di ghiaccio del personaggio accomodato allo sgabello accanto al suo. Non che il tizio non fosse una bella presenza - tutt'altro- ma lei non sopportava chi invadeva il suo spazio vitale senza nemmeno chiedere il permesso.

«No, guarda che non c'è bisogno. Vedi? Ho già fatto lo scontrino.» pronunciò lei con apparente calma, sventolandogli il biglietto. Quello, senza remore e il volto fiero, era proteso verso di lei con il gomito destro sul bancone, la testa piegata da un lato, gli occhi cerulei indagatori e il mezzo sorriso scaltro.

«È la seconda volta che vuoi farmi un favore» considerò Ariel ad alta voce, aggrottando le sopracciglia. «C'è qualche motivo particolare?»

«Quale motivo migliore se non aiutare il prossimo in difficoltà?» prese un sorso al caffè arrivatogli senza che l'avesse ordinato. Lei lo guardò ad occhi sbarrati e labbra schiuse. «Un gentiluomo non dovrebbe mai lasciare una giovane alle prese con gli inconvenienti della vita.»

Ariel inarcò un sopracciglio e si sistemò sullo sgabello in modo da creare più spazio tra lei e quel tipo che, a quel punto, stava alzando i suoi livelli di fastidio, ma lui, incurante, continuò beffardo: «In ogni caso, io sono Acab Damian e sono a tua disposizione per ogni problema derivante da questo ammasso burocratico e molto noioso che molti chiamano Università.»

Mentre Acab finiva di parlare, il caffè di Ariel arrivò contemporaneamente a Lucia, che stava si avvicinò al bancone asciugandosi le mani con uno strato di carta bianca. «Ariel, ma hai ordinato senza di me?» proruppe poi, senza tener conto del terzo personaggio.

«Tu tardavi!» si giustificò.

«E' che ho incontrato Joshua. Mi ha bloccata per sapere se volevo tornare al Centro con lui.»

Ariel spense il sorriso, pensando che quindi ci fosse qualcosa tra i due nonostante lei l'avesse considerato il suo "fratellone".

«Ah, bene... Prendi il caffè, prima che si freddi. Permette Signor Damian, quel posto è della mia amica.» sentenziò verso l'altro che, senza togliersi il sorriso dalle labbra, annuì lasciando qualche moneta sul bancone.

«Come vuole signorina D'Asti. Alla prossima.» e nel dirlo le prese la mano per lasciar posare le sue labbra sul dorso come solo i gentiluomini del calibro dei Damian sapevano fare. A quel contatto improvviso una scossa elettrica percorse i suoi nervi e dovette ritrarre la mano subito dopo.

Poi, mentre il giovane dal completo nero stava per allontanarsi, si voltò verso Lucia, aggrottando la fronte per dirle: «Attenta Profetessa, hai accanto a te il Leone. Il Leone di Dio.»

Ariel corrugò la sua fronte sempre più stupita e Lucia, seguendolo con lo sguardo fin quando non fosse uscito dalla sala, si sentì preda di un presentimento che gli bloccò l'appetito. «Sai Ariel, non mi sento tanto bene, penso che me ne andrò con Joshua. A domani!»

«Ma...!» protestò Ariel mentre Lucia correva via con lo zainetto in spalla. «Tutti strani oggi, eh?» farfugliò prima di ingurgitare il caffè amaro.

Lucia corse fino al cancello dell'Università. Superò le macchine parcheggiate e, passando oltre una fila di motorini e di bici poste all'ingresso della facoltà, vide Joshua intento a scrivere al telefono, appoggiato con la spalla a un lampione.

Si era fermata per prendere fiato e, poggiando le mani sulle ginocchia, si piegò in avanti lasciando che i capelli biondi le coprissero il viso. Il sorriso le si allargò al pensiero che, sicuramente, stava scrivendo a Simon la sua prima giornata lontano da lui.

Doveva essere dura per Joshua stare nel mondo degli uomini dopo aver vissuto all'interno di un nido in cui, ogni sbaglio, produce motivi di crescita e di perdono. Lei si era ritrovata spesso a dissuaderlo dalla scelta del celibato forzato come usavano fare i membri della Chiesa di Laodicea e Sardi, ma lui non voleva sentire ragioni e, anche Simon, un giorno, le aveva detto di non continuare in quell'intento, data la scelta del giovane.

Alzato lo sguardo nella sua direzione, Joshua la vide e iniziò a camminare verso di lei.

I due avevano preso il primo autobus che conduceva verso il Centro Città e stavano camminando insieme verso la seconda fermata che si trovava poco più avanti della Piazza delle Sette Chiese quando campane della Cattedrale suonavano il canto del mezzogiorno. Lui l'avrebbe accompagnata al Centro e poi sarebbe ritornato nel suo alloggio: non avrebbe mai permesso che la ragazza viaggiasse da sola.

Vedere quella grande quantità di adepti all'interno della facoltà l'aveva fortemente destabilizzato e quel turbinio di pensieri gli aveva provocato un forte mal di testa.

«Secondo te può essere?» gli domandò la ventenne dagli occhi verdi, mentre lo guardava dal basso, camminandogli accanto. Aveva iniziato a parlare del fatto che Caleb, se fosse stato ancora vivo, avrebbe scelto la loro stessa facoltà e, magari, addestrato dai Lucifer, avrebbero potuto sicuramente incrociarlo tra le aule dell'Università.

Lui fissava il marciapiede in silenzio e, abbagliato da un raggio di sole, commentò: «Non dimenticherò mai quella giornata: tu che gli corri incontro disperata. Io che, dalla mia stanza, avvertivo la sua voce carica di tensione e... Lui...» sbuffò, fermandosi con la spalla appoggiata al palo giallo del tabellone informativo della fermata. «Non lo so Lucia, non lo so.» mandò giù la tristezza scaturita da quel discorso.

Lei storse il muso e lo guardò in silenzio prima che le risuonassero in mente le ultime parole che gli aveva riferito Acab, il giovane misterioso del bar.

«E cosa pensi di quella ragazza? Di Ariel, intendo.»

Joshua la guardò inarcando un sopracciglio e poi rispose con una nota di fastidio nel tono della voce: «Nulla, Lucia. Cosa vorresti sapere? Ti sembra che sia tanto stupido da non accorgermi del tuo impegno nel presentarmela? Mi è indifferente. E a parte quello e ha detto quel... Acab? Così si chiama?»

«Si.»

«Ecco, dovresti essere tu a dirmi cosa pensi di lei dato che sei tu, ad avere il dono di profezia...» Rise lui, rendendosi conto di averla afflitta con quelle parole e con un pizzicotto alla guancia destra le fece tornare il buonumore.

«Comunque, lo sai che io parlo solo con Simon!»

«Lo so, lo so.» sorrise lui, allungando il braccio per fermare il mezzo in arrivo, mentre la giovane si massaggiava la zona indolenzita della guancia.

L'autobus camminava e Joshua guardava oltre il finestrino, in piedi, mentre Lucia era seduta vicino al vetro, con lo sguardo perso nel vuoto: per la prima volta non avrebbero cenato insieme e non si sarebbero visti per la colazione e gli impegni di volontariato.

Era una Chiesa che si sosteneva da sola, la Chiesa di Filadelfia, e Simon aveva trovato il modo di attuare quel che facevano i primi cristiani a Gerusalemme, dove i ricchi lasciavano liberamente dei beni ai poveri che facevano parte di quelle comunità cristiane. Ciò permetteva al Centro di autosostenersi solo con le offerte e le donazioni dei volontari. Volontari che, a volte, si rivoltavano contro il bene ricevuto; come Moira, che aveva rapito suo fratello Caleb, per chissà quale scopo.

Quella sera, Joshua si ritrovò a pregare per lui, mentre guardava il soffitto di quella casa silenziosa, disteso sul letto. Si convinse che pensare solo a quello che aveva perso avrebbe reso quella possibilità di redenzione, un vero e proprio inferno. Avrebbe fatto meglio a ringraziare per la possibilità che gli era stata data; perciò, si alzò per perlustrare la casa. A piedi nudi e con solo il pantalone del pigiama di cotone, andò verso la cucina per bere un bicchiere d'acqua, dopo aver percorso lo stretto corridoio.

Chiuse le ante ancora aperte del soggiorno, e si rese conto che ormai stava arrivando l'autunno anche se a Filadelfia quella dolce frescura tardava sempre ad arrivare.

La sua casa, al numero civico sette, era ripartita in solo tre stanze, ben strutturata e accogliente. I mobili moderni ed essenziali lasciavano ampio spazio di vivibilità degli ambienti. All'ingresso vi era un open space, che lasciava intravedere una piccola cucina con penisola. La sala da pranzo era uno spazio unico con il soggiorno, così che si potesse mangiare e passare nel divano subito dopo. La zona notte era una piccola stanza con solo il letto, un armadio a tre ante e una scrivania, affiancata dal bagno stretto e lungo. Con un ultimo sguardo alla camera da letto, si avvicinò alla finestra per andare ad osservare la villetta di fronte alla sua, in cui le serrande abbassate lasciavano intuire l'inesistenza di qualcuno oltre quei vetri.

Si sedette in quel letto sfatto dalla mattina e coperto da diverse t-shirt per poi lasciarsi cadere sul materasso senza il desiderio di mettere alcunché sotto i denti. La serranda abbassata e la finestra semichiusa non gli permisero di abbandonarsi al sonno, perché il rumore di un'automobile che sfrecciava a tutta velocità fece udire lo stridio delle ruote sull'asfalto, proprio sotto il suo balcone.

Aprì gli occhi e si mise in ascolto quando avvertì che il vociare indefinito di due persone presagiva una situazione di tensione.

«Ti ho detto di lasciarmi! Non voglio!» esclamava una voce che le sue orecchie pensavano di conoscere. Si alzò di scatto sentendo in quel timbro femminile una richiesta di aiuto al vicinato e non ci volle molto prima che il giovane decidesse di scendere e vedere cosa stesse succedendo.

Indossò la felpa, i pantaloni della tuta e corse lungo le scale.

Al sentire la voce rotta della ragazza, venne assalito dal desiderio di usare le mani contro il volto di chi stava facendo quella violenza, così aprì violentemente il cancello per uscire sul marciapiede. «Ehi!»

Il tipo che sovrastava la ragazza spingendola contro il muro della sua abitazione gli rivolse uno sguardo in tralice, coperto da capelli neri. «Ehi, tu, non mi hai sentito?» lo richiamò , avvicinandosi con i pugni chiusi.

Quello lasciò andare la ragazza per dirigersi verso di lui; si sistemò i capelli togliendo alcune ciocche che gli erano ricadute sugli occhi per fissarle in un codino.

E mentre la ragazza si metteva sotto il lampione, Joshua la riconobbe e un dardo infuocato di rabbia esplose nel suo petto. La giovane Ariel gli mostrò i grandi occhi marroni arrossati e gonfi di lacrime. L'altro dopo aver seguito gli occhi di Joshua fissi sulla ragazza con apprensione, si avvicinò a lui con il sorriso beffardo e caratteristico dei Damian, gli odiosi capi della setta Lucifer.

 

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Capitolo 7
*** CASUALITA' ***


Acab attraversò il marciapiede a passo lento, sistemandosi il cravattino. «Acab, giusto?» azzardò Joshua e l'altro di tutta risposta batté le mani soddisfatto. «Molto bene Figlio di Dio, molto bene. Hai indovinato. Da cosa mi hai riconosciuto? Dal fascino?» ormai a un passo da lui, lo squadrò dalla testa ai piedi.

«No. Dalla puzza di inferno». Con lo sguardo accigliato e il ringhio di un cane che aspetta di essere sguinzagliato, mentre con un'ultima occhiata alla ragazza si assicurava che non fosse ferita. «Che le hai fatto?»

Acab si voltò verso la figura minuta e immobile al muro. «Cosa avrei voluto fare, vorresti dire...» fu con quelle parole che Joshua lo prese dal colletto perfettamente stirato della giacca nera per farlo andare contro il lampione. Acab alzò le mani in segno di resa, con quel ghigno che non accennava a scomparire da quella faccia.  «Tranquillo, giovane dal nome impronunciabile!»

A quel punto, Ariel, temendo il peggio, indietreggiò lentamente con le mani sulle labbra e respiro spasmodico, mentre Acab continuava a giustificarsi: «L'ho solo accompagnata a casa, dopo il guasto che aveva avuto alla sua macchina». Il volto beffardo e strafottente del Lucifer provocò in Joshua un bruciore pulsante alla bocca dello stomaco.

«Sai, non mi sembra proprio che lei sia soddisfatta della tua galanteria» gli ringhiò, senza mollare la presa, avvicinando pericolosamente la sua fronte a quella dell'altro. In un istante, distolse l'attenzione dall'adepto per intimare alla ragazza di andarsene, con un cenno del capo.

Ariel lo guardò con aria perplessa per poi fuggire in quella casa che a Joshua era sembrata disabitata.

***

L'adrenalina che faceva sussultare gli arti non le permetteva di aprire la porta di casa; le mani di Ariel tremavano, mentre cercava di inserire le chiavi nella serratura con il terrore di avvertire le urla di qualcuno, da un momento all'altro. «Apriti! Apriti!» con un ultimo spasmo riuscì ad aprire e velocemente sgattaiolare all'interno. Richiuse la porta dietro di sé, attaccando le spalle al legno con il respiro che le faceva muovere lo sterno in maniera irregolare.

Salì su per le scale che portavano alla stanza da letto e spalancata la porta, gettò malamente la sua borsa in terra con il presentimento che tra i due ragazzi fosse successo l'indicibile; così, mentre le correvano in mente diversi pensieri poco edificanti, aprì la porta finestra e si affacciò al balcone, facendo ondulare i capelli oltre la ringhiera.

Per suo stupore i due non c'erano più. Non sapeva se tranquillizzarsi o cadere in preda allo sconforto. Sbarrò gli occhi e si sedette sul pavimento freddo del balcone, poggiando le mani sul viso.

Inalò a pieni polmoni l'aria umida di ottobre e rimase lì, a pensare a quel che era successo. La sua auto in fiamme, Acab che si offriva di accompagnarla e quelle strane sensazioni in sua presenza fino a quando... I suoi occhi...Gli occhi di Acab l'avevano fatta sentire diversa, volubile. Troppo volubile. Si strinse le gambe al petto e nascose il volto poggiando la fronte sulle ginocchia. All'improvviso ebbe l'impressione che Joshua e Acab avessero qualche questione in sospeso. "Figlio di Dio"...

I ragazzi, di solito, non si parlavano in quel modo.

"Puzza di inferno?" Che fantasia... considerò in una risata nervosa.

Come avrebbe potuto avere qualche informazione? Non conosceva bene i ragazzi. Si alzò in piedi, tornando a guardare la strada e quando si rese conto che Joshua abitava proprio di fronte a lei, avvertì un pungolo nel petto. Serrò il labbro tra i denti, stringendo metallo della ringhiera sotto i palmi.

No, Ariel. No.

Si rimproverò decisa e avvertendo il freddo della notte sotto la giacca di jeans rientrò nella sua camera. Certo, era strano: trovarsi a due passi dalla porta di quel ragazzo che l'universo gli aveva messo vicino prima in segreteria, poi come collega e infine come vicino di casa pronto a difenderla.

Lucia. Il volto della dolce ragazza incontrata la mattina in un momento di difficoltà capeggiò nella sua mente insieme a un senso di colpa. Aveva fantasticato su quel giovane che, probabilmente, era il ragazzo di Lucia.

Il telefono sembrava osservarla mentre faceva quelle considerazioni.

«Ok!» esclamò prima di gettarsi sul materasso e prendere il cellulare posto sul comodino. Nel digitare il suo numero, d'un tratto la colse il dubbio che Lucia potesse ingelosirsi.

Che stupida, che sei, Ariel!

Ringhiò al materasso tutta la sua frustrazione. E se gli ha fatto del male?!

Lucia avrebbe dovuto saperlo, e anche lei.

«P.. Pronto?» la voce impastata dell'amica la sorprese. Non erano ancora nemmeno le nove di sera.

«Lucia, perdonami tanto...» una pausa per pesare le parole.

«Tutto bene, Ariel?» le domandò Lucia con una flessione di apprensione nel timbro della voce.

«Sì. Perdonami per l'orario, ma dovresti chiamare Joshua...» gli occhi serrati e una mano sulla fronte nella paura della sua reazione.

«Joshua?» il tono acuto di Lucia e la smorfia di Ariel come di chi aspetta l'esplosione di una bomba ad orologeria.

«Perché? Cos'è successo?»

«Joshua mi ha difeso, mentre Acab...»

«Acab? Quello della caffetteria?»

«Sì. Lui si è offerto di accompagnarmi. Io ho accettato, ma evidentemente aveva cattive intenzioni.»

Una lunga pausa intervallò il profondo sospiro di Lucia dalla risposta. Avrebbe voluto rimproverarla per l'incoscienza, ma sapeva che i Lucifer avevano un potere manipolatore tale da soggiogare anche i figli di Dio poco legati ai Mandati. Figuriamoci i ragazzi del mondo... pensò dall'altro capo della cornetta.

«Quindi lo chiamerai?» immersa in quelle considerazioni, Lucia non si era resa conto di dover dare delle spiegazioni alla ragazza. «Chi? Joshua? Certo, ma tu ora non preoccuparti. Sono certa che Gesù Cristo l'abbia difeso.»

«Sì?» si era dimenticata che i due frequentassero una delle Sette Chiese e che il loro credo veniva spesso definito fuorviante. «In ogni caso,» proseguì Ariel con tono sommesso «Joshua sembrava volergliene dare di santa ragione...»

«Oh mio Dio!» la voce stridula di Lucia, invece, le oltrepassò il timpano tanto che l'altra dovette allontanare il telefono dall'orecchio.

«Mi farai sapere, allora?» sollecitò.

«Assolutamente. Dormi sogni tranquilli. Il mio Joshua è nelle Sue mani.»

Il mio Joshua...

«Buonanotte, Lucia.» e una volta chiuso il telefono poggiò la fronte sulle braccia incrociate, con un nodo allo stomaco.

In attesa di sue notizie, si avviò verso la finestra e quando notò che in una delle finestre della villetta si era accesa una luce, sperò fosse Joshua che rispondeva al telefono. Uscì dalla stanza, ripromettendosi di cancellare dalla sua mente l'immagine di quel ragazzo che la difendeva. Si tolse la giacca per poggiarla malamente nella sedia del bagno. Levò via le ballerine blu e si spogliò svogliatamente dei jeans e della camicia, prima di entrare nella doccia. Sotto il getto caldo che lavava via le brutte sensazioni provate accanto ad Acab, ripensò nuovamente a Joshua.

Una volta poggiati i piedi scalzi sul tappeto, sentì la vibrazione continua del cellulare nella sua stanza e, ancora gocciolante, avvolse un telo di spugna al petto per fiondarsi sul letto e rispondere a quella che doveva essere la chiamata di Lucia.

«Allora?»

«Pronto, Ariel?» un colpo di fuoco allo stomaco. Una voce maschile. Deglutì e, allontanando il telefono dall'orecchio, guardò il display in cui compariva un numero sconosciuto. «Pronto?» ripeté quello.

Ad occhi sbarrati e con mani tremanti, Ariel avvicinò il telefono all'orecchio. «C...Chi è?»

«Sono Joshua, mi ha detto Lucia di chiamarti.» lunga pausa.

«Sì?» quel timbro era diventato improvvisamente una sorta di musica che tamburellava in direzione del cuore.

«Sì. In effetti, avrei dovuto farlo prima e forse sarebbe stato meglio venire a trovarti. Ma...»

«No, no, tranquillo, sto benissimo!» farfugliò in preda al panico. «Lucia è una mia amica, io non potrei...» la risata del ragazzo passò oltre l'altoparlante e le si conficcò dritta nello stomaco.

«Non penso di aver capito, perdonami...» le disse.

«Sì, beh...Non ti avrei mai fatto venire a casa mia, senza il suo permesso.»

«Permesso?» ripeté confuso.

Ariel poggiò una mano sul viso e chiuse gli occhi. «Scusami, ma non sei il suo ragazzo?»

La risata di Joshua sembrò risponderle prima delle parole. Inarcò un sopracciglio e attese. «Assolutamente no!» rise di gusto «No!» ripeté e, sempre più inebetita, Ariel si sentì una stupida. «Bene, allora...» le parole le si incartarono nella gola.

«Allora...» indugiò, lui «Dato che è tutto a posto, ci si vede in facoltà?»

Sarò fuori dalla tua porta, all'alba. Avrebbe voluto rispondergli lei, ma optò per un classico: «Certo» mentre il sorriso non accennava a spegnersi.

«Allora buonanotte, Joshua e... Grazie.»

«A domani, Ariel.»

La testa bagnata sul cuscino e il telefono ancora in mano, mentre lui salvava il suo numero.

All'indomani, Joshua si svegliò di buon'ora per prepararsi una colazione degna di essere chiamata tale: succo d'arancia, toast con crema al cioccolato spalmabile e l'immancabile caffè. Si era svegliato di buon umore e, mentre masticava l'ultimo pezzo di pane abbrustolito, avvertì l'istinto di scrivere ad Ariel un semplice "Buongiorno" ma poi, allungando la mano, un flashback gli pose davanti il viso di Evelyn.

Tossì tanto che dovette ingerire una grande quantità di succo per mandar giù il groppo alla gola. Batté così violentemente il bicchiere sulla superficie della cucina che piccole gocce arancioni gli sporcarono la camicia bianca che aveva indosso. Grazie tante, eh!

Le labbra serrate a reprimere un'imprecazione.

Si diresse verso la camera sbottonando l'indumento per metterlo a lavare e, quando dalla finestra notò che Ariel stava già per dirigersi verso la fermata dell'autobus, prese la prima maglia bianca che si trovò sottomano e si fiondò giù per le scale.

Ci impiegò qualche secondo prima di rendersi conto che c'era proprio lei fuori dal cancello. Era di spalle, i capelli ondulati e scuri arrivavano fino ai fianchi coperti da un maglione bianco lungo; i jeans attillati e di un blu scuro erano inseriti dentro degli stivali beige scamosciati del medesimo colore della borsa, portata in spalla. Quando si girò, illuminandolo con un sorriso ampio, Joshua avvertì un calore improvviso percorrere il torace.

Tuttavia, invece di mostrarsi lieto di vederla, deglutì e serrò la mascella proseguendo verso di lei senza incontrare i suoi occhi. «Buongiorno!» lo salutò, mostrandogli una scatola trasparente.

«Ehi...» il tono basso e nervoso mentre cercava di sfilare la chiave dalla serratura del cancello della sua abitazione.

Lei storse il muso. «A quanto pare non è un bel momento, vedo...» interpretò. «Volevo ringraziarti per ieri con questa specie di regalo».

Lui la guardò smarrito.

«Anche se non sembra» continuò lei, «è un pezzo di torta al cioccolato. Spero che possa piacerti.» fece spallucce. «Beh, allora a dopo!» disse, prima di voltargli le spalle e attraversare la strada per raggiungere la fermata.

Joshua rimase lì, immobile, a guardare quella scatolina trasparente, deciso di saltare la prima lezione di Diritto Romano: non ce l'avrebbe fatta a sopportare anche il famoso e affermato docente dei Lucifer.

Nonostante la pessima reazione di Joshua, lei comunque sentì che la sua assenza regnava prepotente per una come Ariel che, quantomeno, si sarebbe aspettata un grazie.

Purtroppo anche Lucia non era venuta a lezione e quindi si era dovuta sorbire il docente vestito interamente di nero, che ripeteva, come un disco incantato, quanto fosse inutile e inconcepibile continuare a credere in qualcosa quando in realtà la storia è stata scritta da uomini dalle grandi capacità razionali. Non ha tutti i torti... rifletté.

Lei, come la maggior parte delle persone che conosceva, non credeva a nulla se non alle proprie capacità. Il padre sempre lontano da casa per le sue riunioni teologiche della Chiesa di Smirne le aveva trasferito un sentimento avverso alle religioni e al credo in generale.

Finita la lezione, si sentì talmente oppressa dai brutti ricordi che dovette abbandonare l'idea di sorbirsi un'altra ora di lezione. L'immagine del padre vestito con il completo nero che prendeva le sue cose e abbandonava la casa, gli aveva fatto venire un dolore pulsante alle tempie.

Così, attese alla fermata, posta appena fuori dalla facoltà.

Una volta salita sull'autobus, il mezzo poco affollato ospitava un gruppetto di ragazze intente a ridacchiare e fare commenti di apprezzamento a un giovane in piedi vicino al vetro.

Quando Ariel si accorse della presenza di Joshua, si sedette per non farsi vedere. Quella mattina aveva avuto come l'impressione che quel gesto di ringraziamento fosse stato interpretato male, tanto da farlo scappare a gambe levate.

Lui, invece, colto da un profondo stato di confusione, aveva deciso di assentarsi dalle lezioni per avere un colloquio con Simon e, in quel momento, si trovava sull'autobus di ritorno dal Centro.

***

Joshua era con le cuffie alle orecchie e non notò il profilo di Ariel fin quando un uomo dall'aspetto trasandato e l'odore di alcol, una volta salito sul mezzo, si era appostato in piedi, di fronte a lei. Gli occhi scavati e dai contorni violacei evidenti la fissavano voraci.

Lei, invece, stava riflettendo su quanto Joshua sembrasse un ragazzo di cui ci si può fidare al primo sguardo, ma quando questo pensiero fece capolino nella sua mente, fece per girarsi e vide la mano rugosa di un uomo insediarsi dentro una delle tasche della sua tracolla. Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi marroni e circondati da occhiaie del personaggio che emanava un odore pesante di alcol e tabacco.

Ariel si impietrì e, emettendo silenziose richieste di aiuto, iniziò a sentir colare sudore gelido dalla fronte.

Poi, quasi dimenticando di essere su un mezzo in movimento, spinse l'uomo contro l'obliteratrice. A quel punto decise di allontanarsi e, dopo aver raggiunto la parte posteriore barcollando qua e là, si fermò, aggrappata a un bracciolo. Rivolto lo sguardo alle sue spalle, Ariel non seppe se rimanere immobile o urlare all'autista di fermarsi: Joshua si era -di nuovo- preoccupato per la sua incolumità.

Il ragazzo stava tenendo per il polso l'uomo, articolando qualche parola che lei non riuscì a comprendere; bastò quello sguardo accigliato e autorevole per far sì che il malintenzionato scendesse dal mezzo alla prima fermata utile. Almeno, era quello che Ariel aveva intuito.

Era la seconda volta che la difendeva nel giro di poche ore. Viviamo di Casualità... Coincidenze... come ha detto il professore... Si sforzò di convincersi.

Poi, gli occhi verdi di Joshua la fissarono con un sorriso.

«Tutto ok?» domandò lui, una volta arrivato di fronte ad Ariel che lo guardava con occhi sbarrati. Il gruppetto di ragazze, intanto, dopo aver visto la scena, si preoccupò di zittirsi per ascoltare la loro conversazione, così come erano solite fare le abitanti della piccola città di Filadelfia.

La ragazza deglutì e drizzò la schiena, ma quando l'autobus prese una fossa profonda, si ritrovò a stringere il cappotto di jeans del giovane che la tenne da un braccio per non farla cadere.

«Perché tu mi salvi sempre?» sibilò lì per lì senza pensarci.

Si ritrovò, suo malgrado, sbaragliata dagli occhi verdi e da un sorriso timido che aveva formato una lieve fossetta sulla guancia destra.

«Forse perché hai bisogno di essere salvata» affermò prima di premere il pulsante rosso accanto al viso di Ariel.

Era come se si fosse immersa in una nuvola dove il cielo era una sostanza palpabile, tanto che non si era accorta della fermata.

«Signorina?»

L'autista la stava chiamando per attirare la sua attenzione, ma lei sembrava ancora in uno stato confusionale.

«Signorina, deve scendere dal mezzo. C'è stato un guasto.» Le intimò l'uomo, cercando i suoi occhi.

«Sì, sì. Mi scusi...»

Si ritrovò sul marciapiede, davanti alla villa in cui alloggiava Joshua.

Osservò a lungo il cancello con ringhiere grigie, lavorato con foglie e fiori di ferro. La cassetta delle lettere mostrava un pezzo di ferro battuto che indicava il numero civico di quell'abitazione: il sette.

Lo guardò per qualche secondo prima di incamminarsi verso la sua villetta. I passi lenti e quasi trascinati di Ariel, erano accompagnati dall'eco di suole dietro di lei.

Ma cosa succede, oggi?! Pensò, velocizzando il passo fin quando non sentì una mano calda e pesante sulla sua spalla sinistra. Bloccandosi di colpo con un grugnito, si voltò per dare uno schiaffo al personaggio che la stava seguendo. Una volta sferrato l'attacco, si ritrovò troppo tardi a dover fare i conti con le cinque dita rossastre sulla guancia di Joshua che stava massaggiando la mascella con aria fortemente stupita.

Il ragazzo, sceso dal mezzo prima di lei, l'aveva aspettata per accompagnarla, ma lei era scesa dall'autobus quasi stesse fantasticando su qualcosa. Dopo aver oltrepassato la porta scorrevole vicina all'autista, nel mettere i piedi sull'asfalto aveva incespicato, facendo cadere un ciondolo dalla borsa.

Avvampò di imbarazzo e dopo aver congiunto le mani sulle labbra, Ariel disse: «Oh Dio, mi devi perdonare...»

«Per così poco?» rise, Joshua. «Sapessi quante ne ho combinate io e il Creatore mi ha sempre perdonato...» tossì, schiarendosi la voce prima di continuare: «Questo ti è caduto mentre scendevi dall'autobus». Ariel allungò la mano per prendere il pendente che raffigurava un leone con le fauci aperte.

«Leone di Dio...» sussurrò lui, osservando la ragazza mentre lo sistemava nella cerniera principale della tracolla e lei, al sentire quella frase, alzò gli occhi aggrottando la fronte.

«Potresti ripetere?»

Joshua che pensava di non essere stato ascoltato si ritrovò a spiegare cosa avesse voluto dire la sua silenziosa esclamazione.

«Leone di Dio è il significato del tuo nome e l'ho associato al ciondolo che porti in borsa.» tossì nuovamente, grattandosi la nuca. «Tutto qui.» concluse, facendo spallucce.

«Davvero? Perché anche il tizio che ieri ha cercato di farmi del male aveva detto una cosa simile al bar della facoltà. Sarà il mio nome ad attirare la sfortuna di questo periodo...»

«Non credo proprio.» rispose lui, con tono caldo.

La ragazza fece un lungo sospiro prima ruotare il busto nell'atto di tornare a casa.

«Allora, ci vediamo in facoltà?»

Lo osservò, in attesa di una risposta affermativa prima di cominciare a camminare, rivolgendogli le spalle.

Lui mosse gli occhi in ogni dove - forse temendo l'arrivo di qualche adepto dei Lucifer - e dopo aver inspirato profondamente, azzardò: «Il mio nome significa 'Gesù'!» la voce alta di Joshua le risuonò all'orecchio come il tentativo di creare un contatto che era stato spezzato sul nascere. Tuttavia, quello che la spaventò maggiormente fu il fatto che lui fosse riuscito a leggerle dentro. Ariel aveva solo abbozzato l'idea di chiedergli cosa significasse il suo nome, ma quella lunga pausa presupponeva lo scarso interesse nel rivederla o meno all'Università e, con la sensazione di essersi esposta troppo, aveva ricominciato a camminare.

«... Che a sua volta significa 'io sono colui che salva'». Aveva concluso, Joshua.

Ariel sbarrò gli occhi ma, in un primo momento, si rifiutò di voltarsi.

Sua madre le aveva sempre detto di non fidarsi di uomini di fede, che apparivano dolci e educati, perché, alla fine, le avrebbero spezzato il cuore. Certo, era strano detto da chi, dopo una prima relazione andata male, aveva scelto di vivere con un uomo che sfruttava la sua intelligenza per aumentare il conto in banca dei Lucifer, ma non poté fare a meno di riflettere su quelle parole.

«Quindi...» si voltò, mostrando un sorriso di scherno «se dovessi raccontare questa storia, dovrei dire che sono stata salvata due volte da un tizio che si chiama Gesù?»

La risata di Ariel fu come una spada di umiliazione. Nessuno gli aveva chiesto di spiegare il significato di quel nome così pesante da portare, ma l'aveva fatto e adesso la sua anima ne pagava le conseguenze. Così serrò la mascella e girò i tacchi per andarsene, facendo cigolare il cancello che dava sul cortile.

«Sono stata io a chiedergli aiuto!» la voce di Ariel, questa volta, era rotta da un nodo alla gola. Quindi, Johsua si bloccò poco prima di entrare nel cortile. Le rivolse uno sguardo inespressivo e chiese atono: «Come dici, scusa?» Il sopracciglio inarcato. «Stai parlando con me?»

All'apparenza era come guardare una foglia tremula e insicura, bloccata al centro della strada con lo sguardo basso; era come se, anche lei, avesse sentito il bisogno di confidargli qualcosa, nonostante i due non si conoscessero. «Ieri, mentre uscivo dalla facoltà, mi sono diretta verso la mia auto...»

Joshua negò col capo quella volontà che lo spingeva sempre davanti a quell'esame da superare; si morse il labbro, e, alla fine, alzò gli occhi al cielo terso, assecondando quell'istinto. Si avvicinò a passo lento verso Ariel, che incrociò le braccia al petto, senza alzare gli occhi verso di lui.

«La mia auto era in fiamme...» gli confidò, lasciando che le lacrime le appannassero la vista in maniera del tutto incontrollata. Lui corrugò la fronte, diminuendo la distanza che li separava.

«Non so perché sto avendo tutta questa sfortuna in questo periodo, eppure io sono una persona molto, molto, razionale...» Il mento iniziò a tremare e, senza riuscire a contenersi, si lasciò sfuggire una lacrima.

Joshua fece un lungo sospiro e incrociando le braccia al petto, quasi a proteggere quel muscolo involontario, quando capì di esserci caduto, di nuovo.

Ariel non riuscì a interpretare quel bisogno improvviso di confidarsi con lui e esternare le sue emozioni; non le era mai successo, con nessuno. Di una cosa era certa: tutte le persone vagavano silenziose verso le loro mete, senza mai notare il malessere altrui, ma lui e Lucia erano stati lo strappo alla regola.

Loro sembrano diversi da tutti gli altri. Prima, Lucia, una ragazza bionda, con le iridi splendenti di una luce diversa, e letteralmente opposta a lei nei modi e nell'aspetto, l'aveva colpita al cuore, sciogliendo quel muro di cemento che la separava dal mondo. Poi, lui, una sorta di angelo custode inaspettato per una come lei che voleva essere forte con tutti e mostrare al mondo intero che nessuno avrebbe potuto farla soffrire. Però, il cuore si stanca, prima o poi.

Lucia l'aveva vista lì, all'ingresso, poggiata a un muro a leggere il messaggio della madre che le diceva di non aspettarla per il fine settimana e nemmeno per i prossimi giorni; avrebbe viaggiato con il super manager bancario, la donna. Come faceva, Ariel, a fidarsi delle persone, se pure sua madre la lasciava da sola?

Non aveva più fiducia in nessuno, se non in se stessa.

Ma Joshua e Lucia sembravano essere arrivati nel momento in cui la sua anima urlava aiuto.

«I miei occhi guardavano l'auto in fiamme e in lacrime mi lasciai sfuggire una bestemmia, come se un certo Dio volesse il mio male...»

Joshua sorrise «Dipende quale Dio. Quello che conosco io non vuole il male di nessuno».

Le aveva riservato un sorriso così dolce che Ariel indietreggiò di un paio di passi, quasi intimorita dalla sua infinita ed inspiegabile gentilezza.

E senza dare peso a quella frase, continuò «... Poi è spuntato lui, Acab, come dal fuoco, cioè... » si grattò la nuca «come se lui avesse visto tutto. Così gli ho chiesto chi fosse stato e...» «E cosa hai avvertito?»

Dal tocco non desiderato di Acab, tutto sembrava essere andato di male in peggio; quel giovane dagli occhi blu si era mostrato disponibile e affabile, ma nell'entrare nella sua auto, da sola, lei si era accorta di aver subito una sorta di strano condizionamento. Joshua, il Figlio di Dio... Pensò Ariel alla sua domanda. Acab, l'Inferno...?

Si disse, al ricordo dei due a muso duro l'uno contro l'altro. Ma, dai!

Di sicuro, qualunque ragazza con un minimo di prudenza avrebbe chiamato un esperto per capire cosa fosse successo alla macchina in fiamme; invece lei se n'era andata con un perfetto sconosciuto che per tutto il tragitto non aveva fatto altro che tentare di sedurla. Però, in un momento di lucidità, fermi sotto la villa di Joshua, lei aveva detto "No!"

Ariel, però, senza fare riferimento a quello che aveva provato in presenza di Acab, rispose ad occhi bassi: «Lui mi ha risposto che sicuramente erano stati quelli del gruppo studentesco Lucifer, quel gruppo che aspira a grandi posizioni all'interno dell'università e della società...»

Joshua la interruppe «Sì, li conosco,» sospirò, con le mani dentro le tasche «purtroppo anche fuori dal campo universitario.»

Ariel, a quel punto, fissò un punto vuoto.

«E cosa vogliono da me?»

Benché Joshua lo sospettasse, non le rispose, ma si limitò a voltarsi per tornare dentro casa dicendo: «Penso che lo scoprirai molto presto. Buona notte, Ariel.»

Lei non aprì bocca iniziando ad avvertire l'aria fredda della sera alle gambe e alle mani. Non sapeva da quanto tempo stessero parlando, ma sembrava che il tempo intorno a loro si fosse fermato.

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Capitolo 8
*** REGNI ***


«Vedevo la mia mano sfiorare una parete ruvida e candida. La accarezzavo e avvertivo le sporgenze della pietra sotto il palmo.

Mentre cercavo di comprendere dove mi trovassi, alzavo il capo e, sopra la mia testa, c'era un'incisione in un arco di marmo: era un'aquila dalle ali spiegate che reggeva tra gli artigli una targa in cui c'era scritto 'SPQR'.

E fu allora che sentii voci, urla e pianto provenire dalle mie spalle. Il cuore iniziò a palpitare, mentre cercavo di soffocare un urlo con entrambe le mani.

Di fronte a me vedevo uomini e donne con abiti lunghi fino ai piedi, che si spingevano, buttandomisi addosso. Ma era come se non esistessi ai loro occhi spenti e pieni di odio, perché mentre mi strattonavano, li sentivo urlare solo una parola:

"Crocifiggilo! Crocifiggilo!"

Non sapevo a chi si stessero riferendo, ma sentivo nelle mie vene scorrere il timore che, purtroppo, i miei occhi avrebbero presto visto l'uomo a cui quell'odio era rivolto.

Mi spingevano, mi spingevano violentemente, e mentre lo sguardo andava in cerca di aiuto, vidi una donna. Una donna dallo sguardo spento, che abbracciava una colonna marmorea dal capitello Corinzio. Era oltre quella moltitudine furibonda, avvolta da un manto nero che lasciava intravedere solo il viso rigato da lacrime silenziose.

Mosse il braccio, come a voler toccare un punto verso la mia direzione.

Poi, sentii fischiare alle orecchie uno schiocco.

Poi un altro e un gemito.

Una voce che pronunciava un numero, in latino.

Triginta!

Urlava una voce maschile.

Mi voltai, e fu allora che il respiro mi si mozzò in gola.

Volevo gridare per l'orrore di quello a cui stavo assistendo, ma le urla mi furono bloccate da una mano sbucata dall'oscurità, alle mie spalle. Le lacrime traboccavano dai miei occhi e le ingurgitavo, senza sapere il perché.

Eppure, non conoscevo quell'uomo rigato di sangue, coperto di ferite provocate dalle continue frustate che fendevano l'aria e che lo facevano sobbalzare con scatti irregolari al suolo, dove ormai giaceva inerme, immerso in una pozza di color rosso scarlatto.

Quei pochi centimetri di pelle nuda non ferita erano di un bianco pallido, ma non riuscivo a vederlo in viso, perché aveva dei capelli lunghi che gli si erano incollati al viso e alla barba. Anch'essi avevano assunto un colore scuro.

Sul suo capo una corona di spine pendeva da un lato.

Volevo salvarlo, ma quella mano era ancora sopra le mie labbra e quando finalmente riuscì a tirarla giù con forza, mi sentì afferrare il polso. Al che, girandomi, vidi degli occhi di ghiaccio che mi fissavano sbarrati.

Era un ragazzo. Lo vedevo muovere le labbra, ma non riuscivo a sentire il suono della sua voce.

Mi voltai nuovamente, scossa dall'urlo disperato di quella donna dal manto nero, che veniva trascinata via da un giovane in lacrime. Ella gridava, gridava una parola, un nome a me conosciuto.

Ma, mentre cercavo di capire il nome urlato da quella donna, mi voltai verso il ragazzo che ormai mi era di fronte.

'Non puoi salvarlo, lui ha scelto questo destino, di sua volontà'. Sentenziò glaciale.

I miei occhi venivano irrorati di nuove lacrime e nel fissare ancora una volta quell'uomo martoriato, lo vedevo di spalle, mentre un soldato romano lo copriva con una tunica purpurea come il sangue che stava seccandosi alla sua pelle.

Ecce Rex!

Disse il soldato, cui seguirono fragorose risate, dopo avergli sistemato la corona di spine nuovamente sul capo curvo.

'Ecco il re' ripetei, mentre mi voltavo e vedevo il ragazzo che continuava a fissarmi.

Dopo un po', prese a stringermi le spalle, dicendo: 'È colpa tua! È colpa tua, Ariel!'

Ma io scuotevo la testa con labbra tremanti, sentendo riecheggiare nella mia mente l'urlo della donna e quel nome: 'Joshua! Joshua!'

E così, dopo un lampo bianco, mi sono trovata bagnata di sudore e ansimante nel letto, colta da una profonda tristezza e con un dolore al cuore». Un sospiro, prima di continuare. «So che è strano, ma tu sei l'unica che potrebbe spiegarmi cosa significa»

Lucia la guardava ad occhi sbarrati, lucidi, con la bocca socchiusa nell'atto di pronunciare qualche parola. Quando fece per alzarsi, Ariel di scatto le bloccò le mani al tavolo della mensa. «Ti prego, non scappare anche tu...» la voce come un filo tremolante, pronto a spezzarsi.

«Io... Io non lo so...» balbettò Lucia, sciogliendosi dolcemente dalla sua presa.

«Ma...?» Ariel era sconvolta. Non aveva fatto altro che pensare a quel sogno tutta la mattina, continuando a sentire quel dolore bruciante allo sterno, come se l'avessero trafitta in pieno petto.

In realtà, sapeva chi avrebbe potuto essere l'uomo del sogno, ma non capiva il perché Lucia non volesse spiegarle il significato.

«Non è detto che debba avere un significato» le rispose quella, facendo spallucce. Posizionata in piedi, di fronte ad Ariel, Lucia la scrutò con occhi colpevoli di una verità che non poteva pronunciare, mentre l'altra la osservava dal basso e con sguardo accigliato. «Lo ha, per me». La sua voce cupa provocò un colpo fitto allo stomaco di Lucia, che non poteva fare altrimenti: sospirò, sperando che la sua confessione non andasse contro di lei e la realtà di Simon.

«Io...»

«Tu?»

«Io ho un dono»

«Lo sapevo!» esclamò Ariel e, nella foga, batté il palmo della mano sul tavolo guadagnandosi lo sguardo di Acab, seduto al lato opposto della stanza e di Joshua, appena entrato nella sala mensa.

Lucia guardava il volto ridente di Ariel, sentendo nell'anima il pulsante fremito di qualcosa più grande di lei.

"Sappi Lucia, che i doni che Dio ci dà non servono ad inorgoglire, ma a salvare: salvare le anime dal potere di Satana". Il monito di Simon risuonò nella sua memoria, non appena i suoi occhi incontrarono quelli di Joshua.

Lui, appena arrivato per seguire le lezioni pomeridiane, dopo l'esclamazione di Ariel e il volto smarrito di Lucia, capì che c'era qualcosa che non andava. Posò lo zaino su un tavolo e si avvicinò alle due con sguardo torvo.

Quel che lo stava spingendo ad agire era la consapevolezza che il dono di Lucia avrebbe potuto essere carpito, deriso e incompreso agli occhi dei figli del mondo, più inclini ad essere facilmente raggirati dai Lucifer. Dopo tutto, non sapeva quasi nulla di Ariel se non che, anche se  l'aveva salvata più volte, ormai i Lucifer - attraverso Acab- avevano puntato gli occhi su di lei. Era come se la sua vicinanza venisse utilizzata a loro piacimento.

Però era anche vero che c'era quell'istinto, quella volontà di proteggerla da qualcosa. Una corda invisibile, che incrociava il suo cammino a quello di lei, che, a sua volta, si ritrovava alle calcagna un segugio del gruppo Lucifer, chissà per quale ragione.

Mentre si avvicinava alle due, lanciò uno sguardo ad Acab ed uno ad Ariel, che aveva alzato il mento verso di lui.

«Lucia...» iniziò, con voce calda ma volutamente bassa, per non farsi sentire. Ariel, seduta al tavolo, se lo ritrovò di lato che, con i palmi sul tavolo, si frapponeva tra le due. «Non penso che questo sia il luogo adatto...a parlare di certi argomenti» e nel pronunciare quelle parole indicò con lo sguardo un punto dietro di lui. Lucia seguì i suoi occhi, inquadrando la figura di Acab che con la stessa eleganza di un corvo li osservava, appollaiato ad uno dei tavoli della mensa, con con braccia e gambe incrociate.

Ariel osservava la curvatura della schiena di Joshua, vagando sulla sua figura, fin quando, battendo più volte le palpebre, avvertì una sorta di richiamo: inconsistente come un pensiero, ma palpabile come il vento che sposta le fronde di un albero.

Spostò lentamente lo sguardo verso Acab e, allo sfiorare i suoi occhi di ghiaccio, si sentì avvampare di astio nei confronti di Joshua.

«Perché, scusa?» intervenne, guadagnandosi lo sguardo smeraldo del giovane. «Nessuno ti ha chiesto di intervenire, questa volta» sottolineò. Il riferimento alle volte in cui l'aveva salvata non era per niente casuale, e Joshua, increspando la fronte, fissò prima i suoi occhi scuri di rabbia e poi Acab. Quel personaggio aveva poggiato due dita della mano sinistra alla tempia e la sua vista era concentrata su Ariel.

Impressionante...Pensò, a bocca aperta.

Tuttavia, senza far capire a Lucia quel che stava avvenendo, rispose ad Ariel con apparente calma, dopo essersi bagnato le labbra con la lingua. «Se è per questo, nemmeno le altre volte me lo hai chiesto». Fu così, al suono della sua voce, che Ariel si rese conto di aver detto qualcosa di inopportuno e battendo più volte le palpebre, portò una mano alla fronte.

Senza che Joshua se ne accorgesse, Lucia si trovò avvolta in una bolla in cui si immerse come quando le capitava di avere una visione. Voltò il viso verso Acab per vedere che nei suoi occhi era visibile soltanto la sclera. Acab agiva anche in lei, tant'è che Lucia avrebbe voluto reprimere quella sensazione di vuoto e arti atrofizzati per tornare alla realtà. Il petto schiacciato da un peso che le impediva di respirare e un'unica ancora di salvezza:  pronunciare il nome di Gesù Cristo, almeno con la mente, interrompendo così l'oscuro collegamento che Acab aveva tentato di creare; e, come tornata in superficie da acque nere, si rivolse a Joshua con respiro concitato.

«Ragazzi...» con gli occhi serrati, tamburellò l'indice sulla spalla destra del primo. «Forse è meglio se usciamo da qui». Quello drizzò la schiena, senza staccare lo sguardo da Ariel che reggeva i suoi occhi senza curarsi di alzarsi in piedi e spostare la sedia.

«Forse ha ragione Lucia...» disse poi e, prendendo Lucia per un braccio, si diresse verso l'uscita. Joshua, intanto, valutò l'accaduto: Acab aveva agito come se non gli importasse del luogo in cui si trovava. Si grattò il mento lievemente barbato, prese lo zaino e avanzò verso le due. 

Evidentemente, sapeva di avere in mano la situazione del suo Regno...

Lucia camminò con Ariel per un paio di metri, ma poi si voltò verso il ragazzo ancora dentro la mensa e si staccò dalla presa dell'amica per fermarsi al centro del corridoio.

«Aspetta, Ariel» in tono fermo. «Con noi deve esserci anche Joshua».

L'altra la guardò, alzando un sopracciglio senza capire la piega che stava prendendo quella giornata, iniziata con un sogno che l'aveva resa particolarmente inquieta e confusa. Lucia e Joshua, in quel caso, non sembrava volessero aiutarla. «Vorrei che venissi con noi a parlare con una persona che può aiutarti più di me» le propose Lucia, senza accorgersi del personaggio che le stava seguendo.

«Chi? Quello che si è comprato un palazzo con le offerte dei volontari e che ne sfrutta le abilità per farne dei fedeli? Sei proprio sicura di voler andare con loro, Ariel

Acab aveva  pronunciato quelle parole in tono volutamente alto, nonostante  fosse abbastanza vicino alle due.

Il fare teatrale e quella frase, buttata in mezzo ad una mensa gremita di gente, aveva fatto gelare il sangue nelle vene di Joshua. Lui, che aveva il respiro bloccato in una morsa di rabbia, si avvicinò con passo trascinato alla calca di persone che si era attorniata ai tre.

Un brusio aleggiava nel corridoio. Quando apparve Joshua, con i muscoli rigidi e le mani chiuse a pugno, il silenzio piombò all'istante.

Fissò Lucia. Le spalle tremavano, raggomitolata in se stessa come un riccio che non ha aculei. Quella frase l'aveva trafitta al cuore e lui lo sapeva bene.

«Tu...» iniziò a dire tra i denti, Joshua, cercando di controllare ogni impeto di ira repressa nel tempo verso la loggia che Acab rappresentava.

«No, Joshua!» Lucia gli si era avvicinata per stringergli il polso e fare in modo di calmarlo. «E' quello che vuole» gli sussurrò nella speranza che riacquistasse la lucidità.

«Che vorresti dire?» inaspettatamente, Ariel si era avvicinata ad Acab con occhi socchiusi di curiosità.

I suoi occhi parlano. Lo sento sulla pelle. Lo sento nella mente.

Acab fece un mezzo sorriso con occhi carichi di malizia. Posò le mani sul volto di Ariel e glielo indirizzò verso i due giovani che, di colpo, si erano irrigiditi nel vederla sotto il suo totale controllo. «Perché non chiedi ai tuoi amici il motivo della tua visita al loro padrino?» la voce melata le si incanalò all'orecchio per essere schiusa nella mente come un tarlo.

«Voi...» iniziò lei, con un tono carico di astio. «Voi volevate convertirmi al vostro credo con l'inganno! Avete sfruttato il mio bisogno di conoscenza! Andate via, non vi voglio più vedere!» deliberò con respiro accelerato.

Lucia poté ascoltare  il cuore  intimarle di uscire dal petto e, tenuta dalle spalle da Joshua, sussurrò con voce tremante: «Ariel...» e una lacrima silenziosa le vagò solitaria fino al mento.

Per Joshua era tutto chiaro: si era delineato il confine tra i due Regni e solo Ariel doveva decidere da che parte stare.

 

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Capitolo 9
*** SCELTE ***


I due se ne andarono e come riemersa da acque nere, Ariel batté le palpebre un paio di volte, ritrovandosi in mezzo al corridoio della mensa, osservata dagli studenti e da Acab. Il petto le si alzava e abbassava vistosamente, quasi come se i polmoni richiedessero l'aria che avevano perso.

D'un tratto si sentì mancare la terra sotto i piedi e si voltò ovunque alla ricerca degli occhi di Lucia e di Joshua, ma lì, ad osservarla, c'era solo Acab, che non aveva smesso di sorridere, ben compiaciuto della riuscita della sua azione.

Ariel roteò il busto verso Acab e rivolgendogli uno sguardo felino: «Dove sono?»

Un fuoco di rabbia sembrò percorrerle l'esofago. Sentiva di aver perso qualcosa, qualcosa di indefinito ma completamente reale: un'amicizia che fino ad allora nessuno le aveva mai regalato. Sincera e senza interessi. Era per quel motivo che Ariel rivolse quella domanda con tutto l'astio di cui poteva essere capace.

«Chi, tesoro?» le chiese con il volto scaltro e il tono affabile di un intoccabile.

«I miei amici...» gli ringhiò a denti stretti, prendendolo dal colletto della giacca nera. Nel respirare con prepotenza, inalò involontariamente la fragranza del suo profumo. Se non fosse stato per i suoi pensieri rivolti a Joshua e all'amica, sarebbe caduta nell'oblio che gli occhi di Acab nascondevano.

Gli sarebbe bastato pochissimo: allo sfiorare le sue labbra, Ariel non sarebbe mai più tornata dai due.

Così si protese verso il suo orecchio per sussurrarle: «Sei sicura di voler tornare da loro? Perché non rimani con me?»

Ariel sbarrò gli occhi e quando sentì nel suo orecchio il soffio del ragazzo, non si considerò più padrona delle sue azioni. Le stesse mani che stavano stringendo il colletto della giacca vennero utilizzate per spingerlo lontano da sé e farlo sbattere contro un paio di persone che urtate fecero rovesciare il contenuto del vassoio sul pavimento. Inevitabilmente le suole di Acab scivolarono su un liquido arancione; ne seguì il tonfo sordo della caduta e le risate dei presenti.

Acab aveva fatto un errore di valutazione: mentre stava già immaginando le labbra di Ariel sulle sue, perdendo di vista il suo vero intento, si ritrovò in pochi secondi a guardarla dal basso che si ergeva su di lui con le mani ai fianchi.

«Non importa chi siano o in cosa credano. Sono miei amici. Di te, invece, ho solo brutti ricordi. Sei tu che devi stare lontano da me, Acab Damian.»

Acab avvertì la bile lambire la gola, vittima di un'umiliazione senza precedenti nella sua famiglia, la guardò andarsene. Le sopracciglia aggrottate e i canini in vista, quando Acab capì che era arrivato il momento di mettere in chiaro alcune faccende.

***

Ariel provò a raggiungerli di corsa, con la borsa che sbatteva contro le ginocchia e il fiato corto, ma quando avvertì una fitta al fianco si impose di fermarsi per ossigenare i pensieri. Non sapeva dove avrebbe potuto trovarli. Avevano parlato di un certo Simon, ma non sapeva dove avrebbe potuto trovarlo.

Durante la corsa aveva l'immagine degli occhi in lacrime di Lucia, e la consapevolezza di averle causate lei non le dava pace.

Era in mezzo ad una strada asfaltata e poco trafficata che portava al vicino quartiere degli studenti intenta a riflettere su quanti erano stati i falsi amici che l'avevano illusa per di ricevere qualcosa in cambio. Per non parlare dei ragazzi, preoccupati solo del proprio soddisfacimento; cose che sembrava non riguardassero il carattere di Lucia e Joshua.

Si portò una mano sul petto e strinse il ciondolo del leone che da quando le era caduto dalla borsa era diventato parte di una collana dal laccio di cuoio. Non sapeva ben definire da quanto tempo lo possedesse, sapeva solo di averlo sempre portato con sé su consiglio della madre.

Il pendaglio d'oro luccicò sotto un raggio di sole per mostrare delle pietre incastonate come una corona sul capo dell'animale dalle fauci spalancate.

Sorrise quasi dimenticandosi del motivo per cui era nel bel mezzo di una strada, ma quando un vento gelido le attraversò la camicia percorrendo la colonna vertebrale come un artiglio, ebbe un sussulto avvertendo un gelo innaturale anche agli arti.

Dietro di lei sentì il ringhio di quello che doveva essere un cane di grossa taglia. Il respiro le si mozzò in gola e quel gelo sembrava essere prodotto dal respiro pesante dell'essere alle sue spalle.

Si voltò lentamente, mentre una certezza mandava in circolo litri di adrenalina. Una bestia molto simile a un lupo con occhi celesti e il manto nero, la fissava con rabbia mostrando i canini.

Gli occhi le si sbarrarono fin all'inverosimile, quando anche l'ossigeno sembrava essere scomparso nell'aria circostante; si sentì così intrappolata da convincersi di due assiomi elementari: se avesse corso, l'avrebbe presa e sbranata; se fosse rimasta lì, anche.

La sua mente non mandava più alcun segnale e la sua pelle olivastra appariva diafana.

Piccole goccie di sudore freddo le imperlavano la fronte e mentre l'animale avanzava a passo lento, la ragazza cadde in ginocchio con le mani davanti al volto.

Pessima mossa, Ariel. Si disse, convinta di avere i minuti contati non tanto verso la morte ma quanto al dolore atroce di qualche arto staccato a morsi.

«Ti prego... Ti prego!» Balbettò quasi senza pensarci, finché, dopo un bel lasso di tempo, si accorse di non sentire più nulla.

Anche i passeri avevano smesso di cinguettare caoticamente come stavano facendo un secondo prima che il vento smettesse di scompigliare i capelli. A quel punto, le baluginò il pensiero che il cane se ne fosse andato spaventato da qualcosa, o qualcuno.

Avrebbe voluto vedere con i suoi occhi chi aveva avuto la capacità di sottomettere una bestia di quelle dimensioni. Così sbirciò tra le dita delle mani, rimaste incollate al viso per il terrore, e, acuendo la vista, vide una figura di spalle, proprio davanti all'animale.

Il personaggio puntava l'indice verso quella belva che sembrava essere stata ammaestrata, tanto era divenuta docile.

«Non può essere...» mormorò la giovane, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, mentre si trovava ancora in ginocchio, nel mezzo della strada, a contatto con l'asfalto torrido.

Camicia bianca e jeans erano gli indumenti indossati da quel ragazzo che sembrava pronunciare parole con una sorta di cantilena. Non dirmi che...

Quella persona- che Ariel stava contemplando quasi come se stesse avendo una visione- aveva gli stessi abiti indossati da Joshua quella mattina.

Il Figlio di Dio?

In un momento, le parole che Acab aveva usato per definire Joshua assunsero un peso non indifferente. Poteva essere del tutto plausibile.

Con un rapido gesto del capo, Joshua sembrò indicare la direzione che l'essere a quattro zampe avrebbe dovuto percorrere. In un battito di ciglia, l'animale fu portato via dal vento di ottobre, sotto forma di granuli sabbiosi e scuri, emettendo un ultimo ululato.

E no, non aveva sognato: il ragazzo che aveva visto era proprio Joshua che le rivolgeva uno sguardo apprensivo, con sopracciglia incurvate in un'espressione sconvolta.

Lui si portò le mani sul viso lievemente barbato per poi bloccarle sulle labbra e, mentre la sua mente cercava un modo efficace per spiegare quanto era appena successo, se le portò sui fianchi con il capo chino. Gli occhi balzavano da una parte all'altra dell'asfalto e guardando i palmi tremanti delle mani si rese conto di aver scacciato un demone nel nome di Gesù Cristo, per la prima volta.

Iniziò ad andare verso Ariel portandosi la mano sinistra a massaggiare il mento, facendo rimanere la destra su un fianco.

Lei, per tutto il tempo rimasta immobile, con bocca arida e schiusa per emettere suono, lo osservò arrivare fino a lei.

Una volta di fronte alla ragazza, Joshua si piegò su un ginocchio e avvicinò il viso a quello di Ariel facendo rimbalzare lo sguardo su ogni parte del suo viso per capire quanto fosse stato impressionante l'evento a cui aveva assistito.

Lei incurvò la schiena all'indietro puntellando un palmo sull'asfalto e l'altro quasi a chiedergli di allontanarsi.

Joshua non avrebbe dovuto, non di nuovo, ma era l'unico modo, l'unica via delineata dalle circostanze. Le prese il volto tra le mani e incappato nei suoi occhi lucidi e nelle sue guance infiammate di imbarazzo, le disse:«Vedo che hai ripreso colorito.Va tutto bene, adesso?»

Quell'avvicinamento improvviso e indesiderato la irritò al punto da farle pronunciare una serie di invettive contro il giovane.

«Stai scherzando, spero!» esplose lei e, in un impeto di rabbia, si mise in piedi con difficoltà, mentre ancora le tremavano le gambe. «Mi salvi, fai il giochetto del "principe con la principessa in pericolo"» mimando le virgolette con le dita, «ti avvicini a pochi centimetri dalla mia faccia e pensi che il colorito sia dovuto alla mia buona salute?!»

Joshua la guardò serio per diversi istanti fino a quando le espressioni e l'equilibrio precario di Ariel lo fecero ridere fino a portarsi la mano alle labbra: la ragazza appariva visibilmente scossa, ed effettivamente, il suo pericoloso avvicinamento, aveva dato il colpo di grazia. «Adesso ridi?!»

Nonostante fosse confusa e pericolosamente scossa dall'esperienza, non riuscì a fare a meno di ridere di rimando. Lui aveva il sorriso più bello che avesse mai visto.

Un vento fresco, preceduto da un tuono rumoroso, fece sobbalzare entrambi, che in pochi secondi si erano ritrovati sotto tante gocce d'acqua.

«Vieni, sotto il portico. Corri!» urlò Joshua, per sovrastare il battito dell'acqua.

La pioggia pesante si era materializzata all'improvviso come una cascata e minacciava di non arrestarsi per un bel po'. Così il ragazzo prese la mano di Ariel e la costrinse a correre veloce per arrivare sotto il portico di casa sua. Solo una discesa separava l'Università dal Quartiere degli Studenti.

Una volta arrivati davanti al cancello che dava l'accesso al cortile, sotto la tettoia trasparente, i due respiravano con affanno, facendo muovere lo sterno in maniera visibile e incontrollata.

«Bella corsa, eh?»

Lui rideva come se nulla fosse successo, mentre Ariel era piegata su se stessa e avvertiva una fitta alla base del costato. Le corse improvvise non facevano per lei. «Sì,» mormorò «molto divertente».

La ragazza teneva una mano sul fianco e lo sguardo basso, finché, rialzando gli occhi, notò che l'acqua li aveva bagnati interamente e aveva reso trasparente la camicia di Joshua che, incollata alla pelle, le svelava il fisico curato.

Quindi abbassò il viso, cercando di mandare giù saliva inesistente. Fu dopo un lungo silenzio, che Ariel drizzò la schiena per rivolgere a Joshua uno sguardo attento, mentre la pioggia copiosa batteva forte sulla tettoia.

«Perché lo fai?»

«Fare cosa?» Joshua, corrugò la fronte e goccioline d'acqua gli rigarono il viso dai capelli bagnati.

«Essere così...» Ariel strinse le labbra fino a farle diventare una linea sottile per qualche istante, prima di trovare la parola che riuscisse a definire il suo essere «... gentile»

Lo sguardo di Joshua mutò, fino a diventare quasi spigoloso. Non poteva essere già arrivato il momento di allontanrsi da lei. Non avrebbe voluto, ma quel suo essere "gentile"-come lo aveva definito lei- era la cosa che più lo spaventava al mondo.

Dall'essere gentile a diventare amabile, il passo è troppo breve... Considerò vista l'esperienza dell'animale.

«In mensa ti ho umiliato. Perché continui ad aiutarmi?» La voce di Ariel era pacata e un brivido le fece incrociare le braccia al petto per il freddo, mentre lo osservava cercare le chiavi nelle tasche dei jeans con fare inquieto.

«Se vuoi, sopra ho una felpa...» pronunciò lui, cercando di cambiare volutamente discorso. In quel momento lo tormentava il pensiero che, dopo tutto, se Ariel non era con Acab, un motivo c'era.

«Smettila!» urlò lei, lasciando che la voce pacata si tramutasse in un ringhio di nervosismo. Le sue mani si poggiarono al petto del giovane, che spingendolo lo fecero allontanare di un passo per far sì che gli occhi verdi si puntassero su di lei.

Lui fece vagare lo sguardo sul suo profilo, lasciando tintinnare le chiavi inserite alla serratura.

«Non ci posso fare niente.» con tono piatto «E' Simon che mi ha insegnato ad essere così. Io ti ho perdonata. È questo che mi ha dato la forza di aiutarti poco fa. E' la forza del perdono che allontana i lupi delle tenebre» e gli occhi vacui, nel ricordo di uno dei tanti insegnamenti del Padre.

Un fiumiciattolo d'acqua, scorreva veloce accanto al marciapiede, verso le ballerine della giovane Ariel, dalla quale aveva allontanato gli occhi. «È l'amore di Dio che mi spinge ad essere così.»

La ragazza lo osservò increspando la fronte, mentre un velo di delusione le copriva il cuore. Dio...

Tre lettere e un suono che le provocava ogni volta una sorta di astio e irritabile soggezione.

«Perché Dio avrebbe permesso che ti umiliassi?» attese una risposta a quella domanda provocatoria come chi conosce già le proprie verità inesistenti. Il miracolo che gli aveva salvato la vita sembrò non aver sortito alcun effetto nel suo cuore. I capelli bagnati le si attaccarono viso, lasciando ben in mostra solo gli occhi grandi.

«Dio ha permesso la mia umiliazione e il nostro successivo incontro, perché tu vedessi con i tuoi occhi la differenza...» si morse la lingua.

«Quale differenza?»

Il petto di Joshua si gonfiò d'aria che uscì rumorosamente dalle narici. «Tra me...» Una frazione di secondo e gli occhi di Ariel si sbarrarono increduli. Joshua non capì il perchè si fosse sentito in dovere di mettere in mezzo se stesso, quando in realtà «Cioè...Volevo dire...» il sorriso forzato non faceva che mostrare il suo interesse fallace. Lei, senza staccare gli occhi da lui che si grattava la nuca senza guardarla «Continua...» pronunciò, muovendo un passo nella sua direzione. Poi intuì: il ragazzo stava nascondendo qualcosa che lei avrebbe dovuto sapere. In fondo, da quando l'aveva protetta dalle bramosie di Acab, aveva notato qualcosa di strano.

«Tra me e Acab.» confessò lui con tono sicuro, posando gli occhi verdi sulla giovane.

«Ah...Capisco.» Ariel annuì quando ormai le nuvole andavano diradandosi.

Dovette ricredersi: anche Joshua era come gli altri. Quando fece per andarsene, la mano di Joshua le toccò il braccio e senza aspettare che la ragazza si voltasse, sentenziò: «No Ariel, non hai capito»

Joshua non voleva dare false speranze alla giovane che appariva confusa e giustamente provata dagli ultimi episodi. «Io sono così: ho il bisogno smodato di aiutare le anime deboli.» Nel dirlo aveva portato una mano sul cuore. «Salverei chiunque si trovasse nella tua stessa condizione.»

«Quale condizione?» la fronte increspata in un'espressione torva.

«I tuoi incontri con Acab, Ariel. È pericoloso stargli vicino. Volevo solo metterti in guardia.»

A quella confessione, Ariel avvertì un'emozione vibrare nel petto; tuttavia, senza proferire parola, gli rivolse le spalle e iniziò a camminare a passi lenti verso casa.

In tutte le sue insicurezze non ci entrava proprio un ragazzo come Joshua, ma, ad ogni modo, Ariel voleva sapere di più. Così, sentendo il cigolio del cancello d'ingresso dell'abitazione di Joshua, si girò e- stupendosi di se stessa - urlò il suo nome.

Lui uscì il capo sulla strada con un'espressione sorpresa.

«Ti va un tè caldo, a casa mia?»

Sì. Lo vorrei, eccome. Joshua dovette metabolizzare quella richiesta, cercando di reprimere il desiderio di avere più tempo da dedicarle; però negli occhi lucidi di Ariel rivide quelli di Evelyn e un fuoco divampò nel suo petto, mentre lei attendeva con speranza una risposta, inconsapevole.

La ragazza rimase immobile, in mezzo alla strada, per l'ennesima volta e nell'attesa ebbe modo di vedere quanto fosse combattuto.

Le mani incrociate di Joshua passarono dai capelli alla nuca un paio di volte prima di stringere le braccia al petto. Le si avvicinò per scrutare ogni sua espressione. L'avrebbe afflitta, ma doveva farlo.

«Magari un'altra volta, Ariel. Grazie comunque» un bacio sulla guancia. «Ci vediamo» e con un paio di passi all'indietro per osservarla un'ultima volta, girò i tacchi e rientrò in casa.

 

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Capitolo 10
*** DUBBI ***


Quando Ariel vide il cancello chiudersi alle spalle del ragazzo, una bruciante delusione le spezzò il respiro. Una delusione rivolta a se stessa, e a nessun altro. Mia madre ha ragione...

Una volta giunta a casa, chiuse la porta a chiave e, guardando la maniglia dorata, la fissò a lungo prima che la vista le si appannasse.

Che stupida! Si disse, salendo di corsa le scale.

Entrando in stanza, si sbottonò la camicia a fiori; inzuppata e ancora gocciolante se la tolse via, come a voler cacciare anche il ricordo di quella giornata.

Rimase senza maglia, provando un senso di gelo, che non era dovuto all'ambiente umido dell'appartamento e al suo stato. Alzò la serranda, e, guardando oltre il balcone, si ricordò di essere sua dirimpettaia. Cosa farai di così importante? Farai lo studente modello?

Sì, aveva individuato anche la sua finestra. Lo vide chiaramente mentre entrava nella stanza a petto nudo, in quella che doveva essere la stanza da letto. Il gelo si sciolse, sotto il calore di quel che avrebbe voluto continuare a vedere, ma che evitò, non appena intuì che il ragazzo stava per slacciare i jeans.

Lui sì, avrebbe voluto studiare per impegnare la mente in altri pensieri dopo una doccia calda. Per un tempo aveva dimenticato di essere a pochi passi da casa sua e quando prese consapevolezza che la sua finestra era in direzione della propria, si sentì osservato.

Nello stesso momento in cui Ariel si stava allontanando, Joshua alzò lo sguardo verso quella finestra, in cui più volte aveva scorto la figura della ragazza andare qua e là.

Si affrettò a prendere nuovamente la maglia per portarla al petto e coprirsi; si avvicinò di scatto alla sua tenda e con un rapido gesto coprì i vetri.

Sapeva che Ariel si era sicuramente accorta del suo repentino cambio di comportamento, ma non avrebbe mai saputo quel che Joshua aveva provato in quel breve lasso di tempo. Lui aveva rivolto lo sguardo a un insignificante rigagnolo d'acqua ai suoi piedi solo per non fissare il corpo di quella ragazza diventato ben visibile a causa di inevitabili trasparenze provocate da quella pioggia improvvisa. Nemmeno un ragazzo normale sarebbe rimasto indifferente.

Stupida camicia a fiori!

Esclamò tra sé, prima di dirigersi in bagno.

Dopo la doccia, si sistemò nella scrivania, con un toast al prosciutto al lato del libro di Diritto Romano e il telefono lontano dalla sua portata. Sfogliò le prime pagine e fece di tutto per concentrarsi sulle origini del diritto privato nell'antica Roma.

«"Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo."» se lo ripeté un paio di volte ad alta voce prima di chiudere in uno scatto il libro dalla copertina rossa. Non ci riusciva, ci pensava. Come un tarlo che rode la mente, sentiva di aver perso un'occasione.

Poi- quasi agissero su di lui due nature differenti e in contrasto tra loro - si sentì in colpa, anche solo per aver avuto dei pensieri striscianti nei confronti di Ariel. Non che se la immaginasse accanto in un prossimo futuro: arrogante, sfacciata, vulnerabile, facilmente influenzabile, ma tanto fragile...

No, Joshua. No.

Ariel era insicura e bisognosa di protezione.

***

«Pronto, Joshua?»

«Sì, Padre, sono io. Ti disturbo?»

Decise di fare come Simon gli aveva sempre consigliato: chiamarlo per qualsiasi dubbio o necessità.

«No, figliolo, dimmi, ti sento preoccupato...»

Massaggiandosi la fronte con le dita, iniziò, chiudendo gli occhi stanchi: «Beh, giorni duri, Padre. Lucia ti ha detto qualcosa?»

«Tu lo sai che Lucia mi dice tutto.»

Joshua si morse il labbro inferiore, prima di avanzare quella domanda.

«Anche di Ariel e Acab?» Dal telefono non si udì suono, mentre il ragazzo, passandosi una mano tra i capelli si gettò con la schiena indietro, sprofondando nel materasso. «Certo che lo sai. È che mi sento in difficoltà in questo momento...»

«Lo sento, ragazzo mio. È normale.»

Joshua scattò seduto, facendo molleggiare il letto sotto di sé, mentre sul suo volto si disegnava un sorriso nervoso.

«Cosa è normale?» domandò, con voce acuta.

«E' normale avere dei dubbi. Il segreto è fare le scelte giuste, quelle che poi danno il corso alla nostra vita.»

Il ragazzo rimase in silenzio e, fissando un punto nel vuoto, serrò la mascella.

«Mi ha invitato a casa sua, Simon.» il tono utilizzato per pronunciare il suo nome fu come per avvertirlo di un imminente pericolo.

«Ecco cosa dovevi dirmi» un lungo sospiro e qualche istante di silenzio. «Ricordi l'episodio di Gesù, quando andò nella casa di quel fariseo e la prostituta gli lavò i piedi con le sue lacrime?»

«Sì, direi di sì.»

«Bene. Gesù era un uomo, come te e me.»

«Sì, ma...»

«Fammi finire. Non sta scritto che "Lui ebbe tutte le tentazioni ma in nessuna cadde"

Dal telefono di padre Simon si udì solo un colpo di tosse.

«Vai Joshua. Lei ha bisogno di salvezza, ha bisogno di essere amata, non come intende lei, ma come intendi tu. Ci siamo capiti, ragazzo mio?»

«Sì.»

«E...Joshua?»

«Sì?»

«Cosa disse Gesù di quella donna?»

Joshua fissò lo sguardo alla finestra di Ariel, da cui si vedevano le intermittenti luci bluastre di chi stava guardando la TV, mentre nel suo cuore tornava chiara la frase di Gesù Cristo: «"I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato"» sospirò profondamente.

«Vai in pace Joshua, e compi la tua prima missione.»

Joshua chiuse la chiamata, lasciandosi cadere nuovamente nel letto, con il braccio che gli copriva gli occhi.

Si erano fatte le sette di sera. Ariel frugava in un sacchetto di patatine adagiate sul comodino di lato al letto, mentre guardava la TV, o -sarebbe meglio dire- tentava di trovare qualcosa di interessante da guardare.

Era con la schiena al muro, dietro i suoi occhiali riposanti, vestita del suo pigiama di pile grigio. L'umidità presa il pomeriggio l'aveva infreddolita a tal punto da sentire la necessità di un calore che la avvolgesse completamente. L'aria di ottobre, a Filadelfia, faceva questo effetto: a mezzogiorno, il calore poteva essere così intenso da dover camminare indossando indumenti a maniche corte; la sera, la temperatura calava vertiginosamente, entrando nelle ossa con l'impetuosità dell'aria marina.

Anche se lei non amava particolarmente l'autunno e l'inverno, quella sensazione di essere accoccolata alla morbidezza di un capo caldo la rassicurava.

Con aria annoiata, premeva convulsamente i tasti del telecomando quando i suoi occhi furono attratti dall'immagine di un uomo che, visto di spalle, riceveva frustate da un uomo romano; qualcuno contava il numero di volte che si sentiva lo schiocco del laccio.

Ad Ariel gli si bloccò un boccone in gola e con qualche colpo di tosse, si avvicinò allo schermo carponi, mentre una voce fuori campo dava delle spiegazioni storiche a riguardo.

"Come sappiamo, nel cristianesimo c'è l'effetto della numerologia. Il numero delle frustate, gli anni di Cristo e gli anni in cui Cristo ha operato con i discepoli. Non bisogna tralasciare nessuno dei significati nascosti nelle parole usate, non solo da Cristo, ma anche dai suoi seguaci. Altra caratteristica fondamentale è il significato di alcuni numeri che si ripetono frequentemente, come il numero sette..."

Ariel non capiva perché parte del suo sogno fosse all'interno di un programma televisivo, ma quando lo storico nominò il numero sette, nella mente di Ariel comparve come un flash il numero civico della casa di Joshua.

Il numero sette...

Una coincidenza, solo una coincidenza, Ariel.

A quella vista si era diretta verso la cucina a pian terreno.

Mentre ingurgitava avidamente l'acqua dal suo bicchiere di vetro, pensò a quell'immagine che ormai le appariva sfocata nei ricordi: un uomo insanguinato dalle troppe frustate.

Posò il bicchiere sul marmo della cucina e si ritrovò a fissare un punto imprecisato del vuoto in cui le stavano balenando in mente gli ultimi avvenimenti dovuti alla conoscenza di Joshua.

Quel nome le richiamava emozioni così contrastanti che dovette fare un'associazione di pensieri:

Un nome con due volti: un misterioso e alquanto attraente ragazzo dell'università e un uomo di spalle ferito a morte. Il primo era reale, il secondo solo un sogno che la turbava ancora a distanza di parecchie ore.

D'un tratto, si accorse che la televisione in camera faceva ancora sentire le sue voci indistinte.

Appena arrivò sull'uscio della camera si mise a cercare con lo sguardo il telecomando. Lo intravide tra le coperte di pile, e con un balzo saltò sul materasso ma, prima di spegnerla vide allo schermo una donna che, fissando intensamente la telecamera, con voce melliflua, diceva: «Apri la porta a Gesù Cristo, poiché Egli sta bussando alla tua porta»

«Seh, vabbè!» esclamò, prima di vedere solo il nero dello schermo piatto.

La ragazza premette il bottone rosso del telecomando e dopo un profondo sospiro, con ancora il telecomando in mano si rimproverò: «Ma che razza di canale stavo guardando?»

Ariel non credeva affatto a quelle che nel tempo aveva imparato a definire 'sciocchezze religiose', ma non appena udì dei colpi provenire dalla porta di casa, sentì un bruciante colpo all'altezza dello stomaco. «Gesù Cristo sta bussando alla porta, eh?» alzò il occhi al cielo con un sorriso nervoso, quasi a rivolgere i suoi pensieri al Creatore. «Sei molto divertente»

Lentamente e in punta di piedi si avvicinò alla porta, mentre un paio di colpi sembravano essere più sonori dei precedenti.

Si guardò distrattamente allo specchio posto all'entrata e non si piacque per niente: insomma, non aspettava nessuno, ma le sembrò decisamente meglio aggiustarsi dei ciuffi ribelli che fuoriuscivano dallo chignon.

Beh, a chi importa se una ventenne, da sola in casa, indossa un largo pigiama in pile? Si chiese, guardando il suo riflesso. Poco male, farò allontanare qualunque malintenzionato! Si convinse.

Girò le chiavi ancora inserite nella serratura, e, quando aprì la porta, sobbalzò, emettendo un lieve urlo di sorpresa: «Gesù!»

«Sì, tecnicamente, mi chiamo Gesù. Pensavo stessi dormendo, ti ho disturbata?»

Joshua era di fronte alla porta e la guardava con un sorriso che formava una fossetta sulla guancia e le mani nelle tasche della giacca di jeans. La stessa che aveva indossato il giorno del salvataggio sul bus.

Lo sguardo stranito di Ariel lasciò il posto a un lieve rossore sulle gote.

«Si, beh, avevi detto che non saresti venuto perciò... Non aspettavo nessuno.» commentò con voce bassa, spalancando e la porta facendogli cenno col braccio di entrare. «A parte Gesù Cristo...» concluse.

«Cosa?» domandò lui , con un largo sorriso.

Aveva avuto l'impressione che Quel Nome fosse stato ripetuto più spesso del solito e questo lo intrigava parecchio.

«Niente, niente.» cercò di mascherare la sua figura impacciata in un tono acuto, avendo capito di aver lasciato sfuggire quel pensiero sarcastico dalla mente alle labbra.

Ariel, senza nemmeno ricordarsi di fargli togliere la giacca, accennando a minimi gesti di galateo, scomparve dietro l'isola della sua cucina posta poco dopo l'ingresso. Prese il bollitore pieno d'acqua e lo posizionò sul fuoco del fornello. Intanto Joshua si era diretto nel soggiorno da cui si accedeva grazie a un open space, subito alla sinistra dell'entrata. Si guardò intorno, mentre di tanto in tanto arrivavano alle sue orecchie i rumori di stoviglie adagiate in malo modo su una superficie di marmo. Così decise di far capolino nella cucina. «Penso che il primo regalo da farti sarebbero delle tazze di plastica.»

Ariel sobbalzò a vederlo lì, oltre l'isola fatta di armadietti bassi. «Ah, beh, grazie, ma mi trovo meglio con le stoviglie di ceramica e vetro.»

«Dovresti pensarci, invece. Vista la tua statura è pericoloso maneggiare questo genere di oggetti sulla punta dei piedi.»

Lei, che stava proprio cercando di prendere un vassoio posto in alto, alzata sulle punte, si sentì punta nell'orgoglio e, quando si girò con un sopracciglio inarcato e braccia incrociate, venne colpita al naso da una mandorla lanciata dal suo ospite.

Non seppe se essere più stupita o divertita. Joshua rise compiaciuto e, prendendo una manciata di quei frutti secchi, posti al centro del mobile in una ciotola, si diresse nel soggiorno, masticandone un paio.

Lo osservò percorrere l'ingresso e andare dritto verso la mensola della parete attrezzata in cui c'erano cd e vinili di ogni tipo. Lui si bloccò incuriosito da alcuni libri messi in posizione orizzontale e lo sentì sussurrare i titoli: «Uhm... I dolori del giovane Werther. Quanta sofferenza» commentò. «Romeo e Giulietta...Un classico. Non ami leggere» le disse vedendo che si avvicinava con il passo lento e gli occhi attenti a non far cadere le tazze dal vassoio che reggeva. «Sì, preferisco ascoltare musica. Ma questo l'avrai già notato da te, dato che ti piace curiosare.» Non che a Ariel dispiacesse quella bella presenza che ficcava il naso nei suoi piccoli tesori.

«E tu? Ami leggere?» gli chiese avvicinandosi.

«Sì!» La guardò, mettendo in bocca l'ultima mandorla. «Ho letto abbastanza.»

«Tipo?»

«Tipo Il Codice da VinciAngeli e Demoni...»

«Non l'avrei mai detto...» rifletté lei ad alta voce, mentre lui continuava a dare un'occhiata alla libreria.

«Aspetta. Ma...» Joshua prese un libricino con la copertina in pelle nera, grande quanto il palmo d'una mano. «Questa è la Bibbia della Chiesa di Smirne. Come fai ad averla?»

Lei inarcò un sopracciglio. «Non ricordavo di averla portata con me.» La prese dal suo palmo e la osservò, accarezzando con l'indice l'inserto color oro sulla copertina: una colomba ad ali spiegate sotto la scritta 'Bibbia di Smirne'. «E' un regalo.»

«Di chi?»

«E' una lunga storia e non mi va di parlarne» concluse con gli occhi lucidi prima di posare il libro sulla mensola sopra la tv.

Tirò su col naso al ricordo del padre che gliela donava il primo giorno che Ariel avrebbe dovuto partecipare alla sua prima lezione teologica.

«Che sbadata! Accomodati.»

Quel particolare aveva smosso dei dubbi nel cuore di Joshua, ma cercò di non darvi troppo peso.

Si accomodò nell'angolo del divano a tre posti, ricoperto di un tessuto grigio e morbido, posto nella parete di fronte ad una grande TV, a cui lati si scorgevano i dischi e i libri osservati poco prima.

La sala aveva una luce soffusa proveniente da un abat jour posta sul tavolino di legno al centro della stanza. Era un luogo che, comunque, gli trasmetteva calore e tranquillità, a differenza di ciò che gli suggeriva il suo l'animo irrequieto.

***

«Quindi l'avresti fatto anche per un uomo, un cane, o una donna barbuta...» rise Ariel.

I due avevano iniziato la conversazione sorseggiando dalle tazze fumanti. Ariel si era rannicchiata nell'angolo con le ginocchia strette al petto, quasi a nascondere la sua figura impacciata.

«Sì.»

Rispose lui, dopo averla guardata oltre il fumo che evaporava e sapeva di limone, disteso e appoggiato col gomito sulla spalliera del divano.

«Beh, wow!» esclamò inarcando un sopracciglio e posando la tazza di vetro sul tavolo di legno, stringendo le braccia al petto. Lui capì dove voleva andare a parare.

«Mi dispiace deludere le tue aspettative su di me, ma si dia il caso che io non sia come gli altri ragazzi di questo mondo».

Il giovane si era sporto verso la sua direzione, guardandola con un'espressione astuta.

«Ah beh, che tu non sia tanto normale ormai è acclarato, ma non pensavo fossi di un altro pianeta.» Ariel si avvicinò al suo viso socchiudendo gli occhi per continuare con tono sarcastico: «Quindi, chi sei? Superman?»

«Sì, brava! Continua a fare del sarcasmo.» commentò lui, ritornando al suo angolo dopo aver posato la tazza sul mobile.

«No, dai, non te la prendere! Ma, a meno che tu non sia Gesù Cristo...» iniziò, lasciando andare le parole proprio come un fluire di pensieri che sfuggivano al suo controllo, rimodulando il tono di voce pacato. «Io, di te, non ho proprio capito nulla; l'unica certezza che ho è che sei sempre lì, pronto a salvarmi. Mi hai detto che vivevi nella Chiesa di quel Pastore... Ma dove sono i tuoi?»

«Non sono più qui.» Le rispose con occhi vacui e il volto rivolto al tappeto posto sotto il tavolo di legno scuro, prendendo a giocherellare nervosamente con la sua collana d'argento.

«Andiamo!» esclamò lei, nonostante il ragazzo apparisse abbastanza provato. «Forse ho capito: tuo padre è Dio e tu sei stato concepito per opera dello Spirito Santo!» scherzò, sperando di fargli comparire una risata.

Non sapeva come mai volesse capirne di più sul suo conto facendo quelle battute sentite e risentite a scuola. Sapeva solo che voleva colpirlo al centro del cuore per vedere fino a che punto, un ragazzo come lui, fosse capace di mentire.

«Beh, se ti fa sentire meglio, i miei genitori sono morti in un incidente. Contenta?»

Joshua iniziò a sentire la rabbia bruciargli lo sterno, mentre le labbra si stringevano delineando una linea sottilissima sul suo volto spigoloso.

La ragazza venne avvolta da un gelo che le colpì il petto fino al punto di comprendere che anche il suo respiro avrebbe potuto ferirlo.

Però, ancora una volta, voleva conoscere il motivo di una fede così irrazionale e non si sarebbe fermata nel suo fiume di parole fino a quando non si sarebbe sentita soddisfatta.

«E allora perché...» iniziò, avvicinandosi a lui, a sfiorare il suo ginocchio. «Spiegami: perché dovresti credere in Dio?»

«Perché tutta la vita non ho fatto altro che incolparlo di tutto quello che mi è successo». Gli occhi lucidi di Joshua fecero sparire in Ariel quel velo di superiorità che l'aveva spinta a porre quella domanda: era sincero e lo dimostrava ogni fibra tesa del suo corpo. «Per troppo tempo Gli ho sputato in faccia tutto il mio dolore. E mentre mi stavo autodistruggendo, Lui...» la commozione di Joshua la ferì come un dardo, inondandola del forte desiderio di abbracciarlo, ma resistette contro ogni sua volontà. «Lui invece è venuto a cercarmi.»

«Hai visto Dio?»

La domanda di Ariel gli era stata rivolta come una pura e semplice curiosità intellettuale.

«Sì, nel volto di un uomo.»

Gli occhi verdi di Joshua la fissarono riuscendo a scorgere oltre quell'apparente gabbia la scintilla di chi vuole conoscere la verità.

«E chi era?»

«Padre Simon. Quello che Acab ha infangato in trenta secondi della sua misera esistenza.» Un lampo di nervosismo attraversò il verde intenso dei suoi occhi influenzando l'intensità della sua voce; così continuò: «Simon è stato mandato da Dio per salvarmi la vita e nessuno potrà togliermi questo convincimento.»

Ariel lo guardò sbarrando gli occhi: al fatto che il Pastore l'avesse salvato, avrebbe potuto crederci facilmente, ma che fosse stato mandato da Dio, le risultava piuttosto difficile da digerire.

«Sì, ma...» imperterrita «Perché Dio ha fatto morire i tuoi genitori?»

A quella domanda, Joshua sorrise abbassando il volto. Quando alzò lo sguardo si avvicinò ad Ariel e, prima di rispondere, la guardò dritta negli occhi. «Sarebbe stupido dare la colpa a Dio del fatto che mio padre fosse imbottito di ecstasy mentre era alla guida, non trovi?»

Rimase lì, a contatto con le sue gambe per studiare la sua reazione. Ariel, che sembrava aver perso tutta la reattività che l'aveva contraddistinta fino a quel momento, restò immobile come un cubetto di ghiaccio vicino al calore.

Quindi Joshua le rivelò:«Si era drogato e si drogava all'insaputa di mia madre.»

«Beh...» biascicò lei «In ogni caso, non mi si convince tanto facilmente.» La mente di Ariel non riusciva ad articolare risposte adatte vista la pericolosa vicinanza Joshua.

«Nessuno sta cercando di convincerti. Sei tu che mi hai chiesto di parlare. Io ti sto solo rispondendo.»

Joshua, invece, si sentiva libero di mostrare parti del suo carattere che da diverso tempo non mostrava più a nessuno. Così, vista la vicinanza di Ariel, le prese tra le dita una ciocca di capelli e gliela sistemò dietro l'orecchio. Guardarla arrossire lo destabilizzò.

Così si allontanò da lei, poggiando le spalle nell'angolo del divano. Si era perso in quegli occhi profondi e grandi, inalando un profumo di vaniglia e sandalo che gli suggerì azioni di cui si sarebbe pentito.

«Diciamo che vedo il tuo Dio in maniera diversa, adesso.» Soggiunse lei, in un colpo di tosse, spostando gli occhi alle ginocchia.

«Beh! Credo che ne sarà entusiasta. E' venuto sulla terra per mostrare all'umanità cosa significa amare il prossimo; è stato frustrato trentanove volte ed è stato crocifisso ingiustamente; ti ha salvata sotto i tuoi occhi un paio di volte e ha mandato un suo fedele a salvarti la vita da un cane infernale che poi si è dissolto nel nulla. Ho detto tutto?»

«Adesso sei tu a prendermi in giro»

«No, assolutamente, dico sul serio. È un passo avanti. Ho messo dei dubbi ai tuoi dubbi.»

«E' che sono molto razionale...»

«Stai scherzando? Chiunque sarebbe rimasto tale dopo aver visto una belva diventare polvere in pochi secondi. Sono cose che capitano a tutti, no?»

«La smetti?»

«Sto solo dicendo, Ariel, che Dio ti vuole parlare, ma tu gli rispondi in maniera sarcastica. Che faresti se fosse lui a risponderti così?»

«Non capisco.»

«Segni, Ariel, non li hai visti? Ti ha dato un sogno e poi ti ha dato la prova che c'è qualcosa di più di quello che puoi vedere.»

La ragazza tentò di nascondersi dietro la sua corazza agnostica poggiando il mento sulle ginocchia.

Lui si considerava quel vento caldo che lei stava aspettando e avrebbe voluto dimostrarglielo, in qualche modo. «Ariel...» sussurrò poi, curvandosi verso il suo viso. Le sfiorò la guancia col dorso della mano e quel tocco le provocò scariche elettriche che veloci attraversarono gli arti fino a farle scalpitare il cuore.

L'ultima domanda che Joshua le aveva rivolto, l'aveva lasciata in un oblio di pensieri e vortici di considerazioni e quando lo vide intento a disegnare con lo sguardo i lineamenti del suo viso, in un primo momento, non capì, ma, un istante dopo, avvertì il desiderio di gustare quelle labbra che sembravano chiamarla. I loro respiri si mischiarono al sapore agrodolce di un bacio sfiorato e subito negato.

Lei si ritrovò a guardare l'angolo vuoto del divano con il cuore che chiedeva risposte battendo incontrollato contro la cassa toracica.

Si voltò verso la porta con gli occhi lucidi, guardando le spalle di Joshua già vicino alla porta. «Ariel...Io...»

La voce di Joshua era flebile, quasi un sussurro.

«Cosa sei, tu?»

Di nuovo quella domanda. «Sono solo un ragazzo che vuole aiutare le anime a capire ciò di cui hanno veramente bisogno.»

«E tu che ne sai di cosa io ho bisogno?»

Si liberò, quindi, delle lacrime che le riempivano le iridi brune, proprio quando il volto contrito di Joshua si rivolse verso di lei.

«Tu hai bisogno di essere amata, Ariel. Veramente. Non come pensi tu o come pensa la maggior parte delle persone nel mondo. L'amore non è solo quello che immaginiamo, l'amore è un donarsi continuo, come quell'atto dell'uomo che hai visto nel tuo sogno. Quando vorrai, io ci sarò per qualsiasi cosa. Ora devo andare.»

Ad ogni parola, Ariel aveva sentito il suo cuore riempirsi come dissetato da un'acqua mai provata prima; quando vide quella porta chiudersi lentamente le si dipinse un sorriso. Quello che le aveva detto aveva dato un significato alla sua azione così forte quanto salvifica.

Alla fine, era tutto vero: aveva bisogno dell'amore di un padre che l'aveva abbandonata e lasciata da sola nelle sue moltissime esperienze di amori fugaci che non andavano oltre il suo corpo.

Ma Joshua non l'aveva vissuta allo stesso modo. Si ritrovò nel pianerottolo a guardare la strada deserta senza riuscire a levare la schiena dalla porta di Ariel. Inalò l'umidità notturna di ottobre e sputò via l'aria dalle narici.

Si allontanò con sofferenza; le mani nelle tasche dei jeans, i denti stretti sul labbro inferiore.

Una volta sicuro di non essere visto da nessuno, sentì di sfogare il rimorso verso un palo della luce. Le nocche della mano iniziarono a sanguinare

Lui era carne, non era perfetto, non era quello Ariel pensava. Non era Gesù Cristo.

Era solo un ragazzo che avrebbe voluto baciare quelle labbra e, forse, andare poco oltre.

Lo aveva fermato l'altra natura, appunto, quella di Gesù Cristo, che risiedeva nel punto più puro del suo cuore. E, dentro di sé, sapeva che quella resistenza era anche dovuta alla fede incrollabile nella persona di Padre Simon che gli aveva insegnato a guardare una donna con il rispetto dovuto ad una madre.

Le donne, diceva Simon, non sono solo pelle; sono mente, cuore, prima di tutto.

E mentre saliva l'ultimo scalino prima di arrivare alla porta, nella mente gli risuonarono le parole del Padre, dette più volte alla platea della chiesa di Filadelfia: "Amati fratelli! Sì, dico proprio a voi! Mariti, fidanzati... Sta scritto che l'uomo deve amare la moglie come Gesù Cristo ha amato la Chiesa. E come l'amò? Lui ha dato la vita. Dunque, amatele come le ama Gesù Cristo: date la vita per loro ."

Mentre inseriva la chiave nella serratura, sorrise di sbieco, pensando che forse era proprio quello il motivo per cui Simon era così tanto odiato dalla Confraternita delle Sette Chiese.

Lui predicava in maniera diversa: parlava di un amore vero, quello che lui viveva ogni giorno, mentre i suoi confratelli si preoccupavano di impartire regole religiose.

Chiuse l'uscio dietro di sé. Si fasciò la ferita con dei tovaglioli e si diresse nel soggiorno, lasciandosi cadere sul divano. Avrebbe dormito sicuramente fino all'indomani.

Aveva scelto quella via e l'avrebbe percorsa, fino in fondo.

 

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Capitolo 11
*** RIVELAZIONI ***


Era stata una giornata pesante per Ariel, la quale aveva capito che, Joshua, nel suo modo di fare, nella sua mente, nella sua fede, non avrebbe mai trovato posto per lei. Tuttavia, si sentiva legata a lui da un cordame fatto di strane emozioni e sensazioni e, in quel momento, sotto le coperte, guardando verso il balcone finì per lasciarsi sfuggire un'ultima goccia di quella delusione provata qualche ora prima.

Mostrò quindi le spalle alla finestra e si addormentò, bagnando il cuscino di alcune gocce di tristezza.

Il giorno seguente, guardandosi allo specchio prima di uscire di casa si vide stranamente il volto limpido e riposato.

A causa della sua afflizione, infatti, aveva dormito più di otto ore, ma in un sonno stranamente dolce, come se, qualcuno, come un padre, le fosse stato accanto, consolandola.

Non era stato un sogno, ma una sensazione palpabile come il calore dell'amore di un padre...

Si era persa in quel ricordo, ma guardando l'orario dell'orologio da polso si accorse che l'università la stava aspettando.

***

«Tutto a posto, Ariel?»

Lucia era seduta accanto a lei in una delle ultime file dell'Aula in cui si svolgeva 'Diritto Romano' e la osservava mentre era intenta a disegnare delle ali candide sul quaderno degli appunti, incurvando le labbra in un sorriso.

«Sì, tutto a posto.» Rispose, prima di scorgere la figura di Joshua che saliva i gradini diretto verso la loro posizione.

Sembrava un'altra persona. Non potè fare a meno di notare quanto fosse diverso con un velo di barba a contornare la mandibola e le labbra; i capelli lievemente scompigliati non riuscirono a renderlo meno elegante, vestito di un cappotto blu lungo fino alle ginocchia.

«Oh. Mio. Dio.» la voce di Lucia le giunse alle orecchie come un allarme. Si girò verso di lei che si stava abbassando per nascondersi dietro la fila di sedili. Ariel la guardò e aggrottando le sopracciglia le chiese: «Lucia, ma che combini?»

«Tranquilla, fa sempre così quando lo vede» il tono caldo di Joshua la fece sobbalzare; si era accomodato accanto a lei che avrebbe voluto scappare, ma si ritrovò bloccata: da una parte l'amica era in preda ad un rossore preoccupante e, alla sua sinistra, Joshua si era già proteso per osservare il suo disegno «Un angelo?»

Lei chiuse il quaderno di scatto. «Sempre curioso, eh?» lo provocò.

Era cambiato qualcosa in lui; avrebbe potuto giurare di avvertire il peso dei suoi occhi verdi come un macigno sulla pelle. «Stavi dicendo?»

Lui si schiarì la voce: «Lucia fa così quando vede Heliu a chilometri di distanza.» Nel dirlo, si sporse verso Lucia per guardarla sottecchi.

«Shh! Ti prego Joshua! Non fare come al tuo solito!» lo implorò l'altra che si copriva il volto con il block notes e si sporgeva verso Ariel, mentre lui si divertiva a far finta di salutare il ragazzo muovendo in aria le braccia.

«Chi è questo Heliu? E perché non me ne hai parlato, Lucia?» le chiese Ariel, socchiudendo gli occhi e Lucia dovette liberarsi del block notes, ponendolo sulle ginocchia con mento basso. «Sì, insomma, te ne avrei parlato se...»

Si conoscevano da poco, ma fin da subito si era formato tra le due quel legame che ti fa comprendere che nell'altra potrai sempre contare; tuttavia, l'unica volta che avrebbe voluto sapere se Lucia avesse un ragazzo si era ritrovata a parlare al telefono con Joshua, finendo col fare una brutta figura.

«Heliu è un mio amico e vive anche lui al Centro di Padre Simon, solo che Lucia non ne aveva parlato ancora con nessuno» spiegò Joshua masticando la parte inferiore di una penna bic con lo sguardo su un ragazzo che stava salendo le scale per andarsi a sedere qualche fila dopo di loro.

Ariel scrutò l'amica e vedendola diventare rossa, capì quanto Lucia fosse ormai nella fase ultima di una cotta bella e buona. Non fece in tempo ad articolare quel pensiero che avvertì il peso del braccio di Joshua sulle spalle; la tirò leggermente verso di lui per indicargli il ragazzo moro, seduto due file dopo di loro.

«Ecco, quello è Heliu» e nel rivolgerle parola, Joshua la sentì irrigidirsi e, a bassa voce, verso il suo orecchio, spiegò: «Sai, Lucia è così: parla e si confida solo con Simon e lui non lo sa ancora. Ecco perché si sente così. Avrebbe voluto dirlo prima a lui.»

Ariel aveva ascoltato ben poco delle parole che gli aveva rivolto, intenta com'era nel cercare di rallentare un battito che le stava infuocando le guance. Così si ritrasse dal suo braccio, lasciando che la sua mano scivolasse via dalla spalla destra.

Quando i loro occhi entrarono in contatto, ad Ariel le si mozzò il fiato: il ricordo della sua precedente vicinanza le annebbiò i pensieri.

Intanto il professore dal capo canuto e gli occhiali sul naso aveva fatto il suo ingresso in aula camminando celermente; mentre si stava sistemando nella cattedra vide il volto di Acab in prima fila. «Buongiorno a tutti ragazzi, ma soprattutto a lei Signor Damian. E' bello riaverla tra noi!»

«È sempre un piacere partecipare alle sue lezioni, professore» rispose il ragazzo dagli occhi di ghiaccio e un largo sorriso, poggiando il mento sulle mani incrociate e i gomiti sui braccioli.

«Ma per favore...» commentò Joshua. Aveva partecipato ad altre lezioni del professore in questione e sapeva che tutto quell'interessamento non era certo dovuto alla buona condotta del Damian.

«Non sopporto i professori che fanno i lecchini con chi li tiene sulla poltrona...» disse Ariel, guadagnandosi lo sguardo compiaciuto di Joshua, che continuava a masticare la penna, in maniera nervosa.

«Comunque,» risoluto «gli angeli esistono e stanno accanto a chi sta per avvicinarsi a Dio. Lo sapevi?» le domandò sottovoce, piegando la testa verso la sua direzione.

«No, ma non mi interessa.»

Le interessava, eccome! Solo che non gli avrebbe dato adito di pensare che, anche lontanamente, lei avrebbe potuto varcare la soglia di una chiesa.

Cos'è? Siamo diventati migliori amici, Joshua? Si disse, pensando alla sera precedente.

«Sai, Ariel,» la dolce voce di Lucia la riportò alla lezione, mutando il volto corrucciato in un'espressione distesa e tranquilla. «Joshua vede gli angeli!»

«Ma davvero? Sono impressionata!» la voce di Ariel risultò sarcastica e mentre i suoi occhi fissavano seccamente il professore, Joshua avvertì chiaramente il suo astio; serrò la mascella e rifletté sulla visione della notte trascorsa in bianco.

Svegliato di soprassalto, aveva visto l'arcangelo Gabriel posarsi sul balcone della giovane in un'esplosione di luce, e, attraversando la parete, era entrato nella stanza della ragazza senza sapere che quell'evento aveva dato ad Ariel la possibilità di dormire in tranquillità.

La guardò sottecchi ripensando a ciò che lo aveva smosso a compiere quel gesto la sera precedente. Lei non avrebbe mai compreso la sua scelta. Sapeva di aver smosso qualcosa in lei, ma avrebbe fatto di tutto per farle capire che non avrebbe dovuto innamorarsi di lui; lui che era il primo a tormentarsi per starle lontano.

«Concorda con me, Signor Damian?»

«Assolutamente.»

Il professore aveva iniziato un'invettiva sul cristianesimo e le sue origini, ma Joshua non se n'era accorto.

«Ma hai sentito cosa ha detto, Joshua?» Lui scosse la testa un paio di volte alla domanda di Lucia.

«Ascolta...» lo sguardo di Ariel appariva turbato, in direzione del professore.

«Vedete? Non sono il solo a pensare che il cristianesimo abbia rovinato il nostro mondo, Signori!»

Il docente aveva continuato a parlare del fatto che i romani si fossero cristianizzati con l'inganno della resurrezione di Gesù Cristo, creata ad arte dai primi apostoli.

Joshua, a quelle parole, si sentì colpito da una lama in pieno petto e mentre il cuore aveva iniziato a battere violentemente, quasi volesse uscire dallo sterno, avrebbe voluto far rimangiare all'uomo quelle esternazioni. Così si alzò di scatto e uscì dalla sala con un sentimento che non avrebbe mai voluto provare di nuovo.

La porta dell'aula sbatté, suscitando un sorriso compiaciuto sul volto di Acab.

Il Leone di Dio è solo, adesso...

Joshua uscì dall'università, verso una sola direzione: il Centro di Simon, la sua casa. Quel centro di bambini sorridenti, di famiglie tolte dalla strada, ferite ricucite e vite salvate.

Camminava a piedi e a passo svelto, faceva echeggiare il suo respiro affannoso; con gli occhi lucidi per la risonanza di quelle affermazioni che gli avevano inflitto, sentì dentro una ferita aperta, come un chiodo conficcato nell'anima. Poi l'immagine di due mani aperte e inchiodate a un pezzo di legno fece capolino nella sua mente; mani aperte ad un mondo che, invece di accoglierti, ti frusta e ti mette in croce.

Ma se tutto questo bene ha provocato solo male, che senso ha avuto?

Vivere anni di umanità, con gioie, dolori, tentazioni, mentre tutta la pienezza della divinità celeste aveva camminato su una terra che da lì a poco l'avrebbe guardato con disprezzo e che avrebbe giudicato ogni sua decisione.

Tutte queste riflessioni, provocarono in Joshua altro risentimento, tenuto a bada da una forza più grande di lui, che gli premeva lo stomaco in una morsa.

«Perché ami questo mondo? Eh? Loro Ti odiano! Uccidono i tuoi figli e poi danno la colpa a Te! Dicono che sei un'invenzione! Sono Tue creature. Mostrati e vendicati!» Indicando il cielo si era fermato a urlare al Creatore come chi litiga con la persona che ama di più al mondo, piangendo di una rabbia che pulsava nelle tempie.

Nel mentre si era fermato ad osservare il cielo limpido, venne investito da un raggio di sole, che gli abbagliò la vista; si fermò con una mano a schermare quella luce innaturale e, in lontananza, udì il fischio delle ruote di un'auto sull'asfalto.

Quando si voltò, la scena che vide gli gelò il sangue. Boccheggiò, negando col capo.

L'auto che aveva sentito aveva svoltato l'angolo e, per un soffio, non aveva investito- né sfiorato- Lucia e Ariel appena fuori dall'università.

Sentì le forze venire meno, ma nonostante le gambe tremanti e un filo di voce corse nella loro direzione pronunciando il nome di Lucia.

Ariel aveva visto che un bagliore caldo le accecava la vista e costretta a rimanere sul marciapiede vide come a rallentatore l'auto scura di Acab che le sfiorava il braccio; lo riconobbe alla guida con il volto pallido e glaciale come la neve. Lo spostamento d'aria e lo spavento le provocarono un inevitabile sbilanciamento verso Lucia che si trovò ad attutire la sua caduta al suolo.

Acab non aveva adempiuto alla sua missione nemmeno quella volta.

Sapeva di non essere bravo a uccidere le anime in quel modo: solitamente era astuto e seducente per carpire il cuore di ragazze abbandonate come Ariel. Ma, quel giorno, non aveva capito la telefonata della sorella, che gli intimava di prendere l'automobile e uccidere la Profetessa e il Leone di Dio.

Una volta salito in macchina aveva ripensato più volte al da farsi, sentendosi poco idoneo al compito e stringendo lo sterzo tra le mani sudate si ferì il labbro interno con i ripensamenti.

Forse non era ancora pronto ad uccidere, ma avrebbe dovuto farlo o sarebbe stato lui a perdere la vita, in un modo più atroce di quanto non avesse fatto con le due.

Così, le avrebbe aspettate all'uscita, ascoltando il motore della sua auto nera una volta che le due avessero oltrepassato la soglia dell'università.

Una volta che ebbe premuto il pedale dell'acceleratore sembrò che anche il suo cuore potesse prendere quella velocità, e quando quella forza gelida che gli permeava le vene ebbe il sopravvento. iniziò a far stridere le ruote sull'asfalto. L'adrenalina gli pulsava nelle vene ma non ebbe il tempo di realizzare quanto stava accadendo perchè una figura possente gli apparve di fronte, mentre il veicolo era in corsa; il lampo di luce prodotto da quella enorme creatura lo costrinse a svoltare rumorosamente.

Svoltato l'angolo si era fermato con il respiro concitato e gli occhi sbarrati; le mani tremanti e sudate. Non gli era mai successo di provare una simile emozione e in un modo così violento.

Quel ghiaccio che lo aveva sorretto nelle varie missioni, sembrò graffiato da qualcosa simile alla paura di morire.

Si guardò indietro e vedendo la strada vuota, increspò la fronte. Accese il motore e corse via.

***

Ariel avvertiva gli occhi pesanti e la testa compiva giri tali da non permetterle di riconoscere l'ambiente circostante; la voce flebile di Lucia che chiamava il suo nome le arrivò alle orecchie come un suono ovattato. Un velo di sudore ghiacciato le imperlava la fronte e la nuca e quando un tocco familiare le sfiorò la guancia si sentì rinsavire.

Il volto di Joshua le aveva regalato la visione di un sorriso; gli occhi lucidi- come di chi resiste al pianto -la guardavano riprendere conoscenza. Lui che aveva perso i genitori con le stesse modalità di quell'incidente, faticò a tenere chiuse le palpebre per non far uscire nemmeno una lacrima.

«Ariel...» pronunciò, con un filo di voce.

Lucia le teneva la nuca, in ginocchio, bagnandole lievemente le labbra con dell'acqua.

Fu lo sguardo che mostrava Lucia a preoccuparla più di tutto: uno sguardo smarrito e in preda alla confusione; un viso pallido e gli occhi di chi, invece, aveva pianto intensamente.

«Cosa...» Ariel fece leva sui gomiti e cercò di rialzarsi da sola, mentre le gambe stentavano a ricevere i comandi neuronali.

«Penso proprio che sia giunto il momento.»

Joshua aveva pronunciato quella frase cercando lo sguardo di Lucia, che tuttavia sembrava non essere presente nella loro dimensione, ma piuttosto rapita da qualche immagine invisibile.

«Vero, Lucia?» Il ragazzo ripeté la domanda e quando le toccò la fronte gelida con il palmo della mano, l'altra si girò verso di lui dopo aver battuto un paio di volte le palpebre.

«Padre Simon...» sussurrò, poi. Joshua non riuscì a capire cosa volesse dire, ma tentò di leggere oltre quelle poche parole.

«Sì, Lucia, dobbiamo andare da Simon.» il timbro della voce di Joshua tentò di rassicurarla data la situazione già precaria. Lo sguardo di Joshua si fece cupo e impenetrabile e quando Ariel riuscì ad alzarsi si rivolse a Lucia: «Cosa sta succedendo a Padre Simon?»

Joshua la osservò dal basso, corrugando la fronte; non avrebbe mai potuto credere che una ragazza del mondo avesse avuto la capacità di trovare un significato a quel paio di parole.

Lucia le rispose con tono sicuro: «Dobbiamo andare da Simon per aiutarlo, Joshua.» ordinò. Poi fece balzare lo sguardo dal ragazzo a Ariel e in un un largo sorriso rassicurante le confidò all'orecchio: «Ora conoscerai tutta la verità.»

***

Simon aveva avuto una fitta improvvisa alla testa, nello stesso momento in cui la luce aveva abbagliato le vite dei tre ragazzi, senza sapere quello che fosse successo. Così, mentre si trovava a pregare in ginocchio ai piedi del letto del suo studio, si alzò con un presentimento.

Il cuore che gli palpitava nel petto lo indirizzò verso la libreria color ciliegio con il dolce suono d'una voce paterna. Lì c'erano i libri e gli studi teologici di padre Peter che lo guidavano nell'interpretazione del Sacro Libro della Confraternita delle Sette Chiese che aveva subito varie modifiche passando dalle mani dei vari capi delle Sette Chiese; ma nonostante alcuni cambiamenti tra le varie dottrine, Simon sapeva che il Libro era uno per tutte: l'unico elemento oggettivo contro le dottrine dei Lucifer.

Vi si avvicinò con aria interrogativa, sentendo una lieve spinta alle sue spalle, che lo costrinse a voltarsi di scatto. La stanza era vuota e, a parte le lancette della piccola sveglia posta sul comodino, che scandendo l'ora facevano sentire il classico ticchettio, non c'erano altri movimenti.

«Spostamenti d'aria, mh?» si era domandato, inarcando un sopracciglio prima di voltare il busto e rivolgere lo sguardo verso la pila di libri posti nella parte superiore della libreria.

Un libro in particolare aveva attirato la sua attenzione: un libro dalla copertina rigida, color rosa antico e con i caratteri della scrittura in oro.

Il titolo lo spinse ad un'urgente lettura, come se si stesse delineando di fronte a lui la via che avrebbe dovuto percorrere di lì a poco:

"Regno di Dio tra gli uomini."

Aveva letto seguendo con l'indice le striature di cartoncino rigido, proseguendo fino al sottotitolo.

"Una lotta di regni, per la salvezza delle anime"

Concluse, prima di sobbalzare allo squillo acuto del telefono.

«Pronto?» Simon aveva sbarrato gli occhi a sentire la voce dell'uomo dall'altra parte della cornetta. «Certo, arrivo subito» riattaccò, senza levare la mano dall'oggetto fino a far sbiancare le nocche.

Se la Confraternita delle Sette Chiese l'aveva convocato, voleva dire una sola cosa: avevano scoperto la sua nuova visione.

Prese il cappotto beige appeso al lato della porta e roteò la maniglia ma sull'uscio, ad attenderlo, c'era un ragazzo dai mossi capelli bruni che si trovava in procinto di bussare ad una porta già aperta.

Simon rimase per un'attimo in attesa di qualche parola da parte del giovane, che lo guardava con aria perplessa.

«Allora Heliu, cosa devo fare per farti aprire la bocca? Sono in attesa di una tua parola.» Simon era visibilmente preda dell'agitazione per aver ricevuto quella telefonata. Così, aggiustandosi il colletto della giacca, mostrò in quel volto solitamente pacifico e benevolo, l'aria di chi è sull'orlo di una crisi di nervi.

«I... Io...»

Heliu era una ragazzo insicuro e dal cuore fragile, tanto che la sua anima rischiava di ferirsi anche con un soffio di vento. Fu per questo che Simon lasciò da parte l'ansia per dedicarsi al ragazzo, qualsiasi cosa avrebbe voluto chiedergli.

Dopo aver chiuso la porta dietro di sé, Simon si sedette sulla poltrona, osservando il giovane seduto di fronte a lui nell'atto di scrocchiare le dita convulsamente, mentre uno strano sorriso imbarazzato era ben stampato sul suo viso.

«Allora, cosa volevi dirmi?» sospirò Simon, adagiando le braccia conserte alla scrivania e cercando lo sguardo di Heliu coperto da qualche ciuffo di capelli.

«Ecco...» tossì «Non volevo disturbarti, perché non credo sia una cosa importante» lo sguardo ridente e il lieve rossore fecero sorridere il Padre, che abbassò per un attimo il volto chiedendo perdono al Creatore per la sua mancanza di pazienza avuta nei suoi confronti.

«Heliu, Heliu...» Il giovane aggrottò le sopracciglia mentre lo stomaco compiva delle piroette al solo intuire cosa stava per dirgli Simon. «Non devi essere timido con me; purtroppo per te, riesco a intuire parecchie cose.»

«E cosa hai intuito, Padre?» deglutì.

Simon sorrise, mostrando lievi rughe intorno agli occhi prima di iniziare il suo discorso: «L'amore...» si alzò, fece qualche passo attorno al mobile per sedersi sul bordo della scrivania facendo peso su una gamba «E' una forza così potente per cui, anche se non fai alcunché per mostrarlo, devi inevitabilmente fare i conti con delle reazioni fisiologiche: come il rossore, l'agitazione e...»

«Dice che Lucia ha capito tutto?» Lo interruppe Heliu bruscamente, lasciandolo a bocca aperta. Simon annuì un paio di volte con sguardo incredulo.

«Beh...» biascicò Simon, grattandosi la nuca. Sembravano passati in un attimo gli anni da quando Lucia aveva varcato la soglia del Centro insieme al Padre Gilbert. Lucia era già diventata una donna e fu in quel momento che, per la prima volta si vide nei panni di chi, in un prossimo futuro avrebbe dovuto celebrare il suo matrimonio.

«Questo non lo so, ragazzo mio, ma non smettere mai di essere te stesso.» Concluse, rivolgendogli un largo sorriso che spuntava dal volto barbuto e, ponendo una mano sulla spalla del giovane, ormai sereno, si diresse verso la porta che una volta aperta fece comparire i volti dei suoi figli prediletti: Joshua e Lucia.

«Ragazzi!» Si gettò istintivamente verso Joshua con un forte abbraccio dandogli delle sonore pacche alla schiena, mentre scorgeva il volto turbato di una ragazza mora e dai grandi occhi marroni oltre le spalle del ragazzo. Il cuore di Simon si rinfrancò alla loro presenza, a causa dei presentimenti avuti prima della telefonata aveva temuto il peggio.

«Dobbiamo parlarti...» pronunciò Joshua. Il tono utilizzato fece scomparire nel Padre la gioia che aveva allietato il suo animo; spostò lo sguardo verso il viso pallido di Lucia e i suoi occhi gli parlavano di un evento ben preciso.

«Joshua, io so cosa vuoi dirmi, ma ho un'urgenza» comunicò sospirando profondamente «devo andare alla Cattedrale delle Sette Chiese.»

«Il numero sette...» pronunciò Ariel in un fil di voce. Voleva vederci chiaro una volta per tutte ed era infatti per quell'unico motivo che aveva accettato di incontrare Simon.

Avevano preso l'autobus e, dato che la fermata non era tanto lontana dal Centro di Aggregazione, avevano camminato a piedi, fin quando, oltre i palazzi rustici, Ariel aveva visto spuntare un palazzo di cinque piani color ciano, le cui grandi finestre di vetro riflettevano le nuvole bianche che adornavano il cielo. Era circondato da un muro in cemento al cui interno alti pini svettano verso il cielo.

Era un luogo che già dall'esterno trasmetteva un senso di tranquillità dato dalle risate acute e dalle esclamazioni di gioia di bambini che percorrevano il cortile di corsa.

Che posto è questo? Si era chiesta Ariel non appena il suo cuore era stato riempito di un sentimento di tenerezza e appagamento.

Nel momento in cui il cancello grigio scivolò di fronte ai suoi occhi, gli vennero in mente le parole di Acab che cozzavano con quello che stava provando e con la visione di quel luogo capace di trasmettere uno stato di serenità.

Giovani donne accomodante a delle panche di legno, confabulavano sorridenti, mentre uomini in vesti di operai davano dei ritocchi di pittura alle mura bianche della Cappella.

Percorse il cortile seguendo i due ragazzi a sguardo basso e con un peso improvviso in corrispondenza della sua collana che strinse nel palmo destro.

Come se si sentisse improvvisamente inadatta a quel posto, rallentò il passo e quando un bambino gli si gettò alle gambe lei pensò di avergli fatto male.

«Scusa piccolo!» gli aveva detto, guardandolo correre verso la madre che non smetteva di sorridere. La donna invitò il bambino a salutare Ariel, quello lo fece. Quel gesto le riscaldò in un attimo il cuore e proseguì all'interno con volto disteso.

Joshua e Lucia erano davanti a lei quando la porta di legno dello studio di Simon si aprì. La vista di Simon fu per Ariel come ricevere un pugno violento allo stomaco.

Quell'uomo...Lui...

Nei tratti fisici del padre vi erano delle terrificanti somiglianze con l'uomo del suo sogno.

 

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Capitolo 12
*** LA CONFRATERNITA ***


«Sì, il numero sette» aveva ripetuto il Padre, disegnando un sorriso sotto la folta barba. Quando Simon vide il suo sguardo illuminarsi a sentire quel numero, lei indietreggiò d'un passo, stringendo le braccia al petto e cominciando ad avvertire una sensazione di timore.

Quando entrarono nello studio, Ariel fu subito attratta dalla grande libreria alle spalle della scrivania di Simon. Ecco da chi ha preso Joshua...

«Lei è Ariel» la presentò lui.

«Lo sa» ribatté lei, prima di sedersi senza distogliere lo sguardo da Simon. Joshua si voltò con lo sguardo accigliato verso Ariel, che strofinava i palmi sulle ginocchia.

«Allora...» iniziò Simon «Devi dirmi qualcosa? Domandarmi qualcosa?»

Ariel si voltò verso Joshua e poi verso Lucia prima di iniziare; entrambi si trovavano in piedi ai lati della stanza ma non batterono ciglio alla sua silenziosa richiesta di intervenire. Poi ispirò e si fece coraggio, anche se sapeva che avrebbero potuto benissimo prenderla per pazza.

«Ho un presentimento.» osservò il volto del Padre che si protendeva verso di lei con quel sorriso serafico e si sentì profondamene turbata. In pochi giorni, il suo mondo aveva preso a girare vorticosamente verso il luogo in cui si trovava.

«Di che genere?» le dita incrociate e i gomiti puntellati alla scrivania, con un paio di rughe sulla fronte.

«Innanzitutto, so che loro le hanno detto tutto di me» indicando col pollice la figura di Joshua che ascoltava silenzioso con le spalle al muro.

«No, Ariel, non è esatto...» la voce di Lucia la fece girare nella sua direzione. «Non ho detto nulla di te. Io confido solo ciò che riguarda la mia anima al Padre, non ciò che riguarda altre anime.»

Quando proferì quelle parole, Lucia avvertì il mutamento nell'animo del fratello che aveva accanto; alzò il mento nella direzione di Joshua e, come aveva sospettato, il suo volto rivolto al suolo nascondeva occhi vacui di chi riempie la mente di pensieri e ricordi.

«Sì, quindi...» continuò Ariel, fissando nuovamente gli occhi bruni di Simon che la guardava attento, scrutando ogni sua minima espressione. «Dicevo che ho un presentimento, e...» iniziò a sorridere, in maniera nervosa «Sicuramente sembrerà una follia anche per lei...» e in quel momento, si accorse di non riuscire a pronunciare la parola Padre; deglutendo vistosamente vide Simon che le riempiva un bicchiere d'acqua e glielo avvicinava «Sembrerà una follia perché io penso che Joshua sia...»

Effettivamente non ne aveva avuto modo di parlarne con nessuno, ma da quando il ragazzo aveva reso polvere un essere vivente, la sua mente non faceva altro che collegare il termine Figlio di Dio a Joshua. L'unica cosa che cozzava con quel presentimento era il suo comportamento la sera del tè.

A quel ricordo Ariel si morse il labbro inferiore e Simon inarcò un sopracciglio incuriosito. Qualunque cosa avrebbe voluto dirgli Ariel, lui sapeva già cosa albergava nell'animo del ragazzo.

«Ecco, io penso che Joshua sia la reincarnazione di Gesù Cristo...» disse quasi sussurrando e abbassando gli occhi.

A Simon venne difficilissimo trattenere le risate; Joshua, invece, iniziò a tossire, vittima della sua stessa saliva andata di traverso.

«Bene Ariel, ti sembrerà strano, ma non è poi tanto sbagliato ciò che hai detto.» gli rispose Simon, levandosi con l'indice una lacrima involontaria.

«Mi sta dicendo che lei mi crede?» aveva esclamato, con voce acuta.

«Proprio così. Vedi, noi sappiamo che Gesù Cristo abita in ognuno di noi. Chi, come Joshua, fa la Sua volontà, assume a volte sia le sue caratteristiche sia le sue stesse tentazioni»

Simon aveva sottolineato l'ultima parola con un diverso tono e Joshua non potè far a meno di sentirsi chiamato in causa; si sentì accaldato avvertendo l'irrefrenabile desiderio di evadere da quella stanza; tutto di lui sapeva che lì dentro, alla presenza di Simon, abitava solo la Verità, e nessuno poteva sfuggire alla capacità dell'uomo di leggere nelle profondità di un'anima tormentata.

«Sì...» lo interruppe Ariel. «Ma io non sto parlando di teorie religiose, bensì di fatti.»

«Se ti riferisci alla vostra avventura fuori dall'università, sappi che questo conferma il fatto che Joshua sia stato guidato da una forza che lo ha portato ad essere nel posto in cui l'anima a cui si è legato aveva bisogno di salvezza. Come capitava a Gesù Cristo. Non è forse così, Joshua?»

Gli occhi di Simon sembrava che la scrutassero nelle viscere della sua mente, indagando nei suoi ricordi. Così, si irrigidì, abbassando nuovamente lo sguardo alla scrivania di legno scuro.

L'anima a cui si è legato... si ripetè.

«Ariel...» proseguì Simon con voce mielata. «Non è tra i miei compiti rivelare alcun segreto. Sono stato chiamato ad aiutare le anime a trovare la verità, impaurite dal mondo e da quel che il mondo possa pensare. Sono stato mandato a proteggerti dai Lucifer.»

Ariel avvertì un boccone amaro nella gola; sapeva di star reprimendo il pensiero che, forse, aveva mentito a se stessa: quell'uomo del sogno era il Cristo nel momento della Passione; sapeva che quella presenza avvertita accanto al suo letto, quella notte, era un angelo; sapeva che, forse, Dio gli avrebbe voluto dire qualcosa attraverso quel sogno.

«Ho fatto un sogno e...» Ariel alzò lo sguardo annebbiato da lacrime ribelli. «Penso che lei mi potrà dire cosa abbia a che fare con me.»

Così, mentre Ariel raccontava, il Padre ad occhi chiusi e con le mani intrecciate sulle labbra ascoltava attentamente, annuendo di tanto in tanto.

«Questo è quanto» concluse guardando Simon con una lacrima sfuggita al suo controllo.

«Non importa se vorrai credermi o meno...»

«Io le credo» lo interruppe bruscamente. «Perché è lei il Cristo del mio sogno.»

Joshua, Lucia ed Heliu avevano sbarrato gli occhi a quell'affermazione che aveva lasciato a bocca aperta anche il Padre, che, abbassando lo sguardo e rivolgendosi a tutto il gruppetto presente nella stanza, disse: «Questo cambia un po' di cose, Ariel» sospirò profondamente, prima di continuare: «Ascoltate attentamente: io ho segretamente mandato Nathan ad avviare le pratiche per la costituzione di un movimento politico che si ponga in antitesi al Partito Unico dei Lucifer nelle prossime elezioni. Come sapete ogni volta che la comunità di Filadelfia va a votare, succedono sempre fatti che scuotono gli animi della Città e, ogni volta, un membro dei Lucifer riesce a fare chiarezza sugli avvenimenti, arrivando a raggiungere il potere con un ampissimo consenso popolare.»

«E questo cosa ha a che fare col sogno?» domandò nuovamente Ariel, con sopracciglia aggrottate.

«Simon perdonami, ma io non riesco a comprendere...» era intervenuto Joshua.

«La Confraternita delle sette Chiese ha scoperto quanto avevo intenzione di fare e per questo mi ha convocato d'urgenza. Io temo - e lo temeva anche padre Peter - che la Confraternita abbia stipulato un'alleanza con la loggia dei Lucifer...»

«Sì, ma...» cercò di capire, Ariel.

«Questo c'entra col tuo sogno, Ariel, perché Gesù Cristo fu ucciso da tre poteri: quello religioso, quello politico e quello culturale. Scribi e farisei, rispettivamente cultura e religione dell'epoca lo portarono ai piedi di Pilato, la politica. Ed è lì che con forza dovettero agire per metterlo in croce, altrimenti, per la loro legge morale non avrebbero potuto. Tu hai visto tutto questo nel tuo sogno e Dio mi sta dicendo che sono io quello che, adesso, vogliono mettere in croce.»

«Non riesco ad accettarlo, Padre» Joshua si era avvicinato e aveva occupato la visuale tra Simon e Ariel, poggiando le mani sulla scrivania. «Vuoi davvero candidarti per far sì che ti uccidano?»

«Joshua!» lo redarguì Lucia, ma visto il palmo alzato del Padre, si bloccò, rimanendo al suo posto.

«Lascia che parli, Lucia.»

«I loro tentacoli sono ovunque. Li avverto come una cappa sopra le nostre teste.»

«Pensi che io non sappia quello a cui sto andando incontro?»

Ariel li osservò, come chi assiste al confronto di un padre che cerca di far ragionare il figlio ribelle.

«Penso che non sia un bene rischiare la tua vita e la nostra per andare a gettarsi nell'ombra.»

«Se il mondo è nell'ombra, è nostro compito portare la Luce, Joshua. Non dimenticare il nostro mandato.»

Alla fine, Joshua aveva proposto a Simon di accompagnarlo e Ariel si intromise come una bambina che vuole andare in un luogo in cui le è proibito andare.

Joshua avrebbe dovuto aspettarlo in macchina dopo essere giunti alla Cattedrale, che, posta al centro della città, faceva confluire tutte le strade verso l'enorme costruzione gotica.

Il Padre, seduto nel sedile passeggero, guardava dal finestrino la strada che correva oltre il vetro punteggiato da goccioline trasparenti. Col palmo della mano sulle palpebre, aveva lasciato cadere la testa sul sedile, per immergersi nella riflessione. La sua mente vagava indietro nel tempo, ai giorni in cui lui era solo un discepolo e aspettava la parola da parte di Padre Peter, prima di compiere ogni passo.

Quella devozione aveva provocato brusche tempeste nella sua vita coniugale, soffrendo l'amore della moglie che, giorno dopo giorno, si allontanava da lui, con varie scuse.

E, mentre i dolci momenti e la tenera intimità erano sfumate dopo il primo anno di matrimonio, Peter cominciò pian piano ad iniziarlo a temi spirituali ai più sconosciuti. Spesso, lo chiamava in disparte per farlo entrare nel suo studio, per rivelargli i misteri di Cristo riguardo la lotta millenaria tra i figli della luce e i figli delle tenebre.

Fu proprio in uno di quei giorni, che, tornando a casa, aveva trovato Judas Damian, il datore di lavoro di Angela, che da poco aveva iniziato a frequentare la loro Chiesa. Lo trovò dentro casa, con solo un asciugamano avvolto in vita, nel bel mezzo del soggiorno.

E sì, l'aveva odiato. Era arrivato a desiderare la morte del futuro capo della Setta dei Lucifer.

L'aveva preso a pugni e calci, mentre un terrificante ghigno si disegnava nel volto dell'uomo che sembrava non provare dolore.

La donna aveva tentato di fermarlo con gli occhi sbarrati e terrorizzati, spingendolo verso la parete dell'ingresso.

Era finita lì. Era rimasto solo da quella notte, quella stessa notte in cui, come un pugnale al cuore, era arrivata la notizia della morte di Peter.

«Oh Dio, non vorrei essermi perso...»

La voce di Joshua l'aveva svegliato e riportato alla realtà.

Il ragazzo scrutava il paesaggio oltre il parabrezza, vedendo nient'altro che case signorili in stile liberty poste l'una di fronte all'altra su delle strade parallele, tutte simmetriche e identiche.

«No, Joshua, vai sempre dritto. Qualunque strada tu abbia preso ci condurrà alla Cattedrale.» Simon aveva risposto freddamente, senza voltare lo sguardo verso il ragazzo, mentre Ariel era appisolata nel sedile posteriore con il mento sul palmo della mano e la testa piegata verso il finestrino. Aveva fatto di tutto per andare con loro, col bisogno impellente di scoprire quale entità stava giocando con la sua vita e i suoi sentimenti.

«Non conosci la storia della tua città, Joshua Smith?» Il giovane aveva messo in moto e sentendo la domanda del padre inarcò un sopracciglio, stringendo le mani al volante. «No...» rispose con tono insicuro.

Fu in quel momento che il Padre mostrò un sorriso prima di iniziare la lezione: «La nostra città era stata fondata da greci cristianizzati, cui diedero il nome Fil-adelfoi, ovvero 'amore fraterno', perché, seguendo le parole dell'Apostolo Giovanni, credevano che la vera religione risiedesse in quel concetto di amore che aveva mostrato Cristo andando in Croce. Tuttavia, secoli dopo, con l'avvento degli Illuminati e delle loro corporazioni segrete, quella che era stata la città più cristiana del nostro paese, divenne l'ambasciata più importante della Grande Loggia di Lucifer.

Si narra che a seguito del devastante terremoto del 1870, la città fu ricostruita secondo simbologie luciferine. Ecco perché la Cattedrale, sarà il luogo della mia fine.»

Joshua si era opposto violentemente a quella affermazione, ma il Padre non aveva dato segno di sdegno per il suo comportamento. Lo capiva, lo capiva benissimo.

Il ragazzo aveva premuto il pedale del freno molto lentamente, prima di fermarsi di fronte alla struttura della Chiesa.

Il lungo e profondo sospiro di Simon, prima di aprire lo sportello, fece aggrottare le sopracciglia della giovane Ariel, turbata. Aveva capito quanto il legame tra quell'uomo e Joshua fosse così diverso, così estraneo da tutto quello che lei aveva vissuto, come se in loro scorresse un sangue con una struttura genetica identica. Quando sentì Joshua tirare sù col naso, si affacciò verso di lui per imprimersi nella memoria l'immagine del ragazzo che lasciava scivolare sul volto spigoloso delle lacrime silenziose.

Simon entrò nella Cattedrale con un fortissimo senso di timore reverenziale e il tremore dell'anima tendeva gli arti e gli bloccava il respiro. Sapeva che si sarebbe trovato davanti i capi delle Sette Chiese il cui fondamento è il nome di Gesù Cristo.

La Cattedrale aveva una struttura che ricordava una Croce rovesciata. Le tre navate, arredate con panche color noce scuro e lucido e statue marmoree, permettevano al visitatore la visione della cupola centrale, da tre diversi punti di vista.

Solitamente utilizzata per riti canonici, nei giorni pari la Cattedrale era il luogo di riunioni solenni della Confraternita delle Sette Chiese.

Le Sette Chiese prendevano i nomi da quelle descritte nel Sacro Libro dell'Apocalisse: Efeso, Smirne, Tiatiri, Laodicea, Sardi, Pergamo, Filadelfia. A ognuna delle quali Dio aveva lasciato un messaggio.

E mentre i suoi passi riecheggiavano lenti e rumorosi nella navata centrale, dal suo cuore scaturiva quel messaggio rivolto alla chiesa di Filadelfia.

"Queste cose dice il Santo, il Veritiero, colui che ha la chiave di Davide, colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre: - Io conosco le tue opere. Ecco, ti ho posto davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere, perché, pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. Ecco, ti do alcuni della sinagoga di Satana, i quali dicono di essere Giudei e non lo sono, ma mentono; ecco, io li farò venire a prostrarsi ai tuoi piedi per riconoscere che io ti ho amato. Siccome hai osservato la mia esortazione alla costanza, anch'io ti preserverò dall'ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra. Io vengo presto; tieni fermamente quello che hai, perché nessuno ti tolga la tua corona."

I cantori gregoriani stavano intonando un canto che trasmetteva pace e sicurezza nonostante l'animo irrequieto del capo della Settima Chiesa; avvertendo l'ansia percorrere le vene come un fiume in piena, vagò nei ricordi, cercando di incoraggiarsi con le parole di Padre Peter.

"Simon, figlio mio, la Confraternita fu creata per mantenere la pace e la comunione tra le sette chiese più importanti, ma qualora le chiese dovessero staccarsi dalla vite d'amore che le lega, le tenebre potrebbero insediarsi e prenderne il controllo".

Padre Peter aveva sempre messo in guardia i suoi seguaci su ciò che il gruppo Lucifer - cui fondamento è il nome di Lucifero- avrebbero potuto fare qualora una sola delle Chiese della Confraternita avesse abdicato al suo dovere missionario. Le tenebre avrebbero preso il controllo dell'ultimo ramo di luce rimasto sulla terra.

«Fratello Simon, accomodati. Pace a te!»

Una voce calda proveniente dal centro della Cattedrale, in cui erano riuniti e seduti a semicerchio i sei capi delle Chiese, sotto l'ampia cupola, aveva invitato Simon a sedersi nell'unico posto vacante: al centro del semicerchio.

I Sei erano avvolti da un mantello scuro che copriva le loro figure, finendo col nascondere il volto sotto un cappuccio.

«Fratelli miei...» iniziò con cautela «Sono forse messo sotto giudizio per qualcosa?»

Era rimasto in piedi ad osservare i sei candelabri d'oro posti l'uno accanto all'altro, proprio alle spalle di ogni seggio occupato dai capi.

Il suo candelabro era posto nel mezzo, di fronte al suo seggio.

«Cosa te lo fa pensare?» Era una voce più autorevole e secca della precedente che gli fu rivolta come uno schiaffo in pieno viso.

Laodicea...Pensò fra sé, prima di accomodarsi nel suo seggio: una savonarola di legno scuro come le altre sei.

«Mi avete convocato d'urgenza e avete spostato il mio candelabro, cosa che può fare solo Nostro Signore.» sentenziò con un profondo astio che gli faceva irrigidire ogni singolo muscolo.

«Tu ci insegni che dentro ognuno di noi risiede il Cristo, Filadelfia...» il capo di Laodicea, aveva continuato, con tono provocatorio, ad interrogare il Padre. «Perché, dunque, non potremmo spostare il candelabro di un fratello?»

Simon sapeva di non dover cedere a quelle provocazioni perché lo Spirito gli aveva suggerito che lui era lì solo per la verità. Avrebbe potuto pure vedere il suo candelabro sotto i piedi di uno dei capi delle altre Chiese, ma non avrebbe dovuto mostrarsi orgoglioso, né autoritario. Davanti al Creatore, i Sette erano sempre sette stelle poste nella sua divina mano.

«Perché solo Lui può» deglutì, serrando la mascella.

«Dicci allora cosa ti ha spinto a mandare Nathan, il tuo figlio spirituale, lì dove è il potere senza nemmeno consultarci ?»

Simon alzò gli occhi al soffitto ampio e decorato da affreschi che richiamavano le scene della Crocifissione, notando, solo in quel momento, che, quell'edificio sacro, non era il luogo di somma importanza solo per la Confraternita.

Un pentacolo - un simbolo magico e occulto utilizzato dalla Loggia Lucifer da tempo immemore per riconoscere i propri adepti - era stato dipinto insieme alle immagini sacre e a figure di angeli dai volti demoniaci.

La stella a cinque punte capovolta era proprio sopra la testa di Simon e in direzione del suo seggio.

Con un bruciore lancinante alla bocca dello stomaco abbassò il capo e decise comunque di continuare: «Il Capo di Pergamo mi ha insegnato a non temere le tenebre, perché noi siamo la Sua luce nel mondo. Il nostro fratello, come sta scritto nel Sacro Libro, risiede dove è il trono di Satana, eppure conserva la fede, nonostante le persecuzioni. Io, fratelli, voglio solo imitare la sua fede. Non ho coscienza di peccato.»

Non appena finì il suo discorso, uno dei capi si alzò in piedi e levandosi il cappuccio mostrò il volto bruno e gli occhi neri del pastore di anime della chiesa di Pergamo. «Io sono col fratello Simon!» esclamò autorevole.

L'esclamazione del Capo di Pergamo, aveva messo in subbuglio gli altri capi, che si erano confrontati con toni accesi l'uno con l'altro, mentre i due si scambiavano larghi sorrisi di complicità.

«Non è possibile!» aveva urlato il Capo di Sardi, soffiando via quel velo di fede che aveva coperto il volto di Simon. «C'è un trattato da rispettare!»

«Quale trattato?» Simon aggrottò la fronte e stringendo i manici del seggio fece per alzarsi, quando la mano di Joshua lo bloccò per la spalla lasciandolo a bocca schiusa di stupore.

«Joshua... Vai via di qui, subito!» gli ringhiò sottovoce, con occhi supplichevoli.

Quello alzò il capo verso i personaggi incappucciati di fronte a sé e, vedendo le vene della sua fronte pulsare, e il rivolo di sudore, annuì e andò a nascondersi dietro uno dei numerosi pilastri a fasci, presenti all'interno della struttura ecclesiale.

«Vedo che ti sei chiamato i rinforzi, fratello.»

Simon serrò la mascella perché riconobbe in quella voce il seduttore che aveva distrutto la sua famiglia e la credibilità del mandato di Peter. La bile iniziò a circolare nel sangue. «Con quale autorità, proprio tu, siedi nel seggio di una delle Sante Chiese di Cristo?» ringhiò tra i denti.

L'uomo che aveva parlato si alzò dal seggio, facendo echeggiare le suole all'interno della cattedrale e, camminando lentamente, lasciò ondeggiare il mantello; spostò il cappuccio all'indietro per mostrare il suo volto fine, ornato da capelli neri di media lunghezza. L'attenzione dell'interlocutore era sempre canalizzata verso gli occhi azzurri come zaffiri, capaci di sedurre qualsiasi essere umano. Quei due baffi e il pizzetto da uomo d'altri tempi, Simon li avrebbe riconosciuti a chilometri di distanza.

Judas...
Alla fine, era riuscito nel suo intento. Aveva provato a prendere la chiesa di Filadelfia e dopo qualche tempo aveva cercato di sedurre le menti della Chiesa di Smirne.

«Io ho avuto il permesso di essere la guida della chiesa di Sardi. Come osi insinuare che io abbia usato un'autorità? A quale autorità ti riferisci?» Domandò l'uomo, mostrando un ghigno sinistro al Padre che ormai sentiva il cuore pulsare ad un ritmo irregolare e la fronte bagnata di sudore.

Quella voce tagliente agitava i demoni del passato di Simon: realtà spirituali difficilmente controllabili anche da uno dei Capi delle Sette Chiese.

Era il più potente - quel Judas Damian - e diretto erede dello spirito di Giuda Iscariota.

Si diceva che i Lucifer cambiassero i nomi dei propri adepti associandoli a modelli di vita negativa presenti nelle vicende bibliche per enfatizzare l'avversione a tutto ciò che era il buono dei vangeli; un altro motivo per cui i membri della Setta utilizzavano questo metodo era il camuffamento e la perdita delle loro tracce. Ma questo, poteva saperlo solo chi aveva passato la vita a studiarli e a indagare sul loro conto, come aveva fatto Nathan per molto tempo. Ecco perché Simon aveva scelto proprio lui per quel compito.

«Mi riferisco... » rispose Simon, con respiro affannoso «Al... Al modo in cui il tuo potere agisca sulle persone che devi annientare» sapeva che era Judas a provocargli quel malessere, ma, in quel momento, era la carne ad essere debole. Lo spirito, invece, era forte.

«Il tuo fratellino di Sardi ha abdicato, caro mio, fattene una ragione» sentenziò, voltandogli le spalle. «E per tua informazione, il Trattato di Pace firmato da cinque delle Sette Chiese con il Grande Partito Lucifer tu non puoi conoscerlo, perché non hai mai partecipato alle nostre riunioni» spiegò con voce cupa.

«Ovviamente, perché Voi non mi avete mai invitato a queste riunioni, caro Judas Damian!»

Nel sentire quel cognome, pronunciato dalla voce àltera di Simon, Joshua percepì uno spasmo ai muscoli. Poi il terrore: se uno dei Lucifer era riuscito a diventare uno dei Sette, allora la Fine doveva essere vicina.

«E che motivo avemmo avuto?»

Mentre Joshua rifletteva, scivolando con la schiena lungo il pilastro per sedersi nel pavimento marmoreo, i due capi disputavano a parole, nell'ora in cui i chierici spargevano incenso.

«Perché con tutta la mia anima mi sarei opposto alla decisione sconsiderata di far capeggiare una delle sante chiese di Cristo a uno sporco seduttore di anime, figlio di Lucifero

L'ira di Simon era tale che la sua voce riecheggiò per qualche secondo all'interno a Cattedrale, seguita da un tuono improvviso. Le vene furono evidenti nel collo e nelle tempie, mentre le ampie vetrate colorate venivano colpite da pesanti gocce d'acqua.

«Ti conviene moderare i toni,» lo incalzó Judas «o sguinzaglieró i miei cani, Simon.»

Fu quello il momento in cui Acab mostrò la sua figura, sbucando dietro le spalle di Simon brandendo nella mano destra un pugnale.

«O, forse, dovrei dire, il mio fedele cagnolino» concluse Judas.

Simon roteò il busto, e, fissando il ragazzo negli occhi, riuscì solo a provare un grande senso di pietà. Tanti erano i giovani che accecati dallo splendore della fama e del potere arrivavano a servire i Lucifer; agghindati con abiti firmati dai più rinomati stilisti mondiali, andavano in giro vestiti sempre dello stesso completo nero elegantissimo che indossava anche Acab in quell'occasione.

D'un tratto, la massiccia porta centrale di ciliegio scuro si aprì facendo sentire un cigolio gracchiante mentre la pioggia copiosa batteva prepotente fin dentro la Cattedrale.

Sembrava il vento avesse avuto una forza tale da aprire quella porta imponente e contornata di bassorilievi ma, in realtà, era stata Ariel a sfruttare le condizioni climatiche per insinuarsi carponi tra le panche per sfuggire alla vista dei presenti.

Quelli, presi dalla discussione non si accorsero di lei, ma Joshua sì. Non appena la vide posizionarsi dietro l'ultima panca, si mise una mano sugli occhi e la fece scivolare fino al mento. Poi, vedendo che stava per farsi vedere, con uno scatto, la prese dalle braccia e la tirò indietro verso il punto dove si era nascosto.

In pochi secondi, Ariel si ritrovò praticamente stretta a lui; l'avambraccio all'altezza del petto e il palmo della mano sulla bocca per impedirle di urlare.

Una volta che Joshua fu sicuro di averla nascosta ai loro occhi, la liberò mostrandole il dito sulle labbra in segno di silenzio.

Ariel capì, ma tentò di sbirciare allungando il collo verso l'esterno del pilastro, la mano di Joshua si posò leggera sulla sua spalla, facendola sussultare proprio nel momento in cui era intenta ad ascoltare la conversazione dei confratelli.

Agli occhi di Joshua, Ariel era diventata una calamita ambulante di guai, così la tirò nuovamente indietro e curvandosi all'altezza del suo orecchio le ordinò: «Non ci dobbiamo muovere. Hai capito, Ariel?» risoluto.

Lei avvertì in quel tono una sorta di astio malcelato nei suoi confronti e vista la situazione evitò di controbattere qualsiasi cosa; quindi deglutì e annuì per seguire l'intervento di Simon.

A quanto sembrava, avevano chiamato Simon per una sorta di processo dottrinale. Da quello che ricordava Ariel, le Sette Chiese avevano sette modelli di vita differenti: si diceva che Laodicea, per esempio, fosse quella più ricca, ma, nonostante questo, aveva fama di compiere poche opere buone in favore degli ultimi; Sardi era forse quella più vicina ai contesti mondani di quanto non fossero le altre sei; di Smirne aveva sempre sentito parlar male, ma aveva conosciuto almeno un paio di persone per bene che operavano per i poveri della Città; di Filadelfia, invece, si diceva di tutto, ma quelli che avevano avuto modo di avvicinarvisi erano rimasti abbagliati dall'amore disinteressato.

«Allora, la mia presenza qui a cosa serve?» domandò Simon sussurrando, non tanto ai confratelli, quanto al suo Signore.

«Serve a mantenere la pace tra le Chiese» rispose il capo di Laodicea con voce calda e ferma.

«No...» negò Simon, che sorrise di sbieco mentre una goccia di sudore gli rigava la gota barbuta. «Non serve affatto alla pace delle chiese, poveri stolti...»

Stringendo convulsamente i pugni ai fianchi, avvertì la punta acuminata del pugnale di Acab vibrare quasi a contatto con la pelle; a separare l'arma dal tessuto vitale del Padre, c'era ancora il maglione candido perché il cappotto era già stato oltrepassato.

«Il mio sacrificio in questo luogo segnerebbe solo la più rapida ascesa dell'Anticristo. Come predetto dalle Sacre Scritture: negli ultimi tempi la carità dei più si raffredderà, immersi nell'amore per il denaro, per il potere, la ribellione, il proprio ego...»

A sentire quelle parole, Ariel pose una mano sulla collana con il timore che le gelava il sangue nelle viscere. C'era qualcosa di profondamente sbagliato in tutta quella situazione; così si mosse di un passo per avvicinarsi agli uomini incappucciati. Joshua la vide e, agli occhi del ragazzo, quell'azione sconsiderata avrebbe potuto far degenerare una situazione già di per sé precaria. Quindi la fermò per il polso prima che potesse essere vista.

«Cosa stai facendo, stupida?!» le domandò a denti stretti, fissandola con autorevole apprensione. «Vuoi avvicinarti nuovamente alla morte?»

Lei non poteva saperlo, ma era legata a quella realtà di morte da quando suo padre aveva combattuto Judas nel tentativo di insediarsi nella Chiesa di Smirne; era stato per quel motivo che le avevano bruciato la macchina. Adesso i Lucifer volevano vendicarsi di tutti coloro che avevano messo ostacoli al loro piano di controllo.

Lo sguardo di Ariel si accigliò vagando nelle iridi verdi del giovane di fronte a sé: «Mi meraviglio di te, Figlio di Dio...» commentò a bassa voce. Un flash baluginò nella mente di Joshua: si rivide a casa sua, mentre reggeva in mano la Bibbia di Smirne. Tutto gli fu chiaro. Mollò la presa, drizzò la schiena e, attaccandosi alla pietra del pilastro. «Di cosa ti staresti meravigliando?» le domandò sottovoce.

La sua figura era avvolta nella semi oscurità e Ariel avvertì dentro di sé che qualcosa stava cambiando. In entrambi.

«Io vado a salvare Simon. Tu rimani pure qui a guardare come metto alla prova il tuo Dio.»

La ragazza aveva rivolto quelle parole con uno sguardo provocatorio, quasi a voler smuovere in Joshua qualcosa che lo inchiodava al buio. Lui temeva l'incrinarsi di una situazione già di per sé pericolosa, e pur di evitare un'ulteriore rischio per Simon, si ritrovò a sperare nell'intervento del suo Signore, affinché salvasse anche Ariel dalle mani dei Lucifer.

La osservò con terrore mentre piegata sulle ginocchia, era in procinto di adagiarsi completamente al suolo per iniziare a strisciare con gli avambracci attraverso le panche della navata laterale. Sembrava che la ragazza avesse un piano ben preciso, ma, in realtà, stava agendo con un istinto che non sapeva di possedere, una strana fiducia in un movimento del cosmo a suo favore.

A qualche metro dietro le spalle di Acab, Ariel alzò il mento e vide l'orrenda situazione in cui si trovava il Padre: Acab lo teneva fermo con la mano sul braccio sinistro, mentre nella mano destra teneva il pugnale con la punta già conficcata nella schiena di Simon che non emetteva suono.

"Quid agnus muta et non aperuit os "

Alle orecchie di Ariel ancora allenate alla lingua classica, giunse quella frase latina di semplice traduzione, intonata dai cantori gregoriani; la musica che aleggiava per tutta la Cattedrale era come un triste lamento.

Come Agnello muto... Non aprì bocca...Tradusse.

E mentre l'odore intenso dell'incenso le arrivava fino in gola, Ariel avvertì un forte senso di nausea percorrere l'esofago alla vista del pugnale contro la schiena del padre.

Odiava vedere il sangue e odiava il profumo dell'incenso.

Così, mordendosi l'interno del labbro inferiore, decise di continuare a strisciare come un militare in agguato.

Ma da dove mi arriva questo coraggio? Si disse, pensando che, forse, quel coraggio le stava germogliando dalla consapevolezza che di lì a poco avrebbe visto morire un uomo innocente.

Fu semplice ripensare al sangue versato dal Cristo del suo sogno.

Tutto quel sangue... Aveva sussurrato, ponendo la fronte al pavimento a scacchiera, assalita da un conato di vomito. Era innegabile: sembrava che Simon stesse ripercorrendo le orme di Gesù Cristo.

La riunione era su un piano rialzato rispetto alla posizione di Ariel, ecco perchè la ragazza non poteva essere ben visibile ai presenti.

Lei fece per proseguire rimanendo acquattata, ma nel muovere la mano in avanti senti un materiale viscido sotto il palmo. Si guardò le dita intrise di sangue e si bloccò le labbra con l'altra mano per non urlare. Con lo stomaco aggrovigliato puntò gli occhi sulla scia di sangue che proveniva dal pugnale di Acab ficcato nella carne del Padre.

Fu in quel momento che decise di agire: si alzò di scatto dalla fila di panche della navata centrale, provocando un mormorio indefinito tra i Capi; bastarono un paio di passi per avvolgere al collo di Acab la sua sciarpa ed esercitare una pressione tale da farlo boccheggiare.

«Per la prima volta nella nostra vita abbiamo una scelta, Acab.» gli disse, stringendo ancor di più il tessuto di cashmere al collo. «Tu, in questo caso, puoi decidere se sfilare il pugnale e gettarlo via, o morire soffocato. Io, la mia decisione, l'ho già presa.»

 

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NOTA AUTRICE:

PERDONATE LA LUNGHEZZA, ma non sono riuscita a dividerlo.

GRAZIE A TUTTI !

 

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Capitolo 13
*** SCHIAVO ***


Acab non aveva avuto il tempo di pensare; si ritrovò un sofficissimo tessuto al collo che, pian piano, gli stava facendo elemosinare ossigeno.

Fu allora che lasciò cadere al suolo il pugnale in un tintinnio metallico. Simon cadde in ginocchio, prima di accasciarsi al suolo. In quel preciso istante si udì un boato che fece vibrare le finestre; le statue e le panche si spostarono di qualche centimetro verso l'interno della navata, mentre i calcinacci iniziarono a cadere sui corpi dei presenti. I Capi delle Chiese si dileguarono in preda al terrore di aver compiuto un grave peccato e Acab sfruttò il momento di panico di Ariel a suo vantaggio.

Si girò bruscamente verso di lei e, con occhi venati di rabbia, le afferrò i polsi, li fece roteare in maniera innaturale verso l'esterno, provocandole un urlo di dolore straziante che colpì l'udito di Joshua.

Si era voltato e aveva osservato la scena da lontano, senza riuscire a intervenire. Poi, non scorgendo la figura di Simon si sentì sopraffatto dal terrore e, vedendo che i presenti si erano dileguati, uscì allo scoperto.

Corse tra le statue, incespicando in alcuni detriti, per poi scavalcare una panca fino ad arrivare al Padre, giacente esanime.

Si inginocchiò accanto a lui: il volto pallido e lo sguardo perso nel vuoto. Era ancora in grado di respirare, seppur ansimando; lo tirò sú, avvolgendo le braccia al petto, mentre gli arti superiori penzolavano lungo i fianchi.

Ariel scrutò il volto di Acab e mentre smorfie di dolore le comparivano in viso, si accorse di essere la preda di un feroce animale: lo stesso che l'aveva rincorsa fuori dall'università e che le aveva mostrato gli occhi zaffiro.

«Ora non fai più la spavalda, eh? Leone di Dio!» ringhiò l'adepto, mostrando i canini.

Le teneva i polsi e anche quando il tremore della terra cessò, continuò a fissarla nelle iridi brune che andavano via via appannandosi di lacrime.

Ariel, ormai vittima delle gelide mani di Acab, crollò con le ginocchia sul pavimento; il giovane dai capelli corvini sembrava provare un certo piacere nel dolore della ragazza, così continuò a stringere quei polsi minuti.

Ormai assuefatta dal dolore, se non fosse ancora non aveva sentito il suono delle ossa che si frantumavano, Ariel avrebbe avuto ragione di credere che, ormai, del suo carpo esistevano solo frammenti d'osso.

«Ti prego...» sussurrò con copiose lacrime che le rigavano il viso, divenuto pallido per la violenza subìta. Serrò le palpebre, affogando il dolore nelle lacrime che non provocarono alcun moto di pietà in Acab. Una vittima già implorante come Ariel era il sacrificio perfetto per quella notte di luna perfettamente tonda e pallida.

Tuttavia non era come pensava: «Gesù... Ti Prego...» pronunciò Ariel con un fil di voce, mentre il respiro veniva rotto dal pianto.

Acab, a sentire quel nome, si irrigidì. Sbarrò gli occhi e poi li accigliò: non stava pregando lui di liberarla, ma stava pregando Quel Nome che gli adepti non avrebbero mai dovuto nominare.

Così mollò i polsi della ragazza in un gesto di disgusto e sdegno, indietreggiando di qualche passo per poi allontanarsi definitivamente.

La giovane aprì gli occhi gonfi e rossi, fissandoli sui suoi palmi rivolti in sú, col dorso delle mani che toccavano le ginocchia. Ispirò come per riacquisire la vita che quel tocco gelido le aveva tolto e nel momento in cui alzò il viso, vide Acab in ginocchio davanti a Judas nel posto che poco prima era stato occupato da Simon. Non fece in tempo a capire cosa si stessero dicendo, che la mano di Judas si alzò per riservare ad Acab uno schiaffo così violento da farlo cadere al suolo.

«Sei una nullità!» gli urlò, poi. «Ti sei lasciato soffiare da sotto il naso il capo della Chiesa più forte delle Sette!» La rabbia incontrollata di Judas trasudava dagli occhi azzurri diventati pozze d'odio.

«Perdonami, padre.» Acab si rimise in ginocchio, asciugandosi con il lembo della manica il rivolo di sangue uscito dal labbro.

Ariel, alla vista di quella scena, ebbe l'impressione di aver provato una sorta di pietà e quando se ne accorse rabbrividì al solo pensiero.

Guardò i due sparire, avvolti in una sorta di condensa scura, come chi è nel bel mezzo di un sogno e pensa che sia tutto incredibilmente naturale.

Quando si accorse di non essere sola in quella Cattedrale silenziosa, si voltò in ogni dove alla ricerca delle figure di Joshua e Simon.

«No! Non puoi chiedermi questo!»

Joshua aveva fatto sentire la sua voce, che giunse fino ad Ariel in un ringhio di nervosismo. Le loro voci indistinte erano cariche di tensione e risuonavano come un'eco in quell'edificio dal soffitto ampio e altissimo.

Così si alzò, cercando di far forza solo sulle gambe, ancora tremanti. Camminò lungo la navata centrale, a contatto con le panche per non sbilanciarsi e ritrovarsi a terra.

La porta spalancata verso la Piazza delle Sette Chiese permetteva ai due superstiti di essere illuminati dalla luce pallida della Luna, ammantata del blu intenso del cielo notturno.

Simon tossì un paio di volte prima di alzare lo sguardo verso quella ragazza che, claudicante, si dirigeva verso di loro, probabilmente ancora nell'atto di singhiozzare per il pianto e per la paura di averli persi entrambi.

«Vai da lei...» disse Simon rivolgendosi a Joshua.

Lui accolse quel suggerimento come una mera richiesta, senza considerare che quel Mandato aveva il potere di scrutare nelle stanze più buie della sua anima. Quando lo guardò, Joshua capì che quella era la via che avrebbe dovuto prendere, lo avvertì in quegli occhi nocciola che sembravano contare i battiti del suo cuore accellerato. Quindi rivolse il capo nella direzione indicata dagli occhi del padre, inquadrando la figura di Ariel che li stava raggiungendo a fatica e con la pelle diafana.

Joshua, cosciente della sua mancanza di coraggio e del tumulto che agitava il suo animo, dedicò un'ultima occhiata a Simon con apprensione.

Prima di alzarsi, si assicurò che la posizione di Simon non provocasse alcun problema alla sua colonna vertebrale, già brutalmente messa a dura prova.

Iniziò a camminare nella direzione della ragazza con fare insicuro e sguardo colpevole. Mentre procedeva a passo trascinato avvertiva gli occhi di Simon su di sé e una voce nel cuore che gli ricordava chi- e cosa- avrebbe dovuto rappresentare, ma evidentemente ancora recalcitrava a quello stimolo, perchè non si sarebbe abbassato al suo volere e alla sua carne, di nuovo.

Era ancora poco lontano da lei quando si rivolse nuovamente a Simon, guardandolo dall'alto della spalla. Il padre annuì un paio di volte col capo, sfoggiando un sorriso rassicurante.

Va bene, padre...

Quando la raggiunse per premere le labbra sulla sua fronte, Ariel si ritrovò in un istante a contatto con il suo petto, nel quale si percepivano i battiti prepotenti. La guancia percepì il calore rassicurante dei suo respiro. «Perdonami, Ariel» le disse piano, mentre affondava il viso tra il suo collo e la spalla.

Ariel non riuscì a muoversi, rimanendo immobile, mentre qualche spasmo di dolore ai polsi la faceva ancora sussultare.

«Oh Dio! Perdonami tanto, io...» Joshua la scrutò a lungo, cercando i suoi occhi bruni e tenendo il suo viso tra i palmi caldi delle mani. Lei cercò di articolare qualche frase ma ancora non riusciva a capacitarsi di ciò che le era successo: sapeva solo di aver sventato un omicidio e di aver visto un ragazzo sparire inspiegabilmente nell'oscurità.

Mentre Joshua la teneva per un braccio, conducendola nel punto in cui aveva adagiato Simon, si ricordò di cosa aveva permesso la fuga di Acab: la preghiera - rivolta a Gesù Cristo - l'aveva salvata.

Simon era poggiato con la schiena al pilastro, con volto sereno e aria pacifica nonostante quello che aveva subìto.

«Ariel...» sussurrò nel vedere la giovane zoppicante e con i palmi delle mani al petto, mentre ad ogni passo il suo viso mostrava impercettibili smorfie di dolore. «Come stai?» le chiese con lo sguardo visibilmente preoccupato e la voce che lasciava trapelare apprensione, riscaldando il cuore della giovane, che, in quel momento, ebbe la sensazione di poter finalmente contare su qualcuno.

Tuttavia la vista della scia di sangue che lo precedeva costrinse Ariel a rimanere in apnea per diversi istanti.

«C...Come sto io?» gli domandò in tono acuto «Tu stai sanguinando! Con l'aggravante che non sei riuscito a spostarti con le tue gambe! Potrebbe esserci un problema alla colonna vertebrale!»

Concluse d'un fiato, lasciando che una lacrima di preoccupazione le arrivasse fino al mento.

«Oh, Ariel...» un sorriso tirato dal dolore «Non devi preoccuparti, Gilbert sta arrivando.»

Ma Simon, che non voleva mostrare alcun cruccio per la sua condizione, non riusciva a formare una frase complessa: forse per lo stato confusionale, forse perché il dubbio di Ariel era fondato.

«G... Gilbert?»

«Sì, Ariel, Gilbert è il padre di Lucia ed è un medico. Ha il suo studio presso la sede del nostro Centro dove presta soccorso a tutti, gratuitamente» spiegó Joshua, conquistandosi l'attenzione di Ariel, che si era posta accanto al padre, in ginocchio.

In quel momento avrebbe voluto abbracciare Simon, ma temeva di essere troppo impulsiva. Così strinse le labbra e si guardò i polsi, ancora una volta, sperando di avvertire qualche sensazione, ma invano.

«Ariel...» la richiamò lui, con una voce soffocata da un dolore improvviso, mentre la ragazza gli rivolgeva lo sguardo con un'espressione preoccupata.

«Dimmi, Padre...»

Non poteva credere alle sue orecchie: l'aveva davvero chiamato in quel modo e mentre cercava di capacitarsi della sua stessa affermazione, probabilmente scaturita da una specie di rispetto e ammirazione momentanea, Simon parlò: «Posso toccarti i polsi?»

Per un attimo, Ariel esitò; ma poi, quasi fosse un movimento necessario, mosse le braccia in direzione del Padre che aprì i palmi delle mani in attesa di accogliere i suo polsi arrossati.

Ariel non poté ignorare la delicatezza con cui lui le stava riservando quelle attenzioni; aveva lasciato i palmi aperti, osservando attentamente il rossore che circondava gli arti feriti; dopo un lungo sospiro, alzò gli occhi bruni, mentre tre lievi righe ornavano il suo sguardo ridente.

«Se vuoi» le propose «posso pregare per te.»

Ariel rimase con le labbra lievemente schiuse, senza sapere cosa rispondere. Non credeva nel potere della preghiera perché quando l'aveva fatto per chiedere il ritorno del padre sembrava che nessuno l'avesse ascoltata. Tuttavia, in quella Cattedrale si era verificato qualcosa...

«Lo farò solo se vuoi, Ariel. L'amore di Dio si manifesta nella libertà.»

Simon era intervenuto rispondendo a quelle silenziose domande che le impedivano di prendere una decisione.

«Sì, accetto.» aveva risposto, mentre il cuore aveva iniziato a palpitare come di fronte all'ignoto.

«Così come hai chiesto aiuto a Gesù Cristo nella libertà del tuo cuore che necessitava di un salvatore, così farò io. Ma stai tranquilla...» si fermò, mentre gli occhi di Ariel si sbarravano e la bocca rimaneva schiusa in un espressione sorpresa. Quelle parole somigliavano a una verità rivelata senza bisogno di riflettere su logiche di dottrine religiose: «Anche la fede di un granello di senape può smuovere le montagne della nostra incredulità.»

«Cos'è la fede?» gli chiese quando un dolce calore attraversava le sue braccia proveniente dai palmi aperti del Padre.

«La fede è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di cose che non si vedono...» recitò Joshua, fissando un punto indefinito nel vuoto, guadagnandosi uno sguardo folgorante da parte della giovane, che non avrebbe voluto il suo intervento, intenta com'era nel apprendere una conoscenza che sentiva potesse provenire solo da Simon.

«Sì, Joshua, ma credo che la nostra Ariel volesse sapere come si manifesta. Non è forse così?» Simon la guardò fissamente per qualche secondo mentre Ariel cercava di mettere insieme una semplice particella affermativa senza sembrare troppo scossa dal modo in cui Simon riusciva ad entrarle nel cuore e scovare ogni suo minimo interrogativo.

«Sì.» rispose poi, annuendo un paio di volte.

«Cara Ariel, quel che sono io, quel che è anche Joshua, è solo il frutto di una vita vissuta per fede, a volte rinunciando ai propri desideri, per consentire alla volontà di Dio di fare il suo corso.»

Simon puntò gli occhi verso Joshua che aveva assunto un'espressione torva e uno sguardo fin troppo cupo per i suoi gusti.

«Quindi la fede è l'abnegazione di se stessi? Perché mai un Dio vorrebbe questo per le sue creature?»

Nonostante il dialogo con Simon aveva assunto toni decisi, la giovane non riuscì a levare i polsi dai palmi del Padre, come se una virtù guaritrice la stesse curando.

«Vedi Ariel, Dio non ha mai obbligato nessuno a fare la sua volontà. Per questo il mondo permette ai ai Lucifer di controllare ogni settore della società. Perché la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più della luce. Per questo noi abbiamo scelto la fede, perché abbiamo visto la differenza che c'è tra chi serve Dio e chi serve Satana.»

Ariel si voltò verso Joshua, considerando come tutto stava prendendo forma, ripercorrendo gli avvenimenti che l'avevano portata fin lì. La differenza che c'è tra me e Acab...

«E che differenza c'è?»

Simon fece un largo sorriso, sporgendosi lievemente verso di lei:«La libertà di scegliere anche il male.»

Fu così che Joshua avvertì una mano che prendeva quel muscolo martellante nel petto e lo portava davanti agli occhi di Simon, come se i suoi pensieri, ormai rivolti alla vendetta nei confronti di Acab e all'ossessione di non poter stare vicino a Ariel fossero stati letti e scritti su un libro aperto. D'altronde era così che il cuore di Joshua appariva agli occhi di Simon.

Ariel deglutì a fatica. A quel punto era semplice scegliere la via da prendere, ma se Simon gliel'avesse chiesto qualche giorno prima, sicuramente sarebbe rimasta in quella zona grigia dove i Lucifer trovavano le vittime migliori.

«I...Io ho scelto.» balbettò la giovane, guadagnandosi uno sguardo stupito da parte di Joshua e gli occhi lucidi di Simon.

«Bene, cosa hai scelto?»

Simon sapeva bene che quella affermazione poteva anche essere frutto di una mente sotto pressione, causata dagli eventi a cui aveva assistito, perciò, una eventuale conversione, doveva essere frutto di una consapevolezza cosciente.

«Scelgo la preghiera.»

Simon chiuse gli occhi, tenendo i polsi della giovane nelle proprie mani e iniziò: «Padre, ti chiedo di guarire Ariel dal dolore che porta nel cuore. Grazie, perché Tu mi rispondi sempre. Grazie, nel nome di Gesù Cristo.»

«Tutto qui?»

La ragazza si era guardata intorno per tutto il tempo, aspettandosi qualche folgorazione celeste o qualche mutamento nell'aria che sapeva ancora di incenso; contrariamente a ciò che si sarebbe immaginata, sia Simon che Joshua erano nella stessa posizione in cui si trovavano pochi secondi prima che iniziasse la preghiera, entrambi con gli occhi chiusi.

«Beh, Gesù Cristo resuscitò un uomo con una sola esclamazione.» intervenne Joshua, con le braccia al petto.

«Ma lui non è Gesù Cristo.»

Simon aprì i palmi, lasciando che la giovane muovesse le braccia e verificasse ciò che la preghiera le avrebbe rivelato.

«Ma non avevi detto che era lui il Cristo del tuo sogno e che gli avresti creduto?» sbottò lui, con un sorriso forzato, aprendo le braccia.

«Senti...» iniziò lei, scattando in piedi, senza accorgersi della buona salute dei suoi polsi «Cosa staresti insinuando? Credo proprio che l'averti considerato il Messia ti abbia dato alla testa!» concluse, puntellando l'indice sul braccio di Joshua, che la fissò con serietà prima di risponderle: «A quanto pare, la tua mano sta bene.»

La ragazza schiuse le labbra e fissò il dito che stava toccando il ragazzo, per poi considerare che il gonfiore e il rossore del polso erano svaniti. Così chiuse la mano in un un pugno che strinse al fianco.

«Hai ragione!» ringhiò acidula.

«E...» proseguì lui, mentre già la ragazza gli dava le spalle per preoccuparsi di Simon «Per la cronaca: San Paolo guariva solo con i suoi abiti. Non si tratta di essere Gesù Cristo, basta essere suoi mandati per ricevere il suo Spirito» concluse, facendo per andarsene. «Vado fuori ad aspettare Gilbert.»

Sebbene il ragazzo avesse ragione, a Simon non piacque l'atteggiamento superbo che aveva riservato alla ragazza. Non era lui. Solitamente avrebbe dovuto fare di tutto per allontanarlo, per modellarlo nell'affettività, ma in quel momento qualcosa lo stava tormentando, ne era sicuro.

«Joshua!»

La voce autorevole di Simon l'aveva raggiunto come un padre che richiama il figlio. «Chiedi subito perdono!»

«E di cosa?» era già giunto alla porta della Cattedrale e senza voltarsi si lasciò colpire dalla brezza gelida dell'esterno.

«Ti sei inorgoglito. Hai umiliato Ariel senza alcun motivo, non aspettando nemmeno una risposta da colui che tu consideri mandato. Esigo una spiegazione.» tossì il Padre, che aveva utilizzato tutte le poche energie per riprenderlo.

Lui parve ascoltare. Aveva gli occhi velati di un buio che adombrava anche i pensieri. Arrivato a quel punto avrebbe fatto a modo suo, dato che sia l'amore che l'anaffettività non sembravano essergli concessi in libertà. Un desiderio calpestato per diverso tempo, sembrò fare capolino nel suo petto.

Forse il fumo avrebbe coperto anche quella sua ultima decisione.

C'era una forza che lo spingeva lontano da chi gli aveva salvato la vita e che, in quel momento aveva bisogno del suo aiuto più di chiunque altro. La forza dell'orgoglio ferito, della vendetta.

E, mentre vedeva l'ambulanza avvicinarsi con le luci bluastre e intermittenti, rispose: «Ci vediamo al tuo studio.»

Scese i gradini a passo svelto, sotto lo sguardo attonito del Padre, stringendo le braccia al petto. Il vento tagliente gli ricordò di aver lasciato la giacca nell'auto in cui si diresse mentre qualche ciuffo castano si muoveva ribelle. Il maglione di cotone indossato in quell'occasione non poteva fermare il primo gelo della stagione.

Una volta indossato il cappotto, richiuse la portiera con forza, mentre i paramedici trasportavano Simon fasciato da stringhe elasticizzate su una barella.

Si sedette sulla parte anteriore del veicolo, osservando da lontano Gilbert che saliva sull'ambulanza e Ariel che dissentiva col capo. Quando capì che la ragazza era diretta verso di lui sentì un fuoco bruciare dentro.

Non venire qui, non ti avvicinare. Già mi hai rovinato abbastanza.

Non comprendeva l'astio nei confronti di chi aveva salvato Simon da morte certa, diventando strumento della mano divina inconsapevolmente. Lui, invece, che voleva diventare un ministro della Chiesa eletta si ritrovava a stringere tra le mani una sigaretta e ad accenderla in un battito di ciglia.

Non sapeva nemmeno chi avesse messo mano al suo cappotto, fino a mettergli tra le mani la sua morte.

Acab...lurido bastardo.

Solo lui avrebbe potuto conoscere la sua debolezza e aiutarlo a tornare alla vita da cui si era arduamente purificato; dopo tutto, la macchina era rimasta aperta e ai Lucifer era attribuito il potere di conoscere tutti i pensieri e i desideri di chi era pronto ad avvicinarsi al loro mondo.

Constatò infatti, come la Cattedrale fosse il punto nevralgico della città: da essa si diramavano le vie principali. Joshua aveva parcheggiato ai margini della piazza da cui partiva la Via del Corso: zona frequentata da ragazzi e persone d'alto rango e dai fedeli adepti del gruppo Lucifer, che si ritrovavano spesso in un locale notturno chiamato Lithium.

Con un soffio annebbiò nel grigiume del fumo la figura lontana di Ariel, prima di gettare in terra la stecca e pestarla sotto la punta del piede, con tutta la rabbia di cui, in quel momento, era capace.

La ragazza si era incamminata nella sua direzione, stringendosi nel largo maglione di lana, mentre una folata di vento le donava la sciarpa di cachemire che aveva avvolto al collo di Acab.

Si chinò sulle ginocchia e la prese con l'istinto di ispirare la sua fragranza preferita, ma quello che la colse impreparata fu l'intenso profumo sconosciuto, probabilmente attribuibile ad Acab.

La ragazza camminò a passo lento, sferzata di tanto in tanto dai capelli scuri che le coprivano la vista; il vento gelido che preannunciava l'arrivo del primo freddo la fece rabbrividire, costringendola ad avvolgere alle spalle la sciarpa.

«Come sta?» le chiese Joshua vedendola accostarsi a lui per appoggiarsi al cofano anteriore dell'auto, mentre l'alito di vento non accennava a diminuire.

«Se la caverà...» rispose atona.

«Ancora non so come tu abbia fatto...»

Joshua fissava un punto indefinito nel vuoto, oltre l'ampia piazza su cui sorgeva la Cattedrale.

Con un ennesimo spasmo di freddo si strinse le braccia e lo fronteggiò. Cercò un barlume di positività in quelle iridi accigliate e il volto cupo, ma invano, perchè non c'era l'ombra di alcun mutamento nel suo viso dai lineamenti perfetti.

«E' stata la paura di veder morire qualcuno davanti ai miei occhi.»

Lui strinse le labbra fino a farle scomparire in una linea sottile e annuì un paio di volte.

Fu uno spunto di riflessione per quel fedele seguace di Simon che, in quel momento, sentiva intorno a lui un muro di ghiaccio spesso come il suo orgoglio e il suo risentimento.

«Quindi, non hai paura di morire, ma di veder morire qualcuno...» intervenne, abbassando lo sguardo agli anfibi neri della giovane. «Interessante» il tono secco.

«Ma cosa c'è che ti turba, Joshua?» Gli occhi bruni di Ariel lo osservavano, cercando di trovare una fessura in quel ghiaccio cristallino, che lei non riusciva a vedere, ma che percepiva chiaramente attraverso il mutamento del suo gelido comportamento.

Il suo nome, pronunciato da Ariel, disciolse quel ghiaccio, lasciando scivolare via anche la maschera di uomo integro e dall'animo puro.

«Io ho paura di soffrire» confessò quasi in un sussurro, che veniva coperto dall'ululato del vento che giocava a sferzare i suoi ciuffi castani sul viso contornato da una barba leggermente sfatta. Bastarono quelle cinque parole a fare accartocciare lo stomaco di Ariel.

Quanta sofferenza nascondi dietro quell'armatura d'angelo?

«Ho paura di morire soffrendo...»

Il pugnale forse sarebbe stato meno doloroso di quella frase. «Beh...» sospirò lei. «Questo non è molto in linea con la tua fede, o sbaglio?» Realizzando che tutta quella perfezione altro non era che un muro di separazione verso tutto quello che lo aveva deluso in passato.

Quindi Ariel scavò, cercando di rastrellare quella roccia.

«La mia fede è in Colui che mi ha salvato, dandomi la speranza di una nuova vita in un luogo che non ha niente a che vedere con questo mondo.»

E lei l'aveva ben capito. Tuttavia nel suo volto spigoloso e dai tratti autoritari, Ariel non riconosceva niente di familiare, ma continuò ad indagare con lo sguardo turbato e il cuore palpitante.

«E che mi dici di Simon? Qual è la sua fede?»

«Lui crede che l'amore di Gesù Cristo sia l'unica nostra àncora di salvezza» le rispose serrando la mascella e continuando a guardare oltre la ragazza, quando ombre silenziose si allungavano silenziose e la luna pallida mostrava il suo pieno volto, spuntando oltre le colline.

«E' una bella cosa.» affermò infreddolita, attendendo un gesto da parte sua, che, però, tardava ad arrivare. «Non è quello che credi anche tu?»

«A volte penso che Simon sia troppo compassionevole.» Rispose, giocherellando con una foglia che gli era scivolata sul dorso della mano. «Il perdono immenso di Gesù Cristo, a mio modesto parere, non vale anche con un demone come Acab.» concluse, rinchiudendola nel pugno per poi farne volare via i frammenti.

Ariel trattenne il respiro: «Quindi Acab è un demone.»

Ormai la ragazza non riusciva a meravigliarsi di nulla: lobby, confraternite, ragazzi che subivano metamorfosi e uomini dalle capacità paranormali.

«Certo che no,» quasi fosse elementare «altrimenti non starei ancora qui a torturarmi l'anima al pensiero che non posso dargli una bella lezione.»

Quella confessione la lasciò interdetta, mentre lui si mosse per andare a prendere nel sedile posteriore la giacca in pelle nera della giovane infreddolita.

«Tieni, stai gelando.» commentò adagiandogliela sulle spalle.

«Forse non è colpa sua...» rifletté lei, frizionando le mani sulle braccia.

«Lo sapevo!» esclamò con una risata sommessa. «Sei come tutte le ragazze di questo ingiusto mondo:»

All'improvviso Joshua si rese conto di cosa fossero capaci i Lucifer: smerciare passione e seduzione in cambio dell'anima. Evelyn, forse, non era stata una Lucifer pura, ma una ragazza come Ariel.

«Vi affascina il cattivo ragazzo, bello e dannato, ma quando vi schiaccia con la sua prepotenza correte in cerca del principe azzurro.»

Disse tutto d'un fiato, mentre la ragazza aveva avvertito dell'astio in quelle parole piene di un sentimento di rancore perpetuato nel tempo.

Tuttavia non volle credere alle sue orecchie: Joshua non poteva aver insinuato una cosa del genere.

Al contrario, aveva sperato di significare qualcosa per quel ragazzo che appariva tanto diverso da tutti gli altri. Ma lui, stranamente, non l'aveva per niente capito. Quella capacità di leggerle nella mente e nel cuore era come appassita.

«Adesso stai esagerando!» Lo redarguì con voce roca e fissando il suolo grigio cercò di ricacciare dentro di sé quel nodo che dava ragione alla madre.

«Non sto esagerando...» continuò «Avevo già provato ad innamorarmi, ma con voi è sempre così!» dandole le spalle.

Ariel si chiese per un attimo se quel 'provare ad innamorarsi' fosse riferito anche a lei, mentre un calore acidulo le faceva bruciare l'esofago e il cuore palpitava feroce al ricordo di quella sera in cui, dalla finestra della sua camera, l'aveva visto con le mani intrecciate tra i capelli, andare avanti e indietro sul marciapiede, fin quando non aveva inflitto un pugno ad un lampione. La stessa sera che lui aveva provato a baciarla.

«Ho solo fotografato ciò che siete alla luce della mia esperienza. A nulla vale la galanteria, l'aspettare il momento giusto. Le ragazze come te andranno sempre dietro al cattivo...» considerò, prima di iniziare a camminare lentamente, alzando il bavero della giacca.

«Io non sono così!» ringhiò lei.

Joshua si fermò, per rivolgerle uno sguardo truce.

«Ah, no? Allora perché ti preoccupi tanto per lui? Perchè credi che non sia colpa sua tutta questa sofferenza?»

«Forse lui non ha scelta, forse lui ha bisogno di uno come te che gli mostri un'alternativa!» Un'alternativa... «Come tu lo sei stato per me.»

Lui la guardò, in attesa di quelle parole che non tardarono ad arrivare.

«Forse anche lui ha paura di morire... Come te. Probabilmente l'influenza della sua famiglia e di suo padre è tale da non permettergli altra via d'uscita. A volte, per combattere le nostre paure, ci cadiamo inconsapevolmente. Come io ho amato ragazzi che assomigliavano a mio padre e, come te, che hai iniziato a drogarti a causa di tuo padre. Non è forse così?»

Joshua scosse la testa un paio di volte, mordendosi il labbro inferiore prima di rivolgerle uno sguardo truce e puntare l'indice contro: «Sapevo di aver sbagliato ad aprirmi con te. Non ti permetto di farmi la predica. Per quello, mi basta Simon.»

Mentre quel dito puntato le infilzava il cuore, lo sguardo accigliato di Ariel le donò la capacità di fulminare chiunque avrebbe voluto calpestare la sua dignità.

«Da quel che ho capito, Simon ti ha salvato la vita con le sue prediche!»

«Siamo anche diventate delle maestrine!» esclamò con tono sarcastico. «Perché adesso non vai al Centro, dormi lì per cinque anni facendo la santarellina e poi vieni qui a redimermi, eh?»

Voleva colpire dritto al cuore come una freccia acuminata, dimostrarle che non gli importava niente, per far sì che se ne andasse lontano da lui e dal desiderio di bloccare quel fiume di parole in un bacio capace di ammutolire entrambi.

L'aveva desiderata solo per sé, mentendo a Simon, a Lucia, ad Ariel, a se stesso.

I suoi occhi grandi e le labbra schiuse lo immobilizzarono in una pausa che sembrava chiudere lì l'argomento.

«Sai che ti dico? Ne ho abbastanza del tuo bel faccino che oltre a farmi peccare mi fa anche da madre superiora.»

Aveva concluso così, senza rendersi conto di aver sputato la verità nel modo più brutale che Ariel avrebbe mai immaginato.

Non sei tu...Non lo sei più. Sembrava così diverso. In fondo, non erano passati che pochi giorni dal loro primo incontro; eppure, Joshua aveva avuto la capacità di farsi amare in pochissimo tempo.

Dopo un lungo silenzio, alternato dal fischio autorevole del vento, Ariel, con un'espressione sconvolta, si pronunciò: «Sparisci dalla mia vista.» Mandò giù quel sassolino fermo in gola e acqua trasparente le fece luccicare le iridi brune.

«Ai suoi ordini, Leone di Dio.» Ghignò lui, prima di girare i tacchi e mostrale la schiena.

Si diresse verso la Via del Corso, ma prima di continuare, le chiese ad alta voce: «Ma senza di me, chi ti salverà dai nostri nemici?»

Non fece in tempo a sentire la risposta di Ariel perchè solo il vento riuscì ad ascoltare, portando verso il Cielo la sua certezza: «Colui che ha mosso mia madre a darmi questo nome, continuerà a salvarmi!»

 

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Capitolo 14
*** NE' FREDDO, NE' FERVENTE ***


«Ariel, stai attenta alle mie parole: per nessun motivo devi seguire Joshua. Non cercare di salvare il tiepido; salva colui che è freddo. Ricorda: meglio il freddo o il fervente. Ma allontanati da colui che non è né freddo, né fervente. So che mi capirai perché Dio sta guardando al tuo cuore.»

Nonostante Simon si trovasse nel suo letto di ospedale, aveva avuto un presentimento così tremendo da portarlo a chiamare con urgenza la ragazza, rimasta immobile a osservare la schiena di Joshua che si apprestava a percorrere Via del Corso.

Né freddo, né fervente...

Si era messa a camminare lentamente in quella Via dopo aver visto il ragazzo sparire dietro un angolo. La luna le mostrava un cammino più luminoso dei lampioni in quei marciapiedi dai primi del novecento.

Con le mani dentro le tasche della sua giacca di pelle nera proseguiva guardinga cercando di non incrociare lo sguardo di nessuno. Si diceva che, di notte, le vie appartenessero ai Lucifer, ma non era una vera e propria legge, più che altro un avvertimento che strisciava nei vicoli della Città dopo i misteriosi avvenimenti che avevano colpito quel luogo.

Ripensò a Joshua e al modo in cui gli aveva sputato in faccia la confessione di essere stato attratto da lei e, in quel momento, se l'avesse avuto davanti, l'avrebbe preso a pugni, nonostante la sua piccola statura. Un'altra persona rispetto a quel giovane che nella sua cucina si era messo a scherzare della sua altezza.

Quel sassolino in gola stava diventando una pietra difficile da mandare giù mentre le luci giallastre dei lampioni la illuminavano passo passo. Ariel alzò il mento dalla sua sciarpa di cachemire quando il suono martellante di una musica che proveniva da un Pub si era insinuata nel petto per battere al posto del cuore.

La luce rossastra e lampeggiante dell'insegna recava il nome Lithium. Sotto alla scritta purpurea, lo slogan: Where your demons hide

Per un attimo avvertì un presentimento che iniziò a farle palpitare il cuore. Più che un presentimento si sentì in balìa di una certezza terrificante: quel locale, covo dei membri del gruppo studentesco dei Lucifer conteneva sicuramente la presenza di Acab e di Judas, proprietari del Pub.

Le mani le iniziarono a sudare e le tempie pulsavano, mentre cominciava a considerare seriamente la possibilità di girare i tacchi e tornare alla macchina di Simon. Prima di decidere, l'apertura della porta attirò la sua attenzione: Acab uscì dal locale insieme al padre, e, mentre il secondo le mostrava le spalle, lui, invece, la fissò, disegnando un mezzo sorriso nascosto dal colletto della sua giacca nera.

Ad Ariel mancò poco per sentire il vuoto sotto i piedi e avvertendo la paura serpeggiare nelle vene sotto forma di brividi. Se si fosse avvicinato, sicuramente sarebbe diventata facile preda di quegli occhi. Invece, inaspettatamente, Acab seguì Judas, incrociando le braccia al petto, così, come se nulla fosse successo.

Allora Ariel sbarrò gli occhi esterrefatta, mentre, guardandosi intorno, realizzava che, effettivamente, era solo lei che Acab avrebbe potuto fissare; e mentre l'adrenalina andava scemando, si voltò verso l'ampia vetrata che dava sull'interno del locale costituito da arredamento moderno e lineare con luci a led che andavano dal blu al rosa pallido e finivano in un rosso intenso e quasi ipnotico.

Ariel seguì quelle luci che contornavano ogni arredo: dagli scaffali in cui si intravedevano bottiglie di alcolici di ogni tipo, allo specchio che rifletteva le immagini dei presenti accomodati sugli sgabelli del bar.

Un ragazzo, tra quelli appoggiati con i gomiti al bancone, attirò la sua attenzione, come la prima volta: attendeva il suo turno tamburellando le dita alla superficie limpida del banco, con degli occhi color smeraldo e il sorriso che l'aveva colpita da quel primo incontro all'Università. Un ragazzo che aveva il volto di Joshua.

No...

Il respiro le si bloccò e per un attimo non riuscì a rimanere lucida. Sarebbe entrata e, strattonandolo, gli avrebbe chiesto con rabbia cosa ci facesse in quel luogo, ma la voce di Simon le impedì ogni movimento.

Lo osservò avvicinandosi il più possibile alla vetrata, nascondendosi dietro il pilastro esterno. Lo vide bere un liquido dorato, quando al posto di un uomo che si era alzato prima che avesse finito di bere, si avvicinò una ragazza dalla bellezza disarmante. L'abbigliamento succinto, costituito da un tubino nero lucido, che arrivava a metà coscia e le fasciava il busto, stonava con un viso dai lineamenti dolci e due occhi da cerbiatto chiarissimi.

La ragazza parve chiedere a Joshua se il posto alla sua sinistra fosse libero e, quando il ragazzo annuì, lei si sedette, mostrando ad Ariel le spalle scoperte e la nuca dai cortissimi capelli neri.

Per Ariel era giunto davvero il momento di andare lontano da Joshua, una volta per tutte.

Voltò le spalle e dopo un paio di passi, rivolse un ultimo sguardo appannato all'interno del locale. I suoi occhi furono presi come al laccio di quelli della giovane che sedeva di lato a Joshua. Ispirò, gonfiando la cassa toracica e buttò aria dalle narici.

Quindi velocizzò il passo per andare alla ricerca di Acab, quasi a voler avere delle risposte, dimenticando tutti i pericoli annessi alla sua decisione.

Non si era nemmeno accorta che il tempo le era sfuggito di mano.

Era ormai ampiamente trascorso il pomeriggio da quando avevano accompagnato Padre Simon alla Cattedrale e la tonda faccia della luna era chiaramente al culmine della sua ascesa e illuminava i timidi flutti del mare che, ondeggiavano e schiumava sulla rena grigia del litorale che si trovava ad un centinaio di metri dalla Via del Corso.

Ariel correva senza meta alla ricerca di colui che Simon aveva definito freddo.

Mai termine fu più azzeccato per un essere come Acab... rifletté. Quel tizio è in possesso di un tocco così gelido da rasentare il soprannaturale.

Ansimante e piegata sulle ginocchia, Ariel si bloccò, con una forte fitta al fianco; quindi, dirigendo gli occhi in ogni direzione, alla fine li puntò verso la luna, coperta per metà da una nube livida, che rilasciava un raggio candido verso una discesa rispetto al punto in cui si trovava. Era una via che portava al lungomare cosparso di alberi esotici e secolari in cui, aguzzando la vista, scorse le figure di due uomini avvolti dall'oscurità della notte.

Intanto Lucia, che per tutto questo tempo aveva deciso di rimanere in preghiera di fronte alla grande croce di legno che si ergeva dietro il pulpito della Chiesa di Filadelfia, si era ritrovata al centro della sala di culto, con il volto incollato al pavimento, bagnata di sudore.

Un tuono la fece sobbalzare, ma gli arti non rispondevano agli imput del cervello, facendola rimanere immobile e supina.

Un lampo le annebbiò la vista, illuminando tutta la sala, provocandole degli spasmi incontrollati e, mentre il cuore accellerava i battiti, si ritrovò a strisciare verso gli scalini che portavano alla croce.

«Padre... No...»

Implorò il Creatore, rivolgendo gli occhi al cielo e il mento tremante.

«Ti prego... Non lo abbandonare...»

Dei flash intermittenti le accecavano la vista mostrandole delle mani insanguinate e incatenate.

«Ti prego!» urlò in preda alla disperazione, arrivata a fatica all'ultimo scalino marmoreo per allungare la mano al legno scuro del pulpito. Ma, mentre si sforzava di rialzarsi per raggiungere la croce, altre visioni le colpivano la mente come dei lampi bianchi, mostrandole luoghi oscuri, sotterranei, pareti di pietra ruvida rigati di sangue.

L'urlo di dolore di Lucia si propagò per tutta la chiesa di Filadelfia, arrivando alle orecchie di Heliu che, dal terrore, scattò seduto sul letto della sua stanza, situata al terzo piano del dormitorio.

Un urlo più straziante del precedente lo portò a poggiare i piedi nudi sul pavimento e ad aprire la porta, facendola sbattere contro il muro e a lasciarla aperta, fuggendo frettolosamente.

La voce di Lucia gli fece provare un fremito per tutto il corpo, mentre i piedi nudi correvano lungo il corridoio del piano e si apprestava a percorrere le scale biancastre, lasciando scivolare il palmo della mano sinistra lungo il corrimano di ferro scuro.

Corse così velocemente e con la pelle pallida, che incespicò sui gradini un paio di volte rischiando di cadere, mentre la sua mente era rivolta solo a quella ragazza che le faceva palpitare il cuore che galoppava dal terrore.

Arrivò al piano terra affannato e notò, oltre i vetri della porta d'ingresso l'assenza della macchina di Simon: una berlina grigiastra riposta solitamente all'interno del cortile che separava la struttura del Centro e della Chiesa.

La presenza di quell'auto aveva sempre rappresentato la sicurezza di tutta la struttura del Centro, ma, adesso, le urla di Lucia e l'assenza di Simon rischiavano di frantumare tutte le barriere di fede e sicurezza che Heliu si era costruito durante la sua permanenza in quel luogo.

Avendo ripreso fiato, si drizzò, prima di buttarsi contro la porta antincendio e aprirla con una spallata; bastarono una ventina di passi per accedere all'ala in cui sorgeva la piccola chiesa di Filadelfia: una struttura minuta ma dai contorni semplici e lineari che seguiva la scia della tradizione francescana di una chiesa povera ma piena d'amore.

La porta di legno scuro era liscia e umidiccia al tocco di Heliu che avvertì di colpo il freddo e l'umidità intorpidire le mani nude e i piedi lividi; ma in quel momento niente aveva importanza se non Lucia.

Aprì la porta con il cigolio che riecheggiò all'interno dell'abside dove svettava la grande croce scura alle spalle del pulpito vestito solo di un candido tessuto di lino. Quel luogo bisunto di spiritualità, tanto era il silenzio e l'oscurità che la ornavano, non gli permise di scorgere subito la figura di Lucia.

Si fermò al centro della piccola ed unica navata, mentre le poche fonti luminose erano solo quei sette candelabri posti a tre a tre lungo le pareti laterali, e l'ultimo era situato alla destra della croce.

Dove sei? si chiese voltandosi in ogni angolo, ma solo aguzzando lo sguardo verso il pavimento dell'abside riuscì a vederla priva di sensi e accasciata al suolo, tra il pulpito e la grande croce.

Così corse, incespicando nell'ultimo gradino prima di tirarla a sé, senza pensare a quale movimento dovesse compiere, trovandosi di fronte una giovane in preda alle convulsioni.

«Lucia...» la chiamò, premendo le labbra alla sua fronte gelida e imperlata di sudore; la stringeva a sé quasi a volerle trasmettere un calore che lei aveva perso, per chissà quale oscura ragione.

La cullò, pregando e ascoltando la voce di Lucia che pronunciava parole di una lingua che lui avrebbe potuto definire mediorientale e che saltuariamente pronunciava il nome del suo amico che lo aveva salvato molti anni prima: Joshua.

Lo stesso Joshua che in quel momento sorrideva ad una donna sconosciuta, dagli occhi cerulei come il cielo e le labbra rosse come due fiamme pronte a ghermire qualsiasi parte del suo corpo avessero toccato o solo sfiorato. Lo stesso Joshua che chiedeva a quella donna di ballare, avvicinandosi all'orecchio, solleticando la pelle con il suo calore.

Ma Heliu ancora non aveva nemmeno idea che il suo amato Simon stesse passando una notte insonne in quella brandina di bianche lenzuola stirate e adagiate ad un corpo rigido, di chi fissa una porta da cui attende l'arrivo del figlio, mentre lacrime scorrono verso il mento barbuto.

«Ancora ricordo quella notte in cui, svegliato dalle stesse urla, di una Lucia appena diciassettenne, aprivo lievemente la porta e ti vedevo sbiancato, correre verso la sua stanza poco distante dalla mia. Ti avevo seguito e mi ero avvicinato.

Ti ponevi su un ginocchio, e le prendevi la mano, poggiandola sulle labbra, mentre lei sobbalzava sul letto, vittima delle convulsioni notturne che si erano manifestate per la prima volta.»

«Mi aveva chiamato Gilbert...»

«Sì, lo ricordo ancora dritto ai piedi del letto, mentre il suo animo lo portava a mordersi le labbra convulsamente, e a stringersi le braccia al petto, prima di uscire fuori dalla stanza e scivolare lungo la parete per sedersi sul pavimento e le mani sul viso.»

«In quel momento un padre non sa cosa fare. Anche un medico, a volte, crolla. Soprattutto di fronte alla potenza di Dio.»

Lucia era adagiata sulle candide lenzuola di un lettino del pronto soccorso del Grande Ospedale di Filadelfia, in cui era stato medicato Simon, che se l'era cavata con una fasciatura nel busto che gli imponeva di rimanere dritto per non lacerare ulteriormente la parte lesa.

Conoscevano tutti Padre Simon in quel reparto, l'avevano sentito pregare tutta la notte, e alla fine, l'avevano visto alzarsi da solo, e andare verso l'uscita, correndo incontro alla barella in cui Lucia giaceva inerme, accompagnata dal padre Gilbert e dal giovane Heliu, ancora sotto shock.

L'aveva abbracciato, e lui, lui era crollato bagnandogli la camicia di lacrime, e stringendolo aveva singhiozzato facendo vibrare le spalle vistosamente.

Era stato forte Heliu, nonostante avesse dovuto rivivere la perdita di qualcuno di importante; si era affidato alla preghiera e quando aveva visto le iridi verdi della giovane stretta tra le sue braccia, le aveva sorriso; poi, nel vedere la curvatura delle sue labbra livide e il colore delle sue gote diventare rosee le aveva riservato un dolcissimo e lievissimo bacio in quella fronte rigata da sudore freddo.

Subito dopo, però, Lucia lasciò andare il capo all'indietro, priva di sensi. Heliu si era messo a urlare così ferocemente che, in pochi minuti, Gilbert aveva fatto il suo ingresso nella chiesa, illuminando l'ambiente delle prime luci dell'alba.

«Joshua non è rientrato stanotte...» disse poi, scrutando il volto roseo e l'espressione distesa di Lucia che, in quel momento, muoveva lo sterno in movimenti regolari, all'interno di quel maglioncino di filo beige, grazie alle continue preghiere di Simon e al palmo posto sulla bionda chioma di lei.

«L'avevi mandato da qualche parte?» aggiunse Heliu, provocando un tremito in Simon che fissava un punto imprecisato nel vuoto oltre l'ampia finestra di quella stanza d'ospedale, dalle pareti grigie e dal mobilio essenziale, mentre Gilbert dormiva profondamente, seduto su una sedia con il capo sulle braccia, ai piedi del letto.

Solo dopo qualche minuto di silenzio, Heliu vide Simon girargli le spalle per dirigersi verso la porta.

«Io non l'ho mandato da nessuna parte.» C'era così tanto astio in quelle poche parole, che Simon non riuscì ad aggiungere altro, mentre un senso di vuoto riempiva lo stomaco.

«Dove vai?» domandò Heliu, sbarrando gli occhi, vedendolo uscire dalla stanza.

«Firmo le dimissioni.» rispose l'altro, aprendo la porta e uscendo subito dopo, lasciando Heliu sempre più perplesso: avrebbe voluto fargli tante domande su quella notte dai così tanti risvolti negativi, ma sapeva che, prima o poi, la verità l'avrebbe scoperta, nonostante l'assenza di Joshua gli provocasse fitte alle tempie di chi non aveva avuto la sua presenza di un amico in un momento tanto delicato.

Delicato, come le lacrime che scorrevano dagli occhi serrati di una Ariel ormai abbandonata ad un sonno disturbato da strani sogni che si confondevano con la realtà vissuta poco prima di ritrovarsi nel suo letto, trasportata lì dalla forza dello spirito e del tempo.

Lei che quella notte si era proposta di estorcere qualche risposta dai due membri del gruppo Lucifer, li aveva pedinati fino alla spiaggia, oltre il Lungomare cittadino, mentre una candida luna illuminava il mare nero come pece.

Si era avvicinata abbastanza da ascoltare la loro conversazione, nascosta dietro una delle palme che ornavano quel lido.

«Tu hai mai visto un leone che segue un lupo?» sentì domandare Judas ad Acab.

«No, padre.» aveva risposto lui.

«Bene, perché ne hai uno proprio alla tue spalle.»

Quell'affermazione l'aveva colpita dritta allo stomaco come un pugno ben assestato.

Mi hanno scoperta!

Si strinse così tanto alla palma dietro cui era nascosta che sentì un angolo della corteccia conficcarsi nella nuca.

«Ma non sembra pericoloso...» commentò Acab, facendo scricchiolare il brecciolino con le suole, mentre seguiva il padre verso il bagnasciuga e fissando la minuta figura di Ariel cercare di nascondersi.

«Ancora non lo sappiamo con precisione. Il suo cuore lo conosce solo Colui che non possiamo nominare.»

Acab la osservò sottecchi sporgersi oltre il tronco per poi tornare a nascondersi.

Che stupida... rise a quella curiosità che si faceva spazio nella sua mente e nelle sue viscere: perché mai un anima che l'aveva rifiutato di fronte ad altre persone, annientando il suo orgoglio di alto membro del gruppo Lucifer, lo stava seguendo nonostante tutto? Cosa frullava in quella mente così ingenua?

Mentre nel suo animo, solitamente pregno di indifferenza, si agitavano questi interrogativi, la voce di Ariel lo spiazzò come una fiamma all'altezza dello stomaco.

«Allora,» li incalzò, sbucando da dietro la pianta, «volete smetterla di parlare di me come se non sapeste che vi sto ascoltando?» con un coraggio scaturito forse dalla stanchezza o più verosimilmente dall'incoscienza.

Acab la fissò con occhi sbarrati e un sorriso misto tra il compiaciuto e il piacevolmente sorpreso. «Sei tu, quella che ci ha seguito.»

I due membri del gruppo Lucifer avevano ormai raggiunto la rena grigia che si estendeva lungo tutto il litorale cittadino e si erano fermati poco prima che i flutti bagnassero le loro lucide scarpe nere.

Judas la scrutò e fece qualche passo verso di lei, strofinando i palmi con fare indagatore.

D'un tratto, lei non si sentì poi tanto sicura di voler parlare con colui che le aveva fatto del male, e fissandolo negli occhi cerulei, contornati dai capelli neri e il volto pallido, impiegò qualche secondo per rispondere, realizzando di aver di fronte qualcuno che non si faceva scrupoli ad uccidere una persona a mani nude.

«S...Sì,» balbettò. «Perché voglio sapere, una volta e per tutte, cosa significano questi nomignoli, queste allegorie e...»

Ariel si bloccò a osservare un raggio di luna che oltrepassava una nube grigia per solleticare l'acqua del mare, che, ai piedi ormai nudi di Judas, stava formando un vortice schiumante e zampillante.

«Continua cara, sto solo aprendo un varco spirituale per entrare nel nostro mondo». Judas era di spalle, con il braccio teso verso le acque. Pronunciava parole incomprensibili, dal suono cupo e terribile. Ariel sentì che l'oscurità che avvolgeva i cieli stava materializzandosi proprio in quel luogo; non era una tenebra naturale, come la placida notte contornata di stelle, ma un buio freddo, glaciale, che la svuotò.

«Vedi, Leone di Dio...» Judas aveva rivolto lo sguardo verso di lei e aveva iniziato a raggiungerla a passo lento, sfregandosi le mani come a levare qualcosa da esse. «Noi non facciamo parte di quel Regno della luce e della verità, quindi come potremmo farti conoscere qualcosa che noi custodiamo gelosamente da millenni?»

Quando Judas lanciò uno sguardo al figlio, si accorse che la stava osservando con la curva di un sorriso che, a parer suo, non si addiceva per nulla a uno del suo calibro.

Poi rifletté grattandosi il mento, e come se gli fosse balenata una rivelazione proseguì rivolgendole lo stesso sorriso: «A meno che...»

Ariel guardava incessantemente quel vortice alle spalle dei due e si sentì come risucchiata da quel mondo oscuro. Avrebbe voluto avere con sé Joshua; avrebbe voluto vicino Lucia; avrebbe voluto avere accanto un mandato.

Poi, come arresa alla possibilità di essere ormai in catene, sostenne lo sguardo di Judas con occhi accigliati. «Continua» gli intimò.

«A meno che tu non voglia farne parte.»

Acab continuò il pensiero del padre, guadagnandosi la sua occhiata fulminea quando anche il vento aveva cessato di ululare.

«Sai, per un periodo sono stato un fedele seguace del Pastore Peter,» confidò Judas. «Un uomo distinto, autorevole, dai bianchi capelli e candida barba, che ricorda tanto quegli affreschi raffiguranti il Dio che gli uomini pensano di conoscere.»

«E' molto strano che escano dalla tua bocca queste parole» lo interruppe Ariel.

«Come osi parlare così al Capo dei Lucifer, ragazzina?» La domanda di Acab era stato uno schiaffo in pieno viso; il tono aspro la fece sentire piccola e impotente. «Pensa a guardarti la pelle, Ariel.» Poi, il suo nome, ben scandito, seguito all'irrigidimento di muscoli dell'interlocutore fu la goccia che fece traboccare il vaso pieno di incertezza che si era portata sulle spalle fino a quel momento.

«Signor Judas, perché mi sta dicendo questo?»

Quella domanda pronunciata da un tono umile e sommesso mosse qualcosa perfino in Acab che ispirando, chiuse gli occhi, in ascolto della risposta di Judas.

«Signorina Ariel, quello che non sa il mandato della chiesa di Filadelfia è che, prima di frequentare la sua mogliettina, ho frequentato gli studi biblici del pastore Peter come un normale confratello. Quel che mi ha affascinato di più delle sue lezioni è stato l'argomento riguardante il Leone della tribù di Giuda.»

Ariel ascoltò con sopracciglia aggrottate.

«Secondo lui,» continuò, le braccia dietro la schiena. «Colui che non deve essere nominato è figurativamente e spiritualmente un Leone contro i demoni e così lo sono tutti quelli che credono in Lui. Tuttavia, nel nostro mondo, noi crediamo e veneriamo un solo Signore di lupi che gira in cerca di di pecore smarrite» concluse, dirigendosi verso il vortice d'acqua, e, inaspettatamente, immergendosi come se stesse scendendo dei gradini.

«A te, diamo la possibilità di scegliere se essere un leone di Dio o un lupo rapace.» aggiunse Acab, prima di girare le spalle.

«Se Colui che non può essere nominato è Gesù Cristo di cui non hai potuto sentire il suono del suo nome, come potrei scegliere di essere un lupo pavido come te, Acab

La ragazza volle guardarlo negli occhi un'ultima volta, prima di prendere la strada che la sua anima aveva già deciso di percorrere. E il ragazzo lo fece, si girò verso di lei, e, guardando oltre la testa della giovane, si fece illuminare lo sguardo da un candore che ormai stava avvolgendo tutto il lido in cui si erano incontrati.

Ariel vedendo quella strana luce sul viso di Acab, pensò che fosse sopraggiunta l'alba.

«Dimmi solo cosa sei e di me non ne sentirai più parlare.» proferì lei.

«Dovrei essere colui che ti porta alla perdizione, ma...» fece per continuare, ma il corpo ebbe un fremito, e deglutì vistosamente prima di continuare: «Con quelli lì, adesso, non ci penso proprio!»

 

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Capitolo 15
*** ADDIO ***


La ragazza si sentì improvvisamente avvolgere da un calore che la stringeva come una soffice coperta, mentre la sua ombra si allungava davanti ai suoi occhi, percorrendo le piccole dune della sabbia fino a sfiorare la battigia in cui si era fermato Acab. Lui aveva iniziato ad inspirare ed espirare muovendo lo sterno vistosamente perchè ne aveva solo sentito parlare da chi, negli alti piani del suo mondo, si beffava di loro e delle loro capacità. Tuttavia, chi ne parlava, ritornava sempre a parlarne a fatica, come quando un cane viene bastonato e, al solo ricordo dell'esperienza vissuta, trema e impallidisce.

Non avrebbe mai creduto di avere l'opportunità di vederli con i suoi occhi e così da vicino. Tra i membri del gruppo Lucifer si vociferava che quegli esseri avessero il potere di tenere legato il loro Signore Oscuro per mille anni.

Voci, dicerie... si disse mentre le gambe tremavano e il suo cuore pompava timore e riverenza. Ed era solo luce incandescente quella che Acab stava ammirando, mentre lentamente posava lo sguardo su quella ragazza che, ancora, non aveva realizzato quanto, rispetto a lui, fosse fortunata.

E mentre gli occhi di Ariel ricambiavano il suo sguardo, fissando il volto sconvolto dell'adepto si irrigidì alla vista di raggi di luce incandescenti che le attraversavano il corpo.

Quel calore e quella luce le attraversava la pelle, mostrandole i vasi sanguigni come linfa candida. Fu così che, sbarrando gli occhi, ed emettendo un lieve gemito, percepì una fitta allo stomaco, mentre il cuore tamburellava vivacemente nello sterno.

Acab le diede le spalle per riaprire quel varco che il padre aveva rinchiuso con un gesto deciso del braccio sinistro. Judas era scomparso immerso nell'oscurità delle acque di quel mare nero.

«Sai, è strano» iniziò a dirle, facendola sobbalzare, immersa com'era nel guardarsi le braccia e i palmi delle mani in cui scorreva quella linfa luminescente, «benché tu non abbia ancora scelto definitivamente a quale Regno appartenere, loro tre sono già qui» rivolgendole uno sguardo che Ariel fece fatica ad interpretare. «Adesso sei nelle Sue mani» rifletté .

Fu in quel momento che Ariel rivolse lentamente lo sguardo dietro di sé, preparando la mente, il cuore e l'anima alla vista di qualcosa che aveva fatto fuggire i maestri dell'ombra.

Poco prima di fissare lo sguardo verso quelle figure tenne la testa bassa a contemplare i granuli di sabbia diventare oro. Alla fine si fece coraggio, inspirando profondamente pose la mano sulla fronte a coprire gli gli occhi come se stesse fissando il sole in pieno mezzogiorno.

Erano tre colonne di luce che si scagliavano verso il cielo nero, imponenti e maestosi, luminosi come il sole; fiamme nei loro sguardi, come saette provenienti dalle stelle; corpi possenti come alberi di pini sfioranti il cielo, figure incandescenti di una luce propria, candida e spettrale; pronunciavano parole sconosciute con armonico suono: parole di donne e di uomini.

Ariel era in preda ad un tremito incessante e mentre ascoltava il dolce e ineffabile suono di quelle voci serafiche, pensò di essere in un altro mondo, un mondo da cui sarebbe stato difficile decidere di tornare indietro. Cercando di comprendere dove si trovasse e pensando di essere incosciente, la ragazza si inebriava di dolci profumi e colori brillanti, mentre quelle voci erano una miscela di sinfonie e parole arcane.

Ariel non riuscì a reggere alla meraviglia che le si era manifestata, tanto che, alzando il mento a scorgere la fine delle loro figure, sentì la testa così pesante da farla crollare in ginocchio sul morbido suolo sabbioso e umidiccio.

Una di quelle figure le si avvicinò e lei, già sbiancata e tremante, scosse la testa più e più volte, fin quando l'essere le si accostò in figura d'uomo per dirle qualcosa.

«Non temere Leone di Dio, Egli ci manda a proteggervi» ombre sottili si delinearono in quel volto dai tratti umani e dal sorriso innaturale.

La sua voce, simile a quella di un bambino, ma autorevole come un condottiero, la fece indietreggiare lentamente e portare la mano davanti a sé, pronta a proteggersi dall'ignoto ma, al tempo stesso, per sfiorare l'essenza; quando l'alato allungò l'arto candido verso le falangi della giovane, ella ne avvertì un bruciore dolce e il formicolio di una scossa, ma la consistenza di una pelle simile alla sua la fece trasalire.

L'essere di fronte a lei era un ragazzo, dal volto pallido come la luna e i lunghi capelli albini, che ricadevano sulle spalle coperte da una tunica chiara, senza maniche, su dei pantaloni del medesimo colore e di un tessuto così leggero da esser riconducibile al cotone o al lino.

Con il cuore che le arrivava in gola, non riuscì ad emettere suono quando gli altri due alati si manifestarono nella forma simile al loro compagno: ragazzi dai volti femminei e il corpo scultoreo.

Ariel, a quel punto, riuscì ad articolare solo poche parole: «B... Basta...» balbettó, quasi singhiozzando e stringendo i denti «Ba...Basta così.» ripetè visibilmente provata da quell'esperienza.

Ne aveva abbastanza. Il suoi occhi scettici avevano visto abbastanza.

Si sentì collassare e, di lì a poco, si sarebbe accasciata al suolo. Ma, prima di abbandonarsi al sonno, ebbe il coraggio e l'ardire di pronunciare un'ultima frase: «Dite al vostr...nostr...a Lui... che mi arrendo.» Si lasciò cadere tra le braccia di quell'essere che, spalancando le ali, l'avrebbe ricondotta a casa.

***

«Gabriel...Michael...Rafael...»

Heliu si svegliò, sentendo pronunciare quei nomi da una Lucia dormiente; le toccò la fronte pensando che le fosse salita una febbre improvvisa, ma la freschezza e il placido sorriso della giovane gli trasmisero tranquillità. A quel punto si convinse del fatto che il Creatore le avesse rivelato qualcosa di lieto, mentre al Centro di Aggregazione Joshua stava per incontrarsi con Simon.

Era entrato nel suo studio, aprendo la porta solo sfiorandola e facendola sbattere contro il muro in maniera del tutto innaturale. Il colorito del suo volto era candido e gli occhi, ora spenti e lucidi, erano contornati da un cerchio scuro di chi aveva pianto e aveva passato la notte insonne.

Ansimante e quasi privo di forze, si era accasciato sulla poltrona di fronte a Simon che aveva osservato tutta la scena con un volto scuro e accigliato, di chi, a suo malincuore, aveva compreso tutto. E fin nei minimi dettagli.

«Dove sei stato, Joshua?»

Simon o fissò stringendo le labbra dietro la folta barba, serrando la mascella con i pugni chiusi e stretti lungo i fianchi. In piedi dietro la scrivania, ripercorreva i ricordi di quel ragazzo che con poche parole faceva innamorare tutte le sue coetanee e fedeli sorelle di fede, che non avevano mai avuto alcuna chance con chi aveva deciso di votarsi di propria volontà al celibato per essere un grande nel Regno dei Cieli dopo l'esperienza con Evelyn.

Un ragazzo che, stupidamente, aveva frainteso una naturale propensione alla sola cura dello spirito con una decisione forzata e sciocca, che lo aveva portato a rinunciare più volte al dono di una ragazza quale compagna di vita, senza comprendere che una donna accanto sarebbe stata una elevazione e un motivo in più per comprovare la sua fedeltà a Dio e al suo Regno, mai come in quel momento, combattuto fin dalle fondamenta.

L'aveva pregato, l'aveva invitato a desistere da quella decisione più e più volte, ma il suo orgoglio sfioravano la tracotanza di chi si era scelto una propria via, lontana da quella mostrata da suo Padre. Non gli aveva più creduto, da allora.

«Tu sei il mandato... Tu conosci ogni cosa» gli rispose con sguardo truce.

La mente di Simon ritornò a quella notte di pioggia in cui l'aveva salvato dalla stessa situazione in cui si trovava in quel momento, mentre, osservandolo ansimare in quella poltrona di pelle marroncina, il cuore saltava e schiacciava lo stomaco in fitte di dolore infuocate di rabbia e rimorso.

Poi si sedette, lentamente, continuando a fissarlo e poggiando i gomiti sulla scrivania intrecciò le mani e se le poggiò sulle labbra barbute. «E ci credi veramente al mio mandato

La testa di Joshua, che per tutto il tempo era rimasta piegata da un lato e con lo sguardo fisso al soffitto, ricadde verso il basso, come se si fosse risvegliato da un sogno tormentato.

«Tu chi credi che sia il mandato?» continuò a domandargli Simon, pregando di risvegliarlo dal suo stato di incoscienza solo col potere della Parola dell'Angelo della Chiesa di Filadelfia.

«L'unto di Dio...» ispirò. «Colui che incarna la Sua Parola; la bocca e il braccio di Dio. Gesù Cristo sulla terra.» rispose quasi farfugliando quelle parole che risiedevano nella sua memoria, come una preghiera recitata al mattino.

Simon battè le mani, con una smorfia di disapprovazione: «Tutto molto bello, se solo fosse anche nel tuo cuore» con la consapevolezza di avere davanti un ologramma al posto del figlio che aveva cresciuto.

«Lo è. Altrimenti non sarei qui.» Lo sguardo vivo e il tono deciso di Joshua fecero sbarrare gli occhi nocciola di Simon, che, con un lieve sorriso, posò la schiena nella sua poltrona girevole.

«Però hai abbandonato la verità, Joshua. Perché non mi hai detto nulla e ti sei tormentato l'animo? Non ci sarebbe stato niente di male nell'amare una ragazza bisognosa di affetto.»

«A chi ti riferisci?»

«Non dubito certo che questa notte tu l'abbia passato da solo, ma mi riferisco ad Ariel.» Joshua era tornato improvvisamente in sé. Deglutì per mandare giù la nausea, i gomiti sulle ginocchia e le mani a coprire il viso.

«Diciamo che non pensavo avessi bisogno di lei» si rialzò con viso imperlato di sudore.

«Quindi tu ami solo coloro di cui hai bisogno.»

«Io volevo diventare un tuo ministro e lei mi sarebbe stata di inciampo.»

«Il tuo ragionamento non ha nulla a che vedere con i pensieri del Padre Celeste e io mi sento terribilmente colpevole di averti lasciato solo...»

«Solo?» ripetè Joshua, insofferente.

«Quando mi chiamasti prima di andare a casa di Ariel, era chiaro che temessi che succedesse qualcosa, ma io ho avuto fiducia in te, solo che, poi, non mi hai confidato nulla. Ho atteso, invano.»

«Non è successo nulla quel giorno... E lei oggi non c'entra niente.»

«Non cercare di sviare l'attenzione da quanto è accaduto. Non sono solo l'Angelo di questa Chiesa, Joshua. Sono tuo padre.»

«Mio padre non mi avrebbe mai chiesto di perdonare un lurido verme come Acab!» Joshua alzò la voce protendendosi verso la scrivania, stringendo convulsamente i braccioli con le mani tremanti.

«Al tuo padre carnale non importava il tuo perdono o il tuo benessere!» rispose di rimando Simon, alterando il tono della voce e mostrando rossore in viso, battè i palmi contro la scrivania.

«Il mio benessere era anche avere una vita fuori di qui.» rivelò lui, indifferente.

«E chi ti ha mai impedito di andare a trastullarti con chicchessia, eh? Sei sempre stato tu a seguirmi in ogni dove, tanto che io ho sempre dovuto fermarti. Io. Io, Joshua ti ho salvato la vita da quel mondo fuori di qui. Pensavo davvero che tu fossi il mio Timoteo*, ma evidentemente il tuo orgoglio è rimasto sempre recondito. Hai agito carnalmente, per tutto questo tempo...»

Joshua rivolse lo sguardo verso la porta di legno grezzo di tinta chiara e poi alla foto del predecessore di Simon posta su una mensola al lato destro del controtelaio; in quel momento, avvertì un peso sul cuore mentre gli occhi grigi di Peter sembrava che lo stessero osservando dentro, indagando nelle aree più cupe del suo cuore.

«Dov'è Ariel, adesso?»

Joshua aveva sentito dei passi oltre la porta; dei passi insicuri che si bloccavano non appena i due avevano iniziato ad alzare il tono della voce.

Qualcosa gli suggerì che la ragazza fosse lì ad ascoltare la conversazione; qualcosa come se un briciolo di colpa fosse riaffiorata dentro il suo animo e sentisse il bisogno di rimediare al modo in cui si erano lasciati.

«Non ti importa più nulla della mia parola, vedo...» Soggiunse Simon, interferendo con i suoi pensieri.

«Vorrei solo salutarti al più presto, per rendere meno doloroso il mio addio.»

A quelle parole, Simon sentì un bruciore nel petto così forte che dovette imprimere il palmo della mano destra contro il suo cuore, come se anch'esso, insieme a Joshua, rompesse la protezione dello sterno e uscisse fuori da lui. Per sempre.

Era stato come un padre. Suo padre. Non un padre spirituale qualsiasi. Un padre vero, reale.

Era stato il pastore Peter a mostrargli quel modello di vita. Essere padre di figli spirituali era doloroso e gratificante al tempo stesso; lo stesso cuore di Peter non aveva retto a tante sofferenze.

Stava succedendo come quando Judas si era fatto amare da Peter come un figlio, e quello gli aveva donato se stesso e la sua stessa vita, per poi essere abbandonato e ucciso nel buio che solo i Lucifer sapevano creare. Judas lo lasciò, portando con sé la moglie di Simon e un terzo dei fedeli della chiesa di Filadelfia.

Ma Joshua no, non poteva essere così anche lui. Non proprio tu che porti il Suo Nome...

«Joshua...» Un respiro profondo. «Io vorrei solo lasciarti un ultimo messaggio» e lo fissò, cercando i suoi occhi verdi per guardarli con l'amore di un padre, per l'ultima volta. «Ma, a questo punto, devo chiederti il permesso. Posso?»

«Sì» le iridi verdi e lucide.

E gli fece male. Un grave male nel petto. «Sai il significato del tuo nome?»

«Sì...» indugiò, come se quel nome gli costasse fatica. «Gesù...»

Simon si voltò di spalle, stringendo convulsamente con le dita le mensole della libreria che sormontavano la scrivania e tentò invano di ricacciare indietro un nodo in gola, aggrovigliato di memorie e affetto.

«... Sai quello che ha passato prima della croce? Te lo ricordi?»

«Il tradimento di Giuda, quello di Pietro, il carcere, le frustate...»

«L'ha scelto lui?»

«No...» rispose Joshua prima di alzarsi e dirigersi verso la porta. «E sì...» Portandosi il cappuccio della felpa nera sul capo fin a coprire lo sguardo, continuò: «sta scritto che ha fatto la volontà di Colui che l'ha mandato

«E perché?» Simon continuò a osservare i libri impolverati di quella libreria mentre pian piano diventavano sfocati.

«Per adempiere alla missione di cui portava il Nome.»

Un lungo sospiro mentre stringeva la maniglia della porta così forte da far diventare visibili le nocche della mano. «O almeno, questo è quello che mi hai sempre insegnato tu...» concluse, indugiando.

«Dimmi solo un'ultima cosa, poi potrai lasciarmi... »

Joshua attese, mentre le mani gli tremavano.

«Cos'è il nome di Gesù Cristo, per te?»

«Il segreto per la salvezza delle anime.» Disse di fretta, prima di aprire la porta e andare via da quello studio, che lo aveva fatto dubitare. «Addio Simon...» aveva sussurrato, correndo fuori.

«A... A...Dio...» aveva pianto, Simon.

***

Così se ne andò, lasciando alle sue spalle le lacrime di Simon e Ariel, che per tutto il tempo era rimasta ad ascoltare la conversazione, attaccata al muro che dava sulle scale.

L'aveva visto aprire la porta con ferocia e poco mancò che le arrivasse addosso. Lo vide poi fuggire giù, col viso coperto dal cappuccio di quella felpa nera. Fu sicuramente quello il motivo per cui non l'aveva scorta dietro l'angolo.

Quando si spostò da quell'angolo per mostrarsi a Simon, lo vide singhiozzare piegato su una delle mensole della libreria, chiedendo al Cielo pietà per Joshua.

Quella visione la turbò più di quanto non avesse fatto la fuga di Joshua, perché Simon le era apparso come una roccia, un faro, una via. Ora sembrava che nemmeno lui potesse fare nulla per cambiare il corso degli eventi innescati dal ragazzo.

Non seppe se attendere sull'uscio dello studio o lasciarlo giustamente nella solitudine della tristezza, ma lui le rispose senza sapere -apparentemente- cosa lei stesse pensando: «Ariel... Vai da lui!»

Era successo anche quella mattina.

Di quella notte passata a seguire Acab, Ariel non ricordava altro se non l'essere crollata sull'umido manto sabbioso. Tutto il resto, per lei, era stato solo un sogno.

Svegliata dalla luce prepotente del sole che si incanalava nelle fessure della serranda della sua camera, riuscì a stento a prendere il cellulare per vedere l'orario.

L'orologio segnava le ore 12.00 e il display era coperto da numerose notifiche di chiamata di Heliu e di Simon. Ma non di Lucia.

«Mio Dio...» riuscì a dire con voce rauca, mentre le palpebre facevano fatica a scollarsi e gli arti intorpiditi non le consentirono una rapida discesa dal letto.

Si stiracchiò, avvertendo l'ingombro di qualcosa che non era di certo il suo amato pigiama, e scostando le coperte si vide interamente vestita degli abiti della sera prima, compresi gli anfibi.

Quindi si mise seduta e ispezionò la sua camera quasi come se non la ricordasse più.

La scrivania posta di fronte al letto era in ordine con solo un paio di libri universitari posti di lato alla piccola TV.

L'armadio era aperto e si scorgeva la borsa a tracolla posta all'interno. «Ma che...?» con aria interrogativa si avvicinò all'anta dell'armadio, considerando che lei non avrebbe mai posto lì la sua borsa. Solitamente lei la posava ai piedi del letto.

Poi un flash.

Si vide portata sulle braccia di un essere alato che la adagiava sul letto sfatto e la copriva, mentre un altro poneva la borsa all'interno dell'armadio.

«Okay...» disse, strabuzzando gli occhi e chiudendo lentamente l'anta dell'armadio. «Devi farti vedere da qualcuno, Ariel. Ma uno bravo.»

Era come se nulla fosse accaduto, se non ché, i ricordi riaffiorati le facevano palpitare il cuore di un turbamento viscerale, mentre scendeva gli scalini per dirigersi in cucina. Quindi si fermò, posandosi con la spalla sull'architrave dell'ingresso constatando che non aveva ricevuto alcuna chiamata di Lucia e che, se a chiamarla erano stati solo Heliu e Simon, sicuramente, le era successo qualcosa.

Così, fece per aprire la porta, e, anche in quel momento, si accorse di non aver chiuso la porta dall'interno, ma che la stessa era chiusa solo dall'esterno, come se lei non fosse mai entrata dall'uscio di casa.

Quindi avvertì una fitta allo stomaco e iniziò a muovere lo sterno concitatamente, mentre, ponendosi il dorso della mano sulle labbra, il viso le si rigava di lacrime e tremante camminò all'indietro, fissando l'ingresso fino a quando i ricordi le annebbiarono la mente; ricordi di una creatura alata che oltrepassava la parete del balcone della sua camera, tenendola tra le braccia.

Incespicò nell'ultimo gradino della scala che portava alla sua stanza e, vi si sedette, singhiozzando.

«Quindi...» balbettò. «È... È tutto vero! È tutto vero!»

Si rimise in piedi e corse su per le scale quasi carponi, desiderando di vedere solo una persona: Simon.

Gli voleva parlare, lo voleva ascoltare, gli avrebbe voluto raccontare tutto, ma il pensiero di Lucia la bloccò al centro della sua stanza.

Si sentiva confusa, insicura, debole e incapace di trovare una via d'uscita al turbinio dei suoi pensieri.

«Oh Dio!» Esclamò con le falangi tra capelli aggrovigliati e il viso rigato di lacrime secche, mentre cercava di elemosinare ossigeno respirando convulsamente.

«Cosa devo fare?! Dimmi cosa devo fare!» urlò in preda ad una crisi di panico scaturita dalle incertezze e fiumi di dubbi che le inondavano la mente.

Poi, il suono familiare del telefono la fece rinsavire.

«Pronto, Ariel?» La voce di Simon.

Per Ariel fu come quando un neonato impara a respirare dando sfogo al pianto. Fu così che Ariel accolse quella chiamata, in lacrime di gioia e commozione.

Le aveva detto quel che era successo a Lucia e che ciò derivava dai vari cambiamenti che stava subendo la Chiesa dopo l'allontanamento di Joshua. La rassicurò del fatto che le avrebbe spiegato tutto una volta arrivata al Centro di Aggregazione.

Fu così che, dopo una lunga doccia calda e un boccone di pane e marmellata, si era diretta alla fermata dell'autobus con uno sguardo ridente e delle lievi fitte alla bocca dello stomaco che non accennavano a diminuire; forse per l'agitazione e l'emozione di voler raccontare tutto quel che aveva visto, forse per il moto fluido del suo animo che adesso sapeva cosa fare della sua vita.

Tuttavia quella gioia era sfumata non appena aveva intravisto Joshua tra i passeggeri del bus: un ragazzo dal volto pallido e le profonde occhiaie, in uno stato di semi incoscienza.

Fu così che lo seguì fino al Centro, facendo bene attenzione a non farsi notare, camminando lentamente e aumentando la distanza da quel ragazzo che faceva fatica a stare in piedi.

L'aveva seguito fino all'ingresso del cortile, posizionandosi dietro un'aiuola di ortensie, mentre un suono metallico segnava l'apertura del cancello grigio.

Lì attese un paio di minuti prima di entrare e, senza incrociare lo sguardo di nessuno, si diresse su per le scale, salendo fino al terzo piano, quello riservato allo studio di Simon, al suo alloggio e altre stanze.

Mentre saliva l'ultima rampa di scalini marmorei, sentì i loro toni accesi e si fiondò dietro la porta.

***

«Che ci fai qui?»

In quel momento era di spalle, poco lontano dalla porta che dava sul cortile e dove alla sua sinistra si trovava quel divanetto in cui era stato posato da Simon la sera della sua salvezza.

Era un po' ingiallito dal tempo, ma Joshua lo fissò intensamente prima di rivolgere un'altra domanda alla ragazza che si era fermata poco prima di sbattere il viso contro le sue spalle, tanto era stata la foga della corsa. «Ti ha mandato lui, non è vero?»

La ragazza faticò a rispondere, realizzando solo in quel momento di avere quell'unica occasione di dire tutto quel che avrebbe voluto, ma in un tempo tanto breve da non riuscire a farle formulare le solite frasi ad effetto di cui, in precedenti occasioni, era ben fornita.

Si limitò ad osservarlo abbassare il cappuccio della felpa mentre il respiro si accelerava nel petto.

«La prendo come un affermazione» aggiunse, roteando tutto il busto verso di lei, che lo guardava con occhi smarriti. «Avrei dovuto essere il tuo angelo custode...» proseguì, facendo un passo verso di lei. «Avrei dovuto curare la tua anima con la Sua Parola. Invece, mi sono ritrovato l'anima avvinghiata alla tua come in una morsa.»

«Cosa stai dicendo, Joshua?»

La voce tremante, come se quelle parole l'avessero accoltellata in pieno petto.

Lui non le rispose, limitandosi ad annuire un paio di volte per dirigersi nuovamente verso la porta.

«Aspetta!»

Gli aveva urlato, tirandolo dal braccio proteso verso la maniglia.

Nell'incontro con i suoi occhi verdi, spalancati e sorpresi, Ariel si sentì sprofondare nell'incertezza di un sentimento che non poteva essere nato in pochi giorni. I ricordi di tutte quelle volte in cui li aveva incrociati precedentemente, correvano nella mente come la pellicola di un film. Un film con un orrendo finale. E lo fissò con le labbra schiuse come a voler dire qualcosa che non ebbe il tempo di pronunciare.

«Il Leone di Dio...» allungò la mano e prese il ciondolo della sua collana. Percorse il laccio di cuoio con le dita fino a sfiorare il collo, la guancia, le labbra, guardandola con disperazione, mentre il respiro rumoroso sapeva di rabbia.

Un battito di ciglia e le labbra di Joshua premettero su quelle di Ariel, impreparate al suo impeto.

Le dita affusolate le strinsero con timore i capelli bruni e lei poggiò con timore i palmi sul suo petto, avvertendo i battiti ritmici.

La baciò, imprimendole quella volontà in quella occasione mancata la sera del tè, a casa di lei.

Quando le si allontanò, con sguardo colmo di rammarico, ebbe il coraggio di dirle soltanto: «Non seguirmi questa volta.» In una carezza, le sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Addio, Ariel.»

Spalancò la porta e corse fuori, sotto l'acqua di novembre, sfocato negli occhi di Ariel, lontano dalla Chiesa di Filadelfia.

___________________________________

*TIMOTEO: Figlio spirituale di San Paolo a cui sono dedicate le sue Lettere nel Nuovo Testamento.
 

 

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Capitolo 16
*** UN PASSO INDIETRO: JOSHUA ***


Casa di Ariel, qualche giorno prima...

 

Quella sera, dopo aver varcato l'uscio di casa e averla lasciata lì, nel divano, a piangere per me, e dopo aver chiuso la sua porta alle mie spalle, non riuscì a staccare la mano da quella maniglia dorata, che, con un piccolo e dolce rintocco, se avessi voluto, mi avrebbe permesso di rientrare in casa sua, prendere il suo viso tra le mani e premere le mie labbra alle sue.

Avrei potuto, se avessi voluto.

Beh, no, non è esatto. Il fatto è che io avrei potuto, se Lui avesse voluto. Perché io lo volevo.

Mi ritrovai a stringere così forte quella maniglia da farmi diventare le nocche bianche, prima di lasciarla andare e voltarmi verso la strada deserta che divideva le nostre abitazioni.

Ma, anche in quel momento, non riuscì ad allontanarmi dalla sua proprietà per tornare a casa, rimanendo con le spalle ancora incollate al legno laccato della porta d'ingresso e il capo che ondeggiava figurando una negazione alla mia stessa persona.

Fu quando la sentii correre su per le scale che mi fiondai nella strada alla ricerca di un qualcosa che mi permettesse di sfogare la mia rabbia intrisa di rimorso.

Feci qualche passo verso la mia abitazione e mi fermai e, constatando che non c'era nessuno nei dintorni, intrecciai le mani a scompigliarmi i capelli, mosso da un forte bruciore all'altezza dello stomaco che faceva accelerare i miei battiti cardiaci e respirare velocemente.

E la rividi nei ricordi: senza trucco, con quella pettinatura semplice, immersa nella sua felpa, che nascondeva quel che la pioggia di qualche ora prima mi aveva rivelato bagnando interamente la sua camicia...

Mi guardai le nocche sanguinanti con una smorfia di dolore.

Avevo colpito il palo della luce situato a pochi metri da casa, con una forza pari alle forti sensazioni che il ricordo di quella pioggia mi richiamava.

Quando entrai in casa, mi fasciai malamente con qualche strato di carta assorbente che trovai in cucina, mentre nella testa mi frullavano solo queste parole:

«Padre...

Padre...

Perché mi hai abbandonato?

Io... io non voglio, non voglio pensarla. Non voglio sognarla stanotte.

Mi stai ascoltando?

Sono qui, adesso, mi vedi? Cosa dovrei fare?

Cedere al suo profumo, alle sue labbra e cadere, sprofondare nelle mie tenebre?

Ma perché non mi ascolti?

Perché non la allontani da me?

Perché la metti sul mio cammino?

Lo so, forse sto sbagliando tutto.

Ma, dopo tutto, aspetta, forse non sono io a sbagliare tutto, forse sei Tu...

Oh Dio, perdonami...

Dico solo che forse non avresti dovuto avvicinarla a me, forse non avresti dovuto far piovere su di noi!

Tu sai che ho intrapreso il Tuo cammino !

Tu sai che non ho guardato donna per questi cinque anni!

E, adesso, perché mi fai questo? Eh?

Sono un esperimento?

Un Tuo esperimento?

Io la voglio. Mi stai sentendo?

Non ti è riuscito questo esperimento, perché io la desidero!

Sono umano!

Non sono come Te!»

Mi ritrovai ad urlare quelle ultime frasi al mio Creatore, prima di abbandonarmi a delle gelide tenebre che, da allora, mi hanno condotto al luogo in cui mi stai vedendo adesso, nel buio di questo inferno.

 

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Capitolo 17
*** QUEL NOME ***


"Degli schiavi dominano su di noi
e non c'è chi ci liberi dalle loro mani "

(Lamentazioni 5,8)

"Nel mio Nome scacceranno i demoni."

(Gesù Cristo)

 

***

«Quel nome...

Sai, dovrebbe essere il semplice nome di un uomo vissuto nella Galilea intorno al 30 d.C.

Un semplice nome. Addirittura, un nome molto comune all'epoca.

Ma quel nome... quel nome, ogni volta, ogni singola volta, provocava in mio padre una furia disumana, incontrollata.

E non so, non so davvero perché.

Durante gli incontri nel retro del locale Lithium, dove solitamente si riuniva insieme ai membri del gruppo Lucifer, io dovevo rimanere nel bar. Avevo poco più di dieci anni, ma è un ricordo molto fumoso e indefinito, quasi come se lo vivessi dall'esterno del mio essere. Ma fa parte di me, ormai.

A volte, lo sentivo urlare e il barman, ormai addestrato a dovere, intimava il dj di turno di alzare il volume di quella musica assordante.

Non ho mai saputo cosa succedeva in quelle riunioni, se non quando vi partecipai per la prima volta.

Era la sera dove tutti festeggiano in strada mascherati, con una luna pallida e tonda. Avevo appena compiuto diciotto anni. Era la sera della mia iniziazione ed era da un anno passata quella di Lilith, mia sorella.

Ma quella sera era diversa: tutto dentro di me remava contro il loro volere, inspiegabilmente. Qualcosa, in me, voleva rimanere libero da quelle logiche, dai quei riti.

E l'ignoto era il mio più grande terrore.

Mia sorella non mi disse mai quel che era successo quella notte. So solo che, da allora, ella acquisì delle strane capacità: divenne più aggressiva, tormentata da incubi e orrende visioni, fino a quando mi mostrò il suo potere: trasfigurarsi fino a divenire uno spirito invisibile, capace di incarnarsi nell'animale da lei prediletto: il gatto.

"Potrai farlo pure tu, un giorno..." mi aveva predetto.

Ma io non ci volli credere.

Quella notte, dicevo, mentre la mia anima anelava la fuga da quel locale, un uomo, un cliente del bar, si alzò in piedi urlando come un generale che ordina ai suoi sottoposti di adempiere alle sue volontà; o almeno è così che lo avvertì il mio cuore.

E la sua volontà era di vedere ogni ginocchio piegato e ogni lingua confessare che... Quel Nome era il Signore.

E lo vidi, vidi la potenza di quel nome.

Tutti, uno per uno, gli adepti del gruppo si ritrovarono in ginocchio, senza però riuscire a pronunciare alcunché...» concluse Acab, fissando il vuoto, con sguardo assente, mentre i vari flashback gli provocavano tremori e pelle d'oca.

L'avevano messo di guardia quella sera.

La notte era inoltrata e non v'era luce in quel luogo, se non il lieve luccichio della sigaretta del giovane dai capelli corvini e gli occhi color zaffiro e un neon guasto che emanava luce intermittente.

Si trovava diversi metri sotto terra, appoggiato al muro di pietra sudicio di un viscidume indefinito, in un tunnel sotterraneo e dall'aria rarefatta, mentre il gelo dell'anima era più pungente di quello delle pareti.

«G... Gesù Cristo... vorrai dire... »

«Hai ancora fiato per parlare, tu?» rispose a quel giovane che gli dava le spalle, mostrando una schiena nuda lacerata da graffi e contusioni. L'avevano condotto lì la sera del primo novembre. Una sera piovosa e tremendamente umida.

«È già venuta mia sorella a darti il resto, o provvedo io?» lo provocò Acab, osservandolo da quel muro dirimpetto alla sua cella, gettando in terra il mozzicone di sigaretta.

Gli si avvicinò e, posando il gomito su uno dei ferri orizzontali di quella che sembrava una gabbia per uccelli, si piegò sulle ginocchia per guardarlo e parlargli più da vicino.

Le catene ai polsi del giovane partivano dai lati della struttura in ferro e facevano in modo da tenerlo in ginocchio e con le braccia aperte, mentre la testa andava di qua e di là, a penzoloni.

«Non parli più, eh? Figlio di Dio?» lo schernì, sputandogli ai piedi nudi. «Certo, è facile sentirsi Dio in terra quando c'è il pastore, non è vero... Joshua

«Tu... T... Tu che ne sai?»

«So abbastanza...» rispose, fissandolo con un ghigno, soddisfatto della situazione di quel ragazzo che si era creduto eletto e senza macchia alcuna.

«Dove l'hai lasciato il leoncino?»

La chiara allusione alla giovane Ariel, che Joshua aveva lasciato settimane prima nei cortili di Filadelfia, bastò a far vibrare le catene che lo reggevano, mentre i muscoli delle spalle davano degli spasmi quasi impercettibili.

«Ops...» sorrise Acab. «Toccato un tasto dolente?» ghignò, con occhi vispi. «Non vedo l'ora di averla tra le braccia...» confessò al giovane, bagnandosi le labbra con la lingua, balzando in piedi successivamente, scostandosi la polvere dai pantaloni scuri.

«N... N... No...» gemette Joshua, in preda al panico e al dolore che gli provocò il tentativo di alzarsi.

«Fai piano! Se ti rompi quelle belle spalle, come farò a divertirmi?»

La risata di Lilith, seguita dall'incedere della sua camminata su tacchi a spillo, echeggiò rimbalzando tra le pareti di pietra, colpendo lo stomaco di Joshua. In cuor suo, maledì quella sera in cui si era addentrato nel pub Lithium.

Era lì che l'aveva conosciuta, quando si era seduta accanto a lui, con fare dolce e occhi da gatta.

Lo spirito che l'aveva condotto in quel luogo, non aveva nulla a che vedere con quello che lo aveva mosso in precedenza. E questo lo sapeva bene.

Sembrava un pub come tutti gli altri ma era lei ad essere diversa dalle altre ragazze che occupavano quei divanetti, posti agli angoli del locale dalle luci a led che percorrevano tutto il mobilio moderno di cui era arredato.

Era rimasto colpito dai suoi occhi chiari, che smorzavano il nero cupo dei suoi cortissimi capelli; occhi cangianti a seconda della diversa luce soffusa che colpiva le sue iridi celesti: occhi d'un tratto blu come il mare profondo, dove fu inevitabile sprofondare, seguendo la linea morbida del suo viso in cui esplodeva il rosso fuoco delle sue labbra.

E fu inevitabile iniziare a parlare e scherzare, lasciando scivolare le mani sulla sua pelle, mentre lei gli parlava sussurrando all'orecchio parole che aveva ascoltato solo in una vita passata.

Aveva ordinato diversi drink, senza accorgersi dell'occhiata complice della ragazza al barman, che, al suo comando, aveva versato nel drink del giovane una polverina bianca.

La musica del Lithium creava una cassa di risonanza nel suo torace, che vibrava nelle note di quella musica martellante, le cui alte frequenze gli facevano perdere il respiro e accelerare i battiti di un cuore ormai incontrollabile, mentre lei si infiammava di desiderio verso quel mandato.

«Cosa ci fa qui, nel mio locale, un figlio di Dio?» domandò sarcastica, mentre cercava di tirarlo verso il centro della pista da ballo del locale, tendendogli la mano.

«Come scusa?» il giovane non riuscì a comprendere appieno le sue parole, nel vano tentativo di riuscire a reggersi in piedi, mentre la nausea percorreva il suo esofago.

«Andiamo... » lo colpì alla spalla, prima di avvolgere le braccia al collo del ragazzo, obbligandolo a piegarsi per ascoltare ogni sua singola parola, lasciando che saggiasse quel profumo femminile, intenso e destabilizzante.

«Non dirmi che non sai che questo è il nostro luogo di ritrovo! Il tuo dovrebbe essere abbastanza diverso: luci ovunque, ampie vetrate, cori angelici e... Una croce.»

«Ma tu che ne sai?» le aveva domandato sbarrando gli occhi fino all'inverosimile, allontanandosi di un passo per poi scrutare i suoi lineamenti, tanto simili al ragazzo dal cuore di ghiaccio che lui conosceva già bene.

«Noi vi staniamo a distanza, ma adesso è troppo facile, sei tu, che sei venuto volontariamente da noi...»

«Ma tu chi sei?» aveva urlato, tentando di sovrastare la musica che spingeva tutti i ragazzi a dimenarsi e abbandonarsi a varie effusioni.

Quel luogo buio, smorzato di tanto in tanto da laser di luci che andavano dal fucsia al rosso acceso, stava comprimendo il suo essere, che si sentiva braccato in un vortice di suoni, ombre e figure confuse.

«Povero agnellino, non conosce nemmeno i suoi nemici.» la sentì ridere, mentre si allontanava senza difficoltà tra la folla, tenendolo sempre d'occhio.

Erano quegli occhi ad averlo soggiogato. Sapeva di essere diventato ostaggio di quella che sembrava in tutto e per tutto la figlia di Judas, il traditore di Filadelfia, il capo spirituale della setta Lucifer.

Poi le sue falangi longilinee furono intercettate da quelle di Lilith, decorate con uno smalto nero, gelide come una lastra di ghiaccio.

E mentre la musica diveniva via via più lontana e ovattata, si accorse di essere stato condotto nel retro del locale, in un viottolo senza uscita, pieno di pozzanghere e sacchi di spazzatura buttati qua e là malamente.

Iniziò ad ispirare profondamente fino a far raffreddare ogni parte del corpo che non aveva fatto in tempo a realizzare il brusco cambiamento di temperatura.

Così, dopo aver stretto le braccia al petto, con del vapore che gli uscì tra i denti stretti, fissò la ragazza: nonostante le prime avvisaglie di freddo, mostrava le gambe e le spalle nude; quel tubino di pelle nero fasciava i fianchi e il busto, lasciando poco spazio all'immaginazione.

«Il desiderio di vendetta e una forte concupiscenza carnale ti hanno spinto oltre il limite della tua protezione...» era intervenuta, intenta ad accendersi una sigaretta «dov'è il tuo mandato, adesso?»

Il giovane, che ancora sentiva la testa vorticare, si era appoggiato con le spalle al muro di cemento umido che svettava di fronte alla porta in cui stazionava la ragazza, gettando fumo grigio dalle narici.

«Come fai a sapere tutto questo?» gli chiese, in una smorfia di dolore, avvertendo strane fitte alla fronte e alle tempie. «Perché non mi dici chi sei?»

«Lilith Damian» affermò, staccandosi dalla porta ferrosa, per avanzare di qualche passo nella sua direzione. «E sono qui...» proseguì, con passo felpato e occhi felini «per avverare ogni tuo desiderio.» concluse, prendendolo dalla nuca per stampare le sue labbra al collo del giovane.

Adesso sei mio.

L'aveva davanti, con quel petto che si alzava e si abbassava velocemente, mentre, sfiorando il collo con l'indice, avvertiva il pulsare del sangue nella giugulare.

Lo osservò a lungo prima di offrirgli le sue gelide labbra con lo sguardo più intrigante di cui era in possesso; sguardo di chi accompagna nel sonno e che culla nell'oscurità della notte, quella notte che aveva gli occhi color zaffiro e in cui, a Joshua, sembrò piacevole affogare.

Quel liquido rossastro dal sapore metallico, che aveva bevuto quando ancora erano seduti al bar, adesso attraversava le sue viscere, facendogli pulsare le tempie.

Quei baci intensi e avidi che solo Lilith sapeva di poter donare lo rimandavano in un oblio dove perdere la propria identità era stato facile, talmente facile da dimenticarsi di essere nati.

Allentando la presa dal corpo gelido della ragazza si rese conto di avere la testa come immersa nell'oscurità del mare, in una bolla di vuoto.

Lei lo spinse verso il muro per farlo reagire, avendo notato il suo sguardo assente.

Sta facendo effetto, eh?

Lo spinse nuovamente per poi prenderlo dal colletto della camicia e fargli sbattere la testa all'indietro, mentre il sudore gelido irrigava la fronte del ragazzo.

«C... Cosa stai facendo?» balbettò, preda della tachicardia, bloccandole i polsi, con quel poco di forza rimanente.

«Voglio vedere quanto mi resisti, piccolo Cristo.»

Lui la allontanò bruscamente, ma, mentre fece per andarsene, sentì la testa vorticare, tanto da farlo poggiare con la spalla alla parete umida dell'edificio antistante.

«Sei solo un pavido...» lo provocò, osservandolo di spalle piegato sulle ginocchia.

«Non c'è nulla del leone di Dio in te.» concluse, sapendo che l'orgoglio di Joshua era un trampolino di lancio per la sua definitiva caduta.

E infatti fu con quell'aggettivo che la forza latente dentro di sé lo avvolse, facendogli sbarrare gli occhi per rivolgerli austeri verso di lei che, in pochi secondi, se lo vide così vicino da sentire il suo respiro caldo sulle narici.

Le prese i polsi e la portò contro la porta del retro del locale, mentre sentiva esplodere un odio che gli portò alla mente gli occhi e le labbra di Ariel.

«E' fatta.» gli sussurrò Lilith ai lobi dell'orecchio, servendosi di un ultimo bacio per ghermire definitivamente le forze del giovane Joshua, che scivolò via dal suo corpo, sfiorandole i fianchi, finendo in ginocchio, mentre un rivolo di sudore freddo gli rigava gli zigomi e la vista gli si annebbiava, abbandonandolo poi del tutto sull'asfalto umido.

 

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Capitolo 18
*** FILADELFIA ***


"Caro Simon, ti ho mai parlato del nome di Gesù Cristo?"

"No, padre."

"Bene, iniziamo oggi. A te che sei stato con me e mi hai seguito come un figlio. A te, che non hai ceduto di fronte alla seduzione dello spirito di Judas. Proprio a te, spiegherò il significato del Suo Nome."

"Ascolto."

"Ti sei mai chiesto perché Gesù Cristo dice che pregando nel suo nome otterremo ciò che chiediamo e che nel suo nome scacceremo i demoni?"

"No, padre."

"Non possiamo vivere questa missione se non conosciamo il suo vero significato, caro Simon. Ricòrdati il significato del nome di Gesù Cristo: Gesù in ebraico si dice Yehoshua, e a sua volta questa parola significa 'Yahweh che salva', ovvero "Io sono colui che salva".

È questo figlio mio, è questo il nome di Gesù, è questo il suo significato, ed è questa la nostra missione."

"Ma padre... chi dobbiamo salvare? Non ha già compiuto tutto lui?"

"Fortunatamente, ti ho preso in tempo..."

"Che intendi dire?"

"Se pensi che abbia fatto tutto Lui e che la sua opera si sia fermata al tempo dei discepoli, come mai egli dice di mandarci come pecore in mezzo ai lupi e ci incoraggia ad operare perché faremo addirittura opere maggiori delle sue?"

"Non comprendo, padre."

"Noi siamo portatori del suo nome. Siamo piccoli Cristi: i mandati. In quanto portatori del suo nome, conteniamo in noi tutta la potenza di quel nome: la potenza di chi salva le anime dal potere dei demoni attraverso l'amore.

Un amore che dà la sua vita in sacrificio per le anime."

Era ormai da quando aveva iniziato il digiuno che, Simon, faceva ogni notte il medesimo sogno: parlare con Padre Peter del nome di Gesù Cristo.

Era un sogno in cui si udivano solo le parole pronunciate dai due, in quella che era stata la giornata della dipartita del predecessore.

Si svegliò anche quella mattina all'alba, con un rivolo di sudore ghiacciato che gli colava fin al mento lievemente barbuto, spalancando gli occhi in un attimo e scattando seduto nel letto disfatto, con indosso gli abiti della sera precedente.

Al lato del letto, sul comodino, le Sacre Scritture venivano illuminate da un raggio di sole che faceva brillare il pulviscolo nell'aria, indicando al giovane pastore di Filadelfia un verso del Salmo che aveva iniziato a leggere, ma che non aveva concluso crollando sotto il peso del sonno.

Lo fissò a lungo prima di allungare la mano per portare il libro sulle ginocchia e leggere: "Poiché egli comanderà ai suoi angeli di proteggerti in tutte le tue vie. Essi ti porteranno sul palmo della mano, perché il tuo piede non inciampi in nessuna pietra. Tu camminerai sul leone e sulla vipera, schiaccerai il leoncello e il serpente. Poich'egli ha posto in me il suo affetto, io lo salverò;

lo proteggerò, perché conosce il mio Nome."

Non seppe dare un significato preciso alla lettura, ma fu un ottimo modo per infondersi coraggio e iniziare un'altra calda giornata estiva al Centro di Aggregazione Giovanile della Chiesa di Filadelfia.

Il cinguettio caotico dei passeri ornava quella calda mattina, mentre fili di luce passavano dalle fessure della serranda della finestra di una delle tante stanze del Centro.

In una di quelle stanze, dall'aspetto semplice ed essenziale, dormiva, o almeno tentava di farlo, la giovane Ariel.

Da qualche mese aveva deciso di trasferirsi lì, per abbandonare definitivamente quella villetta posta dirimpetto all'abitazione che per così poco aveva ospitato il giovane Joshua.

Era finita la sessione estiva dell'università, ed era lì, girata sul fianco destro, in posizione fetale, mentre aspettava che le giungessero le forze necessarie per portare i piedi sul pavimento e scendere al piano terra per la colazione.

Ogni mattina, da circa un mese, si ritrovava a pensare al gesto di Simon, che l'aveva accolta lì senza alcuna pretesa, ma quasi implorandola di rimanere il più a lungo possibile.

«Rimani qui... Te ne prego» le aveva detto, quando ormai Ariel si ritrovava a frequentare così tanto il Centro di Aggregazione, che tutti i fedeli iniziarono a pensare che fosse diventata una credente.

Ma non era propriamente così. Almeno, era quello che pensava lei.

Si girò nuovamente dall'altro lato del letto, fissando l'armadio color ciliegio, mentre la mente ritornava alle parole del padre.

«Rimani ora che la notte si fa più buia e...» sospirò «dormi qui, se vuoi...» continuò con occhi lucidi e un sorriso amaro «anzi, te ne prego, perché in te vedo qualcosa di lui...»

Si era riferito a Joshua con un nodo in gola che gli fu difficile mandare giù.

Quel ragazzo l'aveva trafitto, tanto che, dal giorno del suo addio, Simon digiunava cinque giorni su sette, pregando e versando lacrime.

Quel pensiero la costrinse a puntare il viso nel cuscino per affondarvi le labbra e urlare in silenzio.

E poi, come ogni singolo giorno, tornò indietro nel tempo con la memoria, fino a quel giorno che vide Joshua per l'ultima volta.

«Sì, se n'è andato...»

Dopo quel bacio che le aveva impresso sensazioni devastanti nella memoria come passione, desiderio, rimorso, odio e rabbia, si era ritrovata nuovamente sull'uscio dell'ufficio di Simon, fissandolo di spalle, con i palmi posti sul davanzale dell'ampia finestra. e il capo completamente rivolto verso il basso.

«È tutta colpa mia!» aveva urlato, colpendo il vetro con il palmo della mano destra, lasciandolo lì come un saluto nel vuoto.

«Simon, no, non dire così...»

Ariel aveva sentito un dolore pungente alla bocca dello stomaco, che le annientava tutte le difese.

Quell'uomo aveva amato il ragazzo come e più di un padre che porta lo stesso patrimonio genetico del figlio; un amore a cui Joshua aveva rinunciato e che lei avrebbe voluto ricevere con tutta se stessa, se solo avesse potuto e voluto.

Aveva sospirato e l'aveva raggiunto a passo lento, ponendosi accanto a lui, fissando il suo volto corrucciato, mentre le labbra erano scomparse dietro quella folta barba rossiccia.

«La verità...» iniziò poi Simon «è che non è colpa mia. Hai ragione, Ariel.»

La fissò, sbarrando gli occhi, mentre la giovane continuava a sentire un peso sul cuore che le riempiva gli occhi di lacrime.

«Alla fine» continuò «ha fatto la sua scelta. Non è forse questo l'amore del tuo sogno?» le domandò con un sorriso tremendamente dolce e compassionevole, che la indusse ad abbassare lo sguardo al tappeto bordeaux che ornava il pavimento dello studio del padre, comprendendo in quel momento il perché dell' urlo straziante di quella donna che pronunciava il nome di Joshua, mentre l'uomo che riceveva quelle frustate, col volto di Simon, sacrificava tutto se stesso.

«L'amore di un padre che muore per chi lo trafigge...»

Così fu trafitta anche lei da quelle parole, sentendo un dolore all'altezza dello sterno che la portò a fissare gli occhi sbarrati verso il viso inspiegabilmente ridente di Simon e a schiudere le labbra, sorpresa.

Lì, in quel Centro, insegnavano, parlavano e operavano riferendosi alla figura di un Cristo che non aveva mai conosciuto. Quel Cristo di cui aveva studiato a scuola con tanta noncuranza, non era quello che le si stava mostrando in quel momento.

Era come se avesse potuto toccarlo, sentirlo, percepirlo in maniera vivida attraverso di Simon. Ed era assurdo.

«Questo è l'amore contenuto nel Nome di Gesù Cristo e per cui sto dando la mia vita.»

Quell'ultima frase le rimbombò nella mente, mentre si sistemava i capelli di fronte al piccolo specchio, posto sopra la scrivania.

In quel tavolo disordinato, tentò di trovare un fermaglio per gli ultimi ciuffi ribelli andando a tastoni e, non riuscendo a trovare nulla se non il fard e qualche mascara, aprì il cassettino sottostante notando all'interno solo una boccetta contenente un liquido color giallo oro.

Lo prese sul palmo, accarezzandone i contorni tondeggianti e, mossa dalla curiosità, svitò il tappo. La colpì un profumo intenso, che, successivamente preferì non aver mai inalato.

Una fragranza fruttata e fresca, ma acre al tempo stesso, le fece palpitare il cuore nello sterno, mentre nella sua mente appariva chiaro e vivido il ricordo del proprietario di quel profumo.

E si ricordò di averlo assaporato nel palmo della sua mano, che aveva sfiorato quella di Joshua, il giorno che si erano presentati; prepotente nel cappotto di jeans, mentre riaffioravano nella memoria i suoi occhi verdi vividi e lucenti, dopo averla aiutata sull'autobus in corsa; ricordò di averlo inalato sistemando i cuscini del divano, che li aveva così tanto avvicinati; e ancora, l'aveva avvolta quando, nella Cattedrale delle Sette Chiese, lui l'aveva stretta a sé...

Simon...

«... Perché mi hai fatto questo, Simon?» chiese, stringendo la boccetta di quell'essenza al petto, mentre nuove lacrime le rigavano il viso.

Si lavò il viso e, con aria torva, si diresse a passo svelto verso l'ufficio di Simon, che si trovava nello stesso piano della stanza di Ariel.

Una volta di fronte alla porta, allungò la mano per bussare, ma delle voci all'interno dello studio del padre le impedirono di muovere muscolo.

«L'ho cercato ovunque, Simon. Senza le forze dell'ordine dalla nostra parte, non possiamo far altro che pregare.»

Ariel riconobbe quella voce calda e profonda, riconducibile al primo ministro anziano di Simon: Nathan.

Un uomo sulla trentina, sempre pronto come un soldato alla chiamata del suo generale, che trasmetteva autorevolezza e rigore, ma che aveva visto sempre in prima linea per la risoluzione di tutti i più svariati problemi delle anime.

L'aveva visto abbracciare calorosamente uomini e donne in lacrime e in difficoltà, ma anche ridere e scherzare come un ragazzino insieme ad Heliu, di cui si prendeva cura come un fratello maggiore.

«No, Nathan. Dobbiamo continuare le ricerche mentre indaghiamo su Judas. A tal proposito ti volevo chiedere cosa hai visto la notte che mi hai chiamato d'urgenza.»

Ariel al sentire che il discorso stava prendendo una piega diversa, avvicinò l'orecchio alla superficie ruvida della porta.

«Come sai, la sede dell'amministrazione locale chiude alle ore ventuno, ufficialmente, ma questo non vale per quei personaggi come Judas e il suo team.»

«Continua.» intimò Simon con voce ferma.

«Ho aspettato a lungo in quelle panchine malmesse della Piazza Centrale, abbandonandomi di tanto in tanto al sonno, non così tanto da notare che il gruppetto di entourage e Judas stesso, si erano ritrovati all'uscita del Palazzo.

Dunque aguzzai la vista, cercando, tra le siepi e gli alberi bassi, di seguire i loro movimenti.»

«E quindi? Cosa hai scoperto?»

«Li ho visti sparire, Simon. Sparire tra le onde del mare nero del Lido.»

«Spiegati meglio.»

«C'è un solo Lido di proprietà del Locale Lithium, di cui è titolare Judas, e, in quel Lido, tutto il gruppetto satanico si è dato appuntamento, e, con mio enorme stupore, al solo gesto delle loro mani, le onde hanno creato un vortice in cui, uno per uno, sono entrati negli abissi senza alcuna difficoltà!»

Ariel inarcò un sopracciglio, ricordandosi di quel che aveva visto mesi prima, quando aveva deciso di seguire Judas e Acab, inoltrandosi in quella proprietà di cui conosceva solo la fama tra i ragazzi più in voga dell'università.

Il Lido Lithium prendeva il nome dal locale posto al centro della Via del Corso.

«Non mi meraviglio più di tanto...» sospirò Simon. La sua voce era un misto di fredda consapevolezza e resa disperata.

«Ma... Simon...» lo incalzò Nathan «Sono demoni a piede libero!»

«Non mi meraviglio dei demoni, Nathan» aggiunse Simon, con voce pacata. «Mi meraviglio dei figli di Dio soccombenti nelle loro mani. E poi,» proseguì dopo un profondo sospiro «quelli non sono altro che piccoli uomini. Ricordati Nathan: i demoni sono solo spiriti che agiscono servendosi della volontà degli uomini che hanno deciso di ribellarsi a Dio. Non hanno forza propria.»

«Come noi siamo portatori di Gesù Cristo, non è forse così?»

Ariel non seppe cosa fare: se rimanere lì ad ascoltare quei discorsi di fede e dottrina, oppure correre in mensa, sentendo gorgogliare rumorosamente lo stomaco.

«Potrebbe trovarsi lì?»

D'un tratto, quando sentì che il discorso aveva iniziato a riguardare Joshua, si rannicchiò alla base della porta per ascoltare.

«Non credo. Io lo sento vicino, Nathan. In questa città, in questo tempo, in questa dimensione spirituale.»

A quelle parole, così ferme, così certe e cariche di sicurezza, Ariel avvertì un colpo al cuore e poco mancò che iniziasse a urlare per la gioia.

«Che consigli di fare, dunque?»

«Continuare ad indagare. Continuare a pregare.»

Nel mentre sul viso di Ariel ritornava ad illuminare la speranza di poter un giorno rincontrare Joshua, la porta si aprì alle sue spalle, mentre si trovava ancora in ginocchio.

«Toh! Guarda chi c'è! Il leone di Dio che origliava alla porta di due ministri.»

Ad Ariel le si fermò il cuore: gli occhi scuri di Nathan la sovrastano austeri, così come la sua figura. Non ci impiegò molto a rimettersi subito in piedi e quasi sull'attenti, con un velo di amaritudine per quel tono con cui le si era rivolto.

«Nathan, lasciala entrare. Accomodati, Ariel.»

Simon l'aveva invitata ad entrare con un viso disteso e un sorriso dolce, che le placò l'animo irritato.

In quel momento però si ricordò il motivo per cui era arrivata fin lì: Simon le doveva delle spiegazioni.

Così, rivolgendo uno sguardo sfrontato al giovane ministro, gli passò oltre senza staccargli gli occhi di dosso.

«Ariel...»

Il Padre la chiamò con un tono perentorio ma con una flessione che ricordava il lieve rimprovero di padre al piccolo che sta per avvicinarsi al pericolo.

«Perdonami Simon...» disse, sedendosi dopo che Nathan ebbe chiuso lentamente la porta.

«E' pur sempre un ministro di Dio, Ariel, anche se, a volte, è un po' irritante.» sorrise sotto la folta barba rossiccia, stimolando la giovane a mostrare il suo di sorriso, che non tardò ad arrivare.

Ariel non credeva alle sue orecchie: in una frazione di secondo era scomparso tutto il suo astio nei confronti del Padre, che la osservava con le mani congiunte, in attesa della sua richiesta.

Un profondo e lungo sospiro precedette le parole della giovane mora.

«Cos'è questo?»

Ariel prese dalla tasca la boccetta di fragranza che aveva trovato nella sua stanza e la pose sullo scrittoio, sotto gli occhi sbarrati di Simon.

«E' essenza di bergamotto.»

«So leggere le etichette, Simon.»

«E allora, cosa vuoi sapere?» domandò il Padre con voce lievemente alterata.

«Voglio sapere perché me lo hai messo nella stanza. Oppure dovrei chiederti: perché mi hai dato la sua stanza?»

Simon la guardò con sguardo torvo e, prendendo la boccetta nel palmo della mano destra, la contemplò a lungo, con fronte aggrottata.

«Davvero pensi che l'abbia fatto a posta?»

«Spero di no.»

«No, infatti Ariel, non l'ho fatto a posta. E, per tua informazione, pensavo che Joshua avesse portato tutto con sé il giorno del trasferimento nel quartiere degli studenti...» sospirò «Non avevo altre stanze da offrirti.»

«Eppure...» Intervenne Ariel «è strano che l'avesse sempre addosso, nonostante fosse qui la boccetta...» fu solo in quel momento che Ariel si accorse di aver confidato a Simon di ricordare benissimo il profumo del giovane Joshua, e mentre il suo viso esplodeva in un rossore, Simon continuava a fissare la boccetta, facendo ondeggiare il liquido dorato, immerso in pensieri che disegnavano una curva nel suo viso, come un sorriso intriso di tristezza.

«Ti racconto la storia di questa essenza e del perché apparteneva a Joshua...» iniziò Simon, rilassando la schiena sulla sua poltrona, senza smettere di far ondeggiare la boccetta.

«Il Bergamotto, da cui si ricava questa essenza ricercatissima, viene coltivato solo qui, nelle colline che circondano la nostra cittadina.

È un frutto molto particolare e pregiato, il cui nome significa "Pero del Signore"...»

«Casualmente...» Intervenne la giovane, mentre, ascoltando la storia, roteava le falangi attorno al ciondolo a forma di leone che portava al collo. «Sì! » rise Simon e continuò: «Dunque, notando che Joshua, venendo ad abitare qui quando aveva circa quindici anni, non aveva nulla, gli fornii tutto il necessario in una busta anonima, con questa essenza all'interno.

Questa essenza, il frutto in particolare, è molto importante per la nostra Chiesa, perché rappresenta un po' l'elezione della nostra Città come luogo santo e dimora di un albero che frutta un oro unico nel suo genere.

Fu per questo che lo regalai a Joshua: per farlo sentire a casa. Cosa che feci anche con Lucia e Caleb...»

«Caleb?» la ragazza, al sentire quel nome, inarcò un sopracciglio incuriosita «Sarebbe?»

Ariel aveva la capacità di far tornare Simon indietro nel tempo, ai ricordi più sgradevoli, a volte.

«E' una storia lunga che ti racconterò un altro giorno...» le rispose fissando il vuoto. «Per concludere la storia: Caleb sfidò Joshua in una gara di corsa. Joshua vinse e gli chiese la boccetta di essenza che possedeva Caleb. Ecco perché ne aveva due...» concluse, roteando la poltrona nella sua direzione.

«Ti senti meglio, adesso?»

Nel suo animo continuava ad esserci un senso di vuoto, che scosse le sue membra.

«Credo di sì» mentì. «Vado a fare colazione...» aggiunse, mentre lo stomaco faceva sentire i suoi gorgoglii.

«Certamente. E, Ariel...» la chiamò prima che lei uscisse «fai gli auguri a Lucia da parte mia!»

***

Nella Chiesa di Filadelfia, ogni singolo compleanno era speciale e Padre Simon non mancava di far recapitare almeno una torta a tutti coloro che dormivano al Centro. Così, sia chi aveva le possibilità, sia chi non se lo poteva permettere, tutti avevano una festa con l'amore di un padre e la gioia di fratelli e sorelle.

Era questo il tratto riconoscibile di Filadelfia: far sentire il calore di una famiglia a tutti gli ospiti e i residenti; era questo Filadelfia: la Chiesa dell'amore.

Ariel, però, doveva ancora abituarsi a tutto questo; ragazza introversa e riservata, catapultata in un mondo che andava contro tutti i suoi schemi e che infrangeva tutti le sue difese di cristallo.

Ed ecco che, avvicinandosi alla sala mensa, sentì le urla di gioia di tutto un gruppetto di bambini, donne e qualche ragazzo - tra cui Heliu e Nathan - che acclamavano a gran voce la dolce Lucia.

Lei, sempre timida e incline ai rossori paonazzi della vergogna, era in un angolo, con le mani che le coprivano il viso, mentre la cuoca la spintonava dolcemente verso la folla che, ad un tratto, iniziò ad intonare un 'buon compleanno'; la giovane Ariel assistette alla scena con larghi sorrisi, avvicinandosi pian piano e, incollata alla parete, prese il cellulare per immortalare quel momento; quel momento in cui le risate di Lucia risuonavano in quella sala dopo sette mesi di lacrime, lontana da Joshua.

Aveva vissuto quei momenti pensando e ripensando a quell'ultima visione fatta di sangue e pareti di pietra, convincendosi del fatto che avrebbe potuto fare qualcosa se non fosse stata vittima della debolezza. Così passava le giornate con lo sguardo perso nel vuoto, abbozzando un sorriso solo quando incontrava lo sguardo di Heliu.

Ariel conobbe realmente Lucia solo in quei mesi, in cui passava le giornate standole accanto in tutti i suoi compiti da svolgere per l'aiuto delle donne in difficoltà del Centro.

Un giorno di fine inverno, mentre l'aria cristallina emanava il suo ultimo alito di vento gelido, Ariel aveva convinto Lucia a stare un po' con lei, sotto le fronde degli alberi di pepe rosa che contornavano il cortile della Chiesa.

«Ho tante domande a cui ancora non ho trovato risposta...» iniziò Ariel, atona, scivolando sulla panchina di legno e ferro, accartocciandosi per il freddo, mentre Lucia fregava le mani per riscaldarsi.

«Non hai parlato con Padre Simon dei tuoi quesiti?» le domandò la biondina, dentro il cappuccio della sua felpa.

«No, Lucia.» fu la risposta secca di Ariel che la fissò con sguardo accigliato «Come potrei? Non vedi che Simon vive con cinque giorni di digiuno a settimana?»

«Sì, hai ragione.» sospirò, alitando condensa. «Vedrò di riuscire a darti delle risposte...»

Ariel corrugò la fronte in un'espressione di malinconico dispiacere, ferendosi il labbro inferiore per non aver avuto riguardi del suo dolore, serbato nel cuore come un macigno.

«Grazie.» aggiunse prima di posare il capo moro sulla spalla destra della biondina e iniziare a parlare.

«Penso sempre a come tutto sia iniziato...»

«Che intendi dire?»

«Intendo dire che ho conosciuto Joshua sempre in situazioni inusuali o di pericolo...»

«Quindi?»

«Non lo so, è come se fossi stata io la causa di tutto!» esclamò Ariel acuendo il tono.

«E poi, c'era sempre quel maledetto Acab...»

«No, Ariel!» la bloccò Lucia, ponendo le mani sulle spalle della giovane. «Non commettere anche tu lo stesso errore di Joshua...» la implorò con occhi lucidi. «Ti prego, non maledire nessuno! Noi non siamo come loro: non malediciamo e non cerchiamo vendetta. Riponiamo la nostra fede in un Dio giusto.»

Ariel rimase a bocca aperta e occhi sbarrati per qualche secondo.

«Tu hai vissuto tutto molto velocemente: la salvezza, per te, è stata quasi una via obbligata» interruppe il silenzio, Lucia. «Hai visto tutto ciò che io non ho mai sognato di vedere: hai visto i tre arcangeli proteggerti dalle mani delle tenebre, hai visto un figlio di Dio incarnare il nome di nostro Signore e hai trovato un padre celeste...» Nella curvatura del sorriso di Lucia comparve un luccichio, di una goccia argentea che le solcò le gote. «Tutto questo per proteggerti dai piani delle tenebre e per rivelarti che Dio opera attraverso uomini di carne.»

«Ma Lucia...»

Ariel aprì la bocca cercando di fermare il fiume di parole provenienti dall'amica che, a parer suo, le stava rivelando troppe cose a quel suo cuore ancora scombussolato dalla vicenda di Joshua.

«Ariel, ora tu devi conoscere ciò è nascosto agli occhi degli uomini, e che ti è stato mostrato per salvare Simon, per salvare Filadelfia.»

Ariel continuò a puntare gli occhi sgranati verso Lucia, i cui lineamenti apparivano evanescenti sotto quella enorme luna piena che le sovrastava, aspettando di ricevere altre dolci parole.

«Fin da quando ero bambina, le visioni mi hanno mostrato che Filadelfia è il luogo che Dio ha prescelto per salvare il mondo dalle grinfie del Signore delle tenebre, incarnato nella persona di Judas e del suo team.

Il motivo di tanto odio nei confronti di Simon e dei suoi fedeli, sta nel fatto che è l'unica Chiesa eletta fin dalla Rivelazione dell'apostolo Giovanni, l'apostolo dell'amore, il più vicino a Gesù Cristo.»

Ariel sentì il cuore ardere a quelle parole, come se si stesse delineando una via ben precisa da seguire, mentre Lucia sentiva accendere il suo cuore di una rinnovata fede nell'intervento divino.

«Ecco la rivelazione di Padre Peter, sigillata nel cuore di Simon; ecco perché Joshua ha tentato, con le forze umane, di imitare un modello elevato quale è quello del Mandato: custode della Chiesa Eletta.»

«Quindi...» Ariel si girò verso l'asfalto di cemento del cortile e ponendosi le mani sul viso, cercò di mettere ordine tra i suoi pensieri «Joshua non doveva seguire il desiderio del suo cuore di diventare il Mandato?»

Ariel liberò il viso aprendo le falangi, piegandosi con i gomiti sulle ginocchia e serrando gli occhi lucidi.

«Non come si era proposto di fare.» sentenziò Lucia con voce ferma. «Sta Scritto - senza bisogno di tante interpretazioni - che chi sente il bisogno di avere una compagna o un compagno deve sposarsi...» sospirò profondamente prima di continuare: «lui ha sempre serbato nel suo cuore il desiderio di essere amato da una ragazza e di amare come nostro Signore ci ha mostrato...» la bionda posò il palmo gelido sulle gote roventi di Ariel, cercando i suoi occhi «...Solo che Dio non aveva deciso questo per lui. Il discepolato non comporta l'obbligo del celibato: l'Apostolo Pietro, colui al quale era stata affidata la prima Chiesa di Gerusalemme, era sposato.»

Fu allora che Ariel iniziò a comprendere l'errore di Joshua: si era imposto, contro la volontà di Dio, una volontà che non gli apparteneva.

«Le nostre scelte» continuò Lucia «danno il corso alla nostra vita.»

La mora mosse lo sguardo verso Lucia che concluse alzandosi in piedi «Solo noi abbiamo la libertà di scegliere di seguire o la missione che risiede nel Nome di Gesù Cristo, oppure di seguire noi stessi.» le allungò la mano sorridendole dopo tanto tempo, mentre Ariel stringeva le dita dell'amica sommessamente, immersa in un turbinio di pensieri.

«Un'ultima domanda, Lucia...» sbuffò Ariel in difficoltà «Perché Acab ha tentato di uccidermi e perché il gruppo Lucifer mi ha bruciato la macchina quel giorno all'università?»

Lucia, che si era incamminata verso l'ingresso del Centro, la scrutò a lungo prima di risponderle:«Perché anche i demoni credono in Dio e lo temono. Tu profumavi di Lui fin da quando ci siamo incontrate.» le sorrise commossa «In fondo, ha mandato un Lucignolo come me a indicare la via a un Leone. Un Leone di Dio capace di salvare la vita al Mandato della Chiesa eletta.»

 

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Capitolo 19
*** LUCI E TENEBRE ***


Ormai mancava davvero poco alla sua esecuzione.

Giorni o, al massimo, qualche settimana e prima di porre fine alla sua esistenza gli avevano ordinato, come ultimo compito, quello di far soffrire così tanto Joshua da fargli rinnegare la sua fede e bestemmiare il suo Dio.

Era così che Acab passava le notti insonni a sorvegliare quel martire, colpendosi ripetutamente la fronte col pugno chiuso della mano destra, sentendo serpeggiare nelle viscere un opprimente sensazione di morte che lo avvolgeva fin nelle midolla.

Non poteva certo deludere la sua famiglia, la più potente del mondo e quella che aveva ricevuto il potere di gestire l'economia mondiale.

Lui non seppe mai nulla dei loro affari, né si sarebbe mai sognato di chiedere spiegazioni a riguardo.

Non poteva fare domande, né sui prigionieri, né sui bambini urlanti che gli passavano davanti; men che meno mostrarsi debole, perché il suo cuore "era di ghiaccio e di ghiaccio doveva restare".

Era uno dei comandi del loro Signore.

Il loro Signore: senza nome e senza volto; molto diverso dal Signore dei suoi prigionieri, che aveva il volto di quei credenti e un Nome che non era consentito nominare.

Quel suo Signore aveva scritto le pagine del Libro delle Tenebre, col sangue dei martiri perpetrati in secoli e millenni di potenza concessagli dagli uomini per mano del gruppo Lucifer.

«Solo Colui che non possiamo nominare, e qualche suo figlio, ha rinunciato ai Regni che abbiamo avuto in sorte dal nostro Signore, caro Acab.» gli disse un giorno suo padre Judas; insieme a quelle parole ne balenarono altre nella sua mente tortuosa: «Ora quel pastore Simon si è messo ad insegnare ai suoi seguaci come fare della sana politica e, questo, al nostro Signore non piace per niente, mi hai capito Acab?» gli aveva detto a denti stretti, stringendogli il mento con tre dita «Faresti bene a velocizzare la tua trasformazione, o finirai male, anche tu.»

Quella trasformazione, la trasfigurazione in una bestia feroce, era il prodromo del passaggio al livello successivo.

Lui, quel livello, l'aveva passato, alla fine.

Fu quel giorno dell'umiliazione alla mensa dell'università, dove Ariel gli aveva calpestato la dignità.

Ariel...

Forse era lei la chiave di volta: la soluzione a tutti i suoi tormenti nella pianificazione della distruzione di Joshua.

Dopo tutto, era successo tutto a causa di lei; per colpa e merito suo, l'anima di Acab era stata messa definitivamente nelle mani del loro Signore.

Era successo la notte alla Cattedrale delle Sette Chiese, quando, dopo aver ceduto al Nome pronunciato dalla ragazza, Acab era stato trasportato dal padre al cospetto del Signore delle tenebre, per partecipare ai riti scabrosi delle oscurità, dove gli occhi umani non vorrebbero mai arrivare e dove l'odore e il suono di rivoli di sangue strisciante permea le pareti, accompagnato dai lamenti e dalle urla agghiaccianti degli innocenti.

Lì, dove ogni sera, scendeva da quei gradini ferrosi, svegliando Joshua col rumore delle sue suole.

Quella sera si era seduto nel penultimo gradino e si era acceso la sua sigaretta, soffiando fuori dalle labbra una nube di fumo grigiastro.

Aveva poggiato il capo al muro di pietra, prima di piegarsi in due e poggiare il gomito sul ginocchio picchiandovi la fronte sul pugno.

Non voleva morire.

Non in quel modo.

Avrebbe voluto trovare un appiglio a cui aggrapparsi per non morire; una soluzione semplice per fare quel che gli chiedevano. A volte, però, quei credenti erano così duri da far crollare, che, alla fine, sopraggiungeva la morte.

Questa volta, però, sarebbe sopraggiunta la sua, prima di quella di Joshua se non avesse fatto in tempo ad adescare Ariel, in qualche modo.

«Come va?»

La voce di Joshua nelle ombre di quella cella solitaria, lo avevano fatto sobbalzare, scattare in piedi e perdere dalle labbra la sigaretta appena accesa, tanto era stato il suo stupore.

«Che razza di domanda è?» ringhiò il moro con voce acuta, raccogliendo i resti della cartina, in un gesto di stizza.

Joshua aveva ormai perso ogni speranza di salvezza, lì, in quella notte perpetua, dove si pentì di non aver ascoltato le parole di Simon, quando, come un padre, lo incoraggiava a seguire gli esempi più alti della Chiesa eletta: modelli di santità e fede, nonostante le mogli, nonostante le famiglie.

Si era detto capace di rinunciare all'amore carnale, fatto di corpi che si incontrano e di anime che si legano. Tuttavia, quel che lui considerava erroneamente 'carnale' era ciò che di più bello e piacevole Dio aveva creato: l'amore di un uomo e una donna che, a loro volta, hanno in eredità la facoltà divina di produrre vita.

Al contrario, questo era ciò di cui Acab sentiva una feroce mancanza e a cui aveva dato un nome: odio.

Acab coltivava odio verso la vita, senza ricordare quel che l' aveva fatto scaturire.

Per questo, il prigioniero aveva anche considerato con pietà la situazione di Acab, che, mai come in quelle sere, appariva evidentemente tormentato da una tenebrosa scure che pendeva sopra la sua testa.

«Chiedo...» disse in un colpo di tosse «dato che ormai so come andrà a finire, cerco di passare il tempo...»

«E come dovrebbe andare? Eh?» rispose il moro arrotolando una nuova cartina. «Sicuramente, va meglio di quanto stia andando a te!» esclamò poggiandosi con le spalle al muro, prima di inspirare profondamente dal tubetto di carta e tabacco e buttare fumo grigio dalle narici.

«Menzogne...» mormorò Joshua, facendo vibrare le catene ai piedi, dopo un fragoroso colpo di tosse.

«Menzogne, eh?» ripeté Acab, in una smorfia di ira che gli fece contrarre i muscoli del petto e aggrottare le sopracciglia. «Voi e la vostra fede...» sbuffò «Voi che vi sentite detentori della Verità. Non lo odi nemmeno un po' il tuo Dio per averti condotto in questo luogo?»

Quelle domande avevano il sapore di una provocazione, ma nascondevano la voglia di sapere di più di quel che gli avevano sempre detto.

A Joshua tornarono in mente i momenti in cui Ariel lo riempiva di domande mentre, adagiati sul divano, l'uno di fronte all'altra, chiacchieravano beatamente, fissandosi negli occhi.

E ci volle un po' per rispondere a quella domanda che gli provocò una fitta al petto, lacerato nella carne e nel cuore.

«In realtà... » tossì «È stata tua sorella a condurmi qui... » tossì nuovamente con un gemito prima di concludere: «E sono state le mie scelte a condurmi nel vostro covo. Gesù Cristo non c'entra nulla.»

 

***

 

Le luci di Filadelfia, incanalate tra le fessure della serranda della stanza,  accarezzavano la pelle rosea di Lucia, evidenziando le minuscole lentiggini che ornavano il suo piccolo naso.

Quella notte, trascorsa beatamente, era stata per lei un balsamo rigenerante, capace di affievolire tutte le tensioni accumulate in quei mesi di notti insonni.

Era passato il giorno del suo ventunesimo compleanno e, ancora tra le candide lenzuola, sentiva sulla pelle le vibrazioni elettriche provocate dal pomeriggio passato con Heliu: emozioni che le fecero comparire un sorriso, mentre le palpebre mostravano al sole gli occhi smeraldo.

Il ragazzo aveva avuto il desiderio di farle una sorpresa. Così, chiedendo l'aiuto di Nathan, pensò di riuscire nel suo intento.

La mattina si era alzato di buon ora, sapendo di trovare Nathan affaccendato tra le mura della mensa del Centro.

«No.»

«Ti prego, Nathan!»

L'aveva raggiunto a passo svelto, sgattaiolando via dalla sua stanza. Percorrendo le scale, trovò il ministro di Simon piegato sulle ginocchia, impegnato nella sistemazione di alcuni pacchi nell'androne della sala mensa. Vedendolo lì, si fiondò vicino al ministro implorandolo di consentirgli di usare la sua moto.

«Guarda, ti prego anche in ginocchio!» esclamò il ragazzo poggiando le ginocchia nude sul pavimento e congiungendo le mani, implorante.

«Perché, invece di pregare me, non preghi Gesù Cristo per il cuore di quella povera ragazza?» gli aveva risposto Nathan, senza interrompere il suo lavoro, facendo ondulare i capelli mossi dentro uno di quei pacchi bianchi.

«Io prego per lei. Ogni notte!» esclamò Heliu, con volto corrucciato.

In fondo, non era che una semplice richiesta la sua: cercare di conquistare il cuore di Lucia con una gita. In moto.

Tuttavia l'ansietà di Nathan non riguardava tanto la gita, quanto il fatto che il ministro non si sentisse sicuro di voler vedere accanto a Lucia un ragazzo così poco maturo.

«Ne hai parlato con nostro padre delle tue intenzioni? È come se fosse sua figlia, lo sai, vero?»

«Certo che ne ho parlato, mi ha detto lui di pregare per lei!»

«E allora, continua a pregare.» rispose l'uomo mentre cercava di sistemare pacchi di pasta insieme a dei cartoni di latte, che sarebbero serviti per donazioni a famiglie bisognose, ma, evidentemente, Heliu pensava di star interagendo con un uomo qualunque.

«Nathan, sei uno degli ministri più vicini a Simon. Dovresti sapere che la preghiera è accompagnata dalle azioni...» il ragazzo, acuendo il tono della voce, si pose di fronte al ministro con le mani ai fianchi, mentre l'altro alzava pian pian il capo con sguardo fortemente sorpreso.

«Ah, sì?» disse, alzandosi e ponendosi davanti ad Heliu con braccia incrociate e gambe divaricate «Facciamo una cosa» iniziò, ponendo le mani congiunte sulle labbra «tu prendi la mia moto, come mi hai implorato ieri, cerchi di convincere Lucia a salirci, anche se penso che non farà un passo senza dirlo a Simon, e poi, se, e dico se non dovesse accadere nulla, accetterò che tu mi ricordi le prediche di Simon.» concluse con una sonora pacca alla spalla del giovane.

«Sei così... Così...» cercò di commentare il ragazzo, con fronte aggrottata.

«Saggio? Sì me lo dicono in molti! E adesso sparisci.» concluse, spingendolo altrove, rivolgendo nuovamente il capo al pacco di cartone da sistemare.

Alla fine, dopo vari solleciti, Heliu era riuscito a convincere Nathan: avrebbe portato Lucia in moto fin sul Promontorio Raphael: una scogliera frastagliata, che dava sul mare, al cui vertice era stata posta una enorme croce bianca, alla base della quale era posto un faro, che, illuminandola, aiutava i naviganti a vedere la costa.

Così, dopo aver verificato che Heliu avesse ancora tutti i punti della patente e assicuratosi della lontana data della scadenza, lo invitò a seguirlo nel retro dei magazzini.

Dopo aver percorso una cinquantina di metri dall'ingresso del Centro, Nathan si bloccò di colpo, facendo sbattere Heliu contro la sua schiena.

L'uomo, guardingo, accigliò lo sguardo per assicurarsi che nessuno, a parte il ragazzo, lo stesse seguendo. Dunque proseguì, iniziando a giocherellare con le chiavi.

«Nervoso?» domandò, facendo scattare la serratura del lucchetto.

«Chi, io? Vuoi scherzare? Sto solo per portare via la ragazza più dolce del pianeta in groppa al mio destriero!» rise, mostrando i canini, mentre si avvicinava all'uomo dai capelli scuri che faceva cigolare il cancello.

«Il tuo destriero?» ripeté Nathan, fissandolo con un sopracciglio inarcato.

«Sì, cioè, dai... Hai capito!»

«Ho capito che mi sto mettendo nei guai, Heliu!» esclamò una volta fermo accanto ad un mucchio di lenzuola ingiallite e impolverate che assumevano la forma di un qualcosa di indefinito.

«Ora, Heliu ascoltami bene. Devi considerare che questo gioiello che sto per mostrarti non è adatto ai principianti. È una Yhamaha SR 400. Comprendi?»

«Ma io non sono un principiante!»

«Bene. Che il Signore ci aiuti, allora!»

Nathan sollevò le lenzuola dal mezzo, smuovendo un cumulo di polvere, mostrando al ragazzo una moto in perfettissimo stato e lanciandogli le chiavi al petto, gli disse: «Lucidala e riportamela al suo vecchio splendore!»

Così, dopo aver sistemato la moto, come gli aveva detto il ministro, corse tutto sporco di grasso e sudicio di sudore verso il Centro dove si sarebbe buttato sotto la doccia.

Nella corsa, però, attento solo allo sfarfallio del suo stomaco, non si rese conto di stare per buttarsi addosso a Lucia, che, di spalle, stava facendo una passeggiata, tenendo per mano un bambino di tre anni o poco più.

Fece in tempo a tenerla dalle spalle per non farla cadere; se fosse finita a terra, non gli avrebbe concesso nemmeno un saluto, si convinse.

«He... Heliu?»

Lucia, voltandosi di scatto, invece di inveire verso il ragazzo, si limitò a voltarsi sconcertata e imbarazzata, constatando, solo in quel momento, che le sue spalle erano rigate di nero.

«Dio! Lucia perdonami, sono un demente!» furono le esclamazioni di Heliu, sbiancato e tremolante «Non... Io sono...» farfugliò, cercando di mettere insieme un paio di frasi per farsi perdonare.

La ragazza, alla vista del volto sbiancato del giovane, non riuscì a contenere una risata, che illuminò lo sguardo di Heliu, provocandogli un largo e lucente sorriso.

«Tranquillo! È tutto a posto...» sorrise, mentre, abbassando gli occhi al piccolo che teneva per mano, tentò di nascondere quel velo di rossore che le stava infiammando le guance.

Quel giorno, Ariel si sentiva stretta in un dolore al ventre che percorreva i nervi fino a martellarle le tempie e dopo aver cercato invano un rimedio, decise di trascorrere del tempo con Lucia per il suo compleanno: la compagnia della sua amica avrebbe alleviato tutte le tensioni, inconsapevole di quel che di lì a poco sarebbe successo.

Dirigendosi verso la porta della stanza di Lucia, fece per bussare, ma si ritrovò di fronte alla porta semi aperta.

La aprì con un lieve gesto della mano soffermandosi poco dopo all'interno della camera per guardarsi intorno.

La stanza rispecchiava appieno la ragazza, ed era completamente diversa dalle altre stanze del Centro, che risultavano tutte uguali, come un qualsiasi dormitorio.

Era come se fosse entrata nella camera di un'adolescente.

C'era un armadio ampio in legno bianco e la scrivania, la cassettiera e il comodino riprendevano lo stesso stile, rendendo l'ambiente confortevole e rilassante.

Lo specchio posto sulla scrivania era adornato di foto e citazioni di Simon che Lucia usava ammirare per infondersi fede.

Una in particolare colpì la sua attenzione, una citazione di Simon che recava l'iscrizione:

"Se le tenebre scatenano l'inferno, io sono pronto a scatenare il paradiso!"

Batte le palpebre un paio di volte e poi si rivolse verso la porta del bagno aperta, da cui proveniva una luce calda.

«Lucia!» chiamò, sentendo la voce acuta dell'amica che la chiamava dal bagno.

Si avvicinò lentamente, scorgendo la sua figura di fronte allo specchio del lavabo nell'atto di osservarsi le spalle.

«Tutto ok, festeggiata?» esordì, con un sorriso sghembo la mora, accostandosi a lei per guardarla dal riflesso.

«Va tutto fin troppo bene» fu la sua risposta, immersa nel contemplare delle strisce nere che le rigavano le spalle.

Ariel le vide e, con una smorfia, commentò: «Qualche bambino ti ha sporcata di grasso?»

«No» rise, arrossendo e legando i capelli in una coda alta « è stato Heliu... »

«Chi?!» esplose Ariel in un acuto che spaccò i timpani all'amica che le fece segno di silenzio, mentre chiudeva la porta dietro di lei.

«C'è qualcosa che devi dirmi?» le domandò con occhi sgranati.

«Te l'avrei detto appena prima di uscire...»

«Uscire?»

Lucia sentì il cuore esplodere di emozione. Ancora non aveva metabolizzato l'accaduto e dirlo ad Ariel le permise di sfogare le sue più intime sensazioni.

Così, prima di emettere suono, si coprì il viso con entrambe le mani e disse: «Mi ha invitata a uscire, stasera!»

«C... Cos... Cosa?» balbettò Ariel, avvicinandosi per bloccarle i polsi e guardarla in viso. «Raccontami tutto!»

Così Lucia raccontò dell'incidente e del successivo arrivo di Heliu dietro la porta della sua camera, che, con aria imbarazzata le aveva detto di prepararsi per una sorpresa fuori dai cancelli del Centro.

«Quando?»

«Tra poco!»

«E non ti muovi? Hai già deciso cosa metterti? Un vestito! Sicuramente!» esclamò Ariel, dimenticandosi dei suoi dolori e continuando ad andare in giro per la camera, dopo aver quasi sfondato la porta del bagno per dirigersi verso l'armadio della biondina.

«No! Niente gonne!»

«Oh Dio, Lucia! Non fare la puritana! Sei cristiana, mica mormone!»

«No...Non è per quello!» disse Lucia, bloccando Ariel dalle braccia per focalizzare lo sguardo su di lei.

«Heliu mi ha detto di vestirmi comoda e assolutamente senza gonne!»

«Sono sconvolta» commentò con occhi sbarrati.

«Quale ragazzo non vorrebbe vedere la sua amata con una gonna... quantomeno sobria?»

«Semplicemente un ragazzo come Heliu»

Ariel sbuffò, sedendosi nel letto della giovane Lucia, guardandola mentre, di spalle, cercava qualcosa nel suo armadio e fu in quel momento che Ariel avvertì nuovamente i dolori che l'avevano afflitta poco tempo prima.

«Tutto bene, Ariel?» le aveva domandato Lucia, in con sguardo apprensivo.

«Sì, tranquilla!» mentì.

«Ora è il tuo momento. Lava via quel grasso, fatti bella e fallo sognare!»

«Sicura che è tutto ok? Sei stranamente pallida... »

«Sicura!» le ripeté, alzandosi di scatto per dirigersi fuori dalla stanza.

«Raccontami tutto al tuo ritorno!» esclamò in un largo ma finto sorriso, prima di chiudere la porta della stanza alle sue spalle.

Rimase un paio di secondi fuori dalla porta, si incupì, invidiando la gioia della ragazza e, avvertendo il desiderio di scappare da quel luogo, fece di corsa le scale, con una foga tale che le venne un capogiro negli ultimi gradini che davano all'androne della mensa.

Nathan, passando di lì, si accorse della situazione precaria di Ariel, che in una frazione di secondo sarebbe andata a terra rovinosamente se lui non avesse fatto un balzo per prenderla in tempo.

«Ariel!»

Fu l'ultimo suono che udì la ragazza prima di abbandonarsi al buio.

Quando i suoi occhi si aprirono, si ritrovò seduta nell'infermeria del Centro, su di una sedia di legno, con il capo appoggiato ad una colonna portante e le gambe sollevate, poggiate su di uno sgabello di alluminio, mentre Nathan, appoggiato al tavolo accanto a lei, tamburellava i palmi sulla superficie liscia, con aria tranquilla e impaziente.

Così, alzando lo sguardo nella sua direzione, Ariel aggrottò le sopracciglia, con aria cagnesca.

«Ma...» iniziò a parlare, con le labbra secche e livide «Non vedi che non mi sento bene?» gli domandò, portandosi una mano sugli occhi.

«Tu non ti senti bene perché non vuoi stare bene. Il passato influenza troppo il tuo presente» furono le parole del ministro, lanciate come freccia improvvisa e letale nella sua mente.

«Perché mi dici questo?»

L'uomo gli avvicinò un cartoncino, spostandolo nella sua direzione col palmo della mano, nascondendone il contenuto.

«Cosa avevi intenzione di fare?»

Ariel, ancora preda di una testa pesante e girevole, aggrottò le sopracciglia con respiro lento, per poi rivolgere lo sguardo al cartoncino nero lucido.

Non ricordava di averlo mai visto.

Così lo prese con tre dita e lo portò vicino agli occhi. Era un cartoncino che riportava delle scritte fluorescenti di un colore purpureo, difficile da leggere su quel fondale scuro.

«È una macchinazione, Ariel. Una loro macchinazione.» esordì Nathan, con sguardo torvo.

«Non capisco...»

«Io so che tu sei stata sempre qui, in questi giorni, ma è molto strano che il vento abbia portato alla tua porta un invito al ballo del Dark Lithium, non trovi?»

Mentre il ministro pronunciò il nome del Lido in cui Ariel aveva scambiato delle battute con Judas, la mente cominciò a vorticare e provare una forte sensazione di nausea. Deglutì saliva, cercando di mettersi seduta e fissare il ministro negli occhi: «Io... Non so di cosa tu stia parlando...»

Nathan sospirò profondamente e rivolse lo sguardo all'ampia vetrata dietro la ragazza, che mostrava un cielo terso color zaffiro, prima di incrociare le mani e portarle alle labbra.

«Il tuo malessere spirituale si somatizza...» cercò di spiegarle «evidentemente hai un desiderio recondito nel tuo cuore...» ispirò poggiando il palmo sul dorso della sua mano «Puoi parlare con me, se vuoi. Non temere.»

Nel momento in cui Nathan le toccò la mano, la sentì così calda da ritrarla quasi subito dal suo tocco, mentre una consapevolezza sgorgava nel suo animo.

«Ne parlerò a Simon. Grazie Nathan, ti sono debitrice.»

«Assolutamente!» rispose con un sorriso rassicurante «Non sei più debitrice di nulla, da quando sei qui.»

 

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Capitolo 20
*** UN REGALO ***


La giovane Lucia si guardò allo specchio posto all'interno dell'anta dell'armadio, fissandosi con aria incerta.
Quella canottiera bianca e dal tessuto leggero, forse aveva uno scollo troppo evidente; nonostante il suo fisico non fosse dotato di forme accentuate, si sentì in imbarazzo.
Abbassò lo sguardo ai pantaloncini di jeans a vita alta che le aveva regalato Ariel, e avvertì la sensazione di avere le gambe troppo scoperte.
Tuttavia, le lancette della sveglia posta sul comodino segnavano l'orario dell'appuntamento e lei era ancora in camera.

Con gli occhi sgranati, decise di dirigersi di corsa in bagno con una fitta pulsante allo stomaco che le impediva di svolgere i più semplici movimenti, facendole tremare le mani che non riuscivano a tenere ferma la spugnetta del fard rosato.

Nel frattempo, Heliu era uscito fuori dai cancelli del Centro sulla moto di Nathan, e con sguardo rivolto alla porta di ingresso, attese l'arrivo di Lucia, in evidente ritardo.

Il giovane si incupì, considerando che, probabilmente, Lucia non aveva intenzione di uscire con lui. Quindi accese il motore del mezzo, serrando la mascella, avendo deciso di posare la moto al suo posto; ma, nel momento in cui si era posizionato sulla sella e aveva fatto rombare il motore, alzò lo sguardo verso Filadelfia un'ultima volta incrociando la figura attonita di Lucia, ansante.

La ragazza rimase immobile a fissarlo con occhi sbarrati, mentre il cuore batteva lo sterno quasi a voler staccarsi dal suo posto per uscire fuori dal corpo.

Era un'immagine che Lucia tentò di fotografare nella mente più e più volte: il ragazzo, in posizione di partenza e con le mani sul manubrio, volgendo lo sguardo verso di lei, spense il motore e drizzò le spalle larghe, rese evidenti dalla maglia bianca a maniche corte.

Poggiò il piede a terra, mostrando a Lucia tutta la sua figura, vestita di un pantalone nero e aderente abbinato a delle scarpe grigiastre che le parvero da tennis in stile vintage.

Il cuore le si fermò quando lo vide scendere dal mezzo per dirigersi verso di lei.

«Ehi...» pronunciò in tono caldo, una volta di fronte a lei e, levandosi dalla fronte una ciocca di capelli mossi con una mano, continuò: «Pensavo non saresti venuta» confessò in un sorriso sghembo.

«C... Cosa? Assolutamente! Non avrei mai potuto... Mai...» farfugliò e quando, volgendo lo sguardo verso l'interno del cortile, in cerca di Ariel, avvertì le sue labbra sulla sua guancia, trasalì.

«Bene! Andiamo?» le domandò prendendola per la mano fino a condurla vicino alla moto.

Era successo tutto così in fretta che, solo in quel momento, si rese conto di dover salire su quel ciclomotore, probabilmente incollata a lui, per tutto il tragitto.

Lui, vedendola esitare e in difficoltà la osservò incuriosito.

«Pensavo non ti spaventasse la moto. Sapevo che tuo padre ne aveva una...»

Quel tono di Heliu la mandava in confusione: non l'aveva mai ascoltato per così tante volte e attentamente. La sua voce le si incanalava dentro, attraversandola fino ad infiammarle il petto.

«Sì... Infatti non mi spaventa la moto in sé... ma...»

«Salirci con me, giusto?»

La ragazza si ritrovò a fissare gli occhi nei suoi, deglutendo, mentre lui le osservava le labbra rosee e brillanti di un filo di lucidalabbra.
«Per me è lo stesso... » intervenne rompendo il silenzio, e «Fidati...» concluse, porgendole la mano per aiutarla a salire in sella.

In quella frase, rimbombante nei suoi pensieri, Lucia pensò ci fosse qualcosa di più di un semplice timore della velocità in sua compagnia, ma non ci volle dare troppo peso, intenta a cercare un modo per salire sulla moto in modo decoroso, ma, come si aspettava, salì con fare incerto, tenendosi più volte dalle estremità del sellino. Si sentì così impacciata e imbarazzata che, una volta salita, dovette coprirsi il viso con le mani, ridendo, e mentre lui ricambiava la risata, montò sulla moto così velocemente che Lucia, tolte le mani dal viso, se lo ritrovò di fronte con un casco in mano.

«Cosa ci fai girato da questa parte?» lo interrogò, inarcando un sopracciglio.
«Non vorrai forse andare in giro senza casco, spero?» ribatté, alzando il tono.
«Certo che no, ma...» si bloccò, Lucia, e guardando la sua espressione implorante «so metterlo da sola...» concluse dispiaciuta.

«Ok!» disse lui, deciso, voltandosi verso la strada e, mostrandole le spalle, indossò il casco per poi iniziare a far ascoltare il suono del motore. «Pronta?» le chiese, mentre lei stava ultimando la sistemazione dei capelli sotto il vetro scuro, e, senza attendere la sua risposta, fece avanzare la moto di colpo, costringendo Lucia ad afferrarsi a lui che, inaspettatamente, le prese le mani per portarsele al petto in direzione dei suoi battiti.

La ragazza ci mise poco a decifrare le sensazioni del giovane che gli aveva condotto i palmi proprio in corrispondenza del suo cuore palpitante fin all'inverosimile.

***

Viaggiarono sferzati da una insolita brezza fresca, che solleticava le braccia nude di entrambi; percorsero un autostrada che mostrava sulla sinistra il sole lambire le acque del mare sottostante, in un tramonto che tinteggiava il cielo di colori pastello che si fondevano l'un l'altro, passando dal rosa, all'arancio e all'azzurro, per finire in un blu intenso.

Lucia osservò il paesaggio con un bruciore all'altezza dello stomaco, mentre un'improvvisa svolta a destra le permise di osservare il paesaggio da una diversa altezza e, all'improvviso, un ricordo le balenò nella mente: l'immagine di una croce bianca che illuminava le acque scure del mare.
Fu così che, volgendo lo sguardo in alto vide quella croce sovrastare il promontorio a cui stavano andando incontro, immersi nel verde della bassa vegetazione.

La moto si fermò sotto una ripida scalinata, con gradini di cemento, che dava accesso alla cima del promontorio Raphael.

Lucia era così intenta a contemplare la maestosità di quella struttura da non rendersi conto che Heliu era già sceso dal mezzo.

Così, battendo le ciglia un paio di volte, rivolse lo sguardo al giovane, mordendosi le labbra e ingoiando un nodo in gola che le fece scintillare gli occhi.

Lui le tese la mano con un mezzo sorriso, senza pronunciare parole, accompagnandola lentamente su ogni gradino.

Quando il piede di Lucia toccò il terreno molle su cui sorgeva la croce, venne colpita da una folata di vento che la costrinse a tenersi dalla ringhiera che, fortunatamente, circondava tutta l'area. Heliu, sgomento, la tenne dalle braccia nude, su cui erano evidenti i brividi e fissando gli occhi nei suoi tentò di decifrare le sue sensazioni.

«Hai freddo?» le domandò con aria preoccupata.
Lei deglutì, tremante, negando col solo cenno della testa.

Era più forte di lei: non riusciva a proferire suono. Erano tante e forse troppe, le emozioni che elettrizzavano ogni suo centimetro di pelle chiara.
 

Passarono i minuti, così, in silenzio, l'uno accanto all'altra, poggiati alla ringhiera di quel monte roccioso, sovrastato da una croce, ascoltando il rumore impetuoso del vento che aveva fatto avvicinare delle nuvole minacciose.

«Grazie, Heliu. Non dovevi...»

Il suono della voce tremolante di Lucia fece destare Heliu. Era posto con la schiena curva e i gomiti poggiati sul ferro del parapetto, fissando il mare grigio e le onde che si infrangevano contro gli scogli sottostanti.

La fissò, avrebbe voluto dirgli molte cose, ma capì che la ragazza, in quel momento, aveva bisogno solo di contemplare quel luogo.
Così sorrise, avvicinandosi a lei di un passo, lasciando scivolare il palmo della mano sinistra lungo il parapetto fino a sfiorarle le dita.

Lei si voltò piano; guardò la mano di Heliu sulla sua e il cuore colpì lo sterno ferocemente, incapace di pulsare in maniera regolare da almeno un'ora.

Non seppe alzare il viso verso di lui, realizzando che, se l'avesse fatto, sicuramente avrebbe incrociato i suoi occhi marroni, gli unici che riuscivano a destabilizzarla talmente tanto da renderla estremamente vulnerabile.

Ma le dita di Heliu continuarono la loro corsa, percorrendo il braccio nudo fino ad arrivare al collo per fermarsi alla nuca della giovane che, con occhi sbarrati e labbra dischiuse, lo osservò, avvertendo sul viso un fuoco che si propagò su ogni centimetro del suo esile corpo.

Heliu sorrise, alla vista di quel rossore che rendeva evidenti le sue più intime emozioni.
«Non devi ringraziarmi di nulla...» le rispose, quasi mormorando al vento, mentre una goccia di acqua proveniente dal cielo cadde proprio sulle ciglia di Lucia e, percorrendo la guancia in un rivolo trasparente, si posò sulle sue labbra che si strinsero per saggiarne il sapore salato, prima di avvertire la dolcezza delle labbra di Heliu, poggiate sulle sue quasi a voler chiedere un permesso che non tardò ad arrivare.

Le labbra di Lucia premettero su quelle di Heliu. La pioggia li bagnò interamente, costringendoli a stringersi nel calore di un abbraccio.

 

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Capitolo 21
*** IL DARK LITHIUM ***


La pioggia battente picchiettava sull'ampia finestra posta al lato del corridoio del terzo piano del Centro di aggregazione, creando rigagnoli d'acqua trasparente; una pioggia che cadeva copiosa sugli alberi di pepe rosa che ornavano il cortile del Centro e visibili dal punto in cui Ariel era in attesa di parlare con Simon, con i palmi sul davanzale di marmo, immersa in oscuri pensieri che le fecero appoggiare la fronte al vetro dell' ampia finestra, chiudendo gli occhi in un lungo sospiro.

Da lì, poté vedere l'arrivo di Heliu e Lucia che correvano schizzando dalle pozzanghere, completamente sudici d'acqua ma stretti l'uno a l'altra sotto la giacca di pelle del ragazzo.

Non avrebbe voluto vedere anche quella scena che le procurò fitte allo sterno come stalattiti conficcate nell'animo.

Così si voltò verso la porta, dopo aver atteso il coraggio di comunicare a Simon la sua volontà: andare alla festa annuale del Dark Lithium.

Era la festa a cui tutti i laureandi cercavano di infiltrarsi e che si svolgeva nel lido appartenente alla famiglia Damian ogni anno da almeno cinque estati e Ariel non era mai riuscita ad entrarci, osservando dal parapetto del lungomare le giovani figure dei colleghi dell'università muoversi sinuosamente, al suono della tipica musica latina del Dark Lithium.

Dopo tutto quel pensare, Ariel bussò leggermente alla porta di legno massello dello studio di Simon, quasi senza sfiorare la superficie legnosa e ruvida, aspettando il suono delle parole del padre che la invitavano ad entrare.

«Avanti!»

Aprendo la porta vide Simon con la fronte poggiata sui polpastrelli della mano destra, con gli occhi chiusi e il respiro concitato.

Ariel deglutì in un momento di ripensamento.

Cosa stai facendo, Ariel?

Una voce, risalente dal cuore palpitante, la richiamò, mentre si avvicinava lentamente alla scrivania.

«Simon...» disse, incerta.

«Sì, Ariel. So già cosa vuoi dirmi.»

Ariel fece un profondo sospiro, chiudendo gli occhi e serrando la mascella, decisa nel compiere il suo proponimento, qualunque cosa le avrebbe detto Simon.

Così attese, stringendo le braccia al petto, senza sedersi.

«Non penso, certo, che tu voglia chiedermi il permesso per andare alla festa del Dark Lithium...» sospirò il padre, volgendo lo sguardo accigliato alla giovane «Tuttavia, speravo che il mio parere contasse di più per te.»

La ragazza avvertì un colpo al cuore, considerando quelle parole come una lama affilata, capace di ferire l'anima, con rude sincerità.

«Quindi, è così. Hai deciso anche tu di non credermi»

La voce di Simon era un soffio flebile, di chi è stanco di pronunciare parole che sarebbero state gettate al vento; lo sguardo duro e scavato dalle occhiaie, le incuteva timore.

Così si avvicinò alla scrivania, accarezzandone i bordi levigati con i palmi sudati.

«Io voglio solo trovare Joshua» disse, fissando gli occhi nei suoi e curvando la schiena nella sua direzione.

«No» rispose atono il padre, «tu vuoi vendicarti di Acab.» guardando oltre la sua figura.

«Può essere» commentò, abbassando il mento.

«E pensi sia così semplice? Sei davvero così sicura di cavare dalla bocca di Acab la verità?»

«Certo che no!»

«E allora cosa farai di fronte ad un seduttore come Acab?»

«Farò quello che lui ha fatto a me»

Le labbra di Simon scomparvero nella folta barba rossiccia e gli occhi nocciola inchiodarono quelli di Ariel.

«Stai commettendo un grossissimo errore, Ariel. Tu non puoi rispondere al male col male.»

Ariel, al sentire quelle parole, sospirò rumorosamente, mostrandogli la schiena e le mani che affondavano nei capelli.

«Ah, già. Il perdono!» esclamò in tono acuto, rivolgendo lo sguardo di nuovo a Simon.

«Tu non ci credi più, non è così?» le domandò, con un sorriso sghembo.

«Penso che il tuo digiuno e la tua preghiera non bastino più. Guardati, ti stai logorando.» gli occhi le divennero lucidi, osservando la figura di Simon, che appariva, da qualche tempo, inconsistente.

«Ariel, ti prego, non prendere lo spirito di Joshua o» chiuse gli occhi con un nodo in gola «o perderai la tua anima... »

«E cosa dovrei fare?» domandò con astio, battendo i pugni sulla superficie del tavolo.

«Perdonare.»

«No! Non puoi chiedermi questo!»

«Ariel,» sospirò, chiudendo gli occhi e abbassando il capo alle mani congiunte «mi hai dato la stessa risposta che mi diede Joshua, la sera della Cattedrale»

«Che intendi dire?»

«Intendo dire: che se vuoi vincere il seduttore devi credere alla mia parola»

«Non posso perdonare. Mi dispiace.»

La risposta di Ariel non aveva bisogno di altre considerazioni, tanto che, una volta avvicinata alla porta per uscire dallo studio, Simon le disse solamente: «Io non posso impedirti di andare all'inferno. È questo il libero arbitrio.»

***

Mentre Acab passeggiava di fronte alle sbarre della cella di Joshua, facendo echeggiare le suole delle sue scarpe eleganti all'interno del tunnel che ospitava il martire giacente inerme al suolo, constatò che si trovava lì, nella medesima posizione, ormai da settimane, con la guancia incollata al pavimento roccioso e umido di quel covo, aspettando l'arrivo di Lilith che ogni giorno gli riservava pene singolari.

La sera precedente l'aveva fatto mettere in ginocchio e, tenuto con catene ai polsi, gli aveva affondato le mani nei capelli bagnati, tirandoglieli fino a far piegare la testa all'indietro per fissare il suo sguardo, ormai spento e contornato da lividi.

Si era posta alle sue spalle, con gambe divaricate, reggendo nella mano sinistra una frusta di cuoio, che schioccò quasi a lambire il viso del giovane.

«Che strana situazione» pensò ad alta voce «non trovi, Acab?»

Il ragazzo, ormai fermo e appoggiato al muro antistante la cella, se ne stava con le braccia e le gambe incrociate, in attesa del flagello, mentre i lunghi capelli corvini gli sfioravano gli zigomi.

Storcendo le labbra, Lilith sbuffò e, senza ricevere risposta dal fratello, iniziò a ferire Jhoshua con un paio di colpi alle spalle, che iniziarono a rigarsi di sangue.

Gemette, senza riuscire ad emettere alcun urlo da quelle corde vocali ormai lacerate.

«È strano perché...» iniziò Lilith «sembri tanto il tuo Signore, nel momento della flagellazione» e rise di gusto «I nostri antenati ne hanno sparso del sangue che ora tanto venerate. Non è così, Joshua?» gli domandò sussurrando, piegandosi fino al collo del ragazzo e sfiorandogli le orecchie con le labbra, mentre il giovane faceva tremare le spalle intonando un silenzioso pianto disperato.

Acab rifletté sulle parole della sorella, e, dopo aver sentito crepitare l'ultimo colpo di frusta, si staccò dal muro di pietra e si avvicinò alla cella.

«Perché facciamo questo?» domandò Acab, con aria interrogativa, mentre Lilith gettava malamente il suo strumento di tortura in un angolo e gli si avvicinava.

Lo guardò aggrottando le sopracciglia, rispondendo dopo averlo studiato con gli occhi glaciali: «Non ti conviene fare domande. Obbedisci e basta, se vuoi vivere ancora a lungo.»

Acab sentì pulsare le pareti dello stomaco che si contorse, provocando uno sguardo accigliato e una mascella serrata.

«Quale vita, Lilith? Quella in cui io sto qui ad inalare zolfo e ad ascoltare il picchiettare del sangue che cola dalle pareti, con le urla di bambini che rimbombano nelle mie orecchie mentre voi organizzate feste e vi divertite alle mie spalle? Eh?» la strattonò.

«Per voi la mia vita vale meno dell'ultimo dei vostri scagnozzi» gli ringhiò a denti stretti e voce bassa, avvicinandosi al viso pallido della sorella.

Le vene visibili e pulsanti delle tempie, fecero comprendere alla giovane che Acab avrebbe potuto farle rimangiare qualsiasi altra parola, se solo avesse continuato ad imporgli un silenzio che durava ormai da troppi anni.

Così deglutì e gli voltò le spalle, salendo le scale ferrose che cigolarono sotto i passi lenti.

A differenza della sera precedente, un suono di tacchi femminili non sembrò ricordargli affatto l'andatura della sorella.

«Sorellina, non pensi di aver fatto abbastanza ieri?» scherzò, appoggiato con una spalla al muro di pietra.

Una donna, avvolta in un manto nero e coperta da un cappuccio, si materializzò sbucando fuori da una nuvola di fumo nero alle spalle del giovane facendolo sussultare.

Il moro fissò i suoi occhi vitrei, austeri come quelli di una regina, e, scostandosi di un passo dalla cella, le lasciò valicare l'ingresso, dopo aver aperto la serratura e fatto stridere il metallo al suolo roccioso.

«Regina, stai facendo un grosso errore» mormorò Acab, alle spalle di colei che adesso aveva mostrato il volto ambrato e gli occhi grigi, abbassando il cappuccio lucido sulle spalle.

«Io non prendo ordini da voi. Questo lo sai bene.» affermò risoluta, mentre la mano destra si inseriva all'interno del suo mantello, per farne uscire una caraffa di vetro trasparente, fissando in silenzio il corpo immobile di Joshua, scosso, di tanto in tanto da colpi di tosse.

«Perché lo fai?» le chiese con tono sommesso, mentre la osservava piegarsi sulle ginocchia e far scorrere quel liquido trasparente sulle labbra aride di Joshua che iniziò a bere come chi non aveva mai conosciuto il gusto della freschezza.

«Perché non avete rispettato i patti.»

Acab, preda del respiro accelerato, dato dalla situazione precaria della donna, che, se vista da qualcuno avrebbe perso la vita insieme a lui, si morse il labbro inferiore, stringendo le mani ai tubi ferrosi di quella gabbia, facendo diventare le nocche bianche, mentre lo sguardo veniva rivolto alle aree di fuga da cui sarebbero potute arrivare gli agenti di Judas.

«Tu sai che io non so nulla.» ringhiò, facendo vibrare le sbarre.

«Perché anche tu sei una vittima. Proprio come me.»

Acab sbarrò gli occhi, incredulo «No, cara, ti sbagli» disse. «Io sono uno degli eredi della famiglia Damian»

«E allora perché ti lasciano qui a poltrire mentre loro fanno la bella vita, eh?» gli occhi grigi della donna lo puntano austeri, mentre, facendo forza sulle gambe, si alzava lentamente per proseguire: «Io sono una strega nera e servo solo per accalappiare gentaglia da reclutare per il loro esercito. Tu non sei poi tanto diverso da me, caro Acab.» concluse, fissandolo senza uscire dalla cella.

«Allora perché non scappi?» gli domandò il giovane, con aria confusa.

«Perché aspetto che il loro Dio mi dia un segno.»

Acab la guardò con sopracciglia aggrottate.

«Il loro Dio? Stai scherzando, spero!» domandò, sbeffeggiandola con una risatina sarcastica.

A quel punto la donna avanzò nella sua direzione, ma nel farlo si sentì tirare la tunica dall'estremità.

«Chiunque dà un solo sorso d'acqua ai miei minimi, l'ha fatto a me...»

La donna sgranò gli occhi verso il viso tumefatto di Joshua, che le teneva l'estremità del mantello dopo aver pronunciato a voce roca quell'unica frase.

«Vai via! Sta arrivando qualcuno!» esclamò Acab all'improvviso, prendendo dalle spalle la donna dal manto nero per dirigerla verso uno dei tunnel sotterranei.

Lei non aveva smesso di guardare Joshua, anche quando gli occhi erano diventati lucidi; così, prima di scendere un gradino, rivolse lo sguardo al giovane dai capelli corvini poggiandogli la mano sul petto per bloccarlo.

«Tante cose avresti dovuto sapere,» disse, dirigendo il palmo della mano sulla sua guancia rasata dopo aver accarezzato la curva del suo viso «ma spero che il loro Dio ti dia l'occasione di conoscerle» concluse in un sorriso amaro prima di voltarsi per scomparire in una nube nera e giungere nelle oscurità della terra.

Mentre Acab cercava una spiegazione a quelle parole, corrugò la fronte e, voltandosi, si ritrovò d'avanti al viso di Judas, a pochi centimetri dal suo naso; il respiro e il battito gli si bloccarono inevitabilmente.

Gli occhi chiari, oscurati dalle sopracciglia aggrottate e l'ovale spigoloso suggerirono ad Acab di abbassare lo sguardo alla pavimentazione di pietra.

«Da quanto tempo sai che Regina cura quel cristo, eh?»

Acab deglutì senza alzare lo sguardo, serrando i pugni ai fianchi, mentre rivoli di sudore ghiacciato colavano raffreddandogli le tempie, il collo e ogni muscolo tremava in maniera incontrollata.

E' giunta la mia ora...

«Non rispondi?» gli domandò tra i denti, avvicinando il respiro al suo orecchio.

Acab non ebbe il tempo di accorgersi di nulla, se non quando l'impugnatura della pistola gli ferì il capo, finendo in ginocchio ai piedi del padre.

Un colpo ben assestato, ma che, volutamente, non era stato destinato alla morte del giovane che adesso vedeva colare il sangue fino a sporcargli la camicia bianca e oscurargli la vista.

«Avevo grandi progetti per te, ma tu hai preferito recalcitrare al richiamo del potere più grande: quel potere che muove il mondo e che risiede nei nostri cuori di pietra.»

Un conato di vomito risalì l'esofago di Acab che tossì rumorosamente mentre le scarpe di Judas si allontanavano per percorrere le scale di ferro

«Portaci il Leone e ci fideremo nuovamente di te, figliolo.» urlò in un eco.

Il rumore delle suole che facevano cigolare i gradini suggerì ad Acab la lontananza del padre e lì, in ginocchio, fissando quel colore che ormai caratterizzava quel luogo, non trovò altra via d'uscita se non quella di eseguire l'ordine.

Così si alzò in piedi, facendo leva sulle ginocchia tremanti, cercando di mantenere una mente lucida e di non rimettere anche l'anima; proseguì piano e, a passi trascinati, sfiorò le pareti di roccia umida con le mani sporche di sangue fino alla ringhiera che dava al pian terreno, lanciando un ultimo sguardo torvo al giovane Joshua che stillava lacrime da quando Judas aveva fatto riferimento ad Ariel.

Non gli importò.

Sputò via l'ultimo grumo di sangue che gli era colato sulle labbra e salì le scale con la vista che gli si annebbiava.

***

 

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Capitolo 22
*** NON HAI PAURA? ***


Quando Ariel tornò in camera sua, aprì le ante dell'armadio e fissò le mensole semivuote, andando alla ricerca di un vestito adatto al luogo in cui avrebbe dovuto sedurre ma non essere sedotta.

Fece un lungo sospiro portando il dorso della mano sulla sua fronte umida di un sudore provocato da sentimenti di ansietà e paura; non era certo uno scherzo stare di fronte a colui che spesso l'aveva manipolata per produrre male a se stessa e a coloro che amava, ma, in quel momento, le lancette dell'orologio da polso correvano veloci; quindi si scrollò di dosso quei pensieri con un rapido gesto del capo e prese di scatto un vestito nero appeso in fondo al guardaroba per poi gettarlo sul letto ordinato.

Ancora con il telo avvolto in vita, si diresse verso la cassettiera per cercare dei trucchi adatti alla serata; per entrare alla festa del Dark Lithium vi era un'unica via: possedere il prezioso invito e presentarsi vestiti e truccati di nero. Chiunque non avesse rispettato una delle prerogative avrebbe perso l'occasione di introdursi alla festa più esclusiva della città.

Così Ariel si guardò a lungo allo specchio posto all'interno dell'anta, mentre si spruzzava un eccessiva quantità di profumo dall'aroma speziato e floreale; il suo sguardo era scurito dalla polvere di kohl e le labbra erano messe in risalto da un rossetto dalla tonalità scurissima ma lucida.

Dopo un'ultima pennellata di fard uscì di corsa da quella camera con l'incedere di un soldato che sta per andare in trincea.

In quel momento Nathan e Simon si trovavano insieme nello studio e non potevano non accorgersi dei tacchi rumorosi che percorrevano le scale.

«Così, l'hai lasciata andare...» commentò Nathan con aria perplessa, posto con i gomiti sulla scrivania del padre e il mento tra le dita intrecciate.

«Nostro Padre è così che si muove:» spiegò, posto in contemplazione di fronte all'ampia finestra del suo studio, che mostrava il cortile del Centro e la ragazza che lo stava percorrendo di corsa «ci lascia liberi di sbagliare, di fare le nostre esperienze e, a volte, muta le nostre azioni sconsiderate in opere buone, per la nostra salvezza».

«Però...» sospirò il ministro dal capo riccioluto «Quell'invito è stata un'autentica dichiarazione di guerra!»

Simon rise sotto la folta barba, disegnando tre curve ai lati degli occhi, poi roteò il busto nella sua direzione, fissando amorevolmente lo sguardo sul viso turbato di Nathan e gli disse: «Come ben saprai: se le tenebre scatenano l'inferno, io sono pronto a scatenare il paradiso!»

***

Ariel aveva dovuto prendere due autobus per arrivare al Lungomare che percorreva la costa cittadina, con non pochi disagi dovuti alla sua figura vestita di un abito nero lungo fino ai polpacci, con una spacca centrale che arrivava a metà coscia; il tessuto morbido le fasciava il busto e lasciava poco spazio all'immaginazione della sua fisicità; la scollatura disegnava una "V" sul suo petto e le spalline erano fili finissimi che si intrecciavano nella schiena nuda in un reticolo sinuoso.

Percorrendo la via marina della piccola città di Filadelfia, con la brezza salmastra che le scompigliava i capelli ondulati e sotto lo sguardo voglioso di alcuni passanti, Ariel si dirigeva a passo spedito verso il Dark Lithium, che faceva brillare rami di luce purpurea verso il cielo scuro, ben visibili già da molto lontano, reggendo solo una pochette nella mano sinistra, incurante dei fischi che alcuni ragazzi le riservavano senza alcun ritegno.

Gli occhi bassi scrutavano la pavimentazione lineare e biancastra del Lungomare, facendo attenzione a non inciampare rovinosamente su qualche chewingum appena gettato da qualche passante incivile.

Pian piano, la tipica musica latina aumentava di volume, accompagnando le estati dei maturandi e le sessioni estive degli universitari che si concedono la dolce euforia di una notte di balli e nuove conoscenze.

Così aumentò il passo, stringendo tra le dita l'invito che avrebbe dato accesso al locale.

L'uomo al quale si avvicinò era di molto più alto di lei, tanto che, per mostrare il biglietto, Ariel dovette mettersi sulle punte, nonostante i tacchi.

Una volta entrata, sentì scemare la musica che l'aveva accolta.

Osservò coppie di ballerini dileguarsi a destra e sinistra, quando ad un tratto i suoi occhi si incastonarono a quelli del volto di un ragazzo a lei conosciuto.

Era in piedi, con un bicchiere di vetro tra le labbra dischiuse; gli occhi di ghiaccio erano sbarrati fin all'inverosimile e la fissavano con stupore. Il ragazzo posò lentamente il bicchiere contenente un liquido ambrato su un tavolino a lui vicino senza staccarle gli occhi di dosso.

Lui non seppe decifrare la sensazione di averla lì, a un pochi passi dalle sue mani, senza aver fatto nessuno sforzo per scovarla.

Una bellissima coincidenza...

Lei restò lì, immobile, osservandolo come fosse la prima volta, con un bruciore all'altezza dello sterno: i capelli corvini erano legati dietro la nuca; i pantaloni neri, aderenti, svelavano la forma simmetrica degli arti inferiori ma ci fu un particolare che incuriosì la vista di Ariel: mentre tutti i presenti non avevano osato indossare nemmeno un accessorio chiaro, lui mostrava il bianco di una canottiera sotto una camicia nera, sbottonata sul davanti.

Mentre lo stava osservando, Acab iniziò a muovere dei passi nella sua direzione, con un mezzo sorriso compiaciuto, ma con l'andatura insicura e trascinata. Ariel inspirò profondamente e rivolse lo sguardo altrove, studiando il luogo in cui si trovava, rivolgendo gli occhi in ogni dove alla ricerca di un piano bar e di eventuali vie di fuga.

Il locale era costituito per lo più da piani in legno scurissimo che comprendevano la pavimentazione e i parapetti dei balconcini che davano sul mare, ma risultava poco agevole così pieno di persone. Il piano bar era stracolmo di giovani, ma il barman non sembrava dolersi più di tanto.

Decise quindi di avvicinarsi per rinfrescare il palato riarso, ma il tocco gelido di Acab sulla spalla scoperta, la fece sussultare e voltare indietro, dove incontrò i suoi due zaffiri che le inchiodarono lo sguardo prepotentemente, mentre una musica dolce e sensuale si insinuava nei loro pensieri.

«Mi concedi questo ballo?» domandò lui, posando le labbra sul dorso della mano destra di Ariel che lo fissò a lungo con occhi spalancati prima di annuire impercettibilmente. Dopo qualche istante, ricordandosi il motivo per cui si trovava lì, drizzò la schiena facendo scivolare dalla spalla i lunghi capelli castani ricchi di onde ramate, mostrando il collo e la scollatura; le dita scivolarono lungo quelle di Acab le quali strinsero con dolcezza la mano di Ariel mentre i polpastrelli del palmo destro le sfioravano la parte nuda della schiena; lo scrutò a lungo senza emettere suono, mentre lui seguiva i passi lenti ed incerti di Ariel con il capo chino sui piedi.

Qualcosa non andava nei piani di Ariel: era certa che Acab avrebbe potuto farle del male in qualsiasi momento, ma lì, di fronte a lui, e a stretto contatto con il suo corpo, non sentì alcuna necessità di fuga.

Che sia questo il suo potere?

Mentre questo pensiero la lasciava perplessa, lui si mosse, curvandosi verso il suo orecchio e le chiese: «Non hai paura?»

Una voce suadente e profonda le provocò una lieve scarica elettrica dalla nuca fin a raggiungere ogni centimetro di pelle olivastra; parole dette in un soffio caldo vicino al lobo dell'orecchio, le dita che accompagnarono i capelli per scoprire il collo e per poggiare la guancia al suo viso, le mani che le prendevano i polsi per far sì che le braccia potessero cingergli il collo.

Le riservò quei gesti in maniera così delicata che il cervello andò in confusione: azioni estranee al suo modo di essere, che non gli appartenevano. O almeno, credeva fosse così.

«Non mi hai ancora risposto...» constatò Acab.

«Devo proprio?» rispose lei, in imbarazzo e con l'ansia che martellava nel petto.

«Sì. Altrimenti non potrò portarti lontano da qui...» le sussurrò, stringendola a sé fino a mozzarle il fiato.

In quel momento Ariel si accorse che Acab era impregnato di un odore acre misto ad alcol, provocando nella sua mente un campanello d'allarme che le attivò l'adrenalina.

Gli si staccò bruscamente, spingendolo su un passante, percorrendo tutta la pista da ballo fino ad arrivare all'esterno dove una scalinata di legno conduceva sulla spiaggia.

Con respiro concitato, fece scivolare il palmo sul corrimano legnoso, scendendo velocemente finchè si fermò ansante sul penultimo gradino; vi si sedette girandosi verso l'interno del locale di tanto in tanto, cercando di sciogliere le fibbie dei sandali vertiginosi per camminare sulla rena a piedi nudi e scappare il più lontano possibile da quel luogo.

«Quindi avevi paura...»

Gli occhi scuri di Ariel si alzarono lentamente per identificare il volto della persona che gli aveva parlato con tono sarcastico.

Acab le stava di fronte, intento ad arrotolarsi le maniche della camicia fino ai gomiti con dei ciuffi neri che gli ricadevano sugli occhi; e mentre la luce bianca della luna illuminava le tenebre di quel lembo di terra, Ariel sentì il freddo della morte gelare le vene e percorrere in gocce trasparenti la sua fronte.

Si immobilizzò deglutendo saliva, prima di cercare di alzarsi. Lui con un balzo gli si fiondò addosso bloccandole ogni via di fuga: le mani le stringevano i polsi al petto e le ginocchia le fermavano i fianchi, mentre il soffio pesante del suo respiro le arrivava sulle labbra.

«Pensi che sia così stupido?» gli ringhiò a denti stretti «Pensi che non sappia che i tuoi amici siano qua fuori?»

Ariel, con mento tremolante, tentò di alzarsi, ma lui la strinse di più ai bordi dei gradini legnosi, fissandola con uno sguardo truce «Avresti potuto essere la parte migliore della mia morte, ma hai deciso di scappare...» le confidò «Volevo solo un po' di calore... » concluse con fronte corrugata e sguardo malinconico.

«Sei ubriaco!» urlò, cercando di divincolarsi, in preda al panico, cercando di spingerlo via con la sola forza delle mani.

«Può darsi...» commentò osservandola interamente nel momento in cui il vestito lasciava scoperte le gambe, infiammandolo; ma in quegli occhi terrorizzati e lucidi non ci trovò nulla di piacevole, se non una fitta lancinante alle tempie, tanto che si alzò di scatto tirandola su dalle braccia.

Fece un passo indietro, respirando a fatica e, portando tre dita sulla fronte, chiuse gli occhi pesanti.

Ariel avrebbe potuto fuggire in quel momento, ma il terrore che la bestia in cui l'adepto avrebbe potuto tramutarsi la assalisse nuovamente nella fuga la inchiodò alla sabbia soffice.

«Devo portarti con me, Ariel...» le confessò con occhi chiusi in una smorfia di dolore.

Con il petto ancora dolorante, Ariel fece fatica a comprendere quanto stava accadendo: Acab era in evidente stato confusionale e il rivolo di sangue che gli spuntò sulla canotta bianca le fece gelare il sangue; poco le importò se il tono usato per nominare il suo nome fu profondo e particolarmente pacato per essere pronunciato da uno che, in passato, non aveva esitato a mettersi in macchina per uccidere due ragazze appena fuori dall'università.

«Ok. Verrò con te» intervenne poi con voce tremolante la castana, guadagnandosi lo sguardo incredulo del giovane «Solo... Dimmi se è ancora vivo...»

Il solo presentimento che, di lì a poco, avrebbe potuto vedere Joshua in punto di morte, le fece versare copiose ma silenziose lacrime.

Dall'alto di uno dei balconi del locale, Judas osservava la ragazza dirigersi sulla rena seguendo Acab.

«Bravo ragazzo» commentò sorseggiando dal suo bicchiere semi vuoto.

Ariel seguì Acab a passi lenti, percorrendo a piedi nudi quel poco tratto di spiaggia umida fino a sentire lo scrosciare delle acque calme lambire i suoi piedi. Era acqua nera come la notte in cui l'occhio si perdeva alla ricerca dell'orizzonte, in quel cielo che sembrò essere scomparso nei flutti.

La mano gelida di Acab prese quella tremante di Ariel, e dopo aver estratto dal taschino dei jeans scuri un ellisse metallico, lo portò alle labbra per stringerlo tra i denti mentre congiungeva i palmi della ragazza.

Lei era silenziosa, con lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi fissi al vortice che si era aperto a pochi metri da loro e si ricordò che Judas l'aveva utilizzato per scendere negli abissi, qualche tempo prima.

Da allora erano passati esattamente sette mesi.

Un numero che alimentò le calde lacrime che percorrevano il viso di Ariel.

Acab le chiuse i polsi dentro quel freddo metallo e lo strinse tanto da provocare una smorfia di dolore nel viso livido della giovane.

«Di solito» intervenne con voce cupa «le mie vittime sono già svenute prima di varcare la porta d'ingresso al mio mondo...» sospirò guardandola, per poi irrigidire la mascella.

La condusse verso il passaggio, camminando all'indietro mentre gli occhi non smettevano di fissarla e un dolore al petto gli assaliva lo sterno.

Poi si fermò, poco prima di varcare l'oblio, e sfiorandole le braccia nude, la costrinse a guardare il Lungomare.

«Guarda ciò che gli uomini pensano di non vedere; ascolta ciò che gli uomini pensano di non ascoltare; senti ciò che gli uomini pensano di non sentire, perché laggiù non ci sarà più... »

Ariel avvertì nelle sue parole un chiaro riferimento a quella presenza costante che accompagna ogni essere vivente e, nel suo cuore, pregò intensamente che quelle parole non fossero veritiere.

Poi l'avambraccio di Acab le cinse la vita, mentre l'altro le bloccava la gola. Senza il tempo di accorgersi di nulla, iniziò la sua caduta verso ombre impenetrabili, tra le sue urla e quelle di altri esseri sinistri mentre il suono dell'acqua scrosciante, pian piano, non si udì più.

***

Quella sera, Simon non riuscì a chiudere occhio; il buio di quella notte era più impenetrabile delle altre.

Alte preghiere giungevano dalla Chiesa di Filadelfia, riunita in un solo, strano presentimento: che il nemico avrebbe fatto la sua comparsa tra le mura del Centro.

Nathan, a capo del gruppo di preghiera, insieme a Lucia ed Heliu in lacrime, invocava Quel Nome che avrebbe avuto la potenza di arrivare lì dove gli uomini non possono: il Nome di Gesù Cristo.

«Ti stavo aspettando...» mormorò Simon, bloccato nel suo letto in posizione supina, in un rantolo.

Judas uscì dalle ombre della camera di Simon con un ghigno e la mano tesa sul corpo del padre che avvertiva il peso di un macigno sul petto e gli arti come atrofizzati.

«Quindi l'hai mandata tu alla gogna. Ben fatto, padre.» come rasoi che solcano la pelle facendo sanguinare, così furono accolte quelle parole da un Simon dal volto scarno che tossì emettendo un gemito, tra i denti.

«E quindi tu cosa sei adesso? Sei diventato una nullità, a quanto vedo...» sbuffò prima di spostare il palmo della mano sinistra verso la parete opposta al letto, scaraventando Simon al suolo.

«Io...» tentò di rispondere Simon, che, avendo battuto contro il comodino al lato del letto, sentì un caldo rivolo di sangue scivolare dalle narici al mento tremante «Io sono...»

Cercò di rialzarsi, ma le braccia non riuscivano ad obbedire ai comandi nervosi, fino a quando non vide le scarpe lucide di Judas a pochissima distanza dal suo viso.

«Non ti sento...» e, con un calcio all'addome, Judas bloccò il respiro di Simon mentre con un altro movimento del palmo lo spostò dal pavimento in cui giaceva fino al davanzale della finestra, con la sola forza del suo spirito.

Il colpo violento della testa al marmo del parapetto interno della finestra, provocò una profonda ferita al capo del padre, che emise un grido di dolore.

Judas gli si avvicinò. Lo prese dal colletto della camicia e lo sbatté contro i vetri della finestra.

«Facciamo così:» pronunciò in un ghigno Judas, mentre un fascio di luce lunare illuminava il suo pallido viso e gli occhi rossi come il sangue «se tu smetti di insegnare ai tuoi figli come arrivare al potere, io libererò Joshua e Ariel!»

Quella proposta, nel momento in cui la vista gli si annebbiava, provocò una fitta al petto dilaniato mentre ogni luce sembrò allontanarsi da lui.

La debolezza dei digiuni impediva a Simon ogni movimento, così Judas, che non udiva risposta, agitò l'indice della mano destra per aprire in un attimo l'ampia finestra, portando Simon in piedi sul davanzale esterno, con un balzo, bloccandogli la gola con il braccio.

«Ma guarda che coincidenza: il tuo Signore sul pinnacolo del tempio e tu che osservi quello della tua chiesa, ad un passo dal baratro. Non è esilarante?»

«Non hai alcun potere qui!» riuscì ad urlare, fissando gli alberi del cortile ondeggiati da un vento infuocato.

«Tu ancora non hai capito con chi hai a che fare!» esclamò, mentre Simon sentì una morsa che stringeva le membra come spilli acuminati.

«Se mi uccidi, non avrai la vittoria!» urlò Simon, ormai sulla soglia del davanzale, a un passo dal vuoto.

Poi un bagliore, accompagnato da un boato e dal rumore della porta che si aprì violentemente, fece cadere Judas e Simon all'indietro, dentro la stanza.

Quando Ariel tornò in camera sua, aprì le ante dell'armadio e fissò le mensole semivuote, andando alla ricerca di un vestito adatto al luogo in cui avrebbe dovuto sedurre ma non essere sedotta.

Fece un lungo sospiro portando il dorso della mano sulla sua fronte umida di un sudore provocato da sentimenti di ansietà e paura; non era certo uno scherzo stare di fronte a colui che spesso l'aveva manipolata per produrre male a se stessa e a coloro che amava, ma, in quel momento, le lancette dell'orologio da polso correvano veloci; quindi si scrollò di dosso quei pensieri con un rapido gesto del capo e prese di scatto un vestito nero appeso in fondo al guardaroba per poi gettarlo sul letto ordinato.

Ancora con il telo avvolto in vita, si diresse verso la cassettiera per cercare dei trucchi adatti alla serata; per entrare alla festa del Dark Lithium vi era un'unica via: possedere il prezioso invito e presentarsi vestiti e truccati di nero. Chiunque non avesse rispettato una delle prerogative avrebbe perso l'occasione di introdursi alla festa più esclusiva della città.

Così Ariel si guardò a lungo allo specchio posto all'interno dell'anta, mentre si spruzzava un eccessiva quantità di profumo dall'aroma speziato e floreale; il suo sguardo era scurito dalla polvere di kohl e le labbra erano messe in risalto da un rossetto dalla tonalità scurissima ma lucida.

Dopo un'ultima pennellata di fard uscì di corsa da quella camera con l'incedere di un soldato che sta per andare in trincea.

In quel momento Nathan e Simon si trovavano insieme nello studio e non potevano non accorgersi dei tacchi rumorosi che percorrevano le scale.

«Così, l'hai lasciata andare...» commentò Nathan con aria perplessa, posto con i gomiti sulla scrivania del padre e il mento tra le dita intrecciate.

«Nostro Padre è così che si muove:» spiegò, posto in contemplazione di fronte all'ampia finestra del suo studio, che mostrava il cortile del Centro e la ragazza che lo stava percorrendo di corsa «ci lascia liberi di sbagliare, di fare le nostre esperienze e, a volte, muta le nostre azioni sconsiderate in opere buone, per la nostra salvezza».

«Però...» sospirò il ministro dal capo riccioluto «Quell'invito è stata un'autentica dichiarazione di guerra!»

Simon rise sotto la folta barba, disegnando tre curve ai lati degli occhi, poi roteò il busto nella sua direzione, fissando amorevolmente lo sguardo sul viso turbato di Nathan e gli disse: «Come ben saprai: se le tenebre scatenano l'inferno, io sono pronto a scatenare il paradiso!»

***

Ariel aveva dovuto prendere due autobus per arrivare al Lungomare che percorreva la costa cittadina, con non pochi disagi dovuti alla sua figura vestita di un abito nero lungo fino ai polpacci, con una spacca centrale che arrivava a metà coscia; il tessuto morbido le fasciava il busto e lasciava poco spazio all'immaginazione della sua fisicità; la scollatura disegnava una "V" sul suo petto e le spalline erano fili finissimi che si intrecciavano nella schiena nuda in un reticolo sinuoso.

Percorrendo la via marina della piccola città di Filadelfia, con la brezza salmastra che le scompigliava i capelli ondulati e sotto lo sguardo voglioso di alcuni passanti, Ariel si dirigeva a passo spedito verso il Dark Lithium, che faceva brillare rami di luce purpurea verso il cielo scuro, ben visibili già da molto lontano, reggendo solo una pochette nella mano sinistra, incurante dei fischi che alcuni ragazzi le riservavano senza alcun ritegno.

Gli occhi bassi scrutavano la pavimentazione lineare e biancastra del Lungomare, facendo attenzione a non inciampare rovinosamente su qualche chewingum appena gettato da qualche passante incivile.

Pian piano, la tipica musica latina aumentava di volume, accompagnando le estati dei maturandi e le sessioni estive degli universitari che si concedono la dolce euforia di una notte di balli e nuove conoscenze.

Così aumentò il passo, stringendo tra le dita l'invito che avrebbe dato accesso al locale.

L'uomo al quale si avvicinò era di molto più alto di lei, tanto che, per mostrare il biglietto, Ariel dovette mettersi sulle punte, nonostante i tacchi.

Una volta entrata, sentì scemare la musica che l'aveva accolta.

Osservò coppie di ballerini dileguarsi a destra e sinistra, quando ad un tratto i suoi occhi si incastonarono a quelli del volto di un ragazzo a lei conosciuto.

Era in piedi, con un bicchiere di vetro tra le labbra dischiuse; gli occhi di ghiaccio erano sbarrati fin all'inverosimile e la fissavano con stupore. Il ragazzo posò lentamente il bicchiere contenente un liquido ambrato su un tavolino a lui vicino senza staccarle gli occhi di dosso.

Lui non seppe decifrare la sensazione di averla lì, a un pochi passi dalle sue mani, senza aver fatto nessuno sforzo per scovarla.

Una bellissima coincidenza...

Lei restò lì, immobile, osservandolo come fosse la prima volta, con un bruciore all'altezza dello sterno: i capelli corvini erano legati dietro la nuca; i pantaloni neri, aderenti, svelavano la forma simmetrica degli arti inferiori ma ci fu un particolare che incuriosì la vista di Ariel: mentre tutti i presenti non avevano osato indossare nemmeno un accessorio chiaro, lui mostrava il bianco di una canottiera sotto una camicia nera, sbottonata sul davanti.

Mentre lo stava osservando, Acab iniziò a muovere dei passi nella sua direzione, con un mezzo sorriso compiaciuto, ma con l'andatura insicura e trascinata. Ariel inspirò profondamente e rivolse lo sguardo altrove, studiando il luogo in cui si trovava, rivolgendo gli occhi in ogni dove alla ricerca di un piano bar e di eventuali vie di fuga.

Il locale era costituito per lo più da piani in legno scurissimo che comprendevano la pavimentazione e i parapetti dei balconcini che davano sul mare, ma risultava poco agevole così pieno di persone. Il piano bar era stracolmo di giovani, ma il barman non sembrava dolersi più di tanto.

Decise quindi di avvicinarsi per rinfrescare il palato riarso, ma il tocco gelido di Acab sulla spalla scoperta, la fece sussultare e voltare indietro, dove incontrò i suoi due zaffiri che le inchiodarono lo sguardo prepotentemente, mentre una musica dolce e sensuale si insinuava nei loro pensieri.

«Mi concedi questo ballo?» domandò lui, posando le labbra sul dorso della mano destra di Ariel che lo fissò a lungo con occhi spalancati prima di annuire impercettibilmente. Dopo qualche istante, ricordandosi il motivo per cui si trovava lì, drizzò la schiena facendo scivolare dalla spalla i lunghi capelli castani ricchi di onde ramate, mostrando il collo e la scollatura; le dita scivolarono lungo quelle di Acab le quali strinsero con dolcezza la mano di Ariel mentre i polpastrelli del palmo destro le sfioravano la parte nuda della schiena; lo scrutò a lungo senza emettere suono, mentre lui seguiva i passi lenti ed incerti di Ariel con il capo chino sui piedi.

Qualcosa non andava nei piani di Ariel: era certa che Acab avrebbe potuto farle del male in qualsiasi momento, ma lì, di fronte a lui, e a stretto contatto con il suo corpo, non sentì alcuna necessità di fuga.

Che sia questo il suo potere?

Mentre questo pensiero la lasciava perplessa, lui si mosse, curvandosi verso il suo orecchio e le chiese: «Non hai paura?»

Una voce suadente e profonda le provocò una lieve scarica elettrica dalla nuca fin a raggiungere ogni centimetro di pelle olivastra; parole dette in un soffio caldo vicino al lobo dell'orecchio, le dita che accompagnarono i capelli per scoprire il collo e per poggiare la guancia al suo viso, le mani che le prendevano i polsi per far sì che le braccia potessero cingergli il collo.

Le riservò quei gesti in maniera così delicata che il cervello andò in confusione: azioni estranee al suo modo di essere, che non gli appartenevano. O almeno, credeva fosse così.

«Non mi hai ancora risposto...» constatò Acab.

«Devo proprio?» rispose lei, in imbarazzo e con l'ansia che martellava nel petto.

«Sì. Altrimenti non potrò portarti lontano da qui...» le sussurrò, stringendola a sé fino a mozzarle il fiato.

In quel momento Ariel si accorse che Acab era impregnato di un odore acre misto ad alcol, provocando nella sua mente un campanello d'allarme che le attivò l'adrenalina.

Gli si staccò bruscamente, spingendolo su un passante, percorrendo tutta la pista da ballo fino ad arrivare all'esterno dove una scalinata di legno conduceva sulla spiaggia.

Con respiro concitato, fece scivolare il palmo sul corrimano legnoso, scendendo velocemente finchè si fermò ansante sul penultimo gradino; vi si sedette girandosi verso l'interno del locale di tanto in tanto, cercando di sciogliere le fibbie dei sandali vertiginosi per camminare sulla rena a piedi nudi e scappare il più lontano possibile da quel luogo.

«Quindi avevi paura...»

Gli occhi scuri di Ariel si alzarono lentamente per identificare il volto della persona che gli aveva parlato con tono sarcastico.

Acab le stava di fronte, intento ad arrotolarsi le maniche della camicia fino ai gomiti con dei ciuffi neri che gli ricadevano sugli occhi; e mentre la luce bianca della luna illuminava le tenebre di quel lembo di terra, Ariel sentì il freddo della morte gelare le vene e percorrere in gocce trasparenti la sua fronte.

Si immobilizzò deglutendo saliva, prima di cercare di alzarsi. Lui con un balzo gli si fiondò addosso bloccandole ogni via di fuga: le mani le stringevano i polsi al petto e le ginocchia le fermavano i fianchi, mentre il soffio pesante del suo respiro le arrivava sulle labbra.

«Pensi che sia così stupido?» gli ringhiò a denti stretti «Pensi che non sappia che i tuoi amici siano qua fuori?»

Ariel, con mento tremolante, tentò di alzarsi, ma lui la strinse di più ai bordi dei gradini legnosi, fissandola con uno sguardo truce «Avresti potuto essere la parte migliore della mia morte, ma hai deciso di scappare...» le confidò «Volevo solo un po' di calore... » concluse con fronte corrugata e sguardo malinconico.

«Sei ubriaco!» urlò, cercando di divincolarsi, in preda al panico, cercando di spingerlo via con la sola forza delle mani.

«Può darsi...» commentò osservandola interamente nel momento in cui il vestito lasciava scoperte le gambe, infiammandolo; ma in quegli occhi terrorizzati e lucidi non ci trovò nulla di piacevole, se non una fitta lancinante alle tempie, tanto che si alzò di scatto tirandola su dalle braccia.

Fece un passo indietro, respirando a fatica e, portando tre dita sulla fronte, chiuse gli occhi pesanti.

Ariel avrebbe potuto fuggire in quel momento, ma il terrore che la bestia in cui l'adepto avrebbe potuto tramutarsi la assalisse nuovamente nella fuga la inchiodò alla sabbia soffice.

«Devo portarti con me, Ariel...» le confessò con occhi chiusi in una smorfia di dolore.

Con il petto ancora dolorante, Ariel fece fatica a comprendere quanto stava accadendo: Acab era in evidente stato confusionale e il rivolo di sangue che gli spuntò sulla canotta bianca le fece gelare il sangue; poco le importò se il tono usato per nominare il suo nome fu profondo e particolarmente pacato per essere pronunciato da uno che, in passato, non aveva esitato a mettersi in macchina per uccidere due ragazze appena fuori dall'università.

«Ok. Verrò con te» intervenne poi con voce tremolante la castana, guadagnandosi lo sguardo incredulo del giovane «Solo... Dimmi se è ancora vivo...»

Il solo presentimento che, di lì a poco, avrebbe potuto vedere Joshua in punto di morte, le fece versare copiose ma silenziose lacrime.

Dall'alto di uno dei balconi del locale, Judas osservava la ragazza dirigersi sulla rena seguendo Acab.

«Bravo ragazzo» commentò sorseggiando dal suo bicchiere semi vuoto.

Ariel seguì Acab a passi lenti, percorrendo a piedi nudi quel poco tratto di spiaggia umida fino a sentire lo scrosciare delle acque calme lambire i suoi piedi. Era acqua nera come la notte in cui l'occhio si perdeva alla ricerca dell'orizzonte, in quel cielo che sembrò essere scomparso nei flutti.

La mano gelida di Acab prese quella tremante di Ariel, e dopo aver estratto dal taschino dei jeans scuri un ellisse metallico, lo portò alle labbra per stringerlo tra i denti mentre congiungeva i palmi della ragazza.

Lei era silenziosa, con lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi fissi al vortice che si era aperto a pochi metri da loro e si ricordò che Judas l'aveva utilizzato per scendere negli abissi, qualche tempo prima.

Da allora erano passati esattamente sette mesi.

Un numero che alimentò le calde lacrime che percorrevano il viso di Ariel.

Acab le chiuse i polsi dentro quel freddo metallo e lo strinse tanto da provocare una smorfia di dolore nel viso livido della giovane.

«Di solito» intervenne con voce cupa «le mie vittime sono già svenute prima di varcare la porta d'ingresso al mio mondo...» sospirò guardandola, per poi irrigidire la mascella.

La condusse verso il passaggio, camminando all'indietro mentre gli occhi non smettevano di fissarla e un dolore al petto gli assaliva lo sterno.

Poi si fermò, poco prima di varcare l'oblio, e sfiorandole le braccia nude, la costrinse a guardare il Lungomare.

«Guarda ciò che gli uomini pensano di non vedere; ascolta ciò che gli uomini pensano di non ascoltare; senti ciò che gli uomini pensano di non sentire, perché laggiù non ci sarà più... »

Ariel avvertì nelle sue parole un chiaro riferimento a quella presenza costante che accompagna ogni essere vivente e, nel suo cuore, pregò intensamente che quelle parole non fossero veritiere.

Poi l'avambraccio di Acab le cinse la vita, mentre l'altro le bloccava la gola. Senza il tempo di accorgersi di nulla, iniziò la sua caduta verso ombre impenetrabili, tra le sue urla e quelle di altri esseri sinistri mentre il suono dell'acqua scrosciante, pian piano, non si udì più.

***

Quella sera, Simon non riuscì a chiudere occhio; il buio di quella notte era più impenetrabile delle altre.

Alte preghiere giungevano dalla Chiesa di Filadelfia, riunita in un solo, strano presentimento: che il nemico avrebbe fatto la sua comparsa tra le mura del Centro.

Nathan, a capo del gruppo di preghiera, insieme a Lucia ed Heliu in lacrime, invocava Quel Nome che avrebbe avuto la potenza di arrivare lì dove gli uomini non possono: il Nome di Gesù Cristo.

«Ti stavo aspettando...» mormorò Simon, bloccato nel suo letto in posizione supina, in un rantolo.

Judas uscì dalle ombre della camera di Simon con un ghigno e la mano tesa sul corpo del padre che avvertiva il peso di un macigno sul petto e gli arti come atrofizzati.

«Quindi l'hai mandata tu alla gogna. Ben fatto, padre.» come rasoi che solcano la pelle facendo sanguinare, così furono accolte quelle parole da un Simon dal volto scarno che tossì emettendo un gemito, tra i denti.

«E quindi tu cosa sei adesso? Sei diventato una nullità, a quanto vedo...» sbuffò prima di spostare il palmo della mano sinistra verso la parete opposta al letto, scaraventando Simon al suolo.

«Io...» tentò di rispondere Simon, che, avendo battuto contro il comodino al lato del letto, sentì un caldo rivolo di sangue scivolare dalle narici al mento tremante «Io sono...»

Cercò di rialzarsi, ma le braccia non riuscivano ad obbedire ai comandi nervosi, fino a quando non vide le scarpe lucide di Judas a pochissima distanza dal suo viso.

«Non ti sento...» e, con un calcio all'addome, Judas bloccò il respiro di Simon mentre con un altro movimento del palmo lo spostò dal pavimento in cui giaceva fino al davanzale della finestra, con la sola forza del suo spirito.

Il colpo violento della testa al marmo del parapetto interno della finestra, provocò una profonda ferita al capo del padre, che emise un grido di dolore.

Judas gli si avvicinò. Lo prese dal colletto della camicia e lo sbatté contro i vetri della finestra.

«Facciamo così:» pronunciò in un ghigno Judas, mentre un fascio di luce lunare illuminava il suo pallido viso e gli occhi rossi come il sangue «se tu smetti di insegnare ai tuoi figli come arrivare al potere, io libererò Joshua e Ariel!»

Quella proposta, nel momento in cui la vista gli si annebbiava, provocò una fitta al petto dilaniato mentre ogni luce sembrò allontanarsi da lui.

La debolezza dei digiuni impediva a Simon ogni movimento, così Judas, che non udiva risposta, agitò l'indice della mano destra per aprire in un attimo l'ampia finestra, portando Simon in piedi sul davanzale esterno, con un balzo, bloccandogli la gola con il braccio.

«Ma guarda che coincidenza: il tuo Signore sul pinnacolo del tempio e tu che osservi quello della tua chiesa, ad un passo dal baratro. Non è esilarante?»

«Non hai alcun potere qui!» riuscì ad urlare, fissando gli alberi del cortile ondeggiati da un vento infuocato.

«Tu ancora non hai capito con chi hai a che fare!» esclamò, mentre Simon sentì una morsa che stringeva le membra come spilli acuminati.

«Se mi uccidi, non avrai la vittoria!» urlò Simon, ormai sulla soglia del davanzale, a un passo dal vuoto.

Poi un bagliore, accompagnato da un boato e dal rumore della porta che si aprì violentemente, fece cadere Judas e Simon all'indietro, dentro la stanza.

 

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Capitolo 23
*** DAL GHIACCIO AL FUOCO ***


«Io sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra;

e che mi resta da desiderare, se già è acceso?»

- Gesù Cristo

***

Un bagliore, accompagnato da un boato e dal rumore della porta che si aprì violentemente, fece cadere Judas e Simon all'indietro, dentro lo stanza.

Nathan si era trovato davanti la porta già aperta da un vento impetuoso, accompagnato da un boato che presagiva l'arrivo un temporale.

Aveva sentito le urla dalla sala della chiesa e aveva percorso la navata a passo svelto e occhi disperati; Lucia gli correva dietro ma la dovette bloccare sul portico, non appena i suoi occhi avevano visto la figura di Simon in bilico sul davanzale esterno della stanza al terzo piano.

Percorse quelle rampe di scale con una fitta alla bocca dello stomaco e gli occhi quasi colmi di lacrime, negando a bassa voce un destino che non accettava.

Simon era stato un padre non perché avesse mai avuto bisogno di qualche affetto mancato e non perché la vita gli avesse riservato una cattiva sorte; viveva bene, in fin dei conti: una famiglia unita nella stessa fede, un lavoro e una casa accogliente.

Ma gli si era legato per la potenza di un fuoco che gli faceva ardere l'anima. Nelle sue parole sentiva vita e soprannaturale.

Un solo segno bastò per imprimere in lui un legame forte come le corde del Cielo: in una notte di sconforto, mentre la sua amata dormiva beatamente accanto a sé, coperta solo di un lenzuolo e morbide ciocche brune fluenti scivolano sulle nude spalle, sentì la mancanza di un frutto che non sarebbe mai arrivato a causa di un problema incurabile, a detta dei medici più rinomati della nazione.

E fu in quel momento che una scintilla fece ardere il suo cuore, mentre le parole di Simon riecheggiavano nella sua memoria:

"Quando Dio fa nascere un fiore, lo fa nascere nel deserto."

Quella frase l'aveva colpito come una freccia scoccata solo per lui, diretta al suo dubbio e, come dal ghiaccio a fuoco, la sua anima, ardente di nuova vita, annientò ogni difesa, facendo entrare la luce dove gli uomini avevano costruito un tunnel senza via d'uscita.

Si inginocchiò ai piedi del letto e pregò di avere un figlio, certo che quel Nome l'avrebbe ascoltato.

Il telefono squillò. Dall'altra parte la voce assonnata di Simon gli disse queste semplici parole: "Gesù Cristo mi ha svegliato in un sogno per dirti queste parole: Il fiore sta già germogliando".

Non ebbe il coraggio di pronunciare alcun suono perché le lacrime fecero più rumore di ogni altro ringraziamento.

Nei mesi a seguire quel germoglio faceva crescere il ventre di sua moglie i maniera così naturale e meravigliosa che le emozioni provate non avevano ancora un nome; delle emozioni che avevano il suono di un cuoricino che galoppava all'impazzata e di un piedino che si mostrava mentre lui gli parlava.

Dopo nove mesi, ai piedi di quel letto, reggeva tra le braccia il frutto di un miracolo a cui i medici non sapevano dare spiegazione ma a cui lui sapeva dare un Nome.

***

Quei flashback gli avevano permesso di percorrere le scale senza ricordarsi di respirare e una volta giunto al piano si vide di fronte quella porta scura, già aperta. Rimase lì, appoggiato allo stipite con la spalla sinistra, ansante.

Lì, con l'affanno che gli asciugava le vie aeree, osservò il corpo di Simon che giaceva inerme al suolo, mentre una macchia di sangue percorreva le venature del parquet e il fuoco, che l'aveva spinto a seguire Simon dal giorno di quel potente miracolo, sembrò scomparire di fronte a quell'immagine immonda.

Le lacrime gli riempirono gli occhi.

Poi, spostando lo sguardo verso l'interno dello studio, vide l'ombra di Judas che tentava di rialzarsi; era come accecato, e una volta in piedi, lo vide andare a tastoni, barcollando.

Le narici di Nathan si dilatarono e il respiro concitato era rumoroso, come quello di un toro di fronte al colore scarlatto; ma non tentennò, anzi, allungò il braccio destro e, tesi i muscoli, direzionò il palmo aperto verso Judas che, avvertendo la sua presenza, si bloccò al centro della stanza con un ghigno sinistro e gli occhi chiusi.

La risata del capo della setta Lucifer non durò a lungo, perché le autorevoli parole, sconosciute agli uomini naturali e pronunciate dal Ministro, in quella che, sia nel mondo oscuro dei Lucifer che in quello amorevole di Filadelfia, veniva identificata come Lingua del Cielo, produsse degli effetti: l'intorpidimento generale, seguito dalla sensazione che spilli invisibili venissero conficcati nella carne, acuminati come artigli, fecero uscire dalle labbra dell'adepto un urlo agghiacciante e stridulo; poi una corda, invisibile, parve bloccargli gli arti del corpo longilineo e asciutto, fino a farlo boccheggiare.

Nathan continuava a pronunciare quelle parole con severa autorevolezza, fino a quando, Judas, si ritrovò in ginocchio, avvertendo il dolore pungente di quella corda che ardeva le sue membra.

«Gesù Cristo è il Signore.»

La voce di Nathan ordinava alla mente di Judas di produrre quelle parole.

«Dillo» comandò con voce cupa e profonda, mentre Judas emetteva solo rantoli di agonia.

«Dillo!» gli urlò col volto deformato dalla disperazione e dall'odio di chi avrebbe ucciso senza pietà.

Ma Judas non aprì bocca; cadde con la testa ai suoi piedi come un rigido pezzo di legno.

«Tornatene agli abissi dai quali sei venuto...» ispirò profondamente, e levandosi una ciocca di capelli ricci dagli occhi scuri, proseguì «Nel Nome di Gesù Cristo».

Quel Nome bruciò la pelle di Judas in una fiamma invisibile, come un fuoco consumante.

Nathan vide evaporare in un fumo nero quell'essere, mentre urla agghiaccianti ferivano il suo udito; crollò a terra, in ginocchio, come svuotato di tutte le energie. Fissò Simon che ancora respirava a fatica e quella macchia di sangue sul pavimento, lasciando scivolare un rivolo d'acqua trasparente fin al mento.

Doveva fare in fretta, avrebbe perso i sensi da un momento all'altro se non gli si fosse avvicinato in tempo per levarsi la camicia e avvolgerla intorno al capo di Simon.

Mentre tentava di alzarlo, il padre gemette e negli occhi di Nathan comparve un nuovo luccichio.

«Simon» pronunciò con voce ferma «Simon, rimani sveglio!»

«Sì, sono sveglio...lui...»

«Lui è ritornato al suo inferno»

«Lucia...»

«No, Lucia è ancora in Chiesa.» disse, prima di alzare gli occhi e vedere la biondina sull'uscio della porta, con volto pallido e occhi sbarrati.

Heliu, che l'aveva seguita, arrivò poco dopo alle sue spalle, giusto in tempo per trattenere la sua figura minuta dal cadere al suolo per lo shock.

«Lucia!» chiamò il giovane, che si trovava nuovamente di fronte al suo pallido viso e alle labbra livide che questa volta pronunciavano quattro parole in un sussurro: «Dal ghiaccio al fuoco...»

Nei meandri dell'anima di Lucia le ombre prendevano forme scomposte.

Vide il suo sembiante come fumo fluttuare fuori dal suo corpo e viaggiò, viaggiò nello spirito e nel tempo attraverso lampi di luce e stelle e pianeti. La terra era una sfera piccola e perfetta immersa nel blu.

Poi un vortice d'aria la spinse verso il cielo terso e un bagliore inondò i suoi occhi, fulminati da un candore innaturale.

Un albero dalle fronde luccicanti come diamanti colpì la sua vista e la sua mano si tese a raccoglierne il frutto mostrandole l'arto evanescente cui si poteva vedere attraverso.

Tuttavia, un colpo allo stomaco, come una spinta in pieno petto, la gettò giù da quello splendore; cadde in un oblio nero, un fosso dalle mura grondanti sangue.

Il suo essere ancora opalescente non sentì dolore, ma un profondo turbamento la investì: sentì urla di donne, di uomini e di bambini echeggiare in quel luogo di tenebra fitta. Solo due lucignoli parevano illuminare flebilmente. Due fiammelle erano incatenate dietro delle sbarre di ferro arrugginito.

Di fronte a loro, c'era una lastra di ghiaccio.

Lucia tentò di avvicinarsi, ma una voce imperiosa nel cuore la bloccò: avrebbe dovuto guardare senza interferire.

Quella lastra di ghiaccio andava sciogliendosi, posta com'era vicino a quelle fiammelle.

Un particolare le si fissò nella mente: l'acqua prodotta da quella lastra di ghiaccio convergeva verso la fiammella più piccola, inspiegabilmente.

Era acqua che non evaporava, acqua che non si consumava, acqua che dal ghiaccio passava al fuoco.

«Dal ghiaccio a fuoco» ripeté più volte, anche quando suoi occhi si aprirono e accarezzarono il volto dolce di Heliu.

«Simon, dobbiamo portarti in ospedale!»

La voce ferma di Nathan riempì l'atrio del piano, mentre teneva Simon da un braccio, dopo aver avvolto un lenzuolo sulla ferita.

«No! Non capirebbero!»

«Simon, ti prego...»

«Nathan, i Lucifer hanno fatto una retata all'ospedale...Mi lasceranno morire lì, portami all'infermeria di Gilbert!»

Il team di Judas anticipò i passi del suo capo, costringendo gli operatori sanitari a non compiere il loro dovere per un certo Simon Hill; dovettero agire con la forza e con non poche intimidazioni.

«Ma... Simon dobbiamo controllare che non ci siano lesioni interne, e lo si può vedere solo con una risonanza. Ti prego, Simon, ci accompagnerà mio padre...»

«E come pensi di spiegare la mia situazione?»

«Dicendo la verità...»

Lo sguardo accigliato di Nathan divenne docile di fronte al viso tumefatto di Simon, che sembrava avere la mente fin troppo lucida.

«Capisci che stai farneticando? Non crederanno mai che Judas - l'uomo più influente e facoltoso della città - mi abbia fatto un attentato! Sono tutti suoi servi!»

«Ci faremo aprire le porte da mio padre!»

Nathan insistette così tanto da far piegare la volontà del pastore Simon, ma solo perché, effettivamente, il padre di Nathan era stato a capo del distretto di polizia ed era ben voluto da tutti.

«Va bene...» sospirò arrendevole, prima di rivolgere lo sguardo ai giovani che attendevano vicino alla scalinata.

«Vegliate e pregate. Non preoccupatevi per me.»

Lucia lo abbracciò forte, bagnando la camicia di gocce trasparenti prima di guardarlo scendere i gradini lentamente.

Heliu le strinse la mano, sorridente, mentre con il dorso dell'altra mano le asciugava una lacrima e le chiese: «Che vuol dire: dal ghiaccio al fuoco?»

Lei strinse le labbra e rispose con un certo astio: «Che a Dio nulla è impossibile.»

Levò bruscamente la mano da quella del ragazzo iniziando a correre giù per le scale, sotto lo sguardo dubbioso di Heliu, quando ormai la notte era al culmine della sua oscurità.

Un'oscurità che circonda i pensieri e i ricordi, come quella in cui si trovava Ariel, avvinghiata al buio che pervadeva la sua vista. Solo tenebre profonde e un freddo capace di farle avvertire spilli acuminati nelle ossa. In quella tenebra tentò di capire dove si trovasse, così iniziò ad allungare le mani e oltre al viscidume indefinito del pavimento roccioso si accorse di essere in catene; solo le gambe erano libere.

Si mosse carponi, con le braccia intorpidite dal gelo di quella notte e con occhi ancora poco abituati a quella fitta oscurità.

Il cuore batteva così violentemente i suoi colpi sul petto da farle mancare il respiro. Non ricordava nulla della sua caduta, solo acqua e urla stridule.

Poi un lucignolo colpì la sua attenzione: una fiammella in lontananza, una luce calda così piccola ma così forte da darle qualche suggerimento dell'edificio in cui stava per compiersi la sua fine.

Era dentro una cella, circondata per due lati da sbarre arrugginite. A terra, quel liquido viscido e appiccicoso aveva un colore scuro e si mescolava al muschio che permeava l'acciottolato. Poi alzò lo sguardo verso quella lingua di fuoco, mostrandole i tratti delicati del viso di Acab che parve divertirsi a muovere quella luce per attirare la sua attenzione. Era il fuoco di un cerino che usò per la sua solita sigaretta notturna e che, una volta accesa, usò per ammirare la giovane, poggiato con le spalle alla parete antistante i ferri, con un piede a terra e uno al muro.

Gli occhi celesti assunsero un colore cangiante di fronte alla luce calda della fiammella rendendoli grigi e impenetrabili.

Lo seguì con lo sguardo muovere dei passi verso la sua sinistra per accendere una torcia costituita da un legno e struttura in ferro fissata qualche centimetro sopra la testa del giovane adepto. Quella luce fu come tornare a vedere l'alba dopo giorni di cecità.

Tra la gabbia di ferro e la parete in cui stanziava Acab, c'era un corridoio molto stretto, in cui poteva camminarci solo una persona alla volta e tutto sembrava essere ornato da un liquido gocciolante ancora non bene identificato.

«Come sta il leone di Dio?»

Il suono della sua voce, pacato e inspiegabilmente profondo- quasi come se realmente gli importasse qualcosa- la fece allontanare dalle sbarre, strisciando verso l'interno della cella senza distogliere lo sguardo dalla figura di Acab che, lentamente, si avvicinava verso di lei per poi piegarsi sulle ginocchia e osservarla dall'esterno, con la sigaretta tra le labbra e una mano posta su una sbarra di ferro.

Il suo volto sembrò mutare, assumendo l'espressione di un bambino che osserva per la prima volta un animale selvaggio dentro una gabbia.

Ariel si sentiva proprio così: un animale da circo, incatenato ad una morte ignota.

Si mise in un angolo in preda ad una profonda disperazione capace di farla sentire minuscola come un granello di sabbia.

Si strinse la gambe al petto così forte da schiacciare il mento contro le ginocchia tremanti, iniziando un pianto silenzioso.

 

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Capitolo 24
*** UN PASSO INDIETRO: ARIEL ***


Università di Filadelfia,
sette mesi prima

Non so perché, ma quel ragazzo della segreteria ha mosso qualcosa dentro la mia pelle, elettrizzando un muscolo che pareva atrofizzato. 
Joshua...

Per non parlare di quel Damian: due occhi come diamanti incastonati in un volto dalle fattezze angeliche, ma sinistri come quelli di un demone. 

Basta, Ariel, non ci pensare. Pensa a studiare, pensa a tua madre da sola a chilometri di distanza che aspetta la tua telefonata e che puntualmente non arriverà. 

Perché sono così? Perché non mi importa nulla ne della mia famiglia, ne di me stessa? 

Sono un bozzolo appeso a un ramo che ondeggia al vento, pronto a cadere. 

Un leoncino che urla a chi vuole usarlo come un pupazzo. 

Quando questi pensieri si agitano in me, il gelo cala nel mio cuore, riducendo ogni parte della mia anima in un inverno burrascoso. 

Cammino sulla via appena fuori dall'università, dove il cemento cosparso di petali lilla dei glicini sembrano voler creare un tappeto sopra l'asprezza di quel grigiume dell'asfalto. La pianta, arrampicandosi da un muretto posto in corrispondenza dell'uscita, si affaccia sul viottolo che sto percorrendo e, insieme ad un calore improvviso, noto che una coltre di fumo nero che avvolge la mia vista. 

Istintivamente, cerco con gli occhi la mia auto, mentre quella nube tossica occlude le mie vie aree costringendomi a tossire; così porto il tessuto della mia sciarpa sopra il naso, per evitare il soffocamento e la vedo: la mia piccola auto, comprata con la fatica di un lavoro come cameriera in ristorante di provincia e con i sacrifici di mia madre, è in fiamme. 

La borsa mi cade al suolo, un gelo avvolge il mio corpo e tremo come una foglia. Nego in un sussurro le difficoltà che dovrò affrontare per tornare a casa, quando vedo un'ombra dai contorni indefiniti tra le fiamme. Le oltrepassa, quasi fossero nebbia al suo cospetto. 

Due occhi celesti e gelidi mi fissano con aria soddisfatta. 

Mi allontano di un paio di passi senza levargli lo sguardo di dosso. 

«Chi sei?! Che vuoi da me?!» gli urlo isterica. 

È lo stesso ragazzo della segreteria, lo stesso della caffetteria. 

«Calmati leoncino, sono qui per aiutarti...» 

«Non ti avvicinare!» 

Acab Damian 

La mia mente ricorda il suo nome in un flash. Andando indietro non mi accorgo del muretto che, alto fino alle ginocchia, rischia di farmi cadere rovinosamente a terra. 

Avverto il peso della gravità prima che lui mi stringa le braccia e mi sostenga. In quel frangente, noto ogni particolare del suo viso: i suoi occhi sono come un mare inesplorato in cui si rischia di affondare; nel suo viso sono disegnate  labbra carnose e curvate in un sorriso; i capelli neri come pece e di media lunghezza adombrano l'espressione. Sembra una scultura perfettamente levigata di cui l'occhio non sazia mai. 
 

Rimessa in piedi ritrovo l'equilibrio, ma avverto quasi subito un laccio invisibile che mi trascina verso di lui che cammina a passo lento, le mani in tasca, verso un'auto nera dalle linee sofisticate. 

«Ti accompagno io» dice, aprendo la portiera del passeggero. 

Lo fisso intensamente  sorridermi con sguardo languido. Sono i suoi occhi, è colpa loro se mi fermo immobile senza controllare le palpitazioni; il respiro fermo in gola. 

Due iridi di un colore intenso, che sussurrano alla mente parole di un universo fin troppo piacevole. E' come se avessi subito un incantesimo, incapace di elaborare quel che mi sta accadendo mi stringo l'abbottonatura della camicia mostrando nocche bianche e deglutisco saliva copiosa, come se, col solo sguardo mi avesse vista interamente nuda.


 

 

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Capitolo 25
*** L'AMORE NON ESISTE ***


Acab rimase lì, buttando fumo grigio dalle narici di tanto in tanto. Poi abbassò il capo al suolo e ritornò a pensare alla discussione che aveva avuto con Judas.

Dopo quel salto nel vuoto, Ariel svenne sul suo petto e, vedendola ormai esangue, la prese tra le braccia, mentre il vestito, scomposto, mostrò gli arti inferiori.

La adagiò al suolo, piegato su un ginocchio e la osservò, a lungo, anche dopo aver richiuso la cella.

Un tonfo sordo l'aveva fatto sussultare e girare di scatto. Percorse lo stretto corridoio, guardingo e a passo lento.

Osservò un cumulo di sabbia nera posta alla fine della scalinata di ferro, e, incerto, vi si avvicinò con fronte aggrottata.

Da quel cumulo di cenere si formò una nube nera in cui apparve Judas sdraiato sul pavimento in una posizione rigida e tanto innaturale da far comparire una smorfia di ribrezzo sul volto del giovane: gli arti superiori erano come legati dietro la schiena, così come le gambe.

Quando gli occhi vitrei color rubino ritornarono di quell'azzurro tipico del loro rango, Judas urlò, facendolo rabbrividire.

Tentò di rialzarsi, prima inspirando ed espirando messo in ginocchio, poi stringendo le dita tra le fessure della parete di pietra, barcollando.

Il figlio rimase ad osservarlo per parecchi minuti prima di porgergli una domanda alquanto inopportuna: «Sono stati i tre angeli di Simon, non è vero?»

Il padre gli lanciò un'occhiata austera e, nonostante volesse mostrare autorevolezza e forza, dovette camminare a fatica con i palmi posti alla parete che conduceva alla scalinata prima di rispondere: «Gli angeli? Quelle innocue bestiole?» schernì «Affatto...»

«E allora? Chi è stato a ridurti così?» tentò di capire Acab, con occhi torvi.

Il padre gli pose una mano sulla spalla e gli confessò: «A volte, i ministri di Colui che non possiamo nominare seguono così bene il loro mandato, da avere un potere superiore...»

«Ma...» continuò, forte di quel momentaneo stato di intimità mostrata dal padre. «Com'è possibile? A noi non ci è permesso nemmeno immaginare di poter essere come uno dei capi e...»

Non fece in tempo a continuare che uno schiaffo sonoro gli fece roteare il viso dalla parte opposta.

«Cosa ti sta succedendo?» gli ringhiò Judas a denti stretti.

«Perché?» sputò in terra, asciugandosi con il dorso della mano destra prima di essere strattonato dal padre.

«Lui controlla la tua mente e tu questo lo sai bene.»

Judas lo teneva dal colletto della camicia nera, colpendolo contro la parete.

«E allora?» lo provocò Acab, con un sorriso nervoso.

«Quegli impulsi elettrici dei tuoi neuroni, collegati all'immagine del suo viso, fanno fare un semplicissimo calcolo al nostro Signore.»

Una stretta alla bocca dello stomaco lo investì, irradiando uno strano calore in tutto il corpo ricordandola al Dark Lithium bella da morire.

Morire per non aver utilizzato su di lei alcun potere.

«Ti conviene sfogare al più presto il tuo desiderio, così da non procurarti una fine lenta e dolorosa.»

«Io sono già un condannato, padre.» ringhiò con l'astio che attraversava i muscoli irrigiditi.

«Non lo sarai, se il tuo cuore rimane una lastra di ghiaccio.»

Lo lasciò, per abbracciarlo, e sussurrargli: «Senti questo gocciolare perenne?»

Il figlio annuì, rigido.

«E questo odore ferrigno non accompagna le tue notti insonni?»

Acab sbarrò gli occhi, pallido, mentre le braccia di Judas avvolgevano il collo del ragazzo, tanto forte da farlo boccheggiare.

«Il tuo sangue potrebbe essere il prossimo, ragazzo mio.»

Judas aprì le braccia, lasciandolo scivolare a terra, ansimante.

Le mani di Acab erano piantate al suolo roccioso e i capelli gli coprivano gli occhi sgranati.

Si guardò il palmo impregnato di quella sostanza scarlatta, dall'odore metallico e ricordando le ultime parole del padre, scattò in piedi, con un urlo, sfregando nei pantaloni le mani insopportabilmente intrise di sangue umano.

***

Il ricordo di quella discussione gli provocò una fitta alla tempia, proprio dove l'occhio del suo Signore lo redarguiva per i suoi pensieri.

Nei ragionamenti non aveva scampo: mattoni di cemento schermavano la sua mente; un potere di controllo e manipolazione.

Si pose a sedere lì, su quelle scale da cui suo padre era salito, mostrandogli le spalle.

Solo in quel momento ascoltò, per la prima volta ciò che si nasconde nelle tenebre: Il gocciolio persistente di un tubo accanto alla parete; il colore scuro e lucido che ne colava; l'odore acre di muffe e secrezioni umane mescolate fin a fargli risalire la bile; quel viscidume impregnato in ogni sua parte del corpo.

Nel respiro concitato provocato dalla paura della sua imminente fine, si accartocciò nel gradino stringendo le braccia alle gambe.

Poi, nel dormiveglia e tra i lamenti delle vittime sacrificali ormai diventati uno suono familiare, gli sembrò di aver udito una voce flebile pronunciare una preghiera al Signore del Cielo.

Batté più volte le palpebre prima di accorgersi che insieme al gocciolio del sangue che fluiva dai tubi arrugginiti, quella voce aveva una cadenza famigliare. Inspirò profondamente l'aria umida e dal retrogusto ferroso, drizzandosi in piedi e facendo cigolare le scale di metallo su cui era seduto.

Nel buio di quelle tenebre, dove solo la tenue luce della torcia riscaldava l'ambiente grigio e cupo, sentì che quei sussurri provenienti dalla cella della ragazza erano spezzati di tanto in tanto da singhiozzi di pianto.

Così, percorrendo a passo lento lo stretto corridoio che divideva la prigione di Joshua da quella di Ariel, si affacciò all'ultima, scrutando l'abitacolo alla ricerca della sua figura.

La vide in posizione fetale e, acuendo l'udito, ascoltò quelle parole rinchiuse nella voce rotta; poté osservare le spalle e la nuda schiena tremavano vistosamente.

«Padre...» ascoltò tra i singhiozzi «non so se mi stai ascoltando, qui dove Tu non ci sei...»

Ariel stava chiaramente pregando, ma nei ricordi confusi di un'infanzia sbiadita, Acab ricordò che ai prigionieri fosse proibito rivolgersi al loro Signore Celeste. La pena era la morte istantanea anche per il prigioniero più importante dell'inferno.

Ma lui continuò ad ascoltarla, disobbedendo.

«Ti chiedo di perdonarlo...»

Il cuore di Acab sussultò.

«Perdonalo, perché è solo colpa mia se sono qui...»

Perdonalo... Si ripeté.

«Perdonalo, perché io l'ho perdonato...»

Il cuore batteva incessantemente nello sterno e nelle tempie, facendo aumentare l'intensità del suo respiro e aggrottare le sopracciglia in un'espressione irosa ma al contempo incredula; l'ira era rivolta a quei personaggi che credono di essere i portatori della verità assoluta; l'incredulità verso un cuore che desiderava la salvezza di un assassino, incondizionatamente.

«Tu... » iniziò, sbucando dall'ombra del muro per rivolgersi ad Ariel, che al solo sentire la sua voce rimase pietrificata con una morsa al cuore.

«Tu non dovresti rivolgerti al tuo Signore, qui.» la ammonì, rimanendo oltre le sbarre di ferro, con le mani dentro le tasche dei jeans scuri, mentre lei, girandosi di scatto, lo fissò col mascara che rigava il viso, oscurando i suoi occhi.

«Qualcuno potrebbe sentirti e ucciderti.» concluse, atono.

Ariel sbarrò gli occhi, cercando di indietreggiare piantando i palmi al suolo con occhi intrisi di terrore.

Acab aprì le inferriate e fece per entrare, richiudendole dietro le spalle.

«Come fai a pregare il tuo Signore e implorare la mia redenzione?» la squadrò, trovo. «Nessuno può perdonarmi.»

Ariel deglutì. Le sue mani, puntellate al suolo viscido e dal colore scuro, tremavano freneticamente e la mente vagava al ricordo di un ragazzo che non aveva scrupoli.

Avrebbe potuto rimanere in silenzio e frenare lo stimolo del suo spirito combattivo per rimanere in vita giusto il tempo di rivedere Joshua, ma la verità era un fuoco che non riuscì a trattenere in gola.

Lui la osservò dall'alto, prima di piegarsi sui talloni e studiare il suo viso: un ovale estremamente dolce, rigato da lacrime nere; occhi scavati in un'ombra scura, ma grandi e capaci di ferire; labbra carnose, ma secche e livide.

Sarebbe bastato poco, ma non un solo muscolo obbedì a quel comando.

Lei rimase immobile, senza respiro riuscendo a tenere testa a quello sguardo indagatore. Osservò da vicino i due diamanti color zaffiro; i lineamenti del viso erano delicati ma scuriti da uno sguardo austero e da un filo di barba che disegnava la mandibola e le guance. I capelli neri accarezzavano il collo sfiorando le spalle.

Poi, con lo stomaco stretto in una morsa, trovò il coraggio di parlare.

«L... Lui» iniziò, nonostante i denti battevano e non le permettevano di comporre una frase sensata.

Fino all'anno precedente, non si sarebbe mai immaginata di trovarsi in una situazione simile e così vicina alla morte; tanto meno non avrebbe mai immaginato di pensare realmente ciò che stavano per pronunciare le sue labbra aride.

Quel che fino a qualche tempo prima era estremamente difficile da concettualizzare, e ciò di cui alcuni possedevano una grande fede, adesso stava per condurla alla fine della sua esistenza. Tutto per un Nome. Un Nome che, forse, avrebbe potuto aiutarla.

A quel pensiero un'ultima fiamma di vita le scaldò il petto.

«Lui è... M... M...»

Tuttavia il gelo che le attraversava le ossa congelava il respiro e la mente, offuscandone i pensieri.

Acab sospirò come esasperato vedendo che la peluria delle braccia della vittima diventava visibile e che i denti battevano ad intermittenza provocando un suono fastidioso.

Iniziò a sbottonarsi la camicia nera senza toglierle gli occhi di dosso.

Ariel emise un gemito, negando con la testa e rivolgendogli occhi supplici.

Lui si tolse la camicia.

La adagiò sulle sue spalle e rimase solo con la canottiera bianca, mentre Ariel, avvolta in quel tepore, si rannicchiò ancora di più inalando l'odore pressante del fumo. Strinse le dita tra i fori dei bottoni per coprirsi quanto più poteva, ma...

Quasi non ricordando più la sensazione del calore che riscalda la pelle, Ariel fissò a lungo il volto spigoloso di Acab labbra dischiuse. La fronte aggrottata suggerì un perché che rimase inespresso.

«Dicevi?» pronunciò poi lui, poggiando un ginocchio al suolo e il gomito nella gamba rialzata.

Ariel ingoiò saliva inesistente, bagnando le labbra aride prima di continuare.

«Lui è misericordioso» disse, ferma.

«Ah, sì? E come mai sei qui?» la schernì con un mezzo sorriso.

Nuove lacrime bagnarono il suo viso, mentre il ricordo di Simon le spezzò il respiro.

«Perché non ho ascoltato la voce di colui che cercate di uccidere... »

«Perché ti importa tanto di quel pastore di anime?» la sua mano gelida andò a posarsi sul mento per asciugare quei rigagnoli d'acqua che lo bagnavano, per poi percorrere la guancia imbrattata del nero eyeliner col pollice «In fondo è solo un santone plagiatore di menti...».

Il sorriso schernitore che le rivolse e quel tocco la fecero indietreggiare fino a farle toccare la parete rocciosa e gelida della cella.

è solo un santone plagiatore di menti...

La mente ripeté quella frase e un chiodo le si conficcò nel cuore, ma le permise di continuare imperterrita e con tono deciso: «Nessuno può plagiarmi. Nemmeno un seduttore come te. - Mi pare che tu ci abbia tentato diverse volte, invano».

Il giovane si alzò in piedi per osservarla dall'alto e così rispondere: «Eppure, sono riuscito a portarti qui» incrociò le braccia al petto.

«Ti sbagli.» contestò Ariel a muso duro e sguardo accigliato. «Sono io che ho deciso di seguirti. Io sono libera; a differenza di te che sei un condannato a morte.»

Quella verità gli fece avvertire un nodo alle viscere e, di colpo, Ariel si ritrovò in piedi, schiacciata alla pietra fredda della parete rocciosa, con le mani di Acab che le stringevano il collo.

«Nessuno può parlarmi cosi.» ringhiò a denti stretti, avvicinando il capo a quello di lei, con violenza.

«Ti brucia non avere scelta, eh?» osò, con voce fioca «Cagnolino... »

Lo schiaffo che le diede la fece ricadere ai suoi piedi.

«Io non ho paura della morte,» tossì «perché mi aspetta la pace...»

Acab aveva già girato i tacchi ed era arrivato alle sbarre ferrose e si fermò, stringendo la mascella, stanco di sentire sempre le stesse frasi fatte di credenti prossimi alla morte.

«Come fai ad esserne così sicura?»

«Perché la tua setta fa di tutto per non nominare il nome di Colui che morendo ci ha aperto le porte del Cielo. E tu vedrai con i tuoi occhi la potenza del Suo Nome.»

Quella, però, non era una frase già ascoltata.

«Il suo Nome...» rise, ancora di spalle «cos'ha di speciale?»

Ariel avvertì una morsa al cuore e un calore conosciuto in un'altra occasione. Si tenne dalle fessure prominenti delle pietre che costituivano il suo abitacolo e, con le gambe tremanti, si tenne in piedi.

«Quel che non ti hanno mai detto è che» tossì accarezzandosi il collo «dentro quel nome c'è il mistero della salvezza della tua anima.»

«Fantasie religiose...»

«Di cui voi avete paura e di cui tu hai paura.»

«La mia anima non può essere salvata. Nessuno può salvarmi!» urlò rivolgendole occhi colmi di risentimento. Il pugno chiuso e stretto al fianco sinistro tremava di un'ira covata, mentre l'indice destro glielo rivolse quasi al petto. Aveva fatto qualche passo per arrivare a rivolgerle quelle parole fissandola negli occhi.

Tuttavia, Ariel vide oltre quell'indice puntato al cuore.

«All'amore nulla è impossibile.» proferì in un sussurro e occhi lucidi.

«L'amore non esiste.»

Non esisteva, non era mai esistito e non sarebbe potuto esistere, per lui.

L'amore è l'invenzione di chi pensa a dare una cosa che invece bisogna custodire gelosamente, mio caro Acab. Siamo noi i proprietari del nostro cuore: un organo glaciale che porta qualunque cosa sotto i nostri piedi. Donne, uomini, bambini, denaro, potere...

«E' quello che vogliono farti credere.»

Che razza di cristiana era quella se riusciva a rispondere ai suoi intimi pensieri?

Gli occhi sbarrati la guardavano incredulo e stranito, mentre quel muscolo atrofizzato nel petto, al suono della sua voce, batteva incontrollato e incontrollabile fuori da ogni logica.

«Il giorno che imparerai ad amare sarai veramente libero.»

L'incedere di tacchi a spillo, risuonava nel sotterraneo.

«Bene, bene, guarda un po'... Allora è vero che il leone di Dio è in gabbia».

Lilith era apparsa alle spalle di Acab, poco fuori dalla cella e li guardava, ammiccando.

Era la prima volta che Ariel la conosceva, ma sapeva di averla già vista da qualche parte.

La osservò e ricordò bene di aver visto quello sguardo felino negli occhi della ragazza che, mesi prima, aveva accolto Joshua al Pub Lithium.

Poi, una consapevolezza le fece sbarrare gli occhi e tremare le ossa: «Dov'è? Dimmi dov'è?!» le urlò a squarciagola, tirando le catene che le imprigionavano i polsi e le caviglie.

Un mezzo sorriso, sottile, si delineò nel volto pallido della giovane Lilith.

Gli occhi azzurri passarono velocemente da lei al fratello e pronunciò: «Sarebbe un vero peccato non condurla come sacrificio al nostro Signore». Fece qualche passo, oltrepassando la figura vigile e tesa del ragazzo.

Si avvicinò a lei, tanto da sfiorarle il viso con il respiro. Gli occhi stretti e glaciali analizzavano i suoi pensieri e Ariel lo avvertì chiaramente: sentì la sua voce nella mente indugiare nei suoi ricordi con voce flebile.

"Sei così fragile... Così sola...

Nessuno ti considera,

Nessuno verrà a cercarti.

Nessuno ti ama...

Dov'è tuo padre?

Dov'è tua madre?

Sei... Sola."

Ariel sentì un lama trapassare l'anima.

Un colpo ben assestato a tutti i suoi profondi pensieri e convincimenti.

Lilith le prese il volto, conficcando le unghie nelle guance pallide fino a provocarle lacrime mute, notate, però, dal fratello.

Acab le si avvicinò e, con una stretta vigorosa, le strinse il polso.

«Non la toccare.» le ringhiò all'orecchio.

La mano stringeva tanto da provocare smorfie di dolore e, dopo qualche titubanza, Lilith si vide costretta a lasciare la presa dal viso di Ariel.

«È la mia prigioniera.» si giustificò lui. «Sono io a decidere.» le intimò, parlando a bassa voce.

«Tu puoi solo decidere come meglio divertirti con lei. Nient'altro.» ghignò, staccandosi dal tocco del fratello.

Dopo aver guardato Ariel, girò le spalle ai due.

«Non ti conviene sperare molto su mio fratello, leoncino...» pronunciò poi, fissando Ariel dall'alto della spalla sinistra. «Le tue preghiere non possono essere ascoltate dal tuo Dio, qui, ma solo dal nostro Signore, che con il suo occhio onniveggente controlla i tuoi pensieri».

La prigioniera aggrottó le sopracciglia respirando a fatica, come se l'insediamento di Lilith nella sua mente l'avesse privata delle poche energie che la tenevano ancora in piedi.

Acab seguì la sorella e chiuse le sbarre guardando Ariel con un'espressione indecifrabile.

Solo allora Ariel si accorse che, oltre a lei, quel luogo ospitava qualcun altro, e fu lo sguardo che gli rivolse Acab dopo aver scambiato qualche battuta con la sorella a farle gelare il sangue nelle vene, confermando il suo presentimento.

 

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Capitolo 26
*** IL POTERE DEL NOME ***


«Vediamo come sta il nostro bel ragazzo dal nome quasi impronunciabile...» sospirò Lilith, facendo ascoltare i suoi passi che, con andatura militare, si dirigevano verso la cella di Joshua, posta poco oltre quella di Ariel.

Acab sapeva quel che sarebbe successo di lì a poco.

Si posizionò di fronte alle sbarre, stringendo e strofinando tra i palmi il ferro arrugginito fino a provocare lievi graffi.

La fissò, di nuovo, con i capelli che coprivano la fronte e parte dello sguardo glaciale.

Attese mentre la giovane Ariel lo implorava con gli occhi, negando col capo ciò di cui aveva avuto timore per tutto il tempo della sua prigionia.

Non appena le urla del ragazzo arrivarono alle orecchie di Ariel, un dolore la colse brusco nel petto.

Le urla di lui si fusero a quelle di lei.

Acab la vedeva torcersi al suolo, urlando il nome di Joshua, fino a ferirsi la gola ad ogni schiocco di frusta. Passò il tempo e, questa volta, il sangue del ragazzo fece capolino fuori dalla cella. Sfregò la fronte umida alle sbarre, respirando rumorosamente.

Alla porta del cuore sentì un bruciore lancinante, come se qualcuno glielo stesse graffiando.

La sua morte bussava alla porta.

Osservò Ariel, ancora una volta e, per un attimo, gli sembrò che i due fossero collegati, come membra di un medesimo corpo e che l'uno sentisse il dolore dell'altro nel medesimo modo.

Quel bruciore infiammò l'esofago nell'acido del timore.

Timore di quel Nome...

La ragazza stava contorcendosi al suolo, in posizione fetale, bevendo lacrime e gemendo per il suo fratello ritrovato e subito perso.

Il legame tra i due non aveva nulla a che vedere con rapporti umani carichi di interessi e scopi personali. Alla fine l'aveva visto solo per una settimana. L'aveva atteso, aveva pregato nel miglior modo che sapeva, anche se, forse, non era in grado di farlo nella maniera corretta. Per sette mesi una specie di vuoto accompagnò i suoi giorni a Filadelfia, in cui Simon e Lucia non facevano altro che confermare, con la loro presenza, la mancanza di qualcuno.

Sette mesi ad aspettare per poi ritrovarsi lì a piangere.

Poi, un particolare attirò la sua attenzione: in un punto imprecisato della cella, tra Acab e il centro del suo abitacolo, le ombre assunsero i contorni definiti di un aura celeste.

Così...Erano tutte menzogne...

Anche nell'ombra della morte, ci sei Tu...

Fissando gli occhi a quella presenza, Ariel fece forza sui gomiti; strisciò fino alla parete di pietra cercando un appiglio per alzarsi in piedi o, quanto meno, mettersi in ginocchio. E ci riuscì: si mise in ginocchio con la fronte premuta alla parete rocciosa, provocando una nota di stupore nello sguardo di Acab.

L'odore di muschio misto a quello metallico del sangue che permeava la parete, le fece rivoltare lo stomaco, mentre il freddo della roccia le intorpidì la guancia.

Rimase lì, quasi ad attendere che quella visione non fosse solo un sogno.

Acab, invece, ignaro di tutto, la fissava con la fronte aggrottata.

Lilith uscì dalla cella di Joshua recando tra le mani una frusta sudicia e gocciolante; passò oltre la prigione di Ariel incedendo come un militare, senza nemmeno spostare lo sguardo verso il fratello, che osservò la scia scarlatta lasciata sul pavimento.

Quando Acab vide la sua figura scomparire nel buio del tunnel da cui era arrivata, fece scattare la serratura della cella di Ariel per entrarvi, ma lei non sembrò curarsi di ciò che stava per fare.

Aveva il capo abbassato, con i capelli bagnati dall'umidità che le coprivano il volto, le mani giunte contro la parete di pietra e la voce che emetteva un sussurro cadenzato.

Le si avvicinò con un passo fin quando il tono utilizzato non aumentò, inoculando nei suoi pensieri solo due parole.

Proprio quando i suoi neuroni analizzarono i due sostantivi, Acab si sentì avvinto da una morsa come di corde invisibili. Bruciavano la pelle, tanto da metterlo in ginocchio e farlo boccheggiare; e quando i suoi occhi supplici incontrarono quelli scuri di Ariel, fu come se una spada l'avesse trafitto in pieno petto.

Lei si mosse in ginocchio, ferendosi la pelle delle gambe e reggendosi da una fessura della parete rocciosa, si mise in piedi, continuando a cantare Quel Nome.

Ariel aveva ascoltato quel canto quando, nel periodo di Pasqua, si era recata nella Cattedrale delle Sette Chiese. La tradizione della Città di Filadelfia prevedeva che ogni festività dovesse essere motivo di unione tra le diverse fedi.

Così, mentre i membri delle Sette Chiese percorrevano la Piazza Centrale, in file parallele capeggiate dai rispettivi Padri, Ariel aveva deciso di assistervi da lontano, senza farne parte.

Una volta entrata nella Cattedrale, la musica di quel canto e le voci angeliche dei membri del Coro, l'avevano accolta come in un abbraccio.

Il testo conteneva solo quelle due parole impronunciabili che lei stava cantando con decisione ferrea.

Quando i suoi occhi venati di rosso gli si rivolsero austeri, Acab capì di avere la vita nelle mani di colei che ogni giorno di più scioglieva quella lastra di ghiaccio posta al centro del petto.

Si ritrovò a i suoi piedi, rigido, con le mani dietro la schiena e il mento rivolto verso il pavimento con i capelli che gli coprivano il viso.

Lei lo fissò con sguardo torvo, avvertendo il tempo fermarsi e un fuoco percorrerle lo stomaco, il cuore e le corde vocali. Muovendosi verso di lui, lentamente e con lieve incertezza, Ariel si piegò per prendergli i capelli e fissarlo nelle iridi cerulee.

Acab trasalì, col fiato che sembrava abbandonarlo ogni secondo di più.

Gli occhi marroni non lacrimavano più ma sputavano odio e vendetta; occhi di un leone ferito, ma capacissimo di afferrare la preda e ridurla a brandelli.

Tuttavia, Ariel non si rese conto che quei sentimenti oscuri cozzavano col nome pronunciato dalle labbra livide.

Per questo motivo, Acab ebbe la forza di alzarsi con uno scatto e ruotare il busto verso l'esterno, per spingerla con vigore verso le sbarre, tenendola dalle braccia e premendo il suo corpo contro di lei.

Le respirò rumorosamente sul viso, stringendo le dita sulla pelle nuda degli arti; dopo qualche secondo, mollò la presa su di lei per dirigersi fuori dalla cella con una mano sulla fronte dolorante.

Lei ascoltò i suoi passi percorrere le scale in salita e quasi subito le risentì venire verso la sua direzione. Non era riuscita a comprendere il comportamento di Acab e la sua mente divenne, in poco tempo, una giungla di pensieri contrastanti.

Se quello era il momento della sua morte, l'avrebbe accolta senza alcun rimpianto. Era pronta, fredda e ormai impassibile.

Nel rivedere il viso di Acab di fronte a se, prese un bel respiro e rimase in apnea per qualche secondo.

Lui recava nella mano destra una bottiglia verde scuro contenente un liquido dorato; poteva essere qualunque cosa, ma non le importò più nulla; se era giunto il momento, avrebbe concluso la sua esistenza dando un ultimo messaggio al suo assassino: «I tuoi occhi non possono essere lo specchio di un'anima nera. Parlano di un ragazzo obbligato a mentire. Per questo ti ho messo nelle Sue mani già perdonato».

Non era stata una frase lanciata lì a caso, ma una delle parole di Simon che più l'aveva colpita.

Era un giorno di maggio, il giorno del suo compleanno quando il Padre, dopo il sermone, gli si avvicinò donandole la collana di Joshua: un ciondolo a forma di spada il cui significato richiamava l'allegoria della Parola di Cristo pronunciata "come una spada affilata a due tagli, capace di dividere l'anima dallo spirito".

Ovviamente impreparata al riguardo, Ariel si mostrò entusiasta e al contempo riluttante ad accettare un simile dono. Simon, però, glielo aveva posato sul palmo facendo sì che le sue mani si chiudessero e stringessero il ciondolo con la promessa di perdonare tutto ciò che Ariel reputava imperdonabile; la parola affilata, infatti, veniva pronunciata solo da chi aveva perdonato di buon cuore qualsiasi peccato.

"Il perdono salva sempre, Ariel. Salva te e salva colui che riceve il perdono".

Acab, rifletté a quella frase e guardandola con noncuranza prima di alzare la bottiglia sopra la testa, pronunciò: «Se fossi nelle Sue mani, sarei già nell'oltretomba...»

Ariel sentì il rumore dei vetri rotti e un liquido caldo attraversare la nuca e il braccio sinistro.

Non sentì dolore, solo un intenso profumo di olio d'oliva.

Quell'olio cosparse i suoi capelli, le braccia e le gambe.

Acab le prese il polso e iniziò a sfregare con forza le polsiere con cui Ariel era incatenata, ma lei sembrava essere in uno stato comatoso, in cui le certezze non esistevano più.

Lo fissava impegnarsi a levare via quei ferri e, quando ascoltò il rumore della polsiera che cadeva al suolo, Ariel la osservò interdetta.

«Allora, adesso devi fare la stessa cosa con l'altra e con quelle ai piedi, ma...Ehi!» Acab la strattonò come per risvegliarla e poggiando i palmi sulle sue guance la fissò deciso «Ariel, devi muoverti perché non abbiamo molto tempo. Il mio Signore sa quel che sto per fare e non me lo permetterà. Tu hai il tuo Dio. Mi hai capito?»

Ariel annuì, senza riuscire a capacitarsi di ciò che le sue orecchie avevano appena udito.

Sembrò che anche il tempo si fosse fermato. Lì in quegli spazi angusti, permeati dall'odore di zolfo e dal lento suono di gocciolanti liquami, il viso di Ariel era ancora trattenuto tra le mani gelide di Acab.

Le aveva levato via una polsiera delle catene e cercava nei suoi occhi il motivo di tanto stupore, quasi fosse semplice comprendere le sue azioni.

I loro occhi si fondevano in espressioni indecifrabili, quando dei passi decisi, provenienti dalle scale metalliche, attirarono l'attenzione di Acab, facendogli spostare lo sguardo oltre la ragazza.

Ariel lo fissò incerta e impaurita per qualche istante, in attesa di un suo cenno.

Il volto di Acab sbiancò e gli occhi si tinsero di un azzurro chiaro, lucido e, nel rivolgerle nuovamente lo sguardo, deglutì e la fissò intensamente.

Le dita corsero fino alla nuca per stringere i suoi capelli tra le mani e le labbra coprirono quelle di Ariel, dapprima dolci e delicate sfiorarono i lembi della bocca che si schiuse titubante, poi insaziabili vollero di più.

I pensieri le si aggrovigliarono in un tumulto che annichilì il cuore.

La sua bocca serrata in una linea sottile si ribellava alla voracità dell'altro, sopraffatto da un impeto disperato.

D'istinto, lei gli strinse i polsi per allontanarlo da sé. Gli conficcò le unghie nella pelle pallida provocandogli un verso di dolore. Irritato, la spinse col bacino ancora di più verso le sbarre.

«Non capisci...» pronunciò quasi in un soffio sulle labbra schiuse, premendo il corpo a quello esile di Ariel, spezzandole il fiato.

Nulla è più arrendevole di un anima che ha perso la fede.

E quando gli occhi di ghiaccio si incontrarono con quelli ugualmente gelidi del personaggio giunto appena fuori dalla prigione, Acab si allontanò da lei, col petto che si alzava e si abbassava vistosamente.

«Mi fa piacere, figliolo, vederti così impegnato,» affermò Judas, entrando nella cella «ma il nostro Signore ha richiesto la tua presenza».

Nel torace di Acab, ancora mosso da fremiti concitati, esplose un fuoco di terrore che gli accelerò i battiti, mentre l'adrenalina percorreva ogni sua terminazione nervosa, rigandogli la fronte di sudore. Fissò Ariel sperando che, come quando aveva capito che i suoi occhi celavano segreti inconfessabili, in quel momento, nel suo sguardo vedesse la mappa di quel luogo di terrore, per uscirne indenne.

Abbassò il capo, bagnando le labbra, assaporando il ricordo di Ariel. Fissandosi le mani tremanti allungò le braccia verso il padre, congiungendo i polsi arrossati per farsi incatenare.

«Mi spaventa il tuo silenzio, Acab.» commentò, fissandolo truce.

Ariel cercò di analizzare la scena, impietrita e interdetta. Lo guardò a lungo: un cane docile al guinzaglio intento a fissare un leone con aria arrendevole.

Il tintinnio delle catene la svegliarono da quello stato di gelo e inconsistenza.

Poco prima aveva sentito la forza del corpo di Acab su di lei, ma, in quel momento, osservandolo con la testa bassa e in ginocchio di fronte al padre, ebbe l'indescrivibile sentore di essere stata salvata.

Le catene di Acab, così simili alle sue, le trasmisero un senso di impotenza e, priva di ogni forza, si lasciò cadere al suolo, lungo le sbarre, versando lacrime copiose: anche quel lucignolo di speranza stava affievolendosi nel gelo del suo cuore.

Acab, appena fuori dalla cella, si voltò per cercare i suoi occhi un'ultima volta e, incrociandoli lucidi, gli intimò di scappare con un rapido cenno del capo.

Lei si alzò, reggendosi dalle inferriate, con le gambe che non reggevano il suo peso e quello delle catene. Ricordò ciò che aveva fatto Acab e con la mente annebbiata dal dolore, si cosparse braccia e gambe delle ultime gocce di olio presenti nei resti della bottiglia rotta.

Si levò con difficoltà la polsiera metallica, ferendosi le dita col ferro arrugginito per poi dedicarsi con le ultime forze alle cavigliere.

Il sangue delle caviglie si mescolò all'olio e alle lacrime della giovane.

L'ultima cavigliera rotolò via dal piede e con essa la sensazione di oppressione e schiavitù.

Si alzò, lentamente, reggendosi da una delle sbarre per non cadere; la testa girava facendole venire le vertigini e la nausea fece capolino al suo palato.

Mosse un passo e si ritrovò faccia a terra, a gustare un sapore metallico. Dalle labbra un filo di sangue percorse il mento; le mani pregne del liquido rosso proveniente dalla cella di Joshua, apparvero sfocate alla vista.

Soffocò urla, gemiti e lacrime, strofinando la fronte sui dorsi delle mani. Tirò su col naso, ingoiando la disperazione che le avrebbe impedito di accelerare quella improbabile missione di salvezza.

Quante volte mi hai salvato...

Quante...

Puntellò le mani al suolo, cercando di non scivolare su quella pozza dall'odore ferroso e dal colore scarlatto; rimase carponi, e si avvicinò al corpo inerme del giovane che, esangue, mostrava un reticolato di strisce sulla schiena e in ogni parte di carne.

Il viso di Joshua era rivolto verso l'interno della cella.

I singhiozzi rotti le bloccavano le vie aree.

Arrivò strisciando sulla figura di Joshua; si bloccò, con le mani tremanti tese verso quell'orrore mentre la nausea bruciava lo sterno.

Volle guardarlo in viso, un'ultima volta.

***

Nel frattempo, l'Ospedale di Filadelfia era stato circondato da auto nere dai vetri oscurati e mentre i pazienti giacevano nei lettini, inconsapevoli, le tenebre si mossero indisturbate.

Simon aprì lentamente gli occhi. Nella stanza bianca e asettica, un raggio di luce, proveniente dalla ampia finestra alla sua sinistra, illuminava i fluenti capelli biondi di Lucia, che pareva dormire con un sonno tormentato.

Lui puntellò le mani al materasso e, smuovendo le lenzuola, la svegliò.

«Simon, come ti senti?»

Lui non riuscì a rispondere: aveva la bocca pastosa e sembrò che non ricordasse più il modo in cui si articola una frase, mentre gli occhi di Lucia divennero sottili e le labbra dischiuse sembravano voler pronunciare qualcosa, prima che la sua attenzione si spostasse alla porta da cui entrò il medico.

«Padre Simon, buon giorno. I miei colleghi mi hanno riferito quel che le è accaduto.» sentenziò l'uomo dal volto corrucciato, dietro gli occhiali, sfogliando le pagine della cartella clinica. «Ma sa una cosa?» domandò con un sorriso di scherno «Io non credo ad una sola parola di quel che mi hanno detto.» Concluse, lasciando malamente la cartella sul tavolino posto di fronte al lettuccio e facendo sobbalzare Lucia.

«Le dirò io quel che faremo adesso:» sedendosi accanto a Simon che lo fissava con sguardo serio e impenetrabile. «Lei dirà che Judas è venuto nella sua amata chiesetta e che lo ha conciato bene... »

In quel preciso istante, Lucia sentì una bruciante acidità attraversarle l'esofago. Si alzò piano, e muovendo qualche passo all'indietro, si spostò lentamente verso la finestra, proprio nel punto in cui la luce del sole mostrava il pulviscolo; concentrò lo sguardo verso il capo del medico, il cui taglio simmetrico dei capelli neri lasciavano vedere chiaramente un tatuaggio, molto più che emblematico: una stella nera capovolta con all'interno una cicatrice a forma di L, proprio dietro l'orecchio destro. Il medico continuò: «successivamente faremo una denuncia per diffamazione e lei, con i suoi seguaci, andrà lontano da qui, dove non sarà più possibile la sua influenza. Mi ha capito, Padre?»

L'uomo si era avvicinato tanto da porre la fronte contro quella del Pastore, che non lo degnò di alcun gesto di stizza, nonostante l'altro gli aveva sputato l'ultima parola pregna di veleno.

«Le do il tempo di vestirsi.» disse poi, alzandosi. «Ci incontreremo per le dimissioni. I miei colleghi la stanno già aspettando all'esterno.»

Il medico aveva utilizzato una voce calma, pacata, di chi ha già la vittoria in mano ma, mentre stava per uscire dalla porta, incontrò lo sguardo torvo di Nathan che lo guardò scivolare oltre l'uscio osservandolo allontanarsi a passo svelto, facendo echeggiare le suole.

Il ministro entrò disegnando nel volto un mezzo sorriso.

«Nathan, c...cosa c'è?» intervenne Lucia, guardando impietrita l'uomo che levava via le lenzuola e tendeva le mani a Simon. «Che stai facendo?»

Nathan la fissò infastidito e sospirando le intimò di aiutarlo, con un cenno del capo.

Coprirono il Padre con un impermeabile, il quale si lasciò cingere i fianchi e portare fuori da entrambi, senza proferire suono.

«Forse so dove sono.» ruppe il silenzio Nathan, scendendo le scale.

«Come?!» strillò Lucia, sbarrando gli occhi e al contempo, facendo attenzione ai suoi passi sugli scalini di marmo.

I tre si dovettero fermare sul pianerottolo, perché Simon si era bloccato di colpo, facendoli arrestare sul posto.

«Dimmi tutto. Ora.» furono le uniche parole pronunciate dal Padre.

 

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Capitolo 27
*** LA FORZA DELL'AMORE ***


Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo.

Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla.

Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente.

L'amore è paziente,

è benevolo;

l'amore non invidia;

l'amore non si vanta,

non si gonfia,

non si comporta in modo sconveniente,

non cerca il proprio interesse,

non s'inasprisce,

non addebita il male,

non gode dell'ingiustizia,

ma gioisce con la verità;

soffre ogni cosa,

crede ogni cosa,

spera ogni cosa,

sopporta ogni cosa.

L'amore non verrà mai meno.

(San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi Cap. 13)

***
 

«Un collega di mio padre mi ha dato un indizio» prese un lungo sospiro, colto da un improvviso senso di colpa «ma io non ci ho creduto fino a quando non ho verificato di persona».

«Quindi?» lo incitò Lucia.

Nathan si guardò intorno e abbassò la voce, sporgendosi verso i due.

«Lui mi ha detto di essere un cliente abituale del Pub Lithium e che negli ultimi mesi ha avuto la sensazione di sentire urla provenire dai sotterranei del locale. Ma nessuno osa dire nulla. Nessuno osa chiedere. La musica aumenta e non resta che andar via, o fare la fine di coloro che urlano.»

«Oh Dio...» commentò Lucia, ponendo una mano sulle labbra nel sentire la bile bruciarle lo sterno e il cuore accartocciarsi.

«Quando hai verificato?» domandò Simon, con il sudore che gli imperlava le tempie.

«Un paio di settimane fa, prima che Judas venisse a trovarci, sono entrato nel locale e ho osservato attentamente le mosse dei suoi dipendenti, ma solo Lilith andava e veniva dai sotterranei. Acab non l'ho mai visto.»

«Non mi stai dicendo nulla di nuovo, Nathan.» ringhiò Simon, con l'angoscia che permeava l'animo.

Il ministro deglutì, ammettendo la sua negligenza annuendo un paio di volte.

«Però» aggiunse poi «ho sentito la figlia di Judas parlare ad uno dei suoi di un prigioniero dal nome quasi impronunciabile...»

Gli occhi di Lucia si spalancarono fino all'inverosimile e un fremito attraversò le mani. Aprì la bocca per pronunciare parole, ma dovette rinunciare per dedicarsi alle condizioni di Simon.

La stanchezza del Padre rese pesanti le palpebre e la testa, già provata dal colpo di Judas, iniziò a vorticare.
«Non capisco Nathan, ma adesso andiamo. Mi spiegherai tutto al Centro».

Continuarono a scendere le scale e una volta arrivati al piano inferiore si accorsero di un innaturale silenzio che rendeva i loro passi rumorosi.
Sembrava che i tre fossero gli unici presenti in tutta la struttura. I medici e i pazienti del pronto soccorso sembravano essersi dileguati.

«Tutto questo è molto strano.» commentò Nathan.

«No, è tutto regolare.» intervenne Simon, con voce roca «Vedi quelle auto nere nei parcheggi? Mi stanno aspettando.»

Rimasero fermi lì, a un metro dalle porte scorrevoli dell'ospedale. Nathan mosse il capo a destra e sinistra, cercando una via di fuga alternativa, poi il suono del motore di un veicolo a due ruote gli bloccò il respiro. Quel suono lo conosceva fin troppo bene e d'un tratto sentirono lo stridio di una brusca frenata.

Heliu era arrivato poco oltre l'ingresso, alla guida della moto di Nathan; le porte si aprirono sfiorate dalla ruota posteriore.

«Andiamo!» gli urlò il ragazzo.

Non c'era il tempo di fare molte valutazioni, e, mentre gli adepti si preparavano a scendere dalle vetture, Lucia e Nathan aiutarono il Padre a salire sulla moto.

«Vai! Vai!» furono le ultime parole di Nathan prima di osservarlo superare le automobili in una pericolosa sgommata.

Il ragazzo sparì oltre il cancello dell'Ospedale seguito dalle auto nere dei Lucifer.

«Quel grandissimo...»

«Nathan!» Lucia lo redarguì con lo sguardo e il ministro rispose prontamente:
«Come ha fatto ad arrivare qui con la mia moto?!»

«Sono stata io appena ho avvertito che quel medico voleva rapire Simon...» Lucia abbassò lo sguardo all'asfalto che iniziò ad annebbiarsi.

«Cosa facciamo, adesso?!» gli urlò la ragazza in preda al panico, strattonandolo.

Nathan le prese il viso tra le mani. «Stai in pace. Adesso andiamo. La nostra fede muoverà le montagne!» rispose con sguardo fiero.

Così, i due si diressero verso l'auto e una volta chiusi gli sportelli, il ministro attivò la sirena e partì premendo tutto il piede sull'acceleratore.
Era stata l'auto del padre di Nathan, ex comandante della Polizia di Filadelfia, a permettergli un rapido ingresso in ospedale e ora sperava di servirsene per percorrere le strade senza ostacoli.

***

Intanto, il luogo della riunione solenne, in cui doveva recarsi Acab, si trovava nei sotterranei oltre le prigioni.
Scese gli scalini di pietra della scala a chiocciola, seguendo i passi di Judas, in silenzio e a testa bassa.

Nella bocca ormai priva di saliva, i denti si serravano evidenziando la mascella e i muscoli, a causa di movimenti convulsi, venivano resi visibili nelle braccia nude.

Ombre lo attraversavano e sussurravano parole di morti e di anime lacerate, mentre il tremore divenne parte integrante del suo essere e la mancanza di ossigeno si faceva sempre più pressante.

Arrivati alla fine della scalinata, proseguirono lungo un tunnel stretto e angusto, irrigato da liquami maleodoranti, provenienti dall'unica porta presente.

Per osservarla interamente fu necessario alzare il capo fino al soffitto: alta e ampia ritraeva immagini e bassorilievi di figure demoniache che avevano pervaso i suoi sogni negli ultimi anni.

L'ampio portone di legno scuro, illuminato dalle torce poste ai lati degli stipiti, si aprì non appena il padre mostrò la mano sinistra alzata.

Lo sguardo di Acab vagò oltre l'apertura; osservò l'ampia sala circolare alle cui pareti erano poste armi e utensili utilizzati per le torture, ancora gocciolanti.

Al centro si ergeva un cubo di marmo su cui giaceva una donna, nuda, incappucciata di nero, incatenata mani e piedi, esangue; dal cappuccio uscivano ciocche di capelli scuri che percorrevano le braccia innaturalmente bianche e rigate da ferite sanguinanti.

Il suono del sangue che picchiettava sul pavimento di marmo chiaro, lo intontì come un carillon spettrale; il suo respiro divenne pesante quasi fosse in un'ampolla di vetro.

Nell'oscurità tetra e impenetrabile del luogo, i sacerdoti erano posizionati lungo tutto il perimetro della sala, vestiti di una lunga tunica rossa e con il cappuccio che copriva per metà il loro viso pallido; erano loro che portavano una flebile luce nel palmo della mano come fiamme di fuoco.

Al centro, dietro l'altare, una mano fuoriusciva dall'ombra più fitta, impugnando un coltello pronto a lacerare la carne nuda della donna che ancora non aveva un volto.

Fu in quel momento che il padre di Acab fece un paio di passi per raggiungere l'Oscuro Signore e obbedire alle sue richieste incanalate silenziosamente nella sua psiche; Judas prese un calice posto ai piedi della donna, si piegò sulle ginocchia e lo pose in direzione del liquido vitale che colava dalle braccia.

Aspettò che la coppa di vetro si riempisse fino all'orlo e osservandone il contenuto con sguardo indagatore lo porse alla figlia Lilith. Lei era la sacerdotessa più giovane e, a lei, spettava il primo sorso.

Acab aveva più volte assistito a quei riti, ma mai aveva bevuto il sangue di qualche vittima; egli, infatti, non aveva mai scalato l'ultimo gradino di quella orrenda piramide; ma quando vide la sorella dirigersi a passo lento verso di lui, capì che era giunto quel momento.

La osservò, come si guarda una rosa appassita piena di spine: i passi erano felpati e i piedi scalzi si tingevano del rosso dei fiumi che colavano dall'altare. Completamente coperta da quel manto violaceo, ad Acab non rimase che guardare il soffitto tentando di mandar giù il terrore che continuava a provocargli fremiti incontrollati imperlando il viso di gocce trasparenti.

«I demoni non tremano, Acab.» la voce calda e dai toni sensuali della sorella gli provocarono un espressione di disgusto; serrò la mascella e roteò il capo nella direzione opposta a quella del calice.

Lilith lo schiaffeggiò, impregnando la sua canottiera del liquido contenuto nel bicchiere.

Quell'atto di ribellione provocò l'ira del suo Signore che urlò nella sua mente parole d'odio e vendetta, seguite da minacce di morte per lui e per colei che stava sciogliendo il ghiaccio del suo cuore.

Quella voce gli fece digrignare i denti e indirizzare lo sguardo verso l'Ombra, le cui mani scheletriche si muovevano nell'oscurità.
Il torace di Acab sembrò ripiegarsi verso l'interno per farne uscire l'ossigeno e svuotare le sacche dei polmoni: il suo Signore voleva la sua anima, in quel momento.

Furono secondi interminabili, ma poi qualcosa mutò.

D'un tratto, Judas si sporse verso l'oscurità del suo padrone per ascoltare la sua richiesta.

Acab crollò a terra, con le mani al suolo per inalare quanta più aria poteva.

«Il nostro Signore chiede cosa sia successo nella cella, prima che arrivassi io. Precisamente dopo che Lilith ha punito il figlio del mandato di Filadelfia.»

Acab prese un profondo respiro, inalando l'odore pressante di zolfo che aleggiava in quel luogo.

Col respiro concitato, prima che potesse rispondere, la mano di Judas levò il cappuccio alla donna posta come sacrificio.

Quel muscolo nel petto, che aveva cominciato a vivere dopo aver conosciuto il sapore di una semilibertà, sembrò frantumarsi in scaglie di ghiaccio acuminato; stallatiti che trafissero i polmoni facendolo smettere di respirare.

Gli occhi sbarrati osservarono il corpo di Regina, sua madre.

L'urlo che si levò da quel luogo arrivò fino ad Ariel, che mise le mani alle orecchie, pietrificata.

Gli ultimi brandelli di speranza volarono via, come foglie d'inverno.

Con il viso rigato da lacrime amare, Acab tentò di articolare una frase: «Il Leone di Dio ha iniziato a...»

Era chiaro che ogni sua parola sarebbe stata utilizzata contro di lui e al pensiero che anche Ariel avrebbe fatto quella fine, sentì di fermarsi e pesare le parole.

Poi un flash.

Due parole l'avevano gettato in ginocchio.

Due parole.

 

 

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Capitolo 28
*** LA FORZA DELL'AMORE pt.II ***



«Continua» gli intimò Judas.

Lo sguardo di Acab mutò, come se non avesse più niente da perdere; come se tutto, in quel momento, dipendesse da quel nome: la sua vita e la sua morte.

Il cuore palpitante non ebbe la meglio sulla sua decisione. Con capo chino e respiro irregolare, obbedì: «Ariel ha cantato e... pregato...» inspirando profondamente, rivolse gli occhi verso l'invisibile soffitto. Serrò le palpebre e continuò: «Nel nome di Gesù Cristo».

Un urlo stridulo e acuto gli inondò la mente e i timpani parvero rompersi. Il luogo sembrò tremare. L'oscuro Signore lanciò il pugnale nella sua direzione, mancandolo.
Non riuscì a scorgerlo oltre l'altare di marmo, ma vide le falangi ossee muoversi ai bordi della lastra marmorea, convulsamente, quasi come se si trovasse in ginocchio.

I pugni chiusi e le catene ai polsi, Acab strinse i denti per un dolore che ferocemente pulsava nelle tempie.
Tuttavia, una curva comparve sul suo viso prima di essere gettato al suolo dalle mani della sorella. Gli aveva stretto i capelli; lo aveva costretto a saggiare con le labbra quel liquido che colava fino a lui dalla donna che lo aveva messo al mondo.
Quel sapore ferroso gli arrivò al palato provocandogli un conato di vomito, mentre le forze parvero abbandonarlo sotto il peso del ginocchio della sorella che gli premeva le vertebre, spezzandogli il respiro.

«Basta così, Lilith.»
Il tono grave di Judas riempì la sala circolare. Gli occhi rossi della giovane puntarono il padre in un espressione confusa.
Lui le ordinò di andarsene con un cenno del capo e lei, digrignando, scattò in piedi, permettendo ad Acab di rimettersi in ginocchio.

«Sai cosa vuol dire questo, Acab?»
Lui si scostò una ciocca di capelli dagli occhi con un movimento del viso e fissò il padre con sguardo torvo. «Mi ucciderete.»
La risata silenziosa di Judas accompagnò quell'affermazione. «Oh no, non proprio.» ghignò, curvandosi verso di lui. «Sarai tu stesso ad ucciderti, dopo aver ucciso il Leone».

Il volto di Acab divenne pallido e il cuore gelò.
«Sì. Adesso sì che puoi tremare, figliolo.» quella pacca sulla spalla destra lo avvelenò più di quanto non avesse fatto il liquido inalato qualche istante prima.

La sua unica speranza era che Ariel fosse già al sicuro, lontano da lui.

Lei, invece, era ancora lì.

L'urlo del ragazzo le aveva lacerato le viscere, pietrificandola e mentre il respiro spezzato scandiva i momenti che la dividevano dalla presunta libertà alla morte certa, un movimento nel corpo di Joshua la fece sussultare. Un gemito seguì il fremito delle gambe del ragazzo che si trovava in posizione prona.
Solo le gambe erano semicoperte da brandelli di pantaloni, strappati sicuramente a causa delle frustrate.

Poi la schiena si inarcò e ad Ariel si bloccò il respiro. Le era sembrato tutto inutile fino a quel momento.

Il sangue che ricopriva ogni angolo di quella cella, come un ampio tappeto scarlatto, l'aveva portata ad una erronea, se pur ovvia conclusione: tutto quel liquido sgorgato fuori da una persona comune non avrebbe permesso a nessuno di rialzarsi.
Se non era morto, non si sarebbe potuto alzare da solo, né tanto meno permettersi di camminare.

Ma lui era Joshua e non un semplice umano qualunque.

"Si dia il caso che io non sia come i ragazzi di questo mondo"
I ricordi presero forme definite restituendole il momento in cui quel misterioso ragazzo era entrato nella sua vita.

Poi lo vide puntellare i gomiti al suolo, inspirando ed espirando a fatica. Dei riccioli castani ricadevano sulla fronte, coprendogli gli occhi.

Joshua tossì, sputando sangue e gemendo.

Ancora non poteva vederlo in viso, ma un particolare, in quel volto martoriato, colpì la sua attenzione: i capelli erano leggermente allungati sul davanti, ma la barba non era affatto cresciuta in sette mesi, ma circondava le labbra e la mandibola quasi accarezzandone il profilo.

Lei rimase lì, incapace di proferire suono, immobile e in ginocchio, osservandolo come si fa con un fulmine che colpisce un albero e lo incendia fin alle radici, mentre lui era riuscito a poggiare i palmi al suolo, posizionandosi a carponi.

Rimase in quella posizione per qualche minuto, respirando a fatica, come se fosse riuscito a risalire dall'oscurità degli abissi.
Un mezzo sorriso comparve sul suo viso, mostrandole la fossetta, e alzando lo sguardo per incrociare le iridi brune della giovane pronunciò: «Pace a te, Ariel...»

La sua voce aveva diradato le tenebre come un'alba di speranza; lei sorrise, inumidendo le labbra di lacrime.

Tra i singhiozzi, strisciò con le ginocchia fino a lui.

Quale pace ci poteva essere in un cuore fatto a pezzi e ricucito malamente in quattro parole?

Le bastò vedere un occhio semi aperto e l'altro gonfio e viola per capire che solo un miracolo l'aveva riportato in vita.

Sì fermò ad osservarlo da vicino per togliere una ciocca di capelli dagli occhi e, timidamente, sfiorargli le guance, trattenendo ulteriori lacrime nello scorgere solo un luccichio nell'iride sinistro e tutto il volto coperto da sangue rappreso.

Poi un fuoco di rabbia risalì le viscere, incendiandole i pensieri.

«Pa... Pace?!» urlò.
Lui si sporse subito verso di lei, ponendo una mano sulle labbra umide per farla tacere.

Lei inarcò le sopracciglia e poi, fissandolo con un'espressione di furia cieca, iniziò a colpirlo con le mani chiuse in pugni.

Lui la lasciò fare, fin quando, tra le lacrime, quei pugni rallentano la loro corsa, fino a fremere sul petto lacerato di Joshua.

Li accostò sulle labbra, mordendosi le nocche per non urlare e strofinò la fronte sulla clavicola del giovane.
«Non...» tentò Ariel. «Non dovrebbe essere così...»

«Shh» soffiò lui mentre le labbra si posarono sul capo e lei si aggrappava a quel calore, cingendo il collo con le braccia e stringere i suoi capelli tra le dita.

Erano rimasti lì, uniti in quell'abbraccio, lasciando che il tempo si fermasse.

Joshua la stringeva a sé percependo una gioia dal sapore agrodolce.
Così piegò la testa e nascose il naso tra la spalla e il collo di Ariel, inspirando profondamente l'odore di olio di oliva che ungeva i capelli scuri, prima di allontanarsi da lei.

«Dobbiamo andare ora...» la incitò.

Tra le sue braccia aveva lasciato una parte di sé e guardandola negli occhi ancora gonfi e rossi, si morse il labbro interno, inspirando l'odore acre dei liquami del luogo.

Ariel perplessa, gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma, come accadeva in passato, ci pensò lui a rispondere ai suoi silenziosi perché.
«Io ce la farò!» le sorrise, in una smorfia di dolore.

Lo sguardo limpido e il celeste sorriso erano come svaniti, celati all'interno di un viso dai contorni gonfi e arrossati.
Nel poggiare la pianta del piede al suolo, il ragazzo ebbe un sussulto e dovette tenersi dalla parete rocciosa per alzarsi definitivamente. Ogni movimento sembrava provocargli scariche di dolore in ogni parte del corpo e Ariel sembrava sentire ogni cosa.
Riuscì a rimanere in piedi e, aiutandosi dalle fessure delle rocce, camminò fino alle inferriate che Lilith aveva lasciato aperte.

Per tutto il tempo, Ariel lo osservò dal basso, a labbra schiuse, in ginocchio.
Lui si appoggiò alle sbarre con la spalla sinistra; con una mano si tenne a uno dei ferri e con l'altra incitò Ariel ad alzarsi, mentre il suo sguardo vagava preoccupato in ogni direzione.

Lei strinse le dita alle sue, posizionandosi dietro di lui.

In quel momento, rifletté su quel che aveva fatto Acab per lei - per loro - e sperò ardentemente che non gli fosse successo nulla. Tuttavia, il ricordo di quell'urlo pesò sull'anima, tant'è che mentre Joshua muoveva i primi passi oltre la prigione, si premette la mano sul petto avvertendo il gelo della morte trafiggerle il cuore.

Percorsero un paio di passi, poi Joshua si bloccò di colpo, tendendo i muscoli delle braccia, stringendole la mano in una morsa, senza muovere più un passo.

Ariel si scostò da lui giusto un po' per scorgere cosa fosse successo oltre le spalle di Joshua: il loro percorso era bloccato da un ragazzo dagli occhi azzurri, velati da una patina biancastra. 

***
 

Heliu non aveva mai guidato in quel modo; zigzagando tra le auto ferme al semaforo, si accorse di essere in vantaggio rispetto agli adepti, rinchiusi, al contrario, tra le file delle auto. Accelerò, oltrepassando l'incrocio per dirigersi verso la periferia.

Quel lampo di sollievo si affievolì quando il giovane avvertì che la presa di Simon si allentava sul suo torace.

«Padre! Padre! Siamo quasi arrivati, rimani sveglio!»

Simon rinsaldò la presa, ma il suo cuore sembrò stanco di palpitare; la vista gli si annebbiò, rendendolo incosciente.

Il cielo color zaffiro, sembrò chiamarlo verso la pace, tutto intorno vi erano suoni ovattati e distanti. Roteò gli occhi, piegando la testa da un lato. Ascoltò le vibrazioni di vita di Filadelfia: bambini che si rincorrevano sul marciapiede per arrivare alla vicina gelateria, tra risate e grida; un uomo che urlava per un parcheggio sbagliato; una donna che organizzava la giornata, parlando al cellulare. Nessuno poteva accorgersi di quel che stava accadendo: i moti dello spirito erano invisibili agli occhi del mondo naturale.

«Sto arrivando, Peter...»

Quel sussurro incontrollato scosse l'animo di Heliu; ingoiò lacrime amare e, con un ultimo moto di velocità, scorse il tetto spiovente della struttura del Centro.

«No...No...Ti prego!» esclamò, vicino alle lacrime quando vide le tre macchine nere dei servi di Judas davanti al cancello grigio della proprietà. Gli uomini dai completi neri stavano aspettando accanto alle auto e, notato l'arrivo del giovane, si diressero verso di lui, puntandogli le pistole.

Heliu deglutì e, una volta spento il motore, allargò le braccia a difesa di Simon.

Avvertì il pulsare del cuore alle orecchie e alle tempie; il sudore copioso che aveva bagnato il capelli colò sugli occhi mescolato alle lacrime. Serrò le labbra in una linea sottile e chiuse gli occhi, in attesa.

La bocca riarsa non emise alcuna preghiera; nel petto si udì solo l'urlo del cuore.

Un colpo.

Una luce.

***

L'auto di Nathan corse tra le vie del centro storico, mentre l'aria afosa di agosto sembrò annebbiare la mente.

«Nathan, cosa ti succede?» gli chiese Lucia, con voce roca.

L'uomo puntò gli occhi sgranati sulla vettura a due ruote che zigzagava nel traffico intenso dell'ora di punta e solo il sudore riusciva a raffreddare l'agitazione del ministro, che tutto si poteva aspettare, meno che di dover essere bloccato da un semaforo.

Appena vide il colore rosso, avvertì la sollecitudine dell'ansia fargli premere il pedale dell'acceleratore. «Lucia, tieniti forte» la avvertì.

La giovane roteò il viso nella sua direzione prima di subire una forza che la costrinse a schiacciare la schiena contro il sedile.

Il cuore le si agitò nel petto, non tanto per le curve selvagge prese con eccessiva velocità, o per il pericolo di uccidere qualche passante, ma per le condizioni di Simon che, con una ferita alla testa e senza idratazione, viaggiava sotto il sole cocente senza nessuna protezione.

«A destra o a sinistra? Lucia, a destra o a sinistra?!» le aveva urlato rosso di rabbia per averli persi di vista dopo il ponte che divideva il centro città dalla periferia.

A Lucia non rimase che una risposta secca «Dritto, Nathan! Stanno andando al Centro, non ricordi?»

Nathan, come rinsavito da quello stato di terrore e confusione, continuò la sua corsa.

Poi, uno stato di pace placò i suoi sensi non appena i palazzi lasciarono campo libero allo sguardo del cielo, limpido come non mai e di color zaffiro, mentre gli alberi posti ai margini della via principale, donavano, di volta in volta, l'ombra necessaria per rilassare la vista.

No, non è il paesaggio... Sei Tu con me, nel fuoco della lotta.

Anche Lucia apparì serena con lo sguardo rivolto al paesaggio circostante, ammirabile dal finestrino e mentre la strada iniziava ad essere leggermente in salita, i due scorsero il tetto spiovente del Centro, illuminato da un innaturale luce bianca proveniente dall'ingresso.


 

«Oh Santo Dio...»

Nathan alzò il freno a mano. Scese dall'auto e dopo aver chiuso lo sportello pose le mani ai fianchi, interdetto: «Lucia... Lo stai vedendo anche tu?»

Le rivolse lo sguardo e si avvicinò allo sportello inarcando un sopracciglio: la ragazza era immobile, nell'atto di un urlo, con gli occhi sgranati e non batteva ciglio. La osservò a lungo, credendo che fosse uscita di senno. Tuttavia il torace rimaneva immobile; si sporse verso l'interno dell'auto dal finestrino, e le agitò il palmo di fronte agli occhi: non un movimento, non un sussulto.

Uscì di scatto dall'abitacolo e si mosse per raggiungerla ma, a poca distanza dal suo naso, incrociò una farfalla: inerte come una bomboniera di cristallo posta a mezz'aria. La osservò con un fremito dell'animo e temendo di danneggiarla, ritirò il dito alzato per toccarla.

Gocce di umidità risalivano dal suolo rovente, rimanendo fisse ai suoi piedi.

Roteò il busto e gli arti subirono contrazioni involontarie e irregolari. Anche l'afa era scomparsa, lasciando il posto a un tepore primaverile.

E li vide: avvertì palpitazioni in gola e alle tempie, ogni suo poro produsse sudore. Le forze vennero meno, tanto da doversi tenere dal cofano anteriore dell'auto.

I tre uomini avevano sparato i proiettili che vagavano seguiti da una scia incolore, senza alcuna logica fisica. Heliu, con le braccia aperte, aveva gli occhi chiusi e nel volto un'espressione di dolore. Simon poggiato col capo sulla sua schiena, sembrava essere addormentato sulle sue spalle.

Poi rivolse gli occhi verso quella luce calda e intensa, proveniente dal cancello del Centro di Aggregazione; quello che gli occhi degli uomini mortali non potrebbero mai ammirare, gli fu dato vederlo per grazia divina.

Erano tre figure luminescenti alte e possenti, dai volti bianchi,splendenti come il sole a cui rifugge lo sguardo per il troppo chiarore; le spade sfolgoranti riposte in un fodero d'oro, arrivavano al suolo; un'armatura d'oro vestiva i loro corpi coperti di una tunica bianca fino alle ginocchia: l'elmo copriva il capo dai lunghi capelli lisci, la corazza era ben aderente al busto, e calzari sembravano essere ricoperti di pietre preziose.

Le ali, dalle penne candide, coprivano la visuale della struttura del Centro.

Gli esseri celesti fissavano lo sguardo su Nathan che non riuscì a contenere l'invasione di sensazioni ed emozioni che avevano colpito il suo animo, facendolo ridere, piangere e tremare, fino a cadere in ginocchio al suolo.

Un tuono lo scosse. Alzò il volto e sentì parole dure, come un ordine ferreo. Non capì quel linguaggio celeste, ma nel cuore aveva una certezza: doveva spostare i due dalla traiettoria dei proiettili. Il resto lo avrebbe fatto il suo Signore.

Annuì più volte e si alzò di scatto.

Corse verso i due, fermandosi a considerare come avrebbe dovuto spostarli: guardò la moto è provò a dirigerla verso la macchina; la vettura si spostò facilmente dalla postazione, risultando fin troppo leggera. Scosse la testa: nulla aveva senso in quel momento, non esisteva logica umana in quello che aveva appena visto.

Assicuratosi della stabilità della moto, rivolse lo sguardo verso gli adepti.

In una frazione di secondo, i proiettili fuggirono lontano, piantandosi nel parabrezza di un'auto parcheggiata poco lontano.

Quelli si stupirono della mancata riuscita dei colpi e volgendo il capo in ogni direzione, si accorsero di essere sormontati dalle figure luminescenti.

Tra le urla, un lampo di luce esplose di fronte agli occhi di Nathan, che dovette coprirsi il viso con l'avambraccio.

Dei tre servitori di Judas, non rimase che un cumulo di polvere nera sull'asfalto rovente.

 

 

 

 

*******

Salve a tutti, lettori silenziosi!

Sì, avete ragione, non mi sono mai fatta sentire. Ma, che dire, volevo lasciar parlare loro, i personaggi. Adesso voglio rimediare e farmi sentire e, chi volesse, può visitare la pagina Instagram in cui posto immagini relative alla storia, come quelle che vedete in fondo. Mi trovate come SkysCadett e sono curiosa di avere le vostre impressioni in questo social in cui passo molto tempo.

Per quanto riguarda la storia: vi aspettavate questi risvolti? Arrivati fin qui, cosa potrebbe succedere?

Fatemi sapere!

Grazie a tutti. Pax.

.Skys

Skys

 

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Capitolo 29
*** LA FORZA DELL'AMORE pt.III ***


La notizia della disfatta dei servi di Judas non giunse subito nei meandri del loro mondo, tanto che l'obiettivo era rimasto quello di uccidere i due figli spirituali di Simon, i quali erano ancora lì, fuori dalle loro celle, in attesa del loro destino.

 

Ariel era rimasta a fissare quegli occhi gelidi e privi di vita: sassi incastonati in un viso pallido e dalle occhiaie marcate.

Il cappuccio nero del mantello che Acab indossava copriva i suoi lineamenti, lasciando che lo sguardo si concentrasse in quelle pupille assenti.

Dietro di lui, Judas poggiava la mano sul capo del figlio, presentandosi con un ghigno sinistro e occhi alteri.

La figura di Acab emanava un'aura oscura all'interno della quale sembrava essere imprigionato mentre ombre si propagavano nel luogo come tentacoli: tenebre che si avvicinavano ai due prigionieri acuminando le estremità come frecce.

Lo scudo della fede contro i dardi del male. Quelle parole rimbalzarono tra i ricordi di Joshua.

Erano le parole che Simon utilizzava per placare gli incubi di Caleb; quando capitavano, Simon correva nella sua stanza e, nonostante le urla del ragazzo, lui gli prendeva testa e se la poggiava al petto, rassicurandolo con quelle parole, come se il Padre potesse essere quello scudo di fede contro il male che si insinuava nell'animo puro di quel ragazzino.
 

«Bene Acab, perché non dici ai nostri prigionieri come mai siamo qui?» intervenne Judas, entrato nei ricordi di Joshua come una mano dai lunghi artigli, arrivata a spegnere ogni lucignolo fumante; deglutì, inghiottendo quel senso di colpa che lo opprimeva ogni volta che ripensava a suo Padre e al suo amore; irrigidì i muscoli, aumentando la frequenza del respiro.

«Uccidere il Leone. Io devo uccidere il Leone.» diceva Acab in una tetra melodia, ondeggiando il capo e il busto avanti e indietro come una marionetta.

A quelle parole, una scarica elettrica scosse la giovane Ariel, che conficcò le unghie nel dorso della mano di Joshua, rimasto immobile e attonito.

Con i muscoli tesi spostò gli occhi verso la mano destra del carnefice, notando lo strumento della loro fine: una lunga lama la cui impugnatura era nascosta nel palmo rigido di Acab.

A Joshua bastarono pochi secondi per confermare ciò che aveva percepito nei pochi giorni in cui Ariel era rimasta in quel luogo: il dorso della mano di Acab mostrava le venature, le nocche bianche e l'avambraccio subiva spasmi impercettibili, sintomo - secondo Joshua - di insicurezza e paura.

«Vuoi veramente ucciderla, Acab?»

Judas sogghignò. «Credi di poterti salvare così? Puoi dirgli quello che vuoi tanto non può ascoltarti.»

«Sono menzogne, io so che mi stai ascoltando, Acab.»

Il capo di Acab ondeggiò come un animale da circo, privato di ogni coscienza. Sembrò davvero che il ragazzo non potesse ascoltarlo.

«Tu non vuoi ucciderla.» Joshua si mosse con un passo trascinato, tenendosi dalle sbarre della cella di Ariel; negando col capo, allungò la mano verso quelle ombre, che parvero sfiorarlo senza fargli del male. Voleva arrivare a toccare il suo torace.

Ariel non riuscì a capire le intenzioni di Joshua e lo tirò verso di sé, pregandolo di non muoversi.

Lui roteò il capo verso di lei, con un gesto di stizza, fulminandola con lo sguardo.

«Fidati di me!» le aveva sussurrato, a denti stretti.

Lei lo lasciò e nuove lacrime le rigarono la pelle. L'avrebbe perso, di nuovo. Era una certezza che gli si era conficcata nel cuore, come la lama affilata di Acab.

Bastò un passo e Joshua poté poggiare il palmo al petto gelido di Acab. Sentì un battito eccessivamente accelerato, mentre la mano sembrò intorpidirsi, come punta da stalattiti di ghiaccio invisibili.

Sapeva che doveva farlo perché era l'unica soluzione: Judas non avrebbe potuto muoversi e lasciare il controllo sulla mente di Acab, ma il cuore - Joshua lo sapeva bene - lo conosceva solo Gesù Cristo.

«Tu la ami»

Pronunciò e un calore avvolse il suo palmo: la sensazione di una primavera che germogliava tra i battiti.

Ariel trasalì con gli occhi sbarrati all'inverosimile e la bocca spalancata.

Sul volto di Joshua comparve un mezzo sorriso e, forte della sua intuizione, continuò, avvicinandosi all'orecchio: «Ti ho visto scrutarla di notte, tormentandoti perché non avresti voluto farle del male. Tu non la vuoi uccidere. Tu la vuoi libera!»

Un urlo agghiacciante allontanò Joshua, costringendolo a tenersi dalle inferriate della cella; un acido bruciante percorse il suo esofago, accompagnato dalla sensazione di aver fallito.

Acab tese i muscoli mostrando le vene di braccia e collo, mentre le ombre aumentarono, saettando fino ad Ariel, che si inginocchiò al suolo coprendosi il viso con le mani.

«Acab!» urlò Joshua. «Non farlo! Uccidi me!» con una lacrima che gli rigò lo zigomo, «Uccidi me!» le ginocchia arrivarono a toccare la pietra della pavimentazione e, allargando le braccia a protezione della giovane, serrò le palpebre. «Ti prego!»

Ariel urlava, avvertendo ferite che si aprivano sulla pelle delle gambe e delle braccia. La fronte toccò il pavimento ruvido, quando le sue mani strinsero i capelli tra le dita, fino quasi a strapparli dalla radice.

In quegli attimi interminabili, solo le gelide sghignazzate di Judas riecheggiavano soddisfatte.

Poi quelle risate si bloccarono di colpo.
Joshua non volle aprire gli occhi, anzi fu portato a serrare le palpebre con più vigore, fin quando l'udire di un liquido copioso che cadeva al suolo non lo costrinse ad aprire gli occhi.

Si ritrovò le ginocchia nude lambite da un liquido scuro, lucido e dai riflessi rossi.

***

Ci impiegò qualche secondo prima di alzare il capo verso la fonte di quel liquido e, quando lo fece, l'orrore si manifestò in spilli acuminati che colpirono il petto, avvertendo pulsazioni accelerate mentre la fronte veniva imperlata di gocce trasparenti e gelide.

Judas era in ginocchio ed emetteva gemiti gutturali, sputando sangue. Anelava ossigeno e gli occhi fissavano un cielo assente.

Quel sangue, arrivato alle ginocchia di Joshua, era scaturito a fiotti da un taglio visibile alla gola.

D'istinto, si portò le mani ai capelli, puntando gli occhi su Acab che si trovava con le spalle al muro, pallido, tremante e con occhi sbarrati.

Aveva agito lui. In quell'unico gesto aveva trovato la soluzione alla sua angosciosa dualità.

Lo vide lanciare il pugnale lontano da sé per poi lasciarsi scivolare lungo il muro di pietra e rimanere con le ginocchia strette al petto. In un urlo, proteso verso il padre, Acab riversò tutta la sua anima, piangendo.

Era tutto così incredibile che Joshua smise di respirare per qualche secondo; quando si decise a muoversi, strofinò la pelle delle ginocchia al suolo e, bagnandosi in quel liquame rosso, arrivò lentamente di fronte al ragazzo.

Lo fissò a lungo fino ad accorgersi dei movimenti convulsi delle pupille e dei tremori muscolari.

Cosa devo fare, Padre?

Prese dei profondi respiri, voltò il capo in direzione di Ariel e la preoccupazione lo sollecitò.

Gli prese il volto tra le mani: «Acab» lo chiamò. Quello si irrigidì al suo tocco, stringendosi di più al muro umido, mostrando nel viso il dipinto del terrore, mentre l'altro, con occhi che bruciavano e la pelle che tirava per tutte le ferite che andavano cicatrizzando, tentò di rassicurarlo: «Non sono qui per farti del male, ma per salvarti...»

Acab deglutì, in uno sguardo furioso: «C... Come posso essere salvato dopo tutto quello che ho fatto?!» gli urlò. «Dimmelo!»

«Acab, solo Gesù Cristo può salvarti. È Lui che ha guardato il tuo cuore.»

Il respiro di Acab si faceva sempre più concitato, ma Joshua continuò: «È Lui che ha udito il grido delle tue notti perché desideravi salvarci. Adesso devi prendere Ariel con te e andare alla Chiesa di Simon. E' lì la salvezza, e tu l'hai sempre saputo.»

 

Acab ancora in preda a fremiti incontrollati non emise suono, annuendo un paio di volte con espressione contrita e le labbra strette. «Non hai molto tempo...» gli suggerì.

Così si alzò e, cercando di non gettare gli occhi verso il padre, fissò lo sguardo verso Ariel: la vide immobile, al suolo, in posizione fetale; i capelli scuri e sudici coprivano il viso come un fili ingarbugliati; le gambe scoperte - così come le braccia e la schiena - erano ferite da tagli poco profondi ma da cui scaturivano gocce rosse.

Deglutì saliva inesistente e, serrando la mascella, si fece forza e piegò le ginocchia per prenderla tra le braccia.

Una volta in piedi, fu assalito da capogiri e nausea. Si appoggiò con una spalla all'angolo del muro che portava alle scale di ferro; Joshua lo vide e riuscì a sostenerlo in tempo.

Era visibilmente provato dalle sue scelte, dai suoi rimorsi, dal peso dei suoi demoni.

Gli occhi di Joshua si posarono poi sul volto di Ariel e, dopo averle tolto una ciocca di capelli che le copriva parte del viso, fece un mezzo sorriso prima di intimare ad Acab di procedere.

In quel momento, Ariel spalancò gli occhi provocando un sussulto a entrambi: sarebbe stato meglio condurla fuori di lì mentre era incosciente.

Infatti, Ariel vedendosi sovrastata dal volto pallido di Acab ebbe un moto di terrore. Volle scappare e, premendo i palmi contro le sue spalle, era intenzionata a scendere per portare i piedi in terra; tuttavia i movimenti le furono bloccati da scariche elettriche provocate dalle varie ferite. In una smorfia di dolore, rivolse lo sguardo nuovamente su Acab: gli occhi ancora lucidi di lacrime erano vuoti e impenetrabili, circondati da un'ombra livida.

In quel momento, avvertì un peso sul cuore che la convinse a stringersi al suo collo; girando il capo indietro per vedere dove fosse Joshua, lo intravide nella penombra mentre fissava Judas agonizzante e in posizione supina.

Il cuore le balzò in gola, attanagliato da sentimenti contrastanti: la gioia fulminea iniziale lasciò presto il posto ad un senso di pietà e contrizione.

Attese un cenno del cristiano che, girando il capo verso di lei e nuovamente alla vittima, le confessò a occhi sbarrati: «Non sono stato io!» alzò le braccia, negando «È stata la forza dell'amore di Acab.»

Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma non si accorse delle lacrime silenziose che gli rigavano gli zigomi nascoste in un sorriso forzato.

«Ora dovete andare, e di corsa!» li incitò e, senza aspettare la reazione di Ariel, pose le mani alla schiena di Acab, ancora coperto dal manto nero, per direzionarlo verso le scale.

«Aspetta... Cosa?!» chiese in un rantolo Ariel, che fece per liberarsi dalle braccia di Acab. «Non puoi... Joshua!»

Un paio di gradini e Acab sembrò perdere l'equilibrio ma l'altro, ringhiò di rimando «Vai Acab! Vai via da qui!».

Acab gli rivolse uno sguardo interrogativo mentre Ariel si sporgeva dalle sue spalle gridando il suo nome fino a graffiarsi la gola e infilare le unghie nella pelle del giovane che la stava salvando.

La ribellione di Ariel a quella specie di comando ebbe la meglio su Acab che, in uno spasmo muscolare, la lasciò andare per osservarla mentre si lanciava al collo di Joshua, facendo udire i singhiozzi di un pianto disperato: «Non puoi lasciarmi andare con lui! Non puoi!»

A quelle parole, Acab avvertì i mille pezzi di un cuore gelido e privo di vita conficcarsi nel petto. Il suo sacrificio non era valso a nulla.
 

Per Joshua fu inevitabile ricambiare quell'abbraccio che per l'ultima volta gli stava facendo avvertire sussulti nell'animo deciso; la strinse a sé fino a lambire con le labbra le sue spalle minute. Poi, nonostante quelle braccia fossero l'ultima cosa che avrebbe voluto lasciare, serrò la mascella per poi mordersi il labbro allontanandola via da sé con uno scatto.

«Ti ho detto di andare!» con voce rotta «Non ti voglio qui!»

Il cuore di Ariel ormai ridotto a frammenti che facevano sanguinare l'anima, le venne spazzato via come granuli di sabbia nel soffio di quelle parole.

Acab, che era rimasto di spalle, col palmo appoggiato a una parete e una gamba sul gradino superiore, tentò di racimolare un briciolo di forza per portare con sé, non solo il suo corpo -di cui non aveva più contezza - ma anche quello di Ariel, della quale avvertiva l'odio latente nei suoi confronti. Nonostante ciò, il braccio si mosse involontariamente verso di lei per porgerle la mano tremante.

Lei, dopo aver lasciato scivolare via gli occhi dal volto torvo di Joshua li rivolse verso quella mano protesa e la fissò fin quando i contorni non furono offuscati da nuove lacrime.

Zoppicante, salì i primi gradini da sola, oltrepassando Acab, per poi ritrovarsi, inevitabilmente, tra le sue braccia rifiutate.

«Acab, prendila e non lasciarla andare. Non avete più tempo.» suggerì, infine.

Lui si protese verso Ariel e lasciò che fosse lei a cingergli le spalle per permettergli una risalita agevole. Così fece e iniziarono a salire, tra l'eco delle suole e lo scricchiolio delle scale arrugginite.

Lei poggiò il mento sulla sua spalla per non staccare gli occhi dalla figura di Joshua che andava rimpicciolendosi fino a sparire dopo aver girato l'angolo della prima rampa di scale.

 

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Capitolo 30
*** LA POSSIBILITA' DELL'IMPOSSIBILE ***


In verità, in verità io vi dico:
se il chicco di grano, caduto in terra, non muore,
rimane solo;
se invece muore, produce molto frutto.
-Gesù Cristo-





Un caldo afoso sembrò soffocare le vie aeree di Simon; le palpebre erano incollate e serrate per il lungo sonno. Mosse le dita delle mani e sentì la frescura di un lenzuolo di cotone.

Aprì gli occhi e alla luce tiepida del mattino riconobbe la sua camera: la scrivania ben ordinata alla sua sinistra e in corrispondenza dell'ampia finestra, la libreria su cui si alternavano libri e studi biblici, in cui svettava la foto di Padre Peter. L'uomo dell'immagine sorrideva in un'espressione pacifica e eterea; pochi capelli bianchi contornavano il capo e gli occhiali erano poggiati sul naso importante.

L'immagine di colui che per primo gli aveva mostrato il Regno di Dio-attuabile in una famiglia dove il padre cura ogni anima come figlia unigenita-gli trasmise un senso di pace e rilassamento; si mise seduto, strofinandosi gli occhi con tre dita, cercando di riprendere il controllo degli arti indolenziti muovendo dapprima i piedi nudi, poi roteando le caviglie, stirando le braccia verso il soffitto.

Un brusco colpo alla porta interruppe quella pratica rinvigorente.

«Un attimo!» esclamò, dando una fugace occhiata alla ricerca della sua vestaglia di cotone: aveva dormito con canottiera e bermuda da quando aveva memoria.

«Simon, sono io. Nathan.»

In un sospiro, afferrò una maglia bianca a maniche corte. «Entra pure!»

Non era strano per Simon ricevere visite nel suo studio, dove un lettino singolo posto in fondo alla stanza, con un comodino e una cassettiera, lo dotava di tutto ciò di cui aveva bisogno. Spesso si era trovato nella condizione di doversi vestire in fretta per risolvere i problemi quotidiani a cui una comunità come la sua doveva far fronte.

In quel caso, viste le condizioni del Padre della Chiesa di Filadelfia, Nathan aveva preso il comando, risolvendo dal più piccolo litigio, alle problematiche delicate, forte del suo spirito di iniziativa e dell'autorevolezza ereditata dal padre, ex commissario di polizia.

La porta si aprì con estrema lentezza, facendo apparire la testa riccioluta di Nathan che si apprestava ad entrare nella stanza di spalle. Aveva dovuto piegare la maniglia con il gomito, perché le mani erano impegnate nella stretta di un vassoio d'argento in cui oscillava una tazza fumante di latte e miele e tre fette biscottate.

A piccoli passi si era diretto verso la scrivania e, poggiando il vassoio, prese la tazza e la posò sul comodino accanto a Simon, facendo attenzione a non scottarsi.

«Come ti senti?» gli chiese, rimanendo in piedi, con le mani ai fianchi, rivolgendogli uno sguardo preoccupato.

«Confuso.» sospirò.

«Lo credo bene...» disse, muovendosi verso la poltrona posta innanzi alla scrivania per girarla verso la sua direzione e sedersi.

«Ho pensato di vedere il Padre...»

Nathan ispirò profondamente e quasi come rivivendo l'esperienza che li aveva visti coinvolti, si lasciò andare con tutto il peso nello schienale.

In quegli istanti di silenzio si udirono le voci indistinte dei giovani e dei bambini che iniziavano a riempire il cortile; arrivarono come un eco nella stanza, attraverso l'apertura dell'ampia finestra. Poi, Simon alzò lo sguardo illuminato di speranza nella direzione di Nathan. «Li hai trovati?» Pronunciò, colto da uno strano sentimento di ansietà.

L'altro si piegò in avanti, avvicinando la poltrona al letto.

«È stata dura qui, una settimana senza di te.» confessò, strofinandosi gli occhi con i palmi e i gomiti puntati sulle ginocchia.

«Ho dormito così tanto?» corrugò la fronte, Simon.

«No, ma quasi.»

«Non ricordo nulla...»

«Gilbert ti ha tenuto sotto controllo per tutto il tempo. Pare sia normale il tuo bisogno di riposo.» Si schiarì la voce «Comunque... andrò stamattina al Pub Lithium.» e si alzò diretto verso l'uscita.

Dopo qualche passo, però, con fare dubbioso, tamburellò le dita sulla scrivania. «Avrei voluto parlarti di una cosa.» tossì, destando la curiosità di Simon, che si era appena alzato. «In merito alle elezioni comunali di novembre, dopo quello che è successo, sei proprio sicuro di voler continuare in questa missione?»

Avrebbe voluto aggiungere "suicida", ma si morse la lingua.

Sicuramente, quella domanda avrebbe ricevuto una risposta affermativa, ma volle tentare ugualmente, quasi come un amico cerca di consigliare al compagno d'opera ciò che è giusto, con le migliori intenzioni, ma, in fondo, lo sapeva bene, il loro non era un rapporto di amicizia: un figlio può solo comunicare le proprie preoccupazioni, ma le decisioni da prendere spettano al padre.

Simon analizzò la sua espressione contrita e lo osservò mordersi il labbro; gli si avvicinò con la tazza semivuota in una mano, mentre l'altra gliela appoggiò sulla spalla destra, stringendo con vigore, come a volergli trasmettere coraggio. Così, mentre nel suo volto si dipingeva un sorriso divertito per l'intento non riuscito del suo primo ministro, gli rispose: «Più di prima.»

Nathan ispirò e gettando rumorosamente aria dalle narici continuò imperterrito: «E non ti spaventa il pensiero che Judas abbia dalla sua parte cinque delle Sette Chiese della Confraternita, insieme a tutte le Lobby economiche e sanitarie del Paese?»

Parlò con voce quasi alterata, mentre Simon negava col capo quelle parole prive di senso, ma Nathan non si fermò. «...Per non parlare della tv e delle testate giornalistiche: i Lucifer possono controllare il quinto potere. Forse non ricordi le parole di quel dottore prima della nostra fuga dall'ospedale!»

Simon posò rumorosamente la tazza sul vassoio.

«E allora?» Si indignò. «Noi non possiamo contare su nessuno?» Aprì le braccia, per poi farle ricadere lungo i fianchi. «Mi meraviglio della tua poca fede.» Lo fissò con un cipiglio prima che l'altro potesse rispondere.

«Ho avuto paura, Simon. Ho avuto paura di perdere te, Heliu, Lucia... Di perdere tutto. Filadelfia è la mia casa, la mia ragione di vita.» Appoggiò il palmo sul cuore e pronunciò quelle parole stringendosi l'abbottonatura della camicia bianca le cui maniche erano arrotolate fin all'avambraccio.

A quelle parole, il Padre sentì che l'animo di Nathan era stato sfregiato da una situazione che, forse, era risultata più grande di lui. Lo sguardo del ministro fu poi rivolto al parquet, nel vano tentativo di ingoiare un nodo di incertezze.

«Nathan, questa vita è un Suo dono. Non capisci?» cercò il suo sguardo, stringendogli le spalle. «Noi possiamo scegliere di non essere parte del piano dei Lucifer, come invece non lo è il resto del mondo. Dobbiamo dare un'alternativa alla morte con la nostra vita.»

L'altro guardò in alto, cercando di cacciare indietro lacrime e, sospirando, gli disse: «Padre, sembra tutto così impossibile.»

Simon rise di gusto, dandogli una pacca su un braccio: «Caro Nathan, pensavo ti ricordassi il motto della nostra Chiesa...» L'altro, con sguardo interrogativo lo fissò in attesa della risposta. «Noi possiamo fare l'impossibile!»

Era ciò che alimentava le agonie della giovane Ariel: l'aver visto tutto ciò che reputava impossibile. Nei suoi piani, avrebbe dovuto salire quei gradini con Joshua e non tra le braccia di Acab.

Durante la salita, le sembrò che qualcuno parlasse con Joshua; nessuno di ostile, bensì un uomo con una voce limpida e musicale.

Scosse la testa: forse era stato lo stress, forse la mente le faceva brutti scherzi imponendole una pace impossibile da raggiungere. Il cuore accelerato in una violenta tachicardia, sembrava aver preso il posto di tutti i suoi organi interni; quella tensione derivava dall'impossibilità di comprendere gli intenti e azioni del suo salvatore, che aveva ritrovato e perso subito dopo.

Che senso ha?
Si domandò strofinando la fronte sulla spalla di Acab.

La fragilità fisica, la fame e l'aggrovigliamento di dubbi, la resero facile preda di forti dolori alla testa. Chiuse gli occhi, serrandoli in una smorfia, per poi abbandonarsi ad un sonno disturbato; l'unico conforto era la possibilità di poter rivedere la luce del sole. Anelava un calore che non riusciva a ricordare, fino a quando, si rese conto, con stupore, che la sua mano, posta al lato destro del collo di Acab, avvertiva il calore della pelle e le pulsazioni di un cuore accelerato. Non riuscì a rimanere indifferente a quella sorpresa e, d'istinto, si strinse di più a lui, nascondendo il viso nell'incavo tra mandibola e la spalla; poi, quasi fosse inevitabile, spostò il palmo sinistro fino a poggiarlo in corrispondenza dei suoi polmoni che si gonfiavano per aspirare e soffiare aria dalla bocca: azioni vive, umane.

Lui seguì quei gesti e il suo cuore implose nel desiderio di non trovarsi in quel luogo; poi, in modo naturale, si ritrovò a corrispondere quei gesti stringendola con più forza al suo petto e a piegare il capo, posando le labbra sui suoi capelli umidi.

Nella sua mente corsero i ricordi di rapporti gelidi e insignificanti, portati a termine nella violenza e nell'indifferenza; in quel momento, invece, capì di non aver mai gustato la dolce sensazione di un tenero avvicinarsi.

***
 

Quel momento di effimera umanità riconciliò il suo essere, quasi potesse avvertire la sensazione di avere un'anima, ma fu un'impressione momentanea.

I gradini di cemento grezzo erano diventati viscidi a causa dei liquami che fuoriuscivano dalle tubature arrugginite.

Il suono del sangue gocciolante: un ticchettio che occupava il suo udito e di cui, ancora, non si era sbarazzato.
In quel momento, non avvertì affatto la sensazione di essere in salvo, ma, al contrario, era ben conscio di essere sempre più vicino al suo Golgota.

Le braccia tremavano in spasmi incontrollati, quasi pronte a crollare sotto il peso del corpo di Ariel. Com'era possibile che lei non avvertisse ciò che gli stava accadendo?

Si bloccò, in bilico su uno dei gradini; ansante, madido di sudore che colava dalla fronte fin al mento; si appoggiò contro il muro, aumentando la frequenza del respiro.

La ragazza aprì gli occhi in un sussulto, avvertendo la sensazione di cadere nel vuoto; si strinse alle sue spalle per reggersi in un primo momento di timore, poi, saltò giù da quelle braccia che l'avevano sorretta così a lungo.
Fissò intensamente il volto afflitto di Acab: il respiro affannoso, gli occhi coperti dai capelli umidi.

Le mani erano strette alle spalle fin quando le lasciò scivolare sul suo petto; avvertì un battito prepotente e un respiro così accelerato da farle venire i brividi.

Lo osservò in silenzio, impotente: la testa che gli ricadeva all'indietro, le iridi assenti lasciarono il posto alla sclera; la mano sulla fronte, un capogiro che lo fece accasciare al muro, scivolando con le spalle per sedersi sui gradini; la sua pelle era diafana, le occhiaie evidenti e il respiro concitato era rumoroso in quello spazio claustrofobico.

Ariel gli si avvicinò. Si piegò sui talloni per scostargli una ciocca di capelli neri dal viso distrutto, cercando di infondergli un soffio di speranza attraverso una carezza. Col dorso della mano passò dalla fronte, alle tempie fino ad arrivare allo zigomo dove le sue dita furono intercettate da quelle di Acab, il quale condusse il palmo di Ariel sulla guancia, chiedendole, silenziosamente, di trattenere il più possibile quel contatto.

Lei fece un mezzo sorriso, avvolta da un senso di pietà e profonda gratitudine.

In fondo, l'aveva salvata e lei non aveva fatto altro che respingerlo.

Tuttavia, Acab sapeva benissimo di aver solo ritardato l'arrivo della sua fine. Chiuse gli occhi, con una sensazione di nausea al pensiero di quel che sarebbe potuto succedere di lì a poco.

Qualsiasi adepto, ribellatosi al volere del suo Signore, sarebbe morto in modi agghiaccianti. Per di più, lui non era un semplice adepto, bensì il figlio di uno dei Dodici capi del mondo.

I Dodici...rifletté.

Dodici uomini consacrati al potere luciferino, a cui era stato destinato il potere e l'influenza spirituale delle nazioni: a Judas era stato riservato un posto d'onore quale membro portatore di anime e persecutore dei cristiani. Lui, infatti, gestiva e organizzava le stragi delle comunità in varie zone africane e asiatiche, a volte compiendole in prima persona.

Nel suo compito era infallibile: circuiva donne cristiane dichiarandosi figlio di Dio e, facendo sempre attenzione a non nominare mai il Quel Nome, riusciva ad entrare nelle chiese come nuovo fedele; era così abile ad ammantarsi del ruolo del credente da riuscire a ricoprire anche alte cariche ministeriali, fino a quando non giungeva il momento dell'eliminazione dei Pastori portatori del Nome.

Come era successo nella chiesa di Filadelfia, d'altronde. In quell'occasione però, nonostante la morte del Pastore Peter, qualcosa era andato storto.

Subito dopo aver carpito l'anima del Padre spirituale, facendo credere ai paramedici di averlo trovato esangue nel suo ufficio, ebbe l'ordine perentorio di andare a trovare colui che avrebbe acquisito lo Spirito del suo predecessore. Il nuovo Mandato avrebbe avuto la capacità di sradicare il loro potere.

Lo spirito di quel Padre aveva dato problemi anche successivamente alla morte del corpo. Infatti, il Comando della Polizia di Filadelfia, indagando sulla morte di Peter, era riuscito a scoprire le azioni criminali dei Lucifer. L'indagine era stata condotta dal padre di Nathan.

Dopo aver attentato alla vita del figlio del Comandante - senza successo - Judas si era ritrovato di fronte al nuovo Mandato, avvolto dalla protezione, non di uno, ma di ben tre arcangeli.

No, non era finita lì, Acab ne era certo. Judas sarebbe tornato in vita per opera di Satana in persona, per finire ciò che aveva iniziato; sarebbe diventato immortale o, almeno, era quello che si raccontava.

Fece un lungo sospiro e tentò di alzarsi, oppresso dalle urla degli spiriti di anime dannate che gli ricordavano quale sarebbe stata la sua fine. Ariel lo vide serrare le palpebre in una smorfia di dolore e tapparsi le orecchie per poi iniziare a scalare l'ultima rampa. Lo seguì, stringendosi nelle braccia nude, tremante, con il cuore ammaccato e la voce assente, quasi le fosse scomparsa dopo aver urlato il nome di Joshua.

A quella considerazione, un flash: il suo sogno.

Ricordò come il suo urlo fosse stato simile al grido della donna avvolta dal manto nero che pronuncia a in lacrime il nome di Yehoshua.

Una specie di rivelazione le giunse potente come un lampo che illumina un cielo tempestoso: Simon e Joshua erano simili. Gesù Cristo era in Simon; Gesù Cristo era in Joshua. Entrambi erano portatori di quel Nome.

Poi, il braccio sinistro di Acab le apparve teso a pochi centimetri dal suo naso, per bloccare il suo passaggio su un gradino sdrucciolevole.

«Non ce la faremo, Ariel.»

Il tono rassegnato e cupo di Acab le provocò una fitta al torace; il capo del giovane era chino in avanti, gli occhi erano fissi su un numero indecifrabile di serpi poste sugli ultimi gradini che li avrebbero condotti alla libertà; le osservò, sentendo montare nelle vene un terrore che gli paralizzò gli arti; gli animali si aggrovigliavano tra loro, mordendosi a vicenda, facendo udire il sibilo delle loro lingue e lo strusciare delle loro squame.

Il respiro di Acab ritornò ad essere concitato e la schiena si muoveva vistosamente al suono rumoroso del suo soffio. Alle sue orecchie, l'ansito sembrava essere rinchiuso in un'ampolla di vetro; il sangue pompava rapido alle tempie pronto a fargli esplodere la testa. «Ariel...» sussurrò in tono grave e quasi spezzato. «Perdonami... Ma non ci riesco».

Ariel non capì e, scuotendo la testa, si impegnò nel vano tentativo di scoprire i motivi del suo improvviso stato di terrore: tentò di osservare oltre la sua figura che in quel momento pareva imponente coperta com'era dal mantello nero, sul gradino superiore.

«Non posso salvarti...»

La voce spezzata, quasi fosse sul punto di piangere, le annientò ogni difesa, rendendola incapace di proferire suono. Poi si voltò e lei poté osservarlo dal basso: gli occhi scuriti, spenti, persi.

Fremiti incontrollati resero la voce un sussurro flebile e inconsistente: «Dimmi cosa succede...» una lacrima le solcò il viso inespressivo. «Ti prego...» aggiunse.

Le braccia di Acab la avvolsero in un abbraccio. «Te lo dirò, non prima di confessarti ciò che provo...»

Gli occhi di Ariel si sbarrarono fin all'inverosimile, preda di un'emozione che le bloccò l'aria in gola.

«Devo dirtelo prima che tu perda la vita a causa mia.»

 

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Capitolo 31
*** AL SICURO? ***


L'animo tormentato di Ariel aveva una compagna a Filadelfia. Lucia non riusciva a svegliarsi dal sonno disturbato che aveva caratterizzato quella notte. 

Le lenzuola erano disordinate ai piedi del letto, la finestra spalancata lasciava entrare un soffio caldo e avvolgente che riusciva a spostare la tenda velata. Dopo essersi girata e rigirata, alla ricerca di una posizione comoda, con rapidi gesti delle braccia tolse via anche il cuscino, per poi mettersi seduta, ansante e con gli occhi ancora chiusi. 

Un sogno la disturbava. Immagini confuse, sbiadite, le vorticavano davanti. 

«Basta! Ti prego!» 

Quella visione le stava provocando gravi capogiri, capaci di farla cadere sul pavimento se non si fosse ancorata al materasso. Per molti minuti, non riuscì ad aprire gli occhi per tornare alla realtà. 

Nella visione, un violento boato sembrò romperle i timpani, tant'è che dovette portare i palmi alle orecchie. Un fumo grigio seguì il rumore e  le annebbiò la mente, mentre le immagini caddero al suolo, come foglie di un albero mosso dal vento. Erano fogli bianchi, che una volta poggiati al pavimento, lo coprirono come un tappeto; si piegò oltre il bordo del letto per osservare meglio e su ogni carta era incisa solo una parola, un nome, per l'esattezza. 

Si sporse di più per cogliere uno dei fogli e, nel leggere, lacrime calde sgorgarono dai suoi occhi verdi, che apparivano ancora chiusi.

 Il nome di Joshua riempiva il pavimento della sua camera, diventata una stanza senza pareti e inondata da una luce bianca, innaturale e gelida.

Dei passi riecheggiavano in quell'ambiente illusorio. Un ragazzo si posizionò di fronte a lei: vestito di un paio di pantaloni scuri, una maglietta bianca, sporca di sangue, e un mantello nero sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri e i capelli neri incorniciavano un viso simile a quello di Acab. Il giovane di fronte a lei era malridotto, contuso, e, in ginocchio, con uno sguardo implorante, le chiedeva perdono.

«No. Mai!» gridò.

Quell'urlo rabbioso destò Heliu dal suo sonno profondo. Si sedette, prima di poggiare i piedi nudi sul marmo delle mattonelle e si strofinò gli occhi con i palmi delle mani sudate. Si alzò, e, dopo qualche passo lento, avvicinò la mano alla maniglia della porta, ascoltando l'ambiente circostante prima di aprirla. Già altre volte si era trovato in quella situazione, perciò, prima di uscire dalla sua camera, attese l'arrivo di uno dei ministri di Simon. Dopo tutto, non propriamente vestito, si sarebbe ritrovato nella stanza della ragazza chissà in quale condizione. Gilbert aveva il turno in ospedale e non sarebbe tornato prima dell'ora di pranzo, Simon era a riposo e, forse, nessuno, a parte lui, aveva sentito l'urlo di Lucia. 

Decise di far scattare la serratura e percorrere il corridoio a piedi scalzi, con i pantaloncini da mare e una canottiera bianca, girandosi indietro di tanto in tanto.

Lucia non era molto distante, le camere erano posizionate su uno stesso piano e gli bastò percorrere qualche metro per trovarsi di fronte alla porta della giovane.

Si voltò un paio di volte, con i muscoli tesi e lo strano presentimento che quel che stava per fare non era del tutto secondo le regole del Centro. 

Avvicinò l'orecchio al legno e tentò di capire se la situazione fosse davvero critica.

«Non sei altro che un demone. Vai via! Ti odio!» le urla stridule, gli bloccarono il respiro. 

Decise di tentare. Aprì la porta lentamente, analizzando la situazione dall'esterno, ma quando la vide accartocciata su se stessa, con la fronte appoggiata al materasso e i tremori muscolari che preannunciavano una convulsione, si fiondò ai piedi del suo letto per cercare il contatto visivo. Si piegò sulle ginocchia «Lucia...» le sussurrò. «Lucia, sono qui.» 

Posò il suo palmo sulla guancia innaturalmente gelida della ragazza, ma una voce autorevole e profonda gli bloccò gli arti e gelare il sangue.

«Non toccarla. Spostati. Adesso.» 

Nathan era posto sulla porta e lo fissava con sguardo truce e pugni stretti. Heliu si girò lentamente e per non incontrare subito il suo sguardo di fuoco, camminò a occhi bassi; via via che si avvicinava inquadrò le sneakers basse e scure, i jeans chiari e quando arrivò al busto notò il petto alzarsi e abbassarsi in maniera irregolare dentro una maglietta nera. Un profondo senso di terrore lo fece drizzare rigido, quasi sull'attenti nell'incontro con quegli occhi minacciosi. Il ragazzo fece aprire la bocca, per giustificarsi, ma il ministro lo anticipò e, a denti stretti, gli ordinò: «Non una parola. Esci.» 

Nathan non gli staccò gli occhi di dosso mentre Heliu lo oltrepassava per uscire e, a giusta distanza, gli bloccò il braccio.

 «Guardati dal toccare nuovamente un'anima che ha bisogno di liberazione invece che di una umana consolazione!» Heliu sbarrò gli occhi, aumentando la frequenza del respiro; in fondo, aveva avvertito qualcosa di strano. La presa di Nathan si fece più vigorosa. «La prossima volta, chiama un Mandato, stupido!» 

«S...Sì» boccheggiò l'altro.

«Ora informa Simon. Corri.» 

Lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva verso le scale di corsa. In cuor suo, Nathan sperava che l'amore che quel giovane incosciente provava per Lucia non lo avesse portato a collegare lo spirito carnale a quello maligno della ragazza; sarebbe bastato il tocco di un cuore aperto e vulnerabile per far sì che il demone passasse da un'anima all'altra e creare un collegamento di morte.

Rimase sull'uscio, aspettando l'arrivo di Simon, ascoltando la mente pervasa da pensieri preoccupanti.


 

***

 

Per un tempo indefinito, Acab poté osservare le labbra di Ariel, così vicine alle sue da riuscire a vedere le increspature della pelle secca e fondere il respiro nel suo; dietro di lei, il buio impenetrabile da cui erano riusciti a scappare, fino a quel momento, indenni. Quel buio li tenne stretti, per chissà quale ragione.

Ariel attese, percorrendo con lo sguardo le linee invisibili che delineavano i contorni del viso di Acab; la saliva inesistente e il suo respiro affannoso solleticava le labbra aride. 

«Tu...» cominciò Acab, quasi non riuscisse a comporre quel concetto che aveva mosso le sue azioni fino a quel momento. «Tu sei stata la mia rovina...» a denti stretti, chiuse gli occhi e si bagnò le labbra, mentre quelle parole avevano prodotto spilli acuminati nella schiena di Ariel, che tentò di allontanarlo da sé, facendo una leggera pressione con i palmi sul suo petto.  «Però...» stringendola con più vigore per farla partecipe di un battito incontrollato «...In te, c'è la luce della mia redenzione.» Concluse, poggiando il mento sul suo capo. 

Ariel non riuscì a trovare la forza di rispondere o di ribattere, ma gli fece capire che, forse, in qualche modo, aveva ragione. Se quelle parole fossero state reali, sicuramente avrebbe avuto una buona possibilità di redimersi.

"Non basta essere portatori luce."

Ariel ricordò una delle ultime prediche di Simon. 

"Bisogna essere luce. Amarci gli uni gli altri, come Gesù Cristo ci ha amato, ci fa diventare luce."

Si trovavano su due gradini, l'uno su quello più alto, l'altra su quello più basso e, improvvisamente, sentendo che la presa di Acab si allentava, percepì un senso di vuoto dietro di lei; lui la tenne dalle braccia e si piegò sui talloni, con occhi bassi.

Per Ariel era tutto troppo surreale. Da quando aveva compiuto l'azione di colpire a morte il padre, Acab non sembrava più lo stesso. 

In fondo, come avrebbe potuto esserlo?

Lei non poteva saperlo ma - nei piani di Acab- una volta piegato in ginocchio, lei avrebbe visto le serpi e, nello stesso momento, lui si sarebbe offerto alle fauci dei rettili, permettendole la fuga.

«Acab.» Lo chiamò, con voce ferma. Lui alzò lo sguardo, perplesso alla vista del suo muso duro. «Ancora non mi hai detto cosa sta per succedere e perché dovrei perdere la vita a causa tua...» disse d'un fiato, stanca di aspettare il compiersi dell'ignoto.

Alla fine, anche la morte sarebbe stata un'ottima via d'uscita a quell'inferno. Dopo tutto, lei aveva la certezza che Gesù Cristo l'avrebbe accompagnata nell'eternità; ma perché Acab aveva usato quelle parole, non le era dato saperlo. 

Lui si girò di scatto e vide le serpi avvicinarsi alla sua schiena, pronte a sputare veleno. Sapeva di aver detto quella frase per prepararsi all'eventualità che il suo piano non fosse andato a buon fine. Quegli animali erano stati un inconveniente del tutto inaspettato.

«Ne ho abbastanza!» esclamò, perentoria Ariel, prima di muovere un passo per oltrepassarlo, ma al sentire la sua stretta alle gambe per impedirle il passaggio, ebbe un crollo di nervi. Lo spinse malamente alla parete con un movimento brusco e gli urlò: «Smettila! Non c'è niente, Acab! E' la tua mente! E' la tua mente!» 

Lui sbarrò gli occhi, e, sbigottito, schiuse le labbra per proferire suono, ma non riuscì ad articolare alcuna parola. 

Ariel non seppe spiegarsi il motivo della reazione che aveva appena avuto; sapeva solo si aver udito il timbro di una voce familiare, oltre il portoncino di ferro che svettava alla fine dell'ultima rampa di scale.

In un paio di sorrisi nervosi, Acab fissò lei e poi le scale, per poi chiederle: «C...Come hai fatto a farle andare via? Non hai nemmeno usato il Suo Nome...» farfugliò «T...Tu.» e, in un misto di gioia e terrore, giunse ad una conclusione: «Tu sei il Leone di Dio.» 

Acab rivolse lo sguardo un'ultima volta al punto in cui vi erano solo cinque gradini di cemento. Tornato sui suoi occhi marroni, le regalò un sorriso, pieno, ampio, di chi ha la felicità tra le dita. Quella curva nel suo viso - così diversa dai precedenti - provocò un profondo turbamento nel cuore di Ariel, come una scossa di terremoto a un palazzo già instabile. 

Poi, in un istante, quella voce familiare udita poco prima, divenne fin troppo riconoscibile.

Nathan...

Un pensiero e le gambe di Ariel percorsero quella rampa saltando gradini, per poi bloccarsi di fronte alla porta: l'emozione le faceva tremare le mani e tutto il suo essere venne come irrigidito. Fu la spallata di Acab a permettere l'accesso a quello che Ariel, in un lancinante colpo allo stomaco, riconobbe come il Pub Lithium.

***


 

Serrande di metallo abbassate fino ad altezza d'uomo, luci spente, e, alla porta d'ingresso, di vetro e legno scuro, era posto un cartello, incollato al vetro malamente con del nastro adesivo trasparente; sul foglio, a lettere cubitali, c'era scritto: "Chiuso per allestimento".

Nathan si tolse gli occhiali da sole, e, portandoli alle labbra, aguzzò la vista, piegandosi in avanti per vedere cosa si stesse muovendo nel locale. 

Era mezzogiorno, e ancora si faceva sentire il caldo tipico del sud: un calore che soffoca i pensieri, anche nel mese di ottobre.
L'uomo gettò aria dalla bocca, facendo cadere al suolo i suoi preziosissimi occhiali scuri. Si piegò sui talloni per prenderli e vide del movimento all'interno del locale. Con un cenno della mano, indicò al suo collega di rimanere nell'auto blu, mentre lui apriva la porta del pub Lithium senza nessuna resistenza. 

Lievemente sorpreso, fece qualche passo verso l'interno, ascoltando lo scampanellio che indicava l'arrivo dei clienti ai gestori del locale, che, apparentemente non erano presenti.

«Siamo chiusi!» 

Una voce da dietro il bancone del bar gli suggerì la presenza di un ragazzino che, probabilmente, stava sistemando le bottiglie di alcolici. 

Si fermò all'entrata per osservare bene l'ambiente del locale più rinomato della Città. 

Pose gli occhiali nello scollo a 'V' della maglia bianca e spostò i capelli all'indietro per poi accarezzarsi il mento lievemente barbuto. 

Il rumore dei suoi passi era attutito da un tappeto spesso, di colore bordeaux; ai lati dell'ingresso vi erano vasi dalle linee moderne che contenevano piante da interno di media altezza; alzando lo sguardo, l'occhio era catturato dall'ampio spazio dedicato alla pista da ballo sulla sinistra, di forma circolare e circondata da tavolini e divanetti neri, mentre la postazione del Dj era - stranamente - poco lontana dal bancone del bar. 

Si diresse alla sua destra, dove gli sgabelli di metallo con seduta girevole in pelle, suggerivano al ministro detective le intenzioni dei gestori del Pub: far rimanere il più breve tempo possibile i clienti in quella postazione perché l'area più importante era sicuramente la pista da ballo; la musica - soprattutto ad alto volume- avrebbe inibito la coscienza di chi vi si avvicinava, che, presumibilmente, doveva già essere carico di alcol e droghe. 

Tutte queste considerazioni e intuizioni logiche lo accompagnarono mentre arrivava in prossimità del bar. Si sedette a braccia conserte. Si sporse oltre il bordo interno con fronte aggrottata nell'osservare il ragazzo che, fino a quel momento, non si era accorto della sua ingombrante presenza. 

Con entrambi i gomiti sull'acciaio, attese che il giovane, dai capelli biondo platino e dal taglio asimmetrico, lo degnasse della sua attenzione, fin quando, dopo l'ennesimo rumore di bottiglie che vengono spostate e sistemate, bussò sulla superficie del bancone così insistentemente che il ragazzo sobbalzò, rischiando di battere la testa. 

Il giovane si drizzò e, spostando un ciuffo di capelli all'indietro, increspò la fronte: «Non sa leggere? Il locale è chiuso» si preoccupò di scandire. 

Nathan batté le palpebre un paio di volte e, inarcando le sopracciglia, si girò indietro per poi riportare lo sguardo sornione sull'altro. Portò la mano sinistra dietro la schiena e avvicinò agli occhi del ragazzo il distintivo della Polizia di Filadelfia.

«Immagino di non darti l'aria di chi sa leggere un cartello, vero...» schioccò due dita. «Come hai detto che ti chiami?» 

«Non l'ho detto, infatti.» 

Quel ragazzotto poteva avere una quindicina di anni e sicuramente lavorava lì solo per guadagnare qualcosa in più da portare alla sua famiglia indigente. Dopo tutto, lavoravano così i Lucifer, utilizzando i più bassi metodi di aggancio. 

Tuttavia, l'aria spocchiosa e lo sguardo da sfida che si ritrovava non sembrava appartenere a chi si guadagna da vivere onestamente. 

«Senti un po', tu, perché non ti rilassi e rispondi gentilmente a qualche domanda, eh? Se collabori, ti assicuro che non accadrà nulla di male.»

In una smorfia di disprezzo, il giovane gli rispose con tono beffardo: «Io non posso rispondere a nulla, devo chiamare il capo» e, ruotando il busto verso un telefono posto alla parete, fece per digitare il numero, ma avvertì una forza che lo tirava all'indietro. 

Nathan si era sporto oltre il bancone e, senza nemmeno troppa fatica, l'aveva portato a pochi centimetri dalla sua faccia, tenendolo dal colletto della camicia. 

«Il tuo capo sembra essere abbastanza impegnato se lascia un pivello come te, da solo, nel suo preziosissimo Lithium» gli ringhiò, a denti stretti. Non voleva realmente fargli del male; un po' di timore gli avrebbe fatto abbassare la cresta di giovane Lucifer. 

Il ragazzo, con occhi sbarrati e arti tremanti, annuì più volte, fino a quando l'altro non lo lasciò andare.  

«Avanti, per prima cosa, voglio sapere cosa succede qui dopo le due di notte. Te lo sto chiedendo con calma.» 

Non appena il ragazzo si sistemò la camicia nera e Nathan si mise nuovamente seduto, a braccia conserte, si udì in lontananza il nome del ministro, urlato stridulamente da una voce femminile oltre la pista da ballo. 

Sbarrò gli occhi, iniziando a respirare spasmodicamente. Una seconda volta quella voce lo chiamò gridando e, questa volta, avvertì una morsa all'altezza dello stomaco. 

«Non può essere...» disse fra sé. Saltò giù dallo sgabello. «È impossibile». 

Sì mise a  camminare a grandi falcate verso la zona dei privè; sentiva l'adrenalina scorrergli sottopelle e attraversare i nervi. 

Quando vide Ariel oltre uno dei divanetti neri, una scossa gli attraversò il cuore, portandolo a correre nella sua direzione, scavalcando un tavolino.

La ragazza era piegata dai singhiozzi e dalle lacrime, vestita solo di brandelli di stoffa nera che ricordava l'abito indossato mesi prima, il giorno del suo ingresso al Dark Lithium.

 Acab la teneva per le spalle e, prima che potesse dare qualche spiegazione all'uomo, si ritrovò il respiro rabbioso e  prepotente di Nathan sul naso. 

«Se non fossi un Ministro di Gesù Cristo, ti avrei già fatto fuori»

Acab deglutì, serrando la mascella per poi abbassare lo sguardo ai pugni chiusi e tremanti dell'altro. 

«Nathan, no...» 

Nathan sentì la mano gelida di Ariel sfiorargli il gomito per attirare la sua attenzione e dissuaderlo da quei pensieri.

«Acab ci ha salvato. Dobbiamo proteggerlo. Lo staranno già cercando, ma...» proseguì con urgenza. «Joshua è ancora laggiù! Lo devi salvare! Ti prego...» 

«Joshua è ancora laggiù? E perché?!» domandò come una furia, facendo arrossare il volto e evidenziare le vene del collo. 

«Non lo so...» sussurrò Ariel e quando l'ennesima lacrima le attraversò la guancia, continuò: «So solo che pensava che con Acab sarei stata al sicuro.»

Nathan la guardò, martoriandosi il labbro inferiore per contenere in quel gesto tutta la sua disapprovazione. 

Subito dopo, fissò gli occhi torvi su Acab, che dall'aspetto sembrava un capro condotto al macello. Si sciolse dai fianchi la giacca di pelle non indossata in precedenza e la pose sulle spalle di Ariel e, stringendola sé, frizionò il palmo sul suo braccio per scaldarla. 

«Voi starete qui e io andrò a prendere Joshua» decise, mentre accompagnava la ragazza verso uno dei divanetti e la aiutava a sedersi.

«Ti serviranno rinforzi» si pronunciò Acab, in tono deciso. 

Nathan lo squadrò e, bagnandosi le labbra, si avvicinò a lui grattandosi la mascella

«Ringrazia Dio che c'è Ariel. Questo dovrebbe bastare a darti una possibilità di redenzione, ma d'ora in avanti evita di dar fiato alla bocca. Sono stato chiaro?» 

Gli occhi scuri di Nathan gli incutevano timore, ma, arrivato a quel punto non doveva e non voleva perdere altre vite, dopo sua madre e dopo suo padre. 

«Ci sono trappole che nemmeno io conosco» gli comunicò, sostenendo il suo sguardo. 

Nathan, che si era incamminato verso la porta di metallo rimasta aperta, si bloccò sul posto e, alzando gli occhi al soffitto, si scrollò quell'affermazione di dosso in un profondo sospiro. 

Acab abbassò lo sguardo, come sfiduciato; in fondo, come avrebbe potuto credergli se la causa di tutto quel male era stato lui.

 Poi, un istante, come attanagliato da un tetro presentimento, una fitta alla bocca dello stomaco gli bloccò il respiro; sbarrò gli occhi e,  rivolgendoli al ragazzo del bar, iniziò a sentire sudore ghiacciato bagnare le tempie. Cominciò a camminare, claudicante, verso di lui, muovendo le braccia. 

«No, ti prego...» sussurrò tra le labbra. 

Il giovane era dietro la postazione del DJ con le dita sull'esploditore, che - a occhi inesperti - veniva confuso con i tasti della console. 

«Non farlo!!» gli urlò disperato, destando la curiosità di Nathan e Ariel.

Tuttavia, un boato precedette la sua caduta al suolo per l'esplosione proveniente dai sotterranei da cui erano fuggiti. 

L'onda d'urto li colpì in pieno. Prima di tutti Nathan - che era il più vicino - e subito dopo Ariel. Una montagna di calcinacci li coprì interamente, rendendo l'ambiente polveroso. 

Le orecchie di Ariel fischiavano e tutto intorno era un susseguirsi di figure scomposte: sedie e tavolini rivoltati, vetri sotto i palmi delle mani. Un fumo grigio riempiva la sua vista appannata. I bronchi tappati dalle polveri la costrinsero a tossire insistentemente. Le labbra a contatto con la superficie della pista da ballo saggiavano il sapore secco e inconsistente dell'aria rarefatta. 

Piantò i palmi al suolo e cercò di rialzarsi. 

Ruotando il busto, dolorante, vide la porta di metallo da cui erano entrati scardinata e accartocciata poco lontana da lei.

Nel silenzio di quell'orrore, si udì solo il suo urlo agghiacciante.

 

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Capitolo 32
*** LA FEDE DI FILADELFIA ***


Se infatti, quando eravamo nemici,

siamo stati riconciliati con Dio

per mezzo della morte del Figlio suo,

molto più ora che siamo riconciliati,

saremo salvati mediante la sua vita."

(S.Paolo - Lettera ai Romani 5,10)

 

Urlò nuovamente il suo nome. Ancora e ancora. In quell'urlo stridulo, solo il gusto amaro di un addio e la consapevolezza di non poter vedere più il suo sorriso e quegli occhi verdi.

Joshua era diventato solo un nome.

«Gesù...» pronunciò, mentre una lacrima lambì le sue labbra; una preghiera, in ginocchio, quando l'angoscia picchiava la speranza, cercando di convincerla che non ci sarebbe stato più nulla da fare.

Tuttavia il cuore attese, ugualmente.

Fissò l'ingresso ai sotterranei che aveva risalito, con gli occhi che bruciavano per la polvere e il pianto. Poi, una figura scura occupò la sua visuale. L'ombra di un uomo che, in ginocchio si avvicinava verso di lei, strofinando le ginocchia tra i vetri; quell'ombra a cui non riusciva a dare un volto - tanto era offuscata la sua mente- era Nathan.

Lei con lo sguardo perso nel vuoto non si accorse di nulla. Con le braccia lungo ai fianchi e le mani tremanti, completamente impolverato e scosso, appena di fronte a lei, Nathan tese una mano per farle una carezza, ma la ritrasse, subito dopo.

Di fronte a lui non c'era più la giovane e coraggiosa Ariel, ma una foglia secca, che un soffio lascia volare via dal suo ramo. Lo sguardo di una bambina impaurita dalla notte e, in quegli occhi grandi vide quelli di sua figlia e quell'impeto paterno lo destabilizzò.

Si chinò su di lei, affidando alle braccia il compito di sorreggere un'anima sfregiata da una terribile una lotta tra la speranza e la voglia di morire alla disperazione. L'abbracciò, portando il suo capo al petto. Avrebbe voluto ingoiare quel calice amaro da solo, ma, al solo pensiero che Simon l'aspettava dietro il cancello di Filadelfia, lasciò andare le forze per abbandonarsi al pianto. Nella sua mente solo parole per la Madre che non si stanca di avere fede:

"Quanta fede hai, Filadelfia?

Quante lacrime hai gettato per i tuoi figli rapiti?

E il tuo custode, come un Padre

cura i tuoi piccoli,

li annaffia,

li nutre,

anche se li vedrà strappati dalle mani del male,

per poi continuare a sperare con nuove nascite,

per farti essere di nuovo amore

di nuovo Madre."

 

Pensò a Caleb, alle indagini, ai blocchi burocratici, ai pugni sui tavoli dei servizi sociali imbavagliati dai ceti alti dei Lucifer.

Non poteva essere successo di nuovo!

Lacrime copiose bagnarono il volto del Ministro, incapace di proferire suono. Era arrivato tardi, di nuovo e, questa volta, non c'era perdono: né da parte di Simon, né da parte della Chiesa di Filadelfia; il primo a non poter perdonare era proprio colui che l'avrebbe guardato ogni mattina allo specchio.

Le labbra strette ai denti, la fronte corrugata in un'espressione di dolore e i denti serrati non riuscirono a trattenere i fiumi che, incontrollati, corsero fino al mento barbuto. Poi, con una certa urgenza, decise di alzarsi e far uscire la ragazza da quell'inferno.

Fece leva sulle ginocchia per alzarla e portarla via prima che potesse succedere un'altra tragedia. La prese dalle braccia, ma alla sua resistenza dovette esercitare una certa forza per riuscire a trascinarla con sé, senza però farle del male.

«Non è morto! Nathan, non è morto! Dobbiamo andare... Dobbiamo...» piangeva lei, con voce spezzata, mentre affondava le unghie nel braccio del ministro per convincerlo a tornare indietro. Quei graffi non erano niente in confronto a quel che avrebbe dovuto affrontare di lì a poco e, con voce autorevole «Basta, Ariel!» le urlò in viso, stringendo le sue braccia esili e pallide.

Ariel lo osservò intensamente, a labbra schiuse: gli occhi venati di rosso e gonfi, le labbra strette nascoste sotto la barba sfatta, il naso arrossato...

Il forte e irreprensibile Ministro di Simon...Pensò, al sentore di un macigno sul petto, quasi come se avesse potuto leggere in quegli occhi neri il libro delle angosce di un uomo che fa di tutto per essere forte, per gli altri e mai per se stesso. «È ora di andare...» le sussurrò, abbozzando un sorriso.

Si drizzò e la aiutò a percorrere quell'ambiente reso sinistro dalla poca luce che si incanalava tra le fessure delle serrande rotte; in quel caos polveroso, notò un movimento tra le macerie e i cumuli di intonaco. Probabilmente, Acab e il ragazzo del bar erano rimasti intrappolati lì.

Si mosse cauto, spostando con i piedi pezzi di tavole di legno. Dei tonfi alla porta di ingresso, la cui uscita era bloccata da parte del soffitto caduto proprio di fronte all'uscio, suggerirono a Nathan l'impegno del suo collaboratore nel far di tutto per liberare il passaggio.

«Signore!» urlò la voce distante dell'agente. «Siete vivi?!»

«Sì!»

«Ci sono feriti, Signore?»

Nathan roteò il capo verso l'ammasso di calcinacci e intonaco e, sentendo un rantolo, si accovacciò sulle ginocchia iniziando a levare gran parte di materiale. Ariel se ne stava immobile con gli occhi persi nel vuoto come assente e indifferente a tutto quel stava accadendo, stringendo le braccia al petto.

Quando Nathan scorse i capelli neri di Acab, iniziò a ringraziare Dio; in fondo, quel povero ragazzo aveva fatto di tutto per salvarli. «Sì!» rispose al collega. «Ma non in gravi condizioni. Me ne occupo io!»

Tirò su il giovane, avvolgendogli le braccia al petto da dietro la schiena; nel farlo, Acab avvertì una pressione nel torace che lo indusse a tossire residui di polvere. Nathan lo aiutò a sedersi sul pavimento e quando Acab alzò il capo fissò lo sguardo su Ariel per poi rivolgersi a Nathan: «Avresti dovuto lasciarmi lì.»

Nathan mosso da un leggero senso di pietà fece un mezzo sorriso. «Cosa ti avevo detto in merito al dar fiato alla bocca?»

Quello girò il capo impolverato verso di lui, e aggrottando le sopracciglia cercò di sostenere quello sguardo misericordioso con uno di disapprovazione, ma, dopo un paio di secondi, dovette rivolgere gli occhi ai suoi jeans neri strappati e pieni di aloni grigiastri.

Nathan si voltò indietro e si impegnò a spostare con le mani altro materiale, ma del giovane barman nemmeno l'ombra.

«Chi era quel ragazzo? Lo conoscevi?» Gli chiese con voce paterna.

Acab lo guardò un istante, per poi alzare gli occhi lucidi al soffitto, fortemente provato.

«È uno degli ultimi acquisti di Judas.»

«Acquisti?» domandò l'altro, inarcando un sopracciglio.

Lui lo fissò quasi contrariato da quel tono sarcastico.

«Come se tu non sapessi che noi abbiamo il controllo del traffico di organi e di esseri umani.»

«E come mai è scomparso?»

«Sarà stato già iniziato ai nostri poteri...»

Si accorse troppo tardi di aver sputato via dalla sua bocca tutto ciò che sapeva senza alcuna remora. Si morse la lingua tra i molari, sbarrando gli occhi increduli prima di rivolgerli a Nathan.

«Bene. Non credevo potesse uscire così facilmente una cosa del genere dalla tua bocca» gli sorrise soddisfatto, dopo una pacca sulla spalla. «Mi hai colpito!»

Acab fece per alzarsi, quasi a voler scappare dalla prima persona che aveva avuto la capacità di indurlo a dire la verità, ma non appena puntellò le mani al suolo, ricadde all'indietro, preda di un capogiro improvviso.

Alla fine, con un ultimo colpo di spalla ben assestato, il collega di Nathan si guadagnò gli occhi spauriti dei tre presenti. 

Mentre viaggiavano nella volante, a velocità contenuta, Ariel poté contemplare nuovamente le vie del Centro in cui si alternavano negozi di abbigliamento rinomati e luoghi di ritrovo per giovani benestanti e ricchi benefattori. Osservava in silenzio, con il capo piegato e a contatto con il vetro del finestrino. La luce del sole era forte e riscaldava la sua pelle di un tepore così consistente da sentirsi come accarezzata e - inspiegabilmente - consolata.

Si rivide camminare tra quelle vie per arrivare in tempo e prendere l'autobus per recarsi all'Università nelle vesti di matricola.

L'Università...

Con la mano chiusa a pugno si colpì la fronte, incolpandosi del lieve senso di tranquillità provato nel ricordare quei momenti in cui i suoi occhi erano ancora innocenti.

Avrebbe voluto conoscere Joshua prima di quella stupida facoltà; avrebbe voluto incontrare Simon, Nathan e tutta quella celeste realtà per avere la possibilità di non compiere quell'errore che gli era costato giorni di inferno; nel disubbidire alla voce di Dio, data per bocca di Simon, aveva alimentato la  sua testardaggine per recarsi da sola tra le braccia della morte.

Magari Joshua si sarebbe salvato...

Con il respiro pesante rivolse lo sguardo alla sua sinistra in cui  era seduto Acab, con gli occhi persi e riflessi nel vetro in cui si alternavano il verde delle fronde degli alberi e l'azzurro del cielo; in quello sguardo dalle occhiaie marcate, Ariel non riuscì a vedere altro se non la colpa di aver voluto affrontare il nemico da sola e il merito di averlo - in qualche modo - salvato dall'inferno. Sempre se la  presenza di Acab in quella macchina fosse dovuta a scelte ponderate o a un ulteriore trappola diabolica. 

D'altronde, non è che un figlio di Satana...

Dal finestrino, il sole illuminava i capelli arruffati e pieni di nodi di Ariel, mentre gli occhi pesanti sembravano pronti ad abbandonarsi al sonno. D'un tratto, il dorso della sua mano avvertì il tocco delle dita di Acab.

Lei si guardò la mano, coperta da quella rigata di sangue rappreso dell'altro;   gli occhi lucidi accarezzarono con lo sguardo il braccio fino ad arrivare a fermarsi sulle labbra. Non voleva incontrare i suoi occhi; era ancora pregna del timore di venire nuovamente soggiogata.

Così, quando avvertì i suoi su di sé, li fissò con un moto d'astio di cui quei suoi occhi grandi erano saturi. Un fuoco di rabbia le infiammò il cuore, riducendolo a un mucchio di cenere. Con uno scatto ritirò la mano, senza provare alcuna pietà per quegli occhi azzurri pieni di emozione.

Acab portò le mani sulle ginocchia e rivolgendo il palmo verso l'alto guardò il colore rosso impresso tra le linee del cuore e della vita. Alzò il capo a fissare il grigiume del tettuccio della volante, pervaso da un senso tristezza che comprimeva il cuore. Una sorta di buco nero nell'anima che aveva inghiottito tutti i sentimenti provati in quelle ore.

In poco tempo aveva perso la madre, il padre e la sorella per salvare l'anima di una ragazza che si rifiutava perfino di guardarlo negli occhi. Eppure era stata lei la prima a capire che i suoi occhi non erano lo specchio di un'anima nera.

Poi, i pensieri si intrecciarono in considerazioni e in equazioni logiche per cercare di capire cosa fosse realmente successo e cosa avesse portato Joshua a quell'azione.

Lei ama Joshua...

Joshua ha detto che io la amo...

E lui? Lui ha fatto tutto per amore di Ariel?

Sì piegò in avanti, puntellando i gomiti alle ginocchia, portando le mani a coprire il viso e massaggiare gli occhi.

Quel ragazzo aveva rinunciato alla sua vita non solo per Ariel, ma anche per uno come lui. Aveva rinunciato ad Ariel per lasciarla alle sue cure, di colui che l'aveva portata lì a gemere notte e giorno.

Si prese i capelli tra le dita, stringendoli fino a far diventare le nocche bianche.

Perché ti sei fidato di me, eh? A che scopo?

Che razza di amore è il tuo, Joshua?

Strinse i denti per evitare di urlare.

Come una lama che oltrepassa il costato, Acab avvertì il dolore di una consapevolezza risalita dai meandri della sua memoria. Sbarrò gli occhi. Gli parve di vederlo lì davanti a sé, come quella notte di mesi prima.

Joshua era seduto a terra con le braccia conserte sulle ginocchia e lo fissava mentre il fumo della sigaretta adombrava i lineamenti di Acab, posto- come al solito - a guardia del prigioniero. 

Gli stava parlando del significato del Nome che loro non potevano pronunciare. Gli aveva spiegato che era il Nome di chi aveva rinunciato alla divinità per essere calpestato dalle proprie creature, mostrando un'amore che l'uomo non aveva mai conosciuto: l'amore per i propri nemici.

Sì ricordò di quanto l'avesse sbeffeggiato e umiliato in quell'occasione per poi sentirgli pronunciare: «Acab, io sono qui per il nome di Gesù Cristo, per il nome che è al di sopra di ogni nome; perché Lui si è ridotto a niente per fare partecipe me- che l'ho rinnegato-della sua gloria. Il tuo signore non condividerebbe mai il suo potere con voi; il tuo signore non morirebbe mai per te, figuriamoci per un suo nemico. Ma Colui del quale porto il nome è morto per quelli che lo frustavano e lo trafiggevano. E io farò come Lui, Acab. Ricordalo.»

Allora erano risultate parole prive di senso, ma calde e ardenti tanto da marchiare i ricordi. Erano rimaste dentro, come un fumo fluttuante, fino al momento in cui avevano preso forma e sostanza.

No...No...Non puoi averlo fatto davvero!

Joshua si era sacrificato per il suo nemico, come quel Gesù Cristo che lui e gli altri cristiani predicavano da secoli.

Quel Gesù Cristo che Acab aveva combattuto fin da bambino si era incarnato di nuovo in un ragazzo della sua età e gli aveva mostrato quel che suo padre e la sua Loggia volevano nascondere all'umanità.

Un'azione, per Acab, così insana e folle da farlo stare male. In quel momento si sentì trafitto da un pugnale, chiamato senso di colpa.

 




 

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Capitolo 33
*** IL TEMPO DI DIO ***


 

Acab batté la testa all'indietro con pugni serrati sulle ginocchia.

Si ritrovò a pensare a quel giovane barman e al motivo che l'aveva spinto a far esplodere i sotterranei senza che ci fosse stato alcun ordine dall'alto.

Sicuramente gli era sfuggito qualche dettaglio. L'esplosione doveva esserci solo nel caso in cui fosse arrivato arrivato il comando di Judas in persona e -da quel che ne sapeva - doveva avvenire solo in un caso: nascondere le prove dei loro poteri occulti. 

Dopo tutto, quei sotterranei erano fin troppo importanti...Come faceva quel ragazzino a sapere già tutto?

Solo Acab, sua sorella e Judas conoscevano quel piano.

Una fitta alle tempie gli fece digrignare i denti e portare due dita nel punto in cui il dolore sembrò trapassare le ossa del cranio.

Troppe domande, eh?

Sapeva di essere ancora sotto l'occhio onniveggente del suo padrone.

Ariel, dall'altra parte dell'abitacolo, alla vista del Lungomare, volle sporgersi oltre il finestrino  abbassato, ricordando quando l'aveva attraversato forte e fiera, con l'abito che, in quel momento, appariva come un unico pezzo di stoffa strappata in più punti. Mise la testa fuori e inalò l'aria salmastra lasciando che i capelli le coprissero la vista di tanto in tanto; il vento, però, non gli permise di gustare appieno quella sensazione di libertà che avvertiva contemplando il cielo che pareva sfiorare il mare all'orizzonte. 

L'azzurro stava scurendosi di nuvole grigie. Una brezza fresca e prepotente la infastidì, provocandole brividi in tutto il corpo: il tempo passato al gelo di quelle carceri l'aveva resa intollerante ad ogni soffio di vento e avida di calore.

D'un tratto, si ritrovò a riflettere su quanto quel movimento d'aria non sembrasse affatto l'insolito alito che preannuncia il temporale di una giornata estiva.

Raggi d'oro s'incanalavano tra le nubi e nonostante il sole fosse alto, le parve di trovarsi nel periodo dell'inizio delle scuole: il traffico dell'ora di punta, i ragazzi con lo zaino in spalla, le mamme mano per mano con i loro bambini...

«Nathan...» lo chiamò, con voce sofferente.

«Dimmi, Ariel.» fissando lo specchietto retrovisore per incontrare il suo sguardo.

«Che giorno è oggi?» la fronte aggrottata in un'espressione incerta.

«Sabato...» le rispose quasi fosse ovvio, ma - evidentemente - per Ariel non lo era. 

«No, vorrei sapere la data di oggi...» Un presentimento, ecco cos'era.

Il capo riccioluto di Nathan fu visibile oltre il sedile anteriore e gli occhi neri la guardarono attenti. «Oggi è il sette ottobre.» 

Lei ispirò, lasciandosi in apnea per qualche secondo. «Starai pensando a tua madre, immagino...Tranquilla, lei non sa quello che sappiamo noi. Abbiamo tentato di non farla preoccupare troppo...»

Nathan continuava a parlare, rivolto verso il parabrezza, ma Ariel era come se avesse perso l'udito dopo aver sentito che - invece di tre giorni- in quelle prigioni erano trascorsi tre mesi.

Non è possibile...

Sbarrò gli occhi e si fissò le ginocchia nude, cosparse di lividi e di tagli, tirando la stoffa del suo abito a coprirsi per quanto poteva.

Si ricordò che a ottobre sarebbero iniziate le lezioni universitarie; pensò alla madre, sola, a chilometri di distanza da lei.

Un senso di vuoto la risucchiò in un oblio tenebroso e claustrofobico, dove l'unica luce, l'unico alito di vita era rappresentato dall'immagine di Simon e della Chiesa di Filadelfia. Il respiro accelerato.

Acab, che aveva notato il mutamento nel suo sguardo, le si avvicinò e, andando contro il suo orgoglio ferito, continuò a mostrarle la sua vicinanza. Con un gesto delicato della mano le scostò i capelli dal viso per sistemarglieli dietro l'orecchio. 

Nel farlo, le sue dita sfiorarono la sua guancia fredda. In quel tocco, delicato e semplice, Ariel avvertì una morsa nel petto. La rabbia, la delusione e la tristezza non avevano alzato alcun muro tra lei e Acab. 

Oppure, quel muro si era alzato, ma era stato abbattuto da un semplice gesto premuroso.

"Ricordati Ariel: chi ama si muove sempre per primo."

In un flashback la voce di Simon le ricordò quale fosse la fede di Filadelfia: amare gli altri come Gesù Cristo ha amato il mondo. 

Le aveva parlato di Nathan e sua moglie Miriam, di quanto i due facessero a gara nel fare del bene ai bisognosi di Filadelfia, il giorno di San Valentino. "Per la nostra realtà è ogni giorno San Valentino!" aveva esclamato in un largo sorriso. "Il giorno dell'amore è ogni giorno per noi e, per questo, loro lo passano qui, con coloro che non sanno cosa voglia dire essere amati"

L'aveva guardata come un padre, o almeno credeva fosse quello lo sguardo che un uomo rivolge alla figlia, perché in quegli occhi si era sentita accolta, compresa, protetta. A casa. Più di quanto si fosse mai sentita con sua madre. Quella mancanza assordante del padre era stata in un attimo colmata da Simon.

Così, travolta da quel ricordo, rivolse ad Acab occhi lucidi e impauriti. «Vuoi che ci fermiamo?» le propose con voce carezzevole. 

Lei annuì un paio di volte, in maniera nervosa; quella mano, precedentemente rifiutata, posta sulla sua spalla sinistra era stranamente calda e... consistente. Istintivamente, poggiò il palmo su quella mano; l'altro le si avvicinò di più, con il busto rivolto verso di lei. 

 Quell'arto gelido e se lo portò tra le sue mani, riscaldandolo, custodendolo.

 

Dopo che Acab ebbe avvertito Nathan del malessere di Ariel, la macchina accostò, fermandosi sul punto del Lungomare in cui si poteva notare l'insegna del Lido dei Lucifer: una stella dalla punta capovolta con su scritto "Dark Lithium" a caratteri eleganti e del colore del sangue, su uno sfondo bianco.

Non appena l'auto si fermò, Ariel, senza pensare al fatto che fosse quasi svestita, corse a piedi nudi sul pavimento del Lungomare, verso il parapetto. Si sporse, preda di una violenta oppressione al petto, con il solo desiderio di affidare al vento la sua sofferenza. Quando gli occhi andarono in direzione del Lido, ebbe la conferma di essere stata catapultata nel mese in cui - un anno prima - aveva avuto la possibilità di conoscere Joshua.

Il Dark Lithium aveva chiuso i battenti per la stagione autunnale.

Nathan le si affiancò col fiatone, convinto che la ragazza avesse deciso di farla finita.

«Ariel ...» prese fiato «Che succede?» una mano sul cuore.

«Non possono essere passati tre mesi esatti, Nathan.»

Gli occhi stretti, le mani nei fianchi e in un sospiro il ministro cercò di mettere insieme qualche parola che potesse spiegare quel che le era successo.

In pochi secondi gli passarono davanti le pagine di libri di psicologia e lo studio di suo padre sui profili psicologici delle vittime di quel genere di violenza, ma il suo cuore emise solo poche e semplici parole: «A Dio appartiene il tempo.»

Ariel lo guardò stringendo le braccia al petto, con i capelli che sferzavano sulla pelle nuda. Il volto corrucciato: «Nathan, io ho passato solo tre giorni in quel luogo. Ne sono sicura! E vuoi sapere perché?» gli si avvicinò di un passo «Perché quei demoni, ogni giorno, ogni singolo giorno, portavano un bambino per i loro sacrifici. Non avrei potuto resistere tre mesi in quell'inferno! Mi sarei tolta la vita con le mie mani! Capisci?!» urlò, strattonandolo dalla maglia e con occhi che ancora non si erano stancati di versare lacrime amare.

Voleva crederle, ma sapeva che la verità era che lui aveva passato tre mesi nell'incertezza di trovarli vivi, alla ricerca di indizi per smentire quella voce che gli suggeriva di desistere a quella missione inutile e disperata. Poi, in un lungo sospiro, strinse le mani alla ringhiera di metallo consumato dal tempo e dalle intemperie, come la sua anima.

 

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Capitolo 34
*** COME LA PIOGGIA ***


La giornata era diventata grigia, coperta da nuvole piene d'acqua pronte a bagnare i pensieri e gli animi tesi come corde di violino.

Nathan fissava quel cielo con la fronte aggrottata, mentre il mare schiumava contro la costa. In quel momento, sussurrò al vento un pensiero:

«"Un giorno è come mille anni e mille anni è come un giorno"»

Mentre Ariel era intenta a ripararsi come poteva dal vento che soffiava via via più prepotentemente, si accorse della filastrocca pronunciata dalla bocca di Nathan. «Cosa vuol dire? E' un indovinello?»

Nathan si girò a guardarla, per poi ritornare intento sulla rena, sospirando. «Non è un indovinello. Sto solo ipotizzando quello che sia potuto succedere alla luce delle Sacre Scritture.» Roteò il busto nella sua direzione. «E' complicato Ariel. Anche per me.»

Il volto di Nathan si scurì.

A volte, sono le cose semplici ad essere le più incredibili.

Volgendo lo sguardo verso l'auto ferma, vide Acab che si stava dirigendo verso di loro, con le mani nelle tasche dei jeans neri, scoloriti e strappati.

Lo osservò, constatando quanto in quel momento apparisse piccolo, indifeso ed irrimediabilmente sconfitto. Quella canottiera bianca, sporca di sangue, purtroppo era la sua carta di identità.

I capelli neri gli coprivano il volto e, mossi dal vento, non riuscivano a celare il suo disagio: palpabile come lo è di chi non è ben accetto in una conversazione.

Nathan stirò le labbra in un sorriso tiepido mentre Ariel non aspettò molto per interrogare Acab con voce tagliente: «Quanto è passato?»

Lui, che non aveva ascoltato nulla, si sforzò di comprendere che piega avesse preso quella conversazione, cercando di capire a cosa si riferisse. Lo sguardo interrogativo si posò prima su Nathan e poi su di lei. «Come, scusa?»

Nei tremori, strette le braccia al petto, Ariel ripeté spazientita: «Quanto tempo è passato nel tuo mondo, Acab? Perché siamo a Filadelfia, ma nel mese di Ottobre?»

Acab abbassò gli occhi. Si dondolava da un piede all'altro per mascherare la sensazione di freddo, come se tutto, compreso il creato, andasse contro di lui. Si strofinò le mani e poi scrocchiò le dita. «Ci sono delle cose che nemmeno io comprendo.»

La guardò in una smorfia di fastidio quando un raggio che tagliava le nubi colpì le sue iridi, facendole diventare trasparenti. «Una di queste è che, per alcuni prigionieri, per una sorta di ordine prestabilito, il tempo scorre molto lentamente. E mentre il mondo naturale compie i suoi giri, noi siamo costretti a rallentare le nostre attività» fissandola torvo «per causa vostra

«Nostra?!» lo sguardo le si infuocò di rabbia.

In quel momento Nathan vide come ogni avvenimento stava posizionandosi nel punto preciso di un puzzle. «Ma certo!» batté il palmo nella ringhiera del parapetto. «Per colpa dei figli di Dio, Ariel.»

I due non fecero in tempo a capire le intenzioni di Nathan, che dovettero iniziare a correre per raggiungere il suo passo diretto verso l'auto. «Andiamo!» gli urlò quasi dentro abitacolo. I due lo seguirono a grandi falcate.

«Quindi sono passati tre giorni? E' così, Acab?»

Ariel aveva bloccato la mano di Acab che, raggiunta la macchina, le stava per aprire la portiera. La guardò stupito un istante prima di serrare la mascella e mostrare uno sguardo terribilmente serio.

«Sì.»

La macchina partì nello stridio delle ruote contro l'asfalto.

«Sapete una cosa? Credo di aver capito quello che vi è successo.» la voce entusiasta di Nathan occupò prepotente i loro pensieri, mentre lui teneva gli occhi fissi sul rettilineo dell'autostrada, col cuore già lanciato verso il Centro di Simon.

I due si sporsero in avanti per ascoltare.

«E' Gesù Cristo che ha deciso così. E' successo come quando è stato tre giorni nell'Ades dopo la sua crocifissione.»

«Come?!»

«Il vostro Dio nel nostro mondo?» domandò Acab, con un sopracciglio alzato. «E' impossibile. Nessuno mi ha mai detto una cosa del genere!»

«Punto primo: di certo non mi risulta che la tua famiglia abbia interesse a dirti la verità, Acab. Secondo: ebbene sì, Gesù Cristo - il nostro Dio- è morto per tre giorni mondani, ma nello Spirito erano passati tre... tempi, diciamo così. Questa è una rivelazione di Simon. Lo ha spiegato tempo fa, in occasione della Pasqua.»

«Io continuo a non capire» sbottò Ariel, schiacciando la schiena nel sedile e guardando oltre il finestrino con le braccia incrociate al petto.

Acab la guardò per un istante per poi sporgersi nuovamente verso il sedile anteriore con un gomito sul sedile dell'autista. «Quindi» rivolgendosi a Nathan, «mi stai dicendo che...» avrebbe voluto dire quel Nome, ma qualcosa sembrava bloccarlo nell'articolazione di quelle due parole «che il vostro Dio è sceso negli inferi?» Nathan avvertì un'energia positiva colpirgli il petto al sentire quella domanda. «Perché?»

Sorrise allo specchietto retrovisore, incatenando lo sguardo interrogativo di Acab.

«Sta scritto che Gesù Cristo è sceso fino alle parti più basse della terra per riempire ogni cosa.»

Le gocce trasparenti che iniziarono a rigare i vetri dell'auto suggerirono al ministro l'uso di una parabola per spiegargli ciò che il suo Salvatore aveva compiuto. «Vedi la pioggia? Proprio come l'acqua che scende dal cielo e non torna indietro se non prima ha annaffiato ogni terreno per  creare delle fonti nuove e ricominciare il suo ciclo di vita, Lui ha fatto così...» si bloccò giusto il tempo di guardare Ariel con gli occhi mutati in un'espressione di commozione.

«L'ha fatto per salvare tutto, Acab. L'ha fatto per salvare tutti.»

L'ha fatto per salvare tutti...

Alla luce di quello che aveva vissuto, le parole di Nathan assumevano un peso non indifferente per il cuore di Acab.

L'unica cosa che non riusciva a comprendere era come mai quel Gesù Cristo si era così tanto sforzato di riproporre la sua venuta solo per lui.

«Tutte le anime che credono in Lui sono come figlie uniche. In pratica, come dice sempre Simon» si girò verso di lui per guardarlo negli occhi. «Se tu fossi stato l'unico sulla faccia della terra, Gesù Cristo sarebbe morto... solo per te.»

Ci impiegò qualche istante per immagazzinare quella tremenda informazione; il cuore palpitante, gli occhi bassi e un nodo difficile da mandare giù e di nuovo un cristiano che rispondeva ai suoi quesiti nascosti. E' di famiglia, a quanto pare.

Una Chiesa quella di Filadelfia che, effettivamente, assumeva tutte le connotazioni di una grande famiglia allargata, con il fratello che ti fa i dispetti, il piccolo che va dal padre a lamentarsi e le zie che fanno a gara a chi cucina meglio.

Acab non aveva tutti i torti.

Proprio lì, Lucia, che aveva ricevuto il messaggio di Nathan del loro arrivo, correva nel lungo corridoio dei dormitori per giungere allo studio di Simon. Prima di arrivare alla porta e bussare, quella si aprì di colpo, facendo sussultare la giovane. Lo sguardo perplesso di Simon incontrò quello stupito di Lucia e, in un largo sorriso, entrambi iniziarono a percorrere le scale, senza nemmeno porre attenzione ai gradini. Nella discesa fu inevitabile incontrare Heliu che stava facendo il percorso inverso per chiamare Lucia.

La volante che recava l'insegna della Polizia di Filadelfia era appena fuori il cancello grigio. 

Ariel, alla vista della struttura di Filadelfia, fu colta da un profondo senso di gratitudine e di sconforto al tempo stesso. Come faccio? Si chiese, mordendosi il labbro per reprimere il pianto. Come faccio a guardarti nuovamente negli occhi?

Temeva la reazione di Simon, ma sicuramente meno di quanto la stesse temendo Acab, stretto nelle braccia e inchiodato al sedile posteriore. 

Uno dei sette mandati. Uno protetto da tre angeli delle schiere celesti.

 

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Capitolo 35
*** UN ALTRO AMORE ***


Ariel scese per prima. Dopo aver chiuso lo sportello, si tenne dal tettuccio della macchina, camminando in punta di piedi fino a raggiungere la parte posteriore. L'acciottolato sotto i tendini le ricordò il dolore di quei momenti passati nei sotterranei del Lithium.

Gocce trasparenti scendevano timide sul suo corpo, mescolandosi con quelle che stavano solcando le sue guance. Proseguì a passo lento e trascinato, fino a quando non arrivò a toccare il cancello grigio con una mano.

Filadelfia...

Poggiò la fronte sul materiale freddo e attese il cigolio che ne precedeva l'apertura.

Ogni lacrima, una cascata di rimorsi.

Aperta la via d'ingresso, il cortile di cemento appariva di un grigio scuro a causa della pioggia.

Singhiozzava e, guardandosi intorno, si sentì schiacciata da un peso troppo grande da poter sopportare. Tutto in quel luogo sembrava rimproverarla; tranne quella figura che si dirigeva a passo spedito verso di lei.

Simon le corse incontro e, nella stretta del suo abbraccio, Ariel sentì venir meno tutte le forze. Si abbandonò a quelle braccia.

«Guardami Ariel... » le mani le stringevano il viso, fissando gli occhi nocciola in quelli arrossati di lei. «Non è colpa tua.»

Lo sguardo di Ariel barcamenava in cerca di una risposta sensata a quell'affermazione, perché in cuor suo si era convinta di essere stata lei - il Leone di Dio -la causa di tutto.

Simon le baciò la fronte, come a sigillare quel pensiero nella sua mente, stringendola di più a sé.

Ariel si guardò intorno e le sembrò che gli unici presenti nel Centro fossero loro. Niente volontari, né macchine parcheggiate come al solito. Oltre la porta d'ingresso alla sala mensa, Lucia, come pietrificata, attendeva con Heliu, impassibile. 

Ariel non poteva sapere della visione che Lucia aveva avuto un mese prima, e non conosceva nemmeno il motivo per cui erano entrambi fermi lì, senza alcun cenno di bentornato.

Gli occhi di Heliu fissavano torvi l'essere che ancora non si era deciso di scendere dal veicolo in sosta. Entrambi sentivano montare il risentimento, l'astio e l'odio verso chi aveva provocato la perdita del loro amato fratello.

Heliu rivide nei ricordi il volto di un Joshua quindicenne che entrava nel Centro di Smirne accompagnato da Simon. Quel Centro-in cui i volontari di una delle Sette Chiese si dedicavano a giovani tossicodipendenti e alcolizzati per aiutarli a superare la dipendenza-li aveva visti crescere insieme.

Così simili nelle debolezze, così uniti nella lotta contro quella Setta che - nonostante gli specialisti di Smirne- aveva la capacità di far tornare nelle ombre quei giovani strappati alla morte.
Joshua gli parlava sempre di Simon, di quanto fosse importante per lui, di quando l'aveva salvato. Grazie a lui, al suo incoraggiamento, era riuscito a vincere "il mostro" che i Lucifer propinavano ai ragazzini che si avvicinavano al Pub Lithium: una pastiglia violacea; un mix, di droghe che i ragazzi bevevano inconsapevolmente al bancone del bar. Quello che accadeva successivamente quasi nessuno viveva tanto a lungo per raccontarlo.

Quella Setta aveva anche sedotto la madre di Heliu, che lo lasciò solo e abbandonato a un oscuro avvenire, se non fosse stato per la mano di Simon.

Insieme a Joshua aveva corso, scherzato, litigato e amato in quel cortile diventato così buio, così vuoto, senza di lui.

Non posso amare chi ha ucciso mio fratello.

Lucia stringeva i pugni ai fianchi, nascondendo le mani dentro la stoffa del maglioncino di ciniglia. Si accorse con timore di stare recalcitrando alle parole che Simon le aveva rivolto, subito dopo aver appreso di quella visione che le aveva mostrato con tremenda chiarezza quel che, di lì a poco, sarebbe successo.

"Lucia, quella visione non è stata mandata da Dio, lo sai questo, vero?"

Non aveva risposto, limitandosi ad abbassare gli occhi alle ginocchia.

"Non voglio che tu stia male, che tu ti faccia del male. Non provare odio. Per nessuno. L'odio e la paura sono un lasciapassare  per i demoni, i nemici delle anime."

Aveva abbassato più volte il capo, e quando Simon le aveva alzato il mento per far sì che lo guardasse, deglutì di fronte alla verità che lui rappresentava. "Ama. Non stancarti mai di amare. Ama il tuo nemico e prega per chi ci perseguita."

"Ama il tuo nemico"... No! Non ci riesco e non voglio!

Gli arti tesi di Lucia ebbero un leggero fremito che Heliu notò con preoccupazione. Le strinse la mano e con lo sguardo assecondò i suoi pensieri.

   La pioggia andava via via affievolendosi, ma l'agitazione e il dolore nel petto di Nathan non accennavano a diminuire. Il battito pulsava nei pensieri e nella gola.
Gli bastò uno sguardo e un cenno del capo per far sprofondare Simon nella disperazione. 

Il Padre avvertì un tormento che feroce attraversava le sue membra, una lama affilata che recideva una parte del suo corpo. Una parte di sé che non era lì e che non ci sarebbe stata.

Gli occhi lucidi si spostarono verso l'interno della vettura per dare conferma al suo sconforto: nel sedile posteriore dell'auto vide solo un ragazzo dai lunghi capelli corvini, impegnato a fissare un punto imprecisato nel vuoto. Simon strinse i capelli tra le dita, martoriando le labbra coperte di barba per evitare di versare lacrime acide. Si girò verso la struttura alle sue spalle, gli occhi al cielo, le mani sui fianchi, il respiro concitato.

Non riuscì a trattenersi: portò il palmo della mano destra alla bocca, mentre il mento cominciava a tremare. L'urlo sembrò squarciare anche il cielo. Le ginocchia al suolo umido...

Quanto era passato? Quanti anni erano passati da quella notte in cui, come in quel momento, si era ritrovato fradicio, a terra, in quel cortile e con un peso sulle spalle? Un peso che adesso era vuoto. Un buco nero che risucchiava il respiro.

Lucia, dopo aver assistito al comportamento di Simon, iniziò a camminare verso il cancello grigio.

Fu così scorretto e vile il ricordo della sera piovosa in cui dovette scendere in pantofole per accogliere Joshua, che faceva ingresso nella sua vita, sulle spalle di Simon.

A quel pensiero si sentì attraversare il cuore da un dardo infuocato. Portò la mano al centro del petto quasi a fermare un battito talmente irregolare da farle male; stringendo la maglia tra le dita, continuò a passo insicuro. Avvertì sulla pelle lo scrosciare leggero dell'acqua del cielo e, quel ticchettio occupò tutti i suoi sensi. Per un attimo pensò di essere dentro una bolla di vetro: Come avrebbe potuto abbracciare Ariel senza poterlo fare con il fratello che l'aveva vista crescere in quello stesso cortile e che in quel momento la vedeva crollare carponi, tra i singhiozzi e fradicia di lacrime?

Acab aveva visto tutto e, di sicuro, non sarebbe sceso dalla vettura se Nathan, con gli occhi bassi, non gli avesse aperto lo sportello per farlo scendere. Il collega posto alla guida avrebbe potuto finire il turno di lavoro altrove.

Il ragazzo rimase lì, ad osservare, in silenzio, sotto la pioggia. I capelli incollati al viso spigoloso non gli impedirono di bearsi di ciò che lui non avrebbe mai avuto: l'amore di chi ti ama per quello che sei e non per quello che dovresti essere; l'amore di chi ti accoglie e non solo di chi ti genera.
Un altro amore, come quello di Ariel stretta tra le braccia di Simon.

Un'altra cosa che Acab notò, fu che nel sorriso di Simon c'era qualcosa che non aveva nulla di naturale, visto il momento in cui si stava celebrando la perdita di un ragazzo, che aveva dato la vita per quella stessa giovane dai grandi occhi marroni.

Non osò spostarsi verso l'interno della struttura, che, secondo i capi della sua Setta, rappresentava un'ambasciata del Regno dei Cieli.

Nel migliore dei casi, gliel'avrebbero fatta pagare in qualche modo.
A conferma della sua deduzione, spostando lo sguardo verso l'interno della struttura, vide che un giovane, dai capelli scuri e occhi intrisi d'odio, si dirigeva verso di lui con passo veloce.

Per un istante. ebbe l'impulso di indietreggiare, ma subito dopo comprese quanto sarebbe stato inutile darsi alla fuga di fronte all'inevitabile.

Acab si bloccò sul posto e prese un profondo respiro, mostrando i palmi.

Il colpo al volto fu così violento da farlo cadere al suolo e fargli assaporare il gusto terroso del fango.

Un calcio all'addome.

«Bastardo!»

Un altro.

«Assassino!»

Un colpo alla schiena.

«Lurido verme! Ci doveva essere lui qui! Non tu! LUI!»

 

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Capitolo 36
*** IL PIU' SANTO PECCA ALMENO 7 VOLTE ***


La pioggia si fermò, lasciando che il cielo si diradasse per far posto a un sole estremamente caldo.

Ariel lo avvertì sulla pelle olivastra, prima di osservare quanto stava per accadere.

Heliu gli passò vicino con i pugni chiusi e l'incedere di un soldato. «No... Aspetta...» ma la voce flebile non riuscì a raggiungere l'udito del ragazzo.

Si era messa a camminare per fermarlo, senza riuscirci.

Aveva visto Nathan fare uno scatto in avanti per bloccarlo; Acab con le mani in alto in segno di resa; Simon che urlava il  nome di Heliu, autorevole.

Niente riuscì a fermarlo. Quando Ariel vide il pugno diretto al viso di Acab fu come subirne il contraccolpo.

«No!» urlò e, all'improvviso, sentì quanto fosse importante, per lei, la presenza Acab. La mente le diceva che, forse, quell'azione avventata di Heliu era la giusta ricompensa per chi aveva visto e agito in favore delle tenebre. Un pensiero leggero e inconsistente, rispetto alla gratitudine che nutriva per la vittima di Heliu.

Non poteva essere giusto. Avrebbe dovuto pagare, sì, ma non in quel modo. Non era così che avrebbero avuto la meglio sui Lucifer; non con le loro stesse armi.

Vide Simon muoversi di corsa per bloccare Heliu; lo tirò dal cappuccio della felpa quando già il terzo colpo era stato assestato alla schiena. Lo strinse da dietro, avvolgendogli le braccia al petto e, aiutato da Nathan, riuscì a farlo rinsavire, mentre le sue urla continuavano a riempire l'aria di veleno.

«Heliu, basta!» gli ordinò Simon, strattonandolo dal colletto della giacca.

Lucia si era alzata e, con sguardo vuoto, aveva assistito con una sorta di compiacenza: la vicinanza di Ariel al suo carceriere era qualcosa che non sopportava e non riusciva a comprendere.

«Era mio fratello...» proferì Heliu guardando Simon con gli occhi lucidi, venati di rosso e la voce rotta. «Era mio fratello, Simon...»

Il volto di Simon mutò: dal cipiglio di un padre autorevole, pronto a riprendere il figlio che ha fatto a pugni col bulletto della scuola, allo sguardo compassionevole di Colui che comprende il cuore e la debolezza dell'animo umano.

Una goccia trasparente gli si posò nell'angolo delle labbra, curvate in un triste sorriso. «Ma Heliu...» allentò la presa. «Joshua era mio figlio

Poche parole a racchiudere un universo di affetto e di vita vissuta accanto ad un'altra giovane esistenza, curata e custodita con paterna sofferenza. In quella frase c'era la spiegazione del suo operato. Non avrebbe avuto senso l'azione vendicativa dei fratelli se il padre aveva perdonato.

Mai, come in quel momento, Heliu si sentì figlio: in uno sbaglio, nella correzione e nella crescita racchiusa in un abbraccio.

«Acab... M...Mi senti?» Ariel si era piegata sulle ginocchia e, cogliendo l'occasione della sua semi incoscienza, osservò Acab da vicino. Era disteso a terra, con il viso rivolto verso l'interno della struttura; il respiro lento e frammentato. Gli levò dal viso della ciocche nere incollate agli zigomi. «Acab, forza...» lo incoraggiò, mostrandogli la mano. 

Lui puntellò le mani nel fango, e, alzandosi caproni, una volta posati gli occhi sul viso di Ariel, avvertì un moto di rabbia.

Era passato dall'essere l'erede di una delle famiglie più potenti del mondo, al ritrovarsi ai piedi di una giovane cristiana pronta a gettarlo di nuovo nelle ombre.

Quello sguardo la intimorì e, al contempo, la spronò a continuare. «Acab, ci sono qua io. Non temere.» Sapeva come ci si poteva sentire a non essere apprezzati per quello che si è fatto; sapeva che quel luogo aveva il potere di schiacciarti col peso di un'amore diverso, l'avrebbe aiutato a ricominciare, in qualche modo.

Acab comprese che Ariel non si sarebbe fermata davanti al suo muso duro. Glielo leggeva negli occhi; occhi che apparivano veri, di una dolcezza brutale e irrimediabilmente convincenti.

La sua mano tesa era una tentazione non indifferente e, con una certa riluttanza, si alzò per fare i conti con gli effetti del digiuno, della sofferenza e dei colpi subiti che lo portarono ad avere le vertigini.

Ariel dovette farsi aiutare da Nathan per portarlo dentro l'infermeria del Centro. Una volta passata accanto a Lucia, notò nei suoi occhi un ombra di rancore immotivato. Non una parola, non un sorriso.

«Lucia» la voce Simon la destò. «Cosa ti prende?»

Tutti suoi dubbi e i suoi pensieri erano chiusi dentro uno scrigno, impossibile da aprire, almeno in quel momento. «Padre...» sussurrò, abbassando gli occhi.

«Se abbassi gli occhi mi è difficile guardare ciò che ti turba, questo lo sai bene.» Sorrise posando la mano sulla sua spalla.

«È un assassino.» rispose lei in tono grave, prima di alzare gli occhi torvi, velati di pianto.

«Tu non hai mai desiderato il male di nessuno?»

«È capitato...» confessò, voltandosi verso i due che aiutavano Acab ad entrare nelle sale interne.

«E vorresti che Acab morisse come ha fatto morire Joshua. Non è vero?»

Le labbra rosee in una linea sottile. «Sì, è così.»

«Beh, Lucia, sappi che agli occhi di Dio sei come Acab. Lui ha fatto del male e tu vorresti farlo.»

Lucia avvertì nel petto una lama che recideva la radice di un albero che si era coltivata. Un albero che fruttava convinzioni di perfezione e santità, quando, in realtà...

«Se credi di essere meglio di lui...» Simon si piegò sulle ginocchia. «Se pensi di essere migliore di altri peccatori...» per poi rialzarsi e mostrarle nel palmo aperto una pietra tondeggiante. «Scaglia la prima pietra». Le prese la mano e gliela chiuse nel pugno. Lucia alzò il mento a fissare gli occhi in quelli nocciola del Padre. «I...Io non posso...» confessò.

«Proprio così» Simon si incamminò verso l'interno della struttura, lasciandola insieme a Heliu a riflettere sul messaggio che le aveva rivolto. Poi si fermò, prima di salire il gradino dell'ingresso. «Se vi credete tanto giusti, sappiate che il più santo pecca almeno sette volte al giorno». 

Lo guardarono con un nodo in gola e la consapevolezza di averlo deluso. «Per Nostro Signore non esistono peccati peggiori di altri. Lui aborrisce il peccato, ma fa di tutto per salvare il peccatore». Sicuramente quelle erano parole che pensava e che credeva fossero veraci, ma Simon sentì su di sé il macigno di quel che aveva appena pronunciato. Come poteva mentire a se stesso? Anche lui, da guida, da Mandato, aveva - seppur per un momento- desiderato vendetta.

"Ma Simon, non ti ho forse detto che l'esito della battaglia appartiene a Gesù Cristo?"

Il ricordo di Peter e quella parola l'avevano accompagnato su per le scale, fino a quando, avvinto dalla disperazione, si era fermato di fronte alla porta del suo studio.

Batté un pugno alla superficie legnosa e si lasciò andare alle lacrime.

 

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Capitolo 37
*** TRASFORMARE IL MALE IN BENE ***


Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 

(Vangelo di Matteo, 16:24)

Mentre salivano le scale, Ariel cominciò ad avvertire tutto il macigno dell'esperienza che l'aveva vista protagonista.

Nathan notò che la carnagione di Ariel, ad ogni gradino, diventava sempre più pallida.

«Ariel, continuo io. Tu vai a riposarti» le ordinò e, dopo averle rivolto un ultimo sguardo, posò gli occhi su Acab: anche lui era incredibilmente pallido e le palpebre andavano chiudendosi ad ogni passo.

Dietro di loro, Ariel non se lo fece ripetere due volte; si lasciò andare sul muro adiacente: la vista le si annebbiò, le forze diminuirono.

In quello spazio, che stava diventando oscuro e claustrofobico, qualcuno la aiutò a salire l'ultima rampa di scale verso il terzo piano, prendendola in braccio.

Il buio avvolse i suoi sensi e, prima di abbandonarsi del tutto al sonno, riconobbe, in un frammento di luce, la barba castana e gli occhi nocciola di Simon.

Non fece sogni. Dormì così tanto che, quando si svegliò in uno scatto, si ritrovò nel letto con la sensazione di trovarsi nuovamente nella cella che l'aveva rinchiusa tempo prima. Si mise seduta e tentò di rilassare i muscoli tesi.

Il petto le si alzava e si abbassava in maniera irregolare. Si guardò intorno, e, dopo aver abituato la vista al buio, riconobbe il mobilio semplice della sua camera.

Una luce albina proveniva dalla finestra alla sua sinistra, incanalata tra le fessure della serranda abbassata. Doveva essere notte fonda.

Come riempita di un vigore dimenticato, si fiondò nel bagno e aprì l'acqua calda, ancora prima di aprire la luce. Non si preoccupò nemmeno di cercare vestiti puliti o la tovaglia.

Sì stracciò la veste di dosso e si mise sotto quel getto.

Fu come tornare a respirare e, come il primo pianto di un bambino, lei pianse di gioia. Si piegò sui talloni, la testa all'indietro, le mani sulla pelle nuda a levare via il dolore. Quando si rimise in piedi, abbassò il capo e l'acqua la attraversava come una carezza dalla nuca e alla schiena; un leggero strato di condensa coprì lo specchio posto sul lavandino e la sua vista; con una quantità abbondante di bagnoschiuma dall'essenza floreale, si massaggiò la pelle ferita e quando posò lo sguardo ai suoi piedi, li vide immersi in un liquido dal colore rossastro.

Quella vista la terrorizzò. Uscì in un urlo dalla doccia e, ancora insaponata, si appoggiò al lavandino, tremante. Non si era accorta che l'acqua calda e lo fregare dei palmi sulla pelle aveva riaperto le ferite, tingendo l'acqua di rosso. Un brivido la costrinse a coprirsi con l'accappatoio che era stato appeso dietro la porta e un passo alla volta si diresse verso il letto sfatto. Con una esagerata lentezza si sedette, iniziando a riflettere. 

Non era più tempo di continuare ad essere la ragazza agnostica di un tempo. Le prove c'erano tutte: esisteva Dio, aveva un Nome e aiutava tutti coloro che avessero creduto.

Gesù Cristo le aveva svelato tutto questo lasciandola libera di fare le sue scelte, seppur sbagliate.

Fu inevitabile rivolgere un pensiero ad Acab, per il quale il Creatore aveva smosso gli avvenimenti e nel quale aveva fatto germogliare un sentimento capace di abbattere persino la morte.

"E' l'amore che trasforma tutto il male in bene."

Le parole di Simon rispondevano ai suoi quesiti anche quando non si trovava alla sua presenza, come se quell'uomo fosse - egli stesso - la parola che predicava. Quella frase era ritornata prepotentemente alla memoria insieme alle immagini della giornata in cui era stata pronunciata.

Nella Chiesa di Filadelfia le funzioni -cosiddette religiose - venivano celebrate tre volte a settimana e la Predicazione della Parola era la parte più importante di tutta la celebrazione. Si iniziava con canti di ispirazione cristiana, mentre i ministri come Nathan preparavano l'ambiente con la preghiera. Erano riti che non appartenevano alla cultura religiosa delle altre Chiese della Confraternita, e Ariel l'aveva capito da tempo, osservando da lontano senza parteciparvi.

Quel giorno era una domenica, la prima che Ariel viveva da abitante del Centro di Filadelfia. Ne era stata attratta proprio per l'assenza di elementi artefatti. Tutto avveniva nella gioia e nella semplicità. Niente atti di pentimento plateali o abiti cerimoniali. L'unica cosa che veniva vissuta con silenzio e profonda devozione era l'arrivo di Simon. Quando lui faceva il suo ingresso nella cappella, i fedeli si alzavano in piedi, e lo guardavano fino a quando arrivava al pulpito posto sotto la grande croce di ciliegio. Si presentava con un completo blu e una semplice camicia bianca.

Quando parlava, cambiava tutto.  Il viso veniva rivolto ad ogni singolo spettatore, e a ogni concetto, ascoltato come pervenuto direttamente da Dio,  la platea rispondeva con sonori "Amen!" alle sue affermazioni. Non era obbligatorio, ma chi lo faceva, diceva di avvertirne il bisogno.

D'altronde, anche lei si era spesso ritrovata a sussurrare quella parola - "Così sia" - perché compunta nella parte più sensibile del suo animo frammentato.

Fece un profondo sospiro e avvertendo l'umidità confluire dalla nuca alle spalle a causa dei capelli bagnati, si alzò per andare alla ricerca dell'asciugacapelli. Lo trovò dentro l'armadio posto poco oltre la porta del bagno. Era tutto riposto in maniera ordinata, come se lei fosse importante. 

Ariel non era l'unica residente del Centro di Aggregazione, eppure sapeva che quelle piccole attenzioni non erano casuali. L'amore trasudava da tutte le pareti.

Appena accese il fon avvertì la piacevole sensazione di calore percorrere il suo capo quasi a districare anche i pensieri. L'unica preoccupazione che non riusciva a levarsi dalla mente era Acab. Cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasto lì? O - nella peggiore delle ipotesi - lei si stava fidando di una pedina importante nel piano dei Lucifer?

Lui, che dopo averla lasciata, era stato portato sotto braccio da Nathan in infermeria, nel tempo di semi incoscienza, si era ritrovato sotto le luci del lettino medico ad ascoltare la voce alterata di Gilbert. 

«Che lo curino loro, il loro pupillo!» aveva ringhiato tra i denti per non farsi sentire.

«Gilbert, questo è il volere di Simon. Non possiamo comprendere tutto il piano di Dio. E' difficile da mandare giù, ma che vorresti fare? Vorresti lasciarlo in mezzo alla strada in queste condizioni?»

«Sì!»

«Ma non capisci?!» Nathan l'aveva strattonato dal camice e portato fuori l'infermeria. «Ci sono almeno due buoni motivi per tenerlo qui.»

«Illuminami.»

«Uno:» mettendo l'indice a un passo dal naso di Gilbert. «Metti il caso che sia cambiato, che abbia realmente fatto di tutto per salvare Joshua e Ariel. Te la sentiresti, da figlio di Gesù Cristo, di abbandonarlo al suo destino?»

Gilbert non rispose, sentendosi punto in quel muscolo ferito.

«Due: se anche non fosse così, hai un membro dei Lucifer sotto mano e lasciarlo andare vorrebbe dire consegnargli il figlio perduto. In ogni caso, tenerlo qui è la soluzione migliore»

Dopo aver ascoltato, Acab era crollato nel buio della notte, svegliandosi solo quando una tiepida luce, incanalata tra le fessure della serranda semi chiusa alla sua sinistra, gli mostrava delle bende lungo le braccia e attorno al torace. Il respiro gli si mozzò non appena tentò di muoversi.

Un paio di tocchi alla porta lo fecero sobbalzare. «Avanti!»

Gilbert entrò, osservando una carpetta medica tenuta al braccio, in camice bianco e con occhiali sul naso. Posò le carte sul tavolino posto ai piedi del letto e gli si avvicinò. «Come ti senti?» gli puntò la luce prima sull'occhio destro e poi sul sinistro. «Dolorante.» commentò in un fil di voce.

Gilbert mugugnò prima di prendere lo stetoscopio e chiedergli di fare un paio di respiri profondi, nei quali Acab avvertì fitte all'altezza del costato. «Non hai nulla di rotto, ma perlomeno ho scoperto che sai dire la verità.»

Acab tentò di guardarlo con gli occhi più austeri che poté. «Non ti riesce la faccia da cattivo, qui, caro Acab Damian. Siamo dall'altra parte del baratro.» concluse Gilbert, prima di mostrargli un sorriso di circostanza, alquanto tirato. Si alzò dallo sgabello, facendo stridere la base al pavimento. «Puoi usare la doccia dell'infermeria. Ti medicherò nuovamente questo pomeriggio.» L'odore di sangue aveva riempito l'infermeria, nonostante il giovane non fosse dissanguato. Gilbert quindi pensò che fosse il suo spirito di demone, chiuso dentro quelle quattro mura a esalare quell'odore nauseabondo.

«Grazie.» aveva detto Acab con tono sincero, e Gilbert l'aveva sentito bene.

 Si chiuse la porta alle spalle, negando a se stesso la possibilità che quel giovane fosse cambiato.«Ci vuole ben altro...» bofonchiò, appena prima di attraversare il corridoio per scendere al pian terreno. Doveva parlare con Simon. Quella che il Mandato di Filadelfia stava attuando era una vera e propria tortura per chi, come Gilbert, aveva perso tutto per colpa della setta dei Lucifer.

 

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Capitolo 38
*** "CHE CI FAI QUI?" ***


Scese le scale a passo lento, con occhi pesanti. Si massaggiò le palpebre con i polpastrelli tenendo gli occhiali nella mano sinistra e la spalla destra appoggiata al muro. Era come se prendersi cura di Acab significasse tornare indietro, a quegli occhi grigi che lo lasciavano da solo, sull'uscio di casa, con una bambina di quattro anni in lacrime.

Gilbert e sua moglie avevano deciso di vivere lontano dalla città, alle pendici del monte Aspro; l'unico collegamento alla città di Filadelfia era una strada tutta in discesa, ricca di curve, da cui si poteva ammirare il mare che incontrava il cielo all'orizzonte.

Un mese prima che la donna lo abbandonasse, Gilbert l'aveva notata compiere strani rituali. Sempre al solito orario, le due di notte, usciva furtiva nella veranda e pronunciava parole a lui incomprensibili, in ginocchio e con il capo a contatto con il suolo. La sua voce pronunciava parole in un linguaggio duro e oscuro.

Quando gli aveva chiesto spiegazioni, lei si era alterata, dicendo che era la sua vita e che a lui non doveva importare nulla. Dopo quell'episodio, la donna andava a lavorare il pomeriggio per ritornare in casa in mattinata. Lui, che si preoccupava ogni giorno di più della bambina- che iniziava a mostrare strani comportamenti a seguito di visioni notturne e attacchi di panico- si rivolse a Simon, suo storico amico d'infanzia e fedele seguace di uno dei Capi delle Sette Chiese.

Lo aveva chiamato per incontrarlo e parlargli della situazione che stava vivendo con la bambina e una volta arrivati alla Cappella di Filadelfia, Simon aveva incrociato gli occhi verdi della piccola Lucia, mostrandole un largo sorriso rassicurante.

«Cosa posso fare?»

Quel giorno, Gilbert e Simon si erano seduti a parlare in una panchina del Centro di Aggregazione annesso alla Cappella, ai cui gradini si era seduta la bambina, intenta a giocherellare con delle margherite colte poco prima.

Gli occhi azzurri di Gilbert studiavano il volto rilassato di Simon, cercando, invano, di investigare nei suoi pensieri.

«Starete qui.»

«Come?»

«Chiederò a Peter di accogliervi nel nuovo spazio dedicato ai dormitori. Sarà la vostra casa. Filadelfia sarà come una madre per Lucia e...» si voltò verso l'uomo con sguardo serio. «Per te.» disse, prima di alzarsi e dirigersi verso la bambina dai lunghi capelli dorati.

Gilbert l'aveva raggiunto e aveva osservato con tenerezza la scena che gli si stava presentando.

«Ciao, piccola.» Simon si era seduto accanto alla bambina, le braccia conserte sulle ginocchia. «Ti va di raccontarmi qualche sogno?»

Lucia aveva alzato gli occhi prima verso il padre e, vista l'espressione accondiscendente, aveva sorriso all'uomo dal volto leggermente barbuto e gli occhi nocciola. Nel volto paffuto le si era disegnato un sorriso furbo. 

«Tu sei come Lui!» 

«Lui? Lui chi?» 

«L'uomo buono che mi culla quando mamma e papà si arrabbiano!»

A Gilbert si era bloccato il cuore: la bambina aveva sempre ascoltato tutto e si era costruita un amico immaginario nelle difficoltà.

«Ah, sì? Beh...» Simon aveva fissato Gilbert come se già avesse compreso tutto, in un sorriso beffardo. «Mi diresti come si chiama?»

«Non lo so...Papà non vuole.» l'imbarazzo di Gilbert era diventato palpabile, le mani intrecciate sul capo.

Simon si era avvicinato alla bambina e osservando il papà sottecchi le aveva sussurrato: «Se me lo dici, prometto che non lo saprà nessuno. Sarà il nostro segreto.»

«Va bene!» e all'orecchio gli aveva confessato il nome di quel personaggio che Gilbert credeva fosse solo frutto della sua immaginazione.

«Il Regno di Dio è dei piccoli fanciulli. Io credo a tua figlia. Gesù Cristo l'ha protetta dalle grinfie della setta dei Lucifer, perché il suo cuore è così legato a te, da aver impedito alla madre di prenderla con sé».

Avevano camminato, tenendo d'occhio Lucia che faceva amicizia con un bambino dai capelli corvini e gli occhi azzurri. «Vedi quel bambino? Si chiama Caleb e anche lui è stato abbandonato dalla madre. Nel suo caso, la donna ha avuto un ultimo moto di umanità, prima di consacrarsi alle tenebre».

Gilbert aveva annuito e accettato la sua proposta.

Da allora Lucia confidava i suoi sogni solo a Simon; da allora Filadelfia era diventata casa, madre, custode, vita, e mentre rifletteva sul bene che aveva ricevuto incontrò la figura di Ariel, che si dirigeva verso le scale con lo sguardo attento sul vassoio contenente una ricca colazione.

«Ariel!» la chiamò, dopo che l'aveva oltrepassato. «Dove stai andando?» le sorrise di sbieco, con le mani ai fianchi.

Lei, con occhi sbarrati e labbra schiuse, tentò di articolare una spiegazione plausibile per celare la sua reale intenzione. L'occhio medico di Gilbert la osservò da capo a piedi: sicuramente Ariel non aveva curato correttamente le ferite che sanguinavano nella zona del ginocchio destro, coperto dal jeans largo - sicuramente utilizzato per non sfregare ulteriormente la zona dolorante - e del gomito incollato al cotone della maglia grigia a collo alto.

«Io...»

Gilbert alzò gli occhi al cielo in un profondo sospiro, arrendevole. «Stai solo attenta prima di aprire la porta. Dovrebbe essere ancora sotto la doccia.»

Ariel avvampò, annuendo un paio di volte, prima di mostrargli le spalle e salire i gradini che conducevano all'infermeria, in totale silenzio.

Una volta arrivata fuori dalla porta bianca, fissò il contenuto del vassoio, pentendosi delle sue scelte: «Avrei dovuto chiedergli, prima di arrivare qui!»

Il caffè fumante nella tazzina di vetro, esalava il suo profumo comprendo quello della torta di mele, preparata dalla instancabile cuoca della mensa del Centro di Aggregazione e il bicchiere di spremuta di arancia aveva lasciato qualche goccia sui tovaglioli. Mentre valutava di tornare indietro, la porta si aprì con sua enorme sorpresa.

«Ariel?» gli occhi spalancati di Acab la osservarono con stupore. «Che ci fai qui?» il sorriso cristallino, i capelli lisci a incorniciare il viso pallido, la voce profonda.

«Pensavo avessi fame!» gli porse il vassoio un uno scatto. Non capiva come mai stesse agendo in quel modo: era stata spinta dal desiderio di fargli capire che non era solo.

Il giovane che aveva afferrato il contenitore di pietanze, l'aveva invitata a entrare temendo l'arrivo di uno dei ministri di Simon.

Uccidila! Uccidili tutti!

Una fitta alla tempia, dopo il comando del suo signore, fece comparire una smorfia di dolore in quel viso che ad Ariel era sembrato decisamente diverso.

Lei, che appena le aveva aperto la porta aveva avvertito una strana sensazione all'altezza del petto e se n'era meravigliata, tentò di stargli lontana il più possibile, dirigendosi verso l'ampia finestra oltre il lettino, per non incrociare i suoi occhi.

Quella maglia bianca, i jeans chiari. Quel profumo di bergamotto...

Deglutì, scrocchiando le dita in maniera nervosa. Gli dava le spalle, ma dal riflesso del vetro lei vide lo sguardo di Acab fisso su di lei.

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Capitolo 39
*** PAZZIA ***


 

Uccidila ora! Falla soffrire!

Acab si sedette ai piedi del letto, con un nuovo dolore alla fronte, più intenso del precedente. Tre dita a massaggiare la parte dolorante e gli occhi verso l'ampia finestra a cui si era avvicinata Ariel.

«No.» ringhiò a denti stretti, rivolgendosi al suo demone.

Quando si accorse di aver destato l'attenzione di Ariel, si preoccupò di mostrarsi indifferente e intento a ingurgitare il caffè come chi non aveva bevuto da settimane.

La macchia di sangue al ginocchio di Ariel si era seccato e Acab lo osservò mentre lei si avvicinava. «Cos'hai lì?» indicò con un gesto del capo. Lei abbassò gli occhi ai jeans larghi, legati in vita da una cintura di cuoio. «Nulla. Un graffio che non ho saputo curare». Fece spallucce e lui piegò le labbra in un mezzo sorriso. Poi, un lungo silenzio.

Ariel non sapeva come mai entrambi non si stessero rivolgendo la parola, eppure ce n'erano di cose da dirsi. Invece lui, intento a nascondere il volere del suo signore, preferiva zittirsi e, semplicemente, aspettare che lei andasse via; lei, che non voleva svelare le sue combattute sensazioni, iniziò a giocherellare con le maniche del lupetto a collo alto.

Acab lasciò vagare gli occhi sul viso di Ariel, di nuovo colorato, colpito dai raggi del sole che rendeva i suoi capelli simili a una cascata di denso cioccolato.

Quando Ariel si accorse che le iridi zaffiro di Acab la scrutavano con languido desiderio, lo sguardo le si scurì, assalita da una sensazione di smarrimento.

A distoglierla da quel peso che le stava occludendo il respiro ci pensò una goccia di sangue, che aveva cominciato a colare dal sopracciglio sinistro di Acab. Era la ferita che si era procurato cadendo al suolo dopo il colpo di Heliu.

Per lei fu un valido motivo per allontanarsi dalla sua presenza. Arrivata di fronte al lavandino, si fermò con i palmi sulla superficie di ceramica, cercando di mettere ordine tra i suoi pensieri. Si guardò allo specchio ai lati del quale c'erano due armadietti.

Il riflesso mostrava il volto di una giovane scossa dalle troppe esperienze vissute a distanza di poco tempo. Il respiro concitato, le pupille dilatate, il viso arrossato da un'emozione inconcepibile per essere stato provato di fronte a un demone.

Un demone? Lo è davvero?

Aprì uno degli sportelli e spostò qualche barattolo di medicinale per cercare l'acqua ossigenata.

Acab, che si accorse della ferita solo quando il sangue era colato al lato del labbro, si toccò la guancia e si accorse di essersi sporcato le dita di quel rosso vivo. Mentre tentava di ripulirsi, vide Ariel arrivare a passo svelto e posizionarsi davanti al suo viso con in mano un batuffolo di cotone.

Il bruciore del medicinale era smorzato dal profumo intenso di fiori e mandorle: Ariel era così vicina al ragazzo che egli avrebbe potuto ghermirne l'anima in pochi istanti.

Le avrebbe preso il viso tra le mani, assaggiato il sapore delle labbra e avrebbe addormentato i sensi per far sì che il suo demone lo possedesse per avvolgere l'anima di Ariel in legami oscuri.

E' il momento! Fallo!

 

A quell'immagine, avvertì un formicolio lungo la nuca e un dolore alle tempie. Una smorfia di dolore. «Non posso rimanere qui...» La voce di Acab era roca e profonda, quasi un pensiero confidato per sbaglio.

Ariel lo guardò sottecchi, tamponando con cura il sopracciglio dalla forma regolare: «Mi dispiace per il gesto di Heliu, ma devi capire...»

«Quel ragazzo aveva tutte le ragioni.» finì lui.

Ariel lo fissò in uno sguardo fugace e stupito prima di continuare: «Credo che andrà meglio col passare del tempo.» tentò di rassicurarlo, concentrandosi sull'azione di tamponare il taglio «Andrà meglio quando sapranno ciò che hai fatto per salvarci.» ma niente riusciva a bloccare un battito del cuore eccessivamente accelerato.

In quel momento, Acab cercò gli occhi di Ariel così sfacciatamente intenti a non essere catturati dai suoi, e, nell'avvertire la sua lotta interiore, il labbro gli si piegò in un mezzo sorriso compiaciuto.

Lei frizionò il tampone con eccessiva forza, tanto che lui dovette bloccarle la mano per far sì che si fermasse a incrociare i suoi occhi. Le iridi celesti intercettarono quelle marroni di Ariel che si sentì avvinta da un'emozione tremenda, tale da accartocciarle lo stomaco.

«Qui accettano tutti» iniziò decisa e in tono austero. «Il problema è che chi viene ospitato, a volte, non sopporta tutto questo amore incondizionato, perché sembra una pazzia,» lo sguardo accigliato «ma loro lo fanno col cuore e senza alcun interesse. Ricordalo se mai ti venisse in mente di far del male a qualcuno.»

Lui, che aveva ancora la mano a stringerle il polso, fece in modo che sue esili dita si posassero sul viso spigoloso. Avrebbe voluto bloccare quel suo parlare privo di senso e posare le labbra sulle sue, ma, se l'avesse fatto...

Lei, inconsapevole, si guardò attraverso quegli occhi, che non erano mai stati così vicini, così illuminati, così grandi e inspiegabilmente carezzevoli.

Adesso!

Con uno scatto, Acab levò via la mano di Ariel dal suo viso e lei, ritornata alla realtà e in un moto di odio verso quello che aveva provato, uscì dall'infermeria a grandi falcate.

Si chiuse la porta alle spalle, mentre l'eco di quel tonfo nel corridoio di quel piano celò il lamento di Acab piegato su se stesso; il dolore scaturito dalla disubbidienza al suo oscuro signore, gli aveva provocato fitte acute come lame a tutto il corpo, lasciandolo inerme sul pavimento, schiacciato dal peso della sua scelta.

In quel momento, Ariel era così preoccupata delle sensazioni provate in sua presenza che l'ultima cosa che avrebbe voluto era stargli vicino. Il suo unico pensiero era parlare con Simon.

No, Acab non poteva rimanere lì. Ariel non l'avrebbe permesso.

Porta i suoi vestiti, il suo profumo... Ma chi si crede di essere?

Chi gli ha permesso tutto questo benessere?

Giunta poco lontano dall'ufficio di Simon si rese conto di essere arrivata troppo tardi: qualcuno stava già discutendo animatamente con lui riguardo la situazione di Acab.

«Ricordi perché mi facesti venire qui?» la voce di Gilbert era un rasoio pronto a ferire e Ariel lo avvertì chiaramente arrivata a un passo dalla porta. «Filadelfia doveva essere la nostra casa, il nostro rifugio contro Lucifer, e tu adesso permetti che il loro figlio prediletto stia qui a mangiare, bere, avere i nostri abiti, dormire con noi? Che potrebbe fare mentre dormiamo? Tu dormirai stanotte, Simon?»

«Pensi sul serio che a me non importi nulla?» Simon guardò Gilbert con gli occhi di un uomo che ne aveva abbastanza. «Io non ho chiuso occhio per mesi.» Si alzò dalla sedia con i palmi sul tavolo e gli occhi scuri di afflizione. «Io non ho mangiato per settimane. Ho pregato Dio di riportarmi un figlio e lui mi ha portato chi l'ha ucciso.» strinse i pugni di fronte all'uomo che, in tanti anni, non aveva mai visto quella sua espressione così dura. «Dovrei forse recarmi da Lui, al Suo cospetto e fare come stai facendo tu, giusto?» 

«Simon...» tentò di calmarlo Gilbert. 

«Invece io tengo dentro il mio cuore un nemico peggiore di quel ragazzo che si consuma lentamente.»

Gilbert deglutì con occhi spauriti pensando di aver lacerato un cuore già abbastanza ferito. Simon si sporse verso di lui, con sguardo accigliato. «Sai chi è il nemico che porto dentro, caro Gilbert?»

Quello non rispose, negando col capo a occhi bassi.

«Sono io il nemico di me stesso quando non faccio la Sua Volontà.» Lo guardò con aria contrita, prima di confessargli quel che non era riuscito a dire a nessuno. «Avverto un macigno che grava sul mio cuore, la sensazione che mi fa capire che non sono nella Sua via. Il peso del peccato lo avverto chiaramente, ormai. E' quel senso di morte e oppressione che penso avesse anche nostro Signore Gesù Cristo quando sulla croce urlò al Padre: "perché mi hai abbandonato?"»

Gilbert inspirò e trattenne il respiro per qualche istante, prima di controbattere.

«Quindi pensi sia la Sua volontà?» Il viso di Simon si distese e tesa la mano verso Gilbert gli rispose: «Non credo possa essere altrimenti».

L'altro si tirò su aiutato da Simon e quando giunsero alla porta Gilbert la aprì e Ariel, non più in attesa del suo turno, si avvicinò ai due con occhi bassi.

«Non l'ha ucciso lui.»

I due uomini si guardarono con aria interrogativa. «A chi ti riferisci?» intervenne Gilbert.

«Acab ha ucciso suo padre per salvare me e Joshua.»

 

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Capitolo 40
*** UN PASSO INDIETRO: ACAB ***


Dark Lihium, tre mesi prima...

Anni di buio, di notti a pensare e a leccarmi le ferite che mi avevano fratturato il cuore, graffiando lentamente, come su una lastra di ghiaccio. Notti a camminare tra i succhi vitali di anime innocenti. Notti che mi hanno reso un'arma di morte e un degno erede della mia famiglia.

Cosa sono io? Il frutto della volontà di un Signore Oscuro, che ha paura di farsi vedere in volto?

Io adesco anime per i sacrifici, seduco per far rinnegare Quel Nome, ma, adesso, tutto questo mi opprime. Tutto per colpa tua. Tutta colpa dei tuoi occhi bruni, dai riflessi ambrati; grandi, troppo grandi.

Può essere che quel tuo Signore - per me innominabile - risieda dentro un essere così terreno?

Dopo tutto, era un uomo anche colui che portava Quel Nome.

Non è possibile.

Poi, eccoti. I ragazzi, che prima occupavano la pista da ballo, si diradano come nuvole scure, e appari tu. Perché sei venuta qui?

Scappi. Vai verso il bar. Ti vedo di spalle. Spalle scoperte dove le onde brune dei capelli tentano di coprire la schiena nuda.

Sei qui per morire tra le mie mani?

Sfioro la tua pelle olivastra, tu ti volti, con quegli occhi grandi. Il colore amaranto delle tue labbra sembra avvolgere il ghiaccio dei miei arti.

Inizio a respirare.

Respiro, come fuori dalle acque del mio mondo.

Respiro e il tuo profumo è l'unica cosa che vorrei addosso.

No, non voglio. Non voglio che questa splendida visione svanisca, per mano mia.

«Mi concedi questo ballo?» ti chiedo e prendo la tua mano, la bacio, con una sorta di devozione. Ed eccolo, il tuo profumo è adesso sulle mie labbra.

Forse è la botta che mi ha dato mio padre, ma le tempie pulsano, il cuore vaneggia parole che non mi sono consentite pronunciare.

Forse è l'alcol, sì, forse è lui. Ma se il Cielo si è avvicinato a me, chi sono io per mandarlo via?

Sei venuta a salvarmi o a morire? Non importa.

Sei sconvolta, le guance rosse e i battiti accelerati li avverto come un richiamo.

Sono io? Lo spero tanto.

Ecco, l'ultima cosa che vorrei è non averti pura, senza alcun mio condizionamento. Ho speso me stesso a imprigionare altre giovani come te, per alimentare il mio ego e il loro potere, ma adesso no, voglio te, te stessa, così come sei, come un'altra parte di me, come un'altra esistenza; un'esistenza in cui ho un'altra scelta.

Adesso spengo i loro ordini. Spengo la trasmissione dei miei demoni.

Ci sei tu. Solo tu e io.

Drizzi la schiena e mostri il collo, lasci scivolare le onde brune dietro le spalle permettendo la visione della scollatura.

Tu lo sai. Certo che lo sai cosa provocare in me, è come se fossi venuta per questo.

Per un momento, ringrazio il Cielo, in un sospiro.

Adesso sfiori le mie dita, e io, con un certo timore, poggio il palmo destro sulla tua schiena nuda. Non dici nulla e io ammutolisco mentre controllo i miei passi per non farti inciampare.

Avverto la rigidità dei tuoi pensieri negli arti tesi. Poi però ti rilassi, come realizzando ciò che sono, in questo momento.

Allora te lo chiedo: «Non hai paura?» Non devi averne. Non adesso che sono proprio io.

Ho avvicinato le labbra al tuo orecchio quando sussurro quella domanda, con tutta la passione di cui sono capace; le vedo quelle scariche elettriche che rendono evidente la peluria della cute. Emozioni pure, senza che io abbia fatto nulla di oscuro per provocarle.

Sono io, solo io, questa volta.

Ora levo le ultime ciocche di capelli dal tuo collo, avverto il tuo cuore far fremere gli arti. Prendo i polsi -quelli a cui avevo fatto del male- per far sì che tu possa accostarti a me, completamente.

Cingimi il collo. Stringimi a te. Non ti farò del male, non potrei, non adesso.

Poggio la mia guancia alla tua e il mio respiro è incontrollabile. Allora te lo dico, che ancora non mi hai risposto.

«Devo proprio?» chiedi di rimando, con voce timida e insicura che fa ribollire un fuoco liquido all'altezza del petto. Voglio questo calore. Ancora. Voglio portarti via da qui, dai loro occhi. Ma solo una parte dei miei pensieri risale la gola: «Dovresti, altrimenti non potrei portarti lontano da qui...» E mentre ti stringo a me, e il tuo calore, petto contro petto, è il paradiso in cui vorrei scaldarmi da qui all'eternità, forse non mi comprendi. Mi spingi via. Mi allontani. Corri e il gelo ricopre di nuovo la mia anima; un gelo oscuro, come il mio Signore.

Non avresti dovuto farlo.

Venti: sono i gradini della scalinata che stai per scendere verso la rena del mare. Venti: sono i secondi che impiegherò per raggiungerti e portarti con me negli abissi.

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Capitolo 41
*** UN COLPO AL CUORE ***


 

«Joshua ha deciso di rimanere laggiù per darci più tempo...» Il ricordo di quel momento la ammutolì. Trattenne le lacrime e ingoiò il pianto.

Gilbert sentì il peso di quelle parole all'altezza del petto. Simon si piegò sui talloni per incontrare gli occhi bassi di Ariel che non era riuscita a reprimere il dolore.

«Oh, Ariel!» sorrise Simon. «Non sai quanto le tue parole mi stiano consolando!» le strinse entrambe le mani. Lei posò gli occhi bruni sul viso barbuto di Simon, tirò su col naso: «Dici sul serio?»

«Sì, perché se Joshua ha deciso di compiere quel gesto, vuol dire che lui sapeva già qualcosa che noi ancora non sappiamo.»

In quel momento, non seppe se confidare a Simon quanto Joshua avesse scoperto. Trattenne il fiato come a reprimere quella verità e si ammutolì. Si girò e fece per andarsene, seguendo Gilbert.

«Ariel!» la chiamò Simon. 

Gli occhi sbarrati. «Sì?» 

«Dovevi dirmi qualcosa?» 

«No, no!» rispose secca, scuotendo la testa. «Passavo di qui e vi ho sentiti parlare. Perdonami...» si scusò, con occhi bassi.

«Così, anche tu leggi nel pensiero.» le sorrise mostrando i denti. «Stai prendendo il nostro spirito.»

Un sorriso da far luccicare gli occhi e poi una corsa lungo le scale per andare ad aiutare la cuoca del Centro.

Per tutto il giorno, Acab non si era fatto vivo, nemmeno in mensa per il pranzo. Nel pomeriggio, Ariel decise di andare a trovarlo.

Una volta arrivata al piano superiore, si guardò intorno: il corridoio era vuoto, la luce del sole proveniva dalla sua sinistra e illuminava la pavimentazione riflettendo la forma rettangolare delle ampie finestre. Il tramonto rabbuiava anche i suoi pensieri, così, indecisa sul da farsi, incrociò le braccia al petto e, avvolta da una sensazione di inadeguatezza, si avvicinò alla porta bianco laccato; si sporse in avanti e, sfiorando col capo la superficie liscia, si mise in ascolto.

«No...No!» sentì pronunciare come un ringhio; poi dei lamenti gutturali le fecero venire i brividi.

Cosa ti sta succedendo, Acab...?

Si mosse cauta verso l'ampia vetrata posta poco più avanti sulla sua sinistra e da cui si poteva intravedere l'interno della stanza, ma le tapparelle semichiuse rendevano difficile l'osservazione. La figura di Acab percorreva la stanza in lungo e in largo, alzando e abbassando la testa in un movimento sinistro; le mani si spostavano frenetiche dalle tempie al volto e ai capelli.

Poi, senza preavviso, quasi come se lui avesse avvertito la sua presenza, si fermò. Girò il busto nella sua direzione. Ariel iniziò ad avvertire un tremore alle gambe per cui sarebbe stato prudente scappare, ma rimase lì, immobile.

Acab le si posizionò di fronte, oltre il vetro. Lei vide chiaramente la maglia chiara e riuscì a sentire il respiro concitato, spezzato dai gemiti. Le braccia tese, i pugni chiusi.

Ariel tentò di aguzzare la vista oltre le tapparelle: si mise sulle punte, alzò il mento e, tra le fessure, si accorse dei suoi occhi: zaffiri vuoti, persi, gelidi.

Ariel deglutì, con la sensazione di avere una grancassa al posto del cuore. Poggiò il palmo al vetro, ma fu un attimo, perché un colpo violento la fece sbilanciare. Acab aveva tirato un pugno nella direzione di Ariel che comprese quanto fosse stata provvidenziale la sua decisione di non entrare nella stanza; se non ci fosse stata quella lastra trasparente, il colpo sferrato l'avrebbe sicuramente lasciata a terra, priva di sensi. Così si allontanò da quel vetro sfregiato, quando nel petto ormai era esplosa la sensazione che, vicino a lui, sarebbe stata sempre in pericolo.

Corse per le scale e una volta arrivata al piano terra, dovette reggersi all'architrave della porta anti panico aperta verso l'ala della mensa, stringendo nel palmo destro il ciondolo a forma di testa di leone che portava al collo. La cassa toracica si espandeva e contraeva in maniera irregolare.

Pensò in un primo momento di cercare Lucia ma il sentore di amarezza le cancellò dalla mente quel pensiero.

Elemosinò ossigeno e con gli occhi cercò Gilbert forse perché, in fondo, sperava che la reazione di Acab fosse il frutto di uno stato mentale instabile, dovuto alla sua condizione di pseudo prigionia.

Quando Gilbert le passò di fronte, diretto verso il cortile, lei lo tirò dalla manica della giacca di velluto marrone.

«Ariel!»proruppe con occhi sbarrati dietro gli occhiali. «Che succede? Mi hai spaventato...» la mano sul cuore.

«Non sono io che devo farti paura, ma la reazione che sta avendo Acab nell'infermeria.» Gilbert la osservò con un cipiglio. «E tu che ci facevi, lì?»

«Ero andata a controllare se stesse bene.» si giustificò.

«Questo è il mio compito, Ariel.»

Lo sguardo austero di Gilbert rivoltole con fronte aggrottata sembrò confermare quel che lei aveva da tempo intuito: c'era qualcosa di strano nel suo interessamento verso chi l'aveva manipolata.

Così si diressero insieme verso l'infermeria e, prima che l'uomo stringesse la maniglia, si voltò verso di lei serrando la mascella. «Tu rimani qui.» le ordinò e lei non poté far altro che annuire.

Gilbert si mosse con cautela in quell'oscurità. Era chiaro che la luce del sole lo avesse in qualche modo infastidito, o probabilmente si stava solo preparando a ricevere le tenebre. La serranda dell'ampia finestra posta in fondo alla stanza era stata completamente abbassata e dalla luce proveniente dalla porta aperta alle sue spalle vide che sul pavimento c'erano il vassoio e il piatto che avevano contenuto la sua colazione. Inspirò e pose le mani ai fianchi. «Acab!» chiamò ad alta voce. «Dove sei?» 

Un momento di silenzio e poi dei movimenti provenienti dal bagno alla sua sinistra lo portarono in quella direzione. Poggiò l'orecchio alla superficie di legno e chiese: «Cosa ti succede?»

«Non posso...» rispose l'altro dall'interno.

«Cosa non puoi? Acab, apri la porta!»

Le voci nella testa di Acab assumevano ora il timbro del padre, ora quello della sorella. Poi, mentre si trovava di fronte al suo riflesso dello specchio, aggrottò la fronte, i capelli neri scompigliati sul volto, strinse le mani alla superficie di ceramica del lavandino.

 «Acab!» la voce di Ariel lo chiamò dall'esterno provocandogli una sorta di blackout nei pensieri. La sua voce, espressa anche in una sola parola, scardinava tutto il suo apparato demoniaco con un colpo al cuore.

 

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Capitolo 42
*** LE RISPOSTE DI UNA VITA ***


 

«Non ti faremo del male. Nessuno te ne farà, qui.»

Dopo le parole di Ariel, che aveva deliberatamente disubbidito alla volontà di Gilbert, Acab aprì la porta. Portava segni di graffi sul volto e sulle braccia. Gli occhi bassi, coperti dai capelli corvini.

«Mi duole ammetterlo,» iniziò Gilbert, dopo un profondo sospiro «ma Ariel ha ragione. Cosa ti è successo?» le braccia incrociate al petto.

Acab alzò il viso e fissò lo sguardo serio verso il medico. «Solo Simon può aiutarmi» e serrò la mascella. I due presenti si scambiarono espressioni interrogative, prima di articolare qualche parola.

«Credo sia fuori sede con Nathan. Lo puoi aspettare in cortile. Meglio che tu stia in mezzo ad altre persone...» «Assolutamente no. Non posso.» Gilbert non fece in tempo a concludere la frase che il ragazzo lo interruppe bruscamente.

«Ok.» lo tranquillizzò Ariel, poggiandogli la mano al braccio. «Parlerò io con Simon non appena sarà arrivato.» e guardando Gilbert con un'espressione emblematica, chiese ad Acab se fosse d'accordo. Lui annuì, serio.

Non appena furono fuori dall'infermeria, Gilbert, che proprio non riusciva a comprendere il comportamento di Ariel, chiuse la porta a chiave negando vistosamente col capo: «Non so cosa tu abbia in mente e non so se voglio scoprirlo.»

Con un ultimo sguardo fugace all'infermeria, Ariel strinse le braccia al petto. Seguì Gilbert con lo sguardo perso in un vuoto pieno di pensieri.

Scesero le scale in silenzio e a passo lento, poi, quasi avvertendo fisicamente i dubbi del medico che la precedeva, soggiunse: «Fidati di me, Gilbert. So che è difficile capire come sia possibile che io stia ancora qui a preoccuparmi per lui, ma ho le mie ragioni.»

Una risata sommessa e quello non riuscì a trattenere l'ovvia risposta: «"Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce..."» L'aveva pronunciata con un tono teatrale, una volta giunti al piano terra.                                                      

   «"Il cuore dell'uomo è insanabilmente maligno"» ad accoglierli ci fu la voce di Simon. «Da quando citi Pascal, caro Gilbert?»

Il Padre era appena rientrato dalla missione poco fruttifera con la Confraternita delle Sette Chiese. I suoi confratelli apparivano terrorizzati all'idea di intraprendere, insieme a lui, la lotta all'ascesa al governo dei Damian.

«La luce non si dovrebbe mischiare con le tenebre, fratello.» Aveva pronunciato il Capo di Laodicea. Simon si era alzato dal seggio e aveva detto, in tono deciso: « La luce non si mischierà mai con le tenebre, perché la luce squarcia le tenebre e crea la vita». Poi se n'era andato, non prima di pronunciare l'ultima parola. «Gesù Cristo era da solo su quella Croce e San Paolo si ritrovò solo nella sua ultima difesa. Seguirò questi modelli, non certo quello di chi come voi si sottomette inerme invece di combattere.» Aveva girato i tacchi e se n'era andato, con la speranza che, prima o poi, il Suo Signore l'avrebbe aiutato.

«Da quando Acab ti deve parlare.» rispose Ariel accostata a Gilbert. Fu naturale per Simon mostrare un ampio sorriso, seppur malinconico. «Allora andrò da lui».

«No.» inspirò Ariel e trattenendo il fiato: «Prima che tu lo possa incontrare, ho bisogno di parlarti. In privato.» sottolineò, ma nel farlo sfuggì ai suoi occhi ridenti come chi deve nascondersi da una fonte di luce. «Allora andiamo!» le diede una pacca alla spalla e stringendola a sé si diresse verso il suo studio.

***

Appena Simon aprì la porta, Ariel fu inebriata dall'essenza di bergamotto che invase le sue narici, costringendola a inspirare profondamente quel profumo così gradevole.

«Il bergamotto è ottimo per le superfici in legno, lo sapevi?» le chiese Simon, sfiorando la sua scrivania con i polpastrelli come una massaia che controlla di aver tolto ogni residuo di sporco. Lei sorrise, intenerita da quella visione. «No, non lo sapevo.»

Lui le fece segno di sedersi e quando si furono accomodati, Simon pose le mani incrociate sotto il mento coperto dalla folta barba. «Di solito queste cose le sanno le donne che si preoccupano tanto per la casa» le sorrise, sperando di aver placato il suo animo teso. «Hai già avuto modo di sentire tua madre?»

Il volto disteso di Ariel assunse un'espressione contrita. «Sì, ma solo per qualche minuto. A quanto pare il suo compagno è più importante della figlia ritrovata dopo tre mesi di prigionia.» «Ma lei questo non lo sapeva. Lei sapeva che tu eri partita.»

«Le hai detto tu questa bugia?» con questa domanda Ariel pensava di averlo preso in contropiede, e con un sopracciglio alzato attese la risposta che fu tutto tranne che prevedibile.

«La verità è una questione di sapienza. Non tutti possono dirla a chiunque e in qualsiasi momento.» si sporse in avanti e incrociò le braccia sulla superficie della scrivania. «Tu puoi dire una verità così forte, solo dopo aver amato intensamente e solo dopo che quell'anima si è sentita amata.»

Indubbiamente lei non si sentiva per nulla idonea al compito di cui parlava Simon, ma il fatto che i Lucifer avessero così potere nella società da arrivare in ogni ambito della vita umana, le faceva ribollire il sangue. Se sua madre non avesse conosciuto suo padre, forse in quel momento non si sarebbe trovata a fare la segretaria di un ricco avvocato luciferino.

I loro tentacoli erano ovunque.

«Io conoscevo molto bene tua madre.» Simon si era disteso sulla poltrona girevole e guardava il soffitto con le mani incrociate sul petto. 

«Come dici?» Ariel aggrottò le sopracciglia. 

«Sì, eravamo colleghi all'Università di Filadelfia. Lei studiava Legge e io Architettura.» continuò ad ascoltare con le labbra schiuse in un'espressione inebetita. Lui gettò uno sguardo verso di lei e continuò con occhi ridenti. «Sì. Sai che le facoltà sono comunicanti, no?» lei annuì, sempre più stupita. In quegli occhi c'era qualcosa di strano, un'espressione mai vista prima. «Dicevo: eravamo colleghi e, un giorno, gli presentai un ragazzo che avevo conosciuto in una delle riunioni ecclesiastiche delle Sette Chiese. Ebbene, i due si trovarono subito d'accordo, tant'è che una sera, per accontentarla, organizzammo una cena a quattro: lei e il mio amico, io e la sua amica.»

«Frena, frena, frena!» la giovane portò le mani sul volto. «Che cosa significa? Perché mi stai dicendo tutto questo, proprio in questo momento?»

Simon roteò il busto nella sua direzione poggiando i gomiti sulla scrivania. «Perché ci sono tante cose che non conosci.» Ariel ebbe un moto di timore e ricomponendosi nella poltroncina, incrociò le braccia al petto con sguardo serio, in attesa.

«Il problema di tuo padre è stata la Chiesa di Sardi, la chiesa che più delle altre si è mondanizzata arrivando ad ammettere pratiche abominevoli. Ho tentato più volte di fargli aprire gli occhi, ma ormai, gli artigli dei Lucifer erano arrivati a toccare anche le alte cariche ministeriali.»

Da quando Simon aveva fatto riferimento al suo passato, Ariel sentì le lacrime affiorare prepotenti insieme a un pungolo alla gola. Strinse così forte il ciondolo a forma di leone nel palmo della mano da avvertire dolore.

«Quel ciondolo è stato il primo e ultimo regalo che ho potuto farti.» Allora le lacrime scesero, copiose e inarrestabili dai suoi occhi divenuti tanto grandi e spauriti. «Lucia aveva sognato di te, Leone di Dio. Aveva sì e no cinque anni.» Simon ricordava ancora quel giorno in cui la piccola e innocente Lucia le aveva confidato il primo di una lunga serie di sogni profetici. Quello lo ricordava ancora perché era l'unico non ancora avverato. «"Leone di Dio, siedi con me e giudica il mondo" diceva l'uomo del suo sogno.» Simon guardò con gli occhi di chi sta ricevendo tutte le risposte di una vita. «E chi si sarebbe mai immaginato che dopo quasi venti anni da quel mio regalo, Ariel, il Leone di Dio, avrebbe portato con sé, qui, a Filadelfia, l'unico che può far sì che la Loggia dei Lucifer abbia una fine.»

Ariel portò il lembo della manica tra i denti e roteò lo sguardo altrove.

«Credo che Acab si stia facendo del male...»

«Non del tutto...» le rispose Simon, mentre si alzava dalla poltrona in direzione dell'ampia finestra quando all'orizzonte le colline assumevano un colore bluastro e il cielo andava scurendosi per far posto alle tenebre.

«Simon...» tentò Ariel. «Joshua aveva capito che Acab si è affezionato a me.» Lui appoggiò i palmi sul davanzale interno della finestra. «Acab non si è affezionato» la guardò sottecchi.«Acab ti ama... Più di quanto ami se stesso.» nel pronunciare quelle parole, roteò il busto verso di lei incrociando le braccia al petto e indugiò nel silenzio, per osservare la reazione di Ariel: le guance vermiglie, le labbra chiuse in una linea sottile incurvate lievemente all'insù e le mani impegnate a giocare con i lembi del maglioncino, il capo chino.

«Dopo tutto, solo la forza dell'amore può far compiere un gesto talmente disperato come quello di uccidere il proprio padre. Non trovi?»

Un sorriso amaro. «Non sono più sicura di nulla dopo quello che è successo oggi.» Lo sguardo acceso di rabbia. «Se non ci fosse stato quel vetro separatore, mi avrebbe lasciata priva di sensi.» concluse, prima di alzarsi per dirigersi verso la porta.

«Ariel...» quel tono placido e sicuro la costrinse a girarsi in un sospiro di resa. «Sì?» con le braccia al petto. Lui prese un foglietto piegato in due dalla scrivania, lo guardò, avvicinandosi a lei. «Anche io ho dei dubbi che ho racchiuso in questo biglietto». Glielo strinse nelle mani. «Lo aprirai tra tre giorni, intanto aspettiamo che sia chiara la Sua Volontà.»

 

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Capitolo 43
*** NESSUNO PUO' SALVARTI ***


 

Non puoi sfuggire al tuo compito! La tua anima mi appartiene!

Erano circa le due di notte e Acab non riusciva a dormire. Incubi fatti di sangue, urla e pianto, lo avevano raggiunto anche lì, nella Chiesa di Filadelfia.

Simon poi non l'aveva raggiunto e, nell'attesa, le oscurità stavano nutrendosi del suo risentimento.

Nessuno può salvarti! Sono solo uomini e donne privi di ogni potere!

Solo noi abbiamo il potere... su tutto!

Le voci dei sui demoni custodi riempivano la mente costringendolo a colpirsi ripetutamente il capo con i palmi delle mani.

Si mise seduto nel letto stringendo i capelli tra le dita, tentò di rinchiudere quelle voci in un urlo silenzioso stretto tra i denti, per non farsi sentire da nessuno.

In quel piano del Centro, oltre l'infermeria c'erano proprio le stanze delle famiglie, la maggior parte delle quali con bambini in età scolare. Tra quelle, c'erano anche le stanze di Heliu e Lucia.

Anche lei non riusciva a dormire. Si era svegliata di soprassalto con il rumore dei colpi di Acab alle pareti; era seduta sul letto e guardava lo schermo del telefono con il labbro tra i denti, combattuta sul da farsi: se Acab avesse smesso di lì a qualche minuto non ci sarebbe stato motivo di chiamare nessuno, ma la sensazione che quell'essere potesse fare qualche danno a se stesso e quindi alla Struttura la costrinse a digitare il numero di Ariel, pur a malincuore.

Chiamando lei, sperava di placare i demoni di Acab; infatti, tutti avevano compreso che tra i due ci fosse un legame particolare, diverso e, per certi versi, insensato.

Il Corpo di Cristo avverte tutto... si disse Lucia, in attesa della risposta con il telefono all'orecchio.

Anche i Lucifer sapevano quanto fosse importante il Corpo di Cristo, ovvero l'entità spirituale formata da tutti i componenti della Chiesa, legati dal legame del Cielo a un Mandato. In quel caso, il Corpo della Chiesa di Filadelfia era talmente diventato un pericolo per l'evoluzione del potere dei Lucifer, che non sarebbe bastato far fuori solo il Capo.

In effetti, erano i corpi di tutti i residenti del Centro di Aggregazione che Acab vedeva distesi su laghi di colore scarlatto. Tutti uccisi per mano sua. Tutti. Uomini, donne, bambini.

Lei.

«No! Lei no!» urlò, sbattendo più volte la spalla contro la porta dell'infermeria.

Le mura sembravano essere scomparse dentro un vortice di fumi neri che oscuravano i suoi occhi e bloccavano i polmoni e, per un attimo, vide il volto del padre a pochi passi da lui. Senza rendersi conto di dove si trovasse realmente, cacciò via quella visione sferrando un pugno che colpì il vetro già sfregiato dell'infermeria.

Al sentire il rumore di vetri rotti, Lucia si decise a uscire. Indossò la vestaglia, girò le mandate della porta e rimase per qualche istante in ascolto. Quei vetri sembravano rompersi nuovamente sotto il peso di qualcuno che ci passava sopra; sbirciò oltre l'uscio e, nel vedere che Acab si avvicinava all'ampia finestra con passo trascinato, uscì incedendo come un soldato. «Ehi! Ehi, tu!» lo chiamò. «Cos'hai intenzione di fare? Non ti basta quanto hai già fatto?» la fronte corrugata di Lucia non sortì alcun effetto in lui, tant'è che, dopo averle rivolto uno sguardo vacuo le mostrò un mezzo sorriso. «Hai ragione, Profetessa.» il dorso della mano a sfiorare la guancia. «Nessuno soffrirà più a causa mia.»

Lucia, raggelata da quelle parole e dal suo gesto, non appena lo vide salire sul davanzale che dava sul cortile urlò graffiandosi la gola.

 

***

Il telefono di Nathan vibrava già da qualche secondo sul comodino posto alla sinistra del letto matrimoniale. Miriam, con il sonno leggero di una mamma, lo strattonò un paio di volte con voce decisa. «Nathan, è Simon! Sta succedendo qualcosa!»

La luce del telefono mostrò agli occhi ancora semichiusi di Nathan il volto di Simon, spingendolo fuori dalla stanza senza nemmeno cambiarsi.

Mentre si stava allacciando le scarpe seduto sullo scalino dell'ingresso, la moglie dai lunghi capelli biondo ramato gli si avvicinò per porgergli la giacca di pelle. «Cosa pensi possa essere successo?» gli occhi di Miriam erano lucidi. Quello le diede un'occhiata fugace mentre finiva di sistemarsi le calzature; si alzò in uno scatto e indossò la giacca ma, mentre stava per andarsene, si fermò sull'uscio. Una strana sensazione di oppressione all'altezza del petto lo irrigidì, quindi si voltò verso la moglie con il volto corrucciato. «Prega e torna a dormire.» le disse, prima di chiudersi la porta alle spalle e correre via. Lei rimase lì, a fissare il vuoto con una mano sulle labbra come un saluto mancato.

Lo squillo di un telefono aveva svegliato anche Ariel che, nel vedere il nome di Lucia lampeggiare nello schermo, avvertì gli arti raggelare sotto il peso di una consapevolezza opprimente: Acab aveva compiuto un gesto terribile. Non mise nulla per coprirsi, si gettò nella corsa così com'era uscita da sotto le coperte: una canottiera bianca e i pantaloni lunghi di una tuta di cotone. Non poteva sapere che ad attenderla al terzo piano ci sarebbe stata una folata di vento gelido.

Tuttavia, non fu il vento a farla diventare di ghiaccio e sbiancare. Acab era sul davanzale dell'ampia finestra principale e si teneva dai due montanti dondolando il capo da un lato all'altro.

Puntò poi gli occhi oltre quell'orribile scena per osservare Lucia, che piangeva e tremava, piegandosi in avanti, come a voler prendere il ragazzo e tirarlo giù. Poi, i loro occhi si incontrarono e, fu allora, che le crepe del cuore di Ariel si allargarono fino a farle avvertire schegge al lato sinistro del petto.

«Digli di scendere, ti prego...» la voce rotta e piegata come una preghiera. «Ariel!» urlò poi e, nel farlo, Acab si girò di scatto verso di lei incatenandola lì, freddata da quegli occhi disperati.

Nell'ultimo periodo, le ferite profonde del suo cuore erano state ricucite e nello stesso tempo marcate da quegli occhi. Acab aveva avuto il coraggio di sacrificare suo padre, la sua vita, ma lei non provava che odio e disprezzo per se stessa; lei che qualche ora prima aveva dimenticato tutto dentro quelle pozze blu.

«I...Io» sussurrò lei. Lei, che era sempre stata la causa di tutto. Leone di Dio... La voce di Acab nel bar dell'Università le ripiombò alla memoria insieme al suo volto sfacciato...

Leone di Dio...così come la voce flebile di Joshua mentre le rivelava che quello era il significato del suo nome...

Il mio nome...

Un pugno prepotente allo stomaco le fece mancare l'aria. Leone di Dio, siedi con me e giudica il mondo... Quindi era tutto lì, davanti a lei.

Strinse tra le mani il ciondolo al collo e si avvicinò di un passo. L'unico che può far sì che la Loggia dei Lucifer abbia una fine...

Se era proprio Acab che avrebbe portato alla sconfitta dei Lucifer e se era proprio lei l'oggetto del suo amore e se proprio quell'amore avesse smosso tutto il mondo spirituale e materiale per la salvezza di una sola persona, come avrebbe fatto lei a fermarlo dal compiere un gesto tanto sconsiderato?

«Non ti avvicinare!» aveva detto lui, lanciandole uno sguardo di fuoco.

«Non puoi manipolarmi, Acab.» gli disse, deglutendo abbondante saliva, mentre le mani non smettevano di tremare così come i suoi arti inferiori.

«Io non ho mai voluto farlo...» confessò. «Almeno non dopo il Dark Lithium» il capelli gli sferzavano il viso e la sua stabilità sembrava essere sempre più precaria.

Ariel sentì come una lama all'altezza dello stomaco. Non è vero... e come avrebbe potuto contraddirlo in quel momento? Tenne per sé quel pensiero. Ci avrebbe riflettuto solo se quella situazione sarebbe volta nel migliore dei modi.

«Santo Nome di Gesù Cristo...» Nathan era appena arrivato al piano seguito da Simon che, non appena vide il quadro della situazione, capì che era già un miracolo essere arrivato prima della tragedia. «E' proprio Lui a tenerlo fermo lì...» pronunciò il Mandato di Filadelfia, inserendosi tra Ariel e il giovane.

Gettati e vedrai che la tua speranza è solo una menzogna. Vincerò sempre io.

Era quel pensiero a impedirgli di compiere il suo progetto. «Acab...» la voce di Simon, ferma e autorevole lo fece voltare nella sua direzione. «Tutto quello che stai pensando è una menzogna.»

Acab corrugò la fronte, facendo tremolare il mento. «Perché non sei venuto? Se fossi venuto prima non sarebbe successo...»

Quelle parole... Nei ricordi di Simon, qualcuno le aveva già pronunciate prima.

«Non voglio più manipolare...»

Non voglio più...

«Essere...»

Manipolato...

La mente di Simon aveva completato quella frase già sentita in un'altra occasione. E quando, in un "Addio", il ragazzo si era sporto in avanti, l'urlo di Simon fece gelare il sangue di tutti e immobilizzare Acab.

«No! Caleb!» Simon aveva urlato quel nome ritrovandosi interdetto e col fiato bloccato in gola.

Acab era ancora lì a fissare il vuoto, con le sopracciglia aggrottate e in bilico sull'oblio, mentre quel nome non aveva fatto altro che mandare flash intermittenti nella sua mente.

Flash della vita di un bambino dai capelli neri e gli occhi azzurri, accompagnato in una notte di pioggia vicino a quel cancello grigio che ora osservava dall'alto.

«La donna aveva suonato al cancello...» iniziò a dire , con occhi persi nel vuoto. «E poi gli aveva detto:"Devo cercare di salvarti da quello che vorrebbero farti diventare". Lui non capiva. Aveva quattro anni e, mentre il cancello stava per aprirsi, si gettò alle sue gambe, bagnandosi di fango, piangendo disperato. "Mamma vieni con me! Stai qui anche tu!". La pregò, ma lei non si voltò. Lei lo strattonò, mentre...Un uomo...» in quel momento, fiotti di lacrime scaturirono dagli occhi di Acab rivolti su Simon che aveva mosso un passo in avanti con una mano davanti alle labbra e una aperta verso il ragazzo. «... Mentre un uomo... mi stringeva a sé, così forte, da farmi sentire a casa...» Gli occhi blu ormai diventati pietre lucide erano fissi su quelli di Simon, prepotenti.

«Chi sono io, Padre?»








************************************************************************************
Bene, bene, bene...
Chi sta piangendo?
No, tu stai piangendo!

Salve a tutti i lettori silenziosi che sono arrivati fino a qui. 
Io, mentre scrivevo questa parte, mi sono commossa come non mai. 
Vorrei sapere se anche per voi è stato lo stesso. 
Riflessioni, domande? Sono qui a vostra completa disposizione. 
Aiutatemi a continuare. Basta anche una sola parola. 
Grazie a tutti.
#Pace, la vostra Skys

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Capitolo 44
*** UNA LETTERA ***


Filadelfia, 25 Dicembre.

Due mesi dopo la liberazione.

***

Non riesco più a tenermi tutto questo vuoto dentro.

Nathan mi ha detto che questo diario può aiutarmi a immagazzinare il dolore sulle pagine affinché non mi calpesti il cuore. Tuttavia, oggi non scrivo una pagina di diario, ma una lettera, e la scrivo a te, Joshua.

Da quando mi hai lasciata andare con Acab, rimanendo tu, da solo, nelle prigioni del Lithium, io non ho mai smesso di pensare a quanto ti odio. Sì, ti odio. Ti odio perché dovresti esserci tu con me, qui, nel tuo mondo. Un mondo che pare vada avanti anche senza di te, con una gioia e una pace incomprensibile. A parte Simon, che sembra avere dei momenti di insofferenza tale da portarlo a rinchiudersi nel suo studio per giorni. E l'ha fatto, fino a qualche giorno fa. Per poi comparire questa mattina con il sorriso, dietro una folta barba bianca, vestito di tutto punto come Babbo Natale. Ha bussato in tutte le stanze per lasciare un pensiero.

Avresti dovuto sentire le urla di gioia dei bambini nel vederlo lì. Ma tu ne sai già qualcosa, immagino. Simon è sempre stato così, no? Fonte di un amore misterioso e totale, incredibilmente destabilizzante. Lo ammiro tantissimo per il suo coraggio, per la sua determinazione nel voler andare avanti, anche senza di te.

Tu che hai lasciato una crepa nel mio cuore solo in una manciata di giorni; non oso immaginare cosa hai lasciato nel cuore di questo povero padre. Però, dopo tutto quello che è successo, dopo la tua conoscenza, dopo l'inferno vissuto con Acab, devo dirti che mi sono analizzata e sto comprendendo, piano piano. Anche perché, alla luce della rivelazione di Caleb, qui, pare siano cambiate molte cose.

Pare che lui sia sempre stato qui, come se ti avesse rimpiazzato. Forse loro, ma non io.

Lui, con quel suo sorriso dolce, malcelato dietro al precedente ghigno di Acab, potrebbe abbattere qualsiasi muro di diffidenza. Aiuta dall'alba fino a notte fonda, e perciò sembra instancabile. Lui, che ha ucciso per difenderci, ma che rischia di avere sempre addosso il fardello del suo casato, sembra essere sempre in debito, verso di te, verso Simon, verso di me.

Io che dovrei invece essere tacciata come la causa di tutta questa situazione.

Eppure mi ama, incondizionatamente. E io ho paura. Ho paura del suo amore. Ho paura perché non sei tu, ho paura di quel che era e di quel che è diventato. Ho paura di me stessa, quando sono in sua presenza.

Proprio come oggi.

Dopo l'arrivo di Simon in versione natalizia, ho chiuso la porta della mia camera con gli occhi fissi in un vuoto pieno di pensieri. Avrei dovuto chiamare prima mia madre per farle gli auguri, ma dopo un paio di squilli, ho optato per il solito, freddo messaggio. Un mese dopo la nostra liberazione avevo deciso di raccontarle tutto, ma lei - da pura seguace del suo affascinante compagno Lucifer - aveva iniziato a riempirmi di offese.

E' Filadelfia che mi sta insegnando ad avere pazienza nel dolore, sopportazione nella sofferenza, ma avere come madre una persona che preferisce un estraneo alla figlia, supera i miei livelli di sopportazione.

Mi sono stretta dentro la felpa e ho sceso le scale verso la mensa e quando un intenso odore di cioccolata ha riempito le mie narici, ho sentito gorgogliare il mio stomaco. Lucia non c'era e non avevo avuto modo di salutarla perché, a casa sua - in un paesino di una decina di abitanti in cima al Monte Aspro - i cellulari non hanno campo. Heliu ha deciso di seguirla, ovviamente, e Gilbert aveva acconsentito di buon grado, lasciando che entrambi passassero le vacanze insieme. Così mi sono ritrovata da sola, nel tavolo che di solito è occupato da me e i miei due compagni d'opera.

Il calore delle cucine si spandeva in tutta la stanza; le lunghe tavole di legno scuro si stavano riempendo di persone, tra residenti e bisognosi che venivano giornalmente per un pasto caldo. All'angolo alla mia sinistra, il grande albero addobbato di luci calde e colorate, con palline rosse e oro, mi faceva sempre entrare in uno stato di incanto capace di anestetizzare i miei cattivi pensieri. In un sospiro, ho chiuso gli occhi.

Poi, il calore di due palmi ha coperto le mie palpebre. D'istinto ho mosso le dita in direzione delle mani che mi stavano coprendo la vista. Erano dita curate, di un giovane della mia età; il profumo era dolce, di chi aveva aiutato a preparare le torte al cioccolato di questa mattina.

Caleb...Il mio respiro si è fermato quando la sua voce bassa e calda mi è arrivata senza preavviso alle orecchie. «Indovina chi sono»

«Caleb, leva queste mani di cioccolata, prima che te le azzanni per la fame!»

Era vero, avrei mangiato anche i tavoli di legno, ma, senza rendermi conto, avevo dato un messaggio sbagliato al ragazzo che era ancora posizionato alle mie spalle con i palmi già sulla superficie del mio tavolo. «Non sarebbe una cattiva idea...» mi ha sussurrato, così vicino che se mi fossi girata avrei sfiorato le sue labbra. Poi, con un bacio delicato sulla guancia mi ha augurato Buon Natale, lasciando un pacco coperto di carta rossa sul tavolo.

«C... Caleb» mi sono girata verso di lui quando ho visto che si era accomodato sulla mia stessa panca, con la schiena rivolta verso il tavolo.

«Non dovevi»

«Perché? È Natale»

«Ma tu non dovevi farmi alcun regalo» Ho abbassato gli occhi che bruciavano per lacrime insistenti che non avrei voluto versare. Ho ingoiato la saliva, quasi come a voler ricacciare i miei sensi di colpa. «I... Io non ho fatto nulla per te»

Ovviamente non era solo per il regalo che mi sentivo così, ma per il trascorso appena vissuto. Fissavo quel dono e la vista mi si annebbiava sempre di più. Lo rivedevo piegato su se stesso con ai piedi una pozza di sangue, mentre tu cercavi di calmarlo.

Acab... Caleb...

«Allora non hai capito il senso delle parole di Simon di ieri sera» . Mi sono girata per guardarlo e, in quel momento, sembrava la persona più felice di questo mondo. Mi fissava con una certa compassione, come se, all'improvviso, non esisteva alcun peccato in me; come se fossi perfetta in tutte le mie mancanze. Le parole di Simon della sera della Vigilia le ricordavo bene: come al solito, non era stata la solita predica sul Gesù Bambino, ma un incoraggiamento al sacrificarsi per gli altri, nell'amore...

Nell'amare anche chi ci vuole stare lontano e con le sue azioni ci uccide ogni giorno.

A quel ricordo è stato facile pensare a me come la sua carnefice...

Quindi ho preso il regalo tra le mani e dalla consistenza sembrava qualcosa di morbido, come un maglione, o qualcosa del genere. L'ho scartato con calma, mentre nel mio cuore avvertivo che c'era qualcosa di profondamente sbagliato in quel gesto d'amore incondizionato.

Quando l'ho aperto, ho subito notato il tessuto di pile decorato con delle simpatiche renne: era una coperta, per chi, come me, ama il calore in queste giornate piovose.

«Non so che dire» ho ispirato. «Vorrei ricambiare in qualche modo»

L'ho pregato con lo sguardo e, per un istante, una scintilla ha percorso le sue iridi celesti e il sorriso è diventato un ghigno di furbizia. I ciuffi neri dei capelli scendevano dai lati del viso, addolcendo la sua espressione.

«Qualcosa ci sarebbe,» ha alzato le braccia per stirare i muscoli «ma non credo che te lo dirò mai»

Si è alzato non appena mi è arrivata una tazza di latte fumante sotto il naso. «Buona giornata, Ariel». Per tutto il resto della giornata non ho avuto modo di incontrarlo, ma nella mia mente ha risuonato quel saluto carico di rimorso, come se si fosse pentito di qualcosa.

Così, finita la frenesia della preparazione del pranzo di Natale, ho deciso di cercarlo per parlargli.

Avevo perlustrato tutta la Struttura del Centro, ma sembrava si fosse dileguato nel nulla. Poi, quando sembrava che tutti se ne fossero andati, sono uscita nel cortile. Il sole del primo pomeriggio era una benedizione, almeno l'avrei potuto cercare fuori e non morire congelata.

Ho dovuto fare solo pochi passi, perché l'ho trovato subito. Era lì, sotto gli alberi di pepe rosa, seduto nella panchina, con il cappuccio della felpa nera sugli occhi, le mani dentro le tasche e la testa china in avanti. Il suo respiro era regolare, di chi dorme come un sasso.

Giunta a un passo da lui, mi sono chinata in avanti per scorgere gli occhi; lui, con un verso nasale, ha reclinato la testa all'indietro, mostrando gli occhi chiusi. Ho riso e sono rimasta lì, incauta, ad osservarlo. L'ho guardato da vicino, come chi cerca l'imperfezione in una perla: le palpebre serrate celavano i due zaffiri precedentemente capaci di incatenare le anime di chissà quante mie coetanee.

Mi tremavano le mani diventate secche per il freddo e non capivo come mai Caleb fosse riuscito ad addormentarsi proprio lì. Eppure anche io avevo una felpa sopra due maglie di caldo cotone, dei leggings felpati con tanto di collant dentro gli stivali, ma, a quanto sembrava, il freddo non lo scalfiva più di tanto. Ho pensato che, forse, era ancora abituato al gelo visto quanto aveva vissuto e mi sono detta che, probabilmente, era per quello che riusciva a dormire lì fuori. Mentre facevo queste considerazioni, ho continuato a studiarlo da vicino.

Le sue sopracciglia scure percorrevano una linea perfetta, portando lo sguardo inevitabilmente verso i bulbi cerulei. Il naso sembrava scolpito, perfettamente proporzionato in quel viso dalle linee decise. Le labbra carnose e schiuse sembravano chiamare la mia mano. La presa di coscienza di quel desiderio mi ha ingabbiato il respiro, facendomi rimanere in apnea. Eppure, aveva gli occhi chiusi, non poteva avere alcun potere.

Poi, un soffio di vento è riuscito a portare una foglia secca su quel viso che i miei occhi stavano analizzando con una certa insistenza. Ho allungato la destra per levargliela via, ma lui è stato più veloce di me. La mia mano è stata bloccata dalla sua, mentre aveva ancora gli occhi chiusi.

«Quando sei un Lucifer, non puoi dormire. Puoi far solo riposare gli occhi. E, a volte, nemmeno quello». Nel momento in cui i suoi occhi si sono aperti, ho pregato che il mio cuore ricominciasse a battere regolarmente e, infatti, ha ripreso non appena ho scorto un mezzo sorriso compiaciuto su quelle labbra.

«Ti ho spaventata?» la mia mano era ancora nella sua e, in un moto del tutto naturale, ha portato il dorso della mia sulle labbra. «Sei gelata»

Sicuramente sono arrossita, perché il calore che ho sentito percorrermi le vene non aveva nulla di normale, tant'è che, dopo aver tolto la mano dalla sua, mi sono seduta, temporeggiando e sfregando le mani. «No, assolutamente!» ho detto tutto d'un fiato, guardandomi le ginocchia.

I suoi occhi aperti li sentivo su di me come dei fari pronti ad illuminare i miei pensieri. «Sai, se non sapessi che ami Joshua, penserei che, se non mi fossi svegliato, avresti potuto baciarmi» ha riso.

«E chi ti ha detto che amo Joshua?» l'ho affrontato con occhi torvi, come se mi avesse appena estratto un pugnale dal cuore.

«Beh, a quanto pare ti stai preoccupando di chiarire i tuoi sentimenti invece di negare il fatto che avresti voluto baciarmi» il suo viso era raggiante, speranzoso e quel ghigno della sala mensa era ricomparso saccente.

«Beh, volevo capire come facessi a dormire qua fuori. A quanto pare, stai benone, quindi posso andare». Mi ero alzata, ma con un leggero scatto in avanti, Caleb è riuscito a cingermi i fianchi e a farmi sedere sulle sue gambe.

«Non puoi andare via così...» La mia mente si è annebbiata. Caleb non si era mai comportato in quel modo e io non sapevo come affrontarlo. La sua presa non era decisa, perciò avrei potuto alzarmi il qualsiasi momento. Tuttavia c'era qualcosa di estremamente naturale nello stare lì, così vicina a lui.

Poi, il tuo ricordo è tornato prepotente.

Mi sono girata verso di lui, seria. «Cos'hai in mente?» Quel contatto era insopportabile. E sai perché? Perché avrei voluto essere libera di provare qualcosa, qualsiasi cosa. E, invece, a quelle palpitazioni accelerate, a quegli occhi che mi fissavano bramosi, a quella curva nel viso, avrei voluto dare di più di una semplice compagnia.

«Cos'ho in mente? Non si capisce abbastanza?» lo sguardo attento al mio viso, alle mie labbra. Ho abbassato gli occhi, per evitare di cedere.

Sì, Joshua. Stavo cedendo. In quel momento ho capito quale sia la mia debolezza: ho un debole per i sorrisi di quei ragazzi che mi mostrano una pur minima attenzione; per quelli che mi considerano importante; per quelli che ci sono sempre per me. E tu eri tutto questo, elevato all'ennesima potenza. Ma non è colpa tua, in fondo. E' tutta colpa di mio padre... E' Lui che non mi ha mai dato nulla di tutto questo, portandomi a cercarlo in altre persone.

Ero lì con Caleb, con lo sguardo nel vuoto e lui ha continuato, stringendomi a sé, appoggiando la fronte nel mio braccio. «Ho in mente te, Ariel. Sempre. Costantemente...» ha confessato e io, come risvegliata da un sonno apparente, ho capito di non meritare il suo affetto. La sua dolcezza mi ha uccisa, come lo fa ogni giorno. Ho deglutito pronta ad affrontare gli effetti della verità che gli dovevo dire. Lui ha alzato il capo verso di me, gli occhi languidi e...colpevoli.

Il mio cuore spezzato in due.

Gli ho fatto una carezza. «Non è giusto...» gli ho detto, con voce rotta.

«Lo so, Ariel. So che non è quello che vuoi...»

«Caleb, io...»

«Un giorno, qualcuno mi ha detto: "Il giorno che imparerai ad amare, sarai veramente libero". E io è così che mi sento, Ariel. Mi sento libero di amarti, pur sapendo che la tua mente e il tuo cuore non mi appartengono...»

Io non so come abbia fatto a lenire delle ferite profonde solo con quelle parole. Non ho pensato più a nulla, un calore nel petto, le mie mani a carezzargli il viso, le mie labbra premute sulle sue come un sigillo: l'unico regalo che ho potuto fargli dopo tutto quello che lui ha fatto per me.

L'ho stretto forte, mi sono nascosta nella sua spalla. «Perdonami...» ho solo avuto il coraggio di dirgli.

«E io dovrei perdonarti il mio regalo di Natale? Era l'unica cosa che avrei voluto e che non ti avrei mai detto di darmi»

L'ho guardato sorridendo, poi, inaspettatamente, il primo di una serie di fiocchi di neve ci fece alzare lo sguardo al Cielo. E io non ho pensato a te, Joshua. Per la prima volta.




 

Mettimi come un sigillo sul tuo cuore,

come un sigillo sul tuo braccio;

perché l'amore è forte come la morte,

la gelosia è dura come il soggiorno de' morti.

- Cantico dei Cantici 8,6 -

 

 

 

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Capitolo 45
*** EPILOGO ***


"In verità, in verità vi dico che chi crede in me 

farà anch'egli le opere che faccio io;

 e ne farà di maggiori"

- Gesù Cristo

***

Dopo quella notte, tutta Filadelfia era stata inondata da un nuovo fuoco di fede che ardeva in ogni componente di quella pacifica comunità. Grazie al coraggio della giovane Ariel si erano scoperto il punto debole dei Lucifer, primo fra tutti il nome di Gesù Cristo che, se pronunciato con fede e desiderio di salvezza, poteva mettere in ginocchio qualsiasi demone; questo particolare era stato confermato anche da Caleb, un pomeriggio, alla presenza di Simon e Nathan.

«Sì, è stato quando mi hanno condotto nella sala dei sacrifici che ho creduto nel Suo Nome...» Caleb era seduto nella poltroncina di pelle scura di fronte alla scrivania dello studio di Simon e scrocchiava le dita convulsamente. Lo sguardo di Nathan incontrò quello di Simon, seduto di fronte al ragazzo con il mento poggiato sulle mani intrecciate. «Figliolo...» iniziò il Padre «Non devi dirmi tutto adesso, questo lo sai, vero?» mentre cercava i suoi occhi. Quello alzò il capo in uno scatto, con occhi sbarrati e mento tremulo. «No! Io voglio. Io devo farlo!» si pose una mano sul petto e strinse il colletto della felpa tra le dita, come chi ha bisogno di respirare. «Ho bisogno di dire tutta la verità sul loro mondo; su quello che mi hanno fatto e su quello che hanno intenzione di fare!»

Nathan poggiò una mano sulla spalla di Simon e si piegò verso il ragazzo con un palmo sulla superficie legnosa; osservò il volto di quel ragazzo che pareva di star vivendo nuovamente e, di fronte ai suoi occhi, tutte le azioni immonde del passato. «Caleb,» pronunciò il ministro «vedo nel tuo sguardo la paura di una nuova ignota esperienza. Sarebbe meglio che andassi a riposare. Ci penseremo tra qualche giorno alle tue rivelazioni. Non temere.»

Simon storse le labbra a quella considerazione e lo osservò dal basso, poi la risposta di Caleb giunse repentina: «Con tutto il rispetto, Nathan...» sospirò, chiudendo gli occhi, quasi a voler reprimere una vecchia natura che avrebbe risposto malamente. «Io ricordo una parola, ascoltata in questo luogo, quando avevo circa dieci anni, e pronunciata da colui che ti sta alla destra.» Un mezzo sorriso sornione: «"Arriva il momento in cui l'anima va incontro alla verità e quando questo accade le tenebre devono scappare via da lei". E io voglio essere lo spavento delle tenebre.» concluse battendo il palmo sulla scrivania.

Simon rise come non aveva fatto da tempo, tanto che dovette portare il pugno chiuso alle labbra mentre Nathan si raddrizzava con occhi sbarrati. «La Parola è vivente, Nathan. Di cosa ti meravigli?» continuò a ridere tanto che dovette asciugarsi una lacrima con l'indice destro. «E' lui, Nathan. E' il nostro Caleb dalla risposta pronta...» ispirò tornando malinconico. «Alla fine...» gli occhi vacui «Joshua ti ha salvato sul serio.»

A quel ricordo, il padre avvertì la gola stretta a un nodo, ma sorrise ugualmente, volgendo gli occhi al cielo azzurro alla sua destra visibile dall'ampia finestra del suo studio.

***

«Amati fratelli» Simon era giunto sul pulpito della Cappella del Centro, sotto la grande Croce, per la predicazione della domenica. Il sole ancora alto del pomeriggio, si incanalava nelle vetrate dai colori accesi e dalle forme caleidoscopiche. «E' un periodo di festa per diversi motivi» il sorriso ampio, la luce nel volto disteso dopo molte lotte. «Non solo per il ritrovamento di un figlio che ci era stato portato via» i suoi occhi andarono al giovane Caleb, che in quel momento sedeva al primo posto accanto ad Ariel che stringeva ancora tra le mani il biglietto datole da Simon al cui interno c'era la foto del piccolo Caleb, sorridente verso la fotocamera, con in mano una boccetta contenente un liquido dorato, la stessa che aveva visto della stanza di Joshua, contenente l'essenza di bergamotto.

Era incredibile quanto quegli occhi vispi e furbi fossero ancora lì, nel volto di un ragazzo che ha visto tante - troppe - sofferenze. Pensò a Simon e a cosa avesse voluto dire, per lui, incontrarli, identici, nel volto di un suo nemico. Dopo tutto, Simon era il Mandato, il Capo di Filadelfia, capace di scoprire verità abilmente celate dal passato costruito come una fortezza di menzogne. Ecco perché le aveva dato quel biglietto: lui aveva capito tutto.

«Abbiamo anche modo di celebrare la nuova nascita di una giovane mossa dal coraggio di un leone...» gli occhi nocciola di Simon incontrarono quelli di Ariel. «E, come vi ho detto altre volte, quand'è che Gesù Cristo viene definito come Leone della Tribù di Giuda?» una pausa per scrutare i volti dei presenti. «Nell'Apocalisse, nella Rivelazione.» sottolineò «Quando il nostro fratello, l'apostolo Giovanni, era nell'isola di Patmos, in esilio, sotto persecuzione. Egli vide Nostro Signore con il volto di un agnello e con il volto di un leone: agnello di fronte al padre, leone contro i demoni.»

A quella scoperta, Ariel sentì un pungolo al cuore, un senso di colpa: non si sentiva per nulla in grado di essere paragonata a Colui che l'aveva salvata. Poi, lo sguardo di Simon mutò, e la voce tremò: «Fratelli, conosco i pensieri di alcuni di voi...»si rivolse a Lucia, Heliu e Gilbert, seduti nella stessa panca di Ariel e Caleb. «Ma io, in questo momento, non posso celebrare la dipartita di qualcuno che sento ancora vivo...»

Nel volto di Caleb ci fu un guizzo di angoscia, mentre la vista di Ariel si annebbiava, lasciando scivolare via fiumi di lacrime silenziose.

Sicuramente la decisione di Simon era dovuta alla disperata speranza che ci fosse qualche possibilità di scoprire che Joshua fosse vivo. In quel momento, Ariel sentì un calore di devozione all'altezza del petto: nonostante fosse il Mandato, nonostante fosse Padre, era uomo, era carne e la vita di ogni anima a Filadelfia era legata alla sua.

***

Passarono i mesi e quella comunità di anime raccolte attorno a quel padre così fragile, ma di una forza simile al granito, attraversò una nuova primavera.

Il calore dei raggi del sole di aprile, accarezzarono nuovamente la pelle nuda delle braccia di Ariel che, come ogni giorno, aiutava i bambini con i compiti presso una stanza adibita al pian terreno accanto alla mensa.

L'ampia finestra si affacciava dalla parte della Struttura in cui si poteva vedere il mare confondersi con il cielo e il desiderio dell'estate si fece prepotente in lei che non aveva avuto modo di goderne l'anno prima.

Era con i gomiti su quel tavolino di faggio, protesa verso l'esercizio del bambino che aveva di fronte, quando dei tocchi alla porta le fecero alzare il capo. «Caleb!» esultò il bambino dai riccioli biondi. Nell'incontro con il viso del giovane, Ariel avvertì come se delle farfalle danzassero leggere nel suo stomaco. «Si può?» le chiese in un sorriso. «Certo, penso proprio che possiamo fare una pausa.» scompigliò i capelli del biondino. Caleb, impiegò un paio di passi per raggiungere il tavolo; si piegò sulle ginocchia per osservare il quaderno del piccolo e chiese «Cosa state studiando?» muovendo una mano aperta davanti al volto di Ariel che sembrava immersa in mille pensieri da quando aveva varcato la soglia della stanza.

«Ehm, sì!» batté le palpebre un paio di volte. «Studiamo grammatica!» Caleb storse il naso verso il bambino con le labbra protese in una smorfia. «Che noia!» esclamò. «Hai proprio ragione!» lo assecondò il bambino che, forte della presenza di Caleb chiese: «Zia Ariel, posso andare con lui a giocare?» giunse le mani in segno di preghiera «Ti prego!»

Lei rise e poi con il fare autorevole di una maestra aggiunse: «Ti concedo solo qualche minuto!»

I due si guardarono soddisfatti e dopo essersi dati il "cinque" con le mani, Caleb lasciò uscire il bambino e alzatosi per mostrare la schiena alla giovane le chiese: «Tu non vieni con noi?»

«Si, vi raggiungo appena finisco di sistemare.»

«Ma andiamo!» la prese dalle braccia e la tirò a sé per poi portare un braccio sotto le ginocchia e portarla fuori di peso. «Sì!» urlò il piccolo.

«Caleb, mettimi giù!»

«Penso proprio che non sia possibile, cara mia.»

Lei storse il muso e inarcò un sopracciglio. Anche se il loro amore era sbocciato tra tante difficoltà, a volte, conservava alcuni atteggiamenti che aveva già visto in Acab. «E perché no?»

Gli occhi blu di Caleb diventarono lucidi di colpo e Ariel poté vedere chiaramente delle lacrime riempire le iridi. «Caleb?» lui si fermò alla porta che conduceva al cortile, mentre lei non smetteva di guardarlo con apprensione.

«Ho desiderato tanto, in quei momenti, tornare indietro e fare quello che sto facendo adesso...» tirò su col naso.

Caleb continuò a camminare e, nello sgomento di Ariel, lui la invitò a guardare verso il cancello grigio.

Lei lo fece e un fuoco sembrò bruciarle lo stomaco, inondandola di un'emozione che le faceva tremare gli arti.

«No...» pronunciò.

«Ora sono io a dirti: va' da lui.» le sorrise, lasciandola scivolare via per farla correre incontro a quella figura.

Era circondato da una calca di persone, ma tra il tremore degli arti e gli occhi annebbiati, riuscì comunque a farsi spazio tra la folla esultante.

Il cappotto di jeans era sempre quello, così come le sneakers bianche. Ci impiegò qualche secondo prima di realizzare che quel ragazzo sorridente e dagli occhi verdi fosse proprio lì, davanti a lei.

«Gesù...» portò entrambe le mani alle labbra, mentre le spalle tremavano vistosamente.

«Sì, in teoria il mio nome significa "Gesù".» 

L'abbraccio fu inevitabile, così come lo fu quello tra Joshua e Caleb.

 

 

Alla fine, dopo il miracolo del ritorno di Joshua, i membri della Chiesa di Filadelfia capirono - soprattutto Ariel - che non era tanto l'aver creduto che Joshua, o Simon, fossero la reincarnazione di Gesù Cristo, ma che Lui agisse e si incarnasse nello stesso modo in cui aveva fatto duemila anni prima in tutti coloro che credono nel Suo Nome.

Simon era stato il Cristo di Joshua;

Joshua, il Cristo di Ariel;

Ariel, il Cristo di Acab.

"Ricordati Simon il significato del nome di Gesù Cristo. 'Gesù' in ebraico 'Yehoshua' , e 'Cristo' in greco 'Unto' e 'Mandato'. A sua volta, 'Yehoshua' significa 'Yahweh che salva', ovvero 'Dio che salva'.

Dunque, nel nome di Gesù Cristo c'è questo messaggio:

'Dio salva mediante il suo mandato'.

È questo figlio mio il nome di Gesù Cristo. È questo il suo significato, ed è questa la nostra missione."

 

 

 

FINE

 

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Capitolo 46
*** UN PASSO INDETRO: ARIEL E CALEB ***


...Un mese prima del suo ritorno

 

Il sole che cala placidamente dietro le colline di Filadelfia, dipinge il cielo di colori pastello che vanno dall'arancione al rosa e dall'azzurro al blu. Osservo questo spettacolo della creazione, inspirando a pieni polmoni l'aria che grazie al cielo inizia a rinfrescarsi, placando la strana calura di questo fine marzo.

A Filadelfia è così: gli inverni sono miti, ma quando sta per arrivare la primavera, possono capitare giornate così calde. Per questo mi trovo qui con una maglia a maniche corte di cotone dentro dei pantaloncini di jeans con ai piedi delle sneakers bianche.

Sono affacciata all'ampia finestra del corridoio dell'infermeria con i gomiti poggiati sul davanzale, alla ricerca di Caleb, come mi capita di fare da un po' di tempo ormai.

Nell'ultimo anno sono successe cose così straordinarie da lasciarmi avvolta in sensazioni contrastanti. Tutto quello che mi ha portata fin qui sembra un brutto sogno e la mia vita sembra essere talmente diversa da quella giovane ingenua che frequentava il primo anno di Università, che a volte stento a riconoscermi. Adesso niente e nessuno può mettermi alcun dubbio sulla mia fede, adesso che ho scelto la mia strada che combacia con la Sua.

C'è solo una cosa da sistemare: il mio cuore. Quel muscolo fratturato dalla mancanza di qualcosa e di qualcuno...

Inspiro gonfiando la cassa toracica per riempirmi di qualcosa di inconsistente come il sentimento che agita i miei pensieri.

Dopo che Acab mi aveva confidato di non aver mai provato a manipolarmi dopo la festa al Dark Lithium, stare vicino a Caleb era diventato un combattimento giornaliero.

Non riuscivo a stargli vicino, ma lo osservavo, da lontano, ora giocare con i bambini, ora parlare e testimoniare della sua esperienza a giovani appena arrivati al Centro.

Sì, era soprattutto in quei momenti che mi sentivo incredibilmente sbagliata. Lo osservavo passarsi una mano tra i capelli neri e sorridere per poi ridere di gusto. Immaginavo si fosse pian piano dimenticato di quel che aveva provato per me. Così, quando capitava di doverci incontrare per qualche motivo - anche perché viviamo sotto lo stesso tetto - diventavo come una lastra di ghiaccio, con un muscolo involontario che bussava contro una porta chiusa a chiave.

Sospiro ancora al vento, quando sento dei passi alle mie spalle mi volto di scatto e mi raddrizzo prontamente. Il respiro irregolare davanti alla sua figura.

«Perdonami, non volevo spaventarti.»

«Non preoccuparti, non è niente. Immersa nei pensieri non ti avevo sentito arrivare.» ispiro involontariamente quel suo profumo agrodolce mentre mi sorride placido, pizzicandomi una guancia con fare fraterno.

«Ti cercavo. » mi dice, poggiando i palmi sul davanzale e quando si sporge, sento l'ansia attraversarmi gli arti come scariche elettriche. Quindi gli stringo il braccio con una mano, chiudendo gli occhi e solo quando avverto i suoi passi allontanarsi, posso nuovamente riprendere a respirare aprendo gli occhi.

Tiro un lungo sospiro, cancellando la sua immagine in piedi su quel davanzale.

«Perché mi cercavi?» incrocio le braccia al petto socchiudendo gli occhi. Lui mette le mani dentro le tasche dei bermuda di jeans e dopo aver guardato il pavimento sfugge al mio sguardo indagatore e poi soffia aria dalla bocca:«Perché sono stanco.» adesso sono i suoi occhi a scrutare i miei, trafiggendomi con la sua voce grave.

Deglutisco saliva e gli volto le spalle. Pessima mossa, Ariel... mi dico, stringendo le palpebre in una smorfia di disapprovazione a me stessa. Quindi mi rigiro verso di lui che ha nascosto le labbra in una linea sottile. Così, dopo un po' di esitazione: «Perché sei stanco?» chiedo.

«Del tuo comportamento.»

Devo avere un'espressione davvero insolita in questo momento, perché lui mi si avvicina con le braccia strette al petto serrando la mascella. «Non credo di aver fatto nulla...» sto per continuare ma la sua vicinanza mi destabilizza a tal punto che devo portare le mani in avanti per spingerlo leggermente indietro e sgattaiolare nella parete opposta.

Lui si gratta la nuca per poi passare la mano a scompigliarsi i capelli esasperato quando l'altra è ancora sul fianco. «Vedi, Ariel,» inizia «è proprio questo il problema.» le mani giunte sulle labbra. «Non fai nulla, sai solo scappare.» poi si porta tre dita a massaggiare la tempia in una smorfia di dolore e, non so perché, quel gesto mi inquieta e, a quanto pare, stranisce pure lui.

Mi volta le spalle, sbuffando aria dalla bocca; si avvicina alla finestra e le sue mani stringono il telaio inferiore. Faccio qualche passo verso di lui e noto la sua tensione negli arti tesi, mentre le mani mostrano le nocche bianche.

«Tu lo amavi, non è così?» mi guarda come se volesse cavarmi subito una risposta, ma io non so di chi stia parlando. Quindi inarco le sopracciglia e mi poggio con la spalla sinistra al muro adiacente a braccia conserte. «A chi ti stai riferendo?» gli domando quando lui alza il viso per rivolgermi il muso duro.

Se dovessi giurarlo, lo farei: in questo momento pare proprio il volto corrucciato di Acab.

In fondo, Acab è stato il suo involucro per gran parte della sua vita. A suo dire, nei ricordi che da qualche tempo sono vividi e chiari, avevano abusato di lui in modi così indicibili che gli risulta difficile anche dormire la notte. Quando vede una ferita, preferisce allontanarsi.

Non ha più i capelli lunghi, ma corti alla nuca in un taglio ordinato e ben definito: vuole essere Caleb, a tutti i costi. Ora odia il nero e i luoghi bui, si sveglia all'alba e cammina lungo il cortile del Centro, solitario. Spesso, l'ho visto parlare da solo, o -sarebbe meglio dire- pregare, perché è a Gesù Cristo che si rivolge.

Travolta dai pensieri, non mi accorgo di non aver ancora risposto.

«Come mai dici questo?» chiedo nuovamente e lui sembra non voler più parlare.

Mi avvicino ancora per poi poggiare gomiti sul telaio con gli occhi verso il cortile interno, accanto a lui. Poi, avverto il suo sguardo su di me e il respiro pesante.

«Perché non ti capisco, Ariel.» mi prende per il braccio, delicatamente, ma vuole che mi volti e lo assecondo. Lo fisso, le braccia conserte a preservare qualcosa che lui non possa vedere «Pensi che non mi sia accorto di come segui i miei passi, di come da lontano mi scruti, cercando di studiare i miei movimenti?» il suo tono è duro e tagliente.

E ha ragione. Ne ha da vendere. Da quando abbiamo scoperto quello che gli hanno fatto, ho sempre temuto che tutto quello che era successo-compresa la rivelazione della sua vera natura-non fosse altro che un modo di nascondere le reali intenzioni dei Lucifer. Quindi mi ritrovavo spesso a pensare che le sensazioni che provavo in sua presenza fossero ancora frutto di una sorta di manipolazione mentale.

Ma non era così. Lui non era più Acab; era Caleb, un ragazzo dai modi gentili con tutti, a volte estremamente dolce, tanto da ricordarmi, per certi versi, i tratti caratteriali di Joshua...

Come quel pomeriggio che, mentre mi trovavo a raccogliere i giochi dei bambini nella sala ludica, mi si era avvicinato per aiutarmi, intuendo, solo dal mio pallore, la mia condizione fisica naturale; per non parlare di quando, per rincorrere un bambino che era uscito fuori dalla mensa, durante una giornata di pioggia, mi aveva raggiunta e, superandomi, l'aveva preso di peso e portato dentro. Quello che non mi sarei mai aspettata era che, una volta fatto entrare il bambino, aveva atteso sull'uscio mentre mi avvicinavo alla porta tutta zuppa d'acqua e levandosi la felpa, me l'aveva messa addosso, rimanendo in canottiera.

Ecco perché lo pensa... considero.

«A volte penso che tu stia cercando di capire se puoi innamorarti di me dato che non hai potuto farlo con Joshua.» raddrizza le spalle e cerca i miei occhi. Tuttavia a quell'affermazione avverto l'orgoglio bruciarmi lo sterno.

«Ti sbagli.» gli dico convinta. «Non amo nessuno.» e la lieve flessione nella mia voce tradisce il mio intento.

«Davvero?» nel chiedermelo si avvicina di qualche passo e io inizio a indietreggiare con un martello pneumatico al posto del cuore.

«Queste sono solo delle tue deduzioni.»

Gli volto le spalle e me ne vado con un nodo in gola.

«Adesso perché scappi?» mi urla «Ariel!»

Ormai sto salendo le scale verso la mia stanza e purtroppo lui è abbastanza veloce per raggiungermi. Allora mi fermo sull'ultimo gradino e mi volto, stringendo la mano alla ringhiera. «Vuoi la verità?»

Lui non mostra esitazione. «Sì.»

Si ferma e, ansante, si regge dal corrimano.

«Forse sì, mi piaceva.» incrocio le braccia al petto, ingoio il nodo aggrovigliato in gola e continuo. «Ma tu...» l'indice contro la sua spalla «Tu mi stai facendo qualcosa. Tu hai ancora qualche potere manipolatore.»

Il suo sguardo si fa scuro di rabbia, le sopracciglia aggrottate quasi diventano un'unica linea ostile e, a questo punto, penso di aver osato troppo nel dire quello che penso.

«Quindi tu provi qualcosa per me ed è così che lo spieghi?»

Rabbrividisco.

«Io sono Caleb:» la mano sul petto «quello che ti ha lasciata andare non appena è uscito dal Lithium insieme al padre; quello che al Dark Lithium ti stringeva a sé senza lasciare che i demoni sortissero alcun effetto sulle tue sensazioni; sono quello che per far sì che mio padre non scoprisse che ti avevo liberata, ha iniziato a baciarti dentro la cella, anche se tu non volevi; sono quello che ha ucciso...» non lo lascio finire.

Gli prendo il viso tra le mani per posare le mie labbra alle sue, riconoscendo che, in ogni episodio, era il mio cuore che batteva, ogni volta, come lo sta facendo adesso. 

 

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