Healing Hands

di Princess_of_Erebor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***




Capitolo I


Nampara, Cornovaglia
Marzo 1783


 
 
 
Jennifer trasse un profondo respiro. Era ben consapevole della ragione che l’aveva condotta fin lì, tuttavia non aveva idea di cosa sarebbe accaduto dopo aver varcato quella soglia… Di che cosa avrebbe provato. L’unico fatto certo, era che alcune cose sarebbero cambiate per sempre. Era proprio sicura di volerlo fare? In fin dei conti, nessuno la obbligava. Aveva tutto il diritto di voltare le spalle a colui che, senza scrupoli, le aveva voltate a lei e a sua madre.
Forse era ancora in tempo per tirarsi indietro; sarebbe bastato voltarsi, raggiungere l’ingresso dal quale era entrata e correre verso casa, libera e spensierata, attraverso la campagna lusingata dal timido sole di un inverno che non aveva premura di cedere il posto alla primavera. Ma si sarebbe sentita davvero spensierata, dopo?
Ci sarebbero stati “loro” ad attenderla, al rientro nella sua dimora: amarezza e sensi di colpa. Il rimpianto avrebbe preso a braccetto il rimorso, ed entrambi l’avrebbero tormentata giorno e notte fino a farle maledire la sua infelice decisione.
Cominciò a sentirsi male, e lei detestava mostrarsi vulnerabile. Da sua madre, quando era in vita, aveva appreso la sottile arte del tramutare la debolezza in forza; amava sentirsi invincibile, allo stesso modo in cui amava le sfide, ma in quel momento ogni pensiero che sapeva di conquista sembrava essere stato paralizzato da un nemico inatteso e sconosciuto. Aveva il fiato corto, come dopo lunghe miglia percorse senza fermarsi, per di più sentiva le membra irrigidite da un’opprimente inquietudine, simile a quella che la perseguitava dal giorno in cui aveva ricevuto la lettera.
“Entrate pure!”.
La serva che aveva guidato lei e l’altro signore attraverso la casa – ridotta ad una specie di porcile – fino alla porta chiusa, finalmente si era decisa ad aprire bocca; la sua voce vagamente stridula procurò alla fanciulla un sussulto, facendola riemergere bruscamente dall’abisso delle proprie riflessioni. Jennifer la guardò con curiosità: era una donna di mezza età grassa e sgraziata, coi capelli unti e sciatti. Puzzava di sudore frammisto ad alcol e aveva l’aria seccata di chi, impegnato a rifuggire i lavori domestici, era stato strappato al suo dolce far niente per annunciare una visita di cui non gli importava un accidenti. Aveva già abbassato la maniglia, quando Jennifer si rese conto di non essere pronta. Ma, che lo fosse o meno, a quel punto era troppo tardi per svignarsela. In fondo, non era mai stata una codarda. Il corpulento gentiluomo che l’aveva accompagnata in quello strano posto, e che sosteneva di essere suo zio, si fece avanti entrando nella stanza, dopo averle dato una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento. Col cuore che le batteva così forte da mozzarle il respiro, la ragazza fece qualche passo e d’un tratto si ritrovò immersa nella semioscurità. La porta venne chiusa alle sue spalle con un tonfo secco; subito dopo, il fruscio delle pantofole della domestica che si allontava lungo il corridoio la raggiunse e le rimbombò lugubre nelle orecchie in quel pesante silenzio di tomba, come il sussurro di uno spettro.
Jennifer gettò un’occhiata attorno a sé: l’unica candela accesa, quasi consumata, era sorretta da un candelabro di bronzo posto su di un vecchio comodino. La sua luce fumosa e tremolante rivelava un grande letto al centro della camera, circondato da pannelli di mogano; davanti al caminetto spento sulla sinistra, un tavolino di vimini e una poltrona logora costituivano l’unica mobilia che pareva beffarsi del disordine e del lerciume che regnavano dappertutto. L’aria viziata e stantia andò a colpire le sue narici provocandole un forte senso di nausea, ma la giovane donna tenne duro e, in quel momento, l’uomo che giaceva sul letto dai pannelli aperti le fece cenno di avvicinarsi. Lei obbedì e, non appena gli fu accanto, abbassò lo sguardo esitante su di lui: era un signore piuttosto avanti con gli anni, benché le rughe e la malattia non avessero del tutto guastato un viso che, in giovinezza, doveva essere stato particolarmente bello. Mary Jane si era sempre rifiutata di parlare alla figlia Jenny (com’era solita chiamarla sua madre) della notte in cui l’aveva concepita, ma in seguito la fanciulla era riuscita a scoprire che suo padre si chiamava Joshua Poldark, che era vedovo e che aveva un debole per le donne.
“Ebbene, Jennifer” disse lentamente Joshua tirandosi su a sedere con grande sforzo, per poi lasciarsi ricadere contro i cuscini che lo sostenevano, tossendo. “Come stai?”.
“Bene, signore” rispose lei con voce malferma. “A differenza di voi”, si trattenne dall’aggiungere. Stava iniziando a chiedersi quali altre domande del genere l’attendevano, quando qualcosa balzò sul lenzuolo catturando la sua attenzione: un grosso gatto grigio dagli occhi gialli e lucenti miagolò dirigendosi verso la mano del padrone, contro la quale strofinò prontamente il muso. Doveva avere la rogna, poiché sul pelo mancavano delle chiazze, e alcune parti del corpo erano ricoperte di croste. Suo malgrado, Jennifer sorrise.
“Ti piacciono i gatti?” chiese Joshua con un filo di voce, abbozzando un sorriso a sua volta.
“Molto, signore. Come si chiama?” s’informò lei, osservando la mano nodosa dell’uomo affondare nel pelo consumato dell’animale. Di fronte a quella visione, fu pervasa da un insolito senso di tenerezza.
“Lei è Tabitha Bethia”.
“Un nome piuttosto singolare per una gatta”.
“E’ il nome che la mia Grace diede alla micina avuta in dono da suo padre quando era bambina”.
Joshua aveva parlato con fatica; ogni parola che gli usciva dalle labbra – quando non veniva troncata da un colpo di tosse – richiedeva tutte le energie che gli restavano.
Jennifer tacque. Non sapeva cosa dire e si era pentita di avergli rivolto una domanda che, in qualche modo, aveva evocato ricordi dolorosi. Ma perché preoccuparsi per quell’uomo? In quasi dodici anni, lui non si era mai preoccupato per lei e solo adesso, in punto di morte, mostrava qualche rimorso di coscienza. La ragazza distolse lo sguardo dal malato, e solo allora notò un tizio intento a fissarla dal lato opposto della stanza, seduto in disparte nella penombra. Era alto e magro, con folte sopracciglia grigie, le braccia incrociate sopra un’elegante borsa di pelle che reggeva sulle gambe; doveva essere il dottore e, a giudicare dall’espressione insofferente e annoiata, aspettava solo che il suo paziente tirasse le cuoia. In piedi accanto a lui, il gentiluomo grasso picchiettava il pavimento polveroso con la punta del bastone, una mano gonfia appoggiata sul ventre sporgente; sembrava irrequieto e a disagio. Jennifer lo trovava disgustoso, con tutte quelle eruttazioni che nella quiete della stanza risuonavano simili a rombi cavernosi. La sua attenzione si spostò quindi sui consunti tendaggi di seta del letto; mentre ne studiava le decorazioni, Joshua girò piano il capo verso di lei e parlò di nuovo.
“So di non essere stato un buon padre...”.
“Voi non siete stato affatto un padre”.
Quella brutale sincerità l’aveva senz’altro ereditata da lui, pensò il vecchio Poldark scrutando sua figlia con tutta l’attenzione che la vista offuscata gli consentiva, nonché con una certa dose di compiacimento: era una ragazzina esile e molto graziosa. Aveva il sorriso malizioso della madre e un acuto scintillio di vitalità nei grandi occhi nocciola. Nonostante il frangente, un lento sorriso inarcò la bocca di Joshua; non gli dispiaceva l’idea di partire per l’aldilà accompagnato dalla consapevolezza di lasciare sulla terra qualcosa di sé. Qualcosa di buono.
“So che è tardi per fare ammenda” disse col respiro affannoso, fissando le travi del soffitto. “Ma prima di andarmene all’inferno, devo dirti che hai un fratello”.
Jennifer rimase immobile. Era stordita. Per alcuni lunghi istanti, dubitò di aver inteso bene. Sua madre non le aveva mai parlato dell’esistenza di un fratellastro, ma in fondo non c’era da stupirsi.
“U-un fratello, dite? E dove si trova adesso? Come mai non è qui?” balbettò infine.
"Si trova in America, è lì che ha combattuto. Ma non appena la pace sarà ufficiale, lui tornerà…” s’interruppe a causa di un nuovo attacco di tosse, “e quando ciò avverrà, vorrei che tu lo incontrassi”.
“Quanti anni ha?”.
“Quasi ventitré”.
“Lui sa della mia esistenza?”.
Joshua scosse la testa. “Ross è un bravo ragazzo, sono certo che sarà felice di conoscere sua sorella. Così, nessuno di voi due resterà solo e potrete farvi compagnia”.
A quelle parole, Jennifer sentì il cuore colmarsi di una strana felicità. Aveva un fratello! Ross… Era questo il suo nome. Non era mai stata entusiasta di essere figlia unica e, da quando la tisi le aveva portato via sua madre, era sola al mondo.
“Lo farò volentieri, signore. Conoscerò mio fratello”.
Allora il vecchio tese una mano ansiosa verso la fanciulla, e un improvviso luccichio spuntò all’angolo del suo occhio sinistro.
“Mi dispiace tanto, figliola!” disse ansimando penosamente.
C’era un autentico pentimento nella sua voce; Jennifer lo percepì e ne fu colpita, malgrado tutto. D’impulso, gli afferrò dolcemente la mano tremante per stringerla nella propria.
“Avete il mio perdono… Padre”.
Il volto cereo dell’uomo si illuminò e, per un attimo, parve ritrovare il suo antico colorito.
“Attendi il suo ritorno. Perché Ross tornerà… Me lo sento”.
Finito che ebbe di parlare, Joshua fu sul punto di soffocare per l’ennesimo colpo di tosse, al quale ne seguì un altro, e un altro ancora; annaspò, mentre il volto si faceva livido. Un ultimo rantolo agonizzante, prima che i suoi occhi si spegnessero per sempre. Il signor Poldark di Nampara se n’era andato in pace.




**-**





Nota dell’autrice:

E’ mio piacere, e dovere, ringraziare tutti quelli che si sono concessi una piccola porzione del loro tempo prezioso per leggere questo capitolo.
Tengo a precisare che non sono una scrittrice, né ambisco a diventarlo. Scrivo per puro diletto, animata dalla passione per un personaggio che sento "mio" e che ho amato in modo particolare, tanto nella serie TV quanto nei romanzi: il dottor Enys. Lui mi è affine, e questo è in grado di spiegare almeno in parte l’amore profondo che provo, lo stesso che mi ha donato l’ispirazione per cominciare a buttare giù una storia che avesse Dwight come secondo protagonista. Per quanto concerne il personaggio femminile, noterete che i suoi modi di fare non si discostano a tratti da quelli di Caroline; tuttavia, non è a lei che mi sono ispirata nel creare Jennifer, bensì a me stessa. Per inciso, la sua storia personale è completamente diversa da quella della Penvenen.
Il tempo che ho a disposizione per dedicarmi alla scrittura è purtroppo limitato, pertanto faccio presente che pubblicherò una volta ogni tanto. Ad ogni modo, farò del mio meglio per portare avanti questo piccolo progetto, a prescindere dalle tempistiche di pubblicazione. In fondo, le idee non mi mancano e la trama è già delineata nella mia mente.
Cos’altro dire: le recensioni sono molto gradite, dunque le attendo con ansia e curiosità. 
Ancora grazie a tutti!
 
Claudia





 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***




Capitolo II


Nampara, Cornovaglia
23 Luglio 1788





La luna si accingeva a lasciare il posto ai primi raggi di un sole che avrebbe annunciato una magnifica giornata; il suo pallore spettrale andava sbiadendo, mescolandosi col rosa e con l’azzurro che dipingevano il cielo ad oriente, cancellando gli ultimi lembi di un sipario notturno spruzzato di stelle. Un’alba immobile e limpida accolse una fanciulla che cavalcava verso la tenuta di Nampara, il vento tra i capelli e la freschezza negli occhi. Di lì a poco avrebbe compiuto diciassette anni, anche se nessuno, a vederla, avrebbe giurato che ne avesse più di quindici; di certo, nel cuore lei ne sentiva molti di più. Passando sul sentiero accanto alla Grambler – la miniera di suo zio dalla volubile fortuna, nonché il nucleo dell’industria locale – Jennifer notò che le luci erano spente. Non c’era anima vivente. Niente canti di ragazze che andavano a lavorare salutando il nuovo giorno con le loro voci angeliche, nessun cane che abbaiava, né un mulo che ragliava; nei dintorni regnava la calma più assoluta. Poi, ridendo di se stessa e della propria dimenticanza, la giovane rammentò che la sera precedente gli operai avevano terminato in anticipo il turno, e che quella mattina nessuno di loro si sarebbe recato sul posto di lavoro: era la festa di Sawle, e i minatori avrebbero goduto di una meritata giornata di riposo da trascorrere al villaggio a ballare, ad improvvisare giochi e – naturalmente – ad ubriacarsi. Ma la maggior parte di questi operai, insieme a mogli e figli, si sarebbe ritrovata a casa del capitano Poldark, che aveva organizzato una festa non meno allettante dell’altra: quella per il battesimo di Julia Grace, la bambina che sua moglie Demelza aveva dato alla luce il quindici Maggio.
Pregustando il divertimento che prometteva il programma della festa, Jennifer cavalcò con rinnovata impazienza fino a raggiungere le terre di famiglia; al chiarore dell’alba che avanzava intravide i rettangoli appena illuminati delle finestre di Nampara, quindi attraversò il ponte proprio mentre Jud Paynter, borbottando come il suo solito, sistemava i tavoli e le panche in giardino.
“’Giorno, Jud” lo salutò smontando da Fluffy, la sua docile giumenta. “Dormito bene?” gli chiese in aggiunta, per il puro gusto di stuzzicarlo un po’.
“Se per voi dormire bene significa trascinare il fondoschiena fuori dal letto un’ora prima dell’alba, allora questo non è affatto un buon giorno!” ringhiò il servo, lanciandole un’occhiataccia da sotto le sopracciglia spelacchiate.
“Oh, andiamo! Alzarsi di buonora non ha mai fatto male a nessuno”.
“Che io sia dannato se non è un male! Scendi dal letto, inciampi nel buio, ti ritrovi per terra con il collo spezzato e ffft… Sei morto!”.
“E questo non è giusto, vero Jud?”.
“No che non lo è! Non è carino, non è sicuro, non è…”.
“Non è appropriato!” lo mise a tacere Jennifer anticipando il finale di una cantilena che, pur conoscendo ormai a memoria, suscitava in lei una certa ilarità ogni volta in cui l’ascoltava. Jud, una pesante panca di legno tra le braccia pronta per essere posata a terra, mise in mostra gli unici due denti superstiti rivolgendo alla ragazza un altro sguardo torvo, stavolta più incisivo del primo.
Lei ridacchiò e, voltandosi per incamminarsi verso le stalle, vide il padrone di casa uscire dalla porta d’ingresso.
“Signorina Poldark! La tua puntualità lascia a desiderare: il gallo ha cantato quasi mezz’ora fa” disse Ross avanzando verso di lei.
“Buongiorno anche a te, capitano. Pensi tu a Fluffy? Io raggiungo le donne in cucina. C’è molto da fare ed è meglio mettersi subito al lavoro!”.
Jennifer lanciò al fratello le redini della giumenta e sbadigliò con indifferenza, quasi non avesse inteso la lagnanza di lui; ma, mentre passava accanto al grande vaso di anemoni, Ross le si parò davanti con fare spavaldo.
“Aspetta un attimo: hai intenzione di cambiarti d’abito per il pranzo, non è vero? Voglio dire, non puoi presentarti vestita come se stessi andando ad un ricevimento di galline!”.
“E privarmi del gusto di vedere il capitano Poldark a disagio di fronte ai suoi amici?”.
“Non sarò io quello a disagio, ma tu. Sembrerai la mia sguattera, anziché mia sorella. Dimmi un po’, dov’è finita la tua femminilità?”.
“Magari nello stesso posto in cui è finita la tua buona educazione”.
Con la mano chiusa a pugno, Jennifer scansò Ross colpendolo sulla spalla e passò oltre, ma dopo tre o quattro passi si arrestò: in quel momento i due si voltarono l’uno verso l’altra guardandosi negli occhi, ed esplosero in una sonora risata.
“Per Giuda! Qui c’è una montagna di cose da fare, e voi perdete tempo con le vostre insulse battaglie verbali!”.
Demelza era apparsa nell’atrio e si stava pulendo le mani sul grembiule; a dispetto del tono di rimprovero, sorrideva, osservando il marito e la cognata con aria divertita. Ai suoi piedi, Garrick abbaiò in segno di saluto e con un balzo corse via per saltellare attorno alla nuova arrivata, che si chinò per dargli qualche vigorosa pacca sui fianchi.
“Buongiorno, Dem! Stavo per raggiungerti in cucina” chiarì Jennifer, “ma com’era da aspettarsi sono stata trattenuta dal tuo uomo. E’ un impertinente, meriterebbe una bella punizione!”.
Nel frattempo, Ross si era avvicinato lentamente a sua moglie assumendo un’espressione di finta colpevolezza che lo faceva assomigliare ad un bambino in attesa del temuto rimprovero materno. Ad un certo punto abbassò il capo, simulando una contrizione che si trattenne dal lasciar sfogare in uno scoppio di risa; infine sollevò lo sguardo su quello interrogativo della donna e, a sorpresa, le offrì le labbra come solo lui sapeva fare, in un bacio morbido e arrendevole che avvolse Demelza in tutta la sua dolce intensità, facendola vibrare come le corde di un’arpa.
Jennifer si ritrovò a sorridere, affascinata: una scena del genere le era ben familiare, eppure si emozionava ogni volta come se fosse la prima. Del resto, con Ross e Demelza non poteva essere altrimenti. Ciò che li univa era quel tipo di sentimento che ti sfiora il cuore e poi lo afferra, per non lasciarlo più. Un amore autentico che cresce giorno dopo giorno senza temere avversità alcuna, in quanto possiede le armi necessarie a sconfiggere ogni sorta di nemico; un amore che mette radici profonde, divino nella sua purezza e solido nelle sue umane fragilità. Aveva avuto il privilegio di vederlo sbocciare negli occhi di entrambi, suo fratello e sua cognata, benché in tempi diversi. Chissà se, in futuro, una simile buona sorte avrebbe bussato alla sua porta indossando i panni di un uomo capace di toccarle il cuore… Si sarebbe rivelata una sfida interessante, considerando la sua indole ribelle. Era pronta a scommettere che nessun ragazzo disponesse delle qualità adatte a tenerle testa, o a soddisfare i più reconditi bisogni e desideri del suo intimo. Forse – come aveva detto più volte a Jinny – il vero amore esisteva soprattutto nei libri e nelle fantasie degli spiriti romantici; forse, di quelle rare eccezioni che poteva vantare la vita reale, lei non era destinata a far parte. Il che, per certi versi, non sarebbe stato poi così grave: innamorarsi era qualcosa che al momento non rientrava nei suoi obiettivi. Si era domandata spesso cosa fosse l’amore per lei. Un raggio di sole che ti asciuga il viso dopo la tempesta… Una corsa a perdifiato nei campi, o a piedi nudi sulla sabbia… Il suono spumeggiante delle onde che si annullano sugli scogli… Le fusa di un gattino sul grembo… Le grida dei gabbiani che si librano sul mare… L’amore non era altro che il sorriso ancestrale della natura, unito a quello delle persone la cui presenza nella vita rappresentava una benedizione.
“Sei qui, finalmente! Be’, che fai lì impalata? Ci serve aiuto con le torte!”.
Riemergendo pigramente dai propri pensieri, Jennifer distolse l’attenzione dai coniugi Poldark e si accorse che a parlare era stata Jinny, affacciata all’entrata principale, il volto impaziente; le corse incontro senza indugiare oltre, seguita poco poco da Demelza. In cucina Verity e Prudie erano già all’opera e, non appena le donne furono al completo, si diedero da fare con le torte e con gli strati di carne dei pasticci, per poi dedicarsi ai capponi e alle anatre.
Ross e Demelza avevano optato per un pranzo tradizionale, di quelli che soddisfano ogni genere di aspettativa, a differenza di quanto avevano stabilito per il banchetto del giorno prima – al quale avevano preso parte ospiti dai palati più esigenti. Per la seconda festa in onore della loro primogenita, marito e moglie avevano ritenuto infatti che ricette sofisticate e moderne sarebbero risultate fuori luogo, dal momento che gli invitati appartenevano ad un rango inferiore al loro; molti non avrebbero gradito e, quel giorno, tutti dovevano sentirsi a proprio agio e divertirsi. Dopo sei ore ogni cosa era pronta e cominciarono a comparire i primi ospiti, scortati da un sole sfolgorante che aveva deciso di contribuire alla riuscita della giornata, evitando di abbandonarsi ai suoi capricci abituali. Mentre i padroni di casa attendevano l’arrivo dei consueti ritardatari, Jennifer andò a cambiarsi nella sua stanza, o meglio nella stanza di cui si serviva ogni volta che si tratteneva a Nampara per un’occasione speciale; si sfilò la vecchia camicia di Ross, i pantaloni al ginocchio – stracci da lavoro, come li definiva – e indossò l’elegante abito cremisi acquistato qualche settimana addietro in uno dei migliori negozi di Truro. Sua cognata e sua cugina gliel’avevano caldamente consigliato per via del colore, che a loro parere metteva in risalto la sua deliziosa pelle lattea. Poi si sedette alla toeletta per spazzolarsi con cura i lunghi capelli scarmigliati, una consuetudine a cui non sapeva rinunciare, specialmente quando era pensierosa o stanca. Finito che ebbe di sistemarsi, si guardò compiaciuta allo specchio e tornò in cucina per vezzeggiare la sua adorata nipotina; quando uscì, trovò Ross in giardino che conversava con Zacky Martin e con un altro paio di affittuari. Lui la vide avvicinarsi con Julia in braccio, sorridente e sbarazzina, incantevole e radiosa come non mai, e di colpo realizzò che sua sorella non aveva più l’aspetto dell’acerba ed esile ragazzina conosciuta al ritorno dall’America: adesso era una splendida creatura che il tempo aveva maturato in donna.
“Buongiorno, Jennifer” la salutò Zacky togliendosi il cappello e rivolgendole un piccolo inchino. “Diventate ogni giorno più bella… Immagino che abbiate una schiera di ammiratori al vostro seguito!”.
“Ho qualche dubbio in proposito” interloquì Ross inarcando un sopracciglio con fare ironico, “dato che gli sciagurati che si arrischiano ad avvicinarsi finiscono col darsela a gambe levate, dopo aver scambiato qualche parola con lei!”.
Jennifer gli scoccò un’occhiata affilata ed era sul punto di ribattere, quando la piccola Julia sollevò le manine chiuse a pugno emettendo dei gridolini di felicità tra le sue braccia, come divertita dall’ennesimo battibecco tra la zia e il papà.
In quel momento, sul ponte di assi apparvero i membri della famiglia Daniel dal più giovane alla più anziana, quindi Ross abbandonò la conversazione per andar loro incontro e dargli il benvenuto. Ora gli ospiti erano al completo e, nel giro di qualche minuto, sulle panche disposte attorno ai tavoli che Jud aveva sistemato in giardino non vi era un solo posto libero. Le prime portate furono servite da Prudie e Jinny e, a giudicare dai sorrisi soddisfatti che spuntavano qua e là tra i commensali, la qualità del cibo era davvero ottima (per non parlare della quantità, degna di un esercito!). Prima di soddisfare il proprio appetito, Jennifer vezzeggiò Julia ancora un po’ finché la piccolina non si addormentò beata; allora la adagiò dolcemente nella culla all’ombra degli alberi, e prese posto a tavola tra Demelza e Verity, alzandosi di tanto in tanto per dare una mano e per controllare che ogni cosa fosse al suo posto. Il pranzo volgeva al termine, quando si alzò di nuovo per ritirare le grosse caraffe vuote; uscendo dalla cucina quasi si scontrò con Jinny, che aveva appena riempito e distribuito nuove caraffe di birra. A quel punto, come leggendosi nel pensiero, entrambe decisero di concedersi una pausa e sedettero in disparte l’una accanto all’altra, a chiacchierare indisturbate. Jen e Jin, la mora e la rossa, così le chiamavano alcuni abitanti di Mellin; si erano conosciute due anni prima, quando Jinny era stata assunta come domestica a Nampara, e da allora erano inseparabili. La differenza d’età e di classe sociale non costituiva alcun ostacolo per la loro amicizia, che cresceva pura e salda.
“Devo ancora decidere se perdonarti lo scherzetto di ieri” disse Jinny, fissando il boccale con aria pensosa dopo aver sorseggiato la sua birra.
Per tutta risposta, Jennifer afferrò una ciocca dei capelli castano ramati dell’amica e la tirò verso il basso, ridendo. “Non vorrai fare l’offesa con me! Come ti dicevo stamane, ho avuto un piccolo malessere… Ma sono lieta di vedere che ti sono mancata!”.
“Puoi ben dirlo! Senza la tua vicinanza e il tuo supporto, mi sono sentita come un pesce fuori dall’acqua! Ma più di ogni altra cosa, mi sono mancate le nostre risate”.
“Deduco che il pranzo di ieri non è stato tranquillo e piacevole al pari di questo”.
“Oh, Jen! Come avrebbe potuto esserlo, in mezzo a tutti quei ricconi?”.
“Suvvia, alcuni di loro non sono poi tanto male”.
“Non scherzare! Tuo cugino, per esempio, avrebbe potuto mostrarsi un po’ più educato e meno sprezzante nei miei confronti. E’ stato particolarmente sgradevole!”.
“Francis diventa sgradevole ogni volta che alza il gomito, lo fa con chiunque!”.
“E’ così diverso da tuo fratello! Lui sì che…”.
Ma la frase rimase tronca. Jinny si era voltata a guardare un uomo appena sceso da cavallo, al quale Ross stava andando incontro.
Fu allora che Jennifer lo vide: alto, impacciato, sorridente. Avrà avuto vent’anni, o poco più. Venti primavere di raggi dorati accecanti, tra i capelli scompigliati dalla brezza marina; venti estati avevano donato l’azzurro più terso del cielo ai suoi occhi, che sprigionavano assennatezza e dolcezza in egual misura.
“Buon Dio! E quello chi è? Sembra il principe descritto nel libro di fiabe di Betsy… E’ un capolavoro di bellezza!” esclamò Jinny rapita con lo sguardo fisso sullo sconosciuto, facendo sobbalzare l’amica che le sedeva accanto. Le sue appassionate considerazioni avevano dato voce ai pensieri di Jennifer, che mai aveva visto un uomo tanto attraente e che, colta di sorpresa, per poco non si rovesciò sul vestito nuovo il contenuto del boccale quasi pieno che reggeva in mano. Subito si ricompose, ostentando un’indifferenza che non le apparteneva.
“Se Jimmy ti sentisse parlare in questo modo, suppongo che avrebbe qualcosa da ridire” commentò, un sorrisetto malizioso disegnato sul viso improvvisamente arrossato.
“Jim ed io non siamo fidanzati” replicò distrattamente Jinny, come se non avesse colto l’insinuazione di Jennifer.
“Non ancora, ma lo sarete”.
“La smetti di seccarmi? Devo scoprire chi è quel biondino caduto dal cielo! Non l’ho mai visto qui”.
“Dev’essere un amico di Ross e Demelza”.
“Un conoscente, vorrai dire. Altrimenti sarebbe stato invitato”.
“Come sai che non ha ricevuto un invito ufficiale?”.
“Andiamo, Jen! Nessuna persona rispettabile si presenterebbe a metà dei festeggiamenti, per giunta senza recare con sé un dono per la bambina!”.
“Magari non è una persona rispettabile. Non è raro che quelli della ‘gente alta’, come li chiami tu, si rivelino indegni di stima”.
Jinny esplose in una delle sue briose risate contagiose. “Ti ricordo che tu sei una di loro, mia cara amica!”.
Jennifer scosse la testa rivolgendole un’occhiata di affettuoso biasimo. “Sai bene che non mi sento un’aristocratica”.
“A giudicare dal modo in cui veste, non saprei dire con precisione a quale classe sociale appartiene” rifletté Jinny, esaminando lo straniero con scrupolosa attenzione.
“Non ha i modi e l’aspetto di un gentiluomo avvezzo al lusso” disse Jennifer tra sé e sé, fissando con crescente curiosità quell’affascinante giovanotto che parlava con suo fratello e che, in quel preciso momento, si dirigeva verso uno dei tavoli più vicini preceduto dal suo anfitrione.
“Gradite qualcosa per rinfrescarvi? Ecco a voi, birra di nostra produzione. Avete fatto una lunga cavalcata, e ringraziamo il tempo che ha deciso di essere clemente!” disse Ross, porgendo al nuovo arrivato un grosso bicchiere riempito fino all’orlo di birra fresca.
“Giornata incantevole, davvero!” osservò il giovane, in apparenza più compiaciuto dal primo sorso di birra che dal clima. “Siete gentile ad accogliermi in casa vostra, signore. Ad ogni modo, non è mia intenzione recare disturbo a voi e alla vostra famiglia. Se avessi saputo della festa sarei venuto un altro giorno, ma immagino che Joan non ne sapesse nulla, altrimenti mi avrebbe informato”.
“In effetti, pochi tra gli invitati di ieri sapevano che avremmo dato una seconda festa per il battesimo di Julia” spiegò il padrone di casa, versandosi del gin. “L’idea è stata di mia moglie: voleva evitare di mescolare la panna con le cipolle, se capite cosa intendo”.
Rise, scoprendo i denti brillanti; il ragazzo si limitò ad annuire, abbozzando un sorriso. Non parlava molto e sembrava a disagio, eppure al capitano Poldark non sfuggirono le sue maniere schiette e gli occhi intelligenti.
“Non disturbate affatto, signor Enys. E’ un piacere avervi con noi. Il mio servo si sta occupando del vostro cavallo, dunque non avete scampo: dovete unirvi ai festeggiamenti!” riprese Ross, battendo energicamente la mano sulla spalla dell’ospite mentre si allontanava con lui.
Come morsa da un serpente Jinny scattò in piedi, e Jennifer, che spesso indovinava i pensieri di lei prima ancora che venissero formulati ad alta voce, l’afferrò decisa per un braccio.
“Non essere impudente! Si accorgeranno che li stai seguendo per origliare, non ci farai una bella figura!”.
“Oh, ma io non intendo origliare. Sto andando a rassettare la stanza di Jim, e tu verrai con me!”.
Prima che Jennifer avesse il tempo di protestare di fronte a quello che era un palese pretesto per avvicinarsi all’uomo misterioso, fu presa per mano e trascinata via da una Jinny impicciona come non l’aveva mai vista. Passando come una furia davanti all’uscio spalancato di Nampara, entrambe travolsero una piccola panca di legno a sinistra dell’ingresso, rovesciandola, e quasi inciamparono nella piccola Inez Mary, sorella di Jinny, il naso coperto di lentiggini e i riccioli rossi che saltellavano selvaggi al ritmo dei piedini nudi sull’erba. Quindi svoltarono l’angolo, raggiunsero l’estremità orientale dell’edificio e si introdussero nella stalla, dove salirono fino al soppalco in cui si trovava il giaciglio di Jim Carter.
“Sul serio, cosa direbbe Jimmy se ti vedesse tanto interessata ad un altro”? azzardò di nuovo Jennifer, seguendo per metà divertita e per metà infastidita i movimenti dell’amica che, in piedi sul consunto materasso, apriva con cautela la piccola finestra dai vetri incrostati di sale, nel tentativo di fare meno rumore possibile. “Senza contare che impicciarsi delle faccende altrui non porta mai niente di buono”.
“Si chiama curiosità, mia cara” replicò Jinny senza scomporsi. “Noi donne siamo fatte così: ci sentiamo realizzate, quando abbiamo la possibilità di ficcare il naso negli affari dei vicini o dei parenti, come dice la signorina Verity. E sebbene in questo caso non si tratti né degli uni né degli altri, muoio dalla voglia saperne di più su quel bel forestiero! Lo vuoi anche tu, non provare a negarlo! Ce l’hai scritto in faccia. E poi, non stiamo facendo niente di male”.
“Va bene, mi arrendo!” sbottò Jennifer prima di sporgere leggermente il capo fuori, imitando Jinny. A pochi metri sotto di loro, ignari di essere osservati, i due signori conversavano coi bicchieri in mano in un angolo appartato del giardino, passeggiando pigramente tra i cespugli di rosmarino e di lavanda mossi da una gentile brezza estiva. Ma il più splendente di tutti era il cespuglio di rose di una specie rara, che troneggiava in mezzo ad una gran varietà di piante e fiori: lo sconosciuto ne ammirò la limpidezza del bianco e l’eleganza del rosa, guardandosi attorno con interesse.
“L’amore di Demelza per i fiori ha donato nuova luce a questo posto” disse Ross, in risposta ai cortesi complimenti del visitatore; il suo sguardo – sovente considerato freddo dagli estranei e da coloro che credevano di conoscerlo – si colmava di tenero orgoglio ogni volta in cui parlava della donna che amava sopra ogni cosa, in quel mondo ingannevole che si era dimostrato magnanimo con lui, liberandolo dalla sua antica disillusione e restituendogli parte della fiducia che aveva sepolto in guerra; un mondo che gli aveva impartito una meravigliosa lezione sul vero amore, poiché adesso il senso dei suoi giorni era racchiuso nei vivaci occhi di sua moglie.
“Ebbene, signor Enys…” proseguì, dopo qualche istante di silenzio.
“Vi prego, chiamatemi Dwight” lo interruppe il gentiluomo con garbo, senza riuscire a dissimulare un candido imbarazzo.
 “La signorina Pascoe mi ha parlato bene di voi, Dwight. Ieri, a tavola, raccontavo della tormentosa notte in cui è nata Julia spiegando quanto sia raro, oggigiorno, trovare dei validi dottori che in caso di bisogno diano la loro disponibilità immediata, anche qualora si renda necessario uscire di notte e col maltempo; a sorpresa, Joan è intervenuta dicendo di conoscerne uno tanto giovane quanto promettente. La cosa ha suscitato il mio interesse, così dopo pranzo abbiamo scambiato due parole in privato e lei mi ha riferito di un amico, laureato in medicina da circa sei mesi, che la sua famiglia ospita da qualche tempo e che attualmente è in cerca di un nuovo alloggio, oltre che di un impiego. Ho detto che forse avrei potuto fare qualcosa, perciò mi sono preso la libertà di chiederle di invitarvi a passare”.
Dwight sorrise, il volto arrossato per via del riferimento ai complimenti della Pascoe e per la preferenza accordatagli dal capitano Poldark.
“Vi ringrazio signore, apprezzo molto il vostro interessamento”.
Dall’alto (che poi così alto non era) del suo nascondiglio, Jennifer osservava la scena animata da quel trepidante senso di colpevolezza frammista ad eccitazione che si prova spiando qualcuno dal buco della serratura. Al riparo dalla confusione dei festeggiamenti e certa di non essere scoperta – almeno così sperava – poté osservare meglio il ragazzo: pareva davvero un principe saltato fuori da un racconto per bambini. Il viso fresco dai lineamenti armoniosi era di una bellezza raffinata quanto i suoi modi, nonostante questi tradissero una giovanile insicurezza; lo sguardo risoluto e dolce al contempo faceva pensare ad un carattere forte, arricchito da una generosa sensibilità; la fronte alta, sotto i capelli ondulati e biondi come il grano maturo, rivelava una giudiziosa serietà che, tutte le volte in cui lui sorrideva, cedeva il posto alla timidezza. La fanciulla ne era incantata. I suoi occhi non volevano saperne di staccarsi da quella visione. Possibile che fosse una persona in carne ed ossa, e non il frutto delle proprie fantasie? Peccato che lui avrebbe presto intrapreso la carriera di medico; un mestiere che, purtroppo, la riguardava da vicino.
“Un dottore… Interessante! Potrei rompermi una gamba, o beccarmi un raffreddore” mormorò ad un tratto Jinny. Aveva interrotto il corso dei pensieri di Jennifer e scordato la sua posizione precaria, guadagnandosi una gomitata indignata dall’amica che, allarmata, d’istinto ritrasse il capo dalla finestra; fortunatamente, quello di Jinny era stato poco più di un sussurro udito soltanto dagli uccellini cinguettanti sui rami del biancospino.
“Joan Pascoe mi ha detto che intendete proseguire qui i vostri studi” continuò Ross, bevendo l’ultimo sorso di gin. “Una scelta sensata, dato che da queste parti la vita è decisamente meno cara che a Londra”.
“Pensavo di affittare una casa di modeste dimensioni e di mantenermi prendendo qualche paziente” disse Dwight, i capelli che sfolgoravano al sole del meriggio come sinuose spighe dorate.
“Un’ottima idea. C’è carenza di medici nella zona, e voi sareste più che benvenuto, ve lo assicuro!”.
“Credevo ce ne fosse uno che gode di una certa reputazione, ma forse sono male informato”.
Ross si lasciò sfuggire una smorfia di disprezzo al pensiero di Thomas Choake, un vecchio insolente e cocciuto dalla mentalità ristretta e le idee antiquate.
“Sì, abbiamo un dottore nel distretto, l’unico disponibile nel raggio di chilometri. Peccato che non goda esattamente della mia stima. In ogni caso, se la vostra idea è quella di stabilirvi qui, credo di potervi aiutare: sono socio di una miniera, Joan ve lo avrà detto. C’è bisogno di un chirurgo e potrei farvi avere il posto, se foste interessato. In questo modo, avreste la possibilità di specializzarvi nelle malattie che affliggono i minatori”.
Il viso di Dwight si illuminò come quello di un bambino davanti ad una montagna di giocattoli. “Dovete avermi letto nel pensiero! Mi interessano in modo particolare le affezioni polmonari e i disturbi legati all’apparato respiratorio. E poi ci sono la febbre, le patologie infettive…”.
“La malnutrizione” soggiunse il suo attento interlocutore.
“Purtroppo è alquanto diffusa, e non solo tra i minatori. Vedete, c’è così tanto da imparare e da sperimentare, che sono pronto a lavorare giorno e notte senza chiudere occhio, se necessario!”.
“Questo è lo spirito giusto” affermò Ross sorridendo, “ma vi occorrerà riposare in maniera adeguata per svolgere bene il vostro lavoro, voi lo sapete meglio di me!”. Per un attimo osservò, sorpreso e compiaciuto, quel giovanotto dall’aria sveglia la cui timidezza pareva averlo abbandonato. “Di materiale per i vostri studi ce n’è in abbondanza. La miniera è piccola, conta meno di un centinaio di uomini, ma se deciderete di accettare l’impiego potreste guadagnare abbastanza per mantenervi. E naturalmente, farete esperienza. Prendetevi del tempo per pensarci su!”.
“Non ho bisogno di pensarci, signore” si affrettò a rispondere Dwight. “E’ proprio questo il genere di lavoro che sto cercando. Accetto!”.
“Molto bene! Resta un’ultima questione da risolvere: l’alloggio. Ne ho in mente uno che potrebbe fare al caso vostro. Ne parlerò col proprietario, il signor Horace Treneglos, anche se non credo che ci siano impedimenti. Vi farò sapere entro la settimana. Adesso, permettetemi di offrirvi una fetta di torta e un bicchiere di brandy: anche voi avete qualcosa da festeggiare!”.
Enys sorrise, le guance tinte di un rossore acceso dall’imbarazzo e dall’entusiasmo.
Con un gesto della mano, Ross lo invitò a seguirlo; gli piaceva sul serio, quel ragazzo.
“Vi sono molto obbligato, signor Poldark”.
“Per favore, chiamatemi Ross”.
Eee…tcciù!
I due sollevarono il capo guardando nella direzione da cui era giunto quel suono secco ed improvviso. Non videro nessuno, ma la finestra della stalla che dava sul retro era spalancata, e il sorrisetto che il signore di Nampara non riuscì a trattenere suggeriva che egli aveva indovinato più di quanto avrebbe dovuto, ed era pronto ad indovinare cosa sarebbe accaduto di lì a poco, pregustandone gli effetti.





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Nota dell’autrice:

Dopo aver apportato una piccola modifica al testo, mi sono resa conto di aver cancellato per errore la nota autrice. Ritengo dunque doveroso porre rimedio, riassumendo quanto detto nell'originaria.
E' mia premura sottolineare che nella stesura di questo capitolo ho voluto rendere piena giustizia ai personaggi canonici, incluso il protagonista maschile, al quale sono particolarmente affezionata: Dwight Enys, che come nel romanzo non è un ex commilitone di Ross, bensì un giovane appena laureato in medicina che alloggia a Truro dai Pascoe. L'unico personaggio il cui carattere ho voluto distaccare dall'originale è Jinny Martin, tuttavia non mi concederò altre libertà del genere in futuro. Tengo a precisare che questo episodo, come l'intera storia che ho concepito e che mi accingo a scrivere, si ispira al romanzo di Graham più che alla serie televisiva.
Come ultima cosa, voglio rendervi partecipi di un fatto curioso: avevo già scelto il nome della protagonista, quando sono venuta a conoscenza delle sue origini. "Jennifer" deriva infatti da "Jenifer", la forma cornica del nome Ginevra. Il suo uso rimase confinato alla Cornovaglia fino all'inizio del XX secolo, quando venne usato da George Bernard Shaw per un personaggio della sua opera del 1906 intitolata "Il dilemma del dottore" (Fonte Wikipedia). L'ho trovata una coincidenza interessante, che mi piace interpretare come un segno di buon auspicio.
Ringrazio tutti coloro che passeranno a leggere e/o a lasciare il loro commento. A presto!

Claudia




 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***




Capitolo III
 
 

 

“Possibile che tu debba sempre combinare guai?” tuonò Jennifer spazientita, scendendo cautamente le scale di legno tarlato. “Accidenti a me, non avrei dovuto seguirti fin quassù!”.
“Pensi che sia facile trattenere uno starnuto?” si difese Jinny, piagnucolando.
“Io ci riesco, se voglio”.
“Comunque ci siamo ritirate immediatamente, nessuno dei due ci ha visto”.
“Non ci scommetterei. Sottovaluti Ross, a lui non sfugge nulla!”.
“C’è un solo modo per esserne sicure: andiamo a verificare!”.
Attesero alcuni minuti prima di sgattaiolare fuori dalla stalla, quindi attraversarono l’acciottolato e giunsero al grande vaso di anemoni davanti alla casa, sforzandosi di assumere l’aria più indifferente del mondo. Un trafelato Jim Carter dal sorriso trionfante andò loro incontro e prese Jinny per mano.
“Ho vinto la caccia al tesoro! L’avresti mai detto, Jin? E’ il mio giorno fortunato! Vieni con me, voglio mostrarti il premio!”.
La ragazza protestò debolmente, ma lui non le diede retta e corse via portandola con sé.
Dopo essersi lisciata l’abito e sistemata i capelli scarmigliati, Jennifer – in piedi a pochi metri dall’ingresso – si guardò intorno: il pranzo era terminato da un pezzo, anche se l’assalto ai dolci e alle bevande era ancora in atto, allo stesso modo del divertimento e di un’allegra confusione. Nei pressi del meleto si svolgeva la premiazione del torneo di lotta libera: il vincitore era Mark Daniel che, giunto in finale, aveva battuto il fratello Paul. Demelza gli consegnò il trofeo, vale a dire un fazzoletto rosso sangue che il ragazzo si legò intorno al collo dandosi le solite arie da uomo forte e imbattibile; per protesta, o forse per dispetto, Jud Paynter – ubriaco fradicio – sputò sull’erba ai piedi di Mark, e furono costretti ad intervenire Paul Daniel e Will Nanfan per evitare che scoppiasse una seconda rissa, a cui stavolta non sarebbe seguito un premio. Le grida incollerite degli uomini erano sovrastate da quelle acute e spensierate dei ragazzini che si rincorrevano tra gli olmi, e dalle vocine angeliche delle bimbe che danzavano in un girotondo organizzato da “mamma” Zacky Martin, come quasi tutti la chiamavano. Le signore, accaldate e stanche dopo aver partecipato alla corsa in giardino, sedevano sulle panche all’ombra di un grosso olmo, bevendo tè e conversando del raccolto, di stoffe e del tempo; di tanto in tanto si scambiavano qualche succulento pettegolezzo. Nonna Daniel, un’arzilla signora alla soglia degli ottant’anni, chiacchierava senza sosta con Verity istruendola sul miglior modo per preparare un arrosto di rognone da leccarsi le dita. Beth, consorte di Paul, cullava la piccola Julia seduta sul prato, al riparo dal sole ancora cocente. I signori – quelli che non si ingozzavano di torta e che non erano interessati ai giochi – passeggiavano sorseggiando porto o sidro, mentre discutevano per lo più di affari.
Dov’erano finiti suo fratello e il signor Enys? Jennifer fece qualche passo verso uno dei tavoli imbanditi di prelibatezze tradizionali, decisa ad assaggiare la torta all’uvetta preparata da Jinny (la sua preferita), quando una voce familiare alle sue spalle la chiamò per nome.
“Ross!” esclamò con un lieve sussulto, voltandosi verso il fratello.
“Hai saputo? Ci sono due spie che si aggirano per la tenuta. Sono state avvistate nelle stalle, devi aiutarmi a scovarle!” sussurrò lui come in gran segreto, gli occhi seri nei quali balenava una giocosa ironia travestita da preoccupazione.
“Razza di idiota, ci hai viste! Ti prego, dimmi che il tuo ospite non si è accorto di nulla…”.
“Be’, poco fa mi ha confidato che trova irresistibile la curiosità sfacciata che nutri nei suoi riguardi. E non ha ancora avuto il piacere di ascoltare il tuo linguaggio scurrile!”.
“Smettila di prendermi in giro una buona volta!”.
“La canzonatura è una forma di affetto al contrario, sai che lo dico sempre a Demelza”.
“Ti farei assaggiare il mio pugno davanti a tutti, per dimostrarti il mio affetto al contrario!”.
“Vieni qui, puledra scalpitante” mormorò lui circondandole le spalle con un braccio. “Sei proprio una Poldark!”, aggiunse ridendo.
“Solo per metà, grazie a Dio!” ribatté Jennifer sbuffando, benché sotto sotto provasse un certo divertimento: adorava punzecchiare suo fratello tanto quanto lui adorava tormentare lei. Tutti quelli che li conoscevano, o che li vedevano insieme, non potevano fare a meno di considerare il loro rapporto solido ed equilibrato nonostante il divario di età, alcune diversità caratteriali e i frequenti battibecchi.
Senza smettere di ridere con voce sommessa, Ross si girò e vide Dwight in piedi sulla soglia di casa, il capo chino sul suo bicchiere di brandy mezzo vuoto; non si era mosso di un centimetro e si era a malapena guardato attorno, dopo la passeggiata in giardino. Ad una prima occhiata appariva annoiato, ma era più che altro a disagio e la cosa suggerì un’idea al signore di Nampara.
“Vieni con me, Jen!” ordinò il capitano a sua sorella, avviandosi a grandi passi verso l’entrata.
Lei lo seguì svogliatamente, ma nel giro di una manciata di secondi intuì quali erano le sue intenzioni e fu colta da una strana ansia; in ogni caso, era troppo tardi per tirarsi indietro.
“Dwight!”.
Nel sentirsi chiamare, il giovane sollevò finalmente la testa bionda dal bicchiere. “Permettetemi di presentarvi mia sorella! Jennifer…” continuò Ross rivolgendosi all’altra, “lui è il signor Enys, il nuovo chirurgo della Wheal Leisure”.
Dwight tese timidamente la mano: il tocco di quella pelle vellutata, con la sua candida freschezza, gli procurò un fremito di un’ignota emozione. Accennò un sorriso notando la stretta allo stesso tempo energica e gentile di lei, piuttosto insolita per una donna.
“Servo vostro, signorina” disse, facendo un piccolo inchino.
I loro sguardi si incrociarono e, in quell’attimo, il blu impetuoso degli occhi di lui si scontrò col vivido nocciola di quelli della fanciulla, come le onde che si infrangono sugli scogli. Rimasero così per qualche lungo istante finché Dwight, leggermente rosso in viso, ritrasse la mano esitante. Non aveva mai riscontrato che il brandy facesse accelerare i battiti del cuore, inoltre non aveva ingerito caffeina, eppure ad un tratto si sentiva come se avesse mandato giù dieci tazzine di caffè una dopo l’altra.
“Perdonate, signore” si scusò Jennifer col tono più garbato di cui era capace, “se ho infranto le regole del galateo, o del semplice buonsenso. Dovete sapere che, ogni volta in cui stringo la mano a qualcuno, mi assicuro che sia l’altro a lasciarla per primo; ciò garantisce un sottile ma notevole vantaggio in tutti i rapporti umani. Me lo hanno insegnato da piccola”.
Il dottore la guardò sorpreso; notò allora un luccichio di sfrontata soddisfazione accendersi nelle profondità di quelle iridi vivaci. Ne fu vagamente irritato, ma si sforzò di non darlo a vedere.
“Confesso” rispose con educazione, “che nemmeno il mio comportamento è solito rispettare scrupolosamente tutte le regole imposte dall’etichetta, dunque non c’è niente che io debba perdonarvi. Quanto al buonsenso, suppongo che la teoria che vi è stata insegnata sia valida, sebbene il vigore spontaneo della vostra stretta di mano vi abbia assicurato un vantaggio superiore a quello di una qualsiasi manovra studiata”.
Era una provocazione mascherata da complimento? Se le cose stavano così, quel tipo aveva qualcosa da imparare sul mondo femminile! Jennifer lo fissò per un breve momento con occhi infuocati, poi si lasciò sfuggire una risatina nervosa nella quale lui colse un velo di insicurezza.
“Manovra studiata, dite. Stiamo forse giocando a scacchi? Per vostra informazione” seguitò in tono freddo, “non in tutte le signore, specialmente se di buona famiglia, si nasconde una manipolatrice di uomini”.
Dwight avvampò. “Non è affatto ciò che intendevo…”.
“Devo avervi frainteso” lo interruppe prontamente lei, riprendendo a camminare con noncuranza attraverso il giardino. “O, forse, voi avete frainteso me. In ogni caso, non ha importanza”.
Nel frattempo, Ross si era allontanato di qualche metro e seguiva divertito la scena, nel tentativo di afferrare il moncherino scodinzolante della coda di Garrick; ormai, conosceva sua sorella al punto da prevedere la piega che avrebbe preso la conversazione. Se non altro, quell’adorabile canaglia stava intrattenendo il suo ospite con successo.
Subito dopo fu dato il via alle danze; molti degli invitati – alcuni a piedi nudi e col bicchiere in mano  – si scatenarono in un ballo tradizionale inglese accompagnati da un violino, un liuto e un flauto. Jennifer e Dwight si fermarono ad osservarli sotto l’albero di lillà.
“Siete nuovo del posto, signor Enys?” chiese lei. Poiché il silenzio tra loro si era fatto d’un tratto imbarazzante, l’unico modo per rimediare sarebbe stato rivolgergli una domanda, e quella fu la prima che le venne in mente.
“I miei genitori erano di Penzance, ed io ho vissuto a Londra per conseguire la laurea in medicina”.
“Avete esercitato altrove la vostra professione?”.
“Non ne ho avuto modo. Mi sono laureato al Royal College of Physicians all’inizio dell’anno, e non aspetto altro che fare pratica” fu la risposta del chirurgo, che si sentì sollevato dal fatto di poter cambiare argomento. C’era qualcosa, nello sguardo della ragazza, che lo indispettiva tanto quanto lo attiravano i suoi modi sorprendentemente schietti. Se pochi minuti prima era stato sul punto di abbandonare la conversazione, adesso era più che mai deciso a restare dov’era, a maggior ragione di fronte all’allettante possibilità di parlare del suo mestiere.
“Avete intenzione di intraprendere una specializzazione in particolare?” s’informò Jennifer, fingendo di non conoscere la risposta.
“Sono interessato alle malattie polmonari” spiegò Dwight con calore, incoraggiato dalle domande di lei. “Vostro fratello è convinto, come me del resto, che una comunità di minatori sia il posto più adatto per fare esperienza”.
“Sono d’accordo. I lavoratori che inalano ogni giorno polvere di carbone sono da considerarsi soggetti preziosi per i vostri studi. Dove alloggiate attualmente?”.
“Sono ospite dai Pascoe a Truro, ma vorrei affittare una casa non troppo distante da qui”.
“Credo che Ross possa aiutarvi”.
“Il signor Poldark è stato così gentile da offrirmi un impiego alla miniera, inoltre si sta adoperando per trovarmi un alloggio. Gli sono debitore. Spero che in futuro avrò l’occasione di ripagarlo”.
“Lo ripagherete facendo bene il vostro lavoro. Quanti anni avete, signore, se posso chiedere?”
“Ventiquattro”.
Seguì una pausa. Jennifer smise di fissare i musicisti e si concentrò su Zacky Martin, papà di Jinny, il quale, dopo aver persuaso la vecchia nonna Daniel ad alzarsi dalla panca, tentava – non senza fatica – di farle mettere insieme qualche passo di danza, tenendola per mano. La scena era talmente buffa a vedersi che, quando la nonnina lanciò in aria la sua cuffia macchiata e consunta con fare teatrale, tutti scoppiarono a ridere fragorosamente.
“Ebbene, siete senza dubbio il dottore più giovane che si sia mai visto da queste parti”. “E il più attraente”, avrebbe potuto aggiungere. Mentre parlava, Jennifer aveva afferrato una ciocca di capelli per arrotolarsela attorno a un dito: lo faceva ogni volta in cui si sentiva nervosa, e quel signor Enys aveva uno strano effetto su di lei.
“Mi auguro che, a dispetto della mia età, saprò rendermi utile e guadagnarmi la fiducia dei miei pazienti”.
“Non posso parlare a nome di altri, ma per quanto mi riguarda non ho alcuna stima dei medici e dei farmacisti. Se dovessi ammalarmi, preferirei lasciarmi morire piuttosto che farmi anche solo avvicinare da uno di loro!”.
Aveva pronunciato quelle parole con brutale franchezza, fissando distrattamente Jinny che ballava con la gonna agitata dal vento; si sarebbe aspettata di vederlo adirato, quantomeno seccato, invece Dwight si limitò a sorridere con condiscendenza.
“In certe situazioni, sono le persone che la pensano come voi ad avere più bisogno di coloro verso cui provano avversione. Accade più spesso di quanto non si creda” disse infine in tono amichevole.
“Il vostro è forse un modo gentile per augurarmi cattiva salute?”.
“L’unica cosa che mi sento di augurarvi è di non vedere mai un dottore in vita vostra, se non in circostanze liete. Il parto, ad esempio”.
“In questo momento non ho le doglie, eppure voi siete qui, davanti a me”.
Lui rise. “Non cercherò di farvi cambiare opinione, se è questo che temete”.
Avrebbe potuto persino riuscirci, pensò Jennifer; quegli occhi potevano convincerla di molte cose. Le ricordavano il blu prorompente del mare in tempesta. Tutte le volte in cui indugiavano su di lei, e aveva notato che lo facevano spesso, si sentiva annegare nelle loro deliziose profondità.
“Sono certa che i vostri studi in medicina vi abbiano sufficientemente preparato ad affrontare persone come me, potenziali cavie che si tengono lontane dalle grinfie di voi, spietati uomini di scienza. Dunque, penso che potreste tentare. Di farmi cambiare opinione, intendo. Sarebbe divertente!” suggerì, inarcando un sopracciglio con aria di sfida.
“A che scopo? Il disprezzo che nutrite per coloro che svolgono la professione medica sarà senza dubbio giustificato da valide ragioni” ribatté Dwight.
Era furioso. Con la sua ostinata insolenza, quella ragazzina si era spinta oltre il limite. L’aveva preso per uno stupido? Con quale diritto sminuiva le sue ambizioni e i suoi sacrifici? Lui aveva dedicato tutta la vita alla realizzazione del suo sogno. Notti intere passate sui libri; giornate di festa, col cielo sereno o con la pioggia battente, spese in solitudine a sperimentare pozioni su se stesso; interminabili ore di lezione – teorica e pratica – in cui la sua mente, il suo spirito e le sue energie convergevano in un unico, incrollabile desiderio: diventare un bravo dottore. E adesso non poteva tollerare di essere preso in giro. Nemmeno da una donna, per quanto avvenente fosse. Si voltò, posò il bicchiere ormai vuoto sul tavolo vicino e fece qualche passo in direzione delle stalle.
Jennifer non si mosse. Una nube oscura le attraversò la fronte: ce l’aveva eccome, una valida ragione per detestare i medici! Tuttavia, mossa da un incontrollabile impulso dettato da un sentimento sconosciuto, si girò verso il chirurgo e lo raggiunse.
“Signor Enys, aspettate!”.
Lui si fermò.
“Credo che siamo partiti col piede sbagliato… Mi spiace se vi ho offeso”.
Colto di sorpresa, Dwight la scrutò in volto e si accorse che era del tutto seria.
“Vi andrebbe di ballare con una manipolatrice?” chiese Jennifer esitante, meravigliandosi di udire la propria voce pronunciare quelle parole.
Un simile invito, formulato con una brillante arguzia accompagnata da un sorriso sincero, era l’ultima cosa che lui si sarebbe aspettato.
“Con vero piacere, se a voi non dispiace danzare con uno ‘spietato uomo di scienza’…”.
Ogni traccia d’irritazione era svanita. Dwight ricambiò il sorriso di lei, quindi la prese per mano e si buttò nella mischia. Qualche minuto prima, su richiesta di alcuni invitati, i suonatori avevano mutato il repertorio attaccando un motivo dal ritmo più rilassato; la soave melodia che si propagava nell’aria densa di euforia pareva evocare storie fantastiche perdute nella memoria dei tempi.
“Ammetto di non vantare un gran talento come ballerina” si giustificò Jennifer con rammarico, prima di chinare il capo per fingere di concentrarsi sui goffi movimenti dei propri piedi. In realtà, voleva evitare che il suo cavaliere la guardasse in volto; sentiva di essere inspiegabilmente arrossita, ed era la prima volta che le capitava in presenza di un uomo.
“Come potete vedere, siete in buona compagnia” le fece notare il giovane con un’espressione a metà tra il divertito e l’impacciato.
Allora vide la sua dama alzare lentamente gli occhi su di lui, e i loro sguardi si incontrarono ancora una volta. Erano così vicini, ora. Dwight la fissò ammaliato: era la donna più graziosa che avesse mai visto. I folti capelli corvini, che le ricadevano ribelli sulle spalle, incorniciavano un viso minuto dai lineamenti delicati; i grandi occhi marrone chiaro, penetranti ed espressivi, la facevano assomigliare ad un cucciolo desideroso di coccole, quando non sprizzavano ironia e sarcasmo; l’abito di cotone, stretto in vita da un corpetto che si allacciava sul davanti, mettava in risalto una figura morbida ed armoniosa, mentre il rosso cremisi del tessuto sembrava omaggiare il candore della pelle attraverso la scollatura arrotondata. Ma la bellezza esteriore non era che un singolo aspetto di quella misteriosa creatura: c’era qualcosa di incredibilmente accattivante nei suoi modi, che la distingueva dalle altre donne.
Sotto lo sguardo della fanciulla, Dwight sentì il cuore battergli furiosamente nel petto. Ebbe l’impressione che il suo battito potente sovrastasse la musica e le voci tutt’intorno. Si domandò se lei si rendeva conto di quanto fosse bella… Bella ed intrigante, persino con quel lieve rossore che le imporporava le gote. Avrebbe voluto trovare le parole per dirle qualcosa di carino ed appropriato, tuttavia con le donne non ci sapeva fare – almeno così credeva – e un complimento mal riuscito lo avrebbe fatto apparire ridicolo, rovinando ogni cosa.
Ma la magia di quell’istante non era destinata a durare: delle grida improvvise fecero voltare i due ballerini e tutti gli altri. La musica si interruppe di colpo: Jinny era crollata sull’erba, apparentemente priva di sensi.




**-**





Nota dell’autrice:


In questo terzo episodio, nel quale mi sono immersa con profondo amore per via dell’incontro tra i due protagonisti, potete scoprire un giovane dottor Enys come lo avete conosciuto nel romanzo e nella serie televisiva: timido ma a suo modo deciso, umile ma orgoglioso del suo lavoro, pieno di entusiasmo e di ambizioni. Della sorella di Ross, invece, potete notare l’atteggiamento disinvolto e irriverente che cela un’insicurezza dalle misteriose fondamenta; non vi sarà di certo sfuggita la breve riflessione in merito a qualcosa che rimanda al suo passato… Per il momento non vi è dato sapere di più, ma se continuerete a seguire la storia non mancheranno le sorprese e i colpi di scena.
Una piccola curiosità: per la “manovra” di Jennifer ho preso ispirazione dalla frase di un telefilm, che mi è saltata in mente proprio mentre scrivevo.
Per concludere, ritengo doveroso fare una precisazione già accennata in precedenza: sebbene Jennifer presenti alcuni tratti caratteriali simili a quelli di Caroline, non è alla Penvenen che mi sono ispirata nel dare vita alla protagonista femminile di questo racconto, bensì alla sottoscritta. La “piccola” Poldark vuole essere infatti una me stessa in versione letteraria, che vive una storia d’amore col personaggio dei suoi sogni.
Un grazie vivace e sentito a tutti coloro che passeranno a leggermi, e ai lettori affezionati che lasceranno la loro graditissima recensione!
 
Claudia




 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***




Capitolo IV
 




“Si può sapere che ti è preso?”.
Jennifer non avrebbe saputo dire se fosse più preoccupata per la salute della sua migliore amica, o indignata per via del suo comportamento. Quando poco prima l’aveva vista riversa a terra, in mezzo agli invitati, aveva sentito il proprio sangue congelarsi nelle vene; era corsa da lei gridando, seguita dal dottor Enys, che l’aveva prontamente soccorsa. Per fortuna, Jinny era tornata in piedi quasi subito e Dwight l’aveva accompagnata in cucina, dove le aveva ordinato di restare – seduta e tranquilla – al riparo dal sole finché non si fosse ripresa del tutto. Si era trattenuto con lei il tempo necessario per assicurarsi che stesse bene, e prima di lasciare la stanza aveva incaricato Jennifer di tenerla d’occhio: non doveva esitare a chiamarlo, se ci fosse stato bisogno. Dopoiché era tornato in giardino, accompagnato da Ross.
“Te l’ho detto, ho avuto un capogiro, ma ora è passato” rispose Jinny a testa bassa, afferrando il bicchiere di brandy che l’altra le porgeva.
“Jin, guardami per favore”.
La ragazza dai capelli color rame alzò gli occhi sull’amica con aria interrogativa.
“Sospetto che la tua sia stata una messinscena, ma soltanto tu puoi confermare o smentire questa ipotesi” affermò Jennifer con pacata fermezza, tornando a sedersi.
“Mi stai dando della bugiarda, non posso crederci!” esclamò Jinny, piccata. “Perché avrei dovuto fingere un malore?!”.
“Magari non l’hai finto del tutto… Non dimenticare che ti conosco più di quanto tu conosca te stessa. E’ tutto il pomeriggio che ti comporti in modo strano. Sei su di giri, da quando è arrivato quel medico!”.
Jinny sostenne lo sguardo della sua severa interlocutrice con risentimento, ma non durò a lungo: dopo una manciata di secondi smise il broncio e si arrese a quelle occhiate indagatrici che stavano accrescendo il suo disagio.
“Se ti confido una cosa, prometti di non adirarti?”.
“Non posso prometterti niente, ma farò del mio meglio”.
Nonostante Jinny fosse maggiore di quasi cinque anni, le veniva spesso naturale comportarsi come una sorellina con la matura e protettiva Jennifer. Esitò un istante, prima di vuotare il sacco.
“Ti ho vista danzare col dottor Enys e ho provato un pizzico d’invidia. Sembravate così intimi! Avrei voluto essere al tuo posto, per guardarlo negli occhi e sentire il tocco della sua mano nella mia... Poi, la testa ha preso a girarmi come una trottola e d’istinto ho afferrato il braccio di Jim. In quel momento un’idea mi ha attraversato la mente, ma soltanto più tardi ho realizzato quanto fosse malsana: ebbene, mi sono lasciata cadere sull’erba. Un po’ perché effettivamente mi sentivo male, un po’ per…”.
S’interruppe chinando il capo con fare colpevole, certa che il finale della storia non fosse difficile da indovinare.
Jennifer corrugò la fronte. “Come immaginavo”, sospirò. “L’aspetto positivo è che non hai avuto nulla di grave, benché un calo di pressione non sia un disturbo da sottovalutare, come ha detto Enys. Ma te la sei andata a cercare: sei sveglia da prima dell’alba, hai sgobbato tutto il giorno e messo nello stomaco solo una misera focaccina d’orzo!”.
“Sai bene che quando ho le mie cose, quelle di noi donne, non ho molto appetito”.
Nella cucina scese il silenzio. I suonatori avevano ripreso in mano i loro strumenti e, attraverso la finestra spalancata, insieme alla musica da ballo giungevano le grida dei bambini e le voci chiassose degli invitati. La festa era ben lungi dal terminare.
“Sei arrabbiata con me?” domandò Jinny dopo qualche minuto, cercando di decifrare l’espressione dell’amica.
“Non più di quanto io sia preoccupata per te” replicò Jennifer, lo sguardo cupo fisso in un punto imprecisato della parete di fronte. “E, s’intende, non è alla tua salute che mi sto riferendo. Buon Dio Jin, hai un fidanzato che ti ama alla follia e che farebbe qualsiasi cosa per vederti felice! E anche tu sei innamorata di lui. Non è da te lasciarti ammaliare dal primo giovanotto affascinante che ti trovi davanti. Stavolta, la tua esuberanza è stata sconsiderata e fuori luogo!”.
“Hai ragione, mi sono comportata da sciocca. Jim vuole sposarmi ed io intendo accettare, quando mi farà la proposta ufficiale; questo lo sai. Ciò che invece non sai, è che quel Dwight mi ha fatto dimenticare per un attimo i miei problemi: è stato un breve volo di fantasia, quello che mi ha portato ad attirare la sua attenzione con l’inganno. Una fantasia insulsa, ma romantica.”.
“Non mi dire!” fece Jennifer in tono di ironico stupore. “Ho sentito il romanticismo vibrare nell’aria!”.
“Mai quanto quello che ho sentito vibrare tra te e lui mentre ballavate insieme”.
“Che intendi dire?”.
“E’ inutile fingere con me, signorina Poldark: eravate sotto gli sguardi di tutti. Il dottor Enys ti faceva gli occhi dolci e tu sei persino arrossita, il che è strano, considerando che le tue guance prendono colore solo durante le nostre gare di corsa nei campi. Ammettilo, quel ragazzo ti piace!”.
“Non essere ridicola! Se pensi davvero che io possa interessarmi ad un tipo del genere, devo dedurre che i due anni della nostra amicizia non ti hanno insegnato niente!”.
“Una cosa che ho imparato su di te è che, quando un uomo ti corteggia o fa il galante, tu lo schernisci e poi lo lasci lì come un idiota, a rimuginare sul suo insuccesso. Be’, al nuovo arrivato hai riservato un trattamento diverso, concedendogli addirittura un ballo!”.
Jennifer sospirò. Si guardò bene dal puntualizzare che era stata lei ad invitare Dwight; ammettere la verità avrebbe comportato una sfilza di domande e commenti che non aveva la minima voglia di ascoltare. Era stato un semplice ballo innocente, perché farne una questione di tale importanza?
“Se proprio ci tieni a saperlo” spiegò dopo una breve pausa, “ho ballato con Enys per non compromettere la mia posizione. Dopo che Ross ci ha presentati l’ho preso un pò in giro per via della sua professione, e lui deve esserci rimasto male, così ho pensato che fosse opportuno rimediare. Sarebbe stato sconveniente, da parte della sorella del gentiluomo che gli ha offerto un impiego, dargli un simile benvenuto nella comunità”.
Jinny la scrutò, le labbra curvate in un sorrisetto scettico e malizioso insieme. “Sei brava ad inventare pretesti, ma stavolta dovrai impegnarti di più per dimostrare la validità delle tue argomentazioni”.
“Suvvia Jin, mi conosci abbastanza da sapere che quello lì non è certo il genere di candidato alla mia mano che prenderei in considerazione! Il fascino di cui gode a livello esteriore non è in grado di compensare la sua insicurezza. Ho trovato esasperanti quei suoi modi impacciati… Dev’essere un tipo noioso e prevedibile”.
“Sempre meglio di quel damerino dal collo tozzo che ti riempie di viscidi complimenti! Scommetto che ieri non sei venuta alla festa per evitare di trovartelo tra i piedi… Per questo sei corsa via dalla chiesa prima che la funzione fosse conclusa”.
Consapevole della persona a cui alludeva l’amica, e irritata dalla piega che aveva preso la conversazione, Jennifer balzò in piedi. “Se non erro, ti ho già detto che avevo un forte mal di testa. Questo è l’unico motivo per cui me ne sono andata dopo il battesimo, e l’unica spiegazione di cui dovrai accontentarti. Ma vedo che hai ripreso a chiacchierare come il tuo solito: deduco che la crisi è passata. Io torno fuori, vado a controllare se c’è bisogno di altro vino. Cerca di non svenire in mia assenza. E finisci il tuo brandy!”.
Aveva fatto qualche passo verso la porta, quando Jinny la trattenne. “Aspetta!”.
Jennifer si fermò e, lentamente, si girò verso di lei.
“Credo di sapere qual è il tuo problema. E sì, forse sto parlando troppo, ma non a sproposito, perciò andrò fino in fondo e tu mi ascolterai. Altrimenti, a che serve essere amiche? Non mi pronuncerò ulteriormente sul damerino, se ciò ti dà fastidio, ma permettimi di dirti altre due parole sul giovane Enys. Tra noi due, mia cara, non sei l’unica a conoscere l’altra più di quanto lei conosca se stessa: so abbastanza di te da riuscire a decifrare alcuni tuoi comportamenti incomprensibili al resto del mondo, e quello che non so spesso riesco ad indovinarlo. Non posso fare a meno di pensare che i tuoi pregiudizi nei riguardi dei medici siano la ragione del muro che hai innalzato tra te e quel chirurgo. Oh, non scuotere la testa, sai che è così! Ed è un vero peccato. Se solo mettessi da parte le tue riserve, potresti concederti la possibilità di conoscere un uomo diverso dagli altri. Magari scopriresti che lui è degno delle tue attenzioni! So che nascondi qualcosa, Jen: qualcosa, nel tuo passato, che in qualche modo ti ha portato a prendere le distanze dai dottori. Li eviti come fossero servitori del diavolo!”.
Jennifer scoppiò a ridere.
“Ho ritenuto saggio non farti mai domande in proposito, e non mi pare il caso di cominciare adesso” proseguì Jinny con una nota di preoccupazione nella voce, “anche se per la prima volta ho il sospetto che possa esserci qualcosa di serio, dietro questa faccenda. In ogni caso mi piace sperare che ti aprirai con me, quando ne avrai abbastanza dei tuoi segreti”.
“I miei segreti mi appartengono, e tu stai fantasticando un po’ troppo per i miei gusti” ribatté Jennifer. Ma lo disse ridendo, mentre lasciava la stanza. A pochi metri dall’ingresso principale, vide il dottor Enys avanzare verso di lei lungo il corridoio dal soffitto basso.
“Signorina Poldark! Prima di andarmene, volevo accertarmi che la vostra amica si fosse adeguatamente ripresa”.
“Il malore è passato, grazie a Dio… E grazie a voi. Il vostro tempestivo intervento, in aggiunta ai vostri rimedi, ha avuto i suoi effetti benefici. Venite, vi accompagno da lei!”.
Dwight la seguì in cucina, dove visitò Jinny con rapida professionalità, quindi le diede un paio di utili consigli e si congedò. Quando fu di nuovo fuori, sulla soglia di Nampara si rimise il cappello rivolgendo a Jennifer una breve occhiata nervosa. Dischiuse le labbra per parlare, ma lei lo batté sul tempo.
“Siete stato molto gentile a soccorrere Jinny”.
“Dovere, signorina”.
“Spero che vi troverete bene alla Wheal Leisure. Per qualsiasi cosa, non esitate a rivolgervi a mio fratello o a me. Saremo più che felici di esservi d’aiuto”.
“Lo farò senz’altro. Vi sono molto obbligato”.
“Quando comincerete?”.
“Non appena avrò trovato un alloggio nelle vicinanze. Vostro fratello ne ha in mente uno che potrebbe andare, mi farà sapere in settimana”.
“Mi sembra un’ottima notizia! Gradite un altro bicchiere di vino, o un dolcetto?”
“Vi ringrazio, ma se mando giù un altro goccio di qualcosa o un’altra fetta di torta, finirò con l’esplodere in groppa al mio cavallo!”.
Lei rise, sorpresa e divertita allo stesso tempo. Non lo riteneva capace di simili battute, ma forse era stata troppo severa nei propri giudizi. Forse, Jinny aveva ragione… In fin dei conti, non lo conosceva affatto.
“Be’, in tal caso auguro a voi e al vostro cavallo un viaggio piacevole fino a Truro, dottor Enys”.
“Vi prego, chiamatemi Dwight” disse lui, il volto bello e serio rischiarato da un timido sorriso.
“Solo se voi mi chiamerete Jennifer” rispose lei sorridendo a sua volta, stranamente lieta di vederlo arrossire mentre chinava il capo per sfilare il frustino dallo stivale.
“Come desiderate, Jennifer”.
Nel sentire la voce di lui pronunciare il suo nome, la fanciulla si sentì attraversare da una strana fitta di irritazione frammista a piacere.
Dwight prese congedo rivolgendole un inchino, dopodiché si voltò per raggiungere Ross accanto ad uno dei tavoli ancora colmi di prelibatezze. Jennifer lo vide parlare con suo fratello e, quasi senza rendersene conto, si perse per alcuni istanti ad ammirarne la delicatezza dei modi e la purezza dello sguardo, così diverso da quello degli uomini che conosceva. Tutto sommato, la timidezza non era un aspetto da disprezzare in un uomo.
Una vocina femminile la fece sobbalzare, troncando sul nascere quelle considerazioni.
“Verity!” esclamò con voce improvvisamente acuta, vedendo la cugina avvicinarsi “Jinny si è ripresa per fortuna, sta riposando in cucina. Come procede la festa?”.
“Uno straniero molto attraente, non c’è che dire” considerò Verity in tono allusivo, fissando Dwight che si avviava in direzione delle stalle preceduto da Ross. Ignorare la domanda che le era stata posta rientrava, ovviamente, nelle sue intenzioni.
“Oh, parli del signor Enys? Sì, vanta una certa presenza…” farfugliò Jennifer lisciandosi l’abito, “ma a parte questo, non possiede alcuna attrattiva”.
“Tu dici? Io, invece, ho la sensazione che in lui vi sia molto più di quanto non mostrino le apparenze” fu l’osservazione che seguì. “Penso che sarà interessante averlo tra noi”.
Prima che Jennifer potesse formulare un pensiero di risposta, Verity le sorrise in modo significativo e si allontanò lasciandola in compagnia del cugino che, di ritorno dalle stalle, aveva appena augurato buon viaggio al suo ospite.
“Hey, piccola canaglia! Le tue birbanterie si sono prese una vacanza?”.
Così dicendo, Ross Poldark circondò affettuosamente le spalle della sorella con un braccio; aveva l’espressione sagace e compiaciuta di chi la sa lunga.
“Cosa vuoi insinuare?”.
“Devo ammetterlo, ho temuto per l’incolumità di quel povero medico. E’ stato un sollievo vederlo andar via tutto intero”.
“Buon per lui.”
“Mi congratulo con te, Jen. Stavolta hai abbaiato, ma non hai morso. Al massimo, gli avrai procurato qualche graffio di poco conto…”.
Lei sbuffò, voltando il capo dalla parte opposta. “Per favore, non vorrai ricominciare con questa storia ridicola!”.
Ross ridacchiò, stringendola un po’ di più contro di sé. “Non è colpa mia se ho una sorella che si diverte a giocare con le sue prede, prima di azzannarle. Tutti gli sventurati che hanno l’ardire di avvicinarsi a te, finiscono col subire il medesimo trattamento. Tutti tranne…”.
“Andiamo, Ross!” sbottò Jennifer, liberandosi con malagrazia dall’abbraccio del fratello. “Gli uomini sprovvisti di personalità non hanno alcuna presa su di me, lo sai”.
“Suppongo che Dwight Enys non rientri fra questi: il tuo comportamento di oggi ne è una palese dimostrazione”.
“Solo perché gli ho concesso un ballo? Suvvia, conosco le buone maniere e so fare gli onori di casa, se voglio. Sarei una folle, o una mendicante di attenzioni, se mi interessassi anche lontanamente ad un tipo come lui!”.
“A dire il vero, non mi stavo riferendo soltanto al ballo. E comunque è sempre meglio essere corteggiati da qualcuno con la testa sulle spalle, che da qualche altro gentiluomo di dubbia integrità”.
Jennifer colse l’insinuazione e strinse gli occhi. “Tanto per cominciare” precisò, “quel dottore non mi stava affatto corteggiando. E poi, lo conosci già così bene da essere in grado di valutarne l’integrità morale?”.
“Gli undici anni che ci separano includono una certa esperienza, ci hai mai pensato?” ribatté Ross in tono di secco rimprovero. Di frequente gli capitava di scontrarsi col carattere ostinato della sorella, non così dissimile dal proprio.
“E tu hai mai pensato che non tutte le mie azioni, o le mie preferenze, comportano l’obbligo di essere approvate da te?”.
Indignata, la ragazza girò sui tacchi e rientrò in casa sbattendo la porta dietro di sé.

Quando uscì di nuovo, le ombre cominciavano ad allungarsi nella valle. Con sguardo pensoso, Jennifer lasciò vagare lo sguardo tutt’intorno: nel giardino, vuoto e silenzioso come prima della festa, ogni cosa era tornata in ordine. Il sole, che si accingeva a calare oltre l’orizzonte, si rifletteva sulla pacifica superficie del mare infrangendosi in mille frammenti scintillanti simili a schegge di vetro. La campagna si era accesa di uno sgargiante rosso dorato e le nuvole parevano pennellate di sangue vivo, come quello di un pittore che prende vita attraverso i colori della sua tela.
“Jen, sei sicura di non voler rimanere?”.
Ross era comparso alle sue spalle ed ella provò una certa tristezza, udendo la nota allo stesso tempo dispiaciuta e preoccupata della sua voce.
“Ti ringrazio, ma preferisco tornare a casa mia”.
“Anche questa è casa tua”.
Jennifer stirò le labbra in un sorriso condiscendente. “Lo so, Ross. Ne abbiamo già parlato e non è cambiato niente dall’ultima volta. Considero la mia vera casa quella in cui sono nata e cresciuta. Per me è così, lo sarà sempre”.
“Ma lì vivi tutta sola e…”.
“C’è Maggie con me, tre volte la settimana”.
“Da quando consideri la domestica una compagnia?”.
“In effetti, Maggie è più un’amica che una serva. E poi non sarò mai veramente sola tra quelle mura, finché i ricordi allieteranno le mie giornate quando non sarò qui, ad importunare un certo capitano prodigo di premure!”.
Lui rise e si lasciò stringere dalla sorella, che gli aveva gettato le braccia al collo con inaspettata spontaneità.
“Devo supporre che ti sei convertita alle tenerezze fraterne?” la punzecchiò ad un certo punto, sciogliendosi dall’abbraccio.
“E’ solo per ringraziarti dell’ospitalità, non ti ci abituare!” lo rimbeccò lei con ostentata noncuranza, quindi si diresse verso le stalle. Non appena fu davanti alla giumenta color cioccolato, la salutò strofinandole la guancia contro il muso, pronta a sellarla. Nel frattempo, Ross faceva scorrere le lunghe dita sulla testa bassa dell’animale, che improvvisamente emise un suono profondo e gutturale in segno di saluto.
“Permettimi di accompagnarti per un tratto di strada. Non mi piace che mia sorella viaggi da sola al calar delle tenebre”.
“E’ bello che ti preoccupi per me, dico davvero, ma non è necessario. La strada non è poi molta e, come sai, adoro cavalcare in solitudine”.
Ross le gettò un’occhiata furtiva, e capì che insistere avrebbe scatenato nuove e sgradevoli discussioni di scarsa utilità per entrambi. Infine lei montò in sella, promettendogli che sarebbe tornata l’indomani, e lui la guardò cavalcare via inondata da un tramonto fiammeggiante.

Era stata una giornata movimentata, di quelle che non ci si aspetta da un comune pranzo di battesimo. “Fin troppo movimentata”, pensò Jennifer mentre cavalcava sulla via del ritorno. Si era dimostrata abile nel rifuggire la noia sin dalla prima infanzia: ogni occasione di svago diventava un pretesto per scatenare la sua innata vivacità e mettere alla prova il suo desiderio di avventura. Nell’innocente esuberanza di Jinny aveva trovato una perfetta compagna di avventure, che però quel pomeriggio le aveva procurato un notevole spavento: non avrebbe saputo immaginarsi senza di lei. Conosceva fin troppo bene la natura modesta della sua amica più cara e tutte le ristrettezze economiche che, malgrado gli aiuti di Ross, avevano inevitabilmente colpito la famiglia Martin, oltremodo numerosa. Non le era dunque difficile comprendere le ragioni del volo di fantasia che, per un fuggevole momento, aveva indotto Jinny ad agire da sciocca. E poi, quel giovane ospite era piombato alla festa così inaspettatamente che sarebbe stato impossibile non sentirsi divorare da un’accesa curiosità. Lo sguardo mite e profondo del dottor Enys si era fatto strada fino a lei, l’aveva attraversata come un dardo, sfidando la sua radicata diffidenza. La brezza marina, fresca e gentile come la sera, increspava il mare silenzioso al calar del sole, accarezzandole le guance e sfiorando i suoi lunghi capelli. Era talmente immersa nei propri pensieri che non ebbe l’istinto di sollevare il capo, udendo un rumore di zoccoli avvicinarsi; ma non appena si sentì chiamare per nome alzò gli occhi, che s’incontrarono con quelli del cavaliere proveniente dalla direzione opposta.
“Signorina Poldark”, la salutò il gentiluomo tirando le redini del cavallo e facendo un breve inchino. “Che sorpresa! E che piacere incontrarvi!”.
“Buonasera, signore!” rispose Jennifer fermandosi a sua volta, non meno sorpresa di lui. Cosa ci faceva George Warleggan sulla strada per Nampara, al tramonto? Un simile interrogativo necessitava di risposta, così pensò bene di formularlo ad alta voce, non senza un rigoroso garbo; la curiosità tipica del suo carattere si era improvvisamente destata. “Immagino che qualche affare urgente vi spinga lontano da Truro, vista l’ora insolita. Siete per caso diretto a Nampara?”.
Per un attimo gli occhi di George scintillarono di una strana luce, poi le sue labbra sottili formularono un sorriso scialbo. “Voi mi leggete nel pensiero, signorina Poldark! Si dà il caso che la tenuta di vostro fratello fosse proprio la mia destinazione… Finché non ho incontrato voi”. Con due lunghe dita estrasse dalla tasca del panciotto una lettera, che porse alla ragazza. “Sono certo che Ross e la sua signora mi perdoneranno se la consegno direttamente nelle vostre mani, dato che tra i destinatari figura anche il vostro nome”.
“Il mio?” non poté trattenersi dal domandare Jennifer, sempre più curiosa e confusa.
Specialmente il vostro. Vi prego, apritela!”.
Mentre si domandava quale fosse il significato di quel “specialmente” pronunciato con enfasi da George, la fanciulla afferrò la lettera, ruppe il sigillo e con mani incerte tirò fuori il foglio dalla busta.
“Oh… E’ un invito!”, esclamò lentamente quando ebbe finito di leggere. Spostando gli occhi dalla lettera al signor Warleggan, notò che lui la stava osservando con attenzione e un pizzico di ansia, come un corteggiatore in trepidante attesa di un “sì”. Conosceva quello sguardo: l’aveva visto posarsi su di lei più volte durante le sue visite a Trenwith, dove l’aveva incontrato per la prima volta l’anno precedente. Allora aveva immaginato che fosse dovuto ad una comprensibile curiosità nei riguardi della sorellastra del capitano Poldark di Nampara… Quasi stesse frugando tra i pensieri di lei, George disse: “E’ passato del tempo dal giorno in cui ci siamo visti a Trenwith in occasione del compleanno di Francis. Mi farebbe molto piacere, se accettaste di venire alla festa che darò la settimana ventura”.
L’idea di partecipare ad un simile evento era elettrizzante per Jennifer che, tra le altre cose, non era ancora stata formalmente presentata in società. Fu sul punto di dare una risposta affermativa, ma poco prima prima di aprire bocca le venne in mente Ross: l’invito era rivolto anche a lui e a Demelza. Si morse il labbro inferiore.
“E’ gentile da parte vostra. Sarò lieta di informare mio fratello e mia cognata al più tardi domani pomeriggio. Per il momento vi ringrazio, signor Warleggan”.
“Attenderò con ansia, signorina Poldark. Vi auguro una buona serata!”.
Nel ricambiare l’augurio di George, Jennifer spronò la sua Fluffy e si allontanò, riprendendo il cammino verso casa. Mentre cavalcava sorrideva, protetta dal manto scuro delle ombre che avanzavano.






**-**




Nota dell’autrice:


Dopo mesi di pausa forzata da impegni, stress ed imprevisti rieccomi di nuovo qui, a vivere il mio sogno ad occhi aperti! Stavolta non ho molto da aggiungere al capitolo, o da precisare: tenete presente che, da qui in avanti, la situazione si farà un pochino movimentata. E dato che difficilmente riuscirò a pubblicare di nuovo entro la fine dell’anno, colgo l’occasione per augurare a tutti voi un sereno Natale e un 2022 pieno di felicità, che esaudisca ogni vostro desiderio, in barba al periodo che stiamo vivendo da quasi due anni. Come dice saggiamente Dwight nel quarto episodio della quarta stagione, “proviamo a trarne il meglio”. E questo vale per ogni tipo di situazione. Vi ringrazio dal profondo del cuore, miei affezionati e fedeli lettori, che mi spronate a dare sempre il meglio di me, incoraggiando e sostenendo il mio piccolo progetto, frutto di un amore senza limiti. Spero che tutti voi stiate bene... Un caldo abbraccio!

Claudia




 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


 

Capitolo V
 


 

“Ebbene, si tratta di una lettera da parte di George Warleggan. Per l’esattezza, è un invito ad una delle sue feste”.
Con dita nervose, Ross ripiegò la pergamena e la gettò sul tavolo accanto al bicchiere vuoto. L’avrebbe lanciata tra le fiamme, se il caminetto fosse stato acceso. “L’hai avuta da lui in persona, non è vero?”.
Jennifer deglutì come se avesse qualcosa in gola. Malgrado fosse consapevole di non aver agito in modo scorretto nel prendere la lettera direttamente dalle mani del mittente, non poteva evitare di provare una certa ansia ed una vaga apprensione all’idea di affrontare l’argomento con suo fratello. Mentre cavalcava verso Nampara e dunque prima di mostrargli l’invito, la fanciulla aveva presagito che i toni della conversazione che l’aspettava sarebbero stati tanto accesi quanto sgradevoli, ed ora poteva trovarne conferma nello sguardo tutt’altro che incoraggiante di Ross, il quale la scrutava con un’ombra di sospetto nella luce che andava svanendo.
“Sì, l’ho avuta dal signor Warleggan in persona. E se ti stai domandando come e quando, l’ho incrociato ieri sera tornando a casa”.
La pacata sicurezza del suo tono di voce avrebbe persuaso chiunque. Chiunque, tranne il capitano Poldark, che conosceva sua sorella meglio di quanto lei fosse disposta ad ammettere. Quell’atteggiamento compassato – egli ne era certo – dissimulava l’esitazione e la tensione tipica di chi è in possesso di una notizia scomoda che non desidera rivelare. Ma per quanto scomoda fosse, Ross doveva esserne informato. Dopo un attimo di silenzio il giovane incrociò le braccia sul petto, le labbra inarcate in un sorriso beffardo.
“Ma non mi dire! E cosa ci faceva George Warleggan lungo la strada per St. Ann’s, al tramonto? Si era perso, forse?”.
“Non vedo nulla di strano in un uomo rispettabile che decide di fare un giro a cavallo per puro svago”.
“Del cavalcare per diletto non discuto; è sulla rispettabilità del cavaliere che avrei qualcosa da ridire, oltre che sulle sue intenzioni”.
Pronunciando le ultime parole, Ross aveva scoccato un’occhiata penetrante a Jennifer, che tuttavia la ignorò senza abbassare lo sguardo.
“Se non ricordo male” rispose lei, “hai più volte accennato al fatto che lo zio di George, Cary, è il più detestabile tra i Warleggan: lo hai definito ‘l’avvoltoio’ della famiglia. Sul nipote, invece, ti ho sentito esprimere un’opinione un po’ diversa. Non hai forse detto che lui e suo padre Nicholas sono persone rimarchevoli?”.
“Se George – come ho ragione di credere – seguirà le orme di suo zio, di qui a qualche anno resterà ben poco di rimarchevole in lui. C’è stato un tempo in cui ha dimostrato di avere qualche principio, non lo nego, ma non è un buon motivo per smettere di detestarlo”.
“Sei libero di continuare a farlo, se la cosa ti aggrada. Questo però non significa che io debba seguire il tuo esempio”.
Ross afferrò la bottiglia di brandy e si versò un altro bicchiere, poi andò alla finestra e lasciò che l’aria fresca della sera gli accarezzasse il volto accigliato; il sole aveva già cominciato la sua discesa oltre il limitare della valle e le ombre si allungavano come serpenti tra gli olmi, divenendo via via più profonde. Era la prima volta che parlava di George Warleggan con sua sorella e, se avesse potuto, il capitano dalla pallida cicatrice si sarebbe volentieri risparmiato un simile argomento. D’un tratto, nei suoi occhi divampò la scintilla di un ricordo ostile.
“Perché mai dovresti prendere esempio da me?” proruppe in tono sarcastico, bevendo un sorso del suo brandy. “Perché dovresti provare odio nei confronti di un giovanotto agiato e di buona famiglia, che da Truro parte a cavallo verso St. Ann’s nella speranza di incontrare una certa signorina, così da poterle consegnare l’invito per una delle sue insulse feste alla quale si augura che lei andrà, solo per poterla ricoprire di insidiosi complimenti? Mia cara sorellina, posso fare finta di non vedere se voglio, ma fingere di essere stupido è un’altra faccenda. Credi forse che non conosca il vero motivo per cui hai lasciato la chiesa di Sawle in tutta fretta, la mattina del battesimo di Julia? Volevi evitare che George ti ronzasse attorno durante il banchetto; soprattutto, ti premeva evitare che lo facesse sotto gli sguardi dei presenti, me compreso. Ma non puoi darmela a bere, Jen: lui ti piace, o quantomeno non ti dispiace. Non mi sono certo sfuggite le occhiate interessate, per così dire, che lui ti ha rivolto a Trenwith da un anno a questa parte. Ed ora apprendo che, a distanza di mesi, nulla è cambiato nell’atteggiamento di George; l’unica cosa che appare diversa è il tuo atteggiamento nei suoi riguardi. Un tempo ti saresti burlata di lui voltando le spalle alle sue viscide attenzioni, mentre adesso…”.
“Se stai cercando di convincermi a non prendere parte alla festa dei Warleggan puoi risparmiarti la fatica, visto che ho intenzione di accettare l’invito!” lo interruppe Jennifer con impeto; sul suo bel viso, reso rosso dal risentimento e dalla cruda franchezza del fratello, era comparsa una smorfia di frustrazione.
Ross distolse gli occhi dalla finestra e la guardò; si era aspettato una risposta del genere. Tuttavia, l’aspra fermezza con cui era stata formulata contribuì ad accrescere la sua irritazione, confermando per giunta i suoi sospetti su di lei.
“Non c’è alcun bisogno di convincerti, dato che a quella festa non andrai in ogni caso”.
Il tono di voce era irremovibile al pari della sua espressione. La ragazza, che fino a quel momento aveva cercato di tenere a bada la propria rabbia, udendo le parole di lui esplose senza ritegno.
“Tu, capitano Poldark” lo apostrofò, “credi di poter esercitare autorità e controllo a tuo piacimento come se ti trovassi ancora in guerra, ma lascia che ti spieghi come stanno le cose da queste parti: non ti è concesso di controllare tutto ciò che ti disturba o che minaccia il tuo piccolo mondo perfetto, e di certo non ti permetterò di agire in tal modo con me! Non sono uno dei tuoi soldati, ma tua sorella minore, che ha il diritto di concedersi un po’ di sano divertimento almeno una volta ogni tanto. E’ una cosa alquanto comune tra i giovani, sai? Oh, devi averlo scordato. Comunque sia, non importa quanto profonda sia la tua avversione per George: lui mi ha invitato alla sua festa ed io ci andrò, che ti piaccia o meno”.
“Questo è tutto da vedere”.
“Come pensi di fermarmi? Legandomi ad un palo in uno dei granai, oppure chiudendomi dentro un armadio?”.
“Jen cara” proseguì Ross addolcendo il tono, “la tua felicità è la mia soddisfazione, uno dei miei principali obiettivi da quando ho rimesso piede in Cornovaglia, lo sai. Perciò non mi entusiasma l’idea di negarti uno svago che, come tu stessa riconosci, ti spetta di diritto. Ma in questo caso è diverso. Tu non conosci George, il che per certi versi è un vantaggio, e non immagini nemmeno di cosa lui sia capace per raggiungere i suoi scopi che – te l’assicuro – hanno poco o niente a che vedere con i principi morali e l’onestà, prerogative di una fanciulla come te. Ti sto mettendo in guardia perché mi è parso di capire che ti interessa approfondire la sua conoscenza, non è così? A maggior ragione, è giusto che tu sappia la verità su quell’uomo”.
“Ma questa è la tua verità!” ribatté Jennifer, alzando la voce per dare libero sfogo all’indignazione crescente. “Come puoi aspettarti che io prenda in considerazione il giudizio di qualcuno che manca di imparzialità, anche se si tratta di un mio congiunto? Per di più non rammento di aver mai detto o dimostrato di provare interesse per George Warleggan, ma se anche fosse la cosa non ti riguarda, Ross. E benché apprezzi il tuo tentativo di persuasione, ti ricordo che non mi serve il tuo permesso per andare alla festa!”.
“Ti serve eccome, invece. Sei sotto la mia tutela e ci resterai finché non sarai padrona di te stessa!”.
“Compirò diciassette anni tra pochi giorni” replicò lei in tono di sfida, “ormai sono una donna e mi aspetto di essere trattata come tale!”.
“Dal momento che ti comporti come una bambina, devi solo aspettarti che io ti tratti di conseguenza”.
“Se qui c’è qualcuno che sta puntando i piedi come un moccioso, quello non sono certo io. E come tutti i mocciosi, lo stai facendo per capriccio e senza una ragione valida!”.
“Le ragioni che mi impongono di agire da moccioso sono legittime, e non intendo discuterne con te”.
“Questo non mi sorprende. Ciò che invece mi stupisce, è il sentirti descrivere il signor Warleggan come un individuo privo di coscienza e di ritegno morale. Non posso fare a meno di chiedermi se ciò ha a che fare, tra le altre cose, col genere di feste che tu non puoi permetterti”.
Fu troppo per Ross. Ascoltare le incalzanti proteste di una sorella adolescente era accettabile – in fondo rientrava nei suoi doveri di fratello maggiore – ma non poteva tollerare di essere insultato dal proprio sangue.
“Adesso basta, ragazzina!” tuonò infuriato, picchiando i pugni sul tavolo con una violenza tale da far scricchiolare il vecchio mobile. Jennifer ebbe un sussulto e lo fissò sgranando gli occhi scuri. “La tua insolenza farebbe imprecare un santo, dannazione!”. Ross fu sfiorato dall’impulso di afferrare il bicchiere vuoto per scagliarlo contro la parete, ma si trattenne. “Se proprio non riesci a chiudere il becco, potresti almeno mostrare un briciolo di rispetto! Si direbbe che in certi momenti dimentichi di far parte di una famiglia rispettabile!”.
“Se è per questo, non ho chiesto io di farne parte. Ciononostante, in tutti questi anni mi sono adeguata alle regole che hai stabilito, e l’ho fatto ogni volta in cui ho messo piede in questa casa. Ho cercato di rendermi degna del nome di Poldark in ogni modo, ma ora scopro di averci guadagnato soltanto pregiudizi e divieti. Suppongo che mi sentirei più libera in una gabbia! Peccato che io non sia un uccellino caduto dal nido: non ho bisogno di qualcuno che mi metta al sicuro dalle insidie del mondo. E se la mia maniera di esprimermi ti indispettisce non sei obbligato ad ascoltarmi, così come io non sono obbligata a restare. Ti saluto!”.
Detto ciò, Jennifer si voltò e uscì di corsa dal salotto proprio mentre Demelza entrava per accendere le candele; le due donne non si scontrarono per un soffio. La più giovane si scostò educatamente per lasciar passare la padrona di casa, a cui non sfuggirono l’espressione adirata di sua cognata ed uno scintillio all’angolo dell’occhio sinistro che riluceva nella penombra.
“Per Giuda!” esclamò Demelza nel medesimo istante in cui la porta d’ingresso si apriva e si chiudeva rumorosamente. I battibecchi tra i fratelli Poldark erano ormai una consuetudine e vi aveva assistito innumerevoli volte, da quando era arrivata a Nampara. Tuttavia, stavolta c’era qualcosa di diverso: poteva intuirlo dal volto di suo marito, stravolto dalla collera.
“Cos’è successo, Ross? Jennifer aveva l’aria sconvolta… Come mai è corsa via in quel modo?”.
Suo marito si lasciò cadere sulla sedia accanto al tavolo, ma non rispose; si versò un altro bicchiere e lo scolò d’un fiato, come se il brandy possedesse la miracolosa virtù di placare le emozioni spiacevoli. Allora Demelza posò la candela sulla mensola del caminetto e gli si avvicinò silenziosamente. Ross non sollevò lo sguardo, ma quando lei sedette sulle sue ginocchia e gli circondò le spalle con un braccio, spinse via il bicchiere ed emise un lungo sospiro, pensando alla complessità dei rapporti familiari. Rimasero così per qualche minuto, finchè lui non ruppe il silenzio.
“E’ una testa dura” disse scuotendo il capo.
“Più dura della tua?” lo punzecchiò Demelza, ridendo.
“E’ una bella lotta, in effetti”.
Un vago sorriso addolcì il volto contratto di Ross, che ora prese a giocherellare con una ciocca di capelli di sua moglie.
“George ha organizzato una festa per la prossima settimana”, continuò dopo qualche istante, rabbuiandosi nuovamente. “Jen ha avuto l’invito da lui in persona; dice che andrà con o senza il mio volere, ma non posso permetterlo. Non ho idea di cosa stia tramando quell’infido di Warleggan, ma l’ha osservata un po’ troppo a lungo per i miei gusti. Non mi fido di lui”.
“Ti fidi di lei, però”.
“Dopo stasera, non mi aspetto nulla di buono”.
“Oh, andiamo! Tua sorella è una ragazza intelligente e giudiziosa per la sua età”.
“Non c’è qualità che George non sappia annientare” obiettò Ross, cupo. “E’ un maestro nel tirare fuori il peggio delle persone!”.
“Jen, invece, tira fuori il meglio” ribatté l’altra con vivace sicurezza.
“Parli come se ci fosse del buono in quello lì! Il problema è che Jen sembra attratta da lui, o forse ne è soltanto incuriosita, fatto sta che…”.
“E’ cresciuta, Ross” lo interruppe dolcemente Demelza. “Ormai è una donna e, in quanto tale, impaziente di scoprire il mondo. Sinceramente non posso darle torto, e comunque dubito che sia realmente interessata a George. Comprendo la tua apprensione, ma in fondo si tratta di una semplice festa e noi saremo con lei. Cosa potrà mai succedere?”.
“Niente, a parte qualche spargimento di sangue”.
“Non scherzare, Ross. Tu non provocherai il padrone di casa”.
“Non se lui si guarderà dal provocare me”.
Con un sospiro per metà esasperato e per metà divertito, Demelza gli appoggiò l’indice sulle labbra socchiuse. Conosceva il suo uomo abbastanza da sapere che portare avanti una simile conversazione sarebbe stato inutile, almeno per il momento.
“Temo che dovrai accontentarti di essere il mio eroe, perché non ho intenzione di dividerti con nessun altro”.
“Neanche con George?” ridacchiò lui. La sua amata gli aveva restituito un pizzico di buonumore.
“Specialmente con George”, rispose lei in un sussurro velato di giovane malizia. Un attimo dopo, le loro labbra si unirono in un bacio dolce e appassionato; un unico respiro d’amore cullato dal mormorio del mare, che in lontananza s’increspava e luccicava come una maestosa lastra di cristallo alla luce del tramonto.



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Nota dell’autrice:

Carissimi amici e lettori, mi rendo conto – non senza rammarico – che è trascorso molto tempo dal mio ultimo aggiornamento, e mi scuso umilmente per il tremendo ritardo che accompagna il mio ritorno. Sapete che non amo tenervi sulla corda. Comunque sia, eccomi di nuovo da voi con un episodio breve ed apparentemente trascurabile, ma indispensabile per comprendere quanto avverrà in seguito. Spero vi rallegri sapere che il prossimo capitolo sarà decisamente lungo, più di tutti gli altri, e vi porterà una sorpresa… Qualcosa che molti di voi attendono con ansia. Non vi dico altro e aggiungo che d’ora in avanti cercherò di aggiornare con maggiore frequenza, compatibilmente con gli impegni, la famiglia e tutto il resto. Giusto per darvi un’idea precisa, vedrò di pubblicare almeno due volte l’anno.
Come di consueto, ci tengo a ringraziarvi di cuore per la vostra sempre attiva e preziosa partecipazione: la stima e l’affetto che mi dimostrate, unite all’entusiasmo verso la mia piccola opera, mi sono di grande incoraggiamento sia nella scrittura che nella vita di ogni giorno. La mia passione per “Poldark” e soprattutto il mio immenso amore per Dwight non avrebbero lo stesso colore se non ci foste voi, a concedermi il privilegio di condividere il mio mondo interiore. Sognare insieme a voi significa molto per me.

Vi abbraccio uno ad uno col pensiero. Ancora grazie!

Claudia


 

 

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