dodici schiaffi

di RuWeasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** dove ho messo la golf? ***
Capitolo 2: *** dove ti lascio? ***
Capitolo 3: *** che ore sono? ***
Capitolo 4: *** a che ora torni? ***
Capitolo 5: *** che guardiamo? ***
Capitolo 6: *** che album è? ***
Capitolo 7: *** che facciamo dopo? ***
Capitolo 8: *** che strada fai? ***
Capitolo 9: *** buchiamo lezione? ***
Capitolo 10: *** ti va? ***
Capitolo 11: *** che schifo ***
Capitolo 12: *** ultima ***



Capitolo 1
*** dove ho messo la golf? ***


lei ha di nuovo i capelli corti, cortissimi. li ha fatti crescere una volta e si è accorta che non ha più funzionato, e solo in quel momento ho capito quanto fosse stupido aver timore di farsi il carone dopo i vent’anni. 

su instagram cercherà una persona con cui trasferirsi, a padova.

io ora le risponderò, perché per la prima volta mi sentirò adulto, e lo sarò talmente poco che deciderò solo in quel momento di andarmene dalla mia città.
per mettere finalmente un cazzo di rivelatore di particelle in un centro sociale.
bari padova sono settecentottanta chilometri. avrò ancora la golf e quando caricheremo le cose le racconterò di come dovrei metterci un adesivo di lula. capiremmo entrambi.
questo è un trasloco vero penserò quando siamo al casello. in uno zaino e due scatole ci sono tutte le cose che sento di possedere. tutta la mia vita entra in una golf con abbastanza spazio da farci entrare la vita di un’altra persona.
fumiamo entrambi, in questo periodo. lei ricomincerà intorno ai ventotto, io sarò rimasto in un limbo eterno, anche se dopo la laurea mi sarò fermato per due settimane, come al solito in queste situazioni. 
credo ci divideremo la benzina, ma le sigarette inevitabilmente le girerà lei. io ho il tabacco e i filtri, lei le cartine, che a me sono finite. 
da rimini in poi saranno le sei, credo, forse le sette. ci sarà una nebbia tremenda e lei metterà i radiohead, e ricorderò che in rainbows è il mio album preferito grazie a lei. dice cose ingombranti, in macchina. vive in un fiume di parole ed è a padova per un giornale o per una pubblicazione. ha a che fare con le parole che lei continua a scrivere su un portatile tappezzato degli adesivi dell’organizzazione. io ascolterò e sarò interessatissimo e terrorizzato. forse anche lei ma di sicuro non può sentirlo ad alta voce, quindi non mi sarà dato saperlo. 
finisce in rainbows e parte lo stato sociale e sarà ancora peggio di come ce lo immaginavamo a vent’anni, tant’è che la musica finisce e siamo ancora sulla a13.
parcheggerò io, e ovviamente non avrò idea di dove dormire. le darò una mano con le scatole. saliamo e lei mi fa 

oi dai ma che davvero devi dormire in macchina, ci stringiamo, tranquillo. 
io ci speravo.
la casa è come le case dei fuorisede. ha una cucina stretta, le mattonelle marroni-rosse chiaro in ceramica sporchissime, i mobili vecchissimi e le pareti decisamente non piatte piene di cose sporgenti strane cavi fili tubi. saranno le otto prenderemo le zucchine dal bangla e mangeremo una roba tipo pasta zucchine e pomodori e apriremo una bottiglia di vino. mentre cucina lei lascia una cosa sul fuoco per troppo tempo. l’ho notato ma aspetto per far nulla, sono solo teso.

e lei urla dario cazzo la padella la padella dammi una mano con un tono quasi di rimprovero e di necessità, mi fa strano da morire ed improvvisamente ho dieci anni in meno, perchè non lo sentivo da un po’.

la pasta non è male ma tanto sono passate otto ore di macchina avremmo mangiato qualunque cosa e finiamo la bottiglia di vino e come al solito io metto la musica. apriremo la seconda bottiglia di vino e il discorso sui massimi sistemi e su come tutti i libri compagni che pubblichiamo generano plus-valore sarà già finito, perché non poteva durare troppo. ed improvvisamente è tutto più drammatico, perché parleremo di viaggi per cui abbiamo qualche soldo per fare ma non sappiamo se è il momento di farli, parleremo del fatto che le nostre vite hanno una forma ed è totalmente indecidibile. 

ci sarà un nuovo discorso sui viaggi in macchina e sulle montagne e lì io avrò capito tutto e mando a fondo un respiro e rido. rideremo entrambi, chinandoci un po’ avanti con la testa e rideremo tanto, e lei mi prenderà il braccio.
il giorno dopo nessuno dei due saprà cosa dire, però io sarò più svelto, e farò io il caffè. basterà quello. nel momento stesso in cui lo verso nelle tazze, il nodo si scioglie, e va tutto bene. fumiamo una sigaretta in cucina.
lei ricomincia la sua vita per l’ennesima volta, io in macchina metto la musica della sera prima, senza accendere il motore perché sono a padova e non so dove cazzo devo andare a vivere.

(forse ti cercherò quando avrò bisogno di una scatola)

 
 
***

// weird fishes/ arpeggi: la canzone che metterà lei poco prima di ancona. entrambi avranno un nodo in gola

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Capitolo 2
*** dove ti lascio? ***


mi fa male il polso

mi spieghi com'è possibile che hai ancora voglia di scopare con me

no perché non me lo spiego

sono una cazzo di bambola di pezza senza neanche abbastanza sbatti o coraggio per dirti che non voglio continuare questa cosa ed in qualche modo non ti sei stufata di questo pseudo-sesso pigro rigorosamente a casa mia.

sono periodicamente irritato da te senza nessuna ragione, mi dai fastidio solo perché spunti tutte le crocette ma cazzo non mi piaci per niente. tra noi due non funziona niente com'è possibile che tu abbia ancora voglia di vedermi

tanto non ci credo che speri in parole dolci, che speri in sussurri durante il sesso e dopo le sigarette. che speri nei classici su vinile al momento giusto e le dediche carine quando ti consiglio gli album.

a me sembra anche evidente ma tu non mi convinci, e mi disturba un poco

io non sono le tue aspettative, non sono le tue idee un po' tossiche e un po' dolcine sulle relazioni.
niente sesso hardcore niente massimalismo niente parole pensate.

nessuna presa male insieme, niente di niente.

qualche giorno prima, lei viene al locale, per guardare un film o ascoltare un album o cenare insieme - poco importante. lei ha una maglietta dei sonic youth, di goo, che è il mio album preferito

significa un tot di cose per me. sento che l'avremmo indossata rispettivamente in maniera totalmente diversa
come se fosse tutta un’altra cosa.
io però non ce l'ho, quella maglietta, lei si.

quando lei credo finisce non capisco cosa prova a fare. io sto fissando il muro blu dal riflesso delle luci.

io la abbraccio imbarazzato e provo a non incrociare il suo sguardo ed improvvisamente mi ricordo di com'era a quindici anni e quanto non fossi in grado di mantenere uno sguardo serio o vero.

non so onestamente cosa fare e ci sono dieci minuti sfocati ma perché sto senza occhiali e sono paralizzato e confuso e vorrei solo divincolarmi.

lei mi chiede che succede ed inevitabilmente rispondo niente
io mi chiedo com’è possibile che ogni domanda che mi faccia riesca sempre così sorda. sono sicuro che lei è realmente interessata alla mia risposta, ma non posso, non ci riesco.

nella mia testa non lo credi davvero, non ti interessa davvero. sono convinto che abbia a che fare con il tono o con la tua faccia ma sono ancora confuso e se ti sto allentando la presa non penserò anche a che cazzo ti passa per la testa - cazzo lasciami lasciami il braccio

fumiamo una sigaretta ed io mi trovo bene a tre metri di distanza da lei. mi sento quasi affabile.

ma ripenso che ogni come stai tu mi abbia chiesto sia servito solo a riuscire a legittimarti in un posto
poco confortevole, come le mie gambe, come il divano del locale, come il sedile della mia macchina.

per darle un passaggio a casa chiudo il locale in maniera estremamente meccanica, e passo due secondi netti, precisi, immobile, dopo aver dato una sola mandata.

entriamo in macchina, metto unknown pleasures. è dalla mattina che voglio ascoltarlo.
il viaggio è imbarazzante ma lei mi è riconoscente perché le sto alzando un passaggio. a me non pesa.

quando arriviamo io non metto le frecce, e lascio la prima. lei non coglie.
mi da un bacio sulla guancia ed io faccio una smorfia, a lei non va giù.

lei mi passa un braccio attorno al collo, non curante del cambio, del freno a mano, di tutte le cose che stanno - evidenti o meno - tra me e lei. mi bacia il collo. io non so cosa fare. le carezzo il braccio con le unghie, indeciso su come comportarmi. non riesco a capire quanto sia evidente la mia tensione e sono nervoso e sono profondamente innervosito dalla vaga eccitazione di non essere davvero d’accordo con lo scorrere degli eventi.
ci baciamo, mi accorgo degli joy division di sottofondo e spero dal profondo del mio cuore che questo limone lento da cui cerco di staccarmi mentre penso ai cani non sia in alcun modo connesso alla musica. mi farebbe stare troppo male. sarebbe quasi kitsch

l'ultima parola che dice è fottiti
io mi avvio e porto la macchina a tremila giri solo per partire e mi chiedo se faccia brutto.

quando arrivo ripenso a tutto questo. guardo la scheda spotify degli joy division, ascolto love will tear us apart e non riesco a capire chi più dei due viva in un mondo di fantasia.


\\ perdona e dimentica: cosa è partito nella mia testa quando ho iniziato a pentirmi del limone
 

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Capitolo 3
*** che ore sono? ***


le dodici

andiamo a prendere una birra?
si dai ok

korine e gjergo si avviano allo stand della heineken, un po’ troppo grande per quel festival ma dopotutto c’erano nomi un po’ grossi un po’ importanti. tutto è proporzionato, la heineken alla spina a cinque euro tuttavia no: entrambi decidono che non avrebbero speso altri soldi. i prati che ospitano il festival sono grandi e in realtà decentemente illuminati. gjergo è arrivato quel giorno e nella sua città i parchi sono sempre una merda, quindi tutto sommato è anche gasato. korine si poggia su un tavolo da pic-nic del parco e per la prima volta da quando si sono visti questo pomeriggio non hanno da fare nell’immediato futuro; iniziano a chiacchierare, lei gli parla un po’ di com’è cremona, fa un po’ di gossip. nell’area della tekno c’è il suo ex, e per ballare sotto cassa lei e gjergo si abbracciano e si toccano, e korine guarda con la coda dell’occhio il suo ex - uno con lo smanicato di jeans strappato, gli anfibi lo sguardo un po’ losco e la testa rasata. gjergo si sente un po’ in difficoltà però riescono a ballare via dal palco ed ora sono di nuovo sul tavolo da pic-nic. ora sono più gasati, hanno il fiato più sospeso, un po’ più di voglia di vedere altre persone.

le due
korine e gjergo stanno fumando il narghilè accanto a un camper e i tipi del camper stanno bevendo gin liscio un po’ oleoso e gjergo ha i capelli fradici* e una sigaretta industriale. continuano a bere il gin liscio, quello grande del camper se ne va, rimane solo il pischello, poco più piccolo di korine, che quando la vede mandare giù un bicchiere di gin sano decide di dare una sigaretta anche a lei.

le quattro
korine e gjergo siedono a gambe incrociate sul palchetto, in legno, dove prima suonavano le band sfigate. ci sono ancora delle aste rotte, ma per il resto è vuoto, e scricchiola quando ci si cammina sopra. gjergo non si ricorda perché fossero lì, ma si avvicina a lei, e si baciano. le guarda i bottoni dei jeans poi distoglie lo sguardo

le cinque
korine urla

hey guarda che lo staff è andato a fare festa con le band, hanno lasciato il tavolo libero

entrambi iniziano a bere alla canna dallo spillatore di birra. korine semplicemente non ricorda del gin di tre ore prima, gjergo decide che non è importante e che l’alcool tanto ormai l’ha smaltito. lei dopo aver deciso di aver bevuto abbastanza si nasconde dietro a un cespuglio a pisciare.

le sette

gjergo realizza di avere il telefono spaccato. lo schermo è completamente nero, ma sembra che sotto funzioni tutto. quando lui e korine sono fuori dai giardini realizza che il fonico di quella band maledetta alla fine gli ha fregato gli occhiali gialli*. casa di korine è dall’altra parte del centro città, e cominciano a camminare, con il sole della mattina. subito dopo aver attraversato il fiume che divide la città dai giardini c’è una grande strada asfaltata senza guard rail, e ai lati dei campi a maggese.

gjergo da piccolino viaggiava tantissimo in macchina. è proprio una delle cose che ricorda di più della sua infanzia: aspettare. da piccoli c’erano sempre tante attese, al supermercato, dai parenti, in macchina. però in macchina si poteva vedere fuori dal finestrino, e per tutte le statali che ha attraversato il piccolo gjergo si è sempre chiesto come sarebbe correre per quei campi. gli sembrava paradossale come fossero così vicini ma sempre inaccessibili, perché si va troppo veloci. perché fra qualche ora fa buio e siamo ancora a quattrocento chilometri da milano.

a questo giro i guard rail non ci sono, e gjergo e korine non potrebbero andare veramente più lenti quindi

perché non ci fermiamo qui? ci sono le camomille

korine annuisce, sorridendo, con lo sguardo perso. gli stringe un braccio in vita, e si regge a lui mentre scendono non troppo graziosamente per il campo appena alla destra della strada asfaltata male. camminano quanto basta per poter non sentire le macchine che passano, e si stendono. gjergo però steso per tanto tempo non ci riesce a stare, e con le gambe stese si solleva, reggendosi con i gomiti poggiati a terra. korine, accanto a lui, ha gli occhi chiusi e la faccia bagnata dal sole. la sua maglietta celeste slavata è sporca di fango, e le è uscita dai jeans a vita alta, scoprendole la pancia. gjergo la guarda e si avvicina, facendole un po’ ombra. lei ha ancora gli occhi chiusi e i loro visi distano pochi centimetri. l’ombra le fa aprire gli occhi, gjergo le sorride. lei ha gli occhi socchiusi, abbozza un sorriso e si avvicina, lievemente. senza dire una parola, gjergo le prende gli occhiali, e si sposta. korine chiude ora gli occhi per il sole che gjergo scopre, e delicatamente lui le mette gli occhiali tondi che si era appena sfilato. quando la montatura le sfiora le orecchie i suoi occhi hanno un guizzo, ma li tiene chiusi, ed avverte la sensazione diversa sulla pelle, avverte il nasello mancante e le stanghette fredde. lui si mette gli occhiali di acetato neri appena rubati e la sua grave miopia non vacilla molto. dalla tasca tira fuori il coltellino svizzero con cui qualche ora prima aveva mangiato la sua cena, e si fa un taglio verticale, superficiale, dal ginocchio alla caviglia, sul polpaccio. esce poco sangue, che si coagula in fretta. korine si alza di scatto e gli afferra i capelli e lo bacia, gettandolo a terra. si sporca un pochino i jeans di sangue.

che ore sono?
non lo so

i due si guardano, un po’ stanchi, e sorridono. si addormentano tra l’erba alta e le camomille. al tramonto arrivano a casa. tornano entrambi con fiori tra i capelli

\\ alrighty aphrodite : dopo che gjergo ha rotto il telefono era l’ultimo pezzo rimasto su spotify e quindi poteva mettere solo quello in loop. l’ha ascoltato per altre due settimane
 
 

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Capitolo 4
*** a che ora torni? ***


sul pavimento di un circolo arci due ragazzini pomiciavano stesi sul pavimento tra un divano vuoto e un tavolino. al pischello baciarsi in quel momento di epifania e prima esperienza si è rivelato poco elegante e più semplice di quanto immaginava. il rossetto che lei si è messa per la seconda volta nella sua vita ora è sparso sulla faccia di entrambi.

la settimana dopo c’è un’altra serata e i due pischelli bevono di nuovo e non facendo trent’anni in due bastano poche birre. si chiudono nella stanzetta del circolo solo per pomiciare sul divanetto. il pischello le sfiora il tessuto sottile che le copre le gambe e gli tremano le mani mentre continuano a limonare. lei si mette a cavalcioni su di lui. da lì è tutto offuscato, lei gli prende la faccia con le mani e lui tocca un culo per la prima volta nella sua vita ed arrossisce da morire.

il diciassette novembre è la giornata internazionale dello studente e la manifestazione finisce in una piazza enorme vuota e sul mare. all’ombra del camioncino con la cassa si siedono entrambi a gambe incrociate ed entrambi hanno la faccia impiastrata di pittura per il corteo. mangiamo insieme? chiede lui e lei annuisce, senza parlarne. nella strada tra la piazza e il box delle biciclette prendono della focaccia fredda perché ormai sono le quattro del pomeriggio. quando arrivano nessuno dei due mangia e si siedono sul divanetto verde. alle cinque la focaccia è ancora intatta e i due pischelli non hanno proferito parola. limonano impacciati sul divano verde da un’ora, lui è steso con la testa che preme sul bracciolo del divano e le gambe che penzolano dall’altro, lei a cavalcioni su di lui, con una gamba incastrata e l’altra che si poggia a terra perché il divano è troppo piccolo. quando i loro sguardi si incrociano lei ogni tanto ride e ogni tanto no, e lui è imbarazzatissimo da questa risata e non sa cosa fare, non sa come comportarsi. limonare è una buona scusa e adesso è un’ora che aprono gli occhi a momenti alterni senza farsi molto male. dopo due ore lui inizia a essere sospettoso o curioso o qualcosa del genere. c’è proprio questo momento di realizzazione dell’essere semplicemente soli e, tremante, lui fa per sollevarle la maglietta. lei ancora su di lui fa per togliersela, quasi ci si incastra e incrocia il suo sguardo che le fissa il reggiseno. istintivamente lui si svincola da sotto di lei e si toglie la maglietta, e la guarda in piedi di fronte a lui - i loro sguardi non si incrociano e lei non guarda il suo sforzo di simmetria. ricominciano a pomiciare per non guardarsi negli occhi e con gli occhi chiusi provano a togliersi i vestiti, impacciati e indecisi, una maglietta cade sul tavolino dove stava la focaccia fredda.

quando finiscono di togliersi i vestiti è passata un’altra ora e lei è in piedi e lui è seduto. sono quasi pietrificati e l’intimità fisica non viene facile a entrambi, i movimenti prima di essere ingenui sono farraginosi e difficili. lui si alza, un altro sforzo di simmetria, ma non si toccano, quasi non sono nemmeno vicini. non si guardano, si danno un bacio da in piedi e nessuno dei due si sente legittimato a guardare l’altro corpo nudo. si siedono sul piccolo divano verde e lui allunga la mano sul suo seno, lei lo bacia, senza toccarlo.

il telefono squilla, sono le sei e trenta. dove sei? chiede la madre, e lei risponde di essere vicina. va bene, fatti trovare all’incrocio di via quintino sella, io tra dieci minuti sono lì, e la madre chiude la chiamata. lei si riveste in fretta e lui in mutande la fissa per un pochino ma appena si gira distoglie subito lo sguardo. si veste in fretta anche lui. si danno un bacio secco sul ciglio della porta. lui dimentica la focaccia sul tavolo e sale a casa sua.

due giorni dopo si vedono di nuovo al locale, non mangiano nemmeno questa volta. lui seduto sul divano si mette un preservativo mentre le da le spalle, imbarazzato. viene dopo pochi minuti, senza fare rumore, entrambi sono silenziosi, pochi convenevoli e nessun preliminare. quando lui esce prova a toccarla e lei trema.

dopo pochi minuti lei gli afferra il polso e prova a guardarlo negli occhi e lui la bacia. lei gli afferra il polso con entrambe le mani e lo stringe, ed entrambi assistono ansimando - per la prima volta - all’unica cosa che ha avuto senso della loro prima volta. si lasciano dopo poche settimane.
  // mi sono rotto il cazzo - lo stato sociale: la cantano insieme al corteo - ora sembra surreale a entrambi.

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Capitolo 5
*** che guardiamo? ***



le unghie! mi ero dimenticato di tagliarmi le unghie. non avevo molte cose da fare prima che lei arrivasse, però non ho combinato in qualche modo. è che avevo questa sensazione di bidone domenicale che mi ha totalmente bloccato. dovevo lavarmi, mangiare, decidere cosa guardare. ah già e tagliarmi le unghie. quando lei ha suonato al citofono a malapena ero uscito dalla doccia, e le ho aperto coi capelli bagnati facendola aspettare sulla soglia. lei è divertente e con la frangetta, ci siamo presentati dietro il bar isabella ma poi non ci siamo più parlati per un po’. a casa ero spigliato e le ho offerto un bicchiere di vino e dell’insalata di riso venere terribile che ho preparato la sera prima. non gliel’ho descritta come terribile ma lei comunque ha rifiutato, aveva già mangiato. io ne ho mangiato due bocconi e mi sono versato un bicchiere di vino e l’ho invitata in camera, con una spigliatezza che da sobrio non mi sarebbe appartenuta. in camera abbiamo fatto le cose che fanno gli adolescenti. abbiamo bevuto il vino dei miei genitori, abbiamo ascoltato la musica, abbiamo guardato un anime. non ho mai smesso di essere in fissa con evangelion ma in quel periodo la cosa era particolarmente grave. lo iniziammo insieme giorni prima. in quella domenica abbiamo guardato gli episodi centrali, quelli dove c’è ancora spazio per le piccole sciocchezze preadolescenziali dei protagonisti, quando tutto ancora era calmo, tolte le terrificanti creature imponenti gigantesche e biblicamente quasi accurate. forse ci siamo baciati subito, forse dopo un po’. lei mi piaceva molto ma io non ne sapevo granché di queste cose. perchè non ci siamo mai messi insieme? con un’ingenuità analoga mi sono riempito un altro bicchiere di vino, e gliene ho versato uno anche a lei. a un certo punto lei ha smesso di bere ed io non ci ho fatto immediatamente caso. poi c’è stato un sorso preciso di un bicchiere preciso in cui ho realizzato: ho bevuto imbarazzantemente troppo. in casa siamo rimasti per un altro po’ e l’alcool ha lasciato ai posteri solo tre scene;

la prima: io e lei ci siamo stesi buttandoci di schiena sul letto dei miei genitori, la musica era altissima e io ricordo la prospettiva da dentro, avevamo le teste vicine e le gambe lontane, era quasi romantico, euforico in maniera alcolica, gasato e dolce; io ricordo la prospettiva da fuori ed ho immaginato sid e cassie che si stendono sul tappeto elastico. skins l’abbiamo guardato insieme settimane dopo, appena finito evangelion.

la seconda: la mia faccia tra le sue gambe, in maniera intima e quasi volgare e zozza - leccarsi da pischelli è una faccenda veramente imbranata. in quel periodo per me il sesso era ancora staccato dal mio desiderio ma l’eccitazione di quel momento stava funzionando anche se non ricordo benissimo come ci fossimo arrivati.

la terza: ho sbrattato l’anima nel bagno piccolo in veranda. amaramente. ho guardato il vomito magenta nel cesso realizzando che semplicemente non avevo mangiato. un’altra cosa che dovevo fare prima che lei arrivasse.

mi sono sciacquato la bocca e i genitali e sono tornato nudo in camera mia. chiudendo la porta ho cercato di ricordarmi quando mi fossi tolto i vestiti, senza successo. dopo poco ho iniziato ad andare in paranoia: i miei mancavano da troppo tempo, sicuramente stavano arrivando, erano da qualche parte ed io non mi sarei fatto trovare nudo da mia madre. dovevamo andarcene dovevamo scappare immediatamente. non ricordo il tragitto da casa al box, ma quando l’abbiamo aperto ci siamo seduti uno vicino all’altra sul divanetto verde e la testa mi scoppiava. periodicamente provavo a vomitare senza che iniziassi a sentirmi meglio. in una sbronza normale mi sarei ripreso al secondo sbratto, e invece la testa non finiva di martellarmi. non ricordo se ci siamo toccati nel box; ricordo che le ho chiesto di andarsene ma non ricordo come. con una faccia distrutta e venendo mangiato dalle paranoie e dal mal di testa siamo usciti e ho chiuso il box e le ho chiesto scusa. nei brevi momenti lucidi da lì al mio risalire a casa mi sono chiesto cosa ha pensato delle mie scuse, delle mie condizioni, di quella domenica pomeriggio.

salito a casa c’era il crepuscolo. luce senza l’arancione del tramonto, solo un cielo non buio e dei miei non c’era ancora traccia. bere l’acqua, dovevo bere l’acqua. ho mandato giù due bicchieri ed ho messo una bottiglia d’acqua in frigo. faceva caldo, caldissimo. poi sono andato a dormire. dieci minuti dopo mi sono alzato, la luce neutra del crepuscolo mi confondeva. ho cercato l’acqua inutilmente: nel frigo non c’era. forse sono stupido ho pensato. ho messo altre tre bottiglie d’acqua in frigo e sono tornato a dormire.

quando mi sono svegliato la luce era identica. c’era ancora il crepuscolo. le nozioni di tempo e spazio e scopo hanno perso di significato. devo bere l’acqua ho pensato. ho aperto il frigo solo per realizzarmi estremamente preso in giro. vuoto. non l’ombra di una bottiglia d’acqua. ma come è possibile. non ha senso. spaesato e quasi nel panico ho iniziato a girovagare per casa perché quelle bottiglie di certo non possono essere andate lontano. ma poi dove sono i miei genitori - i miei genitori! ero convinto di aver trovato i responsabili e corro per il corridoio e spalanco la porta e faccio

voi! avete preso voi l’acqua!

i miei genitori sono stati evidentemente colti in flagrante, o forse, realizzavo dopo, era solo mattina. mio padre mi ha guardato corrugando la fronte e mi ha detto a voce molto bassa

…no

ma poi che ci fai sveglio a quest’ora guarda che tra tre ore devi andare a scuola.

la scuola! improvvisamente l’isola priva di spazio tempo e scopo del crepuscolo e di quel cielo scuro e ceruleo collassa su se stessa e sono stato immediatamente catapultato nella schifosa realtà dei fatti: l’ultimo lunedì di giugno prima della fine dell’anno. *

lei l’ho vista qualche giorno dopo alla giornata dell’arte della sua scuola, dario! come stai? mi ha chiesto, ed io le volevo chiedere di nuovo scusa, e le ho detto che stavo meglio, e che mi dispiaceva per quella domenica. senza girarci troppo attorno lei mi ha detto

comunque da’ guarda che mi hai fatto malissimo quel pomeriggio

le unghie! le maledette unghie! ecco cosa dovevo fare prima che lei arrivasse! sono diventato rossissimo e le ho chiesto scusa tantissime volte e lei ha riso. ci siamo sentiti un po’ di meno dopo quella domenica pomeriggio, ma qualche giorno dopo ci siamo rivisti a casa mia, ma skins ancora non l’avevamo iniziato. questa volta ero sobrio, e spogliandoci pensavo alle mie unghie curate e i miei gesti erano attentissimi, cauti con gli avanzi dell’imbarazzo di qualche giorno prima. quando lei si è tolta la maglietta le ho guardato le tette e poi ho realizzato: è la prima volta che le guardo le tette.

ma come cazzo è possibile.

// chronos feasts on his children - unkown mortal orchestra: quando lei me li ha consigliati ho pensato che avevano un nome stupido. l’unico consiglio che non era trip-hop, quello che mi ha affascinato di meno, con cui poi sono andato in fissa di più.

 

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Capitolo 6
*** che album è? ***


su instagram sembrava molto semplice e molto politico anche se io onestamente non lo sono veramente così tanto. ho solo letto due libri della minimum fax di maschi bianchi cis-etero dall’ego un po’ troppo espanso su come l’industria culturale è un braccio del neoliberismo. lei è molto di sinistra in ogni caso, e ogni volta citava i filosofi come se fossero delle band molto famose dei primi duemila - nel senso che non ne coglievo davvero i riferimenti. io mica ho letto niente di bakunin. lei usa tantissimo rate your music, conosceva tutte le cose che le ho mandato. mi ha fatto una playlist, drip woop splash, in realtà non mi ha detto che c’era solo shoegaze e mi ha colto impreparato ma mi è piaciuta ed io sapevo cosa fare: le ho chiesto di uscire. era estate e domenica, ed io ero piccolino, avevo il mio fedelissimo centoventicinque recuperato da una discarica e dei caschi un po’ rotti, e mentre lo tiravo fuori dal garage guardavo il cielo turchese senza nemmeno una nuvola. una bellissima giornata! normalmente quello che accomunava tutte le domeniche senza i miei genitori era sempre la noia, il mio non voler mai mangiare da solo. alla fine però non sapevo mai a chi scrivere, chi chiamare - di domenica è proprio facile sentirsi di troppo. però quella domenica era diverso! lei mi aveva risposto! sempre su instagram. credo che non avessi ancora sentito la sua voce, lei la mia non l’aveva sentita di sicuro perché io gli audio non li faccio mai. quindi ho chiuso il garage e ho iniziato a correre, con la mia t-shirt eccessivamente grande che si gonfiava per il vento. lei abita un po’ lontano, ci ho messo dieci minuti e poi le ho scritto

hey! io sto qui

mettevo ancora la h per scrivere ‘ei’ alle persone, un dettaglio che ho cambiato per ragioni non troppo precise. forse ora sono solo più pigro, forse ho capito qualcosa. quando lei è scesa di casa ci siamo salutati ed era super imbarazzata. non mi ha riconosciuto immediatamente e io le ho fatto un po’ un cenno con la mano, avevo ancora il casco. io le ho guardato molto il naso e poi ci siamo abbracciati e la cosa non è sembrata molto naturale.

come va?

lei mi ha risposto, io non ho veramente elaborato la risposta. le ho dato uno dei caschi un po’ rotti. avevo due caschi: uno nero e uno grigio, entrambi dei mezzi che se malauguratamente avessi fatto un incidente mi sarei crepato il cranio facile facile, però quello nero aveva il laccio che funzionava bene e per questo senza pensarci era sempre quello che mettevo io. quando partivo da casa ero sempre da solo, dopotutto. dopo nemmeno tre isolati, in un incrocio che normalmente è pieno di macchine, persone, ansiette, di quelli che in bici non li vuoi veramente fare, ho sentito un urto e lei mi ha fatto

fra fra fra guarda che mi è caduto il casco

credo di aver inavvertitamente fatto una faccia un po’ brutta un po’ stupita, ho accostato in un punto veramente criminale ed ho recuperato il casco. non c’era neanche una macchina. di domenica in estate non c’è veramente un cazzo in questa maledetta città. lei è rimasta vicino alla moto e le ho dato il mio casco. tremava e la sua voce aveva i nodi. l’ho guardata per pochissimo, mi sentivo tantissimo a disagio, ma sembrava proprio un ragazzino. lei aveva i capelli corti da pischello, il viso un po’ magro però tondo abbastanza da sembrare piccolino. le labbra sottili e un naso molto molto buffo. credo che proprio tutto quel giorno le ho guardato troppo il naso, era come gonfio sulla punta però pallido pallido, come la sua carnagione un po’ delicata. si insomma, da ragazzino mi ha guardato e da ragazzino ha deglutito quando è risalita sulla moto ed io, con il casco grigio, andavo piano. da quel giorno il casco grigio me lo sono sempre messo io. ho buttato prima il motorino di quel casco, fino alla fine. quando siamo arrivati al garage ho messo la moto dentro e dato che ancora non sapevo che cosa avrei cucinato - le alternative erano poche e precotte, ugh - ho deciso che avremmo potuto mettere della musica e decidere insieme sul divanetto un po’ lercio del mio garage. il garage ha quattro angoli e basta, è questo buffo quadrato-scantinato dalle mattonelle lerce e il soffitto alto, altissimo. poggiato alla destra del divanetto verde c’è un giradischi. era poggiato lì per terra e accanto stava una cassetta della frutta con dentro tutti i miei vinili. saranno stati una ventina, tutte ristampe. il più vecchio sarà uscito dalla fabbrica cinque anni fa. le ho fatto vedere che però ho tutta la discografia dei radiohead, perché volevo fare un po’ lo sgargiante e lei mi ha preso in giro. ci siamo sorrisi con una naturalezza che a me è scemata in fretta. faticavo a immaginare che con lei ci avessi passato così tante ore a chattare. però poi penso che di parlare parlavamo sempre di musica quindi avrei fatto meglio a mettercelo un vinile a riprodurre. ho tolto in rainbows dalla sua custodia in carta e accovacciato ho acceso il giradischi per poi abbassare la teca di plastica. quando mi sono alzato ho guardato per qualche istante la composizione calzini-giradischi-ciabatta-stereo-cavi ed ho realizzato che forse ci provavo un po’ troppo a sembrare sciatto. però poi è partita 15 step e mi sono seduto di nuovo sul divano, ho alzato il volume ruotando il piccolo potenziometro del mio impianto di fortuna e tutto è diventato più liscio, più piacevole, e la chiacchiera a metà di cinque minuti prima ha iniziato a funzionare bene. era un’ora da quando la sono andata a prendere, quaranta minuti da quando siamo entrati nel garage e otto minuti dall’inizio dell’album. è partita nude, lei mi ha poggiato la testa sulla spalla ed io mi sono semplicemente sentito fuori luogo perché lei non mi piaceva. una conclusione lineare che realizzo solo ora. stavo ascoltando nude e non l’ho nemmeno guardata negli occhi, sono solo sprofondato sul divano e le ho porto la guancia e senza averle guardato le labbra più di una volta ci siamo baciati ed io nella mia testa avevo ancora l’immagine di lei che mi guarda come un ragazzino spaventato. mi sembrava aver senso che le cose andassero così. da all i need in poi mentre ci baciavamo io avevo gli occhi aperti. lei non li apriva mai ed io mi sentivo strano e non capivo. le ho guardato le gambe e ho poggiato una mano sulle sue ginocchia. i jeans erano di quelli un po’ sottili, dalla stoffa invecchiata chimicamente dei negozi fast fashion. le cadevano strani sulle sue dr martens basse e, mentre le guardavo con la coda dell’occhio, ho pensato che anche le sue scarpe avessero senso così. quando le ho messo le mani sui fianchi ho avuto la decenza di chiudere di nuovo gli occhi e lei all’improvviso ha deciso di essere intraprendente e decisa e provando a posarsi su di me mi ha dato una ginocchiata. non mi sono fatto male ed abbiamo continuato per qualche minuto però la ginocchiata allo stomaco mi ha ricordato che dovevamo mangiare. mangiamo cordon bleu e insalata, su a casa, ricetta preparata in un quarto d’ora netto che lascia spazio a una discussione veramente inaspettata/dubbia su hegel. io non ce l’ho di certo un’opinione su hegel, perché l’abbagnano è un libro di merda e il liceo l’avevo appena finito. anche basta. mi piaceva di più parlare di musica, mi piaceva di più parlare e basta, mi piaceva scriverle quando mi annoiavo. mentre le stavo riempiendo un bicchiere d’acqua ho guardato fuori dalla finestra della cucina e il cielo turchese mi è sembrato soffocante invece, ho pensato che mancano ancora tantissime ore al tramonto e il sole mi aveva già rotto il cazzo. non avevo un’idea molto chiara di cosa mi stesse davvero turbando in quel momento, evidentemente. il salotto di casa dei miei è piccolo e subito dopo pranzo è particolarmente buio. metto la musica dalla cassa del telefono e ci stendiamo sul divano per pomiciare come i ragazzini, senza che si vedesse granché. le ho toccato il culo perché ormai eravamo stesi e più toccavo i suoi jeans e meno pensavo a lei. ho riaperto di nuovo gli occhi a un certo punto ed ho solo ascoltato la musica: a quel punto ho realizzato di odiarmi un pochino - non posso baciare una persona solo perché ci sono i radiohead di sottofondo. lei si è tolta la sua camicia a quadri ed io ho ignorato la cosa. quella sera non l’ho riaccompagnata a casa, non me la sentivo.

siamo andati a piedi insieme fino in stazione, ci siamo baciati ed io mi sono innervosito da morire: questa è l’ultima volta che non ascolto tutto, che non metto insieme tutti i pezzi, che mi faccio fregare da buffe angolazioni nelle foto, che esco con una ragazza del classico, che parlo di chomsky con una tipa su instagram. mi sono fatto tutta una lista di cose stupide che mancava di una cosa: non posso farmi qualcuno solo perché mi piace la musica che ascolta.
c’era una parte del concetto però che non ho afferrato, qualcosa della giornata, su cui non mi sono fatto abbastanza domande; un punto della lista che se avessi sviscerato abbastanza avrei capito davvero qualcosa di me! come mi vivo davvero i rapporti? che significato hanno davvero le mie conversazioni con le persone? avrei potuto capire, avrei potuto capirmi! bastava poco!
un giorno lei ha cancellato il suo account di spotify. da lì ho smesso di pensarci.

 // bent (roi’s song): la canzone che usciva dal telefono quando decido che non avrei continuato ad avere gli occhi chiusi durante il limone sul divano di casa mia. l’ho ascoltata con molta attenzione

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Capitolo 7
*** che facciamo dopo? ***


vacca e gjergo spengono gli amplificatori con un po’ di scazzo. poggiano la chitarra sul divanetto verde e decidono che avrebbero trovato qualcuno se fossero usciti adesso. in fondo sono solo le undici. escono con il motorino, vacca indossa il casco nero con il laccio che funziona, gjergo guida con quello grigio. a storie non c’è nessuno. ascoltano i fast animals and slow kids dalla cassa del telefono subito dopo aver salutato le due persone che trovavano sempre, ed adesso entrambi si sono pentiti di essere usciti di casa. potevano rimanere al box a suonare, o a giocare, o a fare qualunque cosa. gjergo si sente sempre preso in giro dalla promessa di socialità, vacca anche, ma forse si sente più preso in giro da gjergo.

vabbe ma torniamo a casa ci guardiamo un fatto
ci sta

in motorino ascoltano i cani dalla cassa del telefono. si sente pochissimo, il vento copre tutto, ma i pezzi li cantano a memoria. le urla dei pischelli finiscono per non seguire più la cassa del telefono, ma nessuno dei due se ne accorge. a gjergo si annoda la gola. il telefono si scarica poco prima di arrivare. quando arrivano vacca scende dal motorino e gli fa ma tu a quante persone l’hai inviato sto disco? e gjergo ci pensa un po’ e realizza che sono tante e che con tutte quasi non ci parla più; non è bastato inviare il sorprendente album d’esordio dei cani per vivere il suo teen romance con tutte quelle ragazze che bazzicavano i collettivi, che vedeva a storie, che ammirava su instagram e di cui immaginava la dolcezza.

bo l’ho inviato a un po’ di persone credo

secondo me non ci sta tantissimo che tutti sti dischi su cui ci facciamo i piantini siano il bait per delle conversazioni blande con ragazze su cui proietti i tuoi bisogni romantici

quando mettono il motorino dentro accendono il proiettore e si guardano qualcosa silenziosi. vacca ha proprio ragione.

da lì gli album che gjergo ascolta con vacca li custodisce con cura. gli sembrano un piccolo tesoro, qualcosa da proteggere dolcemente. gli album che ha scoperto dopo li ha condivisi con attenzione. quando spengono il proiettore, gjergo gli sussurra grazie.

// i felt your shape - the microphones: il pezzo, l’album che gjergo ha custodito con più cura e con più dolcezza; buffo come una canzone d’amore, fino alla fine, l’abbia fatta franca.

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Capitolo 8
*** che strada fai? ***


dave alle sette e quarantaquattro esce sul ciglio della porta e osserva il pulsante di chiamata dell’ascensore. tre minuti, si dice. tre minuti. dalla tasca del giubbotto tira fuori il telefono che gli mostra pigramente l’orario. quando è entrato in ascensore sono ufficialmente le sette e quarantasette. il tragitto casa-scuola di dave consiste in tre isolati delle case popolari, il viale della caserma occupata, il sottopassaggio della stazione, i portici della scuola. tredici minuti di tragitto. cammina per il primo isolato a testa alta senza guardare le pozzanghere. ieri ha piovuto e non si è preoccupato dell’orario, oggi si. a metà del secondo isolato si sbottona la giacca e guarda il semaforo rosso. si ferma poco prima delle strisce e si gira a destra, senza vedere nessuno. solo il paesaggio un po’ monotono delle case popolari e delle pozzanghere tra le mattonelle a quadrettini. il resto del tragitto lo fa a testa bassa e si guarda le vans ora bagnate sulla punta. 

dave alle sette e quarantotto è sul pianerottolo di casa. oggi non ha guardato il telefono per scendere. il primo isolato ora è asciutto e non guardare per terra non gli costa un paio di calzini. al semaforo tra il secondo e il terzo isolato la vede. si apre la giacca, mette gli auricolari in tasca, si toglie i capelli da davanti alla faccia e affretta il passo, per affiancarla sulle strisce pedonali. lui la saluta e nina girandosi di scatto lo saluta, pacata. 

la prima volta che si sono visti è successo a metà del terzo isolato. quel giorno dave ha guardato il telefono mentre usciva dall’ascensore. erano le sette e quarantasette. dave era preparato, nina l’aveva vista tra i corridoi e le aveva scritto, su qualcosa di stupido e commissionato da una ricerca scolastica. sul messaggio aveva un po’ di difficoltà ed è stato scritto a due mani. sara aveva notato qualcosa quando dave le ha parlato di nina, senza che necessariamente lui si dilungasse. dave era preparato, sara l’aveva preparato, gian l’aveva preparato ma ora questa preparazione si doveva scontrare con duecentocinquanta metri di mattonelle a quadrettini. cazzo adesso lo faccio pensa, ed era ansiato ed ha corso un pochino e dalle tasche quasi cadevano le sigarette industriali e gli auricolari. trattiene il fiatone e sbuca alla sinistra di nina. 

ciao! esclama, lei quasi sobbalza.
sono davide ci siamo scritti qualche settimana fa per quella recensione della tamburiello.

dave ci ha provato tantissimo a suonare spigliato. però tratteneva il fiatone e le persone spigliate di certo non corrono.

ah! ciao! anna; ha risposto nina - diminutivo di annina, porgendogli la mano

davide! risponde dave, dandogli la mano. l’unico terzo nominato era la tamburiello, ed hanno chiacchierato della loro infame professoressa di italiano, delle recensioni di libri discutibili, dei complimenti che nina riceveva talvolta in materia dalla stessa. entrambi la insultano anche se non condividevano lo stesso lato della barricata in quel rapporto di forza.

il saluto pacato di nina scioglie brevemente dave ed un chiacchiericcio che fatica a non zittirsi riempie il viale della caserma, il sottopassaggio, i portici. dave non la guarda negli occhi quando le parla, ma la guarda sempre entrare in classe, un corridoio prima della sua. il loro rapporto ha quindi una forma precisa, una durata precisa - tredici minuti, tendenzialmente - che cozza con l’incostanza dei mezzi che nina prende per andare a scuola. dave un giorno gliel’ha chiesto che strada facesse, la sua risposta è stata vaga. pochi pomeriggi più tardi lui sara e gian passano il pomeriggio per picone e grazie ad occhi attenti e un po’ di attenzioni particolari ai suoi profili social trovano un portone con su scritto fiore. un’informazione non molto utile, alla fine dei conti, ma che aiutava dave ad immaginarsi nina apparire tra il secondo e il terzo isolato del suo tragitto. 
passa un anno e qualche mese e dave ha cambiato telefono ma non ha cambiato scarpe, ha cambiato zaino ma non ha cambiato le sigarette che compra. alle sette e quarantasette è sul pianerottolo e neanche la strada per andare a scuola è cambiata. al semaforo riconosce nina e le sorride, affrettando il passo sulle strisce. la fine della scuola non è molto lontana e nemmeno i portici della scuola. sul viale della caserma occupata nina cammina decisa sulle mattonelle a quadrettini, e lascia poco spazio. sulla sinistra dave cammina sul cordolo di pietra e i loro gomiti si toccano e lo stomaco di dave è in subbuglio e non sa cosa fare. il linguaggio corporeo dave non lo capisce e per questo non sa mai davvero dove mettere i suoi arti. poggiare un piede davanti all’altro gli basta. una domanda di circostanza sugli esami di stato lascia intravedere il burrone degli ultimi anni di liceo e lascia un po’ di fiato a dave. 

quindi hai pensato a cosa fare dopo?
credo fisica
ma per fare qualcosa nello specifico?
intendi la magistrale?

lei intendeva il lavoro. drammatico. adesso lui non si immagina nemmeno il quinto anno quindi la domanda pare infame. sente solo di ragazzini che parlano del test di medicina del tolc per andare a bologna del lavoro in azienda della madre che ha uno studio. 

la vita di certe persone sembra già scritta su un copione, risponde lui, dopo un fottuto conato cognitivo, mentre saligono le scale della succursale. al conato viene risposte un secco 

si forse può sembrare, ma non è così

entrambi sono indecisi su chi dei due ha detto la frase più stupida. però dave per un secondo le crede. 

sono le sette e quarantacinque. centoventi secondi e dave pigerà il pulsante dell’ascensore. un giorno un po’ troppo caldo di maggio, dave e nina non si beccano. 
sono le sette e quarantasette e dave è sul pianerottolo. tra il secondo e il terzo isolato saluta nina, e questa volta la saluta da lontano. questa volta non corre. lei la aspetta e lui crede di averla vista ferma per la prima volta. 

oggi ho proprio voglia di entrare in seconda
si madò anche io ho pochissima voglia di entrare
poi c’è la tamburiello alla prima
ugh, drammatico

il tragitto fila liscio, anche se ora dave cammina sempre sul cordolo del marciapiede e oggi si sente lontano. hanno entrambi la testa fra le nuvole questa mattina, lei quasi inciampa sul guinzaglio di un cane.

vedi? è un segno del destino! non ci devo entrare a scuola oggi!

ridono entrambi. dave non ricorda se abbiano mai riso genuinamente insieme. anche quando tornerà a casa non avrà una risposta a questa domanda. il tragitto finisce, e tra i portici lei esita. si guardano negli occhi in quella che a dave è sembrata la prima volta. ora sono in due a esitare. dave però abbassa lo sguardo, e quando subito lo alza e cerca quello di nina, lei ha fatto già un passo verso il portone. dave rimane paralizzato un pochino. 
le scale finiscono per salirle insieme. lei entra in corridoio prima di lui. si salutano con un cenno.

un quarto d’ora dopo la tamburiello fa uscire fiore. lei fuma una sigaretta in bagno e non rientra in classe per il resto dell’ora.
ventitré ore e qualcosa dopo, dave esce di casa. di fronte all’ascensore guarda il telefono: le sette e quarantatre. quattro minuti, dice. quattro minuti. alle sette e quarantasette è giù nel pianerottolo. 
tra il secondo e il terzo isolato davide passa un minuto prima di sospirare ed andare a scuola. entra con qualche minuto di ritardo.
aspettare le sette e quarantasette non gli ha mai portato troppa fortuna. poi l’anno è finito.


\\ that joke isn’t funny anymore: la canzone che davide ha stoppato la seconda volta che ha incontrato nina. ora la sua canzone preferita degli smiths


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Capitolo 9
*** buchiamo lezione? ***



gjergo saluta vacca esitante. lo abbraccia, e gli regge la bici mentre sceglie la musica del tragitto di ritorno. mentre rientra tira un respiro, ma senza che si veda troppo. martino è a gambe incrociate sul letto che occupa circa un quarto dello spazio calpestabile del box delle biciclette, che era anche un monolocale.

guarda che posso darti un passaggio non è un problema
nono ma davvero non voglio disturbare o altro

gjergo comincia a sentirsi insistente, e si riempie un bicchiere d’acqua. ne riempie uno anche per martino, una schifosa abitudine che si è preso dalla prima sigaretta che le ha girato. quando gjergo scrocca le cartine, le scrocca sempre pari, adesso. bevono entrambi l’acqua e mettendosi il cuscino dietro la schiena gjergo apre youtube, per guardarsi qualcosa di un po’ scemo ma un po’ serio.
quando si scoccia o si scocciano - difficile da discernere - gjergo fa

ma mettiamo della musica?
si dai
che mettiamo?

martino suggerisce l’album che vacca poche ore prima le aveva inviato su telegram.

peso - cioè è un album.. challenging
in che senso challenging?

gjergo realizza che non si sarebbe mai trovato in quella situazione ma ormai è evidentemente troppo tardi, e l’album a lui piace da morire, anche se era uno di quelli custoditi con cura. però vacca non avrebbe avuto niente da dire: dopotutto è colpa sua

dai ok però cioè io ti ho avvertito

ovviamente è strano. cioè non è neanche preso in contropiede dalla cosa, si gode l’album sperando di non sentirsi troppo stupido nel mentre. le conversazioni rompono alcuni silenzi e sono flebili. entrambi sono distanti, a pancia in giù, e le facce si rivolgono l’una all’altra ma gli occhi sono un pochino distratti. gjergo si muove anche troppo però, è febbricitante e felice, non sa cosa aspettarsi ed apprezza enormemente di essere su un letto in quel momento. durante i pezzi più peso si mette a pancia in su, e si tocca generalmente troppo le gambe.

comunque puoi rimanere a dormire, se ti va

martino sorride

sicuro che non ti disturba?
ma no figurati che dici

lei parla delle sue amicizie, in uno dei pezzi strumentali, abbassa la voce ed esita. i rapporti sono complicati, trovare le parole anche un po’ di più. gjergo crede di intendere ma entrambi vivono i distacchi in modo diverso, lo stare da soli in modo diverso.

nel letto, gjergo e martino occupano entrambi i bordi, a pancia in giù, guardandosi negli occhi. gjergo non ha mai parlato con nessuno in questa posizione. tra i due, nel letto, entrerebbero altre due persone, ma a nessuno dei due interessava accorciare le distanze. quando gjergo però si accorge di quanto diversamente si sono vissuti cose simili realizza che di avvicinarsi in qualche modo ne ha voglia. queste differenze gliele suggeriscono solo gli aggettivi che martino usa, quindi esita; non saprebbe realmente come fare ad abbracciarla o a dirle qualcosa che sembrasse sensato e lo facesse percepire piacevolmente vicino.
va bene così: è anche un po’ incantato da martino a pancia in giù, che con una lieve smorfia e le labbra leggermente contratte parla di cose un pochino spiacevoli ma - quasi - superate.

gjergo spegne il proiettore e mette la musica dal telefono e con le luci spente parlare è un po’ più vicino stretto quasi intimo. sono entrambi sotto le coperte con le guance schiacciate sui cuscini.
martino si addormenta per le tre, gjergo per le tre e mezza e dorme male, malissimo, pensando al padre che tra cinque ore avrebbe dovuto prendere la bici. il suo messaggio delle due e venti non ha trovato risposta fino al mattino dopo, e alle sette e quaranta gjergo è in pigiama e anfibi a lasciare la bici appena fuori dal box. prende dei cornetti, ricordandosi di non aver ancora mangiato dal giorno prima a pranzo, e quando torna trova martino strofinarsi gli occhi

ciao!
ei
facciamo colazione?

con la faccia ancora stropicciata martino sorride, un pochino sbiadita. a gjergo lo stomaco si chiude dopo metà cornetto, martino ne mangia due e lui si sente molto felice della cosa. ha messo la musica appena si sono seduti a tavola, e dopo aver realizzato che non avrebbe mangiato molto altro si alza e sistema i suoi vestiti, sparsi per i pochi mobili del box e per terra. si lamentano entrambi delle lezioni

ma se andiamo al mare?
si ci sta

gjergo non è pronto a questa risposta. ma decide di non farsi prendere in contropiede e realizza che avrebbe potuto ingannare quell’autunno maledetto e andare a farsi comunque un ultimo giorno di mare, di soppiatto. farlo con martino lo rende felice in modo stupido e inquieto. una sensazione a cui non è abituato ma che lo scalda e quasi lo scotta.

il tempo è un po’ una merda, in moto fa freddo. martino si abbraccia a gjergo finchè non si mette una felpa. gjergo ai semafori le carezza le mani ma si sente un po’ goffo nel farlo.

tra gli arbusti appena prima degli scogli c’è un cantuccio, riparato dal vento. entrambi sperano di dormire un po’ ma gjergo rompe troppo spesso i silenzi. vorrebbe stare più zitto, certe volte, ma si sta indubbiamente impegnando. appena esce il sole, entrambi scalzi, si siedono sugli scogli, prendendosi qualche goccia dal mare mosso.

martino si porta spesso le ginocchia al petto. mentre lo fa interrompe un discorso poco importante di gjergo

io sono un po’ noiosa però

gjergo non ci crede neanche per un secondo. ma capisce dove vuole andare a parare e si fa un po’ male e si porta le ginocchia al petto. non risponde ma le poggia la testa sulla spalla. vorrebbe averlo fatto per lei, ma l’ha fatto più per se stesso. gjergo parla molto ma non sa veramente spesso cosa dire.

ma facciamo un giro?

gjergo fa cenno di sì con la testa. raccolgono le cose e si spostano su una spiaggetta di sassi, ai piedi di una pineta. si poggiano sugli scogli al lato, e il sole finalmente trova una finestra tra le nuvole che gjergo e martino ancora non hanno decifrato. martino si toglie le scarpe e le calze e gjergo, in piedi, capisce un pochino che fare. si toglie le scarpe, le calze, la maglietta ed aspetta qualche secondo. si toglie gli occhiali, i pantaloni e va su uno scoglio appena più basso, da dove è semplice tuffarsi. senza occhiali gjergo distingue poco la cala e il mare mosso, ma si decide che non è importante e, tremante, si mostra improvvisamente determinato. si toglie le mutande, le getta sullo scoglio alto poco dietro, e chiudendo gli occhi si tuffa, senza particolare grazia. martino i vestiti se li toglie senza trepidazione, tutti vicino alle sue scarpe, senza particolare ordine. le sue mutande si spostano per il vento e lei si tuffa, da dove si tuffò qualche giorno prima. l’acqua è torbida, ma del suo essere fredda importa poco a entrambi. gjergo chiude spesso gli occhi e si fa trasportare dalle onde alte. sbatte più volte sugli scogli e rivolge il volto al sole, il più possibile.
l’acqua ora è fredda, l’aria un po’ di più ma la pelle non la si distingue, e gjergo risale dagli scogli. non riesce a vedere il volto di martino, ma se lo immagina, nitidamente. ha sempre le labbra delle persone annoiate e gli occhi di chi ti guarda da un po’, anche se chiusi. quando martino chiude gli occhi solleva sempre un po’ la testa, per bagnarsi il volto - di sole di pioggia di niente. lei risale dopo cinque dieci minuti, gjergo le porge un asciugamano ma lei rifiuta, e si asciuga al sole, portandosi nuovamente le ginocchia al petto per pochi minuti.
poi si stende e gjergo si accorge che la calma non se la sarebbe mai immaginata così leggera e tesa contemporaneamente. il sole riscalda quanto basta per poter apprezzare il vento, e gjergo respira a pieni polmoni, guardandosi spesso le gambe, realizzando di quanto poco tempo passasse nudo nella sua vita. chiude due sigarette, con le mani appiccicose per la salsedine

tieni
grazie

la sigaretta le sembra inaspettata, gjergo sorride

è un po’ scema, ho le mani ancora umide

accenderle è una fatica, martino dopo i primi due tiri rinuncia. lui fuma e litiga con l’accendino ma si sente soddisfatto, leggero, e mette la musica. quando finisce la sua accende quella di martino e gliela ridà. nel dargli la sigaretta si guardano, e lui posa per pochi istanti lo sguardo sul petto di martino. un gesto del genere non sarebbe mai sembrato naturale, si chiede se fosse merito di martino o del sole. il vento tira un filo più forte e per poco tempo gjergo pensa che forse le nuvole, un pochino, le distingue davvero. si sente felice e la felicità paradossalmente non necessità di agio. gjergo si sente felice anche trattenendo il respiro. martino chiude gli occhi, la sua testa è più densa, ma il suo respiro tanto più regolare.

\\ bowlly goes dancing drunk into the future - loving: il primo pomeriggio che gjergo e martino hanno passato insieme per gjergo è stato estremamente intenso, e vede martino tuffarsi per la prima volta. il giorno dopo martino chiede di una canzone d’amore: gjergo, con il cuore in gola, le invia questo pezzo
 

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Capitolo 10
*** ti va? ***


in bagno finisco di pisciare e mi alzo le mutande e la gonna, che quasi strisciava sul pavimento lercio. mi guardo allo specchio con la sensazione intensa dell’euforia alcolica con una vaga nausea e avvicino molto la faccia finchè il mio respiro non appanna lo specchio. quando esco qualcuno sta facendo il soundcheck e si sente solo il brusio. vedo porfido che viene verso di me dopo aver salutato martino. io guardo prima martino, poi porfido, poi di nuovo martino, e dallo stesso posto da cui venivano i miei sentimenti per martino arriva anche la mia voce che chiede a porfido

dammi uno schiaffo

le reggo il bicchiere di vino, le rubo un sorso e porfido mi da dodici schiaffi in faccia. non ricordo se l’ho ringraziata.



// motomami - rosalia: pezzone.

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Capitolo 11
*** che schifo ***


gjergo si sveglia sbavando sul muro freddo e l’impellente urgenza di pisciare. si stacca la guancia ora freddissima, e ancora tonto cerca di sbirciare fuori dalla finestra della piccola camera da letto; è ancora buio. poco dopo sente ansimare e realizza subito di trovarsi nel posto sbagliato. non pensa niente, non ancora. il piano è chiudere gli occhi sperare di riaddormentarsi, chiudere gli occhi e riaddormentarsi; non funziona, deve pisciare. vabbè ora mi alzo pensa, e sente il letto cigolare e i bisbigli e i fiatoni. raga devo pisciare dice sottovoce, e si alza. morelli e pisoni non dicono niente e continuano a toccarsi, gjergo non li guarda. quando esce di casa si alza la gonna e piscia sull’erba alta. poi si siede su una sedia vicino al ciglio della porta e sente il vento sull’inguine. pensa rapidamente a tutti i posti dove si poteva dormire, non ce n’erano tanti. nella sua macchina dormivano porfido e berardi, i letti nello stanzone erano tutti occupati, nel letto dove stava non ci voleva più tornare. che freddo del cazzo, pensa. dieci gradi comunque non sono così pochi. dopo qualche minuto pisoni esce dalla stanza e guarda gjergo con gli occhi sgranati mentre stava seduto sconsolato. guarda che questa cosa non succede senza di te, sussurra. gjergo realizza che vorrebbe solo dormire e che quella era la via più breve. che gli costa in fondo. quando entrano morelli era stesa come gjergo la immaginava, a pancia in su con le gambe aperte; lei chiede mi puoi dare un bacio? gjergo non risponde e si inginocchia sul letto. la bacia senza pensarci troppo. gli sembra la seconda proposta senza opzioni di quella sera. mentre la toccano gjergo e pisoni si baciano. sapeva di sigarette. gjergo sente una goccia di piscio che cade dal suo pene flaccido sulle sue gambe e si guarda la gonna bianca ricamata, mentre tocca morelli quasi meccanicamente. gjergo si avvicina per tirarle tira uno schiaffo e le afferra la mandibola, morelli ringrazia. voglio avere un cazzo in gola sussurra morelli ansimando, mentre gjergo e pisoni continuano a toccarla, ora distanti. gjergo si guarda di nuovo la gonna che un pochino lo protegge e guarda pisoni, quasi interrogandolo. pisoni rimane vestito, e commenta su quanto morelli sia brava a fare i pompini, secondo lui. gjergo quasi si ferma e corruga la fronte, non che ci sia molto da dire. spera solo di non doversi spogliare. eventualmente, gjergo ha una mano dentro ad morelli e con la mano destra le tiene invece il collo. morelli fa un commento o una richiesta sulla saliva, gjergo le sputa in faccia, morelli ringrazia nuovamente. pisoni fa domande sul perchè morelli ringrazi così spesso, su come per lui sia buffo o fuori contesto o non necessario. gjergo è incredulo su come pisoni possa parlare manipolativamente anche mentre sta guardando altre due persone fottere. toccare morelli ora è un discorso molto fisico, molto difficile, energivoro. quanto cazzo ci metti a finire pensa gjergo, anche se forse non avrebbe voluto vederla venire. non avrebbe voluto sentirla ringraziare ma non lo sa ora la sua testa è vuota silenziosa, la grazia di toccare qualcuno con forza è quanto riesce ad essere distraente. pisoni va a fumare una sigaretta quando dalla finestra inizia ad esserci della luce. appena chiude la porta morelli e gjergo si abbracciano immediatamente, si intrecciano le gambe. gjergo trema. ma i baci poco a poco diventano più umidi ed ora è tutto più semplice ora è finito ora si può dormire o darsi i baci. gjergo viene in fretta e inizia a toccare morelli. mentre la tocca qualcuno apre la porta e gjergo si gira di scatto urlando ma che cazzo fai e poi giratosi guarda pisoni. gjergo ora è preso alla sprovvista, in fondo era qui fino a nemmeno mezz’ora fa. si gira interrogativo su morelli che le fa cenno di sì e gjergo si mostra di nuovo ubbidiente e continua a toccarla e a stringerle la mandibola. pisoni è seduto sulla sedia di fronte al letto e gjergo sente il suo sguardo alitargli addosso. mentre la tocca spera profondamente che almeno a lei stia piacendo. quando finiscono morelli e gjergo si baciano e stesi sul letto ora guardano pisoni seduto poco sotto alla finestra, da dove ormai entra la luce del sole. saranno le sei quasi. in questo buffo quadro asimmetrico, morelli chiede a pisoni se volesse stendersi sul letto. a gjergo si contraggono i muscoli ma non dice niente. pensa che ormai sono le sei e che si è guadagnato quel sonno maledetto. che la sua parte l’aveva fatta, che si meritava di dormire e basta, almeno adesso. avrebbe voluto meritarselo anche prima.

quando si sveglia sente il rumore della pioggia e si gira di scatto e subito si guarda in giro. questa volta non sente niente, c’è solo morelli. tira un sospiro e trema. fuori ci sono i tavoli, le casse, gli amplificatori che prendono acqua. gjergo si veste e si mette delle mutande e dei pantaloni. una gonna non sarebbe bastata. fuori piove a dirotto e c’è un disordine che gjergo non sa come affrontare. dalla campagna porta dentro casa una cosa alla volta, e tutti dormono. gjergo si sente di merda, ma non c’è nessuno con cui parlare adesso. poi deve finire di mettere a posto. quando berardi e porfido si svegliano aprono lo sportello del bagagliaio e prendono in giro gjergo che fa avanti e indietro dalla casetta, e lui si sente un pochino meglio. entra nel bagagliaio e la golf ha un po’ il suo odore di chiuso misto a odore di sesso, di pioggia, del balsamo di berardi, dell’ammorbidente dei vestiti di porfido. nella macchina gjergo si sente al sicuro per la prima volta nelle ultime ventiquattro ore. parlano di cose stupide, ed entrano anche martino e vacca. gjergo vorrebbe abbracciarli, sentirli vicini, ma ora è tutto ok. guarda berardi chiudere una canna e si sente meno adolescente di quanto vorrebbe in un giorno in cui sentirsi piccolo non lo faceva sentire al sicuro. forse vorrebbe piangere ma si accontenta di tremare.

pisoni è rabbioso e prende le sue cose sparse per la campagna facendo il più rumore possibile e sbattendo tutto quello che si poteva sbattere. il breve momento di pace della macchina viene periodicamente interrotto dall’alone di tensione di pisoni che cerca le sue cose e fa cinque viaggi per due oggetti.

il primo viaggio di ritorno è con berardi davanti che si addormenta dopo pochi minuti. mette un pezzo terribile angosciante che dura tantissimo e pisoni dietro siede in mezzo, guardando gjergo torvo dallo specchietto retrovisore. in un’ora di macchina non viene spiccicata una parola. sotto casa di pisoni scendono entrambi e pisoni abbraccia gjergo ringraziandolo, e gjergo prova a sorridere, e gli riesce bene. sembra tutto ok.

gjergo è tornato a bari per una visita medica, con cui si gioca diecimila euro di assicurazione. passa da casa per vestirsi dopo la visita, si mette dei jeans scuri dal tessuto spesso e la giacca nera di suo padre. ha la maglia nei pantaloni e il colletto della giacca abbottonato. gjergo vuole sembrare alto, grande. spera che la giacca di suo padre gli faccia le spalle larghe, spera di riuscire ad avere uno sguardo torvo e non solo gli occhi scavati. col petto in fuori torna alla sua golf, si siede in macchina e lascia il motore spento. ancora trema e non lo sopporta non lo sopporta più, alza i finestrini e urla a pieni polmoni sperando che avrebbe smesso e invece no, e continua a tremare anche mentre torna placidamente a novanta chilometri orari. la sua macchina non ha il clacson e le botte che dà al volante finiscono per fargli male in maniera idiota, e il volante rimane indifferente al suo sfogo imbranato e ostentatamente mascolino. arrivare in campagna e vedere gli altri lo rasserena, morelli gli da un bacio appena arrivano e gjergo non riesce a parlare. prova a schiarirsi la voce, e quando non funziona decide di fumare una sigaretta, quando la accende quasi non riesce a tenere l’accendino in mano. ora c’è il sole. morelli e gjergo si rintanano nella tenda di vacca, mentre gli altri finiscono di mettere a posto. gjergo tremante cerca con il naso le carezze di morelli, chiudendo gli occhi, e lei gliene da, gliene da tante. morelli gli dà tantissimi baci, dolci, sulle guance e sul petto, sul naso e sulle labbra, mentre gli carezza il braccio. lei stesa sul suo fianco abbraccia gjergo supino che ancora trema ancora trema. gjergo quasi piange e morelli continua a carezzarlo. gjergo la ringrazia, ma morelli non dice niente. quasi morelli non osa parlare. posso dormire? le chiede timidamente e morelli gli sussurra di si. si sveglia da un sonno breve e senza sogni. morelli gli posa una gamba sulla sua e comincia a toccarlo, dolcemente, mentre gjergo cerca di pensare il meno possibile. finisce ansimando sottile, lei lo bacia.

grazie grazie grazie sussurra lui, ma non si dicono più niente.
gjergo si chiede quando smetterà, morelli non dice niente. gjergo eventualmente decide che parlarne non serve: poco lungimirante ma smette di tremare.

// ci sono andato in fissa con tutti i dischi che mi hai consigliato ma non c’è manco un pezzo che butterei in sta fogna di storia
 

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Capitolo 12
*** ultima ***


la prima moto vera che ho guidato era un piccolo centoventicinque, la motocicletta di mia cugina che abitava a un centinaio di chilometri da te. praticamente una bicicletta con un motore e quindi tutto sommato mi ci sono trovato bene. mi piaceva che in terza aprivi l’acceleratore e sentivi l’unico pistone che si arrabbiava sulle salite. mi piaceva che per cambiare le marce dovevo pestare sulla leva, mi piaceva la sensazione che tutti i miei arti erano impegnati nel guidare quella bicicletta un po’ pesante. queste sensazioni sono diventate più spinose quando sono entrato nella tangenziale di trento per la prima volta mentre guidavo l’equivalente di un tagliaerba su due ruote. io quando vado in una città che non conosco di solito vado in stazione, e finii per parcheggiare nella via subito dietro. quando scesi guardai il cellulare nervoso e tu eri a pochi isolati da me, erano le dieci credo; ci abbracciammo ed io sentii la tua voce forse per la prima volta, mi dicesti  ‘ciao fiore’ e da lì i tuoi saluti per messaggio li ’ho sempre letti con la tua voce. quando ci incamminammo ti chiesi delle tue giornate e realizzai di quanto fossimo inesistenti nelle nostre vite quotidiane, non ne feci parola. non mi raccontasti di molto e immediatamente pensai a quante cose ci siamo scritti per chat. non mi ricordo di cosa parlammo, io queste cose non me le ricordo mai. mi ricordo parco delle albere e di quanto fosse borghese, ci scattammo una foto sul riflesso di uno dei palazzi, parlavamo dei verdena. poi andammo dall’altra parte del lungadige ed è iniziata la parte più lunga del nostro discorso. il lungadige è sotto l’autostrada, una grande costa verde con pochi alberi e un sentiero battuto. tu avevi una felpa senza cappuccio, grigia e verde, da pischello americano, ci eravamo seduti sotto un albero. stavamo parlando da ore e in un momento di silenzio mi lanciasti una mela. arrossimmo entrambi, e la tua dolcezza mi intimidiva. quando ci abbracciammo tu eri alla mia destra ed entrambi guardavamo il fiume. sentii l’odore di hennè dei tuoi capelli rosso arancioni e tu subito lo commentasti. a me piaceva. mi ricordo quanto ho balbettato dopo averti baciato, di quanto sono andato nel panico nel vederti immobile. mi parlasti anche delle tue fiamme, delle tue cotte. mi dicesti che non dovevo preoccuparmi, e che era solo il tuo primo bacio; ci baciammo ancora. io un po’ tremavo e quando tornammo ci siamo tenuti per mano. sul ponte pedonale ci fermammo per dirci qualcosa che ora non ricordo più.
di trento mi ricordo le cose che mangiammo: una focaccia fredda, del pane alle olive, gli arancini del despar in centro, il cornetto del primo giorno di quando sono tornato. la mela che mi desti non osai toccarla, nemmeno dopo i cento chilometri del ritorno. tornai presto, non volevo tornare con il buio, ed ero stanchissimo. rimasi dietro questo camion per quasi cinquanta chilometri. quando arrivai a casa di mia cugina andai a letto, e tutte le emozioni che provai le accartocciai in un messaggio che ti inviai subito dopo. credo fosse solo un modo molto contorto di dirti che avrei voluto vederti ancora. dopo averti inviato quel messaggio confusissimo guardai la mela gialla pensando che niente di quello che avrei fatto le avrebbe dato giustizia. qualche momento dopo tu mi scrivesti di non aver capito, e io ti dissi che avrei preso dei biglietti per trento e tutto sommato, risolvemmo lì. nel treno sedevo accanto al finestrino e guardai i frutteti di mele, ce n’erano tantissimi. ripensai alla mela che mi desti. a trento rimasi due notti in un ostello che pagai poco. il primo giorno prendemmo un caffè e ti chiesi del tuo bar preferito, non ne avevi uno; ci sedemmo nel primo posto che trovammo e tu prendesti un caffè all’orzo, io un macchiato e un cornetto al cioccolato. mi dicesti come non andassi spesso ai bar, ripensandoci ti costrinsi a più d’uno. andammo in due sulla tua graziella *, e mi portasti al cimitero, dal paki da cui prendevi di solito da bere, al postaccio dei tranci di pizza cheap dove andavi solo per le birre. lì ti chiesi di trento e mi sembrò starti stretta, come se non ci fossi mai entrata dentro; ti chiesi di altro e mi sembrasti vicina, fu dolce. ti guardai e probabilmente non ti dissi niente, e sui tavolini di legno del posto dei tranci avrò pensato qualcosa di semplice - che mi piacevi, che eri bellissima, che forse non eravamo lontanissimi. quella sera andammo ad un concerto all’aperto dove prendemmo un drink che costava troppo e la musica era pacchissima. passammo la serata a pomiciare come dei ragazzini sui gradoni degli spalti finché poi la serata non finì. tornammo all’ostello e ci salutammo, io avrei voluto dormire con te anche se non riuscivo nemmeno ad immaginarmelo. l’ultima mattina siamo stati solo in piazza dante, io avevo il treno per bari all’una. ci scattammo una seconda foto, delle nostre mani. ascoltammo tantissima musica dalla cassa del telefono e scoppiammo quasi a piangere con sober to death - ancora non conoscevo la versione più fica. quando stavo per salire in treno tu scoppiasti a piangere, ed io mi sentii di troppo e non abbastanza. questa sensazione non è mai cambiata. ci abbracciammo e ci abbracciammo forte e un maledetto vecchio mi disse che vai facendo? perché stai lasciando qui una così bella ragazza? o qualcosa di simile, e le sensazioni di inadeguatezza peggiorarono perché possono solo peggiorare. in treno ci scrivemmo e tu mi inviasti la playlist su cui da lì a due anni mi sarei fatto più paranoie della mia vita, con la foto delle nostre mani che scattasti poco prima. fu un’altra mela lanciata, lo trovai dolcissimo e tenero, e come con la mela mi sentii preso da una sensazione di necessità e di inadeguatezza che non riuscivo a smettere di provare. feci anche io una playlist per te, in treno, e te la inviai immediatamente, con la foto delle nostre gambe, scattata il primo giorno che ci siamo visti. sober to death, il pezzo con cui abbiamo quasi pianto in piazza dante, non lo toccò nessuno. te lo misi in playlist solo quando scoprii che c’era la versione più fica - quando la sentii pensai che a trento ero davvero un maledetto pischello.
a bari ti pensavo spesso, e scriverti non mi era ancora difficile. dopo un po’ ci sentimmo sempre di meno, e le paranoie ebbero la meglio, e dopo un po’ smettemmo di sentirci. i tuoi dettagli mi confondevano in quei giorni e non sapevo cosa fare. ricordo di aver letto tutte le cose che postavi con il tuo corsivo pieno di grazie per cercarmi e cercare cosa pensassi. un po’ egoisticamente ti vedevo crescere e non trovarmi tra le tue cose mi faceva sentire male. aggiornai la tua playlist però. diventò una cosa periodica -  a settembre lo facevo con il magone, ormai due elementi tendenzialmente collegati, però poi lo facevo e basta. il tuo pensiero era lì senza che mi creasse qualcosa di acuto o appuntito. era solo lì e quando lo guardavo aggiungevo un pezzo alla playlist, una dinamica piuttosto lineare. quando io mi scontrai con le pene universitarie e andavo incontro alla mia imminente perdita nel sistema burocratico accademico tu mi ricominciasti a scrivere. mi chiamasti di nuovo fiore e trovasti dolce la mia playlist cresciuta. di quei giorni fu l’unica nostra interazione che non mi fece innervosire, però arrossii pensandoti vicina, era gennaio o febbraio e il tempo era una merda.

poi la cosa assunse una strana aria di stabilità quando anche tu iniziasti ad aggiornare la tua playlist. non c'era nessun contatto, nessun messaggio ma solo un periodico-reciproco pensiero di dimensione assolutamente minima e quattro minuti di canzoni. dolce, di poco peso, lontano. lontanissimo. aveva un po' la forma dei ricordi piacevoli ma con quella stupida certezza delle cose presenti. aveva assunto una placida-piacevole forma e non ero poi così sicuro mi stesse bene, ma un po’ mi cullava.

gli ultimi giorni di pioggia ci scrivemmo qualcosa, qualcosa di poco conto, e l’idea che presto ci sarebbe stato il sole me lo rese più facile. quasi per scherzo ti dissi che magari ci saremmo visti quell’estate. i primi giorni di sole aggiungesti alla tua playlist mi piacerebbe ogni tanto averti qui. un po’ lo trovai ironico, un po’ mi bucai il petto. ci scrissi qualcosa di triste e non te lo feci mai leggere. mesi dopo a trento ci finisco di nuovo, con vacca e berardi, dopo duemila chilometri di giretti con la golf. il giorno che arrivammo mi misi i pantaloni a vita alta che mi facevano le gambe lunghe e la mia maglietta preferita. berardi lo notò. passammo da un supermercato, berardi e vacca presero latte e biscotti, io presi un sacchetto di mele, che però lasciai in macchina, parcheggiata qualche isolato dietro a parco delle albere. lì vacca e berardi fumarono un po’ ed io ero teso. quando tu arrivasti ci salutammo senza troppi fronzoli e ci sedemmo in cerchio, berardi ti passò da fumare. passai le due ore insieme a chiedermi cosa ti passasse per la testa o se ti innervosisse la compagnia. guardare vacca e berardi ridere e bere il latte però mi tirava su da morire, e ti scrutavo e un po’ balbettavo senza capire cosa cercassi da te in quel momento. tu dovevi andartene presto, non mi ricordo perché. se vuoi ci incamminiamo insieme, dissi, così poi prendo la macchina ed io e gli altri andiamo al bruno, tu facesti un cenno. camminavi alla mia sinistra e non ci dicemmo niente per tutto il tragitto. io guardavo le siepi alla mia destra e non riuscivo a parlare. arrivati alla golf facemmo per salutarci ed io, nel modo maldestro con cui faccio questo genere di cose, dalla macchina presi una mela e te la porsi. non dicesti niente, e non ci siamo mai più visti.

ho visto che hai fatto la mossa che ti sei messo i pantaloni lunghi oggi

mi fece berardi. lui queste cose le nota sempre.

lei però ha fatto la mossa più di te

mi convinsi di capire questa cosa, io la mossa la feci davvero ma, nonostante passai le ultime due ore a guardarti, la tua mossa in qualche modo non l’ho vista - berardi a guardare queste cose forse è più bravo di me. mi sforzai di togliermi dalla testa la tua immagine mentre andavamo al bruno in macchina. la sera ti scrissi, un po’ brillo, chiedendoti se saresti venuta al bruno. mi rispondesti che non avevi modo di tornare ed io pensai che non ero tenuto a leggere fra le righe da brillo, ti proposi una colazione e una gita al lago, e tu semplicemente non rispondesti più. il mattino dopo non eravamo più a trento, e quasi mi sentii meschino. berardi credo mangiò una delle mele rimaste, io, anche quest’anno, non osai toccarle.



i primi di dicembre aggiornasti la tua playlist con un pezzo heartwrenching con un verso ricorrente - i think you deserve some kind of apology. non sapevo come sentirmi, aggiunsi qualcosa di stupido e un po’ meschino alla mia playlist, perchè ancora non avevo smesso di essere un maledetto pischello. anche quell’anno mi scrivesti il giorno del mio compleanno. ciao fiore, scrivesti ancora una volta, prima di farmi gli auguri. detestavo il tuo ricordartelo e lo detestavo perché era una di quelle cose che mi convincevano di avere un posto che non avevo. detestavo anche quanto un po’ mi sentissi gasato di vedere un tuo messaggio. gli ultimi di dicembre sono sempre così - tu hai il compleanno il venticinque dicembre che si sposa piuttosto bene con la tua iconografia, il mio è solo qualche giorno prima. ci scrivemmo anche il dicembre dopo, fu dolce. aggiungemmo qualche altro pezzo alla playlist, ma l’ultimo dicembre non ci siamo detti niente.

quando per caso iniziammo a chattare per la prima volta mi raccontasti come nell’antica grecia per provarci con qualcuno gli dovevi lanciare una mela. mi chiedo se hai mangiato quella che ti diedi. io non ne ho avuto il coraggio.

// morbida - verdena: dalla mia playlist. la seconda metà del mio primo anno di università caricai delle foto vecchie. anche quella delle nostre gambe riflesse sul palazzo borghese di parco delle albere. tu scrivesti gioia morbidissima, io arrossii. qualche tempo dopo mi innervosivi, qualche tempo dopo ancora smettesti di farlo.

// skin gets hot - fraternal twin: dalla tua playlist. ci sono andato in fissa solo ora. quando guardo la tua playlist penso a tutti i pezzi bellissimi che in qualche modo non avevo ascoltato, che hanno trovato un’altra strada nella mia vita, tendenzialmente più complicata e invece sono sempre stati lì - non sono mai stato paziente forse.
 

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