Lupin III - Il Cuore d'Argento

di Fiore del deserto
(/viewuser.php?uid=181145)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Personaggi ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Personaggi ***


PERSONAGGI
 
Arsenio Lupin III: ladro gentiluomo (nipote di Arsène Lupin) e protagonista del racconto. Dotato di molti gadget e abile nel camuffamento, si distingue per la sua mente brillante.
 
Daisuke Jigen: ladro e pistolero dai tratti vagamente americani, nonché complice e migliore amico di Lupin.
 
Goemon Ishikawa XIII: samurai maestro di Iaidō, nonché amico di Lupin.
 
Fujiko Mine: ex-fidanzata di Lupin, donna affascinante ed egoista, sempre pronta a tradire Lupin per i propri scopi.
 
Koichi Zenigata: ispettore dell'Interpol e rivale-amico di Lupin.
 
PERSONAGGI NUOVI
 
Bianca Vogelheron: figlia del reverendo del villaggio, dal carattere molto docile e timoroso da quando ha perduto la madre. Ha i capelli biondo platino, è graziosa, longilinea e un po’ cagionevole di salute. È perennemente sottomessa al reverendo e alla sorellastra.
 
Reverendo Vogelheron: ministro di un gruppo religioso, il suo nome non viene mai svelato e viene definito solo come ‘il reverendo’ o ‘il reverendo Vogelheron’. Fanatico religioso, non esita a ‘purificare’ i peccatori per mezzo di sofferenze e umiliazioni.
 
Erika Neid: sorellastra di Bianca e figliastra del reverendo. Ha gli occhi marroni e i capelli ramati, è gracile e sgraziata. Essendo la beniamina del reverendo, è vista da tutta la popolazione come un modello da seguire e, sebbene possa sembrare ossequiosa e indifesa, in realtà si rivela essere falsa, vigliacca e bugiarda. Nutre un viscerale odio verso Bianca e, sicura della propria superiorità, non esita ad infliggerle numerose angherie immotivate.
 
Elisabeth ‘Elis’: odiosa gatta persiana York Chocolate di Erika, dalla quale viene viziata in maniera vergognosa.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Situato in un angolo sperduto nel cuore delle Alpi Grigionesi, il Villaggio Silmes è talmente sconosciuto da non essere riportato sulle cartine geografiche. Una delle prime date di cui si potrebbero avere informazioni potrebbe essere intorno al quindicesimo secolo, periodo in cui era stata costruita la chiesa del borgo e, non meno importante, durante l’inquisizione contro cinquecento persone accusate di stregoneria – la maggior parte, donne.
Il nome del villaggio è di origine sconosciuta, ma gli abitanti ritengono che potrebbe derivare dalla sacra reliquia chiamata originariamente ‘Silver Flame’, un cimelio d’argento a forma di cuore avvolto in una fiamma che - a detta dei padri fondatori del Villaggio Silmes - si è ritenuto di vitale importanza durante il triste e oscuro periodo della caccia alle streghe. Tuttavia, ciò potrebbe anche essere infondato, in quanto la sacra reliquia veniva chiamata fino ai tempi odierni con il semplice nome di ‘Cuore d’Argento’, per via della forma e del materiale che ne costituiva.
Secondo la storia tramandata da diverse generazioni, essa era considerata miracolosa, poiché in grado di identificare coloro che erano sospettati di stregoneria: bastava, infatti, che il cuore si illuminasse per garantire la colpevolezza della persona additata.
Per molti secoli, la reliquia è rimasta custodita all’interno dell’altare della chiesa del villaggio. La piccola chiesa a capanna non ha mai visto una sola traccia di cambiamento durante i suoi lunghissimi anni, presentandosi costantemente con i suoi mattoni grigi ai lati e la pietra lavica al centro, priva di ogni decorazione. Il portale è circondato da cinque cornici decrescenti che scavano la muratura fino all'apertura vera e propria e solo qui si può intravedere un lieve ornamento, segnato da una croce molto semplice, sormontato da un rosone circolare.
L’interno della chiesa, che non si differenzia dal grigiore della parte esterna, è in stile evangelico ed è ad aula coperta con soffitto a doppio spiovente, poggiante su una grande arcata a sesto acuto ed illuminato da piccole finestre quadrate che si aprono lungo le due pareti laterali. L’ambiente, il quale non denomina minimamente del calore confortevole del rifugio religioso, termina con un’abside appena accennata e che presenta una croce luminosa, insieme ad un ligneo pulpito.
In quella uggiosa mattina di ottobre, le campane della chiesa risuonano per richiamare i fedeli al suo interno. Decine e decine di persone, rigorosamente vestite di nero, si affrettano ad entrarvi e mostrando a chiunque un sorriso bonario, quasi a voler lasciare intendere la loro gioia di poter assistere alla nuova funzione. Ogni donna ‘sfila’ con un abito nero e provvisto di lunghe gonne che arrivano quasi a toccare terra, quasi come se dovessero presentarsi ad un funerale. Ognuno di loro, tra famiglie e non, si accomodano sulle candide panche di abete bianco distribuite parallelamente in due file. Qualcuno ha già una bibbia dalla copertina nera tra le mani, qualche madre invoca i bambini al silenzio.
Quando i fedeli sentono il suono di passi lenti e pesanti, nella chiesa si sofferma un silenzio totale. Gli sguardi dei presenti si posano sulla figura alta, rigida, arrogante, cupa e autoritaria del reverendo che si avvicina lentamente verso l’altare.
L’uomo, interamente vestito di nero, fatta eccezione per il colletto bianco della camicia, accerchiata da una cravatta altrettanto nera, è il reverendo Vogelheron, pastore del villaggio. Di mezza età, dalla carnagione pallida e gli occhi neri, scavati e segnati da lievi occhiaie, capelli scuri, lisci e lunghi fino a coprirgli la nuca, dal volto freddo ricoperto da una corta barba che sfuma verso il bianco, richiamando la verità dei suoi anni. Ad offrire al suo aspetto un altro tocco di inquietudine, è la vistosa cicatrice sull’occhio destro, la quale inizia sulla fronte e termina lungo lo zigomo. Questa, però, non ha compromesso il corretto funzionamento della sua vista.
I suoi occhiacci neri ricadono su due persone a lui sconosciute e li squadra come se volesse fulminarli da un momento all’altro. Conosce benissimo i membri della sua comunità e non è per nulla difficile sfuggire alla sua attenzione. Sono due uomini, seduti insieme su di una delle ultime panche e sembrano essere stranieri ed entrambi sono accomunati dai capelli corvini. Il primo ha i capelli lunghi e folti, una lunga barba sotto il mento e alquanto indisciplinata. Indossa un completo scuro, una camicia celeste, una cravatta e una fedora a larga tesa, appena rimossa per l’occasione formale. Il secondo straniero ha un’espressione furbesca e furtiva e il volto è delineato da un paio di lunghe basette. Per quanto riesca a vedere il reverendo, il vestiario del secondo uomo è composto da una giacca verde, una camicia nera e una cravatta gialla. Il lettore, naturalmente, avrà già inteso che si tratti rispettivamente di Jigen e Lupin.
Con austera autorità e l’arrogante sicurezza di chi sa che non verrà mai e poi mai contraddetto, senza scollare lo sguardo verso Lupin e i suoi amici, con voce ferma, penetrante e graffiante, rivela di fare molta attenzione ai falsi profeti, ai lupi travestiti da agnelli.
Come da prassi, tira fuori dall’altare il Cuore d’Argento e tutti i fedeli rivolgono lo sguardo verso il pavimento, giungendo le mani in segno di preghiera. Lupin e Jigen, fanno lo stesso per non destare sospetti e per studiare al meglio ogni mossa.
«Io sono il pastore che dirige le pecore nella giusta via.» sibila il reverendo «E so che qualcuno di voi ha perduto la via. Credete che il Cielo abbia pietà per chi non merita?» si ferma, posando lo sguardo sui presunti ‘colpevoli’ «Ricordate: i peccatori finiscono sempre nell’eterno rogo.» è importante che il reverendo utilizzi un tono minaccioso per piallare le anime dei suoi fedeli, in modo che tutti pendano dalle sue labbra e che non si lascino abbindolare dal peccato.
Lupin e Jigen sono appena arrivati e non sono a conoscenza del fatto che tutti gli abitanti del Villaggio Silmes seguano le rigidissime regole impartite dal reverendo e dai suoi predecessori per sfuggire dalle occasioni di vizi e di frivole concupiscenze. Prima di tutto, sanno bene che non devono avere nessun contatto con l’esterno: la regola base che ha fruttato lo stile di vita degli abitanti è il rifiuto categorico del progresso, della tecnologia eccessiva e della popolazione all’infuori del villaggio, poiché considerati corrotti dal peccato ed estremamente nociva per la vita pura e semplice insegnata dai padri fondatori. Di conseguenza, gli stranieri non sono ben visti.
Come il lettore starà immaginando – e aspettando di leggere – alle donne è proibito vestirsi secondo i dettami della moda e usare prodotti di bellezza. Gli abbigliamenti della comunità, infatti, sono molto duri: tutti gli uomini vestono solo camicie e pantaloni molto semplici, al massimo possono accompagnare il tutto con un gilet e, all’occorrenza, una giacca. I vestiti delle donne sono altamente modesti e senza ornamenti, le maniche devono essere sempre lunghe e le gonne mai sopra la caviglia. Inoltre, non devono indossare i pantaloni, pena il giudizio di essere giudicate come poco di buono.
Quando si va ad ascoltare la predica del reverendo, devono tutti quanti, uomini, donne e bambini, vestirsi solo ed esclusivamente di nero.
Oltretutto, tutti sanno che non si deve lavorare altrove: la vita degli abitanti deve essere dedicata alla preghiera e al lavoro per la comunità e tra le fonti di necessità vi sono l’agricoltura, l’artigianato, l’allevamento e l’insegnamento.
Inutile dire al lettore quanto siano impensabili tutte le circostanze ritenute inopportune per la chiesa, come i rapporti prematrimoniali e il concepimento prima di sposarsi, oltre all’uso dell’alcool – per lo più, nei confronti delle donne - e di altri elementi di vita dissoluta. In parole povere, nel Villaggio Silmes vige un regolamento e uno stile di vita tipicamente patriarcale e guai a chi osa ribellarsi.
Nel frattempo, mentre tutti quanti sono impegnati a dirigere lo sguardo verso il basso, Lupin ha notato che, oltre a lui, c’è un’altra persona che si è ‘distratta’ dall’omelia del reverendo.
C’è una ragazza seduta sulla panchina di fronte a lui, lo sta guardando con gentile curiosità e senza indiscrezione. Gli ha sorriso appena, come gesto di cortesia e come per dargli il ‘benvenuto’, nonostante sia al corrente del fatto che sia uno straniero. La ragazza ritorna ad ascoltare il sermone e orienta lo sguardo verso il pavimento.
L’ha vista per un solo istante, ma Lupin ha fatto in tempo a stampare nella sua mente i lineamenti della giovane. È alquanto graziosa, il volto quadrato è largamente addolcito dai tratti molto ingentiliti, in particolar modo dalle guance rosate. Gli occhi scuri, delineati da un paio di sopracciglia altrettanto scure, contrastano il candore dei capelli platinati lunghi fino a coprirle il collo.
«Ed ora...» finita l’omelia, il reverendo indica con il palmo della mano destra qualcuno tra i fedeli «Erika, alzati per favore.»
Tra i parrocchiani si alza una ragazza che, appunto, risponde al nome pronunciato dal reverendo. È molto magra, le sue braccia sono simili a due manici di scopa, i capelli sono ramati e gli occhi marroni   denominano la fierezza e l’esagerato orgoglio di essere stata interpellata dal reverendo.
«Sappiamo che hai ricevuto una nuova chiamata.» dice il reverendo «Puoi condividere con tutti noi come ti è arrivata?»
Erika prende un bel respiro – anche se Lupin e Jigen hanno notato che si tratti di un metodo altezzoso di richiamare l’attenzione tutta su sé stessa – e, schiaritasi silenziosamente la voce, inizia a testimoniare con voce commossa.
«Ieri pomeriggio,» annuncia «mentre pregavo, stavo preparando un piatto umile e onesto. All’improvviso, a preghiera conclusa, è apparsa sulla farina la forma di una figura angelica. Credo fermamente che la mia preghiera abbia commosso il Cielo e che abbia deciso di mandarmi un angelo per offrirsi in sacrificio.»
Se Lupin e Jigen stanno lottando con tutte le loro forze per non ridere di fronte ad una simile assurdità, il reverendo comincia a lodare Erika, invitando tutti i fedeli a credere come lei. La chiamata, aggiunge, prima o poi arriva per tutti quanti.
«Nel frattempo,» aggiunge Erika «mi duole dirlo, ma vorrei annunciare anche una forma di peccato che è appena giunto in queste sacre mura.»
Tutti i parrocchiani cominciano a bisbigliare, mentre Lupin e Jigen restano sull’attenti.
«Questa qui non mi piace affatto.» sussurra Jigen a Lupin.
«Mi sarei preoccupato se avessi pensato il contrario.» risponde il ladro gentiluomo.
 Basta che il reverendo alzi le mani al cielo, perché ritorni il silenzio.
«Ogni peccatore,» aggiunge «se non vuole come un impuro e un indegno, deve affrontare la punizione che merita. Solo così potrà essere purificato.» fa un cenno ad Erika di avvicinarsi a lui e, quando la ragazza lo raggiunge, il reverendo continua «Confessare un peccato o annunciare la cattiva condotta di un fratello, o sorella, è un passo avanti verso la salvezza. Quindi, Erika, puoi rivelarci il peccatore?»
Sebbene Lupin e Jigen siano tesi, Erika non si sta riferendo a loro due. Essendo, infatti, estraniati dal mondo, nessuno tra i fedeli è stato in grado di riconoscere l’identità dei due stranieri.
«Mentre il reverendo ci stava offrendo il suo sermone,» asserisce Erika «Bianca ha osato distrarsi e ha preferito rivolgere la sua attenzione verso quei due stranieri.»
Come il lettore avrà intuito, Bianca è il nome della ragazza che, appunto, aveva prima guardato Lupin.
Tutti i fedeli riprendono a mormorare tra loro, Lupin e Jigen ribadiscono il loro disappunto, ma il reverendo invita tutti alla calma.
«Bianca,» ordina sibilante «alzati.»
Bianca obbedisce e, timidamente, abbassa lo sguardo in segno di sottomissione.
«Il tuo non è un peccato grave,» dichiara il reverendo «quindi, dovrai osservare solo tre giorni di digiuno.»
Erika interviene, come scandalizzata.
«Questo è troppo indulgente.» afferma con turbamento «Merita una settimana di digiuno...»
«Erika,» la interrompe il reverendo «hai già compiuto il tuo dovere, ma ricorda che la superbia, anche nella sofferenza, è peccato.» ritorna a parlare con Bianca «Durante questi tre giorni di digiuno, ringrazierai tua sorella per essersi presa cura della tua anima.»
Erika nasconde uno sbuffo di disapprovazione, ma comincia a sorridere quando sente le ultime parole del reverendo.
Bianca si limita ad annuire e ritorna a sedersi.
«Ma questo non è giusto...» mormora Lupin, ma Jigen gli dà una gomitata per farlo zittire. Non è tempo né luogo per pensare cosa giusto o sbagliato.
Hanno ben altro a cui pensare. Se sono giunti in quello sputo di villaggio, come lo aveva definito Jigen appena varcato il confine, è stato solo ed esclusivamente per impossessarsi del Cuore d’Argento.
A giudicare dallo sguardo del suo amico, però, Jigen avverte che Lupin ha già in mente qualcosa in più di un semplice furto e questo lo preoccupa. Quando c’è di mezzo una fanciulla vittima di un’ingiustizia, il ladro gentiluomo non si tira mai indietro. In cuor suo, Jigen si augura di sbagliarsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Chiunque abbia imparato a conoscere il ladro gentiluomo, sa perfettamente che non si sia mai tirato indietro di fronte ad una sfida. È sufficiente che la sua attenzione venga stimolata da qualcosa che emetta un luccichio, che emani tutta la rarità del proprio valore, oppure – per non far mancare nulla – la sola presenza di una damigella in pericolo perché la situazione prenda il nome di ‘sfida’.
Proprio per questo motivo Jigen teme qualche ‘brillante idea’ del suo amico, pronta a balenargli in testa con una velocità superiore a qualsiasi proiettile. Sta sperando – e, forse, pregando – in tutti i modi perché Lupin intenda unicamente andare via, alzarsi e allontanarsi dalla chiesa, nonostante anche lui ritenga che quanto ha appena assistito sia da ritenere un’ingiustizia. Gli tocca, tuttavia, riconoscere che sia troppo tardi.
Lupin e Jigen escono dalla chiesa non appena la messa giunge al termine e sono i primi ad aver raggiunto l’uscita, in quanto intenzionati fermamente ad evitare qualsiasi forma di contatto con quella gente di poco cuore. Inoltre, finché non comprendono fino in fondo come si svolgano le circostanze del luogo, i due pensano sia saggio non compromettere nessuno, né esprimere nessun giudizio.
Piuttosto difficile quando le loro orecchie riescono a captare i commenti di sussurranti chiacchiericci: uno tra i primi, ‘Che incivili, presentarsi in chiesa con addosso quegli abiti informali...’, è chiaramente riferito al ladro gentiluomo e al suo amico e socio. ‘Lo sapevo che quella ragazza era una poco di buono...’, invece, è dedicato a quella poveretta che era stata gratuitamente umiliata in pubblico. ‘Quell’anima pia della signorina Erika sa come aiutare quella screanzata di Bianca...’ è l’ultimo pettegolezzo che Lupin ritiene più che sufficiente per la propria pazienza e per accettare ulteriormente la ‘sfida’.      
«Ma dico...» si lamenta Lupin, assicuratosi di essere sufficientemente lontano da occhi e orecchie indiscrete, sotto lo sguardo di un ormai rassegnato Jigen «Stiamo scherzando o cosa? Davvero questa gente rimane indifferente di fronte a quella povera creatura?» nonostante non la conosca ancora, il ladro gentiluomo non se la sente di dimostrare disinteresse di fronte a quella povera ragazza che ha subito ingiustamente una simile mortificazione.
«Datti una calmata, Lupin.» bofonchia Jigen «Sempre la stessa storia! Possibile che ogni volta che ci sia di mezzo una donna, tu non capisca più nulla?»
Lupin si lascia scivolare di dosso quel brontolamento, non tanto per il poco interesse nei riguardi della ramanzina di Jigen, quanto al fatto che abbia già in mente qualcosa.
Il pistolero lo lascia sbollire, non intende immischiarsi. Non per il momento. La sua preoccupazione, infatti, ruota al dover iniziare a cercare un luogo dove poter passare la notte.
Tutto considerato, sono entrambi stanchi dato il lungo viaggio ed è meglio trovare al più presto una locando, una pensione o un piccolo alberghetto dove poter prendere alloggio.
Il problema si fa più arduo del previsto, dato che nessuno degli abitanti del Villaggio Silmes sembra voler offrire ai due stranieri un alloggio, ma Lupin incoraggia Jigen a non perdersi d’animo. Davanti a loro, poco oltre la strada di campagna, c’è una grande e bella villetta con un’elegante insegna che richiama la loro attenzione e che lascia comprendere che si tratti di uno chalet adibito a pensione: ‘L’Oasi di Pace’.
«Sei sicuro?» domanda Jigen, chiaramente sconfortato di fronte ai precedenti rifiuti di ospitalità da parte degli altri abitanti.
«Scherzi?» ridacchia beffardamente Lupin «Apparterrà di certo ad un uomo ricco e non gli recheremo alcun disturbo: questo ‘castello’ avrà sicuramente tante stanze.»
Così, si dirigono verso ‘L’Oasi di Pace’ e Lupin bussa discretamente alla porta. Il proprietario, udendo bussare, apre la finestra e non sembra essere lieto di vedere davanti casa sua due stranieri.
«Cosa volete?» domanda grezzamente, come se lo avessero disturbato da un impegno molto importante. È un uomo sulla quarantina d’anni, vestito elegantemente e leggermente in sovrappeso.
«Salve, buonuomo.» saluta gentilmente Lupin «Io e il mio amico abbiamo visto l’insegna e cerchiamo un alloggio per un paio di...»
Il proprietario, infischiandosene delle buone maniere, non lo lascia nemmeno finire di parlare.
«Non posso accogliervi.» dice «Le mie stanze sono tutte piene. Se dovessi ospitare tutti gli stranieri che bussano alla mia porta, perderei la mia clientela e potrei fare l’accattone a mia volta. Cercate di sistemarvi altrove.»
Detto questo, l’uomo sbatacchia le imposte della finestra e pianta in asso Lupin e Jigen.
«Ma che razza di modi sono questi?» gracchia Jigen «Ehi, amico!» il pistolero richiama a gran voce l’uomo, il quale se ne sta chiuso nella sua villetta e continua maleducatamente ad ignorarlo, facendo innervosire maggiormente Jigen e portandolo a lanciargli un malaugurio «Spero che tu abbia un frontale con un tir e che ti sia scaduta il giorno prima l’assicurazione!»
«Andiamo, Jigen.» lo calma Lupin, asserendo che non valga la pena sprecare il fiato.
Sbuffando, gli tocca allontanarsi e ad accontentarsi di trovare un posto adatto dove poter installare la loro tenda – immancabile durante i loro lunghi viaggi – così da potersi accampare.
Addio letti comodi, pensano entrambi, per almeno tutto il tempo della permanenza.
Jigen sta combattendo duramente contro gli attrezzi per sistemare il loro ‘accampamento’ e sta per chiedere a Lupin di dargli una mano, ma non appena si volta... non vede nessuno.
«Ci risiamo...» trattiene a stento delle brutte parole, portandosi una mano sul volto. Gli conviene, comunque, cercare di fare in fretta: le nuvole grigie hanno appena oscurato il sole e due goccioline di pioggia gli hanno appena bagnato il palmo di una mano. Meglio affrettarsi, prima che la pioggia possa sorprenderlo.
 
Percorrendo le vie secondarie del villaggio, Lupin è riuscito a rintracciare il reverendo e le sue due figlie, giungendo alla loro abitazione. La prima cosa che non può sfuggire all’occhio verte la notevole dimensione e cura della costruzione della casa, indubbiamente la più bella e la più ‘maestosa’ di tutte le altre dell’intero villaggio, ‘in barba di chi predica il nome del divino’, come starà pensando Lupin e lo stesso lettore.
La proprietà a due piani del reverendo si accede da un lungo viale sterrato costeggiato in entrambi i lati da piccoli cespugli di rose di diverso colore, ben allineati in modo da rendere gradevole le tonalità che passano da quelle più chiare a quelle più intense.
Tutto intorno alla casa, come per completare un gradevole capolavoro pittorico, si estende il verde giardino con alberi da frutto, composto da peschi e ciliegi, insieme a svariate piante aromatiche.
La costruzione della casa è prettamente in pietra, richiamando apertamente uno stile nordico e rustico, ma senza mancare di eleganza. Le pareti sono rivestite in mattoni ricomposti in pietra verniciata in bianco che sfuma verso il grigio, mentre gli angoli esterni sono ricoperte da una tonalità che richiama una tinta più oscura. 
Il tetto spiovente a due falde è composto da tegole che alternano al rossastro e al grigio, e sulla cima si erge un comignolo con mattoni in vista, con la mitra realizzata con copertura a capanna a falde molto inclinate, sorretta da sostegni verticali in cotto.
Il pianterreno è usato per la zona giorno, mentre il piano superiore per la notte. Per non confondere il lettore, tuttavia, per il momento ritorniamo alle azioni del ladro gentiluomo.
Una volta sicuro di non essere visto da nessuno, Lupin si avvicina ad una finestra che lo porta ad intravedere il salotto. Osserva.
La scena che si ritrova davanti non è quella che si sarebbe mai aspettato. Il reverendo Vogelheron, che purtroppo non è famoso per possedere una voce dal tono basso, sta ferocemente urlando contro quella poveretta che poco prima aveva osato salutare il ladro gentiluomo. Prima di riuscire ad udire bene quanto dica – anzi, quanto ‘ululi’ – e prima di avere il tempo di sentirsi in colpa per quella povera ragazza, Lupin assiste alla mano del reverendo che si alza fin sopra la sua testa, per poi finire ad incontrare violentemente il volto della figlia, così forte da farle sbattere la schiena contro il muro. Lupin inorridisce, sente il colpo e allo stesso modo sente il dolore sulla propria guancia, come se quel ceffone fosse arrivato anche sul suo viso.
«Ti rendi conto della figura che mi hai fatto fare?» esclama il reverendo contro la ragazza «Mi hai deluso, come sempre!»
«M-ma, padre...» balbetta Bianca «Ho solo guardato quei due nuovi signori all’interno della comunità...»
«Stai zitta, se non vuoi peggiorare la tua situazione.» tuona il reverendo, mentre Bianca continua a tremare per la paura e cercare di evitare il suo sguardo.
Purtroppo per lei, il reverendo se ne accorge.
«Guardami in faccia, sciagurata!» le comanda «Come faccio a parlare con te, se continui a fissare il pavimento?»
Nonostante sia spaventata, Bianca è costretta ad obbedirgli e lo guarda negli occhi. Riesce a vederlo a malapena, poiché i suoi occhi castani sono compromessi dalle lacrime e da quanto sta vedendo si accorge che il reverendo stia digrignando i denti.
«Sei un vero disonore.» l’uomo ha le braccia incrociate, la sta fissando e ha il respiro pesante «La maggior parte del tempo, non so nemmeno se sia corretto considerarti una... ‘figlia’.»
Se Lupin è a dir poco sconcertato di fronte a quelle incommentabili parole, Bianca non sembra nutrire lo stesso sentimento. Sembra che non la scalfiscano più di tanto, come se le avesse sentite chissà quante volte al punto da aver come creato intorno a sé una specie di corazza invisibile.
«Provi un sadico piacere nel farmi passare per un padre snaturato di fronte a tutto il villaggio?» continua il reverendo «Adori lasciare intendere che io non sia in grado di darti un’educazione esemplare? Mi fai vergognare del fatto che tu abbia il mio stesso sangue.»
Lupin non si capacita di quanto stia sentendo, non può essere vero che un padre si rivolga in questo modo ad una figlia, soprattutto perché quella poverina non ha fatto niente di male.
Per quale motivo dovrebbe trattarla così, solo perché si è accorto della sua presenza e lo ha semplicemente guardato e offerto un sorriso di cortesia?
Di fronte a tutto questo, Lupin non ha smesso di notare che ci sia anche Erika. Quella stessa Erika che ha accusato pubblicamente Bianca, garantendole l’umiliazione pubblica e una seconda ingiustizia all’interno delle mura domestiche. Non ha mosso nemmeno un dito in difesa della sorella: al contrario, ha osservato e continua ad osservare tutta la scena in silenzio, mal nascondendo la maligna gioia di vedere Bianca soffrire in modo immeritato.
«Chiedo il vostro perdono, padre.» si scusa, infine, Bianca a testa bassa «Vi prometto che non capiterà più una cosa del genere.»
Il reverendo resta per un po’ in silenzio, mentre Erika si acciglia come per dire ‘Ma come? Lo spettacolo è già finito?’.
«Avrai il mio perdono il giorno in cui Dio mi dirà di offrirtelo.» ringhia il reverendo «Resterai chiusa nella tua stanza fino alla fine del digiuno. Uscirai solo per compiere i tuoi doveri.» Bianca sta annuendo a testa bassa, ma il reverendo ha in serbo per lei un’altra brutta sorpresa «Per amplificare la tua penitenza e per permettere che la tua anima possa essere purificata al meglio, da domani ti alzerai un’ora prima dell’alba e svolgerai anche i doveri di Erika al suo posto.» calmatosi dopo aver pronunciato il nome dell’altra ragazza, il reverendo appoggia una mano sulla spalla di Erika «Dovresti esserle grata. È grazie ad Erika se la tua anima lercia potrà avere la possibilità di redimersi dal peccato.» A quelle parole, Erika si gonfia il petto di soddisfazione e increspa le labbra in una smorfia di compiacimento e superiorità, con tanto di lieve sbuffo di acida approvazione.
Bianca annuisce, trattenendo a stento un sospiro per trattenere eventuali lacrime. Sempre a testa bassa, sale le scale e si dirige verso la propria stanza come le è stato ordinato.
«Sei stato troppo indulgente, papà.» commenta Erika «Avrebbe meritato di peggio.»
«Sono d’accordo.» conferma il reverendo «Ma seguo sempre la volontà di Dio. Andare oltre, equivale ad una disobbedienza.»
Erika sbuffa chiaramente dispiaciuta, ma ritrova il buonumore quando vede avvicinarsi la sua gatta. Ha il pelo lungo e marrone scuro, tendente al nero e perfettamente curato e sempre ben toelettato, gli occhi grandi e verdi, luminosi come gemme, scrutano l’ambiente con fare schizzinoso, mentre la folta coda si agita lentamente. La corporatura grassa e l’andatura pigra denotano che si tratti di una gatta viziata e sempre abituata a ricevere attenzioni. E a chi potrebbe appartenere, se non ad Erika?
Si chiama Elisabeth, ma Erika preferisce chiamarla con uno smielato diminutivo, ‘Elis’. Nonostante possa sembrare una persiana a tutti gli effetti, il muso leggermente appuntito ne tradisce di poco le origini, poiché sembra richiamare delle radici un po’ meticce. Tuttavia, Erika ha sempre asserito che si tratti di una persiana di razza purissima York Chocolate, ‘la quintessenza delle più pure razze felini’, come ama definire Erika. Per lei, Elis è molto di più di una semplice gatta: la tratta, infatti, come una figlia da dovere viziare e coccolare sopra ogni cosa, adorarla come se fosse la sua bambina e di questo Elis se n’è ‘accorta’. Non passa giorno, infatti, in cui il suo ego non venga enfatizzato in maniera sempre più snaturata ed esagerata: si aggira sempre per le stanze della casa come una principessa, snobbando qualsiasi estraneo e chiunque non sia alla portata delle grazie di Erika. Tra questi, vi è anche Bianca. Erika, per non essere da meno, aveva insegnato ad Elis come e quando disprezzare quella poveretta, permettendole di soffiarle contro o, addirittura, di dedicarle un bel graffio. Guai a Bianca se osava anche solo alzare la voce contro quella pomposa gatta, perché Erika gliel’avrebbe fatta pagare molto salata.
Elis, diceva sempre il reverendo, è un dono aveva fatto ad Erika con tanto amore per cercare di colmare il suo dolore dopo la perdita della madre e rimproverava sempre aspramente Bianca per la sua insensibilità ed egoismo a riguardo, oltre alla sua incurabile incapacità di comprendere la situazione. Con questa scusa triviale, Elis era diventata pressocché intoccabile.
«Elis, amore della mamma.» Erika prende la gatta in braccio, mangiandola di baci e chiede il consenso del reverendo per tornare nella propria stanza.
Con un cenno del capo dell’uomo, Erika si ritira nella sua camera, seguita dal miagolio di Elis.
 
Il cuscino di Bianca è inondato dalle lacrime di lei. La poverina non sa definire se quanto accaduto sia corretto o no, sta di fatto che tutto è delineato dalla volontà di Dio e che il reverendo stia solo cercando di mettere in atto la Sua parola.
Bianca lancia un lieve sguardo verso una fotografia adagiata sul suo comodino e un’altra lacrima le solca il viso quando incontra la figura che ritrae la sua defunta madre.
Per il momento, chiediamo al lettore di fare un piccolo passo indietro e lo invitiamo a soffermarsi su un dettaglio che – se è stato attento – avrà notato in precedenza. Se Bianca è obbligata a dare al reverendo del ‘voi’, come per mantenere una fredda e vincolata distanza, lo stesso non si può dire per Erika. Quest’ultima, non solo gli dà del ‘tu’, ma lo chiama addirittura ‘papà’, al contrario di Bianca che, a sua volta, si rivolge a lui chiamandolo ‘padre’, confermando pienamente la distanza accennata poco prima. Una distanza imposta dallo stesso reverendo.
Eppure, la situazione che il lettore immagina, non è affatto come sembra. Al contrario di quanto si possa pensare, Bianca è la figlia naturale del reverendo, al contrario di Erika.
L’assurdità della circostanza e il bizzarro modo del reverendo di creare dei favoritismi tra le due ragazze, è collegato dalle madri di ognuna di loro.
La madre di Bianca era splendida, la donna più amata e rispettata di tutto il villaggio, conosciuta per il suo buon cuore e per la sua incondizionata generosità. Angelina Kasten, questo il suo nome, era solita ad aggirarsi per il villaggio per portare da mangiare a chiunque, a volte offriva anche del latte fresco e non disdegnava a fare da doposcuola agli scolari che avessero delle lacune.
Una volta deceduta a causa di un’inguaribile malattia, lo stesso reverendo non aveva perduto tempo a sostituirla con un’altra donna che potesse rimpiazzare colei che ‘lo aveva abbandonato contro la volontà di Dio’, come era solito definire l’uomo con cinismo.  
La seconda moglie si chiamava Tanja Neid, vedova da poco tempo anche lei e con Erika a carico. Sin dal principio, Erika aveva lottato con tutte le sue forze per mantenere il cognome della madre e il reverendo – istigato dalla seconda moglie – non aveva fiatato.
Al contrario di Angelina, Tanja era una donna molto forte e sapeva perfettamente come farsi rispettare e non le era costata nessuna fatica a creare di Erika la sua copia precisa, fatta e finita.
Estremamente infastidite dalla presenza di Bianca - figlia di una precedente moglie del reverendo – Tanja aveva fiutato il fanatismo del reverendo e l’evidente fragilità di Bianca. Insieme ad Erika, la donna era riuscita poco per volta a manipolare la mente del reverendo, di per sé già discutibile, arrivando a fargli intendere che Bianca fosse perfida e crudele, frutto del cattivo sangue di Angelina e che meritasse un trattamento esemplare. Angelina, diceva, era una donna ribelle e dissoluta e Bianca era la sua ‘eredità’, per questo motivo Dio l’aveva fatta ammalare, per poterla destinare all’Inferno.
Inoltre, Tanja era riuscita a trasmettere al reverendo il concetto dell’innata immoralità di Angelina, di Bianca e di tutte le donne del villaggio – forse, anche dell’intero mondo – e che tutte e donne (esclusa lei ed Erika) fossero prostitute e strumenti del maligno.
A ‘conquistare il cuore’ del reverendo era il fatto che Tanja si autodefinisse una convintissima religiosa e lo dimostrava con le sue testimonianze durante le messe, leggendo anche la Bibbia e soffermandosi in particolar modo nei passi dell’Antico Testamento nei quali si parlava di morte e punizioni divine. In poco tempo, Tanja era riuscita anche ad effettuare un vero e proprio lavaggio del cervello anche al resto degli abitanti, riuscendo a persuaderli sulla crudele natura di Angelina e di Bianca.
Dopo qualche anno, ironia della sorte, anche Tanja era venuta a mancare per cause naturali, ma nel suo caso, dichiarava ossequiosamente il reverendo, era stata la volontà di Dio. A detta dell’uomo, Tanja era la migliore moglie che si potesse desiderare, perfetta e devota, così come Erika.
Per concludere la bizzarria, Tanja non si era dimostrata magnanima nemmeno sul letto di morte: si era fatta giurare solennemente dal reverendo che avrebbe continuato a lodare Erika, offrendole una vita agiata e dignitosa, mentre avrebbe dovuto continuare a ‘punire’ Bianca, obbedendo con costanza alla volontà di Dio.  

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


La camera di Erika, per dare un’idea al lettore, è adibita quasi come una nursery. Se da una parte vi sono tutto ciò che occorre per le esigenze di una signorina – rispettando sempre le norme del villaggio e della mentalità degli abitanti – dall’altra sono presenti accessori che possano richiamare la presenza di un bambino, o bambina in questo caso. Tuttavia, non essendoci bambini, la nursery è esclusivamente dedicata ad Elis e non si parla di cuccette, tiragraffi o accessori per ‘gatti plebei’.
Tanto per cominciare, la porta della camera di Erika è fornita di una gattaiola per fare in modo che Elis possa entrare ed uscire a suo piacimento e, probabilmente, è l’oggetto più sobrio che il lettore troverà durante la descrizione.
Proprio vicino al letto di Erika, è presente una culla box dove la sua gatta può comodamente dormire, ben fornita di morbidi cuscini e una grossa ciambella in peluche dove poter stare comoda come una pasqua. Inoltre, sul tettuccio della culla, Erika le ha installato un carillon per culle, una giostrina musicale con dei pupazzetti di cotone, ricaricata regolarmente dalla ragazza per far sì che la sua Elis possa fare dei bei sonnellini. Nessuna ciotola di plastica o in ferro per la sua principessa, ma due rigorosamente in porcellana color avorio e con delle raffinate decorazioni dorate, con incisa un’elegante ‘E’ in corsivo, l’iniziale del nome della gatta, una per il cibo e un’altra per l’acqua. I giocattoli sono tutti dei soffici peluche, ben esposti in ogni angolo della nursery. L’albero tiragraffi è piuttosto alto, dotato di due colonne dove Elis può rifarsi le unghiette, una scaletta che conduce ad una cuccetta calda e, infine, più in alto vi è una comodissima amaca.     
Seduta davanti alla toeletta, intenta a spazzolare il lungo pelo di Elis con l’ausilio di un’apposita spazzola in setole morbide e vantandosi costantemente dell’imparagonabile bellezza del felino, Erika si ferma per un secondo.
«La mamma ha una nuova e bella sorpresa per te.» le sviolina.
Non ci vuole molto perché Elis venga a conoscenza della sorpresa preparatole dalla padroncina: come al solito, infatti, le ha regalato un ennesimo ninnolo della quale certamente non se ne farà nulla, ma che per Erika è molto importante perché la sua preziosa gatta possa apprezzare il suo amore.
La ragazza, infatti, tira fuori un collare con dei piccoli granelli luccicanti che sembrano tante piccole bollicine, con al centro un ciondolo a forma di cuore, scolpito in una pietra preziosa simile ad uno smeraldo.
«Oh, Elis.» decanta Erika, come una madre alla vista di una figlia in abito da sposa «La mia bambina... Me la mangio, questa bella bambina.»
Chissà se qualcuno ha mai detto ad Erika che ogni animale, per quanto possa essere affezionato al proprio padrone, non possiede la stessa cognizione che ha un essere umano quando gli vengono donati oggetti dal valore che contengono un bel po’ di zeri?
 
La fortuna ha desiderato che dal cielo cadesse una pioggia leggera e priva di tuoni e vento e di questo Jigen vorrebbe esserne grato. Rimugina all’interno della tenda, avvolgendosi un’altra coperta addosso per evitare di prendere altro freddo e quasi maledicendo Lupin per averlo nuovamente lasciato in balia di sé stesso, tutto per una ragazza. Come sempre.
Smette di pensare quando sente Lupin avvicinarsi sempre di più, fino a che non lo vede addentrarsi nella tenda.
«Bonne soirée.» saluta Lupin con elegante accento francese e scuotendosi i capelli con ambo le mani, eliminandone l’umidità causata dalla pioggia.
«È tornato il principino.» brontola Jigen, indispettito.
«Avanti, non fare così.» lo supplica scherzosamente il ladro gentiluomo.
Sapendo che ne otterrà il perdono, Lupin non esita a mostrare interamente la propria faccia tosta affinché il suo amico possa dargli una mano per poter aiutare la figlia del reverendo.
«No!» è la secchissima risposta di Jigen.
«E dai, amico mio...» lo implora Lupin con un piagnucolio.
«Ho detto di no!» esclama Jigen, trattenendo una brutta parola non conforme all’educazione «Prima mi chiedi di aiutarti a rubare quella cosa a forma di cuore, perché tu possa regalarla a quell’infida di Fujiko. E adesso vuoi provare a coinvolgermi in un’altra delle tue idee, solo perché ti sei fatto intenerire dall’ennesima cerbiatta in difficoltà?»
«Oh, non dire così solo perché...» Lupin non finisce di giustificarsi, poiché il suo cellulare inizia a squillare – il che è da considerarsi un miracolo, dato che il villaggio si trova tra le alte montagne. Il ladro gentiluomo guarda il display e la sua espressione si tinge di preoccupazione quando si rende conto da chi stia partendo la chiamata.
«Fujiko! Che piacere sentirti, cherie...» esclama Lupin con enfasi, la stessa enfasi che viene immediatamente bloccata dalla voce femminile dall’altra parte del telefono.
«‘Cherie’, un corno!» quando si altera, Fujiko «Dove diavolo sei?»
«Non agitarti, tesoro di Lupin.» il ladro gentiluomo cerca di dissuaderla, mentre Jigen si porta una mano sul volto «Io e Jigen siamo arrivati al Villaggio Silmes e...»
«Poche parole, Lupin.» taglia corto la donna «Hai preso o no il mio ‘Cuore d’Argento’?»
«Ci sto lavorando, cherie...» spiega Lupin, nel tentativo disperato di calmarla «Solo che...»
«Tsk! Lo sapevo.» sbuffa Fujiko «Sei solo tutto chiacchiere! Pensavo che ci tenessi a me.»
«No, non dire così... Pronto?» Lupin allontana il telefono dall’orecchio il telefono e si accorge che la chiamata è terminata. Prova a richiamare Fujiko, per poterle dare una spiegazione, ma non c’è nulla da fare. La linea continua a risultare assente.
Per Lupin è una buona occasione per tentare nuovamente di dissuadere l’irrigidito Jigen, mettendolo al corrente della difficile situazione in cui si trova la figlia del reverendo. Ci vorrà qualche minuto perché il pistolero possa sciogliersi e Lupin lo sa bene.
 
All’interno di una lussuosa suite principesca da far disorientare chiunque si trovi al suo interno, Fujiko continua a combattere contro il telefono affinché possa riuscire a richiamare Lupin.
«Maledetto idiota!» si adira la donna «Come osa attaccarmi il telefono in faccia?» in verità, la sua scarsa pazienza le impedisce di comprendere che la colpa non sia affatto del ladro.
Per non confondere nessuno, ritorniamo indietro di qualche giorno e ripercorriamo il momento in cui Jigen si era opposto di fronte alla seconda richiesta di aiuto di Lupin.
Qualche settimana prima dell’arrivo nel Villaggio Silmes, Lupin e Fujiko stavano passando il tempo seduti sul tavolino di un bar, bevendo insieme qualcosa di caldo, fino a che la donna gli aveva fatto una delle sue solite proposte.
Fujiko, infatti, come ‘prova d’amore’, voleva che Lupin si recasse nello sperduto villaggio per rubare per lei la famosa reliquia chiamata ‘Cuore d’Argento’. Non ci vuole chissà quale fatica per capire quale sia stata la risposta, di per sé immediata, del ladro gentiluomo. Spronato dalle curve generose che la donna metteva volontariamente in risalto per farsi dire un semplice ‘sì’, Lupin era cascato dritto nella tela.
Da solita vigliacca, tuttavia, Fujiko gli aveva precisato la presenza della solita clausola scritta in caratteri minuscoli solo dopo l’accettazione dell’incarico: il ladro gentiluomo aveva solo due miseri giorni di tempo per consegnarle il ‘Cuore d’Argento’, o il loro patto poteva definirsi nullo.
Una condizione ingiusta, pensava Lupin, ma per la sua Fujiko avrebbe fatto i salti mortali come al solito.
Il tempo a disposizione era insufficiente e per questo motivo Lupin aveva chiesto a Jigen di aiutarlo – proponendogli una cospicua ricompensa per il disturbo. I due uomini, infatti, ci avevano impiegato due giorni esatti per raggiungere lo sperduto villaggio e ancora non avevano messo a segno il colpo, provocando l’impazienza e la collera di Fujiko.
Se solo Lupin avesse avuto il tempo di darle una spiegazione, forse la donna avrebbe potuto dimostrargli un briciolo di comprensione. Questo, però, non faceva parte né del piano, né della natura di Fujiko.
«Accidenti a te, Lupin!» continua a sbraitare «Devo sempre fare tutto da sola!»
 
È notte fonda e ormai Lupin ha avuto il tempo di ispezionare ogni angolo dell’abitazione del reverendo, perlustrando la situazione e analizzando ogni circostanza che riguardi Bianca.
La ragazza si è alzata un’ora prima dell’alba, ha svolto le pulizie di casa e ha lavorato nella mensa collettiva del villaggio. È tornata a casa la sera, distrutta e con a carico altro lavoro da svolgere. Il tutto, rigorosamente a digiuno impostole dal reverendo.
Tanto per cominciare, ha dovuto preparare la cena per il padre e per Erika, per poi ritornare a ripulire la casa, senza dimenticare di stirare – con metodi tutt’altro che moderni – gli indumenti di tutta la famiglia. Non deve, inoltre, dimenticare di preparare la cena per Elis e, su ordine di Erika, non deve mica trattarsi di miserabili pappette o abietti croccantini.
Sotto lo sguardo altezzoso e inacidito di Erika, Bianca stava versando sulla ciotola in ceramica della gatta una raffinata prelibatezza composta da un tortino di pollo e manzo, ingentilito da un brodino di tonno.
Bianca è preparata al peggio, poiché sa che è Elis a scegliere cosa mangiare e cosa rifiutare, senza farsi scrupoli dinanzi all’impegno e alle fatiche della ragazza. Se Elis apprezzava il cibo, avvicinava il muso verso la pietanza, la annusava per qualche secondo con fare schizzinoso e, infine, mangiava fino a pulire l’orlo della ciotola. Quando, invece, il pasto non era di suo gradimento, la gatta dapprima soffiava contro il cibo, dava una velocissima e violenta zampata contro la ciotola e rovesciata il tutto per terra. Quella sera, infatti, Elis aveva sprezzantemente rifiutato la cena e, dopo aver compiuto le azioni indicate in precedenza, la gatta aveva pensato bene di ricompensare Bianca con un bel graffio sulla mano.
Erika assisteva con grassa compiacenza e, per alimentare il disagio di Bianca, non ci aveva pensato due volte ad umiliarla ancora un po’.
«La mia povera bambina.» si lagna Erika, prendendo in braccio Elis e coccolandola come per consolare una bambina sconvolta, rivolgendosi successivamente a Bianca con acidità «Avanti, cosa aspetti? La mia Elis ha fame. Preparale subito da mangiare e fai in fretta, o lo dico a papà.»
Amareggiata e soffrendo in silenzio, a Bianca non restava altro che preparare immediatamente un nuovo pasto per Elis e, nel frattempo, pulire il disastro combinato dalla gatta. L’unica cosa che poteva consolarla era che prima o poi il periodo della punizione si sarebbe concluso, più si comportava bene e meno era lunga la durata di tutta quella umiliazione.
Questa volta, Bianca aveva preparato un tortino di salmone e, per fortuna, la gatta aveva accettato la cena.
Prima di andare a dormire, però, aveva un ultimo compito da seguire. Faceva freddo ed Erika non aveva nessuna intenzione di addormentarsi in una camera fredda, per questo Bianca aveva il compito di portare il carbone per alimentare la stufa in legno presente nella camera della sorellastra.
Adagiata sul sofà come una principessa, intenta a coccolare come sempre la sua Elis, Erika guardava con soddisfazione la povera Bianca che si avviava dinanzi alla stufa a legna, pronta a versare il carbone. Aveva dato una piccola secchiata e si stava per avviare verso la porta, desiderosa di andare a coricarsi, ma Erika glielo aveva impedito.
«Mettilo tutto.» le aveva comandato, indicando con arroganza la stufa «Papà lo paga il carbone.»
Bianca obbedisce senza fiatare e mantenendo lo sguardo basso.
«Un momento.» la ferma di nuovo Erika quando la rivede avviarsi verso l’uscita «Perché tanta fretta? Devi forse andare a fare una passeggiata con quello straniero?»
Tra il digiuno e la stanchezza, Bianca si controlla e non perde la pazienza, limitandosi ad ignorare Erika e ad avvicinarsi verso la porta.
«Ehi, dove pensi di andare?» Erika non demorde «La stufa è sporca. Pulisci!»
Soffocando un sospiro, Bianca deglutisce e obbedisce ancora, sotto le risatine di Erika.
«Prendimi la coperta rosa.» le dice ancora, sogghignando per averla illusa nuovamente «Io e la mia Elis abbiamo freddo.»
La coperta citata da Erika si trova proprio sul suo letto e a quest’ultima basterebbe allungare di pochissimo la mano per prenderla, ma è chiaro che sentirebbe molta più soddisfazione se fosse Bianca a prenderla.
Con la pazienza che sta per arrivare all’apice, Bianca afferra la coperta e la getta piano ai piedi di Erika.
«Coprimi meglio.» ridacchia con malignità Erika, carezzando Elis «Ho detto che io ed Elis abbiamo freddo.»
Bianca esegue e, finalmente, Erika non ha più ordini umilianti da darle. Può tornare nella sua stanza e concedersi il riposo tanto agognato.
Ha sopportato tutto questo senza permettersi di mangiare nemmeno un pezzo di pane, nemmeno di nascosto e subendo tutto con diligenza.
Lupin aveva assistito ad ogni cosa ed era arrivato al limite. Non sopporta un trattamento simile su nessuno, specialmente quando c’è di mezzo una graziosa ragazza. Cascamorto o meno, deve intervenire e decide di farlo nel modo più elegante e delicato che conosce.
Quella notte, per l’appunto, Bianca è andata a coricarsi molto tardi ed è stremata. Le braccia le fanno un gran male e ci mancava solo il graffio alla mano per colpa di Elis, ma è troppo buona per colpevolizzare la gatta. È una animale, una creatura di Dio ed è nella sua natura essere imprevedibile. Questa bontà d’animo arriva a farle ignorare che il pessimo carattere del felino sia dovuto ad Erika, ma cosa può importare?
Nonostante sia distrutta, Bianca non riesce a prendere sonno: lo stomaco si agita per la fame e la obbliga a rimanere sveglia, tormentandola con la voglia di scendere in cucina e mangiare qualcosa. Anche volendo, non potrebbe farlo: Elis è una perfetta guardia e comincerebbe a miagolare senza un minimo ritegno, svegliando Erika e automaticamente il reverendo.
Nel girarsi nel letto, sempre a causa della fame, Bianca ha notato qualcosa di insolito nella sua spoglia stanza – nuda e sconsolata, a differenza di quella di Erika. Un riflesso proveniente da un piccolo quadro appeso alla parete spoglia, vicino alla finestra. Si alza, pur sentendo le gambe affaticate per il continuo stare in piedi, avvicinandosi al quadro. Non ricorda un riflesso simile da parte sua. Difatti, nota che ci sia qualcosa di lucido dietro la cornice ed ha tutta l’aria di essere una carta da gioco. Ne ha sentito parlare tante volte, ma nel Villaggio Silmes sono proibite in quanto considerate strumenti del gioco d’azzardo e, di conseguenza, arnesi del maligno. La curiosità della ragazza, però, è tale da spingerla ad afferrare quel sottile oggetto proibito. Trema, è una sensazione strana essere così pericolosamente vicino a qualcosa di severamente condannato dalla morale e sa che se dovesse essere scoperta riceverà una punizione ben peggiore. La gogna sarebbe stata il minimo. Con un profondo respiro, decide di controllarla per bene e nota che è personalizzata: invece dei soliti numeri e disegni che riportino i semi del loro valore – come aveva visto in alcuni libri – sulla superficie è presente un volto abbozzato ed una didascalia.
Sono qui per rapirti.
Lupin III’.
A questo punto, Bianca non sa se essere spaventata per avere un attrezzo del male tra le mani, o se per quel bizzarro messaggio. Qualunque sia la motivazione, sente che nonostante tutto la curiosità sta crescendo. La domanda principale che si sta ponendo è una sola: come e quando è stata messa lì quella carta?
Non ricorda di averla vista prima, durante l’ennesima girata nel letto. Capisce che chiunque sia stato a metterla lì, deve essere per forza vicino. Esce sul balconcino della propria stanza, sperando che Erika – nella stanza di fianco – non sia sul suo balconcino a sua volta per spiarla. Si guarda attorno, tenendo sempre stretta la carta da gioco.
«Mi hai fatto attendere parecchio.» dice una voce maschile alle sue spalle, facendola sobbalzare.
Bianca si gira di scatto e non riesce a distinguere bene la figura. Con un gioco acrobatico, un giovane uomo dalla giacca verde si presenta a lei a testa in giù, mostrandosi in volto e sfoggiandole un sorriso allargato.
«Ammetto di aver previsto la tua uscita, circa venti minuti fa.» continua l’uomo e, effettuato un leggiadro balzo, atterra sul balconcino.
Bianca riesce a trattenere un grido e subito rientra in camera, chiudendo la finestra e colpendo in pieno volto il poveretto.
«Uhi...» lamenta il giovane per il dolore, massaggiandosi la parte colpita.
Bianca è spaventata: un uomo, un estraneo è sul balconcino della sua stanza e lei lo ha guardato negli occhi, trasgredendo le regole della comunità, del suo villaggio. Con il senno di poi, riconosce quel volto e riscopre lo stesso uomo che aveva visto qualche giorno fa in chiesa. Lo stesso uomo per il quale si era beccata quella severa punizione dal reverendo.
Non vuole peggiorare la propria situazione, ma non ha tenuto conto che il suo modo di chiudere la finestra è stato per lo più una spinta dell’anta e non una chiusura vera e propria. Lupin, infatti, è riuscito ad entrare tenendosi una mano sul naso dolorante.
«Che sorpresa. Non ti facevo così forzuta.» le dice con voce nasale.
Bianca è ancora più terrorizzata, cerca di avvicinarsi alla porta ma Lupin alza i palmi delle mani e tenta di farla rilassare.
«Shhhh... Aspetta.» sussurra «Stai tranquilla, non intendo farti del male.» breve pausa «Il mio nome è Lupin III e sono l’autore del messaggio che sta nella tua mano.» si presenta lui con modi rispettosi ed effettuando un doveroso inchino.
Bianca si ricorda della carta e, per istinto, la lancia per terra.
«Vattene!» mormora, dopo aver trovato la forza di parlare «Tu sei il male. Sei qui per mettermi di nuovo nei guai con i tuoi intrighi.» la voce tremante tradisce la sicurezza che vorrebbe dimostrare «Vuoi ingannarmi con questi tuoi subdoli strumenti.» indica la carta appena gettata «Vuoi che io infranga le regole, ma hai sbagliato persona.» il suo respiro è affannato ed esprime paura.
«Aspetta, aspetta.» la ferma gentilmente Lupin, con espressione confusa «Non riesco a seguirti, madamigella...»
«Vattene via o mi metto ad urlare.» è l’ultimatum di Bianca, tenendo sempre la testa bassa e gli occhi chiusi «Domani mi confesserò e riceverò la punizione che mi spetta, ma tu... tu devi sparire immediatamente.»
Lupin rimane immobile, con gli occhi spalancati per lo stupore. Capisce immediatamente di avere davanti una ragazza molto diligente e che segue le regole a mena dita e riconosce che la punizione che le ha inferto il reverendo è dovuta anche per colpa sua. Riesce persino a sentire che nel suo tono tremante esiste il desiderio di infrangere le stesse regole imposte da una vita, così arcaiche e medievali. Del resto, non si era tirata indietro quando aveva visto la carta da gioco e tale dettaglio si rivela un punto a favore per il ladro gentiluomo. Quest’ultimo, con un inchino, si rivolge di nuovo a lei.
«Chiedo umilmente perdono per aver osato tentarla, mademoiselle.» dichiara con il sorriso sulle labbra «Prometto che toglierò il disturbo, ma le chiedo solo una gentilezza.» ed ecco che, come aveva sospettato, la curiosità di Bianca la spinge ad aprire gli occhi e ad ascoltarlo «Se dovessi cambiare idea, sappi che io sarò sempre qui nei dintorni, pronto ad aiutarti... più vicino di quanto tu immagini.» Lupin ammicca e, nel momento in cui la ragazza si decide ad alzare lo sguardo con l’intenzione di ribattere, il ladro gentiluomo è già sparito.
Solo le bianche tende si muovono a ritmo della brezza esterna e Bianca si affretta a chiudere la finestra con la chiave, provvedendo a nascondere la carta ricevuta da Lupin. Il luogo migliore è, sicuramente, all’interno della foto incorniciata che ritrae la sua amata mamma, adagiata sul comodino. Lì nessuno andrebbe mai a curiosare.
Appena Bianca si gira in direzione del comodino per conservare la carta, gli occhi le ricadono su qualcos’altro. Una nuova sorpresa per lei. Proprio accanto alla foto della madre, vi è un soffice panino al latte grande quanto il palmo di una mano. Sotto di esso vi è un pezzetto di carta con un nuovo messaggio scritto dalla mano di Lupin: ‘Ti farà bene’.
Il cuore di Bianca batte all’impazzata. Perché? Perché proprio a lei? Perché quell’uomo è tornato da lei per tentarla? Cosa vuole da lei? La poverina si sente una pecorella che ha smarrito la via e teme di perdersi per sempre. Eppure, nel profondo del suo animo, sa che c’è qualcosa in quell’uomo che le fa sussultare qualcosa, una strana sensazione alla quale non sa dare un nome.
Guarda intensamente quel panino al latte dall’aspetto così invitante e cerca di resistere alla tentazione della fame. Complice anche la fatica, Bianca avvicina il soffice panino alla bocca e lo divora in un solo istante.  

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


«Allora, quanto ci metti?»
È la domanda bruciapelo che Lupin sente appena risponde alla chiamata.
La sua amata Fujiko è arrabbiata e non ci vuole molto per il lettore a capirne il motivo.
«Fujiko, tesoruccio mio, ho avuto un piccolo imprevisto e adesso sto...»
«Quale imprevisto?» ribatte la donna dall’altro capo del telefono con rabbioso stupore «Spero per te che non ci sia di mezzo una donna, o tra me e te è finita!»
Quella minaccia, essendo che Lupin ha messo il vivavoce, viene udita anche da Jigen il quale,
avendola udita così tante volte, non la calcola minimamente. Sa benissimo che fra Lupin e Fujiko non è mai scattato nulla di serio, poiché è sempre stato un rapporto a senso unico: lui le sbava dietro e le dice sempre di sì per qualsiasi evenienza, cascandoci come il solito pollo, lei lo sfrutta per i suoi secondi fini. Ad una minaccia come quella, come Jigen ha pronosticato, Lupin ci casca ancora una volta.
«No, no, aspetta.» esclama «Farò quello che vuoi, dammi ancora un po’ di tempo, cherie, me lo merito no?» domanda, assumendo uno sguardo da ebete e facendo sbuffare Jigen.
«Ti do al massimo una settimana, poi hai chiuso!» è la sentenza di Fujiko e e con questa frase fa cessare la conversazione, lasciando Lupin senza parole.
«Sono arcistufo di essere messo in mezzo ai problemi che quella donna crea.» si lamenta il pistolero «E, come se non bastasse, adesso ti sei persino preso una cotta per quella ragazzina.» aggiunge, riferendosi alla figlia del reverendo.
Lupin non si è invaghito di lei nel modo che pensa Jigen: la ragazzina, come l’ha nominata il pistolero, ha fatto scattare qualcosa nel ladro gentiluomo perché quest’ultimo non sopporta di vedere una giovane donna sprecare la vita in un villaggio dalla mente primitiva come quello. Un villaggio dove salutare qualcuno è, praticamente, un reato che la stessa chiesa punisce.
Poco dopo essersi allontanato dall’abitazione di Bianca, Lupin non aveva fatto altro che pensare al suo atteggiamento tanto remissivo quanto meticoloso nei confronti della Fede. L’aveva spaventata, ne prende atto, così come si rende conto che non può pretendere di farle capire in un colpo solo che una simile mentalità tanto puritana possa ritenersi insana per lei.
A Lupin danno fastidio questo genere di cose e, difatti, ha già elaborato un piano per rubare il ‘Cuore d’Argento’ e, allo stesso tempo, salvare la poveretta dalla sua triste condizione.
È pur sempre un gentiluomo, oltre che un ladro.
«Fujiko mi ha dato una settimana, giusto?» dice sorridendo «Per me è una sfida ed io non dico mai di no alle sfide, specie se sono certo di concluderle in tempi inferiori a quelli stabiliti.»
Jigen non ha ben chiaro cosa Lupin voglia fare ma, se ha capito bene, meno di una settimana e se ne andranno via da quel luogo per menti medievali.
 
Lungo il cammino, il reverendo entra nella piccola chiesa. Si volta e si incammina lungo il vialetto lastricato che lo porta fino alla porta della chiesa, assicurando di essere completamente solo.
La porta è aperta e il reverendo avanza nel vestibolo così fresco da sembrare gelido, dando il tempo ai propri occhi di abituarsi all’oscurità.
In fondo alle panche di sinistra c’è un organo e il lettore capirà con disgusto il motivo per il quale si possa percepire una gelida ‘stranezza’: per ovvio volere del reverendo, sopra lo strumento è stato adagiato un cartello con grosse lettere che citano: ‘La sola musica è quella della lingua umana che urla il nome del Signore’.
Nel silenzio di quel luogo freddo e spoglio, il reverendo avanza lentamente verso l’altare, tenendo lo sguardo alto verso la croce e osservandola in adorazione. Sta seguendo le parole di Nostro Signore ed ora Gli sta dicendo qualcosa.
Sono parole che nessuno può udire, nemmeno il lettore le può immaginare, ma il reverendo le sente e, per far capire che sta ascoltando realmente la mistica voce, annuisce appena e mormora qualcosa di poco comprensibile ma che potrebbe assomigliare ad un “Sì, Mio Signore”.
Giunge all’altare, con le mani chiuse in preghiera, si inchina verso la croce e poi si volta verso l’ara ed apre un piccolo cassetto nascosto in essa. Estrae il ‘Cuore d’Argento’ e lo osserva intensamente per lunghi istanti, poi recupera dalla tasca dei pantaloni una piccola fialetta, dove un liquido marroncino non lascia trasparire nulla di buono. Usando un contagocce, ed infilandosi dei guanti in pelle nera, il reverendo versa cinque gocce di fluido sulla reliquia e poi la rimette nel cassetto.
Si osserva nuovamente attorno, assicurandosi di essere ancora nel pieno anonimato – chi in vita compie atti malevoli o ha la coscienza sporca, ha sempre la sensazione di essere osservato o inseguito da qualcuno... o qualcosa - poi si allontana e raggiunge la sagrestia dove un dolce fuoco riscalda la piccola stanza in cui la tonaca, le ampolline e l’ostensorio sono conservate.
Si tira via i guanti, facendo attenzione a come li armeggia e li getta nel fuoco. Poi esce e si reca al lavatoio posto accanto alla chiesa e si deterge accuratamente le mani più volte.
Il lettore potrebbe pensare che è scontato che lui sia il cattivo, già si intuiva, ma non è altrettanto normale mettere un liquido di quel genere su una reliquia così sacra e di cui il reverendo stesso porta un enorme rispetto.
Il lettore ha ragione, ma ciò che egli non sa è che il ‘Cuore d’Argento’ ha una particolarità. Osservandolo più da vicino si può notare in esso delle scheggiature, più precisamente dei piccoli
pezzi mancanti. Il vero potere della reliquia non è illuminarsi in un determinato giorno e in un determinato tempo. Il tutto va ben oltre a questo: l’oggetto sacro tende a colpire coloro che sono considerati figli del diavolo.
Secondo le leggende e tradizioni del villaggio Silmes, coloro che sono considerati tali sono anche coloro che non rispettano le regole e rivolgono la parola quando non interpellati, andando contro al
volere di Nostro Signore.
Quando il ‘Cuore d’Argento’ si attiva, esso sprigiona un’energia tale che lo fa dividere in mille pezzi di cui uno solo penetra nel cuore di chi viene considerato “indegno”. Una volta penetrato, il malcapitato muore nel giro poco tempo, non più di ventiquattro ore.
Qualcuno potrebbe pensare che sia giusto che chi vada contro le regole meriti una punizione, senza tralasciare che la morte non si augura neanche al peggior nemico. Tuttavia, la reale leggenda non ci è dato saperla...almeno non ora.
Si può tranquillamente evincere che il reverendo ne sia al corrente e la conosce anche fin troppo bene. Questo, difatti, non sfugge all’arguta vista e mente del nostro ladro gentiluomo, che aveva osservato i movimenti del reverendo da dietro la finestra ed aveva tratto le sue conclusioni.
 
«Allora, ti sbrighi? Ci vuole molto?» gracchia Erika, con la sua voce sacrilega, dal salotto della casa «La mia povera Elis sta morendo di fame e tu hai l’arroganza di farla attendere?»
Bianca non osa ribattere e si affretta a concludere la preparazione della pietanza destinata alla gatta di Erika. Il felino, che rispecchia perfettamente la padrona, appena vede Bianca avvicinarsi rizza il pelo e soffia con fare arrabbiato.
Ripetiamo che, essendo Elis una creatura animale, la cui mente non può giungere a pensieri uguali a quelli umani, Bianca non riesce ad arrabbiarsi con lei. A differenza di altre persone – forse anche del lettore – che sarebbero tentati di spedirla il più lontano possibile con un bel calcio assestato, Bianca non è in grado di sfiorarla nemmeno con il pensiero.
Sorride timidamente, mentre posa il piattino accanto alla gatta e riceve da essa, come ricompensa, l’immancabile graffiata rabbiosa che certifica il fastidio di aver dovuto attendere. Bianca trattiene un gemito e corre subito in cucina, tamponando la ferita alla meglio e proseguendo con la preparazione del piatto per Erika.
Quando le mette il piatto sul tavolo, trattenendo la sua fame in quanto ancora a digiuno, rimane in piedi come una cameriera costretta ad un’ingiusta umiliazione ed attende un nuovo ordine dalla sorellastra.
Quest’ultima osserva il piatto che ha davanti, contenente una gustosa pietanza la cui salsa emana un profumo delizioso a cui nessun palato può resistere.
Tuttavia, guarda il piatto con aria schifata, come se vi avesse trovato dentro un capello o un insetto. «Tu, lurida...» sibila Erika incurvando la bocca in una smorfia di disgusto, senza attendere una risposta da Bianca «Ti sembra presentabile un piatto sporco del tuo sangue sudicio
Bianca è più che confusa e, istigata dal dito indice di Erika, osserva il punto che le sta odiosamente indicando. C’è una macchia di sangue: nella fretta di servire Erika, mentre versava la salsa nel piatto, involontariamente qualche goccia di sangue le era colata dalla ferita ed era finita sui bordi della scodella.
Si capisce che Erika vuole solo tormentarla, ma Bianca non osa ribattere e prende il piatto.
«Te lo cambio immediatamente.» dice in tono umile.
Erika recita un improvviso conato di vomito, evidenziando tutto il suo disgusto.
«Non voglio mangiare qualcosa di imbrattato del tuo sangue.» asserisce come se stesse leggendo un telegramma «Non voglio contagiarmi.» si alza e con prepotenza dà una manata alla scodella fra le mani di Bianca e rovescia tutto per terra, facendo un disastro «Non voglio che mi immischi la tua stupidità.»
Bianca si affretta a pulire, mentre Erika assume uno sguardo incattivito, portandosi una mano alla fronte e continuando a fare la parte della disperata.
«Costretta ad andare alla mensa collettiva perché tu vuoi avvelenarmi!» finge un singhiozzo «Che umiliazione! Lo dirò a nostro padre, saprà lui come provvedere al tuo comportamento!» detto questo, colpisce nuovamente la scodella che Bianca ha appena raccolto, creando un nuovo disastro e costringendola a mettere ordine.
«Che aspetti? Pulisci. Ora. Subito.» le comanda, puntando il dito sulle aree del pavimento che lei stessa ha fatto sì che si sporcassero.
Nel frattempo, Elis sembra essere compiaciuta da quanto ha appena fatto la sua padrona e, per darne la prova, si strofina sulla gamba di lei. Erila la prende in braccio e le dà un bacio.
«Elis.» dice con insopportabile sviolinata «La mia unica soddisfazione. Oh, io me la mangio questa gatta. Me la mangio.» tra una coccola e l’altra, dopo aver riservato uno sguardo di odio verso Bianca, Erika si allontana.
Bianca rimane a pulire quel disastro, piangendo silenziosamente e cercando di nascondere l’umiliazione che ormai è impressa sul suo volto.
 
«Finalmente, era ora!» esclama Lupin, rivolgendosi a Goemon.
Il samurai è giunto fino a lì non appena Lupin lo ha chiamato e ci ha messo anche poco visto che, non si sa come, il famoso ladro gentiluomo sapeva benissimo che lo avrebbe trovato proprio lì, sulle
montagne svizzere.
Goemon non manca di mostrarsi infastidito da quella chiamata, in quanto desidererebbe stare in solitario e in meditazione.
«Come potevo rifiutare?» domanda, ben sapendo che se avesse rifiutato, le opzioni sarebbero state due: o Lupin sarebbe andato a cercarlo personalmente, oppure al samurai sarebbero venuti i dubbi e sarebbe partito lui stesso.
«Andiamo, so che non sei in grado di resistere alla tentazione di un bel colpo.» dice Lupin, dandogli delle piccole gomitate e ammiccando.
Ovviamente, Goemon si infastidisce ancora di più e gli dà il manico della sua amatissima Zantetsu in testa.
«Ahi! Ma che modi!» sbuffa Lupin «E va bene, ok, parliamo di cose più serie.»
«Sì, certo, di una donna.» borbotta Jigen, abbassando ancora di più il cappello sugli occhi.
«Non c’è solo una donna di mezzo.» Lupin gli fa una smorfia quasi infantile.
«Esigo di sapere quale sia il vero motivo.» ordina autoritario Goemon «Se ha a che fare con una donna, sappi che non starò qui un minuto di più.»
Lupin sospira.
«Dimmi, Goemon. Tu sai qualcosa del ‘Cuore d’Argento?’» domanda e Goemon lo guarda accigliato.
«Ne ho sentito parlare.» risponde «Dicono che sia un oggetto maledetto, ma non so altro.»
Lupin sorride appena.
«Esatto mon amì.» conferma il ladro gentiluomo «Devo ancora capirne l’utilizzo esatto, ma sono sicuro che ha a che fare con quella bella fanciulla che vive con il reverendo.»
Goemon non capisce. Dopotutto era giunto in quel villaggio non segnato sulle cartine geografiche da poco e doveva ancora conoscere i dettagli e le scoperte fatte da Lupin.
Solo Jigen sembra aver capito qualcosa, ma non è sicuro al cento per cento.
«Pensi che lo userà con lei?» domanda il pistolero e Lupin annuisce.
«Non so bene se la leggenda che tutti sanno sia reale.» ammette Lupin «Ma se lo fosse, quella poveretta potrebbe essere in pericolo.»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3995819