Natale ad Arras

di Dorabella27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Aveva uno scopo ***
Capitolo 2: *** 2 - En route! ***
Capitolo 3: *** 3 - L'ospite sgradita ***
Capitolo 4: *** 4 -Cena e dopocena ***
Capitolo 5: *** 5 - Il mattino dopo ***
Capitolo 6: *** 6 - Presentazioni ***
Capitolo 7: *** 7 - Ascolta: ti racconto una storia. Chiacchiere del dopopranzo ***
Capitolo 8: *** 8- Ritorno a casa con sopresa ***
Capitolo 9: *** 9 - Generi di primo soccorso ***
Capitolo 10: *** 9 - Epilogo, epilogone, epiloghissimo ***



Capitolo 1
*** 1 - Aveva uno scopo ***


 
I - AVEVA UNO SCOPO
 
        Appena entrò nel suo ufficio di Comandante, girò la chiave nella serratura e, con un gesto di impazienza, gettò il tricorno piumato sulla scrivania. Poi, con mani tremanti, senza nemmeno togliersi i guanti di capretto candido, andò allo stipo olandese intarsiato, ne prese un bicchiere e una bottiglia di brandy, e se ne versò una dose generosa, buttandone giù un paio di robuste sorsate, così com'era, in piedi accanto alla scrivania di legno di rosa. A chi l'avesse vista, avrebbe detto che il brandy le serviva per scaldarsi: in effetti, la mattinata di dicembre era gelida. Si sedette alla sua scrivania, posò il bicchiere e, sempre tremando, aprì il primo cassetto, e ne trasse un voluminoso incartamento. Glielo avevano consegnato la sera prima, poco prima che decidesse di tornare a casa, dopo una giornata inutile, di stanche esercitazioni e di nervosismo squallido, in cui era stata ancora più severa del solito con le reclute.
 
        Non aveva osato portarsi a casa quell'ingombrante involto, e così ci aveva pensato tutta la notte: nelle ore di veglia, rigirandosi nel letto, aveva in mente solo quel cassetto, in cui c'erano quei fogli, che in quel pomeriggio buio di dicembre non aveva avuto il coraggio di consultare, e la cui lettura aveva rimandato al mattino dopo, pur sapendo di garantirsi così una nottata infame. Non pregava più da anni, forse da poco dopo la sua Cresima, nonostante la sua presenza alla Messa domenicale nella Cappella Reale fosse sempre puntuale e regolare, come si conveniva al Comandante delle Guardie Reali di Sua Maestà il Re Cristianissimo, e nonostante si comunicasse anche, nelle festività di precetto; pure, quella notte, da qualche recesso della memoria, le salirono alle labbra le parole dell'Ave Maria, e le aveva sussurrate, turbata e sconvolta, consapevole anche di non avere, lei, forse nemmeno  il diritto di chiedere.
 
Del resto, era tutta colpa di André: da quando, quella sera, alla taverna, le aveva ricordato che gli elenchi dei caduti e dei dispersi in guerra sono pubblici, e vengono periodicamente aggiornati, era stata presa dalla smania di controllarli; e ora, ogni tre mesi, l'attendente del generale Bouillet le consegnava un faldone che Oscar leggeva con il respiro rotto e un senso di vertigine crescente, sino a quando, arrivata all'ultima riga, una volta appurato che il nome di Fersen non c'era, si accasciava sulla sedia, stremata come dopo una marcia sotto il sole o dopo un duello particolarmente impegnativo.
 
        Certo, poteva accadere che il nome di qualche caduto non risultasse negli elenchi, perché il corpo era irriconoscibile, per esempio: nella sezione della biblioteca di Palazzo Jarjayes sull'America del Nord, sempre più nutrita, da quando aveva dato ordine di acquistare tutti i libri pubblicati sul tema, aveva letto con raccapriccio delle pratiche di guerra dei nativi di quel continente, di come trattassero il corpo del nemico vinto, della pratica di "prendere gli scalpi"... Leggeva la notte, di nascosto, nel suo letto, al lume della candela, per timore che qualcuno la vedesse così stravolta e impaurita; leggeva tremando, interrompendosi più volte lungo una stessa pagina per l'ansia e il disgusto, prendendo fiato e pregando che a lui non toccasse mai nulla di simile; del resto, si rassicurava, forse il nome di un soldato semplice poteva anche sfuggire ai solerti rilevatori dell'esercito francese; ma quello di un ufficiale, e quello di lui, poi, no, di certo, quello non poteva sfuggire.
        Si ripeteva che lo faceva per la sua Regina, perché, se quel nome fosse comparso nell'elenco dei caduti, avrebbe voluto comunicarglielo lei, con la dovuta delicatezza. Ma sapeva anche che quella era una sciocchezza, che si stava raccontando una storia,  e che non era in questo diversa da quelle donne che hanno un rapporto molto fantasioso e libero con la realtà: ne aveva viste tante, nei suoi anni a Versailles! Donne, anche sensibili e intelligenti, che si raccontano sciocchezze, che vivono ingannandosi in maniera più o meno consapevole, credendo -  volutamente e tenacemente - che il loro marito le adori, che il loro innamorato sia loro fedele, che se l'amante lontano non scrive loro periodioche lettere piene di passione dalla Martinica sia solo perché è tanto occupato nelle piantagioni di famiglia, e non certo perché si sta godendo la compagnia di seducenti creole dalla pelle profumata.... Del pari, Oscar sapeva bene che quello che lei definiva mentalmente uno "scrupolo gentile" per la sua Regina non aveva senso né ragione di esistere: da quando, infatti, l'anno prima, era nato il Principe ereditario, il Delfino Joseph, Sua Maestà sembrava avere completamente dimenticato il suo rovinoso amore per Fersen, e sembrava essere ormai completamente dedita ai suoi doveri di madre, del futuro sovrano e della Francia. Vedendola con i figli, osservandola giocare con Madame Royale e coccolare il piccolo Delfino, così serena e felice, così lontana dai tormenti del suo sentimento clandestino per Fersen, Oscar si sentiva rincuorata: era giusto che Maria Antonietta assaporasse finalmente, dopo oltre dieci anni in Francia, un assaggio di quella felicità che la corte le aveva negato per troppo tempo. Ma, insieme, quando prendeva per mano Madame Royale o le insegnava i primi passi di danza, si sentiva stringere il cuore in una morsa di ghiaccio. Non voleva indagarne il motivo, non voleva fare chiarezza nei suoi sentimenti, non li voleva conoscere: voleva ignorarli, questo sì, e, non potendolo fare, li subiva.
 
        Quella mattina, dopo aver letto l'ultimo nome sull'elenco, tirò un sospiro di sollievo, chiuse il faldone, e poi si prese il volto fra le mani. Per effetto della tensione accumulata, si mise a piangere. Piangeva, perché era sollevata, e perché immaginava la tensione bruciante che, di lì a tre mesi, avrebbe ancora provato, e si chiedeva perché, perché, perché mai dovesse essere condannata a piangere, lei che odiava sentirsi il volto bagnato di lacrime e farsi vedere con gli occhi lucidi, perché la sua vita doveva essere una sequela di giornate tutte ugualmente grigie, inframmezzate, ogni novanta giorni, da una scarica di paura, di ansia, di fiato corto, e, insieme, dalla preghiera che tutto continuasse così, con Fersen vivo, ma lontano; lontano, ma vivo; non morto, no, non ferito, no; vivo e vegeto, sano, ma lontano, così da risparmiarle il tormento di vederlo, di essere per lui solo un amico con cui tirare di spada, bere, giocare a scacchi, parlare di libri...prima di vederlo salire a cavallo per andare da lei.
 
Il bussare di nocche discrete la fece riscuotere. Si ricompose e aprì la porta: Girodelle le rivolse un saluto impeccabile e le lanciò uno sguardo velato di curiosità, diretto soprattutto alle mani ancora guantate, mentre la ragguagliava brevemente sulle necessità della giornata: "Madamigella Oscar, la nostra presenza è richiesta in Place de Vosges: sembra che in un duello un nobiluomo sia rimasto gravemente ferito".
 
"Che cosa insolita. Se è stato un duello regolare, non serve la nostra presenza. E se davvero lo sconfitto è stato ferito gravemente, potremmo arrivare dopo la sua morte. A che pro, dunque? La legge, in ogni caso, protegge il vincitore".
 
"Ecco, Madamigella, il medico che ha assistito al duello ha pregato di farvi pervenire questo", e così dicendo Girodelle consegnò nelle mani di Oscar un biglietto ripiegato a metà, su cui erano vergate poche parole, disordinatamente svolazzanti, evidentemente scritte da una mano malcerta o che poggiava su un sostegno instabile.
Oscar lesse in fretta, con aria grave, poi, ripiegò il foglio, lo mise nella tasca interna dell'uniforme e disse solo: "Andiamo".
Uscirono insieme dall'ufficio, il passo non affrettato, ma deciso.
"André, prepara i cavalli: dobbiamo andare in Place de Vosges", disse asciutta, appena messo piede nella piazza d'armi.
"Che è successo Oscar?", chiese André, mentre montavano a cavallo.
"Il visconte di Valmont è stato gravemente ferito in duello e ha chiesto al medico che ha presenziato allo scontro di convocare il Comandante delle Guardie Reali", e così dicendo trasse dalla tasca il biglietto e lo porse ad André, che lo scorse in fretta.
"E per quale motivo dovresti accorrere in Place de Vosges?".
"Non lo dice".
"Se il duello è regolare, la legge non ha voce in capitolo"
"Infatti, André: dunque non mi spiego il motivo di questa richiesta. Ma, poiché il medico sostiene che il ferito sia intrasportabile e ha chiesto esplicitamente di me, credo che sia mio dovere andare sul posto".
Dalla mattina presto la neve cadeva a intermittenza. Una volta arrivati a Place de Vosges, però, i fiocchi turbinavano fitti e soffici nel vento: sarebbe sembrato un paesaggio da fiaba, se non fosse stato per la lunga scia di sangue che imbrattava la neve. Semiriparato sotto un arco del porticato che correva lungo il perimetro della piazza, il visconte di Valmont giaceva, sostenuto dal suo staffiere. Accanto a lui, il medico, e un giovane con il mantello nero e la croce dell'ordine di Malta, in lacrime. I due padrini, discretamente, si tenevano in piedi, poco distanti. Non molto più lontano, un prete, che aveva appena dato l'estrema unzione al moribondo, osservava la scena, tenendosi il breviario stretto al petto con entrambe le mani.
"Siete arrivata", mormorò in un soffio Valmont. Il volto era già scomparso, ma gli occhi erano ancora vivi, ed erano la sola cosa che si era mossa quando Oscar si era avvicinata. Sul panciotto bianco il sangue aveva lasciato una brutta chiazza e, come il medico le sussurrò all'orecchio prima che si chinasse sul ferito, continuava a scorrere, benché rallentato dal freddo della mattinata invernale.
André e Girodelle si erano tenuti a qualche passo di distanza.
"Visconte de Valmont", mormorò Oscar, sfiorandogli il petto con la mano.
"Comandante de Jarjayes", sussurrò lui, e pronunciare quelle poche sillabe gli fece uscire un fiotto di sangue scuro dalla bocca. Oscar si tolse di tasca un fazzoletto di lino ricamato e gli tamponò le labbra. "State tranquillo". Accanto a lei, il giovane in mantello scuro piangeva sommessamente, tirando su col naso: "Io non volevo, visconte...."
"È facile piangere, adesso!", sibilò in tono severo lo staffiere di Valmont, indirizzando al ragazzo uno sguardo protervo, in cui si mescolavano ira e rimprovero.
"Lascialo stare, Azolan", sussurrò Valmont, facendo uscire quelle parole di bocca con gran fatica, sorretto ormai anche da Oscar, i cui capelli biondi gli ricadevano sulla fronte e gli sfioravano la fronte e la bocca insanguinata. "Lascialo stare: non è colpa sua. Anzi...Colonnello, per favore, io non riesco più a muovere le braccia, ma voi potreste mettere una mano nella tasca interna della mia marsina? A sinistra...."
Oscar, con delicatezza, mentre il medico e Azolan la aiutavano a sostenere il ferito, che si lamentava piano per quel minimo cambiamento di posizione, frugò nella tasca interna. Ne trasse un fascio di lettere, legate da un nastro di pizzo bianco, e tutte insanguinate.
"Venite, Danceny", sussurrò Valmont. Il ragazzo si avvicinò. "Colonnello, consegnategli le lettere".  Oscar obbedì.
"Fatene quello che riterrete più opportuno, Danceny. Ma sappiate che in questa faccenda noi siamo stati manipolati da una intelligenza molto più sottile e malvagia della nostra, una intelligenza per cui siamo stati tutti sempre e solo pedine sacrificabili". La lunga frase lo aveva sfiatato, e le ultime sillabe vennero pronunciate fra colpi di tosse e fiotti di sangue. Il fazzoletto con cui Oscar gli ripuliva la bocca era ormai un'unica macchia rossa. 
Il Cavalier Danceny si allontanò, e poi, dopo pochi passi, incassò la testa nelle spalle e cominciò a piangere senza ritegno; Girodelle, senza una parola, coprì la distanza di due passi che li separava e gli passò un braccio sulle spalle, mentre il ragazzo continuava a versare lacrime con il volto sul suo petto.
André osservava immobile, ricordando l'ultima volta - la sola volta - in cui, non senza provare antipatia per lui, aveva seguito con lo sguardo Valmont insieme a Oscar: era il tardo pomeriggio di una calda giornata di maggio, al calar del sole, e Oscar e il visconte avevano percorso fianco a fianco un lungo tratto dell'Allée d'Apollon[1].
Valmont, con le ultime energie, volse lo sguardo sopra di sé, incrociando gli occhi color fiordaliso di Oscar, china su di lui: "Chi avrebbe mai detto che sarei morto fra le braccia di una donna tanto bella...", e scontò quell'estrema, malinconica galanteria con due colpi di tosse sanguinolenta.
Poi, fattosi serio, sussurrò, il volto vicinissimo a quello di Oscar: "Colonnello, voi dovete andare al Convento di Santa Margherita, e chiedere di Madame de Tourvel. È malata, sta morendo: per colpa mia. Dovete andare da lei e dirle che non so spiegarle per quale motivo io l'abbia allontanata da me, ma che da quando ho rotto con lei la mia vita non ha più avuto alcun senso. Lo farete?".
Oscar annuì. Pochi secondi dopo, il Visconte di Valmont chiudeva serenamente gli occhi.
Oscar si allontanò, turbata, insieme con André, dopo aver scambiato un veloce cenno con Girodelle.
"Vieni, Oscar", disse André, mettendole il suo mantello bordato di volpe bianca sulle spalle, e assicurandosi che il cappuccio le coprisse i riccioli biondi già umidi.
"Che spreco!", disse, lei, rompendo il silenzio; ma fu subito rimbeccata da André, che aveva osservato dolcemente: "Aveva uno scopo. Cosa che si può dire di poche persone, al mondo".
"Dobbiamo andare al convento di Santa Margherita", disse lei subito dopo, e gli riferì in poche parole l'incarico affidatole.
"Sarebbe interessante capire per quale motivo il più celebre libertino di Parigi abbia scelto proprio il Comandante delle Guardie Reali per portare una simile ambasciata", disse André, senza ottenere risposta. Oscar non parlò per tutto il tragitto, e André capì che, per quanto egli fosse tutt'altro che un uomo loquace, aveva perso una buona occasione per tacere.
Il convento era un'oasi di silenzio nel chiasso di Parigi. Furono fatti entrare e, dopo che Oscar ebbe bisbigliato poche parole all'orecchio della suora della foresteria, una piccola monaca pallida, dall'età indefinibile e dall'espressione soave, li guidò lungo un dedalo di corridoi freddi e spogli.
Mentre li percorrevano, Oscar si guardò le mani, e si accorse di avere ancora i guanti, completamente chiazzati del sangue di Valmont. Li tolse con delicatezza e li infilò nella tasca interna dell'uniforme.
Una volta entrati nella cella occupata da Madame de Tourvel, André restò sulla soglia, mentre Oscar, non senza una piccola esitazione, che solo lui colse, si fece coraggio ed entrò. La giovane donna giaceva supina, la schiena magra e nuda ricoperta dalle coppette delle vescicazioni applicate da due monache zelanti. La piccola suora che aveva guidato Oscar fin lì disse loro qualcosa che né lei né André colsero, tanto sottile fu il suo sussurro, ma tutte e tre dopo un attimo uscirono, dopo aver salutato con un profondo inchino Oscar, e con un lieve cenno del capo André. 
 
        Oscar si chinò sul viso di Madame de Tourvel, che era stesa col capo piegato sulla guancia destra, gli occhi semichiusi, le palpebre delicate, di un rosa diafano segnato da venuzze azzurre, e le guance estenuate.
 
        Oscar sussurrò: "Madame de Tourvel, vengo a portarvi un importante messaggio per conto del Visconte de Valmont". Lo sguardo di Madame de Tourvel si rabbuiò, e la testa ebbe un piccolo scatto, come a significare che, se avesse potuto muoversi liberamente, si sarebbe ritratta e se ne sarebbe andata via senza ascoltare oltre; ma Oscar - André sbalordì osservandola - le fece una carezza sulla guancia e le mormorò qualcosa all'orecchio. Allora, la donna atteggiò le labbra a un lieve sorriso e disse qualcosa, che André non colse. Poi, Oscar mise una mano nella tasca interna dell'uniforme e ne trasse i suoi guanti, che lasciò accanto al volto di Madame de Tourvel. Le fece un muto cenno di saluto, e poi tornò verso di lui: era il riflesso delle candele che illuminavano la stanza oppure i suoi occhi color cielo erano umidi di lacrime?
 
Appena fecero due passi fuori dalla cella, le due suore che assistevano Madame de Tourvel rientrarono, chiudendosi subito la porta dietro le spalle, mentre la piccola monaca sorridente che li aveva scortati all'andata, e che li aveva attesi, li ricondusse all'uscita.
 
Erano appena montati a cavallo per ritornare a casa, quando sentirono i rintocchi a morto della campana della piccola chiesa annessa al convento.
Si guardarono senza dirsi nulla. La neve continuava a cadere, sempre più fitta.
 
Lei alzò gli occhi al cielo grigio e senza luce, da cui piovevano quei fiocchi candidi.
 
"A che cosa stai pensando, Oscar?", chiese André.
 
"Penso che fra una settimana sarà Natale", rispose lei.
 
"È anche il tuo compleanno", aggiunse lui in un soffio.  E se ne pentì subito, perché  sapeva che Oscar non amava festeggiare compleanni e ricorrenze. Ma, inaspettatamente, lei rispose: "È vero, André. Sai che non ci penso mai?". E poi, dopo una lieve esitazione: "Che ne pensi, se nella mia licenza natalizia andassimo ad Arras? Sotto la neve, deve essere incantevole!". Poi, senza aspettare la sua risposta, diede di sprone e si lanciò in avanti.
E André pensò che, forse, quel Natale del 1782 sarebbe stato davvero memorabile.
 
[1] Cfr. la mia prssima ff...in cui si chiarirà tutto.

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Capitolo 2
*** 2 - En route! ***


Era irritata. Era chiaramente di pessimo umore, e non faceva nulla per nasconderlo.
 E del resto, pensava André, perché mai avrebbe dovuto nasconderlo? Un alto ufficiale, un colonnello, può e deve esprimere senza remore i suoi malumori, la sua irritazione, il suo disappunto: non si tratta certo di una dama costretta dall'etichetta e da quel groviglio di regole che si chiama "uso di mondo" a reprimere la sua stizza, a dire "sì", quando vorrebbe dire no, o un "forse" garbato accompagnato da una sorriso aggraziato quando invece vorrebbe battere un pugno sul tavolo, rispondere seccata, e magari sbattere una porta lasciando la stanza in preda alla contrarietà più nera. Era quello che, in fondo, faceva Madame de Jarjayes, da decenni, sempre impeccabile, sempre composta, sempre inappuntatabile, per nascondere il suo malumore.
 
Eppure, il viaggio verso Arras era stato perfetto, sotto una neve da favola.
Ed era stata Oscar per prima, lei, che non amava crogiolarsi nel ricordo del passato, a rievocare un episodio della loro infanzia, quando ad Arras ci andavano per le feste natalizie in carrozza, con il Generale e Madame la Comtesse. E se di solito lui e Oscar viaggiavano nella carrozza del Generale, e Madame Marguerite, invece, con le figlie non sposate, quell'anno il Generale aveva annunciato che non avrebbe potuto liberarsi dai suoi pressanti impegni che per l'antivigilia, per cui André e Oscar avevano viaggiato con la contessa e con l'ultima delle sorelle rimaste a Palazzo Jarjayes, Hortense. La madre le teneva la testa sulle ginocchia, accarezzandole i boccoli castani, e la bambina sonnecchiava a tratti, e, a tratti, da sotto la pesante coperta di lana azzurra, si lamentava, levando gli occhi verso Madame la Comtesse, ora della scomodità del viaggio, ora degli spifferi che entravano nella carrozza. Allora, la madre le raccomandava di portare pazienza, che la parte più lunga del tragitto era già finita, e che ad Arras la aspettavano una torta al cioccolato e il suo letto caldo. Ad ogni lamento di Hortense, Oscar, che, avvolta in un mantello maschile blu notte chiuso da un alamaro dorato, sedeva composta di fronte alla sorella insieme ad André, levava gli occhioni azzurri e ruotava spazientita le pupille, finché, all'ennesima querimonia di quella damina in sedicesimo, pensò di anticipare lo scherzo che si era preparata per il giorno dopo,
        Mentre Hortense si era assopita, e Madame la Comtesse era concentrata sul suo libro, Oscar infilò la mano sotto il mantello, nella tasca interna della sua elegante marsina da piccolo gentiluomo. E mentre André cercava, con qualche smorfia, di dissuaderla, sperando che la contessa Marguerite non alzasse lo sguardo da quelle pagine evidentemente così interessanti, prese il ragno di fil di ferro che aveva costruito qualche giorno prima, e, con la scusa di un sobbalzo troppo forte della carrozza, che l'aveva fatta cadere in avanti, sul sedile di fronte, lo aveva lasciato sulla coperta di Hortense, profondendosi in mille scuse all'indirizzo della sorella, che bofonchiò qualcosa da semiaddormentata, proprio sotto gli occhi della madre, che le aveva rivolto una occhiata distratta condita da un convenzionale: "Stai bene, Oscar?".
 
Poco dopo, riaperti gli occhi, e visto il ragno, Hortense si era messa a strillare come un'ossessa.
Come avevano riso, lei e André!
A un certo punto, anche la Contessa Marguerite si era unita alla loro allegria, perché, nonostante Oscar, colta da un sussulto di pietà per lo spavento fuori misura della sorella, cercasse  - senza però smettere di ridere - di farle vedere che il ragno, sì, beh, era grosso, brutto e nero, ma era finto, fatto di fil di ferro, Hortense continuava a gridare e a piangere. Sino a che questa, una volta smaltito quello spavento che l'aveva colta nel delicato e nebbioso territorio di confine tra veglia e sonno, e proprio per questo tanto più potente, aveva guardato con sdegno la sorella e André (che, da un lato, avrebbe voluto gridare la sua innocenza, ma che, dall'altro, si sentiva vagamente colpevole per le grasse risate che quello spettacolo gli aveva procurato), e li aveva inceneriti col suo contegno già da gran signora:
"Siete due stupidi, e due grandissimi maleducati! Maman", aveva aggiunto, rivolgendosi verso la Contessa Marguerite, "non intendo più rivolgere la parola a questi due individui, privi come sono di ogni delicatezza e di qualsiasi uso di mondo!".
 
E ciò detto, si era raggomitolata sul sedile, voltando le spalle a quella screanzata della sorella e al suo degno amico André, e tirandosi la coperta sin sopra il capo. Nemmeno Madame la Comtesse era riuscita a soffocare una risata, e aveva lanciato a Oscar  - André ne era sicuro - uno sguardo divertito, carico di complicità, come se fosse stanca, per una volta, di essere la Comtesse de Jarjayes, icona di femminile perfezione e di compitezza nobiliare, e rimpiangesse un tempo in cui anche lei aveva potuto andare per pozzanghere sotto la pioggia battente, o terrorizzare le sorelle con dei ragni di fil di ferro.
 
        Mentre cavalcavano sotto la neve, il viso circondato dal bordo di volpe bianca della sua cappa d'ordinanza ("André, ma che dici? Perché ne dovrei portare anche un'altra? Questa basta e avanza! Non sono una dama vanesia che, per pochi giorni lontano da casa, riempie interi bauli di abiti di ricambio!E poi, dobbiamo viaggiare leggeri, se vogliamo andare a cavallo!", gli aveva detto), Oscar gli aveva chiesto: "Chi sa se dietro quel vecchio mattone mobile del camino della cucina c'è ancora il mio ragno di fil di ferro. Te lo ricordi, André? Come abbiamo riso mentre Hortense gridava per lo spavento! Lo scherzo ci era piaciuto tanto che avevamo nascosto il ragno per poterlo ripetere in futuro ... e poi ce ne siamo dimenticati!".
André aveva sorriso, ricordando quel momento felice, e pensando che le fossette ai lati della bocca di Oscar non erano cambiate da allora, nonostante fossero passati ormai diciassette anni. Tutto prometteva, dunque, bene, anzi, benissimo...
 
Una volta arrivati alla proprietà della famiglia Jarjayes ad Arras, però, gli angoli della bocca di Oscar si erano improvvisamente piegati all'ingiù: nella grande corte davanti alla villa, c'era una carrozza che non avrebbe dovuto essere là.
 
 
 
Un doveroso, grande ringraziamento a Galla88 per l’azzeccatissima e bellissima fan art.
E un ricordo nostalgico della signora G., alla quale, da bambina più piccola di Oscar, propinai lo scherzo del ragno di fil di ferro, procurandole uno spavento pari a quello di Hortense. Il mio ragno è ancora nel nascondiglio dietro il mattone del camino, in attesa di tornare in azione...
 
 

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Capitolo 3
*** 3 - L'ospite sgradita ***


 
 
 
III - L'ospite sgradita
 
"Chi c'è?", aveva sussurrato Oscar; ma era una domanda superflua, retorica, perché, con la sua vista acutissima, che la rendeva il miglior tiratore di Francia, consentendole una mira infallibile, aveva perfettamente capito che quello stemma nobiliare, sulla fiancata della carrozza, con le tre stelle nella banda rossa centrale su fondo azzurro, era quello dei Brissac-Montségour, la famiglia del marito di sua sorella Hortense.
E fu così, con malagrazia, che Oscar smontò e affidò Cesar, imitata da André con Alexandre,  allo stalliere accorso non appena si erano profilate, in lontananza, le due figure a cavallo. Non aveva nemmeno pensato a portarsi in casa il suo leggero bagaglio, che fu preso in consegna da André. Vedendo le grandi falcate adirate con cui Oscar solcava la corte d'onore, sussurrò fra sé: "Ecco che arriva la grandine ...", frase assai incongrua e infelice, visto che ancora nevicava, e leggeri fiocchi si posavano, luccicanti, prima di spegnersi, come un bellissimo diadema luminoso, sui capelli biondi di lei.
Se, in generale, con le sorelle Oscar non aveva confidenza, dato che era stata cresciuta con una educazione tipicamente maschile e non aveva condiviso con loro né giochi, né sospirosi segreti femminili, né esperienze di educandato in convento, con Sylvie, che le era solo di un paio d'anni maggiore, c'era una larvata, ma innegabile e reciproca, simpatia, forse germogliata dal riconoscimento di una forza di carattere e di una ostinazione e volitività comuni a entrambe, anche se per la sorella maggiore, come rifletteva André, queste doti, se così potevano essere chiamate, si esprimevano prettamente nella pretesa, fin dai primi anni, di essere vestita e pettinata esattamente come desiderava, anzi, come imponeva, e poi di avere abiti e gioielli all'ultimissima moda; Joséphine, invece, la maggiore, che ben otto anni separavano da Oscar, era stata non certo una vice-madre, ma, nelle poche occasioni in cui si erano incontrate - giacché dai sei anni era stata educata in convento -, era stata una sorta di piccola zia saggia e pacata, cui guardare con rispetto, perché capace di raccontare storie meravigliose; e adesso era una matura matrona carica di figlie - e di preoccupazioni per le loro doti - talmente lontana e talmente diversa da Oscar, che era impossibile che nascessero disaccordi fra loro. Di Marie - Louise non metteva conto nemmeno parlare, dato che non lasciava mai gli immensi possedimenti, in Bretagna, del duca che l'aveva presa in moglie quando non aveva che quattordici anni, e solo in un paio di occasioni era tornata a Parigi, per presentare ai genitori e alle sorelle e ai cognati le sue due figlie, Charlotte e Marie-Thérèse. Clothilde, del resto, André lo intuiva, la più chiusa e la più orgogliosa delle sorelle, era la preferita di Oscar, e non perché vi fosse fra le due una particolare corrente di confidenza, anzi: la preferenza era tanto più spiccata quanto Clothilde restava chiusa nel suo orgoglio ombroso - il maledetto orgoglio Jarjayes - senza mai lamentarsi del comportamento a dir poco indecoroso del marito, e senza mai avere recriminato, nemmeno una volta, con il padre, il quale, ammaliato per prima cosa dall'albero genealogico dei Marivaux, che affondava le sue radici nientemeno nell'epoca dei Capetingi, e solo in seconda battuta dal cospicuo patrimonio del marchese Hercule-Timoléon, aveva combinato per la figlia quello che credeva un matrimonio prestigioso e onorevole, e che invece si era rivelato ben presto un piccolo inferno domestico, in cui Clothilde sapeva mantenere, però, un alquanto apprezzabile simulacro esteriore di dignità.
Ma Hortense, rifletteva André, era la sorella con cui meno Oscar poteva andare d'accordo. Consapevole e molto fiera sin dalla sua primissima infanzia della sua notevole bellezza, che era presto sbocciata morbida e seducente, a differenza di quella delle altre sorelle Jarjayes, bionde, alte, e glaciali, ed esaltata dalla delicata sfumatura di castano biondo dei capelli e dalle labbra carnose e ben disegnate, e, più avanti, dal seno generoso e dai fianchi tondi che rendevano la sua figuretta di piccola donna elegante e sussiegosa inconfondibile, ella era cresciuta con la convinzione che alla sua avvenenza tutto fosse dovuto: per prima cosa avere l'ammirazione universale, delle sorelle, compresa Oscar  - che, nella testa di Hortense, doveva sicuramente covare una netta invidia per tutto quello che le era stato negato - e poi del marito, che avrebbe dovuto, nelle sue aspettative, baciare la terra toccata dal suoi piedini calzati di raso e seta.
Scoprire che nel conte di Brissac - Montségour, dopo qualche mese di doveroso e, del resto, naturale incanto per quella bellezza morbida e flessuosa, era subentrata la noia nei confronti della pur graziosissima moglie, e che, dopo la nascita della figlioletta, Marianne Gabrielle, - ancora una femmina! - si era dedicato alle sue amanti, e, soprattutto, che manteneva una solida e continuativa relazione con la consorte di un noto mercante di vini parigino, più vecchia di lei, e madre di cinque figli maschi, e il sospetto che, forse, l'ultimo dei figli, come vociferavano le cameriere di Palazzo Brissac-Montségour, fosse figlio del conte, con il beneplacito dell’onesto, ma pur sempre avveduto, mercante, aveva portato Hortense all'esasperazione. Se quando era bambina Oscar non la sopportava, perché Hortense era la quintessenza dell'essere femmina, in tutti i suoi difetti, adesso, semplicemente, la evitava, perché era indispettita dal suo frignare, ogni volta che arrivava a Palazzo Jarjayes, quando si precipitava in lacrime su per lo scalone sino al salottino verde della contessa Marguerite, dove si inginocchiava con il capo in grembo alla madre, inondandole l'abito di lacrime e declamando fra i singhiozzi le umiliazioni che era costretta a sopportare nella casa coniugale.
Per inveterata abitudine Oscar non esprimeva mai giudizi, e non metteva mai nessuno a parte dei suoi pensieri.
Ma, una volta, qualche settimana prima, aveva seguito con lo sguardo impassibile Hortense che saliva di slancio i gradini, ancora addosso il pesante domino da viaggio, dopo averla superata nell'atrio senza degnarla di uno sguardo. André era accanto a Oscar, come sempre, dopo una giornata trascorsa a Versailles e un silenzioso ritorno a cavallo nel freddo pungente di quel novembre umido e gelido, la foschia ad avvolgere ogni cosa e a cancellare i contorni dei casolari, quasi a far perdere loro la cognizione del luogo da dove venivano e da quello dove erano diretti, quasi a consentirgli di immaginare che stesse tornando con la sua Oscar verso una casa solo loro; seguendo la corsa di Hortense aveva colto negli occhi di Oscar uno sguardo carico di quella freddezza che riservava a chi faceva qualcosa che le era incomprensibile, e che non comprendeva, né voleva comprendere; mentre lui, André, aveva pensato che quello era il matrimonio per i nobili: un accordo familiare, una firma su un contratto, un passaggio di beni da un casato all'altro, da un palazzo all'altro, e cara grazia che la sposa non venisse pesata, o esaminata, o visitata dalla suocera, come usava ai tempi di Carlo Magno; e poi, una vita di ripicche e piccoli e grandi tradimenti, silenzi e dispetti, con qualche sporadico incontro notturno per produrre un erede da tormentare e che si sarebbe tormentato in futuro come si erano tormentati i genitori, e che sarebbe stato comunque presto abbandonato alle cure di balie, nutrici, precettori e sacerdoti e monache.
In fondo, era consolante che Oscar non capisse quanto potesse essere deludente quella vita, che per lei quello non fosse nemmeno stato contemplato, e che in fondo alla sua Oscar fosse stata risparmiata quell'amarezza ingioiellata e vestita di sete color pastello. Sì, in fondo, André, benché fosse costretto a passare la vita in silenzio accanto alla donna che amava, molto probabilmente senza speranza per il resto dei suoi anni, non invidiava Hortense, e nemmeno il marito: se avesse potuto sposarsi, sposarsi con la donna che amava, non avrebbe posato gli occhi su nessun'altra per tutta la vita, e non avrebbero certo passato il Natale, che poi era anche il compleanno di Oscar, separati. E non avrebbe nemmeno lasciato la figlia (una figlia! Che immaginava bionda e con gli occhi verdi, il pianto forte e venato di prepotenza e impazienza) a una balia che le avrebbe insegnato a parlare e camminare, senza visitarla più che un paio di volte al mese.
E invece, adesso sarebbero stati costretti, a quanto pareva, a passare il Natale proprio con Hortense, in compagnia dei suoi malumori e delle sue smorfie da attrice tragica.
André riemerse dalla sua riflessione e si mosse, un passo dietro a Oscar, verso l'ingresso, per cercare di capire come poter salvare quel soggiorno che era cominciato tanto male.
Il valletto che stazionava nell'ingresso, appena sentì la voce di lei, si chinò sin quasi a toccare a terra con la fronte, tanta era la soggezione che gli incuteva Oscar, ovvero, Monsieur le Comte, il giovane Colonnello de Jarjayes, così duro e severo. Chi sa come faceva il suo attendente, quell'André Grandier, a non morire di paura ogni volta che il Colonnello gli puntava addosso quegli occhi azzurri, freddi come il ghiaccio?
"Dov'è mia sorella? Perché è qui?", chiese, quasi strappandosi di dosso la mantella bordata di volpe, che venne recuperata al volo da André.
"La contessa de Brissac-Montségour al momento si trova nella sala della musica al piano nobile", sussurrò la governante, l'incolore Justine, un esserino slavato di età indefinibile, che parlava sempre come se le parole le uscissero di bocca con gli ultimi respiri che i suoi polmoni potevano tirare, e che si era materializzata al fianco di Oscar senza produrre il minimo rumore.
        Oscar le aveva fatto un cenno, come per ringraziarla, o zittirla, e aveva salito le scale quasi di corsa. Justine aveva fissato André, che era rimasto pochi passi indietro, piantandogli addosso i suoi occhi sgranati da carpa, in cui si mescolavano la perplessità per le incomprensibili stranezze dell'ultima figlia, cioè, dell'ultimo figlio del padrone, e l'indubbia fascinazione che esercitavano su di lei le ampie spalle, gli occhi verdi scintillanti, il sorriso aperto e i modi gentili del giovane Monsieur Grandier. Mah! Evidentemente, sospirò fra sé Justine, chi ha il pane non ha i denti, e chi ha i denti non ha il pane, e Monsieur Grandier sarebbe stato per tutta la vita appresso alla figlia, cioè, al figlio, del padrone, senza accorgersi che, se solo avesse voluto ...
E impegnata in queste amare considerazioni, Mademoiselle Justine Legris, governante della Maison Jarjayes di Arras, era andata a dare disposizioni per la cena: se ne sarebbero senza dubbio viste delle belle.
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** 4 -Cena e dopocena ***


 
 
IV Cena e dopocena
 
La cena era stata servita alle sette e trenta in punto, come sempre nella magione di Arras, quando erano presenti i padroni.
 
Oscar e Hortense sedevano ai due capi del lungo tavolo. Oscar, sempre di pessimo umore, non aveva detto una sola parola, eccetto: "André, siedi qui", indicando il posto alla sua destra, un gesto che era stato accolto dalla Contessa Hortense con un'alzata di sopracciglio.
"Davvero, Oscar, posso mangiare in cucina", avrebbe voluto obiettare lui, rifiutando il tetro privilegio di poter sedere al tavolo padronale, sotto gli occhi critici di Hortense; ma aveva subito intuito che una simile obiezione avrebbe spazientito Oscar, che non stava concedendo un privilegio a lui, e nemmeno aveva parlato per indispettire la sorella, ma, semplicemente, desiderava avere accanto, durante quel pasto che avrebbe sbocconcellato e che le sarebbe andato tutto in fiele, una presenza amica, di fronte alla quale Hortense si sarebbe astenuta di dare la stura a una serie di sgradite, e per Oscar imbarazzanti, lamentele sulla sua pessima vicenda matrimoniale e sugli affronti alla sua dignità che era costretta a tollerare.
Senza conversazione, e senza altro suono che non fosse il tintinnio assordante delle forchette e dei coltelli sui piatti, la cena scivolò via velocemente. "Credo che mi ritirerò nella mia stanza: sono piuttosto affaticata e infreddolita dopo il lungo viaggio", disse Oscar, alzandosi mentre ancora si tamponava le labbra con il tovagliolo di fiandra candida, seguita subito dopo da André. E, appena arrivata alla soglia della sua camera, senza avere pronunciato una sola parola mentre percorreva il lungo corriodoio, lo congedò con un: "Buonanotte André: ti inviterei a leggere con me qualche ode di Orazio, ma sono troppo stanca", e, aperta la porta, sparì subitaneamente dietro il quel legno massiccio senza pronunciare una sola sillaba in più.
 
        Se Oscar era nella sua camera, alle prese con la fonte Bandusia e le nevi del Soratte, e - André ne era certo - in compagnia di una bottiglia di brandy, Hortense - giacché sarebbe stato disdicevole per una nobildonna indulgere nei superalcolici e nei liquori - ci aveva dato dentro con lo champagne: quando André, dopo qualche ora passata disteso sul letto nella sua stanza leggendo il “Candide", andò nel salottino cinese per controllare che le candele fossero spente per la notte, trovò la contessa Hortense addormentata sul canapé rivestito di seta rossa ricamata con dragoni d'oro, la testa riversa sul bracciolo rigido, e il braccio destro che sfiorava a terra una bottiglia di champagne, vuota; raccogliendole, André vide, poco lontano, alla luce della sola candela ancora accesa, altre due bottiglie. Mentre le riportava in cucina, rifletteva fra sé su come, in casa Jarjayes, fosse decisamente diffuso un certo gusto per le buone bottiglie: sua nonna si preoccupava della propensione di Oscar - in questo, seguita e, anzi, coadiuvata da lui - a trascorrere le nottate a bere nelle taverne parigine, e lo rimproverava regolarmente ("Non ti vergogni a portare Madamigella Oscar in quei postacci? Il tuo compito dovrebbe essere quello di tenerla al riparo dai pericoli e dalle cattive abitudini, non di ubriacarti con lei!"); e forse erano ancora peggiori i rimproveri che gli toccavano quando la nonna scopriva, al mattino, che lui e Oscar avevano passato la serata bevendo cognac e giocando a scacchi, o leggendo in biblioteca ("André! Dovresti vietare a Madamigella Oscar di bere in questo modo, in casa, poi! Il Generale potrebbe aversene a male! E poi, il resto della servitù ha occhi e lingue affilate!"); per non parlare di quando la nonna, rifacendo il letto di Oscar e rigovernando la sua camera trovava, in un angolo, o sotto il letto, una bottiglia di bordeaux vuota ("Dove sarebbe la buona influenza che dovresti avere su Madamigella Oscar, André? Non ti ricordi più l'incarico che il Generale ti ha dato mettendoti al suo fianco? E non sai che quando una donna, una damigella, beve da sola, la cosa si viene subito a sapere? Non hai proprio nessun riguardo per la reputazione di Madamigella Oscar?").
 
        Ma, del resto, Hortense, a quanto pareva, amava smodatamente lo champagne; e non era nemmeno un mistero che Clothilde, alcune sere, dopo la visita nelle sue stanze del marito, il Marchese di Marivaux, cercasse sempre di addormentarsi con il viatico di qualcosa di forte, certo per farle dimenticare il disgusto di quegli incontri ravvicinati; la moglie del Generale, poi la soave Comtesse Marguerite, nel cassetto segreto della sua toeletta, custodiva - se si doveva credere alla sua cameriera personale - una nutrita scorta di vezzose bottigliette di rosoli e di liquori alla frutta; e da questa riserva segreta attingeva nelle serate - ed erano ormai molte - in cui il Generale non si palesava nemmeno a tavola, per la cena, ma restava nel suo studio, concentrato sulle carte topografiche e militari, e riflettendo, con malumore crescente, su come fosse possibile che quell'imbecille del Conte di Girodelle, che a stento sapeva distinguere un fioretto da una sciabola, avesse avuto sette figli maschi, uno più stupido dell'altro, eccetto l'ultimo, quell'elegantone dai lunghi capelli sempre perfettamente incipriati, che, quanto meno, quando non era a caccia di gonnelle per i corridoi della Reggia, si faceva onore come vice-comandante della Guardia Reale, agli ordini di Oscar; mentre a lui, il Generale Jarjayes, discendente da una lunga stirpe di militari che avevano onorato con il loro coraggio e il loro sangue la dinastia dei Borboni, la sorte aveva elargito sei figlie femmine, una dopo l'altra. Per fortuna, l'ultima, Oscar, l’ultimogenita, si era rivelata pienamente all'altezza delle aspettative, ed era cresciuta come il più degno e desiderabile degli eredi; ma Oscar,  a sua volta, non avrebbe mai avuto figli, e la rovina del nome Jarjayes, la fine della famiglia, era stata solo rimandata di una generazione, visto che nemmeno una delle cinque figlie maggiori era riuscita a produrre un erede maschio, da insignire del doppio titolo, affiancando al nome del padre quello degli Jarjayes.
 
Stranamente, però, rifletteva André, il Generale, quell'uomo amaro e severo, che sembrava concentrare in sé tutti i pregi e i difetti più spiccati della virilità, non aveva alcuna propensione per il bere, ma era, anzi, di una sobrietà rara e ammirevole, agli occhi degli estranei, e che era invece il segno esteriore di una freddezza e rigidità di cui egli per primo era stato vittima; il vino, i liquori, le carte, il gioco d'azzardo, il libertinaggio, erano tutti piaceri che gli erano sconosciuti, unicamente inebriato come era della gloria del casato e dei meriti militari che aveva accumulato negli anni e decenni passati al servizio di sua Maestà.
 
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"Contessa", mormorò André, una volta riportate le bottiglie in cucina e ritornato nel salottino cinese, il tono di voce atteggiato a cerimoniosa cortesia. Non poteva lasciarla lì, a predersi una infreddatura, o un mal di schiena, su quello scomodo canapé, nella stanza dove il camino si era ormai spento.
 
"Contessa, vi prego, la vostra stanza è preparata e un bel fuoco sta già scoppiettando nel camino", ritentò André. Nessuna reazione. André si maledisse, e maledisse la sua sfortuna. Se si fosse trattato di Oscar, non ci sarebbe stato nessun problema: quante volte l'aveva sollevata e, passato un braccio di lei attorno alle sue spalle, e sostenendola per l'altro fianco, l'aveva condotta, ubriaca, nella sua stanza, guidandone i passi mentre era semi-incosciente? Ma poteva farlo con Madame la Comtesse de Brissac - Montségour? Certamente no. Avrebbe dovuto occuparsene, forse, la sua cameriera, Marie, una rubizza bretone che però, al momento stava russando, seduta al tavolo della cucina, con la testa china sulle braccia conserte, e davanti a sé una bottiglia di robusto vino rosso italiano, prelevata dalla riserva speciale del Generale. "Maledizione!", si era detto, "possibile che a casa Jarjayes bevano tutti come spugne?!", e gli era sfuggito un sorriso, pensando che, in certe occasioni, aveva colto anche sua nonna con le guance arrossate e l'alito che sapeva di Borgogna.
 
"Contessa", ripeté ancora, a voce leggermente più alta, rispettosamente chinato verso la figura accasciata sul canapé. "Contessa di Brissac-Montségour", chiamò per l'ennesima volta. Che doveva fare? Non gli passò nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di andare a bussare alla porta di Oscar per chiederle di aiutarlo a portare la sorella a letto.
 
"Hortense!", chiamò infine, passando al "tu", che aveva usato per l'ultima volta molti anni fa, quando era solo una ragazzina già consapevole che non avrebbe mai potuto fargli girare la testa, non a lui, e prendendole la mano, scuotendola. E finalmente la donna biascicò qualche sillaba indistinta, aprendo un occhio, con la bocca ancora impastata di champagne.
 
"Mmmmmhhhh.....André? Ma che ore sono?".
 
"È mezzanotte e mezza, Contessa. Mi permetto di farvi notare che forse sarebbe meglio se vi ritiraste per la notte: il salottino cinese è troppo freddo".
 
"MHHHHH, sì...uhhh", sbadigliò Hortense, ancora, all'apparenza, mezza ubriaca, coprendosi la bocca con il dorso della mano. "Sì", ripeté, raddrizzandosi sul canapé; e poi aggiunse: "Dite al Conte mio marito, André, che.."
 
"Ehm, Signora Contessa", la interruppe imbarazzato André, "Ho l'ardire di ricordarvi che il Conte di Brissac-Montségour non si trova qui ad Arras con voi".
 
"Ah, no?". Hortense adesso gli aveva piantato in faccia due occhi azzurrissimi, sgranati e stupiti: evidentemente non era mezza ubriaca; era proprio ubriaca fradicia. Eppure, riuscì ad alzarsi con sufficiente sicurezza; ma subito dopo, non riuscendo a restare saldamente in piedi, ripiombò di schianto seduta sul canapé.
 
Raramente André si era sentito così imbarazzato come quella notte, di fronte a quella donna sempre così sussiegosa ed elegante, conscia della sua bellezza e del suo rango sino a diventare odiosa, e che adesso sembrava comicamente smarrita.
 
"Ah, no: è vero! Mio marito è rimasto a Parigi", mormorò, con voce torbida e pensosa, alzando l'indice sinistro, e poi lasciandosi sfuggire un singhiozzo che copriva un suono molto poco adatto alla tenera gola di una nobildonna. André sorrise, imbarazzato, nella penombra fitta.
 
"Esattamente, Madame la Comtesse. Adesso, se me lo concedete, potrei darvi il braccio e accompagnarvi sino alla vostra stanza: non è salutare dormire vestite in una stanza fredda in questa stagione", e già André si era chinato e si protendeva verso Hortense, quando la donna gli chiese, con un tono di voce fattosi improvvisamente stizzoso e provocatorio, che sembrava proprio quello di chi fosse perfettamente padrone di sé: "E sapete perché mio marito è rimasto a Parigi? E perché io sono venuta qui a passare il Natale tutta sola, se non foste arrivati voi?"
 
"No, Madame la Comtesse. Lo ignoro", rispose cortesemente André, rialzandosi.
 
"Perché mi ha tradita. Per l'ennesima volta", disse in tono secco Hortense. "Sedete qui", e, con mano ferma, gli prese una manica della marsina, e lo costrinse con uno strattone a sedere a fianco a lei; poi continuò guardando diritto di fronte a sé, nella penombra del salottino illuminato dall'ultima candela: "E non con le solite filles de joye delle case di tolleranza; quelle, bof! - e fece un gesto nell'aria con la mano, a indicare la sua totale indifferenza- "non le metto più nemmeno in conto! E nemmeno con quella mercantessa di vini, che  - lo saprete certo, visto che a Versailles non si fa altro che spettegolare - oltre che avere otto, no, nove, no undici anni più di me, e avere le mani screpolate, e una guancia e il naso segnati dal vaiolo, gli ha anche dato un figlio, maschio, ovviamente! Ma adesso mi tradisce con una giovane attrice della Comédie Italienne! Ci pensate, André?".
 
Agitava le mani nel buio, ed era costernata e indignata, col ditino della mano sinistra levato, insieme comica e tragicamente, profondamente indignata. E la sua indignazione - rifletteva André, lucidamente imbarazzato a morte - sarebbe cresciuta a dismisura se la mattina dopo, passata la sbronza, la contessa avesse ricordato di avere confidato i suoi dispiaceri coniugali all'attendente della sorella, a un servo, come l'aveva chiamato sprezzantemente una volta, rivolta a Oscar, mentre credeva che André fosse ancora nelle cucine e non fosse già alla porta dell'orangerie con il vassoio della cioccolata.
 
"Mi chiedo a volte che gusto ci troviate, sorella cara, a passare le vostre serate in casa a giocare a scacchi e a carte con quel servo, invece di frequentare i balli e le feste organizzati da qualche famiglia comme il faut!".
       
 
"Ci provo il gusto, cara sorella, di riposare con una persona amica e che non spreca fiato raccontando pettegolezzi e sciocchezze, dopo una giornata di lavoro intenso insieme al mio reggimento, e prima di tornare, di lì a poche ore, ancora a Versailles a prestare servizio per un'altrettanto lunga giornata", aveva risposto Oscar, piccata e insieme tranquilla. E allora lui si era palesato oltre la soglia, come se fosse arrivato in quel momento, e aveva messo davanti a Oscar e a Hortense le loro tazze, versato la cioccolata, e si era rispettosamente defilato, raggiunto, pochi secondi dopo, da Oscar, che, senza dire una sola parola di commiato alla sorella, si era alzata, lasciando la cioccolata a freddarsi nella tazza, ed era uscita dall'orangerie.
"André, sella i cavalli: ho voglia di andare a fare una lunga cavalcata. Vieni con me?".
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Adesso, invece, Hortense aveva voglia di confidarsi. Lo champagne rende espansivi, aveva pensato, André. Speriamo che domani non si ricordi di nulla, aveva pregato mentalmente.
"E sapete, André, quell'attricetta, quella ... Léopoldine  - ma vi sembra un nome da cristiana?! Non chiamerei la mia cagnetta così! - nemmeno sa che cosa sia la discrezione, no! Dovreste sentire come si gloria di essere la maîtresse en titre, l'amante ufficiale, del conte di Brissac - Montségour. E sapete che è una piccoletta con gli occhi strabici e senza petto?". Era veramente fuori di sé; e ora si era volta verso di lui, e lo fissava, nella penombra che diventava buio pesto, mentre solo il chiarore della luna piena di dicembre entrava dalle finestre con le tende ancora scostate.
 
"Insomma, André! Ditemi: che cosa ho che non va?!" Adesso, Hortense aveva aperto le braccia, i gomiti aderenti al busto, mentre la testa dondolava a sinistra e destra e le parole le uscivano a raffica, appena un po' imbrogliate:"Prima mio marito mi tradisce con una donna del popolo, una vecchia, con il volto deturpato dal vaiolo, o da che so io, con le mani screpolate, avvezza a maneggiare i soldi dei clienti, ma si sa, quelle svergognate devono compensare certo i loro difetti fisici con ...con ....con che so io, ma con quel che piace agli uomini! E poi, mi tradisce con una piccoletta strabica e senza forme, quando, quando io..." Si era alzata in piedi e, lasciato cadere lo scialle di lana rosa, leggera e soffice, in cui si era ravvolta quella sera, indicava il suo decollété perfetto, messo in mostra dalla scollatura quadrata e strizzato dal corsetto. "Vi pare possibile, Andrè?!". Fece un passo, e, malcerta sulle gambe, si sbilanciò, e sarebbe caduta in avanti, con la faccia a terra, magari rompendosi il suo bel nasino all'insù, di cui era sempre stata tanto fiera, se André non l'avesse sostenuta, prendendola per le braccia e mettendosi con uno scatto davanti a lei. Hortense si era trovata con il volto a poca distanza da quello di lui, e aveva cominciato a piangnucolare, querula. "Oddio, ecco un'altra che ha la sbornia triste", pensò André.
Che serata ignobile....
 
"Come siete buono, André! Non siete come mia sorella Oscar, che non mi ascolta mai quando provo a spiegarle quanto sono infelice...:", continuava nel frattempo Hortense; e André, al pensiero di una Oscar, magari alticcia e un poco torbida e cupa, come sempre le accadeva quando aveva bevuto un paio di biccheri di troppo da sola, costretta ad accogliere le confidenze alcoliche della contessa di Brissac-Montségour, desiderosa di aprire il cuore alla sorella sulle sue disavventure coniugali, non poté trattenere un sorriso, fortunatamente coperto dal buio del salottino, benché la situazione fosse a dir poco drammatica.
 
"Come siete buono, voi, André!", ripeteva nel frattempo la contessa, sempre artigliandogli la marsina e il fazzoletto da collo, " Mio marito, lo sapete, mi avrebbe lasciato cadere faccia a terra! Ma voi siete buono, voi siete gentile, voi vi preoccupate della gente....", e dopo aver rumorosamente tirato su col naso, gli aveva posato un bacio sulle labbra, con la bocca che sapeva di vino. André, allibito, aveva sentito un brivido di terrore nella schiena l'aveva subito allontanata e lasciata: quella donna era chiaramente fuori controllo, e fuori di sé. "Madame la Comtesse, io non credo che.....penso che dovreste ritirarvi. E anche io, ecco, è bene che mi ritiri dopo questa giornata così pesante".
 
"No! Non ve ne andate André". Ora Hortense de Brissac-Montségour era in ginocchio ai suoi piedi, e lo strattonava per una gamba, e per la coda della marsina. "Non lasciatemi sola anche voi....non mi lasciate.,...", e giù lacrimoni lungo le guance. André in altri momenti di sarebbe messo a ridere, di un riso genuino e spensierato, di fronte a quello spettacolo, e con la consapevolezza di come tre bottiglie di champagne erano sufficienti a polverizzare le differenze di classe e ceto, e l'albagìa di una contessa. Ma in quel momento Hortense ubriaca gli faceva solo una gran pena, e la aiutò a rialzarsi, sperando di riuscire a farle fare qualche passo e a condurla almeno alla porta della sua stanza. "André, guardatemi! Ma vi sembro da buttare via?" Adesso, con le dita tremanti e senza vederci quasi nulla, Hortense aveva allentato i lacci del vestito e del corsetto e gli stava mostrando il seno: "Che cosa c'è che non va in me?! Voglio saperlo!" André si era coperto il volto con le mani, che adesso Hortense, scarmigliata, ubriaca, mezza svestita, cercava di togliergli da davanti agli occhi. "No, no, André! Voi siete buono, voi conoscete il mondo, voi dovete dirmelo! Che cos'ho che non va? Perché mio marito preferisce quella donna piatta come una tavola da falegname e con le gambe storte?".
"Contessa, davvero, io devo andare!", ripeteva André, sbigotitto e morto dall'imbarazzo, e dalla paura, mentre quella continuava a brancicargli le maniche, il fazzoletto da collo, i pantaloni. Adesso si era rialzata in piedi, e aveva piegato la gamba, e appoggiato un piede sul canapé, sollevando l'ampia gonna e scoprendo la coscia, chiedeva fra le lacrime, balbettando e imbrogliandosi con le sillabe: "André, ma che cos'hanno le mie gambe che non vanno? Eh? Non sono belle? E sode? Toccate qui!", e nonostante André, al colmo della vergogna, cercasse di divincolarsi, non tropppo energicamente però, per non rischiare di farle del male, Hortense, approfittando del fatto di non essere respinta con violenza, gli afferrò la mano e ne posò il palmo sulla sua coscia.
 
In  quel momento, la porta si spalancò e una Oscar in tenuta da casa, camicia bianca che occhieggiava da sotto la vestaglia maschile di damasco rosso, entrò nel salottino con un doppiere in mano. "Ma che cos'è questo baccan...ANDRÉ! HORTENSE! Ma che sta succedendo qui? Non ti vergogni?!".
 
Non era del tutto chiaro a chi dei due fosse diretta l'ultima domanda, ma il tono con cui fu pronunciata ebbe l'effetto di far rinsavire immediatamente Hortense, che realizzò in quel momento di essere discinta e seminuda di fronte all'attendente della sorella, con la mano di lui sulla coscia, sotto gli occhi critici di Oscar, i quali, dietro le fiammelle delle candele che reggeva, dardeggiavano come fiamme azzurre.
"Oscar, non è come sembra! Non crederai che ..:", disse André, al colmo della preoccupazione, e sudando freddo, mentre Hortense, lanciato un gridolino di disperazione, esclamò: "Ah! Mon Dieu! Quelle honte!!!!", e cercò di scappare via, per ricomporsi in corridoio e guadagnare la sua camera; ma si sbilanciò e cadde a terra, sulle ginocchia, e solo grazie a un barlume di riflessi superstiti riuscì ad appoggiare i palmi delle mani sul pavimento, per attutitire la caduta e non rompersi il naso sul marmo rosa di Candoglia. Oscar le si avvicinò, con tre passi decisi e severi, e la sollevò per un braccio: "Ma tu hai bevuto, Hortense! Sei ubriaca!", la rimproverò, una volta sentito il suo alito."Vieni! Ti riporto nella tua stanza!", disse, un po' sostenendola, e un po' strattonandola.
 
"Oscar, ti aiuto", si offrì André, slanciandosi in avanti.
 
"Non ti preoccupare: tu hai già fatto abbastanza, per oggi!", ribatté lei, gelida, e, poi, spingendo avanti Hortense con una decisione ai limiti della malagrazia, si allontanò dal salottino.
 
Rimasto solo, André spense l'ultima candela, che stava morendo lentamente, e si lasciò cadere sul canapé, prendendosi la testa fra le mani.
 
Che razza di situazione!
 
Per fortuna Oscar lo conosceva bene, e non poteva certo pensare che lui stesse .... quasi non riusciva a formarsi nemmeno nella mente quel verbo ... approfittando della sorella; aveva ben visto come Hortense fosse completamente ubriaca, incontenibile, e certo capiva che lui aveva cercato di frenarla, ma, non potendo ovviamente usare le maniere forti ... se lo diceva e se lo ripeteva, ma non riusciva a togliersi dalla testa l'occhiata di Oscar, in cui si mescolavano incredulità, furia, delusione e ... gelosia?
O era solo lui che sperava di avere colto negli occhi di lei le ombre di quel sentimento?
 
André rimase per qualche tempo a riflettere, umiliato, scoraggiato, afflitto, annientato, sino a quando i rumori al piano di sopra - parole sconnesse di Hortense, il tono di voce fermo e gelido di Oscar, suono di passi nel corridoio, e di porte sbattute - non cessarono; poi, una volta spenta anche l'ultima brace nel caminetto, André uscì dal salottino. Prima di entrare nella sua stanza, bussò alla porta di quella di Oscar. "Oscar, tutto bene?". Nessuna risposta. "Oscar, io....". Che cosa poteva dire? Da dietro la porta, non veniva nessun rumore. Segno che Oscar già dormiva. O era talmente adirata da non voler rispondere e da voler stare sola: nell'un caso e nell'altro, era perfettamente inutile sprecare fiato in spiegazioni inutili, in quella condizione e a quell'ora. E così André si ritirò nella sua stanza, e, infilatosi sotto le coperte, cadde in un sonno plumbeo e triste, senza sogni e senza leggerezza, da cui si risvegliò all'alba più stanco e spiritualmente ammaccato di quando si era coricato.
 
 
Ve l’avevo anticipato, vero, che in questa ff mi sarei divertita a variare un pochettino la tonalità – passatemi il termine  - fra le varie parti del racconto? Ed ecco qui, un quarto capitolo con inserti da commedia, o forse, da farsa italiana, quella che andava di moda nei teatri del tempo. Se poi qualcuno fosse appassionato di commedia all’italiana, secondo me riuscirebbe facilmente a risalire al film che mi ha ispirata! E dunque, ecco una situazione certo grottesca, su cui si chiude l’episodio. Oscar è indignata ... o gelosa? E soprattutto, è consapevole della differenza fra i due stati d’animo?
Poi, prometto che varierò ancora registro: elegiaco, sentimentale, drammatico (non troppo)... per un Natale senza noia. A chi mi legge e mi dedica il suo tempo, grazie davvero!

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Capitolo 5
*** 5 - Il mattino dopo ***


V- IL MATTINO DOPO
 
1 - Quando, il mattino dopo, André scese nelle cucine, non poté certo dirsi sorpreso scoprendo che Oscar era già uscita. "Monsieur le Comte ha preso il cavallo e non ha lasciato detto a che ora sarebbe tornato", sussurrò in un soffio l'incolore governante, mentre, un poco tremando, versava il latte caldo nella tazza dell'attendente del "padrone", ammirandone le spalle possenti, che si intravedevano attraverso la tensione della marsina, al contempo timorosa che uno dei suoi sguardi timidamente cupidi potesse venire intercettato da "Monsieur André".
Ma, come anche l'infelice intuiva, non vi era alcun rischio in tal senso, dato che "Monsieur André” era tutto concentrato, apparentemente a scrutare il fondo della tazza, in realtà,  - Justine Legris lo capiva con tutta evidenza -, a pensare a che cosa potesse avere irritato la padrona, cioè, si corresse mentalmente, con sacro terrore, il padrone, cioè, il figlio del Padrone, insomma, Monsieur le Comte, ossia il glaciale Colonnello de Jarjayes.
Quella notte c'era stato trambusto al piano nobile, lei l'aveva sentito benissimo, con il suo orecchio allenato da insonne ansiosa, e in quella confusione doveva aver avuto parte anche la Contessa Hortense, che ancora non si era svegliata, come attestava la presenza della sua cameriera personale, Marie, che ancora ciondolava per la cucina, mettendo il naso, e le mani, golosamente, nel cestino dei biscotti al burro. 
Quanto al Colonnello de Jarjayes, la mattina, prestissimo, era apparsa, cioè, era apparso, in cucina, nella sua divisa rossa d'ordinanza, rigido e impettito come se dovesse andare a una rivista alla Reggia, e le aveva chiesto se il mozzo di stalla e il personale delle scuderie fossero già alzati, perché "voleva andare a fare una lunga cavalcata". 

2 - "Mio Dio, con questo freddo?!", pensò la governante, osservando le labbra tirate e incolori della padrona, cioè, del padrone, e la sua espressione gelidamente impassibile.
E poi, velocissimamente, le passò per la testa che, se solo lei, Justine Legris, avesse potuto, in quella mattina di dicembre, in cui persino il piscio nei pitali si congelava, e mettere le mani nel mastello con la saponata per lavare le tazze della colazione era un supplizio – incombenze, quelle, da cui, per fortuna, come governante era dispensata -, avrebbe ben saputo come scaldarsi, e dove; e, mentre si avvicinava con la cuccuma del caffé fra le mani per offrirne ancora un goccio a Monsieur André, si figurava, con un brivido più in basso dello stomaco (come diceva pudicamente al confessore quando gli raccontava i pensieri impuri che la notte la tormentavano, quando l’immagine di Monsieur André veniva a visitarla nel dormiveglia), l'effetto che doveva fare stare fra quelle braccia, che, se lo immaginava con un sospiro agonico nel suo petto scarno, anche senza la marsina e senza la camicia, dovevano essere calde e accoglienti; calde e accoglienti come le sue gambe muscolose, che la sera, addormentandosi, immaginava strette attorno ai suoi fianchi smagriti.
"Ma che vogliamo farci'", sospirò mentalmente, ché anche solo palesare con un soffio i suoi pensieri non era cosa da lei, "Chi ha i denti non ha il pane, e chi ha il pane .... via non pensiamoci!", come si ripeteva sempre, pensando all’attendente del padrone. E intanto, dalla bocca le usciva soltanto un gentile e anodino: "Ancora un sorso di caffé ben caldo, Monsieur André?". 
Il cenno di assenso e il “Oh, sì, grazie davvero, Augustine", accompagnato da un caldo sorriso che ricevette, del resto, sarebbero basati a riempirle la mattinata, e le fantasticherie notturne da grigia zitella, per quel giorno e oltre.
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2 - Nel frattempo, mentre André stava facendo ancora la sua mesta colazione, colorando a sua insaputa i sogni della governante di casa, Oscar, dopo aver sfogato il malumore con una cavalcata sotto la neve, aveva raggiunto il centro di Arras, lungo le cui strade, spazzate e sgombre dalla neve, César muoveva al passo, riscuotendo sguardi ammirati degli uomini, per la sua bellezza e nobiltà, oltre che per l'aria aristocratica del suo accigliatissimo cavaliere, che attirava occhiate languide delle modiste sulla soglia delle loro botteghe, delle servette che si affrettavano per commissioni, e persino di qualche ecclesiastico colpito dalla grazia efebica di quel cavaliere così inusuale in una cittadina borghese della provincia profonda, un cavaliere nel cui tratto, nella cui raffinatezza di lineamenti, nel cui portamento fiero e nobile si intravedeva una sola parola, foriera di luccicanti e lontane suggestioni: "Parigi".
Oscar, invece, come spesso accadeva, non vedeva nemmeno gli sguardi stupiti e cupidi che attirava; con gli occhi della mente ritornava alla nottata precedente, allo spettacolo "indecoroso" - altro aggettivo non sapeva e non voleva usarlo - offerto da sua sorella Hortense e....oh accidenti, anche da André!
Non che dubitasse ... sospettasse ... insomma, sulla correttezza di André avrebbe potuto giurare e mettere la mano sul fuoco, come si diceva; e tuttavia, che l'ossequio di cui egli aveva sempre dato prova nel rapportarsi ai suoi familiari fosse scaduto in una debolezza, e in una mancanza di polso così corriva, al punto da non saper arginare l'esuberanza alcolica di Hortense, era un fatto che la ... feriva? No, via, non la feriva affatto ... la indispettiva, questo sì. La indisponeva, ecco. E dopo aver fissato nella sua mente quella formula:  "la indisponeva", così da catalogare e depotenziare l'increscioso incidente sotto una rubrica lecita e ripetibile, cui riguardare, aprendo il libro della sua memoria, senza troppa bile e senza sentirsi pungere da sensazioni troppo moleste, le venne, immediatamente, alla memoria, il ricordo di una estate di molti anni prima. 
 
3 - Era un caldo pomeriggio di fine agosto, di quelli, che, in teoria, dopo il primo temporale della metà del mese, dovrebbero inclinare pacificamente nell'incipiente frescura della mezza stagione che prelude all'autunno: e invece, il sole picchiava come un fabbro nel cielo scialbo, e nell'afa, opprimente, le camicie si appiccicavano addosso, con larghe chiazze di sudore sulla schiena. Monsieur de Bellevue, il loro precettore, non era ancora tornato da Bordeaux, sua città natale, dove aveva ottenuto dal Generale di trascorrere due settimane per assistere al matrimonio della sorella minore, e per passare qualche giorno con la madre, vedova e anziana; e lei e André erano tornati da due giorni dalla Normandia, e avevano ancora negli occhi il blu del mare, e in bocca il sapore delle ostriche, e del sidro che avevano iniziato ad assaggiare, di nascosto, complice un vecchio giardiniere della tenuta. 
Naturale quindi che mal tollerassero il rientro nella calura e nella vuotaggine della vita di tutti i giorni a Palazzo Jarjayes, dove non c'era ancora nessuno che potesse occuparsi di loro, dato che il Generale era impegnato in Piccardia nelle esercitazioni militari con il suo nuovo reggimento, e l'Abbé Armand, croce e delizia delle loro lezioni di latino e catechismo, era a letto, immobilizzato da un attacco di gotta; per cui, più irrequieti del solito, Oscar e André avevano iniziato a vagabondare al limitare del parco, dove i viali ordinati e le siepi e le aiuole geometricamente disegnate cedevano il passo a cespugli e arbusti la cui crescita e il cui sviluppo erano lasciati  a servire sotto la guida e il comando della natura. In quel pomeriggio, avevano scoperto che la casina degli attrezzi del giardiniere non era stata chiusa a chiave: come lasciarsi sfuggire l'occasione di entrare a curiosare? Tanto più che si erano portati, destramente sottratta dalle cantine, una bottiglia di sidro, per provare a replicare l'inebriante sensazione connessa alla scoperta di quel nettare che risaliva a pochi giorni prima.
Ma, una volta sedutisi sul lettuccio sfatto del giardiniere, passandosi la bottiglia per bere a collo, avevano scoperto che il clima e l'aria normanna erano difficilmente replicabili nella afosa pianura dei dintorni di Versailles; e che la stessa bottiglia, bevuta in riva al mare, con le onde che si infrangevano sui loro piedi nudi, aveva un sapore molto diverso di quando fosse stata bevuta nell'afosa semioscurità di un capanno degli attrezzi dalle pareti dal vago odor di muffa, fra rastrelli e vanghe e roncole accatastati alla bell'e meglio. Senza contare che il caldo aveva reso imbevibile quella dolce mistura, che scendeva in gola senza arrecare alcun piacere, tanto che Oscar non poté trattenere una smorfia schifata, e poi, staccate le labbra dalla bottiglia, esclamare: "Bleah! Che schifo, André! Sa di....."
"Di che cosa?", chiese lui, curioso, alzando le sopracciglia. Voleva proprio vedere se l'avrebbe detto.
"Sa di piscio!", concluse lei, la bocca contratta a una espressione di disgusto.
"Come sei sguaiata!", la rimbeccò lui.
"Oh, scusate tanto, MADAMIGELLA Grandier! Non era mia intenzione offendere le vostre delicate orecchie!", lo canzonò lei, acida.
"Non è questione di offendere le orecchie delicate di nessuno, ma non è bello sentire esprimersi così un...", e qui si bloccò, André, rendendosi conto della china pericolosa che aveva imboccato con quella sua considerazione molesta. Che se Oscar era una ragazza, né lui poteva dimenticarlo, per tutti doveva essere e venire trattata come un maschio, un maschio destinato, per giunta, alla carriera militare, e che, dunque, in caserma, di piscio e di altri termini e argomenti ancor più sguaiati avrebbe sentito parlare abbondantemente negli anni a venire.
"Un-----?" chiese lei in tono di sfida-
"Un futuro ufficiale di sua Maestà il Re Cristianissimo", concluse lui, cavandosi elegantemente d'impiccio.
"Ah! Mi pareva", disse lei, con una velata sfumatura di scetticismo nella voce.
"E poi", sorrise André, per sviare ulteriormente il discorso, "che ne sai tu di che sapore abbia il piscio, eh? L'hai mai bevuto? O anche solo assaggiato?", la provocò.
"ANDRE'!", gridò Oscar, metà scandalizzata, metà divertita. "Ma che dici?"
"L'hai detto tu!", le rinfacciò lui.
"Stupido!", urlò lei; e, manesca come sempre, fece per dargli un pugno sulla spalla. Ma André intercettò la sua mano e le torse il braccio all'indietro. "Stupido a chi?"; chiese, in tono divertitamente minaccioso. 
"A te! A te!", rideva lei, tentando di divincolarsi, e per questo suscitando un più energico intervento di lui, che la bloccò con entrambe le braccia, facendola rovinare giù dal letto, e, allo stesso tempo, cadendo anch'egli a terra. Ne seguì una lotta senza quartiere, a suon di schiaffi, spinte, morsi sulle spalle e sulle mani, una lotta per metà seria e per metà condotta fra le risate, dopo che era stato dimenticato completamente il motivo da cui era partita quella colluttazione. Infine, Oscar, più agile, era sgusciata via dalla morsa delle braccia di André ed era corsa fuori dal capanno, non senza averlo provocato, prima di uscire, ritta sulla soglia, la porta già aperta: "Vienimi a prendere adesso, se ci riesci!".-
4 - André si era lanciato all'inseguimento, ma, girato l'angolo del capanno, l'aveva vista ferma, dritta come un fuso e imbambolata a guardare verso l'alto, verso il tetto.
Anche lui si era fermato, e l'aveva fissata, interrogativo: "Beh, e ora che c'è, Oscar?":
"Guarda!", gli aveva detto lei, senza distogliere lo sguardo dal punto immediatamente sotto il tetto e sopra le loro teste, verso cui puntava la sua manina bianca: "Guarda lassù! Che forma strana!".
"Altro che strano! E' un nido di vespe, quello! Vieni via subito!". e .l'aveva presa per un braccio, cercando di tirarla via.
"Ma no, André! Proviamo a farle scappare!"
"Ma sei matta? E' un nido enorme, e rischiamo un centinaio di punture a testa, se le infastidiamo!"
 
"Uffa, ma quanto sei noioso! Si direbbe che tu abbia paura! Che male vuoi che ti facciano degli inncui insettini?"
André avrebbe voluto ribattere che quegli "innocui insettini”, tanto innocui non erano, - e nemmeno tanto - ini, a benvedere -  e che uno sciame di vespe poteva far molto, molto male. Ma sapeva bene che quando Oscar si metteva in testa qualcosa, era impossibile farle cambiare idea, per cui sospirò, rassegnato.
 
"Bene. E che cosa vorresti fare, adesso?", le chiese, con una punta di scoramento nella voce?
"Ovvio: buttar giù il nido a bastonate!"
 
"Ma sei impazzita? Così te le tiri tutte contro inferocite, le vespe all'interno del nido!"

"Trovato! Facciamole uscire con il fumo!", fu la sua seconda proposta.
 
Sospirando, André si dispose a seguire Oscar anche in quell’impresa, consapevole che, se si fosse rifiutato, lei avrebbe messo in atto il suo proposito più tardi, una volta che fosse stata sola: non poteva rifiutarsi di assistere Oscar, perché, ormai l’aveva imparato, quando si fissava di voler fare qualche stupidaggine con lui, negarle la propria presenza avrebbe solo significato che Oscar si sarebbe predisposta a mettere mano alla stessa stupidaggine, ma senza di lui, con esiti nefasti. E così, adunata una piccola catasta di legna proprio sotto il nido, e recuperato nel capanno un acciarino, André accese il fuoco, covando nel cuore un rassegnato sentore di catastrofe imminente.
Mentre André rifletteva sulla triste costante delle sue giornate, costretto com’era a seguire Oscar in tutte le sue pazze iniziative, le vespe, disturbate e affumicate, iniziarono a uscire dal nido, per lo più volando via impazzite, ma, in alcuni casi, deviando e puntando decise verso le due figure umane colpevoli di avere disturbato la loro quiete.
 
“Vieni via, Oscar!”, gridò André, tirandosela dietro e correndo verso l’ingresso del capanno, dove la fece entrare, chiudendosi dietro le spalle di slancio la porta.
 
“Come stai?”, le chiese poi. Su di lui le vespe non avevano infierito, e, se avevano avuto fortuna, come credeva, nemmeno Oscar doveva aver riportato conseguenze....

“Sto bene, sto bene”, lo rassicurò lei, ancora ansante per lo scatto della fuga. Ma poi, subito dopo, aggiunse: “Ah, no, forse non del tuttto...ahi!”.
 
“Che cosa è successo?! Dove ti hanno punto?!”, chiese André, allarmato.
 
“Qui, credo”, disse lei, con una espressione suo malgrado contristata, e indicandosi la coscia sinistra.

“Ti hanno punto attraverso la stoffa dei pantaloni?”
 
“Sì, credo di sì...e più di una volta...ahi! Brucia!”, si lasciò scappare lei, suo malgrado.
 
La figlia di un soldato non piange mai, giusto?, pensava Oscar.
Però qualche lamento poteva permetterselo, magari. Giusto davanti ad André.
 
“Fa’ vedere”, disse lui.
 
“No, no”, si schermì lei. “Pensiamo piuttosto al fuoco acceso sotto il nido ... dobbiamo spegnerlo ... può essere pericoloso”- Cercava di deviare l’attenzione di André, concentrandola sulla piccola catasta di legna fumante fuori dal capanno, perché non voleva fare la figura della femminuccia piagnucolosa. Ma, accidenti, bruciava! E insieme prudeva! E tanto!
 
“Il parco non andrà a fuoco  nei prossimi minuti, Oscar”, la rassicurò André. “E poi, ho costruito la catasta in modo tale che le fiamme si spengano naturalmente, senza diffondersi. Ora sta’ tranquilla e fammi vedere”, aggiunse, prendendola per le spalle e fancendola sedere sul lettuccio, per poi inginicchiarsi a terra, ai suoi piedi.
 
“Dovresti togliere i pantaloni...”, suggerì André, pratico.
 
“Devo proprio?”, mormorò lei, abbassando lo sguardo e incrociando quello di lui. Un istante di imbarazzo, e André ricordò la ramanzina della nonna, risalente alla sera prima, dopo che il valletto personale del Generale aveva riferito che il Signor Contino Oscar e André erano stati sorpresi per l’ennesima volta a fare il bagno nel lago ai confini del parco, “in tenuta indecorosa”, ovvero, con addosso soltanto la biancheria.
 
“Ma si nuota sempre senza vestiti, da che mondo è mondo!”, aveva obiettato Oscar, di fronte a una nanny sempre più sconcertata e rassegnata.
 
Se si fosse trattato del Generale, e del suo consueto sistema per imporre la propria autorità, ovvero a suon di schiaffi e punizioni corporali, Oscar non avrebbe esitato a fare di testa sua, violando, scientemente e scientificamente, ogni divieto; ma le parole di nanny avevano sempre, su di lei, uno speciale effetto: il suo tono di voce pieno di apprensione e dolcezza riusciva a farla sentire in colpa, almeno per breve tempo, per la sua incontenibile vivacità e la sua insofferenza ai divieti. Senza contare che la sera prima, allontanato molto opportunamente André con un pretesto (“Caro, Yvette ha bisogno di una mano per lucidare l’argenteria prima che i padroni rientrino: puoi andare nella sala da pranzo al primo piano per aiutarla?”), la nonna doveva avere affrontato con Oscar qualche discorso particolare, intimo e segreto, dopo il quale, quella notte, André non aveva ricevuto la solita visita di lei nella sua stanza, e la mattina lei lo fissava con certe occhiate timorose e, se riusciva a leggere con precisione nei suoi sguardi, vergognose, che l’avevano messo in pensiero.
 
“Devo proprio?”, ripeté Oscar. E poi, visto che la risposta di André tardava, concluse: “Ma in fondo, André, non serve controllare: sarà solo una puntura...o due... tre al massimo ... non c’è bisogno di perdere tempo...andiamo piuttosto a spegnere il fuoco...”.
 
“Aspetta un attimo, Oscar”, si corresse lui, cercando di non mostrarsi intenerito per quel sussulto di imbarazzo. “Non serve che tu ti tolga i calzoni. Guarda qui: sciogliamo la giarrettiera, abbassiamo la calza” e intanto le sue dita eseguivano, leggere, quanto la bocca affermava, “e ora”, continuava, suadente e pacato “solleviamo un po’ l’orlo del pantalone. Ecco: così: aiutami ad arrotolarlo più in alto possibile; perfetto così. Ah, accidenti!”. Sulla coscia bianca e sottile, quattro dita sopra il ginocchio, spiccavano una quindicina di punture, gonfie e ormai violacee.
“Mi hanno conciata per bene”, disse sconsolata Oscar.
 
“Ti danno molto fastidio?”, si preoccupò André.
 
“Abbastanza”, rispose laconica lei.
 
“Aspetta, allora”, disse André, che aveva avuto una illuminazione, e aveva preso un catino d’acqua che faceva mostra di sé sulla rustica toletta accanto al letto.
“Ma no! Che fai?!”, si allarmò lei. Ma André, chino sulla sua coscia, aveva già cominciato a succhiare via il veleno delle vespe da ogni puntura, stringendo il ponfo tra le labbra, e ripulendosele via via con il fazzoletto.
 
“Ti fa molto male? Ti dà fastidio”, le chiese, preoccupato, sollevando lo sguardo dalla coscia verso il viso di Oscar, sentendo i tremiti che la attraversavano.
 
“Un pochino”, soffiò lei, che si sentiva lo stomaco torcersi, e, che, tuttavia, quando l’ultimo ponfo fu aggredito e sgonfiato, si sentì quasi dispiaciuta di non avere addosso altre punture.
 
Poi, mentre André, trovato un panno pulito sotto il cuscino, dopo averlo intinto nel catino, le tamponava la coscia offesa con garbo e delicatezza, Oscar non osò dare forma al pensiero che era passato, veloce come un fulmine, nella sua testa di dodicenne.
 
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5 - Chi sa come mai proprio adesso, sotto la neve, nel gelo dell’inverno più freddo che si ricordasse a memoria d’uomo, le veniva in mente quell’episodio di una estate lontana, si chiese Oscar, arrivando, sempre in groppa a César, nei pressi di una libreria e legatoria sempre singolarmente ben fornita delle ultime novità, per essere in provincia.
 
Era appena smontata, e si apprestava a legare il cavallo e a entrare nel negozio, da oltre un secolo collocato nella piazza principale della città di Arras, sotto i portici che fronteggiavano il Duomo dedicato a San Luigi, quando sentì un coro di mocciosetti che, con tono canzonatorio e nient’affatto teneramente infantile, cantilenavano maligni, “Guercia, guercia, guercia fottuta!”.
 
Alzò gli occhi in direzione di quelle insultanti parole e vide che poco lontano, nel centro della piazza, una donna, completamente vestita di nero, era attorniata da un capanello di ragazzini. Oscar si avvicinò, a passi decisi, sempre tenendo per le briglie César: la dama era a terra, forse scivolata sul selciato bagnato, troppo bagnato e ghiacciato per quelle scarpine di raso dalla suola liscia che facevano mostra di sè sotto l’orlo del fastoso vestito da lutto stretto; la dama aveva le mani appoggiate a terra, e il più ardito di quei monelli le si era avvicinato e teneva sollevata la veletta nera dell’elegante  cappellino che la donna aveva appuntato fra i capelli.
 
“Che cosa sta succedendo qui?!”, chiese Oscar, con il tono imperativo che faceva tremare i soldati del suo reggimento, anche quelli che non avevano alcunché da rimproverarsi, e che ghiacciava le dame quando, talvolta, tentavano di coinvolgere l’algido Comandante delle Guardie Reali in una conversazione leggiadramente salottiera.
 
 Fosse stato il suo tono di voce, fosse stata la sua apparizione, severa e marziale, fosse stata la loro cattiva coscienza, i ragazzini si bloccarono all’istante.
 
“Non stavamo facendo nulla di male, Monsieur l’Officiel...”, mormorò il più ardimentoso, abbassando tuttavia, con atto quasi cerimonioso, di certo sommessamente contrito, la veletta della dama, mentre gli amici, ammutoliti, facevano qualche timido passo indietro, e uno di essi lo strattonava perché li seguisse.
 
“E allora, via! Andatevene subito, e che non debba mai più cogliervi a importunare una gentildonna!”, tuonò Oscar, causando il definitivo fuggi fuggi della piccola masnada.
 
“Vogliate accettare il mio aiuto per rialzarvi, Madame”, disse  poi Oscar, porgendo la mano alla dama, e aiutandola a rimettersi in piedi.
 
“Merci bien, Colonnello de Jarjayes; ma non era necessario che vi prendeste tutta questa premura”, sussurrò la donna, sfregandosi il vestito, per cercare di rendersi minimamente presentabile.
 
“Mi conoscete, dunque?”, si stupì Oscar.
 
“Naturalmente”, rispose la donna. “Come potrei ignorare l’identità e il volto del Comandante delle Guardie di Sua Maestà? E poi, la Vostra famiglia è molto nota qui ad Arras”. La sua voce aveva un tono basso e musicale, da contralto, con una sottile venatura ironica.
 
“Spero che quei ragazzi maleducati non vi abbiamo causato danni, Madame”, si preoccupò Oscar.
 
“Oh, no, Colonnello. Nessun danno, a parte quello all’orgoglio. Ma, del resto, non facevano altro che dire la verità”: e così dicendo, sollevò con un gesto secco la veletta, mostrando, anzi, quasi esibendo a Oscar, un volto la cui pelle mostrava, sulle guance, sulla fronte, sul mento, sul naso, i segni crudeli del vaiolo, che aveva fatto scempio dei suoi lineamenti, e, soprattutto, un occhio, spaventosamente vacuo, spento dalla malattia.
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Ed eccoci qui: mentre André è sconfortato e preoccupato, e Justine fantastica su modalità alternative di scaldarsi in quel freddissimo inverno nel Nord della Francia, Oscar ha fatto un incontro decisivo. Chi sarà la dama in nero, sfregiata dal vaiolo, che ha cercato riparo ad Arras?
            Quanto al resto, non so se quello messo in atto da André sia il metodo corretto per dare sollievo alle punture di vespa: potete comunque giustificare questa piccola licenza letteraria?
Grazie a tutti i lettori che mi hanno seguito e mi seguono in questa piccola follia...ehm, esperimento (meta)letterario. A presto!
 

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Capitolo 6
*** 6 - Presentazioni ***


 
 
VI- Presentazioni
 
1 - Oscar si riscosse: non era gentile soffermarsi a osservare, quasi con morbosità, l’occhio vacuo della dama in nero. La quale, Oscar se ne rese conto, camminava con fatica, appoggiando la gamba destra con cautela, e poi con una smorfia di dolore che le faceva contrarre le labbra, lasciate libere dalla veletta: nella caduta a terra doveva avere battuto malamente il ginocchio.
“Permettete, Madame?”, le chiese Oscar, offrendole il braccio e sostenendola, lasciando le briglie di César, che, ubbidiente come sempre, seguiva la sua padrona al passo.
“Non sono poi così malmessa, Colonnello de Jarjayes”, rispose, quasi schernendosi, la dama velata. “La mia carrozza mi attende davanti al Duomo”, aggiunse, indicando, la mano guantata di pizzo nero, verso il lato opposto della piazza. Tuttavia, dopo pochi passi fu chiaro che il ginocchio della donna era alquanto malandato, perché le smorfie di dolore erano ormai accompagnate da lamenti a stento soffocati.
“Madame, se me lo consentite, vorrei sincerarmi delle condizioni del vostro ginocchio”, disse Oscar, attendendo il cenno di assenso della dama velata. Solo dopo averlo ottenuto, si chinò, e sollevò leggermente l’orlo della fastosa gonna: la sottile calza di seta nera era strappata, certo a causa dell’urto con il selciato, e il ginocchio era escoriato e sanguinante.
“Madame, non potete camminare, in questo stato”, disse Oscar, rialzandosi, e, con un gesto sicuro, sollevò la dama, mettendola in groppa a César, seduta all’amazzone; subito dopo, salì a cavallo, sistemandosi dietro la schiena della donna, e afferrando le briglie, cingendole al contempo la vita con le braccia per tenerla saldamente in sella.
“Ora vi condurrò alla vostra carrozza: non dovete soffrire inutilmente”.
 
2 - Dopo il brevissimo tragitto, la dama non cessò per un attimo di fissare Oscar, che la faceva smontare e la sistemava sulla carrozza, con l’aiuto del cocchiere, un vagheggino imparruccato e incipriato che non la finiva più con i suoi “Mais, non,  Madame la Marquise, mais qu’est-ce que c’est passé! Mais c’est terrible!”. Poi, una volta seduta sul sedile imbottito di seta rossa, la gamba destra distesa, la dama in nero sembrò recuperare la voce, e, mentre Oscar era ancora in piedi davanti allo sportello della carrozza, un attimo prima che lo chiudesse e facesse segno al cocchiere di ripartire, ecco che disse:
 
“Colonnello de Jarjayes, permetteterete certo che vi ringrazi invitandovi a colazione nella mia dimora”.

“Non vorrei incomodarvi, Madame; e poi, non ho fatto altro che il mio dovere”, si schermì Oscar, che, sempre schiva, non era mai stata particolarmente amante di inviti e trattenimenti.
“Oh, Colonnello, Vi prego”, soggiunse la dama, “conosco bene la vostra ormai leggendaria ritrosia: a Corte e nei salotti non si parla d’altro. Ma non temete: desidero solo ricambiare la gentilezza che mi avete usato con un piccolo rinfresco”. E poi”, aggiunse, con una nota sinistramente ironica nella voce, preceduta da una risatina amara: “È ormai assolutamente fuor di dubbio che la mia dimora sia un luogo pulsante di vita mondana: di questo potete stare sicura”.
 
Oscar arrossì violentemente: che cosa doveva avere passato quella dama, apparentemente così orgogliosa e sicura di sé, una volta vistasi sfigurata?
 
In che abisso di solitudine doveva essere precipitata? Perché mortificarla ancora di più, rifiutandole un piccolo gesto di cortesia come il trattenersi alla sua tavola?
 
“Ma certo, Madame”, rispose allora Oscar, accennando a un sorriso, “Accetto con vivo piacere il vostro invito”.
 
“Benissimo, Colonnnello de Jarjayes”, disse la dama in nero, allungando la mano destra. Oscar salì i gradini che portavano all’abitacolo della carrozza, e chinandosi verso l’interno, si profuse allora nel più cavalleresco dei baciamano, sfiorando con le labbra la sottile striscia di pelle fra l’orlo del corto guantino di sottile trina e il polsino dell’abito, mentre la dama velata si presentava: “È un vivo piacere conoscervi, Comandante de Jarjayes, o, se posso usare l’appellativo con cui siete spesso chiamata a Corte, “Madamigella Oscar”. E poiché non mi sono ancora presentata, lasciate che colmi immediatamente questa imperdonabile mancanza: sono la Marchesa di Merteuil, e vi sono profondamente grata, per l’aiuto che mi avete prestata e per aver accettato il mio modesto invito. Vi prego, prendete posto di fronte a me”, concluse, indicando il sedile imbottito dinanzi a sé con un gesto aggraziato, la mano sinistra aperta verso l’alto, con il mignolo e l’anulare leggermente piegati verso il palmo e le altre tre dita stese in direzione della comoda seduta rivestita di damasco di un bel rosso acceso.
 
        “Madame la Marquise, perdonatemi”, rispose Oscar, “ma preferirei affiancarmi alla Vostra carrozza con il mio cavallo”.
 
        “Come desiderate, Colonnello”, sorrise la Marchesa con un cenno grazioso del capo in avanti, e poi guardando fisso dinanzi a sé per tutta la durata del viaggio, che, del resto, non fu lungo.
 
3 - Mentre César marciava affiancato alla carrozza, Oscar rifletteva sull’insolito incontro di quella mattinata. La Marchesa di Merteuil le era stata citata giustappunto il giorno prima da André, mentre cavalcavano alla volta di Arras.

        “Sai, Oscar, credo che quel fascio di lettere che il visconte di Valmont ha consegnato al giovane cavaliere che l’ha ferito a morte nel duello produrrà un grosso scompiglio, a corte e altrove”, aveva buttato là, come per sondare la reazione della sua compagna di viaggio.
 
        “Che cosa intendi dire?”, aveva chiesto lei, guardando fisso davanti a sé. I pettegolezzi! I pettegolezzi di cui André sembrava sempre un goloso raccoglitore! Quanto li detestava!
 
“Gira voce che la Marchesa, che ha sempre goduto di una reputazione impeccabile, negli ultimi mesi si fosse impantanata in una .... amicizia particolare con il Visconte di Valmont; e il duello in cui il visconte ha trovato la morte è stata l’estrema conseguenza di quel legame pericoloso. Quelle lettere, sai ...”.
 
“André, sai bene che non mi piacciono i pettegolezzi!”, l’aveva interrotto lei, con forza, prima di spronare il cavallo al galoppo e di dare un buon distacco ad André, il quale, per un attimo, era rimasto pensoso e allibito; poi, l’aveva raggiunta, forzando al massimo il suo Alexandre.
 
Poi, per tutto il resto del viaggio, non avevano più parlato di nulla che riguadasse la corte e i contrasti e le lotte dei nobili fra di loro, per emergere, per conquistare un incarico prestigioso o una prebenda, per essere notati dalla Regina durante uno dei pochi balli a corte cui ancora partecipava, per mettersi in buona luce o per mettere in cattiva luce un loro avversario: tutte cose che annoiavano profondamente Oscar, e che le davano sempre più il senso della vacuità della vita che si conduceva a Versailles. A Oscar piaceva la vita militare: amava l’organizzazione, la logica, la razionalità che erano sottese a quell’incarico che rivestiva ormai da tredici anni; ma, d'altro canto, detestava l’atmosfera di Versailles, in cui, sotto ai profumi di cui gli aristocratici si innaffiavano letteralmente, si poteva cogliere l’odore di tutto il marcio, non soltanto metaforico, che infestava quei corridoi e quei saloni, quei viali e quelle stanzette buie, dove si ordinavano trame per mettersi in luce e screditarsi, per combinare matrimoni e ordire congiure mondane, per rovinare un nemico imbrattandogli la reputazione o per cercare di essere innalzati a una posizione di prestigio in forza di meriti assai dubbi, ma di una sicura ambizione e piaggeria.
 
Che cosa doveva avere vissuto la Marchesa di Merteuil?, si chiese ancora Oscar. Nel suo ultimo girono a Versailles, aveva colto una baronessa che, con aria annoiata, dietro al suo ventaglio ornato di piume di struzzo, diceva a una sua pari grado, con cui attraversava un corridoio: “Adesso alla marchesa dicono che si veda l’anima in faccia!”.
 Ma non aveva intuito a chi si riferisse, non sino a quel momento.
 
“Le donne!” pensò Oscar. “Attribuiscono sempre una grande importanza all’avvenenza del loro volto e alla perfezione dei loro lineamenti”, rifletté.. ...le donne...si stupì a ripensare, subito dopo.
 
 E lei?
Non era forse anche lei una donna?
 
 Anche se vestiva l’uniforme, faceva un lavoro da uomo, aveva ricevuto una educazione maschile, e non aveva mai indossato bustini e guardinfanti, era anche lei una donna; erano ormai lontani, definitivamente sfumati i tempi, facili e felici, in cui si era illusa, bambina ancora piccolissima, di essere un maschio.
Certo, le erano estranee le vanità tipicamente femminili: vezzi di perle, orecchini di smeraldi,  anelli di diamanti, pizzi, trine, belletti, rossetti, nei finti, erano tutti artifici che non conosceva. Pure, se si faceva un attento esame di coscienza, la meticolosa cura con cui spazzolava la sua lunga chioma bionda, che, contrariamente agli usi della corte, non ingabbiava mai sotto una fastidiosa parrucca; l’attenzione e la frequenza con cui si lavava i capelli, - rito sconosciuto alla maggior parte dei nobili del suo tempo – facendo attenzione a che non si sfibrassero con impacchi di olio di lino; la delicatezza con cui si detergeva la pelle del viso e del collo con acqua di rose profumata prima di andare a letto, non erano, in fondo, vezzi e piccole vanità?
Certamente, erano attenzioni finalizzate a essere sempre impeccabile, come si conviene a un soldato, e, tanto più, a un ufficiale, non che al Comandante delle Guardie Reali. Del resto, conosceva uomini, e ufficiali, altrettanto, se non più attenti a queste minute delicatezze e alla cura del proprio aspetto: il suo vice Girodelle, per esempio, era sempre impeccabile, con la sua lunga chioma perfettamente in ordine e la divisa rigidissimamente inamidata, al punto che Oscar si domandava come facesse, la mattina, a indossarla, e se la sera, una volta tolta, la divisa restasse in piedi da sola, senza bisogno di essere composta su un manichino o nell’armadio. Per non parlare della scrupolosa attenzione con cui Girodelle si curava le unghie, evitando che si scurissero con il succo di limone: una volta l'aveva addirittura sorpreso, entrando, dopo aver bussato, ma senza aver atteso risposta, nel suo bureau di vicecomandante delle Guardie Reali, mentre stava direttamente ficcando le dita nella polpa dei frutti tagliati a metà, che facevano bella mostra di sé sulla scrivania, e che il maggiore Girodelle, una volta visto il suo diretto superiore, aveva cercato maldestramente di nascondere nel cassetto. E anche André, in fondo, indulgeva a piccoli vezzi, Oscar aveva imparato a riconoscerli, ormai: la camicia sempre perfettamente stirata, aperta a volte, nei momenti di libertà, in casa, sino a metà petto, e, quando indossava la marsina, il fazzoletto da collo impeccabile; le due gocce di acqua di colonia con cui si profumava la domenica; i capelli sempre accuratamente pettinati e raccolti in una lunga coda trattenuta dal nastro di seta blu annodato con precisione ....
Ma poi, rifletteva Oscar, chiunque, uomo o donna, avrebbe sofferto nel vedersi così crudelmente sfregiato dalla malattia: quella non era semplice vanità, si disse con rimorso strisciante, era l’offesa ai tratti della propria identità personale, quella che si rivela nel volto. Ricordava benissimo quando il vecchio re Luigi XV era morto di vaiolo: la sua agonia era stata orribile, e il débris, a detta di chi aveva avuto la triste ventura di vederlo, era a dir poco spaventoso. Lei, Oscar, si era scandalizzata e adirata vedendo come il cadavere del vecchio re fosse stato abbandonato dai cortigiani, in corsa affannosa per cercare l’onore di congratularsi per primi con i nuovi sovrani; certo, non si trattava unicamente di piaggeria e adulazione, ma anche di paura del contagio, la stessa che aveva fatto sì che nemmeno le figlie si presentassero al capezzale del re morente, dal quale, invece, la sua favorita, Madame du Barry, dimostrando un attaccamento non comune e spregio del rischio – cosa notevole, in una donna il cui unico patrimonio e la cui sola risorsa nella vita era l’avvenenza - non si era mossa fino a che non era stata allontanata per imposizione del confessore, pena la mancata assoluzione del moribondo.
Quando poi, ancora spaventato dalla morte terribile del nonno, poco più di un mese dopo, il giovane Re Luigi XVI, in villeggiatura al castello di Marly, si era voluto far inoculare contro il vaiolo – decisione non esente da rischi, ma che poteva metterlo al riparo dalla malattia – a quella pratica si era sottoposta tutta la famiglia reale, eccetto chi il vaiolo l’aveva avuto in forma leggera, come la Regina Maria Antonietta e la Contessa di Provenza; e, per vincere le resistenze dei fratelli del giovane re, il Conte di Provenza, Madame Élisabeth e il Conte d'Artois, e per rassicurarli, il Generale Jarjayes aveva insistito per essere coinvolto anch’egli, con Oscar, e, ovviamente, anche André aveva voluto essere solidale con lei. Il segno della puntura, e quella piccola pustola che aveva lasciato la pelle sottilmente raggrinzita, ora erano seminascosti da una cicatrice, che Oscar si era procurata in uno scontro contro un pazzo che aveva cercato di attentare alla vita della sua Regina aggredendo la carrozza della sovrana durante un viaggio verso Marly: e comunque adesso cercava di non scoprire mai il braccio sinistro, dove, oltre alla cicatrice del colpo di spada di quel povero pazzo, e alla piccola area di pelle raggrinzita, facevano bella mostra di sé anche i segni, indelebilmente impressi nella sua carne, dell’incidente occorsole quando aveva salvato Maria Antonietta, ancora Delfina, da una morte certa durante il suo primo, infelice tentativo di montare a cavallo.
Per fortuna, anche nella stagione calda, Oscar indossava sempre camicie ampie e leggere, a maniche lunghe, e non era costretta a scoprire le braccia, come le dame nelle loro tenute estive più seducenti, o nei loro negligé sbracciati e trasparenti.
 
5 - Mentre tornavano dal castello di Marly, in quella splendida giornata di fine giugno di otto anni prima, Oscar rifletteva sul fatto che suo padre, in fondo, era altamente indifferente, riguardo alla salute della figlia: al Generale, delle condizioni di Oscar non importava nulla,  posto che fosse sempre, impeccabile e solerte, a capo della Guardia Reale: le avrebbe fatto bere anche un bicchiere di aceto, o persino di acqua tofana, se mai il Re, o anche solo il conte d’Artois, glielo avesse proposto. Non aveva palesato nulla di quanto pensava ad André; ma ora, vedendosi davanti agli occhi il volto devastato e inespressivo della Marchesa, forse, stava rivalutando la decisione del padre.
 
Avrebbe sopportato di restare sfigurata?
 
E se ad ammalarsi di vaiolo fosse stato André?
 
 Per lei, certo, André sarebbe rimasto André, sempre e comunque, anche se fosse rimasto offeso nel volto dalla malattia, anche se avesse perso un occhio. Ma quanto sarebbe costato al suo amor proprio il edersi deturpato, o anche l’essere consapevole di aver perso la sua autonomia, il senso della profondità e la capacità di valutare gli spazi in un duello, se gli fosse accaduto quello che era successo alla Marchesa di Merteuil?
Dopo un attimo la mente le venne attraversata da un pensiero fuggevole, ma terribile: sinora aveva pensato alla eventualità che André si ammalasse di vaiolo e restasse sfigurato, eventualità che, fortunatamente, a quanto pareva, era stata scongiurata. Ma di vaiolo si moriva anche ... e si moriva anche per tanti altri motivi...malattie ... e non solo .... che cosa sarebbe accaduto se André fosse morto?
Poteva immaginare la sua vita senza di lui, che da oltre vent’anni ne era il compagno e testimone inseparabile?
 
Scacciò il pensiero, con decisione, mordendosi il labbro inferiore, e concentrò il pensiero sulla dama nella carrozza.
In passato, ricordò Oscar, aveva già scortato, sempre affiancandosi alla sua carrozza, una donna similmente abbattuta e provata dalla sorte: la contessa du Barry, scacciata con ignominia dalla corte, che aveva visto oltraggiata e calpestata nella sua dignità dall’ultimo dei lacché, dopo che, per anni, a corte era stata omaggiata, riverita, incensata. L’aveva accompagnata sin poco oltre i confini di Versailles, quando la contessa, sempre molto dignitosa e orgogliosa, e quasi vergognandosi di mostrare la minima debolezza, l’aveva congedata, non senza manifestarle, alla sua maniera, molto poco cerimoniosa, la sua gratitudine per la generosità dimostratale.
Ora, si trovava ad accompagnare un’altra donna che difficilmente, lo intuiva, avrebbe riconquistato il posto che occupava in società prima della malattia: Versailles era un mondo crudele, per farsi strada nel quale erano necessarie bellezza e avvenenza, oltre alla capacità di non evocare mai realtà sgradevoli, come la malattia, il dolore, la morte: e quel viso, Oscar lo capiva, parlava di tutto quello che i cortigiani, alla Reggia come nei salotti parigini, non volevano sentire e preferivano, anzi, ignorare, almeno sino a quando la folgore non avesse toccato direttamente loro stessi, schiantandoli.
 
6 - Frattanto, mentre Oscar era immersa in questi pensieri, nella sua carrozza, la Marchesa, con la veletta sempre abbassata, continuava a tacere: forse guardava fissa davanti a sé, o forse aveva chiuso gli occhi?
Che non dormisse Oscar lo seppe con certezza quando, dopo poche leghe, non molto lontano dall’abitato di Arras e  - come realizzò con stupore – dalla proprietà della famiglia Jarjayes, si intravide un alto cancello di ferro battuto, decorato con eleganti volute, e la Marchesa disse, senza mutare posizione: “Eccoci qui, Colonnello de Jarjayes: questo, da due secoli, è l’ingresso della tenuta dei de Merteuil”.
La carrozza si fermò davanti a un ampio palazzo dalla facciata elegantemente movimentata, con statue di eroi classici nelle nicchie tra una finestra e l’altra. Oscar smontò da cavallo e, mentre César veniva preso in custodia da uno stalliere, una volta che il cocchiere aprì lo sportello, aiutò, con gesto cortese e galante, la Marchesa a scendere dal predellino, tenendola per mano.
Poi, le due donne si avviarono, lungo una scalinata di pochi gradini, verso il monumentale ingresso padronale, accolte da due lacché che si profusero in un inchino. ****************************************** E così, ecco svelata l'identità della dama in nero: nientemeno che la Marchesa di Merteuil. Chiedo scusa a chi stava leggendo se la storia è comparsa e poi sparita per un attimo, ma mi ero accorta, da brava techno-intrega (definizione di una mia cara amica, che condivido) che avevo postato la versione in cui non avevo ancora corretto i refusi. Grazie a chi segue questa long, per cui prometto aggiornamenti più celeri... sino al 25!

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Capitolo 7
*** 7 - Ascolta: ti racconto una storia. Chiacchiere del dopopranzo ***


VII – Ascolta: ti racconto una storia. Chiacchiere del dopopranzo
 
1 -  “E così, voi non siete una grande conversatrice, Madamigella Oscar”, disse amabilmente la Marchesa de Merteuil, martoriando con il minuscolo cucchiaino d’argento decorato a sbalzo la sua crème brûlée.
Durante la colazione, servita, con grande raffinatezza, in una piccola sala da pranzo decorata nei toni del verde e dell’oro, su stoviglie di porcellana di Sèvres su cui erano dipinte le vittorie di Carlo Magno, la Marchesa, che aveva pranzato con la gamba dal ginocchio ferito allungata, dopo che la sua cameriera personale l’aveva medicata, e tenendo sempre gli occhi e il naso coperti da una veletta un poco più corta di quella usata per uscire, aveva cercato invano di risvegliare la vivacità della sua invitata con chiacchiere amabili: non aveva nemmeno tentato di coinvolgerla in pettegolezzi di Corte, ben conoscendo la naturale ritrosia del Colonnello de Jarjayes di fronte a questi argomenti, ma le aveva comunque lanciato spunti di ogni tipo, dalla letteratura al teatro, al tempo, ricevendo sempre risposte gentili, ma assai laconiche, precise e stringate come si conviene a un militare.
“No”, sorrise Oscar, come colta in fallo, “credo di no, Marchesa”.
 “Lo vedo”, rispose quella, con un sorriso elusivo, mescolando ora, con apparente concentrazione, il caffé nella tazzina di madreperla zecchinata dipinta a roselline, gli occhi bassi che non si staccavano dalla chicchera.
“Forse, avremmo dovuto pensare a invitare a questa piccola colazione anche il Vostro attendente, Madamigella Oscar: mi pare che lui sia un grande conoscitore  degli eventi di Corte, e non manchi mai di essere aggiornato sulle ultime novità”, sussurrò la Marchesa, sorbendo il caffé con uno sguardo distratto.
“Che cosa c’entra André, adesso?!”, avrebbe voluto sbottare Oscar, ma si trattenne. Il lampo che le era passato negli occhi color fiordaliso non sfuggì allo sguardo, mutilo, ma ancora acutissimo, della Marchesa.
 
“Ecco che ci siamo”, si disse mentalmente. “Ho toccato un punto sensibile, finalmente: anzi, il punto sensibile”.
 
“Sapete, Colonnello de Jarjayes”, continuò la Marchesa, amabile e leggera, come se raccontasse una storiella amena, riflettevo, durante il nostro tragitto, mentre così cortesemente mi avete accompagnata, che, a dispetto delle apparenze, siamo molto simili, Voi e io”.
 
“Non direi proprio!”, avrebbe nuovamente voluto rispondere con malagrazia Oscar; invece, con un cenno e uno sguardo stupito, le uscì di bocca soltanto: “Non ci avevo mai pensato, Marchesa. In che cosa ravvisate questa somiglianza?” (istintivo riguardo per una donna tanto colpita dalla vita?, si chiese, quasi non riconoscendosi).
 
“Lo volete veramente sapere, Madamigella?”, chiese la Marchesa, protendendosi in avanti verso la sua ospite, con un tono di voce stranamente sinuoso, e insieme minaccioso, che nulla serbava della leggerezza svagata di poco prima.
 
“Sì, certo”, rispose Oscar, in un sussurro, sforzandosi per non distogliere lo sguardo dalla donna.
 
“Vedete, credo che entrambe ci siamo conquistate a suon di grandi sacrifici e strenuo impegno personale la nostra quota di ... libertà d’azione”.
Nessuna reazione: Oscar rimase impassibile.
 
“Vedo che dovrò essere più esplicita. Vediamo..”, disse la Marchesa, mescolando il suo caffé con aria pensierosa. Poi, distogliendo lo sguardo che aveva puntato su Oscar, e guardando in direzione dell’ampia vetrata che dava sul giardino addormentato sotto la coltre di neve, iniziò a raccontare.
 
2 – “Quando uscii dal convento dove ero stata educata, e feci il mio debutto in società, a quattordici anni, sapevo molto bene che quel poco che mi era concesso: stare zitta e ascoltare, come mi ripeteva continuamente mia madre, non era particolarmente emozionante. Ma presto capii che quel ruolo di presenza muta mi dava l'impagabile possibilità non tanto di ascoltare quanto mi veniva detto – quelle erano cose di nessun interesse-, ma di osservare, osservare tutto quello che le persone cercavano disperatamente di tenere occultato, carpendo il loro segreto. Alla stessa età in cui voi diventaste capitano delle Guardie Reali, intraprendendo una carriera che esigeva rigore, spirito di osservazione, perspicacia, io venni data in sposa al Marchese de Merteuil, un uomo molto più vecchio di me, che, apparentemente interessato solo alla mia dote, mi trattava come una bambina cui dare, periodicamente, qualche distratta attenzione, ma alla cui compagnia era preferibile quella degli intellettuali dei salotti, delle nobildonne che affollavano i casinò e i corridoi di Versailles, delle filles de joye nelle case di piacere, dei pittori nei loro atelier, dei teatranti nelle cene che si tenevano a notte fonda, dopo gli spettacoli.
 Ciononostante, il Marchese era geloso, e mi imponeva una vita dal rigore claustrale, priva di quei divertimenti che mi sarei aspettata di conquistare per diritto insieme al titolo di Madame. E tuttavia, non ero così sciocca da non comprendere che il meno accomodante dei mariti è pur sempre meglio di una madre, e capii  di dover impegnare quelle giornate vuote e solitarie nell’inventarmi.Anche voi avete dovuto farlo, lo so, lo sento, e non crediate che non vi abbia osservata, nei vostri anni a corte: costruire voi stessa, in un sistema di riti quotidiani, pratiche di pronta sopravvivenza in un mondo che  vedeva in voi soltanto un bel corpo, giovane e appetibile, rivestito di una divisa insolita su membra tanto delicate; una curiosità capace di stuzzicare il desiderio stanco e la fantasia sempre accesa di dame, nobiluomini, cardinali, una bambola da esposizione, che ha dovuto cercare e trovare in se stessa il rigore per non impazzire in una vita che era un carcere, a volte comodo, più spesso costrittivo come ogni prigione. Io, purtroppo, non potevo uscire dal palazzo parigino del Marchese se non con mio marito o con una chaperonne, e solo e per poche, scelte occasioni ritenute adatte alla mia delicata anima e al mio intelletto sensibile e impressionabile.
E allora, in quei mesi e anni di solitudine, studiai, mi imposi di costruire me stessa: lessi i filosofi per imparare che cosa pensare, i romanzieri per imparare che cosa dire, e i moralisti per imparare come dirlo.
Esercitai il distacco: imparai a sorridere mentre, sotto il tavolo, mi infilzavo il palmo della mano con i rebbi di una forchetta; e imparai, soprattutto, ad affinare quella mia abilità di osservare i miei simili, a comprenderli nel profondo, indovinandone le pene e i desideri segreti, quelli più inconfessabili. Perfezionai anche quello sguardo distratto e svagato, che a Corte mi è stato sempre utile: anche quando mio marito mi stringeva fra le braccia, non fui mai tanto audace quanto lui mi riteneva più ingenua e angelica. E alla fine, condensai tutto in una massima estremamente semplice: “Vincere o morire”, una massima che, a un Colonnello quale voi siete, non può non suscitare suggestioni militari, e che credo che anche voi approviate”.
Silenzio, dall’altra parte. Oscar taceva, sottilmente imbarazzata. Quante volte aveva bloccato un discorso, assai meno lungo e assai meno personale di André, con un : “Adesso stai parlando troppo?”. Perché non si alzava e non se ne andava? Quello che stava per arrivare, lo sentiva, lo presagiva, non le sarebbe piaciuto per nulla.
La Marchesa bevve un sorso di caffé, poi, sempre guardando in direzione della vetrata, continuò, assorta:
“Voi mi chiederete a questo punto quale attinenza tutto questo abbia in relazione alla vostra vita. Vi prego di ascoltarmi”.
Oscar, compostamente seduta, le gambe accavallate sotto il tavolo, una mano appoggiata sul ripiano rivestito della preziosa tovaglia di candida fiandra ricamata con fili d’oro, l’altra mano con il palmo aperto sulla coscia destra, fece con la testa un cenno appena abbozzato, come a invitare la Marchesa a proseguire.
“Per prima cosa, anche a voi, come a me, è stata fatta, in giovanissima età, una prepotenza, che ha disposto della nostra persona senza che noi ne fossimo edotte, senza che dessimo loro il permesso con piena consapevolezza. Tuttavia, permettetemi di dirVi che ho ammirato la Vostra intelligenza nella scelta dello stato militare, perché questa divisa vi ha donato una libertà immensamente superiore a quella di tutte le vostre coetanee.
 Per conto mio, una volta restata vedova, nonostante una serie strabiliante di proposte, non mi sono mai più risposata. E sapete perché?". Oscar fece un cenno con la mano, come a dire che era interessata alla risposta: "Perché, Colonnello de Jarjayes, avevo deciso che nessun altro uomo avrebbe mai più dovuto potersi permettere di accampare diritti sulla mia persona. E così divenni una rispettabile Marchesa vedova e sola. In quegli anni", - continuò la dama in nero, “vi osservavo spesso, alla Reggia, mentre assistevate, impassibile, ai balli di Corte, senza lasciarvi mai una volta coinvolgere nell'atmosfera festosa o trasportare alla spensieratezza delle danze, nonostante gli sguardi cupidi che uomini e donne vi lanciavano, e dei quali sembravate non accorgervi minimamente” – Oscar arrossì violentemente – “ e pensavo che anche voi dovevate, chi sa quanto consapevolmente e quanto in forza del puro istinto di sopravvivenza, avere elaborato un sistema di vita che doveva aiutarvi a sostenervi in quella selva di malevolenza e invidia, senza essere sfiorata dal fango e dalle dicerie, e preservando voi stessa e la vostra autonomia spirituale”.
“Poi, un giorno, vi seguii a lungo con lo sguardo, mentre percorrevate un tratto dell’Allée d’Apollon il compagnia del Visconte di Valmont[1]. La nostra rottura risaliva a poco tempo prima, ed era stata causata e direi voluta da me.
La prima volta che incontrai il Visconte, fu alla veglia funebre per mio marito, il Marchese de Merteuil, il quale, dopo cinque anni di matrimonio, aveva ben pensato di uscire di scena per un colpo apoplettico durante il banchetto nuziale di un suo lontano cugino, accasciandosi, in modo molto teatrale, sotto gli occhi di tutti: una degna fine per un amante delle tragedie e dei colpi di scena!
Quando il Visconte di Valmont venne a rendere omaggio al defunto, esprimendomi le sue condoglianze, si sentì in dovere di aggiungere: “Vostro marito era un buon amico di mio padre”. “Anche del mio”, risposi subitamente io, senza alzarmi, e levando gli occhi verso il volto del Visconte, in piedi davanti a me.
Da quel momento, iniziò il nostro amore: anche prima di conoscerlo, sentendone parlare, conoscendo la sua fama di imprendibilità, di uomo che non si lasciava catturare e possedere da nessuno, io lo volevo da morire: il mio orgoglio me lo imponeva, la mia vanità me lo chiedeva: la sola volta in cui mi sentii provocata, in una singolar tenzone, con un mio pari.
 E poi, per timore di venirgli a noia prima che lui venisse a noia a me, ci fu la rottura: che volli e procurai, convintamente, perché insofferente all’idea di non essere per lui la novità del momento, l’incontro fresco e sempre stupefacente, associato a sentimenti di  continua sorpresa.  Non potevo tollerare di essere associata alla noia, alla ripetitività di gesti ormai conosciuti a memoria, prevedibili, di essere guardata, prima o poi, come un vecchio pezzo del mobilio della camera da letto, un pezzo magari pregiato e prezioso, ma che sta lì da talmente tanti anni che ormai non lo si guarda più, e devono essere le lodi e gli elogi di un estraneo a farcene notare nuovamente l’eleganza e le sottili finiture.
E così, ci lasciammo. O meglio, io lasciai il Visconte di Valmont, continuando a osservarlo, da lontano, e con un certo compiacimento, collezionare conquiste, e subito stancarsi della conquista presente per quella futura, sino a quando non gli proposi.... una scommessa”. La Marchesa si interruppe, e, dopo molto rimestare nella sua tazzina, posò alla fine il cucchiaino sul piattino con un clangore argentino.
 
3 -  “Vedete, non mette conto raccontarvi che cosa accadde: vi basti sapere che il Visconte raddoppiò la posta in gioco; ma, ben presto, mi resi conto, con costernazione quasi più che con dolore, che la sua attenzione, i suoi sentimenti e il suo amore erano stati calamitati verso un altro polo: e volli vendicarmi. E, non mi vergogno a raccontarlo, quando una donna mira al cuore di un’altra, non sbaglia mai la mira, e la ferita è inevitabilmente mortale. Voi siete il miglior tiratore di Francia, Colonnello de Jarjayes, lo so bene: la vostra fama vi precede. Ma anche io so prendere accuratamente la mira, per quello che è il raggio d’azione cui siamo state confinate noi donne. Tuttavia, come il più malaccorto degli artificieri, ho acceso una miccia che ha provocato una esplosione nella quale anche io sono stata coinvolta”
“Le lettere...”, mormorò Oscar.
“Esattamente, Colonnello de Jarjayes. Le lettere. Quel fascio di lettere compromettenti che il Visconte, morente, ha affidato, sotto i Vostri occhi, al Cavalier Danceny, chiedendogli di diffonderle. Parigi, per certi versi e in certi ambienti, è una città molto piccola, oltre che molto pettegola; in certi ambienti, sapete, tutti conoscono tutti, almeno di vista e per sentito dire; e alcuni dei pochi corrispondenti che mi sono rimasti, quando, ormai contratto il vaiolo, mi trovavo già qui in convalescenza, mi hanno avvisata, proprio ieri sera, che le indiscrezioni ricavate dalla corrispondenza fra il Visconte e me hanno già fatto il giro dei salotti, e che alcune delle mie missive sono state ricopiate e ora viaggiano, in copie di copie di copie, per mani sconosciute e imprevedibili. Con questo direi che ho davvero perso la faccia, al di là del vaiolo.
E la storia è tutta qui”, concluse la Marchesa, scuotendo la testa, amara.
“Ma perché..”, azzardò Oscar, sommessamente.
“Perché vi racconto questo, Madamigella?”. Ora la Marchesa aveva assunto un tono di voce duro, e si era rivolta direttamente verso Oscar, che pure, attraverso la veletta, poteva solo intuire lo sguardo fisso su di lei, del suo unico occhio, che doveva avere certo una espressione adirata, a giudicare dalla piega amara che avevano preso le labbra sottili.
“Perché, forse, ognuno di noi vive davvero se ha almeno un testimone della sua esistenza, se le sue ragioni e le sue motivazioni sono conosciute da qualcuno; perché, nonostante il fatto che, almeno teoricamente, io debba essere adirata con Voi, che, con la vostra autorità, avreste potuto bloccare la diffusione di quelle missive e non avete fatto nulla, a Natale siamo tutti più buoni, - non si dice così? - e io voglio farvi un regalo. Quanti anni avete, Colonnello?”.
La domanda, imprevista, imprevista, ebbe una riposta oltremodo laconica: “Ventisette...quasi”.
Poi, la Marchesa riprese: “Badate, lo ammetto senza problemi, io non sono una persona particolarmente predisposta alla generosità, ma Voi, alla Vostra età, mi sembrate a tratti così ingenua, e così disarmata, nonostante la spada che portate sempre al fianco, che vorrei darvi un suggerimento: non perdete altro tempo, Madamigella Oscar. Non ne sprecate più: guardate bene accanto a voi, mezzo passo dietro di voi; e guardate bene dentro voi stessa”.
 
4 -  Oscar si era irrigidita, sollevando leggermente le spalle. La Marchesa accolse con un sorriso il suo gesto istintivo.
“Vi chiederete come possa permettermi di parlarvi in questo modo, e su che basi. Vedete, io Vi osservo, Vi ho sempre osservata attentamente. E ora, che sono fuori da ogni gioco e vi parlo come dal fondo di una tomba, posso rivolgermi a voi con la verità e con l'onestà tipiche soltanto di chi non ha più nulla da perdere e ha solo un passato dietro le spalle e nulla più davanti a sé. Come potremmo dire? “Ho solo un grande avvenire dietro le spalle"[2].
Deglutì, la Marchesa, come se le costasse fatica. Oscar, in qualsiasi altro frangente, di fronte a una intrusione così palese e così diretta nella sua sfera più intima  e personale, si sarebbe alzata, seccata, indispettita, adirata, addirittura, e si sarebbe allontanata, a grandi falcate. Ma c'era qualcosa, nel tono di voce e nella sicurezza di quella donna così segnata, dal volto che ormai non esisteva più, che la fece restare, in silenzio, seduta al proprio posto.
"Quando mi resi conto che il Visconte di Valmont amava ormai Madame de Tourvel, lo indussi a rompere con lei, provocandone la vanità, quasi che provare un sentimento d'amore sincero, alla luce del sole, sotto gli occhi del mondo, fosse qualcosa di bambinesco, qualcosa di cui vergognarsi profondamente. E la vanità, ricordatevelo sempre, è incompatibile con la felicità. Ho aspettato, aspettato per anni, procrastinando, un giorno dopo l'altro, un mese dopo l'altro, un anno dopo l'altro, il mio desiderio di riallacciare i rapporti con  lui, convinta di avere di fronte a me un tempo infinito. Ma il tempo che ci è dato non è illimitato, e non va sprecato, dando spazio all'orgoglio, o alla vanità. Vedete, Colonnello, non sono mai stata una donna sentimentale, o partecipe della morale corrente, che impone ai membri del nostro sesso fedeltà e sottomissione; tuttavia, sono convinta che non accorgersi di essere amati è un peccato persino peggiore che tradire. Voi non trovate?".
La veletta occultava lo sguardo, l'occhio cieco e vacuo, e lo sguardo, certo penetrante, dell'altro occhio: dietro quel fitto pizzo nero, poteva esserci anche un fantasma, le cui parole, davvero, potevano benissimo venire da un sepolcro.
Oscar aveva ascoltato, impassibile. In altri casi, avrebbe preso a ceffoni chiunque avesse tentato anche solo di intavolare un simile discorso. Ma c'era in quella situazione, e in quella donna che le parlava, qualcosa di così anomalo e spettrale, che non riuscì a fare altro che accogliere le sue ultime parole chinando il capo.
 
"Bene, Colonnello de Jarjayes; temo proprio che il nostro tempo insieme per oggi sia finito", disse la Marchesa, con tono soavemente mondano, alzandosi in piedi, con fatica, dopo un breve silenzio, e suonando un campanello. "Vi ringrazio della Vostra sollecitudine e premura nei miei confronti", soggiunse, porgendo la mano da baciare a Oscar, mentre un valletto si palesava sulla porta della sala da pranzo per condurre lo strano ospite al portone.
 
 
[1] A questa passeggiata alludo anche in “Dopo il lampo arriva il tuono”: vi prego di pazientare, perché, a breve, in una prossima ff, scoprirete tutto di questo duplice incontro con il Visconte di Valmont.
[2] Cito qui, spudoratamente, V. Gassman.

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Capitolo 8
*** 8- Ritorno a casa con sopresa ***


 
VIII -Ritorno a casa con sorpresa
 
1 - "I miei più cortesi ringraziamenti, Marchesa, con i miei auguri di buon Natale", sussurrò Oscar, sfiorando con le labbra, imbarazzata, il dorso della mano della de Merteuil.
 
"Buon Natale a voi, Colonnello. E buon compleanno", furono le parole che accompagnarono Oscar mentre varcava la soglia della sala da pranzo, che dava su un corridoio affrescato con la storia di Amore e Psiche.
 
Normalmente, di fronte al chiacchiericcio delle dame, ai discorsi salottieri, che avevano come oggetto l'amore, i sentimenti, le relazioni fra uomini e donne, Oscar taceva, e, se proprio non poteva, con qualche pretesto, allontanarsi, assisteva impassibile, senza farsi coinvolgere, e immaginando che, fra sé e quei conversatori scioperati, vi fosse uno schermo di vetro trasparente: loro potevano vederla, ma non potevano toccarla né raggiungerla, con le loro parole mordaci, i loro apprezzamenti sussurrati a bassa voce, le loro allusioni coperte da risatine. Ma di fronte alla Marchesa, forse per la prima volta in vita sua, si era sentita nuda, scoperta, come uno spadaccino ancora alle prime armi che scopra, durante un duello, di non sapere occultare né difendere i suoi punti deboli, e di non avere energia per rispondere alle stoccate dell'avversario.
Tornò a casa riflettendo, controvoglia, ma costretta, sulle parole della Marchesa de Merteuil.
 
Perché, nonostante, almeno teoricamente, io debba essere adirata con Voi, che avreste potuto bloccare la diffusione di quelle missive e non avete fatto nulla, a Natale siamo tutti più buoni, e io voglio farvi un regalo.
 
Un regalo! Certo! E che regalo!
 
Ma poi, pensò, che vantaggio avrebbe mai avuto la Marchesa, nel parlarle in quel modo?
Nessuno.
 
Badate, non sono una persona particolarmente predisposta alla generosità, ma Voi mi sembrate a tratti così ingenua, e così disarmata, nonostante la spada che portate sempre al fianco, aveva detto. E poi l’aveva chiamata “Madamigella”, come faceva Sua Maestà, certo, ma, in quel frangente, quasi a voler sottolineare la loro comune appartenenza al genere femminile.
 
La Marchesa l'aveva osservata.
Certo.
 
... Vorrei darvi un suggerimento: Non perdete altro tempo, Madamigella.
Come poteva "non perdere altro tempo", lei?
 
Se Fersen era lontano .... e se anche fosse tornato....
 
In quel momento, però, si rese conto che quella era la prima volta, da almeno tre giorni, che aveva pensato a Fersen. Prima, il viaggio verso Arras, la compagnia di André, ...l'increscioso incidente della sera prima ... i suoi pensieri, la notte, a letto, rivedendo con gli occhi della mente le mani di André addosso a Hortense, e poi ricordando, durante il tragitto della mattina verso la città, quel lontano giorno d'estate quando aveva avuto la bella idea di accendere un fuoco sotto un nido di vespe ... e in tutto quel tempo, se ne accorgeva adesso, con stupore, non aveva mai pensato a Fersen, nemmeno una volta.
 
"Fersen ... chi è Fersen?!", si chiese, insolitamente di buonumore, mentre la residenza Jarjayes si stagliava all'orizzonte, sotto la neve che aveva ricominciato a cadere leggera nel cielo indefinibile, senza colore, del primo pomeriggio invernale.
 
2 - Era talmente di buonumore che non fece caso nemmeno alla seconda carrozza che stazionava davanti all'ingresso.
 
        "Bentornato, Monsieur le Comte", la accolse Justine, con un inchino impeccabile, non appena ebbe varcata la soglia. "Vostra sorella, Madame la Comtesse de Brissac-Montségour, sta ricevendo nel salottino cinese, e gradirebbe che Vi uniste a lei e alla sua ospite Madame de Volanges per il cioccolatte".
 
        Oscar sospirò: detestava quegli incontri pomeridiani fra dame. E, soprattutto, in quel momento, non desiderava altro che vedere André. Il quale, un attimo dopo, aveva fatto capolino fuori dalla cucina, dove aveva passato la mattinata prima ad aspettare Oscar, e poi, dopo una veloce scappata ad Arras, ad aiutare Justine a preparare il pranzo per la Contessa Hortense e per la sua ospite, una vedova di mezza età, dalle guance cascanti e il tono di voce querulo, che la sorella di Oscar aveva accolto con insolite profferte d'affetto, abbracciandola addirittura, all'ingresso, e salutandola con un teatrale "Caaaaaara Marie-Louise, che piacere rivederti, e che dolore vederti in questo momento di afflizione. Vieni, vieni, povera cara, sarai certamente affranta dopo tutto quel che è accaduto".
 
        3 - André aveva portato a metà mattina un bricco di caffé alle due dame, che chiacchieravano fitto, Madame de Volanges tamponadosi, a intervalli troppo regolari per non essere accuratamente studiati, gli occhi con un fazzoletto ricamato, mentre André aveva solo colto lacerti di conversazione: "La mia povera Cécile..... quella serpe della Marchesa ..... in convento ...fiducia tradita ... le lettere .. un legame pericoloso... Il cavalier Danceny.... lezioni d’arpa ... fuggito a Malta ... Valmont ... seduttore .. .se avessi saputo .. .libero accesso a casa nostra ... chiave duplicata ... fidanzamento rotto ... e la dote! ... convento, clausura strettissima ... povera bambina mia ...". Quando André era entrato nel salottino, reggendo il vassoio con il bricco in ceramica e le tazze, naturalmente, Madame de Volanges e Hortense avevano taciuto, ostentando, di fronte a lui, una espressione che voleva essere forzatamente neutra, e che risultava, invece, fintamente indifferente.
 
"Hai ragione: meglio non parlare, di fronte a un servitore, cara...", aveva sussurrato, con tono rassicurante, Hortense, all'indirizzo della sua ospite, posandole le dita sulle mani che Madame de Volanges teneva incrociate sotto il seno, in una posa da Mater dolorosa che, colta da André mentre si allontanava, l'aveva profondamente disgustato.
 
        Ovviamente, André sapeva benissimo a che cosa facesse riferimento Madame de Volanges: le lettere che il Cavalier Danceny aveva diffuso avevano fatto in pochissimo tempo il giro dei salotti di Parigi, e in men che non si dica, nei pochissimi giorni intercorsi fra il duello fatale, che aveva condotto alla morte il Visconte di Valmont, e la partenza di Oscar e André per Arras, tutti i nobili, a Corte e negli hôtels particuliers, i grandi borghesi, e tutta la loro servitù, erano stati messi a parte del patto scellerato fra la Marchesa de Merteuil e il Visconte di Valmont, della rovina ordita a danno di Cécile de Volanges, colpevole soltanto di essere stata, inconsapevole vittima, promessa in sposa all'amante che aveva osato abbandonare la Marchesa, e di Madame de Tourvel, colpevole solo di essere stata troppo rigorosa e troppo virtuosa, e di essersi innamorata del Visconte, oltre che di aver suscitato in lui, per la prima volta, con il suo candore, un sentimento d'amore sincero e profondo.
 
 
        4 - André era rientrato nelle cucine, dove Justine stava controllando i conti di casa con Monsieur Laval, storico amministratore, da oltre trent'anni, delle proprietà della famiglia Jarjayes, che aveva sostituito in quel ruolo il padre, il quale, a sua volta, era succeduto al nonno, morto alla scrivania dopo quarant'anni di onorato servizio, teso a rendere massimamente produttivi i campi e i vigneti della casata di cui Oscar era l'ultimo pollone.
 
        "Mademoiselle Legris, ma quanta panna avete usato questo mese! Che cosa ci fate mai, il bagno?!", aveva chiesto Monsieur Laval, scandalizzato, osservando la nota delle spese. "Per quanto, una pelle così bianca e morbida come la vostra non potrebbe essere tale se non in forza di periodici bagni nella panna", aveva aggiunto, con timida galanteria, venendo immediatamente ghiacciato da uno sguardo critico di Justine, freddo e tagliente come il vento che spirava dal Nord.
 
"Ma che cosa dite mai, Monsieur Laval!", aveva risposto Justine, scandalizzata, stringendosi nel suo scialletto grigio, e montando una smorfia acida. "Sapete benissimo che ho dovuto preparare, nei giorni scorsi, i dolci e i piatti per Madame la Comtesse de Brissac-Montségour e per Monsieur le Comte de Jarjayes, per poter imbandire loro dei pasti confacenti durante le festività!".
 
        "Ma io non scherzavo, Mademoiselle Legris", tentò debolemente di difendersi Monsieur Laval, "E se Poppea faceva il bagno nel latte d'asina per preservare lo splendore della sua pelle, è più che giusto che voi utilizziate la panna".
 
"Non dite sciocchezze", bofonchiò Justine, scuotendo la testa, "Passiamo piuttosto a controllare i conti del vino e del carbone".
 
        André, che guardava la scena con la coda dell'occhio, mentre era intento a rigovernare le tazze e il bricco, sorrise. Non era un mistero per nessuno che Monsieur Laval, un vedovo cinquantenne, alto, panciuto, dall'espressione attenta e bonaria, rimasto solo con due bambine dopo che la moglie, di vent'anni più giovane, era morta di polmonite, aveva un certo penchant per la governante di casa Jarjayes, la quale, da parte sua, perpetuamente rigida come uno stoccafisso e con l’espressione di chi avesse bevuto un bicchiere d’aceto a pasto, non lo degnava di uno sguardo, e accoglieva, anzi, i suoi goffi complimenti e tentativi di corteggiamento con aria critica, come se si trattasse di celie di pessimo gusto.
 
"Non solo io sono senza speranza", si sorprese a pensare, con un sorriso malinconico, mentre si apprestava a uscire, una volta sentito un passo e una voce familiare venire dall'ingresso, dopo che Justine l'aveva preceduto, per accogliere il Padrone che non si era visto per tutta la mattina.
 
"Oscar!", le disse André, mentre usciva dalle cucine, "Ma dove eri finita? Ti ho cercata dappertutto! Nemmeno il libraio nella piazza del Duomo ti ha vista!". Quel giorno, dopo un paio d'ore di attesa, infatti, André era montato a cavallo e si era diretto ad Arras, entrando, a colpo sicuro, nell'elegante e austera bottega del libraio, le cui pareti, tappezzate da scaffali di noce gremiti di volumi rilegati in cuoio, avevano regalato loro, fin da quando erano bambini, tante piacevoli ore, di fantasticherie e di letture clandestine, quando lui e Oscar passavano pomeriggi felici, nella polvere di quelle pagine che dischiudevano orizzonti sconosciuti.
 
"Che fai, adesso, André: ti sei messo a spiarmi?", gli aveva chiesto, tagliente, Oscar, pentendosi subito dopo.
 
"Oh, pazienza!", aveva pensato, fra sé e sé. "Cosa fatta, capo ha", si disse. E poi, cercando di comporre il viso a un sorriso, chiese: "Che ne diresti di leggere qualcosa per me?"
 
"Veramente", sussurrò debolmente Justine, quasi con timore, ripetendo l'invito diretto a Madamigella Oscar, cioè, a Monsieur le Comte, per conto della sorella, "La Contessa di Brissac-Montségour avrebbe il piacere di intrattenersi con voi, insieme a Madame de Volanges per ..."
 
        "Per una tazza di cioccolatte, lo so, ho sentito, Justine", le diede sulla voce Oscar, con quel tono che, appena leggermente spazientito, bastava a gettare in crisi la povera governante. "Ebbene, riferirete a mia sorella che sono molto dispiaciuta di non poter godere del suo invito e della compagnia squisita di Madame de Volanges, ma sono molto stanca e mi sono portata degli incartamenti relativi al mio incarico di Comandante da esaminare assolutamente, per cui mi ritiro subito nei miei appartamenti".
 
 
"Come desiderate, Monsieur le Comte", sussurrò Justine, ossequiosa, chinando il capo, e presagendo, con disagio, le parole sferzanti con cui la Contessa Hortense avrebbe accolto l'ambasciata che sarebbe stata costretta a portarle da parte del Colonnello Jarjayes.
 
Nel frattempo, Oscar stava salendo le scale, leggera e felice come una bambina, seguita da André, stupito, ma che, forse, iniziava a intravedere una luce in quel soggiorno così diverso da come se l'era immaginato al momento della partenza.
 
5 - "J’ouvris les yeux, je vis un homme blanc et de bonne mine qui soupirait, et qui disait entre ses dents: O che sciagura d’essere senza c...!"
André leggeva, con la sua bella voce calda e bassa, e Oscar aveva le lacrime agli occhi per le risate: il Candide era stata davvero un'ottima idea. L'avevano letto insieme, anni prima, la notte, alla luce di una sola candela sul comodino, da spegnere fulmineamente se avessero avuto sentore di essere stati scoperti, seminascosti sotto le coperte del letto di Oscar, con la consapevolezza di fare qualcosa di proibito, che avrebbe scatenato le ire dell'Abbé Armand e, soprattutto, del Generale, e avevano sempre riso come pazzi.
 
        Non avevano più parlato dell'increscioso incidente della notte precedente, e nemmeno André aveva tentato di sapere dove Oscar fosse stata per tutta quella mattinata; gli bastava vedere, adesso, il viso di lei illuminato dalle risate argentine che le strappavano le disavventure di Candide, Pangloss e Cunégonde, e pazienza se, con ogni probabilità, la Contessa Hortense e la sua ospite, sentendo le risa provenienti dal fondo del corridoio, dove si trovava la biblioteca, nelle cui calde e morbide poltrone imbottite Oscar e André si erano rifugiati, potevano con ragione dubitare che quelli fossero indizi tali da indicare che il Colonnello Jarjayes fosse immerso nel lavoro, e che, anzi, avesse talmente in dispregio la loro presenza da non preoccuparsi nemmeno di fingere di essere impegnato nell'analisi di importanti documenti e piante topografiche e militari.
 
        E mentre André leggeva, modulando la voce, per interpretare ora questo ora quel personaggio del libro, Oscar, messasi in libertà nella sua comoda, semplice ed elegante tenuta da casa, camicia bianca e pantaloni di fustagno, sollevando appena lo sguardo da sopra il bicchiere di cognac, ripensava alle parole della Marchesa, e a tutte le volte che André era stato con lei, testimone silenzioso, eppure parte indispensabile della sua vita. 
 
         Pensava a come era stata, evidentemente, trasparente, agli occhi di una fine osservatrice come la Marchesa de Merteuil; pensava al fatto che André le voleva bene, molto bene, e questo era evidente a tutti, e forse ... anche più che bene; ma pensava anche al fatto che non c'era quasi giorno della sua vita, di cui avesse memoria, senza di lui; pensava a come, se André non c'era, si sentisse vuota; pensava alla sensazione di calore e di dolcezza che l'aveva pervasa quando lui era arrivato, sotto la pioggia battente, mentre tornava da quell'umiliante e dolorosa ambasciata a Fersen, anni prima, e, senza una parola, le aveva messo sulle spalle il suo mantello; pensava alle passeggiate per i roseti di casa, casa loro, parlando di mille cose, parlando di Rosalie, di come poterla aiutare, dei progressi nella sua educazione; pensava alle risate che si sentiva libera di fare solo con lui, al piacere con cui comprendeva che André indovinava i suoi pensieri, a quel torcersi dello stomaco, a quella sensazione di piacevole mancamento provata in un lontano pomeriggio di fine agosto, quando aveva sentito le sue labbra sulla sua coscia ...
 
Possibile che....?
Possibile?
 Era davvero possibile???
Anche per lei, anche per una donna come lei?
 
"Ammettilo, Oscar, ti è andata bene: avresti potuto passare un pomeriggio atroce, facendoti una cultura a base di pettegolezzi femminili noiosissimi!". Le parole di André, caricate di quella sua intonazione ironica che sfumava nel beffardo, interruppero bruscamente il giro dei suoi pensieri.
 
        "Che cosa vorresti dire, André?", scattò lei, come punta sul vivo, con quella puntigliosità permalosa che le si risvegliava improvvisamente, "Che i pettegolezzi sono cose da donne? E che una donna resta sempre una donna, e dunque dovrebbe restare confinata  nei salotti?!".
 
"Oscar! Ma che stai dicendo?! Tu venire a dire queste cose? A ME?!"
 
"Rispondi, André! È importante, per me!", gli intimò lei, balzando in piedi con impeto, tanto da rovesciare la poltrona dietro di sé. Ora gli stava di fronte, sovrastandolo, mentre André era ancora seduto, incredulo di fronte alla furia che si era accesa nei suoi occhi color fiordaliso, e la fissava, mentre Oscar aveva la bocca contratta in una espressione dura, i pugni chiusi levati all'altezza del petto.
 
"Oscar", cercò di ammansirla, alzandosi con calma e prendendole, dolcemente, i pugni chiusi fra le mani, "Cerca di ragionare. Non volevo dire nulla di offensivo, e, se per errore mi è invece uscito di bocca qualcosa che potrebbe esserti sembrato tale, mi scuso; ma, credimi, non intendevo urtarti in alcun modo. Calmati: mi sembra che questa licenza ad Arras, invece che risultare riposante e distensiva, ti abbia scosso i nervi".
 
"Scosso i nervi??!!", tuonò Oscar, con furia raddoppiata, come se le parole pacate di André avessero acceso, invece che smorzato, la sua ira.  "I NERVI!!! Come a una donnicciola qualsiasi!!!! Quando non sapete che cosa dire per zittire una donna, ecco che andate a parlare di NERVI! Io non ho NERVI, hai capito, André?! IO NON HO NERVI".
 
"Oscar, ragiona! Sei fuori di te!", scappò detto ad André. E riuscì a stento a concludere la seconda affermazione, perché quella, divincolatasi di scatto, gli diede un potente ceffone sulla guancia destra.
 
"André, tu non capisci assolutamente NULLA! Come sempre!", gridò, mentre usciva infuriata dalla stanza, e si avviava, con passi lunghi e affrettati, fuori dalla porta, lungo il corridoio, e poi fuori di casa, seguita dallo sguardo esterrefatto di André, e da quelli preoccupati delle cameriere, di Mademoiselle Legris, e della sorella Hortense e di Madame de Volanges, le quali, sporgendosi curiosamente dallo spacco della porta semichiusa del salottino cinese, avevano osservato stranite Oscar che si allontanava a grandi passi furiosi.
 
6 -  "Accidenti a te, Oscar, ma dove sei finita?", aveva mormorato André fra sé, davanti ai vetri della finestra della biblioteca.
Il giorno ormai moriva nel crepuscolo invernale, e la neve aveva ricominciato a cadere copiosa. E Oscar era uscita, chi sa dove, da oltre un'ora, senza giustacuore né mantello, e senza prendere con sé César, come aveva subito appurato André, controllando nelle scuderie.
 
"Fa molto freddo, e Madamigella Oscar, cioè, Monsieur le Comte, è uscito senza giacca e senza mantello", disse preoccupata Justine, stringendosi nelle braccia conserte, sotto lo scialletto di lana pesante, mentre, accanto a Monsieur André, scrutava dalla finestra, sperando di vedere stagliarsi in lontananza la figura del Colonnello Jarjayes.
 
"Di sicuro si prenderà un malanno", aggiunse la governante, preoccupata.
 
"Oh, non drammatizzate, Justine: mia sorella ha sempre avuto una salute di ferro; non sarà certo una passeggiata sotto la neve a nuocerle", intervenne con tono noncurante, alzando la mano con un gesto vago, la Contessa Hortense, seduta nella poltrona sulla quale prima aveva preso posto André, mentre Madame de Volanges si era accomodata sulla poltrona dove era seduta Oscar, prontamente rialzata, fra mille scuse cerimoniose, dalla governante.
Ma, nonostante la sicurezza ostentata, anche Hortense era in ansia: André, volgendosi, colse nei suoi occhi uno sguardo preoccupato, e la mano con cui reggeva la sua chicchera con il caffé preparato da Justine per ristorare la Contessa e la sua ospite durante l'attesa, tremava  mentre Hortense la portava alla bocca.
 
        Ormai, il cielo grigio-biancastro stava incupendosi, perdendo la timida luce che aveva in quella giornata di poco successiva al solstizio; mentre si faceva sera e il buio calava, il freddo aumentava.
La neve continuava a cadere, e, dietro le spalle di André e Justine, timidamente, era avanzato l'amministratore, Monsieur Laval; sulla soglia della biblioteca, si era fermata, torcendosi le mani, la vecchia cuoca, Jeanne, insieme a Marie, la cameriera personale della Contessa Hortense, e a uno dei lacché: tutti preoccupati al pensiero di dove potesse essere finito Monsieur le Comte.
 
        "Che diamine!", esclamò André, "non può restare al freddo così a lungo!". E scese le scale di slancio, prendendo i due mantelli, il suo e quello di Oscar, che erano appesi a un gancio accanto alla porta, coprendosi al volo con il suo e infilando la porta, in direzione del parco."Per adirata che sia", pensava André, "e per quanto voglia restare sola, in questi momenti, Oscar non può certo aver deciso di morire assiderata, uscendo di casa con addosso solo la camicia mentre nevica!". E si avviò, alla cieca, ma pieno di speranza, verso il parco della tenuta.
 Si era avventurato nel parco di querce, che stava assumendo una parvenza spettrale, quando la vide.
 
7 -  Era caduta, come una stupida, scivolando sullo strato di ghiaccio appena coperto dalla neve fresca, e, cercando di raddrizzarsi, aveva messo il piede destro in fallo, piegando malamente la caviglia, e finendo sonoramente a terra.
 Aveva cercato di rialzarsi, appoggiandosi al tronco di una delle querce del parco, ma si era resa conto che, sotto lo stivale, la caviglia doveva avere iniziato a gonfiarsi, e che appoggiare il piede destro le causava un gran dolore.
“Non sarà certo una caviglia gonfia a fermarmi!”, si disse, ostinata, cercando di procedere, inoltrandosi nel folto delle querce. Voleva stare sola, sbollire la rabbia, verso André che l’aveva, evidentemente, considerata come una donnicciola qualsiasi, una che ha i nervi, e che dai nervi si fa dominare.
Ricordava qualche mese prima, dopo una sfuriata nei confronti di una recluta della Guardia Reale - un ragazzo poco concentrato e disattento, perennemente con l’uniforme in disordine e che dopo due settimane ancora non aveva imparato a marciare al passo; era stata severa, e financo sferzante, credendo di stimolare il giusto orgoglio di quel giovane cadetto appena arrivato a Parigi dall’Alvernia; e invece, poche ore dopo, sotto la finestra aperta del suo ufficio, l’aveva sentito mentre raccontava a un compagno d’armi della reprimenda ricevuta, e aggiungeva, mordace: “Era proprio di malumore, il Comandante: forse sono quei giorni del mese!”. La risata, sua e dell’altro soldato, l’aveva fatta infuriare: perché mai quell’inetto doveva giustificare le proprie manchevolezze evocando il suo essere donna? Come se lei lo avesse mai fatto pesare, o vi avesse mai fatto riferimento; ma André, che era accanto a lei, intenta a firmare dei documenti che gli avrebbe poi consegnato, perché li portasse nell’ufficio di Girodelle, le aveva appena sfiorato il braccio, facendole cenno di non prendersela.
 
Caro André ...
Ah no! Caro un bel niente! Adesso faceva lui riferimento ai suoi presunti nervi ! Ah, ma appena fosse tornata a casa, gliel’avrebbe fatta vedere lei! Il discorso non finiva certo così...
 
Fece due passi, e scivolò ancora a terra, questa volta battendo con violenza l’osso sacro contro una radice nodosa, appena coperta dalla neve.
 
Provò a rialzarsi,  con fatica, e pensò che, dopo tutto, quella passeggiata solitaria poteva dirsi conclusa, e che era meglio tornare verso casa. Certo, aveva camminato per quasi un’ora, e si era molto addentrata nel bosco di querce; ora, rallentata da quella caviglia che non voleva saperne di urlare ogni volta che posava il piede a terra, ci avrebbe messo molto di più per tornare indietro. E, maledizione, cominciava davvero ad avere freddo, molto freddo, dato che era uscita di corsa senza infilarsi il giustacuore e senza mantello: “Accidenti a te, André!”, si disse, piccata contro di lui, e realizzando subito dopo che se era uscita di slancio, in pieno inverno, vestita come per una passeggiata nel mese di aprile, era solo colpa sua.
 
“Oh, insomma!”, si disse, “In fin dei conti sono un soldato! Che grande ostacolo sarà mai una caviglia slogata?!”, minimizzò fra sé.
 
Tentò, ancora una volta, di appoggiarsi al tronco di una quercia, per sorreggere il suo passo, ma l’albero era un po’ troppo lontano, e così Oscar cadde ancora. Se non avesse avuto quasi ventisette anni, si sarebbe messa a piangere, snervata, sì, snervata.
 
 Che idea! Prendersi una polmonite in pieno inverno!
Chi sa che cosa avrebbe detto Nanny, se fosse stata anche lei ad Arras!
E non osava pensare allo stato  in cui si sarebbe svegliata l’indomani!
SE si fosse svegliata l’indomani ... tutti i racconti paurosi sulla morte per assideramento che aveva letto in quegli anni, documentandosi sui libri di geografi ed esploratori penetrati nel grande Nord dell’America, le ritornavano in mente, insieme a una profonda sensazione di disagio. Ma via ... cercò di razionalizzare ... assiderata ... nel parco di casa ... assurdo! Tutti sapevano dove era andata ... o no? Ora doveva solo alzarsi e non lasciarsi vincere da quei pensieri da ... da .... donnicciola con i nervi?
(E comunque una polmonite si può facilmente rimediare anche nel giardino di casa, le ricordò la solita vocina petultante nella sua testa).
 
“Oh! Accidenti, accidenti, ACCIDENTI!”, esclamò, esasperata, quando ecco che vide una figura familiare avvicinarsi.
 
André!!”, esclamò, illuminandosi. Possibile che fosse venuto a cercarla?!
 
 
Un senso di calore e di consolazione le scese nel petto, e, anche se si era ripromessa di mostrarsi adirata e imbronciata, non poté che atteggiare il volto a un sorriso.
 
Cercò di rialzarsi, maledestramente, mentre lui, senza una parola, chinandosi su di lei, la prese fra le braccia, la guancia fredda contro la sua gelata, i nasi che si sfioravano, il ciuffo nero che sfuggiva dal nastro, bagnato di neve, che le sfiorava i capelli biondi sulla fronte, la bocca illividita che quasi sfiorava la sua.
 
“Chiedi scusa”, le disse, in un soffio. “Chiedi scusa, adesso”, le ripeté, mentre lei affondava il viso nella sua spalla e lui la copriva con il mantello.
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Ringrazio per la bellissima Fan art Galla88, ormai mia vittima sacrificale, che lavora “alla cieca” con poche indicazioni di massima e tanta fantasia...e pazienza!
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E così ci siamo....che ve ne pare? Manca ancora un capitolo, piuttosto lungo, che spero di potervi proporre entro la mattina di Natale, o al più tardi nel pomeriggio del 25. 
Grazie per avermi seguito sino a qui|.

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Capitolo 9
*** 9 - Generi di primo soccorso ***


 
IX- Generi di primo soccorso
 
1 – “Ma quanto ci mette, quell’André?”, mormorò impaziente la contessa Hortense, tormentando nervosamente la sua lunga collana di perle. Adesso anche lei si era alzata, e, cercando di dissimulare la sua preoccupazione dietro al contegno da gran signora, stava ritta davanti alla finestra, insieme a Justine e agli altri personaggi che affollavano la biblioteca.
 
“Ci mette tutto il tempo necessario!”, rispose, inaspettatamente piccata, Mademoiselle Legris, per la quale ogni offesa contro Monsieur André, così buono e gentile, era un delitto.
 
“Certo che ormai nevica davvero fitto...”, mormorò Madame de Volanges, con la sua faccia smorta sotto la cuffia da brava chioccia di una casa ormai vuota.
 
Nel silenzio, tornato assoluto dopo quell’inane scambio di battute, la pendola battè i suoi cinque rintocchi forti e tre leggeri: di lì a poco sarebbe stato buio fitto. Una sensazione sgradevole pervadeva ormai i cuori di tutti.
 
“ECCOLI!!!! ECCOLI!!!!”, trillò a un tratto Justine, appoggiando entrambi i palmi alla vetrata – e pazienza se poi ci sarebbero rimaste impresse le ditate – quasi saltando per la gioia!
 
Da lontano, nel crepuscolo che ormai cedeva al buio, si profilava una figura indistinta, che la buona Justine, lettrice inesausta di romanzetti sentimentali dall’inevitabile lieto fine, aveva identificato come quella di Monsieur André che teneva fra le braccia Monsieur le Comte, cioè, Madamigella Oscar.
 
“Eccoli!!!!”, e, mentre Hortense, e Madame de Volanges tiravano un sospiro di sollievo, si precipitò fuori dalla porta, per organizzare l’accoglienza a “quella povera Madamigella Oscar”, certo bisognosa di un bagno caldo e di un fuoco ben vivo, di salviette calde, fors’anche di un impiastro di farina di semi di lino per evitare un malanno ai polmoni, oltre che, naturalmente, di una buona tazza di latte caldo col cognac per riscaldare lo stomaco ... ma venne fermata da Monsieur Laval, che la raggiunse con due passi e la prese per il braccio.
 
Mademoiselle Legris, attendete un minuto!|”
“Ma, Monsieur Laval, che cosa state facendo?”, chiese lei, scandalizzata, di fronte a quel contatto, sotto gli occhi della Contessa Hortense, della sua ospite, di altri membri della servitù.
 
“Ecco, io vorrei dirvi....”, titubò lui, sulla cui larga faccia cordiale era comparso un insolito rossore.
 
Monsieur Laval, decidetevi!” – il tono acido riemergeva subito, “Non ho un tempo eterno... Devo andare a dare disposizioni per...”
 
“Vi ruberò solo un istante, Mademoiselle Legris. Io so bene che il Natale è per voi giorno di lavoro, specialmente se in casa ci sono i padroni, ma.... tengo molto a darvi questo piccolo segno tangibile della mia ... ammirazione”, e così facendo cavò dalla tasca interna della marsina un minuscolo involto, che consegnò nelle mani di una strabiliata Justine. La quale, con dita tremanti, aprì la carta rossa decorata a gigli bianchi e trovò uno scatolino piatto e rigido di cuoio, aperto il quale scoprì, adagiata sul velluto color panna che rivestiva l’astuccio, una collana di giaietto, che barbagliava nella luce incerta della sera illuminata dalle candele. “Oh!”, potè solo esclamare Justine, mentre Monsieur Laval continuava, con voce profonda: “Ho pensato che il giaietto fosse la scelta migliore per far risaltare il vostro incarnato candido”, e, presa con le sue dita tozze, ma inaspettatamente delicate, la collana, la allacciò al collo della sempre più allibita governante, alla quale sembrava che il cuore dovesse balzare fuori dal petto dal un momento all’altro, sotto gli occhi sgranati di Hortense e di Madame de Volanges, mentre Marie, la cuoca e il lacché applaudivano, entusiasti: “Sì, evviva! Monsieur Laval,  ci siete riuscito! Finalmente!”.
“E se poi vorrete accettare il mio invito, potrei osare chiederVi”, continuò Monsieur Laval, fattosi ardito, “di concedermi, dopo la Messa domenicale di dopodomani, una passeggiata insieme sino alla Confetteria dei Frères Touchepied?”
“Oh, ma certo, Monsieur Laval”, soffiò, incredula, Justine, che sembrava aver recuperato a stento la parola. “Certo, naturalmente”, ripeté, arrossendo sino alla radice dei capelli, e poi, ficcatasi astuccio e carta nella tasca del grembiule bordato di pizzo, scappando giù per le scale verso la cucina.
 
“Che gabbia di matti”, mormorò, sferzante, la Contessa Hortense, uscendo dalla biblioteca seguita da Madame de Volanges.
 
2 – Ora che Oscar era a letto, e, con addosso una camicia da notte asciutta e la vestaglia sulle spalle, riscaldata, rifocillata e tranquillizzata, poteva riflettere con calma sull’accaduto.
Appena entrati in casa, André l’aveva fatta adagiare su una delle poltrne dell’ingresso, ai lati della porta, e, fattale allungare la gamba destra su uno sgabello imbottito, si era chinato sul suo piede, cercando di sfilarle lo stivale. Il lamento di dolore di Oscar aveva fatto capire che non era il caso di perseverare in quel tentativo, e allora, fattesi consegnare un robusto paio di cesoie da Justine, Andrè aveva tagliato lo stivale, liberando il piede  e la caviglia, che, appena sciolta dalla stretta dal cuoio, era apparsa paurosamente gonfia.
“Accidenti, Oscar, questa sì che è una caviglia slogata!”, aveva esclamato, mentre Justine e le altre cameriere accorse in frotta si tenevano le mani sulla bocca.
“Adesso provo a togliere la calza”, le anticipò André.
 
Oscar annuì. Dopo uno “Scusami, André: scusami, se puoi”, mormoratogli all’orecchio appena lui l’aveva presa fra le braccia, non aveva più detto una sola parola.
 
Tolta la calza, la caviglia, e parte del piede e della gamba poco sopra l’articolazione, apparivano non solo gonfi, ma anche lividi e ormai quasi anneriti.
 
“Oscar, per caso dopo aver appoggiato male il piede, hai sentito una specie di scricchiolio nell’articolazione?”, chiese André.
 
“Sì”, sussurrò lei, mordendosi il labbro inferiore.
 
“E ha raddrizzato il piede con forza per continuare a camminare?”.
 
Oscar annuì: evidentemente, la caviglia, compressa nello stivale, aveva più o meno retto sino a quando non era stata liberata dalla rigida prigione del cuoio.
“Beh, credo che per vedere un dottore dovremo aspettare che smetta di nevicare; ma per dirti che devi stare a riposo e non caricare la caviglia destra, posso bastare anche io”, aveva concluso André, prendendola ancora fra le braccia, e portandola in cucina, dove Justine aveva già predisposto tutti i suoi generi di conforto.
 
Oscar, mentre beveva il suo latte caldo, l’aveva giusto visto affacciarsi per un attimo alla soglia della cucina. Poi, dopo aver brevemente trafficato attorno al camino, André si era nuovamente allontanato.
 
Più tardi, quando Oscar, infilata una camicia da notte pesante e una vestaglia di calda lana, era ormai a letto, sotto le coltri soffici, André, preceduto dai tre colpi ravvicinati più uno, di qualche secondo successivo– il loro segnale segreto per annunciarsi nelle loro visite notturne – era entrato nella sua camera.
 
“Allora, come sta l’invalida?”
 
“Stupido...”, aveva sussurrato lei, sorridendo, mentre André prendeva posto sulla sedia imbottita di damasco azzurro, accanto al suo letto.
 
“Ricominciamo?”, aveva chiesto lui, sorridendo di rimando: e Oscar si era sorpresa sentendosi invadere da un senso di dolcezza e di calorosa pienezza, al solo vedere gli angoli della sua bocca incurvati all’insù e i suoi occhi verdi che la osservavano, sfavillanti, come se fossero puntati su ... un tesoro.
 
Sentì un vuoto nello stomaco, e un improvviso imbarazzo; eppure, quante volte André era stato nella sua stanza?
Quante volte, da bambini, avevano condiviso il letto? Appunto: da bambini ... puntualizzò la vocetta impertinente nella sua testa.
 
“È una vera sfortuna questa caviglia slogata ... avremmo potuto fare tante cose durante questa licenza ...”, disse lei, per riempire quel silenzio che, improvvisamente, le metteva addosso una sensazione di sottile disagio, e nel frattempo, si tirava su il lenzuolo e la coperta, come – vai a sapere perché –a coprirsi il seno, velato dalla sola camicia da notte.
 
“Oh, Oscar: sai, credo che dovresti prolungare un po’ questa licenza, almeno sino a quando la caviglia non sarà completamente guarita; certo, oltre le due settimane concesse da Sua Maestà”.
 
“Dovrei scrivere una lettera alla Regina....”, annuì lei, pensosa. “E poi a casa”, aggiunse, precipitosa.
 
“Naturalmente”, assentì André. “Per fortuna hai qui con te Hortense che ti può degnamente accudire ...”, aggiunse André, sorridendo lieve, con la sua espressione ironica e sorniona; e intanto, cavata dalla tasca del giustacuore una scatolina di carta dall’aria ammaccata, ne toglieva un oggettino in fil di ferro, che appoggiava sulle coperte, sul copriletto celeste, nel piccolo spazio fra le sue dita e quelle di Oscar, che sfoderò un sorriso da bambina, una bambina ai lati della cui bocca facevano bella mostra di sé due irrestibili fossette, mentre la sua mano andava oltre il metallo, a sfiorare, e poi a stringere, quella di lui.
 
3- Oscar l’aveva osservato, senza dire una parola. Quando André si alzò, dicendo, con semplicità: “Ceneremo con Hortense nel salottino cinese, vuoi? Ti avviso che tua sorella è stata irremovibile”, lei annuì, senza togliergli gli occhi di dosso. Poi, mentre lui le aveva già girato le spalle e si era diretto verso la porta, un impulso irresistibile, cui, per la prima volta in vita sua, decise di non sottrarsi.  “André, io...:”
 
“Posso esserti utile in qualcosa, Oscar?”, le chiese lui: la solita domanda gentile, proferita con la sua espressione più rilassata, gli occhi due laghi verdi, tornando verso di lei.
 
“Io devo ... voglio ... dirti grazie ... per oggi ... e non solo”
“Certo”.
“Potresti restare ancora qui?”
“Dovrei aiutare Justine in cucina, in verità: gliel’ho promesso: la presenza della Contessa Hortense la rende molto agitata”.
“Aiuta me, invece”, si sentì dire, incredula (Come aveva trovato ....il coraggio? Che cosa aveva detto?)
“Certo, Oscar: che cosa posso fare per te?”
“Resta qui”, ripeté.
Sono qui”, disse André, rimettendosi nuovamente sulla sedia da cui si era appena alzato
.
“Qui”, e fece cenno, con la mano un po’ tremante, alla sponda del letto, poco lontano da dove era sdraiata, ponendo le dita, incerte, sulla coperta.
Silenziosamente, André obbedì. E dalla sedia si trasferì a sedere sul letto, sull’angolo, la schiena rivolta verso il capezzale, il busto lievemente ruotato, per guardarla negli occhi.
 
“Io ... non vorrei sbagliarmi ... ma.... se sbaglio. .. ti prego ... dimmelo ...”, sussurò Oscar, e, avvicinato il volto al viso di lui, diede a un André tramortito dallo stupore, un bacio leggero, a fior di labbra, arrossendo violentemente, e ritraendosi subito.
 
“Ho sbagliato, lo so ...”, sussurrò ...”Ma ... “
“Ma ... che cosa?”, sussurrò di rimando lui, passandosi, lieve, le dita sulle labbra, con una espressione incredula.
“Ma non potevo più aspettare!”, disse lei, di getto, quasi esasperata. Accidenti, ma perché era tutto così dannatamente difficile?!
Tu non potevi più aspettare, Oscar?”, le domandò André, con aria indefinibile.
Oscar entrò nel panico. Ecco, lo sapeva, aveva sbagliato. Ci aveva pensato tanto, tanto, troppo, e poi aveva fatto la cosa sbagliata: aveva equivocato, ecco. Che cosa era andata a pensare? Che cosa le aveva preso? Che vergogna ... che gesto imperdonabile. E adesso? Adesso?? Aveva rovinato tutto, lo sapeva. Cioè...se non c’era niente, non aveva rovinato niente. E se invece... no, impossibile. Aveva sbagliato. Accidenti alla Marchesa...e a lei, certo.
 “Ecco, io.-... ”, voleva dire, tentando di giustificarsi; e voleva scusarsi, dire che non era nel suo stile, non voleva, non voleva proprio, ma evidentemente quella giornata ... quando si sentì abbracciare d’impeto, e stringere tanto forte da sentire quasi male alle costole, e da sentire, vicinissimo, l’odore di sapone di Marsiglia della pelle di lui.
 “TU non potevi più aspettare, Oscar?”, le ripeté André, ridendo. “IO non posso più aspettare!”, esclamò, con gli occhi sfavillanti di qualcosa che doveva essere certo più dell’amicizia e del semplice affetto, e la baciò di slancio.
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E così, eccoci qui: un po’ favola di Natale? Sì, lo so. Ma lasciatemi sognare, ché il Natale a me non piace proprio e questo è anche un modo per riconciliarmi un pochettino con il periodo. Ma attenzione: il racconto non è finito! Ovviamente, con il noto senso della sintesi di Dorabella, dove doveva esserci un capitolo, ne sono nati due. Il prossimo capitolo, l’ultimo, è in fieri, e, con un piccolo sfasamento temporale, entro domani posterò anche quello.
Intante, grazie a voi che, saturi di panettoni e di mostarda, avete fatto, ancora, la fatica di leggere. Buona serata di Natale, e buon “ribattino” domani!
 
 

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Capitolo 10
*** 9 - Epilogo, epilogone, epiloghissimo ***


X- Epilogo, epilogone, epiloghissimo
 
                                    1 - "Cumino", sentenziò, con aria da Sibilla Cumana, la Contessa Hortense, l'indice sinistro levato, come a far cadere dall'alto un'arcana profezia.
                                    "Cumino!", continuò, imperterrita, nonostante non avesse rilevato il benché minimo cenno di interesse, non che di vita, nei suoi forzati commensali. "Questo è il segreto, per rendere perfetti i biscotti allo zenzero! Perché il cumino, vedete, - André, Voi lo saprete benissimo, perché Vostra nonna ve l'avrà certo confidato - esalta e acuisce l'aroma dello zenzero, ma, ma senza sovrastarlo. Lo spiegai anche alla Marchesa di Bramvilliers, all'ultima merenda sul prato cui ebbi l'onore di essere invitata..."
                                    Oscar e André si scambiarono un'occhiata eloquente, profondamente sconsolati. Da più di due ore, da quando cioè si erano seduti alla tavola riccamente decorata con una tovaglia di broccato rosso a ricami d'oro nel salottino cinese, Hortense non aveva smesso di parlare un attimo. André aveva portato in braccio Oscar, ancora in camicia da notte e vestaglia damascata rossa, dalla sua camera al salottino, e poi, dopo averla fatta sistemare su una poltroncina comoda, allungandole la gamba destra su uno sgabello imbottito - a Oscar sembrò tanto di essere ora al posto della Marchesa con cui aveva fatto colazione quel giorno - si era assiso anch'egli alla piccola tavola dove sarebbe stata servita la cena: con suo sommo stupore, infatti, la Contessa Hortense gli aveva fatto un cenno della testa e, con sorriso appena abbozzato, gli aveva proposto, a mo' di graziosa concessione: "Ma prego, André, restate a cenare con noi: mi sembra il meno, dopo quello che avete fatto oggi per mia sorella Oscar".
                                    Oscar non aveva fatto commenti: quella che Hortense riteneva una degnazione per meriti particolari era in realtà la norma, quando lei e André risiedevano ad Arras; ma sua sorella, con la sua consueta, odiosa spocchia, riusciva a tramutare in concessione quello che lei, Oscar, non si sarebbe nemmeno sognata di mettere in dubbio. Avrebbe voluto intervenire, e puntualizzare, ma André, intercettato il suo sguardo, le aveva fatto un cenno, minimo, impercettibile, come a dire che non metteva conto, non quella sera, non dopo quello che era successo poco prima in camera di lei, di puntualizzare, con il tono acre che sempre le saliva alle labbra quando c'erano di mezzo le ubbìe di Hortense, guastando quell'atmosfera fatata.
                                    Ma, mentre si succedevano le varie portate, antipasto di tartufi, foie gras e rillette di salmone e di maiale, quaglie ripiene, piccione in salsa verde, biancomangiare siciliano, pasticcini di marzapane e i biscotti allo zenzero - i preferiti di Oscar -, la piacevolezza di quella cena "piccola e informale", così l'aveva definita Hortense, era stata quasi del tutto oscurata dalla pesantezza delle chiacchiere inesauste della Contessa di Brissac-Montségour. La quale, forse pensando che fra i suoi obblighi di sorella maggiore rientrasse anche il conforto morale per la provvisoria invalida, da ottenersi a suon di chiacchiere che la distraessero "dal pensiero del suo sfortunato incidente, pooooooovera caaaaara", aveva ben pensato di cercare di stordirla, dapprima con una serie di pettegolezzi fittissimi che avevano come oggetto Madame de Volanges, e il deprecabile "legame pericoloso" che la figlia, Cécile, aveva intrattenuto con il Visconte di Valmont, e tutto a causa della perversità della Marchesa di Merteuil.  
                                    Oscar, nel frattempo, sbocconcellava, distrattamente, il suo piccione, e rifletteva, gli occhi bassi sul piatto  - anche per evitare di incrociare lo sguardo della sorella - che, in fondo, la Marchese non aveva dimostrato, nei suoi confronti, né doppiezza né malvagità.
 
                                    Dalle malefatte della De Merteuil e del Visconte, il soliloquio della Contessa Hortense si era allargato a tutti gli ultimi pettegolezzi di Corte - amanti, relazioni clandestine, nascite illegittime - beninteso senza citare le imprese del Conte suo marito -, malefatte dei ministri di Sua Maestà - "Oscar, dovresti essere più sollecita, e avvertire il Nostro Re della slealtà che lo circonda!"-; costo degli abiti sfoggiati dalla De Polignac nei mesi immediatamente precedenti; elenco completo dei pretendenti alla mano della piccola Marianne de Sauvay - "Ma è chiaro come il sole che la madre ha già deciso in favore del Maresciallo de Retz, con il suo patrimonio sterminato e i suoi dodici castelli in Bretagna! E pazienza se ha quasi quarantadue anni e la piccola Marianne deve compierne ancora undici!!" -; riassunto delle ultime omelie del Cardinal de Rohan alla Messa Domenicale nella Cappella Reale - "Che cultura! Che sapere profondo! Che scienza delle Sacre Scritture! Che dizione perfetta! Peccato solo per quelle sue disdicevoli inclinazioni che lo rendono inviso alla nostra Regina, come già, in precedenza, alla sua inclita Madre" -; e poi, dulcis in fundo, una completa ricognizione delle toilettes delle principali occupanti dei palchi più segnalati all'Opéra, durante l'ultima rappresentazione del Serse di Haendel  - "Un vecchio allestimento, ma del resto, che pretendiamo? Sotto Natale siamo tutti così distratti da tante incombenze che sarebbe inutile presentare un allestimento nuovo di zecca: nessuno ci farebbe caso!" - con accurato giudizio estetico sugli abbinamenti di colore e commento sulla probabile spesa sostenuta dalle singole dame per presentarsi a teatro.
                                    Da questi aulici argomenti, mentre Justine sostituiva i piatti da portata con quelli per i dolci, Hortense si era spinta alle chiacchiere gastronomiche, concionando per diritto e per traverso di ingredienti e preparazioni di pasticceria -materia in cui ella, come del resto tutte le donne Jarjayes, poteva avere una conoscenza soltanto teorica.
                                    Oscar e André erano a dir poco sfiniti, molto più che dopo un allenamento di ore sotto il sole a picco di luglio; nel cuore di Oscar, però, un tumulto nuovo la faceva incassare, impassibile, tutte quelle chiacchiere moleste, perché il suo pensiero era rivolto alle labbra di André posate sulle sue, alle sue braccia che la cingevano, al viso freddo di lui che sfiorava il suo, quasi completamente gelato, quando si era chinato su di lei, nel parco innevato, e, poi, mentre stava al caldo fra le sue morbide coltri.... la sua espressione mentre diceva: “IO non posso più aspettare!”, il sapore delle sue labbra, il tuffo al cuore e il rimbombare del sangue nelle tempie che le avevano tolto il fiato mentre le mani di lui la stringevano, con emozione, forza e tenerezza...
                                    E dentro di sé sentiva crescere una ragionevole voglia di cantare, scoccando, mentre Hortense era rivolta a Justine, che sostituiva i piatti e serviva le pietanze, qualche timida occhiata di sottecchi ad André. Il quale, a un certo punto, proprio quando la Contessa Hortense sembrava particolarmente esaltata e fervorosa nella sua opera di filologia culinaria applicata alla pasticceria, colse l'occasione e, a una ancor stralunata Justine, al cui collo spiccava una vezzosa collana di giaietto, propose di aiutarla a servire il biancomangiare, insieme a un vassoio di dolcetti di marzapane e di biscotti allo zenzero. "Justine, vi prego: non vi caricate troppo di piatti. Posso aiutarvi io per il primo servizio dolce"; ma, a quel punto, Oscar gli scoccò, come di sfuggita, quasi che si stesse volgendo verso la finestra per sincerarsi se la neve cadesse ancora copiosa, uno sguardo così eloquente che André rinunciò. "André, ti prego: Hortense si annoierebbe qui solo con me: come tu sai, non ho alcuna inclinazione per la conversazione mondana", gli disse: come se André avesse partecipato o incoraggiato in alcun modo quel terrificante valiloquio.
 
                                    "Naturalmente, Oscar, naturalmente", assentì André, con uno sguardo tranquillo, ma sotto la cui pacatezza si indovinava uno sfavillìo verde che aveva ben altra origine. "Vogliate perdonarmi, Justine, se resto...", iniziò André, subito interrotto, con premura, dalla governante: "Ma no, ma no, ma che dite, Monsieur Laval....cioè, volevo dire....Monsieur André", e qui, mentre si correggeva, le sue guance smorte si erano improvvisamente accese, "Ma via, via, ci mancherebbe!", e fuggì in cucina, ritirati i piatti, ritornando poi con lo squisito biancomangiare, vanto delle sue abilità culinarie, e successivamente con un vassoio di biscotti e dolcetti al marzapane, per sparire subito dopo oltre la porta.
 
                                    2 - "Bene", disse la Contessa Hortense, con tono di profonda degnazione, e deponendo il tovagliolo sulla tavola, quasi dovesse proferire un annuncio di vitale importanza. "Visto che fra meno di due ore sarà il Vostro compleanno, cara sorella, devo consegnarvi il vostro regalo: non avendo potuto, dato lo scarso preavviso con cui siete giunta qui ad Arras, comprarvi nulla prima, ho pensato a un oggetto in mio possesso che so vi potrà essere gradito", e, così dicendo, si alzò, per andare nella sua stanza a prendere il regalo.
 
                                    In altri tempi, non appena la Contessa Hortense avesse messo piede oltre la soglia del salottino, Oscar e André sarebbero scoppiati a ridere, consegnandosi a una ilarità oltraggiosa secondo i rigidi parametri della Contessa, e facendosi beffe del suo tono di voce sussiegoso, imitandone - senza timore di essere sentiti e redarguiti - le intonazioni mentre riferiva, scandalizzata, quanto stonasse il nastro verde in testa alla Duchessa di Montfort abbigliata in azzurro, e come fosse a tutti noto che gli smeraldi sfoggiati dalla Baronessa di Saint-Thomas fossero falsi. Ma quella sera, invece, Oscar e André erano in preda a un diverso, dolce imbarazzo; nel silenzio assoluto, Oscar avvicinò, con aria timorosa, la sua mano a quella di André, come se avesse paura che a quel gesto non seguisse la reazione che sperava e cui anelava; ma André, stringendo le quelle dita bianche e sottili fra le sue, forti, calde e ristoratrici, si portò il palmo di lei alle labbra, ponendovi un bacio delicato, guidando quindi la mano di Oscar sulla tovaglia di broccato rosso, con il palmo abbassato, e dandole una lieve carezza sul dorso, per poi ritrarsi e ricomporsi.
                                    "André, io...", sussurrò, timidamente, Oscar, gli occhi color fiordaliso accesi di una gioia che li rendeva trasparenti come l'acqua dei laghi alpini che avevano ammirato da bambini.
                                    "Lo so, Oscar, l'ho sempre saputo. Davvero", sorrise lui. "E per me è lo stesso". Poi, con un guizzo ironico negli occhi, cambiò intonazione e le chiese, con aria malandrina: "Allora, sei pronta?".
 
                                    "Sì", annuì semplicemente lei, sulle cui labbra aleggiava l'ombra di una risata così desiderabile, come André non ne ricordava da anni.
 
                                    3 - "Ed eccomi qui, finalmente, caaaaara sorella, con il mio regalo per voi", annunciò con un sorriso trionfale la Contessa Hortense, entrando pochi minuti dopo nel salottino cinese, reggendo una voluminosa scatola bianca su cui troneggiava un mostruoso fiocco rosa.
 
  Ma, con suo sommo dispetto, Oscar e André non le rivolsero nemmeno uno sguardo, concentrati com'erano a scrutare, a capo chino, un punto fra le loro due teste, sulla tovaglia di broccato rosso. La Contessa Hortense, la cui vanità le imponeva di non confessare nemmeno al Dottor Lassonne che la sua vista era paurosamente calata, non riusciva a distinguere, da quella distanza, ovvero dalla soglia del salottino, che cosa la sorella e il suo attendente stessero osservando, tanto più che la sala era immersa in una quieta, intima penombra, illuminata solo dalla fiamma di due doppieri posti sopra la mensola del caminetto e da un candelabro a cinque luci sul tavolo. Si avvicinò, incuriosita, e anche sottilmente indispettita ("Come potevano quei due non degnarla di uno sguardo?!"), e si rese conto che la sorella e André stavano osservando con interesse un bicchiere (un ... bicchiere?) capovolto sulla tovaglia color porpora.
 
      Si chinò dunque, graziosamente, come aggraziato ed elegante era ogni suo gesto, anch'ella - il grande pacco ancora fra le mani -, davanti al tavolo, dalla parte opposta a quella dove sedevano Oscar e André, e si dispose a osservare la meraviglia che aveva calamitato i loro sguardi.... e, fra le trasparenze del bicchiere smerigliato, alla luce timida del  candelabro, vide....un gigantesco ragno nero peloso, bloccato e circondato dalle pareti di vetro.
 
                                    "AAAAAAAAHHHHHHHHHH!", gridò Hortense, buttando all'aria la scatola, che si rovesciò, lasciando cadere a terra una cappa bordata di pelliccia di ermellino, e ritraendosi spaventata di tre passi ... "Uccidete subito quell'insetto mostruoso!!!!", intimò, a gran voce, le mani serrate attorno al collo, come a proteggersi da quel mostro lanuto dalle tante, troppe, mostruose zampe.
 
"Ma, Hortense", disse Oscar, levando il capo verso di lei, con la più innocente tranquillità, "questo NON è un insetto", la corresse, "è un aracnide".
 
"E BASTA, CAXXO!!!!", urlò, Hortense, ancora più fuori di sé, per contrasto con la didattica pacatezza della sorella. "MOSTRI!!! VI ODIO!!", gridò all'indirizzo dei suoi screanzati commensali, e, infilata la porta di slancio, corse via.
                                    Appena fu uscita, Oscar e André iniziarono a ridere fragorosamente, le lacrime agli occhi, come pazzi, André addirittura battendo un pugno sul tavolo, senza riuscire a fermarsi, Oscar portandosi le mani giunte attorno alla bocca e al naso, quasi temendo di soffocare per l'ilarità. Poi, dopo molti minuti, mentre le risate si stavano spegnendo, André raddrizzò il bicchere, e tolse i tanti bioccoli di lana nera dal corpo del ragno di fil di ferro, riesumato, dopo tanti anni da dietro il mattone mobile del camino della cucina, e, che, opportunamente mascherato, aveva regalato loro l'ennesimo momento di divertimento.
 
                                    "Beh, Oscar, direi che il nostro vecchio amico ha servito ancora egregiamente al suo scopo: che ne pensi?", chiese André, soffiando via i bioccoli di lana, e riponendo il ragno nel suo scatolino, cavato dalla tasca interna del giustacuore.
 
                                    "Benissimo, direi!", assentì lei, con la sua risata meravigliosamente argentina. In quel momento, dei passi che si avvicinavano all'ingresso della stanza li indussero a ricomporsi in una posa seria, come si conviene al Comandante delle Guardie Reali e al suo attendente; ma, in luogo della Contessa Hortense, sulla soglia del salottino si palesò Justine, la quale, con tono lugubre, annunciò: "Monsieur le Comte, Madame la Comtesse de Brissac-Montségour si duole di non poter concludere la cena con Voi, ma mi prega di riferirVi che si è ricordata all'improvviso di un importante impegno che la costringe imperativamente a fare ritorno a Parigi".
 
Una volta rimasti soli, mentre Oscar martoriava, questa volta con allegro appetito, il biancomangiare, André osservò, con aria fintamente noncurante: "Beh, Oscar, senza dubbio il Conte di Brissac-Montségour sarà felicissimo di apprendere da Hortense i mille usi del cumino in cucina!".
                                    "Stupido!", rise Oscar, e, presa la bottiglia di champagne ghiacciato, ne bevve a collo un sorso, porgendola poi ad André, che fece lo stesso, gli occhi fissi nei suoi, per rimetterla quindi nuovamente nelle mani di Oscar, le dita di lui che sfioravano quelle di lei: e stavolta, gli sembrò di scottarsi, al tocco della sua mano sottile.
 
 "Ci tieni molto, Oscar, ai pasticcini al marzapane e ai biscotti allo zenzero?", chiese André.
 
                                    "Temo proprio di no. Potremmo però riempircene le tasche e mangiarli più tardi, come quando eravamo bambini, ricordi?", propose lei.
 
"Buona idea"; annuì lui, e, dopo essersi messo in tasca qualche biscotto avvolto nel tovagliolo, si alzò e sollevò con delicatezza Oscar fra le sue braccia.
 
"Aspetta solo un attimo", lo fermò lei, protendendosi verso il tavolo e afferrando la bottiglia di champagne. "Ora possiamo andare", sorrise. Poi, in un sussulto di preoccupazione, si chiese, e gli chiese: "Ma che cosa dirà Justine quando arriverà a portarci il caffé e a rigovernare, se non ci troverà più qui?".
"Oh, beh, Oscar, non credo che rientrerà tanto presto; e comunque, stanotte penso proprio che abbia altro per la testa", rispose André, fermandosi davanti alla grande vetrata che dava sul parco, inclinandosi leggermente per consentire anche a Oscar di osservare le due figure che aveva scorto un attimo prima: un uomo alto e robusto, proprio come Monsieur Laval, avvolto in un mantello scuro e con il capo coperto da un tricorno, che procedeva nella neve, reggendo con la mano sinistra una lanterna, e dando il braccio destro a una figuretta femminile avvolta in un domino.
                                    "Incredibile.... chi l'avrebbe mai detto", mormorò Oscar, intenerita, senza staccare gli occhi da Justine e Monsieur Laval intenti alla loro prima passeggiata da coppia.
 
                                    "Che cosa è incredibile, mon Colonnel? L'amore?", le chiese André, fattosi improvvisamente audace. Quindi, senza più dire nulla, la portò fuori dal salottino cinese, teatro dell'increscioso incidente della sera prima, e, salita una rampa di scale, la condusse al secondo piano, sino all'appartamento di Monsieur le Comte, mentre Oscar restava avvinghiata alle sue spalle e teneva la testa languidamente affondata nell'incavo della sua spalla.
 
Una volta che André l'ebbe sistemata a letto, appoggiata la bottiglia di champagne sul comodino, insieme all'involto con i biscotti allo zenzero tratto dalla tasca, rimase fermo davanti a lei.
"Posso fare qualcos'altro per te, Oscar?", le chiese, come sempre e insieme per la prima volta.
 
"Stavo pensando che non mi hai fatto un regalo per il mio compleanno", rispose lei, con gli occhi sfavillanti di furbizia, come quando era bambina.
 
"Mi spiace contraddirti", rispose André, e si tolse dall'altra tasca un piccolo involto rosso. "Stamattina ho fatto una capatina ad Arras e ho pensato a te", disse, con semplicità, porgendoglielo.
 
"Grazie, André. Ma io.... io scherzavo", rispose Oscar, confusa.
"Scartalo", la invitò André, tagliando corto. Pochi movimenti e nelle mani di Oscar, sotto la carta comparve un titolo: Francesco Petrarca, I Trionfi.
 
"Così potrai tenere esercitato il tuo italiano", sorrise André.
 
Oscar aprì il libriccino, poi lo richiuse, e gli scoccò uno sguardo indefinibile.
"Resta qui".
"Scusa?",
"Resta qui, per favore", ripeté, scostando le coperte, per fargli posto, e spostandosi leggermente, sollevandosi sulle braccia, verso il lato opposto del letto. Poi, arrossendo, aggiunse, "Leggiamo insieme ... se vuoi. Abbiamo anche ... generi di primo conforto ... vuoi?", domandò, appena ansiosa, quasi supplichevole nello sguardo.
 
"Va bene", rispose André, incredulo e circospetto di fronte a quella felicità imprevista.
 
"Puoi toglierti la marsina, se vuoi", aggiunse Oscar, mordendosi il labbro, a lato della bocca. "E gli stivali", precisò un attimo dopo, leggermente imbarazzata (Stava osando troppo?). E mai imbarazzo, pensò André, aveva più donato a un giovane Colonnello.
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A letto, sotto le coperte piacevolmente pesanti, semisdraiati, il busto appoggiato a una montagna di soffici cuscini, André aveva cinto con il braccio sinistro le spalle di Oscar, che nascondeva il viso nell'incavo della sua spalla, ascoltando, ammaliata, la voce di André che questa volta le leggeva le parole di Petrarca:
 
Nel tempo che rinnova i miei sospiri
     Per la dolce memoria di quel giorno
     Che fu principio a sì lunghi martìri;
Scaldava il Sol già l’uno, e l’altro corno
     Del Tauro, e la fanciulla di Titone
     Correa gelata al suo antico soggiorno.
Amor, gli sdegni, e ’l pianto, e la stagione
     Ricondotto m’aveano al chiuso loco
     Ov’ogni fascio il cor lasso ripone.
Ivi fra l’erbe già del pianger fioco,
     Vinto dal sonno, vidi una gran luce,
     E dentro assai dolor con breve gioco.
Vidi un vittorioso, e sommo duce,
     Pur com’un di color che ’n Campidoglio
     Trionfal carro a gran gloria conduce.

 
Ma, mentre André leggeva, Oscar non badava tanto al senso dei versi, quanto era intenta a respirare il profumo della pelle di lui, da cui la separava solo il lino della camicia.
                                    "Oscar", si interruppe lui, girando pagina, e guardandola da sopra in giù.
"Sì, André?"
 "Potresti fare una cosa per me?"
"Ma certo...." disse lei, quasi non riconoscendo più la sua voce.
"Dammi ancora un bacio", chiese lui. "Come hai fatto prima di cena. Dammi ancora un bacio e poi me ne vado".
 
Oscar, tremante, avvicinò il viso a quello di André; poi si fermò, incerta, intimidita di fronte a quegli occhi verdi che la guardavano pieni di desiderio, e allora fu lui ad avvicinare le labbra, semiaperte, a quelle di lei, per un bacio che le sembrò strapparle il respiro.
 
Poi, riprese a leggere.
 
"Ma....non avevi detto che...?". Oscar era disorientata.
"Certo: io ti avevo detto di darmi un bacio; invece, sono stato io dartelo, e tu l'hai ricevuto", spiegò lui, divertito, lasciando il libro ed abbracciandola strettamente "e questa è una cosa molto diversa, ne converrai", chiarì, fintamente severo, guardandola fisso.
 
"Ah, capisco", finse di riflettere Oscar, pensierosa e insieme sorridente, tenendosi una mano sulle labbra, sotto il naso, in atteggiamento fintamente riflessivo. "E se io te lo dessi, un bacio?", chiese poi, facendosi audace, affondando le mani tra i capelli sulla nuca di André, e sciogliendogli il nastro che teneva legata quella massa di seta color ebano, mentre le loro bocche si univano in un bacio che le sembrò interminabile.
 
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Per la stupenda fan art di Oscar con il cappuccio di pelliccia, ringrazio di cuore Galla88, ormai assurta a mia Ifigenia personale (spero solo di non fare la fine di Clitennestra!)
 
E così, siamo arrivati alla fine di questa "favola di Natale": ogni riferimento a Guareschi, sia nel titolo del capitolo, sia nell'atmosfera sospesa delle festività, è puramente voluto.
Per quanto riguarda lo scherzo alla Contessa Hortense, preciso, a scanso di equivoci, che si tratta di racconto assolutamente autobiografico, benché l'aracnide in questione nel mio caso... fosse vivo.
La definizione di "Aracnidi" è già attestata dal 1757 nelle opere naturalistiche, che è possibile che Oscar - io la immagino con una ottima educazione matematica e scientifica - conoscesse; l'esclamazione di disappunto - diciamo così- della Contessa, è forse poco filologicamente calata nel contesto delle imprecazioni del XVIII secolo, ma a me nell'episodio incriminato non uscì di bocca un "Perdindirindina" o un "Perbacco!": spero che vorrete perdonare l'anacronismo (e andare a pescare la breve sequenza di "Maledetto il giorno che t'ho incontrata" in cui M. Buy "toppa" l'ennesimo ciack dello spot pubblicitario della marmellata).
Ci rivediamo l'anno prossimo: fa impressione dirlo, vero? E questa volta, passeremo a un feuilleton con qualche inserto di racconto intimista.... oltre a qualche altra one - shot che aspetta di emergere dai miei brogliacci. A tutti voi, Buone feste, con l'augurio di un anno nuovo che sia veramente "buono".

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