L'estate delle cicale

di storiedellasera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si nasconde nell'erba alta ***
Capitolo 2: *** Un giorno di festa ***
Capitolo 3: *** Evelyn ha un piano ***
Capitolo 4: *** L'impronta del male ***
Capitolo 5: *** Nulla di strano ***
Capitolo 6: *** Ascensori Otis, i migliori del mondo ***
Capitolo 7: *** Buckley ***
Capitolo 8: *** Alan Reese ***
Capitolo 9: *** Due proiettili sono più che sufficienti ***
Capitolo 10: *** Autunno ***



Capitolo 1
*** Si nasconde nell'erba alta ***


L'estate delle cicale

♦ Si nasconde nell'erba alta ♦

 





L’orrore ebbe inizio in un giorno qualunque dell’estate del ’68, ribattezzata da molte persone come la più calda degli ultimi cento anni.
Ma per il piccolo Tom Williams quella fu l’estate delle cicale.
Il motivo che spinse il giovane a creare un simile nomignolo era molto semplice: un impressionante numero di rumorosi insetti aveva invaso Louistown, in Arkansas, dove Tom era nato e cresciuto.
L’incessante, acuto frinire riempiva le roventi giornate. E di notte, anche se può sembrare assurdo, quel canto si faceva addirittura più forte.
“E’ innaturale” mormoravo gli abitanti di Louistown, di tanto in tanto costretti ad alzare la voce, durante le loro conversazioni, pur sovrastare il verso degli insetti.
< Ma come poteva essere innaturale? > Si chiedeva Tom. < Del resto… erano solo cicale. >


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“Sto uscendo!” Gridò allegramente Tom mentre spalancava la porta di casa.
Non attese alcuna risposta da parte dei suoi genitori. Temeva che sua madre, o suo padre, lo richiamassero per sbrigare delle noiose faccende domestiche. Faccende che avrebbero sottratto tempo prezioso agli svaghi di Tom. Non aveva alcuna voglia di riordinare la propria stanza o sparecchiare il tavolo dopo aver fatto merenda con un paio di sandwich.
Quel giorno erano stati preparati senza crosta, con burro d’arachidi e marmellata di lamponi.
Tom li adorava.
Superò il portico di legno e sorvolò i quattro gradini dell’ingresso con un sol balzo.
La luce e il calore del sole lo aggredirono all’instante. Tom ebbe l’impressione di non esser atterrato sul vialetto di casa sua... bensì sulla superficie di Mercurio. Per un paio di secondi gli mancò persino il respiro.
Alzò una mano sulla sua fronte mentre i suoi occhi si abituavano a tutto quel bagliore. In poco tempo riuscì a mettere a fuoco l’intera fattoria di famiglia che sorgeva di fronte a se.
I campi di granturco si estendevano fino all’orizzonte, seguendo le morbide e ondulate forme delle colline. In lontananza si intravedeva un vecchio mulino a vento imbrunito dalla ruggine.
Ovviamente, il frinire delle cicale era assordante.

Tom imboccò un sentiero di terra battuta che tagliava in due la piantagione di granturco.
Era un ragazzino di tredici anni, forse troppo mingherlino per uno della sua età. Le sue braccia e le sue gambette esili davano l’idea di essere ramoscelli secchi e delicati.
Aveva capelli a caschetto color del grano, e i suoi occhi… i suoi grandi ed espressivi occhi …possedevano una particolare e brillante sfumatura celeste.
Una spolverata di lentiggini decorava il suo minuscolo naso e i suoi zigomi appena accennati. Sua madre gli diceva sempre che ogni volta che si metteva a piangere, o che faceva i capricci, una nuova lentiggine spuntava sul suo volto.
Ma il piccolo Tom aveva smesso di credere a quella storiella fin da quando aveva undici anni.

Quel giorno d’estate, il ragazzino vestiva una semplice maglietta bianca e una salopette di jeans.
Mentre oltrepassava la piantagione, allungò una mano verso le piante di granturco. Accarezzava le ruvide foglie: adorava la sensazione che avvertiva sulle dita e il fruscio che provocava.
“Hey, ragazzino!” Un cupo e rauco sussurro si levò tra quelle piante.
Tom ritrasse immediatamente la mano come se, improvvisamente, si fosse accorto di averla infilata in una tana di scorpioni.
Si era fermato... o forse era meglio dire che si era paralizzato dalla paura. E mentre il suo corpo veniva scosso da tremori incontrollabili, Tom si mise a fissare intensamente il granturco di fronte a lui. Era sicuro di non esser solo. Molto probabilmente c’era qualcuno nascosto tra le piante.
Il ragazzino pensò che doveva trattarsi di un malintenzionato, poiché la voce che lo aveva chiamato era così spaventosa che poteva appartenere solo a un uomo crudele… o almeno queste erano le considerazioni di Tom.
Si sentì osservato. Mai aveva sperimentato quella sgradevole sensazione: fu come esser privato degli abiti e della pelle. Su di lui avvertiva occhi famelici e percepiva un intento malvagio.
Guardò la sua casa e gli parve lontanissima. E la piantagione sembrava essersi fatta più fitta e buia.
“E’ solo la mia immaginazione” riuscì a dire con un filo di voce.
Magari aveva ragione. Ma la sua fervida immaginazione di bambino lo stava inabissando in un oceano di terrori sempre più assurdi e fantastici.
In mezzo a tutte quelle piante potevano trovarsi una moltitudine di mostri. Mostri così osceni da non avere un nome. Mostri che sfuggono alla ragione umana. Mostri che danno la caccia ai bambini.
“E’ solo la mia immaginazione” ripeté Tom Williams ad alta voce.
Cercò di dominare le sue paure.
“E’ solo la mia immaginazione” guardò con occhi di sfida il granturco di fronte a lui.
Nessuna voce osò rispondergli. Nessun mostro uscì allo scoperto.
Tom si sentì fiero di lui. Ma il suono di un rametto spezzato nella piantagione fece crollare il suo ardore appena ritrovato.
Quel suono ebbe sul ragazzino lo stesso effetto di una sferzata sulla schiena di un cavallo: iniziò a correre sul sentiero di terra battuta. Si allontanò dalla sua casa e dal luogo in cui aveva udito, o presunto di aver udito, l’orribile sussurro.
Corse così forte che ebbe l’impressione di volare. Continuò a correre anche dopo aver superato l’intera fattoria di famiglia.

 

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“Certo che ti sei immaginato ogni cosa” disse Wyatt, con fare annoiato, dopo aver ascoltato la terrificante storia di Tom. Quest’ultimo si stava ancora riprendendo dalla sua folle fuga, bevendo tutto d’un fiato una bottiglietta d’acqua ghiacciata.
Wyatt Sinclair era il miglior amico di Tom. I suoi capelli, neri come la notte, arrivavano fino alle sue orecchie. I suoi occhi erano di un intenso e meraviglioso blu.
Era decisamente più basso di Tom, nonostante i due fossero coetanei, ma poteva vantare delle solide spalle e forti braccia.

I due sedevano sul fianco di una morbida collinetta arsa dal sole.
Di fronte a loro si trovava un rudimentale campo da baseball, creato con semplici cumuli di terra per simulare le basi e la pedana del lanciatore. Quel giorno, un gruppo di ragazzini di Louistown, divisi in due squadre, avevano organizzato una partita tra di loro. Tom e Wyatt erano dei semplici spettatori.
Il campo da gioco sorgeva vicino alla tenuta abbandonata del vecchio Lewis Price.
Era un burbero signore, morto un paio d’anni fa per un tumore ai polmoni. Il signor Price non aveva una famiglia o degli amici. L’unica sua compagna era la pipa che tanto adorava. Ironico pensare che proprio quella pipa lo aveva portato nella tomba.
Dopo la sua morte, nessuno a Louistown voleva rivelare la sua proprietà.
Si diceva infatti che il terreno era avvelenato da alcune acque che scorrevano proprio lì nei paraggi.
Tom, e tutti gli altri ragazzini cresciuti in quella città, conoscevano bene quei corsi d’acqua: erano dei lenti fiumiciattoli paludosi e maleodoranti, pieni di alghe, rane, libellule, salamandre e… ovviamente …cicale.
Dal campo da baseball si poteva scorgere la casa diroccata del defunto Price: una modesta villetta di legno marcio, circondata da un vasto terreno ricoperto da erba rigogliosa. Era altissima, più alta di un uomo adulto.
Sembrava formare una giungla, una di quelle foreste inesplorate che si possono trovare in India o in altri posti simili.
Tom si mise a fissare quell’erba e per un solo, terrificante momento, si sentì di nuovo osservato. Una recinzione separava la collinetta da quella selva fatta di altissima erba... una misera recizione.
Wyatt diede una possente pacca sulla spalla del suo amico: “tu e la tua fervida immaginazione!” Commentò il ragazzo.
Quel semplice e spontaneo gesto scacciò via tutte le paure di Tom.
Tornò a rilassarsi e a guardare la partita che si stava svolgendo vicino a lui. Molti dei giocatori erano ragazzini che conosceva benissimo: c’era George ‘spillo’ MacMore, di origine irlandesi, con i suoi capelli dritti e rossi e il suo corpo incredibilmente alto ed esile. C’era Joe limpshire, un arrogante ragazzino dai capelli come oro liquido. Era un tipo logorroico che si autoproclamava il miglior giocatore di baseball di tutta l’Arkansas, erede del leggendario Hank Aaron degli Atlanta Braves. Inutile dire che Joe risultava antipatico a molti ragazzini.
C’era anche il grande e grosso Ron Davis, la cui faccia era invasa da così tanti brufoli da assomigliare a una pizza al salame piccante.

Durante il primo inning, Joe Limpshire eliminò con sfacciata facilità un ragazzino di nome Timothy Baker. Era il più basso tra tutti i presenti e portava degli enormi paia di occhiali dalla spessa montatura nera.
Joe iniziò a deriderlo nella speranza di farlo piangere. Timothy, come tutta risposta, gli mostrò il dito medio, scatenando le risate degli altri giocatori.
Arrivò poi il momento della partita che tutti aspettavano: alla battuta si presentò Evelyn Reese.

Si fece dare la mazza da baseball da Timothy e prese posto sul campo da gioco. Portò la mazza dietro le sue spalle e piegò le gambe. La sua posizione sgraziata rivelava tutta la sua inesperienza in quello sport.
I giocatori non potevano fare a meno di fissare, con accesa curiosità, quella creatura aliena che rispondeva al nome di Evelyn Reese.
< Come poteva una ragazzina interessarsi di un gioco da maschi? > Era la domanda che tutti si stavano facendo.
Evelyn, quel giorno, si era presentata al campo senza alcun invito, in sella alla sua bicicletta da femmina munita di un cestino rosa sul manubrio. Si avvicinò ai ragazzi e, come se nulla fosse, chiese loro di poter giocare. Era la prima volta che una ragazzina metteva piede in quel campo da baseball. Ovviamente fu scelta per ultima durante la formazione delle squadre.
E in quel momento, quella misteriosa creatura si preparava ad affrontare non un ragazzino qualunque… bensì lo spocchioso Joe Limpshire.
Per Tom, assistere a quella combinazioni di eventi fu come osservare i pianeti del sistema solare allinearsi alla perfezione.
Lui fissava estasiato Evelyn. Il desiderio di poter leggere i pensieri della ragazzina lo tormentava. Sentiva inoltre un nodo allo stomaco ogni volta che posava lo sguardo su di lei. Era da circa sei mesi che Tom avvertiva quell'incomprensibile sensazione. Ogni volta che vedeva Evelyn a scuola - i due frequentavano classi diverse - Tom non riusciva più a parlare o camminare, mentre la sua gola si inaridiva e la sua testa vorticava.
Quel giorno, sul campo da baseball, Evelyn indossava degli shorts bianchi, una maglia azzurra con una grande margherita ricamata sul petto e un berretto blu che racchiudeva al suo interno l’intera chioma castana della giovane. La visiera del cappello nascondeva gran parte del suo volto.
Tutti i ragazzi le urlavano frasi di incoraggiamento, non perché tifavano per lei… ma per il semplice motivo che volevano vedere Joe Limpshire battuto da una ragazza.
E Timothy Baker, furioso per esser stato eliminato, iniziò a prendersi la sua rivincita contro Joe: “sta attento…” gli urlava, ridacchiando “…se ti fai battere da una femmina è meglio che non ti fai più vedere in giro.”

Evelyn sembrava ignorare tutte quelle battute e schiamazzi. Fissava intensamente Joe. Serrò le labbra e corrugò leggermente le sopracciglia.
Quel suo sguardo così concentrato e determinato fece sussultare il cuore di Tom. Il ragazzino stava ancora cercando di comprendere cosa fosse quella strana e ricorrente emozione agitarsi dentro di lui, quando Joe Limpshire lanciò la palla. Evelyn roteò la mazza ma riuscì a solo fendere l’aria. Strike uno.
Il suo movimento fu così scomposto che inciampò sui suoi stessi piedi. Per sua fortuna non cadde ma barcollò, come se fosse ubriaca, scatenando le risate di tutti gli altri giocatori. Quei ragazzini avevano improvvisamente perso ogni speranza nei confronti di Evelyn e avevano iniziato a deriderla.
Poco dopo, Joe Limpshire effettuò il suo secondo lancio.
Il chiaro suono, come un possente schiocco, della palla da baseball che impattava contro la mazza agitata da Evelyn parve riecheggiare fino all’orizzonte.
Tutti i presenti rimasero a bocca aperta nel vedere Evelyn Reese deviare il dardo bianco e rotondo scagliato da Joe Limpshire.  
Un fuoricampo avrebbe coronato quel magico momento… ma la realtà era che la palla colpita da Evelyn sorvolò prima Joe e subito dopo iniziò a ruzzolare per terra.
Rotolò dritta verso il ricevitore, che in quell’occasione era Ron Davis.
Ma il grande e grosso faccia-da-pizza Ron, nell’accovacciarsi, si fece scappare la palla che proseguì la sua bizzarra corsa. Se Ron si fosse chinato un po’ di più, avrebbe corso il rischio di lacerare i calzoni. La palla continuò a rotolare sul campo.
I ragazzini, che tanto avevano deriso Evelyn, ora la stavano incitando con tutte le loro forze: “corri! Corri!” Le ripetevano.
Persino Wyatt era balzato in piedi e aveva iniziato a battere le mani.
Evelyn intanto stava correndo alla conquista delle basi. Era così eccitata che si era dimenticata di lasciar cadere la mazza. La stava portando con se e probabilmente, in quegli instanti così concitati, neanche avvertiva il suo peso.
Ron riuscì finalmente ad agguantare quella palla. La strinse nel suo guantone marcato Wilson che sua madre gli aveva comprato per Natale.
Evelyn però aveva già compiuto un giro completo di campo, conquistando tutte le basi. Probabilmente non avrebbe vinto la partita, o non avrebbe mai più colpito una palla in vita sua... ma in quel momento Evelyn fu acclamata da tutti come se fosse una campionessa.
Lei non riuscì a trattenere un sorriso e lo nascose abbassando lo sguardo e incassando la testa tra le spalle. Azzardò alzare la mani e fece il segno della vittoria. Sentì le sue guance divampare per l’imbarazzo.
I ragazzini però avevano già rivolto le loro attenzioni verso Joe Limpshire, il cui volto era diventato rosso per la rabbia.
Uno scroscio di risatine e battute al vetriolo stavano travolgendo il ragazzino dai capelli d’oro.
Timothy Baker era il più scatenato tra tutti i presenti. Quel piccolo quattrocchi incitava tutti i suoi amici ad infierire ancora contro Joe.

Il giovane Limpshire iniziò a prendersela con Ron Davis e con il suo goffo culone.
Sebbene Ron fosse due volte più grande e grosso di Joe, il suo scarso intelletto lo rendeva assai remissivo nei confronti del suo assalitore verbale.
Ma Joe non aveva ancora finito di sbraitare. Provava così tanta frustrazione e vergogna, alimentata da tutte quelle battutine orchestrate da Timothy-il-nanerottolo, che se la prese anche con Evelyn.
“Sei una troia!” Urlò Joe puntando il dito indice verso la ragazzina. E si sorprese nel sentire la sua voce così acuta e stridula. Stridula quasi quanto i versi delle cicale che non la smettevano di frinite attorno al campo da baseball… anzi …sembravano diventare sempre più numerose e chiassose.
“Mi hai sentito, Eve? Se solo una troia! Proprio come tua madre.”

“Cos’è una troia?” Sussurrò Tom a Wyatt.
Tom, per tutto quel tempo, era rimasto seduto sulla collinetta arsa dal sole.
Il suo amico tornò a sedersi al suo fianco: “mio padre dice che una troia è come una puttana che non ti chiede soldi per scopare. Sai cosa voglio dire con scopare?”
Tom sapeva benissimo cosa significava quella parola: indicava l'atto di abbracciare qualcuno senza vestiti. Il ragazzino considerava quel un gesto assai insensato e imbarazzante e aveva giurato a se stesso di non farlo mai in vita sua.
Le offese di Joe Limpshire avevano smorzato gli animi di tutti gli altri ragazzini.
Spillo MacMore gli rivolte la parola: “avanti, Joe! E’ solo una partita!”
“Chiudi il becco, immigrato di un irlandese!” Lo ammonì Joe per poi avvicinarsi a Evelyn con fare minaccioso.
Ma la ragazzina non sembrava intimorita. Alzò la mazza da baseball contro Joe, come se volesse metterlo in guardia.
In quel momento Evelyn Reese, senza dire una sola parola, gli stava promettendo un braccio rotto o il cranio fracassato se solo si fosse avvicinato di un altro passo.
Tutti gli altri ragazzini avevano smesso di ridere e ora fissavano con orrore Evelyn.
< Stai minacciando di picchiare Joe? Sei impazzita? >... Era il pensiero comune di tutti loro < …sai chi è suo fratello? Un conto è prenderlo in giro, ma alzare un dito contro un Limpshire è tutta un’altra storia. >

Joe però si era fermato nel vedere quella mazza puntata contro la sua faccia.
In quel momento avvertì qualcosa di duro e spigoloso contro la punta della sua scarpa. Era una pietra. < Prendimi e lanciami contro quella troia! > Sembrò sussurragli la pietra… o almeno era ciò che Joe si era immaginato.
Evelyn continuava a fissarlo con occhi di ghiaccio. Aveva avuto quell’austera espressione per tutta la giornata. Probabilmente era di pessimo umore ancor prima di raggiungere il campo da baseball ma nessuno dei ragazzini lì presenti aveva avuto l’ardore di chiedergli come stava o come mai avesse quel broncio. Del resto, Evelyn Reese aveva spesso quell’espressione granitica sul volto. E ora quegli occhi da sfinge non solo stavano fissando Joe… lo stavano sfidando.
Lui raccolse il sasso e lo scagliò in direzione di Evelyn
La ragazzina non si mosse poiché non si aspettava una simile reazione. Nessuno poteva aspettarsi una simile reazione. Ma la pietra sfiorò solo il suo volto.
“Ora stai esagerando, Joe!” Gli urlò Timothy Baker pur restando a debita distanza da lui. Ma il giovane Limpshire iniziò a lanciare pietre e pezzettini di terra dura contro Evelyn. Lei indietreggiò, chiuse gli occhi e iniziò ad agitare alla rinfusa la mazza.
Toc, toc, toc… si udì ogni volta che colpiva un proiettile scagliato da Joe. Il ragazzino si voltò verso Ron Davis: “aiutami!” Lo sgridò.
Ron, appena promosso da Joe come sue braccio destro, si unì a lui in quella improvvisata sassaiola.
Evelyn avvertì chiaramente un sasso impattare contro il suo ginocchio destro. Un secondo sasso le sfiorò il berretto blu. Un terzo colpo la prese all’altezza del fegato. Un quarto proiettile doveva essere di un pezzetto di terra, poiché Evelyn lo sentì frantumarsi contro la sua spalla sinistra. Ogni volta che veniva colpita, sentiva un esplosione di dolore dilagare su tutto il corpo.

Joe Limpshire alzò per l’ennesima volta la mano armata con un'altra pietra raccolta da terra. In quel momento, quella sua mano fu raggiunta da un sasso grande e levigato scagliato con forza.
Il ragazzino sentì un gran male e le sue dita iniziarono a pulsare a ritmo del suo cuore. La pietra che lo aveva colpito non era stata lanciata da Evelyn, ma da qualcuno alle sue spalle… qualcuno che si trovava sulla collinetta arsa dal sole.
Tom si era paralizzato nella posa che aveva assunto dopo aver scagliato quel sasso grande e levigato. Un piede in avanti, il busto torto e il braccio destro sporto in avanti. Con occhi spalancati fissava Joe massaggiarsi la mano offesa.
< Mi sono condannato da solo! > Pensò Tom.
Joe si era completamente dimenticato di Evelyn. Alzò lentamente lo sguardo verso Tom. Un’espressione di incredulità e ferocia era apparsa sul volto del ragazzo dai capelli d’oro.
Wyatt balzò in piedi: “cos’hai fatto?” Sussurrò esterrefatto a Tom.
Ma il suo amico non sapeva rispondere. La sua mano era stata più veloce dei suoi pensieri. Non appena aveva visto Evelyn colpita da Joe, Tom aveva agito.
In un’altra occasione non avrebbe mai colpito quel bulletto, del resto non aveva una mira così precisa. Ma l’emozione del momento aveva infuso in lui un talento da cecchino.
“Voi due…” ringhiò Joe in direzione di Tom e Wyatt “…siete spacciati!”
“Perché io?!” Protestò Wyatt.
“Siete spacciati” ribadì Joe.
“Beh… dato che sono stato coinvolto…” Wyatt afferrò da terra un sasso e lo lanciò contro Joe. Riuscì a colpirlo alla testa. Un sottile fiotto scarlatto zampillò dalla fronte del ragazzino dai capelli d’oro, tracciando un elegante arco di sangue a mezz’aria. Il sasso gli aveva aperto uno strana ferita a forma di ‘V’ sul sopracciglio destro. Joe barcollò all’indietro prima urlare per la rabbia e per il dolore.
“Prendili” gridò a Ron Davis mentre si piegava in due e si copriva il volto con le mani. Il sangue si faceva strada attraverso le sue dita e scendeva lungo le braccia.
Il grande e grosso Ron iniziò a correre verso Tom e Wyatt, salendo la collinetta aiutandosi anche con le sue possenti e grasse braccia.

Tom e Wyatt, perfettamente sincronizzati, si voltarono e iniziarono a scappare.
Raggiunsero la cima della collinetta e si fiondarono verso la recinzione che delimitava il confine della proprietà del defunto signor Price.
Balzarono sulla recinzione, la scalarono e saltarono dall’altra parte.
Wyatt attutì la caduta flettendo le ginocchia e premendo i palmi contro il terreno. Tom invece si schiantò al suolo con il suo sedere mingherlino.
Wyatt lo aiutò ad alzarsi. Non c’era tempo per concentrarsi sul dolore.
Ron li aveva raggiunti e iniziò anche lui a scavalcare la recinzione. Grande e grosso, con quella faccia brufolosa e le sue guance rosse, Ron sembrava un orco. Uno di quei bestioni forti e stupidi che si potevano trovare nelle favole per bambini.
Wyatt e Tom continuarono a correre.
Si stavano dirigendo verso l’altissima erba che invadeva la proprietà del signor Price. Tra loro e la vegetazione c’era uno di quei fiumiciattoli paludosi incriminati di aver avvelenato il terreno circostante.
I due ragazzini lo superarono con un agile balzo e si immersero nella fitta selva di altissima erba. Poco dopo udirono alle loro spalle lo scroscio dell’acqua.
Si voltarono. Ron era caduto nel putrido fiumiciattolo. Probabilmente voleva superarlo anche lui con un balzo ma la sua gargantuesca mole lo aveva trascinato nell’acqua.
“Hey, Ron! Avevi sete?” Gli urlò Wyatt.
Ron aveva la bocca spalancata e la sua espressione comunicava tutto il orrore e disgusto. Per sua fortuna, il fiumiciattolo non era per nulla profondo. Grumi di viscida alga erano rimasti sul suo testone, simulando una schifosa parrucca del colore degli spinaci bolliti. Con movimenti goffi, Ron avanzò verso i due fuggiaschi. Si aggrappò alla sponda del fiume e iniziò ad uscir fuori da quell'acqua putrida.

Tom e Wyatt sparirono nella vegetazione, ridendo a crepapelle per la battuta di quest’ultimo.
“Cosa facciamo?” Chiese Tom senza smettere di correre. Notò con sua grande sorpresa di essere più veloce di Wyatt. Stava facendo da apripista in quel mondo composto solo da altissimi ciuffi d’erba.
Il fruscio delle piante smosse dai due ragazzini era assordante.
“Tiriamo dritti…” gli urlò Wyatt “…non ci dirigiamo verso la casa di Price. Tiriamo dritti e sbucheremo sulla statale. Da lì possiamo tornare a casa.”
“Dici che è una buona idea?”
“Preferisci affrontare il brufoloso mostro della laguna?”
Scoppiarono di nuovo a ridere. Accelerarono la loro corsa nell’erba senza potersi orientare in alcun modo. Tom, sempre avanti rispetto al suo amico, si voltò verso di lui. Avrebbe voluto rispondergli con una battuta. Ma in quel momento non gli venne nulla in mente.
Tom rideva, Wyatt rideva… l’uomo alle loro spalle rideva.

Un’espressione di puro terrore deformò lo sguardo di Tom. Un’espressione così potente da influenzare anche Wyatt.
Quest’ultimo non si era voltato ma aveva capito, guardando semplicemente Tom, che c’era qualcosa di innominabile proprio dietro di lui.
Iniziarono a urlare per il terrore. Accelerarono la fuga.

Tom era tornato a guardare di fronte a se.
La visione dell’uomo ghignante era durato solo un instante o forse meno. Quell'individuo aveva il volto sporco di fango... un fango dal colore così cupo da mettere in risalto i suoi denti.
Ma ciò che aveva terrorizzato Tom più di ogni altra cosa era che quell’individuo sembrava un cadavere mezzo marcio. Sul suo volto, tondo e grottesco, mancavano interi brandelli di carne. Fasci muscolari e porzioni di ossa erano esposti all’esterno. Vermi giallognoli spuntavano da  un’orbita cava di uno dei suoi occhi. Vermi che si arricciavano come il dito di una persona quando chiama qualcuno e vuole dire: < vieni da me, avanti, non ti faccio nulla! >
E quell’espressione! Quell’espressione dell’uomo mezzo marcio era a dir poco atroce. Comunicava tutta la sua crudele euforia. Una crescente eccitazione che aumentata man mano che si avvicinava ai due ragazzini.
Tom continuava a urlare e a correre. Smanacciava gli altissimi ciuffi d’erba di fronte a lui. Sembravano esser diventate liane appiccicose che gli rallentavano la fuga.
Pregava il buon Dio di non farlo scivolare. Se avesse messo il piede in qualche buca sarebbe caduto. E se fosse caduto… sarebbe stato preso dall’uomo mezzo marcio. Rammentò il terrore sperimentato quello stesso giorno nella sua piantagione di granturco e quel raccapricciante sussurro: “Hey, ragazzino!”
Una voce così orrenda poteva appartenere solo a un uomo orrendo. Un uomo dall’aspetto spaventoso. Un uomo come quello che lo stava braccando in quel preciso momento.
Wyatt, nel frattempo, sentì le lacrime agli occhi. Mai aveva sperimentato un terrore così grande. I suoi neri capelli si impigliarono a qualcosa… o forse era meglio dire che qualcosa, simile a una mano parzialmente scheletrica, gli aveva afferrato una ciocca di capelli.
Wyatt però non rallentò e sentì il suo cuoio capelluto tendersi. Poi una lacerazione, seguita da una sensazione intensa di bruciore che si espanse rapidamente su tutta la sua testa. Il ragazzino aveva capito fin da subito che alcuni dei suoi capelli gli erano stati strappati via dalla radice.
Il dolore gli infuse nuove energie. Corse più veloce, così tanto da affiancare Tom.

La vegetazione terminò improvvisamente. I due ragazzini uscirono da quella fitta giungla come due schegge impazzite. Sentirono, sotto i loro piedi, il morbido suolo del terreno trasformarsi di colpo nel solido e rovente asfalto della statale. In quel momento neanche una macchina stava percorrendo la strada. E fu una fortuna per Wyatt e Tom una che nessuno stesse guidando in quel remoto angolo di mondo vicino Louistown.
Solo qualche giorno più tardi i due ragazzini riuscirono a comprendere la loro fortuna sfacciata nel trovare una strada completamente deserta.
Una qualunque automobile li avrebbe spalmanti su quell’asfalto rovente per tre yards o addirittura di più. Avrebbe tracciato una lunga scia di organi, sangue e carne… una poltiglia rossastra simile alla marmellata di lamponi su un sandwich.
Tom pensò a quell’analogia, si piegò in due e vomitò i panini che non aveva ancora finito di digerire.
Wyatt era rimasto al suo fianco, incapace di parlare. Fissava l'immensa massa d'erba che occupava i terreni del signor Price, mentre il suo torace si espandeva e si sgonfiava, si espandeva e si sgonfiava a ogni suo respiro.
Tom sputò un paio di volte prima di raddrizzarsi. La sua schiena gemette, affaticata e indolenzita dalla corsa. Fissò anche lui la vegetazione. Il modo in cui l’erba oscillava dava l’idea di essere viva… in possesso di una coscienza. Una crudele e perversa coscienza.
“Cosa c’era alle nostre spalle, Tom?” Chiese Wyatt mentre continuava a riprendere fiato. Il suo amico scosse il capo senza riuscire a staccare gli occhi dalla fitta erba.
Non poteva sapere con certezza chi o cosa si trovava in quella giungla selvaggia. Poteva esserci di tutto. Un morto vivente, un mostro dalle vaghe sembianze umane, un’orrenda allucinazione, il diavolo in persona… o tutte quelle cose incarnate in un’unica e agghiacciante creatura malefica.
Tom rammentò di nuovo lo sguardo euforico di quell’uomo mezzo marcio. Rammentò anche il suo ghigno trionfante, il suo unico occhio spalancato per l’eccitazione della caccia, la sua frenetica corsa, la sua pelle sporca di fango, i vermi che si arricciavano nella sua carne, i suoi vestiti… < aveva una giacca di flanella rossa? > Tom pensò di aver intravisto degli abiti invernali indossati da quella terrificante creatura. Ma non poteva esserne certo, del resto la visione del mostro era durata meno di un instante.
Non appena aveva posato gli occhi su quella cosa, Tom si era subito voltato per fuggire via.
E aveva fatto bene, pensò il ragazzino, perché se avesse ritardato la sua fuga anche di un solo, misero instante… probabilmente non sarebbe riuscito a sbucar fuori da quella fitta e crudele vegetazione. Per un momento, nella sua testa si definì uno scenario alternativo in cui l’uomo marcio riusciva a catturarlo tra i ciuffi di erba alta.
< Cosa mi avrebbe fatto? > Si domandò Tom. Non gli piacquero le risposte che il suo cervello gli stava inviando. Non gli piacquero per niente.
Iniziò a reprimere quel pensiero. Lo compresse in una minuscola pallina mentale e lo scaricò in un punto buio del suo inconscio.
Lui era fuggito e Wyatt era al suo fianco. Erano entrambi salvi. A cosa serviva immaginare degli scenari alternativi? A nulla.
“Andiamo a casa” disse Wyatt con voce stanca.

Per un lungo periodo, Tom e Wyatt camminarono l’uno al fianco dell’altro sul ciglio della strada. Trovavano un certo conforto ogni volta che le loro spalle si toccavano. Entro un’oretta, o giù di lì, sarebbero tornati alle loro case.
Wyatt si voltò verso il suo amico: “ora mi vuoi dire cos'hai visto nell'erba?”
Tom scosse il capo. Avrebbe trovato la forza di raccontargli ogni cosa solo il giorno dopo. Ma in quel momento, mentre camminavano sul ciglio della statale, Tom non era in grado di parlare.
Wyatt intanto iniziò ragionare a mente fredda. < Magari Tom ha avuto un’allucinazione >… pensò …< oppure ha visto un’ombra e la sua immaginazione gli ha suggerito che doveva trattarsi di un mostro. Perché no?! Tom è sempre stato un fifone. Vuoi vedere che abbiamo rischiato di diventare marmellata sull’asfalto per colpa di Tom-il-fifone? >
La sua testa gli faceva ancora male. Ricordò la sensazione che aveva provato mentre una ciocca dei suoi capelli veniva strappata via... strappati via da un fantomatico uomo-mostro.
< Devo essermi immaginato tutto quanto > ipotizzò Wyatt mentre si tastava il capo.
Quando ritrasse la mano per osservarla... scoprì che era sporca di sangue. < Qualcuno mi ha davvero strappato dei capelli! > Fu la tremenda deduzione del ragazzino.



cic

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Capitolo 2
*** Un giorno di festa ***


♦ Un giorno di festa ♦







"Hey Ron, avevi sete?" Aveva urlato Wyatt, prima di sparire nell'erba alta insieme al suo amico Tom.

Ron Davis aveva sentito chiaramente quei due mocciosi schernirlo, mentre fuggivano via. Il grande e grosso faccia-da-pizza Ron era ancora immerso nel fiumiciattolo. L'acqua, riscaldata dal sole, era inaspettatamente tiepida e quel particolare, per un motivo del tutto incomprensibile, inorridì il ragazzino.
Lui abbassò lo sguardo: alghe maleodoranti gli ricoprivano le braccia e i suoi vestiti erano completamente fradici. Quel tuffo nel fiume -del tutto involontario- gli sarebbe costato una 'sonora punizione' una volta tornato a casa.
E' così che il guardiacaccia Bruce Davis, il padre di Ron, chiamava i suoi metodi educativi... delle 'sonore punizioni'.
Normalmente tale pratica consisteva in una scarica di calci e manrovesci. Ma per una bravata come quel tuffo nel fiumiciattolo che puzzava di sterco e carogna, Bruce sarebbe ricorso alla cintura.
L'ultima volta che l'uomo aveva frustato qualcuno con la cinta fu quando sua moglie aveva bruciato il polpettone della domenica, cosa che era accaduta circa sei mesi fa.
Bruce non aveva mostrato alcuna pietà nel colpire la donna... e di certo non avrebbe mostrato pietà neanche per Ron.
Il ragazzino già si immaginava la scena: Bruce avrebbe prima sentito il rumore dei passi di suo figlio che rincasava, poi il tanfo dei suoi vestiti fradici... allora si sarebbe alzato dalla sua poltrona -il suo trono da salotto-, si sarebbe sfilato la cinta senza dir nulla e allora giù di scudisciate sul povero Ron.
< Un ragazzino non dovrebbe conoscere il significato della parola scudisciata > pensò lui.

Iniziò a muoversi nell'acqua putrida, intenzionato più che mai a raggiungere Wyatt e Tom. Se doveva farsi riempire di botte da suo padre, tanto valeva acciuffare quei due figli di buona donna.
Ron Davis si mosse goffamente, l'acqua e il fango del fondale rendevano difficili anche i movimenti più semplici. Accelerò il passo quando la sua mente gli suggerì che quel fiume poteva essere la casa di qualche serpente o di qualche altra creatura spaventosa. Aveva sentito dire di un pesciolino, nel Rio delle Amazzoni, in grado di risalire l'uretra di un uomo per poi mangiare i testicoli dall'interno.
Ovviamente quel fiumiciattolo non era il Rio e l'Arkansas non era l'Amazzonia... ma perchè rischiare?
Ron uscì dal fiume, una cascata di acqua maleodorante scaturì fuori dai suoi abiti e bagnò il terreno sotto il ragazzino.
Lui si sfilò dalla testa un grumo di alghe verdi e finalmente partì alla ricerca di Wyatt e Tom. Entrò nell'erba alta. Ripensò di nuovo alle risatine di quei due mocciosi e la rabbia gli esplose nella testa.

Ron era più che mai intenzionato a ritrovarli... e allora non gli avrebbe impartito solo una sonora punizione. Oh, no! Wyatt e Tom si meritavano qualcosa di più grave.
Ron Davis aveva deciso di farli sanguinare.
Non l'aveva mai confessato a nessuno... ma faccia-da-pizza conosceva benissimo il calore del sangue che usciva da un corpo. E sapeva benissimo che delle interiora erano in grado di pulsare anche se venivano tirate via da una creatura ancora viva o morta da poco.
Ron aveva appreso tutte quelle informazioni dai gatti randagi che catturava attorno alla sua abitazione.
Ormai erano anni che la tortura su vermi e insetti non gli provocava più alcuna emozione. Ma da quando aveva spostato la sua attenzione su delle vittime più grandi... grandi come gatti ...Ron era tornato a provare quello strano piacere nell'uccidere delle creature indifese.
Ogni volta che infieriva su un animaletto, Ron si sentiva bene e dimenticata la paura che provava nei confronti di Bruce Davis.
Sotto le sue mani erano finiti diversi gatti, qualche lucertola e il pesce rosso che aveva in camera sua. Una volta un nido di rondoni cadde da un albero e atterrò proprio sotto il portico di casa Davis.
Ron fu il primo a rendersi conto della presenza del nido e del fatto che i tre pulcini al suo interno erano sopravvissuti alla caduta. E quanto si era divertito Ron con quei tre animaletti che non erano in grado di volar via.

Faccia-da-pizza continuò a correre nell'erba alta. Era così furioso che pensò di trattare Wyatt e Tom esattamente come trattava gli animali che catturava.
Per la prima volta nella sua vita, Ron ebbe l'idea di far del male a degli esseri umani.
Ciò lo riempì di un orrore che si tramutò rapidamente in un'intensa sensazione di estasi.
Si fermò per riprendere fiato. Attorno a lui le cicale frinivano incessantemente. Erano versi acuti, potentissimi e Ron ebbe l'impressione che quegli insetti lo stessero deridendo e lo stessero tenendo d'occhio.
Ma non solo... Ron Davis si sentì osservato da qualcos'altro nascosto in quell'erba alta. Qualcosa che non era una cicala.
Tese le orecchie.
L'erba oscillava, generando movimenti ipnotici, cullata da un vento caldo e debole.
Ron iniziò ad avere paura. Era come se fosse finito in un luogo alieno che non aveva niente a che fare con il pianeta Terra.

< Perchè quei ciuffi d'erba si muovono controvento? > Pensò il ragazzino quando notò uno strano movimento della vegetazione a pochi passi da lui. Qualcosa li stava piegando in quella bizzarra maniera... qualcosa che iniziò di colpo a dirigersi verso Ron. Il panico investì il giovane. Avrebbe voluto urlare ma i muscoli della sua gola erano completamente paralizzati.
Si voltò e iniziò a fuggir via. Non sapeva perchè avesse così tanta paura, non sapeva da chi o cosa stesse scappando... forse non voleva saperlo, ma quella sensazione di ignoto aumentava il terrore che provava.
Mai nella sua vita si era sentito così in pericolo, neanche quando suo padre si sfilava la cinta dai pantaloni. Un rantolo di terrore scaturì dalla bocca di Ron, l'unico verso che era in grado di produrre. Era un suono incredibilmente simile ai miagolii degli animali che torturava.
Faccia-da-pizza, in quel momento, pensò di avvertire la stessa paura che provavano le sue vittime quando finivano sotto le sue grinfie.
Magari, in quel mondo di erba alta, era inseguito da una creatura che voleva fargli le stesse cose che lui faceva ai gatti randagi. Doveva trattarsi di un Ron Davis più grande e grosso di lui... un Ron Davis del tutto crudele.

Il ragazzo inciampò su una buca e un istante dopo finì con la faccia nel fango -altre scudisciate si sarebbero aggiunte alla sua punizione-.
Ron si mise a carponi e iniziò a guardasi attorno. Il suo sguardo saettò in ogni direzione, alla disperata ricerca del suo inseguitore.
Ma nessuna creatura apparve tra gli steli d'erba. Ron era immerso in un silenzio surreale interrotto solo dal vento e dal frinire delle cicale.
Decise che ne aveva avuto abbastanza di tutta quella storia. Fece per alzarsi, con l'intento di lasciare la proprietà di Price e di ritornare al campo da baseball, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
Si trattava di un piccolo tubicino di metallo che sporgeva dal terreno, proprio a un palmo di distanza da lui.
Dopo qualche secondo passato a contemplarlo, Ron si accorse di star fissando la canna di una pistola. Il ragazzino la prese e la estrasse dal suolo.
Si trattava di un revolver di piccolo calibro.
Faccia-da-pizza girò e rigirò più volte quell'arma tra le sue grosse mani. I suoi occhioni si spalancarono per l'incredulità. Cosa ci faceva una pistola in quel posto? Il vecchio Price non aveva armi da fuoco, salvo che per una doppietta che conservava da qualche parte nella sua abitazione.
Ron Davis aveva imparato qualche nozione sulle armi da fuoco semplicemente osservando e ascoltando suo padre, il guardiacaccia Bruce.
Il ragazzino, con qualche difficoltà, riuscì ad aprire il tamburo di quel piccolo revolver. Al suo interno si trovavano quattro proiettili.
< Sono stati esplosi due colpi > ipotizzò il ragazzino.
Si alzò da terra, infilandosi la pistola in una tasca dei pantaloni... un gesto istintivo che Ron compì quasi inconsapevolmente.


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Il telefono di casa Williams squillò a ora di pranzo.
“Vado io” sospirò Diana Williams, alzandosi da tavola.
Percorse l'intera cucina con grazia ed eleganza, qualità che aveva sviluppato da ragazza, quando studiava danza classica.
Diana Williams era bellissima. Da giovane era una promettente ballerina della California. Sognava di esibirsi nei teatri di tutto il mondo... ma un incidente d'auto le fece saltar via i legamenti crociati del ginocchio sinistro.
E allora addio a Čajkovskij e al suo Lago dei cigni.
Dopo l'incidente, Diana si dedicò alla sua seconda passione: il cucito. Dimostrò di essere molto brava anche con l'ago e il filo. Avrebbe potuto lavorare in qualche boutique newyorkese di Chanel, eppure si ritrovò a rammendare abiti e calzini in una fattoria di Louistown... ma tutto ciò la rendeva felice.

Quel giorno indossava una camicia bianca e una lunga gonna celeste, colori che mettevano in risalto l'oro dei suoi capelli... gli stessi capelli che suo figlio Tom aveva ereditato.
“Pronto?...” Disse Diana una volta sollevata la cornetta “...oh, Margaret! No, non disturbi.”
Tom alzò lo sguardo dal piatto.
Ascoltò sua madre cimentarsi in una conversazione fatta di monosillabi e brevi scambi di parole come: “mh!”, “Si”, “Certo!”, “Ah!”, “Va bene”.
Gli occhi della donna si posarono poi su suo figlio... e Tom, anche se non in grado di spiegarlo, comprese di essere il soggetto di quella chiacchierata telefonica.
“Ho capito, Margaret. Si... parlerò con lui, stai tranquilla. Si, ci vediamo sta sera. Ciao.” Diana riagganciò.

Tornò al tavolo da pranzo.
Il suo sguardo pensieroso allarmò Tom. Lui posò la sua forchetta e smise di mangiare gli spaghetti al sugo di pomodoro che sua madre, poco prima, gli aveva pazientemente tagliato.
“Chi era al telefono, cara? Di nuovo quella matta di tua sorella?” Domandò Scott Williams, il padre di Tom.
Per tutto quel tempo, Scott era rimasto a capotavola, intento a leggere il suo giornale.
La prima pagina riportava alcune notizie dal Vietnam.
Diana si voltò verso di lui. Suo marito era un uomo con la testa sempre tra le nuvole, perciò lei si sorprese molto nel sentire quella sua domanda.
Di solito Scott non si accorgeva praticamente di nulla... ed era proprio questa sua sbadataggine che lo rendeva adorabile agli occhi di Diana.
Lui aveva un volto gentile, con lunghi capelli castani e occhi nocciola dietro un gran paio di occhiali dalla montatura sottilissima.
Per tutta risposta, Diana si rivolse a Tom: “era Maggie quella al telefono, la madre di Wyatt.”
Tom annuì.
“Mi ha detto che Wyatt ha difficoltà a dormire. Si sveglia di notte, urlando. E' da quando siete tornati dal campetto di baseball, tre giorni fa, che Wyatt si comporta così.”
Tom sentì che doveva intervenire in qualche modo: “Wyatt ha per caso detto qualcosa nel sonno, mamma?”
Diana corrugò le sopracciglia: “ 'mi sta raggiungendo'  ...cose del genere.”
Nel sentire quelle parole, Scott mise via il giornale e si avvicinò a suo figlio. Anche un tipo distratto come lui aveva intuito che la questione sollevata da sua moglie era molto seria.
Lei continuò: “Tom, devo chiederti una cosa: è per caso successo qualcosa al campo da baseball? Hai... per caso ...incontrato qualcuno?” Quanto fu difficile per Diana formulare quella domanda.
Tom deglutì. Studiò a fondo il volto di sua madre ed ebbe l'impressione che la donna fosse in grado di leggere i suoi pensieri.
Di sicuro aveva intuito i timori e le paure di suo figlio.
Tom si era recato al campo da baseball tre giorni fa... questo era vero. Aveva colpito Joe Limpshire con una pietra ed era fuggito nell'erba alta, insieme a Wyatt, per evitare di essere acciuffato da faccia-da-pizza Ron.
< Non è successo nient'altro quel giorno! > Pensò Tom, nel vano tentativo di ingannare se stesso. Nessun incontro con uomini spaventosi nell'erba alta. Nessuna fuga disperata, niente di niente.
< Ma... allora ...perchè Wyatt ha degli incubi? >
Lui scosse la testa: “no, mamma. Non è successo nulla al campo da baseball.”
Diana sospirò: “Thomas Henry Williams, guardami negli occhi e dimmi la verità.”
Aveva chiamato il figlio usando il suo nome per intero. Brutto segno... proprio un brutto segno.
< Cosa vuoi che ti dica, mamma?... > pensò Tom < ...che un mostro mi ha inseguito nell'erba? Un mostro dall'aspetto di un cadavere vivente mi ha quasi preso? E che probabilmente ha iniziato a seguirmi fin dalla piantagione della nostra fattoria? >
Era un discorso troppo assurdo, persino per la mente di un ragazzino di tredici anni come Tom.
Si voltò verso suo padre. Un riflesso di luce sui suoi occhiali rendeva difficile intravedere i suoi occhi nocciola.
Scott Williams era stato nell'esercito. Vent'anni fa aveva combatto i tedeschi in Europa ed era tornato in America con delle gravi ferite al torace.

Una sera, Tom aveva chiesto a suo padre se aveva ucciso degli uomini in battaglia. Tom non aveva idea del perchè gli avesse rivolto una simile domanda. Doveva trattarsi di una di quelle curiosità che, di tanto in tanto, saltano nella mente dei bambini senza alcun motivo apparente. A dire il vero, Tom neanche voleva sapere cosa fosse accaduto in Germania. Ma il volto di suo padre, mentre sentiva quella domanda, gli fece raggelare il sangue. Scott infatti era rimasto completamente spiazzato. Stirò allora il più falso dei sorrisi, creando un'espressione che turbò Tom nel profondo.
Gli disse di no, che non aveva mai ucciso nessuno.
Tom comprese che si trattava di una bugia... ma comprese anche che bisognava credere a quella menzogna per evitare un trauma.
Dunque le bugie potevano essere usate per fuggire via dalle preoccupazioni.

Ripensando a ciò che aveva appreso quella sera, Tom decise di mentire a sua madre per evitare di affrontare le conseguenze: “no, mamma...” rispose il ragazzino “... non è successo nulla di strano al campo da baseball.”


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Quello stesso giorno, verso il tardo pomeriggio, la famiglia Williams si recò a Louistown per festeggiare il giorno dell'indipendenza americana.
La parata del 4 Luglio era appena passata per Main Street, permettendo così ai cittadini di tornare a circolare liberamente per le strade.
Un gran numero di persone occupava le vie di Lousitown. L'aria era piacevolmente fresca e frizzante, un vero e proprio sollievo in quella tremenda e torrida estate.

Tom camminava al fianco dei suoi genitori. Percepiva una scia di profumi attorno a lui: aroma di zucchero filato e popcorn, proveniva dal festival allestito nella periferia della città.
Alzando lo sguardo, poteva scorgere la grande ruota panoramica oltre le abitazioni di Colonial Hill, il quartiere più povero della città.
Quelle case sembravano grandi blocchi di cemento grigio ammassati tra di loro. Non avevano nulla a che vedere con il resto di Louistown, così colorata, piena di vita e di alberi.

I Williams si erano dati appuntamento con i genitori di Wyatt proprio nella periferia della città. “Eccoli lì” disse Diana, subito dopo aver riconosciuto la sua amica Margaret Sinclair, insieme a suo marito Owen. Si trovavano vicino a un grande carosello posto all'entrata del festival.
Lei era una donna in sovrappeso, con corti capelli ricci e così rossi da ricordare un cespo infuocato.
Owen Sinclair invece era un tipo simpatico quanto logorroico. Era basso e tarchiato... tremendamente basso. Si rasava i capelli brizzolati da quando aveva scoperto che la sua stempiatura avanzava inesorabilmente lungo i lati della sua testa.
Aveva la pelle dura come il cuoio e la voce rauca e rovinata da tutti gli anni passati a lavorare nelle miniere di carbone, che si trovavano a qualche miglio di distanza dalla città. Alle spalle di Margaret e Owen si trovava Wyatt.
Tom raggiunse subito il suo amico ed entrambi si allontanarono dai loro genitori.
“Comportatevi bene, voi due...” li aveva salutati Diana, seguita da una sfilza di raccomandazioni del tipo “...non mangiate troppe mele caramellate” o “non allontanatevi troppo.”
Ma Tom e Wyatt non volevano rimanere con i loro parenti. Sapevano che presto si sarebbero messi a parlare del loro noiosissimo argomento preferito: l'assassinio di Bob Kennedy. Era passato un mese dal suo omicidio e l'America intera non parlava d'altro che di quell'episodio.
Owen Sinclair era convinto che i comunisti avessero preso parte all'attentato. L'uomo imprecava o sputava per terra ogni volta che pronunciava quella parola: comunisti.
Tom non era sicuro di conoscere il significato di quel termine... e di certo non era intenzionato a scoprirlo, almeno non quel pomeriggio.

Lui e Wyatt si fiondarono verso le giostre e le altre attrazioni del festival. Provarono due volte l'autoscontro per poi sfidarsi al gioco del tiro al bersaglio. Vinse Wyatt.
Mangiarono zucchero filato e assistettero, per qualche minuto, all'esibizione di un paio di giocolieri e di un mangiafuoco.
Passeggiarono poi per tutto il festival, l'uno al fianco dell'altro. Evitarono il tunnel degli orrori perchè non avevano alcuna voglia di spaventarsi. Si misero poi in fila per fare un giro sulla ruota panoramica ma abbandonarono l'idea quando si accorsero che avrebbero dovuto attendere almeno mezz'ora prima di salire sulla grande giostra.

Il sole iniziava a tramontare e Wyatt e Tom non avevano ancora voglia di tornare dai loro genitori. Passeggiarono di nuovo tra le vie invase dalle giostre, dalle bancarelle e dagli abitanti di Louistown.
“Allora...” Tom, improvvisamente, rivolse un sorriso beffardo al suo amico “...tua madre dice che frigni nel letto.”
“Fottiti, Tom!” Gli aveva risposto Wyatt.
I due ragazzini scoppiarono in una fragorosa risata.

Poco dopo, Tom si fece serio: “di notte fai degli incubi?” Domandò senza prendere in giro Wyatt.
Quest'ultimo scosse il capo, non aveva voglia di rispondere.
Tom però insistette: “sogni l'uomo mezzo marcio?”
“Intenti dire quello che tu hai visto nell'erba alta?”
“Proprio lui.”
Wyatt si fermò: “non... non ricordo cosa sogno.”
Anche Tom si fermò: “come sarebbe a dire che non ricordi?”
La folla attorno a loro continuava a chiacchierare e passeggiare. Nel frattempo, le prime stelle della sera iniziarono ad accendersi nel cielo.
Wyatt si strinse nelle spalle: “quando mi sveglio, dimentico i sogni che faccio... a te non capita mai?”
Tom rispose: “bhè... in effetti si.”
I due ripresero a camminare. Raggiunsero le bancarelle del festival che confinavano con Colonial Hill. Anche quel tratto di periferia era invasa da un gran numero di passanti.
“Com'era?” Chiese di colpo Wyatt.
“Chi?” Domandò confuso Tom.
“L'uomo mezzo marcio.”
Tom sospirò: “aveva il volto putrefatto e indossava una giacca rossa, una di quelle giacche che si portano in inverno.”
“Strano” commentò Wyatt.
I due ragazzini svoltarono attorno a una bancarella... e improvvisamente si ritrovarono faccia a faccia con Evelyn Reese. Avevano quasi rischiato di scontarsi con la giovane.
D'altro canto lei era immersa nei propri pensieri e si era accorta solo all'ultimo istante di essere in rotta di collisione con Tom e Wyatt.
Quel pomeriggio, Evelyn indossava una maglia leggera e un'ampia gonna bianca.
Era alta esattamente come Tom, ma la sua acconciatura -una coda di cavallo- la faceva sembrare ancora più alta.
Tom fissò estasiato quei suoi capelli castani così voluminosi e ondulati.
Non si era mai avvicinato così tanto ad Evelyn e d'un tratto fu come se qualcuno gli avesse sottratto tutta l'aria dai polmoni.

Evelyn fissava Tom e Wyatt con il suo tipico sguardo glaciale.
Dopo un primo momento di sorpresa, lei commentò: “dunque siete vivi.”
I due ragazzini si scambiarono un'occhiata perplessa.
Evelyn si spiegò: “dicevano che Ron Davis era riuscito a catturarvi nell'erba alta.”
“Ah...” ridacchiò Wyatt “...faccia-da-pizza non riuscirà mai ad agguantarmi, pupa.”
Tom lo colpì al costato con una gomitata: “e tu... tu come stai?” Chiese poi alla ragazzina. Aveva notato, proprio in quel momento, un grande cerotto sul ginocchio di Evelyn, proprio dove era stata colpita da una delle tante pietre lanciate da Joe Limpshire.
< Le ho rivolto la parola... > pensò Tom, esterrefatto < ...ho rivolto la parola a Evelyn Reese! >

“Oh, sto bene” rispose lei.
Fece per continuare, quando una voce alle spalle dei due ragazzini attirò la sua attenzione. Tom e Wyatt si voltarono. A pochi passo da loro, la madre di Evelyn la stava richiamando.
“Ora devo andare...” disse lei “...ci vediamo.”
Wyatt la salutò. Tom invece riuscì solo ad alzare una mano.
Fissò Evely raggiungere sua madre. Si chiamava Wiara, uno scricciolo di donna tremendamente magra, nata e cresciuta in Polonia. Nel 1941 era fuggita in America per evitare di essere catturata dai tedeschi.
Per qualche anno visse ad Atlanta, in Georgia, dove si era sposata e aveva avuto una figlia... Evelyn Reese.
Tre anni fa, in seguito al divorzio da suo marito, Wiara e Evelyn si trasferirono a Louistown.

Tom fissò a lungo la signora Wiara. Aveva capelli biondi, a caschetto. Li portava in modo da coprire un enorme livido attorno al suo occhio sinistro.
Tra le dita stringeva una sigaretta Pall Mall, la marca preferita della donna. Lei era un'accanita fumatrice... avrebbe fatto impallidire persino il vecchio signore Price.
Le sue mani erano piccole e preda di vari spasmi involontari. Erano attraversate sottopelle da un gran numero di spesse vene, ricordavano dei fiumi che si diradavano su una cartina geografica.

“Andiamo...” Wyatt tirò Tom per una manica “...si sta facendo tardi.”
Tom smise di fissare la signora Wiara e si allontanò da quel luogo.

Evelyn si era voltata un solo istante verso i due ragazzini. Quest'ultimi però erano già andati via. < Di cosa stavano parlando quei due?... > si domandò Evelyn < ...di un uomo mezzo marcio? Non sarà che... ? Anche loro hanno incontrato il mostro?! >


⁓•⁓•⁓•֍•⁓•⁓•⁓



Giunse la sera.
Evelyn e Wiara tornarono nella loro abitazione, un modesto appartamentino a Colonial Hill. Erano ormai tre anni che Madre e figlia viveva da sole tra quelle quattro mura.
Wiara, appena rincasata, si diresse subito in cucina. Come sempre era di poche parole. Consumò una cena a base di una mezza pizza riscaldata e un numero spropositato di lattine di birra. Si addormentò poi sul divano della sala, con la televisione ancora accesa che proiettava una replica di Callan, con Edward Woodward nella parte del protagonista.

Evelyn era rimasta da sola in cucina, immersa in un silenzio disturbato dai respiri pesanti di sua madre. In televisione, David Callan stava combattendo contro un uomo in una palestra di qualche liceo. Evelyn, di tanto in tanto, gettava uno sguardo verso quel programma mentre sparecchiava la tavola.
Aveva appena finito di gettar via tutte le lattine di birra che sua madre aveva tracannato, quando un movimento alle sue spalle la fece sussultare.
Si trattava di una sagoma oscura. Evevlyn era riuscita a scorgerla in corridoio.
La ragazzina si voltò di scatto e iniziò a tremare come una foglia.

Si fiondò verso alcuni cassetti ed estrasse un lungo coltello. Tornò poi a fissare quel tratto di corridoio visibile dalla cucina. Era buio e la ragazzina ebbe l'impressione di essere osservata.
“Mamma...” sussurrò in direzione di Wiara “...mamma, svegliati!”
Nessuna risposta.
Provò allora a chiamarla in polacco: “mamo, obudź się!”
Nulla.

Evelyn comprese che sua madre era troppo ubriaca per poter aprire gli occhi. Deglutì, prese un gran respiro e iniziò a muoversi verso il buio corridoio. Serrava il coltello con entrambe le mani.
Si affacciò dalla cucina. Il suo sguardo era rivolto verso il mucchio di ombre che si accalcavano nel corridoio. La paura le impediva di respirare.
Non vedeva niente... eppure sapeva di non esser sola.
Dall'esterno, i fari di un un auto in corsa illuminarono per un momento l'appartamento di Evelyn... rivelando la presenza di un uomo mezzo marcio in corridoio.
La ragazzina scorse la giacca rossa indossata dal mostro e una sua mano che sporgeva da una manica. Era una mano orrenda e putrefatta.
Quella creatura si trovava a cinque passi da Evelyn, forse quattro.
Lei sussultò nel vedere quell'orrore e il coltello le cadde a terra.

Il corridoio era di nuovo immerso nel buio più totale. Evelyn sentiva su di lei lo sguardo malefico dell'uomo mezzo marcio.
Lei deglutì e infine riuscì a rivolgergli la parola: “dunque... sei tornato, papà!”



cic

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Capitolo 3
*** Evelyn ha un piano ***


♦ Evelyn ha un piano ♦








Evelyn passeggiava con le mani in tasca e lo sguardo rivolto verso il basso. I suoi voluminosi capelli castani coprivano strategicamente l'ematoma che aveva sul suo volto. Era ampio e raccapricciante, di un terso color viola e sfumature di ocra ai bordi.
< Chissà perché viene chiamato occhio nero ?... > Domandò la ragazzina a stessa < ..io non vedo alcun colore nero. >
Era così assorta nei suoi pensieri che a stento percepiva il mondo attorno a lei.
Le case, gli alberi, le persone e tutti gli altri elementi di Colonial Hill erano solo uno sbiadito miscuglio di forme e colori.
L'ematoma aveva smesso di farle male da un paio d'ore.
Evelyn, istintivamente, lo toccò con la punta del dito indice, come per controllare che fosse ancora lì. Non appena sfiorò il livido, una scarica di dolore le attraversò il corpo. La giovane strinse i denti e attese la fine di quel supplizio.
Immaginò un'ipotetica scena in cui qualche passante la fermava per chiedere cosa le fosse accaduto.
< Ieri sera sono scivolata nella vasca da bagno > fu la giustificazione che prese forma nella testa di Evelyn.
< Sono scivolata nella vasca da bagno > ripeté mentalmente, nel tentativo di perfezionare quella bugia. In effetti Evelyn, la scorsa sera, aveva veramente urtato contro la vasca. Ma la ragazzina non avrebbe mai rivelato a nessuno tutti i particolari che l'avevano portata a ferirsi in quel modo.
< Cosa potrei dire? Che un morto-vivente mi ha ridotta così? Che l'uomo mezzo marcio è venuto a trovarmi un'altra volta? > Evelyn sentì le lacrime agli occhi.
Erano lacrime generate da un senso di rabbia e frustrazione.
< E a questo punto qualcuno potrebbe chiedermi: chi è l'uomo mezzo marcio? >
Evelyn ridacchiò anche se non era per nulla divertita.
“Ed è qui che la storia si fa interessante” istintivamente rispose a quel pensiero con un sussurro. Si fermò, si guardò attorno per controllare che nessuno l'avesse sentita e, con un po' d'imbarazzo, riprese a camminare.
< Si dia il caso, mio caro ipotetico ficcanaso, che l'uomo mezzo marcio è mio padre. Lo so, può sembrare assurdo. Ma quel cadavere, altri non è che mio padre.
Erano due anni che non avevo sue notizie. Oh, ma non è stato sempre così. Io, mamma e papà vivevamo tutti ad Atlanta ed eravamo una famiglia normale. Certo... mio padre era un uomo taciturno e un giorno, dopo un litigio di troppo, finì con il divorziare da mia madre. Quindi io e mamma ci trasferimmo in questo buco di mondo chiamato Louistown. E a cominciare dall'anno scorso, papà... o il cadavere vivente di mio padre ...ha iniziato a tormentarci. >
Evelyn sospirò: < non so cosa sia successo a mio padre. Non so quale orrore lo ha trasformato in un mostro. So solo che ieri ho rischiato di morire. > La ragazzina non poté fare a meno di rivivere quella tremenda vicenda.

La scorsa sera, l'uomo mezzo marcio si era ripresentato nell'appartamento di Evelyn e di sua madre, Wiara. Aveva sorpreso la ragazzina sul buio corridoio che portava alla sala da pranzo. Per un'infinita manciata di secondi, i due rimasero a fissarsi.
Evelyn avvertì immediatamente le sue mani congelarsi. Il suo sangue stava defluendo dalle sue dita per andare chissà dove. Accadeva tutte le volte che provava una grande paura. E in quel momento Evelyn era terrorizzata oltre ogni dire. La sua mente iniziò a formulare pensieri che sfuggivano al controllo della giovane... pensieri anche bizzarri come: < quante volte il mostro è apparso nell'appartamento? >
Evelyn conosceva bene la risposta. Dall'inizio dell'anno, suo padre-morto era apparso quattro volte nell'appartamento... e sempre di notte.
Tutte le volte, l'uomo cercava di accanirsi su di lei o su Wiara.
Evelyn era veloce e agile e perciò riusciva a nascondersi sotto il letto o in qualche angolo dell'appartamento. E allora tratteneva il respiro mentre sentiva sua madre subire l'aggressione del mostro.
Quella creatura si accaniva contro la donna con estrema violenza.
In quelle occasioni, Evelyn provava una grande rabbia e vergogna -oltre al terrore, ovviamente- per non essere in grado di difendere sua madre.
Ma sapeva benissimo che non poteva sconfiggere il mostro, tanto meno impensierirlo. C'era qualcosa nel suo aspetto, nella sua statura... o semplicemente nel suo essere ...che faceva sentire Evelyn minuscola e impotente.
Lei era un gattino di fronte a una terrificante egemonia fatta di carne putrescente e ossa parzialmente esposte.
Mentre fissava il mostro sul corridoio, la mente di Evelyn fu attraversata da un altro pensiero: < sarò in grado di nascondermi anche questa volta? >
Improvvisamente l'uomo mezzo marcio scattò contro di lei. La ragazzina sentì il terrore crescere ancora di più nel suo corpo. Era una paura che aggrediva le sue viscere, le torceva e le corrodeva dall'interno, come se avesse tracannato tutto d'un fiato una fiala d'acido.
Le sue gambe scattarono, il suo corpo compì una torsione così fulminea che Evelyn avvertì un doloroso contraccolpo alla base del collo. Si voltò e iniziò a fuggire per il corridoio.
Nel buio dell'appartamento vide la sagoma della porta del bagno stagliarsi a pochi passi da lei. La luce nel bagno era accesa, Evelyn spesso si dimenticava di spegnerla.
La paura l'aveva quasi portata alla follia quando fu costretta a rallentare per entrare nel bagno. Riuscì appena in tempo a chiudere la porta a chiave quando il mostro si schiantò contro di essa. Stava cercando di sfondarla.
L'impatto della creatura contro il solido legno della porta produsse un potente frastuono che strappò via un urlo dal petto di Evelyn. Lei indietreggiò e le sue gambe urtarono la vasca da bagno. Perse l'equilibrio e, nel vado tentativo di restare in piedi, afferrò la tenda della vasca. Uno a uno, gli anelli della tenda schizzarono via dall'asta ed Evelyn finì con il volto contro il bordo della vasca. L'impatto fece esplodere nel corpo della ragazzina una sensazione di torpore e dolore. Evelyn si accasciò a terra mentre il bagno iniziò a roteare su se stesso. Le sue orecchie si riempirono di fischi mentre la luce al neon sulla sua testa si era trasformata in un bagliore accecante.
Evelyn non perse i sensi, anche se la caduta l'aveva stordita. Udì l'uomo mezzo marcio allontanarsi dalla porta del bagno. Subito dopo Evelyn sentì sua madre urlare. Wiara doveva essersi svegliata proprio in quel momento. Il mostro aveva iniziato a sfogarsi su di lei.
Distesa sul pavimento del bagno, Evelyn si sentì di nuovo impotente... con le urla e le suppliche di sua madre che le arrivavano da un'altra stanza.
La luce del neon era ancora accecante.
Evelyn si coprì gli occhi con l'avambraccio e iniziò a piangere.



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“Che hai fatto alla faccia?”
Quella domanda strattonò via Evelyn dai suoi ricordi. Non era più distesa sul bagno, a sentire sua madre gridare, ma era tornata alla sua passeggiata per Colonial Hill. Di fronte a lei, due occhi scuri la stavano fissando da dietro un paio di fondi di bottiglia. Timothy-il-nanerottolo sembrava esser sbucato fuori dal nulla. Del resto Evelyn era completamente assorta nei suoi pensieri, e se il ragazzino non avesse parlato, lei lo avrebbe di sicuro urtato.
Il nanerottolo emanava un profumo dolciastro di zucchero filato alla fragola.
“Allora... che hai fatto alla faccia?” Continuò lui, preoccupato e sfacciato allo stesso tempo.
“Ecco...bhè...” Evelyn iniziò a biascicare delle parole sconnesse.
< Sono scivolata sulla vasca dal bagno... > le suggeriva la sua mente <... è così difficile da dire? E' tutto il giorno che provi questa battuta. Sono scivolata, avanti, dillo! >
Ma in un angolo più remoto del suo cervello, un altro pensiero iniziò a prendere forma: < ho bisogno di aiuto. >
“E' stato Ron Davis a ridurti così?” Chiese Timothy, il quale iniziava a spazientirsi.
Tirò fuori dalla tasca un chewing gum impacchettato in una carta bianca con strisce rosse e blu. Evelyn riconobbe immediatamente quei colori.
Si trattavano delle sue gomme preferite, le gomme degli Atlanta Braves.
Ebbe l'impulso di chiederne una a Timothy ma desistette: “perchè pensi che sia stato Ron a farmi questo?” Domandò lei.
Il nanerottolo si limitò ad alzare le spalle. Si infilò la gomma in bocca e ne fece un grande palloncino rosa.
Evelyn lo fece scoppiare con il dito indice.
“Faccia-da-pizza è qui nei dintorni...” rispose Timothy “...ho visto il tuo occhio nero e allora ho pensato che Ron ti avesse conciata per le feste. Sai... per quella scaramuccia al campo da baseball.”
Evelyn sollevò un sopracciglio: “Ron è qui? A Colonial Hill?”
“Oh si! E non è da solo. Con lui ci sono anche Joe Limpshire e suo fratello, Curt. Stanno dando la caccia a Wyatt Sinclair e Tom Williams. Avranno saputo che quei due si trovano da queste parti... sai di chi sto parlando?”
Ma Evelyn era corsa via.

Se Timothy diceva il vero, allora Wyatt e Tom stavano correndo un grande pericolo.
Curt Limpshire era un personaggio famoso a Louistown. Tutti conoscevano il temperamento violento e irascibile del ragazzo.
Evelyn sentiva il dovere di intervenire. Del resto Wyatt e Tom l'avevano difesa al campo da baseball, quando Joe e Ron aveva iniziato a scagliargli pietre e pezzi di terra. Wyatt aveva persino ferito Joe alla testa.
Con ogni probabilità, Ron e i fratelli Limpshire volevano vendicarsi su di lui e sul suo amico, Tom.
Mentre Evelyn correva, ogni suo passo riaccendeva il dolore del suo livido.
Cercò di ignorare quella sensazione ma era impossibile. La sua faccia pulsava e sembrava andare a fuoco. La ragazzina fu costretta a rallentare. Iniziò a perlustrare ogni vicolo di Colonial Hill, ogni incrocio e ogni piazza.
< Perchè mai Wyatt e Tom sono venuti in questo quartiere? > Si domandò Evelyn.
Perlustrò anche il retro della St.Peter Church, che era il vecchio luogo di raduno dei ragazzi di Louistown.
Stava per perdere le speranze, quando scorse da lontano Tom Williams. Quei suoi capelli a caschetto, di quello strano colore del grano, erano inconfondibili.
Il ragazzino passeggiava per una delle vie principali del posto. Chiacchierava con Wyatt, che era al suo fianco. I due non sapevo che Curt Limpshire era sulle loro tracce... o di sicuro non sarebbero rimasti così calmi e tranquilli.
“Idioti” commentò Evelyn con un sussurro. Avvertì poi un tonfo al cuore quando spostò il suo sguardo su Wyatt.

Evelyn non l'aveva mai detto a nessuno... ma era follemente innamorata di Wyatt. Si era sentita svenire quando il ragazzino l'aveva applaudita al campo da baseball o quando l'aveva difesa dalla sassaiola di Joe e Ron.
E poi c'era stata la serata del festival, quando Evelyn aveva rischiato di scontrarsi proprio con Wyatt. Allora aveva avvertito una strana sensazione nello stomaco e le sue gambe avevano iniziato a tremare per l'emozione... un tremolio così evidente da risultare osceno, o almeno queste erano le considerazioni di Evelyn. Eppure né Wyatt né il suo amico Tom si erano resi conto di quel particolare. Evelyn, quella sera, aveva fatto appello a tutte le sue forze per conservare la sua solita e glaciale espressione da sfinge.
Per sua fortuna, l'incontro con Wyatt e Tom fu molto breve.

“Idioti” ripeté Evelyn. Prese un grande respiro e si diresse rapidamente verso i due ragazzini.


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Curt Limpshire infilò le mani in tasca. Le sue dita trovarono subito il coltello a serramanico che portava sempre con se. Si domandò se era opportuno usarlo su quei due bastardi di Wyatt e Tom. Magari bastava sfregiarne solo uno così da mettere in riga anche l'altro. O forse era più opportuno tracciare una lunga e profonda linea sulla testa di Wyatt. Bisognava ferire il ragazzino che aveva ferito Joe. Occhio per occhio dicevano i popoli antichi, giusto?
Wyatt e Tom avevano bisogno dell'intervento educativo di Curt. E se solo avessero cercato di reagire... allora Curt Limpshire avrebbe tagliato le orecchie a entrambi.

Curt era un ragazzo di diciassette anni. Aveva frequentato la stessa scuola di suo fratello, Joe. Ma era stato espulso due anni fa per aver picchiato un suo compagno di classe per un motivo che Curt neanche ricordava.
Ci vollero tre professori per separare Limpshire dall'altro ragazzo. Ma prima che ciò accadesse, Curt aveva già liberato la bocca del suo compagno di classe dall'ingombro dei denti.
Era un ragazzo alto e forte... molto forte, con corti capelli dorati, occhi scuri, zigomi sporgenti e un mento marcato. La vita di campagna aveva indurito la sua muscolatura che già assomigliava a quella di un uomo adulto.
Passava le mattine e qualche ora del pomeriggio a lavorare la terra, anche sotto il sole cocente. Il resto della giornata la dedicava ai suoi passatempi che di solito prevedevano una cassa di birra consumata sul retro di una Pontiac e diverse molestie rivolte a tutti coloro che avevano la sfortuna di incontrarlo.

Quel giorno, Curt Limpshire si aggirava per Colonial Hill come un coyote famelico. Le grandi spalle incurvate, le mani infilate in tasca e i suoi movimenti frenetici descrivevano chiaramente tutta la rabbia che si agitava nel giovane.
Alle sue spalle, Joe e Ron non osavano parlare. Si limitavano a seguirlo.
Joe aveva due punti di sutura sulla testa, lì dove Wyatt l'aveva colpito con una pietra. Joe non aveva confessato a nessuno il modo in cui si era ferito... a eccezione di suo fratello.
Nessuno, secondo Curt, poteva permettersi di toccare un Limpshire.
Aveva sentito dire che Wyatt e Tom si trovavano a Colonial Hill, probabilmente alla ricerca di qualche bancarella o carretto dei gelati che non aveva ancora smontato dopo il festival. Quasi tutti i ragazzini di Louistown, quel giorno, orbitavano attorno Colonial Hill per quello stesso motivo.
“F-forse sono andati via” aveva piagnucolato Ron a un certo punto, stanco per aver camminato così tanto.
Curt si voltò di scatto verso faccia-da-pizza e lo fulminò con occhi di fuoco.
Ron era convinto che il ragazzo avrebbe estratto il suo coltello a serramanico. Per sua fortuna, ciò non accadde.
“Chiudi la bocca, tette-mosce!” Ringhiò Curt. Era l'unico ragazzo che poteva permettersi di chiamare Ron con quel nomignolo.
“Chiudi la bocca... o ti taglio il cazzetto che hai e ti costringo a mangiarlo!”
Faccia-da-pizza si limitò ad annuire. Sentì i suoi occhi gonfiarsi di lacrime e fece appello a tutte le sue forze per non piangere... altrimenti Curt avrebbe iniziato a deriderlo o a infierire su di lui.


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Ciò che Curt, Joe e Ron non potevano sapere era che Wyatt e Tom erano già stati portati in salvo da Evelyn.
La ragazzina si era precipitata verso i due amici, avvisandoli del pericolo a cui stavano andando incontro.
Se non fosse stato per Evelyn, Tom e Wyatt avrebbero lasciato Colonial Hill per recarsi su Main Streat, la via più veloce per tornare a casa. E proprio su quella strada avrebbero incrociato il loro cammino con Ron e i fratelli Limpshire.

Evelyn aveva portato Wyatt e Tom nel condominio in cui viveva.
I due ragazzini, ancora frastornati per quella vicenda, seguivano la giovane senza fare domande. Il palazzo in cui si trovavano sembrava esser uscito fuori da un libro dell'orrore. Le rampe di scale erano immerse in una sinistra penombra mentre le luci dei viari pianerottoli producevano uno strano e fastidioso ronzio.
L'aria era gelida e viziata. Tom avvertì l'odore pungete di muffa mista a un altro elemento che non riuscì a identificare. Era vomito.
Uno scatto di uno scarafaggio in un angolo di un corridoio fece sussultare il ragazzino. Altri particolari, come la grata arrugginita dell'ascensore o un enorme ragno vicino a una porta, rendevano ancora più inquietante quell'atmosfera.
Tutti sapevano che Colonial Hill era il quartiere più povero della città... ma Tom ignorava completamente lo stato di degrado in cui volgevano i condomini di quella zona. Nella sua mente da ingenuo, era convinto che ogni ragazzino di Louistown avesse un enorme campo a sua disposizione, o magari un giardino o altri posti baciati dal sole.
Di certo Evelyn non aveva la stessa fortuna di molti altri suoi coetanei. Nel corso dei due anni passati a Louistown, c'erano stati dei segnali che suggerivano le modeste condizioni di vita della ragazzina. Segnali che Tom aveva stupidamente ignorato fino a quel momento, come il fatto che Evelyn indossasse sempre il solito paio di scarpe da ginnastica, ormai vecchie e logore. Oppure il fatto che la giovane non avesse mai festeggiato halloween poiché non aveva un costume per l'occasione.

“Facciamo in fretta...” sussurrò Evelyn mentre iniziava a salire le scale “...il mio appartamento è al terzo piano. Mamma non c'è, rientra tardi dal lavoro e non voglio farmi vedere dai vicini mentre sono sola con due ragazzi.”
“Hai devi vicini impiccioni” commentò Wyatt senza alcuna malizia.
“Oh, altroché!” Rispose lei. Poi pensò < si... certo, impiccioni. Ma quando vengo aggredita da mio padre allora diventano tutti sordi e ciechi. >
Raggiunsero il terzo piano. Su una porta di solido segno si trovava una targhetta che riportava la scritta: Wiara Reese e Evelyn Reese.
Wiara aveva conservato il suo cognome da sposata nella speranza di agevolare l'integrazione di Evelyn nella comunità americana. Certo... Evelyn era nata in America, parlava a stento il polacco, adorava popcorn e patatine fritte... oltre ad essere una fan sfegatata per gli Atlante Braves. Eppure la maggior parte degli abitanti di Louistown si riferivano a lei come la figlia della polacca oppure la figlia della rifugiata. Ai loro occhi non era una vera e propria americana.
Evelyn sospirò nel vedere quella targhetta, estrasse la chiave dell'appartamento da una sua tasca, aprì la porta e invitò Wyatt e Tom a entrare.


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L'appartamento era piccolo, freddo e scarsamente illuminato.
I pochi mobili che arredavano le stanze erano vecchi e logori, proveniente da un'altra epoca e forse rimediati durante qualche svendita nel quartiere.
Il silenzio era surreale, interrotto solo dal ticchettio di un orologio e dal debole ronzio del frigorifero di marca Northstar.
Evelyn non si aspettava di provare un simile imbarazzo... e anche i suoi ospiti provavano la sua stessa sensazione. Wyatt e Tom non facevano altro che scambiarsi occhiate interrogative.
“Avete sete?...” Si sforzò di domandare Evelyn “...posso darvi dell'acqua o del tè freddo. Ho anche del kool-aid.”
“No, grazie. Sto bene così.” Rispose Wyatt.
Tom invece scosse il capo. Avrebbe voluto rispondere anche lui... ma non era in grado di parlare. Del resto Tom si agitava tutte le volte che posava lo sguardo su Evelyn... e in quell'occasione, mentre si trovava nel suo appartamento, il ragazzino non riusciva neanche a pensare.
Avrebbe voluto chiedere a Evelyn cosa avesse fatto all'occhio, ma lasciò che fu Wyatt a formulare quella domanda. Come tutta risposta, Evelyn disse semplicemente che era scivolata.
In quel momento, la giovane fu attraversata da un brivido lungo tutta la schiena. Alzò gli occhi verso il corridoio, proprio nel punto in cui era apparso suo padre la scorsa sera.
Per un istante Evelyn sperimentò di nuovo l'orrore che aveva provato in quei terribili momenti. Allora un agghiacciante pensiero saettò nella sua testa: < e se il mostro non avesse mai lasciato l'appartamento? >
Si trattava di un'idea ridicola, dato che le apparizioni dell'uomo erano brevi e non avvenivano mai di giorno.
Eppure Evelyn sentiva l'agitazione crescere dentro di se.
Wyatt e Tom si accorsero del suo umore, e istintivamente si guardarono alle spalle... come per sincerarsi che nessuno li stesse osservando.
Evelyn pensò che non nessun uomo o donna meritasse di provare paura della propria abitazione. Un conto era temere qualcosa che poteva accadere per strada o in qualche luogo strano e bizzarro. Ma provare terrore per qualcosa che esisteva nella propria casa era un'emozione orrenda e...
“...insopportabile” commentò Evelyn con un filo di voce.
“Cosa?” Chiese Wyatt.
Lei scosse il capo. “Venite come me” la ragazzina portò i due amici nella sua camera da letto.

Tom sentiva il cuore battergli forte nel petto. Non era mai entrato in una stanza di una ragazza. La immaginava come una sorta di nuvola rosa arredata con soffice moquette, armadi pieni zeppi di vestiti e un letto sommerso da bambole e cuscini.
Pareti grige, uno scarso arredamento e un letto che sembrava più una brandina si palesarono di fronte a Wyatt e Tom quando entrarono nella camera di Evelyn.
Le pareti erano tappezzate da un impressionante numero di poster e locandine che raffiguravano shuttle, astronauti e tutto ciò che comprenda l'esplorazione spaziale.
Un grande poster, vicino la porta, raffigurava un bambino che volgeva lo sguardo verso un cielo stellato, una scritta in fondo diceva: explore the universe.
Un altro poster, posto alla destra del letto, mostrava la sagoma di uno shuttle mentre lasciava la Terra, e un titolo a grandi lettere: welcome to the cape Kennedy air force station. Sulle pareti erano appesi anche dei vecchi disegni di Evelyn. Uno di questi mostrava la ragazzina sulla luna. Era insieme a sua madre e ad un alieno verde. Sorridevano tutti e tre.
Solo un elemento, appeso su quelle pareti, non parlava di spazio. Era un calendario.
Le ragazze di Louistown avevano l'usanza disegnare un cuore sulla data del loro compleanno.
Sul calendario di Evelyn, il cuore era disegnato sulla casella del 18 Agosto.
Tom l'aveva notato... quell'unico, microscopico indizio che provava che la camera apparteneva a una ragazza.
Wyatt ridacchiò: "cos'è questa roba, Eve? Hai rubato la tua stanza da un museo della nasa?"
"Adoro lo spazio..." commentò lei "...guardate." Si precipitò verso una parete tappezzata di immagini di diversi satelliti. Iniziò ad elencarli uno dopo l'altro, a memoria, e descriveva le missioni che dovevano svolgere o che avevano compiuto. Più parlava e più la sua maschera da sfinge si sgretolava, rivelando una ragazzina carica di entusiasmo e di passione.
Lei interruppe a metà il suo discorso quando si rese conto che Wyatt e Tom la stavano fissando con occhi spalancati. Erano imbambolati, come se improvvisamente si fossero ritrovati a fissare una perfetta sconosciuta. E in certo senso era così.
Evelyn si schiarì la gola e si mise a sedere sul letto.
Wyatt si sedette sul pavimento. Era un'abitudine che aveva fin da bambino e non gli sembrò affatto un gesto strano.
Tom lo imitò.
"Hey... "esclamò quest'ultimo "...ma quella...?" Si era accorto, solo in quel momento, di una vecchia mazza da baseball posta vicino al letto.
Evelyn si voltò verso quell'oggetto: "oh... si. E' proprio la mazza che ho usato per umiliare Joe Limpshire."
"Lo sai che appartiene proprio a Joe?" Domandò Wyatt.
Evelyn alzò le spalle: "ora è mia. E' un souvenir per aver battuto quel biondino di merda."
Scoppiarono a ridere tutti e tre. Quelle risate scacciarono via l'imbarazzo che stavano provando. Non potevano ancora rendersene conto, ma Tom, Wyatt ed Evelyn diventarono amici proprio in quell'istante.
"Perchè ci hai portato qui?..." Chiese poco dopo Wyatt e Evelyn "...so che volevi salvarci da Curt. Ma perchè ci hai portato proprio qui?"
Evelyn smise di sorridere. Un'ombra scese sul volto.
Quel cambio di umore impensierì Wyatt e Tom.
"Parlatemi dell'uomo mezzo marcio." Chiese la ragazzina.
I due ragazzi sul pavimento sussultarono. Si scambiarono una rapida occhiata. Erano stupiti e impressionati. Migliaia di domande iniziarono a vorticare nelle loro menti... ma neanche uno di quei quesiti venne espresso.
Wyatt sembrava particolarmente agitato: "d-di cosa stai parlando, Eve?"
"Ieri sera vi ho sentiti parlare dell'uomo mezzo marcio" Evelyn sembrava esser tornata la solita sfinge di ghiaccio. Il suo sguardo sembrava penetrare la mente dei due ragazzini.
Wyatt alzò le spalle: "io e Tom stavamo parlando di un film horror."
Evelyn alzò un sopracciglio: "indossa una giacca rossa, ha la carne putrefatta e gli manca un occhio."
"Ma... come fai...?" Tom non finì quella domanda. Si era messo in ginocchio, pronto a scattare in piedi.
Evelyn invece rimase calma. Indicò il livido parzialmente coperto dai suoi capelli e continuò: "lui viene a trovarmi di notte. Cerca di farmi del male... ma io sono più veloce di lui e allora quel mostro si sfoga su mia madre."
"Cosa le fa?" Chiese Tom con un filo di voce.
Evelyn scosse il capo: "non farmi rispondere..." le sue mani si chiusero a pugno, stropicciando le coperte del letto "...voi l'avete incontrato di giorno?"
"Perchè vuoi saperlo?" Domandò Wyatt.
"Perchè voglio trovarlo" il tono di voce di Evelyn impensierì i due ragazzi.
Tom indicò il suo amico: "lui dice di sognarlo."
"Non è vero..." si apprestò a rispondere Wyatt "...non è affatto vero."
"Ma tua madre dice che hai gli incubi!"
"Lascia stare quello che dice mia madre, Tom!" Wyatt era sempre più nervoso.
Si alzò, puntò un dito contro Evelyn e disse: "cosa pensi di fare? Di andare a trovare l'uomo mezzo marcio? E magari vuoi rompergli il cranio con quella mazza da baseball?"
Evelyn fece appello a tutte le sue forze per restare calma: "detto in questo modo..." rispose lei "...il mio piano può sembrare riduttivo."
Wyatt era così nervoso che iniziò a ridacchiare. Si voltò verso Tom: "dico... l'hai sentita?"
Tom cercò di farlo calmare. Ma Wyatt, che ora sembrava più spaventato che arrabbiato, non voleva sentir ragione.
"Tu cerchi un modo per farti ammazzare, Eve. E io mi tiro fuori questa storia."
Era impallidito e le sue mani tremavano.
Ormai era chiaro che Wyatt era spaventato a morte e che cercava di mascherarlo fingendosi arrabbiato.
Lui uscì dalla camera da letto. Il suo intento era quello di abbandonare l'appartamento, abbandonare Colonial Hill e dimenticare  tutta quella stramaledetta storia. Ma le lacrime lo colsero mentre si trovava sul corridoio. Allora poggiò la schiena contro il muro e si lasciò scivolare a terra.
Tom lo raggiunse. Evelyn decise di restare in camera. Sapeva che era sconveniente intromettersi in momento così delicato e intimo.
In cuor suo provava una certa invidia nei confronti di Tom. Lei avrebbe dato qualunque cosa per consolare Wyatt, per stringerlo tra le sue braccia e cullarlo amorevolmente.

"Wyatt..." sussurrò Tom, confuso e preoccupato nel vedere il suo amico reagire il quel modo. Concesse al ragazzino il tempo di riprendersi.
Wyatt, un pò imbarazzato, si asciugò le lacrime.
Con voce ancora tremolante disse: "avevo già incontrato il mostro... prima di quella volta nell'erba alta."
"Intendi dire dal vecchio Price? Quando stavamo fuggendo da Ron?"
Wyatt annuì: "l'avevo già visto. Era... Febbraio. Si, si, era Febbraio."
"Perchè non mi hai mai detto nulla?" Tom si sedette di fronte a lui. Il pavimento era gelido ma non ci fece caso.
Wyatt si strinse nelle spalle: "cosa vuoi che ti dica? Che ero troppo spaventato per raccontarlo? Ero così traumatizzato che non riuscivo a credere che era accaduto sul serio. E poi non avevo subito collegato il mio primo incontro con quello che è accaduto nell'erba alta."
"Vuoi raccontare?"
Wyatt prese un gran respiro e si guardò attorno. Evelyn era rimasta nella sua stanza, sul letto. Lei poteva vedere e ascoltare i due ragazzi, dato che la porta era rimasta aperta.
Wyatt provò un certo fastidio. Non voleva confessare un ricordo così spaventoso di fronte a uno spettatore. Ma riuscì a sopportarlo e iniziò a raccontare: "era un pomeriggio di Febbraio. Il sole era già tramontato e io mi annoiavo in casa. Fuori pioveva e non potevo neanche uscire. Allora pensai di fare uno scherzo a mia madre... uno dei miei soliti scherzi."
Tom annuì: "intendi dire quando ti nascondi dentro qualche armadio per spaventare i tuoi?"
Wyatt stirò un amaro sorriso e annuì: "mi infilai nell'armadio dei miei genitori. Ma mia madre non si muoveva dalla cucina. Forse aveva delle cose da fare o forse stava parlando al telefono con qualcuno. Lei è sempre attaccata a quella maledetta cornetta.
Ad ogni modo... mentre ero nascosto nell'armadio, e spiavo la camera attraverso le ante socchiuse, iniziai a sentirmi... ecco ...stretto."
"Stretto?" Domandò Tom, perplesso.
"Si... insomma ...come se improvvisamente non fossi più solo nell'armadio. Fu allora che cercai di uscire, ma non ci riuscivo. Avevo la sensazione di essermi avvinghiato tra i vestiti appesi nell'armadio. E più mi dimenavo e più mi sentivo bloccato. Era come stare dentro... dentro... come si chiamano?"
"Sabbie mobili" intervenne Evelyn dalla sua camera.
"Come?" Chiese Wyatt, alzando la voce.
Lei rispose: "le sabbie mobili. Se ci finisci dentro... allora più ti agiti e più sprofondi."
Wyatt annuì: "si... una cosa del genere. Ero sicuro di non esser solo nell'armadio. C'era un uomo... e aveva iniziato a strangolarmi."
Evelyn si portò le mani alla bocca. Quel racconto la stava terrorizzando a morte.
Anche Tom era spaventato, i suoi occhioni azzurri erano fissi su Wyatt.
Lui continuò: "non riuscivo a vedere il mio aggressore... ero solo in grado di intravedere le maniche della sua giacca rossa. E la cosa più spaventosa era che avevo visto quella giacca poco prima di entrare nell'armadio.
Non so come sia possibile... forse l'uomo mi stava tendendo un agguato e io, nel vedere i suoi abiti, pensai che fossero solo alcuni dei vestiti appesi nell'armadio.
Non so spiegarmi come sia riuscito a entrare in casa mia e a nascondersi così bene. So solo che riuscii a sfuggire alla sua presa per miracolo. Allora mi precipitai fuori dall'armadio e corsi via. Quel giorno ero così traumatizzato che non fui in grado di parlare. Nei giorni successivi mi ero convinto che era stato solo frutto della mia immaginazione."
Wyatt si alzò da terra e si sistemò i vestiti: "Tom, quando siamo usciti dall'erba alta... e mi hai detto che un mostro ci aveva inseguiti, un mostro che indossava una giacca rossa ...bhè... ho collegato subito i due casi. Sono convinto, anzi, sono assolutamente sicuro che il mostro che ci ha inseguiti era lo stesso che si nascondeva nell'armadio dei miei genitori. Da allora faccio incubi quasi ogni notte."
"E' lo stesso mostro che mi ha chiamato tra i filari del granturco della mia fattoria" concluse Tom.
Evelyn scese dal letto e raggiunse i due ragazzi sul corridoio: "è lo stesso mostro che appare di notte in casa mia. Ho bisogno di una mano."
Wyatt scosse la testa: "chiama la polizia o qualcun altro. Io non so come aiutarti... e se non ti dispiace, adesso vorrei tornare a casa."
Il ragazzino si diresse verso l'uscita e abbandonò l'appartamento.
Tom non sapeva cosa fare o cosa dire. Fu in quel momento che Evelyn lo chiamò: "Tom... quel mostro cerca di ammazzarmi..."
Lui sentì una fitta al cuore. Voleva aiutarla, voleva aiutarla con tutte le sue forze: "dammi... dammi un pò di tempo e ne riparleremo" disse.
"Quando?" Chiese Evelyn con voce tremolante.
Tom temette che stesse per piangere: "non lo so."
"Quando?" Insistette lei.
"Domani... va bene se ci incontriamo domani?"
Evelyn annuì.
Tom la salutò con un cenno del capo per poi voltarsi e raggiungere Wyatt. Quest'ultimo stava già scendendo le scale del condominio.


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Quella notte, Tom non riusciva a prender sonno.
La sua camera era immersa in un silenzio spettrale. Nel suo letto, il ragazzino fissava il soffitto rischiarato dalla luce lunare. Pensava e ripensava a tutta quell'assurda storia dell'uomo mezzo marcio: ciò che era capitato a Evelyn, gli incubi di Wyatt, la folle corsa nell'erba alta, quel raccapricciante sussurro nel campo di grano... < hey, ragazzino! >  
Tom rammentò di nuovo quella spaventosa voce.
< Hey, ragazzino! Hey, ragazzino! Hey, ragazzino! >
In cuor suo sperava di non dover più rivivere quei momenti. Sperava che si trattasse di un evento unico, nato e morto in solo terrificante giorno.
Ma dopo le rivelazioni di Evelyn e Wyatt, Tom era ormai certo che prima o poi avrebbe dovuto affrontare la situazione. Mentre cercava invano di dormire, Tom comprese che i problemi non potevano essere nascosti sotto il tappeto come se fossero polvere. Non potevano semplicemente essere ignorati e... aspettando il normale corso degli eventi -pura fantasia- tutto si sarebbe sistemato da solo.
Oh, no... bisognava rimboccarsi le maniche, agire e magari subire le conseguenze.
Tom era cresciuto in un luogo idilliaco. Una bella fattoria illuminata dal sole, una madre amorevole e un padre divertente. Era un angolo di mondo perfetto che, fino ad allora, aveva protetto Tom dagli orrori della vita... come la guerra del Vietnam e i tumulti che si stavano verificando in America.
Ma un mostro era apparso nel suo angolo di mondo. Un mostro affamato che non poteva essere ignorato.

"Hey, ragazzino!"
Tom scattò in piedi. Non era stato un frutto della sua immaginazione. Aveva di nuovo sentito quell'orrendo e rauco sussurro.
Iniziò a tremare e a sudar freddo. Era terrorizzato. Sentiva la gola secca e un macigno nello stomaco che gli impediva di muoversi.
Quella voce sembrava così innaturale. Qualcosa, magari nel timbro, la rendeva inumana.
Tom iniziò a guardarsi attorno, le sue gambe sembravano pietrificate. Non era in grado di compiere un singolo passo.
Notò solo in quel momento tre ombre nere proiettate su una parete della camera. Tom si voltò verso la finestra e notò tre piccole macchie spalmate sul vetro.
Il ragazzino strizzò gli occhi nella speranza di mettere a fuoco quelle immagini. Erano cicale. Tre grasse cicale sulla sua finestra. Muovevano lentamente le loro antenne per esplorare e studiare la superficie vetrosa a cui aderivano.
La vista di quegli insetti provocò un brivido lungo la schiena di Tom.
"Hey, ragazzino!"
Tom sussultò. L'intero suo corpo fu scosso da indicibili tremori. Quel sussurro proveniva dalla sua stanza... e per essere più precisi ...proveniva dall'armadio.
Tom si voltò lentamente verso quel mobile. Le ante erano socchiuse e attraverso quell'oscuro spiraglio si potevano intravedere i vestiti appesi del ragazzino.
C'era qualcos'altro nell'armadio. Qualcosa che assomigliava... a una mano deforme.
Gli occhi di Tom si posarono sulla chiave dell'armadio, era infilata nella serratura delle ante.
Il ragazzino scattò senza neanche pensarci. Richiuse le ante dell'armadio, girò la chiave e fece scattare la serratura. I tremori che lo aggredirono in quel momento gli provocarono una sensazione simile a una convulsione.
Per diversi interminabili secondi, Tom rimase a fissare l'armadio parzialmente nascosto dalle ombre della notte. Non sapeva cosa fare, cosa pensare... non era più in grado di ragionare. Eppure il suo istinto gli suggeriva che non era solo nella sua camera, che qualcosa lo stesse tenendo sott'occhio. Qualcosa che era in agguato... qualcosa che stava traendo un sadico piacere nel vedere Tom in quello stato.

La mattina dopo, Diana Williams e Scott Williams trovarono il loro figlio addormentato sul tappeto della sala.



cic

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Capitolo 4
*** L'impronta del male ***


♦ L'impronta del male ♦






"Lo hai raccontato ai tuoi genitori?" Chiese Evelyn.
Tom scosse la testa.
Lui e Evelyn erano seduti su una vecchia altalena, l'uno accanto all'altro, senza dondolarsi. "Non mi crederebbero..." rispose il ragazzino "...un uomo mezzo marcio che appare nel mio armadio?! Nessuno può credere a questa storia."
Evelyn annuì.
Si trovavano sul retro di St.Peter Church, in uno spiazzo cementato appartenente alla chiesa. Fino a due anni fa era il punto di ritrovo dei ragazzi di Louistown. C'era qualche panchina, un'altalena e un vecchio canestro con una rete di metallo arrugginita. Le mura che abbracciavano il campetto erano ricoperte da scritte oscene. Tom non comprendeva il significato della maggior parte di quelle parole  ma una parte di lui, in qualche modo, sapeva che erano volgari e impronunciabili.

Quella stessa mattina aveva incontrato Evelyn presso Main streat, a due passi da Colonial Hill. Non appena Evelyn vide Tom, capì subito che era turbato.
La sua empatia sbalordì il ragazzo.
I due avevano raggiunto il retro di St.Peter Church. Una volta lì, Tom raccontò ad Evelyn tutto quello che gli era capitato la scorsa notte: i sussurri dell'uomo mezzo marcio, la sua presenza nell'armadio e la paura che aveva provato durante quei terribili momenti.
Fu un'idea di Evelyn quella di recarsi sul retro della chiesa per poter parlare.
A Tom piacque tale proposta. Lo trovava un luogo intimo, ideale per poter parlare di argomenti così delicati. Poteva essere considerato come una sorta di confessionale.

Oltre le mura attorno a quello spiazzo si potevano sentire delle auto, qualche strombazzata di clacson e un cane abbaiare da sopra un balcone. Tom ebbe l'impressione che tutti quei suoni fossero lontanissimi, provenienti da un'altra dimensione.
Aveva scoperto che gli piaceva stare da solo con Evelyn. Temeva che l'emozione del momento gli avrebbe impedito di parlare con la ragazzina... ma tutto ciò non accadde, anche se Tom sentiva un tuffo al cuore ogni volta che si voltava verso di lei e incontrava i suoi bellissimi occhi.
"Perchè non raccontiamo tutto a tua madre?" Si era ritrovato a domandare.
Si schiarì la gola e continuò: "dovremmo parlare con un adulto... e tua madre, ecco..."
Si interruppe.
Evelyn finì per lui: "mia madre crederà alla nostra storia dato che anche lei è una vittima di quel mostro?"
Tom annuì, grato della schiettezza di Evelyn. Lui non avrebbe mai trovato l'ardore di completare quella frase.
La ragazzina abbassò lo sguardo. Con le punte dei piedi si diede una piccola spinta e le catene dell'altalena iniziarono a cigolare. Fu come sentire un acuto e inumano gemito. Quello stridio provocò in Tom un certo fastidio ai denti ma lui non ci fece caso. Aspettò che Evelyn finisse di riordinare le idee e intanto ammirava il suo profilo. "Mamma non può aiutarci" disse infine la ragazzina, sospirando.
Tom potè avvertire un grande senso di delusione nella voce di Evelyn.
Lei continuò: "non hai la minima idea di quante volte ho discusso con lei... di quante volte ho litigato con lei..." ridacchiò per il nervosismo "...lei sembra che non voglia far nulla. No... no, mia madre non può aiutarci."
Passarono diversi secondi in silenzio. Una nuvola occultò il sole, offrendo una fresca e piacevole ombra. In lontananza, Tom percepì il canto delle cicale.
Rabbrividì. Quel frinire gli riportò alla mente le immagini del suo campo di granturco che oscillava nel vento e quella voce... -Hey, ragazzino- ...che lo chiamava tra i filari.
Si voltò verso Evelyn -un altro tuffo al cuore- "secondo te chi è l'uomo mezzo marcio?"
Lei si irrigidì. Ebbe l'impulso di raccontare a Tom tutto quello che sapeva sul mostro. Immaginò la scena: lei che si voltava e diceva: < si dà il caso che l'uomo mezzo marcio è mio padre, Alan Reese. Ora non so dirti cos'è accaduto a mio padre. L'ultima volta che l'avevo visto, due anni fa, era un uomo normale. So solo che adesso è un mostro in grado di apparire nelle case delle persone per far loro del male. >
Perchè si sentiva in colpa? No... non era colpa, era... vergogna.
In quel preciso momento, Evelyn capì di provare una grande vergogna. Quel sentimento le teneva a freno la lingua.
< Non dirgli nulla... > sussurrò allarmata la voce della sua coscienza < ...non dire nulla a Tom, per carità. Ormai è passato troppo tempo. Avresti dovuto rivelargli la verità durante la vostra prima chiacchierata... ma ora è passato troppo tempo. Se adesso parli, Eve, sembrerà un'ammissione di colpa.
Perciò taci. >
"Eve? Eve?"
Evelyn si rese conto solo in quel momento che Tom la stava chiamando. Il vortice dei suoi pensieri l'aveva estraniata dalla realtà.
Lei sussultò e si voltò di scatto verso il ragazzino: "si?" Sul suo volto aveva la stessa espressione di quando gli insegnanti la rimproveravano per essersi distratta durante le ore di lezione.
Tom deglutì, pensò che Evelyn era bellissima anche quando mostrava imbarazzo.
Era la prima che osava chiamarla Eve e questo gli diede un certo piacere.
"Stavo dicendo..." ripetè Tom "...secondo te, chi è l'uomo mezzo marcio?"
Evelyn si strinse nelle spalle: "sono convinta che sia un fastasma" rispose sinceramente lei. Era certa che suo padre fosso morto da qualche parte e che il suo spirito fosse tornato sulla terra per tormentare lei e altre persone.
Quella sua risposta sembrò portar via tutto il calore dal sangue di Tom.
Lui impallidì: "m-ma com'è possibile?" Provò imbarazzo per aver balbettato di fronte a Evelyn.
La ragazzina lo guardò negli occhi: "hai presente quando muore qualcuno, Tom? La gente dice che quella persona resterà sempre al nostro fianco. Ecco... e se quella persona fosse crudele? E' ciò che io chiamo l'impronta del male.
Ti ho mai parlato di mia zia?"
Lui scosse il capo.
"E' la sorella maggiore di mia madre. E' più grande di lei di dieci anni. Anche lei fuggì dalla Polonia ma solo dopo esser stata liberata dal capo di concentramento di Dachau. Sai cos'è Dachau, Tom? E' una città tedesca.
Durante la guerra, molte persone furono rinchiuse nel campo di quella città. Il termine corretto è deportate. Molte persone furono deportate a Dachau... compresa mia zia.
Lei ora vive a New York. Quando vado a trovarla, alcune volte mi racconta di quello che le è capitato in quel campo di concentramento... ma non scende mai nei particolari. Credo che le manchi la forza per farlo."
Tom deglutì. Fissava Evelyn senza essere in grado di distogliere lo sguardo dalla ragazzina. Il suo racconto aveva catturato la sua più totale attenzione.
Lei continuò: "mia zia mi disse che, insieme a lei, c'erano molti altri bambini in quel campo. Quasi tutti erano così piccoli che non riuscivano a capire cosa stesse accadendo. Ma mia zia era grande abbastanza e, fino alla fine della sua prigionia, comprese tutto."
Questa volta Tom fu scosso da un brivido di paura. Lui era sempre rimasto all'oscuro riguardo tutto ciò che era accaduto nei campi di concentramento... ma quelle ultime parole pronunciate da Evelyn -comprese tutto- suggerirono alla mente di Tom di trovarsi sul ciglio di un abisso nero. Un abisso pieno di orrori che non era in grado di immaginare.
Si chiese che fine avessero fatto tutti quei bambini rinchiunsi nel campo.
Evelyn sospirò: "mia zia mi ripete spesso..." cambiò tono di voce e accento, cercando di imitare il più possibile il modo di parlare di sua zia "...ricorda, bambina; il male lascia sempre una traccia su questo mondo.
Anche dopo la morte, le persone possono fare del male."
Evelyn si schiarì la gola e tornò a parlare con la sua voce normale. Imitò il movimento di una persona che si scopre l'avambraccio e disse: "e a quel punto, mia zia si tira su la manica della camicia e mi mostra il numero che le hanno tatuato sul braccio. Quel numero è una prova che il male lascia sempre un'impronta.
Quindi, Tom, per rispondere alla tua domanda... io credo che l'uomo mezzo marcio sia l'impronta di un male. L'impronta di un uomo morto... un uomo cattivo."

"Hey, hey!" Squillò una voce a un angolo di quel campetto.
Tom ed Evelyn sussultarono per lo spavento, suggestionati anche dall'argomento che stavano affrontanto. I loro movimenti fecero oscillare l'altalena. I suoi cardini arruginiti protestarono con stridolii acuti.
Joe e Curt Limpshire stavano facendo il loro ingresso nel campetto. Ron faccia-da-pizza li seguiva come una bravo cane.
La paura travolse Tom. Ebbe l'impressione che il suolo sotto i suoi piedi si fosse tramutato in sabbie mobili e che lo stessero trascinando verso il basso.
E magari sarebbe stata una benedizione, almeno avrebbe evitato Curt Limpshire.
Lui avanzò verso Tom e Evelyn sfoggiando un sorriso carico di rabbia e sadica gioia. Aveva le mani in tasca e Tom era certo che in una di quelle tasche c'era il famoso coltello a serramanico... l'inseparabile compagno di Curt.
Quest'ultimo si rivolse proprio a Tom con un cenno del capo: "ti nascondi nel retro della chiesa per farti succhiare il pisellino da questa polacca?" Indicò Evelyn con un altro cenno del capo, senza degnarla di uno sguardo.
Lei balzò in piedi: "sono americana!" Ribadì lei.
Tom non riusciva a muoversi. Stava ancora ripensando alle parole di Curt... < succhiare cosa? > La sua mente da ragazzino non aveva mai partorito un simile atto. Tom provò una strana sensazione allo stomaco, qualcosa simile alla nausea.
< Mio Dio! Forse vomiterò. >
Ron e Joe insanto si erano sistemati sul retro dell'altalena, circodnando Tom e Evelyn.
Curt lanciò uno sguardo carico d'odio verso la ragazzina: "non sei americana, sei solo un'immigrata del cazzo!" Si afferrò il cavallo dei pantaloni con entrambe le mani e strinse forte senza mai smettere di fissare Evelyn.
Lei stava morendo di paura ma i suoi occhi mostravano ferocia e risolutezza: "sono nata ad Atlanta! Si può sapere che vuoi?"
Curt iniziava a spazientirsi < come si permette questa troietta di contraddirmi? >
Puntò un dito contro di lei e alzò la voce: "sei uscita fuori da una fica bolscevica! Sei stata scodellata sul suolo americano ma questo non fa di te un'americana." Sputò per terra per sottolineare il suo disappunto.
Il suono del catarro che impattò al suolo non fece altro che aumentare la sensazione di nausea nello stomaco di Tom.
< Sono riusciti a trovarmi > pensò lui. Era rimasto seduto sull'altalena. Evelyn invece era in piedi, faccia a faccia con il bullo più pericoloso di Louistown.
< Dove trova tutta quella forza? > Tom non era in grado di darsi una risposta. Fissò la ragazzina che in quel momento le sembrò una leonessa.
Lei continuava a difendere le sue origini, sostenendo che suo padre era un americano nata in America. Ma Curt Limpshire aveva iniziato a insultare la ragazzina chiamandola incrocio di razze e usando altri crudeli appellativi.
Non furono i suoi insulti a far tremolare la voce di Evelyn o farle venire le lacrime agli occhi... bensì le risatine di Joe e Ron alle sue spalle.
La ragazzina perse la pazienza e si mosse verso Curt.
Ma al grande e muscolo Curt fu sufficente mettere una sola mano sul volto di Evelyn e applicare una piccola spinta per farla cadere al suolo.
Lei rotolò due volte sul cemento arroventato dal sole. Joe e Ron risero a crepapelle.
Evelyn sentì in bocca il sapore della polvere del pavimento. Si ritrovò sottosopra, con le spalle e la nuca sul suolo e le gambe all'aria. Un gomito le si era sbucciato e sembrava stesse andando a fuoco, come se qualcuno ci avesse sfregato sopra un fiammifero.
Tom era scattato in piedi < finiscila, Curt! > avrebbe voluto urlare, ma la sua lingua non voleva saperne di muoversi.
Curt allungò una mano verso di lui. Tom tremò dalla testa ai piedi quando vide il coltello nella mano del ragazzo.
La lama scattò improvvisamente dal manico, con un suono che ricordava un secco e deciso schiocco.
"Mettetelo a terra" aveva ordinato Curt a suo fratello e a faccia-da-pizza.
Fu estremamente facile afferrare quelle braccette esili di Tom e spingere il ragazzino a terra. Tom cercò di dimenarsi ma in poco tempo capì che non poteva sovrastare la forza di Joe... figuriamoci quella di Ron, che pesava almeno quindici chili più di lui. Curt ripiegò il coltello e lo ripose nella tasca.
Evelyn, nel frattempo, si era rialzata e aveva indietreggiato fino a urtare con la schiena un muro del campetto. L'impatto non fu violento ma inaspettato... e la ragazzina finì con il morsicarsi la lingua. Il sapore metallico del sangue si unì a quello della polvere che ristagnava nella sua bocca.
La vista del coltello aveva terrorizzato la giovane e anche se Curt aveva riposto l'arma nella tasca, Evelyn continuava ad avere paura. Continuava a tenersi premuta contro la parete, incapace di pensare o muoversi.
Curt intanto si era posizionato su Tom, con le gambe appena divaricate per non calpestarlo. Il ragazzino non poteva far altro che fissare il bullo sovrastarlo.
Era spaventato ma anche arrabbiato. La sua impotenza lo riempiva di un'immane frustrazione.
"Certo che qui fa caldo..." Curt iniziò a ridacchiare. Si passò il dorso della mano sulla fronte per simulare il gesto di quando si vuole asciugare il sudore.
"Tu non hai sete?" Aveva domandato a Tom. Subito dopo iniziò a sfilarsi la cintura dai pantaloni.
Joe e Ron avevano le lacrime agli occhi per il troppo ridere. Il voluminoso pancione di Ron traballava come una massa di gelatina informe.
Lui e Joe continuavano a tener fermo Tom a terra, stringendo così forte i suoi polsi da bloccare l'afflussio di sangue nelle sue mani.
Tom avvertì le sue dita formicolare e diventare gelide... ma ci fece molto caso. Del resto, tutta la sua attenzione era rivolta a Curt.
"Hai sete?" Domandò di nuovo lui. Il suo sorriso era diventato enorme.
Tom sperimentò una nuova forma di orrore. Un orrore che non riusciva a comprendere del tutto.
"Ecco una bella pisciata per te" Curt si abbassò i pantaloni e fece per rimuovere anche i boxer.
Tom strinse così forte i denti da provare dolore alla mandibola. Iniziò a piangere per la rabbia... Evelyn avrebbe visto tutta la scena. Lo avrebbe visto mentre subiva un atto così umiliante. Questo Tom non poteva sopportarlo.

Evelyn intanto si era portata le mani al volto. Ma attraverso le dita, la ragazzina stava osservando tutta la scena.
All'improvviso un'idea le balenò in testa: prese un grande respiro e lanciò un urlo potentissimo, il più potente che avesse mai emesso in tutta la sua vita.
Fu un suono di impressionante intensità, acuto e dirompente... quasi disumano.
Per la sorpresa, Joe e Ron sobbalzarono. Quest'ultimo lasciò la presa dal polso di Tom. Evelyn sentì i suoi polmoni prendere fuoco. Chiuse gli occhi, serrò i pugni e si piegò in due mentre continuava a urlare con tutte le sue energie.
I suoi timpani vibrarono e iniziò a mancarle il respiro.
Molti passanti vicino al campetto iniziarono a correre in quella direzione, allarmati dal terrificante strillo di Evelyn.
Joe e Ron fuggirono immediatamente. Curt impiegò qualche secondo per rimetter su i pantaloni. Indicò Evelyn: "non finisce qui, troia!" Si voltò e in un attimo sparì dal campetto.
La ragazzina smise di urlare subito dopo. La testa le girava così forte che fu costretta a sedersi a terra.
Tom la fissava con occhi carichi di stupore e gratitudine.
In quel momento, uno scintillio al suolo catturò la sua attenzione. Il ragazzino spalancò gli occhi... non riusciva a credere a quello che stava vedendo: il coltello di Curt giaceva vicino a lui. Doveva essergli scivolato dalla tasca dei pantaloni mentre si stava rivestendo in fretta e furia. Senza pensarci, Tom prese quell'arma e la infilò in tasca.

Un istante dopo, Evelyn gli afferrò un polso e lo strattonò: "alzati" disse lei.
Senza mai lasciare la presa, trascinò Tom all'interno della chiesa.
La ragazzina voleva evitare a tutti i costi le persone che erano accorse in quella zona, allarmate dal suo possente grido.
Una volta nell'edificio, lei e Tom superarono la navata immersa nel buio. A quell'ora del giorno, la chiesa era deserta e i loro passi riecheggiavano all'interno della sala centrale. I due ragazzini rabbrividirono per il gelo che regnava in quel posto e in poco tempo si abituarono al buio.
Il portone principale era chiuso a chiave ma, dopo una manciata di minuti, Evelyn trovò una porticina che conduceva all'esterno. Quando l'aprì, lei e Tom furono travolti dalla luce del sole.
Entrambi fecero capolino all'esterno e iniziarono a guardarsi attorno alla ricerca di Curt, Joe e Ron. Ma quello che videro fu solo Main street invasa dal traffico pomeridiano e da diversi passanti ai lati della strada.
"Via libera" disse Evelyn con voce carica di emozione. Era così piena di adrenalina che prese di nuovo la mano di Tom senza neanche rendersene conto e uscì fuori dalla chiesa con un balzo.
I due corsero per diversi minuti, mano nella mano, per Main street. Tom desiderò in cuor suo che quel momento durasse per sempre.
Evelyn si fermò poco dopo. Diversi uomini e donne passavano vicino a lei, alcuni la ignoravano mentre altri le lanciavano sguardi interrogativi.
La ragazzina si voltò poi verso Tom: "dove andiamo?"
Ma lui, proprio in quel preciso momento, domandò: "come stai?"
Si fissarono negli occhi per una manciata di istanti, inebetiti. Subito dopo, senza alcun motivo apparente, scoppiarono in una fragorosa risata.

Non si erano resi conto che una Impala del '67 si era avvicinata a loro.
I due ragazzini si voltarono solo quando l'auto accostò al loro fianco. La persona alla guidà abbassò il finestrino e chiese: "Tom Williams?! Cosa fai da queste parti?"



cic

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Capitolo 5
*** Nulla di strano ***


♦ Nulla di strano ♦






Se si prende la Main street e si procede in direzione dell'Algenon river, che attraversa la parte meridionale di Louistown, ci si trova di fronte a una piccola stradina di campagna.
Su entrambi i lati della stradina si trovano dei rigogliosi cipressi.
Per questo motivo i locali chiamano quella via Cypresses road, nonostante il suo nome originale sia Woodward avenue.






L'Impala del '67 lasciò Main street per immettersi nella piccola via di campagna. Entro pochi minuti avrebbe raggiunto la fattoria dei Williams.
La signorina Rosenberg, al volante, procedeva con tranquillità. Spesso alzava lo sguardo in direzione dello specchietto retrovisore per controllare i suoi due passeggeri: Tom Williams e Evelyn Reese.
Tom non gradiva la compagnia della signorina Mary Rosenberg, nonostante si trattasse di una donna gentile e affabile.
Ma Mary Rosenberg era la sua insegnante di matematica... e Tom, nel suo inconscio, aveva associato quella persona alla scuola e a tutto ciò che trovava noioso a questo mondo. Inoltre, il profumo al patchouli della donna sembrava ristagnare nella vettura, rendendo l'aria quasi irrespirabile.

Mary Rosenberg aveva ventisei anni. Era nata e cresciuta a Little Rock ma si era trasferita a Louistown dopo aver ottenuto la cattedra in una delle scuole della città. Si trattava di una persona allegra, lei stessa si definita uno spirito gioioso.
Indossava spesso abiti variopinti. Questo, insieme ai suoi enormi occhiali dalla montatura rossa e la sua impressionante capigliatura riccia, le dovano un aspetto molto originale. Si poteva infatti distinguere la signorina Rosenberg in una folla di persone con un solo colpo d'occhio.
Dallo specchietto retrovisore della sua Impala ciondolava una collanina con un grande pendaglio a forma di simbolo della pace.
Alcuni abitanti di Luoistown non gradivano la presenza di Mary Rosenberg. La chiamavano Hippie ma con tono dispregiativo.
“Grazie ancora per il passaggio” aveva squittito Tom. Avrebbe fatto qualunque cosa per interrompere quel silenzio che regnava in maniera così pesante nell'auto.
Al suo fianco, Evelyn se ne stava in silenzio, immersa nei suoi pensieri.
A differenza di Tom, la ragazzina sembrava trovarsi a suo agio in quella situazione.
“Nessun problema” rispose Mary Rosenberg con tono allegro, e scoccò un'altra occhiata a Tom attraverso lo specchietto retrovisore.

L'Impala si fermò di fronte alla casa dei Williams.
Tom balzò rapidamente fuori dalla macchina. Era convinto che l'odore del patchouli sarebbe rimasto sulla sua pelle per almeno una settimana. Anche Mary ed Evelyn scesero dall'auto. Furono tutti e tre immediatamente aggrediti dal calore di quella giornata. Il sole faceva risplendere le colline che si perdevano a vista d'occhio lungo tutto l'orizzonte. E il canto delle cicale era quasi assordante.
Proprio in quel momento, dall'abitazione, uscì Scott Williams.
Il padre di Tom vestiva un paio di jeans e una camicia verde a scacchi. Aveva le mani sporche di grasso e cercava di pulirle con un panno.
Stirò un sorriso ma si vedeva che era confuso da quella situazione. Tom colse anche un certo imbarazzo nel volto di suo padre.
La luce del sole colpì i suoi grandi occhiali da vista che sembrarono brillare come oro. “S-signorina Rosenberg...” esordì Scott “...le stringerei la mano ma... bhè! Stavo riparando il trattore del mio vecchio. A cosa devo la sua visita?”
Mary prese parola: “ho incontrato suo figlio e la sua amica in città e ho pensato di dar loro un passaggio.”
Scott invitò l'insegnante di Tom ad entrare per bere un tè freddo.
Lei rifiutò cortesemente: “non mi tratterrò a lungo” aggiunse subito dopo.
Fu in quel momento che le attenzioni di Scott si concentrarono su Evelyn.
< Mio figlio ha un'amica?! > Strane emozioni presero forma dentro di lui.
Evelyn fece un passo nella sua direzione: “Piacere di conoscerla, signor Williams, mi chiamo Evelyn Reese...” allungò la mano nella sua direzione “...un po' di grasso non mi spaventa.”
Tom rimase meravigliato dalla sicurezza della ragazzina... quasi stordito.
Senza neanche rendersene conto, aveva stretto la mano di Evelyn, avvertendo la presa salda di quel piccolo scricciolo.
Si voltò poi verso suo figlio: “avresti dovuto fare tu le presentazioni, Tom.”
Tom si limitò ad annuire, imbarazzato.
Scott tornò a parlare con Evelyn: “hai detto... Reese? Sei la figlia di Wiara Reese.”
“Proprio così, signore.” Rispose la ragazzina.
La signorina Rosenberg intervenne: “non tratteniamo oltre questi ragazzini, è una bella giornata, lasciamoli andare.”
Tom prese la palla al balzo e salutò suo padre e la sua insegnante. Agguantò poi per  un polso Evelyn e la condusse in direzione del campo di granturco.
“Devo mostrarti una cosa” gli aveva sussurrato.
Il contatto della sua mano attorno al polso di Evelyn lo fece arrossire.
Tom avvertì le sue guance andare a fuoco.
Alle sue spalle sentiva suo padre ridere e chiacchierare con la signorina Rosenberg. Non riusciva a sentirli ma era sicuro che stessero parlando di lui e delle sue lacune in matematica.
< Ecco >... pensò Tom... < adesso mio padre andrà a riferire tutto alla mamma e lei mi costringerà a studiare matematica fino alla fine dell'estate. >
Per un momento quello scenario gli parve piacevole... quasi consolatorio.
Si, Tom si ritrovò a desiderare quella situazione. Avrebbe voluto tornare ad avere problemi del genere... invece che preoccuparsi del mostro che cercava di ucciderlo.
Poco dopo, la signorina Rosenberg rientrò nell'auto e lasciò la fattoria dei Williams.

“Eccoci arrivati” Tom si fermò nel bel mezzo del sentiero che tagliava in due il campo di granturco. Le piante erano cresciute rigogliose quell'estate. I filari erano alti il doppio di Tom. Proiettavano strane ombre su di lui e su Evelyn.
Lei si guardò attorno: “cosa dovrei vedere?” Chiese mentre si strusciava la mano sporca di grasso sulla sua maglia.
Tom rispose: “volevi tanto sapere dove ho incontrato per la prima volta l'uomo mezzo marcio? Bhè... ci siamo. E' questo il posto.”
Eve deglutì e il canto delle cicale si fece più forte.



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Diana Williams era impegnata a lavare i piatti del pranzo.
Dalla finestra della cucina che si affacciava sulla piantagione, la donna scrutò suo figlio in compagnia di una ragazzina. Non la vide in volto ma notò che si stava inoltrando con Tom tra le piante di granturco.
Non le piacque per nulla quella situazione.
Sentì le sue labbra contrarsi in una smorfia mentre i suoi occhi rimasero incollati ai due ragazzini fino a quando non sparirono dal suo campo visivo.

Suo marito Scott la raggiunse subito dopo, ancora impegnato a pulirsi le mani.
Diana, senza distogliere lo sguardo dalla finestra, si rivolse a Scott: “caro... hai visto...?” Indicò l'esterno.
Scott sorrise: “oh, si. Tom ha portato un'amica. Si chiama Evelyn Reese.”
“Reese? Reese...” Diana ridusse i suoi occhi a due minuscole fessure. Dove aveva sentito quel cognome?
“La figlia della signora Wiara” rispose Scott, come se avesse udito i suoi pensieri.
< E' la figlia di Wiara Reese! > Pensò Diana. E la sua mente fu subito affollata dai ricordi delle sue amiche che sparlavano di quella signora.
Ogni volta che Diana si riuniva con le altre donne dal parrucchiere o dal vecchio droghiere Pawtucher, finivano spesso a parlare di quella solitaria polacca sfuggita ai nazisti:

è una poco di buono.

Non mi convince.

Si dice in giro che fa entrare gli uomini in casa sua durante la notte, e con la figlia che sente ogni cosa dalla sua stanza.

Mio marito crede che sia una spia dei comunisti.

E' una troia, credetemi.
E se è vero che la mela non cade lontano dall'albero...

Diana riemerse da quel turbinio si ricordi. Si voltò verso Scott: “a te sta bene che Tom frequenti la figlia della polacca?”
Suo maritò si limitò a fare spallucce e dire: “doveva accadere prima o poi. Tommy sta crescendo e non può sempre ronzare attorno a Wyatt. Sta iniziando a interessarsi delle ragazze.”
“Ma è solo un bambino” replicò Diana.
“Ha tredici anni”
Battibeccarono per po'. Poi Diana portò le mani alla vita: “molto bene...” disse  “...in questo caso, dovrai fargli il discorsetto il prima possibile.”
“Quale dis...? Oh, quel discorsetto. Ma perchè proprio io?” Scott stirò un sorriso nervoso.
“Ne abbiamo già parlato, se nasceva una femminuccia ci avrei pensato io. Ma ci è nato un maschietto quindi tocca al padre spiegare come funzionano le cose.
Io gli dirò come rispettare una donna. Ma il... ecco ...meccanismo dovrai descriverlo tu.”
Scott sbuffò: “in questo momento vorrei tanto avere una figlia femmina.”
Diana si avvicinò al marito: “se avevamo una figlia, a quest'ora si trovava in un campo di granturco in compagnia di un tredicenne.”
Un rapido ma intenso brivido gelido attraversò la schiena di Scott. Che brutta immagine aveva visto nella sua mente.
Diana lo abbracciò e i due si scambiarono un fugace bacio. Seguirono una serie di battute su quella situazione.
Su una radiolina posta vicino al lavello uscirono le note di Moon river, di Henry Mancini. Diana e Scott si ritrovarono ad improvvisare un lento nella sala da pranzo.
Anche se l'infortunio al ginocchio aveva distrutto il suo sogno di diventare una ballerina, Diana si muoveva ancora con un'eleganza fuori dal comune.
“Non siamo più giovincelli” aveva sussurrato la donna al marito.
“parla per te, nonnina” replicò Scott.
Entrambi scoppiarono a ridere.


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Evelyn si accovacciò ad esaminare il terreno.
Cercava delle impronte o magari dei mozziconi di sigarette. Rammentava che suo padre era un accanito fumatore... o almeno lo era prima di diventare l'uomo mezzo marcio. “Sei sicuro di aver incontrato proprio qui il mostro?” Chiese a Tom. Quest'ultimo si trovava alle spalle di Evelyn, incuriosito dai modi di fare della ragazzina che si improvvisava detective.
Annuì e dopo qualche altro secondo aggiunse: “però ho solo sentito la sua voce. Ho visto l'uomo qualche ora dopo. Ero insieme a Wyatt in quell'occasione.”
“E dove l'avete visto?” Evelyn si alzò e si scrollò la terra dai pantaloni.
“Tra l'erbaccia attorno la casa del vecchio Price...” rispose Tom “...quando io e Wyatt stavamo scappando da faccia-da-pizza Ron.”
“Capisco” si limitò a dire Evelyn. Pareva molto pensierosa.
Dopo un momento di riflessione rivolse un'altra domanda a Tom: “l'uomo mezzo marcio ti ha detto qualcosa quando eri qui?”
Lui alzò le spalle e rispose: “si limitava solo a chiamarmi con la sua voce da oltretomba. Mi diceva hey ragazzino... hey ragazzino
Tom provò a imitare la voce del mostro e rimase sorpreso del risultato. Per un attimo riassaporò la paura che aveva provato in quei momenti e si pentì amaramente di trovarsi di nuovo tra i filari di granturco.
Un brivido gelido percorse la schiena di Evelyn e... non erano degli occhi quelli che la stavano fissando tra le piante?
Eve si voltò in quella direzione con un movimento così improvviso da far sussultare Tom.
La ragazzina scrutò a lungo tra la vegetazione ma non vide nulla di anomalo. Forse si era trattato della sua immaginazione o un gioco di luci e ombre tra le piante. In effetti quel punto tra i filari, in cui si trovava insieme a Tom, era un po' troppo buio per i suoi gusti. L'aria faceva oscillare le piante in un modo che a Evelyn ricordava il fruscio generato da un uomo che passa nell'erba alta.
Giurò di aver anche captato il suono di pagliuzze che venivano calpestate.
Ricordò di aver visto un documentario in televisione di come le mosche, non vedendo le ragnatele, finivano intrappolate in quelle tele mortali.
Eve, in quel momento, si sentiva come una piccola mosca che non vedeva alcuna ragnatela... ma di sicuro ne avvertiva la presenza.
Notò che anche Tom era teso: < probabilmente anche lui ha percepito qualcosa. >

Quella strana atmosfera di silenzio e rumori sommessi fu interrotta bruscamente da un trillo argentino. Wyatt Sinclair stava sfrecciando nella loro direzione in sella alla sua bici. Si trovava sulla stradina di terra battuta che collegava la casa dei Williams a Cypresses road. Svoltò verso il campo di granturco senza decelerare e fece squillare un'altra volta il campanello della sua bici.
Frenò a pochi centimetri di distanza da Evelyn e Tom per poi balzare a terra.
Eve sentì il suo cuore battere all'impazzata e una mano, quasi involontariamente, aveva iniziato a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli castani.
La sua cotta per Wyatt si faceva sempre più intensa.
Quest'ultimo fissò Evelyn con occhi gelidi: “che ci fai tu qui?”
La ragazzina gli rivolse un'occhiataccia: “ma ciao anche a te” rispose con tono aspro e seccato.
Tom si intromise: “io e Eve fino a poco fa eravamo in città e Curt Limpshire ci ha beccati. Siamo riusciti a fuggire e la Rosenberg ci ha dato un passaggio fin qui.”
“Curt Limpshire?!” Domandò incredulo Wyatt.
Tom e Evelyn annuirono all'unisono.
“Curt-psicopatico Limpshire? Proprio quel bastardo...?”
“Si, Wyatt...” tagliò corto Tom “...proprio lui. E sta cercando anche te. Non ha gradito il fatto che hai aperto la testa di suo fratello con una pietra.”
Wyatt emise una risatina beffarda ma anche nervosa: “frottole. Senza offesa, Tommy, ma davvero vuoi vendermi la storiella che sei riuscito a scappare da Curt?”
“Posso provartelo” rispose Tom, e dalla sua tasca estrasse il coltello a serramanico del bullo. Fece scattale la lama, che sbucò all'improvviso dal manico con un suono secco e deciso. Il coltello brillava di luce sinistra nella penombra della piantagione.
Wyatt fu terrorizzato nel vedere quell'oggetto: “hai rubato il coltello di Curt?”
“Gli era caduto a terra” provò a giustificarsi Tom.
“Hai rubato il coltello di Curt?!....” ripeté il suo amico “...ti sei fottuto, Tom. Ti sei fottuto con le tue mani. E hai fottuto anche me e lei.” Indicò Evelyn.
Lei iniziò a difendere Tom ma Wyatt era troppo nervoso per ascoltarla.
Iniziò a camminare avanti e indietro: “sai cosa farà Curt quando ci beccherà per strada, Tom? Lo sai? Cercherà di vedere se la mia testa riuscirà a entrare nel tuo secco didietro!”
Tom ed Evelyn ridacchiarono.
“Dico sul serio, ci ucciderà un paio di volte prima di farci a fettine. Poi butterà i nostri resti in pasto a Buckley!”

I due ragazzini smisero all'istante di ridere.
Se c'era una parola in grado di far suscitare un brivido di terrore in tutti gli abitanti di Louistown, quella parola era proprio Buckley.
Si trattava del mastino dei Limpshire. Era l'incrocio tra un mastiff e Dio solo sapeva cosa. Per Tom poteva trattarsi benissimo di un orso o di una sorta di cane preistorico.
Aveva il pelo corto e grigiastro, con dei riflessi che sembravano quasi azzurrognoli. La pelle del muso era calante come una maschera di cera che inizia a sciogliersi al sole. I suoi occhi erano coperti da varie grinze della pelle ma le occhiaie rosse erano orrendamente ben evidenti.
Si trattava di un cane piuttosto vecchiotto ma dotato di una forza e di un'energia straordinaria. Inoltre era particolarmente aggressivo... tant'è vero che i Limpshire erano costretti a tenerlo nella loro fattoria, legato a palo con una spessa catena.
Raramente Curt lo portava in città, e lo faceva solo per far morire di paura i passanti che incrociavano il suo cammino.
Gli abitanti di Louistown erano convinti che, prima o poi, Buckley avrebbe azzannato qualcuno.

“Non mi avete ancora risposto...” ripeté Wyatt “...perchè siete qui?” E indicò la piantagione tutt'attorno a lui: “non ditemi che si tratta della questione dell'uomo mezzo marcio?”
Tom e Evelyn si scambiarono degli sguardi di colpevolezza.
Wyatt si sbracciò di nuovo: “Tom! Ma che diavolo?! Ti avevo di lasciar stare!”
In un altro momento, Tom avrebbe riso del comportamento isterico del suo amico. Evelyn prese parola: “l'uomo mezzo marcio è entrato in camera di Tom ieri notte.”
Wyatt si fermò di colpo. Posò i suoi occhi terrorizzati su Tom, in cerca di una sua conferma.
Tom si limitò ad annuire, non servivano altre spiegazioni.
Eve aggiunge: “è successa la stessa cosa che è successa a te quest'inverno.”
Wyatt le puntò un dito con fare minaccioso: “a me non è successo un cazzo!”
Ma la ragazzina gli rivolse un sguardo carico di compassione: “non negarlo. L'uomo mezzo marcio ha fatto visita a ognuno di noi. Sa entrare nelle nostre case e chissà in quante altre abitazioni della città.”
“E cos'hai intenzione di fare?” Domandò Wyatt. C'era un non so che di provocatorio nel suo tono di voce.
Evelyn fissò Wyatt per diversi secondi senza di nulla. Aveva assunto la sua tipica espressione da sfinge. Tom rimaneva estasiato ogni volta che si ritrovava a fissare quell'espressione.
Finalmente lei rispose: “Tom mi ha detto che tu e lui l'avete visto vicino la casa di Price.”
“Thomas!” Lo sgridò Wyatt.
Ma Evelyn continuò: “e se l'uomo mezzo marcio abitasse in quella casa?”
I due ragazzini si voltarono verso Eve. Lei aveva catturato la loro completa attenzione: “quella casa è abbandonata da quando Price è morto. Quanti anni sono passati? Ad ogni modo voglio avvicinarmi alla casa e vedere se l'uomo mezzo marcio abita lì.”
“E una volta fatto?” Chiese Wyatt.
“Avvertiamo la polizia o i nostri genitori.”
“Facciamolo adesso e saltiamo la parte in cui ci avviciniamo alla casa di Price... sai, la parte in cui rischiamo di morire.”
“Devo essere sicura che il mostro si trovi in quella casa, altrimenti avremmo chiamato le autorità per nessun motivo. Siamo dei ragazzini, i poliziotti... anzi ...tutti gli adulti difficilmente crederanno a questa storia...” Eve imitò con una mano la cornetta del telefono, se la portò vicino l'orecchio e abbassò di qualche tono la sua voce, come se volesse scimmiottare un adulto “...buonasera, agente, la chiamo per informarle che mio figlio presume che un mostro semi-umano viva abusivamente nella vecchia tenuta di Price. Potrebbe mandare una volante a controllare?
Smise quella recita: “sentite quanto suona assurdo? Dobbiamo andare a colpo sicuro. Ecco perchè devo sapere se l'uomo mezzo marcio vive in quella casa diroccata.”
“Quando hai intenzione di andarci?” Chiese Tom.
“Oggi” sentenziò lei.
“Oggi?” Tom strabuzzo gli occhi.
Evelyn annuì e indicò entrambi i ragazzini: “preferite passare un'altra notte sotto le coperte a fissare i vostri armadi, pregando che nessun mostro esca fuori da lì?”
Tom e Wyatt si scambiarono delle occhiate cariche di terrore.
Tom disse: “ci vuole un bel po' per raggiungere la casa di Price da qui. Dovremmo prendere delle bici. Ne ho diverse nel capanno della fattoria” e indicò un grande edificio alle sue spalle. Malgrado l'erba alta del granturco, si poteva scorgere il tetto di legno di quel capanno e un tratto di parete verniciata di rosso.
Wyatt però scosse il capo: “io non vengo.”
“Come?” Esclamò Tom.
L'amico raccolse da terra la sua bici e salì in sella: “mi dispiace...” disse con tono rabbioso “...ma non ho la minima intenzione di fare questa cretinata. Accertarsi della presenza di un mostro prima di chiamare le autorità... pfff ...ma non vi rendete conto di quanto risulti ridicola questa idea?!”
“Lo so che hai paura...” disse Evelyn.
Ma Wyatt la interruppe bruscamente: “perchè, tu no?”
“Ovvio, però dobbiamo fare qualcosa prima che il mostro riesca a catturarci.”
Un brivido percorse la schiena di Tom. Immaginò lui stesso, mentre dormiva nel suo letto, e delle mani lunghe e nere che si proiettavano dall'armadio verso di lui.
Wyatt però continuava a protestare: “dobbiamo fare qualcosa... certo! Ma qualcosa di intelligente! E fidati quando ti dico che il tuo piano è una bella cretinata.”
Tom si fece avanti e tentò più volte di convincere Wyatt a cambiare idea. Riuscì solo ad ottenere una serie di dinieghi.

Quando Wyatt andò via, Tom lo seguì con gli occhi per un bel po'. Era convito che loro due avrebbero fatto qualsiasi cosa insieme, l'uno accanto all'altro.
Tale sentimento si era rafforzato da quando erano riusciti a seminare Ron Davis nell'erbaccia che abbracciava la tenuta di Price.
Tom sbuffò e diede un calcio a una pietra che si trovava vicino a lui.
Alzò poi gli occhi verso Evelyn: “vado a prendere le bici” disse con un filo di voce.


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Il sole nel cielo aveva assunto una strana e ardente tonalità arancione.
Sembrava malato... e malate sembravano tutte le cose illuminate dai suoi raggi vermigli. Le colline erano insolitamente silenziose, solo di rado si poteva udire un flebile fruscio del vento o un fugace stridio di qualche cicala.
Tom e Evelyn avevano smesso di pedalare da un po'. Portavano a mano le loro bici mentre percorrevano un sentiero di terra battuta che tagliava in due la campagna.
Tom aveva l'impressione di essere entrato in un altro mondo, una sorta di dimensione alternativa della sua realtà... dove tutto sembra essere morto o marcescente.
Il campo da baseball, che poteva intravedere in lontananza, alla sua destra, era deserto.
La casa del vecchio Price si stagliava all'orizzonte come una cosa nera e crudele. Sembrava una sorta di creatura mostruosa appollaia sulla cima di un colle. Una creatura che attendeva l'arrivo di qualche bambino indifeso.
Tom non si era mai reso conto di quanto fosse spaventosa quella casa. Deglutì: < vedrai non troveremo niente > la sua mente cercava di rasserenarlo.
< Non vedremo alcun mostro. Nessun uomo mezzo marcio ci sta aspettando. >
Una parte di Tom ancora non riusciva a credere a tutta quella storia. Semplicemente non poteva accettare l'esistenza di una simile creatura.

Una folata di vento fece frusciare i fili d'erba che costeggiavano la strada.
Tom si guardò attorno: ogni cosa sembrava... minacciosa. Avvertì di nuovo quella sgradevole sensazione di essere osservato.
Evelyn, al suo fianco, camminava silenziosamente. Il suo sguardo da sfinge era fisso sulla nera casa del defunto Price.
Aveva da poco indossato il suo berretto poiché i raggi del tramonto le davano fastidio agli occhi.
Per un attimo, Tom avrebbe voluto parlarle... chiederli se si sentiva nervosa come lui. Ma desistette dal farlo. Dire una cosa simile non avrebbe fatto che aumentare la tensione, anziché lenirla.
Ma Tom ormai era un fascio di nervi. Ogni rumore attorno a lui risultava sospetto: un crepitio di foglie secche, un frusciare di erba o altri rumori dalla dubbia provenienza.

Nell'ultimo tratto, la stradina di terra battuta si inclinava leggermente verso l'alto.
Tom ed Evelyn lasciarono lì le bici. Avere entrambe le braccia libere infondeva, in un certo senso, un pizzico di tranquillità nei loro animi spaventati.
Iniziarono a risalire la collinetta dove svettava la casa di Price.
L'ombra della dimora abbandonata si era prolungata in avanti, avvolgendo i due ragazzini. Tom non si era mai avvicinato così tanto all'abitazione e ora poteva scorgere elementi che non aveva mai visto.
Questo contribuì ad aumentare la sua tensione: c'era un vecchio trattore abbandonato tra lunghe spighe di erbaccia ingiallita dalle incurie.
Il mezzo era ormai un catorcio di lamiere arrugginite, con entrambi i fanalini rotti e i cingoli completamente immersi nella terra.
Delle vecchie bottiglie verde scuro erano state gettate un po' da per tutto. Alcune erano rotte e altre erano intatte. Un enorme scolopendra fece capolino dal fondo di una quelle bottiglie.
Tom, inorridito, distolse lo sguardo da quell'animaletto e si concentrò sulla casa. Alcuni verti delle finestre erano rotti, lasciando intravedere l'interno dell'abitazione: si potevano distinguere solo ombre e qualche inquietante sagoma nera.
Tom era ormai certo di star per scorgere il ghigno dell'uomo mezzo marcio da una di quelle finestre. L'architrave del portone d'ingresso era crollato a terra, bloccando così l'accesso da quel punto.
Sulle pareti c'erano diversi segni di vandalismo: fori di proiettile e diverse scritte oscene che recitavano cose che i due ragazzini a stento comprendevano.
Evely continuò ad avanzare fino a raggiungere una delle finestre. Iniziò a sbirciare al suo interno.
Tom la fissò con aria meravigliata: < dove trova tutto questo spirito di iniziativa? >
Ma il senso di stupore svanì improvvisamente e al suo posto giunse irruento un intenso terrore.
I sensi di Tom lo avevano messo in allerta per qualcosa... qualcosa che il ragazzino non aveva compreso. Il suo istinto lo costrinse a voltarsi, dando così le spalle alla casa.
Il suo fiato si fece corto, iniziò a sudar freddo e i brividi sottopelle lo facevano sentire indolenzito... come se stesse per svenire da un momento all'altro.
Ma Tom non vide nulla di strano attorno a lui. L'erbaccia continuava ad oscillare, cullata dal vento. I raggi rameosi del sole continuavano a farsi sempre più cupi.
Nulla di strano.
Tom dedusse che tutta quell'improvvisa paura, quell'improvviso istinto di fuga, era dettato dal semplice fatto che non poteva più sopportare quella situazione.
E fu allora che lo vide.
Lo spaventapasseri dietro il vecchio trattore lo stava fissando.
Un occhio del fantoccio era fatto con un bottone nero, l'altro invece era caduto e al suo posto si trovava un forellino da cui faceva capolino un ammasso di vermi.
Tom provò a urlare ma sentì la sua gola chiudersi ermeticamente, impedendogli persino di respirare.
Il ragazzino smise di essere del tutto lucido ma dedusse di esser riuscito a emettere un rantolo o un verso strozzato, perchè Evelyn si era voltata di scatto nella sua direzione.
Sussultò quando vide anche lei ciò che Tom stava vedendo.
Lentamente, lo spaventapasseri piegò una delle sue braccia, facendo oscillare il guanto biancastro che aveva come mano... per rivolgere un macabro saluto ai due ragazzini.


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Non urlarono.
Non dissero nulla. Non aveva bisogno di dire nulla.
Non appena lo spaventapasseri iniziò a salutarli, Tom e Evelyn iniziarono a correre. Scesero a capofitto dalla collinetta, lasciandosi alle loro spalle la casa di Price.
Lo spaventapasseri si era lanciato all'inseguimento, immergendosi lì dove l'erbaccia si faceva più alta e più fitta.
Tom ed Evelyn non lo videro più ma avvertivano il rumore dell'erba che veniva smossa da lui... avvertivano l'eccitazione di quella cosa mentre dava loro la caccia.
Era sempre più vicino.

I due ragazzini avevano quasi raggiunto le bici quando da un fianco della stradina sbucò lo spaventapasseri. Era veloce come una scheggia.
Provò ad agguantare Evelyn ma lei riuscì ad accelerare. Tom invece fu costretto a bloccarsi. Lo spaventapasseri aveva diviso la coppia, mettendo in mezzo a loro.
Il suo sguardo inespressivo era rivolto verso Tom.
Il ragazzino vide la testa di iuta di quella creatura a pochi centimetri da lui. Si trattava di un vecchio sacco ma qualcosa al suo interno, qualcosa di orrendo, strisciava, zampettava e si contorceva.
Lo spaventapasseri era molto alto. Avanzò verso Tom.
Ogni suo movimento generava un rumore simile a una busta piena di foglie morte che veniva agitata.

Tom si sentiva in trappola... inoltre Evelyn era fuggita, abbandonandolo.
Passo dopo passo, lo spaventapasseri era sempre più vicino.
Il ragazzo teneva la testa verso l'alto, incapace di distogliere lo sguardo da quel volto fatto di iuta e chissà cos'altro.
Dall'interno dello spaventapasseri poi provenne una voce... una voce che Tom aveva imparato a riconoscere e temere: “hey, ragazzino!”

Se la mente di Tom gli stava implorando di fuggire, Tom non era più in grado di ascoltarla. Neanche si rendeva conto che stava piangendo.
Alle spalle dello spaventapasseri apparve d'un tratto Evelyn. La ragazzina stringeva tra le mani un lungo bastone.
Corse, sollevò quell'arma improvvisata sulla sua testa e urlò con tutte le sue forze prima di sferrare l'attacco.
Evelyn colpì con violenza il volto dello spaventapasseri.



cic

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Capitolo 6
*** Ascensori Otis, i migliori del mondo ***


♦ Ascensori Otis, i migliori del mondo ♦





Evelyn era terrorizzata.
Non sentiva più le gambe, tremava intensamente e serrava così forte i denti da avvertire un intenso dolore in bocca. Stringeva con entrambe le mani il bastone che aveva raccolto da terra. Le sue nocche erano diventate bianche per via della pressione esercitata sul legno.
Lo spaventapasseri le dava le spalle, la sua attenzione era completamente rivolta verso un attonito Tom… un attonito Tom paralizzato dalla paura, sdraiato a terra e incapace persino di urlare.
Eve doveva intervenire. Sentiva dentro di sé l’impulso di difendere il suo amico.
In uno slancio di ardore, la ragazzina scattò contro lo spaventapasseri, agitò in aria il bastone e lo colpì sul capo.
Si udì chiaramente la paglia agitarsi nella testa di iuta del fantoccio. Questi iniziò a barcollare. Il suo volto, se così vogliamo definirlo, si era deformato per via del colpo subito e questo gli donava un aspetto ancora più inquietante.
< Non fermarti > urlò la coscienza di Evelyn nella sua mente.
< Non fermarti o non sarai più in grado di muoverti. >
Eve colpì di nuovo lo spaventapasseri, questa volta su una spalla.
Lui indietreggiò, sembrava aver perso parte delle sue capacità motorie.
Evelyn, nel vedere i suoi goffi movimenti, gli venne in mente una scena tratta da un film muto, dove un uomo con un cappello tirato fino a metà volto non era più in grado di orientarsi e di camminare in maniera composta.
Sembrava di vedere un ubriaco o una persona affetta da una specie di spasmo muscolare.
Fu per puro caso che Evelyn abbassò lo sguardo verso le gambe dello spaventapasseri. Allora i suoi arti inferiori le sembravano incredibilmente sottili e fragili, due esili ramoscelli secchi tenuti in piedi da chissà quale osceno miracolo.
Eve alzò il bastone e colpì quelle gambette. Si udì lo schiocco del legno frantumato riecheggiare per tutta la collina.
Lo spaventapasseri cadde immediatamente al suolo. Spighe di paglia schizzarono fuori dai suoi vestiti logori.

Tom non poteva far altro che ammirare inorridito la scena.
Lo spaventapasseri era a un passo da lui. Le sue movenze gli suggerivano in qualche modo che non provava alcun dolore ma aveva ormai perso gran parte del controllo del proprio corpo. Con incredibile violenza, Evelyn infierì di nuovo con il bastone. Ancora una volta la ragazzina colpì la testa del fantoccio.
Questa volta, le cuciture della iuta saltarono e l’imbottitura, un misto di paglia, foglie ed erba secca, si librò in aria.
Ma qualcos’altro uscì fuori dalla testa dello spaventapasseri. Qualcosa che iniziò a volare attorno Evelyn.
Erano cicale. Tom le fissò con rinnovato terrore.
Grosse cicale ronzanti e raccapriccianti. Una sorta di sciame nero e agguerrito.
Eve iniziò a urlare, lasciò cadere a terra il bastone e prese ad agitare le mani tra i suoi capelli. Le cicale continuavano a orbitarle attorno, impazzite, euforiche.
Tom non aveva mai visto degli insetti comportarsi in quel modo.
Le urla della ragazzina si facevano sempre più acute e isteriche.

Solo in quel momento, Tom Williams sentì uno strano formicolio su una mano.
Qualcosa che inizialmente pensava fosse solo un intorpidimento dell’arto, forse dovuto alla sua caduta al suolo. Ma quando abbassò lo sguardo, notò due di quelle cicale infernali appoggiate sulla sua mano.
Erano enormi, dal ventre grasso e rigonfio. Il loro carapace era nero e non rifletteva la luce del sole… sole che stava iniziando a scomparire all’orizzonte, donando al cielo delle sfumature ramate e brillanti.
E gli occhi, gli occhi delle cicale erano rossi come tizzoni. Sporgevano dalla testa e questo donava a quelle creature un nonsoché di paonazzo.
Ma c’era qualcos’altro in quelle cicale… qualcosa che traumatizzò Tom nel profondo non appena capì cos’era. Allora la sua mente rimosse immediatamente quell’immagine della sua memoria.
Lo shock fu così assurdo e atroce che Tom non rammentò neanche i momenti che seguirono subito dopo… i momenti in cui si alzò in piedi e scacciò via dalla sua mano quelle due cicale.
Non ricordò neanche di essersi avvicinato allo sciame e di aver agguantato Evelyn per un polso. Ebbe soltanto qualche sprazzo di memoria di lui che correva via dalla collina, trascinando Eve con sé.
Ma ricordò benissimo come, una volta fuggiti da quel delirio, lui e Evelyn caddero a terra, senza più fiato. Solo allora poterono abbandonarsi in un abbraccio e in un pianto liberatorio.


⁓•⁓•⁓•֍•⁓•⁓•⁓



Quanti giorni erano passati da quando aveva perso il suo coltello? Curt Limpshire non riusciva a rammentarlo. Sapeva solo che non avere più tra le mani il suo amichetto lo metteva di pessimo umore. Inoltre, quella femminuccia di Tom Williams gli era sfuggito per un soffio.
Bisognava dargli una lezione… oh, se c’era bisogno di dargliela!
Suo padre gli aveva insegnato che la migliore educazione passa per la cinta o qualunque altra cosa potesse essere brandita o scagliata contro qualcuno.
Tom Williams aveva ferito suo fratello con una pietra.
Una simile azione non meritava una giusta e adeguata educazione?

Curt aveva sviluppato una certa e febbricitante ossessione per quella vicenda.
Per lui era una vera e propria faccenda personale.
In cuor suo detestava il fatto che Tom la passasse liscia.
Così si era messo a cercarlo per tutta la città… e aveva portato con sé il suo cane, Buckley.
Quell’enorme mastino non faceva altro che suscitare paura e apprensione nei passanti. Non un singolo uomo osava avvicinarsi a quell’animale e questo infondeva in Curt un certo orgoglio.

Si diresse poi verso il campo da baseball vicino la vecchia fattoria di Price, convinto di trovare lì Tom Williams.
Ma quel giorno il campo era deserto.
C’era uno strano vento ad agitare la polvere e fili d’erba che rivestivano sulle colline.
Curt si aspettava quasi di vedere un rotolacampo passargli di fronte, tale era la desolazione che provava in quel momento.
Non riuscì a spiegarlo, ma gli venne in mente una favola che sua madre gli leggeva da bambino. Una favola in cui un uomo incantava tutti i bambini di un villaggio con il suo flauto magico, per poi portarli via, per sempre… chissà dove.
Alzò gli occhi verso il mare d’erba attorno la casa di Price: < se fossi un pifferaio magico, nasconderei lì i bambini. >
Curt si sorprese di quel pensiero.
< È questo posto. È questo posto che mi fa fare strane idee. >
C’era qualcosa di insolito vicino a lui, Curt ne era certo… così come era certo che, se avesse osservato con più attenzione gli elementi di fronte a lui, forse avrebbe notato cosa lo aveva messo in agitazione. Ma il suo cervello si rifiutava di indagare.
Il suo cervello aveva notato qualcosa e in qualche modo cercava di nasconderlo ai suoi sensi, per proteggere Curt e la sua ragione.
Eppure, Curt aveva compreso che c’era qualcosa di marcio vicino a lui… vicino a quel campetto deserto, quel mare erboro e quella vecchia casa di Price stagliata contro il cielo che, in quel momento, sembrava aver assunto delle tinte malate.
Curt si ritrovò a sperimentare una certa ansia.
< Ma è ridicolo… > pensò < …perché mi sento così? >
Il ringhio di Buckley lo fece sussultare. Il suo cane raramente emetteva qualche verso. Fu così improvviso che Curt lasciò la presa dal suo collare e il mastino iniziò a correre verso la casa di Price.

Curt lo inseguì per un po', fino a quando Buckley non svoltò per un vecchio sentiero. Aveva trovato qualcosa che stuzzicava la sua curiosità.
Sembrava un cadavere riverso a terra. Il mastino aveva iniziato ad annusarlo.
Curt si avvicinò mentre riprendeva fiato.
Non era un corpo, anche se i vestiti potevano trarre in inganno.
Si trattava di un vecchio spaventapasseri.
“Idiota di un cane” sussurrò Curt a denti stretti. Riagguantò il collare del mastino e gli diede un piccolo strattone, segno per dirgli che era ora di muoversi.
Ma il mastino, come risposta, inarcò le zampe e annusò con più foga quel cumulo di stracci.
Curt notò alcuni vermetti contorcersi tra quei vestiti.
Tirò di nuovo il collare: “avanti, si torna a casa.”
Buckley addentò qualcosa tra quei vestiti e, dopo due masticate, deglutì.
“Bleah!” Commentò Curt.
Il cane iniziò a tossire, come se qualcosa gli si fosse incastrato in gola.
Il suo padrone iniziò a preoccuparsi ma, prima che potesse sperimentare del verso panico, Buckley mandò giù ciò che lo stava soffocando e smise di tossire.
“Bastardo, sacco di pulci” disse Curt mentre tirava un respiro di sollievo.
Buckley si volse verso di lui. I loro sguardi si incrociarono e Curt, per un istante, ebbe l’impressione di contemplare degli occhi che non aveva mai visto. Occhi di uno sconosciuto. “A-avanti, si torna a casa, bello. Cercheremo Tom Williams un altro giorno.”


⁓•⁓•⁓•֍•⁓•⁓•⁓



Sua madre non le aveva lasciato alcun biglietto, eppure Evelyn sapeva che si era dovuta trattenere al lavoro. Ogni volta che mamma non rincasava prima delle sei del pomeriggio, era perché c’era qualche problema nell’albergo in cui lavorava come cameriera.
Non che l’unico hotel di Louistown, il Bernic, ospitasse chissà quanti turisti… ma c’era sempre quel cliente che, per usare un termine gentile, poteva essere definito particolarmente esigente… o magari c’erano altri problemi legati alla manutenzione, come le tubature che facevano sempre i capricci. Del resto erano pezzi di ferraglia risalenti ai tempi in cui il presidente Roosevelt era ancora vivo... non Frank Delano, ma Theodore Roosevelt.
Morale della storia, Eve avrebbe passato un’altra nottata da sola.
Ma c’erano dei lati positivi in quella vicenda: ad esempio, poteva scegliere i canali da vedere in televisione e mangiare di tutto… anche se l’interno del frigorifero assomigliava a una sorta di landa spoglia e ghiacciata.

La ragazzina si ritrovò a passeggiare per il corridoio.
Buffo come anche un misero appartamento di periferia poteva sembrare enorme quando ci si trovava da soli. Eve passò vicino al telefono.
Spesso si era ritrovata a fantasticare di chiamare Wyatt Sinclair e di chiacchierare con lui per ore intere. Non gli interessava l’argomento della conversazione. Ma la semplice immagine mentale di lei che parlava con quel ragazzo dai capelli corvini, magari mentre arricciava il filo della cornetta del telefono tra le dita, le faceva sentire una strana sensazione di tepore che non aveva mai sperimentato in nessun’altra situazione.
Ci fu una volta, la primavera scorsa, che Eve fu sul punto di chiamarlo.
Ma cosa poteva dirgli? "Ciao, Wyatt… ascolta, sono Evelyn… Evelyn Reese …la ragazza che tutti in paese additano come la figlia della polacca oppure come la figlia della rifugiata di guerra… ricordi?
Sai, non ci siamo mai parlati… e del resto credo sia un po' per colpa mia, ho sempre uno sguardo imbronciato e credo di incutere un certo timore sulla maggior parte dei nostri coetanei…” < e la cosa, devo ammetterlo, mi fa provare un certo orgoglio >“…ma la verità… ed è il motivo del perché ti ho chiamato… è che mi piaci. Dio, se mi piaci da morire!”
Il solo pensiero di quella conversazione la faceva diventare rossa e alzare la sua temperatura corporea di almeno un milione di gradi, figuriamoci dichiararsi realmente a Wyatt.

Quella sera, Evelyn non chiamò Wyatt, ma Tom Williams.
Era passata una settimana da quando loro due avevano affrontato lo spaventapasseri. Da allora Tom non si era fatto vedere in città, ne aveva provato a contattare Evelyn.
Inizialmente, la ragazzina era adirata nei confronti di quello spilungone dai capelli color del grano… ma col passare del tempo giunse alla conclusione che Tom era rimasto profondamente traumatizzato da quello che avevano visto.
Eve si immaginava il suo amico rintanato in casa sua, sotto le coperte del letto, tremante come una foglia in autunno.
Alzò la cornetta e compose il numero di casa Williams.
Dopo tre squilli, una voce di donna rispose dall’altra parte: “pronto?”
Evelyn inizialmente si sentì disorientata: “s-salve. Mi scuso per l’ora, sto cercando Tom. Sono…” < non dire il tuo nome > “…una sua amica.” < Deve essere sua madre > pensò infine.
Aveva ragione.
Diana Williams disse: “mi dispiace, ma Tom è andato dal suo amico, Wyatt. Passerà la notte a casa sua. Vuoi lasciarli un messaggio?”
“N-no… non è nulla di importante.”
Evelyn riagganciò dopo aver salutato la signora Williams.
Nella sua mente apparve la strada che l’avrebbe potuta condurre fino alla fattoria dei Sinclair. < In effetti non è lontano da casa mia, per nulla lontano. >
Ma con quale scusa avrebbe potuto bussare alla porta di quell’abitazione? Di sicuro i genitori di Wyatt avrebbero avuto molto da ridire… e per di più il sole stava iniziando a tramontare. Ciononostante, Evelyn sentiva il bisogno di parlare con Tom.
Aveva mille domande nella sua testa che le ronzavano come uno sciame di api frenetiche.
Lo spaventapasseri era stato sconfitto… perciò l’incubo era finito?
Suo padre, o il mostro in cui si era trasformato, sarebbe tornato a tormentarla? E se così fosse, quale forma avrebbe assunto?
Evelyn aveva il disperato bisogno di confrontarsi di Tom, di ascoltare il suo parere.

Tornò in camera sua, il suo sguardo si posò sulla mazza da baseball che aveva portato con sé dopo il giorno in cui fu pressa a sassate da quegli idioti di Joe Limpshire e faccia-da-pizza Ron.
< È il mio trofeo > pensò mentre fissava ancora la mazza.
Si ritrovò a provare nostalgia per quei momenti. Essere bullizzata dai ragazzi erano problemi che era in grado di fronteggiare, di certo non erano nulla se paragonati al terrore scatenato dall’uomo mezzo marcio.

Eve fece qualche passo in avanti… una mano guizzò da sotto il letto.
Una mano cadaverica, putrescente. La carne in avanzato stato di decomposizione, a tratti mancante, rivelando segmenti di bianco osso.
Le unghie erano annerite e spezzate in modo orrendo.
Le dita si erano serrate attorno a una caviglia di Evelyn.
Non ebbe tempo neanche per urlare, eppure sapeva perfettamente cosa stesse accadendo. Cadde sul pavimento. Da quel punto poteva osservare la cosa che si nascondeva sotto il letto. Una faccia ghignante le rivolgeva il suo macabro saluto.
La pelle cadente, la carne marcia e quell’orbita priva di un occhio, colma di vermi che si contorcevano e banchettavano nella carcassa.
Il fetore del cadavere di Alan Reese travolse violentemente sua figlia. Lei fu sul punto di svenire, sentiva le sue viscere contorcersi mentre la sua stanza aveva iniziato a roteare.
Il mostro spalancò la bocca. Emise un rantolo rabbioso ma anche euforico. Il suo unico occhio brillava di una sinistra eccitazione.
Evelyn iniziò a dimenarsi e a scalciare. Colpì la mano cadaverica che la tratteneva, la colpì con inaudita frenesia, fino a liberarsi. Allora balzò in piedi, l’adrenalina riversata nel suo sangue le aveva conferito un’impressionante rapidità nei movimenti.
Eve si slanciò verso l’angolo della stanza, agguantò la mazza da baseball e tornò a guardare il letto.

Il mostro non c’era. Era svanito nel nulla.
La stanza era immersa in un silenzio così profondo che la ragazzina ebbe l’impressione che niente aveva provocato alcun rumore di recente.
C’era solo lei, il letto, un misero mobilio e decine di poster di shuttle che tappezzavano le pareti. Eve però non si mosse, manteneva la posizione da battitore, con la mazza impugnata con entrambe le mane e caricata dietro le sue spalle. Le gambe leggermente divaricate e piegate.
Non voleva accettare l’ipotesi di aver solo immaginato quell’aggressione, rifiutava l’idea di un simile scherzo della mente. Il cuore, intanto, le martellava così forte nel petto da farle provare una certa fitta.
I suoi occhi restavano spalancati e saettavano in ogni punto della stanza.
Poi si spostarono verso il basso. Con orrore, Evelyn notò il segno di una mano attorno la sua caviglia. Aveva assunto un colore simile a una macchia di vino su un lenzuolo.
La vista di quell’impronta rinnovò il terrore che aveva in corpo.
“Eeeeeve” riecheggiò una voce nella casa.
Era gracchiante e disumana. Sembrava il suono di qualcosa che si sgretola nel fondo di una caverna. Soltanto un mostro poteva avere una voce così spaventosa, un mostro dalla trachea ormai putrefatta.
“Eeeeeve.”
Evelyn sentì le lacrime scorrergli sulle guance. In quella voce terrificante, la ragazzina riconobbe vagamente il timbro vocale di suo padre.
< Mamma… Tom… >
Scosse di brividi si alternavano a ondate irregolari sotto la sua pelle. Non aveva idea di cosa fare, non riusciva più ad articolare alcun pensiero.
Le sue gambe sembravano essersi pietrificate… ma all’agghiacciante suono di un armadio, che si aprire alle sue spalle, esse scattarono verso la porta della stanza.
Evelyn si ritrovò ad urlare e a ruzzolare per il corridoio.
Il rumore di passi dietro di sé le diedero la tremenda conferma di essere inseguita. Si fiondò verso la porta di casa: < oddio! Fa che non ho chiuso a chiave, fa che non ho chiuso a chiave. Ti prego, Dio! Fa che quando afferrerò la maniglia, questa si abbasserà! Ti prego, ti prego! >
Afferrò la maniglia e questa si abbassò.
Allo spalancarsi della porta di casa, Eve osò provare una flebile speranza nel marasma del terrore che si stava agitando verso di lei. Fu come vedere un candito raggio di sole mentre si era in balia di una tempesta sull’oceano.
Continuò la fuga. Iniziò a scendere le scale del palazzo. Saltò gli ultimi quattro gradini della prima rampa, aveva sempre voluto farlo ma non aveva l’ardore di compiere un simile azzardo… fino a quel momento. Riatterrò sul marmo e avverti un doloroso contraccolpo nelle ginocchia e nella schiena. Continuò a correre. La sua mano serrava ancora la mazza da baseball, Eve se ne rese conto solo mentre percorreva la seconda rampa di scale. < Perché abito all’ultimo piano di questo stramaledetto palazzo?! >
Un’altra rampa di scale.
Evelyn sentì improvvisamente l’alito nefasto di Alan sul suo collo.
Quando l’aveva raggiunta?
Urlò.
Il mostro fece per agguantarle i capelli ma Eve, istintivamente, si acquattò di scatto senza arrestare la sua fuga.
Dopo un’altra rampa di scale, Eve vide l’ascensore alla sua destra. La porta era aperta e la luce nella cabina era accesa.
Si fiondò al suo interno, chiuse prima la grata, poi la porta.
Premette il tasto del pian terreno.
Da prima l’ascensore tremolò e i suoi cavi borbottarono, come se l’intero macchinario si rifiutasse di lavorare. Poi iniziò a scendere.
Eve sentì i suoi polmoni andare a fuoco, la sua gola dolorante e il suo stomaco sottosopra. Era sul punto di vomitare. Si piegò in due e cercò di riprendere fiato.
La mano ancora serrata sulla mazza.
Un’ombra saettò al di fuori dell’ascensore. Evelyn udì una sommessa e crudele risatina.
< Mi vuole anticipare?! >
Premette il tasto di blocco dell’ascensore e questi si fermò a metà tra due piani. Evelyn poteva scorgere la sezione trasversale di un pavimento.
In quel momento, le luci delle scalinate si spensero e la ragazzina sprofondò in un buio quasi totale.
Una spia rossa sul quadro dei pulsanti sembra fissarla e sbeffeggiarla.

Evelyn si tappò la bocca con la mano libera.
Indietreggiò e premette la schiena contro una delle pareti dell’ascensore. Il macchinario sembrò oscillare e rispose con gemiti metallici.
Il terrore si fece più intenso.
Evelyn si sentì osservata. Cercò di osservare oltre la grata ma riusciva a scorgere solo qualche sezione di scalinata.
< Dov’è andato? >
Si sentiva come un animaletto in gabbia.
< È finita! Scacco matto! Termine della corsa, prego scendere dalla giostra. Ecco la vostra fermata, signorina Evelyn, suo padre la sta aspettando proprio qui fuori per mangiarti viva, piccola stronza, figlia di una cagna! >
La ragazzina scosse energicamente il capo.
Tese le orecchie ed ebbe l’impressione di captare il rumore di passi avvicinarsi. Nuove lacrime tornarono a rigarle le guance.
< Cosa posso fare? >
Studiò l’interno della cabina dell’ascensore. Sopra di lei, una targa in ottone diceva: ascensori Otis, i migliori del mondo, capienza massima: tre cadaveri adulti o sei nel caso sono bambini, le mie vittime preferite!
Eve scosse di nuovo il capo.
< Sono impazzita! Doveva succedere. Dopo tutto quello che ho passato, è già un miracolo se ho tenuto duro fino a questo momento >
Tornò a leggere la targhetta: ascensori Otis, i migliori del mondo, capienza massima: due persone. Installato nel 1961.
Si udì di nuovo il suono di un passo.
Un’ombra si posò sulla porta dell’ascensore. Un’ombra di un uomo torto e minaccioso.
Evelyn si sentì rimpicciolirsi mentre osservava quella sagoma nera.
Alan tentò di aprire l’ascensore che restava bloccato tra due piani.
Bussò con sadica lentezza.
Ogni suo movimento lasciava trapelare una gioia malata alimentata dal terrore della ragazzina. Lei scoppiò in un pianto silenzioso.
Il mostro iniziò ad emettere strani suoni gutturali. Alan doveva ricordare il mondo in cui si parlava.
“Eve… Eve…” la sua voce era spettrale “…te ne vai in giro, sola con due ragazzini?!”
Iniziò a schioccare la lingua sul palato ed Evelyn pensò che, in quel momento, suo padre stesse facendo segno di no con il dito.
“Non si fa, Eve. Non-si-fa.”
Evelyn ebbe l’impulso di rispondere: non è come pensi! Come se fosse un normale litigio tra padre e figlia.
Si rannicchiò in un angolo dell’ascensore, cercò di rimanere più lontana possibile da Alan.
Questi provò di nuovo ad aprire la porta: “fammi entrare” disse poco dopo.
Eve scosse il capo, aveva avvertito una cerca esasperazione crescente nel timbro di voce di suo padre, segno che stava per perdere le staffe.
Ormai la ragazzina non riusciva più a veder nulla per le troppe lacrime che stava versando. Le colava il naso e il mento era contratto di una smorfia di paura.
Alan bussò di nuovo.
Evelyn scosse lentamente il capo, in segno di diniego.
“C-che cosa ti è successo?...” Domando con voce spezzata e flebile “…perché sei così?”
Suo padre non rispose. Rimase di fronte la porta dell’ascensore per diversi secondi… o diversi anni, Eve non riusciva a capirlo.
Improvvisamente si udì a qualche piano sopra di loro il tintinnio ovattato di un mazzo di chiavi, una serratura che veniva fatta scattare e una porta che si apriva.
< La signora Gredy del quarto piano!...> Pensò con orrore Evelyn <…oddio!>
Non aveva mai scambiato una parola con quella signora.
Eve la ricordava come una bassa e grassa anziana che viveva da sola con tre gatti.
“Rientri in casa!” Urlò Evelyn alzando la testa verso l’alto. Era balzata in piedi.
Alan si era già fiondato verso le scale, ridacchiando.
Poco dopo si udì la signora Gredy gridare e richiudere immediatamente la porta del suo appartamento.
Evelyn aveva già rimesso in funzione l’ascensore.
Una volta raggiunto il piano terra, schizzò fuori come una scheggia.
Vicino l’uscita del palazzo si trovavano alcune biciclette. Eve ne prese una. Apparteneva al signor Howard, scorbutico e antipatico inquilino del primo piano.
Evelyn uscì dal palazzo, mise la mazza da baseball sul manubrio e iniziò a pedalare con tutte le sue forze in direzione sud di Louistown, verso la fattoria dei Sinclair.
Le prime stelle della sera avevano iniziato a brillare su un cielo terso.
Attraversò una strada senza guardare. Un’auto fu sul punto di investirla. L'uomo al volante le strombazzò prima di sterzare bruscamente. Lo stridio delle gomme sull’asfalto fu come un trapano nei denti di Evelyn.
L’autista le urlò contro qualcosa, ma Eve non riuscì a cogliere tutte le sfumature di quelle offese.

Lasciò in poco tempo la città e prese una strada brecciosa, circondata da alberi che si facevano sempre più tetri e oscuri. Il sole era quasi del tutto tramontato.
Mentre continuava a pedalare a tutta velocità, Evelyn immaginò in signor Howard andare su tutte le furie quando avrebbe visto il posto vuoto della sua bicicletta.
Allora Eve iniziò a ridere. Fu una risata sinistra, isterica, il cui suono non piacque per nulla alla ragazzina.

.



cic

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Capitolo 7
*** Buckley ***


♦ Buckley ♦





Era una fresca serata. La calura dell’estate sembrava aver concesso una sorta di tregua alla cittadina di Louistown. In lontananza si poteva udire il cupo rimbombo di qualche tuono, segno che una tempesta si stava avvicinando.
Joe Limpshire era sprofondato nella poltrona del suo salotto.
Si stava annoiando moltissimo mentre cercava, non molto speranzoso, qualcosa di interessante da vedere in televisione.
I suoi genitori erano usciti. Suo fratello maggiore, Curt, avrebbe dovuto badare a lui… ma Curt approfittava di quelle situazioni per sgattaiolare fuori di casa per andare chissà dove.
Spesso ritornava nel cuore della notte, o addirittura il giorno dopo, completamente ubriaco.
Morale della storia, Joe era rimasto solo in casa senza poter fare nulla di divertente.

Trovò poi qualcosa in tv che suscitò, seppur lievemente, il suo interesse.
Si trattava di un vecchio film horror in bianco e nero. Montgomery Clift recitava la parte di un uomo che veniva tormentato da un fantasma.
Lo spettro appariva di notte, uscendo da una lugubre tomba nel bel mezzo di un antico cimitero.
Joe rimase a guardare il film per un bel po' di tempo, ma quando alzò lo sguardo verso l’orologio, si accorse che doveva controllare Buckley.
Il cane della sua famiglia, l’enorme e vecchio mastino, non stava molto bene.
Curt l’aveva portato con sé quel pomeriggio, probabilmente per spaventare qualche poveraccio in città. Si era poi spinto verso la vecchia casa abbandonata di Price.
Lì Buckley, come aveva raccontato Curt, aveva trovato qualcosa per terra, vicino a un vecchio spaventapasseri abbattuto e vandalizzato, e l’aveva mangiato.
Curt non sapeva cosa avesse trangugiato il cane, ma da allora aveva iniziato a comportarsi in maniera strana e a star male.
“Controllato ogni mezz’ora” aveva ringhiato il ragazzo a Joe quella sera, prima di uscire di casa e lasciando suo fratello da solo.

Joe si alzò dal divano e uscì in giardino.
Lo sorprese un vento gelido. C’era odore di pioggia nell’aria.
Grossi e minacciosi nuvoloni neri si stagliavano contro il cielo notturno, sembravano divorare le stelle sul loro cammino.
Joe rabbrividì. Superò l’intero giardino e raggiunse la rimessa degli attrezzi.
Si trattava di un piccolo stabile dalle pareti sottili e di metallo.
Buckley adorava stare lì dentro. I genitori di Joe gli avevano costruito una cuccia ma il mastino considerava quella rimessa la sua vera casa.
Joe aprì la porta, tirò una catenella per accendere la luce ma la lampadina che oscillava sulla sua testa doveva essersi fulminata qualche tempo prima.
Il ragazzino attese che i suoi occhi si abituassero al buio, fino a quando non scorse la sagoma di Buckley.
Il cagnone era riverso su un fianco e dava le spalle a Joe.
Aveva il respiro irregolare. Dormiva ma era irrequieto.
Joe ebbe l’impulso di non avvicinarsi. Non aveva mai avuto timore per il suo cane, eppure l’istinto gli diceva di non svegliarlo.
Controllò che avesse da bere e da mangiare, poi richiuse la porta e si allontanò a passo svelto.
< Se domani mattina sarà ancora in quello stato… > pensò Joe <… lo portiamo dal signor Corman > che era il veterinario della città.

Rientrò in casa e un grido agghiacciante lo fece sobbalzare.
Il film horror non era ancora finito e il fantasma si era materializzato di fronte a donna indifesa e urlante. Joe si sentì uno stupido mentre risprofondava nel divano.
La ferita sulla fronte pulsava. La copriva un grande e vistoso cerotto bianco.
Il medico che l’aveva vista sosteneva che sarebbe rimasta una cicatrice.
“Maledetto Sinclair” ringhiò Joe sottovoce. L’impulso di grattarsi la ferita era insopportabile.
Wyatt Sinclair, qualche giorno fa, lo aveva colpito in testa con una pietra.
Si trovavano al campo di baseball vicino la casa di Price. Lui e Ron Davis stavano prendendo di mira Evelyn quando Wyatt, supportato dal suo amico spilungone Tom, erano accorsi in difesa della ragazzina.
Fu allora che Wyatt aveva ferito Joe.
Essere stati colpiti in quella maniera aveva messo in imbarazzo Joe… ma tornare a casa e spiegare tutto a suo fratello maggiore era stato a dir poco umiliante.
“Noi non ci facciamo trattare in questo modo…” aveva urlato Curt scuotendolo per le spalle “…sei un uomo o una fichetta?! Eh, rispondi!”
“Un u-uomo” aveva piagnucolato Joe.
“Se sei un uomo... allora comportati da uomo e fatti rispettare.”
Curt aveva preso a cuore tutta quella situazione.
Voleva vendicarsi su Tom e Wyatt a modo suo, senza riferire nulla ai genitori.

Tutti quei pensieri avevano completamente rapito Joe.
I suoi occhi erano rivolti verso il televisore, ma non stava più seguendo il film.
Un tuono lo riportò alla realtà.
Joe, per la seconda volta in quella strana serata, balzò sul posto per il terrore. Si guardò attorno per poi chiedersi perché Montgomery Clift stesse litigando con un poliziotto in quella che, probabilmente, doveva essere il momento clou del film.
< Quante scene mi sono perso? > si chiese il ragazzo.
Un altro tuono cadde dal cielo.
Joe controllò l’ora e si accorse che doveva controllare di nuovo Buckley.

Uscì di casa. L’aria si era fatta ancora più fredda e il vento soffiava con più insistenza. Il fruscio delle foglie lo fece rabbrividire.
Su nel cielo un lampo rivelò la posizione dei grossi nuvoloni.
Erano proprio sopra di lui, si stendevano per diverse miglia, probabilmente sormontavano l’intera cittadina e le altre fattorie limitrofe.
La fattoria dei Limpshire era vicina a Louistown ma, in quel momento, Joe ebbe l’impressione di trovarsi isolato dal resto del mondo.
Una strana angoscia risaliva nel suo animo a ogni passo che faceva in direzione della rimessa degli attrezzi.
Tremava… ma non di freddo.
Aprì la porta della rimessa.
Trovò Buckley erto sulle sue zampe.
Era intento a mangiare dalla sua ciotola in un modo così grottesco che Joe, per ragioni a lui ignote, giudicò osceno. Nella penombra della rimessa, il mastino sembrava solo una massa informe di materia scura. Il suono bagnato delle sue fauci intente a triturare il cibo fece rivoltare lo stomaco del ragazzo.
Joe fece per chiudere la porta e fu allora che Buckley si accorse di lui.
Il cane smise di mangiare e si voltò di scatto nella sua direzione. Proprio in quel momento, un lampo illuminò di bianco l’intera notte… e Joe fu costretto a osservare nei minimi dettagli ciò che si trovava di fronte a lui.
Buckley non era più Buckley.
Si era trasformato in qualcosa di deforme che solo vagamente ricordava il cane della sua famiglia. La carne dell’animale sembrava sciolta, il pelo era irto e apparentemente coperto da una sostanza densa e appiccicosa.
Un solo orrendo occhio fissava Joe, l’altro era mancante. E in quell’orbita vuota, decide di vermi facevano capolino verso l’esterno, arricciandosi e contorcendosi.
Buckley mostrò le zanne al ragazzo… e quest’ultimo non poté fare a meno di notare delle vaghe fattezze umane sul muso-faccia del cane.

Un tuono cadde vicino la fattoria. Il rombo sembrò scuotere Joe che, in qualche modo, fu strattonato via dal suo torpore.
Aprì per la bocca per urlare ma era così sconvolto che a stento riusciva a respirare.
Si mosse rapidamente e chiuse la porta della rimessa, ma il cane-mostro fu più rapido. Balzò contro la porta e riuscì a spalancarla. Questa colpì Joe sulla testa e la ferita sulla fronte si aprì di nuovo.
Il ragazzo barcollò nel buio del giardino e avvertì le pesanti zampe anteriori di Buckley premergli contro il petto. Cadde a terra, istintivamente protrasse le mani in avanti a protezione del volto.
Un dolore lacerante e improvviso si sprigionò dal suo avambraccio sinistro. Joe capì immediatamente che il cane lo aveva morso. Questa volta riuscì a urlare.
Nello strazio di quel momento, il ragazzo riuscì a provare una certa, angosciante meraviglia nel constatare quanto potessero essere duri e affilati i denti di un mastino.
Buckley iniziò a ringhiare furente e ad agitare il braccio di Joe.
Questi iniziò a oscillare come una bambola di pezza. Il cane era incredibilmente forte e scatenato. Si udirono i vestiti del ragazzo che venivano lacerati, suoni acuti che sembravano levarsi fino al cielo, dove i nuvoloni scuri continuavano ad ammassarsi.
In qualche modo, Joe riuscì a liberarsi della presa del cane e ad alzarsi in piedi.
Con sommo orrore scoprì di aver perso il controllo del braccio offeso. Lo vedeva penzolare come una cosa morta che gli spuntava dalla spalla.
< Non può essere rotto! > Più che una deduzione, fu una preghiera che balenò nella mente terrorizzata del ragazzo.
Un secondo tuono annunciò l’arrivo della pioggia. L’acqua iniziò a scrosciare improvvisa e violenta. La temperatura precipitò così repentinamente che i polmoni di Joe, per un secondo, smisero di funzionare. Ma a Joe questo non sembrava importare.
Fissava la porta della sua casa. L’aveva lasciata aperta, un rettangolo di luce dorata che sembrava chiamarlo a sé.
Joe si mise a correre. Scivolò solo una volta poiché la pioggia aveva già trasformato la terra del suo giardino in fanghiglia.
Non cadde a terra, ma posò il palmo destro al suolo e riprese a correre.
Pochi istanti dopo, le zanne di Buckley gli perorarono la caviglia. Joe rovinò al suolo, con la faccia contro l’erba gelida. Il dolore lo sorprese in quel momento. Fu un’agonia indescrivibile ma, come se non bastasse, Buckley -o qualunque cosa fosse diventato quel cane- non gli staccava le fauci dalla caviglia.
Joe urlò di nuovo e provò a dimenarsi, a lottare con tutte le sue furie.
Il sangue colava dalla sua fronte, fondendosi con la pioggia e finendogli negli occhi. Dopo l’ennesimo strattone da parte del cane, dalla gamba di Joe si levò un suono secco e deciso, come lo schiocco di un ramo che veniva spezzato.
Il dolore fece scattare il ragazzo a sedersi. Fu allora che Buckley si slanciò contro di lui, questa volta mirando al collo.
Il mastino costrinse Joe a stendersi al suolo. Le zanne gli perforarono la gola che subito si riempì di sangue caldo.
Il ragazzino non poté far altro che contemplare il cielo nero, mentre la pioggia scendeva su di lui. Ormai si sentiva stremato.
< È strano… > fu il suo ultimo, assurdo pensiero prima di morire < …ormai non fa quasi più male.>




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Mezz’ora prima, in quella che molti avrebbero potuto definire una strana coincidenza, Wyatt e Tom stavano guardando lo stesso film horror che Joe seguiva svogliatamente.
Tom era andato a casa di Wyatt per passare la notte con lui.
Ad accompagnarlo era stata sua madre. Diana Williams aveva preso la macchina e poi si era diretta in stazione, lì avrebbe preso un treno per poter raggiungere sua sorella.
In quel periodo dell’anno, Diana andava sempre a trovare la zia Lisa, l’eccentrica ed esuberante zia Lisa.

Tom, quella sera, aveva cenato insieme Wyatt e ai suoi genitori, Margaret e Owen Sinclair.
Lei era una donna bassa e incredibilmente grassa, con capelli ricci e rossi. Lui era un ometto ancora più basso e quasi del tutto calvo. I suoi occhi avevano la stessa, meravigliosa sfumatura azzurra di quelli di suo figlio.
Dopo cena, i signori Sinclair si ritirarono nelle loro stanze, al piano di sopra.
Il signor Owen ci mise un po' per salire le scale. Una vita passata a lavorare nelle miniere gli aveva conferito diversi acciacchi e problemi motori.
Tom, nel vedere quell’uomo arrancare sui gradini, provò una certa compassione nei suoi confronti.
Prima di ritirarsi in camera da letto, la signora Margaret urlò: “divertitevi con il vostro pigiama party, ragazzi.”
“Mamma…” piagnucolò Wyatt “…non è un pigiama party! Quello lo fanno le femmine.”
Tom si limitò a fare spallucce, non gli dava fastidio quel termine. Del resto, lui e il suo amico avevano in programma di fare le ore piccole davanti alla televisione in sala, proprio il genere di cose che si fanno nei pigiama party.
Trovarono il film horror in bianco e nero, con protagonista Montgomery Clift, e si stesero sul tappeto persiano, l’uno al fianco dell’altro.

Per un po' non si dissero nulla, poi fu Wyatt a parlare: “allora… tu e Eve siete riusciti a entrare nella casa di Price?”
Tom stava pensando proprio a quella terribile vicenda, deglutì prima di raccontare al suo amico la sua disavventura vissuta con Evelyn Reed.
Alla fine del racconto, Tom e Wyatt passarono altri diversi secondi in silenzio. Nella casa dei Sinclair si udivano solo i lamenti del fantasma in televisione.
“Quindi è morto?!” Domandò improvvisamente Wyatt. Ma la sua voce era spensa, come si aspettasse una brutta notizia da parte di Tom.
E infatti questa non tardò ad arrivare: “ne dubito…” rispose il suo amico “…voglio dire… come si fa a uccidere qualcuno che è già morto?!”
“E tu come fai a essere sicuro che è morto?”
“Nessun uomo può vivere in quello stato. Ho visto le sue ferite, ho visto… ecco …com’era decomposto. Quando ci ha inseguito nel campo di erba alta, ricordi?… Va bene, è stato solo per un momento, ma so esattamente cosa ho visto. E quella roba non può essere un uomo vivo.
Inoltre nessun uomo vivo è in grado di apparire nell’armadio delle persone.”
Scoccò un’occhiata a Wyatt.
Lui aveva detto che a febbraio, l’uomo mezzo-marcio era apparso nel suo armadio… e qualche giorno fa, il mostro aveva fatto la stessa cosa con l’armadio di Tom.
Tom voleva spronare Wyatt in qualche modo, fargli scrollare di dosso le sue paure e convincerlo ad aiutarlo. Non potevano stare con le mani in mano in attesa di ricevere un’altra terrificante visita dell’uomo che li stava perseguitando.
Lo sguardo di Wyatt si fece cupo: “quindi cosa pensi che sia?”
Tom sospirò rumorosamente: “quante volte dobbiamo tornare su quest’argomento?! Non ne ho la minima idea.”
“Allora come pensi di affrontare una cosa che non conosci? E se fosse un demone?! Eh, ci hai pensato? Come pensi di affrontare un demone?”
Tom non fu sorpreso nell’udire quelle parole.
La signora Margaret era una fervente religiosa ed era chiaro che aveva instillato in suo figlio una bella dose di timore religioso.
Il ragazzo fece per replicare ma qualcosa in televisione attirò la sua attenzione.
Anche Wyatt si voltò a vedere la tv.
Il fantasma era appena uscito dalla tomba. Era una sorta di ectoplasma semitrasparente simile a un mucchio di stracci laceri e svolazzanti. Man mano che si avvicinava verso un ignaro Montgomery Clift, in quella scena stava dando le spalle allo spettro, questi diventava sempre meno incorporeo. Alla fine, assunse una forma tangibile.
Clift notò la minaccia all’ultimo momento, urlò e si rinchiuse in una camera. Il fantasma tentò di aprire la porta.
Il primo piano del pomello d’ottone che sbatacchiava fece balzare in piedi Tom.
Wyatt lo fissò perplesso.
Il suo amico aveva gli occhi spalancati: “è un fantasma!”
“Che cosa?” Esclamò Wyatt.
“L’uomo-mezzo marcio è un fantasma.”
“E lo hai dedotto da un film?” Wyatt indicò con la mano aperta la televisione. Montgomery Clift intanto era balzato via dalla finestra per sfuggire allo spettro.
“Pensaci un attimo…” continuò Tom “…il fantasma si erge dalla tomba, incorporeo, quindi può apparire dove vuole. Ma quando assume forma fisica… beh …può essere ostacolato dalla materia.
Porte e muri diventano degli impedimenti per lui. Non è ovvio?!”
“E’ folle” lo ammonì Wyatt. Anche lui si era alzato in piedi e Tom notò un certo scintillio nei suoi occhi, segno che -almeno in parte- concordava con quella teoria.
“Invece tutto torna” continuò Tom.
Tutto?…” Wyatt ridacchiò per il nervoso “…va bene, ammettiamo che l’uomo mezzo-marcio è realmente un fantasma. Cosa facciamo quindi?”
“Beh… dunque… ” Tom prese a camminare avanti e indietro, il rumore dei suoi passi attutiti dal persiano sotto di lui “ …come prima cosa dobbiamo trovare la sua tomba. A Louistown c’è un solo cimitero, questo dovrebbe semplificare le cose.”
“Ma non sappiamo neppure chi è” sottolineò Wyatt… ma nonostante tutte le sue obiezioni, Tom aveva intuito che il suo discorso stava, seppur lentamente, convincendo il suo amico.

I due iniziarono a discutere a lungo. Wyatt era convinto che c’erano troppe incognite da svelare e che quindi non era prudente procedere con il piano di Tom di andare in qualche cimitero per cercare la tomba che, apparentemente, apparteneva a un sadico spettro.
Tom, del canto suo, era sicuro che cerano molti indizi che gli suggerivano di agire.
Non si erano accorti che il film era finito da un pezzo.

Wyatt, senza alcun preavviso, si bloccò di colpo: “hai sentito?” Chiese.
“Sentito cosa?” Domandò Tom.
“Shhh” fu la risposta dell’amico. Spense la televisione e la casa sprofondò nel silenzio.
I due ragazzini non si mossero e tesero le orecchie nella speranza di captare qualche suono. Fuori aveva iniziato a piovere forse da cinque minuti o forse da mezz’ora. Tom e Wyatt non erano in grado di stabilirlo poiché, fino a quel momento, erano rimasti troppo concentrati nella loro discussione.
“E’ solo il temporale” rispose Tom con tono sbrigativo.
“No… ascolta…” Wyatt alzò un dito come per dire; concentrati.
In quel momento, Tom sentì qualcosa… qualcosa di diverso dallo scroscio dell’acqua. Era una sorta di trillo argentino.
Lui e Wyatt si fissarono con occhi spalancati. Avevano udito entrambi del debole rumore.
Din! Din! Din!… Il suono si faceva sempre più forte, sempre più vicino.
Proveniva da fuori.
I due ragazzini si precipitarono verso la finestra.
Dalla strada brecciosa che collegava la fattoria dei Sinclair a Louistown si intravedeva una figura sfrecciare su una bicicletta. Faceva trillare di continuo il campanello nella speranza di attirare l'attenzione.
“E’ Evelyn!” Esclamarono all’unisono Tom e Wyatt.

Nel cuore della notte, Evelyn Reed pedalava a gran velocità verso la casa di Wyatt.
Sembrava sconvolta, i capelli arruffati e la mazza da baseball sul manubrio della bici.
“Che ci fa qui… a quest’ora poi?” Domandò Wyatt più a sé stesso che a Tom, il quale si era già precipitato verso la porta di casa.
Bastava fissare solo per un istante lo sguardo stravolto di Evelyn per capire che doveva esserle capitato qualcosa di grave.
I due ragazzi uscirono fuori, ignorando la pioggia e il gelo di quella notte.
Si incontrarono con Evelyn nel vialetto di casa.
Lei smontò dalla bici con un balzo decisamente poco aggraziato. Era a dir poco sconvolta.
Wyatt e Tom le misero le mani sulle spalle, come in una sorta di abbraccio interrotto a metà. Gli chiesero cos’era accaduto.
Un tuono cadde così vicino alla loro posizione che per diversi secondi si sentirono le finestre di casa tremolare.
La ragazzina piangeva disperata e tentò con tutte le sue forse di calmarsi.
Dopo diversi tentativi di prender parola, che si tramutavano in convulsi singhiozzi, riuscì finalmente ad alzare un dito e a indicare le luci di Louistown che a malapena si vedevano all’orizzonte: “l-lui…” disse con voce spezzata.
Non c’era bisogno di aggiungere altro. Wyatt e Tom compresero che Evelyn era stata aggredita di nuovo dall’uomo mezzo-marcio.
“Ti ha ferita?…” Chiese Tom, le aveva preso le mani e con lo sguardo cercava tracce di sangue sui suoi vestiti “…tua madre?”
“Lei sta bene…” rispose Eve con voce ancora incerta “…o almeno credo. Insomma… lei non era in casa …io sono scappata e… oddio…” Scoppiò di nuovo in lacrime.
Tom e Wyatt si scambiarono un’occhiata preoccupata.
Non avevano mai visto Evelyn in quello stato. Fino a un mese fa, consideravano Eve come una sorta di creatura fredda e distaccata, una sfinge dalla sguardo raggelante.
Ma in quel momento, sotto la pioggia, Eve appariva fragile come ogni ragazzino della loro età di fronte a un trauma che non poteva più sopportare.
“Sono fuggita per miracolo…” disse nuovo, tremava per il freddo e Wyatt le indicò la porta di casa, invitandola ad entrare.
Mentre Eve veniva scortata dai due ragazzi sul viale di casa, lei indicò di nuovo dietro di sé “…questa volta c’è mancato pochissimo. E se solo…” Buckley le saltò addosso.
Il mastino era balzato alle sue spalle, addentandogli il braccio ancora puntato verso Louistown. Anche Tom cadde a terra poiché si trovava sulla traiettoria del cane. Il ragazzino era stato scaraventato via come se non avesse alcun peso.
Wyatt fu il primo a gridare. A seguire anche il suo amico e Evelyn iniziarono a strillare.
Le loro urla sormontarono il rumore del temporale.

Buckley si agitava come un forsennato, strattonando Eve per la maglia.
La manica dell’abito si lacerò del tutto, facendo ruzzolare il mastino da una parte e Eve dall’altra. Lei ne approfittò per fuggire via, verso la casa dei Sinclair.
Wyatt, che nel frattempo aveva recuperato la mazza da baseball dalla bici, si era slanciato verso Tom per aiutarlo a rialzarsi.
Anche loro fuggirono verso casa.
Una volta dentro, chiusero immediatamente la porta… ma Buckley entrò nella sala sfondando una finestra. I tre ragazzini sussultarono e urlarono ancora più forte per lo spavento. Dalla loro posizione si poteva vedere solo uno scorcio della sala.
Buckley si stava scrollando di dosso acqua e frammenti di vetro, poi alzò il muso verso di loro.
Tom, Wyatt e Evelyn fissarono con orrore il suo corpo deforme, la sua orbita priva di occhio e colma di vermi. Buckley ringhiò rabbioso contro di loro.
Un altro tuono si abbatté vicino la casa, mandando in blackout l’abitazione.

Tom sprofondò nel panico più totale. Sentì i suoi amici agitarsi e correre verso una direzione della casa. Li seguì, completamente cieco, agitando le mani di fronte a lui pregando di non trovare ostacoli. Dietro di lui sentiva arrancare il mostro-cane.
Nel suo essere deforme, Tom aveva intravisto parte dei lineamenti dell’uomo mezzo-marcio. Non poté fare a meno di pensare che quello non era più Buckley ma un’altra manifestazione del mostro.
Sentì di fronte a lui una porta spalancarsi, poi la mano di Wyatt che gli artigliava la maglia e lo spingeva in avanti.
Tom capì che il suo amico aveva portato lui ed Evelyn nella cucina.
Chiusero la porta che subito fu caricata da Buckley. Le assi della porta gemettero. Il mostro abbaiava, ringhiava e caricava ripetutamente la porta.
Eve urlava qualcosa ma Tom era troppo sconvolto per comprendere le sue parole.
Di colpo tornò la luce.

Tom e Eve avevano la schiena premuta contro la porta. Ma ogni volta che il cane la colpiva, i due ragazzini venivano sospiti via di diversi centimetri.
“Sta per sfondarla” urlò Tom.
Wyatt, nel frattempo, si era spostato verso le credenze della cucina per cercare probabilmente delle candele. Aveva lasciato la mazza da baseball su un tavolo. Ma ora che era tornata la luce, il ragazzo lasciò perdere le candele ed estrasse da un cassetto una mannaia da cucina.
Nel vedere quel grosso pezzo di metallo scintillante, Tom non poté far a meno di rammentare tutte le volte che il signor Owen Sinclair si vantava dei suoi famosi barbecue all’aperto e della sua abilità nel tagliare la carne.
Proprio in quel momento, si udirono in casa le urla del signore e della signora Sinclair. Provenivano dalle scale. I genitori di Wyatt si erano svegliati per via di tutto quel fracasso.
Dall’altro lato della casa, Tom riuscì a sentire il signor Owen dire qualcosa a sua moglie come: “Margie! La doppietta!”
“Mamma, papà… no!” Grido Wyatt.
I suoi genitori urlarono ancora più forte, segno che avevano visto la mostruosità che era Buckley. Dalla cucina, i ragazzini udirono il cane allontanarsi da loro e caricare i signori Sinclair.
Wyatt spalancò la porta e corse in loro aiuto.
“Aspetta” gli urlò Tom che con il cuore il gola tentò prima di fermarlo, ma mancò la presa, e poi lo seguì velocissimo.
Evelyn fu l’ultima a lasciare la cucina poiché si era preoccupata di recuperare la mazza da baseball.

Trovarono Buckley sulla rampa delle scale oltre la sala. Dalla finestra rotta entrava la pioggia e il vento gelido del temporale.
Il signor Owen era in cima alla scalinata, dietro di lui c’era sua moglie.
L’uomo avrebbe voluto soccorrere suo figlio ma i suoi problemi motori lo avevano reso lento e goffo. Buckley l’aveva raggiunto e gli aveva prima morso una caviglia e poi una mano. Un fiume di sangue stava scendendo dai gradini.
Tom, mentre oltrepassava la sala ormai inondata dall’acquazzone, sentì l’orrendo suono -malgrado le grida isteriche della signora Sinclair- di carne e tendini che venivano lacerati.
Owen Sinclair aveva ritirato a sé la mano morsa da Buckley, il mignolo e l’anulare erano spariti lasciando il posto a due raccapriccianti moncherini insanguinati.
Il cane deglutì, mandando giù il boccone.
“Wyatt!...” Gridò Owen Sinclair nel vedere suo figlio avvicinarsi “…vattene!”
Ma il cane aveva già puntato lo sguardo verso i tre ragazzini. Balzò via dalla scalinata e li caricò. Evelyn agitò di fronte a sé la mazza ma il cane la schivò facilmente, superò la ragazzina e si diresse verso Wyatt, che sembrava in quel momento la preda più debole.
Il ragazzino si fece scivolare la mannaia di mano, tentò di afferrarla al volo ma Buckley fu subito sopra di lui.
Ragazzino e cane caddero su un tavolino di cristallo che si frantumò in mille pezzi.
La signora Sinclair urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
“Maledizione, Margie…” tuonò suo marito “…va a prendere il fucile!” Owen si teneva stretto al petto la mano maciullata. Aveva perso così tanto sangue che i suoi occhi iniziavano a roteare.
Tentò di alzarsi ma era troppo debole per un simile gesto.

Buckley lottò per qualche instante con Wyatt che cercava di smanacciare via il suo muso, poi il cane scattò in avanti e gli affondò i denti nel collo.
Wyatt gridò fino a perdere la voce.
Il suo strillo si fuse con quello di Evelyn. Questa volta però, l’urlo della ragazzina sembrava più un urlo di guerra che di terrore.
Attraversò l’intera stanza e colpì con la mazza il cane sulla schiena. Diverse vertebre del cane si frantumarono. Buckley lasciò la presa su Wyatt e si voltò verso Evelyn, mostrandogli le zanne.
Tom, nel frattempo, osservava con orrore l’intera scena: il signor Owen che lottava per non perdere i senti sulla cima della scalinata, la signora Margaret che era bloccata da suo marito, Wyatt disteso sul tavolino ridotto in frantumi… Buckley l’aveva morso sulla spalla, mancando di poco l’arteria nel collo. Perdeva sangue ma non si trattava di una ferita mortale. E il cane… il cane-mostro si era scagliato su Evelyn. Aveva addentato la mazza e ora si agitava per tentare di disarmare la ragazzina.
Lei sembrava completamente impotente di fronte alla forza bestiale del cane. Dopo un ultimo strattone, la mazza volò via dalle sue mani. Ora non poteva più difendersi.
Buckley l’avrebbe divorata in un sol boccone…

Accadde tutto in un istante, breve come il lampo che in quel momento immerse di luce accecante la casa: Tom si era lanciato contro il fianco dell’animale.
I due rotolarono a terra, sui frammenti del tavolino di cristallo… ruzzolarono poi sui vetri della finestra infranta e infine finirono sul persiano ormai zuppo di acqua piovana.
L’istante dopo, un tuono fece tremare la terra.
Tom e Buckley rimasero avvinghiati tra loro… immobili, senza muovere neanche un muscolo. Poi Tom si separò dal mastino e si accasciò a terra.
Era completamente sporco di sangue… ma non era ferito. Ciò che aveva addosso era il sangue di Buckley.
Evelyn fu la prima a notare che il cane giaceva morto su un fianco, con il coltello di Curt Limpshire, quello che Tom gli aveva rubato dietro la chiesa, conficcato nella gola.
L’intera lama era penetrata all’interno del cane, che intanto aveva ripreso le sue normali sembianze. La bocca era leggermente aperta e la lingua penzolava di fuori.
Un ultimo spasmo muscolare fece scattare una zampa del cane. Evelyn sussultò.

Il temporale iniziò a ritirarsi.
“W-Wyatt?…” Piagnucolò la signora Margaret dalla cime della scale, suo marito accasciato sul suo grembo “…Wyatt?”
“Sto bene” disse il ragazzo con voce rauca e restando sdraiato a terra. Alzò una mano e l’agitò a mezz’aria come per rimarcare il fatto che non aveva nulla di grave.
Lo sguardo di Eve passò da Wyatt a Tom.
Anche quest’ultimo non voleva rialzarsi da terra, non prima di aver ripreso fiato e riordinato le idee. Lui e Evelyn si scambiarono uno sguardo d’intesa.
Era come se fossero in grado di parlare telepaticamente. Lei che diceva: questa volta ti sei ricordato del coltello!
E Tom che le rispondeva: eh già!

Evelyn alzò poi lo sguardo verso i coniugi Sinclair.
Il signor Owen aveva il fiato pesante. Sua moglie invece stava fissando Evelyn.
La ragazzina si aspettò una sfuriata da parte della donna, qualcosa del tipo: cosa ci fai in casa mia? Figlia della polacca! Hai portato tu il cane qui dentro?
Ma con sua sorpresa, Margaret, che dall’alto della sua posizione aveva visto il modo in cui Evelyn aveva salvato suo figlio, le rivolse parole cariche di inaspettato affetto: “cara, potresti chiamare la polizia? Il telefono è lì sul muro” e indicò l’apparecchio con un gesto del mento.
Evelyn individuò facilmente il telefono.
Nel frattempo, il temporale era finito ma la notte era ancora gelida.
“Quella bestia schifosa è il cane dei Limpshire!” Gracchiò il signor Owen.
“Non ti agitare!” Disse affettuosamente sua moglie.
“Ohhh…” il signor Owen continuò come se non l’avesse ascoltata “…mi sentiranno! Ohhh se mi sentiranno!”
“Dobbiamo arrestare l’emorragia caro.”
Intanto Wyatt si era messo a sedere, scostò il colletto della sua maglia per controllare la ferita. Sua madre trasalì nel vedere i segni del morso.
“Sto bene…” disse Wyatt, questa volta con aria seccata “…Tom? Tom, ci sei ancora?”
Tom alzò in alto il pollice: “ancora tra voi” disse con voce stanca. Il ragazzino non voleva far altro che contemplare il soffitto nella speranza di tenere la mente sgombra da ogni pensiero.

Evelyn tentò più volte di usare il telefono. Sbuffando riagganciò la cornetta e si voltò verso la signora Sinclair: “il blackout ha messo fuori gioco il telefono. È completamente andato.”
“Oh” squittì malinconica la donna. Aveva tutta l’aira di chi non sapeva cosa fare.
“Conciato come sei…” disse poi a suo marito “…dobbiamo portarti all’ospedale. Ma dobbiamo anche avvertire i Limpshire che il loro cane ci ha…”
“…quasi sbranati” finì per lei il signor Owen che nel frattempo aveva usato un gran fazzoletto di stoffa bianca per tamponare la ferita.
Sua moglie annuì: “poi dobbiamo in qualche modo chiamare Scott Williams e…” si voltò verso Evelyn con aria interrogativa.
“Mia madre si chiama Wiara Reed, signora” rispose lei.
“Ma certo, Wiara.” Ripeté la signora Margaret.

Ci vollero diversi minuti per far alzare il signor Owen dal grembo di sua moglie e sistemarlo delicatamente sui gradini della scalinata.
I tre ragazzini lo aiutarono con la massima accortezza.
Il signor Owen fu il primo a stirare un sorriso dopo quell’assurda lotta con il cane: “e tu cosa ci fai qui?” Chiese con tono scherzoso a Evelyn.
Lei abbassò lo sguardo e notò che il fazzoletto che l’uomo usava come tampone era ormai completamente rosso.
“Ecco…” Eve non sapeva cosa rispondere.
“E’ una nostra amica” disse Wyatt, cinse un braccio attorno al collo di Evelyn e l’altro attorno al collo di Tom. Si pentì subito di quella mossa, poiché la ferita alla spalla gli piantò nel cervello un acuta fitta di dolore.
“Sta attendo, caro” gemette la signora Sinclair a pochi passi da lui.
Evelyn teneva ancora lo sguardo piantato verso il basso. Nessuno aveva notato quanto fosse diventata rossa per via di quello che aveva fatto e detto Wyatt.
Quest’ultimo continuò: “lei è venuta qui in bici… cioè non voleva venire qui di nascosto… ecco…” ma non terminò la frase.
Dall’esterno si udì la sirena della polizia avvicinarsi alla casa dei Sinclair.




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Tre vetture si erano fermate sul vialetto di casa.
I poliziotti, sei in totale, erano scesi immediatamente poiché allarmati dalla vista della finestra sfondata. Quando entrarono in sala trovarono una scena che li fece impallidire.
La sala era mezza distrutta, allagata e piena di sangue.
A terra giaceva il cadavere di Buckley mentre i tre ragazzini, e i signori Sinclair, si stavano organizzando per uscire di casa e potare il signor Owen all’ospedale di Louistown.
“Lo abbiamo trovato” disse un agente indicando il cane.
“Gesù!” Commentò un suo collega nel guardare la carcassa dell’animale.
Gli altri poliziotti stavano già soccorrendo Owen e Wyatt Sinclair.

“Un fulmine ha messo fuorigioco il telefono…” disse la signora Margaret ai poliziotti, quasi come se volesse giustificarsi “…come avete capito che avevamo bisogno d’aiuto?”
Gli agenti si scambiarono occhiate perplesse.
Mentre uno di loro correva verso un auto per allertare la centrale, e per richiedere dei rinforzi, gli altri aiutarono il signor Owen ad alzarsi.
Uno di loro rispose: “stavamo braccando quella bestia…” e indicò il cane con un cenno del capo “…sta notte ha sbranato un ragazzino.”
“Chi?” Chiese la signora Sinclair trasalendo e portandosi una mano alla gola.
“Joe Limpshire” rispose lo stesso poliziotto.
Wyatt, Tom ed Evelyn si scambiarono occhiate dense di paura e incredulità.
“Oh santo cielo!” Margaret Sinclair scoppiò in lacrime.
“Su, si calmi signora” tentò di rassicurarla un agente.
Ma il terrore e la frustrazione di quella nottata avevano travolto la signora Sinclair che non la smetteva di piangere: “poteva succedere la stessa cosa a Owen, o al mio Wyatt!”

Gli agenti fecero accomodare i tre Sinclair su una sola vettura: “dritti in ospedale” disse un poliziotto. Altri due poliziotti fecero salire Evelyn su una seconda auto: “tu sei la figlia della polacca?” Chiese uno di loro.
Tom notò gli occhi di Evelyn caricarsi di tristezza e rassegnazione.
Lei annuì, poi rispose con voce spenta: “abito al 22 di Chester road, Colonial Hill, terzo piano.” I poliziotti annuirono.
Mentre veniva riportata a casa, Eve alzò lo sguardo in direzione di Tom. I due si fissarono per un lungo momento attraverso il vetro dell’auto.

Erano rimasti solo due poliziotti e una vettura.
“Allora…” disse uno dei due agenti al ragazzo “…il tuo amico ci ha raccontato che hai dato tu il colpo di grazia al bestione.”
“Io?... Beh… si” rispose Tom, visibilmente spiazzato da quella domanda.
L’altro poliziotto rise: “ben fatto, ragazzino! Oh, ben fatto!” E diede una scarica di possenti pacche sulla spalla di Tom.
“Sei Tomas Williams, giusto? Il figlio di… come si chiamano?” Domandò il poliziotto al suo collega.
“Ehm… Scott e Diana Williams” rispose lui.
“Si…” si intromise Tom “…ma mia madre non è in casa. È andata a trovare mia zia, cioè sua sorella…” < …ma perché dico queste cose?! Sono ancora sconvolto ma non è il caso di chiudere il becco?!> Tom si zittì.
“Tranquillo ragazzo, ti porto io a casa. Per stasera hai finito di fare l’eroe…” disse un poliziotto, poi si rivolse al collega “…tu aspetta qui, gli altri arriveranno tra poco. Cazzo, che nottata… ops, scusa la volgarità, ragazzino.”
Ma Tom scosse il capo, come per dire che non c’era alcun problema.
Stanco e provato, Tom salì sull’auto. Non era mai stato su una vettura della polizia e in un’altra occasione sarebbe rimasto affascinato da quell’esperienza.
Ma in quella notte era così stremato che a stento si rese conto che il poliziotto si era seduto al suo fianco e aveva messo in moto il motore.

Lasciarono alle loro spalle la casa dei Sinclair, che divenne un puntolino luminoso sempre più piccolo, visibile dallo specchietto retrovisore dell’auto… per poi sparire del tutto.
“Ah, che nottata… ma che nottata” continuò a mugugnare il poliziotto tra sé e sé.
L’auto svoltò poi su una stradina brecciosa.
Tom riconobbe il suono del pietrisco sotto le gomme della vettura, era il caratteristico suono provocato dai sassolini della stradina di casa sua.
Si dice che molte persone riescano a riconoscere i propri oggetti semplicemente dai suoni che provocano. Un caratteristico click di una pistola, ad esempio.
Tom era in grado di riconoscere il suono delle pietre vicino casa sua quando venivano attraversate da un auto. Quel rumore lo fece rilassare, ma i suoi pensieri erano ancora rivolti al mostruoso Buckley, al suo occhio mancante, al modo in cui Wyatt si era salvato per miracolo e a Joe Limpshire che era stato sbranato non dal suo cane… ma da un mostro che aveva posseduto il suo cane.
“Non si fermerà mai” si ritrovò a sussurrare.
“Hai detto qualcosa?” Chiese il poliziotto.
“Hm?! Oh, nulla, nulla.”
“Guarda, siamo arrivati.”
Tom alzò lo sguardo. L’auto della polizia si era fermata proprio sotto il portico di casa.

Lui e l’agente uscirono dall’auto e raggiunsero il portone di ingresso.
Fu il poliziotto a bussare. I suoi colpi erano forti e decisi poiché, data la tarda ora della notte, Scott Williams stava sicuramente dormendo.
Infatti il padre di Tom aprì la porta dopo molti minuti.
Indossava una vestaglia celestina e le luci dell’auto ancora acese si riflettevano sui suoi occhiali tondi. Scott osservò con orrore il poliziotto e suo figlio al suo fianco.
“Non deve preoccuparsi” si apprestò a dire l’agente che doveva sollevare di molto la testa per poter guardare negli occhi il signor Williams. Tom lo spilungone, del resto, aveva ereditato l’altezza da suo padre.
Il poliziotto continuò: “suo figlio non è nei guai e non gli è capitato nulla di male. Vede…”
Si zittì di colpo.
Tom si voltò di scatto verso di lui, allarmato dal suo silenzio improvviso.
Sulla faccia dell’agente era apparsa la stessa espressione spaventata che aveva suo padre, Scott. Tom non riusciva a comprendere il motivo di quell’espressione… era fin troppo esagerata anche per una situazione come quella in cui si trovavano.
Il poliziotto, inoltre, sembrava terribilmente imbarazzato.
Tom era frustrato poiché non riusciva a comprendere cosa stesse accadendo. Il suo sguardo indugiò sull’agente, poi su suo padre… poi oltre su padre, all’interno della casa. Fu allora che tutta quella situazione gli apparve dannatamente chiara.
Nella sala d’ingresso, semi nascosta dal buio, una donna in vestaglia osservava orripilata lui e il poliziotto sulla soglia della porta.
Tom non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Quella donna non era sua madre, ma Tom la conosceva benissimo, poiché la vedeva ogni mattina per nove mesi all’anno durante le lezioni di matematica.
Era la sua insegnante, la signorina Mary Rosenberg.

.



cic

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Capitolo 8
*** Alan Reese ***


♦ Alan Reese ♦

 





Joe Limpshire fu seppellito nel cimitero di St. Augustine, in una calda mattina di fine Agosto.
Fu un funerale a bara chiusa, dato che Buckley aveva divorato il volto del ragazzino.
Quasi tutta Louistown partecipò alla triste cerimonia, del resto si trattava di un evento eclatante. Persino dei giornalisti accorsero in quella soleggiata mattina d'estate. Prima di quella tragedia, il caso più sconvolgente accaduto nella tranquilla e noiosa Louistown fu una rissa in un locale causata da parte di due ubriachi.
Evelyn, prima di allora, non aveva mai visto un cimitero e non aveva mai assistito a un funerale.
Diceva a se stessa che era troppo piccola per quel genere di cose. Nonostante l'uomo mezzo marcio avesse tentato più volte di ucciderla, Evelyn credeva sul serio che la morte era qualcosa che non la riguardava.
"Quanto sono stata stupida" sussurrò tra se e se mentre, una volta terminata la messa funebre, lasciava il cimitero insieme agli altri cittadini di Louistown.
"Psss" un sussurro la fece voltare.
Alle sue spalle Evelyn vide Wyatt Sinclair. Il ragazzino vestiva un elegante abito nero con camicia bianca. Evelyn non poté fare a meno di affiancare mentalmente l'immagine di Wyatt a quella di un cameriere in miniatura. Lui fece cenno alla ragazza di seguirla. Lei acconsentì, incuriosita da quel singolare comportamento.

I due lasciarono il bizzarro corteo di persone che andavano via dal cimitero, e si diressero verso un vecchio castagno solitario. Evelyn si voltò indietro una sola volta, alla ricerca di sua madre. Non vedendola, decise di non curarsene.
"Dove stiamo andando?" Chiese a Wyatt non appena raggiunsero l'albero.
"Sei mai stata qui?" Domandò lui. Evelyn scosse il capo. Si accorse solo in quel momento che il castagno sorgeva vicino a un sentiero parzialmente nascosto dall'erba. Era una stradina di terra battuta che serpeggiava tra verdi pascoli e morbide colline, per poi sparire all'interno di un piccolo boschetto.
Per tutto il suo sinuoso tragitto, il sentiero era affiancato da un piccolo fiumiciattolo. L'acqua scorreva lenta e a tratti si vedevano qualche canna o erbacce infestate dalle libellule.
Una rana si era appena tuffata in acqua, increspando l'acqua.
Sembrava uno scenario uscito fuori da qualche racconto di Mark Twain. Evelyn fece per parlare, ma Wyatt fu più veloce di lei: "quel sentiero ci porta dritti dritti alla fattoria dei Williams."
"Dei Williams?" Domandò confusa Evelyn.
"Lo spilungone non si è fatto vedere, quindi andremo a prenderlo. Il sentiero è la via più corta per casa sua." Evelyn capì che Wyatt si stava riferendo a Tom. In effetti, Evelyn se ne accorse solo in quel momento, nessuno dei tre Williams era presente al funerale di Joe.
L'immagine della bara del giovane Limpshire che veniva sotterrata riaffiorò nella mente di Evelyn.
"Sei dispiaciuto per quello che è successo a Joe?" Chiese istintivamente a Wyatt.
Quest'ultimo aveva già iniziato ad avvicinarsi al sentiero. Si fermò a guardare Evelyn con aria sorpresa: "perchè questa domanda?"
Lei si strinse nelle spalle: "credo che si dovrebbe provare tristezza in un momento del genere, almeno per il rispetto del morto. Ma io non provo nulla, per quanti sforzi faccia, non riesco ad essere triste per Joe. Lui era cattivo con me... ma se rimango indifferente di fronte a ciò che gli è accaduto... bhè ...questo non rende anche me una persona cattiva?"
Questa volta fu Wyatt ad alzare le spalle: "se ti sforzi di essere triste, quando non lo sei, vuol dire che sei una persona falsa. Meglio non provare nulla e accettare la cosa. Tu non sei cattiva, semplicemente Joe non ha fatto nulla per meritarsi un minimo di rammarico da parte tua." E detto questo, Wyatt riprese il cammino.
Lui e Evelyn raggiunsero il sentiero e si inoltrarono nel piccolo bosco.
Avrebbero impiegato circa mezz'ora prima di raggiungere la fattoria di Tom.
Gli alberi offrivano loro un riparo dal sole cocente. Si preannunciava una giornata terribilmente afosa.
Evelyn seguiva Wyatt per il sentiero. Il frusciare degli alberi e il movimento dell'acqua erano i soli rumori che si potevano udire.
Giunse poi il canto delle cicale, improvviso e potente. Evelyn giudicò quel frinire come una risata, una risata acuta e malefica. Allora immaginò l'uomo mezzo marcio, suo padre, ridere di lei... ridere di quella situazione.
"Hai visto come ho conciato Joe?! Ma non è niente rispetto a quello che farò a te. Oh, non appena ti prendo!"
Lei deglutì: "Wyatt... non hai paura... "
"...Che il mostro ci attacchi di nuovo?! Certo che si, ma questa stradina è la via più corta per andare da Tom. E io e Tom, la sera dell'attacco di Buckley, abbiamo escogitato un piano." "Un piano?" Evelyn fu così stordita da quelle parole che si fermò di colpo. Wyatt si voltò e i due rimasero a fissarsi negli occhi senza dir nulla per diversi secondi. Al loro fianco, una trota arcobaleno zampillò fuori dal fiumiciattolo, si agitò a mezz'aria e poi ritornò in acqua con un sonoro pluff.
"L'uomo mezzo marcio, in qualche modo, ha posseduto Buckley..." spiegò Wyatt "...così come aveva posseduto lo spaventapasseri del vecchio Price. Ha preso Buckley e si è avventato contro me e la mia famiglia. Ho capito che dobbiamo fare qualcosa, non possiamo stare con le mani in mano." Evelyn rimase in silenzio per altri secondi, dopodiché strinse i pugni: "brutto idiota" disse con un filo di voce, ma abbastanza forte per farsi sentire da Wyatt.
"Cosa?"
La ragazzina avanzò con fare minaccioso verso di lui: "hai sempre provato a tirarti fuori da questa storia, tappetto che non sei altro. Ma da quando Buckley ha sfondato la finestra della tua sala hai capito che la tattica da struzzo con la testa nella sabbia non può funzionare. Allora hai deciso di alzarti dalla panchina e tornare in campo, felice di trovare ancora me e Tom in gioco." -mi piaci da morire, Wyatt, ma in questo momento vorrei proprio darti un pugno sul naso.- Evelyn sembrava aver raddoppiato la sua statura. Fissava Wyatt dall'alto verso il basso.
Il ragazzino distolse lo sguardo da lei per un pò, poi tornò a fissarla, alzò le braccia ed esclamò: "cosa vuoi che ti dica? Che sono un codardo? Un pisciasotto? C'è un fottuto mostro che appare nelle nostre case, possiede cose e animali e si diverte a sbranare ragazzini della nostra età. Prima di tutta questa storia, la mia paura più grande era prendere un brutto voto in matematica... converrai con me che l'uomo mezzo marcio va un tantino troppo oltre i miei problemi quotidiani.
La verità, Eve, è che non mi sento pronto... oh, al diavolo, non sono ancora pronto ad affrontare una cosa del genere."
"E tu pensi che io sia pronta? Pensi che Tom lo spilungone sia pronto?"
Il frinire delle cicale si fece più intenso. Wyatt e Evelyn si guardarono attorno, allarmati, poi ripresero a camminare ma questa volta con passo svelto.
Non dissero nulla per una manciata di minuti.
Fu Evelyn a rompere il silenzio: "allora... parlami del piano che hai escogitato con Tom."
La risposta di Wyatt non tardò ad arrivare: "io e lo spilungone pensiamo che l'uomo mezzo marcio sia in realtà una sorta di fantasma. E' ovvio che non si tratta di un normale uomo. Nessun essere umano può sopravvivere con quelle ferite così estese. Allo stesso tempo, l'uomo mezzo marcio è in grado di apparire e scomparire nel nulla e, come abbiamo visto, possedere cose e animali."
"Quindi... pensi sia un fantasma?"
"Si, insomma, qualcosa di ectoplasmico."
"Ecto-cosa?"
"Ectoplasma, non hai mai sentito questa parola?"
"Prima volta" Evelyn agitò una mano di fronte a se per scacciar via una libellula azzurra particolarmente grande.
"Un ectoplasma è un'entità spirituale, almeno credo, qualcosa di immateriale che può assumere una forma materiale."
I due ragazzini uscirono dal bosco e furono subito aggrediti dalla luce e dal calore del sole.
Si fermarono per dar tempo ai loro occhi di abituarsi al chiarore della giornata. Di fronte a loro, all'orizzonte, si poteva ammirare il campo di granturco coltivato dai Williams. Ormai avevano quasi raggiunto la fattoria di Tom. Evelyn riprese il discorso: "e quindi cosa avete escogitato tu e Tom?"
Wyatt rispose: "se l'uomo mezzo marcio è un fantasma allora avrà un corpo o una tomba in cui riposare."
"Ne sei sicuro?"
Wyatt ridacchiò ma non c'era allegria nel suo risolino, solo paura e nervosismo: "no, cazzo. Sono il più lontano possibile dall'essere sicuro di qualcosa riguardo questa storia. Ma io e Tom non abbiamo altre idee. Perciò abbiamo deciso di recarci il prima possibile al cimitero e cercare la tomba di quel bastardo e... perchè ti sei fermata?"
Evelyn sembrava essersi tramutata in una statua di sale.
Fissava Wyatt con occhi carichi di terrore e, per un motivo che il ragazzino non riusciva a comprendere, rimorso.
"Non troverete la tomba di quell'uomo al cimitero di Louistown" Disse Evelyn. Si sorprese nel sentire la sua voce così tremolante. Wyatt si avvicinò verso di lei, scrutandola con occhi indagatori.
Lei sospirò e iniziò a camminare avanti e indietro con passi pesanti. Si afferrò quel suo cespuglio di capelli e li tirò così forte da provare dolore.
"Eve... tu..."
"Io conosco l'uomo mezzo marcio."
Wyatt tentò un paio di volte di parlare ma non gli riuscì di emettere neanche un verso.
"Si chiama Alan, Alan Reese."
"Reese è il tuo cognome! Evelyn... cosa stai cercando di dirmi?"
"L'uomo mezzo marcio è mio padre" Evelyn sentì un senso di nausea esplodergli nello stomaco. Non aveva mai confessato quella verità a nessuno e ora si sentiva preda di emozioni che non poteva controllare. Ma in tutto quel caos, avvertiva anche un flebile sollievo.
"Ne sei sicura?" Wyatt appariva sconvolto... e non adirato come temeva Evelyn.
Lei annuì: "attraverso la pelle cadente e la carne in decomposizione riesco ancora a vedere i tratti di mio padre... o almeno di colui che era mio padre. Inoltre quel suo cappotto rosso che indossa ogni volta che appare di fronte a noi in forma umana, bhè, riconoscerei quel cappotto anche al buio."
Altri secondi di silenzio.
"Perchè, Eve? Perchè non hai mai detto nulla di tutto ciò?"
Lei alzò una mano verso Wyatt, come se volesse presentarsi a lui per la prima volta: "tanto piacere, mi chiamo Evelyn Reese. Io e mia madre ci siamo trasferite a Louistown. Molte persone mi chiamano la figlia della polacca per via delle origini di mia madre, altri invece mi chiamano troia perchè i miei unici due amici sono maschi. Sono povera in canna e... oh ...questa è bella, mio padre è un mostro maniaco che divora i ragazzini.
Allora, come ti suona come presentazione?"
"Ma... avresti potuto dirlo a me e a Tom. Ci hai appena definito i tuoi unici amici."
"Avrei voluto! Oh, quanto avrei voluto farlo. Però dicevo a me stessa; aspetta un altro pò! Non sei ancora entrata in confidenza con loro per sganciare una simile bomba."

Wyatt avrebbe voluto rispondere ma in quel momento non riuscì a formulare alcun pensiero. Era troppo stordito dalle rivelazioni di Evelyn.
Non si rese conto che la ragazzina lo stava chiamando: "mmm? Si?"
"Cos'hai intenzione di fare, Wyatt?"
"Non lo so... ma non mi piace stare qui. Le cicale cantano troppo forte. Andiamo a prendere Tom."
"E poi?"
"E poi gli racconti ciò che hai appena raccontato a me."





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Era passato da poco mezzogiorno e Wiara Reese si era appena accesa la sua quarta sigaretta... o forse era la quinta. Non che la donna tenesse il conto di queste cose, ma di certo non aveva mai fumato così tanto in una sola giornata. Avvertiva le prime avvisaglie di ciò che, senza alcun ombra di dubbio, sarebbe stata un'emicrania da record.
Il ticchettio dell'orologio in cucina sembrava aver aumentato considerevolmente il suo volume.
Lei era seduta e non smetteva di agitare la gamba destra sotto il tavolo della cucina. Nonostante ci fosse un caldo infernale, avvertiva le sua dita fredde come quelle di un cadavere.
"Gradisce qualcosa?..." Chiese con tono gelido "...magari un caffè?"
L'uomo di fronte a lei scosse il capo: "sto bene così" la sua voce era calda e terribilmente rilassata. Wiara non poteva sopportarla.
Si trattava di un uomo alto e magro come un chiodo, pelle olivastra e completamente calvo. I suoi occhi sembravano due pepite scure.
"Si sente bene, signora?! La vedo... come dire ...un tantino tesa."
Wiara ispirò a fondo una boccata di fumo, si prese altro tempo prima di rispondere: "il vostro collega è rimasto fuori di casa per farmi sentire più a mio agio?"
L'uomo annuì: "di solito il Bureau non lavora in questo modo, ma per il suo caso abbiamo voluto fare un eccezione."
"Il mio caso?" Wiara si portò di nuovo la sigaretta alla bocca.
"Giusto per essere chiari, signora, questo non è un interrogatorio e lei non è accusata di nulla. Abbiamo solo bisogno della sua collaborazione, ecco perchè non vogliamo metterla in agitazione."
Gli occhi di Wiara si fecero sottili come fessure: "come ha detto che si chiama, agente?"
"Rice, Andrew Rice."
"Agente Rice, lei mi deve scusare. Ma da dove vengo io, la polizia cercava sempre di mettere a loro agio le persone. Sorridevano, ci guardavano negli occhi e dicevano che non c'era nulla di cui preoccuparsi."
L'agente Rice intrecciò le dita di fronte a se e si sporse in avanti: "mia cara signora, siamo molto lontani dalla Germania nazista. Questa è l'America."
"America, certo..." Wiara azzardò a un sorriso amaro "...terrà di libertà e verità."
Spense la sigaretta in un posacenere colmo di vecchi mozziconi: "vogliamo parlare di verità, agente? Ho visto il modo in cui avete controllato la mia casa non appena vi ho fatto entrare.
Avete notato che i piatti della mia cucina sono per due persone, me e mia figlia. Avete notato che i letti sono due, singoli... per me e mia figlia.
I vestiti appesi al muro appartengono a due persone, me e mia figlia. La birra che ho in frigo... bhè ...quella è per dieci persone ma le assicuro che la conservo solo per me.
Quello che voglio dire, agente, è che in questa casa ci siamo solo io e mia figlia. Non stiamo nascondendo nessuno."
Per diversi secondi, i due non dissero una parola.
Il ticchettio dell'orologio era quasi assordante.
L'agente Rice sfilò da una tasta un piccolo taccuino con la copertina in pelle scura usurata dal tempo. Lesse alcuni appunti che aveva scritto: "il sedici gennaio di quest'anno, l'uomo noto come Alan Reese comprò un biglietto del treno nella stazione di Atlanta. Abbiamo dichiarazioni giurate, nonché diverse foto del soggetto mentre prende il suddetto treno, partito in orario per Sandersville."
Wiara si strinse nelle spalle: "e allora?"
"E allora..." l'agente Rice sospirò "...Louistown non ha una stazione ferroviaria. Ma Louistown è molto vicina a Sandersville. Signora Wiara, lei vuole davvero farmi credere che il suo ex marito non sia venuto a trovarla questo inverno? Sappiamo che la vostra separazione è stata... bhè ...piuttosto burrascosa.
Quello che penso, signora, è che il suo ex marito, magari dopo una serata passata a cercare il coraggio nel fondo di qualche boccale, abbia deciso di prendere il treno da Atlanta fino a Sandersville, farsi dare poi un passaggio per Louistown e poi fare una capatina in casa sua."
Wiara ebbe l'impulso di accendersi la sesta sigaretta della giornata. Guardò l'orologio appeso al muro: mezzogiorno e venti.
"E voi, agente, avete impiegato ben otto mesi prima di scoprire che Alan aveva comprato un biglietto del treno?"
La risposta dell'agente Rice non tardò ad arrivare, come se l'uomo stesse aspettando quella domanda: "prima Alan Reese non era sospettato di quattro omicidi, sequestro di minore, occultamento di cadavere e altre accuse che... ecco ...le risparmio i dettagli."
L'uomo trascinò la sua sedia sul pavimento per avvicinarsi ancora di più a Wiara. Continuò il suo discorso, ma il suo tono di voce si era fatto più confidenziale: "signora, se Alan Reese ha minacciato lei o sua figlia in qualche modo... se è costretta a nascondere questo mostro, basta una parola per far cessare ogni cosa.
Lei e sua figlia sarete protette e non dovrete più preoccuparvi di ogni cosa."
Wiara non si era neanche resa conto che aveva già messo in bocca una nuova sigaretta. Fissò intensamente gli occhi scuri dell'agente Rice, lottando con ogni fibra del suo corpo per trattenere le lacrime: "qui ci siamo solo io e mia figlia" sussurro a denti stretti.


Il collega dell'agente Adrew Rice era un omino in sovrappeso, con volto porcino, capelli unti e un paio di folti baffi.
Se ne stava appoggiato con la schiena contro il muro del palazzo in cui abitava Wiara.
Si cacciò in bocca una manciata di tabacco da masticare mentre borbottava tra e se e se qualcosa riguardo il caldo insopportabile di quella giornata.

Rice riapparve al suo fianco, sul suo volto c'era un'espressione di amara delusione. Il suo collega capì che il colloquio con Wiara non era andato bene.
Senza dir nulla, i due agenti rientrarono nella loro auto di servizio. Si trattava di una vecchia Chevrolet scura che, senza alcun ombra di dubbio, aveva visto giorni migliori. L'interno della vettura aveva un odore pungente di sigaretta e, per qualche motivo incomprensibile all'agente Rice, mostarda.
"Allora?"
"Allora cosa?" Domandò Rice.
"Non partiamo?"
"Sto pensando."
"La signora ti è apparsa sospetta?"
"Di sicuro ci nasconde qualcosa. E' spaventata e per niente collaborativa... ma c'è qualcosa che mi sfugge in tutta questa situazione."
Il collega di Rice ridacchiò: "come sempre."
"Non c'è nulla da ridere."
"Come sei permaloso oggi, Rice. Non ti sto prendendo in giro... quello che voglio dire è che c'è sempre qualcosa di strano in queste occasioni, ecco perchè ci pagano per indagare."

Rice tamburellò le dita sul volante. Alan Reese era giunto a Louistown, di questo ne era certo. Ma dove si era cacciato?
L'agente chiuse gli occhi. Aveva letto così tante il fascicolo su Reese che poteva ripassarlo nella sua mente.
Alan Reese aveva ucciso almeno quattro ragazzini di età compresa dai nove fino ai quindici anni. Queste erano le vittime accertate dalle autorità, trovate tra la Georgia e l'Alabama.
Dopo il terzo omicidio, Alan iniziò a lasciarsi dietro ciò che l'agente Rice amava definire una scia di briciole di pane, un indizio dopo l'altro.
Ma la polizia si era messa in moto in ritardo... troppo in ritardo.
"Otto mesi..." esclamò Rice con un filo di voce mentre metteva in moto la Chevrolet "...Alan Reese ha otto mesi di vantaggio rispetto a noi. E per di più è armato."
Alan possedeva una pistola... una pistola che gli agenti non avevano trovato in casa durante un loro sopralluogo.
Il collega di Rice, al contrario suo, appariva incredibilmente rilassato: "lo prenderemo, Andrew. Questa storia può finire solo in un modo."
"Tu dici? Quell'uomo sembra essere un fottuto fantasma."
"Non essere così drammatico, Rice. Hai bisogno di riposare, vedrai che dopo sarai di buon umore."





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Curt non la smetteva di bere.
Aveva nella sua auto un numero spropositato di lattine vuote di una marca scadente di birra.
Una volta terminata, passò al gin che aveva in una fiaschetta di alluminio. Sembrava avere un martello pneumatico impazzito nella testa, eppure continuava a bere. Dopo il funerale di suo fratello, aveva preso l'auto e si era diretto nei pressi della tenuta del vecchio Price.
Non aveva voglia di vedere nessuno, non aveva voglia di parlare con nessuno... specialmente con suo padre.
Aveva litigato con il suo vecchio... aveva litigato in maniera molto violentemente.
"Ti avevo detto di badare a lui..." le urla del parle riecheggiavano ancora nella sua mente "...ti avevo detto di badare a Joe! E tu esci tutta la notte a fare Dio solo sa cosa? Guarda cos'è accaduto a Joe! Guarda!"

"Come se la colpa fosse mia!" Ringhiò sottovoce Curt mentre finiva anche il Gin.
-Tanto per cominciare il cane non era mio. E poi... se fossi rimasto in casa, probabilmente Buckley avrebbe sbranato anche me.-
Lui e suo padre erano venuti alle mani. Curt finì con il ritrovarsi a terra con un occhio nero, mentre sua madre piangeva in un angolo della cucina.

Curt non faceva altro che ripensare a quella litigata, poi i suoi pensieri tornavano al funerale, poi alla notte in cui fu informato della morte di Joe, poi...
L'emicrania lo travolse come uno tsunami. A peggiorare la situazione, il canto delle cicale era insopportabile.
Il ragazzo lanciò la fiaschetta vuota di fronte a se, dove sorgeva il campo di alta erbaccia attorno alla vecchia casa di Price.
Perchè Curt era tornato lì? Non riusciva a ricordarlo.
Voleva allontanarsi dal cimitero. Voleva star solo. Ma aveva scelto di recarsi in luogo per un motivo? Oppure aveva bisogno di star solo?
L'ultima volta che si era recato alla tenuta di Price era in compagnia di Buckley e allora... non aveva addentato qualcosa?
Sprazzi di ricordi riaffiorarono nella sua mente sconvolta e stordita dall'alcol. Si, quel bastardo di un cane aveva mangiato qualcosa... qualcosa di schifoso che Curt non era riuscito a identificare. Magari si trattava di una carcassa di uno scoiattolo o di qualche piccolo animaletto. Magari aveva la rabbia e Buckley, quella sera stessa, era impazzito per poi scagliarsi su Joe. Ma il batterio della rabbia agiva così in fretta? Oppure la rabbia era un virus?
-Ma che razza di pensieri mi saltano in testa?-
Curt iniziò a sentire molto caldo. Scese dall'auto e barcollò verso l'erba. Era altissima e folta.
Per qualche motivo, al ragazzo vennero in mente le storie che si raccontavano a proposito del Vietnam, di come i musi-gialli si nascondevano nella giungla pronti a colpire alle spalle i coraggiosi soldati americani.
-Che Dio li fulmini tutti!- Curt fu sul punto di vomitare.
Si chinò su se stesso, sicuro che avrebbe rigurgitato tutto l'alcol che aveva mandato giù. Tossì per qualche secondo ma nulla di più.
Un fruscio di fronte a lui lo mise in allerta.
Si alzò così di scatto che ebbe il capogiro. Non c'era un filo di vento, eppure aveva sentito qualcosa agitare l'erba non molto lontano da lui.
"Chi c'è?" Domandò.
Il canto delle cicale fu la sola risposta che ricevette.
La sua mente iniziò a giocargli brutti scherzi. Per un breve istante immaginò dei vietcong spuntare fuori dalle erbacce, con i loro cappelli di paglia e i fucili tra le mani.
Di nuovo un fruscio, questa volta Curt notò dell'erba muoversi nel mezzo di quel mare verde.
Se era un animale... doveva essere bello grosso.

Le gambe di Curt iniziarono a tremare.
Un nuovo fruscio... questa volta più vicino.
Il ragazzo aveva paura. Desiderò di avere ancora con se il suo coltello. Desiderò avere un'arma, sapeva che suo padre aveva un paio di revolver e una doppietta ma li teneva in una cassaforte, impossibile da forzare o scassinare.
-Le chiavi dell'auto!- Curt voleva andar via da lì.
Iniziò a tastarsi fino a quando non sfilò da una tasca dei jeans il mazzo di chiavi. Le mani tremarono così tanto che persero la presa.
Imprecò mentre si chinava a raccogliere le chiavi da terra.
Alzò lo sguardo e...
Lui era lì, affacciato tra le alte spighe d'erba.
Curt lo stava fissando ma non aveva ancora compreso cosa aveva di fronte a se. Riusciva a vederlo chiaramente ma il suo cervello si rifiutava di accettare quella terrificante verità.
L'uomo mezzo marco lo stava fissando con il suo unico occhio... un occhio folle, spalancato e perfettamente rotondo, come se la pelle attorno l'orbita si fosse ritirata, esponendo le ossa.
Il ghigno era malefico quanto euforico, così innaturale e in qualche modo vagamente umano.
Curt si alzò lentamente da terra. Non sentiva più le gambe... a dire il vero non sentiva più nulla, neanche il sole che gli scottava la pelle o le cicale che frinivano così forte da fargli vibrare i timpani delle orecchie.
"Tuo fratello..." disse l'uomo mezzo marcio. E la sua voce era orrenda, rauca e profonda. Sembrava quella di un malato o di un moribondo intento a sforzarsi per poter pronunciare qualcosa. Eppure il suo tono era profondo e possente.
"Tuo fratello..." continuò quella voce dell'oltretomba "...aveva il sapore del caramello appena sciolto."
Questa volta Curt non riuscì a trattenere un conato di vomito.
Si voltò verso l'auto e balzò al suo interno.
Alle sue spalle sentì l'uomo mezzo marcio uscire dall'erba e avanzare verso di lui. Curt mise in moto l'auto e partì.
Pietre e polvere furono sollevate in aria.
In pochi secondi l'auto acquistò una notevole velocità, sbandò un paio di volte ma infine il ragazzo riuscì a fuggir via da quel luogo.



cic

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Capitolo 9
*** Due proiettili sono più che sufficienti ***


♦ Due proiettili sono più che sufficienti ♦

 





Il colpo di pistola riecheggiò per tutta la fattoria, spaventando un gruppo di corvi che si erano appollaiati pigramente sotto un vecchio spaventapasseri. Ron Davis non si aspettava un suono così forte, sembrava un tuono.
Era la prima volta che sparava.
Sentiva i polsi tremare e avvertiva nell'aria l'odore acre del fumo che usciva dalla pistola.
Con suo grande rammarico, i barattoli che aveva adagiato sullo steccato era rimasti tutti al proprio posto. Sperava di farne saltare almeno uno ma a quanto pare la sua mira era pessima.
Si prese del tempo per contemplare la pistola. Faccia-da-pizza Ron non era un esperto di armi da fuoco ma non ci voleva un genio per capire che tra le mani aveva un revolver di piccolo calibro.
L'aveva trovata nel fango, tra le erbacce attorno la casa di Price mentre rincorreva Tom e Wyatt.
Da allora Ron aveva iniziato a prendersene cura.
L'aveva portata a casa e nascosta in una vecchia scatola di sigari che conservava in giardino, in una buca scavata tra le radici di un albero.
Fece del suo meglio per pulirla a fondo.
Aveva poi confessato il tutto a Joe e Curt Limpshire. Ron non sapeva darsi una spiegazione del motivo che l'aveva spinto a fare una simile rivelazione, probabilmente voleva ricevere l'ammirazione da parte di qualcuno.
Si avvicinò di qualche passo ai barattoli posti sullo steccato, prese la mira con entrambe e le mani e premette il grilletto.
Questa volta uno dei barattoli schizzò in aria e Ron fu ammaliato dal numero di giri che compì a mezz'aria.
La pistola, al momento del ritrovamento, aveva cinque pallottole. Ne restavano altre tre.

Le orecchie di Ron iniziarono a fischiare. Quel revolver, anche se di piccolo calibro, era molto rumoroso.
Ma Ron non temeva di farsi sentire da qualcuno.
La fattoria dei Davis era isolata e suo padre, unico altro componente della sua famiglia, era rimasto a Louistown dopo i funerali di Joe, molto probabilmente per bere fino a notte fonda.

Ron osservò gli ultimi tre proiettili rimasti a sua disposizione.
Pensò di usarli su qualche animale. Questa volta però, Ron non voleva prendersela con le solite piccole vittime: lucertole, uccellini o rane. Ron aveva deciso di alzare la posta e puntare a qualcosa di più grande. Magari un bel gatto.
Stava ancora fantasticando quando udì alle sue spalle il rumore di un auto in avvicinamento.
Si voltò allarmato, nascondendo la pistola dietro di se.

L'auto sfrecciò, seppur sbandando di tanto in tanto, verso di lui.
Quando fu abbastanza vicina, Ron notò con sua grande sorpresa che si trattava di Curt Limpshire. Il ragazzo fermò la macchina a due passi da Ron.
Non appena aprì la portiera per scendere, diverse lattine vuote di birra finirono a terra.
Curt aveva un aspetto orrendo. Era sconvolto, sudato, con i vestiti sgualciti e i capelli in disordine.
Ron si sentì nervoso nel vedere Curt in quello stato. Gli ricordava suo padre quando rincasava ubriaco fradicio. Ed era proprio in quei momenti in cui il signor Davis diventava violento.
Probabilmente anche Curt aveva la stessa indole pericolosa del signor Davis.

Il ragazzo avanzò verso Ron e sbiascicò qualcosa: "la... shhhtola!"
"C-cosa?" Domandò faccia-da-pizza.
"La pi...shh-stola..." Curt tossì, si schiarì la gola e sembrò in qualche modo rinsavire: "la pistola! Hai detto di avere una pistola."
Ron si limitò ad annuire.
Curt barcollò per un istante. Il sole gli faceva girare la testa.
Faccia-da-pizza non poté fare a meno di sentire un forte odore di birra provenire da Curt.
Quest'ultimo allungò una mano verso di lui: "dammela."
Per un attimo, Ron rimase di stucco, come se Curt avesse iniziato a parlare una lingua incomprensibile.
"Dammela!" Ripeté lui, con una voce che assomigliava a un ringhio rabbioso.
Ron mostrò il revolver che aveva nascosto alle sue spalle. Tenne l'arma con entrambe le mani. Alla vista della pistola, gli occhi di Curt sembrarono illuminarsi. Ma il ragazzo sembrò cambiare umore... del resto si trovava di fronte a un'arma carica.
Sfilò da una tasca una banconota stropicciata: "li vuoi venti dollari?"
"Venti dollari per una pistola?" Esclamò Ron oltraggiato, neanche una traccia di timore nella sua voce.
Curt tossì di nuovo: "quante pallottole ti sono rimaste?"
"Tre."
"Tre... oh, Cristo!"
Curt passeggiò avanti e indietro, portandosi una mano alla bocca: "e cosa te ne fai con una pistola dopo che hai esaurito i colpi? Mica puoi andarli a comprare!"
"E a te che ti serve?"
"Non sono affari tuoi, sacco di lardo."
Ron si ritrasse. Era sicuro che Curt l'avrebbe aggredito, ma si meravigliò nel vedere il ragazzo tornare nella sua auto.
Si chinò e iniziò a cercare qualcosa che, probabilmente, doveva essergli caduta sotto i sedili.
"Ah, eccone una ancora piena!" Disse Curt con fare trionfale. Tornò a da Ron con una lattina di birra non ancora aperta: "venti dollari e la prima birra della tua vita, che ne pensi?"
"Io... non so." Ron sembrava incerto, la possibilità di bere una birra lo allettava parecchio. Inoltre, Curt aveva ragione: una volta terminati i colpi, quella pistola sarebbe stata del tutto inutile per lui.
"Facciamo così..." disse Curt, che in quel momento sembrava esaltato "...oltre ai soldi e alla birra, ti prometto che ti porto un giornalino porno la prossima volta che ci rivediamo. Eh, Ronny? Hai già visto un paio di tette? Che non siano quelle di tua madre, ovviamente."
"Fottiti, Curt."
Curt allungò i venti dollari e la lattina verso Ron: "avanti, affare fatto?"
Ron ci pensò per qualche secondo: "a una sola condizione..." disse infine "...mi fai sparare l'ultimo colpo, poi accetterò lo scambio."
-Così avrei solo due pallottole...- pensò adirato Curt, la voglia di picchiare faccia-da-pizza era irresistibile -...ma, in fondo, due proiettili sono più che sufficienti.-
"E va bene" disse Limpshire raucamente.
Ron si dimostrò più che contento di quel patto. Tornò a guardare le lattine sullo steccato, puntò di nuovo la pistola e fece fuoco.
L'eco dello sparo, misto al rumore metallico di una lattina che veniva perforata, sembrò riecheggiare fino all'orizzonte.



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Tom Williams era in camera sua, rannicchiato nell'angolo tra il letto e la finestra. Le imposte spalancate per via del troppo caldo e le tende che si muovevano grazie a un soffio di vento appena accennato.
Il ragazzino aveva le mani premute contro le orecchie eppure riusciva a sentire chiaramente i suoi genitori litigare in cucina.
Sua madre, Diana, urlava con tutta la forza che aveva in corpo. Tom non aveva mai sentito sua madre così furiosa... a dire il vero non aveva mai sentito qualcuno così furioso.
Ascoltava il suo sfogo con orrendo stupore. Non credeva, infatti, che un essere umano fosse in grado di raggiungere un simile livello di rabbia.
Suo padre, invece, cercava di far calmare la moglie.
Il suono di un piatto che si infrangeva al suolo fece vibrare i timpani di Tom.
"In casa nostra!" Gridava sua madre: "in casa nostra!"

Tom chiuse gli occhi, desiderando di trovarsi altrove.
Un paio di sere fa, quando Buckley attaccò lui e la famiglia Sinclair, un agente scortò Tom a casa sua. Lì, lui e il poliziotto, sorpresero il padre di Tom in compagnia della sua professoressa di matematica, la signorina Rosenberg.
Tom non sapeva come reagire, tanto meno cosa pensare. Non si era fatto alcuna idea a riguardo o forse, e Tom inizialmente non l'aveva considerato, il ragazzino voleva rifiutare di formulare un ipotesi. -Meglio dimenticare tutto- pensava tra se e se.
Ma in quel momento, mentre sentiva litigare i suoi genitori, si rese conto di quanto grande fosse stata la sua ingenuità.
"Come hai osato farlo in casa nostra?!" Continuava sua madre. Come se il fatto di aver commesso il tradimento tra le mure domestiche rendesse l'atto ancora più grave.
Tom non riusciva a capirne la ragione. Allora si sentì un completo idiota: idiota per non comprendere la gravità della situazione, idiota per non aver reagito in alcun modo di fronte a suo padre che cercava di giustificare la presenta della signorina Rosenberg in casa loro, idiota per essersi nascosto in camera sua, idiota per aver iniziato a piangere.
Un altro piatto veniva rotto... no, questa volta il suo era più acuto, doveva trattarsi di un bicchiere.
Il padre di Tom, che era sempre stato sulla difensiva, perse le staffe in un istante.
Il ragazzino sentì l'uomo cambiare radicalmente tono di voce. Era passato ad accusare sua moglie. Le diceva che erano anni che non si amavano come si doveva.
Un'altra espressione che Tom non comprendeva.
"Dici sempre di essere stanca, di essere esausta!" Le urla dell'uomo non erano così acute come quelle di Diana Williams, ma riuscivano lo stesso a raggiungere un Tom sempre più disperato.
D'un tratto, un pensiero lo colpì dritto al cuore, devastandolo: -possibile che sia colpa mia?-
Ripensò a come si comportava in casa, come si era sempre comportato in casa. Era pigro, svogliato e non aiutava sua madre nelle faccende domestiche... anzi, quella povera donna era costretta a lavorare più del dovuto per ripulire lì dove Tom lasciava sporco.
Quante volte non aveva sparecchiato la tavola? E quante volte aveva lasciato la sua camera in disordine? Per non parlare di tutte quelle volte che rientrava in casa con le scarpe sporche di fango, imbrattando i pavimenti.
Si, lui era responsabile della stanchezza di sua madre. E se sua madre era stanca, non poteva amare suo padre.
-La famiglia si sta sfasciando per colpa tua- sentenziò la coscienza di Tom.
Oltre alla disperazione e ai sensi di colpa, Tom fu scosso anche dal terrore. Era una paura che non aveva mai provato, diversa da tutte le altre terribili sensazioni che aveva sperimentato nel corso della sua vita.
L'uomo mezzo marcio l'aveva traumatizzato... ma questa volta l'orrore era accompagnato anche dai sensi di colpa.

Era così immerso nei suoi pensieri da aver perso il filo del discorso dei suoi genitori.
Diana stava perdendo la voce ma non voleva smettere di urlare. Perciò, come bizzarro risultato, la donna emetteva versi striduli che solo vagamente ricordavano delle parole.
"Dove stai andando?" Fu l'unica sua frase di senso compiuto che Tom riuscì a captare.
Come tutta risposta, si udì il marito uscire di casa, sbattendo la porta così forte da far vibrare il pavimento della camera di Tom... che si trovava al primo piano.
Poco dopo si udì l'uomo mettere in moto l'auto e partire per chissà dove.
La casa sprofondò nel silenzio più totale. Per un certo senso, quel silenzio era più spaventoso della litigata appena terminata.
Tom tese le orecchie, incapace di muoversi. Sentì il pianto sommesso di sua madre.
E nell'ascoltare quel pianto, Tom potè avvertire in maniera tremendamente chiara tutta la tristezza di Diana Williams.

Poco dopo, sua madre iniziò una sorta di rituale che Tom amava definire la routine del mal di testa.
Ogni volta che Diana veniva colpita da un'emicrania, e questa era una di quelle volte, aveva bisogno di stendersi a letto. Prima però, avrebbe tirato tutte le tende di casa, poichè il caldo e sopratutto la luce non faceva altro che acuire il suo male. Poi si rinchiudeva in camera, si cacciava in bocca un paio di pillole di sominex e, non tutte le volte, usava un pò di vino bianco per aiutarle ad andare giù. Quella combinazione di alcol e sonnifero l'avrebbe stesa per ore.



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Ancora una volta il silenzio tornò a regnare in casa Williams.
Solo in quel momento Tom osò muoversi. Stese le gambe la suolo, erano intorpidite. Sentì poi qualcosa di fastidioso premergli contro un fianco. Si tastò le tasche e scoprì di avere ancora il coltello a serramanico di Curt Limpshire.
L'aveva del tutto dimenticato.
Il contatto con il freddo metallo di quell'arma gli fece tornare in mente l'aggressione di Buckley... dell'uomo mezzo marcio che aveva in qualche modo deformato Buckley.
-Come riesce quel mostro a fare queste cose?-
Poi un altro pensiero gli balenò in mente... un pensiero che, per qualche motivo, era collegato al quesito che aveva appena formulato. Il giorno in cui fu aggredito dallo spaventapasseri, aveva visto delle cicale... ma i ricordi di quegli insetti erano sfumati nei dettagli, evanescenti come la materia di cui sono fatti gli spettri.
-Quelle cicale... cos'avevano di sbagliato?- Tom era certo che quel dettaglio doveva in qualche modo ricollegarsi all'uomo mezzo marcio.
Ma non riusciva a mettere a fuoco quel ricordo. Era... troppo spaventoso.
Tom era così immerso in quei terrificanti pensieri che si ritrovò a cacciare un flebile urlo quando un rumorino al suo fianco lo sorprese. Sussultò sul posto e subito dopo si sentì uno stupido per aver reagito in quel modo. Un sassolino era appena entrato nella sua stanza.
Sentì qualcuno bisbigliare all'esterno, una voce femminile: "ma sei scemo? La finestra è aperta!"
Poi una voce, questa volta Tom la riconobbe subito, era quella di Wyatt, rispose: "non è la prima volta che chiamo lo spilungone in questo modo."

Tom balzò in piedi, le gambe ancora intorpidite lo fecero tremare come una gelatina, si asciugò rapidamente gli occhi e poi si affacciò alla finestra.
Evelyn e Wyatt lo stavano fissando dal basso. Sembravano preoccupati.
"Cosa c'è?" Chiese Tom.
Wyatt esclamò a voce alta: "dove diavolo....?"
"Shhhh!" Lo zittì Evelyn.
"Dove diavolo sei finito?" Continuò Wyatt, questa volta con tono sommesso.
Tom non capì.
"Non sei venuto al funerale di Joe. E mentre stavamo venendo qui, abbiamo sentito i tuoi genitori che... bhè ...poi tuo padre che sfrecciava via e..."
Evelyn colpì Wyatt al fianco con una gomitata: "Ahi! Che ho fatto?" Domandò quest'ultimo massaggiandosi il costato.
"Sei delicato come un ippopotamo, Wyatt!" Ringhiò Evelyn. Alzò lo sguardo verso Tom e quest'ultimo si sentì divampare. Evelyn lo faceva sempre arrossire, persino in un momento come quello.
"Ci fai entrare?" Chiese la ragazza.
Tom annuì e poi indicò un angolo della casa: "vi apro la porta principale, mamma sta dormendo e... credetemi ...neanche una cannonata potrà svegliarla."
Wyatt e Evelyn annuirono e iniziarono a fare il giro della casa.



⁓•⁓•⁓•֍•⁓•⁓•⁓



Tom si sentiva emozionato. Pensò che i suoi amici avessero qualcosa di veramente importante da riferirgli.
Si mosse con estrema facilità tra le ombre del salotto. Raggiunse poi la cucina e...
L'uomo mezzo marcio lo afferrò con forza.
Caddero entrambi a terra, Tom sbattè violentemente testa e schiena contro il pavimento. Per un momento gli fu impossibile respirare.
Poi avvertì il peso del suo assalitore su di lui.
L'uomo mezzo marcio aveva un sorriso folle sul volto ormai quasi ridotto a un teschio. Dall'orbita vuota, decine di cosette bianche e striscianti caddero sopra Tom.
Le sentì fredde, viscide e vive.
Il ragazzino urlò e provò a divincolarsi ma l'uomo mezzo marcio gli afferrò la gola con entrambe le mani.
Era forte, era dannatamente forte.
Poi disse qualcosa. La voce non era umana, non poteva esserlo. E il suo alito aveva un tanfo così mefitico che Tom ebbe l'impressione di perdere i sensi.
Per via di quello stato confusionario, il ragazzino non udì tutte le parole dell'uomo mezzo marcio. Capì solo che il mostro stava esprimendo la sua gioia per averlo finalmente agguantato.
Era così vicino a lui che Tom fu in grado di vedere, nonostante la penombra, l'interno del foro che il mostro aveva al posto di un occhio.
Allora gli sembrò di vedere qualcosa scintillare in fondo a quel buco. Qualcosa di piccolo e metallico.

Improvvisamente un'ombra saettò alle spalle del mostro. Lo colpì con forza e questi cadde lontano da Tom.
Delle mani afferrarono il ragazzino e lo aiutarono a rimettersi in piedi.
Wyatt e Evelyn erano appena entrati in casa passando da una finestra. Tom ringraziò il cielo che sua madre non le aveva chiuse.
L'uomo mezzo marcio si alzò rapidamente da terra.
I tre ragazzini urlarono e si misero dietro il tavolo della cucina.
Il mostro spalancò la bocca e ruggì. Fu un suono infernale, che nessuna bestia era in grado di replicare. Era come sentire la voce del male puro.
Wyatt si guardò attorno, cercò prima un interruttore e poi la sua attenzione fu attirata da alcuni coltelli da cucina vicino al lavandino.
"Non pensarci nemmeno!" Lo intimò l'uomo mezzo marcio.
Tutto sembrò rallentare.
Sentire il mostro parlare aveva scaraventato Tom nella più nera delle disperazioni. Tom non riusciva a comprendere il motivo di quel rinnovato terrore. Volse lo sguardo verso i suoi due amici e, a giudicare dalla loro espressione, anche loro provavano le sue stesse emozioni.
L'uomo mezzo marcio si rivolse poi a Evelyn: "cosa credi di fare in compagnia di questi due?" E allungò un dito scheletrico verso Tom e Wyatt.
Evelyn piagnucolò qualcosa di incomprensibile.
Lui continuò: "non vuoi venire a salutare tuo padre?" E allungò le braccia come se si aspettasse di ricevere un abbraccio. Il suo osceno sorriso sembrò farsi ancora più largo.
Una lama di luce penetrava dalle tende della sala, dipingendo una scintillante scia dorata sul volto del mostro. Metteva in risalto la carne consumata e i vermi che pigramente facevano capolino dalla pelle putrescente.
"Che cosa vuoi da noi?" Gli urlò Tom. Fu un urlo carico di esasperazione ma anche di rabbia e terrore.
L'uomo mezzo marcio ridacchiò... e fu una risata così acuta e gracchiante da far rabbrividire i tre ragazzini.
"Voglio solo mangiarvi..." rispose "...voglio mangiarvi vivi! Il piccolo Joe mi ha dato forza! Oh, dovevate vedere come piangeva!" Altre acute risate.

Lo scatto di Tom sorprese tutti i presenti. Estrasse dalla tasca il coltello di Curt Limpshire.
La lama brillò di una sinistra luce.
"Va via!" Urlò Tom agitando l'arma di fronte a lui. Azzardò un passo in direzione del mostro. Il sorriso di quest'ultimo sembrava essersi spento, assumendo l'aspetto di un ghigno carico di astio.
"Va...via!"
L'uomo mezzo marcio indietreggiò, raggiunse il fondo della sala e poi si infilò in un corridoio buio. Prima di essere completamente inghiottito dalle tenebre, i tre ragazzini poterono osservare un crudele luccichio nell'occhio del mostro.

Tom e i suoi amici rimasero lì, interdetti, in un silenzio di tomba interrotto solo dai loro respiri affannosi.
Evelyn fu la prima a muoversi. Spalancò tutte le tende della sala per far entrare la luce.
Il corridoio restava ancora immerso nel buio.
"C'è la camera di mia madre lì in fondo" disse Tom con la voce che gli tremolava per la paura. Scattò in avanti.
"Tom, aspetta!" Implorò Wyatt.
Ma Tom era entrato nel corridoio, il braccio teso per cercare l'interruttore.
L'uomo mezzo marcio lo agguantò a un fianco, spingendolo contro una parete. Tom provò a difendersi con il coltello di Curt mentre sentiva il mostro tentare di mordergli il collo.
Sentiva le sue unghie sudice graffiargli le braccia. Scie bollenti venivano tracciate sulla pelle di Tom a ogni artigliata del mostro.
Evelyn fu la prima a soccorrere Tom. Si diresse alle spalle di suo padre e lo afferrò per la vita.
Questo lo fece separare da Tom.
Fu poi la volta di Wyatt. Il ragazzino si era diretto in cucina per afferrare un coltello, uno di quegli lunghi e sottili che di solito venivano usati per l'arrosto.
Si scagliò contro l'uomo mezzo marcio e gli affondò il coltello nel suo unico occhio.
La lama entrò in profondità nel cranio. Wyatt avvertì la punta dell'arma impattare contro l'interno della testa del mostro.
Il suo polso fece uno strano piegamento e un dolore improvviso si ramificò nel suo braccio.
L'uomo mezzo marcio intanto urlò di rabbia e paura.
Iniziò ad agitarsi come un pesce fuor d'acqua. Tom ne approfittò e si scagliò contro di lui: afferrò il coltello ancora incastonato nella sua testa, lo torse e lo estrasse. Sangue nerastro mescolato ad altro iniziò a scorrere, non zampillare, dalla ferita del mostro.

Cieco e furioso, l'uomo mezzo marcio iniziò a menare alla rinfusa.
Colpì sua figlia con un calcio e lei rimbalzò contro una parete. Spinse poi Wyatt e Tom e si precipitò di nuovo in sala.
Tom lo inseguì, il coltello da cucina in una mano e il pugnale di Curt dall'altra. Ma quando entrò in sala, Tom non vide più il mostro.
Strane macchie di sangue nerastro disegnavano un tracciato dal corridoio fino alla porta dell'ingresso.
Era socchiusa.
Tom andò ad aprirla. La luce del sole lo accecò per diversi secondi.
Quando si abituò a tutto quel bagliore, Tom vide solo il viale di casa sua, i campi di granturco e le colline all'orizzonte da cui si levava il canto delle cicale.



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"Sta ancora dormendo" disse Wyatt una volta tornato in cucina.
Era andato a controllare la madre di Tom. Il ragazzino si stava massaggiando il polso. Temeva una slogatura ma il dolore stava scemando rapidamente.
"Meglio così" commentò Tom. Era seduto in un angolo della cucina. Evelyn gli stava fasciando le braccia dopo averle medicate con della tintura di iodio. Il senso di bruciore che gli aveva provocato quella soluzione salina lo aveva quasi fatto piangere.
"Mi avrà infettato con qualche batterio?" Domandò lui.
Evelyn fece per rispondere ma Wyatt disse: "la tua mania da ipocondriaco è l'ultima cosa che ci serve in questo momento, Tom."
Si avvicinò poi a lui: "io ed Eve abbiamo visto tuo padre sfrecciare via da casa tua... è successo qualc...?"
Tom si alzò di scatto, zittendo Wyatt.
"Dove stai andando?" Chiese sorpresa Evelyn.
Il ragazzino rispose senza fermarsi: "avete sentito il mostro? Joe gli ha dato forza. Ora però è ferito, spero cieco del tutto. Andiamo a fermarlo una volta del tutto."
"Aspetta..." Wyatt lo bloccò prima che potesse uscire "...sei sconvolto e non ragioni lucidamente."
"Abbiamo aspettato anche troppo a lungo e guarda cosa sta accadendo! Joe morto, l'uomo mezzo marcio che entra in casa nostra e..." si bloccò di colpo.
Si voltò verso Evelyn: "prima ha detto che era tuo padre?" Un brivido fece tremolare Tom da capo a piedi.
Evelyn si alzò: "Tom, è per questo che io e Wyatt siamo qui."
Lo sguardo di Tom si spostò lentamente da Evely a Wyatt. Quest'ultimo annuì: "dobbiamo parlare."



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Si erano ritirati nel fienile. Era un enorme stabile costruito dal nonno di Tom agli inizi del secolo.
Anni di intemperie e ruggine avevano bucherellato le pareti, lasciando entrare all'interno dei piccoli fasci di luce.
Una vecchia lampadina oscillava sopra le teste dei tre ragazzi.
Wyatt aveva raccontato a Tom tutto quello che lui e Evelyn si erano detti.
Tom aveva ascoltato pazientemente, seduto su una balla di fieno a braccia incrociate. Alzò poi lo sguardo verso Evelyn: "e l'ultima volta che hai visto tuo padre...?"
Lei rispose: "era ad Atlanta."

Tom annuì, scese poi dalla balla di fieno e si avvicinò ai suoi due amici: "abbiamo incontrato l'uomo mezzo mar... Alan Reese ...nelle nostre abitazioni oppure vicino la casa di Price."
"Si..." rispose Wyatt "...e allora?"
"E allora..." continuò Tom "...io dico di andarlo a cercare lì dove lo abbiamo incontrato per la prima volta. La casa di Price è stato un errore."
Wyatt socchiuse gli occhi, un gesto che faceva inconsciamente ogni volta che si concentrava: "tu dici che nell'erba alta troveremo Alan?"
Tom annuì: "se è un mostro... si, insomma ...una specie di non-morto, allora vuol dire che deve essergli successo qualcosa quando era in vita. Magari è morto proprio nell'erba alta, nei pressi della casa di Price, o magari c'è un altro motivo che lo lega a quel posto. Sta di fatto che è molto probabile che lo troveremo lì."
Improvvisamente lui e Wyatt si voltarono verso Evelyn.
Strane emozioni si stavano agitando nel cuore della ragazzina. I suoi due amici gli concessero del tempo per riordinare le idee, poi lei annuì e disse: "è da un bel pezzo che ho compreso che mio padre è morto. Sto bene, ho accettato la cosa."
"Sicura?" Chiese Tom.
Lei avrebbe voluto rispondere, ma si limitò ad annuire.

Tom si voltò verso un vecchio tavolo da lavoro, lì si trovava una cassetta degli attrezzi. L'aprì ed estrasse un martello e un paio di cacciaviti.
"Che fai?" Chiese Wyatt.
"Dobbiamo armarci, l'ultima volta che ci siamo avvicinati all'erba alta avevamo una mazza da baseball e un coltello... che in quell'occasione non ho neanche estratto, che io sia maledetto."
"Non essere così severo con te stesso." Disse Evelyn.
Lui alzò una mano per ringraziarla: "quello che voglio dire è che una mazza e un coltello, ora che so quale mostro dobbiamo affrontare, non mi sembrano sufficienti."
Wyatt lo fissò negli occhi: "quindi la tua idea è quella di racimolare tutto ciò che trovi in giro, tutto ciò che può essere maneggiato come arma, e di usarla contro Alan?"
"Si" rispose Tom. I suoi occhi sembravano ardere di luce propria. Quel suo modo di fare sembrava non ammettere repliche. Così anche Wyatt e Evelyn iniziarono a cercare delle armi per il fienile. Trovarono una vecchia fionda appartenuta al padre di Tom. Non era una fionda giocattolo, sembrava difficile da maneggiare ma aveva un aspetto minaccioso e sembrava molto pericolosa.
Evelyn trovò una vecchia sega ma era così arrugginita che la lasciò senza più curarsene. Lasciarono perdere strumenti agricoli particolarmente grandi o pesanti.
"Hey..." esclamò Wyatt improvvisamente "...e quella?" Indicò un vecchio fucile da caccia esposto su una parete.
Con fare sconsolato, Tom scosse il capo: "non ci sono munizioni in casa... inoltre il fucile è rotto. Ha qualcosa che non va sul meccanismo di... non so, non conosco molto le armi da fuoco. Papà è rimasto traumatizzato da quello che ha visto in Germania e non ha mai voluto parlarmi di queste cose.
Teniamo il fucile qui per ricordo di mio nonno. Sapete, è stato lui ha costruire la fattoria E' morto di meningite fulminante quando io avevo quattro anni e... ehm ...ho iniziato a parlare troppo, vero?"
Evelyn non disse nulla. Si voltò verso Wyatt e lui, stringendosi nelle spalle, disse: "fa sempre così quando è triste."
"Non sono triste."

Evelyn si avvicinò a Tom e lo abbracciò forte.
Lui non sapeva come comportarsi. Sentì poi Wyatt aggiungersi a quell'abbraccio.
Avvertì che poteva, doveva, permettersi quel momento. Un momento per riprendere fiato.
Evelyn poi disse: "i miei litigavano giorno e notte, ho imparato a riconoscere i segnali. Tom... hai me e Wyatt, non pensare ad altro."
Si separarono e, per qualche secondo passato nell'imbarazzo, i tre ragazzini non dissero nulla.
Non si guardarono neanche negli occhi.
Tom finì di asciugarsi le lacrime. Aprì poi un vecchio armadio e una leggera esclamazione gli sfuggì di bocca.
Wyatt e Evelyn furono subito al suo fianco.
"Porca vacca!" Commentò Wyatt.
Tra le vecchie giacche da uomo appese in quell'armadio, che odoravano vagamente di naftalina, si trovava un vecchio machete.
Era lungo quasi quanto un braccio di Tom. Fu lui ad afferrarlo e a rimuoverlo dal fodero. La lama sembrava ancora ben affilata. Quell'arma metteva paura solo a vederla.
"Tom..." Wyatt lo chiamò quasi con un sussurro.
"Si?"
"Se nell'erba alta ci troveremo a combattere Alan... e tu mi ammazzi per sbaglio con quel coso, giuro su Dio che mi risveglierò come quel mostro schifoso e verrò a trovarti a casa. Senza offesa, Evelyn."
"Nessuna offesa" Evelyn accennò a un sorriso.



cic

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Capitolo 10
*** Autunno ***


♦ Autunno ♦

 





La leggera brezza terminò improvvisamente e Tom, stordito da quell'inatteso silenzio, si voltò a controllare il paesaggio alle sue spalle.
Vide solo colline e campi. Non si udiva alcun canto di cicala o fruscio d'erba.
"Cosa c'è?" Domandarono all'unisono Wyatt e Evelyn, che si trovavano al suo fianco.
"N-nulla" rispose Tom con fare incerto.
Ripresero il cammino.
Stavano percorrendo una strada di terra battuta che serpeggiava tra colli coperti d'erba. Di fronte a loro ancora non si vedeva la casa del vecchio Price.
Il sole intanto iniziava ad avvicinarsi all'orizzonte e il cielo stava assumendo strane tinte d'arancio.
A Tom non piacevano quei colori. Li trovava in qualche modo sbagliati. Non sapeva spiegarlo, ma gli ricordavano qualcosa di folle e malato.
Si voltò di nuovo, questa volta con il cuore che batteva all'impazzata. La mano che reggeva il machete tremolava come gelatina.
"E ora cosa c'è?" Wyatt sembrava spazientito. Del resto aveva tutte le ragioni del mondo per essere nervoso.
"Credo di aver sentito un rumore."
"Un rumore?" Esclamò sorpresa Evelyn.
I tre ragazzini si fermarono e iniziarono a fissare lì dove Tom aveva puntato lo sguardo.
"Forse... forse è la mia mente che gioca brutti scherzi." Ma Tom aveva udito un suono... una sorta di bip acuto.


Dopo diversi minuti, i tre amici ripresero il viaggio.
Superarono il campo da baseball e si fermarono di fronte a una recinzione. Oltre quell'ostacolo si trovava l'erba alta che abbracciava la casa di Price. E in quell'erba, Tom ne era sicuro, Alan Reese attendeva il loro arrivo.
Wyatt deglutì. Fu il primo ad arrampicarsi e a scavalcare la recinzione.
Tom e Evelyn cercarono di imitarlo ma erano lenti e incerti nei movimenti. Impiegarono molto tempo per raggiungere la cima di quel recinto.
"Come siamo atletici!" Provò a scherzare Wyatt per distendere i nervi. La tensione infatti si poteva tagliare con un coltello.
Tom, con fare goffo, portò una gamba dall'altro lato della recinzione: "non saremo bravi a scalare come te... ma almeno io ti batto in velocità... e la nostra Evelyn qui è un portento a tirare fendenti" sorrise... e un momento dopo scivolò dalla recinzione.
Evelyn, che in quel momento era appena scesa a terra, soffocò un urlo mentre vedeva Tom perdere l'equilibrio.
Quest'ultimo però riuscì ad aggrapparsi e ad evitare così una rovinosa caduta.
Il tessuto dei suoi pantaloni rimase impigliato a un chiodo sporgente della recinzione.
Il ragazzino iniziò a divincolarsi nel tentativo di liberarsi, ma finì solo con il ritrovarsi appeso a testa all'ingiù.
"Sembri un pesce in una rete..." commentò Wyatt "...non agitarti così o peggiori la situazione!"
Il machete scivolò dalla mano di Tom e cadde lì dove un attimo prima si trovava Wyatt. La lama del coltellaccio si infilò per metà della sua lunghezza nel terreno.
"Peggio di così?..." Commentò Tom a denti stretti "...come può andare peggio di...?"
"Shhh!" Lo ammonì di colpo Evelyn.
Tom e Wyatt iniziarono a sudare freddo: "cosa c'è?" Chiesero alla ragazzina.
"Avete sentito?" Domandò lei.
Tesero tutti le orecchie.
"E'... un motore?!" Ipotizzò Wyatt.
"Una macchina" rispose subito dopo Eve.
Alzarono tutti lo sguardo verso sud, una coltre di polvere si stava alzando dalla strada.
Evelyn fu la prima a individuarla: "è... è..."
"...l'auto di Curt!" Esclamò Wyatt al posto suo.
"Cazzo!" Urlò Tom. Immaginò di essere una lepre con una zampa bloccata in una tagliola, una preda che iniziava a sentire il cacciatore avvicinarsi.
"Cosa diavolo è venuto a fare qui?"
Wyatt rispose: "non lo so... ma non ho alcuna intenzione di scoprirlo!"
Evelyn iniziò a saltellare sul posto per l'agitazione: "Tom... muoviti!"
Tom si era appena sfilato da una tasta il coltello a serramanico. Gli scivolò dalle mani non appena lo fece scattare. Di nuovo Evelyn soffocò un urlo. Ma Tom riuscì ad afferrare al volo la piccola arma.
L'auto era sempre più vicina.
Tom tagliò il lembo di pantaloni che si erano impigliati alla recinzione.
Si udì il rumore della stoffa che veniva lacerta... poi la gravità spinse Tom verso verso il basso.
Il ragazzino avvertì le mani dei suoi due amici attutire la sua caduta. Finirono tutti e tre al suolo.
L'adrenalina che avevano in corpo però non gli fece provare alcun dolore.
Senza perdere altro tempo, i ragazzini recuperarono il machete, saltarono nell'erba alta e iniziarono ad addentrarsi nella vegetazione. Si fermarono e si accucciarono quando udirono Curt parcheggiare l'auto non molto lontano da loro.
Nel loro nascondiglio improvvisato, Tom, Wyatt ed Evelyn osservarono Limpshire scendere dall'auto, chiudere violentemente la portiera e raggiungere la recinzione.
La scavalcò con una facilità incredibile.
Si fermò poi a contemplare per un momento l'erba. Poco dopo estrasse una pistola ed entrò anche lui in quella vegetazione.
Alla vista dell'arma, Wyatt si tappò la bocca per la paura. Tom ed Evelyn si limitarono a fissare Curt con occhi spalancati fino a quando non sparì dalla loro vista. Tesero le orecchie nella speranza di udire i suoi passi.
Fu allora che Tom sentì per la seconda volta lo strano bip.
Si guardò attorno ma vide solo erba.
"Cosa facciamo?" Chiede Eve a bassa voce.
"Andiamo via!..." Disse Wyatt "... quel pazzo ha una pistola! E avete visto che faccia?! Secondo me è anche ubriaco."
Evelyn e Wyatt iniziarono a muoversi verso l'uscita della vegetazione, restando bassi e cercando di non far rumore.
"Tom! Che stai facendo? Vieni" Wyatt rimproverò il suo amico.
Ma Tom sembrava non ascoltarlo.
Fissava con orrore qualcosa sopra la sua testa.





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Tom non riusciva a credere ai suoi occhi... ma in mezzo a tutta quell'erbaccia, c'era una flebo.
La sacca era posta su un asta di metallo... e faceva capolino tra i fili d'erba più alti, oscillando proprio sopra la sua testa: "ma che diavolo...?" Le parole scivolarono dalla sua bocca.
"Tom! Tom!" Wyatt continuava a chiamarlo con sussurri sempre più forti.
Improvvisamente il canto delle cicale si levò da ogni punto della vegetazione.
Era assordante quanto terrificante.
Evelyn urlò per la paura ma il suo grido fu soffocato da quella folle litania di insetti.
Centinaia di cicale li travolsero come un'onda anomala. Volavano in ogni direzione.
Erano frenetiche, grasse e scure.
Quella spaventosa immagine fece ricordare a Tom le storie sulle piaghe d'Egitto che aveva sentito in chiesa, quando le locuste divorarono tutto il grano del faraone.
Evelyn oramai sembrava in preda a una crisi isterica.
Wyatt tentò di reagire agitando un bastone raccolto da terra.
Poi il rumore di uno sparo fece sobbalzare i ragazzini. Curt doveva aver aperto il fuoco... e non era molto lontano da loro.
"Via!" Urlò Wyatt.
Iniziarono a correre.
Evelyn inciampò e cadde a terra subito dopo. Tom e Wyatt la raccolsero issandola dalle braccia.
Fui poi la volta Tom, scivolò su della fanghiglia e finì con la schiena al suolo.
Bip! Di nuovo quel suono.
Wyatt afferrò Tom per il colletto della maglia e lo rimise in piedi.

Un ruggito scosse l'aria... un ruggito che i ragazzini avevano già udito nella casa di Tom.
Alan Reese doveva trovarsi vicino a loro.
Nel frattempo le cicale sembravano diventare ancora più frenetiche. Sciamavano senza alcuno schema, senza alcuna logica.
Wyatt iniziò a piangere per la paura e la frustrazione.
Tom afferrò il machete e lo dimenò di fronte a se. Colpì più volte gli steli d'erba e poche volte gli insetti svolazzanti.
I tre ragazzini notarono poi qualcosa agitarsi nell'erba. Era qualcosa di grande e si stava avvicinando a loro.


Impugnarono le armi e si strinsero tra loro, pronti ad affrontare la minaccia.
Dagli alti steli apparve Curt Limpshire.
Era sporco di fango e sangue. Il volto paonazzo lo faceva assomigliare a una bestia idiota e feroce. In una mano stringeva la pistola e nell'altra... ciò che sembrava essere una ciocca di capelli insanguinati.
Curt osservò i tre ragazzini con sincero stupore.
Qualcosa poi attirò la sua attenzione, qualcosa che si trovava alle spalle di Tom, Eve e Wyatt.
Si voltarono appena in tempo. Alan Reese sbucò fuori dalla vegetazione.
Rideva a crepapelle ed era circondato da un manipolo di cicale ronzanti.
Curt alzò frettolosamente la pistola e fece fuoco. Il rumore dello sparò fece tremare i timpani dei ragazzini. Sembrò aver mancato Alan che nel frattempo si era scaraventato contro Tom.
Lo afferrò per la maglia e iniziò a tirarlo via, a trascinarlo con se lì dove l'erba si faceva più alta e fitta.
Per un momento, Tom ebbe l'impressione che era tutto finito... che era tutto perduto. Non vedeva più i suoi amici. Attorno a lui c'erano solo fili d'erbaccia e cicale impazzite. E Alan Reese che lo sovrastava, sorridente e famelico mentre continuava a portarlo via con se.
"Voglio sentire che sapore hai!" Disse l'uomo mezzo marcio con voce rauca.
Tom agitò prima il machete, ma Alan riuscì a bloccare il polso armato del ragazzino. Fu allora che Tom estrasse di nuovo dalla tasca il coltello a serramanico.
Lo agitò, creando un arco d'argento di fronte a lui.
Aveva mirato al collo di Alan e quest'ultimo sussultò quando avvertì la lama fendergli la gola.
Per la prima volta, Tom vide l'orrore e la paura apparire sul volto del mostro.
Un attimo dopo Curt sbucò dal nulla e colpì Alan al fianco. Quest'ultimo cadde a terra ma, invece di un tonfo sordo, Tom udì di nuovo quel bip.
Evelyn e Wyatt arrivarono proprio in quel momento.
Erano terrorizzati. Agguantarono Tom per le braccia e iniziarono a portarlo via.
Tom intanto continuava a fissare Curt infierire su Alan Reese che, secondo il ragazzino, sembrava non opporre più alcuna resistenza. Restava a terra, come una cosa morta.

Wyatt e Eve portarono Tom fuori dall'erba alta.
L'aria era frizzante e piacevolmente fresca.
Fu allora che il ragazzino si rese conto di avere freddo e di non essere più in grado di muovere le gambe.
I suoi due amici continuavano a parlargli ma, per qualche strano motivo, le loro voci si facevano sempre più lontane.
Tom sentì qualcosa di viscido muoversi sotto la sua maglia. Abbassò lo sguardo e vide una macchia di sangue bruno espandersi rapidamente sui suoi vestiti.
Stava sanguinando copiosamente.
"Tampona la ferita!" Urlò Wyatt nei confronti di Evelyn.
Lei adagiò Tom al suolo e fece pressione lì dove c'era la chiazza di sangue.
"Ma che...?" Tom, con suo sommo orrore, scoprì che non riusciva più a parlare.
"Shhh, calma... calma... non ti sforzare" Evelyn tremava e piangeva per la paura. Accarezzò la fronte di Tom con una mano insanguinata.
Anche Wyatt piangeva e tremava: "un'ambulanza... devo solo... "
Tom osservò di nuovo i suoi vestiti insanguinati.
bip!
"Ma quando mi ha colpito Alan?" Disse con un filo di voce.
Evelyn, tra un singhiozzo e l'altro, rispose: "non Alan... ma Curt! Ma non parlare, resta in silenzio. Conserva le energie."
bip!
"Cosa?" Tom comprese solo in quel momento cos'era accaduto. Curt, sparando con la sua pistola, lo aveva accidentalmente colpito mentre mirava all'uomo mezzo marcio.
"Mi ha sparato?!" Commentò Tom, ormai batteva i denti per il freddo.
Eve urlò nei confronti di Wyatt: "sta perdendo troppo sangue... è pallido! Fa qualcosa!"
"Si... si... ora ci penso io... ora... ora..." Wyatt piangeva disperato "...dobbiamo portarlo via... dobbiamo prenderlo e portarlo via!"
Tom aprì la bocca per parlare ma non riusciva più a emette alcun suono. Allora Evelyn si rivolse a lui ma Tom non riusciva più sentire una parola.
bip!
Le immagini attorno a lui si fecero sempre più buie e sfocate.
Ormai non provava più alcun dolore. Non provava più alcuna paura.
bip!
Rimase a contemplare il cielo. Il cielo che aveva assunto una stranissima tinta grigia.





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-Il cielo non può avere questo colore!-
Fu il primo pensiero che balenò nella mente di Tom dopo molti minuti passati a puntare lo sguardo verso l'alto.
Quello che stava osservando infatti non era il cielo, ma un soffitto grigio opaco.
Dopo altri minuti si rese conto di trovarsi in un letto. Un letto che non aveva mai visto.
Le coperte erano leggere e qualcosa gli stringeva l'addome. Provò ad alzare un braccio e notò solo in quel momento la flebo attaccata a lui. Penzolava sulla sua testa. Decide di limitare i movimenti e guardarsi attorno. Un uomo vestito con un camice bianco, e con il volto coperto da una mascherina, lo stava osservando con occhi spalancati per la sorpresa.
Subito dopo, l'uomo gli puntò agli occhi una piccola lucina.
Tom provò a dire a qualcosa... ma si riaddormentò subito dopo.





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Quando riaprì gli occhi. Al suo capezzale si trovavano i suoi genitori. Papà era vicino a lui e la mamma in lacrime. C'erano anche due infermiere e due medici.
I suoi occhi scivolarono poi sulle sue mani.
-Accidenti...- pensò -...che mani brutte che ho! Come sono magre e pallide.-
Notò vicino a lui una strana macchina collegata al suo torace con una serie di cavi e ventose.
La macchina produceva, di tanto in tanto, in singolare rumore: bip! bip! bip!
Si riaddormentò di nuovo.





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In uno stato di semi-incoscienza, Tom sentì alcuni uomini parlare con i suoi genitori.
Non riusciva a capire molto ma sapeva che stavano parlando di lui.
"E' ancora troppo presto..." diceva un uomo "...non possiamo ancora fare dei pronostici."
"Dottore..." era la voce di sua madre "...la notte lo sento che si agita. Ha gli incubi! Rivive quei momenti, rivive quel giorno."
"E' del tutto normale" diceva l'altro uomo.





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Il giorno in cui Tom riprese pienamente coscienza fu la seconda domenica di Settembre.
Gli ci vollero altri tre giorni per ritornare a mangiare da solo e per riuscire a mettersi seduto. Non aveva però ancora il permesso di scendere dal letto.


Molte cose accaddero durante la convalescenza di Tom Williams nell'ospedale di Saint Quentin a Louistown.
I suoi genitori restavano con lui giorno e notte ma si alternavano senza mai incontrarsi.
Sua madre, Diana, fece una gran scenata in uno dei corridoi quando vide la signorina Rosenberg. La maestra di matematica era venuta a trovare Tom ma questo le fu impedito da Diana Williams.

Altre persone vennero a visita a Tom. Wyatt Sinclair, tanto per cominciare, poi Evelyn Reese, il quattrocchi Timothy Baker e altri suoi amici di scuola.
Anche la polizia venne a trovarlo nella sua camera d'ospedale.
Erano diversi agenti che volevano sapere da Tom la sua versione dei fatti in merito all'aggressione che aveva subito nei pressi della casa di Price.
Ma lui non era in grado di ricordare nulla.
Fu dopo la chiacchierata con la polizia, breve e deludente, che i genitori di Tom rivelarono al ragazzino il motivo della sua permanenza in ospedale.
Curt Limpshire gli aveva sparato all'addome con un revolver. Il proiettile però aveva sfiorato il suo rene sinistro, fermandosi a pochi centimetri dalla colonna vertebrale.
Diana non aveva dubbi, quello era stato un miracolo.
I medici le avevano detto che Tom si sarebbe ripreso del tutto, ma il trauma gli aveva causato una perdita della memoria.
Non era possibile sapere se e quando Tom avrebbe riacquistato i suoi ricordi.

Tom si sentiva strano all'idea di aver perso parte della sua memoria.
Eppure diceva a se stesso di ricordare ogni cosa della sua vita. Sapeva chi era, quando era nato, dove viveva, chi erano i suoi genitori... anche se non riusciva a capire perchè la mamma e il papà erano così distanti tra loro, non si parlavano e a stento si guardavano negli occhi.
Ricordava la scuola, i suoi amici, Wyatt... ricordava anche di essere amico di Evelyn ma non rammentava il modo e il giorno in cui avevano stretto amicizia.
-Come sono riuscito a rivolgere la parola ad Eve?! Ogni volta che penso a lei mi sento la gola secca... e sono riuscito in qualche modo a diventare suo amico?"





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Se le giornate passavano lentamente per Tom... le notti erano ancora peggio.
Restare tutto il giorno sdraiato in un letto a contemplare il nulla, senza poter giocare e stancarsi, impedivano a Tom di prender sonno e quindi era costretto a vegliare fino a tarda notte. Finì con il passare le notti da sveglio e di addormentarsi durante le prime ore dell'Aurora.

Una mattina, i suoi sogni si fecero più vividi che mai.
Sognò, almeno gli parve di sognare, Wyatt e Evelyn parlare tra loro. Erano voci lontanissime ma immerse in un silenzio irreale... tale che se Tom tendeva bene le orecchie, poteva in qualche modo captare i loro discorsi.
"Meglio così..." sussurrava Wyatt ad Eve "...se non ricorda nulla è una benedizione per lui. Lascialo nell'oblio, Evelyn. Fa che non rammenti nulla."

Ma cosa doveva ricordare?
Tom si sentiva incredibilmente frustrato.
Qualcosa nel profondo della mente sembro dischiudersi. Un rumore... un fruscio d'erba.
"Corri" lui che urlava a Wyatt ma... come faceva a sapere che si stava rivolgendo a Wyatt? Nel suo sogno, se proprio doveva essere un sogno, c'era solo oscurità.
Poi qualcosa a proposito di uno spaventapasseri. Un coltello dimenticato nella tasca.
Cicale.
"Mettetelo a terra" la voce di Curt riecheggiava in un angolo della sua mente.
Una mazza da baseball.
Un cane... no ...un mastino infernale.
Evelyn su un'altalena. E' al suo fianco e parla con lui: "hai presente quando muore qualcuno, Tom? La gente dice che quella persona resterà sempre al nostro fianco. Ecco... e se quella persona fosse crudele? E' ciò che io chiamo l'impronta del male."

L'impronta del male.
Se esiste un uomo molto crudele... la sua crudeltà potrebbe permeare sulla terra anche dopo la sua morte?! Una sorta di demonio o spirito malefico.
Un uomo così crudele che ha corrotto persino la sua carne e che è in grado di contaminare il luogo in cui giace il suo corpo, come una scoria radioattiva che deforma e sfigura tutto ciò che gli è vicino.
-Si... dev'essere andata così!..." il cadavere di Alan Reese che inizia a decomporsi nell'erba alta, inquinando il fiumiciattolo da cui l'erba si nutre.
E l'erba contaminata che viene mangiata dalle cicale. Gli insetti acquistano il morbo della male di Alan Reese, passando poi per Buckley che aveva addentato le cicale morte vicino allo spaventapasseri. Forse alcune cicale avevano fatto le uova nella testa di quel fantoccio.

-Io... ho visto le cicale usciere fuori dalla testa dello spaventapasseri... Eve lo aveva colpito con la mazza da baseball...-
Allora le cicali avevano iniziato a ronzare attorno alla ragazzina e attorno a Tom.
Alcune si erano fermate sulla sua mano. Lui aveva alzato il braccio e fu allora che le aveva viste... le aveva viste per bene...
Quegli abomini non erano più semplici insetti. La loro testa era oscena, deformate dal male di Alan. Testa il cui aspetto non poteva essere partorito neanche dal più oscuro degli incubi, testa di insetto parzialmente assomigliante al volto di un uomo... fusi tra di loro in un orrendo conglomerato di carne e chitina.
E quelle bocche-mandibole rese ancora più deformi da un tentativo di ghigno che si aprivano e si chiudevano mentre pronunciavano: "hey... ragazzino!"
Tom aprì gli occhi di colpo.
Era agitato, il cuore gli batteva nel petto all'impazzata. Perchè era così spaventato? Cosa aveva sognato?
Non riusciva più a ricordarlo.
Stava fissando di nuovo il soffitto che da diversi giorni era costretto a contemplare.
Le tende erano parzialmente aperte, lasciando entrare nella stanza una debole luce mattutina.
Scoprì di non essere solo. Vicino a lui c'era una ragazza dai capelli come l'oro. Era grande, poteva avere diciotto anni o forse di più.
Si stropicciò gli occhi e mise a fuoco le immagini: "Eve?" Esclamò.
Evelyn era seduta al suo capezzale. Appariva triste. Non era mai venuta da sola a trovare Tom.
"Si..." rispose lei "...perchè mi guardi così?"
"Ti avevo scambiata per... non importa..." -ho avuto un'allucinazione.-
Evelyn annuì: "sono venuta a salutarti, Tom."
"A salutarmi?" Tom si mise a sedere sul letto. La ferita all'addome protestò. Lei divenne ancora più triste: "vedi... la pistola che Curt ha usato per spararti era di mio padre..."
Tom, scioccato, fece per rispondere ma Eve alzò una mano: "ti prego, non interrompermi o non avrò la forza per finire..."

Si sistemò sulla sedia: "io non sapevo nulla ma mio padre era da tempo ricercato per omicidio. Sembra che avesse l'abitudine di dare la caccia ai ragazzini della nostra età. Mia madre è riuscita a scoprirlo o forse aveva dei forti sospetti... non saprei dirlo. Sta di fatto che decise di scappare di casa con me e di nascondersi in questo paesino sperduto.
Ma una notte di Dicembre mio padre riuscì a trovarci.
Prese mia madre e la portò fuori di casa. Io non ne sapevo nulla.
Lui diceva che voleva solo parlare ma mia madre lo conosceva bene e sapeva che aveva sempre con se una pistola. Inutile dire che gli animi si scaldarono tra i due e iniziarono a lottare.
Con sua grande fortuna, mia madre riuscì a sfilargli la pistola dal cappotto e fece fuoco contro di lui."
Eve ebbe l'impulso di alzarsi e di camminare avanti e indietro per dar sfogo al suo nervosismo.
Decisi però di restare seduta: "mia madre sparò un solo colpo e colpì mio padre in un occhio. Il proiettile raggiunse il cervello uccidendolo all'istante..."
"Eve... io..." Tom voleva dirgli che le dispiaceva molto.
"Non interrompere, ti prego. Mia madre prese il cadavere del marito e lo gettò tra le erbacce vicino la casa di Price. Gettò anche la pistola in quel posto.
Sapeva che nessuno si avvicinava alla casa di Price o alla sua terra e sperava che gli animali e il tempo facessero sparire ogni traccia del... bhè ...delle sue azioni.
Ma quest'estate, quando Ron Davis vi ha inseguito nell'erba alta... è riuscito a ritrovare per puro caso la pistola di mio padre.
Quella pistola poi passò nelle mani di Curt e... conosci il resto.
La polizia ha recuperato quella pistola e per loro non è stato difficile risalire al suo primo proprietario.
Sai che qui, a Louistown, ci sono detective? Domanda stupida, perdonami, nessuno lo sapeva.
Sembra che sono qui da poco, uno di loro è l'agente Andrew Rice... non so il nome dell'altro. Sono venuti qui alla ricerca di mio padre, per poterlo incriminare di diversi omicidi.

Ma dopo il ritrovamento della pistola, i due detective hanno parlato più e più volte con mia madre.
Ci è voluto un pò ma alla fine la donna è crollata e ha confessato tutto.
Giorni fa la scientifica ha ritrovato il corpo di mio padre... o quel che ne resta ...vicino la casa di Price. E' stato esaminato e infine è stato cremato.
Ora mia madre dovrà affrontare un processo ma la buona notizia è che un avvocato di un importante studio legale si è offerto di difenderci.
Sai cosa vuol dire pro bono?"
Tom scosse il capo.
"Neanche io lo sapevo fino a qualche giorno fa. Significa che un ricco avvocato accetta di lavorare gratis per qualche poveraccio così da apparire buono agli occhi di tutti. Una sorta di pubblicità. Capisci?"
"E quando inizierà il processo?"
"Tra pochi giorni. E si terrà ad Atlanta."
"Atlanta? Devi tornare ad Atlanta?" Tom non voleva che Evelyn partisse.
Lei annuì.
"Ma poi... poi tornerai qui?"
Evelyn fissò il pavimento per molti secondi. Infine rispose: "l'avvocato è convinto di vincere la causa. Dice che mia madre è una vittima, una vittima di un carnefice che non ha fatto altro che difendersi con un gesto estremo quanto necessario. Inoltre, uccidendo il marito, ha protetto chissà quanti altri ragazzini da quell'uomo.
Oh, dovresti sentirlo come parla, Tom. Potrebbe incantare tutti con quei suoi paroloni, quel suo sorriso e quei suoi abiti da riccone-newyorkese.
Il fatto, Tom, è che alla fine di questo processo io e mia madre andremo via.
C'è una parente, anche lei polacca. E' una sorta di cugina di secondo grado... o roba simile ...che circa vent'anni fa è stata salvata dai genitori di mia madre. All'epoca vivevano a Varsavia e i nazisti volevano prenderla ma i miei nonni sono riusciti a farla fuggire in Inghilterra.
Bene... questa cugina ha sentito ciò che è accaduto a mia madre e vuole ripagare il debito che ha con la mia famiglia.
Per questo motivo io e mamma andremo a vivere da lei una volta terminato il processo ad Atlanta."
"Andrete... via? In Inghilterra?"
"A Londra, per essere più precisi."
"Londra? Ma è lontanissima!"
Evelyn Annuì: "per questo motivo sono qui. Sono venuta a dirti addio."
Tom abbassò lo sguardo verso le sue mani. Stavano tremando. "Eve, io non ricorco come ci siamo conosciuti. Però mi dispiace moltissimo salutarti."
Evelyn annuì: "ci siamo conosciuti solo quest'estate, è vero. Ma il tempo che abbiamo passato insieme, e ciò che abbiamo fatto insieme, è stato più che sufficiente per renderti una persona speciale per me. Non ti dimenticherò mai."
Si alzò dalla sedia per baciare Tom sulla fronte. Lui sussultò appena appena... e provò una fitta all'addome.
Ignorò il dolore.
Lui ed Evelyn rimasero a fissarsi negli occhi per un pò. Poi Lei si diresse verso al porta della stanza.
"Ti rivedrò?" Chiese Tom quasi sussurrando.
Lei stirò un sorriso: "lo spero" e uscì dalla stanza.

Tom rimase a fissare il soffitto.
Ormai il sole era alto nel cielo. Fuori dalla finestra della camera si poteva vedere la parte meridionale di Luoistown. Il suo fiume divideva in due la città e proseguiva verso l'orizzonte, dove si trovavano campi di granturco e verdi colline.
L'autunno era arrivato, il vento faceva oscillare l'erba. Non si udiva più nessun canto di cicale.

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