Parlami di Charlie

di Krgul00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO UNO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO DUE ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO TRE ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO QUATTRO ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO CINQUE ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO SEI ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO SETTE ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO OTTO ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO NOVE ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO DIECI ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO UNDICI ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO DODICI ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO TREDICI ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO QUATTORDICI ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO QUINDICI ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO SEDICI ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO DICIASSETTE ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO DICIOTTO ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO DICIANNOVE - EPILOGO ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO UNO ***


CAPITOLO UNO
L’unico Caffè di tutta la cittadina di Sunlake era il Red, aperto da Oliver Davis nel 1982 a soli vent’anni.
Alla fine degli anni Novanta il locale era stato ampliato per ospitare l’area ristorante ed eventi, ed ora, due delle quattro pareti del locale erano interamente in vetro, in modo da permettere un’ottima visuale della piazza centrale del paese.
Dalla parte opposta all’entrata c’era il lungo bancone in legno, orgoglio di Oliver, che, in casi normali, poteva ospitare dieci persone; tuttavia, quando la città si riuniva al Red si riusciva anche ad arrivare al doppio degli sgabelli.
Il resto della stanza era disseminato di tavoli di forme diverse, tondi quadrati e rettangolari, tutti rigorosamente in legno. Il risultato era uno stile decisamente rustico.
Nonostante fosse l’unico Caffè del paese, alle otto di quella mattina di novembre si contavano solo tre clienti. Due uomini in uniforme erano seduti al centro del bancone e parlavano con Benjamin Davis – unico figlio di Oliver. Arthur Foster, invece, era seduto al suo solito tavolo – sempre lo stesso ormai da vent’anni - ed era immerso nella lettura del suo giornale, il cappello invernale che copriva i capelli grigi in disordine faceva capolino dal bordo del quotidiano. Questi, quindi, non si accorse della donna che entrò, così come i due seduti al bancone, che davano le spalle alla porta.
Benjamin, che stava finendo di pulire il filtro della caffettiera, alzando gli occhi avrebbe potuto far caso al nuovo cliente, ma era preso dalla conversazione con Pit Cooper e Alex Peterson seduti di fronte a lui.
Perciò, la donna si avvicinò tranquillamente e si sedette a tre sgabelli di distanza dai due agenti.
“Buongiorno”, salutò.
La conversazione tra i tre uomini si interruppe bruscamente e tutti si girarono verso la sconosciuta.
In un paese piccolo come Sunlake tutti conoscevano tutti e il preannunciato arrivo in città di un forestiero sarebbe stato sulla bocca di tutti. Tuttavia, nessuno ne sapeva niente dell’arrivo di una donna: se qualche turista avesse prenotato all’unico albergo del paese “La Rosa”, Gracie Howard non ne avrebbe fatto certo mistero e tutti in città avrebbero aspettato con trepidazione l’arrivo dei nuovi ospiti; stessa cosa per dei parenti in visita.
Ancor di più se il forestiero aveva l’aspetto della donna seduta al bancone. Sui trent’anni, aveva capelli biondissimi a caschetto che incorniciavano un viso roseo e curato, gli zigomi alti erano scuriti da un rossore più intenso, così come la punta del naso fino e dritto, segno evidente del vento freddo all’esterno. Labbra carnose erano coperte da uno strato lucido di burrocacao, unica traccia di trucco su un viso altrimenti pulito, che delineava un arco di cupido e un bordo del vermiglio ben definiti.
Infine, ad illuminare un volto perfetto, grandi occhi di un blu profondo incorniciati da folte ciglia.
Il busto era coperto da un piumino largo, che ne nascondeva le forme, ma dalle gambe lunghe e toniche avvolte in jeans scuri, seminascoste sotto il bancone, se ne poteva dedurre una corporatura snella.
Una bellezza così non si vedeva certo tutti i giorni a Sunlake.
I tre uomini, presi alla sprovvista non risposero al saluto, ma si limitarono a fissarla.
L’attenzione minuziosa di tre paia d’occhi su di lei non sembrò turbarla in alcun modo, e passato il tempo socialmente riconosciuto per ricambiare il saluto, la donna fece il suo ordine: “Prenderei due di quelle ciambelle al cioccolato, per favore”. I suoi occhi blu, quasi ipnotici, sembrarono addolcirsi quando incontrarono quelli castani di Benjamin e le labbra, già curvate in un piccolo sorriso gentile, si allungarono in uno più profondo e amichevole.
Il ragazzo arrossì furiosamente sotto quello sguardo.
“C-certamente”, balbettò.
Come risvegliati, Pit e Alex distolsero lo sguardo, cercando tuttavia di sbirciare la bellezza seduta a pochi sgabelli di distanza.
“Me le puoi incartare, gentilmente?”, chiese lei, la voce dolce e musicale che riempiva l’aria.
Se possibile il viso già bordeaux di Benjamin divenne ancora più rosso quando balbettò confusamente un altro “certamente”.  I due uomini si mossero a disagio sullo sgabello, l’imbarazzo di Benjamin permeava l’aria e l’unica che non sembrava esserne toccata era lei.
Quegli occhi azzurri seguirono gli spostamenti del ragazzo dietro al bancone mentre le preparava il suo sacchetto, anche se, uno sguardo più attento avrebbe notato come non sembravano focalizzarsi sulle azioni meccaniche che svolgeva Benjamin, ma piuttosto su qualche sua riflessione personale.
Quando l’altro le porse le sue ciambelle, lei lasciò una banconota da dieci dollari sul tavolo – ben più del valore del suo acquisto – e si alzò.
“Grazie, Benjamin. È stato un piacere”, denti bianchi e dritti spuntarono in un sorriso sincero e senza aspettare una risposta, si incamminò verso l’uscita. Converse nere calcarono il pavimento del corridoio tra i tavoli, con andatura sicura. I tre uomini al bancone – Arthur non si era nemmeno accorto della nuova arrivata, tutto preso dal suo giornale – la seguirono con lo sguardo, mangiando con gli occhi ogni centimetro di quelle lunghe gambe e del sedere alto e sodo lasciato appena scoperto dal piumino che indossava.
Nessuno di loro si rese conto che la donna conosceva Benjamin Davis.
 
Appena uscì dal Red, il sorriso di Charlie Royce si affievolì. Il solo pensiero di tornare a casa la sconfortava. L’ultima volta che era tornata a Sunlake, quasi sette anni prima, era rimasta un solo giorno, non aveva avuto nemmeno il tempo per disfare la valigia. Non era riuscita a gestire al meglio la situazione con suo padre, all’epoca, e il susseguirsi degli eventi avevano portato alla sfibrante impasse attuale.
Frugando nel sacchetto che le aveva dato Benjamin prese una ciambella e ne strappò un bel morso. Il dolcetto calmò la fame nervosa che le era presa da quando aveva varcato la soglia della sua casa d’infanzia, la notte prima.
Si incamminò, non badando agli occhi degli uomini all’interno del Red che la seguivano attraverso le grandi vetrate.
Alle otto della mattina Sunlake era ancora mezza addormentata. La giornata, in una città – anche se non si poteva proprio chiamarla così – come Sunlake, iniziava ad ingranare verso le nove. La scuola apriva alle nove e mezza così come i negozi e le altre attività commerciali, tranne la centrale di polizia, il municipio e il Red, ovviamente.
Charlie ricordava a malapena com’era vivere in un paese piccolo come quello, ma era riposante rispetto al fermento di una grande città. Strappò un altro morso dalla ciambella, il silenzio del mattino spezzato dal rumore leggero dei suoi passi e dall’ululare del vento.
Rallentò quando svoltò nella sua via e poté ammirare uno scorcio delle montagne in lontananza; ricordava quando suo padre la portava a sciare, l’odore della montagna, i rifugi confortevoli in cui si fermavano a prendere la cioccolata calda o le patatine fritte e poi il rientro alla baita nel tardo pomeriggio, con i muscoli piacevolmente intorpiditi dopo una giornata di attività.
Distolse lo sguardo e lo rivolse al cielo terso di novembre, cercando di ricacciare indietro le lacrime al ricordo di quei giorni in cui andava ancora tutto bene. Giorni in cui la delusione non era presente negli occhi di suo padre quando la guardava.
Inspirò profondamente, contò fino a sette e poi espirò. Come al solito i muscoli delle spalle si rilassarono e la mente di svuotò di tutti i pensieri indesiderati. Si infilò il resto della ciambella in bocca e si incamminò decisa verso casa e quando varcò la soglia era il ritratto della calma.
La sua casa di infanzia era piccola ed accogliente, appena entrati si accedeva al piccolo salotto, una libreria strabordante di volumi occupava tutta una parete, davanti al divano e alla poltrona di suo padre c’era il piccolo tavolino da caffè. Nessuna televisione, solo un piccolo caminetto che illuminava le giornate invernali come quella.
Com’era prevedibile suo padre sedeva sulla poltrona, il viso immerso nel giornale, e non diede segno di averla sentita entrare. Il maggiore Stephen James Royce era un uomo abitudinario, si svegliava alle sette in punto ogni mattina, si lavava, beveva il suo caffè, si sedeva in poltrona e leggeva i suoi quotidiani fino alle nove.
Charlie si levò con clama il cappotto e si avviò verso la cucina.
“Ti ho comprato una ciambella al cioccolato. La tua preferita”, gli disse con disinvoltura, senza girarsi a guardarlo.
Entrò in cucina, appoggiò la ciambella sulla credenza e contò lentamente fino a dieci. Non avendo ancora ricevuto risposta, tornò in salone, suo padre ancora intento a leggere il giornale.
Decise di riprovarci. “Ti ho comprato-” si interruppe bruscamente quando il quotidiano si abbassò e gli occhi azzurri di suo padre la fissarono. I suoi settantatré anni lo avevano reso più magro e con l’età, la meravigliosa muscolatura giovanile di un uomo che aveva fatto della vita militare la sua carriera, era ormai svanita. Sul viso una volta liscio, erano comparse diverse rughe e i capelli, una volta castani, si erano ingrigiti; tuttavia, si poteva ancora definirlo un bell’uomo ed era facile immaginare da dove sua figlia avesse ereditato la sua bellezza.
Quando suo padre le rivolgeva quello sguardo, Charlie poteva facilmente comprendere il nervosismo che provavano le altre persone quando era lei stessa a guardarli in quel modo.
Nonostante fosse invecchiato, Stephen era ancora in grado di innervosirla ma, rispetto a quando era più giovane, Charlie era diventata un’esperta nel mascherare le sue emozioni; d’altronde era parte del suo lavoro.
“Non devi comprarmi niente, lo sai perfettamente”, Stephen Royce fece per riprendere la lettura del suo giornale, ma fu interrotto da Charlie, ancora in piedi davanti la porta della cucina. “Non mi dispiace”, disse alzando le spalle e facendo finta di niente, “te la metto in un piatto o-”, anche stavolta non riuscì a concludere la frase.
“Non mi piacciono le cose comprate con soldi sporchi.” Quelle parole, come sempre, la colpirono come uno schiaffo in faccia - non che lo diede a vedere – e con fare impassibile si girò e tornò in cucina; la rabbia iniziava a ribollire dentro di lei, poteva sentirne il calore che le saliva lungo il collo. Chiuse gli occhi, inspirò profondamente, contò fino a sette e poi espirò. La calma la pervase nuovamente.
Mise comunque la ciambella nel piatto e tornò in salotto. Se suo padre aveva intensione di giocare a questo gioco, allora poteva farlo anche lei. Era infantile? Sicuramente. Le importava? Non più di tanto.
Vedendola tornare dalla cucina con il piatto in mano, Stephen borbottò un “puoi anche buttarla via” e riprese a leggere. Il giornale di nuovo sollevato come una barriera tra loro.
Senza fare una piega Charlie si stravaccò sul divano e iniziò a mangiare il suo dolcetto con gusto, emettendo esagerati suoni di piacere.
Il quotidiano si abbassò nuovamente e Stephen la fulminò con lo sguardo, ma fu un’occhiataccia sprecata poiché la figlia era concertata sulla ciambella e non gli prestava alcuna attenzione. “Siediti bene, non ho cresciuto un animale.”
Charlie lo ignorò e raccolse qualche briciola che le era caduta sul maglione, poi prese un altro morso. “Ti dirò, i soldi sporchi hanno proprio un buon sapore”, disse con la bocca piena.
Se con il tempo Charlie aveva imparato a simulare e nascondere qualsiasi espressione facciale volesse, Stephen non ne era mai stato capace e, in tutti gli anni che Charlie era stata via, sembrava non avesse ancora imparato. Perciò, a quelle parole, chiuse di scatto il giornale, la faccia rossa per l’indignazione. “Non ti permetto di mancarmi di rispetto sotto questo tetto” - Charlie alzò lo sguardo, un’espressione di finta meraviglia sul volto, come se proprio non riuscisse a capire quale fosse il problema - “finché resterai qui ti comporterai come si deve” - Charlie prese l’ultimo morso e iniziò a leccar via il cioccolato dalle dita, come gustandosi uno spuntino durante uno spettacolo televisivo - “e non tollererò alcun comportamento criminale. Sono stato chiaro?”
Alla domanda del Maggiore Royce, Charlie si alzò con calma dal divano, il piatto ancora in mano. “Signorsì”, rispose facendo un piccolo gesto militare, che fece assottigliare ancor di più lo sguardo del padre.
Quando uscì nuovamente dalla cucina, dopo aver lavato le stoviglie, Stephen stava cercando di ritrovare una posizione comoda sulla poltrona. “Va bene, allora”, disse Charlie dirigendosi in camera, “vado di là, ho un po’ di chiamate da fare.” Guardando l’orologio aggiunse, “avevo in programma una rapina nel pomeriggio e ora devo avvertire che non vado.”
Non gli permise di rispondere. Si rifugiò nella sua stanza e aspettò di sentire la porta d’ingresso chiudersi. Alle dieci Stephen Royce aveva la sua passeggiata quotidiana.
La stanza non era cambiata da quando era partita per la scuola militare a quindici anni. Il piccolo letto occupava la maggior parte dello spazio. Anche le lenzuola rosa con fiori bianchi erano le stesse di quando era bambina. L’armadio ad incasso ravvivava la stanza con il suo color giallo pastello. Nessuna scrivania, solo una poltroncina in un angolo. L’unico elemento di novità erano le due valigie ai piedi del letto.
Appoggiandosi alla porta, Charlie chiuse gli occhi ancora una volta, inspirò profondamente, contò fino a sette e poi espirò.
Scivolando lungo il battente, si mise seduta a terra e aspettò in silenzio.
Solo quando sentì suo padre uscire di casa, poco tempo dopo, si mosse di nuovo. Frugando nella valigia trovò l’altro telefono, quello per le chiamate cifrate e non rintracciabili, e compose il solo numero che le era permesso chiamare usandolo.
Matthew Allen rispose subito. “Ce l’hai fatta a chiamare, stavo iniziando a preoccuparmi.”
Charlie sbuffò. “Cosa mai potrebbe capitarmi a Sunlake?”
Dall’altro capo della linea Matthew ridacchiò. “Sei rinsavita e hai cambiato idea?”, le chiese, senza nascondere una nota di speranza nella voce.
Charlie alzò gli occhi al cielo. Le aveva fatto la stessa domanda almeno venti volte nelle ultime ventiquattr’ore.
“Per la milionesima volta Matty, ho preso la mia decisone, rassegnati.”
L’uomo dall’altra parte della linea sbuffò. “Sai che odio quando mi chiami così.”
La bocca di Charlie si aprì in un sorriso da Stregatto. Appoggiò la testa alla porta dietro di lei e chiuse gli occhi, godendosi quella sensazione di calore che le scaldava il cuore.
“Lo so”, gli rispose in un sussurro confidenziale.
“E sai che sono ancora il tuo capo, vero?” - la voce di Metthew scherzosamente seria- “Non capisco perché ancora ti sopporto, invece di licenziarti e basta.”
Questo la fece ridere. “In dieci anni che ci conosciamo sono l’unica persona, oltre tua moglie, che riesce a sopportare te. Ecco perché.”
Matt borbottò qualcosa che Charlie non riuscì a cogliere.
“Tuo padre ancora pensa che tu sia una spacciatrice?”
“Non credo pensi che io sia una spacciatrice”, disse e dopo un momento aggiunse in un borbottio fintamente indignato “sono troppo carina.”
Matthew rise. “Dannatamente giusto. Non ho mai visto uno spacciatore così attraente.”
Charlie sbuffò e riprese il discorso. “Pensa che io sia una delinquente qualsiasi”, chiarì. Dopo un momento di silenzio riprese a parlare infervorandosi ad ogni parola. “Come diavolo può pensare che sua figlia è una delinquente?”
“Perché gli hai mentito?”, suggerì Matt.
“Una piccola bugia non fa di una persona un delinquente.” A quelle parole Charlie si alzò e iniziò a muoversi nella stanza.
“Mentire su dove lavori e dove vivi per anni non è proprio una piccola bugia”, le fece notare Matt. “Inoltre lui si è presentato sul tuo posto di lavoro, che si supponeva essere un’agenzia di consulenza legale, e si è trovato difronte uno Starbucks dove nessuno ti aveva mai sentito nominare.”
Charlie si accasciò sul letto. “Mi avevi detto che non lo avrebbe mai scoperto”, gli disse.
Nonostante potesse sembrare un’accusa, entrambi erano consapevoli che una cosa del genere poteva capitare. La maggior parte delle volte, però, la gente preferisce chiamare prima di farsi tremila chilometri per andare a trovare i parenti; evidentemente, suo padre non era la maggior parte della gente.
“Quando la transizione sarà completata potrai dirgli tutto. Devi solo aspettare quattro mesi o giù di lì”, e subito aggiunse: “Anzi, verro di persona a dirlo a tuo padre. Che ne pensi?”
Charlie sorrise. “Sarebbe fantastico, Matty.”
Al nomignolo Matt sbuffò di nuovo.
“Nel frattempo, cerca di comportanti come una normale ragazza di ventott’anni. D’accordo?”
A quelle parole Charlie si mise più dritta sul letto. “Non sono già una normale donna di ventott’anni?”, chiese incredula.
Lo sbuffo di derisione dall’altra parte della linea fu sufficiente come risposta.
“Mimetizzati tra queste persone. Fai amicizia, partecipa alle iniziative del comitato di paese, trovati un hobby normale; cazzate così.”
“Cosa c’è che non va nei miei hobby?”, chiese lei indignata.
“Sparare al poligono di tiro non è un hobby normale”, rispose prontamente Matthew e prima che potesse ribattere continuò: “La pasticcieria, lo è.”
“Non ho mai fatto una torta in vita mia”, sussurrò in risposta Charlie.
Il sospirò di Matt fu pieno di esasperazione. “Promettimi che farai del tuo meglio.”
Charlie chiuse gli occhi e sospirò. “Lo giuro”, promise ed entrambi sapevano che lo avrebbe fatto.
 
Ovviamente la notizia che una sconosciuta era giunta in città si diffuse in un lampo in una piccola cittadina come quella di Sunlake. Poiché Pit Cooper e Alex Peterson erano due delle uniche tre persone che avevano assistito allo straordinario avvistamento, lo Sceriffo Logan Moore ne sentì parlare tutto il giorno.
Era entrato in centrale, quella mattina, guardando accigliato il messaggio di sua madre. Era difficile che Sylvie Moore disturbasse suo figlio durante l’orario di lavoro; perciò, la mente di Logan era andata subito a suo figlio Jake.
D’altronde, però, se fosse successo qualcosa, sua madre non si sarebbe limitata a scrivergli “Chiamami appena arrivi in ufficio”.  Inoltre, erano appena le dieci di mattina e aveva lasciato Jake a scuola solo mezz’ora prima. Cosa poteva mai combinare un bambino di otto anni in trenta minuti?
Con questi pensieri in testa, non si era reso subito conto che Hannah, la giovane receptionist della centrale, non era al suo posto dietro alla scrivania all’entrata e solo quando il suo “Buongiorno” non aveva ricevuto risposta, aveva alzato lo sguardo dal telefono.
Si era accorto immediatamente di due cose: primo, che oltre ad Hannah non c’era nessun altro nel grande stanzone principale. Secondo, che dalla sala ristoro proveniva una gran cacofonia di voci.
Era successo qualcosa, e il messaggio di sua madre, ci avrebbe scommesso, aveva a che fare con quello che aveva spinto tutta la centrale di polizia – o quasi – nella sala relax.
Aveva iniziato a pensare agli scenari più disparati e apocalittici.
Quando era arrivato sulla soglia della stanza c’era un gran chiacchiericcio e una voce sovrastava tutte le altre, quella di Pit Cooper.
“-il povero Benjamin”, stava dicendo. “Non ho mai visto una persona diventare più rossa, lo giuro su Dio.” Aveva riso e poi, per mantenere l’attenzione su di sé, aveva subito continuato. “Quando è uscita mi ha sorriso e vi posso giurare che c’è stata dell’intesa tra noi e-” si era interrotto quando i suoi occhi avevano incontrato quelli di Logan e aveva alzato la voce per parlargli dall’altra parte della stanza.
“Buongiorno, Capo. Hai sentito la novità?”
Tutti gli occhi si erano focalizzati su Logan e pian piano la stanza era diventata più silenziosa.
Noncurante di tutta quell’attenzione, lo sceriffo aveva alzato un sopracciglio scuro e aveva fissato lo sguardo su Pitt. Prima di parlare lo aveva scrutato in silenzio per qualche secondo; Pitt era sembrato eccitato e felice, sicuramente non pareva una persona sconvolta per una brutta notizia o un evento terribile.
La preoccupazione di Logan aveva rapidamente lasciato posto all’irritazione: non sembrava fosse successo qualcosa di grave, ma piuttosto che fosse in corso una sessione di gossip nella sua stazione di polizia.
“Cosa sta succedendo, Cooper?”, aveva chiesto.
Pitt si era apprestato a colmare le lacune del suo superiore sugli eventi di quella mattina, non notando la sua irritazione. “Io e Alex stavamo facendo colazione al Red, questa mattina, quando è entrata la donna più bella” – aveva enfatizzato quella parola in modo esagerato e fastidioso – “che io abbia mai visto. Mio Dio, Capo, se l’avessi-”, alzando la mano, Logan, lo aveva interrotto bruscamente.
Pitt non gli era mai stato particolarmente simpatico, soprattutto per il suo bisogno incessante di essere al centro dell’attenzione, ma fino ad allora non gli aveva mai dato problemi.
“Non credo di aver capito bene, Cooper. Mi stai dicendo che durante l’orario di servizio stai spettegolando come un adolescente arrapato, nella mia stazione di polizia?”, il tono calmo di Logan e i suoi occhi scuri, che non si erano distolti dal suo viso, avevano fatto sbiancare visibilmente Pitt, il quale aveva distolto lo sguardo e aveva iniziato a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro.
Il disagio era dilagato nella stanza e in molti si erano guardati i piedi in preda all’imbarazzo, altri avevano iniziato a torcersi le mani e nessuno aveva avuto il coraggio di incontrare lo sguardo di Logan. Era stato sicuro che molti avrebbero lasciato subito la stanza, se solo lui non fosse rimasto davanti alla porta.
Prima che Pitt potesse balbettare delle scuse, Logan gli aveva chiesto: “Almeno sappiamo come si chiama questa fantomatica miss universo?”
Se possibile il disagio di Pit crebbe e Logan aveva saputo, ancor prima di sentirla, quale sarebbe stata la risposta alla sua domanda.
Aveva deciso di aver perso già troppo tempo con quella stupida storia e di farla finita. Detestava fare la parte del guastafeste, ma certe volte sembrava non se ne potesse proprio fare a meno.
“Tornate tutti a lavoro, non voglio più sentir parlare di questa storia. Cooper e Peterson nel mio ufficio”, detto questo si era voltato e si era diretto nel suo ufficio, si era accomodato sulla sedia, aveva chiesto ad Hannah il suo caffè e aveva strigliato per bene quei due idioti che credevano di poter trasformare una giornata di lavoro in una centrale di polizia in un brutto episodio di Brooklyn Nine-Nine.
Nonostante tutta la confusione di quella mattina, però, non si era scordato di chiamare sua madre.
Ancora non aveva idea che tutta la città, quel giorno, era impazzita e trovava perfettamente normale interrompere il lavoro altrui per parlare di una donna che molto probabilmente – visto che nessuno sembrava conoscerla e non aveva prenotato alcuna stanza nell’unico hotel della città – era solo di passaggio.
Pertanto, anche Sylvie Moore aveva trovato normale disturbare il lavoro di suo figlio per parlare della novità. “Hai sentito della nuova donna che è arrivata in città sta mattina?”, era stata la prima cosa che aveva chiesto.
Logan si era appoggiato allo schienale della sedia con un sospiro, ben conscio di dove avrebbe portato quella conversazione. Non appena Logan aveva borbottato un “ne ho sentito parlare”, sua madre gli aveva scagliato contro un torrente incessante di parole.
“Gli unici ad averla vista sono Pit, Alex e Benjamin. Il signor Foster era troppo concentrato sul suo sciocco giornale per accorgersene” – aveva sbuffato – “Gracie giura che ancora non ha prenotato una stanza; non credo che sia solo di passaggio però, sicuramente rimarrà in città.” – Sembrava che la sua sola volontà dovesse essere sufficiente a tener quella donna a Sunlake – “Sono sicura che per stasera Gracie avrà notizie. Dicono sia bellissima. Devi assolutamente scoprire chi è questa donna, tesoro. Altrimenti come posso organizzare un incontro-”, Sylvie aveva continuato a parlare, inconsapevole dello sconforto del figlio.
Essendo Logan Moore un uomo single, padre di un bambino di otto anni che non aveva mai conosciuto sua madre, una delle missioni di vita di Sylvie Moore era quella di sistemare suo figlio con una donna – sembrava che anche una sconosciuta andasse bene allo scopo - pertanto, aveva iniziato a gestire la vita sentimentale di Logan, organizzando appuntamenti con le donne di Sunlake, inizialmente, per poi spaziare anche nella contea di Lake Rock.
Alcuni avrebbero potuto pensare che un’ingerenza del genere mettesse Logan a disagio, soprattutto perché la cosa era di dominio pubblico. Ed era stato così all’inizio, ma il disagio ben presto era scemato in un leggero fastidio e poi in una inevitabile rassegnazione.
Negli ultimi cinque anni, da quando si era trasferito a Sunlake ed era diventato sceriffo, era uscito a cena con un numero imbarazzante di donne, le aveva portate tutte al Red, aveva pagato il conto e le aveva riaccompagnate a casa. Al primo appuntamento non ne seguiva mai un secondo e nonostante Logan fosse certo che molte di quelle donne fin dall’inizio conoscessero l’esito della serata, era convinto che ormai accettassero ancora di uscire con lui, su invito di sua madre, per l’eventuale possibilità di poter dire di aver conquistato il cuore impossibile dello sceriffo di Sunlake.
In parte era così, ma Logan Moore era anche un uomo affascinante.
Non si poteva certo dire che fosse di una bellezza straordinaria. Il viso, dai lineamenti spigolosi, era segnato da una cicatrice, lunga tre falangi, vicino l’orecchio destro, che scendeva in verticale verso la mascella. Il naso era leggermente storto, come se fosse stato rotto una volta di troppo e non fosse stato medicato come si deve. Capelli scuri erano pettinati in modo ordinato, corti ai lati e più folti in cima. Ma gli occhi scuri, espressivi e profondi, sembravano avere il potere di carpire tutti i segreti di una persona con un solo sguardo ed erano una delle caratteristiche più affascinanti dello sceriffo.
Ciò per cui Logan Moore era famigerato tra le donne, però, era il suo sorriso. Quando le sue labbra sottili si schiudevano nel suo particolare sorriso obliquo, tutto il volto dell’uomo si illuminava, e anche gli occhi – quegli occhi così espressivi – sembravano risplendere.
Non era facile essere il destinatario di quel particolare sorriso. Non perché lo sceriffo ridesse poco, ma piuttosto perché quello sembrava riflettere un sentimento di vera e profonda felicità. Non era raro, infatti, che quella particolare espressione comparisse sul viso dell’uomo quando guardava suo figlio Jake.
Inoltre, aveva anche una certa reputazione nella contea di Lake Rock, in cui era considerato alla stregua di un eroe, per aver salvato, quattro anni prima, un bambino dalle acque del lago – motivo per cui, anche se molto giovane, tutti lo avevano reputato idoneo a ricoprire il ruolo di sceriffo - e ciò lo rendeva sicuramente il miglior partito di tutta la contea.
“-aver esagerato, ma conosco Benjamin e sarà anche un ragazzo timido, ma sicuramente del suo parere mi fido di più che di quello degli altri due. Tu non pensi?”
“Mamma, per favore, possiamo parlarne stasera? Sto lavorando”, l’aveva interrotta dopo tre minuti incessanti di sproloquio.
La donna, come realizzando solo in quel momento che il figlio doveva lavorare, aveva detto: “Oh, certo tesoro. Ti voglio bene.” E aveva riattaccato.
Quella non ara stata l’unica volta in cui qualcuno aveva interrotto il suo lavoro quel giorno, solo per poter parlare della donna misteriosa del Red.
Prima di pranzo, Gracie Howard era passata per informare di persona Logan del fatto che ancora nessuna donna aveva prenotato una stanza al suo albergo.
Poi il suo pranzo era stato interrotto da tre telefonate diverse, prima che dicesse a Hannah di liquidare chiunque volesse parlare di quella donna; ma i più intraprendenti non si erano lasciati scoraggiare da quel semplice impedimento. Verso le due aveva intercettato Daisy Peterson, in cerca del figlio Alex, per chiarimenti sull’evento del giorno; l’aveva mandata via.
Poi era stata la volta di Set Young, che oltre ad essere il primo cittadino di Sunlake era anche il primo pettegolo del paese. Per Logan era stato molto più difficile sbarazzarsi del sindaco.
Quel pomeriggio era passato anche Arthur Foster, che per fortuna non si era fermato a lungo: un breve saluto per scusarsi – come se ce ne fosse bisogno – di non aver “raccolto informazioni”, come disse, sulla giovane sconosciuta.
Il culmine di quella giornata, però, era stato quando a varcare la soglia del suo ufficio fu Annabelle King, presidentessa del comitato cittadino e spina nel fianco di Logan.
La donna era innamorata di lui da quando Sylvie Moore aveva avuto la malsana idea di organizzare un appuntamento, anni prima. Nonostante il tutto fosse avvenuto nel modo canonico – cena e passeggiata fino a casa – e nel modo più platonico possibile, da allora sembrava essere convinta del fatto che quella delle cene fosse solo una fase – che durava da cinque anni – e che alla fine Logan avrebbe deciso di sposarla.
Si era accomodata sulla sedia di fronte a lui, aveva sbattuto le ciglia in modo seducente e aveva iniziato a parlare di come era necessario identificare la donna misteriosa – come se lo sceriffo potesse perder tempo a setacciare la città per trovarla – capire se era un pericolo per la citta – come se fosse necessario – e infine allontanarla prima che creasse scompiglio – come se Logan potesse o volesse vietare il transito, sul suolo della contea di Lake Rock, a chiunque vi passasse pacificamente.
Aveva tratto un respiro di sollievo quando lo squillo del telefono aveva interrotto la tirata di Anabelle e aveva avuto una scusa in più per mandarla via.
Pertanto, alla fine di quella giornata lavorativa infinita e poco fruttuosa, Logan si era ritrovato con un gran mal di testa e un leggero fastidio – che sapeva essere insensato – verso una donna di cui non conosceva il nome e che non aveva mai visto.
Nonostante fosse stravolto, quando alle sei di sera entrò in casa di sua madre, non poté fare a meno di sorridere – con quel suo sorriso obliquo - a suo figlio che gli corse incontro per abbracciarlo.
Lo prese in braccio, le gambe e le braccia di Jake che gli avvolgevano i fianchi e il collo.
“Papà! Lo sapevi che i bradipi non bevono mai?”, lo salutò.
Se possibile gli occhi di Logan brillarono ancora di più a quelle parole. Dopo una giornata passata a sentir parlare sempre della stessa cosa, i bradipi gli sembrarono la cosa più affascinante al mondo.
“Non ne avevo idea”, rispose passando una mano tra i capelli scuri di Jake.
“Si! Io e nonna stiamo vedendo un documentario”, ogni parola piena di entusiasmo aveva il potere di cancellare la fatica della sua giornata. “Vieni a vederlo anche tu?”, gli chiese con quegli occhi pieni di esaltazione – per dei bradipi, nientemeno – a cui Logan non avrebbe mai detto di no.
Jake Moore era sempre stato un bambino curioso della natura in generale. Gli animali e le piante lo affascinavano, la matematica e la fisica lo meravigliavano e le stelle lo stregavano. Era normale che quelle scientifiche fossero materie in cui eccellesse, a scuola. Aveva un approccio entusiasta e si meravigliava per ogni più piccola cosa.
Logan imparava qualcosa di nuovo ogni giorno. In particolare, il figlio gli insegnava come apprezzare anche le cose più banali, che magari si davano per scontate per abitudine o per sbadataggine.
Si ritrovò a guardare, quindi, un mucchio di bradipi che si muovevano a rallentatore, che mangiavano foglie che digerivano dopo un mese e che scavavano buche in cui seppellivano i loro bisogni.
Dopo cena e un film d’azione scelto da Jake, era tornato a casa: suo figlio addormentato in braccio.
Solo quando fu nel suo letto, ripensò a quello che le aveva brevemente accennato sua madre, piena di sconforto, a cena: nessuno aveva più visto la sconosciuta per tutto il giorno.
Sicuramente non ne sentiremo più parlare, aveva pensato beato, prima di addormentarsi.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO DUE ***


CAPITOLO DUE
Non sorprende che il giorno successivo, alle otto di mattina, il Red fosse insolitamente affollato. La speranza che la donna misteriosa si presentasse di nuovo alla stessa ora e nello stesso posto del giorno precedente aveva spinto molti curiosi a cambiare, per una volta, le proprie abitudini. Passata un’ora di attesa, però, la speranza di un nuovo avvistamento iniziò a scemare e dopo due ore iniziarono a considerare quella del giorno prima solo una visita casuale di una donna di passaggio. Pertanto, pian piano il Red si svuotò e le persone tornarono ai loro doveri e attività.
Ciò che tutti, tranne ovviamente il Maggiore Stephen Royce – da sempre una persona molto riservata e poco interessata al pettegolezzo - ignoravano era che Charlie Royce, su suggerimento del suo superiore e amico Matthew Allen, aveva passato il pomeriggio del giorno precedente tra farine, uova e ogni altro genere di ingrediente che potesse essere usato per preparare dei biscotti al cioccolato. Nonostante la dispensa del padre fosse ben fornita, aveva dovuto rimpiazzare alcuni ingredienti con dei degni sostituti, o almeno così credeva lei, e a fine giornata aveva sfornato quattro teglie da trenta biscotti l’una. Era stata soddisfatta del risultato finale, certo non erano paragonabili a quelli della pasticcieria, ma credeva fermamente che fosse un degno primo tentativo.
Trovandosi, quindi, con centoventi biscotti al cioccolato, che suo padre non aveva alcuna intenzione di mangiare, quella mattina Charlie non andò al Red per fare colazione. Pensò, invece, a come attuare il suo piano.
Sola nel suo piccolo letto e immersa nel silenzio della notte, era arrivata alla conclusione – che le piacesse o meno - che Matt aveva ragione: Charlie aveva chiesto il trasferimento di dipartimento in modo da poter lavorare liberamente da Sunlake, questo perché aveva tutta l’intenzione di ristabilirsi in paese e stare vicina a suo padre; perciò, tanto valeva iniziare a adattarsi alla vita di paese e a socializzare.
Attraverso una veloce ricerca su internet – ormai i social media permettevano di ottenere grandi quantità di informazione con uno sforzo minimo – scoprì che la sua amica di infanzia, Maddie Foster, viveva ancora in città. Diddi – così la chiamava Charlie, dopo tutta un’estate passata ad insistere per quel nomignolo – e Charlie avevano vissuto quasi in simbiosi da che erano nate fino ai quindici anni, quando Stephen Royce aveva spedito sua figlia alla scuola militare, a quasi trecento chilometri di distanza.
Effettivamente, il motivo che aveva spinto suo padre ad una decisione tanto drastica era uno dei pochi segreti ben custoditi di Sunlake, noto solo a quattro persone: Charlie, suo padre, Maddie e Don Walker, l’allora preside della scuola di Sunlake ormai in pensione.
La quindicenne Maddie Foster era una ragazza studiosa e molto portata per le materie umanistiche; pertanto, la chimica non riusciva assolutamente a comprenderla, non importava quanto spesso Charlie provasse a spiegargliela. Perciò, quando l’ennesima insufficienza aveva minacciato di mandare in fumo il weekend alla fiera del cioccolato – l’evento sociale più importante dell’anno per i giovani di Sunlake – Charlie era intervenuta.
Sin da quando, a dieci anni, Stephen aveva regalato a sua figlia un computer, Charlie si era impegnata per carpirne tutti i segreti e accedere da remoto ad un altro computer era di gran lunga la cosa più semplice che Charlie aveva imparato nei cinque anni successivi; perciò, era stato facile entrare nel computer della scuola e modificare il brutto voto di Diddi in una più che piena sufficienza.
Adesso che era più matura e aveva molta più esperienza alle spalle, Charlie si rendeva conto di quanto fosse stata ingenua nello sperare che nessuno si accorgesse della cosa.
Alla fine, i loro progetti per la fiera del cioccolato erano sfumati comunque e una Charlie quindicenne si era ritrovata alla scuola militare. Inevitabilmente, con il passare degli anni, Charlie e Maddie avevano perso sempre più i contatti, e ora si sentivano solo tre volte all’anno: per gli auguri dei rispettivi compleanni e per gli auguri di Natale. 
Quindi, verso mezzogiorno, Charlie si presentò alla biblioteca comunale con un sacchetto di biscotti fatti in casa. La biblioteca, così come il municipio, il Red e il supermarket, era uno degli edifici che affacciavano sulla piazza centrale del paese; questa non era altro che uno spiazzo circolare di erba verde e ben curata, al cui centro svettava un imponente abete – non ancora addobbato per il Natale – che nelle giornate estive forniva un piacevole riparo dal sole per tutti coloro che volevano riposare sulle panchine sottostanti.
A quell’ora, furono in pochi a notare la donna che attraversò il prato ed entrò nella biblioteca.
Essendo, quella di Sunlake, l’unica biblioteca di tutta la contea, era molto più grande di quanto ci si potesse aspettare per un paesino così piccolo; oltre a fornire agli abbonati il servizio di prestito libri, la biblioteca era munita del servizio di prestito degli audiovisivi e vendita dei quotidiani locali. Per questo motivo, solitamente, era molto frequentata.
Quando Charlie entrò, però, era vuota, tranne per la donna dietro al bancone per il ritiro e la restituzione. Maddie Foster, infatti, era intenta a riordinare dei registri ed era piegata in avanti, di profilo all’ingresso, borbottando sottovoce delle maledizioni. Charlie si avvicinò silenziosamente, si appoggiò al bancone con entrambi gli avambracci e si sporse in avanti. “Sembra sia proprio un buongiorno, Diddi”, disse ad alta voce.
Maddie si alzò di scatto - diversi registri scivolarono fuori dallo scaffale e caddero a terra – e si girò a guardarla, gli occhi castani sgranati dallo stupore.
Anche se non fosse stata in grado di riconoscerla, l’uso di quel soprannome, che solo Charlie aveva mai usato, le disse perfettamente chi fosse.
“Mio Dio”, mormorò la donna portandosi una mano tremante alla bocca. “Gesù”, mormorò ancora, adesso facendo il giro del bancone per andarle difronte.
Di tutte le possibili reazioni che Charlie aveva immaginato, non si era certo aspettata che Maddie le saltasse addosso, cingendole il collo con le braccia, e le scoppiasse a piangere sulla spalla. Non riuscì a nascondere il suo stupore e l’unica cosa che poté fare fu abbracciare di rimando la sua amica di infanzia.
Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che era stata abbracciata in quel modo; forse l’ultima volta che era andata a cena a casa di Matthew e sua moglie. Anche in quel caso, però, non era stata stretta nel modo feroce in cui la stava abbracciando Diddi, come se avesse paura che Charlie potesse sparire da un momento all’altro.
Fu così che si rese conto di quanto le fosse mancata la dolce e solare Maddie e solo il dolore improvviso che le risalì la gola le fece realizzare di star trattenendo le lacrime. Inspirò profondamente, contò fino a sette ed espirò, acquisendo di nuovo il controllo di sé.
“Shh. Lo sai che se piangi, farai piangere anche me”, le bisbigliò Charlie all’orecchio, iniziando a massaggiarle la schiena. A quelle parole Maddie rise tra le lacrime, la testa ancora sepolta nell’incavo del collo di Charlie.
“S-scusa. Mi dispiace così tanto”, singhiozzò Maddie.
Charlie si accigliò leggermente. “Di che cosa?”, le chiese ancora sussurrando, senza smettere di massaggiarle la schiena.
Il pianto dell’altra donna si intensificò. “È c-colpa mia s-se t-te ne sei andata” - tirò su col naso – “n-non sei più t-tornata perché” – un terribile singhiozzo la fece bloccare – “mi odi e n-non volevi p-più vedermi”, gli argini della diga del pianto di Diddi si ruppero e il suo divenne un pianto disperato, di anni e anni di preoccupazione e senso di colpa.
Il nodo alla gola di Charlie riapparve, più doloroso di prima, tuttavia non trovò sollievo in un pianto liberatorio. Era da quando aveva visto la delusione nello sguardo di suo padre che non versava lacrime; quel giorno, l’ultima volta che era tornata in città, sette anni prima, Charlie era convinta di aver versato tutte le lacrime che aveva.
Diverse volte in precedenza, durante le chiamate che le erano consentite alla scuola militare, Maddie le aveva chiesto scusa; ma Charlie non poteva immaginare che, dopo tutti quegli anni, quella donna si sentisse ancora così tanto in colpa a causa sua.
“Non ti odio”, le mormorò Charlie, “non potrei mai odiare la donna che ha messo un serpente finto nel sottobanco di Cameron Harris, in seconda media, solo perché mi ha chiamata piscialletto.”
Maddie scoppiò a ridere sciogliendo l’abbraccio e asciugandosi le guance con mani tremanti.
“Non ho mai più sentito qualcuno urlare in quel modo”, riuscì a dire tra una risata e l’altra. Anche Charlie si ritrovò a ridere. “Ha fatto un salto, che pensavo avrebbe bucato il soffitto”, ricordò Charlie ridacchiando.
Mentre Maddie si ricomponeva, Charlie ebbe il tempo di studiarla. L’ultima volta che l’aveva vista Diddi era una quindicenne magra e piuttosto minuta, ma ora Charlie aveva davanti una donna formosa, alta poco più di un metro e sessanta; i capelli, una volta castani chiaro, si erano scuriti e allungati ed ora ricadevano in ricci disordinati sulle sue spalle; sul naso, sempre cosparso di lentiggini, non vi erano più gli occhiali tondi di una volta, il che valorizzava i dolci occhi castani di Maddie.
“Mi sei mancata tanto, C.”, le labbra di Diddi si aprirono in un sorriso tremolante e gli occhi, arrossati dal pianto, brillarono d’affetto. “Quando sei arrivata?”, chiese mentre si premeva un fazzoletto sotto gli occhi.
“L’altrieri notte. Ho visto tuo padre al Red, ieri mattina.”
“Ieri matti-”, si interruppe bruscamente, battendo le palpebre perplessa, ma giunse rapidamente ad una conclusione perché sul suo viso comparve un’espressione di stupita comprensione. “Sei tu la misteriosa donna di cui parlano tutti!”
Fu il turno di Charlie di essere perplessa e Maddie se ne accorse perché subito aggiunse, “Nessuno ti ha riconosciuto e ieri il paese è impazzito in una sorta di caccia all’uomo.”
La fronte di Charlie si corrugò ancor di più nel tentativo di ricordare ciò che era successo il giorno prima, era stata troppo sovrappensiero per avere un ricordo chiaro degli eventi.
“Non ha senso”, ragionò ad alta voce, “Ho salutato Benjamin, non può non-” la comprensione arrivò come una doccia d’acqua fredda. Il viso di Charlie si illuminò in un sorriso di divertita incredulità. “Santo cielo”, esplose in una risata toccando il braccio di Maddie, che ricambiò il sorriso in attesa di sentire una storia divertente. “Credo proprio che non abbia avuto idea di chi fossi!” La sua risata riempì la biblioteca.
 
Maddie e Charlie decisero di pranzare insieme al Red, per continuare la conversazione iniziata in biblioteca.
Non fecero caso agli sguardi stupiti delle poche persone a cui passarono vicino – o almeno Charlie non sembrò farvi caso. Appena varcarono le porte del locale, però, Maddie si rese conto che pranzare in tranquillità non sarebbe stata un’impresa facile. Non appena i primi clienti notarono Charlie, diedero di gomito al loro vicino, per richiamarne l’attenzione; in poco tempo il rumoroso chiacchiericcio che aveva riempito la stanza al loro ingresso si trasformò in un mormorio di sottofondo, fatto di sussurri e bisbigli.
Maddie si sentì immediatamente a disagio sotto la minuziosa attenzione – anche se non diretta a lei – dei presenti e si stupì di come la sua amica sembrasse ancora non essersene accorta. Si diresse, invece, con passo sicuro – come se gli capitasse ogni giorno di essere al centro dell’attenzione di un’intera stanza – verso un piccolo tavolo tondo in un angolo.
Si sfilò il cappotto, rivelando un maglione accollato a quadri azzurri e gialli che evidenziava un seno alto e sodo e che richiamava il colore dei suoi occhi, e si accomodò sulla sedia, seguita a ruota da Maddie.
Il brusio di sottofondo tornò alla normalità e Diddi, più a suo agio, fece per consigliare alla sua amica – che aveva iniziato a studiare interessata la lista dei piatti del giorno – la zuppa di farro, quando l’ombra di Luke Thomson, vicesceriffo di Sunlake, si stagliò sul tavolo interrompendola.
Sorpresa, Maddie alzò lo sguardo sull’uomo di fronte a loro, mentre Charlie continuò a studiare la carta.
Luke si schiarì la gola per attirare l’attenzione dell’altra donna, inutilmente, e con lo sguardo fisso su Charlie, si rivolse a Diddi, “Non mi presenti la tua amica, Maddie?”
Questa soffocò una risata nel palmo della mano, piegando la tasta verso il basso tentando di nascondersi tra i suoi ricci scuri. Non poteva credere alla storia che le aveva raccontato Charlie poco prima, nessuno l’aveva riconosciuta; eppure, per Maddie era facile rivedere la sua amica d’infanzia nella donna seduta vicino a lei. Sicuramente il tempo l’aveva cambiata, rendendola più simile a sua padre non solo nell’aspetto: c’era una certa riservatezza in Charlie, adesso, che prima aveva visto solo in Stephen Royce.
Non fu necessario che rispondesse.
“Luke, l’ultima volta che ci siamo visti avevo la tua lingua in gola”, disse Charlie alzando lo sguardo sull’uomo, di fronte a loro. Lo sguardo sorpreso di Luke corse in quello di Maddie, in cerca di aiuto, per poi rimbalzare subito indietro, verso l’espressione canzonatoria di Charlie, come se l’avesse riconosciuta per associazione con lei.
Ai tempi della scuola, Luke Thomson era stato un vero Don Giovanni, aveva infranto i cuori di mezza scuola e si diceva che anche adesso, a ventinove anni, si dava il suo d’affare.
“Che mi venga un colpo. Charlie Royce”, disse Luke a voce alta, di modo che tutti i presenti potessero sentire. Le labbra di Charlie si schiusero in un sorriso che le illuminò gli occhi, si alzò e andò ad abbracciare un Luke Thomson leggermente stordito. Così come abbracciò chiunque altro andò a salutarla durante il loro pranzo, ed è inutile dire che furono in molti a farsi avanti.
Tra i tanti Gracie Howard e Sylvie Moore invitarono Charlie a prender parte alle riunioni del comitato cittadino, invito che, con sorpresa di Maddie, Charlie fu entusiasta di accettare, come se non aspettasse altro. Il vero evento, però, si realizzò quando Mrs. Moore pronunciò le parole che tutti nel locale stavano aspettando: “Hai da fare sta sera, Charlie?”
L’unica ignara della portata di quella domanda fu la stessa Charlie, che tuttavia dovette captare qualcosa dalle vibrazioni circostanti perché improvvisamente si fece circospetta. Furono davvero in pochi a non tentare di origliare la risposta, lo stesso Luke Thompson – che si era seduto al tavolo vicino – li guardò apertamente, curioso.
Occhi blu scrutarono quelli di Sylvie Moore in cerca di un indizio rivelatore. Non trovandone, Charlie scelse la strada migliore: non rispondere e porre un’altra domanda.
“Perché me lo chiede?”, chiese con un sorriso gentile.
Il volto dell’altra donna si illuminò, come convinta di avere la vittoria in pugno. “Mio figlio Logan sarebbe felice di portarti a cena fuori, stasera.”
Le spalle di Charlie si rilassarono e anche gli occhi si addolcirono. “La ringrazio Mrs. Moore, ma non sono interessata.” Non era certo la prima volta che una donna faceva la preziosa con Sylvie, considerò Maddie, preparandosi alla prossima mossa di Mrs. Moore.
Sylvie, infatti, non batté ciglio e insistette imperterrita. “Lo sceriffo è sicuramente un buon partito, vedrai che vi diverti-”, si interruppe. Era difficile riuscire a interrompere una delle tirate di Mrs. Moore, giusto suo figlio era in grado di mettervi un freno; eppure, a Charlie bastò prenderle gentilmente una mano tra le sue e stringerla in un gesto affettuoso. Infine, parole che Sylvie non aveva mai sentito da nessun’altra donna furono pronunciate da Charlie: “Mrs. Moore, se suo figlio sarà interessato, sono sicura che me lo chiederà lui stesso. ”E con quello il discorso fu chiuso.
 
Lo scompiglio portato dalla scoperta dell’identità di Charlie Royce non raggiunse lo sceriffo, o almeno non subito e non in egual misura rispetto al giorno prima. Poiché una chiamata di Ryan Clark, sceriffo della contea limitrofa di Twin Lake, lo aveva trattenuto fino a tardi, Logan aveva da poco iniziato la pausa pranzo quando sua madre chiamò.
“Ciao, mamma”, rispose al telefono.
La madre non perse tempo con i convenevoli. “Tesoro, devi assolutamente chiedere un appuntamento a Charlie Royce”, disse con tono concitato.
Logan – all’oscuro delle notizie – rimase perplesso a quella richiesta, aveva sentito parlare di Charlie Royce sporadicamente nell’arco di quei cinque anni e sapeva solo che era la figlia del Maggiore Royce e che non tornava mai in città.
“Intendi la figlia di Stephen Royce?”, chiese confuso.
La madre sembrò esaltarsi a quell’accenno di interesse. “Si, Logan. È la donna del Red di ieri mattina, ti ricordi?”
Come poterlo scordare? Si chiese lui.
“E perché dovrei chiederle di uscire? Sicuramente già ci avrai pensato tu, no?”, le fece notare Logan in modo tagliente e se la madre si accorse del suo fastidio, non lo diede a vedere.
“No, no. Voglio dire, si certo che l’ho fatto, ma lei mi ha detto che avresti dovuto chiedere tu.”
Un sorriso malizioso spunto sulle labbra di Logan, sembrava che non sempre le persone facessero come diceva Sylvie Moore, dopotutto. “Non vuole uscire con me?”, stavolta la nota di felicità nella sua voce non sfuggi alla donna. “Non è divertente, Logan”, lo riproverò seria.
Lo sceriffo, d’altro canto, butto indietro la testa e rise. “È dannatamente fantastico, te lo dico io!”
Dall’altro capo della linea, la donna iniziò a protestare, ma Logan la interruppe. “Non è chissà quale tragedia, mamma, non conosci nemmeno questa donna.”
“Logan, questa potrebbe essere esattamente la donna giusta per te” – lui ne dubitava fortemente – “avete così tanto in comune…”, affermò e con così tanta convinzione che l’attenzione di Logan fu tutta per lei.
“Tipo, cosa?”, chiese curioso.
“Beh”, iniziò Sylvie, il tono più titubante, “suo padre è stato nell’esercito e tu sei uno sceriffo”, concluse come se quello dicesse tutto, non sembrava più così convinta come pochi secondi prima.
Un suono di incredulità gli uscì dalle labbra. “Mi stai-”, scosse la testa per schiarirsi le idee, “mi stai dicendo che dovrei chiedere un appuntamento al Maggiore Royce?” mormorò nella cornetta.
Sua madre balbettò qualcosa, ma Logan non vi prestò attenzione. Schiarendosi la gola, lo sceriffo si appoggiò in avanti sulla scrivania e usò la sua voce più inflessibile, la stessa che usava per obbligare Jake a mangiare i broccoli.
“Mamma, ascolta, lascia stare Miss. Royce. Se continuerai ad importunarla dovrò arrestarti per molestie, capito?”
“Come se ne fossi capace.” Sbuffò lei.
Un piccolo sorriso obliquo gli curvò le labbra. “Non esiterei un attimo”, le disse scherzosamente. Un movimento sulla porta gli fece sollevare lo sguardo, Luke Thomson chiese silenziosamente il permesso di entrare e, al cenno affermativo dello sceriffo, si richiuse la porta alle spalle.
“Ora devo andare, ci vediamo sta sera.”
Una volta che ebbe riattaccato, gli occhi scuri di Logan incontrarono quelli pieni di ilarità di Luke.
“Sembra che Sylvie mi abbia preceduto”, ruppe il silenzio il vicesceriffo. “Sai, Charlie Royce è diventata proprio uno schianto. Dovrei chiedere a tua madre di organizzare qualcosa anche per me.”
Logan sbuffò a quella sua presa in giro.
Gli occhi di Luke si fecero maliziosi, si mise più comodo sulla poltroncina dell’ufficio di Logan, chiuse gli occhi e incrociò le mani dietro la testa: il ritratto del relax. “Ho sentito dire che non ne vuole sapere di te”, sbirciò la reazione dell’altro – che rimase impassibile – socchiudendo l’occhio destro. “Magari preferisce i biondi…” continuò con un sorrisetto impertinente, passandosi una mano tra i capelli chiari.
Logan si appoggiò all’indietro, sullo schienale della poltrona. “Sei stato fortunato che fosse il tuo giorno di riposo ieri, sicuramente quando sono venuti in visita i signori Lewis il mese scorso non è successo questo putiferio.”
Luke annuì distrattamente, lo sguardo distante come a ricordare qualcosa. “Se i Lewis andassero in giro con un paio di gambe come quelle di Charlie Royce…”
Logan alzò gli occhi al cielo e Luke si sporse in avanti sulla scrivania, l’espressione più seria. “Davvero, amico. Quando l’ho vista al Red, prima, non potevo credere ai miei occhi. Non si vede spesso una donna così, in giro per Sunlake”, disse il vicesceriffo.
“D’accordo, come vuoi”, acconsentì Logan, deciso a metter fine al discorso. “Mi ha chiamato Ryan, aveva delle novità.”
Al nome dello sceriffo di Twin Lake, Luke si mise dritto sulla sedia e si fece attento. Era già qualche mese che nella contea vicina avevano iniziato a circolare quantità superiori di cocaina. Non che ci fossero poi tanti acquirenti, ma quella di Twin Lake City poteva essere considerata una vera e propria città, con una vasta affluenza di turisti e quindi anche di una sviluppata vita notturna. Contee poco popolose come le loro non godevano delle risorse in grado di fronteggiare un traffico di stupefacenti, come quelle di grandi città; pertanto, era necessario porvi fine il prima possibile e non lasciare che le cose sfuggissero di mano. Fino a due mesi prima l’unico giro di stupefacenti era riconducibile ad Alan Hill, che perlopiù smerciava marijuana e che era un vero e proprio idiota. Era stato arrestato già una volta perché aveva tentato di vendere roba illegale allo stesso Alex Peterson, che subito lo aveva arrestato.  Aveva scontato due anni.
Adesso, però, sembrava fosse stato coinvolto in qualcosa più grande di lui e fosse diventato il burattino di qualcuno di davvero pericoloso.
Poiché Alan Hill abitava nella contea di Lake Rock, Logan era stato coinvolto nelle indagini di Ryan Clark.
“Sembra che Alan non si veda da quattro giorni, il che non è da lui, lo sai”, disse Logan.
Quell’uomo amava godersi la vita, il che lo rendeva un pessimo delinquente. Non era affatto un tipo discreto, amava l’alcol, le donne e le feste; quindi sparire per quattro giorni dalle scene non era affatto il suo stile.
“Mando subito qualcuno a controllare a casa sua”, suggerì Luke, alzandosi.
Logan annuì. “Dobbiamo assolutamente trovarlo.”

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Capitolo 3
*** CAPITOLO TRE ***


CAPITOLO TRE
Il primo sabato da che Charlie aveva rimesso piede a Sunlake, si ritrovò ad uscire insieme a Diddi da casa di Annabelle King. La riunione del comitato cittadino – di cui facevano parte solo donne e al cui capo c’era la stessa Annabelle – si era svolto subito dopo pranzo ed era durato più di tre ore. Alla fine di quella tortura, Charlie era assolutamente certa di una cosa: Annabelle la odiava.
Durante quelle ore strazianti, ogni sorriso che la donna le aveva rivolto era stato assolutamente artificioso, ogni volta – davvero poche - che Charlie aveva provato a suggerire qualche idea per la sagra del vino della settimana successiva, Annabelle l’aveva interrotta oppure aveva liquidato le sue idee come non conformi a Sulake, qualsiasi cosa volesse dire.
Nonostante fossero entrambe nate e cresciute lì e avessero frequentato la stessa scuola, sembrava che Annabelle King non ritenesse più Charlie come una di loro.
Inizialmente Charlie non vi aveva dato troppo peso, ma l’apparente incapacità di Annabelle di smetterla di chiamarla Charlotte – quando sapeva perfettamente che Charlie non era un diminutivo e nonostante il chiarimento che la stessa Charlie le aveva fornito – era stato un indizio impossibile da ignorare.
Tuttavia, quel comportamento non l’aveva affatto infastidita; l’altra donna non poteva immaginare quali trattamenti aveva ricevuto in passato, da uomini più spaventosi della temibile presidentessa del comitato cittadino di Sunlake.
Charlie aveva un’alta sopportazione, era come un muro di gomma: ogni colpo scalfiva la superficie solo per pochi secondi, prima che tutto tornasse alla normalità.
Già annoiata – i comitati cittadini non facevano per lei, checché ne dicesse Matt – Charlie aveva smesso di intervenire al suo terzo tentativo di partecipazione ed era rimasta in silenzio ad ascoltare.
Era convinta che nessun’altra si fosse accorta dell’atteggiamento passivo aggressivo di Annabelle King, ma quando lei e Maddie furono sufficientemente lontane da orecchie indiscrete, Diddi la smentì.
“Cosa diavolo hai fatto ad Annabelle, Charlie?” Le chiese a bassa voce.
Charlie si girò verso di lei, nascondendo la sua sorpresa con un sorriso. “Cosa ti fa pensare che ce l’abbia con me?”, chiese a sua volta.
Maddie fece una smorfia. “A volte dimentico che non torni in città da quasi quindici anni, Charlotte.” Quelle parole, anche se involontariamente, rigirarono il proverbiale coltello nella piaga; ma invece di darlo a vedere, Charlie sorrise per l’utilizzo di quel nome.
“Cosa intendi?”, mormorò, guardando verso il sole che stava tramontando tra le montagne.
“Charlie, Annabelle ti ha assegnato il compito di convincere lo sceriffo a partecipare alla sagra!” Da come lo disse, sembrò che Maddie non si fosse accorta che anche Charlie era presente quando erano stati suddivisi gli incarichi.
Charlie batté le palpebre, cercando di capire come quello potesse essere un problema, rispetto a tutto il resto. “Immagino che in quanto sceriffo, debba per forza partecipare. Come una sorta di codice etico da sceriffi. Quanto potrà essere difficile?”
“In cinque anni, Logan Moore non è mai venuto ad una sagra del vino. Mai. Nemmeno quando sua madre gli ha chiesto di venire. Non quando a chiederglielo è stato il sindaco Young. E nemmeno Annabelle è riuscita a convincerlo.” Quest’ultima informazione non la sorprese affatto; da quel poco che aveva potuto vedere, Annabelle era diventata una donna che voleva avere tutto sotto controllo, che non sarebbe scesa a compromessi e che, pur di convincere qualcun altro a fare come diceva, sarebbe stata fastidiosamente insistente. Certamente non il modo migliore di persuadere qualcuno.
Charlie si fermò in mezzo alla strada deserta, guardando Diddi che si fermò a un passo da lei.
“Perché diavolo mi ha chiesto di invitarlo, se sa già che non verrà?”, chiese confusa.
Maddie sbuffò. “Vuole farti fare una figuraccia. Sarai l’unica a non riuscire a portare a termine il suo compito e-”, si bloccò quando vide un sorriso allargarsi sul viso di Charlie. “Cosa c’è da ridere?”, chiese Maddie incredula alla reazione dell’amica.
Charlie non riuscì a trattenere una sciocca risatina. “Scusa, è che mi ha fatto ridere come lo hai detto.”
Fare una figuraccia davanti al comitato cittadino, ecco la cosa peggiore che può capitarmi. Pensò, scuotendo la testa incredula.
Si era dimenticata di come fosse la vita per la gente di Sunlake. Quella era esattamente l’unico tipo di preoccupazione che voleva anche lei.
Davanti alla faccia confusa di Maddie, fece chiarezza. “Non me ne importa niente dei giochi infantili di Annabelle King, Diddi”, disse avvolgendole un braccio intorno alle spalle.
“Ma eri così entusiasta l’altro giorno che credevo ci tenessi davvero.”
Charlie rise di nuovo, sentendosi improvvisamente leggera. “Certo che mi importa. Infatti, parlerò con lo sceriffo; però non credo sarà la fine del mondo se dirà di no anche a me, d’altronde ha detto no alla stessa Annabelle, quindi…”
Camminarono in silenzio per pochi minuti prima che Maddie parlasse nuovamente.
“Non posso credere che tu abbia sopportato le sue cazzate in quel modo.”
Charlie guardò l’amica con sorpresa, Diddi non era mai stata il tipo da dire parolacce. “In che modo?” Chiese con curiosità.
Fu Maddie adesso a guardarla con stupore, ma subito l’indignazione bruciò ogni altra emozione nei suoi occhi castani. “Non ho mai visto una persona incassare quelle continue frecciatine come hai fatto tu. Sembrava come se…”
“Te l’ho detto che non mi importa. Posso sopportare le sue cazzate.” Ripeté quella parola con un sorrisetto.
Diddi scosse la testa. “Non era quello che volevo dire, e comunque non dovresti sopportare le cazzate di nessuno. Sei appena tornata in città e voglio che tu ti senta a casa qui.” Charlie iniziò a ribattere che non se ne sarebbe andata, ma Maddie alzò una mano per fermarla. “Se qualcuno mi avesse trattato in quel modo, puoi star certa che avrei reagito. Forse non avrei detto niente, ma sicuramente mi sarei sentita a disagio. Cavolo, mi sono sentita a disagio per te, là dentro! E invece tu sembravi come” - deglutì prima di continuare – “abituata.” La preoccupazione negli occhi di Diddi era evidente e con esitazione, continuò, sussurrando la domanda alla base del suo turbamento: “Ti trattavano bene alla scuola militare, C.?”
Questo la spiazzò. “Si, Diddi”, le sussurrò di rimando. E quella era la verità.
Stringendola nel suo abbraccio, continuarono a camminare in silenzio, ma Charlie pensò ancora e ancora alle parole dell’amica, anche dopo averla lasciata davanti casa sua.
Le implicazioni di quello che aveva detto erano evidenti: non era normale. Nel suo ambiente, sopportare con distacco provocazioni o soprusi era una dote apprezzata; guardare ad un obbiettivo con freddezza e imperturbabilità era uno dei requisiti più importanti da possedere.
Ma nella vita reale non sarebbe dovuto succedere.
Si fermò davanti lo steccato di casa di suo padre. Voleva essere normale, voleva vivere delle stesse preoccupazioni che avevano a Sunlake, voleva poter dire a fine giornata che quella era stata una buona giornata perché non aveva trovato fila alla posta, e non perché nessuno le aveva sparato.
E Maddie aveva ragione: per il suo lavoro si era abbassata a sopportare cazzate da perfetti sconosciuti.
Era questo che l’aveva spinta a tornare a casa? Ancora non sapeva spiegarsi perché avesse sentito il bisogno di cambiare vita, si era svegliata una mattina e aveva sentito una mancanza di significato in ciò che faceva. Non che il suo lavoro non avesse senso, ma, piuttosto, non le regalava più la soddisfazione degli inizi.
Aveva pensato che fosse stata quella monotonia a spingerla a tornare a casa, oppure il bisogno inconscio di riappianare le cose con suo padre, dopo tanti anni.
Adesso, però, si chiedeva se non fosse semplicemente stufa del suo lavoro, di essere giudicata solamente dal suo aspetto e dal dover fare costantemente buon viso a cattivo gioco.
Si accorse di essere ancora ferma davanti al vialetto. Scosse la testa per cacciare via quei pensieri che l’avevano perseguitata abbastanza, ed entrò in casa.
 
 
Così, Charlie Royce si ritrovò il lunedì mattina ad entrare nella centrale di polizia. Poiché non le piaceva essere impreparata, oltre alle informazioni che aveva chiesto a Diddi, Charlie aveva reperito altre notizie per suo conto, e il profilo dell’uomo che tra poco avrebbe incontrato coincideva con l’idea che già si era fatta. Un uomo dedito alla famiglia e al lavoro.
Riconobbe Hannah Lewis, alla reception, era tre classi avanti a lei quando ancora andava a scuola. Quando la vide, gli occhi della donna si spalancarono di sorpresa; effettivamente quello era uno degli ultimi posti in cui Charlie si sarebbe presentata di sua iniziativa.
“Buongiorno, Hannah”, salutò mentre appoggiava il piatto di biscotti che aveva preparato per l’occasione sul banco in vetro.
“Buongiorno, Charlie”, salutò l’altra, riprendendosi dalla sorpresa.
Charlie si tolse il cappotto, rivelando l’abito bordeaux che aveva scelto con cura quella mattina. Il vestito di lana aderiva al suo corpo, accentuando e valorizzando ogni sua curva, la scollatura non era profonda e lasciava appena intravedere la pelle morbida del seno; la gonna arrivava a metà coscia, lasciando scoperte le lunghe gambe fasciate da calze nere velate. Ai piedi portava un paio di stivaletti bassi, neri. Non si era risparmiata nemmeno sul trucco e i suoi occhi blu erano esaltati dal make-up scuro sfumato.
Il risultato finale le donava un’aria sofisticata, affatto volgare.
Se c’era una cosa che aveva imparato in quegli anni, era che gli uomini erano più facili da persuadere se erano distratti. Rispetto alle altre volte, però, a Charlie non era convinta che questo le sarebbe tornato utile; da quel poco che sapeva su Logan Moore non sembrava il tipo da lasciarsi distrarre così facilmente.
“Sono qui per vedere lo sceriffo”, disse.
Hannah prese il telefono e compose il numero interno. “Logan, c’è qui Charlie Royce che chiede di te”, l’uomo dall’altra parte della linea non fu di molte parole, perché subito Hannah attaccò.
Sorridendo a Charlie, indicò verso una porta aperta dall’altra parte dell’enorme stanzone che era la centrale di polizia. “Da quella parte.”
Con un sorriso gentile di ringraziamento, Charlie e il suo piatto di biscotti si incamminarono verso l’ufficio dello sceriffo, dispensando sorrisi e cenni di saluto a tutti coloro che si girarono a guardarla passare senza mai vacillare; solo quando fu a pochi metri dalla soglia dell’ufficio dello sceriffo e fu in grado di vedere all’interno della stanza l’uomo alto quasi un metro e novanta che l’aspettava in piedi dietro la scrivania, labbra piegate in un sorriso di cortesia e occhi scuri che incontrarono quelli chiari di lei, per poco Charlie non inciampò nei suoi stessi piedi.
Gli occhi dello sceriffo non si distolsero dai suoi finché non varcò la soglia e per la prima volta da anni, Charlie si sentì esposta; come se con un solo sguardo tutti i suoi segreti fossero stati svelati, fatto che, se da un lato la metteva a disagio, dall’altro la fece sentire come alleggerita d’un peso che non avrebbe più dovuto portare da sola.
Charlie inspirò con il naso, contò fino a sette ed espirò con la bocca; la mente si sgombrò e riuscì a riprendere il pieno controllo di sé. L’attimo di leggero turbamento non era minimamente trapelato all’esterno.
Quegli occhi scuri dissero con certezza a Charlie quale sarebbe stato l’esito di quell’incontro; c’erano persone che con la giusta dose di attenzioni e persuasione potevano essere spinte a fare qualsiasi cosa, poi c’erano persone che per la giusta somma avrebbero venduto la loro madre a Lucifero in persona e, infine, c’erano persone che non importava cosa, ma non avrebbero cambiato idea – almeno non per uno sconosciuto qualsiasi – e l’insistenza le avrebbe solo rese più rigide e diffidenti. Negli ambienti che frequentava di solito, non esistevano persone appartenenti alla terza categoria.
Pertanto, Charlie si sentì impreparata ad affrontare l’uomo davanti a lei e la descrizione di Maddie non l’aveva di certo aiutata; ‘penetranti’ non sarebbe stato di certo l’unico aggettivo che Charlie avrebbe utilizzato per descrivere quegli occhi. C’era un che di irremovibile in quello sguardo, come di un uomo che si aspettava che le cose fossero fatte a modo suo. Tuttavia, se si osservava bene e si sapeva dove guardare, da quelle pozze scure e profonde, traspariva una certa sensibilità.
Lo sceriffo continuò a studiarla in viso e gli occhi dell’uomo non tradirono alcuna reazione. Charlie non era abituata a reazioni del genere da parte degli uomini, anche i più impassibili non riuscivano a nascondere una nota di apprezzamento quando la guardavano ed era dall’età di diciassette anni che riceveva solo quel genere di reazione. Ciò era sicuramente un’ottima novità, ma una piccola parte di lei, l’orgoglio femminile di Charlie, forse, si indignò a una così poca considerazione.
Quando si fermò davanti la scrivania, pur di suscitare una reazione, sfoderò il suo sorriso più disarmante; tutto ciò che ottenne, però, fu uno scuro sopracciglio inarcato verso l’alto, come a chiederle “è tutto ciò che hai?”.
“Sceriffo Moore”, disse Charlie con un cenno cortese della testa.
“Logan, per favore”, si presentò con voce calma e profonda. L’uomo tese una mano sopra la scrivania e subito Charlie l’afferrò.
“Charlie”, disse lei sorridendo di rimando.
“Prego”, le indicò una delle due poltroncine davanti la scrivania ed entrambi si accomodarono, studiandosi in silenzio per un attimo.
Fu Charlie a parlare per prima. “Le ho portato un regalo di benvenuto”, disse porgendogli il piatto con i biscotti.
Quelle parole riuscirono a suscitare una reazione più soddisfacente delle altre, lo sceriffo parve spiazzato.
“Un regalo di benvenuto? Non dovrei essere io a farlo a te?”, chiese visibilmente interdetto.
Charlie sorrise. “Io sono nata e cresciuta qui, sceriffo. Sei tu ad esserti trasferito.”
“Cinque anni fa”, le ricordò, ora una nota di divertimento nella voce.
“Meglio tardi che mai, non è vero?”, disse lei. Logan annuì, un sorriso che andava aprendosi sul suo viso e questa volta arrivò anche agli occhi, che la guardarono con sincera simpatia. “Suppongo di si, grazie.” Prese il piatto e lo appoggiò su un lato della scrivania.
Rimasero a guardarsi, di nuovo in silenzio e stavolta fu Logan a parlare per primo. “Sei passata solo per questo?”
Stranamente, Charlie si sentì delusa da quel non troppo velato tentativo di liquidarla, nonostante sapesse che lo sceriffo era un uomo impegnato e sicuramente non aveva tempo da perdere con lei. Si guardò intorno nel piccolo ufficio, fino a soffermarsi su una cornice appoggiata sulla libreria che copriva la parete vicino la porta. Ritraeva un bambino, al massimo di cinque anni, che si stringeva al petto, con entrambe le mani, un palloncino giallo. La foto era stata scattata nella piazza del paese, durante quella che Charlie riconobbe essere la fiera del cioccolato – anche se non fosse stata sufficiente la bocca imbrattata del bambino, avrebbe riconosciuto le tipiche decorazioni della fiera del cioccolato ovunque. Le ricordò dei giorni più felici, di quando anche lei era stata una bambina con la bocca sporca di cioccolato e suo padre l’amava senza riserve.
Diddi le aveva detto che Logan Moore viveva per suo figlio Jake, che non c’era persona al mondo che amasse di più e che proprio per passare la giornata con lui, Logan non era interessato alla sagra del vino. Sinceramente, Charlie non riusciva a pensare a un motivo migliore per non partecipare.
Studiando l’immagine, la futilità della sua richiesta la pervase e, per un attimo, si sentì fuori posto in quell’ufficio.
Voleva solo tornare a casa il più in fretta possibile.
“Il comitato cittadino mi ha incaricato di ricordarti della sagra del vino, questo sabato”, disse con tono distratto.
Più che vederlo, Charlie poté avvertire il corpo di Logan che si irrigidiva e dal tono con cui rispose fu chiaro che si aspettava una lunga ed estenuante discussione volta a convincerlo. “Non parteciperò”, disse semplicemente, con tono sicuro e fermo e per Charlie fu una risposta più che sufficiente, non aveva voglia di combattere una battaglia persa in partenza, tantomeno per dimostrare ad Annabelle King chissà cosa, perciò si alzò dalla sua sedia.
“Riferirò”, disse tranquillamente. “Buon lavoro, sceriffo.” E con quelle parole uscì.
 
Logan fissò, ancora sbalordito, la porta del suo ufficio. Non era mai stato così semplice far desistere una donna di Sunlake dai suoi propositi; a quella donna, invece, era bastato un semplice ‘no’ e lo aveva lasciato in pace. Scosse la testa incredulo.
Per quel sabato sera Jake aveva organizzato la ‘rievocazione’ della battaglia del Fosso di Helm; perciò, Logan si sarebbe ritrovato a fare un qualche orco o cattivo di sorta che moriva per mano di suo figlio. Adorava quel piano, suo figlio che cercava di impersonare tutti i personaggi del Signore degli Anelli e di ricreare nel soggiorno di casa loro le scene della battaglia.
Nessuno avrebbe potuto convincerlo a partecipare a una sagra di paese che neanche gli piaceva.
Quando Hannah lo aveva chiamato per comunicargli che Charlie Royce voleva vederlo, era rimasto sorpreso; non si era aspettato che venisse alla centrale per parlare con lui e non riusciva a immaginare cosa potesse volere.
Poi l’aveva vista, prima che lei notasse lui, mentre attraversava lo stanzone della centrale sorridendo e salutando tutti, e tutta l’isteria dei giorni precedenti improvvisamente aveva avuto un senso.
Charlie Royce era indubbiamente una donna bellissima, ma ciò che lasciava inevitabilmente stregati era l’aurea di mistero che la circondava; dalle voci che aveva sentito, sembrava nessuno vi aveva fatto caso, eppure, per lui il muro invisibile che sembrava ergesse tra lei e gli altri era assolutamente lampante.
Quella donna usava il suo aspetto per distogliere l’attenzione dal resto e definire un limite invalicabile. 
Il leggero ondeggiare dei fianchi a ogni suo passo, era pura sensualità e un uomo avrebbe potuto rimanerne ipnotizzato, così come la curva perfetta del seno, le gambe lunghe e toniche e la linea definita delle labbra piene.
Nel complesso Charlie Royce poteva essere descritta in un’unica parola: irraggiungibile.
C’era voluto un certo sforzo per ritrovare il controllo di sé e non lasciarsi distrarre; Logan era dovuto ricorrere all’espressione impassibile che a volte, come sceriffo, sfoderava.
Nonostante tutto, gli era sembrato d’esser colpito da un pugno al plesso solare quando gli occhi blu di lei avevano incontrato i suoi. Un bagliore di pura intelligenza brillava in quei laghi blu e quando gli aveva sorriso erano sembrati risplendere e riscaldare la stanza.
Si era rifiutato di cadere preda dello stesso sortilegio che sembrava avesse lanciato su ogni altro abitante di Sunlake, ma quando l’aveva vista guardare la foto di suo figlio, la testa leggermente inclinata sulla spalla, ne aveva colto una certa nota malinconica, e una piccola parte di Logan aveva ceduto al richiamo del suo incantesimo.
Era sicuro che quella donna avrebbe anche potuto convincere Jake a separarsi dai suoi preziosi fumetti, se avesse voluto, e non semplicemente per il suo aspetto.
Eppure, non aveva fatto alcuno sforzo per tentare di persuaderlo, anzi aveva semplicemente accettato la sua decisione.
Con quei pensieri in testa, scoprì dalla pellicola trasparente il piatto di biscotti che gli aveva portato e con fare distratto ne prese uno. Appena lo morse e tentò di masticarlo, però, si trovò ad annaspare alla ricerca del cestino sotto la scrivania, dove vi sputò quella roba disgustosa.
“Cristo santo”, borbottò guardando il biscotto rimanente con fare accusatorio. Alzò lo sguardo verso la porta da cui era uscita la donna che aveva tentato di avvelenarlo, come se si aspettasse di trovarla ancora lì.
Senza pensarci troppo, prese il piatto e si alzò, portandolo nella sala ristoro. Era un peccato buttare da mangiare, anche quella roba terribile; perciò, li avrebbe lasciati nel Triangolo delle Bermude della stazione di polizia: la credenza della piccola cucina della sala ristoro. Una volta vi aveva lasciato il suo pranzo, tempo di andare a lavarsi le mani ed era sparito.
Tuttavia, non poté dirsi stupito quando, prima di andar via quella sera, lo vide ancora lì, intatto.
Avrebbe dovuto occuparsene da solo, dopotutto.
 
Dopo il suo incontro con lo sceriffo Logan Moore, Charlie abbandonò definitivamente il compito assegnatole dal comitato cittadino. Quando martedì mattina incontrò Annabelle King al supermarket, alla sua domanda se avesse convinto Logan a partecipare alla sagra, Charlie non aveva potuto resistere dal torturarla un po', quindi le aveva detto che lo sceriffo ci avrebbe pensato.
Per poco non era scoppiata a ridere alla vista della faccia incredula dell’altra donna. Un “ci penserò” era ben diverso da un categorico “no”, Annabelle lo sapeva e non riusciva a farsene una ragione. Quando la rivide al Red, più tardi quello stesso giorno, le chiese di nuovo se avesse novità.
Anche due ore dopo, quando si incontrarono in biblioteca le chiese ancora se Logan le aveva dato una risposta. L’attesa non faceva altro che aumentare la sua apprensione e il desiderio di conoscere la risposta definitiva dello sceriffo.
Tuttavia, la svolta imprevista e assolutamente non perseguita avvenne il giorno dopo, mercoledì, nella biblioteca di Sunlake.
Poiché i rapporti con suo padre erano ancora ai ferri corti e Charlie non aveva studiato un piano su come poter affrontare la situazione, preferiva trascorrere più tempo possibile fuori casa, concedendo un po’ di respiro a suo padre, nella speranza che il tempo guarisse anche il loro rapporto.
Ovviamente si era rifugiata nella biblioteca con Diddi e, mentre lei lavorava, Charlie aveva spulciato in giro in cerca di qualcosa di interessante da fare. A metà mattina aveva riscoperto il sacro Graal della sua infanzia: Space Fights.
Space Fights era un fumetto degli anni Ottanta sulla falsa riga del famoso Star Wars. Effettivamente era al limite del plagio, tuttavia, le aveva fatto compagnia durante la sua adolescenza ed era diventato quasi una vera e propria ossessione per Charlie; le si era spezzato il cuore quando aveva scoperto che la collezione della biblioteca si fermava al numero centotre e che non avrebbe mai potuto scoprire come finiva.
La storia era la solita, il malvagio e avido Oscuro – primo tra i nomi poco originali di un fumetto poco originale – voleva conquistare il mondo, ma un giovane alieno antropomorfo, il fantastico capitano Rhon, era pronto a combattere per salvarlo.
Perciò, a ventott’anni, Charlie si era ritrovata come quando ne aveva tredici: stravaccata sulla poltrona della sezione per ragazzi a leggere un fumetto dopo l’altro mentre sgranocchiava schifezze. Non si era accorta nemmeno di aver fame finché Maddie non le aveva portato un sandwich per pranzo.
“Sembra che le cose non siano cambiate”, le aveva detto Diddi.
Era stata risucchiata, proprio come quando era più giovane, da quel mondo fantastico, pieno di colpi di scena, di battaglie intergalattiche e di storie d’amore.
Erano quasi le quattro e mezza del pomeriggio e aveva da poco iniziato il quattordicesimo numero, quando una vocetta la interruppe. “Sei già arrivata alla battaglia del pianeta Nana?”
Riportata bruscamente sul pianeta terra, Charlie abbassò il fumetto per guardare il ragazzino in piedi davanti a lei. Così seduta sulla poltrona erano alla stessa altezza. Aveva capelli neri, corti e arruffati e gli occhi scuri, come quelli del padre, erano incorniciati da degli occhiali tondi, che gli donavano un’aria da piccolo nerd. Una versione in miniatura dello sceriffo.
Jake Moore la studiava incuriosito, come se non avesse mai visto un adulto stravaccato sulla poltrona della biblioteca che ridacchiava all’indirizzo del fumetto fantascientifico che aveva in mano.
“Quella battaglia è al numero venti, io sto ancora al quattordici”, gli fece notare Charlie sventolando la prova nella sua direzione.
Gli occhi di Jake si spalancarono. “Lo hai già letto?”, chiese con voce piena di stupore.
Annuì.
“Qual è il tuo personaggio preferito?”, chiese, facendo sembrare quella domanda della massima importanza.
Charlie trattenne un sorriso. “Catton, senza dubbio.” Era la spassosa spalla dell’eroe principale.
“Forte. Anche a me piace Catton, ma preferisco Rhon.” Il bambino si sistemò gli occhiali sul naso prima di continuare: “Mi chiamo Jake”, si presentò tendendo la mano verso Charlie, che si mise seduta più composta sulla poltrona prima di stringerla. “Io sono Charlie.”
“Charlie?” Jake fece una smorfia. “È un nome da maschio.”
Charlie rise, non era la prima volta che qualcuno glielo diceva, ma il modo in cui lo disse Jake Moore era assolutamente adorabile; come se stesse tentando di comprendere il risultato di un esperimento non andato come previsto.
“Mia madre andava pazza per Charlie Chaplin.” Gli confidò. “Quando era bambina lo guardava sempre con suo padre…” Gli occhi di Jake si illuminarono di comprensione e di genuina ammirazione.
“È davvero un nome fighissimo”, rifletté mormorando tra sé, cambiando idea all’istante; come se quella spiegazione logica rendesse il tutto assolutamente accettabile.
Rimasero così, Charlie seduta sulla poltrona e il piccolo Jake in piedi davanti a lei, a fissarsi.
“Sei veramente una strega?” La domanda uscì dalle labbra del bambino di getto, come se sentisse il bisogno incontrollato di esprimerla. Tuttavia, le sue guance si imporporarono per la sfacciataggine e sembrò subito pentirsene perché si guardò i piedi in imbarazzo.
Charlie, però, non ne fu affatto offesa. “No”, disse. “Però, se lo fossi non potrei dirtelo.” All’istante gli occhi del ragazzo si alzarono a guardarla, la sorpresa per quella poco velata allusione fu accresciuta dal movimento evocativo con cui Charlie alzò le sopracciglia.
Preda del suo stupore, si avvicinò a Charlie, per esser sicuro che sentisse il suo sussurro. “Puoi lanciare incantesimi?”
Solennemente, Charlie annuì e gli occhi di Jake si spalancarono ancor di più.
“Perché pensi che io sia una strega?” Se le sue parole sembravano negare ciò che aveva ammesso poco prima, il sorriso di intesa che rivolse al ragazzo, però, diceva: “Io e te sappiamo la verità.”
Questa complicità illuminò il viso di Jake di un gioioso sorriso infantile.
“Parlano tutti di te”, le disse in un sussurrò cospiratorio. “La signora Howard ha detto che sei sparita nel nulla giovedì scorso e ho sentito la signorina Andrews dire che sei una strega.” Questo non la sorprese, Dorothy Andrews era la migliore amica di Annabelle, non c’era da stupirsi se anche lei la odiava.
“Nonna ha detto che hai lanciato un incantesimo sulle persone di Sunlake, anche se non ho capito di quale incantesimo si tratta… ” Jake si interruppe nella speranza che Charlie chiarisse quel punto; non parve deluso, però, quando lei non disse nulla. “E poi tutti sanno che le streghe sono belle, e tu sei molto più bella della signorina Morgan.”
Se possibile, il sorriso di Charlie si allargò.
Prima che potesse commentare, però, furono interrotti. Il rumore dei tacchi di Annabelle King sul pavimento della biblioteca li avvisò che non erano più soli.
Charlie aveva una chiara idea di cosa volesse.
Quando fu di fronte alla poltrona si rivolse prima a Jake: “Ciao tesoro”, cinguettò con voce artificiosa, come quella di una donna che si rivolga a un bambino piccolo. “Come va la scuola? Ho sentito che hai ricevuto un premio per il progetto di fisica.” Mentre parlava tentò di accarezzare i capelli scuri del ragazzino, ma lui si scostò di scatto per impedirglielo. Se la donna notò il suo disagio, non lo diede a vedere, ma anzi sorrise con fare materno e attese una risposta. Che non arrivò.
Jake, che prima era stato tanto loquace, sembrò farsi improvvisamente timido e iniziò a guardarsi le punte delle scarpe, spostando il peso da un piede all’altro.
A quella vista Charlie si alzò in piedi, pronta a distogliere l’attenzione dell’altra donna su di sé. “Eri venuta per chiedermi qualcosa, Annabelle?” L’espediente funzionò, perchè subito Annabelle King si girò a guardarla.
“Ti stavo proprio cercando, Charlotte.” Il tono di voce tornato di nuovo normale. “Mi stavo chiedendo se avessi novità per la sagra di sabato.”
Mentre Annabelle parlava, Charlie si spostò più avanti, fingendosi interessata, in modo da allontanare Jake dall’altra. “Novità?”, chiese facendo la finta tonta.
Miss. King sbuffò. “Riguardo lo sceriffo. Hai avuto una risposta definitiva?” Guardandola negli occhi, Charlie fu certa che il tono speranzoso della sua voce non fosse per una possibile risposta positiva di Logan.
“Immagino che deciderà sul momento, no?” L’espressione di Charlie era il ritratto dell’innocenza.
Annabelle non sembrò affatto compiaciuta, ma anzi, era evidente che l’incertezza la stava pian piano logorando.
“Spero che tu sappia quant’è importante il tuo compito.” Con una mano curata e piena di bracciali, si scostò una ciocca di capelli biondi dal viso.
Annabelle non era affatto una brutta donna, ma lo sguardo di superiorità che rivolgeva a tutti gli altri e la piega aspra delle labbra le donavano un’aria austera.
Dovette scambiare il silenzio di Charlie per un assenzo, perché continuò: “Non mi far pentire di averti permesso di prender parte al comitato.” Detto ciò, se ne andò.
Non c’era bisogno del permesso del presidente del comitato cittadino per prender parte alle riunioni, erano delle assemblee pubbliche; Annabelle pensava che Charlie non lo sapesse, ma si era informata a fondo sul regolamento del comitato cittadino.
Guardò divertita la camminata impettita dell’altra donna mentre si allontanava, prima di girarsi verso Jake.
Il ragazzino aveva ancora lo sguardo fisso sulle sue scarpe, nessuna traccia del sorriso adorabile di poco prima.
“Un giorno o l’altro si ritroverà con una coda da scimmia”, gli disse con fare cospiratorio; voleva vedere di nuovo il sorriso di Jake Moore e quelle parole realizzarono il suo desiderio: il sorriso del bambino rispecchiò quello di lei, gli occhi di nuovo luminosi.
Charlie si rimise seduta sulla poltrona, in modo da essere nuovamente alla stessa altezza.
“Perché pensa che papà andrà alla fiera?”, domandò incuriosito, sorprendendola.
Jake Moore era sicuramente un ragazzino intelligente; il modo in cui stava dritto, gli occhi attenti e furbi e il modo di parlare lo rendevano evidente.
Si sporse in avanti, verso di lui.
“Perché potrei averle detto una piccola bugia.” Quando gli fece l’occhiolino, gli occhi del bambino si riempirono di curiosità. Charlie continuò. “Vuole mettermi in difficoltà, e mi ha chiesto di convincere tuo padre a venire alla fiera di sabato, quando sa perfettamente che non accetterebbe mai.” La bocca di Jake si spalancò e la comprensione fece capolino sul suo viso. Charlie si avvicinò, abbassando la voce ed enfatizzando le successive parole. “È un peccato, mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia.” Fece un’esagerata imitazione della faccia di Annabelle se Logan Moore fosse davvero andato alla fiera, e subito Jake iniziò a ridere. Continuò a fare smorfie e Jake rise sempre più forte, finché non comparve una stupita Maddie, che rivolse a Jake una bonaria occhiata di rimprovero e a Charlie un’occhiata significativa, del tipo: “non dovresti essere tu l’adulto?”
Solo più tardi, quella sera, mentre tornavano a casa a piedi, il vento freddo che sferzava i loro cappotti, Charlie comprese la portata dell’episodio di quel pomeriggio.
Maddie le disse che Jake Moore era un bambino timido; tranne suo padre, sua nonna e Aubrey Morgan, insegnante della scuola di Sunlake, erano davvero poche le persone che lo avessero sentito dire più di due parole di seguito. Non che fosse un ragazzino poco socievole, con gli altri bambini della sua età sembrava integrarsi perfettamente, ma nel momento in cui doveva interagire con gli adulti diventava silenzioso e insicuro.
La stessa Maddie – una delle poche persone con cui Jake sembrasse avere meno difficoltà – non lo aveva mai sentito ridere in quel modo, se non con lo sceriffo o la nonna. Era impensabile, quindi, che lui e Charlie avessero passato tutto il pomeriggio insieme.
Le aveva chiesto perché non avesse lanciato un incantesimo anche su suo padre, per farlo andare alla sagra, e Charlie gli aveva illustrato le politiche restrittive alle quali sottostavano le streghe.
Anche creare un potente filtro d’amore per un bambino di otto anni contravveniva le regole.
Gli aveva detto che alla fine del mese avrebbe dovuto lanciare un incantesimo di protezione su tutti gli animali del bosco, e che poteva partecipare se voleva. Non aveva mai visto nessuno saltellare dalla gioia come Jake, a quel suggerimento.
Avevano trascorso il pomeriggio così, a parlare di magia, poi di fumetti e a giocare a un gioco di quiz su un libro che avevano trovato in giro.
Solo quando Sylvie Moore era venuta a prendere il nipote, Charlie si era resa conto che era ormai sera.
Tuttavia, ciò che nessuno si sarebbe aspettato furono le conseguenze di quel pomeriggio.
 
Quando Logan passò a prendere suo figlio a casa di sua madre, lo trovò seduto al tavolo della cucina ancora intento a fare i compiti. Era strano che alle sei di sera Jake non li avesse ancora finiti, di solito dopo la scuola sua madre lo lasciava alla biblioteca, sotto la supervisione di Maddie Foster, dove adorava passare il tempo e studiare.
Logan non ci diede troppo peso, a volte poteva capitare, si disse, niente di cui preoccuparsi; per fortuna Jake non gli aveva mai dato problemi sulla scuola – o qualsiasi altra cosa, comunque.
Una volta a casa, davanti la sua cena, Jake parve inquieto: muovendosi sulla sedia, giocherellando con il cibo e lanciando qualche sguardo a suo padre; come se volesse dire qualcosa ma non sapesse come.
Fu Logan stesso a toglierlo di impiccio. “Cosa c’è?” chiese, non potendone più di veder suo figlio – di solito desideroso di raccontare della sua giornata – che si dimenava in silenzio.
Le ultime parole che si sarebbe mai aspettato furono pronunciate: “Possiamo andare alla sagra sabato?”
La forchetta di Logan si fermò a mezz’aria e pian piano ricadde nel piatto. Guardò suo figlio: gli occhi pieni di speranza. “Vuoi andare alla sagra del vino?” L’incredulità era evidente nella sua voce.
Jake si mosse di nuovo irrequieto sulla sedia, prima di annuire.
“Perché mai? Pensavo avessimo dei piani…”, non riusciva a comprendere quali fossero le ragioni che potevano spingere un bambino di otto anni a voler partecipare a un evento del genere.
Jake guardò nel piatto, come cercando ispirazione, sembrò trovarla perché rialzò gli occhi per incontrare quelli di suo padre, molto più risoluto di poco prima.
“Voglio vedere un vero incantesimo dal vivo.” Affermò seriamente.
La fronte di Logan si aggrottò, e l’uomo si grattò distrattamente una guancia. “Non capisco ancora cosa c’entri la sagra di sabato.”
Jake scosse la testa. “Papà, non posso dirtelo, è un segreto. Dobbiamo andare!”
Logan – che non credeva fosse una buona idea portare un bambino di otto anni a una sagra sul vino – fu costretto a fare il guastafeste: “No”, disse riprendendo a mangiare.
Non si aspettava certo che suo figlio fosse felice di quel diniego, ma certamente non pensava fosse importante al punto da iniziare a implorare. “Laverò i piatti tutti i giorni, farò tutte le pulizie e i compiti e mi comporterò bene. Ti prego, papà. Ti prego!” Si era allungato sul tavolo per cercare di toccarlo. Logan lo guardò accigliato; nemmeno quando gli aveva detto di no per la fiera del fumetto – in un altro stato, nientemeno – aveva fatto tutte quelle storie, e ora per la sagra del vino, che non era assolutamente un evento per bambini, insisteva per andare. Scoprì, però, che Jake non era affatto bravo in questo, gli aveva appena promesso tutte cose che già faceva, avrebbero dovuto lavorare sulla contrattazione in futuro.
Le guance di suo figlio si gonfiarono in uno sbuffo trattenuto. Logan riprese a mangiare, considerando chiusa la discussione, ma ovviamente Jake non era della stessa idea.
Iniziò a saltellare sul suo sgabello, aiutandosi con le mani sul tavolo, cantilenando a ripetizione: “Ti prego.”
Non era mai successa una cosa del genere prima d’ora.
Logan si alzò dalla sedia, prendendo il piatto ancora mezzo pieno e portandolo al lavello, in modo da non dover guardare la supplica sul viso di suo figlio. Se prima avesse potuto avere qualche ripensamento sul suo diniego, ora era definitivamente convinto: non poteva lasciare che Jake pensasse bastassero un po’ di capricci per ottenere ciò che voleva.
“Puoi giocare a fare le magie a casa, non serve andare alla sagra di sabato.” Quando il figlio iniziò a protestare ancora, Logan ricorse alla sua voce dura e definitiva. “Ho detto di no e non voglio più sentirne parlare.”
Ed effettivamente Logan non ne sentì parlare per le successive ventiquattro ore, anzi aveva archiviato il caso della sera precedente come un piccolo capriccio insolito, perché il figlio non ne aveva più accennato e non gli aveva nemmeno tenuto il muso. Ma la sera di giovedì si ripeté la stessa scena, con aggiunta di pianto. Vedere suo figlio in lacrime lo aveva quasi fatto cedere ma ancora una volta si era detto di star facendo la cosa giusta.
Iniziò a preoccuparsi, però; ora non era più un caso isolato e Jake era sempre stato un angelo, Logan tendeva ad accontentarlo le poche volte che chiedeva qualcosa. Anche per la fiera del fumetto, dopo che Logan lo aveva fatto ragionare facendogli notare che era troppo lontano, se n’era fatto una ragione.
Perciò, aveva tentato quella strada: gli aveva detto che quello di sabato non era un evento per bambini; ma a Jake non era sembrato importare. Voleva a tutti i costi andare e Logan non ne vedeva il motivo.
La sera di venerdì ci furono ancora capricci e altre lacrime durante la cena a casa di sua madre e la preoccupazione di Logan crebbe ancora di più.
Cosa poteva mai esserci di così importante alla fiera del vino? Perché non poteva giocare a casa?
Gli aveva proposto di invitare i suoi amici da loro a giocare, ma tutto ciò che ottenne furono dei singhiozzi incomprensibili su magie, scimmie e facce strane. In qualche modo, però, da tutto quel discorso sconclusionato riuscì a capire due cose: uno, che i suoi amici non c’entravano niente con questa trovata e due, che di qualsiasi gioco si trattasse, poteva esser fatto solo alla fiera di sabato.
Nonostante ci avesse pensato tutto il giorno, proprio non riusciva a immaginare cosa ci fosse alla sagra del vino di tanto speciale.
Non fu sorpreso di scoprire che anche sua madre era stata messa al corrente della situazione dal nipote. Tuttavia, lei aveva raccolto più informazioni di lui.
Dopo cena, quando finalmente Jake si era calmato e stava guardando i suoi documentari, mentre Logan stava lavando i piatti, sua madre si era unita a lui per aiutarlo.
In silenzio Logan lavava i piatti e sua madre li asciugava e li riponeva nel mobiletto, avevano quasi finito quando Sylvie parlò.
“Da quello che ho capito, domani verrà anche la ragazzina per cui Jake ha una cotta.” Gli disse dolcemente. Logan si girò di scatto verso di lei, sorpreso alle sue parole.
Una cotta.
Il comportamento incomprensibile di suo figlio era dovuto a una semplicissima cotta. Tutto sembrò avere improvvisamente senso e sentì il sollievo, dovuto alla tanta desiderata comprensione, farsi strada nel suo corpo. Per poco non scoppio a ridere dalla felicità. Una normalissima cotta!
Per tutto quel tempo si era chiesto cosa ci fosse di importante alla sagra, mentre la vera domanda era stata chi ci sarebbe stato alla sagra.
Il sollievo di Logan dovette essere ben visibile sul suo viso, perché sua madre gli sorrise e si avvicinò per accarezzargli una guancia. “Ha detto anche qualcosa sul fatto che la deve aiutare con qualcosa di magico, non ne ho capito molto.”
Logan sbuffò una risata. “Credi sia Claire?”
Claire Jackson era il nome femminile più pronunciato in quella casa; era una compagna di classe per cui Jake sembrava stravedere.
Sylvie scosse la testa. “Non lo so, ma non penso. Non mi risulta che Claire frequenti la biblioteca.”
Sulla fronte di Logan si increspò. “La biblioteca? Perché?”
Il sorriso della donna era quello di qualcuno che la sapeva lunga.
“È da mercoledì che insiste per andare subito in biblioteca, dopo la scuola. Di solito è sempre contento di andare, ma non l’ho mai visto così entusiasta; e quando lo vado a riprendere? Mai visto un bambino così felice dopo una giornata di studio.” Alzò un sopracciglio come a evidenziare che quelle erano prove lampanti che avesse ragione.
Logan scosse il capo, come per schiarirsi le idee.
Chiuse gli occhi e sentì le braccia della madre circondarlo, quel conforto lo fece sentire meglio.
La madre di Jake era andata via subito dopo il parto, non aveva mai voluto un figlio e Logan non sapeva cosa l’avesse spinta a tenere il loro; tuttavia, gli aveva regalato la gioia più grande della sua vita. Essendo un tipo pragmatico, non si era mai chiesto se al figlio sarebbe mancata una figura materna; aveva sua madre che lo aiutava e tanto bastava. Inoltre, Logan era ben desideroso e determinato a bastare per entrambi.
Ma ora, inaspettatamente, per la prima volta si chiese se una figura femminile – diversa da quella della nonna – avrebbe potuto aiutarlo con questa storia.
“Non credo che la sagra del vino sia il posto migliore dove giocare, mamma.” Mormorò.
“Adesso che sai perché ci tiene così tanto, però? In fondo non deve mica bere vino anche lui.”
Sospirò. “Ci penserò”, le sussurrò Logan, stringendola.
Per tutta la sera Logan pensò al da farsi. Ogni tanto guardava suo figlio, la cosa più importante della sua vita, che sembrava crescere di giorno in giorno. Non riusciva a credere che avesse una cotta; di tutte le cose che si sarebbe potuto immaginare, quella era l’ultima. Ricordava bene com’era stato per lui a quell’età e ripensando alla sua infanzia, ricordava sempre con piacere la sua storia d’amore infantile con Lucie.
Avrebbe impedito a suo figlio di vivere un’esperienza così dolce? Ovviamente no.
Inoltre, era assurdamente curioso di scoprire chi fosse questa ragazzina.
Si era intestardito con il fatto che la sagra non fosse un evento adatto a Jake, ma sapeva che alcuni dei suoi concittadini vi portavano i figli. Forse sua madre aveva ragione e stava esagerando.
Tornati a casa, quando stava rimboccando le coperte a suo figlio, ormai aveva preso una decisione.
Logan si sedette sul letto e accarezzò i capelli scuri di Jake e guardandolo non poté trattenersi dal sorridere – quel suo sorriso obliquo tanto famoso.
Suo figlio era già mezzo addormentato quando Logan parlò: “Va bene, domani andiamo alla sagra.” Quelle parole sembrarono svegliarlo un po', aprì gli occhi sonnolenti e fece un sorriso stiracchiato di pura gioia. “Grazie, papà”, mormorò nel silenzio della sua stanza.
Logan si fece serio. “Non voglio più tutti quei capricci, però. La prossima volta me ne parlerai come una persona matura e intelligente, intesi?”
Poté vedere nei suoi occhi la comprensione. “Lo prometto.”
Logan gli baciò la fronte, la stanchezza del giorno si fece sentire e Jake iniziò a riprender sonno velocemente sotto le leggere carezze del padre.
“Domani sarà una giornata quasi perfetta.” Mormorò con un sorriso beato.
Le labbra di Logan si curvarono d’un lato. “Perché quasi?” chiese sussurrando.
Prima di rispondere, Jake sbadigliò. “Perché sabato la biblioteca è chiusa.”

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Capitolo 4
*** CAPITOLO QUATTRO ***


CAPITOLO QUATTRO
 
Quel sabato tutta Sunlake era in fermento per gli ultimi preparativi in vista della fiera di quella sera.
Eventi del genere richiamavano persone da tutta la contea di Lake Rock, con somma gioia delle piccole imprese del paese.
Come al solito, c’erano gli ultimi problemi da risolvere e imprevisti a cui rimediare. Un carico di vino locale perso o un’infornata mal riuscita di dolcetti al miele.
Il grosso però era stato fatto nei giorni precedenti, ed ora, intorno alla piazza centrale, sorgevano tanti piccoli banchetti in legno, sia lungo il perimetro più esterno della piazza sia lungo quello interno, l’uno difronte all’altro.
Nel mezzo pendevano piccole luci colorate, che avrebbero rallegrato l’atmosfera, e al disotto erano stati disposti diversi tavoli, affiancati da grandi stufe che avrebbero, per quanto possibile, riscaldato la fredda sera novembrina.
Anche a casa Royce, c’era un bel daffare. Sola in casa - suo padre era uscito per la sua solita passeggiata - Charlie ne aveva approfittato per preparare una ricetta per dei biscotti al limone che aveva visto online.
La tizia del video aveva fatto sembrare il procedimento incredibilmente semplice e veloce, eppure lei era da ore alle prese con l’ultimo facile – come aveva detto quella donna sadica – passaggio.
Facile. Fare la crema al limone si era rivelato tutt’altro: un incubo.
La prima volta le era venuta una roba troppo liquida, si era detta: “ho messo troppo latte, niente di grave”, perciò aveva tentato di nuovo e aveva ottenuto una robaccia piena di grumi, e non importava con quanta energia sbattesse la frusta, non era riuscita a eliminarli.
Adesso era alle prese con il suo terzo tentativo, e non sembrava stesse ottenendo grandi miglioramenti.
“Andiamo.” Sibilò alla crema mentre mescolava con più energia. Iniziava a farle male la mano e la spalla, ma solo quando il composto finalmente si addensò smise di mischiare.
La crema che aveva ottenuto non aveva l’aspetto di quella nel video, ma assaggiandola Charlie la ritenne decente.
Qualche grumetto non ha mai ucciso nessuno, pensò. E comunque non ne avrebbe fatta un’altra, in ogni caso.
Sicuramente, preparare dolci era una distrazione e veder uscire fuori dal forno ciò che aveva fatto con le sue mani le dava una gran soddisfazione, si reputava anche una brava pasticciera, ma non era convinta che ne valesse la pena. Non aveva intenzione di demordere, comunque; era sicura che prima o poi, con l’esperienza, l’avrebbe adorato.
Tutte le donne di Sunlake erano delle vere professioniste in cucina, come aveva scoperto il sabato precedente alla riunione del comitato, e lei non poteva essere da meno.
Alle prese con la crema, non si accorse subito di aver ricevuto un messaggio sul telefono e solo quando ebbe messo i suoi biscotti in forno, lo vide.
Matthew le chiedeva di chiamarlo.
Le sopracciglia di Charlie si aggrottarono. Matthew Allen era essenzialmente l’unico amico che avesse avuto negli ultimi dieci anni, oltre ad essere il suo superiore; tuttavia, a parte episodi sporadici, non si sentivano più di una volta a settimana quando lavorava e meno spesso quando era in ferie.
Poiché Charlie si era dedicata anima e corpo al suo lavoro, aveva accumulato un gran numero di giorni di ferie, che aveva usato ora che stava attendendo il trasferimento.
Andò in camera a recuperare l’altro telefono e mentre tornava in cucina fece partire la chiamata.
Rispose al primo squillo.
“Ciao, Charlie”, la salutò.
“Già senti la mia mancanza, Matty?” Scherzò lei di rimando.
La risata nervosa dall’altro capo del telefono, invece del solito sbuffo in reazione al suo nomignolo, la fecero irrigidire. “Cosa succede?” Chiese seria.
Ci fu un gran silenzio e Charlie poté sentire il suono di fogli che venivano sistemati sulla scrivania. Quando era nervoso, Matt iniziava a riordinare qualsiasi cosa. Una volta lo aveva visto riordinare tre interi schedari, tutto da solo.
Il suo nervosismo aveva reso inquieta anche Charlie, che iniziò a muoversi avanti e indietro, davanti al forno.
Si schiarì la gola prima di iniziare a parlare. “Ti ricordi quando ti ho detto di comportarti come una persona normale?”
Charlie sbuffò. “Me lo hai detto una settimana fa, è difficile che l’abbia dimenticato.” Iniziò a sentire i primi morsi della fame nervosa e guardò i biscotti che stavano cuocendo. Le venne l’acquolina in bocca. “Cosa sta succedendo, Matt? Non hanno accettato il mio trasferimento?”
“Cosa? No!” rispose concitato, “Non si tratta di quello.”
“E allora di cosa si tratta? Mi stai innervosendo. Dillo e basta, mio Dio!”
“Ho bisogno di un favore.” A quelle parole mormorate, Charlie staccò il telefono dall’orecchio e lo fissò per un lungo momento prima di parlare di nuovo nel ricevitore.
“L’ultima volta che ti serviva un favore sono finita in prigione.” Disse Charlie con voce piatta, come se gli avesse appena ricordato che l’acqua è bagnata.
“Lo so, ma-”, Charlie non gli lasciò il tempo di finire.
“Ti ricordi che sto tentando di convincere mio padre che non sono una criminale? Perché non vedo come possa funzionare se mi faccio sbattere dentro!” l’ultima parola fu quasi un urlo.
“Non ci sei rimasta nemmeno venti minuti!” Sbraitò Matt di rimando.
Entrambi presero un profondo respiro.
“Ascoltami solo cinque minuti.” Il tono di Matt più calmo, ora. Charlie lo lasciò continuare. “Ti ricordi del caso Rodriguez?”
Il caso Rodriguez era uno dei casi con più risonanza mediatica che il loro dipartimento avesse mai avuto; aveva raggiunto anche la tv nazionale tanto era stata la sua portata. Charlie non vi aveva lavorato direttamente, però era stata coinvolta quando era stato necessario individuare uno dei sottoposti dei fratelli Rodriguez.
Cole e Declan Rodriguez erano stati due dei più grandi spacciatori di droga del paese, solo Declan Rodriguez era stato assicurato alla giustizia, però, mentre l’altro era ancora latitante. Ovviamente la loro organizzazione aveva risentito parecchio quell’arresto e la concorrenza aveva fagocitato in poco tempo una grande fetta del mercato della droga lasciata scoperta.
Dunque, era impossibile per Charlie aver scordato il caso Rodriguez, e Matthew lo sapeva, perciò non aspettò una risposta prima di continuare.
“Siamo stati informati da una fonte attendibile che Cole Rodriguez ha iniziato a frequentare la contea di Twin Lake circa due mesi fa; pare stia cercando di agganciarsi ad un traffico locale già esistente gestito da un certo Alan Hill.”
Sembrava una mossa alquanto disperata.
Charlie, che nel frattempo si era seduta al tavolo della cucina, si strofinò una mano sulla fronte. Sapeva che cosa gli avrebbe chiesto: di verificare la veridicità di quell’informazione. Nel suo ambiente non si era mai troppo poco paranoici.
“E cosa ti serve da me?” Chiese comunque.
“Solo una foto.” Disse Matt, il tono che sminuiva la portata di ciò che stava effettivamente chiedendo. “Dobbiamo essere sicuri che Cole Rodriguez sia proprio lì, in persona.”
Proprio in quell’istante sentì la porta d’ingresso aprirsi.
Charlie alzò di scatto la testa a quel suono. “Ci devo pensare.” Guardò nervosamente la porta della cucina. “Ora devo andare, Matt.”
“Entro domani mi serve una risposta.” Parve esitare prima di aggiungere: “Sai che non te lo chiederei, se potessi.”
Lo sapeva, e glielo disse.
Stephen Royce comparve sulla soglia proprio quando riattaccò.
Un sopracciglio argenteo sollevato verso l’alto e lo sguardo indagatore, il ritratto della diffidenza.
“Con chi parlavi al telefono?”
Charlie scrollò le spalle con nonchalance. “Un collega.” Aveva deciso che se voleva davvero guarire il rapporto tra loro, non avrebbe mentito se non fosse stato strettamente necessario.
Questo però non sembrò rilevante per Stephen, che sbuffò di derisione. “Oh certo, il tuo lavoro allo studio legale che non esiste.”
La superò, aprì il frigo e vi tirò fuori il succo d’arancia.
Charlie fece un profondo respiro, contò fino a sette ed espirò.
Era incredibile come suo padre avesse il potere di irritarla con una frase, mentre le frecciatine di Annabelle la annoiavano a morte.
Decise di cambiare argomento. “Com’è andata la tua passeggiata?” In risposta ottenne un vago grugnito, che voleva dire tutto e niente.
Non si diede per vinta. “Ho fatto i biscotti, ne vuoi?” Chiese tirando fuori la teglia.
La smorfia sul viso di suo padre fu una risposta sufficiente.
“Cosa voleva il tuo collega?” Il tono aspro che usò su quell’ultima parola, chiarì perfettamente cosa ne pensasse.
Charlie ripensò alla richiesta di Matthew, e sotto lo sguardo di suo padre si sentì fastidiosamente in soggezione. Nervosa, borbottò una scusa qualsiasi e uscì dalla cucina.
Quella telefonata l’aveva resa irrequieta; dopo pranzo e un lungo bagno caldo, aveva deciso di non andare alla sagra del vino quella sera, non aveva voglia di vedere la faccia gongolante di Annabelle King, preferiva rimanere a casa, magari avrebbe cucinato qualche altro biscotto.
Il suo umore abbattuto, però, non era passato inosservato a Stephen Royce; dato l’insolito mutismo e l’evidente preoccupazione sul viso di sua figlia, le aveva gravitato attorno tutto il pomeriggio: aveva cercato di coinvolgerla, senza successo, in una conversazione  – cosa insolita per lui, era sempre Charlie che cercava di intavolare un discorso - durante il pranzo, aveva bussato alla porta del bagno quando non l’aveva vista riemergere dopo lungo tempo e per il resto del pomeriggio si era affacciato di tanto in tanto alla porta della sua camera.
Charlie, immersa nei suoi pensieri, non se ne era nemmeno resa conto.
Dopo il loro scambio in cucina, quella mattina, Stephen si era chiesto se non avesse esagerato. L’apatia in cui sembrava esser caduta sua figlia, lo impensieriva. L’uomo non poteva certo mentire a sé stesso: era felice di avere di nuovo Charlie a casa, dove poteva tenerla d’occhio. E sembrava che sua figlia avesse tutta l’intenzione di restare con lui.
Aveva iniziato persino a cucinare i biscotti, perdio! E sembrava non aver mai preso in mano un mestolo prima d’ora, perché i suoi dolci erano assolutamente immangiabili.
Ma la sua bambina sempre piena d’energia e irrequieta – che poteva ancora vedere nella donna che era diventata – sembrava aver abbandonato la Charlie che gli aveva voltato le spalle ed era uscita dalla cucina.
Fu per quel motivo che Stephen, decise di dichiarare una tregua, per quella sera.
Charlie, perciò, fu stupita quando alle sette si ritrovò suo padre sulla soglia della sua camera. “Ancora non sei pronta?”, le chiese.
Charlie, sdraiata sul letto, si mise seduta a gambe incrociate e batté le palpebre, perplessa. “Pronta per cosa?” domandò.
“Andiamo alla sagra. Mettiti qualcosa di pesante addosso, fuori fa freddo.” E con quello Stephen tornò in salotto.
Charlie guardò un momento la porta della sua stanza, prima di buttarsi giù dal letto.
Suo padre voleva andare alla stupida sagra del vino con lei! Non se lo sarebbe certo fatto ripetere due volte.
Poteva sentire il suo cuore battere all’impazzata per l’eccitazione; era quello che voleva: lei e suo padre che andavano insieme alle feste di paese. Esser parte di una famiglia. Essere normale.
Aveva ragionato su cosa dire a Matthew e fino a quel momento non aveva saputo quale sarebbe stata la sua risposta.
Dopo ciò che le aveva detto Diddi, quasi una settimana prima, pensava che ormai il suo lavoro non potesse più regalarle delle emozioni; ma una parte di lei, quella che aveva sempre vissuto d’azione e adrenalina, avrebbe accettato senza riserve la proposta di Matt. Aveva sentito il suo corpo come risvegliato da una nuova energia, l’euforia di mettersi di nuovo alla prova.
Quell’emozione, però, era sbiadita presto.
Da qualche tempo ormai a quella parte di lei, se n’era opposta un’altra che desiderava disperatamente trovare il suo posto, un posto che non la facesse sentire incredibilmente sola.
Mentre si vestiva – un paio di jeans e il maglione più pesante che aveva – prese la sua decisione: non avrebbe accettato. Non avrebbe messo a rischio il rapporto con suo padre, di nuovo.
Voleva renderlo fiero più di qualsiasi altra cosa.
Arrivarono con quaranta minuti di ritardo, e la piazza di Sunlake era gremita. Dai banchetti tutt’intorno si sprigionavano profumi speziati di dolcetti e vin brulè.
Era da quando era un’adolescente che non partecipava più a una festa di paese; l’odore del vino caldo e il calore delle stufe a legna, distribuite lungo tutta la piazza, contribuivano a rendere l’atmosfera gioviale e godibile.
“Vuoi un bicchiere di vino?” Chiese Charlie a suo padre, che annuì semplicemente.
Quel semplice gesto le scaldò il cuore e ad ogni passo verso il banchetto più vicino si sentiva sempre più euforica.
Fu intercettata da Gracie Howard, a pochi passi dal suo obbiettivo.
“Charlotte, tesoro. Ti stavo proprio cercando.” Quel nome sembrava perseguitarla.
Sorrise gentile all’altra donna. "È Charlie, Mrs. Howard.”
Gracie rimase visibilmente confusa. “Oh!” Si portò una mano alle labbra e arrossì leggermente. “Pensavo che-”
“Non si preoccupi.” Il sorriso che le rivolse sembrò rassicurarla. Aveva una chiara idea del perché la signora Howard pensasse che si chiamasse Charlotte.
“Chiamami Gracie, tesoro.” La donna le prese entrambe le mani nelle sue. “Non so come ringraziarti per questa meravigliosa sagra. Se ne parlerà per anni! È sicuramente l’edizione migliore e più promettente, non mi sono mai divertita tanto.” Si profuse in altri complimenti assolutamente non necessari.
Charlie, attonita, cercò di inserirsi nello sproloquio di Gracie per spiegarle che la sagra del vino non l’aveva organizzata lei, ma Annabelle King, come ogni anno. Tutto ciò che riuscì a dire, però, fu un debole “Grazie, ma…” prima di essere sommersa da un nuovo torrente di parole.
Iniziarono a farle male le guance, dopo cinque minuti che sorrideva in risposta alla profusione di ringraziamenti che Mrs. Howard le stava riversando addosso.
Mentre annegava in quel mare di parole, Charlie vide i soccorsi avvicinarsi sotto forma di una scompigliata Maddie Foster. Sembrava avesse corso, il suo respiro affannato creava nuvolette di condensa nell’aria fredda.
In un altro momento, Charlie sarebbe stata divertita da quella vista: la sua amica, rispettabile bibliotecaria del paese, di solito sempre composta, così sconvolta.
“Ti ho cercato d’dappertutto”, ansimò Diddi quando le raggiunse.
Charlie si aggrappò a quella opportunità come a una scialuppa di salvataggio.
“Oh, sì! Mio Dio, mi ero completamente dimenticata che dovevamo fare quella cosa!” Non si curò del tono vagamente disperato con cui disse quelle parole. Cercò di ricomporsi per le successive. “Gracie, scusami un attimo, per favore.” Non si sarebbe stupita se il sorriso che fece alla donna fosse stato accompagnato da un’improvvisa musica angelica.
Afferrò Diddi per un gomito e la trascinò più avanti, finché la capigliatura cotonata di Gracie Howard non fu più in vista.
Il sollievo fece subito posto alla confusione quando Maddie disse: “Come ci sei riuscita, C.?” Il tono serio, la voce bassa per non farsi sentire.
“A fare cosa?” Chiese Charlie, non sapendo a cosa si stesse riferendo l’altra.
Maddie puntò lo sguardo più avanti, a diversi metri di distanza. “Quello.” Disse semplicemente.
Charlie non capì, finché non riuscì a identificare il volto sotto uno Stetson scuro dalla tesa larga.
Lo sceriffo Logan Moore era intento in una conversazione, al centro delle attenzioni di Annabelle King.
Nonostante l’espressione fosse gentile e rispettosa, dal suo linguaggio del corpo, Charlie poteva dire con certezza che fosse infastidito da tutta quella considerazione.
Ma l’attenzione di Charlie fu catturata da qualcosa di ben più importante e fondamentale, e improvvisamente tutto il suo mondo parve ruotare intorno a un singolo oggetto inanimato.
“Mio.” Disse, come ipnotizzata. “Dio.”
Non poté vedere Maddie alzare gli occhi al cielo.
“Charlie, non è il momento della tua assurda fissazione per gli uomini e i cappelli da cowboy.” Le parole esasperate di Diddi infransero il suo sogno ad occhi aperti.
Da quando suo padre, a tredici anni, le aveva fatto vedere il suo primo film con Clint Eastwood, Charlie aveva una ossessione per quei cappelli. Gli uomini che li indossavano erano assolutamente irresistibili e Logan Moore con uno Stetson era senza dubbio l’incarnazione di un sogno erotico.
Ignorò le ultime parole di Maddie. “Non ho idea del perché sia qui.” Disse, guardando inesorabilmente di nuovo nella direzione dell’uomo.
Prendendole il mento tra due dita, Diddi le voltò la testa per guardarla in faccia e parve soddisfatta di qualsiasi cosa le vide in viso.
Non appena le sue dita la lasciarono, gli occhi di Charlie tornarono di nuovo sullo sceriffo e questa volta trovarono due pozze scure ad aspettarla.
Distolse subito lo sguardo, con disinvoltura.
Una risatina idiota le scappò dalle labbra.
“Santo cielo.” Mormorò Maddie, esterrefatta. “Sei completamente impazzita.”
Le due donne si fissarono per un momento negli occhi, poi sul viso di entrambe si aprì un malizioso sorriso d’intesa.
Furono interrotte da un grido.
“Charlie!” Jake Moore correva verso di loro, frenetico e non passò inosservato, presto molti sguardi sorpresi furono su di loro; Charlie vide con la coda dell’occhio la testa di Logan alzarsi di scatto nella loro direzione, gli occhi scuri che la fissavano da sotto la tesa del cappello. Sentì un brivido risalirle lungo la spina dorsale.
Quando Jake le raggiunse, subito prese una mano di Charlie e iniziò a saltellare sul posto, esaltato. “Ti sei parsa la parte migliore!” Charlie rise alla vista di tutta quella allegria.
Si chinò verso Jake.
“Non hai visto la sua faccia.” Continuò incurante delle orecchie indiscrete tutt’intorno ma Charlie non poté far a meno di ridere, di nuovo.
Jake fece un’esagerata espressione di stupore, per imitare la reazione sconvolta di Annabelle all’arrivo di Logan alla sagra.
“La faccia di chi?” Chiese Maddie ed entrambi si girarono a guardarla; Jake aveva l’espressione di chi si era lasciato scappare un segreto.
Lui e Charlie si scambiarono un’occhiata. “Nessuno.” Dissero all’unisono.
Sorrise malizosamente a Diddi, però, in una tacita promessa di una spiegazione futura.
Jake le tirò la mano per richiamare la sua attenzione, nonostante non l’avesse mai persa.
“Vuoi vedere una magia?”
“Adoro la magia.” Gli fece un occhiolino cospiratorio.
Sentì la risatina divertita di Maddie; Charlie le aveva raccontato del suo nuovo status di strega del paese.
Anche il bambino ridacchiò felice, trascinandola verso uno dei banchetti.
“Ci serve un bicchiere di vino, però.” Le disse, guardandola con aspettativa.
Il suo sorriso si allargò. “Adoro questo piano.”
 
Logan non stava più ascoltando, annuiva di tanto in tanto, ma se qualcuno gli avesse chiesto di cosa stesse parlando Annabelle lui non avrebbe saputo rispondere.
Era sconvolto dall’aver visto suo figlio correre incontro a Charlie Royce. Non era mai successa una cosa del genere prima; nemmeno per salutare sua nonna correva in una corsa così frenetica, figurarsi con uno sconosciuto.
“Non avrei mai creduto che sarebbe riuscita a convincerti a venire.” Le parole di Annabelle, che stava guardando nella stessa direzione di Logan, lo riportarono al presente. “Pensavo stesse mentendo, quando ha detto che ti aveva quasi convinto.”
A quelle parole Logan si accigliò: Charlie non aveva affatto cercato di convincerlo, anzi era semplicemente uscita dal suo ufficio quando le aveva detto che non aveva alcun interesse per la sagra del vino. Ma Annabelle era la solita melodrammatica, perciò non diede peso a quelle parole.
Una mano curata e ingioiellata, gli si posò sul petto e le lunghe ciglia della donna sbatterono lentamente con fare civettuolo. “Potresti prendermi un bicchiere di vino, caro?”
Logan odiava quando lo chiamava in quel modo. Prima di tutto perché lo faceva sentire un decrepito; e poi ogni volta gli ricordava il suo errore madornale: essere uscito con lei e averla involontariamente illusa che tra loro potesse nascere qualcosa.
Ad ogni modo, lo sceriffo non sapeva come declinare quella richiesta senza risultare scortese; non era sicuro che Annabelle potesse vedere quel gesto come un innocuo atto di cortesia e lui voleva solo raggiungere al più presto Jake e la donna con lui.
Non fu necessario, però, che Logan inventasse una qualche scusa; Luke Thomson venne in suo soccorso.
Inclinando la testa in un cenno di saluto verso Annabelle, gli disse: “Ho delle cose da dirti riguardo Hill.”
Ma lo sceriffo fu distratto nel vedere Charlie porgere un calice di vino a suo figlio, poco più avanti; pertanto, liquidò la questione con un gesto sbrigativo della mano. “Fammi un favore Luke, prendi ad Anne un calice di vino. Ho una questione di cui occuparmi.”
Distratto, Logan non si accorse della luce che si accese negli occhi di Annabelle all’uso di quel nomignolo – che Logan non aveva mai usato prima – né dello sbuffo esasperato del suo vice. Invece, si affrettò al tavolo su cui si erano seduti Jake e Charlie, l’uno accanto all’altra, di spalle a Logan.
Davanti a loro c’era un piatto piano di ceramica, nel quale suo figlio versò il vino.
Sollevato, rise di sé stesso tra sé. Nessun adulto sano di mente darebbe da bere del vino ad un bambino, pensò scuotendo la testa.
I due si accorsero di lui e Jake iniziò a sventolare frenetico una mano nella sua direzione - come se Logan non stesse già camminando verso di loro - il piccolo viso radioso. Un sorriso obliquo curvò le labbra dell’uomo e gli occhi scuri di Logan sembrarono bearsi di quella vista.
Si sedette di fronte a loro, dall’altra parte del tavolo. Toccandosi il cappello, rivolse un cenno di saluto a Charlie, la quale rispose con un cenno del capo e un sorriso.
Logan studiò per un attimo la donna di fronte a lui. Sembrava completamente diversa rispetto a tre giorni prima. Quella barriera invisibile che delineava un confine tra lei e il resto del mondo sembrava esser sparita, e dallo sguardo che rivolgeva a suo figlio, pieno di affetto e un altro sentimento che Logan non riusciva ben a definire, era convinto che questo fosse dovuto a Jake.
Se possibile, gli sembrò ancora più bella.
“Papà! Guarda!” L’urlo di Jake lo costrinse a distogliere lo sguardo dalla donna. “Riempiremo questo bicchiere” - prese il calice che aveva appena svuotato nel piatto – “al contrario!” I suoi occhi brillavano di meraviglia.
“Davvero impressionante.” Concordò il padre ammirato. “Ti serve aiuto?”
Scosse la testa. “No, devo solo trovare una candela.” Si alzò, iniziando a guardarsi in torno, in cerca di ciò che gli serviva. “Mi aiuterà Charlie. Lei è un’esperta di magia.” Su quelle parole scappò via, ignaro della reazione che quella frase suscitò in suo padre.
Lo sceriffo, infatti, si sentì investito da un brivido di consapevolezza.
Magia.
Aveva sentito quella parola a ripetizione per gli ultimi tre giorni.
Si era guardato intorno tutta la sera, cercando la ragazzina per cui sua madre sosteneva Jake avesse una cotta, ma non si era ancora fatta viva.
Suo figlio era stato irrequieto, pieno di aspettativa, finché non aveva visto Charlie Royce e le era corso incontro esultante come mai prima d’ora.
Non c’era nessuna Claire Jackson. Nessuna cotta. Solo Charlie.
Improvvisamente, gli tornarono in mente le parole di Annabelle: ha detto che ti aveva quasi convinto.
Ma a convincerlo – se così poteva dirsi – era stato Jake, che sembrava stravedere per lei.
Un’idea terribile iniziò a prender forma e Logan sentì il calore dell’irritazione che gli risaliva il collo.
Gli era sembrato strano che avesse desistito così in fretta dal tentare di persuaderlo a partecipare a quella festa. Non avrebbe mai pensato, però, che si sarebbe spinta tanto oltre.
Sentì il calore della rabbia iniziare a montare e prese un respiro profondo per tentare di calmarsi.
Gli impeti di rabbia non erano forieri di buone decisioni e non aveva intenzione di fare una scenata in pubblico.
Non so ancora come siano andate davvero le cose, si disse. Aveva tutto sotto controllo, non avrebbe perso le staffe.
La donna ignara davanti a lui ebbe l’audacia di sorridergli, ma Logan non prestò attenzione a quegli occhi che risplendevano di autentica felicità. Non pensò a quanto fosse bella con le guance e la punta del naso rossi per il freddo. O almeno, non molto.
“Sembra tu non sappia accettare un no come risposta.” Esordì, la voce più tagliente di quanto avrebbe voluto. Dopotutto, forse, non aveva proprio tutto sotto controllo.
Charlie sembrò spiazzata da quell’osservazione, e in quegli occhi azzurri, Logan fu in grado di vedere l’esatto momento in cui successe: un muro invisibile si erse a separarli e, nonostante fossero seduti allo stesso tavolo, la distanza tra loro non poteva essere più grande.
Lo sceriffo, però, era concentrato sulla sua rabbia crescente.
La donna parve considerare per un secondo le sue parole, prima di rispondere.
“Immagino di no, la maggior parte delle volte.” Rispose cauta, cercando un qualche indizio sul viso di Logan.
“Non hai nemmeno il buon gusto di negarlo.” Sibilò lui, non facendo caso all’espressione interdetta sul viso di lei.
“Negare cosa?” chiese infatti.
Lo sceriffo la ignorò e iniziò a premere il dito sul tavolo tra di loro, enfatizzando ogni sua parola. “Non accetto un comportamento del genere nella mia città.”
Quello sembrò raggelarla e la sua espressione si fece improvvisamente intellegibile. Se non fosse stato tanto furioso, Logan sarebbe rabbrividito sotto il suo sguardo.
“Senti”, iniziò il tono calmo e ragionevole. “Non so cosa ti abbia detto mio padre, ma sono sicura che abbia esagerato. Non ho idea del perché-” Si interruppe davanti alla sua espressione perplessa.
“Di cosa diavolo stai parlando?” Chiese lui assottigliando lo sguardo con aria inquisitoria.
Un lampo di irritazione passò negli occhi azzurri di lei. “Di cosa diavolo stai parlando tu!” Sbottò.
Logan si guardò attorno, il più disinvolto possibile. Nessuno sembrava aver notato il loro battibecco.
Prese un respiro profondo per calmarsi.
“Sto parlando di come hai convinto mio figlio a manipolarmi per obbligarmi a partecipare a questa sagra!” Sibilò.
Con sua sorpresa, Charlie gettò la testa all’indietro e rise; sembrò più una risata di sollievo che di ilarità.
“Gesù. Sei completamente pazzo.” Quelle parole sembrarono come schiaffeggiarlo, si tirò indietro come se fosse stato davvero colpito e per assurdo che potesse sembrare, ritrovò un po’ di lucidità.
Ma ormai Charlie sembrava aver perso il guinzaglio del suo sarcasmo. “Sentiamo, di cosa mi stai accusando? Di aver manipolato i tuoi sogni affinché tu cambiassi idea su una sagra idiota a cui non frega niente a nessuno?” Un sopracciglio biondo si inarcò verso l’alto. “Vuole arrestarmi, sceriffo?” Protese le mani unite verso di lui. Sembrava sbeffeggiarlo, come a dire: “Provaci e vedrai cosa succederà.”
Stavolta, sotto il suo sguardo, Logan rabbrividì davvero. Non aveva mai visto una donna più furiosa.
Con una mano afferrò il suo cappello e si passo l’altra tra i capelli.
Ripensò allo sguardo pieno d’affetto che le aveva visto in volto prima, mentre guardava suo figlio. Quella donna gli voleva bene sul serio, non si poteva simulare una cosa del genere, era impossibile.
Sentì le spalle rilassarsi sotto quella realizzazione e guardò la donna incazzata davanti a lui.
Non lo guardava più, gli rivolgeva il profilo e sembrava infastidita dalla sua sola presenza. Non poteva certo biasimarla.
Aveva esagerato. Quando c’era di mezzo Jake, però, non riusciva a ragionare con lucidità.
Si schiarì la gola, cercando di pensare a qualcosa da dire. Faceva schifo con le scuse.
Furono interrotti dal ritorno di suo figlio, con il fiatone e una piccola candela in mano, non sembrò accorgersi della tensione tra gli adulti.
La magia si rivelò essere – senza sorpresa – un semplice esperimento di chimica: una volta che la candela, accesa, fu messa al centro del piatto e il bicchiere capovolto a coprirla, il vino iniziò a risalire nel bicchiere, sfidando la forza di gravità.
Una volta riempito, Jake lo rigirò, insieme al piatto, e il calice fu di nuovo pieno.
Jake aveva iniziato a ripetere l’esperimento, quando una mano si posò sulla spalla di Logan. Luke Thomson era in piedi appena dietro di lui, uno sguardo serio sul viso. Fece un gesto di saluto verso Charlie prima di rivolgersi a Logan: “Ti devo parlare di Alan Hill.”
I due uomini non notarono lo sguardo improvvisamente attento di Charlie su di loro.
 
Alan Hill.
Perché mai Logan dovrebbe lavorare su un caso della contea di Twin Lake? Si domandò Charlie. Ma la risposta a quella domanda era semplice; c’era solo un motivo possibile per il coinvolgimento dello sceriffo di Sunlake: Hill viveva nella contea di Lake Rock.
Guardò distrattamente Jake che versava nuovamente il vino nel piatto, per poi lanciare un’occhiata ai due uomini - si erano alzati per avere una conversazione privata più in là.
Per disturbare lo sceriffo durante la sagra, doveva esser successo qualcosa di grave. Tuttavia, se quel che gli aveva detto Matt era vero – e ovviamente lo era – in quel momento Alan Hill doveva attirare il meno possibile l’attenzione su di sé, così da mostrarsi come un uomo affidabile al suo nuovo socio in affari.
Era un’impresa impossibile non avere l’attenzione della polizia per un noto spacciatore; quindi, l’unica cosa da fare era volare basso. Non si trattava di un crimine che Hill aveva commesso, dunque.
Charlie si strofinò la fronte con una mano fredda e guardò Jake che, ignaro, si meravigliava nuovamente alla riuscita del gioco.
Senza preavviso un’idea prese forma nella sua testa: avrebbe potuto aiutare. Quel pensiero la allarmò e subito scosse la testa, come a volerlo scacciar via.
Sono in ferie, si disse. Non voglio e non posso farmi coinvolgere.
Si girò a guardare di nuovo i due uomini, che si stavano avvicinando.
Nonostante i pensieri di poco prima, Charlie non poté far a meno di chiedere se andasse tutto bene quando arrivarono al tavolo. Logan scosse semplicemente la testa, sovrappensiero; fu Luke Thomson a rispondere, invece: “Solo un caso di scomparsa. Niente di cui preoccuparsi, Charlie.” Nonostante il sorriso gentile che le rivolse, l’assenza di quella scintilla maliziosa nei suoi occhi le disse chiaramente che il vicesceriffo, in realtà, era preoccupato.
Tuttavia, Charlie si concentrò su quello che aveva detto: Hill era scomparso.
Potrei davvero aiutarli, pensò di nuovo e subito si ammonì mentalmente, non poteva permettersi di pensare a certe cose. Doveva concentrarsi sul rapporto con suo padre. Era tornata solo per quello. Ne aveva bisogno.
Ma non riuscì a smetter di ragionarci per tutta la sera e la notte, però.
A mezzanotte si alzò dal letto per un bicchiere di latte caldo, nella speranza che quello potesse portarle il tanto desiderato sonno.
All’una e mezza arrivò a contare mille e settecento trentaquattro pecore che saltavano una staccionata immaginaria; perciò, si alzò, si vestì e indossò le sue scarpe da ginnastica prima di uscire di casa.
Alle tre rientrò silenziosamente, sfinita, e si fece una doccia veloce prima di rinfilarsi nel letto. Ma la corsa non le conciliò il sonno.
Decise di prendere uno dei libri dalla libreria di suo padre; uno di quelli che da piccola aveva trovato tra i più noiosi, un saggio sulle tattiche militari di Napoleone Bonaparte.
Sorprendentemente, lo trovò assolutamente avvincente e alle cinque passate ne aveva letto metà.
Stanca, provò per la milionesima volta ad addormentarsi, ma rimase ancora una volta a fissare il soffitto: il suo cervello non ne voleva sapere di spegnersi e rilassarsi.
Si alzò, infastidita. Avrebbe risolto quella questione subito, si disse mentre raggiungeva la sua valigia per prendere il telefono che vi nascondeva. Non le importava di svegliare Matthew Allen; se lei non poteva dormire che non lo facesse nemmeno lui.
Lo avrebbe tirato giù dal letto e gli avrebbe detto di scordarsi di coinvolgerla in alcunché. Poteva chiamarla solo per sentire come stava o per comunicarle, finalmente, che la sua richiesta di trasferimento era stata accettata. Nient’altro.
Solo al terzo squillo, un Matthew assonnato rispose. Non era certo starno che Charlie lo chiamasse all’alba, era già successo in passato. Tuttavia, questa volta avrebbe potuto tranquillamente aspettare la mattina, prima di chiamare.
“Charlie?” La vena di preoccupazione nella sua voce era evidente.
Lei aprì la bocca per parlare, doveva solo mandarlo al diavolo, riattaccare e dormire come una bambina per il resto della notte; ma non riuscì ad emettere un suono.
Chiuse gli occhi per farsi forza.
“Charlie?” Chiese di nuovo Matt, a voce più alta e tesa.
“Sono qui.” Rispose semplicemente lei, ancora cercando di fare chiarezza dentro di sé.
 Inspirò profondamente, contò fino a sette ed espirò.
“Stai bene?”
Charlie non rispose; pensò, invece, allo sguardo entusiasta che le aveva rivolto l’adorabile Jake Moore e a come l’aveva fatta sentire esserne la destinataria.
La sopraffece un’improvvisa determinazione, a quel pensiero e lei per prima fu sorpresa quando, con voce ferma, dichiarò: “Accetto l’incarico.”
Non riuscì ad addormentarsi affatto.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO CINQUE ***


CAPITOLO CINQUE
I compari di Alan Hill erano degli idioti.
Charlie lo capì dopo appena un minuto di conversazione tra Scott Nelson, braccio destro di Hill, e Robert Adams.
Questo faceva di Alan un idiota a sua volta, perché si circondava di gente incompetente.
Fino a tre giorni prima – la domenica dopo la sua notte insonne – non lo avrebbe creduto. Alan si era dimostrato scaltro nel nascondersi; stando alla posizione del suo cellulare, avrebbe dovuto trovarsi in casa sua – primo posto dove chiunque avrebbe cercato una persona scomparsa – e non si era mosso da lì per i due giorni successivi. Sicuramente aveva comprato un cellulare usa e getta, e per Charlie sarebbe stato impossibile risalire a quel numero.
Inoltre, non risultava avesse fatto pagamenti elettronici negli ultimi dieci giorni o che avesse prelevato una grande quantità di contanti prima di sparire. Era chiaro che qualcuno lo stesse aiutando.
Non poteva credere, però, che quell’uomo avesse come braccio destro un idiota patentato.
“Il capo ha detto che ci sarà.” Stava dicendo Robert. La voce che Charlie sentì nelle cuffie era quella di un uomo che sembrava avesse fumato parecchie sigarette.
“Non capisco perché dobbiamo arrivare fin laggiù, possiamo vederci benissimo in città e-”, iniziò a ribattere Scott, iniziando l’ennesimo battibecco. Charlie alzò gli occhi al cielo esasperata.
Era da domenica pomeriggio che ascoltava le loro chiamate e quei due non erano mai d’accordo su niente, passavano il tempo a discutere di cose inutili – ad esempio se la bistecca di un certo Max fosse meglio al sangue o no – e non si preoccupavano minimamente di poter essere intercettati: dall’inizio di quella chiamata avevano fornito a Charlie luogo, giorno e ora dell’incontro tra Hill e un certo Mignolo – di cui Scott e Robert non conoscevano il nome, Charlie ne era certa, altrimenti glielo avrebbero già fornito.
Charlie dubitava che il Mignolo fosse il nome che Cole Rodriguez si era scelto; lui di certo non era tanto stupido da presentarsi di persona a quell’incontro.
Tuttavia, Charlie aveva bisogno di una sua foto. Sarebbe stato un pezzo importante per il suo puzzle e doveva assolutamente sapere chi era il portavoce di Rodriguez.
Decise di prendere due piccioni con una fava; perciò, esattamente una settimana e due giorni dall’ultima volta, Charlie si ritrovò alla centrale di polizia con un piatto di biscotti – al limone stavolta – per incontrare lo sceriffo.
Non lo aveva più visto dopo la loro interazione di sabato, e presto la rabbia nei confronti dell’uomo era scemata in un leggero turbamento. L’irritazione verso sé stessa, per essersi stupidamente esposta, dopo che era diventato evidente che Logan non si era, in alcun modo, riferito alla precaria situazione con suo padre, l’aveva messa sulla difensiva e, invece di rispondere con la sua normale impassibilità, era stata spinta a reagire in un modo che non era da lei.
Aveva capito perfettamente quale fosse stato l’equivoco. Poteva mai biasimare un padre per voler proteggere il figlio?
Ovviamente no.
Quindi tutto ciò che le era rimasto era un tiepido imbarazzo.
“Logan è impegnato in una chiamata, Charlie. Magari puoi passare domani?” Le disse Hannah, spiacente, quando si presentò alla reception.
Ma Charlie non poteva aspettare il giorno dopo, perciò iniziò ad avviarsi verso l’ufficio dello sceriffo.
“Sono sicura che vorrà vedermi subito, ci vorrà solo un minuto.”
Hannah le venne dietro, chiamandola e ripetendole quanto fosse occupato il suo superiore. Avevano attirato l’attenzione di tutti, ma nessuno sembrò intenzionato ad intervenire.
Quando raggiunse la porta chiusa, Charlie bussò brevemente e senza aspettare risposta, entrò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle, lasciando fuori una sbalordita Hannah.
Logan, che aveva la cornetta di un telefono fisso incastrata tra la testa e la spalla e stava scrivendo qualcosa su un foglio davanti a sé, si bloccò a quella interruzione.
“Scusa un secondo, Ryan.” Disse alla persona dall’altra parte della linea. Coprendo la cornetta con il palmo della mano, si alzò, gli occhi pieni di irritazione a quell’intrusone. “Cosa diavolo pensi di fare a-”
Ma le parole successive di Charlie lo ammutolirono. “So dov’è Alan Hill.”
Le sopracciglia di Logan si alzarono per la sorpresa. “Cosa?” Chiese incredulo.
Charlie non rispose; si limitò a fissarlo di rimando, impassibile.
“Ti richiamo.” Disse nel ricevitore e riattaccò senza aspettare risposta.
Le fece segno di sedersi, studiandola circospetto. Quando lei posò il suo piatto sulla scrivania, lo sguardo sospettoso dello sceriffo si spostò sui suoi dolcetti.
Logan iniziò a scoprirli dalla pellicola trasparente, sotto lo sguardo sorpreso di Charlie; non pensava che i suoi biscotti gli fossero piaciuti così tanto da non poter resistere un secondo di più.
Al gemito – che Charlie credette di piacere – dello sceriffo, non appena iniziò a masticarne uno, un sorrisino compiaciuto iniziò a curvarle le labbra e l’orgoglio iniziò ad affiorarle nel petto.
Quell’idillio, però, fu brutalmente infranto dalle parole di Logan: “Questi biscotti sono terribili.”
Charlie sentì i suoi occhi spalancarsi. “C-come?” Balbettò.
Balbettò! Era da quando aveva tolto il pannolino che non balbettava!
“Terribili.” Ripeté Logan, prendendo un altro morso.
Charlie lo fissò basita. “Perché continui a mangiarli, allora?”
Lui alzò le spalle. “Sembra che nessun altro qui dentro mi aiuterà a finirli e non voglio buttare da mangiare.” Logan guardò i biscotti rimasti con repulsione.
Con indignazione, Charlie fece per riprendersi il piatto, ma Logan lo allontanò fuori portata. Lui inarcò le sopracciglia, in una tacita domanda.
“A Maddie piacciono, li darò a lei se tu non li vuoi”, disse stizzita.
La risata di Logan, le diede ancor di più sui nervi. “Ovviamente, ti ha mentito.”
Charlie desiderò che l’ultimo morso gli andasse di traverso, e quel pensiero dovette trasparire dal suo viso, perché Logan le rivolse un sogghigno consapevole.
Doveva ammettere che, nonostante fosse insopportabile, quell’uomo aveva un ché di fastidiosamente attraente.
“Allora”, la voce profonda di Logan la riportò alla realtà. “Alan Hill. Dov’è?”
Charlie incrociò le braccia al petto, appoggiandosi indietro sullo schienale, il gesto le mise in evidenza il seno – lasciato scoperto dallo scollo a V del suo maglione blu - e gli occhi dello sceriffo vi si soffermarono fugacemente. Nulla poté guastare il sorriso compiaciuto di Charlie, stavolta, al breve lampo di emozione che poté leggere nei suoi profondi occhi scuri.
L’espressione di Logan, però, si fece subito impassibile, come a voler nascondere e ignorare quella temporanea debolezza. Alzò un sopracciglio, in una tacita domanda.
Si guardarono a vicenda per un lungo istante. “Stasera sarà al Gryson’s.”
Lo sceriffo appoggiò gli avambracci sulla scrivania, le mani intrecciate; Charlie poté vedere un certo interesse in quegli occhi scuri e si preparò per l’inevitabile interrogatorio.
“Innanzitutto, permettimi di chiedere: come facevi a sapere di Alan Hill?” Lo sguardo indagatore di Logan non abbandonò il viso di lei, in cerca della più piccola traccia di menzogna.
Charlie non ebbe bisogno di mentire, però. “Ne avete parlato tu e Luke sabato sera.”
Con un cenno distratto del capo, Logan le diede ragione. “Come sai del Gryson’s?”
Quella era la domanda su cui si era preparata tutta la mattina.
“Maddie mi ha detto che a Twin Lake City c’è questo negozio di fumetti” – il ché era la verità – “così stamattina sono andata a vedere se ci fosse qualcosa di interessante.” Sorrise disinvolta a quella bugia.
Logan le fece segno di continuare.
“Sono entrata in un bar, dopo. Ho sentito due tizi che parlavano di Alan Hill e del Gryson’s.” Fece finta di cercare di ricordare qualcosa e si preparò al suo azzardo. “Uno aveva capelli rossicci ed era molto pallido e magro. Non ho visto i suoi occhi però, quindi non so dire di che colore fossero. L’altro aveva un cappello, ma credo avesse i capelli castani, molto robusto e aveva un tatuaggio sul collo.” Lo guardò sbattendo innocentemente le ciglia. “Ho pensato lo volessi sapere.”
Più che altro, Charlie sapeva che quella descrizione avrebbe convalidato ancor di più la sua storia.
Occhi scuri scandagliarono le profondità degli occhi di lei, sembrava che qualcosa lo impensierisse.
Charlie sentì una goccia di sudore colarle lungo la schiena e subito prese un respiro profondo, contò fino a sette ed espirò, per ritrovare la calma.
“Sembra tu sia stata molto attenta.”
“Mi piacciono le serie poliziesche”, il che era vero. “Inoltre, la scuola militare ti insegna a far caso a certe cose.” Non era proprio così, la scuola militare era senza dubbio dura ma non insegnava nulla del genere, era stato al corso intensivo d’addestramento che le avevano insegnato le basi: sparare, combattere, identificare gli obiettivi e mentire.
Il terzo grado, però, non era finito.
“Come si chiamava il bar?”
Charlie ci pensò un momento, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con nonchalance. “Non ricordo…”
“Che ora era quando sei entrata?”
“Le dieci, forse dieci e mezza.” Fece spallucce.
“Che cosa hai comprato?” Le chiese Logan con un sorriso furbo. Era bravo a quel gioco, sapeva che per smascherare una menzogna i dettagli erano fondamentali.
Charlie fece finta d’esser interdetta a quel repentino cambio d’argomento. “Non ho trovato niente di interessante.”
Quando lo sceriffo si rilassò di nuovo sullo schienale, Charlie seppe che l’interrogatorio era finito.
 
Il primo problema con le bugie era che dovevi esser capace a raccontarne, soprattutto sotto pressione.
Charlie Royce era di gran lunga la bugiarda più brava che Logan avesse mai incontrato: non aveva mai visto niente del genere.
Un ciarlatano qualsiasi ci avrebbe pensato due volte prima di entrare nell’ufficio dello sceriffo e iniziare a sparare cazzate; tuttavia, se ci avesse provato sarebbe stato sicuramente nervoso. E Charlie non era affatto nervosa, seduta tranquillamente sulla poltrona davanti a lui. Non aveva nemmeno tentato di nascondere il nervosismo rimanendo troppo immobile, come facevano alcuni.
Guardandola, chiunque avrebbe pensato fosse semplicemente una donna che si era trovata al posto giusto al momento giusto e aveva fatto il suo dovere di cittadina.
Anche Logan lo avrebbe pensato, senza dubbio.
Il secondo problema con le bugie, infatti, era che dovevi avere fortuna; Charlie Royce non ne aveva avuta.
Quella stessa mattina Luke e Logan erano andati, ancora una volta, di persona a casa di Alan Hill e avevano fatto un giro del piccolo quartiere. Erano appena le undici, quando erano passati davanti casa di Robert Adams e, per puro caso, lo avevano visto uscire per buttare la spazzatura.
Charlie aveva descritto esattamente Robert: roscio, pallido e allampanato.
Era impossibile che alle dieci o dieci e mezza stesse a Twin Lake City, a più di un’ora d’auto di distanza da casa sua. Ma Charlie era stata così credibile che, per un momento, Logan aveva dubitato anche di sé stesso e di ciò che aveva visto quella mattina.
Si chiedeva quale fosse lo scopo di quella bugia.
Una trappola? Anche se Logan dubitava seriamente che Alan Hill fosse così intelligente da orchestrare un piano tanto contorto, non bisognava sottovalutare i suoi nuovi soci; e la scomparsa di Hill giocava a loro favore: meno si faceva vedere e teneva un basso profilo, meno il suo socio correva rischi.
Perciò, quello che gli aveva comunicato Charlie avrebbe aiutato le forze dell’ordine. La domanda, però, rimaneva: qual era il ruolo di quella donna in tutto ciò?
Conosceva l’aspetto di due dei più fidati scagnozzi di Alan Hill e in qualche modo era riuscita a scoprire dove avrebbero potuto trovarlo. Nonostante avesse mentito su come fosse entrata in possesso di quell’informazione, Logan, in qualche modo, era sicuro che il resto fosse la verità.
Quella sera Alan Hill sarebbe stato al Gryson’s. Aveva senso; il locale si trovava appena fuori dalla sua giurisdizione e da quella dello sceriffo di Twin Lake.
Anche se avesse pensato che Charlie fosse davvero in combutta con quell’uomo, come avrebbe potuto considerare di lasciar perdere?
Le parole di Charlie lo distolsero da quei pensieri. “Allora, a che ora mi passi a prendere?” Gli chiese, battendo le mani e sorridendo raggiante.
Logan batté le palpebre, spaesato. “Cosa?” Charlie parve non notare il suo disorientamento e continuò, come nulla fosse. “Le otto e mezza andranno bene, così staremo lì per le dieci. Ho sentito che stasera c’è la serata latina.”
“Charlie”, la richiamò lui. “Non andremo al Gryson’s.”
Non sembrò sorpresa di sentirglielo dire. “Va bene”, disse annuendo, sorprendentemente arrendevole.
Gli occhi di Logan si socchiusero, scrutandola. “Non ci andrai da sola.”
“Ben detto, sceriffo.” Un altro, guardando quel viso angelico, avrebbe potuto interpretare quelle parole come un assenso.
“Te lo proibisco, Charlie.” Insistette.
Il suo sguardo si fece birichino, così come il suo sorriso. Si sporse verso di lui, sulla scrivania, e il movimento gli diede un’ottima visuale di quel seno perfetto. “E come hai intenzione di riuscirci? Intendi legarmi?”
Sentì un brivido d’eccitazione scorrergli lungo la schiena, al tono basso e provocante della voce di lei.
Si schiarì la gola, cercando di darsi un contegno, ma le parole uscirono roche quando, in un sussurro, le disse: “Promettimelo.”
Qualcosa sembrò scaldare quei laghi blu che lo fissavano con giocosità e per un momento Logan ebbe l’impressione di guardare la vera Charlie, senza più alcuna barriera di mezzo.
Per un momento gli parve di aver toccato l’irraggiungibile Miss. Royce.
La magia si infranse alla seguente parola di lei: “No.”
Charlie iniziò ad alzarsi per andar via e Logan si ritrovò in piedi a sua volta.
Sospirando si passò una mano tra i capelli, esasperato. “Va bene! Passo a prenderti alle otto e mezzo.”
Era sicuro che se mai avesse visto una donna vincere alla lotteria, avrebbe avuto lo stesso sorriso radioso della donna davanti a lui.
“Splendido!” Esultò, avviandosi. Quando fu alla porta si fermò con la mano sulla maniglia. “Metti il cappello da cowboy.” Gli disse da sopra la spalla, prima di uscire.
 
 
Logan aveva ripensato all’episodio della fiera più volte in quei giorni. Si sentiva a disagio ogni volta che riviveva la sua discussione con Charlie, era stato uno stupido e avrebbe voluto scusarsi, ma non sapeva come.
L’ultima volta che aveva provato a scusarsi con una donna aveva fatto un casino. Certamente non avrebbe più detto a una donna imbufalita di calmarsi, sembrava scatenare istinti omicidi.
Quello era uno dei tanti motivi per cui Logan preferiva non essere coinvolto con nessuno da quando si era trasferito. Non aveva bisogno di ritrovarsi una donna furiosa ovunque andasse.
Aveva pensato di mandare dei fiori, in segno di scuse, ma subito si era ricreduto al solo pensiero del putiferio che ciò avrebbe scatenato. Alla notizia che lo sceriffo aveva mandato dei fiori a Charlie, si sarebbe ritrovato tutta la città in fila davanti alla porta del suo ufficio.
Magari un’altra volta.
Ugualmente era stata scartata l’idea dei cioccolatini, o qualsiasi altra diavoleria un uomo dovesse regalare a una donna per far penetrare il semplice concetto di: “Sono sinceramente dispiaciuto.”
Ci aveva rimuginato per tutti i giorni precedenti, non riuscendo mai ad arrivare a una decisione.
Tranne per quando era al lavoro, era stato impossibile non pensare a Charlie dopo la sagra di sabato.
A casa era un continuo susseguirsi di: “Charlie ha fatto…” oppure “Charlie ha detto…”, come anche “Charlie pensa…” e qualsiasi altra frase che iniziasse con “Charlie” e proseguisse con un verbo qualunque.
Jake non sembrava riuscire a smettere di parlarne.
Inesorabilmente, era arrivato mercoledì e se l’era ritrovata nel suo ufficio. L’urgenza della situazione non gli aveva lasciato nemmeno il tempo di pensare di scusarsi.
Perciò, alle otto e mezzo in punto, Logan parcheggiò la macchina davanti casa del Maggiore Stephen Royce; aveva indossato il suo Stetson nero, in tinta con la giacca, e per non esser troppo elegante aveva messo un paio di jeans e i suoi stivali.
Sceso dall’auto, arrivò fino alle scale della veranda prima di fermarsi. Sembrava che all’interno fosse in corso un litigio, perché la voce adirata di Stephen era udibile anche da dove si trovava Logan.
Indeciso se bussare alla porta o tornare indietro, rimase nel vialetto per qualche secondo. Non ebbe bisogno di prendere una decisione però, perché improvvisamente la porta si aprì e Charlie apparve sulla soglia.
Il cappotto scuro, lungo fino a metà coscia, nascondeva il suo vestito, lasciandole scoperte le gambe avvolte in calze nere e rese ancor più lunghe da vertiginosi tacchi a spillo.
Non si accorse subito di lui, intenta a frugare in una borsetta minuscola e a brontolare qualcosa che Logan non riuscì a cogliere. Solo quando richiamò la sua attenzione schiarendosi la gola, la donna lo guardò.
Quegli occhi blu ardevano ancora di indignazione, lasciando ancora una volta a Logan uno scorcio di ciò che si celava sotto la superficie.
Charlie si ricompose e, più alta di tre gradini, lo guardò con fierezza: una guerriera reduce da una battaglia.
I capelli biondi che le arrivavano al mento le conferivano un aspetto sofisticato, mettendo in evidenza la linea elegante del collo e la forma delicata della mascella.
Scese lentamente i gradini, l’ondeggiare sinuoso dei fianchi accentuato dai tacchi. Si fermò proprio davanti a lui, gli occhi quasi alla stessa altezza. “Hai messo il cappello.” Mormorò.
“Lo metto sempre.” Di certo non le avrebbe mai detto che aveva impiegato più del solito per scegliere quale indossare.
Il tragitto in macchina fu silenzioso per i primi dieci minuti.
Tutte le donne con cui era uscito avevano sempre riempito il silenzio, non si era mai dovuto sforzare di cercare un argomento di conversazione. Era evidente, invece, che Charlie fosse presa dai suoi pensieri – Logan era pronto a scommettere che stesse pensando alla discussione con suo padre di poco prima – con la testa appoggiata al finestrino, guardava il paesaggio scuro e a malapena visibile all’esterno.
L’espressione malinconica sul suo viso lo spinse a rompere il silenzio e a tentare di distrarla.
Immaginò che iniziare con lo scusarsi non fosse una cattiva idea.
Si schiarì la gola, cercando di ricordare le parole che aveva provato e riprovato davanti allo specchio, a casa.
“Vorrei scusarmi per sabato, ho esagerato.” Quella era esattamente la frase che Logan avrebbe voluto dire ma, sfortunatamente, era uscita dalle labbra di Charlie.
Ancora una volta, quella donna lo spiazzò.
“Cosa?” Farfugliò. “Sono io che ti devo delle scuse, Charlie. Sono stato uno stupido a pensare che tu potessi-” La mano di lei interruppe quelle scuse concitate e raffazzonate, quando si appoggiò delicatamente sul suo braccio. Con la coda dell’occhio vide la sua bocca curvarsi in un sorriso gentile.
“Non lo sapevi. Non mi conosci.” Strinse leggermente il suo avambraccio, prima di lasciarlo andare. “Non devi preoccuparti.”
Il silenzio riempì nuovamente l’abitacolo.
Pensando a quando finalmente si sarebbe scusato con lei, Logan aveva immaginato un momento catartico, ma distogliendo brevemente gli occhi dalla strada, per poter guardare la donna seduta vicino a lui, si sentì peggio di prima.
Sembrava una donna non avvezza alle scuse.
Era tornata a guardare fuori dal finestrino, la faccia inespressiva se non fosse per un velo di tristezza che l’avvolgeva. Se mai avesse dovuto raffigurare la solitudine, avrebbe scattato una foto di Charlie in quel momento.
Un’improvvisa determinazione lo pervase. Si sarebbe scusato come si deve, e quella donna avrebbe fatto meglio a farsene una ragione.
Con lo sguardo fisso sulla strada, iniziò.
“È vero, non ti conosco.” Con la coda dell’occhio vide Charlie girarsi a guardarlo. “A mio figlio, però, gli estranei non sono mai piaciuti, eppure, ti adora, è evidente a chiunque. Avrà anche otto anni ma è un ragazzino intelligente e avrei dovuto rendermi conto del significato di tutto ciò.” Logan scosse la testa. “Ho visto come lo guardavi. Non si può non volergli bene, vero?”
Quando si girò verso di lei, rimase senza fiato.
Si rese conto che tutti quei sorrisi che gli aveva rivolto – che Logan aveva pensato fossero autentici – erano solo un altro strumento per mettere più distanza tra lei e gli altri.
Quello che gli stava rivolgendo, invece, era pura dolcezza e scioglieva quegli occhi azzurri in due laghi profondi. Lì vi trovò la stessa emozione che, alla fiera di sabato, non aveva saputo identificare.
Deglutendo, riportò l’attenzione alla strada.
Ora capiva perché Jake stravedeva per lei. Un uomo avrebbe potuto uccidere per quello sguardo.
Si costrinse a continuare. “Dimmi che mi perdoni.” Le parole gli uscirono mormorate.
“Ti perdono.” La guardò nuovamente e l’emozione in quegli occhi era ancora lì ad attenderlo. “Non potrei fare altrimenti, quando indossi quel cappello.”
A quelle parole canzonatorie, le spalle di Logan si rilassarono e, per la prima volta dall’inizio di quel viaggio, si abbandonò sul sedile.
 
 
Il Gryson’s era pieno, nonostante fosse un mercoledì sera. Quando Logan e Charlie entrarono, l’enorme pista da ballo centrale era già piena di ballerini e i tavoli tutt’attorno sembravano essere tutti occupati. Sarebbe stata un’impresa trovare un posto a sedere.
Lasciarono i loro cappotti al guardaroba e Logan apprezzò il vestito poco appariscente che aveva indossato la sua accompagnatrice. Era un semplice vestito nero accollato; uniche particolarità erano le maniche a sbuffo, che lasciavano scoperte le braccia, e la gonna, che sembrava formasse dei pantaloni.
In quel modo almeno non avrebbero dato troppo nell’occhio.
Si guardò intorno, cercando, inutilmente, di individuare Alan Hill tra la folla.
Quando si voltò di nuovo verso Charlie, per poco non gli venne un infarto.
“Cristo santo.” Le parole di Logan furono inghiottite dal frastuono circostante.
Aveva pensato fosse poco appariscente? Quel vestito non avrebbe potuto essere più vistoso nemmeno se avesse avuto una freccia al neon sulla testa ad indicarla.
Una scollatura vertiginosa lasciava la schiena completamente scoperta, la linea sinuosa della spina dorsale si faceva strada fino al sedere dove la stoffa cedeva il posto a un tessuto trasparente che lasciava intravedere un accenno dell’invitante linea di demarcazione dei glutei, prima di tornare opaca. Era evidente a chiunque, quindi, che la donna non indossasse la biancheria intima.
Nel complesso il vestito era assolutamente elegante e sicuramente adatto alla serata, se solo non avessero voluto passare inosservati.
Logan tenne quelle riflessioni per sé, però. Lui era lì solo in veste di accompagnatore.
Luke e Ryan Clark – che aveva prontamente avvisato quel pomeriggio - avrebbero provveduto al piano vero e proprio.
Il primo ad avvicinarsi per chiederle un ballo fu un idiota con un piercing al naso e un mucchio di tatuaggi sulle braccia. Con sorpresa – e gran fastidio – di Logan, Charlie accettò con un sorriso quell’invito.
La donna sembrava aver completamente dimenticato il loro proposito per quella sera.
Come un falco, Logan tenne d’occhio il tipo tatuato, assicurandosi che tenesse le mani a posto.
Li guardò ballare una salsa, digrignando i denti ogni volta che la mano dell’altro uomo si faceva più audace.
La stessa cosa si ripeté in rapida successione per altre sette volte; ma una volta sbollita una certa irritazione verso quegli uomini così sfrontati da cercare di sedurre la sua accompagnatrice, Logan si rese conto di quanto Charlie sembrasse perfettamente nel suo elemento.
Gestiva le attenzioni che riceveva in modo magistrale, distraendo i suoi ammiratori con sorrisi e moine. Una volta che se ne rese conto, Logan non poté più distogliere lo sguardo.
Era come incantato da quel gioco complesso. Oltre al ballo effettivo, infatti, era in corso un’altra danza, che Charlie portava avanti con maestria, per allontanare e distrarre i corteggiatori più audaci.
Non avrebbe avuto bisogno dell’intervento di Logan, in nessun caso, sembrava assolutamente padrona di sé e in grado di respingere – Logan era certo anche con le cattive se avesse voluto – qualsiasi attenzione sgradita.
Questo diceva molto di quella donna.
Quando finalmente la canzone finì, la vide tornare verso di lui. In quel vestito, accaldata e con le guance rosse, era una visione. Ma un uomo si frappose tra loro, dandogli la schiena.
Con l’intenzione di dissuadere il tizio nel suo intento di portare di nuovo Charlie sulla pista, Logan iniziò a farsi strada verso di loro, per poi fermarsi improvvisamente quando lo riconobbe.
Alan Hill stava chiedendo un ballo a Charlie Royce, e per poco Logan non scoppiò in una risata fragorosa.
Dannazione, ecco a cosa serviva il vestito. Pensò, assolutamente meravigliato.
Improvvisamente, gli avvenimenti divennero così ridicolmente ovvi, che Logan si domandò come avesse fatto a non rendersene conto prima.
Alan Hill era stato costretto a tenersi lontano da tutto ciò che amava dalla vita, in particolare dalle belle donne; ed ora, la prima volta in una settimana che – a quanto sapevano – si concedeva di uscire dal suo isolamento, si trovava difronte la donna più bella che - Logan era certo – avesse mai visto.
Nella calca del Gryson’s, Charlie era come un tanto desiderato bicchiere d’acqua per un uomo che stava morendo di sete. Era impossibile non esserne attratti.
Come trovare un ago in un pagliaio? Facile, prendevi una bella calamita e aspettavi che la fisica facesse il resto. E Charlie era la sua calamita.
Trovò un tavolo da dove godersi lo spettacolo e ordinò da bere per entrambi. Non avrebbe saputo dire quanto tempo passò prima che, finalmente, Charlie riuscì a riemergere dalla folla dei suoi ammiratori.
Gli si sedette a fianco sul divanetto, e tracannò la bottiglietta d’acqua che Logan le aveva preso.
La guardò affascinato quando lei tirò fuori uno specchietto da quella borsetta minuscola e si diede una sistemata ai capelli.
Logan si rese conto, guardandola, che per tutta la serata non si era minimamente annoiato, nonostante fosse rimasto solo fino a quel momento.
Vide le sue labbra – quelle labbra che sembravano così meravigliosamente morbide – muoversi, ma la musica coprì le sue parole; pertanto, le si avvicinò, allungando una mano sulla spalliera dietro di lei e piegando la testa in avanti, l’orecchio ad un soffio dalla sua bocca.
Così vicino, poté sentire il suo dolce profumo di fiori e le sue labbra accarezzargli la pelle quando gli chiese: “Ti stai divertendo, cowboy?”
Si scostò per guardarla in viso, gli occhi di lei pieni della stessa emozione che avevano condiviso in macchina.
Logan non rispose, allungò invece una mano per sistemarle una ciocca bionda dietro l’orecchio.
Sembrò sorpresa dalla sua audacia, ma subito gli sorrise e inclinò la testa per permettergli di accarezzarle il collo.
Non staccò gli occhi da quelli di lei, semischiusi per la beatitudine, mentre si avvicinava.
“Vuoi tornare a casa, tesoro?” Il vezzeggiativo gli uscì dalle labbra in modo naturale e anche Charlie non parve prestarvi particolare attenzione, come se non fosse la prima volta che lo pronunciasse.
Tutto ciò su cui erano concentrati era quel momento tra loro, dove quel vezzeggiativo suonava intimo e assolutamente appropriato.
Entrambi sembrarono dimenticare la domanda.
Gli occhi languidi di Charlie si chiusero e la sua guancia premette su quella di lui.
La mano di Logan, ancora sul collo di lei, si spostò più in basso, fino alla clavicola, per poi risalire di nuovo verso l’alto in una dolce carezza.
Sentì il corpo della donna rabbrividire e farsi più avanti, gli appoggiò la testa sulla sua spalla e a Logan bastò piegarsi leggermente in avanti per posare un piccolo bacio nell’incavo del collo di lei.
Lì, inspirò profondamente il suo profumo floreale e, senza staccarsi, tracciò con il naso una linea invisibile fino al suo orecchio.
Sentì Charlie rabbrividire ancora e pronunciare in un ansito: “Logan.”
Il suo nome non gli era mai sembrato più bello e il suo cuore iniziò a battere più velocemente quando incontrò di nuovo i suoi limpidi occhi blu. Così come era successo prima, Logan riuscì a raggiungere la donna che Charlie celava dentro di sé. Gli sembrò di essere tirato negli abissi dell’oceano, spinto verso il basso dalle onde e dalla pressione, e in quelle profondità Logan trovò un disperato desiderio di appartenenza.
Automaticamente le sue braccia si strinsero intorno a lei.
Non sei sola, pensò.
Non ebbe il tempo di ragionare su quel pensiero così spontaneo e naturale, perché la mano di Charlie gli accarezzò una guancia ispida, seguendo il segno della cicatrice sul suo viso.
Nei suoi occhi malinconici ora alleggiava una piccola luce di speranza, mentre lo guardava. Il mento di Charlie si inclinò verso l’alto e le sue labbra si schiusero in un chiaro invito.
Nonostante il desiderio di baciarla gli infiammasse il corpo, Logan se la prese con calma.  Appoggiò la fronte su quella di lei ed entrambi emisero un sospiro di aspettativa.
Le stuzzicò il naso con il suo, in una lenta carezza e strofinò lentamente il pollice sulla sua guancia.
Si staccò di qualche centimetro per ammirare il suo splendido viso, giusto in tempo per vederla inumidirsi le labbra con la lingua.
Non poté aspettare oltre, e lentamente si abbassò su quella bocca che sembrava averlo stregato.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO SEI ***


CAPITOLO SEI
Il ticchettio dell’orologio a forma di uovo sodo che, da sempre, decorava la parete della cucina di casa di suo padre, era l’unico rumore che riempiva il silenzio; di tanto in tanto, a quel suono, si aggiungeva il grattare dei rebbi della forchetta sulla ceramica del piatto.
Per cena, Charlie aveva cucinato lo stufato con fagioli, patate e spezzatino e suo padre sembrava davvero apprezzarlo, perché non aveva spiccicato parola da quando si era messo seduto.
Charlie preferiva pensare che fosse quello il motivo del suo silenzio: il cibo l’aveva conquistato.
In realtà, Stephen non aveva rivolto parola a sua figlia per tutto il giorno.
Aveva avuto una tregua solo le due ore che era andata in biblioteca, per il suo appuntamento pomeridiano con Jake; per il resto aveva dovuto sopportare il muso scontroso di suo padre.
Lo sbirciò da sotto le ciglia, dall’altra parte del tavolo della cucina: mangiava tranquillo, affatto turbato, facendo finta che lei non ci fosse.
Conosceva perfettamente il motivo di quel trattamento, e il tutto era riconducibile alla scenata della sera precedente.
Quando l’aveva vista uscire dalla sua stanza con quel vestito, l’aveva guardata dall’alto in basso, soppesandola, e bruscamente le aveva chiesto: “Dove stai andando?”
Aveva pensato, povera illusa, che fosse infastidito per ciò che aveva scelto di indossare ed era stata pronta a battersi per il suo sacrosanto diritto di mettersi quel diavolo che voleva.
Ovviamente, suo padre non era mai stato un tipo così semplice; col senno di poi, avrebbe gioito per un po’ di sano patriarcato vecchio stile.
Tuttavia, si era ripromessa di dirgli la verità e così aveva fatto: “Al Gryson’s.” Aveva risposto.
Suo padre aveva guardato il suo orologio da polso e aveva continuato con le domande. “Hai visto che ore sono? Chi esce a quest’ora di mercoledì sera?”
“Tutti.” Avrebbe voluto rispondergli, ma la risposta a quella domanda gli era stata gentilmente fornita dallo stesso Stephen: “I delinquenti, ecco chi.”
Aveva sentito l’indignazione scaldarle le vene e risalirle lungo il collo, aveva preso un respiro profondo, contato fino a sette ed espirato, ma quel suo rituale non le aveva evitato di rispondere con una sarcastica osservazione. “Giusto, qui li sbattono tutti in galera quelli che escono il mercoledì dopo le otto e mezzo”, aveva detto, la vena di derisione palpabile nel suo tono. Si era diretta verso la cucina e da sopra la spalla aveva continuato. “Mi appunto un memo sul frigo, per la prossima volta.”
Aveva avuto paura che gli venisse un infarto, per quanto era diventato rosso e per quanto aveva gridato, dopo. Suo padre aveva detto un sacco di cose nel suo impeto di rabbia, la cui sintesi – come sempre - era la seguente: se non avesse messo la testa a posto, Charlie avrebbe dovuto trovare un altro losco covo per i suoi sordidi piani.
Tutta quella filippica, però, si era magicamente conclusa non appena lei aveva pronunciato il nome dello sceriffo. Quando Charlie, infatti, aveva urlato che aveva un appuntamento con Logan Moore, suo padre si era zittito di botto.
Aveva pensato che fosse riuscita finalmente ad ammutolirlo: non potevi delinquere se stavi uscendo con lo sceriffo, giusto?
Invece, aveva assistito con orrore alla trasformazione di quegli occhi azzurri, come i suoi. Il biasimo che vi aveva trovato l’aveva raggelata, e improvvisamente le era sembrato di esser caduta sulla casella che la rispediva al via: tutti i progressi che credeva di aver fatto da sabato, alla sagra, erano stati distrutti.
“Non puoi uscire con lui, Charlie.” Il tono di voce di nuovo calmo e serio.
Tuttavia, il seme della speranza aveva iniziato a germogliare nel suo cuore. Forse, si era detta, non approva che lo sceriffo esca con la sua bambina.
“È un brav’uomo.” Le parole le erano uscite tremanti, temendo già cosa sarebbe venuto.
“Lo so.” Charlie aveva visto l’incertezza farsi strada sul viso di suo padre e con un sospiro rassegnato, come dicendosi che non poteva fare altrimenti, Stephen Royce aveva calpestato la speranza di Charlie: “Tu non vai bene per lui.”
Quelle parole avevano avuto lo stesso effetto di un incendio, e quel piccolo boccio che poco prima era iniziato a fiorire in lei era stato spazzato via dalla violenza delle fiamme. Era rimasto solo il calore, che aveva fomentato il suo risentimento.
Aveva sbattuto freneticamente le palpebre e si era chiusa in sé stessa, per evitare di rendersi ancor più vulnerabile. Solo la rabbia era rimasta.
“Quell’uomo ha un figlio, non si merita tutti i tuoi casini.” Aveva proseguito Stephen, ignaro.
“E io sono tua figlia.”
Suo padre aveva scosso la testa. Non aveva importanza.
Lo sguardo duro e pieno di determinazione che le aveva rivolto le aveva fatto capire che faceva sul serio. “Ti proibisco di uscire con lui, Charlie.”
L’amarezza e l’irritazione avevano preso il sopravvento e non andava fiera delle parole che gli aveva sibilato contro, dopo. “Posso scoparmi chi voglio.”
Quello, con grande soddisfazione di Charlie, aveva acceso di nuovo la rabbia di suo padre, che aveva iniziato di nuovo a gridare. Lei, però, aveva preso il cappotto ed era uscita, sbattendosi la porta alle spalle.
Adesso, seduta a cena davanti a lui, il risentimento era sparito ed era rimasto solo il rimorso.
A quel ricordo, sentì il suo stomaco contrarsi. Le sembrava di esser tornata una ragazzina di dodici anni che per la prima volta aveva imprecato davanti a suo padre.
Giocherellò distrattamente con un pezzo di carne, gli occhi fissi nel piatto.
Voleva indietro ciò che avevano prima: poche parole e alcuni grugniti erano preferibili a quel silenzio assordante.
Si porto un boccone alle labbra ma non riuscì a mangiarlo; invece, posò la forchetta e puntò lo sguardo su suo padre, decisa a prendere il toro per le corna; avrebbe dovuto mandar giù il suo orgoglio e fare il primo passo.
“Non sto uscendo con Logan Moore.” Disse. Era la prima volta, quel giorno, che tentava di giustificarsi per l’episodio della sera precedente.
Silenzio.
Sospirò, e decise che una piccola manipolazione della verità non era poi chissà cosa – in ogni caso suo padre già non le parlava.
“Ho solo fatto un favore a Sylvie, che me l’ha chiesto.”
Questo sembrò suscitare una reazione; dopotutto, tutti erano a conoscenza del fatto che la madre dello sceriffo interferiva nella sua vita sentimentale.
“Bene.” Quella parola borbottata, la prima della giornata, avrebbe dovuto rasserenarla; invece, Charlie si sentì sprofondare.
Andò in camera sua dopo cena, sperando che il lavoro l’avrebbe distratta.
Alla fine, la sera prima, era riuscita a scattare una foto del Mignolo. Il vestito che aveva indossato era anche l’unico che aveva ad avere le tasche, essendo una gonna-pantalone, e vi aveva nascosto il telefono. Era stato lo stesso Hill ad indicarle il tavolo a cui era seduto, cercando di persuaderla ad unirsi a loro.
Aveva tirato fuori il cellulare, quindi, e si era scattata un bellissimo selfie. Sullo sfondo, in tutta la sua gloria, il Mignolo.
Non c’era voluto molto per trovarlo nei database governativi, poi.
Peter Cox era scappato da casa sua all’età di diciannove anni, dopo aver violentato e ucciso la sua fidanzata e futura moglie, Margot Baker, il cui cadavere era stato gettato nel fiume. L’uomo aveva cambiato stato e nome; quindi, Liam Ruiz si era fatto strada nella criminalità. Era stato in galera pochi mesi, per aggressione: era così che si era guadagnato il soprannome di Mignolo, aveva perso il dito in una rissa a coltello.
Charlie, però, non riuscì a concentrarsi su quelle informazioni e rimase a guardare lo schermo del computer, senza vederlo davvero. Si rifugiò, invece, nel ricordo della sera precedente.
Le parole che suo padre le aveva detto - tu non vai bene per lui – le erano frullate in testa nei primi dieci minuti di viaggio in macchina, e l’amarezza l’aveva sopraffatta fino al punto da spingerla a scusarsi con Logan per il suo comportamento alla sagra.
Lo sceriffo era un brav’uomo, come lei stessa aveva detto, tutti in città lo ammiravano e rispettavano.
Perciò, aveva guardato con occhi nuovi all’episodio del sabato precedente: il poco imbarazzo che provava a quel ricordo, per cui non aveva creduto di doversi scusare, forse era sintomo di una sua mancanza; anche suo padre credeva che lo sceriffo fosse migliore di lei. Non era sufficiente?
Si era scusata. E quando lui aveva cercato di fare lo stesso, lo aveva fermato.
Era sincera, aveva capito quali erano state le sue intenzioni e non aveva rancore verso di lui.
Ma Logan non aveva lasciato perdere, e la dolcezza con cui aveva parlato di suo figlio, con quel sorriso obliquo che aveva completamente cambiato il suo sguardo, aveva cambiato anche il modo in cui Charlie lo vedeva.
Era quello che voleva anche lei: l’amore incondizionato e la fiducia cieca di un altro.
Jake si fidava di lei, lo sapeva. Ma, in quel momento, si era resa conto che, quel ragazzino così intelligente e razionale, credeva che lei fosse una strega. Aveva una così cieca fiducia in lei, da crederle contro ogni logica.
E di riflesso, come lui stesso le aveva lasciato intendere, aveva anche la fiducia di Logan.
Aveva creduto che l’incendio che era stato suo padre, avesse distrutto ogni cosa, ma quella fragile gemma che era la speranza di Charlie, sopravviveva sotto la cenere, aspettando la pioggia.
Logan e suo figlio avevano bagnato la terra e avevano lasciato di nuovo fiorire la speranza.
Aveva pensato a quel momento tra loro, mentre ballava con ogni uomo di quello stupido locale. Con le mani di quegli sconosciuti su di lei, si era chiesta come ci si dovesse sentire tra le braccia di una persona che ti guardava come Logan Moore guardava suo figlio.
Aveva ripensato a Maddie e all’abbraccio in cui l’aveva stretta quando l’aveva rivista, ma quando era tornata al tavolo, il desiderio di scoprirlo con lo sceriffo l’aveva portata tra le sue braccia e lì si era crogiolata nel suo calore.
Nient’altro aveva avuto importanza, aveva dimenticato tutto il resto – persino l’obiettivo di quella sera – e, finalmente, si era lasciata andare.
Aveva desiderato disperatamente assaggiare quelle labbra, ma subito, la voce di suo padre le era risuonata nelle orecchie, ancora una volta, strappandola via da quel momento perfetto.
Tu non vai bene per lui. Non puoi uscire con lui, Charlie.
Doveva rimettere a posto le cose, non peggiorarle. E baciare Logan – decisione che in quel momento le era sembrata così deliziosa – non avrebbe aiutato; anzi, avrebbe potuto deteriorare il loro rapporto irrimediabilmente.
Inoltre, cosa sarebbe mai potuto venirne fuori? Non poteva farsi coinvolgere con un uomo in quel momento, tantomeno con quell’uomo lì.
Era sicura che Logan non fosse il tipo da relazioni frivole, con un figlio e tutto il resto, e l’unico legame serio e duraturo che lei avesse mai avuto – quello con suo padre – le si stava sgretolando tra le dita.
Una relazione avrebbe significato solo nuovi segreti e nuove bugie. Che senso avrebbe avuto?
Nonostante tutto, però, aveva ripensato tutto il giorno a quel bacio mancato.
Si era fatta violenza, e non aveva lasciato che le loro labbra si toccassero.
Non era sicura di poterci riuscire di nuovo.
 
Venerdì, come il giorno precedente, Luke Thomson era seduto nell’ufficio di Logan. L’argomento sempre lo stesso: Alan Hill e l’operazione che aveva riportato al suo ritrovamento, mercoledì.
Mercoledì.
Il terzo giorno della settima per alcuni e il quarto per altri.
Per lo sceriffo, la sua ossessione.
Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe potuto rivedere quelle labbra a un soffio dalle sue.
Il giorno prima, era stato preso nel vortice del lavoro: erano riusciti a scoprire, seguendolo, dove abitava Hill; ma, in ogni caso, ogni volta che la sua mente era sgombra da altri pensieri, Logan si ritrovava a pensare a due occhi azzurri che l’avevano guardato con desiderio.
Con tutte le donne con cui era uscito – su insistenza di sua madre – in quegli anni, non c’era mai stata quella chimica che c’era tra lui e Charlie. Ad essere onesti, non aveva mai provato niente del genere con nessuno. Diavolo, si era persino dimenticato di Alan Hill! E per lui era impossibile dimenticarsi del lavoro.
Eppure, era successo.
Nemmeno con la madre di Jake, prima che il loro rapporto si deteriorasse, si era sentito pervadere da un desiderio così intenso, e si era chiesto se quell’episodio non fosse stato provocato da un suo inconscio desiderio di una nuova relazione.
Certo, Charlie era davvero bellissima, ma lui non si era mai considerato un tipo tanto superficiale. Quella donna, però, era un mistero su gambe, forse era per quel motivo che adesso era tanto incasinato? Avrebbe semplicemente dovuto smettere di rimuginarci; come piaceva sempre ripetere a suo padre: quel che è fatto è fatto.
Aveva bisogno di un consiglio, del punto di vista di una persona esterna, e Luke, intento a ribadire sempre le stesse identiche cose del giorno prima, era proprio lì, a portata d’orecchio. Senza rendersene conto, Logan lo fermò nel mezzo di una frase.
“Luke, secondo te, qual è il motivo per cui una donna-” Si interruppe, insicuro su come continuare. “Si tira indietro quando stai per baciarla?”
Le sopracciglia del vicesceriffo si curvarono verso l’alto, con sorpresa. Quella era la prima volta, in cinque anni, che Logan gli parlava di una donna di sua iniziativa; perciò, fu normale per Luke chiedere: “Riguarda il caso? O stiamo parlando di una cosa personale?” Non nascose la curiosità nel suo tono.
Logan si mosse a disagio sulla sua poltrona e prese una penna, iniziando a giocarci distrattamente.
“Personale.” Disse tra i denti, fulminando l’altro con uno sguardo d’avvertimento.
Luke, però, non sembrò notarlo, e si mise comodo sulla sua poltroncina: si appoggiò all’indietro sullo schienale e distese le gambe in avanti. “Ti sei ricordato le mentine? Perché a nessuno piacerebbe baciare qualcuno che puzza come l’ascella di una capra.”
Logan alzò una mano, per fermarlo. “Lascia perdere, non importa.” Prese uno dei fogli davanti a sé e fece finta di leggerlo, ignorandolo. Non avrebbe mai dovuto chiederglielo.
“Va bene.” Sospirò Luke, improvvisamente più serio. “Forse non voleva essere baciata da te?” Provò.
Anche lui si era posto quella stessa domanda e aveva riflettuto più volte sulla risposta, ma in quel momento, pensando allo sguardo infuocato e alle labbra socchiuse di Charlie, si ritrovò a sorridere. Un sorriso di puro orgoglio maschile. Si grattò il mento, distrattamente, compiacendosi per un attimo a quel ricordo. “Sono piuttosto certo che lo volesse.”
“Cristo. Va bene.” Sbuffò Luke, in reazione all’espressione sul viso dell’altro. “Non ho idea di cosa passi di mente a una donna. Probabilmente dovresti andare a chiederglielo.”
Logan alzò un sopracciglio scuro a quel consiglio. “Dovrei?”
Luke guardò l’orologio. “È quasi l’ora di pranzo, di solito lei e Maddie mangiano al Red.”
I due uomini si fissarono. Non avrebbe dovuto esserne stupito: aveva lasciato che ci girasse intorno per tutto il tempo.
“C’ero anche io mercoledì, ricordi? Ho assistito in diretta allo spettacolo vietato ai minori.”
Lo sceriffo sbuffò a quell’esagerazione. “E ti sei tenuto tutto dentro per un giorno intero? Sono ammirato.”
Luke si alzò in piedi. “Ma smettila.”
Rise e si alzò a sua volta, gettando la penna sul tavolo. “Andiamo, sto morendo di fame."
Lo sceriffo non era un assiduo frequentatore del Red, erano rare le volte in cui pranzava lì con Luke. Sembrava che la gente di Sunlake non reputasse scortese disturbare le persone mentre mangiavano.
Lo vedevano seduto a uno dei tavoli del ristorante e gli si sedevano vicino, iniziando a subissarlo di domande. Ci sono problemi in città? Cosa succede nel resto della contea? Credi che avremo bisogno degli spazzaneve, quest’anno? E così via.
Quando, però, Logan mise un piede oltre la soglia del Red, fu sorpreso di trovarvi tutta quella gente. Sembrava che ogni persona nel raggio di un miglio avesse deciso di pranzare lì, quel giorno.
“Il vecchio Oliver ha deciso di nuovo di non far pagare gli alcolici?” Quella era stata l’unica altra occasione in cui aveva visto il Red così pieno all’ora di pranzo. Ben presto, però, il signor Davis si era reso conto che quella politica era insostenibile – non solo per lui - ed era rinsavito.
Luke scosse la testa e gli indicò con il mento un angolo della stanza, dove sedevano Charlie e Maddie, i piatti vuoti, ascoltavano una qualche storia di un loquacissimo Pit Cooper, seduto con loro.
Ancora Cooper, pensò. Sembrava che, dopo cinque anni senza creare problemi, avesse proprio deciso di dargli sui nervi.
Si maledisse, quando si passò una mano tra i capelli e si rese conto di non aver preso il cappello, uscendo. Aveva notato come lo guardava Charlie quando lo indossava, e lo adorava.
Si fece strada fino al bancone, seguito da Luke.
L’isteria di massa di settimane prima non era scemata, dopotutto. I tavoli tutt’intorno a quello delle due donne erano occupati come se ci fosse la fila, per parlare con loro. Assurdo.
Appoggiandosi al bancone, Logan richiamò – o almeno ci provò - l’attenzione di Benjamin. Il ragazzo, che di solito era sempre ben felice di vedere lo sceriffo nel suo locale, non gli diede molta considerazione e parve incredibilmente distratto mentre lui faceva il suo ordine. Continuava a sbirciare oltre la sua spalla, in direzione dei tavoli. Era talmente irritante, che Logan, esasperato, non poté trattenersi dal girarsi a sua volta.
“Che diavolo!” Solo Luke parve sentirlo e si girò anche lui a guardare.
Charlie aveva una mano sul bicipite di Pit, la testa china verso di lui, ed era intenta a mormorargli qualcosa all’orecchio. Conosceva perfettamente l’effetto di sentirsi al centro delle attenzioni di quella donna, e sembrava lo sapesse anche Cooper che la guardava con sguardo adorante.
“Oh giusto, è già arrivato il momento.” Commentò il suo vice.
Lo sguardo di Logan si spostò su di lui. “Cosa?”
Luke puntò un dito nella direzione del terzetto. “Quello succede quasi ogni santo giorno, amico. Pit si siede, fa un po’ il cascamorto, Charlie gli dice qualcosa e lui se ne va.” Fece spallucce.
Batté le palpebre, basito. “E tu non sei mai intervenuto?”
Luke riportò lo sguardo su Benjamin, che stava preparando il loro ordine. “Non credo ce ne sia bisogno, prima o poi Pit si stuferà.”
Luke Thomson era una brava persona e un valido vice, ma a volte era fastidiosamente superficiale.
Il problema, in un piccolo paese dove tutti conoscevano tutti, era che potevi farti delle remore a redarguire persone che conoscevi da una vita; Logan non si era mai dato pensiero.
Non notò Ben che gli portava il pranzo, si dimenticò del panino che aveva ordinato e si dimenticò di essere nel mezzo di una stanza gremita di pettegoli.
Per Logan esisteva solo una persona: Pit Cooper.
Si ritrovò in piedi, al suo tavolo, e non fece caso all’improvviso silenzio in cui era piombato il locale.
Fissò l’altro uomo, invece, con uno sguardo calmo e piatto.
“Cooper.” Fu stupito della voce impassibile con cui parlò, perché dentro stava bruciando. “La tua pausa pranzo è finita…” Guardò brevemente l’orologio. “Due minuti fa.” Alzò un sopracciglio scuro, in cerca di una spiegazione.
Pit si alzò di scatto, memore della strigliata di poche settimane prima. “Si, signore.” Disse e afferrò nervosamente il suo cappotto, Logan ancora in piedi difronte a lui. Prima che potesse defilarsi, però, lo sceriffo parlò nuovamente.
“Se dovesse di nuovo giungermi voce del tuo comportamento inopportuno, Cooper, faremo una lunga chiacchierata al riguardo.” Guardò il pomo d’Adamo di Pit ballonzolare su e giù. “Sono sicuro che non ti piacerà.”
“S-signore?” Il suo tono stupito gli diede sui nervi.
Logan fece un passo avanti. “Pensi sia normale assillare una donna tutti i dannati giorni?” Pensava di aver usato un tono di voce basso, ma, nel silenzio, le sue parole furono perfettamente udibili, così come l’“era ora, cazzo” che qualcuno – Logan non si girò a controllare chi – mugugnò, subito dopo.
L’espressione di genuina costernazione sul viso dell’altro, lo ammorbidì. “No, signore. Mi dispiace, signore.”
Logan annuì. “Puoi andare.”
Lo guardò uscire, prima di guardarsi intorno e vedere i cenni d’approvazione e gesti di incoraggiamento che gli venivano rivolti. Scosse stancamente la testa. “Sono tutti maledettamente impazziti.” Borbottò, passandosi una mano tra i capelli, frustrato.
Tirò fuori una sedia da sotto al tavolo e si sedette, rivolgendosi a una stupita Maddie. “Se dovesse succedere di nuovo, voglio saperlo.”
Era sicuro che Charlie pensasse che potesse gestire la situazione da sola, ma la verità era che non avrebbe dovuto; Logan non tollerava comportamenti del genere - né verso Charlie né verso chicchessia – nella sua città. Era sicuro che, dopo quell’episodio con Pit, anche gli altri – perché c’erano sicuramente degli altri – avrebbero recepito il messaggio.
Solo quando Maddie annuì e disse: “Contaci”, Logan si ritenne soddisfatto e spostò la sua attenzione alla sua sinistra, dove trovò due occhi blu ad aspettarlo.
“Hai messo su un bello spettacolo, sceriffo.”
Le sue spalle si rilassarono sotto quello sguardo caldo, e un sorriso storto gli curvò le labbra. “Ti è piaciuto?”
Lei alzò una spalla, con indifferenza, ma l’emozione sul suo viso gli disse che, sì, le era piaciuto.
Vide quella luce nelle sue iridi blu affievolirsi lentamente, proprio com’era successo mercoledì; finché, Charlie interruppe il contatto e guardò altrove: verso Luke, che si era seduto al posto liberato da Pit, portando i loro pranzi.
All’improvviso, quella donna che sembrava non avesse mai paura di niente, si era tirata indietro.
Di quello avrebbero senz’altro parlato dopo. A stomaco pieno.
 
Charlie si ritrovò in biblioteca, nella sezione per ragazzi, con la versione adulta di Jake Moore.
Vicino la sua poltrona – ormai la considerava sua – erano ancora accatastati i fumetti di Space Fights che doveva finire di leggere. Maddie le aveva permesso di lasciarli lì, di modo che ogni giorno non avrebbe dovuto ritirare tutto fuori, e anche per – come Charlie sospettava – farla sentire più a suo agio, come a casa.
Logan se ne stava lì, in piedi, studiando uno dei fumetti che aveva preso dalla pila, per poi rimetterlo subito a posto. Si guardò intorno - come se non avesse mai visto l’interno della biblioteca prima d’ora – prima di riportare lo sguardo su di lei.
“Cos’è successo, mercoledì?” Dritto al punto.
Chiuse gli occhi e scosse la testa, il cuore a mille. Non riuscì a trovare altre parole: “Non posso, Logan.”
Non vide l’agitazione prendere, a poco a poco, possesso dell’uomo difronte a lei, ma quando aprì gli occhi e lo guardò, la sua inquietudine era evidente: in piedi, una mano sul fianco e l’altra che si muoveva ansiosa tra i corti capelli scuri; guardava il soffitto, come in cerca di una risposta.
“Santo cielo.” Mormorò Logan, come sorpreso da un’improvvisa realizzazione.
Charlie rimase a fissarlo, interdetta da quel comportamento.
L’uomo chiuse gli occhi e ancora una volta mormorò: “Santo cielo.”
“Che cosa?” Gli chiese in un bisbiglio confuso.
Quello diede vita a uno monologo delirante. “Ero così sicuro.” Iniziò a bassa voce, come parlando tra sé. Si portò una mano alle tempie, abbassando la testa. “Mio Dio, ma cosa mi è preso. Non posso credere che-” Non sembrò riuscire a continuare, perché scosse la testa. “Ero così sicuro.” Ripeté. “Come diavolo ho fatto a immaginarmi tutto?”
Improvvisamente parve ricordarsi della presenza di Charlie, perché si girò a guardarla. “Nemmeno mezz’ora fa ho ammonito Cooper, quando io stesso ho-” Scosse la testa e iniziò a camminare nel piccolo spazio davanti la poltrona. “Cosa direbbe mia madre? Santo cielo.”
Qualcosa nella testa di Charlie scattò, e giunse la comprensione: pensava che lei non lo avesse voluto!
Cosa diavolo aveva nella testa quest’uomo?
Gli si avvicinò per poggiargli una mano sul petto, fermandolo.
“Volevo che mi baciassi, più di ogni altra cosa.” Distolse lo sguardo per non doverlo guardare negli occhi, non era facile per lei esporsi in quel modo. “Mio padre non vuole che io passi del tempo con te, Logan.” Mormorò, appoggiando la testa sul petto solido davanti a lei e subito braccia calde la circondarono, confortandola. Deglutì e si costrinse a continuare.
“Non posso deluderlo.” Mormorò, scuotendo la testa.
La strinse per quelli che le parvero secoli, e lì, nella sezione per ragazzi della biblioteca di Sunlake, tra le braccia dello sceriffo, Charlie si sentì finalmente a casa.
Non fu una sensazione improvvisa e travolgente, fu più come una lenta e graduale presa di coscienza.
Come un paio di pantaloni che non mettevi da tempo e a cui dovevi abituarti di nuovo, pian piano. E Charlie erano tredici anni che non metteva quei metaforici pantaloni; quindi, quando alla fine, arrivò a quella realizzazione, alzò la testa dal petto dello sceriffo e lo guardò in viso, meravigliata.
Lui non si rese conto del cambiamento, guardava in lontananza, la fronte aggrottata, come riflettendo su qualcosa. “Non mi ero reso conto di non piacere al Maggiore Royce”, disse.
Una risata amara le uscì dalle labbra e Charlie sciolse l’abbraccio. “Tu gli piaci, fidati.”
Sono io il problema.
Si girò e si avvicinò alla finestra, non voleva guardare la delusione sul viso di quell’uomo quando avrebbe detto ciò che stava per dire.
Guardò il cielo, invece, le nuvole scure che, per tutto il giorno, avevano minacciato pioggia, si stavano diradando, portate via dal vento.
“Mio padre crede che io sia una criminale. Una spacciatrice, forse. Non lo so.”
Finalmente.
Finalmente, lo aveva detto a qualcuno. Qualcun altro oltre Matthew. Una persona di Sunlake, che avrebbe potuto disapprovarla proprio come la disapprovava il suo vecchio.
Non distolse lo sguardo dal pigro peregrinare di quelle nuvole nel cielo, si sentiva proprio così: alla deriva.
Aveva pensato che, una volta saputo, Logan se ne sarebbe andato; invece, il calore del suo corpo le scaldò la schiena, mentre il bacio che le posò tra i capelli le scaldò il cuore.
“Vorrà dire che non ci faremo scoprire.” Lo disse in modo così semplice, così naturale, che al cervello di Charlie parve avesse parlato in un’altra lingua. Le ci volle un momento per comprendere davvero ciò che aveva appena detto.
Si girò di scatto tra le sue braccia, scioccata. “Hai sentito quando ho detto che mio padre crede che io sia una criminale?”
Sembrò reprimere un sorriso divertito, quando annuì, e lei sentì il bisogno di indignarsi per il resto dei cittadini di Sunlake a quella poca considerazione. “E quindi? Non hai intenzione di fare nulla? Sei lo sceriffo, dovresti fare qualcosa invece di startene lì a…” Non trovò le parole. “A…” Riprovò, ma non seppe cosa dire.
“Non sono in servizio, adesso.” Logan le scostò una ciocca bionda dal viso, in una dolce carezza. “Puoi provare a chiedermelo di nuovo tra dieci minuti, se vuoi.”
Charlie rimase scioccata a guardarlo. Da dove diavolo era saltato fuori quell’uomo?
Le ci volle un momento per fare mente locale. “Non voglio una relazione”, mormorò sotto quello sguardo, cercando di convincere sé stessa in primis.
“Però volevi che ti baciassi.” Un lampo di malizia passò nelle iridi scure di Logan. “Più di ogni altra cosa.”
Nel sentire le sue stesse parole, Charlie arrossì e a quella reazione le labbra dell’uomo si schiusero in un sorriso obliquo famoso tra tutte le donne di Sunlake.
Senza fiato, Charlie si limitò ad annuire.
Lo sceriffo si chinò verso di lei e gli occhi di Charlie si chiusero al brivido di aspettativa che le corse lungo la schiena. Pensava a quel momento, al loro bacio, ogni volta che chiudeva gli occhi.
Le labbra di Logan accarezzarono teneramente la sua guancia.
Solo quello, nient’altro.
“Bene, allora andrei.” A quelle parole Charlie aprì gli occhi di scatto.
Stava scherzando? Tutto lì? Si sarebbe anche indignata, se non fosse stata tanto sopraffatta.
“Ti mando un messaggio più tardi, così possiamo organizzarci.”
Ancora stordita, aggrottò la fronte. “Ma non hai il mio numero”, gli fece notare in un sussurro.
“Me lo farò dare da mia madre”, rispose mentre si allontanava.
Charlie lo seguì, le gambe un po’ instabili.
“Nemmeno tua madre ha il mio numero”, osservò ancora, stavolta con voce più sicura.
L’unica risposta fu la risata di Logan, che rimbombò tra le pareti silenziose della biblioteca.
Guardò la schiena ampia dell’uomo allontanarsi e solo quando girò l’angolo e uscì dalla sua vista, si rese conto di cos’altro aveva detto.
“Organizzare cosa!?”, gli urlò dietro.
Rispose solo il silenzio.
Si lasciò cadere sulla sua poltrona; piegata in avanti, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, iniziò a tremare.
Non aveva fatto domande. Non le aveva chiesto niente.
A parti invertite, Charlie sarebbe stata curiosa di sapere perché mai suo padre pensasse una cosa del genere. Invece a lui non era sembrato importare.
Fu così che la trovò Maddie: sulla sua poltrona, scossa dalle risate.
Appoggiandosi a uno scaffale, la guardò dall’alto in basso mentre continuava a ridacchiare, e si ritrovò a sorridere a sua volta.
“Immagino sia andata bene”, constatò.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO SETTE ***


CAPITOLO SETTE
Ben presto, Logan si rese conto che non sarebbe stato facile non farsi scoprire.
A Sunlake, era quasi impossibile mantenere un segreto, ne era ben consapevole, ma era comunque deciso a riuscirci: aveva capito quanto fosse importante per Charlie.
Le chiacchiere di una possibile relazione tra loro si sarebbero sparse a macchia d’olio in un paese così piccolo, e anche se il Maggiore Royce era un uomo che non faceva caso ai pettegolezzi, quelle voci sarebbero arrivate anche alle sue orecchie.
A meno di non incontrarsi in mezzo a un campo sperduto, quindi, non potevano farsi vedere insieme nella contea di Lake Rock; tutti, infatti, amavano lo sceriffo Moore, eroe che aveva salvato un bambino dalle acque del lago, anni prima, e sarebbe stato impossibile per Logan passare inosservato.
Perciò sarebbero dovuti ricorrere ad altri stratagemmi. Era sicuro che si sarebbero fatti venire in mente qualcosa.
Innanzitutto, riuscire ad ottenere il numero di Charlie da sua madre, fu più difficile di quanto Logan si sarebbe aspettato.
L’aveva chiamata non appena era rientrato nel suo ufficio, venerdì, dopo la pausa pranzo; aveva iniziato un discorso qualsiasi, poi aveva ascoltato un monologo sugli addobbi natalizi – non avrebbe mai creduto ci fossero così tante cose da dire al riguardo – e solo alla fine aveva buttato lì la sua richiesta, come nulla fosse. Ma alle sue parole era seguito un lungo silenzio e poi era iniziato l’interrogatorio - Logan ne aveva condotti di meno sfibranti.
Sua madre gli aveva chiesto più volte se quella sua richiesta avesse qualcosa a che fare con la vicenda di poche ore prima, al Red; aveva anche provveduto a riassumergli gli eventi, come se lui non fosse stato presente, e il fatto che la donna già fosse a conoscenza di quell’episodio, non fece altro che ricordargli quanto sarebbe stato difficile ciò che si accingeva a fare.
Dopo diverse – false - rassicurazioni che i suoi intenti non erano affatto romantici, finalmente – finalmente! – Sylvie Moore si era decisa ad accontentarlo e, sfinito, Logan non le aveva nemmeno chiesto come avesse fatto ad ottenere il numero di telefono di Charlie, voleva solo porre fine a quella chiamata.
Aveva pensato a cosa scriverle per tutto il pomeriggio, e alla fine, quella sera, le aveva mandato un messaggio chiedendole di incontrarsi il giorno successivo.
Perciò, alle undici di mattina di sabato, Logan si ritrovò con Jake alla pista di pattinaggio su ghiaccio di Twin Lake City. Aveva promesso a suo figlio, giorni prima, che lo avrebbe portato a pattinare e pareva che tanti altri avessero avuto la stessa idea, perché il posto era pieno di gente e c’era addirittura la fila per noleggiare l’attrezzatura.
Sarebbe sembrato un semplice caso, quindi, incontrare Charlie lì.
Con il passare dei minuti però, la sicurezza di Logan - che la donna si sarebbe presentata - iniziò a vacillare.
Ebbe paura di aver dato per scontato l’assenzo di Charlie, e forse era per quel motivo che lei non aveva riposto al suo messaggio, dopotutto.
Avevano appena preso i pattini, quando suo figlio gli tirò una mano con urgenza.
“Papà! C’è Charlie!” Quelle parole sembrarono rianimarlo e lo sconforto che aveva iniziato a divorarlo evaporò. Seguendo la direzione dello sguardo di suo figlio, la vide: con un berretto di lana bianco - dal quale spuntavano due ciuffi dei suoi corti capelli biondi -, un piumino dello stesso colore, dei jeans scoloriti e un paio di scarpe da ginnastica, a Logan parve un angelo.
Non fu l’unico a pensarlo, perché vide più di una testa girarsi a guardarla.
La osservò mentre gli andava incontro con passo sicuro ed elegante e non poté esimersi dal ripensare a ciò che gli aveva detto il giorno prima, in biblioteca: suo padre pensava che fosse una delinquente.
Ovviamente, Logan non conosceva Charlie come poteva conoscerla suo padre: ci aveva parlato appena quattro volte in totale, in fin dei conti; eppure, aveva sentito ciò che si diceva in città. Charlie era stata mandata ad una scuola militare – questo glielo aveva detto anche lei – e non era tornata a Sunlake per i successivi tredici anni.
Nonostante fosse sicuro che suo padre l’andasse a trovare regolarmente - non ce lo vedeva Stephen a sbarazzarsi di sua figlia in quel modo. Sicuramente era un uomo duro, ma non credeva fosse crudele - quanto bene poteva conoscerla, dopotutto?
Inoltre, era chiaro che la donna avesse dei segreti: quella maschera che si era costruita non era lì per niente.
Bisognava anche considerare il fatto che, Logan non sapeva come, era entrata in possesso d’informazioni che avevano aiutato l’individuazione di Alan Hill.
L’aveva vista, poi, al Gryson’s. Quello era stato uno spettacolo che non avrebbe dimenticato presto.
Il quadro che andava formandosi non era certo d’aiuto per dimostrarne l’innocenza: era una donna che sapeva mentire straordinariamente bene, in grado di manipolare le persone a piacimento – e nonostante tutto, aveva scelto di non usare suo figlio contro di lui, ne era certo – e che usava il suo aspetto per nascondersi agli altri.
Tuttavia, non era nemmeno sufficiente – per Logan almeno – a dimostrarne la colpevolezza.
Era una donna che aveva confessato allo sceriffo che il suo stesso padre pensava fosse una poco di buono. Non era certo il modo migliore per mantenere un basso profilo. Era anche la donna che – chissà per quale motivo – gli aveva permesso di sbirciare oltre quella facciata dietro cui si nascondeva.
Tutta la questione però, alla fine, si riduceva a un unico punto fondamentale: avere fiducia oppure no. E Logan, forse contro ogni logica, si fidava. Era una sensazione istintiva, e il suo istinto lo aveva deluso raramente.
Adesso, vedendola avvicinarsi, vestita di bianco, se ne convinse ancor di più.
Forse sto iniziando ad impazzire, pensò.
Quando fu ormai a pochi metri di distanza, Jake le corse incontro e vide Charlie chinarsi per dirgli qualcosa, subito un sorriso sbocciò sulle labbra del bambino, che annuì eccitato.
Se quella donna - capace di suscitare una reazione del genere in suo figlio - era una criminale, allora Logan si sarebbe mangiato il cappello.
Mano nella mano, gli andarono incontro e Logan si ritrovò a sorridere – un sorriso obliquo di puro piacere – a quella vista.
I suoi occhi scuri incontrarono quelli blu di Charlie, e lì vi ritrovò un’emozione speculare alla sua.
“Dobbiamo prendere dei pattini anche per Charlie, papà!” Jake non aspettò una risposta, iniziò semplicemente a zampettare verso la coda per le attrezzature che, poco prima, aveva tanto odiato.
“Ciao.” Gli disse lei sorridendo, avvicinandosi per baciarlo su una guancia.
Improvvisamente inquieto, Logan si guardò intorno alla ricerca di potenziali occhi indiscreti che avessero assistito alla scena, ma nessuno stava facendo caso a loro.
Dopo che ebbe scandagliato il posto, tornò a guardare Charlie che, con la testa leggermente piegata sulla spalla, lo scrutava divertita. “Sembri un po’ nervoso.”
“Non ho mai fatto una cosa del genere.” Borbottò.
Charlie alzò un biondo sopracciglio, in una tacita domanda.
“Nascondersi come due adolescenti che non vogliono farsi scoprire dai genitori.” Spiegò lui.
Lei rise. “È stata una tua idea, sceriffo.” Si fece più vicina, e Logan fu colpito dalla sua fragranza di fiori. “Non lo trovi eccitante?” Non lo disse in modo provocante, ma sotto quello sguardo di un blu intenso, Logan riuscì solo a mormorare: “Si.”
Soprattutto se mi guardi così. Pensò tra sé.
Ma non lo disse.
 
Charlie era stata indecisa se presentarsi o meno alla pista di pattinaggio. Aveva cambiato idea almeno dieci volte da venerdì sera – quando aveva ricevuto il messaggio di Logan – al sabato mattina.
Aveva già troppi segreti con suo padre e di certo non era saggio aggiungere anche Logan alla lista. Si era ripromessa, quindi, che avrebbe ignorato il messaggio dell’uomo e che ne sarebbe rimasta alla larga, sapeva che averlo vicino sarebbe stato fin troppo rischioso.
Pertanto, alle nove di quel sabato, si era presentata alla solita riunione del comitato cittadino.
Mentre Annabelle King blaterava di non sapeva nemmeno cosa, Charlie si era ritrovata a guardare più volte il telefono. Sto solo controllando l’ora, si era detta, ma la realtà era un’altra: si chiedeva se lo sceriffo le avrebbe scritto per assicurarsi della sua presenza e, magari così, lei avrebbe trovato il coraggio di cambiare idea.
Non aveva risposto al messaggio di Logan, e non aveva avuto intenzione di pensare al motivo; difatti, non rispondere implicava per lei la possibilità di riconsiderare la sua decisione in qualsiasi momento.
Non erano passati nemmeno quaranta minuti che, notando la sua distrazione, Annabelle ne aveva approfittato per metterla in difficoltà.
La donna, se possibile, la odiava ancora di più di una settimana prima; infatti, nonostante tutto il lavoro che avesse fatto, il grande successo della sagra del vino era stato erroneamente attribuito a Charlie.
Almeno, adesso, sapeva a cosa fosse dovuto tutto il rancore di quella donna.
Solo quando Diddi le aveva dato un piccolo calcio sulla gamba, si era resa conto che Annabelle la stava fissando, aspettando una risposta ad una domanda che non aveva sentito.
Sotto quello sguardo di fuoco, Charlie si era chiesta perché se ne stesse lì a sopportarla. Effettivamente, nel suo lavoro ne aveva già dovute sopportare tante, non si meritava anche lei una pausa?
Suo padre non voleva che lei uscisse con lo sceriffo e, ancora una volta, Charlie avrebbe fatto come gli veniva detto, a discapito dei suoi desideri.
Quel pensiero amaro aveva risvegliato il suo animo ribelle e si era ritrovata improvvisamente in piedi - con sorpresa di tutte le donne della stanza. Senza inventare alcuna scusa – era stufa anche di quelle – era uscita; non aveva nemmeno notato l’espressione trionfante di Annabelle o quella compiaciuta di Maddie – che le aveva più volte dato della sciocca per la sua decisione di non andare all’incontro con lo sceriffo.
Era salita in macchina ed era sfrecciata alla volta di Twin Lake City, e una volta arrivata, vedendo come la guardava Logan mentre si avvicinava, seppe di aver preso la decisione giusta; di nuovo, come era successo nella biblioteca, si sentì a casa.
Scoprì che le era mancato pattinare: ricordava quando lei e Diddi pattinavano sullo spesso strato di ghiaccio del lago, in pieno inverno. Giocavano a rincorrersi e a sfidarsi a chi era più veloce, e lo stesso fecero quel sabato, loro tre. Si divertì come non le succedeva da troppo tempo e si dimenticò di tutto: dei problemi con suo padre, del suo lavoro e d’essere visti da qualcuno che avrebbe potuto avvertire Stephen Royce. Semplicemente, non le importava.
Esistevano solo tre persone nel Magico Mondo di Charlie: Jake, Logan e lei.
Dopo due ore sul ghiaccio, tutti e tre – Jake aveva insistito parecchio affinché venisse anche lei, come se Logan avesse bisogno d’esser convinto – si ritrovarono all’Onkey Monkey, un simpatico fast food per bambini di Twin Lake City. Davanti alla piscina con le palline e i diversi scivoli del locale, anche Jake non aveva potuto resistere e, dopo aver mangiato, li aveva lasciati soli.
Uno di fronte all’altro, il tavolo tra loro, rimasero a guardarsi.
“Come mai hai deciso di trasferirti a Sunlake?” Chiese Charlie curiosa, spezzando il silenzio.
Logan prese un lungo sorso della sua birra, prima di parlare. “Anni fa mi è giunta voce che Josh – lo sceriffo prima di me – stava per andare in pensione. All’inizio non ho preso in considerazione l’idea di cambiare completamente vita, ma poi…” Abbassò la voce. “Dopo la morte di mio padre, mia madre è rimasta sola. Certo, ha sempre avuto me e Jake, ma immagino che non sia la stessa cosa, no?” Il suo sguardo si fece distante, come ricordando qualcosa. “Allora ho pensato che, in un paese così piccolo, sarebbe stato più facile per lei fare amicizia e sentirsi parte di qualcosa. Non si sarebbe mai trasferita senza di noi, perciò, eccoci qua.” Riportò gli occhi su di lei. “Si è rivelata una buona decisione.”
Charlie allungò una mano sul tavolo e strinse quella di lui. “Mi dispiace per tuo padre.”
Nonostante non avessero un buon rapporto, non sapeva cosa avrebbe fatto lei senza il suo.
Un angolo della bocca di Logan si curvò in un sorriso riconoscente. “Grazie.” Poi fu il suo turno di chiedere: “Tu perché hai deciso di tornare?”
“Mi mancava casa.” Quella era una risposta che poteva voler dire tutto e niente e, nonostante ciò, a Logan sarebbe bastata, glielo lesse negli occhi; tuttavia, Charlie si sentì spinta a continuare, volendo condividere una parte di quel peso che aveva sempre portato da sola. “Un giorno mi sono svegliata e…” Scosse la testa, come se non riuscisse a spiegarlo nemmeno a sé stessa. “Mi è sembrato tutto senza senso. Mi sono resa conto che, oltre il mio lavoro, non avevo niente.” Charlie deglutì. “Mi sono sentita come… un fantasma.” Quell’ultima parola fu un sussurrò, come se, solo dicendolo ad alta voce, sarebbe davvero diventata invisibile.
Prima d’allora, non si era resa conto di quanto quella conclusione l’avesse sconvolta, all’epoca. Ma sentendo le sue stesse parole, si ritrovò con un gomito sul tavolo, la mano tremante tra i capelli e la testa china. Non si preoccupò di mostrare la sua debolezza davanti a quell’uomo, come avrebbe fatto con chiunque altro. Non le importava: aveva bisogno d’esser vista, esser vista veramente, altrimenti non si sarebbe mai scrollata di dosso quella sensazione d’essere solo un’ombra, e Charlie si fidava abbastanza di Logan da permetterglielo – il che era di per sé sconvolgente.
Si costrinse a inspirare, contò fino a sette ed espirò. Non funzionò molto.
Iniziò a ripetere il suo rituale, quando due braccia calde e forti l’avvolsero.
Non si era nemmeno resa conto che Logan si era alzato, per venire a sedersi vicino a lei.
Sunlake mi sta già rammollendo, ultimamente mi ritrovo sempre tra le braccia di quest’ uomo. Pensò. Ma appoggiò comunque la testa sul suo petto e si sentì di nuovo padrona di sé.
Logan non disse nulla, non c’era bisogno.
“Non mi hai chiesto perché mio padre pensa così male di me.” Osservò lei a bassa voce, la guancia ancora premuta contro il suo maglione.
“No, non l’ho fatto.”
“Perché?” Gli chiese, quando fu chiaro che non avrebbe detto altro.
Sentì le mani di Logan accarezzarle dolcemente i capelli. “A volte, ci sono cose che le persone non sono pronte a condividere.” Le portò una ciocca dietro l’orecchio. “Avevo un amico all’accademia che se ne stava sempre per i fatti suoi. Quando avevamo la sera libera se ne andava chissà dove da solo, senza dire niente a nessuno. Magari, poteva sembrare un tipo strano.”
“E poi? Cosa è successo?” Chiese Charlie, con il viso ancora contro di lui.
“E poi è scappato con un altro uomo, ora sono sposati e hanno due figli.”
Logan continuò a stringerla, in silenzio, per un lungo minuto; le sue mani che continuarono ad accarezzarle i capelli.
Charlie alzò lentamente la testa dal suo petto, per incontrare i suoi occhi scuri. “Grazie.”
Un angolo della bocca di Logan si curvò verso l’alto. “Prego.”
Vide il suo sguardo cambiare, farsi pensieroso, indeciso se chiederle qualcosa o meno. Charlie gli accarezzò una guancia, seguendo i contorni della sua cicatrice con un dito, e gli occhi di lui tornarono nei suoi. “Cosa c’è?” Gli sussurrò.
Le prese una mano e iniziò a giocherellare con le sue dita, per poi portarsela al viso e depositare un tenero bacio sul suo palmo. “Promettimi una cosa, Charlie.” Quando lei non rispose per dirgli che l’avrebbe fatto, continuò: “Se faremo questa cosa, promettimi che non mi mentirai mai.”
Sentì un tuffo al cuore e non riuscì a sostenere lo sguardo di lui; perciò, abbassò gli occhi al suo bicchiere mezzo vuoto sul tavolo. Non poteva fare una promessa del genere, ovviamente.
Dita calde le presero delicatamente il mento, costringendola a incontrare di nuovo le iridi scure di Logan. L’uomo le passò il pollice sulle labbra e seguì ammaliato il suo stesso movimento. “Semmai ti chiederò qualcosa che non puoi dirmi, basterà che tu lo dica. Capirò.” Si chinò per sfiorare il naso di lei con il suo. “Ma tra noi niente bugie.”
Come stregata da quegli occhi, Charlie annuì. “Te lo prometto.”
Fu come tornare alla realtà e lo sceriffo sembrò rendersi improvvisamente conto della loro posizione compromettente: intimamente abbracciati sullo stesso divanetto. Si alzò per tornare a sedere davanti a lei, dall’altra parte del tavolo.
Incrociando le mani davanti a sé, Logan assunse un’espressione fintamente seria.
“Allora, Miss. Royce.” Iniziò, usando un tono professionale. “Mi dica: dove ha imparato a cucinare?”
Lo guardò divertita, mentre fingeva di condurre un interrogatorio. Senza bugie, sarebbe stato l’interrogatorio più semplice mai visto.
Scosse la testa. “Non vale così, sceriffo.”
Si guardarono negli occhi, ma fu Logan a vincere quello scontro di volontà, perché alla fine Charlie sbuffò e lo accontentò: “Da sola.” Borbottò. “Ma in mia discolpa, credo che la cucina della scuola militare abbia abbassato drasticamente la mia sensibilità ai sapori.”
Continuarono così, con quel piccolo gioco di domande. Charlie rispondeva a quelle di lui e Logan a quelle di lei. Le fece tutte domande leggere, per lo più sulla sua infanzia e sulla scuola.
Gli raccontò cose che non aveva mai detto a nessuno, e non perché ci fosse qualcosa che non potesse dire ma semplicemente perché nessuno aveva mai chiesto.
Solo quando sfiorò troppo da vicino l’argomento lavoro, Charlie si limitò a rimanere in silenzio. Aveva la sensazione che anche solo pronunciare le parole “non posso dirtelo” fosse una sorta di ammissione.
Lui, però, fece semplicemente finta di nulla, come se non avesse mai fatto quella domanda, limitandosi a porne un’altra. Non le sfuggi che non tentò più di avvicinarsi a quell’argomento, rimanendo, invece, su un terreno più sicuro.
Charlie lo apprezzò molto. Poter rispondere a tutte quelle domande con la verità la fece sentire normale, parte di qualcosa. Una semplice ragazza di ventotto anni che usciva per un appuntamento con un uomo affascinante e il suo meraviglioso figlio.
Nemmeno Stephen Royce riuscì a guastare il suo umore raggiante, quando tornò a casa.
Charlie chiacchierò felice per tutta la cena, incurante dei grugniti del padre; si scordò persino del suo lavoro, e alle nove uscì per andare a guardare un film a casa di Diddi. Non avrebbe mai potuto rimanersene seduta in camera sua, aveva bisogno di muoversi, di fare qualcosa.
Le parve di aver messo la sua vita in standby, e di star vivendo quella di un’altra persona.
Quella serenità si prolungò anche al giorno successivo, in previsione del suo incontro con lo sceriffo, per pranzo.
Infatti, poiché Jake era stato invitato al compleanno di un suo amichetto, Logan avrebbe passato tutta la domenica da solo; quindi, si erano dati appuntamento al lago.
Era un posto perfetto per un appuntamento segreto perché, alla fine di novembre, il lago non era ancora sufficientemente ghiacciato per potervi pattinare e, con il freddo, nessuno si avventurava tra le montagne.
Quando Charlie parcheggiò la macchina nello spiazzo deserto – fatta eccezione per il pick-up grigio dello sceriffo – saltò giù dall’auto piena di entusiasmo.
Guardò, per la prima volta da tredici anni, l’azzurro specchio d’acqua immerso tra gli abeti; sulla superficie aveva iniziato a formarsi un sottilissimo strato di ghiaccio, che ancora non copriva il centro.
Il lago non era tanto esteso: da dove si trovava, Charlie poteva facilmente seguirne il contorno; per quel motivo non aveva un nome proprio, gli abitanti di Sunlake vi si riferivano semplicemente come ‘il lago’.
Era solo uno tra i tanti laghi della regione, quello più vicino al paese.
Quella mattina, agli occhi ottimisti di Charlie, il lago parve come incantato: deserto, immerso nel silenzio e nel verde, la superficie azzurra scintillante per il riverbero; sembrava un luogo fatato.
Prese dal bagagliaio le pesanti coperte che, con un messaggio, Logan le aveva detto di portare, e si incamminò verso la riva.
Lo vide, inginocchiato e intento ad alimentare un fuoco già scoppiettante in una buca; lì davanti, per terra, era già stata sistemata una pesante coperta, sulla quale facevano sfoggio diversi cuscini colorati.
Logan sembrò come percepire lo sguardo di lei sulla schiena, perché si alzò e si girò a guardarla; sentì il suo cuore prendere il volo e non riuscì a impedire ad uno sciocco sorriso di curvarle le labbra – sembrava non potesse farne proprio a meno quel giorno.
Lo sceriffo indossava dei semplici jeans, una pesante giacca a vento verde che gli avvolgeva le spalle larghe e, dulcis in fundo, uno Stentson beige sulla testa. Forse lo fissò con intensità, perché quando riportò lo sguardo sul suo viso, Logan sfoggiava un sorriso fin troppo compiaciuto.
“Ciao.” Lo salutò Charlie, sentendo le sue guance arrossire sotto lo sguardo caldo dell’uomo.
Mio Dio, sto impazzendo.
Gli occhi di Logan si fecero divertiti. “Ciao.” E il suo divertimento crebbe quando lei rimase ferma lì a guardarlo, con le coperte in mano, senza dare segno di andargli incontro per gli ultimi passi che li separavano – come aveva fatto il giorno prima.
Fu lui a chiudere la distanza tra loro, questa volta; le prese le coperte, e le avvolse la vita con un braccio, tirandola più vicina, per baciarle una guancia.
Charlie si tolse le scarpe e il cappotto, prima di salire sulla coperta davanti al fuoco, imitata da Logan. Si stava caldi sotto le pesanti trapunte che aveva portato.
Logan aveva preparato il pranzo – le aveva praticamente vietato di cucinare qualsiasi cosa - e un gemito soddisfatto uscì dalle labbra di Charlie al primo morso del sandwich che l’uomo le mise in mano. “Mio Dio, è buono.” E lo era davvero!
“Non credo valga come complimento, detto da te.” La canzonò lo sceriffo.
Arrostirono i marshmallow sul fuoco poi, e dopo tanto tempo, Charlie assaggiò di nuovo quelle soffici delizie.
Replicarono il loro gioco dell’interrogatorio, che poi si trasformò in una semplice conversazione, mentre passeggiavano lungo la riva.
Parlare la faceva sentire così bene che Charlie parve non riuscire più a fermarsi.
“Dopo la scuola militare non ho mai avuto il tempo per tornare a casa.” Raccontò, raccogliendo un sassolino bianco. “Quindi era papà che veniva a trovarmi, soprattutto per le feste e cose così. Il nostro rapporto è sempre stato abbastanza tranquillo.” Lanciò il sasso il più lontano possibile, nel lago. “Poi, sette anni fa, sono ritornata e-”
Logan la interruppe. “Pensavo fossero più di dieci anni che non tornavi a Sunlake.”
Charlie fece una smorfia e scosse amaramente la testa. “Immagino che nessuno si sia accorto di me, per il poco tempo che sono rimasta.” Borbottò a bassa voce.
Si chinò a raccogliere un altro sasso. “Comunque sia, ho scoperto che mesi prima mio padre voleva farmi una sorpresa.” Tirò il ciottolo bianco con più forza del necessario. “Si è presentato al mio ufficio e ha scoperto che era tutta una menzogna.” Guardò il sasso cadere nel lago e lo immaginò sprofondare, fino a toccare il fondo. “Abbiamo avuto una lite furiosa. Gli ho anche rinfacciato della scuola militare.” Quello era uno dei suoi più grandi rimorsi. Aveva creduto che parlarne le avrebbe fatto rivivere quello stesso dolore che aveva provato all’epoca; invece, Logan era un ascoltatore perfetto e quel suo non giudicarla la fece sentire compresa.
Fecero il giro del lago due volte, prima di tornare a rifugiarsi sotto le coperte e, ancora una volta, con grande frustrazione di Charlie, Logan non sembrò intenzionato a prendere l’iniziativa.
Era da giorni che stava fremendo all’idea e, all’inizio di quel pomeriggio, quando ormai mancava poco più di un’ora al tramontare del sole, avrebbe elemosinato anche per il più piccolo tocco.
Logan, però, fatta eccezione per il bacio sulla guancia e l’abbraccio in cui l’aveva stretta quando era arrivata, non sembrava intenzionato a sfiorarla.
Non le aveva nemmeno preso la mano, mentre passeggiavano lungo il lago e Charlie era stanca di aspettare: decise che, se non voleva pensarci lui, avrebbe fatto a modo suo.
Fece finta di rabbrividire e si spinse più in là sotto la pesante trapunta, verso di lui.
“Hai freddo?” Le chiese. Avevano detto niente bugie, perciò Charlie non rispose, si limitò a spingersi ancora più vicino.
Lui l’accolse di buon grado tra le sue braccia. Sdraiato sulla schiena, la testa e il busto rialzati da un cuscino, le avvolse le spalle con un braccio, stringendola a sé.
Sospirando di piacere alla sensazione del calore di quel corpo vicino al suo, Charlie iniziò a tracciare con un dito piccoli ghirigori immaginari sul petto di Logan, attraverso il maglione, dal basso verso l’alto, e solo quando arrivò a toccare la pelle scoperta del collo, l’uomo parlò.
“So cosa stai facendo, furbacchiona.” Guardava il cielo quando lo disse, perciò non poté vedere il sorriso dispettoso che si formò sulle labbra di Charlie.
“Cosa sto facendo?”
“Stai cercando di attentare alla mia virtù.” Il tono serio e fintamente oltraggiato con cui lo affermò la fece ridere.
Logan si mosse all’improvviso: ruotando su un fianco, si ritrovò su un avambraccio, sovrastandola.
Charlie rimase distesa tra i cuscini, godendosi quella vicinanza e la vista di quell’uomo sopra di lei.
“Mi piace sentirti ridere.” Mormorò.
Charlie non rispose e, invece, alzò una mano ad accarezzargli la guancia, e ancora una volta il suo dito seguì il segno della sua cicatrice. “Come te la sei fatta?”
“Un incidente giocando a basket.”
Si alzò sui gomiti per baciargli quel punto. Poté sentire da vicino il profumo dell’uomo - cedro e una nota fruttata - e quando tornò a sdraiarsi sui cuscini, incontrò due scure braci ardenti.
Sentì un sorriso soddisfatto curvarle le labbra e fece scivolare la mano lungo il collo di lui, fino al pettorale duro. Con il piede percorse la lunghezza della sua gamba, in una lenta carezza, prima di agganciarla a cingerlo.
Logan si chinò a inspirare il suo profumo nell’incavo del collo, sostenendosi sul braccio. “Sei una donna perfida.” Le sussurrò una volta lì.
Charlie non si disturbò a contraddirlo, e, ridacchiando, spinse le sue mani tra i suoi capelli.
Negli occhi di Logan c’era un ardore bruciante, non aveva mai visto niente del genere. Sotto quello sguardo, Charlie si sentì sempre più accaldata e un delizioso formicolio le percorse il corpo.
Le parve come quando, da bambina, infilava le mani nella neve, per poi rientrare in casa e sedersi davanti il caminetto: il calore le scaldava le dita gelide in brividi dolorosamente piacevoli.
Lentamente, Logan avvicinò il viso al suo e si fermò ad un soffio dalle labbra di Charlie, come chiedendole il permesso di chiudere la distanza tra loro.
Era sicura che sul suo volto non ci fosse altra emozione se non un desiderio uguale a quello di lui.
Una mano scivolò ad accarezzarle una guancia, e un dito tracciò il contorno del suo labbro inferiore. Quando, finalmente, Logan poggiò le labbra sulle sue, in un tenero bacio a stampo, Charlie credette che il suo cuore si sarebbe fermato.
Si scostò di nuovo e si guardarono per un breve istante, prima di rincontrarsi a metà strada in un’unione perfetta. Le labbra di Logan erano dolci e morbide, e immediatamente seppe che non ne avrebbe mai avuto abbastanza.
Strinse una ciocca dei suoi capelli, tirando leggermente, e questo le valse un delizioso gemito; sentì la lingua di Logan accarezzarle il labbro inferiore, e quando Charlie schiuse la bocca, incontrò la sua.
Quel bacio, iniziato tano teneramente, divenne infuocato, e quando lei lo mordicchio le sembrò di aver gettato benzina sul fuoco. Le mani appassionate di lui scivolarono sulla sua schiena, spingendola contro di sé e Charlie poté sentire la reazione di Logan contro il suo fianco.
Toccò a lei gemere quando si fece strada più in basso e le accarezzò la curva del sedere, prima di stringerlo.
Si rotolarono tra le coperte, baciandosi appassionatamente, in un groviglio di braccia e gambe.
Come due amanti ritrovati dopo anni di distanza.
Due anime che si erano riconosciute ed ora erano ebbre dal bisogno del tocco dell’altra.
Charlie non si accorse del passare del tempo, seppe solo che, quando ripresero coscienza di sé e si svegliarono da quel sogno stupendo fatto di baci e carezze, il sole era ormai calato.
Sperò che quella bolla felice potesse durare in eterno.
 
 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO OTTO ***


CAPITOLO OTTO
Lo sceriffo di Twin Lake, Ryan Clark, era un uomo sui quarantacinque anni, alto un metro e sessanta, che sembrava quasi nuotare nei suoi vestiti di due taglie più grandi. Magro come un chiodo e con i capelli radi, a causa del troppo stress, era un tipo ansioso e pieno di tic.
Passeggiando avanti e indietro nel piccolo ufficio di Logan, allacciava e slacciava in continuazione il polsino della sua camicia a quadri di un verde sbiadito e il movimento provocava un esasperante ticchettio continuo e ritmico.
“Non è servito a niente.” Brontolò. Tic.
Era un tipo bonario e pacato, Logan non lo aveva mai sentito alzare la voce; tuttavia, a suo modo, poteva essere davvero irritante. A sentire lui, quando era ansioso, sembrava che il mondo dovesse finire da un momento all’altro.
Tac. “È passata più di una settimana, e ne sappiamo tanto quanto prima.” Clark smise di camminare e finalmente si sedette. Logan, sulla sua sedia, era rimasto perlopiù in silenzio da quando l’altro era entrato e aveva iniziato a lamentarsi. Non si sarebbe sorpreso se, un giorno di quelli, Ryan si fosse seduto e avesse iniziato a parlare dei suoi problemi come in una seduta psichiatrica. Tic.
“Non è un grosso problema, Clark. Abbiamo appena iniziato a sondare il terreno.” Ciò che non disse fu che anche lui era preoccupato. Era vero, una settimana non era poi così tanto, ma se volevano stroncare il tutto sul nascere dovevano agire in fretta, avevano perso fin troppo tempo dietro ad Alan Hill.
Tac. Quasi pianse di gioia, quando Ryan smise di giocare con quel dannato bottone e iniziò a torturarsi il lobo dell’orecchio; doveva assolutamente regalargli un antistress per Natale.
Tuttavia, quella momentanea pace non sembrò evitargli il mal di testa crescente che si faceva strada dalla base del collo.
Ryan scosse la testa lentamente. “Dovrei dire ai miei uomini di smettere di tener d’occhio il Gryson’s?” Chiese, la vena d’ansia, a quella sola idea, perfettamente distinguibile nella sua voce.
Avevano concordato di sorvegliare, oltre a Hill, anche l’uomo con cui lo avevano visto la settimana prima: Liam Ruiz. Risultava avesse dei precedenti: era stato già arrestato per aggressione; tuttavia, sembrava comportarsi come un normale turista che si gode la vita, e non un organizzatore attivo di un traffico di droga. Stavano sulla strada giusta, lo sapeva. Un pezzo grosso non avrebbe rischiato di certo d’esser beccato con le mani nel sacco.
Logan, appoggiato con il gomito sul bracciolo della sua sedia, si strofinò una mano sulla fronte. “No, continuiamo a controllare questo Ruiz.” Rifletté per un istante, prima di aggiungere: “E anche Hill.”
Gli occhi di Ryan si spalancarono. “Anche Hill? Ma non si è mosso da quella casa per tutta la settimana.”
All’alzata di spalle di Logan, Clark abbassò la testa rassegnato. Si mise di nuovo in piedi, e riprese a camminare, iniziando a giocherellare con la fede.
“Quella donna ti ha detto altro?” Un pizzico di speranza trapelò da quelle parole che volevano sembrare disinvolte.
Logan non poté far a meno di correggerlo: “Charlie.” Specificò. “E no, non mi ha detto altro. Perché mai dovrebbe sapere qualcosa?”
Clark scosse la testa. “Non lo so, ma non sappiamo nemmeno perché ci abbia fornito le altre informazioni.” Osservò con tono asciutto.
Non aveva potuto fare a meno, la settimana prima, di dire a quell’uomo che non aveva idea di come la donna fosse venuta a conoscenza dell’ubicazione di Hill. Non aveva potuto tacere al riguardo, dato il rischio che avrebbero corso se effettivamente fosse stato tutto un piano contorto contro di loro.
Tuttavia, adesso, a quelle parole che potevano sottintendere un qualche tipo di coinvolgimento di Charlie, Logan si irrigidì e si mise sulla difensiva. “Voleva solo aiutarci.” Il tono gli uscì più duro di quanto avesse voluto.
L’altro, però, non sembrò farci caso. “Tu stesso hai detto che non sai come facesse a saperlo.” Notò semplicemente e alla sua espressione pacata, Logan si rilassò un poco; Ryan non era mai stato un tipo meschino, sapeva perfettamente anche lui che l’intervento di Charlie era stato provvidenziale.
L’altro uomo si fermò, girandosi a guardarlo negli occhi. “Stai attento con quella donna.” Il tono serio, ma lo sguardo bonario. Riprese la sua passeggiata. “Perciò, il nostro piano è aspettare?”
Logan si irrigidì e l’ansia dell’altro iniziò a pervadere anche lui; si massaggiò le palpebre: il mal di testa sempre più fastidioso. Era sempre stato un tipo paziente, ma a sentire quell’uomo sembrava avessero esaurito il tempo, e aveva paura che potesse essere davvero così.
“Per ora non possiamo fare altro.” Constatò, con un sospiro.
Clark si sedette ancora una volta, iniziando a muovere la gamba su e giù, nervoso. “Sono disposto ad aspettare altri tre giorni, dopodiché dovremmo provvedere a cambiare strategia.” Rifletté un attimo, e a qualunque conclusione sembrò arrivare non parve esserne felice. “Potrei chiedere ad un tizio che conosco di intercettare questi uomini per noi, ma non so quanto sia opportuno.” Fece una smorfia, Logan conosceva la frustrazione di non avere a disposizione le risorse necessarie per quel tipo di competenza.
Lo sceriffo di Sunlake annuì. “Vediamo cosa succede.”
Fu grato quando l’uomo se ne andò, alle cinque e mezzo.
Teso e spossato, Logan guardò le carte sulla sua scrivania. Non aveva alcuna voglia di lavorare e decise di lasciar perdere e andar via. Per quel giorno era sufficiente, aveva bisogno di distrarsi.
Chiamò sua madre che, alla notizia che voleva andare lui stesso alla biblioteca a prendere Jake, parve esultare di gioia.
Sylvie Moore ripeteva in continuazione al suo adorato figlio che lavorava troppo, ed effettivamente non era l’unica a pensarlo. Poteva anche avere ragione, ma Logan sentiva sulle spalle il peso della responsabilità di quella città; non era un peso gravoso, solo uno sprone in più che lo convinceva a rimanere – in ogni caso - fino a sera seduto sulla poltrona del suo ufficio. Non voleva deludere nessuno.
Ovviamente, era ben consapevole con chi sarebbe stato Jake, in biblioteca. Dalla domenica precedente, aveva rivisto Charlie solo a pranzo. Per i quattro giorni successivi al loro incontro al lago, lo sceriffo e il suo vice – con gran stupore di tutti – avevano iniziato ad unirsi a Charlie e Maddie al Red. Giravano parecchi pettegolezzi al riguardo, e l’ipotesi più quotata per questo improvviso cambio di scenario era la presunta infatuazione di Luke per Charlie.
Per poco non era scoppiato a ridere in faccia a sua madre quando glielo aveva detto.
In ogni caso, al loro bacio infinito ancora non ne era seguito un altro e a Logan formicolavano le mani solo al pensiero di poterla toccare di nuovo.
Quando entrò in biblioteca, vide diverse teste chine sui libri, ma nessuna era la zazzera scura di suo figlio.
Percorse il corridoio tra gli alti scaffali delle librerie, diretto verso quella piccola area relax dove l’aveva portato Charlie la volta scorsa.
Si fermò quando sentì la voce di Jake, il discorso già avviato. “…vuol dire che sono un fifone?”
Le sopracciglia di Logan per poco non toccarono il soffitto e, oltremodo curioso, sbirciò attraverso lo spazio tra i libri e lo scaffale soprastante: dall’altra parte, Charlie e Jake erano seduti sul tappeto a gambe incrociate, una scacchiera tra loro. Entrambi concentrati sul gioco, la testa bassa a guardare ognuno le proprie pedine.
Percepì un po’ della tensione del giorno abbandonarlo alla sola vista di quella scena.
Guardò suo figlio. I capelli scuri che gli aveva pettinato lui stesso quella mattina erano ormai un disastro, sparati da tutte le parti senza un senso. Sospettava che, non appena lo lasciava a scuola, se li scompigliasse in quel modo. Sorrise al solo pensiero.
Lo vide spingersi i tondi occhiali più su, sul naso, e sbirciare curioso verso la donna davanti a sé.
Anche Logan spostò la sua attenzione su di lei. Aveva una visuale perfetta del suo profilo, con una ciocca dei suoi biondi capelli dietro l’orecchio. Seguì con gli occhi la linea dritta del naso, quella degli zigomi, fino a scendere su quella morbida delle labbra; scivolò lungo la curva del collo e immaginò di posare un bacio proprio lì, per sentirne il dolce profumo.
Si riscosse quando Charlie, prendendo in mano un pezzo, rispose. “Chiunque scapperebbe davanti ad un T-Rex.”
Logan non si sorprese; sapeva perfettamente che tipo di discorsi strani poteva fare Jake, e anche Charlie non sembrò affatto perplessa da qualsiasi domanda bizzarra suo figlio le avesse fatto.
“Noah ha detto che lui non lo farebbe.” Jake guardò la mossa della sua avversaria prima di continuare: “Sicuramente nemmeno tu fuggiresti.” L’assoluta fiducia con cui suo figlio lo disse lo fece sorridere ancor di più, anche lui era convinto che, in quell’eventualità, Charlie non si sarebbe semplicemente data alla fuga.
La donna buttò indietro la testa e rise di gusto, e quando si voltò si accorse del suo sguardo. Tra loro sembrò scorrere pura energia. Come sempre gli succedeva, Logan fu pervaso da un desiderio che non provava da tempo.
Quelle iridi blu sembravano attrarlo, come la luce una falena, e sotto la superficie azzurra vide nuotare gli enigmi intellegibili che Charlie custodiva tanto gelosamente. Tutto ciò, gli faceva solo desiderare d’esser il primo e unico uomo in grado di svelare tutti i segreti di quella donna.
Gli ci volle un momento per rendersi conto che, fin da subito, si era accorta di lui.
Gli fece una smorfia giocosa, prima di tornare a guardare il bambino davanti a sé, che ancora contemplava la scacchiera. “Scapperei terrorizzata, come chiunque. Sarebbe la cosa migliore da fare, in ogni caso. Solo un idiota se ne starebbe lì a farsi divorare.”
La risata di Jake fu un balsamo per i suoi muscoli tesi, e non gli sfuggi la luce di pura ammirazione con cui guardò Charlie.
Rimase ancora un minuto nascosto dietro la libreria, prima di decidere che fosse il momento di mettere al corrente anche suo figlio della sua presenza.
“Chi sta vincendo?” Esordì.
“Papà!” Jake saltò in piedi in un lampo e Logan lo prese in braccio senza sforzo, quando gli si buttò addosso. “Sto vincendo io!” Disse pieno di gioia, poi abbassando la voce per non farsi sentire gli bisbigliò all’orecchio: “Charlie non è capace a giocare.”
Logan rise, e guardò la donna, ora in piedi davanti a loro; il sorriso divertito sul suo volto, diceva chiaramente che era ben consapevole di quel che aveva detto.
“Ciao.” Lo salutò, le guance che si arrossavano leggermente. Gli ricordò la domenica precedente, al lago, quando se n’era rimasta ferma a guardarlo, improvvisamente esitante; anche allora, come adesso, aveva pensato a che contraddizione fosse. Era di gran lunga la donna più forte e risoluta che avesse mai conosciuto; tuttavia, poteva mostrare un’incomprensibile insicurezza, soprattutto quando si abbandonava tra le sue braccia in modo completo e disarmante.
Logan sorrise alla vista di quel rossore. “Ciao, Charlie.” Forse si perse più del dovuto nel blu di quegli occhi incredibili, perché quando riportò l’attenzione su suo figlio incontrò due iridi scure, identiche alle sue, che lo scrutavano con curiosità. Forse fin troppa.
“Vado a prendere lo zaino.” Disse Jake, divincolandosi dal suo abbraccio e saltellando via, dietro alle librerie.
Charlie gli si avvicinò, negli occhi la stessa luce che aveva domenica. Subito, le mani di Logan si posarono sui suoi fianchi, mentre quelle di lei sul suo petto. Le fece scivolare più in alto, sulle sue spalle e lì si fermarono.
Le sopracciglia della donna si aggrottarono, formando una rughetta nel centro della sua fronte. Lo scrutò attentamente negli occhi, prima di parlare. “Sei teso.”
Non era una domanda, e a quelle parole il peso della sua conversazione con Clark, di poco prima, tornò a farsi sentire. Sospirò, baciandole i capelli e beandosi della sua fragranza di fiori. Quel profumo era anche più dolce di quanto ricordasse.
“È solo il lavoro." Mormorò.
Le mani di lei si fecero strada sulla sua nuca, fino all’attaccatura dei capelli, in un massaggio lento e rilassante. Logan chiuse gli occhi, per poi riaprirli di scatto quando sentì le labbra morbide di Charlie toccare brevemente le sue, in un fugace e tenero bacio.
“Dimmi cos’è che ti preoccupa.”
Era strano per lui avere qualcuno con cui poterne parlare. Anche con sua madre cercava di non affrontare troppo spesso il discorso lavoro e, in ogni caso, la donna non aveva mai avuto l’effetto calmante che sembravano avessero quelle mani delicate sul suo collo.
Logan si abbandonò ad un sospiro. “Stiamo seguendo la pista di Hill da una settimana ormai, ma l’uomo che era con lui non si espone. Siamo preoccupati.” Scosse la testa. “Inoltre, quella non è nemmeno la nostra giurisdizione. Non so come faremo.”
Fu un lampo, ma Logan lo vide: l’indecisione passò veloce in quelle iridi azzurre.
Rimasero a guardarsi per un lungo momento, entrambi consapevoli che c’era qualcosa che lei non stava dicendo. Si costrinse a rimanere in silenzio, non le avrebbe fatto una domanda a cui sapeva non avrebbe risposto.
Un’altra emozione, però, iniziò a prendere il posto dell’indecisione: la vergogna, e con quella iniziò a sbiadire pian piano la sua Charlie. Le strinse i fianchi, sperando che quello bastasse a farla restare con sé.
“Non farlo.” Le bisbigliò a fior di labbra e occhi blu cercarono i suoi. “Va bene. Non importa.” Mormorò ancora, e fu ripagato da un sorriso incerto. Sembrava imperversasse una lotta dentro quella bella testa bionda.
Logan non poté resistere oltre, e la baciò.
Sentì il seno di lei premergli morbido contro il petto, quando la tirò a sé; le infilò la mano tra i capelli, inclinandole il viso all’indietro e quando le loro lingue si toccarono Charlie si abbandonò ad un piccolo gemito di piacere. Gli morse il labbro inferiore, lo succhiò con delicatezza e Logan si sentì come un cavo elettrico scoperto immerso nell’acqua.
Finì tutto bruscamente. Lei si scostò d’improvviso, facendo un passo indietro e iniziando a mettere in ordine la scacchiera. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto dei passi concitati in avvicinamento.
Ancora a corto di fiato, Logan si passò una mano tra i capelli e cercò di riprendersi.
“Sono pronto!” Esultò Jake, spuntando da dietro la libreria, insieme a Maddie.
Era arrivato il momento di andare.
 
Guardando padre e figlio allontanarsi, Charlie pensò a quello che era stata sul punto di dire: “Peter Cox.” Era stato un momento. Il pensiero di pronunciare quel nome era venuto così spontaneo che l’aveva sorpresa.
Come avrebbe fatto a giustificare quell’informazione? Conosceva la vera identità di Liam Ruiz, aveva il suo fascicolo salvato sul computer. Non era nemmeno sicura che quell’informazione sarebbe tornata utile allo sceriffo, ma aveva desiderato vedere Logan alleggerito dalla sua preoccupazione e, per un attimo, se n’era infischiata del resto. In cuor suo, era consapevole che una volta iniziato a rivelare informazioni a Logan non sarebbe più riuscita a smettere.
Le era stato chiaro fin da subito che Liam Ruiz, a differenza di Adams e Nelson, era ben consapevole dell’eventualità che qualcuno ascoltasse le sue chiamate. Anche se arrogante e fin troppo sicuro di sé, in quello era un tipo accorto.
Tuttavia, nonostante Ruiz non si sbilanciasse, non si poteva certo dire lo stesso di chi gli gravitava intorno.
In quattro giorni, Charlie si era costruita una fitta rete di contatti: chiunque chiamasse Liam Ruiz entrava nella lista di persone intercettate, così come chiunque si mettesse in contatto con una qualsiasi di queste.
Controllare gli scambi di tutta questa gente, ovviamente, richiedeva molto tempo ed energia e Charlie aveva iniziato a dormire a singhiozzo, poiché spesso le chiamate – di cui era meglio conoscere i dettagli in tempo reale – arrivavano nel cuore della notte.
Ogni volta che veniva avviata una telefonata da una di quelle persone, anche il cellulare di Charlie iniziava a squillare e, semplicemente accettando la chiamata, poteva sentirne la conversazione, che veniva sempre registrata e salvata.
Prima o poi, però, sapeva che sarebbe dovuta intervenire sul campo; già in precedenza con una bottiglia di birra aveva reperito più informazioni che in qualsiasi altro modo. Uomini e donne non sembravano affatto restii a parlare con lei: era troppo bella, troppo bionda e troppo donna per poter rappresentare una qualche minaccia, e lei non faceva nulla per mitigare quell’impressione, con un atteggiamento frivolo e superficiale incarnava lo stereotipo della svampita senza cervello.
Charlie aveva sperato di poter rimandare il più possibile quel momento, ma iniziava a chiedersi se un suo intervento non potesse facilitare anche il compito della polizia – oltre il suo, ovviamente.
Aveva pensato, quindi, di condividere quell’informazione con Logan. Non che prima d’ora non avesse mai scambiato informazioni per altre, ma in quel caso, oltre a non ottenere nulla in cambio, si sarebbe compromessa.
Non che non si fidasse di lui. Era impossibile non farlo, quell’uomo era una continua sorpresa: non aveva fatto domande, nonostante sapessero entrambi che c’era del non detto tra loro; anzi, aveva capito, proprio come aveva promesso che avrebbe fatto.
Lei, più di tutti, sapeva quanto un’informazione facesse la differenza in quei casi, e sapeva anche che, semmai avesse deciso di aiutarli, le indagini della polizia avrebbero fatto enormi balzi in avanti in poco tempo. Ciò, però, voleva dire uscire dal seminato: doveva trovare Cole Rodriguez, non aiutare a sventare un’organizzazione criminale.
Sospirò, abbattuta.
“Cosa c’è?” Le chiese Maddie, ancora vicino a lei.
Charlie la guardò, quei dolci occhi castani velati di una leggera preoccupazione. “Non so cosa devo fare, Diddi.” Ammise in un sussurro sconsolato.
“Riguardo a cosa?” Maddie, Charlie lo sapeva, avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarla, ma fu costretta a scuotere la testa, non potendo confidarsi come una volta.
“Magari davanti una tazza di tè ti sentirai meglio.” Ne sembrò assolutamente sicura; quindi, la seguì fino alla minuscola sala ristoro.
Sorseggiarono il tè in silenzio e Charlie si chiese, con più serietà delle volte precedenti, il motivo di quel suo rimandare la fase operativa. Non le era mai successo di voler evitare di mettersi in gioco in prima persona.
Ripensò a quanto le era piaciuto, al Gryson’s, sapere di avere Logan con sé; tranne che, questa volta, non poteva di certo chiedere allo sceriffo di accompagnarla.
Sbirciò verso l’altra donna, intenta a immergere un biscotto al cioccolato nel suo tè e un’idea malsana iniziò a prender piede nella sua testa, qualcosa che non avrebbe mai creduto potesse venirle in mente.
Sembrava che Sunlake avesse uno strano effetto su di lei.
Continuò a lanciarle occhiate fugaci, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione dell’altra se davvero avesse osato chiederle una cosa del genere. Proprio come quando erano ragazzine e si trascinavano nei guai dell’altra, Charlie era sicura che Maddie sarebbe saltata ad occhi chiusi giù da una scogliera se solo glielo avesse chiesto.
Ciò che aveva in mente non sarebbe stato pericoloso, quello era certo, ma era ben consapevole che non era nemmeno strettamente necessario e assolutamente imprudente.
Posando la sua tazza sul tavolo, Maddie la riscosse dai suoi pensieri. “Chiedimelo.”
Charlie spalancò gli occhi, stupita. Non aveva pensato ad alta voce, ne era certa.
L’altra sbuffò, appoggiandosi sul tavolo, il mento sulla mano. “Te ne stai lì a soppesarmi, facendoti mille mila film. Chiedimelo e basta.”
Scosse la testa, cercando di levarsi quell’idea folle dalla testa.
Dopo un lungo momento di silenzio, Maddie si raddrizzò, un piccolo broncio sulle labbra. “Davvero non me lo dirai?” Dolci occhi castani cercarono i suoi.
“È una pessima idea.” Le disse Charlie, tentando di convincere sia Diddi sia sé stessa, ma l’altra non sembrava avere intenzione di demordere.
“Hai detto la stessa cosa di quelle montagne russe, anni fa.” Alzandosi dalla sedia, si girò verso il piccolo lavello del cucinino e iniziò a lavare la sua tazza. “Non è una buona idea Diddi, probabilmente vomiteremo.” Disse in una pessima imitazione della voce di Charlie. La guardò da sopra una spalla, le sopracciglia inarcate come a sottolineare la sua domanda successiva: “E poi alla fine è andato tutto bene, non è vero?” Mosse la mano come ad accantonare quelle sue stupide preoccupazioni.
Charlie sogghignò al ricordo. “Tu hai vomitato, però.” Osservò con calma, pregustando la reazione dell’amica.
“Solo perché avevo mangiato troppi hot dog!” Rispose indignata ora come allora, facendola ridere.
Finì il tè in un unico sorso e si alzò, avvicinandosi a lei.
“Ti giuro che stavolta non accadrà.” Promise Diddi in un sussurro speranzoso, gli occhi castani pieni di aspettativa e le mani giunte in preghiera.
Charlie sospirò rassegnata e l’altra iniziò a saltellare sul posto dalla felicità. Nonostante tutto, non poté trattenere un sorriso.
“Va bene, ora calmati.” Le disse mettendole le mani sulle spalle, cercando di placare i suoi saltelli incontrollati. Maddie rimase così, vicino il piccolo lavello della sala ristoro a guardarla, in attesa delle sue prossime parole.
“Deve rimanere un segreto, e dovrai fare esattamente ciò che ti dico senza fare domande. Capito?”
Maddie annuì, piena di entusiasmo. Guardandola, Charlie considerò ancora una volta di fare marcia indietro.
Non sarà pericoloso. Si disse.
La decisione fu presa: “Stasera usciamo, metti il vestito più carino che hai.”
 
Quella sera, parve che ogni singolo aspetto del piano di Charlie sarebbe stato ignorato; eppure, non era poi chissà quale piano complesso, troppo difficile da ricordare.
Charlie aveva individuato il loro obiettivo, un certo Isaac Evans che – da quanto aveva capito dalle intercettazioni – possedeva il magazzino dove veniva depositata la droga; tuttavia, tra i tanti fabbricati che possedeva, era indispensabile individuare quello giusto – censito o no.  
L’uomo, uno dei più piccoli anelli della catena dell’organizzazione di Alan Hill, era solito frequentare un piccolo locale appena fuori Twin Lake City, lo ‘Swing’.
Non aveva informato Maddie di tutto ciò, ovviamente, la donna sapeva solo che avrebbero dovuto incontrare qualcuno, metterlo a suo agio e farlo parlare il più possibile, in particolar modo della sua attività.
C’erano solo poche regole da rispettare, in tutto questo. Innanzitutto, niente nomi. Lei sarebbe stata Susan e l’altra sarebbe stata Claire.
“Non mi piace Claire. Dovremmo trovare qualcosa di più divertente…” Si lamentò Maddie, in macchina.
“Non deve essere divertente, serve solo in caso-”
“Oh mio dio!” Charlie fu interrotta dal gridolino di felicità dell’altra, che iniziò a saltellare sul sedile del passeggero. “Ho avuto un’idea geniale! Possiamo chiamarci come le Charlie’s Angels!” Con la coda dell’occhio la vide mentre la fissava esuberante, in attesa di una reazione da parte sua. “L’hai capita? Perché tu sei Charlie!” E iniziò a ridere a crepapelle.
Non poté fare a meno di ridere con lei. “Diddi, è una cosa seria.”
L’altra non l’ascoltò e continuò come niente fosse. “Io voglio essere Sabrina Duncan e tu puoi fare Kelly Garrett.” Affermò, come se fosse già deciso.
Charlie scosse la testa. Era una pessima idea usare nomi di personaggi di serie tv, ma usare nomi di donne che impersonavano degli agenti segreti? Assolutamente da pazzi. “No, Diddi. Tu sei Claire e io Susan.”
“Va bene.” Disse Maddie imbronciata. “Ma sarebbe stato molto più divertente.”
Decisero un segnale di aiuto – toccarsi due volte il sopracciglio – e uno di ritirata – uno sbadiglio plateale – a esclusivo utilizzo della sola Charlie. Sarebbe stata lei, infatti, ad agire in prima persona, a parlare con Isaac e a decidere quando fosse stato il momento di andar via. Ma in generale, la regola aurea era: comportarsi in modo disinvolto.
Il locale era piccolo e buio, rosse luci soffuse illuminavano l’ambiente e la musica di sottofondo rendeva l’atmosfera fumosa e sensuale. Tavolini neri, tondi, un po’ roccocò, riempivano lo spazio e solo pochi erano occupati, il posto era perlopiù vuoto; pertanto, fu facile per Charlie individuare Evans.
Solo dopo, alla fine di tutto, si rese conto che il suo piano andò completamente a rotoli non appena si accomodarono.
“Ti avevo detto di indossare il tuo vestito migliore.” Osservò Charlie sottovoce, sedendosi ad un tavolo al centro della stanza, ben visibile a chiunque.
Gli occhi di Maddie si spalancarono per la confusione. “Questo è il mio vestito migliore.”
Le sopracciglia di Charlie si inarcarono per l’incredulità e lanciò una seconda occhiata all’abito nero, dal taglio severo, dell’amica. “Sembra tu debba sostenere un colloquio di lavoro.” Commentò trattenendo una risata.
“È quello che ho indossato per il funerale di nonna...” Lo disse come se ciò non avvalorasse la tesi di Charlie che, stavolta, rise sul serio.
Maddie le fece una linguaccia e poi iniziò a guardarsi intorno, come cercando qualcuno. “È già qui?” Le chiese, sembrava iniziasse ad essere nervosa.
Le prese una mano, rendendosi conto di quanto fosse umidiccia. “Rilassati, Diddi.”
Dopo un profondo respiro, le fece un sorriso un po’ traballante.
“Eccolo lì, a quel tavolo.” Charlie indicò verso la sua destra con un leggero cenno del capo, sperando che quell’informazione l’aiutasse a calmarsi ulteriormente.
Si appoggiò tranquillamente allo schienale della sedia, un braccio sulla spalliera e uno mollemente abbandonato sul bracciolo, le gambe accavallate: semplicemente una donna che si godeva una serata con un’amica.
Si accorse, però, che Maddie non aveva smesso di fissare oltre di lei, verso Isaac Evans, e con un piccolo calcio sotto il tavolo, richiamò l’attenzione dell’altra. “Smettila di fissarlo.”
Fulminei, gli occhi di Maddie tornarono nei suoi e le sorrise in modo incerto, come a chiedere scusa.
Ordinarono da bere: un Old Fashioned per Charlie e un Martini per Maddie.
“Agitato, non mescolato.” Non poté fare meno di aggiungere, ridacchiando e Charlie alzò gli occhi al cielo - doveva per forza citare James Bond – ma, dopotutto, era felice che Maddie fosse abbastanza a suo agio da scherzare.
Seguì con lo sguardo il cameriere che, presa l’ordinazione, tornò dietro il bancone a preparare i loro cocktail e quando riportò la sua attenzione a Diddi, la beccò che fissava ancora Evans.
Stavolta, le diede un piccolo schiaffetto sulla mano, per rimproverarla; tuttavia, questo servì solo a distogliere la sua attenzione dall’uomo per i successivi trenta secondi.
Fu normale, quindi, che Isaac si accorse dello sguardo insistente di Maddie su di sé, e non ci mise molto a presentarsi al loro tavolo.
Aveva tre anni meno di loro, alto poco più di un metro e ottanta, aveva un fisico magro e asciutto, capelli chiari e occhi castani, con un naso un po’ troppo grande per il suo viso.
Era un ragazzo carino, in fin dei conti, ma rimaneva pur sempre un poco di buono.
“Buonasera, ci conosciamo?” Chiese a Maddie, in piedi davanti a loro, visibilmente incuriosito.
Dimentica delle regole che avevano concordato – doveva essere Charlie a parlare con lui -, Diddi rispose: “No!” E subito si affrettò a giustificarsi: “Scusa, mi ricordi un mio caro amico.” Arrossì, ridacchiando timidamente.
Senza chiedere il permesso e senza distogliere gli occhi da Maddie, l’altro si sedette. “Mi chiamo Isaac, comunque.” Le tese la mano.
“Io sono… uhm… Sabrina e lei è… uhm…Kelly.” Charlie le lanciò un’occhiataccia che l’uomo non parve notare. Così come non notò l’esitazione di Diddi sui loro nomi - o comunque l’attribuì alla timidezza - e non sembrò nemmeno essere un fan delle Charlie’s Angels. Non parve accorgersi di Charlie, seduta a quello stesso tavolo. Sembrava come ipnotizzato da Maddie.
Il ragazzo sorrise, caloroso. “È un vero piacere Sabrina. Posso offrirti da bere?” Al cennò di assenso di lei, si alzò per avvicinarsi al bar.
“Ti avevo detto niente Charlie’s Angels.” Osservò in tono piatto, prendendo un sorso del suo drink.
Maddie le rivolse ancora una volta un sorriso di scuse, giocherellando con il suo bicchiere. “Mi sono agitata.”
Tuttavia, ciò che successe dopo fu stupefacente e Charlie – come si rese conto a fine serata – si divertì come mai prima in una missione sotto copertura.
Quando l’uomo tornò al tavolo, infatti, iniziò un’amichevole conversazione con loro – perlopiù con Maddie in realtà – e così scoprirono che Isaac si era da poco lasciato con la sua ragazza, con la quale era stato due anni, e che questa assomigliava molto a Diddi. Raccontò di come vivesse ancora con sua madre e di come la cosa infastidisse profondamente la sua ex; tuttavia, non se la sentiva di lasciare la donna, poiché era anziana e aveva ancora bisogno di lui, soprattutto per pagare le bollette e le spese mediche.
Fu lì che Charlie, che era stata in silenzio fino ad allora, si intromise: “E di cosa ti occupi, Isaac?”
Quella domanda sembrò ricordare a Maddie il loro proposito per quella sera, perché d’improvviso la donna si fece più dritta e più attenta e iniziò a subissare il poveretto di domande.
Da parte sua, l’uomo non sembrò affatto restio a parlare del suo lavoro; ovviamente, non disse quali favori facesse ad Alan Hill, ma sembrò davvero lusingato dall’interesse della sua amica.
Aveva ereditato l’attività del padre, che a sua volta l’aveva ereditata da suo nonno, e la ditta di famiglia era stata una delle più importanti della contea di Twin Lake per la produzione e la lavorazione del legno. Ed ovviamente, per tutto ciò, erano necessarie strutture per lo smistamento e la conservazione.
“Ho sempre ammirato gli uomini tanto intraprendenti da gestire una propria attività. Tu no, Kelly?” Maddie pronunciò quel nome con troppa enfasi e si girò a guardare Charlie per sorriderle complice. Avrebbe potuto benissimo farle anche l’occhiolino, già che c’era.
Lei, però, ricambiò il sorriso e, stranamente, non le importò. Si sarebbe aspettata di rimanere oltremodo infastidita da quella inottemperanza delle sue regole ma, invece, trovò tutto ciò stranamente rinfrescante.
Neanche a dirlo, l’uomo fu decisamente ringalluzzito da quell’osservazione. “Siamo una delle aziende più grandi di tutto il paese.” Si pavoneggiò, e Charlie dovette soffocare una risata nel suo bicchiere a quell’esagerazione assurda.
Quella degli Evans non era stata l’azienda più grande della contea nemmeno quando la dirigeva il nonno di Isaac. Figurarsi del paese. La concorrenza e la crisi economica, poi, si erano fatte sentire, ed ora, sotto la malagestione del nipote rischiavano di fallire.
Lanciò uno sguardo a Maddie che si sporse in avanti sul tavolo, assolutamente concentrata sul biondino.
“Incredibile.” Commentò, genuinamente colpita da quella vanteria. “Devi possedere diversi impianti.” Constatò pensierosa. “Mio cugino dirige un’azienda di-” Il calcio di Charlie sotto al tavolo, la interruppe.
Niente informazioni personali.
Isaac batté le palpebre perplesso a quella brusca interruzione, e quando fu chiaro che Maddie non avrebbe continuato, ne approfittò: “Si, in effetti ho sei depositi funzionanti.” Dichiarò, orgoglioso.
Bingo. Erano due di troppo, rispetto al numero che risultava al catasto.
Charlie si rilassò sulla sedia e si godette il suo Old Fashioned, il sapore zuccheroso dell’arancia sulla lingua, mentre continuava ad ascoltare con divertimento la conversazione tra i due.
In quegli anni aveva avuto a che fare con ogni sorta di persone: colletti bianchi, delinquenti, milionari, ereditiere, anche un prete una volta; e, tra tutti, Isaac Evans era la persona più carina che avesse incontrato. Evidentemente, anche la criminalità era vissuta diversamente da quelle parti.
L’uomo, infatti, fu tranquillo e piacevole per tutta la serata; non cercò di allungare le mani, non le sminuì, non ostentò la sua posizione - o roba simile – e non cercò di fregarle in alcun modo. Anzi, fornì gentilmente anche i punti in cui sorgevano i suoi adorati depositi.
Per tutto il tempo, poi, Charlie rimase sé stessa. Non dovette far la parte della svampita che tanto sembrava piacere agli uomini. Rimase a guardare, con suo gran divertimento, una Maddie Foster che faceva il terzo grado ad Isaac Evans, ignara che l’uomo sembrava sempre più innamorarsi di quel suo dolce interesse per lui.
Non le importò nemmeno quando Diddi non si accorse – per ben quattro volte – del suo plateale sbadiglio, che avrebbe dovuto sancire la fine di quella serata.
Alla fin fine, andò tutto per il verso giusto.

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Capitolo 9
*** CAPITOLO NOVE ***


CAPITOLO NOVE
Novembre lasciò il posto a dicembre, sancendo l’inizio della stagione festiva a Sunlake.
Il primo del mese veniva considerato il giorno della fondazione del paese e, per tradizione, a tutti bambini veniva lasciato il compito di addobbare i rami più bassi – lasciati spogli per l’occasione – dell’abete al centro della piazza. Ovviamente, non potevano mancare dolci di ogni tipo e bevande calde per accompagnare il pomeriggio.
Charlie aveva sempre adorato quella festa e, notò con piacere, nulla sembrava esser cambiato poi molto: la signora Peterson litigava ancora con la signora Phillips per il posto d’onore della loro torta sul tavolo del buffet, Cameron Harris intratteneva il pubblico strimpellando malamente la sua chitarra, Oliver Davis si assicurava in modo ossessivo che la brocca del tè fosse sempre piena e Artur Foster si abbuffava di dolcetti - cercando, inutilmente, di non farsi scoprire da sua moglie o sua figlia.
Tutt’intorno, i bambini giocavano a rincorrersi, lasciando perlopiù alle mamme il compito di addobbare l’albero per loro.
Il fatto che, in tredici anni, certe cose non fossero cambiate era stranamente confortante e Charlie si ritrovò ad appendere palline natalizie all’abete della piazza.
Non appena l’aveva vista arrivare, infatti, Jake l’aveva trascinata verso gli scatoloni pieni di decorazioni, lasciati a disposizione di chiunque desiderasse aiutare ad addobbare l’Albero di Natale. Tuttavia, ben presto, aveva perso interesse per quel compito monotono e l’aveva lasciata da sola, per andare a giocare con gli altri lì vicino. Non che a Charlie dispiacesse, tutt’altro.
Era impossibile non sentirsi a proprio agio, con quell’atmosfera piena di gioia.
Inoltre, lo sguardo che le scorreva addosso, lasciando una scia bruciante su ogni centimetro del suo corpo, le forniva tutto il calore di cui aveva bisogno – se non di più. Fece finta di niente, all’inizio, continuando ad appendere gingilli scintillanti; finché, il peso di quegli occhi su di lei divenne impossibile da ignorare.
Quando si voltò, trovò, senza esitazione, le iridi scure dello sceriffo.
Sembrava ci fosse una forza tra loro che li attraesse l’uno all’altra, ed era impossibile non soccombervi. Era proprio come la gravità: inevitabile.
In piedi, vicino ai tavoli delle bevande, Logan annuiva distrattamente a qualsiasi cosa il sindaco Young stesse dicendo. Lo vide prendere un sorso dalla tazza fumante che aveva in mano, senza distogliere l’attenzione da lei.
Era chiaro fosse intento ad osservarla già da un po’, e quella realizzazione non fece altro che provocarle un delizioso brivido lungo la schiena.
Charlie si guardò velocemente intorno, con la solita discrezione che le apparteneva, alla ricerca d’un segno che, oltre a lei, anche qualcun altro avesse notato quel suo sguardo insistente. Ma non ne trovò, e il motivo le fu improvvisamente chiaro: sembrava tenesse d’occhio Jake, lì vicino.
Tornò a Logan che alzò un sopracciglio in una tacita domanda, il cui significato non poté essere più chiaro per lei: Ti diverti?
Gli sorrise prima di annuire lentamente, in un gesto quasi impercettibile. Abbassò la testa e giocherellò con le decorazioni che aveva ancora in mano; ad un osservatore esterno sarebbe sembrata solo una donna concentrata sul suo compito, ma da sotto le ciglia, Charlie non interruppe quel loro contatto visivo.
Mosse solo le labbra quando le disse: sei bellissima.
Quante volte le avevano detto quelle esatte parole? Da parte di Logan, però, le parvero vere come mai prima.
Charlie fece scivolare lo sguardo sull’abete di fianco a lei, per poi riportarlo su di lui, con fare interrogativo.
Vieni ad aiutarmi? Gli chiese in quel modo.
Non esitò, lo vide scusarsi con il sindaco e andarle incontro con passo sicuro. Vestito casual, in jeans e giacca a vento, con l’immancabile Stetson in testa, le tolse il fiato e il suo cuore iniziò a battere furioso.
Dovette reprimere la sua delusione quando le fu difronte e si limitò ad un sorriso, per salutarla. D’altronde, non poteva di certo baciarla in mezzo alla pubblica piazza.
Non fu difficile ricordare quel dettaglio, infatti, e se anche si fossero dimenticati del mondo intorno a loro, ci avrebbero pensato i bravi cittadini di Sunlake a rammentarglielo: Logan non riuscì nemmeno a dire una parola, che subito furono interrotti.
La mano della signora Lews si posò sull’avambraccio dello sceriffo, e la donna rivolse un timido sorriso di scuse a Charlie. “Hai un minuto, caro?” Chiese, incerta.
I signori Lews abitavano nella casa difronte a quella di suo padre. Il loro giardino vantava le fioriere più belle di tutta Sunlake e, nonostante fosse la moglie ad avere il pollice verde e a prendersi cura delle piante, il signor Lews era oltremodo orgoglioso e assurdamente geloso di quei fiori.
In ogni caso, la donna era sempre stata gentile con Charlie. Ricordava che, quando erano piccole, era solita portare a lei e Diddi i suoi biscotti appena sfornati, mentre giocavano lungo la strada.
Logan sorrise, rassicurante. “Ho già parlato con Hannah, mi ha informato.” La precedette, rivolgendole uno sguardo comprensivo. “Domani mattina verrò di persona a parlargli.”
Per qualche motivo, quelle parole e lo sguardo impensierito della donna, le fecero venire in mente l’episodio a cui aveva assistito quella mattina dalla finestra della cucina: in piedi sulla veranda, vestito di tutto punto, una giacca di tweed marroncina, pantaloni abbinati, e un fucile da caccia in mano, il signor Lews le era sembrato appena uscito da un film western.
Aveva osservato con interesse la scena, mentre beveva il suo caffè: il fucile era un Winchester, e Charlie si era chiesta dove diavolo l’uomo avesse trovato quell’affare, si sarebbe stupita se avesse potuto ancora sparare. Era stato piuttosto lampante, poi, che non avesse idea di come si usasse: con la canna del fucile appoggiata sul piede, l’uomo aveva cercato, senza successo, di aprirlo per poterlo ricaricare.
La signora Lews annuì alle parole dello sceriffo. “Ti ringrazio tanto, Logan.” Il tono pieno di gratitudine. Poi si rivolse a Charlie, regalandole un sorriso caloroso che le increspò gli occhi. “È davvero bello riaverti qui, tesoro. Non ho mai visto Stephen più felice.” E si sporse a baciarle una guancia, prima di allontanarsi.
Charlie ebbe giusto il tempo di mormorare un debole ringraziamento, troppo perplessa da quelle ultime parole; tuttavia, si scrollò in fretta di dosso quella confusione e si rivolse a Logan. “Ho visto il signor Lews con un fucile, stamattina.” Lo informò.
Lui sospirò, affatto sorpreso, e le prese una delle palline natalizie che aveva in mano, prima di parlare. “Si, è per la storia del procione.”
“Un procione?” Non ne aveva mai visto uno, da quelle parti.
“Dice che rovina i fiori di sua moglie.”
Quasi le scappò una risata di incredulità. “E vuole sparargli con un Winchester del 1873?”
La guardò per un lungo momento, forse sorpreso che lei avesse riconosciuto il modello, prima di scuotere la testa, rassegnato. “È tutto l’anno che si lamenta di quel dannato procione. Pensavo di averlo convinto a lasciar perdere, perché per un po’ non ha più tirato fuori quel maledetto affare.” Si girò ad appendere la piccola pallina colorata al ramo dell’abete. “Non ha idea di come si usi. Credo solo che voglia pavoneggiarsi un po’. Figuriamoci se sparerebbe mai a un procione.” Sbuffò a quell’idea ridicola.
“Ma sua moglie è preoccupata...” Concluse Charlie per lui, affiancandolo. Si alzò in punta di piedi per raggiungere un ramo il più in alto possibile.
“Come tutti, del resto. Ma quel fucile è completamente scarico e apparteneva a suo nonno. Il signor Lews ha tutto il diritto di tenerlo, almeno finché non spara a qualcuno…” Borbottò quelle ultime parole, per niente contento.
Charlie non disse nulla; rifletté, invece, sul fatto che, probabilmente, da quelle parti non ci fossero nemmeno i procioni.
Logan si schiarì la gola, richiamando la sua attenzione. Improvvisamente, sembrava stranamente insicuro, voleva chiederle qualcosa ma sembrava non sapesse da dove iniziare: le mani nelle tasche dei jeans, gli occhi che guardavano dappertutto tranne che verso di lei; lo avrebbe trovato adorabile se solo non avesse pensato al peggio.
Erano passati due giorni da quando aveva mandato le informazioni che aveva raccolto con Maddie a Clark. Aveva usato – senza permesso – il telefono non rintracciabile e aveva sperato che, contattando lo sceriffo di Twin Lake, Logan non si sarebbe chiesto come mai, dopo averne parlato con lei, avessero ricevuto quell’aiuto tanto opportuno.
“Stasera Jake dorme da Noah.” Annunciò, assorto dagli addobbi che aveva appena appeso.
Troppo concentrata sul sollievo che la pervase, Charlie non si rese subito conto dell’implicazione di quelle parole; anzi, le interpretò come un goffo tentativo di cambiare argomento. “Oh, sì. Me l’ha detto prima, sembrava molto felice.” Osservò, decisamente rilassata dal tono di quella conversazione, e di chinò a prendere altre decorazioni dallo scatolone lì vicino. Quando gliene porse una, però, lo vide toccarsi nervosamente il cappello.
Si guardò intorno, prima d’avvicinarsi d’un passo a lei. Aprì la bocca per parlare, ma sua madre fu più veloce di lui.
Sylvie Moore, si affiancò a suo figlio, visibilmente su di giri; non sembrò nemmeno accorgersi di Charlie, presa dal suo entusiasmo. “Tesoro, Eleanor mi ha appena detto che le farebbe molto piacere se la portassi fuori a cena. Che ne pensi?” Non gli lasciò il tempo di rispondere, perché continuò: “Ci siamo messe d’accordo per la prossima settimana, sono sicura che andrete d’accordo. È una così cara ragazza…”
Mordendosi il labbro inferiore, per soffocare la risata che minacciò di travolgerla alla vista della faccia costernata dell’uomo, Charlie riprese il suo lavoro.
“Mamma, a proposito di questo: non ho intenzione di-”
Ma la donna non gli prestò attenzione, fu distratta da qualcuno in lontananza. “Non è Arthur quello che si sta ingozzando dei miei dolcetti al miele?” Charlie si voltò appena in tempo per vederla assottigliare lo sguardo in direzione del buffet. Con le mani sui fianchi, in una posa severa, come di una madre che ha trovato il figlio a fare qualcosa che non deve, iniziò ad allontanarsi borbottando: “Quell’uomo! Alla sua età dovrebbe tenersi lontano da tutto ciò che contiene zucchero…”
Charlie non poté fare a meno di ridacchiare.
“Immagino che dovrò fare una bella chiacchierata con lei.” Commentò lui, non troppo imbarazzato, guardando la madre allontanarsi.
“Certo.” Convenne lei. “Buona fortuna.” Ma lo disse portandosi una mano alla bocca, per contenere la sua ilarità. Fu evidente, quindi, che non credesse affatto sarebbe riuscito a farla desistere.
“Sicuramente ne avrò bisogno.” Brontolò, mezzo imbronciato, e stavolta Charlie rise davvero.
In realtà, trovava davvero dolce quel modo che aveva di lasciar fare alla donna. Come le aveva già detto, era soprattutto per lei che Logan aveva deciso di trasferirsi a Sunlake, ed era chiaro che fosse ben consapevole che sua madre volesse solo il suo bene. Pertanto, non aveva mai voluto recarle dispiacere e aveva sempre accettato quegli inviti, anche se malvolentieri.
Lo sguardo divertito di Logan incontrò nuovamente il suo. “C’è una cosa che vorrei chiederti…” Riprese il discorso, molto meno nervoso di prima.
Ma poteva mai finire? Ovviamente no.
“Ehi, Royce!” La salutò Luke, avvicinandosi a loro.
Stavolta, però, lo sceriffo non nascose l’irritazione a quell’ulteriore interruzione e si voltò verso il suo vice. “Cosa c’è?”
Al suo tono esasperato, l’altro sollevò le sopracciglia, con curiosità. “Sto interrompendo un litigio tra amanti?”
Ebbero due reazioni diverse a quelle parole: Charlie spaziò con lo sguardo per tutta la pizza, cercando un segno che qualcuno avesse sentito, mentre Logan si limitò a sbuffare: “Abbassa la voce, santi numi!”
Il vicesceriffo alzò le spalle, con indifferenza. “Nessuno fa mai caso a quello che dico.” Osservò, con un sorriso ironico. “Comunque, non capisco il perché di tanta segretezza.”
Charlie non seppe come rispondere a quella domanda implicita, fu Logan a cavarla d’impiccio: “Il Maggiore Royce non approva.” Lo informò diplomaticamente, rivolgendole un sorrisetto furbo.
Luke fischiò ammirato a quelle parole. “Pensavo che, avere come genero lo sceriffo, fosse il sogno di ogni padre.”
Era scontato pensare che la causa di quel dissenso fosse Logan, e Charlie cercò di mascherare il suo disagio, riprendendo a rovistare nello scatolone degli addobbi. Coprì quell’emozione con uno spesso strato d’indifferenza e quando riportò l’attenzione sui due uomini, incontrò due iridi scure perfettamente consapevoli di quello che le passava per la testa.
Logan non disse nulla, però, si limitò a sospirare, come sconfitto. “Stavo cecando di chiedere una cosa a Charlie, prima che arrivassi.”
“Oh, certo.” Luke annuì, serio. “Procedi pure, capo.” E gli fece cenno d’andare avanti, senza cogliere il suggerimento dell’altro. Rimase lì, a guardarli.
“È una cosa personale.” Sottolineò divertito.
Sembrò che prima d’allora non gli avesse mai chiesto privacy, perché Luke parve davvero stupito da quel congedo. “Vuoi che me ne vada?” Chiese incredulo, come un amante rifiutato.
Logan lo guardò, le mani sui fianchi, senza dir niente.
“D’accordo.” Acconsentì, esageratamente sconsolato. “Vado a cercare Maddie, lei sicuramente apprezzerà la mia compagnia.” Annunciò, impettito, allontanandosi verso Diddi, impegnata a rimproverare un afflitto Arthur Foster.
Charlie porse uno degli addobbi che aveva in mano - una pallina argentata con tanti piccoli fiocchi di neve – a Logan e solo quando entrambi furono rivolti verso l’albero, lui parlò.
“Allora, stavo pensando, magari potremmo uscire stasera, se ti va…” Propose a bassa voce.
Charlie si morse il labbro inferiore per costringersi a trattenere il sorriso gigante che minacciava di esplodere.
“E dove mi porteresti?” Chiese, voltandosi verso di lui.
L’uomo scosse la testa, gli occhi che brillavano di una luce ardente. “È una sorpresa.”
Una sorpresa.
Per ovvi motivi, Charlie odiava le sorprese; eppure, a quelle parole non riuscì più a contenere la sua felicità e per trattenersi dall’alzarsi in punta di piedi, buttargli le braccia al collo e baciarlo lì davanti a tutti, si infilò le mani nelle tasche del cappotto.
“Questa sorpresa richiede un abbigliamento particolare?”
“Jeans e stivali, obbligatori.” Rispose prontamente, rivolgendole un sorriso obliquo. “Sempre che tu dica di sì.”
“Potrei mai dirti di no?”
 
Charlie superò le due ante della porta stile saloon dello Spurs Night, meravigliata. Enormi teschi d’animale – sperava finti – erano appesi da ogni parte, e cactus in vaso ricoprivano ogni superficie possibile. Il soffitto a volta faceva sembrare il locale anche più ampio, ed ingigantiva il bancone che copriva un’intera parete. Era così grande che sembrava venisse usato come palcoscenico, a giudicare dai tre ballerini che presentavano le coreografie per i balli, lì sopra.
Musica country fuoriusciva a tutto volume dalle casse dello stereo ed ogni singola persona – uomo, donna o bambino che fosse – indossava un cappello da cowboy.
Tutti, con l’eccezione di Charlie.
Non che il suo abbigliamento fosse inadatto. Aveva indossato i jeans e gli stivali, come le aveva detto Logan, e sopra sfoggiava uno dei suoi top preferiti: agganciato dietro al collo, scendeva morbido verso il basso fino a tuffarsi nei pantaloni, in due triangoli che formavano una scollatura vertiginosa. Nonostante ciò, il seno rimaneva ben coperto, solo un principio di rotondità era lasciato alla vista. Il colore, poi, blu elettrico, le risaltava gli occhi.
In ogni caso, tra quella folla, senza cappello la sua mise risultava incompleta.
Ma Charlie era troppo ammaliata da ciò che accadeva sulla pista, per badarvi. Appoggiata alla balaustra in legno che separava la zona ristorante da quella danzante, rimase incantata al vedere quel mare di gente che si muoveva perfettamente a ritmo con i ballerini sul bancone. Era uno spettacolo strabiliante e sentì l’eccitazione farsi prepotentemente strada nel suo corpo. Merito della calca e dell’entusiasmo che permeava l’aria. Merito della musica. Ma, soprattutto, merito dell’uomo che l’accompagnava.
Rapita dall’atmosfera del locale, non aveva fatto caso a ciò che Logan teneva in mano. Solo quando si fermò dietro di lei – ancora in piedi a guardare gli altri ballare – e le mise davanti la scatola rotonda, dorata con un fiocco rosso in cima, si chiese come avesse fatto a non notarla.
“Ti ho preso una cosa.” Le disse all’orecchio, per poi depositarle un bacio sulla spalla scoperta.
Battendo le palpebre stupita, Charlie afferrò la scatola con mani tremanti e si girò a guardarlo.
Un sorriso dolce curvò la bocca di Logan, che la guardò in attesa che aprisse il suo regalo.
Un regalo. Erano sette anni – da quando aveva litigato furiosamente con suo padre – che non ne riceveva uno. Logan, invece, aveva pensato a lei. Era quello che significava, a prescindere da cosa ci fosse dentro: l’aveva pensata.
Abbassò gli occhi sul pacco, per nascondere l’attimo di vulnerabilità che quella sorpresa le causò. Deglutì con difficoltà mentre scioglieva il fiocco rosso e toglieva il coperchio.
Alzò la testa di scatto alla vista di ciò che conteneva.
Si portò una mano al cuore e, piena d’emozione, mormorò: “Logan.”
Probabilmente l’uomo non la sentì, a causa della musica, ma il suo sorriso si allargò.
Charlie non riuscì a controllarsi e gli butto le braccia al collo, stringendolo a sé più forte che poté, come volendo trasmettergli tutta la sua emozione in quel solo abbraccio. “Grazie. È il regalo più bello che abbia mai ricevuto.”
Quando lo lasciò andare, gli occhi di Logan trovarono i suoi e, scostandole una ciocca dal viso, le baciò la punta del naso. “Pensavo di aspettare Natale, ma immagino che questa fosse un’occasione migliore.”
Il sorriso che gli rivolse fu raggiante. “Hai fatto bene.” Tirò fuori il suo nuovo cappello da cowboy color cognac, con adorazione, e se lo mise in testa. “È perfetto. Grazie.” Ripeté.
“Prego, tesoro.” Le prese la mano, intrecciando le loro dita, e fece strada verso il loro tavolo. Quel semplice contatto – per loro solitamente proibito in pubblico – le sembrò nuovo ma anche incredibilmente familiare.
“Non sapevo ballassi.” Ammise Charlie, dopo aver posato i loro cappotti e la borsa; i suoi fianchi che già si muovevano al ritmo della musica, impaziente di scendere in pista.
Logan scosse la testa. “Infatti non sono capace.” Sorrise all’espressione confusa sul viso di lei, che si guardò attorno come a sottolineare dove si trovassero. “Guardandoti, l’altro giorno, ho pensato che mi sarebbe piaciuto provare con te.”
E non si sbagliava, gli piacque davvero. Ballarono ogni singola canzone quella notte, e si divertirono un mondo.
E se per lei era semplice adattarsi ad una nuova coreografia, per l’uomo era impossibile. Logan tentava di replicare tutti i passi dei ballerini sul bancone e di tenere il tempo, ma sembrava non possedesse un briciolo di ritmo in tutto il corpo. E Charlie scoprì che, oltre ad essere incredibilmente determinato, Logan non si prendeva nemmeno troppo sul serio e non era affatto infastidito – anzi, tutt’altro - dalle sue risate.
Lo trovò estremamente affascinante.
Di solito – come era successo anche al Gryson’s – Charlie odiava ballare in coppia e i balli di gruppo non prevedevano che le mani di sconosciuti si facessero audacemente strada su di lei; tuttavia, ironia della sorte, quella sera non si sarebbe di certo lamentata ad avere le mani di Logan su di sé.
Per fortuna, come ogni serata che si rispetti, anche se pochi, ci furono i lenti e, avvolta dal profumo di lui, a Charlie non importò che, nemmeno in quel caso, l’uomo non riuscisse a tenere il tempo.
Si abbandonò a Logan e al ritmo di qualunque musica pareva percepisse.
“Adoravo ballare quando ero piccola. Ricordo che, con Diddi, inventavamo coreografie su qualsiasi canzone capitasse.” Gli confidò e sorrise a quel ricordo felice. Fece scivolare le mani sul suo petto, su fino alle spalle, godendosi la sensazione dei muscoli al di sotto della camicia. Gli allacciò le braccia intorno al collo e si allungò per avvicinarsi al suo orecchio. “Ultimamente l’ho odiato, sai?”
Logan si ritrasse un poco, gli occhi che cercarono quelli di lei. Fece per dire qualcosa, ma Charlie lo zittì con un leggero bacio a stampo. E così, sulle sue labbra, finì: “Ma qui, insieme a te, mi sono ricordata perché mi piacesse tanto.”
Non si accorse nemmeno che smisero di muoversi, quando lui le spinse indietro la testa e la baciò.
Le labbra di Charlie si schiusero subito, pronte ad accoglierlo.
Si inarcò all’indietro, quando la mano di Logan le si posò sulla schiena per attirarla a sé, e sentì i seni premersi contro il suo petto. L’attrito con il tessuto sottile del suo top la fece rabbrividire di piacere e avrebbe tanto voluto sentire il calore della pelle di Logan contro la sua, senza barriere a dividerli.
Fece scorrere le mani sulla sua nuca, fino a tuffarsi tra i suoi capelli, e lo tirò a sé assecondando ogni suo movimento; subito, Charlie si sentì consumare dal desiderio.
Nemmeno quando quella musica dolce e sensuale finì, per far posto ad una più veloce e ritmata, si separarono. In fin dei conti, tutto ciò che volevano era poter stare così: l’una nelle braccia dell’altro, lontani dalle chiacchiere di paese.
Per un momento, Charlie immaginò che fossero soli e che quella fosse la sua vita. Che in realtà stavano ballando nel salotto di casa sua, a migliaia di chilometri di distanza.
Casa. Non era mai stata più vicina a casa prima d’allora.
Immaginò come sarebbe stato poter abbracciare quell’uomo senza doversi giustificare con nessuno. Poterlo baciare quando e dove voleva, solo perché sì.
E sentì il bisogno di perdersi in lui, finché non si sarebbe più potuto distinguerli l’uno dall’altro.
Charlie interruppe quel bacio famelico, pieno di sogni e promesse; e subito i loro occhi si ritrovarono.
“Portami a casa, Logan.” Lo baciò. “Portami a casa.”
 
E così fece.
Non fu come nei film, però: non entrarono in casa sbattendo la porta e baciandosi furiosamente, incespicando, presi dalla frenesia di togliersi i vestiti di dosso.
Il viaggio in macchina spezzò quel momento, mitigando la loro urgenza e lasciando solo l’aspettativa a permeare l’aria.
Perciò, una volta che varcarono la soglia, levandosi il cappotto, Logan le chiese: “Vuoi una tazza di tè?”
Charlie annuì e lo osservò con calma, mentre si dirigeva verso l’elegante cucina ad angolo che si affacciava sul soggiorno.
Si guardò intorno, curiosa. Lo spazio era piccolo ed accogliente, abbastanza per ospitare il salotto e la sala da pranzo. L’arredamento era molto femminile - sicuramente merito di Sylvie – e moderno. Il parquet chiaro, le pareti bianche e i pensili della credenza creavano un godibile contrasto con il verde più scuro del divano a due posti e il beige della poltrona difronte.
Sul tappeto, in un angolo, erano raggruppati i mattoncini delle costruzioni, evidente indizio – se non fossero bastate le diverse foto incorniciate - della presenza di un bambino in quella casa.
Seguì Logan in cucina e si soffermò ad ammirare i disegni appesi al frigorifero.
Ce ne fu uno in particolare che colpì la sua attenzione: raffigurava una donna – era evidente da come Jake aveva disegnato le labbra, rosse e piene, e gli occhi colmi di ciglia – in piedi in quella che sembrava una foresta. Sotto il cappello a punta, da strega, i capelli gialli le arrivavano fino alle spalle.
Era lei.
Fu sopraffatta dall’emozione. Se, mesi prima, qualcuno le avesse detto che si sarebbe trovata sull’orlo delle lacrime a rivedersi su un disegno appeso al frigorifero di un uomo, probabilmente sarebbe scoppiata a ridere.
“Uno splendido ritratto, non è vero?” La richiamò alla realtà la voce di Logan.
Non si voltò subito verso di lui, continuò ad ammirare quel disegno per lei assolutamente magnifico. “Si.” Sussurrò.
Tuttavia, non appena i suoi occhi si posarono sull’uomo appoggiato vicino i fornelli, sentì le sue sopracciglia inarcarsi verso l’alto.
Le spalle larghe tiravano il tessuto della camicia azzurra che indossava, e fu evidente il suo tentativo di rilassarsi quando prese un profondo respiro.
“Sono un po’ nervoso.” Ammise, passandosi una mano tra i capelli scuri.
Charlie non si mosse, rimase in piedi, ad un passo da lui. “Non c’è motivo, siamo solo io e te.”
Logan le sorrise, e si appoggiò all’indietro sul bancone.
Non la guardò quando disse: “È passato un bel po’ di tempo per me.”
“Anche per me.” Gli confidò piano, e a quelle parole gli occhi di Logan trovarono di nuovo i suoi.
Era la verità, ovviamente.
Nel corso degli anni, Charlie aveva avuto sempre e soltanto storie fugaci, prive di significato; c’erano stati uomini diversi in città diverse, ma non aveva mai avuto una vera relazione con nessuno di loro. Non aveva avuto tempo né interesse per cose del genere.
Ad un certo punto, poi, non avrebbe saputo dire quando, aveva smesso di accettare appuntamenti e aveva preferito arrivare dritta al sodo; finché, non aveva perso interesse anche per il sesso.
Si era dedicata solo al lavoro, allora, ma poi anche quello non le aveva più regalato le stesse emozioni di una volta. Sembrava mancasse sempre qualcosa.
Tuttavia, le sue parole non sembrarono tranquillizzare l’uomo davanti a sé, che scosse la testa. “Non sono pochi mesi, Charlie.”
“Quattro anni.” Quelle due parole lo sorpresero, e Charlie annuì alla domanda inespressa che gli lesse in viso: davvero?
Gli si avvicinò, allungò una mano e gli accarezzò una guancia. “Ti manca?” Gli chiese. Non c’era accusa nella sua voce, ma solo gentilezza e comprensione.
Sapevano entrambi a chi si riferisse: alla madre di Jake, di cui Logan – Charlie se ne era accorta – non parlava mai.
Non esitò, quando rispose: “No.” E quella sillaba le restituì il fiato che non si era accorta di star trattenendo.
La mano di Logan le si posò sul fianco, e chiuse gli occhi quando le loro fronti si toccarono. “Credo che, ad un certo punto, l’unica cosa che ci tenesse insieme fosse Jake.” Sospirò. “Poi, nemmeno più quello.”
Al fischio della teiera, la lasciò andare e prese due tazze dalla credenza, preparò il tutto in silenzio e le porse la sua. Rimase a guardare assorto il suo tè; finché, in un sussurrò appena udibile, le confessò: “Ci ha lasciati con tanta facilità che, a volte, mi chiedo se non possa diventare anche io come lei: un giorno mi sveglierò e penserò d’aver sacrificato la carriera per mio figlio.”
“È impossibile.” Quella parola, pronunciata con assoluta e incrollabile certezza, ebbe il potere di rincuorare Logan. Il fatto che qualcun altro – ed in particolare Charlie - lo ritenesse uno scenario completamente assurdo lo tranquillizzò e, prima d’allora, non si era reso conto di quanto ne avesse bisogno.
Tuttavia, Charlie continuò, ignara. “Se c’è una cosa che so di te, Logan Moore, è questa: ami tuo figlio, più di ogni altra cosa. E non c’è niente di più bello che vedervi insieme.” Non parve far caso alla reazione che quelle parole innescarono nelle iridi scure difronte a lei. Andò avanti, infervorandosi sempre di più per quella paura ridicola, iniziando a pungolarlo sul petto con l’indice: “Credi che Jake debba essere tutto e solo il tuo mondo? Pensare al lavoro non ti rende un padre degenere, così come pensare a qualsiasi altra cosa che ti renda felice. Fidati, non hai idea di come sia un genitore snaturato. Ne ho visti parecchi e se solo potessi-”
Per fortuna, le labbra di lui interruppero quel torrente di parole, prima che potesse aggiungere qualcosa di cui si sarebbe pentita.
Logan sorrise sulla sua bocca. “Cielo, donna. Ho detto a volte.” La prese in giro, ma con una luce riconoscente nello sguardo.
Charlie gli diede uno schiaffetto giocoso sul bicipite, ed assecondò il suo desiderio di cambiare argomento. “Sei ancora nervoso?” Chiese, riprendendo il discorso principale.
Scrollò le spalle, in un gesto non molto convinto.
Lei posò la tazza, gli prese la mano e se la porto sul petto, proprio sopra il cuore. “Lo senti?” Era impossibile che non si accorgesse di quel martellare impazzito. “Fa così ogni volta che mi guardi.”
Si avvicinò, alzandosi in punta di piedi per raggiungere le sue labbra e le braccia di lui la circondarono. Si guardarono negli occhi, prima che le loro bocche si trovassero.
Solo con quel bacio, le fece venire la pelle d’oca.
Aveva paura di poter rovinare tutto? Beh, era davvero impossibile.
Fu circondata dal suo calore e buttò la testa all’indietro quando Logan lasciò le sue labbra per baciarle il mento e farsi strada giù, fino al collo. Con l’indice, le tocco la pelle lasciata scoperta dalla scollatura, all’altezza dei jeans. Iniziò a risalire verso l’alto, fermandosi a solleticarle l’ombelico, facendola ridacchiare. Si spinse più su, fino all’avvallamento tra i suoi seni e, sempre con la punta del dito, ne segui le curva, prima di spingersi al disotto della stoffa.
Charlie gemette alla scarica di piacere che quel semplice tocco le provocò.
“Sei pazzo, se credi d’essere arrugginito.” Ansimò, senza fiato.
Logan rise nell’incavo del suo collo e la baciò teneramente lì, prima di tirarsi indietro a guardarla. “Mi sento un po’ pazzo, ultimamente.” Mormorò.
I loro occhi non si lasciarono. Non mentre Charlie si portò le mani dietro la nuca, non quando aprì il gancio che teneva il top al suo posto e nemmeno quando questo cadde, lasciandola esposta al suo sguardo.
Perciò, riuscì perfettamente a vedere la tempesta infuriare in quelle iridi scure.
Si ritrovò improvvisamente sul bancone della cucina, Logan tra le sue gambe e le sue mani a risalirle lungo i fianchi nudi, lentamente. Prendendosi il suo tempo. Assaporando ogni attimo.
“Levati la camicia, cowboy.” Ordinò lei, in un sussurro esigente, e non aveva mai visto nessuno ubbidire con la stessa abnegazione di quell’uomo. Sorrise sulle sue labbra, quando si chinò a baciarla.
Charlie inarcò la schiena in avanti, ed il suo desiderio fu finalmente esaudito: sentì la pelle nuda di Logan a contatto con la sua, e quel tocco fu la scintilla che fece divampare il fuoco della passione, che bruciò tutta la notte.
Non avrebbe saputo dire come arrivarono nella sua camera da letto; aveva sempre pensato fosse un’esagerazione che il sesso potesse esser così travolgente da far dimenticare tutto il resto. A lei non era mai successo, non era mai riuscita a fidarsi completamente di qualcuno da abbandonarsi in quel modo. Fino a quel momento.
L’unica cosa di cui Charlie riuscì ad esser consapevole fu Logan. Non ci fu punto del suo corpo che le sue mani non toccarono o che le sue labbra non baciarono, e quelle carezze lenirono ferite che non credeva d’avere e sciolsero un gelo che ormai credeva le appartenesse.
Solo nel dormiveglia, tra le sue braccia, pigramente Charlie capì cos’era quel qualcosa che le era sempre parso mancasse in tutti quegli anni. Tuttavia, non riuscì ad afferrare quella comprensione: volò via, perdendosi nei suoi sogni.

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Capitolo 10
*** CAPITOLO DIECI ***


CAPITOLO DIECI
L’aria iniziava a diventare più fredda e il vento gelido portava con sé l’odore della neve. Tutti, specialmente i bambini, l’aspettavano con trepidazione; tuttavia, il Sole splendeva alto in un cielo senza nubi, disinteressato al desiderio di un bianco Natale da parte della brava gente di Lake Rock. Anche se il mese era appena iniziato, quel ritardo insolito dava di ché pensare.
In ogni caso, appoggiata al cofano di un’auto, Charlie si godeva quel cielo meravigliosamente azzurro e il calore del Sole sulla pelle. Quella luce intensa era mitigata dalle lenti scure degli occhiali che aveva sul naso, e la mancanza di neve era decisamente l’ultimo dei suoi pensieri. Ad ogni modo, il tempo atmosferico sembrava rispecchiasse perfettamente il suo umore, quel giorno: sereno e senza l’ombra di nubi temporalesche all’orizzonte.
Alzò il mento, offrendo il viso al tocco dei raggi solari e inspirò profondamente, godendosi il dolce profumo dell’aria pulita e frizzante.
Per Charlie, quella mattina, il vento non portava solo l’annuncio d’un’imminente nevicata, ma anche l’odore dell’ottimismo. Era così che si sentiva: piena di positività.
Chiuse gli occhi e sorrise dolcemente a quei caldi baci che le infiammavano la pelle, ricordandole baci ben diversi ma ugualmente ardenti.
Quella improvvisa fiducia cosmica non era dovuta solo all’uomo tra le cui braccia aveva passato la notte. Quella mattina, dopo essere rincasata dalla finestra della sua camera, poco prima dell’alba, Charlie aveva fatto colazione in cucina, come sempre. La novità, però, era stata la presenza di suo padre che, stravolgendo le sue abitudini, aveva deciso di farle compagnia sedendo al suo stesso tavolo per leggere il giornale, invece della solita poltrona.
L’unica crepa in quel quadro altrimenti perfetto era la domanda che, ormai, le ripeteva da giorni: “Hai iniziato a cercarti un lavoro, come ti ho detto?”
La sua risposta, come al solito, era stata squisitamente evasiva: “Ho sentito che Mrs. Peterson sta cercando una persona che l’aiuti, al market.” Aveva detto, giocando con il sottinteso: così si diceva in giro, questo non voleva dire, però, che lei si sarebbe offerta per il lavoro.
In ogni caso, suo padre non aveva più alzato la voce dal loro ultimo diverbio – risalente alla serata al Gryson’s – e lei attribuiva quella sua mansuetudine al clima natalizio. O forse, quella tranquillità, era dovuta al fatto che Charlie non avesse mai provato a fargli notare che un lavoro già lo aveva.
Ad ogni modo, quella domanda scandiva i giorni, come il ticchettio di una bomba che si apprestava ad esplodere, ma l’ottimismo che traboccava da ogni suo poro pareva l’avesse resa sorda a quel segnale di pericolo, convincendola che, prima della deflagrazione, sarebbe riuscita a disinnescarla.
Una voce dolce e ben nota la richiamò dalle sue riflessioni: “Cosa ne pensi, gioia?”
Sorrise a quel nomignolo che si sentiva ripetere negli ultimi venti minuti, ed abbassò lo sguardo verso la monovolume davanti a lei. L’unica cosa che le piacque fu il colore: un bellissimo bordeaux, molto elegante. Per il resto era una macchina troppo grande e sicuramente troppo lenta per i suoi gusti.
Pertanto, con divertimento, osservò: “Penso che non abbiamo figli, angelo mio. E questa macchina è davvero troppo spaziosa per noi.”
I due di fianco a lei non notarono il bagliore che le illuminò gli occhi, sotto le lenti scure, quando sorrise con fin troppo entusiasmo per una macchina che nemmeno le piaceva.
George Edwards, proprietario della Edwards and Sons, un autosalone per la vendita e il noleggio dell’auto dei sogni - o almeno questo era quello che sosteneva l’insegna – di Twin Lake City, si schiarì cortesemente la gola, prima di intervenire conciliante: “Sicuramente possiamo trovare qualcosa che soddisfi i vostri desideri, signore.”
Come nei cartoni animati, gli occhi dell’uomo avevano assunto la forma dei dollari, non appena l’aveva vista varcare il cancello d’ingresso. Quella mattina, infatti, Charlie aveva tirato fuori l’artiglieria pesante: indossava il suo vestito bianco Armani, nascosto alla vista dal cappotto di cachemire, e ai piedi le sue adorate Jimmy Choo. E anche se l’uomo non fosse stato un intenditore, sarebbe stato chiaro a chiunque che, con i diamanti che portava all’orecchio, avrebbe potuto facilmente comprare una di quelle auto.
Per fortuna, suo padre non l’aveva vista uscire di casa in quel modo.
Comunque sia, Edwards non s’era fatto troppe domande sulla sua presenza lì, aveva fiutato l’opportunità e vi si era fiondato.
Il suo autosalone, incredibilmente, disponeva di un’ampia varietà di scelta; tuttavia, essendo Twin Lake City una città perlopiù turistica, la gran parte era disponibile solo al noleggio. Ovviamente, Charlie ne era ben consapevole e proprio per questo, quando l’uomo le aveva chiesto quale automobile volessero acquistare, aveva indicato la Porche nera, in bella vista. E dalla reazione che aveva ottenuto, sembrava proprio che, di solito, i suoi clienti non potessero permettersi una spesa simile.
Purtroppo, l’auto era esclusivamente in locazione, ma George Edwards non s’era fatto certo scoraggiare da quel – non così trascurabile - dettaglio. E la buona sorte l’aveva aiutato, perché Susan Johnson – cioè Charlie - aveva una moglie viziata e superficiale – come aveva detto Maddie – pertanto, non sarebbero usciti di lì senza un’automobile nuova di zecca.
Quella farsa del matrimonio era necessaria? Ovviamente no. Tuttavia, Charlie si era decisamente alzata con il piede giusto, quel giorno, e aveva assecondato in tutto e per tutto la proposta di Maddie.
Non aveva preso in considerazione i rischi che ciò avrebbe comportato, si era lasciata andare, abbandonandosi alla corrente.
A Matthew sarebbe venuto un infarto se solo lo avesse saputo: Charlie Royce, la donna che voleva sempre avere tutto sotto controllo, si affidava alla sua amica d’infanzia.
Ad ogni modo, non poteva esser più ottimista sulla riuscita del loro piano.
Indicando la parte più lontana dagli uffici, verso le utilitarie, George le incoraggio a proseguire il giro. “Spostiamoci da questa parte, vi faccio vedere altri modelli.”
“Le dispiace se approfitto un attimo del bagno?” Chiese gentilmente, lanciando un’occhiata a Diddi attraverso le lenti degli occhiali.
“Niente affatto, prego.” Concesse galante, con un cenno della testa. Era ovvio volesse afferrare al volo l’opportunità di convincere la meno restia tra le due ad acquistare una delle sue macchine.
Fu Maddie a chiederle: “Vuoi che ti aspettiamo, gioia?”
Sembrava sorprendentemente a suo agio, per una che si apprestava a diventare la complice d’un furto.
Charlie si morse il labbro inferiore e scosse piano la testa. “No. Faccio in un lampo.”
Non appena varcò la porta a vetri dell’ufficio, notò con una certa soddisfazione che la stanza era vuota.
Erano in tre a lavorare in quel posto: il signor Edwards, suo figlio e Daniel White, fedele dipendente da dodici anni.
Quel giorno, però, il figlio di George non c’era. Una brutta influenza intestinale, lo teneva a letto da due giorni, poveretto; e dalla voce che aveva al telefono, sembrava davvero stesse con un piede in una fossa.  Ciò, però, voleva dire una persona in meno a tenerla d’occhio; quindi, fiduciosa, Charlie si diresse tranquillamente verso il corridoio che portava al bagno, e invece di svoltare a destra verso l’uscio con sopra i tipici omini delle toilette, andò a sinistra.
Aprì la porta con su scritto area riservata, come se ne avesse tutto il diritto, e ancora una volta sorrise nel constatare che non c’era anima viva. La finestra, come aveva notato da fuori, era oscurata; pertanto, dall’esterno, nessuno avrebbe potuta vederla. 
Tranquillamente, come se disponesse di tutto il tempo del mondo, osservò le due enormi bacheche di sughero appese al muro. Al disopra campeggiavano, in rosso, le scritte: Vendita, su una, e Nolo, sull’altra.
Si soffermò su quest’ultima e sulle decine di chiavi d’automobili che v’erano appese. Sopra ognuna, in una calligrafia precisa, vi era scritto il modello e la targa corrispondenti.
I suoi occhi si soffermarono sullo spazio vuoto al di sotto della dicitura Mercedes seguita dall’unica sigla alfanumerica che aveva imparato a memoria.
Sorrise soddisfatta e senza esitare, si diresse verso gli schedari sulla parete opposta.
Chiunque tenesse in ordine quel posto era davvero ben organizzato, perché Charlie non ebbe affatto difficoltà a trovare quello giusto. Lo aprì, e iniziò a sfogliare i vari fascicoli, cercando un nome specifico.
Si ritrovò a canticchiare sottovoce il motivetto della canzone che avevano passato alla radio, mentre venivano; l’idea d’esser scoperta lì dentro, senza autorizzazione, sembrava non averla minimamente sfiorata.
Non si curò nemmeno delle voci che sentì all’esterno e quando, finalmente, tirò fuori il fascicolo giusto, si ritrovò a ridacchiare.
Sto perdendo il senno. Si disse, divertita.
E quel pensiero le fece venire in mente parole mormorate nel buio, mentre mani virili le toccavano i seni, scivolavano sul suo stomaco e le accarezzavano le cosce. Chiuse gli occhi e si abbandonò al ricordo di quella bocca calda che scendeva verso di lei, sul suo collo, sul suo ventre, fino a…
Fu bruscamente riportata alla realtà da un tonfo sordo e dall’inconfondibile rumore di passi in avvicinamento. Tuttavia, non si lasciò travolgere dal nervosismo; affidandosi alla calma e all’imperturbabilità che l’avevano sempre contraddistinta, estrasse le chiavi di riserva della Mecedes e se le infilò nella tasca interna del cappotto.
Soddisfatta, rimise il fascicolo a posto, richiuse lo schedario e si diresse verso la porta. Per poco non andò a sbattere contro Daniel White, quando l’aprì.
L’espressione sorpresa dell’uomo si fece subito corrucciata e con tono severo iniziò a rimproverarla: “Cosa sta facendo? Non può stare qui, non ha letto il-”
La sua filippica, però, si interruppe quando le braccia di Charlie lo strinsero calorosamente. “Dan! Che sorpresa magnifica!” Non appena lo lasciò andare, si diede un leggero schiaffetto sulla fronte: “Diamine, che sciocca. Avrei dovuto ricordarmi che lavori qui.” E ridacchiò, come incredibilmente divertita da quella sua dimenticanza.
L’uomo, preso completamente in contropiede da quella confidenza, non poteva certo ricordarsi di lei – d’altronde non l’aveva mai vista prima – e parve cercare disperatamente di collocarla tra i tanti volti delle sue conoscenze, inutilmente.
Charlie gli venne in soccorso: “Susan, ti ricordi? Alla festa di Andy, del quattro luglio.”
Ecco. Adesso, il fatto era che Daniel aveva un ricordo totalmente vago e sfumato di quella festa; infatti, non si era reso subito conto che i cocktail alla frutta del suo caro amico Andy non fossero affatto analcolici. E lui, che non reggeva nemmeno una birra, ne aveva bevuti due: solo quando si era sentito girare la testa, aveva capito che quel sapore così buono non era tutto merito del mango.
Tuttavia, non ebbe il tempo di balbettare confuso delle scuse, perché Charlie gli fornì la prova definitiva di cui aveva bisogno: “Come stanno Sarah e la piccola Lulù?”
Ai nomi della moglie e della figlia, l’uomo parve arrendersi all’evidenza che credeva d’avere davanti: la conosceva, ma non si ricordava di lei.
“Bene, grazie. La piccola ha iniziato la scuola, quest’anno.” Raccontò, orgoglioso e Charlie gli sorrise, genuinamente felice di sentire quella notizia. Poi, però, l’uomo fu pervaso dall’imbarazzo di chi si ritrova a dover ricambiare i convenevoli di un perfetto estraneo. “La tua…famiglia, invece?” Domandò, vago; eppure, la curiosità nel suo sguardo fu autentica, era evidente sperasse potesse aiutarlo a ricordarsi di lei.
Charlie fece un gesto sfarfallante con la mano. “Benissimo, mia madre è partita ieri per la crociera. Non vedeva l’ora.” E non mollò l’osso, lo incalzò ancora, decisa a eliminare anche il più piccolo dubbio che loro due in realtà non si conoscessero. “Sai, proprio l’altro giorno, mi stavo chiedendo quale colore avesse scelto, alla fine, Sarah per le pareti della cucina.”
Non ci fu un solo momento, durante la loro breve conversazione, in cui Daniel ripensò ai post dei suoi amici, in cui lo prendevano in giro per la sua sbronza accidentale alla festa del quattro luglio. Non ricordò che sua moglie aveva chiesto aiuto, per il colore della loro cucina, al popolo di Facebook. Così come non gli passò per la testa la possibilità che qualcuno potesse usare tutte le informazioni personali, che riversava sui suoi profili social, per fingersi un suo conoscente.
Pertanto, l’etichetta di ‘possibile minaccia’ che era stata affibbiata a Charlie, non appena Daniel l’aveva vista uscire dalla porta, si tramutò in ‘dolce donna innocente’.
D’altronde, con il suo aspetto, poteva mai essere un ladruncolo da quattro soldi?
“Hai bisogno d’aiuto?” Le chiese, quindi, alla fine dei loro convenevoli.
“Oh, sì. Cercavo il bagno.” Disse lei, con espressione spaesata.
L’uomo le indicò la porta proprio difronte a loro, palesemente perplesso dalla sua disattenzione.
Charlie ridacchiò e dalla tasca del cappotto estrasse il telefono, mostrandolo come prova. “Gli smartphone, una distrazione continua!” Si sporse ancora per abbracciarlo brevemente. “Mi ha fatto davvero piacere rivederti. Dovremmo organizzare una bella cena, un giorno di questi.”
“Sicuro.” Rispose Daniel in un mormorio incerto, guardando la porta della toilette chiudersi dietro quella donna.
Si ripromise di chiedere a sua moglie, quella stessa sera, chi diavolo fosse Susan della festa del quattro luglio.
Davanti allo specchio del bagno, invece, Charlie sorrise radiosa al suo riflesso, piena di fiducia.
Cosa mai sarebbe potuto andare storto?
 
Quel lunedì mattina, Logan era stato subissato di chiamate indignate; e per subissato intendeva che aveva ricevuto quattro chiamate da quattro donne diverse. In ogni caso, la differenza con la quiete di un qualsiasi altro giorno, s’era fatta sentire; specialmente perché il suo umore, più che roseo, era stato guastato da tutte quelle lamentele – secondo lui esagerate e insensate.
Aveva pensato che Maddie fosse a casa malata, motivo per cui l’unica biblioteca di tutta la contea era rimasta chiusa, quel giorno. Perciò, a tutte quelle proteste, aveva risposto sempre la stessa cosa: anche Maddie Foster aveva diritto ai suoi giorni di malattia.
Pertanto, non appena scese dall’auto di Ryan Clark, si chiese cosa diavolo ci facesse quella donna, lì. Aveva davvero deciso di chiudere la biblioteca perché doveva comprarsi una maledetta macchina?
Ovviamente, no. Era sempre stata coscienziosa e ragionevole, ci doveva essere per forza un altro motivo e Logan non dovette nemmeno sforzarsi più di tanto per trovarne uno davvero plausibile.
Si guardò intorno, alla ricerca della stessa chioma bionda che aveva lasciato il suo cuscino prima dell’alba. Ma, nello spiazzo dell’autonoleggio, pareva ci fossero solo Maddie e George Edwards.
Si accigliò, deluso.
“Vai avanti senza di me Ryan, ti raggiungo subito.” Disse al suo collega, iniziando ad avviarsi verso la donna dall’altra parte del parcheggio.
Di certo, Clark non aveva bisogno di lui, non era la prima volta che venivano a chiedere il riepilogo degli spostamenti che risultavano dal GPS dalla Mercedes di Liam Ruiz.
Mentre si avvicinava, osservò Maddie sbracciarsi all’indirizzo della macchina difronte a lei e gli fu perfettamente chiaro quando, da sopra le spalle del venditore, lo vide. Dalla faccia allarmata che fece, Logan si fermò per un istante, chiedendosi se la sua espressione fosse davvero così intimidatoria da suscitare quella reazione. Si sentiva stranamente tranquillo, affatto infastidito dalle seccature che gli aveva procurato; tuttavia, lei impallidì e sembrò sul punto di rimettere.
Forse stava davvero male, dopotutto.
Preoccupato, affrettò il passo e l’affiancò giusto in tempo per aiutare il signor Edwards a sorreggerla, quando la donna si piegò in avanti, con le mani sulle ginocchia.
“Ehi, che succede? Stai male? Devi vomitare?” Le chiese, massaggiandole la schiena con una mano, chinandosi all’altezza del suo viso.
“S-si.” Sentì a malapena il balbettio di Maddie.
“Vuole che vada a chiamare sua moglie?” Chiese Edwards, inquieto.
Logan non registrò subito le parole dell’uomo, ed una volta che ne comprese il significato, alzò di scatto la testa. Ma non poté nemmeno chiedere spiegazioni, perché l’altro stava già raggiungendo frettolosamente gli uffici.
Ha detto moglie?
Sbuffò divertito.
“Che succede, Diddi?” Sfoderò il nomignolo che usava sempre Charlie, sperando che quello, unito al suo tono gentile e confortante, la calmassero.
Funzionò, perché la donna lo guardò sorpresa e si tirò di nuovo in piedi. Si aggrappò al suo cappotto, però, come se ne andasse della sua vita. “Sei venuto ad arrestarmi?”
Quello, unito al sollievo di vederla star meglio, lo fecero ridere. “No. Dovrei?” Chiese curioso.
Cosa poteva mai aver fatto quella donna tanto dolce e amabile da pensare di dover essere arrestata?
Improvvisamente, a Logan parve d’essere un prete che assolveva i peccati di una parrocchiana venuta a confessarsi, perché lei gli prese la mano e tutto d’un fiato disse: “Ho mentito. Ho raggirato quell’uomo, ho detto di chiamarmi Claire e d’essere sposata.” Lo guardò come cercando l’assoluzione.
Fu maledettamente difficile mantenere un’espressione seria. “Se dovessi arrestare tutti quelli che dicono bugie, mio figlio sarebbe il primo a stare dietro le sbarre.”
La donna non parve rassicurata, però. “La prigione non fa per me.” Lo supplicò.
Non ebbe il coraggio di farle notare che era lo stesso per chiunque altro, perciò chiese: “Dov’è Charlie?”
A quel punto, però, la risposta di Maddie non fu necessaria, perché la porta degli uffici si spalancò e ne uscì una Charlie visibilmente allarmata, che iniziò a correre verso di loro.
Logan non riuscì a staccare gli occhi da lei. Con il signor Edwards che cercava di starle dietro – e che ben presto fu seminato – si diresse nella loro direzione. Rallentò il passo solo quando si accorse di lui e si rese conto che l’amica stava bene.
Tuttavia, Logan si domandò come diavolo facesse a muoversi tanto velocemente su quei tacchi a spillo.
Con il lussuoso cappotto che si apriva leggermente ad ogni suo movimento, lasciando intravedere il vestito che aveva al disotto, non pareva certo la stessa donna con cui aveva passato la notte; era un raggio di sole negli occhi: accecava e abbagliava senza consentire uno sguardo più approfondito.
Capì cosa avesse spinto il Maggiore Royce a pensare il peggio di sua figlia. Sembrava appena uscita da una di quelle riviste patinate d’alta moda, ed era abbastanza difficile giustificare tutto quello sfarzo se mentivi sul tuo lavoro.
Quello era un ulteriore tassello del puzzle ingarbugliato che era quella donna e, in un’altra circostanza, Logan si sarebbe preoccupato del fatto che tutto ciò non lo allarmasse affatto.
Charlie non lo guardò nemmeno quando fu a pochi passi da loro, la sua attenzione completamente per Maddie.
Aprì semplicemente le braccia sui suoi fianchi, come a chiedere: “cosa diavolo hai combinato?” e si avvicinò ancora, allungandosi a sfiorare con il dorso della mano la fronte dell’amica. “Quanti hot dog hai mangiato, prima di venire?”
Logan non seppe perché, ma quella domanda tanto strana scatenò l’indignazione dell’altra che le scostò bruscamente il braccio, sbuffando. “Non sei divertente.” Brontolò.
Anche il signor Edwards, visibilmente provato da quell’attività fisica non programmata, si unì al loro capannello. “Si sente meglio, signora Jhonson?” Chiese a Maddie, ansimando per la corsa.
“Si, grazie. Potrei avere un bicchiere d’acqua, però?” Chiese, lanciando un’occhiata nervosa verso Logan, come chiedendosi se l’avrebbe smascherata. Lo sceriffo, però, si limitò a sorridere innocentemente.
George, che si era davvero spaventato al vedere la donna sul punto di svenire, non esitò ad acconsentire. “Certamente. Venga, l’accompagno.”
Solo allora Charlie si voltò verso di lui. Si alzò gli occhiali da sole sulla testa, permettendogli di vedere quei suoi magnifici occhi blu, ed eccola lì: la sua Charlie.
Il sorriso che sbocciò sulle labbra di lei rispecchiò il suo.
“Pare che debba farti le congratulazioni...” Osservò Logan con divertimento.
Lei scrollò le spalle, per nulla agitata, in un gesto fintamente snob. “Ti avrei anche invitato al matrimonio, ma è stata una cosa piuttosto improvvisa.”
Sapeva che, se avesse fatto domande, avrebbe ottenuto solo silenzio; ma c’era un che di estremamente confortante in ciò: non avrebbe mentito – non a lui, almeno – nemmeno se, così facendo, avesse potuto scagionarsi da ogni possibile accusa. Questo diceva molto di che tipo di persona fosse.
Logan alzò brevemente lo sguardo, giusto il tempo di constatare che erano rimasti da soli lì fuori, e finalmente, non ebbe più bisogno di resistere al suo desiderio di toccarla. Allungò una mano e le accarezzò una guancia con la punta delle dita, acciuffando una ciocca di capelli e scostandoglieli dietro l’orecchio. Charlie inclinò la testa di lato, avvicinandosi al suo tocco, socchiudendo languidamente quei suoi occhi straordinari, e i ricordi – che era stato costretto, per motivi psichici ma anche fisici, a reprimere fino ad allora – della notte precedente, tornarono prepotentemente a galla.
Le fece scivolare la mano dietro la nuca, lasciando solo il pollice ad accarezzare la pelle morbida del viso.
Si chinò verso di lei, sfiorando con la bocca il suo orecchio. “Ciao, tesoro.” La salutò, con voce roca.
“Ciao, cowboy.” Mormorò, il respiro di lei improvvisamente corto.
Lo sguardo di Logan, inevitabilmente, cadde su quella labbra rosse, fulcro di tutti i suoi pensieri più peccaminosi e si rese conto che, nonostante fossero passate solo poche ore, incredibilmente, il loro dolce sapore gli era mancato da pazzi.
“Sono una donna sposata.” Sussurrò divertita, comprendendo le sue ovvie intenzioni.
Lui sorrise maliziosamente. “Mmh. Sono sicuro che per l’ora di pranzo avrete già ufficializzato il divorzio.”
Charlie ridacchiò e, stringendo il suo cappotto tra le mani, si alzò in punta di piedi e lo tirò verso di sé, per un bacio. Adorava quando esternava, con quella sua urgenza, il profondo bisogno che aveva di lui.
Non lo faceva sentire l’unico.
“Vieni a cena da me, stasera.” Soffiò sulle sue labbra. Fu più una supplica, che una richiesta.
Gli sembrò stranamente esitante, quando chiese: “Jake?”
Non afferrò subito il vero significato di quella domanda. Gli ci volle un momento per rendersi conto di ciò che gli stava realmente chiedendo: era sicuro di voler spingere quella storia – appena iniziata – così in là? Invitarla in quel contesto domestico, tra le mura di casa sua, era ad un livello completamente nuovo della loro – strana e ancora non ben definita -relazione. Cosa sarebbe successo se suo figlio si fosse affezionato a lei in un modo ben diverso da quello attuale?
Logan era sicuro che Jake già la vedesse come una figura di riferimento; qualcuno su cui poter contare, a cui chiedere consiglio.
Per quanto riguardava lui, invece, non era certo disposto a lasciarla andare. Sapeva perfettamente cos’aveva significato la notte precedente, e non aveva intenzione di perder tempo, domandandosi com’era potuto succedere che Charlie fosse riuscita a farsi strada nel suo cuore nell’arco di un mese, era così e basta.
La notte prima non era stata una mera questione fisica. Aveva coinvolto ogni parte di loro, corpo e anima.
L’unica che sembrava non rendersi conto di tutto ciò, era lei.
“Ne sarà senz’altro entusiasta, vedrai. Soprattutto se dopo faremo qualche gioco da tavolo.” Le fece l’occhiolino e le iridi blu di Charlie sfavillarono sotto la luce del sole, quando sorrise.
Piegò la testa all’indietro, ad offrirgli la bocca. La porta degli uffici, però, si aprì e ne uscì Ryan; costringendolo a lasciar andare Charlie e a fare un passo indietro. Lo sceriffo di Twin Lake non sembrò farvi caso ed iniziò ad avvicinarsi a loro, giocherellando con il bottone del cappotto.
Con l’arrivo di Ryan Clark, la sua Charlie se ne andò, lasciando una maschera imperturbabile al suo posto.
La postura più dritta e fiera. Sembrava una donna pronta a qualsiasi cosa. Fu grato che, almeno, non si mise di nuovo gli occhiali scuri sul naso.
Clark, che non conosceva Charlie, ovviamente non si accorse di quel cambiamento e tese la mano verso di lei. “Signorina Royce, è un vero piacere conoscerla.”
Lei gliela strinse e rimase in silenzio per un lungo momento, guardandolo con quelle gelide iridi blu. Sembrava soppesarlo, come tentando di capire se fosse una minaccia oppure no.
Nervoso di natura, stranamente, Clark non ne parve affatto turbato; eppure, Logan non lo avrebbe certo biasimato.
“Il piacere è mio, sceriffo Clark.” Disse lei, infine, accompagnando quel saluto con un cenno cortese del capo.
Solo quando disse il nome dell’altro uomo, Logan capì cosa fosse davvero successo.
Teoricamente, Ryan non avrebbe dovuto sapere chi fosse Charlie e viceversa; tuttavia, l’aveva già vista al Gryson’s, e salutandola per nome aveva ammesso di conoscerla. Non si era presentato, però, mettendola davanti ad una scelta: mentire oppure esporsi a sua volta. Un modo per dire: “So esattamente chi sei, e lo stesso vale per te.”
Inevitabilmente, però, l’atteggiamento dell’uomo la spinse alla ritirata. “Vado a vedere che fine ha fatto Diddi.” Annunciò a nessuno in particolare, abbassandosi gli occhiali da sole sul naso. “È stato un piacere.” 
La guardarono allontanarsi in silenzio, e fu lo sceriffo di Twin Lake a parlare per primo. “È davvero una bellissima donna.”
“Già.” Concordò, piatto.
“E anche pericolosa.”
Logan si accigliò. Non perché trovasse strana quella descrizione per lei; insomma, poteva essere una donna pericolosa sotto molti aspetti diversi, ma non era sicuro che lo intendessero allo stesso modo.
Ryan, prese a ad aprire e chiudere la chiave a scatto della macchina, i suoi tic improvvisamente tornati. “Non trovi anche tu sia strano?”
Già. Logan poteva anche star innamorandosi sempre di più di Charlie, ma questo non voleva certo dire che, tutto d’un botto, fosse diventato stupido. Ancora riusciva a fare due più due.
Prima di tutto, Charlie sapeva dove trovare Alan Hill. Secondo, gli era parso assai strano che, proprio quando più ne avevano bisogno, una fonte anonima avesse contattato Ryan con informazioni di prima mano. Infine, quello stesso giorno, Charlie aveva scelto proprio Edwards and Sons per acquistare un’auto – o meglio, non acquistare un’auto -, esattamente dove Liam Ruiz aveva noleggiato la sua. Per dipiù, mentendo sulla sua identità.
Quanto ingenuo sarebbe stato se avesse creduto che fosse tutto un caso?
E, forse, era ingenuo anche a non avere il minimo dubbio su di lei.
Ad ogni modo, fece finta di niente. “Strano? In che senso?”
“Non lo so. Ma Charlie Royce non mi convince.”
 
Si sa, il Sole non può splendere per sempre in un cielo terso. Prima o poi il vento porta con sé le nubi; infatti, come si è detto, ben presto sarebbe arrivata la neve.
Restava da vedere se si sarebbe limitata a posarsi dolcemente al suolo, oppure avrebbe portato con sé una tormenta.

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Capitolo 11
*** CAPITOLO UNDICI ***


CAPITOLO UNDICI
Di solito, la prima nevicata della stagione scombinava la quiete del piccolo paese di Sunlake. Gli spazzaneve dovevano esser messi in funzione, il sale doveva esser gettato sull’asfalto e i marciapiedi dovevano venir puliti. Pertanto, i piani di molte persone potevano venir stravolti da quel semplice fatto; già solo per lasciare il paese bisognava aspettare che tutte le strade fossero state sgombrate.
In ogni caso, non nevicò, perciò, non fu quello il motivo del trambusto che si venne a creare.
Infatti, due eventi, su tutti, furono il fulcro delle voci che scossero il cuore di tutte le donne – e di conseguenza, le orecchie dei loro mariti – in quei giorni, portando a risvolti inaspettati.
Tutto ebbe inizio con un semplice mazzo di fiori.
Al giorno d’oggi, si sa, regalarne uno ad una donna è assai semplice: basta prendere il computer, accedere ad un sito di consegne e pagare per il proprio ordine. A Sunlake, invece, non vi era niente del genere, le cose si facevano alla vecchia maniera, senza l’ausilio di internet.
L’unico fioraio di tutto il paese apparteneva alla moglie del sindaco Young che, proprio come il marito, viveva del pettegolezzo; fu lei, quindi, a consegnare lo splendido mazzo che le venne commissionato martedì mattina, e fu così che Charlie Royce si ritrovò tra le mani un magnifico bouquet, in un elegante vaso di vetro.
Charlie, che ricordava perfettamente tutte le volte che un uomo le aveva mandato dei fiori - non ci voleva molto, erano pari a zero – ne rimase oltremodo stupita e il suo cuore saltò un battito alla consapevolezza di chi li avesse inviati.
Di certo, però, le sorprese non finirono lì, e la signora Young estrasse il proverbiale coniglio dal cilindro, quando, elettrizzata, confidò: “Luke Thomson è venuto di persona ad ordinarli.”
Parole che la lasciarono completamente interdetta; tuttavia, non notando la sua confusione, l’altra continuò: “Ha insistito molto per questo colore, nonostante gli abbia detto più volte che è il rosso a simboleggiare la passione.” Sorrise, quasi dispiaciuta che il suo consiglio fosse rimasto inascoltato. “Non posso credere che finalmente una donna abbia conquistato il cuore di quel ragazzo. Nessuno ci sperava più. Sei molto fortunata, il vicesceriffo è un brav’uomo, oltre che bello.”
Charlie guardò con occhi nuovi il mazzo che aveva stretto tra le mani. A parte una rosa bianca nel centro, il colore dominante era il viola. Riconobbe la lavanda, le fresie e un altro fiore, di cui non conosceva il nome; lo aveva già visto, però, perché cresceva sempre verso febbraio, in quei boschi.
Vi immerse il naso e fu sopraffatta dal loro dolce profumo e, nel pieno dell’autunno, Charlie respirò l’odore della primavera.
“Cosa significa il viola?” Chiese piano, ancora persa ad ammirare il bouquet.
“Come, cara?”
Charlie alzò lo sguardo sulla signora Young. “Ha detto che il rosso è l’amore passionale – questo lo sapeva anche lei – cosa significa il viola?”
“Oh. Anche questo ha uno splendido significato.” La tranquillizzò, mal interpretando la domanda. “Simboleggia un amore nascosto, nobile. Il viola è il colore del mistero e della magia.”
Aveva detto che li aveva mandati Luke? Tornò con gli occhi ai fiori, sorridendo, ed accarezzò con un dito uno di quei tanti petali delicati.
Prese il biglietto, infilato nel mezzo, e lo aprì.
C’erano solo tre parole: era l’unico modo. E in basso a destra, come firma, solo una lettera: L.
Non era certo l’iniziale di Luke.
Charlie non notò la smorfia sul viso dell’altra donna, che iniziò a scusarsi. “Ho provato anche a fargli cambiare idea sul biglietto, ma ha voluto per forza fare di testa sua. Ha qualche significato, per te?” Chiese, la curiosità che grondava come grasso su una brace, e la signora Young stava sicuramente leccandosi i baffi, alla prospettiva di metter le mani su quel succoso dettaglio.
Lei, però, scosse la testa, e sorrise all’indirizzo del piccolo cartoncino che stringeva tra le dita.
Morivo dalla voglia di mandarti dei fiori, ho dovuto chiedere a Luke. Era l’unico modo.
Questo voleva dire quella nota, e improvvisamente per Charlie fu così spassoso che si ritrovò a ridere di gusto. Immaginò la discussione che dovevano aver avuto lo sceriffo e il suo vice, quella mattina. L’incredulità sul viso di Luke, a quella richiesta, e l’esasperazione di Logan alle inevitabili prese in giro dell’altro.
Non le importò del via vai di gente che entrò nella biblioteca, dopo. Insieme a Maddie – emozionata al pari di lei - risposero a tutte le domande ripetitive che le vennero fatte.
Anche Sylvie venne a vedere con i suoi occhi quello splendido bouquet, e rimase stranamente in silenzio ad ammirarlo. Probabilmente, desiderando che fosse stato suo figlio a cadere sotto il dardo d’Amore.
Pure Hannah le fece le congratulazioni - proprio come se avesse ricevuto una proposta e non un semplice regalo – quando entrò nella stazione di polizia.
Ovviamente, perfettamente calata nella parte, Charlie si avviò verso l’ufficio del vicesceriffo.
“Ciao, Luke.” Lo salutò, sedendosi davanti la sua scrivania.
L’uomo, però, non parve troppo entusiasta di vederla; anzi, sembrava esser decisamente seccato e non ci volle molto a capire perché: allo squillare del telefono, alzò la cornetta, per poi schiaffarla nuovamente sulla base.
Charlie si ritrovò a mordersi il labbro inferiore, cercando di trattenere una risata. “Tutto bene?” Gli chiese, gentilmente, facendo finta che non avesse appena sbattuto il telefono in faccia a qualcuno.
L’uomo si sporse in avanti, i gomiti sulla scrivania e la testa tra le mani. “No.” Gemette ed alzò lo sguardo su di lei, in un’espressione sofferente. “Pare che a luglio ci sposeremo. Spero tu non abbia impegni.”
Lei si portò una mano alla bocca. “Sembri davvero elettrizzato all’idea.” Osservò.
L’uomo alzò gli occhi al cielo. “Di beccarmi una pallottola da Logan? Mi sento morire al solo pensiero.”
“Che melodrammatico.” Si intromise una voce alle sue spalle. E lì, in piedi sulla soglia, in un completo da ufficio blu, senza cravatta, c’era lo sceriffo. Entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. “Non ti sparerei mai, lo sai benissimo.” Continuò. “Troverei un modo migliore per sbarazzarmi di te. Anche se, sono sicuro che Charlie mi aiuterebbe ad occultare un cadavere.”
Lei si alzò e gli andò incontro; solo quando poggiò le mani sul suo petto rispose, il tono basso, confidenziale: “Ovviamente.” Si alzò sulle punte dei piedi e sfiorò le sue labbra.
L’altro, ancora seduto alla scrivania, sbuffò. “Ancora non siamo sposati che già mi tradisce e medita il mio omicidio.” Si lamentò.
Tuttavia, nessuno di loro due se ne curò.
“I fiori sono bellissimi.” Mormorò Charlie sulla sua bocca. “Grazie.”
“È un piacere.” Bisbigliò di rimando, circondandole la vita con le braccia e attirandola a sé.
“Si, non c’è di ché.” Si sorrisero l’un l’altro a quell’intrusione di Luke, gli occhi incapaci di distogliersi, e lì Charlie vi lesse il divertimento, niente affatto trattenuto, di vedere il suo vice sostituirlo in quella situazione esasperante. Ma non fu l’unica emozione a riempire le iridi scure di Logan, e Charlie non fu in grado di identificarla fino a quando lui non le sorrise obbliquo.
Si sentì improvvisamente accaldata e su di giri.
Inevitabilmente, le loro labbra si fusero insieme ancora una volta, incuranti di dove si trovassero. Furono interrotti solo dalle parole del loro ospite: “Quando ho accettato di fare questa cosa, non pensavo ve ne sareste stati a sbaciucchiarvi tutto il tempo. Nel mio ufficio, per giunta.”
“Ha brontolato così tutta la mattina?” Chiese lei.
Logan rise. “Tesoro, non ne hai idea.”
 
La notizia che Luke Thomson, indomabile sciupafemmine, si fosse innamorato – le voci tendevano sempre ad esagerare – andò inevitabilmente a sbiadire nel riscontro reale. Infatti, nessuno sorprese Charlie e il vicesceriffo in qualsiasi tipo d’effusione passionale, tipica di una coppia appena sbocciata.
Chiunque, guardando verso il loro tavolo al Red, avrebbe detto fossero semplicemente degli amici che pranzavano insieme.
Iniziarono a nascere, quindi, diverse speculazioni circa il messaggio – ormai di dominio pubblico - che l’uomo le aveva mandato insieme ai fiori. Che un litigio si fosse frapposto nella loro relazione, costringendo Luke a quelle strane parole di scuse?
In ogni caso, la risposta – per chiunque la stesse cercando – non era poi molto lontana: sbirciando sotto il tavolo, infatti, si sarebbe facilmente potuto notare il contatto continuo tra Charlie e Logan, seduto sempre di fianco a lei. Piedi che si toccavano, mani che carezzavano le gambe dell’altro; ogni scusa era buona per sfiorarsi, senza esser visti.
Nessuno, poi, sembrò notare l’improvvisa cura nel vestire dei due o i loro sguardi sempre ardenti. La reputazione di Charlie, unita a quella di Logan, erano un connubio perfetto per non destare sospetti.
Lei, considerata da tutti irraggiungibile, aveva sempre rifiutato il corteggiamento di tutti gli scapoli di Sunlake – almeno, quelli tanto audaci da provare a farsi avanti – e pareva stesse tenendo sulle spine anche il povero Luke.
Era risaputo, poi, che Logan non era interessato a nessuna donna. Erano cinque anni che la madre cercava di sistemarlo, e l’uomo non si era mai dimostrato un partecipante attivo e coinvolto di quel piano chiamato: matrimonio.
Pertanto, già questo rendeva tutti gli altri ciechi a quegli sguardi infuocati che si scambiavano. In più, adesso che – per quel che ne sapevano - Luke Thomson aveva manifestato il suo interesse per la donna, nessuno avrebbe potuto anche solo pensare che lo sceriffo pugnalasse alle spalle il suo vice.
In ogni caso, il secondo evento a fomentare le chiacchiere, si può dire fu innescato dalla stessa Sylvie Moore, alla festa della città della settimana prima.
In quell’occasione, infatti, la donna aveva organizzato un appuntamento galante per il figlio, con Eleanor Phillips e, nonostante Logan le avesse detto che non aveva alcuna intenzione d’uscire con lei, sembrava proprio che sua madre non avesse recepito appieno il messaggio. Giovedì mattina, quindi, Sylvie lo chiamò per ricordargli il suo impegno.
Tuttavia, con il passare degli anni, evidentemente, Logan si era dimenticato per quale motivo avesse iniziato a compiacerla; infatti, al diniego - assolutamente controtendenza - del figlio, Sylvie scoppiò a piangere.
E lo sceriffo odiava sentirla piangere.
La madre iniziò a parlare di quando lei sarebbe morta – odiava pure quei discorsi – e di come sarebbe stato solo e infelice quando Jake, inevitabilmente, avrebbe lasciato il nido.
Non servirono a nulla le sue rassicurazioni, quei singhiozzi non si fermarono finché Logan, divorato dai sensi di colpa, non si arrese e pronunciò la formula magica: “Va bene, incontrerò Eleanor.”
Assecondare sua madre non fu affatto semplice come le altre volte, però.
Sarebbe stato felice, se non fosse stato per Stephen Royce, di dirle che aveva una relazione con Charlie; non gli sarebbe nemmeno importato se ciò lo avrebbe costretto a sorbirsi il comportamento delirante che stava – con grande sacrificio - sopportando Luke.
Pertanto, quando attaccò, compose subito un altro numero.
Rispose al primo squillo.
“Già le manco, sceriffo?” La voce calda dall’altra parte della linea era la stessa che, da qualche notte, gli sussurrava parole sensuali all’orecchio, nel buio della sua camera.
“Sempre.” Rispose, un sorriso obliquo a curvargli la bocca.
Non seppe come, ma la donna sembrò percepire qualcosa dal suo tono, perché chiese: “Che succede? Si tratta di Jake?”
Con quella preoccupazione per suo figlio, gli rubò un altro pezzetto di sé. “No, niente del genere.”
“Sembri strano. Cosa c’è?”
Logan sospirò e iniziò a giocherellare con la penna sulla scrivania. “Abbiamo un problema.” Ammise.
“Del tipo?”
“Beh, del tipo femminile immagino. Ti ricordi Eleanor Phillips?” Ovviamente se ne ricordava, e si sarebbe aspettato di tutto: una risata, fastidio, persino urla di rabbia – anche se non erano da Charlie; invece, tutto quello che ottenne fu: “Dove la porti?”
Batté le palpebre sbigottito. Non pareva affatto ferita che lui avesse accettato un appuntamento con un’altra donna; anzi, sembrava stranamente curiosa. Fu per quello che, preso in contropiede, disse: “Al Red?” E gli uscì come una domanda.
Effettivamente, non avevano dato un nome a ciò che c’era tra loro, Logan era del parere che fossero abbastanza adulti per capirlo da soli. Sapeva perfettamente cosa significasse per lui, quella storia, e gli occhi blu di lei, ogni volta che lo guardavano, dicevano ciò che la donna non era in grado d’ammettere nemmeno a sé stessa.
Ma, lo sapeva, Charlie lo stupiva continuamente ed infatti il suo commento fu: “No, troppa gente curiosa. E poi, pranziamo lì ogni giorno. Mi andrebbe una pizza, che ne pensi?”
Doveva aspettarselo: sarebbe venuta anche lei.
Scosse la testa, divertito, non avendo idea di cosa avesse in mente; tuttavia, aveva tutta l’intenzione di lasciarsi trasportare dalla corrente. “La pizza va bene.” Mormorò.
La sua risata lo raggiunse, attraverso il ricevitore. “Fantastico. Prenoto io, per quattro, poi ti mando l’indirizzo del posto.” Disse, sbrigativamente. “A stasera, cowboy.”
Non gli diede il tempo di porre una domanda fondamentale: chi diavolo era il quarto?
Lo scoprì quella sera stessa, quando, seduto al loro tavolo insieme ad Eleanor, li vide entrare nel locale: Luke Thomson aveva un braccio intorno alle spalle di Charlie, più a suo agio di due giorni prima nel ruolo di futuro marito. A Logan non importò affatto, soprattutto alla vista del bagliore con cui brillarono le iridi della donna, nel momento in cui posò gli occhi su di lui.
Con un vestito di maglia a collo alto, rosso scuro, stretto in vita da una cinta nera e tacchi a spillo dello stesso colore, era stupenda. E Logan sapeva, senza il minimo dubbio, che non era certo per Luke quella cura per il suo abbigliamento.
Si alzò per salutarli, non lasciandosi scappare la scusa di poterla toccare.
“Sei bellissima, tesoro.” Le mormorò, baciandole una guancia. “Credevo venissi con tua moglie.” Osservò, poi, divertito.
Charlie ridacchiò. “Diddi aveva da fare.” Sussurrò, di rimando. Poi, si allungò per raggiungere il suo orecchio e in un tono basso e pieno di promesse, bisbigliò: “Ho una sorpresa per te, sotto questo vestito.”
Lui si scostò di scatto, puntando gli occhi sul suo abito, come se d’un tratto potesse vederci attraverso. Un baluginio, pieno di malizia mista a divertimento, le attraversò lo sguardo quando Logan mormorò: “Maledetto inferno.”
Ebbe davvero difficoltà a ritrovare un po’ di compostezza.
Per fortuna, Luke venne in suo soccorso, invitando tutti ad accomodarsi. Si alzò subito in piedi, però, costringendo – per modo di dire – Logan a fare cambio con il suo posto, vicino a Charlie. Brontolò scuse assurde e confuse, come la vista, l’aria condizionata – peraltro, spenta – o l’orientamento astrale.
Eleanor, che – come aveva detto Sylvie – era una ragazza gentile e simpatica, non si curò molto di quel ricollocamento. In ogni caso, mentre aspettavano, Logan era stato piuttosto chiaro con la donna: non era interessato. Non aveva intenzione di prender in giro nessuno, e l’altra era stata assolutamente comprensiva e affatto sorpresa.
Naturalmente, trovandosi difronte la donna che sembrava non poter far a meno di richiamare tutte le chiacchiere del paese, Eleanor fu parecchio curiosa; ed uno dei primi argomenti a venir affrontato fu quello del lavoro.
Tuttavia, alla domanda: “Di cosa ti occupi, Charlie?” La diretta interessata non sembrò affatto agitata, invece, finì tranquillamente di masticare la sua pizza e mentì con una nonchalance che lo sorprese. “Sono la contabile di uno studio legale.”
Si chiese cosa dovesse significare per una persona, dover mentire su cose tanto banali. Che razza di relazioni potevi mai stringere con gli altri, se non lascivi che ti conoscessero? E se quel muro che Charlie innalzava, non serviva solo a tener fuori il resto del mondo? Forse, avrebbe dovuto proteggerla, in qualche modo?
Da sotto il tavolo, Logan le accarezzò un ginocchio e, solo quel gesto, ebbe il potere di farla riemergere da dietro le sue barriere. Gli rivolse uno splendido sorriso, pieno di felicità e lui sentì il suo cuore riempirsi di gioia.
In ogni caso, l’ultimo pettegolezzo di cui tutti sembravano non riuscir a smetter di parlare, era troppo invitante perché Eleanor lasciasse perdere. “Non avevo idea fossi un tipo romantico, Luke.” Disse, il gomito sul tavolo e il mento sulla mano, guardando attentamente il vicesceriffo.
Lui le fece l’occhiolino e un sorrisetto impertinente, sporgendosi a sua volta verso di lei. “So essere molto romantico, piccola.”
La donna si ritrasse, battendo le palpebre perplessa, a quel goffo approccio. Guardò Charlie, in imbarazzo, ma fu rincuorata dalla palese indifferenza e dall’evidente tentativo di non ridere di lei. E pensò che, dopotutto, le voci, secondo cui non stessero affatto insieme, fossero vere.
Tornò alla carica, quindi: “Perché quel biglietto? Cosa significa era l’unico modo?”
Luke, però, non rispose, si limitò solo a scrollare le spalle.
Eleanor, allora, guardò Charlie in cerca di una risposta o anche del più piccolo segno rivelatore.
Buona fortuna. Pensò Logan, sorridendo ironico. Era completamente fuori strada, se credeva davvero di poter estorcerle informazioni che non aveva alcuna intenzione di rivelare.
Quello, però, portò la donna a rivolgersi a lui. “Secondo te, cosa significa?”
“Non saprei.” Rispose, prendendo un trancio dalla pizza sul tagliere al centro del tavolo.
L’altra non parve affatto soddisfatta della sua indifferenza e sbuffò. “Dovrai pur esserti fatto un’idea. Sei lo sceriffo! È praticamente il tuo lavoro.”
Anche Luke lo fissò, curioso di conoscere la spiegazione che non aveva dato nemmeno a lui.
Non era intenzionato ad esporsi; tuttavia, cambiò idea non appena si voltò verso Charlie. La testa inclinata su una spalla, le sopracciglia inarcate, era palesemente interessata ad una risposta.
Non distolse gli occhi dai suoi, quando parlò: “Immagino, Luke adori il sorriso di Charlie e ha pensato che, regalarle dei fiori, era l’unico modo per vederlo risplendere.” Osservò rapito quelle labbra rosse schiudersi e donargliene uno. “Perché tutto quello che desidera è vederla felice.” Concluse, il tono di voce più basso.
Se non fosse stato per Luke, che si schiarì rumorosamente la gola, avrebbero continuato a guardarsi e, sicuramente, Logan l’avrebbe baciata. Proprio lì, davanti a tutti.
Si ricompose e lanciò un’occhiata ad Eleanor, intenta a spostare lo sguardo tra loro.
A qualsiasi conclusione arrivò, comunque, non gli importò.
 
Più tardi, quella sera, Charlie si ritrovò nella camera di Logan, tra le sue braccia.
Era velocemente diventata una scena familiare, quella.
“Non ho pensato ad altro.” Le bisbigliò tra i capelli, con voce bassa e roca, facendo scorrere le sue mani verso il basso, accarezzandole la curva del sedere. “Sto morendo dalla curiosità. Non vedo l’ora di toglierti questo vestito di dosso, Charlie.”
“Cosa stai aspettando, allora?” Sussurrò lei, spingendosi in avanti, sempre più vicina. Si alzò sulle punte dei piedi e gli baciò la linea della mascella, fino all’orecchio. Accarezzò con la lingua il suo lobo, prima di scendere ad assaggiare la pelle morbida del collo.
Sentì la mano di lui farsi strada più giù, fino a sfiorare l’orlo dell’abito. Rimase per lunghi istanti a giocherellarci, finché lei non ansimò: “Fallo, ti prego.” Solo allora, le sue dita si tuffarono sotto la gonna, risalendo, in modo esasperatamente lento, lungo la sua coscia.
Si fermò non appena il tessuto setoso delle sue calze si interruppe bruscamente e le sue dita toccarono soffice pelle calda. Lo sentì inspirare bruscamente.
Non proseguì verso l’alto, ma si sposto di lato, lungo il bordo di pizzo, finché non trovò la cinghia del reggicalze. “Cristo santo.” Commentò e Charlie non poté fare a meno di ridacchiare, nell’incavo del suo collo. Non vedeva l’ora di godersi l’espressione sul suo viso, quando avrebbe visto quel completino di pizzo nero semitrasparente che indossava.
Alzò la testa ed incontrò il suo sguardo di fuoco, e le loro bocche si fusero insieme. Succhiò il suo labbro inferiore, ed assaggiò il dolce sapore di quelle labbra morbide; sapeva di birra e Logan. Semplicemente delizioso.
Si avvicinò ancora, spingendosi contro di lui, aggrappandosi alle sue spalle nel disperato tentativo di averne di più. Sapeva che, nell’arco di pochi minuti, si sarebbe ritrovata nuda sotto di lui e quella prospettiva la fece gemere piano.
E sarebbe accaduto, se non fossero stati interrotti. “Papà?” Chiamò la vocetta di Jake, dall’altro lato del corridoio. Si staccarono di scatto e, rapidamente, Logan le tolse la mano da sotto il vestito. “Papà?”
“Ci metto un attimo.” Le assicurò, baciandola brevemente, prima di allontanarsi e uscire dalla porta.
Charlie rimase per un momento così, il petto che si sollevava e abbassava rapidamente, in cerca del fiato che lui le aveva tolto.
Guardò la sveglia sul comodino, indicava mezzanotte e mezza. Erano tornati presto dalla cena, Logan voleva esser a casa per dare la buonanotte a Jake; ciò voleva dire che avrebbe dovuto esser addormentato già da un paio d’ore.
Uscì in corridoio, fino a fermarsi vicino la soglia della cameretta. Si appoggiò con la schiena alla parete e rimase in assoluto silenzio, in ascolto.
“Nonna te lo ha lasciato vedere?” Stava chiedendo Logan, il tono basso ma incredulo.
Non riuscì a sentire la risposta; tuttavia, l’uomo continuò: “D’accordo. Vuoi che controlli dappertutto?”
Riconobbe il suono dei passi che si muovevano lungo la stanza e il rumore delle ante dell’armadio che si aprivano e si richiudevano. Altri suoni confusi, finché, la voce di Logan decretò: “Tutto a posto. Non ci sono mostri, qui dentro.”
Non parve funzionare, però: “Ho ancora paura.”
Il rumore delle molle del materasso le disse che l’uomo si era seduto sul letto e le si gonfiò il cuore alle parole che seguirono: “Vuoi che dorma con te?”
Insomma, quanti uomini l’avrebbero fatto? Interrotti proprio sul più bello, quanti avrebbero gettato alle ortiche la serata per dormire con un bambino spaventato?
Le venne in mente il metodo che, all’epoca, utilizzò suo padre con lei per cacciar via ogni sua paura. Aveva funzionato alla perfezione, e ne aveva un ricordo tenero e nostalgico, dopo tutti quegli anni.
Perciò, si ritrovò appoggiata allo stipite, ad osservare padre e figlio che a malapena entravano in quel letto minuscolo. Da sopra la testa scura di Jake, che le dava le spalle, Logan la guardò interrogativo.
Ho un’idea. Gli disse con il labiale e solo quando lui annuì, Charlie entrò silenziosamente nella stanza.
Un armadio rosso, con tutte figurine incollate sopra, era posizionato difronte al letto. Dal soffitto pendeva una riproduzione del sistema solare e piccole stelle fosforescenti illuminavano fiocamente l’ambiente.
Una scrivania di legno era addossata alla parete, vicino la porta, proprio dal lato opposto della finestra. Sopra v’erano un mucchio di fogli e matite, in un marasma disordinato. Prese un pezzo di carta bianco e tre pastelli, prima di avvicinarsi.
Solo quando il materasso s’abbasso sotto il suo peso, Jake si voltò verso di lei.
Anche senza occhiali e nella semioscurità, la riconobbe e i suoi occhietti stanchi si spalancarono di stupore. “Charlie?”
“Ciao, ometto.” Sorrise e si sporse a passargli una mano tra i capelli, in una morbida carezza. “Lo sai che non devi aver paura, vero?”
Subito annuì. “Lo so. I mostri non esistono.” Ripeté, poco convinto, parole che gli erano state dette migliaia di volte dagli adulti della sua vita.
Charlie scosse la testa, con un sorriso comprensivo e pieno d’affetto. “Tieni. Disegna tutto quello che ti fa paura.” Gli tese l’occorrente. “Poi farò un incantesimo su questa casa e nessuno di quei mostri che avrai disegnato potrà mai più entrare.”
La bocca di Jake si spalancò di meraviglia. “Mai più?” Chiese, pieno di fiducia, prendendo ciò che gli stava porgendo. Lei annuì dolcemente.
Rimase a guardarlo disegnare per un po’ e sentì il suo cuore gonfiarsi d’amore per quel bambino, ogni secondo sempre di più.
Ripensò alle sue paure di pochi giorni prima, all’autonoleggio; le sembrarono incredibilmente sciocche e senza senso. Realizzò che, anche se le cose fossero andate male con Logan, non avrebbe mai lasciato quel ragazzino.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per quel visetto d’angelo. Qualsiasi.
Anche prendersi un proiettile. Cosa che avrebbe fatto anche per Logan, suo padre e Maddie.
Il senso di protezione per Jake, però, andava oltre.
Seppe che, semmai qualcuno avesse osato torcere anche un solo capello da quella deliziosa testolina, sarebbe morto per mano sua.
Era qualcosa che si era rifiutata di fare anche per il governo, uccidere; eppure, non avrebbe esitato un solo secondo. E quel pensiero tanto terribile, la spaventò.
Cercò gli occhi di Logan, sperando in una rassicurazione. Ma, guardandolo in viso, mentre osservava il disegno da sopra la spalla del figlio, era palese che anche per lui era lo stesso.
 
Si sparse la voce che Luke Thomson fosse uscito per un appuntamento con Charlie Royce, e già questo era sufficiente a fomentare i pettegoli. Tuttavia, la notizia davvero disarmante, almeno per quelli che ci vollero per forza vedere un significato, fu che Logan Moore avesse portato a cena una donna in un posto diverso dal Red, a differenza del solito.
Pertanto, i risvolti inaspettati vennero a bussare alla porta di Charlie, venerdì mattina.
Non avrebbe mai creduto, infatti, che Annabel King si sarebbe presentata a casa sua, per parlarle. Più precisamente, ciò che disse fu: “Devi aiutarmi, Charlotte.”
Fu così che, nella piccola cucina della sua casa d'infanzia, si ritrovarono in tre: Annabelle, su una sedia, Stephen Royce, anch’egli seduto a leggere il suo giornale, e Charlie, a sorseggiare il suo caffè, pigramente appoggiata con una mano al bancone.
“Ho saputo che ieri sera Logan è uscito con una donna.” Esordì la loro ospite, con gli occhi fissi su di lei. “Devi raccontarmi tutto, Charlotte. Fino all’ultimo dettaglio.”
Se c’era una cosa di cui Charlie si sarebbe dovuta stupire, sarebbe stato il fatto che quella donna volesse spettegolare con lei, e certamente non che continuasse a sbagliare il suo nome.
Tuttavia, Stephen notò eccome quell’errore. Il giornale, infatti, si abbassò e l’uomo guardò perplesso Annabelle – totalmente ignara d’avere la sua attenzione – che sorseggiava la tazza di caffè che Charlie le aveva preparato. Gli occhi azzurri del Maggiore Royce, quindi, incontrarono quelli di sua figlia e alzò le sopracciglia, interrogativo.
Lei si limitò a liquidare la questione con una scrollata di spalle, totalmente indifferente.
“Il locale era carino, il cibo delizioso.” Fu tutto quello che ebbe da dirle.
L’altra aspettò che continuasse, ma quando fu chiaro che non avrebbe aggiunto altro, si fece più dritta sulla sedia. “Non capisci, questa situazione mi preoccupa. Logan ha sempre seguito la stessa routine, invece, stavolta, con questa donna, è stato diverso. Devo sapere perché.” Il tono tradì una traccia di disperazione, ed evidentemente, non fu l’unica a pensare che sembrasse una psicopatica, perché l’espressione che comparve sul volto di suo padre tradì il suo stesso pensiero.
Charlie la guardò attentamente e qualcosa, nella sua postura o nel suo aspetto, le ricordò sé stessa. Sospirò e cercò d’esser più gentile quando suggerì: “Forse, aveva solo voglia di una pizza?”
Annabelle, però, non parve apprezzare affatto il suo tentativo conciliante. “Charlotte, devi dirmi-”
“Annabelle.” Il tono severo di suo padre, finora rimasto in silenzio, le fece voltare entrambe. “Io stesso portavo Charlie alle tue feste di compleanno, quando eravate bambine. E ancora ricordo quando, a dieci anni, ruppi uno dei miei vasi, giocando in giardino.” Il tono si fece più duro, quando continuò: “Quindi, sono sicuro, sai perfettamente che mia figlia non si chiama Charlotte.”
Annabelle si fece piccola sotto quel severo sguardo blu, ed anche Charlie non rimase affatto indifferente alle parole di suo padre e lo guardò con occhi spalancati.
La stava difendendo!
L’uomo si alzò in piedi, piegò il giornale e se lo mise sotto il braccio. Mentre faceva il giro del tavolo, continuò: “Se non vuoi che ti butti fuori da casa mia, vedi di piantarla.”
La donna impallidì leggermente. “S-si, signore.” Balbettò, e ci mancò poco che si mettesse sull’attenti.
In ogni caso, lo stupore di Charlie schizzò alle stelle quando suo padre le baciò una tempia, prima di iniziare ad uscire dalla cucina.
Probabilmente rimase con la bocca spalancata per diversi secondi, completamente sconvolta.
Solo quando l’altro ebbe quasi raggiunto l’uscita, sembrò ritrovar la voce. “Dove stai andando?” Chiese, il tono un po’ tremolante dall’emozione.
“Esco, per la mia passeggiata.” Disse da sopra la spalla, e non ci volle molto prima che si infilasse il cappotto ed uscì. Come se fosse stato tutto perfettamente normale.
Annabelle, ora rossa per l’imbarazzo, dovette schiarirsi la gola più volte per richiamare la sua attenzione.
Ma in quei pochi attimi, il mondo di Charlie era completamente cambiato.
Ebbe bisogno di fare dei respiri profondi, per calmare la sua euforia; non sorprende quindi che, quando riportò l’attenzione sulla donna, il suo sorriso le arrivasse quasi alle orecchie.
Fu sopraffatta da un’ondata di determinazione e decise che, almeno per quel giorno, avrebbe provato ad aiutarla; se non altro per ripagarla dell’enorme favore che, inavvertitamente, le aveva fatto.
Si sedette anche lei al tavolo, e la guardò attentamente.
In città giravano voci su chiunque, e Charlie aveva sentito quelle che riguardavano Annabelle. Sapeva che aveva incontrato il suo ragazzo al college, un certo Asher Reed, e che lui le aveva chiesto di sposarlo, sei anni prima. Finché, con gran stupore generale, il fidanzamento era stato rotto e la donna – che era andata a convivere con lui – era tornata a casa.
Aveva sentito cosa ne pensasse la signora King, sua madre, di quell’evento. Secondo lei era stato il più grande disastro che sarebbe mai potuto capitare nella vita della figlia che, pareva, l’unica aspirazione che potesse e dovesse avere fosse il matrimonio, nient’altro.
Ora, Charlie non era certo un’esperta, ma credeva di capirne qualcosa di conflittualità con la figura genitoriale.
“Perché credi d’amare Logan?” Le chiese, a bruciapelo.
La donna si spostò sulla sedia, improvvisamente a disagio da tutta quell’attenzione. “Perché siamo fatti l’uno per l’altra.” Sottolineò, come se fosse ovvio.
Lei sbuffò a quella risposta insulsa. “Non credi che, il tuo bisogno di sposarti, derivi solo dal desiderio di non deludere tua madre?” Chiese, cercando di farla ragionare.
Tuttavia, si accorse del cambiamento che quelle parole provocarono e fu sicura che, in fin dei conti, non erano affatto diverse.
Quell’aurea di severità e intransigenza, nonché il suo desiderio di controllare tutto, erano molto lontane dalla ragazzina che ricordava lei. Diddi le aveva detto che era completamente cambiata dopo la rottura del suo fidanzamento, che prima d’allora non era mai stata così severa e accigliata.
Immancabilmente, si riconobbe nell’altra.
“Non sai di cosa parli.” Le rispose, grave.
Charlie si appoggiò indietro, sullo schienale. “Allora parliamo di Asher Reed.”
Annabelle si alzò di scatto. “Ho capito, me ne vado. Grazie tante, davvero.” Disse acidamente.
Quello era sicuramente un tasto dolente.
Tuttavia, le successive parole di Charlie la fermarono sulla porta.
“Una volta un uomo mi chiese di sposarlo.” Le confidò, e la cosa più assurda fu che quella era la verità.
Guardò fuori dalla finestra, ricordando quell’episodio che non aveva mai raccontato a nessuno.
In un altro momento, si sarebbe messa a ridere del fatto che, tra tutte le persone del mondo, avesse scelto proprio Annabelle King. “Mi ha vista seduta al bar e, in un secondo, ha capito che ero la metà della sua mela.” Sbuffò una risata sprezzante a quel ricordo ridicolo. “Ha detto proprio così: sei la metà della mia mela, bambolina.
Solo pronunciare quel nomignolo, riaccese tutta l’irritazione che aveva provato all’epoca. Purtroppo, non aveva potuto mandare subito al diavolo quel pallone gonfiato. Aveva avuto bisogno delle sue informazioni e quella infatuazione – se così poteva esser chiamata – per lei, avrebbe giocato a suo favore.
Non si rese nemmeno conto che Annabelle, forse richiamata dalla serietà del suo tono, si sedette di nuovo.
“Era un uomo davvero ricco, sai. Avrebbe potuto comprarsi tutto il locale con uno schiocco di dita.” Il rumore di quel gesto riempì la stanza. “Aveva il doppio dei miei anni, io ne avevo venti, e ne approfittai. Mi lasciai offrire da bere, tanto se lo poteva permettere.” Già, lo avrebbe voluto bello ubriaco, ma quel bastardo non aveva toccato nemmeno una goccia di alcool.
Riportò gli occhi su Annabelle, che la guardava con occhi sbarrati, visibilmente impaurita da come la storia sarebbe potuta finire. Charlie provò a sorriderle, ma tutto quello che ottenne fu una smorfia amara.
Non c’era nessun finale tragico. Quello, però, era stato uno dei suoi primi incarichi, era giovane ed ancora non aveva ben capito come girasse il mondo; quindi, quello che era successo l’aveva colpita nel profondo e non credeva affatto si sarebbe mai liberata di quel ricordo.
“Come puoi immaginare, non fu affatto felice quando gli dissi che non avevo intenzione di andar via con lui. Mi afferrò per un bracciò e mi disse…” Deglutì, prima di continuare. “Sei solo una piccola puttana.
I giorni successivi a quell’episodio, ogni volta che aveva chiuso gli occhi, aveva potuto sentire la morsa delle sue dita intorno al polso e il suo alito ripugnante sulla faccia. Forse era stato il contrasto con la sua dichiarazione d’amore eterno a sconvolgerla, oppure il fatto che nessuno, prima di quel momento, le aveva mai detto una cosa del genere con tutta la cattiveria e l’intenzione di quell’uomo. Aveva creduto che una persona di quella estrazione sociale non avrebbe mai potuto esser tanto brutale.
Rimase in silenzio e pensò a tutte le volte che erano seguite, dopo; a come, pian piano, la patina d’innocenza che aveva avuto sugli occhi fosse scivolata via. Aveva imparato, era diventata forte e insensibile: un muro di gomma. Nonostante i colpi continui e ripetuti, tornava sempre a posto; eppure, quella superficie elastica veniva piegata e deformata ogni singola volta.
Fu l’espressione sul viso di Charlie, così lontana dalla donna forte e sicura di sé che Annabelle aveva tanto invidiato, a spingerla a parlare. D’improvviso le parve proprio come lei: una donna con un peso.
Ed anche lei si ritrovò a condividere qualcosa che non aveva mai detto a nessuno. Qualcosa di cui si era sempre rifiutata di parlare.
“Ci siamo conosciuti al college, eravamo nello stesso gruppo di studio.” Iniziò, debolmente. “Lui era così bello, che me ne sono innamorata subito. Mi piace pensare che, all’inizio, ci siamo amati sul serio.” Fece un sorriso amaro, gli occhi fissi sul tavolo immersi nei ricordi. “Ero così felice quando mi chiese di sposarlo, che non persi tempo e mi trasferii a casa sua. Fui io ad insistere per un fidanzamento lungo. Volevo provare a vedere come ce la saremmo cavata con la convivenza.” Una lacrima le scivolò lungo la guancia e la scacciò via, in un gesto rabbioso.
“La prima volta, successe una sera qualunque, ero già a letto quando lui entrò in camera. Gli dissi che avevo dimenticato di chiudere a chiave la porta e gli chiesi se potesse pensarci lui. Iniziò ad urlare, disse che ero inutile, incapace di fare una cosa così semplice. Ho pensato fosse una reazione esagerata, ma lo amavo. Quindi non ci diedi troppo peso, pensai avesse avuto una brutta giornata.” Scosse la testa, altre lacrime iniziarono a rigarle le sue guance; cercò di cancellar via anche quelle, ma subito di nuove le sostituirono.
Charlie le prese una mano, ed Annabelle le fece un debole sorriso riconoscente. “Non mi ha mai picchiato, se è quello che pensi. Lo giuro. Si limitava solo agli insulti ed io iniziai a darmi la colpa e a scusarlo. Dava di matto per le cose più assurde e iniziò a svilirmi sempre di più. Cercai anche ad anticipare qualsiasi bisogno potesse avere ma non era mai sufficiente. Cercavo di farmi perdonare in ogni modo possibile, facendomi bella per lui oppure facendo l’amore con tutta me stessa. Non serviva a niente, le mie gonne erano troppo corte oppure mi accusava di pensare ad altri mentre lo facevamo. Era sfiancante, soprattutto perché sapeva essere così romantico che io accantonavo subito tutto il resto.” Inspirò profondamente, prima di procedere. “I bei momenti era pochi, ma c’erano. Finché non arrivò la settimana bianca: dovevamo partire con dei suoi amici e io mi sentii male il giorno prima. Avevo la febbre a trentanove e ho dovuto imbottirmi di farmaci per farla scendere. Stavo da schifo e lui iniziò ad accusarmi di farlo apposta, che lo odiavo e altre idiozie simili che nemmeno ricordo, tanto ero stordita.” Deglutì. “Andò con i suoi amici, lasciandomi sola. Non mi chiamò mai, nemmeno un messaggio per sentire come stavo. Ero io che avevo sbagliato, perché, per una volta, tutto il mondo non girava attorno a lui. Fu una settimana terribile. Però, ebbi modo di pensare al matrimonio e ai voti che avremmo dovuto pronunciare: in salute e in malattia. Già, come no. Prima o poi mi avrebbe messo le mani addosso, ora lo so.” Gli occhi di Annabelle cercarono i suoi. “E l’unico modo in cui quel matrimonio sarebbe potuto finire era con me, morta ammazzata, in un cassonetto. Ho preso tutta la mia roba e me ne sono andata. Non l’ho più sentito. Nemmeno una parola.”
A quel punto, il pianto di Annabelle divenne incontrollabile e Charlie la consolò nell’unico modo che conosceva: l’abbracciò e le accarezzò la schiena, finché non si calmò.
Fece il tè e parlarono finché non rincasò suo padre. Non fu affatto strano come avrebbe potuto pensare; furono semplicemente due donne che, per quanto triste, si incontrarono su un terreno comune.
Ed Annabelle, gelosa di Charlie, poiché vedendola, tanto bella e determinata, aveva pensato a come la vita fosse stata più indulgente con lei, comprese quanto, in realtà, si fosse sbagliata.
Di come la sua insoddisfazione e la paura d’aver fallito in tutto, l’avessero spinta ad assumere quell’atteggiamento che, in Asher Reed, aveva odiato.
Ma Charlie sapeva come ci si sentisse a portar un segreto dentro di sé, cosa volesse dire vedere la delusione sul viso di un genitore e come questo potesse cambiare una persona. Non tutti reagivano allo stesso modo.
E non ci fu bisogno di dir nulla.
Fu questo, quindi, il risvolto completamente imprevisto: una riappacificazione e, forse, una nuova amicizia.

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Capitolo 12
*** CAPITOLO DODICI ***


CAPITOLO DODICI
Charlie ricordava perfettamente la prima volta che aveva bevuto un Old Feshioned. Aveva avuto diciannove anni e Matthew Allen l’aveva portata a quello che sarebbe diventato il loro solito bar. Era stata alquanto sorpresa che l’uomo le offrisse da bere nonostante non avesse l’età e, per darsi un tono, aveva ordinato il primo cocktail che figurava sul menù.
Quindi, aveva scoperto che i superalcolici non le piacevano poi molto, preferiva di gran lunga un calice di vino rosso o un boccale di birra. In ogni caso, non aveva smesso di ordinarlo quando aveva a che fare con il lavoro. In quel modo, evitava di bere con troppo gusto e rimaneva focalizzata sul suo obbiettivo. Inoltre, contribuiva a fomentare la sua aura di donna sofisticata ma un po’ brilla, che tornava sempre utile.
Tuttavia, quel venerdì sera, non era affatto in vena di immedesimarsi in quel personaggio.
Seduta da sola – non aveva chiesto a Diddi di accompagnarla - ad uno dei tavoli del Gryson’s, rimescolava pigramente il liquido ambrato ruotando il bicchiere con una mano. Era come incantata da quel vortice che, sperava, potesse inghiottire tutti i suoi dubbi.
Quella sua aria pensierosa, a tratti malinconica, trasmetteva l’idea di una donna che aveva bisogno di dimenticare, in qualche modo, i suoi problemi. Perciò, Charlie – senza nemmeno rendersene conto – aveva richiamato molta più attenzione del solito; gli squali avevano iniziato ad avvicinarsi, attratti dall’odore del sangue, e lei era diventata la preda su cui ogni uomo desiderava mettere le mani.
Chissà, magari, d’improvviso, le sarebbe potuta venir voglia di compagnia…
Una notte con uno sconosciuto, però, non era certo la soluzione alle sue preoccupazioni.
Per tutto il giorno, Charlie non aveva fatto altro che rimuginare sulla conversazione telefonica con Matthew Allen. Lo aveva chiamato quella mattina, per il loro aggiornamento mensile; aveva dovuto dirgli di come avesse usato il telefono aziendale per inviare informazioni allo sceriffo di Twin Lake – informazioni che, peraltro, non riguardavano affatto l’obbiettivo che le era stato affidato – e delle sue intenzioni per Liam Ruiz.
Aveva avuto paura che quel suo agire sconsiderato l’avrebbe messa nei guai e che, quindi, la sua richiesta di trasferimento sarebbe stata bloccata o, addirittura, negata; invece, Matt l’aveva rassicurata, dicendole che l’iter burocratico avrebbe richiesto ancora tre mesi, come previsto.
Fin lì nessun problema, quindi.
Senonché, poco prima di riattaccare, con gran sgomento di Charlie, l’uomo aveva condiviso l’idea - totalmente assurda, a suo parere – che si era fatto su tutta la situazione. Infatti, sorpreso che, la donna più riservata e prudente che avesse mai conosciuto, si fosse esposta e che continuasse a tentennare sull’entrare in azione in prima persona, Matt aveva suggerito che si fosse innamorata. A quanto pareva, quella era l’unica spiegazione sensata perché l’inaccessibile Charlie Royce avesse rischiato di compromettersi.
Da allora, il suo stomaco si era ristretto in una morsa dolorosa che non era stata in grado di sciogliere e aveva giocato tutto il giorno con quel pensiero, facendolo oscillare tra speranza e negazione. Una parte di lei desiderava disperatamente che Matthew avesse ragione, mentre l’altra aveva paura di abbandonarsi a quella debolezza.
Era quello il motivo per cui si ritrovava al Gryson’s, quel venerdì sera. Per dimostrare – a Matt e, soprattutto, a sé stessa - un punto.
In realtà, la faccenda era ben più complessa.
In ogni caso, poiché Logan e Luke, quel venerdì, erano stati richiamati fuori città, a causa delle indagini; Charlie non aveva visto lo sceriffo per tutto il giorno e i suoi pensieri erano andati alla deriva nel tumulto caotico che era diventato il suo cervello.
Se solo si fossero visti, sicuramente la donna si sarebbe resa conto di dove risiedesse la verità.
Invece, il mantra che continuava a risuonarle nella mente era uno: Non posso esser innamorata di lui.
Si rifiutava di lasciarsi andare a quel pensiero, terrorizzata di non poter riemergere dal baratro.
Il lavoro era stata l’unica costante per Charlie, in tutti quegli anni; la sua unica sicurezza: sapeva cosa aspettarsi e quali sarebbero stati i rischi.
Ma era sempre stata una brava bugiarda e pareva fosse in grado di mentire anche a sé stessa, nonostante l’evidenza. Aveva creduto che dare inizio alla fase operativa, avrebbe smontato le supposizioni di Matt; eppure, non riusciva a muoversi dalla sua sedia.
Avrebbe dovuto alzarsi dal suo tavolo già da un pezzo e avvicinarsi all’uomo al bancone, ma sembrava ci fosse qualcosa che la trattenesse. Una parte di lei la supplicava di lasciar stare, di andarsene via. Di chiamare Matthew e dirgli che aveva cambiato idea, che non poteva più fargli quel favore.
Non era mai stata il tipo da rimangiarsi la parola, però; c’erano un mucchio di persone che contavano sulle informazioni che poteva fornire e non aveva intenzione di abbandonarle.
Una voce maschile la richiamò, costringendola ad alzare gli occhi dal suo cocktail. “Posso farti compagnia?” Un ragazzetto, forse di appena vent’anni, un po’ fuori forma, con i capelli castani e uno sguardo simpatico, era in piedi accanto al suo tavolo.
Non riuscì nemmeno a mostrarsi dispiaciuta, quando scosse la testa. “Sto aspettando una persona.” Mentì.
Da quando si era seduta, aveva ricevuto una marea di inviti di quel tipo e sapeva per certo che l’uomo biondo al bar – l’unico che aveva una minima importanza in quel marasma di gente - l’aveva notata.
I loro occhi si erano incontrati una sola volta, quando si era accomodata, prima che l’attenzione di Charlie scivolasse oltre di lui, sul cameriere che doveva prendere la sua ordinazione. Non aveva nemmeno dovuto impegnarsi per fingersi distratta, visto che lo era sul serio.
In ogni caso, sapeva di avere il suo interesse, così come, dopo un’ora d’attesa, era ormai evidente che l’uomo non avrebbe fatto la prima mossa. Pareva proprio non volesse rischiare d’esser rifiutato anche lui, come gli altri; eppure, in un modo o nell’altro, avrebbe ottenuto ciò che voleva.
La storia era sempre la stessa: il calabrone, re incontrastato del giardino e di tutti gli altri insetti, volava con la sicurezza derivante solo dall’arroganza di ritenersi invulnerabile. Convinto che ogni cosa gli fosse dovuta, sceglieva il fiore più bello e profumato tra tutti; non sapendo, però, che spesso le apparenze ingannano. Petali morbidi e colorati erano invitanti per ogni preda, senza alcuna distinzione, ma, prima o poi, il calabrone si sarebbe posato un fiore mai visto e la trappola si sarebbe chiusa su di lui.
C’era gran movimento quella sera, la pista da ballo era piena di corpi che si strusciavano uno contro l’altro. Sarebbe stato facile per lei sparire in mezzo alla folla che riempiva il locale e andar via. Nessuno l’avrebbe fermata e lei non vedeva l’ora di tornarsene a casa. Ma prima, aveva una questione di cui occuparsi e, quella volta, non aveva intenzione di impersonare alcuna recita.
Perché era di questo che si trattava, uno spettacolo in cui lei era l’unica consapevole della farsa. E c’era un che di deprimente e sfiancante nel non poter mai esser sé stessi. Nonché, infinita solitudine.
In ogni caso, non era affatto dell’umore giusto.
D’accordo. Falla finita, Charlie. Si disse, costringendosi ad alzarsi. Stai solo perdendo tempo.
Prese il suo cocktail e si mescolò alla calca, con quella sua sfacciata indolenza.
Il biondo, di fianco al bancone, con il braccio destro poggiato sul ripiano, guardò di nuovo al suo tavolo, ormai vuoto, e subito si raddrizzò sullo sgabello. Allungò il collo, cercando di individuarla sulla pista da ballo, senza successo, e l’irritazione fu piuttosto evidente, quando il muscolo della mascella vibrò per la forza con cui digrignò i denti.
La mano con il mignolo mancante, vicino al bicchiere di whisky che stava bevendo, si strinse in un pugno.
Sembrava un ragazzino viziato a cui avevano tolto il giocattolo.
Mentre lo soppesava, Charlie sentì l’adrenalina iniziare ad inondargli le vene e ogni altro pensiero, che non riguardasse quell’uomo, venne accantonato.
Gli arrivò alle spalle, e ad un passo da lui inciampò nel nulla; il suo Old Fashioned finì sulla camicia satinata, visibilmente costosa, dell’uomo che sussultò al contatto con il liquido gelido. Non si accorse, quindi, della mano di Charlie nella tasca sinistra della sua giacca elegante e a lei ci volle un attimo per constatare, con grande delusione, che fosse vuota.
“Che cazzo! Guarda dove vai, brutto str-” Si bloccò bruscamente, non appena si rese conto di chi gli avesse sbattuto contro. Tuttavia, Charlie non alzò lo sguardo dalla macchia scura che continuava ad allargarsi sul tessuto pregiato; invece, posò il bicchiere sul bancone e raccattò quanti più tovagliolini possibili, iniziando a tamponare il petto virile davanti a lei. “Mi dispiace tantissimo! Sono davvero mortificata! Lascia che ti aiuti, sono sicura che possiamo migliorare la situazione…” Iniziò a scusarsi, toccandolo e distraendolo; quindi, libera di controllare anche l’altra tasca della giacca: vuota.
Il disappunto la pervase. Dove diavolo ha messo quelle dannate chiavi?
Non si fece scoraggiare da quel piccolo intoppo e la sua mano sinistra raggiunse la destra sul suo petto, provando a farsi strada verso la tasca interna.
Lui, però, le afferrò bruscamente il polso, fermandola e costringendola ad alzare, per la prima volta, gli occhi.
Così, si ritrovò faccia a faccia con Peter Cox, alias Liam Ruiz.
Era un bell’uomo, si poteva dire fosse anche più bello di Logan: capelli chiari, sistemati ad arte in una pettinatura alla moda, naso dritto leggermente graffiante ed iridi verde brillante; tuttavia, non possedeva quel fascino intrinseco che contraddistingueva lo sceriffo.
Il suo sguardo era freddo e calcolatore, non caldo e magnetico, e non appena si posò su di lei, un brivido gelido le percorse la schiena. “So cosa stai cercando, bambolina.”
Quel nomignolo le attorcigliò lo stomaco e il fastidio iniziò a crescere. Sapeva perfettamente che uomini come quello non lo intendevano affatto come un tenero vezzeggiativo. Era proprio così che la vedevano. Una bella biondina, una stupida barbie, che aveva solo un’unica utilità nel grande schema delle cose.
Tutto ciò, però, non turbò affatto la placida superficie della sua impassibilità. Ogni emozione era stata opportunamente soffocata e schiacciata nell’angolino più buio e recondito di lei.
In ogni caso, dubitava fortemente che lui sapesse cosa stesse cercando e fu quel pensiero, quindi, la fonte del sorriso sfrontato che le curvò le labbra.
Quello sprezzante scetticismo fu scambiato per vivo coinvolgimento e anche se gli occhi di lei non si illuminarono di alcuna emozione, Liam Ruiz non se ne accorse.
Cercò di liberare il polso dalla sua presa, ma quelle dita si serrarono in una stretta ancor più ferrea. Charlie avrebbe potuto facilmente sbatterlo a testa in giù sul bancone, ma quello non era certo un buon modo di fare colpo su un uomo…
Doveva cercare di distrarlo, cosicché la lasciasse andare. Aveva ancora un compito da portare a termine, dopotutto.
Ruiz le avvolse la vita con un braccio, spingendola prepotentemente verso di sé e le posò un bacio dietro l’orecchio, come se ne avesse tutto il diritto – non conosceva nemmeno il suo nome, santo cielo.
Quell’uomo iniziava davvero a darle sui nervi, e dire che aveva sempre avuto una pazienza infinita. Forse, la sua sopportazione era semplicemente arrivata al punto di saturazione.
“Queste curve sembrano proprio fatte per le mie mani.” Non le diede modo di rispondere, le posò una mano sul sedere, invece, avvolgendole l’intera natica. Con la punta di un dito si fermò proprio nel punto in cui la pelle morbida del gluteo lasciava il posto all’osso del bacino. Quasi in mezzo alle sue gambe.
Charlie non era una sprovveduta, però, e proprio per quel motivo aveva indossato i suoi pantaloni neri da sera, insieme alla camicia di seta lilla a maniche lunghe e le adorate Jimmy-Choo. Con un abito, altrimenti, si sarebbe ritrovata quella mano proprio sotto la gonna.
Era preparata a quell’evenienza, quindi; pertanto, non si spiegò il sussulto con cui accolse quella rudezza.
Anche l’uomo se ne accorse: “Cosa c’è? Fai la timida?” Il verde dei suoi occhi brillò di eccitazione a quell’idea, e il cuore di Charlie iniziò a battere impazzito alla consapevolezza del suo errore.
Mai mostrare debolezza. Bisognava sempre seguire la corrente, assecondare quegli uomini finché non avevi ottenuto tutto ciò che volevi. Come un salice che si piega all’impeto del vento, senza spezzarsi.
Eppure, in quei pochi secondi che sembrarono secoli, le parve di annaspare alla ricerca della sua sicurezza.
Quella sua reazione, che non le era mai appartenuta, la destabilizzò. Sentì il suo stomaco stringersi in una morsa dolorosa e un’improvvisa sensazione di nausea spingere contro l’esofago.
Un’emozione prevalse su tutte le altre: la paura.
Era abituata all’adrenalina, al nervosismo, ma non al panico; tuttavia; in quel suo marasma interno, si stagliò ben visibile un appiglio. Come la vetta d’una montagna che sorge tra le nuvole in tempesta, la fermezza di Charlie fu l’unico porto sicuro che trovò e vi ci si aggrappò con disperazione.
Il rifiuto di rendersi vulnerabile davanti a quell’uomo orribile le risalì la spina dorsale e ricacciò indietro ogni traccia di terrore.
L’uragano fu placato e, al suo posto, rimase solo una quiete sovrannaturale, quasi malsana.
Fu un attimo, quindi, e quel sussulto fu l’unico indizio di tutto il caos ormai passato.
Mura invisibili si stagliarono alte tra lei e Liam Ruiz, proteggendola dal colpo successivo: “Troverei comunque il modo di farti aprire quelle belle gambe per me, bambolina.”
Spinta dalla rabbia, per tutta risposta, Charlie gli afferrò il bavero della giacca e lo spinse a sé, sigillando quella bocca con la sua.
Fu lui a trasalire per la sorpresa, stavolta, e tanto basto affinché le lasciasse la mano.
Quel bacio fu solo quello: una cosa fisica, un semplice scambio di saliva, con l’unico obiettivo di sostituire la chiave della BMW nella tasca di Ruiz con quella di riserva – identica, ma al cui interno ora si nascondeva una cimice – che Charlie aveva rubato a George Edwards. Con il vantaggio che, nel mentre, l’uomo se ne sarebbe stato zitto.
Era sicuramente un gesto disperato, ma lei – per la prima volta in vita sua – aveva paura di perdere il controllo.
Al tempo stesso, quel bacio – alimentato unicamente dall’odio - significò molto di più. Sancì la morte di una parte di lei, quella che ancora s’aggrappava alla sua vita passata – l’unica che aveva conosciuto – e che l’aveva spinta lì, quella sera.
Solo quando il suo obbiettivo fu raggiunto e le chiavi furono scambiate, Charlie si staccò dalle labbra di Ruiz e, al sorriso sornione che iniziò a curvare la bocca di lui, pregò affinché non dicesse nulla; non era sicura sarebbe riuscita a trattenersi dal tirargli un pugno sul naso, ora che i giochi erano fatti.
Sembrò che qualcuno avesse sentito la sua supplica, perché un energumeno si interpose tra loro.
“C’è una chiamata per te.” Gli riferì in spagnolo.
Ruiz non fu certo contento di sentire quella notizia. “Non vedi che sono impegnato?” Ribatté nella stessa lingua. Pareva proprio non avessero considerato affatto l’ipotesi che Charlie li capisse.
“La figa può aspettare, il capo vuole parlarti.” Disse, senza nemmeno guardarla. Era evidente che Sua Grazia non prendesse ordini da Ruiz, bensì da qualcuno più in alto di lui: Cole Rodriguez, magari.
Tutto quello che l’altro poté fare, quindi, fu alzarsi dal suo sgabello. “Aspettami qui, bambola. Torno subito.” Lo disse con la stessa sicurezza d’un padrone che dà ordini ad un cane ben addestrato e Charlie non si prese nemmeno la briga di rispondergli, guardandolo allontanarsi.
Non lasciò la presa dalla sua risolutezza, unica cosa che le impediva di vomitare proprio lì, in mezzo al locale.
Contò lentamente fino a sessanta e poi si alzò, dirigendosi verso i bagni. Le sembrò d’aver inserito il pilota automatico e, come un automa, aprì la porta dell’uscita sul retro.
Camminò verso la sua macchina, con una tranquillità che in realtà non le apparteneva, incurante del vento gelido che le sferzava la leggera camicetta che aveva addosso. Le parve di guardarsi dall’esterno: una donna, senza alcun problema al mondo, di ritorno da una bella serata; la sua disinvolta avanzata verso l’auto accompagnata unicamente dal rumore ritmico dei tacchi sull’asfalto.
Tuttavia, ad ogni suo passo, lasciava dietro di sé una scia di detriti e, pian piano, le fortificazioni che aveva innalzato si deteriorarono.
Il primo segno visibile di quel fenomeno fu la mano tremante che si allungò ad aprire la portiera.
Non si fermò mai lungo il viaggio di ritorno, decisa a mettere più distanza possibile tra sé e gli ultimi eventi.
Voleva solo rifugiarsi nel caldo del suo letto e fingere che, sotto le coperte, niente avrebbe potuto raggiungerla.
Avrebbe dovuto ritenersi soddisfatta: presto avrebbe avuto intercettazioni più accurate e le indagini avrebbero preso il volo; doveva solo convincersi che ne fosse valsa davvero la pena.
Quando parcheggiò davanti casa di suo padre, non entrò; invece, si ritrovò a camminare senza meta per le strade deserte di Sunlake, con solo il freddo e la luna a farle compagnia.
I suoi tacchi erano l’unico suono in quella città dormiente, ed anche quello splendido silenzio, unica cosa decente di quel giorno, fu rovinato.
Charlie accolse di buon grado il gelo della notte, rispecchiava proprio quello che aveva nel cuore.
Non seppe dire per quanto camminò ma solo che, alla fine, si fermò davanti una piccola villetta. Non c’era steccato o recinzione, solo un elegante sentiero che portava fino alle scale d’ingresso. Le finestre erano tutte buie, compresa quella dalla quale era solita sgattaiolare fuori quando albeggiava.
Ancora una volta, le venne in mente Matthew e le parole che le aveva rivolto, meno di ventiquattr’ore prima: te lo meriti, Charlie.
Poteva anche esser vero, si meritava l’amore di un uomo splendido come lui; ma lo sceriffo si meritava una donna come lei?
Ovviamente Logan le piaceva, ma addirittura parlare d’amore?
Non ci aveva creduto. Charlie aveva avuto il terrore che quel sentimento fosse alimentato unicamente dal suo bisogno di non esser sola. Che in realtà il suo desiderio d’affetto era così disperato da farle credere d’amare a sua volta Logan; era solo una reazione all’infinita fiducia che lo sceriffo le dimostrava.
Ma pur sempre una finzione.
Poi, Matt aveva osservato: per quale altro motivo staresti tergiversando, altrimenti?
E Charlie si era ritrovata al Gryson’s, quando l’unico posto dove voleva essere era proprio nella casa che aveva difronte.
Pensò a Liam Ruiz e alla reazione che aveva avuto al tocco delle sue mani. Di certo, non era stata la prima volta in cui un uomo le aveva messo le mani addosso in quel modo. In cui le avevano parlato come aveva fatto. Tuttavia, la sensazione che ci fosse qualcosa di completamente sbagliato era stata nuova, e con quella era sorta una solida certezza: per nulla al mondo lo avrebbe fatto di nuovo.
Davanti casa dello sceriffo, mentre iniziava a cadere la neve, la roccaforte di Charlie andò in mille pezzi.
La donna realizzò che erano davvero poche – quattro, forse – le persone di cui voleva la fiducia; ed ancora meno quelle a cui lei l’aveva concessa: a suo padre – per cui aveva deciso di tornare a Sunlake - non aveva mai promesso di non mentire, a Maddie non aveva mai raccontato cose davvero personali e nemmeno con il dolce Jake poteva essere davvero sé stessa, in tutto e per tutto.
Solo Logan.
Si era totalmente sbagliata: non amava Logan perché aveva bisogno di lui.
Ne aveva bisogno, perché lo amava.
Per la prima volta, aveva permesso ad un altro essere umano di farsi strada nella sua mente, di insinuarsi nella sua carne, fino alla vera essenza di sé. Lei, che non aveva mai avuto bisogno di nessuno.
E così, quel sentimento che avvolgeva il suo cuore cambiò completamente aspetto.
Era curioso come andassero le cose, a volte. Ad un certo punto della sua vita, Charlie si era ritrovata difronte ad un bivio, ed aveva scelto di tornare a Sunlake. Ovviamente, come sempre accade, si era aspettata che le cose andassero come voleva lei: avrebbe ricucito il rapporto con suo padre e si sarebbe sentita di nuovo felice.
Invece, il destino – o chi per voi – aveva preso due fili del proprio disegno e li aveva intrecciati tra loro.
E, incredibilmente, quella si era dimostrata, di gran lunga, una strada migliore. Una strada che Charlie non aveva nemmeno creduto di poter percorrere.
Sentì una lacrima scorrerle lungo la guancia.
Lo amava.
Ed era stata così cieca e stupida…
Magari non lo meritava, ma voleva l’amore di Logan e avrebbe fatto qualsiasi cosa per esserne degna.
Alla vibrazione del telefono, meccanicamente, Charlie lo estrasse dalla sua tasca posteriore e non appena vide il mittente del messaggio, lo aprì.
Dove sei?
Si portò le mani, con tutto il cellulare, al petto per evitare che il suo cuore le uscisse dalla cassa toracica.
Alle tre di notte, Logan era ancora sveglio ad aspettare sue notizie.
Nonostante non si fossero visti, si erano sentiti al telefono e l’umore di Charlie non era certo passato inosservato allo sceriffo; poteva nascondere il suo turbamento a chiunque, ma non a lui.
Non aveva fatto domande, quando lei gli aveva detto che non sarebbe andata al loro solito appuntamento notturno, a causa di un impegno che aveva rimandato troppo a lungo.
Dopo un sospiro rassegnato, con tono serio e venato di preoccupazione le aveva detto: “Stai attenta.”
E lei cosa aveva fatto? Aveva baciato un altro.
Le girò la testa a quella realizzazione e si ritrovò in ginocchio sull’asfalto, piegata in avanti con le mani ancora strette al petto. Calde lacrime rigarono le sue guance congelate e le sue spalle tremarono per i suoi singhiozzi silenziosi.
Avrebbe vomitato se solo avesse avuto qualcosa nello stomaco.
La cosa ancor peggiore fu la consapevolezza di non poter dir nulla a Logan di Liam Ruiz, e non aveva nemmeno intenzione di ridurre tutta quella storia alla mera questione: ho baciato un altro uomo. Perché non era affatto ciò che era successo, era stato un mezzo per raggiungere un fine. Niente di più.
Di certo, però, non poteva fornirgli il giusto contesto.
Inoltre, aveva il terrore che non l’avrebbe perdonata per una cosa del genere. Aveva visto cosa accadeva quando nascondevi determinate cose alle persone che ti volevano bene. A furia di tirare, qualsiasi corda si sarebbe spezzata.
Concentrata sul suo dolore, non alzò lo sguardo al rumore d’una porta che s’apriva e a quello di passi che le si avvicinavano velocemente. Solo quando le braccia calde e il profumo inconfondibile di Logan l’avvolsero, si rese conto di non essere più sola.
Logan Moore, ancora in pigiama e piedi nudi, si inginocchiò difronte a lei. “Cosa è successo?” L’angoscia nella sua voce fu palpabile. Le sue mani iniziarono a farsi strada sul suo corpo, come cercando qualcosa e, solo in un lampo di lucidità, Charlie si rese conto che voleva controllare se fosse ferita. La guardò con urgenza: “Charlie, parlami.”
“S-sto b-bene.” Fu tutto quello che riuscì a dire.
“Stai congelando.” Senza sforzo, la prese in braccio e lei si aggrappò alle sue solide spalle. Chiuse gli occhi e tuffò la faccia nell’incavo del suo collo.
Avrebbe voluto rimanere così per sempre, nascosta in quel rifugio sicuro. Senza dover, per una volta, affrontare le conseguenze.
Solo quando varcarono la soglia e il calore l’avvolse, si rese conto di quanto avesse freddo e di quanto tremasse.
“Jake?”
Logan la mise giù e prese la coperta abbandonata sul divano, avvolgendogliela attorno. “Dorme.” Sussurrò, iniziando a spingerla lungo il corridoio. “È meglio se fai un bagno caldo.”
Le mani di lei si aggrapparono al suo pigiama. “Non lasciarmi.” La supplica le uscì spontanea e non seppe nemmeno a cosa si riferisse: al bagno o alla loro relazione?
In ogni caso, l’uomo sembrò capire perfettamente. Le sue mani le scaldarono le guance quando le prese il viso, per guardarla negli occhi. “Mai.” Per un momento, la preoccupazione nelle sue iridi scure fu offuscata da una bruciante determinazione. “Non succederà mai, Charlie. Te lo giuro.”
Quella promessa fu sufficiente a fermare le sue lacrime, e il sollievo le fece tremare le gambe; sarebbe caduta se non fosse stato per lui.
Lasciò che le facesse il bagno, abbandonandosi senza alcuna remora.
Era stufa di dover esser sempre allerta, di dover diffidare di chiunque e d’essere sempre e soltanto una versione di sé stessa: quella forte e risoluta.
Aveva bisogno di lasciarsi andare e con quelle mani che le insaponavano la schiena, non le sembrò più una debolezza affidarsi a qualcun altro. Qualcuno disposto a raccoglierla da terra e ad avvolgerla in una coperta, quando le cose si facevano troppo difficili.
E così, Logan le mostrò quanto fosse bello smettere d’esser forti e lasciare che un altro lo fosse per te.
Il bagno caldo permise di nuovo al suo sangue di circolare correttamente nel suo corpo, raggiungendo tutte le estremità. Lavò via il gelo; non solo quello esterno ma anche quello che non l’aveva abbandonata da quando era uscita dal Gryson’s.
L’acqua bollente cancellò ogni più piccolo residuo di dubbio che le era rimasto e i suoi sentimenti divennero così chiari, che Charlie si chiese come diavolo avesse fatto a pensare di non amarlo davvero.
Amava tutto di quell’uomo. La sua correttezza e fibra morale, la sua disponibilità e dedizione verso i cittadini di Sunlake; le sue mani, con cui venerava il suo corpo ad ogni tocco, e quel sorriso che le scaldava l’anima. I suoi occhi, che parevano essere in grado di cogliere sempre e soltanto la parte migliore di lei. Anche se la nascondeva. Anche quando lei stessa faceva fatica a distinguerla.
Amava quel modo che aveva d’assecondare sua madre, pur di non ferirla, e la totale devozione per suo figlio. E in un mese, Charlie aveva assaggiato nuovamente il sapore della felicità.
Si ritrovò a letto, con un pigiama da uomo addosso, distesa su un fianco. Difronte a lei, Logan stava lottando con sé stesso, diviso tra il suo bisogno di sapere cosa fosse successo e il desiderio di aspettare che fosse lei a confidarsi.
Charlie lo tolse da quel limbo. Si avvicinò, sotto le coperte, finché non riuscì a sentirne il calore. Gli prese la mano e ne baciò ogni nocca. “Ci sono cose che ancora non posso dirti, Logan.” Con le labbra coprì teneramente ogni centimetro del suo palmo. “Ed altre che non potrò rivelarti mai.” Non esitò nemmeno a pronunciare quelle parole. “Però, ti giuro che tra tre mesi tutto sarà più chiaro.”
Tre mesi e, finalmente, il suo trasferimento sarebbe stato ufficializzato; consentendole d’infrangere il silenzio circa il perché di tutti quei segreti.
Nella fioca luce della stanza, illuminata da un’unica abat jour, incontrò il suo sguardo e l’uomo si allungò ad immergere le dita tra i suoi capelli, iniziando a districarne i nodi, in lente carezze.
“Me lo diresti se qualcuno ti avesse fatto del male, vero?” Gli occhi scuri di lui trovarono quelli blu di lei, in cerca di una rassicurazione.
“Si.” Promise. Anche lei, al suo posto, lo avrebbe chiesto. Ed era giusto così.
In ogni caso, per Charlie quella sera non era successo niente. Stava bene. Si era trattato di solita amministrazione.
Logan annuì. “D’accordo.” Si sporse per baciarla, ma Charlie si ritrasse. Aveva preso una decisione ed ora arrivava la parte più delicata.
Chiuse le palpebre, prima di mormorare. “Devo dirti una cosa, ma non so come.”
“Allora non farlo.”
Quelle parole le sembrarono appartenere ad un sogno e lei lo guardò come se si fosse appena svegliata, tentando di capire se fosse reale oppure solo frutto della sua immaginazione.
Lui ne approfittò per baciarla, in un tenero incontro tra labbra. “Non importa.” Sussurrò ancora, sulla sua bocca e quasi le sembrò sapesse di cosa stesse parlando. Ne fu rassicurata, come sempre le accadeva vicino a lui. Alzò il mento, offrendoglisi e Logan non se lo fece certo ripetere.
Assaggiò il suo labbro inferiore, mordicchiandolo e succhiandolo leggermente, e Charlie fece scivolare le sue mani al disotto del pigiama, percorrendo addominali definiti e salendo fino ai solidi pettorali.
Le loro lingue si incontrarono e iniziarono una danza pigra e deliziosa.
Si addormentò così, abbracciata a lui.
Il peggio è passato, fu il suo ultimo pensiero cosciente.
 
Adam Bailey osservò Liam Ruiz sbracciare furioso all’indirizzo della sua guardia del corpo, o quella che presumeva essere la sua guardia del corpo.
Non lo aveva perso di vista un momento, proprio come gli aveva detto lo sceriffo Clark; pertanto, aveva assistito all’incontro con quella donna.
Non sapeva cosa pensare della scena che gli si era presentata. Quei due sembravano non conoscersi affatto: lei gli era inciampata addosso e lui ci aveva provato; tuttavia, i conti non tornavano.
Lo aveva baciato con passione, addirittura con furia, forse. In ogni caso, non capiva quale fosse lo scopo di quella sceneggiata, depistarli forse?
Si erano scambiati qualche tipo d’informazione?
Sbuffò, infastidito. Non riusciva più a raccapezzarsi in tutta quella confusione.
In ogni caso, non capiva proprio a cosa servisse il teatrino che Ruiz stava mettendo in piedi. Quando era tornato al bancone e non aveva trovato la donna, aveva dato di matto. Avrebbe potuto brillare al buio per quanto era diventato rosso, e aveva iniziato ad inveire verso l’energumeno, in piedi vicino a lui.
Probabilmente gli aveva ordinato di cercarla, visto che quello era sparito per poi tornare poco dopo.
Nonostante non potesse sentire quel che si dicevano, era facile intuire il tono della conversazione.
Adam sbadigliò e guardò l’orologio. Erano appena le quattro e venti, ma probabilmente Ryan Clark avrebbe voluto sapere subito quello che era successo.
Uscì dal Gryson’s, diretto alla sua macchina. Ormai la notte era finita, dubitava ci sarebbe stato molto altro da vedere.
Solo quando fu per strada, fece partire la chiamata, e nell’abitacolo risuonò la voce dello sceriffo: “Hai novità, Adam?”
La voce di Clark, seppure assonnata, non era affatto scocciata; anzi, il tono era piuttosto interessato. Sapeva che non lo avrebbe chiamato nel cuore della notte, se non fosse stato importante.
Ripensò brevemente alla sensazione che aveva avuto quando Liam Ruiz aveva stretto a sé quella bionda mozzafiato. Per un momento gli era sembrata contrariata dall’atteggiamento dell’uomo; eppure, era stata proprio lei a baciarlo.
Scosse la testa, scrollandosi di dosso quel dubbio ridicolo. Probabilmente quell’impressione era dovuta all’aspetto di lei; senza dubbio sembrava un angelo, ed era strano che un essere, all’apparenza, tanto innocente fosse coinvolto con una persona losca come Liam Ruiz.
Disse semplicemente ciò per cui aveva chiamato: “Quella donna, Charlie Royce. Si è fatta rivedere al Gryson’s, proprio come sospettavi. E sembra essere in confidenza con Ruiz.”
Il sospiro dell’altro gli disse che non era affatto felice di sentire quella notizia. “Raccontami tutto.”

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Capitolo 13
*** CAPITOLO TREDICI ***


CAPITOLO TREDICI
All’alba, il giorno sorse su una Sunlake dormiente e innevata. Il bianco ricopriva ogni cosa, come morbida panna montata su un delizioso dolce natalizio, il ché contribuiva a rendere l’atmosfera ovattata e quasi spettrale.
Il silenzio riecheggiava tra le case e le strade deserte. Solo verso le otto di mattina qualche volenteroso iniziò a spalare la neve dai vialetti e dai marciapiedi; tuttavia, quel lavoro non sarebbe durato per molto, visto il tempo grigio.
Il Sole, coperto da un leggero strato di nuvole, aveva un aspetto malato, proprio come la luce che irradiava e, sembrava, non avesse voglia d’uscire da sotto quella coperta plumbea. Solo diverse ore dopo, a pochi passi dall’apice della sua scalata quotidiana, parve stiracchiarsi e far capolino da quelle coltri.
Un piccolo raggio luminoso, infatti, sfuggì a quel manto fatto d’acqua condensata e minuscoli cristalli di ghiaccio e, di tutti i posti possibili, scelse di intrufolarsi nella sottile fessura delle persiane della camera da letto di casa Moore, andando a scaldare la guancia destra, un po’ ispida, dello sceriffo.
Era sempre stato un uomo mattiniero, eppure, la preoccupazione della notte prima gli aveva impedito di addormentarsi d’un sonno profondo e davvero riposante.
Si rigirò infastidito nel letto, quindi, spostandosi sul fianco sinistro. Quel movimento non fu sufficiente a svegliarlo, nonostante si trovasse in quel limbo delicato di un sonno leggero, quasi sfumato; fu una voce, invece, a perforare la nebbia della sua incoscienza.
“Papà.”
Si spostò ancora una volta, tra le coperte, e rispose a quella voce frutto dei suoi sogni. “Mmh?”
Delle dita lo pungolarono su una spalla e la voce sembrò farsi più urgente, quando ripeté: “Papà!”
Stavolta, Logan aprì gli occhi, solo per portarsi subito un braccio davanti al viso con un lamento, quando la luce del giorno l’accecò.
In piedi, di fianco al letto, con indosso il suo pigiamino di Superman e i capelli scompigliati in tutte le direzioni, c’era Jake e aveva tutto l’aspetto d’essersi appena alzato. E se suo figlio s’era alzato prima di lui, di sabato, voleva dire che era davvero tardi. Si costrinse a sbirciare di nuovo da sotto la sua barriera protettiva. “Che ore sono?” Domandò con voce arrochita dal sonno.
“Le dieci.”
Dei del cielo. Aveva dormito cinque ore e comunque si sentiva come se avesse appena corso una maratona: stanco morto. Si alzò su un gomito e, con gli occhi ancora socchiusi, lanciò una veloce occhiata all’altra parte del letto: vuota.
Sospirò e osservò suo figlio, in piedi vicino a lui, che guardava nervosamente verso la porta della stanza. Si accigliò e cercò di mettersi più dritto. “Cosa c’è?” Chiese, non potendo fare a meno di sbadigliare.
Jake si avvicinò, come volendo fargli da sostegno morale alle parole che stava per dire. “C’è Charlie in cucina.”
Da come lo disse, gli parve che con quelle sole parole avrebbe dovuto capire tutto, ma lui era ancora stravolto e in deficit di sonno; pertanto, non gli sembrò una cosa così sconvolgente.
D’accordo, suo figlio non sapeva che la donna dormisse praticamente ogni notte con lui, però aveva sempre adorato Charlie, e credeva sarebbe stato felice di quella novità.
Si grattò pigramente una guancia, insicuro su cosa dire. “Ha dormito qui…” Provò, come giustificandosi.
Il bambino scosse la testa, come un professore contrariato da un alunno indisciplinato. “Ha detto che sta preparando la colazione. Hai mai assaggiato la sua cioccolata calda?” No, però era sicuro che Jake sapesse di cosa stesse parlando e la sua espressione gli disse chiaramente cosa ne pensasse. “Il cioccolato non ha quel sapore.” Si spinse i piccoli occhiali sul naso, e sembrò cercare una risposta scientifica che spiegasse come avesse fatto Charlie a renderlo tanto disgustoso.
In ogni caso, la sentenza, com’è ovvio, fu una: “Devi fere qualcosa, papà.” Quella supplica lo fece ridere di cuore e buttò i piedi giù dal letto, improvvisamente meno stanco d’un istante prima.
Padre e figlio si affrettarono per il corridoio, verso la cucina, ed entrambi si fermarono sulla soglia allo spettacolo che gli si presentò: Charlie, vestita con una vecchia tuta sbiadita di Logan, canticchiava un famoso motivetto, mentre con una spatola girava dei pancake in una padella.
Il profumo non gli sembrò affatto male, ma lui – che si fidava ciecamente di Charlie - non si fidava affatto delle sue doti culinarie.
Nessuno dei due se ne accorse ma, entrambi in pigiama, con i capelli scuri scompigliati dal cuscino e con la stessa espressione un po’ schifata all’indirizzo della colazione, sembravano due gocce d’acqua. Uno la copia in miniatura o ingrandita dell’altro, e quando si voltò, la donna lo notò eccome.
Il suo sorriso quasi lo accecò. “Ecco i miei uomini! Siete pronti per i pancake?” Cinguettò con esuberanza, agitando la spatola nella loro direzione, ma il suo entusiasmo fu accolto da eguali sorrisi titubanti.
L’uomo si grattò la nuca, incerto, ritrovandosi tra due fuochi: da una parte quella splendida donna gioiosa e dall’altra il suo unico figlio, che non voleva venisse avvelenato.
Fu quest’ultimo che lo tirò fuori dalla sua indecisione, spingendolo da dietro e spronandolo a rappresentare il dissenso popolare.
Perciò, Logan si schiarì la gola, passandosi una mano tra il marasma che erano i suoi capelli. “Tesoro, forse è meglio se lasci fare a me. Che ne dici?” Ecco fatto, assolutamente diplomatico.
La risata di lei riempì la stanza, per nulla toccata da quel tentativo di levarle il controllo dei fornelli. Anche lui si ritrovò a sorridere, di rimando, al suo umore contagioso.
Charlie scosse la testa. “Questi sono pancake magici. Assolutamente magnifici.”
Non ne dubitava, soprattutto se li aveva mangiati anche lei: era impossibile essere tanto allegri, con meno di cinque ore di sonno, senza un po’ di magia.
Ad ogni modo, Logan sbuffò divertito a quel suo tenero tentativo di convincerli; lui e Jake non avrebbero certo ceduto tanto facilmente…
Fece per ribattere, ma suo figlio si fece avanti, avvicinandosi come stregato, gli occhi pieni di fanciullesco stupore e innocente curiosità. “Davvero?”
Dannazione. Va bene, lui non avrebbe ceduto. E dire che poco prima era sembrato tanto categorico, immaginò che quello cambiasse tutto, però.
“Vuoi assaggiare?” Lo invitò quel diavolo tentatore biondo, muovendo le sopracciglia con fare allettante.
Come un fulmine, il bambino si sedette al tavolo e Charlie gli mise subito davanti un piatto pieno di pancake colanti sciroppo.
I due adulti rimasero in attesa del verdetto, Logan con le braccia incrociate al petto e lo scetticismo negli occhi; mentre, il sorriso della donna non vacillò un momento, guardandolo con le dita intrecciate davanti alla bocca, come in una silenziosa preghiera.
Osservarono attentamente un lato della forchetta immergersi in quei morbidi dischetti dorati e staccarne un pezzetto, poi, i rebbi vi affondarono e Jake si portò quel succoso boccone alle labbra.
I suoi occhi si spalancarono e, una volta che ebbe deglutito, si girò a guardare suo padre. “Sono buonissimi!” Commentò con tono incredulo ed esultante. A quelle parole, il sorriso di Charlie – sembrava impossibile ma era così – si ingigantì ancor di più.
“Te l’ho detto…” Affermò lei, con manifesta soddisfazione, come se poco prima non stesse implorando gli dèi affinché quei pancake fossero buoni davvero.
Poi, toccò a lui, e lo guardò con quelle sue liquide iridi blu, inclinando leggermente la testa nel suo solito modo giocoso. “Vieni a fare colazione, cowboy?”
E, seriamente, non ci si poteva aspettare che le resistesse. Non era mai stata più bella: piena di gioia incontrollata, mentre si girava per impilare i suoi pancake nel piatto in un piccolo balletto di vittoria e autocompiacimento.
Rise e prima che potesse versare lo sciroppo, Logan si sporse oltre le sue spalle e strappò un pezzetto di pancake con due dita, per poi infilarselo velocemente in bocca.
Non solo avevano il sapore che ci si sarebbe aspettati, ma erano addirittura molto buoni. Davvero squisiti.
Aveva creduto che Jake si fosse lasciato suggestionare, invece…
I suoi pensieri dovettero essere palesi, perché Charlie lo guardò con consapevole soddisfazione.
“Come hai fatto?” Sussurrò ammirato.
“Te l’ho detto, magia…” Sollevò le mani nello spazio tra loro, scuotendo le dita in modo evocativo.
Logan fece un passo avanti, poggiandosi sul ripiano della cucina, intrappolandola tra sé e il bancone. La guardò attentamente negli occhi, dall’alto, cercandovi una risposta e trovandovi solo divertimento. Non riuscì a resistere, si piegò a depositare un piccolo bacio sul suo collo.
La sentì ridacchiare, prima che mormorasse: “Potrei aver comprato la pasta già pronta della signora Peterson, al market.”
Le labbra dell’uomo si curvarono in un sorriso pigro sulla morbida pelle di Charlie. “Hai imbrogliato, quindi…” Sussurrò, assaporando il suo delizioso profumo di donna.
“Non lo chiamerei così.” Osservò tranquillamente e lui si ritrasse per guardarla in viso, alzando un sopracciglio. “Direi che ho trovato una soluzione ad un problema… Non c’è di che, comunque.”
Lui buttò la testa indietro e rise di nuovo. “Invece, sembra proprio che tu abbia barato.”
“Sei solo geloso perché i miei pancake sono più buoni dei tuoi.”
“I pancake della signora Peterson, intendi.”
Quella bocca seducente si curvò in un sorrisino sfacciato. “Ehi, li ho cotti senza bruciarli. Quindi sono più miei che suoi.”
Santo cielo, era deliziosa. Avrebbe volentieri mangiato lei, per colazione.
La baciò fugacemente sulla bocca, per poi prendere il suo piatto e farle l’occhiolino. “Come vuoi, tesoro.”
Tuttavia, non appena si girò, si fermò di colpo, sbattendo contro la consapevolezza d’avere un pubblico. Seduto al tavolo, Jake li osservava curioso, continuando a mangiare di buon gusto, godendosi uno spettacolo grandioso.
Per fortuna, lo squillo del telefono lo salvò.
L’unica persona che chiamasse a casa, in particolar modo di sabato, era sua madre. Invece, con sua grande sorpresa, fu la voce di Ryan Clark a dargli il buongiorno. “Logan, ho provato a chiamarti tutta la mattina. Ho delle novità.”
Il suo tono sembrava più nervoso del solito, il che era tutto dire per lui.
“Scusami, avevo il cellulare spento. Dimmi tutto.”
In sottofondo sentì Charlie e Jake parlare di un film di supereroi, e non poté non sorridere al suono della risata cristallina di suo figlio. Avrebbe ascoltato cos’aveva da dirgli di tanto urgente, e poi sarebbe tornato da loro. Tuttavia, l’altro non parve dello stesso avviso.
“No, non al telefono. Sto venendo lì, sono riuscito ad uscire solo mezz’ora fa, a causa della nevicata di stanotte.” Si accigliò, dovevano essere davvero delle cattive notizie per spingerlo a venire a Sunlake, nonostante il tempo. “Sarò lì tra poco.” Detto ciò, attaccò.
Perciò, quaranta minuti dopo, Logan si ritrovò seduto alla scrivania del suo ufficio a rimpiangere d’aver lasciato la felicità della sua cucina. Soprattutto perché i due uomini difronte a lui sembravano intenzionati a non spiccicare parola.
Era normale che Ryan Clark fosse nervoso, lo era sempre; pertanto, non era affatto una novità che avesse afferrato una delle sue penne e la stesse torturando con le dita, evitando il suo sguardo.
Ciò che era decisamente strano, però, era il comportamento di Luke Thomson. Il vicesceriffo, solitamente sempre tranquillo e di buon umore, pareva avesse perso il sorriso, e non aveva smesso un secondo di muoversi a disagio sulla sua sedia.
Ad ogni modo, lui non aveva intenzione di passare tutto il suo giorno libero ad aspettare che uno di loro trovasse il coraggio di parlare. “Allora, volete dirmi cosa sta succedendo?” Chiese, leggermente irritato d’essere l’unico che, a quanto pareva, era all’oscuro degli eventi.
Se possibile, però, a quella domanda, i due sembrarono farsi più tesi e Logan sospirò. Non sarebbe mai riuscito a tornarsene a casa ad un’ora decente, di quel passo.
Per fortuna, Charlie sarebbe stata occupata per il resto della mattina con il comitato cittadino, trascinando Jake con sé. Tuttavia, se lo avessero lasciato andare, avrebbe potuto convincerla a sgattaiolare via e, magari, tutti e tre, avrebbero potuto godersi il resto del sabato in tranquillità.
Fu Ryan a schiarirsi la gola e a parlare per primo. “Ieri sera, uno dei miei uomini ha visto Liam Ruiz al Gryson’s.”
Logan non fu per niente impressionato: non era nulla di nuovo, sorvegliavano quel locale da più d’un mese.
Dopo un attimo d’esitazione, l’altro continuò. “Una donna lo ha avvicinato, sembravano molto in confidenza. Lo ha baciato con… uhm… familiarità.
Lo fissò, in silenzio, aspettando che continuasse. Non capiva dove volesse andare a parare. Che la donna avesse sporto denuncia contro Ruiz? Non ne sarebbe rimasto stupito, aveva visto il fascicolo di quell’uomo, sapeva di cosa fosse capace. Proprio per quel motivo chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio. “L’ha uccisa?” Cercò di indovinare e solo a quel pensiero gli parve di avere un macigno sullo stomaco.
Non vide lo sguardo incerto che si scambiarono gli altri due, prima che il suo vice si affrettasse a rassicurarlo. “No, niente del genere. La donna è andata via incolume.”
Lo sceriffo si passò una mano sul viso, sollevato. “Quindi? Chi diavolo è?” Stavolta, vide perfettamente l’occhiata tra Luke e Ryan; sembravano soppesarsi come a decidere chi dei due avrebbe dovuto comunicargli una brutta notizia.
Magari, se avesse riposato come si deve e se il suo risveglio non fosse stato tanto delizioso, avrebbe indovinato facilmente il motivo di tutta quella esitazione. Invece, era troppo stanco e distratto per concentrarsi a fondo sul lavoro; non avrebbe nemmeno dovuto esser lì, dopotutto.
“Pensiamo lo stia aiutando, passandogli delle informazioni sensibili.” Quel chiarimento fu sufficiente a spiegare perché lo sceriffo di Twin Lake avesse fatto tanta strada.
Logan si raddrizzò sulla sedia, protendendosi leggermente in avanti, da sopra la scrivania. “Stai dicendo che è qualcuno che lavora per noi?” Domandò incredulo.
Iniziò subito a farsi un elenco mentale delle donne che lavoravano in centrale o che, per un motivo o l’altro, passavano spesso di lì; eppure, non ce la vedeva nessuna di loro in quel ruolo.
Scosse la testa. È impossibile, pensò. Ma non lo disse, curioso di sentire il resto.
Tuttavia, la risposta di Ryan lo confuse ancor di più: “No, non è una persona interna.”
D’accordo. Stava iniziando davvero a perdere la pazienza. Se lo avesse saputo, avrebbe portato l’Indovina Chi? di suo figlio. Non potevano aspettarsi sul serio che avrebbe continuato a tirare a caso, che glielo dicessero e basta, per l’amor di dio!
Puntò gli occhi in quelli di Luke, pretendendo una risposta chiara e concisa. Ma lui abbasso la testa e tutto ciò che disse, in un sospiro sconsolato, fu: “Logan…”
Il suo tono, pieno di profonda tristezza e rammarico, bastò. La comprensione lo travolse come un’onda in piena: era una donna che entrambi conoscevano e a cui volevano bene. Una donna che, magari, era già stata coinvolta in tutto quel casino.
Pertanto, le parole di Ryan Clark furono del tutto superflue: “Mi dispiace, Logan, ma si tratta di Charlie Royce.”
 
Annabelle King, come ogni sabato mattina, presiedeva la seduta del comitato cittadino e, a parte Charlie, nessuno fece molto caso ai tanti cambiamenti della donna. Il più evidente, ovviamente, fu la sua rinuncia a chiamarla Charlotte; eppure, se si fosse prestata davvero attenzione, si sarebbero potuti cogliere comportamenti ben diversi dal solito.
La donna sembrava molto più rilassata e a suo agio, non sulla difensiva come sempre.  Le sue guance, rosse per il colore, non erano più pallide dalla tensione e il suo sorriso – decisamente più frequente del solito – contribuiva a rendere l’atmosfera più serena e costruttiva.
Tutto ciò, ovviamente, si rifletteva sulla percezione che ne avevano gli altri e, oltre a sembrare più bella, risultava anche più abile nel suo ruolo di presidentessa.
Perché, a parte tutto, Annabelle era davvero capace nella gestione e nell’organizzazione degli eventi della comunità. Di certo, la sua mania di voler controllare ogni minimo dettaglio tornava utile, ma aveva anche dei modi estremamente propositivi e costruttivi, quando voleva.
In buona parte, sembrava esser tornata la ragazza impegnata nel sociale che era stata al liceo: disponibile al confronto ed esuberante verso le nuove idee.
Tuttavia, Charlie non poteva sapere che era la sua sola presenza a render possibile tutto ciò. Infatti, da quando si era presentata a casa sua, Annabelle non aveva smesso di cercare la sua compagnia; pareva che, una volta scoperchiato il vaso dei suoi segreti, la donna non potesse più fare a meno di confidarsi. In Charlie aveva trovato la tanta desiderata comprensione che, aveva paura, non avrebbe ottenuto dalla madre e quei momenti le avevano avvicinate in pochissimo tempo; pertanto, Annabelle non sentiva il bisogno di mettersi sulla difensiva, quando sapeva esserci Charlie a darle man forte. Aveva trovato una sorta d’alleata, qualcuno che era stata in guerra con lei e che la capiva; che le avrebbe coperto le spalle semmai ne avesse avuto bisogno.
Anche se, con Maddie, non riusciva ad aprirsi come con l’amica, Annabelle aveva scoperto d’apprezzare anche la sua compagnia, così come, Diddi aveva rivalutato l’altra.
Ad ogni modo, per la prima volta, Charlie apprezzò appieno l’esperienza del comitato cittadino, fatta di un’atmosfera decisamente più godibile.
L’argomento del giorno era il Natale e, come ogni anno, era necessario organizzare il pranzo che si sarebbe tenuto nella piazza centrale, e a cui avrebbe partecipato tutto il paese. Bisognava predisporre al meglio le cose per l’occasione: il menù era il primo punto di cui occuparsi, poi veniva la disposizione dei tavoli, le decorazioni, la musica, la tettoia per ripararsi da una possibile nevicata, scegliere chi avrebbe impersonato Babbo Natale e molto altro ancora.
“Ho pensato che potremmo disporre sorta di tenda da circo, in modo che l’acqua, possa drenare più facilmente. Ovviamente, speriamo sia bel tempo.” Incrociò le dita e fece un sorriso affabile. “Almeno, in questo modo, eviteremo lo spiacevole incidente dell’anno scorso.”
Charlie non aveva idea di quale incidente parlasse ma, guardando gli occhi dell’altra brillare di malcelato divertimento, immaginò che dell’acqua stagnante – rimasta bloccata sulla superficie della tettoia improvvisata – si fosse rovesciata addosso a qualcuno.
Annuì comunque con convinzione a quella idea senz’altro buona.
“Così possiamo appendere tante luci diverse ed otterremo un effetto-” Fu interrotta dal suono inaspettato del campanello.
Approfittando di quella pausa, Charlie si chinò verso Jake, seduto al suo fianco, tra lei e sua nonna, che giocava ad un videogioco sul telefono.
Il bambino non era stato molto entusiasta di andare a quella riunione, ovviamente, ma lei si era decisamente fatta perdonare, consegnandogli il suo smartphone e autorizzandolo a scaricarvi qualsiasi cosa volesse.
Nessuna, tantomeno Sylvie, era rimasta particolarmente colpita nel vederla arrivare con il figlio dello sceriffo, non era certo la prima volta che Logan le affidava Jake e, in ogni caso, era ben noto che i due fossero amici. Perciò, stranamente, non avevano fatto domande sul perché stessero insieme, già a quell’ora.
“Stai vincendo?”
Con la lingua tra i denti, concentrato a premere freneticamente i tasti sullo schermo del cellulare, Jake borbottò: “Non riesco a superare questo livello.”
Un sorriso iniziò ad aprirsi sul suo viso, e divenne ancor più profondo quando sentì la voce di Annabelle salutare il nuovo arrivato: “Logan!”
Alzando lo sguardo verso la porta, però, il sorriso le morì sulle labbra. Charlie non aveva mai visto quell’espressione sul viso dell’uomo, che la stava guardando oltre le spalle della padrona di casa. Sembrava un misto di rabbia, tristezza e qualcos’altro; che le ricordò vagamente il volto di suo padre, quando aveva scoperto che gli aveva mentito per anni.
Si alzò di scatto dalla sua sedia, ben prima che l’uomo dicesse: “Devo parlare con la signorina Royce.” Il suo tono di voce, che non conteneva nulla della dolcezza di appena un’ora prima, contribuì a torcerle le budella. Non seppe nemmeno lei dove trovò la forza di seguirlo fuori.
Attraversò la strada e si avvicinò il più possibile al limitare degli alberi, in modo da poter ottenere la giusta privacy.
Logan rimase in silenzio, le mani sui fianchi, apparentemente calmo; tuttavia, solo il fatto che non la guardasse fu sufficiente a rivelarne il vero stato d’animo: stava ribollendo di rabbia.
Con la testa voltata verso la casa da cui erano appena usciti, parve stesse cercando di calmarsi e trovare le parole più adatte.
“Uno degli uomini di Clark era al Gryson’s, ieri sera.” E quell’annuncio, tanto tranquillo e pacato, ebbe il potere di toglierle il fiato. Avrebbe dovuto immaginarselo. Non appena gli aveva visto quello sguardo dardeggiante, avrebbe dovuto sapere quale fosse la causa di quella rabbia.
Charlie rimase in silenzio, nonostante dentro di sé stesse urlarndo. “Ti ha visto baciare Ruiz.”
Con quelle parole, il timore di Charlie che Logan avrebbe potuto scoprire ciò che era successo, senza poter essere in grado di spiegare appieno, divenne realtà.
Cercò i suoi occhi, ma l’uomo ancora non la guardava; fu per quel motivo - perché non poteva leggere la profondità dell’emozione che nascondeva – che le parole le uscirono di bocca prima che potesse fermarle. “No, non è così.” E, finalmente, lo sceriffo si voltò.
Charlie non se ne accorse neppure e scosse la testa, completamente a soqquadro, cecando di fare chiarezza tra i suoi pensieri. “Cioè, sì. È vero, ma non è come credi… Voglio dire, io…” Improvvisamente, le sembrò impossibile trovare un buon ordine per le parole, e non riuscì a formulare una frase con un senso.
Non ebbe importanza. “Hai detto che non era successo niente.” Stavolta, il tono di lui tradì solo una punta d’irritazione e lei osservò la sua mano, leggermente tremante per il nervosismo, tuffarsi tra i capelli scuri.
Batté le palpebre confusa e le sembrò d’essersi persa una parte fondamentale della conversazione; infatti, era stata convinta che, poche ore prima, Logan avesse davvero letto dentro di lei ciò che non aveva avuto il coraggio di dirgli.
Non può essere, si disse. Non poteva credere che si fosse sbagliata così tanto.  
In ogni caso, la sua sicurezza vacillò; d’altronde, lo conosceva da solo un mese – nonostante le sembrasse di conoscerlo da tutta la vita – poteva benissimo aver travisato.
“Mi hai detto che non t’importava…” Mormorò in un sussurro.
Sentì il suo cuore incrinarsi, come se stesse per disintegrarsi da un momento all’altro, ed era certa che non sarebbe mai riuscita a raccogliere tutti i pezzi da quel prato.
Lo sceriffo si passò una mano sul viso, sempre più nervoso. “Come puoi credere che non mi importi?” Domandò, incredulo.
Charlie deglutì, non sapendo proprio da dove iniziare e si costrinse a guardarlo. Trovò un po’ del suo coraggio e raddrizzò le spalle, facendosi forza, e s’affidò a sé stessa: “Logan, è stata una cosa assolutamente insignificante. Quel bacio non-”
Non riuscì a finire la frase: Logan perse il controllo della sua calma ed esplose. “’Fanculo quel dannato bacio, Charlie!” Gridò esasperato, iniziando a camminare avanti e indietro sull’erba ancora bagnata dalla neve. “Mi hai promesso che me lo avresti detto se qualcuno ti avesse fatto del male!”
D’accordo, ora era davvero confusa. Che razza di informazioni strampalate gli avevano fornito? Se non gli importava che avesse baciato Liam Ruiz, allora cos’aveva d’esser così furioso? Non era scoppiata alcuna rissa e nessun’arma era stata coinvolta in nessun modo. Non capiva davvero di cosa stesse parlando. “Non è successo nien-”
Lo sguardo duro che le rivolse la bloccò, fermandola dal finire quella frase che, lo sapeva, lo avrebbe fatto arrabbiare ancor di più.
“Già, immagino che Ruiz sia stato un vero principe. Ti ha anche invitato a prendere un tè?” Osservò con sprezzo.
Le labbra di Charlie si assottigliarono, per la forza con cui le strinse tra loro e l’indignazione iniziò a circolare anche nelle sue vene. “Certamente, non è il primo che si comporta da stronzo.” Osservò, alzando un sopracciglio e sfidandolo a contraddirla.
Con determinazione furiosa, puntò un dito verso di lei, sottolineando le sue parole: “Sarà sicuramente l’ultimo, te lo garantisco.”
Va bene, era davvero impazzito. Non sembrava rendersi conto dell’impossibilità di quel che aveva appena detto. L’unico modo in cui poteva evitare che accadesse era impedirle di uscire di casa, oppure seguirla ovunque andasse.
Era ridicolo.
Sbuffò, incrociando le braccia al petto. “Cosa vorrebbe dire?”
“Vuol dire che Liam Ruiz farebbe meglio ad accendere un cero da qualche parte, perché è un miracolo se ha ancora ogni arto attaccato al corpo.” Sibilò.
Non riuscì a controllare la sua reazione e fece un passo indietro, le mani che le ricaddero lungo i fianchi. Pensare a Logan, il rispettabile sceriffo di una comunità, padre di un figlio di otto anni, perdere la testa e far del male a qualcuno, la sconvolse. “Non dici sul serio…”
“Cristo santo, Charlie. Come pensavi l’avrei presa?” Domandò, fermandosi difronte a lei, il petto che si alzava e abbassava repentinamente. “Credi sul serio che non me ne importi nulla che qualcuno ti metta le mani addosso e si comporti come un dannato-”
“Ho preso io l’iniziativa. Sono stata io a baciarlo.” Ammise, con una sicurezza che non le apparteneva.
Logan sbuffò, e ancora una volta si passò la mano tra i capelli, sconvolgendoli ancor di più. “Lo so.” Borbottò, per niente contento. “Ryan Clark non è stato avaro con i dettagli, fidati. Non so come, ma sono riuscito a convincerlo che ti avrei tenuta d’occhio io.” Dalla sua smorfia ironica, fu perfettamente chiaro con quanta perizia avrebbe adempiuto al suo compito. “E non è stata un’impresa facile, te lo garantisco.”
Rimasero entrambi in silenzio per un momento, prima che Logan riprendesse a parlare. Non c’era più traccia d’irritazione nei suoi occhi, era rimasta solo la preoccupazione che l’aveva generata.
“Ti sei sciolta in lacrime tra le mie braccia, ieri notte. Eri sconvolta. Ed ora salta fuori questa storia.” Vide il suo pomo d’Adamo fare su e giù, quando deglutì. “Quell’uomo ha ucciso una donna, Charlie. Ha stuprato e ammazzato la sua futura moglie.” Allungò una mano, come per toccarla, ma poi si girò di nuovo verso casa di Annabelle e ci ripensò. Lo sentì bofonchiare, pieno di frustrazione, qualcosa su dei maledetti impiccioni e, stavolta, seguì la direzione del suo sguardo; così, anche lei vide le donne del comitato cittadino affacciate alla finestra, niente affatto imbarazzate dall’esser state beccate a ficcanasare.
“Dimmi che starai lontana da lui.” Fu quasi una supplica e Charlie sentì il suo cuore incrinarsi alla consapevolezza di non potergli promettere una cosa simile.
Chiuse gli occhi e scosse il capo.
“Bene. Perfetto.” Al tono sollevato che usò, Charlie alzò di scatto la testa. “Sono felice che siamo d’accordo.”
La donna aggrottò le sopracciglia. “Non siamo d’accordo.”
“Ottimo.” Ripeté, ignorandola completamente. “Penso proprio che preparerò una bella lasagna. Vi aspetto a casa, quando avete fatto.” Le disse da sopra la spalla, mentre se ne andava.
Charlie non si mosse, convinta che da un momento all’altro sarebbe tornato indietro per dirgliene quattro; eppure, non si girò e con quel suo passo disinvolto, così maledettamente accattivante, sparì diversi metri più in là.
Rimase ferma su quel prato, alzando la testa al cielo grigio. Si diede un pizzicotto ad un braccio, ancora incredula di come fosse andata a finire.
Al ricordo dello sguardo di Logan che la pregava di stare lontano da Ruiz, al pensiero di come preferisse consapevolmente illudersi che il suo silenzio fosse un assenzo, nel suo cuore Charlie fece quella promessa.
Gli starò il più lontano possibile.
Non s’era resa conto di quanto le avesse pesato anche solo l’idea di quell’eventualità e, sollevata da tutta la situazione, ridacchiò.
In ogni caso, delle finestre di casa di Annabelle, sembrò che la donna piangesse; pertanto, quel confronto tra Charlie e Logan non poté passare inosservato.
Ovviamente, la brava gente di Sunlake non pensò a una discussione tra innamorati e furono molte le ipotesi su ciò che la giovane Royce avesse combinato per far infuriare così tanto il loro amato sceriffo. Fu proprio quello ad aver colpito maggiormente la gente, il fatto che lui, sempre calmo e ben disposto, avesse alzato la voce contro uno di loro. Perché il tenore della discussione, ai loro occhi, era stato inconfutabile.
E la voce si sparse.
All’ora di pranzo Benjamin Davis origliò frammenti della conversazione tra Gracie Howard e Daisy Peterson – entrambe nel comitato cittadino – e chiese chiarimenti a Pit Cooper che, essendo un poliziotto, poteva saperne qualcosa.
Tuttavia, per Pit quella era un’assoluta novità e si ritrovò a discuterne con Hannah Lewis, mentre prendevano un caffè, più tardi.
Hannah era una cara amica di Doroty Andrews e, la madre di quest’ultima era solita comprare i fiori freschi da Lara Young.
Arthur Foster incontrò il sindaco, quando, alle quattro del pomeriggio, andò a comprare due birre e un paio di spuntini al market; ovviamente, il primo cittadino non perse tempo nel riferire quella nuova voce ad uno dei pochi ancora ignari.
Purtroppo, il padre di Maddie era un grande amico di Stephen Royce che, non avendo la televisione, veniva spesso invitato a casa Foster a fumare un sigaro davanti una partita di football, sport di cui Arthur era un fan sfegatato.
Fu così che il Maggiore Royce venne a sapere che sua figlia e lo sceriffo avevano avuto quello che sembrava un accanito diverbio; perché è questo ciò che succede con i pettegolezzi, più la voce passa di bocca in bocca e più tende ad essere distorta e ingigantita.
Stephen, però, non prese quella diceria per ciò che era – solo una diceria, appunto – ma come l’assoluta verità. Perciò, quando tornò a casa – non aspettò nemmeno la fine della partita – si sentì in diritto di cercare una possibile spiegazione all’episodio che gli era stato riferito.
In tutto ciò, le uniche orecchie che non vennero minimamente raggiunte da quel gran parlare furono quelle dei diretti interessati. Anzi, Charlie sembrava avesse attraversato la soglia d’una dimensione parallela, in cui nulla poteva toccarla.
Non pensò minimamente a suo padre, almeno finché non fu l’ora di tornare a casa. Si rese conto, infatti, di non averlo visto per tutto il giorno. Non avevano fatto colazione insieme, ovviamente, e non lo aveva nemmeno avvisato che avrebbe fatto tardi per la cena, quella sera.
Tuttavia, quando aprì la porta d’ingresso non era minimamente preoccupata, in fin dei conti, poteva capitare, no?
Non si accorse subito della luce accesa in cucina; invece, mentre si toglieva il cappotto, pensò a quella strana giornata. Era sicuramente iniziata nel migliore dei modi, per poi incappare in un piccolo intoppo ma, alla fine, si era conclusa ancor meglio di quanto fosse iniziata.
Non avrebbe dovuto cantar vittoria troppo presto, però.
Si avviò verso quel chiarore che illuminava il salotto buio, fermandosi sulla soglia e la sua tranquillità evaporò in un istante.
Seduto al piccolo tavolo da pranzo c’era suo padre, i gomiti sul ripiano e le mani intrecciate davanti la bocca. I suoi occhi blu la guardarono con severità e Charlie sentì improvvisamente un freddo gelido scorrerle lungo le vene. Si impose di rimanere calma, di non lasciar trapelare la sua improvvisa agitazione; tuttavia, il suo cuore iniziò a scalpitare, forsennato.
Dovette ricorrere al rituale che, da un po’di tempo, aveva smesso di usare: inspirò profondamente, contò fino a sette ed espirò. Lo ripeté altre due volte, prima di poter mostrare anche solo una parvenza di autocontrollo.
Fece due passi in avanti, entrando completamente nella stanza e fermandosi dietro la sedia – la sua sedia - vuota, proprio difronte all’uomo.
Le mani nelle tasche, con disinvoltura, come se non le si stesse sfaldando il mondo davanti agli occhi.
“Dove sei stata?” Ruppe il silenzio la voce dura di suo padre, il tono stranamente paziente.
Lo guardò in viso, anche se fu difficile distogliere l’attenzione dall’oggetto sul ripiano tra loro. Perché era unicamente quello il fulcro di tutti i suoi guai.
Neanche a dirlo, non avrebbe dovuto trovarsi lì, sul tavolo, proprio difronte a Stephen Royce.
Il nero del metallo sembrava risucchiare tutta la luce della stanza, e Charlie conosceva perfettamente quale fosse la sensazione di toccarne il freddo acciaio.
Eccola lì. In tutto il suo splendore, faceva sfoggiò di sé la sua Glock 17.
La pistola di Charlie.

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Capitolo 14
*** CAPITOLO QUATTORDICI ***


CAPITOLO QUATTORDICI
Nella sua brevissima esperienza in stato di arresto, Charlie aveva passato poco meno di un’ora – checché ne dicesse Matthew –seduta ad un anonimo tavolo di metallo, in una stanza per interrogatori con il tipico vetro a specchio, e due agenti dell’FBI decisamente intimidatori che la guardavano in cagnesco.
Aveva avuto la sfortuna di farsi coinvolgere con un senatore di spicco che, al centro di un’indagine, fu arrestato per una lista di crimini, a scapito della società, a dir poco imbarazzanti. Sembrava, infatti, che l’uomo avesse sottratto cifre da capogiro ai fondi pubblici e, con l’aiuto di diversi complici, avesse messo su un losco giro d’affari da milioni e, per quel che ne sapevano, anche lei poteva essere invischiata in quella spiacevole storia.
Tutto ciò, per fare un favore a Matthew.
In ogni caso, i due federali si erano ritrovati a che fare con una donna completamente impassibile e più interessata alla sua manicure che alla sua situazione decisamente precaria. Nonostante le ricordassero costantemente quanto stesse rischiando, Charlie non aveva spiccicato una parola e nemmeno il suo linguaggio del corpo aveva rivelato il minimo indizio di disagio; soltanto più tardi, quando un collega era entrato avvisandoli che doveva esser rilasciata, Charlie s’era alzata e aveva augurato ad entrambi buon lavoro. Proprio come se per lei fosse venuto il momento d’abbandonare una riunione noiosa.
Effettivamente, all’epoca non era stata affatto nervosa; sapeva benissimo come sarebbero andate le cose: Matthew avrebbe chiamato e avrebbe risolto tutto.
Stavolta, nessuno sarebbe venuto ad intercedere per lei e, come allora, indossò gli abiti - un po’ dismessi - della donna indifferente, nonostante le prove lampanti che svettavano sul tavolo tra lei e suo padre. La differenza, però, fu evidente: quella sorta di divisa le risultò più stretta e scomoda; come se, tutt’un tratto, lei fosse troppo cresciuta per entrarvi. Come se fosse stata cosparsa di polvere pruriginosa e l’unica cosa che davvero desiderasse era togliersela di dosso.
Con l’agitazione che ancora le smuoveva le viscere, Charlie si avvicinò al frigorifero e ne tirò fuori il suo succo d’arancia. Se la prese con calma, versandosi un generoso bicchiere, prima di voltarsi verso suo padre. Appoggiata al piano della credenza, assaporò con finta nonchalance la sua bevanda zuccherosa, non distogliendo lo sguardo dai suoi occhi blu, sempre più ombrosi man mano che il tempo passava senza ricever risposta.
“Ho dormito da un amico.” Inclinò il bicchiere verso di lui, in un gesto di riconoscimento. “Scusami se non ti ho avvisato, mi sono distratta.”
Le orecchie di suo padre si arrossarono di irritazione repressa e lei inclinò la testa su una spalla, studiandolo attentamente. Era strano che si stesse trattenendo in quel modo, a quest’ora avrebbe già dovuto iniziare ad urlare; eppure, stava facendo di tutto per evitare d’esplodere.
Evidentemente, era intenzionato a capire fino in fondo il motivo che avesse spinto sua figlia a comprare una pistola, e di certo grida di rabbia non avrebbero aiutato a fare chiarezza. Tuttavia, l’agitazione repressa della donna sembrò avesse un andamento direttamente proporzionale alla calma apparente dell’uomo: più lui si mostrava tranquillo e più le si annodava lo stomaco.
“Luke Thomson?”
In un’altra situazione, Charlie avrebbe riso per lo sprezzo con cui pronunciò quel nome. Diversi giorni prima, quando il vicesceriffo era passato a prenderla per il loro appuntamento a quattro, suo padre non era parso affatto contento di saperla con il famigerato sciupafemmine del paese; tuttavia, date le circostanze, non ci badò poi molto.
“No.” Ammise, prima di svuotare il contenuto del bicchiere che ancora stringeva tra le dita.
Stephen aspettò, invano, che la figlia si chiarisse. “Allora chi è questo misterioso amico?” Domandò, infine, con irritazione.
Charlie si limitò a scrollare le spalle, posando il bicchiere sul ripiano dietro di lei. Incrociò le braccia al petto e, con un veloce movimento del mento, indicò l’arma davanti a lui. “Ho il permesso per quella.” Disse, stufa di ignorare l’enorme elefante nella stanza.
“Fammelo vedere.” Ribatté subito lui, sfidandola con gli occhi, palesemente convinto che stesse mentendo.
Sarebbe stato davvero facile per lei accontentarlo, ma desiderava che suo padre le credesse e basta, non solo perché un pezzo di carta gli assicurava che quella fosse la verità.
Santo cielo, Logan si fidava di lei nonostante avesse tutti i motivi per dubitarne – proprio come lui.
Inoltre, possedere una pistola non significava nulla; anche suo padre ne aveva una e, dicerto, lei non gli aveva mai rivolto uno sguardo di biasimo per questo.
“No.” Ripeté ancora e, a quella sillaba, il rossore sulle orecchie dell’uomo si spostò verso il basso, macchiandogli il collo. Stephen aprì la bocca, ma Charlie lo precedette, ponendogli la domanda che non aveva mai avuto il coraggio di fare: “Perché credi che io sia una spacciatrice?”
Sicuramente rimase spiazzato dal modo tranquillo e diretto con cui glielo chiese, perché non riuscì a nasconderle il suo imbarazzo. Si irrigidì sulla sedia e assottigliò lo sguardo. “Non credo tu sia una spacciatrice.” Rispose con cautela, guardandola come a chiedere conferma che facesse bene a pensarlo, ma tutto ciò che ottenne da lei fu un sopracciglio biondo inarcato. Sospirò, prima di ammettere: “Però, lo so che sei coinvolta in qualcosa di losco.”
“Perché?”
Sbatté la mano sul tavolo a quell’insistenza, ma Charlie non sussultò nemmeno e assistette con calma alla sua sfuriata, come se fosse una semplice spettatrice.
“Davvero hai il coraggio di chiedermelo? Mi sono fatto migliaia di chilometri per venirti a trovare e l’unica cosa che trovo è uno stramaledetto Starbucks in cui nessuno ti aveva mai sentito nominare!”
Ultimamente sembrava avesse sviluppato un vero talento per far sbottare gli uomini della sua vita.
“Ho pensato che mi fossi sbagliato, figurati se avrei mai potuto pensare che mi avessi mentito per anni. E quando ti ho chiesto di nuovo dove lavorassi, tu mi hai riempito delle stesse bugie! Quindi si, credo che tu abbia preso una brutta strada. Puoi davvero biasimarmi, dopo che ti presenti con una macchina nuova, quei vestiti che di certo non appartengono a qualcuno che se la passa male e ti rifiuti di darmi delle spiegazioni?”
Pian piano, la sua indignazione evaporò, come un’entità demoniaca che abbandonava il suo corpo, e il tono dell’uomo, verso la fine, ritornò normale.
Charlie non poté sostenere il suo sguardo pieno di dolore, ed abbassò la testa sulle sue scarpe.
Quando, quel giorno di sette anni prima, suo padre l’aveva chiamata chiedendole chiarimenti riguardo il suo presunto ufficio, lei era stata impegnata con il suo vero lavoro e, troppo distratta, non aveva fatto caso a quella domanda tanto strana.
Aveva capito cos’era successo nel momento in cui, qualche mese dopo, aveva varcato la soglia della sua casa d’infanzia – quella stessa casa – e suo padre le aveva riversato addosso tutta la sua frustrazione.
In ogni caso, la sua domanda era stata ben diversa, sapeva perfettamente come stavano le cose, non aveva bisogno che suo padre glielo ricordasse; pertanto, non demorse, e riprovò: “Perché non la spogliarellista?” Domandò, osservandolo da sotto le ciglia, i corti capelli biondi che le coprivano una parte del viso.
Naturalmente, Stephen credette di aver sentito male. “Cosa?”
Lei si raddrizzò, sempre appoggiata al ripiano della cucina. “Perché non hai pensato che potessi fare la spogliarellista? Magari è per questo che te l’ho nascosto, mi vergognavo…”
Ovviamente, nel corso degli anni, ogni volta che si era ritrovata da sola nel freddo letto del suo appartamento a contemplare il soffitto, Charlie aveva ripensato a quel litigio che aveva deteriorato – e quasi spezzato – il loro rapporto.
Ciò che più le aveva fatto male era stata la conclusione immediata a cui suo padre era arrivato. Aveva pensato a quanti possibili motivi potesse avere una persona per celare le verità che lei stessa stava nascondendo.
Poteva aver sposato in segreto un uomo estremamente ricco, ma incredibilmente vecchio, per poter vivere da mantenuta. Poteva essersi innamorata di un’altra donna e, insicura della sua reazione, aveva iniziato a   condurre una doppia vita. Poteva aver intrapreso una carriera nell’industria pornografica e voleva che suo padre ne rimanesse all’oscuro.
Insomma, c’erano davvero tante spiegazioni plausibili; eppure, lui la credeva capace di delinquere. E la cosa che più la indispettiva era che, con l’istruzione che aveva ricevuto, sembrava proprio che Stephen Royce lo ritenesse possibile!
Perciò, osservò con un pizzico di soddisfazione il viso di suo padre diventare pallido e, ad occhi sgranati, sussurrare con orrore: “È vero?” Deglutì. “Fai la spogliarellista?”
Per un momento, si limitò a fissarlo, lasciandolo cuocere a fuoco lento, solo per torturarlo un po’.
“No.” Rispose infine, un angolo delle labbra che si sollevò verso l’alto con fare ironico. “Ma avrei potuto, dico bene?”
La bocca dell’uomo s’assottigliò. “Ti sembra un buon momento per degli stupidi giochetti?”
Si fissarono per un lungo istante e un silenzio pesante si posò su di loro, prima che suo padre riprendesse a parlare, tornando all’argomento principale. “Lo neghi ancora, nonostante l’evidenza?” Chiese, distogliendo brevemente gli occhi dai suoi, per posarli sull’arma e poi tornare a guardarla.
“Possedere una pistola non è un reato.” Osservò. “Sai, invece, cosa lo è? La violazione della privacy.”
Certamente, lei non era la persona più qualificata per fare la morale a suo padre, almeno non su quell’argomento in particolare; tuttavia, la infastidiva che avesse sentito il bisogno di frugare nella sua camera.
In ogni caso, lui non parve a disagio; anzi, sembrò piuttosto fiero d’aver trovato la Glock che teneva nella valigia. Era sicura che sarebbe stato pronto a rifarlo, se questo avesse significato – ai suoi occhi – tenerla fuori dai guai. Per questo non riuscì ad avercela troppo con lui.
“Sei mia figlia e questa è casa mia.” Si giustificò.
Charlie scosse la testa e sospirò, amareggiata. “Non vuol dire niente, lo sai benissimo.”
Stephen, però, era determinato ad arrivare fino in fondo a quella storia. “Cosa hai fatto per far infuriare lo sceriffo Moore?”
Quello la sorprese; infatti, la donna non sapeva che l’episodio di quella mattina fosse sulla bocca di tutti in città. Ripensò alle donne del comitato cittadino, tutte affacciate alla finestra a ficcanasare e si massaggiò la fronte, sconfitta. “Non era arrabbiato.” Borbottò, improvvisamente esausta.
Allo sbuffò derisorio del padre, che ovviamente non le credette – si chiese perché continuasse a farle domande, se tanto quello era il risultato – Charlie si raddrizzò, decisamente infastidita dal suo atteggiamento.
“Vuoi chiederglielo tu stesso? Magari possiamo invitarlo qui e, già che ci sei, potresti convincerlo a chiedermi il porto d’armi.” Lo sfidò e poi, tra i denti, aggiunse: “Sempre che tu ci riesca…”
Immaginò suo padre che tentava di persuadere Logan in quel proposito, era sicura che sarebbe stato molto più facile convincerlo a rubare il deambulatore ad una vecchietta.
L’uomo si appoggiò allo schienale, ostentando tranquillità; ma la sua mano, chiusa a pugno davanti a lui, raccontava ben altra storia. “Quindi, anche questa volta, non mi darai alcuna spiegazione.” Si limitò a constatare, ancora sorprendentemente calmo.
Lei rimase in silenzio, sempre appoggiata al ripiano e sempre con le braccia conserte. Quindi, fu testimone della tempesta che infuriò in quegli occhi blu: il conflitto tra l’amore d’un padre e il dolore delle scelte che, a volte, esser genitore comporta. E il Maggiore Royce era sicuramente un uomo duro, che per il bene di sua figlia, poteva trovare la forza di prendere la decisione più difficile. “Se è così, te l’ho detto, non puoi rimanere in questa casa…” Disse a bassa voce, come se gli costasse fatica e la sua sofferenza fece da eco a quella di Charlie.
Non riusciva a capire perché quell’uomo, che era sangue del suo sangue, non potesse trovare un po’ di fiducia da darle. Era una delle cose che desiderava di più al mondo; eppure, ogni volta che arrivava quasi a toccare il traguardo, veniva tirata nuovamente indietro, come in un maledetto loop infernale.
Le si chiuse la gola e batté ripetutamente le palpebre, cercando di trattenersi dal crollare.
Si voltò verso la finestra, in un ultimo disperato tentativo di celare la sua vulnerabilità. Le sfuggì una lacrima, però, che si fece lentamente strada lungo la sua guancia destra, quella nascosta alla vista.
Non l’asciugò, lasciò che la sua tristezza le bagnasse la pelle e così, quella sorta di monito, la spinse ad abbandonare i vestiti dell’indifferenza e a parlare, come una semplice figlia davanti alla delusione d’un padre.
“C’è mai stata una volta in cui hai pensato bene di me?” Chiese in un soffio e quella domanda mormorata, unico suono nel silenzio tormentato, colpì Stephen. Non solo per le parole tremanti ma, soprattutto, per la profonda amarezza di cui erano pregne. E quando si girò a guardarlo, vide le iridi di lei lucide di lacrime e fu evidente che solo la sua forza di volontà le tenesse a bada; con orgoglio – copia del suo – Charlie lo fissò dritto negli occhi.
L’emozione che vi vide gli ricordò la sua bambina che, caduta sull’asfalto, si sbucciava le ginocchia e correva da lui con la sicurezza che suo padre avrebbe aggiustato ogni cosa; tuttavia, adesso, quella luce s’era spenta e Stephen si rese conto che, fino ad allora, sua figlia s’era volutamente sottratta al suo sguardo e lui non era stato in grado di vederla davvero.
Ogni volta che avevano avuto un confronto, Charlie non aveva mai mostrato rimpianto, dolore o una qualsiasi altra emozione se non l’indignazione. E Stephen aveva creduto che, difronte ad accuse del genere da parte di un genitore, qualsiasi figlio avrebbe mostrato un’emozione differente dal semplice sdegno.
Pertanto, tutta la sofferenza che la donna si portava nel cuore lo sommerse, come acqua che esonda dagli argini: con forza e senza pietà.
Ignara del profondo turbamento dell’altro, Charlie continuò; non aveva ancora finito, infatti, e non sembrò in grado di frenare le parole seguenti, che contribuirono a togliergli il fiato, ognuna come una coltellata al petto.
“Immagino di no, eh? Nemmeno quando avevo quindici anni. D’altronde, ho sbagliato una volta e sono finita alla scuola militare.” La vide deglutire, ma la sua voce non si incrinò, lampante segno del suo incredibile autocontrollo. “L’ho fatto solo per aiutare Diddi, ma per te ero già una criminale: l’hacking è un reato.” Scimmiottò con sprezzo la voce di lui quando, all’epoca, l’aveva rimproverata per aver acceduto senza permesso al computer della scuola. “Avevo quindici anni! Come diavolo potevo saperlo!?” Si appoggiò alla credenza, respirando profondamente per ritrovare la calma. “Ed ora, ho mentito, non sono in ristrettezze economiche ed ho una pistola. Però, ti giuro che non ho mai violato la legge.” Almeno non come lo intendeva lui. “Ma la mia parola non conta nulla, vero? Perché sono solo una delusione…” Sospirò, leggermente tremante. “Evidentemente, non merito nemmeno il beneficio del dubbio. Sbagli una volta, sbagli per sempre.” Rise amaramente, scuotendo la testa, e le sfuggì un’altra lacrima che cadde sul pavimento. “Forse hai ragione, dovrei semplicemente andarmene e non farmi più vedere.” Sussurrò infine, sconfitta.
Il silenzio calò ancora una volta tra loro e Charlie cercò di trovare la forza di fare ciò che aveva detto, ma non riuscì a muoversi.
Tornò a fissare fuori, dove il buio avvolgeva ogni cosa, nella speranza di capire come rimediare, perché la verità era che non poteva costringersi a lasciare quella casa. Non voleva lasciare suo padre.
Aprì la bocca, pronta a scusarsi, pensando che così avrebbe potuto risolvere un poco le cose, ma un suono sconosciuto infranse il silenzio.
Si voltò di scatto verso di lui, ancora seduto e con la testa tra le mani. Non poteva vederlo in faccia, perciò, avrebbe potuto credere d’aver immaginato quel singhiozzo; senonché, vide le sue spalle tremare e seppe che l’impensabile era accaduto: il Maggiore Stephen Royce stava piangendo.
Mai, prima d’allora, l’aveva visto piangere; pertanto, quella reazione inaspettata le fece paura.
Esitante, si avvicinò. “Papà?”
Solo quando fu di fianco al tavolo, l’uomo parlò.
“Ho amato tua madre con tutto me stesso.” Iniziò con voce spezzata. “Sai, più volte, la signora Lews mi ha suggerito di reagire, di trovare qualcun altro; però, mi sono sempre chiesto come potesse solo pensare che avrei potuto sostituirla. Lei era la mia una volta su un milione. Quando ci siamo sposati ero convinto che non avrei mai potuto amare nessuno più di così; finché, non sei nata tu.” Stephen alzò il viso e per poco non le si fermò il cuore alla vista dell’emozione nei suoi occhi umidi. “Tua madre era l’amore della mia vita, ma tu sei la mia vita, Charlie. E quando ti ho preso tra le braccia, così piccola e fragile, ho avuto il terrore che non sarei stato adatto.
Non ho mai avuto un buon rapporto con tuo nonno, fu lui ad insistere affinché scegliessi la carriera militare. Solo con il passare degli anni, troppo tardi, capii e gliene fui grato. Però, non volevo essere quel tipo di padre per te.” Sbuffò, con amarezza. “E invece guardami, mia figlia nemmeno sa quanto io la ami.”
Charlie si lasciò cadere sulla sedia, vicino a lui, con le mani in grembo. Troppo stordita da quell’improvviso cambio di rotta per riuscire a muoversi e toccarlo.
“Potevo contare sulla dolcezza di tua madre, per ammorbidire tutti i miei spigoli; finché, la leucemia me l’ha portata via. Le ho promesso che avrei fatto del mio meglio con te, che non ti sarebbe mai mancato niente e le cose sono andate bene per un po’. Eravamo felici, non è vero?” Le sorrise, un po’ amaro e un po’ titubante. Si passò entrambe le mani tra i capelli, con forza, prima di continuare. “L’hacking è un reato e se a quindici anni non lo sapevi, la colpa è mia. È successo sotto ai miei occhi e nemmeno me ne sono accorto.” Si fissò le mani, chiedendosi come avesse potuto permettere che accadesse. “Probabilmente, ho esagerato a mandarti alla scuola militare, ma mio padre ha fatto così con me, e ha funzionato. Me ne sono pentito non appena ti ho lasciato lì; eppure, mi sono detto che era la cosa migliore. Sicuramente, se ci fosse stata tua madre, sarebbe riuscita a farmi ragionare, ma ero troppo spaventato.”
L’uomo si piegò sul tavolo sotto la forza del singhiozzo che lo sconquassò, come se volesse proteggere la parte più vulnerabile di sé. “È stata la decisione più difficile della mia vita, e scoprire che non è servito a niente…”
Lo aveva sconvolto e il dolore che gli aveva causato fu palese, anche se non riuscì a quantificarlo a parole.
“Ho pensato al peggio e non perché non mi fido di te, Charlie.”
Perché aveva creduto che la sua più grande paura fosse diventata realtà: esser un fallimento come padre e, anche se non lo disse, Charlie capì: tutto il biasimo che gli aveva sempre visto negli occhi era solo per sé stesso.
Erano sette anni che lei e Stephen non s’abbracciavano, ma le venne naturale sporgersi verso di lui e circondargli goffamente le spalle. Si ritrovarono entrambi piegati in avanti sul tavolo, quindi, le teste vicine e le braccia di lei sopra di loro, come a proteggerli dal mondo esterno.
“Mi dispiace tanto, papà.”
L’uomo poggiò la testa sul suo avambraccio, voltandosi a guardarla negli occhi, senza staccarsi. Ormai, entrambi stavano piangendo e, tra la nebbia delle lacrime, Charlie vide la mano di suo padre allungarsi verso di lei. Le si poggiò delicatamente sulla guancia, e il suo pollice iniziò ad asciugarle il pianto.
“A volte, mi ricordi così tanto tua madre...” Rimase sorpresa da quell’ammissione.
Suo padre non le aveva mai parlato della madre e, con il passare degli anni, Charlie aveva smesso di chiedere, vedendo il dolore che le sue domande gli provocavano. Anzi, era strano che si fosse lasciato sfuggire così tante cose al riguardo; perciò, ne approfittò subito: “Davvero?”
Lui annuì. “Era sempre pronta a scusarsi, anche quando ero io a fare l’idiota orgoglioso.” Scosse la testa, con un triste sorriso affettuoso a quel ricordo.
Muovendosi in avanti, per abbracciarla a sua volta, Stephen inciampò con il gomito nella pistola, ancora sul tavolo, e il rumore metallico che produsse li fece voltare entrambi verso l’oggetto.
Per un lungo momento, entrambi non dissero nulla, limitandosi a fissare la Glock, come due cerbiatti abbagliati dai fari di un’auto.
Non si separarono, e con un sospiro, Charlie non trovò affatto difficile confessare: “Mi piace andare al poligono di tiro.”
Vide crescere lo stupore sul viso di suo padre e sorrise timidamente, piena di speranza che quella verità – l’assoluta verità – gli bastasse. “Sul serio?”
Annuì. “Lo adoro. Alcuni per rilassarsi prendono a pugni un sacco da box, ma niente mi distende i nervi come crivellare di pallottole la sagoma del tiro a segno.”
Sorprendentemente, lui scoppiò a ridere. Una risata di pancia, un po’ isterica ma comunque autentica, che rilassò l’atmosfera.
“Mi sbagliavo.” Cercò di dire, mentre ancora ridacchiava. “Non hai ripreso da tua madre, ma da me.”
Le labbra di lei si schiusero ancora di più, quella era la cosa più bella che potesse dirle; infatti, nonostante le loro divergenze, Charlie amava suo padre e, senza dubbio, lo ammirava.
Da quando era tornata a casa, non s’era mai sentita così vicino a lui e non voleva che l’enorme passo in avanti di quella sera risultasse vano; pertanto, sulla scia del suo desiderio di far più chiarezza possibile, Charlie prese una decisione: basta sotterfugi e menzogne. Questa volta, il loro rapporto si sarebbe retto su basi solide.
Si sciolse da quell’abbraccio e si raddrizzò. “Papà.” Lo richiamò con determinazione, guardandolo negli occhi. “Logan ed io abbiamo una relazione.” Disse, tutto d’un fiato. Non si sarebbe mai aspettata di ritrovarsi, a ventotto anni, come una bambina che confessa le sue marachelle; eppure, eccola lì.
“D’accordo.”
Charlie non sapeva cosa aspettarsi ma, tra tutti i possibili scenari, non aveva considerato quell’assenzo così veloce e comprensivo. Lo guardò attentamente in viso e arrivò subito ad una conclusione sconvolgente: “Non sei sorpreso.”
“Non più di tanto, in effetti.” Ammise. “Non sono diventato improvvisamente cieco, dovrai esserti resa conto anche tu di come ti guarda quell’uomo…”
Charlie aveva un’idea perfettamente chiara di come la guardasse Logan, soprattutto quando erano da soli e i suoi occhi scuri si facevano liquidi di passione e desiderio. Al solo pensiero, sentì improvvisamente caldo. Le sue guance si arrossarono sotto lo sguardo attento di suo padre, che sembrò oltremodo divertito dalla reazione così spontanea della figlia. Con un sorrisetto, infatti, commentò: “Immagino di sì.”
Ma parve arrivare anche ad un’altra conclusione, perché Stephen sospirò e il suo sorriso scomparve. “Ho visto anche il modo in cui lo guardi tu, quando credi che nessuno ti veda, Charlie. Sinceramente, sono felice che tu non mi abbia dato ascolto. Non voglio che tu creda di dover rinunciare ad una cosa del genere. Devi capire che, quello che ti ho detto, era solo dovuto al fatto che-”
La mano di lei prese la sua, interrompendolo: “Lo so, papà. Non ha importanza.”
Non face fatica ad immaginare cosa avesse dovuto pensare suo padre, sentendo che sua figlia aveva fatto infuriare lo sceriffo che - aveva intuito - aveva un debole per lei. Si era spaventato, e le paure che aveva iniziato a superare negli ultimi mesi passati insieme erano tornate a galla.
Inoltre, avendo colto quel loro interesse reciproco, suo padre non era più tornato sull’argomento; di fatto accettando qualsiasi sviluppo gli eventi avrebbero portato.
In ogni caso, in una situazione così complicata, era impossibile indicare qualcuno su cui far ricadere l’intera colpa, e Charlie non aveva mai pensato che parlarne con suo padre avrebbe risolto le cose.
Prima di allora, non erano mai riusciti a portare avanti una conversazione di quel tipo senza che lui iniziasse ad urlare o lei tirasse fuori il suo sarcasmo graffiante.
“Credi che…” Iniziò lei, un po’ esitante. “Potremmo superare tutto questo? Ricominciare da capo?” La sua espressione le disse già quale sarebbe stata la risposta; tuttavia, non riuscì a fermarsi ed aggiunse: “Ho solo bisogno di un po’ di tempo.”
Ad entrambi sembrò di liberarsi d’un fardello che per troppo tempo aveva gravato sulle loro spalle, quando Stephen disse: “Tutto il tempo che ti serve, piccola mia.”

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Capitolo 15
*** CAPITOLO QUINDICI ***


CAPITOLO QUINDICI
Seduta ad uno dei tavoli all’aperto, Sylvie Moore guardò suo nipote infilare un bastone nella pancia bianca e tonda di un pupazzo di neve. Con la chiusura delle scuole, era normale che la piazza centrale fosse sempre gremita di bambini che giocavano e che facevano lunghe battaglie a palle di neve.
In quel caso, poi, puntualmente il signor Myers agitava il suo bastone da passeggio in aria, rimproverando quei giovani teppisti che avrebbero potuto rischiare di colpirlo in pieno e iniziava, quindi, una lunga invettiva in cui sosteneva che, ai suoi tempi, c’era più rispetto per gli altri e, in particolare, per chi passeggiava per la piazza.
In ogni caso, non appena si allontanava, la battaglia – momentaneamente placata – riprendeva, più furiosa di prima.
Sylvie adorava quel periodo, e quel che contraddistingueva il Natale a Sunlake da quello in qualsiasi altra città era l’atmosfera di comunità e condivisione che era possibile creare solo in realtà così piccole.
Alla mattina del venticinque, ad esempio, iniziava una sfilata di vassoi pieni di leccornie di ogni tipo e per l’ora di pranzo ogni singolo abitante del paese era seduto ad uno dei tavoli della piazza. Nel pomeriggio, si procedeva con i festeggiamenti, fatti di balli e canti a cui prendevano parte sia i più piccoli sia gli adulti e, sotto le piccole luci bianche che illuminavano la sera, era impossibile non sentire un forte senso di appartenenza a quel paese e a quelle persone.
Tuttavia, la festa che Sylvie preferiva di più in assoluto, tra le tante, era quella di Capodanno.
Per l’occasione, era tradizione che venissero organizzati gare e giochi d’abilità: si iniziava nel primo pomeriggio, scandito dal susseguirsi delle competizioni, per poi passare alla cena e alle premiazioni, finché non arrivava la mezzanotte.
Tra le donne, il trofeo più ambito – per il quale partecipava anche lei – era quello de La Torta Più Buona, votata da coloro che prendevano un assaggio di ogni torta in gara – cioè tutti.
In teoria vi partecipavano almeno quindici donne ma, alla fin fine, quel premio era conteso essenzialmente tra tre: Doroty Andrews, Daisy Peterson e Sylvie stessa.
Quell’anno se l’era aggiudicato Daisy, per la seconda volta consecutiva, con la sua torta al triplo cioccolato.
Lei era dell’idea che quella scelta fosse assolutamente scorretta; era impossibile, infatti, vincere contro una torta del genere: non appena i bambini la vedevano vi si fiondavano subito e, per quanto buona potesse essere la torta alla nocciola di Sylvie, votavano in massa quella della signora Peterson come la migliore.
Tuttavia, le regole erano chiare: si poteva presentare qualsiasi torta, bastava che non fosse lo stesso tipo dell’anno prima.
Nonostante la vittoria di Daisy non avesse sorpreso nessuno, i colpi di scena non erano mancati dicerto.
Infatti, tra gli uomini, la competizione più importante era sempre stata il tiro al bersaglio e per lo scopo veniva allestito un baracchino, con cinque scaffali pieni di lattine di ogni dimensione, dotato di un fucile a piombini che doveva essere maneggiato con estrema cura e, per motivi di sicurezza, la gara era riservata unicamente ai maggiori di diciotto anni.
La sfida consisteva di cinque eliminatorie, per poi arrivare in finale: chi abbatteva più obbiettivi poteva passare alla fase successiva, fino ad esaurimento dei posti consentiti.
Era Stephen Royce a detenere il record di trofei vinti: ben ventisette, e Sylvie sospettava che sarebbe riuscito a vincerne ancora, se solo, più di dieci anni prima, non avesse inspiegabilmente smesso di inscriversi.
In ogni caso, il primo premio aveva preso il suo nome: coppa Royce e, da quando era diventato maggiorenne, Cameron Harris aveva iniziato la sua scalata verso la vetta, nella speranza che, se avesse superato quota ventisette, il premio avrebbe preso il suo, di cognome.
Nonostante gli avessero spiegato più volte che, in ogni caso, non sarebbe successo, l’uomo non voleva sentire ragioni e, in dieci anni, aveva accumulato ben otto premi, stabilendo così il secondo punteggio migliore dopo quello di Stephen.
Secondo Sylvie, quell’impresa era stata possibile soprattutto perché suo figlio aveva deciso di non prendervi parte. Lo sceriffo, infatti, non riteneva corretto partecipare, e lasciava volentieri agli altri il compito di contrastare il competitivissimo Cameron.
Nessuna donna aveva mai vinto quel trofeo e, a voler esser più precisi, nessuna mai si era iscritta come concorrente; pertanto, il solo fatto che Charlie Royce avesse avuto intenzione di partecipare era già stato un evento degno di nota.
All’inizio, nessuno degli altri, tantomeno Harris, si era minimamente preoccupato di quella concorrenza; tuttavia, non appena la donna aveva abbattuto tutti gli obbiettivi, senza mancarne nemmeno uno, sotto lo sguardo attonito dei presenti, era diventato evidente che il trofeo rischiava d’esser vinto nuovamente da qualcuno che ne portasse lo stesso nome.
Il fatto che, poi, al terzo turno, ancora non avesse mancato un colpo aveva, ovviamente, richiamato l’attenzione di Cameron Harris che, improvvisamente, aveva riscoperto delle nuove regole.
“Non può partecipare. Non si è mai sentito di una donna che vince questo premio.” Aveva protestato ad alta voce, rivolgendosi non si sa bene a chi e facendosi spazio tra la calca di gente che era rimasta ad osservare lo spettacolo.
Non era stata Charlie a rispondergli, bensì Maddie Foster, e Sylvie non poteva sapere dell’ostilità che correva tra la donna e Cameron, nata nel momento in cui lei aveva nascosto un serpente finto nel sottobanco dell’altro, spaventandolo a morte.
“Cos’è, hai paura di un po’ di competizione?” Lo aveva sbeffeggiato, spalleggiando l’amica, che era sembrata alquanto indifferente da quelle assurde rimostranze.
Harris, che aveva imparato ad ignorarla nel corso degli anni, si era rivolto direttamente a Charlie. “Cosa vuoi fare? Vuoi vincere il kit da barba in palio?” L’aveva derisa, avvicinandosi sempre di più.
Era stato bloccato, però, nella sua avanzata, dalla mano di Logan che lo aveva trattenuto per una spalla e, convinto che lo sceriffo l’avrebbe sostenuto, Cameron le aveva rivolto un arrogante ghigno di vittoria. “Diglielo anche tu, Logan.”
“Chiunque sia maggiorenne può partecipare…” Gli aveva fatto notare l’altro, in tono asciutto, lasciandolo andare, non appena fu a una distanza più appropriata.
Dall’espressione sul viso di Harris, era stato palese che si fosse sentito tradito da quella sentenza. “Come sarebbe? Ci sono delle regole, non possiamo semplicemente ignorarle e permettere ad una biondina qualsiasi di-”
A quelle parole lo sceriffo aveva alzato semplicemente la mano, imponendo – ed ottenendo - il silenzio, ed anche Sylvie – che era stata abbastanza vicina – era rimasta sorpresa dalla scintilla di pericolo che gli aveva attraversato per un momento lo sguardo.
“Forse non ti è chiaro che qui le regole le faccio io, Cameron. Sei liberissimo di lamentarti se vuoi ma, ti avverto, stai molto attento a quello che dici.” Gli aveva suggerito con una calma completamente opposta al furore del suo sguardo.
Dunque, anche se Charlie non avesse vinto la gara, quel confronto avrebbe reso memorabile quel Capodanno; invece, la donna era salita sul gradino più alto del podio – con enorme gioia di tutti e indicibile disappunto di Harris - sventolando orgogliosa il suo nuovo rasoio elettrico da barba, con una gioia così esuberante che si sarebbe potuto dire fosse tutto ciò che aveva mai desiderato.
Poi, con stupore di tutti, aveva abbracciato suo padre e, ogni volta che ci ripensava, Sylvie riusciva a sentire la risata di Stephen riecheggiarle nelle orecchie. Dubitava che qualcuno l’avesse mai sentito ridere in quel modo, ed era stato assolutamente strabiliante.
In ogni caso, senza nemmeno accorgersene, era arrivata l’Epifania che avrebbe messo un punto a quel periodo meraviglioso. Tuttavia, Sylvie ignorava completamente che, anche quel giorno da lei tanto odiato, poteva riservare delle magiche sorprese.
Venne, quindi, riscossa dai suoi pensieri dalla voce di Gracie Howard, seduta vicino a lei.
“Accipicchia, guarda lì quel sorriso.” Commentò all’indirizzo di Daisy Peterson.
Distogliendo l’attenzione da Jake, anche Sylvie seguì lo sguardo della donna, finché i suoi occhi non si posarono su suo figlio.
In piedi, a diversi metri da loro, vicino ai tavoli del rinfresco, Logan stava parlando con Luke Thomson, cosa nient’affatto sorprendente, se non fosse che parve insolitamente distratto, come se non riuscisse proprio a mantenere la concentrazione fissa sull’amico davanti a lui e, dall’espressione infastidita sul viso dell’altro, fu evidente che il suo vice non apprezzasse molto quella poca considerazione.
Non poteva sapere che, in realtà, in seguito alla scoperta di quanto Charlie fosse invischiata nelle loro indagini e con la consapevolezza che lo sceriffo – forse un po’ manipolato - non aveva intenzione di fare nulla al riguardo, i rapporti tra Luke e la donna si erano notevolmente raffreddati; tanto che, l’uomo aveva quasi smesso di prender parte ai loro soliti pranzi.
La cosa strana, però, era come si prestasse ancora ad ordinare i fiori dalla signora Young, in vece dell’altro.
Ad ogni modo, incuriosita, Sylvie seguì lo sguardo del figlio fino alle tre donne che parlavano più in là: Maddie Foster, Aubrey Morgan e Charlie Royce.
“Oh mamma, eccolo di nuovo.” Disse Daisy, dandole un colpetto nelle costole, come se non avesse già la sua completa attenzione.
Osservò con stupore il pigro sorriso obliquo che piegò le labbra di Logan e anche lei dovette trattenere il fiato a quella vista; tutti conoscevano bene quel sorriso, e l’unico a beneficiarne era sempre stato Jake.
“Credo si sia preso una bella cotta per la signorina Morgan, Sylvie.” Cinguettò Gracie e subito Daisy si disse d’accordo, ridacchiando. Ma lei le sentì appena, concentrata com’era sulla scena.
E non ebbe alcun dubbio, lo sguardo di Logan era tutto per l’insegnante di suo nipote.
Tornò di nuovo a guardare suo figlio, giusto in tempo per vedere il suo sguardo scivolare via dal suo interlocutore e fissarsi di nuovo al di là di Luke.
In quel modo, Sylvie non notò la fugace occhiata, piena di complicità, che Charlie Royce gli rivolse in risposta, o di come le sue labbra si schiusero lentamente in un sorriso pieno e seducente.
Nonostante i due non avessero più alcun motivo di nascondersi, visto che il Maggiore Royce era stato ormai messo a parte della cosa da settimane, la loro relazione rimaneva ancora un segreto.
Infatti, se Charlie aveva avuto delle remore in tal senso, era dovuto unicamente agli assurdi sentimenti di Annabelle King. 
Erano diventate amiche, per quanto incredibile potesse sembrare, ed ogni giorno le era sempre più chiaro che i sentimenti di Annabelle per Logan erano tutto, fuorché amore.
La donna ammirava profondamente lo sceriffo – come tutti del resto – e in lui vi vedeva un uomo leale, legato alla famiglia e non interessato affatto a relazioni senza significato. Sapeva che era gentile e che mai e poi mai l’avrebbe trattata in malo modo e – di fondamentale importanza - sua madre lo avrebbe approvato; d’altronde, non a caso era il miglior partito di tutta la contea di Lake Rock.
Quindi, Annabelle amava solo l’idea di Logan e, nelle poche occasioni in cui si era unita a loro per pranzo, aveva ampiamente dimostrato di non conoscerlo affatto.
Tuttavia, era davvero difficile – se non addirittura impossibile – dissuaderla da questa sua convinzione, e solo il cielo sapeva quante volte Charlie avesse provato a farla ragionare; pertanto, era perfettamente consapevole di non potersi limitare a rivelarle la verità, almeno non senza scatenare un melodramma.
Perché il resto non avrebbe avuto importanza: Annabelle l’avrebbe visto come un tradimento della loro neonata amicizia.
Era anche vero, però, che Charlie non poteva – e non voleva - nasconderle una cosa del genere all’infinito; dunque, avevano deciso, con Logan, di aspettare la fine del periodo natalizio, in modo da poterlo passare in serenità, e l’epifania era proprio l’ultimo giorno di tranquillità che gli rimaneva, rendendoli sicuramente molto meno discreti e prudenti.
Sylvie Moore, però, non poteva saperlo e rimase a guardare incantata quel miracolo, convinta che, finalmente, tutte le sue preghiere fossero state esaudite.
E, alla fin fine, non aveva nemmeno torto.
Aveva assistito, impotente, a cosa aveva fatto Marie – la madre di Jake – a Logan, nel momento in cui se n’era andata.
Non tanto perché lui ne fosse follemente innamorato, piuttosto perché la donna non aveva esitato nel lasciarli, preferendo la carriera ad entrambi.
Suo figlio, uomo pragmatico proprio come lo era stato il padre, non aveva mai mostrato la ferita che Marie aveva lasciato e aveva provveduto a rimarginarla a suo modo.
Tuttavia, proprio come per suo nipote era difficile interagire con gli adulti, Sylvie immaginava che per Logan fosse difficile permettere ad un’altra donna d’entrare nella sua vita - e in quella di Jake, naturalmente – in un modo così intimo e profondo.
Comunque sia, difronte allo sguardo di suo figlio per la signorina Morgan – a cui credeva fosse rivolto – Sylvie non poté fare a meno di chiedersi se Marie, sotto l’intensità di quello sguardo, non sarebbe riuscita a trovare una ragione per rimanere.
 
In ogni caso, Sylvie, Gracie e Daisy non furono le uniche ad accorgersi dell’attenzione dello sceriffo per il trio di donne a poca distanza.
“Ti avverto, se mi lancia ancora un altro di quegli sguardi, dovrai raccogliermi da terra con un cucchiaino.”  Ridacchiò, infatti, Aubrey, sventolandosi il viso con una mano.
Charlie scambiò un’occhiata complice con Maddie di cui l’altra donna non si accorse, troppo intenta a sbirciare di sottecchi verso lo sceriffo.
Nonostante non indossasse il cappello, quell’uomo le toglieva comunque il fiato. Svettava tra la folla in modo evidente e il cappotto, che gli fasciava quelle splendide spalle larghe, era quasi un degno sostituto del suo Stetson.
Quasi. Non era mica impazzita.
“Deve essere il vestito.” Sostenne ancora una volta Aubrey, non riuscendo a capacitarsi di come, tutt’un tratto, avesse attirato l’attenzione di Logan.
Iniziò a sistemarsi nervosamente i capelli scuri, cosa che aveva fatto almeno cinque volte negli ultimi trenta secondi, e Charlie fu felice di avere la riprova che quell’uomo non aveva quell’effetto solo su di lei.
“Come sto?” Chiese a Maddie, e per fortuna, perché Charlie non era sicura che sarebbe riuscita a trattenere la risata che minacciava di uscirle di bocca.
Alzò la testa, e iridi scure incontrarono inevitabilmente occhi blu, legandosi nel vortice d’emozione che, per un momento, sembrò unirli.
Fu riportata al presente dalla voce dolce di Aubrey. “Vi giuro che, un mese fa, all’incontro genitori insegnanti, mi è sembrato sempre il solito. Avevo anche messo il mio profumo nuovo.” Arrossì a quella confessione, ma non si fermò, fomentata dal suo stesso nervosismo che, pareva, la spingesse a parlare a ruota libera. “Quindi deve essere per forza il vestito...”
Non parve rendersi conto, però, che con il cappotto l’abito al di sotto era completamente coperto.
Charlie, che non voleva assolutamente sembrare scortese e rischiare di non riuscire più a trattenere il suo divertimento, sentì il bisogno impellente di allontanarsi.
“Scusate, vado a prendere una tazza di caffè.” Annunciò, quindi, e si diresse verso il lungo tavolo con le bevande calde, al ridosso del Red. Sperando che un poco di movimento potesse aiutarla.
Il suo umore allegro non era unicamente dovuto al fraintendimento di Aubrey, ovviamente. Una certa euforia l’accompagnava da quando s’era chiarita con suo padre e le sembrava di non essersi mai sentita così viva, prima d’ora. Le cose, per lei, non potevano esser più perfette di così.
La magia del Natale – che credeva perduta da quando aveva compiuto quindici anni – pareva avesse travolto anche lei, e il principale beneficiario della frenesia che l’aveva pervasa era stato Jake.
Nemmeno Maddie, che l’aveva accompagnata al negozio di giocattoli di Twin Lake City, era stata in grado di porvi un freno e, dunque, era stata testimone del delirio da shopping compulsivo che l’aveva posseduta.
E dire che a Charlie non era mai piaciuto andare in giro per negozi. Tutti i vestiti che possedeva, infatti, glieli avevano forniti per il lavoro; eppure, circondata da giochi per bambini, non era riuscita a trattenersi.
Non appena metteva gli occhi su un articolo, non aveva potuto fare a meno di pensare alla faccia che avrebbe fatto Jake nel vederlo e a quanto lei stessa si sarebbe divertita nel giocarci con lui, quindi, in poco tempo, aveva riempito il carrello.
Era stata solo per la presenza di Maddie – che la convinse a lasciar perdere la bicicletta, tra le altre cose - che erano uscite di lì solamente con: un piccolo chimico, due puzzle – uno della gioconda e l’altro dei dinosauri - da mille pezzi, un gioco da tavolo a quiz, un pallone, la ricostruzione della Morte Nera di LEGO, un paio di pattini a rotelle e quattro diversi videogiochi.
Tuttavia, era stato passando dall’ottico, poiché Diddi aveva avuto bisogno di nuove lenti a contatto, che Charlie aveva visto il telescopio e aveva saputo che quello era il regalo perfetto per Jake.
Non c’è bisogno di dire che, se da una parte il bambino era stato elettrizzato alla vista di tutti quei regali sotto l’albero di Natale, Logan non ne era stato ugualmente contento.
In piedi nel suo soggiorno, con le braccia incrociate al petto, l’uomo aveva osservato in silenzio Charlie e suo figlio districarsi in quel marasma di pacchetti, con Jake che ne prendeva uno, lo scuoteva, faceva una supposizione – man mano sempre più assurda – che suscitava le risate dell’altra.
Il punto debole dello sceriffo, però, erano quei fulgidi occhi blu da gatta che lo avevano guardato con sorpresa e smarrimento quando, ormai soli, le aveva detto: “Hai esagerato, tesoro.”
Era stato evidente che non aveva avuto idea a cosa si stesse riferendo, pertanto aveva chiarito. “Gli hai comprato troppi regali e non voglio nemmeno immaginare quanto hai speso per il telescopio.”
Dicerto, lei non era stata tanto pazza da dirglielo, perciò si era limitata a consolarlo, accennando un timido sorriso: “Due sono tuoi…”
Logan aveva sbuffato una risata, prendendola tra le braccia e attirandola a sé. “Allora questo cambia tutto.” Aveva ridacchiato.
Tuttavia, la preoccupazione aveva iniziato ad insinuarsi in lei: “Ti dà fastidio?” Aveva chiesto.
“No.” Aveva risposto subito, rassicurandola. “Però, la prossima volta limitati ad un massimo di tre, d’accordo?”
In ogni caso, quella notte, aveva trovato il modo di farsi perdonare, eccome.
Con quel pensiero, si fermò davanti al bricco del caffè, improvvisamente accaldata, e prese una tazza dalla pila, lì vicino.
Non si sorprese affatto quando la voce di Logan la raggiunse, alle sue spalle. “Pare che la biblioteca sia aperta.” Iniziò, prendendo anche lui una tazza pulita, grattandosi distrattamente una guancia. “Ci vediamo al solito posto tra dieci minuti?” Buttò lì in tono casuale, rivolgendole solo una breve occhiata, come se l’idea gli fosse venuta in mente in quell’esatto momento.
La donna coprì il suo sorriso prendendo un sorso di caffè, guardandolo dal basso verso l’alto.
Credeva davvero di fare il disinvolto?
Invece di rispondere, Charlie chiese a sua volta: “Sei l’uomo meno discreto che io abbia mai conosciuto, lo sai?”
Sapevano entrambi di cosa stesse parlando, di quelle occhiate di fuoco che non aveva smesso di lanciarle da quando era arrivato.
Le sopracciglia di lui si sollevarono, in un’espressione di autentico stupore e finto oltraggio. “Come sarebbe? Sono l’uomo più discreto di tutta la contea.”
Stavolta Charlie rise di gusto e con un plateale gesto della testa si girò a guardare John Peterson che, nel bel mezzo della piazza, stava tentando di infilarsi la canottiera dentro i pantaloni. L’impresa, però, era più complessa di quanto potesse sembrare, con tutti gli strati di indumenti che aveva addosso.
Rimasero per un momento a guardare lo strano e contorno balletto dell’uomo, prima che Charlie parlasse di nuovo: “Non credo sia un grande risultato.”
Logan rise e Charlie lo guardò abbandonarsi a quell’ilarità, affascinata.
Adorava farlo ridere.
“Immagino sia questione di punti di vista.” Osservò, riportando gli occhi in quelli di lei, avvicinandosi la tazza alle labbra.
Le si accosto ancora, finché i loro cappotti non si sfiorarono all’altezza delle braccia e, a quel contatto tanto innocente, Charlie percepì l’impazienza farsi strada nel suo corpo e iniziare a divorarla; proprio come quando era bambina e la notte della Vigilia di Natale non riusciva a prender sonno in attesa di aprire i regali.
Inspirò, per farsi forza e trattenersi dall’allungarsi e baciarlo proprio lì, in mezzo a tutti. Ma non fu una buona idea: l’odore di cedro del profumo di Logan non la calmò affatto; anzi, le ricordò di quando, quella notte, nel buio della sua stanza le aveva spinto la testa all’indietro e l’aveva baciata. Di come, poi, l’avesse amata senza riserve, donandole tutto sé stesso.
Perché, anche se nessuno dei due aveva ancora pronunciato il tanto atteso ti amo, per loro era sufficiente uno sguardo per leggerlo negli occhi l’uno dell’altra.
Deglutì e si voltò a guardare tutta la piazza, soffermandosi brevemente su Sylvie Moore; quindi, non vide il sorriso consapevole che Logan le indirizzò.
“Credo che tua madre si sia fatta un’idea sbagliata.” Osservò, riportando gli occhi su di lui.
“In che senso?”
“Sono sicura che presto ti combinerà un appuntamento con Aubrey.” Annunciò, schiccando le labbra e prendendo un altro sorso dalla sua tazza.
La testa dello sceriffo si mosse di scatto, alla ricerca delle prove. Rimase un attimo ad osservare la madre prima di sentenziare: “No, non credo.”
Lei alzò un sopracciglio, in un’evidente espressione di scetticismo: “All’improvviso la guarda come se fosse il Papa.” Lo informò in tono piatto.
“Scommetto che è solo una tua impressione.” Insistette lui, come se, ripetendolo, quel desiderio sarebbe potuto diventare realtà.
Un angolo delle labbra di Charlie si curvò verso l’alto, gesto che espresse tutta la sicurezza della sua affermazione precedente. “D’accordo, cosa ci giochiamo?”
Logan appoggiò la tazza vuota sul tavolo vicino a loro e si fece più avanti, decisamente interessato a quello sviluppo. Charlie dovette inclinare la testa all’indietro per poter continuare a guardarlo negli occhi.
“Se vinco, dovrai andare in biblioteca ed aspettarmi sulla tua bella poltrona gialla.” Il tono di voce roco e quella luce maliziosa nello sguardo, pieno di promesse, la fecero rabbrividire di piacere.
Si sentì rispondere con un mormorio basso, senza fiato. “E se vinco io?”
“Se vinci tu…” Logan allungò una mano, dimentico d’esser in un luogo pubblico, e le scostò una ciocca dietro l’orecchio, e a lei non importò affatto che qualcuno potesse vederli. Per quanto la riguardava poteva anche arrivare la stampa, i giornalisti, i fotografi, gli elicotteri per le riprese aeree: esisteva solo Logan e il suo bisogno di sapere cosa volesse dirle. “Allora, sarò io ad aspettare te.”
Il sorriso di lei si aprì in uno ben più luminoso. “Questa è, in assoluto, la scommessa migliore di sempre.”
Tuttavia, si mordicchiò il labbro inferiore – gesto che non passò inosservato - indecisa se infrangere o meno le sue speranze. “Ti rendi conto, però, che potrebbero volerci giorni prima di conoscere il verdetto?”
Lui sembrò aspettarselo e non si scompose minimamente quando disse: “In tal caso, da vero gentiluomo, ti concedo la vittoria, tesoro.”

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Capitolo 16
*** CAPITOLO SEDICI ***


CAPITOLO SEDICI
Quando un ciottolo viene gettato in uno stagno, questo genera una catena d’increspature circolari che si propagano sulla superficie dell’acqua, comunemente chiamate onde.
Naturalmente, sappiamo che la fisica descrive molti fenomeni – ad esempio il suono, la luce o la gravità – attraverso il modello ondulatorio.
In ogni caso, proprietà caratteristica delle onde è l’interferenza che può essere, essenzialmente, di due tipi: costruttiva o distruttiva. Questo fenomeno fa sì che, nel momento in cui nello stagno si gettano due ciottoli distinti, le onde che questi andranno a produrre si incontreranno, amplificandosi fra loro – nel primo caso – oppure decrementandosi – nel secondo.
Quindi, furono due i metaforici ciottoli causa degli eventi che andarono, pian piano, a scontrarsi e accrescersi, fino ad ingigantirsi e sfuggir completamente di mano, quel venerdì.
Le feste erano ufficialmente finite, il giorno prima, ma la scuola non avrebbe riaperto fino al lunedì successivo, concedendo in questo modo tre giorni in più di svago al piccolo Jake Moore.
Tuttavia, per suo padre il lavoro non si era mai fermato e quel giorno sarebbe stato occupato fino a tardi. Successivamente alle informazioni ricevute dallo sceriffo Clark, circa i magazzini contenenti la droga, la polizia aveva iniziato a sorvegliarli per tener traccia di chi vi accedeva. Sarebbe stato stupido, infatti, sequestrare lo stabile senza aver preso nota di ogni più piccolo dettaglio; anche perché, in quel modo, non avrebbero risolto affatto il problema: quegli uomini si sarebbero limitati semplicemente a cambiare deposito, lasciandoli senza più alcun vantaggio.
Quella sera, però, Logan si sarebbe occupato di persona di coordinare il pattugliamento, pertanto lo aspettava una nottata insonne, lontano da Jake e da Charlie.
Quindi, aveva chiesto a sua madre di badare al figlio per tutto il giorno e, per quel motivo, si ritrovarono al tavolo della colazione loro tre, quella mattina.
Lo sceriffo non notò nulla di strano nei sorrisi spumeggianti che continuava a rivolgergli la donna; dopotutto, aveva sempre adorato l’allegria che pareva non abbandonasse mai sua madre e le parole, decisamente inaspettate, che gli rivolse non furono sufficienti a chiarirne all’istante le intenzioni.
“Aubrey ha accettato di incontrarti, martedì. Va bene per te?”
Logan si fermò nel gesto di infilzare le sue uova strapazzate e sollevò gli occhi dal piatto; al sentir nominare la sua maestra, poi, anche Jake portò la sua attenzione sulla nonna, mentre si infilava un cucchiaio di latte e cereali in bocca.
Naturalmente, il fatto che l’insegnante di suo figlio volesse vederlo, quando avrebbe potuto facilmente fermarlo per strada in qualsiasi momento, come al solito, lo impensierì. Ma, si disse, non poteva avere niente a che fare con Jake, era sempre stato un alunno modello; però, poteva sempre trattarsi di qualcosa di diverso dalla rendita scolastica, atti di bullismo ad esempio – anche se quella sarebbe stata in assoluto la prima volta che sentiva di una cosa del genere nella scuola di Sunlake.
“È successo qualcosa?” Chiese ignaro, e la madre si accigliò a quella reazione poco entusiasta e così seria - totalmente opposta a quella sperata - da parte di lui.
Confusa, lo studiò per un lungo momento. “No, ma pensavo ti avrebbe fatto piacere…”
Le spalle di Logan si rilassarono e l’uomo prese tranquillamente un boccone della sua colazione. Abbassò di nuovo gli occhi al suo piatto, iniziando a raccogliere un’altra forchettata, mentre rispose: “Non c’è bisogno, ci ho già parlato l’altro giorno. Tuo nipote è ancora un piccolo genio.” Disse, sorridendo orgoglioso al diretto interessato e allungandosi a scompigliargli, ancor di più, quella zazzera di capelli scuri.
Ad ogni modo, le sue parole non servirono affatto a chiarirle le cose, lasciandola ancor più interdetta. “Ma…” Si voltò verso suo nipote, come se un bambino di otto anni avesse potuto aiutarla a fare chiarezza. “Pensavo fossi interessato alla signorina Morgan.” Sussurrò, sporgendosi sul tavolo, in un tenero, quanto inutile, tentativo di non farsi sentire da Jake.
Logan alzò subito gli occhi su di lei e tutto ciò a cui riuscì a pensare fu: dannazione, Charlie aveva ragione.
Il suo disagio, che lo fece spostare nervosamente sulla sedia, fu scambiato per imbarazzo e l’occhiata titubante che rivolse a suo figlio ricordò a Sylvie la prima – e unica – volta che avesse provato ad organizzargli un appuntamento con Aubrey Morgan. In quel caso, Logan era stato categorico: non sarebbe uscito con l’insegnante di Jake - troppe complicazioni – e lei aveva rispettato la sua decisione, trovandola sensata.
Si sporse oltre il tavolo e afferrò la mano dell’uomo difronte a lei. “Questa volta è diverso, se provi qualcosa per lei non ha importanza il suo ruolo e dovresti-”
Si interruppe alla vista del sorriso condiscendete di suo figlio, che le disse chiaramente la verità: aveva frainteso.
“Oh.” Sussurrò, quindi, delusa che il miracolo che stava aspettando da sempre si fosse rivelato solo un buco nell’acqua e, prima che tornasse alla sua colazione, Logan riuscì a vedere le lacrime a stento trattenute negli occhi della donna.
Rigirò la mano in quella calda di lei e gliela strinse, con affetto. “Mamma…”
Avrebbe potuto dire molte cose; ad esempio, che non aveva alcun motivo di preoccuparsi. Oppure, ancora meglio, che non poteva provare dei sentimenti per Aubrey Morgan perché amava Charlie Royce, e l’amava in un modo così disarmante e senza limiti che s’era chiesto più volte come avesse anche solo potuto pensare, un tempo, che i suoi sentimenti per Marie fossero amore.
Perché, semmai Charlie se ne fosse andata, Logan non sarebbe mai e poi mai riuscito a riprendersi.
Però, il singhiozzo di sua madre gli impedì di pensare ad una buona alternativa a quella spiegazione.
“Non voglio che tu rimanga solo.” Disse la donna, tamponandosi gli occhi con il tovagliolo.
Vedendo sua nonna in quello stato, anche Jake tentò, a suo modo, di rassicurarla. “Papà non è solo, ci sono io con lui!” Osservò, e parve sicuro che quelle parole, da sole, sarebbero bastate a rallegrarla, ma Sylvie sembrò intristirsi ancor di più quando si sporse verso di lui per toccargli affettuosamente una guancia.
“Lo so, tesoro.”
Anche se non disse che, ciò che voleva per suo figlio, era una donna che stesse al suo fianco, Jake capì che la nonna non era soddisfatta del suo unico nome, perciò, in tutta fretta continuò: “C’è anche Charlie!”
Nessuno dei due si accorse di come Logan si irrigidì sulla sua sedia a quelle parole ma, in ogni caso, Sylvie credette che il bambino si riferisse al legame di amicizia che, era risaputo, i due condividevano; però, ciò che s’affrettò ad aggiungere il nipote distrusse completamente ogni sua certezza: “E da quando dorme con papà, non fa più brutti sogni.” Annunciò, sorridendo orgoglioso di aver presentato quella dimostrazione inconfutabile della felicità del padre.
 E quello fu l’esatto momento in cui il primo ciottolo colpì la superficie dello stagno.
In ogni caso, quella era la spiegazione che Logan aveva dato a suo figlio alla sua domanda in merito, ma se agli occhi innocenti di un bambino quel chiarimento era assolutamente accettabile, a quelli disillusi di un adulto il significato appariva completamente differente.
Pertanto, con una mano al petto, Sylvie tornò a guardarlo.
“Cosa?” Chiese in un bisbiglio tremante.
“Andiamo a parlarne di là.” Disse Logan, alzandosi velocemente dalla sedia, seguito a ruota da una Sylvie ancora stordita da quella rivelazione.
Quando furono in camera da letto, la donna si guardò intorno con occhi nuovi, come alla ricerca di un indizio di una presenza femminile e, ovviamente, ne trovò.
Innanzitutto, si soffermò sul letto matrimoniale, ancora sfatto, che dominava la stanza. Le coperte erano state spinte da parte da entrambi i lati, proprio come se qualcuno fosse sceso dalle due parti opposte.
Sul comodino di sinistra, poi, c’era una piccola confezione rossa di crema per le mani, cosa che, sapeva per certo, Logan non usava e, come se non bastasse, sullo schienale della poltrona nell’angolo, era stata dimenticata una sciarpa rosa, da donna, e nell’aria della stanza era ancora possibile percepire la debole nota floreale di un profumo femminile.
“Allora è vero.” Osservò con orrore Sylvie, davanti a tutti quegli indizi evidenti.
Logan, da parte sua, credette che quell’incredulità fosse dovuta unicamente al fatto di aver scoperto che suo figlio le aveva tenuto nascosta una verità simile; quindi, grattandosi in imbarazzo una guancia, disse: “Mamma, ho davvero bisogno che tu non lo dica a nessuno.”
Non avrebbe mai immaginato che, in quel modo, avrebbe scatenato l’ira di lei.
“Come osi chiedermi una cosa del genere!” Gridò, piena d’indignazione e sprezzo. “Credevo di aver cresciuto una brava persona, non un meschino traditore!”
Di tutte le reazioni possibili, Logan non aveva minimamente preso in considerazione una sfuriata del genere.
“Eh?” D’accordo, forse aveva messo in conto un po’ di rabbia e risentimento per averglielo tenuto nascosto, ma addirittura definirlo un traditore gli sembrò esagerato.
Con il petto che s’alzava e abbassava repentinamente, la donna prese un profondo respiro; eppure, non servì a calmarla ma, almeno, abbassò il tono di voce quando continuò: “Pensavo che tu e Luke foste amici. Come hai potuto fargli questo? Hai visto tutti i fiori che quell’uomo le manda? È ovvio che prova qualcosa per lei.”
“Sono io che le mando i fiori.”
La donna aggrottò la fronte e una piccola ruga d’espressione le si formò tra le sopracciglia. “Cosa?”
Logan si passò una mano tra i capelli, frustrato. Di tutte le cose che aveva pensato di dover fare quel giorno, spiegare a sua madre la vera natura del suo rapporto con Charlie era l’ultima che avrebbe immaginato. “Ho chiesto a Luke di comprarli a nome mio.”
Gli occhi di lei si spalancarono ancor di più. “Oddio.” Mormorò, portandosi una mano davanti alla bocca, ancor più orripilata. “È una di quelle strane cose a tre che vanno tanto di moda adesso tra i giovani?”
Lo sceriffo scoppiò a ridere.
“Guardi troppa televisione, mamma. Luke non è interessato a Charlie.” Soprattutto, non in quel momento. Il vicesceriffo, infatti, non poteva certo definirsi un accanito fan della donna in quel periodo. “Mi ha solo aiutato a mantenere questa storia segreta.” Chiarì.
“Ma…” Iniziò, visibilmente sempre più in confusione. “Perché? Perché non me l’hai detto?”
Con un sospiro, le diede l’unica spiegazione abbastanza buona da poter giustificare il suo comportamento: la verità.
“Il Maggiore Royce non era d’accordo.” Vide l’indignazione prender possesso dei suoi lineamenti, ma la bloccò prima che potesse dire qualcosa. “Ora è tutto risolto, comunque. Lo sa, gli va bene e siamo tutti sereni.”
Diede un’occhiata al suo orologio da polso e se non fosse uscito subito di casa avrebbe rischiato di fare tardi per il suo appuntamento mattutino con Clark. Dunque, ritenne conclusa quella piccola riunione familiare a due. “È una storia piuttosto complicata, te la racconterò domani. Ora devo proprio andare o farò tardi, mamma, scusami.”
Tuttavia, per Sylvie la faccenda non fu affatto risolta e aveva tutta l’intenzione di dire la sua, soprattutto ad una persona in particolare. Pertanto, quando, quel tardo pomeriggio, vide Stephen Royce seduto su una delle panchine della piazza, in compagnia del sindaco Young, non ci pensò due volte a far sapere a quell’uomo cosa ne pensasse della sua disapprovazione per il suo adorato figlio e, da lì, si scatenò un bel litigio che ebbe come unico risultato quello di mettere al corrente mezzo paese della verità.
Annabelle King lo venne a sapere solo quella sera, quando Doroty la chiamò al telefono per spiattellarle la notizia appena appresa e, anche in quel caso, Charlie aveva avuto ragione: esplose il melodramma.
 
Come ogni scienziato sa, per comprendere appieno un fenomeno bisogna studiarne ogni causa scatenante e l’origine del secondo fu l’allegra suoneria del cellulare di Charlie, che interruppe bruscamente la sua colazione con Maddie.
Normalmente non avrebbe risposto al telefono, sennonché stava aspettando una chiamata davvero importante.
Da quando aveva messo la cimice addosso a Ruiz, infatti, aveva scoperto che solo nell’ultima settimana, proprio come Robert Nelson e Scott Adams nella primissima intercettazione che aveva fatto sul suolo di Sunlake, l’uomo e i suoi compari avevano parlato più volte di un certo Max e della sua bistecca al sangue.
Nonostante ne fosse rimasta interdetta, non aveva creduto nemmeno per un secondo che quella fosse solo una coincidenza; quindi, attraverso una brevissima ricerca su internet, il famoso Max era risultato essere il fiero proprietario di un locale nel cuore della Twin Lake City più turistica e sfrenata, il Jimbo’s.
Aveva recensioni davvero ottime, a proposito.
In ogni caso, quel nome le aveva stuzzicato la memoria, così era andata a risentire tutte le intercettazioni telefoniche passate che aveva coscienziosamente registrato e aveva fatto tombola.
Le intercettazioni di cui lei era in possesso, ovviamente, risalivano solo a metà novembre, subito dopo aver avuto la malsana idea d’accettare l’incarico di Matt; tuttavia, l’unica telefonata in cui veniva pronunciato quel nome risaliva agli inizi di dicembre, quando una voce femminile aveva esordito salutando Liam Ruiz con un sospirato: “Ciao, Jimbo.” Prima di perdersi in chiacchiere frivole e senza peso, per poi chiudere con un allettante: “Ci vediamo stasera, alla solita ora.”
Charlie, diffidente per natura quando si trattava di questo, l’aveva trovata una conversazione assai strana: l’unica chiamata da parte di una donna che, per di più, si rivolgeva a Ruiz con quel nomignolo ridicolo.
Aveva subito aperto i dati sulle triangolazioni del telefono di quell’uomo e, senza sorpresa, era risultato che quella stessa sera, a differenza del solito, Liam Ruiz fosse stato nei paraggi del Jimbo’s.
Quindi, l’unica domanda che rimaneva da fare era: chi aveva incontrato?
E adesso, gennaio era appena iniziato, le feste erano appena finite e Charlie sentì di nuovo quella stessa voce di donna miagolare ancora: “Jimbo.”
Segno inconfutabile che quella stessa sera ci sarebbe stato un incontro.
Da quella sola parola di cinque lettere, si generano due conseguenze, una direttamente correlata all’altra.
La più naturale, che non sorprende affatto, fu la decisione di Charlie di uscire, quella sera stessa.
L’altra, più difficile da prevedere, ma che non dovrebbe stupire più di tanto, fu che la donna si ritrovò Maddie Foster appoggiata al fianco della sua auto, con le braccia incrociate sotto i seni e lo sguardo di una bibliotecaria che aveva appena beccato due adolescenti a pomiciare tra gli scaffali.
Facendo scorrere gli occhi sulla sua figura, si fece un’idea ben chiara delle sue intenzioni, soprattutto quando si soffermò sui tacchi a spillo – comprati insieme, per rimpiazzare le sue vecchie scarpe da colloquio – che aveva ai piedi.
Pareva non le fosse sfuggito il suo umore di quella mattina, non appena aveva riattaccato il telefono.
“Cosa fai qui, Diddi?” Chiese, nascondendo il più possibile la sorpresa di ritrovarsela davanti.
L’altra sbuffò, all’assurdità di quella domanda. “Vengo con te.”
Si guardarono per un lungo momento e Charlie fu sorpresa di come Maddie continuasse a sostenere il suo sguardo, quando era sicura che altri si sarebbero fatti indietro difronte alla sua impassibilità glaciale.
Un angolo della bocca le si incurvò verso l’alto, e pensò a quanto poco fosse cambiata dalla ragazzina testarda che era stata.
In ogni caso, girandole intorno e fermandosi davanti la portiera del guidatore, al di là del tettuccio, si limitò a pronunciare una sola sillaba: “No.”
E rimasero ancora a fissarsi, entrambe consapevoli che non appena Charlie avrebbe aperto l’auto per poter salire, Diddi ne avrebbe approfittato.
Pertanto, con il trucchetto più vecchio del mondo, guardò oltre l’amica, verso la porta di casa sua, e con finto stupore disse: “Papà?”
Maddie ci cadde come una pera cotta e si voltò; ma, in ogni caso, Charlie non fu abbastanza veloce perché se la ritrovò al suo fianco, sul sedile del passeggero.
Si piegò in avanti, ad appoggiare la testa sul volante, esasperata. “Diddi, sul serio, non puoi venire. Ti prego, scendi.” Si sentì dire, quasi supplicando.
“Non mi lascerai indietro, questa volta. Siamo una squadra, quindi vengo con te.”
Era rimasta davvero offesa quando, a grandi – davvero grandi - linee, le aveva raccontato della sua uscita in solitaria, motivo scatenante del suo apparente diverbio con Logan, ed ora pareva proprio non aver intenzione di permettere che accadesse di nuovo.
Charlie sapeva che sarebbe stato comunque troppo rischioso portare l’altra con sé; tuttavia, aveva due possibilità: trascinarla giù dall’auto a forza, rischiando così che la donna la seguisse, oppure portarla con sé e tenerla d’occhio.
Fu solo quando guardò l’ora sul display del cruscotto che si decise ad accendere il motore: non poteva proprio permettersi di far tardi e rischiare di mancare quell’incontro.
D’alta parte, si disse, non avrebbe dovuto avvicinarsi a Liam Ruiz; perciò, sarebbe andato tutto bene.
E all’inizio, sembrò davvero così.
Quando entrarono al Jimbo’s, infatti, Charlie si sentì improvvisamente più tranquilla nel constatare quanto fosse affollato il locale e non ebbero problemi a confondersi tra la folla.
I camerieri si muovevano con abilità tra i tavoli attorno alla pista da ballo, ancora vuota, e su ognuno dei loro vassoi c’erano solo tagli di carne cotti alla brace di diverse dimensioni, accompagnati da un qualsiasi tipo di contorno.
Scelsero un tavolo il più in disparte possibile ed ordinarono. Cenarono con calma, e non parve accadere nulla per la prima ora o giù di lì; pertanto, le due donne si gustarono tranquillamente la loro bistecca che, dovette ammetterlo, era davvero squisita.
Arrivarono verso le otto e mezza, e a Charlie ci volle qualche momento per riconoscere l’uomo insieme a Liam Ruiz: Cole Rodriguez.
Fu evidente che l’uomo si fosse sottoposto a diversi interventi di chirurgia plastica, perché il naso era completamente differente da quello piccolo e un po’ a patata che aveva prima e anche gli zigomi erano stati sollevati verso l’alto in modo assolutamente innaturale.
I due si sedettero diversi tavoli più in là, con Rodriguez che le dava le spalle.
Quello di cui aveva bisogno era una foto del viso, magari anche del profilo, di quell’uomo, di certo non della sua nuca; pertanto, aspettò con impazienza – strano per lei – che l’uomo si girasse.
Da quando Ruiz aveva varcato la soglia, infatti, una strana inquietudine aveva iniziato a strisciarle addosso, come se quella non fosse la sera ideale per andare avanti con i suoi propositi; tuttavia, Charlie non era abituata ad assecondare il suo istinto quando questo le diceva di fuggire, perciò rimase al suo posto ad aspettare la sua occasione.
E questa arrivò, quando, finalmente, l’uomo si voltò versò la pista da ballo, concedendole il profilo e lei alzò subito il telefono.
Sembrò che stesse facendo una foto a Diddi che, infatti, si mise in posa credendo che quello fosse il suo effettivo intento, ma Charlie ingrandì sul viso di lui che, con un ottimo spirito di collaborazione, si spostò ancora, permettendole di ottenere un bel ritratto a tre quarti.
Abbassando il cellulare, però, i suoi occhi incontrarono gelide iridi verdi che la fissarono con riconoscimento.
“Merda.”
“Cosa? Non posso essere davvero così poco fotogenica.” Si lamentò Maddie, fissandola con perplessità quando l’altra lasciò diverse banconote da cinquanta sul tavolo e si alzò.
“Dobbiamo andare.”
“Ma ancora non ci hanno portato il dolce…” Le fece notare, sempre più disorientata da quell’improvviso cambio d’umore. Fino a quel momento, infatti, era stata una serata tranquilla, niente affatto pericolosa come Charlie aveva voluto farle intendere.
Occhi blu si puntarono su di lei e in un sibilo severo le ingiunse: “Subito, Maddie.”
Sentirsi chiamare con il suo nome di battesimo da quella donna che mai, prima d’allora, l’aveva usato, la spaventò. Soprattutto perché riconobbe nel suo sguardo un timore inconsueto.
Si ritrovò in piedi in un lampo, quindi, con Charlie che iniziò a spingerla fuori di lì e poi verso la macchina, attraverso il piazzale deserto. Ad ogni passo, si maledì per aver parcheggiato nell’angolo più lontano dall’ingresso.
Non era per sé stessa tutta quella preoccupazione, quanto piuttosto per la presenza di Diddi con lei. Se Liam Ruiz avesse anche solo sospettato che aveva scattato una foto a Cole Rodriguez, allora, probabilmente, sarebbero morte entrambe.
La paura di Charlie iniziò a placarsi solo a pochi metri dall’auto; infatti, guardandosi indietro, da sopra la spalla, sembrò che ancora nessuno fosse uscito per fermarle, e pian piano il suo cuore tornò a battere ad un ritmo più regolare. Ce l’avevano fatta.
Non riuscì a trarre un sospiro di sollievo perché il silenzio del parcheggio fu infranto da un urlo furioso e fin troppo familiare.
Si è detto che, nel caso di un’interferenza di tipo costruttivo tra due onde, queste si uniscono a formarne una nuova che avrà intensità pari alla somma delle intensità originali.
Fu quello il momento in cui, i due fenomeni inizialmente indipendenti, si incontrarono, e gli eventi sfuggirono completamente al controllo.
“Charlie Royce!” Gridò Annabelle King, facendosi strada verso di loro.
Non poté non fermarsi. La guardò completamente sconcertata: che diavolo ci faceva lei lì e per quale maledetto motivo stava urlando il suo dannatissimo nome ai quattro venti?
“Cosa ci fa qui?” Mormorò senza fiato.
Concentrata sulla nuova arrivata, non si accorse del disagio di Maddie, al suo fianco.
Era stata la donna, infatti, ad aver scritto ad Annabelle – su sua infinita insistenza – dove si trovavano, quella sera. A sua discolpa, le aveva creduto quando l’altra le aveva promesso che non le avrebbe raggiunte.
Era evidente che avesse mentito.
In ogni caso, anche lei fu alquanto perplessa da tutta quella rabbia. “Pare piuttosto furiosa.”
“Come hai potuto!” Le urlò in faccia quando si avvicinò. Il volto rigato di lacrime e gli angoli della bocca cosparsi di tracce di glassa, segno evidente che lungo la strada per venire si fosse fermata a comprare qualche ciambella. “Mi fidavo di te! Credevo fossimo amiche!”
“D’accordo, calmati. Sono sicura che possiamo risolvere civilmente qualsiasi cosa sia successa.”
“Non dirmi di calmarmi!” Strepitò, sempre più isterica. “Perché mi hai fatto questo? Potresti avere ogni uomo sulla faccia della terra e hai dovuto scegliere proprio quello che amo!?”
E con quelle parole, tutto si fece chiaro: l’aveva scoperto.
Tuttavia, quello non era sicuramente il luogo migliore in cui affrontare la questione e, quando Charlie si voltò indietro e vide Liam Ruiz e altri due uomini uscire dalle porte del Jimbo’s, fu evidente che non era nemmeno il momento più opportuno.
“Andiamo a parlarne da un’altra parte.” Disse, afferrando il braccio di Annabelle e cercando di trascinarla verso l’auto, ma la donna iniziò a divincolarsi come una matta e fu costretta a lasciarla andare.
“Non vengo da nessuna parte con te, traditrice! Mi fidavo! Quell’uomo è il mio futuro marito!” Alzò sempre più la voce ad ogni parola e così Charlie disse addio al suo famoso autocontrollo e sclerò.
“Smettila d’esser ridicola, nemmeno lo conosci!” Gridò di rimando. “L’altro giorno gli hai addirittura chiesto di dividere una fetta di torta al pistacchio, per la miseria!” Alzò le braccia al cielo esasperata.
L’altra fece un passo indietro, presa in contropiede. “E questo cosa c’entra?”
“È allergico.” Sibilò.
“Cosa? Da quando?”
“Da tutta una vita, dannazione!”
Capì subito quando ebbe esaurito tutto il vantaggio che aveva accumulato e fu proprio il cambiamento nell’espressione della donna davanti a lei a confermarglielo. Gli occhi di Annabelle si spostarono oltre di lei e si sgranarono leggermente quando si fermarono sui tre uomini, decisamente poco amichevoli, che stavano assistendo alla scena.
“Ditemi voi se questo non è uno scontro tra gattine sexy.” Fu il sagace commento di Liam Ruiz e una calma familiare, da sempre benvenuta, calò su di lei insieme ad una spietata lucidità che le era mancata pochi istanti prima, quando aveva trascinato Diddi fuori di lì.
Il suo sguardo sembrò impietrire Annabelle quando, prima di voltarsi, le ordinò in un sibilò: “Non muoverti da qui.”
Non voleva che nessuna di loro le si allontanasse, correre da sole per un parcheggio deserto sarebbe stato molto più pericoloso, visto che, con tutta probabilità, uno di quegli uomini le avrebbe seguite. Inoltre, se avessero avuto una pistola sarebbe stato comunque inutile, e fu proprio in quell’eventualità che spinse Maddie dietro di lei e si frappose tra le due donne e i tre uomini.
Tuttavia, se anche il suono di uno sparo non fosse stato sufficiente a sovrastare la musica assordante all’interno del locale, avrebbe comunque destato l’attenzione di qualcuno nei dintorni, e che motivo avevano di correre un rischio simile? Erano solo tre donne, dopotutto.
Liam Ruiz, le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti del completo, in piedi ad almeno cinque passi da loro, con due energumeni ai suoi fianchi, la guardò attentamente, a partire dalla camicetta nera, leggermente svasata, per poi scendere lungo le sue gambe fasciate dai jeans, fermandosi alle sue adorate Jimmy- Choo.
Le rivolse un sorrisetto d’apprezzamento e le fece l’occhiolino, prima di chiedere: “Dove te ne andavi, bambolina?”
Se la volta precedente quel nome le aveva urtato i nervi, stavolta non scalfì affatto la superficie della sua placidità e si ritrovò a rispondere: “Stavamo giusto tornando a casa.” Proprio come se non ci fosse niente di strano nel parlare con un uomo – un assassino per giunta – seguito da due guardie del corpo intimidatorie nel mezzo di un parcheggio buio.
Negargli la soddisfazione di vederla spaventata lo infastidì, e non poco a giudicare dal movimento della sua mascella.
“Sono rimasto molto deluso dal tuo comportamento della volta scorsa.” Continuò Ruiz, facendo finta di niente.
Lo stesso fece lei e, pertanto, rispose: “Come mai?”
“Prima mi ti butti addosso, mi baci in quel modo e poi te ne vai senza nemmeno salutare.” Lo disse come se ne fosse realmente dispiaciuto, quando entrambi sapevano perfettamente che era incazzato oltremisura perché aveva avuto l’ardire d’intaccare il suo tronfio orgoglio.
Buttò lì la prima scusa che le venne in mente, continuando quella ridicola farsa che l’uomo aveva iniziato. “Mi ha chiamato mia nonna, aveva bisogno di una mano con-”
“Sono tutte stronzate.” La interruppe aspramente e poté avvertire il sussulto di sorpresa delle due donne dietro di lei quando aggiunse: “La verità è che sei solo una piccola troietta rizzacazzi.”
Quella di Charlie, invece, fu la reazione di una donna abituata al sentirsi dire cose di quel genere o, tutt’al più, di una donna che si aspettasse commenti di quel tipo da un uomo come quello.
Tuttavia, quelle parole non rimasero senza risposta e scatenarono l’indignazione di Annabelle che, con voce tremante di paura, intervenne a difenderla: “C-come ti p-permetti-” Ma in quel modo attirò solo l’attenzione di quegli occhi verdi su di sé e, sotto a quello sguardo, si zittì di botto.
Dal sorriso genuino e soddisfatto che curvò le labbra dell’uomo, fu evidente che quell’atteggiamento lo compiacque decisamente molto di più di quello di Charlie.
“Mi sento magnanimo, questa sera.” Dallo luccichio sadico nei suoi occhi, non l’avrebbe mai detto. “Perciò, se vieni qui, senza fare storie, ti inginocchi e fai il tuo lavoro, perdonerò te e la tua stupida amichetta. Altrimenti…”
Anche se non continuò, ciò che non disse fu, comunque, evidente: sarebbe stato pronto a convincerla.
Maddie e Annabelle, dietro di lei, arrivarono alla stessa conclusione e poté quasi avvertire il momento in cui la loro paura si trasformò in puro terrore, che le ancorò saldamente al suolo.
“Per quanto l’offerta sia allettante, per questa volta passo e scelgo la seconda opzione.” Disse lei, con fare annoiato, mentre l’adrenalina iniziò ad irrorarle le vene, lasciandola con una certa smania di muoversi.
Fu lampante che a Liam Ruiz nessuna donna avesse mai detto di no, tantomeno una piccola biondina smorfiosetta come lei, ma sembrò comunque compiaciuto della sua scelta, probabilmente pregustando già il suono delle sue urla.
Tolse una mano – quella con tutte e cinque le dita – dalla tasca e con un pigro gesto altezzoso fece segno ai due uomini di prenderla. Non se ne sarebbe nemmeno occupato da solo, pensò con sprezzo lei, guardando quello che iniziò ad avvicinarsi.
Dopotutto, che bisogno c’era di venirle incontro in due per occuparsi di una cosuccia piccola e indifesa come lei?
Aspettò che colmasse tutti e cinque i passi di distanza e che si allungasse ad afferrarla per un braccio, prima di scattare di lato, afferrargli il polso e fluidamente – come se lo avesse fatto migliaia di volte, ed effettivamente era così – applicare la leva necessaria per farlo piegare in avanti.
Non si fermò e, senza esitare un solo istante, spinse oltre il limite di sopportazione alle sollecitazioni di una qualsiasi spalla umana e gliela spezzò; mentre, con una forte pressione del piede all’altezza della caviglia, gli spezzò anche quella.
Il suono raccapricciante prodotto avrebbe fatto rabbrividire chiunque, così come il grido dell’uomo che cadde a terra, svenuto.
Tutto quel dolore era difficile da sopportare.
Perciò, in pochi secondi il primo uomo fu messo fuori combattimento.
Ne mancavano solo due.
Ripresosi dalla sorpresa di vedere il suo compare cadere al suolo come un sacco di patate, il secondo estrasse un coltello a serramanico, uno di quelli da caccia che penetrava la carne come se fosse burro, e si fece avanti, con la consapevolezza, adesso, di avere davanti qualcuno che sapeva combattere.
Charlie lo accolse con un sorriso, felice di constatare come non avesse tirato fuori una pistola.
Scavalcò, quindi, il corpo ai suoi piedi e gli andò incontro.
Schivò il primo affondo, e le fu subito chiaro che quell’uomo credeva che bastasse agitare il coltello per avere la meglio in uno combattimento. Contava esclusivamente sulla sua forza fisica, per il resto era zero tecnica; si sa, quando la tecnica incontra la forza bruta, il risultato può essere uno solo.
Nel momento in cui riprovò un’altra stoccata, Charlie gli afferrò saldamente la mano con entrambe le sue e – favorita dall’impeto dello spostamento di lui - deviò il tragitto del suo movimento: il coltello gli si infilzò nella coscia e l’uomo emise un urlo di dolore.
Lei non ebbe pietà di lui e glielo strappò bruscamente dalla carne, torcendolo.
Certo, quello non bastò a metterlo fuori gioco, e al grido di “Brutta puttana!” la colpì al viso con un potente manrovescio.
Fece un male atroce, ma Charlie non si permise il lusso di pensarci.
Approfittando di quel suo momento di stordimento, l’uomo l’afferrò per il polso – con la cui mano teneva ancora il coltello - e subito lei si avviluppò su sé stessa – proprio come una mossa di ballo – e si ritrovò nel suo caldo abbraccio; sennonché, alzò il ginocchio e lo colpì all’addome, levandogli tutto il fiato a disposizione.
Fu per questo che non emise un suono quando gli sferrò una, due, tre gomitate in rapida successione al setto nasale, prima di crollare a terra.
Due erano andati, ed era appena passato un minuto.
Con il petto che si alzava e abbassava a ritmo frenetico, per lo sforzo della lotta, abbassò la testa verso le sue scarpe e si accorse di una piccola goccia di sangue che macchiava il candido bianco delle sue Jimmy- Choo. Solo allora permise a tutta la sua rabbia di affiorare in superficie e Charlie si voltò lentamente verso l’ultimo uomo rimasto, ancora fermo in piedi, come congelato dallo shock.
Ruiz parve accorgersi dell’odio in quegli occhi blu e, resosi conto d’esser ormai solo, fece un tremante passo indietro, pronto a fuggire.
Non appena si mosse, però, il coltello nella mano di Charlie gli si pianto nel piede, inchiodandolo a terra.
Cadde sul sedere, con un lamento, artigliandosi l’arto ferito con le mani. Lo vide sfiorare il manico, senza trovare il coraggio di estrarlo.
Iniziò ad avvicinarglisi, con una calma temibile, i fianchi che oscillavano sinuosamente ad ogni passo e i capelli biondi scompigliati.
Era ancora bellissima.
Inoltre, con le dita macchiate di sangue, lo sguardo gelido di quelle iridi blu e il taglio fresco sulla guancia, sembrò l’angelo della vendetta pronto a dispensare un po’ di giustizia alla vecchia maniera.
Normalmente, si sarebbe girata e se ne sarebbe andata, lasciandolo lì, a terra da solo; però, era stufa marcia e incazzata nera.
Incazzata per conto di Maddie ed Annabelle, per conto di Margot Baker – ammazzata da quell’essere ignobile – e anche per sé stessa.
Gli occhi di lui, velati di lacrime di dolore, si alzarono terrorizzati su di lei, quando gli si fermò davanti.
“Ti prego.” Piagnucolò. “Ti darò tutto quello che vuoi ma, ti prego, abbi pietà.”
Tutti uguali quest’uomini: dei vigliacchi, che facevano i gradassi quando avevano due guardie del corpo a battersi per loro ma che iniziavano ad implorare non appena tornavano ad essere nullità.
Charlie schioccò la lingua con disapprovazione, accovacciandosi alla sua altezza. “Non mi piace che mi si parli così, Peter.”
A sentir pronunciare il suo nome – il suo vero nome – gli occhi di lui si spalancarono ancor di più. “Come sai il mio nome?” Ebbe la forza di sussurrare, completamente sopraffatto.
“So tutto di te, Peter Cox. So quello che fai per Cole Rodriguez e so quello che hai fatto a Margot Baker.”
Da come reagì, sembrò che per lui fosse arrivato il momento del giudizio divino, perché iniziò a scusarsi in ogni modo possibile, a implorarla ancora, e a chiederle il perdono.
Come se le bastasse.
Come se le importasse.
“Lo sai quanto è difficile farmi incazzare?” Lo interruppe, estraendo il coltello dal suo piede e guardandolo impallidire e quasi svenire, mentre gemeva di dolore. Solo quando ottenne di nuovo la sua attenzione, continuò. “Non è stato per niente galante dirmi di succhiartelo davanti alle mie amiche, così come mandarmi contro quei due gorilla lì. E poi, hai anche solo una vaga idea di quanto costino queste scarpe?”
L’uomo non disse niente, guardò il coltello che scorreva veloce avanti e indietro tra le dita di lei, come ipnotizzato, finché non si fermò e Charlie lo strinse tra pollice e indice.
“Forse avevi ragione.”
“C-cosa?”
Indicando verso la patta dei suoi pantaloni con la lama, con fare evocativo, spiegò: “Dovrei dare un occhiata al tuo cazzo.”
Non servì altro.
A quella minaccia, svenne.
E lei lasciò cadere il coltello a terrà, alzandosi.
Le due donne, ancora ferme in piedi dove le aveva lasciate, la guardarono avvicinarsi ad occhi sbarrati, come se non la riconoscessero, ed Annabelle non ebbe nulla da ridire quando, con tono che non ammette repliche, le ingiunse: “Adesso, sali in macchina.”
 
L’onda d’urto che la investi sabato mattina, si presentò alla sua porta subito dopo che suo padre uscì per la sua passeggiata e proprio mentre Annabelle si trovava in casa.
La donna, vestita con il suo outfit da palestra – voleva che le insegnasse a tutti i costi l’autodifesa – aveva continuato a ringraziarla di averle salvato la vita, proprio come non aveva smesso la notte prima, e Charlie ne era già stufa.
Era inutile che le ripetesse di smetterla, che non aveva fatto nulla del genere, quella donna era ostinata a pensarla così.
In ogni caso, quando aprì la porta al suo secondo ospite, si ritrovò davanti Ryan Clark, che sembrò alquanto nervoso d’esser sulla veranda di casa sua.
“Sceriffo, a cosa devo il piacere?” Lo salutò e il suo sorriso parve metterlo ancor più in imbarazzo.
“Mi dispiace signorina Royce, ma sono qui per questioni di lavoro.”
Aprì ancor di più la porta e si fece da parte, per farlo accomodare. “Prego, le preparo un caffè.” Lo invitò, ma lui non si mosse, e scosse la testa amaramente.
Giocherellò per un lungo momento con il bottone della sua giacca prima di decidersi e guardarla dritto negli occhi. “Charlie Royce, per la legge della Contea di Twin Lake e della Contea di Lake Rock, la dichiaro in arresto.”
Il suo unico pensiero fu: dannazione a te, Matthew Allen.

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Capitolo 17
*** CAPITOLO DICIASSETTE ***


CAPITOLO DICIASSETTE
Le Vette dei Mille Laghi erano la meta naturalistica che spingeva, ogni anno, migliaia di turisti a scegliere Twin Lake come destinazione per le loro vacanze.
Oltre agli impianti sciistici della zona, che la rendevano a dir poco godibile d’inverno, la regione era una vera meraviglia anche in primavera ed estate, con scorci mozzafiato di laghi incontaminati – d’ogni dimensione – incastonati tra il verde dei boschi e il bianco, quasi innaturale, delle rocce.
L’aspetto più importante – per i cittadini del posto, quantomeno – era che questa catena montuosa riparava l’entroterra dal vento gelido di nordest, che spirava crudele ed impetuoso nelle stagioni più rigide; tuttavia, proprio come una calda coperta troppo corta, che lasciava scoperti ogni qualvolta strattonata d’un lato, l’aria fredda s’insinuava negli spiragli tra le montagne, fino a raggiungere la città sottostante.
Fu così che un piccolo refolo di vento nacque da quelle cime, con un vagito che fu più un ululato, sotto il caldo Sole del primo pomeriggio, e prese sempre più forza fino a spazzare la neve perenne in alti pennacchi immacolati.
Si fece strada più giù, arrotolandosi su sé stesso per chilometri e chilometri in una corsa frenetica, fino ad arrivare a valle; dove, in primavera, quando ormai la neve si fosse sciolta, fili d’erba d’un verde brillante – quasi accecante – avrebbero ricoperto tutto, e non sarebbe stato difficile vedere dei grizzly, rinvigoriti dal lungo sonno, al pascolo in quei prati.
Il vento perse d’intensità, e sarebbe morto così, a pochi minuti dalla sua nascita, se un altro flusso d’aria non lo avesse raggiunto, donandogli nuova linfa e spingendolo in avanti.
Disegnò un percorso sinuoso, smuovendo panni bagnati appesi sui fili ad asciugare ed accarezzando i tetti rossi delle prime case di periferia.
Raggiunse Twin Lake City, incuneandosi sotto le automobili, sospingendo fogli di giornale sfuggiti a qualche passante ignaro e sferzando i cappotti di chiunque incontrasse.
La sua lunga corsa fu arrestata dalla porta a vetri della centrale di polizia della città, e quando Logan Moore l’aprì e superò la soglia fu accompagnato da un refolo d’aria fredda che scombinò il bancone all’entrata, in un vortice di carte e documenti.
L’uomo non notò affatto come Portia, la segretaria, si sistemò frettolosamente i capelli – già perfetti – e si lisciò la gonna di lana del suo vestito a scacchi, al solo vederlo.
Era troppo concentrato a contenere la sua rabbia, nata dalla scoperta del voltafaccia ai suoi danni di quella mattina.
Non aspettò le sue due accompagnatrici e iniziò a farsi strada verso la stanza interrogatori, sicuro di trovarvi la causa di tutto il suo ribollente fastidio.
Ma la sua avanzata fu ostacolata da Portia stessa, che si frappose tra lui e il suo obiettivo. “Buongiorno Logan.” Lo salutò, adorante. “Lo sceriffo Clark mi ha avvisato che saresti venuto. Purtroppo, al momento è occupato. Dovete aspettare qui, gli dirò subito che siete arrivati.” Lo rassicurò con un sorriso gentile, lanciando sguardi perplessi alle due donne con lui.
Logan si voltò verso Annabelle King e Maddie Foster. “Aspettatemi qui.” Ordinò nel suo tono che non ammetteva repliche.
Quella mattina, era stato tirato giù dal letto dal suono incessante del campanello.
Era vero che erano passate le undici, ma era altrettanto vero che Logan fosse tornato a casa alle cinque e mezza della mattina dal suo incarico di pattugliamento ai magazzini.
Inoltre, il sabato era sempre stato il suo giorno libero ed era Luke a sostituirlo alla centrale di polizia. In ogni caso, quando aveva aperto la porta, ancora in pigiama, non si sarebbe mai aspettato di vedere Maddie e Annabelle in piedi sulla soglia.
Era stato evidente avessero corso a perdifiato fino a casa sua; eppure, ci avevano messo una vita a comunicargli ciò per cui erano venute.
Si era ritrovato, ancora stravolto, seduto al tavolo da pranzo con le due donne che bisticciavano su chi dovesse riferirgli l’accaduto.
Dopo dieci minuti buoni, Logan aveva deciso che poteva anche prepararsi la colazione, nel frattempo, e mentre mangiava le sue uova strapazzate Maddie aveva iniziato a raccontare.
Aveva cominciato proprio dall’inizio, dalla mattina del giorno precedente, perdendosi in ogni più piccolo dettaglio irrilevante, finché Annabelle, stufa, non l’aveva interrotta rubandole la parola.
L’altra era stata molto più celere nel presentargli la sua versione dei fatti; tuttavia, si era bruscamente interrotta sulle motivazioni che l’avevano spinta a guidare da sola, in piena notte, fino a Twin Lake City, dove aveva incontrato Charlie e Maddie.
Le sue guance erano diventate rosso ciliegia dall’imbarazzo e si era fatta improvvisamente muta.
Dopo mezz’ora, quando ormai aveva finito di mangiare, Logan era riuscito a capire solo una cosa: si trattava di Charlie. Il ché gli era stato chiaro fin dall’inizio; però, non avrebbe mai pensato che le due donne fossero venute a dirgli che era stata arrestata.
Ancora non capiva perché non avessero iniziato da lì. Nel momento stesso in cui aveva aperto la porta, Maddie avrebbe dovuto dirgli solo quattro parole: “Charlie è stata arrestata”, e lui si sarebbe precipitato fuori di casa.
Invece, tra una cosa e l’altra, gli avevano fatto perdere troppo tempo ed erano passate quattro ore, ormai, da che Ryan Clark l’aveva prelevata da casa sua.
Ad ogni modo, la centrale di polizia di Twin Lake City era il doppio di quella di Sunlake ed attraverso un corridoio, che s’apriva sul lato destro dell’enorme stanzone principale, si accedeva alla parte sul retro, dove si trovavano, tra le altre, le stanze di detenzione provvisoria e la sala interrogatori.
Non che quest’ultima fosse chissà cosa. Erano quattro semplici pareti con un tavolo e una sedia, nulla più.
Logan si diresse da quella parte e Portia fece fatica a tenere il passo delle sue lunghe gambe.
“Intendevo dire che anche tu dovresti aspettare, Logan. Clark ha detto che non voleva essere disturbato.”
“Certo che lo ha detto.” Sbuffò lui, senza accennare a fermarsi e l’altra non seppe proprio cosa fare: non le era mai capitato che quell’uomo non le desse ascolto; pertanto, si limitò a rincorrerlo.
Avanzarono, così, fino alla porta della stanza interrogatori e, quando lui entrò, la donna si affacciò per scusarsi. “Gli ho detto che doveva aspettare di là, sceriffo. Ma non mi ha voluto dare ascolto.”
In ogni caso, Logan non seppe mai cosa rispose l’altro, perché i suoi occhi trovarono subito l’unica persona che per lui avesse importanza e per un momento, sospeso nel tempo e nello spazio, tutta la sua collera sfumò, come se fosse solamente il ricordo d’un sogno, e tutto il suo mondo parve restringersi ad un unico viso.
Tuttavia, fu come la calma che permea la baia prima dello tsunami.
Il livido violaceo sullo zigomo di Charlie, sormontato da un taglio di almeno quattro centimetri, richiamò nuovamente tutto il suo furore, come acque che si ritirano prima della catastrofe.
Non badò alla porta che veniva richiusa, si voltò verso Ryan Clark e Luke Thomson, con il fuoco nello sguardo. “Che diavolo significa?”
Perlomeno, i due ebbero il buon gusto di mostrarsi in imbarazzo. Sapevano perfettamente, infatti, di essersi comportati in modo più che scorretto nei suoi confronti.
Lo sceriffo di Twin Lake non aveva alcuna giurisdizione nella contea di Lake Rock; pertanto, l’unico modo in cui avesse potuto arrestare Charlie era soltanto chiedendo e ottenendo il permesso di Logan.
Nel suo giorno libero, però, a fare le sue veci era il vicesceriffo che, evidentemente, non aveva esitato a concedere quell’autorizzazione.
“Logan, non abbiamo potuto fare altrimenti…” Si giustificò Clark, allargando le braccia sui fianchi in segno di impotenza.
Ma all’altro non interessarono le sue scuse. “Ci sono due donne qua fuori, pronte a testimoniare di come Charlie le abbia salvate da un’aggressione, ieri notte. Una, addirittura, è pronta a giurare che le abbia salvato la vita!” Con il cappotto aperto e le mani sui fianchi, il distintivo che aveva alla cintura era ben visibile, quasi a voler ricordargli di come avessero scavalcato il suo ruolo. “E voi avete la brillante idea di arrestarla. Vi ha dato di volta il cervello, maledizione? E non venite a parlarmi di eccesso di legittima difesa.” Quasi ringhiò quell’ultimo avvertimento.
Era quella, infatti, l’unica spiegazione che aveva trovato – nel lungo tragitto in macchina con Maddie e Annabelle – che pensava potesse giustificare quell’arresto assurdo. Ryan Clark era stato diffidente fin da subito nei confronti della donna ed era possibile che avesse approfittato degli eventi per prenderla in custodia ed interrogarla.
In ogni caso, Luke non si fece intimidire affatto dal suo atteggiamento scontroso, e tutte le sue preoccupazioni di quei giorni – inascoltate e trascurate – contribuirono a dar colore al suo tono. “Se ne potrebbe anche parlare, visto che tre uomini sono finiti in ospedale. Uno con due giunture spezzate, l’altro con il naso rotto e uno con un buco di sette centimetri nel piede.”
“Direi che possono anche ritenersi fortunati. Soprattutto perché non sono stato io a sbatterli in galera.”
Luke incrociò le braccia al petto, sfidandolo. “Infatti. E non si era detto che avresti dovuto tenerla d’occhio? Sarebbe potuta succedere una tragedia, e tutto perché non mi hai dato retta!”
Solo quando il terzo si intromise, Logan si rese conto di aver fatto un passo avanti verso l’amico.
“D’accordo. Ora calmiamoci tutti!” S’affretto ad intervenire Ryan, ben conscio del fatto che, se avesse lasciato progredire quella discussione, si sarebbero ritrovati coinvolti in un litigio senza vie d’uscita. “In ogni caso, non ha importanza.” Disse, nel tentativo di riportare la conversazione sui giusti binari, non rendendosi conto di star pungolando ancora un cane rabbioso.
“Non ha importanza? Hai visto il suo viso, dannazione?” Sibilò, puntando il dito verso la donna seduta al tavolo al centro della stanza.
Come se fosse stato colpito, lo sceriffo di Twin Lake indietreggiò d’un passo, stupito e un po’ impaurito dal furore nelle iridi scure di lui.
Tuttavia, una voce, fino a quel momento silente, si levò in difesa del pover’uomo. “Lo sceriffo intendeva dire che il motivo per cui sono qui non ha nulla a che fare con l’accaduto di ieri notte.”
Tre paia d’occhi si voltarono a guardare Charlie, due dei quali estremamente sorpresi: da quando l’avevano prelevata da casa sua, infatti, lei si era ritirata in un mutismo ostinato e a nulla erano valsi i loro tentativi di instaurare una conversazione.
Continuò, per nulla turbata da tutta quell’attenzione: “Pare che Peter Cox abbia confessato: sono una pedina fondamentale della sua organizzazione criminale. Evidentemente, oltre a non saper accettare un rifiuto, quell’uomo è particolarmente vendicativo.” Commentò, e dalle espressioni sui volti di Clark e Luke si rese conto che le sue parole potevano essere interpretate come una sorta d’ammissione; perciò, con un sorrisetto ironico aggiunse: “Ed anche bugiardo, s’intende.”
Presa dall’impeto della sua rabbia, infatti, Charlie non aveva pensato alle conseguenze del rivelare a Ruiz di conoscerlo a fondo, forse meglio di chiunque altro. L’uomo non poteva certo tollerare l’affronto subito e la posizione di vantaggio che, aveva scoperto, lei aveva su di lui.
Era normale, quindi, che, quando la polizia – che aveva sempre pedinato l’uomo – lo aveva trovato ancora svenuto e l’aveva arrestato, questo cercasse di trascinarla a fondo con lui.
Ad ogni modo, la tranquillità della donna, ammorbidì l’ostilità di Logan.
Non sembrò particolarmente preoccupata o spaventata dalla sua condizione; piuttosto, dava l’impressione che, tutta quella situazione, fosse solo una grande scocciatura e niente più.
Come se al ristorante dove stava cenando avessero finito il suo piatto preferito: un semplice inconveniente.
La volta precedente, quando Ryan gli aveva riferito dell’incontro tra lei e Ruiz, Logan aveva visto il dubbio farsi strada sul viso di lei e prender possesso dei suoi lineamenti, lasciando trapelare la paura che lui potesse dubitare di lei.
Stavolta, però, in quegli occhi color del mare, non ci fu traccia di dubbio o incertezza: pareva sapesse che, qualsiasi cosa gli avessero detto, lui non avrebbe mai potuto pensare il peggio e, in ogni caso, non l’avrebbe mai lasciata andare.
Sentì le sue spalle rilassarsi e, a malincuore, lasciò il rifugio sicuro di quegli zaffiri che erano le iridi blu di Charlie, per voltarsi nuovamente verso gli altri due uomini, aspettando una spiegazione che non arrivò.
“Questo cambia tutto, allora.” E il suo tono pacato li illuse per un momento d’averlo finalmente fatto ragionare. Solo Charlie notò la vena ironica di cui erano velate quelle parole e represse il sorriso che minacciò di curvarle le labbra. “Se quell’uomo, uno stupratore e un assassino, dice una cosa del genere, come potremmo non dargli ragione? È una persona così affidabile, dopotutto.”
Ryan iniziò a torturarsi le mani, nervoso. “Lo sai che non è così facile. Non posso lasciarla semplicemente andare.”
Lo sapeva e, controvoglia, dovette ammettere che un po’ lo capiva.
Sospirò. Quella storia diventava un gran casino, giorno dopo giorno.
“Ruiz aveva un sacco di cose da dire sulla loro collaborazione.” Intervenne Luke, scuotendo la testa palesemente turbato. “E Charlie si rifiuta di rispondere alle nostre domande e, che tu ci creda o no, quello che hai sentito è tutto ciò che ha detto in merito. Non ha nemmeno mai provato a scagionarsi in alcun modo…”
“Forse dovremmo andare fuori a parlarne.” Propose Ryan, schiarendosi la gola a disagio.
“Qualsiasi cosa tu abbia da dire, puoi dirla difronte a Charlie.”
Lo sceriffo di Twin Lake lanciò un’occhiata nervosa alla donna che, tuttavia, non sembrò affatto serbargli rancore, anzi lo incoraggiò a procedere con un gentile cenno della testa.
“Ho chiesto a Portia di fare un ricerca su di te, signorina Royce.” Iniziò, rivolgendosi direttamente a lei, per poi tornare a guardarlo. “E lo sai cosa c’era nel suo fascicolo?”
Logan studiò attentamente il viso di lei e conobbe la risposta prima di sentirla dalla bocca dell’altro: niente, pensò.
“Niente.” Confermò, infatti, Clark. “Solo un certificato di nascita, un indirizzo di residenza e l’assicurazione sanitaria. Nessuna multa, nessun ticket ospedaliero aperto, nessuna macchina intestata, niente di niente. Certo, potrebbe essere solo un caso che, dopo tredici anni d’assenza, si ripresenti qui proprio quando abbiamo aperto quest’indagine. Ma conosce Peter Cox di persona e questa non è la prima volta che viene coinvolta in questa storia.”
Logan non ebbe nulla da dire, lasciò che il silenzio parlasse per lui, incapace di distogliere lo sguardo da Charlie. Non ché stesse cercando una rassicurazione negli occhi di lei – non ne aveva affatto bisogno – ma più che altro perché non ne poteva fare a meno.
Gli era mancata. E magari quello non era il momento migliore per quel tipo di pensieri, ma la realizzazione di quella verità lo travolse lì, in quella stanza. La strana sensazione di disagio che aveva avvertito appena sveglio, si rese conto era scaturita dall’impossibilità di vedere il bellissimo sorriso di lei che gli dava il buongiorno.
Ad ogni modo, Ryan Clark interpretò quel silenzio per ciò che era: il rifiuto dell’altro di credere e cedere al suo parere.
“Non capisco, come fai a fidarti ancora di questa donna?” Disse, battendo le palpebre visibilmente sconcertato.
Per Logan, quella era la domanda più facile che gli avessero mai rivolto, e ancora guardandola, senza vacillare un solo istante, dichiarò: “È molto semplice, in effetti. La amo.”
Quelle due parole furono la scintilla che diede vita alla brace che iniziò ad ardere negli occhi di lei. Il loro calore lo pervase, bruciandogli la pelle e consumandogli l’anima.
Il sorriso pieno di estasiata dolcezza che curvò quelle labbra piene e morbide lo rinvigorì, e si sentì l’uomo più potente del mondo.
Avrebbe potuto fare tutto, per quel sorriso: scalare l’Everest in un giorno, attraversare a nuoto l’Atlantico oppure volare fino alla Luna e ritorno. Bastava solo una sua parola, e lui l’avrebbe fatto senza esitare.
Se fosse stato un altro, e non l’uomo pragmatico che era, magari si sarebbe chiesto da dove fosse nato quel sentimento. Avrebbe potuto dire che l’amava per la sua bellezza, per la sua mente o per la dolcezza spiazzante che nascondeva dentro di sé; ma, oltre al fatto che adorava anche quelli che potevano considerarsi dei difetti – gli piaceva fin troppo prenderla in giro per la sua incapacità nel seguire una semplice ricetta culinaria – sapeva che, tutto ciò, era, inevitabilmente, vittima di un mutamento.
Magari, quella bellezza sarebbe sbiadita con il tempo, le sue idee sarebbero cambiate e il suo carattere sarebbe stato temprato dalla vita, ma lui l’avrebbe amata ancora, sempre e comunque.
Se era vero che, all’inizio dei tempi, l’invidia degli dèi aveva portato alla scissione in due metà dell’essere umano e che queste metà erano state destinate a vagare sulla terra alla ricerca l’una dell’altra, di modo da tornare ad essere una cosa sola, allora l’odissea di Logan si era conclusa.
Aveva trovato ciò che cercava nel suo continuo vagare.
Quindi, proprio come in quel mito, il suo sentimento incontrò il suo equivalente negli occhi della donna, andandosi a fondere in un unico essere inscindibile.
Attraverso quel semplice contatto di sguardi, ci fu una fusione di anime che s’appartenevano l’una all’altra, in un lungo istante che gli parve durare secoli; finché, non si voltò per rivolgersi a Ryan.
“La amo, e se lei mi dice che è innocente io le credo.”
“Però non l’ha fatto, giusto? Non ti ha detto che è innocente.”
Lo aveva fatto, invece.
Non con le parole, perché di quelle non avevano mai avuto bisogno, ma lo aveva fatto. Ed era inutile tentare di spiegargli una cosa simile, non avrebbe mai potuto capire.
Tutta la collera che lo aveva spinto fino ad allora era sparita, non poteva esserci spazio per la rabbia dopo l’intensità di quel momento.
Rimase solo la frustrazione di non poter fare nulla: non era lui lo sceriffo in quella contea e, per quanto ci provasse, non sarebbe mai riuscito a convincerli di star commettendo un errore.
Tuttavia, non aveva intenzione di smettere di provarci.
“Se Charlie e Cox fossero stati in combutta, per quale motivo l’avrebbe spedirlo all’ospedale?” Domandò.
Effettivamente, quella era una delle domande che Ryan e Luke avevano posto alla donna. In assenza di una risposta, i due uomini si erano convinti che tra i due ci fosse stato uno screzio: magari, in un tentativo - non troppo riuscito - di fare carriera in quell’organizzazione criminale, lei aveva deciso di liberarsi del suo principale rivale.
In ogni caso, a Logan parve fantascienza.
Inoltre, tutto questo non quadrava con la versione di Maddie ed Annabelle, che avevano assistito al diverbio tra i due. A cosa era servita tutta quella messinscena?
Quindi, alla fine della fiera, tutto ciò che avevano su di lei era la parola di un pregiudicato. Ma, al loro posto – se non si fosse trattato di Charlie – Logan l’avrebbe lasciata libera? Ovviamente no.
Il silenzio di lei, però, sembrò convincere sempre di più gli altri della sua colpevolezza e, a quel punto, Ryan Clark sembrò convincersi che l’unica via d’uscita, se lei non avesse collaborato, sarebbe stata andare a processo.
Logan non capiva perché avesse rifiutato un avvocato – non aveva nemmeno fatto la sua unica telefonata – ma, era pronto a scommettere, quella donna aveva un piano e la sua imperturbabilità gli trasmise un senso di fiduciosa attesa.
Si ritrovò anche lui, quindi, ad aspettare qualsiasi cosa fosse.
La calma di Charlie fu scalfita solo dall’annuncio dell’arrivo di suo padre. Fu Logan stesso ad andare a parlare con l’uomo e si attenne alla versione cui, all’inizio, aveva creduto anche lui. Per il momento, non ritenne necessario dirgli che la figlia era stata invischiata con un cartello della droga, non voleva certo che gli venisse un infarto.
Pertanto, parlò dell’aggressione della notte prima, quando un solo uomo – meglio uno che tre – aveva minacciato la figlia e le altre due donne sedute con lui nella sala d’attesa.
“Sono solo delle formalità.” Lo rassicurò.
Ma le ore passarono una dopo l’altra, senza che succedesse nulla, e Stephen Royce divenne sempre più ansioso e impaziente.
Anche per lui era lo stesso, soprattutto perché non riuscì a rimanere un momento da solo con Charlie per parlarle, per chiederle cosa stessero attendendo con così tanta pazienza.
Non avrebbe mai creduto che aspettare potesse essere così sfibrante.
Charlie, da parte sua, sembrava pronta a passare lì anche l’intera notte.
In ogni caso, quando iniziò a pensare d’essersi sbagliato, che quella sensazione d’aspettativa era appunto solo quello: una sensazione, la porta della stanza interrogatori si aprì.
Il tramonto era passato ormai da un pezzo e l’ora di cena si era fatta sempre più vicina; eppure, Ryan Clark, Luke Thomson e Logan Moore erano ancora lì, davanti al tavolo a cui era seduta Charlie, come spasimanti d’altri tempi venuti a render omaggio.
Un agente, di cui Logan non sapeva il nome, entrò nella stanza e nessuno di loro notò subito il lieve fermento di cui era preda. Solo quando parlò, il tono della sua voce tradì quell’agitazione.
“Sceriffo, c’è un uomo che chiede di lei.” Riferì, rivolgendosi a Clark.
Il volto di Ryan si corrucciò dalla perplessità. Aveva chiesto di non essere disturbato ed aveva disposto che ogni questione venisse sottoposta al suo vice; per questo motivo, disse: “Chiedi a Nathan di occuparsene.”
L’altro sembrò combattuto, come se fosse intrappolato tra due forze che lo schiacciavano: da una parte non voleva disobbedire al suo superiore e dall’altra… qualsiasi cosa fosse successa.
Spostando il peso da un piede all’altro, l’agente si schiarì la voce e si guardò nervosamente attorno. “Dice di lavorare per il ministero dell’interno, signore.”
Voltati di spalle, nessuno vide il sorriso che incurvò un angolo della bocca di Charlie, sorriso che sparì non appena, alle parole seguenti dell’uomo, ottenne l’attenzione di tutti su di sé. “E vuole vedere la signorina Royce.”
Finalmente.
Il momento era arrivato.
Sicuramente, non capitava tutti i giorni di avere una visita di quell’importanza e, nel caso di realtà moltopiccole, come la loro, non capitava affatto. Fu per quel motivo che, sopraffatto, Clark riuscì solo a mormorare senza fiato: “Ti ha detto il suo nome?”
“Matthew Allen, signore.”
L’attesa era ufficialmente finita.

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Capitolo 18
*** CAPITOLO DICIOTTO ***


CAPITOLO DICIOTTO
La stanza interrogatori – già piccola – parve restringersi ulteriormente quando Matthew Allen fece il suo ingresso. Non tanto perché la sua presenza fosse ingombrante – era un uomo piuttosto ordinario: d’altezza media, sulla cinquantina, con capelli brizzolati, un viso spigoloso ed iridi di un anonimo castano, incorniciate da occhiali da vista squadrati, abbastanza spessi, in verità, che poggiavano su un naso aquilino – quanto, piuttosto, per il suo modo di fare. Sembrava come imporre la sua presenza grazie all’aurea di potere che pareva trasudasse.
Il suo completo d’alta sartoria e il Rolex che portava al polso non facevano nulla per mitigare quell’impressione; inoltre, si muoveva e camminava con una sicurezza propria di chi sapeva che nulla poteva scalfirlo.
Magari, si sarebbe potuto pensare che fosse un pomposo pallone gonfiato, e anche Charlie, la prima volta che l’aveva visto, aveva pensato lo stesso, salvo poi ricredersi non appena aveva aperto bocca.
Il sorrisetto che pareva curvasse sempre le sue labbra non era un sorriso di scherno o superbia, ma l’evidenza del fatto che l’uomo non si prendesse mai troppo sul serio.
Anche in quel momento, infatti, un luccichio divertito illuminava qui piccoli occhi castani.
“Buonasera.” Salutò, per poi allungare una mano verso Ryan Clark e presentarsi: “Matthew Allen.”
Il fatto che non accennò in alcun modo all’importante carica che ricopriva per il governo sottolineò ancor di più l’autorevolezza del suo ruolo: non aveva bisogno di dirlo, sapeva che gli altri tre uomini nella stanza ne erano già stati informati e che non avrebbero potuto ignorare quel dato di fatto nemmeno volendo.
Dai documenti che aveva fornito all’accettazione, entrando, infatti, era risultato che Matthew Allen non fosse un semplice impiegatuccio qualsiasi, bensì il responsabile del dipartimento per la difesa nazionale interna.
Salutò Luke e, infine, si rivolse a Logan. “È un vero piacere conoscerti, finalmente.” Disse con una familiarità che lasciò l’altro perplesso; perplessità che non fece altro che aumentare quando vide l’occhiolino confidenziale che le rivolse.
Charlie avrebbe alzato gli occhi al cielo per la poca discrezione del suo superiore, se non fosse stato che – come le succedeva da quando aveva detto di amarla – si perse a fissare Logan.
Seguì la linea del suo profilo, scendendo lungo il suo collo e soffermandosi sulle sue spalle. S’immaginò di togliergli la giacca, sbottonargli la camicia al di sotto e di posare le mani sul suo petto caldo e solido. Sicuramente, si sarebbe anche sporta in avanti per posarvi la bocca e baciargli ogni singolo lembo di pelle e, al solo pensarci, gli formicolarono le labbra.
Smettila. Si disse, riscuotendosi dalle sue fantasie per la milionesima volta.
Era al limite della tortura stare nella stessa stanza con quell’uomo e non poterlo toccare. Ormai aveva perso il conto delle volte in cui s’era trattenuta dall’alzarsi, andargli incontro, affondare le sue dita nei suoi capelli scuri e avvicinarlo a sé per unire la sua bocca con la sua.
Si fece violenza e distolse lo sguardo, che ricadde in quello di Luke, fisso su di lei. E s’accorse di come in quegli occhi vi infuriasse una battaglia sanguinosa, tra l’evidenza dei fatti – ora aggravanti con l’arrivo di Matthew – e l’affetto che provava per lei.
Perché Charlie sapeva che Luke le voleva bene, così come sapeva che, difronte agli eventi, non poteva far altro che dubitare di lei. E quella nuova svolta non faceva altro che aggravare i suoi sospetti. Nemmeno per un secondo gli venne in mente – così come a Ryan – che l’uomo fosse venuto per scagionarla. D’altronde non aveva fatto nemmeno una chiamata…
Non sapevano che, inserendo i suoi dati personali all’interno di un qualsiasi database, Matt ne veniva immediatamente informato; quindi, Charlie non aveva avuto bisogno di alzare alcuna cornetta telefonica, la registrazione del suo arresto era stata più che sufficiente.
In ogni caso, la presenza di Matthew, oltre a render Ryan ancora più nervoso - iniziò a giocherellare con il bottone del suo polsino – lo fece diventare anche estremamente collaborativo.
“Siamo felici che lei sia qui, signor Allen. Non pensavo che la questione fosse d’interesse nazionale.” Iniziò, osservando l’altro avvicinarsi al tavolo, verso di lei. “Ce la stiamo cavando piuttosto bene, non c’è da preoccuparsi. Abbiamo arrestato anche altre tre persone e stiamo preparando un blitz nel magazzino dove sappiamo viene depositata la droga. Siamo stati aiutati, in verità; una fonte anonima ci ha fornito abbastanza materiale per poterli condannare tutti. Quindi, come può vedere, abbiamo tutto sotto controllo.”
Era divertente come Clark stesse parlando di lei – la fonte anonima – senza nemmeno rendersene conto.
La nota d’orgoglio nella sua voce s’affievolì, quando lo sceriffo continuò: “Stavamo giusto cercando di avere più informazioni dalla signorina Royce – la indicò, a mo’ di presentazione – ma pare non voglia collaborare.”
Matt si tolse il cappotto raffinato, poggiandolo sul tavolo, s’infilò le mani nelle tasche dei pantaloni del completo e tornò a guardare il suo interlocutore con tutta tranquillità. “Immagino che la colpa sia mia, sceriffo. Non è niente di personale, ovviamente, è solo il protocollo.”
“Come?” Chiese Ryan, non capendo a cosa l’altro alludesse.
Ma Matthew lo ignorò e, per la prima volta da quando aveva varcato la soglia, la guardò. I suoi occhi si soffermarono brevemente sul taglio che aveva allo zigomo, prima di parlare.
“Nottata difficile?” Commentò con un sorrisetto canzonatorio.
“Sei in ritardo.” Si limitò ad osservare Charlie, con divertimento eguale al suo; doveva ammetterlo, era felice di rivederlo.
L’uomo si strinse nelle spalle. “Ho dovuto sbrigare più d’un mese di lavoro in poche ore, a causa del casino che hai combinato.” Lei si limitò ad alzare un sopracciglio biondo, come per fargli notare che, se si trovava in quel casino, la colpa era anche la sua. “Si, si lo so.” Brontolò, infatti, Matt, perfettamente consapevole di come stavano le cose.
“Ho sistemato tutto, comunque. Ho dovuto chiedere un bel po’ di favori per ottenere un risultato in così poco tempo ma, alla fine, la tua richiesta è stata approvata.”
Il sollievo la pervase e il peso che aveva sempre portato sulle sue spalle sparì. Se non fosse stata seduta, probabilmente avrebbe avuto un bel giramento di testa per la forza di quella sensazione.
Con la sua richiesta di trasferimento finalmente approvata, le sembrò d’esser libera. Libera di relazionarsi come meglio credeva con gli altri e libera da regole troppo condizionanti.  
La bocca di Charlie si schiuse in un sorriso pieno di riconoscenza. “Grazie, Matty.”
L’uomo sbuffò, come sempre quando usava quel nomignolo.
Naturalmente, la familiarità della loro interazione non passò inosservata e furono interrotti da Ryan che si schiarì la gola.
Era visibilmente sorpreso che i due si conoscessero, e ancor più attonito di come il tono di Allen non fosse affatto quello di un uomo che, finalmente, si confrontava con una criminale a lungo ricercata. Perché era questo quello che l’aveva spaventato, vedendosi arrivare un gregario del ministero dell’interno, nientemeno, ed uno anche piuttosto importante.
Aveva creduto che Charlie – così come Ruiz e gli altri che avevano arrestato – fosse coinvolta in qualcosa di molto più grande di ciò che s’aspettavano. Qualcosa che aveva attirato anche l’attenzione del governo.
Effettivamente, non si poteva negare che avesse ragione.
Matt le rivolse un’occhiata interrogativa e Charlie colse immediatamente la domanda inespressa che le stava rivolgendo: Vuoi farlo davvero?
Perché una volta che la verità fosse stata svelata, non si sarebbe più potuti tornare indietro. E lei non voleva tornare indietro, voleva solo guardare avanti.
Perciò, come un imperatore che dava il suo assenzo a procedere, con un secco cenno della testa, Charlie pose fine alla realtà che aveva condizionato la sua vita fino a quel momento e Matt fu il boia che tirava fuori la scure per porre fine allo spettacolo.
I suoi occhi, inevitabilmente, si posarono, ancora una volta, su Logan; perciò, non si perse un solo momento della sua reazione alle successive parole di Matthew.
 “Signori, siamo tutte persone di legge, perciò sono sicuro di poter contare sulla vostra discrezione. L’agente speciale Royce lavora per me.” Rivelò, sganciando quella bomba come se nulla fosse e arrivando dritto al punto in modo chiaro e coinciso, senza poter essere frainteso. “Immagino, non ci sia bisogno d’aggiungere che dovete rilasciarla all’istante.”
Riuscì ad avvertire il sussulto che sopraffece Luke e Clark; eppure, Logan non tradì alcuna sorpresa.
In piedi, con le braccia conserte al petto, l’uomo si voltò verso di lei e Charlie sentì il suo cuore palpitare sotto il suo sguardo.
“Intende…” Luke deglutì prima di continuare. “I servizi segreti?”
“Non ho mai detto questo.” Precisò di rimando l’altro.
“Ma ho ragione, giusto?”
Matthew sogghignò, impudentemente. “Non mi è consentito parlare delle questioni di cui si occupa il mio dipartimento.” Disse, rispondendo, inevitabilmente, alla domanda del vicesceriffo.
Ma l’altro non lo stava più ascoltando, troppo preso dal suo stupore. “Cristo santo. I servizi segreti! Charlie, non ne avevo idea…”
“Certo che no.” Assentì lei con voce gentile e, finalmente, dopo ore, si alzò dalla sua sedia.
Luke le venne subito incontro e Charlie si sentì male per lui alla vista di tutto il dispiacere nel suo sguardo. Gli prese una mano, per rassicurarlo.
Si conoscevano da sempre - certo, dopo che aveva compiuto quindici anni non si erano più parlati, ma c’è qualcosa di speciale nei legami che si instaurano nell’infanzia. Luke le era sempre piaciuto e non poteva far altro che comprenderlo.
“Hai fatto solo il tuo lavoro.” Gli regalò un sorriso d’incoraggiamento che, però, non parve funzionare; anzi, sembrò solo sortire l’effetto opposto e l’uomo la tirò a sé per un abbraccio.
Non disse niente. La strinse forte, però, come a volerle trasmettere tutto il tormento che s’era portato dietro da quella mattina e tutta l’angoscia di quella situazione.
Aveva saputo, fin da quando era entrata in quella stazione di polizia e non aveva visto il suo solito sorriso impertinente, che Luke avrebbe preferito trovarsi ad anni luce di distanza piuttosto che lì. In ogni caso, non s’era sottratto ai suoi doveri e aveva preso la decisione che, ovviamente, andava contro ai desideri del suo superiore e amico.
Sicuramente, aveva anche creduto che, così facendo, l’avrebbe protetto da una donna che si stava solo approfittando di lui.
Quando la lasciò andare fu il turno di Clark di farsi avanti. Più nervoso che mai, si schiarì la gola diverse volte prima di parlare: “Signorina Royce.” Arrossì, per poi correggersi. “Charlie, ti chiedo scusa per questo imperdonabile equivoco. Io e mia moglie saremmo più che felici di averti per cena una sera di queste. È il minimo. Sono sicuro che sarai entusiasta della sua torta salata.”
Si potevano dire molte cose di Charlie Royce ma, dicerto, non che fosse incomprensiva o che portasse rancore.
Suo padre l’aveva creduta una criminale, e lei l’aveva compreso.
Annabelle King l’aveva odiata, e lei l’aveva compreso.
Anche quando, in una delle loro prime interazioni, Logan si era infuriato con lei – a torto – aveva compreso.
Ed anche ora, davanti ad un uomo con delle responsabilità di non poco conto, che si scusava per un errore fatto in buona fede, lei capì.
Dopo aver chiesto a Matt se si fermasse a cena con loro, Charlie si concesse di guardare lo sceriffo di Lake Rock e l’energia tra loro fu talmente tanto evidente e crepitante che, in tutta fretta, gli altri tre uomini inventarono una scusa per lasciare quella stanza che sembrava diventare sempre più soffocante, di secondo in secondo.
“Ho visto tuo padre di là, è meglio che vada a parlargli.” Disse Matthew.
“Vengo anche io, voglio sentire come stanno Maddie ed Annabelle.” S’accodò Luke.
“Anche io ho… uhm…del lavoro da fare.” Balbettò Ryan.
Una volta soli, come animati di vita propria, i piedi di Charlie la portarono dritta tra le braccia di Logan, il quale, naturalmente, non rimase con le mani in mano. Si incontrarono a metà – seppur breve - strada e finalmente i loro corpi furono saziati dal bisogno di un contatto.
Entrambi parvero tirare un sospiro di sollievo a quel tocco tanto atteso, come se avessero appena appagato un bisogno da tempo trascurato.
Lei gli poggiò le mani sul petto e rimase per un attimo incantata ad osservare le sue dita giocherellare con il tessuto delicato della sua camicia, mentre Logan le avvolse un braccio intorno alla vita, attirandola a sé.
Le prese a coppa una guancia, stando bene attendo a non toccare il livido viola che la deturpava, e subito la mano della donna si posò sulla sua, in una lenta carezza.
Charlie chiuse gli occhi, inspirò il suo delizioso profumo e inclinò la testa d’un lato, avvicinandosi sempre di più a quel contatto e affidandosi alla sua solidità.
S’abbandonò ad un sorriso, quando sentì la punta del naso di lui accarezzare il suo, in un tocco intimo e delicato.
“Ciao.” Fu tutto quello che riuscì ad articolare.
“Ciao, tesoro.” Mormorò lui di rimando e Charlie schiuse languidamente gli occhi per godersi la vista del suo sorriso obliquo, tutto per lei.
“Ti fa male?” Le chiese in un sussurro, sfiorando la ferita poco sotto al suo occhio sinistro.
Lei si scostò, quel tanto che bastava per baciargli il palmo della mano, prima di sospirare: “Solo un po’.”
Vide la scintilla di rabbia farsi strada in quelle iridi scure, ma Charlie non le permise d’attecchire e, alzandosi in punta di piedi, posò le labbra sulle sue.
Erano quasi due giorni che non si toccavano, non si baciavano, non si avevano e lei non voleva certo che passasse quel tempo rimuginando su tutte le punizioni fisiche – irrealizzabili – che avrebbe desiderato infliggere a Peter Cox.
Lo assaporò lentamente, come si fa quando s’assaggia qualcosa che riporta ad un altro momento, a ricordi dal sapore di felicità. Ma lei non aveva bisogno d’affidarsi a memorie passate, tutta la gioia che poteva mai aver desiderato era proprio lì, nel suo presente, a distanza d’un bacio.
Quando la sua lingua disegnò la curva del suo labbro inferiore, con un gemito, l’uomo schiuse la bocca per accoglierla e, ancora una volta, si incontrarono.
“Anche io ti amo, cowboy.” Sussurrò lei sulla sua bocca e il suo cuore iniziò a battere furioso; era la prima volta in assoluto che pronunciava quelle parole.
Sentì Logan sorridere. “Lo so.”
S’abbassò di nuovo verso di lei e, all’inizio, quel bacio fu lento, come se entrambi volessero prendersi il loro tempo, ma poi l’ardente coinvolgimento della passione li rese frenetici e insaziabili.
Dita femminili si fecero strada tra ciocche scure e mani maschili reclamarono ogni curva di quel corpo di donna. Le accarezzarono il collo, i seni, la schiena e il sedere, facendoli sprofondare sempre più in un vortice di piacere, dal quale nessuno dei due voleva fare ritorno.
Charlie sentì il suo corpo accendersi, come un fiammifero, e bruciare come fiamma viva. Buttò la testa all’indietro, dandogli libero accesso al suo collo e Logan ne seguì la linea con le labbra e la lingua.
Una sorta di febbre li travolse, lasciandoli senza difese e facili prede del loro bisogno sempre più impellente.
Non s’accorse nemmeno di avergli sfilato la camicia dai pantaloni, seppe solo che, quando riuscì a toccare la pelle nuda della sua schiena, il sollievo la travolse. Seguì la linea della sua spina dorsale e sentì la forma ben definita dei suoi muscoli.
Non ebbe nulla da ridire quando l’afferrò sotto le cosce e la sollevò, perché Charlie ne approfittò subito per avvinghiarsi a lui con braccia e gambe.
Le parve assurdo che fossero ancora completamente vestiti, ormai anche il più piccolo strato di stoffa avrebbe dovuto esser diventato cenere.
“Dovremmo fermarci.” Mormorò Logan sulla sua pelle, facendosi strada più giù, verso l’invitante avvallamento dei seni di lei, senza accennare a voler seguire il suo stesso suggerimento.
“Si.” Ansimò, e nemmeno la stessa Charlie seppe dire cosa davvero intendesse con quell’unica sillaba. Un incoraggiamento a procedere oppure un assenso alle sue parole?
Perciò in un lampo di lucidità riuscì ad aggiungere: “Dovremmo fermarci.”
Ma lo trattenne a sé, stringendo tra le mani la sua giacca come se ne andasse della sua vita, e si ritrovò seduta sul tavolo, con Logan tra le sue gambe, quando un rumore sordo all’esterno ricordò loro dove fossero.
Solo allora lo lasciò andare.
Entrambi ansanti, guardarono la porta, come adolescenti impauriti e non poterono fare a meno di scoppiare a ridere alla vista dell’espressione l’una dell’altro.
Si scambiarono ancora un bacio, prima di cercare di rendersi nuovamente presentabili.
Nessuno dei due disse nulla sulla rivelazione che Matthew Allen aveva portato con sé.
Charlie non gli chiese della sua reazione – o meglio, non reazione – e Logan non fece domande in merito al suo lavoro: non ne aveva mai fatte, perché iniziare adesso?
Sapevano entrambi qual era l’unica cosa che contasse, e così sarebbe sempre stato.

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Capitolo 19
*** CAPITOLO DICIANNOVE - EPILOGO ***


CAPITOLO DICIANNOVE
EPILOGO
 
“Si, così.” La voce concitata di Charlie risuonò nella stanza. “Più veloce.”
Logan l’accontentò, ma non sarebbe riuscito a resistere ancora per molto; soprattutto, poi, se continuava a distrarlo in quel modo.
Ed infatti, quando, con voce fin troppo eccitata per il momento, disse: “Più forte, ci sei quasi.” Logan non ce la fece più.
“Cosa? Perché ti sei fermato?” Per poco l’indignazione di Charlie non lo fece scoppiare a ridere, il che sarebbe stato davvero poco carino: sapeva perfettamente quanto ci tenesse.
“Già, e proprio sul più bello.” Sentì Luke brontolare alle loro spalle e quelle parole furono seguite da un tonfo sordo e da un lamento di dolore. “Ahi, che c’è? Cos’ho detto, adesso?”
Qualsiasi cosa Maddie gli rispose, Logan lo ignorò. Il braccio destro ancora gli bruciava per tutta la forza con cui aveva mescolato l’impasto per la torta.
Dubitava fortemente che fosse necessario girarlo con così tanta energia, ma Charlie non aveva voluto sentire ragioni; il che era assurdo, entrambi sapevano che in cucina era di gran lunga meglio lui – in verità, chiunque, anche suo figlio, sarebbe stato più bravo di lei.
C’era da dire, però, che stava trovando quell’esperienza sorprendentemente illuminante. Là dove la pasticcieria era pura e semplice precisione, Charlie era assoluta approssimazione: era convinta di poter stabilire le quantità ad occhio e di poter sostituire gli ingredienti con quello che credeva fosse un loro equivalente. Roba da pazzi.
Per fortuna c’era lui ad impedire quello scempio.
“Tesoro, non ce la faccio se continui a distrarmi.” Quei magnifici occhi blu si spalancarono e stavolta non poté fare a meno di sorridere. “E credo che vada bene così.” Disse, indicando il liquido giallognolo nella ciotola sul ripiano.
“Sei sicuro?” Chiese, poco convinta.
Si sporse a baciarle una tempia. “Sono sicuro.”
“Voglio che la torta di compleanno di Jake sia perfetta.” Mormorò sovrappensiero, guardando dubbiosa il risultato ottenuto.
Logan la fissò interdetto. Era la prima volta, quel giorno, che si lasciava sfuggire un’informazione del genere. Aveva creduto che la torta fosse per la cena di quella sera, che Charlie volesse fare colpo sul padre e su sua madre, sorprendendoli con un dolce, oltre che commestibile, delizioso e, per quel motivo, gli aveva chiesto d’aiutarla.
Aveva assoldato anche Luke per quella cena: le sue enchilada erano leggendarie in tutta Sunlake. Leggendarie, perché erano davvero poche le persone che potevano dire d’averle mangiate; infatti, l’uomo le preparava solo in rare occasioni, in particolare quando c’era di mezzo una donna ed un letto.
Ma se a chiederlo era Charlie, allora Luke le avrebbe preparato tutte le dannatissime enchilada che voleva. Dopo averla arrestata, ormai quasi un anno prima, sembrava che l’uomo non riuscisse più a dirle di no e la donna era pronta ad approfittarne, quando serviva.
“Ti rendi conto che è appena iniziato novembre, vero?” Le fece notare.
“E quindi?” Chiese lei, facendo finta di non cogliere l’ovvio, prendendo la ciotola e versando il contenuto nella teglia.
Lui si appoggiò al bancone, guardandola divertito dalla sua orgogliosa nonchalance. “Jake è nato a maggio.”
“Ho bisogno di molta pratica. Non voglio che vada a finire come la volta scorsa.”
Un coro di: “Per carità, no!” Si levò nella cucina di casa Moore a quelle parole.
Il precedente compleanno di Jake aveva visto svolgersi quello che era passato alla storia di Sunlake come il giorno dell’Incubo del Tiramisù.
Quando Charlie si era proposta di preparare la torta di compleanno, Logan aveva trovato la scusa perfetta per esentarla – tanto gentilmente, che premuroso - da quell’incombenza: sua madre avrebbe provveduto, come sempre.
Tuttavia, non aveva messo in conto la testardaggine dei Royce – grave errore – e lei si era presentata comunque con una teglia di tiramisù.
Quando lo aveva salutato, con uno sguardo serio e quasi funereo, Stephen si era scusato: “Non sono riuscito a fermarla.”
Ma l’errore era stato anche suo, perché, mettendo il dolce in frigorifero – pronto a manifestare una dispiaciutissima dimenticanza, quando sarebbe stata l’ora di tirarlo fuori -, non aveva considerato l’intervento della sua ignara madre. Perciò, il tiramisù era stato lasciato sul tavolo del buffet.
Naturalmente, tutti si erano profusi in vivi complimenti per quel dolce così eccezionale, davanti alla contagiosissima esultanza di Charlie, e s’impegnarono – con grande spirito di sacrificio – a finire la loro porzione.
Per fortuna, i bambini non lo avevano mangiato.
Il giorno successivo, Logan aveva ricevuto sette richieste di permesso – tra cui Luke - per malattia, il Red, per la prima volta in vent’anni, era rimasto chiuso e il supermarket aveva aperto solo perché al signor Peterson il tiramisù non piaceva.
Perciò un intero paese era stato messo fuori gioco da un po’ di caffè e mascarpone.
Chiunque, a quel punto, avrebbe appeso la frusta da cucina al chiodo e avrebbe cercato di trovare un altro hobby, ma non Charlie: ormai sembrava fosse diventata una questione d’orgoglio.
La guardò infilare il dolce in forno e rimanere davanti al vetro per un lungo momento, con le mani giunte sotto il mento come in una silenziosa preghiera.
La strinse a sé con un braccio, quando, con un sospirò, si tirò su. “Secondo te avranno il coraggio di assaggiare la mia torta, stavolta?”
Sarebbe stato più corretto chiamarla la torta di Logan, ma all’uomo non parve venire nemmeno in mente quella sottigliezza.
Le scostò una ciocca di capelli dal viso e le baciò la punta del naso. “Sono sicuro che gli piacerà.”
Pian piano, con il passare del tempo, il calore asciugò l’acqua nell’impasto e questo iniziò a crescere e a gonfiarsi sempre di più, fino a diventare di un bel giallo ambrato.
Al suono del timer si accodò anche quello del campanello e Logan andò ad aprire la porta, mentre Charlie tirava fuori il pan di spagna dal forno.
Si trovò davanti una sorridente Annabelle, con in mano una pentola dal cui coperchio scaturiva un profumo a dir poco delizioso.
“Ho portato l’arrosto!” Lo salutò, alzando il tegame verso di lui a mo’ di spiegazione.
Pareva che Luke non fosse l’unico ad esser stato coinvolto dal tornado che era quella donna.
Mentre Annabelle andò in cucina, lui si fermò a controllare il tavolo da pranzo, apparecchiato per dieci.
“Tesoro, aspettiamo qualcun altro oltre a mia madre e tuo padre?” Chiese da sopra la spalla, in direzione della cucina. Ma le tre donne erano troppo impegnate a chiacchierare; perciò, a rispondergli fu Jake.
“Mi ha detto di apparecchiare per dieci.” Disse stringendosi nelle spalle, spuntando dalla porta del corridoio.
Era cresciuto in quell’anno ed ora era più alto di almeno cinque centimetri.
Logan si accigliò. “E chi sono gli altri due?”
“Non lo so.” Disse, ma troppo velocemente e, studiandolo attentamente, fu palese che suo figlio cercasse di nascondergli qualcosa, perché cercò subito di sfuggire al suo sguardo.
E questo succedeva solamente quando lui e Charlie stavano architettando qualcosa; come la festa a sorpresa che gli avevano organizzato mesi prima.
In ogni caso, non riuscì ad andare più a fondo a quella vicenda e Jake fu salvato dal campanello.
Sua madre lo abbracciò brevemente, con un piatto d’antipasti in mano, prima di fiondarsi in cucina, verso una Charlie indaffarata a farcire il pan di spagna con la crema al cioccolato che Logan aveva preparato.
Sylvie l’aveva presa sotto la sua ala protettrice, cercando di farle da cicerone tra i segreti della pasticceria, e, pareva, che ancora non avesse perso le speranze.
Stephen Royce, invece, gli porse una bottiglia di vino. “Di nuovo il tiramisù?” Chiese, entrando.
“No, torta al cioccolato e panna. L’ho aiutata io, stavolta.” Lo rassicurò.
Stava per chiudere la porta d’ingresso, quando vide Ryan Clark e sua moglie Rosie farsi strada lungo il vialetto.
Non pensò nemmeno per un secondo che la loro presenza lì non avesse nulla a che fare con la questione che gli aveva sottoposto Ryan, una settimana prima.
Lo aveva chiamato in ufficio, parlandogli di questa banda di ladri d’auto che avevano arrestato. Non aveva capito subito cosa questo c’entrasse con lui, ma poi aveva lamentato di come, uno di questi, fosse ancora latitante e si nascondesse da qualche parte in città.
Lo aveva interrotto subito, a quel punto. “Se vuoi il suo aiuto, devi chiederlo a Charlie.”
Dicerto, non le avrebbe impedito di aiutare lo sceriffo di Twin Lake – d’altronde, come avrebbe potuto? – ma, sicuramente, non avrebbe dato il suo beneplacito: l’ultima volta per poco non andava a cercare Peter Cox in ospedale, non era sicuro che si sarebbe trattenuto di nuovo.
“Lo avrei fatto, ma solo se tu sei d’accordo.” Aveva, quindi, continuato Ryan.
Ma Logan non era stato d’accordo ed era sicuro che Clark non ne avesse fatto parola con Charlie, poiché due giorni prima lo aveva richiamato chiedendogli di ripensarci.
Tuttavia, ora, era pronto a scommettere che, in un modo o nell’altro, quella donna lo sapesse.
Non sapeva come ci riuscisse, ma scoprva sempre tutto.
E i suoi sospetti si rivelarono fondati quando, fu messo in tavola il dolce.
La torta aveva proprio un bell’aspetto ma, in ogni caso, i commensali non si fecero ingannare e, quando furono tutti serviti, Logan si ritrovò gli occhi degli altri addosso.
Anche Clark e sua moglie aspettarono a prendere un morso - la voce sembrava essere arrivata fino a loro.
Attesero che fosse lui ad assaggiarla per primo – l’unico che avrebbe avuto il coraggio di dire la verità, in ogni caso – e solo quando, girandosi verso Charlie, l’uomo si complimentò - “davvero squisita, tesoro.” - gli altri s’affrettarono ad affondare i loro cucchiaini nel morbido pan di spagna.
Fu così, mentre tutti gustavano il dolce, che Jake chiese a Ryan la cosa più strana che ci si sarebbe mai aspettati da un bambino di nove anni. “Sei mai stato al Safer?”
Il Safer era il più grande ed importante deposito di Twin Lake. Quasi tutti i cittadini della contea avevano un deposito lì, dove vi costudivano le attrezzature da sci per il periodo invernale oppure anche i gommoni e le canoe per solcare le limpide acque del lago.
In ogni caso, a Logan non sfuggì l’occhiolino complice che Charlie lanciò a suo figlio.
“Il Safer?” Domandò Ryan, giustamente perplesso da quella domanda tanto strana. “Ci sono solo depositi…”
“Già.” S’accodò subito lei, prendendo la palla al balzo. “Ma sono dei depositi davvero molto spaziosi! Ho sentito dire che ci si potrebbe persino vivere, se si volesse.”
Solo Ryan, Luke e Logan colsero il vero significato di quelle parole; perciò, furono solo tre le posate che vennero poggiate sul piatto e le paia d’occhi che si fissarono su di lei.
La donna, però, non si scompose minimamente e, battendo innocentemente le ciglia, li guardò di rimando con aria interrogativa: “Volete altra torta?”
 
“Sei arrabbiato?” Gli chiese Charlie non appena la porta di casa venne chiusa.
Era tardi e Jake era a letto da un pezzo, ormai. Anche loro iniziavano ad accusare la stanchezza della giornata.
Non convivevano ufficialmente, ma si poteva dire che fosse così, nonostante la gran parte delle cose di Charlie fosse a casa di suo padre.
“Non sono mai arrabbiato con te, lo sai.” Osservò Logan, dirigendosi verso la loro camera da letto.
Lo seguì e chiuse la porta alle loro spalle. “Infastidito?” Riprovò.
Lui sospirò e si voltò a guardarla. “È solo che…” Iniziò, passandosi una mano fra i capelli. “Pensavo che me lo avresti detto che stavi indagando per conto di Clark.”
Sentì un tuffo al cuore. Gli si avvicinò e subito gli accarezzò le spalle, ancora coperte dalla camicia. “È stato solo un caso… Ho accompagnato Jake al negozio di fumetti l’altro ieri, ti ricordi?” Lui annuì. “E ho sentito due tizi parlare di come il deposito del Safer potesse diventare un ottimo appartamento. Mi sono chiesta chi diavolo mai vivrebbe in un deposito puzzolente e…” Concluse facendo spallucce.
Una delle prime volte che si erano incontrati aveva usato una scusa molto simile per giustificare come fosse a conoscenza di informazioni di non poco conto, con la differenza che, quella volta, stava mentendo.
Lui si piegò in avanti, fino ad appoggiare la fronte sulla sua.
“Sapevo che non saresti stato d’accordo.” Mormorò lei, accarezzandogli una guancia ispida.
Non le chiese come diavolo facesse a sapere sempre tutto, ma invece si costrinse a rassicurarla: “Non devi rinunciarci solo per me. Non te lo chiederei mai, lo sai.”
Gli sorrise e posò le labbra sulle sue, in un tenero bacio a stampo. “Lo so. Ma se tu me lo avessi chiesto, ti avrei detto di sì.” Lo baciò di nuovo e la sua voce si fece carica di significato quando aggiunse: “Ti direi di sì a qualsiasi domanda potresti mai farmi. Qualsiasi.
Adesso, se lui non fosse stato un uomo che s’era fatto due ore di macchina per arrivare fino a Twin Lake City e comprare un anello in una gioielleria dove, appena uscito, nessuno sarebbe corso da Charlie a spifferarle le sue intenzioni, allora non avrebbe capito di cosa accidenti stesse parlando.
Ma, si dava il caso, che Logan fosse proprio quell’uomo.
Era da diverso tempo che ci stava pensando, quando, ad agosto, una mattina si era alzato e aveva deciso che quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbe provveduto.
Non lo aveva detto a nessuno, per evitare che la notizia arrivasse alle orecchie di lei, e aveva portato quell’anello sempre con sé, per evitare che vi ci si imbattesse per casa.
Aveva, poi, deciso di tenersi sul semplice: avrebbe aspettato l’anniversario del loro incontro – mancava poco ormai – e le avrebbe chiesto di sposarlo.
Perciò, si irrigidì a quella poco velata allusione. “Chi te l’ha detto?”
Ed era una domanda stupida da fare, perché non c’era proprio nessuno – tranne lui - che lo sapesse.
Lei ridacchiò alla vista della sua indignazione. “Sono almeno due mesi che te lo tieni addosso, cowboy, e sai quanto mi piaccia toccarti…”
Lo sapeva e, dannazione a lui, non aveva mai pensato che potesse riconoscerne la forma da sotto lo strato di vestiti. Credeva d’essere stato più attento e, pareva, per un mese almeno, era riuscito a non farsi beccare.
“Posso vederlo?” Gli chiese, con la gioia ad illuminarle quegli occhi blu.
“No.” Brontolò, staccandosi da lei e dirigendosi nervosamente verso il bagno.
La sentì ridacchiare ancora. “Dai, ti sei offeso?” Gli domandò, piena di incredulità.
“Si. E voglio che almeno il momento i cui te lo chiederò sia una sorpresa, dannazione.” Borbottò, scatenando un’altra risata da parte di lei.
Ad ogni modo, quando uscì dal bagno, il suo umore parve esser tornato quello di prima e, una volta sotto le coperte, a Charlie bastò solo poggiare le labbra sulla sua spalla nuda e mormorare un “mi dispiace, non volevo rovinare la tua sorpresa” per ottenere una reazione infuocata da parte sua.
Aveva creduto che, dopo due mesi che si portava appresso il suo anello, Logan avesse solo bisogno di una rassicurazione. Non vedeva l’ora che le chiedesse di sposarlo e non aveva resistito.
Non stava più nella pelle e, ora, avrebbe sicuramente dovuto aspettare solo il cielo sapeva quanto.
Perciò, fu con sua assoluta sorpresa che, quasi sul punto di sprofondare in un sonnolento appagamento, sentì il freddo metallo di un anello scivolarle all’anulare sinistro.
Aprì subito gli occhi, i fumi del piacere che le annebbiavano la mente ormai dispersi, e si ritrovò ad annegare in iridi scure.
Deglutì e sentì calde lacrime di felicità salirle agli occhi. Aprì la bocca, per dargli l’unica risposta che avrebbe mai potuto, ma lui la precedette. “Non ti ho ancora fatto nessuna domanda.” Le fece notare, il divertimento ben evidente nel suo tono.
Charlie sbuffò una risata, battendo velocemente le ciglia per cercare di trattenere la sua reazione. Si schiarì la gola, prima di parlare, ma la sua voce risultò comunque piena d’emozione. “Non ho detto niente, infatti.”
La prese di nuovo per la vita e l’avvicinò a sé.
Appoggiando la mano sul suo petto, Charlie poté finalmente ammirare lo splendido diamante che riluceva nella penombra della stanza.
“Ti piace?”
“È stupendo.” Le uscì come un singhiozzo.
“Non toglierlo, d’accordo? Mi piace vedertelo al dito, finché non deciderò di chiederti di sposarmi.”
Sapevano benissimo entrambi che, non appena fosse uscita da quella casa, ci avrebbe pensato Sunlake a rendere reale quella proposta.
“Ti amo.”
In ogni caso quella fatidica domanda era già stata fatta e aveva anche già ricevuto risposta, non a parole, ovviamente, perché di quelle non ne avevano mai avuto bisogno e così sarebbe sempre stato.
Sempre e per sempre.
 
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Ciao a tutti,
ci tenevo a ringraziarvi per essere arrivati fin qui e per avermi accompagnata in questi mesi nel corso di questa storia. Spero che vi sia piaciuta.
Per chi fosse interessato, ho pubblicato il sequel in cui la protagonista è Maddie.
Auguro a tutti voi il meglio,
A presto.
K.

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