Anything but

di Artemys22
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** G ***
Capitolo 2: *** Ben ***
Capitolo 3: *** Diego ***
Capitolo 4: *** Luther ***
Capitolo 5: *** Vanya ***
Capitolo 6: *** Klaus ***
Capitolo 7: *** Allison ***
Capitolo 8: *** Cinque ***



Capitolo 1
*** G ***


G non ha un nome. Non ha una casa e non sa quanti anni ha. Se la cava. Se l'è sempre cavata, anche quando durante l'infanzia cambiava famiglia ogni due mesi facendo dentro e fuori dall'orfanotrofio perché riceveva da tutti nomi diversi; perché sua madre non si è degnata di lasciare un biglietto con un nome quando ha mollato un fagotto maleavvolto in una coperta sugli scalini ma solo dei numeri scritti con un pennarello come una data di scadenza. Si fa chiamare G perché è bello. G ha un suono così morbido, così simpatico. L'unica cosa che sa di sé è il giorno del suo compleanno: 1 Ottobre.

*****************************************************

Un giovane uomo dagli occhi verdi indossa una divisa scura in un bar. Si avvicina alla cassa quando è ormai orario di chiusura.

《Oh, Jeremy! Ero certa di averti visto uscire prima》esclama la collega più anziana. Lui sorride in modo vago e le risponde senza alzare lo sguardo.

《No, sai... non avevo nulla di meglio da fare, così ho pensato di restare a dare una mano prima di chiudere.》

La donna bionda si sistema distrattamente i capelli e lo ringrazia.

《Ah, cazzo!》 esclama una volta finito di pulire il bancone. 《Si è fatto davvero tardi...》

Sta per aggiungere qualcosa quando il più giovane la interrompe:《Se vai di fretta posso chiudere io.》

《Sul serio? Oh, mi faresti un grandissimo favore!》

Lui le sorride, poi la donna va a cambiarsi. Passa a salutare il giovane per ringraziarlo un'ultima volta mentre questo conta i guadagni della giornata, poi esce dall'ingresso principale. Jeremy prende le banconote, ma lascia nella cassa tutte le monetine e scompare nel retro del negozio. Di lì poco dopo ne esce una ragazzina: non ha più di quindici anni, lunghi capelli rossi e due penetranti occhi verdi, porta in spalla un ingombrante zaino nero. Questa spegne le luci e prima di chiudere il locale a chiave e abbassare la serranda si libera di una targhetta che riporta un nome non suo: Jeremy.



NOTA

Avevo questo progetto chiuso in una nota da un po'. Di base, si tratta di una serie di one-shots, sette oltre a questa (per ora, sto valutando se aggiungerne una alla fine per completezza o se lasciare il dubbio a tutti quanti) nelle quali il nostro personaggio, G, incontra tutti i membri della Umbrella Academy in ordine cronologico. So che come introduzione è piuttosto carente, ma serve soltanto a mostrare di cosa è capace. Il resto verrà a suo tempo.
Chiaro, non posso sperare di aver incuriosito nessuno con queste poche righe iniziali; ma ciò che mi interessa maggiormente è il risultato finale!
Mi farò presente alla prossima nota :)

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Capitolo 2
*** Ben ***


Quella mattina, aveva deciso, sarebbe stata vecchia. Perché voleva prendere un autobus e lasciare che la strada dissestata lo facesse sobbalzare quando i suoi pensieri si facevano troppo profondi mentre guardava la vita da dietro il vetro. E, se si fosse vestita da vecchietta, avrebbe sicuramente trovato un posto a sedere nell'immediato.
Era stato così, in effetti, ma sotto la pelle rugosa e i capelli bianchi aveva il cuore di una giovane adolescente, e subito volle scendere quando vide una massa di persone e telecamere dietro un angolo. Scese subito, ma non riuscì ad addentrarsi nella calca a sufficienza per capire cosa fosse successo.

《Faccia attenzione, signora,》borbottò un uomo passandole accanto e con un palmo la spinse delicatamente da parte. Decise che avrebbe fregato un giornale il giorno dopo e svoltò l'angolo. Poco più in là, la Milton Avenue era deserta. V'erano solo due file di macchine parcheggiate e, proprio dall'altra parte della strada, una manica di ragazzini della sua età. Cioè, della sua età reale, non apparente.
Erano cinque e indossavano tutti una divisa. Tra di essi scorse l'unica ragazzina; l'orlo della gonna schizzava in su e in giù, di qua e di là mentre correva in testa al gruppo e afferrava quello alto e biondo trascinandolo con lei verso un negozio di ciambelle.

"Ah, il Griddy's."

Poi, poco dietro il gruppo, vide il quinto. Non si affrettava per raggiungere gli altri, ma si guardava insistentemente le scarpe. Rabbrividì quando per un istante il pensiero che tutto quel rosso che lo ricopriva potesse essere sangue le fulminò la mente.

Ben aveva sempre detestato andare in missione. O meglio, gli piaceva il brivido del rischio e la complicità che c'era, che doveva esserci con i suoi fratelli. Eppure ogni volta ne usciva stanco e impiastricciato di sangue.

《Devo farlo per forza?》

Gli altri dovevano costringerlo di volta in volta. A lui non piaceva uccidere le persone, soprattutto se dopo doveva ritrovarsi due ore sotto la doccia per levarsi il liquido viscoso e appiccicoso dai capelli e la mamma che doveva buttare via la camicia bianca tutte le sante volte perché il sangue, quello mica viene via dai vestiti bianchi.
E ora non provava più nemmeno il brivido. Quando doveva prepararsi, indossare la tuta prima e la maschera poi, quando giungeva sul luogo della missione e sua sorella gli faceva un cenno d'intesa con un sorriso prima di entrare in azione e lui si sentiva di dover ricambiare... Era solo un'ansia crescente, poi il vuoto. L'unico aspetto positivo, se davvero poteva trovarsi un aspetto positivo in quella vita che sembrava andare a scatafascio, era che da quando avevano perso un membro della squadra il Padre li mandava in missione un po' meno del solito.
Ma comunque.

《Accidenti, amico! Sei ridotto proprio male!》

Ben si sorprese nel sentirsi chiamare. Battè le palpebre per ritornare dai suoi pensieri e concentrarsi sul mondo reale. Si guardò in torno un paio di volte per accertarsene ma non c'erano dubbi: non c'era nessuno nei paraggi perciò chiunque fosse si rivolgeva proprio a lui. Si sorprese ancora di più di essere stato apostrofato in quel modo e lo credette profondamente strano quando vide la vecchia signora che lo squadrava dall'altro lato della strada.

《Stai bene, ragazzo?》 chiese ancora e Ben si ricordò in quel momento di essere ancora sporco di sangue dalla testa ai piedi.

《Non è niente》si affrettò a dire quando vide che la signora stava attraversando la strada, ben lontano dalle più consone strisce pedonali, per avvicinarglisi.

A G ormai non importava più del fatto che sembrasse vecchia, e volle avvicinarsi al ragazzino spinta dalla curiosità. Perché sembrava l'unico ad essere stato colpito da un'armata in una partita di paintball? Ma sgusciando a fatica fra le macchine parcheggiate capì che l'odore intenso e pungente che emanava non era affatto quello della vernice.

《Come ti chiami?》 chiese educatamente, ma poi si diede della stupida, perché ormai aveva indossato i panni di una nonnina e non poteva cambiare volto così, davanti ad uno sconosciuto. Si chiese subito dopo cosa l'avesse spinta a chiedergli il suo nome dal nulla, senza neanche pensarci su. Istinto?

《Ehm... Ben》 bisbigliò lui con riguardo ma visibilmente a disagio. Il suo sguardo rimase inchiodato all'asfalto e non volò agli altri ragazzi che ridacchiavano ormai infondo alla via; così l'anziana si sentì libera di continuare ad osservare la sua postura chiusa più da vicino. Notò il familiare simbolo di un ombrello sulla sua divisa.

"Tanto non saprà mai chi sono."

E con questo pensiero gli porse un'altra domanda scomoda:

《Tutto bene? Mi sembri sconvolto...》

A quelle parole, Ben non seppe esattamente come rispondere. Certo che sembrava sconvolto, infondo era pieno di sangue; però alla vecchia signora sembrò non importare, o forse non credeva che fosse sangue. Ma Ben non stava bene da molto tempo ormai, così come gli altri suoi fratelli e le sue sorelle, e non fece in tempo a mordersi la lingua per non parlare che aveva già riempito i polmoni di aria e mosso le labbra.

《Un po'... Vede, mio fratello è andato via》disse. Appena realizzò le parole, appena si rese conto di averlo finalmente detto ad alta voce per la prima volta, sentì un peso calargli dal petto e svanire fra le viscere. 
Nessuno di loro all'Accademia ne parlava mai.

《È andato... tipo in campeggio?》

《No, è scappato di casa. Tempo fa.》

Nessuno voleva ammettere che c'era l'effettiva possibilità che non avrebbe mai fatto ritorno. Tutti però, infondo, lo pensavano.

《Posso... Posso chiederti da quanto?》

A quella domanda Ben corrugò un poco la fronte sorpreso, perché gli anziani sono gentili e comprensivi, ma non chiedono mai il permesso. Sospirò lo stesso, con l'intenzione di risponderle per educazione, anche se non era del tutto convinto di volerne parlare.

《Due anni》disse con sguardo basso.

G aveva sempre desiderato un fratello. O forse era meglio una sorella. Qualunque fosse stato, a lei sarebbe andato bene; ma non ci aveva mai pensato troppo, perché lei non aveva né fratelli né sorelle, diversamente dal ragazzo davanti a lei. Per la prima volta pensò a cosa volesse dire perdere una persona cara, qualcuno di così vicino come un fratello. Ci pensò, ma sentì solo un vuoto immaginario mordicchiarle la nuca e quello che doveva essere il lutto pizzicarle le narici.

《Lo pensi spesso, non è vero?》

《Io... ci provo.》

Ben si passò velocemente una mano fra i capelli: a spettinarli con irrequietezza, a tirarli troppo forte. Calò il braccio ma quasi subito riportò la mano al volto. Si mosse veloce, di scatto, con una tale urgenza da non riuscire a frenare in tempo il palmo sul suo naso; e si fece male ma non emise un suono.

《Ci provo, in ogni momento, perché... è come se svanisse.》

Non la sua immagine. Quella no, perché Reginald Hargreeves aveva preso la speranza di tutti e l'aveva appesa al muro di casa, sopra il caminetto. Svanivano i ricordi che aveva del fratello. Sbiadiva la sua voce: il suono di come rideva da bambino e di come si arrabbiava con tutti. Sbiadiva il suo odore dai vestiti, rimasti chiusi nell'armadio, e dal ricordo di quando si trovavano schiacciati uno sull'altro dietro una porta prima di spalancarla e sabotare una rapina. Sarebbe pian piano svanito anche il ricordo del suo ultimo giorno, pensava; il rumore del coltello piantato nel tavolo e le urla del padre.

《Lento e inesorabile... Come un sogno》 sussurrò la vecchia; che di vecchio, rifletté Ben quando la guardò meglio, non aveva proprio niente se non la pelle raggrinzita. Aveva un tono troppo coinvolto, un'aria troppo ingenua e degli occhi... troppo brillanti, troppo verdi, troppo tutto. Avrebbe giurato di stare guardando l'espressione di una quindicenne come lui, persa nell'adolescenza e in cerca di un appiglio sicuro dentro e fuori di sé... Ma cancellò il pensiero ancora prima di finirlo perché lui le cose strane sapeva bene cos'erano, sapeva dove potesse giacere il limite fra improbabile e impossibile. E quella davanti a lui era solo un'anziana signora gentile e irrequieta.
Lei intanto alternava il peso da un piede all'altro, indecisa sul da farsi. Poi pensò che se fosse capitato a lei, avrebbe tanto desiderato sentirsi capita. Avrebbe tanto desiderato qualcuno con cui condividere le insicurezze e i dolori e le piccole vittorie della sua vita insolita e solitaria. Non sapeva bene nemmeno lei stessa chi fosse, di sicuro non avrebbe potuto saperlo quel dolce ragazzo sconosciuto.

"Non saprà mai chi sono."

Con un mezzo passo di lato costrinse lo spazio fra loro ad azzerarsi e le fece un immenso ed inaspettato piacere quando, dopo l'irrigidimento iniziale, sentì il ragazzo ricambiare l'abbraccio con modestia. Lui tirò su col naso una sola volta e approfittò della posizione per strisciare via una lacrima sulla sua guancia senza farsi notare, poi allontanò la signora.

《Mi dispiace tanto,》 gli disse.

《Forse dovresti andare,》 fece dopo un imbarazzante momento di silenzio indicando il negozio di ciambelle infondo alla strada. 《Gli altri ragazzi si staranno chiedendo dove sei finito.》

Probabilmente, pensò Ben; ma era altrettanto plausibile che stessero cercando di tenere impegnati i loro pensieri tuffando i denti in una ciambella. Si ricredette però quando scorse la testa di Klaus fare capolino da dietro il muro: guardò più volte da entrambi i lati prima di notarlo e mettere su un broncio confuso.

《Già.》

Il lato altruista che lo contraddistingueva aveva preso all'improvviso il sopravvento avvolgendolo in un sottile strato di imbarazzo e apprensione, e stava per chiedere all'anziana se avesse avuto bisogno di qualcosa, finché era disponibile, quando la vide scivolare nuovamente fra due macchine parcheggiate troppo vicine e di nuovo in mezzo alla strada senza controllare. Lei non si girò a guardarlo, ma sventolò una mano in aria.

《Addio, piccolo Ben!》

"Piccolo...?", ma scosse la testa e la salutò a sua volta per poi riprendere i suoi passi; Klaus da lontano lo richiamava sventolando un braccio in movimenti talmente ampi che Ben si chiese come facesse ogni volta a non slogarsi la spalla. Si allarmò quando d'un tratto sentì il suono squillante di un clacson dall'altra strada e la sua innata premura lo spinse ad attraversare e a svoltare l'angolo in fretta e furia per controllare che la signora anziana stesse bene. Ma quando ebbe una visuale abbastanza buona da potersi fermare vide che la vecchia non c'era. Sulla scena c'erano solo un'auto che ripartiva e un ragazzo lentigginoso, che avrà avuto la sua età, lo scrutava con occhi verdi e sorridenti.
Non lo sfiorò nemmeno il pensiero di essere ancora rosso e appiccicoso di sangue secco e non fece caso alla guancia di lui sporca di strisce dello stesso sangue quando fece dietrofront dirigendosi dai suoi fratelli sul retro del negozio di ciambelle.




NOTA

Eccoci qui al primo incontro con i membri del famoso club! Confesso che inizialmente non avevo idea di come gestire i pronomi del mio personaggio. Come si è (spero) capito non è né maschio né femmina. In un certo senso è entrambi; può essere quello che vuole, letteralmente. Sapevo che in inglese è usato they per rivolgersi corretamente alle persone non-binary, ma in italiano non ne avevo proprio idea e, anche dopo aver trovato le informazioni necessarie, mi suonava grammaticalmente strano. Perciò, senza oviamente voler recare alcuna offesa a chicchessia, alla fine ho pensato banalmente di usare lei quando veste panni femminili e lui quando veste panni maschili. Sinceramente, trovavo inoltre che in questo modo la scrittura (e penso anche la lettura) risultasse molto più fluida. Spero si capisca che gestire G soto questo punto di vista è un pelo complicato; spero lo stesso di rendere sufficientemente bene la sua natura senza che nessuno me ne voglia a male. Accolgo comunque critiche e commenti, purché adeguati all'uso di questa piataforma :)

Chiarito questo aspetto, ci sono tantissime cose che vorrei dire in merito a questa prima one-shot... Ma finirei erroneamente col fare ciò che non dovrei fare io, ma chi legge: analizzare. Per quanto ci tenga al fatto che in quello che scrivo traspaiano pensieri e sensazioni che partono da me in primo luogo, preferisco comunque lasciare che ognuno veda e senta a modo suo.
 

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Capitolo 3
*** Diego ***


Era in un vicolo senza luce che avveniva il misfatto. Un uomo fuori forma e benvestito, una donna alta e robusta. A lui era sembrato che ci sarebbe stata, che l'avrebbe portata in macchina o addirittura in un motel per poi tirare fuori qualche spicciolo... ma le cose erano andate diversamente dai suoi piani. Non aveva di certo intenzione di farle del male, qualunque scenario gli si fosse presentato, ed era proprio questo che cercava di spiegarle mentre lei lo schiacciava contro il muro e calava da una spalla uno zaino nero.

《Abbassa la voce, non voglio che qualche impiccione ti senta!》 esclamò sottovoce piantandogli un gomito sulla gola.

《Non voglio farti del male! Se non sei una puttana, se... se non lo fai per soldi per me va bene lo stesso. Ora lasciami–》 ma lei lo interruppe portando il peso sul braccio che lo teneva inchiodato dal muro dal collo in su.

《Neanche io voglio farti male. Non voglio premere più di così》 disse senza traccia di cattiveria nella voce.

《Che cosa vuoi allora?》

《Se mi avessi lasciato parlare saresti già a casa, cretino. Dammi i soldi》 scandì con calma.

《N-Non ho niente... ! T-te lo giu–》

《Ho detto di abbassare la voce! Non cerco grane io》 lo interruppe di nuovo premendo il gomito sul prominente pomo d'Adamo. Sapeva che gli avrebbe fatto male, ma voleva fare in fretta.

《Dammi il rotolo di verdoni che hai nella tasca》 lo istruì. Le mani dell'uomo tremarono per alcuni lunghissimi istanti verso i baveri della giacca del suo completo bianco.

《Muoviti!》

L'uomo sollevò un lembo e da una tasca interna estrasse un consistente malloppo.

"Saranno almeno mille dollari," pensò fra sé e sé constatando il taglio delle banconote. Lo afferrò con la mano libera e lo lanciò nello zaino aperto facendo un centro perfetto. D'un tratto il rumore di un'auto si fece vicino. Per un momento entrambi rimasero col fiato sospeso, l'una sperando che passasse avanti, l'altro sperando che si fermasse. L'auto frenò dolcemente dietro l'angolo e poco dopo il motore si spense. Chiunque fosse aveva appena parcheggiato e di lì a poco sarebbe uscito. L'uomo iniziò ad agitarsi sempre di più sotto la presa ferrea della donna che con l'altro braccio lo assicurò definitivamente al muro. Poi sentirono la portiera sbattere. L'autista era sceso. L'uomo si agitò ancora di più, cominciando a pestare i piedi.

《Aiuto!》 gridò, ma un'altro colpo di bicipite della ladra e chiuse di nuovo la bocca. Non si diede per vinto, però, non nel momento in cui poteva chiamare un aiuto concreto. In un istante le morse il braccio; il muscolo forte si irrigidì sotto gli incisivi che segnarono il cotone della manica e i canini che lo bucarono. La ragazza si lasciò ad un breve e acuto grido di dolore che si alzò fra i palazzi, ma con l'altro braccio riuscì ad afferrare l'uomo per il colletto. Dal fondo della strada poté vedere appena in tempo l'uniforme della polizia.

《Fermo!》 gridò l'agente, e un'idea le fulminò la mente.

Diego, appena vent'enne, era entrato da poco nel corpo della polizia. Amava gli scopi e gli ideali del lavoro ma si sentiva soffocato dalla sua burocrazia. Di lì a poco, infatti, lo avrebbero sbattuto fuori e lui sarebbe tornato con piacere alle tute di lycra e i coltelli appesi in bella vista alla cintola. Ormai a fine serata, dopo ore seduto a guidare in pattuglia per le strade, decise di fermarsi e sgranchirsi le gambe. Parcheggiò in una strada quasi deserta, accanto ad una lavanderia e di fronte ad un bar piuttosto spento. Aveva ancora un paio  d'ore prima di tornare a casa. Guardò l'orario: 23:34. Più un'ora e mezza che due. Scese con lentezza e si chiuse la portiera dietro le gambe mentre già si sentiva scricchiolare le articolazioni stirando un braccio verso l'alto. Improvvisamente sentì un grido di aiuto, una voce maschile; poi un tonfo e infine un grido squillante, senza ombra di dubbio una donna. Non poteva entrare in azione, non ancora. Non era il compito assegnatogli, ma lui doveva fare qualcosa, doveva fare giustizia. Estrasse uno dei suoi coltelli, sempre nascosti sotto la divisa, e lo impugnò saldamente. Raggiunse, seguendo i rumori, un vicolo buio e gridò "Fermo!". Una sinistra luce blu fioccò infondo alla strada e un altro urlo di donna si levò.

《Mi aiuti, la prego!》

Diego si avvicinò a grandi falcate e, individuato il malfattore con la torcia lo immobilizzò lanciando con estrema precisione il suo coltello. La lama gli sfiorò il collo: sufficiente per spaventarlo ma non abbastanza da ferirlo. L'uomo cadde disorientato con uno zaino nero tra le mani che la ragazza si riprese subito, piazzandogli poi un calcio sullo zigomo. Arretrò appena: "Spero di non averglielo rotto...".

《La ringrazio, agente! Senza di lei chissà fino a dove si sarebbe spinto...》 recitò.

《Dovere.》

Recuperato il coltello, Diego fece per andarsene e raggiungere l'auto assegnatagli, ma si fermò prima di aprire la portiera.

《Perché mi sta seguendo?》

La ragazza, bassina e con indosso abiti un po' larghi, si dondolò sui talloni. Diego pensò che, per essere una che è appena stata quasi derubata con violenza, sembrava fin troppo tranquilla.

《Oh, pensavo dovesse fare rapporto in centrale e che potesse avere bisogno dei miei dati.》

Diego ci pensò su. Aveva abbastanza senso.

《Per questa volta non farò rapporto. Ci vuole fin troppo tempo e la città ha bisogno–》

《Di un eroe?》

Lei sorrise in un modo che Diego non seppe ben decifrare. Stava per ribattere quando lei gli sventolò dieci dollari davanti agli occhi ammiccando al bar dall'altra parte della strada.

《Gli eroi si fanno i turni da sé. Offro io, per ringraziarla.》

Si ritrovarono spalla a spalla seduti al bancone, lei un'aranciata, lui un amaro.

《Non credevo che gli agenti bevessero in servizio.》

《Gli eroi si fanno i turni da sé.》

《Giusto. Quindi... lei è davvero un poliziotto?》

《Lo sono.》

《Ma è anche un eroe.》

《È intrinseco.》

《Non lo è!》 esclamò succhiando l'aranciata dalla cannuccia blu. "E non ci crede nemmeno lui."

《Non si può essere eroi e poliziotti.》

《Perché no?》 chiese Diego sorseggiando il suo amaro. La ragazza non rispose subito, ma si prese del tempo mordicchiando la cannuccia.
Diego notò un punto sul suo braccio dove la manica era particolarmente stropicciata. Vide anche un paio di piccoli buchi, come se la stoffa fosse stata strappata, ma la ragazza ci passò una mano sopra non appena si accorse di essere guardata.

《Non si sente stanca... o sopraffatta dopo ciò che le è successo?》 Non aveva intenzione di farle subito quella domanda. Eppure era bastato un attimo, nell'attesa della risposta alla domanda precedente, per fargli pensare che, se avessero proceduto con quella conversazione, non avrebbe più avuto modo di chiederglielo. Lei non si aspettava chiaramente quel risvolto: le dita si irrigidirono intorno alla cannuccia, gli occhi si fissarono sul bicchiere per un istante di troppo prima di arrivare a quelli dell'agente.

《Certo! È per questo che le ho offerto un drink》. Lui scosse lievemente la testa.

《A me è sembrata fin troppo tranquilla.》

《Sembrata,》 ripeté lei, 《è la parola giusta. Non può normalizzare ogni reazione di persone tutte diverse fra loro. Non sa nemmeno chi io sia.》

"Non lo so neanche io...".

Quando capì di avergli servito la domanda su un piatto d'argento si affrettò a sviare l'argomento prima che lui potesse emettere anche un solo suono.

《Si sente mai in trappola?》 chiese infine, 《Incastrato da se stesso, come se non potesse mai fare la cosa giusta?》

"Come se non riuscisse più a trovare se stesso in mezzo a tutte le maschere che si è inventato per sopravvivere."

Diego, pensandoci, avrebbe risposto di sì. Sì, era così che si era sempre sentito, volendo seguire il suo istinto e contemporaneamente soddisfare le aspettative degli altri. Annuì.

《Ma sto imparando che nel mio mondo ci sono solo io,》 continuò, e bevve il fondo dell'amaro tutto d'un fiato.《 E gli altri di per sé non contano un cazzo.》

Perché, stava imparando che se doveva schierarsi con una fazione o con un'altra... forse era meglio schierarsi con se stesso e non scegliere affatto. Anzi, scegliere la cosa giusta.

《Perché non la pensano come te...》 le sfuggì in un sussurro. Diego la guardò confuso. Notò solo allora i suoi occhi verdi, i più intensi e strani che avesse mai visto.

"Nessuno è capace di stare da solo" si disse, ma poi pensò a se stessa e a quel suo pensiero non diede voce.

"Nessuno dovrebbe."

《Sai,》 disse invece sistemandosi sullo sgabello, e Diego non seppe se gli diede veramente fastidio quando passò al tu, 《da soli si salvano le persone, si sventano rapine di strada... Ma è insieme che si riescono a fare grandi cose.》

"Da soli si sopravvive. Insieme, forse, riuscirei anche a vivere."

A Diego venne in mente suo padre. Diceva sempre che insieme con i suoi fratelli e sorelle sarebbero riusciti a superare le difficoltà della vita. Aveva pensato che fosse una stronzata, ripetuta all'infinito da un'emerita testa di cazzo. Infondo, era per quello che se ne era andato; per quello se ne stavano andando tutti, per quello Numero Uno era rimasto. Perché, dalla morte di Ben, nessuno ci credeva più.

《Tu chi sei...?》 ma vide un suo collega passare per strada e osservarlo confuso.

Cazzo》 sbottò; non poteva farsi beccare a bere e chiacchierare mentre era in servizio. La ragazza seguì il suo sguardo e capì all'istante. Trascinò il bicchiere di amaro vuoto verso di sé e obbligò l'altro a finire il suo ancora mezzo pieno di aranciata. Poi si allungò sul bancone per afferrare una bottiglia di qualche superalcolico e nel momento in cui il collega in divisa fece il suo ingresso lei si voltò verso di lui bevendo alcol a grandi sorsi, i denti arpionati al collo della bottiglia ignorando la gola che ardeva. Se ne separò solo quando sentì il bisogno ingente di respirare. Tequila. Tra tutto quello che le poteva capitare.

《Agente!》 esclamò strisciando le lettere sul palato. Complice il forte senso di nausea, barcollò accanto a Diego reggendosi alla sua spalla.

《Il suo amico è un gus... gsa... gua-sta-fes-te》 scandì.

《Hargreeves...》 fece l'altro scrutando Diego da dietro gli occhiali. Quel nome fece sgranare un poco gli occhi alla ragazza, la quale però continuò la sua farsa rendendosi del tutto credibile.

"Sono la regina delle farse e degli inganni, dopotutto."

Diego resse il gioco spiegando al collega di come fosse entrato nel locale per prendere da bere– oh, moriva di sete!– e di come l'avesse beccata ad infastidire i clienti. Sperò che non facesse troppo caso al fatto che il bar fosse praticamente vuoto.

《Stavo per portarla in centrale–》

《No, lascia perdere. Chiedile dove abita e portala a casa, fai un favore a lei e a noi.》

E così, reggendone il peso con un braccio, la accompagnò alla volante mentre il suo collega grassottello ripartiva.

《Sicura di riuscire a stare in piedi? Ne hai bevuta di tequila là dentro.》

La ragazza lo guardò, i suoi strani occhi verdi ridevano più del resto del suo volto, divertiti.

《Non c'è di che! Diego Hargreeves》 e lanciò un'occhiata eloquente alla targhetta che, in realtà, non aveva avuto bisogno di leggere. Diego sorrise, poi fece per aprire la portiera.

《Ti riporto a casa, sali.》

《Non ce n'è bisogno. Sul serio》aggiunse al suo sguardo insistente. Aprì lo zaino e ne estrasse quella che a Diego parve una giacca troppo grande per lei, come tutto del suo abbigliamento del resto, insieme ad uno strano fazzoletto. Si incamminò, ma prima di girare l'angolo si rivolse al ragazzo che si accingeva a salire in macchina. Si rigirò fra le dita un coltello lucido.

《Un poliziotto non dovrebbe andare in giro con questa roba, o sbaglio?》

Diego la guardò per un istante, esterrefatto. "Come diavolo ha fatto a...?"

《Addio!》 gridò lei, e corse oltre il muro. Diego si affrettò ad inseguirla, urlando di fermarsi e restituire il maltolto, ma svoltato l'angolo non vide nessuno. Solo un vecchiaccio dall'altra parte della strada raggomitolato sotto un cappotto nero e un logoro fazzoletto grigio sul collo rugoso.

《Ah, dannazione!》 e se ne tornò alla macchina.
Una volta che se ne fu andato il vecchio se la rise di gusto, specchiando gli occhi verdi sulla lama affilata di un coltello. Il coltello di Diego Hargreeves.




NOTA

Adoro il personaggio di Diego, ma ammetto che non è il mio preferito in assoluto. Eppure l'incontro con lui è stato il primo che ho realizzato e il più facile in assoluto. Oltre che essere quello più lungo, credo.

Anche qui avrei tanto da dire riguardo questo incontro... ma di nuovo, so benissimo cosa penso io; invece è più interessante vedere cosa ne pensano gli altri, quindi eviterò di analizzare :)

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Capitolo 4
*** Luther ***


Un ragazzo sui vent'anni entrava nel bagno di un bar. Sarebbe il perfetto inizio di una barzelletta se non fosse che dallo stesso bagno ne uscì un'altra persona. Nessuno si chiese quando fosse arrivata una donna sulla quarantina, alta, curata sotto ogni aspetto. Nessuno se lo chiese, o meglio nessuno fece in tempo a chiederselo, perché questa uscì dal locale con nonchalance, senza pagare, sfilando liscia come l'olio oltre la strada nel suo abito lilla, le scarpe col tacco e un tremendo zaino nero che aveva lo stesso effetto di un pugno in un occhio nello stile elegante della proprietaria. D'altronde, tecnicamente non era mai entrata in quel posto quella mattina, non era lei ad avere ordinato un cornetto alla marmellata di mirtilli e un cappuccino. Ma era previdente: allungò il passo verso la svolta più vicina, attese il momento esatto in cui l'autobus di turno le passò davanti... ma qualcosa andò storto. A capo chino vide gli stessi boccoli laccati dondolare sotto il suo mento, le stesse mani, la stessa pelle poco tonica stesa sui tendini. Perfino gli abiti non le andavano più larghi o più stretti.

《Oh, e dai!》 esclamò fra sé e sé, ma la luminescenza azzurrina continuava ad avvolgerla come un'aura flebile senza mai culminare nel cambiamento corporeo.

Poco più avanti, seduto ad una fermata dell'autobus deserta, un gigantesco uomo rimuginava con uno sguardo perso e una moneta tra le dita. Luther si era piazzato nel primo posto privo di passanti che aveva trovato e, se non fosse bastata la tabella oraria di un mezzo che passava ogni tre quarti d'ora, la sua aria depressa e solitaria contribuiva a tenere bene alla larga chiunque per caso capitasse di lì.
La donna si avvicinò alla panchina lentamente; sospirò beata non appena si sedette.

《Questi saranno anche belli, ma non sai quanto possano fare male》 spiegò quando lui le lanciò un'occhiata veloce, come di nascosto. Luther annuì continuando a rigirarsi la moneta fra le mani in silenzio per un po'. Si grattò rudemente la barba ancora curata che iniziava ad infoltirsi prima di prendere la parola.

《Ci sono cose che fanno più male, signora.》

Lei annuì sistemandosi i capelli scuri dietro le spalle.

《Ne sai qualcosa, ragazzone? Oh, e dammi del tu, per carità!》

《Qualcosa, sì.》

La monetina con cui giocherellava gli scivolò tintinnando sull'asfalto e quando si piegò per recuperarla il rumore secco di uno sbrago squarciò l'aria circostante.

《Accidenti...》 mormorò la donna osservando la pelle al di sotto della felpa strappata.

《Che ti è successo?》

《Sono... cambiato》 disse, ma lo sguardo dell'altra richiedeva una risposta più completa. Luther scosse debolmente la testa: tanto valeva esimersi dal vago.

《Ho dovuto. È stato mio padre: per salvarmi la vita mi ha reso... un mostro.》

《Oh...》 Per qualche secondo fu tutto ciò che la donna riuscì ad esprimere; ma non v'era compassione né alcuna traccia di scherno, bensì qualcos'altro che Luther non colse immediatamente.

《Cambiare può fare paura.》

"Lo so meglio di chiunque altro."

《Ma sto imparando... che non è l'aspetto esteriore a renderci veramente diversi. È ciò che siamo dentro. Credo che per poter cambiare davvero, bisogna prima comprendere e accettare quello che siamo adesso.》

《Questa l'hai presa dai biscotti cinesi, dì la verità》 rise lui. Anche lei rise, ma tornò seria in poco tempo. Pose la domanda con una punta di insicurezza, ma era piuttosto convinta di sapere chi aveva accanto.

《Hargreeves, vero?》

《Luther. Quello che ne resta.》

Il breve silenzio che seguì fu ristoratore per entrambi.

《Mi ricordo. Non era male quella Umbrella Academy. Sai, credo di avere incontrato un tuo compagno, una volta.》

《Un mio fratello》la corresse e lei annuì, ma Luther non disse altro. Un nuovo silenzio, più vuoto, venne rotto da lui.

《Sì beh, tra pochi giorni  resterà soltanto l'ombra di ciò che era.》

《Perché?》

《Sto partendo,》 spiegò sospirando, 《vado sulla luna.》

《Sulla luna?》 chiese la donna strabuzzando gli occhi.

《È l'ultima missione che mi ha dato mio padre. In qualche modo servirà a proteggere la Terra, ne sono convinto》 disse improvvisamente orgoglioso guardandola negli occhi; occhi grandi, verdi e strani. Stranissimi. Non seppe spiegarsi il perché.

《È questo che sei, Numero Uno? Una missione?》

《No!》 esclamò convinto, gli sembrava di avere la risposta in pugno ma quando ci pensò meglio non la sapeva più, gli era sfuggita sciogliendosi fra le dita.

《Sono...》

"Già, chi sono?"

《Sono molto più di questo!》

A lei scappò da ridere. Non voleva farlo davanti a lui, ma un gorgheggio la tradì, fremito di corde vocali.

《Ridi di me?》

《Scusami, no. Per niente》 alzò una mano in segno di scuse.

《Lo trovi divertente allora?》

《No, solo... Tu pretendi di avere tutto sotto controllo, di aver superato ogni cambiamento. Prima la partenza di tutti i tuoi compagni– i tuoi fratelli, uno ad uno; poi il fatto di essere rimasto solo in una casa concepita per una grande famiglia, retaggio dell'accademia; e infine tuo padre che ti manda sulla luna.》

Luther la ascoltò in silenzio, lo sguardo rabbuiarsi ad ogni parola.

《Ma non rido di questo》 si affrettò a chiarire dopo aver visto i suoi occhi e i lineamenti del volto sempre più rigidi.

《Tu dici di poter affrontare tutto... ma non sai nemmeno chi sei.》

Luther allora si sentì punto sul vivo. Lui lo sapeva chi era, lo sapeva eccome!

《So benissimo chi sono. Non ho bisogno di farmelo dire da una sconosciuta.》

《Hai ragione》 convenne lei.

《Chi sei, Luther Hargreeves? Cosa ti rende te stesso, cosa ti ha portato qui e ora?》

Il ragazzo si prese la libertà di pensarci qualche secondo, mentre la donna attese con pazienza prendendo a fissarsi le unghie curate.

《Io... sono molto più di una missione. Io sono... Ho un dovere verso le persone che vivono su questa terra perché sono l'unico in grado di fare qualcosa e l'unico a rendersene conto.》

La donna annuì, ma tornò a guardarlo con insistenza.

《Ne sei sicuro? Davvero è solo questo che ti rappresenta? Perché secondo me c'è molto, molto di più.》

A quello Luther non rispose. Pensò invece di rigirare la domanda.

《Tu invece? Chi sei?》

Si prese il tempo di un sospiro per rispondergli.

《Non lo so》 ammise.

《Ma infondo non posso saperlo per mia natura.》

Non qualcuno che cambia volto, che cambia identità; non qualcuno che non ricorda il suo vero aspetto, non quacuno che non ha origini né una storia alle spalle.

《In questo siamo simili.》

《Tu dici?》

《Sì, ragazzone. Ci siamo persi in noi stessi. Ma tu puoi ancora guardarti indietro, cercare chi eri e ricostruire la strada che hai fatto, pezzo per pezzo, fino a chi sei oggi.》

Luther appoggiò le spalle al muro sfregandosi lentamente le mani.

《Beh, tutta la mia vita è una missione》 disse, e rise in silenzio, fra sé e sé.

"Anche la mia", pensò la donna.

"Capire chi sono".

《Ma quando perdi di vista l'obiettivo...》

Non aveva alcuna intenzione di dire quelle parole in realtà. Aveva pensato ad alta voce.

《Non ho mai perso di vista l'obiettivo di ogni missione》 fece lui, sentitosi chiamare in causa ancora una volta. 《Per questo so chi sono.》

Lei trattenne un'altra risata, ma non un sorriso.

《Credevo fossimo andati oltre.》

《Era il centro del discorso, no?》

《Touchè.》

La donna tirò verso di sé uno zaino nero che Luther non aveva notato prima. Stonava tantissimo con il suo delizioso abito, pensava.

《Ma che farai una volta completata la missione che ti ha assegnato tuo padre, mh?》

《Ne avrò un'altra》 rispose con fare ovvio.

《Sì– no, intendo... cosa farai quando tutte le missioni saranno finite, quando non sarà più tuo padre a dirti cosa fare? E allora dovrai vivere per conto tuo.》

Luther sbuffò. Non riusciva proprio a capire se si stesse prendendo gioco di lui o se fosse solo una persona peculiarmente diretta. Decise lo stesso di non prendersela a male quella volta.

《Dove vuoi arrivare?》

《Quale sarà il tuo obiettivo allora?》

Luther ci pensò su un po', ma rispose in modo non poco convinto.

《Immagino che lo scoprirò vivendo. A modo mio.》

La donna aprì lo zaino tirando velocemente la lampo da un lato all'altro. Lui gettò un'occhiata fugace per curiosità ma non riuscì a scorgervi nulla di chiaro. 
Lei si alzò stirandosi la gonna dell'abito coi palmi e si sgranchì le caviglie spostando il peso da un piede all'altro.

《È questo il punto, ragazzone. Saranno ancora gli obiettivi a definire chi sei?》

Poi gli sorrise: un sorriso ambiguo, caldo e malinconico.

《Che vuoi dire?》 Ma la donna si era già incamminata verso la fine della strada.

《Scusa, ma non posso restare. Sono in ritardo. Addio!》

Girò l'angolo e di lei rimase solo l'eco dei tacchi di cinque centimetri che andò a perdersi nel trambusto dell'autobus che arrivò proprio in quel momento. A Luther parve perfino di vedere un debole lucchicio blu baluginare per un istante oltre i finestrini opachi. Si alzò e cercò di raggiungerla per chiederle almeno il suo nome ma, girato l'angolo, vide che al suono di quei tacchi corrispondeva un'altra figura, alta, bionda e avvolta in un lungo ed elegante cappotto estivo.


NOTA

Questo incontro l'ho inteso come un momento di riflessione per esntrambi. Anche per G, per quanto non possa sembrare. Ne seguiranno altri; dopotutto è lo scopo di questa raccolta, no?
:)

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Capitolo 5
*** Vanya ***


La saletta della biblioteca non era più gremita come prima: molte sedie erano vuote, la fila per l'autografo non si faceva più. Dopo la sensazionale uscita dell'autobiografia del membro nascosto della super combriccola - quasi dell'Umbrella Academy stessa - l'interesse generale si era spento, come per qualsiasi altra cosa; ma G non si stancava mai di ascoltare quella storia triste. Forse, aveva pensato una volta, l'aiutava a fingere di stare bene così, che se una famiglia significava tutto quello allora era meglio non averne una affatto. Eppure ogni volta coglieva il fascino e l'ammantava la malinconia nel percepire, tra le righe, quanto lei vi fosse sempre stata affezionata, ai suoi fratelli, fosse anche solo per la necessità di non abbandonarsi a un crollo mentale. Che poi, dopo aver letto e riletto la sua storia, G non si capacitava di come ne fosse uscita intera. Profondamente segnata, chiaro, ma intera.
Indossava sempre la stessa pelle quando entrava in biblioteca ad ascoltare la lettura, sperando che l'autrice lo notasse, ma lei non lo notava mai. Non notava mai nessuno. Col capo chino sulle sue pagine, guardava il pubblico sempre più rado un solo istante da sotto le ciglia prima di chiudere il libro. Quella sera stava per andarsene, convinta che nessuno avrebbe voluto sapere altro da lei, quando una voce la chiamò.

《Ehi! Scusa?》

Latero-centrale, vide un braccio teso in alto che prima non aveva notato. Il giovane si alzò lentamente, ma con una vena di agitazione mal celata. Era la prima volta da quando aveva letto il suo libro che si decideva a farle delle domande, e per quanto tentasse di non darlo a vedere era alquanto emozionato.

《Oh, perdonami, non...》 non l'aveva visto, ma non ebbe praticamente tempo di dirlo.

《Figurati, succede anche ai migliori, Vanya》 sorrise lui calcando il suo nome con spudorato proposito. Vanya si strinse nella sua larga camicia a quadri, subito a disagio.

《Forse non hai letto il libro...》 cercò di ironizzare imbastendo un'espressione divertita, ma risultò il sorriso più spento che G avesse mai visto.

《Affatto! Anzi, l'ho letto quattro volte. Perché...?》

《Beh, io... non sono esattamente l'eroina della storia, ecco. Di certo non "la migliore".》

《Certo, nessuno qui dentro lo è mai stato, un eroe. Ma sei la protagonista. No?》

Vanya lo guardò un solo istante negli occhi: verdi, caldi, sinceri. Abbandonò ogni tentativo di mostrare un'emozione diversa da quella che provava. Non ne aveva la forza.
Passò alcuni momenti in un silenzio di piacevole imbarazzo, poi chiese: 《Avevi una domanda?》

《Sì. In verità molte, ma... credo che me ne basterà una soltanto,》 disse sventolando il libro fra i loro due corpi con lente rotazioni del polso. 《Com'è stato scriverla?》

Vanya si prese un momento per analizzare la domanda, ma pensò di non averne colto l'esatta sfumatura.

《...In che senso?》

《Voglio dire... Scrivere questo sulla tua famiglia...》

Vanya abbassò lo sguardo sui polpastrelli incalliti dalle corde di violino. Che cosa significava? Lo aveva mandato uno dei suoi fratelli? Sua sorella?

"Non perdere la testa, Vanya. Ti odiano, ma non lasciare che le cose ti sfuggano di mano."

Sì, forse non era stato un bel gesto nei loro confronti scrivere quell'autobiografia, e non si stupiva se per questo la detestavano tutti, ma andava fatto. Lo aveva scritto perché era la sua esistenza tenuta all'oscuro di tutti, era il suo riscatto; perché forse, in fondo, anche lei meritava di uscire alla luce del sole. O forse no.

《Dev'essere stata molto dura per te.》

Le sue parole troncarono di netto i pensieri di Vanya e le sollevarono gli occhi come se l'avesse afferrata per il mento. Tutti chiedevano dell'infanzia sotto il regime di Reginald Hargreeves o chiedevano dei suoi fratelli. Nessuno le aveva mai chiesto cosa avesse significato per lei scrivere quel libro, tantomeno lontanamente compreso l'entità del rischio che si era presa deliberatamente.

《Non l'hanno esattamente presa bene,》 rispose forzando il sussurro in una frase udibile.

《Onestamente non capisco perché. Erano delle celebrità da piccoli ancora più che da adulti, si erano sempre fatte le più disparate speculazioni su di loro.》

《Non credo che sia piaciuto il modo in cui li ho resi così... reali, credo.》

Il ragazzo tentennò con timidezza prima di rispondere. 《Beh... Adesso lo sei tu, reale. Non sono contenti per te?》

Vanya faticò a trovare le parole giuste con cui rispondere a quell'ingenua domanda quasi retorica. In realtà le parole le aveva. Faticò a trovare l'aria sufficiente per dirle. Perché si era fatto tutto così improvvisamente cupo? O era solo una sua impressione?

《Se- Se hai davvero letto il libro tante volte non dovresti avere difficoltà a capirlo da te. Non siamo mai stati... molto legati, diciamo.》

G capì allora di avere appena ricevuto la risposta alla sua domanda. Lo vide nella sua fronte distesa e le sopracciglia lievemente piegate, negli occhi spenti e le ciglia basse e nelle dita strette sui gomiti. Capì che non era molto diversa da lui, che forse sono tutti uguali, tutti un po' persi in diverse dosi di disperazione e tutti alla disperata ricerca di un senso di completezza. Come una falange anchilosata che scrocchia, o la panna sulle fragole, o la nota giusta in una melodia stonata. La melodia Vanya ce l'aveva. Era molto stonata, stonatissima, ma c'era. E quel suo stesso pentagramma l'aveva rifiutata, per qualche motivo, e lei suonava tanto per coprire quella fastidiosa, enorme stonatura nella sua vita con una melodia bellissima e fugace, evanescente. Ma né Bach né Stravinskij possono attutire il suono della tua sola famiglia che si sgretola, della tua vita che va in pezzi, anche quando la stai ricostruendo con sudore e calli e pillole.

G si chiese come avrebbe trovato una melodia abbastanza bella, abbastanza forte da risuonare nel suo cuore e superare la cacofonia che l'accompagnava per strada. Si chiese se l'avrebbe mai trovata.

Vanya notò presto che qualcosa di tetro iniziava ad occupare la mente del ragazzo, così tossì, senza sapere bene come muoversi di lì in poi. Improvvisò.

《Comunque non è solo di questo che parla il libro. È un'autobiografia, parla più... del mio personale percorso di riabilitazione, chiamiamolo così.》

G si riscosse con un brivido. No, no. Il percorso di riabilitazione era uno sticker giallo e sorridente trovato nella sorpresa di un ovetto al cioccolato incollato su un'infanzia scura.

《Invece sono convinto che parli proprio di questo. Una fame di affetto che tutti conoscono, che tutti hanno patito.》

"Che non tutti sanno saziare."

《Anzi, ti ringrazio di avermelo fatto notare》aggiunse poi. Le toccò un braccio per un timido e fulmineo istante, delicato come si tocca una ferita, leggero come si sfiora la nebbia. Si ritrasse immediatamente sotto lo sguardo indecifrabile della ragazza e deglutì.

《Hai fatto molto più che rispondere a una domanda e ora... ora ho molto più su cui riflettere.》

Sulla soglia della porta si voltò verso Vanya, interdetta e risentita, piegata su se stessa come un cucciolo infreddolito, per quella che aveva deciso sarebbe stata l'ultima volta.

《Addio!》




NOTA:

Non ho note, aiut *_*
Ai lettori l'ardua sentenza, e buona giornata!

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Capitolo 6
*** Klaus ***


Aveva l'aspetto di un giovane uomo quando si recava nei vicoli più sporchi e malfamati della zona. Diceva di avere ventiquattro anni, ma vestiva i panni di uno che ne avrebbe potuti dimostrare diciotto senza difficoltà. Indossava un berretto di lana che gli calava largo sulle sopracciglia scure, pantaloni della tuta, capelli corti e un viso tondo. Il solito zaino nero si addiceva perfettamente allo stile di quello strano ragazzo. Svoltò da una strada principale e si ritrovò in un dedalo di vicoli in cui ancora sapeva orientarsi. Ricordava l'odore pungente di urina qua e là, quello acre dell'immondizia e quello di sudore e stupefacenti, sempre più intenso mano a mano che si allontanava dalle strade piene di gente per bene. Si sedette su un vecchio scatolone che sembrava potesse reggere il peso piuma di quel corpo. I suoi giorni si susseguivano veloci come sabbia in una clessidra senza mai trovare un senso a quell'anonimo scorrere del tempo, chiedendosi come aveva potuto pensare di farcela da solo, senza una meta né una partenza; senza una vera identità né un luogo da poter chiamare casa o delle persone da considerare una famiglia. Da tempo si sentiva sempre più perso, sempre scomodo in ogni volto che indossava come maschera su qualcuno che nessuno aveva mai visto. Ma in quel vicolo, su quello scatolone accartocciato, non poté soffermarsi a lungo su quei pensieri: un ragazzo camminò barcollando fino al muro e si accasciò con poca grazia accanto a lui. Non parve nemmeno averlo notato e il giovane si concesse del tempo per osservarlo. Era un tipo a dir poco esuberante, di primo acchito, a partire da quella sorta di vestaglia viola che portava sulle spalle. Poi i pantaloni di pelle sintetica nera, le converse verdi che non c'entravano nulla nel complesso, un po' come tutto il resto. Sembrava vestito a caso. Vide le sue mani accendersi una sigaretta, o forse una canna a giudicare dall'odore; mani lunghe, poco curate ma prive di segni, calli o cicatrici e un bracciale bianco a ricordargli la lontana riabilitazione. Notò una bellezza sciupata nei capelli arruffati sulla fronte che si distese appena inalò i fumi dell'erba, e negli occhi dai contorni anneriti dal trucco e arrossati da altre sostanze. Sembrava disperato e leggero, triste e alto come una nuvola grigia di pioggia. Per anni aveva venduto roba come quella a persone come lui e sapeva esattamente dove finivano tutti. Ma perché non provare, pensava. Perché, se non si trova un senso, non cercarne uno altrove?, a forza, accedendo alla più intima sfera della propria mente cavalcando un trip da droga. Lo vide subito, il sacchetto pieno di pastiglie fare capolino dalla tasca di quella assurda vestaglia, come a salutarlo. Ma il giovane forse non era ancora fatto, o non abbastanza, perché vide la sua mano avvicinarsi alle sue pastiglie e l'allontanò con uno schiaffo male assestato.

《Ehi ladruncolo, cosa credi di fare?》

《Scusa...》

Il silenzio mise presto fine al breve scambio di battute. Il ragazzo strambo lo guardò di sottecchi: gli sembrò un tipo a posto.

《Che ci fa uno come te in questo postaccio?》 chiese ridendo sommessamente.

《Nostalgia, credo.》

Il ragazzo aspirò una grande boccata di fumo mentre l'altra estremità della canna brillava come le ultime braci di un fuoco.

《Sei ricaduto nel tunnel?》

Lui guardò come le volute di fumo grigiastro si dissolvevano nell'aria in ghirigori ad ogni sua sillaba. Per la prima volta nella sua vita si chiese come fosse davvero, il tunnel.

《Non ci sono mai entrato.》

L'altro prese a guardarlo e per un po' non emise alcun suono.

《Ti dispiace se...?》 ruppe lui il silenzio indicando con un cenno la canna fumata per metà. Il ragazzo mosse la mano negandogli il permesso e le ceneri caddero disgregandosi sull'asfalto.

《No, no. Non dovresti mai provare, anzi non dovresti nemmeno pensarci! Non sarò io a ridurti così come... beh, come me. E poi guardati, sei così giovane! Voglio dire, quanti anni avrai, diciotto?》 rise tirando ancora.

《Qualcuno in più.》

Sorrise pensando che doveva avere più o meno l'età di quello strano tipo, ma poteva dimostrarne quanti voleva. Diciotto, sessanta, dieici.

《Sai cosa ti frega?》 continuò il ragazzo, 《Le fossette.》

《Quali fossette?》

《Quelle, vedi? Quando sorridi ti spuntano le fossette. Sono carinissime, ma ti fanno sembrare più giovane. Cioè, molto più giovane.》

Passò ancora un silenzio disinvolto mentre lui terminava la canna e spegneva il mozzicone, ormai ridotto al filtro, sotto la suola della scarpa.

《Tu invece che ci fai qui?》

《Abitudine, credo》 disse guardandolo con un ghigno divertito.

《Se ti rendi conto di dove sei arrivato e di quanto male ti faccia... perché sei qui?》chiese indicando il bracciale. Guardò meglio: era uscito quella mattina.

Il ragazzo sospirò.

《Sai, per me... per me è diverso. È più complicato.》

E questa volta fu lui a sospirare mentre si sistemava il berretto largo sulla fronte.

《Dite tutti così.》

《Come puoi saperlo?》

Il ragazzo si guardò intorno per un po' e infine puntò lo sguardo su un uomo al limitare del vicolo. Questo con passo sicuro e tranquillo si avvicinò al muro dove si mise a parlare con qualcuno. Con una mano estrasse una piccola busta di plastica dalla tasca dei pantaloni e con l'altra nascose dei soldi sotto la giacca.

《Vedi quel tipo laggiù? Anni fa ero come lui.》

《Tu... spacciavi?》 chiese incredulo l'altro.

《Caspita, dev'essere stato terribile... un ragazzino...》

In realtà era esattamente come gli si presentava: un ventiquattrenne che dimostrava diciotto anni con un berretto largo, vestiti da strada e uno zaino nero.

《È per questo che sei qui?》 chiese e lui, immerso nei ricordi, non s'era accorto che intanto allungava una mano tremolante verso il suo zaino. Tuttavia non lo raggiunse, lo indicò e basta.

《Riprendi l'attività o è l'ultima svendita?》

《Nessuna delle due,》 disse.

《Peccato, sarei stato molto felice di essere il tuo ultimo cliente.》

Il ragazzo cambiò d'un tratto espressione, infastidito agitò una mano davanti a sé come a scacciare un insetto invisibile.

《Shh, basta!》 bisbigliò. Lui lo guardò accigliato.

《Non ho detto niente.》

《Scusa tesoro, non ce l'ho con te》 spiegò lanciando occhiatacce al muro scrostato. Così anche lui guardò in quella direzione cercando qualcosa di anomalo, qualcuno, ma non v'era assolutamente niente.

《Sei proprio strano》 rise e proprio in quel momento il ragazzo alzò gli occhi su di lui incrociando il suo sguardo. Indugiò qualche secondo di troppo sui suoi occhi verdi, profondi e... avrebbe detto diversi. Come se non appartenessero a quella persona.

《Anche tu. Sì, sì, lo sei!》 spiegò quando vide la sua fronte corrugarsi interrogativamente.

《Un ragazzo giovane e triste, ex spacciatore che torna nel covo della droga perché sente nostalgia. Andiamo...》 e rise ancora accendendosi un'altra canna.

《Già, forse hai ragione. Sai, una volta questi posti erano casa per me.》

《Vivevi qui?》

《Non qui qui, ma in posti del genere.》

《Ah, ecco, perché, vedi, io vengo spesso a farmi un giro da queste parti e non ti avevo mai visto prima.》

Gnolò di nuovo, questa volta verso un bidone poco distante, poi tornò con lo sguardo su di lui.

《Beh lasciatelo dire: hai fatto bene ad andartene. Ora hai un posto dove stare?》

《Non proprio... vivo un po' qua, un po' là... dove mi porta il caso direi. La necessità》 si corresse infine.

"Non potrò mai avere una casa."

《Oh, e come fai?》

《Diciamo che quell'impiego di anni fa mi è servito da trampolino.》

《Ah, capisco. E te ne sei andato così? Voglio dire, non sono uno spacciatore ma conosco il giro della droga. Se lavori per qualcuno non è mai facile andarsene.》

《Lo so. Ma nessuno riuscirà mai a prendermi!》

Il giovane si prese alcuni secondi per metabolizzare la frase.

《Che intendi?》 chiese e alzando lo sguardo sul suo volto, come se avesse potuto leggerci sopra la risposta, lo trovò ad un palmo dal naso. Il ragazzino sorrise: lentamente le fossette scomparvero, alcune rughe invecchiarono la sua pelle intorno agli occhi, i capelli si allungarono perdendo colore come se colasse per terra dalle radici; e gli occhi: verdi e immobili. Poi si allontanò e tutto tornò esattamente com'era prima. I capelli corti e scuri, le fossette e il viso tondo da diciottenne. La canna pendeva inerme dalle labbra del ragazzo, stranito. Strabuzzò gli occhi e la prese tra due dita.

《Che diavolo mi sono fumato...?》

Il ragazzo rise di gusto. Era la prima volta che si mostrava a qualcuno per ciò che era. O meglio, per ciò che poteva essere, ovvero chiunque lui volesse. E gli era piaciuto, tantissimo. Una sensazione di leggerezza lo investì: qualcosa di vietato ed esaltante, una ventata d'aria fresca in un panorama il cui accesso era stato proibito per anni. Aveva aperto la prima vera finestra sul mondo e l'effetto era duplice: la voglia di vederlo tutto e la paura di perdersi e farsi male.
Poi vide un disegno sul polso del ragazzo, un tatuaggio.

《Eri un fan?》 chiese indicando l'ombrello nero sulla sua pelle pallida. Lui trattenne a stento una risata prima di rispondergli.

《Certo! Come no...》 e ancora rivolse uno strano sguardo verso il bidone dove continuava a non esserci nessuno. Il ragazzino gli rivolse l'ennesimo sguardo confuso, ma decise di non chiedere niente. L'idea improvvisa che avrebbe continuato a fumare finendo col credere tutto frutto del thc e chissà quali altri principi attivi lo fecero balzare in piedi.

《Adesso devo andare,》 disse issando lo zaino su una spalla e una mano in tasca.

《Addio.》

Ma non lo disse con l'entusiasmo di sempre.

《Klaus!》 esclamò il ragazzo quando ormai stava per svoltare l'angolo.

《Cosa?》

《Mi chiamo Klaus. Se dovessimo incontrarci di nuovo. E tu?》

Lui parve pensarci. Se dire il suo nome, se inventarne uno o se ribadire l'addio, Klaus non lo sapeva.

《G》 gli urlò di rimando, con potenza, come per imprimerlo meglio nei timpani.

《Gi... e poi?》 ma lui gli parlò sopra.

《Vali molto più di così, Klaus! Ora lo sai...》

La mano sgusciò fuori dalla tasca sventolando una bustina di plastica e le minuscole pillole al suo interno.
Klaus si perquisì le tasche della vestaglia allibito senza trovare la sua scorta.
"Come... Quando...?"

《Quelle sono mie, ridammele!》ma lui era già sparito correndo, dileguandosi prima ancora che l'altro potesse raggiungere la fine del vicolo.

*****************

G si lanciò alcune occhiate dietro le spalle per assicurarsi che non avesse tentato di seguirlo. Riprese fiato e osservò le pillole blu.

"Sarà solo un tentativo."

Poi le nascose con cura nello zaino nero.

La sera stessa ne ingoiò una manciata senza pensarci troppo e fu quello ad essergli fatale. La prima cosa che vide quando riaprì gli occhi, fra un battito e l'altro del suo cuore, fu un lenzuolo bianco sugli occhi. Lo calò con lentezza, un mal di testa lancinante gli fece stringere le palpebre. L'odore inconfondibile di amuchina gli irritò le narici.

"Non è un ospedale, non è un ospedale..."

Ma quando riaprì gli occhi le pareti bianche e lo stretto lettino su cui si trovava lo fecero ricredere. C'erano diversi macchinari spenti disposti a semicerchio attorno a lui come a vegliarlo, come a compiangerlo. Solo allora si accorse degli aghi, cerotti ed elettrodi appiccicati sulle braccia, sui polsi e sul petto scoperto.

"Sono nudo..."

Si strappò con poca attenzione i cerotti che assicuravano gli elettrodi sopra il suo cuore e imprecò quando rimosse malamente gli aghi dai polsi e dagli avambracci facendoli sanguinare. Raggiunse barcollando un attaccapanni poco lontano dove qualche medico o infermiere aveva dimenticato un camice e ci si avvolse tornando poi, infreddolito e dolorante, sotto il lenzuolo. Poco dopo una donna con un camice identico e un plico di fogli entrò nella stanza e lanciò un urlo.

《Non è possibile...! La cartella...》

"L'overdose era irrecuperabile..."

Ma il ragazzo non la degnò nemmeno di un sguardo, seduto ad ascoltare il notiziario sul piccolo schermo appeso in un angolo.

 

Il mondo dice addio a Reginald Hargreeves.


NOTA:
Capitolo intenso, spero. Qui emerge un'altra caratteristica, diretta conseguenza del potere di G, se vogliamo. Se sa riarrangiarsi a suo piacimento in un istante, i processi cellulari saranno altrettanto rapidi ed eclettici, no? Ha senso? Sarà deformazione professionale (ah, quanto vorrei poter dire professionale sul serio... ma per ora posso solo scherzare, ne riparliamo quando mi laureo :) ). Per quanto l'analisi-interpretazione non spetti a me, ci tengo a far notare che, al momento, Klaus è l'unico a cui G ha rivelato la sua natura.

Non fate uso di sostanze stupefacienti, ragazzuoli, pena: non la fine di G. Ora che ci penso, devo controllare di aver messo il rating giusto..

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Capitolo 7
*** Allison ***


Entrò in un centro commerciale con un viso sciupato e barbuto da adulto. Non era molto affollato, eppure l'aria era soffocante e sapeva di chiuso e di fretta. Sostò annoiato per un po' davanti a un'edicola leggendo di sfuggita i vari titoli di giornale. Una foto in particolare catturò la sua attenzione: una splendida bambina sorrideva abbracciata al padre. Ignorò totalmente la didascalia che, a caratteri cubitali, contornava la scenetta. Prese la rivista lucida fra le mani per osservare meglio la fotografia, ma una voce lo interruppe.

《Ehi, amico. Se vuoi leggere lo devi comprare.》

Un uomo, avrà avuto suppergiù la sua età apparente, si sporgeva da dietro il banco ammiccando alla rivista. G diede un'ultima occhiata all'immagine.

"Sì, posso replicare."

Poi sbuffò e la ripose dove l'aveva trovata, facendo un cenno al negoziante prima di andarsene.
Avanzò quindi a passo sostenuto verso un negozio di abbigliamento. Erano parecchi giorni che vestiva panni maschili, cambiandone tanto spesso la fisionomia come fossero pezze per lavare e lui il pavimento più immondo della storia. Sicuramente tornavano utili in molte situazioni, ma aveva voglia di cambiare aria. Di certo un uomo sui quaranta che si nasconde dietro una tenda per provare vestiti da bambine sarebbe sembrato quantomeno assurdo e inquietante a chiunque; perciò nascose un paio di jeans, due scarpe e una felpa dal reparto femminile 8-10 anni sotto a un paio di camicie blu e si infilò nel camerino più lontano. Si disfò di tutti i vestiti prima di lasciarsi avvolgere dalla luce blu: il risultato allo specchio era quasi impeccabile. Soddisfatta, si infilò nei jeans e nella felpa rosa che aveva scelto, non prima di aver strappato, con una certa difficoltà, tutte le etichette. I pantaloni andavano un po' corti e le scarpe erano scomode poiché aveva dimenticato di arraffarsi un paio di calzini, ma se lo fece andare bene. Infilò nel grande zaino nero solo la giacca scura che indossava insieme al vecchio volto e i pantaloni color kaki- perché chissà; poi strisciò sotto la parete divisoria nel camerino adiacente. Uscì fingendo di chiamare la mamma e l'allarme del negozio non fiatò. Ricordava la prima volta che provò a rubare i vestiti con questo stratagemma: era terribilmente giovane e senza esperienza alcuna; dalla fretta dimenticò di scassinare l'antifurto della maglia con la stampa di Spiderman e lo beccarono in tempo zero quando l'allarme urlò rivelando a tutti il furto. Scosse la testa fra sé e sé; aveva fatto davvero tanta strada da allora. Sempre se di "strada" si poteva parlare. Ma infondo, pensò, la colpa era sua. Alla fin fine, la scelta di condurre quello stile di vita era unicamente sua, e si doveva ripetere tutti i giorni che non avrebbe avuto alcun senso tentare un altro sentiero, poiché non ha né storia né avvenire, per impedire alla colpa di eroderla ancora di più, lasciando però più spazio alla desolazione ogni giorno più pressante. Chi era, chi doveva essere? Che avrebbe combinato nella vita? Ma forse, forse era più impellente preoccuparsi di cosa avrebbe fatto per arrivare alla notte successiva. Si grattò la nuca reprimendo un'altra volta i pensieri e liberò i capelli gonfi dall'impedimento del cappuccio.

Uscendo dal centro commerciale sgraffignò un dolcetto da una bancarella ambulante e se ne andò saltellando. Si era quasi dimenticata di come fosse la prospettiva del mondo dal basso. È ovvio che ai bambini sembri tutto più magnifico o più spaventoso: ogni cosa diventa enorme. Anche la mano di qualcuno che le avvolse la spalla da dietro facendola girare.

***********

Allison era atterrata da poco. L'aeroporto era gremito come al solito, ma nulla reggeva il confronto con la sua mente e il suo cuore in quel momento. Suo padre era morto e, per quanto avesse odiato la sua infanzia proprio a causa sua, doveva tornare per il funerale. Certo, in questo modo aggiungeva inevitabilmente benzina al fuoco dei problemi che già aveva con il tribunale. E Patrick. E Claire. Sarebbe rimasta poco; un paio di giorni, appena il tempo di rinfrescare il ricordo della sua famiglia in pezzi e seppellire il padre.

Riuscì a fermare un taxi appena in tempo. Il viaggio durò a lungo, un po' perché la sua casa natale era lontano dall'aeroporto, un po' per il traffico in periferia, ma fu dannatamente silenzioso. Si sentiva ansiosa e a disagio all'idea di tornare in quella vecchia, grande casa vuota. Non era del tutto sicura del motivo, ma la sensazione le faceva tremare le gambe di fastidio.

《Mi lasci qui, per favore,》fu tutto quello che disse all'autista prima di prendere il suo trolley dal bagagliaio e pagarlo. Lo aveva fatto fermare in una strada anonima, a pochi isolati dall'Accademia. Una camminata all'aria aperta non poteva che giovarle, smaltire l'agitazione l'avrebbe aiutata a rilassarsi. O così pensava.
Passò davanti a un piccolo centro commerciale e a fatica registrò la densità di persone bizzarramente bassa. Sospirò e pestò un tacco a terra. Doveva darsi una calmata; insomma, che le prendeva?

"È soltanto un funerale."

Solo un funerale.

Che avrebbe portato a galla vecchi dolori e questioni irrisolte, lo sapeva. Avrebbero odiato anche lei per non essersi mai fatta viva in tutti quegli anni? Si sarebbero dati la colpa a vicenda? Probabilmente a coprire quell'aspetto ci sarebbe stato l'astio ancora vivo nei confronti di Vanya per aver scritto quel dannato libro. Come stava Vanya, che fine aveva fatto? Com'era cambiata? Aveva davvero senso avercela ancora con lei, con tutti loro, o era meglio fare finta di niente? Allison deglutì qualcosa di simile al senso di colpa misto alla rabbia che stava nascendo. E Luther? Era sceso dalla Luna? Aveva ancora gli stessi occhi, si sarebbe sentita come un tempo guardandoli? Ebbe paura della risposta, e rincarò la dose quando, per un momento, si chiese se anche lui l'avrebbe detestata per essersene andata via.
Pestò di nuovo un tacco sul cemento trattenendo il respiro.
Desiderò non pensare a tutto ciò che l'aspettava, solamente distrarsi per quei pochi minuti che la separavano dall'Accademia; e, come se i suoi pensieri fossero stati ascoltati, arrivò qualcosa a distrarla dal suo prossimo futuro catapultandola nel passato.
Qualcuno.
Allison era certa di vedere proprio Claire camminare per strada.
Non poteva essere lei, eppure avrebbe riconosciuto ovunque quel faccino delicato, le ginocchia leggermente valghe e i capelli scuri che sembravano di zucchero filato. Sollevò istintivamente una mano e la posò sulla sua spalla quasi senza pensarci, il suo nome a fior di labbra; ma quando la bambina si girò, i suoi sgargianti occhioni verdi non la riconobbero. E lei, in essi, non riconobbe Claire.

《Oh... S-scusami tanto, piccola,》 si ritrovò a balbettare.

《Ero sicura fossi un'altra persona...》

La bambina la guardò per alcuni istanti, sorpresa e un po' confusa; sul suo volto nessuna traccia di paura. Superato lo sconcerto iniziale, Allison notò subito un'assenza ingombrante.

《Ehi, uhm, dove sono la mamma e il papà?》

La piccola batté le ciglia lunghe un paio di volte. Aveva sottovalutato la curiosità delle persone. Effettivamente, pensò G, era una bambina sui dieci anni, forse anche meno, che gironzolava tutta sola. Ci mise del tempo per elaborare una bugia credibile, ma appena prima che l'istinto materno di Allison potesse intervenire, le sovvenne un'idea, a parere suo, decisamente migliore.

《Ma tu sei... Jackie Jordan?》

Ricordò improvvisamente di averla vista in un film di amore e avventura in un ruolo secondario qualche tempo prima, in un cinema all'aperto non lontano dalla città. Decise di restare nel ruolo di bambina che si era scelta accennando al personaggio che aveva interpretato. Sapeva bene quale fosse il nome dell'attrice; dopotutto era sempre stata brava con le facce, era difficile che ne dimenticasse una, tanto di più se il volto in questione era quello di una celebrità. Dal canto suo, la donna fece un'espressione indecisa, ma infine le rispose.

《Jackie Jordan... Sì, sono io. Ma il mio vero nome è Allison,》le sorrise.

《Hargreeves...》G se lo lasciò sfuggire sovrappensiero, rigirandosi quel nome sulla lingua sottovoce. Allison non ne parve particolarmente sorpresa, e accettò di buon grado quando le chiese un autografo sul retro della felpa rosa pastello. La ringraziò e prese a sfregarsi i palmi con leggero disagio quando la donna rimase lì accanto, in silenzio per alcuni lunghi istanti.

《Sai, tu... tu assomigli tantissimo a una persona,》disse, e G colse chiaramente lo sconforto dilaniante nella sua voce.

《È una persona che conosci?》

《Sì... è una persona che amo moltissimo. È mia figlia.》

《Oh.》

La piccola incollò gli occhi a terra concentrandosi con scarso successo sull'asfalto che veniva mangiato dalle suole delle sue scarpe mentre camminava lentamente in tondo. Non aveva idea di cosa volesse dire avere una figlia. Non aveva idea di cosa volesse dire avere una famiglia in assoluto. Perciò non era del tutto sicura di sentirsi di indicare la nota triste che aveva accompagnato la donna parlando della sua bambina.

《Mi dispiace》 disse soltanto, a bassa voce; perché non voleva davvero che sentisse, ma non voleva neanche starsene in silenzio.

《Per cosa?》 chiese allora Allison, che invece l'aveva sentita.

G alzò le spalle inclinando la testa di lato, sembrando estremamente dolce agli occhi della donna.

《No, è solo che... mi sembravi triste parlandone,》 spiegò. Allison corrugò la fronte, stupita dell'acuità della piccola. In realtà, si rese conto, non era capace di trattenere malinconia e apprensione fuori dalla sua voce tanto quanto non era capace di tenere sua figlia fuori dai pensieri anche solo per un secondo.
Si lasciò andare.

《Si chiama Claire. Sai, penso che ti piacerebbe. È molto curiosa e le piacciono le caramelle,》sorrise ammiccando al leccalecca che aveva in mano. A G non piacevano i bambini, anche se ogni tanto si divertiva a vestirne i panni; ma sorrise ugualmente e annuì in silenzio. Guardò per un momento il dolcetto, se lo girò fra le dita un paio di volte. Poi alzò la mano porgendolo alla donna.

《Tieni,》 insistette scuotendo debolmente il braccio davanti a lei quando la vide ferma e confusa.

《Puoi portarglielo.》

《Ma è tuo,》rispose Allison, le sopracciglia aggrottate e le mani ancora ben lontane dall'accettare il dolce.

"Ma se l'ho rubato," pensò G.

《Tanto non mi va,》disse infine.

Allison allungò allora una mano, seppur esitante, e ripose il leccalecca dentro la sua borsa dall'aria costosa. Nel processo, la bambina scorse un tatuaggio nero sul suo polso. Allison si premurò di tirare per bene le maniche della giacca appena notò lo sguardo della piccola incuriosito su quel dettaglio.

《Ne ho sentito parlare,》disse indicando l'ombrello ora coperto. Allison sembrò agitarsi appena.

《Ma è roba vecchia, credo.》

《Già... è stato molto tempo fa.》

《Però,》riprese la piccola, che questa volta non aveva colto il disagio misto a nervosismo di Allison a riguardo, 《pensa che fico: vivere in così tanti, tutti insieme sotto lo stesso tetto!》

Allison tornò confusa. Stava per chiederle di spiegarsi, ma pensò di aver sicuramente inteso male le sue parole e si rilassò in un sospiro.

《Sei figlia unica, eh?》

G non sorrise, né la guardò negli occhi, ma annuì.

《Sarò del tutto sincera con te. Anche io sono cresciuta in una casa piena di bambini. Avevo... Ho tre fratelli e una sorella,》le raccontò esitando sui numeri. Ben era morto e Cinque non sarebbe mai tornato. Il riverbero del dolore arrivò dal passato e le strinse appena lo stomaco.

《Ma ti assicuro che quando si è in troppi è una vera rottura di-》si censurò appena in tempo troncando anche la risata con cui si accompagnava. La bambina sospirò, per nulla convinta delle sue parole.

《Almeno non si è da soli.》

《Te lo concedo,》le carezzò i capelli gonfi.

《Sai, avere fratelli, o sorelle può essere davvero... speciale. Ma- e devi credermi, non è mai una passeggiata.》

《Non lo è mai comunque,》asserì in risposta.

《Ma penso...》esitò un momento in quella che era a tutti gli effetti la confessione di una delle sue più agognate fantasie.

《... che alla famiglia, alla fin fine, non si voltino mai le spalle. Nonostante le brutte parole, nonostante il tempo, nonostante tutto. Penso che si sentano tutti più... come dire, al sicuro, sapendo di averne una su cui poter contare. Giusto?》

Allison non si mosse. Faticava a trovare le parole, quelle giuste da dire, parole e basta.

"Nonostante tutto."

Ma la bambina non le diede il tempo di rispondere.

《Scusami Allison, ehm... la mamma mi chiama.》

Le strinse la mano. 《Addio!》

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Capitolo 8
*** Cinque ***


Aprì la porta del furgone e strattonò il borsone. Doveva recuperare Dolores, aveva bisogno di Dolores. Nervoso e sconfortato com'era non notò nemmeno la scritta sulle ceneri che ricoprivano il parabrezza, ma si caricò il suo manichino sottobraccio e chiuse la porta dietro di sé senza voltarsi. Camminò a lungo senza riuscire a rallentare il passo erratico né il respiro ansioso.

《Sì, lo vedo!》si rivolse agitato alla compagna rigida sotto il suo braccio.

《No... Ci dev'essere qualcosa che non va, qualcosa di cui non ho tenuto conto... Non lo so, Dolores! Hai qualche idea?》

Sbuffò alla silenziosa redarguizione del mezzo busto ma si dette un contegno.

《Hai ragione, scusa,》si fermò per guardarla negli occhi, celesti e immobili, leggendoci dentro tutto il rimprovero e l'affetto che gli riservavano. Aveva appena perso la sola cosa che gli serviva per fermare l'Apocalisse. Un solo nome, andato in fumo. Puff. Sapeva di poter contare sul supporto di Dolores, ma non era sufficiente per placare lo sconforto di quel momento e il presagio di panico che le conseguenze dell'esplosione portavano con loro.

E adesso?

La risposta più semplice gli venne data quando vide un negozio sull'altro lato della strada.

《Mi perdonerai,》sussurrò a Dolores carezzandole distrattamente un fianco come a scusarsi in anticipo. Attraversò il marciapiede lanciando una mera occhiata per controllare che non vi fossero macchine di passaggio. Entrò svelto nel piccolo supermarket; andò dritto alla sezione dei liquori, ne pescò uno incolore a caso e si nascose dietro una corsia per saltare nel magazzino senza essere visto, uscendo dal retro.
No, Dolores si sbagliava. Non avrebbe trangugiato l'intera bottiglia, gli serviva solo un goccio per distendere i nervi e pensare con più calma; non avrebbe di certo risolto mezza equazione con il continuo rimorso e il senso di fallimento per la testa.

************

La biblioteca pubblica era alquanto tranquilla. Parimenti ai vicoli dove i drogati si nascondevano come gatti morenti, c'era silenzio e a nessuno importava degli altri. Non c'era il tanfo, però, era molto più pulito e c'erano informazioni
Dopo l'overdose, il corpo di G era stato investito per sbaglio da un camion una volta, ed era stato intenzionalmente intossicato con un ammorbidente e dato alle fiamme altre due.

Non era mai morto.

Decise di infilare una blusa color panna con dei jeans– gli ultimi che avrebbe mai rubato, capelli corti biondi e spumosi di messa in piega, un lucidalabbra e un'età fra i cinquanta e i sessant'anni. Prese anche degli occhiali da sole, perché trovava che quegli occhi chiari fossero fin troppo sensibili alla luce per i suoi gusti. 
Non sapendo da dove iniziare, ribaltò la sezione di cronaca da cima a fondo, senza trovare il benché minimo riferimento alla sua situazione. Pensò poi che il suo fosse un caso certamente unico, più che raro. Passò quindi alla letteratura, cercando romanzi di ogni genere e dimensione in cui si parlasse di personaggi resuscitati o immortali. Nessuno di essi era tratto da storie realmente accadute e nessuno proponeva rimedi realmente praticabili– anche i più avanzati testi accademici di mineralogia non citavano mai la kryptonite. Stanca dopo aver passato quasi l'intera giornata in biblioteca, affranta ma non ancora sconfitta, si recò alla sezione di biologia. Magari informandosi sul comportamento di un corpo normale avrebbe potuto ricavare cosa non andasse nel suo. Le dimensioni dei testi più completi che trovò a riguardo pesarono sulla sua pazienza e autostima, oltre che sugli avambracci: non aveva mai studiato prima, ma non si diede per vinta. Premendo un orecchio sulla spalla sistemò gli occhiali da sole che dalla fronte le erano scivolati sul naso, non potendo usare le mani, e si avviò alla postazione precedente. Passò dalla sezione di matematica, adiacente a quella di fisica e, arrivata alle scale, vide una cosa alquanto strana. Notò, nascosto in un angolo, un manichino di donna e una bottiglia mezza vuota di qualcosa. Fogli, taccuini e penne circondavano il busto di plastica tutto rovinato, sparpagliati sul pavimento. Scorse solo dopo un ragazzino, non doveva avere più di quindici anni, dall'aria spenta avvolgere un braccio intorno al manichino e mormorare qualcosa contro di esso. Poi alzò lo sguardo, e la vide. Sembrò irrigidirsi e cercò di schiacciarsi meglio contro il muro dietro di lui. G lo raggiunse, curiosa; a meno di tre metri da lui poteva chiaramente distinguere l'odore del contenuto della bottiglia.

Il ragazzo scosse appena la testa con aria confusa allentando la presa sulla manica della compagna inanimata. 《Handler? Come hai... Che ci fai tu qui?》

《Cos-... Come, scusa?》

Lui ghignò e raddrizzò la schiena. Lei si avvicinò di un passo.

《Non vieni mai sul campo, lo sappiamo entrambi. Che c'è, l'uccisione di quella manica di incompetenti ti ha spaventata?》e rise, dandosi mentalmente dell'ubriacone, per una volta in accordo con Dolores, perché sapeva che non c'era nulla che spaventasse davvero Handler.

G scosse la testa confusa. Era chiaramente ubriaco. Le si strinse il cuore al pensiero di un bambino della sua età, così giovane, già distrutto dalla vita a quel modo da dover ricorrere all'alcol. In una biblioteca pubblica, per di più. Appoggiò i libri a terra, prese posto accanto a lui senza sfiorarlo neanche con un lembo di vestiti e prese la bottiglia nascondendola dietro di sé.

《Temo tu mi abbia confuso con un'altra persona, tesoro.》

《Oh, andiamo, smettila di fare finta di niente,》sbottò, suonando improvvisamente insofferente; lasciò andare il manichino per ruotarsi nella sua direzione.

《Siamo solo noi adesso. A che pro, fingere? Ora puoi... uccidermi o portarmi alla Commission-...》il sorriso furbo scomparve all'improvviso dal suo volto. Cominciò a guardarsi intorno e G lo imitò inevitabilmente, togliendosi finalmente gli occhiali scuri per vedere meglio.

《Dov'è la valigetta?》ma quando tornò a guardarla capì quasi subito che davvero non era chi credeva che fosse.

《Quale valigetta?》

Ora G poteva chiaramente vedere ogni dettaglio del ragazzo: i capelli scuri scarmigliati, le tracce di sporco sul suo viso, la divisa disordinata, gli occhi spalancati e sorpresi.

Così anche Cinque poteva vedere chiaramente i dettagli del viso della donna che aveva davanti. Era uguale a Handler in tutto, se non fosse per gli abiti che inizialmente lo avevano alquanto sorpreso, essendo totalmente differenti dallo stile stravagante tipico della sua ormai ex datrice di lavoro. Ma i suoi occhi, oh, gli occhi verdi sembravano quasi risplendere anche nella riservata penombra di quell'angolo nascosto della biblioteca.

《Sei tu...》sussurrò senza mai staccare gli occhi dai suoi.

G rimase interdetta. Aveva preso le sembianze di un corpo mai visto prima; possibile che fosse una persona realmente esistente? Che avesse casualmente incontrato qualcuno che riconosceva quel corpo? Lo vide rilassarsi di colpo, gli occhi socchiudersi e le spalle sciogliersi contro il muro.

《Sarà una coincidenza,》disse il bambino ridendo, questa volta sinceramente divertito, 《ma devo farti i miei complimenti. Uguale in tutto... Eccetto gli occhi, ovviamente. Cazzo, mi hai proprio fregato!》

Non poteva di certo chiedergli se si conoscessero già. E se fosse stato così? Comunque non doveva essere troppo difficile improvvisare con un ragazzino. Ubriaco.

"Sarà divertente."

《Già, te l'ho proprio fatta!》

Se le dava del tu e le parlava in quel modo, dovevano conoscersi abbastanza bene. Scivolò quindi più vicina a lui per sembrare più naturale.

《Allora,》sollevò la bottiglia di alcolico afferrandola dal collo e tenendola sempre a debita distanza dal ragazzo,《cosa ci fai qui?》

Cinque si prese un momento prima di rispondere. La guardò a lungo senza dire una parola, poi guardò Dolores.

《È strano, non è vero?》scandì marcatamente le parole, come se temesse di trascinare le sillabe per colpa del quarto di litro che si era scolato prima. Recuperò un pastello scuro da sotto la gamba e prese ad osservarlo con sguardo quasi maniacale.《L'ultima volta questo posto era un cumulo di calcinacci... Ma le pareti sono sempre ottime per scrivere.》

Solo allora G notò i numeri e i simboli scritti con tratti spessi e furiosi tutt'intorno a loro. Si prese un momento per analizzare meglio la situazione.

"Non vuoi dirmi che ci sei venuto a fare sbronzo in biblioteca? E va bene, sei tu che te le cerchi."

Strofinò un pollice sul suo mento annerito senza pulirlo sul serio. 《Che ti è successo?》

Il ragazzino sembrò analizzarsi: si guardò le mani sporche, i calzoncini strappati qua e là; poi i fogli scribacchiati e trattenne a stento un rigurgito dal marcato retrogusto di... qualunque cosa fosse quella che aveva bevuto fino a quel momento.

《Se parli dei miei vestiti, è esploso un palazzo. Se parli delle equazioni, stessa risposta. La bottiglia invece non ricordo esattamente...》socchiuse gli occhi nel vuoto, un'espressione più concentrata del necessario. A G venne da ridere.

《Ti ricordi almeno il tuo nome?》fece fingendosi esterrefatta. Lui aprì la bocca e inspirò a fondo come per rispondere, ma si fermò e soffiò rumorosamente tutta l'aria attraverso un paio di risate. La guardò con quella che, nella sua testa, doveva essere un'occhiata pietosa. A G parve solamente spaesato e in preda ad una breve vertigine.

《Non c'è bisogno che improvvisi con me, so chi sei,》rise di nuovo lanciando nella sua direzione uno sguardo divertito.

《Certo che lo sai,》gli rispose lei, con la netta impressione di avere a che fare con un pazzo. Quello, o qualcuno che sapeva davvero chi era. Per un momento le passò per la testa l'idea di alzarsi ed evadere quella strana conversazione cambiando volto, ma ancora una volta il ragazzino troncò di netto i suoi pensieri con quella nota quasi malinconica nella voce.

《Sai G, non ho mai capito come facessi.》

Lei sobbalzò vistosamente sentendosi chiamare.

《Come sai il mio nome?》

《È una lunga storia, lo scoprirai. Anzi, spero proprio di no, vorrà dire che avrò impedito la fine del mondo,》e lei non riuscì a dire niente quando lui prese un generoso sorso dalla bottiglia, ancora elaborando le sue parole enigmatiche. Tutto di lui era misterioso. Per un momento si chiese se non fosse lui a giocare con lei, e non il contrario.

《Sei ubriaco fradicio,》asserì trascinando la botiglia fuori dalla sua portata. Era l'unica possibilità, che fosse pieno di alcol come una spugna, o non si spiegava come facesse ad avere indovinato il suo nome. A dirla tutta, non si spiegava neanche così. Lui le strappò il vetro di mano prima che fosse troppo distante.

《Non te l'ho mai chiesto... Sapevi dell'Academy e so quanto fosse estenuante la vita per te,》disse trovando con poca difficoltà il suo guardo. La vera sfida fu rimettere bene a fuoco la sua immagine.

《Perché non hai mai cercato aiuto? Avresti avuto un tetto fisso sulla testa, papà avrebbe trovato il modo di risalire alla tua identià ben prima di...》tentennò alla ricerca delle parole giuste, poi il suo sguardo incappò sui tomi accanto alla donna.

"Che vita possono avere dei bambini che devono salvare il mondo dal male, con il peso di una responsabilità del genere?"
Lo pensarono entrambi, ma G non fece in tempo ad elaborare ulteriormente il pensiero, perché un'altra domanda urgeva risposta più di qualunque altra.

《Tu chi diavolo sei?》

Di solito accadeva il contrario; accadeva sempre il contrario: erano gli altri a porre questa domanda a G. Perché poteva essere chi voleva e nessuno sapeva chi fosse veramente, nessuno si era mai avvicinato anche solo lontanamente ai suoi segreti. Non intercorse un respiro alla risposta del ragazzino, come se già si aspettasse quella domanda uscire dalla sua bocca.

《Se tutto va bene, non lo saprai mai,》e bevve un altro sorso. Singhiozzò e si sfregò gli occhi pesanti.

《Che cavolo significa?》fece lei ormai spazientita.

《Che non dovrai passare le ultime tre settimane della tua vita soffrendo come un cane!》esclamò abbracciando di nuovo il manichino.

《Ehi, Dolores,》borbottò guardando il busto di plastica, 《non è molto gentile da parte sua non ringraziare, vero?》

Il manichino mantenne intatto il suo statico sorriso e lui sembrò prenderlo come un'affermazione annuendo di rimando. Poi puntò lo sguardo sui libri di biologia cellulare.

《Le tue ricerche hanno fruttato, alla fine. Te lo dico io,》marcò con attenzione quelle parole allo sguardo sempre più confuso e agitato della donna,《tu morirai. Morirai come muoiono tutti; come moriranno tutti tra pochi giorni, in un modo che devo ancora scoprire, tu pensa!》

《Sei pazzo,》gli disse con accentuata indignazione, alzandosi con una furia mista a un terrore quasi sconosciuti. Se ci pensava, non era poi molta la strada fra la sua propria condizione e la patologia.

Non si prese la briga di aiutarlo, magari prestargli la sua giacca o lasciargli un sacchetto per vomitare: quello sotto ai suoi occhi, abbracciato a un mezzo busto di plastica ubriaco e magrolino, non era più un povero bambino schiacciato dalla vita. No, no, quello era pericoloso. Lui sapeva davvero chi era G. Non era mai successo che qualcuno sapesse chi era G. Per questo si spaventò e scese le scale di fretta, con tutta l'intenzione di fare un nuovo abbonamento alla biblioteca più lontana da quell'angolo di mondo in cui le cose andavano al contrario, mentre il ragazzino-non-ragazzino rideva dietro di lei.

《Addio!》



NOTA:

Ecco, in realtà questa shot chiude la raccolta, ma apre un eventuale approfondimento (dato che, me ne rendo conto, non è esattamente chiaro come Cinque conosca tanto bene G, né come faccia a sapere come muoia, anche perché ci si può davvero fidare della parola di un bambino bresco?)

Da cui il dilemma: approfondire o non approfondire? 
Per me la raccolta si chiude da sola con questo ultimo incontro, con un totale ribaltamento delle parti (Cinque sembra sapere tutto, mentre G brancola nel buio esposta all'ignoto come non era mai successo). Non saprei se iniziare un'altra raccolta o aggiungere una shot (che, per lo meno, saprei come intitolare) o lasciare tutto così com'è e far arrovellare la gente (qualora qualcuno stia leggendo, s'intende).
Vista la più totale indecisione, consigli sono ben accetti!

Per il resto, ritengo di aver raggiunto un discreto grado di soddisfazione. La storia di G sta appena iniziando, ma era fin qui che volevo arrivare: come giunge all'inizio ed esce dal loop di stasi. Spero davvero di aver reso la cosa :)

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