Burning Bright

di Ciarax
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO


And how could
Anybody deny you?
 

«Ci vediamo domani, Allen»

Alexis si voltò a malapena con un cenno di saluto, uscendo dagli studi di registrazione a Hudson Square, nel distretto di Manhattan. Stringendosi ancora di più nella giacca, sentì la punta del naso iniziare a gelare a contatto con la fredda aria notturna, facendole rimpiangere per un attimo le tiepide temperature primaverili.

Nel tragitto verso il suo appartamento, Alexis non si fermò neanche una volta, troppo assorta dall’idea di buttarsi sopra il letto disfatto dalla notte prima e che non aspettava altro che riaccoglierla di nuovo. Dovette presto rinunciare a chiamare qualche taxi, praticamente impossibili da reperire a quell’ora tarda e si maledì quando perse oltre cinque minuti a cercare le proprie chiavi.

Frugando alla cieca senza poter utilizzare la luce del telefono morto ore prima, con la punta delle dita sentì l’involucro di plastica del pacchetto di sigarette che aveva abbandonato sul fondo della propria borsa oltre tre mesi prima. Esitò per un attimo. Scrollò la testa e finalmente trovò il freddo metallo del proprio mazzo di chiavi.

L’appartamento avvolto nell’oscurità e illuminato fiocamente solo dalle finestre che davano sulla strada, senza degnarsi di accendere neanche una luce, Alexis proseguì diretta verso la propria camera da letto. Abbandonò lungo la strada la borsa e la giacca, finità chissà dove mentre aprì con pigrizia la porta socchiusa della camera. Mise in carica il cellulare e sospirò.

Un’altra giornata era finita.

Gettò una pigra occhiata sull’orologio elettronico che segnava appena le quattro del mattino. Alexis sentì in quel momento tutta la pesantezza della giornata appena trascorsa, le quasi dieci ore di lavoro trascorse dietro un mixer e tenendo di conto di qualsiasi attrezzatura avrebbe dovuto essere usata di lì a poco. Non era esattamente quello che aveva in mente di fare per il resto della vita ma in quel momento era più che sufficiente anche se si ritrovò a maledire più di una volta i turni impossibili che faceva almeno quattro volte la settimana.

Quando finalmente si svegliò dal piacevole torpore in cui era caduta di filato era già pomeriggio inoltrato. Pigramente si stropicciò gli occhi e si stiracchiò accorgendosi solo in quel momento di avere ancora indosso i vestiti del giorno prima. Non era la prima volta che le capitava di crollare sul letto appena arrivata a casa e non si stupì più di tanto, limitandosi a mettersi qualcosa di più comodo mentre controllò pigramente il cellulare una volta uscita dal bagno rinfrescata.

Un messaggio. Anzi due. Entrambi da uno dei suoi colleghi alla stazione radio, Jake, ci aveva parlato poche volte ma era uno dei pochi ad avere la decenza di avvertirla in caso di cambiamenti negli orari. Cosa che era successa.

Ritrovatasi improvvisamente con il resto della serata libero, Alexis si passò una mano fra i capelli mossi, scostando di poco dagli occhi la frangia che stava lentamente ricrescendo. Cercò di scrollarsi di dosso il torpore del sonno preparandosi una tazza di caffè e spulciando pigramente nella sua vasta collezione di vinili. Il brontolio allo stomaco fu quello che la fece finalmente decidere, tirando fuori dalla custodia consunta dal troppo utilizzo un vinile e lasciando che la musica dei Coldplay risuonasse nell’appartamento immerso ancora nella semioscurità.

Alexis storse il naso infastidita accorgendosi di come lì dentro non fosse rimasto granché di commestibile, rivolgendo uno sguardo truce alla parete del soggiorno dove c’era l’enorme gabbia del suo cincillà. Faye, all’età di quasi dieci anni rimaneva un roditore alquanto vivace e anche in quel momento i suoi squittii soddisfatti non passarono inosservati, incurante di essere l’unica in quel momento ad avere libero accesso a del cibo. Ignorò i dolci versi del cincillà e tornò ad osservare con cupa consapevolezza la dispensa priva di qualsiasi cibo spazzatura: aveva passato le ultime settimane completamente immersa nel lavoro, tornando solo per dormire dieci ore filate e studiare quando poteva.

In quel momento rimpianse di aver accettato quel lavoro. Anche se, dopotutto, era quello per cui si stava per laureare di lì ad un anno, quello per cui aveva messo tanto impegno.
Scuotendo la testa e cercando di darsi una svegliata, Alexis si costrinse a smetterla di rimuginare su quei pensieri che la tormentavano da anni e lasciò che la musica la distraesse. Muovendosi per l’appartamento come se nulla fosse più importante di quei pochi minuti di pace, il caffè bollente tra le mani e il sole che già faceva capolino all’orizzonte mentre stava tramontando. Si mosse sulle punte dei piedi, roteò sul posto evitando per un soffio la tastiera digitale in un angolo del soggiorno e i vari fogli sparsi per tutto l’appartamento, tra spartiti e disegni improvvisati.

Aspettò con lentezza quasi estenuante che le ultime note finissero prima di riporre il vinile al suo posto, girandosi l’occhio le cadde sulla vecchia chitarra acustica abbandonata vicino il divano. Il legno chiaro consumato in più punti e dalle corde che avevano decisamente bisogno di venire cambiate, una manutenzione necessaria e spostata troppo in là con il tempo a causa dell’inutilizzo tanto prolungato.

Alexis si diresse alla svelta verso la propria camera da letto, uscendone dopo pochi minuti. Ritrovati gli occhiali che ora portava saldamente ancorati sul naso regolare, dalla montatura semplice e che non indossava decisamente da troppo tempo mentre sentiva gli occhi pizzicare per aver dormito con le lenti a contatto. Di nuovo. Rivolse poi a malapena una carezza al piccolo cincillà grigio chiaro e afferrò il portafogli e il cellulare, stipandoli nelle tasche dell’enorme felpa scura dentro la quale si nascondeva ben volentieri.

Lasciandosi alle spalle le pareti tappezzate da fotografie che aveva scattano anni addietro, tirò su il cappuccio della felpa dalla quale fuoriuscirono solo alcune ciocche e lasciò che la musica sparata a tutto volume nelle cuffiette fosse la sua unica compagnia nel tragitto fino al più vicino negozio di alimentari aperto. Si maledisse poi nell’istante in cui si accorse delle rigide temperature esterne e pensò a quanto sarebbe stato tutto più sopportabile se avesse impiegato il meno tempo possibile.

Se solo la sfortuna non l’avesse presa proprio in quel momento, la spesa sarebbe rimasto solo l’ultimo delle sue preoccupazioni in quel momento.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I
 

Waking up alone
Feeling like I’m somewhere in between
 


Girare per le strade di New York dopo le otto di sera non le era mai sembrato tanto inquietante. In una delle metropoli più popolose e movimentale degli States e del mondo non ci si aspetterebbe di certo di trovarsi a girovagare per stradine mal illuminate e quasi totalmente deserte. Eppure, non era neanche tanto distante dalle strade principali di Manhattan.

Forse Alexis avrebbe dovuto girare prima, forse avrebbe dovuto prestare più attenzione e non rimanere tanto concentrata sulla musica che ancora suonava a tutto volume nelle sue orecchie mentre cercava di allontanarsi quanto più discretamente e velocemente da un gruppo decisamente poco amichevole per i suoi gusti.

               «Ma è mai possibile che non posso avere neanche un giorno di pace» soffiò a denti stretti, sentendo l’adrenalina pomparle nelle vene mentre si tratteneva dallo scattare a correre il più velocemente possibile. Non era difficile capire come in quella situazione un’azione del genere avrebbe potuto solo peggiorare la sua situazione.
Non era neanche arrivata a metà strada verso il suo negozio di alimentari preferito che l’acre odore dell’alcool le aveva invaso le narici. Proseguì a testa dritta e senza rallentare neanche un attimo e mettendo in pausa la musica sentì dietro di sé passi pesanti a poca distanza. Il gruppo che aveva visto con la coda dell’occhio passando oltre quel vicolo mal illuminato la stava seguendo, storse il naso quando si rese conto di non essere passata tanto inosservata come avrebbe voluto.

Dai passi pesanti e goffi dietro di sé poté solo intuire vagamente di come si trattasse di un gruppetto di almeno tre uomini, decisamente ben piazzati al contrario della sua figura più minuta la loro confronto anche se nascosta nella felpa enorme che indossava. Non c’era molto che avrebbe potuto fare senza attirare ancora di più l’attenzione e peggiorare la già precaria condizione su cui camminava in punta di piedi.

Non c’era verso di poter chiamare in tempo le forze dell’ordine, né attirare l’attenzione di qualche passante. Chi si sarebbe arrischiato di mettersi contro tre individui del genere solo per salvare una ragazzina estranea? Probabilmente nessuno se non per riservarle un futuro peggiore. Avrebbe probabilmente avuto abbastanza forza nelle gambe per seminarli, ma quella zona non aveva molti nascondigli e di certo non aveva il fiato per una staffetta improvvisata.

               «È tanto piccola che sembra una bambola. Vero, Andrew?»
La risata gutturale che seguì per poco non la fece inciampare sui propri passi, «Sperando che non si rompa altrettanto facilmente»

Il conato di vomito trattenuto a stento a quelle parole le fece rivoltare lo stomaco, chiuso in una morsa di ansia e di crescente agitazione.

Sparire in un vicolo e sperare che mi lascino stare.

Il pensiero che le balenò in mente in quel momento le provocò dei brividi poco piacevoli lungo la spina dorsale, resistendo all’impulso di asciugarsi il viso improvvisamente accaldato a quella che sarebbe stata una follia. In quella strada secondaria, mal illuminata e dall’asfalto accidentato non c’erano molte opzioni per nascondersi e sfuggire in modo rapido e indolore a quelli che non sembravano mollarla; ringraziando allo stesso momento di non sentire gli altri richiami che le avrebbero fatto venire altri conati di disgusto.

Un’istante. Un battito di ciglia.

I tre energumeni che erano alle sue spalle, rallentati dalla pesante quantità di alcool nel loro sangue, annebbiati nei riflessi, impiegarono alcuni secondi prima di capire e inveire. La minuta, piccola ragazzina che avevano adocchiato prima era scattata come una gazzella sotto i loro occhi.

               «Muoviti, idiota! Ti farai scappare anche lei così, Jake» strascicò le parole uno dei tre, spintonando di malo modo il compagno vicino a sé. Non sembrò cogliere lo sguardo torvo che ricevette di risposta e tutti e tre ripresero ad un passo accelerato, raggiungendola in poco tempo a dispetto della stazza e dell’andatura altalenante.

Alexis ripensò ingenuamente all’ultima volta che aveva corso in quel modo, i polmoni che le bruciavano ad ogni respiro e il cuore che sentiva pompare forsennatamente il sangue nelle vene. Non c’era molto che avrebbe potuto fare in quella situazione e maledicendo quel colpo di testa che aveva avuto pochi minuti prima si gettò nel primo vicolo buio che avvistò, dopo aver girato ad una traversa e aver avuto così modo di togliersi, almeno per qualche secondo dalla vista di quella feccia.

La paura del buio era sempre stata incomprensibile per lei, fino a quell’istante. L’inconscio che le giocava tiri mancini era solo la punta dei problemi più urgenti che gravitavano in quel momento alle sue spalle mentre procedeva a passi incerti in quel vicolo totalmente avvolto dall’oscurità. Accendere la luce del proprio cellulare sarebbe stata una condanna e per un attimo si fece strada in lei la timida ma raggelante consapevolezza che quella strada non aveva un’uscita.

Era in un vicolo cieco.

Un tintinnio metallico ai suoi piedi la gelò sul posto. Con il cappuccio ancora alzato a limitargli la visione periferica, sapeva di essere ancora sola anche se non per molto; rimase per un attimo ignara di cosa avesse provocato quel suono quando un secondo rumore le fece abbassare lo sguardo ai suoi piedi.

Le grate di un tombino su cui era, immobile. Le sue chiavi che erano cadute dalla tasca e che erano scivolate finendo con un tonfo sul fondo della fogna.

Avrebbe potuto sembrare una bambinata in quel momento ma perdere il portafogli sarebbe stata una tragedia minore: non c’erano chissà quanti contanti con sé e le uniche cose degne di menzione erano la sua carta d’identità e quei pochi spicci di cui aveva bisogno in quel momento.

Alexis Nyla Allen. Vent’anni. Studentessa. Questo era quello che chiunque avrebbe potuto leggere sul quel maledetto pezzo di plastica che racchiudeva semplicemente parole. Parole che non dicevano assolutamente niente di lei, di ciò che era o pensava.

Erano infatti le chiavi del suo appartamento che rappresentavano la cosa che teneva di più in quel frangente. Erano quelle che le permettevano di ritornare nel porto sicuro della sua camera, del suo piccolo antro che aveva imparato a chiamare casa solo nell’ultimo periodo; dove ogni parete, ogni disegno, spartito o foto raccontavano di lei. Un infinitesimale frammento della propria anima che lasciava in ogni sua creazione e che in quel momento rischiavano di andare perdute.

Lasciare lì le chiavi e tentare di rientrare nel suo appartamento era una follia. Sapeva che sarebbe stato possibile, quando bastava semplicemente arrampicarsi sulle scale antincendio esterne del palazzo ed entrare dalla finestra che puntualmente lasciava sempre aperta. Certo era abbastanza agile da poterlo fare senza problemi ma in quel momento era più che decisa a non lasciarsi andare nuovamente in balia di quello che le capitava intorno.

Girò a malapena la testa quando sentì i passi veloci e pesanti che arrivavano dalla stradina principale, avvicinarsi rapidamente a lei. Non poteva certo rischiare di farsi prendere, troppo tardi per tornare indietro e impossibilitata a proseguire per quel vicolo buio.

Quando i tre arrivarono nei pressi del vicolo buio, rallentarono appena, socchiudendo gli occhi come se potessero in qualche modo vedere nella coltre di oscurità che non faceva passare neanche un filo di luce. Passarono pochi istanti e proseguirono oltre, ignorando quel vicolo vuoto e continuando ad imprecare per aver perso un’occasione simile; talmente poco accorti da non aver notato le grate del tombino a meno di una decina di metri da dove erano loro, alzato e abbandonato con un gesto di stizza vicino il muro sgretolato.




--- Note ---
Ammetto che il prologo è veramente corto, per questo pubblico subito anche il primo capitolo (prima che me ne penta e torni a metterci le mani altre mille volte). Non mi convince al massimo come lo ero stata per altre mie storie ma ho provato a buttarmi di testa senza pensarci troppo, anche grazie ad un'amica che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere, di rimettere mano qui su EFP e anche di buttare un'occhio su questo fandom.

 
Non so ancora esattamente dove andare a parare con questa storia ma ci sarà una piccola sopresa più avanti che spero di riuscire a portare a termine. Che altro dire... vedremo come si evolverà la vicenda ma già dal prossimo capitolo faranno la loro entrata in scena le amorevoli testuggini mutanti di cui mi sono innamorata.

P.s. andate a dare un'occhiata alla storia Mostro di 
Made of Snow and Dreams, me ne sono innamorata da subito. Ricambio un po' anche il favore  per essere tornata a scrivere ;).

Ciarax

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II
 


I’m just another shooting star disappearing in the dark
When we fall, we fall so hard


Buio pesto.

Era l’unica cosa che i suoi occhi sembravano percepire per un lungo minuto, prima di abituarsi lentamente e riuscire ad intravedere qualcosa dalle lenti degli occhiali completamente sporche e annebbiate. Ci mise qualche secondo a capire di star tremando, il freddo pungente che filtrava tra i vestiti bagnati e appiccicatisi alla pelle; i capelli rimasti miracolosamente asciutti ma liberi dalla costrizione del cappuccio che ora era alle sue spalle.

«È solo la metropolitana, è solo la metro… -bisbigliò tra sé e sé cercando di rallentare inutilmente il respiro, -solo più angusta e puzzolente…cazzo» Imprecò a denti stretti quando raggiunse l’ennesimo bivio.

Detestava ammetterlo ma non aveva la più vaga idea di dove fosse finita, impossibilitata a chiamare qualcuno anche volendo, il telefono completamente fuori uso dopo il tuffo in acqua. Nel punto in cui si era buttata non c’era alcuna scala o qualcosa su cui far presa per uscire, non che si sarebbe azzardata comunque, il rischio che quei tre energumeni fossero ancora lì in giro a cercarla era troppo alto anche solo per dare una possibilità.

Per quanto fossero anni che non ne avesse, le palpitazioni e la ben conosciuta sensazione di pesantezza al livello del cuore non le facevano presagire nulla di buono, mentre cercava di non avere alcun attacco di panico in quel momento. Non avrebbe avuto modo di chiedere aiuto, si sarebbe solamente scavata la fossa da sola, incerta persino di riuscire ad uscire con le sue sole forze.
La magra speranza di trovare un altro punto in cui poter uscire sembrò essere l’unica cosa a tenerla ancora lucida abbastanza da non andare in iperventilazione, mordendosi l’interno della guancia quando si accorgeva di rimuginare troppo su quella situazione decisamente a suo sfavore. Non aveva mai creduto di essere sfortunata ma quella giornata proprio sembrò volerle dimostrare ardentemente il contrario.

Per quanto il suo desiderio di cambiare e movimentare la sua vita, che iniziava a sentire sempre più stretta, fosse forte; in quel momento una escursione per le fogne di New York la portò solamente ad un bivio dopo l’altro. Quell’intricato sistema di tunnel e tubature si estendeva a ragnatela sotto l’intera metropoli, per quanto ne sapeva poteva essere sotto Central Park o a Chinatown. Poco importava in realtà quando, per tutto il tempo, non aveva incontrato nessuna scaletta o qualsiasi cosa che l’aiutasse ad arrampicarsi sopra le grate di alcuni tombini che incontrava sempre più di rado.

«Tunnel buio… o tunnel ancora più buio?» domandò a nessuno in particolare, sentendo la propria voce riecheggiare tra le pareti umide.
«Come faceva quella dannata filastrocca… - borbottò alla fine al limite della sopportazione, passandosi la mano tremante tra i capelli e continuando a girare in tondo sul posto, -alla destra… delle viole?... mentre a sinistra… risplende il sole!»

Alexis piroettò sul posto prima di battere il piede a terra e fermandosi esattamente con la testa rivolta verso il tunnel alla sua sinistra. Di sfuggita, era uguale a quello che si stava lentamente lasciando alle spalle: l’umidità e la muffa che filtrava dalle pareti di mattoni crepati in più punti, l’acqua torbida che lentamente refluiva nel canale centrale, gli squittii rari e distanti di ratti…

Non ci sarà il sole ma si sente odore di pizza.

Pizza… che la fame le stesse giocando un brutto scherzo? Alexis si bloccò dopo meno di una decina di metri che aveva imboccato quel nuovo tunnel, abbastanza grande rispetto agli altri da non provocarle spiacevoli costrizioni al petto mentre tentava di tenere a bada una claustrofobia di cui non aveva mai sofferto.

«Ci deve essere un punto di uscita se si sente odore di pizza qua sotto» mormorò poi riprendendo la lenta esplorazione sperando finalmente di aver preso l’uscita giusta.
Dopo solo altri venti passi qualcos’altro per poco non le fece venire un infarto, saltò sul posto reprimendo a forza un urletto stridulo per la sorpresa. Qualcosa vicino il suo piede si era appena illuminato e continuava a lampeggiare ad intermittenza emettendo un suono simile ad un allarme, riecheggiando tra le pareti che restituivano un eco alquanto lugubre in risposta.

Accelerò il passo istintivamente ritrovandosi a correre alla cieca, ignorando involontariamente il buio e dirigendosi senza pensare verso un’altra biforcazione. Aveva proseguito a lunghe falcate rischiando più volte di scivolare di nuovo in quell’acquitrino mentre si ripeteva sottovoce quella nenia che da piccola la aiutava sempre a rallentare il respiro e in qualche modo a tenersi ancorata a quello che la circondava.

Il rumore di quell’allarme era oramai distante e fu una serie di forti rumori provenire da una delle biforcazioni alla sua destra che attirarono la sua attenzione. Bloccandola nel mentre di compiere l’ennesimo passo, si fermò.

O sono impazzita… o qui c’è qualcuno.

Sopprimendo il proprio istinto di sopravvivenza che urlava ad ogni fibra del suo corpo di tornare indietro e tentare un’altra strada, Alexis mandò giù il groppo in gola che per un attimo le impedì di respirare, «Qui o c’è qualcuno che mi può aiutare o morirò divorata dagli alligatori delle fogne»

«Com’è possibile che non la trovi più?» riecheggiò d’un tratto una voce dal fondo del tunnel.

Alexis sgranò gli occhi dallo spavento, sentiva il sangue pomparle nelle vene ad un ritmo quasi insostenibile. Rallentò il passo prima di fermarsi in prossimità del punto di snodo con più canali di scolo, fiancheggiando il muro e tentando di riprovare per l’ennesima volta ad accendere il cellulare. Una singola vibrazione in risposta e poi nulla, era morto di nuovo lasciandola sola.

Non sono alligatori… ovviamente gli alligatori non parlano, ma chi diamine può vivere qui sotto?

Di senzatetto New York ne era strapiena, vivevano agli angoli delle strade secondarie, nei sottopassaggi della metropolitana e in qualsiasi buco abbastanza comodo per vivere in mezzo alla strada. Di certo le fogne non sembravano il punto ideale da usare come rifugio, angusto e maleodorante era anche fin troppo facile perdersi lì sotto.

«Un attimo prima era vicina il sistema di ventilazione! Ha iniziato a correre e l’ho persa» una seconda voce la riscosse dai propri pensieri.

Quegli sconosciuti, almeno due da quanto aveva sentito erano probabilmente ad una ventina di metri più in fondo. Le voci erano entrambe dal timbro inconfondibilmente maschile e, in un istinto innato di curiosità, Alexis fece appena capolino dall’angolo di muro dietro cui si era ingenuamente rintanata: quell’enorme tunnel sembrò portare ad una fine. Solo un rigagnolo d’acqua scorreva placidamente ai suoi piedi, mentre quella che doveva essere un’illuminazione di fortuna attenuava il buio pesto in cui era stata immersa fino a quel momento, troppo fioca per poter distinguere l’ambiente attorno a sé ma abbastanza da non farla sbattere contro qualche muro.

«Non può essere sparita nel nulla, Donnie»

Donnie?

«Ragazza? C’è una ragazza qui?» esclamò una terza voce, di poco più stridula e dal timbro giovanile.

Erano tre le voci che sembrò carpire in quel momento, ignorando i battiti del cuore che sentiva risuonare forsennatamente nelle orecchie. Non aveva modo di capire con estrema precisione di cosa stessero parlando, sembravano immersi in una discussione alquanto accesa e il rimbombo si sommava all’eco delle parole precedenti restituendole semplicemente un groviglio di discorsi incomprensibili.

Sobbalzò leggermente solo quando sentì l’ennesima voce, quella che era risuonata più autoritaria e bassa nel timbro tra le tre. Le sembrò che per qualche secondo tutto tacesse, facendole aggrottare la fronte e venire a conto che forse quello poteva essere stato tutto frutto della sua mente.

Un’impercettibile folata di vento le scompiglio i capelli prima che potesse anche solo processare quello che aveva appena sentito. Alexis emise un verso di dolore quando, balzando indietro per lo spavento, mise il piede in fallo finendo sedere a terra. Troppo concentrata sul dolore improvviso al fondoschiena non si accorse della seconda figura che corse dietro alla prima.
Le voci erano decisamente più distanti da quanto si sarebbe aspettata, le distorsioni e l’eco in quella fitta rete di gallerie e tunnel rendeva difficile orientarsi. Anche se qualcuno viveva lì, non c’era verso che avrebbe potuto muoversi con tanta agilità quasi in piena oscurità.

«Deve essere stato un ratto. Mi spavento anche con l’aria che respiro qui sotto» mormorò Alexis con un sospiro.

Non c’era nessuno lì sotto, era impossibile. Gli umani necessitano di luce per sopravvivere, lì le condizioni igieniche sarebbero state proibitive per chiunque. Doveva essere semplicemente la sua testa a farle scherzi decisamente fuori luogo in un momento delicato come quello: il semplice gocciolare dell’acqua l’aveva scambiato per un allarme e quelle voci non dovevano essere altro che dei ratti. Una colonia di ratti particolarmente rumorosa doveva essere nelle vicinanze, passando troppo tempo lì sotto deve essersi confusa solo per avere un minimo di conforto che ci fosse qualcuno lì oltre che lei.

«Questo si che è un problema»

La stessa voce autoritaria di poco prima. La conferma lampante che non doveva aver solo immaginato quelle voci, ma questo voleva dire che veramente qualcuno viveva in quello spazio angusto e dimenticato dal mondo.

Alexis non seppe con quale forza serrò la mascella, impedendosi in qualunque modo di emettere anche solo un fiato. Se fosse stata aggredita quello non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua situazione già in precario equilibrio: la caduta, anche se innocua le aveva tolto le poche energie rimaste. Le gambe erano scosse da piccoli tremiti, i muscoli spossati dal lungo tragitto che aveva percorso a dagli improvvisi scatti in corsa quando si era spaventata. Era coperta da vestiti zuppi d’acqua da quelle che potevano essere almeno un paio d’ore se non di più, con le temperature gelide delle notti newyorkesi riusciva a sentire la fatica che il suo corpo stava facendo per mantenerla ad una temperatura corporea accettabile.

«Ciao…»

Maschio. Non c’era dubbio. Troppo buio però per carpirne i tratti o a malapena seguirne la sagoma.
La voce era leggera, aveva parlato in modo lento come si parla ad un cucciolo spaventato. Forse fu quella innocente premura, magari anche involontaria, a spingere Alexis ad alzare di poco lo sguardo che aveva tenuto fisso a terra fino all’ultimo.

«Fermati, Mickey. Non ti avvicinare» lo riprese il secondo individuo, una nota più dura nella voce.

Non aveva paura di lei, questa era ovvio. Alexis aveva distinto chiaramente il proprio battito fermarsi per una frazione di secondo quando tutto quello che poté distinguere furono solo due sagome scure a pochi metri da lei. Non fu in grado di fermare lo stupido pensiero che forse… i tre ubriachi da cui era scappata prima sarebbero stati il male minore visto come si stavano evolvendo le cose.

«Ma non vedi come trema? È così piccola e indifesa» aggiunse quello che sembrò essere il più giovane dei due. Non c’era alcuna ostilità quando parlava, e per quanto trasudasse una certa impazienza sembrò quasi esserci uno sforzo nel mantenere un tono di voce più basso e pacato.

La stavano decisamente trattando come un animale selvatico appena abbagliato da fari di una macchina. Era in trappola e non poteva dar loro torto se quella era l’impressione che gli stava dando: sentiva il proprio corpo tremare dal freddo, dalla stanchezza che piano piano le intorpidiva gli arti e il lieve dolore alla caviglia su cui era caduta quando si era spaventata prima.

«Ci aspetta un lungo hashi» sospirò quello dal timbro inconfondibilmente più basso.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III
 


                              Through a storm that never goes away
                              Don't believe all the lies that you've been told

Erano a disagio. Tutti e quattro. Questo era evidente.


Per quanto quella situazione fosse assurda, concentrarsi sulle sfumature la aiutava a mantenere la testa lucida. Più o meno. Lucidità che sentiva scorrerle via tra le dita ogni volta che si ritrovava a studiare quei quattro individui. Tartarughe. Mutanti.

Che fossero tartarughe le pareva chiaro, ma la sua conoscenza dei rettili si esauriva lì. Non era mai stata ferrata nelle materie scientifiche e le uniche nozioni che ricordava erano strettamente legate agli schizzi che faceva a bordo pagina seguendo le illustrazioni delle varie tipologie di testuggini sul suo libro di scienza.

Il quinto, il ratto. Quello era il più pragmatico di tutti, dai modi calcolati e composti non lasciava trasparire nulla mentre la guardava attentamente poco dietro le quattro enormi tartarughe bipedi. Tutti loro, anche ad uno sguardo veloce e poco accurato, erano almeno il triplo del suo peso e superavano abbondantemente il metro e ottanta. Che quelle… che loro, non fossero umani le pareva chiaro ma anche semplicemente considerare l’esistenza di tali esseri ibridi sembrava una totale pazzia.

«Hey, bellezza -attirò la sua attenzione quello che riconobbe essere quello dal tono più giovane di tutti, -non devi avere paura, non abbiamo cattive intenzioni» tentò di rassicurarla la tartaruga mutante accennando un sorriso.

Tra tutti e quattro era quello più basso, sempre imponente nell’aspetto ma decisamente più basso e meno muscoloso degli altri tre. Gli occhi azzurri, troppo intelligenti per essere di un animale non senziente, non sembravano affatto nascondere nessun secondo fine. Il sorriso appena accennato era un chiaro segno per Alexis di come si stesse sforzando di metterla a suo agio quando probabilmente lui era il primo a non amare affatto quella situazione; certo non poteva dargli torto, era piombata in quella che doveva essere la loro casa o nascondiglio di sorta.

«Non ha paura, Mickey» replicò semplicemente uno dei due al suo fianco, il curioso lembo di stoffa viola a coprirne gli occhi celati dietro una goffa montatura di spessi occhiali da vista.

Quella era la voce che aveva riconosciuto tra le più calme dei tre, non c’era nessuna urgenza mentre parlava e anche dall’atteggiamento del corpo non traspariva nessuna aggressività. Era alto, Alexis intuì forse che fosse il più alto di tutti e quattro ma altrettanto sembrava essere quello più gracile, peso e carapace permettendo. La muscolatura degli arti, in quasi ogni aspetto da rassembrare quella di un essere umano non era affatto accentuata come negli altri.

Alexis notò come, oltre gli spessi occhiali, portava anche uno strano assemblaggio elettronico ancorato al carapace e con strani occhiali o visori di sorta sulla testa. Nonostante l’altezza era impercettibilmente ripiegato su sé stesso e gli occhi brillavano di particolare curiosità nei suoi confronti.

Sembrava non aver mai visto un essere umano da tanto vicino.

«Ma trema come una foglia. Anche io sarei spaventato se mi trovassi quattro tartarughe parlanti giganti» il più piccolo dei quattro, dalla maschera arancione sembrò particolarmente testardo mentre parlava. Stava iniziando lentamente a riprendere quello che sembrò essere il suo normale atteggiamento, rumoroso e impulsivo.

La tartaruga in viola scosse la testa. Abbassò con un gesto fluido il visore e lo puntò nella direzione di Alexis prima di toglierselo dopo pochi secondi, apparentemente soddisfatto di quello che doveva aver visto.

Che sia sempre così? Si domandò ingenuamente Alexis, stringendosi le braccia attorno al petto.

«Non ha paura, i suoi valori sono normali -spiegò pacatamente allora la tartaruga che sembrò essere il meno a disagio, -ha freddo. Gli esseri umani non hanno una pelle spessa come la nostra e con i vestiti bagnati il suo corpo ha difficoltà a mantenere la temperatura costante»

«Ho…freddo, si» si schiarì la gola Alexis con difficoltà, senza guardarli direttamente negli occhi. Nonostante tutti stessero rispettando una buona distanza, venire osservata e stare sotto l’attenzione di così tanti individui, umani o meno che fossero, non era il massimo.

La tartaruga dalla maschera arancione, Mickey, sembrò illuminarsi a quelle parole, neanche gli avesse detto chissà quale sconvolgente segreto, «Allora sai parlare!»
Malgrado il disagio fisico ed emotivo Alexis si ritrovò a ricambiare quell’entusiasmo, accennò un minuscolo mezzo sorriso nei confronti della tartaruga che gongolò ingenuamente a quelle poche parole.

Infantile.

«Io sono Michelangelo! -si presentò allora con un sorriso divertito, -ma anche Mickey va bene. Mentre lui è Donatello» presentò, indicando la tartaruga con gli occhiali al suo fianco che accennò un piccolo movimento con la testa di risposta.

Ingoiando un inesistente groppo in gola che però sentiva pesarle nel petto si arrischiò a squadrare con attenzione tutti i presenti, rinunciando in parte a passare in qualche modo inosservata.
Lì era lei quella fuori posto.

«Chi siete?»

«Siamo ninja, -rispose prontamente il primo di tutti loro, -Io sono Leonardo, è un piacere» disse pacatamente e dal tono autoritario che Alexis riconobbe come la terza voce che aveva già sentito prima. La tartaruga, Leonardo, non era alto altrettanto come Donatello, una via di mezzo e da sotto la maschera blu la osservava con muta curiosità.
La voce era tranquilla e l’occhio di Alexis cadde istintivamente sulle due armi che portava dietro il carapace. Due lunghe katane a riprova di quello che gli aveva appena riferito.

Fu proprio Leonardo, senza aspettare una reale risposta, a girarsi e rivolgere la sua attenzione al ratto dietro di loro che fino a quel momento non aveva detto ancora nulla. Abbassò leggermente il capo, rispetto per quello che lì doveva essere il più anziano di tutti loro, «Chiedo perdono, sensei. È colpa mia se non siamo riusciti ad impedirle di scoprirci»

Il ratto non disse nulla, socchiuse gli occhi per qualche istante assorto in chissà quale profonda meditazione prima di puntare lo sguardo direttamente su Alexis. Il vecchio roditore sembrò quasi intuire il desiderio di parlare della ragazza e attese paziente che desse voce ai propri pensieri, quasi certo di sapere cosa stava per dire. L’occhio attento e gli anni gli avevano insegnato a capire immediatamente la situazione e a saper leggere le persone che si trovava davanti; esempio vivente ne erano le quattro tartarughe che considerava come figli suoi, erano libri aperti per lui.

«Sono io che mi sono persa, non c’è motivo di prendersela con loro -scosse la testa Alexis, riguadagnando un po’ di controllo sulla propria voce, -Mi sono spaventata e ho corso alla cieca»
A quelle poche parole tutte e quattro le tartarughe le rivolsero uno sguardo al limite dell’incredulo, quasi nessuno di loro riusciva a credere che un essere umano capitato lì per caso si stesse scusando senza neanche aver prima urlato dalla paura. Quell’umana non aveva avuto alcuna reazione di fronte a loro e poi si stava anche scusando quando aveva sentito l’odore di una punizione in arrivo per uno di loro quattro.

Dal tono in cui Leonardo si era rivolto al ratto, Alexis suppose fosse in arrivo una qualche sorta di punizione o conseguenza a quello che avevano appena fatto portandola lì in casa loro. Se erano creature che vivevano nelle fogne di New York, nascoste alla vista di tutto il genere umano non era difficile dedurre come anche solo la presenza di una persona lì potesse annunciare solo pericoli per la loro sopravvivenza.

Era colpa sua se si era fatta male alla caviglia cadendoci sopra dopo essersi spaventata. Era colpa sua se quelle quattro, povere tartarughe rischiavano adesso di venire punite solo per le sue azioni sconsiderate, quando agiva d’istinto se si sentiva minacciata e temeva per la sua vita. Pensieri irrazionali, lo sapeva ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di darsi dell’idiota per una tale scelleratezza.

«La ragazza ha uno spirito di sacrificio notevole, -ammise il ratto inclinando un poco il capo e indurendo subito dopo la voce, -ma ciò non toglie come questo suo essere a conoscenza della nostra esistenza metta lei, e noi in special modo, in pericolo. Shreder non esiterà a colpire ogni nostro punto debole pur di eliminarci. L’avete persa nonostante i sistemi di sicurezza di Donatello, nonostante non sia votata al combattimento come ognuno di voi invece lo è. È imperdonabile»

Fu la tartaruga sull’estrema sinistra ad attirare l’attenzione altalenante di Alexis, l’unico dei quattro che non si era presentato e di cui non conosceva ancora il nome. Tra tutti era quello più imponente, raggiunto facilmente l’apice dei due metri di altezza. Un fascio di muscoli smisurato in cui il minimo sforzo sarebbe bastato a mandare in frantumi un blocco di calce rinforzato.

«Dobbiamo solo ringraziare che il suo telefono sia già rotto, sennò avrebbe già scattato una foto scappando via per mostrarla agli amici» esclamò con disprezzo, senza degnarla di uno sguardo. A dispetto degli altri era l’unico la cui maschera, rossa cremisi, copriva interamente la parte superiore della testa.

«Alexis… mi chiamo Alexis»

La tartaruga serrò di poco gli occhi, l’espressione ancora più sdegnata di prima mentre serrò la mascella e distolse lo sguardo.

«Lui è Raffaello. È sempre scontroso quindi non farci caso, bellezza» la rassicurò Michelangelo.
«E così… siete ninja?» domandò di punto in bianco Alexis.

«Tecnicamente siamo tartarughe, mutanti ma tartarughe» disse semplicemente Donatello mentre controllò con calma la caviglia dolorante di Alexis. Alzò lo sguardo e la osservò con una punta di curiosità dietro la spessa montatura prima di tornare alla sua medicazione, «E tu non hai alcuna paura. Non hai paura, ed anzi, mi sembri quasi sollevata adesso»

Alexis rimase per un attimo in silenzio, incantata dal lavoro preciso e accurato di Donatello mentre le controllava con attenzione la caviglia. Quella geniale tartaruga era particolarmente perspicace, con uno sguardo capiva e leggeva facilmente il volto di Alexis, cosa che era normalmente difficile alle altre persone. Il tremore che le scuoteva il corpo era diminuito, anche se non aveva voluto saperne di togliersi la felpa nella quale navigava in quel momento. Lì la temperatura più alta l’aveva aiutata a scaldarsi molto più in fretta.

«Se non ho avuto ora un attacco di panico, l’avrò più tardi» sminuì Alexis scrollando le spalle. Spinse gli occhiali ancora impolverati con la punta delle dita e rimase piacevolmente colpita dalla mano… o zampa, ferma di Donatello.

Quella tartaruga le aveva dato la giusta impressione, tra tutti era il più calmo e quieto dei quattro. Nonostante l’altezza maggiore, l’aspetto a tratti più dinoccolato e la spessa montatura la aiutarono infinitamente a non metterla in soggezione, grata di essere finalmente fuori dall’attenzione esplicita di tutti.

Per quanto fosse sollevata di non correre alcun reale pericolo con loro, non poté ignorare la sgradevole sensazione di aver fatto involontariamente irruzione nella loro casa e aver anche rischiato che venissero puniti per qualcosa di cui nessuno di loro quattro aveva colpa in merito. I tre fratelli che si erano presentati per primi le parve chiaro come non serbassero nessun rancore nei suoi confronti, e a tratti erano anche incuriositi dal poter interagire finalmente con un essere umano da così vicino… Raffaello d’altro canto.

L’imponente massa di muscoli con il carapace era quello più difficile da leggere, da quando l’aveva visto era non aveva cambiato espressione neanche per un secondo. Un glaciale sguardo di sbieco era l’unica cosa che Alexis aveva ricevuto da parte sua, neanche degnandosi di dirle il suo nome come se fosse il suo peggior nemico.
Alexis si grattò distrattamente la punta del naso coperto da lievi lentiggini mentre pensò ad un modo per far pace, a quanto pare necessaria, con quell’ammasso di arroganza ed ego.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV
 
                              All the pain and the scars have left you cold
                              I can see all the fears you face
 

Che cosa le avesse detto il cervello quando aveva deciso di studiare e fare l’internato come ingegnere del suono, non sapeva proprio con chi prendersela. Solo perché la musica fosse una delle parti integranti della sua vita, pensare aprioristicamente come qualsiasi suo aspetto potesse andarle a genio, era veramente un concetto infantile.

Non credeva nelle rivelazioni divine, nelle epifanie improvvise. Non ci aveva mai creduto. Per quanto avesse un’intuizione e creatività nel risolvere i più disparati problemi, sapeva quanto quelle erano cose che aveva maturato col tempo. Tutto quello che sentiva e che sperimentava le si accumulava dentro e raramente ci rimuginava sopra, ma lo faceva inconsciamente, e l’ultima realizzazione proprio non le piaceva.

Quella non era la strada per lei.

Certo però non poteva dire una cosa simile all’uomo seduto accanto a lei, Andy Meadows, che con più di dieci anni di lavoro in quello studio si era premurato di aiutarla a districarsi in quel mondo. In via di arrivo verso i quaranta anni, Andy era la persona più pacata e disponibile che Alexis aveva incontrato da quando aveva iniziato a lavorare lì. Inutile dire come fosse diventato il suo punto di riferimento.

«Tieni la testa in questo studio, Allen. Non ho voglia di sentire le urla stridule della Johnson solo perché non abbiamo dato voce al suo egocentrismo» la riprese monocorde Andy osservando diligente il lavoro di Alexis che rialzò immediatamente il volume del microfono di Kathy Johnson, la voce principale del programma di punta di quella fascia oraria.

Il pettegolezzo mascherato e infagottato sotto forma di notizie sembrava interessare quasi l’intera popolazione di New York, era incredibile quanto la gente non sapesse fare altro che rimanere affascinati da quello che non potevano avere. E anche se per una volta il suo turno di lavoro non era di quasi dodici ore filate, Alexis ne aveva già fin troppo dopo neanche quattro ore.

Tornò a concentrare la propria attenzione al mixer dinanzi a sé, caricò la playlist che avrebbe concluso la rubrica della Johnson e controllò nuovamente i livelli dei microfoni. Noioso. Ripetitivo. Asettico. Non aveva altre parole oramai per descrivere quel lavoro. E non aveva altre parole per descrivere quella che sembrava essere diventata la sua routine. Eppure, guardando il mentore al suo fianco, sperò che almeno una scintilla della sua passione potesse di nuovo attaccarglisi addosso.

Aveva quasi un bisogno disperato di quella scintilla.

«Se continui così, il tuo entusiasmo finirà col contagiarmi»

Alexis si girò, rivolgendo un’occhiata al biondo al suo fianco. Si versò in silenzio una tazza di caffè ancora caldo e accennò un impercettibile sorriso cogliendo la smorfia disgustata di Andy quando versò almeno tre cucchiaini ricolmi di zucchero.

«Mi correggo, mi verrà una carie» la voce di Andy rimase impassibile come al solito anche se la bonaria presa in giro traspariva facilmente dalle sue parole.

«Non sai cosa ti perdi, -commentò Alexis portando alle labbra la tazza e bevendone un sorso, -sei tu quello che rischia di diventare acido e amaro»

Andy alzò un sopracciglio, il volto squadrato steso in un’espressione di incredulità, «Ma questo non spiega perché non salti di allegria ogni volta che vieni a lavoro. È da una settimana che ti trascini da piano all’altro e certe volte guardi quel mixer come se potesse iniziare a parlare all’improvviso»

Quel posto le andava stretto. Contava i secondi che finalmente le avrebbero permesso di tornare al sicuro nel suo appartamento.

«Sono solo stanca, è stata una settimana dura» si concesse di confidargli, rilasciando lentamente la mascella che aveva serrato inconsciamente. Finì il resto del caffè in silenzio, passandosi pigramente una mano dietro la nuca dove la pressione alla base del collo iniziava a pungolarla.

Si maledisse quando sentì lo sguardo attento di Andy su di sé. Alexis abbassò impercettibilmente il capo in avanti lasciando che le ciocche della frangia che stava ricrescendo le coprissero parzialmente il volto; non aveva bisogno di un rimando verbale delle occhiaie scure che aveva sotto gli occhi, liberi dalla montatura degli occhiali a causa delle lenti a contatto che portava ogni mattina. Le stesse lenti a contatto che iniziava a sentire bruciare, ma che almeno la distraevano dal dolore sordo e flebile che ancora aveva alla caviglia.

Le sembrava di essere carne al macello ogni volta che qualcuno la squadrava dalla testa ai piedi, alla ricerca di difetti o di qualcosa che non andava loro a genio. Non che potesse detestare Andy solamente per qualcosa che veniva naturale alle persone ogni volta che la incontravano. Non appena capivano di non poterla esaminare come ogni altra, si sforzavano di immaginare e carpire cosa ci fosse sotto le felpe e i maglioni oversize tanto da dover venire nascosta in quel modo.

Sospirò. Aveva problemi con le attenzioni della gente, gli altri non sembravano fare altro che volerglielo ricordare. Ma questo non fece altro che falle accennare un impercettibile sorriso ripensando a come non dovesse essere l’unica ad avere problemi con le indesiderate attenzioni altrui.

Se siamo entrambi a disagio però il problema non si pone, no?

Erano proprio quei quattro, curiosi, pragmatici rettili mutanti che sembrarono più affini a lei in quel momento. Lungi dall’essere la stessa situazione, ma una timida speranza non poté che sentirla nascere quando lo spavento per quello che le era successo prima surclassò qualsiasi naturale reazione avrebbe potuto avere di fronte a quelle creature.

La storta alla caviglia le ricordò il giorno dopo di come non fosse stato solo un sogno allucinato, rimasta di nuovo piacevolmente sorpresa dalla maniacale mano ferma di Donatello. Alexis poté solo sperare con che le sue basi di primo soccorso il lavoro sarebbe potuto essere altrettanto impeccabile.

E fu con quell’ultimo pensiero che Alexis tornò al proprio lavoro, passando il resto della giornata con la stessa attenzione di quando si fa lo stesso tragitto in macchina tutti i giorni da anni. I gesti erano meccanici, automatici, istintivi. Venne ripresa solo un paio di volte da Andy stesso ma oltre quello la giornata trascorse monotona.

Soltanto quando sentì nuovamente il tiepido sole invernale scaldarle il volto, dalle guance arrossate per il freddo, che si permise di respirare. L’aria gelida nei polmoni le fece venire i brividi e si strinse ancora di più nella giacca da aviatore, mentre procedeva a passo spedito verso la solita fermata della metro.

La musica nelle orecchie era ad un livello improponibile ma Alexis non batté ciglio al volume mentre gettava lo sguardo ad ogni angolo da quando era uscita dallo studio di registrazione dell’emittente radio. La mano sinistra strinse convulsamente lo stesso pacchetto di sigarette che aveva lasciato stare mesi fa, portandosi una sigaretta alle labbra e consumandola prima di raggiungere la metropolitana.

I riscaldamenti al massimo furono un conforto immediato non appena rimise piede nel proprio appartamento, disseminando la giacca e la propria borsa nel soggiorno prima di fiondarsi a passo di marcia verso la propria camera. Con solo un paio di pantaloncini e una maglia a maniche lunghe finalmente si permise di fare un lungo sospiro di sollievo. Temeva che quella settimana non sarebbe più finita. E invece era di nuovo arrivato il week-end.

Con la bomba insulinica sotto forma di tè dolcificato e fumante, Alexis si buttò senza troppe remore sul proprio divano e lasciando che le note di Help dei Beatles si diffondessero nell’aria mentre osservava il soffitto assorta. Le minuscole crepe sull’intonaco bianco si fecero improvvisamente interessanti e l’immediata associazione fu con quell’umido e angusto reticolo di tunnel nelle fogne dove si era persa giorni prima.

Stesse crepe. Ovviamente.

Per quanto però tentasse di toglierseli dalla testa, ogni volta tornava a ripensare a quell’incontro che aveva del fenomenale. Un delirio magistralmente architettato dalla sua mente ferita, non c’era dubbio. Se solo avesse potuto credere alle bugie che si andava raccontando.

Quei quattro individui era creature alquanto singolari. Superato ovviamente l’iniziale smarrimento dovuto alle differente fisiche, ben troppo evidenti da poter ignorare in toto. E per quanto fosse stata in loro presenza per poco più di un paio d’ore, non poté fare a meno di richiamare a memoria quasi ogni singolo loro dettaglio con precisione chirurgica. Tutti i fogli abbandonati sul ripiano della cucina e nella sua camera ne erano un esempio lampante.

Anche volendo il telefono non le sarebbe servito a molto, quando aveva ricalcato al dettaglio ogni sfumatura che ricordava dei quelle creature tanto affascinanti. Le espressioni statiche di quelli schizzi però non rendevano giustizia alla vividezza di ogni cambiamento di espressione che tutti e quattro avevano avuto una volta che se l’erano ritrovata faccia a faccia.

Gli sguardi composti ma al contempo curiosi di Leonardo e di Donatello che erano riusciti a gestire le loro emozioni con una abilità invidiabile; e anche se dello stesso avviso non fu quello che sembrò essere il più giovane di loro, Michelangelo, certo l’innocenza infantile nei tratti erano una cosa che saltava subito all’occhio.

E poi c’era quello più pragmatico di tutti.

Lo stesso che non l’aveva degnata di uno sguardo fin dall’inizio, limitandosi a presenziare controvoglia in quella piccola riunione nient’affatto pianificata. Il corpo più massiccio tra tutti ripiegato su sé stesso, con le braccia a protezione del petto coperto dal piastrone del carapace. Si era irrigidito a più riprese mentre gli altri parlavano, mentre si tratteneva dal cedere all’istinto e fare qualcosa che probabilmente sarebbe stato controproducente per tutti.

Era una testa calda e, con molta probabilità, qualcuno con cui non era difficile attaccare briga se si toccavano i punti giusti. Ma soprattutto che Raffaello fosse il meno entusiasta della sua presenza lì… non era stato tanto difficile da capire.

Era lei quella che si era letteralmente fiondata a casa loro, non poteva dargli torto per sentirsi così a disagio. Essere violati nel sicuro della propria dimora era qualcosa che non andava mai sperimentato e nell’istante in cui aveva incrociato lo sguardo irritato che le aveva rivolto Raffaello, ricordò a mente fredda quella sensazione.

Era sullo stesso sguardo che si era fossilizzata la notte prima, la matita a mezz’aria mentre il ritratto sul foglio le restituiva la stessa muta animosità che aveva vissuto in prima persona anche prima di quell’incontro. Alexis si portò una mano sul fianco destro cercando di placare l’improvvisa ondata di bruciore che sentì provenire dalla pelle, inaspettatamente di nuovo troppo sensibile anche per il delicato contatto con il cotone della maglia.

Notò solo in un secondo momento come quegli occhi verdi come i suoi ma di un tono più scuro non nascondevano nessuna ostilità nei suoi confronti. La negatività così palese proveniva da altro.

Ma non ne era lei l’origine.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V
 
                              This'll be the last time I'll have to hide
                              Living for the moment
                              When I come alive
 
Impiegò parecchio tempo a ritrovare il motivo per cui aveva imparato ad apprezzare una buona oretta di corsa nei giorni liberi. Dopo il cambio repentino e finalmente la possibilità di ricominciare da sola, l’unica maniera di scaricare la tensione erano quelle dannate sigarette di cui si era liberata per poco più di tre mesi. Prima di ricaderci di nuovo e serrare la mascella ogni volta che sentiva l’istintivo bisogno di intossicarsi con uno di quei minuscoli impacchi di puro veleno.

Correre era una di quelle attviità che le era impossibile da programmare, semplicemente si cambiava e con le solite cuffie alle orecchie si lanciava fino a che aveva fiato in corpo. Uno dei pochi momenti in cui aveva seriamente l’impressione di poter mettere ordine nella propria vita ad ogni passo che aumentava la sua distanza di percorrenza. Il fiato corto e i polmoni che bruciavano dopo un tale sforzo erano un piacevole rimando, sfiancandosi fisicamente riusciva a far tacere anche i pensieri ostinati che le occupavano la mente quando era preoccupata.

Quel sabato era forse uno dei primi giorni in cui le temperature si erano nuovamente rialzate abbastanza da permetterle di non portarsi dietro nulla di più pesante di un paio di leggings e una maglia a maniche lunghe. Per una volta si era decisa a non costeggiare semplicemente l’enorme parco nel centro di Manhattan ma di avventurarsi all’interno di Central Park.

Per una volta aveva bisogno di avere della vita attorno a sé.

Aveva divorato i chilometri senza accorgersene, mentre la musica aveva più volte ricominciato nella sua playlist preferita e si ritrovò a battere i passi sul terreno al ritmo dell’assolo di chitarra elettrica nella parte instrumentale. Il cadenza serrata che le faceva a malapena tenere il ritmo con i propri pensieri. Ben sollevata di riuscire a muoversi senza che la caviglia le dolesse in alcun modo, il pensiero dell’incontro decisamente fuori dall’ordinario di una settimana prima lo aveva ben fissato sopra i suoi fogli da disegno, sparsi in giro per il suo appartamento.

Fu solo dopo aver superato il verde cuore di Manhattan di almeno un isolato che Alexis decise di rallentare fino a fermarsi del tutto. Si piegò leggermente in avanti mentre procedeva con lenti e profondi respiri nel tentativo di riprendere fiato e di far scendere il battito del cuore che sentiva pompare forsennatamente nel suo petto. Sentiva i muscoli rilassarsi finalmente dopo lo sforzo prolungato alla quale aveva sottoposto il suo corpo e i vento gelido che le arpionò il collo scoperto l’aiutò a raffreddare il volto arrossato. Un impercettibile sorriso si fece strada sulle sue labbra dopo che prese un ultimo, profondo repiro.

Non c’era la presunzione di dire che quella scarica di adrenalina autoindotta le avesse risolto i problemi, ma almeno aveva la flebile illusione di aver messo un minimo di ordine nel caos che sentiva essere la sua vita in quel momento.

Lasciò le cuffie nell’incavo del collo e proseguì per un po’ a passo lento, godendosi la tranquillità di quel pomeriggio inoltrato in cui il sole già iniziava a salutare lo skyline di New York. Si passò una mano tra i capelli umidi, portando all’indietro una ciocca troppo corta per la coda che si era fatta e si beò della leggerezza che sentiva nel petto, libera di poter respirare a pieni polmoni senza la sensazione di atroce asfissia. Non aveva particolari pnsieri per la testa e le parole del ritornello di Come alive le ritornarono alla mente, cnticchiandole a bassa voce.

Alexis si bloccò dopo neanche una cinquantina di metro da quando aveva iniziato a camminare, poggiando la mano sul fianco destro che sentiva nuovamente prudere e tirare a causa dell’alta umidità portata dai giorni precedenti. Il tessuto delicato della maglia fece ben poco per alleviarle il fastidio, limitandosi a non peggiorare. Lo prese come un inequivocabile segnale per girare i tacchi e tornarsene filata a casa per un bagno caldo decisamente meritato ma qualcosa attirò il suo interesse. O meglio qualcuno.

Più di qualcuno in realtà. Erano due le voci che sentì provenire distrattamente da una delle stradine che si affacciavano a quella principale su cui si trovava lei.
Ingoiando il nodo in gola improvvisamente formatosi, pensò bene di girare all’istante e allontanarsi quanto più velocemente possibile ma si bloccò. Una delle voci le giunse chiara e limpida al suo orecchio, ci mise qualche secondo ma la ricollegò velocemente. Alexis sgranò gli occhi quando un brivido lungo la schiena la percorse fino alla punta dei piedi. Passò indecisa il peso da una gamba all’altra prima di guardarsi per un attimo intorno, libera da ogni sguardo indiscreto, dirigendosi verso la stradina che aveva attirato il suo interesse.

Fece capolino dall’angolo dell’edificio, avanzando con cautela nel vicolo illuminato tenendosi l’avambraccio destro stretto al petto in un moto radicato ed istintivo. Il fastidio al fianco si era trasformato in un irritante pulsare continuo, seguito dall’avambraccio destro che sentiva bollente sotto il proprio tocco. La sua parte razionale era consapevole di come quella reazione non fosse altro che la paura di ripetere lo stesso incontro dell’ultima volta, quando il vicolo in cui si stava addentrando era mal illuminato come quello della volta prima. Ma la sua parte irrazionale non poteva fare altro che inondarla di spiacevole ondate di paura con l’unico istinto a gridarle di girare i tacchi e allontanarsi il prima possibile.

«Lo avrei messo a terra in un secondo!» fu la feroce protesta che raggiunse le orecchie di Alexis quando notò un inconfondibile quanto coriaceo carapace gigante a meno di una decina di metri da lei, che le dava le spalle.

«E avremmo rischiato di venire scoperti, solo perché ti senti tanto superiore da poter pensare di fare tutto da solo…» replicò l’altro alzando di poco la voce ma zittendosi man mano che avvertì una terza presenza vicino a loro. Sguainò una delle due katane saldamente ancorate dietro il suo carapace e azzerò con un balzo la distanza che lo separava dall’ospite inatteso prima di accorgersi che non era altro che la strana ragazza della settimana prima.

Alexis arrancò indietro all’improvviso, presa alla sprovvista dallo scatto repentino ma inconsapevole della direzione verso cui indietreggiava, finì con lo sbattere la schiena al muro. Aderì perfettamente alla parete che aveva dietro di sé, mentre sentiva il battito forsennato del proprio cuore risuonarle prepotentemente nelle orecchie. Serrò istintivamente gli occhi mentre il respiro le si mozzò in gola anche se nulla si mosse attorno a lei. Aspettò qualche istante nel completo silenzio mentre sentiva il suo respiro accellerato ripercuotersi nel vicolo come se tutto il mondo si fosse improvvisamente acquietato.

Aprì timidamente un occhio e sentì tutta l’ansia accumulatasi nel suo corpo venire ributtata fuori con il profondo respiro che ne conseguì. Davanti a lei non c’era nessun pazzo di turno che si divertiva a fare il ninja, o qualcuno pronto ad aggredirla, di nuovo. In quel momento in effetti i tratti rettiliani della creatura di fronte a sé, l’eccentrico lembo di stoffa azzurro a ricordargli il nome di Leonardo.

La tartaruga di fronte a lei la osservava con una punta di divertimento, aveva rimesso a posto da un pezzo la fidata arma da taglio ed era indietreggiato di un paio di passi, rispettoso. Raffaello rimase invece al suo posto, poco più indietro di Leonardo. Rivolse un’occhiata contratta ad Alexis ancora rannicchiata a terra ma non emise un fiato, ancora risentito per l’ennesima litigata. Non capiva proprio perché si ostinassero a metterlo in coppia con Leo quando tutti e quattro sapevano quanto poco buon sangue scorresse tra i due, quando non erano solo diversi nel modo di affrontare i nemici ma agli antipodi nei tratti caratteriali.

«Stai bene… Alexis… è bello rivederti» disse impacciato Leonardo, non trovando esattamente le parole. Normalmente era difficile farlo cadere in una situazione in cui non fosse lui stesso sicuro di cosa dire, sempre con qualcosa di adatto e certo. Scrollò poi leggermente le spalle quando avanzò di un paio di passi misurati, porgendo la mano ad Alexis per aiutarla ad alzarsi.

Accettando leggermente titubante l’aiuto, Alexis si rimise in piedi pulendosi i vestiti sporcatisi quando si era buttata a terra senza pensarci due volte. Si accorse poi in quel momento della temperatura di Leonardo, decisamente più calda confrontata con la sua mano infreddolita dal troppo tempo passato fuori a correre senza una giacca a ripararla adeguatamente dal vento.

«Sto bene, sto bene -ripeté un paio di volte prima di accorgersi di un dettaglio, -ma dove sono… Michelangelo e Donatello, giusto? Siete da soli?» domandò improvvisamente accorta della mancanza delle altre due tartarughe. Non venire accolta dall’entusiasmo del più giovane la fece quasi sentire in colpa.

Leonardo annuì leggermente prima sentire i passi pensanti del fratello dietro di sé. Girò un poco la testa rivolgendogli uno sguardo duro da sopra la spalla, sguardo che venne recepito e prontamente ignorato da Raffaello, decisamente più concentrato sull’umana  dall’aspetto decisamente più minuto rispetto a loro.

Non poteva dirsi particolarmente esaltato nel vederla, Raffaello era lungi dall’anche solo ammettere una simile cosa, era piuttosto vero il contrario invece. Non c’era la stessa ostilità innata che aveva provat la prima volta che l’aveva vista, disagio nato essenzialmente dal sentirsi violati in quella che doveva essere la parte più intima della loro vita. La loro casa era stata violata da un’umana che, a dispetto di quello che si sarebbe aspettato, non aveva avuto un comportamento normale, statisticamente parlando.

Aveva trovato Alexis come una semplice ragazzina capitata di lì per caso, per quanto potesse risultare improbabile che qualcuno sano di mente si butti in una profonda esplorazione delle fogne di New York. Decisamente inusuale quando poi la più grande leggenda metropolitana riusciva a scoraggiare anche i più audaci. Gli alligatori delle fogne sapevano incutere un certo timore tra gli umani.

Raffaello colse di nuovo lo sguardo attento di Alexis su di sé, come la prima volta che si erano visti. Lui non si era presentato, ancora risentito di quella violazione imperdonabile soprattutto da parte di chi li avrebbe sicuramente giudicati come degli scherzi della natura se non peggio. Giudizio che non era arrivato da parte della ragazza, che al contrario era rimasta molto più controllata del previsto, impossibile capire se stesse tremando per il freddo a causa dei vestiti bagnati oppure per la paura ma poco importava.
Li aveva trattati come esseri viventi, lo sguardo curioso su di loro mentre li aveva scrutati a dovere e centrati in poco tempo. Non era certo una reazione che si sarebbe aspettato e, oonestamente, non riusciva ad accettarlo.

Lo stesso atteggiamento di Alexis in quel momento era un riflesso esatto di quello di Leonardo e il suo, erano tre semplici individui di cui non c’era assolutamente nulla di anormale. Tutti quanti sembravano ignorare deliberatamente la palese anormalità della situazione ma non sembrò necessario rompere quella piccola bolla venutasi a creare.

Fu in un secondo momento che Raffaello colse lo sguardo di Alexis cadere sui Sai che portava saldamente ancorati alla cintura in vita. Non doveva averli notati prima. Gli occhi verdi erano completamente ipnotizzati e seguivano con attenzione la forma sinuosa di quelle armi, ne ripercorreva il profilo con attenzione al limite del maniacale.

Solo quando lo sguardo si spostò poi su di lui, incrociando il suo sguardo, si accorse del sorrisetto che le increspava le labbra morbide.

«Cosa c’è, vuoi rimbeccarmi di nuovo di volervi solo scattare una foto?» domandò retoricamente Alexis, anticipando qualsiasi cosa stesse per dire Raffaello.

L’unica risposta di cui la degnò fu un semplice sbuffo mentre incrociò le braccia al petto e voltò lo sguardo dall’altra parte. Un mezzo sorriso divertito increspò le labbra di Alexis che rimase ammaliata dal tentativo di affrontare una situazione come quella nel modo più infantile che l’essere umano potesse conoscere: indignarsi senza un motivo valido e mettere il broncio. Perché proprio di un broncio si trattava l’espressione corrucciata di Raffaello, chiuso in quel comportamento infantile che cozzava in modo terribilmente dilettevole se paragonato all’importanza delle sue dimensioni nient’affatto contenute. Se la durante il loro primo incontro aveva avuto l’impressione che fosse Michelangelo il più giovane del quartetto, in quel preciso momento la situazione sembrò essersi ribaltata.

Per una frazione di secondo dubitò persino di aver sbagliato a cogliere i segnali del suo atteggiamento.

Ma non aveva sbagliato affatto. E aveva colto in pieno quando anche quella volta intuì come il problema fosse l’immenso bisogno di provarsi e mettersi in esame. Avere qualcuno costantemente pronto a tarparti in ogni eccesso non era esattamente la sensazione di libertà che aveva bisogno di provare, sensazione acuita in modo atroce dalla testardaggine cronica e radicata nel suo carattere.

Raffaello storse leggermente la bocca, irritato, «Mi sembra di sentire di nuovo Leo. Me ne basta uno come lui»

A quella frase calò il silenzio tra i tre, silenzio in cui Raph osservò Alexis e Leonardo scambiarsi uno sguardo di totale attonimento. Si erano visti solamente in due occasioni ma parve palese decretare come il loro modo di fare fosse estremamnte compatibile e simile tra loro, cosa che non fece altro che irritare ancora di più Raffaello, già stufo di doversi sorbire i continui ammonimenti per ogni decisione presa di testa. Non aveva decisamente bisogno della prima umana di turno anche a ricordargli una cosa simile.

«Bene, - esclamò semplicemente Leonardo, ignorando l’ultimo commento del fratello e molcelando un’improvvisa espressione compiaciuta e soddisfatta, -visto che ti senti sempre all’altezza di poter agire da solo, questa è una buona occasione per dimostrarlo, Raph. Riportala sana e salva a casa» e con quell’ultimo ordine Leonardo si dileguò prima di poter anche solo sentire i pensieri di protesta nati immediatamente nella testa di Raffaello.



--- Note ---
Note di corsa che sono in ritardo per l'Uni... capitolo un po' più lungo del solito e spero di mantenere questa lunghezza, avrei preferito aggiungere qualche dialogo in più ma descriverli mi stava prendendo tantissimo e ho preferito lasciarlo un pelo più introspettivo del previsto. Non vedo l'ora di vedere l'evolversi della storia con il mega progetto in arrivo. >/////<

Ciarax

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
 
                              I will stay until the morning comes
                              I'll show you how to live again
 


«Perché ho l’impressione di essere come una punizione per te in questo momento?» domandò Alexis dopo un paio di minuti di silenzio.

Raph si limitò a distogliere l’attenzione mentre osservava di sbieco la testardaggine di quella ragazza che non ne aveva voluto sapere di tornarsene a casa in maniera normale. Che cosa ci trovasse di entusiasmante nel rischiare la vita tra un tetto e l’altro sinceramente gli era sfuggito, non che avesse comunque intenzione di volerlo sapere, le sue reazioni erano talmente tanto imprevedibili che avrebbe rischiato altri traumi nel breve termine.

Che un essere umano avesse un tale spirito di adattamento era una situazione nuova per la tartaruga. Quando solitamente gli umani che lui e i suoi fratelli incontravano avevano le reazioni più eterogenee, ma nulla che si avvicinasse a quello.

Alexis non era affatto ingenua. Non le ci volle molto per capire come la sua presenza lì fosse, in qualche modo, una fonte di disagio per la tartaruga più imponente tra i quattro fratelli. L’unica cosa che non riusciva a capire era il motivo, il perché di una tale ostilità malcelata e neanche diretta nei suoi confronti. Non c’era stata nessuna frecciatina volta a ferirla da parte di Raph, se non la semplice ed iniziale inimicizia verso qualcuno che avrebbe potuto rappresentare un pericolo.

Teneva ai suoi fratelli. Le parve chiaro.

Che poi lei potesse rappresentare una tale fonte di disagio per una creatura grande almeno il triplo sia in dimensioni ma altrettanto nel peso, le sembrò una barzelletta per un momento. Le sfuggì un sorriso al pensiero, accorgendosi in ritardo dello sguardo corrucciato di Raffaello su di sé, quando non riuscì a soffocare la risatina divertita a quell’assurdità.

Fu stavolta il turno di Raph quello di osservarla confuso. Fino a qualche minuto fa avrebbe giurato che Alexis fosse una persona estremamente timida, eppure quella risata spontanea gli riempì piacevolmente le orecchie. Il naso leggermente arricciato dal divertimento e due ciocche di capelli più corte che le finivano costantemente davanti gli occhi accesi da una scintilla che faticò un po’ a riconoscere.

«Leo pensa di essere il migliore solo perché è il più grande» borbottò Raffaello improvvisamente ricordatosi dei chi fosse la colpa per essersi ritrovato in quella situazione.

«Però non mi sembra il tipo da fare qualcosa solo per ripicca- ponderò Alexis con lo sguardo rivoltò verso il cielo nuvoloso, minaccia di pioggia imminente per il resto della notte. -Capita di travisare quando siamo troppo impegnati a covare odio verso il resto del mondo. Non è facile uscirne»

«Quando trovi un modo per sfogare tutta quell’energia sembra di rinascere -la voce sembrò salire di un’ottava dall’eccitazione, -per me è stata la musica. Un vero balsamo. Certo, non ti risolve tutti i problemi ma senza non saprei come vivere»

Raffaello la seguì a pochi passi di distanza, quasi imbambolato dalla serenità con cui si muoveva da un tetto all’altro dei palazzi di New York mentre ritornava con calma la propria casa. Dal tono con cui parlava non fu neanche molto certo che Alexis prestasse attenzione a dove mettesse i piedi. Dovette accertarsi a più riprese che non mettesse disgraziatamente un piede in fallo, facendosi male. Leonardo gliel’avrebbe fatta pagare.

«Potresti venire, sai? La musica sa essere un vero toccasana, ho alcuni album che potrebbero piacerti…» il tono spensierato con la quale parlò sorprese un poco Alexis stessa.

Era da quella mattina che per una volta si sentiva diversa. Non seppe quantificare se in positivo o in negativo. Solo diversa. Attribuì quello strano ed insolito buon umore alla scarica di endorfine dovute alla corsa piuttosto recente, ma era da fin troppo tempo che non riusciva a sentirsi così a suo agio con qualcuno. Le sembrò una situazione tanto inebriante da farla quasi intossicare.

Raph si fermò all’improvviso, lasciando Alexis proseguire di un paio di passi prima di fermarsi a guardarlo con un’espressione interrogativa, «Si può sapere che cosa speri di ottenere da questo? Non lo vedi… che cosa sono?»

Il silenzio calò sui due. Raffaello aveva raggiunto il limite, non sopportava quella che continuava a pensare come una presa in giro nei suoi confronti e di quella dei suoi fratelli. Per quanto potessero essere limitate le sue esperienze sapeva quanto l’essere umano sapesse essere crudele e cinico nei confronti del diverso, di quello che non rientrava nella sua normalità statistica.

Vide il volto di Alexis drenato di ogni traccia di serenità. Distolse per un attimo lo sguardo, afferrando con tenacia il braccio destro e stringendo l’avambraccio in modo quasi convulso. Raffaello si domandò cosa volesse indicare quel suo gesto nato quasi istintivamente, perché non ne capiva il senso. La maglia a maniche lunghe gli impediva di vedere cosa si nascondesse al di sotto e gli rimase solo la fantasia per dare una risposta a quel suo quesito irrisolto.

«Una volta ero talmente spaventata che ho urlato contro i miei che erano solo preoccupati per me. -disse d’un tratto, mantenendo il tono di voce basso, -Lo sapevo che erano in pensiero ma ero arrabbiata perché avevo paura. E mi sfogavo su di loro per la rabbia che provavo nei miei confronti»

Tutta l’allegria nella voce di Alexis era svanita, soppiantata da un tono più serio, pacato. Non c’era accusa, non c’era un secondo fine. L’aveva guardato dritto negli occhi quando aveva detto quelle poche parole, cariche di sincerità nei suoi confronti.

Il volto era rimasto una maschera granitica. Il rossore dovuto al freddo fu l’unica cosa ad imporporagli delicatamente la punta del naso lentigginoso.

Alexis detestava quando qualcuno sminuiva le sue intenzioni, quando non le consideravano sincere o che nascondessero in realtà secondi fini. In altri momenti si sarebbe irritata, avrebbe anche probabilmente urlato. Ma quella non era una situazione normale. Fin dall’inizio non lo era stata e Raffaello non rientrava nella media di persone che si potevano incontrare solitamente.

Era incredibilmente testardo. Cocciuto. Arrogante. La spavalderia dietro la quale si nascondeva era solo un modo per pompare quell’ego che era troppo fragile se fosse stato esposto agli altri. Il bisogno di paragonarsi e la sensazione di non essere mai abbastanza. Non aveva bisogno di parlare chissà quanto tempo con lui per capire come quella non fosse altro che una solida corazza ben costruita. Riccamente affinata con anni di difficoltà e pazienza. Tanto imponente nelle dimensioni, ma tanto fragile dando uno sguardo più attento e da vicino.

Alexis si avvicinò di un paio di passi, accorciando visibilmente le distanze tra i due. Notò lo postura di Raffaello farsi immediatamente tesa, serrando la mascella prima di distogliere lo sguardo. Si fermò. A meno di un metro da lui.

Era a disagio. Era lei che lo metteva a disagio.

Aspettò paziente che Raph le rivolgesse di nuovo lo sguardo, timidamente riportandolo sulla figura minuta in confronto a lui. Alexis lo guardava con pazienza, senza fretta e con un piccolo e rassicurante sorriso ad increspargli le labbra leggermente screpolate a causa delle temperature rigide.

«Il peggio – mormorò in un sussurro, -è quando cadi tanto in basso da non pensare di poterti rialzare. Tutto intorno continua a muoversi e tu sei li. Fermo. Fuori da tutto. Quando poi capisci che a nessuno importa se tu sarai in grado di rialzarti, impari a fare una scelta» non era un argomento facile, le parole le uscirono forzate e si interruppe più di una volta prima finalmente di rispondere alla silenziosa domanda di Raph. Quando Alexis sollevò la manica del braccio destro finalmente vide cosa tanto la stava tormentando. Almeno in parte.

L’intera parte posteriore dell’avambraccio era cicatrizzato. La pelle appariva difforme per consistenza e colore rispetto a quella della mano, chiara e con poche imperfezioni. C’erano cicatrici ipertrofiche dove l’accumulo di tessuto cicatriziale interferiva e dislivellava la pelle rosata e a tratti più scura come se fosse stata cotta.

Raph si ritrovò a studiare con minuzia il punto di unione tra la pelle sana e quella distrutta, con un andamento irregolare. Fu solo la voce di Alexis a riportarlo alla realtà. Aveva abbassato la mano lentamente e ricoperto il braccio, nascondendolo nuovamente alla vista del mondo. Come se non fosse mai successo nulla, «Perciò per risponderti. Si, lo so. Ma non mi importa»

E così come si era avvicinata, Alexis accennò un sorriso ed indietreggiò. Rimise tra loro un po’ di distanza, chiudendo quella parentesi così come era stata aperta.

Raffaello non osò squarciare ed interrompere nuovamente quel silenzio che per un attimo sembrò aver suggellato la fine della loro conversazione. Se così mal sopportava la sua presenza, allora perché, in quel momento, agognò tanto intensamente di rimangiarsi le parole che aveva sputato prima con tanta acidità? C’era stata solo schiettezza nella sua domanda; eppure, se ne pentì nell’istante in cui colse la figura di Alexis irrigidirsi ad ogni parola. Un colpo inferto con precisione chirurgica ad ogni nuova parola, ogni nuova velata accusa di doppio gioco nei suoi confronti e in quello dei suoi fratelli.

«Non è vero»

Si fermò ad osservarla mentre anche lei smise di camminare. Lo sguardo confuso di Alexis lo costrinse a proseguire.

«Non era quello che volevo dire prima. Con Leo. Non mi hai dato il tempo di parlare» replicò con una smorfia Raffaello, spiazzato dalla risata divertita della ragazza accanto a lui.
Come se quel piccolo sfogo non fosse mai esistito. Una parentesi aperta e chiusasi quella sera stessa, in quel momento, una parte che permise loro di appianare uno dei punti più critici di quel labirintico rapporto. Delicato e su un fragile equilibrio che avrebbe potuto incrinarsi in ogni momento.

Quello era una danza silenziosa che non poteva venire vinta solo da uno dei due. C’era bisogno di fiducia per andare avanti.

«Scusami tanto se non volevo farmi di nuovo accusare di qualcosa che non avrei comunque fatto, -spiegò poi prima di rivolgerli un’occhiata di sbieco, -e poi non mi sarebbe comunque servita a nulla»

«Che vuoi dire?»

«Lo vedrai. L’invito è sempre valido» si limitò a dire serrando le labbra in un sorriso sornione e riprendendo come se nulla fosse il ritorno a casa, passando sopra i tetti in compagnia di un enorme tartaruga mutante.

Tutto normale.



--- Note --- 
Ero onestamente indecisa se pubblicare o meno stasera primadi crollare a dormire vista la giornata che mi aspetta domani. Ma mi è arrivata una bella scarica di ispirazione e ho voluto approfittarne.
Il capitolo è più corto del solito ma non mi era sembrato necessario aggiungere acqua al brodo, solo per onor delle quattro pagine minime.

Se sia Raph o Alexis a cercare di mettere una pezza nel loro rapporto altaletante non ne ho idea.


Ciarax

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII
 
 
                              I was alone, I took a ride
                              I didn't know what I would find there
                              Another road where maybe I could see another kind of mind there
 



Giornata stressante? Sarebbe stato un eufemismo definirla così. Anche se oramai ci era abituata da quando era andata a vivere da sola, questo non significava che avesse sviluppato una certa resistenza a ciò.

Come se il giorno del proprio compleanno non fosse altro che una occasione irripetibile e unica nella vita di ogni genitore, tanto da farli diventare estremamente attivi in quel periodo. Alexis sperò ingenuamente che una volta messa un po’ di distanza dai suoi le cose si sarebbero acclimatate, ma la chiamata della durata minima di quattro ore che aveva ricevuto quella mattina ad un orario troppo presto di certo l’aveva fatta ricredere.

Non era stata neanche definibile una conversazione, visto il monopolio che la madre aveva preso da quando aveva accettato la chiamata. Così assorta nel tenerla aggiornata su qualsiasi novità fosse loro successa in quei mesi, sui grandi risultati della sorella che non sentiva da anni e su qualsiasi pettegolezzo le venisse in mente. In altri momenti sarebbe stata ben in grado di sopportare gli eccitati sproloqui della madre ma in quel momento aveva distrattamente ascoltato una parola ogni dieci.

Senza la solita bomba insulinica di caffè al mattino, il suo cervello si rifiutava di macinare.

«E fatti sentire più spesso! Ogni volta c’è da fare un avviso di scomparsa solo per sapere come stai» la redarguì la madre.

Alexis mugugnò una flebile risposta prima di sedersi sul bancone della cucina e poggiare la fronte sul braccio, coprendo il sole mattutino che faceva cenno d’entrata dalla finestra. Sentì solo altre vaghe raccomandazioni prima che qualcun altro prendesse di nuovo la parola.

«Ho provato a fermarla ma non ci sono riuscito, Lexi» si scusò con una mezza risata la voce dall’altro capo del telefono.

Alexis accennò un sorriso divertito senza alzare minimamente la testa, «Pensavo che oramai si fosse rassegnata, ma ha la stessa energia di sempre»

«Non hai ancora preso il caffè, vero?»

«In quattro ore non penso che la mamma abbia avuto il tempo di respirare, anzi sono sicura che non abbia respirato neanche una volta -borbottò Alexis schiarendosi la voce, -Oggi sono a riposo, il caffè poteva aspettare, papà»

La bassa risata che le raggiunse le orecchie le strinse leggermente il cuore per la nostalgia, «Sei già con il naso nella scatola del tuo regalo»

Alexis sorrise a sua volta, senza replicare. La conosceva bene come conosceva ogni tasto e fessura nel suo pianoforte, come poteva sbagliarsi? Una delle pochissime persone con cui non si sarebbe mai stancata di parlare. O di suonare. Era solo al padre se doveva la scoperta del suo talento e della sua passione per la musica. Passione condivisa e fortemente alimentata.

La ragazza gettò a malapena un’occhiata di sbieco allo scatolone arrivato giusto il giorno prima, enorme e che giaceva abbandonato ai piedi del divano. Metà del contenuto riversato sul tavolino, nella sua camera o rimasto al suo interno in attesa di venire spulciato con attenzione.

«Stai cercando di fare spazio in casa? Mi hai spedito quasi tutta la tua collezione»

«La metà di quei vinili sono tuoi in realtà. L’altra metà era la tua preferita, non c’era nessun altro a cui avrei potuto darli»

Probabilmente parte di quella collezione l’avrebbe costretta a comprare un altro scaffale, non sapeva più come organizzarli ogni volta nel suo maniacale ordine di preferenza. Con il freddo che c’era fuori decise di trascorrere il resto della mattinata e del pomeriggio a passare in rassegna ogni singolo album o singolo che tanto aveva amato negli anni. Era veramente difficile in quel momento trovare un punto libero nel proprio appartamento che non fosse sommerso di vecchi vinili dalla custodia consunta e vissuta, spartiti che aveva abbozzato quando era una ragazzina oppure disegni che nelle ultime settimane le avevano invaso la mente.

La chiamata col padre finì in poco tempo e con calma Alexis si preparò la prima e lunga tazza di caffè per quella mattina ancora tutta da snocciolare. Anche solo guardare le
condizioni del soggiorno non le faceva venire voglia che appisolarsi sotto il piumone per il resto della giornata. Avrebbe comunque di nuovo trascorso gran parte della notte in bianco, tanto valeva approfittarne il prima possibile.

Buttò giù un paio di biscotti ripieni di marmellata, si pulì le poche briciole sopra la vecchia tuta e si appostò accanto all’enorme scatolone. Passò con occhio critico tutti i vinili su cui aveva gettato uno sguardo la notte prima: c’erano tutti quelli che avevano segnato la sua infanzia quando ancora non capiva il funzionamento del giradischi e aveva finito con il romperne più di uno per la testardaggine del voler imparare da sola. Altri erano più recenti e meno rovinati ma fu uno che colse immediatamente la sua attenzione.

I colori erano sbiaditi e le scritte erano consunte in più punti ma le parole chiare del nome dei Beatles non poteva essere confusa. Alexis osservò per un attimo quella vecchia copertina di cartone prima di tirare fuori il vinile, con la punta delle dita a sfiorarne ogni incrinatura e minima imperfezione sulla superficie nera del disco. Ogni ammaccatura, un ricordo particolare.

Era solo una scarica di adrenalina quella che le pervase il corpo al sentire il ritmo allegro e serrato dei piatti della batteria in sottofondo, mosse delicatamente la testa al ritmo delle note lasciando che Got to get you into my life riempisse il silenzio che aveva regnato fino a quel momento nel suo appartamento. Erano anni che non ballava al ritmo di quella canzone ma non se ne vergognò ad improvvisarne di nuovi passi.

Per poco non cadde quando il piccolo cincillà corse tra le sue gambe, facendole perdere l’equilibrio. Faye scorrazzava libera da quella mattina per l’appartamento e nel sentire quella musica ritmata, prese a correre emettendo i soliti squittii eccitati. Alexis scosse la testa con un sorriso, raggiungendo lo scatolone e trovando il cincillà all’interno di uno dei suoi vecchi rollerblade.

«Ti manca venire con me sui roller, Faye?» domandò divertita Alexis, prendendo il roditore dal morbido pelo grigio chiaro e coccolandolo un po’. Si sistemò gli occhiali con la punta delle dita prima di dondolare di nuovo seguendo la melodia, con Faye tra le braccia.

L’ora di pranzo era passata da un pezzo ed il vinile rimase a girare per l’ennesima volta da oramai ore filate, ogni volta risistemava la punta del lettore e il disco ricominciava da capo. Aveva sistemato gran parte dei suoi album preferiti e ne spulciò di nuovi su cui ancora doveva mettere lo zampino.

Se fosse stata da sola quel pacco non lo avrebbe mai portato sana e salva fino al suo appartamento. Ebbe quasi l’impressione che tutti i suoi ultimi dieci anni fossero stati impacchettati lì. Ricordi belli e brutti.

C’erano anche i suoi vecchi spartiti. Melodie improvvisate, canzoni mai finite. Dediche mal riposte.
Scorrendo sul suo vecchio quaderno ritrovò una delle ultime canzoni che aveva scritto. Acerba e affrettata, ma piena di tutti i sentimenti che provava anni fa. In più punti i segni della penna cancellavano interi versi che poi aveva riscritto a margine, con delle note diventatele incomprensibili vista la sua pessima grafia. Ma la dedica era chiara.

Alexis serrò la mascella. Quel semplice foglio le fece venire alla gola tutti i pochi anni di rabbia nera e accumulata che l’avevano portata ad andarsene il prima possibile per ricominciare da un’altra parte. Il fianco destro prese improvvisamente a pulsare sotto la maglia a maniche corte, nuovamente sensibile al minimo sfioramento. Sentiva i lembi tirare, improvvisamente bollente al solo tocco.

Con un gesto secco strappò la pagina, gettandola in un angolo del soggiorno. Sospirò, stringendo il ponte del naso tra le dita quando la testa aveva ripreso improvvisamente a pulsare dolorosamente tra le tempie.

Ci mise qualche attimo ad accorgersi degli squittii improvvisamente allarmati del cincillà, girandosi nella sua direzione si bloccò, gelata sul posto. L’ombra alla sua finestra per poco non le fece venire un infarto. La figura imponente appollaiata di fronte il suo soggiorno avrebbe potuto tranquillamente essere una seria minaccia, se non per l’inconfondibile maschera rossa sul volto che le fece accennare un piccolo sorriso tirato.

«Di solito si bussa quando vuoi entrare in casa di qualcuno. Rimanere a spiare dalla finestra è maleducato, oltre che inquietante. -lo rimbeccò Alexis con un sopracciglio inarcato, -per poco non mi hai fatto venire un infarto»

Raph entrò con calma nell’appartamento, lento e calcolato nei movimenti, «Mi sarebbe dispiaciuto interrompere il tuo ballo» replicò sornione, dando poi sguardo attento al soggiorno, visto di sfuggita solo pochi giorni prima.

Dall’interno sembrava decisamente più accogliente. E la prima cosa che gli saltò all’occhio fu lo scaffale che occupava una buona porzione di parete, ricolmo di vinili e cd vari di qualsiasi genere, dai vecchi intramontabili alle nuove uscite. Scorse addirittura qualche nome impronunciabile e forse oramai anche irreperibile. Il resto dell’appartamento invece in quel momento versava in una buona dose di caos, dagli spartiti sparsi per il divano ad alcuni vecchi album di disegno e quaderni di musica precariamente impilati tra loro.

Raffaello sentì lo sguardo di Alexis su di sé mentre girava curioso per il soggiorno, lasciandolo esplorare quel poco quando lo aveva invitato ad entrare. Non sembrava particolarmente sorpresa di vederlo lì ma neanche la poteva definire allegra come al solito. Il piccolo sorriso dall’aria tirata che gli aveva rivolto prima di farlo entrare gli fece mettere in dubbio semmai la sua presenza lì fosse benvenuta, ma poi ci ripensò. Non le sembrava il tipo da invitare qualcuno a casa propria solamente per i soliti convenevoli delle amicizie superficiali.

Alexis doveva essere turbata per qualcos’altro. E forse la risposta risiedeva proprio nel foglio che poco prima aveva gettato con tanta rabbia in un angolo della stanza.

Scoccò un’occhiata di sbieco verso la ragazza, con l’espressione corrucciata in netto contrasto a quella rilassata e divertita che aveva prima mentre girava per l’appartamento con il piccolo roditore in braccio. Forse non era stata proprio la cosa più giusta da fare, specialmente nei confronti di quella che si stava rivelando la nascita di una nuova amicizia. Ma non poté fare a meno di titubare per una buona mezz’ora sul ciglio della sua finestra, nascosto nell’ombra, valutando e rimuginando.

«Stai traslocando per caso? Qui dentro c’è un casino» fischiò Raph, cambiando radicalmente argomento e cercando di distrarre Alexis. Non le piaceva quando aveva la fronte aggrottata per qualche dispiacere, la preferiva con lo sguardo curioso acceso dalla scintilla di emozione con cui l’aveva già vista.

Alexis lo squadrò per un secondo prima di scuotere la testa, accennando questa volta un sorriso genuino. Si spostò una ciocca di capelli ribelli dietro le orecchie e rimise il piccolo cincillà dentro la sua gabbia enorme, «Traslochi di compleanno. I miei avranno deciso di fare qualcosa con la mia vecchia stanza e mi hanno mandato quasi tutta la mia roba»

Raph aggrottò la fronte confuso, «Compleanno? Oggi è il tuo compleanno?»

Alexis annuì ma non fece in tempo ad aggiungere altro che notò lo sguardo e l’attenzione della tartaruga improvvisamente rapiti da qualcosa all’interno dello scatolone. I suoi vecchi roller blade.

«Ci sai andare?»

La ragazza annuì di nuovo, «Sono anni che non ci vado ma penso ancora di saperci andare -si fermò quando vide la curiosità di Raph aumentare all’improvviso, -quando vuoi possiamo andare a farci un giro, se ti va»

Fu nell’arco di pochi secondi che la voce di Alexis le morì in gola, sostituita ben presto da una scintilla d’eccitazione. La stessa espressione che Raph le aveva visto almeno una volta ogni volta che rimetteva da capo la stessa canzone da quella mattina. Mosse un poco i fianchi e la testa con il ritmo movimentato della melodia.

Prese alla sprovvista Raph quando iniziò a canticchiare, il testo lo conosceva a memoria e anche ad occhi chiusi si muoveva senza problemi nell’appartamento. Per una volta era grata di avere compagnia in quella giornata. I due si erano scambiati poche parole quella sera ma Raph non sembrò particolarmente turbato da ciò. Aveva intuito bene quando lo aveva adocchiato come uno che non parlava molto facilmente.

«Sei certo più intonata di Mickey» commentò semplicemente la tartaruga, poggiata mollemente al muro di fianco a sé, lasciando campo libro di movimento ad Alexis. L’aveva osservata muoversi mentre cantava, era leggermente scoordinata ma se la cosa la divertiva non c’era nulla di male. Compensava senza meno con la voce.
Raph rimase un attimo spiazzato quando l’aveva vista cambiare atteggiamento in meno di un secondo, il turbamento che le aveva increspato i lineamenti sembrò essere stato totalmente cancellato, sostituito dal divertimento di essere lì. Con lui.

«Quando vuoi, io ci sono» disse semplicemente Raph, godendosi il momento esatto in cui Alexis ricollegò le sue parole all’offerta di poco prima. Il suo volto si illuminò nuovamente e anche da dietro la montatura degli occhiali non fu difficile scorgere il barlume di gioia. Era quello lo stesso effetto che la musica provocava su di lei e quel pensiero fece accennare un sorriso a sua volta in Raffaello.

Quella ragazza era decisamente strana.



--- Note ---
Questo capitolo è stato un parto. Non è andato esattamente come avrei voluto ma Raph è alquanto ostico ad attenersi al copione che avevo in mente per lui e ha deciso di prendere le cose in maniera diversa.
Prima o poi finirò ad un centro di salute mentale o in qualche remoto angolo nel reparto psichiatrico.


Che altro dire... è un piccolo tributo visto che il compleanno di Alexis è il 27 novembre e ovviamente questo capitolo esce con un giorno di ritardo. Ma d'altronde ieri neanche esisteva quindi, non parlo che è meglio...
Non so onesamente se sto prendendo le cose troppo lateralmente, ho la seria impressione di star faacendo uno dei più lenti slow-burn della storia (anche se Raph l'occhio ce lo butta eh. La tartina non è cieca a quanto pare. XD)

Gia piango pensando al prossimo capitolo.

Ciarax

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII
 
                              Like a candle in the night
                              Fighting just to stay alive
 


Respiri profondi.

Ecco la prima cosa che insegnano quando c’è bisogno di affrontare da soli un attacco di panico. I consigli e le tecniche erano sempre quelle, Alexis avrebbe saputo elencarle a memoria in ordine di efficacia. Ma con la mente annebbiata dalla paura e le ondate di adrenalina che il suo cervello continuava a produrre non facevano altro che alimentare lo stato di allerta del suo corpo.
Sentiva il proprio respiro corto e frammentato rimbalzare tra le pareti altrimenti silenziose del suo appartamento completamente avvolto dal buio. Era crollata a terra prima di riuscire ad accendere anche solo una lampada, mentre era rannicchiata con la schiena contro il muro e gli occhi serrati.

Aveva provato già diverse volte a convincersi che sarebbe passato nell’arco di pochi minuti, non era la prima volta che le capitava. Ma neanche contare il respiro cercando forzatamente di rallentarlo l’aveva aiutata. Dovette rinunciarvi dopo pochi minuti. Sentiva i muscoli tendersi allo spasmo per pochi secondi prima di rilassarsi e ritendersi nuovamente. Non riusciva a muoversi da quella forzata posizione rannicchiata a terra, con le ginocchia strette al petto e la testa incassata. La pelle tirava. Avrebbe voluto tagliare con un coltello tutto quell’ammasso cicatriziale che le causava tanto fastidio al minimo pensiero, al minimo accenno di umidità.

Continuava ad essere il rimando costante di quello che aveva cercato in tutti i modi di eliminare dalla sua vita. Andare a vivere da sola, cancellando e mettendo fisicamente distanza tra lei e gli anni che non voleva in alcun modo ricordare. Per un po’ aveva funzionato. Ma l’occhio sul suo corpo le cadeva ogni mattina. Non poteva cancellare i segni sul suo corpo di quel rimando costante.

Non si accorse neanche del lento aprirsi della sua finestra, completamente assorbita dalla paura che la stava lentamente divorando. Ed era proprio in pieno buio che Raph aveva trovato l’appartamento di Alexis. Era passata a malapena una settimana da quando aveva iniziato a presentarsi con cadenza regolare ad orari improponibili di fronte la sua finestra. Non era neanche più tardi del solito, quando aveva imparato gli assurdi orari di lavoro che spesso l’avevano fatta staccare anche verso le due o le tre del mattino.

Le aveva tenuto compagnia nel tragitto di ritorno, seguendola come un’ombra sui tetti dopo l’ultima disavventura notturna di almeno venti giorni prima. Sentiva il petto infiammarglisi di rabbia al pensiero che gente del genere fosse libera di girare per le strade ma ringraziò silenziosamente di non conoscere i volti di quei luridi. Anche se avrebbe fatto un favore al mondo togliendoli dalla circolazione.

Raffaello riportò forzatamente l’attenzione nell’appartamento di Alexis. Lo scandagliò con occhio attento ma nel soggiorno sembrava essere tutto a posto, il solito disordine tra i quaderni con gli spartiti aperti disordinatamente sul tavolino di fronte il divano e i piatti impilati in precario equilibrio sul ripiano della cucina. Passò con attenzione vicino la gabbia di Faye, addormentata già da un pezzo mentre assumeva la solita forma di una palla dal morbido pelo cenere.

L’occhio cadde anche sui quaderni aperti. Erano a malapena illuminati dalla luce che proveniva dalla strada ma non gli ci volle molto per capire come si trattasse di un’altra canzone. Il testo era cancellato in più punti e verso il fondo della pagina erano annotati alcuni accordi e un pentagramma improvvisato per un particolare passaggio armonico.

Aveva una pessima grafia. Faticava persino lei a leggerla alle volte, ma le parole del testo erano abbastanza chiare. Il ritornello in particolare. L’aveva cancellato con un tratto rabbioso, più e più volte. Non sembrava andarle a genio quella parte e aveva lasciato solamente due brevi versi a margine.

Forse Alexis si era già addormentata. Se quel giorno era andata leggera con la caffeina non era improbabile che fosse crollata di sonno nel mezzo di qualche attività. L’aveva scoperta nascondere un lato leggermente più chiacchiericcio quando era particolarmente spensierata e non sarebbe stata la prima volta che cadeva addormentata mentre gli raccontava una delle sue rocambolesche ultime attività con gli sport più disparati.

Per un attimo Raph si domandò come potesse amare tanto il nuoto se a malapena portava magliette a maniche corte. Riuscire a scorgerle qualche lembo di pelle in più che non fosse del collo o delle mani era veramente un’impresa.
Raffaello si bloccò nel mezzo dell’appartamento, quando un piccolo rumore nell’altra stanza lo aveva allertato. Tese i muscoli mentre estrasse con estrema lentezza i propri sai, stringendoli e sentendone la fredda consistenza del metallo sotto la pelle. Poteva benissimo trattarsi della sua fantasia o della sua poca familiarità con gli appartamenti degli umani, ma conosceva abbastanza bene quello di Alexis.

Quel silenzio era innaturale. Pesante. L’appartamento si era fatto d’un tratto claustrofobico.

La porta della camera di Alexis cigolò in modo sinistro, facendo maledire mentalmente Raph quando stava tentando del suo meglio per rimanere il più silenzioso possibile nonostante il disordine che regnava in quell’appartamento e le sue dimensioni imponenti a confronto. Nonostante gli estenuanti allenamenti nell’ombra e all’insegna dell’invisibilità, la tartaruga dovette constatare come muoversi tra i tetti e i vicoli di New York fosse estremamente più facile che cercare di districarsi tra le piccole pareti di un appartamento al quarto piano.

Il letto era sfatto. La finestra era chiusa ma le lenzuola erano state completamente lanciate in aria e giacevano scompostamente a terra per oltre la metà. Mentre anche la porta del bagno era socchiusa, l’occhio di Raffaello cadde sulla figura rannicchiata con le spalle al muro.

Alexis era immobile. Sentiva solamente il suo respiro accelerato e flebile, ovattato dalla posizione rannicchiata e scomoda in cui si trovava.

 
Cinque cose. Cinque cose che puoi vedere.
Di qualunque natura, l’importante è focalizzarci sopra l’attenzione.

Era quello l’obiettivo. Riportare l’attenzione al presente, uscire da quel limbo che l’attacco di panico procurava al cervello che cadeva in un circolo vizioso da cui non era facile venire fuori. Ed erano cinque cose che Alexis stava faticando a scorgere in quel momento, sia perché teneva ancora la testa premuta contro le ginocchia ma anche a causa del buio; quando le finestre della sua camera non facevano entrare abbastanza luce se non un flebile e fioco bagliore sfocato.

Alexis alzò gradualmente la testa, mettendo a fuoco i suoi piedi. Scalzi e infreddoliti. Detestava dormire con i calzini e in quel momento sentiva il proprio corpo venire percorso da brividi di freddo a causa dei riscaldamenti lasciati spenti la notte prima. Due, La coperta buttata a terra. Si era svegliata di soprassalto dopo un incubo e non era riuscita a trattenersi dal cercare di accendere immediatamente la luce più vicina. Tre, la porta. Prima era sicura che fosse socchiusa mentre la vide aprirsi lentamente. Alexis scivolò lentamente ancora di più verso l’angolo più lontano della sua camera, viveva da sola da quasi due anni. Non poteva esserci nessuno lì con lei.
Quattro, una figura imponente. Qualcosa era entrato nel suo appartamento, si muoveva con cautela verso la sua direzione. Cinque, verde. Non era Flynn, i suoi erano marroni e troppo scuri anche solo per mostrare un barlume di emozione. No, li aveva visti di sfuggita e a fatica nel buio della stanza ma erano verdi. Li aveva già visti, screziati e con forti tonalità paglierino erano molto più scuri dei suoi.

 
Quattro cose. Quattro cose che puoi sentire.

Sentiva il proprio respiro accelerato, rapido. Alexis ebbe l’impressione di faticare a immettere aria nel proprio corpo, i polmoni non collaboravano, sarebbe potuta benissimo morire d’asfissia. Ma ce n’era un altro di respiro accanto a lei, più lento. Era leggero, calmo, controllato. Inconsciamente cercò di imitarlo e l’altro parve accorgersene, cambiando impercettibilmente il proprio ritmo e rendendolo più presente e udibile. Stava cercando di adattarsi e guidare quello frammentato di Alexis.

Gli unici altri due suoni che sentì furono il ticchettare dell’orologio e il muoversi leggero del cincillà nel soggiorno. Erano suoni indistinti e di sottofondo rispetto al respiro che sembrò guidarla con calma mentre cercava di riprendere una parvenza di controllo della propria respirazione. Inspira. Espira. Facile.

 
Tre cose. Tre cose da toccare.

Il tatto. Alexis aveva tutti i muscoli indolenziti, le braccia formicolavano mentre le dita dei piedi erano insensibili per il freddo. Allungò appena una mano sentendo la tensione dei suoi piedi scalzi mentre li teneva stretti a sé nel tentativo di scaldarsi.

Il verde davanti a sé. Non erano solo gli occhi. C’era della pelle, al tatto liscia e calda. Era bollente rispetto alle sue dita ghiacciate, mentre lasciava scorrerne la punta delicatamente su quella superficie invitante, viva. Risalì con lentezza quasi estenuante lungo il braccio, sentendo i muscoli tesi sotto il proprio tocco ma ignorando le flebili scariche che le attraversavano il corpo. Cercava piuttosto di memorizzarne ogni incavo, incantata dal riflesso freddo che le restituiva: alcune squame rilucevano di riflessi più verde acqua mentre altre erano molto più sature del verde delle foglie appena dopo la pioggia.

C’era un avvallamento, era risalita lungo il braccio e aveva trovato un piccolo avvallamento. Una sottile linea poco sopra il labbro. C’era una cicatrice, frastagliata ma sembrava guarita da parecchi anni e la pelle era rimarginata.

Era da tanto che non toccava qualcuno.

 
Due cose. Due odori diversi.

Il suo appartamento era disordinato ma c’era un piacevole odore di pulito. L’odore di marmellata era una costante attorno a lei ogni volta che era in casa, quei biscotti ripieni erano la sua passione e forse l’unico punto debole di gola.  L’unica cosa che stonava alle volte era quando arrivava il momento di cambiare e pulire la gabbietta di Faye, il piccolo roditore sapeva farsi sentire nonostante le contenute dimensioni e l’età che avanzava. Ma in quel momento non era l’unico odore su cui Alexis riuscì a concentrarsi.

C’era un odore più forte vicino a lei, meno delicato rispetto a quello a cui era abituata ma non era sgradevole… solo più deciso. Era un odore a cui si stava ancora abituando ma più di una volta invadeva quella che era la sua sfera privata, la sua piccola bolla di pace e di sicurezza. Difficilmente c’era qualcosa che disturbava quella sua quiete. Quell’invasione era iniziata con lentezza, precisione e cautela parsimoniosa.

Raph aveva iniziato ad essere una presenza sempre più costante in quell’appartamento e la casa sembrò adattarsi lentamente a quel cambiamento.

 
Una cosa. Una cosa che puoi assaporare.

Alexis sentì solamente il sapore ferroso misto alla bile nella bocca. Doveva vomitare. Si alzò senza troppi preamboli, catapultandosi nel bagno e buttando fuori tutto lo stress e la paura che in quel momento la abbandonarono come le poche forze rimaste. Si sciacquò, togliendo il sapore amaro che aveva in bocca e scivolò esausta lungo il muro piastrellato del bagno. Il respiro era tornato regolare ma non aveva più le forze neanche di tenere gli occhi aperti. La scarica di adrenalina era finalmente cessata e lasciò il posto alla spossatezza seguente, senza troppi preamboli.

C’era anche Raffaello con lei. Aveva inconsciamente registrato la sua presenza accanto a sé ma si era concentrata solamente sui piccoli dettagli. Una tale vicinanza l’avrebbe mandata in agitazione in altre circostanze, con l’immediata fastidiosa sensazione di bruciore che le ricordava costantemente la pelle offesa.

Individuò a malapena la bandana rossa fare capolino dal ciglio della porta del bagno, l’espressione appena velata di preoccupazione mentre la tartaruga la scandagliò con attenzione. Alexis accennò ingenuamente un piccolo sorriso tirato scorgendo la figura di Raph a poca distanza da lei.

Era riuscita nuovamente a sentire qualcuno a contatto con la propria pelle.




--- Note ---
Capitolo lungo, non quanto avrei voluto ma l'ho sentito parecchio pesante e ho preferito non aggiungere altro alla fine. Probabilmente è stato anche parecchio dettato da un bisogno di sfogo che sento in questo periodo, quindi chiedo venia se risulta un po' sconclusionato e difficile.

Ciarax

 

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX
                              Have you ever felt lost
                              Like you don't matter at all
                              Like you were born just to be scared?
 
 


Essere indipendenti non vuol dire necessariamente riuscire a badare al proprio sostentamento in modo adeguato. Viveva da sola da almeno un paio d’anni ma Alexis aveva avuto fin dall’inizio una pessima routine, dove anche gli orari improponibili del suo lavoro non l’aiutavano affatto.

Era stato un miracolo che durante l’ultima settimana i suoi orari erano stati vagamente paragonabili a quelli del resto della popolazione mondiale. Dall’ultimo incubo avuto però erano quasi due giorni che non dormiva decentemente e le tre del pomeriggio le pesarono come le tre del mattino.

Lo stomaco di Alexis brontolò pigramente quando arrancò con lentezza verso la sala comune della stazione radio, strascicando i piedi a ritmo cadenzato mentre gettava lo sguardo da una parte all’altra del corridoio sperando di trovare il suo obiettivo. Andy. Lo stesso che era tranquillamente poggiato lungo il bancone con una fumante tazza di caffè in mano, appena tornato dalla pausa pranzo.

«E questo cosa sarebbe?» l’uomo inarcò un sopracciglio, l’espressione perplessa di fronte a quell’esiguo fascicolo di fogli che Alexis gli porse senza troppe cerimonie. Aveva colto immediatamente l’umore nero della ragazza ma in quel momento sembrò che anche la semplice respirazione potesse pesarle.

«Dimissioni. Le mie. Me ne vado» telegrafica, la risposta asciutta di Alexis che rese Andy ancora più perplesso.

Perché non glie ne aveva parlato? Si passavano buoni venti anni di differenza, ma erano colleghi ed era quasi due anni che Andy aveva preso Alexis come sua tirocinante prediletta: era sveglia, rapida nel suo lavoro e sembrava sempre intuire quello che andava fatto prima che l’uomo potesse anche solo aprire bocca. Aveva un istinto naturale per la musica e il sonoro. Perché mai avrebbe dovuto mollare così d’un tratto.

«Ho letto, -replicò con pazienza allora, -ma non capisco cosa dovrei farci. Perché vuoi andartene? Così, senza motivo?»

Alexis arricciò appena il naso, infastidita da tutta quella improvvisa insistenza nei suoi confronti. Detestava la gente che sembrava non voler fare altro che farsi gli affari suoi, ficcando il naso dove non avrebbe dovuto ma quella era purtroppo una domanda più che lecita, dovette constatarlo anche lei. Nelle ultime settimane non aveva detto nulla a riguardo, non una parola con un collega, non una parola con Andy.

«Non fa per me. Non è quello che voglio fare, non più» quel giorno cavarle le parole di bocca sembrò ancora più arduo del solito ma il vecchio ingegnere del suono colse una lieve insofferenza nelle sue parole.

E l’aveva lasciata andare. Così. Quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro al suo fianco e Alexis l’aveva passato come al solito, attenta dietro la console e con lo sguardo annoiato ogni volta che la Johnson apriva bocca. Considerando come quella volta fu lo speciale di buone cinque ore di diretta del suo programma… un’ultima giornata d’inferno.

Alexis fu quasi grata della riservatezza di Andy, quell’uomo non l’aveva mai delusa e l’unica occhiata che le rivolse quando gli consegnò tra le mani quel magro plico di fogli quasi le fece rimpiangere la propria scelta. Ma non era quella la sua strada. La delusione di una persona quasi sconosciuta a lei poteva sopportarla, altro discorso erano le delusioni della propria famiglia e di quelli a cui teneva. Ma la distanza le alleviava un po’ il disagio e la pena.

Si sentiva una codarda. L’ennesima dimostrazione della sua incapacità di affrontare le cose a testa alta, sembrava che avesse perso tutto il coraggio leonino di cui faceva sfoggio ed orgoglio negli anni adolescenziali. Quando ancora non si tirava indietro nelle difficoltà, quando ancora non si sentiva una reietta. Un giocattolo difettoso. Ecco quello che era.

Perciò, no. Non poteva rimanere, non poteva lasciare che anche il lavoro fosse il risultato delle sue mille insoddisfazioni personali. Semmai se ne sarebbe pentita più avanti non poteva e non voleva saperlo, aveva solo il bisogno di tornare a vivere la propria vita con il barlume di spensieratezza con cui affrontava ogni giorno… prima di tutto.

«Allen» la voce di Andy la richiamò all’attenzione. Alexis smise di sistemare quel poco che rimaneva nel suo zaino e rivolse uno sguardo verso l’uomo, scostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sicura di volertene andare?»

Il volto di Andy per la prima volta sembrava inquieto, l’espressione solitamente stoica non era rilassata come gli altri giorni ma era teso. Gli occhi scuri la scrutavano con attenzione e indugiarono per un secondo di troppo sul delicato punto ben coperto dal pesante maglione beige di Alexis. Quello non era affatto un buon segno.
Alexis si mise semplicemente lo zaino in spalla e annuì, «Non mi fa bene rimanere qui»

Poco prima di girarsi, sperando di mettere fine a quella tensione che le divorava il petto in una morsa dolorosa, venne afferrata per il braccio. La presa di Andy era delicata ma l’aveva trattenuta per l’avambraccio destro senza pensarci più di tanto.

«Il piccolo prodigio di Chicago, giusto? Non ci guadagni nulla a buttare così un talento innato, Alexis» le parole di Andy erano state sussurrate ad un tono decisamente troppo basso ma Alexis faticò comunque a registrarle.

Il suo corpo si era irrigidito all’istante, il contatto bollente con la mano che la tratteneva per l’avambraccio le mandava pesanti scariche di dolore in tutto il corpo. Avrebbe voluto amputarsi quel braccio seduta stante solo per far finire quella lenta agonia, ma era rimasta lì. Immobile.

Prima che potesse accorgersene si divincolò con uno strattone e uscì dalla stanza senza aspettare un secondo di più. I corridoi erano diventati solo un’immagine sfocata prima che potesse fermarsi mezzo secondo a respirare a pieni polmoni una volta uscita dalla stazione radio dove non avrebbe mai più messo piede. Era fatta. Anche volendo non sarebbe certo tornata a cercare lavoro lì.

Come diamine si era permesso di trattenerla in quel modo e di porgere l’unica domanda che non voleva sentire in alcun modo, da nessuno. Il piccolo prodigio di Chicago. Quel nomignolo le faceva ribrezzo oramai, quando quasi tutti pensavano che il suo cambiamento repentino fosse stato solo dettato da un capriccio infantile. Quelli del Daily Herald erano stati alquanto indiscreti sin dall’inizio e quei giornalisti sembravano avvoltoi pronti a divorare qualsiasi notizia capitasse loro a tiro.

Che una tra le testate giornalistiche più importanti di Chicago si interessasse ai giovani artisti emergenti non era totalmente una novità, piccoli inserti tra le pagine del giornale non erano rare da trovare specialmente nel contesto musicale profondamente radicato e sentito della città. Un polo artistico a trecentosessanta gradi per qualunque genere di arte, dalla musica alla pittura.

Nonostante tutto però non capiva come anche lì qualcuno avesse potuto interessarsi alla disgrazia che non aveva tirato molto scandalo al di fuori della città ventosa. Quelle di solito erano notizie che nascevano e morivano nell’arco di poche settimane, di artisti e geni musicali nascenti non ce n’erano poi così pochi.

Alexis era talmente immersa in quel circolo vizioso di pensieri, alla ricerca di una soluzione, di un motivo dietro quella che le sembrava una disgrazia in quel momento. Non sentiva il sole sulla pelle, non sentiva neanche il freddo che le stava gelando la punta del naso arrossata così come le guance, dimenticatasi di coprirsi con la sciarpa o un berretto di lana.

Doveva solo tornare nel suo appartamento. Rimanere lì fin quando non si fosse calmata, ignorare quelle che sentiva essere come lame puntate alla gola, sull’avambraccio, sul fianco, pronte a trafiggerla. Il respiro era ancora accelerato e neanche il ripetitivo tirare giù le maniche del maglione sembrò acquietarle la sensazione che chiunque potesse vedere quegli orrori sul suo corpo.

Piano terra.

Aveva raggiunto il complesso dove abitava, c’erano solo otto rampe di scale a separarla dalla sicurezza del suo appartamento, del suo letto.

Tirò fuori il cellulare dalla tasca e schiacciò il pulsante di chiamata rapida facendo partire l’unico contatto salvato nella sua rubrica adibito a momenti come quello.

Primo piano.

Sentiva squillare, c’era segnale quindi qualcuno avrebbe risposto. Presto qualcuno avrebbe risposto.

Secondo piano.

Saliva le scale due gradini alla volta senza curarsi di mettere un piede in fallo, quando sperava solo di riuscire a rallentare il battito forsennato del proprio cuore. Il braccio le formicolava e a malapena si rendeva conto di quanto le girasse la testa.

Terzo piano.

La segreteria sarebbe partita già da parecchio, quindi perché non le rispondeva? Aveva ragione ad avercela con lei ma non sentiva di aver avuto altra scelta. Le sembrava di star deludendo tutti. Di nuovo.

Quarto piano.

«Flynn?»

La voce dall’altro capo del telefono si acquietò per un secondo, metabolizzando il pigolio che in quel momento era risultata la voce di Alexis. «Sei in casa?»

Sicuro, calmo, controllato. La voce era sempre così. Flynn era sempre così.

La vista di Alexis si annebbiò per un attimo prima di rendersi conto di come fossero l’accenno di alcune lacrime a rigarle le guance imporporate per il freddo preso sino a quel momento. Alla cieca infilò le chiavi nella toppa ed entrò nell’appartamento senza troppe cerimonie, buttando tutto quello che era di troppo in giro per il soggiorno.

«Si…-si schiarì la gola sentendola bruciare, -si, ci sono»

«Ascoltami bene, non sono lì con te quindi mi devi rispondere chiaramente. Va bene?»

Alexis annuì impercettibilmente prima di ricollegare e dare una flebile conferma vocale.

«D’accordo -concedette Flynn dall’altro capo mentre continuava a parlarle con tono calmo, -mettiti con la schiena al muro, come quando ci nascondevamo da piccoli. Tieni la fronte sulle ginocchia. Conta, conta il respiro. Senti il cuore che rallenta. Lascia stare tutto e concentrati con me, okay?»

«Okay» soffiò incerta Alexis, incapace di alzare a sufficienza la voce senza rischiare di crollare ulteriormente.

Continuò a concentrarsi sulle parole calme di Flynn, lente e scandite con attenzione. Non registrò cosa le stesse dicendo, avrebbe potuto anche parlarle della sua ultima spedizione su Marte e lei non avrebbe battuto ciglio. Aveva bisogno di una voce amica in quel momento, ed era quello che lui le stava dando.

«Le tue crisi non passano così quando sei da sola, Allie» disse finalmente il ragazzo quando sentì il respiro di Alexis rallentare dopo non si sa quanti minuti passati a cercare di calmarla.

La ragazza spostò il telefono all’orecchio destro, iniziando a sentire quello sinistro ronzare fastidiosamente come quando non le succedeva da anni. Sentiva le ossa indolenzite da quella posizione estremamente scomoda mentre teneva ancora la schiena ben salda contro il muro dietro di sé.

«Sei diventato improvvisamente il mio psicologo?» mormorò stancamente Alexis, sentendo la propria voce più controllata rispetto a prima. Il battito era rallentato e riusciva a fare respiri più profondi senza che un macigno le gravitasse sul plesso solare.

Flynn sospirò. Alexis ebbe immediatamente l’immagine di lui mentre si reggeva il ponte del naso tra le dita affusolate, il tic che aveva ogni volta che era esasperato.

«No ma ti ci ho portato per buoni due anni, quattro se tu non fossi sparita così nel nulla»

«Avevo bisogno di andare via» protestò debolmente Alexis a quelle parole.

«Avevi bisogno di un po’ di pace, non di andartene senza dire niente a nessuno»

«Dovevo?» mormorò Alexis sentendo già la risposta che sarebbe arrivata.

«Dovevi» convenne Flynn senza aspettare un attimo. Sicuro di quello che sembrava una discussione trita e ritrita tra i due.

Passò qualche secondo di silenzio.

«Scusa»

Il silenzio cadde da entrambi i capi del telefono, passata l’immediata urgenza era rimasto solamente l’imbarazzo tra i due. Imbarazzo che Alexis non pensò potesse mai esserci tra loro, quando non c’era solo stata la sua testardaggine di mezzo nell’averli separati. Aveva messo volontariamente lei distanza tra di loro e tenne traccia dei secondi interminabili battuti dall’orologio da parete nel soggiorno, cinque minuti eterni in cui pensò che quella frattura non si sarebbe rimarginata tanto presto. Forse mai.

«Dunque?» cantilenò improvvisamente attento Flynn.

«Scusa?» Alexis impiegò alcuni secondi per rendersi conto di quel repentino cambio di atteggiamento prima di sentire il timido sorriso distenderle le labbra.

«Oh, andiamo! Non fare la finta tonta con me, Alexis. Chi è il povero disgraziato?» rimbeccò stoicamente il ragazzo, iniziando già a perdere la pazienza. L’energia che lo contraddistingueva stava riemergendo tutta in una volta e gli stava risultando difficile contenere l’eccitazione.

«Non è…» provò a ribattere Alexis ma le parole le morirono in gola quando sentì il rumore di una tazza cadere in frantumi dall’altro capo del telefono. Flynn doveva essersi alzato di scatto, facendo cadere la tazza che conteneva il suo tanto amato caffè amaro.

«Ah ah! Avevo ragione che ci fosse qualcuno di mezzo!» esclamò vittorioso, l’orgoglio nella voce bassa mentre gongolava come un bambino nel giorno di Natale.

 
...
 
Raph aveva il respiro affannato, anche se non era lo stesso affanno che avrebbe voluto sentire rimbalzare tra le pareti del loro nascondiglio avvolto nel buio. C’era troppo silenzio attorno a lui, tanto che aveva tenuto per un attimo che i suoi fratelli l’avessero sentito, o peggio… Splinter.

Il sudore gli si era attaccato alla pelle squamata e con un sospiro decise di liberarsi di quelle coperte irrimediabilmente macchiate per quella notte. Nascose la rivista sotto il cuscino come suo solito senza preoccuparsi particolarmente troppo, non era proprio un segreto che amasse guardare Playboy e l’unico abbastanza sfrontato sarebbe potuto essere solo Michelangelo.

Il fratello minore aveva la lingua decisamente lunga per le questioni che non lo riguardavano e non c’era alcun bisogno per lui di venire a sapere di quel piccolo sfogo di Raph. C’erano solo lui, la rivista… e il pensiero fisso di Alexis.

Avrebbe finito col distruggere l’ennesima attrezzatura da allenamento se avesse sfogato la sua frustrazione, quello era un prurito che andava risolto in altro modo. L’urgenza impellente che sentiva in corpo era esploda solo negli ultimi giorni, rimasta in qualche modo assopita grazie un po’ anche all’assenza di contatto fisico tra i due.

All’inizio fu risentito. Alexis aveva evitato ogni minimo contatto con loro da quando li aveva incontrati, si era irrigidita come una corda di violino nell’istante in cui Donnie le aveva fasciato la caviglia e pensò immediatamente a come dovesse essere disgustata da loro. Anche il povero Donatello ne era rimasto alquanto ferito, anche se era stato difficile da scorgere quella scintilla di tristezza nascosta magistralmente dietro gli spessi occhiali. Non sarebbe stata la prima, né l’ultima ad evitarli ad ogni costo. Ma la cosa era continuata, Alexis limitava i contatti non solo con loro ma con chiunque.

L’aveva scoperto quasi casualmente dopo una delle ronde di pattugliamento con Leo, l’unico che non si impicciava troppo in quella situazione nuova un po’ per tutti. Alexis staccava da lavoro in orari assurdi e non era affatto la prima volta che la trovava tornare a casa in piena notte o alle prime luci dell’alba. Ogni volta, anche tra le strade trafficate di New York, evitata il contatto. Scivolava tra gli estranei, silenziosa, invisibile. Anche in pieno giorno.

Non erano quindi loro il problema. Non era disgustata da loro.

Argomento delicato del quale Splinter si era avvantaggiato già anni prima con tutti loro, attento come sempre nel trovare il momento ideale per parlare con i suoi allievi, i suoi figli. Ricordava ancora quando aveva parlato della loro Hogosha, il loro guardiano, la loro protettrice, e Alexis era tutto fuorché come l’aveva descritta Splinter.
Il ramo troppo duro al vento si spezza; quello troppo flessibile non starà mai ritto.

Uno dei proverbi preferiti del vecchio maestro, tanto poetico nella sua descrizione quanto violento nella sua semplicità. Ricordava la prima volta che aveva sentito quella frase totalmente fuori senso per lui. Vivevano rintanati nelle fogne, dove mai avrebbe potuto vedere dei rami? Men che meno sentire il vento sulla sua pelle.

Ma non era quello l’obiettivo di Splinter mentre osservava quelle curiose tartarughe crescere sempre più attive e bisognose di stimoli. E disciplina. Dopotutto era Raph quello più testardo di tutti, si sentì immediatamente preso in causa una volta che il maestro ebbe spiegato loro il suo significato. Loro erano gli unici della loro specie. Rari. Inimitabili. Soli. Irrimediabilmente soli.

Era quello che tormentava più di tutti Michelangelo ma che non risparmiava certo anche gli altri tre fratelli, per quanto avessero trovato un’apparente valvola di sfogo ognuno di loro. Ma il dubbio e quella silenziosa domanda continuava ad aleggiare tra loro come un’incognita, non erano sicuro di volerne sapere la risposta ma la agognavano al contempo.

'Tutto può accadere, figlio mio. Gli esseri umani non sono tutti crudeli, e io ne so qualcosa’ le parole di Splinter quando finalmente Mickey diede voce a quel piccolo, innocente dubbio infantile. Trovare qualcuno che guardasse oltre la pelle squamata e il carapace troppo spesso. Non… disgustato dalla loro diversità.

Per quanto però quelle parole ebbero riacceso un alone di speranza negli occhi innocenti del fratellino minore, Raph ne rimaneva scettico. E come poteva essere biasimato quando vedeva solo la paura e la repulsione negli occhi delle povere vittime che lui e i suoi fratelli, notte dopo notte, si ostinavano a continuare a salvare.

Bel ringraziamento.

Ribrezzo. Era un dato di fatto. non erano esseri umani e quello che loro provavano nei confronti di lui e dei suoi fratelli non era altro che ribrezzo. Per questo si mescolavano alle ombre, silenziose e letali. Era quello il loro mondo.

Solo nell’ultimo periodo, senza quasi accorgersene, si era fatta una minuscola crepa in quel muro che li divideva dalla luce del giorno. Era piccola, quasi impercettibile ma lasciava entrare quel flebile spiraglio di luce che Raph aveva sperimentato per la prima volta in quindici anni.

Non era la sicurezza della loro Hogosha, neanche lontanamente. Alexis era silenziosa all’esterno, quieta con gli estranei e non alzava mai la voce, ma era irruenta nelle proprie emozioni. Le si leggevano sul viso come l’acqua limpida di un fiume, non le poteva nascondere assieme al baluginio di divertimento negli occhi verdi.

Lei non li toccava. Ma non toccava nessun’altro. Alle volte tendeva timidamente la mano prima di ritrarla bruscamente come scottata, dove le cicatrici non erano solo fisiche ma anche psicologiche. Qualcosa sembrava terrorizzarla ma era talmente testarda da evitare abilmente di lasciare anche il minimo spiraglio. Era più riservata ed imperscrutabile di lui in quel senso, terribilmente pragmatica da aver stuzzicato la sua curiosità, -non insanabile come quella di Donatello o Michelangelo ma anche lui provava piacere nello scoprire e sperimentare qualcosa di nuovo, di diverso dalla solita, monotona routine.

Ma il pensiero del Clan del Piede irruppe all’improvviso. Non era un segreto che i loro attacchi si andavano moltiplicando nelle ultime settimane e la grande metropoli iniziava a brulicare di attività malavitose a vista d’occhio. Girare per le strade di New York a sera inoltrata non era mai stato sicuro ma ultimamente meno che mai, dovendosi guardare ad ogni angolo per evitare di venire seguiti.

Erano stati fortunati, abbastanza abili tutti e quattro da non uscire mai se non con qualche ferita superficiale. Le sgattaiolate notturne all’insaputa del maestro Splinter erano rischiose, specialmente sapendo come dietro l’organizzazione ci fosse quello che consideravano il loro peggior nemico. Shredder.

E non erano solo loro a rischiare ogni volta. Finché sarebbero rimasti solo loro cinque, il rischio si poteva correre. Ma il dubbio sollevato da Splinter poco dopo il loro primo incontro con Alexis fu chiaro, una questione che gravava su di loro come un macigno.

‘Questa non è una situazione che mette in pericolo solamente lei, miei giovani allievi. Ma può rivelarsi insidiosa per tutti noi’



--- Note ---
Piccola postilla forse doverosa? Non ne ho idea, ma il capitolo è un po' più lungo de solito e spero di riuscire a mantenerlo così. Intermezzo inaspettato e non previsto ma forse necessario per mettere un po' d'ordine.
Sempre un grazie mille a Elenatmnt e Made of Snow and Dreams per tutte le bellissime recensioni! Non ringrazio mai abbastanza ma è sempre tutto ben sentito e sincero.

Ciarax

 

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***


Capitolo X
 
                              You will be broken
                              But never to pieces
 

 
«Cosa pensi di farci esattamente con una laurea in filosofia?» domandò Alexis sistemando meglio il telefono nell’incavo della spalla destra, impegnata a frugare nelle ultime cose rimaste abbandonate all’interno del vecchio scatolone speditogli dal padre per il suo compleanno.

«Chi lo sa, -esclamò cripticamente Flynn, l’accenno di un sorriso nella voce, -potrei seguire il vento e finire come uno di quei vecchi in televisione che si lamentano di come il governo americano non sia una vera democrazia»

«Il caffè ti ha bruciato il cervello, Flynni» sorrise Alexis prima di acquietarsi poco dopo.

«Cosa c’è?»

Alexis impiegò qualche secondo a ritrovare la voce per parlare, mentre guardava con attenzione quel piccolo mausoleo di ricordi. Polaroid, decine e decine di vecchie polaroid scattate nel corso degli anni. La sua prima fotocamera, sua, completamente sua. Erano tutte le foto che invadevano la sua vecchia camera negli anni di liceo: le mille foto con suo padre mentre i due suonavano in duetto, una volta con la chitarra e il piano, un’altra con il violino e viceversa, le visite periodiche in ospedale, i compleanni.

Le foto con Flynn, la volta in cui si erano travestiti per Halloween all’insegna di Ghostbusters o come due cavalieri Jedi. Le mille foto tra i banchi di scuola e ognuna con note diverse scritte a penna sul bordo delle fotografie. La grafia era la solita illeggibile, e in alcune anche sbiadita, l’unica cosa abbastanza comprensibile era la data in cui erano state scattate ed una sola che aveva una piccola nota scritta molto più nitidamente.
'Nei giorni belli e negli anni brutti.''

«Polaroid» fu la risposta secca che Flynn ricevette, per nulla soddisfatto di una tale sinteticità.

«Hai ancora quel vecchio rottame?»

Il vecchio rottame in questione altro non era che la malridotta Polaroid che aveva ricevuto per il suo decimo compleanno, scrostata in più punti e con l’accenno di umidità all’interno del vetro dell’obiettivo. Era malridotta ma dopo quasi un decennio, ancora funzionava egregiamente. Come aveva potuto dimenticarla?

«Mia madre deve aver deciso veramente di darmi tutto, -commentò divertita con un piccolo sorriso Alexis, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso, -ci sono anche le vecchie foto di quando ti eri fatto quell’orrendo taglio di capelli»

Alexis quasi rimase sorda alle vivaci proteste di Flynn dall’altro capo del telefono quando l’occhio cadde su un paio di foto di lei e suo padre, in una delle solite e annuali visite ospedaliere di controllo. La foto era stata presa di sorpresa, con entrambi i volti sgranati dalla sorpresa. L’impianto cocleare del padre in bella vista con i capelli corti e lo scatto di tre quarti, mentre quello di Alexis era meno evidente, coperto dai capelli mossi. Quanto detestava da piccola quell’arnese sempre attaccato al suo orecchio, fastidioso e che non si lasciava sfuggire occasione per abbandonarlo da qualche parte.

Continuò a rimestare per qualche minuto tra quelle foto, osservandone una ad una e sorridendo ad ogni nota scritta sotto ognuna di esse. Alcune erano in bianco e nero, altre sbiadite ma i sorrisi, gli occhi illuminati dalla felicità, erano comunque lì. Vivi.

E poi trovò qualcosa tra le ultime quattro foto.

C’era solo una foto. L’ultima estate che aveva passato al mare. L’ultimo giorno in cui era stata in costume.

Il 10 agosto. 'Tocco finalmente la vetta'. Era la breve nota che aveva scritto non appena aveva tenuto in mano quella foto. Era forse l’ultima foto in cui ricordava di aver sorriso così ingenuamente, forse a qualche battuta idiota di Flynn che le aveva detto da dietro l’obiettivo della fotocamera. Le lentiggini chiare erano incredibilmente accentuate sotto il caldo sole estivo e con una mano cercava disperatamente di tenere a bada i capelli molto più lunghi di quanto non li portasse ora, sempre indomabili ad ogni ciocca.

Non era da sola lì, e proprio per quello sorrideva come una scolaretta in quella foto.

«Uhm…oggi proprio non è giornata» Alexis non era certa di come, e se mai quella giornata sarebbe potuta essere peggiore. Gettò quella foto in fondo allo scatolone, senza degnarla di un altro sguardo, finché riusciva a mantenere quella piccola bolla di pace che si era faticosamente costruita quel giorno.

«Cosa ti aspettavi? Non ti fai sentire da chissà quanti mesi. Il karma gira» la riprese Flynn. Non era arrabbiato e probabilmente aveva mal interpretato le sue parole. Lei di certo non aveva intenzione di portare in ballo quella foto. E lui. Non più. Capitolo chiuso.

«Cosa avrei dovuto dirti? ‘Sorpresa! Sono di ritorno dal regno dei morti! Non è eccitante?’» ironizzò con un sorriso amaro Alexis improvvisamente infastidita da quel tono per nulla minaccioso dell’amico d’infanzia. Forse aveva travisato, si stava probabilmente irritando per niente.

«Non mi piace dire ‘te l’avevo detto’ ma-»

«Mi prendi in giro? È la tua frase preferita. Non me ne hai risparmiata una da quando eravamo piccoli solo perché sei tu quello intelligente tra i due» interruppe improvvisamente lei, di nuovo rilassata quando sentì la risata divertita di Flynn. Altroché se quella era la sua frase preferita. Non faceva altro che ripetergliela costantemente quando era certo di avere ragione, e con Alexis, questo capitava nove volte su dieci.

Un gorgoglio troncò bruscamente la risata del ragazzo che si acquietò per qualche istante.

«Cos’era quel rumore? Sento il tuo stomaco borbottare da qui, Allie»

«Non… mangio da ieri credo» ammise Alexis intuendo già la solita espressione esasperata di Flynn. Il sopracciglio alzato e gli occhi scuri che la guardavano in un misto di divertimento e rassegnazione, era sempre quella l’espressione che aveva il ragazzo ogni volta che veniva a sapere di una delle trovate pazze di Alexis. Oppure quando si dimenticava delle elementari basi di sopravvivenza.

«Come hai fatto a sopravvivere per due anni da sola è un miracolo. Vatti a mangiare un pezzo di pizza, è l’unica cosa che avrai sicuramente oltre ai biscotti»

La pizza. Le tartarughe.

Aveva ricevuto un messaggio da Michelangelo quella mattina, oltre che a rassicurarla che era stato Donnie a dargli il suo numero. L’entusiasta tartaruga voleva organizzare un karaoke con i fratelli, una serata che sembrava organizzare periodicamente e aveva avuto l’idea di invitare anche lei. Sperando che non fosse all’insaputa degli altri, Alexis era stata ben felice di prendere parte a quella piccola uscita.

«Devo andare» tagliò corto la ragazza, riattaccando il telefono mollandolo nella tasca della felpa. Prese il portafogli e le chiavi infilate nella giacca pesante e si richiuse la porta dietro di sé.

Non era sicura della fortuna che aveva avuto in quel momento ma che una delle pochissime pizzerie sfornava quella precisa pizza, era stato un miracolo. Un prodigio culinario, o un madornale errore. Alexis non era sicura che ci fossero altre possibili definizioni per quella cosa.

Detestava il formaggio aromatico, figurarsi il letale mix di Asiago, Gorgonzola e solo la divina provvidenza avrebbe potuto sapere che altro. In quella sottile scatola di cartone giaceva il mistero della tecnica e probabilmente il sogno proibito di ogni amante esagitato degli sport estremi.
Alexis dovette ammettere, come dalla quarta volta in poi, fosse stato incredibilmente più semplice orientarsi in mezzo al reticolo intricato di tubature. La sottile angoscia che le si arpionava al petto ogni volta che svoltava un angolo era sempre presente ma almeno aveva imparato ad assicurarsi che la batteria del proprio cellulare fosse ancora viva abbastanza da permetterle di utilizzare la torcia. L’umidità che si attaccava alle pareti e il cemento scivoloso sotto i suoi piedi l’avevano più volte quasi fatta scivolare ma riuscì per miracolo a portare in salvo quella meraviglia della tecnica che teneva tra le mani, già stufa di quell’odore che le appestava le narici da quasi un quarto d’ora.

La musica dei Citizen Soldier nelle sue cuffiette venne superata di gran lunga dalla squillante voce di Michelangelo, mentre tentava di raggiungere lo stesso spettro acustico di Rihanna. Tentativo non perfettamente riuscito.
Per un attimo ebbe l’impulso di mollare lì quell’ammasso nauseante di latticini e fare dietrofront, fare scorta nel posto più vicino di uno o due scatole di gelato e tornarsene nel proprio appartamento. Ma non poteva, oramai aveva già fatto tutta quella strada. Flynn l’avrebbe mandata al diavolo, sia per aver rinunciato alla pizza che per avergli riattaccato letteralmente il telefono in faccia.

Gliel’avrebbe fatta pagare, ne era sicura.

Con un sospiro Alexis avanzò di un passo, mise il piede in fallo. La tubatura principale era finita e un urlo stridulo le uscì involontariamente mentre riuscì a malapena a mitigare quella piccola caduta. Le gambe tese le facevano un male terribile ma era stato più lo spavento improvviso ad averla scossa per qualche secondo. Aveva ceduto e si era ritrovata sedere a terra, il cartone di pizza in mano e quattro paia di occhi curiosi che la osservavano da poca distanza.
La voce di Michelangelo si interruppe nel momento in cui tutte e quattro le tartarughe sentirono il grido stridulo di Alexis, a meno di un paio di metri da loro. La caduta sarà stata da meno di un paio di metri e con dei buoni riflessi la ragazza era atterrata in piedi sotto i loro occhi, ma il corpo era percorso da tremiti abbastanza evidenti finché le gambe non le cedettero facendola finire per terra.

Il silenzio cadde per un attimo tra tutti e cinque, il respiro pesante di Alexis sembrava rimbombare tra le pareti umide e lo sguardo dei quattro fratelli la mise non poco a disagio. Solo che ebbe la vaga impressione che la loro attenzione non fosse focalizzata su di lei, o almeno non più. Specialmente Michelangelo era totalmente concentrato su quello che Alexis teneva tra le mani.

«Sento odore… non mi dire che…» balbettò frasi incoerenti la giovane tartaruga, completamente ipnotizzata dalla inebriante sensazione che il suo olfatto stava percependo in quell’istante. L’odore di formaggio, dei novantanove formaggi presenti in quella fine scatola di cartone sembravano chiamarlo a gran voce, rendendolo cieco a qualsiasi altra impellenza.

Solo Leonardo e Donatello ebbero la decenza di dare un’occhiata anche ad Alexis, assicurandosi che non si fosse rotta niente prima di tornare ai propri affari non appena Mickey si fosse impossessato della pizza in un batter d’occhio. Forse l’idea di lasciare la pizza lì e di girare i tacchi per tornare a casa non sarebbe stata del tutto una cattiva idea, non che avesse l’impressione che non la volessero lì ma era chiaro come quella pizza superava di gran lunga qualunque voglia di compagnia esterna, almeno per Michelangelo. E dire che era stato proprio quel sovraeccitato adolescente ad averla invitata.

«Pensavo avessimo un’infestazione di alligatori con tutto il rumore che hai fatto. Persino con Mickey ti abbiamo sentito» Raph la squadrava con muto divertimento, la sottile soddisfazione per chissà quale suo assurdo pensiero gli incurvava le labbra in un sorriso sornione appena accennato.

Era l’unico che era rimasto ancora a prestarle attenzione, poggiato sul muro dalla parte opposta della stanza principale. Non aveva i Sai con sé, erano stati accuratamente riposati nella armeria dietro le spalle di Alexis, piena di armi bianche di ogni genere, minuziosamente disposte e tenute con cura. Le tenui lamentele di Donnie e Michelangelo tornarono a riempire il silenzio calato qualche istante prima.

Dopo aver ripreso un attimo di controllo sul breve spavento, Alexis si accorse come, in effetti, l’unico rimasto lì fosse Raph. A quanto pare neanche intenzionato ad aiutarla, non che la cosa la infastidisse particolarmente in quel momento: in quella giornata fu grata di come almeno una persona si astenesse dal cercare un contatto fisico non voluto.

«Grazie mille dell’aiuto» Non aveva nulla di rotto e neanche la caviglia le faceva più male, ma il sottile commento sarcastico non poté trattenerlo mentre osservò Raph scrollare le spalle con apparente indifferenza prima di unirsi a lei e raggiungere gli altri.

«Sei tu quella che non vuole toccare nessuno» replicò semplicemente.

Alexis storse leggermente il naso a quella frase, per nulla innocente. La frecciatina era stata diretta e aveva colpito nel segno ma non capiva esattamente come anche lui sembrava essere in qualche modo risentito della cosa. Era molto difficile che qualcuno se ne accorgesse di quella sua tendenza ad evitare il contatto fisico con le persone, ancora più raro che qualcuno glielo facesse presente.

Raffaello non aveva decisamente peli sulla lingua.

E proprio lui non nascose un accennato sorrisetto soddisfatto vedendo il volto di Alexis contorto in un’espressione corrucciata prima di sgranare leggermente gli occhi. Gli occhiali e le ciocche di capelli non gli nascosero lo sguardo frustrato e le guance improvvisamente accaldate mentre la ragazza distolse lo sguardo, trovando improvvisa attenzione in qualcosa alla sua sinistra.

«Ti prego Alexis, puoi dirgli tu a Mickey che non ce la facciamo più a sentirlo cantare le canzoni di Rihanna?» supplicò con un’evidente nota di disperazione Leonardo, seduto sul divano mentre non sapeva più come mettere un freno all’eccitamento per il karaoke del fratello minore.

«Avremo sentito tutta la discografia di Katy Perry e Rihanna di questo passo» commentò semplicemente Donnie, deciso a non cedere alle continue suppliche di Michelangelo che ancora non sembrava essersi reso conto di non essere particolarmente portato per le voci da soprano.

Alexis alzò immediatamente le mani, occupando la poltrona vicino il divano e gustandosi divertita l’espressione rapita della tartaruga in arancione, «Io ho solamente portato la pizza da ospite. Non metto bocca sulle doti canore» esclamò con un sorriso divertito.

«Oh no, Lexi, Lexi, Lexi -cantilenò Michelangelo con un sorriso infantile, -Hai portato tu questa meraviglia qui. È quindi arrivato il tuo momento per scegliere» Quelle parole quasi caddero sorde alle orecchie di Alexis.

Raffaello si accorse dell’istante esatto in cui il sorriso della ragazza svanì, sostituito da una maschera contratta che fece fatica a decifrare. In realtà gli altri quasi non si accorsero di quel cambiamento repentino, troppo impegnati a riprendere quel battibecco su chi dovesse essere il prossimo a cantare.

Alexis abbassò leggermente il capo lasciando che alcune ciocche di capelli scuri le coprissero parzialmente gli occhi e si schiarì la gola come se nulla fosse, «I Black Eyed Peas… non, non hanno lo stesso beat di quelle canzoni che ascoltasse spesso ma sono sicura che vi possono piacere»

Michelangelo scrutò per un attimo il volto di Alexis, prima di sorridere sornione a quella proposta, «Ecco perché sei la mia preferita, bellezza» sorriso che diventò quasi immediatamente di imbarazzo quando la tartaruga colse lo sguardo omicida di Raph diretto nei suoi confronti.
Non che non l’avesse già chiamata prima con quel ridicolo nomignolo, in fondo era proprio il carattere esuberante di Mickey, ma Raph non poté fare a meno di storcere le labbra in una smorfia irritata sentendolo nuovamente. Il fratellino sapeva di star giocando con un ferro arroventato in quel momento e decise saggiamente di ripiegare tutta la sua attenzione a quella magnifica pizza ai novantanove formaggi che sembrò chiamarlo a gran voce.

I Black Eyed Peas alla fine si rivelarono una scelta azzeccata da parte di Alexis, che finalmente poté vedere all’opera tutti e quattro i fratelli, decisamente presi ad improvvisazioni di beatbox assieme al ritmo movimentato delle canzoni. Per quanto sia Donnie che Raph furono quelli meno presi, parteciparono anche se l’entusiasmo principale derivava soprattutto da Michelangelo, totalmente appassionato di quel nuovo gruppo che aveva scoperto. Passione ed entusiasmo che Alexis colse con la vecchia Polaroid ancora funzionante, scattando foto di tutti e con tutti loro.

Sorrise vedendo i piacevoli ricordi di quella serata immortalati sulla superficie lucida della carta fotografica istantanea.

Riportando l’attenzione sul karaoke Alexis fu leggermente risentita di non aver portato la sua chitarra quando adocchiò una delle sue canzoni preferite, si era comunque adattata e non la smetteva di sorridere mentre intonava a memoria Ain’t no mountain high enough. Una delle prime canzoni che aveva testardamente deciso di voler imparare a suonare da piccola e che sembrò aver catturato anche il vago interesse di Raph che la continuò a guardare mentre si muoveva delicatamente al ritmo della musica.

La stava guardando, si, ma Raffaello aveva la testa altrove dall’ultima discussione avuta con il maestro Splinter, non riusciva a mettersi il cuore in pace. Era solo una ragazza, un’umana che a malapena non si spaventava della propria ombra quando era da sola, che pericolo avrebbe mai potuto rappresentare. E poi era talmente riservata che tutti e quattro i fratelli non riuscivano proprio a capire come sarebbe potuta essere in pericolo. Passava inosservata in pieno giorno, che interesse avrebbe potuto avere per lei il Clan del Piede? Come sarebbero mai arrivati a sapere anche solo della sua esistenza? Un’esistenza vissuta nella tranquillità e nell’anonimato. Nell’ombra. Come loro.

«Non hai fame? Non so come facciate a mangiare così tanto formaggio ma potevo portare altro»

Raph incrociò lo sguardo velatamente corrucciato di Alexis, che lo squadrava con attenzione come alla ricerca di un segnale che le dicesse cosa passasse per la testa della tartaruga. Sapeva di essere il più difficile da leggere e per una volta fu grato di quel suo atteggiamento scontroso che riusciva alle volte a depistare la ragazza da quel suo intuito così fastidiosamente sviluppato. Gli sembrava di venire scandagliato fin nelle viscere, lei che aspettava paziente che qualcosa lo tradisse, che qualcosa le dicesse come avrebbe dovuto comportarsi in sua presenza.

Quegli occhi verdi erano fastidiosamente attenti. Troppo. attenti. Su. Di. Lui.

Solo per un attimo, il tempo di battere le palpebre e non appena il buio avvolse i suoi occhi l’immagine si sovrappose a quella dell’altra notte. Scene diverse, momenti decisamente diversi. Il calore però che sentì scaldargli improvvisamente il volto però fu lo stesso e dovette ringraziare la coriacea pelle squamata che riusciva egregiamente a camuffare quella sua frustrazione. Ma il problema sussisteva.

Vicina. Alexis era, decisamente. Troppo. Vicina.

E Michelangelo fu quello che colse la silenziosa tensione tra i due, ricollegando immediatamente l’espressione frustrata di Raph all’incontro notturno di qualche giorno prima. Per una volta non sarebbe stato lui l’oggetto delle battutine sarcastiche e non si sarebbe lasciato certo sfuggire l’occasione di poter ribattere il fratello maggiore con la sua stessa arma.

Si avvicinò silenziosamente ai due, osservati di sottecchi anche da Donnie e Leo che mantennero comunque un’apparente grado di disinteresse. Non erano esattamente al corrente della situazione tra di loro ma la tensione era chiaramente palpabile a tutti.

«Sei hai bisogno, possiamo lasciarvi un po’ da soli, Raph» suggerì canzonatorio Michelangelo, avvicinatosi ai due e ricevendo un’occhiata confusa da parte di Alexis e quella furibonda del fratello.

«Vuoi farti gli affari tuoi, Mickey?» sibilò Raph improvvisamente teso. Non gli piaceva la piega che quella serata stava prendendo, e Michelangelo di certo non gliela stava rendendo più facile quella situazione.

«Qual è il problema?» Alexis si girò di nuovo verso Raffaello, la confusione limpida sul suo volto mentre storse di poco infantilmente la bocca cercando per un attimo di capire cosa stesse succedendo.

Che ci fosse qualcosa di strano se n’era accorta dal momento del suo arrivo, nonostante le ore passate in serenità c’era un sentore di pesantezza in quel nascondiglio. Qualcosa gravava su di loro, li preoccupava e ogni tanto li aveva colti scoccarle delle occhiate di sottecchi mentre pensavano che non sarebbero stati colti in flagrante. Era stata invitata da Mickey, quindi, non era stato un problema di ospitalità sgradita, giusto? Non l’avrebbero accolta altrimenti.

«Ogni volta che vieni qui c’è il rischio che il Clan del Piede scopra dove viviamo. Vuoi sapere qual è il problema? Il problema è che non ho bisogno di una ragazzina insistente che pensa di sapere cosa mi passa per la testa» ringhiò Raffaello affilando lo sguardo in direzione di Alexis. Quello non era stato uno sfogo quanto più simile ad un basso ruggito animalesco, la frustrazione di quella situazione gli si era accumulata dentro e non c’era stato né tempo e né modo di sfogarla altrimenti.
Raph era in piedi, si era alzato di scatto e i muscoli tremavano sotto l’improvvisa tensione. Sembrava molto più massiccio di quanto già non fosse.
Aveva mentito. Donatello colse immediatamente quella non tanto velata bugia mentre la schiena di Alexis si era irrigidita immediatamente non appena Raffaello aveva alzato troppo la voce. Quello sguardo angosciato avrebbe di certo tormentato lui e Leonardo che non avevano fatto nulla per fermare quello che sapevano essere l’arrivo di uno degli scatti d’ira impellenti della tartaruga.

Donnie lanciò uno sguardo silenzioso a Leo che scosse semplicemente la testa. Dopotutto avrebbero dovuto comunque affrontare la situazione di una eventuale interruzione di quella amicizia tra tutti loro, Splinter li aveva messi al corrente del pericolo che stavano correndo tutti loro ma soprattutto Alexis. Non era stato affatto difficile ipotizzare come una pacifica discussione non avrebbe risolto nulla con la testardaggine della ragazza e quella serata sarebbe potuta essere una buona occasione per inventarsi qualcosa di nuovo.

Ma quello fu decisamente oltre i piani di tutti.

Tutte e quattro le tartarughe osservarono granitici le pupille dilatate di Alexis mentre il respirò sembrò esserle rimasto mozzato in gola. Abbassò di poco la testa, forzando un sorriso appena accennato come a voler rassicurare loro. O sé stessa.

«Devo andare… domani devo lavorare presto. -esitò per un attimo sulle ultime parole, -Ci vediamo»

Quella giornata avrebbe potuto essere diversa se solo avesse deciso di rimanere a letto?
Lasciarsela alle spalle sarebbe stato veramente difficile.

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Capitolo 12
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI
                    Now you're walking alone
                    It's all that you've ever known
                    So sick of being the one betrayed
 


 
Verdi. Erano occhi verdi i suoi. Si era fidata. Le ispiravano fiducia e lei aveva provato a ritornare come era prima dell’incidente, ingenua e felice.

Come puoi riportare allo stato originale qualcosa che è rotto. Un giocattolo difettoso anche se viene riparato saprai sempre che una volta era stato difettoso. Cambia l’apparenza ma la sua sostanza rimaneva quella.

Kintsugi. L’arte della riparazione di ceramiche con l’oro. La credenza che qualcosa di rotto sia più forte e incantevole proprio grazie alle sue imperfezioni, per la storia che portano con sé. Proprio per il suo stato alterato, perché gli errori non dovrebbero venire considerati solo negativamente.

Era un concetto che l’aveva interessata, in una delle poche e brevi chiacchierate con Splinter. Una delle tante tradizioni giapponesi rivolte alla valorizzazione dei difetti, delle unicità. Erano rotti, ma una volta riparati divenivano una meravigliosa testimonianza di sopravvivenza quando la maggior parte delle persone si sarebbe solo limitata a farne piazza pulita dei cocci.

Alexis ebbe l’impressione che quel vecchio e saggio ratto non le stesse raccontando solo una raccolta di ciò che sapeva e che aveva appreso con gli anni. Era una silenziosa punzecchiatura rivolta nei suoi confronti, dove anche lei trovò una particolare somiglianza con quella curiosa tecnica.

Ma lei non era una ceramica o un vaso che poteva venire riparato, era stata rotta, in più punti. Era frammentata ma col tempo era stata in grado di rimettere precariamente insieme i cocci che le rimanevano, non era una riparazione magistrale ma fece il suo dovere per un paio di anni. Una timida corazza per coprire quelle cicatrici che, anche se vecchie, continuavano a bruciare come il primo giorno sulla carne viva.

E poi Raph.

Aveva una predilezione per lo sguardo della gente, trovare con vivace curiosità la particolare croma di cui fossero tinti e l’ingenua associazione con quello che poteva rispecchiare in chi li possedeva. Non sempre il colore degli occhi rispecchiava il carattere di qualcuno, ma aveva sempre trovato che lo sguardo fosse particolarmente espressivo, molto più di altri tratti somatici.

Per un po’ aveva diffidato di quello che percepiva guardando la gente negli occhi, per un po’ aveva evitato del tutto lo sguardo delle persone. Non si fidava. E come poteva, specialmente quando non era la prima volta che cascava come una pera cotta quando trovava uno sguardo interessante.

Quasi quattro anni di lento recupero e ci era ricascata di nuovo. Non che Raffaello fosse totalmente considerabile un essere umano, forse era anche quel dettaglio che le aveva reso più facile aprirsi con lui. E aveva degli occhi interessanti.

Non nascondeva affatto le emozioni che provava, intense e perlopiù con connotazioni rabbiose. Aveva un radicato profondo di esprimere quel sentimento che lo logorava, lo rendeva ingestibile, a tratti animalesco. E lei era rimasta in mezzo a quella cortina di fumo, si muoveva a tentoni mentre cercava di districarsi nel carattere turbolento di Raffaello.

Era stata colpa sua? Forse Michelangelo non aveva avvisato gli altri del suo arrivo e lei era piombata lì come un’intrusa. Aveva invaso la loro casa senza degnarsi di chiedere permesso? Avrebbe dovuto essere più cauta? Meno precipitosa?

Alexis riportò l’attenzione sul soggiorno del suo appartamento, avvolto nel caso. Non era mai stata particolarmente dedita all’ordine ma in quel momento ebbe l’impressione di essere rimpiombata a quattro anni prima. Dopo aver rimesso piede in casa per la prima volta in settimane, non aveva riposato finché non aveva rimosso qualsiasi cosa glielo ricordasse.

Il volume della musica era probabilmente troppo alto rispetto al solito ma così riusciva a sentirla chiaramente, in barba alle possibili lamentele dei vicini. Scorreva disattenta tra i canali, guardando disinteressata una delle vecchie repliche di Una mamma per amica. Quel televisore era stato acceso talmente tante poche volte che si meravigliò quando ne aveva trovato Il telecomando, anche abbastanza facilmente.

Faye era comodamente abbarbicata sulle sue gambe, dormiva da un pezzo. Coccolata dalle carezze di Alexis che per un po’ trovò conforto nel morbido pelo cenere del cincillà.

Chiamare Flynn era fuori questione, non avrebbe avuto la forza di spiegargli tutto. Non sapeva neanche come avrebbe potuto, non era una situazione facile. Ma aveva altro su cui stava cercando di riportare forzatamente l’attenzione. L’università.

Era all’inizio del terzo anno e già era rimasta fin troppo indietro, senza il problema degli impossibili orari di lavoro alla stazione radio non aveva più la scusa per rimandare. Anche se continuava a non capire come Scienze Naturali potessero centrare con la facoltà di Tecnologia musicale alla Steinhardt University. Non era mai stata ferrata nelle scienze e già immaginò il lento declino che quella materia avrebbe avuto su di lei.

Forse le repliche di Una mamma per amica non sarebbero state poi tanto male da vedere per passare il resto di quel deprimente pomeriggio. Non poteva uscire. La neve stava ricoprendo l’intera metropoli, piccoli fiocchi candidi che volteggiavano dal cielo grigio e carico mentre attecchiva al suolo sotto la gioia dei più piccoli.

L’appartamento era caldo, e Alexis era ben imbottita sotto una coperta e con Faye che le teneva compagnia. Non era esattamente stato il momento migliore quello per decidere di eliminare qualsiasi cosa gli ricordasse Raph, così come aveva già fatto una volta. Non aveva però avuto il coraggio di buttare i ritratti che aveva fatto settimane prima, durante il loro primissimo incontro. Immortalati sulla carta con solo la memoria a farle da testimone.

Le fotografie che aveva scattato invece qualche sera fa erano state ancora più difficili da guardare. Sorridevano tutti lì, non sembrava esserci nulla fuori posto. E con sua sorpresa ci fu anche una foto che la ritraeva nel mentre di una canzone, senza che se ne fosse accorta. Probabilmente scattata da Michelangelo, la ritraeva di tre quarti, attenta al ritmo della canzone con la testa leggermente inclinata di lato per sentire meglio, e Raph.

C’era anche lui al margine della foto, che la osservava. E non era lo sguardo pensieroso con cui l’aveva colto lei in flagrante e neanche quello frustrato degli ultimi attimi prima che la serata venisse rovinata. Era rilassato, il volto non era contratto nella solita espressione corrucciata come quando era occupato ad essere in collera con il resto della popolazione mondiale. Lì era semplicemente qualcuno che si stava godendo una serata con la sua famiglia.

Alexis incrociò per sbaglio con lo sguardo il suo quaderno degli schizzi, aperto e con quasi tutte le proprie matite fuori dall’astuccio.

Lo fissò per qualche secondo di troppo.

«Al diavolo, più male di così non posso farmene» borbottò scostando la coperta e facendo un lungo sospiro, sconfitta.

 

 
‘Ma sei impazzito, fratello?’

‘Cosa ti è passato per la testa, Raph? Questa volta hai veramente esagerato’


Raffaello ne aveva la testa piena. Non aveva fatto altro che sentire i rimproveri di Leonardo e le vivaci proteste di Michelangelo che non la smetteva un attimo di lamentarsi per quello sbotto d’ira che lo aveva colto nel momento meno opportuno. Anche se il peggio forse era Donnie.

Donatello non aveva quasi aperto bocca, era rimasto in silenzio ad osservare tutto, a pensare. Ma forse fu proprio quello che lo gelò quando aprì finalmente bocca dopo che anche le proteste di Michelangelo si acquietarono, «Il maestro ci aveva avvertito che ne avremmo dovuto parlare con Alexis del Clan del Piede… e anche se così le stiamo evitando altri pericoli, l’abbiamo ferita. L’hai ferita tu, Raph perché sei quello a cui lei tiene di più tra noi. Si vede. Ma anche noi l’abbiamo ferita, non abbiamo detto nulla per difenderla. È imperdonabile»

«Donatello ha ragione» la voce calma di Splinter fece voltare tutti e quattro i fratelli riuniti vicino il divano e la postazione di comando di Donnie. Raffaello fu l’unico ad alzare a malapena lo sguardo.

«Raffaello, -iniziò Splinter, quasi cercando le parole più adatte per la tartaruga più irrazionale tra le quattro, -tra tutti sei quello che da meno ascolto alla propria testa. Non sei equilibrato come Leonardo, né razionale come Donatello… ma neanche irrazionale ed infantile come Michelangelo» quelle parole anche se inizialmente irritanti catturarono l’attenzione di tutti, specialmente di Raph che non riuscì ad interrompere sul nascere quel discorso anche a causa dell’occhiataccia che gli rivolse il vecchio ratto prima di riprendere a parlare.
«Non c’è difetto in come sei, ma la tua mente viene fin troppo facilmente offuscata dalla rabbia e dalle emozioni forti. La mente è come un fiume, figlio mio. Se è agitato l’acqua è torbida, ed è difficile vedere, è difficile ascoltare qualcosa che non sia il proprio punto di vista. Perdi la concentrazione anche su quello e su chi ti circonda, e rischi di ferire involontariamente il prossimo. Ma se permetti alla tua mente di ritrovare la calma che le serve… la risposta è limpida in attesa»

Non erano affatto parole scontate e molto spesso Splinter aveva dedicato loro alcuni minuti per dispensare quelle particolari metafore che poi, specialmente in quel momento, non sembrarono poi dal significato tanto astruso e nascosto.

Raph aveva sbagliato, era stato precipitoso e si era fatto prendere dalla rabbia che gli montava in petto ogni volta che era frustrato. Lo sapeva. Lo sapeva ma non lo accettava, e quella ramanzina era una frecciatina anche in ottemperanza a quel suo comportamento verso i propri fratelli. Loro sapevano ben fronteggiare il carattere turbolento di Raffaello, ma non Alexis.

Non che non ne fosse in grado, ma non era stato quello, comunque, il modo di affrontare quella situazione, e non ci mise molto la tartaruga ad alzarsi di malo modo lasciando gli altri tre fratelli confusi. Aveva già sentito fin troppi rimproveri in meno di un paio d’ore, il suo ego non avrebbe retto altre umiliazioni.

Pazienza. Pazienza. La stessa cosa che si ripeteva ogni volta che nell’hashi era costretto ad usare quegli insulsi bastoncini metallici per lavorare della lana ai ferri. Una coperta, quello che stava finendo col realizzare. E che probabilmente avrebbe finito nell’arco di un paio d’ore vista la velocità con cui si era immerso in quel lavoro noioso e ripetitivo.

Era un lavoro semplice, che anche un bambino sarebbe stato in grado di fare ma che in quel momento gli permise di distrarsi quel poco che bastava per rimuginare in modo più pacato a tutto quello che gli era stato buttato addosso dopo la dipartita di Alexis dal nascondiglio. Nessuno sembrava essersi risparmiato nel dare voce ai propri pensieri e non poteva dar loro torto.

Non era stato educato. Era stato veramente un bastardo, e lei non se lo meritava. Se ne rendeva conto da solo, ma non aveva alcun modo per poter giustificare quell’ennesima azione istintiva e dettata dalla frustrazione e dalla rabbia che gli aveva occluso la mente per l’ennesima volta. E quella volta non si era ritrovato davanti uno dei suoi fratelli, tutti loro erano ben coscienti del carattere turbolento e irascibile di Raph e sapevano bene come tenergli testa, ognuno a modo loro. Difficilmente lasciavano che le sue parole le prendessero sul personale.

Erano stati sempre paragonati agli steli di bambù, tutti e quattro, fin da piccoli. Esclusi, emarginati, reietti. Rifiutati dagli umani e tirati fuori dalla loro società che tuttavia continuavano a proteggere nell’ombra, ombra nella quale erano cresciuti, si erano fortificati. Poco importava ciò che la vita buttata di fronte a loro, erano stati e sarebbero continuati ad essere resilienti, a crescere dritti senza alcun impedimento. Tutti e quattro, intrecciati a darsi sostegno.

Alexis era uno stelo spezzato. Reciso troppo presto e che non sembrava riuscire a ritornare dritto, forse permanentemente incrinato. Raph l’aveva incontrata quando c’era solo il timido accenno di una lenta e dolorosa ricrescita, e lui l’aveva infranta. Se n’era reso conto troppo tardi, ma l’aveva fatto. Quella timida ricrescita era stata recisa con troppa violenza.

Per quanto resiliente il bambù, c’era un limite alle ferite che poteva sopportare prima di cedere.


--- Note ---
Capitolo decisamente più breve del previsto, ma forse va bene così. Sentivo che sarebbe stato superfluo aggiungere altro, magari puà probabilmente risultare confusionario e non dico che anche per me non lo sia, in alcuni punti. 
Questo è un punto particolare per Alexis e Raph, qui non c'è stato un lieve battibecco ma è stato il danno fatto su una persona già fragile che spezza il cuore.

Ad ogni modo, con questo capitolo inizia ufficialmente la trama del film, quindi da qui si intreccierà con le scene del film in alcuni punti... in altri ci saranno ovviamente, cambiamenti. :3
A proposito, vi rinnovo l'invito a leggere ASSOLUTAMENTE la storia di Made of Snow and Dreams 'Mostro', un piccolo capovaloro che... si intreccia con Burning Bright. Eh giò, ci sarà un cross-over a quattro mani con due fanfiction. Quindi andate immediatamente a recuperarla.

P.S. c'è una 'piccola' citazione anche alla fanfiction di Elenatmnt 'Come tutte le più belle cose'... altro enorme capolavoro, che sto amando e che mi sta mettendo a dura prova ma ne vale veramente la pena leggerlo. Una mamma per amica, l'imperdibile serie di Splinter non poteva non essere presente qui, visto che ho dato parecchio poco spazio al vecchio sensei. Era un buon modo per rendere un piccolo omaggio al ruolo di guida che svolge in questo capitolo per entrambi, e anche un piccolo tributo alla fanfiction.

E c'è anche una citazione dal vecchio maestro Oogway, dove la mente è meravigliosamente paragonata all'acqua, limpida o torbida.

Ciarax

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII
 
                    Gotta look up, just to catch that light
                    Out of the darkness, we burn so bright
 
 


Aveva corso, molto più di quanto non si sarebbe aspettato nelle volte precedenti. Aveva evitato Central Park ma era egualmente soddisfatta, era stato un azzardo uscire con quel tempo ma ne era valsa la pena.

Alexis ricominciò a camminare con più tranquillità, cercando di riprendere fiato e di appianare il fastidio delle cicatrici sensibili provocato dalla pesante umidità. Una cappa che avvolgeva New York da parecchi giorni, portando perlopiù neve che stava, lentamente e inesorabilmente, imbiancando la grande mela.

Non era raro che nevicasse in quell’agglomerato metropolitano ma che ne facesse tanta, a malapena nelle prime due settimane di dicembre era quasi una follia. La strada avrebbe rischiato di essere impercorribile nell’arco di poco tempo, motivo per cui non le sembrò una grande idea tornare indietro li all’aperto.

Nonostante l’abbigliamento tecnico e pesante, un brivido percorse Alexis da capo a piedi e quasi si illuminò quando intravide l’entrata di un sottopassaggio della metropolitana nella traversa successiva. Non indossava le lenti a contatto e non aveva gli occhiali con sé, ma l’insegna ben evidente l’aveva subito riconosciuta.

Non che bramasse particolarmente di tornare a casa. Negli ultimi giorni l’appartamento di Alexis non era altro che un particolare luogo di esasperazione, dalla quale nemmeno lei riusciva più ad esserne portatrice. Si stava riprendendo, anche se con lentezza.

Non era una cosa che doveva succedere. Loro non dovevano succedere. Capita.

Ma questo di certo non le spiegava l’insolita scena di cui era stata testimone e protagonista. Praticamente nessuno sapeva che abitava li, ma qualcosa le era stato recapitato… o meglio, l’aveva trovato di fronte la finestra del soggiorno.

Lana, lavorata a mano. Una coperta di morbida lana rossa ai ferri, come quelle che non potevano fare altro che ricordare a tutti il tempo passato da bambini nelle case dei nonni. La stessa sensazione di calore, di casa. Di famiglia.

Alexis aveva fissato quel morbido concentrato di calore, accuratamente ripiegato, come alla ricerca di una risposta che non trovava. Non c’era un biglietto, nulla. Sapeva che era da parte di Raph, lo stesso lavoro lo aveva visto in una delle sue visite al nascondiglio, ma non era questo il problema.

L’aveva trattata con sufficienza, con un’aggressività che non meritava affatto e neanche era stata smentita in alcun modo quella calunnia nei suoi confronti. Non portava rancore verso gli altri, anche se non sarebbe stata una reazione particolarmente inaspettata; eppure, non poté nascondere una certa amarezza nel ripensare a quel silenzio assordante, claustrofobico.

Cos’era quella dunque? Una richiesta di pace? Un’ammissione di colpa? Come qualcuno con l’ottusità di Raffaello fosse in grado di ammettere una colpa della quale non si sentiva minimamente responsabile. Lì non sembrava esserci un colpevole, e non c’era un biglietto.

Non gliel’aveva portata lui, nessuno di loro di era presentato o l’aveva cercata. Possibile che fosse un semplice gesto disinteressato da parte di quella testa calda? Non avrebbe mai chiesto scusa, che fosse perché sapeva di non meritarlo o perché il suo ego glielo impedisse poco importava. Lui non si sarebbe presentato a chiederle scusa. Lo sapeva.

Alexis riportò finalmente l’attenzione al presente quando si alzò con un sospiro e uscì dalla metro, arrivata alla stazione vicino casa sua. C’era un motivo se detestava rimuginare sulle cose.

Troppe possibilità. Decisamente. Troppe. Possibilità.

Si strinse leggermente nella coperta che teneva sulle spalle, affondando il viso nella morbida lana. Si sentì infantile a quel gesto non poi così dissimile da quello dei bambini incapaci di separarsi dal loro fidato amico di stoffa. Era la loro sicurezza, la zona franca. Così era quel groviglio di lana per lei e poco importava il sentimento contrastante che provava per la persona dietro cui c’era quel piccolo regalo.

Il tempo per quell’innocente pensiero fu bruscamente interrotto quando Alexis si sentì afferrare per una spalla. Buttata seccamente a terra e intimata di non muoversi, un fucile puntato nella sua direzione mentre l’unica cosa che riuscì a registrare per qualche secondo fu il bruciore insopportabile alla spalla.

Non voleva farsi toccare, detestava farsi toccare. Ogni contatto involontario altro non era che venire a contatto con un ferro rovente che le bruciava la pelle, ustionandola; eppure, non poté fare a meno di stringere involontariamente a sé una bambina, gettata anche lei a terra non appena scesa dalla metro e probabilmente separata nella foga dai genitori.

La teneva stretta a sé, circondandola con le braccia e tenendola la testa premuta nell’incavo del suo collo impedendole di vedersi intorno. Senza occhiali o lenti a contatto la sua vista decisamente non l’aiutava e le uniche cose che distingueva erano uomini in divisa scura e armati fino ai denti, giravano per la fermata della metropolitana con il fucile d’assalto spianato e puntandolo contro i malcapitati che di tanto in tanto tentavano di alzarsi per provare a sgattaiolare via.

«Sappiamo che sei qui! Se non ti arrendi, iniziamo a giustiziare gli ostaggi» esclamò all’improvviso una donna. Era in piedi in mezzo a tutti, il forte accento riuscì solamente a dare un minimo indizio ad Alexis che immaginò come non fosse americana.

Alexis era dietro una colonna, non riusciva a vedere chiaramente gli aggressori e fece cautamente capolino con la testa solo nel momento in cui sentì il click di un telefono. Qualcuno aveva scattato una foto. Ritrasse con uno scatto la testa quando sentì nuovamente una pistola venire estratta e puntata nella sua direzione.

Riusciva a stento a tenere gli occhi aperti, sentiva le piccole mani della bambina stringersi sulla coperta che Alexis portava sulle spalle e di risposta lei la strinse a sé. Le braccia erano rigide e il sudore freddo iniziava a gelarle tutti gli arti.

La metro era in arrivo. Il fischiare in lontananza si faceva sempre più vicino. E non appena la corrente venne staccata, piombò il buio. E le urla della donna che ordinò a destra e manca con la ferocia di uno squalo.

Un minuto. Sessanta secondi interminabili scanditi solamente dalle urla della gente terrorizzata attorno a lei, del proprio respiro pesante e dal tremore che la scuoteva dalla testa ai piedi. In un minuto quegli uomini armati erano spariti, tra le luci frammentate del passaggio della metro non si vedeva ad un palmo dal naso ma i forti rumori di una lotta in corso erano inconfondibili.

«Sono andati da quella parte»

«Un mostro, era una specie di mostro ma ci ha salvati!»

«Pazzesco. Erano velocissimi»


Mostro? Non c’era possibilità di sbagliarsi. Erano loro, e a conti fatti quello doveva essere stato il fantomatico Clan del Piede che da settimane aveva alzato il tiro con le proprie ‘scorribande’. I giornali e la televisione difficilmente parlavano d’altro, oltre il nuovo gruppo terroristico che metteva in ginocchio New York e le imprese filantropiche del plurimiliardario a capo delle Sacks Industries.

Lì sotto era il caos, e per una volta Alexis ringraziò il fastidioso ronzio in cui tutto quel marasma veniva trasformato e recepito dal suo udito difettoso. Non c’era comunque modo di riuscire ad orientarsi e fu quasi un miracolo mettersi in piedi e trovare la maniera di uscire prima che intervenisse la polizia, con le volanti già appostate fuori l’entrata della metropolitana.

Gli agenti non erano molti e sgusciare via fu più facile del previsto. La scarica di adrenalina e di paura erano ancora in circolo nel suo corpo e forse fu proprio in quella momentanea assenza di giudizio critico che mandò all’aria la cautela e si inerpicò sulla scala antincendio di un palazzo adiacente. Sapeva perfettamente dove trovarli e per una volta non sapeva se sarebbe stato saggio o meno lasciar perdere.

Devo decisamente cambiare zona per andare a correre, fu l’unico pensiero coerente di Alexis mentre si affannava un piano dopo l’altro. Otto piani di scala erano probabilmente l’ultima cosa che le serviva in quella giornata più movimentata del previsto e finalmente poté tirare un sospiro di sollievo quando raggiunse il tetto del palazzo all’ultimo piano.

Le giunsero voci leggermente ovattate a causa della distanza ma il timbro di tutti e quattro fu inconfondibile. Con un ultimo sforzo scavalcò e si rimise in piedi sul tetto del palazzo, senza preoccuparsi minimamente di nascondere la propria presenza. Alexis avanzò di qualche passo con calma, l’attenzione totalmente rivolta su di loro per accorgersi di una sesta figura precariamente abbarbicata su una scala.

«Avete visto la mascella di quel tizio com’era in sintonia con l’asfalto» esclamò eccitato uno dei quattro.

«Oh, siamo stati fantastici, fratelli. Come ombre nella notte» concordò l’altro.

«Completamente invisibili, eh?»

Gelati. Tutte e quattro le tartarughe erano completamente immobilizzate sul posto, l’entusiasmo di quella missione appena portata a termine, evaporato come neve al sole. La voce di Alexis era risuonata inconfondibile al loro udito e un brivido poco piacevole aveva attraversato la schiena di Michelangelo, favorevole alla vista piena della maschera gelida sul volto dell’amica.

«A-Alexis? Come… come mai da queste parti?» domandò balbuziente proprio lo stesso Michelangelo, tentando di scrollare di dosso la patina di avvertimento che gli altri fratelli avevano rivolto lui nel momento in cui aveva deciso di alleggerire la situazione.

Alexis non fiato, degnò a malapena di uno sguardo la povera tartaruga, totalmente assorbita invece dal fratello; Raph, al contrario, cercava in ogni modo di evitare quello sguardo che lo avrebbe probabilmente fulminato sul posto se solo ce ne fosse stata l’occasione. La furia della ragazza era percepibile anche a quella distanza e con cupa consapevolezza sapeva di esserne stato lui la causa.

Le sirene della polizia e dei paramedici nelle ambulanze era solo un rumore di fondo, tutti e cinque in quel momento avevano ben altro a cui pensare. Non c’era un alito di vento a scorrere tra loro e l’unica cosa sembrò l’impercettibile tremore delle mani di Alexis che stringeva la coperta ripiegata grossolanamente.

Sia Donnie che Raph si accorsero della stretta convulsa delle mani di Alexis ma non fecero a fermare Michelangelo dal tentare qualunque altro approccio che un flash illuminò i loro volti a giorno. Il flash di un telefonino che aveva appena scattato loro la foto, fece girare tutti nella stessa direzione dove una ragazza era in piedi terribilmente vicino il cornicione del palazzo.

«Ci ha… scattato una foto?» domandò Mickey confuso prima di vedere la misteriosa ragazza crollare a terra come un sacco di patate, svenuta.

Incontro… strano. Non era esattamente così che Alexis sperava di incontrare di nuovo le tartarughe, e Raph. Era lui quello che, immobile, non aveva accennato neanche un cambio di espressione.

Donatello attirò l’attenzione di tutti schiarendosi la gola con leggero imbarazzo, «Forse dovremmo portarla da un’altra parte, qui rischia di farsi ancora più del male se sviene nuovamente. Un punto meno pericoloso sarebbe l’ideale» suggerì sistemandosi gli spesso occhiali, rivolgendo un piccolo sorriso ad Alexis e un cenno con la testa a Raph.

Fu lui infatti l’unico a rimanere indietro dopo che Donatello e Leonardo si furono dileguati con la ragazza svenuta, rimbeccando nel mentre Michelangelo che era in procinto di domandare qualcosa di inopportuno in quel momento.

C’erano solo loro due, ed anche fin troppa distanza. Raffaello si accorse con parecchio ritardo che, nonostante la rabbia che traspariva dal volto di Alexis, lei non aveva minimamente cercato il suo sguardo. Lo stava evitando.

«Cosa. Diamine. Signifi-» tre parole scandite con lentezza ma che vennero bruscamente interrotte quando sentì le labbra di Raph sulle sue.

Era stato in un gesto irruento, quasi rabbioso mentre ancora stringeva tra le mani la stessa coperta che gli aveva regalato lui senza il minimo segno di spiegazione. Che cosa volesse risolvere con quel gesto era ancora più un mistero.

Raffaello aveva accorciato le distanze tra loro in meno di un secondo, scattando appena aveva sentito la voce di Alexis. Poca attenzione aveva prestato al tono d’ira con cui si stava rivolgendo a lui, troppo concentrato sugli occhi verdi che finalmente scattarono con i suoi. Era prossima alle lacrime dalla rabbia, ecco perché non lo guardava.

Alexis rimase immobile, irrigidita di scatto a causa dell’imprevedibilità di quel gesto e quasi costretta anche dal punto troppo vicino il bordo del palazzo in cui si trovava. Le sembrò quasi un’eternità prima che quel bacio si interrompesse e Raph mettesse un po’ di distanza tra i loro volti.

Osservò per un attimo l’espressione completamente persa di Alexis che si velò appena di imbarazzo. Quella volta sembrò lui essere sul punto di dire qualcosa ma non fece in tempo quando colse troppo tardi il piccolo sorrisetto divertito di Alexis, che premette le labbra su quelle di Raph.

Un brivido percorse la schiena della tartaruga quando si aspettò per un attimo la sua stessa irruenza, che non arrivò. Era stata delicata, leggera. Stessa cosa non fu però per Alexis che per una volta si sentì nuovamente bruciare qualcosa dentro.

Quello non era noioso, o asettico… era suo. Irrimediabilmente suo. E Alexis sfidò silenziosamente qualsiasi cosa avesse anche solo il coraggio di mettere il naso in quell’idillio che la fece sentire nuovamente viva.

Le mani di Raffaello, enormi rispetto alle sue erano saldamente ancorate ai suoi fianchi. L’aveva arpionata sul posto, in mezzo al caos che proveniva ancora da sotto il palazzo e che non toccava nessuno dei due.

Alexis avvertì la sua mano terribilmente vicina al fianco offeso, ma nonostante l’urgenza nel non farla muovete neanche di un passo, Raph non fece nessuna pressione nella sua presa. Sentiva la pelle sensibile, ribollire al calore piacevole emanato da Raffaello.

Proprio la tartaruga accennò un sorriso sghembo quando notò il corpo di Alexis avvicinarsi impercettibilmente al suo, attirata dal calore del suo corpo.

«Ti prendi decisamente troppe libertà» soffiò Alexis quando si allontanò di pochi centimetri e studiando con attenzione il volto di Raph, improvvisamente disteso in un’espressione rilassata.

«Mi sembri abbastanza testarda da protestare se non ti fosse piaciuto» commentò con semplicità, divertito dell’improvviso rossore ad imporporare il naso e le guance di Alexis.

La ragazza borbottò qualcosa di incomprensibile, storcendo leggermente il naso e enfatizzando involontariamente le lentiggini appena accennate. Abbassò la testa verso le mani di Raph ancora ferme a mandarle piacevoli ondate di calore nel corpo.

Seguì con lo sguardo la linea delle braccia marchiando a fuoco nella mente ogni linea e accentuazione dei muscoli ben sviluppati. Allungò appena la mano, toccando con la punta delle dita la pelle liscia e puntellata da qualche scaglia particolarmente interessante. Ammaliata dalle incredibili sfumature delicate di verde che avrebbe sicuramente avuto difficoltà ad imprimere nel modo giusto in uno dei suoi ritratti.

Era un qualcosa di cui non sarebbe bastata un’intera orchestra per descrivere quell’idillio che le aveva nuovamente infiammato l’anima.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII ***


CAPITOLO XIII
 
When you're down down on your luck
Things got tough and you had enough
When you fall down I'mma pick you up
 
 

Finalmente un paio di giorni di pace, un po’ di sonno recuperato e qualcosa che sembrava essere sempre più simile ad un presentimento di buon auspicio. Era quello che Alexis da quasi due giorni stava sperimentando, con una buona dose di incredulità ma anche bisogno di viverlo appieno.

Come si fosse incasinata in quella situazione in meno di un paio di mesi ancora non riusciva a spiegarselo, sarebbe sicuramente risultato assurdo, una storia costruita da qualche ente superiore solo per il mero gusto del tragico. Eppure non avrebbe trovato modo migliore per smuovere quella vita che le stava sempre più stretta. Non ci sarebbe decisamente stato un modo migliore.

Dopo l’attacco alla metro, non ci fu molto di entusiasmante: le solite notizie del Clan del Piede che invadevano ogni canale di informazione televisiva o radiofonica, le voci che si erano diffuse a macchia d’olio di un qualche giustiziere della notte. Dopo i vari e multipli testimoni che avevano assistito allo scontro nella metro, quella voce aveva preso sempre più credito anche se la maggior parte continuava a considerarla come una semplice notizia metropolitana volta al tentativo di intimidire il crescente tasso di criminalità, specialmente quella organizzata.

Alexis non ascoltava le notizie da parecchio tempo, e aveva infatti speso l’intera mattina al telefono con Flynn, abitudine che i due stavano lentamente riprendendo. Ricucendo i brandelli del rapporto quasi fraterno che Alexis aveva reciso senza preavviso due anni prima, lasciando senza motivo o spiegazione Chicago e buttarsi nel centro di New York.

Certo il cambio di tono non era passato inosservato a Flynn, immediatamente inquisitorio su cosa, o meglio chi, avesse provocato quel cambio di atteggiamento in Alexis. Alle volte le risultava come un libro aperto, poco serviva sentire solamente la sua voce, sarebbe stato in grado di replicare la sua mimica facciale a memoria.

Alexis sapeva fin troppo bene quanto l’amico non avrebbe mollato la presa se solo avesse nominato il nome di Raffaello. L’aveva perdonato? Assolutamente no. C’era stata solo una sommaria spiegazione con un breve messaggio su cosa quel giorno avrebbero probabilmente dovuto subire. Hashi. Non si era neanche presa il disturbo di cercare un significato per quella parola, chiaramente straniera. Sarebbe sopravvissuta comunque con il dubbio.

Dopo l’incidente con il Clan del piede, aveva passato una giornata veramente monotona e solitaria. Non che le dispiacesse avere del tempo per sé, ma per la noia aveva finito con il sistemare da cima a fondo il proprio appartamento, puntualmente privo di qualsivoglia eventuale ospite. Che lo avesse fatto inconsciamente sperando che sarebbero riprendesse le visite serali di Raph, non lo avrebbe ammesso neanche alla piccola Faye, pigramente acciambellata sul divano mentre scoccava occhiate di tanto in tanto all’umana che tanto si impegnava a riordinare l’immensa collezione di vinili.

La discreta collezione a malapena aveva trovato una postazione definitiva in quell’ormai già strapieno scaffale, superando di gran lunga la collezione di CD, molto più esigua e circoscritta. Anche le foto, le polaroid scattate e i disegni erano stati raccolti e riordinati, riempivano ancora quasi per intero gran parte delle pareti del soggiorno e della sua camera da letto ma almeno sembravano avere un certo nesso logico. O almeno così sperava Alexis.

Canticchiò a voce bassa mentre a malapena si accorse di quanto già si fosse fatto tardi, distratta dalla modalità casuale di riproduzione sul proprio telefono che l’aveva sorpresa con alcuni brani pop che neanche pensava di aver mai sentito. Un messaggio poi interruppe l’ennesima canzone e la costrinse a guardare il mittente.

Era il numero che usavano le tartarughe per mandarle dei messaggi dal computer di Donatello.

«April?» la domanda sorse spontanea in Alexis che neanche ebbe il tempo di rispondere al messaggio, con una chiamata improvvisa in arrivo.

«Hey, Al! Spero tu non abbia da f- Ahi!» la voce di Michelangelo venne prontamente interrotta da un tonfo sordo prima che qualcun altro prendesse il suo posto.

«Alexis? Mi dispiace per il poco preavviso ma ci servirebbe un favore davvero enorme, -la cordialità di Donatello era risultata per un attimo più di tirata del solito ma non ricevendo alcuna protesta da parte di Alexis riprese quello che stava dicendo, -Dobbiamo portare April O’Neil al sicuro, o meglio, dobbiamo convincerla. Se tu potessi venire con noi sarebbe fantastico, ecco, sai com’è… vedere un altro volto umano forse diminuirebbe le sue probabilità di avere un altro mancamento»

«April O’Neil? La ragazza che vi ha scattato la foto due giorni fa?»

«Quella svenuta sul tetto? Già. Allora, vieni?» domandò nuovamente Donnie, con una nota di impazienza.

Alexis esitò qualche secondo. Qualcun altro oltre a lei aveva scoperto dell’esistenza di quei quattro mutanti, qualcuno che era svenuto la prima volta al loro incontro. Gli sfuggiva il motivo per il quale dovevano di nuovo incontrarla visto che Donatello aveva provveduto la sera stessa ad eliminare qualsiasi prova potesse esserci della loro esistenza.

A quanto pare qualcosa le sfuggiva ancora.

«Si… ci sono» confermò prima di sentire i versi entusiasti di Michelangelo e il sincero ringraziamento di Donatello.

Non ebbe molto tempo per prepararsi e lasciò semplicemente Faye nella propria gabbia prima di uscire dopo aver messo la prima felpa che trovò nella sua camera ed uscì richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo secco.

Nonostante il freddo e la neve, il cielo era sereno. Il buio era meno spaventoso e oppressivo se c’era tutta quella morbida coltre di neve ad imbiancare New York, una placida visione che rasserenò Alexis mentre camminava per le strade quasi deserte. Ricordava il luogo prefissato per l’incontro e per una attimo soppesò la probabile idea che Raph non sapesse del suo coinvolgimento.

Se lo sarebbe ritrovato alle costole già dalla porta di casa se lo avrebbe saputo, se Donnie glielo avesse detto. Ma non ci mise molto tempo a raggiungere l’incrocio tra la quarta e la dodicesima strada, se fosse per il freddo o per la voglia matta di tornare a casa non rimase molto a pensarci.

Alexis sperò semplicemente che quella situazione si risolvesse il prima possibile, per nulla intenzionata a fare nuove amicizie in quel momento.

Sbadigliò sonoramente prima di notare con la coda dell’occhio qualche pazzo sgravato inerpicarsi su di una scala antincendio, diretta all’ultimo piano della palazzina alquanto anonima.

Deve essere lei April.

Seguì silenziosamente la ragazza che indossava un giacchetto giallo fin troppo appariscente, certo non il massimo per quelle temperature rigide né per passare inosservati. Non che il mimetismo fosse qualcosa di cui sembrò preoccuparsi la ragazza, una volta raggiunto il tetto infatti iniziò a parlare a gran voce, sperando di attirare l’attenzione di chi era nell’ombra.

Chi era nascosto nell’ombra solo finché non si sapeva cosa si stesse cercando, a quel giochino Alexis era diventata piuttosto brava e, una volta arrampicatasi anche lei, scorse senza troppe difficoltà l’imponente figura di Raph vicino Michelangelo.

«Mi avete detto di venire qui, -continuò April, indecisa esattamente su cosa dire, -Non ho portato nessuno con me…»

«Dovresti stare più attenta allora a quello intorno a te» la voce di Alexis distrasse April che si voltò di scatto. Improvvisamente irrigidita dalla sua presenza lì, faticò appena a ricordarla come quella che l’aveva già seguita una prima volta e che, contro ogni logica o probabilità, già conosceva quelle strane creature mutanti, di cui ancora non ve n’era l’ombra.

«Al, sei venuta! Tu invece sei April O’Neil?» domandò entusiasta Michelangelo, saltando giù dal muretto e prendendo di sorpresa la stessa April, non ancora abituata ai modi espansivi del più giovane degli Hamato.

Donnie fu il secondo ad uscire allo scoperto e, una volta appurato come fosse effettivamente lei la ragazza che stavano cercando, rivolse un cenno di saluto anche ad Alexis. Non era quello esattamente il modo in cui aveva sperato di incontrare April ma non poteva certo lamentarsi, la ragazza non sembrava essere sul punto di svenire nuovamente. Doveva essere un buon segno.

Un sacco in testa. Correzione, un sacco in testa con una faccia sorridente disegnata sopra. Fu un miracolo che Alexis non scoppiò a ridere a quella vista a dir poco ridicola, specialmente dopo che fu Raph a mettere suddetto sacco sulla testa di April. Dovevano impedirle di vedere dove sarebbero passato per portarla nel loro nascondiglio, anche se qualcosa di meglio avrebbero potuto inventarsela.

«Che cosa ridicola» sospirò finalmente Alexis, incapace di trattenere un sorriso quando la testa di April scattò nella sua direzione facendole avere un faccia a faccia con il sacco adornato da un sorriso stilizzato.

«Che ci fai qui?» fu la domanda inquisitoria invece di Raffaello che attirò l’attenzione di Alexis.

La tartaruga era rimasta per qualche attimo sorpreso nel vederla seguire a ruota April, il loro obiettivo sin dall’inizio. Raffaello non aveva minimamente pensato che avrebbe dovuto anche fronteggiare Alexis, dalla sera dell’attacco non l’aveva ancora sentita e difficilmente l’avrebbe perdonato, lo sapeva.

«Mi ha voluta lui. Donatello pensava che avrei impedito ad April di svenire di nuovo, ma se non mi vuoi qui basta dirlo» replicò semplicemente lei indicando con un cenno la tartaruga con gli occhiali.

Raph scosse la testa, rigirandosi per un attimo lo stuzzicadenti, «Non è quello… ti avrei accompagnato. So che non ti piace uscire da sola quand’è buio»

Alexis lo squadrò con attenzione, per un attimo con l’impressione di averlo messo in soggezione nonostante il doppio, se non il triplo, della stazza e del peso. Poteva far uso di tutta la forza bruta e le maniere brusche che voleva ma non aveva possibilità se non era in grado di gestire una semplice conversazione o richiesta silenziosa di spiegazione.

Lui doveva scusarsi e lei meritava un chiarimento. Lo sapeva Raffaello e lo sapeva anche Alexis.

Raph evitò il suo sguardo per tutto il tempo, non l’aveva mai fatto; anzi, solo una volta, quando si era sfogato mentendole solo per allontanarla da loro ed impedirle di finire ancor più nei guai se fosse finita nel mirino del Clan del piede. Non era un tipo da aver paura di fronteggiare qualcuno più grande di lui, con o senza i suoi sai… ma metterlo di fronte una ventunenne con un caratterino, e si rivelava più codardo del proprio cincillà.

Un bambino che va accompagnato per mano, sospirò Alexis rinunciando all’idea che Raph avrebbe mai affrontato l’argomento di sua spontanea volontà. Tutti e quattro grandi e grossi ma rimanevano pur sempre a malapena quindicenni in piena pubertà, con poca se non zero esperienza o maturità emotiva.

«Possiamo rimanere qui tutta la notte ma io ho freddo. Ti comporti come un bambino, mi hai ferita e se non ti trascino tu non ne parlerai mai. Seppelliamo tutto e andiamo? Gli altri ci staranno aspettando»

Raffaello finalmente guardò con attenzione Alexis, aveva il volto rilassato ma l’espressione seria, non c’era traccia di un sorriso sulle labbra. La mano destra tesa nella sua direzione mentre il braccio sinistro circondava il fianco offeso, aveva freddo e la pelle era sensibile a quelle temperature proibitive.

«Si, andiamo» concesse finalmente Raffaello, afferrò la mano di Alexis e la portò rapidamente giù con sé per raggiungere gli altri il prima possibile, diretti al loro nascondiglio.

Alexis aveva un pessimo presentimento.

Tutta quella situazione non le piaceva affatto e non serviva un genio per leggerle in volto il fastidio di essere lì… con April. Non capiva quella ragazza, o meglio, era facile da leggere come un libro illustrato per lattanti ma non era quello il problema. Il motivo della sua presenza lì, qualcosa non tornava e sembrava solo la solita e prevedibile quiete prima della tempesta. Una vera e propria bufera in procinto di scatenarsi su di loro.

L’entusiasmo di Michelangelo era stato difficile da smorzare e persino Leonardo non ebbe il cuore di far tacere il fratello minore, totalmente preso dalla nuova conquista. Non c’era stato alcuno svenimento anche se April non sembrava affatto a proprio agio.

Era quello che non piaceva ad Alexis. Perché si era presentata all’incontro se aveva paura di loro? Aveva colto le occhiate furtive che rivolgeva non appena Michelangelo o Donatello si avvicinavano troppo, spesso cercando un silenzioso sostegno proprio in Alexis che, dopotutto, si era rivelata l’unica altra figura umana su cui avrebbe potuto far riferimento.

Le pupille dilatate e il corpo rigido di April non piacevano affatto a Raffaello. Era un segnale inequivocabile di come non si sentisse a proprio agio, lì, con loro. Un animale braccato che non sa se fingersi morto o provare una disperata manovra di fuga. Ecco come si sentiva e l’impressione che stava dando April a Raffaello.

Splinter al contrario l’aveva accolta, l’aveva ascoltata e l’aveva tranquillizzata così come aveva fatto le prime volte con Alexis. Ci sapeva fare e sapeva come muoversi. Silenzioso e rispettoso ma sapeva quando parlare.
Era lei, la ragazza che aveva salvato le quattro tartarughe e Splinter dal laboratorio dove erano state sperimentate. Era lei quella che li aveva portati fuori e permesso loro di avere un’altra occasione per vivere. Hogosha. Guardiano, custode, la loro protettrice.

«È lei la nostra Hogosha» le parole di Splinter furono un lampo a ciel sereno per Leonardo. Il grande spirito guardiano che aveva vegliato su di loro era lì davanti, una semplice e comune ragazza.

Leonardo si ricompose in fretta, rigido nella postura si inchinò rispettosamente seguito a ruota da Michelangelo e poi Donatello. Raph fu l’unico a non inchinarsi, ancora risentito e silenziosamente a disagio in presenza di April. Voltò di poco la testa quando sentì la piccola mano di Alexis stringere la sua molto più grande, era comunque a poca distanza da lui ma gli aveva preso la mano nonostante tutto.

Non aveva detto nulla da quando erano arrivati ma gli parve chiaro come condividesse in parte i suoi stessi pensieri. Stava tentando di rassicurarlo in modo discreto, non volendo interrompere quel momento nella quale Alexis si sentiva fuori posto e di troppo. Raffaello tornò a prestare attenzione alle parole piene di ammonimento di Splinter, stringendo a sua volta la mano di Alexis quando improvvisamente scattò l’allarme del perimetro di Donatello.

Forse avrebbe dovuto tenere la presa sulla sua mano un po’ più salda.

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Capitolo 15
*** Capitolo XIV ***


CAPITOLO XIV
 
Is the world celebrating
While you're there suffocating
No shred of sympathy to be found?
 
 

L’ABCD del primo soccorso, un acronimo semplice, efficace per ricordare le basi di tutto quello da controllare in caso di emergenza. Alexis le conosceva a memoria, con Flynn avevano frequentato un corso a Chicago subito dopo che l’avevano dimessa dall’ospedale. Non aveva voluto sentire ragioni e l’aveva costretta ad imparare tutte le nozioni a menadito.

Ma quello aveva valenza sugli esseri umani, non sui ratti.

Sono sempre mammiferi. È un mutante, ci dev’essere qualche somiglianza, ci doveva essere qualcosa che avrebbe potuto fare, non poteva lasciare Splinter in quelle condizioni. Non poteva contare sull’aiuto di Raffaello, completamente assorbito dall’orribile visione del suo Sensei morente. Di suo padre.

La tartaruga si era fatta strada tra quelle macerie con una rabbia mai vista, la stessa furia che però si era liquefatta non appena Raffaello si accorse della figura accasciata a terra di Splinter. Degli altri tre fratelli non v’era traccia se non le loro armi abbandonate a terra tra i blocchi di cemento caduti dalle esplosioni, Alexis ed April erano a poca distanza, in piedi.

April era fortunatamente quasi totalmente indenne, sporca in più punti ma nulla di rotto. Raffaello al contrario era una statua, marmoreo non osava muovere un muscolo. Non sembrava avere ossa fratturate ma il carapace era graffiato e alcune crepe timidamente iniziavano ad affacciarsi. Le delicate squame verdi erano ricoperte di sangue, colava dalle ferite aperte, dalla pelle lacerata ma non se ne lamentava. Il dolore era altro.

Airways. Doveva controllare le vie aeree. Splinter era supino sul pavimento del soggiorno dell’appartamento di Alexis, il petto si abbassava e alzava frequentemente, brevi intervalli di fiato corto, troppo corto. La testa era tenuta parallela alla spina dorsale cercando di facilitare quanto più possibile l’afflusso di aria.

Breath. I respiri erano flebili, spezzati e non fu difficile capire come probabilmente una o più costole premessero contro i polmoni; anche se rapido però, non c’era nessun rantolio.

Circulation. Polso carotideo, doveva cercare il battito. Alexis poggiò con estrema delicatezza due dita tremanti fino a sentire contatto con la pelle di Splinter, individuò la laringe e fece maggiore pressione. Socchiuse gli occhi una volta individuato il battito, contò schiudendo appena le labbra una volta passati a malapena dieci secondi.

Quasi novanta battiti al minuto, era irregolare e non aveva la minima idea di quale sarebbe dovuta essere la frequenza cardiaca normale di un ratto di quelle dimensioni. Anche se il respiro era frammentato non sembrava esserci nessun collasso polmonare, il cuore faticava ma pompava comunque sangue.

Non aveva bisogno di una rianimazione cardiopolmonare il che era decisamente una buona notizia, ma le ferite che aveva riportato anche sugli arti superiori non accennavano a smettere di sanguinare.

«April, -richiamò Alexis, schiarendosi la gola più di una volta, -nel bagno c’è un kit di primo soccorso. Prendi tutto quello che trovi, asciugamani, lenzuola, qualcosa per fare pressione»

April non sembrò essersi quasi accorta delle parole di Alexis, era al fianco di Splinter e lo guardava con aria assente. Non era ferita ma non sembrava minimamente accorgersi di quello che le stava capitando attorno.

«April, Muoviti!» sbottò nuovamente Alexis, il tono alzato di un’ottava e la gola che le raschiava a causa di quell’urlo improvviso.

Ne ho già uno in catalessi, sospirò, tossendo un paio di volte quando vide finalmente April rianimarsi e farle un cenno esitante. Si diresse immediatamente nella sua camera, diretta verso il bagno e Alexis sperò che ritrovasse in fretta la lucidità necessaria per darle una mano.

Non avrebbe sicuramente potuto contare su Raffaello, non aveva degnato nessuno di uno sguardo da quando avevano portato Splinter nell’appartamento della ragazza. Quantomeno non era ferito a tal punto da rischiare la vita, e Alexis dubitava avrebbe potuto fare qualcosa. Non era un medico, sapeva solo quelle poche basi di primo soccorso e riuscire ad improvvisare e adattare il tutto su dei mutanti… non era cosa facile.

Era stato incredibile la sua resistenza dopo che tutte quelle macerie gli erano crollate addosso come un castello di carte, sommergendolo. I membri del Clan del Piede neanche persero tempo a controllare se qualcosa fosse rimasto vivo lì, non accorgendosi persino di Alexis ed April malamente nascoste e ancora tutte intere.

Avevano la loro refurtiva. Tre cavie vive su un totale di cinque non era affatto un risultato da declassare a mero fallimento.

«Raph, -sussurrò Alexis, la voce roca dopo aver respirato tutto il fumo causato dalle esplosioni durante l’attacco, -mi occupo io di lui… dovresti provare a riposare un po’»

«Il localizzatore di Donnie era ancora attivo quando ce ne siamo andati, c’era la loro posizione intercettata» asserì Raffaello senza muoversi di un millimetro e lasciando la sua attenzione totalmente occlusa sul volto del proprio sensei.

Raph non diede il minimo accenno di averla neanche sentita, non distolse lo sguardo dal corpo accasciato sul pavimento mentre ricominciava il lento e agonizzante ennesimo riepilogo mentale di quello che era successo. Tutto avvenuto troppo in fretta ma non poté ignorare come più lo ripeteva senza freni nella propria mente e più sentiva il petto scaldarsi minacciosamente, non della solita rabbia, più viscerale.

«Non puoi pensare di andare a salvarli così di getto. Non scherzano, sono armati e organizzati, ti faresti ammazzare prima di neanche trovare dove si trovano Leonardo e gli altri» puntualizzò Alexis con una nota più dura nella voce, odiava quando non le davano retta come se fosse un qualcosa di poco conto la sua presenza lì. Non c’erano stati giri di parole e la freddezza con la quale l’aveva detto pungolò come una lama Raffaello, ancora terribilmente punto nell’ego e nella sicurezza dopo quell’attacco di sorpresa.

«Che cosa?» ringhiò la tartaruga girando la testa di scatto come una molla, gli occhi verdi accesi dalla rabbia.

«Eri sotto le macerie, Raph. Ti saresti solo fatto catturare anche tu» riprovò nuovamente, la voce bassa cercando di addolcire il tono. Lo stesso approccio di quando si parla ad un cucciolo o un animale selvatico spaventato e messo alle strette, mantenne un tono di voce pacato e meno inflessibile rispetto a prima sperando e cercando di far ragionare Raffaello.

«Non è questo il punto» replicò freddamente Raph, giratosi questa volta totalmente verso la ragazza al suo fianco che aveva ancora le mani premute su una delle ferite sanguinanti di Splinter.

«E allora qual è il punto, Raffaello!» urlò esasperata Alexis. Vide Raffaello costringere gli occhi a due fessure minacciose, la stessa screziatura tanto docile fino a pochi giorni prima era diventata una lama fredda puntata alla gola.

«Non sono i tuoi fratelli. Non è la tua famiglia. Parli bene quando sei tu quella che si è lasciata raggirare da quel povero pazzo che ti ha fatto… quello» la zittì Raph con un verso rabbioso, sembrava un ringhio gutturale tanto era basso. La tartaruga non degnò di uno sguardo nient’altro attorno a sé, sparì in meno di una decina di secondi saltando dalla finestra in cui era solito aspettare paziente che Alexis si accorgesse della sua presenza.

April non fiatò, era lei quella di troppo in quel momento. Non aveva neanche fatto in tempo a tornare dal bagno con in mano quello che Alexis le aveva chiesto di prendere per cercare di stabilizzare il più possibile Splinter; si era ritrovata con il ringhio di Raffaello che mai l’aveva sentito infuriato a quel modo.

Poggiò delicatamente a terra il kit di primo soccorso e alcuni asciugamani ripiegati che aveva trovato su uno dei ripiani nel bagno. Notò appena come Alexis riportò lentamente, in modo come doloroso, l’attenzione sulle poche ferite ancora sanguinanti di Splinter: aveva le mani imbrattate di sangue ed era completamente sporca di fumo e tutto quello che era capitato loro nelle ultime ore ma non sembrò curarsene, abbassò semplicemente la manica destra della felpa sull’avambraccio, lasciando ulteriori tracce indelebili di sangue sul tessuto e sulla sua pelle.

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Capitolo 16
*** Capitolo XV ***


CAPITOLO XV
 
          I couldn't tell you I'm sorry
          I couldn't get the words out right
          I had every chance to keep you by my side

 ...
14 Gennaio


«Sei stato veramente un’idiota» la voce di Raffaello risuonò tra le pareti ammuffite delle fogne di New York in un macabro rimbombo e sovrapposizione di echi.

Macerie. Ecco quello che rimaneva di quel nascondiglio che era stato la loro casa per quasi quindici, lunghissimi anni. Si erano allenati, avevano mosso i primi passi, impugnato le prime armi… avevano lentamente e di nascosto scoperto il mondo esterno da lì. Splinter l’aveva iniziata e loro, tutti e quattro, avevano finito con il renderla un posto tutto loro, personale, insieme.

E macerie era quello che ne rimaneva. Qualsiasi oggetto personale era probabilmente andato perso ma neanche ci sarebbe stata la pazienza di cercare tra i calcinacci ammuffiti e l’odore acre del fumo che ancora impregnata quel luogo.

I passi di Raffaello rimbombavano pesanti all’interno del cunicolo vuoto, non c’era alcun bisogno di essere silenziosi in quel momento, era stato già perso talmente tanto che l’effetto sorpresa non era stato affatto preso in considerazione. Senza tenere conto del flebile russare del cincillà abbarbicato nell’incavo tra il collo e il carapace di Raffaello, come si fosse infilato in quel piccolo antro rimase un mistero alla tartaruga stessa.

«Sei piuttosto rumorosa per essere un roditore così piccolo» borbottò a bassa voce Raph, per nulla disdegnando quella piccola ma piacevole compagnia specialmente in quel momento.

Che avesse fatto un’idiozia non serviva ripeterglielo, ben cosciente anche da solo di quello che aveva detto completamente offuscato dalla rabbia montatagli in petto all’improvviso. Era furioso per non essere riuscito a fare qualcosa, non aver potuto aiutare ed impedire ai membri del Clan del Piede e agli uomini di Sacks di prendere i suoi fratelli.

Alexis aveva ragione, non avrebbe potuto fare nulla da sotto le macerie. Forse era stato meglio così, creduto per morto aveva avuto la possibilità di sfuggire agli aguzzini dei suoi fratelli e di soccorrere Splinter per tempo; non osava pensare cosa sarebbe potuto accadere se solo il vecchio sensei fosse stato lasciato lì da solo.

Nessuno di loro si sarebbe perdonato se Splinter fosse morto.

Si continuò a ripetere come il vecchio ratto fosse al sicuro nell’appartamento di Alexis e lasciato alle sue mani, non si sarebbe fidato di nessun altro in quel momento. Eppure l’aveva ustionata con le sue parole, le aveva sputate fuori come veleno ed era scappato via prima di potersi anche solo accorgere dell’espressione sul volto della ragazza. Era scappato come un codardo.

E come un codardo adesso stava ritornando a casa sua, nella loro casa, dove non c’erano altro che macerie e calcinacci. Tutti gli oggetti che avevano accumulato serialmente negli anni era stato tutto distrutto o finito sotto le pareti crollate, quasi nulla era stato salvato. L’acqua delle fogne stagnava sul pavimento per un paio di centimetri e l’odore era molto più pungente di prima.

L’occhio di Raph colse immediatamente il Bo di Donnie, abbandonato in mezzo all’acqua, i nunchaku di Michelangelo e la katana di Leonardo. Non solo avevano rapito i suoi fratelli ma li avevano privati delle loro armi, come se poi ne avessero avuto bisogno con almeno il doppio della stazza di un essere umano normale.

«Non è rimasto nulla qui!» sbraitò di rabbia, un ringhio gutturale natogli in petto dalla frustrazione. Raffaello serrò i pugni, non c’era alcun indizio utile lì che avrebbe potuto aiutarlo a trovare i suoi fratelli: tutto era stato gettato all’aria, nulla si era salvato da quella furia di attacco e trovare qualcosa al suo posto era impossibile.

Passò dieci lenti minuti a raccogliere con perizia le armi dei fratelli, ancorandole saldamente addosso a sé per impedire di perderle nuovamente, le avrebbero sicuramente rivolute indietro una volta riuniti. Fu solo un improvviso allarme a destare la sua attenzione.

Raph si girò di scatto, entrambi i Sai alla mano prima di accorgersi di essere comunque da solo; il computer di Donnie, nonostante i pesanti contraccolpi e l’acqua sembrò funzionare, lampeggiando il segnale del localizzatore che lo stesso genio in viola aveva progettato e che portava sempre con sé.

Aveva le coordinate del punto in cui erano stati portati tutti e tre.

La reazione più naturale sarebbe stata partire di gran carriera senza pensare un attimo ad un piano di riserva, buttarsi a capofitto in quella che sarebbe probabilmente stata una missione suicida. Ma non lo fece, e non per il piccolo cincillà ancora placidamente addormentato al sicuro vicino il suo carapace.

Se avesse agito d’impulso avrebbe solamente finito col venire catturato dal Clan del Piede e da Shredder, avrebbe dato un motivo in più alle Sacks Industries di perseguire quei loro folli piani di scoprire cosa si nascondesse nei loro geni. Per quanto istintivo non sarebbe stato tanto stupido da gettarsi nella tana del nemico senza una vaga idea di come uscirne vivo.

E un’idea era proprio quella con aveva. Si maledì per quell’improvvisa mancanza del solito temperamento focoso che non lo faceva mai fermare a rimuginare sul da farsi, non era abituato. Non era da lui riflettere più del necessario, specialmente quando c’era in gioco la vita di Leonardo e gli altri, non era lui quello che si preoccupava del risultato delle proprie azioni.

Le parole di Alexis gli ritornarono di nuovo alla mente e Raffaello dovette serrare la mascella per non urlare di rabbia, incapace di ammettere per una volta la sconfitta. Era un’umana, così piccola, fragile, l’avrebbe facilmente rotta tra le sue mani. Non agiva mai d’istinto, si fermava a pensare per ore su quello che stava per fare e non c’era mai un attimo in cui non pensasse alle conseguenze delle proprie azioni sugli altri.

Non potevano essere più diversi, e lei non era come lui: non aveva affatto la stessa rigida corazza di ego e arroganza che nascondeva e teneva al sicuro la sua insicurezza; quello di Alexis altro non era che un fragile guscio, già rotto una volta e timidamente ricostruitosi negli ultimi due anni. Già una volte, alcune settimane prima l’aveva incrinato lui stesso, ma ora, aveva probabilmente finito col farlo crollare del tutto.

Non che considerasse Alexis debole, al contrario, nonostante tutto rimase alquanto sorpreso dalla sua silenziosa resilienza. Fu il lento rimorso che iniziò a divorarlo in quel momento, quando si accorse del veleno nelle parole che le aveva rivolto prima di scappare letteralmente dal suo appartamento, mollando lei, April e Splinter senza voltarsi indietro.

Si era fidata, forse un errore arrivati a quel punto. Forse non avrebbe dovuto farlo, forse avrebbe dovuto aspettare, attendere. E lui era stato una testa calda, di nuovo. Vizio e problema che si portava dietro da sempre e che mai Splinter o i suoi fratelli erano riusciti a contenere e controllare: ogni volta sentiva montargli in petto un’euforia cieca, calda, gli occludeva la mente e finiva con l’agire d’istinto.

Con i suoi fratelli era un discorso, con gli umani un altro totalmente diverso. Era già facile intimorirli solo con la stazza che superava abbondantemente il metro e novanta, l’istinto animalesco che emergeva quando si lasciava prendere dalla foga e dall’arroganza non aiutava affatto.

Con Alexis poi… Raph sospirò. Aveva fatto una cazzata.

April era alquanto confusa. Era riuscita a seguire ben poco lo scambio divenuto sempre più acceso tra Alexis e Raffaello, poco prima che la tartaruga se ne andasse nel cuore della notte senza guardarsi indietro due volte. Lo stato in cui l’aveva visto non era affatto intimidatorio come la prima volta del loro incontro, era terribilmente peggio.

Gli occhi ridotti a due fessure mentre lasciò uscire la propria frustrazione contro Alexis che non batté ciglio, anche dopo la dipartita improvvisa di Raffaello, April la vide semplicemente sospirare, tornando a concentrarsi sulle ferite di Splinter.

Era mattina inoltrata e in quelle ore nessuna delle due era riuscita a dormire granché, o meglio, April riuscì ad approfittare di almeno quattro ore di sonno ma lo stesso non si poté dire di Alexis: raramente aveva lasciato il fiano del vecchio ratto. L’emorragia era stata contenuta e le ferite sanguinavano saltuariamente ma non abbastanza da costituire un pericolo, occupata a cambiare con attenzione le garze, Alexis a malapena si accorse dello sguardo di April su di sé.

Aveva quasi completamente rimosso la sua presenza lì.

Si era solamente concentrata sul mantenere vivo Splinter, non c’era altro a cui dover pensare al momento. Non c’era altro a cui voleva pensare in quel momento. Si era cambiata, forse dopo neanche un paio di minuti dal litigio con Raph, le chiazze di sangue e di sporco erano sparite dalla sua pelle e una maglia pesante l’aiutò a rilassarsi un minimo. Nascose istintivamente le mani dentro le lunghe maniche trovando un po’ di conforto, specialmente dopo aver notato anche l’assenza di Faye, probabilmente con Raffaello.

«Alexis… -attirò titubante l’attenzione April, -non, non ti ho ancora detto grazie. Durante l’attacco, sarei probabilmente uscita a cercare di dare una mano se non mi avessi trattenuto» riuscì a tirare finalmente fuori la giovane giornalista, scoccando un’occhiata perplessa verso Alexis che non sembrò averla affatto sentita.
Si avvicinò di un paio di passi poggiandole una mano sulla spalla ma si ritirò immediatamente, Alexis sussultò subito al contato e si allontanò come se fosse stata toccata da un ferro rovente.

Non ama venire toccata, annotato. Sospirò April, convinta sempre di più che quella ragazza dovesse avere qualche rotella fuori posto. Dalla prima volta che l’aveva vista sul tetto dell’edificio la notte dell’attacco alla metro un paio di giorni prima, era un tipo alquanto pragmatico. Doveva conoscere già da qualche tempo le quattro tartarughe ed April si domandò quale fosse il suo legame con ognuno di loro.

April dovette rinunciare ben presto ad intrattenere qualunque conversazione, perlomeno in quel momento. Il trattamento del silenzio era stato alquanto eloquente.
Non era però per la ‘terza incomoda’ che Alexis era così taciturna, non aveva chiuso occhio da tutta la notte e con la stanchezza accumulata non faceva altro che continuare a rimuginare sul litigio con Raph.

Un chiodo fisso in quel momento, per lei che non passava mai troppo tempo a ripensare a quello che era successo, abituata a processare all’istante quello che accadeva e passare oltre. Lì non poteva. Non voleva. Sarebbe stato come mettere un punto a un qualcosa che non avrebbe avuto alcuna possibilità di sviluppo, e lei non voleva quello.
Ma bruciava, quelle parole bruciavano come lame taglienti sulla pelle già martoriata anni prima. Di vigliaccherie ne poteva sopportare, ma quando venivano da persone vicine… come poteva qualcuno approfittare di una fiducia ottenuta così faticosamente? Così tanto tempo per guadagnarla e pochi attimi per mandarla in fumo, senza che lei avesse potuto fare alcunché.

Nessuna necessità c’era di giustificarlo quando già una volta le aveva buttato contro parole aggressive, si difendeva così e non pensava mai se le sue parole avrebbero incontrato o meno un carapace solido e spesso come il suo. Con Donatello e gli altri, abituati da anni, non c’erano problemi, quando sapevano i motivi dietro quel suo comportamento aggressivo e sempre sulla difensiva ma ciò non toglie a quanto potessero far male agli altri.

Non aveva detto una parola, Alexis era stanca, esausta da tutta quella settimana così movimentata. Ed ora anche un estraneo in casa sua. Era impossibilità da chiudersi nella sua bolla, non voleva disturbare il riposo frammentato di Splinter che stava a malapena meglio rispetto a qualche ora prima; Faye era chissà dove con Raffaello e in più doveva condividere il suo appartamento con April.

«Perché hai raccontato di loro? – mormorò Alexis cogliendo April di sorpresa, -ad uno come Eric Sacks poi» la voce era leggermente roca nonostante se la fosse schiarita più volte, non aveva degnato April di uno sguardo lasciando piuttosto vagare la testa sui disegni che riempivano la parete del soggiorno in cui erano.
April aggrottò la fronte confusa, «Era amico di mio padre. Hanno lavorato insieme per anni, sono stati i risultati del lavoro di una vita. Come potevo sapere chi c’era dietro il Clan del Piede?» la domanda scemò piano piano quando noto una smorfia di disgusto sul volto di Alexis, finalmente giratasi a guardarla in faccia. Aveva gli occhi lucidi, arrossati.

«Sono in pericolo ogni volta che escono dalla loro casa, li vedi per meno di due giorni e cosa fai? Hai pensato solo a finire quel tuo dannato articolo!» sbottò alzandosi in piedi di scatto, Alexis serrò immediatamente la mascella e diede uno sguardo a Splinter, ancora placidamente addormentato. Passò poi la propria attenzione di nuovo su April, gli occhi verdi iniettati di sangue per le lacrime che non ne volevano sapere di scendere. «Hanno una tale considerazione di te. La loro Hogosha… la stessa che li ha condannati nelle mani di quegli esseri» sentenziò a tono più basso, attenta a non disturbare ulteriormente il vecchio Sensei.

April non replicò, guardando solo la figura di Alexis andarsene silenziosamente nella propria camera e socchiudendo la porta. Come poteva contestare quella che non era stata altro che la pura, egoistica verità? Aveva collegato i punti e non aveva perso tempo ad incontrare Eric Sacks, il vecchio collega del padre, amico di famiglia… prezioso aiuto del Clan del Piede.

Era lei che lì aveva condotti lì, le tartarughe si erano fidate di lei. Nutrivano una stima indefinita nei suoi confronti, dai racconti di Splinter sulla loro altruistica Hogosha che aveva rischiato per metterli al sicuro quando erano solo piccole ed innocue tartarughe nate da poco. Certo era che sarebbe stato difficile pensare come condividere quell’innocente segreto avesse potuto scatenare un tale inferno per quelle povere creature, April era solo stata preda dell’idillio di poter finalmente dare un nome al misterioso giustiziere del suo articolo.

Un nome adesso ce l’aveva.

Ma a che prezzo?

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