The Highest Form of Appreciation

di Swan_Time_Traveller
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Christmas at the White House ***
Capitolo 4: *** Due ***
Capitolo 5: *** Dreams of a father ***
Capitolo 6: *** Tre ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 
Il tempo passa inesorabile: spesso è difficile accorgersene, perché troppo occupati a lavorare, ad occuparsi della propria casa o a studiare. Il calendario diventa un oggetto accessorio, consultato solo per timore di aver dimenticato un appuntamento o una faccenda importante. Ma comunque il tempo scorre, e la gente dorme.
Non avevo mai prestato tanta attenzione alle ore che corrono, ai giorni che volano via, ai minuti che costringono l’orologio a ticchettare: fino a quel momento però, in cui la convinzione di non aver avuto sufficiente tempo sembrava sovrastare lo scorrere stesso di questo. I miei passi, veloci e meccanici, sembravano dare una concretezza ad una giostra veloce, troppo veloce, sulla quale ero salita quasi per caso, ma con estrema convinzione. Il pavimento di quel corridoio, così ben curato e rivestito da una moquette panna, appariva indifferente ai miei passi, alla mia fretta: arrivai alla porta in fondo, semichiusa, all’interno della quale poteva intravedersi una luce fioca, artificiale. La spinsi timidamente, ed entrai.

Lì, dove chiunque al posto mio avrebbe osservato l’ambiente con l’emozione di un bambino curioso, io restavo impietrita, col cuore che invece battendo così forte, interrompeva quel silenzio che altrimenti mi avrebbe avvolta. Dalle tre finestre lunghe a semicerchio di fronte entrava una timida illuminazione lunare, che contrastava nettamente con la tonalità calda della lampada sulla scrivania, accesa. Rivolto con lo sguardo all’esterno c’era poi lui, in silenzio: la tensione che faceva trasparire quasi sembrava obbligarlo a stare eretto, non permettendo alla sua schiena di incurvarsi, come invece era solita fare. Il suo respiro era però regolare, certamente più del mio: provai a trattenerlo, perché quel silenzio rendeva cuore e polmoni estremamente chiassosi. Mi fermai di fronte alla scrivania, mentre lui continuava a rimanere nella stessa posizione, senza cedere ad alcun tipo di movimento: continuavo a restare zitta, perché improvvisamente nessuna parola appariva adatta a interrompere quel precario equilibrio.


“Non dovresti essere qui.” Fu lui il primo a parlare, scandendo perfettamente ogni sillaba, quasi per assicurarsi che io comprendessi al meglio la mia inadeguatezza, la mia scelta sbagliata: arrivata a quel punto le mie convinzioni avevano iniziato a vacillare. I dubbi che stavano avvolgendo la mia mente, annebbiandola, insinuavano solo una cosa: che io non avessi fatto abbastanza, e che ormai era realmente troppo tardi per poter ritrarre le carte già in tavola. Dall’altra parte però, contrariamente a quanto mi era appena stato detto, ero assolutamente convinta di essere nel posto giusto, in un momento non troppo perfetto: perché ormai il tempo era agli sgoccioli, e nessuno a parte me poteva comprenderlo. Dopo pochi secondi di silenzio, si voltò e sussultai: la luce lunare, combinata a quella calda della lampada, investivano il suo volto di un riflesso disumano, quasi profetico. Gli occhi azzurri apparivano stanchi, solcati dalle occhiaie che avevano assunto un colore grigiastro, pesante: come sempre però si concentravano su di me, sfruttando le ultime energie di quella giornata che era corsa inesorabile verso la sua fine per tutto il tempo, e che improvvisamente quello sguardo aveva temporaneamente bloccato.
La scrivania tra me e lui sembrava essere un muro che mi impediva di fare un qualsiasi altro passo verso di lui: fino a quel momento non avevo incontrato barriere sufficientemente alte da bloccarmi, ma quella sera un blocco di legno era diventato un ostacolo troppo difficile da abbattere, perciò restai ferma a guardarlo. Anche le parole sembravano ferme e congelate in gola, perché pur pensando di sceglierne alcune, nessuna si concretizzava in un suono: continuavo a deglutire nella speranza di ricacciare in profondità quel senso di malinconia e magone che stavano rendendo tutto ancor più difficile.

“Voglio che tu sappia che questo non cambia nulla. Non posso venire meno al mio compito, ai miei doveri: il resto aspetterà.” Anche la sua voce, seppur ferma, appariva velata da un profondo senso di smarrimento. Fino a quel momento ero stata solita analizzare ogni parola, in cerca di eventuali significati che apparentemente potevano sfuggire; senza dubbio in quel momento, il resto ero io. E no, non sarebbe stato possibile per me aspettare. Ma rispondergli in questo modo appariva solo egoistico, impossibile altrettanto dare una spiegazione che fosse specchio della verità. Ero in trappola.

“Lo so. Ma se tu rispetti i tuoi obblighi e doveri, porterai me a venir meno ai miei. E dopo per me non ci sarà altro da aspettare.” Fu repentina la mia risposta, non pensata, uscita dirompente come un fiume che abbatte gli argini in piena alluvione: ma era quello che pensavo, e giunti a quell’istante non c’era più alcun calcolo che potessi fare, prima di dare voce al mio pensiero.
“Io non posso stare qui ad aspettare.” Corressi quanto detto pochi secondi prima, ad alta voce, sebbene in realtà volessi parlare con me stessa: spostai il mio sguardo direttamente su di lui, attenta a comprendere che reazione avevo scaturito. Sul suo viso apparve una smorfia di preoccupazione, che gli fece curvare le labbra all’ingiù: i suoi occhi però avevano continuato a guardare me, imperterriti, in attesa forse di scrutare qualcosa che fino a quel momento non erano stati in grado di trovare. Ma appunto il tempo era scaduto.
Non parlò comunque, ed io non riuscii ad abbattere quel muro che si era creato in quell’ambiente: non era la scrivania il mio ostacolo, bensì gli eventi, quelli passati e quelli che di lì a poco si sarebbero srotolati davanti a tutti. L’unico riflesso spontaneo a cui fui capace di dare spazio, mi permise di avvicinare le mie mani alle sue, fisse sulla scrivania: riuscii a sfiorarle, ma non a stringerle. Perché in quel momento non mi stava chiedendo di trattenerlo, ma di lasciarlo andare: eppure la questione era molto più complessa, più articolata di così. E non avrei avuto modo di spiegarlo.

Ritirai immediatamente le mani, abbassando lo sguardo per non incrociare il suo: così mi voltai e velocemente, come si fa al binario giusto davanti al treno che fischia e parte, mi allontanai, andando nella direzione opposta.
Perché quello era palesemente il treno sul quale non sarei mai potuta salire. E la sua figura illuminata dalla luna fu l’ultima immagine che la mia mente continuò a mostrarmi per tutta la notte, e per quelle a venire.

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Capitolo 2
*** Uno ***


UNO
 
“Se resto qui ancora un po’ continuerò a non combinare nulla.” Bisbigliai rileggendo forse per la tredicesima volta le prime righe del manuale che avrebbe segnato, almeno teoricamente, l’ultimo esame della mia carriera universitaria. La luce fioca della lampada posizionata proprio sopra la scrivania di legno poi non aiutava granché: erano complici le poche ore di sonno per far cadere le mie palpebre in uno stato di apparente meditazione. Poco dopo sarebbe subentrato il crollo del busto, e la mia testa avrebbe senz’altro battuto sul mobile. La figuraccia era dietro l’angolo. Mi alzai facendo sfregare i pioli della sedia sul pavimento, per cui qualche studente si girò, più per noia forse che per il rumore.
“Non riesci nemmeno a finire il capitolo? Mi costringi a mollare quindi.” Replicò a bassa voce Elena, che aveva deciso per qualche assurda ragione di aggregarsi a me, in quella mattinata gelida di metà dicembre, nel tentativo maldestro di avanzare in modo soddisfacente verso la preparazione dell’esame di storia contemporanea “due”.
A molti non era chiara la precisazione numerica, dal momento che quel settore lo avevamo approfondito già al primo anno del corso specialistico di Scienze storiche: io di domande me ne ero poste poche, dal momento che l’area di studi era quella su cui mi sarei concentrata, progetti accademici permettendo, anche nei successivi anni.
Elena si alzò e rapidamente infilò libro, astuccio e laptop in borsa: sebbene il suo tono fosse stato forzatamente impostato per apparire seccata dalla mia resa, le sue azioni tradivano un sollievo quasi totalizzante.
Era chiaro che anche la mia compagna di corso aveva aspettato pazientemente un mio segnale per abbandonare la postazione di studio, seppur con motivi differenti dai miei.


Una volta fuori dalla biblioteca, prima di salutarla le dissi: “Comunque non volevo costringerti ad uscire, potevi tranquillamente restare.” Elena fece spallucce e sfoderando un sorriso liberatorio, replicò: “Fa niente, ti confesso che non ne avevo proprio voglia oggi. In realtà non mi sembra mai un buon giorno per studiare quella robaccia pesante.”

Quella robaccia pesante.

Le ultime parole avevano rimbombato violentemente nel mio cervello, stimolando sul mio viso una smorfia di disapprovazione che non riuscii a mascherare: è un mio problema, mia mamma me lo dice da quando ho la facoltà di comprensione. La mia faccia non mente praticamente mai, e per questo motivo sicuramente Elena quella mattina sarebbe rimasta offesa se avesse notato la mia personalissima reazione alle sue parole: fortunatamente per me però la mia compagna di corso era troppo distratta dalle luminarie natalizie e da quel via vai di gente frenetica votata alla spasmodica ricerca dei regali perfetti, per cui non fece granché caso alla mia espressione di disappunto.
“Comunque a questo punto tanto vale fare un giro nei negozietti del corso, quelli sotto al portico!” Esclamò lei in preda ad un entusiasmo per nulla contagioso, iniziando ad indicare alcune vetrine parallele a noi, che tutto mi ispiravano fuorché voglia di shopping estremo. “Poi magari ci fermiamo a mangiare in quel ristorantino che ha inaugurato poche settimane fa. Fanno cucina marocchina, che in realtà non ho mai considerato un’opzione, sinceramente mi fa anche un po’ ribrezzo pensare all’odore di quella roba che usano per insaporire i piatti, ma cosa posso dirti a mia discolpa? Che ci è andata quella tizia che fa le storie a tema, ti ricordi no? Ha un sacco di collaborazioni interessanti, e proprio ieri sera recensiva il locale giudicandolo davvero figo. Mi sembra un’ottima idea provare, che dici?”
Non sono mai stata abituata alla maleducazione: non la tollero e per coerenza, cerco sempre di non risultare sgradevole (sebbene a volte appunto le mie espressioni tradiscano gli intenti). Per quel motivo, pur avendo ascoltato un mucchio di luoghi comuni misti a chiacchiere “social” già ascoltate più o meno ovunque e costantemente, cercai di non replicare immediatamente: non consideravo Elena un’amica, dal momento che avevo iniziato a farci due chiacchiere in facoltà e a pranzarci assieme pochi mesi prima, dopo un esame difficile durante il quale c’era palesemente bisogno di trovare qualche sguardo alleato. Era una persona molto lontana da me e con abitudini diverse dalle mie: aveva qualche anno in più di me e si era trasferita in città alla ricerca di una facoltà universitaria che potesse fare al caso suo. Suo padre, medico chirurgo affermato e docente universitario famosissimo, aveva chiaramente tentato di avviare sua figlia verso una brillante carriera medica, che tuttavia era naufragata dopo il primo esame: nonostante ciò, disponendo di una somma mensile da far invidia alla famiglia Onassis nei brillanti anni Sessanta, la famiglia le aveva permesso di vivere lontana da casa e scegliere un percorso di studi a lei congeniale. Mi aveva confessato, proprio durante l’esame in cui avevo iniziato a parlarle, di non impazzire per la storia, ma di aver scelto quel percorso nella speranza di avere sempre qualcosa da dire: forse, già da quell’ammissione, dovevo capire che non c’era molto da spartire con Elena, men che meno una solida amicizia.

“Scusami ma oggi ho davvero bisogno di procedere con lo studio. Mi sono iscritta al prossimo appello e ci tengo a fare un buon lavoro, considerato che il professore …” Non riuscii a terminare la frase, perché Elena, alzando gli occhi al cielo, mi rimbeccò: “Sì, lo so, è quello con cui vuoi fare la tesi di Kennedy. Lo dici da una vita, pensa se il professore dovesse essere già pieno per la tua sessione di laurea! Sarebbe il colmo.” Le scappò una fugace risatina, che le mie orecchie automaticamente ignorarono: non era per me sorprendente vedere in Elena certe reazioni al limite dell’educazione e complice il rapporto superficiale che avevamo, riuscii anche in quel contesto a far finta di nulla. “Che poi scusa, sei stata tu a voler uscire dalla biblioteca! Non mi sembravi molto focalizzata sullo studio. Comunque va bene figurati, mi farò un giretto di shopping natalizio e andrò a provare il marocchino un’altra volta. Così almeno hai tempo per pensarci!” Sospirai alla sua ennesima constatazione, ma non riuscii a replicare perché agitò la sua mano davanti a me salutandomi, e partì più veloce della luce verso il negozio che aveva mirato poco prima.

Nel tragitto verso casa, avvolta da una nebbia frizzantina che cadeva a gocce sottili e microscopiche sulle lunghezze dei miei capelli, iniziai a rimuginare su quanto detto da Elena, specialmente sulla risposta che le avrei dato, se non fosse fuggita in quel groviglio luminoso di Natale nel giro di un batter d’occhio: certamente ero stata io la prima ad abbandonare la biblioteca, consapevole di non esser riuscita a fare un minimo progresso da quando ero entrata poche ore prima. Ciò però non significava che io non avessi voglia di studiare, anzi: incredibilmente la mia carriera universitaria mi aveva permesso di scoprire parti di me che avevo sempre ignorato, tra cui la mia spasmodica fissa per la storia del Novecento americano e per il compianto presidente Kennedy, e il fatto che le biblioteche avevano su di me un effetto alienante. Aprivo i miei libri, mi sistemavo sulla sedia e iniziavo a guardare ovunque, tranne le righe dei manuali: questo perché le ricchezze conservate in quegli scaffali enormi mi affascinavano e distraevano costantemente, causando in me il desiderio incontrollabile di salire la scaletta del bibliotecario per iniziare a sbirciare tra le pagine dei più polverosi libri collezionati lassù.

A quel punto dunque studiare a casa risultava sempre la soluzione migliore per me, e anche quel giorno non fu diverso, sebbene Elena non avesse compreso a pieno le mie difficoltà: probabilmente mi avrebbe ignorata per il resto del mese, facendo trascorrere tutto il periodo natalizio in silenzio, perché convinta che in realtà volessi stare per conto mio anziché con lei. Non era assolutamente vero, ma non m’interessava granché farglielo sapere: per tale motivo il resto della mia giornata si prospettava davvero all’insegna dello studio matto e disperatissimo, per citare Leopardi.
Mi resi ben presto conto che l’esame di storia contemporanea “due” era uno di quelli per cui avrei donato la mia totale attenzione e notti insonni, in attesa del giorno dell’appello: ero sinceramente intenzionata ad ottenere il massimo, non solo perché gli argomenti scelti e la bibliografia suggerita dal docente erano affascinanti, ma anche per il fatto che, come sottolineato bruscamente da Elena, il professor D. era il relatore perfetto per me. Il mio piano era chiaro nella mia testa già da tempo: avrei svolto l’esame nel migliore dei modi (o al massimo delle mie capacità, almeno) per poi chiedere prontamente appuntamento al professore per le settimane successive, anticipandogli già il desiderio di realizzare la tesi con lui.
Avevo seguito le sue lezioni per tutto l’autunno, ed ero rimasta stupita non tanto dalla giovane età (trentasette anni secondo il Curriculum Vitae pubblicato nello sportello online dell’università, accuratamente scandagliato dalle altre ragazze del corso, pazze di lui dalla prima lezione) bensì dalle sue ricerche e dal suo modo di raccontare e spiegare parti di storia davvero complesse: sicuramente la maggior parte del corpo studenti lo aveva apprezzato appunto non proprio per la sua carriera accademica o per le capacità, ma perché oggettivamente era davvero da considerarsi un bell’uomo.
Alto almeno un metro e ottantacinque secondo le ragazze più fissate (quelle che arrivavano sempre un’ora prima dell’inizio delle sue lezioni per piazzarsi in prima fila e fantasticare su improbabili scenari erotici con loro e il professor D. come ospite d’eccezione), capelli color pece e spesse sopracciglia, che incorniciavano gli occhi chiari sprizzanti di energia e dinamicità: a mio avviso però era il suo abbigliamento a costituire il punto forte, sempre contraddistinto da un giubbotto di pelle nero, anfibi e pantaloni scuri, abbinati il più delle volte da camicie a quadretti che ricordavano spesso e volentieri le vibrazioni grunge degli anni Novanta.  

In ogni caso non mi ero mai sentita più di tanto attratta dal suo aspetto fisico, perché ero sinceramente intenzionata ad impegnarmi nel passare col massimo dei voti quell’esame e chiedere subito una collaborazione con lui in vista di una tesi che mi avrebbe permesso di intraprendere una ricerca storicamente incredibile: avevo già purtroppo captato la tendenza di molte mie compagne di corso però, che avevano iniziato a blaterare a proposito del professor D. come possibile relatore delle loro tesi, il che faceva presagire in me l’idea di essermi avventurata in un percorso un tantino tortuoso. Avevo già per fortuna attraversato, processato e accantonato il periodo di pelide ira provocato dalla fondata consapevolezza che a nessuna di quelle ragazze interessasse sinceramente l’area approfondita dal docente, per cui mi ero semplicemente rassegnata, incrociando tuttavia tutte le dita delle mie mani, in attesa del giorno dell’esame e del possibile colloquio.

 
Il giorno dell’esame non tardò ad arrivare, anzi: mi sembrava passato troppo poco da quella mattina in cui avevo abbandonato Elena nelle grinfie dei commercianti del centro storico, eppure era già trascorso un mese e con esso, per fortuna, anche tutte le festività natalizie.
L’aula magna dove il professore aveva organizzato l’esame era piena zeppa di studenti che bisbigliavano, creando una sorta di bolla caotica nella quale non avevo alcuna intenzione di immergermi: per fortuna, essendo io una persona traboccante d’ansia universitaria e di talvolta insopportabile determinazione, ero riuscita a mezzanotte del giorno dell’apertura delle iscrizioni, a prenotarmi per prima all’esame orale. Sapevo quindi che, a prescindere dall’angolo in cui mi sarei seduta e fatta inghiottire dal vortice di parole dei miei colleghi, il nodo allo stomaco sarebbe durato ben poco.

Fui costretta a posizionarmi in alto, in una delle file più lontane dalla cattedra dove il professor D. era già posizionato, in attesa di iniziare l’appello e procedere all’interrogazione: quel giorno aveva deciso di cambiare scarpe, e non lo capii certamente guardando dalla mia postazione (la mia miopia per giunta dava ulteriori difficoltà), bensì dalle chiacchiere rumorose che stavano facendo le ragazze poco più avanti rispetto a me. “Beh quegli scarponi sono molto tattici se pensate che li uso anche io in montagna!” Commentò una delle studentesse del corso, quella che era sempre riuscita a posizionarsi in prima fila (tranne quel giorno) e a speculare sopra l’immagine del professore varie ed eventuali storie che le mie orecchie avevano volutamente lasciato fuori dai timpani e dalla mia mente. “Sì, appunto, in montagna. Così mi spiegate chi se lo piglia? Cioè, quelle scarpe tolgono tutto il fascino.” Ribatté la biondina seduta a fianco dell’amica, scuotendo la testa. “Beh tu pensala come vuoi, io me lo farei anche se avesse abbinato i calzini con le infradito!” Squillò la terza comare, che fino a quel momento era rimasta zitta, in fase di contemplazione.
Le cazzate volavano. Erano sempre volate a qualsiasi appello, ma il professor D., suo malgrado, attirava massicce dosi di disagio: non mi reputavo migliore di nessuno in quell’aula, anzi. Ero ben consapevole di quante persone potenzialmente studiose e ben preparate ci fossero, ma in quel contesto mi ero trovata a contatto con soggetti a cui non interessava minimamente la storia contemporanea, ancora meno il programma affrontato dal professor D. nei mesi passati: il fatto che proprio quelle tizie lì volessero realizzare la tesi con lui, era per me davvero inconcepibile.
Feci comunque in quel contesto lo sforzo di non fossilizzarmi su quei pensieri, e decisi di conseguenza di attendere il mio turno ripetendo silenziosamente alcuni concetti che fino al giorno prima sembravano ben impressi, ma in quel momento avevano acquisito le ali e apparivano anni luce dalla mia rete cognitiva. Nella folla, poche file più avanti, scorsi Elena che sfoggiava un maglioncino peloso color fucsia, probabilmente acquistato di recente (era solita indossare gli indumenti un paio di volte, per poi rivenderli a macchinetta su Vinted): sembrava guardare altrove, ma certamente aveva già avuto occasione di fulminarmi con gli occhi senza che io me ne accorgessi, visto che non si era davvero più fatta sentire nel corso delle settimane.

Il professor D. fu veloce a fare l’appello, complici gli squillanti toni delle studentesse che rispondevano prontamente appena venivano nominate: come da piani strategici, effettivamente il professore iniziò ufficialmente la sessione d’esame chiamando me.

Rigoni, Emma.” Disse lui ad alta voce, iniziando a scrutare tra la folla, in attesa di vedermi: mi alzai velocemente, raccattando in modo maldestro i miei effetti. Nella fretta, complice il cuore che batteva all’impazzata a causa dell’ansia e della tensione provocate dal mio cercare di raggiungere l’obiettivo massimo, dovetti recuperare i miei occhiali da vista, che avevo distrattamente tentato di mettere nella taschina laterale della mia borsa: qualcuna ridacchiò, ma io procedetti a passo spedito verso la cattedra. Una volta arrivata davanti alla cattedra, il professore sorrise e mi fece accomodare.
“Molto bene, lei è la prima della giornata quindi auspichiamoci di partire bene.” Disse lui, forse con l’obiettivo di tranquillizzarmi, ottenendo in realtà l’effetto opposto. Annuii, ricambiando il sorriso e deglutendo più volte, in attesa della domanda numero uno.
 

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Capitolo 3
*** Christmas at the White House ***


Christmas at the White House

“Ogni Natale che passa mi convinco sempre più di quanto Jackie sia brava con le decorazioni.”
Solo con queste? Jack, mi sembra un po’ riduttivo. Jackie finora è stata … Davvero impareggiabile. Specialmente quest’anno no? Voglio dire, pensa al servizio che la CBS le ha dedicato a proposito del progetto di restauro. Ed eravamo solo a febbraio.”
“Sì certo, lo so quanto è brava Jackie.” Il più grande dei due fratelli si avvicinò alla poltrona posta al fianco della scrivania centrale e, con una smorfia di dolore sul viso, a fatica si sedette.
Robert Kennedy osservò a lungo suo fratello, senza tradire alcuna emozione in viso: era preoccupato per la salute di Jack da forse tutta la vita, almeno da quando aveva imparato a rendersi conto della gravità della situazione. Senza dubbio l’apparente corazza del maggiore aveva nutrito in Robert una inconsapevole convinzione per la quale, a prescindere da qualsiasi evento, suo fratello sarebbe stato indistruttibile: nemmeno la Seconda guerra mondiale e lo scontro nel Pacifico erano riusciti ad ucciderlo, e laddove l’apparentemente infallibile Joe, il più grande tra tutti, era tragicamente scomparso, il piccolo Jack era sopravvissuto, diventando addirittura un eroe di guerra. Il suo spirito determinato sembrava essere più intenso degli innumerevoli problemi di cui il fisico di John Kennedy soffriva da tempo: forse era questo a tranquillizzare Robert.
“Jack, non posso fare a meno di chiederti se va tutto bene. Voglio dire, sai quanto rispetto la tua privacy eccetera ma …” Robert si interruppe, appoggiandosi informalmente sulla scrivania di legno con entrambe le mani: in quel periodo dell’anno, consapevole che finalmente i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica stavano dando ragioni per nutrire fiducia nell’anno successivo, si sentiva sollevato, almeno da una parte, e felice di poter concedersi qualche momento all’interno delle mura della Casa Bianca, dove atteggiarsi ancora come un ragazzino. La camicia azzurra che aveva scelto quella mattina era già stropicciata, le maniche tirate su senza alcun tipo di attenzione, e i primi bottoni lasciati aperti: in un certo senso avere la possibilità di chiacchierare con suo fratello in quanto tale e non in quanto Presidente era già di per sé un bel regalo di Natale.
John Kennedy abbozzò un sorriso noncurante, e replicò: “Lo so che ti preoccupi Bobby. Lo fai da quando hai la facoltà di parola.” Entrambi risero di gusto, perché seppur esageratamente, Jack aveva ragione: il fratello minore Robert aveva ereditato suo malgrado la carica di Procuratore generale nella nuova presidenza Kennedy, più per richiesta del padre Joe (o forse, per meglio dire, imposizione) che per altro. Alla fine del 1962, in quel Natale freddo a Washington, Robert finalmente poteva sentirsi soddisfatto della sua carica e, soprattutto, del lavoro che stava svolgendo ormai da tempo, specialmente contro la criminalità organizzata negli Stati Uniti: nonostante ciò, da quando suo fratello si era insediato alla Casa Bianca nel gennaio dell’anno precedente, Robert si sentiva più che mai custode di Jack, protettore incondizionato e scudo pronto ad essere utilizzato contro ogni tipo di minaccia.
Senz’altro era molto più poetico a dirsi che a farsi, dal momento che sin dai primi mesi di presidenza Bobby era stato più impegnato a coprire le scappatelle di suo fratello che a proteggerlo da eventuali attacchi pubblici od altro: certamente la crisi cubana dell’ottobre appena trascorso aveva dato una vera e propria scossa ad entrambi i fratelli, e forse ingenuamente Robert era convinto che proprio dopo quella drammatica esperienza, per la quale in un soffio il mondo sarebbe potuto sbriciolarsi davanti ad una guerra nucleare, suo fratello John sarebbe cambiato radicalmente. Non tanto da un punto di vista politico, quanto più privato.
Jack sospirò e, facendo sparire il sorriso che gli aveva illuminato quegli occhi azzurri pallidi, proseguì: “E’ tutto a posto. Fra poco sarà Natale, finalmente rivedremo papà, che sta facendo davvero tanti progressi secondo la mamma.” Respirò profondamente e, con un gesto della mano, indicò a Robert il sigaro che era sulla scrivania, accanto a lui: una volta dato al fratello, Bobby continuò a guardarlo senza dire nulla, avvicinandosi invece ad una delle lunghe finestre verticali e dando le spalle a Jack, il quale però non aggiunse altro.
“Intendo dire con Jackie. Le cose sono migliorate tra voi? E’da un po’ che non le parlo.” Dichiarò Bobby schiarendosi la voce, per poi avvicinarsi all’albero natalizio che era stato addobbato con cura: le palline e gli accessori brillanti erano in un così numero massiccio da nascondere quasi le luminarie, che emettevano qualche flebile scintillio.

John Kennedy accese il sigaro e, gustandoselo come fosse il primo della giornata (e certamente non lo era), fece spallucce e replicò: “Cosa vuoi che ti dica Bobby? Io provo ad essere il marito che lei vorrebbe, ma spesso è difficile per me accontentarla. Quest’anno …” Si bloccò, temporaneamente, passandosi una mano sulla fronte e socchiudendo gli occhi per un breve attimo. Poi riprese: “Quest’anno è stato duro, è stato … Impensabile. Nessun presidente al mio posto avrebbe immaginato qualcosa del genere: con Khrushchev abbiamo evitato quel che pensavamo fosse inevitabile, ma per quanto …? Il punto è che non sono mai tranquillo, perché siamo nel pieno di una crisi mondiale e la gente pensa che sia tutta acqua passata.”
Robert inclinò leggermente il capo, e replicò: “Ed è un bene che le persone credano ciò Jack, altrimenti vivrebbero nel terrore. Abbiamo ottenuto una grande vittoria e ho fiducia che il prossimo anno le cose possano migliorare. Capisco i tuoi timori, davvero. Però … Jackie è il tuo presente, la tua famiglia è costantemente al tuo fianco: non è forse questo sufficiente? Almeno per ora?” .
Jack si alzò dolorante, ponendosi una mano sulla schiena: non guardò suo fratello ma, avvicinandosi alla scrivania e afferrando qualche foglio sopra di essa, concluse: “Sì, immagino di sì.”
 

 
Tra i due fratelli Kennedy correva profondo rispetto e onestà: era stato il padre Joe con le sue ambizioni e i suoi sogni di gloria nei confronti dei figli, ad alimentare il rapporto tra Jack e Bobby, portandoli addirittura alla stessa presidenza americana con la vittoria di John alle elezioni del 1960.
Sicuramente lo spirito agguerrito e talvolta megalomane di Joe Kennedy era stato la rovina della famiglia, anche se non direttamente: i grandi progetti politici che erano poi maldestramente ricaduti su Jack, erano in realtà focalizzati inizialmente su Joe Jr., il maggiore tra tutti. Era lui a dover diventare presidente un giorno, terminato il secondo conflitto mondiale: sempre lui, con la sua aria da eterno ragazzo, frizzante e ammaliante al tempo stesso, avrebbe conquistato l’elettorato americano in men che non si dica, complice la grande disponibilità economica del padre, che seriamente avrebbe giocato carte false per vedere il suo sogno realizzato.
Si parlava di questo, a proposito di Joe Kennedy: di sogni che faceva calzare forzatamente sui figli, ma che alla fine erano solo suoi. Aspirazioni di glorie politiche che purtroppo il capofamiglia Kennedy non aveva potuto raggiungere, specialmente dopo i suoi pasticci diplomatici prima dell’entrata statunitense nella seconda guerra mondiale. Il vecchio presidente Roosevelt aveva letteralmente bandito Joe dall’entourage politico, per tale motivo le grandi aspettative si erano ribaltate drasticamente sul figlio maggiore: la guerra però aveva distrutto qualsiasi progetto, annientando lo stesso Joe Jr., che aveva insistito affinché potesse combattere nel conflitto fino al suo termine.
La tragica morte in volo del maggiore dei fratelli Kennedy, avvenuta nel 1944, aveva poi fatto puntare il dito assetato di potere di Joe su John Kennedy, classe 1917, già eroe di guerra dopo il salvataggio dei suoi compagni nell’Oceano Pacifico nel 1943.
La scalata politica di Jack non fu certamente cosa facile, ma nel 1960 era riuscito a strappare la presidenza addirittura a Richard Nixon, seppur con un debole margine: essere presidente americano in piena Guerra Fredda non era però cosa da poco, e Jack lo aveva capito sin dal 1961, dopo il disastro alla Baia dei Porci.
Continuava a ripetere, tra sé e sé e senza coinvolgere mai nessuno nelle sue riflessioni, che avere Bobby al suo fianco era una fortuna: l’assenza del fratello non gli avrebbe permesso di prendere quelle decisioni, e forse senza il suo aiuto non sarebbe nemmeno riuscito ad effettuare una campagna elettorale come si deve.
In vista di una ricandidatura alla presidenza, Jack Kennedy sapeva in cuor suo di voler ancora suo fratello minore al fianco.
Nonostante tali premesse, Bobby sapeva essere non solo onesto ma anche una spina nel fianco talvolta: la sua dedizione alla famiglia e alla moglie Ethel gli impediva di comprendere appieno le scappatelle quasi patologiche del presidente, che almeno una volta a settimana era solito far visita o ricevere una delle sue bellissime amanti.

Per tali ragioni era difficile per Jack essere totalmente sincero con Bobby, anche in quel Natale del 1962: il dolore alla schiena era indescrivibile, difficile anche solo da concepire. Le sfide politiche all’orizzonte erano più minacciose che stimolanti, e si avvicinavano a passo spedito man mano che il mese di dicembre avanzava inesorabile. Per tutti questi motivi John Kennedy era convinto, nel suo profondo, di poter giustificare il suo bisogno di sesso e di compagnia femminile costanti: perché era malato e dolorante nonostante l’operazione che aveva rischiato di portarlo alla morte, perché si trovava a capo della nazione in quel momento più forte al mondo e davanti ad una crisi politica senza precedenti; perché in fin dei conti l’amore e la dedizione di Jackie non sembravano bastargli. Certamente non perché la moglie non fosse abbastanza innamorata e attenta, anzi – le lodi ricamate da Bobby e da tutti i collaboratori del presidente nei confronti di Jacqueline Kennedy erano innumerevoli e condivise dallo stesso John – ma perché lui desiderava sempre di più, o sempre qualcosa di differente, di alienante.

Per tutti questi motivi e chissà quanti altri, dopo aver salutato il fratello Bobby e allentato il nodo della cravatta blu scura, John F. Kennedy era ben consapevole che la risposta data a Robert non era nemmeno lontanamente vicina alla realtà.
 
 

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Capitolo 4
*** Due ***


DUE

“E anche questa è fatta! Complimenti!”
In realtà l’ultima parola era finita con un coro di “i” infinite, interrotto solo dal rumore dei boccali di birra che si incrociarono per quel brindisi che aveva tutta l’aria di libertà e tanta, tantissima soddisfazione.
Non riuscivo a smettere di sorridere genuinamente: ero nel pub che preferivo con le amiche di un’intera vita, intenta a festeggiare bevendo birra di qualità il mio ultimo esame.
Anzi, più che essere contenta del fatto che quello fosse l’ultimo della mia carriera universitaria, ciò che mi elettrizzava davvero era il risultato: ero riuscita infatti ad ottenere dal professor D. un 30 e Lode, e ancora faticavo a crederci.
Al di là del risultato, era stato per me davvero un esame interessante, sebbene lungo: il professore mi aveva interrogata per più di quaranta minuti, provocando negli studenti in attesa una serie di sospiri infinita che, qualora mi fossero state fatte ulteriori domande, sarebbe stata tramutata in una vera e propria tempesta di esasperazione.

 
“Lei è stata … Sinceramente brillante, Rigoni. E’ una rarità ad oggi riuscire a svolgere degli esami di questo tipo. I miei complimenti.” Aveva dichiarato il professor D. quella mattina: mi aveva chiesto molteplici argomenti, soffermandosi tuttavia sulla crisi politica del 1962 relativa ai rapporti tra Stati Uniti e URSS, chiedendomi alcuni dettagli della diplomazia kennediana che mi avevano lasciata interdetta. Ero riuscita a rispondere anche a quelle precisazioni, ma probabilmente solo perché studiavo Kennedy da quando avevo terminato il liceo: in ogni caso, il successo auspicato per quell’esame si era concretizzato, e mi aveva permesso di avanzare con la seconda tappa del mio piano.
“Professore, mi scusi … Non voglio rubare tempo agli altri studenti” esordii io, alzandomi dalla sedia di fronte al docente ed evitando palesemente il contatto visivo con qualsiasi mio collega, nel tentativo di farmi scivolare via le occhiate di odio da parte di chi, impaziente, stava attendendo il proprio turno. “Mi stavo chiedendo se fosse possibile dopo le vacanze natalizie prendere un appuntamento con lei. Vorrei … Vorrei parlarle della mia tesi sa, avevo una mezza idea di trattare gli argomenti della sua ultima domanda.”
Non capii il motivo per il quale in quel momento non fui in grado di dire chiaramente al professor D. che avrei voluto incentrare la mia ricerca di laurea su John F. Kennedy: forse perché temevo potesse essere troppo scontato?
In ogni caso il professor D. abbozzò un sorriso soddisfatto e annuendo, mi rispose: “Senza dubbio. Mi scriva una e-mail di promemoria prima del 6 gennaio, dopodiché organizziamo un incontro.” Stringendogli la mano, lo ringraziai e me ne andai, ancora tremolante per l’emozione.

 
 
L’ultimo sorso che avevo ingurgitato con così tanta euforia mi aveva lasciato un notevole baffo bianco, che le mie amiche prontamente mi avevano segnalato ridendo della grossa.
“Usa un fazzolettino però Emma, dai.” Anna si era raccomandata troppo tardi con me, perché la mia impareggiabile (e ben conosciuta) grazia mi aveva spinta a risolvere nell’immediato, passandomi una manica del vestito nero che avevo scelto per quella sera, direttamente sopra la bocca.
“Incredibile.” Esclamò Anna alzando gli occhi al cielo, con un sorriso che tuttavia tradiva la sua apparente aria di rimprovero.
“Scusa Emma, ma a proposito del tuo esame … Quello vicino alla porta non è il tuo professore?” Mi chiese incuriosita Francesca, che a differenza mia e di Anna era seduta in una posizione giudicata da lei “tattica”, proprio con l’obiettivo di analizzare chiunque entrasse dall’ingresso del pub.
Inarcai un sopracciglio e blaterai: “Ma chi? Il professor D.?” Prima che Francesca potesse rispondere, non resistetti alla curiosità e decisi di girarmi: in attesa di accomodarsi ad un tavolo, a braccia conserte c’era proprio lui, il mio docente di storia contemporanea. Si guardava attorno ma con aria apparentemente distratta: i suoi capelli erano fissati probabilmente con un buon uso di lacca, e persino in quella fredda serata era riuscito a indossare il suo chiodo nero di pelle.
Tornai a guardare le mie amiche, anche per evitare che in qualche modo lo sguardo del professore cadesse su di me e mi cogliesse palesemente sul fatto (che poi, quale mai? La mia era semplice curiosità).
“Scusa, e tu come accidenti fai a sapere che quello è il professor D.?” Chiesi incuriosita a Francesca, dal momento che lei aveva concluso poco tempo prima il suo percorso di Storia dei beni culturali, e non aveva certo avuto un esame di quel genere.
La mia amica, con un’espressione fiera sul viso, si sistemò il nastro che le teneva raccolti i capelli rosa e poi ridacchiando replicò: “Dopo che tu hai raccontato la prima volta dei proseliti che il tuo professore figo fa a lezione pensavi seriamente che io non sarei andata a cercarlo sui social? Ah! Illusa.” Anna scoppiò a ridere e aggiunse, lanciando un’occhiata interessata al professor D.: “Hai fatto bene, caspita Emma è davvero un bel pezzo di …” Alzai una mano alla ricerca di tregua, e la interruppi: “No, no e no. Non voglio neanche iniziare quella conversazione con voi due.” Le mie amiche continuarono a guardarmi divertite, e Francesca replicò: “Quale quella conversazione? Quella in cui ti facciamo notare che il tuo professore preferito è figo?” Prima che potessi difendermi in qualche modo, Anna continuò il discorso: “Ammesso che non lo avessi già notato, cosa molto probabile considerato quanto sia palesemente bello.” Francesca annuì, sinceramente allineata ad Anna. Io sbuffai e, accennando un sorriso, conclusi: “E’ ovvio che stiamo parlando di un uomo oggettivamente … Piacevole. E’ un dato di fatto, gli occhi li ho anche io” prima che potessi proseguire il discorso Francesca mi interruppe: “Certo che anche tu li hai! Il punto è che non li usi abbastanza bene, perché hanno iniziato a guardare troppo i libri su Kennedy e company anziché gli uomini. Il che è grave.” Sospirai e, dopo aver bevuto un altro sorso abbastanza lungo di birra, deglutii e risposi: “Questo non è vero! Non potete condannarmi così, specialmente considerato che sto per laurearmi, ho una tesi da scrivere e devo ancora incontrarmi col professor D. per capire se effettivamente il mio argomento può piacergli. Sinceramente ho altre priorità.” Anna scoppiò a ridere ed esclamò: “Sì, Kennedy! Quella è la tua priorità. Vorrei però segnalarti, qualora tu sia rimasta ferma al muro di Berlino, che l’uomo della tua vita è in realtà morto circa trent’anni prima che nascessi.” Dopo aver sbattuto il bicchiere vuoto sul tavolo, Francesca caricò la dose: “Esattamente, e direi che ci sono tutti i presupposti per una relazione impossibile.”
 
La nostra assurda conversazione venne troncata, per fortuna prima che io potessi provare a difendermi nuovamente dagli attacchi divertiti delle mie amiche, dall’arrivo improvviso del professor D. che nell’avvicinarsi al suo tavolo, aveva senza dubbio notato la mia faccia e, a quanto pare, l’aveva pure riconosciuta.
“Rigoni! Non la facevo una tipa da birreria!” Esordì lui, lasciandomi nell’immediato alquanto perplessa, per non dire imbambolata: sinceramente mi sarei aspettata un saluto più formale perché, nonostante la sua giovane età, aveva sempre mostrato un’aria molto seria e composta. Allontanai quasi automaticamente la mano dal boccale di birra e facendo tutti gli sforzi possibili per ignorare le espressioni divertite delle mie amiche, abbozzai un sorriso e alzandomi replicai: “Professore! La mia è una frequentazione occasionale, quasi sempre scelgo di bere a casa.”.
Vidi con la coda dell’occhio Francesca soffocare una risata, mentre io mi resi subito conto di essere vittima di una di quelle frasi concepite in un modo ed uscite dalla bocca in tutt’altra soluzione, il che mi fece vergognare moltissimo. Provai comunque a correggere il danno, aggiungendo subito: “In senso che in linea generale bevo qualche birretta a casa, niente di che chiaramente. A volte qualche Tennent’s, ma solo se sono ispirata o ho avuto una giornata davvero difficile.”
Pessimo tentativo anche quello. Sono certa a posteriori che, dopo aver detto ciò, strinsi gli occhi per un breve secondo, quasi per non voler guardare l’espressione sul viso del professor D., che senza dubbio dopo quella scena avrebbe volutamente ignorato qualsiasi mia e-mail per il resto del secolo. Lo sentii invece ridere, e anche di gusto. Quando spalancai nuovamente gli occhi, lo vidi guardarmi sinceramente divertito e per nulla scioccato.
“Ah tranquilla, la capisco! E comunque scherzavo, si vede che lei è una tipa da birra. Dopo l’incredibile risultato che ha ottenuto al mio esame poi, penso che qualche birra con le amiche sia doverosa.” Ribatté lui, voltandosi per un attimo verso il tavolo che fino a pochi minuti prima sembrava deserto: lanciai uno sguardo distratto anche io, e con me persino Francesca ed Anna. Era apparsa una donna di forse una quarantina d’anni, con i capelli color rame e gli occhi scuri: stava guardando il professor D. ma non sembrava particolarmente impaziente.
Quando il professore si voltò nuovamente verso di noi, sorrise e concluse: “E’ stato un piacere vederla. Vado al tavolo che mi aspetta la mia … Amica. Mi raccomando non si dimentichi la mail, anche perché al colloquio avrei piacere di parlarle di un progetto, in aggiunta alla sua stesura di tesi ovviamente.” Rivolse ad ognuna di noi un rapido saluto, mentre io, particolarmente confusa, riuscii solo ad annuire e ad augurargli una buona serata.

 
Quella mattina il mio armadio si era trasferito in men che non si dica direttamente tutto sul letto: continuai a guardare quella montagna di vestiti buttati letteralmente a caso sulle coperte, senza tuttavia trovare soluzione al mio dilemma.
“Emma ma perché non ti metti quel vestito a collo alto che avevi anche l’altro giorno in birreria perdonami?” La voce di Francesca, che mi stava seguendo letteralmente attraverso una chiamata video su Whatsapp, mi fece tornare al mio antro di disperazione e caos.
“Ma no, no! Appunto, lo avevo l’altro giorno al pub. Il professore penserà che io non mi lavi, o che comunque non abbia l’abitudine di lavare i miei vestiti, che sarebbe un’impressione sbagliata, e certamente non il migliore modo per avviare una collaborazione.”
Francesca ridacchiò dall’altra parte dello schermo e replicò: “Certo, certo. E di quale collaborazione stiamo parlando, esattamente?” Scoppiò a ridere della grossa, mentre io continuavo ad alternare occhiate truci verso la mia amica e espressioni sconsolate alla montagna di vestiti.
“Non ricominciare per favore. 
Forse hai dimenticato che quella sera il professore era molto ben accompagnato. E comunque a me non interessa, non è questo il punto. Sinceramente? Non so di cosa voglia parlare, a me interessa esporgli il progetto della tesi e nulla più. E’ questo l’obiettivo principale e non uscirò dal suo ufficio senza avere ottenuto ciò che voglio. ”
La mia determinazione fece uscire le ultime parole quasi in un urlo, forse nel tentativo di spezzare quel filone di battutine pungenti che le mie amiche stavano usando da quasi una settimana per bersagliarmi, o forse solo per convincermi del fatto che non ero assolutamente curiosa del famoso “progetto” di cui mi aveva accennato il professor D. quella sera in birreria.

In realtà mi urtava il fatto che, da una settimana a quella parte, fosse difficile per me concentrarmi unicamente sul progetto di tesi, dal momento che continuavo a chiedermi in che cosa mai potesse consistere quel progetto che il professore mi avrebbe spiegato al colloquio. Non ne avevo comunque discusso con le mie amiche, forse perché non eravamo mai state abituate a focalizzarci su ciò che sentivamo in un momento o nell’altro, e sulle eventuali macchinazioni che i nostri cervelli erano soliti elaborare: eravamo sempre state amiche, nel bene e nel male, e questo a noi bastava.
“Vabbé, allora cosa vuoi che ti dica? Mettiti i jeans scuri che indossi di solito e via. Tanto poi stanno bene con qualsiasi maglia.” Alla resa incondizionata della mia amica, abbozzai un sorriso e prima di salutarla la ringraziai sinceramente, soprattutto della pazienza: mi rendevo conto di quanto fosse difficile per una persona starmi vicina o supportarmi in momenti del genere, durante i quali i pensieri sembravano essere molto più rumorosi della mia stessa personalità, tanto da rendere complesso per me credere semplicemente nelle mie capacità e riprendere le redini del controllo.
Francesca era una persona molto paziente, diversa da me: aveva vissuto gli anni universitari con un pizzico di ansia (il quantitativo perfetto forse) e con moltissima voglia di conoscere gente e fare nuove amicizie. Per me è sempre stato invece difficile riuscire a stringere legami duraturi, sia in materia di amicizie, sia dal punto di vista sentimentale: avevo avuto qualche frequentazione fallita miseramente, e avevo sempre confidato sulle mie amiche storiche, che non mi hanno mai delusa.

Dopo aver terminato la chiamata con Francesca, feci un respiro profondo e, rivolgendo un’ultima occhiata al minaccioso mostro di vestiti, scelsi quei jeans scuri, una camicia di raso bordeaux e iniziai a prepararmi per il tanto atteso colloquio.
 

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Capitolo 5
*** Dreams of a father ***


Dreams of a father
 

La tavola della sala da pranzo più grande della residenza Kennedy a Hyannis Port era già accuratamente apparecchiata e ordinata nei minimi dettagli: l’occhio preciso e attento di Rose Fitzgerald non aveva lasciato adito ad errori o disattenzioni, e persino i bordi finemente ricamati dei tovaglioli riuscivano a riprendere il motivo decorativo dei bicchieri dei commensali. La casa era piena di chiacchiericcio: Kathleen Kennedy, una delle sorelle più grandi della famiglia, stava agitando il suo ventaglio mentre, seduta comodamente su una delle poltrone del salotto adiacente alla sala da pranzo, raccontava entusiasta dell’uomo di cui si era innamorata, il marchese William Cavendish, ignorando puntualmente le parole di sua mamma Rose.

“Non ci sarà alcun matrimonio anglicano in questa famiglia Kathleen. Sia chiaro a lei ma anche a tutti gli altri!” Tuonò la madre dei nove ragazzi, che tuttavia parvero non ascoltarla affatto: nell’aria c’era fermento, voglia di festeggiare il rientro fortunato di John, che era riuscito a salvare se stesso e parte del suo equipaggio nel Pacifico, dopo uno scontro coi giapponesi.

 

Era l’agosto del 1943, e nemmeno l’aria frizzante che arrivava dal mare riusciva a dare sollievo. Joseph Kennedy era in piedi, davanti ai suoi due orgogli più grandi: da una parte c’era Jack, il figlio che mai avrebbe dovuto arruolarsi, ma che grazie ad una serie di sforzi del padre aveva scelto di prestare servizio nella marina statunitense; alla sua destra invece c’era il maggiore della famiglia, Joe. Aviatore agguerrito, ragazzo dal fisico prestante e dotato di grande determinazione e tenacia, era il figlio perfetto, il fiore all’occhiello di Joseph Kennedy e del padre di quest’ultimo che, quando era ancora sindaco della città di Boston, presentò al suo elettorato il nipote Joe junior, all’epoca poco più di un neonato, come il futuro presidente americano. Non c’erano dunque dubbi sul futuro del maggiore dei Kennedy, e nemmeno lui stesso sembrava averne mai avuti: dopo la guerra avrebbe iniziato la sua scalata per diventare il primo presidente cattolico degli Stati Uniti, e già suo padre Joseph immaginava chiaramente le testate giornalistiche, le interviste dedicate al figlio, i riflettori che avrebbero illuminato i suoi grandi e fieri occhi.

 

Quanto al piccolo Jack, la sua prova di eroismo nel Pacifico gli aveva permesso di essere decorato con una prestigiosa medaglia al valore militare, e di diventare già un acclamato eroe di guerra: la sua epica impresa aveva riempito i giornali sin da quando era stato soccorso l’8 agosto assieme ai compagni, e l’ondata mediatica era proseguita indisturbata sin al suo rientro a Hyannis Port.

“Cari ragazzi … Le premesse sono ottime. Sono gloriose! Il successo di Jack potrà essere un valido trampolino di lancio per la tua carriera politica Joe. Sono fiero di voi.” Dichiarò soddisfatto Joseph Kennedy, senza nascondere il suo sorriso compiaciuto che da anni desiderava sfoggiare in pubblico, specialmente davanti al presidente Roosevelt, che lo aveva sollevato dalla sua carica di ambasciatore alcuni anni prima: ben presto l’America si sarebbe resa conto del valore dei Kennedy.

Dopo aver dato una pacca sulle spalle dei due figli più grandi, Joseph si allontanò per andare a controllare l’operato di sua moglie Rose, lasciando i fratelli da soli, in un apparente silenzio imbarazzante.

 

“Complimenti allora, Jack.” Disse quasi in uno sbiascico Joe, abbozzando un sorriso che aveva tutta l’aria di essere estremamente convenzionale. John Kennedy annuì riconoscente, e replicò: “Sì beh … E’ stato assurdo. Un vero incubo. Improvvisamente sai, in mezzo all’oceano … Mi sono reso conto di non avere riferimenti, e credo di non voler ripetere un’esperienza del genere.” Joe annuì, e tornando serio, ribatté con un tono piuttosto severo: “Beh le tue condizioni fisiche ti hanno permesso di congedarti dalla guerra, credo che difficilmente ti ritroverai ancora sperduto in mezzo all’oceano, se ti può consolare.” Restò in silenzio un istante, poi proseguì, guardando negli occhi il fratello: “Ad ogni modo Jack è bene che tu sappia che sei stato solo fortunato. Estremamente fortunato, se mi è concesso dirtelo.” John Kennedy spalancò i suoi occhi blu e restò pietrificato per un breve istante, incerto sul da farsi. Ancora una volta però fu Joe a prendere parola, precisando: “Voglio dire, se avessi prestato più attenzione prima … Eri al comando di una motosilurante Jack, ti hanno premiato con questo titolo e tu che fai? Consegni i tuoi compagni in mano ai giapponesi!” Iniziò a scuotere la testa e concluse amareggiato: “Sarebbe stato più onesto, più giusto se tu avessi accettato da subito di buon grado il fatto di non poterti arruolare, per via della tua salute sai? Invece hai deciso di coinvolgere papà. E questo, beh … Questo è il risultato.”
 

Prima che John potesse dire qualcosa, il fratello Robert, un ragazzino spigliato che aveva il vizio di ascoltare le conversazioni altrui fingendosi impegnato a guardare fuori dalla finestra, avanzò deciso verso i due maggiori e, guardando dritto negli occhi Joe, esclamò: “Il risultato è che Jack oggi è un eroe di guerra, perché ha salvato moltissimi uomini, e l’America gliene è grata. Questo è l’importante, questo è ciò che conta. Ed oggi siamo qui a festeggiare Jack.”

Robert non era solito intromettersi nelle questioni dei membri più “adulti” della sua famiglia: aveva sempre lasciato che i suoi genitori discutessero (seppur moderatamente, perché cercavano costantemente di nascondersi agli occhi dei figli), così come i fratelli: in quel contesto però, prima del pranzo che avrebbe celebrato Jack per l’eroe che era, per il suo rientro a casa sano e salvo, non resistette. Doveva bloccare Joe, doveva dare un freno alla sua smania di protagonismo, al fastidio bruciante in lui a causa del successo del fratello minore: laddove Joseph Kennedy, il capofamiglia, alimentava i suoi sogni proiettandoli sul più grande dei figli, occorreva qualcuno che ponesse un freno a quella distruttiva competizione.

L’intervento di Robert suscitò un sorriso abbozzato da parte di John, che rivolse al fratello minore uno sguardo complice di gratitudine; dall’altra parte invece Joe non reagì, ma si limitò ad annuire e con flebile voce concluse: “Di nuovo, complimenti Jack.”

Quando Rose chiamò la famiglia a tavola, tutti i Kennedy si riunirono, bicchiere alla mano, per festeggiare fragorosamente il giovane eroe di guerra John Kennedy. Joseph, che da lontano aveva assistito a quel breve screzio tra i due fratelli, attese che tutti i figli si sedessero, per prendere momentaneamente da parte Joe, al quale disse: “Sii felice per tuo fratello, e non preoccuparti Joe. Sarai tu a diventare presidente.”



Aveva nevicato tutto il giorno, ma il presidente era apparentemente tranquillo.

I giorni a Natale diventavano sempre meno, e già Jackie coi bambini era partita verso la casa di famiglia dove poi John avrebbe raggiunto tutti quanti, specialmente suo padre.

 

Joseph Kennedy era stato vittima di un ictus esattamente un anno prima, e da quel momento la visione del padre per Jack e Robert era cambiata drasticamente: da sempre considerato in famiglia l'autentico fulcro dei Kennedy, la sua lucidità, mista alla straordinaria ambizione e alla fredda abitudine calcolatrice, all'improvviso avevano lasciato posto ad un Joseph Patrick Kennedy, fragile guscio umano che poteva a stento esprimersi. Riusciva a comunicare a sua moglie a malapena, scrivendo piccole frasi tremolanti e sconnesse tra loro su una lavagnetta che era stata regalata da una delle figlie pochi mesi dopo l'attacco.

Sarebbe stato il secondo Natale in compagnia di una sorta di nuovo padre per John F. Kennedy, e questo pensiero aveva trovato posto nella mente del presidente proprio in quei giorni, mentre vagava nei corridoi di una Casa Bianca già deserta.

 

Aveva fatto progressi suo padre e fremeva per poterlo rivedere, questo era certo. Nonostante ciò, associare l'uomo sulla sedia a rotelle condannato da un ictus ad una vita di stenti a quello che aveva reso possibile la candidatura alla presidenza di Jack era impresa non da poco. Anzi. A distanza di un anno, John Kennedy realmente non si capacitava di un cambiamento così repentino e tragico.

Quella sera la sua mente vagava e superava la siepe innevata che limitava i confini della residenza presidenziale: lasciò la tenda legata, per osservare il cielo ancora nuvoloso, forse in attesa della prossima nevicata.

Pensò poi a Joe, il fratello maggiore caduto in guerra: erano stati i nazisti e quel conflitto mondiale che aveva cambiato il mondo per sempre ad ucciderlo. Ma forse anche la sua ambizione spinta al limite dal padre lo aveva convinto a proseguire il suo lavoro da aviatore, e a partecipare ad una missione sui cieli inglesi, lo avevano portato ad una tragica morte e alla fine dei sogni del padre.

 

I sogni del padre. Di un padre americano, figlio di immigrati irlandesi che, nonostante i suoi mezzi poco ortodossi e discutibili, aveva sempre cercato il meglio per i figli e per il buon nome dei Kennedy: occorreva condannarlo?

John Kennedy sospirò, davanti alla finestra delle sue stanze private: improvvisamente il silenzio del luogo gli fece balzare il pensiero a suo figlio, il piccolo John Jr., che aveva compiuto due anni il mese prima. Era lui quello che movimentava le stanze del presidente con le urla e i suoi abbracci sinceri nel bel mezzo di un gioco divertente.

Essere padre non era un lavoro di poco conto, specie se congiunto a quello di presidente degli Stati Uniti: senza dubbio, considerato il tutto, Joseph Kennedy era stato un padre più presente rispetto a Jack.

Ma la presenza del capofamiglia Kennedy era più da considerare come quella di un esaminatore severo e pignolo, anziché di un padre affettuoso.

I suoi progetti per i figli più grandi, specialmente per il maggiore, sembravano la sua forma di affetto più incondizionato: li trasformava in sogni, e poi in ossessioni, che rifletteva nella mente di Joe, in attesa di farli diventare realtà.

 

C'era da fargliene una colpa?

Jack non si era mai dato risposta, ma dopo la malattia del padre si sentiva quasi responsabile di aver considerato il suo vecchio un ambizioso uomo e molto meno un papà: quella sera il suo desiderio di abbracciare Joseph Kennedy e di dimenticare il passato erano difficili da ignorare.

Perché gli eventi non potevano essere cambiati: perché suo fratello era morto, e suo padre aveva scelto lui. Un gracile eroe di guerra che aveva altri non – progetti per la sua testa, per compiere la grande impresa: diventare il primo presidente cattolico degli Stati Uniti.

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Capitolo 6
*** Tre ***


TRE

 

Vengano maledette le camicie di raso. Specialmente in inverno, e su persone che, in uno stato di agitazione, hanno la scomodissima e inopportuna capacità di sudare anche l’acqua del battesimo: nel mio caso specifico, pur non essendo battezzata, di camicie ne ho sempre sudate parecchie. Letteralmente.

Per tale motivo, uscendo di casa quel giorno ed in pieno inverno, iniziai a pensare che le premesse non erano ottime: nonostante il freddo pungente dell’ambiente esterno, ero talmente in preda all’ansia che cominciai a sentire l’ascella umida dopo nemmeno due minuti di passeggiata.

 

Pessima, pessima. Sarei arrivata al colloquio col professor D. sudaticcia e affannata, il che mi avrebbe fatto perdere già qualche punto: ad ogni modo non avevo nemmeno il tempo di fare retromarcia e rientrare a casa per lavarmi velocemente e cambiarmi, possibilmente scegliendo un maglioncino di cotone caldo. Guardai l’orologio che avevo al polso, appena regalatomi da mio padre per Natale, e notai che decisamente potevo risultare quasi in ritardo se non mi fossi data una mossa.

Le strade erano tornate ad essere estremamente caotiche dopo le feste: la gente correva senza sosta, con la testa abbassata per guardare lo smartphone o i propri piedi che, frenetici, rimbombavano sotto i portici in un fragore di camminate veloci e contro il tempo.

In un certo senso anche il mio passo spedito era una sfida ai minuti che, inesorabili, continuavano a scorrere sul mio orologio, al quale continuavo a rivolgere qualche occhiata disturbata: mi capitava raramente di arrivare in ritardo a qualche evento, cena o colloquio … Ma naturalmente quel sottile margine di errore doveva essere calpestato dalla sottoscritta proprio il giorno in cui avrei dovuto convincere il professor D. ad accettare il mio progetto di tesi.

 

Quando arrivai in facoltà avevo il fiatone: rivolsi uno sguardo dentro la portineria e poi un sorriso, tentando di nascondere il mio affanno. Fortunatamente il custode di turno era troppo impegnato a leggere la Gazzetta dello Sport per notare che era entrato qualcuno.

Non fu nemmeno necessario interpellarlo per sapere l’ubicazione dell’ufficio del docente, perché tra le chiacchiere pungenti e squillanti delle mie compagne di corso, avevo captato qualche tempo prima anche le indicazioni per arrivare all’ufficio del professor D., il che per una volta appunto fece risultare quel blaterare estremamente utile.

Salii la scalinata in marmo della facoltà, restando sul lato destro e incrociando qualche sguardo di studenti che erano già rientrati in città per sostenere i primi esami di gennaio: era per me un sollievo ricordare di avere completato il mio ciclo di studi e di essere davanti allo scalino della tesi, perché significava essere vicina ad un traguardo agognato e che magari, nel mio immaginario, avrebbe aperto a me la strada per diventare realmente una storica contemporanea.

In quest’ottica, il professor D. era un ulteriore esempio: ero sempre stata convinta che la giovane età potesse essere una discriminante, specialmente in ambito accademico, eppure seguire le lezioni del docente mi aveva permesso di aprire un altro scenario possibile nella mia mente, che senz’altro si sarebbe potuto realizzare con maggiori probabilità se mi fossi impegnata e dedicata totalmente.

 

Lo studio del professor D. era in fondo al corridoio del primo piano, di fronte a quello del docente di storia medievale: la porta era chiusa, perciò bussai dapprima debolmente, poi più energicamente, quasi intenzionata a scuotermi da quel senso di nausea, ansia e al contempo trance che mi aveva colto.

“Prego, avanti!” Sentii una voce maschile familiare provenire dall’interno, perciò abbassai la maniglia e timidamente entrai. Il locale era scarsamente illuminato, con una piantana vicina all'ingresso, e un'altra più piccola accanto alla scrivania.

Il professor D. se ne stava tranquillamente seduto nel suo studio provvisorio: in uno sguardo d’insieme molto rapido, capii ritagliato maldestramente dall'Ateneo nella vecchia caffetteria della facoltà. Ricordai perfettamente che, prima dell'insediamento del professore, moltissimi studenti si erano lamentati di questo repentino cambiamento, che aveva causato una migrazione non indifferente di universitari al bar esterno dove il caffé costava decisamente di più. Chiaramente una volta arrivato il professor D., le rimostranze delle studentesse si erano azzerate alla velocità della luce, e tutte all'improvviso erano disposte a studiare senza caffeina, o a fare un mutuo per ottenerne un po'. 


Il volto del professor D. era disteso, e quando chiusi la porta alle spalle abbozzò un sorriso e mi fece segno di accomodarmi.
Io ero invece visibilmente molto più preoccupata di lui: avevo aloni di sudore più imponenti dell'Operazione Alba, sicuramente il mio odore non era nemmeno dei migliori (ma percepivo ancora solo il profumo che mi ero saggiamente spruzzata prima di uscire di casa). Infine, i miei incubi degli ultimi giorni avevano impedito alla sottoscritta di avere un sonno tranquillo e meno paranoia possibile per ciò che riguardava il risultato dell'incontro, il che in quel momento sembrava decisamente pressante, tanto da non riuscire a tenermi dentro un minuto di più i miei timori.

Guardai il docente ed esordii: "Professore, perdoni la mia impazienza: posso considerare con certezza lei come relatore?" Srotolai rapidamente quelle parole, con un tremolio nella voce che tradiva il mio timore. Probabilmente mi avrebbe scartata solo per il modo in cui mi ero posta, o forse era ancora memore della mia agitazione durante il suo esame, chi poteva dirlo? In ogni caso a stento in quei contesti riuscivo a trattenere i miei pensieri o attendere varie frasi di circostanza prima di poter esprimere i miei dubbi, per cui ormai la frittata era fatta. 

Il professor D. però non sembrò particolarmente turbato (o forse non lo diede a vedere, e in quel caso era davvero bravo) ed anzi, sorrise nuovamente e, aprendo le braccia, replicò: "Senza dubbio. Personalmente lo consideravo già scontato. Errore mio. Come anticipatole però, ho pensato di parlarle di un progetto ... Specialmente dopo un confronto coi colleghi, che mi hanno confermato quanto sospettavo: lei è una delle studentesse più brillanti del suo corso di laurea, e per questo motivo ci tenevo molto ad invitarla al mio laboratorio di metà semestre, di cui forse lei ha già sentito parlare."
Annuii, sebbene fossi ancora confusa. 
Ero anzitutto sorpresa del fatto che esistessero docenti in facoltà capaci di ricordare i volti o i nomi degli studenti che avevano avuto nel corso di quei due anni, e ancor di più considerando che molti di questi mi considerassero una delle universitarie più brillanti di quel corso: io non mi ero mai considerata tale ed anzi, ero sempre stata molto critica con me stessa ... Forse, citando la mia amica Francesca che spesso me lo ricordava, avrei dovuto confidare di più su quelle frasi, su quei giudizi che venivano a volte formulati da persone assolutamente non di parte come dei docenti universitari; semplicemente forse, dovevo confidare di più in me stessa e basta. 

Scansai dalla mente quei pensieri, e tornai a focalizzarmi su ciò che aveva appena detto il professor D., pensando al fatto che aveva deciso di includermi in uno di quei progetti rinomati e ai quali quasi nessuno studente nel corso del biennio aveva la fortuna di essere invitato: ce n'erano moltissimi e tutti organizzati nei minimi dettagli dai docenti del corso, ma il più delle volte venivano realizzato con l'aiuto di dottorandi o assistenti (nonostante, almeno su carta, potesse candidarsi qualsiasi studente universitario del corso).
Sebbene non avessi la minima idea del tema centrale del progetto del professor D., l'area di competenza era quella a cui mi sarei voluta dedicare per la vita, e quindi dentro di me, cercando di nascondere bene la mia emozione e il tremolio nelle mani, ero davvero entusiasta e pronta ad ascoltare ogni dettaglio. 

Il professore si schiarì la voce, e poi iniziò a spiegarmi: "La partecipazione però richiede massima discrezione, glielo dico molto schiettamente: non le sarà possibile raccontare del laboratorio a nessuno."
Aggiunse. Annuii di nuovo, ancor più disorientata di prima: non avrei quindi potuto raccontare nulla alle amiche? Alla mia famiglia? Per quale tipo di motivo, esattamente? Ero consapevole che quelle preoccupazioni da parte mia fossero forse di poco conto, davanti ad una proposta del genere, perciò cercai di insabbiarle nel profondo, continuando a guardare fissa il docente, che sembrava poco interessato ad esaminare le mie reazioni, e molto più concentrato sul da farsi. 

"Mi rendo conto che sto chiedendo un atto di fede, ma lei mi dà modo di credere che sia disposta a farlo, per questo le faccio una domanda." 
Trattenni il respiro per un attimo, perché non solo per un'atea come me il concetto di fede era piuttosto bizzarro e decontestualizzato, ma perché quel progetto sembrava prendere le pieghe di un'operazione segreta.

Decisi di non reagire, certa che il professor D. avrebbe formulato la fatidica questione, che però non riuscivo nemmeno lontanamente a prevedere. Voleva forse testare la mia autocritica? O forse comprendere quanto potessi resistere allo stress accademico? 
Dopo qualche secondo, arrivò la sua domanda, formulata con un tono tanto serio quanto la sua espressione e i suoi occhi, che mi osservavano fissi e concentrati.


"Se lei avesse modo di tornare nel 1963, sarebbe in grado di cambiare le sorti a Dallas?"

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