Cronache dal fronte

di Quasar93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1-Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra ***
Capitolo 2: *** Tutte le battaglie nella vita servono ad insegnarci qualcosa, anche quelle perdute ***
Capitolo 3: *** Non ho problemi coi miei nemici, sono i miei dannati amici a tenermi in piedi tutta la notte ***
Capitolo 4: *** Quando uccidi un re, non lo pugnali in un vicolo. Lo uccidi dove tutta la corte può vederlo morire ***
Capitolo 5: *** Le prime volte non vanno sempre come nei racconti dei senpai! ***



Capitolo 1
*** 1-Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra ***


Era notte quando Gintoki si allontanò di soppiatto dall’accampamento che lui, Katsura e Takasugi avevano allestito insieme agli altri superstiti dell’attacco alla Shoka Sonjuku. Della scuola non era rimasto nulla, era bruciata fino alle fondamenta la notte in cui avevano portato via Shoyo e così lui e i ragazzi più grandi avevano creato una sottospecie di baraccopoli provvisoria per potersi riparare dai briganti e dalle intemperie. Chi aveva una casa e una famiglia a cui tornare era già andato via e i bambini orfani più piccoli erano stati portati alla scuola di un tempio, nella speranza che si prendessero cura di loro. Ormai, oltre a loro tre, vivevano lì solo una manciata di ragazzi dai 14 ai 17 anni.
Poche baracche di fortuna e poco meno di una dozzina di giovani senza nome e senza famiglia era tutto ciò che rimaneva del sogno di Shoyo, forse bruciato per sempre insieme alla sua scuola.
Gintoki però non poteva accettarlo, non voleva che tutto finisse in quel modo. Che tutto quello che lui e Shoyo avevano iniziato insieme bruciasse e si disperdesse insieme alla cenere nel vento.
Era per questo che, quella notte, col favore delle tenebre, si stava incamminando lontano dalla baraccopoli di soppiatto. Solo. Shoyo gli aveva fatto promettere di proteggere tutti gli altri fino al suo ritorno, ma non poteva certo aspettarlo per sempre. Quale modo migliore di proteggerli poteva esserci che non riportare indietro il sensei stesso?
Aveva già deciso come fare.
Si sarebbe unito all’esercito dei ribelli Joi, come volontario.
Dopotutto aveva riconosciuto il simbolo stampato sulle vesti dei loro aggressori, erano la Tenshoin Naraku, un corpo armato al servizio dello shogunato. Se si fosse unito alla ribellione avrebbe avuto molte più chance di trovarseli di nuovo davanti e raccogliere informazioni su di loro, informazioni che avrebbe usato per salvare il suo maestro.
Gintoki aveva pensato molto a quella scelta, dopotutto una vita intrisa di sangue sul campo di battaglia di una guerra che infuriava già da oltre 15 anni non era certo quello che Shoyo avrebbe voluto per lui. Ma doveva, doveva, farlo.
E doveva farlo da solo.
Era questa la conclusione a cui era arrivato, ormai un mese dopo gli eventi che avevano portato alla distruzione della loro casa, pensandoci e ripensandoci fino alla nausea.
Non poteva certo portarsi dietro gli altri, come avrebbe potuto proteggerli tutti in guerra?
No, avrebbe rischiato solo lui.
Dopotutto era abituato a sopravvivere da solo sul campo di battaglia, vivere di stenti e all’addiaccio e, se necessario, derubare i cadaveri pur di sopravvivere. Già una volta si era ostinatamente aggrappato alla vita in quel modo, poteva farlo di nuovo. La sua volontà di salvare il maestro sarebbe stata forte abbastanza da permettergli di farcela, ne era sicuro. E, infondo, non aveva nemmeno paura. Né della guerra, né del dolore, né della morte. Come poteva essere spaventato chi era già stato privato di ogni cosa? Chi non aveva più niente da perdere?
Si strinse nelle spalle mentre guardava quella che nell’ultimo mese era stata la sua nuova casa, ora abbastanza lontana da potersi accorgere di quanto fosse miserabile. Non ci aveva mai fatto molto caso prima. Da quando Shoyo era stato portato via le giornate per lui erano state tutte uguali, trascorse in un’alternanza di apatia e rabbia. Lui, Katsura e Takasugi erano stati molto sulle loro, cercando di darsi conforto a vicenda come meglio potevano. Non si erano parlati molto, ma la sola vicinanza degli altri e il sapere che tutti e tre si sentivano allo stesso modo era bastato per riuscire a tirare avanti almeno un po’.
Gintoki assunse uno sguardo triste al pensiero, gli sarebbe mancata la compagnia di quei due perdigiorno. Ma proprio perché erano le persone a cui più teneva al mondo (anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce) non poteva permettergli di seguirlo. Rischiava molto unendosi alle armate Joi e non voleva certo vedere morire un amico sul campo di battaglia. Era sopravvissuto a malapena alla perdita di Shoyo, se avesse perso anche solo uno di loro non era sicuro che ce l’avrebbe fatta ad andare avanti, che sarebbe riuscito di nuovo a respingere gli artigli della disperazione che lo attiravano a sé inesorabilmente.
Scosse la testa per cacciare via quei pensieri e continuò a camminare fino ad arrivare ad un cancello tori, che segnava definitivamente il confine dell’area che avevano occupato.
“Dove pensi di andartene tu?” sentì dire all’improvviso, da una voce pungente e familiare.
Da dietro una delle due colonne uscì Takasugi, fissandolo così intensamente che si sentì inchiodato al suolo da quello sguardo verde che brillava austero nella luce della luna.
“Pensavi che sarebbe stato così facile sbarazzarti di noi?” disse una voce più pacata alle sue spalle, mentre Katsura si alzava dall’albero sotto al quale era appoggiato. Nel buio non l’aveva notato, nemmeno passandogli accanto.
“Sei così idiota che pensavi che non ci fossimo accorti di cosa ti passava per la testa?” rincarò la dose Takasugi, facendo un passo verso Gintoki che si era bloccato sul posto, quasi intimorito. Di solito non si lasciava impressionare dai toni dell’amico, che ben conosceva e tendenzialmente ignorava, ma essere stato colto sul fatto in quel modo l’aveva destabilizzato. Dopo la fatica che aveva fatto per decidere di lasciarli lì al sicuro.
“Stai andando ad arruolarti tra i patrioti Joi, vero?” chiese Katsura, senza davvero aver bisogno di una risposta, che non attese “veniamo con te” sentenziò, avvicinandosi all’amico.
“Come se senza di noi potessi portare a casa quella pellaccia pallida che ti ritrovi” ghignò Takasugi, raggiungendo il duo.
Gintoki in tutto questo era rimasto silenzioso, non aveva risposto alla provocazione di Takasugi né alle affermazioni di Katsura.
“No” disse poi scuotendo la testa, deciso “andrò da solo. È una mia responsabilità, devo risolverla io” concluse, respingendo gli amici e facendo un passo avanti senza guardarli in faccia. Gli altri due rimasero un attimo sorpresi da quel comportamento così insolitamente freddo dell’altro. Poi Takasugi si riscosse e lo afferrò per una spalla, tirandolo indietro.
“Pensi che basti dire questo e andartene? Pensi che a noi stia bene rimanere qui ad aspettare che tu ti faccia ammazzare?” disse, senza lasciarlo andare.
“Takasugi… Non capisci, devi lasciarmi. Devo farlo. Devo riportare Shoyo indietro. L’esercito dei ribelli è la mia miglior occasione” sentenziò Gintoki appoggiando una mano su quella che Takasugi teneva sulla sua spalla, cercando di staccarla.
“E allora verremo con te” si intromise Katsura, più calmo degli altri due ma deciso e fermo sulla sua posizione “questa cosa riguarda te tanto quanto riguarda noi” ribadì, guardandolo serio e colpendolo più lui con quella frase che Takasugi col suo fare iroso.
“No” continuò però ostinato Gintoki, fermo sulla sua posizione “non permetterò che rischiate la vostra vita al fronte. Ci penserò io a riportare a casa il sensei, e poi riprenderemo da dove avevamo lasciato. Adesso lasciatemi andare!”
Fu in quel momento che, senza preavviso, Takasugi lo colpì al viso con un pugno così forte da farlo volare a terra e stava per avventarglisi addosso quando Katsura gli scivolò alle spalle tenendolo fermo per le braccia. Il ragazzo coi capelli viola era così arrabbiamo che se ne accorse a malapena, continuando a urlare contro Gintoki che, dal canto suo, era rimasto immobile là dov’era finito.
Io, io, ioIo riporterò indietro Shoyo. È una mia responsabilità. Basta Gintoki! È una nostra responsabilità!” gridò Takasugi, spingendo contro le braccia di Katsura per liberarsi ma l’amico era più forte del previsto e riuscì a tenerlo fermo. Per quanto gli desse ragione ora non era di fare a botte che avevano bisogno.
“Takasugi, non capisci…” iniziò il ragazzo coi capelli argentati, ma Takasugi non lo lasciò nemmeno finire.
“Oh io capisco Gintoki, capisco benissimo. Quello che non capisce qui sei tu. Shoyo non è stato portato via a te, è stato portato via a noi” concluse tagliente, ancora gridando. Rimase ancora un attimo in quella posizione, ansimando per il nervoso. “E tu lasciami andare” aggiunse scontroso, scrollandosi definitivamente di dosso Katsura.
Poi si avvicinò a Gintoki e lo sollevò per il bavero.
“Come ti sentiresti al nostro posto? Se uno di noi ti avesse ritenuto così debole e inutile da dover rimanere qui mentre rischia la vita al fronte? Pensaci, Gintoki, anche se non sei mai stato bravo a farlo” terminò, senza più urlare ma con ancora la voce carica di rabbia per quanto più fredda e lucida. Tenne l’amico in quella posizione ancora per un attimo, fissandolo intensamente negli occhi rossi che tentavano di fuggire il suo sguardo.
Poi lo lasciò andare e se ne andò, incamminandosi vero le baracche senza più dire una parola.
Gintoki tossicchiò piano, siccome Takasugi lo stava strangolando tenendolo in quella posizione, e si mise a sedere, pensieroso.
“Sai, Bakasugi sarà anche Bakasugi… Ma questa volta ha ragione” disse serio Katsura, inginocchiandosi accanto a lui e appoggiandogli una mano sulla spalla, tentando, perfino in quel momento, di rassicurarlo.
“Voi non potete capire…” ripeté ancora come un disco rotto Gintoki e Katsura sospirò, assottigliando lo sguardo.
“Se tu ci spiegassi forse capiremmo. Perché sai, ci sentiamo esattamente come te in questo momento e non riusciamo a capire come tu, pur sapendolo, voglia tagliarci fuori. Anche noi vogliamo riprenderci il maestro, combattendo con le unghie e con i denti se necessario”
“Questo… Spiegare intendo… Questo non posso farlo” incespicò Gintoki, con la voce incrinata dalla preoccupazione per qualcosa che Katsura non capiva. Aveva… Le lacrime agli occhi? Decisamente c’era qualcosa sotto.
“Perché no? Perché dovremmo avere dei segreti proprio ora? Ora quell’animale idrofobo non c’è, con me puoi parlare” scherzò Katsura, cercando di metterlo a suo agio per spingerlo a parlare.
Gintoki dal canto suo era preda di una confusione emotiva che lo confondeva terribilmente. Avrebbe voluto dire tutto ai suoi amici, della promessa a Shoyo e del fatto che voleva tenerli al sicuro, che sentiva che quanto successo fosse solo colpa sua, perché era stato catturato anche lui e che, in quanto primo allievo di Shoyo, spettasse a lui la responsabilità di rischiare la vita per salvarlo. Che non lo faceva perché li sottovalutava ma perché, al contrario, voleva essere l’unico a portare il fardello della guerra. Voleva che loro potessero continuare a sostenere il sogno di Shoyo una volta che fossero tornati, anche se lui fosse morto o tornato diverso da come era partito.
Ma poi non poteva fare a meno di pensare a come l’avrebbero presa, a come il loro orgoglio sarebbe stato ferito, a come si sarebbero sentiti messi da parte anche da Shoyo, che aveva fatto solo a lui quella richiesta assurda.
Vedendo che Gintoki non diceva ancora nulla Katsura decise di incalzarlo, scoprendo un po’ le carte e sperando di far leva su qualcosa che lo facesse esplodere.
“Gintoki, forza. È palese che ci sia qualcosa sotto”
L’altro ragazzo non rispose, cercando di riordinare i suoi pensieri e di pensare a una scusa plausibile, fuggendo lo sguardo dell’amico.
“Gintoki?” chiese ancora Katsura, vedendo che non riceveva alcuna risposta.
“Gintoki? Parlami”
Il ragazzo coi capelli argentati stava per scoppiare, il fiume di emozioni che stava trattenendo non era più contenibile e le domande incalzanti di Katsura lo spingevano a dover pensare più velocemente. Doveva trovare una scusa, e in fretta. O tutto quello che si era ripetuto fino alla nausea nello scorso mese sarebbe uscito come un fiume in piena.
“Gintoki, cosa sai che non sappiamo? Devi dircelo. Ce lo devi” incalzò ancora il ragazzo coi capelli lunghi, cercando lo sguardo di Gintoki, che lo evitò.
Katsura lo chiamò ancora, era visibile che stesse per cedere e ormai non avrebbe lasciato perdere.
“Gintoki!” gridò, scuotendolo per le spalle.
Solo allora il ragazzo coi capelli argentati sollevò lo sguardo e lo fissò intensamente negli occhi, con un’espressione triste al punto da deformargli il viso in una smorfia e gli occhi lucidi.
“Mi ha fatto promettere!” gridò in faccia all’altro, svincolandosi dalla sua presa e battendo i pugni per terra con rabbia, nascondendo le lacrime che avevano iniziato a bagnarli il viso.
Tutto quello che si stava tenendo dentro ora voleva prepotentemente uscire.
“Quella notte, mentre la scuola bruciava. Mi ha fatto promettere che vi avrei protetti tutti, in sua assenza. Come, come posso portarvi in guerra con me?” chiese disperato, senza rialzare la testa.
Katsura rimase un secondo in silenzio, poi lo colpì piano alla base del collo.
“Certo che sei proprio un idiota” sentenziò, lasciando Gintoki spiazzato “era tutto qui?” sdrammatizzò, mentre l’altro alzava la testa sorpreso, solo per trovare Katsura a guardarlo dall’alto in basso con un sorriso soddisfatto.
Gintoki non rispose e così riprese la parola Katsura.
“Gintoki, so perché non ce l’hai detto, posso capirlo. Soprattutto conoscendo Takasugi. Però pensi davvero che qui saremmo al sicuro? Che prima o poi non avremmo la tua stessa idea? Anzi, stavamo per proporti proprio di partire per il fronte. Se tu te ne fossi andato avremmo solo finito per dividerci e saremmo stati tutti molto più in pericolo. Andiamo insieme, combattiamo insieme. Riportiamo a casa il sensei insieme. Insieme potremo proteggerci molto meglio che tutti sparpagliati no?” sorrise, alzandosi e porgendo una mano a Gintoki, che la afferrò troppo imbarazzato per rispondergli.
“Non dire niente a Takasugi però, ok?” commentò solo, avallando il suo discorso senza dirlo apertamente. Katsura annuì.
“So tenere un segreto, ma con lui ora ti scusi tu” sghignazzò il samurai coi capelli lunghi, mentre Gintoki sospirava.
Mentre tornava insieme a Katsura verso l’accampamento si ritrovò a sorridere. Dopotutto era contento di essersi tolto quel peso dallo stomaco e sicuramente l’idea di poter contare sui suoi amici anche in guerra lo faceva dormire più tranquillo.
“Grazie” bisbigliò a mezza voce, rivolto a Katsura, ma senza volere davvero che lo sentisse.
“Mh? Hai detto qualcosa Gintoki?”
“No no, stavo solo pensando che Takasugi ora mi darà il resto eh?”
“Probabile”
“Me lo sono meritato”
“Già”
“Posso contare sul tuo aiuto”
“Assolutamente no”
 
 
Qualche giorno dopo – zona per il reclutamento di nuove truppe per l’esercito Joi
 
 
“Un passo avanti il prossimo gruppo” decretò il funzionario addetto alla selezione dei volontari e Gintoki, Katsura e Takasugi fecero un passo avanti.
Si trovavano nel cortile di una grande magione che ora fungeva da base dei Joi e in piedi con loro c’erano quasi un centinaio di altri uomini, quasi tutti più grandi di loro. Procedevano a gruppetti di 3 che venivano via via esaminati dal funzionario e dalla commissione. Prima li facevano parlare un po’ e, se erano interessati, li facevano combattere contro un loro guerriero scelto. Se alla fine li ritenevano idonei li sottoponevano una veloce visita medica per poi smistarli nei vari plotoni.
“Nome, cognome, clan di appartenenza”
“Gintoki Sakata, allievo della Shoka Sonjuku, non appartengo a nessun clan”
“Kotaro Katsura, allievo della Shoka Sonjuku, non appartengo a nessun clan”
“Shinsuke Takasugi, allievo della Shoka Sonjuku, non appartengo a nessun clan”
Risposero, rimanendo sull’attenti, lo sguardo fiero e deciso come mai in vita loro mentre stringevano i pugni ai loro fianchi per la tensione.
“E ditemi, perché dovremmo voler prendere nei nostri ranghi tre figli di nessuno nelle vostre condizioni? Si capisce che non mangiate come si deve da tempo, siete vestiti di stracci e avrete a malapena l’età per arruolarvi. Siete forse qui per scroccare vitto e alloggio? Vi avviso, quelli come voi non hanno vita lunga nell’esercito dei patrioti” sentenziò duro il funzionario, squadrandoli con cipiglio severo dall’alto in basso.
“Nossignore” risposero in coro, mantenendo il loro sguardo fiero, senza farsi intimorire.
“Dateci una spada, vi dimostreremo di cosa siamo capaci” aggiunse solo Gintoki, sfidando il funzionario.
“Già. Non ci servono titoli pomposi o vestiti eleganti. Siamo samurai, la spada è la nostra anima. Che sia lei a parlare” Continuò Katsura, pacato ma deciso.
Takasugi avrebbe voluto dire qualcosa di tagliente, nel suo stile, sulla falsa riga del valiamo molto di più noi di questi fighetti buoni solo a sbandierare ai quattro venti il loro cognome, ma per fortuna tacque.
Non avevano nulla dalla loro parte, né un nome prestigioso, né armature finemente rifinite. Solo loro stessi, la loro volontà e l’arte della spada che Shoyo gli aveva insegnato.
“E sia, così ci libereremo facilmente di questa feccia” sentenziò il funzionario, senza degnarli di uno sguardo. Il guerriero scelto da loro salì in arena e indicò Katsura, probabilmente lo voleva come primo avversario.
Il ragazzo coi capelli lunghi si avvicinò all’arena con calma e portò la mano destra all’elsa della spada che teneva in cintura, tenendo la saia con la sinistra.
Il funzionario diede il via e il guerriero Joi gli scattò contro velocissimo, ma Katsura non si scompose, allargò appena la posizione delle gambe e, non appena il suo avversario fu a tiro lo scartò del minimo indispensabile, estraendo in quell’istante la katana e colpendolo con la base dell’elsa dritto alla bocca dello stomaco. Soddisfatto rinfoderò la spada senza nemmeno girarsi a guardare l’avversario che boccheggiava a terra cercando di respirare.
Il funzionario rimase sbigottito e ci mise più tempo del necessario a blaterare qualcosa sulla fortuna del principiante e a mandare velocemente un altro patriota a sostituire quello che ancora non riusciva ad alzarsi.
“Voglio quello che se ne sta lì senza dire niente” grugnì quest’ultimo indicando Takasugi, che sorrise sadico.
“Ohi Ohi” disse solo Gintoki, ridendo sotto i baffi. Takasugi? Quello silenzioso?
Il funzionario diede il via e il patriota joi non fece nemmeno in tempo a sfoderare la katana che Takasugi gli era addosso. Squarciò l’aria con un fendente diagonale a pochi centimetri dalla sua faccia per spaventarlo mentre con la saia che impugnava nell’altra mano lo colpì forte alle gambe, facendolo cadere. Senza dargli il tempo di rialzarsi gli puntò la katana alla gola, calpestandolo con un piede.
“Se non parlo è solo perché la mia opinione su tutto questo ci farebbe buttare fuori ancora prima di provare. E ho i miei motivi per voler combattere questa guerra” sussurrò tagliente, in modo che solo il suo avversario potesse sentirlo. Dallo sguardo terrorizzato che gli rifilò seppe che non avrebbe parlato.
Il funzionario rimase allibito per la seconda volta. Quegli straccioni stavano mettendo fuori gioco i suoi soldati in meno di un secondo. Riluttante mandò in campo un terzo uomo. Gintoki si avvicinò pigramente, scaccolandosi con nonchalance.
Teneva la katana sulle spalle, appendendocisi con entrambe le braccia, come se non gli interessasse davvero usarla.
Il suo avversario non sapeva come comportarsi, aveva visto i suoi compagni essere battuti con velocità sorprendente da quei ragazzini venuti dal nulla e ora aveva onestamente paura di quello che l’ultimo di loro avrebbe potuto fare. Gintoki dal canto suo continuava a camminare tranquillo verso l’avversario e non smise nemmeno quando il funzionario diede il via. L’altro, sorpreso, rimase fermo immobile. Dopotutto Gintoki non aveva assunto una posa da combattimento, si stava limitando a camminare nella sua direzione. Quando decise che il ragazzo coi capelli argentati era troppo vicino sguainò la spada e si mise in posizione di guardia, gambe alla larghezza delle spalle e katana impugnata a due mani davanti a sé.
Gintoki, imperterrito, continuò a camminare, fin quasi a trovarsi al suo fianco. Il patriota non lo stava attaccando, nonostante tutto tenendo la spada in quel modo il ragazzo era disarmato e non se la sentiva di combattere con disonore. Quando il samurai coi capelli argentati si trovò perfettamente alle spalle dell’avversario si girò verso di lui e iniziò a sussurrargli all’orecchio.
“Ehi tu. Non so se te ne sei accorto ma… Il tuo soldato del piano di sotto è sull’attenti!” il patriota tentennò un attimo e Gintoki rincarò la dose.
“Eh sì! Proprio adesso. Si vede chiaramente una grossa spada in mezzo alle tue gambe”
Il soldato arrossì, e inconsciamente abbassò lo sguardo per controllarsi le parti basse. Fu in quel momento che lo sguardo di Gintoki cambiò. Prese con una mano la katana ancora nella saia e lo colpì alla base del collo, con un colpo secco, facendogli perdere i sensi. Non si fermò nemmeno a guardarlo, raggiungendo i due compagni che se la ridevano. Dopotutto quella tecnica che Shoyo gli aveva insegnato funzionava!
Ora che i combattimenti erano finiti la folla degli altri aspiranti patrioti si lasciò andare a un applauso verso i tre ragazzi, che mandò su tutte le furie il funzionario, più di quanto il combattimento vile di Gintoki non avesse già fatto.
“Va bene, va bene. Siete dentro. Basta che vi leviate di torno. Andate a fare la visita medica e, per l’amor di dio, fatevi dare dei vestiti e delle protezioni decenti” disse, per poi avvicinarsi a loro e continuare a bassa voce “non potevo non ammettervi visto quanto esultava la folla. Ma i pezzenti come voi non mi piacciono. Col vostro stile di spada da strada e quei movimenti ridicoli. Oggi avete solo avuto fortuna. Disonorate il mio esercito e non saranno gli amanto il vostro problema” sentenziò per poi tornare al suo posto senza aspettare risposta.
Il trio si guardò e in quel momento scoppiarono a ridere a ad esultare. Ce l’avevano fatta, erano un passo più vicini a salvare Shoyo. Si incamminarono per la visita medica ancora ridendo e facendo il verso a quel pomposo funzionario. Andare in guerra non è qualcosa che dovrebbe renderti felice, ma al momento era l’unica cosa che potevano fare per riavere indietro il loro sensei e con lui quella parvenza di normalità che stavano provando a costruire.
 
Quella sera i tre ragazzi erano ancora all’accampamento base dove avevano sostenuto la prova di ammissione, avrebbero passato lì anche la notte. Il giorno dopo gli avrebbero detto a quale plotone si sarebbero uniti e sarebbero effettivamente partiti per il fronte. In quel momento erano appena usciti dal loro alloggio temporaneo indossando per la prima volta i nuovi vestiti da battaglia che avevano scelto, gettando finalmente gli yukata ormai davvero a brandelli con cui avevano vissuto negli ultimi tempi. Alcuni degli equipaggiamenti che avevano scelto avevano dovuto pagarli con i loro soldi, altri erano un anticipo sulla paga, però finalmente sembravano dei veri guerrieri.
Gintoki sfoggiava un kimono grigio che, sugli avambracci e sugli stinchi si infilava in protezioni rigide nere, dello stesso colore di una più grande che portava legata sul petto. Sopra indossava un lungo haori bianco. Aveva scelto solo colori in tinta coi suoi capelli, lasciando da parte il blu che sceglieva spesso per i propri yukata.
Katsura aveva optato per una tenuta simile, ma sui toni del verde, e si era legato i capelli diversamente dalla solita coda alta che aveva fin da ragazzino, lasciandoli cadere più morbidi sulle spalle per fermarli in fondo con un laccio.
Takasugi, dal canto suo, aveva scelto una lunga giacca da indossare su una camicia alla cinese e un paio di pantaloni neri, senza protezioni. Inoltre, mentre gli altri due avevano i sandali tradizionali da combattimento, lui indossava un paio di scarpe nere.
“ohi ohi, guardalo questo fighetto. Ti sei per caso dato alle mode amanto?” ridacchiò Gintoki, lanciando un’occhiata sorpresa all’abbigliamento dell’amico.
“Takasugi. Non è saggio andare in guerra senza protezioni” lo ammonì poi Katsura, facendolo innervosire.
 “Almeno io non sembro un lenzuolo ambulante” ribatté seccato, alludendo a Gintoki, che in tutta risposta lo afferrò per i bordi della giacca avvicinandolo a sé per iniziare l’ennesimo litigio.
“Bakasugi, lo sai che in guerra i nemici hanno le spade vero? Hai l’addome scoperto! Se ci tieni a morire almeno chiedimi di tagliarti la testa” commentò, con la voce che trasudava rabbia e fastidio.
“La testa dovrei tagliarla io a te!” ringhiò Takasugi, mettendo una mano in faccia a Gintoki nel tentativo di allontanarlo.
“In effetti con quei capelli è una testa facile da trovare e tagliare” sghignazzò Katsura, tenendosi a distanza di sicurezza dal calcio che il ragazzo coi capelli argentati tentò di rifilargli.
“Ma tu da che parte stai Zura!” si lagnò Gintoki, mentre Takasugi continuava a spingergli la faccia con una mano mentre con l’altra cercava di liberarsi.
“Non sono Zura, ma Katsura!” lo corresse l’amico, ridendo nel frattempo dell’espressione esasperata di Takasugi, che non riusciva a far mollare la presa a Gintoki che, nel frattempo, aveva ripreso a infastidirlo.
Mentre erano intenti a bisticciare un gruppo di giovani poco più grandi di loro passò di lì guardandoli e iniziando a parlare palesemente di loro in tono poco lusinghiero. Erano vestiti circa come loro, probabilmente erano a loro volta reclute fresche.
Takasugi se ne accorse e sospese le ostilità contro Gintoki, dandogli una gomitata nelle costole per fargli capire che ora c’era qualcun altro con cui prendersela.
“Ehi voi! Avete qualcosa da dire?” li apostrofò poi, con la voce ancora carica di irascibilità.
Il gruppetto si fermò e i suoi componenti li squadrarono dall’alto in basso, spocchiosi.
“No no, stavamo solo commentando come il vostro comportamento rozzo rispecchi il vostro grado. Feccia.” Commentò uno di loro e gli altri risero.
“Ehi!” gridò Takasugi, la mano già sulla spada. Stava per scattare contro di loro ma Katsura gli mise una mano sul braccio facendogli segno di no con la testa. Se avessero reagito rischiavano di essere buttati fuori già la prima notte.
“Com’è possibile che abbiate sconfitto dei veri samurai voi figli di nessuno. Sicuramente avrete usato qualche sporco trucchetto!” li derise un altro, facendo di nuovo ridere i propri compagni.
“Nessun trucchetto, eravate lì, abbiamo vinto in modo pulito. Se volete possiamo farvi vedere come si fa anche subito, non sei d’accordo Takasugi?” disse Gintoki, scambiandosi uno sguardo d’intesa con l’amico. Se c’era qualcosa di peggio di quando quei due litigavano tra loro era quando si alleavano per un comune scopo. Katsura intervenne di nuovo per fermarli.
“Takasugi eh…” disse un altro dei ragazzi più grandi “… ho già sentito questo nome. Tu venivi da un clan di samurai no? Come sei caduto così in basso? Ti hanno forse diseredato?”
“Anche l’altro, Katsura, ha un nome che una volta aveva un significato. Ma so che la sua famiglia cadde in disgrazia diversi anni fa” gli rispose un altro di loro.
“Mentre quello lì con quei capelli marci e gli occhi del diavolo è proprio un demone figlio di nessuno” continuò il primo, facendo un passo verso Gintoki che arretrò istintivamente.
“Takasugi, Katsura… Dopotutto potreste ancora tornare ad essere dei samurai. Mollate questo plebeo e unitevi a noi, potrete riabilitare i vostri nomi” parlò di nuovo, avvicinandosi ancora a Gintoki e afferrandolo per il bavero, trascinandolo poi davanti a tutti. Il ragazzo non reagì, solo per rispetto verso quanto pensava Katsura. Nemmeno lui voleva essere cacciato il primo giorno. Se così non fosse avrebbe già tagliato la mano di quell’idiota e gliel’avrebbe infilata dove non batte il sole.
“Forza, non abbiate paura. Unitevi a noi nel dare una bella lezione a questo idiota che si crede un samurai e sarete dei nostri. Vi servirà avere degli alleati, là fuori, sul campo di battaglia. Qualcuno che vi guardi le spalle. Vi basta aiutarci a portare fuori la spazzatura” continuò, costringendo Gintoki in ginocchio tirandolo per i capelli e sputandogli in faccia.
Katsura e Takasugi si guardarono, scambiandosi uno sguardo d’intesa, e camminarono per raggiungere l’amico.
“Riabilitare il nostro nome? Sono scappato dal mio clan di mia iniziativa” sentenziò Takasugi, facendo un passo avanti.
“E anche se la mia famiglia è caduta in disgrazia ha di certo molto più onore di gentaglia come voi” disse Katsura, avanzando a sua volta.
Erano arrivati al fianco di Gintoki, che li guardò confuso. Non si era deciso di evitare le ostilità?
“Inoltre, quello lì è di certo un idiota. Ma gli unici che possono chiamarlo in quel modo e sputargli addosso siamo noi” continuò Takasugi, colpendo con l’elsa della spada la mano dell’uomo che teneva stretto Gintoki.
“E in quanto ad avere la schiena coperta, siamo ampiamente a posto, grazie” concluse Katsura, aiutando l’amico coi capelli argentati ad alzarsi.
“Già…” disse finalmente Gintoki, con lo sguardo di qualcuno che finalmente può lasciarsi andare “… anche sul buttare via la spazzatura non avete tutti i torti. Sapete cosa ci piace dei figli di papà?” ghignò, guardando gli altri due.
“proprio niente!” gridarono in coro, prima di scagliarsi addosso al gruppetto che li aveva attaccati.
 
Quando ebbero finito con loro della decina di ragazzi che avevano attaccato briga era rimasto solo un mucchio di persone mezze svenute e rantolanti. Gintoki si era premurato di passare da ognuno a sputargli addosso, giusto per rendergli il favore. Poi, come se niente fosse, si sedette addosso al più grosso che c’era e, con nonchalance, si mise a mangiare uno snack che teneva in tasca.
“Certo che potevate dirlo subito che volevate menare le mani. Io ero già pronto a farmele dare per poter rimanere nell’armata e voi invece avete cambiato idea di testa vostra. Tanto è a me che hanno sputato vero?”
“Bhè, con la faccia da schiaffi che ti ritrovi mi sembra il minimo” ghignò Takasugi, sedandosi di fianco a lui, sullo stesso tizio.
“Sei fortunato che sono stanco per picchiarti e che ho la bocca troppo piena per sputarti” bofonchiò Gintoki, finendo però per scambiarsi uno sguardo d’intesa con l’altro.
“Che faremo se ci cacceranno?” chiese ancora il ragazzo coi capelli argentati, stavolta rivolto a Katsura.
“Andremo per conto nostro. Ci saranno altri distaccamenti delle armate Joi da qualche parte. Magari troveremo gente migliore”
“Già… Bhè alla fine non importa, finchè ci saranno due idioti come voi a coprirmi le spalle so che potremo andare ovunque” sorrise Gintoki, guardando il cielo.
Anche Takasugi sorrise, mentre con un calcio rimandava a dormire la loro ‘panchina’ che si stava svegliando.
 
 
La mattina dopo all’appello mancavano quasi tutte le nuove reclute, ad eccezione del trio della Shoka Sonjuku e di un paio di ragazzi sui trent’anni. L’altra decina di rampolli che avevano selezionato il giorno prima erano misteriosamente assenti.
Il funzionario che aveva presieduto al reclutamento era parecchio indispettito dalla cosa, e girava di qua e di là sbuffando. Gintoki stava per scoppiare a ridere, ma una gomitata provvidenziale di Katsura lo zittì prima che potesse farsi scoprire. Dopo circa una decina di minuti un messaggero arrivò a comunicare al funzionario che gli assenti erano tutti malconci in infermeria, qualcuno li aveva picchiati a mani nude e con la saia della spada. Non avevano tagli o fratture, ma non sarebbero stati abili al combattimento per qualche giorno.
Il funzionario squadrò i tre ragazzi più giovani e si avvicinò a loro.
“Se scopro che ci siete voi dietro a questa cosa vi faccio fare seppuku davanti a tutti. Solo della feccia come voi poteva scatenare una rissa con le nostre reclute migliori” sibilò, livido dalla rabbia.
“Mi scusi, signor funzionario, sta quindi dicendo che le vostre reclute migliori si sarebbero fatte mettere ko dieci contro tre da, e cito testualmente, feccia come noi?” rispose Gintoki, scaccolandosi e lanciando la caccola che aveva trovato sul kimono del funzionario.
“Già, è impossibile che tre figli di nessuno senza nome come noi possano picchiare a quel modo l’élite dei rampolli e uscirne completamente illesi no?” rincarò la dose Takasugi, fissandolo così intensamente da fargli fare un passo indietro.
“Siamo solo tre ragazzi di campagna che vogliono difenderei il proprio paese, è crudele da parte vostra sospettare di noi senza prove” concluse Katsura, mandando su tutte le furie il funzionario.
“Voglio questi tre fuori dal mio esercito ora!” gridò, ma venne subito raggiunto dal messaggero.
“Veramente signore, non possiamo. Sono gli unici rimasti e al fronte hanno bisogno di altri uomini”
Il funzionario era così arrabbiato che non riuscì a parlare, così parlò di nuovo il messaggero.
“nessuno dei ragazzi feriti ha fatto i loro nomi poi, non possiamo mandarli via senza prove. Quando gli abbiamo chiesto chi li aveva attaccati continuavano solo a ripetere terrorizzati ‘dei demoni‘ “
“E sia!” decretò il funzionario, guardando il trio con disprezzo, per poi andarsene.
I tre ragazzi si guardarono e sorrisero, l’avevano scampata.
 
Bonus scene –  diversi mesi dopo – campo sul fronte occidentale
 
“Shiroyasha eh? Questa cosa del demone non te la sei più tolta di dosso da quella sera a quanto pare” ridacchiò Katsura, attizzando meglio il fuoco attorno al quale erano seduti lui, Gintoki e Takasugi.
“Taci Zura, è una maledizione. Ormai nessuno ricorda quale sia il mio vero nome” finse di lamentarsi il ragazzo coi capelli argentati, nascondendo a malapena il sorriso orgoglioso che gli veniva fuori da quando aveva scoperto che gli avevano affibbiato un soprannome tanto altisonante per le proprie gesta.
“Bhe, nemmeno tu usi mai il mio. Ti ricordo che sono Katsura, non Zura”
“Come vuoi, Zura, o devo chiamarti la Nobile Furia?”
Katsura distolse lo sguardo per un attimo e tossicchiò piano arrossendo leggermente.
“Ma che è quella faccia? Ti piace così tanto quel soprannome? Ti sei pure scordato di correggermi!”
“Voi due da quando vi hanno assegnato un plotone state gongolando fin troppo” si intromise Takasugi, che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
“Disse quello che aveva dato al proprio plotone perfino un nome. E tremendamente pacchiano anche” attaccò briga Gintoki.
“Esatto, chi mai vorrebbe chiamare le proprie truppe ‘armata dei soldati demoniaci’” resse il gioco Katsura, infastidendo l’amico.
“Sicuramente qualcuno con più buon gusto di chi chiamerebbe il proprio comandante ‘Shiroyasha’ o ‘Nobile Furia’”
“Sei solo geloso perché a noi i nomi li hanno dati mentre tu hai dovuto scegliertelo. Anzi, l’hai scelto per le truppe e siccome sei il comandante ta-dà! Il comandante del Kiheitai. Che fantasia!” trillò Gintoki, schivando un pugno di Takasugi nella sua direzione.
“Gintoki non brilla d’intelligenza, ma non ha tutti i torti, Bakasugi”
La discussione degenerò velocemente finché un messo non interruppe il litigio del trio che, nonostante avesse scalato velocemente la gerarchia dell’esercito grazie ai meriti sul campo di battaglia, era rimasto lo stesso gruppetto di perdigiorno litigiosi che seguiva le lezioni di Shoyo alla Shoka Sonjuku.
“Comandanti” salutò, tossicchiando imbarazzato mentre i tre si ricomponevano.
“Vi ho portato i nuovi soldati che faranno parte dei vostri reggimenti. Il loro plotone è stato annientato, purtroppo non sono tra i migliori combattenti, ma vi prego di prendervi cura di loro. Potete disporne come volete” spiegò brevemente, mentre dietro di lui arrivava un gruppetto di cinque o sei ragazzi. Il loro vociare su “Shiroyasha” e “il comandante del Kiheitai” tutto concitato era udibile fin da dove si trovavano i tre allievi di Shoyo.
“Bene, venite avanti allora” disse Gintoki.
Non appena il messo se ne andò e i ragazzi si allinearono entrambi i gruppi realizzarono una sola e lampante verità. Al loro servizio ora ci sarebbero stati i pochi sopravvissuti del gruppetto che gli aveva dato quel bel benvenuto il loro primo giorno.
Gintoki, Katsura e Takasugi si guardarono, e lo stesso ghigno si disegnò sui loro visi, mentre gli altri ragazzi sbiancavano.
“Il Karma è una puttana eh?” ghignò Takasugi, alzandosi insieme agli altri, che iniziarono a camminare verso il gruppetto.
“Già, e pare che finalmente abbiamo i soldi per pagarla. Altrimenti non mi spiego come mai questo gruppo di fessi ci sia stato affidato proprio il giorno prima del nostro turno di pulizie al campo” gli andò dietro Gintoki.
“Però più che una puttana è più una Oiran generosa, finalmente questi qui avranno la possibilità di confrontarsi coi loro pari. Domani è proprio il giorno di spalare gli escrementi dei cavalli” sghignazzò Katsura.
Mentre parlavano tra loro fingendo che gli altri non fossero nemmeno lì si avviarono verso i loro alloggi, passando ridendo a fianco dell’attonito gruppetto che non aveva osato spiccicare parola. Erano ancora immobilizzati dagli sguardi dei tre che, nonostante stessero scherzando, avevano delle espressioni demoniache tali da spaventare perfino i kami.

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Capitolo 2
*** Tutte le battaglie nella vita servono ad insegnarci qualcosa, anche quelle perdute ***


La battaglia non stava andando bene. L’esercito nemico era più numeroso del previsto e li stava lentamente accerchiando, spingendoli lontano dall’avamposto che volevano conquistare. Gintoki, Katsura e Takasugi erano sparpagliati per il campo di battaglia, muovendo una disperata offensiva verso il loro obiettivo, nonostante ormai fossero tragicamente a corto di uomini. Inoltre, nonostante valessero da soli quanto un intero plotone di soldati semplici, anche le loro energie stavano gradualmente sfumando nel lungo protrarsi della battaglia.
In un ultimo disgraziato tentativo di ribaltare la situazione il generale Eiji, uno degli strateghi anziani dell’esercito dei ribelli Joi, aveva mandato in prima linea le reclute che si occupavano dei rifornimenti, per dare man forte ai pochi uomini rimasti in prima linea e che provavano ancora a mantenere l’offensiva sul limite del fronte. La battaglia ormai era perduta, ma il suo orgoglio gli impedì di chiamare la ritirata che i tre allievi di Shoyo, così come i loro sottoposti ancora vivi, ormai attendevano come acqua nel deserto. Nemmeno Katsura, nonostante ormai si fosse guadagnato il soprannome di Kotaro il fuggitivo, era riuscito a convincerlo quando, accortosi che la situazione era disperata, aveva ripiegato nelle retrovie nella speranza di poter organizzare una ritirata. Purtroppo però, essendo nell’esercito da poco meno di un anno, non era stato ascoltato dal generale Eiji, che si era orgogliosamente intestardito sul voler a tutti i costi conquistare quell’avamposto nonostante l’unica cosa che avrebbe ottenuto insistendo a quel modo sarebbe stato l’annientamento del proprio esercito.
Il ragazzo coi capelli lunghi era quindi tornato a combattere in prima linea cercando di salvare in quel modo il maggior numero di truppe possibili, organizzando i pochi uomini rimasti in modo da far sì che si proteggessero a vicenda, inorridendo quando vide arrivare nella loro direzione i ragazzi più giovani e inesperti arruolatisi da poco.
Fu in quel momento che, da tutt’altra parte Gintoki, che era impegnato a respingere da solo una decina di nemici, vide correre verso di lui il giovane Shuichi.

*********
 
Shuichi era un ragazzo di qualche anno più giovane di Gintoki, Katsura e Takasugi. Per arruolarsi aveva detto di avere 16 anni, ma Gintoki aveva sempre sospettato ne avesse di meno. Dal momento in cui era entrato nel suo plotone aveva seguito il samurai coi capelli argentati letteralmente ovunque, iniziando a rivolgersi a lui con l’appellativo di senpai che, per quanto non fosse adeguato al suo grado, era piaciuto così tanto al samurai che non aveva mai corretto il ragazzo. A Gintoki infatti quel ragazzo piaceva e, nonostante spesso lo respingesse o gli dicesse di stargli su di dosso, lo faceva senza un’eccessiva convinzione, finendo sempre per far ridere Takasugi e Katsura che non perdevano occasione di prenderlo in giro. La verità era che il samurai coi capelli argentati si rivedeva in quel ragazzo, arruolatosi dopo essere rimasto solo al mondo, e in parte era anche lusingato che quel giovane lo prendesse a modello e lo vedesse come un mentore. Era contento di poter fare qualcosa per lui, di poter essere un punto di riferimento, anche perché, così facendo, poteva tenerlo al sicuro. Shuichi infatti, per quanto si fosse allenato nell’arte della spada, non aveva mai davvero combattuto sul campo. Essendo appena entrato nell’esercito dei ribelli e vista la sua giovane età al momento si occupava per lo più di medicare i feriti o fare assistenza nelle retrovie, lontano dall’idea di andare in prima linea. Non era nemmeno mai uscito dall’accampamento per una battaglia importante, ma soltanto per poche azioni di guerriglia. Gintoki, sapendo che prima o poi gli sarebbe comunque toccato di combattere, di tanto in tanto gli insegnava qualche tecnica o lo aiutava con gli allenamenti.
Nonostante la presenza stessa di Shuichi avesse migliorato l’umore del samurai coi capelli argentati, che si sentiva finalmente utile anche in qualcosa che non fosse l’essere una macchina da guerra, Takasugi non era particolarmente contento del legame che stava instaurando con Gintoki. A differenza dello Shiroyasha infatti il comandante del Kiheitai non vedeva un futuro brillante per il ragazzo, era troppo giovane, troppo inesperto per il campo di battaglia. Quelli come lui di solito non crescevano fino a raggiungere l’età per bere.
Più di una volta aveva messo in guardia Gintoki dal non affezionarsi troppo ma, dopo l’ennesima volta in cui l’amico l’aveva preso a male parole, aveva rinunciato, limitandosi ad osservare come sarebbe andata a finire.
 
La sera prima di quella battaglia Gintoki era passato a vedere come stava, prima di andare a bere qualcosa coi suoi compagni nel loro solito rito propiziatorio, e l’aveva trovato a tremare nascosto in un angolo.
“Ehi Shuichi, che c’è che non va?” gli chiese, accucciandosi di fianco a lui.
“Domani, domani anche io dovrò scendere in campo. Sarò nelle retrovie, è vero, ma è la battaglia più grossa a cui abbia mai partecipato… Io… ho paura, senpai” gli rispose il ragazzo, tremante.
“Vedrai che andrà tutto bene! Saremo così bravi in prima linea che non ti accorgerai nemmeno di essere in battaglia” ghignò lo Shiroyasha, cercando di tirare su di morale il ragazzo, che però non cambiò umore.
“Senpai io… Io non ho mai ucciso nessuno. So che sono un soldato, e che mi sono arruolato in un esercito in guerra ma… Domani i nostri nemici sono i soldati dello shogunato. Fossero amanto, potrei anche farcela, ma esseri umani come noi?” balbettò, iniziando a piangere.
Quel ragazzo non era adatto per l’esercito, ma Gintoki, per qualche motivo, sembrava non capirlo o non volerlo capire. E così, invece di consigliarli di fuggire e cambiare vita scelse di incoraggiarlo.
“Vedrai, non dovrai uccidere nessuno” mentì, sapendo di mentire “tu occupati dei feriti come fai di solito, noi proteggeremo le retrovie, non dovrai combattere” continuò, in un eccesso di ottimismo. Le sue parole sembrarono calmare il ragazzo, che si asciugò le lacrime.
“Grazie, Gintoki-senpai! Ce la metterò tutta” gli disse, con rinnovata energia, e Gintoki sorrise rassicurante al ragazzo.
“Ti prometto che torneremo a casa sani e salvi, vedrai che andrà tutto bene. Domani ci rivedremo qui e rideremo di questo momento” disse soltanto, per poi salutarlo e lasciare i suoi alloggi diretto a bere con Takasugi e Katsura.
Non appena mise piede fuori dalla tenda che il ragazzo condivideva con le altre reclute che fu tirato dietro l’angolo da qualcuno che l’aveva afferrato con poca grazia per il bavero.
“Ehy, Gintoki-senpai, ho sentito tutto. Vacci piano con le promesse. Non lo sai se andrà tutto bene. Non promettere cose che non puoi mantenere, non ne verrà fuori niente di buono” lo ammonì freddo Takasugi, guardandolo dritto negli occhi.
“non avevi detto che non erano più affari tuoi come mi comportavo con quel… moccioso… come lo definisci tu?” gli rispose irritato Gintoki, scrollandosi le sue mani di dosso.
“Perché fai così, Gintoki? Perché dici cose che non pensi? So che non sei così stupido da credere che in una battaglia come quella di domani non vengano coinvolte le retrovie. So che non pensi davvero che quel ragazzo non dovrà uccidere nessuno. Perché gli hai detto quelle cose?” gli chiese ancora Takasugi, incalzandolo verbalmente e avanzando verso di lui fisicamente, spingendolo a indietreggiare.
“Lasciami stare, Takasugi. Magari questa volta andrà bene. Magari questa volta riuscirò…” replicò Gintoki, senza credere davvero a quello che stava dicendo e mordendosi la lingua prima di parlare troppo.
“Riuscirai a fare cosa?” chiese l’altro, che non si era lasciato scappare il cambio di sguardo e tono di voce. Gintoki abbassò lo sguardo.
“magari, almeno stavolta, riuscirò a proteggere qualcuno che crede in me” ammise, senza il coraggio di guardare Takasugi negli occhi.
“Sei cretino? Per il tuo egoismo stai mandando un ragazzo a morire! Vuoi proteggerlo? Digli di scappare. L’esercito non è il suo posto e ormai dovrebbe essersene accorto anche un idiota come te!” gli rispose secco il comandante del Kiheitai, quasi gridando, non potendo credere a quello che stava sentendo.
“Takasugi! Quel ragazzino non ha nessuno, ha solo me. Sono il suo generale. Sono il suo senpai. Se non crederò in lui almeno io, chi lo farà?”
Takasugi cambiò espressione e finalmente realizzò perché Gintoki si era legato tanto a quel moccioso. Gli ricordava loro tre, soli al mondo prima che Shoyo li trovasse. Voleva fare per lui quello che il loro sensei aveva fatto per loro. Era ovvio. Perché non l’aveva capito prima? Ma c’era solo un problema in tutto questo e non esitò a dirglielo ad alta voce.
“Gintoki, non sei Shoyo. Come direbbe lui, dovranno passare almeno mille anni prima che tu possa salvare qualcuno nel modo in cui lui ha salvato noi. Lascia perdere questo gioco delle parti, pensa alla vita di quel ragazzo” disse meno tagliente del solito Takasugi, omettendo una parte dei suoi pensieri, che non avrebbe mai ammesso ad alta voce ma che forse era la cosa più importante che avrebbe dovuto dire.
Pensa a come starai tu se qualcosa andrà storto e penserai che sia stata colpa tua.
Gintoki rialzò lo sguardo furioso, Takasugi aveva scoperto i suoi altarini ma il samurai coi capelli argentati non era di certo pronto a metabolizzare la verità che Takasugi gli aveva vomitato addosso. Lo colpì con un pugno, facendolo volare a terra, e se ne andò.
“Vaffanculo Takasugi” gli disse soltanto, andandosene da solo in un posto in cui avrebbe potuto dormire tranquillo fino all’indomani. Di bere e scherzare ora non aveva più nessuna voglia. Certo, lui e Takasugi litigavano in continuazione, al punto che forse erano più le volte che si punzecchiavano che quelle in cui parlavano normalmente, ma non era mai così. Questa era sul serio. Gintoki era davvero arrabbiato con lui, profondamente.
Takasugi si massaggiò la guancia colpita, molto contrariato dal comportamento dell’amico. Fu in quel momento che qualcuno gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi e, alzando gli occhi, il comandante del Kiheitai si accorse che altri non era che Katsura.
“Forza Takasugi, andiamo a berci qualcosa almeno noi due” gli disse, issandolo da terra.
“Anche tu lo stavi…?”
“Tenendo d’occhio? Certo. Io vi tengo sempre d’occhio. Ma penso che nulla di quello che gli diremo riuscirà a farlo ragionare. Ha preso questa cosa molto sul personale”
“Già… Quell’idiota…”
“Dovrà sbatterci contro la faccia. Spero solo non gli faccia troppo male” concluse Katsura e Takasugi non gli rispose. Si incamminarono in silenzio verso il solito posto dove bevevano insieme prima di una battaglia e passarono la serata a pensare a quanto fosse strano che fossero solo loro due.


 
*******
 
 
Quando Gintoki vide il giovane corrergli incontro senza nemmeno aver sfoderato la spada capì. Quell’unica immagine bastò a fargli realizzare che idiota era stato a fargli credere che se la sarebbe cavata in battaglia. Possibile che non si fosse accorto fino a quel momento di quanto il ragazzo non fosse pronto ad affrontare la crudeltà del campo di battaglia? Capì solo in quell’istante che avevano ragione Katsura e Takasugi. La realizzazione lo colpì come un fulmine a ciel sereno.
Quel ragazzino cosa poteva fare in una situazione tanto disperata?
E inoltre, quanto poteva essere tragica la situazione vista dalle retrovie se avevano mandato perfino le reclute in prima linea? Si guardò velocemente intorno. I nemici erano ovunque mentre dei suoi uomini poteva vederne sempre meno. Merda… Perché non stavano chiamando la ritirata? Come se essersi fermato di combattere gli avesse risvegliato in un secondo tutto il resto avvertì improvvisamente il dolore delle ferite e della fatica, l’odore persistente di ferro e sangue che permeava il campo di battaglia e, per un solo istante, una sensazione di profonda disperazione nel realizzare che, forse per la prima volta da quando si era arruolato, stavano perdendo.
Il gruppo di nemici che Gintoki stava tentando di respingere si accorse della sua distrazione e lo caricarono tutti insieme, così lo Shiroyasha dovette distogliere lo sguardo dal giovane Shuichi dai propri pensieri e concentrarsi sui suoi avversari. Convincere il proprio corpo a smettere di nuvoo di provare quelle sensazioni fu difficile, ma la vista del nemico lo aiutò a scivolare nuovamente nella trance della battaglia, dove lui e la sua katana erano una cosa sola e non c’era spazio per nessun altro pensiero, per nessun odore nauseabondo e per nessun dolore né affaticamento. Ora doveva solo liberarsi di quei soldati dello shogunato, finito con loro sarebbe andato a prendere Shuichi e l’avrebbe portato al sicuro.
Era questa la cosa giusta da fare.
Quello non era certo posto per qualcuno che corre in prima linea con la spada ancora nel fodero. La pietà per il nemico non era qualcosa che poteva esistere in guerra, né allora né mai. La guerra non è gentile e di certo non perdona. Gintoki l’aveva imparato molto presto, forse prima ancora di saper anche solo come impugnare la spada. Non sapeva quando di preciso l’avesse imparato, era come camminare o mangiare o bere. Non ti ricordi come hai imparato quelle cose, le sai e basta. E così Gintoki conosceva la guerra e la sua profonda disperazione. E allora perché, perché non si era accorto che quel ragazzo non doveva essere lì? Che avesse ragione Takasugi? Che il suo bisogno di sentirsi utile l’avesse momentaneamente accecato?
Un nemico più insistente degli altri gli saltò addosso, passandogli la spalla a fil di lama e risvegliandolo definitivamente dai suoi pensieri. Lo abbatté velocemente, tagliandogli il ventre da parte a parte, per poi scagliarsi come una furia verso i rimanenti soldati dello shogunato. Un paio caddero subito sotto i suoi colpi veloci, schizzandogli la faccia e i capelli di sague, e stava per passare a fil di lama il terzo, quando si accorse con la coda dell’occhio che un soldato nemico aveva raggiungo Shuichi. Passò da parte a parte il nemico che aveva di fronte e corse verso il ragazzino.
Sfodera la spada, Shuichi!
Pregò mentalmente, mentre i superstiti del gruppo che lo stava attaccando gli si parò davanti, bloccandogli la strada. Gintoki era abbastanza lontano ma vide il ragazzo tremare. Ripensò a quanto gli aveva detto sul non voler uccidere gli umani. Si sentì in colpa, ancora più di quanto già non lo si sentisse. Quanto era stato stupido a dirgli che avrebbe potuto farcela anche senza uccidere nessuno? Perché, perché gli aveva detto quelle cose?
Sfodera quella cazzo di spada!
Come se l’avesse sentito, in quel momento Shuichi sfoderò la spada e si mise in guardia di fronte al proprio avversario. Teneva la spada con due mani davanti a sé, tremando un pochino nonostante la posizione stabile. Gintoki tirò un sospiro di sollievo e parò il colpo di un nemico senza nemmeno guardarlo, ruotandogli poi alle spalle e colpendolo alla schiena. Stava combattendo con due spade e così, mentre ne sfilava una dall’orami cadavere del nemico, con l’altra parò un fendente diretto alla sua testa. Finì di sistemare anche l’ultimo nemico tagliandogli la gola e si girò giusto in tempo per vedere Shuichi rimanere fermo in guardia, mentre il nemico gli si avventava addosso. Anzi, proprio nell’ultimo momento lo vide abbassare la guardia e lasciar cadere la katana a terra. Gintoki era troppo lontano per poter sentire il rumore dell’acciaio che rovinava a terra, ma era sicuro di averlo sentito. Un sordo clang che decretò l’inizio della fine. Da quel momento tutto iniziò a svolgersi al rallentatore, era come nei sogni, quando vuoi correre ma per qualche motivo riesci solo a trascinarti pianissimo, quando vuoi urlare ma non ti esce che un filo di voce. Gintoki vide Il nemico ignorare il gesto di resa di Shuichi e scattargli contro. Lo vide infilzarlo da parte a parte con la sua spada, spingendo più forte quando sentì il corpo del ragazzo opporre resistenza. Stava correndo, urlando il nome del ragazzo, ma sembrava non guadagnare nemmeno un centimetro di terreno. Il nemico lo vide, capì chi fosse e si affettò ad andarsene, troppo codardo per prendersela con qualcuno della sua taglia, lasciandolo il ragazzino agonizzante in una pozza del suo stesso sangue.
Alla fine Shuichi non se l’era proprio sentita di uccidere, nemmeno l’uomo che invece l’aveva colpito senza pietà, nonostante fosse soltanto un ragazzino disarmato.
Per un attimo a Gintoki parve che tutti i rumori e le grida della battaglia si zittissero, sentiva soltanto un fischio assordante nel silenzio, mentre osservava il ragazzino riverso a terra. Strinse le spade che aveva in pugno con tutta la sua forza, e poi si diresse di corsa verso l’assassino di Shuichi. Improvvisamente il mondo aveva ripreso la sua velocità, anzi, forse anche l’ambiente intorno a lui stava correndo e in un secondo fu addosso a quel soldato senza onore e, prima ancora che questi potesse rendersene conto, Gintoki gli aveva infilato la spada in gola, lasciandolo soffocare nel suo sangue, mentre osservava la sua espressione terrorizzata. Lo sguardo che aveva in quel momento era davvero quello di un demone infuriato che osservava la sua vittima dissanguarsi a morte, mentre il rosso del sangue del nemico si rifletteva nei suoi occhi del medesimo colore.
Sistemato il nemico si diresse da Shuichi.
Era ancora vivo, ma era pallidissimo e tremava intensamente. Nonostante Gintoki l’avesse preso tra le sue braccia e stesse cercando di fermare il sangue che gli usciva dal ventre con le mani era ormai ovvio che non ci fosse più nulla da fare.
Il ragazzo allungò una mano verso Gintoki e provò a dire qualcosa, ma tutto quello che gli uscì fu un rantolo e un po’ di sangue. Piangeva, chiaramente terrorizzato.
Gintoki lo guardò sentendo il proprio cuore stringersi. Sentiva il corpo del ragazzo tra le sue braccia diventare sempre più debole.
Il samurai conosceva bene la morte, era stata sua compagna di vita dal giorno in cui aveva iniziato a derubare i cadaveri per sopravvivere, o forse anche da prima. E sapeva che la morte è impietosa, non è come nei racconti, non ci si dilunga in lunghe frasi filosofiche sul senso della vita. Quando ti trapassano con una spada da parte a parte muori e basta, senza riuscire a dire nulla, senza il tempo di pentirti dei tuoi peccati.
La morte non aspetta nessuno.
“Perdonami, perdonami Shuichi. E’ colpa mia. Ti ho fatto una promessa che non sono riuscito a mantenere” gli disse, guardandolo con una tristezza così profonda che lo rese incapace anche di piangere.
Con immenso sforzo allora il ragazzo scosse la testa, per comunicargli che no, non era affatto colpa sua, e tentò di sorridere. Poi, la mano che aveva sollevato gli ricadde addosso esanime, mentre Shuichi chiudeva gli occhi per l’ultima volta. Da solo, su un campo di battaglia in cui non doveva essere alla sua età, senza nemmeno poter dire le sue ultime parole.
Il samurai coi capelli argentati sentì il suo cuore stringersi ancora più forte, come se dovesse rompersi in mille pezzi, non si sentiva così da quando avevano portato via Shoyo. Per l’ennesima volta non era stato in grado di proteggere nessuno.
Per l’ennesima volta il nemico aveva vinto e lui non era stato che un inutile spettatore.
Urlò al cielo la sua rabbia, con ancora in braccio il cadavere di un ragazzo la cui unica colpa era stata fidarsi di lui.
 
Ma non poteva rimanere lì a compiangersi troppo a lungo, erano ancora in piena battaglia, una battaglia che stavano perdendo. La prima battaglia che stavano davvero perdendo da quando si erano arruolati. E nessuno è mai davvero pronto a perdere.
Gintoki si guardò intorno, i cadaveri dei suoi uomini erano ovunque. Lui ne teneva in braccio uno, ma la verità era che erano molti di più coloro che avrebbe dovuto piangere. Lui, il loro comandante, era ancora vivo mentre le sue truppe cadevano sotto le lame nemiche.
Non era così che sarebbe dovuta andare.
Di colpo si sentì incredibilmente piccolo e inerme difronte a una tale devastazione. Come se non fosse altro che una goccia nel mare, in balia degli eventi e incapace di agire in alcun modo per cambiarne il corso. Nonostante quel giorno fossero dispiegati diversi plotoni con altrettanti comandanti si sentì addosso il peso di ogni vittima, la coscienza così pesante da tirarlo giù come un’ancora che lo legava al proprio dolore. Se solo fosse stato un comandate migliore forse i suoi uomini non sarebbero morti, forse Shuichi sarebbe ancora vivo, forse…
 
Poi improvvisamente un’esplosione riportò il samurai alla realtà. Gintoki si voltò e vide che proveniva dalla zona in cui avrebbe dovuto trovarsi Takasugi coi suoi uomini. Vide l’amico, rimasto ormai praticamente da solo, combattere allo stremo delle forze contro un nutrito gruppo di nemici di cui uno armato di tecnologia amanto. Avevano spinto lui e il piccolo manipolo uomini che lo stavano coprendo contro un edificio che ora stavano bombardando con una specie di lanciagranate, nella speranza di farlo crollare su Takasugi e i suoi uomini. L’area circostante era in fiamme, partite dalle scintille delle esplosioni.
Il cuore di Gintoki perse un battito, stringeva ancora tra le braccia Shuichi ma, vedendo l’amico in quella situazione disperata, per un attimo non poté fare a meno di vedere Takasugi morto tra le sue braccia, il viso pallido e l’espressione congelata per sempre in un sorriso sofferente. Inorridì all’idea, sentendo tutti i muscoli contrarsi e le lacrime inumidirgli gli occhi. No, non Takasugi. Non suo fratello. Non lo avrebbe permesso. Avrebbe fatto di tutto per impedire che quella visione si realizzasse.
Gintoki si riscosse e appoggiò delicatamente a terra Shuichi, come se fosse qualcosa di fragile e prezioso, promettendogli che sarebbe tornato a prenderlo per dargli una degna sepoltura, poi si diresse di corsa verso l’amico.
Nessun’altro sarebbe morto quel giorno.
Nessun’altro.
Non mentre lui era lì.
Inoltre… C’era qualcos’altro che lo spingeva ad agire con urgenza. L’ultima volta che aveva parlato con Takasugi avevano litigato, sul serio, e se gli fosse successo qualcosa ora, prima che potessero chiarirsi, non se lo sarebbe mai perdonato.
Gintoki stava correndo disperatamente ed era ormai a un’ottantina di metri quando il nemico esplose un altro colpo di lanciagranate, che Takasugi schivò quel tanto che bastava per non rimanere coinvolto nell’esplosione, ma non abbastanza da evitare i detriti che crollarono dal tetto dell’edificio. Una grossa trave gli cadde addosso, bloccandogli una gamba. Il ragazzo imprecò, cercando con tutte le sue forze di liberarsi ma finendo solo per farsi ancora più male. Gintoki poteva vederlo alternare strattoni a grida, più di rabbia che di dolore.
“Takasugi!” urlò in quel momento Gintoki, per farsi vedere dal nemico nella speranza che notandolo dirigessero verso di lui il prossimo colpo, mentre correva così forte da farsi male alle gambe, respirando ormai così affannosamente che la gola gli bruciava da morire. Il comandante del Kiheitai in quel momento si girò e lo vide arrivare, di corsa e ricoperto di sangue dalla testa ai piedi. Ormai era solo a una trentina di metri.
“Gintoki?” chiese, più a sé stesso che all’altro, sorpreso di vederlo lì, dopo le ultime parole che avevano scambiato. Inoltre tutto quel sangue... Era troppo anche per una battaglia come quella ed era chiaro che non era suo.
“Ehi voi!” urlò ancora lo Shiroyasha, cercando di attirare l’attenzione dei nemici, riuscendo a farsi finalmente notare da quello con il lanciagranate, che presumibilmente era il loro capo. Lo vide dare indicazione ad alcuni degli uomini che aveva con lui che subito gli corsero incontro brandendo le loro katana. Lui, d’altro canto, prese di nuovo la mira su Takasugi. Mancavano ancora una ventina di metri, su per giù, e doveva sistemare quegli sgherri.
Ma doveva fare in tempo.
Doveva.
Di nuovo l’immagine di Takasugi esanime tra le sue braccia fece capolino nella sua mente e il smurai coi capelli argentati la respinse violentemente. Non era il momento di pensare al peggio. Si focalizzò invece sui nemici, schivò il primo uomo, parò un colpo del secondo con la spada lunga e lo trafisse con quella più corta, per poi girarsi e trovarsi di nuovo di fronte all’altro. Incrociò le spade sopra la testa, fermando il fendente del nemico per poi assestargli un calcio all’altezza dello stomaco. Non era morto, e nemmeno svenuto del tutto, ma ora Gintoki non aveva tempo di dargli il colpo di grazia. Doveva raggiungere Takasugi.
Mancavano una quindicina di metri.
Ormai era così vicino che poteva sentire l’uomo armato parlare.
“… oggi non solo porterò con me la testa del comandante del Kiheitai, ma perfino lo Shiroyasha mi ha fatto il favore di venire qui” ghignò, osservando Takasugi cercare di liberarsi dalla trave che gli bloccava la gamba dimenandosi come un pazzo. Poi spostò lo sguardo dal ragazzo ai resti dell’edificio alle sue spalle. Gintoki capì cosa aveva in mente, voleva ucciderlo senza farlo esplodere, o non avrebbe avuto nessuna testa da esibire al proprio generale. Sperava di fargli crollare addosso il resto dell’edificio, in modo da non dover rischiare di avvicinarglisi. Seppur parzialmente immobilizzato Takasugi doveva davvero spaventarlo.
Le gambe di Gintoki ormai non avevano più forza, ma si obbligò a correre ancora, mancava così poco, il fiatone gli impediva di pensare lucidamente ma doveva farcela.
Non importava se era ormai tutto il giorno che combatteva in una battaglia disperata, doveva salvare almeno l’amico. Doveva riportare a casa suo fratello.
L’aveva promesso a Shoyo, e l’aveva promesso a sé stesso. Non avrebbe più lasciato che portassero via o uccidessero nessuno dei suoi amici, della sua famiglia.
Proprio in quel momento, quando Gintoki aveva raggiunto l’amico, il nemico esplose il colpo e colpì la parte più alta del muro ancora in piedi dietro Takasugi causando una pioggia di detriti. Poi tutto avvenne in un secondo.
“TakasugiiiI” urlò disperatamente Gintoki, vedendo i detriti cadere verso di loro e, senza pensarci un secondo, si gettò in mezzo, coprendo l’amico facendogli scudo con il proprio corpo.
“Gintoki che cazzo fai, levati” fece appena in tempo a dire Takasugi mentre la pioggia di detriti colpiva il samurai coi capelli argentati, lasciandolo praticamente illeso il comandante del Kiheitai.
Quando anche l’ultimo sassolino aveva finito di muoversi e la polvere si era posata Takasugi era ancora vivo e cosciente, mentre Gintoki non sembrava muoversi.
“Ehy, idiota? Gintoki? Sei sveglio? Riesci a muoverti?” chiese, cercando in qualche modo di muoversi per scuotere l’amico.
Lui era ancora bloccato, non solo dalla trave che gli teneva ferma la gamba, ma ora anche dal peso morto di Gintoki sopra di lui e di alcuni detriti che giacevano su di loro. Inoltre era posizionato a pancia in giù e tutto quel peso sul corpo gli stava rendendo difficile respirare. Non vedeva nemmeno dove fosse il nemico, se si stesse avvicinando per dargli il colpo di grazia o cosa. Fortunatamente almeno non erano caduti così tanti mattoni e assi di legno da seppellirli completamente.
“Gintoki! Devi svegliarti! Ma cosa cazzo di è saltato in mente” gridò ancora Takasugi, cercando di risvegliare l’altro, mentre la consapevolezza del sacrificio che l’altro era stato disposto a fare per lui iniziava a farsi strada nei suoi pensieri, facendolo infuriare. Quanto poteva essere idiota? Come poteva anche solo pensare che lui avrebbe voluto sopravvivere al prezzo della sua vita?
Poi sentì del sangue colargli sul viso e, non sentendo dolore alla testa, intuì fosse dell’amico.
Merda
Pensò, uno di quei detriti doveva averlo colpito alla testa. Sentiva il suo mento nell’incavo del collo ed era sicuro che era da lì che proveniva quel sangue così caldo e denso. L’odore di ferro intenso che gli pervase le narici gli diede la nausea.
Iniziò anche a sentire dei passi avvicinarsi, probabilmente ora che il crollo si era stabilizzato i nemici stavano venendo a riscuotere il loro premio. Se Gintoki non si fosse svegliato alla svelta per loro sarebbe finita. Quegli uomini volevano le loro teste ed erano molto vicini ad ottenerle.
“Gintoki!” gridò ancora, in un ultimo disperato tentativo e, stavolta, sentì l’altro muoversi.
“T-Takasugi?” chiese, rintronato.
“Idiota! Era ora che ti svegliassi. I nemici, vai a uccidere i nemici, o questo tuo atto eroico da prima donna da quattro soldi non sarà servito a nulla!” gli gridò Takasugi, e la sua voce acuta nell’urgenza di comunicare con lui risultò incredibilmente dolorosa nelle sue orecchie. Non era ancora del tutto consapevole di sé stesso.
“Gintoki” urlò ancora Takasugi, con una nota di drammaticità nella voce che non gli apparteneva, ma che servì allo scopo poiché improvvisamente Gintoki si riprese, si ricordò in un istante dov’era e cosa stava facendo.
Si alzò, incurante delle ferite della battaglia e dell’aver fatto da scudo a Takasugi, ignorando la testa che gli scoppiava là dove un sasso l’aveva colpito mettendolo ko e le diverse costole che dovevano esserglisi incrinate sotto la pioggia di detriti.
Recuperò una sola spada e si parò davanti all’amico a terra, fronteggiando l’uomo col lanciagranate che orami si era avvicinato a tiro di spada e il suo gruppo di soldati.
“Non muoverete un altro passo in questa direzione” gli disse, strisciando a terra un piede per raggiungere la posizione di guardia, con una freddezza nella voce e nello sguardo che, unite ai vestiti bianchi intrisi di sangue, gli conferivano un’aura estremamente spaventosa.
“Lo… Lo Shiroyasha…” disse soltanto il capo dei nemici, così terrorizzato da quella visione che si dimenticò perfino dell’arma che impugnava. L’ultima cosa che i suoi occhi videro fu la lama di Gintoki che gli saltava addosso con una furia implacabile.
 
Gintoki non sapeva da quanto tempo ormai fosse fermo in piedi davanti a Takasugi.
Forse era lì da qualche decina di minuti, forse da ore.
I nemici si erano accorti che c’erano ben due comandanti feriti in quel punto e, a gruppetti, si stavano dirigendo lì per prendere le loro teste. I ribelli Joi ormai avevano abbandonato quasi del tutto l’area e il samurai coi capelli d’argento, vedendo sempre meno dei loro uomini in giro, era certo che fosse stato Katsura a ordinare finalmente la ritirata. Ma lui era così desideroso di non pensare a niente che non fosse combattere che non gli importava, anzi, da un certo punto di vista era quasi contento che i nemici continuassero a convergere nella sua direzione e che non ci fose nessun’altro bersaglio a parte lui, così poteva combattere ancora e ancora.
Più combatteva e meno pensava.
Più combatteva e più riusciva a distrarsi dall’idea che Shuichi fosse morto per colpa sua.
Più combatteva e più si sentiva almeno un minimo utile, nel cercare di difendere il suo amico di sempre, ancora bloccato sotto quella trave.
Takasugi, d’altro canto, non era per nulla contento di vedere l’altro distruggersi per lui in quel modo. Avrebbe preferito morire che essere bloccato in quella posizione inutile che lo faceva sentire estremamente debole e vulnerabile, ma da solo non era in grado di liberare la gamba e, se anche ci fosse riuscito, non era sicuro di riuscire a stare in piedi. Ciò non di meno si odiava per quella situazione di manifesta debolezza, odiava dover essere salvato e protetto, lo mandava letteralmente ai matti. Inoltre, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, odiava vedere quanto male si stesse facendo Gintoki a causa sua.
Se ne stava lì, in piedi, passando a fil di lama ogni nemico che si avvicinava ma… Per quanto ancora avrebbe resistito? Poteva vedere le sue gambe tremare vistosamente, la presa sulla spada andava via via allentandosi ed era sicuro di averlo visto perdere l’equilibrio un paio di volte. Se solo fosse riuscito a spostare quella dannata trave!
Tentò di dare l’ennesimo strattone alla gamba bloccata, finendo solo col ferirsi ulteriormente. Imprecò a voce alta, non riusciva nemmeno a guardarsi più di tanto intorno. L’unica loro speranza era che Katsura si accorgesse che non si stavano ritirando e venisse a cercarli o, di questo passo, quell’idiota di Gintoki si sarebbe consumato fino a morire di fatica, se non per un colpo nemico, e lui l’avrebbe seguito a ruota.
Non fece però in tempo a chiedere a Gintoki di girarsi a controllare che una mano gli tappò la bocca mentre il peso di un uomo seduto sulla sua schiena gli mozzò il respiro. Il ragazzo cercò di urlare ma la mano che aveva sulla bocca impediva a qualsiasi suono di uscire. L’odore e il sapore di quella mano erano nauseanti e Takasugi dovette controllarsi per non vomitarsi addosso.
Cazzo!
Imprecò mentalmente, un nemico doveva aver fatto il giro lungo e averlo preso alle spalle.
“Shhh” gli sussurrò nell’orecchio quell’uomo, mentre gli passava un braccio intorno al collo con tutta l’intenzione di strangolarlo.
Takasugi si agitò e tentò di nuovo di urlare, ma senza riuscirci. Si sentiva inerme, schiacciato sotto il peso di quella trave e di quell’uomo, sicuramente un adulto molto più grande e grosso di lui. Si sentiva debolissimo, stava per perdere i sensi annaspando alla ricerca di ossigeno, ma quella mano non si spostava e il braccio attorno al suo collo sembrava fatto d’acciaio vivo.
“Gintoki! Dietro di te!” sentì soltanto e poi vide tutto nero perdendo definitivamente i sensi.
 
Il samurai coi capelli argentati era così preso dai nemici che stava affrontando, o per meglio dire, era così esausto che ormai era in grado di concentrarsi solo su quello, che non si era accorto che un uomo alle sue spalle aveva raggiunto Takasugi. Non finché qualcuno non gli urlò di girarsi. Era così sfinito che non riuscì a mettere a fuoco la figura che aveva parlato, che lo stava raggiungendo da dietro il gruppetto di nemici.
Finì l’uomo contro cui stava combattendo infilzandolo con la spada e, troppo stanco per mettere in dubbio la veridicità di quel grido si voltò, notando l’uomo che stava strangolando Takasugi. Gli si scagliò contro incurante di dare le spalle ai nemici e, dopo averlo colpito con un calcio che lo fece rovinare a terra gli conficcò la spada nel petto, lasciandolo agonizzante inchiodato al suolo.
“Takasugi! Takasugi!” lo chiamò, scuotendolo disperatamente, ma l’amico non riaprì gli occhi. Gli controllò subito il battito cardiaco appoggiandogli due dita sul collo e tirò un sospiro di sollievo nel constatare che era ancora vivo.
Solo in quel momento si ricordò, tra le nubi della stanchezza, che aveva ancora dei nemici dietro di lui e con uno sforzo infinito si rialzò tremante, riuscendo a raccogliere la spada di Takasugi da terra per mettersi in guardia solo al terzo tentativo. Un sorrisetto riuscì a increspargli le labbra, chissà quanto si sarebbe arrabbiato l’altro sapendo che stava usando la sua spada? Per difenderlo nondimeno.
Un uomo si diresse verso di lui, da solo. Gintoki era così stanco che faticava a metterlo a fuoco e a pensare chiaramente. Si mise davanti a Takasugi e cercò, per quanto possibile, di assumere una posizione minacciosa.
“-toki.. Gintoki!” si sentì chiamare da quella figura sfuocata e si sforzò di metterla a fuoco.
“Gintoki! Sono io, sono Katsura. Gintoki?”
Nel secondo in cui il samurai dai capelli argentati si rese conto che l’unico uomo ancora in piedi era il suo amico Katsura si lasciò cadere sulle ginocchia, il peso di quella giornata infinta e logorante l’aveva schiacciato tutto insieme nel secondo in cui l’adrenalina l’aveva abbandonato, non vedendo più alcun nemico all’orizzonte.
“Z-zura…” balbettò solo, incapace di dire nient’altro, con la faccia deformata in uno strano sorriso triste.
“Forza Gintoki, non è finita. Sono riuscito a far chiamare la ritirata ma dobbiamo andarcene alla svelta. Non abbiamo più uomini qui e siamo in pieno territorio nemico” disse pratico il ragazzo coi capelli lunghi, dirigendosi vicino a Takasugi per iniziare a liberarlo. Anche lui avrebbe voluto crollare e fermarsi, dire tante cose ai due amici che aveva appena salvato per il rotto della cuffia, ma non era quello il luogo né il tempo. Quello era il momento di essere Kotaro il fuggitivo, doveva portare via da lì quei due idioti prima che si facessero uccidere. Era quasi riuscito a far leva sulla trave che bloccava la gamba di Takasugi quando con la coda dell’occhio vide Gintoki alzarsi con estrema fatica e camminare dalla parte opposta al loro accampamento, la spada di Takasugi in pugno.
“Gintoki! Dove stai andando?”
“A combattere” disse, ancora con quello strano sorriso triste stampato in faccia “è l’unica cosa che so fare. L’unica che ho sempre fatto. L’unica in cui non rischio di far ammazzare nessuno oltre me…” parlò, fermandosi ogni tanto per ansimare. Katsura si chiese come facesse anche solo a stare in piedi, lasciamo perdere combattere.
“Sei idiota? Torna qui. Dobbiamo liberare Takasugi e andarcene. Abbiamo perso, è finita”
“No, non è finita. Posso farcela. Posso ancora combattere” continuò Gintoki, avanzando trascinandosi sui piedi, un lento passo dopo l’altro verso l’avamposto che ormai era del nemico.
Così Katsura dovette lasciar perdere Takasugi e si diresse verso l’amico, mettendogli una mano sulla spalla.
“Ora basta, Gintoki. Basta. È finita”
L’amico non lo guardò nemmeno, non aveva la forza per scrollarselo di dosso e così provò soltanto a muovere un altro passo in avanti.
Fu in quel momento che Katsura perse definitivamente la pazienza. Se Gintoki aveva perso il senno glielo avrebbe fatto ritrovare. Con la mano che aveva ancora sulla sua spalla lo costrinse a girarsi e a guardarlo negli occhi. L’espressione che aveva in viso non gli piaceva per niente e così, senza preavviso, gli tirò uno schiaffo.
“Impara quando una battaglia è persa” lo sgridò, duro “farti uccidere non riporterà indietro nessuno. Ora recuperiamo Takasugi e andiamo a casa” concluse e, senza aspettare una risposta, si girò e tornò dal comandante del Kiheitai, liberandolo finalmente da quella trave. Almeno la sua gamba non sembrava rotta ma solo incastrata e un po’ tumefatta, era un buon segno.
Gintoki era rimasto là, impalato con gli occhi spalancati.
Quanto doveva aver fatto preoccupare Katsura per portarlo ad alzare le mani?
“Zura io…” tentò di scusarsi, raggiungendolo mentre si caricava in spalla un Takasugi ancora incosciente.
“Non sono Zura, sono Katsura. Accetterò le tue scuse solo quando capirai che anche la tua, di vita, per qualcuno è importante” disse solo, contento di essere di spalle rispetto al samurai coi capelli argentati perché, tra Takasugi in quelle condizioni e Gintoki con quell’espressione in viso rimanere impassibile gli stava risultando molto più difficile del previsto.
Quel giorno era decisamente stato una sconfitta, su tutti i fronti.
Scosse la testa per riscuotersi, si voltò e afferrò un Gintoki ancora rintronato per un braccio, iniziando a camminare spedito verso l’accampamento, portando finalmente via gli amici da quell’inferno.

************
 
Arrivarono dopo due ore che sembrarono durarne dieci.
Katsura era sfinito avendo dovuto portare Takasugi svenuto sulle spalle per tutto il tragitto e, nel frattempo, trascinare Gintoki che era cosciente solo fisicamente, ma con la mente in qualche posto oscuro lontano anni luce da loro.
Cercò di portare gli amici nell’infermeria, ma era così piena che non lo fecero nemmeno entrare, neanche quando si accorsero che era uno dei loro comandanti.
Allora si diresse ormai esausto nella loro tenda e stese gli amici sui loro futon, concedendosi solo in quel momento di sedersi un attimo, appoggiato al palo centrale che sosteneva la tenda, lasciando cadere la testa all’indietro.
Il suo lavoro non era finito e non lo sarebbe stato ancora per un po’, ma aveva bisogno di respirare un attimo. La sola vista dell’accampamento pieno di feriti ovunque gli aveva fatto contorcere lo stomaco. In quel periodo erano stanziati in una ex villa di un grande possidente terriero e ormai erano lì da un paio di settimane, a meno di mezz’ora di cammino dal territorio dov’era situato l’avamposto che avevano appena perso. Si erano ubriacati in quell’accampamento, avevano riso e scherzato coi soldati, avevano preso in giro Gintoki che si atteggiava a grande senpai con quel ragazzino. Ma ora non c’erano soldati a cantare per alzare il morale delle truppe, non c’erano risate o scherzi di chi cercava di arrivare a fine giornata col sorriso nonostante tutto, non c’era nemmeno Shuichi a pendere dalle labbra di Gintoki. Katsura non aveva visto il suo cadavere, prima, mentre era andato a cercare gli amici, ma era sicuro che fosse morto. Poteva leggerlo nello sguardo vuoto di Gintoki, che in quel momento giaceva nel proprio futon rannicchiato su un fianco, ancora cosciente e sveglio nonostante tutto.
Poi il momento finì e Katsura si rimboccò le sue metaforiche maniche.
Non poteva lasciare gli amici in quelle condizioni. Certo era esausto a sua volta e il corpo gli faceva malissimo, sia per l’affaticamento della battaglia che per l’aver trascinato fin lì due persone che pesavano quanto lui ma, a differenza loro, non aveva ferite gravi e poteva ancora farcela.
Diede un’occhiata veloce alla gamba di Takasugi. Fortunatamente dei detriti avevano impedito alla trave di schiacciarla ed era solo livida e piena di graffi. La disinfettò velocemente e lo fasciò stretto presumendo che, tentando di liberarsi, si fosse comunque quanto meno provocato una distorsione. Quando il samurai coi capelli lunghi diede l’ultimo strattone alla benda finì per svegliare l’amico, che si alzò a sedere di soprassalto urlando e portandosi inconsciamente le mani al collo, mentre un urlo rauco gli usciva dalla gola ancora irritata dallo strangolamento.
“Shh, Takasugi. Sono io. Siamo a casa” lo rassicurò immediatamente Katsura, cercando di calmarlo, mentre l’altro si guardava intorno con aria interrogativa, deglutendo rumorosamente e spostando lo sguardo ovunque velocemente. Non appena si fu calmato un attimo Katsura gli raccontò quello che si era perso, mentre lo costrinse a fargli medicare anche le ferite da taglio che aveva sul corpo, vedendolo diventare rosso in viso all’idea di essere stato portato in braccio fin lì. Inoltre Takasugi era ancora parecchio arrabbiato con Gintoki per averlo protetto a quel modo ma, perfino lui, capì che quello non era il momento per attaccare briga con l’amico e così si limitò a borbottare qualcosa a mezza voce che solo il samurai coi capelli lunghi comprese, finendo per farsi scappare un accenno di sorriso.
Quando Katsura ebbe finito il comandante del Kiheitai si rivestì indossando uno yukata pulito e prese la sua pipa, che teneva sempre vicino al letto, mettendosi a fumare in silenzio, perdendosi anche lui in pensieri cupi. Non era abituato a sentirsi così. Essere ferito era normale, perdere qualche compagno purtroppo era diventata parte della sua quotidianità.
Ma nessuno di loro aveva mai vissuto una sconfitta così devastante.
Era spaventato.
Tutti loro erano spaventati.
Non sapevano quali o quante facce familiari avrebbero rivisto l’indomani, uscendo da quella tenda, ed erano terrorizzati di non trovarne nessuna.
Dopotutto avevano a malapena diciotto anni, per quanto fosse stata dura la loro vita fino a quel momento non potevano essere pronti a qualcosa di simile.
“Pensavamo di essere invincibili eh?” ruppe il silenzio Gintoki, mentre Katsura si stava dirigendo da lui per medicarlo. Nessuno dei due gli rispose.
Si alzò a sedere e lasciò che Katsura lo spogliasse e iniziasse a mediargli la ferita profonda che aveva sulla spalla senza lamentarsi, nemmeno quando iniziò a mettergli i punti.
“Pensavamo che questa guerra fosse casa nostra, di conoscerla come le nostre tasche ormai” continuò, fissando un punto indefinito ben lontano dalla parete della tenda che aveva di fronte, così come dall’accampamento e forse dal paese intero.
Di nuovo gli amici non gli risposero, in un tacito assenso.
“Ci siamo… Anzi no, parlo per me. Mi sono convinto di essere nato per questo. Per il campo di battaglia. Pensavo… Pensavo di poter salvare non dico tutti, ma almeno qualcuno. E invece…” si interruppe un attimo, la voce aveva iniziato a tremargli e non voleva darlo a vedere. Si vergognava già abbastanza anche solo di essere sopravvissuto.
“E invece ho fallito, di nuovo. Come quando hanno portato via Shoyo da sotto il mio naso. Sono solo un fallito. Anche voi, fareste meglio ad andarvene prima che finisca per farvi uccidere…” concluse, stringendo i denti quando Katsura gli strinse con più forza del necessario le bende sul petto.
“Gintoki, se devi aprire bocca per dire delle assurdità simili allora faresti meglio a tacere” gli disse, stringendo di nuovo un pochino troppo forte.
“Già…” commentò Takasugi, soffiando fuori una discreta quantità di fumo “Non siamo gente da morire con tanta facilità”.
“E poi non sei tu il fallito, Gintoki. Tutti noi lo siamo, l’esercito intero lo è. Oggi tutti abbiamo perso, tutti abbiamo fallito. Non è certo una colpa di cui devi farti carico da solo” concluse il discorso Katsura, sapendo che Takasugi non si sarebbe spinto così avanti.
Fu il turno di Gintoki di non rispondere, lasciando che il silenzio opprimente che andava e veniva riempisse di nuovo l’ambiente.
Nessuno di loro sapeva davvero cosa dire o come dirlo. Quella situazione era forse la peggiore che avevano mai dovuto affrontare dall’incendio alla scuola.
 “Shuichi è morto” buttò fuori all’improvviso il samurai coi capelli argentati, spezzando il silenzio con una rivelazione che per gli altri due non era che una conferma di una verità che già conoscevano ma che, nondimeno, li lasciò spiazzati. Entrambi abbassarono un attimo la testa e non dissero nulla, aspettando che Gintoki parlasse ancora.
“Non se l’è sentita di uccidere il nemico e ha gettato la spada a terra. L’altro non si è fatto lo stesso problema” la voce gli si ruppe e tremò appena, interrompendo il ritmo apatico e distaccato con cui stava raccontando gli eventi.
“E’… E’ morto tra le mie braccia, senza nemmeno riuscire a dire nulla. E’ morto per colpa mia. Avanti, Takasugi. Puoi dirlo. Puoi dirlo che me l’avevi detto” concluse Gintoki, che ormai aveva perso il controllo sul tremolio nella voce ma combattendo con sé stesso almeno per non mettersi a piangere davanti agli amici. Fortunatamente dava ancora le spalle agli altri due mentre Katsura stava finendo di medicarlo, impedendo loro di vedere i suoi occhi diventare lucidi ma, allo stesso tempo, non vide a sua volta lo sguardo inorridito di Takasugi.
Certo, gliel’aveva detto, ma non era certo questo quello che voleva. Come poteva pensare che quella situazione gli avrebbe dato soddisfazione?
“Gintoki, non…” iniziò Takasugi, ma poi tacque, non sapendo come continuare.
“Mi dispiace, Gintoki. Non se lo meritava. Nessuno merita di morire in quel modo. Ma non è facendoti carico di tutti i mali del mondo che lo riporterai in vita, lui non avrebbe voluto che ti colpevolizzassi” gli rispose Katsura, mentre cercava di disinfettargli la ferita alla testa.
“Ma sono stato io a rassicurarlo a… A promettergli che sarebbe andato tutto bene”
È vero” gli concesse Katsura “e sei stato un idiota per questo. Ma non l’hai costretto tu ad arruolarsi per vendicare la sua famiglia. Non l’hai costretto tu a buttare via la sua arma sul campo di battaglia. Quel ragazzo era semplicemente troppo giovane, nel posto sbagliato al momento sbagliato. La colpa è della guerra, e sua soltanto.” continuò a spiegare, inaspettatamente tranquillo.
“Mi secca concordare con Zura, ma è così, Gintoki. Non tutti sono adatti alla guerra. Noi… Noi siamo diversi. Gli eventi che ci hanno portato qui, il nostro passato, la Shoka Sonjuku… Ci hanno plasmato per quello che siamo. Shuichi era solo un ragazzo che fino a qualche mese fa viveva una vita normale. Noi non sappiamo nemmeno cosa sia, la normalità… Non l’abbiamo davvero mai saputo” Takasugi fece una pausa per fumare, durante la quale Gintoki finalmente si girò verso di loro. Era il discorso più lungo che gli avessero mai sentito fare e non voleva perderselo.
“A quanti anni hai ucciso volontariamente la tua prima persona, Gintoki?” chiese il comandante del Kiheitai, guardando Gintoki fisso negli occhi lasciandolo un attimo perplesso, tanto che ci mise un attimo a rispondergli.
“Non… Non lo so, con precisione. Non mi ricordo…” balbettò, abbassando lo sguardo “Ero piccolo, prima di conoscere Shoyo per sopravvivere… Io… non so nemmeno quanti anni ho davvero di preciso, ho vagato da solo per tanto tempo e durante quel periodo…” si interruppe di nuovo, era doloroso ripensare a quegli anni trascorsi prima di incontrare Shoyo e non aveva senso raccontare di nuovo agli altri due una storia che ben conoscevano.
“Esatto, Gintoki. Oltre a te, io sono cresciuto in una famiglia il cui unico linguaggio era la violenza, Zura ha dovuto familiarizzare con la morte molto presto. Siamo dei sopravvissuti. Possiamo vivere solo qui. Shuichi non era come noi, e questo non è certo qualcosa di cui tu ti possa fare una colpa”
Rimasero di nuovo tutti in silenzio, metabolizzando le parole di Takasugi.
Sapevano tutti che aveva ragione, ma questo non rendeva la morte del ragazzo meno dolorosa.
“Grazie” gli disse soltanto Gintoki, dopo un pochino.
“Tsk, non ti ci abituare” rispose l’altro, accennando vagamente il suo solito ghigno ma senza troppa convinzione.
“Su, adesso proviamo a riposare un po’” li interruppe Katsura “voi due siete feriti e io sono molto stanco. Per quanti uomini abbiamo perso oggi ne abbiamo altri che sono sopravvissuti, che ora sono feriti in infermeria o insonni nelle loro tende. Dobbiamo rialzarci anche per loro, siamo i loro comandanti e contano su di noi. Domani, quando renderemo omaggio ai nostri caduti loro guarderanno noi e non possiamo farci vedere stanchi o depressi. Rimetteremo insieme i nostri pezzi anche stavolta, come abbiamo sempre fatto” concluse, per poi mettersi a sua volta nel proprio futon, spegnendo le candele della tenda.
“provate a dormire, almeno un po’”
 
*******
 
Contrariamente alle loro aspettative quella notte tutti e tre dormirono profondamente, troppo esausti perfino per sognare.
La mattina dopo si alzarono di buon’ora, si lavarono via il sangue e il sudore della battaglia che la notte prima erano troppo stanchi anche solo per notare e si rifecero le medicazioni a vicenda.
Si vestirono di tutto punto e si recarono al centro dell’accampamento, consci di cosa avrebbero trovato.
Gintoki si trascinava un pochino sulle gambe, ancora deboli e doloranti, Katsura teneva lo sguardo basso e Takasugi zoppicava con l’aiuto di una stampella. Raggiunsero il grande spiazzo centrale e si misero in linea con gli altri ufficiali, in rispettoso silenzio.
Davanti a loro si stagliavano i corpi che quella notte i soldati di guardia dell’accampamento erano riusciti a recuperare. Erano così tanti da riempire l’intero piazzale, ognuno coperto con un lenzuolo bianco. La scena era così surreale che nessuno riusciva a dire niente.
Poi un uomo, uno degli strateghi dell’esercito, annunciò i caduti accertati di ogni plotone ad alta voce, lentamente e con solennità. Per ogni nome che riconoscevano per i tre ragazzi era come ricevere una pugnalata allo stomaco, ma rimasero fermi, in silenzio e con lo sguardo basso per tutto il tempo. Anche quando fecero il nome di Shuichi. Ognuno di loro aveva perso almeno la metà dei propri uomini il giorno prima e i numeri del loro distaccamento dell’esercito erano diventati così preoccupanti che si vociferava avrebbero chiamato dei rinforzi da Tosa.
Finito il conto delle vittime arrivò un officiante, che tenne un funerale pro forma per tutti i caduti contemporaneamente e poi, chi era ancora in grado di farlo, iniziò a scavare per loro delle fosse, usando le loro spade come lapidi.
Gintoki si trascinò verso la distesa di cadaveri e, col cuore in gola, cercò quello del ragazzo. Katsura e Takasugi si guardarono e annuirono, andando ad aiutarlo. Quando lo trovarono Gintoki e Katsura gli scavarono una fossa per conto suo, lontano dagli altri, sotto un albero poco fuori la villa. Lo seppellirono e Gintoki infilò la sua spada nel terreno, legandoci con un laccio un sacchetto contenente un po’ di cibo come offerta.
“non è molto, lo so, ma al momento è tutto ciò che posso darti” gli disse, inginocchiandosi davanti alla tomba di fortuna, e così fecero gli altri due.
Nessuno parlò, ma Gintoki fu profondamente grato agli amici di essere lì in quel momento, di aiutarlo a superare quella perdita e ad andare avanti.
Dopo alcuni minuti i ragazzi si alzarono e, senza bisogno di parlarsi, si avviarono verso il posto dove si erano abituati a trovarsi per bere la sera, un grande albero di ciliegio ormai spoglio nel freddo di novembre. Gintoki tirò fuori una bottiglia di sakè della loro scorta segreta e versò da bere a tutti e tre.
“Ai caduti” disse solo.
“Ai caduti” ripeterono gli altri, brindando tutti insieme e, per un solo istante, quando i loro bicchierini si toccarono videro tutti i loro compagni caduti il giorno prima brindare con loro, bere e scherzare allegramente. Il ciliegio era in fiore e li abbracciava tutti con i suoi rami carichi di fiori.
I tre ragazzi sorrisero, con gli occhi umidi, e bevvero alla goccia ciò che avevano nel bicchiere.
Poi una folata di vento spazzò quel luogo e la visione si disperse, così come le loro lacrime, lasciando solo un sorriso sul volto di quei tre ragazzi seduti da soli sotto un albero spoglio.

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Capitolo 3
*** Non ho problemi coi miei nemici, sono i miei dannati amici a tenermi in piedi tutta la notte ***


Era passato quasi un mese da quando Gintoki, Katsura e Takasugi avevano subito una sconfitta devastante dove avevano perso circa la metà dei propri uomini nonché Shuichi, un ragazzino molto giovane che seguiva Gintoki ovunque, la cui unica sfortuna era stata essere un’anima buona nel posto sbagliato al momento sbagliato. La guerra non era il posto per un pacifista.
Da allora i tre ragazzi avevano ottenuto nuove truppe, l’esercito si era riorganizzato per fornire a loro e agli altri comandanti coinvolti in quella battaglia nuovi uomini dai plotoni più numerosi e, inoltre, erano arrivate parecchie nuove reclute. Purtroppo, nonostante questo, i numeri complessivi dell’esercito non erano ancora sufficienti e quindi il loro distaccamento aveva deciso di chiamare davvero dei rinforzi da Tosa, dove si diceva ci fosse un grande conquistatore noto come il Drago di Katsurahama.
Questo comandante sarebbe arrivato a giorni ormai e la fazione dell’esercito di Gintoki, Katsura e Takasugi si era già spostata sulla costa e accampata vicino alla spiaggia appositamente per attendere i rinforzi che sarebbero arrivati via mare. Nonostante il clima generale nell’accampamento fosse tendenzialmente allegro e carico di aspettative lo stesso non si poteva dire di Gintoki.
“Tsk, cos’hanno da cantare sempre i soldati? Ormai sono due giorni che vanno avanti” si lamentò il ragazzo coi capelli argentati, la sua tipica espressione da pesce morto vagamente distorta dal nervoso, mentre si infilava il mignolo della mano sinistra nel naso.
“Cantano perché sono allegri, l’arrivo dei rinforzi domani o al massimo dopo domani li ha tirati su di morale. Di questi tempi, è tutto fuorché un male” puntualizzò Katsura, dicendo ad alta voce una cosa che Gintoki non solo sapeva benissimo, ma si era già sentito dire diverse volte negli scorsi giorni.
In tutta risposta il samurai coi capelli argentati sbuffò ancora. Era steso su un fianco sull’erba e si puntellava la testa con la mano destra mentre con la sinistra, dopo aver finito di esplorare l’interno della sua narice, si apprestava a lanciarne il contenuto addosso a Takasugi che fumava tranquillo lì vicino.
“Non ci pensare neanche” lo fulminò questi con lo sguardo, come se gli avesse letto nel pensiero.
Gintoki era così di cattivo umore che, una volta scoperto, non tentò nemmeno di provocare l’amico, lanciò la caccola altrove e si lamentò di nuovo del rumore che facevano i soldati con le loro canzoni.
“Certo che questa storia dei rinforzi non ti va proprio giù. Non che la tua compagnia normalmente sia particolarmente piacevole, ma in questi giorni ti stai impegnando a essere più insopportabile di Zura che insiste a correggerci sul suo nome!” sbottò Takasugi, stanco di sopportare le costanti lamentele dell’amico.
“non sono Zura, sono Katsura”
“Ecco vedi?” continuò, indicando il ragazzo coi capelli lunghi, ma di nuovo Gintoki non colse l’occasione di lanciarsi in un litigio rissoso con l’amico.
“Per quanto l’esempio di Bakasugi sia totalmente insensato nonché privo di fondamento logico devo concordare con lui, ultimamente sei davvero pesante Gintoki” commentò diretto Katsura “cosa dovremmo fare secondo te? Tornare in battaglia senza uomini? Non è la prima volta che ci mandano altre truppe, davvero non riesco a capire quale sia il tuo problema questa volta” concluse, aprendo gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto chiusi per rilassarsi e fissando l’amico. Il suo tono era calmo, non era arrabbiato, soltanto genuinamente confuso.
Gintoki, capendo che il tono della conversazione stava lentamente scivolando da ironico a serio, si alzò a sedere e ricambiò lo sguardo degli amici cercando di mantenere la sua solita espressione annoiata ma senza riuscirci benissimo e quella punta di profondo fastidio, rabbia quasi, che si intravedeva dietro le iridi rosse non sfuggì agli amici che lo conoscevano da sempre.
“Il mio problema è che le altre volte ci avevano mandato soltanto degli uomini. Qui ci stanno mandando un comandante, come noi. È come se ci stessero dicendo che… Che quello che è successo è colpa nostra, che non siamo stati bravi abbastanza…” si fermò un attimo di parlare e, senza accorgersene, strinse i pugni così forte da farsi male. L’atmosfera tra di loro era cambiata così velocemente che per un attimo nessuno disse nulla, perplessi dal repentino cambio di toni. Inoltre nessuno degli altri due se la sentiva di contraddirlo, dopotutto come lui anche loro si sentivano responsabili dell’accaduto e si erano a loro volta chiesti le stesse cose dell’amico. Così a parlare fu di nuovo Gintoki.
“Lo sapete che ha la nostra età?” disse quasi come se non gli importasse, ricomponendosi un po’ e nascondendosi di nuovo dietro all’espressione da pesce morto.
“no, non ne avevo idea” rispose Katsura, guardandolo con interesse, così come Takasugi.
“me l’ha detto quello stoccafisso di Eiji qualche giorno fa. Proprio per questo il suo plotone farà squadra con noi. Non saremo più un trio, ma una squadra di quattro” concluse secco Gintoki, sputando finalmente fuori il rospo che lo stava rendendo così insopportabile.
“E così era questo che ti rendeva fastidioso oltre il limite del sopportabile?” lo fulminò Takasugi, assottigliando gli occhi così tanto che a malapena riusciva a vederlo e sottolineando il concetto colpendolo alla spalla con un pugno.
“Tutti ci sentiamo responsabili di quella sconfitta, Gintoki, ma non è respingendo i rinforzi che andrà meglio. Non penso ci stiano accusando di nulla. Semplicemente una squadra di quattro comandanti e relative truppe ha più possibilità di vittoria di una di tre. Salvo nelle operazioni congiunte dove c’erano altri gruppi il nostro ce l’ha sempre fatta per il rotto della cuffia, forse è un bene che questo nuovo comandante diventi dei nostri” commentò razionale come sempre Katsura, giusto un attimo prima di colpire Gintoki sulla spalla dove non l’aveva colpito Takasugi “e questo è per esserti tenuto l’informazione per te tutto questo tempo”
Gintoki si massaggiò le zone colpite e sbuffò ancora.
“Si può sapere cos’altro hai, primadonna?” lo affrontò ancora Takasugi, determinato a risolvere quel problema in un modo o nell’altro, mentre la possibilità di uccidere Gintoki stava salendo nella sua lista mentale delle possibili soluzioni.
“È nato a Tosa. È il rampollo di una nota famiglia di mercanti e viene qui con la fama di ‘grande conquistatore’ ma non conosciamo storie su di lui… Alla meglio sarà un figlio di papà viziato, alla peggio un peso da portarci dietro in battaglia. E non voglio un’altra persona che non è pronta alla guerra sulla coscienza. Il campo di battaglia non è posto per mercanti figli di papà”
Il riferimento a Shuichi non passò inosservato e di nuovo un silenzio pesante calò sul trio di amici, che si guardarono senza dire nulla.
“Vedrai che non sarà così. Porta con sé molti uomini ed equipaggiamenti, non sarà un totale sprovveduto” cercò di suonare convincente Katsura e stava per aggiungere altro ma poi notò Takasugi che gli faceva segno di no con la testa da dietro Gintoki.
“Hai ragione, Gintoki” disse quindi improvvisamente il comandante del Kiheitai, lasciando a bocca aperta gli altri due “mi secca ammetterlo, ma anche il mio orgoglio è rimasto ferito quando ho saputo che avevano chiamato addirittura un altro comandante e ora che tu mi hai detto che farà squadra con noi una parte di me è così furiosa che vorrei alzarmi e colpirti fortissimo”
“Ehy, aspetta, io cosa c’entro?” chiese improvvisamente spaventato Gintoki, indietreggiando visibilmente.
“Tu c’entri sempre. Comunque, nonostante questo, ha ragione anche Zura, ne abbiamo bisogno. E sono sicuro che non morirà come Shuichi, non ne abbiamo sentito parlare ma non vuol dire che non sia un abile spadaccino. E, se mi conoscete almeno un po’, sapete quanto mi sta costando dire queste parole”
Gintoki e Katsura annuirono, Takasugi aveva ragione. Per una volta era stato lui a portare nella conversazione un punto di vista intermedio, rubando il ruolo di mediatore a Katsura.
“Detto questo. Non esiste che facciamo amicizia con quello là” concluse, incrociando le braccia, e tornando a un comportamento che più gli si addiceva.
“Decisamente. Un figlio di papà non ha niente a che spartire con noi. Combatteremo insieme, ma poi starà alla larga dalle nostre scorte di sakè”
“E non gli diremo quando andremo al quartiere dei piaceri”
“Certo che no. Non esiste proprio che beviamo e andiamo a donne con un mercante”
Gintoki e Takasugi continuarono per qualche minuto su questi toni, esasperando il povero Katsura, già provato dal non essere stato lui a risolvere il conflitto precedente.
 “…Ragazzi. Era questo il problema? Non volete fare amicizia con una persona nuova?” chiese esitante, ricevendo in tutta risposta soltanto un “Taci Zura” urlato all’unisono da entrambi.
 
Il giorno dopo i tre ragazzi con alcuni dei loro uomini erano in piedi sulla spiaggia, la nave dei rinforzi ormai si vedeva chiaramente. Siccome il nuovo arrivato sarebbe stato in squadra con loro avevano dato a loro il compito di accoglierlo e fargli le dovute presentazioni.
Katsura aveva impiegato diversi minuti a cercare di convincere gli altri due ad essere quanto meno gentili ma non era sicuro di essere riuscito nel suo intento.
 
“Quindi è quello il famoso generale del Mare del Sud, il Drago di Katsurahama, Sakamoto Tatsuma?” chiese Takasugi, osservando il ragazzo in piedi sulla prua della nave.
“Non sono Katsurahama, sono Katsura” rispose l’amico, in modo totalmente inutile.
“Non stavo parlando di te!” sbuffò Takasugi, ormai così abituato alle idiozie dell’amico da non prendersela neanche “a differenza tua almeno ha un’espressione intelligente”
“Non sono un’espressione intelligente, sono Katsura”
“Ma chi ti vuole” lo riprese ancora Takasugi, sta volta trattenendo l’impulso di colpirlo.
“Non mi piace” esordì Gintoki, arrivando all’improvviso alle spalle degli altri e avvicinandosi al duo con il mignolo infilato nel proprio orecchio sinistro e sproloquiando ancora su quanto non andasse d’accordo coi figli dei nobili, per poi posizionarsi di fianco a Takasugi e guardarlo con la faccia di chi vuole attaccare briga.
“E poi di bambocci cresciuti nella bambagia, convinti di essere chissà cosa, mi basta già il figlio più grande di una qualche famiglia di samurai. O meglio diciamo il piccoletto di questa famiglia” ghignò e lanciò un’occhiata a Takasugi per vedere l’effetto delle sue parole, ghignando ancora di più quando vide che l’amico si stava innervosendo. Poi tornò a guardare la nave.
“Tanto anche quella nave sarà il giocattolo nuovo che gli ha comprato il papà. Mi ricorda un certo nanetto che fa il gran generale coi soldatini di legno che gli ha regalato il papà. Lasciatelo dire, se voi altri riuscite a farvi strada nella vita è perché il vostro papino la strada ve la compra. Ce la fate solo perché il vostro papà è un pezzo grosso”
Takasugi aveva ascoltato il monologo sconclusionato di Gintoki con crescente disappunto, mentre la vena che gli pulsava sulla tempia era sempre più vicina ad esplodere.
“Chi è che avrebbe dei pezzi di legno come soldati?” rispose, cercando di contenere l’istinto omicida che covava verso l’amico “E poi io sono già stato diseredato quindi che…”
“Ehhhh?? Ma guarda che io non parlavo affatto di te!” commentò fingendosi sorpreso Gintoki “Takasugi-kun, credevi che la tua fosse una famiglia ricca?” continuò a prenderlo in giro, facendo una smorfia dietro l’altra e usando perfino un onorifico per rivolgersi all’amico con un tono di voce assurdo “Cioè fammi capire, ti stai dando del bamboccio da solo?” sghignazzò ancora, facendo esplodere definitivamente il leader del Kiheitai che si mise a prenderlo a calci senza troppe cerimonie.
“Insomma la volte smettere voi due??” li riprese a quel punto Katsura, prima che iniziasse uno spettacolo a cui aveva già assistito innumerevoli volte.
“E poi io non sono un bamboccio, sono Katsura!” aggiunse poi, senza nessun motivo apparente, se non forse che anche lui era nato nobile.
“Ma vuoi tacere tu? Cosa c’entri!” lo sgridò Takasugi, senza smettere di colpire Gintoki.
Il nuovo arrivato nel frattempo era sceso della nave e, salito su una scialuppa, si stava dirigendo verso la spiaggia dove il trio battibeccava allegramente. Per qualche motivo era scuro in volto e si teneva una mano sul viso.
“Ehi ma cosa… “ iniziò Gintoki, e Takasugi gli andò subito dietro.
“Cos’ha da ridere quello là?”
Lo guardarono entrambi assottigliano gli occhi, indispettiti dal pensiero che l’ultimo arrivato potesse ridere di loro e delle loro truppe.
“Ehi tu! Non prendere in giro Takasugi-kun!” riprese allora a fare l’idiota Gintoki, nell’unico modo di gestire i conflitti che conosceva e senza perdere l’occasione di farsi beffe dell’amico.
“Guarda che il problema non sono io, sei tu che ci fai prendere in giro” rispose a tono l’altro, concludendo proprio nel momento in cui la scialuppa del Drago di Katsurahama approdava a riva. Il ragazzo non disse nulla e rimase in piedi sulla scialuppa guardando dritto davanti a se. Sovrastava gli altri di circa un metro e questo, unito alla sua impassibilità, mandò ancora più in bestia i due samurai.
“Ehi bastardo!” lo apostrofò Gintoki “che hai da ghignare tanto? Cos’ha Takasugi-kun di tanto ridicolo? Che si chiami così nonostante sia basso? Perché Taka vuole dire alto e lui è un nano?”
“Sei tu che stai ridendo di me” sbraitò il comandante del Kiheitai, senza essere minimamente calcolato dall’amico, troppo preso nel tentare di provocare il nuovo arrivato.
“Ehi, perché continui a ignorarci? Se ci prendi in giro agiremo da veri Joi e ti espelleremo dal paese!” nessuna reazione, anzi, l’altro sembrava soltanto ridere sotto i baffi.
“Ti ho detto di non ridere!” continuò Gintoki, sempre più infastidito, per poi rivolgersi all’amico “Takasugi-kun? Dici che questo qui merita una punizione esemplare?”
Il samurai coi capelli argentati continuava a fare l’idiota, ma iniziava quasi a preoccuparsi seriamente.
Cos’ha questo qui? Non reagisce per niente alle mie provocazioni
Pensò, sorpreso e iniziando a sentirsi vagamente a disagio
Anzi, nemmeno ci guarda! Fissa il campo di battaglia e ride. Questo deve essere uno davvero forte. Forse abbiamo davanti uno straordinario talent-
Gintoki non fece in tempo a finire il proprio pensiero che Sakamoto Tatsuma aprì finalmente bocca, solo per vomitare in faccia violentemente sia a lui che a Takasugi.
“Ahm, scusatemi. Soffro il mal di mare e mi è venuta la nausea, quindi fissavo l’orizzonte e non ho fatto caso a voi. Ma voi... chi siete?” disse infine, sconvolto e pallido come un lenzuolo.
“E punizione sia!” gridarono i due samurai feriti nell’orgoglio, sfilando le katana dall’obi e picchiandolo senza sfoderarle.
Dopo che Gintoki e Takasugi si furono ripuliti Sakamoto aveva tentato ripetutamente di scusarsi e tentare di instaurare un dialogo con loro, ottenendo solo di essere ignorato o minacciato di subire un’altra punizione. Non importava quante volte ci provasse, quei due avevano alzato un muro invalicabile. E lui che avrebbe tanto voluto fare amicizia con quei giovani comandanti di cui aveva tanto sentito parlare!

*****



Dall’arrivo di Tatsuma Sakamoto erano trascorsi alcuni giorni, dove i soldati e gli ufficiali avevano riorganizzato le truppe e ora, per la prima volta da quella devastante sconfitta, l’esercito si stava preparando ad affrontare una grande battaglia: la riconquista di un importante forte situato in un punto strategico. Fino a quel momento infatti avevano combattuto solo in guerriglie di poco conto, attendendo i rinforzi prima di partire all’attacco.
Durante quei giorni Sakamoto aveva provato più volte a scusarsi e ad attaccare bottone con gli altri tre comandanti della sua età, nonché i suoi futuri compagni di battaglia, ma aveva trovato solo un muro di indifferenza e cattiverie assortite da parte di Gintoki e Takasugi e qualche scusa e pacca sulla spalla comprensiva da parte di Katsura che comunque, dovendo scegliere, era rimasto sì in posizione neutra ma in compagnia dei suoi amici di sempre.
 
Finalmente era arrivata la fatidica sera prima della battaglia e tutti i soldati non di guardia si stavano preparando per la guerra. C’era chi si riposava, chi affilava la spada e chi si allenava da solo o con qualche compagno. Alcuni dei soldati avevano ripreso a cantare per esorcizzare la paura, rallegrando l’accampamento con le loro canzoni sugli eroi della guerra.
Gintoki, Takasugi e Katsura, come sempre invece, si erano trovati un loro posticino dove bere tranquilli. Era un po’ come se fosse il loro rito propiziatorio prima della battaglia e nessuno a parte loro doveva essere presente, nemmeno i loro uomini più fidati.
Sakamoto però, ignaro di questa tradizione, l’aveva vista come un’occasione di riprovare a fare amicizia con quelli che era sicuro sarebbero diventati i suoi nuovi amici, e così seguì i tre ragazzi prima alla loro scorta segreta di sakè e poi al posto in cui avevano deciso di passare la serata. Aspettò tranquillo che accendessero il fuoco e che si sedessero attorno al falò e poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si sedette in mezzo a loro, proprio tra Takasugi e Gintoki.
“HAHAHAh allora ragazzi, come va?” si annunciò a voce altissima, ridendo da solo.
Gintoki e Takasugi processarono davvero la sua presenza solo in quel momento e si voltarono contemporaneamente nella sua direzione con un’espressione al limite tra l’adirato e l’esasperato.
“Cosa ci fai tu qui, mercante da due soldi? E devi per forza parlare a voce così alta?” lo apostrofò subito Takasugi, allontanandosi leggermente.
“Già… Questo è il nostro posto. Nessuno può venire a bere qui” continuò Gintoki, facendo l’opposto di Takasugi e avvicinandosi per guardarlo minacciosamente a decisamente troppi pochi centimetri dalla faccia. Per qualche motivo il suo gesto sortì l’effetto opposto a quello desiderato e Sakamoto scoppiò di nuovo a ridere a volume spropositato, facendo allontanare anche Gintoki nel vano tentativo di salvare almeno uno dei due timpani.
“Siete dei ragazzi divertenti! Dai, diventiamo amici! Siamo solo partiti col piede sbagliato!” disse ancora, imperturbabile, Sakamoto, come se le parole dei due ragazzi non l’avessero neanche sfiorato.
“No” si limitarono a dire secchi e all’unisono Gintoki e Takasugi, girandosi per dare le spalle al drago di Katsurahama che era seduto in mezzo a loro.
“Sakamoto-san, hai già compiuto un’impresa epocale, far andare d’accordo tra di loro questi due. Per stasera dovresti essere soddisfatto” sghignazzò Katsura, non troppo disturbato dalla presenza dell’altro ragazzo e decisamente più divertito dalle reazioni degli altri due, che lo stavano guardando in tralice anche in quel momento.
“HAHAHA niente onorifici per favore, chiamami solo Tatsuma” sorrise solare il ragazzo, che non sembrava minimamente offeso dal comportamento dei suoi coetanei.
“Ma perché ti sei ostinato che dobbiamo diventare per forza amici?” chiese seccato Gintoki, rifilandogli la versione esasperata del suo sguardo da pesce morto.
“Bhè perché vedi… A me la guerra in fondo non piace” rispose incredibilmente serio Sakamoto, il cui cambio rapido di tono attirò immediatamente l’attenzione di tutti e tre i ragazzi che lo fissarono nei suoi grandi occhi blu, improvvisamente più profondi di quanto non lo fossero mai stati fino a quel momento.
“so che per il momento è il posto dove devo essere, penso di poter dare man forte a voi comandanti e di poter aiutare tante persone sguainando la mia spada sul campo di battaglia ma… Non è a questo luogo che appartengo. Non mi piace uccidere a sangue freddo, anche se per una giusta causa. Ovviamente, quando devo, non esito a farlo. La guerra non ti lascia molta scelta il più delle volte. Così cerco almeno di tirarci fuori qualcosa di buono no? Una bevuta tra amici, uno scherzo in licenza. Penso che saranno queste piccole cose a salvarci a lungo andare” concluse, sfoderando un sorriso a labbra strette velato di tristezza, salvo poi scuotersi e ritornare a ridere.
“Bhè, ho parlato di divertirsi e poi sono stato io a tirare fuori quel discorso deprimente. Allora, facciamo amicizia?” chiese di nuovo, senza rendersi conto che nessuno degli altri tre lo aveva seguito nel nuovo repentino cambio di umore. Se ne accorse quando non gli arrivò nessuna battuta acida da Gintoki e Takasugi e nessuna pacca sulle spalle da Katsura.
“…ragazzi?” chiese, ingenuamente confuso.
Senza dire nulla Gintoki e Takasugi si alzarono e se ne andarono, senza scambiarsi una parola, diretti chissà dove con una delle bottiglie di sakè. Katsura invece rimase al suo posto, pronto a rispondere alle domande che sicuramente Tatsuma gli avrebbe rivolto. Dopotutto per quanto rumoroso e molesto non si meritava quel trattamento e, per quanto il ragazzo coi capelli lunghi condividesse in parte il pensiero degli amici non se l’era sentita di lasciarlo lì senza nemmeno una spiegazione.
“Zura… ma cosa…” chiese infatti il drago di Katsurahama, perplesso più per la mancanza di insulti che per altro e con ancora un’eloquente espressione interrogativa stampata in faccia.
“Non sono Zura, sono Katsura. Sakamoto-san, se ne sono andati così per via di quello che hai detto”
“Tatsuma” lo corresse a sua volta, senza cambiare espressione.
“Saka… Tatsuma, vedi il problema è che hai detto davanti a loro di essere fondamentalmente un pacifista” iniziò a spiegare Katsura, con gli occhi socchiusi e il suo solito tono tranquillo.
“E perché sarebbe un problema?” chiese ancora Sakamoto, sempre più confuso.
“Vedi noi… Gintoki soprattutto… Ha appena perso qualcuno coi tuoi stessi ideali. Un ragazzo, troppo giovane per arruolarsi ma che in qualche modo era finito nella sua unità. Non voleva uccidere, proprio come te. Ma il campo di battaglia non perdona. È morto tra le sue braccia. E Takasugi bhè... Per quanto faccia di tutto per dimostrare l’esatto opposto tiene molto a Gintoki, non vuole più vederlo stare a quel modo. E, se devo essere sincero, nemmeno io” fece una pausa e si soffermò un attimo ad osservare Sakamoto. La sua espressione era indecifrabile, era ancora confuso ma in parte forse… risentito?
“Se non ti dispiace ora andrò a cercarli. Buona notte Tatsuma” concluse quindi velocemente per poi prendere congedo, alzandosi. Per quanto non fosse contento di aver risposto seccamente a una persona tutto sommato gentile era molto più preoccupato che quei due si ubriacassero sriamente la sera prima di una battaglia di quella portata.
“Zura fermati! Io… Non intendevo questo. Ho già combattuto, so com’è il campo di battaglia, conosco la guerra!”
Katsura non gli rispose, ma gli rivolse un’occhiata eloquente di cui Sakamoto comprese immediatamente il significato, rattristandosi appena. Dopotutto era molto più sveglio di quanto desse a vedere.
 “So cosa pensate, che sia comandante solo grazie ai soldi di mio padre. Bhè non è così, ve lo dimostrerò!” rispose alla tacita accusa del samurai coi capelli lunghi, passando nel corso della stessa frase dalla delusione alla tristezza a uno sprazzo di entusiasmo finale che grondava sicurezza di sé da tutti i pori.
Katsura sorrise, in fondo in fondo quel ragazzo iniziava a piacergli.
“Staremo a vedere” commentò soltanto, per poi congedarsi davvero e andare alla ricerca dei suoi amici.
 
******
 
La battaglia infuriava già da diverse ore.
Le unità dei quatto ragazzi se la stavano cavando alla grande e ormai erano praticamente riusciti a far battere il nemico in ritirata. Alla fine questa battaglia si era rivelata una sorta di test della loro nuova formazione a quattro siccome gli altri plotoni presenti stavano facendo quasi solo da supporto. Pareva che tutto stesse andando nel verso giusto, nonostante fossero da soli il nemico ormai era quasi sconfitto. Tre dei quattro comandanti si trovavano ora al limite estremo del fronte, ben oltre l’obbiettivo ma intenzionati a far capire al nemico che non c’era modo di riprovare a prendersi il forte mentre Katsura stava consolidando le linee difensive e coordinando l’occupazione dell’edificio appena riconquistato.
 
Quel giorno Gintoki e Takasugi avevano combattuto fianco a fianco come mai fino a quel momento. Nessuno dei due lo aveva ammesso né lo avrebbe mai ammesso da lì in avanti ma il fantasma della precedente sconfitta pesava su di loro come un macigno, insieme al terrore di perdere uno dei loro più cari amici. Lo stesso fardello pesava anche su Katsura che, anche se gestiva le operazioni nelle retrovie, non mancava di tenere d’occhio quelle due mine vaganti note anche come ‘ i suoi migliori amici’.
Non che prima dell’ultima battaglia non avessero avuto paura di morire, certo, ma l’idea di morire effettivamente e davvero sul campo di battaglia gli era sempre sembrata lontana, sicuri di sé e delle proprie abilità fino a che quell’ultima sconfitta gli aveva insegnato che, purtroppo, non era così.
Inoltre tutti e tre avevano tenuto strettamente d’occhio Tatsuma Sakamoto e, chi prima chi dopo, avevano dovuto ammettere a loro stessi che con la spada sapeva il fatto suo. Ciò non di meno si erano tutti preoccupati di non finire a combattere schiena contro schiena con lui e di mantenere comunque una certa distanza. Poteva anche essere bravino a tirare di scherma, ma questo non voleva certo dire che ora potevano essere amici. Era soltanto un peso in meno, ecco tutto, ma non gli avrebbero affidato la loro vita al fronte come facevano tra di loro. Avevano già chi gli guardava le spalle e per quanto li riguardava potevano benissimo continuare a essere il trio che erano sempre stati, semplicemente con un aiuto occasionale in più.
 
Proprio in quel momento Sakamoto, che si era posizionato casualmente davanti al punto in cui stavano combattendo Gintoki e Takasugi, si destreggiò in una manovra tanto complessa quanto armoniosa e abbatté da solo quattro nemici. Poi, sempre casualmente, si girò a vedere le reazioni degli altri due.
Takasugi stava tenendo fermo un nemico in un confronto di lama e Sakamoto lo vide girare subito lo sguardo come per dar a vedere che non lo stesse affatto guardando mentre Gintoki non aveva visto per davvero, troppo impegnato a gestire un gruppetto di nemici ostinati che l’avevano preso di mira.
Lo Shiroyasha ne abbatté un paio senza troppi problemi, ma poi uno lo prese alle spalle e lo colpì di netto a una gamba, facendolo crollare in ginocchio. Anche da quella posizione Gintoki riuscì a abbattere un altro paio di nemici ma altri, accorgendosi che c’era un generale ferito, stavano accorrendo nella sua direzione.
“Merda!” gridò Gintoki “ma non si stavano ritirando questi??” imprecò ancora e, nonostante fosse in posizione di netto svantaggio, riuscì ad abbattere un altro nemico, strisciando qua e là in ginocchio e trincerandosi dietro la spada quando serviva.
Takasugi lo vide quasi subito e scattò nella sua direzione, ma i nemici che stava affrontando gli bloccarono la strada.
“Gintoki, razza di idiota! Azzardati a morire qui e verrò all’inferno solo per picchiarti” gli urlò, sovrastando il rumore metallico delle spade che cozzavano tra loro.
“Non preoccuparti, non finirò mai all’inferno prima di un nano come te!” gridò Gintoki in risposta, stampandosi in faccia un ghigno non troppo convinto. Stava usando la propria spada per difendersi alla meno peggio, appoggiando la lama sull’avambraccio sinistro e parando la maggior parte dei colpi, ma ormai era in quella posizione da un po’ e non c’erano più spiragli per contrattaccare. Inoltre iniziava a sentire il peso dei colpi nemici, che sembravano volerlo schiacciare sempre più verso il suolo.
“Sarà il caso, non esiste che tu te ne vada da vincitore” gridò ancora Takasugi, riferendosi alla loro sfida di duelli personale, cercando di mantenere un tono divertito mentre tagliava con foga tutto ciò che lo separava dall’amico.
“Oh, Bakasugi, ma questo succederà a prescindere!” ghignò ancora Gintoki, respingendo l’ennesimo attacco nemico.
“Quasi quasi ti lascio lì!”
Era incredibile come quei due riuscissero a scherzare a un soffio dalla morte. Sakamoto si ritrovò a chiedersi se per caso la morte fosse stata al loro fianco fin da prima della guerra, da un tempo così lungo che ormai non notavano nemmeno più la sua falce sospesa sopra le loro teste. Poi un altro pensiero attraversò la sua mente. No, non è che non avevano paura di morire. Si fidavano l’uno dell’altro al punto che la sola idea di avere un amico che gli guarda le spalle bastava a dargli forza. Potevano disperarsi, ma sceglievano di prendersi in giro perché sapevano che l’altro era lì. Dovevano decisamente diventare amici.
Proprio in quel momento uno dei nemici sfondò la guardia di Gintoki e lo colpì in affondo. Fortunatamente lo Shiroyasha lo vide in tempo e si spostò quel tanto che bastava per essere colpito al fianco e non in un punto vitale. Ciò nonostante si sentì svenire, aveva già perso davvero troppo sangue dalle vecchie ferite e questa stava imbrattando di rosso le sue vesti bianche.
“Cazzo…” mugugnò, cercando di farsi forza con tutte le energie che aveva per restare vigile e mantenere un minimo di guardia.
Vide Takasugi urlare qualcosa e correre nella sua direzione, non riusciva più a sentirlo e lo vedeva vagamente sfuocato. Il comandante del Kiheitai l’aveva quasi raggiunto quando un nemico gli si parò davanti, bloccandogli la strada. Gintoki, in ultimo disperato tentativo di non svenire, si strinse con la mano la ferita che aveva al fianco provocandosi abbastanza dolore da rimanere sveglio e, stava per trincerarsi di nuovo dietro la spada quando tutti i nemici attorno a lui caddero a terra feriti o morti. Alzò stupito lo sguardo e vide una figura in haori blu troneggiare di fronte a lui.
“eh-eh” ghignò soddisfatto Sakamoto, certo che, dopo quella prodezza, i ragazzi avrebbero finalmente riconosciuto la sua forza. Dopotutto aveva salvato niente meno che lo Shiroyasha in persona da una situazione disperata! Forse finalmente anche lui avrebbe avuto degli amici fortissimi su cui contare. Attese giusto qualche secondo e poi si girò, guardando Gintoki che ora era seduto a terra sfinito a qualche passo da lui.
“Ce la fai ad alzarti?” gli chiese, sorridendo solare, mentre anche Takasugi, che si era liberato, li aveva raggiunti posizionandosi diffidente al fianco di Gintoki.
“Certo” gli rispose secco il samurai coi capelli argentati, piuttosto seccato dall’essere stato salvato dal nuovo arrivato. Provò ad alzarsi, ma la gamba che l’aveva costretto a terra poco prima ancora non ne voleva sapere di collaborare e ricadde subito al suolo.
“Sicuro?”
“Certo” ripeté, rifilando a Sakamoto la versione seccata del suo sguardo da pesce morto e lanciando poi un’inequivocabile occhiata a Takasugi mentre gli sussurrava a denti stretti ‘tirami su, svelto’. Takasugi capì al volo e lo sollevò immediatamente da terra passandogli un braccio attorno alla vita e uno sulle spalle. Il fatto che Takasugi l’avesse aiutato al primo colpo, velocemente e senza lamentarsi o prenderlo in giro era indicativo di quanto avessero deciso di fare gruppo contro il nuovo arrivato. Se Katsura li avesse visti si sarebbe messo a ridere e poi li avrebbe colpiti con un pugno al centro della testa, non necessariamente in quest’ordine.
“Ma…” iniziò Sakamoto, sconfortato dal comportamento degli altri due. Dopotutto l’aveva appena salvato, perché dovevano essere così cattivi con lui? Poi scosse la testa, non si sarebbe fatto demoralizzare.
“… davvero, se vi serve una mano sono qui. Sono sicuro che lui si stia dissanguando parecchio da quelle ferite, posso dargli un’occhiata se volete. Ormai i nemici si sono ritirati, questi dovevano essere gli ultimi” chiese, in un tono comunque insolitamente basso e poco energico.
“non mi sto dissanguando, sto benissimo” brontolò Gintoki, mentendo spudoratamente mentre respingeva con tutte le sue forze l’ennesimo capogiro, stringendosi inconsciamente più forte a Takasugi.
“E lui è più basso di te, potrei portarti io più agevolmente” puntualizzò ancora Sakamoto.
“Davvero, sto benissimo”
“Ma se stai imprecando a ogni passo!”
“Non è ver- ahia cazzo!” si contraddisse nel giro di un secondo, era scivolato e Takasugi l’aveva stretto forte per non farlo cadere, finendo per spingere sulla ferita ancora aperta.
“E va bene, ora basta” disse Katsura, comparso all’improvviso alle spalle del trio.
“…Zura?” chiese interrogativo Gintoki.
“non sono Zura, sono Katsura. I nemici si sono ritirati, non li inseguiremo. Ci basta aver preso l’avamposto poco dietro di voi” spiegò rispondendo alla domanda inespressa degli amici.
“Stanno già montando il campo lì dentro. Takasugi, sei quello più in forma, fai un giro qui intorno e occupati di eventuali nemici rimasti. Sakamoto, porta Gintoki in infermeria. Io farò un giro a cercare gli altri uomini dispersi più avanti e riporterò tutti a casa” concluse perentorio in un tono che non lasciava spazio a repliche. Era stanco dalla battaglia e non aveva di certo voglia di assistere a quel teatrino un’ennesima volta. Il suo sguardo era chiaro, era come se stesse urlando a gran voce a tutti ‘comportatevi da adulti una buona volta’.
Takasugi e Gintoki sospirarono, conoscevano bene l’amico e non provarono nemmeno a opporsi. Il comandante del Kiheitai lasciò l’altro tra le braccia di Sakamoto e partì per la missione che gli aveva assegnato Katsura, allontanandosi con quest’ultimo.
“Fa sempre così?” chiese Sakamoto, ritrovando il sorriso, divertito al pensiero che una sola frase del ragazzo coi capelli lunghi avesse sortito un tale effetto su quelle due mine vaganti.
Sulle prime Gintoki non rispose, e non lo fece neanche mentre Sakamoto lo afferrava nello stesso modo in cui lo stava tenendo Takasugi né mentre si incamminarono verso l’infermeria.
Camminarono per un po’ in quel modo, ma la gamba di Gintoki lo reggeva sempre meno e ormai più che zoppicare si stava trascinando appoggiato a Sakamoto. Il drago di Katsurahama se ne accorse e, senza aspettare o chiedere il permesso, lo sollevò di peso e se lo caricò sulla schiena tipo zainetto.
“Ehi ma che fai? Ce la faccio a camminare” sbraitò Gintoki.
“No, non è vero. E visto che comunque ti stavo portando di peso almeno lasciami essere comodo”
“Nessuno ti ha mai chiesto niente!” ringhiò ancora, ma poi tacque un attimo. Si stava comportando come Takasugi.
Tutta questa storia della sconfitta, di Shuichi, dei rinforzi… Forse aveva perso di vista la realtà. Forse il ragazzo che lo stava portando sulla schiena non era un antagonista venuto a metterlo in cattiva luce, né qualcuno pronto a ricordargli costantemente che era lì solo perché loro avevano fallito. Forse era davvero solo un ragazzo come loro, che cercava di divertirsi come poteva in mezzo a quell’assurda carneficina.
“Grazie per prima” disse quindi improvvisamente, senza ovviamente mettere Sakamoto al corrente di tutto il filo di pensieri che l’aveva portato fin lì. Ma a lui non parve importare, si mise a ridere col suo solito volume di voce decisamente troppo alto e allegro.
“Non c’è di chè, Kintoki!”
“Ehy! Guarda che quello non è il mio nome. Ma per niente proprio. Io mi chiamo Gintoki!”
“Certo, Kintoki, e io cos’ho detto?”
“Gintoki. Con Gin di argento. Non Kintoki hai capito? Non sono un coglione!”
“HAHAHAHHAHAH ok Mantoki, ci starò attento!”
“Gintoki ho detto! Gintoki. Gin – Toki. E poi non puoi fare questa gag sbagliando un nome, abbiamo già Zura per quello. Non fa ridere se diventa una cosa che facciamo tutti. Mi stai ascoltando? Sakamoto?”
Ma ormai l’altro ragazzo era partito per la tangente, e per quanto Gintoki gli stesse urlando nelle orecchie lui rideva così forte da non sentirlo. Il primo passo era fatto.
Gintoki, dal canto suo, si chiese se dargli finalmente il beneficio del dubbio non fosse stato un errore madornale.
 
*****
 
Il forte che avevano conquistato era molto grande e diviso in vari edifici.
Nella magione c’era così tanto spazio che sia i quattro plotoni dei giovani comandanti che il gruppo del generale Enji, con ai suoi ordini altri tre plotoni e relativi comandanti, ci stavano largamente.
Non appena furono arrivati al campo, in pieno pomeriggio, Katsura era immediatamente andato alla riunione strategica con Enji e gli altri comandanti, a nome di tutti e quattro i membri della sua squadra. Gintoki era stato portato in infermeria da Sakamoto, che poi era sparito chissà dove e anche Takasugi, finito il giro di perlustrazione, era andato a farsi medicare qualche ferita.
Non appena la riunione fu terminata, qualche ora dopo, il samurai coi capelli lunghi cercò gli amici ma nell’ospedale da campo non ce n’era traccia. Katsura interrogò quindi il medico, che gli disse che siccome i due samurai non erano feriti gravemente li aveva rattoppati velocemente e mandati a riposare nei loro alloggi. Dopo essersi fatto dire dove li avevano stanziati per la notte li raggiunse e notò che avevano sistemato la stanza che gli avevano assegnati con solo tre futon, nonostante fosse stato deciso che i 4 comandanti della loro squadra avrebbero dormito assieme. Gintoki era steso su uno di essi, sul fianco. Vicino a lui c’era una stampella ma, a parte questo e sembrava in forma. Takasugi era lì accanto, seduto sul suo futon, e stava accordando lo shamisen. Entrambi indossavano solo uno yukata leggero che, aprendosi sul petto, rivelava le diverse fasciature che avevano sul corpo. I due, neanche a dirlo, stavano bisticciando animatamente tra di loro e, non appena Katsura captò il nome di Sakamoto, fece finta di non sentire e di non essere neanche entrato. Scivolò fuori e si chiuse le porte scorrevoli alle spalle, con tutta l’intenzione di andare a sua volta a lavarsi, cambiarsi e medicarsi le ferite superficiali che aveva.
Se inizialmente Sakamoto Tatsuma li aveva fatti avvicinare come mai prima d’ora, facendoli addirittura andare apertamente d’accordo, non voleva sapere cosa sarebbe successo ora che evidentemente avevano sviluppato opinioni diverse sull’argomento.
 
“Non sto dicendo che dobbiamo fare amicizia con lui” disse seccato Gintoki, rotolandosi annoiato più vicino a Takasugi, afferrando il lembo di una delle sue fasciature e tirandolo per infastidirlo. Takasugi gli colpì la mano con uno schiaffo, decisamente infastidito dal comportamento molesto dell’amico.
“Stai dicendo esattamente questo” grugnì, riprendendo ad accordare il suo strumento.
“No Bakasugi, per l’ennesima volta. Sto solo dicendo che forse siamo stati troppo duri con lui” continuò il samurai coi capelli argentati, afferrando di nuovo il lembo di tessuto e tirandolo ancora.
“la vuoi smettere di toccarmi?”
“Tecnicamente non ti sto toccando”
“ma stai toccando qualcosa di attaccato al mio corpo. Vai via, se ti annoi vai a disturbare il tuo nuovo amico” asserì secco Takasugi, colpendo di nuovo la mano di Gintoki “e lasciami accordare lo shamisen”
“Per l’ennesima volta, non siamo amici. Ma devi ammettere che su campo ci sa fare. L’hai visto anche tu, non negarlo”
“Si bhè, e allora?” confermò finalmente Takasugi, fingendo nonchalance.
Gintoki si rotolò ancora un po’ sul futon e si scaccolò come se niente fosse, attaccando la caccola allo shamisen di Takasugi che sbiancò per la rabbia. L’altro non ci fece nemmeno caso e continuò con il suo discorso.
“E allora sto dicendo che possiamo dargliela una possibilità”
“L’unica possibilità che c’è al momento è la tua morte, Gintoki. Togli quella schifezza dal mio shamisen ORA”
Gintoki gli fece il verso e si rimise comodo sul suo futon, ignorando le proteste dell’amico.
“Perché sei così restio a dargli una chance? Se quel giorno, alla Shoka Sonjuku, non avessi fatto lo stesso con te ora non saremmo qui” disse improvvisamente serio Gintoki, guardando Takasugi coi suoi grandi occhi cremisi, più vividi del solito seppur incorniciati nella sua espressione da pesce morto.
Takasugi non sapeva come rispondere. L’amico l’aveva preso alla sprovvista con quell’affermazione. Quindi, come sempre, quando Takasugi non sapeva quali emozioni stava provando o perché le stava provando, si arrabbiò.
“Ti sei bevuto il cervello? Non è lontanamente la stessa cosa!”
“E’ esattamente la stessa cosa”
Senza rendersene conto si erano avvicinati e si stavano mettendo le mani addosso.
“Dillo di nuovo se hai il coraggio!” gridò Takasugi, spiaccicando le mani in faccia a Gintoki, rendendo il suo viso una smorfia. Il samurai coi capelli d’argento, dal canto suo, gli stava tirando i capelli con una mano mentre con l’altra cercava di liberarsi.
“E’ eshattamente la shtessha cosha” biascicò l’altro, cercando di parlare mentre il ragazzo coi capelli viola gli premeva le mani sulla bocca.
Poi, improvvisamente, una risata fragorosa ruppe il silenzio, seguita da un veloce colpo di tosse volto ad attirare l’attenzione. Gintoki e Takasugi, mezzi aggrovigliati dalla loro rissa, si fermarono e si voltarono. Sulla porta c’era Sakamoto e con lui Katsura.
“Potevate dirmelo che siete così intimi, non avrei insistito tanto HAAHAHAHA” li prese in giro il ragazzo con la voce possente, scatenando immediatamente un ‘non siamo intimi!” urlato in coro dai due samurai che si staccarono alla velocità della luce.
“Sistematevi quegli yukata, dobbiamo andare in un posto, vi piacerà” disse serafico Katsura, che si era a sua volta sistemato e indossava uno yukata leggero verde sul quale ricadevano sciolti i capelli che di solito portava legati, segno che qualsiasi cosa dovessero fare non aveva niente a che vedere con l’esercito. Anche Sakamoto era vestito informale, indossava uno yukata marrone rossiccio e sorrideva così tanto che Takasugi si chiese se gli fosse venuta una paresi facciale.
“Io con quello là non ci vengo, e tu, Zura, sei un traditore” brontolò Takasugi, riprendendo per l’ennesima volta la sua attività di accordare lo shamisen ignorando i presenti.
“Non sono Zura, sono Kat-” lo corresse l’amico, ma prima che potesse finire Gintoki gli stava già parlando sopra.
“Suvvia Bakasugi, almeno andiamo a vedere”
“No” rispose secco.
“Te ne pentirai sicuramente se rimarrai qui HAHAHAHA” cercò di convincerlo anche Sakamoto, ricevendo in cambio solo un’occhiata gelida e tagliente.
“Bhè fai come vuoi, oh basso amico mio. Io vado a vedere. Zura è vestito da persona normale e sai che capita raramente. Qualsiasi cosa abbiano organizzato mi sembra valga la pena di dare almeno un’occhiata” sorrise pigro il samurai coi capelli argentati e Katsura, mentre lo correggeva per l’ennesima volta sull’uso corretto del suo nome, lo aiutò a mettersi in piedi e gli passò la stampella.
“Fa come vuoi” sputò fuori Takasugi, con un tono apparentemente neutro ma che Gintoki interpretò alla perfezione come ‘sono molto offeso che la nostra amicizia sia stata messa sullo stesso piano di un’ipotetica relazione con questo mercante da due soldi rumoroso, e ora mi pianti pure qui per andare a fare i kamisama solo sanno cosa con lui e quell’altro traditore coi capelli lunghi. Non voglio diventare un amico di serie b né sono sicuro di essere pronto a far entrare un’altra persona ma non ti parlerò di questa mia paura neanche tra mille anni, dovessero amputarmi la lingua. Quindi fottiti’. Un osservatore esterno potrebbe pensare che Gintoki avesse azzardato quest’interpretazione, ma il ragazzo conosceva così bene Takasugi, essendoci cresciuto insieme negli ultimi 8 anni, che in realtà aveva indovinato con un’accuratezza superiore al 95%. Il 5% in dubbio era riferito alla quantità di insulti finale. Ma questo non voleva dire che fosse d’accordo o che non reputasse tali timori stupidi e infondati. Quindi finì di alzarsi con l’aiuto di Katsura e si diresse fuori dai loro alloggi senza più dire una parola, convinto che prima o poi l’amico li avrebbe raggiunti. Tanto parlargliene non sarebbe servito a nulla, le amicizie e le simpatie non si costruiscono spiegandole. Quando avrebbe avuto voglia di mettere da parte il suo orgoglio e di conoscere effettivamente il nuovo arrivato avrebbe avuto poi modo di decidere da sé se davvero non gli piaceva o se era tutta una posa.
“Dici che il vostro amico ci raggiungerà?” chiese Sakamoto, contrariato dal non essere riuscito a coinvolgerli tutti, distraendo Gintoki dai suoi pensieri.
“Arriverà. Ha solo bisogno del suo tempo” commentò vago Gintoki, zoppicando al seguito degli altri due.
 
Il trio raggiunse il cortile interno di un gruppo di case che erano state adibite a dormitorio dei soldati, abbastanza lontano dagli appartamenti del generale Enji e abbastanza grande da ospitare chiunque fosse in grado di reggersi sulle sue gambe e volenteroso di festeggiare la vittoria.
Lo spiazzo era illuminato da diversi falò di varie dimensioni, alcuni soldati stavano strimpellando e cantando canzoni allegre e in tutti gli angoli c’erano truppe che bevevano e mangiavano. La quantità e la qualità del sakè era insolita per loro, specie a così poco tempo da una sconfitta. Gintoki si girò sorpreso verso Sakamoto che gongolò soddisfatto dondolandosi avanti e indietro sui piedi, capendo in pieno quale fosse la perplessità del ragazzo.
“Bhè vedi, ho organizzato tutto io HAHAH essere un mercante ha anche i suoi vantaggi. Prendetelo come un mio ringraziamento per avermi accolto tra di voi HAHAHHA”
Gintoki sorrise, quel ragazzo iniziava a stargli effettivamente simpatico. E questa simpatia non fece che aumentare quando gli disse che per loro quattro aveva tenuto da parte una selezione speciale.
“…peccato che alla fine saremo solo in tre” concluse, mentre si sedevano attorno a uno dei falò, leggermente intristito dalla cosa.
Gintoki allora gli mise una mano sulla spalla e gli parlò gentilmente, forse per la prima volta da quando si conoscevano.
“Non devi dare peso ai comportamenti di Takasugi. È fatto così. Ci conosciamo da quando abbiamo circa 10 anni e da quando ci siamo visti la prima volta prima che ci parlassimo davvero è passato almeno un mese, forse di più, in cui l’unica cosa ad avere un dialogo erano le nostre spade di legno” disse, sorridendo nostalgico al pensiero degli allenamenti alla Shoka Sonjuku “Zura lo conosce anche da prima, non so come fosse andata tra loro, ma immagino in maniera simile”
Katsura annuì, mentre correggeva Gintoki sul suo nome.
“Non serve neanche che ti dica che non ha avuto una vita facile finora, chi di noi l’ha avuta?”
Fu il turno di Sakamoto di annuire e poi, per scacciare l’atmosfera triste che si stava creando, tirò fuori una bottiglia di sakè pregiato.
“Bhè, mentre lo aspettiamo direi di cominciare, questa festa non aspetterà un mese per rivolgerci la parola HAHAHA”
Anche Gintoki e Katsura risero, sapendo quanto Takasugi si sarebbe divertito a bere con loro e immaginandolo invece da solo in camera a strimpellare con quel coso infernale.
 
Erano passate alcune ore dall’inizio dei festeggiamenti e ormai Gintoki, Katsura e Sakamoto, così come quasi tutti i soldati, erano abbastanza ubriachi.
Avevano passato quel tempo raccontandosi storie sulla loro vita e sulle battaglie affrontate fino a quel momento e ridendo insieme. Ogni tanto si univano ai canti e ai balli dei soldati e qualcuno aveva anche iniziato a suonare un po’ di musica d’accompagnamento. Takasugi non si era visto per tutta la sera ma, nonostante Sakamoto di tanto in tanto se ne preoccupasse Gintoki e Katsura erano abbastanza tranquilli al riguardo e gli intimavano di avere pazienza.
 
A un certo punto, non sapevano bene nemmeno loro come, Sakamoto e Gintoki erano finiti al centro dello spiazzo più grande. Il samurai coi capelli d’argento si reggeva con un braccio a Sakamoto e con l’altro alla stampella, riuscendo in qualche modo a rimanere in piedi nonostante fosse zoppo e ubriaco. L’altro era oltre ogni limite della decenza e stava ridendo da così tanto tempo che era un miracolo non si fosse soffocato. Le risate erano alternate solo da una canzone che i due stavano cercando di mettere insieme mentre un soldato gli suonava l’accompagnamento.
“N-no no no Tatsuma, no. Deve essere più tipo...” Gintoki si schiarì la voce e intonò “Di SadaSada tra un millennio e più ancor si parlerà non certo per le sue virtù né per la sua bontà. Col culo al caldo se ne sta e con gli amanto a patteggiar, quel buono a nulla fa, tutti quanti guerreggiar!”
“HAHAHAHAH mi piace Kintoki! Mi piace” gridò Sakamoto, per poi andargli dietro, sullo stesso ritmo.
“fenomeno d'incapacità, nei libri di storia lui sarà, SadaSada shogun fasullo della terra!”
“Bravo Tatsuma, hai preso il ritmo!” rise Gintoki, bevendo da una bottiglia che gli stava passando un soldato. Le truppe a loro volta ripresero la frase di Sakamoto cantando a gran voce mentre chi suonava teneva il ritmo che stavano costruendo.
Proprio in quel momento arrivò Katsura, portando un fantoccio che raffigurava lo Shogun e iniziando a farlo ballare in modo ridicolo, per poi aggiungere a sua volta una frase alla canzone.
“Sul trono sta seduto là, lui gioca a fare il re, neanche sa di far pietà, ridicolo com'è!”
“HAHAHH bravo Zura, bravo!” gridò Tatsuma, ridendo a crepapelle del fantoccio e di Katsura stesso, visibilmente ubriaco.
“ma quando gli amanto se ne andran, il comodo suo più non farà, va' via, shogun fasullo della terra! va' via, shogun fasullo della terra!” gridò Gintoki, scivolando a sedere accanto al fantoccio e infilandosi dentro i suoi vestiti. Katsura l’aveva imbottito per farlo sembrare grasso e ora Gintoki si dondolava cantando con quell’imbottitura addosso, fingendo di essere SadaSada, mentre Katsura con un bastone cercava di colpirlo, ridendo.
“ci tartassa con la guerra e ci porta tutto via, ma un giorno lui si pentirà di ogni azione sua” cantò ancora a voce altissima Sakamoto, mentre anche lui insieme a Katsura interpretava i ribelli joi che cercavano di cacciare e picchiare SadaSada-Gintoki. I soldati gli andavano dietro cantando e suonando, apprezzando parecchio la canzone che i tre comandanti stavano mettendo insieme.
“E fino a che con noi joishishi, un esercito ci sarà, i terreni che ci ruba, scomparire si vedrà. Neanche avrà tempo di dir "bah" che seppuku dovrà fa” concluse in calando Gintoki, inginocchiandosi ignorando il male alle gambe. Afferrò la stampella che era ancora nei paraggi e, mimando la canzone, finse di fare Seppuku, lasciando che la parte più’ lunga dell’ausilio gli scivolasse al fianco, collassando poi al suolo.
Tutti si fermarono un attimo di cantare per scoppiare a ridere fragorosamente e poi ripresero col ritornello, in coro.
“SadaSada shogun fasullo della terra!” gridarono, mentre ogni soldato iniziava ad aggiungere gli epiteti che gli venivano in mente, cantando a voce sempre più alta.
“Quell'avido, cupido”
“pavido, stupido!”
“zotico, lepido”
“stolido, trepido!”
“ladro, rapace ed incapace d'uno shogun fasullo della terraaaaa!”
La canzone finì tra le risa generali.
Sakamoto e Katsura si abbracciarono e barcollarono verso il falò lasciando Gintoki là dov’era, con ancora adosso i vestiti del fantoccio.
“Ehy! Ehy ragazzi! Ehy!” gridò, distraendosi ogni tanto per ridere quando gli tornava in mente la canzone. Era troppo ubriaco per preoccuparsi per troppo tempo consecutivamente.
“Ragazzi, non ce la faccio ad alzarmi da solo” chiese ancora, tentando di rimettersi in piedi ma scivolando ogni volta. Nelle sue condizioni era impossibile che riuscisse a mettersi in piedi con la stampella da solo. Stava per rinunciarci e dormire lì quando una mano entrò nel suo campo visivo. L’afferrò senza nemmeno guardare di chi fosse e passò il suo braccio sul suo collo per reggersi, mentre il suo soccorritore gli passava la stampella e lo aiutava a issarsi.
“In effetti, mi stavo perdendo uno spettacolo di alto livello” disse una ben nota voce ironica e tagliente. Solo in quel momento Gintoki alzò lo sguardo per mettere a fuoco Takasugi.
“Bakasugi! Sei venuto”
“Sapevo che voi due da soli non eravate affidabili. Bella canzone” sghignazzò, e fece per dirigersi dov’erano seduti a bere ancora Katsura e Sakamoto, senza commentare assolutamente il fatto che li avesse raggiunti solo diverse ore dopo né cos’avesse intenzione di fare da lì in avanti.
Gintoki allora piantò i piedi, per quanto possibile, frenando l’amico, e con la testa indicò un tronco vicino a un falò diverso da quello dov’erano seduti gli altri due. In un gesto di insolita magnanimità Takasugi lo accompagnò là e si sedettero vicini.
“Prima che tu possa dire qualsiasi cosa, Gintoki, no, non vuol dire che io abbia deciso di diventare suo amico”
“certo che no” disse ridendo Gintoki “però hai sentito la canzone. Da quanto sei qui?” chiese ancora, con l’ingenuità dell’ebrezza che lasciava che le parole scivolassero fuori dalle sue labbra senza davvero pensare.
Takasugi arrossì.
“Non da molto”
“Certo” acconsentì sorridendo Gintoki “Certo” ripetè, non essendo sicuro se la prima volta l’aveva detto o solo pensato.
“tsk” borbottò quindi Takasugi “cosa volevi dirmi?”
“Il fatto che io voglia fare amicizia con lui non vuol dire che tu o Katsura valiate in qualche modo meno per me ok? Non serve essere geloso, quello che abbiamo noi tre nessun mercante rumoroso ce lo porterà mai via. Non è di questo che si tratta”
Takasugi arrossì ancora, violentemente questa volta. Come poteva Gintoki scoprire così le sue carte? Poi lo guardò bene in faccia, era così oltre il limite della decenza che qualsiasi inibizione doveva essere andata da tempo.
“Da quando sei così interessato ai sentimenti tu?”
“Da quando qualcosa ti sconvolge al punto da non venire a bere con noi”
Takasugi a quel punto si alzò e se ne andò mollandolo lì. Gintoki ubriaco era una cosa, Gintoki ubriaco che tirava fuori discorsi che dovevano stare ben sepolti un’altra. E quella sera aveva già fatto uno sforzo enorme a venire a vedere la loro festa e a trovare anche la voglia di uscire allo scoperto. Poi ci ripensò, tornò indietro e si caricò l’amico, rimettendolo più o meno in piedi tra la sua spalla e la stampella.
“Sigh. Sono troppo sobrio per questo” si lamentò, mentre Gintoki sorrideva e ridacchiava con la faccia più ebete che gli avesse mai visto in faccia “una sola parola di quello che hai detto poco fa con gli altri e ti taglio la lingua e i mignoli, chiaro?”
Gintoki non gli rispose, così Takasugi si girò verso di lui e gli afferrò le guance con la mano libera, costringendolo a guardarlo in faccia.
“Chiaro?”
“chiuaru” biascicò il ragazzo coi capelli argentati, cercando di parlare con le guance spiaccicate dalla mano del comandante del Kiheitai e poi insieme raggiunsero gli amici, venendo accolti da una risata fragorosa e da copiose quantità di alcol.
 
Da quando Takasugi li aveva finalmente raggiunti era trascorso abbastanza tempo da far si che quasi tutti i soldati ormai fossero andati a dormire, lasciando svegli solo loro quattro e qualche uomo qua e là. Avevano ripreso da dove avevano lasciato bevendo e raccontando. Soprattutto Takasugi aveva bevuto tanto e in fretta, incapace di sopportare gli amici ebbri e più idioti del solito completamente sobrio.
In quel momento Gintoki era mezzo svenuto seduto a terra e con la schiena appoggiata a uno dei tronchi che erano attorno al falò, ormai morente. Katsura stava perlustrando la zona gridando di tanto in tanto “è l’una di notteee e tutto va beneee” nonostante non fosse l’una di notte e chiaramente non stesse andando tutto bene. Sakamoto aveva sottratto a Takasugi la pipa, sfilandogliela dalle mani in un momento di distrazione, e stava fumando chissà cosa con la testa appoggiata a quella di Gintoki. Takasugi, ormai in preda alla disperazione, finito il momento di euforia dell’alcol era scivolato in una sbronza triste che stava dimostrando al mondo suonando una melodia deprimente con lo shamisen, nonostante i diversi tentativi degli altri tre di buttarglielo nel falò una volta per tutti. Il momento peggiore fu quando iniziò ad accompagnare la musica con qualche sorta di testo poetico che canticchiava a mezza voce, troppo sbronzo per pronunciare frasi sensate.
Fu in quel momento che il generale Enji raggiunse il luogo della festa, svegliato da Katsura che era andato a gridare troppo vicino ai suoi alloggi.
“Sakata, Takasugi, Katsura, Sakamoto! Vengo a vedere cosa succede e cosa mi ritrovo? I miei comandanti che sono diventati quattro bifolchi canori e ubriachi oltre il limite della decenza. Sparite nei vostri alloggi prima che vi degradi a sguatteri” gridò, fuori dalla grazia divina, scatenando solo le risate dei ragazzi, che lì per lì non stavano realizzando che il giorno dopo li avrebbe aspettati una sonora punizione.
“Nei vostri alloggi, adesso!” gridò ancora, ottenendo un pochino più di successo.
Katsura e Takasugi iniziarono a barcollare verso i loro alloggi, Gintoki, che non dava segni di vita, fu caricato sulle proprie spalle da Sakamoto che rischiò di cadere almeno tre volte solo nel tentativo di raggiungere i due compagni. Raggiunsero quindi la loro stanza e, nonostante ci fossero solo tre futon, collassarono tutti insieme ammucchiati l’uno sull’altro, troppo stanchi e ebbri per risolvere il problema.

****
 
Il giorno dopo, o per meglio dire, circa quattro ore dopo che i quattro avevano raggiunto i loro alloggi, il generale Enji li svegliò rumorosamente comunicandogli che dovevano essere in linea nella piazza principale entro 10 minuti.
Il brusco risveglio in pieno hangover fu in qualche modo salvifico per Takasugi, di modo che non dovesse fare i conti col fatto che la sera prima si fosse effettivamente divertito insieme al nuovo arrivato, nonché col fatto che gli stava dormendo appoggiato sopra e che questi aveva addirittura osato fumare la sua amatissima pipa. Per gli altri invece fu come essere presi in pieno da una mandria di tori imbufaliti. Si lamentarono e boccheggiarono per tutto il tempo necessario a cambiarsi d’abito mentre concentravano ogni loro energia residua nel non vomitarsi addosso.
 
Nel giro di 10 minuti per esserci in linea e vestiti erano in linea e vestiti.
Come ci fossero, d’altro canto, era un altro discorso.
Sakamoto era in piedi ma con lo sguardo fisso nel vuoto, quasi come se dormisse con gli occhi aperti. Le occhiaie così profonde che occupavano più posto dei veri e propri occhi sul suo viso stanco. Katsura stava dormendo in piedi e, abituato com’era a dormire con gli occhi aperti, faceva una certa impressione una volta che te ne rendevi effettivamente conto. Gintoki riusciva a rimanere dritto solo perché era appoggiato alla stampella con più peso di quello richiesto dalla sua ferita alla gamba, anche se di tanto in tanto si sbilanciava troppo e rischiava di cadere di faccia al suolo. Takasugi sembrava il più in forma, poche occhiaie e lo sguardo abbastanza vigile. A tradirlo solo la giacca indossata al contrario, un piccolo e trascurabile dettaglio. L’unica cosa che riusciva a dissimulare vagamente le loro condizioni era che tutto il resto dei loro soldati, schierati dietro di loro, erano messi più o meno allo stesso modo. O peggio.
Davanti a loro troneggiava il generale Enji, solo.
“Sakata, Katsura, Takasugi, Sakamoto. Oggi le mie truppe se ne andranno e io con loro. Oggi avrebbe dovuto essere un giorno di festa, perché sapete cosa vuol dire il nostro indirizzamento verso altre aree? Che voi quattro, a seguito delle vostre gesta in battaglia, sareste stati nominati generali dei vostri plotoni. In pratica era come se lo foste già ma questa promozione significa che sareste diventati indipendenti da me o da chiunque altro nelle vostre decisioni strategiche se non per operazioni congiunte. D’altro canto…”
I quattro ragazzi si sentirono mancare. Non vedevano loro che questo giorno arrivasse e ora erano a malapena nelle condizioni di reggersi in piedi! Avrebbero dovuto saperlo che i loro festeggiamenti prima o poi gli sarebbero costati caro. Katsura specialmente non vedeva l’ora di poter prendere in mano le riunioni strategiche per poter attuare i suoi piani, che riteneva notevolmente più efficienti e soprattutto sicuri di quelli dei Enji e degli altri generali stagionati.
Deglutirono a vuoto, almeno i tre che erano effettivamente svegli, quando Enji parlò di nuovo.
“…per vostra fortuna siete davvero bravi con la spada e, soprattutto, in questo momento nell’esercito siamo davvero in pochi, quindi vi promuoveremo lo stesso e faremo finta che il vostro comportamento disonorevole della scorsa notte venga dimenticato” in quell’istante tutti i soldati esplosero in un grido di gioia che risuonò in tutto l’accampamento.
“Silenzio!” gridò Enji con austerità, placando immediatamente la folla.
“Ma, come primo compito da generali, passerete i prossimi giorni a pulire i bagni dei soldati, l’accampamento e raccogliere ogni traccia organica e non della vostra bravata di ieri sera. Rimarrò qui per sincerarmene. Chiaro?”
I quattro ragazzi si inchinarono in segno di rispetto e gratitudine (una gomitata di Takasugi alla bocca dello stomaco di Zura sortì l’effetto desiderato) e rimasero a testa bassa finchè Enji non si ritirò nei suoi appartamenti e i soldati non si furono dispersi gridando eccitati all’idea che i loro amati comandanti avessero avuto una promozione. Non era un segreto che si fidassero di loro più che di chiunque altro ai piani alti.
Quando alzarono la testa e si guardarono non poterono fare a meno di abbracciarsi contenti, svegliando solo in quel momento Katsura che non capì cosa stesse succedendo. Poi, non appena si resero conto di cosa stessero facendo si staccarono velocemente, soprattutto Takasugi che fece due passi indietro.
Sul viso di tutti e quattro però era stampato un sorriso.
Non lo sapevano ancora, ma quella notte era stata l’inizio dell’era dei Quattro Re Celesti, l’inizio di un’amicizia che sarebbe sopravvissuta a fatti inenarrabili, di una famiglia con un legame indissolubile che nemmeno la guerra avrebbe mai distrutto del tutto.
 
 
Bonus Scene:
 
“Dai ammettilo adesso siamo amici!” chiese Sakamoto, mentre con una pala raccoglieva una pila di vomito da dietro una baracca.
“No” rispose Takasugi, impegnato nello stesso compito.
“Dai Bakasugi, daiiii”
“No. E non chiamarmi così” sbuffò ancora, tentato di lanciare la pala piena di vomito di soldato in faccia a Sakamoto”
“Ma se ieri sera ci siamo divertiti tanto” disse ridendo Tatsuma, per poi avere un capogiro residuo di hangover e vomitare a sua volta dove avevano appena pulito.
“Ma allora lo fai apposta! È la terza volta stamattina, non finiremo mai”
“Eh eh, scusa Bakasugi”
“Ti ho detto di non chiamarmi così! E comunque non mi sono divertito, ieri sono venuto solo per evitare che vi intossicaste troppo”
“Certo, come no” rise ancora Sakamoto, per poi vomitare l’ennesima volta.
“Sigh. Perché a me?”
“Gli amici si aiutano nei momenti di difficoltà sai?”
“Va bene una morte caritatevole? Prometto di essere veloce”
“Daiiii in fondo saresti triste se morissi”
“No”
“Almeno un pochino”
“No”
“AHHAHA sei proprio una sagoma bakasugi”
“…sigh”
Takasugi ormai sconsolato si girò cercando con lo sguardo gli altri due, nella speranza di ricevere man forte, ma li vide parlottare tra loro ridendo, segno che avevano sentito tutto ma che non avevano intenzione di intervenire. A conferma di questo si erano anche spostati a pulire più in là, con un’espressione fin troppo soddisfatta stampata in faccia.
 
“Quindi alla fine gli piace eh?” chiese Katsura, che aveva iniziato a ripulire una zona abbastanza lontana da Takasugi e Tatsuma da non essere sentiti.
“Già” sorrise Gintoki, mentre caricava sulla pala rifiuti organici non meglio specificati che iniziavano a puzzare sotto il sole “direi che gli sta decisamente simpatico”

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Capitolo 4
*** Quando uccidi un re, non lo pugnali in un vicolo. Lo uccidi dove tutta la corte può vederlo morire ***


La missione stava durando più a lungo del previsto.
I quattro Re Celesti si erano addentrati con le loro truppe scelte in profondità nel territorio nemico con l’obbiettivo di attaccare il cuore di una delle loro basi e riconquistare così una vasta area, approfittando della confusione tra i loro ranghi una volta eliminato il loro quartier generale. Purtroppo però le cose non stavano andando come speravano e da fin troppi giorni alloggiavano in piccoli accampamenti di fortuna, nascosti al meglio dalla vista degli amanto, temporeggiando nell’attesa di elaborare sul campo una strategia vincente. Erano ormai lontani dal loro campo base e questo, col protrarsi della campagna, stava diventando un rischio via via crescente in quanto le risorse a loro disposizione si stavano esaurendo e, se qualcuno di loro si fosse ferito gravemente, sarebbero serviti almeno 3 giorni a piedi o 1 a cavallo prima di poter raggiungere il loro ospedale da campo più vicino.
Quella notte tutti e quattro, insieme ai loro soldati più fidati, stavano tenendo una riunione strategica nella tenda comune, per decidere come muoversi al meglio per concludere velocemente la missione e ritornare verso il loro campo base. Solo allora infatti avrebbero potuto unirsi al resto delle loro truppe e agli altri plotoni per attaccare in massa l’esercito nemico indebolito dall’incursione che stavano preparando. Ma, nonostante le loro migliori intenzioni, stavano faticando a trovare la base centrale del nemico. Dovevano studiare un piano di esplorazione che gli consentisse di individuarla a breve o avrebbero dovuto battere in ritirata e concludere l’operazione con un nulla di fatto.
La tenda in cui si trovavano era la più grande del campo improvvisato, al centro c’era un tavolo con diverse mappe della zona e alcune figure in legno che rappresentavano loro e i nemici. Lì attorno Katsura, Sakamoto e un paio di altri uomini stavano discutendo animatamente sulla prossima mossa. Tutto attorno Gintoki, Takasugi e gli altri uomini formavano un cerchio intorno a loro, intenti ad ascoltare. In totale non si contavano più di una quindicina di uomini, tutti soldati scelti di fiducia e con esperienza sul campo di battaglia.
Katsura poi era partito con un discorso molto lungo sul perché la sua proposta fosse la migliore e tutti gli uomini attorno al tavolo lo ascoltavano con interesse. Dopotutto lui era Kotaro Katsura, noto per essere la vera mente dietro ai quattro Re Celesti, l’unico che riportava raramente ferite in battaglia proprio grazie alla sua abilità di pianificare le proprie mosse così come quelle dei sui compagni. Era quindi logico che in un contesto simile riscuotesse ammirazione da parte sia dei propri pari che dei subalterni.
Gli unici su cui quell’incantesimo sembrava non avere effetto erano Gintoki e Takasugi.
Il samurai con i capelli argentati infatti si era già distratto un paio di volte, trovando invece estremamente interessante l’interno delle proprie narici e, proprio in quel momento, si era spostato di un paio di passi vicino a Takasugi con tutta l’intenzione di infastidirlo per passare il tempo, probabilmente appiccicandogli addosso la caccola che aveva appena tirato fuori dal suo naso. L’altro ragazzo, dal canto suo, non aveva di certo ignorato le intenzioni ostili dell’amico e gli aveva rifilato un’occhiata inequivocabile di sfida. Loro due non erano tipi da riunione strategica, erano più una coppia di mine vaganti desiderose solo di menare le mani. Possibilmente contro i nemici, ma anche tra di loro era un’opzione sempre valida. Fosse stato per loro si sarebbero lanciati a spron battuto contro i nemici fino a trovare la loro base per sfinimento.
Katsura, ben conscio dei suoi rissosi amici, li ammonì con uno sguardo e un colpo di tosse e i due, che si trovavano proprio di fronte a lui, si gelarono sull’attenti, colti con le mani nel sacco. Il samurai coi capelli lunghi riprese quindi il suo discorso, con l’appoggio di Sakamoto, continuando a spiegare dove e come avrebbero dovuto disporre le truppe finché, improvvisamente, non si interruppe bruscamente di parlare.
Gintoki e Takasugi si guardarono interrogativi e una leggera preoccupazione attraversò i loro volti, concretizzandosi in terrore quando videro l’amico sputare sangue davanti a tutti. Il silenzio che si era creato all’interno della tenda divenne assordante mentre tutti stavano realizzando quello che era successo.
Da quel momento tutto accadde in una frazione di secondo ma, per i quattro ragazzi, fu come se tutto si svolgesse a rallentatore.
“Gintoki, un aggressore, alle sue spalle” sibilò Takasugi, riscuotendosi dopo l’iniziale stupore e lo Shiroyasha in un istante scattò dietro a Katsura, saltando sul tavolo e atterrando alle sue spalle.
Afferrò la mano dell’aggressore, che aveva fatto in tempo a sfilare dalla schiena dell’amico il pugnale con cui l’aveva trafitto, e la strinse così forte da rompergliela.
Nel frattempo Katsura si sentì mancare le forze improvvisamente e le sue gambe tremarono vistosamente. Vedeva gli amici affannarsi attorno a lui ma il dolore misto alla debolezza che provava gli impedivano di comprendere chiaramente quanto stesse accadendo.
“Zura!” urlò Sakamoto che, trovandosi accanto a lui invece che di fronte, aveva realizzato un secondo dopo gli amici quello che stava succedendo. Afferrò quindi al volo il ragazzo coi capelli lunghi evitandogli di collassare al suolo e lo tenne ben stretto a sé, nel tentativo di sorreggerlo. Inanto Gintoki stava facendo un cenno a Takasugi, col quale si scambiò uno sguardo eloquente.
“Tatsuma, è nelle tue mani” gridò con gelida rabbia il comandante del Kiheitai, mentre insieme allo Shiroyasha trascinava fuori l’aggressore. In tutto questo tempo Gintoki non aveva mai smesso di strogolargli la mano fratturata, usandola come appiglio per strattonare l’uomo.
Tanta aggressività era dovuta a una cosa sola: quel verme era vestito come loro. Era uno dei loro.
Lo conoscevano bene.
Ichimaru Toshinori era un uomo sui trent’anni, combatteva al loro fianco da un paio d’anni, abbastanza meritevole da essersi fatto strada fino al gruppo di truppe scelte che li accompagnavano in quella missione. Non si sarebbero mai aspettati qualcosa del genere da qualcuno così vicino a loro e facevano ancora fatica a realizzarlo.
“Un traditore” ribadì l’ovvio Gintoki, come se dicendolo ad alta voce potesse processarlo meglio, mentre si allontanava dal campo improvvisato, calmo nel fuggi fuggi dei soldati che stavano velocemente lasciando la tenda su ordine perentorio di Tatsuma.
“Già” sibilò Takasugi, in modo così inquietante che Ichimaru sentì accapponarsi la pelle.
 
Nel frattempo Tatsuma aveva fatto sgomberare la tenda, per lasciar respirare Katsura, e l’aveva steso sul tavolo su un fianco, dopo aver spazzato via con urgenza tutto ciò che c’era sopra.
“Ehi, Zura! Zura guardami!” gli disse, posizionandosi davanti a lui per capire se fosse ancora cosciente e in grado di capire cosa stava succedendo, cercando al contempo di nascondere la propria apprensione in un tono rassicurante, senza la certezza di esserci riuscito.
Katsura dal canto suo stava tremando, aveva già perso molto sangue e il suo cuore batteva all’impazzata. Non riusciva a parlare, respirava a fatica e il suo sguardo vagava per lo spazio, terrorizzato da quanto gli stesse accadendo. Aveva il viso imperlato di sudore, nonostante il suo corpo stesse diventando più freddo.
“Zura!” gridò ancora Tatsuma e finalmente l’altro samurai lo guardò calmandosi appena alla vista dell’amico.
“Va tutto bene, è tutto a posto. Ci sono io qui, adesso la risolviamo ok? Ma tu devi rimanere con me, non chiudere gli occhi, hai capito?”
Katsura annuì piano, tremando appena.
Avrebbe voluto dire qualcosa ma proprio non ci riusciva, tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un gorgoglio sommesso nel mezzo dei respiri affannosi.
“Cerca di respirare più lentamente Zura, so che è difficile, ma devi provarci” continuò Sakamoto, respirando rumorosamente e vistosamente, in modo da dare il ritmo all’amico che, pian piano, iniziò a seguirlo e a calmarsi un pochino. Non appena il fiatone fu scomparso il drago di Katsurahama si spostò alle sue spalle, per dare finalmente un’occhiata a quella ferita.
“Bene, bravo così. Continua a respirare più lentamente che puoi. Ora ti spoglio, ma non farti strane idee eh!” cercò di scherzare il ragazzo coi capelli ricci, nell’ennesimo tentativo di tranquillizzare l’amico e, in buona parte, anche sé stesso. Quei due l’avevano lasciato lì da solo e sperava davvero di essere all’altezza della situazione.
“devo vedere in che condizioni è la ferita” concluse poi, spigando ad alta voce tutto quello che stava facendo. Katsura non riusciva a smettere di tremare, sia per il freddo che per il male, rendendo ancora più difficile il lavoro all’amico.
Tatsuma doveva sbrigarsi, quella ferita andava chiusa in fretta.
Gli slegò velocemente le protezioni e lo liberò dello strato superiore dei vestiti in modo da scoprirgli schiena e addome.
Si rese conto immediatamente che, per fortuna, la ferita non l’aveva passato da parte a parte ed era troppo in basso per aver perforato un polmone. Tirò un piccolo sospiro di sollievo.
“Non sei proprio del tutto un colabrodo, Zura. Resisti, ce la farai!” lo incoraggiò, mentre delicatamente gli copriva il fianco e il petto con una coperta presa tra le scorte che avevano sistemato nella tenda, cercando di farlo smettere di tremare almeno per il freddo. Si tolse anche il suo haori blu, più asciutto e caldo dei vestiti che l’amico indossava prima, e glielo sistemò sotto la testa, a mo di cuscino, per farlo stare più comodo.
“Meglio vero?” gli chiese e lo sentì annuire piano sulla mano con cui gli stava ancora sorreggendo la testa. Provò anche a dirgli qualcosa, ma tutto quello che uscì dalla sua gola fu un ennesimo gorgoglio e un po’ di sangue. Sakamoto fece una smorfia, quella situazione non gli piaceva per niente. Al terzo tentativo, infine, Katsura riuscì a dire qualcosa.
“Tats… Tatsuma… Io… Non posso morire. Un buon… Un buon generale deve scappare, e sopravvivere e…” si interruppe di nuovo per tossire altro sangue.
“Zura, non morirai. Quei due imbecilli dei nostri amici si riducono spesso così, anzi, anche peggio. Ma come vedi l’erba cattiva non muore mai e, diciamocelo, noi non siamo poi di una risma tanto diversa dalla loro hahahaha!” gli rispose Sakamoto, sforzandosi di suonare allegro. Sentì Katsura ridere pianissimo e finalmente sorrise davvero anche lui.
“E’ che io… Io sono l’ultimo e…”
“E porterai ancora tanto onore alla tua famiglia. Sei Kotaro il fuggitivo dopotutto no? La scamperai anche questa volta e prima di quanto tu possa pensare saremo di nuovo tutti e quattro a mangiare i tuoi onigiri insieme” rispose Sakamoto, con un tono davvero caldo e rassicurante. Quel ragazzo era davvero un raggio di sole.
“…Pr… Prepararli… Non ho mai detto che potete mangiarli” scherzò Katsura, per comunicare all’amico che avrebbe lottato e che stava apprezzando ciò che stava facendo per lui.
“hahhaha sempre il solito vecchio Zura! Ora però non sforzarti a parlare, parlerò io. Tu concentrati sulla mia voce e vedrai che andrà tutto bene. Te lo prometto” disse ancora Sakamoto, mentre gli prendeva il braccio per sentirgli il polso. Era estremamente debole, ma finalmente sembrava essersi stabilizzato.
“Ora pulisco la ferita e vediamo come è messa ok?” chiese, e Katsura si mosse appena in segno di assenso. Tatsuma prese quindi un panno dallo stesso posto dove aveva trovato la coperta e lo bagnò con dell’acqua, per poi strofinarlo piano sulla schiena imbrattata di sangue dell’amico. A parole era stato caldo e rassicurante, ma la visuale alle spalle dell’amico gli faceva accapponare la pelle. La ferita continuava a sanguinare e ormai la schiena era completamente rossa, così come il tavolo, ai cui piedi si stava formando una piccola pozzanghera cremisi. Almeno il sangue stava uscendo lentamente e non a fiotti, quindi la pugnalata non aveva reciso nessuna arteria importante.
“Ok, sembra che nessuna arteria sia stata colpita” comunicò all’amico “ora spingerò forte sulla ferita, dobbiamo fermare l’emorragia. Potrebbe farti un pochino male, ma devi stringere i denti” continuò, mentre posizionava un altro panno, asciutto, proprio sul taglio e applicava pressione con entrambe le mani.
Katsura si irrigidì un attimo a quel contatto e lasciò uscire un mugugno di dolore, che fece preoccupare Sakamoto.
“Andrà tutto bene” gli disse ancora “ma devo tenere premuto forte questo, o non si fermerà l’emorragia ok?” continuava a parlargli per aiutarlo a rilassarsi, se fosse riuscito almeno a farlo uscire dallo stato di shock sarebbe già stata una grande vittoria.
Mentre con una mano continuava ad applicare pressione sulla ferita con l’altra tirò la coperta a coprire del tutto l’amico e le proprie braccia, in modo da scaldarlo il più possibile. Gli controllò nuovamente il polso e il respiro e poi riposizionò entrambe le mani sulla ferita, ora doveva solo aspettare.
 
 
Gintoki e Takasugi avevano camminato fino al margine del loro piccolo accampamento e, trovato un angolo abbastanza appartato, avevano iniziato a occuparsi del traditore che aveva ferito Katsura.
Takasugi gli era da subito piombato addosso in un impeto d’ira, colpendolo con un pugno dritto in faccia che lo fece rovinare al suolo. Gli era poi salito a cavalcioni sul petto e aveva iniziato a tempestarlo di pugni tanto da farsi sanguinare le mani. A differenza di com’era successo altre volte Gintoki non l’aveva fermato, anzi, si era unito a lui nel dare una lezione esemplare a quel verme così disonorevole da attaccare un uomo disarmato alle spalle e così idiota da farlo davanti al loro. Aveva spostato Takasugi e, mentre questi riprendeva fiato, aveva iniziato a tempestarlo di calci e pestoni. Nessuno dei due era lucido in quel momento, la rabbia e la paura per quello che era successo al loro amico stava guidando le loro azioni. Non stavano nemmeno pensando a quello che stavano facendo, volevano solo che quell’uomo la pagasse per ciò che aveva fatto a Katsura.
Quando l’ebbero picchiato così tanto da avere il fiatone Gintoki lo raccolse da terra e lo trascinò fino a un albero, mentre Takasugi prendeva delle corde per legarlo stretto. L’uomo, che faticava a respirare mentre si soffocava col suo stesso sangue, si ritrovò le caviglie legate insieme, così come gli avambracci, posizionati sul davanti, e il busto legato all’albero a cui era appoggiato con la schiena. Le corde erano state tirate così forte sul suo corpo dal comandante del Kiheitai che da sotto i nodi erano chiaramente visibili le ferite causate dalle corde stesse, ancora sanguinanti.
In tutto quel tempo non aveva detto una parola e aveva opposto una scarsa resistenza. Evidentemente era consapevole che c’erano buone probabilità che si trattasse di una missione suicida.
Gintoki nel frattempo aveva ripreso fiato e una volta assicuratosi che il loro prigioniero rimanesse fermo dov’era, prese da parte Takasugi.
“Dobbiamo farlo parlare e scoprire chi l’ha mandato e, soprattutto, se ci sono altri traditori” disse a Takasugi che, nonostante si fosse calmato a sua volta, conservava uno sguardo carico di rabbia e rancore così intenso da far accapponare la pelle.
“Ci penso io. Detta tra me e te, tu non avresti le palle di farlo parlare” sibilò quest’ultimo, guardando il ragazzo coi capelli argentati dritto negli occhi.
Gintoki rimase un attimo spiazzato e, a differenza di come avrebbe fatto normalmente, non si arrabbiò con l’amico e non gli rispose in modo sarcastico. In fondo aveva ragione. Picchiare qualcuno sull’impeto del momento era una cosa, interrogarlo a sangue freddo un’altra. E non l’avrebbe fatto volentieri. Guardò ancora Takasugi negli occhi, c’era una luce sinistra nelle sue iridi verdi che non gli piaceva per niente ma, per questa volta, decise di ignorarla. Sperava solo che l’amico non si incamminasse in un sentiero troppo oscuro, dal quale sarebbe stato difficile risalire una volta intrapreso. Ma d’altro canto quale scelta avevano? Dovevano sapere se tra di loro c’erano altri traditori, o presto lui, Takasugi o Tatsuma si sarebbero ritrovati con un pugnale nel ventre.
“Va bene. Takasugi, solo una cosa. Non ucciderlo” gli rispose perentorio, con una freddezza e una durezza della voce che non gli appartenevano, guardandolo dritto negli occhi. Lo sguardo di Gintoki lo paralizzò per un momento, quelle iridi rosse con quel taglio di gelida rabbia erano davvero quelle di un demone e, forse per la prima volta, Takasugi vide diretto a sé lo sguardo dello Shiroyasha e capì perché gli avevano affibbiato proprio quel nome. Il comandante del Kiheitai annuì e Gintoki se ne andò, voltando le spalle a qualunque cosa sarebbe successa da lì in avanti, avallando tacitamente ogni azione con cui il proprio compagno si sarebbe sporcato le mani.
Mentre si dirigeva a vedere come stava Katsura si chiese se aveva fatto la scelta giusta diverse volte, ma non trovò mai la risposta.
 
Quando Gintoki si fu allontanato abbastanza Takasugi tornò vicino al traditore e gli sollevò la testa che teneva a penzoloni tirandolo per i capelli.
“Ichimaru eh? Combatti al nostro fianco, nel plotone di Zura, da almeno due anni. Abbiamo bevuto insieme, abbiamo festeggiato insieme, abbiamo pianto i nostri compagni caduti insieme… Era tutta una farsa? Tutta una menzogna? Eri sempre stato dalla loro parte, fin dall’inizio, raggirandoci come dei babbei? O ti hanno comprato?” iniziò a parlare con rabbia crescente il comandante del Kiheitai, aumentando la stretta sui capelli dell’altro mano a mano che proseguiva nel suo discorso.
“Non ti dirò nulla” boccheggiò il prigioniero, sforzandosi di alzare lo sguardo abbastanza da incrociare quello di Takasugi che, in tutta risposta, con l’altra mano sfilò dalla saia il pugnale che teneva in cintura e con un gesto secco glielo conficcò nella coscia, facendolo urlare di dolore.
“Non avevo finito di parlare” sibilò gelido, fissandolo con uno sguardo d’odio così profondo da farlo tremare, per poi ruotare il pugnale di 90 gradi nella gamba di Ichimaru, facendolo urlare ancora.
“Se vuoi scusarmi, riprendo da dove mi avevi interrotto. Ti stavo chiedendo se ti hanno comprato. Anche se, a ben pensarci, è probabile. Di occasioni per farlo fuori ne avresti avute di migliori. Però hai deciso di agire oggi, quando eravamo presenti anche io, l’idiota coi capelli argentati e quel mercante da quattro soldi” continuò a ragionare ad alta voce Takasugi, facendo un altro quarto di giro col pugnale che non aveva mai estratto dalla gamba del prigioniero. La naturalezza con cui parlava mentre lo torturava faceva accapponare la pelle a Ichimaru. Non gli stava nemmeno facendo delle domande, non voleva davvero sapere qualcosa da lui. Almeno per ora, voleva solo fargli del male. Poteva leggerlo in quei perfidi occhi verdi che scintillavano alla luce della luna.
“Quindi deve essere stato un tradimento recente. Quanto? Quanto ti hanno pagato? Quale cifra ti ha portato ad essere così stupido da pensare di poter uccidere uno dei Quattro Re Celesti davanti agli altri tre e di passarla liscia?” la voce di Takasugi stava diventando più impaziente e alta ad ogni domanda, si era avvicinato col viso a quello del suo prigioniero al punto che poteva sentire il suo respiro sulla pelle, e lo fissava negli occhi con uno sguardo così tagliente e folle che Ichimaru dovette distogliere lo sguardo per un attimo.
Non ricevendo risposta Takasugi sfilò il pugnale dalla gamba del traditore e lo conficcò nell’altra.
“Ti ho fatto una domanda. Rispondimi” comandò freddo Takasugi, facendo raggelare il sangue nelle vene del suo prigioniero. Le gambe gli facevano male, ma non era quello il problema. In quello sguardo c’era qualcosa di terrificante.
“E’… è vero…” iniziò a balbettare quindi, nella speranza che dicendogli qualcosa avrebbe smesso di fissarlo a quel modo e magari l’avrebbe portato in una cella o qualcosa di simile, dopotutto se non aveva reagito fin’ora era perché sperava di essere catturato vivo e di poter poi scappare “mi hanno comprato. Non sono sempre stato un traditore, l’hai detto anche tu no? Bevevamo insieme” accennò un sorriso terrorizzato, nella speranza di evocare qualche ricordo nella mente dell’altro.
“Risposta sbagliata” lo interruppe Takasugi, assestandogli un pugno all’altezza dello stomaco.
“Questi giochetti non funzionano con me. Non siamo amici. Abbiamo smesso di essere compagni nel secondo in cui hai pugnalato alle spalle Zura”
Ichimaru si piegò su sé stesso tossendo e vomitando un misto di sangue e succhi gastrici su Takasugi, che non sembrò nemmeno accorgersene.
“La… La p-.. La pace” sputò fuori a fatica “mi hanno pagato con la pace. Se fossi riuscito a portargli la testa di uno di voi… Mi avrebbero dato un posto da funzionario nell’esercito nazionale, uno di quelli che rimane a palazzo sai?”
Takasugi lo colpì ancora, dove l’aveva colpito prima.
“P-Perché?” balbettò incredulo Ichimaru “Ti-ti ho detto quello che vuoi sapere”
“Perché mi fai schifo. Per cosa abbiamo combattuto fin’ora? Per cosa sono morti i nostri compagni? Per una causa che per te vale meno di un posto col culo al caldo?” gli inveii contro Takasugi, sfilando il pugnale che era ancora nella sua gamba e conficcandoglielo in una spalla.
Ichimaru urlò, per il dolore e per il terrore.
“Ora veniamo alle cose importanti. Ci sono altri traditori?”
Ichimaru non rispose. Aveva capito che qualsiasi cosa avrebbe detto Takasugi non si sarebbe fermato. A questo punto tanto valeva farlo arrabbiare e sperare che lo uccidesse, tanto era chiaro che non voleva fare altro che torturarlo e ucciderlo, non se ne sarebbe mai andato da lì. Almeno che fosse veloce.
“Non mi rispondi? Bhè per tua sfortuna Gintoki non è come me. Mi ha chiesto di non ucciderti. Probabilmente vuole, nonostante tutto, lasciarti la possibilità di fare seppuku. Ma sai perché è una sfortuna? La notte è ancora lunga” sorrise sadico, fuori di sé, mentre assestava l’ennesimo pugno allo stomaco del traditore.
 
 
Gintoki nel frattempo era arrivato alla tenda dove fino a poco prima si stava tenendo la riunione ed era entrato con passo deciso.
“Tatsuma! Come sta?” chiese subito all’amico, che stava ancora tenendo un panno pulito compresso contro la schiena di Katsura, semi incosciente sotto la coperta che gli aveva messo. Gintoki sbiancò nel vedere quanto pallido fosse diventato l’amico.
“Non bene, ma dovrebbe essere fuori pericolo immediato” lo ragguagliò Sakamoto, serio “ha perso molto sangue ed è ancora leggermente in stato di shock. Sto aspettando che si formi un coagulo in modo da stabilizzare questa ferita” concluse poi.
Gintoki annuì e si avvicinò a Katsura, toccandogli la fronte con una mano. Era gelido.
“Ti aiuto” sentenziò poi, andando a prendere una seconda coperta e procedendo ad allentare tutti gli indumenti stretti che Katsura indossava. Gli sfilò la cintura dai pantaloni e gli tolse le protezioni dalle gambe e i sandali.
“Va tutto bene Zura, ci sono anche io adesso” gli disse, cercando di capire se l’avesse sentito, e gli prese la mano fredda tra le sue calde, dopo essersi seduto di fronte a lui. Katsura annuì e tentò anche di sorridergli, per comunicargli che stava tutto sommato bene.
“Gintoki, dov’è Takasugi?” chiese preoccupato Sakamoto, guardando l’amico con uno sguardo che esprimeva una domanda ben più complessa di quella che aveva pronunciato.
“Col prigioniero” rispose laconico Gintoki, guardando eloquente Sakamoto.
Si scambiarono un ulteriore sguardo ricco di sott’intesi.
“Quando avremo stabilizzato Zura vai da lui. Prima che faccia qualcosa di cui possa pentirsi” concluse Tatsuma e Gintoki annuì.
“Non… non sono Zura. Sono Katsura” balbetto piano il samurai coi capelli lunghi, con gli occhi finalmente completamente aperti, facendo sorridere entrambi gli amici.
“Ora ti riconosco! AHHAHAHHA! Ti ho chiamato Zura un sacco di volte mentre eri semisvenuto” rise Sakamoto, sollevato dal vedere i primi segni di miglioramento.
Anche la mano che Gintoki teneva ancora tra le sue piano piano, grazie alla seconda coperta, si stava scaldando. Sakamoto sollevò piano il panno con cui teneva compressa la ferita e si rese conto che, finalmente, l’emorragia si era fermata.
“Non sanguini più. Abbiamo fermato l’emorragia!” disse allegro Tatsuma “Kintoki, cercami delle bende pulite, rattoppiamo questo colabrodo”
“N-no…” disse piano Katsura, fermando gli altri due “prima dovete pulire la ferita. Vi servirà dell’acqua e del sale…” gli altri due annuirono e obbedienti si misero a cercare quanto Katsura aveva detto loro. Vederli scattare sull’attenti l’aveva fatto ridacchiare piano, nonostante le sue condizioni.
“Se bastava così poco per rendervi così ubbidienti mi sarei fatto pugnalare prima” rise ancora sottovoce, sperando di far ridere anche i suoi compagni, che invece lo guardarono tristi.
“Scusaci Zura, sei tu il ferito e comunque ti tocca guidarci” accennò una scusa Gintoki, abbassando leggermente la testa in imbarazzo.
“No, scusatemi voi. Un generale…” si fermò per tossire un pochino, poi riprese “un generale non dovrebbe mettere i propri uomini in queste situazioni. Sono stato disattento”
Gintoki gli si avvicinò e fece il gesto di colpirlo con un coppino, sfiorandolo appena.
“E io che sto anche a scusarmi. Da quello che dici è palese che stai benissimo e sei il solito idiota di sempre, no, Tatsuma?”
“hahahahaha già! E’ lui il ferito ed è lui che si scusa. Decisamente è idiota”
Continuarono a scherzare per un po’, mentre Sakamoto preparava la soluzione di acqua e sale, ignorando che Katsura stesse parlando con un filo di voce e che la situazione fosse tutt’altro che risolta. Ma preoccuparsi ulteriormente non sarebbe servito a nulla, mentre un po’ di buon umore, anche in quella situazione, non avrebbe potuto che fargli bene.
“Bene, Zura, ci siamo” decretò a un certo punto Sakamoto, posizionandosi col composto dietro di lui. Gintoki era rimasto sul davanti, pronto a qualunque cosa.
“Non sono Zura, sono Katsura. Quando vuoi sono pronto”
“Farà male” aggiunse soltanto, consapevole che l’amico coi capelli lunghi lo sapeva ma comunque attento a non coglierlo di sorpresa. Katsura annuì e strinse i denti. Sakamoto iniziò a versargli l’acqua salata sulla ferita assicurandosi che si pulisse per bene. Bruciava da impazzire e Katsura, inconsciamente, strinse forte la mano di Gintoki che questi gli aveva porto, contraendo i muscoli del corpo tanto da tremare appena.
“Bene così, quasi fatto” continuò a rassicurarlo Tatsuma, mentre finiva di versare l’acqua salata sulla ferita.
Una volta finita quella tortura Tatsuma iniziò a fasciarlo stretto, assicurandosi di usare delle bende pulite e solo dopo aver messo un panno più spesso sopra al taglio, in modo da sigillarlo il più possibile. Katsura lasciò quindi andare la mano di Gintoki e, nel mollarla, si accorse delle sue condizioni. Aveva le nocche completamente spellate e in alcuni punti sanguinava ancora, nonostante si fosse lavato le mani prima di toccare il ferito.
“Gintoki… cosa avete fatto?”
“Normale amministrazione” cercò di sorridere quest’ultimo, sperando che Katsura non avesse sentito la parte di discussione su Takasugi.
“Tatsuma, c’è ancora acqua salata?” chiese invece l’amico coi capelli lunghi, ignorando le patetiche scuse di Gintoki. Sakamoto annuì e gli passò il catino e un panno, ben conscio di cosa l’amico volesse fare.
“Zura…”
“non sono Zura, sono Katsura. Ti sei ferito per colpa mia. E’ il minimo che posso fare”
E così, mentre Tatsuma gli fasciava stretta la schiena Katsura puliva le ferite di Gintoki per poi fasciargli le mani. A differenza del samurai coi capelli lunghi lo Shiroyasha si lamentò ripetutamente a gran voce di quanto quella soluzione salina bruciasse sulle sue mani, ma nessuno lo ascoltò.
Quando finalmente ebbero finito con le medicazioni Sakamoto gli lanciò uno sguardo eloquente.
“Vai” gli disse soltanto, mentre finiva di legare le bende sul corpo di Katsura.
Gintoki annuì e si diresse fuori dalla tenda.
 
Quando Gintoki arrivò dove aveva lasciato Takasugi rimase per un attimo paralizzato da quello che stava guardando.
Takasugi aveva mani e avambracci intrisi del sangue del nemico, che gli era schizzato un po’ ovunque e ora gli era addosso con una rabbia cieca nello sguardo. E lo stava… Strangolando?
“Takasugi!” urlò il samurai coi capelli argentati, lanciandosi di corsa verso l’amico e prendendolo per le braccia da dietro.
“Che cazzo fai, lo stai ammazzando!” gridò ancora, cercando di tirarlo via dal prigioniero ma senza ottenere grandi risultati. Era come se l’altro non lo sentisse nemmeno. Teneva le mani arpionate al collo dell’altro con una forza incredibile.
“Takasugi, Zura sta bene! E’ debole e ci vorranno giorni perché si riprenda, ma sta bene. E’ fuori pericolo” disse ancora Gintoki e Takasugi, semplicemente, si fermò. Lasciò andare Ichimaru e si appoggiò di peso a Gintoki, che lo trascinò lontano dal traditore. Le parole dell’amico l’avevano raggiunto oltre la coltre di rabbia che gli offuscava i pensieri e l’avevano dissipata all’istante, svuotandolo.
Non appena il ragazzo coi capelli argentati lo lasciò andare Takasugi cadde sulle ginocchia con le braccia lungo i fianchi, come se la stanchezza del pestaggio e dell’interrogatorio l’avessero colpito in pieno solo in quel momento, e si lasciò andare in un urlo liberatorio. Quando ebbe finito Gintoki si inginocchiò di fianco a lui, per fargli capire che c’era, che era lì, ma senza essere invadente, ben consapevole di quanto poco all’altro piacesse mostrarsi vulnerabile.
Poi, senza che nessuno gli chiedesse nulla Takasugi iniziò a parlare, lo sguardo verso un punto indefinito del cielo, quasi a voler ignorare che accanto a lui ci fosse l’amico nonostante stesse palesemente parlando con lui.
“Ha detto… Ha pugnalato Zura per poter avere un lavoro d’ufficio nel nuovo Bakufu, e per fuggire dalla guerra” Si fermò un attimo, mentre uno strano sorriso triste si allargava sul suo volto.
“Gli ho chiesto come abbia potuto farci questo, dopo questi anni fianco a fianco sul campo di battaglia. Ha detto che… Che tutto sommato gli andava bene. Che è sempre stato invidioso di noi, che nonostante il nostro basso rango sociale siamo diventati generali prima dei vent’anni, acclamati da tutti, mentre lui era rimasto nascosto nella nostra ombra” inclinò ancora un po’ la testa, per nascondere gli occhi dietro la frangia viola, e si fermò un attimo di parlare, contemplando il cielo.
“Ha parlato sai? A un certo punto… Ma non mi sono fermato” disse con voce piatta, evitando accuratamente lo sguardo dell’altro “Mi ha chiesto di fermarmi, ma io non l’ho fatto” continuò, incapace di bloccare quel flusso di parole che componevano una sorta di confessione e che stava buttando fuori senza riuscire a fermarsi, forse alla ricerca di un’assoluzione da parte dell’amico, ma terrorizzato che, guardandolo, avrebbe letto tutt’altro nei suoi occhi.
“Ero solo così… Arrabbiato… Non riuscivo a non pensare a Zura, alla sua faccia terrorizzata mentre sputava sangue davanti a noi. E così mi si è chiusa la vena e… sono andato avanti. Finché non sei arrivato tu” Si fermò un attimo di parlare, spalancando gli occhi mentre una realizzazione inattesa lo raggiunse.
“Sono come lui” sputò solo fuori alla fine, secco, abbassando la testa e stringendo i pugni in un’improvvisa e rinnovata scarica di rabbia.
Gintoki durante tutto il suo discorso non aveva detto niente. Era raro che Takasugi parlasse di sé, anche più raro che parlasse delle proprie emozioni, e non era nemmeno del tutto convinto che ne stesse parlando effettivamente con lui e che quindi avesse un qualsivoglia diritto di intervenire nel suo monologo. Avrebbe voluto fargli sapere che non lo giudicava ma che, anzi, lo capiva benissimo e che al suo posto avrebbe fatto lo stesso, ma stava soppesando accuratamente cosa e come dirlo, volendo evitare ogni mortificazione all’altro, ben conscio di quale bastardo orgoglioso fosse l’amico.
E poi, quell’ultima frase… Gintoki lo guardò triste, Takasugi aveva sempre parlato molto poco della sua famiglia, anche da piccolo. Ma era chiaro da come arrivava le prime volte alla Shoka Sonjuku che suo padre fosse un tipo manesco e violento, che non si faceva scrupoli a picchiare anche un bambino piccolo, ed era chiaro che si riferisse a lui.
Sospirò, e prese il coraggio di rivolgergli la parola.
“Non sei come lui. Non è stata la rabbia pura e semplice a farti fare quello che hai fatto. Eri preoccupato per Zura, hai agito così per vendicare un amico” gli disse, sperando che di nuovo le sue parole lo raggiungessero oltre quell’aura di malinconia che l’aveva avvolto, ma senza grandi risultati. Si accovacciò più vicino a lui e gli mise una mano sulla spalla.
“Takasugi, mi dispiace di non essere rimasto qui a dividere questo peso con te” aggiunse soltanto, sorridendo triste “ho scaricato tutto sulle tue spalle e me ne vergogno”
In quel momento Takasugi si riscosse, nascondendo di nuovo i sentimenti che quella situazione estrema aveva tirato fuori in profondità dentro di sé.
“tsk, nessun problema. Ho solo perso il controllo sul finale, tu saresti crollato i primi dieci minuti” disse Takasugi, ricomponendosi e guardando finalmente l’amico negli occhi, mentre si levava di dosso la sua mano.
“E’ un piacere sentirti fare i tuoi soliti discorsi, scontrosugi” sorrise Gintoki, e il suo sorriso, nonostante un velo di malinconia, era più radioso di prima.
“Cos’è quella faccia da ebete? Se ti piace tanto essere preso in giro posso continuare finché vuoi” ringhiò Takasugi, mentre il sorriso di Gintoki si trasformava in una risata.
“Ci sono altri traditori?” chiese soltanto, non appena si fu ricomposto.
“No, era solo, o non avrei perso tempo a…”
“Bene, allora è finita” tagliò corto il samurai coi capelli argentati, prima che l’altro potesse di nuovo concentrarsi su ciò che aveva appena fatto, e poi si alzò.
Una volta in piedi tese all’amico una mano che, inaspettatamente, Takasugi non rifiutò e non respinse.
Gintoki sperava che stesse davvero bene. Era la prima volta che dovevano sporcarsi le mani con qualcosa di simile e, per quanto non fossero nuovi alla morte, uccidere o ferire qualcuno sul campo di battaglia era tutt’altra cosa rispetto al torturare qualcuno disarmato e legato. Avrebbe voluto dire all’altro che, se mai avesse avuto bisogno di parlarne, sapeva dove trovarlo ma, d’altro canto, sapeva anche benissimo che l’altro ne era già pienamente consapevole e che, proprio per questo, non gli avrebbe mai più detto una parola a riguardo. Takasugi sapeva che Gintoki era lì, silenzioso e discreto, e questo gli bastava per sentirsi meglio, senza bisogno di chiacchiere o parole di conforto. Erano fatti così, dopotutto.
“Vieni, andiamo a darci una ripulita. Zura ha visto le mie mani e si è subito preoccupato, se ti vedesse così non starebbe buono e fermo”
“Già… Credo che mi servirà come minimo un bagno”
“Quello ti sarebbe servito a prescindere, puzzi come le patate marce che ci tocca sempre ripulire”
“Va bene, la prossima volta ti arrangi coi prigionieri”
“gne gne, la prossima volta ti arrangi coi prigionieri”
“Molto matura questa risposta, Gintoki”
“Adeguata al livello del mio interlocutore, quindi, molto bassa”
Takasugi stava per saltargli alla gola, quando si accorsero di essere in prossimità della loro tenda e videro due figure camminare nella loro direzione. Tatsuma stava trasportando con un braccio sulla spalla e uno attorno alla vita Katsura, per portarlo nel proprio letto a riposare ora che era più stabile.
“Takasugi…” bisbigliò Katsura, con uno sguardo maligno che riluceva nell’oscurità. Era palese che si fosse accorto delle sue condizioni.
“Ehy, Zura!” salutò questi, facendo finta di nulla, e nascondendosi un pochino dietro Gintoki con fare indifferente.
“Non sono Zura, sono Katsura. E dovranno passare almeno altri cento anni prima che tu possa nascondermi quelle ferite” ghignò maligno, spaventando lo Shiroyasha e il comandante del Kiheitai, che cercarono immediatamente di darsi alla fuga.
“Tatsuma.” Disse solo Katsura e Sakamoto lo portò subito sul suo letto, per poi uscire e dirigersi all’inseguimento degli altri due. Quando li prese si scusò, adducendo come giustificazione che Katsura arrabbiato facesse davvero paura, e gli altri non se la sentirono di negarlo.
 
Cinque minuti dopo erano tutti nella tenda dei Quattro Re Celesti: Katsura era steso a letto, Sakamoto seduto al suo fianco e Gintoki e Takasugi seduti davanti a loro sulle ginocchia con lo sguardo basso, mentre Katsura in modalità mamma chioccia li sgridava per come si erano ridotti e cosa avevano fatto.
“Detto questo” disse, dopo avergli spiegato ampiamente perché si erano comportati da idioti “grazie” concluse, sorridendo.
Gintoki e Takasugi alzarono la testa e il mix del sorriso dolce di Katsura e di Sakamoto che stava per scoppiare a ridere nel vederli ubbidienti e imbarazzati li fece prorompere in una fragorosa risata. Poco dopo Tatsuma tirò fuori da non si sa dove del sakè che i tre in salute bevvero fino all’alba, finendo per addormentarsi ai piedi di Katsura, impilati l’uno sull’altro. Il ragazzo coi capelli lunghi gli tirò una coperta sopra, cercando di coprirli il più possibile prima di addormentarsi sfinito a sua volta.
Nel sonno, i volti di tutti e quattro erano sorridenti.

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Capitolo 5
*** Le prime volte non vanno sempre come nei racconti dei senpai! ***


Il cielo aveva appena iniziato a tingersi di rosso quando i Quattro Re Celesti si sedettero finalmente attorno al falò, stanchi da una giornata di lavori nell’accampamento.
Nonostante su alcuni fronti la guerra stesse infuriando anche in quelle ore, nella zona del paese dove si trovavano in quel momento stava lentamente scivolando via una settimana tutto sommato tranquilla. Le truppe ne stavano quindi approfittando per occupare un nuovo territorio dove leccarsi le ferite, riposarsi e affilare le proprie lame, certi che quel periodo di bonaccia sarebbe stata solo un’effimera parentesi nel sanguinoso conflitto che era ormai diventato la loro quotidianità.
La vasta area che il loro nuovo accampamento inglobava includeva diverse case di campagna abbandonate, usate per lo più come infermerie e dormitori, e diversi ettari di terreno dove i soldati avevano piantato le loro tende personali nonché quelle di servizio come quella di distribuzione delle vettovaglie e quella dell’armaiolo.
La cosa che più di ogni altra aveva suscitato l’interesse dei samurai però era che la loro nuova sistemazione si trovava incredibilmente vicina a una città ancora abitata. Questo, nelle teste di quattro ragazzi di poco meno di vent’anni che avevano passato gli ultimi mesi a combattere nel fango, mangiando a malapena e dormendo all’addiaccio in mezzo a soli uomini, voleva dire solo tre cose: cibo vero, Sakè e donne.
Certo, uno potrebbe pensare che quattro giovani in guerra avrebbero ben altro a cui pensare, ma chiunque, persino i Quattro Re Celesti dell’armata Joi, ogni tanto ha bisogno di staccare la spina. Di passare una serata come se fossero solo quattro normali amici, senza preoccuparsi troppo del proprio passato tragico o del proprio futuro incerto.
Erano però già un paio di giorni che le loro tende erano state piantate e ancora non erano andati in città, sempre troppo stanchi dall’allestimento del campo o dall’aiuto che stavano dando ai feriti tra i quali, per una volta, avevano mancato di figurare.
 
Così quella sera Sakamoto, sedutosi rumorosamente al suo posto attorno al fuoco, disse ad alta voce quello che tutti stavano pensando.
“HAHAHHAHAHA ragazzi, siamo qui già da giorni e nessuno ha ancora speso la propria paga in città! Stasera dobbiamo assolutamente andarci, c’è un sacco di Sakè là che sta finendo in uno stomaco che non è nostro HAHAHHAAH”
“Sakamoto ma sei scemo? Abbiamo lavorato tutto il gior-” tentò di opporsi Takasugi, ma uno scappellotto di Gintoki lo colpì in pieno, zittendolo.
“Taci Bakasugi, per una volta Tatsuma ha detto qualcosa di interessante” ghignò il ragazzo coi capelli argentati, l’idea del Sakè vero e non di quella brodaglia che si trovava di solito tra i soldati aveva scacciato la sua solita espressione pigra sostituendola con un sorriso malizioso. Anche perché in città c’era anche altro oltre al sakè.
“…per una volta?” bisbigliò Sakamoto con una brevissima quanto serissima espressione, per poi tornare alla carica con la sua voce poderosa “quindi andiamo? AHHAHAH”
“Sakamoto, non che sia contento di schierarmi con Takasugi, ma domani abbiamo una riunione con gli altri generali e non mi sembra il caso d-“ cercò di dire Katsura, ma Gintoki zittì anche lui con uno scappellotto per poi scivolare vicino a Sakamoto e piazzargli un braccio sulle spalle, mettendo su l’espressione di uno che sa come gira il mondo.
“Vedi Tatsuma, questi due sono restii perché non capiscono le gioie della città come noi. Quello là” disse indicando Takasugi “è un amante terribile, prova che la regola della L è un’invenzione dei nani come lui. Mentre quell’altro…” indicò Katsura “lo usa solo per fare pipì” sentenziò, ridendo e schivando prontamente gli attacchi degli altri due.
“HAHAHAHAHAH Kintoki! Io propongo di andare a berci una cosa tra amici e tu pensi subito alle donne? Mi piaci HAHHAHAHA” rise in modo prorompete Sakamoto, senza accorgersi che i due, irritati dalle frecciatine di Gintoki, avevano intentato un attacco al samurai coi capelli argentati e ora si stavano rotolando in un groviglio umano di cazzotti e strattoni insieme al simpaticone.
Il primo a ricomporsi fu Katsura, mentre Takasugi e Gintoki continuavano a litigare.
“…E comunque non è vero che lo uso solo per fare pipì” sentenziò, schiarendosi la gola mentre si sistemava i vestiti.
“Ah no? Ti conosco da quando hai 11 anni Zura! E da quando siamo al fronte non sei mai venuto con me e Tapposugi o Tatsuma in un bordello” rispose in qualche modo Gintoki, steso schiena a terra, mentre con una mano bloccava un pugno di Takasugi e con l’altra gli tirava il bavero della giacca per tentare di strangolarlo.
“Mi secca ammetterlo, ma stavolta do ragione a Gintoki. E io ti conosco da quando ne hai 9, di anni.” sbuffò Takasugi, inginocchiato sull’amico, cercando di liberare il braccio che l’altro ragazzo gli bloccava e tirando con l’altra mano il coprifronte di Gintoki per avvicinarlo abbastanza da colpirlo con una testata.
“Non sono Zura, ma Katsura, e queste sono mere illazioni” negò, voltandosi di lato come a dimostrare sdegno, ma la sua voce, che si era alzata di un’ottava, tradì il suo imbarazzo. Inoltre Sakamoto era certo che avesse aggiunto, sottovoce, qualcosa sulla falsa riga di ‘e poi a me piace guardare’, ma nessuno degli altri pareva aver sentito e così decise di ignorare la cosa. Dopotutto guardare e fare sono due cose ben diverse.
“Dai, ma allora è vero Zura HAHHAHAHA” rise ancora Sakamoto “ bhè, abbiamo trovato un altro ottimo motivo per andare in città stasera! Possiamo anche unire l’utile al dilettevole e bere il sakè direttamente da…” la zuffa tra Takasugi e Gintoki travolse Sakamoto prima che potesse completare la sconceria che stava per dire e Katsura sperò che quell’interruzione bastasse a cambiare argomento tanto che evitò perfino di correggergli sull’uso del suo nome. Non si era mai sbagliato così tanto.
I tre samurai si rialzarono e Sakamoto si sedette prontamente tra Gintoki e Takasugi nel tentativo di evitare ulteriori risse e poi, per la gioia di Katsura, riprese il discorso proprio da dove l’aveva lasciato.
“Quindi per la prima volta di Zura siamo a posto, sarà stasera! HAHAHAHA voi due invece cosa mi raccontate? Non ve l’ho mai chiesto, ma essendo arrivato dopo nel gruppo ci sono tante cose che non so di voi” chiese allegro, rivolto ai due cani rabbiosi che ancora si ringhiavano addosso, anche se seduti distanti, tentando di tanto in tanto di mettersi le mani in faccia nonostante Sakamoto nel mezzo che, dal canto suo, li ignorava con la potenza di una nave da guerra.
“Bhè…” iniziò Gintoki, lasciando temporaneamente perdere la faida con Takasugi per sistemarsi i vestiti stropicciati e darsi un’aria da gran uomo “… modestamente la mia prima volta è stata con una principessa che si era finta una popolana. Ero ancora alla Shoka Sonjuku, poco prima di unirmi all’esercito. Un giorno, mentre mi allenavo da solo con il bokken, venne a bussare al dojo della scuola una ragazza bellissima. Era venuta per chiedere informazioni dato che si era persa. Scoprii solo in un secondo momento la sua vera identità, poiché non appena mi vide scattò il colpo di fulmine. Fortunatamente Shoyo e tutti gli altri erano via quel giorno così, una volta chiusa la porta ci siamo spogliati e…”
“Ma per piacere!” lo interruppe bruscamente Takasugi, che stava già ridendo sotto i baffi da un po’, ma che voleva vedere quanto potesse spararla grossa l’amico “E’ andata più in questo modo: in una sera tipo questa, qualche anno fa, eravamo curiosi e siamo andati in un bordello di paese. Fine della storia” ghignò il comandante del Kiheitai, molto divertito dall’espressione irritata di Gintoki.
“HAHAHAHA Bhè, almeno vi è piaciuto?” chiese Tatsuma, ridendo a crepapelle, più per le reazioni degli amici che per il racconto in sé.
“…No” Dissero in coro, evitando lo sguardo degli altri e arrossendo, senza più il coraggio di dire nulla se non qualche scusa biascicata sul fatto che non era eccitante sapere che c’era il loro amico nella stanza accanto e che non avevano abbastanza soldi per pagare una ragazza giovane.
“Che serata, Zura! AHHAHAHA non avrei mai pensato di vedere Shinsuke e Gintoki andare d’accordo su qualcosa!”
“Non sono Zura, sono Katsura!” si limitò a ribadire il samurai coi capelli lunghi, mentre rideva a sua volta per le espressioni imbarazzate dei suoi amici.
 
Finito il momento di imbarazzo generale Tatsuma e Gintoki non ci misero molto a convincere definitivamente gli altri due ad andare in città, raggiungere il quartiere dei piaceri e trovare un posto in cui bere. Dopotutto, anche se tendevano a fare i sostenuti molto più dei due ragazzi coi capelli mossi, anche loro avevano bisogno di staccare la spina.
 
Svuotate diverse bottiglie di sakè e dopo aver ormai snocciolato ogni discorso osceno, volgare e che riguardasse anche solo vagamente il sesso che avevano nel loro arsenale, i quattro samurai decisero che bere di più sarebbe stato controproducente per la successiva attività che avevano programmato.
Inoltre Gintoki non aveva perso occasione per vantarsi delle proprie prodezze, divertendo Sakamoto almeno quanto aveva annoiato gli altri due. A un certo punto quindi Takasugi l’aveva apertamente sfidato: avrebbero scelto una ragazza che andava bene ad entrambi ma sarebbe stata poi lei a decidere con chi dei due avrebbe passato la notte. Chi avesse perso avrebbe dovuto passare il resto della nottata solo. La posta era alta, ma Gintoki accettò di buon grado, sicuro della propria vittoria.
Così si diressero quindi vero la parte più a luci rosse del quartiere, ubriachi e allegri come non erano da molto tempo a quella parte. Si misero d’accordo sulla scelta di un locale in cui fossero le ragazze a scegliere l’uomo e non viceversa, in parte per assecondare la scommessa di Gintoki e Takasugi e in parte per convincere Katsura che, nonostante l’ebbrezza, era ancora un po’ riluttante e continuava di tanto in tanto a bofonchiare che questi non erano comportamenti degni di un samurai.
Raggiunsero quindi un locale giapponese tradizionale, dove li fecero accomodare in una grande sala con tatami servendo loro altro sakè che, nonostante i loro propositi di non andare troppo oltre, non rifiutarono. I ragazzi per un attimo si chiesero se potessero permettersi un locale come quello con le loro paghe ma, proprio mentre questo pensiero attraversava le loro menti, videro Sakamoto tirare fuori dei soldi extra da uno scompartimento segreto del suo kimono.
Ma quanto ci teneva a quella serata?
Non fecero però in tempo a protestare che una decina di ragazze, più o meno della loro età, entrarono nella stanza, eliminando qualsiasi pensiero non pornografico dalla loro testa.
Con incredibile sorpresa di tutti il primo ad essere portato via da una di loro fu proprio Katsura, che non protestò affatto quando una delle ragazze lo prese per mano e lo trascinò in una stanza più privata.
 
Gintoki e Takasugi videro che una delle ragazze stava camminando nella loro direzione, e si scambiarono uno sguardo d’intesa. Chiunque sarebbe stato il prescelto da lei avrebbe vinto la loro scommessa. Sakamoto sembrò aver captato i loro pensieri poiché, nonostante una moretta particolarmente intraprendente avesse già iniziato a spogliarlo ancora nella stanza comune, si fermò di fare qualunque cosa per guardare cosa sarebbe successo tra gli altri due.
La ragazza si fermò a poco meno di un metro da loro, così vicini da rendere ancora indecifrabile la sua scelta. Entrambi la guardarono bene, era davvero la più bella del gruppo.
Si guardarono.
Deglutirono.
E poi, improvvisamente, la ragazza tese la mano e afferrò quella di Takasugi, portandolo via con sé in una scia di profumo.
Sakamoto proruppe in una risata assordante, che continuò a sentirsi perfino quando la sua ragazza lo trascinò via per chiuderlo nel proprio privè.
E così Gintoki rimase l’ultimo, ferito nell’ego, con la consapevolezza che avrebbe dovuto alzarsi e uscire da quel locale da solo, senza portare a termine i suoi intenti. Lui, che più di tutti aveva spinto per questa distrazione dai loro doveri di generali. Questo pensiero però giusto il tempo di vedere un’altra ragazza camminare nella sua direzione. Con Takasugi si sarebbe chiarito il giorno dopo, dopotutto, nessuno era lì a controllarlo no?
 
La mattina dopo nessuno di loro si svegliò all’accampamento.
Il locale per cui Sakamoto aveva pagato non era una delle solite bettole che frequentavano loro quando erano in licenza e nessuno era venuto a svegliarli o a buttarli fuori. Anche le ragazze erano ancora lì con loro, addormentate al loro fianco. Quando aprirono gli occhi, ancora rintronati dall’alcol e dalle prodezze sotto le lenzuola, nessuno di loro si lamentò di non essersi svegliato di fianco ad un altro soldato puzzolente per una volta. Almeno fino a quando non si ricordarono della riunione strategica di quella mattina.
Mezz’ora dopo il sorgere del sole tutti e quattro erano fuori dal locale, con gli yukata stropicciati, i capelli arruffati e la faccia di qualcuno che aveva bevuto molto e dormito poco.
Si scambiarono tutti uno sguardo d’intesa soddisfatto e rilassato, almeno finché Takasugi non realizzò che effettivamente anche Gintoki era lì con loro, il che stava a significare che non aveva affatto onorato la loro scommessa. Il ragazzo coi capelli scuri gli saltò addosso, gridandogli che era un senza onore e che avrebbe dovuto rimanere a secco, così imparava ad ammorbare tutti con le sue vanterie, condendo il tutto con strattoni e spintoni. Sakamoto e Katsura iniziarono a ridere di gusto guardando la scena.
Sembrava tutto così normale.
Poi il momento finì, si resero conto dell’orario e corsero a perdifiato verso l’accampamento.
 
Quando finalmente si furono vestiti e presentati alla riunione, l’incontro era già iniziato da un’ora.
Tentarono di infilarsi nella tenda di nascosto ma oltre a loro non erano molti altri i generali presenti nel loro distaccamento e la loro assenza era stata ampiamente notata.
Inoltre, in pieno dopo sbornia, quello che fecero non fu proprio un intrufolarsi, quanto più un inciampare l’uno sull’altro e rotolare fino al tavolo attorno al quale gli altri generali, seduti composti sulle ginocchia, stavano decidendo come schiarare le truppe.
“…buongiorno?” biascicò Gintoki, lasciandosi sfuggire un fragoroso sbadiglio. Katsura nel frattempo si era già risistemato e stava prendendo posto in mezzo agli altri fingendo di essere sempre stato lì, Takasugi si stava sistemando la giacca cercando di darsi un tono e Sakamoto, ancora steso a terra, non dava segni di vita.
“Siete… ubriachi?” chiese con notevole disappunto un altro generale dall’aria arcigna, più vecchio di diversi anni.
“Noooo AHHHAHAHHA ieri notte eravamo ubriachi!” sghignazzò Sakamoto ancora riverso al suolo ricevendo un calcio nelle costole da Takasugi che lo rimandò subito nel mondo dei sogni.
“Dovreste commettere seppuku!” tuonò il generale che aveva parlato prima, afferrando Gintoki, che era il più vicino a lui, per la collottola e sollevandolo da terra tanto che il ragazzo sbiancò non sentendo più il suo peso poggiare sulle ginocchia.
“Myiamoto-dono, la prego di perdonarli. Sono solo ragazzi, li punisca in modo esemplare e vedrà che questo comportamento indecoroso non si ripeterà più”
A parlare era stato Katsura, seduto così composto e all’apparenza così normale che per un attimo sembrava davvero che fosse sempre stato alla riunione.
“Zura, ma che dici! Eri insieme a noi ieri sera!” borbottò Gintoki, mentre il generale Myiamoto lo scagliava lontano. Sapeva di aver parlato a suo sfavore, ma piuttosto che lasciare che Katsura si evitasse qualsiasi punizione gli avrebbero inferto era pronto a subirla anche raddoppiata. Evidentemente anche Takasugi la pensava come lui, dato che nel frattempo era scivolato alle spalle di Katsura e ora stava cercando di strangolarlo, mentre Sakamoto, che non era ancora riuscito a rialzarsi da terra, si stava rotolando su sè stesso ridendo senza ritegno.
 
Alla fine i Quattro Re Celesti vennero puniti per la loro condotta vergognosa con voto unanime di tutti gli altri generali: avrebbero dovuto occuparsi della manutenzione delle latrine e dello smaltimento degli escrementi dei cavalli a tempo indeterminato. In condizioni diverse avrebbero subito di peggio, ma dopotutto erano i più giovani generali che il loro distaccamento avesse mai conosciuto e, per quanto i soldati fossero duri nell’anima oltre che nel corpo, avevano capito che perfino loro quattro, nonostante la loro fama di valenti condottieri, erano pur sempre ragazzi che avevano avuto bisogno di staccare un attimo la spina in quella bolla di pace apparente.
 
BONUS SCENE – durante la punizione
 
“Ma quindi Tatsuma, la tua prima volta? Alla fine non ce l’hai mai detto!” chiese Katsura, mentre impilava letame di cavallo su un carretto.
“Ah già! AHHAHAAH bhè, ero su una delle navi di mio padre, dovevo portare un carico preziosissimo in un’isoletta a sud del Giappone quando fummo abbordati da una nave pirata. Quello che mi lasciò di stucco fu che l’intera ciurma era composta da ragazze sexy! Non appena mi videro…” uno scappellotto di Takasugi interruppe Sakamoto, che si voltò a guardarlo con disappunto.
“Sei come quell’altro debosciato coi capelli mossi, bravo solo a sparare idiozie. Ecco perché andate tanto d’accordo!”
“Ma no, non è come pensi è…”
“Bordello di quartiere?” domandò Gintoki, senza davvero aver bisogno di una risposta.
“Bordello di quartiere” confermò Takasugi, scambiandosi uno sguardo d’intesa con l’amico, mentre Sakamoto lì guardava sconsolato e Katsura rideva sotto i baffi.

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