Indiana Jones e la Gloria di Amon

di IndianaJones25
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Tempo del Sogno ***
Capitolo 2: *** Richiesta di soccorso ***
Capitolo 3: *** Il boomerang di Tatji ***
Capitolo 4: *** Travestimento perfetto ***
Capitolo 5: *** Incontro ***
Capitolo 6: *** Il grande cantiere ***
Capitolo 7: *** Battaglia all’ombra dei templi ***
Capitolo 8: *** Il carro d’oro ***
Capitolo 9: *** Il colosso di Abu Simbel ***
Capitolo 10: *** Interrogatorio ***
Capitolo 11: *** Nel tempio ***
Capitolo 12: *** La galleria ***
Capitolo 13: *** L’ipogeo di Ramses II ***
Capitolo 14: *** In trappola ***
Capitolo 15: *** La riconquista del carro ***
Capitolo 16: *** Il contrattacco dei russi ***
Capitolo 17: *** La Gloria di Amon ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il Tempo del Sogno ***


    1 - IL TEMPO DEL SOGNO

    Ayers Rock, Australia, 1964

   La roccia emetteva bagliori rossastri, colpita dai raggi del sole alto nel cielo tinto di un blu scuro e brillante.
   Sebbene la stagione fosse mite – l’estate australiana era terminata da quasi due mesi, ed era ormai autunno inoltrato – il caldo era ancora comunque molto forte, e la sensazione di calore era aumentata dalla totale assenza di ripari ombrosi per centinaia di chilometri tutto attorno; almeno, se non si teneva considerazione dei pochi e bassi arbusti rinsecchiti in mezzo a cui, di quando in quando, faceva capolino qualche clamidosauro in cerca di prede.
   Il panorama, cosparso di sabbia rossastra e pietre, sarebbe potuto essere di una piattezza infinita; ma così non era per via dell’immenso monolite dell’Uluru, la montagna sacra, che attraeva lo sguardo distraendolo da qualsiasi altro elemento circostante.
   I due uomini, montati su resistenti cavalli abituati ad affrontare quelle aride distese, si approssimavano sempre di più all’immane e misteriosa montagna, che affascinava e magnetizzava tutta l’attenzione su di sé, avanzando al piccolo trotto per non rischiare di sfiancare gli animali. Nuvolette di sabbia si sollevavano al loro passaggio e, escluso il rumore degli zoccoli sul terreno, nessun suono interrompeva la sacrale atmosfera che permeava la zona.
   «Certo che fa caldo, per essere primavera» disse a un certo punto il più giovane dei due, poco più che un ragazzo, magrolino e con i capelli castani, passandosi un fazzoletto sopra la fronte bagnata di sudore e sbuffando in maniera vistosa.
   «A dire il vero, Woods, è primavera da noi, ma qui è autunno, mi pare di avertelo già spiegato» replicò la voce profonda e cavernosa di Indiana Jones. L’archeologo, le mani strette attorno alle briglie, si voltò per gettare un’occhiata di sfuggita al suo compagno.
   Il giovane annuì, continuando a tamponarsi la fronte.
   «Ha ragione, professore, tendo sempre a fare confusione con questa faccenda degli emisferi ribaltati» borbottò.
   «In ogni caso, al contrario di te, mi sono informato, prima di partire; e, così, ho scoperto che in questa regione fa sempre parecchio caldo, durante il giorno, non piove praticamente mai e le temperature si mantengono piuttosto alte a prescindere dalla stagione» andò avanti Jones, con accento ironico. «Ma di notte la faccenda cambia completamente. Stanotte scenderemo sotto i dieci gradi, quindi mi auguro che tu ti sia portato anche qualcosa di pesante da metterti addosso.»
   Il ragazzo indossava una camicia a quadri sbottonata fin sotto il petto, pantaloni corti fino al ginocchio e stivali di cuoio. Si era legato un fazzoletto giallo attorno al collo e aveva coperto il capo con un ampio cappello di paglia. Nonostante il suo abbigliamento leggero, sudava in abbondanza e sembrava parecchio a disagio, come se dovesse essere colto da un momento all’altro da un collasso. Inoltre, quell’informazione non gli piacque affatto, perché nella bisaccia attaccata ai finimenti non aveva assolutamente nulla per coprirsi; si sarebbe dovuto affidare completamente alla coperta di lana arrotolata dietro la sella, sperando che bastasse.
   Indy, invece, pur avendo rinunciato per una volta al giubbotto di pelle – che aveva ripiegato e infilato in una borsa di cuoio in previsione del freddo notturno – indossava la solita tenuta e appariva molto più a suo agio. Non sembrava patire minimamente la calura e la fatica di quel luogo. Nondimeno, da sotto il cappello di feltro i capelli argentati gli si incollavano al viso madido e arrossato, e una vistosa macchia di sudore gli si era allargata su tutta la lunghezza della schiena.
   «Ha di nuovo ragione, professor Jones. Ma per me è davvero difficile mettermi in testa che, metà aprile, sia in realtà autunno» proseguì il giovane. «Mi pare quasi di essere in un altro mondo.»
   Jones sogghignò, puntando gli occhi verso l’Ayers Rock che si avvicinava sempre di più.
   «Non è una semplice sensazione, Woods. L’Australia è davvero un altro mondo, completamente differente da tutto ciò a cui siamo abituati» replicò, con tono leggermente sognante. «Qui è tutto molto differente da ciò che siamo abituati a conoscere. Hai visto che strani animali? Non ne troverai di uguali in nessun’altra parte della Terra. E lo stesso vale per la flora. L’Australia, per quello che ne sappiamo, ha avuto un’evoluzione a parte, e venire qui è come fare un salto indietro nel tempo, all’epoca giurassica: animali, alberi... persino i sassi. Qui è tutto diverso.»
   Il maturo archeologo strinse gli occhi per vincere la luce accecante e guardò ancora verso la montagna, la cui sagoma si mostrava in una maniera parecchio sinistra, un’immagine misteriosa che appariva quasi estranea in quel contesto così desertico.
   «Ti ricordi che cosa ti ho detto, riguardo alle tradizioni aborigene?» domandò.
   Paul Woods annuì adagio.
   Il ragazzo ventiquattrenne era l’assistente del professor Tobias Hoffman, un eminente studioso di storia dell’arte che lavorava per il Metropolitan Museum of Art di New York. Hoffman e Jones – che aveva ricevuto tale incarico dal rettore del Marshall College – stavano da tempo preparando una serie di conferenze inerenti l’arte dell’Oceania, ma si erano resi conto che mancavano ancora una serie di dettagli da verificare, prima di poter dare avvio al ciclo.
   Così, avevano pianificato per mesi quella spedizione in Australia, studiandola nei minimi particolari.
   Ciò di cui nessuno dei due aveva tenuto minimamente conto, però, era uno scalino rotto davanti all’ingresso del Metropolitan, la cui manutenzione era da tempo rinviata; il medesimo scalino che, intercettando il piede di Hoffman, aveva fatto compiere un ruzzolone al professore, fratturandogli una gamba proprio il giorno prima della partenza. Pertanto, per non vanificare il lavoro di mesi, Jones e Hoffman, riuniti al pronto soccorso, avevano deciso seduta stante, e senza possibilità di appello, che sarebbe stato Woods ad accompagnare Indy in Australia.
    Perciò, adesso eccoli lì, a cavallo in mezzo al deserto, a sudare sotto il sole impietoso dell’emisfero australe, diretti verso l’inquietante Ayers Rock. Il ragazzo, abituato soltanto a catalogare reperti nel fresco di un laboratorio prima di uscire e tornarsene a casa in mezzo al traffico newyorkese, avrebbe di gran lunga preferito trovarsi in qualsiasi altro posto; ma, ormai, era lì, a patire un disagio dietro l’altro in compagnia di questo burbero archeologo, e tanto valeva fare buon viso a cattivo gioco.
   «Sì, mi ricordo» replicò. «Secondo gli aborigeni australiani, prima che si formasse il mondo fisico, esisteva una specie di realtà parallela, fatta di puro spirito, che viene chiamata Tempo del Sogno.»
   «Esattamente» replicò Indy. «E l’Ayers Rock, chiamato Uluru nelle lingue originarie dell’Australia, secondo le leggende sarebbe una porta di collegamento tra il mondo di oggi e il Tempo del Sogno. Una caratteristica che condividerebbe con altre formazioni rocciose dell’Australia, come, per esempio, l’Hanging Rock.»
   Woods rabbrividì in maniera vistosa a dispetto della canicola.
   «Ho sentito girare certe storie poco belle, su quelle montagne» borbottò. «Sparizioni, visioni, spiriti… cose così. Non ho molta voglia di scoprire se siano vere oppure no… sa, non mi andrebbe affatto a genio di imboccare la porta sbagliata e finire nel Tempo del Sogno. Io sto molto bene qui, nel tempo degli hamburger, della Coca-Cola, dei juke-box e delle belle ragazze in minigonna con cui scatenarmi al sabato sera.»
   Indy fece un lunga e roboante risata. Non poteva certo dare torto all’assistente del suo collega, riguardo quel punto di vista.
   «Suvvia, Woods, non dimenticare che siamo uomini di scienza!» borbottò poi, tornando serio. «Mica possiamo farci spaventare da certe sciocchezze. E, poi, dai retta all’esperto: non è vero niente. Ti assicuro che ne ho viste tante di cose strane, in lungo e in largo per il mondo, ma di paranormale non ho mai visto assolutamente nulla in vita mia. Magari, lì per lì, potrebbe sembrare che ci sia qualcosa che non va; ma poi, a mente fredda, uno capisce che c’è sempre un’altra spiegazione e che non ci si deve lasciare suggestionare.» Lasciò andare le staffe per asciugarsi un rivolo di sudore che gli stava colando negli occhi, quindi soggiunse: «Non è certo per imboccare la via verso un’altra dimensione, che siamo venuti fin qui.»
   Il giovane guardò di sbieco l’Ayers Rock.
   «Dica quello che le pare, professor Jones, ma a me quella montagna sembra piuttosto inquietante.»
   Indy ammiccò. Non poteva negare che, in fondo, il giovane avesse ragione. La sagoma tronca del massiccio roccioso, solcata da canaloni i cui colori variavano a seconda del modo in cui la rifrazione del sole li colpiva, faceva davvero impressione. E ancora più suggestivo era il pensiero che, al contrario delle altre montagne esistenti, non fosse sorto dal terreno per via delle spinte telluriche avvenute nel corso delle ere geologiche.
   Il grande monolite ferroso, secondo alcuni ricercatori, era infatti di origine extraterrestre. Secondo certe teorie, la Terra, in un remotissimo passato, avrebbe avuto non una, bensì due lune. A un certo punto della sua storia, però, il pianeta si sarebbe scontrato con il più piccolo dei suoi satelliti, che nell’impatto sarebbe esploso. Una parte significativa dell’antico ammasso orbitante, quindi, sarebbe precipitata sulla Terra e si sarebbe conficcata in Australia, formando appunto l’Uluru, che si sarebbe protratto in profondità per parecchi chilometri. Gli ottocento e rotti metri con cui si innalzava verso il cielo, di conseguenza, sarebbero stati soltanto una piccola parte dell’insieme.
   Comunque, non era certo per una questione di fisica e di geologia che Indiana Jones aveva compiuto il lungo viaggio che lo aveva condotto nella grande isola dell’Oceania.
   «Non lasciarti suggestionare» brontolò. «Se ti pare di udire o di vedere qualcosa che non va, sarà solo per via delle interferenze magnetiche di quell’affare, nulla di più. Ricordati che noi siamo qui soltanto per copiare alcune delle pitture rupestri con cui gli aborigeni sono soliti ricoprire le pareti del monte. Non è stato semplice ottenere il permesso, di solito non è consentito avvicinarsi più di tanto. Fatto questo, ce ne torneremo indietro e potrai pensare alle tue ragazze con la gonnellina e ai tuoi hamburger.»
   Paul sorrise, senza replicare nulla. Evidentemente, quella prospettiva non gli dispiaceva affatto.
   Il paesaggio, brullo e desolato, si andava tingendo di una nuova variazione di rosso mano a mano che il sole compiva la sua traiettoria nel cielo, abbassandosi verso l’orizzonte. Ormai la grande roccia sembrava ardere di un fuoco sacro, come se si fosse incendiata. Non era per niente faticoso immaginare come mai gli antichi abitatori del luogo la considerassero sacra e cara agli dèi.
   I due cavalli, mantenendo il passo costante, continuarono ad andare avanti. Un piccolo moloch irto di spine, nel vederli sopraggiungere, guizzò in fretta dietro un tronco secco, svanendo alla vista. Un pitone diamantino, disturbato dal loro passaggio, si distese in tutta la sua lunghezza e scomparve con un lungo movimento sinuoso in mezzo ad alcune rocce.

 
* * *

   Adesso, mentre si arrampicavano con estrema fatica lungo uno dei canaloni riarsi e bollenti, da cui si levava l’acre odore metallico del ferro arrugginito che costituiva la gran parte dell’immenso monolite, la lunga attraversata del deserto sotto il sole cocente appariva poco più che una piacevole passeggiata. Il terreno era disagevole e pieno di insidie, tanto che a ogni passo si correva il rischio di compiere un vero e proprio capitombolo. Il calore era insopportabile e mancava l’aria, perché quella poca che si riusciva a respirare era caldissima e secca, al punto da far bruciare i polmoni. Bisognava anche stare attenti a dove si infilavano le mani, per non rischiare di toccare per sbaglio qualche serpente in agguato in un anfratto, come per esempio un taipan, uno dei rettili più velenosi al mondo: un simile incontro, isolati com’erano, si sarebbe potuto rivelare fatale.
   «Comincio a capire le storie sugli spiriti» bofonchiò Paul, inerpicandosi di malavoglia per una parete parecchio complicata. «Se non ti vengono le traveggole qui, non ti vengono da nessuna parte.»
   Indy, che lo precedeva di alcuni metri, a sua volta sudato e affannato, atteggiò le labbra a un sogghigno svergolo.
   «Ti rendi conto, Woods, che da quando abbiamo messo piede in Australia non hai fatto altro che lamentarti?» lo derise, dopo aver superato un tratto piuttosto insidioso e aver raggiunto una sorta di terrazzamento che permetteva di muoversi con più facilità, grossomodo a trenta metri di altezza dalla base del monte. «Anziché fare un ragionamento del tipo: “guarda il professor Jones, così vecchio eppure tanto vitale, cerchiamo di dimostrare di poter fare meglio di lui”, continui a trovare scuse per lagnarti di questo, e di quello e di quell’altro.»
   Il ragazzo non sembrava avere per niente l’intenzione di scherzare. Se mai ne aveva avuta una, doveva essersi dissolta insieme a tutto il sudore di cui era intriso, evaporata nel caldo torrido.
   «Fa presto a parlare, lei, professore» sbottò. «Ma è anche una questione di abitudini. Se avessi voluto fare il giramondo, mi sarei iscritto a qualche società geografica, non avrei fatto domanda come assistente di laboratorio al museo.»
   «E anche questo è vero» tagliò corto Jones, distratto da un dettaglio che aveva attratto la sua attenzione. «Ora, però, sta’ zitto almeno un minuto, mi pare di aver trovato qualcosa…»
   Si fermò, osservando una fenditura che si apriva nella roccia. Era abbastanza larga da permettere il passaggio di un uomo, pur con qualche difficoltà. La cosa più curiosa, però, erano i numerosi fori circolari che si trovavano allineati dall’alto verso il basso sui due lati del crepaccio. Da quello che Indy poteva capire, erano di origine antropica, quindi era probabile che, quella spaccatura, potesse nascondere qualcosa di interessante, che valeva la pena di scoprire.
   «Che cosa c’è, professore?» domandò Paul, allungando il collo per vedere meglio.
   «Ssst…» sibilò Indy, facendo un cenno con la mano perché rimanesse fermo.
   L’archeologo studiò con attenzione l’apertura, valutando ciò che aveva di fronte a sé. Poi, senza esitare oltre, si infilò con una mossa rapida nell’anfratto.
   «Professore, dove…?» sbottò Paul.
   «Zitto e seguimi!» ordinò Indy con tono secco e perentorio.
   Il budello roccioso era ancora più angusto di quanto apparisse se visto dall’esterno, tanto che era parecchio difficile muoversi. Se uno di loro fosse stato appena un poco più robusto, non sarebbe mai riuscito a passare. Le due pareti erano così vicine che Indy ne sfregava una con la schiena e l’altra con la tesa anteriore del suo cappello, qualche volta addirittura con la punta del naso. Era praticamente impossibile muovere la testa per vedere dove stesse andando, per cui poteva affidarsi soltanto alle sue sensazioni e alla mano destra, con cui tastava la roccia a poco a poco che procedeva a fatica, guadagnando strada. Per sua fortuna, nonostante l’età, poteva ritenersi ancora piuttosto agile e snello, e le sue articolazioni erano ancora robuste e sane, e questo lo stava aiutando ad affrontare senza intoppi quello stretto passaggio.
   A pochi centimetri da lui, invece, Paul Woods sbuffava e piagnucolava parole a fiume, dicendo che nessuno lo pagava abbastanza per tutto questo e che lui non era tagliato per roba del genere. A ogni lamento che si faceva sfuggire di bocca, seguiva l’ennesimo movimento errato, con annesse botte nelle più disparate e impensabili parti del corpo.
   «Sono un restauratore, io, non uno speleologo, e non so proprio cosa gli sia venuto in mente al professor Hoffman di spedirmi qui» si lamentò. «Ahia! Ho picchiato il gomito! Uhi! Adesso il ginocchio! Lo so, non ne uscirò vivo, questo posto diventerà la mia tomba, ma cosa ho fatto di male nella vita per meritarmi questo?! Ah! La spalla, maledizione…! E sì che ho sempre lavorato bene e non ho mai fatto niente di sbagliato! Ohi, che razza di fitta alla schiena! Sono certo che sia una punizione, perché il professore avrà scoperto che la sera mi piace suonare la chitarra e cantare nei bar e non avrà mandato giù la faccenda, è un bravo docente ma su certe cose è parecchio retrogrado… Ahi! Mannaggia, che craniata! E allora, io…»
   «Vuoi piantarla?!» sbottò finalmente Indy, facendo echeggiare la sua voce per tutta la fenditura. «Già non è semplice attraversare questo crepaccio della malora, se poi mi rendi ancora tutto più complesso con i tuoi lamentosi monologhi da vecchia bisbetica mi viene davvero voglia di mollarti qui e buonanotte al secchio! E poi, fra una quarantina d’anni, giuro che tornerò e finanzierò di persona uno scavo archeologico per avere la soddisfazione di riesumare il tuo vecchio scheletro polveroso e rinsecchito!»
   Paul si morse le labbra e tacque, mortificato.
   Indy, sbuffando, continuò ad andare avanti. Trovava che i giovani si stessero facendo tutti dei mollaccioni senza spina dorsale, che non sapevano più faticare e che pensavano soltanto a divertirsi. Quel Woods non era da meno. Se avesse saputo che si sarebbe rivelato una tale palla al piede, avrebbe fatto volentieri a meno di lui: tanto, per una simile impresa, Indiana Jones da solo bastava e avanzava. Lui, con la sua esperienza e le sue capacità, era ancora molto più capace – e audace – di parecchi ragazzini imberbi e inutili.
   A distrarlo dalle sue riflessioni sul decadimento della civiltà, fu l’interrompersi della fenditura, che si aprì in una vasta cavità in mezzo alle pareti rocciose. Faceva uno strano effetto trovarsi in mezzo a quelle altissime muraglie rosse alla cui sommità brillava il cielo blu intenso.
   Dopo essersi guardato per alcuni istanti, Indy individuò qualcosa di estremamente interessante. Una delle pareti, infatti, era interamente ricoperta da disegni tracciati dalla mano degli aborigeni. Si trattava certamente di immagini molto antiche e, per quello che poteva capire, mai viste in precedenza da nessuno.
   «Meravigliosi…» borbottò Woods, affiancandolo e osservando a sua volta i pittogrammi.
   Evidentemente, quella visione era risultata sufficiente per fargli scordare all’improvviso tutte le difficoltà patite per giungere fin lì. D’altronde, era pur sempre un esperto di arte antica e, trovarsi di fronte a tanta bellezza, faceva passare in secondo piano qualsiasi cosa.
   Indy e Woods osservarono con attenzione i disegni. Il colore che spiccava di più era il rosso, ma c’erano anche tracce di verde, blu e giallo. Le immagini raffiguravano esseri umani affiancati da serpenti e ornitorinchi, immersi in un paesaggio ameno e dai tratti misteriosi, che non sembrava assomigliare per nulla ai panorami aridi e desertici di quella parte dell’Australia.
   «Fantastico…» borbottò Paul, accostando la mano a uno dei disegni e sfiorandolo con delicatezza. «Però, non riesco a comprendere che cosa rappresenti…»
   Indiana Jones sogghignò.
   «Si dice che le pitture del Tempo del Sogno siano personali e destinate a rivelare il passato, il presente e il futuro di chi si imbatta in esse» spiegò.
   «Quindi» ipotizzò Woods, aggrottando le sopracciglia. «Queste pitture dovrebbero essere per noi? O, meglio, per lei, professore, visto che ha scoperto lei il modo per raggiungerle?»
   Indy restò in silenzio per qualche istante, osservando attentamente i disegni che si snodavano per tutta la lunghezza della parete, come se stessero raccontando una storia. Mostravano un uomo solitario che viaggiava in luoghi molto diversi e che, spesso, si trovava ad avere a che fare con nemici di ogni sorta. Alla fine, l’uomo solitario incontrava una bella donna e le restava vicino, tenendola per la mano. Un sorriso gli si allargò sulle labbra, mentre pensava a come quella storia, in un certo senso, potesse veramente sovrapporsi alla sua. Ma, in fondo, la si sarebbe potuta fare coincidere con la storia di chissà quanta gente.
   Batté un dito sulla parete, indicando una figura in particolare, che assomigliava a una grossa lucertola dai tratti antropomorfi.
   «Queste pitture narrano la storia di Tatji, la grande lucertola rossa» raccontò. «Si dice che la lucertola fosse una cacciatrice temibile e imbattibile, perché si serviva di una speciale arma infallibile: un boomerang, chiamato kali. Tatji abitava le grandi pianure, finché un giorno non giunse in vista dell’Ayers Rock. A quel punto, per voler mettere alla prova la propria forza, la lucertola scagliò il suo boomerang che, però, contrariamente al solito, non tornò indietro. Era rimasto conficcato da qualche parte nella roccia del monolite. Tatji, allora, cominciò a scavare fori come quelli che abbiamo visto all’ingresso della spaccatura per poterlo ritrovare, ma non ci riuscì mai, finché morì in una delle caverne che costellano il monte.»
   «Una storia affascinante…» borbottò Paul, poco convinto.
   «Come tutti i miti, ha una finalità pratica. In questo caso, serve a spiegare l’origine dell’erosione del monte, che spesso provoca buchi nelle pareti rocciose» puntualizzò l’archeologo.
   Aprì la solita borsa che portava a tracolla e ne estrasse un taccuino e un pacchetto di matite colorate. Li porse al ragazzo, che li afferrò.
   «Ora che la lezione di mitografia è terminata» sentenziò Indy, «tocca a te. Datti da fare e cerca di ricopiare al meglio questi disegni. E sbrigati: non ho voglia di restare qui troppo a lungo.»
   Con un sospiro, Paul si mise a sedere sopra un masso che si trovava alla giusta distanza e che gli permettesse di avere una visione di insieme, e si preparò a cominciare il suo lavoro. Dopo aver aperto il quaderno e aver scelto una matita che gli sembrava andasse bene, lanciò un’occhiata di sfuggita a Indy.
   «Lei mi dà una mano, professore?» domandò.
   Indy scosse la testa in fretta. Non aveva nessuna voglia di mettersi a ricopiare quelle pitture.
   «No» replicò, burbero. «Non lo sai che chi fa da sé fa per tre? Mentre tu disegni, io ne approfitto per dare un’occhiata qui attorno. Cerca di non cacciarti nei guai.»
   Woods si lasciò sfuggire una risatina.
   «E in che tipo di guai dovrei finire, professore? Sono qui seduto…»
   «Non si sa mai» replicò l’archeologo, con fare sprezzante. «Quando non si è abituati alla vita sul campo, non si può mai sapere che cosa potrebbe accadere. Comunque, finché ci sono io qui nei paraggi, non ti devi preoccupare proprio di nulla.»
   Indiana Jones lo osservò ancora per qualche istante mentre, dopo essersi stretto nelle spalle, si metteva all’opera. Poi si volse e si allontanò.


 

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Capitolo 2
*** Richiesta di soccorso ***


    2 - RICHIESTA DI SOCCORSO

    Assuan, Egitto

      Affannato, i capelli scompigliati, la barba scura intrisa di sudore e il fez finito sulle ventitré per la gran corsa, Sallah si allontanò il più in fretta che gli fu possibile dall’edificio di mattoni in cui era stato allestito il quartier generale degli ingegneri sovietici che si stavano occupando della costruzione della diga; sperava di aver guadagnato sufficiente vantaggio per poter riuscire a far perdere le sue tracce nel dedalo di viuzze che si aprivano tra le case che costeggiavano il fiume.
   Era sconvolto e il suo ampio ventre si sollevava in fretta per la velocità con cui si era dato alla fuga e per la reazione di panico che gli aveva procurato non solo il fatto di essere stato scoperto a origliare, ma anche ciò che lui stesso aveva udito delle frasi scambiate tra i russi.
   Osservò il cielo tingersi dei primi colori dell’aurora. Una nuova alba sorgeva sul Nilo che, da millenni, scorreva placido, regolando la vita degli uomini e delle donne che avevano vissuto sulle sue sponde. Una vita che, da adesso, con la costruzione della grande diga di Assuan, sarebbe mutata per sempre. Naturalmente gli dispiaceva essere sul punto di assistere alla scomparsa di quel peculiare e tradizionale rapporto con la natura che, fin dai suoi albori, aveva caratterizzato la civiltà del Nilo. Ma a questo avrebbe potuto anche farci l’abitudine, e in fondo era anche per tale motivo che si trovava lì: per contribuire a fare sì che, ciò che aveva contraddistinto il grande stato faraonico, continuasse a vivere nei secoli futuri, nonostante tutto, malgrado l’avanzamento del progresso.
   Non era certo questo a sconvolgerlo. Era, semmai, il resto. Era ciò che aveva scoperto per puro caso. Se soltanto, in quei giorni, fosse rimasto ad Abu Simbel, anziché recarsi ad Assuan per sbrigare quegli affari burocratici… e se non fosse stato tanto mattiniero e non avesse deciso proprio quel giorno di fare una passeggiata per osservare da vicino il cantiere della diga… se non avesse notato il gruppo di uomini che sembravano complottare… se non avesse udito proprio quelle poche ma scioccanti frasi…
   «Ma che cosa dico?» borbottò.
   Era tanto di guadagnato, che avesse scoperto quel segreto. Se così non fosse stato, sarebbe potuto essere un disastro. Ora, però, non poteva certo tenerselo per sé. Era necessario dare l’allarme, al più presto, per impedire che le cose peggiorassero ancora. Ma a chi rivolgersi? Non certo alla polizia o all’esercito! Non era tanto sciocco da non sapere che, chi aveva chiamato i russi in Egitto, era proprio il governo di Nasser! Di certo, da quel lato, non avrebbe potuto aspettarsi nessun tipo di collaborazione, anzi si sarebbe forse cacciato in guai ancora più grossi, perché si sarebbe messo contro i militari. Sebbene avesse ricevuto numerosi e importanti incarichi, e il suo nome fosse tenuto di buon conto per i tanti servigi resi all’Egitto, non ci sarebbe voluto molto perché la sua fama precipitasse e qualcuno decidesse che, di quel vecchio scavatore sovrappeso, si poteva anche fare a meno.
   Alcuni latrati alle sue spalle e delle grida in russo lo informarono che, come temeva, i sovietici si erano accorti di lui e lo stavano inseguendo, cercandolo addirittura con i cani. Non gli rimaneva molto tempo a sua disposizione, eppure sapeva di dover fare qualcosa. Non poteva permettersi di arrendersi proprio in quel momento. Dopo aver combattuto tanto a lungo, doveva rischiare il tutto per tutto.
   Era consapevole, però, di non potercela fare da solo. E neppure poteva sperare di chiedere aiuto tra gli altri membri della missione dell’ONU. C’era soltanto un uomo, in tutto il mondo, che potesse aiutarlo e su cui potesse fare completo affidamento. E, quell’uomo, per sua fortuna, era il suo migliore amico, che non si sarebbe mai tirato indietro dinnanzi a una sua richiesta di aiuto.
   Pur essendo un uomo di grossa stazza, sapeva muoversi con una certa agilità, e questo gli permise di inoltrarsi in fretta in un vicolo, evitando appena per una frazione di secondo di essere intercettato da alcuni energumeni dalla pelle piuttosto pallida, inadatta al clima rovente di quelle latitudini, che lo superarono rapidamente. Notò che proseguivano in direzione del fiume e, per questo, fece dietrofront, inoltrandosi tra le basse e polverose casette che digradavano in direzione del Nilo e incamminandosi alla svelta verso il centro della città.
   Bene, per il momento poteva dirsi fuori pericolo, ma non si faceva illusioni che, prima o poi, sarebbe stato raggiunto di nuovo. Non poteva neppure sperare di fare ritorno ad Abu Simbel come se niente fosse, perché era certo di aver riconosciuto uno degli uomini che aveva sentito parlare.
   Sasha Volkov, un colonnello sovietico inviato in Egitto con lo scopo di occuparsi della sicurezza degli ingegneri della diga. Ora Sallah sapeva che, come in fondo aveva sempre sospettato, la presenza dei militari russi era dovuta a ben altri motivi, decisamente più preoccupanti. Fin dall’inizio, infatti, gli era parso strano quello spiegamento di forze, ma lui era soltanto una pedina e, non avendo voce in capitolo, aveva preferito rimanere in silenzio. Visto quello che un caso fortuito gli aveva fatto scoprire, adesso si pentiva: forse avrebbe fatto meglio a fare casino, ad attirare sospetti; magari avrebbe corso dei rischi ma, almeno, ci sarebbero stati molti più occhi puntati contri i sovietici, e avrebbero faticato di più a muoversi da quelle parti come se niente fosse.
   Adesso, comunque, non serviva a niente rammaricarsi su ciò che avrebbe potuto fare o dire. Adesso il problema vero era un altro. Il problema era che, così come lui aveva riconosciuto Volkov, era sicuro che anche Volkov avesse riconosciuto lui: il suo, purtroppo, era un volto molto noto al cantiere, sarebbe stato da irresponsabile pensare che quel colonnello non se lo ricordasse. No, Abu Simbel, per il momento, era fuori discussione; e, comunque, era troppo distante da raggiungere, e non poteva sprecare un solo secondo.
   Ansante per la corsa, Sallah proseguì sul marciapiede finché notò ciò che stava cercando. Un ufficio postale che, vista l’ora, aveva ancora le saracinesche abbassate. Come sperava, però, sul retro trovò un vecchio e polveroso furgone su cui due svogliati funzionari stavano caricando i sacchi della posta da spedire.
   «Salve, amici» borbottò Sallah, piegandosi in due con le manone appoggiate sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato.
   I due uomini gli fecero un cenno con il capo e continuarono a lavorare. Avevano gli occhi arrossati dal sonno. Decisamente, in quel momento, avrebbero preferito trovarsi entrambi ancora nei propri letti, anziché lì a caricare posta sul vecchio e malmesso furgone.
   «Vorrei domandarvi una cortesia, se fosse possibile» andò avanti Sallah, rimettendosi dritto e sistemandosi meglio il cappello rovesciato.
   Uno dei due lo osservò, appoggiando in terra il sacco che aveva tra le braccia. Non disse nulla, ma lo scavatore comprese di avere la sua attenzione.
   «Dovrei spedire una lettera con una certa urgenza, ma temo di non avere con me un francobollo, e quindi mi chiedevo se…» cominciò, ma l’uomo scosse la testa, ricominciando a passare i sacchi di posta al collega che si trovava nel cassone.
   «Niente da fare» bofonchiò. «Bisogna affrancarla e imbucarla. Poi la lettera sarà timbrata e soltanto a quel punto potrà partire.»
   «Sono il sovrintendente del governo al cantiere di Abu Simbel, mi chiamo Sallah Faisel el-Kahir» si qualificò finalmente lo scavatore, cercando di assumere un tono autoritario. Tono che cambiò immediatamente, facendosi cospiratorio. «E, se voi mi faceste questo enorme favore, potrei ricompensarvi…»
   Magicamente, nella mano di Sallah comparvero due banconote di grosso taglio. Banconote che, altrettanto magicamente, scomparvero nelle tasche dei due uomini, subito fattisi più vicini e attenti.
   «E la lettera?» chiese uno dei due.
   Annuendo, Sallah si tastò le tasche della giacca, in cerca di carta e penna. Per fortuna, essendo dovuto venire ad Assuan per affari di tipo amministrativo, aveva con sé tutte le scartoffie occorrenti per scrivere una lettera e per imbustarla.
   Trovato un biglietto abbastanza grande, rifletté un istante su che cosa scriverci. Si immaginava che, per posta, fosse molto meglio non rivelare nulla di compromettente. Così, decise di scrivere quella piccola lettera da spedire a casa: avrebbero poi pensato i suoi ragazzi a fare il resto.
   Svitato il tappo alla stilografica dal pennino d’oro che portava nel taschino della camicia, vergò in fretta le seguenti parole: «C’è urgente bisogno dello zio Indy. Fate in maniera che mi raggiunga al più presto. Gli spiegherò io ogni cosa appena ci saremo incontrati. Voi sapete come contattarmi: portatelo da me il prima che riusciate. È una faccenda molto delicata, ma non posso aggiungere altro. Un bacio a tutti. Papà
   «Ecco fatto» disse, infilando il biglietto nella busta e scrivendoci sopra il suo indirizzo del Cairo. «Pensate che sia possibile recapitarla entro questo stesso pomeriggio?»
   Uno dei due uomini soppesò la lettera con lo sguardo, mentre l’altro, grattandosi la nuca, borbottò: «Be’…»
   Un altro paio di grosse banconote cambiarono alla svelta padrone e, a quel punto, l’uomo che aveva borbottato assicurò, parlando in tono limpido e chiaro: «La consideri praticamente già consegnata, signor el-Kahir.»
   Non appena il furgone con a bordo la sua lettera fu partito, Sallah si sentì un po’ più sollevato. Era certo che Indy, appena avesse avuto sentore della sua urgenza, lo avrebbe raggiunto al più presto, e così avrebbero potuto concordare insieme un piano per evitare che i sovietici trovassero il carro di cui volevano impadronirsi. Nonostante il caldo e l’affanno, lo scavatore rabbrividì vistosamente al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate come volevano i russi.
   Però, lo sapeva, era ancora in pericolo. Doveva trovare un posto per nascondersi e, soprattutto, fare in maniera che i sovietici non lo scovassero. E, inoltre, doveva riuscire a fare ritorno ad Abu Simbel, perché era lì che Indy lo avrebbe cercato. Purtroppo, non avrebbe più potuto fare affidamento sulla macchina che il governo gli aveva messo a disposizione: il rischio che venisse riconosciuta e bloccata lungo la strada era troppo elevato.
   In breve, doveva rendersi irreperibile per qualche tempo. Poteva soltanto sperare di riuscire a inventarsi un accorgimento sufficiente a tenerlo al sicuro fino a quando non fosse arrivato Indiana Jones.
   Per fortuna, aveva già una mezza idea su come riuscirci.

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Capitolo 3
*** Il boomerang di Tatji ***


    3 - IL BOOMERANG DI TATJI

   Spinto dalla curiosità di esplorare meglio quel luogo affascinante, Indy si addentrò lungo un secondo crepaccio che si trovava all’altro capo della piccola gola che avevano scoperto, sul fronte opposto rispetto a quello da cui erano arrivati.
   Il maturo archeologo non poteva negare a se stesso di essere davvero interessato a quel luogo e a tutto ciò che poteva nascondere. Negli ultimi mesi avevano studiato parecchio, riguardo all’Ayers Rock – o, meglio, all’Uluru, come si chiamava nella lingua locale – ma non si era mai imbattuto in nessuna descrizione relativa a quell’apertura in mezzo alla rocce. Probabilmente era un luogo sacro e inviolato, e loro erano i primi profani a porvi piede e a posarvi i loro sguardi. Una simile consapevolezza lo elettrizzava, perché era sempre un vero colpo al cuore entrare per primo in posti inesplorati.
   A dire il vero, Indiana Jones non si poteva considerare un vero e proprio esperto delle culture aborigene dell’Australia. Nonostante fosse sempre stato un gran giramondo, infatti, le occasioni in cui si era spinto fino a quell’ultimo ed estremo lembo di terra, quasi ai confini del mondo, erano state piuttosto rare, e le avrebbe potute numerare sulle dita di una mano sola.
   Quando, però, Charles Stanforth gli aveva chiesto di organizzare una mostra sull’arte australiana insieme al professor Tobias Hoffman, Indy non aveva saputo dire di no, stuzzicato dalla voglia di mettersi all’opera con qualcosa che, per lui, poteva in qualche modo ritenersi del tutto inedito. E, quando gli si era prospettata la possibilità di un’azione diretta sul campo, non si era tirato indietro neppure per un breve istante. Sebbene gli anni avanzassero e fosse ormai un uomo felicemente sposato, non temeva la vita sul campo e, anzi, il richiamo dell’avventura era ancora troppo forte per riuscire a sottrarsene.
   «Cerca di non metterti in guai troppo grossi» si era raccomandata Marion con tono brusco, prima della sua partenza.
   «Devo solo individuare delle pitture rupestri…» aveva borbottato Indy, senza guardarla. «E poi ci sarà l’assistente di Hoffman, insieme a me. In che guai dovrei cacciarmi, secondo te?»
   «Sarà…» aveva replicato lei, poco convinta. «Ti conosco, Jones, e so che razza di calamita che sei, per le situazioni spinose, anche nei momenti più impensati. Ma ti avverto: se muori, giuro che ti ammazzo!»
   A quel punto, l’archeologo si era fatto una grossa e sana risata e, stringendola tra le braccia, l’aveva baciata a lungo, prima di esclamare: «Cercherò di rimanere vivo, allora!»
   Ora, però, mentre si addentrava in un altro strettissimo passaggio, si sentì come se stesse mancando alla promessa fatta alla moglie. Le pitture le aveva trovate, no? E, allora, che senso aveva continuare ad andare avanti, alla ricerca di chissà poi che cosa?
   Eppure, non poteva negare a se stesso di star facendo esattamente ciò che desiderava. Era come se qualcosa lo stesse chiamando a sé, invocandolo alla propria presenza. Era un’energia che riempiva l’aria, un magnetismo che si diffondeva a cerchi concentrici e che lo avvolgeva completamente, catturandogli la mente e spingendolo ad avanzare. Era una sensazione che Indiana Jones conosceva più che bene, avendola sperimentata decine e decine di volte: era il richiamo irresistibile dell’ignoto.
   Per questo motivo non si lasciò fermare dalle pareti che si stringevano sempre di più costringendolo a trattenere il respiro per non rischiare di rimanere incastrato. Né si fece suggestionare dalle strane sfumature della luce, e nemmeno dalla pitture che, come segni ammonitori, ricoprivano la pietra. Sapeva di star andando da qualche parte, e voleva scoprire dove.
   Finalmente, anche quel crepaccio ebbe termine, aprendosi in una grotta naturale. Si guardò attorno, trattenendo il fiato per lo stupore.
   Si trovava all’interno del monolite, in un’immensa cavità in cui l’aria era secca e calda e si respirava male. La luce, rossastra a causa del colore delle pareti, era garantita da alcuni fori aperti nella volta, forse a causa dell’erosione, che permettevano ai raggi solari di penetrare in quell’ambiente altrimenti completamente buio.
   Indy si posò le mani sui fianchi e, annuendo, osservò un blocco di pietra su cui stava appoggiato un oggetto brillante, chiaramente di origine umana. Era meraviglioso. Si trattava di un grande opale dalle mille sfumature iridescenti, lavorato in forma di boomerang. Non gli ci volle che un solo istante per comprendere di che cosa si trattasse.
   «Il boomerang di Tatji» mormorò, sconcertato da tanta bellezza.
   L’oggetto leggendario attorno a cui erano fiorite decine di leggende. L’artefatto alla cui ricerca erano andati migliaia di uomini senza mai riuscire a incorrere in un solo risultato. Lui lo aveva trovato, praticamente per caso, nel volgere di soltanto pochi minuti. Tutto merito della sua solita fortuna. Una fortuna sfacciata che gli permetteva di risultare sempre primo anche nelle situazioni più impensabili. Una fortuna talmente esagerata che, alle volte, si convinceva di non essere un uomo in carne e ossa, bensì soltanto il protagonista di un fumetto, o magari di un film.
   «Indiana Jones, il protagonista di una fortunata serie suddivisa in cinque film» borbottò, rendendosi conto di quanto la sua vita, riflettendoci sopra, fosse strana e alle volte persino impossibile.
   Scuotendo la testa, mosse un passo in direzione del boomerang. Voleva osservarlo da vicino, se possibile toccarlo e stringerlo tra le dita. L’opale brillava in una maniera tale che era impossibile staccargli gli occhi di dosso.
   Quest’ultimo fatto determinò un cambio improvviso nelle sorti della sua buona stella. Quando appoggiò il piede sul pavimento, infatti, risuonò un cupo rumore e l’intera caverna cominciò a tremare e a oscillare, come se fosse sul punto di crollare.
   Esterrefatto, Indy sollevò gli occhi al soffitto, appena in tempo per vederlo frantumarsi in mille pezzi che rischiarono di travolgerlo. Si gettò all’indietro appena in tempo per evitare di essere investito, ma cerbottane automatiche nascoste nelle pareti e messe all’improvviso in moto – chissà come! – iniziarono a riversargli addosso una nutrita dose di frecce.
   Senza avere nemmeno il tempo per pensare, Jones si buttò in terra e rotolò su se stesso, mentre i dardi gli volavano tutto attorno, sfiorandolo pericolosamente. Altri pezzi di roccia caddero tutto attorno, sollevando un gran polverone. Attraverso quella coltre, i suoi occhi arrossati e lacrimanti riuscirono a scorgere il masso che sorreggeva il boomerang abbassarsi nel terreno e scomparire alla vista. Nemmeno per cinque minuti, lo aveva avuto a sua disposizione.
   Cercò di trascinarsi lontano da quel macello, ma le vibrazioni non facevano che aumentare, rendendo di fatto impossibile rialzarsi in piedi e mantenere l’equilibrio. Inoltre, farlo avrebbe significato esporsi al tiro incrociato delle cerbottane, che non accennavano a smettere di riversargli addosso le loro frecce appuntite e acuminate.
   Quindi, non gli restò che strisciare, sperando di guadagnare in tempo l’anfratto da cui era arrivato per potersi togliere da lì.
   «Maledizione!» imprecò, quando si sentì il terreno mancare da sotto le mani.
   A causa delle scosse di terremoto, nel terreno si era aperta una larga spaccatura, che nel volgere di pochi secondi soltanto si era tramutata in una grande voragine. Per evitare di essere inghiottito e di dover terminare il suo lungo viaggio nel buio di una profonda forra, Indy si aggrappò a un masso che si trovava davanti a lui, trovandosi a penzolare con le gambe che scalciavano il vuoto nel tentativo di arrampicarsi.
   «Merda…» borbottò, provando a fare forza sulle braccia per riuscire a sollevarsi in avanti.
   Tuttavia non riuscì a fare molto. Si era appena spinto in avanti, infatti, che una nuova scossa gli fece quasi perdere la presa. Si trovò letteralmente ad abbracciare il suo appiglio con un braccio solo, mentre l’altro gli scivolò lungo il corpo.
   Doveva riuscire ad aggrapparsi di nuovo con entrambe le mani o non sarebbe riuscito a resistere. Ma i sussulti violenti del terreno rendevano tutto molto più complesso del previsto e, a ogni movimento che cercava di fare, correva il rischio di precipitare. Non gli andava molto a genio l’idea di una caduta simile, perché in un caso simile persino la sua solita fortuna non sarebbe potuta intervenire in suo soccorso.
   Se soltanto avesse avuto sottomano un canotto di salvataggio, o magari un frigorifero… le cose sarebbe potute andare meglio!
   All’improvviso, sentì che una mano si stringeva attorno al suo braccio, cominciando a fare forza per tirarlo su. Una figura si sporse sul limitare del crepaccio, guardandolo negli occhi.
   «Mi dia l’altra mano, professor Jones, così non ce la faccio!» gridò Paul, chinandosi verso di lui.
   Indy non se lo fece certo ripetere e, con un movimento fluido, strinse la mano del ragazzo. Flettendo le ginocchia e digrignando i denti per lo sforzo, Woods riuscì a sollevare l’archeologo a trascinarlo al sicuro sul terreno solido, sebbene ancora sussultante. Fortunatamente, la scarica di dardi era terminata, altrimenti sarebbero stati in guai seri.
   «Mille grazie, Woods…» bofonchiò Indy, vergognandosi di se stesso.
   Aveva giudicato troppo in fretta quel ragazzo. Se non fosse stato per il suo repentino intervento giunto appena in tempo, adesso si sarebbe trovato disteso a qualche decina di metri nel sottosuolo, con tutte le ossa rotte. Preferì non pensarci.
   «Sarà meglio andarcene, professore!» gridò il ragazzo, gettando un’occhiata in direzione del soffitto, dove si stavano aprendo nuove crepe, mentre altri calcinacci cadevano al suolo, rischiando di investirli. «Ma che è successo…?»
   «Te lo spiegherò in un momento migliore!» urlò Indy, schiacciandolo di lato per evitare che fosse colpito in pieno da un grosso masso di cui non si era accorto. «Forza, tagliamo la corda!»
   Correndo come se avessero le ali ai piedi, raggiunsero di nuovo il crepaccio e lo percorsero alla svelta, sbucando finalmente nell’apertura a cielo aperto in cui si trovavano i pittogrammi.
   «Be’, è andata bene…» cominciò a borbottare Indy, spolverandosi la polvere rossiccia che lo aveva ricoperto dalla testa ai piedi. «Non avrò preso il boomerang, ma almeno abbiamo i disegni, vero…?»
   Le parole gli morirono in bocca. Tutto lo spazio disponibile era stato occupato da uomini dalla pelle scura e dall’aria ben poco rassicurante. Ciò che metteva soggezione, soprattutto, era il fatto che tutti loro fossero armati, chi con arco e frecce, chi con lance o coltelli, chi con ben più micidiali fucili.
   «Ehm…» bofonchiò. «…salve…»
   Paul, che lo aveva appena raggiunto, si immobilizzò al suo fianco, trattenendo il fiato e impallidendo tutto d’un colpo alla vista di quelle armi.
   Uno degli uomini, un vecchio dalle cespugliose sopracciglia bianche e dal volto che sembrava coperto di pelle conciata, da tanto era scura e spessa, si fece avanti e sfidò con lo sguardo l’archeologo.
   «Avete violato uno dei nostri luoghi sacri!» tuonò l’uomo, sollevando le braccia. «Meritereste di essere uccisi!»
   La mano di Indy, istintivamente, corsa alla fondina in cui si trovava il revolver. Tutte le armi gli furono puntate addosso, minacciose.
   «Non le conviene fare sciocchezze, professor Jones!» lo avvertì il vecchio.
   L’archeologo sentì Paul tremare al proprio fianco. Non poteva dire di sentirsi molto più a suo agio, rispetto a lui. Decise di rivolgersi al vecchio e di provare a mettere le cose in chiaro.
   «Dato che mi conosce, saprà che qui si tratta solo di un equivoco…» borbottò.
   «Violare e distruggere uno dei nostri santuari più antichi le sembra un equivoco, professore?!» sbottò l’uomo, facendolo segno di uno sguardo al vetriolo.
   Indy si strinse nelle spalle.
   «Be’, io non volevo… è stato un incidente e sono pronto a…»
   «Non aggiunga una sola parola!» gridò il vecchio. «Non renda peggiore la sua situazione. So che eravate stati autorizzati a venire qui e a copiare alcune delle nostre pitture. Ma non si era mai parlato che vi sareste messi a cercare la caverna di Tatji!»
   «No, ma infatti io non…» borbottò l’archeologo.
   «Zitto!» intimò il vecchio. «Silenzio! Non dica una parola!»
   Il suo tono, già di per sé molto eloquente, era supportato più che bene dalla miriade di armi puntate contro Indy. Nonostante la situazione difficile, Jones dovette riconoscere che, quel tipo di sostegno, rendeva molto più persuasivi i discorsi. Se ne sarebbe dovuto ricordare la prossima volta che avrebbe provato a chiedere al rettore un aumento di stipendio.
   «Avete contravvenuto ai nostri patti» ricapitolò il vecchio, «e per questo meritereste una punizione severa. Ma oggi è il settantaduesimo compleanno di mia figlia, e ho quindi deciso di essere magnanimo e non macchiare la sua festa con il vostro sangue. Mi limiterò a requisirvi tutti i disegni. Dopodiché dovrete andarvene e, per almeno un secolo, dovrete tenervi alla larga da questo e da ogni altro luogo sacro dell’Australia!»
   Indy, che sapeva riconoscere una sconfitta quando se ne trovava una davanti agli occhi, questa volta si sentì in dovere di dire ugualmente qualcosa.
   «Be’, un secolo, andiamo, che esagerazione!» sbottò, sarcastico. «Non si potrebbe fare per soli novantaquattro anni…?»
   Paul si agitò, temendo che quella battuta infelice avrebbe fatto scordare al capo degli indigeni che, quello, era il giorno del genetliaco di sua figlia. Il vecchio, invece, pur non scomponendosi, si limitò a fissare l’archeologo con aria ben poco raccomandabile.
   «Lei ha poco da fare lo spiritoso, professor Jones!» intimò. «Ma se vuole tornare prima dello scadere del tempo, faccia pure. Vedremo che cosa succederà. Ricordo che il sultano del Madagascar minacciò di tagliarle la testa, una volta…»
   Indy sogghignò, al ricordo di quel lontano episodio. Evidentemente, la sua fama lo precedeva, se quel vecchio decrepito conosceva quell’antica storia.
   «No, non era la testa…» bofonchiò.
   «Lo so bene!» sbottò il vecchio. «E io le farò esattamente ciò che il sultano minacciò, se tornerà. Ha la mia parola.»
   L’archeologo deglutì a stento, accorgendosi di avere la gola secca. Questa minaccia non lo aveva certo lasciato indifferente.
   «Ho capito» disse, annuendo in fretta. «Ho capito. Be’, noi, allora, togliamo il disturbo e addio, che ne dice?»
   L’altro uomo tese la mano, sorridendo malignamente.
   «Certo, addio. Prima, però, i disegni.»
   Rassegnato, Indy fece un cenno a Paul. Il ragazzo, sebbene a malincuore, mise la mano in tasca e prese i fogli su cui aveva copiato già buona parte delle pitture rupestri. Erano spiegazzati e incompleti, dato che aveva dovuto interrompere in fretta il lavoro quando era corso in aiuto al professore in difficoltà, ma anche così si poteva vedere che ci avesse messo molta maestria. Con un sospiro profondo, li porse al vecchio, che li prese in fretta.
   «Benissimo» sentenziò il capo degli aborigeni. «Ora potete – anzi, dovete – andarvene.»
   Rassegnati, mortificati nel vedere rese vane tutte le fatiche patite per giungere fino a lì, i due americani guardarono ancora per un istante il gruppo di indigeni e il loro capo. Quest’ultimo, per invogliarli a fare in fretta, abbassò la mano all’altezza della cintola e mimò il gesto di un coltello che tagliava.
   Compresa l’antifona, Indiana Jones mise una mano sulla spalla di Woods e lo guidò fuori dal crepaccio.


 

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Capitolo 4
*** Travestimento perfetto ***


    4 - TRAVESTIMENTO PERFETTO

   Sallah si ammirò nello specchio e dovette ammettere che, se non avesse saputo di esserci lui, sotto quell’ampia veste dai mille colori e ricami, con un lungo velo sulla testa che gli scendeva con un drappeggio davanti al volto e sulle spalle, lasciandogli scoperti soltanto gli occhi, non sarebbe nemmeno riuscito a riconoscersi. Grazie a quel travestimento, sarebbe potuto tornare ad Abu Simbel inosservato.
   «Io proprio non capisco perché tu ti sia dovuto vestire da donna e, a dire il vero, non lo voglio nemmeno sapere!» esclamò sua cugina, le braccia incrociate sul petto, guardandolo con aria rassegnata attraverso la stanza ammobiliata secondo l’uso egiziano, con tappeti sul pavimento e cassepanche contro le pareti rivestite da lucide maioliche dai colori delicati e rilucenti. In un angolo, vicino a una finestra che lasciava passare la luce brillante del sole, era sistemata una gabbietta al cui interno un canarino trillava gioioso.
   Per fortuna, Sallah si era ricordato appena in tempo che, dalla parti di Assuan, abitava Tuda, la figlia del suo defunto cugino Salman. Tuda, in passato, viveva con i berberi che si spostavano con i loro villaggi mobili sparsi nel deserto ma, da quando era rimasta vedova del suo primo marito, aveva abbandonato quella vita nomade e si era trasferita in città.
   Tuda, al contrario di Sallah, pur avendo passato da tempo la cinquantina d’anni, si era mantenuta piuttosto snella, quindi lo scavatore non sarebbe mai potuto entrare in uno dei suoi abiti. Lei, per inciso, si sarebbe comunque rifiutata di acconsentire a prestargliene uno. Tuttavia, la donna aveva in casa delle vecchie vesti che erano appartenute a una sua parente berbera e, davanti alle insistenze del cugino, gliene aveva accomodata in fretta una perché potesse indossarla, dopo averla estratta da una cassapanca in cui era rimasta rinchiusa per anni. Era sufficientemente abituata alle stranezze di Sallah da non aver sentito la necessità di fare domande. Eppure, adesso, vedendolo conciato in quella maniera, trattenendosi a stento dal mettersi a ridere, non era riuscita a evitare di sbottare in quel modo.
   «Lo sai che, se ti scoprissero, potresti passare un brutto quarto d’ora?» andò avanti.
   Sallah si girò e la guardò attraverso il salotto dal pavimento cosparso di tappeti sottilmente ricamati.
   «Cause di forza maggiore» rispose. «E ti assicuro che, il brutto quarto d’ora, lo passerei anche se restassi nei miei panni. Con la differenza che loro non stanno cercando una leggiadra fanciulla, bensì un grosso uomo.»
   Tuda sollevò un sopracciglio, nell’osservare i movimenti impacciati e nell’ascoltare il vocione roboante di quella “leggiadra fanciulla” da centoventi chili, ma si morse un labbro e non fece nessun commento.
   Invece, si limitò a dire: «Ma loro chi, si può sapere?»
   Sallah scosse la testa.
   «Meglio di no. Meno gente ne sa, di questa storia, e meglio sarà per tutti. Non voglio coinvolgerti in questa brutta faccenda.»
   Un sorrisetto increspò le labbra della donna.
   «Come se non lo avessi già fatto, venendo qui a chiedermi un vestito!»
   «Te lo restituirò pulito e profumato, così potrai indossarlo» promise Sallah.
   «Dovrei mangiare un po’ troppo, per sperare di entrare in quell’abito senza vedermelo cadere da tutte le parti a ogni movimento, non credi?»
   Sallah si strinse nelle spalle, non sapendo che cosa dire. Si limitò ad attraversare in fretta la stanza e a prendere tra le braccia la cugina, stringendola in uno dei suoi soliti abbracci capaci di stritolare un ippopotamo. Fortunatamente, al di là delle apparenza, Tuda era una donna forte e robusta e riuscì a evitare di venire ridotta a una sottiletta dall’eccessivo affetto del cugino.
   «Grazie mille, Tuda, ti sono debitore!» esclamò Sallah, sollevandola letteralmente da terra.
   La donna scalciò nel vuoto, cercando di trovare il modo per posare i piedi sul pavimento.
   «Sì, sì, bene, ma ora per favore rimettimi giù!» borbottò lei, temendo di poter diventare ancora più magra, se Sallah avesse continuato ad abbracciarla.
   Finalmente, lui si decise a lasciarla andare e la poveretta poté tornare a respirare in piena libertà.
   «Adesso penso di dover andare» bofonchiò Sallah, gettando uno sguardo fuori dalla finestra. A giudicare dalla posizione del sole, ormai dovevano essere quasi le dieci del mattino.
   «Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare, prima?» domandò la cugina.
   Lo stomaco dello scavatore, udendo quelle parole, borbottò rumorosamente, ricordandogli che, quel giorno, non aveva nemmeno fatto la sua solita colazione di quattro portate.
   «Giusto uno spuntino» replicò. «Ma non vorrei approfittare della tua gentilezza… se è un disturbo…»
   Tuda ridacchiò e gli posò la mano sul braccio.
   «Ma no, figurati, non mi disturbi affatto» lo rassicurò. «E poi non mi capita tutti i giorni di avere a pranzo una… com’è che hai detto…? Ah, sì… Una leggiadra fanciulla!»
   Fece un passo all’indietro, osservandolo. Il velo che gli copriva il volto era scivolato un poco, rivelando i peli ispidi della sua barba.
   «Sono pronta a scommettere che la bellissima Sherazade non era affascinante quanto lo sei tu. Sei proprio una dolcissima ragazza rubacuori!»
   Sallah annuì, soddisfatto.
   «Sono proprio contento di sentirtelo dire!» tuonò. «La cosa importante, infatti, è non dare nell’occhio!»
   Si mosse e, per poco, non inciampò nel lembo della veste, rischiando di cadere e di travolgere anche la cugina. Tuda si scostò giusto in tempo per non essere abbattuta come un fuscello dal vento.
   «Se nei sei convinto tu, di non dare nell’occhio…» commentò, ilare, scuotendo la testa.
   Come a voler sottintendere di essere d’accordo con lei, il canarino cantò con ancora più vigore e allegria.


 

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Capitolo 5
*** Incontro ***


    5 - INCONTRO

    New York City, Stati Uniti d’America

      Nonostante la missione in Australia fosse stato un completo fallimento, il ciclo di conferenze era comunque andato molto bene, addirittura meglio del previsto. Il pubblico si era mostrato interessato, in quei sette giorni di incontri, e le lacune dovute alla mancanza degli ultimi ritrovamenti erano state argutamente riempite da Jones con il racconto dei momenti concitati del crollo e dell’incontro con gli aborigeni.
   Indy, però, era davvero contento che fosse finito, perché non ne poteva davvero più. L’insegnamento gli bastava: dover trascorrere ulteriore tempo a parlare dinnanzi a una platea gli sembrava troppo. Esprimersi in pubblico lo innervosiva, e quando lo faceva era costretto a mettere le mani in tasca per nasconderne il tremito. Preferiva di gran lunga passare il tempo fuori dall’Università in modi differenti da quello. Congedarsi per l’ultima volta da Paul Woods e da Tobias Hoffman, insomma, non gli aveva generato nessun tipo di tristezza.
   Ora, fermo sul marciapiede della Fifth Avenue, con i lembi del trench aperto che svolazzavano mossi dalla brezza primaverile, si stava guardando attorno alla ricerca di un taxi che lo riportasse al suo appartamento. Avrebbe trascorso l’ultima notte a New York e poi avrebbe fatto ritorno a casa sua, a Bedford, dove Marion lo aspettava.
   Un gruppo di ragazzini con i capelli lunghi e gli abiti dai colori sgargianti lo superò, cianciando ad alta voce di chissà quali frivolezze. Avevano fasce tra i capelli e le ragazze indossavano gonne immoralmente corte, che ondeggiavano a ogni passo lasciando intravedere le cosce. Uno di loro imbracciava una chitarra come se fosse stata un fucile. Jones scosse il capo. Ne aveva viste davvero tante, in vita sua, ma mai avrebbe creduto di dover assistere persino alla decadenza dei costumi!
   Individuato un tassista che guidava con prudenza in mezzo al traffico alla ricerca di un possibile passeggero, l’archeologo fece per alzare il braccio per richiamarne l’attenzione, quando si sentì chiamare in una maniera a cui non era molto abituato.
   «Zio Indy!»
   Voltatosi all’indietro, Indy vide venire verso di sé due persone che, a giudicare dall’aspetto, dovevano avere origini arabe. Il ragazzo, di circa trentacinque anni, leggermente sovrappeso, indossava un elegante completo marrone e aveva i baffi nerissimi, proprio come i capelli riccioli; la ragazza al suo fianco, anche lei sulla trentina ma più giovane rispetto a lui, portava con molta classe un tailleur grigio, mentre un velo di colore blu le copriva i capelli. All’archeologo, dopo il primo istante di smarrimento, non ci vollero che un paio di secondi per riconoscerli.
   «Moshti! Yasmin!» esclamò, allargando le braccia. «Ma che sorpresa!»
   I due ragazzi facevano parte della numerosa prole del suo vecchio amico Sallah, che con la moglie Fayah si era dato da fare nel tentativo di duplicare la popolazione del Cairo. Tutto si sarebbe potuto aspettare, meno di incontrare proprio loro, lì a New York.
   «Salve, zio Indy!» esclamò Moshti, afferrandolo e stritolandolo in un abbraccio la cui tecnica distruttiva doveva essergli stata insegnata dal padre. Quando lo lasciò andare, Indy fu certo di avere tre o quattro costole incrinate.
   Yasmin, più raffinata ed educata del fratello, si limitò a sollevarsi sulle punte dei piedi per potergli posare un delicato bacetto sulla guancia.
   «Che piacere rivedervi!» bofonchiò Indy, massaggiandosi il torace indolenzito. «Ma che ci fate qui? Mi stavate cercando?»
   Era più che certo, infatti, che i due ragazzi fossero lì per incontrare lui. Non credeva molto alle coincidenze, e la possibilità di incrociare due persone conosciute che abitavano dall’altra parte del mondo in una città di quasi quattro milioni di abitanti per puro caso gli sembrava la coincidenza più grossa di tutte.
   Un velo di tristezza e di preoccupazione scurì i visi dei due ragazzi.
   «Si tratta di papà» annunciò Moshti, abbassando la voce. «È scomparso.»

 
* * *

   L’appartamento, un tempo, era stato arredato secondo i dettami della moda più recente, con mobili e suppellettili all’ultimo grido. Solo che, da quando era stato ammobiliato, era ormai trascorso quasi un quarto di secolo e, quindi, tutto appariva piuttosto vecchio e sciupato. Oltretutto, lo scarso utilizzo dell’ambiente aveva impregnato ogni cosa di un persistente odore di chiuso e di polvere, che aleggiava nell’aria.
   Indy, in quella piccola casa in un grande palazzo di New York, aveva vissuto un breve ma intenso periodo con Marion, prima di andarsene e lasciargliela intestata. La sua futura moglie aveva continuato ad abitarci per ancora qualche anno, prima di trasferirsi a Chicago, ma non lo aveva mai venduto; così, da quando si erano sposati, poteva capitare che ci trascorressero qualche tempo ogni anno, specialmente se l’archeologo aveva qualche impegno accademico in città.
   In questo momento, a dire il vero, vi regnava un certo disordine. Jones, non più abituato alla vita da scapolo, durante la solitaria permanenza a New York non si era dato molto da fare in casa e aveva trascurato pulizie e altre faccende domestiche. Il lavello della cucina era colmo di piatti sporchi, la tovaglia coperta di briciole non era mai stata tolta dal tavolo, abiti e biancheria erano ammonticchiati alla rinfusa sulle sedie e sul divano. La valigia con gli abiti che aveva riportato dall’Australia sette giorni prima era appoggiata sul pavimento, aperta ma ancora da disfare.
   «Ehm… scusate il caos…» borbottò, precedendo all’interno i due figli di Sallah.
   Dopo aver appeso il cappello e il cappotto all’attaccapanni accanto alla porta, si avvicinò in fretta a un mucchio piuttosto consistente di biancheria e, afferratolo tra le mani, lo trasportò in camera da letto, scaricandolo senza troppe cerimonie sul letto. Tornato in soggiorno, trovò Yasmin e Moshti che si guardavano attorno leggermente spaesati.
   «Come sapevate dove trovarmi?» bofonchiò, sperando così di distrarli dal disordine che aveva provocato.
   Mentre Yasmin continuava a guardarsi attorno con una smorfia di palese raccapriccio, suo fratello si affrettò a rispondere.
   «Siamo stati prima alla tua casa nel Connecticut, ma la zia Marion ci ha detto che eri qui e che, se non ti avessimo trovato in casa, avremmo potuto provare a cercare al Metropolitan» spiegò.
   «Capisco» borbottò Indy.
   «Tu e la zia Marion non vi sarete mica separati, vero?» domandò all’improvviso Yasmin, con tono tagliente, lanciandogli una lunga occhiata.
   «Ma no, ma no, non ci penso nemmeno a separarmi da lei» rispose l’archeologo. Si guardò attorno e fece una risata. «Anche perché, come vedete, senza di lei non durerei sei mesi, prima di soccombere.» Scosse il capo. «No, no, si è trattato soltanto di una faccenda di lavoro, ma ora è finita e sto per tornare da lei.»
   Yasmin fece un lungo sospiro.
   «Gli uomini sono tutti uguali» sentenziò in un tono che non ammetteva recriminazioni. «Se non ci fossero le donne a badare a loro e a rimediare ai loro disastri, il mondo si tramuterebbe in una discarica invivibile.»
   Quindi, prima che Indy e suo fratello avessero potuto dire una sola parola, si sfilò la giacca del tailleur, si rimboccò le maniche della camicia e, entrata in cucina, cominciò a far scorrere l’acqua nel lavello per lavare i piatti.
   «Yasmin, davvero, non c’è bisogno di…» borbottò l’archeologo, a disagio, cercando di dissuaderla. «Stasera avrei provveduto a tutto io…»
   «Lasciala stare, zio Indy» sussurrò Moshti. «Quando si mette in testa qualcosa, è più cocciuta di un mulo.»
   «Guarda che ti ho sentito!» strillò la voce aspra della sorella.
   Il ragazzo si strinse nelle spalle e fece un sorrisetto. Indy gli fece cenno verso il tavolo e lo invitò a sedersi.
   «Allora» disse, sedendosi a sua volta. «Mi dicevate che Sallah è scomparso… ma in che senso? Cos’è accaduto?» Una ruga profonda gli solcò la fronte e un lampo di irrequietezza gli attraversò lo sguardo. «Devo preoccuparmi?»
   Moshti intrecciò le dita delle mani.
   «Ancora non lo so» ammise. «Anche se ci stiamo iniziando a preoccupare pure noi.»
   «Ma che è successo?» domandò allora l’archeologo.
   «Ovviamente, zio, tu sai che papà per un periodo è stato curatore del Museo del Cairo, su incarico prima di re Faruq e poi del presidente Nasser» disse.
   «Certo» rispose Indy, con un sorriso. «Un incarico che si è ampiamente meritato… ma, in che senso, lo è stato per un periodo? Ora non lo è più?» Si grattò il mento, confuso e spaesato da quella notizia inaspettata. «Questo proprio non lo sapevo…»
   «È stato sostituito, ma per un buon motivo e non certo per punizione o per demeriti» spiegò il ragazzo, con orgoglio. «Papà è stato infatti nominato sovrintendente del governo presso il grande cantiere che, sotto la guida dell’UNESCO, si sta occupando dello smontaggio e del trasferimento dei templi di Abu Simbel.»
   L’archeologo fece un cenno di comprensione.
   Era al corrente delle grandi opere in corso in Egitto. Da qualche anno, il governo di Nasser aveva chiesto aiuto all’Unione Sovietica per la costruzione di una diga sul Nilo, nei pressi di Assuan, in maniera da poter inondare una parte di deserto e aumentare la superficie coltivabile. La nuova costruzione, però, stava facendo sollevare le acque del fiume, che adesso minacciavano di sommergere per sempre i grandiosi templi rupestri fatti erigere da Ramses II a seguito della battaglia di Qadesh.
   I sovietici si erano dimostrati del tutto disinteressati alla faccenda, asserendo che la perdita dei monumenti sarebbe stato un nonnulla, in confronto alla grandiosità delle opere innalzate per il popolo. Nasser, in un primo momento, aveva dato loro ragione; poi, però, colpito dalle numerose voci di protesta che si erano innalzate da ogni parte e spaventato dall’idea di vedere scomparire una grande parte del patrimonio storico e culturale dell’Egitto – e, insieme a esso, anche una buona fetta di quei turisti su cui l’Egitto basava una parte consistente della propria economia – si era rivolto all’ONU perché intervenisse.
   La grande coalizione internazionale aveva proposto numerosi progetti, alcuni ben fatti, altri decisamente fantasiosi – Indy, per puro interesse, ne aveva visionati alcuni, e non aveva potuto fare a meno di mettersi a ridere quando aveva letto la proposta di lasciare che i templi venissero sommersi, per poi essere resi visitabili grazie a speciali tunnel subacquei. Alla fine, aveva prevalso la proposta di un gruppo di ingegneri svedesi di tagliare in numerosi blocchi i templi, trasportarli una sessantina di metri più in alto e rimontarli fuori dalla portata delle acque, per poi essere rivestiti da un sottile strato di vetroresina che li avrebbe preservati dall’erosione a cui andavano soggetti. Da quel che aveva letto sui giornali, i lavori erano iniziati già da qualche mese, e la faccenda si stava trasformando in una vera e propria corsa contro il tempo, dato che l’acqua continuava a innalzarsi.
   «Solo che…» proseguì Moshti, a disagio, «…da qualche tempo non si hanno più sue notizie. Ci ha spedito una lettera, in cui ci chiedeva di contattare te, zio Indy, e da quel giorno non si sa che fine abbia fatto. Al cantiere sono disorientati quanto noi…»
   «Contattare me?» ripeté l’archeologo, confuso.
   Il figlio di Sallah annuì e, infilata una mano nella tasca della giacca, ne estrasse la breve missiva che gli era stata recapitata. La porse a Jones che la prese e la lesse. Vide che portava il timbro di nove giorni prima. Sallah l’aveva spedita mentre lui era ancora in Australia.
   «Dice che c’è urgente bisogno di me e che voi sapete come fare per contattarlo…» riassunse, pensieroso.
   «Infatti» rispose il ragazzo, annuendo. «Il problema è che, invece, non abbiamo la più pallida idea di come fare a contattarlo. Abbiamo provato a chiamarlo al cantiere, per chiedergli una spiegazione, ma il suo assistente è ancora più spaesato di noi e non sa che fine abbia fatto. Dice che è andato ad Assuan per delle incombenze amministrative e, da quel giorno, nessuno lo ha più visto. Solo che, considerato tutto quello che c’è da fare al cantiere, nessuno ha avuto modo di approfondire troppo i motivi della sua inattesa assenza.»
   «Vi siete rivolti alla polizia?» domandò Indy.
   «Certamente» replicò acidamente Yasmin, tornando in salotto mentre si asciugava le mani con uno strofinaccio. «Ma quelli, figurarsi, non hanno saputo cavare un ragno dal buco. Certo, se la polizia fosse guidata da donne sarebbe un altro discorso, ma quelli sono tutti maschilisti.» Senza aggiungere altro, cominciò a raccogliere gli abiti sparpagliati in giro e a riordinarli in una pila composta.
   «Chi avrebbe mai detto che il buon vecchio Sallah avrebbe messo al mondo una femminista militante» ridacchiò l’archeologo, guadagnandone in cambio un’occhiataccia da parte della ragazza.
   «I poliziotti dicono che, probabilmente, papà è soltanto andato in ferie e si è dimenticato di dircelo» borbottò Moshti, con tono amaro. «È chiaro che non vogliono cercarlo. Noi, comunque, non gli abbiamo parlato della lettera in cui chiedeva di te, perché abbiamo intuito subito che qualcosa non andasse per il verso giusto. Non sapendo che altro fare, abbiamo deciso di dare retta a papà e rivolgerci a te, zio Indy.»
   L’archeologo si girò a guardare dalla finestra, osservando senza realmente vederli i grattacieli circostanti e riflettendo in fretta. In lontananza, il cielo era solcato dalla scia di condensazione di un aereo.
   Dalla breve lettera e dall’urgenza con cui Sallah si rivolgeva ai figli chiedendogli di chiamare lui, poteva comprendere che doveva esserci sotto qualcosa di importante. La presenza dei russi in quella regione, inoltre, lo preoccupava. Temeva che il suo vecchio amico si fosse cacciato in un qualche brutto guaio, anche se, per il momento, era impossibile sapere di che cosa si trattasse realmente. Il fatto stesso che la polizia si rifiutasse di provvedere a indagare, comunque, sembrava indicare che ci fossero in qualche maniera implicati i sovietici, di cui l’Egitto di Nasser si era proclamato grande amico.
   Di qualsiasi cosa si fosse trattato, però, lui non si sarebbe tirato indietro: non lo avrebbe abbandonato. Sallah era venuto in suo aiuto innumerevoli volte. Adesso era il momento di rendergli il favore.
   «Be’, allora che aspettiamo?» borbottò, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla valigia che non aveva ancora disfatto. La chiuse con uno scatto. «Approfittando del fatto che il bagaglio sia già pronto, direi che non c’è bisogno di perdere altro tempo. Lasciatemi giusto il tempo di fare una telefonata a casa…»
   Ripensandoci, intuì che se avesse parlato direttamente con Marion lei si sarebbe infuriata, sapendo che partiva di nuovo, anziché fare rientro a casa. Non era proprio il caso di affrontare le ire funeste della signora Jones.
   «Anzi, no, meglio mandare un biglietto.» Ci rifletté ancora un istante, trovando una soluzione ancora più geniale, che gli avrebbe permesso di sottrarsi del tutto alle grinfie di Marion. «Ma no, mi sa che spedirò una cartolina direttamente da Abu Simbel.»
   Sorrise in maniera incoraggiante ai due figli di Sallah.
   «Partiamo per l’Egitto e andiamo a cercare vostro padre.»


 

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Capitolo 6
*** Il grande cantiere ***


    6 - IL GRANDE CANTIERE

    Abu Simbel, Egitto

   Tutta la zona brulicava di operai intenti a smuovere pietre e a movimentare terra; nell’aria, satura dell’odore del gasolio dei tubi di scappamento, risuonavano i rumori dei bulldozer e dei camion in movimento, che si allontanavano carichi di detriti. Le gru ruotavano incessantemente con un forte ronzio, trasferendo materiale da una parte all’altra. Voci si chiamavano dappertutto, martelli picchiavano, seghe entravano in funzione. Dove un tempo si erano svolte lente processioni di sacerdoti, si affaccendavano adesso in fretta muratori e tagliatori di marmo, dove si erano posate le barche sacre che celavano la statua di un dio si innalzavano baracche prefabbricate al cui interno gli ingegneri fumavano aspre sigarette studiando carte e discutendo concitati con gli archeologi.
   L’austera e sacrale pace che, per lunghi e inossidabili millenni, aveva vegliato i colossi di Ramses II, era scomparsa. Adesso, sotto le antiche volte del tempio e sulle impalcature che rivestivano le colossali statue, si udivano passi e voci di molti uomini indaffarati al lavoro. Se non fosse stato per l’anacronistico fetore del diesel e per gli stranieri rumori dei mezzi mossi dall’elettricità, si sarebbe quasi potuto credere di aver compiuto un viaggio all’indietro nel tempo, tornando all’epoca in cui il grande faraone aveva ordinato di scolpire le montagne della Nubia per eternare la sua gloria e la sua vittoria contro il nemico.
   Indy, le mani infilate in tasca e il volto ombreggiato dalla tesa del cappello, osservava il viavai di mezzi e di operai, ripensando con nostalgia a quanto fosse stata diversa Abu Simbel, quando lui l’aveva conosciuta per la prima volta, in un tempo che, a giudicare da ciò che vedeva attorno a sé, sembrava ancora più lontano di quanto realmente fosse. La sua visita era coincisa con il suo primo viaggio in Egitto, nel 1908.
   All’epoca, il grande tempio era tornato alla luce da meno di un secolo, da quando, cioè, Burckhardt lo aveva riscoperto, nel 1813, e da quando Belzoni, eliminando una parte della sabbia in cui era quasi completamente sommerso, vi era penetrato per la prima volta, nel 1817.
   Nel momento stesso in cui i suoi occhi di bambino si erano posati su quei visi ieratici eppure sereni scolpiti nella roccia, con le gambe di una delle statue che ancora affondavano nella sabbia, il piccolo Indy si era sentito invadere da un’energia misteriosa e antichissima, che lo aveva afferrato allo stomaco e non lo aveva mai più abbandonato.
   Quel luogo, nei ricordi della sua infanzia, era ancora immerso nel silenzio quasi totale, se non fosse stato per i richiami di un falco che volteggiava alto nel cielo tinto di un blu che non aveva paragoni nel mondo intero. Non era difficile comprendere perché quel tempio dalla facciata meravigliosa, un incanto a occhi aperti, si trovasse lì e non altrove. Chiunque, risalendo il Nilo dal meridione, provenendo dal cuore selvaggio dell’Africa più nera, avrebbe visto quei colossi emergere dalla roccia alle porte dell’Egitto, comprendendo così di stare penetrando in una terra cara agli dèi e da essi stessi governata. Chi altro, se non un dio, avrebbe infatti potuto essere così imponente e forte da trasformarsi in un monumentale essere fatto di pietra?
   «Ramses II fu uno dei più importanti faraoni della storia dell’Egitto antico» aveva detto suo padre, fermo accanto a lui, sussurrando come se non osasse turbare la sacralità di quel luogo. «Non a caso, noi lo ricordiamo come Ramses il Grande. La sua gloria ha valicato i secoli e i millenni e ancora oggi non possiamo fare altro che inchinarci dinnanzi alla sua possanza.»
   Pur non trovando nessuna parola da poter dire, Junior aveva annuito, dando ragione a suo padre. Pochi giorni prima era stato nella Valle dei Re, poi lui e Senior avevano proseguito il viaggio lungo il Nilo, giungendo fino all’antica Nubia. Ora quei colossi lo infiammavano con la loro presenza, facendogli comprendere quale grandiosa vivacità avesse agito nei cuori degli uomini del passato.
   Il silenzio lo avvolgeva, l’antica sapienza degli egizi lo riempiva, le loro opere meravigliose gli facevano traboccare il cuore. Quel fascino lo stava raggiungendo immutato, parlandogli con voce alta e tonante attraverso il fluire costante delle epoche. Si sentiva piccolo, schiacciato da quell’immensità, proprio come dovevano essersi sentiti gli antichi nubiani dinnanzi a tanto splendore. Eppure non ne aveva paura, bensì si sentiva attratto verso di essa; un’attrazione che non lo avrebbe abbandonato mai più.
   Quello era davvero il luogo in cui si era realizzata la pace dei secoli, l’armonia dei millenni, l’immortalità della grandezza umana scolpita nell’arenaria.
   Ora era tutto molto diverso da come ricordava di averlo visto in quella prima occasione e nelle sue visite successive, l’ultima delle quali risaliva alla primavera del ’58, quando lui e Marion si erano concessi un lungo – e, ovviamente, come si addiceva a due come loro, avventuroso e irto di situazioni inattese – viaggio di nozze. Non riuscì a trattenere un sorriso nel rammentare il lungo bacio che lui e la moglie, approfittando di un momento di solitudine, si erano scambiati proprio dinnanzi all’ingresso del tempio minore, vegliati dallo sguardo dolce e innamorato di Nefertari. Era come se l’antica sposa del faraone, sorridendo dal passato, avesse contribuito a sacralizzare la loro unione.
   Adesso gli uomini non chinavano il capo dinnanzi alla grandezza e alla potenza del faraone, timorosi di compiere un gesto sbagliato; al contrario, si muovevano veloci e indaffarati al suo cospetto, in una corsa contro il tempo, nel tentativo di salvare quegli splendidi colossi di pietra dalla distruzione a cui li avrebbe condannati quella medesima acqua che, per oltre tremila anni, era scorsa placida dinnanzi ai loro occhi inamovibili. Gli imponenti templi rupestri dedicati a Ramses II e alla sua grande sposa reale Nefertari si accingevano a essere smantellati blocco su blocco, per essere messi in salvo e venire così consegnati, ancora una volta, alla gloria luminosa dell’eternità.
   «Che razza di casino e di disordine» commentò Yasmin, affiancandosi all’archeologo, facendo vagare lo sguardo su tutto il cantiere. «Si vede che manca la mano di una donna, in questa faccenda.»
   «Ricordati che non siamo qui per mettere in ordine, ma solo per scoprire che fine abbia fatto papà» le rammentò Moshti, fermo sull’altro lato di Indy. «Anzi, continuo a ribadire che questa è una faccenda per soli uomini e che tu non saresti dovuta ven…» Un’occhiataccia raggelante della sorella lo costrinse a interrompersi.
   Erano giunti al Cairo il giorno prima. Dopo una breve sosta a casa di Sallah, dove si erano accertati che dello scavatore non ci fosse ancora nessuna notizia, erano partiti in aeroplano per Abu Simbel, dove erano giunti da poche ore. Moshti e Yasmin avevano insistito per accompagnare Indy e per non lasciarlo da solo.
   «D’accordo» aveva accettato l’archeologo, cedendo alle loro insistenze. «Però occhi aperti, mi raccomando. Finché non scopriamo che cosa sia accaduto, dovremo stare molto attenti a come ci muoveremo. Questa faccenda, ve lo confesso, mi inquieta parecchio.»
   Adesso che erano giunti al cantiere, però, Indy cominciava a rendersi conto che l’impresa di trovare Sallah si sarebbe rivelata ancora più complessa del previsto. C’erano centinaia di persone, in quel luogo, e con la confusione che regnava non sarebbe stato semplice riuscire a raccogliere indizi utili per scoprire che cosa fosse successo realmente.
   Distogliendo lo sguardo dal tempio maggiore, l’archeologo accennò con la testa a una delle baracche prefabbricate dove avevano sede gli uffici.
   «Venite» disse. «Proviamo almeno a trovare l’assistente di vostro padre.»

 
* * *

   «Ne siete sicuri?» sbottò il colonnello Volkov, versandosi una generosa dose di vodka ghiacciata nel bicchiere.
   Arcigno, calvo, il volto pallido e spigoloso, magro e nervoso, Sasha Volkov era la determinazione in persona. Quando riceveva un incarico lo portava a termine a ogni costo, eliminando qualsiasi ostacolo si frapponesse tra lui e il risultato finale. E agiva con tanta più determinazione da quanto più in alto arrivavano gli ordini ricevuti. E, siccome in quel caso gli ordini arrivavano direttamente dalla scrivania più importante di tutto il Cremlino, non avrebbe tollerato nessun disguido.
   Svuotò il un sorso solo il bicchiere e fece scivolare gli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio sui due agenti del KGB in piedi di fronte a lui, immobili dall’altro lato dell’improvvisata scrivania ottenuta da un tavolino da campo.
   «Sì, compagno colonnello» replicò il più alto in grado dei due. «Non abbiamo nessun dubbio: il professor Jones è giunto al cantiere. Abbiamo controllato più volte i nostri fascicoli e ci siamo fatti inviare in maniera rapidissima un rapporto dettagliato da Mosca. È proprio lui.»
   «Maledizione!» sbraitò Volkov, colpendo con un pugno il ripiano della scrivania e facendo rovesciare il portapenne. «Sono certo che Jones non sia coinvolto in nessun modo nella missione dell’UNESCO! Quel guastafeste deve avere subodorato qualcosa, non c’è altra spiegazione! Ancora una volta, si sta mettendo di mezzo per intralciare i nostri piani!»
   «Questo non è esattamente il nostro parere» ammise l’agente, cercando di mantenere il sangue freddo. «Abbiamo controllato tutti i membri della missione. Tra di loro, come ha detto lei, Jones non appare. Tuttavia, il supervisore incaricato dal governo egiziano è un suo vecchio amico, che risulta scomparso nel nulla, e l’americano è giunto ad Abu Simbel in compagnia di due figli di quel funzionario. Forse, è per quel motivo che Jones si trova qui, e non ha nulla a che vedere con quello che abbiamo in mente di fare.»
   Volkov si grattò il mento, facendo ordine nei propri pensieri.
   «Può darsi, effettivamente, che sia come dite voi» borbottò. «Ma non commettete l’errore di scordare che un uomo, ad Assuan, è stato sorpreso mentre ascoltava i nostri discorsi, e non è più stato acciuffato per colpa della vostra incapacità. Chi ci dice che non fosse proprio il funzionario scomparso? Potrebbe aver scoperto la verità e aver avvertito Jones!»
   I due agenti si scambiarono una rapida occhiata, interdetti e nervosi. Aprirono la bocca come per replicare qualcosa, ma poi preferirono non parlare.
   Il colonnello si versò un altro bicchiere di vodka, ma questa volta non lo bevve.
   «Nondimeno, se anche Jones fosse qui per ben altri motivi, non possiamo fingere di ignorare la sua presenza ad Abu Simbel proprio mentre ci apprestiamo a condurre a termine la nostra importante ricerca» disse. «È necessario agire al più presto contro di lui. Non dimentichiamo, peraltro, che Indiana Jones è un nemico dichiarato dell’Unione Sovietica e che, sette anni or sono, ha vanificato i sforzi dell’eminente e sempre compianto colonnello Spalko. Per quello che ci è dato sapere, potrebbe essere lui stesso il responsabile della morte del colonnello, il cui corpo non è mai stato recuperato. In un caso o nell’altro, non può continuare a restare impunito. Bisogna darsi da fare: quell’americano deve essere eliminato.» Si sporse in avanti, fissando i due agenti del KGB. «Ovviamente, dovrà sembrare un incidente. Un’automobile che gli piomba contro, un carico che si stacca e lo schiaccia, una zuffa tra indigeni… quello che volete voi, purché nessuno possa compiere un collegamento con noi. La sua morte non dovrà essere in nessun modo imputata alla Russia. Anche se abbiamo tutto l’appoggio del governo egiziano, non possiamo dimenticare di avere gli occhi del mondo intero puntati addosso.»
   «Lasci fare a noi, compagno colonnello!» rassicurò l’agente, irrigidendosi nel saluto militare.
   Il colonnello li squadrò entrambi con freddo disprezzo.
   «Vi siete già fatti sfuggire lo spione ad Assuan. Non deludetemi una seconda volta, perché non vi sarà concessa una terza possibilità.» Svuotò un’altra volta il bicchiere di vodka e soggiunse: «Se fallite, finirete i vostri giorni in un campo di detenzione in Siberia, ve lo assicuro.»

 
* * *

   L’assistente di Sallah era un piccoletto di nome Salim Fahmy. Un paio di enormi e spessi occhiali in bilico sul naso gli conferivano una discreta somiglianza con una talpa, meglio sottolineata dall’enorme paio di baffoni neri che si allungavano verso gli angoli della bocca, da dove cadevano verso il mento. Sedeva dietro a una scrivania ingombra di alte pile di carte di vario genere e le pesanti occhiaie che gli ombreggiavano lo sguardo denotavano quanto poco avesse riposato, in quelle ultime settimane. Sudava abbondantemente, nonostante avesse slacciato il colletto della camicia beige, perché all’interno del soffocante prefabbricato faceva un caldo da scoppiare.
   «Non ho la più pallida idea di che cosa sia accaduto al signor el-Kahir» annunciò in tono sbrigativo, dopo aver ascoltato le spiegazioni di Indy. Come se la cosa non lo riguardasse, afferrò un foglio e cominciò a leggerlo.
   L’archeologo, che era già in un bagno di sudore a causa della calura insopportabile dell’angusto ufficio colmo di schedari dove non circolava un filo d’aria, lo fissò torvo, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Ai suoi lati, appena un passo più indietro, Moshti e Yasmin erano altrettanto accaldati, oltre che sconcertati da quell’atteggiamento sbrigativo.
   «Ma come, il responsabile del cantiere scompare nel nulla e lei non se ne cura in nessun modo?» sbottò Jones.
   Salim scrollò le spalle, senza staccare gli occhi dal foglio.
   «Innanzitutto, il signor el-Kahir non è responsabile del cantiere, bensì soltanto un supervisore nominato dal governo» precisò. «Inoltre, scomparendo in quel modo, ha fatto cadere su di me, che già ho mille occupazioni, anche tutte le sue incombenze.»
   «E il fatto che nostro padre sia scomparso non le ha acceso nessun campanello d’allarme?!» quasi urlò Yasmin, tremando di rabbia. Il fratello allungò una mano e gliela posò sul braccio, per invitarla a restare calma.
   Il funzionario non la degnò di uno sguardo, né si accinse a rispondere, come se non l’avesse nemmeno sentita.
   «Allora?» lo incitò Indy, con tono duro. «Le è stata fatta una domanda. Vuole rispondere o no?»
   Salim si strinse un’altra volta nelle spalle.
   «Io non parlo con le donne. Anzi, non so proprio perché ve ne siate portati dietro una, anziché lasciarla a casa sua, in cucina, nell’unico posto in cui dovrebbe stare. Io sono troppo impegnato per perdere tempo con voi e…»
   Con uno scatto fulmineo, estratte le mani dalle tasche, Indy si chinò in avanti e, afferrato l’ometto per la camicia, lo strappò di peso dalla sedia, trascinandolo sopra la scrivania in un tramestio di carte e penne che finirono sul pavimento alla rinfusa. Tenendolo sollevato dal pavimento, lo sbatté con forza contro una parete e lo fulminò con lo sguardo.
   «Stammi bene a sentire, razza di tricheco puzzolente» sibilò, fissandolo negli occhi. «O mi dici quello che sai, oppure io ti faccio pentire amaramente di essere stato tu, a non rimanertene in casa tua. Mi hai capito?!»
   Piagnucolando per lo sconcerto e il terrore, Salim farfugliò qualcosa di incomprensibile.
   «Mi hai capito?!» ripeté Indy, sbattendolo di nuovo contro la parete.
   Il funzionario annuì, spaventato, ma non disse una parola.
   «Allora?» lo incalzò l’americano.
   Capendo la malaparata, finalmente Salim si decise a dire ciò che sapeva. La sua voce era diventata acuta e tremebonda.
   «Il signor… il signor el-Kahir era andato ad Assuan per sbrigare alcune faccende. Si… si era fermato fuori per la notte, in un albergo… sarebbe dovuto tornare per il mezzogiorno, ma… non avendo fatto rientro, il giorno dopo ho provato a cercarlo per telefono… e l’albergatore mi ha detto che era uscito il mattino precedente per una passeggiata… e non aveva più fatto ritorno… il suo bagaglio non è stato toccato…» Si interruppe, ansante.
   Indy gli fece scivolare le dita attorno al collo, minacciando di strozzarlo. Compresa l’antifona, Salim proseguì.
   «Allora… io… ho chiamato al ministero… per sapere… come comportarmi… mi… mi hanno detto di… andare avanti come al solito… che… che… che avrebbero pensato a tutto… loro…» Piagnucolò qualcosa e si lamentò per un dolore alla schiena, prima di aggiungere: «È la verità, non so altro!»
   L’archeologo lo fissò in cagnesco ancora per qualche istante. Infine, persuasosi che quell’omiciattolo fosse sul serio all’oscuro di ogni cosa, lo lasciò andare, facendolo cadere sul pavimento. Salim restò fermo qualche istante, massaggiandosi le terga indolenzite, poi con uno scatto improvviso si alzò da terra e si slanciò verso la porta.
   «Aiuto…!» provò a gridare.
   Non riuscì nemmeno a sfiorare la maniglia, perché le dita di Yasmin gli si strinsero attorno al braccio, trattenendolo. Sbilanciato all’indietro, l’ometto finì di nuovo tra le grinfie di Indy che, sollevatolo senza sforzo, lo scagliò oltre la scrivania, mandandolo a rovesciarsi contro la sedia. Ancora una volta, il funzionario tentò di alzarsi e di darsi alla fuga, ma l’archeologo gli fu immediatamente addosso e, con un pugno sulla testa, lo mise al tappeto.
   «Questo dormirà per almeno mezz’ora» bofonchiò, risistemandosi il giubbotto di pelle. Si rivolse con un sogghigno ai due figli di Sallah. «Acqua in bocca, mi raccomando. Se ce lo domandano, noi qui dentro non ci siamo mai entrati, e se quel gallinaccio prova ad andare in giro a starnazzare qualcosa, siamo tutti d’accordo di dovergli dare del bugiardo.»
   «Non preoccuparti, zio Indy» lo rassicurò Yasmin, con un sorriso complice.
   Moshti, invece, si tormentò i baffi con nervosismo.
   «Purtroppo non ci ha detto nulla che non sapessimo già» borbottò. «Che fosse scomparso ad Assuan già lo sapevamo.»
   L’archeologo si passò una mano sulla guancia, pensieroso. Era già ispida di barba.
   «Però ci ha confermato che, il governo, in questa faccenda non vuole sbilanciarsi troppo» disse. «Il che conferma i miei timori che, la sparizione di Sallah, possa in qualche maniera essere collegata ai sovietici che ci sono in questa zona.»
   Aprì la porta e fece un cenno con la testa verso l’esterno del prefabbricato.
   «Venite, usciamo da qui. Si scoppia dal caldo. Vediamo se, all’aria aperta, riusciamo a farci venire qualche buona idea.»
   Indy cercò di non lasciare intendere ai due figli di Sallah di essere molto preoccupato. Aveva sperato di poter cavare qualcosa di interessante da quel funzionario, che magari avrebbe in qualche modo potuto orientarli sulla pista giusta. Esaurite le poche informazioni che era riuscito a strappargli, e che non aggiungevano assolutamente nulla a ciò che più sapeva, non aveva la più pallida idea di che altro fare.
   Purtroppo, Indiana Jones era un uomo abituato ad agire partendo dai fatti. Non era Sherlock Holmes, in grado di ricostruire le ultime mosse di una persona scomparsa. Pur trovandosi nella luce calda e abbagliante dell’Egitto meridionale, doveva ammettere con se stesso di star brancolando nel buio.
   Stava per dire qualcosa, quando si sentì chiamare da una voce sconosciuta.
   «Professor Jones! Da questa parte, presto!»


 

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Capitolo 7
*** Battaglia all’ombra dei templi ***


    7 - BATTAGLIA ALL’OMBRA DEI TEMPLI

   Indy e i due figli di Sallah si voltarono nella direzione da cui era giunta la voce. A chiamarli era stato un uomo avvolto in un ampio caffettano variopinto, con un turbante bianco avvolto attorno alla testa. Non poterono riconoscerne i lineamenti, perché una parte del lembo del turbante gli scendeva lungo la guancia sinistra e il sole alto e accecante faceva il resto. L’archeologo, comunque, era certo di non averlo mai incontrato in precedenza.
   Quell’uomo stava facendo ampi e nervosi gesti, come invitandoli a seguirlo. Sembrava che avesse parecchia fretta. Ogni tanto si lanciava tutto attorno delle occhiate furtive, come ad accertarsi che nessuno avesse notato la sua presenza.
   «Che succede…?» mormorò Yasmin, turbata.
   «Speriamo che abbia buone notizie per noi…» borbottò l’archeologo, avviandosi subito di buon passo verso l’uomo.
   Non sapendo che cosa fare per risolvere la questione della scomparsa di Sallah, era pronto a tutto, anche ad affidarsi al primo venuto. Naturalmente, sperando che quel tizio avesse davvero a che fare con il vero motivo della loro presenza e non volesse invece qualcos’altro. La possibilità che fosse un furbacchione intenzionato a rifilargli qualche pezzo di bigiotteria spacciandolo per un autentico reperto dell’epoca dei faraoni era sempre molto alta.
   Quello, anziché rimanere fermo ad aspettarli, si avviò immediatamente attraverso il cantiere, allontanandosi dalla zona in cui si trovavano i prefabbricati adibiti a uffici. Indy intuì che volesse mostrargli – o, magari, dirgli – qualcosa, ma che allo stesso tempo non intendesse farsi vedere in sua compagnia dagli altri operai. Chissà, forse recava sul serio qualche importante notizia utile a scoprire che cosa fosse realmente successo a Sallah.
   Mantenendo sempre la stessa distanza, l’uomo li guidò tra bulldozer e furgoni, aggirando mucchi di terra e cataste di assi e di pietre. Si fecero largo tra gruppi di operai sudati e affaticati, ingegneri indaffarati e archeologi che ruggivano come leoni ogni volta che si accorgevano che qualcosa correva il rischio di essere danneggiato. Erano tutti talmente assorbiti dal lavoro che nessuno badò a quei quattro estranei che si aggiravano per il cantiere.
   Lasciato dietro di sé il tempio maggiore, l’uomo misterioso si incamminò verso il secondo tempio di Abu Simbel, quello dedicato alla regina Nefertari. Tuttavia, non si fermò nemmeno dinnanzi alla facciata di questo edificio, proseguendo a costeggiare la parete rocciosa con passo rapido. Il Nilo, placido, scorreva a pochi metri di distanza sull’altro lato.
   Giunto nei pressi della porta di una piccola cappella che si  trovava all’estremità settentrionale del sito, finalmente si arrestò, girandosi guardingo per accertarsi che l’archeologo americano e i due ragazzi lo avessero seguito fin lì.
   «Ehi» disse Indy, accostandogli, leggermente ansante per la veloce camminata. «Si può sapere che cosa…?»
   Le parole gli morirono in bocca. Dalla cappella sbucarono all’improvviso cinque uomini, vestiti anche loro con lunghi abiti, ma armati di affilate spade damascate, che gli puntarono contro con movimenti rapidi e decisi. Sorpreso, l’archeologo mosse un passo all’indietro.
   «Sono anche dietro di noi!» gridò la voce spaventata di Moshti.
   Era vero. Dal tempio minore, erano appena fuoriusciti altri dieci uomini armati, che si erano affrettati a sbarrare la via per la ritirata in direzione del cantiere. Adesso, l’archeologo e i due figli di Sallah erano circondati da ogni lato, con la parete di roccia da una parte e il fiume dall’altra. Erano in trappola.
   Senza perdere tempo in chiacchiere, gli uomini armati si avventarono contro di loro.
   Indy, però, era pronto. Aveva troppa esperienza in quel genere di cose per lasciarsi cogliere impreparato da una simile situazione.
   Afferrata prontamente la frusta, la saettò contro l’avversario che aveva di fronte, avvolgendogliela con precisione attorno al braccio e strappandogli la spada. Con la mano sinistra chiusa a pugno, invece, colpì al viso un uomo che si era fatto pericolosamente vicino, fratturandogli il naso.
   Moshti, intanto, aveva spinto via la sorella per cercare di metterla al sicuro, ma si era trovato alle prese con due avversari evidentemente decisi ad affettarlo. Mentre cercava di tenersi fuori portata dalle loro spade, vide Yasmin balzare al collo di un altro dei loro aggressori e infilargli le dita dalle lunghe unghie negli occhi, facendolo ululare di dolore.
   Un altro uomo si avventò intanto contro Indy. L’archeologo, lesto e rapido, dopo essersi abbassato per evitare la sua staffilata, gli girò attorno e, afferratogli il braccio, cominciò a muoverlo velocemente per parare con la spada che quello ancora stringeva i colpi di un ennesimo anniversario, utilizzando nel contempo il malcapitato come scudo umano.
   Quando una lama affilata penetrò nel ventre del suo improvvisato riparo, Jones lo lasciò andare senza nessun rimpianto e cominciò a schioccare rapidamente in tutte le direzioni la frusta, costringendo i suoi nemici a mantenersi a distanza e strappando loro acute grida di dolore ogni volta che ne colpiva uno. Non poté fare a meno di trattenere un sogghigno quando il nerbo ne raggiunge uno al volto, facendogli emettere un urlo simile a quello di un maiale scannato.
   Moshti, nel frattempo, riuscito a sottrarsi ai due che stavano cercando di ucciderlo, aveva recuperato la spada sfuggita di mano all’uomo a cui sua sorella aveva conficcato le unghie negli occhi e se ne stava servendo per duellare con uno spadaccino piuttosto insistente. Per sua fortuna, da ragazzino, aveva preso qualche lezione con le armi da taglio – suo padre sosteneva che non si poteva mai sapere che cosa fosse utile nella vita e che cosa no – e adesso doveva ammettere che, quei vecchi ricordi, gli stavano tornando utili. Nondimeno, mentre le scintille prodotte dallo scontro delle lame volavano ovunque a ogni stoccata, si rendeva conto che non sarebbe riuscito a resistere a lungo. Era troppo abituato a condurre una vita sedentaria al Cairo.
   Uno degli assalitori, con la spada sollevata sopra la testa, si avventò urlando contro Yasmin, deciso a decapitarla con un colpo solo. Senza lasciarsi affatto impressionare da quell’attacco, la ragazza si chinò a gli fece lo sgambetto, costringendolo a perdere l’equilibrio. Sbilanciato ma incapace di contenere lo slancio, l’uomo cadde in avanti, finendo proprio sopra la sua spada, che gli si conficcò nel torace.
   Anziché farsi impressionare da tutto quel sangue, la giovane rivoltò l’uomo e, strappatagli la spada di dosso, la lanciò verso un altro avversario che si stava facendo pericolosamente vicino, trapassandogli la gola con estrema maestria.
   «Yasmin, vattene da qui, è pericoloso!» sbuffò Moshti, ansante, ormai quasi incapace di tenere a bada i colpi dell’uomo con cui stava duellando.
   «Bada un po’ agli affari tuoi!» replicò lei, piccata, gettandosi contro un altro nemico e rovesciandolo a terra con una pesante spallata nello sterno. Un secondo avversario cercò di colpirla, ma lei – mentre con le braccia teneva immobilizzato l’uomo sotto di sé – riuscì a raggiungerlo con una pedata nello stinco, facendolo capitombolare all’indietro.
   Contro Indy, intanto, si stavano avventando la maggior parte degli avversari, evidentemente decisi a dare a lui la priorità del biglietto per l’inferno. Da quel poco che l’archeologo poteva intuire, qualcuno si stava dando una gran pena per toglierlo di mezzo. Non che fosse una novità. Ormai non sentiva quasi più il braccio a furia di saettare la frusta con forza, e il sinistro – in cui aveva impugnato una spada – iniziava a sua volta a essere piuttosto affaticato. Del resto, l’età avanzava e non poteva più illudersi di continuare a combattere senza sosta e instancabilmente come faceva quando era più giovane.
   «Oh, al diavolo le buone maniere!» grugnì.
   Con una mossa precisa, lanciò la spada che, rotolando a mezz’aria, andò a infiggersi nello stomaco di uno degli attaccanti. Poi passò la frusta nella mano sinistra e, con la destra, estrasse il revolver. Mentre lo faceva, gli avversari, credendo che si stesse arrendendo, ne approfittarono per lanciarsi finalmente all’assalto finale, mulinando le lame con tutta l’intenzione di dargli il colpo di grazia.
   Indy sparò, colpendo con precisione il più vicino, che stramazzò al suolo senza un grido. Il secondo proiettile lo conficcò a bruciapelo nei polmoni di un uomo che si accingeva a conficcargli da qualche parte la spada. Quello gli crollò addosso, rischiando di sbilanciarlo, ma Jones riuscì a resistere e, dopo esserselo tolto di mezzo con una manata, sparò un terzo colpo, colpendo dritto al cuore un altro nemico.
   Poiché le cose si stavano mettendo piuttosto male, in una maniera che evidentemente non avevano previsto, gli altri cercarono di ritirarsi, ma l’archeologo non mostrò nessuna pietà e continuò a sparare i tre colpi che gli restavano nel caricatore, colpendo alla schiena altrettanti avversari, che caddero sulla sabbia, morti.
   In quel momento, distratto dagli spari, l’uomo che stava duellando con Moshti si voltò istintivamente a guardare che cosa stesse accadendo, e il ragazzo ne approfittò per colpirlo con un lungo fendente, che lo aprì letteralmente dal basso ventre fino al petto.
   Yasmin, invece, era ancora stesa a terra, a rotolarsi con un nemico, ma quello, più possente di lei, stava riuscendo ad avere il sopravvento. Le aveva appena stretto le dita attorno alla gola per strozzarla quando, all’improvviso, un’ombra imponente torreggiò sopra di loro.
   Una grossa e sgraziata donna avvolta in un’ampia e svolazzante veste era appena comparsa al loro fianco, arrivando da chissà dove. La donna afferrò l’uomo, mettendo in mostra due muscolose braccia irsute, e lo sollevò di peso, scagliandolo poi, senza mostrare nessuna difficoltà, nel Nilo che scorreva a poca distanza. Il disgraziato boccheggiò, con l’acqua che gli impregnava l’ampio mantello, e fu portato via dalla corrente.
   Yasmin cercò di rialzarsi, ma non ebbe il tempo di rivolgere nemmeno un ringraziamento alla sua misteriosa salvatrice, perché quest’ultima fu assalita alle spalle da due nemici. Con un ruggito animalesco, la donna si voltò e sferrò due rapidi e potentissimi pugni agli uomini, mandandoli al tappeto. Un terzo cercò di raggiungerla, ma Yasmin si protese in avanti e lo afferrò per le caviglie, facendolo cadere e mandandolo a sbattere di faccia sul terreno. Prima che avesse avuto il tempo di riprendersi, la ragazza gli gettò una manciata di sabbia negli occhi, strappandogli un grido di dolore.
   Indy, intanto, rimasto senza colpi, adoperò il calcio del revolver per spaccare la testa all’uomo più vicino. Quindi, rimessa mano alla frusta, la utilizzò per colpire al viso un altro nemico.
   Infine, vista la malaparata e la brutta piega che aveva preso quella situazione che all’inizio era parsa tanto vantaggiosa per loro, feriti e sconfitti, i pochi che ancora riuscivano a mantenersi in piedi si dileguarono in fretta, lanciando sorde imprecazioni e facendo perdere in fretta le proprie tracce in mezzo al disordine del cantiere. A causa dei rumori continui che venivano da quella parte, sembrava che nessuno dei lavoratori si fosse reso conto di quanto era successo a poche decine di metri di distanza.
   Moshti, sudato e stanco, nonché un po’ vergognoso del fatto che gli aggressori abbattuti da lui fossero in numero nettamente inferiore rispetto a quelli messi al tappeto da Yasmin, aiutò la sorella a rialzarsi. Entrambi si voltarono verso la robusta donna che era corsa in loro soccorso, aiutandoli a rovesciare una situazione che si stava facendo davvero complicata.
   Indy, infilato di nuovo il revolver nella fondina, si avvicinò a passi lenti, riavvolgendo la frusta. Un sogghigno gli si allargò sul viso sudato quando notò la grossa donna, che stava flettendo le dita delle mani per distendere le nocche indolenzite dai pugni che aveva tirato. Il velo le era scivolato, mettendo in mostra il suo viso.
   «Mi sono sempre piaciute le donne in carne» commentò, sarcastico. «Ma tu hai un po’ troppa barba, per poterti considerare il mio tipo.»
   Sallah sorrise con fare complice, prima di drappeggiarsi di nuovo il lungo velo davanti al volto.


 

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Capitolo 8
*** Il carro d’oro ***


    8 - IL CARRO D’ORO

   «Papà!» esclamò Yasmin, riconoscendolo. «Sei davvero tu?!»
   Moshti assunse una sfumatura color porpora per l’imbarazzo.
   «Ma… ma che cosa ci fai vestito da donna?» domandò, incredulo.
   Sallah si lanciò uno sguardo attorno, osservando tutti gli uomini feriti o morti stesi al suolo. Si rivolse poi a Indy, che stava ancora sogghignando, facendogli un cenno veloce.
   «Le spiegazioni a dopo» borbottò. «Ora penso che sia meglio toglierci da qui. Venite, seguitemi…!»
   Camminando in fretta, lo scavatore guidò l’amico e i suoi figli di nuovo verso il cantiere.
   Una volta giunti qui, Sallah – dopo essersi accertato di essere ben coperto dal velo – prese con decisione la direzione che conduceva verso l’uscita, facendosi largo tra gli operai indaffarati e seguendo la pista in terra battuta in salita che era stata costruita per permettere il viavai dei mezzi.
   La stradicciola era piuttosto ripida e tutti e quattro, stanchi per la lotta sostenuta, arrancarono e sbuffarono sotto il sole impetuoso. Indy aveva mille domande a ronzargli per la testa – una su tutte, sapere chi diavolo fossero quei mascalzoni che li avevano assaliti – ma, in quel momento, pensava soltanto a camminare e a risparmiare il fiato.
   Infine, guadagnata la strada esterna, che costeggiava la parte alta del sito archeologo, dove sarebbero stati trasportati i blocchi tagliati dei templi per essere ricostruiti, raggiunsero una vecchia casupola a due piani, circondata da un giardino sabbioso in mezzo a cui cresceva soltanto una palma dalla corteccia riarsa e sbiancata dal sole, che sorgeva a non molta distanza.
   L’egiziano diede un paio di forti colpi alla porta, che venne aperta da un vecchio dalla barba bianca; l’uomo, dopo averlo riconosciuto, si scostò per lasciar passare lui e gli altri. L’interno era fresco e in penombra, perché le pareti della casupola erano spesse e le finestre, coperte da stuoie, non lasciavano passare la luce accecante del sole. L’arredamento era piuttosto misero: un vecchio tappeto liso, una cassapanca accostata al muro, uno scaffale chiuso da anticelle, un divanetto che aveva visto tempi migliori. Fu qui che, tra i cigolii di protesta delle vecchie molle, Sallah si lasciò cadere con un grugnito.
   «Murad, per favore, portaci qualcosa da bere!» urlò a pieni polmoni lo scavatore, così forte da costringere i figli e Indy a tapparsi le orecchie con le dite. «Ho la gola piena di polvere…» soggiunse con un borbottio, sfilandosi dalla testa il velo.
   Il vecchio, fatto un leggero cenno d’assenso, scomparve dietro una porta che immetteva in un altro locale.
   I due figli di Sallah, stanchi, si misero a sedere sopra il tappeto, a gambe incrociate. Indy, invece, si accostò con la spalla alla parete, fissando l’amico in attesa di una qualsiasi spiegazione per tutto quel mistero. Lo scavatore, però, stava ancora cercando di riprendere fiato.
   Fu Moshti il primo a parlare.
   «Si può sapere che cosa sta succedendo?» domandò, impaziente. «Che posto è, questo? Chi è quell’uomo? E, in nome del cielo, perché sei conciato in quella maniera assurda?!»
   L’archeologo incrociò le braccia sul petto.
   «In effetti, Sallah, avremmo voglia di saperne qualcosa di più, su tutta questa faccenda…» grugnì.
   In quel momento, il vecchio di nome Murad fece ritorno con un vassoio su cui aveva posizionato una brocca piena di acqua fresca e limone e quattro bicchieri. Ne riempì uno per Sallah, che lo scolò con gusto, e poi ne consegnò uno per ciascuno agli altri ospiti. Indy prese il suo ma non bevve. Il vecchio, senza una sola parola, uscì di nuovo dalla stanza.
   «Molto loquace, il tuo amico» commentò Yasmin.
   Finalmente, ripresosi un poco dalla stanchezza, Sallah riuscì a bofonchiare: «Murad è quasi completamente sordo. È un mio vecchissimo amico, lo conosco praticamente da sempre. Ha lavorato per anni come custode dei templi di Abu Simbel, anche se ha perso l’udito durante la guerra, a causa di una mina che gli è esplosa vicino. Quando gli ho spiegato la situazione, ha acconsentito senza nessuna esitazione a darmi ospitalità…»
   «Magari, adesso, potresti spiegarla anche a noi, la situazione» interloquì Jones. «Che diavolo sta succedendo, si può sapere? Mi chiami con urgenza ad Abu Simbel e, invece di incontrare te, mi trovo alle prese con dei pazzi scatenati. Chi diavolo erano? Pensavo, in tutta onestà, che ci fossero i russi, dietro questa faccenda… di qualsiasi faccenda si tratti.»
   Sallah si versò altra acqua e limone e ne bevve un sorso.
   «E pensavi bene, Indy» confermò. «Si tratta proprio dei russi. Quei tizi che vi hanno assalito… non erano previsti, non so chi siano, a dire il vero. Ma posso presumere che siano stati i sovietici ad arruolarli, quando hanno saputo della tua presenza qui, anche se non ne comprendo il motivo…»
   L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «Oh, ti assicuro che io e i sovietici siamo vecchi amici. Ci vogliamo così bene che, appena ci incontriamo, non possiamo fare a meno di cercare di scannarci.»
   Lo scavatore ridacchiò, ma poi il suo sguardo si fece severo, posandosi sui due figli.
   «Voi, invece, che ci fate qui?» borbottò. «Non sapete che è pericoloso? Io…»
   Prima che Moshti e Yasmin avessero avuto modo di replicare qualsiasi cosa, fu Indy a farlo al loro posto.
   «Suvvia, Sallah, non sono ragazzini. Sono adulti quanto noi. Inoltre, come accidenti facevamo a sapere che ci fosse qualche pericolo, se tu non lo hai detto?» disse. «E poi non crederai che, di qualsiasi cosa si tratti, possiamo fare tutto io e te da soli, come ai vecchi tempi.» Sogghignò, anche se con un leggero velo di amarezza nello sguardo. «Stiamo diventando due nonnetti, amico mio, e dobbiamo prenderne atto. Ci vuole l’aiuto dei giovani, per quanto roda pensare di essere quasi sulla via di diventare pezzi da museo come i templi di Ramses.»
   Sallah si strinse nelle spalle.
   «Sì, immagino che tu abbia ragione» commentò. Bevve un altro sorso d’acqua.
   I due giovani avevano seguito il loro scambio di battute in silenzio, muovendo lo sguardo dall’uno all’altro. Adesso, però, la curiosità cominciava a prendere il sopravvento, e non vedevano l’ora di capire qualcosa di più, di quella storia.
   «Sì, d’accordo, siamo tutti coinvolti» concluse Yasmin. «Ma possiamo almeno sapere in che cosa, siamo coinvolti?» Squadrò il padre con sguardo penetrante. «Siamo andati fino in America a prendere lo zio Indy, lo abbiamo portato fin qui, abbiamo fatto a botte con dei pazzi armati e ora, se permetti, vorremmo saperne qualcosa di più, riguardo a tutto questo, anziché restare qui a guardare te vestito da donna che bevi la limonata.»
   Sallah ridacchiò. In sua figlia vedeva ogni giorno di più il carattere determinato e deciso della sua Fayah.
   «Avete ragione, avete ragione» disse, con tono giovale. «Vi avrei detto tutto già un’ora fa, se non si fossero messi di mezzo quegli individui. Vi stavo per chiamare io… a proposito, non c’era davvero bisogno di malmenare a quel modo il povero Salim… è un po’ ottuso, lo ammetto, ed è un burocrate della peggior specie, ne sono consapevole, ma non era davvero informato di nulla.»
   L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «Tanto, prima o poi, una lezione se la sarebbe meritata ugualmente» borbottò.
   Sallah fece un gesto di approvazione e, dopo aver preso un altro sorso dal bicchiere, iniziò il suo racconto.

 
* * *

   Boris e Oleg, i due agenti del KGB, si guardarono allibiti.
   Da dietro il loro riparo, appena oltre la porta del tempio minore, dove era stata eretta un’impalcatura per i lavori in corso, avevano assistito all’aggressione, certi che né il professor Jones né il ragazzo e la ragazza che lo accompagnavano ne sarebbero usciti vivi. D’altra parte, avevano versato fior di rubli nelle tasche di quei ladroni perché si sbarazzassero di Jones e degli altri due, facendolo passare per un tentativo di rapina concluso nel peggiore dei modi.
   Invece, contrariamente a tutte le previsioni, quei tre ne erano usciti praticamente illesi, mentre la maggior parte dei briganti era stata messa fuori combattimento. La ragazza con il velo sui capelli picchiava davvero duro e l’americano, per quanto vecchio e mummiforme potesse essere, sapeva davvero il fatto suo. Alla fine, quando era arrivata quella specie di valchiria del deserto, la situazione si era volta a completo favore delle loro vittime.
   «Questa cosa non piacerà, al compagno colonnello» commentò Oleg, torcendosi le mani.
   «Non è ancora detto che sia tutto perduto» borbottò Boris, accarezzandosi il mento. Non aveva nessuna intenzione di essere deportato in Siberia per un’inezia simile.
   Come se gli avesse letto nel pensiero, Oleg al suo fianco rabbrividì. Si era abituato troppo bene al tepore egiziano per pensare di venire spedito nella gelida Siberia. Eppure lo spettro di quella possibilità calò su di loro mentre continuavano a contemplare il punto in cui si era svolta la battaglia, ormai deserto, se non si consideravano i corpi di cui era costellato.
   «Che cosa possiamo fare?» domandò Oleg.
   «Ho ancora qualche asso nella manica» rivelò Boris. «Certo, ci costerà caro, perché Adham vuole essere pagato molto più di quei ladroni, ma lui non fallirà di certo. Vieni, seguimi.»
   Con passo svelto, i due agenti del KGB sgusciarono dal loro riparo e uscirono dal tempio. Aprendo la strada, Boris guidò il collega attraverso il cantiere, fino a fermarsi dinnanzi a una casupola di mattoni da cui proveniva un sordo martellare.
   Si affacciarono alla porta aperta e, nella semioscurità, videro un uomo di forme colossali, alto più di due metri, a torso nudo, che martellava con foga sopra alcuni attrezzi di acciaio che erano stati rovinati dall’uso. A ogni colpo, l’acciaio si piegava senza difficoltà, come se anziché uno dei metalli più duri, quell’uomo stesse lavorando con del burro morbido e malleabile. Ogni martellata faceva sollevare nugoli di scintille, che gli bruciacchiavano la lunga barba nerissima e i peli del petto e gli scottavano i muscoli delle braccia, possenti come tronchi d’albero.
   «Adham» chiamò Boris.
   Senza smettere di martellare, l’energumeno emise un grugnito gutturale per far comprendere che avevano la sua attenzione.
    «C’è un lavoro per te» rivelò il russo. «Quello di cui abbiamo già parlato, ricordi?»
   Un altro grugnito lasciò intendere che l’uomo ricordava perfettamente.
   «Metà dei soldi subito e l’altra metà a lavoro ultimato.»
   Questa volta, anziché grugnire, l’uomo appoggiò il martello rovente sull’incudine e si volse verso i due sovietici. Li squadrò per un istante, poi le sue braccia scattarono all’improvviso e le dita di entrambe le mani si serrarono attorno alle loro gole. Prima che avessero avuto la possibilità di fare qualsiasi cosa, li sollevò entrambi dal terreno, in apparenza senza alcuno sforzo.
   «Ahhh…» sbuffò Boris, diventando verde, mentre il suo collega non riusciva nemmeno a parlare. «…va bene… tutto i… il paga… mento… subito…»
   Soddisfatto, Adham li lasciò andare entrambi, facendoli ripiombare sul terreno, dove rimasero stesi per qualche istante, cercando di riprendere fiato. Quando, finalmente, ancora tremanti e spaventati, riuscirono a rialzarsi, se lo trovarono piazzato di fronte, le gambe larghe e la mano tesa con il palmo rivolto verso l’alto.
   A malincuore, Boris aprì il portafogli e ne riversò il contenuto – una nutrita schiera di banconote di vario taglio – nella mano del gigante. Quello prese i soldi e li contò lentamente, valutando ogni singolo biglietto. Infine se li fece scomparire in tasca ed emise un grugnito soddisfatto.
   «Vorremmo che il lavoro fosse fatto subito» precisò Boris, vedendo che l’energumeno stava riprendendo in mano il martello.
   A rispondergli fu un grugnito. Adham mise in tasca il martello e, presa una lurida camicia che aveva gettato in un angolo, la infilò senza abbottonarla.
   «Sai dove trovarli?» domandò l’agente del KGB.
   Un grugnito, che i due colleghi interpretarono come affermativo, fu la sola risposta che ne ricevettero in cambio.

 
* * *

   «Quindi, ricapitolando, tu stavi semplicemente facendo una passeggiata e hai sentito i russi parlare e quindi ti sei avvicinato?» bofonchiò Indy, non sapendo se mettersi a ridere per quella storia che pareva assurda. Gli era capitato più volte, in vita sua, di imbattersi in complotti o in misteriosi reperti archeologici – o, molto spesso, in entrambe le cose insieme – nei più svariati modi, ma quello li batteva davvero tutti.
   «Eh già» disse Sallah, sorridendo. «Mi era parso davvero strano sentire fare il nome del faraone Ramses in una loro discussione. A loro, in genere, queste cose non interessano. Anzi, se fosse dipeso da loro, avrebbero lasciato che i templi fossero sommersi dalle acque del fiume, senza un solo rimpianto.»
   L’archeologo scosse il capo, sogghignando.
   «Stiamo proprio invecchiando, se ci mettiamo a tirare le orecchie verso i discorsi altrui come delle comari impiccione che non hanno niente di meglio da fare che spettegolare…» commentò.
   «Perciò ti sei avvicinato per origliare» suppose Moshti, severo.
   «Esatto…» replicò Sallah.
   «Papà, non lo sai che ascoltare i discorsi altrui è un comportamento da donne?» lo riprese suo figlio, guardandolo con serietà.
   Un sorriso ancora più gioviale comparve sotto la barba dello scavatore, mentre cercava di assumere un’aria civettuola.
   «Ma infatti, non vedi come sono vestito…?» domandò, ilare, fingendo di rassettarsi il lungo abito.
   «Sentitevi!» intervenne Yasmin, con fervore. «Tre maschilisti fatti e finiti!»
   Tutti e tre le fissarono, indecisi se fosse meglio replicare o mantenersi in silenzio.
   «Proprio a me doveva capitare di avere come sorella il capo delle femministe del Cairo!» finse alla fine di lamentarsi Moshti, sollevando le braccia al cielo.
   Indy ridacchiò, ma poi riportò la conversazione sul binario principale.
   «E che cosa si stavano dicendo, i russi, per spaventarti tanto? E perché poi hai pensato bene di sparire e di travestirti? Si può sapere che è successo?»
   Sallah si strinse nelle spalle.
   «Be’, mi hanno scoperto ad ascoltare i loro discorsi e mi hanno inseguito. Mi ero nascosto dietro un albero, ma ho… be’, ho starnutito, così ho attirato la loro attenzione senza volerlo. Sono riuscito a sottrarmi alla cattura, ma temevo che mi avessero riconosciuto. Così, ho chiesto a mia cugina, che abita ad Assuan, di prestarmi questo abito, per poter tornare indisturbato ad Abu Simbel. Ascoltando un po’ di chiacchiere in giro, mi sono poi reso conto che, a dire il vero, non ero stato riconosciuto proprio da nessuno, e che i russi non mi stavano cercando. Probabilmente, avranno pensato che, quello che stava origliando i loro discorsi, forse soltanto uno sfaccendato che non aveva niente di meglio da fare.»
   «Un po’ è vero» lo accusò Moshti, ancora seccato all’idea che suo padre si fosse comportato come una donna. Per tutta risposta, si guadagnò una gomitata nel costato da parte di Yasmin.
   Indy aggrottò le sopracciglia.
   «Ma, allora, perché hai continuato con questa pagliacciata?» domandò.
   «Ho pensato che, comunque, avrei potuto agire più indisturbato rimanendo nell’ombra. Inoltre, c’era il rischio di dover dare troppe spiegazioni su quello che mi era successo, se fossi riapparso di punto in bianco come se non fosse accaduto nulla.»
   Moshti era confuso.
   «Se i russi non sapevano di te, e di conseguenza non avevano allertato il governo, perché la polizia non ha voluto cercarti?» domandò, massaggiandosi il punto che aveva impattato con il gomito della sorella.
   «È probabile che, in segreto, abbiano ugualmente fatto delle ricerche» rispose Sallah, atteggiando le labbra a un sorriso amaro. «Ma non potevano certo sbandierare la storia ai quattro venti come se niente fosse. Non dimentichiamo che l’Egitto, ormai, è un paese retto dai militari, e che in questo momento ha gli occhi di tutto il mondo puntati addosso. Nel raggio di pochi chilometri sono concentrati esponenti del blocco occidentale, di quello orientale e dei paesi non allineati. Non è certo il periodo giusto per fare scandali. Un funzionario scomparso lo si può sempre sostituire senza troppo rumore. Dover rivelare il motivo della sua scomparsa, qualsiasi esso sia, è tutto un altro paio di maniche.»
   «Niente elementi di disturbo, insomma» borbottò Indy, giocherellando con il manico della frusta. «D’accordo, questo lo abbiamo capito. La polizia non c’entra niente e anche il tuo assistente non mentiva, dicendo di non saperne proprio nulla. Pazienza. Ora ti spiacerebbe a dire anche a noi, però, quello che hai scoperto?» Fissò lo sguardo in quello dell’amico. «Perché mi hai voluto qui? Cos’è questa storia dei russi?»
   Sallah sospirò, lisciandosi la barba. Finì di bere la sua acqua e limone e, mettendosi più comodo sul divano, cominciò finalmente il suo racconto.
   «Come ho detto, ero uscito molto presto per una passeggiata. Volevo andare a vedere come procedono i lavori alla diga, prima di ripartire per Abu Simbel. Quando sono arrivato sul posto, ho notato subito un gruppo di uomini che confabulavano. La cosa mi è parsa strana, perché era molto presto, praticamente era appena l’alba. Ho notato subito che erano russi, e ho riconosciuto uno di loro: il colonnello Volkov, inviato qui come responsabile della sicurezza degli scienziati che stanno lavorando alla costruzione della diga. Be’, la cosa mi è parsa strana, perché parevano dei cospiratori, così mi sono avvicinato senza fare rumore.»
   «Non si fa» lo interruppe suo figlio. «Non si fa e non si fa. Non si ascoltano i discorsi altrui, è maleducazione. E non provare a dirmi niente, perché sei stato tu a insegnarmelo, fin da bambino…»
   «Sì, ma se è servito, direi che a volte vale la pena fare uno strappo alla regola, no?!» lo rimbrottò Yasmin, con tono acido.
   «Eccome se è servito» borbottò Sallah. «Perché mi sono servite poche, pochissime parole, per rendermi conto che stava succedendo qualcosa di pericoloso…»
   Con gli occhi della mente, rivisse quella scena, mentre la rivelava ai figli e all’amico.

 
* * *

   I cinque russi erano fermi sul limitare del fiume. Sembrava che stessero guardando in direzione della grande diga che stava a poco a poco sorgendo verso il cielo, eppure non parevano affatto interessati al progredire di quella gigantesca opera di ingegneria che avrebbe sancito in eterno il rapporto di amicizia tra l’antico paese dei faraoni e l’Unione Sovietica.
   «Allora, professor Smolnikov, come procedono i lavori?» domandò il colonnello Volkov, accedendosi una sigaretta.
   L’uomo chiamato Smolnikov fece un breve cenno con il capo.
   «Le ricerche, per ora, continuano. Dobbiamo procedere con lentezza, adeguandoci ai ritmi del cantiere per non dare nell’occhio, ma penso proprio che siamo a buon punto.»

 
* * *

   «Aspetta un attimo» interloquì Indy, alzando una mano per fermare l’amico e fissandolo negli occhi. «Hai proprio capito bene? Ha detto Smolnikov? Il nome era proprio quello?»
   Sallah annuì con sicurezza.
   «Sì, il nome è quello. Me lo sono fissato a fondo nella mente per non dimenticarlo.» Ricambiò il suo sguardo. «Perché, lo conosci?»
   Jones assentì con il capo in segno di affermazione.
   «Non di persona» spiegò, «ma lo conosco. È un archeologo sovietico. Vladimir Smolnikov. Negli ultimi anni si è occupato parecchio anche di egittologia. Ho letto alcuni dei suoi articoli. È un convinto assertore del fatto che, le antiche civiltà, avessero sviluppato sistemi economici e sociali di stampo comunistico: prodomi della moderna Unione Sovietica, insomma. Devo ammettere che ha una mente molto brillante, sebbene sprechi il suo intelletto creando dei falsi storici a uso e consumo del Cremlino. Spesso e volentieri, infatti, ribalta le fonti a modo suo, per leggervi ciò che desidera.» Un sogghigno svergolo gli deformò il viso. «Presumo che, in Unione Sovietica, l’unico modo per continuare a svolgere una professione intellettuale come la nostra sia quello di compiacere i capi dandogli la prova dell’eternità delle idee comuniste.»
   Sallah annuì, pensoso. «Se è così fedele agli ideali marxisti, mi spiego meglio la sua presenza in Egitto.»
   «Continua» lo esortò Moshti, desideroso di conoscere il resto del racconto.

 
* * *

   «Compagno, vorrei ricordarle che non possiamo permetterci di perdere troppo tempo. Non siamo al corrente di quali nuovi tipi di armamento stiano sviluppando gli americani, ma è necessario procurarci al più presto questo nuovo vantaggio, in modo da metterlo sotto studio al più presto» disse Volkov, traendo una boccata di fumo dalla sua sigaretta.
   «Le assicuro, compagno colonnello, che io e i miei uomini stiamo facendo il possibile» rispose Smolnikov, con una punta di risentimento nella voce. «Tuttavia, lavorare in mezzo a tutti gli archeologi e agli operai del cantiere di Abu Simbel non è affatto semplice. Abbiamo un nostro piano d’azione, d’accordo, ma dobbiamo rivederlo di continuo. Come lei ben sa, il rischio di venire scoperti è molto alto, con tutto il fermento che c’è in quel luogo. Ed è una fortuna, in ogni caso, che possiamo sfruttare il cantiere come copertura, lei lo sa perfettamente. Senza di quello, non avremmo mai potuto sperare di intraprendere…»
   Il colonnello Volkov gli puntò addosso uno sguardo gelido, che indusse l’archeologo a indietreggiare di un passo. Gli altri tre uomini fissarono il Nilo con insistenza, fingendo di non essersi resi conto di nulla.
   «Lei chiacchiera troppo, compagno professore, e a me le chiacchiere non interessano. A me interessano i risultati, e non ne sto vedendo di soddisfacenti. Come la vogliamo mettere?»
   Smolnikov trasecolò. Il suo viso abbronzato si scolorì. Boccheggiò un paio di volte, come se stesse annaspando in acqua, ma non riuscì a proferire parola. Evidentemente, il colonnello Volkov era circondato da una fama piuttosto sinistra.
   «Spero di non doverle ricordare, professore, che coloro che rappresento pretendono esiti positivi – e rapidi – da questa missione.»
   «Le… le assicuro che il governo non sarà deluso…» bofonchiò finalmente l’archeologo. «Raddoppieremo i nostri sforzi, faremo tutto il possibile… se necessario rinunceremo anche alla prudenza che ci ha guidati fino a questo punto… insomma, le giuro che troveremo il carro, e che la Gloria di Amon diventerà un nostro potentissimo alleato…»
   In quel preciso momento, un insetto che si stava arrampicando lungo il tronco di un sicomoro pensò bene di cambiare direzione e di andare a farsi una passeggiata tra i peli della barba dell’uomo che vi stava appostato dietro. Con un balzo preciso, lo scarabeo atterrò sulla sua nuova destinazione. Solo che, nel farlo, solleticò il naso dell’uomo, provocandogli un fragoroso starnuto.
   I russi, allarmati, cacciarono un grido e iniziarono a correre nella sua direzione. Vistosi scoperto, Sallah fece un rapido dietrofront e si allontanò verso l’edificio che ospitava gli ingegneri. Ma le grida del colonnello stavano richiamando alcuni soldati, che si trovavano proprio lì dentro. Cambiata direzione, il cuore che batteva a mille per l’emozione e lo spavento, Sallah fece perdere le proprie tracce in mezzo ai dedali di viuzze della città di Assuan.

 
* * *

   «La Gloria di Amon?» ripeterono in coro Moshti e Yasmin, senza comprendere.
   «La Gloria di Amon» confermò Sallah, annuendo con serietà.
   «La Gloria di Amon…» parlottò tra sé Indy, nervoso, andando alla finestra.
   Gli sguardi di tutti e tre si fissarono sulla sua nuca, mentre quello dell’archeologo si perdeva sul paesaggio circostante. Le valli aride e le montagne rossicce dell’antica Nubia avvolsero la sua mente, senza però toccarla veramente, occupata com’era da ben altri scenari.
   All’improvviso, Indiana Jones si sentiva ringiovanito. Gli sembrava di essere tornato indietro di trent’anni, ai tempi in cui aveva dovuto ricorrere a ogni suo espediente per combattere contro i nazisti e impedire che si impadronissero dell’Arca dell’Alleanza. Adesso era di nuovo in Egitto, sotto lo stesso sole, con qualche ruga in più e con i capelli grigi, eppure era bastato che Sallah pronunciasse quelle poche parole per fargli comprendere che, ancora una volta, toccava a lui mettere a repentaglio la propria vita per intervenire e salvare la situazione prima che fosse troppo tardi.
   «Immagino che tu abbia sentito bene» borbottò, senza girarsi. «Non hai problemi di udito come il tuo amico Murad, vero?»
   Sallah scosse il capo.
   «Ci sento alla perfezione, Indy» rispose. «E non mi sono ingannato in nessun modo: parlavano proprio della Gloria di Amon.»
   Yasmin sbuffò, spazientita.
   «Ancora questa frase…» commentò. «Si può sapere di che accidenti state parlando?»
   Indy si volse all’improvviso e la fissò per qualche secondo, prima di dire: «Gloria di Amon è il nome che venne dato al magnifico carro d’oro che il faraone Ramses II condusse da solo contro l’intero esercito hittita schierato di fronte a lui, a Qadesh sull’Oronte, sbaragliandolo completamente.»
   «Completamente?» ripeté Moshti, confuso. «Che significa?»
   L’archeologo, ancora turbato dai suoi pensieri, fece un cenno a Sallah perché fosse lui a spiegare.
   «Si tratta di storia antica, ovviamente» disse subito lo scavatore. «Parliamo del…» guardò Indy, in cerca di conferme, «…del quinto anno di regno di Ramses II, giusto?»
   Jones annuì una volta.
   «Nella primavera del 1274 avanti Cristo» precisò.
   «Bene, Ramses aveva deciso di riconquistare la città fortificata di Qadesh, sul fiume Oronte, che gli avrebbe permesso di controllare l’intera regione della Siria» riprese a raccontare Sallah. «Anni prima, lui e suo padre, il faraone Seti, avevano già brevemente conquistato la fortezza, che però era ricaduta quasi subito in mano hittita. Da quel giorno, Ramses aveva sempre sognato il momento di riprenderla. Era diventata una specie di ossessione, per lui.»
   «Così, dopo una prima trionfante campagna bellica nell’anno quarto del suo regno, il faraone prese la decisione di agire come si proponeva» proseguì Indy, infilando le mani in tasca. «Approntato un grande esercito, suddiviso in quattro divisioni a cui si aggiungevano altre truppe di rinforzo, partì dalla sua nuova capitale nella regione del delta nel Nilo, Pi-Ramses, e si diresse a oriente, verso Canaan, da dove poi raggiunse la Siria.»
   «Giovane e focoso, Ramses era certo della propria vittoria» andò avanti Sallah, mentre gli occhi dei suoi figli, dopo aver osservato l’archeologo, tornavano sul suo viso. «Ma, nell’anno che era trascorso dalla precedente campagna, anche gli Hittiti avevano avuto modo di riorganizzarsi e di preparasi a difendere il loro impero dalle mire espansionistiche del giovane avversario. E il faraone fu ingannato con un trucco piuttosto semplice: due finti traditori dell’esercito hittita lo convinsero che, le truppe nemiche, si trovassero a centinaia di chilometri di distanza. Così, raggiunta Qadesh con due sole divisioni, mentre le altre marciavano più indietro e le truppe di rinforzo erano ancora più lontane lungo un’altra strada, pose il campo di fronte alla città. La mattina seguente, invece di poter iniziare l’assedio della cittadella come si era augurato, si trovò sottoposto a un attacco improvviso da parte dei carri hittiti, che per tutto il tempo si erano mantenuti nascosti dietro un crinale a breve distanza.»
   Yasmin fece un sorrisetto compiaciuto nell’udire quello sviluppo.
   «Ecco quello che succede a lasciare che siano gli uomini a comandare» giudicò.
   Moshti sbuffò, spazientito.
   «Non mi pare proprio il caso di metterti a fare adesso i tuoi soliti commenti» bofonchiò.
   Abituato da tempo ai continui battibecchi dei suoi figli, Sallah li ignorò, andando avanti con la sua rapida lezione.
   «La prima divisione, chiamata Ra, colta completamente alla sprovvista dall’attacco dei carri hittiti, venne travolta e, spaccata in piccole parti, fu ricacciata indietro alla rinfusa verso il campo di Ramses. La divisione di Amon, a sua volta, non riuscì a reggere l’urto e si disperse. A quel punto, il faraone si trovò solo, abbandonato dai suoi soldati e da tutti gli ufficiali. Soltanto il suo fedele scudiero… ehm…»
   «Menna» gli venne in aiuto Indy.
   «Esatto» annuì Sallah. «Soltanto il suo scudiero Menna, sebbene diventato bianco per il terrore, rimase saldo al suo fianco.»
   Adesso fu l’archeologo a prendere la parola. Il tuo tono era cupo.
   «Anziché fuggire o abbandonarsi alla morte, Ramses trascinò Menna verso il suo carro d’oro e, spronando i suoi due arditi cavalli – che si chiamavano “Vittoria in Tebe” e “Mut è contenta” – si lanciò all’assalto contro le truppe hittite. Il faraone era solo, ma la sua mano non tremò e il suo cuore restò saldo. La sua mente volò alta, oltre i confini dei cieli, invocando il nome di suo padre Amon, il re degli dèi, e gli chiese di accordargli il suo aiuto. A quel punto, le cronache narrano che il carro – che da quel momento prese appunto il nome di Gloria di Amon – cominciò ad avvampare come una fiamma, e il faraone, avvolto nella sua armatura di cuoio e di bronzo, splendette come se fosse divenuto una statua scolpita nell’oro più puro, abbagliando i nemici. La sua spada di bronzo luccicò come se si fosse tramutata in una lama di luce e lui, da solo, con sei ripetuti attacchi, ricacciò gli Hittiti dentro l’Oronte, dove molti morirono annegati e quasi tutti i carri da guerra andarono perduti. Muwatalli, l’imperatore hittita, udendo lo strepito aveva creduto di avere ormai vinto. E, invece, raggelò, vedendo la miglior parte del suo esercito annientata.»
   L’archeologo tacque per un istante, provando a immaginare la scena. La storia era la sua professione, ed era sempre riuscito a vederla con gli occhi della sua mente. Tuttavia, non poteva negare a se stesso che gli sarebbe piaciuto vivere almeno una volta in diretta l’emozione di quei momenti, assistendovi in prima persona. Scosse la testa, allontanando quelle fantasie, e concluse il discorso.
   «Nel pomeriggio, quando finalmente le truppe di rinforzo in arrivo da Amurru e le due divisioni di Seth e di Ptah che marciavano da meridione giunsero sul luogo della battaglia, trovarono che era già tutto finito. Ramses, seduto sul suo trono tra i resti distrutti dell’accampamento, stava facendo la paternale ai suoi ufficiali per averlo abbandonato e lasciato solo davanti ai nemici, come…»
   Indy si morse il labbro, fermandosi appena in tempo prima di dire “come se i suoi uomini fossero state donnicciole”. Avvertì su di sé lo sguardo penetrante, tagliente e infuocato di Yasmin e, deglutendo, si corresse per evitare il peggio.
   «…come se i suoi uomini fossero stati dei pavidi codardi» disse quindi. Scampato pericolo.
   Sulla stanza calò il silenzio, mentre tutti e quattro cercavano di figurarsi l’incredibile momento della battaglia in cui un uomo solo, rivestito di una luce divina, sbaragliava un intero esercito. Un istante degno di essere eternato per sempre.
   Infine, fu Moshti il primo a parlare.
   «Ma… ma è una leggenda, no?» balbettò. «Conosco il bollettino della vittoria di Qadesh…» Tentò di fare ordine nella propria mente. «Si trattava soltanto di propaganda, giusto?»
   I due vecchi amici si scambiarono una rapida occhiata. Avevano troppe esperienze, dietro le proprie spalle, per sapere quanto le leggende fossero, molte volte, fin troppo reali.
   «Un tempo sarei stato anche io del tuo stesso parere» borbottò Indy. «Ma ho imparato da molti anni a mettere da parte ogni tipo di pregiudizio sul passato.»
   Yasmin torse il lembo del velo che le ricadeva sulle spalle, nervosa.
   «Ma che cosa c’entrano, i russi?» domandò. «Perché sono interessati a quel carro?»
   Indy scrollò le spalle e andò di nuovo a guardare dalla finestra.
   «Oh, questo è chiaro» sbottò. «La Gloria di Amon sarebbe un’arma micidiale, nelle mani di una potenza come l’Unione Sovietica. Otterrebbero un vantaggio non indifferente nella loro corsa agli armamenti. E, a quanto pare, Smolnikov ha scoperto che il carro è nascosto qui, ad Abu Simbel, da qualche parte, e sta approfittando dei lavori di smontaggio dei templi per poterlo trovare.»
   Un lieve pizzicore alla parte posteriore della testa avvertì l’archeologo che aveva tra paia di occhi fissi addosso. Aspettavano soltanto una sua parola per sapere che cosa fosse necessario fare. La risposta la conosceva già benissimo e, dentro di sé, doveva ammettere che lo stuzzicava. Non poteva farci niente. Era la sua natura, quella, e non l’avrebbe cambiata mai.
   «Resta soltanto una cosa, a questo punto, da poter fare…» borbottò.
   Lasciò perdere il paesaggio fuori dalla finestra e si voltò di nuovo verso gli amici, squadrandoli uno per uno. Infine, il suo sguardo risoluto si concentrò su Sallah e, in lui, vide brillare lo stesso fuoco che stava animando da dentro il suo animo. Si sorrisero con fare complice, ritrovando lo slancio e la spregiudicatezza del passato.
   «Dobbiamo trovare il carro di Ramses e nasconderlo prima che se ne impadroniscano i comunisti» concluse.


 

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Capitolo 9
*** Il colosso di Abu Simbel ***


    9 - IL COLOSSO DI ABU SIMBEL

   Mentre Sallah e i suoi figli, dietro indicazione dell’archeologo, si davano da fare per trovare alcuni operai fedeli che avrebbero potuto assisterli nella loro ricerca, Indy raggiunse il versante superiore della parete rocciosa che digradava verso il grande sito di Abu Simbel. Dopo aver distolto lo sguardo dalla strada che saliva verso di lui, lungo la quale, in quel momento, stava camminando un solitario uomo gigantesco, concentrò la sua attenzione sull’imponente cantiere, una quarantina di metri più in basso.
   L’attività ferveva. Le ruspe scavavano incessantemente, riempiendo i cassoni dei camion. Le gru spostavano i carichi più pesanti da un punto all’altro. Muratori e tagliatori di pietra si muovevano veloci come formiche industriose, diretti da vocianti ingegneri che, con le mani impegnate da strumenti di misurazione, cambiavano di continuo i loro calcoli. Dalla parte del fiume, altri uomini erano indaffarati a sollevare dei robusti terrapieni per contenere momentaneamente le acque del Nilo, che crescevano di giorno in giorno. Gli archeologi, preoccupati, facevano la spola in avanti e in dietro verso ogni singolo reperto, per accertarsi che nulla fosse stato danneggiato. In un certo senso, era come se, dopo interi millenni di silenzio, tutta quella zona fosse rinata a nuova vita.
   Indy sapeva bene che, quella, era soltanto la parte preliminare dell’opera. La più delicata e importante avrebbe avuto inizio non appena le grandi facciate, e poi gli interni dei templi rupestri, fossero stati tagliati in numerosi blocchi per essere trasportati più in alto, dove già si stava approntando l’immensa struttura di cemento e acciaio in cui, si sperava, i colossi di Ramses II – e con loro tutta la gloriosa storia dell’Egitto – sarebbero stati ammirati in eterno, finalmente in pace.
   In quel momento – pur consapevole di star assistendo a un importantissimo avvenimento di portata storica, nonché a un’impresa archeologica senza precedenti – a Jones non interessava tanto il lavoro nel cantiere, quanto invece ciò che vi stava avvenendo di nascosto. I suoi occhi attenti seguirono diversi operai, scartando quelli che non gli interessavano. Cercava segni di nervosismo, tracce che potessero indicare attività illecite, movimenti sospetti.
   Un uomo attrasse la sua attenzione. Lo vide gettarsi attorno occhiate furtive e, all’improvviso, abbandonare la pala con cui stava scavando e dirigersi verso un recesso nascosto, all’ombra di un mucchio di terra e di detriti. Indy si spostò con cautela lungo il crinale, senza perderlo d’occhio. Lo guardò mentre aggirava il piccolo tumulo, saltellando sui piedi. Finalmente, l’uomo abbassò la cerniera dei pantaloni ed espletò i suoi bisogni fisiologici, con il volto attraversato da un’espressione di sollievo riconoscibile anche a tanta distanza. Un falso allarme. Doveva cercare qualcosa di meglio.
   Lo sguardo dell’archeologo tornò a vagare sul cantiere. Riconobbe Sallah – che, dietro ordine perentorio di Moshti, aveva ripreso abiti maschili, anche se gli era stato concesso di indossare una grande kefiah per mascherare i propri tratti e non essere riconosciuto – mentre confabulava con un uomo barbuto, che annuiva a ogni sua parola. Poco più in là, i suoi figli Moshti e Yasmin erano fermi accanto ad altri tre uomini, tutti molto seri. Perlomeno, la squadra che si sarebbe dovuta occupare dello scavo si stava formando. Stava a Indy, adesso, raddoppiare gli sforzi per scoprire dove, di preciso, avrebbero dovuto scavare.
   Stava quasi per rassegnarsi a discendere a sua volta nel cantiere per osservare le cose più da vicino, quando un gruppo di uomini attirò il suo interesse. Erano vestiti come gli egiziani, con lunghi abiti e con turbanti, ma parevano a disagio e si muovevano piuttosto goffamente, come se non fossero affatto abituati a indossare quel genere di capi d’abbigliamento. Inoltre, la maggior parte di loro aveva volti troppo pallidi, o arrossati dal forte sole nubiano, per poter essere davvero scambiati per arabi.
   «Russi» grugnì tra sé e sé, seguendoli con lo sguardo.
   Davanti a loro, molto più sicuro degli altri ed evidentemente giù uso a indossare abiti di simile foggia, camminava un uomo dal passo rapido e deciso. Aveva un volto tondo, paffuto e giovale, che si distingueva facilmente anche a quella grande distanza. Non gli ci volle che un istante per riconoscerlo: era Smolnikov, l’archeologo sovietico.
   «E ora fatemi vedere che cosa state facendo, amici miei…» borbottò Indy.
   Il gruppo di uomini si fece largo attraverso gli altri operai. Nessuno gli badò. Soltanto un ingegnere, voltandosi all’improvviso, indicò qualcosa a Smolnikov, che parve annuire. Poi, però, quando il responsabile si fu girato di nuovo, l’archeologo fece un cenno perentorio ai suoi uomini, perché si affrettassero ad allontanarsi da lì. Indy li vide dirigersi verso l’ingresso del tempio maggiore di Abu Simbel e…
   Un urto violento lo colpì nella schiena, spingendolo in avanti. Sbilanciato, l’archeologo rischiò di cadere di sotto, ma una mano lo afferrò strettamente per la spalla e, dopo averlo sollevato di peso come se fosse stato un fuscello, lo scaraventò nella direzione opposta.
   Indy piombò pesantemente sul terreno ghiaioso, sbucciandosi i palmi delle mani e ferendosi le ginocchia.
   Alzò la testa per cercare di capire che cosa stesse succedendo, ma vide soltanto una massa immane torreggiare su di lui, prima che un pugno gli calasse a martello sulla testa. Di nuovo, Jones si sentì schiacciare a terra e, per la seconda volta in pochi istanti, provò la sensazione di essere stato percosso da un maglio.
   Stordito, con scintille che gli lampeggiavano impazzite davanti allo sguardo, riconobbe l’imponente energumeno che, poco prima, aveva notato mentre risaliva nella sua direzione. Quello non gli diede il tempo di riflettere oltre, colpendolo con un pesante calcio al fianco sinistro.
   Rotolando nella sabbia, stringendo i denti per non urlare dal dolore, l’archeologo cercò di mettersi fuori portata dall’aggressione di quell’essere mostruoso, ma il gigante non gli diede tregua, continuando a sferrargli calci.
   Quando provò a rimettersi in piedi per poter reagire a quella scarica di colpi che lo stavano massacrando, Indy si sentì nuovamente sollevare e, con i piedi a penzoloni, si trovò faccia a faccia con il volto di quella specie di distruttore. Senza attendere oltre, gli mollò una craniata contro il naso e, al contempo, gli sferrò una ginocchiata all’inguine. Fu come se gli avesse regalato soltanto una carezza.
   Restando impassibile, l’uomo lo lasciò andare e, prima che toccasse terra, lo colpì con un violento pugno in pieno viso, facendolo volare all’indietro. Indy crollò nuovamente al solo, battendo rudemente il gomito sinistro contro una pietra. La fitta dolorosa che ne seguì lo attraversò da parte a parte.
   A quel punto, il mostro infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un grosso martello. Lo sollevò in alto e lo abbassò con estrema violenza contro l’archeologo. Jones assistette a quella scena come se la stesse vedendo al rallentatore. Si rese conto in meno di una frazione di secondo che, se fosse stato raggiunto da quell’arma improvvisata, si sarebbe ritrovato con la testa spappolata oppure con la cassa toracica sfondata. Una prospettiva che non gli piaceva molto.
   Con un movimento repentino, dettato più dalla disperazione che dalle reali forze di cui disponeva, Indy si scansò, mettendosi fuori portata. Il martello, ormai avviato nella sua corsa omicida, fendette l’aria e colpì la pietra contro cui era rimasto appoggiato fino a quel momento, frantumandola.
   «Cristo santo…» imprecò Indy, balzando in piedi.
   Se avesse potuto, avrebbe messo mano al revolver e avrebbe donato a quella belva un confetto di piombo bollente in mezzo agli occhi. Purtroppo, aveva commesso l’imperdonabile leggerezza di non ricaricare l’arma, dopo che aveva utilizzato tutti i colpi nella rissa davanti al tempio di Nefertari.
   Tentò allora di afferrare la frusta, ma quel mostro di muscoli, al di là delle apparenze dovute alla stazza, era persino agilissimo. Con un solo balzo gli fu accanto e lo colpì con un manrovescio al mento, sbilanciandolo all’indietro. Ancora una volta, Jones incespicò, rischiando di cadere. Tuttavia, questa volta riuscì a non perdere l’equilibrio e, quindi, fece la sola cosa che gli restava da fare: scappare.
   Girate le spalle al mostro, cominciò a correre in direzione della casa di Murad, sperando di poter trovare là dentro qualcosa con cui difendersi. Una specie di terremoto che risuonò dietro di lui gli comunicò che il suo aggressore non aveva nessuna intenzione di arrendersi e lo stava inseguendo.
   Ansante, pieno di dolori, coperto di sabbia e di sudore, sanguinando da più parti, Indiana Jones riuscì a guadagnare la porta della casa di Murad. Quando si fermò per aprirla, si sentì raggiungere da un nuovo colpo alla schiena. Un altro sasso rimbalzò accanto a lui. Quel demonio aveva raccolto delle pietre e lo stava prendendo a sassate!
   Senza fermarsi a sottolineare quanto quel combattimento fosse sleale, Indy si precipitò dentro. Si guardò in giro in maniera concitata, cercando qualcosa di utile per affrontare quella bestia. Non notò nulla che facesse al caso suo, quindi si diresse in direzione della cucina, sperando che, almeno lì, potesse esserci qualcosa in grado di tramutarsi in un’arma.
   Entrato nel locale, vi trovò Murad, chino sopra una pentola di olio bollente in cui aveva immerso delle frittelle di farina. L’amico di Sallah gli voltava le spalle e non parve accorgersi del suo ingresso. Jones, che in vita sua non aveva mai incontrato nessuno tanto sordo, stava quasi per richiamare la sua attenzione, quando il mostruoso gigante lo raggiunse.
   Lo afferrò alla base del collo, lo staccò dal pavimento e gli mollò un paio di ceffoni al viso. Questa volta, deciso a tutto, Indy reagì colpendolo con rapida sequela di pugni al volto, spaccandogli il naso e le labbra. Persino la pelle di quel demonio era dura, tanto che sentì le nocche lacerarsi. Restando impassibile, l’immenso uomo gli piazzò un pugno potentissimo, scaraventandolo contro i fornelli. Murad, che si era appena allontanato canticchiando tra sé per andare a recuperare qualcosa dalla dispensa, non si accorse proprio di nulla.
   Indy cercò di rialzarsi. Vide che il mostro veniva verso di lui, implacabile, e quindi gli fece cenno con la mano perché gli concedesse un istante di tregua. Quello, indifferente, continuò a farsi avanti, scansando con una manata il tavolo della cucina, che si ribaltò con un frastuono assordante, rovesciando al suolo stoviglie, bicchieri e tutte le frittelle che Murad ci aveva appoggiato sopra a raffreddare.
   «Ehi, quelle dovevano essere davvero buone…» commentò Indy.
   Quella vista, unita all’odore dell’olio bollente che gli giunse alle narici, gli diede comunque l’idea improvvisa.
   Balzato in piedi con un vigore che sorprese persino il suo avversario, oltre che lui stesso, cercò con le mani le presine abbandonate sul pianale da lavoro. Quindi, stringendole, afferrò la pentola d’olio e, con un solo e fluido movimento, la scagliò contro il mostro.
   Il pentolone compì un arco perfetto nell’aria, prima di finire contro l’energumeno e rovesciargli addosso tutto il suo contenuto.
   Nell’aria si diffuse un odore ripugnante mentre il mostro di muscoli, emettendo grida inumane, si schiantava con pesantezza a terra, dove restò a contorcersi su se stesso in una maniera raccapricciante. L’olio bollente gli si appiccicò alla pelle, ustionandola completamente. Il fumo si innalzò da ogni parte del suo corpo, come se stesse per andare a fuoco.
   Indy lo osservò inorridito. Anche se aveva agito per puro istinto di sopravvivenza, non poté restare indifferente dinnanzi a uno spettacolo tanto orrendo. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse servirgli ad aiutare quel disgraziato. Accanto all’acquaio, notò un secchio pieno d’acqua.
   Con uno scatto, si precipitò ad afferrarlo. Fece un po’ di fatica a sollevarlo, a causa delle braccia indolenzite. Poi, con una mossa flessuosa, lo rovesciò addosso al disgraziato energumeno. Fu una scelta decisamente sbagliata, anche se l’archeologo se ne rese conto troppo tardi.
   L’acqua, infatti, al contatto con l’olio bollente, evaporò e schizzò da tutte le parti, provocando piaghe ancora più profonde e orribili nella carne del mostro. Il quale, però, come se si fosse improvvisamente rianimato, balzò in piedi e si avventò come una furia contro Indy, prendendolo a pugni con entrambe le mani. Forse a causa del dolore e della disperazione, la sua energia pareva quasi raddoppiata rispetto a prima.
   Colto alla sprovvista da quel nuovo attacco che non si aspettava di ricevere, Jones dovette rassegnarsi a venire colpito al petto, allo stomaco e al viso ripetutamente, prima di poter a sua volta fare qualcosa. Con la mano sinistra bloccò l’ennesimo pugno che gli stava arrivando addosso, afferrando il polso del gigante. Poi, con la destra, lo colpì ripetutamente al viso.
   La bestia incassò ogni colpo come se non fosse neppure stato sfiorato. Quindi, con una testata alla trachea, mise al tappeto l’americano, che si accasciò tossendo e ansimando. Prima ancora di toccare terra, tuttavia, Indy si sentì afferrare, sollevare in alto per l’ennesima volta e lanciare come un proiettile verso la finestra, che era chiusa da ante a grata che lasciavano filtrare poca luce.
   Con un volo tremendo, Jones investì la finestra, la sfondò completamente e si trovò steso al suolo all’esterno della casa.
   «Porca miseria…» imprecò, cercando di districarsi dai frammenti di legno.
    Alzò lo sguardo e, con sgomento, vide che il suo avversario si stava arrampicando fuori da ciò che restava della finestra, per poterlo raggiungere di nuovo. Fu una visione davvero orripilante: il mostro, lucido di olio bollente, emanava fumo e la sua carne, da cui la pelle si stava staccando a larghi lembi, era rossiccia e riarsa. Eppure, chissà in che maniera, era ancora sufficientemente vitale da non volersi arrendere.
   Approfittando del momentaneo vantaggio – l’energumeno stava trovando qualche difficoltà a passare attraverso lo stretto vano – Indy lanciò rapide occhiate tutto attorno in cerca di aiuto. Appoggiato al tronco dell’unica palma che ornava il disadorno giardino di Murad, notò un grosso e pesante badile arrugginito.
   Subito, l’archeologo si alzò, avviandosi in fretta verso l’albero. Inciampò nei propri piedi ancora insicuri, rischiando di cadere, ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Le sue mani si strinsero attorno al manico del badile nell’esatto momento in cui il suo mostruoso nemico, riuscito a uscire dalla casa, gli si avventava addosso, caricando a testa bassa come un toro infuriato.
   Con un movimento rapido e deciso, Indy girò su se stesso e colpì con una fortissima badilata la testa del colosso. Si udì un rumore sordo e, come un titano abbattuto, l’essere mostruoso si rovesciò all’indietro, crollando a braccia spalancate nella sabbia, con il sangue che usciva da una profonda ferita nella parte superiore del cranio.
   Respirando veloce, le mani strette attorno al manico del badile in posizione di difesa per essere pronto a un nuovo attacco, Jones gli si avvicinò guardingo. Lo osservò per qualche istante. Pareva proprio morto.
   «Maledetto… me ne hai dato, di filo da torcere» grugnì finalmente l’archeologo, lasciando andare il badile.
   Fu una leggerezza madornale.
   Come rianimatasi all’improvviso, la montagna di muscoli scattò a sedere e, afferrato il manico del badile prima ancora che toccasse terra, lo saettò come una spada, fendendo l’aria nel tentativo di colpire le caviglie di Indy. L’archeologo, spostandosi all’indietro con un veloce balzo, evitò appena in tempo quell’ennesimo attacco, ma con suo sommo orrore non poté fare altro, perché il mostro si alzò con agilità e, tenendo la pala alta sopra la testa come una clava, gli si avventò addosso, deciso a farla finita una volta per tutte.
   Jones, che non riusciva a credere ai propri occhi, si sentì invadere dal terrore più puro e, per la seconda, girò le spalle all’avversario e si diede alla fuga, arrancando lungo il terreno sabbioso. Esattamente come accaduto prima, il rumore di passi pesantissimi, che facevano tremare e rimbombare il terreno, e una serie di rauchi respiri, gli comunicarono che quel bestione non era affatto intenzionato a mollare.
   Di rado, in vita sua, Indiana Jones aveva avuto paura. Anche di fronte alle situazioni più spinose e intricate, aveva sempre mantenuto il suo sangue freddo e le aveva affrontate con ironia, consapevole che, al massimo, se proprio gli fosse andata male, sarebbe morto e non avrebbe avuto più alcunché di cui preoccuparsi. Forse soltanto i serpenti erano riusciti a fargli provare qualche brivido.
   Stavolta, però, iniziava a essere davvero terrificato. Di mostri muscolosi che parevano fatti di pietra e acciaio ne aveva pestati parecchi, spesso con parecchia fatica, ma non ricordava di averne mai visto uno che fosse addirittura immortale, capace di resistere a ustioni che avrebbero ucciso chiunque altro e a lesioni del cranio che, a persone normali, non avrebbero lasciato alcuno scampo.
   Continuando a correre, Indy superò una svolta della strada e, in lontananza di fronte a sé, vide il grande cantiere in cui si stava realizzando la struttura che avrebbe ospitato il tempio di Ramses una volta smontato e ricostruito. Chiedendo al proprio fisico un ultimo sforzo, accelerò la corsa e si avviò in quella direzione, sperando di poter trovare aiuto. Il mostro, però, non gli diede tregua, continuando a tallonarlo, come se non avvertisse in alcun modo la fatica o la sofferenza.
   Con il cuore in gola e il fiato corto, l’americano superò le reti di protezione che cingevano l’area e si guardò attorno. Il cantiere, in quel momento, sembrava essere deserto. Probabilmente, essendo ormai ora di pranzo, gli operai si erano ritirati per andare a mangiare. Una grossa scavatrice cingolata era ferma accanto a una montagnola di detriti e, per un istante, Indy valutò l’idea di salirci e utilizzarla per schiacciare il suo persecutore. Dovette scartare l’idea quando si rese conto che il mostro gli era già addosso, mulinando il badile come una sciabola.
   Si abbassò appena in tempo per evitare il nuovo attacco. La pala lo sfiorò, fischiandogli pericolosamente vicino all’orecchio, e Indy, non sapendo che cos’altro fare, ricominciò a correre. L’energumeno, però, stufo di quella fuga continua, scagliò in avanti la sua arma, colpendolo con violenza alla schiena.
   Dolorante e senza fiato, Jones stramazzò al suolo, rotolando tra sabbia, terra e frammenti di roccia. Un rumore sordo e un ringhio simile a quello di una bestia selvaggia lo informarono che il suo assalitore era già sopra di lui.
   «Dannazione…!» imprecò Indy quando quello, afferratolo sotto l’ascella, lo sollevò di peso dal terreno, per poi colpirlo con un pugno al collo e rispedirlo in terra.
   Il mostro cercò di ghermirlo un’altra volta e ripetere tutta l’operazione. Questa volta, però, l’archeologo strinse la mano attorno a una manciata di terriccio e, voltatosi all’improvviso, glielo scagliò negli occhi, guadagnando così qualche istante per trascinarsi sulle ginocchia e mettersi fuori portata.
   Mentre il marcantonio brancolava alla cieca, una mano protesa in avanti e l’altra che sfregava gli occhi nel tentativo di liberarli dalla terra, Indy prese la rincorsa e, in pochi passi, raggiunse l’immensa impalcatura a forma di gabbia metallica che, un giorno, sarebbe servita come scheletro interno della futura struttura templare.
   Non sapendo più a quale santo votarsi, dopo essersi gettato un’occhiata disperata alle spalle e aver scorto il gigante che riprendeva a inseguirlo, iniziò ad arrampicarsi, sperando che questo bastasse a mantenersi fuori portata.
   Non bastò.
   Come se non avesse avuto neppure il più piccolo graffio sul corpo, anche quel prodigioso mostro cominciò ad arrampicarsi lungo le impalcature, usando i travi metallici per sostenersi. Il suono dell’acciaio percosso dalle sue manate si propagò nell’aria con una vibrazione acuta. Indy, con suo sommo raccapriccio, scoprì che saliva veloce e agile come una scimmia, al contrario di lui, che stava facendo parecchia fatica a guadagnare metri. Quella schifezza umana doveva essere una specie di prodigio della scienza: poteva soltanto sperare di avere la possibilità di tramutarlo al più presto in un cadavere da donare a qualche laboratorio perché lo analizzasse e scoprisse come fosse fatto di preciso.
   Il colosso lo aveva già raggiunto e, tenendosi aggrappato con una mano a un tondino di metallo, cercò con l’altra di afferrargli la caviglia per poterlo strattonare. L’archeologo ritrasse appena in tempo il piede e, subito dopo, lo calò con rabbia contro le dita del mostro, strappandogli un uggiolio di dolore. Approfittando del momentaneo vantaggio, Indy diede un’altra pedata al nemico, questa volta sul naso, da cui sgorgò una lunga scia di sangue.
   «Muori, maledetto, muori…!» imprecò Indy, che iniziava a non avere più forze sufficienti per reagire.
   Ma la bestia, come se non avesse sentito proprio nulla, questa volta riuscì a catturargli lo stinco nella propria presa ferrea, tirando verso il basso. Jones, con uno sforzo incredibile, stringendo i denti e contraendo il viso in una smorfia, si afferrò più saldamente all’impalcatura e cercò di opporre resistenza. Il gigante lo stava strattonando così forte che temeva che, da un momento all’altro, gli avrebbe strappato la gamba. Inoltre, lo teneva talmente stretto che cominciava a perdere sensibilità all’arto.
   Doveva fare qualcosa, o sarebbe stata la sua fine.
   Con sforzo sovraumano, riuscì a sollevare il ginocchio e ad abbattere di nuovo la gamba verso il basso, costringendo l’energumeno a lasciarlo andare. Dopo avergli rifilato un forte calcio nella tempia, che però non bastò a indurlo a lasciar perdere, ricominciò a inerpicarsi lungo la struttura.
   L’archeologo continuò a salire, senza fermarsi né guardarsi attorno, sempre più in alto. Infine, quasi incredulo di esserci riuscito, raggiunse il vertice della struttura a forma di arco, a oltre trenta di metri di altezza dal suolo. Intravista un’impalcatura che gli avrebbe permesso di alzarsi in piedi, Jones si trascinò lungo la gabbia metallica, cercando di raggiungerla.
   Il suo tenace persecutore, però, non si diede per vinto, ripetendo ogni suo gesto nel tentativo di farsi più vicino e poterlo afferrare di nuovo. Indy, ormai, non riusciva a comprendere chi dei due fosse più ostinato, se il mostro nel volerlo uccidere o lui nel volersi sottrarre ai suoi generosi tentativi di omicidio. Decise che la sua personale ostinazione gli andava molto più a genio di quella del suo affezionato mostriciattolo.
   Finalmente, le mani dell’archeologo si strinsero attorno alla polverosa e instabile asse di legno che, in pratica, era la sola piattaforma che si trovasse a quell’altezza. Con un ultimo sforzo, si sollevò, vi salì stando in ginocchio e, subito, si alzò in piedi. Cercando di non badare al fatto che potesse disporre, per muoversi, di uno spazio largo una cinquantina di centimetri, sui due lati del quale si apriva un precipizio di oltre trenta metri, Indy mise mano alla frusta e si preparò a cominciare quella che, lo sperava, sarebbe stata la sua ultima manche contro il colosso. Gettò soltanto una breve occhiata al sottostante cantiere. Là sotto, ai piedi dell’immensa struttura in gabbia di ferro, scavatrici e furgoni sembravano i modellini di un plastico ferroviario.
   La testa ustionata e sanguinante del mostro fece capolino dal limitare dell’asse, entrambe le mani strette attorno al legno. Il suo sguardo pieno di odio e di rabbia fiammeggiò in direzione dell’archeologo che, malgrado tutto, riuscì a trovare il coraggio per atteggiare la labbra a un sogghigno ironico.
   «Non pensi che, invece di picchiarci in questa maniera, avremmo potuto andare in un bar e berci qualcosa in compagnia?» lo apostrofò, sarcastico.
   Poi, senza aspettare la risposta, tenendo una gamba in avanti e una indietro e il braccio sinistro sollevato verso l’esterno per mantenersi in equilibrio, Indy fece partire un colpo di frusta. Il nerbo, saettato con la solita agile eleganza, schioccò sonoramente e andò a colpire il volto del mostro. Il quale, però pur contraendo la faccia in una smorfia orrenda, continuò a salire.
   Incapace di credere a ciò che stava vedendo, Indy alzò un’altra volta il braccio armato e colpì di nuovo. Questa volta la frusta raggiunse con precisione l’occhio destro dell’energumeno, spappolandolo. Come se non fosse accaduto assolutamente nulla, il gigante diede una manata all’asse, piegandola verso di sé.
   Perso il proprio precario equilibrio, Indy cadde in ginocchio e si piegò in avanti, trovandosi ad abbracciare il legno per non cadere. Riuscì comunque a mantenere la presa sulla frusta e, appena vide che il mostro era salito sull’asse, sollevò il braccio e la scoccò in avanti, avvolgendogliela attorno alle ginocchia. A quel punto diede uno strattone, cercando di farlo cadere.
   Ma, ancora una volta, l’energumeno riuscì a sorprenderlo. Afferrato il nerbo, lo tirò verso di sé, con tale forza che Indy si sentì scottare il palmo della mano. Fu costretto a lasciarlo andare e il mostro, dopo essersi liberato le gambe, lo gettò via.
   Mentre lo faceva, Jones cercò di rialzarsi, preparandosi a sostenere quello che, lo sospettava, sarebbe stato il suo ultimo scontro. Dinnanzi agli occhi gli passò l’immagine di Marion, la sua amata moglie, e disse a se stesso che, forse, avrebbe fatto mille volte meglio ad andare da lei, piuttosto che partire per l’Egitto senza dirle nulla.
   Si sollevò, ancora piegato in due, ma un pugno del mostro lo raggiunse sopra la testa prima ancora che avesse potuto mettersi dritto. Il colpo fu duro e pesante; eppure, in qualche maniera, l’archeologo riuscì a incassarlo senza sbilanciarsi, aiutato anche dal cappello che attutì l’impatto. Il secondo e repentino attacco, che avvenne immediatamente dopo, invece, lo colse completamente di sorpresa e, questa volta, non poté fare nulla per evitarlo.
   Il colosso, infatti, lo colpì con una manata al fianco e lo spinse di lato. Indy si sentì mancare la solidità dell’asse da sotto i piedi e scoprì con orrore di stare precipitando. In un ultimo impeto di freddezza, riuscì ad allungare le braccia per stringersi attorno ai travi della gabbia.
   Fu come ricevere una scarica elettrica. Quando si appese, il dolore gli si propagò attraverso tutti i nervi, facendogli provare un crampo immane che, partendo dai polsi, gli attraversò il corpo da parte a parte, mozzandogli il fiato. In compenso, era ancora vivo e, soprattutto, non stava più cadendo di sotto. Cercando di ignorare la sofferenza che stava patendo, sollevò lo sguardo, per cercare di capire dove fosse finito il suo nemico.
   Lo vide, ributtante e disgustoso, in piedi sull’asse, soltanto pochi centimetri sopra di lui. Gli era parso di precipitare per decine di metri, mentre invece non era caduto che per pochissimo. Perlomeno, il suo nemico adesso non era in vantaggio; al contrario, Indy avrebbe potuto approfittare di quel momentaneo distacco per cercare di ridiscendere in fretta dall’impalcatura. Tuttavia, il colosso non parve affatto d’accordo con lui.
   Afferrato un lungo spuntone metallico che sporgeva dalla gabbia, lo strattonò un paio di volte fino a riuscire a divellerlo dalla sua sede. Indy sbarrò gli occhi. Non aveva mai visto nessuno riuscire a maneggiare l’acciaio come se fosse stato burro.
   Il suo stupore, però, lasciò il passo al terrore quando il mostro, sollevata la sbarra, la calò con forza verso di lui. Il colpo cadde a pochi centimetri dalle sue dita, mancandole di pochissimo e sollevando scintille che volarono dappertutto. Il colosso sollevò di nuovo il pezzo d’acciaio, pronto a colpirlo di nuovo, e Jones intuì che, questa volta, non avrebbe sbagliato la mira.
   Mosso più dalla forza della disperazione che dalle vere – e sempre più scarse – energie che abitavano il suo corpo, Indy staccò la mano destra dall’impalcatura e, continuando a mantenersi aggrappato con la sinistra, la strinse attorno al bordo dell’asse. Poi, a costo di farsi venire un’altra ernia in aggiunta a quella che già aveva nella schiena, fece leva con tutta la forza che gli rimaneva. In aggiunta a quella, vi si spinse contro anche con la spalla, mettendo ogni residua stilla di vigore in quell’operazione disperata.
   Il pezzo di legno, dapprima, non parve smuoversi. Poi, però, a poco a poco, cedette, fino a staccarsi con uno schianto secco dal supporto a cui era stato fissato. Sotto la sua spinta vigorosa, l’asse si ribaltò all’indietro.
   Per la prima volta, sul volto del mostro comparve l’ombra della paura. Lasciata andare la sbarra di metallo, agitò le braccia in alto e in avanti, nell’inutile tentativo di trovare qualche supporto a cui afferrarsi per non cadere. Fu una ricerca vana e le sue dita si strinsero attorno al nulla.
   Senza lasciarsi intenerire da quella visione, Jones continuò a spingere, finché l’asse cedette del tutto, capovolgendosi all’indietro e precipitando verso il suolo, trascinando con sé il proprio occupante. Per un breve istante, anche l’archeologo, spinto in avanti dalla forza cinetica, temette di cadere, ma riuscì appena in tempo ad afferrarsi alla gabbia, tenendosi stretto.
   Per il suo immane nemico, invece, andò molto peggio.
   Con un grido spaventoso, agitandosi tutto nell’angosciosa ricerca di un appiglio che non esisteva, il mostro precipitò verso il basso. Il suo volo parve durare un’eternità, mentre invece impiegò soltanto tre secondi a raggiungere il suolo. Impattò di testa, con la velocità di un proiettile, e il cranio gli si incassò completamente nella cassa toracica. Il suo corpo tremò ancora per un brevissimo istante, poi restò immobile, circondato da una pozza di sangue vischioso che scompariva in fretta nel terreno riarso e ghiaioso del cantiere.
   Indy distolse lo sguardo per non vedere quello spettacolo raccapricciante. Poi, senza perdere altro tempo, cominciò a discendere la gabbia di metallo, provando a ignorare tutti i crampi che gli attraversavano a ondate il corpo.

 
* * *

   Boris e Oleg, nascosti dietro un cumulo di terriccio, osservarono con immenso stupore l’archeologo che, dopo essere ridisceso a terra e aver recuperato la sua frusta, si allontanava a passi lenti dal cantiere. Poi il loro sguardo incredulo corse all’orribile visione del cadavere di Adham, il colosso a cui avevano affidato la perfetta riuscita del loro piano.
   «Non è andata come pensavamo…» borbottò Oleg, grattandosi la testa.
   «Quell’americano deve avere il diavolo dalla sua parte, non c’è altra spiegazione» commentò Boris, mettendo per una volta da parte l’ateismo a cui era obbligato dal Partito.
   Oleg guardò Jones che, proprio in quel momento, aveva raggiunto l’uscita del cantiere.
   «Potremmo occuparcene noi…» propose, seppure titubante. «In questo momento sembra abbastanza vulnerabile… se lo cogliessimo di sorpresa, forse…»
   Boris guardò l’archeologo, che effettivamente zoppicava ed era parecchio curvo, e valutò la proposta del collega; poi, però, il suo sguardo tornò di nuovo all’orribile visione del cadavere di Adham e provò a immaginare di esserci lui, al posto del colosso che avevano ingaggiato. Decisamente, non aveva nessuna voglia di mettere di nuovo alla prova Indiana Jones e scoprire di persona se avesse ancora qualche asso nella manica.
   «No» disse, cercando di mascherare la propria paura sotto un tono secco e autoritario. «La sua morte non deve essere collegata in nessun modo a noi, neppure per un minimo sospetto. Non possiamo agire di persona contro di lui.»
   Oleg tornò a respirare, sollevato. Neppure lui, in fondo, aveva molta curiosità di scoprire di che cosa ancora fosse capace quel coriaceo americano.
   «Allora, che cosa facciamo?» domandò.
   Il collega scosse il capo.
   «Non lo so, ancora. Ma qualcosa dovremo inventarci, e anche in fretta, oppure questa volta il compagno colonnello ci spedirà sul serio, in Siberia…»


 

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Capitolo 10
*** Interrogatorio ***


    10 - INTERROGATORIO

   «Ma si può sapere che cosa è successo?» domandò Sallah, guardandosi attorno nella cucina distrutta.
   Quando lui, Moshti e Yasmin erano rientrati, avevano trovato la casa in quelle condizioni. Murad, sconsolato, stava inchiodando con delle assi la finestra distrutta; Indy, che si era tolto giubbotto e camicia, era invece stravaccato a torso nudo sopra un divano, le mani malmesse occupate da un involto pieno di ghiaccio che cercava di passarsi sopra lividi ed escoriazioni.
   «Te l’ho detto, uno dei colossi di Ramses si è svegliato e ha deciso di venire a fare pugni con me…» borbottò Jones, cercando di comprimersi con il ghiaccio la spalla indolenzita.
   «Oh, zio Indy, aspetta, lascia che ti aiuti…» sussurrò Yasmin, intenerita.
   Gli si avvicinò e, strappatogli di mano l’impacco, cominciò a tamponarlo. Indy emise un gemito doloroso quando lei gli sfiorò un graffio particolarmente profondo.
   «Uhi… ferma…» si lamentò, cercando di sottrarsi alle sue cure non richieste. «Ahi… aspetta… faccio io… non ho bisogno di un’infermiera…»
   «Non fare il bambino e stai buono» ordinò Yasmin con tono pungente, continuando a passargli sulla pelle malconcia il fazzoletto freddo.
   Rassegnato, l’archeologo la lasciò fare. Lanciò un’occhiata a Sallah, che si era messo a sedere sopra una sedia girata, con braccia e testa appoggiate allo schienale. Moshti gli era a fianco e guardava con un sorrisetto la sorella.
   «Allora, avete trovato qualcuno che possa aiutarci?» borbottò.
   Strinse i denti e contenne a stento un nuovo gemito quando la ragazza gli scoprì un nuovo livido quasi alla base della schiena.
   «Sì, certo, Indy: ho messo insieme una squadra che fa al caso nostro…» replicò Sallah. «Tutta gente fidata, con cui ho già collaborato varie volte in passato…» Lo osservò preoccupato. «Ma mi vuoi dire cosa è accaduto? Chi ti ha ridotto in quelle condizioni?»
   Indy fece un sorrisetto, subito sostituito da una smorfia quando Yasmin, senza perdersi in troppe cerimonie, gli posò il ghiaccio sopra una grossa ecchimosi al di sotto del braccio sinistro.
   «Te l’ho detto, è stato un colosso…»
   Quindi, riassumendo in fretta, raccontò tutto ciò gli era capitato.
   «Due attacchi che sarebbero potuti essere mortali nel giro di una sola mattina mi paiono un po’ troppi» concluse. «Evidentemente, qualcuno non ha gradito il mio arrivo qui ad Abu Simbel e sta agendo in fretta e furia per togliermi di mezzo.»
   Moshti si passò una mano sui baffi.
   «Pensi che possano essere i russi, zio Indy?» domandò.
   L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «E chi altro, se no?» brontolò. «Avranno saputo che sono qui e probabilmente si sono spaventati. Avranno creduto che fossi qui per mettergli i bastoni tra le ruote. E, questo, ci fa capire una cosa: quella che hai sentito, Sallah, è una storia vera. I sovietici stanno davvero cercando il carro di Ramses, e lo vogliono al punto da essere pronti a sbarazzarsi di chiunque potrebbe essere loro d’intralcio.»
   Si alzò in piedi con un grugnito.
   «Non ho ancora finito!» lo richiamò Yasmin, guardandolo storto.
   L’archeologo le batté una mano sulla spalla.
   «Non importa, ci penseremo più tardi» rispose. «Ora dobbiamo darci da fare e passare al contrattacco. I russi non si arrenderanno e studieranno di sicuro un altro sistema per togliermi di mezzo, magari anche più sottile e meno pericoloso di quelli a cui sono ricorsi finora. E noi dobbiamo sbrigarci ad anticiparli prima che facciano qualcosa come rivolgersi al governo egiziano per chiedergli di caricarmi sopra un aereo e rispedirmi in America.»
   Indy afferrò la camicia che aveva buttato sopra lo schienale del divano e se la infilò.
   «Cos’hai in mente?» domandò Sallah, guardandolo mentre l’abbottonava.
   «Qualcosa che loro non si aspettano che io possa fare» replicò Indiana Jones.

 
* * *

   I colossi di Ramses II, con le teste cinte della corona che simboleggiava l’unione dell’Alto e del Basso Egitto, sorridevano immobili e ieratici all’oriente, con gli occhi rivolti ogni mattina al sole nascente, sebbene in quel periodo non potessero vedere in totale libertà il levarsi del sole a causa delle impalcature che gli coprivano gli occhi. Sul frontone del tempio, al di sopra delle imponenti sculture, una lunga serie di babbuini, uno per ciascuna provincia dell’antico Egitto, attendeva da millenni il medesimo momento, che si sarebbe ripetuto in eterno, fino alla fine del mondo. Ai lati dei colossi torreggiavano le statue di Nefertari e di Tuia, la moglie e la madre del sovrano, le sue donne più amate e rispettate; mentre, tra le loro gambe, facevano capolino i ritratti di quattro dei numerosi figli di Ramses. Sopra il portale d’ingresso, in una nicchia scavata nella roccia, il grande dio Ra-Harakhte, il sole del mezzogiorno, riceveva le offerte del faraone, il quale, rinnovando giorno per giorno i sacrifici dovuti alla divinità, permetteva che la legge di Maat continuasse a vivere nel paese e, di conseguenza, faceva sì che l’Egitto potesse prosperare.
   Mentre il tempio era stato concepito per accogliere la nascita di Khepri, il giovane sole del mattino, adesso Atum, il vecchio e stanco sole della sera, stava tramontando a occidente, per intraprendere il lungo viaggio nel mondo sotterraneo dove, in forma di dio dalla testa di montone, avrebbe combattuto dalla sua barca le forze del male, per rinascere a nuova vita all’alba seguente. Per tutte le migliaia di anni della loro storia, gli antichi egizi avevano atteso con ansia e trepidazione la nuova levata solare, timorosi che il grande dio fosse stato infine sconfitto da Apophis, il gigantesco serpente suo eterno nemico. Ma mai, neppure una volta, il dio aveva ceduto alle inside del suo mortale rivale.
   Tutti questi pensieri attraversarono in fretta la mente del professor Smolnikov, mentre si soffermava a osservare la facciata rupestre di quella che, a suo avviso, era la più bella e spettacolare costruzione eretta dagli Egizi nel corso della loro lunghissima storia. Nemmeno le piramidi di Giza, neppure l’immensa sala ipostila di Karnak e neanche l’austera e sacrale bellezza dell’isola di File riuscivano a reggere il confronto, se paragonati a una simile realizzazione. Pensare che tanta magnificenza fosse scaturita dalle mani di abili scalpellini vissuti in un’epoca remotissima era commovente persino per un comunista distaccato e solerte come lui.
   Adesso che il cantiere era silenzioso e in pace, inoltre, era molto più facile godere del respiro sacro di quel luogo. Era come trovarsi, ancora una volta, al cospetto del faraone in persona, il signore dell’Egitto, Horus incarnato in forma umana.
   Una smorfia comparve sul volto del professore. Non doveva lasciarsi suggestionare da quelle antiche superstizioni. Lui era lì per un motivo e, finalmente, era vicinissimo a compiere la sua missione. Soltanto quello contava: portare a termine il compito che gli era stato affidato e che, in breve, lo avrebbe consegnato alla storia, tramutandolo in un Eroe dell’Unione Sovietica. Il professor Vladimir Smolnikov sarebbe presto stato annoverato tra i più grandi uomini che avessero servito la causa del comunismo.
   Aveva lavorato sodo, ma c’era riuscito. Aveva scoperto, infine, l’ingresso alla stanza segreta. Per questa sera, aveva dovuto mandare a riposare i suoi aiutanti, fiaccati dall’ennesimo giorno di duro lavoro; ma, il giorno seguente, sarebbe stato quello fondamentale: sarebbe penetrato nel sotterraneo segreto e si sarebbe impadronito della Gloria di Amon. Tutto procedeva secondo i piani e, come aveva pensato, la presenza di Indiana Jones, che tanto aveva preoccupato il compagno colonnello, non aveva significato nulla.
   Alzò di nuovo lo sguardo al volto del faraone. La logica gli suggeriva di andarsene a dormire, per riposare in vista delle emozioni e delle fatiche che avrebbe dovuto affrontare il giorno seguente. Ma chi mai avrebbe potuto pensare di dormire in una notte magica come quella? Sentiva nell’aria tiepida il profumo della vittoria, leggeva nelle stelle che cominciavano a comparire nel cielo che si tingeva di blu scuro il presagio del suo immane trionfo. Andare a stendersi sulla brande e chiudere gli occhi in attesa di essere avvolto dal sonno sarebbe stato impossibile.
   Dall’ombra ai lati delle statue sbucarono all’improvviso due sagome che si mossero rapide verso di lui. Smolnikov le guardò sorpreso. Che si trattasse di quei due stupidi agenti del KGB che seguivano Volkov come cagnolini obbedienti? No, non potevano essere loro: non avrebbero mai indossato lunghi abiti di foggia egiziana, né si sarebbero avvolti le kefiah attorno al capo in quella maniera.
   Non ebbe nemmeno il tempo di porre una domanda, perché qualcun altro lo afferrò di sorpresa alle spalle, imbavagliandolo e tenendogli le mani bloccate. L’archeologo cercò di scalciare per liberarsi, ma una delle due figure che stavano venendo incontro si chinò e lo prese per le caviglie. Sollevato di peso, impossibilitato a urlare per chiedere aiuto, il professore cercò invano di ribellarsi; ma i tre uomini non gli badarono e lo trascinarono via di peso.

 
* * *

   «Questo non era previsto!» sibilò Boris, nascosto dietro il palo di una gru, osservando il rapimento di Smolnikov.
   «Pensi che dovremmo intervenire?» domandò Oleg, tremebondo.
   Boris valutò la situazione. I tre uomini, che sembravano arabi, e anche piuttosto robusti e coriacei, avevano già portato via Smolnikov, e non si vedevano più da nessuna parte. Se anche avessero voluto fare qualcosa, si sarebbero trovati a ciondolare alla cieca per tutto il cantiere.
   «No. Non abbiamo ordini in merito. Per quello che ne sappiamo, potrebbe essere stato il compagno colonnello Volkov in persona, a ordinare questo rapimento. Il compagno professore non sta dando i risultati sperati nei tempi previsti, e il colonnello ha già perso più volte la pazienza per i suoi ritardi. Forse ha deciso di punirlo. Non dobbiamo immischiarci.»
   Oleg titubò, non molto convinto da quelle parole.
   «E se non fosse opera del colonnello?» obiettò.
   «In questo caso, non cambierebbe nulla. Nessuno sa che siamo qui e nessuno lo saprà mai, se non glielo diremo» gli rammentò Boris. «Noi stiamo cercando Jones…»
   «Che, per altro, abbiamo perso» borbottò Oleg, cupo.
   Era da quando lo avevano guardato allontanarsi dal cantiere che non lo avevano più visto. Avevano provato a sbirciare nella casa del vecchio custode ma, a parte il sordo Murad che aveva ricominciato a friggere nella cucina rimessa a posto alla meglio, non avevano visto niente. Jones e i suoi amici se n’erano già andati, e loro non avevano idea di dove fossero finiti.
   «Solo momentaneamente» replicò Boris, ottimista. «Presto lo riacciufferemo e, quindi, ci faremo venire qualche buona idea per togliercelo di mezzo per davvero. Sempre, beninteso, che i nostri tentativi di ucciderlo non lo abbiano alla fine indotto a tagliare la corda, il che sarebbe per noi un bel vantaggio. In ogni caso, noi abbiamo l’incarico di occuparci di lui, non del professore. Noi non abbiamo visto niente di strano stanotte, giusto?»
   Oleg osservò il punto da cui i tre uomini avevano portato via di forza il professor Smolnikov e aggrottò le sopracciglia. Poi, però, annuì.
   «Giusto. Noi non abbiamo visto niente. Soprattutto, non abbiamo assistito a un rapimento.»
   Il collega gli fece un cenno di approvazione.
   «È così che si fa. Ci si occupa della propria missione e il resto non conta. Ognuno ha i propri compiti e non deve interferire in quelli degli altri. Ora andiamocene. Per stanotte non avrebbe alcun senso continuare a cercare Jones, tanto non lo troveremmo. Chissà dov’è, ormai. Dai, andiamo nel mio alloggio, ho una scorta di vodka sopraffina…»
   Perciò, in silenzio, senza più badare al tempio o rivolgere anche un solo pensiero al professore rapito sotto i loro occhi, i due agenti del KGB uscirono dal loro riparo e sgattaiolarono nell’oscurità.

 
* * *

   «Se ne sono andati» bisbigliò Moshti, guardando da dietro un muricciolo che era stato innalzato di recente per contenere i detriti che si accumulavano.
   Indy, che teneva bloccate le braccia del professor Smolnikov, fece un cenno affermativo.
   «Evidentemente ci siamo sbagliati. Quei due non dovevano essere le guardie del corpo del nostro amico» commentò.
   «Eppure sono certo di averli riconosciuti: li ho già visti in compagnia del colonnello Volkov» replicò Sallah, che sorreggeva il professore per le gambe.
   «Be’, vuol dire che i russi farebbero meglio a scegliersi dei collaboratori migliori» tagliò corto l’archeologo. Indicò a Moshti di fare strada. «Sbrighiamoci.»
   Guidati dal figlio di Sallah, i due amici trasportarono il professore, che continuava inutilmente ad agitarsi, in direzione della zona delle baracche. Ormai il cantiere era praticamente deserto e, i tre guardiani, erano vecchi amici di Sallah: per quella notte, avrebbero guardato altrove.
   Accostatosi alla porta di un prefabbricato che aveva tutte le tapparelle abbassate, Moshti bussò un paio di volte e sussurrò qualcosa. La porta venne aperta dall’interno e tutti e tre entrarono. Yasmin, che li stava aspettando dentro, richiuse in fretta, facendo scattare la serratura.
   Indy e Sallah lasciarono andare il professore, buttandolo a terra come se fosse stato un sacco di patate. Subito, l’archeologo sovietico, sebbene stordito, cercò di sgattaiolare verso la porta, ma Indy lo agguantò per la collottola e, sollevatolo di peso, lo sbatté contro uno scaffale pieno di faldoni, che si rovesciarono sulla testa del poveretto.
   «Mi riconosci, Smolnikov?» ruggì, dopo essersi abbassato la kefiah che gli mascherava i lineamenti, fissandolo da pochi centimetri di distanza.
   «J… Jones…!» balbettò quello, sbiancando.
   «Bene!» replicò Indy. «Così evitiamo di doverci perdere in lunghe presentazioni.»
   Lo sbatté ancora una volta contro lo scaffale, strappandogli un gemito, mentre Sallah e i due figli assistevano impassibili.
   «Si può sapere perché tu e i tuoi amici volevate farmi secco?!» sibilò l’archeologo, guardando il russo che scrollava la testa.
   «Io… non…» tentò di dire Smolnikov.
   «Risposta sbagliata!» ruggì l’americano.
   Lo lasciò andare e lo colpì con un violento montante al mento, mandandolo al tappeto. Fece cenno a Sallah di rialzarlo e, non appena il professore fu di nuovo in piedi, Indy lo bersagliò con un gancio demolitore, che lo rovesciò un’altra volta sul pavimento.
   «Allora?!» lo incitò.
   «Io non ho…» grugnì il sovietico, prima di lasciar partire un urlo acuto: Indy gli stava schiacciando la mano destra con il piede.
   «Dimmi la verità o ti stritolo!» lo avvertì. «Non sono un uomo paziente e, stasera, non ho proprio tempo da perdere!»
   Smolnikov piagnucolò qualcosa e alzò gli occhi imploranti verso Yasmin, forse sperando che il suo animo femminile potesse indurla a venire in suo aiuto. La ragazza, però, lo stava fissando a braccia conserte e non mosse un solo muscolo. Da lei, e da nessun altro in quella stanzetta soffocante, a malapena rischiarata dalla luce giallognola dell’unica lampadina che pendeva dal basso soffitto, non avrebbe potuto aspettarsi alcun soccorso.
   «Non è partita da me l’iniziativa, io non c’entro niente!» riuscì finalmente a dire il poveretto, mentre le fitte dolorose iniziavano a risalirgli lungo il braccio.
   Indy schiacciò più forte, concentrando tutto il suo peso sulla mano di Smolnikov.
   «Non mentire!» ordinò, secco.
   «Non sto mentendo, lo giuro!» urlò il sovietico. «È stata un’idea del colonnello… temeva la sua presenza qui… e poi voleva vendicarsi per una vecchia storia…»
   Dopo aver riflettuto per un secondo, Jones si decise a lasciarlo andare. Smolnikov si rannicchiò in posizione fetale, tenendo stretta a sé la mano e piagnucolando.
   «La mia presenza qui, eh?» borbottò, alzando lo sguardo verso Sallah, che annuì.
   «Forse Volkov aveva paura che tu fossi qui per interferire nella loro ricerca» ipotizzò lo scavatore.
   «È probabile» grugnì Indy.
   Piantò un calcio nel fianco di Smolnikov per richiamare la sua attenzione.
   «Pensavate forse che potessi intromettervi nel vostro tentativo di trovare il carro di Ramses?» lo inquisì.
   Come colpito da un fulmine, Smolnikov alzò su di lui uno sguardo stupefatto, dimenticandosi di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi patimenti.
   «Parla!» lo incitò bruscamente l’archeologo, sferrandogli un altro calcio.
   «Quindi è vero! Ma come fa lei a sapere del…» cominciò a dire Smolnikov, ma Indy non gli lasciò il tempo di continuare.
   Agguantatolo un’altra volta, lo sollevò da terra e lo sbatté contro il muro, rifilandogli un paio di rapidi cazzotti nello stomaco, così forte che lo costrinse a piegarsi in due. Subito, però, gli afferrò il mento e glielo spinse con forza all’indietro, per costringerlo a guardarlo.
   «Qui dentro le domande le faccio io!» gli ricordò. «E ora, te lo ripeto un’ultima volta: Volkov temeva forse che io potessi cercare la Gloria di Amon al posto vostro?!»
   Smolnikov lo guardò e si rese conto che faceva sul serio. Quel bestione americano non si sarebbe mai fermato, pur di strappargli le informazioni che voleva. E, per quanto fosse pronto a diventarne un eroe, il professore non aveva ancora voglia di immolare la propria vita per l’Unione Sovietica.
   «È così» ammise. «Il colonnello Volkov ha saputo del suo arrivo questa mattina stessa e ha dato immediatamente l’ordine di toglierla di mezzo. A me, invece, ha comunicato di procedere come sempre, ma di raddoppiare gli sforzi. E, infatti, sono ormai vicinissimo a…» Si morse la lingua. Non doveva esagerare, correndo il rischio di dire troppo.
   Ormai, però, il guaio era stato fatto.
   «Siamo vicinissimi» lo corresse Jones. «Perché, adesso, tu mi porterai nel posto in cui è nascosta la Gloria di Amon e mi aiuterai a recuperarla.»
   Smolnikov, in un impeto di fierezza, scosse eroicamente il capo.
   «No, mai e poi mai!» urlò.
   Il pugno di Indy lo raggiunse al volto, subito seguito da un secondo e da un terzo. Gli incisivi di Smolnikov saltarono tutti, riempiendogli la bocca di sangue. Un quarto pugno, diretto allo stomaco, gli tolse il fiato, e un quinto, al petto, gli incrinò le costole. Una ginocchiata all’inguine lo lasciò definitivamente senza forze, facendolo piegare su se stesso.
   «Scegli tu» concesse Indy, con tono minaccioso, portando la mano sotto la lunga veste. «O mi porti subito allo scavo che tu e i tuoi accoliti state eseguendo in segreto…» Estrasse la mano, armata con il revolver, che puntò alla testa del poveraccio. «…oppure, domani mattina, in questo cantiere verrà trovato il cadavere di un russo.»
   Smolnikov strinse i pugni e ansimò, ma infine fu costretto a cedere alla violenza.
   «Metta via quell’arnese, Jones» sussurrò, sputando sangue. «La condurrò al sotterraneo…»
   A un cenno dell’archeologo, Sallah e Moshti afferrarono il sovietico e lo sollevarono. Dopo avergli stretto di nuovo il bavaglio attorno alla bocca, tenendolo per le braccia, lo condussero fuori dalla baracca.
   Indy, invece, restò indietro insieme a Yasmin, per recuperare il cappello che, in precedenza, aveva ripiegato e infilato nella cintura. Con una scrollata lo rimise in forma e se lo pose sulla testa.
   «Sei stato un po’ cattivello con lui, zio Indy» commentò la ragazza, guardandolo di sbieco.
   Jones si strinse nelle spalle.
   «Oggi ho rischiato due volte di finire fatto a pezzi per colpa sua e dei suoi capi» borbottò. «Sì, immagino di aver avuto la mano piuttosto pesante. A dire il vero non volevo arrivare al punto di rompergli i denti, quello mi è scappato senza volerlo. Vorrà dire che gli rifonderò le spese odontoiatriche. Ma in ogni caso se lo meritava, anche solo per il fatto che sia intenzionato a trovare il carro di Ramses per trasformarlo in una nuova arma, come se non avessimo già abbastanza bombe e missili dappertutto. E poi dobbiamo sbrigarci, il tempo stringe.»
   Fece per avviarsi dietro agli altri, ma vide che la giovane esitava, come se avesse voluto domandargli qualcosa. Si voltò a guardarla e la incitò con lo sguardo, fissandolo nei suoi grandi occhi color nocciola.
   «Davvero…» mormorò Yasmin, con la voce che tremava leggermente, «…davvero lo avresti ucciso, se non avesse acconsentito ad aiutarci?»
   Un sogghigno ironico comparve sul volto di Indiana Jones. Puntò la pistola verso l’alto e fece scattare numerose volte il grilletto. Ciascuna di esse, il cane risuonò a vuoto.
   «Scarica» ammise. «Ma, quando la gente non lo sa, l’effetto è lo stesso che farebbe se fosse carica, non trovi?»
   Yasmin ridacchiò, sollevata, e lo seguì fuori dalla baracca.


 

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Capitolo 11
*** Nel tempio ***


    11 - NEL TEMPIO

   Costretto a muoversi da Sallah e da Moshti che lo tenevano stretto e non lo perdevano di vista neppure un istante, il professor Smolnikov si incamminò in direzione del tempio maggiore. Indy, che gli era alle spalle insieme a Yasmin, sbottò: «C’è qualcuno dei tuoi, di guardia?»
   L’archeologo sovietico non rispose. Indy, spazientito, sollevò il revolver e glielo premette contro la nuca, facendogli sentire con chiarezza il suono tetro del cane che si armava. Tanto bastò perché Smolnikov ritrovasse la favella.
   «Non c’è nessuno…» bofonchiò, a causa della bocca bendata. «Ho mandato tutti a dormire… non avevamo ragione di montare la guardia…»
   Indy provò a cercare qualche traccia di menzogna nella sua voce, ma non ne trovò. Per il momento, non poteva fare altro che fidarsi di quella carogna. Tuttavia, mentre abbassava l’arma, ci tenne a mettere le cose bene in chiaro con una minaccia niente affatto velata.
   «Spero per te che sia vero, perché altrimenti il primo a rimetterci la pelle sarai tu, ricordartelo.»
   Proseguirono in silenzio, accompagnati soltanto dallo scricchiolio della sabbia e della ghiaia sotto i piedi e dal fruscio delle onde del fiume che scorreva a poche decine di metri di distanza. Di quando in quando, dalla sponda opposta si levava il richiamo di un qualche rapace notturno. Una brezza leggera, che soffiava dal meridione, portava con sé i profumi dell’Africa misteriosa.
   Nel buio della notte ormai inoltrata, il tempio maggiore apparve come una massa cupa e informe che si innalzava contro il cielo blu trapunto di stelle. Indy, dimenticando per un momento la sua missione, si rivolse mentalmente a Ramses II e a tutte le divinità dell’antico Egitto, domandando scusa per il disturbo che, gli uomini moderni, stavano arrecando al loro millenario riposo. Ma, chissà, forse l’antico re e i suoi dèi sarebbero stati grati ai loro lontani discendenti per l’impegno che stavano mettendo nel tentativo di salvare dalle acque della piena i loro splendori che, altrimenti, avrebbero rischiato di andare perduti per sempre.
   Il gruppetto si fermò in prossimità di uno dei colossi.
   «Allora?» indagò Sallah, scuotendo il russo.
   Quello chinò il capo, sconfitto.
   «Dobbiamo entrare… è lì che stiamo lavorando…»
   «Facci vedere dove, di preciso» ordinò Indy, brusco. Un’altra volta, la canna gelida del suo revolver raffreddò la cute di Smolnikov. «Ma niente scherzi.»
   Rassegnato, l’archeologo sovietico si rimise in cammino, guadagnando l’ingresso del tempio.
   L’interno era caldo e soffocante, ma non completamente al buio. Lungo la navata centrale della prima sala, ai piedi delle imponenti statue del faraone in forma di Osiride che sostenevano il soffitto, erano infatti state disposte alcune lampade alogene che, per quanto fioche, illuminavano a sufficienza l’ambiente.
   Un’altra volta, tutti si fermarono, ma questa volta per un motivo differente da quello di poco prima. Era impossibile, in effetti, entrare in quel luogo senza riuscire a trattenere il fiato per lo stupore. Per quanto bene lo si conoscesse e per quante volte vi si avesse posto piede in precedenza, ogni volta era un’esperienza unica, straniante.
   Indy si volse verso destra, osservando le pareti dipinte che raffiguravano Ramses II impegnato nella battaglia di Qadesh. Il faraone vittorioso, a bordo del suo carro d’oro, scoccava frecce micidiali contro i suoi nemici, distruggendoli uno per uno. Era già stato lì, aveva già visto quei dipinti, eppure adesso gli stavano facendo un effetto diverso dal solito. Forse era per via del fatto che, molto presto, se le cose fossero andate come pensavano, si sarebbe trovato ad avere a che fare sul serio, con quel carro su cui era salito Ramses il Grande.
   Non doveva lasciarsi suggestione, né trasportare dalla fantasia.
   «Allora, Smolnikov?» ringhiò, dandogli uno spintone. «Muoviti, non abbiamo tutta la notte!»
   Il professore fece cenno di proseguire lungo la grande sala. A passi lenti, ne raggiunsero l’estremità ma, una volta lì, anziché proseguire verso la seconda sala, oltre la quale si trovava il cosiddetto sancta sanctorum, il sovietico li fece deviare in direzione di una delle numerose sale secondarie che si aprivano nel fianco della montagna, sulla parte destra del tempio.
   Si inoltrarono in quella che si trovava all’estremità più lontana dall’ingresso, con pareti disadorne e grossolanamente intagliate, come se la stanza non fosse stata completata. Lì, comunque, ebbero la sorpresa di scoprire che buona parte del pavimento era stato rimosso e che, anziché la viva arenaria dei monti della Nubia, erano state portate alla luce alcune pietre lavorate a mano, con molta maestria, posate di proposito in quel luogo.
   «Quello è l’ingresso del sotterraneo» borbottò Smolnikov, chinando il capo. «Domani avremmo dovuto rimuovere quell’ultimo strato di pietra e…» Non terminò la frase, borbottando qualcosa di indistinto.
   Senza badargli, Jones si avvicinò alla copertura di pietra e la esaminò, passandovi sopra le dita. Era infissa saldamente nel terreno ma, mettendosi di buona lena, sarebbe stato possibile smuoverla nel volgere di poche ore soltanto. Si voltò verso Sallah.
   «I tuoi ragazzi sono pronti?» domandò.
   L’egiziano annuì con sicurezza.
   «Aspettano solo un mio cenno» assicurò.
   «Allora valli a chiamare» disse Indy. «Prima ci mettiamo all’opera e meglio sarà. Dobbiamo fare in modo di trovare il carro e farlo sparire prima che gli operai del cantiere tornino al lavoro, domattina.»
   Quelle parole suscitarono uno scatto d’orgoglio nel professor Smolnikov.
   «Voi non potete! Non avete nessun diritto di proseguire con questa ricerca!» strillò, così forte che il bavaglio che aveva sulle labbra divenne del tutto inutile. «Questa è una mia scoperta, compiuta nel nome dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche!»
   L’americano gli gettò addosso uno sguardo colmo di sarcasmo.
   «Una scoperta portata avanti di nascosto, senza informare nessuno dei vostri piani e fregandovene di tutti i trattati internazionali?» sbottò. «E immagino che cerchiate la Gloria di Amon per esporla in un museo, dico bene?»
   Smolnikov, per quanto malmesso, sostenne con fierezza il suo sguardo.
   «Quello che vogliamo farne noi, del carro, non è affare che riguardi un americano impiccione!» urlò. «Per il trionfo finale del comunismo, questo e altro…»
   Con un manrovescio, Indy lo colpì violentemente al volto, tanto forte che lo fece sfuggire di mano a Moshti e Sallah, che ancora lo stringevano. Il professore andò a sbattere contro un muro e, picchiata la testa, si accasciò al suolo, privo di sensi.
   «Scusatemi, ma cominciava a starnazzare troppo e, a quest’ora di notte, non ho mai voglia di ascoltare deliri sul comunismo» si giustificò Indy, scrollando la mano dolorante per il pugno che aveva sferrato.
   Rivolse un cenno eloquente a Sallah, che si allontanò subito per andare a chiamare i suoi uomini, quindi si girò a contemplare la lastra sul pavimento, provando a immaginare che cosa si nascondesse al di là. L’eccitazione della scoperta imminente lo avvolse tutto, dandogli i brividi. Per l’ennesima volta, Indiana Jones sarebbe stato testimone dello svelamento di un segreto protrattosi per migliaia di anni.

 
* * *

   Come al solito, aver fatto affidamento su Sallah si rivelò la mossa vincente. La squadra che aveva messo insieme nel giro di così poche ore cominciò infatti a lavorare di buona lena, senza fare domande, subito dopo essere sopraggiunta e aver ricevuto le indicazioni sul modo in cui procedere. Erano tutte persone fidate, con cui Sallah aveva già collaborato diverse volte in passato, e anche in questo caso lo scavatore non ne rimase affatto deluso.
   Sotto la sua guida, gli uomini cominciarono a picconare le pietre, nel tentativo di staccarle dal pavimento, accumulando in un angolo i frammenti di pietra mano a mano che venivano rimossi. Molto presto, la sala cominciò a rintronare del rumore degli attrezzi e a riempirsi di polvere bianca e sottile, che creò quasi una specie di nebbiolina fitta e fastidiosa.
   Mentre Yasmin e Moshti montavano la guardia al professor Smolnikov, che dopo aver riacquistato i sensi era rimasto fermo al proprio posto, a guardare con aria corrucciata quei lavori che avrebbe desiderato dirigere lui stesso, Indy cominciò a fare la spola da un operaio all’altro, per correggere, dirigere, suggerire. Nel giro di pochi minuti, tuttavia, si rese conto che quelli erano uomini davvero molto esperti e che la sua presenza si stava rendendo superflua e ingombrante
   Quindi, fatto cenno a Sallah di proseguire con il lavoro, dopo essersi sfilato l’ampia veste che aveva indossato sopra i soliti abiti, tornò nella sala principale. Lì i rumori dei lavori giungevano attutiti, appena percettibili. Nulla doveva turbare la millenaria pace del faraone, che lo osservava sereno dall’alto delle sue imponenti statue in forma di Osiride, signore dell’aldilà e della vita eterna.
   Con le mani in tasca, Indiana Jones si perse a contemplare i bellissimi dipinti che raffiguravano Ramses II che andava alla carica contro gli Hittiti, mentre le sue labbra compitavano in silenzio le parole di alcuni passi del poema di Pentaur, la narrazione in forma epica della battaglia di Qadesh. In particolare, si soffermò a riflettere sulle parole che il faraone aveva rivolto al dio Amon per convincerlo a concedergli la vittoria. Era stato in quel momento che il carro d’oro e il suo occupante si erano tramutati in quell’arma micidiale che era stata capace di sbaragliare da sola un intero e agguerrito esercito.
   Si passò una mano sul mento coperto di ispida barba, pensieroso.
   Che cosa c’era, di vero, in quella storia? Era pura fantasia, un’esagerazione faraonica per porre l’accento sull’unico episodio favorevole di una guerra altrimenti rivelatasi un disastro, come sostenevano gli storici e gli egittologi? Oppure, c’era sotto qualcos’altro, qualcosa che esulava dalle conoscenze della scienza e che sfuggiva a tutti i tentativi fatti per ricostruire il passato?
   Indy, nel tempo, aveva imparato ad accettare che non tutto potesse essere ricondotto a una soluzione razionale; o, perlomeno, non a una soluzione facilmente intuibile e rintracciabile con gli strumenti tradizionali. Era stato il suo maestro Abner Ravenwood, il più grande archeologo che avesse mai conosciuto in vita sua, il primo a insegnargli tutto questo, mettendolo su quella strada che conduceva alla comprensione del fatto che esistessero cose molto più grandi di quelle che era possibile conoscere con i sensi. Con la sua convinzione che l’Arca dell’Alleanza esistesse davvero, celata in un luogo preciso, Ravenwood gli aveva voluto far capire che non sempre ci si può affidare alla semplice e pure logica. Un insegnamento, peraltro, che anche suo padre aveva cercato di infondergli, con quella sua lunghissima ricerca del Santo Graal, una ricerca molto più spirituale che concreta.
   Lui, in un primo momento, non aveva voluto dar loro retta. Aveva fatto orecchie da mercante a quelle che pensava fossero soltanto semplici e inutili chiacchiere. Era scettico e certe cose non attaccavano, nella sua mente. Pensava che simili discorsi fossero pura follia, oppure – quando proprio era di buon umore – si diceva che fossero dettati più che altro da un desiderio inconscio di qualcosa che andasse oltre il mondo fisico.
   Non che col tempo avesse perduto il suo scetticismo, chiaro. Per Indiana Jones c’era sempre un’altra spiegazione, nonostante tutto. Una spiegazione che, in molti casi, era nascosta così bene da non poterla trovare mai; ma questo non significava per forza di cose che non esistesse. Eppure, non poteva negare a se stesso di essere stato testimone di fatti e di avvenimenti che sembravano fare a botte con il buon senso e con la razionalità.
   E, adesso, si apprestava per l’ennesima volta a mettere da parte le sue più profonde e radicate convinzioni per abbracciare qualcosa di strano, diverso, insolito. Di nuovo, avrebbe dovuto dimenticarsi della logica che faceva di lui un uomo di scienza per diventare spettatore di qualcosa che, con la scienza, non aveva alcunché a che fare.
   Naturalmente – e ci avrebbe sperato fino all’ultimo – poteva anche darsi che fosse tutto un abbaglio. Magari il carro d’oro a bordo del quale il faraone aveva combattuto a Qadesh era davvero sepolto lì, ad Abu Simbel, in una camera segreta mai individuata in precedenza dagli studiosi; non sarebbe nemmeno stato così assurdo, considerato che il tempio era stato eretto per commemorare quella grande impresa. L’idea che una simile e preziosa reliquia fosse stata conservata non era poi troppo lontana da una possibilità concreta. Se, in quegli stessi anni, i tecnici del museo dello Smithsonian stavano smontando e restaurando completamente il bombardiere Enola Gay in vista di una futura esposizione museale, perché non si poteva credere che gli Egizi non avessero fatto qualcosa di simile con quello che poteva in un certo senso essere considerato come il bombardiere atomico della tarda Età del Bronzo?
   Questo, però, non avrebbe per forza dovuto significare che, la Gloria di Amon, possedesse sul serio quei poteri che le venivano attribuiti dalle leggende. Forse quella era davvero soltanto una fantasia troppo focosa di un russo che, abituato ai climi freddi di Mosca, aveva perduto la ragione sotto il sole cocente della terra d’Egitto.
   Un passo leggero alle sue spalle lo fece voltare di scatto. Era Yasmin.
   «Perdonami, zio Indy, non volevo spaventarti» si scusò la ragazza, vedendolo scattare in quel modo. «Solo che, con tutto quel baccano, non riuscivo più a rimanere di là.»
   Jones scosse il capo, allargando le labbra in una smorfia che sarebbe dovuta essere un sorriso.
   «Figurati…» replicò. «Ero sovrappensiero, non ti ho sentita arrivare…»
   Yasmin lo studiò con attenzione.
   «Mi sembri turbato» constatò. «Sei preoccupato che i sovietici possano scoprirci?»
   L’archeologo, questa volta, cercò di sorridere con un po’ più di umanità. Non era certo dei comunisti, che aveva paura. Quelli avrebbe sempre potuto prenderli a calci nel sedere, come si conveniva a uomini in carne e ossa.
   «No» confessò. «Dei russi me ne frego altamente. È di quello che ci aspetta in quel sotterraneo, che mi preoccupo.»
   La giovane inarcò le delicate sopracciglia.
   «Temi che possa esserci qualche trabocchetto?» domandò.
   «Oh, quelli…» borbottò Indy, alzando le spalle. «No, no, figurati.» Scosse il capo. «No, è il carro di Ramses che mi preoccupa.»
   Yasmin lo scrutò con sguardo limpido e curioso.
   «E perché?» chiese.
   «Be’, se è vero che è capace di fare ciò che raccontano le storie…» bofonchiò Indy, voltandosi a contemplare le immagini e i geroglifici che narravano la battaglia di Qadesh, «…non è certo qualcosa da trattare alla leggera. Dobbiamo andarci molto cauti, o potrebbe procurarci un sacco di guai.» Ripensò alle parole che, tanti anni prima, Sallah gli aveva rivolto riguardo all’Arca dell’Alleanza, e pensò che si sarebbero adeguate benissimo anche a questa nuova situazione. «Non è un oggetto terrestre. Se è vero che è emanazione di un dio…»
   La figlia del suo amico gli posò la mano sul braccio, stringendoglielo con delicatezza.
   «Il dio Amon ha abbandonato queste terre, zio Indy, e con lui tutte le altre antiche divinità che popolavano le credenze egizie…» gli rammentò.
   Indy si voltò di nuovo a guardarla, questa volta con maggiore intensità. Restò in silenzio per un momento, mordendosi le labbra con nervosismo, come se stesse cercando le parole adatte con cui ribattere a quell’affermazione che, in un certo senso, sembrava mettere la parola fine a tutti i suoi timori reverenziali.
   «Non ne sarei tanto sicuro» replicò, con tono secco. «Gli dèi dell’antichità erano forti allora quanto lo sono oggi, dopo migliaia di anni. L’arrivo di un nuovo dio non può averne uccisi gli altri. Il Nilo, le sabbie, il sole che splende ogni giorno sull’Egitto, sono ancora circonfusi della potenza di Ra, di Amon, di Seth, di Osiride e di Iside…»
   Udendo quelle parole, e soprattutto notando il suo sguardo fattosi enigmatico, la ragazza sbiancò visibilmente e ritrasse la mano. Indy si rese conto di averla spaventata, il che non era affatto sua intenzione. Prontamente, riprese la sua mano e la tenne tra le proprie, proprio come faceva quando Yasmin era ancora una bambina e lui, in visita a Sallah, sedeva sul divano e raccontava a lei e ai suoi fratelli i miti e le fiabe dell’antico Egitto, infarcendoli di dettagli divertenti e inventati di sana pianta per farli ridere.
   «Ti chiedo scusa, piccola mia» sussurrò. «Non volevo farti paura. Non devi badare a me. Sono diventato un vecchio e, quindi, faccio discorsi superstiziosi, come ogni vecchio che si rispetti. Ignorami, quando faccio così, oppure tirami uno scappellotto per farmi rinsavire.» Sogghignò e le rivolse un occhiolino. «D’accordo?»
   L’ombra della paura scomparve dal volto di Yasmin e le sue labbra si schiusero in un sorriso dolce e allegro.
   «D’accordo, zio Indy» rispose. Cominciò a ridacchiare, divertita, mentre gli cingeva il fianco con il braccio libero. «Ma ricordati che tu non sarai mai abbastanza vecchio per impedire che io sia follemente innamorata di te! Il tuo fascino non ha età. Ti ho mai detto che il mio sogno segreto è sempre stato quello di sposarti?»
   L’archeologo le fece un altro cenno eloquente, mettendosi a ridere a sua volta.
   Tutto il nervosismo che lo aveva invaso pochi minuti prima scomparve all’improvviso, cedendo il posto alla spensieratezza. Del resto, era sul punto di compiere una nuova scoperta, in compagnia del suo amico di sempre, con la prospettiva – in fondo, nonostante tutto, sempre allegra – di dover fare a botte con i russi da un momento all’altro; e, per di più, una ragazza di trent’anni lo stava lusingando, per quanto in maniera scherzosa. Che cosa avrebbe potuto desiderare di più?
   «Va bene, l’hai detto» replicò, allegro. «Lo terrò presente nel caso che la zia Marion decidesse di buttarmi fuori di casa una volta per tutte.»
   In quel momento, all’altro capo della sala, si affacciò Moshti che, dopo essersi guardato attorno per individuarli, cominciò a gesticolare nella loro direzione.
   «Zio Indy! Presto! Hanno trovato qualcosa!»
   Dopo essersi scambiati un’ultima occhiata, Indy e Yasmin si lasciarono andare e cominciarono a correre nella sua direzione.


 

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Capitolo 12
*** La galleria ***


    12 - LA GALLERIA

   Lavorando di buona lena, gli operai reclutati da Sallah avevano rimosso le pietre che erano state sistemate come copertura, rivelando una pesante lastra rettangolare che vi si trovava al di sotto. Indy, fatto un cenno perché gli passassero una torcia, si inginocchiò per esaminarla più da vicino.
   Non c’erano dubbi. Si trattava di un ingresso murato. Sulla lastra erano persino incisi dei geroglifici che, seppure quasi del tutto corrosi e cancellati, mostravano ancora di essere stati una preghiera in onore del dio Amon, in quel caso soprannominato come “il Trionfatore” e “il Devastatore dei popoli asiatici”. Il grande dio, al di sotto delle parole scritte, era persino raffigurato come un uomo dalla testa di ariete, sormontato dal disco solare, mentre guidava un carro; di fronte a lui, il faraone, con i piedi poggiati sopra i cadaveri degli Hittiti dalla lunga barba, porgeva dell’incenso in segno di offerta e di ringraziamento per la vittoria concessagli. Era impossibile sbagliarsi.
   «Bene» commentò l’archeologo, rialzandosi.
   «È quello che cercavamo?» domandò Sallah, ansioso.
   Anziché rispondergli, Jones si voltò verso il professor Smolnikov, che fu costretto a rivolgergli un cenno affermativo.
   «È l’ingresso dell’ipogeo di Abu Simbel» borbottò.
   Sebbene fosse a disagio, nonché ancora completamente dolorante, non riusciva a staccare gli occhi da quella lastra che doveva celare segreti importantissimi.
   Dal canto suo, Indy fece un gesto verso Sallah.
   «D’accordo, ragazzi, mano agli attrezzi e diamoci da fare» ordinò subito l’egiziano.
   Gli operai, senza perdere tempo, raccolsero dal mucchio degli attrezzi che avevano portato con sé dei lunghi e robusti palanchini. Tutti insieme, ritmandosi con la voce e incitandosi a vicenda, cominciarono a darsi da fare per rimuovere la pesante lastra di pietra.
   Indy, affiancato da un lato da Yasmin e dall’altro da Moshti, si sentiva ipnotizzato da quella visione. Era come se una scarica elettrica lo stesse attraversando da parte a parte, provocandogli dei brividi che non avevano niente a che fare con la temperatura dell’ambiente circostante. Si sentiva euforico ed emozionato per l’idea di essere sul punto di una nuova e imminente scoperta che, in un certo senso, avrebbe sconvolto tutte le sue credenze e le sue più profonde e radicate convinzioni. Era sempre la stessa storia. Anche se stava a poco a poco diventando vecchio – checché ne dicesse Yasmin, era proprio così – ogni volta che si trovava in situazioni del genere si sentiva come se avesse avuto ancora vent’anni.
   Poco alla volta, grazie agli sforzi congiunti degli uomini di Sallah, la piastra iniziò a cedere. Dapprima fu un movimento quasi impercettibile, che si sarebbe potuto confondere con un inganno della vista dovuto alla penombra che avvolgeva la sala. Poi, però, quasi all’improvviso, la pietra granitica si staccò dal pavimento di arenaria, sollevandosi. Si spostò soltanto di pochi centimetri, ma tanto bastò perché vi venissero conficcati sotto dei cunei per tenerla alzata. Infine, aiutandosi con i palanchini e con le mani, gli operai poterono spostarla di lato quel tanto che fu sufficiente a rivelare un lungo e tetro corridoio che, dopo alcuni gradini che conducevano in basso, scendeva obliquamente nelle profondità della montagna.
   In quel momento, sull’intera sala calò il silenzio. Un silenzio fatto di attesa, di meraviglia, di stupore.
   Allontanandosi di qualche passo dai figli di Sallah, Indy si avvicinò all’ingresso del corridoio e vi scrutò all’interno, cercando di discernere che cosa si celasse oltre quelle tenebre. Era consapevole che, con ogni probabilità, prima di quel giorno, gli ultimi occhi a essersi posati su quel buio impenetrabile dovevano essere stati quelli di Ramses II, il grande faraone.
   Alzò lo sguardo e incontrò quello di Sallah, che lo fissava soddisfatto. Si scambiarono un sottile ghigno vittorioso. Ce l’avevano fatta, di nuovo. Per l’ennesima volta, erano sul punto di rivelare al mondo una grande scoperta, sfuggita per millenni alla curiosità degli studiosi.

 
* * *

   Il colonnello Volkov camminava a grandi passi attraverso il cantiere. Sebbene si mantenesse impassibile, e in apparenza fosse calmo, era furibondo. Dentro di sé covava una rabbia enorme e si sentiva sul punto di esplodere con la forza distruttiva di una bomba all’idrogeno.
   Con un gesto secco, ordinò ai cinque uomini in borghese che lo seguivano – tutti armati di Kalashnikov – di fermarsi al limite della zona delle baracche prefabbricate e proseguì da solo. Raggiunse in fretta la casetta che stava cercando e, senza fermarsi a bussare, aprì la porta con un calcio violento.
   Per prima cosa, lo investì il puzzo rancido di vodka a basso prezzo, probabilmente una schifezza ottenuta distillando petrolio. Poi, attraverso l’oscurità che avvolgeva l’ambiente, i suoi occhi scorsero le due figure degli agenti del KGB che la malasorte gli aveva assegnato. Boris, con indosso soltanto le mutande, era stravaccato sopra una brandina, una bottiglia mezza vuota stretta al petto villoso e fradicio di sudore. Oleg, invece, era sdraiato a terra in una posa scomposta, ancora vestito, sebbene con la camicia e la cintura aperte, circondato da bottiglie finite. Entrambi russavano della grossa, immersi nel mondo dei sogni.
   Dopo averli contemplati con una smorfia di palese disgusto e di ribrezzo, Volkov li riportò bruscamente alla realtà con un paio di calci ben assestati.
   «Gli americani! Hanno lanciato i missili intercontinentali!» sbottò Boris con tono biascicato e impastato, ridestandosi all’improvviso. Scattò in piedi, barcollò, inciampò e crollò addosso a Oleg, che si stava guardando attorno disorientato.
   «Ai missili ci finirete legati voi!» sbraitò il colonnello, con tono di minaccia, fissandoli attraverso l’oscurità. Il suo sguardo apparve talmente sinistro e intimidatorio che l’ubriacatura scomparve in maniera istantanea dai due agenti del KGB.
   «Ai suoi ordini, signore!» brontolò Boris, rimettendosi goffamente in piedi.
   Volkov allungò il braccio, afferrò Oleg per il collo e lo tirò su di peso, strappandogli un gemito. Poi, dopo averlo lasciato andare, infilò la mano sotto la giacca e, da una fondina ascellare, estrasse una pistola Tokarev TT-33, che puntò risoluto contro i due uomini. Entrambi, sebbene accaldati e arrossati dalla troppa vodka ingerita, sbiancarono di colpo davanti a quella visione e sudarono freddo.
   «Dovrei ammazzarvi subito, cani che non siete altro!» ringhiò il colonnello, fissandoli con freddezza.
   I due agenti, tremebondi, aprirono la bocca come se volessero replicare qualcosa. La canna della pistola, velocissima, si insinuò in quella spalancata di Boris.
   «La Siberia è troppo poco, per due come voi!» andò avanti Volkov, minaccioso.
   Sentendosi più libero di replicare, e immaginando che se il colonnello avesse ucciso Boris lui avrebbe avuto qualche istante a propria disposizione per tentare di fuggire, Oleg si affrettò a dire: «Compagno, noi abbiamo fatto del nostro meglio… ma quell’americano… domani ci riproveremo e…»
   La canna della pistola passò dalla bocca di Boris a quella di Oleg con la velocità di un lampo.
   «Datemi un solo motivo per premere il grilletto e lo farò» assicurò Volkov. Li guardò in cagnesco e soggiunse, contenendo a stento la rabbia: «Non solo non siete riusciti a sbarazzarvi di Jones, ma ha addirittura messo le mani su Smolnikov e lo ha obbligato a mostrargli lo scavo! Tutto sotto il vostro naso, che non avete mosso un dito! Per fortuna che ho anche gente capace, in giro per questo posto! Uno dei miei uomini mi ha avvertito!»
   Gli agenti del KGB si scambiarono uno sguardo che esprimeva tutta la disperazione di due condannati che abbiano appena ascoltato la loro sentenza di morte. Volkov, a quanto pareva, era della medesima opinione.
   «Decideremo più tardi che cosa fare di voi, se spedirvi in Siberia, legarvi a una testata nucleare oppure se mettervi una pietra al collo e darvi in pasto ai pesci del Nilo» disse, con un tono sadico che non ammetteva repliche. «Ora dobbiamo occuparci di Jones, prima che trovi il carro e se la squagli.» Li squadrò con una smorfia rabbiosa, senza mascherare il proprio disgusto e ribrezzo. «Ora sbrigatevi a rendervi presentabili e raggiungetemi fuori, svelti!»
   Il colonnello Volkov girò i tacchi, uscendo dalla stanzetta, e i due uomini poterono ricominciare a respirare.

 
* * *

   Dopo aver congedato gli uomini che li avevano aiutati nello scavo, dicendogli di tornare ai loro alloggi senza fare parola con nessuno riguardo a quello che avevano fatto, venne il momento di entrare nel corridoio per scoprire dove conducesse.
   Indy, munitosi di torcia elettrica, discese i gradini e aprì la strada, seguito da vicino da Yasmin. Dietro di lei veniva il professor Smolnikov, tallonato da presso da Moshti che, per essere certo che non combinasse nessun tipo di scherzo, si era armato con uno dei palanchini utilizzati per smuovere la lastra all’ingresso, pronto a darglielo sulla testa al primo accenno di ribellione. Sallah, con un’altra torcia, chiudeva il piccolo corteo, che si apprestava a ripercorrere le orme degli antichi sacerdoti.
   Era una sensazione strana sapere di star camminando nello stesso luogo in cui, tremila anni prima, doveva essere transitata una processione, forse con a capo il faraone stesso, intonando inni sacri e spandendo ovunque il fumo dell’incenso. E, ad accrescere tale sensazione, era la consapevolezza che i loro fossero i primi passi a risuonare su quelle pareti dopo un così lungo periodo.
   Il corridoio, dopo un primo tratto estremamente ripido, che li mise in difficoltà, cominciò discendere verso il basso in maniera più dolce, rendendo più agevole il cammino. Era largo all’incirca tre metri e alto altrettanto. Le pareti e il soffitto, finemente lavorati, erano stati intonacati e smaltati, ma non affrescati. Di quando in quando, tuttavia, si potevano intravedere delle quadrettature e degli abbozzi di disegno, nonché rimasugli di raffigurazioni antecedenti.
   «Probabilmente il corridoio è rimasto incompleto» ipotizzò Indy. «Oppure le pareti, un tempo dipinte, furono danneggiate dal terremoto che sconvolse la Nubia nel trentunesimo anno di regno di Ramses, lo stesso che spaccò uno dei colossi sulla facciata di questo tempio. Possiamo credere che, nei lavori di restauro, ci si preoccupò di ricoprire i muri con la malta, ma poi non si pensò di ricreare i disegni andati perduti.»
   Proseguirono per ancora qualche decina di metri, restando in silenzio. Il buio era fittissimo, al punto che i fasci delle loro torce faticavano a fendere le tenebre. L’aria era impregnata di uno strano odore, che non sembrava quello di chiuso tipico di luoghi come quello, rimasti sigillati per interi millenni. Era una specie di fetore, invece, quasi un odore di escrementi. Un odore che Indy percepì chiaramente, ma che non sfuggì nemmeno ai suoi compagni.
   «Che accidenti è, questa puzza?» sbottò infatti Yasmin, arricciando il naso con palese disgusto.
   Indy si fermò, trattenendola per la manica, e fece cenno anche agli altri di aspettare. Tese le orecchie, ascoltando. Gli sembrava di aver udito qualcosa, un rumore provocato da un movimento. Ma che accidenti poteva muoversi, in un posto del genere?
   Girò il regolatore della torcia, per rendere più stretto, lungo e potente il fascio luminoso, e guardò meglio. La luce andò a colpire una piccola sagoma nera che pendeva dal soffitto, poi un’altra e un’altra ancora. Decine, centinaia, tutte che pendevano dal soffitto che, in quel punto, era più ruvido e quindi ricco di appigli a cui aggrapparsi con le zampette. Occhietti sinistri brillavano nel buio, in numero incalcolabile.
   «Pipistrelli» borbottò, mentre al suo fianco Yasmin faceva una smorfia schifata.
   Abbassò la torcia verso il pavimento e rivelò che cosa fosse a emettere l’odore nauseabondo che aveva attirato la loro attenzione: una grande distesa di guano, alta parecchi centimetri, che si perdeva nel buio.
   «Facciamo piano» bisbigliò Sallah, dalle retrovie. «Non dobbiamo disturbarli, altrimenti…»
   Fu come se il suo consiglio fosse giunto alle orecchie dei pipistrelli. All’improvviso, tutte insieme, come se fossero state un unico essere, le nottole cominciarono a staccarsi dal soffitto e a svolazzare in giro impazzite, gettandosi addosso al gruppetto di esploratori.
   «A terra!» ordinò Indy, buttandosi sulle ginocchia e trascinando con sé anche Yasmin che, con le mani sopra la testa, aveva cominciato a gridare per l’orrore.
   Gli altri tre non se lo fecero certo ripetere e si abbassarono al suolo, cercando di evitare il contatto con quegli animaletti che volavano in ogni direzione in cerca di una via d’uscita.
   Muovendo l’aria con il battito rapidissimo delle loro ali ed emettendo i loro versi simili a squittii, i pipistrelli continuarono a volare tutto attorno a loro per alcuni interminabili minuti, mentre tentavano di tenersi fuori dalla loro portata. Smolnikov urlava, pazzo di terrore, e sotto di sé, dove l’aveva spinta per tenerla al riparo, Indy sentiva Yasmin gemere dalla paura.
   Finalmente, però, dopo pochissimi istanti, i pipistrelli parvero trovare la strada dell’uscita e si allontanarono stridendo e sbattendo lungo il corridoio. Indy immaginò che sarebbero entrati nel tempio e, dopo aver girovagato a casaccio per alcuni minuti, sarebbero finalmente usciti all’aria aperta dall’ingresso principale. Uno spettacolo davvero insolito, per chiunque avesse potuto assistervi.
   Indy e Sallah furono i primi a rialzarsi, subito imitati da Moshti. Smolnikov, invece, restò chino sul pavimento, e Yasmin si mise a sedere, sconvolta.
   «Se ne sono andati, quegli schifosi topi volanti?» domandò, con voce stridula.
   «Sono andati via, sì» disse con insolita dolcezza il fratello, porgendole la mano per aiutarla a rimettersi in piedi.
   Sallah, invece, senza troppe cerimonie, afferrò Smolnikov per la giacca e lo sollevò, depositandolo al proprio fianco. Il russo era completamente sudato e il terrore gli attraversava lo sguardo. Jones lo squadrò per un istante, scuotendo il capo: grande e grosso com’era, quell’uomo aveva paura di qualche piccolo e innocuo pipistrello. Assurdo!
   «Forza, rimettiamoci in cammino» ordinò con tono brusco, ricominciando ad avanzare lungo il corridoio adesso deserto.

 
* * *

   Il colonnello Volkov si fermò. Qualcosa aveva attratto la sua attenzione. Fece cenno agli uomini che lo seguivano di restare immobili e scrutò la facciata del tempio, immersa in un’oscurità quasi completa. La luna, sorta da pochi minuti, creava strani riflessi sui volti del faraone, che sembravano sogghignare con smorfie spettrali.
   Ignorando quell’immagine suggestiva, che non si addiceva a un comunista come lui, Volkov fissò lo sguardo sull’ingresso del tempio. Era da lì che sopraggiungeva lo strano rumore. Pareva uno sbatacchiare di carta agitata dal vento, accompagnato da versi striduli sempre più acuti. Accantonò subito l’idea che a provocarli potessero essere Jones e gli altri già di ritorno con il carro d’oro.
   «Che diavolo…» sbottò.
   All’improvviso, una vera nube di pipistrelli impazziti fuoriuscì dal portale, gettandosi con impeto contro il gruppo dei sovietici e investendolo completamente. I militari si portarono le mani sulla testa, agitando le braccia nel tentativo di tenerli lontani, mentre Boris e Oleg, perso l’equilibrio, stramazzarono sul terreno, squittendo ancora più forte dei pipistrelli.
   Soltanto il colonnello restò al proprio posto, impassibile.
   «Smettetela di ballare e ricomponetevi!» abbaiò. «Sono soltanto animali! Piantatela!»
   Senza indugi, si avvicinò ai due agente del KGB e, con un paio di calci ben assestati nei fianchi, li obbligò a rialzarsi.
   «In piedi, sacchi di patate che non siete altro!» ordinò. «Che esempio state dando ai soldati, si può sapere?!»
   Quindi, imprecando e bestemmiando, si avvicinò al gruppo dei militari, lanciando secchi comandi affinché si rimettessero in riga. Quelli, sebbene ancora spaventati dall’impeto dei pipistrelli che gli vorticavano attorno in una pazzesca e nera danza, si affrettarono a fare come diceva. Evidentemente, erano certi che affrontare le ali di quei mostriciattoli sarebbe stata un’esperienza assai preferibile a quella di dover subire le ire del compagno colonnello.
   Finalmente, le nottole compresero che, in quel punto, non c’era niente di interessante per loro. Muovendosi tutte assieme come una nube di fumo densa e compatta, si spostarono squittendo in direzione del Nilo, dove avrebbero avuto maggiori possibilità di trovare le zanzare e i moscerini di cui erano ghiotte.
   La questione sembrava chiusa, almeno agli occhi dei due agenti del KGB e dei militari. Ma il colonnello Volkov non pareva essere del medesimo avviso.
   «Siete la vergogna di tutta l’Unione Sovietica!» sbottò, iroso. Anche nel buio, il suo sguardo glaciale emetteva presagi di morte. «Pensavo di avere al mio comando un reparto di uomini valenti, degni successori degli eroici combattenti dell’Armata Rossa, e invece ho a che fare con delle mammole! Siete soltanto delle femminucce, vi fareste spaventare dalla vostra ombra! Meritereste una punizione esemplare! Se non fossimo in missione e il tempo non fosse contro di noi, applicherei la decimazione per insegnarvi a restare nei ranghi e a obbedire a ogni mio ordine, sempre, comunque, in ogni situazione!»
   Gli uomini si erano schierati in fila. Restarono immobili mentre Volkov, pronunciando quelle parole, li passava in rassegna uno per uno. Quando il colonnello giunse di fronte a Boris e Oleg, si fermò un istante. Osservò le loro cravatta allentate, le camice fuori dai pantaloni, le giacche coperte di sabbia rossiccia. Annusò l’olezzo di alcol che impregnava i loro respiri e fece una smorfia disgustata. Per un istante, parve sul punto di voler mettere in pratica i suoi proponimenti omicidi. Poi, però, si voltò risoluto verso il tempio.
   «E ora, se avete finito di comportarvi da mocciosi, seguitemi. Dobbiamo sistemare questa faccenda al più presto.»

 
* * *

    Sempre tallonato da vicino dagli amici e dal professor Smolnikov, Indy continuò ad avanzare di buon passo nel sotterraneo. Con un occhio guardava avanti e con l’altro faceva attenzione a eventuali trappole nascoste, di cui, però, non sembrava esserci traccia.
   Superato il breve tratto in cui i pipistrelli avevano fatto il loro nido, il pavimento tornò libero dagli escrementi; lo sgradevole odore, però, continuò ad accompagnarli per un bel pezzo. La pendenza si mantenne dolce, sebbene percettibile. Jones calcolò che, ormai, dovevano essersi inoltrati di diverse decine di metri nel cuore della montagna.
   La cosa, a dire il vero, non lo sorprendeva. Gli Egizi erano stati abilissimi scavatori, di certo tra i migliori della loro remota epoca. Con la loro arte, erano riusciti a ricavare templi e ipogei di mirabile bellezza nei luoghi più impensabili. Gli tornarono alla mente le tombe della Valle dei Re, che gli operai che abitavano il villaggio chiamato Luogo della Verità avevano scolpito, rifinito e dipinto con una maestria davvero rara. Le maestranze che avevano prestato la loro opera nei templi rupestri della Nubia non dovevano certo avere niente a che invidiare ai loro colleghi tebani.
   A distrarlo dalla sua meditazione fu una curva ad angolo retto verso destra. Svoltato, vide che il corridoio proseguiva ancora. Lì, però, le pareti erano affrescate, sebbene per buona parte cancellate dall’umidità che trasudava attraverso la roccia porosa. Le raffigurazioni superstiti, comunque, non lasciavano adito a dubbi.
   «Scene di guerra» borbottò Sallah, illuminando con la torcia uno dei dipinti.
   «Sì» confermò Indy, fermandosi a sua volta.
   Il suo sguardo si focalizzò sopra un’immagine del faraone che, con un braccio teso all’indietro a brandire la spada di bronzo e l’altra mano stretta attorno ai capelli dei suoi nemici, si apprestava a compiere un massacro. Una figura che, forse non a caso, rammentava la forma della costellazione di Orione.
   «Ramses vincitore sui nemici dell’Egitto» spiegò.
   «E questo sarebbe il carro che cerchiamo?» domandò Moshti, fermandosi davanti a un altro dipinto.
   L’archeologo annuì, osservando la scena, che mostrava Ramses II in atteggiamento eroico, lanciato sul suo carro sfolgorante in mezzo a schiere di nemici che cadevano a frotte, impotenti dinnanzi a quella potenza che derivava dal volere e dalla protezione divina.
   «Sì, è proprio questo e speriamo davvero che…»
   Uno spintone improvviso lo mandò a sbattere contro il muro. La torcia gli sfuggì di mano, si spense e rotolò via. Sallah si voltò per vedere che cosa fosse successo, ma un pugno nello stomaco lo costrinse a piegarsi in due. Yasmin e Moshti, disorientati, osservarono la ribellione inaspettata di Smolnikov senza riuscire a reagire.
   «Maledetti!» urlò l’archeologo sovietico. «Maledetti!»
   Iniziò a correre a ritroso lungo il corridoio. Sebbene ancora frastornato, Indy comprese di non potergli permettere di fuggire: se fosse riuscito a uscire dal tempio, sarebbe corso ad avvertire i suoi amici russi e per loro le cose si sarebbero messe davvero male.
   Scattò in avanti, mettendo mano alla frusta. Per sua fortuna, era molto più agile di Smolnikov, e le gambe più lunghe gli permisero di coprire in pochi secondi la distanza che li separava. Appena vide il russo a portata, srotolò il nerbo e, con una mossa precisa e flessuosa, lo fece scattare in avanti, arrotolandoglielo attorno al collo. Si fermò e tirò all’indietro.
   Smolnikov, mezzo soffocato, incespicò e cadde. Indy gli fu subito addosso, insieme agli altri tre. Lo afferrò per la collottola, lo sollevò di peso e lo sbatté contro la parete.
   «La prossima volta che provi a fare uno scherzo simile non ti lascio scampo» minacciò, fissandolo dritto negli occhi.
   Lo lasciò andare.
   «E ora cammina davanti e vedi di fare il bravo» ringhiò.
   Rassegnato, di nuovo sconfitto dopo aver intravisto per un flebile istante la possibilità di salvarsi, Smolnikov fu costretto a riprendere il cammino verso la parte terminale del lungo corridoio.
   Raggiunto il punto in cui si era fermata la torcia che gli era caduta, Indy la recuperò e l’accese. Il fascio di luce attraversò il buio come una lama iridescente e, di fronte a loro, dalle tenebre millenarie di quel luogo, il luccichio dell’oro sfolgorò come una fiamma fredda ed eterna.


 

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Capitolo 13
*** L’ipogeo di Ramses II ***


    13 - L’IPOGEO DI RAMSES II

   L’oro era dappertutto. Copriva le statue degli dèi, rivestiva la mobilia finemente intagliata offerta in dono. Collane lucenti splendevano dalle superfici su cui erano poggiate, in un gioco di splendente perfezione quando il biondo metallo incontrava il blu dei lapislazzuli e del turchese. Vasi d’oro e d’argento coprivano il pavimento come una foresta di ricchezza incommensurabile. Mucchi di monili lucenti facevano il paio con depositi di preziosissimi scarabei di mirabile fattura. E, dalle pareti, splendidi affreschi e geroglifici meravigliosamente incisi raccontavano le più grandi gesta di Ramses II.
   Indy e i suoi compagni restarono a bocca aperta per la sorpresa e l’ammirazione. Persino il professor Smolnikov, dimenticando di essere stato rapito e malmenato, non poté fare a meno di ammirare quel tesoro senza pari, capace persino di far sfigurare le “cose meravigliose” che Howard Carter aveva trovato quattro decenni prima nella tomba di Tutankhamon. Al termine di quel lungo corridoio, si apriva un vastissimo ipogeo ipostilo stipato di ricchezze inimmaginabili.
   La grande sala si stendeva sotto di loro, al termine di una breve scalinata. Dalla loro posizione sopraelevata, potevano ammirare quello spettacolo senza uguali. Doveva essere stata scavata interamente nella roccia, in maniera estremamente accurata. Il pavimento era rivestito da splendide mattonelle di maiolica verde e blu, mentre il soffitto – sorretto da alte e massicce colonne papiriformi – era dipinto di un blu scuro punteggiato di stelle e di immagini che raffiguravano le costellazioni egizie. Le pareti presentavano raffigurazioni colossali del faraone trionfante, colto sia nell’atto violento di abbattere e decapitare i nemici che in quello intimo e riservato in cui presentava offerte agli dèi. L’ambiente era immerso nell’oscurità, eppure era sufficiente che i fasci delle loro torce colpissero un qualsiasi oggetto d’oro perché si creassero dei giochi di luce che parevano accendere per intero la sala, facendola avvampare di bellezza. L’aria, secca e polverosa, celava ancora un lievissimo sentore di incenso e di gelsomino, le essenze pregiate che migliaia di anni prima erano state sparse in onore delle divinità, forse dalle mani stesse di Ramses.
   Con una certa fatica, Indy staccò gli occhi da tutti quei tesori per osservare la scalinata che conduceva verso il basso. Anche se larga, era parecchio ripida; nell’oscurità, avrebbero fatto fatica a notarla. Se l’oro non li avesse abbagliati, immobilizzandoli e stordendoli con il suo etereo ed eterno fascino, sarebbero andati incontro a un bel capitombolo.
   Tra loro calò un silenzio sacrale. Era difficile trovare parole adatte da poter esprimere di fronte a un simile tesoro. Sembrava che qualcuno di loro, assumendo il ruolo di Alì Babà, avesse pronunciato la formula magica – iftah ya simsim – e avesse fatto aprire la porta segreta per accedere alla caverna dei quaranta ladroni. Forse avevano davvero lasciato la vita reale di tutti i giorni per immergersi in una storia fantastica. Una delle tante magie che soltanto l’oriente misterioso sapeva essere capace di regalare.
   Moshti borbottò qualcosa di incomprensibile. Yasmin mugolò a sua volta una parola indecifrabile. Sallah fece un sospiro profondo e Smolnikov imprecò sottovoce qualcosa in russo. Pur non aprendo bocca, Indy si sentì a sua volta affiorare in direzione della lingua una girandola di parole difficili da legare l’una all’altra.
   «Ma…» disse infine la ragazza, ritrovando la capacità di parlare. «Ma… ce lo stiamo immaginando… oppure…»
   Quelle poche frasi bastarono per strapparli al sogno e per riportarli alla realtà. Era tornato il momento di darsi da fare, rinunciando alla contemplazione allucinata di tutto quello splendore. Quello non era il deposito dei quaranta ladroni e neppure la grotta di Aladino: era un ipogeo egizio, colmo di incommensurabili ricchezze. E, una di quelle, nascondeva un potere misterioso, ed era soltanto per quel motivo che si trovavano lì. Non era il momento adatto per dimenticarsene.
   «Dubito che un’allucinazione potrebbe essere così nitida» replicò Indy, ritrovando in fretta il suo solito fare pratico. «Seguitemi, mettendo i piedi dove li metto io.»
   Fece per avviarsi lungo la breve scalinata. La mano di Sallah gli artigliò il braccio.
   «Non pensi che potrebbe essere pericoloso?» domandò, insicuro.
   L’archeologo gli rivolse un sogghigno sarcastico.
   «È sempre pericoloso» gli rammentò. «Ma, dal momento che siamo giunti fino a qui, c’è un solo modo per scoprire che cos’altro ci stia aspettando.»
   Cauto, con circospezione, cominciò a scendere. A ogni passo tastava con attenzione gli scalini, pronto a balzare all’indietro nel caso avesse fatto scattare qualche trappola. Si aspettava che una voragine gli si aprisse all’improvviso sotto i piedi, oppure che una grossa pietra cadesse dal soffitto. Non accadde nulla di tutto questo e poté giungere incolume a toccare il pavimento di maiolica, impolverata ma ancora lucida e splendente nonostante l’andare dei millenni. Rassicurati, Yasmin e Moshti lo seguirono. Sallah, tenendo d’occhio Smolnikov, si affrettò a fare lo stesso.
   «E ora…?» disse, quando ebbe raggiunti gli altri.
   Indy non rispose. Teneva la torcia alta ed era impegnato a scrutare attraverso la sala.
   Il bagliore dell’oro, riflettendosi da un monile all’altro, stava illuminando un rialzo al capo opposto dell’ipogeo. Al di sopra di una piattaforma intagliata nella roccia arenaria per formare un altare, si trovava un baldacchino d’oro dalle colonne quadrangolari interamente ricoperte di geroglifici. Armi di bronzo di incredibile bellezza erano ammucchiate al di sotto: spade, scudi, archi, frecce, scuri, lance e falcetti. Nel centro esatto dell’altare e del baldacchino, sorgeva un sarcofago di pietra tendente al rossiccio. Era molto ampio, troppo perché si potesse pensare che fosse destinato al corpo di un uomo.
   Gli altri seguirono il suo sguardo, individuando ciò che aveva catturato la sua attenzione.
   «Zio Indy…» mormorò Moshti. «Tu credi…?»
   Fu Smolnikov a rispondere. Ormai del tutto dimentico di essere in mezzo ai suoi nemici, anche l’archeologo sovietico era stato catturato dal fervore della scoperta.
   «Sembra uno dei sarcofagi destinati ad accogliere il sonno eterno dei tori Api» borbottò. «Come quelli del Serapeo di Saqqara.»
   «Esattamente» approvò Indy, con un veloce cenno del capo. «Ma qui non siamo in un tempio funerario, e Abu Simbel non è una necropoli, bensì un luogo deputato a commemorare i trionfi del faraone. Quindi, là dentro…»
   Non terminò la frase. Tutti sapevano a che cosa stesse alludendo. In quel sarcofago doveva essere riposto il carro d’oro di Ramses II. La Gloria di Amon li attendeva, silente e immobile da migliaia di anni. Il suo segreto era sul punto di essere rivelato.
   Jones e Sallah si scambiarono uno sguardo. In quel preciso istante si sentirono ringiovanire di trent’anni. Erano un’altra volta sul punto di attraversare una sala dimenticata per svelare uno dei più grandi misteri dell’antico Egitto. E, proprio come a Tanis nel 1936, sapevano di dover agire in fretta, perché qualsiasi minuto perduto sarebbe stato del tempo prezioso donato ai loro avversari, che avrebbero potuto mangiare la foglia da un momento all’altro e sorprenderli in maniera inaspettata.
   «Forza» borbottò Indy. «Muoviamoci.»
   Mettendo da parte tutte le precauzioni, si avviò a passo rapido in direzione dell’altare.

 
* * *

   Il colonnello Volkov esaminò l’apertura nel pavimento. Il suo sguardo gelido scrutò l’oscurità impenetrabile del sotterraneo. Così, Jones aveva trovato l’ingresso al luogo segreto che i suoi uomini stavano invano cercando da settimane. Doveva dargliene atto: quell’americano della malora sapeva il fatto suo. Se fosse stato comunista, l’Unione Sovietica avrebbe potuto disporre di un grande alleato.
   Ma Indiana Jones non era affatto un alleato. Era un nemico e, come tale, andava distrutto. E, da parte sua, al di là delle divisioni politiche, il colonnello Sasha Volkov aveva anche un motivo personale per odiarlo con tutta la propria essenza.
   Quel motivo si chiamava Irina Spalko.
   Sasha e Irina, ancora adolescenti, si erano conosciuti in piena guerra, combattendo fianco a fianco nelle file dell’Armata Rossa contro gli invasori nazisti. La loro era stata un’amicizia nata a prima vista, rafforzata e irrobustita dalle bombe, dai proiettili e da tutti i patimenti che avevano sopportato insieme. In seguito, avevano servito entrambi presso la polizia segreta sovietica, prima che le loro strade divergessero: lui per seguire una carriera esclusivamente militare, lei per proseguire nel suo interesse principale, la scienza occulta. Si diceva che, in questo, fosse stata favorita da Stalin in persona, di cui la scaltra donna era diventata amante: non certo perché ne fosse innamorata – Volkov era più certo che Irina non fosse in grado di amare nessuno, al di fuori del proprio lavoro – bensì perché sapeva bene che, così, avrebbe spianato la strada alle sue ricerche in campo parapsicologico. Nessuno avrebbe infatti osato opporsi alla cocca di Stalin – come la chiamavano le malelingue – e alla sua crescente influenza.
   Ma questo non aveva scisso la loro grande unione. Sebbene le occasioni di incontro si fossero assai ridotte, per anni avevano continuato a mantenere un contatto epistolare molto stretto e profondo. A ben vedere, Volkov poteva vantarsi di essere stato il solo, vero amico di quella donna dal cervello geniale. Sebbene il loro rapporto non fosse mai andato oltre una solida e cameratesca amicizia – se Irina non era capace di amare, lui lo era ancora meno – sapere di aver avuto un simile legame con lei era ancora adesso un immenso onore. La sua compagnia lo aveva reso un uomo di vedute molto più ampie di quanto non fosse mai stato in precedenza. Grazie a lei, il colonnello era riuscito a vedere al di là della semplice materialità di ogni giorno.
   Irina, però, era scomparsa. Nessuno sapeva di preciso che cosa le fosse accaduto, ma non c’era alcun dubbio che fosse morta. La ricerca di Akator le era stata fatale, e Volkov sapeva che, in un modo o nell’altro, questo era dipeso dal fatto che Jones ci avesse messo il suo zampino. Aveva giurato a se stesso che l’avrebbe vendicata. Ma giurare non serve a nulla, se non si presenta un’occasione valida per mettere in pratica il proprio giuramento.
   Ora aveva quell’occasione. Adesso Indiana Jones era a portata del suo braccio e lui non avrebbe esitato. Questa volta se ne sarebbe occupato di persona, senza più demandare la faccenda a degli incompetenti. Il compagno colonnello Spalko avrebbe avuto la sua meritata vendetta. E sarebbe stata una lunghissima agonia per chi aveva osato agire contro di lei.
   «Avanti, mano alle torce e dentro» ordinò, indicando ai suoi uomini di procedere lungo il corridoio che si inoltrava nelle tetre profondità del tempio.

 
* * *

   Indy e i compagni risalirono i gradini polverosi della piattaforma..
   Ora il sarcofago era a portata del loro braccio. Era lì, vero e concreto, non un semplice sogno a occhi aperti. Ed era di una bellezza rara, tanto che la semplice pietra di cui era composto – granito rosso di Assuan, fu la veloce valutazione che ne diede mentalmente Indy – appariva in grado di rivaleggiare con tutto l’oro che lo circondava. L’intera superficie della vasta arca era ricoperta di mirabili iscrizioni geroglifiche. A una prima decifrazione, Indy vide che esaltavano la potenza del sovrano guidato dal dio Amon. Il coperchio, invece, presentava un mirabile bassorilievo che mostrava Ramses II, assurto in tutta la sua potenza, mentre scoccava frecce contro i nemici da sopra il proprio carro.
   Una ridda di pensieri attraversò la mente di Indiana Jones.
   Per un momento, si sentì trasportare indietro nel tempo, e si ritrovò ad ammirare il faraone che, rivestito di luce divina, respingeva i suoi nemici al di là del fiume Oronte, salvando se stesso e il futuro della nazione egiziana da un probabile disastro. Se quel giorno Ramses II fosse morto, se tutto il suo esercito fosse stato annientato, le porte dell’Egitto sarebbero state spalancate agli invasori, la legge di Maat che governava le Due Terre sarebbe stata calpestata, il male avrebbe imperversato ovunque e tutta la storia del mondo antico sarebbe mutata in modo drastico. Ma così non era stato. Ramses II aveva vinto quella battaglia e, sebbene non avesse poi potuto perseguire i propri ideali di conquista, la guerra non si era volta neppure a favore del nemico hittita. Anzi, da quell’episodio era sorto qualcosa di grandioso, seppure a diversi anni di distanza, quando il giovanile ardore abbandonò la mente del faraone, ormai conscio di non poter più annettere la Siria ai propri domini: il primo trattato di pace internazionale ricordato dalla memoria storica. Un altro record del più celebre dei sovrani dell’Egitto faraonico.
   Le mani dell’archeologo toccarono la pietra. Doveva assicurarsi che fosse tutto vero, non un miraggio. Quelle di Yasmin si unirono alle sue, poi anche quelle di Moshti e di Sallah. Per ultimo, persino Smolnikov fece altrettanto. Era tutto vero. Non lo stavano soltanto sognando. Il sarcofago, solido e massiccio, appariva al tatto esattamente come alla vista.
   L’atmosfera era pervasa da una vibrazione misteriosa. Nessuno di loro avrebbe saputo dire se si trattasse soltanto di una sensazione, dovuta all’imminenza di una rivelazione millenaria, o se fosse reale. Forse era entrambe le cose allo stesso tempo.
   Indy vide la bocca di Yasmin aprirsi, come se stesse per dire qualcosa. Si richiuse subito, in silenzio. Brava ragazza. Sapeva riconoscere i momenti in cui le parole perdevano di significato. Quello era l’istante della contemplazione e della meditazione. Non lo si poteva rovinare con domande a cui nessuno sarebbe stato capace di dare una risposta.
   Eppure, non si poteva nemmeno perdere troppo tempo in quella maniera. Li attendeva una faticaccia, che avrebbero dovuto portare a termine prima dell’alba. Dovevano riuscire a completare tutto prima che occhi indiscreti potessero notare che stesse accadendo qualcosa di insolito.
   Tra Indy e Sallah corse uno sguardo di intesa. Sapevano che cosa c’era da fare. Entrambi si sbarazzarono delle torce, consegnandole ai ragazzi; si posizionarono sui due lati corti del sarcofago e strinsero con forza le mani attorno al coperchio. A un cenno, iniziarono a fare forza, spingendo verso l’alto.
   Un dolore acuto attraversò immediatamente i nervi dell’americano, diffondendosi dalle braccia alla schiena. La sua ernia, che da qualche mese si era assopita, tornò subito a farsi sentire; la lasciò fare, ignorandola come se non esistesse neppure. Lo sforzo che stava facendo era davvero elevato, ma non avrebbe ceduto il proprio posto a qualcun altro, per nessun motivo. Voleva essere lui a farlo, insieme a Sallah, come ai bei tempi in cui rughe e capelli grigi non erano neppure un pensiero fugace. I suoi occhi notarono la smorfia contratta sul viso dell’amico e immaginò che, sul suo, l’espressione non dovesse essere troppo differente.
   Il coperchio, sebbene soltanto appoggiato, si era come saldato alla pietra sottostante. La pressione esercitata per millenni dal suo peso lo aveva reso un tutt’uno con il resto del sarcofago. I due amici dovettero raddoppiare i propri sforzi per riuscire a smuoverlo, chiedendo ai loro muscoli di far confluire all’esterno ogni stilla di energia.
   Dapprima parve non accadere nulla. Il lastrone sembrava inamovibile. Senza demordere, Indy e Sallah continuarono a sospingerlo verso l’alto. Un leggero rumore, un movimento quasi impercettibile, un’inclinazione appena percettibile, comunicarono loro che ci stavano riuscendo. Ormai incapaci di sentire la fatica, mossi dal fuoco della scoperta e dall’esaltazione di essere sul punto di rivelare un grande segreto, si sforzarono ancora di più.
   Per un istante non successe più nulla. Poi, a un tratto, il coperchio si staccò, tutto d’un colpo. Lo fece con tale impeto improvviso che i due vecchi compagni, sorpresi, per un istante vacillarono sotto il suo peso, rischiando di lasciarlo andare. La sorpresa cedette subito il passo alla consapevolezza. Continuarono a sollevare, portando le braccia all’altezza del petto. Moshti, per evitare che la lastra tornasse al proprio posto, si affrettò a infilare il palanchino che aveva portato con sé nello spazio rimasto vuoto.
   Da sopra la pesantissima lastra di granito rosso, lo sguardo corrugato di Sallah cercò quello di Indy. L’archeologo accennò alla propria destra. Con un solo, fluido e deciso movimento, buttarono il coperchio da quella parte. Smolnikov e Yasmin, che si trovavano proprio lì, furono costretti a fare un balzo all’indietro per evitare di essere travolti da quella massa non indifferente. Con un tonfo sordo, il pietrone levigato e finemente inciso cadde sul pavimento, scheggiando e frantumando le piastrelle di maiolica, spaccandosi a metà e spandendo ovunque un polverone grigio. Indy e Sallah, stanchi ma soddisfatti, si accasciarono sui bordi del sarcofago, ansanti.
   La grande fatica compiuta li aveva sfiniti, ma ne era valsa davvero la pena. I loro occhi, stravolti e lacrimanti, dentro cui si riversava il sudore che scivolava dalle loro fronti, poterono posarsi sopra uno spettacolo davvero eccezionale, che li ripagò di tutti gli sforzi compiuti. Anche Moshti, Yasmin e il professor Smolnikov si avvicinarono, la bocca spalancata dalla meraviglia. L’ormai inutile palanchino venne abbandonato sul pavimento.
   All’interno della grande arca, era racchiuso il carro a bordo del quale il faraone Ramses il Grande aveva sbaragliato i suoi nemici. La Gloria di Amon, costruita in legno di acacia ricoperto da lamina d’oro, sembrava sfolgorare di luce propria. Era perfetto, come se fosse stato riposto soltanto il giorno prima. I finimenti di cuoio, morbidi ed elastici, pendevano ancora dalla lunga staffa a cui venivano aggiogati i cavalli. Dal pianale si levava il parapetto ricurvo, al cui fianco era ancora infissa la faretra, che conteneva una dozzina di frecce sottili, dalla punta di bronzo. Le ruote a sei raggi, smontate e appoggiate al suo fianco per evitare che si ovalizzassero, parevano pronte a rimettersi a rotolare da un momento all’altro, per andare di nuovo all’assalto verso tutti i nemici dell’Egitto. La foglia d’oro che lo rivestiva mostrava incisioni di incredibile precisione e bellezza, intarsiate con inserti di madreperla, di turchese e di pasta vitrea dai bellissimi colori. Ogni immagine era volta ad esaltare la figura del faraone vincitore e del dio Amon, suo nume tutelare nella battaglia di Qadesh.
   Indy scosse il capo e sbatté le palpebre, abbagliato da tanto splendore.
   «Oh, è incredibile…» borbottò.
   Aveva visto innumerevoli testimonianze del passato risorgere dinnanzi a sé, eppure ogni volta era come la prima. Non poteva mai fare a meno di stupirsene, restando incantato da tanta bellezza. Non era mai semplice accettare che gli esseri umani fossero stati capaci di dare vita a simili prodigi. Dovette fare un lungo e profondo respiro per riuscire a mantenere il controllo. Si accorse che le mani gli tremavano, e non era affatto per la grande fatica appena portata a termine.
   Anche gli altri, poco per volta, riuscirono a riscuotersi dall’incanto che li aveva invasi.
   «E ora come facciamo a portarlo fuori?» domandò Yasmin, con fare pratico.
   Moshti si strinse nelle spalle.
   «Immagino che dovremo rassegnarci a sollevarlo, e poi a montarlo sulle ruote per poterlo spingere» borbottò. «Non sarà un’impresa semplice…»
   Sallah sorrise sotto la barba scura, costellata di fili di ferro.
   «Io e Indy abbiamo trasportato pesi maggiori di questo e ce la siamo cavati in situazioni decisamente peggiori» replicò. «In un qualche modo ce la caveremo anche questa volta, vedrete.»
   «Io non vi aiuterò» disse in tono secco il professor Smolnikov. «Mi rifiuto di proseguire oltre con questa pagliacciata!»
   Lo sguardo di Sallah lo fulminò, facendolo trasalire.
   «Vorrà dire, professore, che dopo aver tirato fuori il carro, ci chiuderemo lei, in questo sarcofago! Almeno, saremo certi che non ci darà più alcun fastidio!» promise, sebbene con un tono giovale che non riuscì a rendere minacciose le sue parole.
   Senza badare alle loro chiacchiere, Indy si piegò verso l’interno del sarcofago, studiando il modo migliore per riuscire a estrarre il carro d’oro. Notò che, sulla parte inferiore dei fianchi del parapetto, erano stati infissi quattro anelli di bronzo dorato; poiché non sembravano avere nessuna attinenza con il resto della biga, intuì subito che dovevano essere serviti al trasporto. Altri due piccoli cerchi, disposti di traverso al pianale, si trovavano sulla parte superiore. Probabilmente, lì attorno dovevano esserci dei pali da infilare in quegli anelli.
   Si allontanò di qualche passo, guardandosi attorno. Yasmin lo seguì, per fargli luce con la torcia.
   Posò i suoi occhi su tesori di vario genere, tra cui tavolette d’argento ricoperte di scritte in geroglifico e in cuneiforme – doveva trattarsi delle copie originali del trattato di pace con gli Hittiti, intuì con un brivido di emozione che lo percosse da capo a piedi – e altri oggetti di immenso valore. Poi, finalmente, notò quello che stava cercando: due lunghi pali di legno, dipinti di colore dorato, appoggiati ai piedi dell’altare.
   Si affrettò a raccoglierne uno. Era leggero, flessibile e resistente.
   «Sallah, prendi quello» ordinò con tono sbrigativo, indicando il secondo. L’amico si affrettò a fare come gli era stato detto.
   Tornati vicino all’altare, Indy studiò di nuovo il carro. I quattro anelli che si trovavano in basso potevano servire per il trasporto, come pensava. I due attaccati alla parte superiore, invece, sarebbero dovuti servire per far uscire il carro dal sarcofago.
   Con mille precauzioni, fece passare uno dei lunghi pali attraverso i due anelli trasversali. Come immaginava, la lunga sbarra ci passò alla perfezione. Strinse le mani attorno all’estremità e indicò a Sallah di impugnare quella opposta.
   Senza parlare, sotto lo sguardo attento e incantato degli altri tre, i due amici si scambiarono un ennesimo cenno di intesa. Cominciarono a sollevare, facendo attenzione non sforzare troppo: sapevano più che bene che, antico com’era, il legno si sarebbe potuto rivelare molto più fragile di quanto apparisse.
   Alcuni scricchiolii sinistri risposero alle loro sollecitazioni. Per un momento, spaventati dall’idea di poter provocare un disastro, entrambi pensarono di fermarsi. Ma non lo fecero e, presto, sentirono che il carro si muoveva, mentre la sua parte inferiore si sollevava lentamente, staccandosi dalla pietra su cui era rimasto immobile per migliaia di anni.
   Era davvero molto leggero. Ben presto, fu completamente fuori dal sarcofago, sollevato tra i due amici.
   «E adesso?» domandò Smolnikov, rabbuiato.
   Tenendo le braccia sollevate, grugnendo per lo sforzo, Indy e Sallah avanzarono di qualche passo, fino a raggiungere una delle estremità dell’arca. Lì, stando attenti a non combinare nessun tipo di danno, si chinarono lentamente verso terra, appoggiando con delicatezza il carro sul pavimento.
   «Ecco fatto» borbottò Sallah, lasciando andare il palo e asciugandosi la fronte che si era imperlata di sudore.
   Anche Indy era in un bagno di sudore, ma non certo per lo sforzo. Il peso del carro, tutto sommato, era quasi irrisorio. Erano state semmai l’emozione e la paura di sbagliare a ridurlo in quelle condizioni.
   Con altrettanta cautela di quando l’aveva infilata, ritrasse la sbarra dorata dai due anelli e si piegò per farla scivolare in quelli sul lato inferiore sinistro del carro. Anche in quel caso, le dimensioni combaciavano alla perfezione. Sallah, fatto un gesto in direzione del figlio, che aveva intanto recuperato l’altro palo, se lo fece consegnare e ripeté l’operazione sul lato destro. Adesso, camminando uno davanti e uno dietro, avrebbero potuto trasportare il carro alla stessa maniera in cui gli antichi sacerdoti lo avevano portato fino a lì.
   «Prendete le ruote e appoggiatele al pianale» borbottò Indy, mentre contemplava l’opera che avevano portato a termine.
   Moshti e Yasmin, sotto la supervisione di Sallah, si affrettarono a fare come chiedeva, maneggiando con delicatezza le preziose ruote in legno di acacia che, come il resto del carro, erano rivestite di foglia d’oro. Non appena furono riposte sulla pedana del veicolo e l’archeologo si fu accertato che non avrebbero rischiato di cadere a causa dei loro movimenti, venne il momento cruciale.
   Certo, una pausa non avrebbe fatto male. Avrebbero potuto recuperare le energie e, mentre riposavano, si sarebbero potuti aggirare in quel vasto ipogeo, studiandone tutti i tesori preziosi che racchiudeva. Quello scrigno delle meraviglie avrebbe potuto riservare chissà quanti altri innumerevoli segreti. Ma, per l’ennesima volta, il senso di ansia e di fretta prese il sopravvento su tutto il resto. Dovevano sbrigarsi a tagliare la corda.
   «Pronto?» domandò Indy, dando uno sguardo a Sallah.
   «Pronto» confermò lui, con un cenno d’intesa.
   Si posero alle due estremità del carro, l’americano davanti e l’egiziano dietro, e strinsero un’altra volta le mani attorno ai pali di trasporto. Con una coordinazione degna di nota, sollevarono la Gloria di Amon e, un passo dopo l’altro, cominciarono a trasportarla giù dall’altare. Una volta superati i gradini, iniziarono a muoversi a passi lenti lungo la vasta sala ricolma di tesori. Le piastrelle di maiolica scricchiolavano sotto i loro piedi.
   «Io protesto deliberatamente!» sbottò Smolnikov, osservando l’intera operazione. «Questo è un furto fatto e finito! La scoperta è mia e…»
   Moshti, che aveva recuperato il suo palanchino, lo pungolò nella schiena, interrompendolo.
   «Basta ciance e muoviti!» ordinò, sospingendolo in avanti.
   «Le consiglio di fare come dice: mio fratello è uno dei tipi più sbrigativi che io conosca» trillò Yasmin, con ironia.
   Rassegnato, l’archeologo sovietico fu costretto a obbedire, incamminandosi alle spalle di Sallah e di Indy.
   I due giovani lo seguirono da vicino, dando inizio a un corteo estremamente diverso da quello ieratico e composto che, tremila anni prima, guidato da Ramses il Grande in persona, tra nubi di incenso e inni sacri pronunciati in tono basso e solenne, aveva condotto il carro nella direzione opposta.


 

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Capitolo 14
*** In trappola ***


    14 - IN TRAPPOLA

   Sebbene non la si potesse considerare come una semplice passeggiata, trasportare il carro d’oro attraverso la vasta sala ipostila fu un’impresa tutto sommato semplice. Le cose cambiarono non appena dovettero affrontare la scalinata che conduceva al corridoio da cui erano sopraggiunti.
   I gradini erano ripidi e, adesso che avevano le mani occupate, apparivano molto più polverosi e sdrucciolevoli rispetto a quando li avevano percorsi la prima volta. Risalirli senza danneggiare il prezioso manufatto fu piuttosto complicato, e richiese un’attenzione crescente da parte di Indy e di Sallah.
   «Possiamo aiutarvi in qualche modo?» domandò Moshti, quando vide che erano arrivati grossomodo a metà strada.
   L’archeologo scosse la testa.
   «Meglio che facciamo noi» grugnì, salendo con lentezza esasperante sul gradino successivo. «Voi limitatevi a non perdere di vista quel gaglioffo, che non gli salti in testa di fare qualche scherzetto…»
   Il professor Smolnikov mise il broncio, offeso.
   «Anche se lei è uno scimmione e un violento, non le permetto di darmi del gaglioffo, professor Jones!» replicò, con tono stizzito e orgoglioso.
   La risposta dell’americano fu un sordo ringhio. Moshti, con l’ennesimo spintone, costrinse il russo a tacere.
   Continuarono a salire. Indy e Sallah ce la misero tutta e, finalmente, dopo aver rischiato un paio di volte di far sbattere il fondo del carro contro lo spigolo di un gradino, raggiunsero l’apice della scalinata. Entrambi erano sudati e tremavano per l’adrenalina: sebbene non ne avessero fatto parola, si erano sentiti mettere sotto pressione da quella manovra azzardata e rischiosa.
   «Direi che sia arrivato il momento di concederci una pausa» bofonchiò Jones, facendo cenno a Sallah, perché si abbassasse ad appoggiare il carro sul pavimento. «Ne abbiamo bisogno e…»
   «Non vi preoccupate, da qui in poi ci pensiamo noi.»
   Il gruppetto sussultò, colto alla sprovvista da quella voce inattesa. Alzarono gli occhi e, dall’oscurità della galleria, videro uscire un gruppo di uomini. Erano quasi tutti armati di Kalashnikov, le cui canne erano puntate verso di loro.
   Una smorfia di disappunto si disegnò sul volto di Indy, mentre Smolnikov, riconoscendo l’uomo alla guida del gruppo, esclamò, in tono vittorioso: «Colonnello Volkov!»
   «Felice di rivederla, compagno professore» replicò Volkov, senza staccare gli occhi di dosso a Indy. «Per fortuna avevo messo degli uomini fidati a tenerla sotto controllo.»
   Jones provò a muovere un passo in avanti, ma Volkov fu più veloce. Sollevò la pistola che stringeva nel pugno e la utilizzò come un randello per colpirlo al volto. Sanguinando, Indy incespicò all’indietro e cadde in terra.
   «Zio Indy!» gridò Yasmin, buttandosi in ginocchio al suo fianco per controllare come stesse. Gli prese la faccia tra le mani e la accarezzò con delicatezza.
   Moshti e Sallah fecero l’atto di volersi muovere, ma si trovarono con i mitra piantati contro il petto.
   «Pare che non stiate capendo che, da questo momento, comando io» sbottò Volkov, in tono glaciale.
   Indy si pulì il fiotto di sangue che gli era uscito dal naso e lo fissò con disgusto.
   «Sei venuto a prenderti il carro, bastardo?» grugnì.
   Un sorrisetto terribile inarcò le labbra del russo.
   «Quello, ma non solo» disse. «Sono qui anche per vendicarmi.»
   Sollevò la pistola e la puntò contro Jones. L’americano rimase impassibile, ma sentì che le mani di Yasmin attorno al suo viso tremavano.
   I due uomini si fissarono per qualche istante. Pensieri contrastanti attraversarono le loro menti, ma nessuno dei due lo diede a intendere. Restarono entrambi fissi nelle loro espressioni, quella infastidita di Indiana Jones e quella fredda di Sasha Volkov. Il dito del colonnello sfiorò il grilletto un paio di volte, pronto a schiacciarlo. Infine, la pistola si abbassò.
   «Ma perché uccidere rapidamente un simile cane?» domandò, quasi parlottando tra sé. «Una morte rapida sarebbe una concessione troppo grande per lei, professor Jones.» Fece un cenno di diniego. «No. Ho ben altri piani in mente, per lei e per tutti i suoi amichetti.» Osservò il tesoro che si trovava nella sala sottostante e una smorfia disgustata gli contrasse i lineamenti. «Questo posto è pieno di reperti archeologici. Ora anche voi ne diverrete parte. Dovreste esserne lusingati.»
   Yasmin tremò e Moshti borbottò qualcosa di indefinibile. Sallah e Indy, invece, fecero un profondo sospiro, rassegnati. Sempre la solita storia.
   Volkov rivolse un cenno ai suoi uomini. Mentre quattro di loro tenevano sotto tiro Indy e gli altri, uno si avvicinò all’estremità del carro, afferrando le pertiche. Smolnikov, intuendo le sue intenzioni, si affrettò a stringerle sull’altro lato.
   «Portatelo fuori e attendeteci all’ingresso del tempio» ordinò secco il colonnello. «Io me la sbrigo con questi e vi raggiungo.»
   L’archeologo sovietico guardò brevemente Indy, dicendo: «Mi dispiace, professor Jones, ma come vede la violenza non paga», poi lui e il militare si avviarono in fretta nell’oscurità della galleria. Boris e Oleg, che fino a quel momento erano rimasti in disparte, fecero per muoversi, come se intendessero andare con loro.
   «Fermi, dove andate?» li richiamò subito il colonnello.
   I due agenti del KGB tentennarono.
   «Penso sia meglio se li scortiamo e…» cominciò a dire Boris.
   «Non penso proprio» disse secco Volkov.
   «Ma…»
   La pistola del colonnello si alzò verso di loro. Di fronte a quella minaccia, entrambi tacquero e restarono immobili, impallidendo.
   «Per voi ho pensato a qualcosa di molto meglio» grugnì. Fece un cenno secco in direzione di Indy e degli altri. «Avanti, raggiungeteli.»
   I due agenti del KGB tremarono vistosamente.
   «Compagno, non avrà intenzione di…» borbottarono. «Noi abbiamo sempre e solo agito per il meglio e…»
   La freddezza di Volkov fu messa a dura prova. Un rossore pericoloso gli si diffuse sulle guance e gli incendiò le orecchie. Una vena sulla tempia pulsò in maniera vistosa e sinistra.
   «Se fosse dipeso da voi, questi ladri avrebbero portato fuori il carro e si sarebbero eclissati!» sbraitò. La sua voce echeggiò lugubremente per tutto il sotterraneo. «È tempo che io vi dia una lezione!» Spostò la pistola verso la fronte di Boris. «E ora con loro, svelti!»
   Rassegnati, i due uomini fecero come gli era stato detto e andarono a posizionarsi poco lontano da Indy e dagli altri.
   Volkov dardeggiò su tutti loro uno sguardo che non prometteva nulla di buono, quindi indicò la sala.
   «E ora farete meglio ad allontanarvi da qui, se non vorrete finire smembrati» disse. Rivolse un cenno a uno dei suoi uomini. «È pronta, la mina?»
   «Tutto pronto, compagno colonnello» replicò subito quello. «Attende soltanto di essere innescata.»
   Intuendo le sue intenzioni, Sallah fece un passo in avanti.
   «Un momento, non avrete intenzione di seppellirci qui sotto!» protestò.
   Uno dei militari gli puntò la canna del Kalashnikov all’altezza dello stomaco, costringendolo a immobilizzarsi.
   «Papà…» sussurrò Yasmin, alzandosi.
   Anche Indy tornò in piedi e subito si avvicinò a Sallah, prendendolo per il braccio. Glielo strinse adagio, facendogli capire che non era il momento di mettersi a compiere azioni scioccamente eroiche, che avrebbero soltanto peggiorato la situazione.
   «Ne ho tutta l’intenzione, invece, e lo farò» disse secco Volkov. «E ora indietro, o vi tramuterete in crivelli.»
   Comprendendo di non poter fare alcunché per difendersi, tutti e quattro si rassegnarono a indietreggiare, scendendo lungo la scalinata. I due agenti del KGB, invece, rimasero al loro posto.
   «Voi non andate?» domandò il colonnello con accento ironico, guardandoli con indifferenza.
   «Compagno…» bofonchiò Oleg.
   «Il compagno ha già stilato un rapporto in cui informa i vertici del servizio segreto che voi siete morti e i vostri cadaveri dispersi» disse il colonnello, sadico. «Quindi, scegliete: o restate qui a fare compagnia a Jones, oppure venite fuori con me, ma soltanto per permettervi di sciogliere i vostri corpi nell’acido, in maniera da non lasciare prove.» Inarcò un sopracciglio, mentre un sorriso diabolico gli deformava i lineamenti. «E non ho intenzione di uccidervi, prima di cominciare a dissolvervi.» Incrociò le braccia sul petto. «Scegliete voi.»
   Sconfitti, i due agenti discesero la scala come avevano fatto Indy, Sallah e i due ragazzi. Trascinando i piedi, si avviarono in direzione dell’altare, come due vittime condannate a subire l’estremo sacrificio.
   Volkov sorrise ancora più spaventosamente, contemplando i visi rabbiosi delle persone che aveva condannato a essere sepolte vive. In quel momento si sentiva il padrone del mondo, capace di fare qualsiasi cosa.
   Infine, voltò loro le spalle e tornò nella galleria. Tenendo sotto tiro i prigionieri con i mitra, i suoi uomini lo seguirono, indietreggiando un passo per volta. Poi, quando furono tutti fuori dall’ipogeo, l’esplosivo venne innescato.

 
* * *

   Non appena l’ultimo militare sovietico fu scomparso oltre la soglia, un sibilo costante si diffuse per tutto il sotterraneo.
   «Hanno acceso la miccia!» gridò Indy, scattando in avanti di corsa.
   «Indy, che cosa vuoi fare?!» urlò Sallah, spaventato, cominciando a rincorrerlo nel tentativo di fermarlo.
   Indiana Jones non gli badò. Forse, se avesse agito in fretta, sarebbe riuscito a trovare la miccia e a strapparla dalla bomba prima che fosse troppo tardi e venisse provocato un danno irreparabile. Purtroppo, era già troppo tardi.
   Stava salendo i gradini della scalinata, quando il fragore dell’esplosione rimbombò per tutto l’ipogeo. La terra tremò, il soffitto sussultò. Calcinacci e polvere precipitarono ovunque, rendendo l’aria irrespirabile. Indy perse l’equilibrio e, travolto dalla deflagrazione, fu scagliato all’indietro.
   Rotolò fino alla base della scala, travolto dai frammenti di pietra che rimbalzavano da tutte le parti. Rimasto immobile, alzò gli occhi al soffitto. Un grosso blocco si stava staccando, proprio sopra di lui. Ormai non avrebbe più fatto in tempo a scostarsi, sarebbe rimasto travolto…
   Sallah lo agguantò sotto le ascelle e lo trascinò via di peso. Il pietrone cadde subito dopo, distruggendo il pavimento e facendo schizzare da tutte le parti frammenti ormai irriconoscibili di maiolica. Il sotterraneo fu scosso da innumerevoli altre vibrazioni, che abbatterono le statue e rovesciarono i tesori. Il loro tintinnio si mischiò e si sovrappose al fragore della roccia che andava in pezzi. Poco a poco, tutto si quietò, tornando silenzioso e immobile.
   Indy, tremante, si rialzò, aggrappandosi all’amico e fissando il punto in cui, per poco, non sarebbe morto. Se l’era vista davvero brutta. Non che questo mutasse granché la loro pessima situazione.
   Moshti e Yasmin si avvicinarono di corsa, facendosi largo in mezzo al pulviscolo pressoché irrespirabile. Tossivano ed erano bianchi di polvere dalla testa ai piedi, avevano gli occhi arrossati e lacrimanti e tremavano in maniera vistosa, ma nel complesso non sembravano feriti.
   «Papà! Zio Indy!» gridò il ragazzo. «State bene?»
   Sallah annuì, dandogli una pacca sulla spalla. Indy, notando il terrore dipinto sul volto di Yasmin, la prese tra le braccia e la tenne stretta per un minuto abbondante.
   Uno scalpiccio li fece voltare. I due russi, anche loro completamente imbiancati, si stavano avvicinando. Nemmeno loro avevano riportato ferite gravi, almeno a prima vista.
   «Avete visto che bell’affare che avete fatto, lavorando per quel pazzo di Volkov?» li redarguì Sallah.
   Nessuno dei due seppe che cosa replicare.
   Jones, intanto, lasciata andare la ragazza, provò a salire la scalinata. Non ne restava più molto, perché l’esplosione l’aveva distrutta. Orientandosi con il fascio di luce della torcia, riuscì comunque a inerpicarsi tra le macerie, fino a raggiungerne la superficie. Come temeva, però, fu una fatica inutile. L’ingresso della galleria era stato completamente sigillato dal crollo. Senza gli strumenti adatti, non sarebbero mai riusciti a liberarsi.
   «Di qui non si passa» comunicò con un borbottio, rivolto agli altri.
   Dal basso, gli rispose un coro di mugugni, in cui riuscì a distinguere la voce di Yasmin.
   «Considerato che era la sola via di accesso a questo luogo, siamo fregati.»
   Con qualche cautela, scivolando un paio di volte sulla pietra friabile, Indy tornò da loro.
   «Forse è così» brontolò, enigmatico, guardandosi attorno.
   Sallah, i suoi figli e i due agenti del KGB si scambiarono rapide occhiate. Possibile che l’archeologo avesse in mente qualcosa che avrebbe potuto tirarli fuori da lì?
   «A che cosa stai pensando?» domandò Sallah, sperando che il suo amico non si stesse semplicemente illudendo.
   Indy si allontanò di qualche passo, puntando il fascio luminoso della torcia dappertutto. Per fortuna, nonostante la polvere, l’oro brillava ancora, e bastava poco perché lo scintillio si propagasse a tutta la vasta sala, illuminandola a giorno.
   «Zio Indy…?» lo interrogò Moshti, seguendolo.
   Senza voltarsi, Jones barbugliò, perso nelle proprie riflessioni: «I pipistrelli…»
   Tutti lo fissarono senza capire per alcuni istanti. Dopo aver aggrottato le sopracciglia, Sallah si batté una manata sulla fronte in segno di comprensione.
   «Ma certo, Indy, hai ragione!» esclamò.
   Fece scivolare lo sguardo sui figli e, notando le loro espressioni perplesse, soggiunse: «Non capite? Quando siamo entrati nella galleria abbiamo trovato dei pipistrelli, ci hanno praticamente travolti…»
   Yasmin annuì, poco convinta. Moshti si grattò la testa. Oleg e Boris si guardarono senza capire.
   «Sì…» brontolò quest’ultimo. «Li abbiamo visti anche noi… e allora?»
   «E allora» disse Indy, volgendosi verso di loro e ritrovando il suo solito tono cavernoso, «mi rifiuto di credere che quelle simpatiche bestiole abbiano abitato qui dentro fin dai tempi di Ramses II come se niente fosse. E, siccome la parte da cui siamo entrati noi era sigillata e non aveva altre vie d’uscita, deve significare che, qui da qualche parte, ci deve essere un altro sbocco che comunica con l’esterno. Se riusciamo a trovarlo, potremo venir fuori da questa trappola. Per cui, poche chiacchiere e diamoci da fare prima che le batterie delle nostre torce si esauriscano.»
   Rincuorati da quell’intuizione e allarmati all’idea di poter sprecare anche un solo prezioso secondo messo a loro disposizione, tutti cominciarono ad aggirarsi per la sala, in mezzo ai tesori, alla ricerca di un qualsiasi pertugio che avrebbe potuto significare la loro salvezza.

 
* * *

   L’onda d’urto dell’esplosione fu di una violenza tale che i quattro uomini di Volkov furono scagliati al suolo e si trovarono appiattiti sul pavimento polveroso. Lo stesso colonnello, pur riuscendo a rimanere in piedi, si scoprì a vacillare e dovette appoggiarsi con un braccio alla parete per riuscire a reggersi. Dal soffitto caddero alcuni calcinacci, che si rovesciarono addosso al gruppo di uomini. Il rombo si propagò con un’eco assordante, che gli frastornò i timpani.
   Un suono e una violenza celestiali, per il colonnello Sasha Volkov.
   «Resta sepolto come un topo di fogna per il pochissimo tempo che ti rimane, Indiana Jones» sibilò tra i denti. Guardò nel vuoto e soggiunse, parlando con tono bassissimo: «Irina, amica mia, ora sei vendicata. L’uomo che ha vanificato il tuo sogno di donare all’Unione Sovietica un’arma potentissima e infallibile è stato annientato e distrutto. E ora sarò io, sulle tue orme, a recare alla Grande Madre Russia questo nuovo artefatto, che ci renderà invincibili.»
   Abbassò lo sguardo. I suoi uomini non si erano ancora mossi, immobili con le mani sopra la testa per ripararsi da eventuali nuovi crolli.
   «In piedi, svelti!» abbaiò, a voce alta. «Il pericolo è cessato. Sbrighiamoci a uscire da qui. Dobbiamo ancora caricare il carro sul camion e affrettarci a partire per Assuan. Datevi una mossa!»
   Obbedienti, i militari si rialzarono e si incamminarono con passo affrettato lungo la galleria, aprendo la strada per il loro comandante.
   Ancora fermo al suo posto, il colonnello Volkov rivolse un ultimo pensiero a Irina Spalko, domandandosi se sarebbe stata fiera di lui e di ciò che aveva condotto a termine, e si incamminò alle loro spalle. Per quanto riguardava Indiana Jones, invece, se lo dimenticò alla svelta: ora che la sua vecchia amica aveva ricevuto la sua giustizia postuma e che la Gloria di Amon era saldamente nelle sue mani, non valeva più la pena di perdere tempo a pensare a quell’uomo che, finalmente, non avrebbe più dato alcun fastidio.

 
* * *

   «Papà! Zio Indy!» chiamò d’improvviso Moshti. «Forse ho trovato qualcosa!»
   Indy e Sallah, che stavano esaminando la parete di sinistra della sala, si affrettarono a raggiungerlo al capo opposto. Anche i due russi e Yasmin, che si erano incaricati di setacciare il lato nord, vennero attratti dal richiamo del ragazzo. Era ormai un’ora abbondante che stavano passando palmo a palmo il sotterraneo. Non avevano ancora abbandonato le speranze, ma le luci delle torce cominciavano ad affievolirsi; e più il chiarore diminuiva, e più lo sconforto aumentava.
   Moshti era inginocchiato davanti a una parete. Quando li sentì sopraggiungere, si scostò per permettere ai loro occhi di vedere ciò che aveva scoperto.
   Il muro era dipinto con le solite immagini guerresche. In quel punto si poteva scorgere la grande fortezza di Qadesh, dinnanzi alla quale il solo Ramses II aggrediva l’esercito hittita, costringendolo a ripiegare alla rinfusa verso il fiume Oronte. Al di là di questo, sulla sponda opposta, erano rappresentati alcuni soldati che tenevano per le gambe un loro comandante, salvato appena in tempo dai flutti impetuosi: l’uomo, a testa in giù, vomitava tutta l’acqua di cui aveva fatto indigestione.
   Non era certo per la magnificenza pittorica di quegli affreschi che Moshti aveva richiamato la loro attenzione. Nella parte inferiore della parete si apriva infatti uno squarcio, oltre il quale regnava l’oscurità.
   «Vediamo…» borbottò Indy, abbassandosi.
   Si piegò sulle ginocchia e, dopo una lieve incertezza, si sdraiò sul ventre. Sbirciò all’interno dello stretto pertugio. Anche puntandoci dentro il fascio della torcia non gli riuscì di vedere granché. In compenso, si sentì sul volto una corrente d’aria e le sue narici percepirono odore di umidità.
   «Oltre questa parete c’è un passaggio» brontolò, rialzandosi.
   Appoggiò la mano alla parete e vi tamburellò sopra, prima con le dita e poi con le nocche. Sussultò per la sorpresa.
   «Questa non è la pietra arenaria di cui sono composte le altre pareti scavate direttamente nella roccia» annunciò, contenendo a stento un moto d’esultanza. «Si tratta di mattoni di fango essiccato. Devono essere stati impiegati per celare un passaggio naturale nella montagna.»
   Tutti i presenti si sentirono attraversare da un istintivo senso di sollievo.
   «È possibile abbatterla?» domandò Oleg, timoroso che la loro speranza potesse essere disattesa dai fatti.
   Fu Sallah ad annuire e a rispondere.
   «Io e Indy, da soli, abbiamo superato ostacoli anche più resistenti di questo» disse. «Con qualche sforzo, possiamo far crollare questi vecchi mattoni.»
   L’archeologo fece scivolare lo sguardo su tutto il tesoro e individuò un gruppo di asce di bronzo di aspetto parecchio vigoroso, che si trovavano accatastate ai piedi di una colonna.
   «E i mezzi per riuscirci non ci mancano di certo» disse.
   Senza che fosse stato necessario impartire ordini, tutti quanti si appropriarono di un’ascia e tornarono dinnanzi alla parete variopinta. Esitarono e tutti gli occhi si puntarono sull’archeologo, che sbuffò. Come al solito, toccava a lui accollarsi la responsabilità di sacrificare una preziosa testimonianza dell’arte antica. In ogni caso, tra la scelta di conservare intatto un prezioso tesoro e quella di tramutarsi lui stesso in un reperto archeologico, non aveva alcun dubbio su che cosa preferisse.
   Assestò il primo colpo, abbattendo in una sola volta l’intera fortezza di Qadesh, che si sbriciolò e cadde al suolo in frammenti irriconoscibili. Sallah lo imitò immediatamente, deviando il corso dell’Oronte. Subito anche gli altri si unirono al lavoro, aiutando Ramses II nell’annientare l’esercito nemico, prima di distruggere pure lui e il suo carro. Ben presto, tutto l’intonaco fu ridotto in pezzetti irriconoscibili, sparsi sul pavimento, e la parete di mattoni venne riportata alla luce sempre più scarsa.
   «Forza, ancora qualche sforzo» borbottò Indy, ricominciando a colpire il muro.
   I mattoni di fango essiccato tentarono di opporre un’ostinata resistenza all’assalto continuo delle scuri. Presto, però, dovettero cedere contro la determinazione di chi non aveva nessuna voglia di restare prigioniero nel buio. Briciole di terra e di paglia impastate crollarono al suolo in un mucchio informe, aprendo a poco a poco un passaggio.
   Nel giro di una decina di minuti, dove per millenni si era conservata quasi intatta una parete dipinta in maniera meravigliosa, si aprì un pertugio largo a sufficienza per permettere il passaggio anche al robusto fisico di Sallah.
   «Credo che possiamo andare» dichiarò l’archeologo, sbirciando all’interno.
   Con la coda dell’occhio, notò che i due russi stavano gettando vie le scuri di bronzo.
   «Queste faremo meglio a conservarle ancora per un poco» lì bloccò. «Se troveremo altri ostacoli, dovremo essere pronti ad abbatterli senza perdere un solo secondo.»
   Senza aggiungere altro, scavalcò ciò che rimaneva della parete e si inoltrò nel buio. Gli altri lo seguirono in silenzio, guardandosi attorno con nervosismo e con speranza.
   Al contrario della galleria che avevano seguito per raggiungere il sotterraneo, questo passaggio appariva come una semplice fenditura naturale. Le pareti erano grossolane e irregolari, e lo spazio si allargava e si restringeva in maniera del tutto casuale.
   Indy temeva di imbattersi in ogni momento in un ostacolo invalicabile. Il fatto che quel passaggio fosse stato utilizzato dai piccoli pipistrelli non significava certo che anche un essere umano vi sarebbe potuto passare. Del resto, l’ingresso all’ipogeo che quelle bestiole si erano riservate era molto piccolo, quindi chi avrebbe potuto scommettere che non fosse altrettanto per l’entrata di questa caverna?
   A rincuorarlo un poco, fu la vista di alcuni antichi vasi accatastati ai muri. Evidentemente, degli uomini c’erano stati, lì sotto. Non volle provare a indagare per scoprire se, a metterli in quel posto, fossero stati gli operai che poi avevano costruito il muro per celare l’ipogeo oppure gente proveniente da un’altra direzione. Era meglio conservare intatte le speranze fino all’ultimo, che disilludersi prima del tempo.
   Un rumore di acqua attrasse la sua attenzione.
   Corrugò le sopracciglia e fece un cenno agli altri perché rallentassero. Avevano raggiunto una discesa, che creava un dislivello di alcuni metri. Puntò la luce di fronte a sé e, con sconcerto, vide che la galleria che stavano seguendo, abbassandosi, era allagata.
   «Accidenti!» esclamò Yasmin.
   Senza una parola, Indy raggiunse la base della discesa e mise i piedi nell’acqua. Era fredda e limaccioso, ma non arrivava al di sopra delle caviglie.
   «È un po’ d’acqua, ma non ci ostacolerà» dichiarò. «Dobbiamo per forza andare avanti, è la nostra sola possibilità.»
   Attese che gli altri lo avessero raggiunto e riprese il cammino. A ogni passo l’acqua produceva un leggero sciacquio, bagnandogli i polpacci. Dopo qualche minuto trascorso senza che accadesse nulla di rilevante, Indy si rese conto di un fatto allarmante: la galleria era in pendenza; più andavano avanti, più aumentava il livello dell’acqua. E non fu il solo ad accorgersene.
   «Adesso l’acqua mi arriva alle ginocchia» disse infatti Boris, dopo alcuni istanti.
   «Sta salendo» replicò Sallah, mantenendosi calmo. «Mi chiedo fino a che punto.»
   Indy continuò a guardare in avanti, senza voltarsi indietro.
   «L’unico modo per scoprirlo è continuare ad andare avanti» grugnì.
   Proseguirono. A causa dell’innalzamento del livello dell’acqua, furono costretti ad avanzare più lentamente. I loro movimenti divennero goffi, le loro gambe faticavano a vincere la resistenza del liquido che, ormai, le avvolgeva fino alle cosce. L’ambiente stretto non rendeva le cose più semplici, e a ogni passo prendevano botte ai gomiti o alle ginocchia.
   Trascorsa un’altra decina di minuti, si trovarono immersi fin sopra la vita.
   «Se va avanti così, dovremo nuotare, più che camminare» sbottò Yasmin. La sua voce risuonò strana, amplificata dall’acqua.
   Indy annuì, senza rispondere. Fece scattare l’interruttore della torcia e puntò lo sguardo di fronte a sé. In profondità, al di sotto del livello dell’acqua, gli parve di aver intravisto un chiarore. Doveva scoprilo, e conosceva un solo sistema per riuscirci.
   «Aspettatemi qui per qualche minuto, mi sembra di aver visto qualcosa» dichiarò.
   Mise la torcia tra le mani di Yasmin e proseguì per ancora qualche metro, finché l’acqua gli arrivò a lambire il petto. Prese una profonda boccata d’aria e si immerse.
   Nuotare in quelle acque fredde, tetre e fangose non era certo quello che aveva avuto in mente di fare quando era entrato nel tempio, quella sera. Tuttavia, ricorrendo a tutte le sue energie, avanzò in mezzo a quel mondo silenzioso e limaccioso, guadagnando terreno. I muscoli gli dolevano e i crampi minacciarono di afferrarlo molto presto. Forse avrebbe dovuto iniziare a pretendere qualche sforzo in meno, dal suo vecchio fisico provato da mille avventure. Ma ci avrebbe pensato a tempo debito. Adesso era in ballo e non poteva fermarsi.
   Nuotò più veloce che poté. Ormai la galleria era completamente allagata, e cercò di non battere la testa. Gli abiti lo ostacolavano, il cappello gli si era praticamente incollato alla testa e le falde, spesso, gli finivano davanti agli occhi, impedendogli la visuale. Non se ne curò e continuò ad andare avanti, mosso ormai dalla disperazione. Iniziava a mancargli l’aria. Tornare indietro sarebbe stato impossibile e, se non avesse trovato al più presto un’apertura, sarebbe annegato.
   Lampi luminosi gli esplosero davanti agli occhi. Ma una luce diversa attrasse la sua attenzione, infondendogli la forza necessaria a coprire l’ultimo tratto rimanente. Con un colpo rapido dei piedi, Indiana Jones emerse all’aperto, nella calda notte rischiarata dalla luna.
   Annaspando e agitando le braccia, si mantenne a galla sopra la superficie, mentre l’aria gli penetrava nei polmoni, restituendogli vita ed energia. Il petto gli dolse per qualche istante, ma il battito del suo cuore cominciò subito a regolarizzarsi e la vista perse quella cortina di nebbia che l’aveva offuscata negli ultimi istanti.
   Indy si guardò attorno, cercando di capire dove si trovasse.
   Era all’imbocco di una galleria, su una delle sponde rocciose del Nilo. Sopra l’ingresso, incisi nella pietra arenaria, si potevano ancora scorgere alcuni geroglifici, ormai quasi del tutto cancellati dal tempo e dall’erosione. Con un ultimo sforzo, Indy si aggrappò a una roccia e si issò all’asciutto.
   Gettò un’occhiata verso sinistra e si rese conto di trovarsi almeno a un paio di chilometri a monte rispetto ai templi di Abu Simbel. La galleria da cui era sbucato si era aperta per millenni sul fianco della falesia, inosservata per tutto quel tempo. Ma, adesso, il livello del Nilo si stava inesorabilmente innalzando e l’aveva allagata. Molto presto, anche il tratto che loro avevano percorso all’asciutto sarebbe stato del tutto inondato.
   Questo pensiero gli rammentò che, là dentro, erano rimasti ad attenderlo i suoi amici. Dovevano essere preoccupati da morire, non vedendolo riemergere. Doveva tornare subito da loro. Si concesse giusto un paio di minuti per riprendere fiato e, nel frattempo, si sbarazzò di tutto ciò che avrebbe potuto ostacolarlo nella nuova nuotata che lo attendeva: tolse il cappello, il giubbotto, il cinturone, la borsa e le scarpe, lasciandoli accanto a un masso da dove sperava di poterli recuperare in tempi brevi.
   Poi, tratto un altro profondo sospiro, tornò a immergersi nell’acqua gelida.

 
* * *

   «Temo che sia morto» disse Oleg, scuotendo la testa. «Sarà annegato. E, dunque, addio speranze di poter uscire da questa parte.»
   Sallah lo fissò con una smorfia.
   «Non crederò che Indy sia morto finché non avrò davanti agli occhi il suo cadavere» obiettò. Eppure, non riuscì a mascherare la preoccupazione che gli aveva riempito la voce.
   «Forse faremo meglio a tornare indietro e vedere se ci sia un’altra strada» borbottò Moshti, non facendo assolutamente nulla per nascondere quante poche speranze di riuscita conservasse ancora.
   Yasmin, invece, tenne gli occhi puntati verso il fondo della galleria. Si torceva le mani, nervosa. Non poteva accettare che lo zio Indy non ce l’avesse fatta. Era impossibile. Quell’uomo se la cavava sempre, in ogni situazione, con un’ostinazione senza eguali.
   Alcune bolle improvvise incresparono la superficie dell’acqua. Una sagoma nera occupò lo spazio e Indiana Jones riemerse dinnanzi a tutti loro, spandendo flutti in tutte le direzioni. Annaspò e sputò acqua.
   «Sia ringraziato Allah!» esclamò Sallah, sporgendosi in avanti per afferrarlo e aiutarlo a rialzarsi.
   Dopo aver ripreso fiato, Indy fece scivolare lo sguardo su tutti i presenti, che lo fissavano con aria ansiosa.
   «C’è un passaggio, conduce all’aperto» rivelò, ancora ansante per lo sforzo della nuotata.
   Sui cuori di tutti discese un sollievo che non avrebbero più potuto credere di poter provare.
   «Bisogna prendere una bella boccata d’aria, ma la via è comunque breve e non ci sono ostacoli. Inoltre la galleria non ha deviazioni, quindi non c’è possibilità di sbagliare. Sarà buio, ma di fronte a voi vedrete la luce della luna. Detto questo…» esitò un istante. «Là sotto ognuno dovrà arrangiarsi. Ma, se volete un consiglio, lasciate qui quello che non può servire. Non è una passeggiata, questo tunnel sommerso.»
   Senza indugio, i quattro uomini si affrettarono a sbarazzarsi delle giacche e delle cravatte. Yasmin, invece, restò immobile, arrossendo violentemente. Anche nel buio, l’archeologo se ne rese conto.
   «Non è assolutamente il caso di imbarazzarsi» le sussurrò. «Penso che potrai nuotare senza bisogno di toglierti nulla…»
   La ragazza scosse la testa.
   «Non è per questo, zio Indy» mormorò. «È che io… non so nuotare…»
   Il sorriso paterno di Indiana Jones si accentuò. A quanto pareva, per quella notte la sua schiena non aveva ancora finito di fare gli straordinari. Si avvicinò e, passatole un braccio attorno alla vita, mormorò: «Non temere, piccola. Non ti lascio sola. Ci penso io a te. Sarà sufficiente che tu prenda una bella boccata d’aria e poi tenga la bocca chiusa finché non saremo fuori. Per il resto, lascia fare a me.»
   Si voltò verso gli altri e domandò: «Pronti?»
   «Pronti» assicurò Sallah.
   «Bene, io e Yasmin andremo per primi. Probabilmente dovrò andare un po’ a rilento, con lei, quindi prima di seguirci lasciate trascorrere almeno un paio di minuti, così non rischieremo di esservi d’ostacolo.» Guardò Sallah e gli strizzò l’occhio. «Ci vediamo fuori.»
   Dopo aver inspirato una lunga boccata d’aria, lui e la ragazza si immersero nell’acqua tetra, diretti verso la salvezza.


 

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Capitolo 15
*** La riconquista del carro ***


    15 - LA RICONQUISTA DEL CARRO

   Indy terminò di riallacciare il cinturone e si calcò in testa il cappello ancora gocciolante. Si voltò verso i suoi compagni di sventura che, stanchi e infreddoliti, ma tutti sani e salvi, si erano seduti sulla pietraia in mezzo a cui crescevano erbe rinsecchite. La tiepida brezza notturna stava lentamente asciugando i loro abiti zuppi d’acqua. Guardò verso Yasmin e le sorrise. Lei lo ricambiò con delicatezza.
   «Professore» borbottò uno dei due agenti del KGB, alzandosi e venendo verso di lui.
   L’archeologo restò fermo ad aspettarlo, guardandolo con attenzione.
   «Mi chiamo Boris, professore» si presentò l’uomo. Accennò al suo collega, rimasto seduto vicino a Sallah. «Lui è Oleg. Lavoravamo per il servizio segreto sovietico.»
   Un ghigno deformò le labbra e le guance coperte di barba di Jones.
   «Lavoravate?» domandò, con sarcasmo. «Vi siete licenziati, per caso?»
   «Proprio così, professore» replicò Boris, serio. «È accaduto nel momento stesso in cui quel maledetto di Volkov ci ha sepolti vivi in quel dannato sotterraneo. Abbiamo un conto aperto, con lui.»
   Indy si fece attento. Anche Yasmin e Moshti si avvicinarono per sentire meglio.
   «E…» borbottò, «come avreste intenzione di saldarlo?»
   Un sorrisetto apparve sulla bocca del russo.
   «Desidera ancora recuperare quel carro, presumo» disse. «Noi possiamo offrirgliene la possibilità.»
   «Ma naturalmente» soggiunse Oleg, alzandosi e venendo verso di loro insieme a Sallah, «quello di vendicarci non è il nostro solo proposito. Abbiamo bisogno anche di altro.»
   «Vale a dire?» domandò Sallah, passandosi una mano sulla barba che gocciolava acqua limacciosa.
   «Desideriamo un salvacondotto per poterci trasferire negli Stati Uniti e chiedere asilo politico» rivelò Boris.
   «Voi ci capite, immagino» gli fece eco Oleg. «Aiutandovi, ci stiamo esponendo. In Unione Sovietica non la passeremmo liscia. Trasferendoci in America, invece, potremmo fare delle chiacchierate interessanti con i vostri servizi segreti, se capisce cosa vogliamo dire.»
   «E non chiediamo nemmeno troppo» continuò Boris. «Ci basta un appartamentino a New York, un piccolo assegno mensile e una buona fornitura di whisky e altri liquori che non abbiamo mai assaggiato. Siamo stufi, di bere sempre e soltanto vodka insulsa ricavata dal petrolio.»
   Indiana Jones sorrise. Tutto sommato, gli sembrava che, quella dei due russi, fosse una richiesta ragionevole, che avrebbe giovato tanto a loro quanto al governo degli Stati Uniti. E, chissà, forse grazie al loro aiuto avrebbe davvero potuto rimettere le mani sulla Gloria di Amon prima che i russi prendessero il volo. Forse non era ancora tutto perduto.
   «Ho amici importanti» assicurò. «Gente in alto loco. Vi forniranno ogni tipo di protezione e vi daranno una nuova identità. Diventerete cittadini americani, potete starne certi; e, se avete dei famigliari, provvederanno a trasferire anche loro.»
   Stavolta fu Oleg a sorridere.
   «Riguardo a questo, non c’è nessun ostacolo» sussurrò. «Siamo cresciuti entrambi in orfanotrofio. Io ho solo lui e lui ha solo me» aggiunse, posando fraternamente la mano sulla spalla di Boris.
   L’archeologo annuì.
   «Meglio così, renderà le cose più semplici» sentenziò.
   I due ormai ex agenti del KGB si scambiarono una rapida occhiata, prima di tornare a guardarlo in volto.
   «Abbiamo la sua parola che ci condurrà in salvo, professor Jones?» domandò Boris, porgendo la mano.
   Indy fece per prenderla e stringerla, ma esitò un istante.
   «Solo se io ho la vostra che mi aiuterete a recuperare il carro di Ramses» rispose.
   «Secondo i piani, il carro verrà condotto ad Assuan sopra un camion» disse immediatamente Boris. «Una volta lì, verrà caricato sopra un’imbarcazione che risalirà il Nilo fino al Cairo. Da lì, proseguirà per Alessandria, nel cui porto è in attesa una corazzata che dovrà trasportarlo al sicuro in una base sovietica del Mar Nero.»
   L’archeologo strinse con vigore la mano che il russo gli stava ancora porgendo.
   «Riprendiamoci quel carro e torniamocene tutti a casa» concluse, risoluto.

 
* * *

   Il pesante GAZ-66 verde militare divorava la strada spinto dalle sue quattro ruote motrici. Il cassone, coperto da un telo spesso e polveroso, sobbalzava rumorosamente a ogni cunetta e asperità del terreno. Sui suoi lati si sollevava una nube di sabbia che colorava di rosso il cielo, sempre più pallido e violetto mano a mano che l’alba si avvicinava. Dinnanzi al grosso camion avanzava una Moskvitch 402, una berlina color beige su cui erano montati un autista, il colonnello Volkov e il professor Smolnikov.
   Dal punto sopraelevato in cui si trovava, era semplice seguire quel movimento senza correre il rischio di essere notato. Indy abbassò il binocolo con cui aveva osservato la scena stando al riparo di una roccia e, rialzatosi in piedi, tornò in fretta verso la Willys CJ-3B. Sallah era al volante, mentre i due russi e i ragazzi si erano stretti alla meglio sul sedile posteriore.
   «Hanno imboccato adesso la strada per Assuan» disse, sedendosi al posto del passeggero. «Pensi di farcela a raggiungerli?»
   «Consideralo già fatto!» dichiarò Sallah, ingranando la marcia e lanciandosi all’inseguimento.
   Senza perdere tempo a cercare una pista adatta, guidò il robusto fuoristrada direttamente lungo il versante roccioso della collina, schizzando sabbia, terra e pezzi di arenaria in ogni direzione.
   «Allora, il piano lo avete compreso bene?» sbottò l’archeologo, voltandosi a guardare gli altri.
   Boris, Oleg e Moshti annuirono. L’unica che sentì il bisogno di ribattere qualcosa fu Yasmin.
   «Zio Indy, per me è una follia!» quasi urlò. «Se è vero che su quel camion ci sono sei uomini armati di tutto punto…»
   «Ne ho affrontati da solo almeno il triplo, in altre circostanze» tagliò corto lui, interrompendola.
   «Sì, ma non puoi lanciarti al volo sopra un camion in corsa!» insistette lei.
   «Perché no?» sogghignò Jones, fissandola negli occhi. «Con tutte le volte che l’ho fatto…»
   «Sì, ma…» obiettò ancora la ragazza, «…eri più giovane…»
   «Io sono sempre giovane!» concluse Indy con un’alzata di spalle, tornando a voltarsi per guardare la strada attraverso il parabrezza screziato di sporcizia.
   Il camion era già in vista, ma sollevava una tale nuvola di sabbia che, per il momento, potevano sperare di non essere ancora stati notati dai militari sovietici.
   «Affiancati al suo lato sinistro e lascia fare il resto a me» comunicò Indy, indicando il grosso mezzo. «Appena ho saltato, allontanatevi quel tanto che basta per mettervi fuori tiro da eventuali colpi di fucile. Se riesci, prova a speronare quella macchinina su cui ci sono Smolnikov e quel simpaticone di un colonnello.»
   «Agli ordini!» replicò immediatamente Sallah.
   Era troppo abituato alle follie di Indiana Jones per provare a tirar fuori qualche obiezione come aveva appena fatto sua figlia. Sapeva bene che sarebbe stata una battaglia persa. Con oltre mezzo secolo di solida amicizia alle spalle, poteva dire di conoscerlo meglio di chiunque altro al mondo; e, di conseguenza, era conscio che, quando Indy si metteva in testa qualcosa, non gliela si poteva togliere. Specialmente se trattava di una totale pazzia.
   «Questo piano, comunque, mi pare pieno di incognite» si fece invece udire la voce di Oleg.
   «È vero, se avessimo pianificato meglio, forse…» tentennò Boris.
   «L’ultima volta che ho pianificato qualcosa è stato suppergiù una ventina d’anni fa, e come unico risultato mi sono trovato con la canna di una Luger piantata nella tempia» bofonchiò Indy, sfregandosi le guance. «Molto meglio andare a sentimento e lasciarsi catturare dall’attimo. Insomma, credo che improvvisare sia assai più salutare che perdere tempo a ideare progetti che, poi, alla prova dei fatti, farebbero acqua da tutte le parti.»
   Forse i due russi avrebbero avuto ancora qualcosa di controbattere a quelle teorie. Non ebbero occasione di farlo. Con uno scossone, lasciarono il declivio e si immisero sopra la strada. Sallah diede gas, aumentando notevolmente la velocità e guadagnando terreno rispetto al pesante camion che, a causa della stazza, non poteva procedere troppo rapidamente.
   Con uno stridio di pneumatici, l’agile fuoristrada divorò la distanza che lo separava dal cassonato sovietico. Gli si affiancò nell’esatto momento in cui l’autista cominciava a urlare imprecazioni per richiamare l’attenzione degli uomini della scorta.
   Indy, che si era alzato in piedi sopra il sedile, spiccò un balzo e si aggrappò al telone cerato.

 
* * *

   «Der’mo!» imprecò il colonnello Volkov, che aveva osservato tutta la scena dallo specchietto retrovisore.
   Si voltò all’indietro per osservare meglio quello che stava accadendo sul camion. Non riusciva a credere ai propri occhi, gli sembrava pura follia. Jones, chissà come, era riuscito a venire fuori dal sotterraneo in cui lo aveva sepolto vivo ed era appena balzato sopra il mezzo che trasportava la Gloria di Amon. Poco importava che quel dannato americano si fosse mosso goffamente e avesse quasi perso la presa, quando si era aggrappato; perché ciò che contava, adesso, era che quel demonio fosse dove non si sarebbe dovuto trovare.
   «Deve avere il diavolo dalla sua parte!» strillò Smolnikov, sbalordito.
   «Diavolo o no, io lo ricaccerò in quell’inferno che lo ha sputato una volta per tutte!» sbraitò il colonnello, fuori di sé dalla collera.
   Si sporse dal finestrino abbassato. Impugnò la pistola e cominciò a fare fuoco in direzione del camion, cercando di colpire Jones che si stava arrampicando sulla parte superiore del cassone.
   Prendere la mira in quelle circostanze, però, non era semplice. Un proiettile si perse nel vuoto, un altro impattò contro il radiatore del GAZ e un terzo fece esplodere il parabrezza. L’autista, atterrito, si abbassò per evitare di essere colpito, facendo muggire il clacson.
   Il camion sbandò e uscì di strada, rischiando di cappottare. Per un breve tratto viaggiò soltanto sulle ruote di destra, finché l’uomo alla guida, con una sterzata azzardata, riuscì a rimetterlo in assetto e a riportarlo sulla carreggiata.
   Volkov smise di sparare. Intuì che, se avesse continuato, avrebbe causato più danni che altro. Con un gesto eloquente della mano, ordinò all’autista di non fermarsi ma, anzi, di aumentare il più possibile l’andatura, nel tentativo di far perdere la presa a Jones che era riuscito a mantenersi ancorato al suo posto.

 
* * *

   Quando il camion sbandò di lato, Indy rischiò davvero di cadere. Fu sbalzato di parecchi centimetri verso il punto in cui mezzo si stava piegando e fu soltanto grazie alla tenacia della disperazione se non perse la presa. Affondò le dita nella tela, fino a lacerarsi la pelle attorno alle unghie, e tenne duro con ogni stilla di energia residua che gli rimaneva.
   Finalmente, il pesante automezzo tornò a raddrizzarsi e anche lui poté rilassarsi. Cominciò a strisciare verso la parte posteriore del mezzo. Per prima cosa, infatti, si sarebbe dovuto liberare degli uomini della scorta, poi avrebbe pensato a occuparsi del resto.
   Era ormai a pochi centimetri soltanto dalla sua meta, quando la testa e il braccio di un uomo fecero capolino davanti a lui. Quel che era peggio, era che il braccio era armato di Kalashnikov. La canna era puntata dritta contro il suo viso e il dito stava per premere il grilletto.

 
* * *

   Sallah aveva dovuto frenare e allontanarsi dal camion quando questo si era piegato di colpo a causa dei proiettili sparati da quel pazzo di un colonnello. Adesso procedeva in coda, cercando di raggiungerlo nuovamente.
   Dal dove si trovava, poteva vedere Indy che avanzava trascinandosi sulle ginocchia e sul ventre verso il retro del cassone. Come avevano riferito in maniera corretta i due ex agenti del KGB, era occupato da cinque uomini, tre da un lato e due dall’altro della cassa in cui era stato rinchiuso il carro d’oro, mentre nella cabina di guida ne era rimasto uno solo. Si erano alzati quando era iniziato il trambusto, ma la sbandata li aveva mandati con le gambe all’aria. Solo che, adesso, uno di loro, con il fucile armato, stava arrampicandosi per fare una sgradita sorpresa all’archeologo.
   L’egiziano non esitò un solo istante. Sapeva bene che, adesso, la salvezza di Indy dipendeva da lui soltanto.
   «Reggetevi forte!» urlò, buttandosi con tutto il peso sull’acceleratore e scalando in fretta la marcia.
   Come se il dio Seth in persona fosse disceso in terra per sospingerlo con la furia delle tempeste del deserto, il fuoristrada balzò in avanti, macinando metri su metri in pochissimi istanti.
   Il motore ruggì, il camion si avvicinò. Sallah non rallentò. Strinse con forza le mani sul volante e andò a sbatterci contro.
   Il russo che stava per sparare venne colto alla sprovvista dall’urto. Perse la presa, lasciò andare il fucile e crollò all’indietro. Finì sul cofano dell’automobile e ne sfondò il parabrezza con la testa, prima di venire sbalzato di lato.
   Restò immobile sulla strada mentre i due veicoli proseguivano la loro folle corsa.

 
* * *

   «Fuori uno!» pensò Indy, guardando il russo cadere.
   Anche i suoi compagni assistettero alla scena. Da sotto di sé, l’archeologo udì risuonare grida rabbiose, seguite da una scarica di mitra sparata in direzione del fuoristrada. Sallah, però, doveva aver già previsto ogni cosa, perché si affrettò a sterzare e ad accelerare per sorpassare il camion, dirigendosi verso la berlina.
   Ora toccava a Indiana Jones. Affrontare quattro uomini armati di Kalashnikov non sarebbe stata una passeggiata, ma se fosse riuscito a entrare nel cassone forse avrebbe avuto qualche chance in più. Non credeva che i sovietici sarebbero stati così avventati da mettersi a sparare alla cieca in uno spazio tanto ristretto, dove avrebbero potuto colpirsi da soli. Almeno, lo sperava.
   Spiccato un balzo, si portò al limite del cassone. Afferrò con le mani la sbarra metallica dell’impalcatura che sosteneva il telone. Trasse un profondo sospiro. Adesso o mai più.
   Con una mossa che avrebbe fatto invidia al migliore acrobata del circo Dunn & Duffy, Indy compì una piroetta in avanti per guadagnare l’entrata del cassone. Si trovò la strada sbarrata da uno dei militari, ma lo colpì al volto con una pedata, mandandolo a sbattere contro i suoi commilitoni, che furono sbilanciati all’indietro.
   Approfittando di quel momentaneo vantaggio, l’archeologo si lanciò all’interno del camion e iniziò a colpire a destra e a manca con pugni e calci. Spaccò il naso al più vicino e gli strappò dalle mani il Kalashnikov, adoperandolo poi come una clava per accanirsi contro gli altri.
   Lo spazio era davvero ristretto, occupato quasi per intero dalla cassa in cui era custodito il carro di Ramses. Muoversi era reso ancora più complicato dagli urti e dai sobbalzi a cui era di continuo sottoposto il camion. Senza curarsi di niente, Indy si buttò imperterrito contro gli avversari.
   Presto, tra l’americano e i russi ebbe inizio una vera e propria zuffa. Se i secondi avevano dalla propria parte il numero e la giovinezza, il primo era senza dubbio mosso da un vigore dovuto a ben altri fattori. Jones sapeva bene che, cedere, avrebbe significato morire. E lui non era lì né per cedere né, tantomeno, per morire.
   Assestò una testata al soldato che gli stava davanti. Con uno scrollone si liberò da quello che lo aveva afferrato alle spalle nel tentativo di immobilizzarlo. Tenendo ancora il fucile per la canna, ne fracassò il calcio sulla testa di un terzo.
   Ovviamente, dare significava anche ricevere.
   Un pugno lo raggiunse allo zigomo destro, un altro al labbro. Un calcio all’inguine gli fece vedere le stelle e una serie di colpi alla schiena lo costrinsero a piegarsi in avanti. Gli avversari, per quanto malconci e colti alla sprovvista dalla sua tenacia inattesa, erano più che determinati a non dargliela vinta.
   Il camion sbandò di nuovo, rovesciandoli tutti a terra.
   Indy fu lesto a rialzarsi per primo e, trovato un altro fucile abbandonato, cominciò ad adoperarlo come una clava per colpire in testa i russi rimasti stesi.

 
* * *

   «Attento, papà!» gridò Moshti, che era scivolato sul sedile anteriore rimasto libero.
   Superato il camion, Sallah era piombato come una furia addosso alla berlina. La spessa lamiera della Willys resistette bene al nuovo urto, mentre la macchina russa fu sospinta in avanti e mandata in testacoda.
   «Spero che poi al cantiere non mi vorranno chiedere i danni per avergli rovinato la macchina» borbottò gioviale l’egiziano, tamburellando sul volante.
   Decelerò per assorbire l’urto e fu in quel momento che si udì il grido di suo figlio. L’autista della Moskvitch, girando il volante, era infatti riuscito a rimettere dritta l’automobile e si era affiancato al fuoristrada. Il colonnello Volkov, che perdeva sangue dal naso a causa dell’urto, si stava sporgendo verso di loro, puntando la pistola contro la testa di Sallah.
   Gridando, lo scavatore frenò di colpo per portarsi fuori tiro. La berlina proseguì la sua corsa, innocua, mentre il camion, che procedeva proprio dietro di loro, si trovò improvvisamente la strada sbarrata. Rispondendo a un senso istintivo, il guidatore del pesante automezzo reagì sterzando di colpo nel tentativo di evitare l’urto.
   Per la seconda volta in pochi minuti, il GAZ uscì di strada. In quel punto la corsia correva a lato di una falesia rocciosa, contro cui il cassone andò a sfregare. L’urto fu tale che tutto il camion rimbalzò, tra diversi scossoni.

 
* * *

   Con un deciso colpo ben assestato sul cranio, Indy mise fuori combattimento anche l’ultimo dei russi ancora in grado di opporre una minima resistenza. Adesso che la scorta era sistemata, non restava che impadronirsi del camion e portarlo in un posto sicuro. Quale potesse essere, questo posto, era ancora tutto da stabilire.
   «Una cosa per volta» brontolò.
   Barcollando, raggiunse di nuovo il fondo del camion e si appese nuovamente alla struttura che reggeva il telone. Con uno sforzo, riuscì a sollevarsi e si trovò di nuovo all’aperto, con l’aria che gli sferzava il volto e la sabbia che vorticava tutto attorno.
   Guardò davanti a sé e vide il fuoristrada dei suoi amici che avanzava a zig-zag. Comprese molto presto il motivo di quella strana andatura. Dalla berlina russa, per quanto malmessa, qualcuno stava esplodendo dei colpi di proiettile.
   «Tenete duro» borbottò, iniziando a trascinarsi sopra il telo.
   Non fu semplice. Più di una volta rischiò di scivolare a causa degli urti continui. Per un attimo ebbe persino il timore di cadere, quando una cunetta fece sobbalzare con violenza il camion. Si mantenne saldo e continuò ad andare avanti, guadagnando centimetro dopo centimetro.
   Finalmente aveva raggiunto la motrice. Decise di non indugiare oltre. Con uno scatto deciso, si appese al finestrino dalla parte del passeggero e, infrangendo il vetro con i piedi, entrò nella cabina.
   L’autista, però, non si lasciò cogliere impreparato. Tenendo una mano sul volante, gli puntò contro l’altra, armata di pistola, e fece fuoco.
   Indy strinse i denti e represse a stento un grido quando una fitta straziante gli attraversò il braccio sinistro. Il proiettile gli aveva colpito il muscolo, mancando l’osso di pochi millimetri soltanto. Il sangue cominciò a inzuppargli la camicia e il giubbotto dalla manica lacerata. Decise di non pensarci.
   Con il pugno destro fece saltare di mano la pistola al russo, prima che potesse fare fuoco nuovamente. Poi gli si avventò contro, tempestandolo di colpi. Nel tentativo di difendersi, il militare fece leva sul volante.
   Il camion sterzò quasi a novanta gradi, correndo per l’ennesima volta il rischio di ribaltarsi. Questa volta uscì definitivamente di strada e iniziò ad avanzare a grandi balzi sopra una distesa sabbiosa, dirigendosi in direzione del Nilo, che scorreva a qualche chilometro di distanza. Una striscia blu e placida, sempre più vicina.
   Resosi conto del pericolo imminente, Indy colpì con un pugno più forte l’autista. L’uomo picchiò la testa contro il retro della motrice e si accasciò in avanti, stordito.
   «E levati di torno!» brontolò Indy.
   Allungandosi sopra di lui, riuscì ad afferrare la maniglia della portiera e a spingerla per spalancarla. Poi, senza troppi riguardi, buttò il corpo inerte del sovietico giù dal camion in corsa.
   Ignorando le fitte che andavano aumentando sempre di più, Indy prese posto al volante e, dopo aver frenato, sterzò, girando il muso del camion di nuovo in direzione della strada. Con terrore, vide che il fuoristrada era immobile e la berlina gli si stava dirigendo addosso a grande velocità.

 
* * *

   Quando Volkov cominciò a sparare all’impazzata, Sallah poté soltanto reagire girando a casaccio il volante nel tentativo di non offrire un facile bersaglio.
   «Faremmo meglio a toglierci da qui!» ululò Boris, le mani sopra la testa.
   «No!» ruggì Sallah. «Indy ha bisogno di noi e noi resteremo qui per dargli man forte!»
   Quindi continuò a guidare in quella maniera folle, sperando che bastasse per evitare troppi guai.
   A dire il vero, si sentiva piuttosto inquieto. Non gli importava granché di quello che sarebbe potuto essere di se stesso o di Indy – insieme, avevano affrontato troppe volte la morte per poterla ancora temere – ma aveva una paura folle che potesse capitare qualcosa di brutto ai suoi figli. Non era stata una buona idea, quella di accettare di portarli con sé.
   Però, se da un lato l’istinto gli diceva di dare ascolto alle parole del russo e tagliare la corda per portare al sicuro i ragazzi, dall’altro la sua coscienza gli ordinava di rimanere dove si trovava, a ogni costo. E Sallah non era un vigliacco. Indy aveva bisogno di aiuto e lui glielo avrebbe dato fino alla fine, sacrificando ogni cosa, se fosse stato necessario.
   Un proiettile preciso da parte di Volkov raggiunse lo pneumatico anteriore sinistro. L’automobile cominciò a sobbalzare e il volante a vibrare, ma Sallah riuscì ugualmente a mantenere il controllo. Anche le ruote di destra esplosero, una dietro l’altra. La Willys si trovò nell’impossibilità di proseguire la sua pazza corsa.
   «Dannazione!» imprecò Sallah, dando una manata al volante quando, ormai incapace di controllare il fuoristrada, fu costretto a fermarsi in mezzo alla carreggiata.
   Di rado gli capitava di perdere le staffe, ma in quel momento non avrebbe saputo che altro dire o fare.
   Si voltò verso Yasmin e Moshti, deciso a urlare che uscissero e scappassero a gambe levate, quando una visione lo fece agghiacciare. La Moskvitch avanzava a grande velocità verso di loro, con tutte le intenzioni di speronarli per infliggergli il colpo di grazia.
   Con un ruggito, dal campo che si trovava a lato della strada uscì il GAZ, simile a un mostro di ferro. Il camion occupò per intero la visuale di Sallah e si gettò addosso alla berlina, distruggendone per intero il cofano. L’automobile venne scagliata di lato e si rovesciò oltre il ciglio della carreggiata, in un clangore di ferraglia e di lamiere che si accartocciavano.
   Sbuffando come una bestia soddisfatta dopo una lotta furibonda contro un avversario particolarmente tenace, il camion si fermò in mezzo alla strada. Dal finestrino si sporse Indiana Jones, il solito ghigno da psicopatico stampato in viso. Fece un cenno in direzione del fuoristrada ormai inutilizzabile.
   «Serve un passaggio?» domandò.


 

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Capitolo 16
*** Il contrattacco dei russi ***


    16 - IL CONTRATTACCO DEI RUSSI

    Luxor, Egitto

   Erano in viaggio da ormai più di quattro ore.
   Boris e Moshti si erano assunti l’incarico di condurre il veicolo, alternandosi al volante lungo la stretta strada che, costeggiando il Nilo, risaliva verso il settentrione. Indy, Sallah, Yasmin e Oleg, invece, dopo aver buttato fuori gli uomini inerti che avevano fatto da scorta al carro di Ramses, si erano seduti nel cassone, cercando di riposare dalle fatiche che li stavano tormentando.
   Indy, in particolare, era spossato. Da quando era giunto ad Abu Simbel, la mattina precedente, erano successe così tante cose che pareva essere trascorsa perlomeno una settimana. Tra risse, lotte, scavi, ricerche, fughe, inseguimenti e altre lotte, sembrava quasi impossibile che fossero passate poco più di ventiquattro ore solamente.
   «Forse sto sul serio cominciando a farmi vecchio» pensò, mentre provava a spostarsi e una fitta gli attraversava il braccio ferito.
   Yasmin lo aveva aiutato a medicarsi alla meglio. A bordo del fuoristrada avevano un kit del pronto soccorso, che la ragazza aveva avuto il buon senso di prendere con sé prima di salire sul camion. Nonostante le sue proteste, non aveva voluto sentire ragioni e si era subito adoperata per sistemarlo.
   «Non ho bisogno di un’infermiera» si era lamentato l’archeologo, mentre lei lo aiutava a stendersi sul pianale, vicino al fondo del cassone, e gli sfilava il giubbotto e la camicia.
   «Non dire sciocchezze, zio Indy» replicò lei. «Sei conciato peggio di un colabrodo.»
   Per fortuna, la ferita non si era rivelata grave come era sembrato a prima vista. Il proiettile non era rimasto incastrato nella carne, e il taglio non era profondo. Con una buona dose di disinfettante e qualche benda, Yasmin era riuscita a ricucirlo. Dopo, però, Indy non aveva voluto sentire ragioni e si era subito rivestito, dicendo che degli altri lividi se ne sarebbe occupato quando sarebbe stato il momento.
   Adesso era il solo a essere sveglio, nel cassone.
   Oleg dormiva con la schiena appoggiata alla cassa del carro, il respiro pesante. Sallah russava come un trombone stonato, sdraiato vicino all’apertura del cassone. Indy e Yasmin erano rimasti sul fondo del camion e la ragazza si era assopita con la testa appoggiata alla sua spalla. I suoi sospiri leggeri e regolari gli infondevano una certa nostalgia. Nostalgia di casa.
   Indiana Jones doveva riconoscere di provare il desiderio sempre più forte di fare ritorno a casa sua, da Marion. Cominciava ad avere voglia di stendersi un po’ e, per qualche settimana, condurre una normalissima vita da perfetto borghese americano, senza una sola preoccupazione al mondo che non fosse altro che leggere il giornale o guardare la televisione.
   In lui, ovviamente, il richiamo dell’avventura era sempre molto forte e, ormai, era certo che sarebbe rimasto immutato per sempre. Nondimeno, nonostante si atteggiasse sempre come un giovanotto, cominciava a riconoscere che l’età non più rosea iniziava a farsi sentire. Mentre un tempo trascorreva le sue giornate in compagnia del crescente desiderio di partire ancora una volta per sfidare l’ignoto, ora viveva quelle sue imprese con il pensiero costante del ritorno a casa. Era una differenza davvero notevole.
   Sposarsi, mettere su una famiglia, lo aveva mutato. Anche se non era cambiato del tutto, doveva almeno riconoscere che la sua percezione del mondo si fosse in un certo senso trasformata. Non era un cambiamento che era stato dovuto all’età, bensì alla sua condizione di marito e di padre.
   Posò una mano sulla spalla di Yasmin e le fece una leggera carezza.
   Era davvero una fanciulla deliziosa, con quel suo naso leggermente arcuato, la pelle olivastra e i tratti fini ma decisi. I capelli, che le sfuggivano da sotto il velo, erano riccioli e nerissimi. Fino a pochi anni prima, Indiana Jones avrebbe senza dubbio perso la testa per una giovane tanto affascinante. Ora era tutto diverso. Ora si sentiva spinto verso di lei da un istinto paterno. E anche in questo caso l’età non contava affatto. Non si era mai fatto problemi nel concupire donne appartenenti a generazioni ben lontane dalla sua, sia in avanti che indietro nel tempo. Se ora la guadava con questo affetto, era ancora una volta dovuto al suo matrimonio, che lo aveva reso un uomo diverso. Migliore? Non poteva esserne certo, ma almeno lo sperava.
   Una variazione negli scossoni del camion lo riscosse dai suoi pensieri. Stavano rallentando.
   Con un grugnito, si alzò e, barcollando, raggiunse il retro del cassone per guardare fuori e capire dove fossero arrivati.
   Erano a Luxor. Dall’altra parte del fiume, il complesso monumentale del tempio di Amon brillava nel caldo sole del mattino come un gioiello ricavato dalla pietra. Il Nilo scorreva placido e azzurro, contornato da palme e da sicomori.
   Indy si lasciò sfuggire un sospiro, ricordando le sue precedenti visite a quel tempio. Lo aveva visitato innumerevoli volte, eppure ogni volta sapeva regalare emozioni uniche, anche se visto da lontano. Era il fascino immortale dell’antico Egitto, un respiro magico e irripetibile che, dai tempi remoti dei grandi faraoni, era giunto intatto fino al presente. L’Egitto, Kemet, era ancora una terra sacra, da cui gli dèi non se n’erano mai veramente andati.
   Gli dèi, che stavano in cielo, proprio come quei due puntini in avvicinamento. Uccelli? Ibis, forse. Eppure gli sembrava che si muovessero un po’ troppo velocemente per essere uccelli, e che producessero un rumore che non aveva niente a che fare con i pennuti. Rotori. Pale che fendevano l’aria.
   Tenendosi aggrappato all’impalcatura del telone, Indy strinse gli occhi mentre cercava di vincere la brillantezza quasi accecante del cielo splendente. I due puntini neri assunsero in fretta la forma di altrettanti elicotteri. Mil-Mi 6 di fabbricazione sovietica.
   Uno dei due elicotteri sorvolò il camion e lo sorpassò a volo radente, così vicino che l’archeologo si sentì sferzare dallo spostamento d’aria. Se il dubbio che non ce l’avessero con loro gli aveva attraversato per un istante la mente, la scritta CCCP sulla coda del grande veicolo militare gliela cancellò.
   «Sveglia, sveglia!» gridò, mentre il tir, sussultando, frenava di colpo per non andare a schiantarsi contro il grosso elicottero che era atterrato di traverso in mezzo alla strada, occupandola completamente.
   Indy fu scagliato in avanti dalla forza d’inerzia. Anche gli altri si rovesciarono e la cassa in cui era racchiuso il carro fu scagliata contro il fondo del camion. Mancò Yasmin soltanto di pochi centimetri.
   «Porca miseria…» borbottò Indy, rialzandosi e scansando Sallah che, ancora intontito, faticava a comprendere che cosa fosse appena accaduto.
   Corse all’imbocco del cassone e una smorfia di disappunto gli deformò il volto.
   Anche il secondo elicottero era atterrato, sollevando un gran polverone, e ne stavano scendendo in fretta una trentina di uomini armati di Ak-47, tutti puntati contro di loro.

 
* * *

   Il furore che attraversò il colonnello Volkov quando l’automobile distrutta si fu fermata oltre la carreggiata fu più che sufficiente a comunicargli di essere sopravvissuto al disastroso incidente. Aveva un dolore terribile al fianco sinistro e si sentiva le dita intorpidite, ma ciò che contava era di essere vivo.
   Si voltò a guardare l’autista. Morto. Il piantone dello sterzo gli si era conficcato nel petto e lo aveva attraversato da parte a parte. A fatica, si girò a controllare il professor Smolnikov. L’archeologo aveva un taglio sopra la fronte, ma era vivo, sebbene frastornato.
   Volkov cercò di muoversi, ma aveva i piedi incastrati tra le lamiere. Senza curarsi dei tagli che così si provocò sulle mani, cominciò a spostare da solo il metallo tagliente. Si ferì in diversi punti, ma nemmeno un lamento gli sfuggì dalle labbra. Finalmente, dopo quasi mezz’ora di lavoro, fu in grado di liberarsi.
   Uscì dal rottame e si arrampicò fino alla strada. Come presagiva, il camion era scomparso. I suoi uomini, invece, erano ancora lì. Jones e i suoi maledetti amici dovevano averli buttati fuori prima di svignarsela. Li guardò uno per uno. Feriti, ma vivi anche loro.
   «Tirate fuori il professore!» gracchiò, facendo loro cenno di avvicinarsi.
   Quei soldati erano abituati a obbedire e non si fecero ripetere l’ordine, anche perché Volkov non dava affatto l’idea di voler essere contrariato, in quel momento. Lo superarono in fretta, ma il colonnello ne fermò uno, che trasportava appesa alla cintura una radio ricetrasmittente.
   «Fermo, dammi la radio» sbottò.
   Come l’ebbe in mano, si sintonizzò su un canale di comunicazione e si mise in contatto con il comando di Assuan.
   «Voglio tutti i mezzi e gli uomini disponibili, il più in fretta che sia possibile!» sbraitò.
   Il suo tono fu talmente eloquente e spaventoso che, chi prese la comunicazione, non trovò il coraggio di obiettare nulla.
   «Sarà fatto, compagno colonnello!» si limitò a ribadire.
   Dopo un’altra mezz’ora, che a Volkov parve durare quanto un’eternità, un elicottero atterrò a breve distanza, mentre il secondo si mantenne in aria, pronto a ripartire subito.
   «Venti uomini su questo elicottero e altri trenta sul secondo!» comunicò l’ufficiale che accolse a bordo il colonnello. «Tutti gli uomini di cui disponiamo, compagno.»
   Volkov fece un cenno di assenso e ordinò a Smolnikov di prendere posto accanto a lui.
   «E adesso inseguiamoli» disse, digrignando i denti.

 
* * *

   Indy comprese immediatamente di non poter opporre alcuna resistenza. Gli elicotteri bloccavano la strada sia in avanti che indietro, quindi sperare di fuggire era impossibile. E cercare di lottare sarebbe stata una follia: anche se, sul camion, erano rimasti i Kalashnikov abbandonati dai russi, non avrebbero potuto resistere a lungo contro cinquanta uomini armati fino ai denti. Avrebbero tramutato il camion in un crivello e, per loro, non ci sarebbe stato alcuno scampo.
   Restava soltanto una cosa da fare.
   «Arrenderci?» borbottò Sallah, quando Indy ebbe finito di parlare.
   L’archeologo gli appoggiò una mano sulla spalla con fare fraterno.
   «Non abbiamo scampo» rispose. «O ci consegniamo, o ci facciamo ammazzare tutti quanti.»
   Sallah esitò. Un’espressione di disappunto gli si dipinse nello sguardo.
   «Indy, tu lo sai che io, per te, farei qualsiasi cosa» sussurrò. «Però…» Si voltò verso Yasmin che, impassibile, attendeva accanto alla cassa del carro che avessero finito di confabulare.
   «Lo so» rispose Indy, stringendo un po’ più forte la presa sulla spalla dell’amico. «Fossimo solo noi, due vecchi, capirai… ma non ci siamo solo noi, stavolta. Dobbiamo pensare a loro. E specialmente a Yasmin.»
   Sallah annuì. Lui e Indiana Jones erano talmente in sintonia che non avevano nemmeno bisogno di parlare, per riuscire a intendersi.
   Si avvicinarono all’uscita del cassone e, restando nascosto nell’ombra, Indy individuò il punto in cui si trovava Volkov.
   «Stiamo per scendere!» urlò. «Ci assicurate che non ci sparerete?»
   Trascorsero alcuni secondi, poi la voce del colonnello si fece udire in risposta.
   «Siamo militari, non barbari, professor Jones!» gridò. «Ma niente scherzi. Al primo movimento sospetto, i miei uomini hanno l’ordine di aprire il fuoco! Venite fuori con le mani alzate e disarmati!»
 Indy indugiò per un istante a guardare i suoi amici, poi slacciò il cinturone con la frusta e il revolver e lo lasciò scivolare sul pianale. Quindi, tenendo le braccia alzate con le mani bene in vista, saltò per primo fuori dal camion. Sallah, Yasmin e Oleg lo seguirono quasi subito.
   Vennero immediatamente circondati. Una vera e propria selva di canne di mitra puntate contro di loro. Con la coda dell’occhio, l’archeologo notò Volkov che veniva nella loro direzione, facendosi largo tra i suoi soldati. Al suo fianco c’era Smolnikov. Erano entrambi malconci, ma fin troppo vivi per i suoi gusti.
   «E gli altri due?» sbottò il colonnello.
   Indy e Sallah si scambiarono una rapidissima occhiata. Tornarono a voltarsi verso Volkov.
   «Quali altri due?» ripeterono in coro, fingendosi stupefatti.
   Lo sguardo del colonnello si indurì, facendosi più gelido di un blocco di ghiaccio. Nemmeno il bollente sole egiziano sarebbe stato in grado di scioglierlo.
   «Non prendetemi in giro!» ululò. «C’erano quei due alla guida del camion! Il ragazzo con i baffi e il compagno di questo idiota!» aggiunse, dando un ceffone a Oleg, che restò impassibile.
   «Le assicuro che ci siamo soltanto noi» sbottò l’archeologo.
   Volkov lo guardò per alcuni istanti, poi si volse verso un sottoufficiale.
   «Andate a cercarli e portatemeli» ordinò, brusco. «Se quando li trovate oppongono resistenza, usate la forza.»
   Quindi, alzati gli occhi in direzione del tempio di Luxor, sorrise in maniera sinistra.
   «Prendete la cassa e trovate una chiatta per attraversare il fiume e raggiungere quel luogo» disse. «Se il carro d’oro è davvero potente come si racconta, è venuto il momento di scoprirlo, senza perdere altro tempo in indugi.»
   Indy e Sallah si scambiarono un’altra occhiata. Erano preoccupati, ma un pur lieve filo di speranza resisteva ancora. Forse non tutto era perduto. Bisognava soltanto avere un po’ di fiducia.
   Un nutrito gruppo di militari li prese tutti e quattro in consegna e li costrinse ad avviarsi verso il Nilo. Gli altri soldati, indaffarati, scattavano da tutte le parti, mentre le pale degli elicotteri, ancora in movimento, producevano una brezza calda e soffocante, intrisa dell’odore acre del combustibile.

 
* * *

   Non appena ebbe inchiodato, vedendo che il grosso Mil-Mi 6 si stava abbassando proprio davanti a loro, Boris comprese in fretta di dover fare qualcosa. La loro salvezza era tutta riposta nella velocità con cui sarebbero riusciti a sottrarsi alla cattura.
   «Presto, fuori!» ordinò, spalancando la portiera e trascinando con sé il ragazzo.
   La strada era avvolta in una nube spessissima di sabbia, sollevata dai rotori dei due elicotteri che si avvicinavano a terra. Approfittando di quella momentanea e involontaria copertura che i suoi ex alleati gli stavano offrendo, l’agente afferrò Moshti per il polso e lo guidò oltre il ciglio della strada.
   «Dobbiamo aiutare Yasmin, papà e gli altri…!» urlò il giovane, cercando di opporre resistenza.
   Boris adoperò tutte le risorse del suo addestramento da agente segreto per impedire che lo ostacolasse puntando i piedi per terra.
   «Non c’è tempo!» urlò, sovrastando a stento il rumore assordante degli elicotteri. «Dobbiamo prima pensare a noi, per poi tornare a prenderli. Non li abbandoneremo. Adesso, però, il solo sistema per aiutarli è evitare di essere presi anche noi!»
   Continuò a tirarlo, guidandolo verso un gruppo di casupole allineate lungo il fiume: un dedalo di vicolini stretti e bui. Lì sarebbe stato semplice far perdere le proprie tracce prima ancora che Volkov, accorgendosi della loro assenza, desse l’ordine di farli cercare. Perché era più che certo che il maledettissimo compagno colonnello non si sarebbe arreso.
   Boris, però, era stato addestrato dal KGB. Sapeva come agivano i militari dell’Unione Sovietica, conosceva le loro strategie di ricerca. Avrebbe anticipato ogni loro mossa, rendendosi invisibile fino a quando non fosse giunto il momento di cogliere l’attimo e farsi vedere di nuovo.
   «Di qua!» sbottò con tono secco, entrando in un vicolo piuttosto sudicio. Un gatto che stava rovistando tra i rifiuti, spaventato dalla loro irruzione, rizzò il pelo e soffiò, prima di dileguarsi velocemente.
   Moshti gettò un’ultima occhiata al camion, già circondato da decine e decine di militari. Comprese che, se avessero provato ad aspettare gli altri, sarebbero stati catturati anche loro. Il russo aveva avuto ragione. Sapeva fare il suo mestiere.
   «Potremo salvarli?» domandò, disorientato.
   Boris guardò a sua volta verso il camion e, dopo un breve istante, annuì.
   «Sì, ci riusciremo. Fidati di me.»
   Moshti lo fissò con intensità. Decise di fidarsi.
   L’uomo fece un cenno e il ragazzo lo seguì.


 

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Capitolo 17
*** La Gloria di Amon ***


    17 - LA GLORIA DI AMON

   Il grande cortile di Ramses II, all’interno del tempio di Amon a Luxor, era un luogo pieno di fascino intramontabile. Una meraviglia tra le meraviglie, incastonata in una terra che ne aveva a decine da offrire agli occhi stupefatti che le ammiravano. L’intero complesso era cintato da un doppio ordine di colonne in forma di papiro, in mezzo alle quali, a intervalli, spiccavano le statue rappresentati il faraone trionfante. Se ad Abu Simbel si celebrava la grandezza di Ramses come vincitore dei nemici in guerra, lì si ribadiva il suo essere figlio di dio e dio a sua volta.
   Era calata la notte. Le stelle sfolgoravano a migliaia nel cielo limpido al di sopra del cortile. Erano il coronamento naturale di tanta soverchiante bellezza, lo sfondo di innumerevoli cerimonie che in quel luogo avevano celebrato i misteri di un culto le cui origini si perdevano tra le sabbie del tempo.
   La cerimonia che stava per avere inizio, però, era molto differente da quelle a cui avevano assistito per secoli gli antichi sacerdoti, incaricati di perpetrare il culto degli dèi come rappresentati del faraone, unico vero tramite tra la terra e la divinità.
   I militari, in alta uniforme, con il fucile in spalla, erano schierati in quattro file, due per lato. Erano tutti rivolti verso il centro del cortile, dove il carro d’oro era stato sistemato in attesa. Due cavalli marroni, con pennacchi di piume colorate sulla sommità del capo, gli erano stati aggiogati, e ora attendevano, inquieti. Uno stalliere arabo, visibilmente turbato, li teneva buoni dandogli leggere carezze sui musi e sussurrando parole dolci.
   Legato a una delle colonne, Indy fissava con sconcerto quello che i russi avevano organizzato. Dovevano essere diventati pazzi: una spiegazione migliore non sarebbe stato in grado di trovarla.
   Li avevano condotti nel tempio la mattina, ed erano stati subito legati alle colonne, a coppie: lui e Sallah contro una, Yasmin e Oleg contro un’altra. Poi si erano immediatamente dati da fare per i preparativi, obbedendo agli ordini che il professor Smolnikov aveva cominciato a gridare come un forsennato invasato.
   Il giorno era parso non finire mai. Infine, però, il sole era calato oltre l’orizzonte e le stelle erano comparse nel cielo. I militari si erano schierati in quella maniera, gli occhi rivolti al carro. Erano in attesa, come pure lo erano Indy e i suoi amici. Stava per accadere qualcosa. Restava soltanto da capire che cosa, di preciso, sarebbe accaduto.
   Un movimento vicino al pilone d’ingresso al cortile attrasse l’attenzione dell’americano, che si voltò da quella parte per guardare.

 
* * *

   «Ma…» borbottò Moshti, sconcertato, osservando i preparativi dei russi. «…stanno allestendo una parata, per caso?»
   Lui e Boris si erano cambiati d’abito. Adesso indossavano entrambi una lunga veste bianca a righe azzurre, con il turbante avvolto attorno alla testa. Da qualche parte doveva esserci una massaia furiosa, considerato che avevano preso quegli abiti, senza chiedere il permesso, dal filo a cui erano stati appesi ad asciugare dopo il bucato. Un accorgimento semplice ma che aveva permesso loro di sottrarsi facilmente alla ricerca dei militari che avevano inutilmente setacciato il borgo e battuto in lungo e in largo le campagne per provare a stanarli.
   Ormai sicuri di non poter essere più riconosciuti, avevano raggiunto il tempio di Luxor, per scoprire che cosa fossero andati a fare lì Volkov e i suoi, trascinando con sé anche i prigionieri. Gli ingressi principali erano tutti sorvegliati da uomini armati, ma Moshti conosceva quel luogo come le sue tasche, per le innumerevoli volte in cui lo aveva visitato con suo padre. Senza perdersi d’animo, aveva condotto il russo lungo il muro di cinta, fino a raggiungere un piccolo buco nella parete, a livello del terreno. Strisciando, erano così potuti entrare indisturbati nell’area del complesso templare.
   Si erano quindi appostati in un luogo sicuro, al riparo del colonnato; da lì, avevano cominciato a osservare i sovietici che si preparavano. Era strano vedere i soldati con indosso le alte uniformi. Ma ancora più strano fu vederli togliere il carro dalla cassa in cui era rinchiuso, attaccargli la coppia di cavalli e condurlo al centro del cortile.
   «Qualcosa di peggio di una parata…» borbottò Boris, nervoso, mordendosi un labbro.
   Osservò in lontananza Volkov e il professor Smolnikov che confabulavano con aria compiaciuta e represse a stento un moto d’ira.
   «Che intendi dire?» chiese Moshti.
   «Il professor Smolnikov è coinvolto in un progetto per trovare nuove armi, di tipo non convenzionale» rivelò. «Quel folle è convinto che il carro d’oro che abbiamo trovato possa in qualche modo generare un campo d’energia tale da sbaragliare qualsiasi avversario. La sua intenzione è quella di mostrarlo ai capi dell’Unione Sovietica. Lui guadagnerebbe fama imperitura, mentre al colonnello Volkov andrebbe il merito di aver portato alla Russia un’arma che gli americani mai e poi mai potranno eguagliare. La sua promozione a generale sarebbe immediata.»
   Fissò i due uomini di cui stava parlando, finché li vide scomparire dentro una cella buia.
   «Ma per non correre il rischio di una brutta figura, Smolnikov e Volkov avevano convenuto di condurre il carro d’oro in una base navale del Mar Morto e testarlo lì» proseguì. «Evidentemente, hanno cambiato idea. Devono aver pensato che, farlo qui, nel tempio, renderebbe la cosa ancor più suggestiva e impressionante.» Bofonchiò qualche imprecazione in russo e soggiunse: «Sono pazzi da legare, ecco tutto.»
   Moshti strinse i pugni.
   «Se il carro è davvero potente come si dice, dobbiamo impedirgli di usarlo!» sbottò.
   Boris annuì, facendogli cenno di stare calmo e di tenere basso il tono della voce per non rischiare di farsi scoprire proprio adesso.
   «Ed è quello che proveremo a fare» sussurrò. «Per prima cosa dobbiamo cercare i nostri amici e liberarli.»
   «Andiamo subito!» fece Moshti.
   «Aspetta» lo bloccò l’agente segreto, ponendogli una mano sul braccio per trattenerlo. «Prima, mentre camminavamo, ho sentito due soldati che parlavano in russo. Dicevano che la cosa avverrà stasera. Questo potrà favorirci. Con il buio e con l’attenzione di tutti calamitata sul carro, nessuno farà caso a noi. Sarà allora che agiremo. Libereremo Jones e gli altri e poi…» Si strinse nelle spalle. «Boh, ci inventeremo qualcosa…»

 
* * *

   Indy aprì meglio gli occhi per osservare il grande pilone avvolto dal buio. Voleva cercare di capire che cosa stesse succedendo. Ormai non c’erano più dubbi; da quella parte i russi stavano organizzando qualcosa. Qualsiasi cosa avessero in mente, era certo che sarebbero state grosse rogne per tutti, se non avesse trovato alla svelta un modo per liberarsi dalla prigionia.
   All’ingresso del cortile vennero accese delle fiaccole, che illuminarono la scena. Così, l’archeologo poté vedere chiaramente ogni cosa. Ciò che vide, però, gli fece sgranare gli occhi per la sorpresa. Mancò poco che cacciasse un urlo, prima di reprimere a fatica una risata di scherno. Ciò a cui stava assistendo era insieme comico e drammatico.
   Dalla parte del pilone, sei uomini avanzavano paralleli, suddivisi su due file. Procedevano a passo lentissimo, diretti verso il centro del cortile, dove era posizionato il carro. Avevano indossato delle tuniche bianche, erano scalzi e si erano rasati il capo, secondo l’uso degli antichi sacerdoti egizi. I due che aprivano la fila avevano le mani occupate dalle fiaccole, mentre quelli che venivano dietro di loro spandevano nubi di incenso con dei turiboli.
   Dalle loro facce imbarazzate, Indy intuì che si trattava di militari che erano stati costretti controvoglia a prestarsi a quella pagliacciata. Avevano tutta l’aria di chi avrebbe preferito essere mille miglia lontano.
   Subito dopo di loro, venne avanti il professor Smolnikov. Anche lui aveva indossato una tunica bianca e si era depilato. Dalle spalle gli pendeva anche una pelle di leopardo, che lo identificava quindi come grande sacerdote. Teneva le mani giunte e stava intonando una preghiera in egiziano antico, come una monotona cantilena.
   Mentalmente, l’archeologo tradusse con parecchia facilità le parole che il russo stava facendo risuonare per tutto il cortile. Lo riconobbe subito: era uno dei più noti inni ad Amon sopravvissuti attraverso i secoli.

   Salute e lode a te, Amon-Ra,
   Signore dei Troni delle Due Terre.
   Tu sei colui che domina sopra Karnak,
   il possente Toro di sua Madre,
   colui che domina sull’Alto Egitto,
   Signore di Madjoi e governatore della Terra di Punt,
   antico del Cielo, figlio primogenito della Terra,
   padre di se stesso,
   Signore di ciò che è nell’eternità, eterno tu stesso in tutte le cose,
   unico nella tua natura quale seme di ogni dio,
   possente Toro divino dei Nove, capo di tutte le Divinità.
   Demiurgo del genere umano e degli animali,
   demiurgo di tutto ciò che vive,
   demiurgo dell’albero portatore di frutta
   demiurgo delle piante e delle mandrie al pascolo.
   Dolce è la tua visione nel cielo settentrionale
   la tua sfolgorante bellezza incanta i cuori,
   Signore del Basso Egitto,
   la tua immagine celestiale fa tremare le mani
   e i cuori, dinnanzi alla tua venuta, obliano ogni cosa.
   Tu sei l’unico
   tu facesti tutto ciò che è
   tu sei il solitario che pensò e creò ogni cosa che esiste.
   Dal tuo sacro seme ebbero origine gli dèi, perché tu lo volesti,
   dai tuoi occhi di luce ebbe origine il genere umano, perché tu lo volesti,
   dalla tua bocca imperitura vennero tutte le cose, perché tu lo volesti.
   Tu sei il pesce che nuota nel fiume,
   tu sei l’uccello che si libra in cielo,
   tu sei il respiro dell’embrione nell’uovo,
   tu sei la vita nel grembo di ogni madre,
   tu sei la forza nel seme di ogni padre,
   tu crei la lumaca, la zanzara,
   tu crei le grandi e le piccole cose,
   tu provvedi ai bisogni degli uomini e dei topi,
   tu dai le case e le tane,
   tu concedi agli uccelli la vita sugli alberi.
   Uno e molteplice Signore dalle mille mani
   che vigili con sicurezza la notte, mentre gli uomini dormono,
   e che a tutte le tue creature procuri continuo beneficio,
   noi ti lodiamo.
   Noi lodiamo te, Amon-Ra,
   il più grande degli dèi che sono e che saranno,
   colui che unisce tutte le Enneidi,
   l’imperituro scaturito dall’eterno,
   Signore della Terra d’Egitto,
   Amon-Ra, Amon-Ra, Amon-Ra.


      «Ma che accidenti si sono messi in testa di fare?» sbottò poco lontano la voce di Yasmin. «Stanno giocando agli antichi Egizi?!»
   Jones, inquieto, continuò a guardare lo strano corteo che si avviava verso il centro del cortile, dove la Gloria di Amon era in attesa. Aveva il crescente timore che, quello a cui stavano assistendo, fosse tutt’altro che un gioco. Quei pazzi si erano messi in testa di fare una cosa che non gli andava per niente a genio. No, decisamente, i sovietici non stavano affatto giocando.
   Dall’ombra del pilone uscì l’ultimo figurante di quella parata, il più grottesco e allo stesso tempo terribile. Il colonnello Volkov in persona. Solo che, adesso, non sembrava più davvero lui. Aveva assunto le vesti di un faraone, non c’era alcun dubbio.
   Il russo indossava una camiciola di lino bianco, unita in grembo a un gonnellino pieghettato che gli scendeva fino alle ginocchia. A stringerlo in vita c’era una cintura di cuoio, e dal fianco sinistro gli pendeva una spada di bronzo. Al collo portava una catena d’oro, che sorreggeva una placca pettorale incastonata di pietre preziose. Sul mento, legata con un filo dietro le orecchie, portava la barba posticcia tipica dei sovrani che avevano governato in antichità sulla terra egiziana. In capo portava la doppia corona, bianca e rossa, che simboleggiava l’unione dell’Alto e del Basso Egitto. Nella mano destra impugnava un hekat, il corto scettro dall’estremità superiore ricurva che traeva la sua origine dai bastoni utilizzati dai pastori, i primi abitanti della valle del Nilo, gli antenati della civiltà egizia.
   Procedeva con un incedere lento, solenne, ritmato sulla nenia che Smolnikov non faceva che ripetere. Teneva la testa alta, lo sguardo fisso rivolto davanti a sé.
   Il corteo procedette con esasperante lentezza fino al carro d’oro. Ci vollero quasi dieci minuti perché venisse coperta la distanza tra il pilone e il centro del cortile. Gli uomini che impersonavano i sei sacerdoti si disposero ai due lati dell’antico mezzo da guerra, tre per parte, e si inginocchiarono con la fronte nella terra.
   Smolnikov si fermò a osservare i cavalli, movendo la mano destra nella loro direzione e cianciando delle parole che Indy non riuscì a comprendere. Con un sogghigno, immaginò che il russo avesse terminato il suo repertorio di conoscenze di preghiere antiche e, adesso, si stesse inventando qualche parola dal suono vagamente esotico per trascinare più a lungo quell’indegna sceneggiata.
   Infine, anche Volkov si fermò. Respirò a pieni polmoni, come se stesse cercando di inspirare l’essenza stessa del tempio e di tutto ciò che lo circondava. L’americano trovò davvero ridicola quell’immagine, eppure sapeva bene che non ci sarebbe stato assolutamente nulla di cui ridere. Anzi, se non si fosse dato una mossa, ci sarebbe stato solo da piangere.
   Provò a muovere i polsi, cercando di liberarsi. Spinse, tirò, si agitò, ma non ottenne alcun risultato. Le corde erano troppo strette, e non aveva nessuna possibilità di liberarsi. Stavolta erano davvero in una brutta situazione.
   Volkov, voltatosi verso i suoi soldati dopo aver contemplato per quasi due minuti il carro, cominciò a parlare. La sua voce era profonda ma anche stridula. La voce di un esaltato ormai incapace di rendersi conto di essersi cacciato in una strettoia da cui sarebbe stato impossibile uscire. Una strettoia che conduceva dritta e inesorabilmente verso la morte.
   «Figli miei, oggi voi assisterete a un grande miracolo, il più grande che si sia mai verificato in questo secolo dopo la gloriosa Rivoluzione che portò alla nascita della nostra immortale Madre Russia. Io sarò la vostra guida e vi condurrò alla nascita di un nuovo giorno. Il tramonto di ieri ha visto morire un mondo in preda al caos e all’incertezza. L’alba di domani vedrà nascere un futuro radioso per tutte le nazioni che si sottometteranno al nostro volere! E chi non oserà farlo, sarà spazzato via come un fuscello nella tempesta, perché noi non permetteremo che sopravvivano nel mondo uomini indegni di esistere!»
   Fece una pausa, saettando lo sguardo su tutti i presenti, quasi volesse accertarsi di avere la completa attenzione e fedeltà dei suoi soldati, quindi proseguì con il suo discorso delirante.
   «Dopo che i traditori saranno stati offerti in sacrificio agli dèi per dimostrare la nostra sottomissione nei loro confronti e ottenerne in cambio la loro benevolenza perché ci aiutino in questo cammino, io, Ramses XII, ultimo successore dei grandi faraoni antichi, condurrò tutti voi al trionfo finale!»
   Indy – che stava riflettendo su quanto sarebbe stato divertente poter vedere la faccia di Chrušcëv se fosse stato lì in quello stesso momento, a osservare una simile buffonata che non aveva niente a che vedere con i precetti atei e comunitari del socialismo reale – si sentì improvvisamente gelare il sangue nelle vene. Aveva capito bene? Quel pazzo voleva forse compiere un sacrificio umano utilizzando proprio loro?
   Sbuffò. Perché diavolo la gente doveva sempre sacrificare qualcuno? E perché, poi, sempre lui?
   «Indy…» brontolò Sallah, nervoso, agitandosi nel tentativo di liberarsi dalle corde.
   Ma le corde, come se si fossero animate di vita propria, caddero ai loro piedi, e furono di nuovo liberi.
   «Diamine…» sbottò Jones, voltandosi per vedere che cosa fosse accaduto.
   Si trovò davanti Boris, il coltello con cui aveva reciso i cordami ancora stretto nella mano, che gli faceva segno di non fiatare. Si era avvicinato così silenziosamente che Indy e Sallah, concentrati su quello che stava accadendo nel centro del cortile, non se ne erano nemmeno accorti. Volse lo sguardo e vide Moshti che liberava Yasmin e Oleg.
   Intanto, Volkov proseguiva con le sue ciance da completo invasato.
   «Un nuovo ordine sorgerà, e saremo noi stessi a guidarlo su tutto il mondo! Il potere degli antichi dèi dell’Egitto sarà la fiaccola che permetterà all’Unione Sovietica di cancellare dal mondo i torti, le violenze, la corruzione e tutte le sciocche disuguaglianze imposte dallo sfrenato capitalismo che adesso dilaga a occidente! Noi distruggeremo la falsità e le bassezze del mondo! Chi si opporrà a noi brucerà, arso dal fuoco purificatore di Seth!»
   Il colonnello si mosse. Come al rallentatore, Indy lo vide spostarsi verso il carro d’oro.
   Dentro di sé, sentì urlare una voce tonante e imperiosa: quel folle di un russo non avrebbe dovuto porre il suo empio piede sopra la Gloria di Amon, mai, per nessun motivo al mondo! A ordinarglielo non fu la sua coscienza, bensì una voce che proveniva da molto più lontano, da altri tempi e altre dimensioni.
   E quindi, senza pensare per davvero a che cosa stesse facendo, agì come gli veniva ordinato.

 
* * *

   Indiana Jones si slanciò di corsa attraverso il cortile. Si fece largo tra i soldati, abbattendoli a spallate. Colti di sorpresa, quelli lo lasciarono passare per un buon tratto, prima di rendersi conto di ciò che stava accadendo e tentare di reagire. Alcuni gli si pararono di fronte, ma li tolse di mezzo con un paio di pugni ben indirizzati al volto.
   Da ogni parte si levarono mani per provare ad afferrarlo e bloccarlo.
   Ma Indy non era solo. Sallah non lo avrebbe mai abbandonato. Il suo fedele amico, proprio come lo scudiero Menna era rimasto accanto a Ramses II durante la mischia più furibonda nella battaglia di Qadesh, lo stava seguendo da vicino, senza alcun timore. Con calci e pugni, Sallah mandò al tappeto gli uomini che stavano cercando di fermare Indy.
   I due amici, impavidi, sfidando la morte, continuarono a farsi largo attraverso il cortile, fino a raggiungerne il centro. Il professor Smolnikov gli si erse dinnanzi, deciso a impedire che continuassero ad andare avanti verso la loro meta, ma anche lui venne spinto via e reso innocuo con soverchia facilità.
   Ora restava soltanto Volkov. Aveva già una mano appoggiata al parapetto e un piede sollevato, pronto ad appoggiarlo sul pianale del carro. Si era fermato, sbalordito dal trambusto, per capire che cosa stesse succedendo. Quando vide i due uomini che si avvicinavano, si riscosse e cercò di salire sul mezzo. I cavalli, nervosi, nitrivano e battevano gli zoccoli sul terreno.
   Indy saltò, lo raggiunse. Lo afferrò alle spalle e lo trascinò in terra, gettandolo nella polvere. Quello cercò di rialzarsi, ma un calcio nel costato da parte dell’americano lo fece rotolare di lato.
   Poi lui e Sallah saltarono sul cocchio.
   L’egiziano afferrò le redini e incitò i cavalli, mentre Indy, impugnato l’arco di Ramses, incoccò una freccia e prese la mira verso i numerosi nemici che, urlando, stavano correndo verso di loro, con tutta l’intenzione di porre fine a quella piccola insurrezione durata fin troppo. Ma non lasciò partire il dardo.
   All’improvviso, l’archeologo si sentì pervadere da un fuoco misterioso, ardente, che gli riempì le vene. Non era un fuoco doloroso. Era un fuoco divino, un potere che scaturiva dalla luce degli astri che lo sovrastavano, dall’aria che gli riempiva i polmoni, dalla terra che lo sorreggeva, dall’acqua del Nilo che scorreva non lontano. Gli diede vigore, lo fece sentire giovane e forte come non era mai stato, nemmeno nei suoi giorni più gloriosi.
   Alzò gli occhi verso il cielo stellato e, sulle sue labbra riarse, si formarono le medesime parole che, tremila anni addietro, Ramses il Grande aveva rivolto al suo dio per domandargli soccorso in mezzo alle infinte tribolazioni della battaglia. Parole che risuonarono stentoree per tutto il tempio, più forti di una tempesta di sabbia infuocata, più potenti della piena del Nilo, più durature della luce del sole e delle stelle.

   Tutte le terre straniere sono alleate contro di me,
   sono solo, il mio esercito mi ha abbandonato!
   Soltanto il mio fedele scudiero e i miei cavalli, Vittoria in Tebe e Mu è contenta, sono rimasti al mio fianco.
   Ma io invoco Amon e trovo che egli è utile per me più di milioni di truppe,
   più che centinaia di migliaia di cavalieri,
   più che decine di migliaia di fratelli e di figli che siano riuniti insieme!
   Non esiste l’opera di uomini numerosi,
   Amon è più utile di tutti loro!


   E in quel momento accadde l’impossibile.
   I cavalli che trainavano il carro divennero di fuoco, l’oro di cui era rivestito sfolgorò e si rivestì di luce, le frecce di cui Indy si era armato brillarono come fiaccole nella notte. Indy e Sallah stessi parvero essere divenuti di brace, due figure eroiche e divine che combattevano da sole contro un esercito intero.
   La Gloria di Amon, risvegliata in tutto il suo incommensurabile potere, si scagliò in mezzo ai russi che, atterriti da quell’attacco inatteso e da quella visione infernale, fuggirono in ogni direzione, cercando di salvarsi dalla sua ira implacabile. Parecchi, attraversati da quella forza spaventosa, furono inceneriti all’istante, altri vennero fatti a pezzi o schiacciati sotto le ruote divenute dure come il diamante. I pochi sopravvissuti, terrorizzati, fuggirono dal tempio, gridando come ossessi.
   Soltanto Volkov rimase dove si trovava. Si era rialzato e aveva sfoderato la sua spada di bronzo. Gli occhi gli brillavano sinistramente, lucidi di lacrime, abbandonati dal senno.
   Sallah fece girare il carro e lo guidò a folle velocità verso di lui, verso l’ultima carica. Volkov sollevò la spada, deciso a combattere fino alla morte. Indy, che stringeva ancora l’arco in mano, tese il nerbo fino allo spasimo e scoccò la freccia.
   Il dardo sibilò, lasciandosi dietro una scia di scintille come una stella cadente. Attraversò lo spazio libero nel centro del tempio con una precisione perfetta, come se a scagliarlo fosse stato il braccio di un dio, e colpì in pieno petto quel nemico dell’Egitto e degli dèi, che aveva osato servirsi di loro per proclamarsi faraone senza averne il diritto. Sbalzato all’indietro dall’urto, il colonnello Volkov crollò al suolo a braccia larghe, senza un gemito.
   Subito dopo, la Gloria di Amon lo travolse con tutto il suo fulgore, riducendolo in polvere. Polvere che fu immediatamente dispersa da un vento impetuoso che, soffiando improvviso, si levò per alcuni secondi attraverso le porte del complesso sacro.
   Si udì un tuono fragoroso e si vide un bolide di luce attraversare il cielo da parte a parte, illuminandolo a giorno per alcuni secondi. La collera del dio era placata, i nemici dell’Egitto erano stati sconfitti un’altra volta.
   Poi tutto tacque. La Gloria di Amon tornò a essere un normalissimo carro da guerra antico, fragile e prezioso, trainato da due cavalli coperti di sudore e guidato da due uomini sfiniti, stremati e ricoperti di fuliggine.
   Tremando, dopo essere riuscito ad arrestare la corsa dei due animali, Sallah lasciò andare i finimenti e rotolò giù dal carro, cadendo in ginocchio sul terreno. Indy, mollata la presa sull’arco, lo seguì a ruota, respirando a fatica. I due cavalli, spaventati da quello che era successo, diedero un tale strappo da rompere i finimenti e fuggire al galoppo verso il pilone che portava all’esterno del tempio. Il loro stalliere, che per tutto il tempo era rimasto nascosto dietro una statua di Ramses, folle di paura quanto loro per quello spettacolo, li seguì di corsa, agitando le braccia e urlando preghiere in arabo.
   «Ce l’abbiamo fatta, Indy?» mormorò Sallah, cercando di rialzarsi.
   Indy respirò profondamente. Adesso che la potenza divina lo aveva abbandonato, stavano tornando tutti i dolori che aveva accumulato nelle ultime ore. L’aria, calda, era ancora satura dell’odore acre del fumo e del sangue, ma la brezza che giungeva dal Nilo stava già stemperando quei fetidi miasmi.
   Volse lo sguardo e, con sollievo, vide Yasmin, Moshti e i due ex agenti del KGB venire a passi lenti verso di loro. Erano frastornati e confusi, ma illesi.
   Un sogghigno gli si disegnò sulle labbra.
   «Sì» replicò. «Sì, Sallah. Ce l’abbiamo fatta.»
   Le stelle continuarono a rifulgere sulla notte di nuovo in quiete. Un’altra magica notte egiziana il cui segreto sarebbe stato preservato dalle sabbia del deserto e dallo scorrere incessante del Nilo, una leggenda che forse i cantastorie avrebbero narrati agli angoli delle strade o all’ingresso dei bazar.

 

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Capitolo 18
*** Epilogo ***


EPILOGO

   Indy diede un ultimo colpo di badile. Adesso l’ingresso del sotterraneo era tornato a essere invisibile e, con un po’ di fortuna, lo sarebbe rimasto per sempre.
   Dopo aver lasciato il tempio di Luxor, avevano convenuto che la mossa migliore sarebbe stata quella di rimettere la Gloria di Amon nel luogo in cui l’avevano trovata: l’ipogeo segreto di Abu Simbel. Così, dopo aver attraversato il fiume a bordo della chiatta, lo avevano ricaricato sul camion ed erano tornati indietro. Non era stato difficile convincere gli operai fidati di Sallah ad aiutarli ancora una volta, questa volta per rimuovere i detriti e le macerie dell’esplosione provocata dai sovietici.
   A occuparsi di rimettere il carro d’oro nel suo sarcofago erano stati Indy e Sallah. Avevano condotto l’intera operazione da soli, sguazzando con i piedi nell’acqua. Il livello del Nilo stava salendo molto in fretta e l’acqua aveva cominciato a infiltrarsi anche lì. Nel giro di poche settimane soltanto, l’ipogeo si sarebbe tramutato in una caverna sommersa, che avrebbe custodito in eterno tutti i suoi tesori.
   Infine, senza più voltarsi indietro, erano usciti dal sotterraneo e avevano risistemato l’ingresso alla galleria in maniera tale che, quando la cappella fosse stata ridotta in blocchi per essere trasferita nella sua nuova collocazione, nessuno si sarebbe reso conto di nulla. Il tempio se ne sarebbe andato, ma il suo più grande segreto sarebbe rimasto al proprio posto.
   I due amici, dopo aver gettato un’ultima occhiata al buco ormai invisibile, si scambiarono un cenno e riattraversarono con passo lento tutto il tempio di Abu Simbel.
   Mentre camminava, una stranissima sensazione invase l’archeologo.
   Quella sarebbe stata in assoluto l’ultima volta che i suoi passi avrebbero risuonato contro le volte del tempio ancora immobili nella loro posizione originaria, la stessa che Ramses il Grande aveva scelto per perpetuare il ricordo dei suoi personali trionfi. La prossima volta che avrebbe avuto occasione di vedere il tempio, sarebbe stato nella sua nuova dimora, attorno allo scheletro d’acciaio che era stato teatro della sua lotta con il gigantesco energumeno ingaggiato per provare a sbarazzarsi di lui. La cosa un po’ gli dispiaceva. Anche se quell’immenso cantiere era un’opera di salvataggio senza eguali, per permettere anche alle generazioni future di godere di quei luoghi meravigliosi, provava anche una specie di sottile rimorso al pensiero che la sacralità degli antichi dovesse sottomettersi in questa maniera ai bisogni esclusivamente concreti dei moderni.
   «Che ci vuoi fare, Indy» si disse. «È il tempo che scorre. Le cose cambiano. Il mondo intero si sta trasformando. Nulla rimane come vorremmo
   La luce brillante dell’esterno abbagliò i loro occhi. Il caldo li accarezzò, accogliendogli con gradevole benignità.
   «Tutto fatto?» domandò Yasmin, alzandosi dal blocco di pietra su cui era rimasta seduta.
   «Tutto a posto» confermò Sallah, sorridendo. «Carro e pavimento sono stati risistemati. Nessuno sentirà più parlare di quel sotterraneo e del suo contenuto.»
   «Certo che è un peccato» commentò Moshti, affiancando la sorella. «Con tutti quei tesori si sarebbe potuto allestire un immenso museo.»
   «Di musei ce ne sono fin troppi, al mondo, e non li visita mai nessuno» obiettò prosaicamente Indy, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «I reperti stanno lì a coprirsi di polvere e basta. Per questa volta, lasciamo che le offerte che Ramses tributò al suo dio salvatore restino dove sono. Penso che Amon ci abbia dato prova di meritarsele davvero.»
   I due ex agenti del KGB ammiccarono con fare complice.
   «Noi, di sicuro, quando saremo in America non perderemo certo il nostro tempo entrando in vecchi musei» asserì Boris.
   «In compenso» gli fece eco Oleg, «non ci faremo scappare né una distilleria né una birreria. Voglio bermi tutto ciò di alcolico che esiste in America, alla faccia dei nostri connazionali e della loro vodka insapore.»
   Lo sguardo di Indy incontrò quello del professor Smolnikov. L’archeologo russo era riuscito a sopravvivere alla furia della Gloria di Amon, anche se aveva riportato diverse ustioni sulle braccia. Quelle scottature, comunque, sembravano essere servite a farlo rinsavire.
   Lo avevano incontrato fuori dal tempio di Luxor e, con fare umile, aveva chiesto di poter andare con loro. Indy, dopo aver soppesato per un momento l’idea di condurlo a calci fino ad Abu Simbel, aveva acconsentito a farlo salire sul camion. D’altronde, era molto meglio tenerlo d’occhio, piuttosto che non sapere che cos’altro stesse macchinando.
   «E lei, professore?» domandò Jones. «Verrà anche lei con noi, negli Stati Uniti?»
   Smolnikov scosse il capo.
   «Io resterò in Egitto» dichiarò. «Finalmente mi sono liberato dalla tirannia del comunismo che teneva prigioniero il mio spirito. L’indottrinamento a cui sono stato sottoposto per tutta la vita è sparito quando, infine, ho visto la luce. Ho compreso quale arma micidiale fosse davvero il carro d’oro, e ho capito che, se fosse caduto nelle mani sbagliate, sarebbe stato fonte di sofferenze inaudite per tutti.»
   Si volse ad ammirare i colossi del faraone Ramses che, solenni e pacati, vigilavano sui luoghi sacri della Nubia. Lasciò andare un lungo e profondo sospiro.
   «Agli occhi del mondo, e soprattutto a quelli dell’Unione Sovietica, il professor Vladimir Smolnikov è morto insieme al colonnello Volkov. Non intendo fare nulla per smentire tale convinzione. Assumerò un’altra identità, vestirò da arabo e per il resto dei miei giorni vivrò qui, tra gli egiziani, proprio come un secolo e mezzo fa fece Burckhardt, lo scopritore di questo luogo incredibile.» Annuì, ammirato. «Abu Simbel. Un sito meraviglioso, che non finirà mai di parlare per rivelare poco a poco i suoi eterni segreti.»
   Indy e Sallah si scambiarono un’occhiata colma di sospetto. Smolnikov poteva dire quello che voleva, ma loro non erano certamente propensi a concedergli fiducia tanto facilmente, dopo che si era impegnato così a fondo per trovare il carro d’oro e consegnarlo ai suoi alleati.
   Fu l’egiziano, comunque, a mettere subito le cose in chiaro.
   «Non si sentirà solo, professore» disse infatti. «Rimarrò anche io qui ad Abu Simbel, fino a quando le opere di trasferimento non saranno del tutto concluse e il luogo in cui ci troviamo adesso non sarà completamente sommerso. Le terrò compagnia e, allo stesso tempo, farò in maniera che l’ingresso al sotterraneo non venga trovato per caso da qualche archeologo troppo frettoloso di dichiararsi pentito dei propri personali trascorsi.»
   Smolnikov avvampò per l’imbarazzo.
   «Io… io…» balbettò. «Le… le assicuro che le mie intenzioni…»
   «Sì, sì» tagliò corto Sallah.
   Indy si era scostato di pochi passi, per ammirare il sole che splendeva in mezzo al cielo pennellato di quell’incredibile blu che soltanto in Egitto può essere visto. I suoi raggi illuminavano il Nilo, che scorreva appena oltre il muro di cinta che era stato eretto per tenere le acque sempre più profonde fuori dal cantiere.
   Un istante prima, si era detto che le cose cambiano. Tutto si trasforma.
   Forse era vero, ma con un’eccezione. Lui.
   Indiana Jones non sarebbe cambiato mai e poi mai. Gli anni defluivano, ma lui non ci badava. Vivere non è perdere, ma guadagnare sempre di più. Ogni anno, mese o singolo giorno che trascorreva era un modo per accumulare nuove esperienze, nuove conoscenze, nuove scoperte. E, soprattutto, nuove avventure.
   Perché lui questo era. Un avventuriero. Il più grande avventuriero del mondo. L’inconfondibile uomo con la frusta in mano. Sarebbe sempre partito per una nuova impresa, senza lasciarsi fermare dal tempo, dall’età o da qualsiasi altro paletto che chiunque avrebbe voluto opporgli.
   Sallah lo affiancò, subito seguito dai suoi due figli. I tre russi restarono scostati di qualche passo a guardarli.
   Indy osservò per un istante i suoi amici e sorrise.
   Partire all’avventura? Non avrebbe mai e poi mai smesso di farlo. L’importante era poterlo fare in compagnia delle persone giuste. E lui, per fortuna, aveva grandissime persone al proprio fianco.
   La brezza calda dell’Africa gli scivolò addosso, scompigliandogli i capelli e sollevando lievemente la tesa del suo inseparabile cappello, mentre dentro i suoi occhi il Nilo dalle acque verdi continuava a scorrere placido sotto il sole, l’incarnazione degli dèi.


(scritto: febbraio - aprile 2021)

 

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