Escape

di JSGilmore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Escape ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nove ***



Capitolo 1
*** Escape ***


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Benvenuti.
In occasione dell'anniversario di Escape, ho deciso di cominciare a postare la storia anche qui su EFP, con una nuova versione che presenterà delle parti inedite!

La storia (che è tutt'ora in corso) è già presente su Wattpad e lì potrete accedere a contenuti multimediali che qui non mi è possibile postare, ma io vi consiglio comunque di non perdervi questa versione perché è tutta da scoprire, credetemi.

 Vi consiglio di non perdervi Escape, una storia d'amore nata dall'esigenza di coniugare il romance a derive più avventurose, che si paleseranno nella seconda parte del romanzo.

Potete seguire la pagina della storia anche su instagram: escape_story_

Potete trovarmi su Wattpad cercando "Escape" o il mio nome utente: JSElordi
Buona lettura!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore


 

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


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La banchina proseguiva per qualche metro, con le attrezzature per il carico e lo scarico delle merci. Nell’aria salmastra si propagava l’odore pungente del carburante delle barche. Ero coperta di sudore. Lui sarebbe dovuto arrivare per mezzogiorno: era in ritardo di ore.

Il mare era violento. Si gonfiava, cresceva, sbatteva contro le rocce e faceva tremare il mondo. Si scrollava di dosso ruggiti, petrolio e fango. La sua furia s'incuneava nel cielo e, mescolandosi con il vento, mi arrivò in faccia, potente come uno schiaffo.

Il ricordo di Elia mi riempiva la testa, ce l'avevo aggrappato dentro, era così ingombrante da spezzarmi i respiri. Se n'era andato via con troppa crudeltà, portando con sé ogni cosa.

Gli occhi azzurri di mio fratello Filippo sbocciarono all’alba di stopposi ciuffi biondi: aveva quell’aria colpevole di chi mi studiava di nascosto da un bel po’. Teneva le mani nelle tasche di una leggera giacca verde militare, le spingeva più a fondo possibile, quasi cercasse di infilarcisi per intero. Fece un sorriso schivo. «Sembri agitata.»

«No nient’affatto», mio fratello buttò piano la testa all’indietro e mostrò il collo bianco alla luce, scoperchiò i denti ed emise un sospiro divertito. Un tempo mi era concesso dirgli qualsiasi cosa, ora il nostro rapporto si era gradualmente ritirato e trasformato in uno di quei soliti legami convenzionali, cordiali e riservati. «Filo... Perché Elia torna proprio adesso?»

Proprio adesso che avevo imparato a stare senza di lui, ma Filippo non raccolse. Scrollò le spalle e si strofinò la bocca. «Magari, ha allargato i suoi orizzonti a sufficienza...»

«Come se non fosse già stato di vedute abbastanza larghe. Le ho visto tutte le cartoline che ha mandato a te», lo punii con una leggera gomitata, «Amsterdam DA SBALLO, Berlino UNA BOMBA, Barcellona UNA FIGATA.»

Si massaggiò per gioco la costola e si strofinò di nuovo la bocca, adesso con aria distratta. «Concordo, come scrittore da viaggio non è decisamente all’altezza di Krakauer.»

Il bruciore allo stomaco tornò, ma rispetto ai giorni precedenti era sopportabile e mi permetteva di rimanere in piedi. «Magari c’è qualche significato recondito dietro l’espressione: lo sapevi che l’Olanda è piena di ragazze olandesi?»

«Fossi in te», mi lanciò un’occhiata divertita e il sole estivo gli addolcì l’espressione, «non mi scervellerei troppo nel cercarlo.»

C’era una cosa che avevo capito di Elia e dei suoi sogni: erano testardi, ostinati, inviolabili. Sapevano sempre dove volare e in quali porti attraccare. Erano liberi dai dettami della terraferma e dai giudizi degli altri.

Da quando nostro fratello Elia era partito, l’Isola d’Elba, la nostra isola, era come una barca in procinto di affondare e io ero diventata una specie di relitto. Erano passati tre anni.

Oltre le zaffate di petrolio e di melma, più in alto delle barche nel porto, il sibilo dei gabbiani lacerò il silenzio. Sepulveda diceva: vola solo chi osa farlo, e aveva ragione. Elia ne era la prova vivente.

Quella mattina mi ero svegliata con il tessuto del pigiama incollato alla pelle come nastro adesivo e con un dolore atroce ai denti che si era allargato verso la mascella. Avevo dormito sì e no tre ore in tutto. Era estate e le mie giornate erano vuote. Provavo disgusto verso me stessa e per l’inattività accumulata durante le vacanze, trascorse tra le sabbie mobili della mia cameretta in compagnia dell’ennesima lettura poco avvincente sul giardinaggio. Ogni tanto Filippo tentava di portarmi con sé al mare, ma arrostirmi tutto il giorno sotto il sole senza fare niente mi faceva venire mal di testa. Lui sostenva che fosse comunque meglio che starsene buttati a casa a giocare ai videogames di alieni.

Prima che raggiungessimo Portoferraio, la mamma aveva incaricato Filippo di portare alcune camicie stirate in camera di Elia e lui mi aveva fatto cenno col capo di seguirlo. La stanza di Elia profumava di lavanda, e l’enorme letto al centro della camera era stato appena rifatto. Le tende blu appese alle finestre filtravano la luce dando l’impressione di trovarsi immersi nelle acque dell’oceano. Il tetto era imputridito dalle piogge.

Quella stanza, con le pareti bianche e le cose di mio fratello negli scatoloni, aveva un aspetto di neutrale estraneità. Non c’era più niente che fosse suo, niente che manifestasse un punto di vista o una dichiarazione d’intenti. Quando avevo accarezzato i mobili in legno scuro avevo avuto come la sensazione che tutto bruciasse dall’attesa, come se anche gli oggetti avessero voluto gridare.

Nostra madre amava Elia, viveva solo per lui. Sopravviveva al giorno, alla luce di foschia e caldo, solo per poterlo rivedere. Non riuscivo a superare l'orrore che delle volte la sua situazione mi incuteva. Era dolce solo di sera, quand'era stanca, quand'era troppo sfinita per potersi ribellare.

Quella mattina mi ero guardata a lungo allo specchio e avevo concluso che truccarmi per quella circostanza sarebbe stato imbarazzante: niente mascara, avevo gli occhi già abbastanza languidi, niente cipria, le mie guance d’avorio erano ancora paffute e le mie labbra avevano una disposizione asimmetrica da non evidenziare con un rossetto. C’era qualcosa nel mio viso che esprimeva dissenso, e i miei capelli neri e crespi, in cui i denti del pettine rimanevano sempre incastrati, non facevano altro che peggiorare la situazione. Poi, Elia non sarebbe stato felice di vedermi con addosso qualcosa di così artefatto come il trucco. L’ultima volta che mi aveva vista ero poco più che una bambina, e adesso portavo una terza di seno. Avevo deciso di nascondere il mio corpo sotto un maglione informe, lasciato in eredità dal mio vecchio.

Portoferraio. Il sole calpestava i muri a secco delle case color pastello, azzurro cielo, verde acqua, giallo brillante, con i balconi fioriti, ubicate in vie acciottolate. Tagliava di netto l’asfalto delle strade in zone d’ombra e in zone roventi e rendeva il paese invivibile, deserto, abitato solo da un calore assillante, sembrava un cimitero colorato. Avevamo camminato tra quelle strade come in una messa.

Filippo annusò l’aria. «Ei, Rally, credi che abbia esagerato con il Jean Paul Gaultier?»

Trovavo divertente tutta quella rincorsa al profumo da uno che beveva ancora il latte attaccandosi al cartone. «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi Rally?»

Filippo rise, soddisfatto. All’orizzonte si squarciarono le nubi: una barca stava per attraccare. Il vento gonfiava le vele, i gabbiani stridevano e si rincorrevano sopra il susseguirsi lamentoso del mare. Un ragazzo scolpito dai raggi solari stava ormeggiando una barca a vela: sulla fiancata scintillava una scritta. Rally Roger.

Avevo sei anni quando mio padre, dopo una lunga giornata di lavoro al porto, ci aveva raccontato di aver visto una barca a vela di legno, in disuso. Qualche giorno più tardi, con l’aiuto dei miei fratelli, l’aveva riportata a casa. La vernice era scrostata e c’erano diversi strati di colore che la facevano apparire molto più desueta, ma alla fine divenne la barca più bella del porto. Mio padre, che era un’instancabile tradizionalista, aveva proposto di soprannominarla Jolly Roger: ogni barca che si rispetti, diceva, deve avere un nome se vuole solcare le acque dei mari con dignità. Jolly Roger, però, non poteva essere il nome della nostra barca, perché troppo antquato, c’era bisogno di qualcosa di nuovo, di speciale. I miei fratelli mi avevano guardata come se avessi detto qualcosa di buffo e per impedire che potessero liquidarmi come si fa con i teneri capricci, mio padre mi aveva presa in braccio. «Allora, la chiameremo Rally Roger, in tuo onore!»

Da quel momento i miei fratelli non facevano altro che chiamarmi Rally e dietro i loro sorrisetti smorfiosi e imperdonabilmente innocenti si nascondeva una questione irrisolta molto grossa. La cocca di papà ce l’aveva sempre vinta.

La Rally Roger, però, non aveva avuto un lieto fine. Dopo la scomparsa di nostro padre, siamo stati costretti a venderla, per poter sopravvivere finché la mamma non avesse trovato un’occupazione. Era stato Elia a gestire l’affare, dal quale avevamo ricavato una consistente somma di denaro, ma l’addio a quella barca era stato doloroso.

Filippo aveva trovato un lavoro come cameriere dopo la scuola, Elia aveva iniziato come steward in una prestigiosissima nave da crociera per Dubai, che gli permise di comprare una nuova barca, più lussuosa, elegante e spaziosa, la stessa che avevo davanti agli occhi proprio adesso, le cui vele svettavano bianche nel cielo chiarissimo.

Dopo la scomparsa di nostro padre, faticavo a dormire. Ai miei fratelli avevo raccontato che fosse per via di quell’orrenda puzza di lucido per mobili nella mia stanza. Elia rimaneva sveglio, notti intere, accanto a me, e mi raccontava dei viaggi che avrebbe voluto fare, dei progetti che aveva per la nostra casetta di muschio e pietra, di quel ristorante a Capoliveri in cui mi voleva portare, per mangiare una bistecca con patate a prezzo imbattibile.

Elia mi aveva insegnato a coltivare le piante, a far crescere i fiori nella terra, a mungere le mucche e a rotolarmi selvaggiamente giù per le colline.

Una volta, ero sgattaiolata in camera sua, lui mi era tempestivamente corso incontro. Lo avevo stretto talmente forte da strappargli un lamento. Quell’abbraccio non si era sciolto fino al mattino seguente, in cui lui però nel letto non c’era più. A nessuna ragazza vorrò bene quanto ne voglio a te, mi aveva detto prima che mi addormentassi.

Respirai l’acqua, quel suo odore inconfondibile di alghe e di sale; mi sentivo un po’ come una sopravvissuta. Il rumore dei camion e dei clacson si fece sempre più lontano. Il mondo sembrava vibrare disperato. Non era un miraggio. Lui era lì, a qualche metro da noi, un cristone di più di due metri, con la pelle d'ambra, che camminava lungo la banchina, con i ciuffi castani che gli ricadevano sugli occhi; con la sua solita postura fiera, felina, imponente, il corpo talmente sciolto da sembrare elastico. Indossava una camicia color senape, con uno scollo a V, incastrata nei jeans scoloriti, il bacino stretto e le cosce possenti, ma le caviglie ironicamente sottili. Il rintocco dei suoi mocassini mi entrò nelle orecchie. Poi si fermò. Le sue mani tozze penzolavano nell’aria; al polso aveva legato un braccialetto di corda, simile ad uno di quelli che avevamo comprato insieme prima che partisse, da un venditore ambulante sulla spiaggia. O forse era proprio lo stesso.

«Ciao, Rally» disse con tono profondo e leggermente graffiato. La sua voce era cambiata, ma la sua inflessione vagamente pungente quando pronunciava quel nomignolo non era affatto scomparsa. Rimpicciolii. Al collo portava una moneta che brillò. Non alzai la testa, e sperai che gli arrivasse più come un gesto di ostinazione, piuttosto che di sottomissione.

In mezzo a quel viso scolpito nella pietra c’era ben poco di familiare: il mento pronunciato e gli occhi scuri e infossati gli conferivano un’aria piuttosto dura. Un taglio scarlatto brillava in prossimità dello zigomo.

«Ciao, Elia.» Rise. In mezzo a quella risata svogliata, appena derisoria, assolutamente sarcastica, c’era qualcosa di prepotente. Forse era il modo con cui atteggiava la scucchia.

«Come stai gabbianella?» Rimasi incantata dalle sue labbra asimmetriche anche quando smise di ridere.

«Meglio di te sicuro. Ma che hai fatto? Sembri appena uscito da un letamaio.» Mi guardò accigliato, quelle sopracciglia folte sollevate gli davano un’aria svagata e disinteressata. In un attimo, mi fu tutto chiaro. La sua fronte sporgente, il naso gentile, i lobi delle orecchie tondi, la fossetta sul mento, una malinconia remota negli occhi, il profumo di agrumi che emanava la sua pelle. Era tornato davvero. Lui e la sua bellezza becera con la quale aveva conquistato il mondo.

Filippo lo odorò. «Sei ubriaco, per caso? Sento puzza di vodka.» In cambio si beccò un pugnetto sulla spalla e poi, come due rozzi lottatori, si strinsero forte in un abbraccio. Elia gli arruffò i capelli biondi, fece un verso gutturale a metà fra una risata e un grugnito, e Filippo cercò di divincolarsi, senza successo.

«È così che si tratta un fratello appena tornato?», ci rimproverò Elia, ma se la prese solo con Filippo, strusciando le nocche sulla sua cute.

«Per quel che ne so, di accoglienza ne riceverai anche troppa», mio fratello se lo staccò di dosso e si schiacciò i capelli, per rimetterli a posto, «La mamma ha invitato gli zii e i cugini per cena.»

Elia si massaggiò la fronte con le dita e rilassò la mascella, in un’espressione di vergognoso stupore. «Cioè, vuoi dirmi che stasera non potrò farmi finalmente una dormita come si deve?»

«Credo che dovremmo rimandare i pisolini alla prossima volta. Mamma ha anche preparato la torta al cocco, si offenderebbe parecchio, se non la mangiassi.» Gli occhi scuri di Elia si posarono sui miei e stirò le labbra in un sorriso caloroso. «Farò uno sforzo, allora. Stare lontano dalla mia famiglia è stato difficile, dopotutto.»




Note.
Grazie per aver dato una possibilità a questa storia, io spero che questo primo capitolo vi abbia incuriositi almeno un po'. Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate lasciandomi qui sotto una piccola recensione. Ci vediamo presto con il prossimo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


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Elia suonò il campanello e la mamma ci venne ad aprire. Aveva ancora il grembiule legato stretto in vita, quello con i pomodori cuciti da Filippo durante le scuole elementari e con una grossa scritta in corsivo ricamata sulla tasca: Mamma ti voglio bene.

Gli si buttò addosso e pianse, con i guanti di gomma gocciolanti ancora tra le mani. Gli accarezzò i capelli, gli baciò il petto, tremava convulsamente. Elia aveva gli occhi chiusi e il mento sulla testa di mamma, che mi guardò con la sua solita posa trascurata, senza sorriso, sospettosa. «Chi te le ha comprate quelle scarpe?»

Un paio di stivaletti con la suola spessa e qualche centimetro di tacco. Erano della bancarella e in saldo, le avevamo prese insieme la domenica precedente, al mercato, ma lei se n’era già dimenticata. «Sei stata tu, mamma, ti ricordi quella volta…»

«Mamma», Elia la prese per mano, «ti dispiace tirare fuori la torta al cocco? Voglio assolutamente assaggiarne una fetta prima di cena!»

Quando lasciò il corridoio, chinai la testa e corsi in bagno. I capelli erano fitti, una selva scura, scombinati e mossi come se il vento ci soffiasse sempre in mezzo, neri come il peccato. Mia madre diceva che erano la cosa più bella che avessi e io ne avevo dedotto che non ero poi così bella nell’insieme. Quand’ero piccola li tenevo fermi con pacchiane mollette rosa, ma ora rubavo le forcine dai cassetti.

Mi sciacquai per bene la faccia. Sopra il lavandino, nel mobiletto di legno dall’anta eternamente socchiusa, c’erano l’ovatta e i flaconcini che la profumeria regalava a mamma. Mi passai un po’ di crema idratante al cedro norvegese sulle gambe. Le avevo depilate il giorno prima con la lametta da barba di Filippo e la radice spessa dei peli era già rispuntata fuori.

Quelle gambe e quelle scarpe erano una contraddizione, ma gli stivaletti erano così ben serrati ai piedi che sembrava che ci fossi nata. Scarpe con il tacco: chissà perché mia madre mi permetteva di indossarle. Inorridiva persino per un po’ di lucidalabbra, delle volte. Quelle scarpe, da sole, mi trasformavano tutta, mi rendevano adulta e libera, nonostante i miei appena sedici anni. Mi sembrava di poterci fare i chilometri senza consumarle mai.

Fuori dalla porta c’era ancora qualcuno e misi a fuoco la scena sul corridoio attraverso uno spiffero. Mio fratello regalava a Filippo un’edizione di poesie di Frank O’Hara introvabile, presa a Berlino, o almeno così disse. «Grazie per esserti preso cura di lei.»

Filippo si rigirò il libro tra le mani. «Non l’ho fatto per te.»

Per qualche ragione, però, Elia gli diede lo stesso una pacca sulla spalla e un muscolo teso gli corse lungo tutta la mandibola. «Sei in gamba.»

Filippo non sembrava perfettamente conscio su cosa fosse giusto dire e fissava il cerchietto d’oro appeso all’orecchio di Elia. «Ci sei mancato. La mamma non ha fatto altro che parlare di te, Elia di qua Elia di là.»

Elia sorrise, quella sua smorfia inconfondibile di ironica solennità. «Dev’essere stata una vera rottura di scatole.»

«Francamente, un po’ sì.» Ora stavano ridendo, Elia spalmato contro la parete e con le mani nelle tasche, Filippo che fissava la costa rovinata del libro con le orecchie color peperone.

«Mi dispiace sul serio per la mamma, non se la sarà passata benissimo», disse Elia, ma, in un certo senso, sembrava triste anche per sé stesso. Si guardò i mocassini. Non si sbottonava mai. Viveva nel suo silenzio insondabile e nello sforzo costante di apparire distaccato.

Facevo fatica a credere che fossimo stati generati dagli stessi genitori: il mio volto era anonimo, esprimeva tutto quanto contemporaneamente, il che equivaleva a non esprimere niente. Invece, lui era caratteristico. La punta del suo naso era tonda, il mento pronunciato e la disposizione strategica degli spigoli sul suo viso gli davano sempre quell’aria sardonica, anche quando in realtà era serio, o avvilito.

Era diventato ancora più bello in questi anni.

Elia era mio fratello ma non mi apparteneva. Non era mio. La simbiosi con cui eravamo cresciuti era finita quando mi aveva annunciato che sarebbe partito.

Era pomeriggio, eravamo immobili nel prato aperto, sopra spighe che bruciavano al sole, nella campagna di zio Rodolfo. Una manciata di parole ben assestate, vaghe considerazioni sul richiamo del mare che si sentiva dentro ormai da anni, e qualche “stammi bene” di troppo.

Fino a quel momento mi aveva evitata, era chiaro. Era diventato sempre più difficile fingere di non averlo capito. Non era freddo né scostante: semplicemente non c’era. Appariva e scompariva e a tavola sembrava sempre troppo preso, anche solo per alzare gli occhi su di me.

Avevo pianto finché il cielo non ci era crollato addosso. Pioveva col sole. Elia mi aveva avvolta e poi buttata nell’oro. Il suo corpo che aderiva completamente al mio mi teneva stretta come se potessi scivolare via come l’acqua, senza sapere che il suo petto era l’unico posto al mondo in cui mi sentivo al sicuro, in cui non scivolavo. La stoffa della sua maglietta era zuppa di pioggia, tuttavia la sua pelle non era mai stata così bollente. I suoi abbracci scottavano, i suoi respiri caldi non avevano mai soffiato così vicini alle mie guance e un nodo dolorosissimo di lacrime lo avevo mandato giù solo perché c’era la punta del suo naso che mi sfiorava il collo. La sua testa sul mio petto e il profumo di grano: poteva anche annegarmi quel diluvio. Elia mi aveva preso la mano, mi ero ritrovata le dita intrecciate alle sue senza essermene accorta nemmeno.

Il calore così intenso e insopportabile di quell’abbraccio ce l’avevo ancora addosso. Mi mancavano le sue braccia forti, mi mancava il modo in cui la sua voce bassa vibrava ruvida, dolce, dolcissima, mentre sussurrava “Restiamo ancora un altro po’ così per favore” e ora avevo tutto questo davanti ma era un’onda altissima, soffocante.

Disse che doveva assolutamente farsi una doccia.

La festa di bentornato a casa fu quanto di più noioso e deprimente avessimo organizzato fino a quel momento, esclusi i compleanni di Dumbo nei locali karaoke: una carrellata di zii e di prediche sul senso della vita.

Filippo giocò per tutto il tempo con la targhetta del vino fino a scollarla. I capelli di Elia avevano preso una piega scalata e fluente; indossava una canottiera e una camicia floreale slacciata, i pantaloni larghi da bohemien. Rodolfo aveva la testa lucida e pelata come l’anguria. Franco ed Elisabetta avevano il raffreddore in piena estate. Massimo, nostro cugino, si presentò con un maglioncino di cachemire, un pantalone blu a zampa di elefante e l’entusiasmo fino alle stelle: «Hai ancora la tua bella faccia da culo, Branda!»

Alice, nostra cugina, regalò a Elia una guida turistica per viaggiatori. «Un po’ tardi», le disse Elia.

Elisabetta salvò sua figlia. «Lo facciamo un rapido brindisi per celebrare il nostro eroe?»

Maddalena prese i calici e fece notare con aria addolorata e stupita quanto suo nipote fosse cresciuto prima del tempo. Franco stringeva lo champagne saldamente tra le mani, la condensa che scorreva sul vetro come goccioline di sudore, le guance flosce tenute su da un sorriso smagliante. «Lo stappo io, l’Isola Imperiale?»

Massimo suggerì di rompere il collo della bottiglia con un coltello da macellaio, proveniente dal set di attrezzi per la brace che avevano regalato a Filippo per Natale. «Non voglio bere granelli di vetro», replicò Alice. Massimo si passò la mano sulla fronte. «La pressione esercitata dalla bottiglia sarà come un’esplosione. Nessun vetro tra i denti, tranquilla, al massimo ti arriverebbero negli occhi.» I miei fratelli e io iniziammo a ridere e sulle labbra di Massimo affiorò un sorriso compiaciuto, forse credeva che stessimo ridendo per la sua arguzia. Per poco, Franco non colpì il lampadario.

Maddalena fece un discorso commuovente, il tono affabile ricordava quello tipico della moglie di un diplomatico. «La scomparsa in mare di vostro padre, quello sciagurato di vostro padre, ha causato molti problemi a voi tre. Ve lo si legge negli occhi. Sono felice però di poter dire che siete venuti su bene, più o meno, nonostante tutto. Elia, in quanto tua zia preferita, nonché insindacabile punto di riferimento della famiglia, non mi resta che farti una raccomandazione: per favore, non fare la stessa fine del babbo! Cin cin

Ci sciroppammo un’altra lunga serie di sciocchezze umilianti, che costarono una certa dose di sforzo più ad Elia che a me, e poi finalmente paccheri ai frutti di mare fumanti.

Franco posizionò il tovagliolo tra la camicia e la cravatta, dopodiché domandò ad Elia, con tono petulante, dov’era stato e tutto quello che aveva fatto: il vero argomento che, prima o poi, qualcuno doveva pur tirare fuori ed affrontare.

Mio fratello corrugò la fronte, in un consapevole sforzo di apparire riflessivo. «Qualche capitale europea e poi ho deviato, verso mete meno politicizzate. Sai, le Hawaii, il Brasile, cose così…»

«Viaggiare…», brontolò Elisabetta con la schiena rabbiosamente dritta e gli orecchini di perla che scintillavano fiochi, «Non si farebbe prima a dire “sono andato in vacanza per tre anni”? Voglio dire, in fondo è lo stesso…E comunque sembri un marocchino!»

Alice posò la forchetta nel piatto. «Mamma! Non essere razzista!»

«Cos’ho detto di razzista? Io amo quella carnagione, venderei un rene al mercato nero, pur di abbronzarmi…»

Massimo non riuscì a trattenersi. «Mercato nero…»

«E quel taglio lì?», chiese Dumbo, gli occhi sottili e l’indice puntato all’altezza dello zigomo di mio fratello. In realtà si chiamava Valeria, ma per via delle sue comiche orecchie a sventola, per noi, era sempre stata Dumbo.

Elia alzò le spalle e aprì una lattina di coca cola. «Una rissa, niente di che.»

Elisabetta si passò un dito sulla palpebra, in meditazione, come per raccogliere un granello di polvere o sabbia. Nostra madre si alzò di scatto, il tovagliolo di Maddalena cadde a terra, sulla moquette.

«Scusatemi», un fremito di rabbia scosse le labbra di Elia e si diresse in cucina dietro la mamma, come un gatto pigro.

Maddalena setacciò la tovaglia. «Rachele, ci pensi tu a rimediarmi un altro tovagliolo?»

Andai di là, obbediente.

«Posso essere sincera?», sussurrò la mamma, quel tono brusco di sempre, mentre chiudeva il pensile sopra il lavandino. Elia teneva le mani serrate in un pugno, le nocche poggiate sul mobile color panna della cucina. «Quando mai ti trattieni dal dire qualcosa.»

«Secondo me, tu potresti essere uno splendido uomo, dico sul serio», nei suoi occhi neri brillava una scintilla di commozione, «Anzi, un uomo addirittura eccezionale. Somigli così tanto a tuo padre, che a volte, quando ti guardo penso di essere vittima di un’allucinazione. Però penso anche che tu non ci sia minimamente vicino all’uomo che potresti diventare. Insomma, guardati, sei ubriaco. Pensavi davvero che non me ne sarei accorta? Sei tornato per cosa? Ancora quella storia? Levatela dalla testa.»

«Sai che non succederà mai.»

Poi si voltarono di scatto verso di me.


*


Il cielo blu sembrava di velluto. Eravamo seduti su un muretto da cui sporgevano balconiere in terracotta, nell’ombra di torreggianti pini. Sotto di noi le rocce, gli strapiombi, le insenature dell’isola, Marina di Campo piena di luci. I grandi si erano coricati, noi eravamo rimasti lì, svegli fino a tardi a pendere dalle labbra di mio fratello, che ci raccontava i particolari del suo viaggio.

Filippo mi cinse le spalle e mi sfregò la pelle del braccio, per scaldarmi. Sotto le sue dita era come prendere consistenza. Elia seguiva il fumo della propria sigaretta, che si diradava spugnoso nella notte estiva. «Il tempo è stato quasi sempre bellissimo», disse, «per quanto riguarda il mangiare, mi sono adattato. C’è stato un periodo in cui non sono riuscito a pescare nemmeno un’alice e ho digiunato per giorni. Dopo i primi mesi in mare, ho attraccato in Olanda. Sono arrivato lì in pieno inverno e, merda, mi si sono congelate le palle, così ho virato verso le Hawaii. Credetemi, ho visto spiagge dorate, rosse, nere e persino verdi, ho assistito ai tramonti più belli della mia vita, mi sono sporto da scogliere e cascate vertiginose. Ho scoperto anche di non essere l’unico pazzo che viaggia in barca a vela. Parecchia gente lo fa. Ci siamo dati anche una mano a vicenda con il carenaggio delle barche. Attraccavamo lungo la banchina quando c’era bassa marea e scrostavamo dallo scafo le alghe e le conchiglie, poi passavamo una mano di antivegetativa, e voilà. Sguazzavamo nella melma ma ci siamo divertiti come matti.»

«Le lezioni di vela di papà ti sono state utili», disse Filippo, «Se il vecchio ti vedesse ora, sarebbe orgoglioso.»

Elia rise e, per la prima volta dopo anni, mi sembrò che la mia vita stesse accadendo proprio lì, in quel luogo, e non da qualche altra parte lontano, chissà dove. Avere accanto Elia era come avere accanto papà.

Del vecchio ricordavo l’essenziale: mappe arrotolate sulla scrivania e bussole arrugginite, clessidre impolverate e manuali di navigazione piuttosto datati. Ricordavo l’odore sgradevole dell’inchiostro mescolato ad un vago profumo d’incenso, il tetto basso, come se stesse sempre per crollare, la luce calda e soffusa di una lampadina scarica, gli occhiali sempre ricoperti da una patina di grasso, le camicie sbottonate e un petto villoso, le ascelle pezzate, una barba incolta. Quando non era al porto, si rintanava nel suo studio: io e i miei fratelli gli bussavamo a turno, lui metteva le scartoffie da parte e ci raccontava di leggende e tesori nascosti, oppure ci leggeva La storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare.

Una volta mio padre mi aveva confessato un segreto che, parole sue, non avrei dovuto condividere con nessuno. «Sei una pirata» mi aveva sussurrato, non abbastanza piano da evitare che la mamma ci sentisse. Mi aveva preso le manine e aveva unito le dita una per una, lasciando liberi i pollici, come le zampe di un’aragosta, «Lo sai perché ti chiami Rachele? Perché sei una ragazza con le chele, un esserino alquanto pungente e letale.» Avevo riso talmente forte da sentire dolore nella pancia, e la mamma era intervenuta. «Federico, per favore, non incoraggiarla

Poi la Ragazza con le Chele era cresciuta. Avevo assistito al cambiamento del mio corpo come se fosse stato qualcosa di estraneo; l’eccessiva e ingrata magrezza della mia infanzia si era presto trasformata in qualcos’altro, di meno spirituale, di più grezzo. Non era più mio, quel corpo, era di un’altra, a disposizione degli sguardi rimbalzanti di sconosciuti per strada. Quelle forme morbide, quei seni che sembravano panetti di farina, quella carne bianca e duttile, sempre sul punto di deformarsi, erano ciò che mi rendevano diversa dai miei fratelli.

Il loro corpo maschile si irrobustiva, diventava compatto e arido, possedeva forme che non si sciupavano, forme immortali, eterne. Forme che vivevano in un continuo presente radioso, propulsivo. Li invidiavo. Volevo essere nata maschio anche io, volevo avere la loro resistenza fisica, massacrarmi di lavoro senza stancarmi, volevo poter viaggiare in barca, per il mondo, senza portarmi dietro gli assorbenti, volevo poter essere me stessa senza subire la rivalità di nostra madre.

Era come se non potesse fisicamente esistere vicino a me, lei viveva lontana da me, tracciava animosi confini di spazio che non potevo oltrepassare, l’avvertimento glielo leggevo nei suoi soffocanti occhi scuri, nelle rughe che le fendevano la fronte, nell’ostilità delle sue espressioni cadenti. Una volta era bella, ma quella bellezza era stata demolita dalla sua abitudine al pudore. Mi guardava come se spiasse l’imminenza di un avvenimento che non percepivo. Mi guardava e nei suoi occhi c’erano residui di morte. Non potevo essere libera accanto a lei.

Alice estrasse un pacchetto di sigarette dalla borsa. «Dovremmo fare qualcosa, più tardi.»

Elia ridacchiò. «Tipo un bagno a mezzanotte?»

Filippo si schiarì la gola: «Non vedi l’ora di sfoggiare il tuo costume adamitico?», la sua mano elegante, penzoloni oltre la mia spalla, indicò il pacchetto di Alice. «Posso rubarti una di quelle?» Nostra cugina gli allungò una sigaretta. Filippo inspirò, e la brace tonda gli illuminò la pelle del viso che, dallo zigomo in giù, era splendente e ripida come il fianco innevato di una montagna.

Il polso magro, le unghie ovali e arrotondate, le nocche prominenti, un aspetto nell’insieme ossuto ma che sprigionava forza e morbidezza. Anche Elia fissava la mano di Filippo. Sotto la luce fredda dei lampioni, i suoi occhi erano esegetici. Le ciglia nere, che proseguivano fino alle estremità leggermente all’ingiù, gli ammorbidivano quello sguardo spettrale. Le sopracciglia preannunciavano i piani inclinati degli zigomi.

«Ne vuoi una anche tu, Lele?» Alice agitò una sigaretta e allungai il braccio per afferrarla, ma qualcosa di pesante me lo impedì: la mano di Elia mi aveva marchiato l’avambraccio e la ritrasse subito, con aria scioccata. «Lasciala perdere quella roba, è spazzatura.»

Alice la rimise nel pacchetto e Filippo continuò a dare boccate di fumo, in tralice. «Guarda che non è la prima volta che fuma», si sentì in dovere di fargli notare dopo un po’, «su, forza Rachele, diglielo.»

Elia era immobile, l’espressione spossata e la schiena curva, come se tutti quegli anni senza di noi gli fossero ripiombati addosso in un attimo. Aveva lo sguardo su di me, ma in realtà quello sguardo era approssimativo. Non riuscii a emettere fiato. In fondo, quel ragazzo era come se non lo conoscessi. «Sì, non è la prima volta», sussurrai.

«Ora abbiamo anche i suggeritori», Elia spostò pigramente l’attenzione su Filippo, con una certa flemma nel movimento delle labbra.

«Forse dovresti prestarle più attenzione, Elia», Filippo non mi aveva mai tenuta così stretta a sé come in quell’istante, «rispetto a quando te ne sei andato è un po’ più grandicella.»

Aveva ragione, non trovavo che Elia mi avesse testimoniato una particolare considerazione, ma era anche vero che quando parlavo mi ascoltava sempre, una cortesia che ad altri gli capitava di non riservare.

«Che uomo di casa che sei diventato» sibilò Elia, lo sguardo offuscato da una collera inconfessabile.

«Dai, su, ragazzi», intervenne Massimo alzando i palmi, «niente bagno a mezzanotte e abbiamo risolto.»

«Infatti, io me ne torno a casa. Sono distrutto», disse mio fratello e mi lanciò un’occhiata bruciante.

L’andatura con la quale risalì la strada aveva un che di grottesco, ma la sua figura era come una linea lunga ed elegante tracciata con il pennello. Filippo accostò le labbra al mio orecchio. «Sta solo cercando attenzioni, sai com’è fatto, no? Lascialo perdere.» Tuttavia, Elia era così totalmente incurante di quello che pensavano gli altri di lui, talmente sicuro della propria percezione di sé, che mi risultava difficile immaginarmelo desideroso di attenzioni. Certo era che, quando voleva, riusciva ad apparire incredibilmente noioso e ostile, con quella sua aria annoiata, apparentemente incapace di provare conflitti. Neanche io avevo più tanta voglia di restare lì.

Quando tornammo a casa, Elia era accasciato sul divano a sbadigliare e guardare la tivù, avvolto nella luce fioca delle lampadine a risparmio energetico. Le tapparelle abbassate creavano un’atmosfera cupa. Le ombre si gettavano prepotenti e giganti verso la parete bianca. Sorseggiava una lattina di birra e ci ignorò.

Prima di andare a dormire, lo vidi intrufolarsi nello studio di nostro padre. Si guardò intorno nel buio, e poi si chiuse furtivamente la porta alle spalle. Nessuno era più entrato in quella stanza dopo la sua scomparsa. Nessuno, tranne Elia.


Note.
Fatemi sapere se vi va cosa ne pensate con una recensione, mi farebbe davvero piacere. Noi ci vediamo con il prossimo capitolo,
con tantissimo affetto,
JSGilmore

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


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Elia era in giardino a lucidare la sua moto, una storica Kawasaki, in ginocchio sulle mattonelle di ceramica cotta. Posai la cesta piena di panni sul tavolo. Il sudore gli scorreva tra i solchi della schiena come le diramazioni di un fiume. Indossava un paio di bermuda di tela.

Mezza mattinata sulla spiaggia e si era già abbronzato. Non avevo mai conosciuto qualcuno che attirasse il sole come lui: chili di crema solare, densa come stucco, non avevano impedito alle sue spalle di diventare rosso peperoncino. La sua schiena era lucida e grondante di sudore.

«Non affaticarti troppo», dissi, «altrimenti stasera dovremo dare buca alla tua ragazza perché ti sei preso un’insolazione.»

Elia si strofinò la fronte e trattenne una risata. Continuò a sgrassare la marmitta e disse laconico: «Angelica non è la mia ragazza, e stasera niente festa.»

Spalancai lo stendino. Elia l’aveva camuffata come una vecchia conoscenza del liceo, disgraziatamente degenerata in una sveltina, ma io e Filippo sapevamo che c’era qualcosa di più, sotto. «Non avevo mai preso in considerazione l’idea che volessi sul serio una ragazza. Perché niente festa?»

«Lei non è la mia ragazza, come devo dirlo…»

«Oggi ti stava addosso come una cozza e ti faceva gli occhi dolci: ho collegato, non ho più tredici anni. Perché non vuoi andare al Garden Beach?»

Mi ignorò e armeggiò con il cavalletto.

Qualche ora prima, eravamo stiracchiati sui lettini. L’azzurro vibrante del cielo si inabissava nel blu profondo del mare. Dalla riva era apparsa una ragazza dai capelli rossi. Fissava Elia. «Ei, Ferro, allora avevo visto bene, sei proprio tu», con la scusa di salutarlo, gli aveva tastato il bicipite. Continuava ad accarezzargli la pelle, scossa dalle tensioni virili che emanavano i suoi muscoli.

Elia, per gli amici, era Ferro, diminutivo del nostro cognome Ferrazza. Invece, Filippo per gli amici era Filippo. Questo pensiero mi aveva procurato un’intensa risata e lei mi aveva incenerita. «Ci sono problemi?»

«Angelica, ti presento mia sorella», aveva detto Elia. Gli occhi verdi, contrassegnati da un eyeliner marcato, erano di una bellezza avara, mortale, come la sua bocca sottile.

«Ah, tua sorella», era rincuorata, «Non ti somiglia per niente.»

Angelica aveva rapito mio fratello per una passeggiata, dalla quale lui non osò sottrarsi. Davanti a me il mare: l’immensità che si accavallava, si disperdeva e ritornava.

Incastrai una molletta sulla stoffa delle sue mutande Calvin Klein. Una volta Filippo gli aveva fatto notare, tutto tronfio: «Non capirò mai cosa ci trovi di bello la gente, nell’avere il nome di un tizio sulle mutande.»

Elia gettò a terra lo straccio, vicino a un vecchio borsone della palestra ricoperto di sabbia che ora conteneva i nostri teli da mare. I suoi occhi marroni, caldi, erano dello stesso colore della terra, delle coste frastagliate dell’isola e avevano in sé l’estenuante inseguirsi delle onde. «Non ti porterò a bere alcolici in un covo di assatanati.»

Angelica aveva parlato di un evento esclusivo e irripetibile, a Marina di Campo: non stavo più nella pelle, e volevo fare una buona impressione con la sua nuova fidanzata, sebbene non fossi mai stata una tipa festaiola. «A che ora andiamo, stasera, allora? Devo pensare a cosa mettere…» Come se avessi chissà quali vestiti.

Elia era tra lo scioccato e il divertito. Aveva un sorriso arrogante, un’aria di scherno. Con quel cappello di paglia voleva dare l’impressione trasandata di un giovane vagabondo: si piaceva così, con l’aria da povero, ma era tutt’altro che goffo, solo apparentemente trascurato. Un piccolo cerchio d’oro appeso al suo orecchio sinistro scintillava. «Ora fumi, vai alle feste… E ci manca solo che bevi. Che ne hai fatto di lei, la ragazza che amava le piante?»

La terra: genuina, semplice, potente, meravigliosa. Era stato Elia a indottrinarmi al giardinaggio. La passione per i fiori era nata perché trovavo affascinante guardare qualcosa di così puro e sincero crescere, sbocciare. Qualche anno prima, in autunno, avevamo coltivato un cespuglio di rose rosse. Quando lui era partito avevo smesso di prendermene cura. «La vecchia Rachele è stata rasa al suolo. Ora sono un deserto.»

Elia mi guardò con un sorriso alterato, intrappolato. «I fiori crescono anche nel deserto.»

Filippo scostò la tenda a zanzariera e ci raggiunse in giardino. Masticava un tramezzino prosciutto e formaggio. Calpestò uno zampirone consumato e imprecò. Ultimamente, era così eclettico. «Cosa complottate, voi due?»

Elia indurì la mascella. «Stavo dicendo a Rachele che stasera ce ne restiamo a casa.»

Stesi il vestito che mia madre metteva ogni santo giorno, pietoso e deforme, rammendato sugli orli troppe volte per poterle contare. «La tua ragazza ce l’avrà a morte con te», dissi a Elia.

Filippo fece scivolare una mano sulla mia spalla e quel gesto istintivo, quella carezza assistenziale, mi turbò: era come se mi stesse suggerendo che c’era qualcosa in Elia che avrebbe dovuto farmi sentire turbata, ma io non lo ero, non lo ero affatto. Il palmo di Filippo mi surriscaldò la carne. «Se Rachele vuole andare a quel locale, io ce la porto. Ricordi cosa ti ho detto ieri sera? Da quando te ne sei…»

«Sì, sì, da quando me ne sono andato è un po’ più grandicella», si tastò i bermuda e lanciò un mazzo di chiavi a Filippo, «Voi due andrete con la Panda di papà, io arriverò più tardi con la mia moto.»

Il Garden Beach era sul mare. Varcata la soglia, l’interno era poco illuminato, cavernoso, vagamente viola, con lunghi banconi in cui servivano da bere e un chiosco affollato, sotto un tetto di palme. C’erano un odore di alcol rancido e un tintinnio metallico di cubetti di ghiaccio che si scontravano con il vetro dei bicchieri da cocktail. Le persone sorseggiavano superalcolici accatastati in amache di paglia. Filippo socchiuse le labbra carnose: lingue di fumo si sciolsero nell'aria chiusa e viziata. Si arrotolò le maniche della camicia a quadri. Le vene blu in risalto sugli avambracci bianchi. Non avevo una gran carriera in fatto di feste, ma c’era la musica: avrebbe dovuto invitarmi a ballare, anziché rimanere abbacchiato in mezzo alla gente a farsi prendere a spallate. Angelica si fece largo verso di noi.

«Rachele, ti sei messa in tiro, vedo», disse, e sulle prime non colsi se fosse seria o ironica. Indossavo un vestito azzurro, dalle spalline gonfie e una stoffa spessa, che ora mi sembrava prelevato direttamente dall’unione sovietica nel secondo dopoguerra. In realtà, non sapevo perché alla fine l’avevo messo, quel coso. Si guardò attorno, angosciata. «Dov’è tuo fratello?»

La analizzai, cercando di non far trapelare tutto il mio sconforto per non riuscire a trovarle un difetto: solo lei poteva permettersi quel tipo di frangetta che non andava più di moda dagli anni Novanta. Indossava un tubino nero e dei sandali di sughero. I suoi occhi erano irrequieti e le braccia erano conserte. Il buttafuori le stava fissando il seno, ma lei faceva finta di non accorgersene. Il piccolo taglio sul labbro rendeva Angelica identica ai vecchi poster di Lara Croft appesi nella stanza dei miei fratelli.

«Elia sta arrivando, tranquilla, questione di minuti», sfiorai il velluto di uno scialle che le ricadeva sulla schiena, «Molto carino. Sembra fatto a mano… Dove lo hai preso?»

«L’ho commissionato a una sarta», mi strizzò l’occhio e non ebbi alcun dubbio che parlasse proprio di mia madre, «Sandra è una vera professionista. Era così contenta di conoscermi. Mi ha detto di non aver mai incontrato un’amica di suo figlio.»

Di solito mia madre non era così accomodante né con le sue clienti né con il genere femminile, specie se pretendenti dei suoi adorati figli maschi, e soprattutto nessuna si era mai permessa di chiamarla per nome. Angelica doveva piacerle, così avvenente e sicura di sé, che non si sforzava di esserlo, ma le veniva naturale.

Sandra cuciva a mano come non si faceva da secoli, con gli aghi fini come i capelli. Le piaceva cucirmi i vestiti, e vedermeli addosso: sacchi fuori moda, da indossare sotto il sole brumoso, che coprivano un fisico incompiuto, che poteva scandalizzare, uno di quei corpi che al massimo durava un’estate.

Mia madre credeva che non avrei retto lo shock del mondo reale. Vivi in una bolla adesso, aveva detto una volta mentre faceva i piatti, ma quando andrai a lavorare non so proprio come farai a cavartela. Vedremo, le avevo risposto. Che pensi di inventarti, in futuro? La vita non è l’ambiente protetto di casa, non è quello che pensi, dovrai darti da fare, dovrai lavorare, non potrai startene a ciondolare tutto il giorno. Le avevo risposto che volevo vendere fiori. Solo quello, nient’altro. Un'idea puerile, aveva replicato.

Ogni tanto le rubavo il rossetto color ciliegia che le era costato una fortuna. Comprava senza badare a spese. Vivevamo in una casa che non si era potuta permettere e ora eravamo indebitati fino al midollo. L’aveva comprata perché, secondo lei, saremmo diventati presto ricchi, e poi papà era scomparso. Mia madre lo odiava per averla lasciata.

Angelica si rivolse a Filippo. «Ti dispiace se Rachele viene un po’ con me?»

Filippo se ne infischiò di analizzare la mia riluttanza e scrollò le spalle in segno di assenso. Se fosse stato una ragazza, non mi avrebbe fatta andare via: avrebbe supplicato o piagnucolato di più, per non rimanere solo. I ragazzi non si facevano quel tipo di problemi: vai, resta, fa’ come ti pare, è uguale, io sto bene così.

Angelica mi portò in mezzo alla folla. I ragazzi indossavano camicie sfolgoranti e delle scarpe lucide da cerimonia. Erano tutti più che ventenni. Le ragazze avevano un aspetto ricercato e sfavillante, corredato da borsette sgargianti e orecchini di bigiotteria. Le vibrazioni dei bassi mi penetrarono nelle scarpe e su per le gambe. Angelica mi passò un drink. «Assaggia, è Sazerac: vedrai che ti piace.» Mi presentò velocemente alle sue amiche, Nicole e Alessia, due stangone con cui non valeva neanche la pena di competere. Ricambiarono la stretta di mano con la testa china su un lato e le labbra tese in una smorfia caritatevole. Angelica le studiava con un sorriso indulgente e non troppo confidenziale. «Oh, Angelica, quello sbarbatello con cui parlavi non era mica…», disse Alessia con voce stridula e flautante.

«Ma no, sciocca, lui deve ancora arrivare.»

Alessia: «E se, invece, ti avesse dato buca?»

In quell’occasione, lo vidi per la prima volta. Una chioma riccia e bionda spiccava in lontananza. Quel ragazzo era un bizzarro incrocio tra uno spaventapasseri e un norreno. Un paio di occhi verdi si voltarono nella mia direzione, si posarono su di me di sfuggita, in fretta. Era un vichingo senza la scintilla di fame nello sguardo, un re annoiato dai lineamenti delicati e un portamento nobile. Non era atletico, il modo in cui era seduto suggeriva una certa stanchezza esistenziale, una gracilità d'animo di cui prendersi cura. Parlava con altri biondi pallidi. I miei fratelli, a confronto, erano sani come denti da latte. C’era qualcosa di freddo, di nordico, di incolore, nei suoi occhi.

Nicole: «Voglio proprio vedere se è davvero il figo mastodontico di cui ci hai parlato. Sai, alle volte millanti…» Angelica alzò malvagiamente un sopracciglio. «Guardate pure con i vostri occhi.» Indicò un ragazzo che si muoveva lentamente all’ingresso, come un paziente che si riprendeva dopo un’operazione. Indossava una camicia a righe scollata, i bicipiti gonfi scoperti uscivano dalle maniche arrotolate. Non ballava, ma si guardava intorno con desolazione.

«Ha dei braccialettini da truzzo», osservò Alessia, «Ma è bello da sentirsi male. Come hai detto che si chiama?»

«Elia Ferrazza, fratello della nostra qui presente Rachele. È appena tornato a casa dopo anni, in cui ha viaggiato per il mondo, ed è diventato un figo spropositato. Lo era anche prima, certo, ma adesso ammiratelo: enorme, per nulla imbarazzato dalla propria mascolinità, che ordina un bourbon con ghiaccio. Sì, d’accordo, forse quei braccialetti…»

Alessia e Nicole lo fissarono con adorazione. «Oh, sì, è un figo spropositato.»

Nicole rinsavì: «Aspetta, è tuo fratello?», era sconvolta, «Ma non vi somigliate affatto! Cioè, tu non hai tutto quello charme! Senza offesa.»

Un po’ offesa, in effetti, lo ero ma non potevo darle torto. Sbirciai nella direzione del biondino. Anche lui si era accorto di me, della mia esistenza, e ora mi sorrideva con aria gentile.

«Non darle retta», mi pregò Angelica, e poi mi passò un gin tonic, «Questa sera Nicole non è in sé.»

Entrambi i miei fratelli si unirono a noi e ordinammo al tavolo; cercai di stabilire un ulteriore contatto visivo con la chioma bionda, due metri più in là, che lui non consentiva: era nel vivo di un’accesa conversazione con un cinquantenne da una camicia arancione sbottonata sul prominente addome. Elia si scusò per il ritardo. Filippo parlava di una sua vecchia ambizione, una di quelle che non aveva mai avuto il coraggio di manifestare: suonare la chitarra. Strumento che rispolverava ogni tanto, a tempo perso, “giusto per strimpellare quattro accordi”. La parte del musicista fallito gli permetteva occasionalmente di dare il via a stravaganti relazioni a singhiozzo. Angelica era colpita.

Poggiai la testa sulla spalla di Elia e odorai il suo buon profumo, forse One Million. Non muoveva un muscolo, sembrava concentrato nell’atto di conservarsi nel tempo. Ero assolutamente in dovere di scomporlo. «Hai visto, che sta andando tutto alla grande?»

Si irrigidì. «Alla grandissima, come no.»

Filippo accolse sul suo grembo Alessia, che giocava con il suo ciuffo, mentre lui cercava di scacciarle le dita come fossero mosche fastidiose. Una risata feroce mi partì d’istinto dal petto e non riuscii a trattenerla. «Filippo ti sta rubando la scena.»

«Che se la tenesse pure.»

Non era necessario essere sobri per comprendere quel suo exploit comunicativo: la serata era un totale fiasco. Era isolato, stravaccato su un divanetto di pelle con la noiosa sorella piccola, ad ammirare passivamente Filippo: più di un metro e ottanta di muscoli e settantacinque chili di peso, che non compensavano quel suo aspetto dinoccolato; gli arti sproporzionati, vistosamente lunghi e il ciuffo vaporoso davano all’insieme quel tocco d’imperfezione, di tenera goffaggine, che lo rendeva ancora più interessante, persino agli occhi della sua ragazza. Il mutismo di Elia mi istigava a bere. Si asciugò la fronte e mi guardò scolare un Margarita con uno sguardo eloquente, tanto da convogliare le attenzioni di tutti su di me. Sembrava scoraggiato, consapevole di quello che stavo facendo, probabilmente cercare attenzioni. Oppure, era soltanto incazzato. «Finirai per tirare le cuoia, se continui così…»

L’alcol mi bruciò in gola e nello stomaco: ero alticcia. Ma perché gli stavo continuamente addosso in quel modo, incalzandolo con comportamenti poco virtuosi, per ottenere cosa, poi? Era un atteggiamento infantile, da sradicare.

«Hai una sorella molto divertente», disse Angelica, «Rachele, vuoi ballare?»

Filippo mormorò qualcosa all’orecchio di Elia, che serrò le labbra. Angelica mi prese per mano e i suoi occhi non erano più due, ma quattro, sei, otto, che fluttuavano nel locale in una danza esotica come gli orecchini di una danzatrice indiana. Accostai il bacino al suo, la musica mi pulsava dentro e i movimenti divennero molli e spontanei. Lei mi accarezzò la guancia, mi poggiò un braccio sulla spalla, allungò il drink verso un ragazzo apparso a ballare accanto a noi, che ci contemplava intontito. Gli amici attorno ballavano e ridevano in pose di circostanza.

Angelica mi sussurrò all’orecchio, con il suo braccio sensuale che posava sulla mia spalla: «Ti sta fissando da ore, perché non vai a parlarci?»

«Non guarda me, ma te.»

Nel suo alito colsi il sapore di vino rosso. «Non sottovalutarti.»

Non era alto, mi superava di poco. Era sudato come un animale e sembrava il prototipo di maschio con la tendenza a sottoporsi a lampade con regolarità. I pantaloni così stretti, skinny, erano da burino, come l’orologio in titanio e il crocifisso sul petto. Forse credeva di trovarsi in uno di quei gangster movie con Al Pacino.

«Vacci a parlare, dai», disse Angelica, «Coraggio, non essere timida.»

Mi sentivo ubriaca e mi girai per setacciare il locale alla ricerca di Elia. Lui si limitava a guardarmi in lontananza senza dire niente. Però sotto il suo sguardo percepivo i miei movimenti come ingigantiti, scandalosi, immorali, attraenti, e mi passai una mano tra i capelli, mostrando il collo. «Anzi, aspetta qui, lo chiamo io.»

Avrei voluto fermarla, ma lei era già andata via, e quel tipo mi aveva braccata: raggiunsi la temperatura di ebollizione del piombo. «Mi hanno detto che vuoi ballare», disse. Il suo avambraccio sfiorò il mio. La terra tremava, mi sballottolava, e temei di scivolare lungo le pareti. Cercai di fare in modo che la mia faccia non dicesse niente.

«Come ti chiami?», domandò. Era una domanda semplice, e tutto a un tratto scoprii di non ricordare la risposta. Le sue mani iniziarono a massaggiarmi le spalle.

«Ti offro un giro?», chiese, «Cosa prendi?»

«Niente, grazie.»

Mi riservò un’attenzione che sulle prime mi lasciò indifferente. Beveva e fumava in modo strafottente. Abbassò gli occhi e commentò: «Che scollatura notevole.»

Rimasi imbambolata a fissarlo, non del tutto certa che sarei stata capace di rimanere in piedi. il chiacchiericcio degli altri era talmente sommesso, come se provenisse da remote bocche incorporee.

«Che fai più tardi?»

La pressione allucinante nella testa l'avrei potuta alleviare o gridando, o piangendo. Ormai avevo perso di vista il mio tavolo e Angelica era sparita. Il suo tono divenne più aggressivo. «Ti hanno tagliato la lingua?», con un solo e brusco gesto mi prese il braccio e mi avvicinò a lui, i suoi pantaloni strusciarono contro il mio vestito. Mi lasciò il braccio e mi massaggiò la schiena, e contro quel petto soffocavo. Il mio stomaco si strinse e si rivoltò. Avvertivo dolore nel punto in cui mi aveva afferrata.

Gli vomitai addosso.

«Che troia, mi hai sporcato i pantaloni!»

Tutti intorno a noi ridevano, li sentivo: suoni ovattati e camuffati da versi di stupore. Angelica e le sue amiche ridevano, Elia non c’era, Filippo mi portò via, in un bagno angusto, con le locandine di spiagge sulle pareti. Mi toccò la mano e mi disse di sciacquarmi il viso. Il braccio mi faceva male.

Qualcuno tirò lo sciacquone.

«Cosa ti è successo?», chiese Filippo. Aveva un’aria triste e i suoi occhi azzurri si incrinarono come succede allo zucchero quando si ghiaccia.

Il rumore dell’acqua che scorreva dal rubinetto mi calmava. «Colpa mia, penso di aver bevuto troppo.»

I suoi occhi limpidi esitarono. «Vuoi che ce ne andiamo?»

«No, vado fuori a prendere una boccata d’aria.»



Note.
Grazie per aver letto fino a qui. Se la storia vi piace lasciate una recensione, mi farebbe davvero tanto piacere!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***




La luna era un grande occhio del cielo, che forava la notte. Il mare era disteso, come se fosse un prato immerso nell’ombra sinuosa di un bosco. Svaniva sotto lo sguardo inquieto del buio. Le barche riposavano e beccheggiavano alla luce dei lampioni. La sabbia emergeva cauta dalla riva, disperdendosi tra i sassi.

Mi appoggiai alla ringhiera. Tutto lo scompenso accumulato quella sera mi crollò addosso. Nonostante un sapore amaro in bocca, mi sentivo meglio: dopo aver vomitato, il mio stomaco si era ripulito. Era stato difficile convincere Filippo a tornare dentro e divertirsi, aveva l’insensata convinzione che fossi conciata un po’ male, il che mi aveva fatta sentire ridicola e demoralizzata e ancora più convinta a voler rimanere sola.

Il mio intento era impressionare la ragazza di Elia, ma, non solo non avevo ricevuto i fischi d’ammirazione sperati, avevo messo persino in imbarazzo mio fratello, completamente sparito dalla circolazione. Il mio solito atteggiamento sobrio avrebbe pagato di più, e, invece, mi era presa quell’improvvisa smania di dare una svolta catastrofica alla serata. Rovinavo sempre tutto.

Una figura scura avanzò verso di me, imperiosa. Mi scostai nervosamente e con gesti ripetuti i capelli dalla visuale, anche se non impedivano di fatto la visuale: Elia mi procurava spesso un bisogno spasmodico di muovermi. Era concentrato sulla chiazza argentata sulla mia spalla pastosa, effetto del riflesso dei lampioni. La sua camicia a righe scollata faceva intravedere le levigate mezzelune dei pettorali. La sua fronte liscia era sovrappopolata da chissà quali pensieri. I suoi occhi scuri e densi sembravano cercare nei miei qualcosa che gli permettesse di mettere in moto l’iter spiacevole di una ramanzina.

Elia, però, sorrise. «Ti sei liberata della tua guardia del corpo, vedo.» Non si era mai riferito a Filippo in quel modo, prima. L’osservazione non aveva nulla di provocatorio, anzi era stata posta in maniera spiritosa. Così spiritosa da risultare gretta, superficiale e irritante.

«Gli ho detto che volevo stare un po’ da sola», spiegai e lui aggrottò la fronte, scettico, perciò il resto fu un confluire inutile di accuse patetiche. «Filippo capisce ciò che mi serve, a differenza del resto del mondo.»

Filippo contro il resto del mondo: un po’ melodrammatico. Elia sembrò soppesare l’idea che il resto del mondo in realtà potesse essere lui, ma liquidò l’ipotesi con un sorriso equivoco. «Scommetto che dici così solo perché sei ubriaca.»

Il mare era cupo e compatto, sarebbe stato bello immergersi nell’ammaliante gravità dell’acqua calda e notturna. La schiuma divorava l’acqua, forse per sfuggire alle alghe sepolte, remote. La solitudine non apparteneva al mare, era altrove, forse nel cielo vuoto. Il mare aveva una voce roca, era fatto di sussulti e strappi. Accoglieva tutto, lo scrutava e poi lo respingeva. Nel cuore aveva il silenzio, aveva i segreti, aveva parole inghiottite. Il mare mi somigliava. «Perché ti sei allontanato dagli altri e sei venuto da me, Elia? Volevo stare sola.»

«Ero preoccupato, sei corsa via senza motivo. Non è da te. Che hai? Come ti senti? Vuoi andartene via?»

Strofinai forte la lingua sul palato asciutto e avvertii un pizzicore alle mucose del naso. Non aveva saputo della figuraccia, per fortuna, però l’improvviso interesse che Elia manifestò nei miei confronti, espresso in termini di ciò che desideravo e di come mi sentivo, mi fece venir voglia di piangere. Cercai di comporre la faccia in un neutro cipiglio di concentrazione, ma l’impressione che gli diedi non fu del tutto positiva. Si accostò a me, turbato. «Ti prego, parlami. Sto male quando mi tieni lontano da te così.»

Più ci pensavo, più lo sentivo: avrei voluto che mi avesse interpellata, prima di decidere di partire, e scoppiai a ridere, perché non ero del tutto priva di spirito. L’arroganza con la quale se n’era andato, e poi era tornato, la sua incapacità di ammettere di aver preso una decisione stupida, o anche solo innegabilmente affrettata, erano piuttosto comiche. Lui lo aveva capito. Doveva averlo capito per forza, che una parte di me era in collera con lui. Ma ero ancora abbastanza lucida da comprendere che se glielo avessi esplicitamente detto, per quanto compassionevole potesse essere il suo atteggiamento nei miei confronti, avremmo provato solo un terribile imbarazzo per una questione ormai andata. «Dov’eri quando sono uscita?»

«Ordinavo da bere al bancone…»

«Comunque, sto bene, non è successo niente.»

«Sicura?», questa volta il suo tono di voce era meno affabile, «Vuoi che ti riporto a casa? Guarda che non ho problemi.»

«E ad Angelica che cosa dirai?»

Era visibilmente sorpreso che glielo stessi chiedendo. «Sinceramente… Chissenefrega di Angelica. Quanto hai bevuto, Rachele?»

Mi resi conto di tremare dalla testa ai piedi. Non ricordavo quanti drink avessi bevuto, ma ricordavo l’umiliazione subita e avvertii il sangue salirmi fino alla faccia. Elia si sporse verso di me, anche lui paonazzo; le sue mani calde mi afferrarono la vita. Scivolai sotto la sua presa, quasi fino a svenire. Avevo gli arti doloranti. Mi prese in braccio e fu come ritrovarsi impigliati in una ragnatela di stelle. Fu tutto meno difficile.

Elia infilò le chiavi nel quadro e mise in moto la macchina, fece scorrere le mani sul volante come se stesse accarezzando il manto di una bestia feroce. I suoi occhi scrutavano veloci la strada. La notte incombeva su di noi come una cupola protettiva. Nell’abitacolo c’era un sensuale odore di dopobarba. Mi rinfrescai la fronte contro il finestrino. «Scusami, non sono abituata a bere.»

Elia esalò qualcosa, poi dissimulò con un colpo di tosse. Studiò la strada nella notte fitta e ingranò la marcia. «Questo lo vedo.»

«Ti ho fatto fare una brutta figura con la tua ragazza, Elia. Scusami.»

Guardò le mie ginocchia rosse e scoperte, meditando. Il suo viso era scarlatto e le ombre gli levigavano il volto cupo. Il suo silenzio mi stava trafiggendo. «Angelica non è la mia ragazza», alzò le sopracciglia, «E perché mai avresti dovuto farmi fare brutta figura, tu? Le hai fatto notare che ha un pessimo gusto in fatto di scarpe?»

Restammo muti per qualche minuto, e lui tamburellò sul volante, poi ci furono il ticchettio della freccia e gli scatti dei fari abbaglianti. Un ronzio acuto nelle orecchie mi impediva di pensare. «Non volevo, Elia, non volevo vomitare addosso a quel tipo, ma lui mi ha afferrata così forte da farmi male, e… Scusami se ti ho messo a disagio davanti a lei, non volevo.»

«Che ha fatto, scusa?»

«Mi ha…», ora il suo volto si fece livido e severo, si premeva una mano sulla fronte e mi fissava a scatti, in attesa che continuassi a parlare, ma rimasi immobile. Lo sguardo di Elia si incrinò e poi si svuotò, a trapelare fu soltanto una disturbante curiosità. Iniziò a girarmi la testa.

«Rachele, dimmi cosa è successo per favore. Di chi stai parlando?»

«Nulla. Era uno che mi ha palpato, ma è colpa mia, che ho bevuto troppo. Mi dispiace.»

Elia sterzò. Fui scaraventata contro lo sportello dell’auto e battei la testa contro il sedile, la cintura di sicurezza si tese. Fece retromarcia e poi continuò a guidare nel verso opposto. Stavamo tornando al locale. «Cosa stai facendo?», gridai.

«Sto andando a picchiarlo a sangue», accelerò, «Senti, non dirlo più che è colpa tua se uno fa il pezzo di merda, altrimenti tiro giù le madonne!»

«Elia, per favore, riportami a casa, non mi sento bene…»

«Certo che ti riporto a casa, ma prima vado a strangolarlo… Quella testa di cazzo.»

«No! Voglio andare a casa adesso!»

Serrò la mascella e indurì le labbra, ciò che disse non sembrava nemmeno provenire da lui, ma da qualche altoparlante dalla voce robotica. «Rachele, devi imparare a fidarti di me» L’espressione febbrile sul suo volto fu la rivelazione finale di una fragilità che in lui non avevo mai percepito così viva, come se fosse la destinazione ultima di ogni cosa, la fragilità, la debolezza, lo sgretolarsi in pezzi.

«Per una volta», lo supplicai, «Puoi tenere in considerazione quello che provo io?»

Frenò bruscamente e abbassò il finestrino dell’auto, l’aria entrò, in una folata di vento tonificante, satura del profumo balsamico della terra e dei fiori appena sbocciati. I fari si riflettevano sullo sguardo di animali selvatici che mandavano vispi bagliori e illuminavano la notte. I cumuli di terra giacevano teneri e nudi sul ciglio della strada, in prossimità delle erbacce. Elia batté un pugno sul volante. «Cristo!»

Era chino su sé stesso, le mani ancora serrate sul volante e lo sguardo in preda alla paura di rendersi ridicolo, o di agire in maniera stupida e sconsiderata, aggravando quella paura con quella di ammetterlo. Evitava scrupolosamente di guardarmi e io ero lì, ad aspettare che crollasse. «Elia, puoi calmarti un momento, per favore?»

Le sue labbra svogliate si mossero con umile lentezza, con dignità. «Mai stato più calmo di così, Rally.»

Nonostante la sua consueta e impareggiabile faccia da culo, aveva a cuore ciò che gli altri pensavano di lui, e in quanto sua sorella avevo il dovere di fargli notare che fosse ora di superare certi atteggiamenti. «A me pare che tu sia un po’ fuori di testa.»

Rise, in modo un po’ goffo, colmo di un’ironia che non riuscii a decifrare, inclinò le labbra e gli spuntò una tenera fossetta sulla guancia. Mi guardò. Si sporse verso di me. Il suo sorriso era affettuoso e solidale, come un docile rimprovero. «Dici?»

Aveva la misteriosa abilità di rendermi condiscendente, o perlomeno ingenua e sentimentale, era capace di distruggere ogni mia certezza. Non ero più sicura di essere io quella che aveva il controllo. Non ero più sicura di aver capito cosa stesse accadendo. «Sì», dissi, più per testardaggine che per reale convinzione, «Devi darti una regolata.»

Rise, e nonostante fosse un suono roco appena udibile, fu eccessivo per quella circostanza, quasi sprezzante. Il suo respiro sulle guance mi scaldò il viso. «D’accordo, dai, torniamocene a casa.»

Elia evitò per tutto il tragitto buche e solchi, viaggiammo spediti tra le stradine sconnesse dell’isola, io mi feci piccola, rannicchiata contro la portiera, voltata a osservare luci e ombre che si susseguivano lungo la strada. Le gomme dell’auto sterzarono sul vialetto di ghiaia. Un lampione che attirava farfalline notturne era l’unico faro in un cielo nero, un cielo la cui oscurità saliva e saliva in eterno, in mezzo a centinaia e migliaia di stelle.

Elia si diresse in cucina, versò dell’acqua in due bicchieri, con cautela, per evitare di svegliare la mamma, e me ne porse uno, con un sorriso tirato. Si appoggiò al mobiletto di panna, lo sguardo sfiduciato che aveva in macchina era scomparso. Sollevò le sopracciglia, un atto di tracotante mascolinità, un elogio a sé stesso, forse, e alla propria abilità di rimettersi in sesto in tempi sorprendentemente rapidi. Quel buco all’orecchio non ce l’aveva, quando era partito. «Se ti faccio una domanda», disse, «Puoi rispondermi con sincerità?»

«Tu falla e basta.»

Sul suo viso pensieroso si impose un sorriso scrupoloso e l’audacia con la quale pronunciò le prossime parole lo fecero arrossire, perché, nonostante ormai il mondo fosse diventato il suo campo di elezione, parlare con me, con sua sorella, era ancora una di quelle cose che sembravano metterlo a disagio. «Sei arrabbiata con me?»

La risposta a quella domanda era uno sdegnoso e seccato sì. O almeno, avrebbe dovuto esserlo. L’onestà con la quale si era espresso, però, mi fece sussultare. Quel modo sincero di porsi, quasi violento, con quello sguardo che voleva entrarmi fin dentro la testa, mi aveva appena messa in una situazione imperdonabilmente scomoda, il genere di situazione che, a pensarci bene, sembrava divertirlo parecchio.

Non dissi nulla.

«Lele…»

«Non è come pensi.»

«Allora spiegami com’è», disse e si avvicinò a me, le sue labbra sospese sopra la mia fronte, «Per favore, gabbianella

Mi venne in mente il porto, il giorno in cui la sua barca aveva attraccato, scintillante, nelle nuvole così dense e bianche da sembrare schiuma. Quel timone lucente. Il sole era tornato con lui, così bruciante e doloroso, così apocalittico. Quando Elia se n’era andato aveva portato via con sé ogni cosa, era stato come vivere in un posto di tenebre e nulla, poi il nulla si era solidificato, era diventato un nocciolo duro di entità analizzabili che avevano la stessa origine nel dolore. Le cose in cui credevo erano molto più precarie di quanto avessi mai immaginato.

«Sono stata male», ammisi, «Quando te ne sei andato, sono stata male. Insomma, ero in pensiero per i soliti motivi. Non sapere dov’eri o con chi, cose così. Avresti anche potuto rispondere a qualche mio messaggio, avresti potuto nominarmi nelle tue cartoline del cavolo, ma non l’hai fatto.»

Il ritmo dei suoi respiri si fece irregolare. Posò la mano calda sul mio fianco e in quel momento realizzai che l’istinto di piangere sarei riuscita a controllarlo solo rimanendo in silenzio. «Mi dispiace molto», disse, «Non sono andato via per farti stare male, credimi. Pensavo che l’avresti sopportato, visto che c’era Filippo qui con te.»

«Perché te ne sei andato? Qual è la ragione?» Mi prese in braccio, mi strappò da terra con la stessa delicatezza con la quale si raccoglie un fiore e mi aggrappai al suo petto, alla sua camicia a righe, stordita, e allora lo vidi uomo, non più il ragazzino diciottenne che era scappato di casa, con le tasche bucate e un sorriso da pezzente; vidi l’uomo che stava diventando: l’aria da arrogantello era scomparsa, ora scoppiava di salute e carisma. «Vieni con me», disse dirigendosi nella sua stanza e mi baciò la testa, «devo dirti una cosa.»

Cascammo sul letto e la sua mano si attorcigliò delicatamente attorno al mio polso. Più cresceva, più la somiglianza con nostro padre si faceva impressionante: aveva gli stessi occhi, la stessa scucchia e la stessa stazza ingombrante, lo stesso coraggio, la stessa ossessione per il mare. Abbracciai il morbido cuscino di piume. «Tu me lo ricordi così tanto», dissi, «Ti manca, a volte?»

L’ombra di soddisfazione agli angoli della bocca svanì. «Certo, però era inevitabile che andasse a finire così. Non si possono addomesticare i lupi di mare come lui.»

Scomparso nel Mediterraneo, disperso, morto, perduto per sempre, non c’era niente da fare. «Lupi di mare come lui, ma anche come te. Cosa pensi gli sia accaduto?»

«Non lo so. Aveva a che fare con la gente più feroce a cui dio avesse concesso di navigare i mari, così raccontava lui. Il problema è che raccontava tante cazzate.»

Elia e papà avevano un rapporto conflittuale, si capivano il tempo necessario per fumare un sigaro. Mio fratello non approvava quella sua smania di portare alla luce ciò che giaceva nei fondali tenebrosi dell’oceano. Ogni cosa, secondo Elia, apparteneva a un luogo ed era da ignobili causare squilibri nell’universo. «Ricordi quello che il vecchio diceva sempre?»

Elia tentò. «Il mare è come una madre: da lei nasci, e se da lei non scappi, muori?»

«No, non questa. L’altra.»

Si illuminò. «Ricordati di volare sempre più in alto…»

«Io sarò con te, quando ci riuscirai», conclusi.

«Vuoi sapere ciò che penso su papà?», mi lasciò il polso e seguì le cuciture del mio vestito con il polpastrello, i suoi occhi cupi erano concentrati sulla stoffa azzurro sbiadito, «Che gli piaceva raccontare le storie, tutto qui.»

«Dicevo sul serio, prima», gli ricordai, «Perché sei scappato da noi?»

«Qui cominciava ad andarmi tutto stretto, i posti, le persone…», sorrise rammaricato, «Non sono mica Filippo, io. Sono un ragazzo incasinato. Non ho una gran vita, oltre la barca. Faccio tante cose ma non costruirei la mia vita attorno a nessuna di queste. Però evitare obiettivi specifici mi ha permesso anche di non avere limitazioni», ridacchiò, «Ho fatto della libertà la mia fedelissima amante.»

Le confuse, sfilacciate ed eccitanti sfumature del suo carattere, quello stesso carattere che l’aveva indotto a starsene sdraiato e trasognato lì sul letto con me in quel momento, e in un futuro chissà dove, all’improvviso si cristallizzarono in un insieme solido e attraente. Presto, se ne sarebbe andato via di nuovo. Se avessi avuto la forza per sperarlo, se non avessi sentito ogni giorno l’estenuante sofferenza che quel pensiero mi procurava, gli avrei detto di continuare a viaggiare, di non fermarsi, di non affaticarsi per tutta la vita sulla storia della nostra famiglia. C’erano ancora troppi bei tramonti da godersi, non c’era tempo per rimanere fermi, per farci invadere dalla stessa flemma che aveva invaso nostra madre. «Hai intenzione di restare, oppure…?»

Qualcosa lo scosse, forse il senso di colpa, o la presa di coscienza che non eravamo più bambini. Non eravamo più quei bambini che si rincorrevano nei vigneti, nei vecchi casali abbandonati, che il pomeriggio scappavano al maneggio, che correvano nelle forteste; adesso quelle foreste andate bruciate le guardavamo, con la consapevolezza di non aver imparato a fare niente, se non a piangere e aspettare, con la consapevolezza che era troppo tardi anche per i ricordi. Elia, in quel momento, era perso. «Non me ne vado, se non vuoi.»

«Me lo prometti?»

«Sì», disse e mi sfiorò la guancia con il pollice, «Mi sento responsabile di tutto quello che ti accade, e mi sento anche una merda, per stasera. Scommetto che non ho una buona influenza, su te e Filippo.»

«Non ha senso, questo. Tu sei la parte migliore della nostra famiglia, la nostra colonna. Non pensarla mai, una cosa del gnere.»

Mi prese il volto tra le mani e mi guardò per qualche istante, mi sfiorò il sopracciglio per una brevissima frazione di secondo, come se scottasse, poi mi portò al suo petto e mi abbracciò. Provai un malessere irrequieto, esausto, che somigliava a un bisogno feroce di stargli vicino. «Cazzo, Rachele, non merito che mi vuoi bene così.»

«Non sparire più, Elia, ti prego.»

«Te lo giuro, non me ne vado da qui senza di te.»

Un rumore improvviso, le chiavi dentro la toppa della serratura erano scattanti e impazienti. Elia si irrigidì, si voltò a fissare la porta chiusa della stanza e mi coprì i capelli con le mani, come nel tentativo di nascondermi sotto di sé. Non servì a rendermi invisibile quando Filippo spalancò la porta della stanza con una foga, con una pudica sorpresa, che in un primo momento sembrò portarlo allo sbaraglio. «Rachele?» esclamò, «Che ci fai qui?»

Elia si alzò e si avvicinò a nostro fratello, ma Filippo continuava a fissarmi: un misto di sensi di colpa e nausea si impossessò di me. Da quando Elia se n’era andato, vigeva una tacita regola, che nessuno aveva mai avuto il coraggio di pronunciare, ma che era chiara a tutti: il confine delle camere non bisognava oltrepassarlo mai.

«Dai su, esci dalla mia stanza» disse Elia con voce roca e stanca indicando il buio del corridoio. Gli occhi freddi di Filippo erano puntati su di me e sul mio vestito stropicciato. Il suo viso assumeva a mano a mano un’espressione di crescente e ironico disgusto.

«Filippo», lo richiamò Elia, «Esci da questa stanza, subito»

Mio fratello aveva un’espressione acuta e sorda, spaventosa. «Glielo hai detto? Per questo è qui?»

«Esci immediatamente» disse Elia e, nello sforzo di rimanere calmo, il suo tono di voce assunse un risvolto autoritario e paternalistico, «Non lo ripeterò un’altra volta, e vai a dormire»

«Dimmi solo se glielo hai detto oppure no.»

Elia e Filippo erano uno di fronte all’altro, entrambi visibilmente umiliati, incapaci di mettere fine a quel teatrino, da cui mi stavano tagliando fuori, senza porsi il benché minimo problema. «Dirmi che cosa?» chiesi.

Elia alzò le spalle e folgorò Filippo: «Ti ha appena risposto. Ora vattene.»

Filippo rimaneva immobile, un pezzo di legno sul ciglio della porta, i capelli luminosi e biondi ora erano incrostati dal sudore, gli occhi scavati e profondi come due tunnel. Volevo strillare, fare una scenata, piangere. Solo così mi avrebbero ascoltata, considerata. Si ricordavano di me solo quando era troppo tardi. Elia gli si avvicinò di più. «Senti, qual è il tuo problema? Pensi davvero che le farei qualcosa di male?»

«Vuoi davvero sapere ciò che penso?»

«Sì, sarebbe proprio il caso», sottolineò Elia, «visto che apri la mia stanza come se niente fosse, senza rispetto.»

«Ah, io non ho rispetto? Io? Sul serio, Elia?», sbuffò indignato, posò gli occhi su di me e mi indicò, «Dovresti lasciarla in pace, da quando sei tornato Rachele non è più una ragazza, è un mucchio di stracci di cui tu, suo fratello, ne disponi come ti pare e piace. Da quando sei tornato, è triste.»

Crollò vertiginosamente il silenzio. Filippo ci provava da sempre a capirmi, e alle volte ci andava davvero vicino. Quella volta, però, non sapeva proprio di cosa stesse parlando. Non era Elia, ero io: da tutta la vita ero triste. Mi alzai dal letto e mi assicurai di colpire entrambi con una spallata di protesta e disapprovazione. «Grazie a tutti e due», dissi prima di lasciare la stanza, «Per parlare di me come se io non fossi presente.»


Note.
Grazie per essere arrivati fino a qui. Grazie a chi ha aggiunto la storia tra le preferite\seguite. Questo è uno dei capitoli che preferisco, ci terrei tanto a sapere cosa ne pensate!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


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La luce splendente del primo mattino, la barca, il cielo di latte, e una radio che trasmetteva dolci canzoni americane erano tutti elementi di uno strascicante risveglio: forse stavo ancora sognando.

Sul ponte c’era uno zaino militare aperto, da cui sbucava un binocolo, e sopra, appoggiate malamente, un paio di Vans Old Skool logore, numero quarantacinque.

Elia mi aveva salvata da un incubo come si tira fuori dall’acqua un naufrago, nel bagliore rosato dell’alba; la prima cosa che avevo visto erano i chiarori che entravano a fiotti dalla finestra, la federa lillà del cuscino corpulento, il paralume impolverato, poi il suo sorriso sghembo: «Ti porto a pescare, dormigliona.»

Nostra madre ci aveva chiesto dove stessimo andando. «Al porto», aveva detto Elia, e mi aveva fatto scudo con il suo corpo. Mi ero sentita gracile e nuda, avevo indosso abiti di cui in un’altra circostanza lei avrebbe riso. Avevo guardato il salotto, alle spalle della figura sconsolata di mia madre. Sedie imbottite, uno scrittoio antico, una lampada a stelo, mobili raffazzonati, disposti arbitrariamente come in una vendita ad asta. Un posacenere strabordante di sigarette sul tavolo: Filippo, forse, aveva passato l’intera notte sveglio a fumare.

«Che ci andate a fare?», mamma non si muoveva.

«A pescare», aveva detto Elia, «Che ti importa?»

Nessuna risposta, solo una rapida occhiata nella mia direzione, un’impercettibile alzata di spalle, che avrei ricordato per sempre. «Prima o poi, voi figli mi farete dannare.»

Non si riferiva a me mia madre, era come se mi avesse già perso, era come se non mi avesse mai avuta, una figlia invisibile, mai esistita, una profuga in una terra febbricitante. Lei parlava ai suoi figli, ai maschi, di cui temeva la perdita, l’abbandono, e ne parlava con gli occhi spiritati nel cranio, con la persecuzione di una madre sofferente.

Mia madre, Sandra, portava le calze anche d’estate, anche con l’afa, con il caldo umido che scrostava l’intonaco delle case, sotto vestiti deformi e scuri, rammendati, casti, deterrenti contro gli scandali. Non buttava via mai niente. Nemmeno le scarpe scalcinate. Ogni cosa presente in quella casa, persino le crepe dovute alle infiltrazioni, diceva, se l’era guadagnate con sacrificio. Cosa ne sapete voi dei sacrifici che compie una madre. Il suo viso era tirato dal dolore, il suo viso era ceduto prima del tempo, crollato senza preavviso, tutto insieme, ma lei non se ne era accorta.

Suo figlio. Elia. Una faccia da schiaffi, un sorriso arrogante, bello, con un cerchietto d’oro all’orecchio sinistro da zingaro, un me ne frego gigantesco scolpito in viso: quella vita che gli scorreva dentro la sbatteva in faccia a chiunque osasse guardarlo.

Elia.

Dalla sua fronte ramata piovevano ciuffi dritti e scuri, i tratti del viso affilati, congestionati, gli occhi che sondavano il mare come se vi leggesse qualcosa. Io non vedevo altro che un gran deserto, un’immensa tela di diverse gradazioni di azzurro estesa all’infinito, acqua che scorreva sorda come il sangue nelle vene, un luogo da sorvolare come i gabbiani che nitrivano e si levavano a raffiche nel vento.

Eravamo sulla Rally Roger da più di due ore e non avevamo pescato nulla.

Un cappello di feltro color panna con un nastro nero, morbido, mi copriva e nell’ombra scrutavo mio fratello. Elia indossava una camicia di cotone bianca, slacciata, e arrotolata sulle maniche. Se ne stava seduto sul ciglio della barca, inerte, come una lucertola su un cornicione arroventato. La moneta centenaria che portava al petto brillò. La sua voce era roca, vellutata. «Ti stai annoiando?»

«No, ma a dire la verità non capisco cosa ci trovi di bello nella pesca. Voglio dire, mentre te ne stai qui seduto ad aspettare, non succede niente di eccezionale»

La luce stava diventando sempre più calda, tagliente e inclinata.

Alzò vagamente le sopracciglia, oppure aggrottò la fronte. «Sei seria?», scrollai le spalle e per fare qualcosa mi aggiustai il vestito blu, lui continuò, «Prima cosa: ci stiamo muovendo a millesettecento chilometri all’ora attorno all’asse terrestre, e nel frattempo in cui ce ne stiamo qui a battere la fiacca, come dici tu, l’universo si sta espandendo a settanta chilometri al secondo. Questo lo chiami niente di eccezionale, eh?»

«In questi termini, allora, anche guardare il soffitto potrebbe essere paragonato a un evento straordinario…»

«Seconda cosa, parli in questo modo perché non sei mai stata su un peschereccio thailandese.»

Thailandia: immaginavo lo spasso, dai bar bordello alle massaggiatrici speciali. «Tu sì?»

Sorrise, un po’ compiaciuto un po’ modesto, sul fondo di un’espressione lugubre. «Sì, di tanto in tanto mi imbarcavo su navi o pescherecci locali. Pagavo i capitani per farmi imbarcare, volevo scattare foto e vivere in mare realtà diverse, volevo fare esperienza. A più di cento chilometri dalla costa thailandese, una trentina di ragazzi cambogiani lavoravano scalzi fino a notte fonda. I cavalloni erano altri quattro metri e mezzo, almeno, e ci sferzavano i polpacci. Schizzi d’acqua e interiora di pesce rendevano il pavimento scivoloso come una pista di pattinaggio. Sul ponte trovavi di tutto, ma più di ogni altra cosa attrezzi pericolosi come i verricelli rotanti che mozzavano le dita ai marinai. Non importa che tempo faceva, poteva venire giù anche pioggia di sabbia, si lavorava tra le diciotto alle venti ore al giorno. Si lavorava sempre. Di notte, l’equipaggio gettava le reti perché i piccoli pesci argentati, di solito aringhe o sgombri, diventavano più riflettenti e quindi facili da pescare nelle acque scure. Di giorno, i marinai separavano il pescato, oppure riparavano le reti lacerate. Si lavorava anche con quaranta gradi, senza sosta e l’acqua potabile veniva razionata. Quasi tutti i ripiani brulicavano di scarafaggi e per andare al cesso non ti dico. C’era anche un cane spelacchiato di bordo, lo avevo chiamato Tobia, che alzava a stento la testa quando i ratti mangiavano dalla sua ciotola. I ratti scorrazzavano liberi come scoiattoli di campagna. I ragazzi cambogiani mi hanno insegnato come si cuce una ferita, anche se a bordo non me ne sono mai procurata nessuna. Loro invece avevano le mani distrutte», si guardò le sue, come a misurarne la grandezza in proporzione al mare, «Non si asciugavano mai del tutto, quindi avevano ferite aperte, squarciate dalle scaglie dei pesci e dalla frizione delle reti, se andava bene. Se andava male, come ho detto, dita mozzate. Ovviamente, niente antibiotici a bordo, solo droga. Alcuni venivano picchiati, spesso per stupidaggini, per impazienza. Erano praticamente degli schiavi. Ho conosciuto per la prima volta la disumanità del mare.»

Questi particolari sul suo viaggio non li aveva mai raccontati in presenza di Filippo, era la prima volta che ne parlava, e lo stava dicendo a me. Altro che spiagge dorate e tramonti bellissimi, il suo viaggio non era stato solo un sogno come voleva far credere. Ne fui lusingata che me ne avesse parlato. «Ma perché allora si imbarcavano?»

«Molti di loro non sapevano neanche nuotare, e non parlavano la lingua dei capitani. Venivano dall’entroterra, senza la minima idea di che cosa significasse andare per mare a quelle condizioni. Erano costretti per via dei debiti da pagare. Non si va in mare, da quelle parti, se non è l’ultima scelta che rimane.»

«Il mare non era come te l’aspettavi, non è vero?»

Sorrise, come sopraffatto da una gradevole desolazione, da una sofferenza che aveva soffocato e che stava riaffiorando all’improvviso, insensata e indecifrabile. «No, in effetti, no. Anche se può apparire sterminato e onnipotente, è anche fragile. Papà lo sapeva bene, questo, essendo un ladro di relitti.»

La domanda mi uscì spontanea. «E tu cosa sei?»

Sembrò ridere di sé stesso. «Un figlio di puttana.»

Non abitare da nessuna parte, non avere una casa per anni, vivere da nomade: non riuscivo a immaginare cosa poteva aver provato, benché gli invidiassi l’audacia. Glielo avevo chiesto, ma nel profondo lo sapevo già. Lui era un marinaio, perché anche nella calma e nel silenzio, con i tratti del volto immobili e le narici appena dilatate, analizzava il mare ed era come se gridasse: un grido potente che non si disperdeva nel vento e nelle onde, ma sovrastava i fischi e i lamenti del mare, un grido da re.

«Qual è stato l’aspetto più bello che ricordi del tuo viaggio?»

«Il silenzio», disse, «perché era così pieno di cose, non ci sono vuoti quando sei solo sulla barca, esisti e basta»

«E cosa facevi per passare il tempo?»

«Pensavo. Oppure, leggevo. Non ci crederai, ma ho letto tanti romanzi, e soprattutto poesie», si schiarì la gola, «poi però ho iniziato a frequentare i porti, i locali, le ragazze. Tante ragazze.»

Non era cambiato. Mio fratello aveva sempre letto, passava spesso interi pomeriggi stravaccato sul divano a sfogliare pigramente qualche libro preso in prestito dalla biblioteca, dandosi l’aria dell’intellettuale: a Elia piaceva leggere, perché una discussione approfondita su Freud gli garantiva non poche conquiste, ma le ragazze con cui se ne andava a zonzo erano tutte uguali, sembravano fatte con lo stampino. Alte, slanciate, sportive, con lo sguardo omicida. L’adolescenza, quel periodo tristemente noto per un accumulo sconveniente di sbronze, erudizione e indisciplina, castigava all’imbecillità un po’ tutti ma Elia era sempre stato il bersaglio perfetto.

«Non guarirai mai, vero?»

«Dall’amore per le donne?», ridacchiò, «Non è così grave, si può curare. Sai invece cos’è che non si può curare?»

Scossi la testa, in direzione della costa frastagliata, della vegetazione verde scuro che incombeva su di noi.

«Il male di nostra madre», disse, «Quello non si può curare.»

Sollevai la testa e lasciai che il sole mi pizzicasse gli occhi. Il mare bagnava il cielo all’orizzonte. «Lo so.»

Forse era una malattia, o forse era un grande scoraggiamento nei confronti della stessa vita, un abbattimento contaminato dalle circostanze, che a volte era incontenibile, le infiammava gli occhi e i gesti, alle volte era più celato, più subdolo, e la ammazzava. La incatenava al buio, nel letto, tra il groviglio di coperte che sfuggivano al materasso, intorno a lei solo aridità. Non faceva avvicinare nessuno, in quelle occasioni, l’unico che poteva permetterselo era Elia, perché lei lo aveva sempre amato follemente, da ammazzarsi.

«L’importante è che lo sai», disse Elia e mi sbirciò da sotto le sopracciglia, «Non voglio che tu ci rimanga male, perché lei non cambierà.»

«Filippo dice che è ancora in lutto per papà, e che prima o poi le passa.»

«Scusa se te lo dico», però non sembrava affatto dispiaciuto che il discorso fosse uscito fuori, «Ma Filippo ne dice di stronzate.»

«Anche ieri sera? Voglio dire, cos’è che dovrei sapere, Elia?»

Si alzò e raggiunse il timone. «Oggi, mia piccola gabbianella, sei fortunata, perché ti porto a Cavoli. Basta pescare.»

La spiaggia di Cavoli era un piccolo golfo isolato dal mondo, circondato da scogli, e l’acqua era di un verde smeraldo. Lì vicino c’era la Grotta Azzurra: acqua gelata e sussurri che si propagavano inesorabili come boati.

A meno di un chilometro da noi, viaggiava uno Yacht. Estrassi il binocolo dallo zaino militare e misi a fuoco: persone con le Lacoste e gli occhiali da sole arrostivano la brace, volute di fumo si disperdevano nell’aria. Un ragazzo biondo era lontano, appoggiato al parapetto. Guardava il mare asettico, composto, ma riconobbi un certo tipo di disorientamento nel suo sguardo che era anche mio. Due iridi verdi, un casale di campagna annegato nel sole e tra il giallo dei girasoli, dipinte con pennellate di rigidità e mistero. Un paio di labbra tumide e rosse, un fiume in piena, limaccioso. Difficile dire se stesse sorridendo: gli angoli della bocca erano offuscati. Era il ragazzo biondino del Garden Beach.

«Elia», dissi, «La faresti una cosa impossibile per me?»

«Lele, niente è impossibile, se sei tu a chiedermelo», aspettò e aggiunse, «Cosa vuoi che faccia?»

«Raggiungere quello yacht, ho in mente qualcosa che ti piacerà di sicuro.»

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Capitolo 7
*** Capitolo Sei ***


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But now the day bleeds
Into nightfall
And you're not here
To get me thorough it all



Lo Yacht era così bianco che sembrava lavato in un bagno di candeggina; ad eccezione per le balaustre, fatte di ottimo legno.

I camerieri indossavano divise bianche inamidate e fruscianti, distribuivano cocktail alla frutta, di quelli che avevo visto solo nelle cartoline tropicali che ci aveva mandato Elia, e riservavano occhiate zuccherose alle donne sdraiate sui lettini.

L’odore della salsedine era coperto da quello dell’olio abbronzante, spalmato su tonnellate di carne umana bollente.

Sul ponte c’erano almeno una trentina di modelli di ciabatte infradito, una ventina di marche diverse di macchinette fotografiche, qualche faccia verde da mal di mare, più una dose di turismo frenetico che Elia non esitò a definire come fusione di servilismo e condiscendenza propagandata attraverso la forma più disgustosa di divertimento: la crociera.

Perché odiasse tante le crociere non lo avevo capito, presumevo che fosse per quell’esperienza a Dubai. O forse per semplice ideologia.

Uomini panciuti dalla carnagione smorta indossavano occhiali da sole a specchio e sul petto si inerpicavano peli ricci e rossi: sembrava che avessero la dermatite. Ammiravano le frotte di pesciolini luccicanti che si ammassavano sulla fiancata della nostra barca a vela, ancorata accanto allo Yacht. Elia era il più sudato e trasandato, un pesce fuor d’acqua.

L’inseguimento allo Yacht che batteva bandiera olandese era andato più o meno così: Elia che virava, Elia che con il suo spirito avventuroso e brillante raggiungeva la nave, Elia che con un fischio aveva richiamato l’intero equipaggio a bordo, poi il ragazzo biondo aveva ordinato di fermare la nave. Ci aveva accolti sul ponte e ora mi scrutava inquisitorio. «C’è qualcosa che desiderate?», disse con sincera curiosità.

Elia richiamò la sua attenzione con una risata fuori luogo, come un attacco di euforia, al che il ragazzo si fece venire qualche complesso. «Ti faccio ridere?»

«Ho insistito io per farvi inseguire», dissi, «Volevo complimentarmi personalmente per la nave. È magnifica.»

Un uomo oltre la mezz’età, che aveva tutta l’aria di essere un membro dello staff, se non addirittura il principale, si precipitò sul ponte. Aveva le vene varicose e un trapianto di capelli mal riuscito. «Edoardo, perché ci siamo fermati?», si voltò a guardarci, «Chi sono, questi due? Li conosci?»

La voce del ragazzo raggiunse picchi di liricità in grado di crearmi uno scompenso. «Siamo a Cavoli, papà, godiamoci questo bel mare», allargò le braccia e poi le lasciò cadere di colpo, «Non era ciò che volevi? Dì a Dorine di preparare un tavolo nella saletta, voglio far assaggiare il nostro caviale ai miei amici.»

Suo padre ci analizzò, gli occhi scossi dal vuoto sonoro che aveva accompagnato l’emissione della parola “amici”, e si ricordò che avevamo degli spettatori. Gesticolò ossequioso nella direzione dei passeggeri e con il massimo tatto li invitò a farsi un bagno corroborante, rassicurandoli che non c’era niente di cui preoccuparsi e che eravamo amici.

Edoardo, il ragazzo che per tutta la sera avevo ammirato da lontano al Garden Beach adesso era proprio qui, di fronte a me. Il corpo così chiaro, già scottato e spellato, era di una morbidezza tipica di certi frutti, e sembrava convalescente, appena uscito da una malattia, ma non era molle, era delicato e maschile. Nel suo volto si impose un sorriso intrattabile, forzato: le fattezze del viso che un attimo prima sembravano dipinte da un’artista di bambole russe si fecero d’un tratto ombrose. «Entriamo, venite dentro, qui fuori sotto al sole non si può più stare», si infilò una camicia ci fece segno di seguirlo all’interno.

La tovaglia era immacolata, al centro un vaso di fiori di porcellana, iris ed epilobi, le vetrate immense davano sul mare, chiazze di un blu profondo e verde smeraldo, un mare che abbagliava l’intera nave.

L’aria era di un azzurro che si poteva toccare con la mano.

Un set di posate d’argento. Tovaglioli di stoffa. Piatti di ceramica. Tutti elementi sufficienti a Elia per, in seguito, catalogarlo come ricco viziato del cazzo.

«Mi scuso per mio padre», disse Edoardo e spostò una sedia per farmi accomodare, «Ha un amore sconsiderato per gli ospiti che alloggiano sulla nave e delle volte con gli stranieri è scorbutico.» Si posizionò il tovagliolo sul grembo. «Fate spesso così? Inseguite spesso navi di lusso?»

Nessuno rispose. Il sole che entrava dalle vetrate era così forte che rendeva i colori acuminati. Elia era ancora in piedi, aveva un velo di sudore lucido sulla fronte un sorriso obliquo, il suo solito sorriso di posa, eloquente.

Edoardo cercava un modo per rompere il ghiaccio. «Se il mio italiano non è adeguato, correggetemi pure.»

Mio fratello prese posto. «Sarà fatto. Comunque, non ho visto scialuppe sul ponte, com'è?»

«Ci sono, ci sono. Ne abbiamo per tutti, ma non c'è da preoccuparsi. Questa nave è solida, l’ha costruita mio padre in persona. Resiste anche alle onde più grosse che le sbattono sul grugno, ma con i cavalloni cede anche lei. Le coppie lo adorano, pare non aspettino altro che stringersi e abbracciarsi, con la scusa che lo fanno per evitare di cascare.»

«Che chicca romantica», disse mio fratello.

Elia sembrava provare un terribile fastidio a livello spinale per quel ragazzo che, sempre in seguito, oltre a ricco viziato del cazzo, avrebbe definito sterilizzato fino al midollo. Ma al momento si lasciò persuadere dall’ottimo gusto che aveva per i vini: ci versò un bianco, un Cadillac.

Presi un pezzo di pane fresco e lo addentai. Non sembrava di stare su un pezzo di ferro che galleggiava sul mare. La barca di Elia non era così ferma. Quando mi era capitato di mangiare a bordo, la scodella della minestra scivolava da una parte all’altra del tavolo. Qui, fatta eccezione per una vaga sensazione di irrealtà mentre si camminava, tutto era stabile e stranamente rassicurante.

«Siete mai stati in crociera? Che ve ne pare?», il suo sguardo caramellato intercettò il mio e per un attimo dimenticai che per parlare era necessario respirare, così Elia mi anticipò.

«Il trionfo calvinista del capitale e dell’industria, ecco cosa sono le crociere. Ci ho lavorato per quasi un anno su una crociera per Dubai, extralusso, extra tutto», disse, «La cosa che ho odiato di più delle crociere è la finta cordialità a cui ti obbligano i boss.»

Una cameriera sulla mezz’età ci portò da mangiare: escargot, salmone affumicato dall’Alaska, omelette con quella che chiamarono salsa di tartufo etrusca, anatra, patate al forno e insalata con spicchi di arancia.

In Elia avevo sempre colto qualcosa di peculiare, qualcosa che in quel momento gli comparve chiara in faccia. Un’insofferenza che si avvicinava alla disperazione. Una disperazione misurata di cui ne possedeva tutta la coscienza e il peso. Una combinazione tra noia, desiderio di scappare e disprezzo, ma poteva anche essere soltanto noia.

Era intrattabile.

Edoardo sorrideva come se gli prudesse il naso. «Se lavori su una crociera, non te la godi affatto.»

Elia mangiava il salmone solo con la forchetta, senza neanche tagliarlo. «Sulla crociera in cui ho lavorato, un tizio in vacanza si è suicidato. Un ingegnere nucleare che si è gettato dalla prua. Sai qual è il problema? Da cliente, vieni sottoposto a una rassicurazione martellante sul fatto che ti stai divertendo, e questo ti fa venire una gran voglia di buttarti giù dalla nave.»

Edoardo rise, sebbene io ancora non trovassi la parte divertente del discorso. «Vero, sono d’accordo», mentre mangiava guardava fuori dalle vetrate, «Ho fatto tante crociere, mio padre è proprietario di un cantiere navale, ad Haarlem, perciò sono un privilegiato. Ma le odio. Soprattutto odio l’oceano. Non il mare. L’oceano. Abissi popolati da mostri terrificanti con terrificanti denti aguzzi che risalgono sulla superficie, pronti a sbranarti. E l’oceano stesso. Salato come l’inferno, come un collutorio scadente.»

«Mio fratello ha passato tre anni nell’oceano, è praticamente la sua casa ormai, vero, Elia?»

Edoardo rimase sospeso a guardarmi. «Tuo fratello?», poi rise; una risata allegra che Elia analizzò con una bizzarra assenza di tensione, «Scusatemi, è imbarazzante, lo ammetto, ma credevo che voi due foste… Foste, be’… Non fa niente. Che sciocco, scusatemi.»

Forse per stemperare la tensione o perché era solito comportarsi in modo incontenibilmente blasé, Edoardo fece decantare il vino nel calice, agitandolo con movimenti lenti e circolari. «E quindi sareste fratelli. Ve l’hanno già detto che non vi assomigliate affatto?»

«In continuazione», dissi brevemente.

«La conoscete San Piero?»

«Ci abitiamo», disse Elia.

«Alloggerò lì, le prossime notti.»

Elia non sorrideva più. Pareva facesse uno sforzo. Reprimeva una parte primitiva risvegliata all’improvviso. Uno sforzo così visibile che sembrava quasi stesse facendo un esercizio di meditazione. «Buono a sapersi.»

Edoardo parlò di Vienna e ci raccontò di un intero pomeriggio passato a contemplare l’Allegoria della Pittura di Vermeer, di quel tour estivo in Europa con i suoi amici che poi si era concluso in un soggiorno nel suo casale toscano immerso nel verde, annegato nel sole e nel giallo dei girasoli, e con una vigna, di quando una volta aveva rifiutato fumo autentico giamaicano da un autentico giamaicano.

Elia mangiava avidamente, strappava a morsi la carne tenerissima dell’anatra, le labbra umide di sugo, e un costante sorriso indulgente rivolto all’olandese. Arrivò il caviale e sia io che mio che mio fratello concordammo sul fatto che faceva schifo. Non so come, tornammo a parlare del mare, Edoardo ci raccontò del suo terrore oceanico.

«È qualcosa di misterioso, tutta quella densità oscura sospesa, penso di avere una sorta di terrore oceanico. Pensare a tutto quel vuoto che galleggia mi fa venire il male di esistere.»

Il vino bianco mi aveva fatta sprofondare in una parziale, sedata incoscienza: riuscivo a cogliere pochi elementi alla volta. Le spalle massicce e calanti di Edoardo. Le labbra graffianti e arcuate di Elia. «Però mi piace la riva, l’acqua limpida.»

«Vuoi dire quella brodaglia in cui fanno il bagno i poppanti», lo corresse Elia.

«Sì.»

Finii di mangiare, evitando che il tintinnio delle posate sul piatto attirasse su di me l’attenzione dei due ragazzi, che ora si stavano scrutando con un interesse meticoloso. Edoardo, etereo. Elia, sferzante e selvatico.

All’orizzonte, un gommone si muoveva verso lo Yacht subendo l’innalzarsi delle onde. Tre figure indistinte sbracciavano nella nostra direzione. Elia si alzò dal tavolo, fluido e scattante, ricambiò il saluto con dei fischi da skipper. Massimo agitava in aria le braccia, come se stesse ballando una sorta di danza del gabbiano. Poi riconobbi Filippo e Alice.

«Rally, torniamo alla base», disse Elia.

Edoardo rimaneva seduto a sorseggiare vino bianco, mi spiava dai suoi occhi color prato, sopra l’orlo gelido del bicchiere. La sua pelle profumava di miele, la respirai quando si alzò e mi salutò con dei baci sulle guance. «A presto, Rachele.»

Uscimmo dalla saletta, arrivammo sul ponte; Elia mi prese in braccio e mi scontrai contro il suo petto infuocato. «Reggiti forte a me, piccoletta.»

Ci tuffammo e lo stomaco mi risalì in gola. Chiusi gli occhi: nel buio inamovibile delle mie palpebre c’erano residui di luce arancione. Stavamo volando. Il torpore mi avvolse. L’acqua fredda mi bagnò, mi liberò da quel sole divorante, che mangiava tutto. Il mare riempì tutti i recessi del mio cuore. Spalancai gli occhi nel sale e vidi scie di schiuma bianca, le gambe di marmo di Elia, il costume a pantaloncino risalito fino all’inguine, per l’impatto con l’acqua, i suoi piedi che si agitavano nel blu profondo, il fondale roccioso, i pesci che nuotavano sinuosi. Sentii le sue mani sul mio corpo, sui miei fianchi, la sua pelle liscia, il suo petto ampio che si avvolgeva al mio, al riparo dalla realtà, i rumori erano improvvisamente cessati. Mi lasciò andare e risalii in superficie, i polmoni esausti. Respirai dall’altro lato del mondo e lui mi stava guardando oltre il vetro. Edoardo.

«Ehi, culi bagnati», disse Massimo sfilandosi gli occhiali da sole e mostrando un’espressione di voluttuosa comicità, «Che si dice?»

Salimmo sul gommone. Filippo mi arruffò i capelli e passò a me ed Elia dei teli. Alice era lucida di crema solare. Sulla fronte aveva una spruzzata di efelidi e il nasino a punta era cosparso di minuscole lentiggini; le sue guance, due cuscini di carne morbida, rendevano meno credibile la sua aria lugubre: aveva sempre un sorriso di riserva nascosto lì, in mezzo ai denti grandi.

Massimo ci invitò a sdraiarci e a prendere il sole. Elia raccontò ai nostri cugini e a Filippo l’avventura sullo Yacht.

«Elia si è comportato da maleducato», dissi.

«Ah, sì? Ieri sera serataccia con la tua ragazza?», commentò Massimo con aria abbattuta.

«Angelica? Non è la mia ragazza.»

Massimo scosse la testa, con saggia sfiducia. «Non tirare fuori la storia dell’amica adesso, ti prego, cugino. Se ieri la bimba ti ha invitato al Garden Beach significa che ci sta. Giusto, Filippo?»

Filippo si tirò su, sollevato sui gomiti, e gli assestò un’occhiataccia. «E io che ne so.»

Massimo si indignò. «Ma come sarebbe a dire che ne sai? Non eri tu quello che stamani a riva parlava con quella tipa dalle tette sovrabbondanti, o mi sbaglio?»

Le orecchie di Filippo presero fuoco.

«Massimo!», urlò Alice stizzita, «Sei il solito maschilista del cazzo.»

«Che c’è?», si difese Massimo e allargò le braccia con aria innocente, «Tette sovrabbondanti non è mica un giudizio estetico, soltanto una valutazione quantitativa.» Poi tornò giù, a farsi accecare dai raggi solari come il resto di noi. «Che magnifica estate, eh, ragazzi.»

Con un paio di occhi verdi caramellati incisi nella mente, non riuscii a fare a meno di pensare che quella fosse davvero una magnifica estate.


Note
Se state leggendo la storia, vi prego: lasciatemi una recensione! Mi farebbe tanto tanto piacere sapere se vi sta piacendo, oppure no!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

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Capitolo 8
*** Capitolo Sette ***


font-corsivi



Il boschetto di querce sopra di noi era invaso dagli insetti. La luce obliqua del pomeriggio rifletteva il biancore della ghiaia.

Sorseggiavo un succo di frutta alle more, in equilibrio sull’amaca e poggiate sul mio grembo c’erano le gambe di Filippo. Mio fratello aveva i palmi dietro la nuca, una spiga di grano incastrata tra le labbra e gli occhi incontenibili e azzurri. Dalla tasca gli penzolava la catenella della vecchia bussola di rame di nostro padre.

Davanti a me l’erba incolta, una siepe di rododendri, un sentiero selciato, il terriccio di ghiaia, le raffinate venature sui tronchi di quercia e un cespuglio di rose, piantato anni prima da Elia.

Il momento esatto in cui le sue mani robuste erano affondate nella terra lo ricordavo più come un sogno, appartenente a un’epoca vaga e profondamente tranquilla. Mani tenaci e forti, così sensibili che quando stringevano qualcosa se ne poteva quasi avvertire il tocco, così autoritarie che donavano un’aura di padronanza a tutti gli attrezzi di cui si serviva. Nelle sue mani c’era qualcosa di unico e splendido, penetrato nella profondità della carne, qualcosa che lo rendeva solido e compatto. Riusciva a far crescere qualunque tipo di pianta e lui fioriva insieme a loro.

In quel periodo, il sogno di Elia di viaggiare per il mondo su una nave mercantile aveva creato una disarmonia cronica tra lui e Filippo.

Elia era diventato presto un nomade. Come nostro padre, che se ne andava, riappariva e ci raccontava di tempeste devastanti, spedizioni sventurate, marinai naufragati e capitani pazzoidi. Il mare per loro era come un territorio vibrante e selvaggio, popolato da indomite canaglie. Ricordavo di una storia sussurrata quando noi tre figli eravamo sotto il dolce tepore delle coperte. Quella di una nave di morti che andava alla deriva con le vele nere stracciate e penzolanti. Scivolava nei gelidi fondali dell’oceano e noi nel sonno.

Mio fratello aveva inseguito le orme di nostro padre.

Quando tornava a casa dopo le sue piccole trasferte in Europa, il racconto dei tristi episodi accaduti durante i suoi viaggi veniva accolto da Filippo con uno scuotimento e dondolamento affranto della testa, e non ero affatto sicura se quel che provava era dolore per la tristezza della storia, oppure invidia perché si trattava di episodi ben più drammatici di quelli che poteva riferire lui.

Gli era sempre piaciuto a Elia tornare a casa, sostare la sera in terrazzo a conversare, tutti e tre, con l’odore dello zampirone, posaceneri traboccanti di sigarette e qualche liquore rubato dalla vecchia dispensa di nostro padre.

Si abbandonava sulla sedia, si portava alle labbra un calice di Merlot e mi riservava occhiate complici: gli occhi scuri sbocciavano dall'ombra dei suoi capelli castani e luccicavano come monete. Dopo una sorsata di vino, tra le labbra screpolate gli si formava un alone violaceo che inumidiva con la lingua e si perdeva a guardare le stelle. Se solo avesse potuto avrebbe navigato anche in mezzo a quelle.

Una volta Elia disse che attraversare le tempeste violente in mare era una forma brutale di claustrofobia, un po’ come essere intrappolati dentro una scatola che rotola. La vera claustrofobia io l’avevo provata quando era partito. L’unico momento della giornata in cui respiravo era quando mi sedevo sugli scogli da sola, di sera, avvolta in un sacco a pelo, nel vento invernale pieno di iodio. Il lento boato delle onde che si abbattevano ai miei piedi. Il sibilo effervescente dell’acqua che si spandeva sulla sabbia e si ritirava. E pensavo che forse oltre i flutti nebbiosi c’era davvero un ragazzo in mezzo a una tempesta; entrambi cercavamo di sopravvivere a solo a un mare di distanza, sul ciglio di un orizzonte nero, rinnegati dallo stesso sole.

Prima di partire Elia non aveva tutta quell’aria vissuta. Non aveva tutto quel mistero negli occhi. Il suo aspetto non era stato ancora stravolto dal disordine crescente dell’esistenza.

Oltre il verde lattiginoso delle chiome degli alberi, gli uccelli volteggiavano sopra di noi nel cielo terso. Il profumo d’erba e il caldo che risaliva dalle pietre erano abbracci cordiali.

Lo zio aveva la faccia incartapecorita, era a torso nudo, pozze di sudore negli incunei del torace, seduto di fronte a noi sul tavolo rotondo di pietra con una bandana azzurra sulla fronte. Beveva vino fatto in casa e fumava la pipa. La sua pelle bagnata, lucida e vagamente rossa ricordava la buccia di una susina raggrinzita. Il suo cane, Isidoro, un vecchio meticcio color panna, era spalmato sul terreno circondato da un piccolo sciame di moscerini. Era il cane più pigro del mondo.

Eravamo in giardino, sul retro del villino di nostro zio: aveva commissionato la schiaccia briaca a nostra madre e noi, da beneducati, gliel’avevamo portata di persona, per rimediarne una fetta.

«Allora, dimmi un po’ Rachele, cosa avete pescato tu ed Elia stamani?», domandò lo zio.

Il silenzio attorno a noi era assoluto: il canto degli uccelli si era disciolto nell’aria e il vento aveva smesso di soffiare, imponendo la presenza di un ancor più calda e soffocante aria ferma.

«Nulla, zio, abbiamo visto uno Yacht a un certo punto; Elia lo ha inseguito, così ci hanno fatti salire a bordo e abbiamo mangiato del caviale.»

«Con Elia non ci si annoia mai, vero?», gli occhi chiari e curiosi scintillarono, «Ma dov’è adesso, il ragazzo?»

«A dormire, suppongo», disse Filippo, «O forse con Angelica Giordani, la vipera

Lo zio aggrottò la fronte, tra il sospettoso e il divertito. Adesso Filippo si tastò i bermuda di tela, alla ricerca delle cartine e del tabacco. Avvertii il crescente e disperato bisogno di una sigaretta.

«Ha fatto ubriacare Rachele alla festa a Marina, di proposito. È una vipera egocentrica, zio, vuole tutte le attenzioni su di sé, e il problema sai qual è? Che Elia gliele da. Lui lo nega, ma so che si frequentano.»

Lo zio puntò gli occhi nella mia direzione, come per ricevere conferma ma io non ne sapevo niente. Erano anni che Elia mi teneva fuori dalle sue questioni. «Per quel che mi riguarda, Elia può fare ciò che vuole. Angelica non è così male, in fondo.»

Filippo serrò la mandibola e tirò un sospiro di bruta sopportazione. «No, infatti, non è così male per essere la figlia del demonio.»

Ci fu un acceso scambio di sguardi. Filippo si fece vedere sovrappensiero mentre fumava la sigaretta e lo zio sorrise con amabile stanchezza. A parlare di Elia si finiva sempre con un umiliante silenzio, con teste che si voltavano dalle parti opposte come vittime di un campo magnetico troppo intenso.

«Questa sera c’è la corsa in paese», disse lo zio, «Ci andrete?»

San Piero sorgeva su un ammasso di pietre dall’elevata sporgenza granitica e ogni anno, verso metà luglio, organizzavamo la corsa: una gara spericolata, la cui partenza si trovava accanto al tendone sozzo e sfilacciato del giornalaio, sulla cima di una strada ripidissima che portava alla spiaggia. L'arrivo era contrassegnato in prossimità di una piazza, tristemente nota come il parcheggio: non era un vero parcheggio ma i motorini dei ragazzi erano eternamente accatastati vicino alle rocce o ai pali della luce. Per scendere fino a laggiù non erano ammesse né macchine né moto, i partecipanti dovevano pilotare una sottospecie di Go-Kart, che da queste parti significa ammasso di ferro arrugginito privo di qualsiasi motore se non l’accumulo folle di energia cinetica.

«Andremo a dare un’occhiata, ci sarà parecchia gente», disse Filippo e mi passò una sigaretta.


Quella sera, la luna non era la solita pietra incastonata nel cielo ma piuttosto una tonda vescica purulenta sospesa nell’oscurità, in procinto di scoppiare. I forestieri erano accalcati in una fila disordinata al Bar Centrale, sotto gli ombrelloni della Sammontana. In piazza c’era un vago odore di pannocchie bruciate, mandorle e cioccolato fuso.

Massimo, Alice e Dumbo mangiavano un cono gelato su una panchina. «Quest’anno, finalmente, mi sono iscritto anch’io», disse Massimo, «Si vocifera che in palio ci sia un premio speciale, ma acqua in bocca.»

«Tu che partecipi alla corsa? Ma guardati, non sai nemmeno annodarti un paio di scarpe!», esclamò Alice e gli occhi di tutti caddero sulle sue converse nere i cui lacci erano infilati dentro i calzini alla rinfusa.

La strada era macchiata da pozze giallastre di luce proveniente dai lampioni. I Go-Kart erano schierati sulla linea di partenza, pronti per essere montati, i tecnici stavano controllando le gomme e i manubri.

Tom, il proprietario del Bar Centrale, uno scapolo appena sotto la mezz’età che l’anno precedente aveva organizzato un Amleto in versione rock all’aperto, in piazza, provava le casse e il microfono per la telecronaca di quella sera. Mi fece un occhiolino.

Ci conoscevamo da quando ero una nanetta, parole sue, e mi teneva in custodia mentre i miei fratelli scorrazzavano in branco con le biciclette. Filippo poggiò un braccio sulla mia spalla e lasciò penzolare in aria la sigaretta incastrata tra le dita. Qualcosa nel suo viso, tra la delicatezza della linea della sua mascella o tra le sopracciglia sottili e alte, esprimeva annichilimento.

Sentivo tutto il peso del suo corpo sul mio, era ceduto come una valanga, la pelle carne sotto gli zigomi correva ripida e incavata verso la bocca carnosa che ora era schiusa dallo stupore. Di fronte a noi, a pochi metri, si stagliava una vecchia casa dalla facciata di nudo cemento e dai balconi di ferro. Sui gradini fatiscenti era seduto un ragazzo, coperto dall’ombra di una notte che doveva ancora arrivare.
Elia.
La sua postura formale, gambe divaricate e capo lievemente inclinato all’indietro, era tradita da una sincerità disarmante del corpo che trionfava tumultuosa in tutti i vibranti, impercettibili movimenti. A partire dal sorriso. Una piena, umida, cedevole, sprofondata curvatura delle labbra che nel buio non somigliava affatto al solito ghigno irritante che indossava alla luce del sole. Ma era nitido, inciso nel viso in una piega calda che si propagava con una specie di timidezza che non gli avevo quasi mai visto.

Inossava una camicia bianca e una giacca di pelle lucida. I gomiti erano conficcati nelle cosce e aveva le mani incrociate.

«Allora, ti sei degnato di venire, eh!», esclamò Filippo.

Elia si alzò dai gradini con umile lentezza. «Non potevo perdermi la gara.»

«Parteciperai?», domandò Filippo quando si fu avvicinato.

«No, sono anni che non corro e sono diventato troppo grosso per quelle macchinette delle barbie.»

Massimo aveva teso l’orecchio nella direzione della concorrenza. «Meglio così, senza di te avrò la vittoria in tasca»

Elia assunse una smorfia divertita. «Ciò che dovresti avere in tasca è un santino di Padre Pio.»

Lui e Filippo si guardarono a lungo e con oculatezza, poi scoppiarono a ridere. Massimo li osservava come se gli avessero appena offerto un fazzoletto sporco. Filippo si finse dispiaciuto per la battuta di cattivo gusto. «Dai, su, stiamo scherzando, quest’anno tutti a fare il tifo per te.»

«Lo scorso anno non c’era la corsa», disse Dumbo, «l’avevano sospesa, vi ricordate? In compenso però hanno organizzato la pesca di paperelle di gomma, peccato che quest’anno non abbiano replicato.»

Dalle partenze si levò un fischio. Era Tom. «Ehi, Rachele! Vieni qui un momento, ho un favore da chiederti.» Sgusciai tra i miei fratelli e raggiunsi il barista, che aveva la fronte rossa dall’imbarazzo e non faceva altro che schiarirsi la gola.

Gli occhi dei miei fratelli erano puntati sulla mia schiena, li avvertivo perforanti come proiettili. «Senti, Rally…»

«Rachele», precisai.

Tom non mi guardava, maneggiava accucciato con i cavi. «Rachele, puoi farmi un favore gigante? Del tipo che ti sarò debitore per sempre?»

«Di che si tratta?»

«Mi servi agli arrivi. Sai, ho avuto un piccolo contrattempo con la precedente addetta al premio e…»

In un certo senso mi sentivo in debito con lui, se ripensavo a quanti pacchetti di patatine, negli anni, mi ero concessa di sottrargli. Sommati tutti insieme avrebbero pagato un paio di casse nuove, a sostituire quelle che adesso cercava di far funzionare, spaccandosi la schiena. «…Ma sì, qual è il problema…»

«…Il problema effettivamente c’è», collegò il microfono allo spinotto, si alzò e fissò un punto indefinito dietro di me, «Boia deh! Quello lì è il tu fratellone?»

Elia e Filippo si stavano scambiando il pugnetto. Elia aveva i denti conficcati nel labbro inferiore e la sagoma del mento era ancora più pronunciata del solito; sollevò lo sguardo verso di me con un'espressione di sfolgorante trionfo; le sopracciglia erano leggermente alzate come per suggerire sconforto, come per dire che non era colpa sua se non riusciva mai a dissimulare la propria, irrimediabile superiorità. Chissà cosa stavano tramando.

«È tornato da pochi giorni», spiegai. È tornato da pochi giorni e ha già cominciato con i guai.

«Comunque», fece Tom, «dicevo, il problema c’è.»

«Ma no, Tom, te lo sto dicendo, nessun problema, garantito.»

«Rally… Ehm, Rachele. Dovresti dare, ehm, il premio al vincitore di persona.»

«Sì, Tom, ho capito.»

«Il premio, ehm, non so se hai sentito ma, ehm, il premio sarebbe un bacio.»


*

Le stelle erano appese al cielo e la notte era liscia. Le colline imbrunite dietro i palazzi erano delle grosse, scure e immobili presenze fantasma. Ero impalata sulla sommità dell’isola dietro la linea di partenza dei Go-Kart, dal quale presto degli individui senza il minimo spirito di autoconservazione sarebbero scivolati giù dal mondo. Tom avrebbe dovuto fermarli, invece accese il microfono.

Gli avevo detto di sì. Gli avevo detto che avrei baciato il vincitore, allora i miei fratelli si iscrissero immediatamente alla corsa, per impedirmi di baciare effettivamente qualcuno.

Era stata un’idea di Elia.

Non riuscivo ancora a capire da quale punto di vista quella trovata mi disturbasse. «Geniale. Posso farti una domanda? Se vincerai la…»

La sua fossetta si accentuò. «Leva il “se”.»

«Quando vincerai la gara, non avrai nessun premio, perché non ti aspetterai mica che ti dia…»

«Il premio, sorellina, sarà la gloria eterna, grazie che ti preoccupi per me.»

«Sai che c’è? Il premio dovrebbe essere un funerale gratuito, dato che morirete tutti quanti in quella diavolo di corsa!»

A dar loro fastidio, comunque, erano stati i forestieri: Cosenza, incredibilmente soprannominato tale perché originario di Cosenza, dietro la lente spessa dei suoi occhiali, mi aveva elargito un'occhiata di spassosa magnificenza. «Il premio sei tu, allora, ho capito bene?»

Filippo gli aveva tirato il laccetto del casco e gli occhiali erano caduti per terra. «Il premio è un calcio sul sedere se non te ne vai.»

Un ragazzo dal braccio ingessato mi aveva spudoratamente guardato le tette. «Peccato io sia infortunato per partecipare.»

Elia aveva piegato le labbra in un sorriso intollerante. «Un’altra parola e ti spezzo anche l'altro braccio, e ti avverto: sarebbe davvero brutto alzarsi dal cesso senza potersi pulire.»

Filippo si era sbellicato, io mi ero finta indignata: era più saggio concedere ai miei fratelli il giusto tempo per elaborare, ed eventualmente superare, le loro evidenti crisi esistenziali. «“Cesso”, “cesso” … Ma come parli?»

Elia e Filippo seppellirono per un po’ il loro sorrisetto fastidioso sotto il casco integrale e fissai le loro schiene robuste. In quell'angoletto di silenzio i grilli frinivano.

Non avevo mai dato un bacio a qualcuno, le mie labbra non avevano mai sfiorato altre labbra, non avevo mai provato l’inverosimile soddisfazione del contatto con una pelle nuova, diversa, sconosciuta, non avevo mai sperimentato il sottile piacere di una bocca dolente d’amore.

Un ragazzo biondo corse flessuoso verso la linea di partenza: aveva un sorriso luminoso oltre la notte. Si scostò i capelli dorati dagli occhi e mi fissò con ostinata calma; correva con eterea eleganza e la sensuale disposizione dei suoi tratti aggraziati era sconvolgente. C'era qualcosa di nobile nelle sue labbra rosse e piene, nel profilo vellutato delle sue spalle larghe, nel modo in cui i ciuffi biondi gli sfioravano la nuca, nel modo in cui sbatteva le ciglia come se fossero ali di una fenice. Edoardo. Prese un casco e mi salutò da lontano. Un cenno solenne della testa e un sorriso accentuato.

Filippo disse qualcosa a Elia, tramite la visiera di plastica trasparente del casco, con aria competitiva. Le nocche delle loro mani, che stringevano barbaramente il volante, erano rosse e i muscoli del loro volto, delle loro spalle e delle loro gambe incastrate sopra i pedali erano tesi come quelli di un felino. Elia a malapena ci entrava in quel coso.

Alcune ragazze parlottavano e producevano risatine asmatiche, indicando mio fratello Elia. Le loro voci divennero cuscinetti di sottofondo che mi aiutarono a isolarmi. Edoardo avrebbe partecipato alla corsa, ma era statisticamente improbabile che vincesse. Elia era il più veloce, e neanche Filippo scherzava.

Tom mi pregò di arrivare alle partenze e lungo la discesa incrociai Alice. Aveva un’aria affranta, le guance rosse e i sandali scuciti. «Mio fratello è un babbeo. Mi ha fatta tornare di fretta a casa perché si era dimenticato il suo braccialetto portafortuna. Mi si sono anche aperte le scarpe! Se scende giù da quella discesa vivo lo picchio.»

Mi arrotolai la felpa in vita. Quando arrivammo al parcheggio l'aria si fece densa e umida, sulla pelle era morbida come il gelato. Sullo sfondo buio, roccioso e fremente era stagliato un piccolo campanile.

Angelica parlava con le sue amiche e le sue labbra spruzzavano veleno; Nicole e Alessia mi sorpresero nell’atto di sbirciarle e quegli sguardi erano così ostili che mi chiesi se fosse legale guardarle. Angelica si avvicinò con andatura ancheggiante. «La sorellina è tanto preoccupata?»

Avevo commesso un errore al Garden Beach: portando via da una festa uno come mio fratello Elia mi ero praticamente macchiata di un crimine vergognoso. «Sanno il fatto loro, se la caveranno.»

Angelica mise in mostra i suoi lunghi denti in un sorriso studiato, ma il suo viso era troppo teso per nascondere gli scrosci di insofferenza. «Che tenera, ecco perché piaci tanto a Elia. Sai, non fa che parlarmi di te quando siamo insieme.»

«Sì, be', noi siamo parecchio legati»

L’espressione di meraviglia che le deturpò la faccia fu come un lampo in una radura isolata, e il tremolio fioco di quella scossa di luce si trasformò in un brivido lungo la mia schiena. «Ah, ma davvero? E ti ha lasciata qui da sola per anni?»

«Ora è tornato, è questo ciò che conta, giusto?»

I suoi zigomi brillavano nel buio della sera e i suoi occhi verdi erano affilati come mai prima. «Sì, sono d’accordo, bisogna sempre cercare il lato positivo in ogni cosa, e poi con lui non è difficile: ha così tanti pregi, non so se mi spiego.»

Cercavo di mantenere un profilo basso. «Ti sei spiegata.»

«Ottimo. Allora, spero anche ti sia chiaro che io e tuo fratello stiamo insieme. Sarebbe davvero carino se evitassi di metterti in mezzo come l’altra sera. È davvero scortese da parte tua, sai, impedire a tuo fratello di passare del tempo con la sua ragazza in santa pace.»

Un lieve ronzio nella testa annullava pian piano le voci intorno. «Hai ragione. Scusa.»

La vidi sorridere e poi… Le grida. La gara era ufficialmente cominciata e il mio cuore iniziò a battere come un allarme antincendio. Il parcheggio divenne rumoroso come uno stadio affollato. La voce di Tom rimbombò nel buio, mi penetrò in testa in una raffica di colpi sonori.

«Che inizio sensazionale amici! Una partenza davvero da brividi...»

Angelica tirò fuori da una borsa con le frange il telefonino e lo puntò verso la ripida discesa.

«Sta iniziando la curva amici, i nostri piloti sono più agguerriti che mai»

«Attenzione! C'è uno scontro bello acceso tra due piloti! Sembra che Ferrazza stia prendendo di mira Ercolani...»

«Ercolani e Ferrazza sono entrambi spariti dietro la curva amici, mentre Massimo Raimondi è l'ultimo della fila. Forza amici non vi sento urlare abbastanza!»

Alice socchiuse gli occhi. «Ma quello non è Elia?»

Due Go-Kart scendevano in picchiata a una vertiginosa velocità e si strusciavano lungo la fiancata. Uno dei due, in vantaggio per un pelo, era proprio Elia. La mia testa era in procinto di esplodere come un’autocisterna che prende fuoco.

Ci furono applausi e grida entusiaste: tutti trovavano emozionante quella che per me era soltanto una crudele e protratta prova di sopportazione.

Il secondo Go-Kart lo affiancò e poi, pochi centimetri prima dell’arrivo, lo superò. Elia si schiantò contro un masso. Uscì tossendo e fumante. Si tolse il casco e mostrò tutti i segni della fatica: gli zigomi lividi, la pelle madida di sudore, lo sguardo prosciugato dalla tensione fisica. Teneva una mano premuta all’altezza del gomito e il sangue gli colava tra le dita. «Merda, altro che per le barbie, quegli affari sono per i lillipuziani.»

La ferita era rossa e profonda, gli aveva aperto la pelle. «Mio dio, Elia, devi disinfettarla quella…»

«Non è niente, Lele», mi guardò divertito, «si tratta solo di un graffio.»

Filippo mi riservò un sorriso stanco e fiero, gettò il casco dentro il suo Go-Kart. «Per quanto possa valere, ti dedico il mio terzo posto.»

Edoardo era intonso, i suoi capelli erano ancora lucidi e compatti e gli abiti lustri. Le dita di madreperla cadenti, appese alle braccia, sussultarono appena. Il verde sconfinato dei suoi occhi era così tranquillo, così angosciante. Aveva vinto.  Filippo mi sganciò dallo stordimento. «Secondo me quello là usa uno shampoo speciale, tipo Boccolo splendido splendente…», lasciò andare il discorso con fiacco avvilimento, ma ci pensò Elia a risollevarlo con entusiasmo. «Ti stai confondendo, è Broccolo splendido splendente», aveva un tono cavernoso, «Riccioli d'Oro ci ha battuto, ma se spera in qualcosa da Rally è un morto che cammina.»

Edoardo avanzò verso di noi, un sorriso appena accennato. Non osai muovere un muscolo. Mi chiesi se avesse intenzione di riscattare il suo premio oppure no. Elia e Filippo mi circondavano, sembravano pronti a scattare come lupi davanti a un cacciatore.

«Complimenti», disse l’olandese con garbo, «La vostra è stata una prestazione eccellente. Questa sera, se vi va, c’è un evento sul mio Yacht. Ercolani Crociere vi aspetta. Tanto non avete bisogno dell’invito, giusto?», si soffermò su Elia, «Buona serata», e le sue labbra, di solito sempre delicate e composte, guizzarono come petali impertinenti in uno sfacciato sorriso di vittoria.


Note.
Ahia. Edoardo pare avere qalità inaspettate! Secondo voi, ci andranno asullo Yacht o Elia lo ammazza prima?
Vi ringrazio per aver letto, ci vediamo presto con un nuovo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore

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Capitolo 9
*** Capitolo Otto ***


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Elia


Tre italiani e quattro olandesi erano seduti attorno a un tavolo, nel bel mezzo dell’elegante sala da pranzo di uno Yacht.

Aveva sentito una barzelletta iniziare proprio così.

Però quella non era una barzelletta e lui non stava affatto ridendo. Fumava l’ultima sigaretta, e cercava di godersela, per quanto riuscisse, perché una volta spento quel mozzicone non gli rimaneva altro che ascoltare cosa diceva quel ricco e viziato olandese del cazzo. Il colletto della camicia lo soffocava. La giacca di suo padre era troppo pesante per l’estate, era il caso di farsi cucire un nuovo smoking.

Il signor Ercolani teneva d’occhio sia lui che la sua sigaretta. Lì era vietato fumare, lo aveva ripreso persino un inserviente del terzo mondo che passava un’aspirapolvere ad alto tiraggio nei corridoi. «Quella no in luoghi chiusi, per cortesia, signore.»

«Finisco questa e smetto», aveva detto, ma poi ne aveva accesa un’altra. Vivere per anni dentro una cabina grande quanto un armadio gli aveva fatto dimenticare le regole basi del vivere in società. Spense la cicca nel posacenere, vicino al vaso di fiori di ceramica cinese, sorrise al signor Ercolani con quella che sperò fosse saccenteria e Rachele lo ammonì con un solo, breve, ineluttabile sguardo.

Era la prima volta da quando erano usciti di casa che lo guardava. Si era messa un tubino nero e un rossetto rosso ciliegia; un paio di scarpe da sera con il tacco, decorate con gli strass, le solite, quelle che non si toglieva mai: sembrava accettarsi solo con quelle; però aveva lo smalto mangiucchiato e corroso dalla salsedine.

Era troppo lontana da lui.

Rally vicino a un altro, vicino a un biondo e odioso straniero dagli abiti rosa mestruo, era un’immagine che lo faceva dissociare. Il suo stomaco era vuotissimo e disturbato. L’olandese parlava con Filippo e Rachele, e tagliava una bistecca. Era noioso e autocelebrativo. Diceva cose come: «il peschereccio più grande del mondo è olandese, sapete?», e nel mentre, guardava Rally con aria compiaciuta. Ogni tanto lei rispondeva con qualche risata d’incoraggiamento. Quell’olandese aveva bisogno di un bel bagno d’umiltà, e non era affatto dispiaciuto all’idea di annegarlo personalmente.

Si accese un’altra sigaretta e si abbandonò alla sedia. Ercolani era sul punto di riprenderlo, gli tremavano le labbra. Quell’uomo sembrava più incapace di suo figlio a incutere autorevolezza. I suoi capelli parevano essere stati appena attaccati da uno stormo inferocito di gabbiani. Strusciò i palmi sudati contro la lana dei pantaloni. Ogni boccata di fumo scandiva la dipartita della ragione. Mantenere la calma non era tra le sue virtù.

Edoardo raccontava di come quella volta aveva vinto la gara del tiro a piattello. Ebbe fantasie compulsive in cui lo prendeva a calci in testa fino a rendergli il cranio della stessa consistenza di un giornale bagnato. Era la persona più ottusa che avesse mai conosciuto, di quelli che non avevano la minima idea di cosa significasse campare, spaccarsi la schiena. E di coglioni, prima di lui, ne aveva incontrati parecchi. Rachele lo contemplava rapita, disse che lei non aveva mai nemmeno sentito parlare di certe attività come il tiro a piattello. E ti credo. Le sarebbe piaciuto andare a cavallo come quand’era più piccola, Edoardo le promise che ce l’avrebbe di sicuro portata semmai fosse passata dalle sue parti, un maneggio in olanda era gestito da amici di famiglia. Filippo mangiava le ostriche come reduce da mesi di digiuno.

Quella cena di lusso, lui non se la sarebbe mai potuta permettere, dato che era un poveraccio. L’olandese continuava a incensarsi. «Il segreto è prendersi cura dei clienti costantemente», disse. In effetti, Elia non faticava a credere che posizionasse cioccolatini freschi alla menta sulle federe pulite dei cuscini o giocasse a black jack con i passeggeri per tutto il giorno. Si spiegherebbe il fisico da mollaccione.

La madre dell’olandese, una donna austera e piacente, Florence, si pulì la bocca con il tovagliolo di stoffa e lo guardò preoccupata, con un remoto senso materno nella voce. «Lei non mangia niente?»

«Ho lo stomaco in subbuglio», rispose Elia. Poi accennò un sorriso vago, per timore di esser stato troppo perentorio.

L’argomento di conversazione, fino a poco prima, erano stati gli attacchi di mal di mare e, dato che quella sera il mare era mosso, tutti avevano una faccia verde rospo, con una vaga sfumatura spettrale. E l’abito da sera rendeva quei volti ancor più cadaverici. Discutere di nausea e vomito mentre si mangiavano sofisticatissimi piatti da gourmet non aveva dato fastidio a nessuno, anzi erano parsi tutti sollevati di condividere quella sofferenza comune. Forse era una cosa da ricchi che lui non poteva capire.

Florence, dalle sopracciglia alte e candide gli stava facendo gli occhi da cerbiatta. «Può essere un semplice mal di mare. Le passerà, sono sicura.»

Una sentenza che aveva del comico. Lui non soffriva affatto di mal di mare: un’immunità evidente, profonda e involontaria, forse perfino miracolosa, visto che lontano dall’oceano non ci poteva proprio vivere. Una vocazione che aveva senz’altro ereditato da quel vecchio bastardo di suo padre. Florence, a guardarla meglio, era una figura di eleganza magica e duratura, meritava una cartolina tutta per lei, se solo l’avesse conosciuta prima di partire. Si sforzò di sembrare benevolo. «Temo che sia colpa del sole che incoccia, fa passare la fame e fa venire voglia di bere.»

Si versò del vino rosso. Sentì mormorare qualcuno di essere molto contento di aver scoperto un posto «così remoto» come l’Elba. Era l’ammiraglio Archibald Janssen, un uomo stempiato che portava un fazzoletto nel taschino e un panciotto beige per sostenere l’addome pronunciato. La sua faccia era appesa come il culo di un gatto.

Elia si accese un’altra sigaretta, sebbene si fosse ripromesso di non farlo e la posizionò sul molle labbro inferiore. Il fumo gli inondò le narici, gli pizzicò la gola e gli ossigenò il cervello. «Mi dica, Ammiraglio», disse Elia versandogli del vino, «Anche a lei alcune spiagge qui le ricordano i Caraibi?»

Ci volle un po’ prima che Janssen capisse che la domanda era stata posta proprio a lui. «I Caraibi, dice?! Non ci ho mai messo piede. Gli americani sono troppo volgari per i miei gusti», aveva una voce servile e acuta, «volgari, rumorosi, ingordi e autoindulgenti. Lei invece ci è mai stato, signor…?»

«Ferrazza», Elia sorrise e alzò il calice nella direzione di Janssen, «Ci sono stato sì.»

Ora aveva la sua attenzione, gli occhietti acquosi che lo scrutavano con perizia e con inequivocabile meraviglia. «E mi dica, come le descriverebbe le Isole? Dove ha alloggiato?»

«Descriverle è impossibile, ciò che mi viene in mente è che tutto sembrava avesse a che fare con una ricercatezza artificiale, tutto sembrava in effetti costoso», risero, soprattutto la signora Ercolani, «Ho alloggiato sulla mia barca.» Florence era colpita. Lo guardava con quegli occhi smeraldo intenso, che risaltavano su quell’abito indaco. «Lei ha l’aria di un uomo che ha viaggiato molto. Sembra saperne molto sul mare. Non è così, signor Ferrazza?»

Nessuno l’aveva mai definito uomo prima d’allora e neanche ci si era mai sentito, però scoprì che non gli dispiaceva affatto essere definito tale; quell’appellativo lo ringalluzzì a tal punto da versarsi altro vino, che aveva un sapore fruttato e corposo, si scioglieva sul palato. «Sì, ho viaggiato molto. O per lo meno, abbastanza da imparare che ci sono intensità di blu oltre il blu più trasparente che si possa immaginare…»

Janssen ripulì la patina di grasso dai suoi occhiali privi di montatura. «Continui pure, la ascolto.»

In realtà aveva finito, ma ciò che gli aveva appena offerto il signor Janssen era irresistibile. Intercettò lo sguardo di Rachele e sentì uscire la propria voce dal profondo, senza difficoltà. «Viaggiare in mare è un’occasione imperdibile per capire che l’oceano non è uno solo, che il mare cambia. Le onde dell’Atlantico che si gonfiano al largo della costa orientale degli Stati Uniti sono opache, senza luce, anonime. Intorno alla Giamaica, invece, il mare è di un azzurro lattiginoso e trasparente. Al largo delle isole Cayman è blu elettrico e a largo di Cozumel è quasi viola. Una volta in quelle acque ho abbracciato un’iguana. Lo stesso è per le spiagge. Si può dire a occhio nudo che la sabbia della Florida del Sud viene dalle rocce, perché fa un male cane sotto ai piedi e ha quella specie di luccichio minerale... Ma quella di Ocho Rios assomiglia più allo zucchero raffinato, e in alcuni posti lungo la costa della Grand Cayman la sabbia sembra addirittura farina, così vaporosa e irreale…»

Ora Rachele gli puntava gli occhi addosso, due carboni neri e ardenti, due ossidiane immense. Janssen, a differenza di tutti gli altri, non si era fatto incantare dai suoi discorsi. «Niente che non si potrebbe apprendere su un documentario ben fatto. E dopo cos’è che vorrebbe fare? Come vorrebbe impiegare il resto della sua vita, escluse le iguane?»

Si era sempre pensato immerso nelle possibilità: avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Viaggiare per il mondo non era una di quelle cose carismatiche e sensazionali da poter inserire in un curriculum? «Mi piacerebbe trovare lavoro al porto, magari proprio l’impiego del mio vecchio. Scarica barili», gli cresceva dentro una sorta di orgoglio perverso nell’osservare le facce scioccate che lo ascoltavano con una certa repulsione, «Ma chi può saperlo: la vita è sempre piena di sorprese. Non sai mai dove ti porterà il giorno dopo, o quello dopo ancora, soprattutto a uno come me.»

Il signor Ercolani era un po’ pallido. «La può spegnere per favore, quella sigaretta?»

Elia ubbidì. Rally non gli parlava, ma sapeva benissimo ciò che pensava. Sei proprio allergico alle regole Elia, gli aveva detto una volta. Florence strinse la mano di suo marito e sorrise. «Ci racconta qualche altro piccolo aneddoto sui suoi viaggi? Sono davvero molto affascinata dalla sua temerarietà, signor Ferrazza.»

Era incerto. Filippo gli lanciava sguardi di allarme, come se quella fosse in realtà una trappola, ma non poteva disattendere la richiesta di Florence proprio adesso. «Sono stato su un sottomarino, una volta. Per vedere la barriera corallina. Quelli del posto mi hanno raccontato di una leggenda locale. C’era una credenza vittoriana riguardo il mare, secondo la quale l’acqua diventerebbe più densa a maggiori strati di profondità; a causa di strati d’acqua via via più viscosi alcuni oggetti non potrebbero scendere sotto un certo livello», ogni volta che lui parlava dei suoi viaggi Rally aveva un’espressione malinconica e sofferente, «Una nave, affondando, può rimanere sospesa senza mai atterrare sul fondale. Un morto scende a una profondità che dipende dal suo girovita, dal peso dei suoi vestiti e, secondo alcuni, dalla densità dei peccati accumulati e di cui non si è pentito. Così, il mare diventa una sorta di purgatorio terrestre, in cui i più cattivi colano a picco e i più moralmente ambigui vanno alla deriva per l’eternità.»

«Lei ha davvero una cultura ammirevole», disse Florence. Il signor Ercolani non pareva essere dello stesso avviso; una radicata forma di superiorità lo obbligava a rimanere rigido e a giocare con le posate. Si scambiò sguardi cupi con l’ammiraglio. «Sai cosa penso, Archibald? Il ragazzo, qui, avrebbe proprio bisogno di un’istruzione», si rivolse a Elia, «Diventare un progettista di navi le permetterebbe di viaggiare per il mondo ancora più in grande. Ci ha mai pensato?»

«La mia testa non è abbastanza quadrata per studiare», disse Elia, «Per viaggiare, comunque, non servono chissà che qualifiche. Basta avere i polmoni e un paio di braccia.»

«Un po’ di quattrini aiutano sempre», intervenne l’olandese, «Alla fine sono i soldi, a conferire realtà al mondo.»

Quando quello parlava, avvertiva il bisogno atroce di toccare qualcosa e si sfregò la fronte, scoprendo poi che era molto bagnata. «Scambiare porzioni del proprio tempo, che per altro in questa terra è estremamente limitato, per una stupida invenzione umana come i soldi. Bah. Una vita dettata dal denaro non fa per me.»

L’ammiraglio era alquanto divertito. «Signor Ferrazza, lavorare è necessario per vivere, non trova?»

Non sapeva più cosa farsene delle mani, così estrasse dalla tasca l’accendino d’argento e le impegnò facendolo scattare convulsamente. «È tempo che nessuno ci restituirà, signor Janssen. Voglio dire, il tempo è reale.»

Janssen scrutava impassibile il flebile riverbero del fuoco.

«Anche i soldi sono reali», e questa volta fu Rachele a parlare. Quel viso. Gli occhi scuri, energici e vispi. La bocca era un bocciolo di rosa brillante e carnoso. Le sopracciglia delineate le davano sempre quell’aria concentrata, intelligente. Era impossibile interpretare correttamente le sue espressioni.

«Il tempo di più», ribatté Elia, «Il tempo è un fenomeno fisico, quasi… filosofico. I soldi sono soltanto una costruzione sociale. Secondo me è meglio vivere che avere soldi.»

«Al lavoro sei comunque vivo», obiettò l’olandese.

Elia scosse la testa e soffocò una risata sprezzante. «Vivere davvero significa essere liberi, significa scegliere da soli cosa farne del proprio tempo, il denaro non è altro che la manifestazione di un mondo rigido e servile.»

«Davvero?», Rachele era visibilmente risentita per qualcosa che lui ancora non capiva, «Anche la facoltà di scegliere è una costruzione sociale, se pensi il contrario quello in gabbia sei tu. La realtà non è mai svincolata dalle contingenze, no? Ciò che fa sul serio la differenza è trovare qualcosa di vero in quello che si fa, a prescindere da cosa sia. E poi, essere libero significa anche vivere secondo le regole. Vivere, invece, senza regole significa soltanto essere libertino.»

Janssen era come turbato e soddisfatto assieme. «Sua sorella gliele ha appena cantate. Che maturità, per una ragazza di soli quindici anni. O mi sbaglio, signor Ferrazza? Ascolti i consigli di sua sorella e ci dica: ce l’ha qualcosa di vero da raccontare, a parte le storielle?»

Qualcosa di vero da raccontare. Di vero. Lui di vero conservava ben poco. Una copia malconcia di In Patagonia di Bruce Chatwin che prendeva polvere sulla libreria della sua camera. Una volta in Giamaica un suo amico di bevute canadese l’aveva definito “belloccio e spaccone”: il problema era che qualsiasi cosa dicesse o facesse, la gente pensava che la dicesse o facesse per tirarsela. Che non c’era niente di autentico in lui nemmeno a pagarlo.

Alle volte si comportava in maniera spavalda e sconsiderata. Stupida. E non era poi così scorretto che per lui viaggiare aveva da sempre presentato innegabili attrattive: donne vere, non quelle ragazze cattoliche che andavano in vacanza in toscana, alcool, sesso a fiumi, alcool.

Aveva letto Kerouac troppe volte.

Era sempre stato pronto all’eventualità che il resto del mondo potesse farsi un’idea sbagliata su di lui e sui suoi viaggi. Ma c’era di più: il mare possedeva qualcosa di indubbiamente vero che lo attirava.

Era la sensazione sotto le scarpe quando camminava su quella specie di pavimento tridimensionale: rimanere in piedi sulla barca non era automatico come nella cara vecchia planare statica terraferma; tutto ciò che a terra dava per scontato, come rimanere in equilibrio, in mare non lo era più. Doveva riattivare meccanismi sepolti del suo sistema nervoso centrale.

Era il sordo e remoto rombo dei motori della nave, che gli scorreva in una vibrazione alla spina dorsale, così viva e rassicurante. Era il mare grosso, che faceva paura ma era un toccasana per le notti insonni: lo cullava, con quella spuma delle onde così simile alla schiuma da barba, che cantava la sua ninna nanna preferita, con il rumore dei motori che era un battito del cuore.

Il mare era come una mamma, però senza farti venire i sensi di colpa.

Pensò ai discorsi con suo padre, che gliene aveva sparate di storie sui mari. Nei suoi ricordi, suo padre era un folle senza controllo, delirante, un ladro di relitti a briglia sciolta. Raccontava sempre la stessa leggenda, nell’ultimo periodo, quella di una nave a vele nere carica di tesori, e si era convinto di poterla riportare alla luce. Trecentocinquanta milioni di euro. Per la ricerca di quelle coordinate ci aveva buttato la vita. A differenza di tutti gli altri, Elia lo aveva capito: non era un fatto di soldi. Per questo non aveva mai accettato la sua scomparsa. Anche suo padre, proprio come lui, era un miserabile sognatore.

*

Tre anni e venti giorni prima. Quel momento non l’avrebbe mai scordato. Costeggiò la facciata di pietra e mattoni, divorata dall’edera incolta, le finestre di legno inchiodate. Svoltò l’angolo, aprì il cancelletto di ferro e Rally era sulle scale di casa, la faccia nelle ginocchia sbucciate, rosse, di pesca e le gambe bianche come se non avessero mai preso della sana abbronzatura. Nel profilo di quei capelli neri c’era il riflesso del sole, che declinava nel cielo violetto, azzurro e arancione.

Anche senza più rivolgergli la parola da lì fino all’alba, Elia lo sapeva che lei ce l’aveva con lui, gli era chiaro quanto il motivo più urgente per cui doveva lasciare l’Elba. Gli si era appena materializzato di fronte, così reale e sfiancante: lei non era biologicamente sua sorella e lui ne era innamorato da stare male.

Se soltanto Rachele glielo avesse chiesto, lui sarebbe rimasto per lei. Una verità così atroce da risultare ingestibile. Non poteva permettere che ciò accadesse, perché lui non poteva restare. Doveva ignorarla. Che piangesse pure, tanto gli sarebbe passata in fretta. Una chiacchiera con Filippo e tornava come nuova. Niente più occhi gonfi e singhiozzi profondi. Quel pianto gli dilaniava il petto. Non poteva vederla piangere così.

«Rachele…», disse e a pronunciare quel nome il fiato gli si era accorciato, «Sei ridotta un po’ male, che ti succede?»

Lei alzò lo sguardo e lui fece in modo di evitarlo, si mise seduto accanto a lei sulle scale. Rachele gli si buttò addosso e lui si sentì pienamente consapevole del calore, della fragilità, dell’intensità di quel doloroso abbraccio. Lei piangeva tanto da non riuscire a parlare, ma il senso lui era riuscito a coglierlo lo stesso, e sperò che lei non lo articolasse a parole. Si maledisse per non aver continuato a salire le scale fino al portone, ignorandola.

«Rachele…», se la staccò di dosso con delicatezza e tatto, con distanza, perché se continuava a stringerla in quel modo, se continuava ad accarezzare e annusare il profumo dei suoi capelli rischiava seriamente di arrivare all’irreparabile, rischiava di non trovarlo più il coraggio di partire. Allontanarla da lui mentre si disperava fu terribile, quasi mostruoso, come se gli avessero staccato la pelle. «Non c’è bisogno di piangere in questo modo, non vado mica via per sempre.»

Anche sua madre aveva tentato innumerevoli volte di dissuaderlo dal partire, ma poi piangeva sconsolata, straziata, tutti i giorni: chi lo conosceva bene si era rassegnato da tempo all’idea che fosse cocciuto come un mulo. Ma con Rally era diverso. Il suo dolore lo sentiva come se fosse suo, anzi era peggio, perché quel dolore non poteva archiviarlo e basta, come invece riusciva a fare ogni giorno con il suo. «Capito, Rally? Non è per sempre.»

Lei si asciugò gli occhi con le nocche. «So che lo zio quest’estate voleva che lo aiutassi con la disinfestazione degli scarafaggi», disse e nella sua voce colse delusione, una delusione che lui non avrebbe mai voluto udire.

«Sono sicuro che mi imbatterò in progetti altrettanto lodevoli», disse Elia e cercò di figurarseli nella testa: per quanto si sforzasse non trovava un’immagine più emblematica di un sé stesso che fumava come un turco, sotto un ventilatore in un paese tropicale, beveva whisky e si scattava istantanee con la sua polaroid. Nonostante le smorfie, di solito riusciva a cogliersi in pose così naturali, pittoresche e fighe. Aveva un futuro come fotografo.

Rally poggiò un palmo sul suo ginocchio, come per chiedergli di rimanere lì seduto per sempre. «Perché te ne vai?»

Lui voleva andare alla ricerca di qualcosa di grande, sebbene ancora non sapesse cosa fosse questo qualcosa di grande. «La verità?»

«Sì, certo. La verità.»

«Qui mi sto annoiando.»

I suoi occhi neri e dolci brillarono di lacrime. «Posso venire con te? Anch’io mi annoio, mi annoio davvero a morte.»

Elia si sforzò di ridere. «No, hai scuola.»

Rachele prese a guardarlo con strazio. «Be’ allora… Mi scriverai? Mi telefonerai?»

«In mezzo al mare prende poco.»

Lui e il suo solito sarcasmo inefficace. Lei alzò gli occhi un po’ incredula e schiuse le labbra; era stato cattivo con lei, ma in un certo senso l’aveva fatto anche per il suo bene; le sue guance erano avvampate di calore. Rally stava per dire qualcosa, una protesta magari, ma quelle labbra rosee erano immobili.

Rachele stava cercando di ucciderlo.

Aveva deciso di ucciderlo lì, su quelle scale, poco prima di cena. Altrimenti, per quale ragione lei avrebbe dovuto guardarlo in quel modo? Per quale ragione le sue guance prendevano fuoco, e le sue labbra si schiudevano se, per sbaglio, lui iniziava a sfiorarle il viso? Lui le sfiorò il viso ancora e ancora, e si convisse che fosse accaduto un’altra volta per sbaglio, perché le sue dita ormai non le controllava più. Era l’amore fraterno ad averla ridotta in quel modo? A spezzarle i respiri, a renderle quegli occhi così sofferenti? Elia non lo sapeva, non sapeva cosa fosse giusto credere, e doveva smettere di chiederselo. Rally aveva soltanto tredici anni e sarebbe stato a dir poco traumatico per lei venire a sapere di tutta quanta la sua storia. Lei lo credeva suo fratello. Era giusto continuare a mentirle, continuare a illuderla, sapendo che comunque, presto o tardi, avrebbe dovuto sapere la verità? Lui sapeva solo che, dentro di lui, non scorreva proprio niente di fraterno e non poteva continuare a ignorare qualcosa che ormai era diventato un dato di fatto…

Non se lo chiese nemmeno, se era in grado di lasciarla andare, forse no, ma in quel momento non gli importava. Doveva farlo e basta. Doveva farlo come una missione. A costo di morire dal dolore, a costo di diventare pazzo, di sprofondare nel baratro della follia.

Perché l’alternativa sarebbe baciarla adesso. Proprio lì, difronte casa, con la mamma e Filippo che li spiavano dalla finestra. Baciarla e baciarle le lacrime. Come avrebbe reagito? Si sarebbe fatta baciare? Ma come diavolo faceva adesso a non accorgersi che lui le stava sfiorando il labbro, che in quel tocco non c’era assolutamente niente di fraterno, che i suoi respiri lo chiamavano, lo incitavano, lo facevano precipitare, gli spalancavano le porte dell’inferno? Se solo avesse potuto averla…

In un intimo momento di confidenze, Filippo gli aveva detto: «Non sei costretto, Elia. Troveremo una soluzione»

E se la soluzione fosse stata baciarla? Rachele era così vicina a lui, talmente vicina che gli sarebbe bastato pochissimo per scoprire che sapore avevano quelle labbra, che sapore aveva un sogno irrealizzabile; Rachele era così vicina che sembrava come non aspettare altro che le loro labbra si congiungessero.

Per quanto irresistibile, però, lui non poteva. Lei aveva tredici anni, se la meritava una famiglia, se lo meritava un fratello come Elia, bello, forte e pronto a tutto per lei; un fratello come Filippo, buono, dolce e accogliente, e una mamma, che seppur scostante, le voleva bene. Un giorno, l’avrebbe baciata, l’avrebbe messa difronte al fatto compiuto per poi stare a vedere cosa succedeva. L’avrebbe fatto come faceva quasi ogni cosa: senza pensarci. Ma quel giorno non era ancora arrivato.

«Ragazzi», disse Filippo sull’uscio della porta, «La mamma mi ha mandato a chiamarvi, dice che è pronto.»

Dal tetto pioveva la cruda e fredda luce di un giorno che stava finendo. Elia trovava la voce di suo fratello calma, pacata, come una sorta di sfida. Per un momento, lo invidiò. Gli invidiò la serenità che gli permetteva di rimanere accanto a Rachele, il buon senso in ogni circostanza, («Non sei costretto, Elia. Troveremo una soluzione»), mentre lui invece collezionava un errore dietro l’altro e non faceva mai niente di giusto.

Rachele si alzò dai gradini, gli scivolò dalle mani in un attimo, e lui la seguì; entrarono e lei andò in cucina, a prendere la tovaglia di stoffa, quella riservata alle occasioni speciali. Sua madre non lo guardava nemmeno in faccia, era avvolta dal vapore delle pentole sui fornelli. Filippo fissava il tavolo sgombro nel bel mezzo del salotto e in quegli occhi azzurri Elia colse un avvilimento nascosto, una disperazione che moriva nella riservatezza.

Dentro Filippo c’era qualcosa, un’essenza, non sapeva bene cosa fosse, però gli sembrò che avesse a che fare con la bellezza e la bontà.

Suo fratello si stava facendo uomo, proprio come lui. Pensò che tra di loro c’era un’intesa, una stima e un rispetto che si era solidificato pian piano, crescendo. Forse, Filippo aveva capito. («Non sei costretto, Elia. Troveremo una soluzione.»), ma era troppo onesto per farglielo sapere o per farglielo pesare.

Filippo disse: «Non c’è nessun modo per farti cambiare idea, immagino.»

Elia aveva lo stomaco e il cuore annodati. «Non c’è. Prenditi cura di lei anche per me, mentre sarò via.»

«Lo farò, puoi scommetterci se lo farò, ma lei avrà sempre bisogno anche di te. Ha bisogno di entrambi, lo sai questo, almeno?»

Quella notte non riuscì a prendere sonno, si rigirò nel letto in continuazione e poi decise che avrebbe smesso anche di provare a dormire. Uscì fuori nel buio, nell’oscurità implacabile, sotto il vuoto nero e schiacciante dell’universo. La luce opalescente della luna era in transito oltre le tenebre, e lasciava intravedere le sagome afflitte degli alberi, nell’aria c’era l’odore di solitudine e di sigarette.

Non faceva altro che pensare a quella labbra brucianti sulle scale e nei ricordi realizzò che se solo lui avesse seguito l’istinto… era assurdo, sbagliato e malato persino pensarlo…se soltanto si fosse fatto trasportare dal desiderio, forse lei si sarebbe fatta baciare. Davanti casa. Da suo fratello. Questo pensiero lo annientò, lo stordì e rinunciò definitivamente a dormire.

Pensava solo a lei, e a quanto male poteva fare a quella ragazza se solo si fosse fatto prendere dai sentimenti che provava. Il lento arrivo del mattino fu accompagnato da un silenzio terribile, come un’alba prima della battaglia. Un paio d’ore e tra loro due ci avrebbe messo gli oceani interi. Non ci provò più a immaginare quanto doloroso sarebbe stato. Si augurò soltanto che fosse abbastanza.

*

La sua storia vera era Rachele, era sempre stata lei, solo che non avrebbe mai potuta raccontarla così apertamente, no? Afferrò una tartina e si guardò Janssen. «Sono partito per amore. Per amore dell’avventura, della vita libera, per fare affidamento sui muscoli e nient’altro, e poi sono partito per fuggire da una ragazza», Rally lo guardava interdetta, l’olandese con l’espressione da pesce lesso e Filippo si stava per strozzare con le ossa del pollo, «Quello che ho imparato? Mi ci è voluto un po’ però poi ho capito: per quanti mari tu possa attraversare… Nel petto ti batterà sempre lo stesso cuore.»

Ed era proprio quel cuore ora a battergli all’impazzata, mentre la guardava e diventava sordo. In sottofondo, la melodia di un valzer, forse di Strauss.

Non solo era cresciuta, ma la sua bellezza era diventata consapevole e ricercata.

La sua Rally.

Per un po’ era stata come una sorella, ovvero una rottura di scatole; sempre alla ricerca di attenzioni e praticamente invisibile ai suoi occhi di adolescente composto al cento per cento da testosterone. Poi quella faccia, prima compatta, carnosa e grassottella sul mento, con il muso lungo quando qualcosa non andava secondo i piani, senza preavviso si era fatta smilza e decisa.

C’era qualcosa di tenace nel suo viso, e vederlo ogni giorno lo aveva abituato a coglierne le sfumature. Ma la loro vicinanza come fratelli l’aveva resa irraggiungibile. Qualcosa non era andato quella volta in cui lei lo aveva preso in giro per il calzino bucato sull’alluce e lui si era scoperto imbarazzato da morire; da quel momento il suo armadio era stipato di calzini.

La luce calò e lui avrebbe voluto soltanto prenderla e farla ballare, custodirla sul suo petto come una perla dentro uno scrigno. Janssen gli diede una piccola pacca sulla schiena. «Ah, l’amore, è una buona ragione per tutto.» Il signor Ercolani sfiorò il coltello, e per un momento Elia credette che avesse intenzione di sgozzarlo. Si voltò verso suo figlio. «Vi rubo questo giovane ragazzo romantico per una partita di poker, che ne dite voi altri di onorare le tradizioni e aprire le danze? Florence, insegna a Filippo qualche passo, noi uomini adesso abbiamo da fare…»


Note.
Primo punto di vista di Elia, che ne dite, vi piace? è abbastanza intenso e arrogante?
Ovviamente, la scena non è finita qui, ma il resto ce lo racconterà la nostra Rachele... Presto.
Vi ringrazio per aver letto, ci vediamo presto con un un nuovo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

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Capitolo 10
*** Capitolo Nove ***


font-corsivi


Oltre il parapetto dello Yacht, l’acqua scura ondeggiava nella calma e i gemiti sommessi del mare si acquietarono nelle mie orecchie.

Con il valzer che proveniva dall’interno della sala, con l’aria frizzante sulla pelle delle braccia, con le luci soffuse che sfumavano in una notte piena di stelle, era tutto così tragico e sconvolgente.

Sentivo i muscoli delle mie spalle rilassarsi, come se stare da sola con Edoardo fosse un sedativo. Il suo volto era così cereo da sembrare trasparente. Aveva gli occhi bassi cerchiati dalla notte e un sorriso misurato. Anche lui ammirava il lieve incresparsi dell’acqua. «La toscana è così piena di vita. Vorrei poterne assorbire un po’ e portarla sempre con me.»

Dentro avevamo ballato e mi aveva raccontato della sua vita ad Amsterdam. A settembre avrebbe cominciato l’università, Storia dell’Arte ma non avrebbe mai abbandonato lo studio della letteratura classica. Mi parlò della passione travolgente tra Enea e Didone, di come avrebbe voluto vivere un amore che scuoteva dal torpore dell’inattività, un amore che poteva farlo tornare bambino, a quando ignorava tutto del tempo.

Avevo smesso di respirare. Una visione angosciosa; lui in gondola per i canali, assieme a una ragazza della sua stessa estrazione sociale, bionda come lui, altrettanto luminosa. M’immaginai in quei posti freddi insieme a Edoardo, ma non c’era speranza che ciò potesse accadere, ero incatenata alla mia isola in maniera irreversibile.

Appartenevo a quei luoghi, a quei paesi di pescatori, con le case pastello che si ergevano su scogli a strapiombo sul mare. A quei borghi medievali con stradine lastricate di pietra bianca, casette strette e vicoli sempre in fiore. Ero legata ai boschi, all’odore della terra umida anche d’estate, ai mirtilli, ai rovi di more che costeggiavano le strade.

«Il sole», spiegai, «Ha delle proprietà miracolose. Sai già quando tornerai nella tua città?»

Aveva una specie di malumore addosso, insensato, tipico di chi possedeva già tutto e non si permetteva di desiderare mai davvero niente. La sua faccia tonda si rabbuiò. «Tra due giorni riparto. Mi mancherà davvero questo posto.»

Due giorni sembravano ancora un’eternità. «L’Elba fa quest’effetto. Fa innamorare.»

Parlavamo da tutta la sera. Gli avevo raccontato della mia famiglia e di mio padre, dei suoi occhi neri e scintillanti, delle sue compite maniere. Gli raccontai che arrivavamo a fine mese a stento, che mia madre era la più povera delle madri, che era esausta, stanca e alle volte dominata dal vuoto totale. Ero l’estensione del vuoto di mia madre, di quel suo sonno, di quel suo niente. Di quell’abbattimento brusco che arrivava a una certa ora del giorno e poi non se ne andava più fino alla sera. Gli raccontai del cappello di paglia di Elia, di come alle volte, mentre era stato via, lo indossavo per non sentire più la mancanza di mio fratello. Gli dissi di non aspettarsi mai niente da me.

Chissà se l’aveva capito che vivevamo nella miseria. Questo pensiero, forse, non l’aveva neppure sfiorato: vedeva solo ciò che voleva vedere; era in vacanza, e quindi ufficialmente in tregua dalle cose sgradevoli. Vivere all’Elba era come vivere in una sospensione temporale, in una quiete perenne, che metteva in pausa ogni cosa, un posto dove persino la decomposizione e la morte potevano aspettare. E in effetti lui sembrava in uno stadio di decomposizione dell’animo parecchio avanzato.

Fra due giorni sarebbe ripartito. Su quella nave splendente, che non sembrava presentare alcun angolo opaco o bordo scheggiato, o una cima allentata. Non mi sarei dovuta attaccare a uno straniero, a uno sconosciuto dalla pelle così profumata di miele.

Se ne sarebbe partito anche lui, perché nessuno rimaneva mai, nemmeno Elia era rimasto. Con quel mare che gli scorreva addosso, anzi dentro. Un oceano bellissimo abitava dentro di lui, fluiva e rifluiva con correnti forti che trasportano tutto in superficie, che ti sbattono ovunque, ma si portano anche dietro un mucchio di veleni e rottame che poi rimangono come scorie, anche quando il mare si prosciuga.

Edoardo si morse le labbra carnose. «A cosa pensi?», disse e si voltò verso di me, a sistemare una ciocca di capelli bruni dietro il mio orecchio. Le sue dita di madreperla, fresche, mi accarezzarono la guancia e mi fecero sussultare.

«Niente, niente di importante.»

«Per favore, vorrei saperlo.»

«Niente, t’ho detto.»

«Fai sempre così?»

«Così come?»

«Smetti di parlare di punto in bianco. Ho bisogno di sapere cosa pensi...»

«Stavo pensando a mio fratello. Prima ho buttato un occhio nella sala da poker, e stanno bevendo come spugne. È ridotto male. Elia ha un problema con l’alcol.»

«Magari basterebbe solo, che so, smettere?»

«Sì, scommetto che non ci abbia mai pensato...»

Tirò un sospiro arrendevole e girò la testa in direzione di un orizzonte nero. Rise. «Non ne ho mai conosciute come te.»

Un calore intenso, a partire dalla bocca dello stomaco, si diffuse in tutto il mio corpo insieme a un panico irrazionale. La fortuna era che non mi stava guardando. «Sono rimasto subito affascinato da te, questa mattina. Il modo in cui sei salita qui, con naturalezza, solo per complimentarti con me... Mi ha scosso», agitò la testa, «E prima, a cena, con tuo fratello, come gli hai tenuto testa, meglio di un adulto. Una che sa quel che vuole non si trova in giro facilmente.»

Le sue parole mi sorpresero, ma furono in un certo senso inappaganti. «Non so affatto cosa voglio... Sarei di una noia mortale, altrimenti.»

Fece finta di non avermi sentita. «Dove posso trovarti, domani?», chiese e il suo sguardo prese a guizzare insistente sulle mie labbra. Ero disorientata da tutto quel suo modo inquisitorio di focalizzarsi sulle mie espressioni. All’improvviso, la mandibola, il mento e in generale la parte inferiore del cranio divennero troppo pesanti, insostenibili. Avvertii il suo fiato fresco su di me, oppure era solo il vento. «Domani? Non lo so», sussurrai.

«Rachele...», i ciuffi dorati alla base della nuca si incurvavano delicati sul collo teso come piume di cenere, «Se non ricordo male...», socchiuse le palpebre bianche e delicate, così vicine che avrei potuto contarne le pieghe. «Ho vinto qualcosa di magnifico questa sera...»

I suoi occhi intensi mi scrutarono seri e poi mi baciò; mi scontrai con la durezza dei suoi denti, con il sapore cupo del vino. Le sue labbra morbide erano pasta di zucchero. Un calore intenso mi salì fino alle guance, e le sue dita mi sfiorarono l’incavo del collo. Ero un falò che sprizzava in alto scintille che morivano nell’oscurità. Mi squagliavo in quel bacio tremulo, nel crepitio di quegli schiocchi dolci e sempre più decisi. Le labbra pizzicavano, andavano a fuoco. Quel ragazzo così diverso da me, così diverso da chiunque avessi mai conosciuto, era entrato in contatto con il mio corpo come nessuno prima d’allora...

Una voce roca ci sovrastò. «Non la toccare! Razza di...»

Un cameriere scivolò e volarono bicchieri di champagne e tartine al salmone; un vassoio di metallo si schiantò a terra e rotolò ai miei piedi. Elia emerse dalla notte, gli occhi ciechi e infossati, afferrò Edoardo per il bavero della giacca e lo scaraventò a terra, facendolo cascare direttamente sul cameriere, che giusto un attimo prima stava tentando di rialzarsi. Sulla bocca incurvata di mio fratello spuntò una macabra soddisfazione.

Ebbi un mancamento e una dolorosa fitta alle tempie. Comparvero l’ammiraglio Janssen e i signori Ercolani, tutti sotto shock. Sua madre aiutò Edoardo a sollevarsi in fretta, con una mano premuta sul cuore. «Tesoro, o santo cielo, va tutto bene?»

Edoardo si tastò la faccia e dopodiché i denti, come per accertarsi che fossero ancora lì; fissò Elia con stupore, benché nemmeno in quell’occasione sembrasse maldisposto nei suoi confronti. Dal naso prese a colargli del sangue vischioso e brillante. «Sì, solo un malinteso... Stavamo giusto chiarendo, ehm...», il cameriere si defilò sotto lo sguardo furente della signora Ercolani. Provai un terribile imbarazzo, senza peraltro saper dire per chi. L’ammiraglio Janssen si accese un sigaro.

Elia era coperto da un velo di sudore come brina sulle auto nelle mattine d’autunno. Sulla pelle avvertivo il gelo e le mie spalle sussultarono in preda a spasmi involontari. Mio fratello non mi guardava e la sua corporatura massiccia in mezzo a quella gente era d’un tratto così inadeguata... Nonostante l’abito da sera, aveva la sua solita aria un po’ selvaggia e un po’ da sbruffone. La signora Ercolani serrò le labbra, che si fecero così sottili fino a quasi scomparire. Ci lanciò uno sguardo fermo, con gli occhi stretti. «Voi due! Fuori da qui!»

«Mamma...», poi continuò a dire qualcosa in olandese. 

«Ma guarda come ti sei ridotto figlio mio, come un... miserabile», la signora Ercolani quasi piangeva dalla disperazione.

Il signor Ercolani, quando parlava, sebbene fosse olandese e non capisci un accidente, mi metteva soggezione. Avanzò di un passo e scrutò Elia e quel suo ghigno arrogante; strinse i pugni e le tempie iniziarono a pulsargli; gli occhi erano due palle da biliardo e sembrava molto accaldato. «Ora ti scuserai con mio figlio e con mia moglie per la figura barbina che ci stai facendo fare davanti ai nostri clienti. Altrimenti, quanto è vero iddio, ti strozzo con le mie mani...»

La vista mi si appannò e un calore soffuso mi corse lungo le guance. Le gambe mi stavano per cedere. Era difficile ascoltare le parole del signor Ercolani; in effetti, era difficile ascoltare qualcos’altro che non fosse il silenzio indignato dentro la mia testa. Elia non si sarebbe mai scusato, piuttosto si sarebbe fatto uccidere a manganellate.

«Pa stop met deze boer!», Edoardo aveva il labbro inferiore tumefatto, un sopracciglio spaccato da un taglio profondo da cui colava il sangue, scuro come inchiostro secco. Mi sentivo in colpa come se l’avessi picchiato io. «Papà...»

Il signor Ercolani si infiammò con indecenza, ci guardava come se avesse voluto succhiarci la testa come si faceva con le triglie. «Hongerdood, morti di fame.»

Elia lo osservava con un’irritante combinazione di pietà e divertimento.

«Elia», mormorai, «Perché non chiedi scusa e la facciamo finita?» Le ombre scure sotto i suoi occhi erano così scavate che pareva avesse gli occhi pesti dalle botte. Lo sguardo era vacuo e i capelli gli ricadevano indomabili sulla fronte. Mi guardò con una stanchezza micidiale. «Non ora, sorellina. Ne riparliamo a casa.»

Il signor Ercolani puntava gli occhi in quelli di mio fratello con una determinazione ferrea e testarda. «Non scenderai da qui finché non...»

«Papà, adesso basta!», tuonò Edoardo e il risvolto autoritario nella sua voce mi pietrificò, «Non tratterai i miei ospiti in questa maniera... Siamo stati entrambi avventati. Avrei dovuto chiedere a sua sorella il permesso, prima di...ecco... prima di baciarla.»

Edoardo mi guardò. Fu in quel momento che presi realmente coscienza del fatto che le nostre labbra si erano toccate; il suo bacio mi aveva colta di sorpresa, perché non avevo mai preso in considerazione l’idea che qualcuno avesse mai potuto voler baciare me. Nelle foto ero insignificante con un so che di brutto. Un mento sfuggente e guance un po’ troppo pesanti. Ma con Edoardo potevo perfino fingere di essere bella. Mi bastava crederlo intensamente, e apparivo come volevo, di una bellezza che aveva più a che fare con lo spirito che con il corpo. Si inumidì le labbra e si avvicinò a me. «Ti ho dato fastidio, Rachele?»

Con il braccio, Elia mi portò dietro di sé. Avvertii la sua corporatura potente come uno scudo. «Stalle lontano, o questa volta per te finisce male sul serio.»

Filippo arrivò giusto in tempo, in mano un piatto di gamberetti e olive. Disse qualcosa ai signori Ercolani, parole il cui senso generale mi disorientò; riusciva a convertire alle buone maniere chiunque e per questo, ci lasciarono tornare a casa.

Quand’era piccolo, Elia si appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni e si lasciava penzolare per ore; infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, io col batticuore gli gridavo di stare attento, come se qualcosa di oscuro e rapido come miliardi di scarafaggi potesse corrergli sulla pelle e assalirlo, morderlo.

Mi sembrava sempre di andare in contro a qualcosa di terribile che, pur esistendo da prima di noi, era sempre e solo noi che aspettava.

Presto mi accorsi che Elia era forte, così forte che pareva fatto di un minerale impossibile anche da graffiare. Gli piaceva andare verso il terrapieno della ferrovia, raccogliere i sassi tra i binari, lanciarli e studiarne la traiettoria; era come se puntasse a colpire i volatili. Dentro aveva qualcosa che doveva sfogare a tutti i costi. L’origine del disastro era nostra madre che, all’apparenza calma e accomodante, andava in fondo alla sua pazzia senza fermarsi più e ci distruggeva tutti.

Filippo ci riportò a casa, sotto un cielo plumbeo; ad accoglierci, ci fu la luce calda e miracolosa del terrazzo. Elia era accodato dietro di noi, un’ombra dondolante inghiottita ancora dal buio, di cui percepivo il fragore dei pensieri. La chiave nella serratura produsse un suono metallico e nel corridoio tutto sfumò nell’oscurità. C’era un caldo da spalancare le finestre.

Nostra madre era in piedi in salotto, sotto la luce tremolante di una lampada; dalla camicia da notte trasparente si intravedeva l’alone scuro dei seni. Era tutta disfatta: la sua pelle era un cencio, il suo corpo era arato, sdrumato dalla fatica senza essere più capace di piangere. Non aveva più niente da fare lì, ma ci restava. Parlò con voce stentorea e impersonale. «Sudici...Tornare a quest’ora della notte, in questo stato... Sudici, ingrati, mascalzoni...»

«Ma’, vai a dormire», disse Elia.

Mamma mi si avvicinò con odio e mi annusò, come se sperasse di odorare del marcio. Il suo sguardo si fece bianco come le uova dei ragni. «Questi non sono più i miei figli, Rachele. Non sono più i ragazzini che ho cresciuto... Glielo spieghi tu, per favore, che non posso più vivere così? Glielo spieghi tu, dato che ormai danno retta solo e soltanto a te?»

«Mamma, mo’ basta!», Elia la spintonò appena, giusto per levarmela da così vicino e mamma cascò di proposito all’indietro, sulla credenza, battendo la schiena. Cominciò a piangere lacrime strazianti. Si raggomitolò su sé stessa, accucciandosi contro il mobile. «Ecco, come mi trattano i miei figli, adesso...Non valgo più niente per loro...»

Filippo mi tremava a fianco. «Ti prego, ma’, calmati, ora. Stenditi sul letto, ti faccio un po’ di acqua calda...»

Controllai che le porte e le finestre fossero chiuse, augurandomi che nessuno venisse a conoscenza di quella scena pietosa. Ero ferma. Ferma per la pena, ferma nel buio, proprio come dentro una bara.

«Ingrati, impostori, voi non siete i miei figli, quelli che ho cresciuto con tanto amore, con tanto riguardo... Siete delle belve affamate...»

Elia andò ad abbracciarla e lei si divincolò come una posseduta: «Stammi lontano!»; Elia la tratteneva in piedi, perché voleva buttarsi sul pavimento, piagnucolava come una disgraziata. Ripeteva che la vita le aveva portato via tutto. Elia la prese in braccio, la portò a dormire e poi si rifugiò nella propria camera. Filippo andò a fumarsi una sigaretta fuori.

Aprii la porta della camera di Elia e lui era sdraiato lì, al buio, sul letto, con le ginocchia al petto in un’inquietante posa di un uomo morente. Quelle spalle e quei dorsali, di solito così resistenti e impregnati di sudore che sotto il sole violento sollevavano casse d’acqua, casse di frutta, barili, ora erano prostrati allo sfinimento. Quanto gli costava prendersi cura di noi e di nostra madre.

Fu in quell’esatto istante che gli perdonai ogni cosa.




Note.
Sebbene il gesto impulsivo e strafottente di buttare per terra l'olandese, come si fa a non perdonare pressoché tutto a Elia?
A presto,
con tanto affetto,
JSGilmore.

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