Come tutte le più belle cose

di elenatmnt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** destino ***
Capitolo 2: *** Suoni ***
Capitolo 3: *** Negazione ***
Capitolo 4: *** Rabbia ***
Capitolo 5: *** Patteggiamento ***
Capitolo 6: *** Depressione ***
Capitolo 7: *** Accettazione ***
Capitolo 8: *** Accettazione - Parte Seconda ***
Capitolo 9: *** Verità ***
Capitolo 10: *** Grazie ***
Capitolo 11: *** Ora ***



Capitolo 1
*** destino ***



Note dell'autrice:

Ciao a tutti!
Questa è la mia prima fanfic, è un esperimento, un gioco fatto per puro divertimento e passione per le Ninja Turtles. La storia tratta temi delicati e potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno, preferisco avvisare prima di combinare pasticci durante il mio debutto. La storia è completa, cercherò di pubblicarla regolarmente tutti i giorni (salvo imprevisti). Inoltre troverete citazioni e riferimenti a film o altro durante la storia, non ce ne sono molti, tuttavia preferisco rendervi partecipi di questo. Spero di avevi detto tutto, non mi resta che augurarvi buon divertimento. Un abbraccio!
elenatmnt

(Teenage Mutant Ninja Turtles non mi appartengono)
 


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Mi hanno definito irascibile, focoso, permaloso. È vero!
Tutti hanno sempre temuto la mia rabbia, mio padre, i miei fratelli, i miei amici. Non perché loro avessero paura di me, figuriamoci, sanno benissimo che li amo e che darei la mia vita per loro.
Ecco lo sapevo, sono diventato anche sdolcinato… insomma dicevo, loro non temevano la mia rabbia come una forza maligna contro loro, bensì contro me stesso.
Quanto avevano ragione, ora è tardi.
Probabilmente sto delirando, non so nemmeno con chi sto parlando, questa sarà la mia prima e ultima autobiografia mentale, si mentale perché vedete, non posso scrivere. Ma facciamo un passo indietro, torniamo ad un anno fa, precisamente dodici mesi e dieci giorni.
Accidenti! Adesso assomiglio pure a Donatello, che conterebbe anche i fagioli in una scatola, solo per il gusto di essere preciso.
Quasi dimenticavo, non mi sono ancora presentato. Io sono Raffaello.


Una sera di circa un anno fa pattugliavamo la città come sempre, era una serata fredda e piacevole, così fredda che ci vestimmo da capo a piedi, era insolito per noi. Ma il freddo è il freddo, per quanto io non amassi vestirmi era necessario. L’aria natalizia avvolgeva New York, la neve cadeva dolcemente come batuffoli di cotone imbiancando tutta la città, facendo risaltare le luci colorate che adornavano le strade della Grande Mela, canti natalizi si udivano in lontananza e profumi di dolciumi salivano su fino ai tetti. Che meravigliosa sensazione!
La malavita sembrava essersi presa una vacanza, nessun soldato ninja o Dragone Purpureo si vide in giro, era tutto perfettamente tranquillo e sereno, adoravo sentire l’aria fredda entrarmi nelle narici e uscire in una nuvola di vapore.
Dopo una lunga e sfrenata corsa ci fermammo su un tetto a contemplare tanta bellezza; guardai i miei fratelli che sembravano anche loro avvolti da quel piacere natalizio, ma uno di loro esprimeva questo sentimento in maniera più chiassosa. “Michelangelo!” urlai appena una palla di neve bianca arrivò dritta e improvvisa sulla mia faccia, quell’impertinente rideva a crepapelle nel vedere il mio viso diventare rosso di rabbia, il suo entusiasmo trascinò pure i miei due fratelli più calmi.
Beh, che dire, fu guerra. Tutti contro tutti.
Raccoglievamo la neve e l’appallottolavamo il più velocemente possibile, tirando prima che l’altro potesse attaccare “sei finito Mikey!” lo minacciai.
“Non ci sperare Raph, sono il numero uno nel tirare palle di neve, e il fatto che tu te ne sia beccata una sul muso la dice tutta!” schernì lui sapendo che mi avrebbe irritato ancora di più. Non ero arrabbiato, ma il mio fratellino mi aveva dato la giusta carica per fargliela pagare. Scoppiai in una gustosa risata, quando Leonardo ne tirò una in faccia a Mikey “Cosa dicevi fratellino, sei il numero uno? Si sono d’accordo, ma il numero uno a prenderle in faccia!” proferì un Leonardo vittorioso.
Mentre eravamo intenti ad azzuffarci tra noi, Donatello ne approfittò per fare una palla più grande e colpì con tutta la potenza delle sue braccia, i due più sfortunati nella traiettoria furono Leonardo e Michelangelo; mi dispiacque per Don, non fu un’ottima tattica perché ci coalizzammo contro di lui. Povero Donnie, la solita vittima, troppo gentile e tenero, il mio fratellino genietto. Tentò di ripararsi dietro al muretto dell’antenna, ma lo attaccammo in direzioni diverse e si può dire che diventò un pupazzo di neve.
Ah, non preoccupatevi, arrivò anche la mia vendetta su Michelangelo, fui più cattivo, riuscii ad agguantarlo e gli infilai un pugno di neve nei pantaloni, non immaginerete la faccia che fece, fui soddisfatto della mia piccola rivalsa.


Mi scende una lacrima al ricordo di quella notte, fu così bello, così semplice, qualcosa che allora davo per scontato; come quella sera ce ne sarebbero state ancora molte. Ahimè non fu così, quello fu l’ultimo gioioso ricordo, poi non fu mai più come prima.

 
Il gioco durò molto tempo, finché non ci accasciammo a terra sfiniti, un allenamento di Splinter sarebbe stato meno faticoso “Fratelli, è un po’ tardi. Credo che sia ora di andare” suggerì Don.
Leo ‘Senzapaura’ accolse il suggerimento, solitamente rincasavamo verso l’una, quella volta tardammo di mezz’ora presi dal nostro gioco; se Splinter se ne fosse accorto e non avessimo trovato una buona giustificazione, rischiavamo una punizione.
Riprendemmo la nostra abituale corsa sui tetti verso casa, Michelangelo era in testa, mio fratello è sempre stato il più veloce di tutti e sarebbe stato il migliore di noi come ninja se non fosse sempre stato così distratto.
 

Quella testa di legno, quanto gli voglio bene, anche se ogni tanto si merita uno scappellotto per le sue battutacce fuori luogo. E vorrei prenderlo a pugni ogni volta che mi fa i suoi stupidi scherzi infantili. Cioè quando me li faceva, ora è un bel po’ che non me ne fa uno; sapete? Mi mancano! Si l’ho detto mi mancano gli scherzi di Mikey. Sto divagando di nuovo, un passo alla volta.
 

Michelangelo era avanti, seguito da Leonardo e me, Donatello era l’ultimo della fila, comunque non era molto distante, appena qualche metro. Ogni tanto senza fami notare, giravo lo sguardo verso di lui per controllare che ci fosse, non lo facevo solo con lui, lo facevo verso tutti i miei fratelli ogni volta che si trovavano dietro di me, anche con l’intrepido Leonardo; proteggerli era qualcosa di istintivo, più della mia famosa rabbia. La mia famiglia è tutto per me.
Rigirai lo sguardo per la quinta volta credo, a quel punto Donatello non era più dietro di me, mi fermai e mi guardai intorno “Ragazzi aspettate!” urlai per farmi sentire da Leo e Mikey.
“Cosa c’è?” mi chiese Senzapaura.
“Don, non è più dietro di noi. Dove si è cacciato?!” ringhiai nervoso, era il mio modo di esprimere la preoccupazione.
“Torniamo indietro a cercarlo, non deve essere andato lontano” ordinò Leo fermamente. Poteva fare lo spavaldo quanto voleva, per me era chiaro che anche lui era in ansia per Donatello.
Questa volta ero io davanti, guardavo intorno a me e sotto nei vicoli, il genio non poteva essere andato via senza avvisare, non era da lui e soprattutto non ne aveva motivo, era successo qualcosa.
Il grido di un uomo catturò la mia attenzione, appena nel vicolo sotto vidi Donatello in posizione di difesa che proteggeva una ragazza rannicchiata e impaurita, ‘il mio fratellino che salva giovani donzelle!’ pensai fiero. “è qui sotto!” dissi facendo cenno ai miei fratelli di fermarsi.
Balzammo giù a dargli una mano, non che ne avesse bisogno se l’era cavata bene anche da solo, il mio alto e smilzo fratellino era un eroe, con un colpo di Bo Staff mise a terra l’ultimo dei cinque teppistelli.
La ragazza si tirò su intimorita, sapeva di essere stata salvata da un mostro mutante, tuttavia non resse quello shock “Stai bene? Sei ferita?” chiese un galante e cortese Donatello. A dispetto di ciò che si aspettava il genio, la ragazza indietreggiò lentamente e scappò via.
“Ti è andata male playboy!” lo canzonò Michelangelo ridacchiando.
“Potevi almeno avvisare che saresti venuto quaggiù a fare l’eroe! Ci hai fatto preoccupare.” lo rimproverai in modo plateale, ero tentato di dargli un pugno in testa, tuttavia quella tentazione svanì come cenere al vento quando un urlo di Leo riecheggiò nel vicolo “Attenti!”.
Un proiettile si fece strada tra noi, seguiva una linea immaginaria che segnava la traiettoria tra la mano del teppistello all’angolo del vicolo e il viso di Donatello. Mi gettai a capofitto a mo’ di scudo sul corpo impietrito di mio fratello, ahimè fu tardi per deviare il colpo, ma abbastanza veloce da impedire che gli beccasse la fronte. Toccato il suolo in una rocambolesca capriola, mi tirai su sulle ginocchia per accertarmi che mio fratello stesse bene, gli misi entrambe le mie mani sulle spalle “Donnie, tutto ok?”.
Non mi rispose subito con una frase di senso compiuto, si limitò a mugolare versi di dolore; sotto la mia mano avvertii qualcosa di bagnato, caldo e appiccicoso. ‘Sangue!’ intuii, togliendo la mano per accertarmene.
Il mio fratellino era stato ferito ad una spalla, quel balordo aveva osato sparare a mio fratello.
Tutto divenne rosso, la rabbia muoveva i miei muscoli, il mio respiro si fece pesante e irregolare, le mie nocche sbiancarono tanta era la forza con cui stringevo i pugni. I miei fratelli si accorsero della mia furia.
“Raph! Lascia perdere, quel delinquente è scappato. Ora dobbiamo pensare a riportare Donnie a casa” enunciò Leonardo con la massima calma mettendomi una mano sulla spalla.
Naturalmente non lo ascoltai.
Partii furente verso quel teppista che aveva ferito il mio fratellino, il codardo correva su per le scale antincendio, non molto furbo da parte sua, i tetti erano il mio regno, solo pochi secondi e lo avrei fatto a pezzi, mi sarei gustato pugno dopo pugno la sua disfatta.
Arrivato in cima al tetto lui era lì che ancora correva, era braccato, non è da tutti fare grandi salti come siamo soliti fare io e i miei fratelli, noi siamo ninja, quello invece era solo uno stupido delinquente. Dovetti ricredermi, il bastardo fece un salto da professionista olimpico, non era uno scemo qualunque, di certo sapeva il fatto suo. Non sarebbe stato un problema, lo avrei agguantato comunque.
Presi la rincorsa per tutto il tetto, era un salto banale, nulla che io non avessi già fatto milioni di volte.
 

Concedetemi un momento di riflessione. Voi credete nel destino? Io non ci ho mai creduto, sono sempre stato convinto che ognuno si crei la propria storia giorno dopo giorno, gesto dopo gesto.
Insomma bisogna giocare la propria partita, non posso pensare di sedermi e convincermi che sarà il destino a muovere le mie pedine… NO! Sono io che decido, nessun altro. Nemmeno Dio, se esiste.
Wow, per un momento ho rivissuto un leggero brivido di rabbia, da quanto tempo! Mi ero quasi scordato la sensazione. Mi inebria, mi trascina, mi coccola… No basta! La rabbia se non viene sfogata diventa un pesante fardello, non ho più la forza di sopportare. Non più.
 

Corsi ringhiando e sorridendo, ormai stavo gustandomi la vittoria. Appena il mio ultimo passo toccò il suolo era già pronto a caricare la forza per lo slancio che mi avrebbe fatto librare in aria… il mio piede si posò su una lastra ghiacciata.
Scivolai.
Disastro.
Se non avessi corso così veloce forse sarei caduto in quello stesso punto cavandomela solo con una figuraccia e qualche imprecazione, o forse sarei stato più attento e l’avrei evitata, o magari se avessi controllato come mi hanno detto tutti milioni di volte la mia stupida e ingiustificata rabbia, forse non sarei corso all’inseguimento di quel teppistello da due soldi… chissà. Milioni di possibilità, ma solo un risultato.
Sentii il vuoto sotto di me, stavo cadendo da non so quanti piani di altezza, la prima sensazione fu il terrore e durò tutto il tempo della mia caduta che parve infinita.

Il terrore fu spazzato via quando sentii lo stridulo rumore di qualcosa che scricchiolò, anzì che si spaccò. Non sentivo dolore e non avevo nemmeno più paura, ciò che doveva succedere era successo, perché continuare a preoccuparsene? Solo, non capivo perché non riuscivo a muovermi e poi, captavo un disgustoso gusto ferroso in bocca. Giuro non capivo.
Ero sdraiato sul mio guscio, la mia visione del mondo aveva cambiato prospettiva, vedevo i palazzi innalzarsi verso l’alto, il cielo nero che sovrastava ogni cosa e candide perle bianche che tenere e soavi si posavano su di me, il tempo si fermò, avrei voluto che quell’istante durasse per sempre.
“Raffaello!!” quel grido disperato mi risvegliò dal mio sogno ad occhi aperti, era la voce di Leo che, anche se sfocato, riuscivo a vedere, era sul tetto maledetto. Il mio aniki* Senzapaura mi aveva seguito, immaginavo.
La visione rossa e rabbiosa del mondo che mi aveva trascinato all’inseguimento, pronta a farmi sporcare le mani di sangue di quel disgraziato, pochi istanti dopo fu sostituita da un altro colore che descriveva perfettamente quella notte d’inverno. Tutto divenne… nero.

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*fratello maggiore




Note dell'autrice:

Ecco qui il mio primo passo, spero di avervi incuriosito un pochino, se vi va di lasciarmi una recensione, un'opinione o altro mi farebbe molto piacere, mi aiuterebbe a crescere in questa avventura.
Ringrazio infinitamente 
Made of Snow and Dreams e Ciarax per il sostegno e la pazienza.
Ciaoooooooo!!!



 

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Capitolo 2
*** Suoni ***


Si lo so, sono una Testa Calda, il mio lato istintivo è più forte di quello razionale, da sempre. Non immaginerete mai le centinaia di volte che mio padre ha cercato di farmi lavorare sul mio autocontrollo. Una noia!
Pensare non è il mio forte, non ho mai capito perché perdere tanto tempo a pensare, quando semplicemente si potrebbe agire. Mio fratello Leonardo è uno stratega, non a caso è il leader. Da una parte l’ho sempre un po’ invidiato, ma col senno di poi, capisco che lui è stata la miglior scelta per questa famiglia, non c’è leader migliore di lui.
Mio fratello Michelangelo mi assomiglia di più sotto questo aspetto, anche lui è istintivo, ma non è guidato dalla rabbia, al contrario, lui agisce per puro divertimento, è il raggio di sole che illumina le nostre giornate, la nostra vita non sarebbe la stessa senza di lui.
Potrei dire che io e Donnie siamo due poli opposti: calmo e irascibile, paziente e impaziente, riflessivo e impulsivo. L’ho sempre spinto al limite durante il combattimento, trattandolo come un debole, una femminuccia. No, lui è un coraggioso e forte guerriero, sono fiero di lui, lo sono sempre stato.
Se non vi spiace torno al mio racconto, al mio ricordo… cosa ricordo? Ah sì, suoni.
 

Furono i suoni che man mano mi riportarono al mondo della realtà, non fu un veloce risveglio, fu lento, più lento di Mikey quando era il suo turno di lavare i piatti.
Sentivo voci, incomprensibili, i suoni erano ovattati, mi sembrava tutto lontano. Sicuramente c’erano almeno due persone con me, chi fossero ancora mi era impossibile capirlo.
Non tardò ad arrivare l’odore nauseabondo di medicinali, disinfettante e alcool, non l’ho mai sopportato era disgustoso, se fossi stato un umano, non credo che avrei mai fatto il medico, forse Don sì.
Ed era proprio la voce di Donatello che si faceva più chiara nelle mie orecchie, in principio era ancora vaga, poi sempre più limpida “Raph, fratello mi senti? Raffaello?”
Riuscii a schiudere gli occhi, la penetrante luce del laboratorio quasi mi accecò, mi ci vollero alcuni minuti per abituarmi.
“D…Don…” fu il rantolo affannoso e impercettibile che uscì dalla mia bocca, la sentivo secca che quasi faceva male, la cosa positiva fu che riuscii a mettere a fuoco lo sguardo commosso di mio fratello. Anzi stava proprio piangendo, perché piangeva?
“Andrà tutto bene Raph, ora che sei sveglio vedrai che andrà tutto bene”.
Quanto tempo avevo dormito? Non certo cent’anni.
Ho vaghi ricordi di loro accanto a me, che mi chiamavano, piangevano, litigavano. Credo di essermi svegliato e riaddormentato più volte in un tempo infinito e ripetitivo, in inutili tentativi di svegliarmi.
Solo in quel momento mi sentivo saldamente legato alle immagini, ai suoni e agli odori; riuscivo a stare sveglio e a percepire nuovamente il mondo.
Lentamente spostai i miei occhi verso tutte le altre figure che mi circondavano, tutta la mia famiglia era lì con gli occhi rossi, Michelangelo aveva le lacrime che gli rigavano il viso.
‘Che esagerazione! Uno si fa un po’ male e qui già gli fanno il funerale. Sto bene ragazzi’ pensavo tranquillo mentre la mia mente tornava lucida, sicuramente la mia tranquillità era dovuta ad un momento di ignoranza, ancora non avevo ben capito cosa mi fosse realmente accaduto.
Provai a girare la testa, per osservarmi meglio intorno, tuttavia ad ogni tentativo, la risposta era la stessa: niente. Nessun muscolo del mio corpo rispondeva ai miei comandi, riuscivo solo a muovere gli occhi, la bocca e a respirare… Respirare? ‘Aspetta un momento’. No, non stavo respirando da solo ero collegato ad una macchina, un tubo si allungava da lì fino alla… oddio fino alla mia gola. Avevo un tubo nella gola ed un collare che mi teneva eretto il collo.
Ero abbastanza sollevato da molti cuscini per vedere una serie di fili sul mio petto, uno che collegava il mio braccio ad una flebo e quello maledetto nel mio collo.
Lo ammetto, mi spaventai.
Il bip di un qualche macchinario iniziò ad aumentare di velocità e Donatello fu subito su di me “Calmati Raph!”.
“Tranquillo, figlio mio, ci siamo qui noi” anche mio padre si avvicinò prendendomi la mano.
“Che gli succede?” fu la voce di Michelangelo ad urlare.
“Sta avendo un attacco di panico. Devo somministrargli un sedativo altrimenti si farà del male” spiegò Donatello, che veloce e preciso riempì una siringa con un liquido trasparente. Con la serietà di un professionista, infilzò il mio braccio con i suoi ‘strumenti di tortura’ come li definisco io.
Provai a parlare, a dire qualcosa, qualsiasi cosa. Giuro che ci misi tutta l’intenzione e tentai finché il mondo divenne buio.
 

Permettetemi di divagare con un pensiero che mi è sorto spontaneo, forse inconsciamente pensando all’ago con cui Don mi ha infilzato, mi son venuti in mente i miei sai.
I miei preziosi sai.
Da quanto non li impugno? Sicuramente da quella stessa notte in cui tutto ebbe inizio.
Quando mio padre ci donò le armi non fui felice dei miei sai, io volevo le spade, volevo le katana. Pensateci bene, tutti i più grandi guerrieri brandiscono le spade; cavalieri, samurai, ninja, vichinghi tutti loro la spada…il simbolo dei leader, degli eroi. Il sai chi lo brandisce? Nessuno, cioè io.
Compresi già da allora che mio padre aveva una particolare predilezione per Leonardo, non si poteva nascondere era palese, solo che ai miei due fratellini non importava, a me sì invece.
Un giorno Splinter, notando la mia insoddisfazione, mi chiese cosa ci fosse che non andava, io non dissi nulla naturalmente, non avrei mai svelato i miei sentimenti. Io sono un duro, i sentimenti sono per i teneri di cuore.
Chi voglio prendere in giro? Certo che sono un sentimentale, solo che lo nascondo e la mia famiglia questo lo sa bene.
Dov’ero? Ah si! Splinter. Mio padre intese da subito quali fossero i miei demoni interiori e mi chiese di porgergli i miei sai; io fui un po’ scettico ma ubbidii, in fondo erano solo dei giganteschi stuzzicadenti.
Con la grazia di un ballerino e la precisone di un ninja mio padre si destreggiò abilmente con i miei “stuzzicadenti”, era stupendo, fantastico. Giuro avrei voluto essere come lui, ma ero ancora un bambino.
Quando finì e si fermò di fronte a me, io lo guardai come fosse la prima volta, era il mio eroe, la mia guida e io volevo diventare come lui, lo giurai. Ci scrutammo l’un l’altro, avevo capito cosa voleva dirmi. Mio padre sapeva come parlare anche senza le parole.
 

Riaprii gli occhi debolmente, la seconda volta fu più semplice perché già sapevo cosa avrei visto, benché non sapessi ancora nulla. Era arrivato il momento di chiarire alcune cose.
Il primo che vidi fu sempre Donatello in lontananza, armeggiava qualcosa alla scrivania, il mio fratellino in modalità dottore sapeva diventare un po’ ossessivo a volte, è sempre stato così, immagino si senta tutta la responsabilità sulle spalle, come biasimarlo?!
Poi puntai il mio sguardo verso Sensei, riuscivo finalmente ad avere una visione più lucida, c’erano solo loro due. Splinter aveva il pelo arruffato e disordinato, gli occhi erano rossi, forse dal pianto o dal mancato sonno o entrambi; mi stringeva la mano, si rese conto che mi ero svegliato. Si alzò in piedi e mi chiamava con una flebile voce, appena un sussurro.
A quel suono, Donatello intuì che ero sveglio e accorse al mio fianco, mio fratello aveva delle occhiaie nere che sulla sua pelle verde chiaro e il volto magro risaltavano così tanto da farlo sembrare uno zombie.
La mia attenzione ricadde sulla sua spalla, quella che si era ferito durante quella sera, era cicatrizzata, quasi sbiadita, questo la diceva lunga sul tempo trascorso.
“D… Don… che…suc…cede?” andai dritto al sodo con la mia gracchiante e poco convincente voce, nessun giro di parole, ormai ero tornato. In un primo momento sembrarono felici di sentire la mia voce, ma la domanda li aveva turbati e non poco, celarono i loro sentimenti dietro a uno stanco e triste sorriso.
“Raph…” Don mi parlò dolcemente, era come se presero una boccata d’aria dopo tanto tempo; il nerd con cura si avvicinò a me sussurrandomi piano le sue parole e tenendomi la mano.
“Ecco… cosa ricordi?” mi chiese, sciocco tentativo di divagare, certamente poteva servirgli come informazione, ma palesemente stava prendendo tempo. Fui breve.
“Tutto… dallo sparo… alla caduta… Mi ricordo di essere… caduto dal tetto… Poi più… nulla” perché era così difficile parlare? Mi stavo innervosendo per quel limite, da tutti i limiti che il mio corpo stava subendo. Non ne capivo la ragione.
“Donatello… ti prego… la verità…” preservai tutto l’autocontrollo che avevo, sentivo che stava per dirmi qualcosa che non volevo sentire.
“Sei caduto dal tetto di un palazzo di cinque piani… è un miracolo che tu sia vivo… sei stato in coma per quasi tre mesi…” le parole di Don sembravano più una premessa che un’informazione, come per giustificarsi da qualsiasi cosa stava per dire; almeno avevo scoperto quanto tempo ero rimasto incosciente. Mio padre si limitava a stringermi la mano tenendo la testa bassa.
“M… Mal… male…dizione… Don…p…parla!” sembrò quasi un grido minaccioso, se non fosse stato per il fatto che la mia voce era a volume uno.
“La caduta ti ha rotto il guscio causandoti la pentaplegia” disse secco tutto d’un fiato. La parola era veramente antipatica e difficile, infatti non ne compresi il significato e lui lo sapeva “significa che… oltre al coinvolgimento di tutti e quattro gli arti, il tuo corpo è colpito da paralisi alla testa e al collo, con… conseguenti difficoltà nella respirazione e nella deglutizione.”
Divenni di pietra, Splinter mi guardava trattenendo il respiro e Donatello iniziò a piangere “Mi dispiace tantissimo Raph… mi dispiace…”.
 

Avete mai visto il film Titanic? Io si, mi ci ha costretto Mikey. Sia chiaro che non è il mio genere di film, ho solo fatto compagnia al mio fratellino, altrimenti mi avrebbe assillato finché non avessi accettato, alle volte è meglio arrendersi! Ops, l’ho detto veramente? Arrendersi? Si l’ho detto.
In quel film c’è la scena in cui lui salva lei dall’ipotetico suicidio e si prepara ad un eventuale salto nell’acqua ghiacciata, nell’impossibile tentativo di salvarla. Bene, in quel momento lui fa una perfetta descrizione della sensazione di cadere nell’acqua ghiacciata, dice qualcosa tipo ‘cadere in acque gelide, è come avere tutto il corpo trafitto da mille lame. Non riesci a respirare. Non riesci a pensare… a nulla, tranne che al dolore’.
In quel dannatissimo istante mi sentii proprio così.
 

“Ho… q… qualche… chance di… gu… guarigione?” chiesi con una voce che era infinitesimale persino per me, tuttavia al genio non sfuggì la mia domanda.
“Raph… io…” tentò di parlare piangendo.
“B…basta così… ho… capito” risposi calmo. Tutto ciò che stava accadendo non era reale, era solo un incubo, troppi film drammatici. Avrei dovuto vedere più film d’azione per sognare una bella avventura.
In quel momento entrarono Michelangelo e Leonardo entusiasti nel vedermi cosciente, si avvicinarono con foga chiamandomi, parlandomi, erano commossi. Suoni, solo suoni, non sentivo nulla delle loro parole, ero in un limbo. Smisero di parlare quando dai nostri volti intuirono che io ormai sapevo tutto.
Silenzio.
Solo chiassoso silenzio.
“V…Voglio… ri…rimanere… da solo” proferii sorridendo. Perché io stessi sorridendo, proprio non lo sapevo; mi venne spontaneo.
Tutti mi guardarono sospettosi, il mio sorriso li aveva turbati “non credo sia il caso che tu rimanga da solo…” suggerì il Maestro Splinter. “Ma… io…lo… voglio” insistetti senza togliermi il sorriso dal volto, fu Leo ad intromettersi “il Sensei ha ragione Raph, non è saggio nelle tue condizioni…”.
Credo che il mio volto divenne spiritato, tipo bambola assassina o qualcosa del genere, sorridevo falsamente ma i miei occhi avrebbero saettato fulmini se avessi avuto quel potere. “In… Insisto” lo interruppi. Fu la mia ultima parola detta a denti stretti.
Sensei con un cenno della testa, diede il permesso a tutti di congedarsi, lui fu l’ultimo ad uscire dal laboratorio guardandomi con occhi sconfitti e segnati dal dolore; so che rimasero dietro alla porta ad origliare, non ero stupido, lo sapevo. Non averli lì davanti a me mentre crollavo come un castello di carte era una piccola soddisfazione, mi accontentai. Lasciai che le lacrime cadessero inesorabili, almeno quello mi era ancora concesso dal mio corpo.

 
Quando avevamo circa cinque anni, Michelangelo adottò un pesciolino rosso, divenne il suo migliore amico, se non ricordo male si chiamava Bobby. Che nome sciocco!
Nonostante sia nota a tutti l’infantilità di Mikey, con Bobby il mio fratellino cambiava atteggiamento, diventando più responsabile.
Una mattina come tante, Michelangelo si diresse dal suo pesciolino rosso per dargli il mangime, purtroppo con suo sgomento il pesciolino non era più nella boccia di vetro ma sul pavimento e chissà da quanto. Bobby aveva la mania di saltare oltre il filo dell’acqua; più volte avevo avvertito Mikey di coprire il vaso di vetro con qualcosa che facesse da coperchio, ovviamente ignorò il consiglio e le conseguenze furono fatali. Il mio ingenuo fratellino lo raccolse e lo rimise nell’acqua, Bobby era chiaramente morto. Ma non per lui! Michelangelo corse a chiamare me trascinandomi per un polso verso la boccia di vetro “Raphie, perché Bobby dorme a pancia all’aria?”.
La sorte aveva voluto che fossi proprio io a dare la cattiva notizia al mio fratellino “Mikey… Bobby… è morto”.
Michelangelo alzò un sopracciglio confuso “No Raph, Bobby sta dormendo. Ma lo fa a pancia in su!”, il volto innocente di quella peste era qualcosa che ti faceva sciogliere il cuore, rendeva la realtà ancora più dura. Gli misi una mano sulla spalla “Mikey, quando i pesciolini si mettono a pancia all’aria, significa che sono morti… Mi dispiace”.
“Quindi non giocherà più con me?”
“Temo di no” ero terribilmente mortificato, il mio otouto* realizzò, per la prima volta la sottile linea tra la vita e la morte.
Dopo quell’incidente, Michelangelo ebbe dei momenti di tristezza, scoprii solo grazie a mio fratello genio che quella tristezza si chiamava ‘lutto’; Mikey stava attraversando un momento di dolore.
Sempre il genio, mi spiegò che il dolore, come il lutto, ha delle fasi: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione.



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*fratello minore



Note dell’autrice:

Ecco un nuovo capitolo fresco fresco! Lo sono, sono stata cattiva nei confronti di Raph, non odiatemi vi prego, mi è simpatico, non ho nulla contro di lui! XD Piano piano sto cercando si sottolineare il mondo visto da una sola angolazione, spero il mio esperimento stia riuscendo bene.
Ringrazio infinitamente 
Made of Snow and Dreams, Ciarax e chi dedica qualche minuto del suo tempo per leggere la mia storia, non sapete che gioia immensa. Alla prossima.
Ciaooooooo!!

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Capitolo 3
*** Negazione ***


“Non posso crederci, non sta succedendo davvero”.
 

Questo mi ripetevo costantemente, vedermi bloccato, immobile e impotente mi stava facendo impazzire.
La cosa che più mi mandava fuori di testa era avere la consapevolezza che la mia condizione fosse irreversibile.
Come potevo accettare di rimanere paralizzato a vita, senza muovermi, senza respirare, mentre mi pisciavo e cagavo addosso? No, era un incubo spaventoso. Volevo svegliarmi a tutti i costi, ma ad ogni risveglio ero sempre in quel dannato letto.
Non volevo nessuno intorno a me, urlavo con la mia flebile voce contro tutti e più lo facevo più mi innervosivo. Volevo ruggire e ne usciva un patetico miagolio. Mi vergognavo. Dio se mi vergognavo.
Mi ero trasformato in un morto vivente. Non mi sono più guardato allo specchio da allora e non ho intenzione di farlo, ma lo vedevo bene che il mio corpo si era rimpicciolito, i miei meravigliosi e massicci muscoli non c’erano più, ero più magro di Donatello.
Ve lo immaginate? Io il più magro di tutti, ridicolo!
I primi giorni furono i peggiori, sia per me che per la mia famiglia. Prendere consapevolezza della realtà fu un duro colpo, abituarsi a quel costante fissare il vuoto a farsi toccare, rivoltare come un oggetto; il gesto più semplice era impossibile, anche solo voltare la testa o allungare la mano verso qualcosa. Potrei fare un miliardo di esempi, continuare all’infinito, ma non si comprende una situazione finché non la si vive di persona e io la stavo vivendo in un tempo che pareva un’eternità
Sapevo che i miei fratelli e mio padre soffrivano per me, che avevano convissuto col dolore di non rivedermi più, tutto quel tempo in coma non ha distrutto solo me, nel corpo e nello spirito, aveva distrutto anche loro. Lo potevo vedere nei loro occhi tristi che forzatamente sorridevano, nelle occhiaie, nei loro passi lenti senza energia, nel loro disordine. Era fin troppo evidente che ci stavamo inabissando in una situazione che non ci avrebbe permesso di tornare a galla.
Le mie speranze morirono nei loro occhi; occhi che non avevo il coraggio di guardare.
Per darmi un po’ di serenità decisero di spostarmi in camera mia. Non me lo chiesero fu così e basta, già mi trattavano come una nullità, come un invalido, un idiota. Non mi ribellai, volevo andar via dal laboratorio, l’enormità della stanza mi faceva sentire ancora più piccolo.
Seppur loro fossero costantemente con me, facevano turni per non lasciarmi solo, io mi sentivo escluso dalla loro vita, dall’idea di quotidianità che c’era una volta, mi ripetevo che era una conseguenza normale al fatto di non potermi muovere; eppure sentivo, nonostante loro mi fossero vicini, li sentivo lontani, distanti, distaccati. Probabilmente ero passato dall’essere il protettore, quello che guardava le spalle di tutti, più di Leo, a essere quello da proteggere.
Donatello costruì una barella per trasportarmi fino su nella mia camera, sentivo un enorme soggezione mentre vedevo i miei fratelli e mio padre lavorare per trascinare insieme a me anche i macchinari che mi tenevano in vita.
Tutto il percorso che mi separava dal laboratorio alla mia camera lo feci a occhi bassi, non osavo guardare nessuno di loro. Lo capirono e mi evitarono, fu Michelangelo, come sempre, che tentò di alleggerire la tensione con qualche frase sciocca, fu di grande aiuto anche se non lo dimostravo.
Una pugnalata al cuore mi trafisse, quando entrando vidi chiaramente che le mie cose non c’erano più, né la mia amaca, né la mia batteria, né la mia piccola palestra attrezzata nell’angolo. Furono lasciate solo cose che non ingombravano, i miei poster, le mie armi appese al muro, il mio stereo sulla mensola. Di grande furono lasciati solo l’armadio e la cassettiera. Ora al posto della mia amaca c’era un letto da degenza e tutti i macchinari attorno. Uno schifo!
Mi adagiarono sul letto trattandomi come fossi di cristallo, una porcellana che si sarebbe rotta con un soffio di vento.
“Le tue cose le abbiamo messe nelle nostre camere, magari con un po’ di organizzazione potremmo rimetterle al proprio posto” mi rassicurò Senzapaura come se mi avesse letto nella mente.
Non gli risposi.
Splinter fece cenno di uscire sia a Mikey che a Leo, entrambi i miei fratelli capirono e non se lo fecero ripetere due volte. Donatello armeggiò sul mio corpo sistemandomi gli odiosi fili e tubi, poi controllò scrupolosamente ogni macchinario che attorniava il mio letto. 
“Ok, Raph, abbiamo finito” disse premuroso Donatello poggiando una mano sulla mia gamba.
“Traslocare l’intera tana sarebbe stato più semplice e veloce” tentai una battuta amara.
Avrei voltato la testa dall’altra parte, no, mi sarei alzato e sarei scappato via sulla mia amata moto, questo era ciò che volevo fare.
“Lasciaci soli Donatello, ho bisogno di parlare con tuo fratello” prese parola Splinter. Donnie non rispose, annuì solo con un cenno della testa e andò fuori.
Mio padre mi si sedette di fianco come faceva tutti i giorni ormai da… da quanto? Non lo ricordavo.
“Non ci guardi più negli occhi, figlio. Vuoi parlarmi, vuoi dirmi qualcosa?”
Tacqui e naturalmente non lo guardavo. Percepivo il suo disagio, mio padre il grande maestro ninja che si sentiva a disagio con me, non sapeva cosa dire ovvio. Cosa poteva dirmi? Scommetto che non aveva nemmeno uno dei suoi famosi proverbi da enunciare che dessero un senso alla situazione.
Poi mi decisi a dire qualcosa “non è reale” dissi con fermezza.
“Come?” chiese lui discretamente.
“Tutto questo non è reale, non mi sta succedendo veramente, è impossibile! Vedrai che domattina mi sveglierò da questo incubo e sarò in ritardo per l’allenamento e tu mi punirai facendomi fare un’ora extra da solo o magari mi farai meditare…” sentivo le lacrime che mi pizzicavano gli angoli degli occhi “non è reale, non è reale, non è reale”, continuavo a dire insistente come un matto fuori controllo. Nella mia follia ebbi il coraggio, infine, di porgere lo sguardo a mio padre, appena incrociai i suoi occhi, arrestai la mia cantilena. ‘Ma che sta facendo?’ pensai. ‘Piange, ancora. Dov’è finito il mio forte e valoroso padre?’.
“Papà perché piangi?” chiesi, era raro che lo chiamassi così, forse erano anni che non lo facevo. Ci eravamo ormai abituati a chiamarlo Sensei o Maestro o Padre… così formali, che avevo dimenticato di come fosse bello pronunciare la parola ‘papà’.
“Raffaello, per quanto sia dura e spietata, questa è la realtà. Se potessi scambiarmi di posto con te lo farei figlio mio” singhiozzò ogni parola, era rotto, completamente rotto, povero vecchio ratto.
Fissammo entrambi il niente, il tempo si fermò, la realtà era una bastarda carogna. Spregevole, inaccettabile, disgustosa.
Non così.
Non potevo vivere così, non io, un ninja, un ribelle. Colui che sfogava la rabbia a suon di pugni, piuttosto che con le parole.
“Allora se questo è reale… papà ti prego… uccidimi!” lo avevo finalmente detto, dal primo giorno mi frullava questa idea per la testa e finalmente avevo avuto il coraggio di dirglielo, eravamo solo io e lui.
Mi avrebbe capito, ne ero certo.
“Figlio, cosa stai dicendo?” era esterrefatto, anche se ero certo che se lo aspettava, pensavo infatti che fosse pronto alla mia richiesta; purtroppo la sua reazione fu peggio di ciò che mi aspettavo “Raffaello non chiedermi questo, non posso… non posso figlio mio…” si allontanò dal mio letto voltandomi le spalle, sembrava volesse scappare da me, allontanarsi dal burattino dai fili spezzati che ero diventato.
Non lo capiva? Non lo voleva? Non lo accettava?
“Ma padre se non lo chiedo a te, a chi lo dovrei chiedere? Ti prego guardami!”, non si voltò. “Non voglio rimanere così, non ce la faccio più. Ti supplico” lo imploravo dal più profondo della mia anima.
Continuò a rimanere fermo e distante, stava respirando affannosamente fissando un punto nel vuoto, non riusciva proprio a guardarmi. So che gli stavo chiedendo tanto. Tutto.
Come un cappio al collo mi soffocò il silenzio, maledetto silenzio. Mi stavo abituando a quello, non mi ci sentivo più in imbarazzo.
Udii un sonoro sospiro che infranse quel concetto astratto senza suoni, il Sensei era pronto a rispondermi. In quell’istante riposi in lui tutte le mie speranze. Avrebbe acconsentito, lo avrebbe fatto per la mia felicità.
“NO!”, dichiarò con fermezza rigirandosi con uno scatto verso di me, “è fuori discussione Raffaello”. La mia illusione di felicità volò via come cenere al vento. “Tutti noi ti aiuteremo, Donatello sta già lavorando ad un modo per agevolare i tuoi spostamenti. Non provare a pensare più ad una cosa del genere. Sono stato chiaro?”. Splinter fu irremovibile, era furioso, un modo strano per nascondere la sua disperazione, ma del tutto comprensibile. Quelle parole mi fecero male, ma il suo atteggiamento, se non altro, fu un ritorno alla fermezza di un tempo, almeno quello lo apprezzai.
Mi zittii, più che supplicare non sapevo cosa fare, stranamente ero calmo, questo andava contro la mia natura, un ‘no’ per me sarebbe stato sfogato con un pugno sul muro e un ringhio animalesco, eppure ero lì quiete e arreso. Erano incomprensibili per me quei momenti di tregua, di calma.
Era solo la quiete prima della tempesta.
 

Fare il padre non deve essere semplice. Immagino che un figlio ti cambi totalmente la vita, qualsiasi tua azione è la conseguenza di una scelta atta a far star bene la tua creatura.
Per mio padre deve essere stato molto e ripeto, molto difficile. Immaginatevi di essere delle creature che all’improvviso vengono trasformate in qualcos’altro da una sostanza verde e appena dopo ti ritrovi quattro figli adottivi, che sono mutanti anche loro.
Doversi nascondere, cercare cibo, accudire i propri figli, proteggerli dal mondo…
Dai diciamoci la verità, io sarei impazzito!
Mio padre no, lui è forte, lui è il migliore, se siamo ciò che siamo lo dobbiamo solo a lui. Io spero solo di averlo reso fiero di me, almeno un po’.
 
……………………………………………………………………………………………
 
 

Note dell’autrice:

Ciao a tutti! Questo capitolo è un po’ più corto, in realtà non rispetterò molto la lunghezza, questa storia è nata come una one shot, che poi è diventata un multi capitolo, quindi il numero di parole varierà un pochino. Spero vi stia piacendo questa avventura, ci vediamo al prossimo capitolo.
Ciaoooooooooo!!

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Capitolo 4
*** Rabbia ***


“Non è giusto. Cos’ho fatto di male per meritarmi questo?”.

 
Era il pensiero che mi teneva sveglio la notte. Non sono mai stato cattivo, mi sono sempre pavoneggiato come tale, solo per non apparire debole, ma la cattiveria non è cosa mia. Allora perché meritare una simile punizione?

 
Era mattina, erano passati circa quattro mesi, o forse cinque, chissà. Non ci tenevo più a contare il tempo, ne avevo talmente tanto a disposizione, che era del tutto inutile contarlo. Farlo mi avrebbe solo ricordato la lunga agonia ed era solo l’inizio.
Donatello bussò alla mia porta “ehi Raph sono io, posso entrare?”
“Entra!” dissi seccato “è inutile che tu chieda il permesso, non mi troverai in una posizione diversa dall’ultima volta che mi hai visto, né mi vedrai andare su siti hot, né mi beccherai a sfogliare riviste con donne nude” la mia linguaccia era una lama.
Il mio povero fratello genietto era quello che meno di tutti si meritava di essere trattato male. Non so descrivere con quanta e quale dedizione si fosse dedicato a me. Mi curava, mi lavava, controllava i miei parametri vitali scrupolosamente e mi aveva costruito una speciale sedia che si muoveva con un mio comando mentale, sicuramente c’era di mezzo il prof Huneycutt.
Ad ogni modo, mi sono rifiutato di usarla, non volevo vivere solo l’ombra della vita che facevo, a quel punto preferivo stare chiuso in camera mia.
Donatello aveva già in mano una bacinella d’acqua calda, degli asciugamani e del sapone, faceva questo per me ogni giorno, alternandosi solo con Splinter; sapevano tutti quanto fosse difficile ed imbarazzante per me, perciò limitarono questa consuetudine solo a mio padre e mio fratello ’dottore’. Nessuno mi faceva pesare questa cosa, anzi Donatello cercava di mettermi a mio agio parlando del più e del meno, e notai che aveva la sua tattica quando arrivava alle mie parti intime, non mi guardava in faccia e continuava tranquillamente a conversare come nulla fosse.
La prima cosa di cui si occupava era controllare le macchine e qualsiasi cosa riguardasse la mia sopravvivenza, nutrivo la speranza che qualcuna di quelle si rompesse durante la notte, era l’unico momento in cui mi lasciavano solo, gliel’avevo quasi supplicato. Accettarono a patto che la porta rimanesse accostata e non totalmente chiusa. Mi tenevano sotto controllo sempre, anche quando mi illudevo di essere solo.
Mi rimanevano solo quelle, le illusioni.
“Hai dormito bene?” mi chiese gentile con un leggero sorriso stampato sul volto mentre controllava l’ossigeno.
“Devo proprio risponderti?!”il sarcasmo è sempre stato il mio segno distintivo, lo guardai con un cipiglio.
 Don ignorò il mio sguardo e mantenne il suo sorriso.
“Poco fa Michelangelo mi ha detto che ha intenzione di fare un ritratto di tutta la famiglia” eccolo che iniziava con le notizie del mattino in concomitanza con la mia pulizia. L’eloquenza l’avevo abbandonata da molto tempo, mi delimitavo a dargli brevi risposte.
“Molto interessante!” replicai inquieto.
Quella mattina mi ero svegliato di pessimo umore, non che nei giorni precedenti fosse migliore, ciò nonostante quella mattina era peggiore delle altre e Donnie fu una povera vittima del mio funesto carattere.
“Mikey è molto bravo nel disegno, io sono una frana. Al massimo disegno omini stilizzati, che mi vengono anche male” disse ridendo per quell’affermazione mentre mi lavava le braccia. “Leonardo stamattina ha preparato la colazione perché Mickey si è svegliato più tardi del solito. Ha bruciato tutto, persino il caffè, che ho dovuto rifare. Lo so che dovrei berne meno, ma è la mia carica, senza il caffè non riuscirei a fare tutto quello che faccio…” si bloccò per un istante aveva capito di aver fatto una gaffe, perché tutto quello che faceva, almeno la maggior parte delle cose era occuparsi di me, il che mi pesava tantissimo, mi faceva sentire terribilmente in colpa.

 
Innumerevoli volte il mio fratellino non ha dormito la notte per prendersi cura di noi, non se ne lamentava mai, non ce lo rinfacciava. Lui ha sempre dedicato tutto sé stesso alla nostra famiglia senza chiedere nulla in cambio. Che buono, il ragazzo più buono che esista al mondo.
Noi rompevamo le cose e lui le aggiustava, se volevi parlare con qualcuno che sapesse ascoltare senza giudicare sicuramente andavamo da lui. Mai che ti urlava dietro, mai una parola fuori luogo, mai un ‘no’.
Io posso vantarmi di avere un fratello così, è speciale. È il mio genio.

 
Continuò cambiando nuovamente discorso, si allontanò da me per rimmergere nuovamente il panno nell’acqua calda “Splinter mi ha detto di dirti che, se ti va, possiamo mettere una tv in camera, ne ho trovata una ieri durante il mio solito giro alla discarica, non ci metterò molto a ripararla. Potremmo metterla in quell’angolo” propose indicando l’angolo a sinistra di fronte a me. In realtà celava un accenno di entusiasmo, amava riparare le cose, in particolar modo se servivano a rendere felici noi.
“Fa come ti pare” quasi ringhiai, non era corretto da parte mia trattarlo così, lo so, ma era più forte di me. Non so spiegare cosa mi prese, era come se un po’ del vecchio Raffaello fosse tornato. La parte peggiore ovviamente.
Stavo per esplodere, lo sentivo. Avrei stretto i pugni, avrei ringhiato, avrei… fatto tante cose.
Donatello decise di rimanere in silenzio per il resto del tempo, capì il mio stato d’animo ed evitò di proferire parola, il suo cuore buono sopportava ogni mio capriccio, ogni mio tentativo di attaccare briga senza un motivo apparente, e se un motivo ci fosse stato, non era di sicuro Don.
Era evidente che ci rimase male, se avesse avuto il mio carattere avrebbe già buttato all’aria tutto e sarebbe uscito sbattendo la porta, invece rimase a subire i miei modi sgarbati. Speravo arrivasse qualcuno a salvare la situazione, a distrarre mio fratello genio per far scemare quel silenzio che io mi ero impegnato a creare.
Non arrivò nessuno.
Donnie pulì la mia pelle con estrema calma, era delicato tuttavia preciso; ripeteva meccanicamente tutti i gesti, si caricava di una pazienza che neanche il Sensei possedeva. Mi sollevò piano dal cuscino per detergermi anche il guscio, non faceva più fatica come una volta, di pesante mi erano rimasti solo il carapace e le ossa.
Rimettendomi giù evitò di incrociare i miei occhi, all’ennesimo gesto ripetitivo lo sentii borbottare, aveva ripreso la bottiglia del sapone, che era arrivata alle sue ultime gocce; sbatteva il lato del tappo sull’altra mano tentando di farne uscire ancora un po’ “Dai, su!” parlava alla bottiglia, la premette ma ancora nulla, era diventata una questione personale e ricominciò la stessa manovra fino a che un gocciolone schizzò inaspettatamente in direzione della mia faccia e mi finì in un occhio.

 
Nella mia vita ho spesso sentito frasi tipo queste: “la continuazione della rabbia è odio, la continuazione dell'odio diventa cattiveria”; oppure “la rabbia è quella sensazione che fa in modo che la tua bocca lavori più veloce della tua mente”; ed anche “tu non verrai punito per la tua rabbia, tu verrai punito dalla tua rabbia”.
Il mio peccato capitale era l’ira. Che come il fuoco, bruciava tutto intorno a sé, incurante di chi o cosa travolgesse… era un modo di celare il sentimento che più temevo di mostrare: la paura.
Vi ricordate quando vi ho accennato alla ‘quiete prima della tempesta’? Ebbene quel momento fu la tempesta.

 
In una breve frazione di secondi sentivo l’occhio che mi bruciava, non era nulla. A chi non è mai capitato che entrasse del sapone negli occhi?
Con una violenza che non dimostravo da mesi, con le briciole di forza che accompagnavano il mio inutile corpo, urlai con tutta la potenza che avevo, tutta la rabbia, la frustrazione, l’impotenza, la disperazione vennero fuori.
Non ebbi pietà. “Che cazzo fai miserabile idiota? Sei uno stupido Donatello. Un inetto! Ti odio. Mi hai sentito? Ti odio!”.
Il mio fratellino rimase impietrito dalle mie parole, tremava, piangeva, era distrutto. Solo il ricordo fa male, brucia come un’ustione appena inflitta, non mi passerà mai il rimorso per ciò che gli avevo detto, per come mi ero comportato.
“Vuoi vendicarti? Puoi farlo, taglia questo tubo che ho in gola. Uccidimi che aspetti, so che mi odi, so che vuoi farlo. Su brutto stronzo, infilzami, avvelenami, soffocami ma ti prego uccidimi!!”.
La porta si spalancò ed entrarono per primo il Maestro Splinter che si gettò su di me spaventato, come se fossi io la vittima. Si sbagliava. “Che cosa succede qui?” strepitò terrorizzato dalle urla voltandosi verso Donatello che in stato di shock non riuscì a rispondere.
Pochi secondi dopo arrivarono Michelangelo e Leonardo che guardarono tutta la situazione completamente confusi; il maestro Splinter scosse per le spalle il genio, un gesto invano per risvegliarlo dalla sua trance.
“Padre, sta succedendo qualcosa a Raph!” informò Michelangelo con gli occhi lucidi forse dallo spavento o da un principio di pianto, non lo so. Quel che so è che mi sentii strano, i suoni si fecero ovattati e la vista offuscata.
Qualcuno si precipitò dinanzi a me, però non distinguevo chi tra loro fosse.
Suoni agitati e confusi mi rimbombavano nella testa, il mondo iniziò a girare in un vortice di colori fino al momento in cui si mischiarono tra loro e lasciarono posto all’unico colore che simboleggiava la mia vita: il nero.

 
Lo avrete già capito immagino, stavo disperatamente cercando di morire. Se non potevo più scegliere come vivere la mia vita, avevo almeno il diritto di scegliere come morire?
Ero consapevole della mia decisione, non era un capriccio o un momento di follia; sicuramente all’inizio fu così, fu una scelta istintiva. Poi tutto il tempo passato a fissare il soffitto mi diede modo di riflettere con più consapevolezza e razionalità, il che era raro per me, non impossibile. In fondo, non sarò riflessivo come Donnie, o sentimentale come Mikey o attento come Leo… tuttavia anch’io mi soffermo a riflettere, certamente molto più di prima.


.......................................................................................................

Note dell'autrice:

Ciaoooooooo!!!!
Ecco questo è un capitolo che mi ha fatto un po' male (tralasciando la mia cattiveria su Raffaello), sarà che adoro Donnie e non si meritava tanta rabbia da parte di Raph, ma possiamo veramente biasimare la tartaruga in rosso? E voi?
Ringrazio e strapazzo con un abbraccio 
Made of Snow and Dreams e Ciarax <3
Ci vediamo domani col prossimo capitolo!

elenatmnt


 

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Capitolo 5
*** Patteggiamento ***


“Superare questo momento mi renderà più forte”.

 
Mi svegliai totalmente stordito, certo era meglio continuare a dormire.
Sentivo una mano non molto calda stringere la mia, mio fratello Leonardo Senzapaura era seduto su uno sgabello alla mia destra, mi stava guardando con occhi tristi, stanchi. Da quanto tempo dormivo? E soprattutto perché mi ero risvegliato?
“Raffaello… su svegliati fratello” mi chiamava accarezzandomi il viso. Mio fratello, il guerriero, il mio rivale in leadership che mi accarezzava come quando eravamo bambini. Si, la mia vita era decisamente cambiata.
“Leo… cosa… è successo? La mia voce…” sembrava la voce di un anziano, bassa e rauca. Anche quella mi era stata portata via, cos’altro la vita poteva togliermi? Quanto ancora sarebbe durata?
“Hai dato di matto e il tuo corpo non ha retto lo stress. In breve, ti sei fatto un pisolino lungo un giorno intero”, Leonardo spiegò senza giri di parole, fu diretto. Lo conosco bene, ha fatto ciò che io avrei voluto, poi continuò “vado ad avvisare gli altri che ti sei svegliato”; stava per andarsene ma lo fermai, non volevo gente intorno, la verità era che non volevo affrontare Donatello.
“Aspetta Leo… non andare” gli chiesi riprendendo contatto con la realtà. Se lo conoscevo bene, credo proprio che comprese ciò che stavo provando e la sua frase successiva me lo confermò.
“Raph… So che ti sei arrabbiato con Donnie per una sciocchezza e so che gli hai chiesto di…”.
Si ammutolì immediatamente, gli richiedeva un grosso sforzo pronunciare la parola ‘uccidere’. Non tolse mai i suoi occhi blu dai miei, il suo sguardo era indecifrabile per me, non lasciava trapelare alcun sentimento.
Se fossi stato il vecchio Raffaello mi avrebbe già urlato contro rimproverandomi per il mio comportamento, io avrei sbraitato di rimando e sarebbe finita in una lite con conseguente scazzottata sul pavimento. Non fu ovviamente così, anche se mi sarebbe piaciuto.
Leonardo era molto, molto stanco, sembrava invecchiato, più adulto. Cosa stava gli stava succedendo?
“Raphie…” sospirò con l’aria di chi stava per annegare nel mare delle proprie insicurezze. Stava per farmi la predica, certamente non sarei stato zitto, per quanto mi sentissi uno schifo ero pronto a controbattere, non avrei tollerato ramanzine, lavate di testa o discorsi sull’accettazione. Basta!
Trovò la forza di continuare “Raph… hai chiesto a Don di ucciderti?”.
Finalmente, ce ne aveva messo di tempo per arrivare al punto della questione, le titubanze mi snervavano, ero pronto ad affrontarlo.
“Si gliel’ho chiesto”, non la tirai per le lunghe come stava facendo lui, la mia era una richiesta legittima, anche se con Don, non era stata una vera e propria richiesta, lo avevo insultato, ferito, umiliato. Il rimorso mi circolava nelle vene, un senso di colpa e vergogna invadeva la mia anima. Giuro che non avrei voluto trattarlo in quel modo. Anche da storpio riuscivo ad essere una macchina distruttiva.
“Ti rendi conto della gravità di quello che hai fatto? Chiedere a Donatello una cosa simile?”, mi rimproverava con un senso di pena e frustrazione nelle parole. Il suo atteggiamento mi fece irritare soltanto e non tardai a comportarmi nuovamente da stupido.
“Me ne rendo perfettamente conto. Quindi? Cosa c’è, vuoi forse farlo tu?” lo provocai a denti stretti anche con la voce gracchiante, volevo farmi valere, non sarebbe stato un letto a fermarmi. Avrei usato tutto ciò che mi rimaneva per fargli capire che mi dovevano trattare come un ragazzo e non come un malato.
“Sai bene che non lo farò” confermò trattenendosi dall’esplodere.
“Perché sei un codardo, non hai coraggio” sibilai nel modo in cui farebbe un serpente. Provocare. Questa era una delle cose che mi riusciva meglio, se non avrei stimolato la loro pietà, allora avrei stimolato la loro rabbia. Mia nemica, mia amica.
A quel punto Leo lasciò la mia mano e si irrigidì fissandomi seccato per il modo poco gentile. Come sempre ero io quello che creava le liti.
Leonardo fece ciò che non mi aspettavo facesse, per loro ero diventato di cristallo e come tale mi trattavano; la mia tattica funzionò più in fretta del previsto, almeno in parte. Si alzò in piedi e mi rispose a tono.
Non ci crederete, fu bellissimo, davvero! Mio fratello mi stava regalando un momento di normalità; non mi avrebbe sferrato un pugno, ma avremmo combattuto con le parole. Mi piaceva!
“Non ti permetto di parlarmi così. Stai esagerando, Raph” si stava innervosendo, era sul punto di cedere.
“Io esagero? E voi? Mi state negando la possibilità di scegliere, la vita è mia e decido io quando finisce. Mi ucciderei da solo se potessi. Maledizione, ho bisogno di voi. Perché non lo capite?” il macchinario cardiaco risuonava la sua stupida melodia, non abbastanza da far cedere il mio cuore.
“Rimandiamo questa conversazione ad un altro momento, non voglio vederti svenire di nuovo” affermò lui solenne.
“No Leo, parliamo. Sono stufo di essere considerato un pupazzo. Io sono un ninja!” latrai come un cane pronto ad azzannare la gola.
 “Sei un incosciente come al solito Raffaello!” perse la calma, aveva ceduto. “Mettiti nei panni di tuo fratello minore. Gli hai chiesto di ucciderti, come avrebbe dovuto reagire? Sono due giorni che non dorme è sconvolto!” alzò la voce.
“Secondo te io come mi sento?” la discussione stava prendendo una piega intensa ed incandescente.
“Accidenti Raffaello! Non posso capire come ti senti, certo che no, posso solo immaginarlo! Viviamo la situazione da un altro punto di vista, credi che sia facile per noi? Credi che usciti fuori da quella porta noi facciamo festa? La nostra famiglia si sta sgretolando e tu pensi solo ad autocommiserarti. Donatello è l’ombra di sé stesso, il maestro Splinter piange tutto il giorno nella sua stanza, Michelangelo sgattaiola fuori tutte le sere e non ho idea di dove diavolo vada a cacciarsi, so solo che quando torna è sempre più pieno di lividi che tenta di nascondere in modo patetico e io cerco di tenere le redini di tutto, mentre sento che le corde mi scivolano dalle mani!”
 

Vorrei dirvi che mio fratello rimase fiero al suo posto come un nobile guerriero, vorrei dirvi che non diede un pugno al muro quasi a rompersi il polso, vorrei dirvi che non si inginocchiò su di me piangendo sul mio ventre bagnando di lacrime e saliva la coperta che mi avvolgeva, e che non singhiozzava in modo bambinesco sembrando un povero ragazzo spaventato. Vorrei dirvelo, giuro, ma mentirei.
 

Vedere il mio fratellone ridotto in quello stato fu straziante, mi lacerò il cuore in mille pezzi, tanto che fece piangere pure me, le lacrime traditrici mi rigavano la faccia e non potevo passarmi la mano per asciugarle. Sinceramente non me ne fregava niente, mi importava solo di Leonardo.
Non mi azzardavo nemmeno ad immaginare cosa lui provasse nel vedere me ridotto quasi ad un vegetale e farsi anche carico di tutti il resto della famiglia. Povero fratello mio, cresciuto in fretta, obbligato a diventare grande prima del tempo, quante responsabilità pesavano sul suo guscio e io mi ci mettevo con il mio egoismo.
“Scusami… Leo…” mormorai.
Mi sentì ma non si mosse, i suoi gemiti si spensero con il passare dei minuti, non lo pressai, lo lasciai sfogare per tutto il tempo di cui necessitava.
Aveva bisogno di me.
Conoscendolo avrà interpretato il ruolo dell’eroe Senzapaura per tutto il tempo, senza potersi sfogare con nessuno. In fin dei conti, per quanto fossimo stati rivali, non eravamo poi tanto diversi, penso che noi due siamo stati i più legati tra noi fratelli. Un rapporto di amore e odio, amico e nemico ma c’eravamo sempre l’uno per l’altro tenendoci d’occhio da lontano. Ci siamo sempre capiti, le due facce della stessa medaglia. Siamo fratelli.
“Leo… voglio provare…” non potevo credere alle mie stesse parole.
“Cosa?” lui mi guardò incuriosito asciugandosi le lacrime, la sua maschera era diventata blu scuro tanto era bagnata.
“Voglio uscire fuori da questa stanza. Voglio provare a vivere e tornare a stare con la mia famiglia” lo stavo facendo per loro, non per me. Se la mia famiglia si stava sgretolando io dovevo tentare di porvi rimedio, in fondo ero io il colpevole di tutta quella situazione, era mia responsabilità tentare di fare qualcosa, qualsiasi cosa.
In quel momento, Leo mi abbracciò infilando la testa nell’incavo del mio collo, esattamente come fanno i bambini piccoli, come se quello spazio che separa la testa dalla spalla fosse un posticino segreto dove nessuno lo avrebbe visto. Poteva annegare in quell’angusto spazio tutti i segreti della sua anima, tutto il peso della responsabilità. Alle volte l’illusione è una dolce culla, dove puoi tornare ad essere bambino, a fantasticare, a perderti nell’immaginazione.
Leonardo è il fratello maggiore, il perno per noi fratelli, la colonna di marmo irremovibile, fiero ed eretto come un colosso; molto onorevole da parte sua, certo, ma in fin dei conti Leo era pur sempre solo un ragazzo e io glielo ricordavo tante volte, ecco perché con me poteva permettersi di comportarsi da minore qualche volta, con nostro padre non lo faceva, temeva di perdere quel ‘senso di maturità’ che con fatica si era guadagnato.
“Sono felice che tu abbia preso questa decisione” alzò la testa per guardarmi negli occhi con tanta speranza.
Io non dissi nulla, un sorriso poteva bastare.
 

Combattere mi è sempre piaciuto. Che lo si facesse per una scazzottata dopo che Michelangelo mi lanciava palloncini d’acqua o che mi sfogassi contro il sacco da box o che lo si facesse contro i nostri nemici durante le buie notti newyorchesi a me non importava. La cosa principale era dar sfogo al mio talento di ninja, al mio spirito guerriero, al mio furore.
Avvertire l’adrenalina che ti circola nel corpo, il fiato affannato, il sudore che ti cola dalla fronte, erano tutti piccoli dettagli, sfoghi del mio corpo che enunciava un’inebriante sensazione di potere: amavo il potere.
Questa mia caratteristica mi ha portato più volte ad essere eccessivamente violento e potrete immaginare le conseguenze; diventavo come un toro, vedevo tutto rosso.
Il rosso.
È il mio colore preferito, un colore che la dice lunga su di me, non c’è mai stato colore più azzeccato. Al rosso si associa la rabbia, il fuoco, il potere, la passione… tutte cose che mi rappresentano.
La mia maschera rossa… mi manca… ma non voglio indossarla più; è un simbolo, il simbolo di un ninja.
Ora chi sono? Cosa sono? No, la maschera rossa è il simbolo di una vita che è stata e mai più sarà.


.....................................................................................


Note dell'autrice:

Hello to everyone!!

Sembra che il fratello con cui litiga più spesso, sia riuscito inconsciamente a convincerlo a non buttarsi giù, a provare. Raffaello riuscirà veramente a venire a patti con sé stesso e con la sua famiglia? Venite a scoprirlo!
Ciaooooooooooooooooo!
elenatmnt
 

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Capitolo 6
*** Depressione ***


“La mia vita è un inferno. Non c’è via d’uscita”.

 
Passò qualche tempo dalla discussione che ebbi con Leonardo, fuori era estate ormai, anche se nella nostra casa non c’era differenza tra le stagioni, essendo sottoterra non ci badavo.
Come avevo promesso uscii dalla mia camera, non era semplice traferirmi dal letto alla sedia, richiedeva il lavoro di tutti e tre i miei fratelli, ognuno con un compito ben preciso impartito da Donnie; trascorrevo la maggior parte del tempo tra il salotto e la cucina.
Mi riconciliai con Donatello, rendendomi conto che non mi aveva mai portato rancore, continuò a occuparsi di me senza farmelo pesare, inoltre costruì molte rampe per muovermi in casa e un piccolo ascensore, tipo montacarichi che portava dal piano terra fino su in camera mia. Ammetto che avevano fatto un gran bel lavoro. Mi meritavo tutte le loro attenzioni?
Non mi lasciavano mai solo, per quanto io insistessi nel dirgli che me la cavavo bene e che potevano continuare a vivere la loro vita normalmente, mi ignoravano. Irritante!
I ragazzi non uscivano mai in tre, uscivano in coppia in modo tale che uno di loro rimanesse con me. Solitamente Michelangelo mi leggeva fumetti o guardavamo un film insieme, film che naturalmente sceglieva lui, mettersi contro era come tentare di farsi spuntare le ali. Donatello era il peggiore, dovevo subirmi lezioni di biologia e di chimica mentre aggiustava qualcosa o faceva uno dei suoi esperimenti, tuttavia quando se ne rendeva conto, cambiava argomento e parlava di moto, conoscendo la mia passione per quei veicoli a due ruote. Con Leonardo, stranamente era più piacevole, alle volte lo osservavo mentre si allenava e gli davo consigli, altre volte conversavamo parlando di noi stessi, dei nostri sogni, delle nostre paure. Possiamo dire che ci siamo conosciuti meglio, guardavo Leonardo con occhi diversi, il cavaliere Senzapaura era molto più simile a me di quanto immaginassi. Mio padre non usciva quasi mai, come al solito preferiva ritirarsi a meditare o mi costringeva a guardare con lui quelle assurde soap opera. Ve lo immaginate? Mio padre, il più grande guerriero ninja di tutti i tempi che non si perdeva una puntata di “una mamma per amica”. Assurdo ma vero!
Rispetto alla situazione che mi aveva descritto Leo, sembrava che da quando mi ero riunito a loro nella vita quotidiana, tutti stessero meglio; tutti tranne me.
La mia recita funzionava bene, non avevo ben chiaro però per quanto avrei retto. Vedevo loro felici, si potevano muovere, correre, saltare; ogni immagine, ogni azione, ogni sensazione la volevo vivere a pieno. Non mi accontentavo di guardare, vedevo la mia vita scorrere via, ero lo spettatore di me stesso.
 
Quella sera era il turno di Michelangelo, sarebbe rimasto con me a fare qualcosa. Indovinate cosa? Film!
“Mikey ti ripeto per l’ennesima volta che se vuoi andare con i ragazzi per me è ok!” gli ribadii.
“E perdermi una meravigliosa serata cinema?” sprizzava entusiasmo per poco, lui è sempre stato così. Il raggio di sole di casa, colui che trovava gioia nelle piccole cose belle della vita.
“Non insisto, tanto so già come va a finire. Cosa mi proponi stasera? Non tollererò un’altra storia sdolcinata, possiamo vedere almeno qualcosa d’azione?” lo pregai.
“Eccome fratello: Big Hero 6!” proclamò felice della scelta.
“Mikey è un cartone animato, poi lo abbiamo visto un milione di volte” dissi stufo.
“Si, ma un cartone d’azione. Sono supereroi, non ci si stanca di questo film!” finita quella frase andò in uno status di contemplazione dell’ignoto e tornò sulla Terra dopo trenta secondi “ci sono!” esultò, stava per arrivare una cavolata fresca fresca. “Posso chiedere a Donatello di costruirmi un Baymax tutto mio, sono un genio!” si stava riferendo al protagonista del film, un robot infermiere che diventava un supereroe.
“Metti il DVD Mikey” tagliai corto.
Il mio pestifero fratello con un salto fu davanti al lettore DVD, inserì il disco ed ebbe inizio la nostra ‘solita’ serata cinema.

 
Sacrificio. A mio parere in quella pellicola si cela questa morale, molto profonda per essere un semplice cartone animato. Quello che colpisce al cuore è proprio la capacità di arrivare consapevolmente alla rinuncia della propria vita per salvare quella di qualcun altro.
Io credo che il sacrificio sia la prova del vero amore. Sì, che senza misurare gli sforzi, desidera, prima di tutto, il bene della persona amata. D’altra parte, l’amore è la forza misteriosa che sostiene ogni sacrificio.
Sto parlando veramente di amore?
Amore.
Che cos’è l’amore?
 

Il film durò circa un paio d’ore; in realtà, lo guardò solo Mikey, io ero lì col corpo, ma la mia mente viaggiava in un mondo etereo, di momento in momento ogni scusa era buona per divagare in un passato che non poteva più essere vissuto, per un futuro che non ci sarebbe mai stato. Che futuro mi attendeva? Noi saremmo cresciuti, ognuno avrebbe preso la propria strada, il maestro Splinter sarebbe invecchiato, io non volevo diventare un impedimento per il loro futuro, la zavorra che li teneva ancorati a terra mentre loro desideravano librarsi in aria e volare per inseguire i propri sogni.
“Raph?!” il mio fratellino mi chiamò e mi svegliai dalla mia trace. I titoli di coda scorrevano sullo schermo e io del film non vidi proprio nulla.
“Che c’è Mikey?” domandai, probabilmente stava solo accertandosi che io non mi fossi addormentato del tutto, ma non era quella la ragione.
“Raphie… tu… desideri ancora morire?”.
Mi colpì un fulmine a ciel sereno.
Lo sapeva? Glielo avevano detto? Anche il mio piccolo fratellino sapeva di questo? Perché gliel’avevano detto? Un’infinità di domande in un solo istante si insinuarono nella mia testa. Mi vergognavo già abbastanza di me stesso solo per il fatto di essere ridotto in quelle miserabili condizioni, che il mio fratellino sapesse della mia brama di morte era molto più di ciò che io potessi sopportare.
“Michelangelo… io…” la mia voce era un soffio di vento, dirgli come la pensavo faceva male, perché dovevo vergognarmi dei miei desideri?
“Non mi devi spiegazioni Raph, lo capisco bene. Al tuo posto io avrei voluto lo stesso” disse lui facendosi serio in volto, tuttavia sereno.
“Mi dispiace Mikey… io non ce la faccio più…” le mie parole erano arrendevoli, uscivano dalla bocca da sole, ero come avvolto dall’esigenza di sfogarmi, di far sapere che non mi era mai passata e che volevo morire ad ogni costo.
Egoista? Si lo ero, perché smettere di soffrire doveva essere considerato un gesto di egoismo?
Quello che avvenne dopo fu a dir poco incredibile; ai miei occhi il mio fratellino divenne il più grande di tutti, più maturo del nostro stesso padre.
“Ti aiuto io. Se vuoi ancora morire, sappi che ti aiuterò”, quello non poteva essere il mio piccolo e innocente fratello, quello che da bambino frignava per niente, quello più coccolato, quello ingenuo. No non era lui.
Davvero voleva aiutarmi? Lo desideravo ma non potevo permetterglielo, se lo avesse fatto sarebbe stato odiato da tutti, temevo le conseguenze che avrebbe affrontato.
“Michelangelo io non posso accettare…” confessai con tutto il dolore nel mio cuore.
“Perché? Non vuoi più?” il suo tono sembrava un rimprovero, forse era offeso. Non che volesse la mia morte, certo che no, aveva capito che mi stavo preoccupando per lui, che in modo indiretto tentavo ancora di proteggerlo.
“Ovvio che sì! Sto impazzendo nel fingere che tutto sia ok, a regalare falsi sorrisi. Mi manca il vento sulla faccia, mi manca allenarmi con voi, combattere, abbuffarmi di pizza fino a scoppiare, correre tra i tetti di questa città, correre in vostro aiuto per salvarvi da qualche sciocca situazione, addormentarmi sul tatami dopo duro allenamento. Maledizione Mikey, io sono un ninja non voglio più vivere in questo modo. Non posso… non posso più…” cedetti alle lacrime e ai singhiozzi, tutti i sentimenti negativi vennero a galla, tutta la frustrazione e la miseria della mia condizione che avevo in tutti i modi cercato di reprimere.
“Allora lascia che ti aiuti fratello” si ruppe. Dai suoi occhi uscivano fiumi di lacrime, il suo era un atto coraggioso, da vero supereroe.
Il mio supereroe.
“Lo farò fratello, non mi importa delle conseguenze. Voglio solo la tua felicità” spiegò tra le lacrime.
Io sono più grande di lui, avrei dovuto proteggerlo, accudirlo, insegnargli tutto ciò che sapevo, invece fu lui a diventare più grande di me, si stava… sacrificando per me.
Il sottofondo musicale dei titoli di coda attenuò la tensione che si aggirava tra noi, quella era la mia unica possibilità, anche se il senso di colpa mi stava assalendo, volevo con tutto il cuore dirgli di sì, era sulla punta delle mie labbra.
Lui si alzò e mi si inginocchiò davanti, mi rispecchiai nei suoi immensi occhi celesti che mostravano comprensione e forza “è tutto apposto Raph, posso farlo se lo vuoi”, mise la sua mano sulla mia.
Cedetti. “Fallo Mikey, ora”.
Me ne sarei andato come un ladro lasciando tutta la colpa al mio fratellino, ero un vigliacco, un egoista, la disperazione manovrava le mie scelte, scelte che non potevo prendere più in modo autonomo.
Quella era la mia unica occasione di farla finita.
“Ti voglio bene Raph” disse lui trattenendo la disperata voglia di piangere ancora, aveva gli occhi rossi e ricolmi di lacrime, combatté tutto il tempo per trattenerle e dimostrarmi quanto fosse coraggioso.
“Anche io Mikey” il mio fu un mormorio leggero, la mia lotta era la medesima di mio fratello.
Non attese oltre, fece un respiro profondo e mi staccò il tubo che avevo in gola, non potevo più respirare. Pochi istanti, forse pochi minuti sarei morto guardando mio fratello che si piegò all’inevitabile pianto.
Quiete.
Occhi celesti.
Sorriso.
E poi, il caos.
Un fragore agghiacciante echeggiò in tutta la stanza, ero ancora cosciente per sentirlo, era la voce di mio padre che invocava il mio nome “RAFFAELLO!”.
Non potevo vederlo, ero di spalle rispetto alla sua posizione, tuttavia non ci volle molto e in un baleno fu davanti a me.
Era nel panico, urlava, piangeva, mi chiamava. Lo vidi mentre riprese il tubo e lo rimise al suo posto, sentii l’aria riempirmi nuovamente i polmoni, mi aveva riportato indietro. Perché?
Mi fissava con aria distrutta, era un padre che stava per perdere un figlio, era troppo difficile per lui lasciarmi andare. Qualcuno lo tirò via da me e mi ritrovai dinanzi Donatello, anche lui mi chiamava. Quando era arrivato? Intravidi Leonardo dietro di lui e Michelangelo sconvolto in un angolino che si nascondeva come un peccatore. Tutto era sconnesso, faticavo a razionalizzare la situazione, non mi usciva nemmeno una parola.
Avevo quasi raggiunto la libertà, solo qualche istante in più e sarebbe finita, il destino si era scagliato violento e ingiusto contro di me.
“Raph… Raffaello mi senti? Ci sei fratello?” ora lo sentivo, i suoni si fecero più nitidi e ogni cosa era più chiara.
Non risposi.
Lui continuò da buon dottore di casa ad occuparsi della mia incolumità, mi rivoltava come un calzino, ma i miei occhi erano puntati altrove, non avevo attenzione che per Michelangelo.
“Che cosa è successo?” fu Leonardo a domandare guardando in direzione del Sensei e di Mikey, io avevo il posto in prima fila di quello che sarebbe stata la causa del mio declino finale.
 

Quando un vaso si rompe, puoi provare a rimettere assieme i pezzi, ma non sarà più lo stesso; continuerà ad essere rotto.
Siamo tutti un po’ dei vasi. Oddio non è il miglior paragone che io abbia mai fatto, ciononostante riflettendoci è una metafora perfetta: sono caduto e mi sono rotto, frantumato in mille pezzi. Non sono morto sono ancora vivo, ma non sono più come prima e per quanto la mia famiglia si ostini a ricomporre i miei pezzi io sono pieno di piegature.
Loro non sono diversi, la loro rottura è mentale, hanno tentato in tutti i modi di risanare lo squarcio che ci ha colpiti tutti, io stesso ci ho provato… solo ora mi accorgo che è stato uno dei più grandi errori della mia vita.
Ho illuso, mi sono illuso… ho rotto l’ultimo vaso.
 

“Allora? Ho chiesto cosa è successo?!” ripeté nervoso Leonardo.
Come un bambino che aveva rubato le caramelle Michelangelo fece un passo avanti a testa bassa, le sue lacrime colpivano il pavimento “sono stato io…”.
Credo non esista alcuna parola sul vocabolario che posse descrivere le facce dei presenti, dire sconvolti sarebbe esiguo.
“Mikey… come hai potuto?” dalle parole di Donatello trapelava puro odio.
Il mio fratellino, il mio piccolo Michelangelo esplose “Io?! Voi come potete?! Raffaello vi ha chiesto aiuto e voi lo avete ignorato. Non vedete che vi sta implorando, non vedete che soffre, non vedete che non ce la fa più?”.
“Basta Michelangelo!” fu l’ordine severo di mio padre.
“No maestro! Questa è un’ingiustizia, che razza di famiglia siamo…” fu interrotto una seconda volta.
“Ho detto taci!” questa volta il tono era una minaccia.
“Non posso più tacere, se voi non volete aiutare Raffaello lo farò io…”.
“Stai zitto!” furono le ultime due parole che lasciarono spazio ad azioni a dir poco onorevoli per il mio maestro, avrebbe portato il peso della vergogna a vita.
Una rabbia che conoscevo bene insinuò le sue radici come l’erba gramigna nell’animo onesto di mio padre; mai avrei pensato la rivoltasse contro di noi, mai avrei pensato la scagliasse contro Michelangelo.
Gettò il suo pugno sul volto lentigginoso del mio fratellino dagli occhi celesti.
Sgomento, nient’altro che sgomento e paura; mio padre aveva realmente colpito Michelangelo.
Tale al suono di un ruggito era il respiro di mio padre che a occhi sgranati e spiritati guardava suo figlio più piccolo riverso sul pavimento che si teneva il volto tra le mani, rannicchiato a pallina nel tentativo di ripararsi da un secondo attacco.
Donatello e Leonardo non sapevano come comportarsi, si lanciarono delle occhiate incerte e sconvolte, se Splinter avesse continuato sicuramente sarebbero intervenuti.
Dopo quella che sembrò un’eternità, il ruggito del leone lasciò posto ad una voce vecchia e stanca “Donatello, Leonardo. Portate Raffaello in camera sua, non perdetelo di vista”.
Sensei andò via lentamente trascinandosi il peso delle sue azioni, io fissavo Mikey, tremava come una foglia. Donatello fece per avvicinarlo ma Michelangelo lo scacciò via sventolando le mani, dimostrando la sua fragilità, la sua paura, la sua delusione. Non alzò neanche lo sguardo, a mostrare il suo volto tumefatto e sanguinante che dipingeva di color cremisi il pavimento. Leo tirò via Don, il leader sentiva che era meglio lasciargli il suo tempo, il suo spazio.
Ciò che era accaduto li avrebbe segnati tutta la vita ed era colpa mia, ancora una volta tutta colpa mia.
Tutto in nome della libertà.
Fu forse lo shock, o un’insana voglia di ribellione, una protesta, un modo per essere ascoltato o semplicemente la voglia impellente di lasciarmi andare, non so… so solo che da quella sera non parlai più.

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Note dell’autrice:

Ciao a tutti!
In questo capitolo ho fatto una citazione al film “Big Hero 6” della Disney, che naturalmente non possiedo. Questo capitolo è un po’ più lungo degli altri, ne avevo da raccontare e non potevo proprio mettere un freno!
Grazie mille sempre a Made of Snow and Dreams, Ciarax e tutti coloro che stanno leggendo con pazienza questa storia.
Ciaoooooo!!!

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Capitolo 7
*** Accettazione ***


“È andata così, è ora di voltare pagina”.

 
Passarono ancora mesi e ritornò l’inverno, il freddo, il ghiaccio. Maledetto ghiaccio.
Era passato più di un anno dal mio incidente, precisamente dodici mesi e dieci giorni. Alla fine l’ho contato, ho contato il tempo, avevo tanto di quel niente da fare che iniziai a fare cose stupide; oddio stupide un accidente. Sono quelle piccole cose che capitano tutti i giorni davanti ai nostri occhi alle quali non badiamo, eppure sono proprio lì.
Contavo il tempo che passava, osservavo una ragnatela nell’angolo in alto a destra che ogni giorno diventava più grande; indovinavo chi aveva cucinato e cosa solo dall’odore che arrivava fin su in camera. Al mattino presto si potevano percepire i rumori della superficie, una crepa sul muro diventava sempre più lunga quasi a toccare il pavimento…
Inutile dire che dal giorno della mia quasi morte, la situazione peggiorò per tutti, e con peggio intendo, beh peggio!
Donatello continuava ad occuparsi di me come sempre, tentava di parlarmi, di convincere ad aprirmi con lui, che ignorarlo non avrebbe migliorato la situazione. Le sue parole mi scivolavano addosso come acqua, ci provò per un paio di mesi finché non gettò la spugna. Le sue occhiaie e gli occhi perennemente rossi mi dicevano che il genio non dormiva molto e il suo sgattaiolare fuori dalla sua stanza di notte me lo confermava, lo sentivo. Per quanto il mio corpo fosse un rottame, il mio udito e il mio olfatto si erano raffinati. Inoltre quelle rare volte che incrociavo il suo sguardo notavo che aveva le pupille dilatate… E sì, il mio fratellino era dipendente di qualche sostanza, troppi dettagli mi portarono a quella conclusione, lo osservavo come un cecchino, era chiaro che si stava facendo del male. Possibile che nessuno se ne fosse accorto? Ciononostante non volevo cedere, non avrei parlato era la mia lotta, il mio grido.
Continuarono a portarmi in salotto, era un modo per tenermi d’occhio; a cosa servisse era un mistero, sicuramente non potevo farmi del male da solo. Anzi avevo una sola possibilità, potevo strapparmi la lingua a morsi, questo però avrebbe creato solo altri problemi, è stato l’unico motivo per cui ho evitato l’idea dell’autolesionismo.
Leonardo mi teneva compagnia appena dopo l’allenamento, era così diverso, solitamente si sarebbe sforzato di sorridere, con la solita positività del leader ‘va tutto bene’. Il tizio con la maschera blu che si sedeva sulla poltrona accanto a me a leggere un libro in silenzio non era neanche lontanamente l’immagine del mio fiero fratello Senzapaura. Era dimagrito molto, la forma muscolosa e snella del mio fratellone aveva lasciato posto a un mucchietto di ossa. Non so se avevo più pietà per me stesso o per lui.
Michelangelo non si vedeva quasi mai; c’è stato un momento in cui ho persino dubitato che abitasse ancora in questa casa. Speravo che ogni tanto mi dedicasse un po’ di attenzione, il massimo che faceva era salutarmi col tono basso se proprio mi passava davanti. Le rare volte che lo scorgevo aveva il volto cupo e i denti stretti, come se fosse in procinto di attaccare, il suo corpo era segnato da cicatrici irregolari, sicuramente conseguenza del pessimo tentativo di auto ricucirsi, tutto sommato era il più allenato di tutti, aveva messo su un’impressionante massa muscolare, e come se non bastasse faceva la vita notturna. Sembrava me. Michelangelo era me.
Dov’era mio padre in tutto questo? Cosa gli era successo? Perché non faceva nulla per aiutarci?
Lui, lui era la causa di tutto, doveva essere il perno della famiglia, doveva tenerci uniti, proteggerci, aiutarci. No, ci aveva del tutto abbandonato.
Neanche lui si vedeva molto in giro, non allenava più neanche i miei fratelli, una famiglia lasciata allo sbaraglio, si accontentava di osservarci da lontano, io nel mio stato non facevo eccezione. Eravamo orfani ormai.
Ah, quasi me ne dimenticavo. Era la mattina di Natale.

 
Il Natale è il periodo dell’anno più spensierato, almeno per me. Ritroviamo la nostra famiglia, i nostri affetti più cari e le tradizioni tipiche. Ci sentiamo accolti in un nido caldo che ci protegge.
E vogliamo parlare del cibo e dei dolci? Non si contano le volte che mi sono azzuffato con Mikey per leccare la crema avanzata nella terrina; accaparrarci il bottino era una questione di sopravvivenza.
Che bello ricordare queste immagini, era tutto molto più semplice da bambini.
Un’altra cosa che mi fa impazzire del Natale sono le luci, penso che la stessa cosa valga per i miei fratelli.
Già da bambino restavo incantato a guardare per ore le lucine dell’albero di Natale. E ora, lo ammetto, le luci mi fanno ancora impazzire; rimango estasiato quando vedo il nostro albero di natale acceso, un albero che quest’anno nessuno ha avuto intenzione di addobbare.
Dov’era lo spirito del Natale?

 
Quella mattina dormii fino a quando fu Donatello a svegliarmi; in realtà ero sveglio da un pezzo, come se tutto non fosse già abbastanza difficile, si misero anche gli incubi a tormentarmi. Don fece tutto il necessario per me come da routine ed era in procinto di andare a chiamare Leo per aiutarlo a sollevarmi dal letto, ma inaspettatamente per mio fratello, ruppi il mio ‘voto di silenzio’, riascoltando la mia stessa voce dopo mesi “No”, vi lascio immaginare il melodico suono, sono sarcastico ovviamente! Perché ho parlato dopo tanto tempo? Chissà, forse ero solo stufo o forse avevo bisogno di dire qualcosa o magari sentivo il bisogno di fare qualcosa per la mia famiglia.
Certo era, che Donatello si bloccò, era un palo, una statua di marmo. Se ripenso alla sua faccia rido, deliziosamente buffa, rimase a bocca aperta con gli occhi spalancati. Si riprese dopo una lunga attesa e mi rispose con tono indifferente, facendo finta che la mia parola non lo avesse turbato per nulla. Pateticamente contraddittorio alla statuina di un istante prima “No cosa? Non vuoi scendere in salotto?” mi chiese con voce incerta.
“Voglio…stare qui. Da solo”.
Ero pronto a una ramanzina, mi avrebbe accusato del mio comportamento infantile e che dovevo cercare di reagire diversamente; ebbene contrariamente alla mia regia mentale Donnie mi rispose semplicemente “Come vuoi tu, Raph!”. Non aggiunse altro, si diresse alla porta e se e andò lasciandomi solo.
Ecco che riprendeva la mia moltitudine di cose da fare: ragnatela, crepa sul muro e… qualcuno bussò alla porta. Cavoli! Ci avevo quasi creduto che mi avesse dato retta. Un momento dopo capii che infatti fu così, la mano che batteva alla porta era quella di Michelangelo, riconoscevo il modo.
Non disse nulla, né mi chiamò, né si annunciò, entrò e basta; la sua testa era bassa e il volto triste, rimase in piedi in fondo alla stanza, si torturava le mani scrocchiandosi le dita in un puro bisogno di scaricare la tensione “Raph… sono qui per dirti una cosa” gli costava fatica, quanto mi rispecchiavo in lui; “volevo chiederti scusa per essere sparito, volevo dirti che mi dispiace per come è andata e mi dispiace ancora di più di non esserti stato di alcun aiuto” scoppiò in lacrime, rimase in piedi affondando il viso tra le mani.
Ce ne aveva messo di tempo a tornare, dunque era per questo che mi evitava, si sentiva in colpa nei miei confronti e io che pensavo che mi odiasse perché il casino era successo per aiutare me.
“Mikey, non hai nulla di cui scusarti” gli dissi serenamente, lui alzò lo sguardo di scatto meravigliato anche lui come Donnie.
Con passi lenti e pesanti, che trascinavano delle incudini immaginarie, si inginocchiò a terra al mio fianco, piangendo al mio capezzale “mi dispiace per quello che ti è successo, non lo meritavi, mi dispiace fratello mio” era pietà quella? Eh no, ne avevo abbastanza, nessuna lacrima doveva essere più versata per me.
“Ehi scemo, questo non lo tollero. Vuoi piangere? Fallo! Frigna per te se vuoi, ti offro la mia spalla, ma non piangere per me”. Lui alzò la testa mostrandomi i suoi immensi occhi celesti. “Dai, salta su cretino!” lo invitai con un sorriso beffardo.
Michelangelo si asciugò il viso con il dorso della mano, piagnucolava ancora mentre cercava di calmarsi; con una delicatezza che raramente rivelava, mi si sdraiò di fianco, proprio come quando eravamo bambini e che eravamo soliti fare anche fino ad un anno fa.
“Ehi Mr Muscolo, mi prometti che quando andrai ancora fuori a fare il giustiziere da due soldi, starai attento?”.
Nella posizione in cui ero, mi era scomodo vedere bene il volto esterrefatto di mio fratello, ad ogni modo lo immaginavo.
“E tu come lo sai?” mi chiese negando l’evidenza, non era chiaro se fingeva o se diceva sul serio.
“Dirò a Don di farti una visita agli occhi. Non so tu, ma tutti noi li vediamo bene gli sbreghi che hai sul corpo”.
“Sono così evidenti?”.
“Certo testa di legno” lo rimproverai. “Senti, non ti negherò di farlo, sei grande abbastanza da cavartela da solo, ti chiedo solo di pensarci due volte quando ingaggi battaglia. Pensa che c’è una famiglia che ti aspetta a casa e che ti rivuole indietro sano e salvo”.
“Volevo solo essere coraggioso come te…”
“Non devi dimostrare nulla. Sappiamo che lo sei, siamo solo stupidi a non dirtelo” confessai amaramente.
“Ti voglio bene” disse stringendomi ancora di più, temendo che potessi scappare via, scomparire.
“Anche io piccoletto”.
Michelangelo si era impegnato a crescere velocemente, a maturare; sfortunatamente si era trovato da solo e stava prendendo vie traverse, finché c’ero io, ero in dovere di guidarlo, ne avevo preso nuovamente coscienza.
Nonostante fosse appena mattina, ci appisolammo beati, fu una semplice pennichella, ma fu la prima volta, dopo mesi che riuscii a dormire senza incubi. Lui mi cingeva la vita col braccio e affondò la faccia nel mio collo, il mio fratellino era tornato.
Era il primo passo per la risalita.

 
La felicità è vicina e lontana, a seconda di come i nostri occhi la vedono. A volte ci precede, altre invece ci segue come un'ombra. Bisogna desiderarla, riconoscerla per assecondarla e dirigerla verso il nostro cuore. Nel cercare la felicità, spesso corriamo all'impazzata, sperando prima o poi di raggiungerla in qualche luogo, ma nella folle corsa non ci accorgiamo nemmeno di averla sfiorata. Forse ci aspettava dietro l'angolo o magari sulla porta di casa. A volte immaginiamo che sia su un'isola in mezzo al mare o sulla vetta di una montagna e invece è vicina, intorno a noi, accanto a noi.

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Note dell’autrice:

Ciao a tutti! Ci stiamo avvicinando alla fine, quale sarà il risvolto di questa famiglia?
Grazie, grazie, grazie per aver letto con pazienza questa storia fin qui!
elenatmnt


 
 

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Capitolo 8
*** Accettazione - Parte Seconda ***


Il piccoletto mugugnava parole senza senso, mi stava destando dal sonno, un pisolino a dir poco piacevole, ci voleva; l’ombra di qualcuno ci sovrastava, non eravamo soli. Mio padre era seduto di fianco al mio letto che ci guardava, con un volto più calmo che non vedevo da tempo.
“Sensei?” sussurrai.
“Sono felice di risentire la tua voce” mi disse con una lieve bozza di sorriso.
“E io di rivederti” c’era un pizzico di sarcasmo nelle mie parole, ovviamente non gli sfuggì. Mi pentii subito di averlo fatto.
“Voglio parlare con voi, è giunto il momento di porre fine a questo misfatto. E per farlo è giusto che il primo passo lo muova io”. Al tatto leggero e delicato di nostro padre, Mikey si svegliò emettendo un sonoro sbadiglio; scorgendo il volto del Maestro, si alzò di scatto dal letto allontanandosi verso l’uscita “Aspetta Michelangelo! Ti devo parlare. Vi devo parlare. Ho qualcosa di importante da dire”. Il mio fratellino sembrava insicuro, si avvicinò alla soglia con l’intento di andarsene, come preso da un’irrefrenabile voglia di fuggire via. Non lo fece, con piccoli passi titubanti venne dubbioso al mio fianco, dalla parte opposta di Splinter, ma non gli rivolgeva lo sguardo. Nonostante il tempo passato, Michelangelo era ancora risentito nei suoi confronti.
Sensei girò la testa verso la porta e chiamò i miei fratelli “potete entrare figlioli”, Leonardo e Donatello avanzarono nella stanza, suppongo fossero lì da un pezzo ad aspettare il segnale di mio padre.
Cosa aveva in mente?
Leo era accostato alla porta a braccia incrociate, Mikey si accomodò sul letto al mio fianco destro, Donatello ai piedi del letto prese la sedia della scrivania, la girò al contrario e si sedette appoggiando le braccia sullo schienale, Sensei era alla mia sinistra sempre seduto sullo sgabello.
“Ho riflettuto molto su ciò che è accaduto in questo ultimo anno, mi rendo conto che non sono stato un padre presente dopo gli ultimi avvenimenti.
Quando sei padre, ti fai carico della paura che possa accadere qualcosa ai tuoi figli. Ogni volta che uscite il mio cuore è irrequieto, torno sereno solo appena vi vedo rientrare sorridenti e felici.
Avere la consapevolezza che a tuo figlio è capitato qualcosa di brutto è una sensazione che non c’è penna che possa scrivere e non ci sono parole per raccontare, il peggior incubo che un genitore possa vivere. Ti stravolge la vita in un istante, non sai che fare, il sangue si ghiaccia, la vista si annebbia, tutto è confuso, il cuore ti batte senza sosta, non senti il caldo o il freddo. Tutto intorno diventa futile, senza senso, preghi solamente che la cosa più preziosa che hai, la vita di tuo figlio, sarà in salvo”.
Fece una pausa. Quelle parole gli costavano tutta la sua disciplina, tutto l’autocontrollo. Alle volte parlare è più difficile che combattere; affrontare sé stessi è peggio che affrontare un nemico. Lo capimmo e gli demmo il tempo di cui necessitava per continuare il suo discorso.
“Sapere che la condizione di Raffaello fosse irreversibile, mi ha spezzato il cuore a tal punto che ho perso di vista il resto, ho trascurato tutti voi, pensando al mio dolore egoista, ignorando che ognuno di voi stava attraversando la medesima situazione. Ho perso la pazienza, ho messo da parte il senso dell’onore e la disciplina, non sono stato un buon esempio; colpire Michelangelo è stato un gesto meschino e vergognoso, la mia anima è macchiata di questo peccato. E capisco che se questa famiglia è caduta in pezzi è solo colpa mia.
Vi ho tenuti d’occhio da lontano come un’ombra, vedendo chiaramente il vostro declino e sono stato partecipe di questo con la mia assenza, voi avevate bisogno di me e io non c’ero.
Sono edotto di tutto ciò che ho fatto e detto, non mi è concesso cambiare il passato, ma mi è concesso scegliere il futuro. Sono qui per chiedervi perdono figli miei, non mi aspetto che lo facciate, non lo merito. Sappiate solo che questo vecchio ratto vi ama ed è veramente pentito di tutto il dolore che ha provocato”.
Oblio.
Redenzione.
Perdono.
I miei occhi si spostarono sui miei hobby giornalieri: tempo che passava, ragnatela nell’angolo in alto a destra, odore, rumori della superficie, crepa sul muro.
“Papà?” la voce che scoccò la parola come una freccia che mira al cuore era di Mikey, proprio lui, quello che aveva evitato tutti noi in particolare il Maestro Splinter. Il ragazzino dal cuore buono, dal viso lentigginoso, dal sorriso spensierato era proprio davanti a mio padre “facciamo l’albero di Natale?”.
Come descrivere la bellezza di quell’attimo di puro amore?
Tutti si avvinghiarono a mio padre, divennero cuccioli, infantili, bambini. Piangevano soffocando i gemiti nel kimono del Sensei. Il padre che aveva perso la via di casa adesso era finalmente tornato.
Non mi lasciarono indietro, quel gomitolo di fratelli si buttò cautamente sul mio letto. Si aggrapparono alle mie braccia, lasciando a malapena la mia mano libera per Splinter il quale già la stringeva.
 

Noi americani pensiamo che un vaso rotto non sarà mai come prima, quindi usiamo questa metafora per dire che quando spezzi un legame non riavrai mai più ciò che c’era prima.
Questo è quello che sostenevo io da buon americano, ma si dà il caso che io sia anche un po’ giapponese e i giapponesi dicono esattamente il contrario, pensano che un vaso rotto sarà più bello di prima, perché saprà di vissuto, proprio come un legame spezzato e rinsaldato con più forza.
Quando i giapponesi riparano un vaso rotto, uniscono i cocci con della resina mista a oro. Il vaso rotto e riparato con venature dorate è il risultato dell’unione dei pezzi frantumati, starebbe a significare la vita ed i cambiamenti che essa porta con sé. La vita, in effetti, non è mai lineare ma anzi presenta sempre delle spaccature, delle scissioni, che ci portano a compiere nuove scelte e ad intraprendere nuovi percorsi.
Queste profonde riflessioni mi fanno somigliare a mio fratello nerd! Meglio che non lo sappia.

 
“Figlioli c’è un’altra cosa importante che devo dirvi, in realtà è rivolta a te Raffaello” il suo tono serio e pacifico attirò l’attenzione di tutti.
Respirò profondamente, si allontanò dal mondo per un momento, era in procinto di buttarsi nel vuoto, almeno tale appariva.
“Come dicevo, non posso più essere indifferente al vostro dolore, al tuo Raffaello. Io accetterò qualsiasi decisione tu prenda e…” stava per farlo, stava accadendo “… e ti aiuterò a realizzare qualsiasi tuo desidero”.
Tremava, oddio se tremava, e i miei fratelli non furono da meno.
E io? Non lo so, ero felice, ero triste, ero emozionato, ero spaventato… semplicemente ero.
“Ma…” fu Donatello ad interrompere quel susseguirsi di emozioni con gli occhi distrutti e supplicanti, la voce roca e atona.
“Noi accetteremo la sua decisione, non abbiamo il diritto di scegliere al suo posto. Mi spiace averlo capito tardi e non ripeterò lo stesso errore, nemmeno voi figli miei” le parole di Sensei rispondevano alla perplessità di Donatello, tuttavia erano rivolte a tutti i presenti che mi guardavano in cerca di una risposta.
Caspita, non mi ero preparato un discorso, fui preso alla sprovvista, dunque dissi tutto ciò che mi veniva in mente senza pensarci su, non sono mai stato bravo nel proclamare discorsi, chi lo sapeva fare era Leo.
“Io… ecco… si, voglio che finisca. Sono stanco e lo sapete. Non ho mai accettato e mai accetterò la mia condizione. Voglio andarmene e… ora so che me ne andrò in pace, sono certo che starete bene… perché siete forti… i migliori… la miglior famiglia che si possa desiderare… io ci sarò sempre. Vi chiedo solo di lasciarmi andare”.
Respiri pesanti e trattenuti avvolsero la stanza, Michelangelo affondò il viso nelle mani, Donatello si mise una mano sulla bocca, Leonardo fissava un punto nel vuoto e il Sensei aveva il volto sereno, penso si fosse spiritualmente preparato a questo.
“Quando?” fu Leo a chiedere, diretto senza mezzi termini. Ecco il leader.
“Non sfottetemi per questo… mi piace pensare di essere come lo spirito del Natale Presente, vive un giorno solo, il giorno di Natale e oggi lo è. Dunque… stasera”.
Silenzio, ancora.
Ero consapevole di averli feriti, sapevo che li stavo facendo soffrire, ero cosciente di ogni mia parola.
Accettazione?
“No Raph, sul serio, da quando sei diventato così sdolcinato?” Mikey il mio stupido fratellino, riusciva sempre a portare buon umore anche nelle situazioni assurde.
“Testa di legno ti ho detto di non sfottermi!” il nostro finto battibeccare fece asciugare le lacrime dei miei fratelli.
“Allora gente, direi che è il momento di darci da fare per addobbare casa, su cosa aspettiamo?” Leonardo si illuminò dell’entusiasmo di un tempo, reprimendo la voglia di supplicarmi di non farlo.
“Io mi occupo delle luci!” si propose Don, con la solita mano sotto il mento, già pensava a qualche idea delle sue.
“La cucina è il mio regno, e io sono il re dei cuochi! Preparatevi ad abbuffarvi” Michelangelo era il migliore in cucina, nessuno poteva dire il contrario.
“Beh Raph, a noi toccano l’albero e gli addobbi!” lo disse con disinvoltura, come se potessi veramente aiutarlo.
“E no fratello, quello è compito tuo. Io sarò il capo e mi accerterò che ognuno di voi faccia il proprio dovere!” scherzai con sana ironia.
L’atmosfera che si respirava era certamente cambiata, se avesse avuto un sapore sarebbe stato quello della cioccolata calda; dolce, cremosa, calda, profumata. Si una perfetta descrizione della mia rinata famiglia.

 
L’accettazione è essere pronti a dare un senso a quanto accaduto, a inscriverlo nell’ordine naturale delle cose, ad accogliere la perdita e a considerare la possibilità di un progetto di vita nuovo, guardando al futuro con rinnovato entusiasmo.
Sapete, penso che la vera accettazione non riguardava me, io penso che fosse proprio la mia famiglia bisognosa di accettare la mia condizione… la mia morte.
Io avevo trovato già da tempo il mio scopo, per quanto mi sia stato negato, o considerato distruttivo, io avevo la mia strada da seguire. Loro no, loro non si sono dati pace per più di un anno, sono cambiati in peggio, si sono lasciati andare sia nella mente che nel corpo. E ora, finalmente, il giorno di Natale, avevano ritrovato sé stessi, avevano accettato di lasciarmi andare.
Lo avevano fatto sul serio?

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Note dell’autrice:
questa è la seconda e ultima parte di “accettazione”, era troppo lunga e ho preferito dividerla. Ma non è ancora finita. Ci vediamo presto!

 

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Capitolo 9
*** Verità ***


Tutti si sono mobilitati a fare qualcosa per rendermi felice, per distrarsi dal peso che gravava nel loro cuore, un macigno più grosso dei loro gusci pesava sulle loro spalle. Questa era l’unica cosa che mi faceva stare male, per il resto ero sereno.
Io non ho fatto nulla ovviamente, diciamo che ho avuto modo di avere un po’ di tempo in privato con ognuno di loro, un modo adeguato per… per salutarsi.
Il genio era nel suo laboratorio, entrando potevo vedere solo le sue gambe, il resto del corpo era conficcato in un enorme scatolone, evidentemente qualsiasi cosa cercasse era situato in fondo. Tiratosi su, era avvolto come una matassa da un’infinita lunghezza di filo con le lucine colorate.
“Vedi che con quelle devi addobbare l’albero e la casa, non te stesso” lo presi in giro come sempre.
“Oh Raph, sei qui! Credo che la prossima volta dividerò tutto in scatole più piccole!” si fece cupo in viso, ci sfiorò lo stesso pensiero. ‘La prossima volta’ non ci sarei stato.
Il genio non me la raccontava giusta, mi nascondeva qualcosa, si sforzava con tutte le sue forze di fare il disinvolto, sotto questo aspetto era un pessimo attore. Era ovvio che stava male per la mia scelta, tuttavia c’era dell’altro di cui non faceva parola.
Si liberò dai fili e a stento mi guardava in faccia, non potevo lasciarlo in balia di sé stesso, ero lì per assicurarmi che tutto sarebbe andato bene, o se non bene, nel miglior modo possibile.
“Don?” il viola stava trattenendo il respiro, tremava un po’ e i suoi occhi dicevano più di mille parole.
“mmm?” fu la sua laconica riposta.
“Donatello, se vuoi dirmi qualcosa, qualsiasi cosa, puoi farlo…”.
Non ha fiatato.
“Don ti prego, so che è difficile, ma…”.
“Difficile? Tu parli a me di difficile? Proprio tu?”, è andato in collera in una frazione di secondo, sentimenti repressi da molto tempo venivano a galla. “Tu hai idea di cosa significhi vedere il proprio fratello deperire giorno dopo giorno e soffocare nell’impotenza di non poter fare proprio niente? Tutta l’intelligenza che tanto vanto, non è servita ad un accidente! Ho studiato giorno e notte nuove tecniche mediche, progressi scientifici, tecniche orientali, miracoli, santoni, elisir… magia persino. Tutto per niente di niente! Non ti ho potuto aiutare e ora mi chiedi addirittura di ucciderti? Si caro mio! Omicidio, anzi fratricidio. Perché chi pensi che lo farà? Io sono il ‘dottore’ di casa e se mi rifiuto sarò considerato codardo oltre che spregevole fratello egoista. Cazzo Raph, non è giusto”.
Aveva sputato tutto il suo veleno, ne aveva accumulato a iosa. Se torno indietro con la mente, comprendo solo adesso che lui era l’unico che non abbia avuto modo di sfogarsi, la maggior parte del tempo l’ha dedicata a me e il resto, beh credo sempre a me, visto che ha provato a cercare una cura che non esiste.
“Don, mi dispiace…” il senso di colpa era tremendo, tutto questo dolore solo ed esclusivamente per causa mia.
“No Raffaello, a me dispiace”, fece una pausa sospirando, titubante se continuare o meno, ma ormai era in ballo. “Se quella sera non mi fossi fermato a salvare quella ragazza, tutto questo non sarebbe successo… io, insomma… è stata solo colpa mia. Io ti ho fatto questo”, crollò sulle mie ginocchia disperandosi per ciò che era stato e su ciò che doveva accadere, che lui doveva fare.
“Nerd, laggiù sei troppo distante, perché non mi abbracci come si deve?!” Non ho avuto il tempo di finire la frase che già cingeva le sue braccia attorno alle mie, povero fratellino, deve essersi sentito completamente solo per tutto questo tempo.
“Voglio che sia chiaro una volta per tutte, e devi sentirlo dalle mie labbra: non è colpa tua. Io ho scelto di inseguire quel teppista e nessuno poteva sapere come sarebbe andata” sentivo gli occhi riempirsi dell’infima rugiada lacrimale. “Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto per me, non solo ora, ma in tutta la mia vita. Non ho saputo ricambiare l’attenzione che mi hai regalato, non potrò nemmeno guidarti o guardarti le spalle quando crescerai e diventerai il guerriero e il genio che sei destinato ad essere e di questo ti chiedo perdono, ma sappi una cosa, io credo in te, sono fiero di te. Lo sono sempre stato e per sempre lo sarò”.
Bramavo di poterlo stringere, di muovere le mie braccia un’ultima volta solo per fargli sentire quanto gli volessi bene, l’affetto non era cosa mia, cioè sì, ma non lo dimostravo, tendevo a celare i sentimentalismi. Al diavolo, volevo abbracciare Donnie.
“E io sono fortunato ad avere un fratello come te, sei il migliore del mondo Raph, fa così male tutto questo”.
“Lo so, ma so anche che hai la forza di affrontarlo a testa alta”.
“Lo farò per te Raph”
“Lo devi fare per te stesso”.
“Ti voglio bene aniki” *
“Ti voglio bene anch’io otouto”. *
Nell’intimità di quel momento mi sentii in dovere di risolvere un’ultima questione “Don? C’è una cosa che ho notato in questo ultimo periodo e…” mi interruppe.
“Non c’è bisogno che continui, ho capito e voglio dirti che ho smesso. Giuro. Non è semplice ma ci sto mettendo tutta la buona volontà, inoltre ne ho parlato anche con Splinter, così mi assicurerò di avere un giusto supporto nel mio percorso di disintossicazione”, fu calmo e consapevole mentre mi confermava ciò che sospettavo da tempo. “E prometto che ne parlerò anche con Leo e Mikey”.
Non potevo ricevere notizia migliore, era sincero. Glielo leggevo in faccia.
Un momento nostro, solo nostro, il genietto aveva trovato la vera forza di reagire, sapevo dentro di me che se la sarebbe cavata e che non si sarebbe lasciato abbattere da niente, sarebbe stato saldo come una montagna. Ne ero certo.
“Raffaello…” continuò tornando all’argomento che lo ha fatto esplodere “…sarò io a farlo, senza timori e senza rimorsi. Posso farlo”, dopo mesi, il volto di Donatello era tornato sereno, mi guardava sicuro di sé, abbracciava il destino con coraggio e onore. Quello era mio fratello, quello era Donatello.

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 L’inconfondibile profumo di bontà irradiava tutta la casa, Michelangelo in cucina si stava dando un bel da fare, immaginate una fragranza mista di pane caldo, arrosto e qualche tipo di biscotti che si doravano in forno, le mie papille gustative cantavano inni di gioia.
“Al posto tuo valuterei seriamente di fare il cuoco, se rinunciassi mai alla carriera di ninja” ero sulla soglia della porta da cinque minuti, il mio fratellino non si era accorto di me, la sua concentrazione era solo su tutto quel ben di Dio, infatti sobbalzò.
“Aaaahhhh!! Accipicchia Raph! Mi hai fatto prendere un colpo!” strillò come una femminuccia, le urla di Mikey sono sempre state motivo di scherno, il suono stridulo ricordava quello di una ragazza.
“Allora che prepari di buono?”, ero irrimediabilmente curioso.
Tirò sul col naso prima di rispondere, stava piangendo ma fece di tutto per tentare di nasconderlo, purtroppo per lui era già tardi “un po’ di tutto, ci sarà da scoppiare, preparati!” rispose sorridendo.
“Sono già pronto!” gli sorrisi di rimando, puntando la mia attenzione su qualcosa di squisito tenuto da parte sul tavolo di Frankenstein.
Il povero piano da lavoro era un disastro di farina, uova, zucchero e una serie di altri cibi e sughi schizzati come un da una lama di un serial killer. Tolto il disastro, il resto era perfetto.
“È crema quella che vedo laggiù?” chiesi con un ghignando beffardo.
“Sì, ma non puoi averla!” disse in falso tono infastidito.
“Perché no? Solo un assaggio, sai, per accertarmi che sia… ecco… al punto giusto” si convinse abbastanza in fretta, non me lo avrebbe negato.
“Ok, ma solo un cucchiaino” si raccomandò, premessa stupida dal momento in cui fu proprio lui ad infrangere la regola. Mi imboccò con un primo cucchiaino, fu un viaggio gastronomico, seriamente, nessuno batte mio fratello in cucina.
“Caspita Mikey, ti sei superato” mi complimentai, se lo meritava.
“Dici sul serio?” se fosse stato un’emoticon gli occhi celesti del mio otouto sarebbero stati sormontati da due stelline. In breve, di crema non ne avanzò molta, la finimmo cucchiaiata dopo cucchiaiata, solitamente non mi sarebbe stato concesso… bhe sapete, le cose cambiano.
“Raph, posso confessarti un segreto? Però promettimi di non ridere e di non arrabbiarti” mi disse titubante.
“È un tantino contradditorio non credi?”.
“Me lo prometti?”.
“Sì, certo. Allora, cos’hai combinato?”.
Si passò una mano dietro alla testa, improvvisamente imbarazzato e il rosso si faceva strada nelle sue gote verdi, stava prendendo tempo per trovare le parole giuste da dire. Fece un respiro profondo per sopportare il peso della grande rivelazione, la scoperta del Santo Graal, l’isola perduta di Atlantide. Sputò tutto d’un fiato.
“Ho visto una ragazza nuda!” si torturava le dita per la tensione. Più che scioccarmi mi incuriosì.
“Ah sì? Dove? Chi?” volevo saperne di più, era strano e buffo e insolito parlare di certe cose, specialmente con lui, il piccolo di casa.
“Ho una rivista con le ragazze nude. L’ho trovata per caso e, insomma, l’ho sfogliata e ho guardato… E poi l’ho nascosta e ogni tanto me la riguardo”.
Lo so che avevo promesso di non ridere, avrei dovuto sentirmi in colpa per aver infranto la mia promessa, ma la risata uscì contro la mia volontà. Non ridevo così di gusto da tanto tempo, un momento idilliaco, impossibile fermarsi. Avevo dolori alla gola, nonostante quello continuai a ridere.
In un primo momento Mikey ci rimase male, poi mi guardò sconcertato, ma alla fine rise anche lui.
“Mikey sei uno spasso! Era questo il tuo grande segreto? Non ci posso credere”
“Beh si, insomma, si.”
“E perché avrei dovuto arrabbiarmi?”
“Perché è vietato, credo. Non lo è?” appariva come un bambino, ingenuo, innocente, ma non stupido.
“Magari non dirlo a nostro padre, sarebbe imbarazzante! Comunque no, non c’è nulla di male. Anzi se ne vuoi altre, sfila via l’ultimo cassetto del mio comodino e sotto ne troverai altre. Sono tue, però condividile anche con Don e Leo” tornai a ridere.
“Raph, sei impossibile e io che credevo di far qualcosa di male. Che scemo sono!”
“Lo so, l’ho sempre detto che sei una testa di legno”.
“E tu una testa calda”.
Ci godemmo ancora per un po’ quei sani istanti di condivisioni e confessioni, ancora ridemmo e ci scambiammo qualche sogno proibito. Non nascondo che un po’ di imbarazzo ci avvolse, ad ogni modo fu piacevole quel momento fraterno così naturale, così vero.
L’atmosfera euforica passò per lasciare spazio ad un momento più spassionato, Mickey prese una sedia e mi si sedette di fonte, le nostre ginocchia si toccavano, combaciavano le mie con le sue e mi strinse una mano nella sua. Decise di non sedersi a terra e nemmeno di restare in piedi, il suo intento era avere un ‘faccia a faccia’ con me, guardarmi negli occhi né dal basso né dall’alto, voleva pareggiare le distanze.
“Raph, non sono bravo con le parole, parlo sempre a sproposito dicendo cavolate…”
“Questo lo so!” entrambi sorridemmo alla mia ironia, poi continuò sincero.
“Ecco, quello che voglio dire è… Mi mancherai fratello, mi mancherai tantissimo” era cambiato, cresciuto, maturo, non più l’innocente bambino che mi lanciava palloncini d’acqua, o che si infilava sotto le mie coperte dopo aver avuto un incubo, o che frignava per una stupidaggine. Quell’ex bambino stava diventando un giovane adulto. Michelangelo aveva maturato un tale autocontrollo da fare invidia a Leo.
I suoi occhi celesti, luminosi e commossi per il nostro momento di confessioni mi trasmettevano pace; quella non era malinconia era serenità.
“Mickey, non so se esiste un aldilà, non ho mai creduto in una vita dopo la morte. Ora, però, voglio credere che esista, forse lo faccio per bisogno, per la voglia di speranza, non so.  E francamente non mi importa molto… Mi importa solo di una cosa, di voi. Se mi sarà concesso un paradiso, io vi porterò nel mio cuore fino a lì. Qualsiasi cosa sarà di me, noi staremo sempre insieme”.
Lacrime? No nemmeno una.
Appena un leggero sorriso, qualche complice sguardo e non poteva mancare il suo dolce abbraccio, questo aspetto di sé non lo aveva cambiato. Lui, il più incline al contatto fisico, colui che si stringeva ancora i peluche.
“Mikey?” captai qualcosa di sospettoso.
“Dimmi” mi rispose senza staccarsi da me.
“Credo che qualcosa stia bruciando!”
“Accidenti hai ragione!” annusò l’intenso odore di bruciato che sostituì gli inebrianti profumi culinari.
Sobbalzò correndo verso i fornelli, saltellava come una rana avanti e indietro per rimediare al pasticcio; nonostante l’esperienza dell’ultimo periodo lo abbia cambiato in un ragazzo più adulto, per me lui rimarrà sempre il mio piccolo Michelangelo.

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L’arbusto di qualche strana pianta o albero o cespuglio era stata accuratamente potata a forma di cono per camuffarlo in un abete. Era stato posto al lato del salone principale, da quell’angolazione avrebbe illuminato da solo gran parte della stanza. Non era così male. La precisione di Leonardo anche nell’addobbare ‘l’abete’ era nauseante, è sempre stato il perfettino, in tutto. Splinter Junior era il secondo appellativo che preferivo dopo Senzapaura.
Michelangelo si sarebbe prodigato ad addobbarlo con accozzaglie di oggetti anche non inerenti al Natale, pur di riempirlo. Ricordo che una volta, quando eravamo piccoli, ci ha appeso anche le forchette in assenza di veri e propri addobbi.
Leonardo al contrario, scrutava anche i centimetri di distanza tra una pallina e l’altra, assicurandosi di non mettere vicine due dello stesso colore.
“Raph!” il leader in blu, mi distolse dai pensieri, scorgendo la mia presenza, “che te ne pare fratello? Ti piace?”.
“Triste verità o fantastica bugia?” ecco il mio sarcasmo che mi pizzicava le labbra.
“Dai Raffaello, non può essere così male… cioè, beh, sì insomma è carino, no?!” si posizionò a distanza dall’albero per osservarlo da lontano, come un pittore che prendeva le misure della prospettiva.
“Se lo dici tu!” ero tornato ad essere piacevolmente maligno, mi mancava questo aspetto pungente del mio essere.
“Non sai apprezzare l’arte!” borbottando, ripose gli ultimi oggetti avanzati nella scatola, in generale aveva fatto un discreto lavoro.
Lo guardavo un po’ abbattuto nel vederlo così dimagrito, non che fosse mai stato grosso o muscoloso come me, penso che tra tutti, avesse sviluppato il fisico migliore, era perfetto. E ora invece, faceva a gara con Donnie a chi fosse più smilzo.
“Ehi Senzapaura! Dovresti mettere su un po’ di ciccia, altrimenti le ragazze scappano. Non sai che i ragazzi rinsecchiti non piacciono a nessuno?”.
“Ti ricordo che sono una tartaruga, non credo rimorchierei comunque”.
“Come ti pare Leo, ad ogni modo, così fai schifo!” la seconda freccia pungente era scoccata.
Ovviamente sorrise e scosse la testa, come a farmi capire che non ero cambiato affatto, poi si voltò per riporre la scatola sotto un mobile “Raph… tu…” Leo era di spalle, il suo tono aveva smesso di essere allegro, ma non era triste, era forse curiosità? Incertezza? Si voltò e dopo aver preso una boccata d’aria a riempirgli i polmoni continuò la sua balbettante domanda “Raffaello… non hai… paura?”.
Aveva toccato un tasto dolente, come potevo parlargli di paura?
Io non ho mai avuto paura.
Ok, lo so, mento a me stesso, certo che conoscevo la paura, ad ogni modo la maschera del duro mi calzava meglio di quella del fifone. Il mio carattere focoso e permaloso mi proibiva di svelare la paura, eppure l’ho provata tante di quelle volte, anche in quell’esatto momento.
“Cosa vuoi che ti risponda?” dove voleva andare a parare? Cercavo di leggere nei suoi occhi color del cielo notturno.
“Semplicemente la verità. Sì o no?”.
E verità sia.
“Cavoli Leo, certo che ho paura!” l’avevo fatto. Mi ero messo a nudo ancora una volta.
“E allora dove trovi il coraggio?”, il suo sguardo profondo e intenso mi guardava desideroso di conoscere quella risposta, come se tutta la sua esistenza dipendesse dalle mie successive parole. Non le scavai nei meandri dell’anima, non le scelsi con cura, non cercai parole forbite per enfatizzare l’attimo; no, nulla di tutto questo. Dissi solo la verità.
“Lo trovo perché ho deciso”.
Lo spiazzai. Peggio di quando in una delle nostre famose liti, finite in scazzottate, si rendeva conto che ero io ad aver ragione.
Si zittì. La situazione si protrasse per qualche minuto. Ne ebbi abbastanza. Mentre stavo per sbottare come ero solito fare in un passato che ormai era diventato un ricordo sbiadito, lui bisbigliò qualcosa “come faccio?”.
La domanda mi uscì spontanea “a fare cosa?”.
Si gettò verso di me e afferrò le mie spalle “come faccio senza di te?” sarebbe stato un urlo rabbioso, fortunatamente si limitò a sibilare tra i denti.
Dire che mi sentii aprire la terra sotto i piedi è un eufemismo.
“Tu sei la mia forza Raph, io sono un buon leader solo perché ci sei tu a spronarmi. Senza di te io non sono niente”. Le sue parole mi avevano toccato il cuore, era così vicino che mi rispecchiavo nei suoi due zaffiri supplicanti; a quel punto era chiaro che non solo gli sarei mancato, ma mi stava dimostrando che aveva bisogno di me, ha sempre avuto bisogno di me… e io di lui.
“Ti voglio bene Raph, non puoi farmi questo, non puoi. Quante cose ti vorrei dire, quante ne vorrei fare con te. Cazzo, mi devi insegnare ad andare in moto! La odio, non mi piace eppure voglio imparare! Mi insegnerai giusto? Dimmi che lo farai”. Mi scuoteva stringendomi le spalle, qualcosa scricchiolò, la sua stretta mi faceva male ma ignorai il dolore. Si stava ingannando, si stava illudendo.
Avrei solo fatto cenno di no, purtroppo il mio corpo mi negava quel lieve movimento e dovetti parlare o sarebbe più corretto dire sussurrare, il suono della mia voce si rifiutava di risalire su per la mia gola. Mi rifiutai di cedere, il mio impavido fratellone aveva bisogno di me un’ultima volta.
“No Leo, non ti insegnerò ad andare in moto. Né ora né mai”.
Il dolore ci fa perdere la cognizione di noi stessi, la sua freddezza si era sciolta come neve al sole, il suo orgoglio si era spezzato come un ramoscello rinsecchito, la maturità si era mutata in avventatezza.
Strinse gli occhi e represse un grido, il suo viso era deturpato dalla verità che già conosceva, si limitò ad appoggiare la sua fronte alla mia, ognuno respirava il fiato dell’altro. Io lo guardavo, non lo persi di vista un istante.
“Leo, non hai bisogno di dirmi nulla. Quello che ci dovevamo dire ce lo siamo detti tutta la vita, non è necessario aggiungere altro. Imparare a guidare la moto? Lo farai. Lo farai con Mikey e Donnie; tante altre cose farete insieme. E io… io sarò sempre con voi, vivrò nei vostri ricordi. Portatemi con voi, nel vostro cuore, e io ci sarò. Ma adesso lascia che io vada, ti prego”.
Rimase ancora fermo, il suo respiro si calmava di secondo in secondo finché ebbe la forza di riaprire gli occhi, sembrava un bambino.
“Io sarò con te fino alla fine, fratello!” fu l’unica cosa che disse prima di abbracciarmi. Il leader sarebbe tornato tale e più forte di prima, col tempo sarebbe diventato il più forte guerriero del mondo, sarebbe tornato ad essere il vero Leonardo.

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*Aniki = fratello maggiore
*Otouto = fratello minore

 
 
Note dell’autrice:
Ci stiamo avvicinando alla fine, sto per piangere! No, mi trattengo, le conserverò per l’ultimo capitolo.
Questo capitolo è molto più lungo degli altri, non potevo proprio spezzettarlo XD
Ringrazio tantissimissimo Made of Snow and Dreams e Ciarax che sopportano le mie follie e tutti voi che state seguendo questa storiella strappalacrime. Mi avete perdonata?! Hahhahah!!
Ciaoooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!!

 

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Capitolo 10
*** Grazie ***


Era ormai sera ed era ora di cena, Leonardo e Donatello avevano apparecchiato la tavola al centro del salone, il giorno di Natale è sempre stato speciale, l’unico giorno in cui c’era un minimo di eleganza nel cenare e comportarsi a tavola.
Il genio aveva illuminato tutta la stanza; in alcuni punti sulle pareti, dove non c’erano mobili, aveva tentato dei disegni elementari con i fili, appena delle forme geometriche, avevamo apprezzato molto lo sforzo, visto il suo pessimo talento nel disegno.
L’albero era perfetto, l’angolo in cui era stato posto ci permetteva di guardarlo anche mentre eravamo a tavola.
Michelangelo si occupò di portare tutte le leccornie sul tavolo, ogni genere di bontà adornava quella tavola apparecchiata con una semplice tovaglia rossa, tovaglioli di carta, posate e bicchieri diversi gli uni dagli altri, tutta roba ricavata qua e là.
Mio padre in tutto ciò dov’era?
Lo cercai con lo sguardo, non lo vidi; poi sentii una mano calda che si appoggiava sulla mia spalla, era lui, l’unico ad avere le mani così calde in questa famiglia, l’unico a sangue caldo.
“Sono qui figlio mio” disse come se mi avesse letto nel pensiero.
“Sensei, io vorrei qualche minuto con te…”.
“Certo, dopo cena avremo modo di stare da soli” mi sorrise e rivolse uno sguardo alla tavola. Avevo capito, se ci fossimo allontanati avremmo lasciato i miei fratelli da soli nell’attesa. Aspettare significava rimuginare e non voleva farli stare male, o rovinare l’atmosfera che si era creata.
Ci accomodammo tutti intorno al tavolo e come consuetudine della mia famiglia ognuno disse qualcosa, non facevamo nessuna preghiera, piuttosto emulavamo il giorno del Ringraziamento, era una tradizione per noi.
Mi stavo preparando mentalmente alle frasi sdolcinate e a qualcuna di addio, solo quell’idea mi faceva contorcere lo stomaco. Come biasimarli?
Inutile dire che il primo è stato Michelangelo, ha sempre avuto un naturale talento nel smorzare le tensioni e mettere le persone a proprio agio.
“Allora… io… ringrazio per… sono grato… per i fumetti, la TV, i legumi in scatola già pronti così non bisogna perdere tempo ad ammollarli in acqua, i videogiochi e naturalmente la pizza!” alle volte non so se Mikey è uno scemo o un genio. Uno scemo! Tuttavia ammetto che quella frase era una genialata.
Dopo qualche istante di sguardi vaghi scambiati tra noi, partì una risata generale che lasciò di sasso Michelangelo “Che ho detto?” chiese il tontolone, lasciandosi trasportare dal goliardico momento, nessuno gli rispose, troppo impegnati a ridere e riprendere fiato.
“Io ringrazio per la tecnologia, le discariche e il caffè” Don seguì il filone comico di Mikey e a quel punto sarebbe andata così, o almeno credevo. Toccava a Leo, ero curioso di sapere quale cavolata avrebbe detto “io ringrazio la spensieratezza di Mikey, la genialità di Donnie, il sarcasmo di Raph e la pazienza di Sensei”. Perfetto si era giocato la carta sentimentalismo velato, furbo il leader.
Era il mio turno, l’ultima parola spettava a mio padre, non avevo idea di cosa dire, temevo che qualsiasi cosa avessi detto avrebbe creato tristezza o cattivi pensieri, oppure che non fosse sufficiente, o magari sarei apparso ingrato.  Andai sul banale “Grazie per la cena!”.
Accidenti se lo sapevo, attimo di silenzio.
Fortunatamente per me, mio padre ha preso subito la parola, lui sarebbe stato più serio, lui ci teneva a quel momento. “Io ringrazio di aver ritrovato la via. Mi ero smarrito e grazie a tutti voi ho ritrovato la strada di casa. Ringrazio di avere dei figli meravigliosi, ognuno di voi è speciale e io vi amo tutti. Sono il padre più fortunato del pianeta”.
Probabilmente avrebbe continuato se la sua voce non lo avesse tradito tremando, i suoi discorsi avevano la fama di essere molto lunghi, soprattutto nel dojo a fine allenamento non era strano che ci inculcasse qualche lunga perla di saggezza e Mikey finiva sempre con l’addormentarsi, seguito da un sonoro colpo di bastone su quella zucca vuota.
“Che aspettiamo ancora? Su mangiamo altrimenti si fredda!” l’entusiasmo travolgente di Mikey ci trascinò via come un tornado benevolo che mescolava le nostre anime in un unico spirito d’amore.
Parlammo di ogni genere di argomento, raccontandoci storie vecchie, ricordi e aneddoti della nostra vita, dalla più remota marachella ai più recenti atti valorosi.
Il tempo trascorse inesorabile, i momenti piacevoli durano sempre poco, la percezione del tempo si restringe in un solo attimo, un soffio di vento.
Più i minuti passavano, più si sentiva l’amarognolo in bocca di un momento che nessuno voleva che arrivasse, nessuno tranne me.
Certo che avrei voluto restare ancora lì, a ridere, a scherzare, a vivere.
Prima di ritirarmi per l’ultima volta in camera mia, Michelangelo prese un pacco colorato: era un regalo, l’unico che qualcuno avesse fatto in quel Natale improvvisato.
“Non c’è Natale senza regali, è pronto da tanto tempo, non l’ho mostrato a nessuno e questa mi sembrava l’occasione giusta per donarvelo. È un regalo solo, ma è per tutti!” disse commosso e imbarazzato. “Chi vuole scartarlo?”.
“Fallo tu” gli risposi prontamente.
“Ma è per voi!” protestò con occhi dolci.
“Fallo tu per me, allora!” a quel punto non si ribellò e scartò il pacco.
Era un ritratto di famiglia disegnato a matita e carboncino, quello di cui mesi prima mi aveva accennato Donnie. Era perfetto, un talento unico. Era la raffigurazione di una foto che ci facemmo più di un anno fa, io ero proprio in piedi accanto a lui. Mi sarei tuffato a vivere in quell’immagine perfetta, sarebbe stato il mio paradiso in eterno. E per completare la bellezza di quell’opera, sul fondo in basso a destra, vi era scritta una frase in corsivo che scaldò le anime dei presenti ‘come tutte le più belle cose’.
A quel punto furono lacrime per tutti, nessuno ebbe l’audacia di commentare, so solo che mi ritrovai avvolto da tutta la mia famiglia, mio padre compreso, colui che non mostrava mai gesti sentimentali era lì che ci avvolgeva con ali d’aquila.
Sentivo il loro respiro, il loro profumo, la loro tristezza, la loro forza. Con me fino alla fine.
“È ora” al mio bisbiglio sentii la stretta ancora più forte e questa mi gelò il cuore, un attimo dopo mi lasciarono, tutti mi guardavano, nessuno distolse lo sguardo. Era il loro modo di dire che erano pronti.
Mi accompagnarono verso camera mia, prima di entrare, da lassù volsi un’ultima occhiata alla casa.
Le luci che ancora illuminavano l’ambiente, la tavola lasciata apparecchiata ma disordinata, intravedevo la porta della cucina con la luce accesa. Il laboratorio aveva la porta chiusa, lo stesso per il dojo. Il sacco da box, mio compagno di rabbia, era rimasto uguale, la TV era spenta, il telecomando chissà dov’era finito, DVD e Videogiochi erano sparsi sul pavimento e sul divano, il disordine regnava sovrano.
Rivolsi uno sguardo di gratitudine a quel panorama, come fosse vivo, sorrisi alla mia casa che mi aveva visto crescere per tutta la vita, che aveva accompagnato le mie avventure, che mi ha protetto come una madre silenziosa. ‘Grazie’ fu il pensiero che le rivolsi prima di ritirarmi nella mia ultima tappa.
Mi distesero sul letto, ero un burattino con i fili spezzati. Avevo giocato bene, avevo vissuto la mia vita a pieno, non avevo nulla da recriminare. Percepivo i loro cuori palpitanti e pieni di paura, dietro quei sorrisi rassicuranti si celava tanta tristezza. Benché i loro sguardi guerrieri mi accarezzavano come una dolce brezza estiva, sentivo il vento gelido della loro disperazione.
“Figlioli, lasciatemi qualche minuto solo con Raffaello” fu la richiesta di un padre rassegnato, stanco, segnato dalla vita. I miei fratelli obbedirono subito, nella luce tenue della stanza scomparvero dietro la porta, lasciata chiusa alle loro spalle.
Perché l’addio con mio padre faceva più male?
Una vampata di calore mi avvolse, l’agitazione mi scorreva nelle vene, temevo qualsiasi cosa mi avrebbe detto, non me ne spiegavo la ragione, probabilmente non abbiamo mai avuto un vero faccia a faccia, lui era solito chiacchierare in solitudine con Leo, con me quasi mai, a meno che non ne combinavo una delle mie.
Mi prese la mano, il gesto così semplice e intimo calmò i miei nervi.
Guardò verso la parete alla mia sinistra dove vi erano appesi i miei sai e la mia maschera rossa, ormai suppellettili, amici fedeli di un tempo che fu.
Ichinichi isshou. Un giorno, una vita” la flebile voce di mio padre accarezzò il mio animo. “Dunque, è quello che vuoi?”
Hai” risposi di sì col mio pessimo giapponese. Lui tacque ancora, annuendo piano guardandomi negli occhi.
“Ti ammiro Raffaello, il tuo è un atto coraggioso. Da vero guerriero quale sei. Sono fiero di te, mi hai reso un maestro e un padre orgoglioso. Ogni giorno della mia vita, momento dopo momento ho gioito di ciò che tu e i tuoi fratelli siete diventati, ho gioito delle più semplici cose che mi avete regalato, da muovere i vostri primi passi a sentire per la prima volta la parola ‘papà’, dalle piccole risse tra di voi all’andare a dormire tutti abbracciati. Non vi ho concepito io, ma nemmeno le forze più potenti dell’universo cambieranno mai questa cosa: io sono vostro padre e voi siete i miei figli. Bambino mio, mi spezzi il cuore lasciandomi. Tuttavia comprendo che nei doveri di un padre c’è quello di lasciare andare i propri figli, di sostenerli nelle loro scelte. Non verrò meno al mio dovere. Ti amo figlio mio”.
“Ti amo anch’io papà… spero solo di averti reso fiero di me. So che sono stato un figlio difficile, ma ogni mia azione, seppur sciocca alle volte, aveva solo il fine di compiacerti. Spero di essere stato degno di un padre come te”.
Mio padre cambiò espressione come se avesse realizzato per la prima volta ciò che gli stavo dicendo.
“Sono io che spero di essere stato degno di te, non so quale buona azione io abbia mai fatto per meritarmi quattro doni come voi. Tu sei un dono bambino mio, un dono del cielo” non ci furono più parole.
Si abbandonò su di me, mi strinse come non faceva da anni, abbandonò l’orgoglio, l’imbarazzo, la freddezza del guerriero; abbracciato a me c’era solo il mio papà.
Otōsan, papà… ti voglio bene... Per sempre”.

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Note dell’autrice:
Ciaoooooooooooooooooooooooo!!!!!
Siamo giunti al penultimo capitolo, chiedo scusa per il mio ritardo nella pubblicazione, ma di mezzo ho avuto un Christmas Comix, sono sicura che mi capirete. XD

 

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Capitolo 11
*** Ora ***


Mi hanno definito irascibile, focoso, permaloso. È vero!
Tutti hanno sempre temuto la mia rabbia, mio padre, i miei fratelli, i miei amici. Non perché loro avessero paura di me, figuriamoci, sanno benissimo che li amo e che darei la mia vita per loro.
 

Eccoci giunti a… ora.
Mentre mio padre mi abbracciava ho ripercorso il mio ultimo anno di vita, mi è sembrato un istante veloce come la luce, un flash di ricordi. Il susseguirsi di scene come in una vecchia pellicola di un film in bianco e nero. È questo che intendono quando dicono che ti scorre tutta la vita davanti quando si muore? Probabilmente sì, probabilmente no. So solo che questo è ciò che è capitato a me.
C’è un dettaglio, la mia ora non è giunta. Non ancora.
Sono qui in silenzio, respirando il profumo di mio padre a godermi sereno questi ultimi momenti con lui, un piacere fanciullesco mi abbraccia e mi culla, sono felice di aver avuto questo confronto con lui.
Gli occhi grigi di mio padre incontrano i miei mentre si ritira su, ci guardiamo rasserenati, ci siamo detti tutto; finalmente i due fuochi della famiglia si sono spenti con le nostre stesse lacrime, la dolcezza ha legato in una stretta indissolubile il nostro amore.
Con le dita mi asciuga le lacrime che mi segnano il viso, nessuno dei due prova vergogna in questo gesto. Poi col dorso della mano asciuga le sue.
Ci guardiamo, siamo pronti.
Rialzandosi stancamente, dolorante, con un corpo che di giorno in giorno si prepara alla vecchiaia, apre la porta della camera e fa entrare i miei fratelli; nonostante quello che sta per succedere li vedo molto tranquilli, col volto pacifico, addirittura mi sorridono benché in modo discretamente forzato.
Michelangelo è alla mia sinistra che subito mi stringe la mano, appena dietro di lui c’è Leonardo che mi mette una mano sulla gamba. Donatello invece è alla mia destra, sta riempiendo una siringa di un medicinale, quel medicinale. Ha la bocca serrata mentre lo fa, credo stia trattenendo il respiro, nonostante ciò nel suo volto vedo la determinazione di mantenere la sua promessa. Mio padre è di fianco a Don, anche lui con una mano sulla mia gamba. Tutti sono colti da questo irrefrenabile bisogno di toccarmi, di tenermi ancora un po’ di più con loro. O forse lo fanno per me, per farmi sentire che mi sono vicini. Lo trovo piacevole, ricambierei il gesto se potessi, voglio sentire il loro calore fino all’ultimo.
Rivolgo la mia attenzione sui dettagli della mia camera, quelli che mi hanno tenuto compagnia per tutti questi mesi, poi getto uno sguardo alle mie armi e alla maschera rossa, il mio essere, la mia esistenza sono girati attorno ad essi per tutta la vita. La maschera, divisa di un ninja; i sai le estensioni delle mie braccia ‘addio miei fedeli compagni’ penso mentre distolgo lo guardo dalla parete.
“Ragazzi, c’è una cosa che non ho fatto. Non vi ho dato i vostri regali di natale” gli sorrido compiaciuto, sono sicuro che apprezzeranno.
“Perdonatemi se non gli ho incartati, non ho avuto tempo” mi scappa una battuta e li sento piacevolmente ridacchiare, mi fa bene all’anima sentire quel simpatico mormorio di sottofondo.
“Mikey, Don… voglio che voi due abbiate i miei sai, uno ciascuno. I vostri sono solo pezzi di legno in fondo, avrete bisogno di un po’ di metallo ogni tanto” li prendo in giro. Mi aspettavo una risposta, anche solo un grazie, ma capisco che aprire bocca significa esplodere in lacrime, così entrambi a labbra serrate e leggermente sorridenti pronte a lasciar sfuggire dei gemiti, annuiscono in segno di gratitudine.
“Leo, so che sei un pivellino e un fifone, ma a te regalo la mia moto. Trattala bene, non graffiarla!” gli ammicco divertito; lui a differenza dei miei fratellini mi risponde a tono. “Sarò un pivellino con la moto, ma non un fifone. Ti prometto che la tratterò bene” la voce trema, anche se la camuffa con un tono fiero, tipico di Leo.
“Sensei, padre… ti rendo la mia maschera. È stata il simbolo del guerriero che sono stato, senza non ero me stesso. Voglio che te la riprenda, voglio che sia tua” sto rischiando di lasciarmi andare, lui mi stringe la mano e mi dà la forza di cui ho bisogno.
“Sei un guerriero e sempre lo sarai, con o senza machera” corregge benevolo le mie parole.
Ho fatto tutto quello che dovevo. È il momento di salutare un’ultima volta la mia famiglia, è ora.
Li riguardo uno per uno, grato a tutti loro per la vita che mi hanno regalato, è stata un’avventura, un sogno, abbiamo lottato contro la nostra stessa natura, ci siamo nascosti al mondo, siamo cresciuti nelle fogne di questa lugubre, sporca, macabra ma stupenda città.
Abbiamo vissuto insieme imparando gli uni dagli altri, siamo cresciuti con caratteri diversi, uniti però dallo stesso spirito d’onore che nostro padre ci ha insegnato, insieme siamo una squadra, un tutt’uno. La forza più potente del mondo che io chiamo famiglia.
Gratitudine?
Certo che sono grato.
Ringrazio Michelangelo per ogni momento in cui è sgattaiolato nel mio letto frignando perché aveva avuto un incubo, per tutte le volte che sulla pizza aggiungeva ingredienti disgustosi, benedico ogni gavettone d’acqua, ogni cianfrusaglia lasciata davanti ai piedi che più volte mi ha fatto inciampare. Sono riconoscente di ogni colazione e leccornia che lui abbia mai preparato, di ogni lattina toccata col piede ogni qual volta dovevamo essere furtivi, delle bibite che nascondeva dietro il frigorifero ignorando che io conoscevo il suo segreto.
Ringrazio Donatello per tutte le volte che mi ha ascoltato, che mi ha medicato le ferite con cura, anche di nascosto da nostro padre, per non farmi mettere in punizione. Per tutte le volte che ha riparato qualcosa che irrimediabilmente ho rotto. Per tutte le macchie di caffè in cucina, per aver terminato l’acqua calda in bagno, per avermi regalato la mia amata moto, per aver sopportato le mie angherie nei suoi confronti.
Ringrazio Leo, colui che ha tollerato il mio carattere irascibile e le mie provocazioni, per tutte le circostanze in cui mi rinfacciava di essere il leader, per tutti i momenti in cui ha bruciato qualcosa in cucina, per ogni rimprovero, per tutte le volte che si è preso la colpa al mio posto, gli sono grato anche di tutte le volte che mi ha rubato il telecomando o mi nascondeva le chiavi della moto.
Ringrazio il mio Maestro, mio padre, il mio papà per avermi cresciuto come figlio, di avermi regalato l’amore, di avermi donato una famiglia.
Mi guardano.
Ognuno combatte con i propri sentimenti, ciascuno a suo modo affronta i propri demoni. Sono certo che loro saranno forti, che avranno un futuro meraviglioso e felice. Mi spiace di non poterli accompagnare nel loro cammino, di non poter guardar loro le spalle. So che se la caveranno alla grande. 
“Sei pronto?” è la voce appena percettibile di mio padre che mi sorride dolcemente, io ricambio il suo sorriso, mi manca la forza di parlare, ma il mio gesto è passato come consenso.
“Raph…” Don inspira profondamente e poi espira piano prima di continuare “la medicina avrà un effetto quasi immediato… sarà come… come…” cede.
“Sarà come addormentarti, non sentirai nulla” continua mio padre.
Il genietto si ricompone da quell’attimo di debolezza, sta per afferrare la siringa, però la mano calma e sicura di mio padre lo ferma immediatamente, con un gesto lieve lo invita a scambiarsi di posto “lo faccio io” afferma sereno prendendo la siringa.
Per una frazione di secondo vedo il volto deluso di Don, capisco che sente di aver fallito nei miei confronti, lo avrebbe fatto lui, me lo aveva promesso. Da parte mia non ho alcun motivo di biasimarlo, glielo faccio sapere, devo lasciarlo tranquillo con sé stesso “è tutto ok. Va bene così” lo rassicuro. Ora anche lui mi tocca la gamba.
Sento che dovrei dire qualcosa, una frase finale d’effetto, di addio. Qualsiasi cosa, ho la mente annebbiata non riesco a pensare a niente, guardo solo i loro volti, sento il loro tocco, tutto il resto è una fitta nebbia.
Non dico niente.
“Ti amiamo fratello” è la voce di Mikey. “Sei il migliore” seguita Don. “Tienici d’occhio Raph” conclude Leo.
Li scruto tutti e tre, i nostri occhi si parlano, si scambiano un ultimo sguardo d’intesa, scatto una foto nel mio cuore.
Ora punto i miei occhi verso mio padre, questo è il mio regalo di Natale, il mio ultimo sguardo è per lui, lui solo. Ci osserviamo e cerca il mio consenso per tirare giù il sipario della mia vita, richiudo e riapro gli occhi per annuire.
Una pausa, i loro respiri si fermano. La loro presa è più salda su di me.
Il ticchettio dell’orologio suona gli ultimi battiti della mia vita, posso sentirlo come un tamburo vichingo, un rimbombo eterno, quel momento si distende si allunga in una linea temporale senza fine.
No, finita.
Avverto l’ago che mi pizzica la pelle, che si insinua nella mia carne, non mi ha fatto male, l’ho solo percepito.
“Riposa figlio mio”. Con quelle parole lo vedo premere lo stantuffo della siringa che irradia dentro il mio corpo un forte calore, è una sensazione stranamente piacevole, sento che sto scivolando via, ogni fibra del mio corpo si abbandona, ogni istante mi sento più lontano, assente, distante.
Papà mi sorride, mi stringe la mano, la sento vagamente come un batuffolo di cotone; sto per addormentarmi, si voglio dormire.
È questa la morte?
Mi rimangono le ultime energie e sento un improvviso bisogno impellente di dire un’ultima cosa, faccio per parlare, è difficile, sto andando, ma devo farlo. Non posso andarmene senza dire almeno un’ultima parola, solo una… Mio padre mi conosce più di me stesso, lo capisce e si avvicina per ascoltare il mio ultimo alito di vento “… grazie…”.
Ora è finita.
Sono felice, giuro sono veramente felice. È quello che voglio, che ho sperato per tanto tempo, ora posso volare via.
Come lo Spirito del Natale presente, me ne sono andato un minuto alla mezzanotte.
Il mio desidero si è avverato.

 
“…e come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno come le rose”.
 
Al mio amico Nicolas.
 
 
………………………………………………………………………..

 
Note dell’autrice:

Ebbene sì, ultimo capitolo. Sono commossa mentre scrivo queste righe, è stato bello condividere questa storia con voi, un’emozione completamente nuova. Io ho fatto del mio meglio, ci ho provato, mi auguro che questa storia vi abbia emozionato almeno un po’.
Vi ringrazio con tutto il cuore e anche di più per avermi dedicato il vostro tempo.
Made of Snow and Dreams e Ciarax, che dirvi? Siete stupende, mi avete spronata a continuare e chissà, magari tra non molto sarò di nuovo qui con una nuova storia.
Vi abbraccio tutti!! Ciaoooooooooooooooooooooo!!!

elenatmnt

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