Ombre nelle Tenebre

di Puffardella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'eredità ***
Capitolo 3: *** Mestrieri e lo strano bambino ***
Capitolo 4: *** Il parroco ***
Capitolo 5: *** La cena ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Davide aveva sentito tante storie sui funerali.
Storie di terrore, di vecchi cimiteri abbandonati e di defunti che riprendevano vita all’improvviso, a un passo dall’essere seppelliti.
Essi spalancavano gli occhi e lanciavano grida disumane, mentre il vento impetuoso piegava le cime degli alberi e lampi spaventosi squarciavano l’oscurità della notte, illuminando le lapidi delle tombe e le persone che, terrorizzate, fuggivano in ogni direzione.
Erano storie di bambini, che lui e i suoi amici si divertivano a raccontarsi nelle sere di Halloween o quando, in estate, il prolungarsi delle vacanze li faceva sprofondare nella noia.
Davide sapeva che erano tutte fandonie, del resto anche lui ne aveva raccontate di simili giurando fossero vere. I morti non tornavano in vita, non importava per quanto tempo e con quanto ardore ci si sforzasse di pregare Dio.
Eppure, mentre il feretro nel quale sua madre giaceva da giorni veniva lentamente calato nella fossa scavata per lei, continuava a sperare che accadesse un miracolo, come nelle storie. Un debole lamento proveniente dalla bara, l’arrivo improvviso di qualcuno che imponeva loro di fermarsi, qualcosa, qualsiasi cosa che dimostrasse a tutti i presenti che si erano sbagliati: lei non era morta, si era trattato solo di uno sbaglio, un terribile, tragico sbaglio.
Tuttavia la bara continuava inesorabilmente a scendere verso il fondo della fossa senza che accadesse nulla.
Davide singhiozzò piano e suo padre, in piedi dietro di lui, gli mise una mano sulla spalla e gliela strinse con dolcezza, per infondergli forza e coraggio.
Alla sua sinistra, Clarissa, la sua sorellina di quattro anni, osservava la scena in silenzio con un’espressione seria e al tempo stesso meravigliata sul volto. Probabilmente era troppo piccola per comprendere appieno il senso di quello che le stava accadendo intorno e Davide, che di anni ne aveva dieci, la invidiava per questo.
Alla sua destra, invece, Niccolò, il fratello maggiore, conservava negli occhi asciutti una luce arrabbiata. Gli era comparsa il giorno in cui, nemmeno un anno prima, avevano saputo che la madre era malata, e da allora non aveva mai abbandonato il suo sguardo.
Niccolò aveva quattordici anni ed era un ragazzo forte, per questo non aveva mai versato una lacrima davanti a nessuno. Ma Davide, che con lui divideva la stanza, lo sentiva piangere ogni singola notte. Pigiava il volto sul cuscino e lì sfogava tutto il suo dolore, fino a che non crollava dal sonno.
Dolore. Questo sentimento non veniva mai menzionato nelle sciocche storie che lui e i suoi amici si raccontavano per gioco, eppure in quel momento era talmente presente nell’aria da essere quasi palpabile, tanto che Davide iniziò presto a sentirsene sopraffatto.
All’improvviso venne aggredito da uno strano malessere. Non riguardava solo il suo stato d’animo. Era come un fastidio urticante che gli bruciava la pelle e gli occhi, togliendogli il respiro e offuscandogli la vista. Cercò di farsi coraggio, di mostrarsi forte come suo fratello Niccolò e resistette all’impulso di gridare.
Poi, mentre il feretro raggiungeva la sua meta finale e veniva inghiottito definitivamente dall’oscurità delle viscere della terra, un pensiero stimolato da un ricordo improvviso gli attraversò la mente e il cuore gli fece un balzo nel petto.
Sua madre dipingeva.
Lo faceva per hobby ma era brava, davvero brava, i suoi quadri erano largamente apprezzati da chiunque avesse modo di vederli.
I suoi soggetti preferiti erano i paesaggi notturni. Ne aveva dipinti a dozzine e Davide li trovava tutti molto belli.
Uno di questi, quello che amava di più, era appeso in salotto.
Di sera, quando tutta la famiglia era raccolta davanti alla tele, lui era solito sdraiarsi ai piedi del divano, sul tappeto, e mentre osservava con scrupolosa attenzione ogni dettaglio del dipinto, ogni volta come fosse la prima, finiva puntualmente col perdercisi dentro. Si lasciava trasportare così tanto dalle emozioni che quel quadro gli suscitava che quasi riusciva a sentire sulla pelle l’aria umida della sera e i raggi della luna piena che occhieggiava nel cielo nuvoloso e si rifletteva sulle acque del torrente, attraversato da un ponte di mattoni.
Alle spalle del torrente, le finestre del paese brillavano di una luce soffusa, calda. Il profilo quasi nero del campanile di una chiesa medievale si ergeva alto nel centro del paese, scuro e minaccioso.
Davide si sentiva profondamente suggestionato da quel dipinto. Era come se lui conoscesse quel luogo, come se ci fosse già stato.
Ne era talmente convinto che una volta aveva cercato conferma chiedendo a sua madre se quel posto esistesse davvero.
Lei gli aveva risposto di sì: esisteva nel suo cuore.
E poi aveva aggiunto una cosa che all’epoca gli era parsa stramba, ma alla quale non aveva dato alcuna importanza fino a quel giorno: non era quel paesaggio in sé a sentire nel cuore, ma la notte.
Era la notte a ispirarla. La notte, con le sue tinte grigio azzurrognole e il respiro umido che profumava di terra, dove tutto era immerso nel silenzio e nella quiete più assoluti: questo era ciò che sentiva nel cuore.
E lì, in quel momento, mentre la bara nella quale ella riposava toccava il fondo della fossa e l’oscurità l’avvolgeva definitivamente in un eterno abbraccio, Davide rifletté che ora, finalmente, si trovava dove il suo cuore aveva sempre desiderato essere.
Era un pensiero macabro, per certi versi terrificante, ma anche, in qualche modo, confortante.
Emise un flebile sospiro e sorrise tristemente.
Poi venne trafitto da un dolore lancinante alla testa. Udì alle orecchie un fastidioso ronzio, la sensazione di bruciore agli occhi e sulla pelle crebbe fino a divenire insopportabile. Si schermò gli occhi con la mano, nella speranza di ripararsi dai raggi del sole che quel giorno sembravano voler infierire su di lui, e si accorse che sul dorso erano comparse delle vescicole gonfie e trasparenti. Sollevò anche l’altra mano e si rese conto, con orrore, che erano comparse anche lì.
La sensazione di bruciore crebbe d’intensità, si estese in tutto il corpo. Non era più solo un malessere generalizzato ma un dolore intenso, terribile, che coinvolgeva ogni singolo centimetro del suo essere.
Era come se stesse ardendo vivo, questo fu ciò che gli venne in mente.
Lanciò un lungo grido disperato.
Infine svenne.

 

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Capitolo 2
*** L'eredità ***


CAPITOLO 1
L’eredità

VENTIDUE ANNI DOPO

«Sono sbalordito, ha davvero fatto un lavoro eccellente» disse l’uomo sfogliando con delicatezza le pagine del libro, un antico trattato di astronomia risalente al diciottesimo secolo, sfuggito alla devastazione di un incendio ma danneggiato dalle acque di spegnimento che ne avevano causato il proliferarsi della muffa.
«Ma come ha fatto?»
Davide sorrise. Come aveva fatto? Ore ed ore di paziente lavoro, ecco come aveva fatto. Per riportare il manufatto al suo splendore originale aveva dovuto smontarlo, sottoporre le pagine e la copertina ad asciugatura, disinfezione, spolveratura, aspirazione, carteggiatura, e tutta una serie di procedure noiose ma fondamentali prima di ricucirle nuovamente insieme. Tuttavia, spiegarlo in termini tecnici sarebbe risultato poco comprensibile ed estremamente noioso a chi non si intendeva di restaurazione.
«Magia...» si limitò quindi a rispondere.
«Questo è certo, a giudicare dal risultato insperabile» replicò l’uomo. «Mi è costato un occhio della testa restaurare l’opera ma ne è valsa la pena. Ora il suo valore è come minimo raddoppiato» aggiunse infine porgendogli la mano.
Davide gliela strinse e poi lo accompagnò alla porta.
«Mi avevano parlato molto bene di lei, posso garantirle che anche da parte mia riceverà un ottimo feedback» aggiunse il cliente davanti all’uscio aperto.
Davide cercò di sfoggiare il miglior sorriso che poteva. «La ringrazio, signor Colarossi» replicò cortesemente.
Poi, però, quando finalmente il cliente si decise ad uscire, richiuse la porta ed emise un sospiro di sollievo. In genere si intratteneva di più con i clienti, ricevere complimenti era per lui gratificante quasi come l’essere pagato in moneta, ma il cellulare aveva iniziato a vibrargli nella tasca dei pantaloni da quando l’uomo era arrivato fin tutta la sua permanenza. Lo tirò fuori e controllò sul display.
C’erano due messaggi vocali, uno del fratello Niccolò e l’altro di suo padre, e nove chiamate senza risposta, tre di sua sorella Melissa e le restanti sei di Sara, la sua compagna.
Ignorò volutamente le chiamate e si accinse ad ascoltare i messaggi.
Diede la precedenza a quello del fratello.
“Ciao Davide. Volevo ricordarti l’appuntamento di domani dall’avvocato. Vedi di esserci stavolta, così risolviamo una volta per tutte la faccenda. È importante, Davide. Forse non per te ma per me sì... Ve bene, dai, ci vediamo domani...”
Davide scosse la testa sbuffando. Suo fratello faceva di tutto per essere una testa di cazzo, riuscendoci per altro molto bene. Forse si era scordato che la volta precedente era stato costretto a disdire l’appuntamento perché attaccato ad un tubo in una camera d’ospedale. O forse, più probabilmente, se lo ricordava e non gliene fregava comunque un accidenti di niente.
Decise di non rispondergli. Non gli avrebbe fornito l’ennesimo pretesto per litigare, anche perché litigare era in quel momento l’ultima cosa che desiderava. Non ne avrebbe trovato la forza nemmeno volendo.
Aprì il messaggio del padre e ascoltò anche quello mentre si dirigeva al tavolino di legno addossato alla parete vicino alla finestra, sopra il quale facevano sfoggio numerose bottiglie di liquore, destinate quasi esclusivamente ai suoi clienti.
“Ciao Davide. Sei stato dal medico stamattina? Come sono andate le analisi? Avevi detto che mi avresti fatto sapere ma sto ancora aspettando di ricevere tue notizie... Chiamami quando puoi, d’accordo?”
Davide si riempì un bicchiere di cognac e se lo portò alle labbra.
“Niente alcolici, Davide” udì nella sua testa la voce del medico che da anni lo seguiva nella sua malattia.
«Tanto ormai che differenza fa?» si rispose ad alta voce prima di trangugiare in un unico sorso il liquido ambrato, che gli bruciò in gola  come se si fosse trattato di lava.
Gli avrebbe procurato un bel rush cutaneo, ne era sicuro. Probabilmente anche qualche ora di lancinanti dolori addominali. Tanto valeva farsi un altro giro, si disse. Riempì nuovamente il bicchiere e buttò giù anche quello.
Sospirò a fondo e, guardando con aria assorta fuori dalla finestra lo spettacolo del tramonto che “incendiava” lo scenario deprimente dei palazzoni soffocanti e delle strade trafficate di Milano, ripensò alle esatte parole con le quali il medico quella mattina lo aveva messo al corrente del tumore che, dalle ultime indagini effettuate, era stato trovato nel suo fegato. Termini come “piccolo”, “asportabile”, “preso in tempo”, venivano inesorabilmente inghiottiti dall’unico che contava davvero: tumore. Per quanto il medico si era sforzato di rassicurarlo c’era una sola cosa alla quale Davide continuava a pensare in maniera ossessiva: qualcosa di maligno aveva messo radici dentro di lui e cresceva nel suo fegato. Lo stava facendo anche in quel preciso istante, e avrebbe continuato a farlo fin quando non avrebbe trovato niente altro di cui nutrirsi.
Chiuse un istante gli occhi, prese un profondo respiro, infine rispose al padre con un breve messaggio: “Ciao papà. È tutto a posto. I valori ematici si sono ristabiliti dopo l’ultima trasfusione di sangue. È stata una lunga giornata fitta di impegni, per questo non ti ho ancora chiamato. Senti, devo andare, ti chiamo domani, ok?”
Indugiò un istante prima di decidersi a inviare il messaggio. Lo fece infine con riluttanza. Detestava raccontare balle, soprattutto al padre. Dopo la morte della moglie, aveva passato i primi dieci anni ad affogare il suo dolore nell’alcol e i successivi dieci a tentare di non ricadere nel vizio. Come ogni ex alcolista, era una persona fondamentalmente fragile, sempre sul punto di crollare, di riattaccarsi alla bottiglia al primo dispiacere. Per questo non poteva raccontargli la verità. Non ora, non senza prima averlo preparato dovutamente.
Il cellulare nella sua mano vibrò per l’ennesima volta interrompendo il flusso dei suoi pensieri e facendolo sobbalzare.
Era di nuovo Melissa. Davide lasciò che il telefono squillasse a lungo nella speranza che la sorella riagganciasse, che si arrendesse, che capisse che non era il momento, quello davvero non era un buon momento per parlare. Ma poi si disse che sua sorella, probabilmente, si sarebbe precipitata a casa sua se non le avesse risposto e, dovendo scegliere tra i due il male minore, si decise a farlo.
«Cristo santo, Melissa, non ti arrendi mai?»
Melissa tacque un istante, spiazzata dalla sua risposta aggressiva. «Dove sei?» si informò dopo essersi ripresa.
«Sono le sette di sera, dove dovrei essere secondo te?»
Melissa esitò di nuovo. «Ho sentito Sara...» disse poi.
«E quindi?»
«Dice che sono tre giorni che non torni a casa.»
«Sì, beh, questi non sono affari tuoi, Melissa.»
«Singhiozzava al telefono, Davide... Mi dici che succede?»
«Ti ho appena detto che non sono affari tuoi, Meri.»
«Posso almeno sapere dove stai dormendo?»
«Nel mio studio. Senti, devo andare, devo ricevere un cliente...» mentì.
«E dai, Davide...»
«Ci vediamo domani, Melissa.»
«Davide, per favore...» iniziò a supplicarlo lei, ma lui mise giù prima che potesse finire di parlare.
Davide spense il telefono e lo gettò sopra il divano. Se non lo avesse fatto, Melissa avrebbe continuato a chiamarlo o a bombardarlo di messaggi. Non avrebbe mollato l’osso fino a quando non le avrebbe detto quello che voleva sentirsi dire: cosa non andava tra lui e Sara.
E quello era un altro discorso che, al pari della storia del cancro, Davide non era ancora pronto ad affrontare. Non aveva ancora avuto il coraggio di farlo dovutamente con Sara, non vedeva perché avrebbe dovuto farlo con sua sorella.
Pensare a Sara gli fece nuovamente venire voglia di bere. Si avvicinò al tavolino con gli alcolici, allungò la mano verso il cognac e poi la ritirò, disgustato di se stesso e della sua debolezza.
Alzò lo sguardo alla finestra.
Il sole finiva di tramontare in quel momento, mentre i rumori del traffico si attutivano e Milano si accingeva a vestirsi per la notte con migliaia di luci bianche. Quello era il momento ideale per Davide di andare a correre, cosa che si sforzava di fare regolarmente da quando era adolescente. Lo faceva per tenersi in forma ma anche per trovare il pretesto di uscire, di stare all’aria aperta.
Cominciò a sbottonarsi la camicia, rinvigorito da quel rigurgito d’orgoglio. Nossignore, non avrebbe passato la serata a piangersi addosso e a riempirsi lo stomaco di alcol.
Sara o meno, cancro o meno, lui aveva il dovere oltre che il diritto di prendersi cura di se stesso e, cazzo, lo avrebbe fatto. Sarebbe andato a correre anche quella sera e avrebbe continuato a farlo fino a quando i suoi polmoni sarebbero stati in grado di riempirsi d’aria e le gambe di sorreggere il peso del suo corpo.


La nebbia era densa, lattiginosa. Le cose in essa nascoste faticavano ad emergere, Davide poteva intravederne solo sagome confuse.
Alberi, qualche casa, un edificio che poteva essere una chiesa, un pozzo in mezzo a tutto.
Non conosceva quel posto, era sicuro di non esserci mai stato. Si guardò intorno, disorientato e confuso. Che ci faceva lì?
Qualcosa sbucata dal nulla strisciò ai suoi piedi e Davide sussultò. Sembrava un uomo. Era completamente nudo e si muoveva spingendosi in avanti con le mani e con i piedi, con sbalorditiva velocità. Lo oltrepassò e scomparve nella nebbia, producendo un sinistro frusciare sulle foglie secche.
Davide lo seguì, spinto da un’irrefrenabile curiosità. L’essere procedette verso il pozzo. Si arrampicò sulla ghiera e si lasciò precipitare verso il fondo. Nell’impattarvi, emise un tonfo sordo.
Davide sussultò, colto dall’orrore. Corse verso il pozzo e vi si affacciò. Decine di occhi brillavano nell’oscurità, ombre indistinte si contorcevano una sull’altra emettendo sibili rabbiosi. Una di esse si voltò di scatto verso di lui e lo fissò con piccoli occhi di fiera, mentre stringeva tra le dita simili ad artigli il braccio di qualche altro essere. Dopo qualche istante, tornò a disinteressarsi a lui e iniziò a prendere a morsi l’arto, fino a staccarne un grosso brandello di carne. Qualcun’altro stava facendo lo stesso con la sua gamba.
A quella scena raccapricciante, Davide lanciò un urlo e indietreggiò di qualche passo. Fu allora che si accorse che altri esseri striscianti uscivano a frotte dalla chiesa e si dirigevano al pozzo, per gettarvisi dentro e prendere parte a quel delirio di corpi che si artigliavano e si azzannavano a vicenda.
Le campane della chiesa iniziarono a suonare all’improvviso, come se qualche vescovo particolarmente zelante avesse deciso di celebrare una lugubre messa in favore di quelle anime dannate. Il loro suono, tuttavia, fu presto sostituito dalle cupe note di The Sound of Silence dei Disturbed:  
Hallo, darkness, my old friend
I’ve come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while i was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Steel remains
Within the sound of silence...


Davide spalancò gli occhi e prese un profondo respiro, come se fosse stato a lungo in mancanza di aria.
Era stata la sveglia del cellulare, con le note di The Sound of Silence, a strapparlo dall’orrendo sogno che stava facendo.
Allungò la mano sul basso tavolino di vetro sul quale era il telefono, disattivò la sveglia e si mise a sedere sul divano, passandosi le dita tra i folti capelli castani.
Dalla finestra entrava il tenue bagliore dell’alba. Pochi istanti ancora e Davide non sarebbe più potuto uscire di casa senza adottare le consuete precauzioni. Si sollevò in piedi e si diresse alla finestra. La spalancò e respirò a pieni polmoni l’aria che a quell’ora del giorno aveva un profumo particolare, umido ma pulito, di terra, legno, foglie e qualche volta perfino di fiori.
Faticava a togliersi dalla mente le raccapriccianti immagini dell’incubo che aveva fatto, forse a causa dello stress accumulatosi in quegli ultimi giorni estremamente difficili per lui. La giornata che gli si prospettava dinanzi, poi, rendeva il tutto ancora più estenuante.
Non aveva alcuna voglia di affrontare tre ore di macchina per recarsi a Reggio Emilia e udire la lettura di un testamento di un qualche lontano parente del quale nemmeno il padre sembrava essere a conoscenza.
Si passò una mano sul volto stanco e stabilì che, prima di ogni altra cosa, gli ci voleva un caffè se voleva affrontare quella maledetta giornata con la giusta carica.

Davide era stato l’ultimo ad arrivare.
Lo studio legale nel quale lui e i suoi fratelli furono fatti accomodare era piccolo e disordinato, l’avvocato aveva un aspetto ordinario, quasi trasandato.
Basso di statura, con capelli lunghi e spettinati e una barba che cresceva allo stato brado da immemorabile tempo, indossava un datato completo di tweed marrone con panciotto e farfalla.
All’apparenza sembrava tutto fuorché un avvocato e se non fosse stato che Davide aveva fatto delle accurate indagini sul suo conto, avrebbe sospettato una truffa di qualche tipo e si sarebbe dato alla fuga a gambe levate.
Dopo i convenevoli di rito, prima che l’improbabile avvocato iniziasse la lettura dell’improbabile testamento, Niccolò aprì la questione che più di ogni altra cosa rendeva sospetta tutta la faccenda.
«Prima di procedere, credo sia giusto che ci parli un po’ di questo presunto lontano parente del quale nemmeno mio padre ha memoria alcuna... Insomma, perché mai qualcuno che non ci conosceva avrebbe voluto lasciarci qualcosa in eredità?»
«Giusto, mi sembra una domanda lecita» tossicchiò l’avvocato, sistemandosi il cravattino in un gesto di mero nervosismo. «Dunque, Walter Iotti era un prozio di vostra madre, Tilde Iotti. Era un uomo vecchio stampo, un po’ ottuso e decisamente riservato. Aveva un carattere difficile, senza dubbio, ma possedeva anche un cuore nobile. Per varie ragioni che non sono tenuto a spiegarvi, non era in buoni rapporti con i suoi parenti più stretti. Tuttavia aveva un debole per Tilde perché gli ricordava la sua defunta figlia, morta in tenera età. Tilde era inoltre l’unica con la quale, di tanto in tanto, scambiava una qualche forma di corrispondenza, soprattutto in occasione delle feste.»
«Non ne eravamo al corrente, nostra madre non lo ha mai nemmeno menzionato...» contestò Davide perplesso.
«Vostra madre è morta che voi eravate molto piccoli. E comunque, come ripeto, la loro era una corrispondenza piuttosto esigua. Tuttavia per il signor Iotti, che non era abituato ad alcun tipo di gentilezza da parte degli altri parenti, significava molto. Dopo la morte della moglie e dei due figli, ha ritenuto necessario far redimere un testamento per non permettere ai suoi parenti più prossimi di mettere mani sulla sua eredità, ritenendoli immeritevoli.»
«È tutto parecchio strano...» rifletté Melissa, per niente convinta. Come nessun altro di loro, del resto.
«Beh, il testamento è chiaro: voi tre siete gli unici eredi menzionati, ma niente vi impedisce di rifiutare l’eredità, se non vi è gradita.»
«Nello specifico, di cosa si tratta?» volle sapere a quel punto Niccolò, che iniziava a farsi ansioso di concludere.
«Vediamo un po’...» disse l’avvocato inforcando gli occhiali e avvicinandosi il documento agli occhi. «Di una casa.»
«Una casa. Tutto qui?» obiettò Niccolò, e Davide si vergognò per lui. Che suo fratello fosse perennemente oberato dai debiti era un fatto piuttosto noto, ma questo non gli dava il permesso di essere maleducato.
«Va bene, a quanto ammonta il valore?» chiese ancora Niccolò.
«Vediamo un po’... Il signor Iotti l’aveva fatta valutare da un geometra qualche mese antecedente la sua morte... Ecco qua: ottantacinquemila euro.»
«Che divisi in tre fanno meno di trentamila a testa. Senza considerare che potrebbero volerci mesi, forse addirittura anni, prima di riuscire a venderla... Che inutile perdita di tempo!» finì di lamentarsi Niccolò.
«Le cose non hanno un valore solo in moneta, Niccolò» lo rimproverò Melissa a quel punto, e Davide mostrò di trovarsi d’accordo con lei annuendo.
La minore si voltò nuovamente verso l’avvocato e gli sorrise amabilmente. «Immagino che si tratti della casa nella quale viveva il signor Iotti, giusto?»
«Sì, è così. Non solo ci viveva: in quella casa ci è nato e ci è morto» spiegò l’avvocato. «In effetti è una casa molto antica. Avrà cento anni, se non di più...»
A quella notizia, Niccolò emise una nuova serie di borbottii seccati, ignorati dal resto dei presenti.
«Tanto perché possiamo farci un’idea più precisa dell’immobile in questione, dove si trova?» indagò a quel punto Davide.
«Nel centro storico di Mestrieri, un piccolo paese della bassa reggiana. Stiamo parlando di un piccolo borgo di stampo medievale, davvero molto caratteristico...»
Mentre lo strambo avvocato snocciolava tutta una serie di commenti positivi sul borgo in questione, Melissa, che aveva fatto di internet la sua seconda casa e, tra le altre cose, sapeva avviare una ricerca in tempi brevissimi, trovò le immagini del paese, le aprì e le mostrò ai fratelli.
Le foto mostravano uno spiazzo erboso rettangolare sul quale erano stati messi dei giochi per bambini. Niente di che: un paio di scivoli, due altalene e due cavallucci a molla.
Entrambi i lati lunghi erano costeggiati da strette case a schiera. Due filari di alberi di tiglio fiancheggiavano uno dei due lati, quello attraversato dalla strada principale, in un viale alberato che, probabilmente, donava al parco una discreta ombra in estate.
Su uno dei lati corti si ergeva imponente una chiesa barocca a pianta centrale, costruita in solidi mattoni. E, a poche decine di metri dalla chiesa, in mezzo al rettangolo erboso, un curioso pozzo ottagonale in forma di tempietto rinascimentale, sorretto da colonne doriche.
Davide avvertì un brivido attraversargli la spina dorsale, i peli delle braccia si rizzarono: sembrava il medesimo luogo che aveva sognato quella notte.
«C’è spesso la nebbia a Mestrieri, non è così?» chiese, interrompendo il blaterare, per altro ignorato, dell’avvocato. Tutti si voltarono a guardarlo perplessi, disorientati dalla strana domanda.
L’avvocato si sistemò il farfallino sul collo, poi rispose, incerto: «Credo di sì. Mestrieri si trova nella bassa reggiana, proprio dietro il Po. Tutta la zona è famosa per la nebbia e le zanzare.»
«Perfetto. Una vecchia casa ammuffita che probabilmente cade a pezzi in una zona paludosa infestata dalle zanzare... Venderla non sarà difficile, sarà impossibile» si lagnò nuovamente Niccolò.
«Smettila, Niccolò! È pur sempre un dono, non capisco di cosa ti lamenti!» lo apostrofò a quel punto Davide, che cominciava a non poterne più dell’ingratitudine del fratello.
«Un dono che ci darà più seccature che altro, Davide!»
«Come ho detto, non siete tenuti a riscattare la proprietà. Potete sempre rinunciare all’eredità» intervenne l’avvocato a quel punto.
«Non sarà necessario. Acquisterò la casa dando ai miei fratelli la quota spettante» comunicò Davide, generando in tutti nuovo stupore.
Melissa lo guardava sbigottita, gli occhi e la bocca spalancati.
«Forse faresti meglio a darle un’occhiata prima di prendere decisioni avventate, Davide. Detesto ammetterlo ma una volta tanto Niccolò potrebbe avere ragione.»
«Non sarà necessario, Melissa. Se fino a poche settimane fa ci viveva una persona anziana non vedo perché non potrei farlo io. Inoltre quello è il posto che fa per me: poco sole e tanta tranquillità. E, come ormai sai fin troppo bene, avevo giusto bisogno di una casa...»


Davide osservava la gente passeggiare sotto i portici della Via Emilia da dietro i vetri del bar dove lui e Melissa avevano deciso di fermarsi a prendere un caffè per fare due chiacchiere prima di rimettersi in viaggio.
Provava invidia per loro, per la libertà con la quale camminavano alla luce del giorno, senza doversi stare a preoccupare di proteggere la pelle con creme solari o indossare vestiti pesanti in piena estate, quando la temperatura all’ombra sfiorava i quaranta gradi.
«Figuriamoci se vostra altezza imperiale si abbassava a prendere un caffè con i fratelli...» sbuffò Melissa, lamentandosi del fatto che Niccolò, come al solito, si era congedato appena erano usciti dallo studio dell’avvocato, asserendo di dover tornare a Milano per impegni inderogabili ed urgenti.
«È un imprenditore, magari ha davvero da fare» lo giustificò debolmente Davide, nella speranza di convincere la sorella a parlare d’altro.
«Sì, come no... Deve correre dalla sua amante, ecco qual è il suo impegno inderogabile» si accanì invece quella.
«Sono fatti suoi, Melissa...» sospirò Davide.
«Non lo vediamo mai, Davide! Ha sempre troppo da fare per stare in nostra compagnia, cazzo! Questa cosa non ti fa arrabbiare?»
Davide si strinse nelle spalle. Certo che lo faceva incazzare, ma che poteva farci? Niccolò era fatto così: cinico ed arrivista. Il lavoro era il suo solo apparente interesse, donne a parte. Ci si buttava a capofitto con meticoloso impegno, sacrificando tutto il resto. In fondo non era solo per le scappatelle extraconiugali che sua moglie Erica lo aveva lasciato e si era trasferita in Inghilterra, portandosi dietro i loro due figli.
Già, Niccolò era un fottuto egoista, però non era sempre stato così. Tutti loro avevano dovuto costruirsi un muro dietro al quale rifugiarsi dopo la morte della madre, solo che Niccolò se l’era fatto più alto e più robusto.
«E adesso va a finire che perdo anche te...» aggiunse dopo un po’ Melissa, riscuotendolo dalle sue elucubrazioni.
«E dai, Melissa, ne abbiamo già parlato. Non è detto che io decida di trasferirmi definitivamente in Emilia Romagna. Non so nemmeno dove si trovi Mestrieri, figurati. Ho solo bisogno di starmene per conto mio per un po’ di tempo.»
«Sì, ma perché?»
«Non sto attraversando un bel momento, tutto qui» tagliò corto lui.
«Per via di Sara?»
«Anche...»
«Mi dirai mai cosa è successo tra voi?»
«Lo farò, ma non ora.»
«Perché?» sospirò esacerbata lei.
«Perché è una faccenda delicata che riguarda solo me e lei e che non abbiamo ancora chiarito del tutto tra di noi. Quando succederà, ti prometto che tu sarai la prima a sapere come stanno le cose.»
«Quindi ci sono buone probabilità che vi rimettiate insieme?»
«Melissa...»
«Lo sai che Sara è come una sorella, per me.»
«Smettila, Melissa, ti prego... Senti, oggi per me è una giornata particolarmente stressante. Sai quanto mi costi affrontare un viaggio in macchina in pieno giorno, per non parlare di tutto il resto. È agosto, fa un fottuto caldo e io indosso guanti e maglione. Devo sembrare uno squilibrato e infatti ho gli occhi di tutti puntati addosso, il che, credimi, è piuttosto umiliante. Come se non bastasse sudo come un maiale e la crema protettiva comincia a venire via perciò ti prego, ti supplico, non complicarmi ulteriormente le cose. Non parliamone più, non oggi. D’accordo?»
Melissa tacque un lungo istante, impegnata a fissarlo con i suoi grandi ed espressivi occhi nocciola, nel tentativo di sondargli l’anima, penetrarlo in profondità, carpire i suoi pensieri e le sue emozioni, e Davide, temendo che potesse riuscirci, si ritrovò ad abbassare lo sguardo in un istintivo gesto di difesa.
«Va bene, Davide. Solo, per favore: non sparire del tutto» si arrese infine dopo un lungo, esacerbante silenzio.

 

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Capitolo 3
*** Mestrieri e lo strano bambino ***


CAPITOLO 2
Mestrieri

Davide percorreva senza fretta la strada provinciale che tagliava in due la campagna della bassa reggiana, la cui terra era stata rivoltata in grosse zolle per farla riposare.
Prima di avventurarsi in quell’impresa aveva fatto delle ricerche su Mestrieri e aveva scoperto che il piccolo paese, i cui abitanti montavano a poche centinaia di unità, era circondato per tre lati da una sconfinata distesa di terra e per il restante lato dalla golena boschiva che fiancheggiava il Po.
Una piccola isola in mezzo al nulla, questo era ciò che aveva pensato quando aveva controllato la sua ubicazione attraverso la webcam, ed era ciò che continuava a pensare ora che chilometri e chilometri di campagna sfilavano dinanzi a lui senza interruzioni di sorta.
Era una bella mattina di inizio ottobre, fresca e limpida.
Un bel giorno per cominciare una nuova vita, rifletté Davide. Gli venne da pensare a Sara e si rattristì.
Il loro rapporto, che per oltre quattro anni era filato dritto senza grossi scossoni, si era irrimediabilmente incrinato. Era quello che succedeva quando la coppia aveva segreti che venivano a galla da soli, per circostanze fortuite ed impreviste. La fiducia, si sa, è il collante di ogni solida relazione. Quando viene a mancare è solo questione di tempo prima che le cose vadano inevitabilmente, irrimediabilmente a rotoli.
Era stato Davide a decidere di mettere la parola fine alla loro storia, lo aveva fatto con profondo dolore. Erano passati tre mesi da quel giorno. Sara aveva faticato e probabilmente faticava ancora ad accettarlo, però aveva smesso di fargli squillare continuamente il telefono e questa era una cosa positiva.
“Gira a sinistra e poi a destra.”
Il navigatore lo riscosse dalle sue elucubrazioni. Era talmente assorto nei suoi pensieri che nemmeno si era accorto che, ai lati della strada, avevano cominciato ad affacciarsi le prime case isolate.
Davide fece quanto gli era stato consigliato e si trovò in una lunga e stretta via, attraversata all’inizio da un binario ferroviario che, a giudicare dalle rotaie arrugginite e dalla vegetazione fitta che vi cresceva intorno, doveva essere in disuso da tempo.
Un centinaio di metri più avanti comparvero le prime case a schiera, alte e strette. La strada sbucava in un’ampia piazza chiusa da una corte rinascimentale delimitata da arcate e comprensiva di chiesa e torre civica.
“Tra dieci metri, gira a sinistra” lo guidò ancora il navigatore.
Davide seguì le istruzioni. Nello svoltare, attraversò l’arcata sormontata dalla torre e si immise in una strada lastricata, talmente stretta che l’azzurro brillante del cielo ottobrino, soffocato dalle alte mura delle vecchie case, stentava a farsi notare.
Davide fu scosso da una spiacevole sensazione. C’era qualcosa di strano in quel posto, qualcosa di decisamente inquietante.
Tanto per cominciare, da quando aveva iniziato a percorrere la provinciale, aveva incrociato a malapena un paio di macchine.
Anche le vie del centro abitato erano insolitamente deserte, nonostante fosse ancora giorno e non facesse particolarmente freddo. Nessun bambino, nessun adulto in giro. I pochi negozi presenti sulla via erano chiusi, le finestre delle case sbarrate. L’intero paese sembrava versare in uno stato d’abbandono pressoché totale.
Alla fine della strada, l’area si allargava a sinistra per dare spazio ad un’altra piazza, più piccola della precedente. Era quella la sua destinazione finale.
Davide procedette a passo d’uomo mentre cercava sulle facciate delle case il numero civico corrispondente a quello della sua nuova abitazione. Lo trovò dopo aver percorso la strada, che ad un certo punto presentava una curvatura a ferro di cavallo, quasi nella sua interezza. Si trattava di una casa a schiera molto simile alle altre, con le mura scrostate e le sbarre alle finestre inferiori.
«Beh, perlomeno si regge in piedi» ironizzò Davide, che cominciava a chiedersi in che razza di situazione si fosse cacciato.
Parcheggiò l’auto davanti alla casa e notò, non senza un certo disagio, che nei parcheggi, situati tra la piazza e le case in entrambi i lati, sostavano in tutto non più di mezza dozzina di macchine.
Sei macchine per un centinaio di case. Un’altra stranezza di cui tenere conto.
Prima di scendere indossò il berretto con la visiera e infilò i guanti di pelle. La sua auto aveva i vetri schermati e non aveva avuto bisogno di difendersi dai raggi del sole durante il viaggio, ma, sebbene ci volessero quattro o cinque falcate per raggiungere la porta, il sole splendeva alto nel cielo quel giorno e Davide ritenne opportuno adottare tutte le precauzioni nel caso in cui qualcuno, incuriosito dal suo arrivo, si fosse deciso ad andargli incontro per dargli il benvenuto. Non era così che si comportava in genere la gente di un piccolo paese di provincia?
Una precauzione eccessiva, come scoprì un istante più tardi.
Il pesante portone di legno, lucidato e all’apparenza in ottimo stato, cigolò sui perni mentre veniva aperto. L’acuto olfatto di Davide registrò un forte odore di chiuso ma, per fortuna, non di muffa.
Tornò alla sua auto, scaricò la valigia e le poche cose che si era portato dietro da Milano - compreso il quadro raffigurante il paesaggio notturno che suo padre gli aveva regalato quando, a vent’anni, era andato a vivere per conto proprio - e appoggiò tutto all’entrata.
Prima di richiudersi la porta alle spalle, si voltò un’ultima volta e si fece una panoramica della zona. In fondo alla strada, sul lato dove si trovava la sua casa, c’era la chiesa medievale che, attraverso internet, aveva scoperto chiamarsi chiesa di Sant’Elena. E, tra la chiesa e l’area destinata ai bambini, il pozzo rinascimentale.
Tutto era immerso in uno strano silenzio, suggestivo e inquietante per chi, come Davide, proveniva da una grande metropoli.
Mentre si faceva quella riflessione, qualcuno si affacciò alla finestra da una delle case di fronte, dopo aver scostato la tendina. Rimase lì per una manciata di secondi, dopodiché la tendina tornò al suo posto.
“Allora c’è vita sul pianeta Marte” pensò Davide sogghignando.

La prima cosa che Davide fece, ovviamente, fu esaminare la casa.
Il piano terra era attraversato per tutta la sua lunghezza da uno stretto corridoio nel quale, per prima, si apriva la porta del soggiorno. Davide trovò l’interruttore, accese la luce e vi si affacciò, colto da una quasi infantile trepidazione. La stanza era ampia, asciutta, e profumava di cera d’api. Addossata alla parete a fianco dell’entrata c’era una credenza bassa, in arte povera, sopra la quale faceva mostra di sé uno splendido grammofono con la tromba in ottone incredibilmente lucida. Piacevolmente sorpreso, Davide si avvicinò al giradischi d’epoca per osservarlo meglio. C’era un disco inserito, un Notturno di Chopin, l’opera 9 numero 2.
Un brivido gli corse lungo la spina dorsale e gli fece accapponare la pelle. La coincidenza era a dir poco strabiliante: sua madre amava la musica classica e quello era uno dei componimenti preferiti.
Fu aggredito da un ricordo sbiadito dal tempo eppure incredibilmente lucido, di lei in piedi dinanzi ad una tela, scalza, con indosso un leggero vestito fiorato, i lunghi capelli castani attorcigliati intorno ad una matita e le dolci note del Notturno a nutrire la sua ispirazione.
Davide sospirò commosso. Si chiese se il grammofono funzionasse. Lo avrebbe accertato più tardi, dopo aver finito di ispezionare della casa.
Appesa al muro, sopra la credenza, c’era una copia in olio, a grandezza naturale, del dipinto “La Canzone degli Angeli”, del celebre William Bouguereau, ornata di una splendida cornice barocca.
Era decisamente ben fatta, con ogni dettaglio curato alla perfezione, tanto da sembrare quasi autentico.
Davide finì di farsi una panoramica della stanza, arredata in stile rustico. Divani e poltrone erano stati disposti intorno ad un camino in sassi, che rendeva l’ambiente particolarmente intino ed accogliente.
Proseguendo per il corridoio si arrivava dapprima alle scale che portavano ai piani superiori, e poi alla cucina, anche questa arredata in stile rustico, e a un bagno di servizio. Davide si mise a curiosare dentro i mobili della cucina e scoprì che dispensa e frigorifero erano stati riforniti di generi alimentari di prima necessità: bibite, uova, burro, pasta, pomodoro e, nel freezer, perfino carne e pizze surgelate. Si disse che forse erano lì dalla morte del vecchio proprietario ma dovette ricredersi quando, dopo aver controllato le date di scadenza, vide che i prodotti non erano scaduti. Sembrava quasi che qualcuno lo stesse aspettando, che avesse preparato la casa perché fosse pienamente funzionale al suo arrivo.
Davide scosse la testa frastornato. Non sapeva cosa pensare, né se la cosa gli facesse piacere o meno. L’idea che qualcun altro, un estraneo, possedesse le chiavi della casa lo disturbava. Stabilì che avrebbe fatto cambiare la serratura del portone al più presto. Dopo aver preso quella decisione proseguì nel giro. Dalla cucina si accedeva ad un cortile, con una veranda sulla cui struttura si arrampicava una rigogliosa pianta di rosa bianca eccezionalmente fiorita. Più in là si intravedeva un piccolo giardino, il cui prato era stato falciato di fresco.
Al primo piano trovò le camere da letto. Tre di numero, arredate come il resto della casa in stile rustico e tutte e tre con i letti rifatti. In quella più grande, nella stanza padronale, sulla parete sopra il letto era appesa un’altra copia, stavolta della Sibilla Delfica del Michelangelo, anch’essa in olio ma incorniciata da una cornice meno pregiata rispetto alla prima.
Davide salì infine all’ultimo piano, dove trovò due stanze mansardate. La più piccola era adibita a studio mentre l’altra, la più grande, era una curiosa stanza dei giochi, arredata con mobili per bambini e stracolma di giocattoli di ogni tipo: bambole di porcellana e di plastica, peluche, trenini in legno, una enorme casa per le bambole e un cavalluccio a dondolo.
Davide emise un fischio di approvazione.
«Beh, mi aspettavo di peggio. Molto di peggio» si disse Davide soddisfatto. Oltre ad essere accogliente, la casa era asciutta, con un tetto e una struttura solidi. Ad una prima stima sembrava avere un valore molto più elevato di quello indicato nel testamento.
Strano, come del resto tutto ciò che riguardava l’immobile, compreso il modo in cui ne era entrato in possesso o il fatto che tutto fosse in ordine e pulito.
Quando scese di nuovo al piano terra, le ombre della sera avevano iniziato ad allungarsi e la temperatura a farsi rigida.
Dalla finestra del soggiorno entrava calda la luce dei lampioni, che illuminava parzialmente i giochi del parco il quale, per tutto il giorno, era rimasto insolitamente vuoto e silenzioso.
Non era particolarmente tardi ma il viaggio era stato piuttosto estenuante per Davide, che ora sentiva il bisogno di riposare.
Avrebbe spizzicato qualcosa, fatto una doccia e poi si sarebbe infilato a letto. Tempo di formulare quel pensiero che una nebbia sottile e fumosa aveva iniziato ad inghiottire ogni cosa: il parco giochi, la chiesa, il pozzo, gli alberi, le case, le poche macchine nei parcheggi, tutto...
Davide sorrise, ma era un sorriso amaro, malinconico.
«Ora sono davvero a casa» si ritrovò a pensare ad alta voce, pervaso da un profondo sentimento di solitudine.   


CAPITOLO 3
Il bambino

Le note del Notturno vibravano calde e dolci nell’aria.
Tilde, con indosso un leggero vestito bianco che le arrivava alle caviglie e i lunghi capelli sciolti che le ricadevano morbidi sulla schiena, osservava concentrata il dipinto al quale stava lavorando.
Teneva in una mano un pennello e nell’altra una tavolozza. Aveva negli occhi nocciola un’espressione triste, che Davide non ricordava di averle mai visto prima.
«Cosa dipingi, mamma?» le chiese avvicinandosi a lei, con la sua voce da bambino.
«La fine di ogni cosa...» fu la strana risposta.
Davide corrugò la fronte, poi lo sguardo scivolò sul pennello che lei stringeva tra le dita. Era imbrattato di un colore che di rado le aveva visto usare nelle sue opere: un rosso carminio terribilmente scuro.
Il colore del sangue.
Incuriosito, si portò di fronte al quadro per poterlo esaminare.
Sullo sfondo nero di una notte senza luna incredibilmente stellata, un essere che aveva le sembianze di un uomo vestito di sola ombra sedeva sul bordo di un pozzo.
Teneva tra le mani un cuore umano. Aveva il volto imbrattato di sangue e, tra i piccoli denti aguzzi, c’erano brandelli di carne.
Ciò che rimaneva del corpo squartato di un ragazzino era ammucchiato ai piedi dell’essere, in una posa grottesca.
Davide guardò la madre inorridito. Non aveva mai dipinto scene così raccapriccianti.
«Chi è?» le chiese.
«Non chi “è”, ma chi “potrebbe essere”...»
«Chi?»
Le dolci note del Notturno si avviavano verso il finale.
Tilde lo guardò con profondo amore e rispose: «Dovrai essere forte, piccolo mio. Promettimi che sarai forte...»


Davide balzò sul letto, col cuore che gli martellava violento nel petto.
La prima cosa di cui si rese conto fu di avere la bocca arida. Aveva sete, una sete terribile. O era fame?
La seconda cosa furono le note del Notturno di Chopin. Provenivano dal soggiorno.
C’era qualcuno in casa, realizzò raggelando di paura. Forse un ladro. O forse la stessa persona che aveva tenuto in ordine la casa, che gli aveva riempito il frigorifero e perfino preparato il letto.
Dopo un primo momento di disorientamento e di spavento, Davide si mise in piedi. Cercò in giro qualcosa da usare come arma ma non trovò nulla di utile allo scopo. Si affacciò sul pianerottolo e accese la luce.
«Ehi, c’è qualcuno? Sto chiamando la polizia!» gridò, nella speranza che questo bastasse a mettere in fuga l’intruso. Tuttavia non accadde nulla e, soprattutto, non udì nulla.
Iniziò a scendere le scale con circospezione, con lo stomaco aggrovigliato, il cuore in gola e il telefonino in mano, pronto a far partire la chiamata alle forze dell’ordine.
Il suono gracchiante del pianoforte continuava a risuonare nelle stanze della casa.
Davide si fece coraggio, piombò nel soggiorno e accese la luce, aspettandosi di trovarsi faccia a faccia con l’intruso.
Il grammofono si spense all’improvviso in quello stesso momento e la casa ripiombò nel silenzio più assoluto.
Davide si guardò intorno, sollevato ma anche confuso. Il soggiorno era come lo aveva lasciato: in ordine e vuoto. Eppure qualcuno doveva pur aver messo in funzione il grammofono e, allo stesso modo, doveva pur averlo spento.
Cercò ovunque, dietro le tende, perfino dentro la credenza, infine si arrese all’evidenza: nessuno si era intrufolato in casa sua a quell’ora della notte. Probabilmente si era immaginato tutto, si era trattato solo di una suggestione causata dal brutto sogno che aveva appena fatto.
Sì, cercò di convincere se stesso, doveva essere andata così.
Spense la luce intenzionato a tornarsene a letto, quando gli parve di udire un cigolio provenire da fuori.
Davide si affacciò alla finestra. La nebbia, che aveva iniziato a scendere la sera prima, si era fatta più densa e compatta, ma non così tanto da impedirgli di vedere che qualcuno era su una delle due altalene del parco e si dondolava pigramente.
Qualcuno dalla statura molto piccola.
«Un bambino...» alitò Davide sconcertato.
Di riflesso guardò l’ora sul suo orologio da polso: erano le tre meno un quarto. Chi diavolo faceva uscire un bambino così piccolo in piena notte, con la nebbia e il freddo?
Diede un’occhiata intorno per accertarsi che il piccolo non fosse da solo, che qualcuno lo stesse per lo meno sorvegliando, ma non gli parve di notare nessun altro oltre a lui.
Decise di controllare meglio. Si avviò all’ingresso e aprì con circospezione la porta.
Il freddo si era fatto pungente a causa dell’umidità presente nell’aria e Davide, che indossava solo una t-shirt leggera e i pantaloni del pigiama, rabbrividì.
Tornò a guardarsi intorno con più attenzione, ma di nuovo non gli parve di scorgere nessun altro oltre al bambino, che gli dava le spalle e continuava a dondolarsi pigramente.
«Ehi!» cercò di richiamare la sua attenzione bisbigliando, data l’ora tarda. Il piccolo, però, parve non udirlo, perché non si girò né smise di dondolarsi.
Davide si richiuse la porta alle spalle e mosse qualche passo verso di lui.
«Ehi, bimbo...» provò nuovamente a chiamarlo.
Il piccolo si voltò di scatto e lo fissò per un istante con occhi piccoli, che brillavano di una luce strana, quasi selvaggia.
«Sei solo?» indagò Davide preoccupato. Per tutta risposta, quello gli elargì un sorriso smagliante e poi fuggì via, in direzione della chiesa, la cui luce all’interno era stranamente accesa, come Davide poté notare dall’enorme finestrone trapezoidale sopra il portone d’accesso.
Davide inseguì il bambino, noncurante del freddo che ora gli mordeva le ossa. Avrà avuto cinque, forse sei anni, ma correva come un adulto ben allenato e Davide faticò a stragli dietro.
Arrivato alla chiesa, il bambino spinse con tutte e due le mani il portone e quello si aprì, rivelandone l’interno.
Le pareti, affrescate nei toni del giallo, rosa e azzurro, erano scrostate in diversi punti. Vi erano sei cappelle, speculari all’altare maggiore, e alle spalle dell’altare il coro.
Davide entrò nella chiesa in punta di piedi in una sorta di riverenza religiosa, nonostante decisamente non fosse un uomo di fede. I suoi passi echeggiarono tra le alte mura mentre procedeva con discrezione verso il centro della navata, cercando il piccolo tra un banco e l’altro.
Percorse in lungo e in largo tutta la navata, senza trovare anima viva. Controllò anche nel presbiterio e ovunque avesse potuto nascondersi il piccolo, più volte, senza risultati.
«Al diavolo!» esclamò ad un certo punto, stanco di quella lunga e strana notte. Afferrò il telefono con l’intento di chiamare la polizia e affidare a loro il compito di cercare il piccolo ma poi iniziò ad essere colto dai dubbi.
Esisteva davvero quel bambino? E se la sua fosse stata solo un’allucinazione? Se si fosse trattato solo di un altro dei suoi incubi terribilmente realistici che gli capitava di fare sempre più spesso negli ultimi tempi? Se si fosse trattato solo di stanchezza, o di eccessivo zelo?
Prese un profondo respiro e spense il telefono. Non avrebbe creato problemi alla polizia locale a nemmeno un giorno dal suo arrivo in quella stramba comunità, né avrebbe dato modo alla gente del posto, che non sembrava molto incline all’ospitalità, di trovare qualcosa di interessante su di lui di cui spettegolare.
Si avviò lentamente verso l’uscita, desideroso solo di rimettersi a dormire e di concludere quel poco che rimaneva di quell’assurda notte nel suo letto.
Prima di uscire, tuttavia, fece una foto all’interno della chiesa. Il giorno dopo avrebbe potuto verificare se la sua fosse stata davvero solo un’allucinazione.
Si diresse nuovamente verso casa, mentre la stanchezza cominciava a farsi sentire e il freddo a fargli battere i denti.
Arrivato davanti alla porta si girò un’ultima volta verso la chiesa.
Le luci erano spente, il portone dovutamente chiuso.
Davide emise un’esclamazione di stupore.
“Ma che accidenti succede?” pensò, confuso.

 

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Capitolo 4
*** Il parroco ***


CAPITOLO 4
Il parroco di Mestrieri

Il mattino seguente, Davide si svegliò con un feroce mal di testa, la gola riarsa e una sete indescrivibile, come gli era già capitato altre volte negli ultimi giorni. Si mise a sedere sul letto, bevve un lungo sorso d’acqua e si massaggiò le tempie. Non si poteva certo dire che la prima notte nella nuova casa fosse stata tranquilla. Prima l’incubo con la madre e quel raccapricciante quadro, poi l’episodio del bambino che vagava da solo nel parco, in piena notte e con la nebbia.
O aveva sognato anche quello?
Si ricordò della foto e afferrò il cellulare sul comodino.
«Merda...» alitò nel constatare che la foto l’aveva scattata per davvero, a dimostrazione che forse no, non lo aveva sognato: il bambino esisteva. E se esisteva, lui aveva rinunciato a cercarlo.
Con quel pensiero in testa si precipitò al piano di sotto, aprì la porta d’ingresso e si affacciò sulla via. La nebbia aveva iniziato a diradarsi e un pallido raggio di sole scendeva obliquo sul pozzo, illuminandolo di una luce algida. Le strade continuavano ad essere assurdamente vuote e silenziose, la chiesa aveva le luci spente e il portone serrato.
Sembrava tutto nella normalità, per quanto la definizione di “normalità” sembrasse del tutto fuori luogo messa in relazione con un posto anormale come quello.
Davide si chiese per l’ennesima volta cosa dovesse fare, se fosse il caso o meno di contattare le forze dell’ordine. Alla fine decise, anche stavolta, che non lo avrebbe fatto. A giudicare dalla quiete del posto nessuno sembrava preoccuparsi di un bambino scomparso, di sicuro nessuno sembrava cercarlo, e questo poteva significare una sola cosa: il bambino, ammesso che esistesse, era al sicuro con le persone che lo amavano. Sì, cercò di convincersi Davide, era sicuramente così. Il bambino stava bene e lui aveva mille altre cose di cui occuparsi quel giorno che continuare a rimuginare su quella faccenda.
Non ancora del tutto convinto, prese un profondo respiro e si richiuse la porta alle spalle.

 
«Mi faccia capire bene: se le avessi chiesto di svuotarmi una cantina a Milano sarebbe venuto, ma non a Mestrieri... Giusto?» osservò Davide stringendo il cellulare più del necessario e muovendosi con nervosismo tra i giocattoli della curiosa camera per bambini che si trovava nella mansarda, dove aveva deciso di installare il suo laboratorio.
«Le sto dicendo che farebbe meglio a rivolgersi ad un’impresa di traslochi di un’altra provincia, meglio ancora se di un altro comune» le rispose l’uomo al telefono.
«La sua è la quarta impresa che contatto oggi, e da tutte e quattro ho ricevuto la stessa risposta.»
«Cosa vuole che le dica? La nostra è una piccola impresa, ci occupiamo di traslochi e non di smaltimento...»
«Strano perché nel vostro sito, che in questo momento ho proprio dinanzi agli occhi, dite di occuparvi anche di smaltimento oltre che di...» Davide lasciò la frase in sospeso. Guardò il display del cellulare, basito. Il tizio aveva interrotto la comunicazione all’improvviso, mostrandosi maleducato oltre che poco professionale.
«Maledetto idiota!» imprecò indignato.
In quel preciso istante, il suono del campanello fece sentire per la prima volta la sua voce e Davide, colto di sorpresa, trasalì. Non aspettava visite e gli sembrava strano che qualche vicino, della cui esistenza aveva iniziato a dubitare, avesse deciso di andare a fare la sua conoscenza.
Strano ma, dopotutto, non impossibile.
Scese le scale a rotta di collo ed ebbe modo di stupirsi anche di più quando, dietro la porta, trovò un uomo anziano con indosso un abito talare.
«Salve. Sono padre Umberto, il parroco di Mestrieri» si presentò l’uomo, sorridendo amabilmente.
«S... salve...» balbettò Davide. Si prese del tempo per riprendersi dalla stupore e poi si presentò a sua volta, porgendo la mano al suo ospite: «Davide Ferraresi, mi sono trasferito qui ieri...»
«Oh, so chi è lei» disse il parroco, stringendogli la mano con una insospettabile presa vigorosa. «Walter ci aveva messi al corrente circa la sua intenzione di lasciare in eredità la casa ai suoi pronipoti...»
«Capisco...» disse Davide, anche se in realtà di tutta quella faccenda non aveva ancora capito un bel niente. «Posso offrirle qualcosa da bere, padre? Un caffè? Un thè?» aggiunse dopo un po’ per puro senso di dovere, sperando tuttavia in un rifiuto. Era nel pieno di una piccola emergenza, quello non era un buon momento per ricevere ospiti.
«Un caffè lo prenderei molto volentieri, figliolo» rispose invece il religioso. Davide si sforzò di sorridere mentre gli faceva spazio per farlo entrare.
«Se posso permettermi, mi sorprende che il signor Iotti abbia parlato di me e dei miei fratelli. Non lo abbiamo mai incontrato, fino a qualche mese fa non sapevamo nemmeno della sua esistenza...» disse conducendo il parroco nella cucina, dove lo invitò ad accomodarsi su una delle sedie intorno al tavolo.
Prese da una vetrinetta una tazzina di porcellana e, dopo avervi versato del caffè ancora caldo, la porse al suo inaspettato ospite per prendere poi posto di fronte a lui, sulla cassapanca posta sotto il largo finestrone che si affacciava sulla veranda in giardino.
«Walter conosceva bene vostra madre, so che ogni tanto si scrivevano. Qualche volta lei vi citava nelle sue lettere, è così che è venuto a conoscenza della vostra esistenza» rispose il parroco studiandolo di sottecchi come a voler valutare la sua reazione, mentre sorseggiava il suo caffè.
«Come le sembra il paese? Immagino si sentirà spaesato in una piccola comunità come questa...» chiese a sua volta dopo un po’.
«A dire il vero, un po’ sì. Mestrieri sembra un luogo disabitato.»
«E in parte lo è. Questo paese sta morendo. Fino a qualche anno fa era una cittadina tutto sommato fiorente. Dopo l’ultima alluvione, però, molti hanno deciso di trasferirsi altrove, soprattutto i giovani. Sono rimasti solo gli anziani, che rimangono ancorati alla loro terra e alle loro abitudini nonostante le avversità. Gente diffidente con gli sconosciuti ma, posso garantirglielo, molto generosa e solidale tra di loro. Sono sicuro che si mostreranno più amichevoli anche nei suoi confronti una volta che l’avranno conosciuta meglio.»
«Alluvione?» ripeté Davide, sconcertato.
«Sì. Il Po ha il brutto vizio di esondare. Prima della costruzione degli argini capitava spesso che allagasse il paese.»
Davide non ne era a conoscenza e ora si sentiva uno stupido per non aver fatto ricerche più approfondite sulla zona. Forse era per questo che la casa aveva sul mercato un valore inferiore rispetto a quello effettivo, rifletté.
«E... ora?» indagò preoccupato.
«Finora gli argini reggono bene, non ci sono state più alluvioni da quando sono stati costruiti, circa quindici anni fa.»
«Questa è una buona notizia» trasse un sospiro di sollievo Davide. Un problema in meno al quale pensare, dato che quel posto si stava rivelando una miniera di seccature.
Padre Umberto sorrise con condiscendenza, notando forse il suo disappunto. «Vedo che è solo. I suoi fratelli non sono venuti con lei?»
«No, ho rilevato io la casa, ora è di mia esclusiva proprietà.»
«Capisco» disse il parroco bevendo un altro sorso di caffè. «Di che cosa si occupa, se mi è consentito chiedere?»
«Sono un restauratore di libri» rispose Davide, che tornò a farsi ansioso. Quella domanda lo aveva bruscamente riportato alla seccante questione della quale si stava occupando prima dell’arrivo del parroco. Represse a stento il forte impulso di controllare l’ora per non sembrare scortese e non dare l’impressione al suo ospite che fosse indesiderato, anche se in parte era così.
Aveva delle scadenze di lavoro da rispettare e, per tanto, urgenza di ristabilire al più presto il suo laboratorio. A tal proposito bisognava sgombrare la mansarda per fare spazio alle sue attrezzature, il problema era che non riusciva a trovare un’impresa di trasporti disposta a prendersi l’incarico.
«Restauratore di libri? È una notizia fantastica, qui potrebbe tornarci utile. Sa, tra le alluvioni e l’umidità, sono molti i libri che avrebbero bisogno di una sistemata.»
«Già, se solo riuscissi a riavere le mie attrezzature...» brontolò Davide, e stavolta cedette all’impulso di dare una sbirciata all’orologio. Imprecò mentalmente quando si rese conto che era quasi l’ora di pranzo. La mattina era trascorsa e lui non aveva ancora concluso granché.
Il messaggio, seppur lanciato involontariamente, arrivò al parroco, perché finì di bere il suo caffè, posò la tazzina sul piattino e si alzò in piedi.
«Bene, la lascio alle sue faccende, immagino sia molto occupato col trasloco. Ero venuto solo per darle queste» disse frugandosi nel borsello che teneva a tracolla e tirando fuori un mazzo di chiavi, che gli porse.
Davide guardò il mazzo perplesso.
«Sono della casa. Le aveva Lidia, la donna delle pulizie che aiutava Walter nelle faccende domestiche. Prima di morire, Walter le aveva chiesto di continuare a prendersi cura della casa e del giardino fino al vostro arrivo. E, a tal proposito, Lidia mi ha chiesto di farle sapere che è disposta a continuare a lavorare per lei se pensa che una mano possa servirle. Anzi, ne sarebbe onorata.»
«Beh, un aiuto mi farebbe comodo» ammise Davide, che ora si spiegava il perché avesse trovato la casa pulita e in ordine.
«Bene, glielo riferirò, le farà senz’altro piacere...» disse il parroco avviandosi verso l’uscita. Si fermò davanti alla porta, si voltò di nuovo verso di lui e aggiunse: «Quasi dimenticavo: stasera darò una cena in onore di un caro amico, un uomo piuttosto importante da queste parti. Discende da una delle famiglie più nobili e antiche di Mestrieri ed è tornato da poco da uno dei suoi viaggi d’affari. Ci saranno anche il sindaco e la sua famiglia, e pochi altri intimi. Avrei piacere se si unisse a noi.»
«Stasera?» ripeté Davide per guadagnare tempo e riflettere sopra quella strana richiesta. Non che non si sentisse lusingato dell’invito, ma gli pareva comunque come minimo bizzarro. Perché invitare un estraneo ad una cena che aveva tutto il sapore di una rimpatriata? Probabilmente, rifletté in ultimo, quello era solo un altro dei tanti strambi modi di comportarsi di quella stramba gente.
«Sì. Nella canonica della chiesa di S.Eusebio in Piazza Grande, che è l’altra piazza di Mestrieri. Alle otto. Ci sarà?»
«Molto volentieri» assicurò Davide costringendosi nuovamente a sorridere e infilandosi le mani in tasca per mascherare il disagio. Nel farlo, venne a contatto con la fredda plastica della scocca del cellulare e si ricordò all’improvviso della foto che aveva scattato all’interno della chiesa appena una manciata di ore prima. Quasi stava dimenticandosi di parlarne col parroco, eppure chi meglio di lui sarebbe stato in grado di fare luce in merito a ciò che aveva visto, o credeva di aver visto, quella notte?
«Padre, posso farle una domanda?» disse quindi prima che il parroco aprisse la porta.
«Certamente.»
«Prima ha detto che i giovani del paese se ne sono andati quasi tutti. Qualcuno però immagino sia rimasto. Forse qualcuno con bambini piccoli...»
«Non mi risulta. Le coppie più giovani si sono trasferite da tempo. Sono almeno cinque o sei anni che non si vedono più bambini da queste parti, tanto è vero che il sindaco pensava di far smantellare il parco giochi...»
«Però questa notte c’era un bambino nel parco. Un bambino di non più di sei anni» lo interruppe Davide.
Il parroco schiuse le labbra e rimase un lungo istante attonito. «Un bambino di sei anni?» gli fece eco, chiaramente disorientato.
«Sì. Era da solo, sull’altalena. Quando mi ha visto è fuggito in direzione della chiesa e ci si è nascosto dentro.»
«Nascosto in chiesa? Di notte? Figliolo, di notte la chiesa non rimane mai aperta. Sicuro che non stesse sognando?»
Come risposta, Davide estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare, cercò la foto e gliela mostrò.
«Questa l’ho scattata la scorsa notte. Come le dicevo, le luci della chiesa erano accese e il portone aperto.»
Padre Umberto annaspò un attimo, come colto da un’improvvisa insicurezza.
«Potrebbe essere stata Lidia» farfugliò infine grattandosi il capo.
Davide aggrottò la fronte. «La donna delle pulizie?»
«Sì. È una brava donna, una delle parrocchiane più devote che abbia mai avuto la fortuna di avere. Una volta alla settimana viene a dare una rinfrescata alla chiesa. Di solito lo fa al mattino, prima dell’alba. Si vede che ieri ha preferito farlo di notte.»
«E il bambino?»
Il parroco si strinse nelle spalle. «Lidia è rimasta vedova da poco. Qualche volta la figlia, che si è trasferita in città dopo essersi sposata, le lascia il piccolo a dormire da lei. Sa, è un bambino un po’ problematico. È capace di svegliarsi di notte e piangere per ore, senza alcuna ragione apparente. Lidia potrebbe esserselo portato dietro, forse ha deciso di anticipare le pulizie alla chiesa proprio a causa sua. La chiamerò più tardi e glielo chiederò.»
«Sì, per favore, lo faccia. Mi sentirei più tranquillo.»
«Sono sicuro che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Mestrieri è una piccola comunità, le notizie fanno presto a circolare, soprattutto quelle brutte, e nessuno stamattina parlava di un bambino disperso» cercò di confortarlo il parroco. Poi si congedò porgendogli la mano.
«A stasera, figliolo.»
«A stasera, padre.»
Rimasto solo, Daviderimase un po’ sulla porta d’ingresso a riflettere sulle parole del parroco. Le sue gli erano sembrate solo un mucchio di scemenze, giustificazioni ridicole e davvero poco credibili per nascondere qualcosa, ma che cosa?
Scosse la testa e sospirò pesantemente.
«Qui sono tutti pazzi» concluse infine.

                                                      ****

Padre Umberto entrò nello studio, elegantemente arredato con mobili antichi, della Casa Vecchia, l’unica ala della corte rinascimentale che apparteneva ancora alla famiglia dei Manferrati, il cui primigenio, il marchese Cornelio, aveva contribuito allo sviluppo economico e sociale di Mestrieri e di molti dei paesi limitrofi, almeno sette secoli prima.
Victor Manferrati, il padrone di casa, se ne stava affacciato alla finestra che dava sul giardino. La terra intorno al possedimento, in realtà, si estendeva ben oltre i confini del giardino e includeva parte della golena boscosa.
Alto, col portamento elegante, in un sobrio completo blu antracite che richiamava il colore dei suoi occhi, l’uomo trasse un profondo respiro quando il parroco fece il suo ingresso nella sala.
«Verrà?» gli chiese, continuando a guardare fuori dalla finestra.
«Sì, ha accettato l’invito, anche se non ne sembrava affatto contento. Mi sembra così fragile, Victor... Sei sicuro di quello che fai?»
Victor si decise a girarsi dalla sua parte e lo penetrò con uno sguardo profondo, intenso. «Abbiamo altra scelta?» chiese.
Il parroco cercò il contatto, attraverso la stoffa, del crocifisso che portava al collo. «No...» alitò sconfortato. Poi aggiunse: «Dice di aver visto Ludovico al parco, la notte scorsa.»
«Ne sono al corrente» fu l’asciutta replica.
«Credevo avessi incaricato Sebastiano di sorvegliarlo...»
«Tutti voi avete l’obbligo e la responsabilità di sorvegliarlo in mia assenza, compreso tu!» ringhiò il padrone di casa, i cui occhi si erano fatti ancora più scuri e feroci.
Il parroco, intimidito, retrocedette di mezzo passo.
Victor si passò una mano tra i folti capelli castani, appena screziati di bianco, e sospirò per darsi una calmata. «Perdonami, Umberto. Ludovico diventa sempre più... ingestibile. Io stesso non riesco più a controllarlo, non posso farvene una colpa. Ecco perché dobbiamo intervenire al più presto.»
«Spero solo che tutto questo non ci si ritorca contro...» alitò affranto il sacerdote.
Victor tornò a guardare al di là dei vetri lo spettacolo dell’autunno che donava tinte ruggine e ocra al paesaggio.
La nebbia, che era scesa la sera prima e aveva iniziato a diradarsi alle prime luci dell’alba, aveva ormai definitivamente ceduto il passo ad un sole splendente, quasi abbacinante. Così raro in quel periodo dell’anno.
Victor lo interpretò come un buon segno.
«Me lo auguro anche io» proferì a bassa voce.

 

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Capitolo 5
*** La cena ***


Salve, bella gente. Nuova piccola modifica al capitolo. Nel caso aveste già letto l'introduzione al capitolo dello scorso aggiornamento, ritenetelo nullo. Sono spiacente delle continue e ripetute modifiche, ma è grazie al vostro aiuto e ai vostri suggerimenti che questo racconto può sperare di essere finito, per tanto vi chiedo di essere clementi e di portare pazienza :)


La cena

Mentre percorreva le vie deserte e nebbiose di Mestrieri a passo svelto, Davide diede una nuova occhiata all’orologio, come se con quel semplice gesto avrebbe potuto riportare le lancette indietro.
Si era fatto dannatamente tardi e lui detestava arrivare in ritardo. Non sarebbe successo se non fosse stato per quella stupida bottiglia di whisky da portare a quella stupida cena. Il fatto era che aveva dovuto farsi trenta chilometri per trovare un negozio di liquori, e percorrere trenta chilometri su strade dissestate, strette e sommerse da una fitta coltre di nebbia equivaleva a farne almeno il doppio.
Davide sospirò. Ad essere onesti, quello non era l’unico motivo per cui aveva fatto tardi. Aveva trascorso buona parte della giornata a cercare una ditta di traslochi disposta a sgombrare la mansarda, senza alcun risultato. All’ennesimo rifiuto aveva capito che, se voleva risolvere il problema, doveva sbrigarsela da solo. Ecco perché, nel primo pomeriggio, aveva iniziato a ripulire la soffitta riempiendo di giocattoli una quantità esagerata di scatoloni, che ora se ne stavano ammassati, uno sull’altro, in un angolo della stanza.
Quando aveva finito il sole era già tramontato, e solo in quel momento Davide si era reso conto che non sarebbe stato cortese presentarsi all’invito del parroco a mani vuote. Si era quindi precipitato al negozio di liquori più vicino, che distava appunto trenta chilometri, aveva comprato una bottiglia di whisky, era tornato a casa, si era fatto una doccia veloce, e nel frattempo le otto erano allegramente arrivate e altrettanto allegramente passate.
Quando, trafelato e sudato, arrivò finalmente alla canonica, le campane suonarono nove rintocchi.
 
La canonica si trovava di fianco alla chiesa nella Piazza Grande, all’interno di alte e spesse mura che ricordavano vagamente quelle di una caserma militare e suggerivano ai malintenzionati di tenersi alla larga. A dispetto delle mura, tuttavia, il cancello era aperto e Davide si sentì autorizzato ad immettersi nel giardino. Mentre lo attraversava, i suoi passi scricchiolavano sul brecciolino del viale, spezzando un silenzio altrimenti assoluto. Le luci dei lampioncini dislocati in tutta l’area fluttuavano nella nebbia, come piccoli spettri irrequieti che vagavano nel nulla in cerca di quiete. La nebbia era così fitta che era impossibile distinguere altro.
La canonica iniziò a essere visibile solo a pochi metri di distanza. Dalle finestre del piano terra filtrava una calda luce, a indicare che gli ospiti erano già arrivati. Davide salì i tre gradini che conducevano al portone d’entrata e suonò il campanello. Pochi istanti dopo, gli aprì una donna anziana, bassa e rotondetta.
«Signor Davide, che piacere averla qui» lo accolse quella con un largo sorriso sulle labbra, come se lo conoscesse già. «Sono Lidia, padre Umberto le ha parlato di me questa mattina. Mi prendevo cura della casa del suo povero prozio...» aggiunse subito dopo notando la sua espressione stupita.
Prima che potesse risponderle, come se si fosse sentito chiamare in causa, il parroco di Mestrieri uscì da una delle stanze che si affacciavano sull’atrio, con le braccia allargate e un sorriso cordiale sulle labbra.
«Davide, ben arrivato. Vedo che ha già fatto la conoscenza di Lidia» esordì salutandolo.
«Sì, ci stavamo giusto presentando» replicò Davide grattandosi dietro l’orecchio.
Lidia lo guardò ora con una espressione mortificata. «Mi dispiace per lo spavento che mio nipote le ha fatto prendere, la scorsa notte. Gli avevo detto di rimanersene zitto e buono su una delle panche della navata mentre finivo di fare le pulizie, e invece quel piccolo monello ha deciso di farsi un giro sull’altalena da solo. Mi vergogno a dirlo ma me ne sono accorta solo quando è tornato correndo dentro la chiesa. Gli abbiamo insegnato che non deve mai parlare con gli sconosciuti, per questo si è spaventato quando l’ha vista. A dire il vero lì per lì non gli avevo creduto, mio nipote ha una fervida immaginazione, tende spesso a confondere la realtà con la fantasia. Ovviamente si è preso una bella sgridata per avermi disubbidito e l’ho riportato subito a casa, che è proprio di fronte all’entrata secondaria della chiesa. Sono tornata a spegnere le luci e a chiudere il portone dopo essermi assicurata che stesse dormendo. Ho saputo solo stamattina che il piccolo diceva il vero riguardo a lei, e ora mi dispiace che si sia preso questo spaventato» si scusò la donna tutto d’un fiato, arricchendo la spiegazione di numerosi dettagli chiarificatori.
Ancora una volta, Davide non poté fare a meno di pensare che c’era qualcosa di strano in quella storia, qualcosa che non tornava e non lo convinceva. Decise comunque di non indagare ulteriormente. Invece disse, semplicemente:  «L’importante è che il piccolo stia bene.»
L’anziana donna annuì sorridendo. «Certamente, sta benissimo. Si è solo spaventato, e ben gli sta. La prossima volta ci penserà due volte prima di disubbidirmi.»
Il parroco si mosse, impaziente. «Venga Davide, lasci pure il cappotto a Lidia e... oh, quello è whisky? Ma che bel pensiero. Lo serviremo agli ospiti dopo cena, non è così, Lidia? Ecco, lasci tutto a Lidia e venga con me: la presento al resto degli ospiti» disse.
Davide lo seguì attraverso l’ampio atrio. I loro passi echeggiavano tra le alte pareti e si confondevano col brusio proveniente dalla sala da pranzo. A pochi passi dalla porta, però, fu colto da un terribile capogiro e fu costretto ad arrestarsi. Non si trattava di una delle sue solite vertigini causate dell’anemia di cui soffriva ciclicamente,  ma di una sensazione tutta nuova, particolare e di difficile comprensione. Il cuore batteva ad un ritmo normale e, tuttavia, in maniera insolita, potente. Poteva percepirne i battiti nella gola, nei polsi e in tutte le arterie principali del suo corpo. La cosa assurda era che gli sembrava di percepire due battiti distinti. Era come se, insieme al suo, riuscisse a sentire i battiti del cuore di qualcun altro. O meglio, era come se qualcuno avesse regolato il proprio ritmo cardiaco col suo, per far sì che entrambi battessero all’unisono.
Scosse la testa e si costrinse a togliersi dalla mente quell’assurdo pensiero, per sostituirlo con un altro decisamente meno rassicurante: e se era questo ciò che si provava quando si aveva un infarto? Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, nel tentativo di riuscire a calmare la brutalità con cui il suo cuore continuava a battergli nel petto.
«Si sente bene?» gli chiese padre Umberto ad un certo punto, preoccupato.
«Benissimo» mentì Davide, mentre la strana sensazione iniziava gradualmente ad affievolirsi. Padre Umberto lo fissò in maniera dubbiosa per un secondo o due, poi gli elargì un nuovo sorriso.
«Bene» disse. «Per un attimo ho avuto paura stesse per svenire. Ma venga. Come le dicevo, gli altri ospiti sono già arrivati e non vedo l’ora di presentarglieli» proseguì, entrando nella sala da pranzo. Davide lo seguì riluttante. Si chiese, per l’ennesima volta, cosa ci facesse lì.
Seduti intorno ad un lungo tavolo rettangolare, elegantemente apparecchiato, c’erano almeno tre famiglie. Tutti si alzarono in piedi per fare la sua conoscenza, e tutti fissandolo con curiosità. In mezzo a quegli sguardi, Davide ne percepiva uno in particolare: quello dell’uomo al quale, contro tutte le regole del bon ton, era stato riservato il posto del padrone di casa a capotavola.
Davide non aveva ancora sollevato gli occhi su di lui eppure sentiva quelli dell’uomo scrutarlo attentamente, sondargli l’anima. Era come per la faccenda del cuore: lo sentiva dentro di sé. Era una sensazione singolare, che non aveva mai provato prima e che trovava terribilmente fastidiosa e imbarazzante.
Intanto, padre Umberto aveva iniziato a presentargli gli ospiti: il sindaco Dante Ruspaggiari e la moglie Franca, il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Borghesi e la moglie Lisa, il medico del paese Giuliano Baraldi e infine lui, l’uomo più importante di Mestrieri, il diretto discendente del fondatore della stravagante cittadina del quale Davide era sempre meno convinto di voler fare parte: Victor Manferrati. Quando gli venne presentato, Davide poté finalmente soffermarsi con maggiore attenzione sui particolari dell’uomo. Era attraente, sui quaranta, dai lineamenti aristocratici e lo sguardo affilato. I suoi occhi avevano un colore indefinibile, singolare: grigio tendente al viola, con screziature dorate.
«Perdonate il ritardo» si giustificò Davide mortificato guardando le facce sconosciute intorno a lui, riflettendo che la maggior parte degli ospiti sembrava essere più giovane di quanto si fosse aspettato.
«Ci perdoni lei per aver preso posto prima del suo arrivo. Non eravamo del tutto sicuri che sarebbe venuto» parlò per tutti l’ospite d’onore.
«Se devo essere onesto, l’idea mi ha sfiorato» ammise d’impulso Davide. Poi, temendo di aver fatto una gaffe, si precipitò ad aggiungere: «Insomma, questa ha tutta l’aria di essere una cena tra amici intimi, qui mi sento fuori posto...»
 Victor sorrise. «Lei ha ragione. La maggior parte di noi è nato e cresciuto in questo paese. Ci conosciamo da tanto tempo, siamo amici prima che concittadini. Ma non deve sentirsi fuori posto. Averla tra noi stasera è un vero piacere. Anche se probabilmente non se ne rende conto, lei è molto importante, per noi» disse. Mentre finiva di pronunciare quelle parole, gli indicò la sedia alla sua destra e lo invitò a prendere posto, e questo rinforzò in Davide l’impressione che l’uomo non si comportasse come l’ospite d’onore ma come il padrone di casa. Il parroco, d’altro canto, sembrava sottostare di buon grado, e con una buona dose di beata remissività, all’autorità del suo “usurpatore”.
Tuttavia, Davide mise da parte le sue perplessità e sedette al posto assegnatogli.
«Importante?» ripeté, chiedendosi cosa avesse fatto per meritarsi un simile aggettivo.
Victor stette un lungo istante a fissarlo in quel suo strano modo: magnetico e penetrante. «Sì, importante» reiterò. «Vede, in genere i giovani fuggono da questo paese. Con lei sta accadendo l’esatto contrario, e questa è una cosa che dà speranza. Altri potrebbero seguire il suo esempio e stabilirsi in questa comunità. Mestrieri sta morendo, ha un bisogno sconfinato di giovani come lei» spiegò poi sedendosi a sua volta, seguito dagli altri ospiti.
«Beh, perdonatemi la schiettezza ma forse di questo dovrebbe occuparsi il sindaco» replicò Davide. «Capire il malessere di una città e porvi rimedio dovrebbe essere una sua responsabilità» aggiunse poi rivolgendosi direttamente al sindaco, seduto di fronte a lui. «Dubito che, da sola, la mia presenza possa risolvere un problema che, a quanto sembra, persiste da anni.»
Il sindaco sorrise in maniera condiscendente. «Lei ha perfettamente ragione, ragazzo mio. Ma, come temo avrà modo di verificare, Mestrieri non è una comune cittadina con comuni problemi» ribatté in maniera quasi risentita l’uomo, e Davide si dispiacque di essere stato troppo diretto. Che cosa gli era saltato in mente? Inimicarsi il primo cittadino del paese tre secondi dopo averlo conosciuto, accusandolo di negligenza? Ma poi, per l’amor del cielo, che accidenti gli prendeva? Era già la seconda volta che apriva bocca e gli dava fiato senza riflettere.
«Credo di doverle fare le mie scuse, sindaco, sono stato incredibilmente inopportuno e maleducato» si scusò. «Ha detto bene, non conosco affatto i problemi di questo comune, anche se è piuttosto evidente che ce ne siano. Mestrieri è un paese dalla doppia personalità. Conserva tutto il fascino medievale ma sembra essere abitato unicamente da spettri. Quale che sia la ragione del cancro che lo sta uccidendo, riportare in vita un morente non deve essere impresa facile, ed io di certo sono l’ultima persona che può dare pareri in merito...» concluse, facendo implicitamente riferimento al tumore che cresceva nel suo fegato e che, a dispetto di tutti i discorsi pieni di speranza che i medici continuavano a propinargli, era destinato ad estendersi fino ad ucciderlo, come era già successo a sua madre.
«Deve credermi, ragazzo mio, non sono state le sue parole a offendermi ma la consapevolezza di essere impotente di fronte al male di Mestrieri.»
A quelle parole, una cappa di gelo scese su tutta la stanza. Per qualche ragione, tutti i presenti si voltarono verso Victor, come se temessero la sua reazione. La replica dell’ospite d’onore non tardò ad arrivare.
«Il punto è che abbiamo bisogno di nuove risorse e la sua presenza qui, anche se un domani dovesse rivelarsi di nessun aiuto, oggi è almeno di conforto» disse con fredda compostezza, e in quel modo mise elegantemente fine a un discorso che rischiava di diventare spinoso e di incrinare così l’atmosfera di cordialità presente fino a quel momento.
«Oh, ecco la nostra cena!» esclamò sollevato il parroco quando Lidia, aiutata da un’altra donna, entrò nella sala da pranzo con le prime pietanze. Da quel momento in poi, e per fortuna, i toni si fecero più rilassati e i discorsi verterono su argomenti leggeri, che con Mestrieri e le sue problematiche non avevano nulla a che vedere. Tra una portata e l’altra si conversò del più e del meno: di politica, di cultura, perfino di caccia.
«Lei è mai andato a caccia, signor Ferraresi?» La domanda, postagli dal maresciallo Borghesi, lo colse alla sprovvista e impreparato. Quello della caccia era, in tempi odierni, un argomento spinoso e controverso, e lui non sapeva bene cosa rispondere, o cosa fosse conveniente rispondere. La verità, presumeva. Era mai andato a caccia?
Diamine, certo che no, e non solo per via della sua malattia. Non andava matto per la selvaggina,  ma non aveva niente in contrario con la caccia. Anzi, riteneva che, se dovutamente esercitata, fosse se non altro un modo per contenere e gestire alcune specie di animali. Allo stesso tempo, però, nutriva una vera e propria avversione per le armi e, in generale, per tutto ciò che conteneva polvere da sparo e faceva rumore. Ne era terrorizzato fin da piccolo, tanto che, durante i festeggiamenti per il Capodanno, si chiudeva in camera e teneva la testa sotto il cuscino, fino a quando non veniva fatto esplodere l’ultimo “botto” e tornava la quiete. La cosa, comunque, era troppo lunga e personale da spiegare. Decise infine di semplificarsi la vita e dare un’unica versione della verità.  
«Purtroppo non mi è concesso partecipare a nessuna attività che si svolga all’aperto, se in pieno giorno» asserì quindi.
«Buon Dio, e per quale ragione?» chiese padre Umberto.
«Sono affetto da porfiria eritropoietica. In sostanza, sono allergico alla luce del sole...» Davide tacque, e si preparò ad essere sottoposto, per la milionesima volta in vita sua, al solito rito delle frasi di circostanza. Invece, stranamente, nessuno replicò nulla. Perfino le donne, che di norma per certi argomenti mostrano una sensibilità maggiore di quella degli uomini, rimasero in silenzio e continuarono a fissarlo con placida indifferenza. Era come se la cosa non li riguardasse più di tanto. Oppure, più verosimilmente, che ne fossero già al corrente.
«È nel posto giusto, ragazzo. Questo non è forse il tuo campo, Victor?» disse  dopo un po’ il sindaco, in tono velatamente sarcastico. Victor rivolse all’uomo un sorriso amabile ma, per certi versi, forzato, e a Davide fu palese, in quel preciso momento, che tra i due non scorresse buon sangue.
«Lei è un medico?» chiese Davide all’ospite d’onore, incuriosito dall’affermazione del sindaco ma anche per stemperare la tensione quasi palpabile che si era venuta a creare tra i due.
«Non proprio» rispose quello, continuando a fissare il sindaco. Infine si voltò verso di lui e aggiunse: «Finanzio una piccola società che opera nel settore delle malattie rare in tutto il mondo.»
«Capisco...» disse Davide, che si rese conto solo un secondo più tardi che quell’unica banale parola di circostanza avrebbe potuto essere facilmente fraintesa. Ancora una volta, si chiese se non avrebbe fatto meglio a starsene zitto.
Il suo timore si rivelò fondato quando padre Umberto, che sedeva alla sua destra, si agitò sopra la sedia. «Victor non lo fa a scopo di lucro ma per bontà cristiana, per aiutare quelle povere anime disgraziate delle quali le grandi multinazionali si disinteressano totalmente, dal momento che non trarrebbero alcun profitto con la ricerca e la produzione di farmaci destinati a poche centinaia di migliaia di persone...» spiegò zelantemente.
«Facile, quando uno ha le risorse e tutto il tempo del mondo» ribatté Victor, che aveva assunto una posa rigida e sembrava più infastidito che lusingato dall’intervento del parroco. «Alla fine è solo un lavoro» tagliò corto poi.
«Un lavoro decisamente nobile» espresse la sua opinione Davide, che conosceva, per esperienza diretta, quanto fosse difficile per la ricerca sulle malattie rare riuscire a trovare finanziatori che ne sostenessero le spese.
«Non è il mio campo, ma se non sbaglio è stata trovata una cura per la protoporfiria, il farmaco afamelatonide, che sembra essere molto efficace» si sentì a quel punto in dovere di dare la sua opinione professionale Baraldi, il medico.
«Il farmaco è ancora sperimentale e comunque è stato ritirato qualche mese fa per essere sottoposto a ulteriori indagini» intervenne Victor anticipando la risposta di Davide, dimostrando di conoscere molto bene l’argomento. «Credo che il nostro ospite sappia tutto quello che c’è da sapere al riguardo, Giuliano. E credo anche che preferirebbe parlare d’altro, in una serata che dovrebbe essere dedicata al solo svago. O sbaglio?»
«No, non sbaglia» confermò riconoscente Davide, che solo un attimo prima aveva formulato quell’esatto pensiero.
«A proposito di lavori interessanti, padre Umberto ci stava dicendo, prima del suo arrivo, che lei è un restauratore di libri» prese la parola il maresciallo Borghesi.
«Sì, è così...»
«Oh, che bellezza. Ci parli del suo lavoro, Davide» lo pregò Lisa, la moglie del comandante dei carabinieri.
«In realtà non c’è molto da dire. È un lavoro di pazienza, più cha altro. Di pazienza e di studio.»
«Di studio?» chiese incuriosita l’altra donna presente, Franca.
«Beh, sì. È la prima cosa da fare quando si decide di restaurare un libro: determinare l’entità del danno, certo, ma anche analizzare il materiale, capire quale tipo di carta e inchiostro sono stati usati, così da poter intervenire in modo corretto. Non si tratta solo di possedere una buona manualità, bisogna avere anche la capacità di coniugare nozioni di storia dell’arte e di scienze, nello specifico di chimica e fisica...» Davide si interruppe di colpo, chiedendosi se non si stesse dilungando troppo su un argomento che, lo sapeva perfettamente, non era poi così interessante.
«Ed io che credevo bastassero un paio di forbici e un po’ di colla...» disse Lisa, suscitando l’ilarità generale.
Anche Davide rise. «Mi creda, è un’opinione piuttosto comune.»
«Cosa l’ha spinta a fare questo mestiere?» chiese ancora il comandante delle forze dei carabinieri.
Davide non ebbe bisogno di starci a pensare. «La necessità di unire l’utile al dilettevole» rispose di getto. Amava i libri fin da quando ne aveva memoria. Tutti i libri, non importava il contenuto. Li amava e li rispettava, perché si rendeva conto che quelle opere erano costate impegno e sacrificio ai loro autori. Lo sapeva perché suo padre era uno scrittore. O, per lo meno, lo era stato in tempi migliori. Rispettava tutti i libri, quindi, e se ne prendeva cura, tenendo in ottimo stato quelli in suo possesso e riparando quelli che, per forza di cose, rischiavano di andare perduti definitivamente in quanto rari.
Mentre finiva di pensare a tutte quelle cose, per qualche ragione, spostò lo sguardo su Victor e lo trovò a fissarlo a sua volta in maniera attenta, concentrata. Era come se stesse cercando di entrargli in profondità, di sondare i suoi pensieri. Cercò di distogliere lo sguardo, ma non ne trovò la forza. E poi, improvvisamente, la vista gli si appannò. Davide cercò di mantenersi calmo di fronte a quel suo nuovo, inspiegabile malessere. Sbatté le palpebre un paio di volte nel tentativo di riuscire a mettere nuovamente a fuoco le cose intorno a lui, senza ottenere risultati. Infine chiuse gli occhi e se li massaggiò per qualche secondo, e stavolta funzionò. Quando li riaprì, infatti, ci vedeva di nuovo bene. A quel punto, con suo grande sollievo, Victor aveva smesso di interessarsi a lui e ora parlava amabilmente con Franca, la moglie del sindaco.
La serata proseguì senza ulteriori scossoni, e giunse al termine quando era già piuttosto tardi. Uno ad uno, gli ospiti lasciarono la canonica. Davide si accinse a farlo solo quando anche Victor si alzò in piedi per accommiatarsi. Inaspettatamente, mentre si infilavano il cappotto nell’atrio, Victor gli chiese: «È stanco?»
«No, affatto» rispose Davide, sorprendendo perfino se stesso.
«Se la sente di accompagnarmi? Vorrei farle vedere una cosa...»
«Cosa?» chiese Davide, cauto.
«Oh, le piacerà, ne sono sicuro. Ma se non se la sente non importa...»
«No, va bene: l’accompagno volentieri» si affrettò a dire Davide, e non solo per non mostrarsi scortese. La verità era che quell’uomo lo affascinava, e voleva comprenderne il motivo.

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