Poems By A Ghost

di Ode To Joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***



Capitolo 1
*** I ***


Note dell’Autore 

Di solito faccio perdere tempo ai lettori sul mio profilo IG o la mia pagina FB, ma qualche riga d’introduzione qui volevo lasciarla. Questo progetto muove i primi passi nell’autunno del 2019 e vede la luce attraverso il Calendario dell’Avvento di quello stesso anno con As Pure As The Driven Snow, ma è l’anno successivo, con S k r i k che prende inizio la vera serializzazione della serie These Brand New Pages.

La storia si presenta come un enorme What-if che inizia con la fine della Dark Era ma che, gradualmente, si estenderà a tutto l’universo di BSD. 

Poems By A Ghost si pone come prima parte effettiva della vicenda (di cui S k r i k era il prologo), per tanto ritroviamo Dazai poche ore dopo la morte di Odasaku, che si ritrova ad affrontare tutte le conseguenze del caso. 

Avvertenze Principali: Trans!Dazai e Unplanned Pregnancy.

Ships/Characters: Past-Odazai e una Soukoku in divenire che sta lì, ma non è ancora arrivato il suo momento. Principalmente, i sette capitoli ruotano tutti intorno al rapporto che Dazai ha con Mori e Chuuya nel presente, e ciò che gli è rimasto di Odasaku. Fanno la loro comparsa non proprio casuale Kouyou, Ango e Hirotsu. Ma il vero protagonista lo si conosce solo alla fine.

Grazie per l’attenzione.

Buona lettura.







 

0


Dazai Osamu agognava l’oblio.

Tutt’intorno a lui vi erano solo il silenzio e il buio di un appartamento vuoto, ma il rumore nella sua testa non faceva che divenire più caotico, minuto dopo minuto.

Si dondolava sul divano con la testa tra le mani. Le dita sporche di sangue artigliavano i capelli scuri, quasi volesse strapparseli.

Tremava. In preda al delirio, mormorava frasi sconnesse, ricacciando in gola il desiderio di urlare.

Si alzò di scatto, assecondando il desiderio di distruzione che strisciava sotto la sua pelle e non lo faceva ragionare. Aveva voglia di ridurre a brandelli qualcosa - a cominciare da se stesso - voleva far saltare in aria tutta quella maledetta città e trasformare in cenere quel dolore.

Perché di dolore si trattava. 

E Dazai Osamu non era in grado di gestirlo.

Nascose il viso tra le mani: voleva strapparsi via la pelle, cavarsi gli occhi, qualunque cosa pur di non dover sentire quelle mani invisibili dilaniargli l’anima. 

Faceva dannatamente male. 

Prese la pistola che aveva gettato tra i cuscini del divano - una di quelle di Odasaku. Non sapeva nemmeno perché l’aveva portata con sé, forse per istinto. Era uscito dalla Port Mafia disarmato e da traditore. Se Mori avesse mandato qualcuno a cercarlo, avrebbe risparmiato a tutti il disturbo di un’esecuzione al cospetto del Boss. 

Dazai premette la canna fredda contro i capelli umidi di sudore e sporchi di sangue. Un colpo e via. Addio dolore. Addio vita. Addio tutto e tutti.

”Non c’è nulla in questo mondo che possa colmare il vuoto che hai dentro.”

Eppure, per una stagione della sua vita, Dazai se ne era dimenticato.

Abbassò il braccio a fatica, come se stesse combattendo contro una forza invisibile.

Indietreggiò fino a che le sue gambe non incontrarono il divano. Cadde disteso. La testa di capelli scuri atterrò su uno dei cuscini, la mano che stringeva la pistola rimase a penzoloni, oltre il bordo. 

Il dolore era così, arrivava a ondate. Lo travolgeva, sbattendolo di qua e di là con violenza, poi tutto si calmava e restava il vuoto. Almeno, fino alla prossima crisi.

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte, smarrito.

Non sapeva da quante ore era lì - non ricordava nemmeno come ci era arrivato - ma era certo di non poter restare. Piegò il braccio, si coprì gli occhi. Il calcio della pistola gli sfiorava il viso. 

Era così stanco. 

Avvertì il fantasma di una carezza sulla guancia. “Lasciala andare,” la voce di Odasaku gli giunse chiara e reale. Non lo era. Dazai lo sapeva. “Lasciala andare, Osamu.”

Le poteva contare sulla punta delle dita le volte in cui Odasaku lo aveva chiamato per nome - durante il sesso, per lo più - ma aveva desiderato lo avesse fatto più spesso. 

Dazai sentì che afferrava la pistola e si lasciò disarmare.

“Non è questo che ti ho detto di fare,” disse Odasaku, pragmatico.

“Mi hai detto di vivere,” mormorò Dazai, con voce spezzata. “A me. Ti sei fatto ammazzare, poi mi hai buttato addosso una ragione per vivere.” Rise, beffardo. Più ci pensava e meno aveva senso. Certo, stava parlando col fantasma del suo amante morto - col sangue di lui addosso, per di più - e questo riduceva drasticamente il numero delle cose sensate in quella storia. Ma non riuscì a trovare il coraggio di guardare di fronte a sé e porre fine a quell’illusione. 

“Non puoi restare qui,” aggiunse la voce di Odasaku. “Stanno arrivando.”

Dazai lo sentì allontanarsi e scattò a sedere per afferrarlo. Il nome del suo amante rimase sospeso nell’aria, come il braccio teso verso il nulla.

L’appartamento non era più buio. Il sole appena sorto si specchiava sulle finestre dei grattacieli più alti, costringendolo a socchiudere gli occhi.

Si era addormentato. Era rimasto in quel luogo per un lasso di tempo pericoloso. 

Dazai si alzò, le gambe lo ressero a stento. 

Non pensò a dove andare - non era importante nell’immediato. Doveva solo uscire di lì, prima che qualcuno altro entrasse. 

Aprì la porta d’ingresso. 

Di fronte a lui, la lucina verde dell’ascensore lo informò che le porte scorrevoli stavano per aprirsi. Non c’erano altri appartamenti su quel piano che potessero giustificare la presenza di qualcuno.

Richiuse la porta, fece tre passi indietro. Sapeva che barricarsi era inutile - oltre che stupido. E non aveva molte opzioni a sua disposizione all’ultimo piano di un grattacielo - a parte buttarsi. 

Dazai udì i primi passi sul pianerottolo nello stesso momento in cui si accorse di avere ancora la pistola stretta nel pugno. Non pensò neanche per un istante di puntarla contro la porta. Non era nella posizione di opporre resistenza, ne era perfettamente consapevole. In tutta onestà, non gli importava. Non gli era mai importato.

Si portò la canna alla tempia. La sua mano non tremava, non più.

Non era nulla di eclatante, solo quello che aveva desiderato fare da sempre.

La porta si spalancò.

Dazai premette il grilletto. 


Since the love that you left is all that I get

I want you to know that if I can't be close to you

I settle for the ghost of you

I miss you more than life

 

 

Poems By A Ghost 


I


Sakaguchi Ango era un maestro nel mantenere un basso profilo. Se così non fosse stato, non sarebbe mai riuscito a fare il suo lavoro. Quando Dazai Osamu, Dirigente più giovane della storia della Port Mafia, si era interessato a lui, il suo ruolo d’infiltrato si era fatto solo un po’ più complicato. Il peso emotivo che era nato da quell’imprevisto era qualcosa a cui nessun addestramento lo aveva preparato.

“E muoviti!” Si attaccò al clacson, fece un sorpasso con doppia riga continua. Quella condotta non gli apparteneva e, di sicuro, non si sposava bene con la sua abitudine di mantenere un basso profilo, ma dopo aver ripulito il sangue di un amico da una scena del crimine, era difficile restare calmi. 

E Sakaguchi Ango non aveva la minima intenzione di ripetere l’esperienza nel corso della stessa giornata.

Parcheggiò in doppia fila, di fronte all’ingresso del grattacielo. Avrebbe pensato dopo a eliminare ogni traccia del suo passaggio dalle telecamere o dai rilevatori di velocità. Doveva solo sperare che la Port Mafia non lo precedesse. Si lanciò contro il pulsante dell’ascensore. Le porte scorrevoli impiegarono pochi istanti ad aprirsi, a lui parvero un’eternità e la salita fino all’ultimo piano fu una vera e proprio tortura.

Ango non sapeva se era ancora in tempo. Maledizione, non sapeva nemmeno se quello fosse il luogo giusto. Le uniche cose che aveva erano la speranza di conoscere Dazai abbastanza bene da prevederlo e il suo istinto.

Non rimase deluso. 

Quando aprì la porta dell’appartamento di Odasaku, Dazai era lì, a pochi passi da lui, con una pistola puntata alla tempia. Colmare la distanza tra loro in tempo utile era praticamente impossibile.

“Fermo!” 

Troppo tardi. 

Dazai aveva già premuto il grilletto. 

Seguì un lungo istante in cui Ango credette di essere morto. Il suo cuore doveva essersi fisicamente fermato, non c’erano dubbi. 

Dazai Osamu era vivo, sconvolto quanto lui. Nessun proiettile era partito da quella pistola.

Ango poteva tornare a respirare: era arrivato in tempo.

“Maledizione!” Sibilò, attraversando la stanza con ampi passi. 

Pietrificato da quanto era - meglio, non era - appena successo, Dazai non oppose alcuna resistenza. Ango gli tolse la pistola di mano, la riconobbe. “È di Odasaku,” mormorò, ma non era sorpreso. Avevano rinvenuto due fondine ma una sola arma sulla scena del massacro della Mimic.

“È scarica,” disse Ango. “Continua a salvarti la vita anche ora.” Infilò la pistola nella cintura: non voleva lasciare nessuna traccia del loro passaggio in un appartamento che risultava nel libro paga della Port Mafia.

“Andiamo, Dazai.” Ango lo afferrò e il diciottenne si dimenò con forza. “Dazai, non abbiamo tempo!”

“Non mi toccare!” 

La spia del Governo si concesse un istante per valutare lo stato fisico in cui versava il giovane Dirigente - sempre ammesso che quell’etichetta gli appartenesse ancora. “Hai del sangue addosso,” notò, imponendosi un tono calmo. “È tuo?”

“Sai benissimo di chi è,” sibilò Dazai. 

Ango poteva sentire addosso il rancore che provava per lui, come tante lame invisibili. Non lo biasimava. “Odiami quanto vuoi,” gli concesse. “Se ti farà stare meglio, ti permetterò di spaccarmi la faccia ma adesso ti porto via di qui.” Pronunciò le ultime parole con fermezza e tentò di afferrarlo una seconda volta.

Dazai si ritrasse. “Lavori per il Governo.”

“Affronteremo anche questo discorso, ma in un posto sicuro!”

“Che diavolo ci fai qui?”

Ango perse la pazienza, lo afferrò per le spalle e lo scosse con forza. “Sto cercando di salvarti la vita!” Sbraitò. “E nemmeno tu riuscirai a impedirmelo!”

Trascinarlo fuori dall’appartamento fu facile: non pesava niente. In macchina si entrò con le sue gambe. Messe le mani sul volante, Ango tirò un sospiro di sollievo.

Dazai sedeva al posto del passeggero come un pupazzo rotto, privo di volontà. Era pallido e le macchie di sangue che aveva addosso non erano allarmati quanto i segni scuri sotto i suoi occhi.

Ango non riusciva a capire se avesse pianto fino a crollare o se non fosse riuscito a farlo. “Ti porto a casa mia,” lo informò, dato che il diciottenne non sembrava particolarmente interessato alla sorte che gli sarebbe toccata. “Hai ancora delle carte da giocare e studieremo come farlo.”

Dazai gli lanciò un’occhiata carica di disprezzo. “Ti piace interpretare la parte del traditore o stai cercando di ripulirti la coscienza?”

Ango sapeva di doversi aspettare anche di peggio. “Non ho mai voluto farvi-“

“Non dire cazzate,” lo interruppe Dazai. Non era nel suo carattere essere scurrile - quello era Chuuya - ma quella era una buona giornata per uscire dagli schemi. “Sei una spia. Io e lui eravamo soltanto un evento collaterale… No, forse lo era solo lui e io ero il tuo obiettivo.”

“Dazai, rallenta,” lo pregò Ango. “Stai sovranalizzando la situazione e non sei nelle condizioni di farlo.”

“Sovranallizare?” Ripeté Dazai. “Non ce n’è alcun bisogno. Governo e Port Mafia hanno il loro patto di non belligeranza e Odasaku è stato il modico prezzo da pagare per raggiungere lo scopo.”

“Dazai, ti giuro che se avessi saputo-“

“Cosa?” Dazai lo inchiodò con lo sguardo. “Saresti tornato sui tuoi passi?”

Ango rimase in silenzio, gli occhi fissi sulla strada. “Quel nostro ultimo incontro al Lupin…” Disse. “Ogni mia parola era sincera.”

Dazai si voltò verso il finestrino. 

Ango lo spiò con la coda dell’occhio. “Che cosa hai fatto?”

“Mi hai trovato, quindi lo sai già.”

“Ho solo avuto un’intuizione.”

“Su che base?”

Ango si umettò le labbra, prima di rispondere. “Mori era lì.”

Gli occhi scuri di Dazai saettarono sul profilo della spia.

“La Port Mafia stava raccogliendo i suoi caduti,” raccontò Ango. “Io ero lì per fare un rapporto finale con cui chiudere il fascicolo della Mimic.”

Quali caduti hanno raccolto?” Domandò Dazai.

Ango percepì il lieve tremore della sua voce e fu tentato di afferrargli la mano o mostrargli un qualunque segno di conforto, ma sapeva che sarebbe stato respinto. “Non lo hanno toccato,” disse, assicurandosi di guardare solo di fronte a sé. “Te lo giuro. Non lo hanno toccato, ci ho pensato io.”

Dazai volse di nuovo il viso verso il finestrino e Ango gli concesse un minuto per elaborare la cosa. “Non potevi essere rimasto lì, alla Port Mafia,” aggiunse. “Il mio timore era che ti avessero già ammazzato. Hai provato a fare qualcosa per lui e Mori non te lo ha concesso, non è vero?”

Dazai non rispose.

Ango ingoiò a vuoto. “Sei arrivato in tempo?” Domandò. “Se il sangue che hai addosso è il suo, significa che-“

“Sono un traditore,” disse Dazai, senza guardarlo. “Per la Port Mafia, sono un traditore.”

Ango sapeva che non gli avrebbe detto altro. “Siamo quasi arrivati.”




 

“Devo vomitare.” Fu la prima cosa che disse Dazai, una volta messo piede in casa.

Preso di sorpresa, Ango gli aprì goffamente la porta del bagno e il diciottenne vi si fiondò dentro. Rimase lì, con la schiena appoggiata all’architrave e gli occhi fissi a terra, mentre Dazai faceva quel che doveva fare. Quando ebbe finito, il giovane tirò lo sciacquone e si lasciò cadere a sedere sul pavimento freddo.

Preoccupato, Ango lo raggiunse. “Ti senti bene?”

“Vuoi che ti risponda?” Ribatté Dazai, inspirando dal naso con gli occhi chiusi.

L’altro appoggiò un ginocchio a terra, azzardando una mano sulla spalla. “Da quanto tempo non mangi o bevi qualcosa?”

“Non me lo ricordo.”

“Hai preso qualcosa che-“

“No, Odasaku non avrebbe voluto.”

Ango rifletté in fretta. “Ti porto un bicchiere d’acqua e dei vestiti puliti. Più tardi, distruggerò quelli che hai addosso,” disse. “Mi dispiace, non ho delle fasciature.”

“Non fa niente,” mormorò Dazai, stringendosi le ginocchia al petto. 

Ango sapeva che non era vero: quelle bende non avevano solo un valore estetico, ma i suoi vestiti gli sarebbero stati abbastanza larghi da coprire ogni cosa. Impiegò meno di dieci minuti a recuperare tutto il necessario. Prima che tornasse in bagno, sentì Dazai vomitare una seconda volta e si domandò se non fosse il caso di dargli qualcosa per la nausea. Ango rimandò la risposta a più tardi: forse il suo corpo stava cercando di elaborare gli ultimi eventi, mentre la sua mente non era ancora pronta a farlo. 

Somatizzazione del dolore. Era una cosa che si addiceva a Dazai Osamu.

Tornato in bagno, Ango appoggiò i vestiti puliti vicino al lavandino e porse il bicchiere d’acqua al suo insolito ospite. Dazai si costrinse a bere, ma prese appena un paio di sorsi. 

“Lascia tutto sul pavimento.” Ango gli diede istruzioni. “Più tardi, penserò a ogni cosa.” A quel punto, non gli restava che togliersi di torno ma doveva ammettere che l’idea gli provocava ansia. “Posso confidare nel fatto che non tenterai il suicidio nel mio bagno?”

Se Ango si fosse ritrovato costretto a chiamare un’ambulanza per un traditore della Port Mafia, con tanti capi d’accusa da non poterli contare, sarebbe stato un problema per entrambi. 

Dazai si limitò a fulminarlo con gli occhi - era difficile reggere il suo sguardo ora che erano entrambi scoperti - e Ango decise di dargli fiducia. 




 

Se fosse stato per Dazai, si sarebbe raggomitolato sul pavimento freddo con il sangue di Odasaku addosso e lì sarebbe rimasto, fino a data da destinarsi - o fino alla sua morte. La presenza di Ango a una porta di distanza rendeva tutto più complicato. Si tolse la giacca lentamente e ci mise un’eternità a sbottonare la camicia: gli tremavano le dita. Una volta sfilati i pantaloni, guardò il suo riflesso nello specchio sopra il lavandino: le macchie di sangue erano più evidenti sulle fasciature bianche.

Ingoiò un altro conato di vomito e allontanò lo sguardo.

Non era la prima volta che si lavava via del sangue di dosso - in particolare, il proprio - ma quello era di Odasaku. Fece scorrere l’acqua nella doccia, aspettando che diventasse calda. 

Dazai fissò gli occhi su un qualunque punto del muro e prese a strapparsi di dosso le fasciature. Appena qualche giorno prima, Odasaku lo aveva fatto per lui con la lenta cura di un amante. Si fermò, come se una fitta improvvisa lo avesse attraversato dalla testa ai piedi.

Ingoiò aria dalle labbra tremanti e finì di fare quello che stava facendo. 

Il getto caldo gli spezzò il respiro. L’acqua ai suoi piedi si tinse di rosso e divenne man mano più chiara. In un batter d’occhio, qualunque traccia Odasaku gli avesse lasciato addosso era sparita.

“Mi hai avuto in modi che non hanno a che fare con la mia morte,” disse il fantasma di Odasaku.

“Lo so,” replicò Dazai. Sentiva la presenza dell’altro alle sue spalle e quasi si aspettava che gli insaponasse i capelli, come soleva fare quando passavano la notte insieme. Prima di crederci troppo, afferrò la bottiglietta dello shampoo e fece da solo. “Mi piaceva guardare il mio corpo e scovare tutti i segni del tuo passaggio.”

“E come ti faceva sentire?”

Dazai si tirò i capelli indietro. “Vivo,” mormorò. “Era questo il potere che avevi su di me. Non l’ha mai avuto nessun altro, solo tu.”

“Non pensi di avermi idealizzato?”

Una risata stanca. “Pensavo che chiamando il tuo nome, ti saresti voltato,” ammise Dazai. “Pensavo che, anche di fronte al dolore della perdita dei bambini, mi avresti guardato e… Non lo so, forse avresti visto qualcosa per cui…” Le parole gli rimasero incastrate in gola. “Sì, ti ho idealizzato,” concluse. “Ho idealizzato ogni cosa.”

Nessuno gli rispose. Era di nuovo da solo.




 

Ango eliminò dal bagno ogni traccia di sangue, fece sparire i suoi vestiti e gli preparò qualcosa da mangiare. Dazai si limitò a essere una silenziosa presenza sul divano per tutto il tempo. I vestiti prestati erano larghi e comodi e più il sole si alzava, più diveniva difficile tenere gli occhi aperti. La mancanza di sonno non era mai stata una problema per lui. Durante le missioni, era arrivato a distruggersi fino a collassare, guadagnandosi una scenata da parte di Chuuya nel processo. Quella volta era diverso: il suo corpo non rispondeva come era abituato, forse per lo shock - la sua intera vita era andata in pezzi nel tempo di un tramonto - poco importava che non riuscisse a piangere.

Era ancora sveglio, quando Ango gli mise una coperta addosso.

“Se vuoi dormire, fallo,” disse il padrone di casa, sedendosi sulla poltrona vicino al divano. “Abbiamo tutto il tempo.”

“Davvero?”

“Questo è un posto sicuro.”

“Stai infrangendo tante di quelle leggi che non riesco a contarle, Ango. Non può esserci nulla di sicuro in questo.”

“Il Governo non si fa scrupoli a fare accordi con la malavita quando c’è da guadagnarci.”

“Ma non mi dire,” commentò Dazai, sarcastico.

“E tu sei un guadagno,” disse Ango. “Allo stato attuale, dopo l’accordo con Mori, sei quella vittoria inaspettata che porterebbe i miei superiori un gradino più in alto.”

“Quanto basta per far gioire il loro ego,” concluse Dazai. “Mori era dieci passi avanti ancor prima di avere quella licenza.”

“Perché Mori aveva te.”

Dazai sbuffò. “Non ho mai provato alcuna soddisfazione per commenti come questo,” si accomodò meglio contro i cuscini. “Non diventerò il cane di Santoka Taneda. Se questo è il piano, Ango, rinuncia.”

“Anche se fosse l’unico modo per salvarti la vita?”

“Smettila, sai che non me ne importa nulla,” si lagnò Dazai, come se l’altro lo stesse disturbando con le sue chiacchiere.

“A lui importava,” replicò Ango.

Eccolo lì, l’odio di Dazai che tornava a colpirlo a suon di sguardi. 

“Non lo userai per farmi fare quello che vuoi,” sibilò il più giovane.

“Io non voglio dover raccogliere il tuo cadavere, dopo che è stato crivellato di proiettili,” disse Ango.

“E non sarò nemmeno la tua espiazione,” aggiunse Dazai. “Sii onesto e ammetti che sei qui perché pensi di avere un debito nei confronti di Odasaku.”

“Io ho un debito nei suoi confronti.”

“I morti non hanno nulla da riscattare.”

Ango allargò le braccia. “Va bene, smettiamola di parlare di quello che voglio io,” concesse. “Dimmi che cosa vuoi tu e non rispondere morire.”

“Mi hai trovato con una pistola puntata alla testa,” gli ricordò Dazai. “Cosa vuoi che ti dica?”

“Ti serve tempo?”

Il diciottenne odiava che il suo secondino - perché era questo che Ango stava facendo - fosse così intuitivo. “Quanto puoi concedermi?"

Il padrone di casa fece un rapido calcolo. “Dieci… Forse quindici giorni.”

Dazai si girò su un fianco, dandogli la schiena. “Basterà.” Se Ango disse altro, non lo udì. Il sonno ebbe la meglio. 




 

Ango non smise di fare piani ad alta voce per tutti i giorni seguenti. La sua non era mancanza di rispetto per il dolore del diciottenne, ma il suo modo personale di venirne a capo. L’alternativa era restare immobile e sopportare in silenzio gli occhi di Dazai che lo trafiggevano con ogni sguardo, peggiorando il peso dei peccati che gravavano sulla sua coscienza.

“Vendere i segreti della Port Mafia ti porterebbe un enorme guadagno e ci concederebbe spazio di manovra per riabilitarti,” propose Ango, porgendo al suo ospite una tazza di tè fumante.

“Pensavo che Governo e Port Mafia fossero giunti a un compromesso.”

“A nessuno dei due basterà questa situazione di parità molto a lungo, lo sappiamo entrambi.”

Dazai prese la tazza tra le mani. “Non ho intenzione di vendere la Port Mafia,” disse, fermo. 

Il salotto era divenuto il loro nuovo quartier generale. Dazai non si era alzato dal divano fin dal primo giorno, tranne che per andare in bagno. Ango si era trasferito sulla poltrona per venire a patti con la sua ansia: lasciare il suo ospite da solo non era pensabile.

“Li hai traditi,” gli ricordò Ango. 

“Ho disubbidito a Mori e me ne sono andato. È diverso.”

“In che modo?”

Dazai prese un sorso di tè. “Non capiresti.”

Ango allargò le braccia, come a dire che era lì e aveva tutto il tempo del mondo per ascoltarlo. “Prova a spiegarmi.”

Dazai tamburellò le dita contro la ceramica calda, pensando alle parole più giuste per spiegare il suo punto di vista. “Mori ha ucciso Odasaku, non la Port Mafia,” disse Dazai, osservando il tè scuro. “Chuuya, Hirotsu, Kouyou e tutti gli altri non c’entrano niente.”

Ango inarcò le sopracciglia: era una posizione che si poteva quasi definire magnanima, completamente opposta da quella che si era aspettato dal Dirigente più giovane della Port Mafia. “Se avessi il potere di decidere, che cosa faresti?” Domandò. “Ti vendicheresti di Mori?”

“Non ce l’ho il potere di decidere.”

“Sì, ma se-“

“Non è come pensi,” lo interruppe Dazai, gli occhi scuri divennero come due finestre su un abisso senza fine. “Vuoi sapere se voglio Mori morto? No, sarebbe troppo semplice. Ucciderlo sarebbe solo l’ultima cosa che gli farei, la meno crudele.”

Ango ingoiò a vuoto. 

“Ma ho fatto una promessa.” L’espressione di Dazai si ammorbidì e così il tono della sua voce. “Era vivo. Quando sono arrivato, erano già tutti morti ma non Odasaku.”

Ango trattenne il fiato: non aveva previsto di conoscere quella parte della storia dopo così poco tempo. “Ti ha detto qualcosa?” Domandò.

“Mi ha detto di stare dalla parte dei più deboli, di divenire qualcuno che salva le persone.”

“Perché ti ha-“

“È questo il motivo per cui non ho il potere di decidere,” disse Dazai. “Perché Odasaku ha affidato a me le sue ultime volontà e non posso tradirlo.”

Solo pochi giorni prima, quello stesso ragazzo gli aveva detto che i morti non riscattano alcun debito e ora ammetteva di sentirsi legato a una promessa fatta all’amico che non era riuscito a salvare. 

“Per questo non posso vendicarmi di Mori,” aggiunse Dazai. “E non posso neanche morire. Odasaku non l’avrebbe voluto.”

Ango ne fu confortato. “Il suo… Il suo…” Chiuse gli occhi e si umettò le labbra, riflettendo su una scelta di parole migliore. “Odasaku è in uno dei nostri obitori. È stata fatta un’autopsia, come da routine. Mi sono fatto carico di ogni faccenda che concerne la sua sepoltura, ma io non sono l’unico amico che aveva.”

Dazai prese un altro sorso di tè, non lo guardava più in faccia. “Che vuoi che ti dica?”

“Se hai dei desideri che concernono il suo funerale.”

Erano lì, seduti a parlare di come andare avanti e Oda Sakunosuke non era stato neanche sepolto. 

“C’è un piccolo cimitero dall’altra parte del ponte, affaccia proprio sul mare,” disse Dazai. “Posso farti vedere la posizione su Google Maps.”

Ango non gli chiese per quale ragione conosceva un posto simile: c’erano cose di quel giovane che preferiva non sapere. Era Odasaku quello in grado di gestirlo, lui a stento riusciva ad assicurarsi che restasse vivo.

“Penso gli sarebbe piaciuto,” concluse Dazai.

Ango annuì due volte. “Farò in modo che venga sepolto lì.”

“Ango?”

“Cosa?”

“Quando questo momento d’immobilità finirà, mi porterai sulla sua tomba?”

Era una richiesta semplice, ma la risposta non lo era affatto. Ancora nessuno sapeva che Ango stava ospitando un criminale - ricercato dal Governo e traditore della Port Mafia - e se Dazai non aveva alcuna intenzione di divenire il cane di una potenza in carica, il suo tentativo di salvarlo diveniva più difficile.

Si disse che anche a un condannato a morte viene concesso un ultimo desiderio.

“Lo farò,” rispose. “Te lo prometto.”




 

Di quei quindici giorni, Ango ne aspettò undici, prima di parlare con Taneda di quanto stava facendo. Finito il resoconto dei fatti, il Direttore della Divisione Speciale sospirò e infilò le dita sotto i naselli degli occhiali in un gesto stanco. “Ango…”

“Potrebbe essere il nostro asso nella manica per gli anni a venire.”

“Ma non ha alcuna intenzione di collaborare, mi par di aver capito.”

Lo stato in cui versava Dazai non era migliorato di una virgola: mangiava appena, si svegliava nel cuore della notte in preda a crisi che gettavano Ango nel panico più assoluto e vomitava a giorni alterni. 

“Inoltre, mi sembra che questa convivenza non ti stia facendo alcun bene,” aggiunse Taneda, studiando il viso esausto del suo sottoposto. 

Ango aveva fatto dello stacanovismo il suo stile di vita. Il riposo gli era estraneo, come l’assenza di problematiche da risolvere. Nulla di tutto quello lo aveva preparato a prendersi cura di Dazai. 

“Dazai Osamu è una risorsa che non va sprecata, Direttore,” insistette Ango. 

“E hai già pensato a come impiegarla?” Domandò Taneda.

“Non appena sarà pronto a uscire allo scoperto, farò in modo che venga da lei.” Ango si aggiustò gli occhiali sul naso. “Se gli propone di lavorare per noi, rifiuterà.”

Taneda storse la bocca in una smorfia. “Questo fa crollare il suo valore, ragazzo mio.”

“Gli proponga di entrare nell’Agenzia Armata.”

Il Direttore lo fissò, basito. “Vuoi che metta l’erede mancato di Mori nella mani dell’ex agente che ha collaborato con lui?”

“Non è una questione che riguarda Mori,” chiarì Ango. Si tratta dell’ultima promessa fatta a un amico in fin di vita, ma questo non avrebbe mai potuto spiegarlo al suo superiore. “L’Agenzia si trova in una posizione in cui Dazai potrebbe sentirsi a suo agio.”

“E pensi che Fukuzawa saprebbe come gestirlo?”

Questo dovrebbe dirlo lei a me, Ango si morse la lingua e provò a elaborare la cosa da un’altra prospettiva. “Fukuzawa è un uomo che Dazai potrebbe rispettare,” disse. 

Taneda si concesse un minuto per rifletterci. “Hai solo pochi giorni per lavorare a questa tua proposta, Ango,” disse. “Dopodiché, saremo costretti a procedere secondo la legge.”




 

Prima di tornare a casa, Ango passò a fare la spesa - era finito il granchio in scatola e non poteva rischiare che Dazai saltasse la cena per due giorni di seguito - ma una volta varcata la soglia dell’appartamento, non trovò il suo ospite spiaggiato sul divano come suo solito. “Dazai?” Chiamò, mascherando l’ansia alla male e peggio.

“Sono in bagno,” rispose il diciottenne.

L’agente governativo lasciò andare un sospiro e procedette fino alla cucina, per mettere a posto quanto aveva comprato. Non fece caso a quanto tempo Dazai passò chiuso dentro al bagno. Quando udì qualcosa cadere a terra e rompersi, Ango scattò come se fosse esplosa una bomba.

Spalancò la porta senza alcun rispetto, spaventando Dazai, in piedi di fronte al lavandino. “Che ti prende?”

“Che stai facendo? Ho sentito un rumore.”

“Mi è caduto il bicchiere,” disse il diciottenne, indicando i frammenti di vetro sul pavimento chiaro.

Ango fece appello a tutta la sua pazienza. “Puoi evitare di farmi prendere un colpo?”

Dazai evitò di rispondergli a tono. “Metto a posto e ti raggiungo,” disse.

“Fai in fretta.”

Una volta seduti a tavola, il diciottenne lo prese di sorpresa una seconda volta. “Voglio parlare con il Direttore Taneda,” disse, addentando il primo granchio della serata.

Ango rimase con la forchetta sospesa a mezz’aria per un lasso di tempo ridicolo. Simulò un colpo di tosse e si ricompose. “Hai cambiato idea?” Domandò. “Diverrai un pentito al servizio del Governo?”

“No,” rispose Dazai. “Voglio fare qualcosa che mi permetta di salvare le persone.”

“Il Governo si occupa della protezione e del benessere dell’intero paese.”

“Il Governo ha più zone d’ombra della Port Mafia, non provare a negarlo,” lo zittì Dazai. “Fammi parlare con il Direttore e vediamo cosa ne esce fuori.”

Ango fece appello a tutta la sua pazienza e annuì. “Organizzerò un incontro.”

“Dovrà essere in un luogo pubblico.”

“Dazai, lascia fare a me.”

Il diciottenne lo inchiodò con lo sguardo. “Dovrà essere in un luogo pubblico,” ripeté.

Ango cedette. “E luogo pubblico sia.”

Cadde il silenzio. Ango continuò a mangiare e Dazai a fissarlo in silenzio. L’agente non riuscì a reggere la pressione di quegli occhi scuri per molto. “Che cosa c‘è?” Domandò.

“Quanto tempo ci vorrà?”

“Per cosa?”

“Per ripulirmi.”

Ango scrollò le spalle. “Non ho mai seguito la procedura personalmente,” ammise. “Prevedo che dovrai sparire dalla scena per un anno e mezzo, forse due. Per allora, avrai vent’anni e potrai cominciare una nuova vita.”

“E di quella vecchia che ne sarà?”

“Dipende da una serie di variabili.”

“Tipo?”

“Se ora uscissi in strada e chiedessi a una persona qualunque dove si trova Dazai Osamu, questa ti guarderebbe come se fossi un pazzo. Fai la stessa cosa con un agente governativo o con un membro della malavita, e otterrai una reazione completamente diversa. Ora, io lavoro per il Governo e questo esclude la prima categoria dalla lista della variabili problematiche, ma la Port Mafia? Mi hai detto di aver disubbidito a Mori e questo ti rende un traditore. Significa tutto o niente. Che cosa sei per loro?”

Dazai scrollò le spalle. “Nulla.”

“Non è possibile e lo sai,” ribatté Ango. “Mori non lascerà morire la questione e basta.”

“Mori mi ha lasciato uscire dalla porta principale, senza fare niente,” raccontò Dazai. “Nello specifico: mi ha detto che se fossi andato da Odasaku, non sarei più potuto tornare indietro e sappiamo entrambi com'è andata.”

Ango non riusciva a credere alle sue orecchie. “Tutto qui?”

“Mi ha fatto puntare due fucili addosso per fare scena.”

“Per fare scena?”

“Non mi avrebbe mai fatto niente. Mori ragiona per profitto e spararmi non gliene avrebbe portato alcuno.”

“Forse, ma libero e lontano da lui sei una minaccia che non può ignorare.”

“Non sono una minaccia,” ribatté Dazai, calmo. “Non ho intenzione di vendere la Port Mafia, ricordi?”

Ango alzò gli occhi al cielo, esasperato. “Perciò io devo credere che tu te ne sia, semplicemente, andato e che Mori non farà nulla a riguardo?”

Dazai usò la forchetta per giocare con il granchio nella scatoletta. “Mori sapeva benissimo quello che stava facendo,” disse. “Come sapeva quello che sarebbe successo dopo. Il mio tradimento non è stato un errore di calcolo, ma una fase del piano.”

Ango era più confuso di quanto lo fosse all’inizio di tutta quella storia. “Quale piano?”

Dazai scrollò le spalle. “Non lo so.”




 

Dazai Osamu se ne andò dall’appartamento di Sakaguchi Ango tre giorni più tardi, dopo aver accettato di entrare a far parte dell’Agenzia Armata di Detective di Fukuzawa Yukichi. 

Nella settimana successiva, l’ex Dirigente della Port Mafia fece saltare in aria l’auto di Nakahara Chuuya per semplice diletto. Quella fu l’ultima traccia del suo passaggio alla Port Mafia.

Il giorno dopo, Chuuya pretese e ottenne di avere un confronto con Ango. Il primo uscì da quell’incontro con la consapevolezza che il suo partner aveva abbandonato il mondo oscuro di Yokohama e non sarebbe più tornato.

Poche ore più tardi, Ango mantenne la sua promessa e portò Dazai alla tomba di Oda Sakunosuke.

Fu l’ultimo giorno in cui si videro.



 

A cinquantatré giorni dalla sconfitta della Mimic - non che Nakahara Chuuya tenesse il conto - tutta la Port Mafia era in fermento per il vuoto di potere lasciato dalla recente scomparsa di Dazai Osamu. Nessuno, a parte i piani alti, conosceva i retroscena dell’accaduto. Erano addirittura arrivati a vociferare che il Boss in persona ne fosse responsabile, ma il pettegolezzo aveva avuto vita breve. Vivo o morto che fosse, di Dazai Osamu non c’era più traccia.

Chuuya aveva perso il conto delle volte che aveva ingoiato la parola traditore a forza, per non dare dimostrazione di conoscere quella storia un po’ più di tutti gli altri. Lo stronzo non era scomparso, aveva voltato loro le spalle. Punto.

Peccato che le persone a sapere quella verità si potessero contare sulle dita di una mano sola.

Il Boss aveva già pensato nei dettagli a come arginare le problematiche causate da quell’assenza repentina. Ufficialmente, nessuno era stato ancora investito di alcun titolo. Alla squadra armata mancava un leader e una poltrona da Dirigente era tornata libera.

Due ragioni più che buone perché quelli dei piani di mezzo della Port Mafia arrivassero a calpestarsi a vicenda, anche fisicamente.

“Come reggi la pressione?” Hirotsu glielo domandò durante una loro serata al P.Pub, mentre dall’esterno arrivavano i tipici rumori di una rissa.

Chuuya guardò il suo calice di vino, pensando che non era abbastanza ubriaco per quella conversazione. “Comincio a pensare che il Boss non abbia ancora fatto annunci ufficiali perché spera che i peggiori si ammazzino a vicenda, liberando qualche voce dal suo libro paga.”

Hirotsu accennò un sorriso. “Probabile,” concordò. “Akutagawa?”

Chuuya scrollò le spalle. “Pallido e taciturno come sempre?”

“È una domanda?”

“Chiedilo a Gin, è sua sorella,” propose Chuuya. “Il fatto che sia il cucciolo abbandonato da Dazai non significa che passerò il resto dei miei giorni ad accompagnarlo al lavoro.”

“Potrebbe divenire il tuo nuovo partner, lo sai?”

“Ci ho pensato, ma no!” Esclamò Chuuya, sottolineando il suo disappunto sollevando il calice di vino. “Il Boss non mi giocherà un tiro mancino simile. Akutagawa avrà la squadra armata, io il posto da Dirigente - che non è nemmeno quello di Dazai, che non andrà a nessuno. Piuttosto, tu come vivi questa cosa di avere un sedicenne instabile per superiore?”

Chuuya non comprendeva Hirotsu: aveva l’esperienza e le facoltà giuste per sedere alla destra del Boss, eppure continuava a fare da baby-sitter ai piccoli mostri che Mori - o chi per lui - raccattava per strada.

“Dazai aveva quindici anni,” ricordò il veterano - a Chuuya parve di udire della nostalgia nella sua voce. “Conosco Ryuunosuke da quando ne aveva quattordici. È una storia che si ripete per me.”

Speriamo di no, pensò Chuuya. Le probabilità che Akutagawa Ryuunosuke si trasformasse nella brutta copia di Dazai erano scarse, ma non nulle. Se proprio doveva accadere il peggio, il diciottenne sperava che avvenisse il più lontano possibile da lui. Non ci sarebbero stati altri partner rompicoglioni nella sua vita, aveva preteso la parola del Boss a riguardo. Chuuya lavorava bene da solo. Punto.

“Tadashi ha perso!” Annunciò Kaji, tornando al posto che aveva lasciato vuoto, accanto al giovane dai capelli rossi. “Peccato.” Era uscito per assistere all’ennesima rissa della settimana e ora tornava col risultato, manco avesse assistito a una competizione sportiva di qualche tipo.

Chuuya sbuffò. “Qualcuno li ha avvisati che non è un torneo di boxe? L’ultimo a rimanere in piedi non riceverà il titolo di Dirigente a mo di trofeo!”

Hirotsu scrollò le spalle. “Lasciamoli divertire.”

“Divertire? Si stanno massacrando. Se un nemico ci attaccasse ora, avremmo solo catorci umani da mandargli contro!” Ribatté Chuuya.

“E le mie bombe!” Aggiunse Kaji con entusiasmo.

Il rosso gli lanciò un’occhiata piena di pietà. “Non so che divinità pregare per avere la pazienza giusta. Ma al Boss cosa è saltato in mente?”

Hirotsu gli diede una pacca sulla spalla. “Mori sa quello che fa,” disse. “Per quanto vale, sono certo che abbia fatto la scelta giusta. Una volta che la tua promozione diverrà ufficiale, saprai cosa fare. Tu conosci la lealtà, Chuuya. Non avrai bisogno di farti temere dai tuoi uomini, saranno loro a stimare te.”

Simili parole dal leader della Black Lizard colpirono Chuuya in un punto debole che non sapeva di avere. Hirotsu era sempre stato cordiale con lui e non aveva mai fatto nulla per farlo sentire meno di quell’altro. Ma non era un mistero che Dazai fosse il suo preferito.

“Grazie…” Mormorò, incerto.

“Non ringraziare,” disse Hirotsu, con tono di rimprovero. “Non tentennare. Testa alta e voce sicura. Sempre.”

Come un soldato richiamato all’ordine, Chuuya drizzò la schiena e annuì.

Kaji scivolò verso di lui, appoggiando la testa alla sua spalla. “E mi permetterai di sviluppare le mie ricerche, vero?”

Chuuya lo allontanò con una gomitata. “E levati!” Tornò a concentrarsi sul suo calice di vino: voleva sentire la testa un po’ più leggera, prima di tornare a casa e mettersi a dormire. Il cellulare prese a vibrare nella tasca dei jeans, rovinandogli il momento.

Sbuffò sonoramente. Per un attimo, pensò di annegare quell’aggeggio infernale nel cocktail di Kaji e farlo tacere. Stava per prendere seriamente in considerazione l’idea - poteva permettersi un telefono nuovo al giorno, non sarebbe stata una gran perdita - quando lesse il nome sul display.

Occupato a delirare sui suoi progetti, Kaji non si accorse che l’amico al suo fianco aveva smesso di respirare. Hirotsu fu più attento. “Chuuya, tutto bene?” Gli strinse la spalla.

Il diciottenne trasalì e per poco non buttò il calice a terra.

Il display del cellulare si spense.

Colpito dalla reazione esagerata dell’amico, anche Kaji smise di parlare da solo. “Che ti prende, Chuuya?”

“Niente.” Chuuya ingurgitò quello che era rimasto del suo vino e si alzò in piedi. “Devo andare,” buttò sul bancone del pub le banconote che aveva in tasca. “Pagate voi per me e dite di tenere il resto come mancia.”

Li salutò con un gesto veloce della mano, senza guardarli negli occhi. Una volta fuori dalla porta, l’aria fredda del porto lo costrinse a fermarsi e tirare su la zip del giubbotto. Metà dei tavolini e delle sedie all’esterno del locale erano finiti sottosopra a causa della rissa appena conclusasi. I due rivali e i loro amici erano ancora lì - gli uni a festeggiare il vincitore e gli altri a cercare di rimettere in piedi il perdente - Chuuya li superò senza degnarli di uno sguardo. Tra le sue dita, il cellulare riprese a vibrare. Guardò il display solo dopo aver raggiunto il retro del pub, dove aveva parcheggiato la moto. Chuuya lesse e rilesse il nome sul piccolo schermo, fino a che le lettere smisero di avere senso.

Sgombro.

Il diciottenne ingoiò aria, combattendo l’istinto di gettare il cellulare a terra a ridurlo in mille pezzi. Non poteva essere lui. Ango era stato molto chiaro nello spiegargli la nuova posizione dello stronzo. Dazai Osamu era morto per tutti loro, non apparteneva più alla Port Mafia e non si poteva tornare indietro.

Eppure, il cellulare tra le sue dita vibrava come una bomba sul punto di esplodere.

Chuuya aveva due possibilità: lanciarla via ed evitare lo scoppio, oppure lasciarsi di saltare in aria. 

Ricacciò indietro l’urlo che bruciava in fondo alla sua gola. 

Premette il cerchio verde sul display e si portò il cellulare all’orecchio. “Tu, miserabile bastardo,” sibilò. La rabbia accumulata in cinquantatré giorni esplose tutta insieme, rendendogli difficile pronunciare una frase di senso compiuto. “Tu… Tu…”

“Chuuya…” Un singhiozzo.

Il giovane dai capelli rossi gelò. “Da-Dazai?” 

“Chuuya, ti prego…”

Chuuya non era sicuro se stesse piangendo, ma di certo aveva bisogno di aiuto. “Dazai, dove sei?” Domandò, cercando le chiavi della moto con la mano libera. “Dazai, dimmi dove ti trovi. Ti vengo a prendere.”

Avrebbe pensato poi a spaccargli la faccia come meritava.

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Capitolo 2
*** II ***


II

 

La posizione inviatagli da Dazai lo condusse in una zona residenziale di periferia, di quelle in cui il palazzo più alto raggiungeva i quattro piani e tutte le macchine parcheggiate erano ricoperte di bozze - quando andava bene - con gli specchietti tenuti insieme dal nastro adesivo. Chuuya lasciò la moto nel vicolo in cui Google Maps lo condusse. La scala antincendio accanto ai cassonetti stracolmi era l’unica cosa che assomigliasse vagamente all’ingresso di un’abitazione. “Dazai!” Chiamò, salendo i gradini due a due. “Dazai!” Due rampe e si ritrovò su un pianerottolo - una griglia di metallo incastrata contro il muro - con un portone d’ingresso che sembrava fatto di cartapesta. Non c’era alcun nome sul campanello - privo di pulsante, tra l’altro.

“Dazai!” Chuuya batté sulla porta. Nessuno gli rispose, ma era certo che quello fosse il posto giusto. “Dazai!” Sfondò l’ingresso con un calcio, non dovette nemmeno impegnarsi per riuscirci. “Dazai!” 

L’appartamento era buio e, nonostante fosse quasi maggio, si congelava. 

“Chuuya…”

Il malavitoso fece un passo in avanti e andò a sbattere contro lo spigolo di un tavolo da pranzo. “Ma chi diavolo l’ha messo in mezzo ai piedi?” Imprecò. “Dazai, dove cazzo sei?”

Una lampadina dalla luce cimiteriale si accese al centro del soffitto scrostato. Dazai era seduto sul pavimento, tra il divano e quella che doveva essere la porta del bagno, con la schiena premuta contro la parete e il braccio sollevato sull’interruttore.

“Ohi!” Chuuya lasciò cadere il casco a terra, correndo al suo fianco. “Che ti è successo?” Le domande gli uscirono di bocca una dopo l’altra. “Che diavolo ci fai qui? E perchè-”

Dazai gli premette la mano contro la bocca e lo zittì.

Chuuya si accorse solo allora che non aveva addosso alcun bendaggio, che era pallido in modo allarmante e tremava. “Hai preso qualche schifezza delle tue?” Domandò Chuuya, cercando con gli occhi tracce di qualche sostanza velenosa.

Dazai scosse la testa debolmente.

“Ehi!” Chuuya gli afferrò il mento. “Non provare a perdere i sensi adesso, prima devi-” Le parole gli morirono in gola come vide il sangue sui pantaloni dell’altro. “Che cazzo hai fatto?” Domandò orripilato, scuotendolo per mantenerlo cosciente. “Dazai, parlami!”

Il rumore di una sicura che veniva disinserita trasformò Chuuya in un nervo pronto a scattare. Lo stato di allerta durò poco, il tempo di accorgersi che il nuovo arrivato altri non era che Sakaguchi Ango. Chuuya non sapeva cosa fosse più stupido, se la sua espressione minacciosa o il modo in cui gli puntava quella pistola addosso. 

Sbuffò. “Rilassati, quattrocchi, sono io!” Esclamò, portandosi un braccio dell’ex partner intorno al collo. “Vieni qui, dammi una mano.”

Intuendo che stava per essere spostato, Dazai si animò di colpo, divincolandosi. “No!” Scosse la testa. “No, non posso!”

“Dazai, non fare lo stupido!” Chuuya lo costrinse a guardarlo negli occhi. “Stai perdendo sangue e se rimani qui, non posso aiutarti. Lo capisci?”

“Ma che cosa gli è successo?” Domandò Ango, in netto ritardo sugli eventi, riponendo la pistola.

“Dillo tu a me, quattrocchi!” Lo aggredì Chuuya. “È sotto la tua protezione o sbaglio?”

Ango appoggiò un ginocchio a terra e valutò velocemente la situazione. “Dazai, che hai combinato?”

Il diretto interessato si limitò a scuotere la testa e a delirare una serie di no, tra un singhiozzo e l’altro.

“Non può risponderti,” disse Chuuya. “È sotto shock, non lo vedi? Aiutami a sollevarlo.”

Nonostante le proteste di Dazai, riuscirono nell’impresa.

“Ho la macchina qui sotto, nel vicolo,” disse Ango. “Serve un medico. Lo portiamo in ospedale.”

“No,” obiettò debolmente Dazai. “Non in ospedale.”

“Puoi evitare di farlo agitare, prima di arrivare in macchina?” Chuuya ringhiò contro l’agente governativo. Era già faticoso tentare di scendere quelle scale senza scivolare e Dazai, che collaborava come un sacco di patate, non faceva nulla per rendere le cose più semplici.

Ango aprì la portiera del sedile posteriore. “Fallo stendere e stai con lui.”
Nelle manovre per mettere comodo Dazai, Chuuya trovò il modo di mostrare all’agente il dito medio. “Non darmi ordini!” Ribatté, poi aiutò il partner a poggiare la testa sulle sue gambe. “Al volante, quattrocchi. Veloce!”

Ango si morse la lingua, ben consapevole che cominciare una discussione con Nakahara Chuuya non li avrebbe portati da nessuna parte. “Dove andiamo?” Domandò, mettendo in moto il veicolo.

“Un ospedale pubblico è fuori discussione,” disse Chuuya, cercando d’ignorare la disperazione con cui Dazai si aggrappava al suo braccio.

“Questo lo so benissimo!” Esclamò Ango, immettendosi sulla strada. 

“Ehi, quattrocchi, sei addestrato per gestire situazioni da panico, no? Bene, non sei di alcun aiuto, se il panico prende a te!”

“Ci sono delle cliniche private che collaborano col Govern-”

“No!” Si oppose Dazai, con forza. “Non ci voglio andare!”

“Non ci vuole andare, quattrocchi,” lo appoggiò Chuuya.

Ango si chiese che cosa avesse l’universo contro di lui: Dazai era già difficile da gestire in una situazione normale, ferito e in stato di shock era una vera tragedia; e come se non bastasse, l’altra metà del Duo Nero aveva fatto il suo ingresso in scena appena in tempo per peggiorare la situazione. “Va bene!” Esclamò, esasperato. “Da questo momento in poi, sto agendo come un civile qualunque!”

Chuuya inarcò le sopracciglia. “E questo cosa vorrebbe dire?”

“Che farò qualsiasi cosa tu mi dica di fare,” disse Ango, con voce dolente. “Decidi tu come è meglio agire, ma decidilo in fretta perché Dazai ha bisogno di aiuto!”

Sul momento, Chuuya riuscì solo a pensare a quel calice di vino che non si era goduto fino in fondo e in cui aveva pensato di annegare tutti i suoi turbamenti da futuro Dirigente. Ora, con Dazai aggrappato a lui in preda al dolore, tutto il resto gli sembrava infinitamente superfluo. Prese il cellulare dalla tasca con la mancina e cercò in rubrica il numero dell’unica persona che poteva aiutarli. 

Dazai dovette intuire chi stava per chiamare, perché gli tirò il braccio per fermarlo. Ridotto com’era, Chuuya non trovò la forza di urlargli contro. “Non c’è altro modo,” disse, con voce inaspettatamente gentile. “E lo sai anche tu.”

Il giovane dai capelli rossi lesse la resa negli occhi scuri di Dazai e premette il tasto di chiamata. Seguirono tre squilli.

“Boss, sono io,” disse Chuuya. “Si tratta di Dazai…”





 

La clinica in cui Mori Ougai aveva cominciato la sua carriera da malavitoso si trovava nel cuore dei quartieri bassi di Yokohama. Per chi, come Chuuya, era cresciuto a faccia a faccia con la morte - in ogni sua forma - quella poteva quasi essere una ridente località in cui abitare - le case in cemento erano già un bel passo in avanti rispetto alla baraccopoli di Suribachi. 

Per la macchina perfetta di Ango era il posto peggiore in cui transitare. Se profilo basso era la parola chiave per uscire indenne da quelle strade, non stavano facendo un granché per la loro incolumità.

“Certo che recarsi nel rifugio di un pentito con un’auto del genere…” Commentò Chuuya, con una smorfia. Dazai era ancora sveglio ma calmo. Forse il dolore - da qualunque punto provenisse - si era un po’ quietato.

“Ero in ufficio,” si giustificò Ango. “Ho preso il primo mezzo di cui avevo le chiavi. Mi sono spaventato.”

“Oh, adesso ti spaventi!” Esclamò Chuuya. “Dovevi avere paura quando eri alla Port Mafia a fare la spia del cazzo!”

Nell’istante di pura esasperazione che seguì, Ango pensò di dirgli che Mori non era caduto nell’inganno per molto tempo, ma che lo aveva assecondato per arrivare a un guadagno maggiore del rischio. Non lo fece perché sapeva che Chuuya non lo avrebbe ascoltato: se la prendeva con lui perché elaborare il ritorno di Dazai nella sua vita era troppo difficile, specie quando quest’ultimo versava in uno stato delicato che nessuno dei due comprendeva.

“Chuuya, andrà tutto bene,” disse, un po’ per rassicurare anche se stesso e Dazai. 

Nessuno dei due diciottenni gli rispose.





 

Quando la macchina si fermò, Dazai sobbalzò come se fosse stato strappato dal sonno. Era certo di non aver perso i sensi. Si era aggrappato a Chuuya ed era stato attento a non chiudere gli occhi nemmeno per sbaglio. Per esperienza, sapeva che se non fosse rimasto vigile, sarebbero successe cose brutte e non poteva permetterlo. 

Quando Chuuya lo depositò sul sedile per scendere dall’auto, seppe di non essere pronto a quello che stava per succedere. La portiera si aprì di nuovo, la luce di un lampione gli ferì gli occhi e quando due mani estranee lo aiutarono a uscire dall’auto, le assecondò e basta. Una volta in piedi - anche se non sapeva se le gambe lo avrebbero retto a lungo - guardò in faccia chi aveva davanti. 

Sul viso di Mori non vi era nessuna espressione in particolare. Con quei capelli in disordine e i vestiti messi addosso alla male e peggio, non assomigliava al Boss che la Port Mafia conosceva, ma al medico che Dazai aveva incontrato a quattordici anni.

Fu l’uomo a spezzare il silenzio: “riesci a camminare?”

A Dazai servì un istante per riuscire a rispondere. “Non lo so.”

Il Boss della Port Mafia si rivolse a Chuuya. “Aiutami a portarlo dentro. Ango, ti facciamo strada.”

Quel teatrino aveva del ridicolo. Delle quattro persone coinvolte, tutte avevano una buona ragione per piantare una pallottola in testa ad almeno uno dei presenti. La condizione in cui versava Dazai aveva la precedenza su ogni rancore.

Una volta disteso sul lettino operatorio, il diciottenne non seppe decidere se il peggio era passato o stava per iniziare. Mori accese una luce bianca sopra la sua testa e fu impossibile non notare le macchie di sangue sui suoi pantaloni.

Si scambiarono uno sguardo.

No, si disse Dazai. La parte difficile comincia ora.

“Dove senti dolore?” Domandò Mori.

“Non lo sento più,” rispose Dazai. Gli venne il dubbio che non fosse affatto una buona cosa, ma non era nella posizione giusta per lasciarsi prendere dal panico.

“Ti sei fatto del male da solo, come tuo solito?” Ringhiò Chuuya. “Rispondi, stronzo!” Ora che nessuno sembrava in fin di vita, si sentiva giustificato a buttare fuori tutta la rabbia. Ango, da parte sua, si guardò bene dall'intervenire in alcun modo e si ritagliò un angolo buio da cui osservare la scena.

“Chuuya, rallenta,” disse Mori. Il tono era gentile ma ciò non cambiava la natura dell’ordine. “Dazai,” guardò il diretto interessato dritto negli occhi. “Posso andare per ipotesi e perdere tempo, oppure puoi cominciare a parlare. A te la scelta.”

Chuuya alzò gli occhi al cielo, certo che sarebbe arrivata l’alba, prima che una risposta uscisse dalla bocca dello stronzo.

Dazai lo sorprese. “Quattro settimane fa, ho fatto un test,” disse, abbastanza lentamente da non doversi ripetere. “Era positivo.”

Chuuya inarcò le sopracciglia: quelle parole non avevano alcun senso. Fece per dire qualcosa di poco cortese sull’incapacità di esprimersi di Dazai, poi notò che il viso del Boss si era turbato al punto da essere livido e le parole gli morirono in gola. Cercò gli occhi di Ango e lo trovò che versava nella medesima situazione. 

Chuuya era l’unico a non aver capito quello che stava succedendo. “Qualcuno mi vuole spiegare?”

“Tutti fuori,” ordinò Mori, come se non lo avesse udito.

Istintivamente, Chuuya si mosse verso la porta, ma Ango non lo seguì.

Mori non fu comprensivo di fronte a quell’esitazione. “Vogliamo dare a questo ragazzino un po’ di privacy o vogliamo restare a guardare mentre si dissangua?”

La situazione non era così grave, persino Chuuya poteva intuirlo. Ango non fece nulla per nascondere l’astio sul suo viso, ma fece come gli era stato detto. 

Una volta soli, Mori si rivolse a Dazai. “Tu non ti fidi di me.” Non era una domanda. “Non ti biasimo. Ma per il tuo bene e - sempre ammesso che t’interessi - non solo quello, devi dirmi che cosa vuoi che faccia.”

Dazai non esitò un istante. “Tutto quello che è in tuo potere…”




 

“Mi vuoi parlare?” 

Fuori dalla clinica, a Chuuya non importava nulla di essere sentito dall’intera Yokohama. Odiava quando i cervelloni intorno a lui intuivano una situazione, lasciandolo nel buio. Era quel genere di superiorità che poteva riconoscere nel Boss senza problema, ma se ci si mettevano anche Ango e Dazai, non poteva stare zitto a fare la figura dell’idiota.

Peccato che Ango, lungi dal poter godere della sua beata ignoranza, fosse precipitato in uno stato di shock peggiore di quello di Dazai. “Quattro settimane fa,” pensò ad alzata voce. “Era a casa mia, quattro settimane fa.”

Chuuya alzò gli occhi al cielo. “Se ti stai chiedendo come è riuscito a fartela sotto il naso, sappi che ha un talento naturale. Non starci a perdere troppo tempo.” 

L’agente governativo si appoggiò al muro ricoperto di graffiti. “Risale a prima della Mimic,” si disse, “ma chi-?”

“Quattrocchi, stai parlando da solo!” Gli fece notare Chuuya, a tanto così dal spaccargli il naso e gli occhiali che c’erano poggiati sopra. “Di che test stava parlando lo Sgombro?” Domandò. “Perché siete tutti andati nel panico nel momento in cui ha detto che era positivo?”

Ango lo guardò come se si fosse ricordato della sua presenza solo in quel momento. “Oh, sì, Chuuya…”

“Sei completamente scemo? Sono sempre stato qui!”

“Io… Io…” Ango fissava un punto nel vuoto. “Io non so come spiegartelo.”

La porta della clinica si aprì, Mori si affacciò e fece a entrambi cenno di entrare.





 

Dazai si era cambiato in una tuta grigia, con una felpa troppo grossa per lui.

In un remoto angolo del suo cuore, Chuuya era felice di vedere che sedeva su quel lettino con le ginocchia piegate e non giaceva inerme, sul punto di morte.

“Dazai…” Ango lo chiamò per nome e fece per toccarlo, ma uno sguardo tagliente da parte del diciottenne lo persuase a ritrarre la mano. Sconfitto, tornò a nascondersi nel suo angolo buio.

Chuuya si guardò bene dal commettere lo stesso errore. “Si può sapere che cos’ha?” Si rivolse direttamente a Mori, che trafficava in tranquillità con alcuni dispositivi medici sul carrello operatorio, quasi volesse tirarsi fuori dalla conversazione. 

In quel momento, Chuuya seppe che se fosse tornato a casa senza radere al suolo nulla, avrebbe segnato quella data sul calendario col promemoria: giorno miracolato.

Contò fino a dieci, prima di parlare di nuovo. “Boss, con tutto il rispetto-“

“Deve parlartene Dazai, se ne ha desiderio, non io,” lo interruppe Mori, cercando qualcosa in degli scatoloni gettati in un angolo. Il giovane dai capelli rossi ebbe la netta sensazione che lo stesse facendo apposta, ma non poteva scagliarsi contro il Boss della Port Mafia. Diversa era la posizione dello stronzetto, che si stava impegnando a evitare lo sguardo di tutti i presenti. Fosse stato per Chuuya, sarebbero andati avanti a suon di urla e pugni fino a che uno dei due non avesse dichiarato la resa - ma era sempre il rosso a fare un passo indietro, per paura di esagerare. 

Dazai però era l’ombra di se stesso e a Chuuya dava tremendamente fastidio.

“Ehi, Sgombro," lo chiamò, arrivando accanto al lettino. “Ho buttato via un buon calice di vino per colpa tua, puoi almeno dirmi se è stato per una buona ragione?”

Nessuno lo sapeva - forse solo Mori e Kouyou - ma il Duo Nero non era fatto solo di litigi e rancore reciproco. Su Yokohama non poteva tramontare il sole, prima che Dazai avesse fatto a Chuuya qualche dispetto - come fargli esplodere la macchina - ma lo stesso concetto di Duo Nero, che li aveva fatti finire sulla bocca di tutta la malavita - e non solo - non avrebbe avuto ragione di esistere se tra quei due non ci fosse stato qualcosa di più

Mori ci aveva visto lungo, o aveva giocato d’azzardo e aveva avuto fortuna - se sottoposto alla questione, non avrebbe saputo rispondere con certezza nemmeno lui. I cuccioli di cane imparano a diventare grandi giocando alla lotta. Era un po’ così anche per Chuuya e Dazai.

Forse perché non gli aveva urlato addosso, forse perché lo aveva chiamato col suo soprannome - scelto da Chuuya, usato solo da Chuuya - l’espressione di Dazai si ammorbidì e quegli occhi scuri smisero di essere due pozzi vuoti. “Aspetto un bambino,” confessò.

Chuuya sbatté le palpebre un paio di volte - forse anche quattro o cinque - prima di riuscire ad aprire bocca. Non disse assolutamente nulla, rimase così, come un pesce fuor d’acqua che boccheggia per respirare.

Alle sue spalle, Ango duellò con se stesso, indeciso se andare in soccorso del più giovane o aspettare che Dazai aggiungesse qualcosa.

Toccò a Mori coprire il silenzio per tutti. “Secondo quanto mi ha detto Dazai e i miei calcoli approssimativi, il feto dovrebbe essere di dieci o undici settimane.”

Era tanto, oppure poco? Chuuya non si era mai posto il problema d’imparare a contare l’età gestazionale. Non ne aveva mai trovato l’utilità. Come suo solito, Dazai lo stava facendo sentire in torto. “E quanti mesi sarebbero?” Domandò, curioso.

“Metà del terzo,” rispose Mori.

“Ah…” Chuuya annuì, come se quella storia avesse anche solo un briciolo di senso. Poi ricordò il motivo che li aveva condotti tutti lì. “Stava sanguinando!” Esclamò. 

Mori si portò dalla parte opposta del lettino. “Niente panico,” lo rassicurò con un sorriso. “Il collo dell’utero è chiuso e questo mi fan ben sperare, ma per avere delle risposte certe ho bisogno di un ecografo.”

“E dove sta?” Domandò Chuuya, con urgenza.

“Da qualche parte in questo casino,” rispose Mori, allargando le braccia per indicare tutto lo spazio intorno a sé. “Ma non abbiamo fretta.”

Chuuya strabuzzò gli occhi, come a chiedergli se fosse del tutto impazzito.

"L'emorragia si è fermata da sola,” disse Mori. “Se si trattasse di un aborto spontaneo, il quadro clinico sarebbe molto diverso. Certo, potrebbe esserci un distacco o potrei non trovare nulla.”

“Andiamo a cercare questo ecografo e verifichiamolo.” Chuuya era infastidito dalla tranquillità con cui il Boss affrontava la cosa, e il silenzio assoluto di Dazai non faceva che peggiorare le cose. Decise che più tardi si sarebbe sfogato sul quattrocchi.

“Ango,” chiamò Mori, reclinando la testa da un lato per vedere meglio l’agente governativo rintanato nell’angolo. “Permetti due parole?”

“Oh, sì!” Rispose Chuuya per lui. “Facciamo due parole. Ne abbiamo tutti un gran bisogno!” Passava il peso del corpo da un piede all’altro con nervosismo. 

Mori lo conosceva, sapeva che non avrebbe mantenuto la calma ancora a lungo. “Dazai, vai nella tua vecchia stanza. Sarà un tripudio di polvere, ma prova a stenderti a letto. Quando ti sveglierai, parleremo del da farsi.”





 

Non appena Mori chiuse la porta del suo studio, Chuuya esplose: “che cazzo sta succedendo qui?!”

Conscio della drammaticità della situazione, il Boss se la rise, sedendosi sulla sua vecchia poltrona. “Il tuo autocontrollo mi stava preoccupando più delle condizioni di Dazai. Vi farei sedere,” indicò la stanza ridotta peggio di un magazzino di oggetti abbandonati, “ma temo che siano passati i giorni in cui questo posto era accogliente.”

Non era un gran danno: Chuuya non la smetteva di camminare avanti e indietro e Ango sembrava non avere alcuna intenzione di allontanarsi dalla porta chiusa.

Confidando che fosse più ragionevole del diciottenne, Mori decise di occuparsi per primo dell’agente. “Ango, sul serio, smettila di comportarti come se fossi un ostaggio di guerra. Nessuno ti pianterà una pallottola in testa, non qui. Questa clinica è sempre stata zona franca e ci tengo che lo rimanga.”

Ango rimase un pezzo di marmo, ma almeno trovò il coraggio di parlare. “Come intende procedere?”

Mori scrollò le spalle. “Non spetta a me deciderlo,” rispose, “ma a Dazai. Piuttosto, tu che intenzioni hai?”

Chuuya smise di vagare come una trottola impazzita per fissare il quattrocchi. “Ha detto di star agendo come un civile qualunque.”

“Molto carino da parte sua,” commentò Mori, sarcastico. “Ma penso che Ango abbia intuito che la questione non si risolverà entro domani. Dovrà rendere conto ai suoi superiori, prima o poi.”

Ango non ebbe il tempo di replicare, che Chuuya lo usò di nuovo come capro espiatorio per il suo malanimo. “Non provare nemmeno a pensare di riportare Dazai in quel buco in cui l’ho trovato!” Lo aggredì. 

Ango provò a ribattere: “è sotto la mia-“

“Sei completamente incapace di gestirlo!” Lo zittì Chuuya. “Quello che è accaduto stanotte ne è la prova!”

“Non sapevo che aspettasse un bambino!”

“E questo non gioca affatto a tuo favore!”

Riflettendo a mente fredda, Mori non se la sentiva di biasimare Ango per la sua distrazione. Di recente, aveva imparato quanto Dazai fosse bravo a nascondere se stesso pur rimanendo sotto gli occhi di tutti. Chuuya era solo arrabbiato, travolto dal ritorno del suo partner e non poteva pretendere lucidità da lui. 

“Chi altri si occupa del caso di Dazai?” Domandò Mori, rivolgendosi all’agente.

“Solo io,” rispose Ango.

Il Boss della Port Mafia lo fissò molto attentamente. “Sei intelligente, Ango, mi auguro che tu abbia compreso che mentirmi non può portare nulla di buono.”

“Ci sono solo io,” ripeté Ango. “Nessuno voleva il caso.”

Chuuya fece una smorfia. “Chissà perché?”

“E cosa intendi fare?” Indagò Mori. “Prima che tu faccia qualche proposta: Dazai non si muove di qui.”

Chuuya sorrise soddisfatto.

Ango però voleva più garanzie. “Me lo sta dicendo da Boss o da medico?”

Mori sapeva essere paziente, ma Chuuya non era il solo a essere stato travolto dagli eventi e dover rendere conto a quel ragazzino del Governo cominciava a dargli sui nervi. “Dazai rimane qui,” ripeté. “Puoi cominciare una guerra - che combatterai da solo - oppure puoi provare a fidarti di noi.”

Ango ingoiò a vuoto. “Sono certo che lei capisca la mia difficoltà.”

“Allora abbi fiducia in Dazai,” disse Mori. "Immagino che il Governo abbia delle cliniche più presentabili di questa, eppure sento che non ci è voluto andare. Ha chiamato Chuuya per avere aiuto e sapeva benissimo come sarebbe andata a finire. Si è sentito più al sicuro a tornare da chi ha tradito, piuttosto che fidarsi dei suoi nuovi alleati.”

Ango strinse i pugni e prese atto di quella sconfitta in dignitoso silenzio. “Di fatto, sono con le spalle al muro.”

“Non ti ci ho messo io, ma Dazai,” sottolineò Mori. “Dunque, che cosa conti di fare?”

Ango fu veloce a formulare una risposta: “se Dazai collabora con me, posso insabbiare ogni cosa e stilare dei rapporti fittizi. Nessuno indagherà.”

Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso sinistro. “Sfrutti la fiducia dei tuoi superiori a tuo comodo. Gli anni che hai passato alla Port Mafia ti hanno fatto bene.”

L’agente governativo ingoiò la vergogna che provava per se stesso e non rispose. 

“Molto bene!” Mori si alzò in piedi. “Ci sono un sacco di cose da fare. Chuuya, fatti aiutare da Ango a risolvere alcune questioni di tipo pratico: servono vestiti per Dazai, varie ed eventuali prodotti di pulizia per rendere vivibile questo posto e qualcosa di alcolico.”

Chuuya annuì distrattamente, poi si bloccò. “Qualcosa di alcolico?” 

Mori sorrise, serafico. “Dobbiamo festeggiare il lieto evento, no?” Era certo che nei mesi a venire avrebbero tutti avuto bisogno di una sbornia terapeutica - tranne Dazai. “Voi andate e, mi raccomando, non litigate. Io mi assicuro che Dazai si sia messo comodo e vedo di trovare questo ecografo.”

I due giovani ci misero cinque minuti buoni a uscire dallo studio - tra Chuuya che continuava a insultare Ango e l’agente che si sforzava di rimanere cortese. Non appena la porta si richiuse, il sorriso scivolò via dal viso di Mori. Era solo, poteva calare la maschera. Tornò a sedersi, si coprì gli occhi con una mano e lasciò andare un sospiro. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, non avrebbe riconosciuto il Boss della Port Mafia, ma avrebbe visto solo un uomo curvo e stanco.

Invidiava Chuuya per la sua giovane età, che giustificava il modo impulsivo - forse distruttivo - in cui viveva le emozioni. Sperava che Dazai riuscisse a fare lo stesso, gli avrebbe fatto bene. 

Mori non poteva permetterselo. Serviva un adulto per gestire quella situazione e c’era solo lui lì. Diviso tra il prendere a pugni il muro e piantare una pallottola in testa a qualcuno - possibilmente con le fattezze di Oda Sakunosuke - Mori recuperò il cellulare e, incurante della tarda ora, chiamò l’unica persona che aveva la sua completa fiducia. 

Rispose dopo appena due squilli.

“Ciao, sono io. No, Chuuya sta bene… Più o meno…” Raccontare tutto al telefono non era fattibile, ma a Mori serviva che comprendesse al volo la gravità della situazione. “Dazai è tornato.”





 

Contro ogni aspettativa di Ango, Chuuya non disse una parola per tutto il tragitto in auto. Si fermarono a un 24h fuori zona - era meglio non vagare troppo nei quartieri della malavita - e l’agente riempì il cestino di prodotti per la pulizia con etichette che recitavano ”pulito e igienizzato in una sola passata” e varianti dello stesso concetto. Poteva anche svaligiare il reparto ma, a giudicare dallo stato di abbandonato in cui versava la clinica, sarebbero tornati a fare scorte in breve tempo.

Chuuya si occupò dei vestiti, prese quel che trovò - essenzialmente tute e felpe - seguendo come unico criterio estetico la sobrietà. Tutto ciò che lui non avrebbe mai indossato, nemmeno per vegetare in casa, era perfetto per lo Sgombro.

“Domani andrò a prendere anche la valigia di vestiti che gli avevo procurato io,” disse Ango, mentre si dirigevano verso la cassa. Se Chuuya lo udì, non si disturbò a rispondergli. Fu quest’ultimo a pagare - in contanti - e in meno di mezz’ora furono di nuovo in auto.

Il diciottenne non diede segni di squilibrio neanche allora. Ango si ritrovò a dare ragione a Mori: un Chuuya silenzioso era motivo di preoccupazione. L’agente era sicuro che si stesse scatenando l’inferno in quella testa di capelli rossi, ma non ne mostrava alcun segno. Certo che se ne sarebbe pentito nel giro di un paio di battute, Ango provò a intavolare un discorso. “Hai capito che cosa sta succedendo, Chuuya?”

Il diciottenne lo guardò come se fosse la forma di vita più bassa sul pianeta. “Hai capito che non mi devi rompere i coglioni?”

“Sento i tuoi pensieri fino a qui.” Ango tentò di essere cortese. Sapeva che Mori era inarrivabile. Chuuya era più simile a un suo pari e lo conosceva. Non c’era mai stata amicizia tra loro, ma collaborazione sì e, nonostante le loro personalità fossero completamente incompatibili, avevano sempre portato a termine il lavoro. 

Se c’era qualcuno che potesse essere alleato di Ango, quello era Chuuya.

“Oh, sei anche telepatico?” Domandò il rosso, con sarcasmo.

“Chuuya, parliamoci con onestà.” Ango aveva messo da parte la professionalità e tutto ciò che essa comportava. Quella storia lo toccava personalmente e poteva essere affrontata solo di petto. “A Dazai siamo rimasti solo io e te.”

“Dazai non ha me!” Esclamò Chuuya, incrociando le braccia contro il petto. “Tu fatti pure trattare da scendiletto, se vuoi!”

“Quando lo hai sentito piangere al telefono, sei corso da lui,” gli fece notare Ango.

“Non stava piangendo. Dazai non piange, stava solo singhiozzando."

“Chuuya…”

“Oh, Ango, che cazzo vuoi da me?” Chuuya era esasperato. I pensieri s’impilavano l’uno sull’altro senza sosta e tra poco la testa gli sarebbe esplosa. Dazai era tornato, lo stesso Dazai che aveva voltato le spalle a tutti per un certo Oda Sakunosuke. Dazai era un traditore ma, vinto dal terrore, aveva chiamato lui per chiedere aiuto. Dazai, che ora aspettava un bambino da quell’amante di cui nessuno si era accorto. Fu proprio su quel dettaglio che Chuuya decise di battere. “Visto che aveva cara la vita meno di Dazai, quel tuo amico, Oda, poteva risparmiarci il disturbo di lasciare un figlio in giro!”

La macchina inchiodò. Chuuya, che era senza cintura, si ritrovò con la faccia contro il cruscotto. Non si fece troppo male, ma rimase immobile, in attesa dell’urto. 

Ecco, benissimo, Dazai stava compiendo l’insano gesto di diventare genitore e Chuuya si sarebbe perso il disastro perché un quattrocchi - di merda - del Governo non sapeva guidare. 

Finite le imprecazioni, Chuuya realizzò che non era accaduto nulla. La prima cosa che fece fu guardare dietro, ma non vide nessuna auto nel lunotto posteriore. Ringraziò l’ora ingrata per la strada deserta. 

Quando sollevò gli occhi azzurri su Ango, lo trovò che stringeva spasmodicamente il volante, la sua mandibola sembrava stesse per sganciarsi dal resto della testa e il suo sguardo era fisso nel vuoto. Per un attimo, Chuuya pensò che gli fosse preso un embolo al cervello o qualcosa di simile. Meditò di tirargli un pugno per assicurarsi che fosse ancora vivo, poi realizzò con che tempismo l’agente aveva premuto il piede sul freno.

Toccò alla mandibola di Chuuya avere un episodio di quasi-distaccamento. “Non sapevi nulla di Oda e Dazai?!” Urlò.

Ango sobbalzò e tornò nel mondo reale. D’istinto, mise di nuovo in moto la macchina.

Chuuya gli afferrò il polso. “Accosta.”

“Ma-“

“Accosta, non resto in macchina con te, mentre hai quell’espressione sconvolta di merda!”

Ango lo accontentò. Una volta spento il motore, entrambi restarono in silenzio per un lungo minuto. 

Chuuya fissò il profilo dell’agente: per la prima volta dall’inizio di quel delirio, aveva la faccia di qualcuno che non stava bene per niente.

“Non sapevi di Dazai e Oda,” ripeté Chuuya. “Davvero?”

Ango lasciò andare il volante, appoggiando la nuca al poggiatesta. “No,” rispose con un filo di voce. “Non lo sapevo.”

Chuuya ebbe uno slancio di empatia nei suoi confronti: era passato per quella stessa fase alcune settimane prima, quando aveva realizzato che essere il partner di lavoro di Dazai non lo rendeva automaticamente il suo compagno nella vita. “Ero certo che tu lo sapessi,” disse, come per chiedergli scusa. “Oda era tuo amico, no?”

Ango annuì distrattamente. “Sì, Odasaku era mio amico.” Tornò indietro con la mente, rivide i momenti, cercò di ricordare le parole e gli sguardi. Li aveva avuti sotto gli occhi per tanto di quel tempo, eppure non aveva mai sospettato di nulla.

“Non me ne sono mai accorto,” aggiunse. Non fu una dichiarazione indolore.

Chuuya non infierì. “Nemmeno noi,” disse, con una scrollata di spalle.

Solo allora, Ango si decise a ricambiare il tuo sguardo. “Non è stato Dazai a dirtelo?”

Chuuya scosse la testa. “Dopo la Mimic, siamo stati costretti a riflettere su alcune cose e abbiamo tirato le nostre conclusioni.”

“Tu e chi altri?”

“Chi conosce bene Dazai.”

“Io pensavo di conoscerlo bene,” ammise Ango. “Meglio di molti, perlomeno. Ho sempre avuto l’impressione che nessuno lo conoscesse come Odasaku, ora capisco il perché.”

“Erano così insospettabili?” Domandò Chuuya, incredulo.

“Erano legati. Erano molto legati,” disse Ango. “Te l’ho detto, Odasaku sapeva come prendere Dazai, ma da qui a essere amanti ce ne passa.”

“Ce ne passa così tanto che per lui ha abbandonato la Port Mafia,” disse Chuuya, sarcastico.

“Quello ero certo che lo avesse fatto nel momento in cui ho visto Odasaku morto,” ribatté Ango. 

Chuuya alzò gli occhi al cielo. “E dici di non sapere che fossero amanti?”

Ango allargò le braccia. “Dalla mia prospettiva, aveva senso che Dazai mollasse tutto per Odasaku, ma non ho mai considerato il sesso. Che vuoi che ti dica?”

Il diciottenne dai capelli rossi contò fino a dieci. “Stai bene?” 

Ango credette di aver capito male. “Come?”

“Stai bene, idiota?”

“Non lo so,” ammise l’agente governativo. “Ho condannato a morte un amico e ho cercato di rimediare salvandone un altro. Ora, salta fuori che sta per nascere un bambino loro.” Il pensiero lo travolse come un fiume in piena. “Quel bambino è di Dazai e di Odasaku.” Si coprì gli occhi con la mano.

“Non metterti a piangere,” lo avvertì Chuuya. “Ricorda: non abbiamo avuto nessuna conferma da Dazai e sappiamo quanto è imprevedibile. È solo che, alla luce degli eventi, Oda è il candidato più probabile.”

Ango ingoiò a vuoto. “Mori lo sa?”

“Mori sa quello che so io, insieme ad altri due veterani della Port Mafia.”

“Nessun altro?”

Chuuya ci pensò. “Ricordi Akutagawa? Bene, diciamo che ho avuto l’insana idea di trascinarmelo dietro, mentre cercavo di capire la natura del legame tra Dazai e Oda. È innocuo, non penso abbia capito davvero.”

Ango non avrebbe mai accostato la parola innocuo al nome di Akutagawa, ma gli bastava sapere che non se lo sarebbe ritrovato sulla strada nel cuore della notte.

“Starai bene, quattrocchi” promise Chuuya, anche se nessuno glielo aveva chiesto. “Ci vorrà un po’ ma starai bene.”

Ango ebbe l’impressione che stesse cercando di convincere se stesso.




 

Dazai venne svegliato da un tonfo, seguito da un’imprecazione.

Lentamente, si sollevò su un gomito e valutò la situazione: qualcuno gli aveva messo addosso un cappotto nero a mo di coperta, la stessa persona che ora giaceva sul pavimento dopo un rovinoso inciampo. 

Non c’erano tende alla finestra e il sole di primavera illuminava la piccola camera da letto, eppure Mori era riuscito a inciampare sull’unico scatolone presente nella stanza. Mentre si tirava in piedi, dolorante come se avesse il doppio dei suoi anni, sperò che il giovane sul letto fosse ancora nel mondo dei sogni.

Gli andò male. Gli occhi scuri di Dazai lo trapassarono da parte a parte, impedendogli di fare quell’unico passo che lo separava dalla porta. 

“Ehi,” lo salutò, sedendosi in fondo al letto. Sapeva di non essere bene accetto, ma il diciottenne avrebbe dovuto sopportare la sua presenza per un po’ e tanto valeva che si abituasse - di nuovo. “Sei riuscito a dormire?”

Dazai si limitò ad annuire. La debolezza aveva preso il sopravvento nel momento in cui aveva toccato quel materasso spoglio. Non aveva avuto la forza di cercare delle lenzuola né una coperta. Afferrò la manica del cappotto in una muta richiesta.

“Pensavo avessi freddo,” rispose Mori.

Dazai avrebbe voluto solo gettarlo a terra ma, sì, aveva freddo e non era nella posizione di potersi ammalare.

“Dov‘è il tuo?” Domandò il Boss della Port Mafia. “Quello che ti ho regalato?”

Dazai gli lanciò un’occhiata eloquente. Me lo stai chiedendo davvero? dicevano quegli occhi scuri.

“Era un bel cappotto, non meritava il tuo rancore.” Mori sapeva di suonare ridicolo, ma dire sciocchezze era meglio che restare in silenzio. Dazai aveva smesso di essere difficile per lui a quattordici anni, quando si era squarciato i polsi nel bagno della clinica - sei mesi dopo l’omicidio del vecchio Boss - e Mori si era ritrovato a salvargli la vita perché, sì, lo voleva vivo. Da lì in poi era andato tutto in discesa - in una strada sdrucciolevole e piena di buche - Dazai aveva cominciato a parlargli, poi era arrivato Chuuya e le cose si erano fatte ancora più semplici. A dispetto delle apparenze, il caos creato da quei ragazzini lo aveva sempre rassicurato. 

“Odasaku non ha nulla da nascondere. Quello che vedi è esattamente quello che è. Ci vuole un po’ per abituarsi ma quando ci riesci, diviene un balsamo per l’anima.” Non era stata una confessione estorta. Mori non ricordava nemmeno se avessero mai parlato di Oda Sakunosuke, prima di allora. Quel ragazzino gli aveva fatto quella confidenza in modo del tutto naturale e lui non gli aveva dato il giusto peso.

Dazai non gli aveva mai nascosto nulla, come non lo aveva fatto con Chuuya. Nessuno dei due era stato in grado di vedere oltre l’immagine cristallizzata che avevano di lui, non si erano posti il problema che potesse essere altro.

Per Sakaguchi Ango, era stato un amico abbastanza importante da convincerlo a mettere da parte i suoi principi.

Per Oda Sakunosuke… Beh, Mori non aveva realmente voglia di pensarci.

“Starà bene?” Domandò Dazai, di colpo.

Lieto che avesse deciso di aprire bocca, Mori assecondò la piega che aveva dato alla conversazione, senza mentirgli. “Quando vedrò il battito del cuore e valuterò lo sviluppo del feto, saprò darti una risposta concreta.”

Dazai si sedette contro la testiera del letto. “Com’è stato possibile?”

A Mori sfuggì un sorriso. “Sei grande, lo sai come nascono i bambini.”

“Il mio corpo non ha mai funzionato bene in quel senso,” si giustificò Dazai.

“Vengono fatte diagnosi d’infertilità in situazioni all’apparenza normali,” spiegò Mori. “Non c‘è da sorprendersi se a diciotto anni il tuo corpo ti ha preso un po’ in giro. Hai solo avuto uno sviluppo tardivo, ma senza terapie ormonali non c’era modo di evitare qualcosa di possibile. Capisci?”

La prima volta che Dazai aveva avuto il ciclo mestruale, era andato a cercare aiuto da Chuuya. Era stata l’idea peggiore che avesse mai avuto. Si era creato un caos tale intorno alla questione, che ci erano voluti tre giorni per calmare le acque. Mori ricordava quell’evento come la prima volta in cui Dazai non si era voluto far toccare da lui. Era stata Kouyou a salvarli tutti e il Boss le era ancora grato per come aveva gestito la situazione.

“Non lo credevo possibile,” disse Dazai. Non stava cercando di difendersi, non aveva certo bisogno dell’approvazione di Mori Ougai. Si limitava a parlare dei fatti per quelli che erano: si era concesso a un uomo che lo aveva travolto completamente e lo aveva fatto senza pensare alle conseguenze.

Mori evitò il discorso paternalistico in cui lo rimproverava di non aver usato la testa - qualcosa gli diceva che Chuuya ne aveva già uno pronto e nessuno lo avrebbe dissuaso dall’usarlo - e approfittò di quel momento di calma per indagare su un altro punto: “ieri mi hai detto di fare tutto quello che potevo,” gli ricordò. “Eri spaventato e mi hai preso di sorpresa. È facile fraintendere in queste situazioni.”

“Non hai frainteso nulla,” rispose Dazai, fermo.

Mori non ne era sorpreso. “Hai diciotto anni e sei un latitante,” si sentì in dovere di dire. Non era lì in veste di Boss della Port Mafia, forse lo era da medico, ma quell’etichetta non riassumeva il suo ruolo in modo esauriente. 

“Lo so.” L’espressione di Dazai era vuota, così come i suoi occhi.

Non era la prima volta che Mori lo vedeva così, ma sperava di aver detto addio a quella creatura senz’anima molti anni prima. 

Sei tu che lo hai ridotto così, gli disse una voce nella testa che assomigliava a quella di Elise - o forse era Yosano. 

Dazai mise il cappotto da una parte e si alzò in piedi. “Devo vomitare.”




 

Chuuya li trovò in bagno così: Dazai che vomitava l’anima e Mori che gli liberava il viso dai capelli.

“Avevo portato la colazione,” disse il rosso. “Mi pare che non sia il momento giusto.”

Mori forzò un sorriso. “Però è un buon momento per darmi una mano.”

Dazai rifiutò l’aiuto di entrambi e si rimise in piedi da solo. Mentre faceva scorrere l’acqua nel lavandino per lavarsi la bocca, Mori si rivolse all’ultimo arrivato: “Ango?”

“L’ho mandato a prendere un materasso nuovo, uno di quelli ergonomici o come cazzo si dice,” rispose Chuuya. “Insieme a lenzuola, asciugamani e una lavatrice nuova.”

Mori inarcò le sopracciglia. “Una lavatrice nuova?”

“Ho messo insieme tutta la biancheria da camera e da bagno qui in giro per tirarne fuori qualcosa di utile. È andato tutto perduto, insieme alla tua vecchia lavatrice. In compenso, la lavanderia e la cucina si sono allegate al punto che adesso splendono.”

Mori lasciò andare un sospiro. “Ho sempre voluto ristrutturare questo posto, ma non credevo sarebbe mai arrivato il giorno.”

“Ho fame,” disse Dazai, col tono - e anche l’aspetto - di chi si è appena alzato da una tomba.

Già stufo, Chuuya sbuffò. “Hai appena vomitato, scemo, non puoi mangia-“

“In realtà, può,” intervenne Mori. “È normale che un minuto stia male e quello subito dopo abbia fame.”

“In breve: se prima era pazzo, adesso è d’abbattere,” concluse Chuuya.

“Quella parte è sospesa fino a data da destinarsi,” disse Dazai, uscendo dal bagno a passo di marcia.

Chuuya sbatté le palpebre un paio di volte. “Quale parte?”

Mori fissò il punto in cui il ragazzo dai capelli scuri era sparito: “quella che riguarda la sua morte.”




 

“Sono ufficialmente sospesi i tentativi di suicidio e le battute di merda a riguardo?” 

Mori sapeva che Chuuya era in grado di leggere la terribile atmosfera che aleggiava su di loro, ma parlava come se avesse deciso d’ignorarla deliberatamente. 

“Uhm…” Fu la sola risposta di Dazai, gli occhi scuri fissi sulla tazza fumante davanti ai suoi occhi. Tisana allo zenzero, aveva detto il suo improbabile medico, per le nausee.

I ragazzi sedevano ai capi opposti del tavolo. Mori stava cercando di far funzionare la vecchia macchinetta del caffè con delle cialde che, probabilmente, erano scadute da mesi. Non gli importava: nessuno di loro - tranne Dazai - aveva dormito e la caffeina - seppur non di prima qualità - era necessaria per impedire un collasso di massa nel pieno dell’emergenza. Dazai non sanguinava più, ma era lungi dallo stare bene. Chuuya era stato troppo calmo e collaborativo, rispetto al peso degli eventi che lo avevano travolto. Mori aveva ancora quel fastidioso prurito alle mani, causato dal desiderio di ridurre a pezzi un uomo che era già morto.

La buona notizia era che erano ancora tutti vivi. 

Chuuya prese a tamburellare le dita sul tavolo. “Non hai niente da dire, Sgombro?”

Dazai lo ignorò completamente, facendo girare la tazza sul tavolo in un gioco distratto, tanto per spezzare l’immobilità del momento. 

“Ehi!” Ruggì Chuuya. “Prima ci tradisci, poi torni strisciando per chiedere aiuto. Abbi almeno la decenza di aprire quella bocca di merda!”

La macchina del caffè continuava ostinatamente a non funzionare, ma Mori sapeva di non poterla usare come scusa per tagliarsi fuori da quella discussione. Quando si voltò, Dazai aveva alzato lo sguardo dalla tazza. Il medico era pronto a giurare che non avesse mai guardato il coetaneo con tanta cattiveria. “Non sono io che sono corso da un traditore, come un cagnolino fedele col suo padrone.”

Mori afferrò Chuuya prima che raggiungesse l’altro capo del tavolo. “Siediti,” ordinò, spingendolo verso il posto da cui si era alzato. Chuuya si guardò bene dall’aprire di nuovo la bocca. Il Boss della Port Mafia si rivolse al diciottenne dai capelli scuri: “e tu-“

“Cosa?” Lo incalzò Dazai, per nulla intimorito da chi era o cosa rappresentava. “Vuoi che ti sia grato?” C’era rabbia nella sua voce, eppure era tanto calmo da far paura. “Vuoi che implori il tuo perdono?”

Mori mantenne la calma. “Non ho bisogno della tua gratitudine e tu non sai cosa fartene del mio perdono. Finiamola subito con questi giochetti esasperanti, Dazai. Se siamo qui è per una ragione personale.”

“Tu puoi avere ragioni personali?” Domandò Dazai, beffardo. “Riesci davvero ad agire per qualcosa che non sia il tuo piano, qualsiasi cosa questo voglia dire.”

La calma con cui avevano parlato quella mattina era solo un ricordo. Mori non ne era sorpreso, ma aveva sperato di potersi fare una dormita di un paio d’ore, prima di dover contenere Dazai. Con Chuuya era più facile: i suoi momenti erano tutti uguali, passavano subito dopo aver raggiunto lo zenit. Dazai era imprevedibile: poteva durare pochi minuti, come giorni e il livello di distruttività della crisi era sempre diverso.

Ultimo ma non ultimo, non era mai capitato che Mori fosse colpevole dell’omicidio di qualcuno d’importante. Di certo, non giocava a suo favore.

“Chiariamo subito una cosa.” Mori poggiò entrambe le mani sul tavolo. “Non c’è nulla che tu possa dire o fare per indurmi a farti del male,” disse, rivolgendosi a Dazai. “Vuoi esasperarmi? Sai che novità, lo fai da sempre. Hai chiamato Chuuya perché Ango è tuo amico, ma non ti fa sentire al sicuro. Come biasimarti, il Governo ha tante zone d'ombra da non poterle contare e tu non le conosci, non puoi gestirle. Questa, invece, è casa tua. Puoi odiarla e volerla distruggere, ma rimane casa tua.”

Quel discorso non colpì Dazai neanche di striscio. “E chi ti dice che non sia tornato per vendervi tutti?”

“Primo, perché sarebbe una cosa stupida e tu non sei uno stupido.” Mori sorrise, quasi intenerito. “Secondo, tu odi me, non Chuuya. Come non odi molti altri membri della Port Mafia. Non la faresti pagare a loro per un crimine che ho commesso io. Inoltre, so come sei quando hai paura e ieri notte ne avevi tanta. Il Direttore Taneda non muoverebbe un dito per proteggere ciò che porti in grembo, io sì. E tu proprio non riesci a sopportarlo, vero?”

Se uno sguardo avesse potuto uccidere, quello di Dazai lo avrebbe seccato nel tempo di un respiro.

“Sì, Dazai, ti sei messo con le spalle al muro da solo,” concluse Mori, spettinandogli i capelli in un gesto paterno. Il diciottenne si ritrasse. “Ma guardando il quadro generale, hai scelto la via più sicura per avere questo bambino.”

Seduto al suo posto, Chuuya si rianimò di colpo. “Vuoi tenerlo?” Lui e Ango ne avevano discusso, ma nessuno dei due era arrivato a una conclusione soddisfacente.

“Sì,” rispose Dazai, senza allontanare gli occhi da quelli del Boss. “Non ho mai preso in considerazione l’altra opzione.”

Mori era soddisfatto così.

Chuuya neanche un po’. “E se non avessi avuto quell’emorragia, quale sarebbe stato il tuo grande piano?” Domandò, rabbioso. “Aspettare il giorno fatidico e poi partorire con l’aiuto del quattrocchi? Posso immaginare la scena!”

Mori intervenne, prima che Dazai buttasse benzina sul fuoco. “Tutto bene quel che finisce bene, non c’è bisogno di creare altro malanimo!” Ve ne era già abbastanza e prevedeva che li avrebbe travolti a ondate.

Sentirono la porta d’ingresso aprirsi, seguita da un rovinoso tonfo con le imprecazioni di Ango in coda. 

“Penso che quel materasso sia arrivato,” concluse Mori.




 

Il padrone di casa si assentò per cercare il famoso ecografo, lasciando ai tre giovani il compito di occuparsi della stanza di Dazai. 

“Il fatto che io ti stia facendo il letto, non significa che sarò il tuo servo fino al prossimo inverno,” si sentì in dovere di sottolineare Chuuya, mentre aiutava Ango a sistemare il nuovo materasso sulle doghe lasciate scoperte.

Dazai assisteva alla scena acciambellato sulla poltrona - nuova anche quella - vicino alla finestra spalancata. Se glielo avessero raccontato, non ci avrebbe mai creduto, ma Ango e Chuuya erano riusciti a rendere accogliente la sua vecchia camera in meno di mezza giornata. 

“Nell’armadio hai i vestiti di ricambio,” disse Chuuya, mentre Ango cercava di capire da quale angolo agganciare il coprimaterasso per primo. “Nei cassetti hai lenzuola e asciugamani. Sì, mi sento un idiota a parlarti così, quindi vedi di tenere la fogna chiusa.”

Dazai non aveva alcuna voglia di discutere con lui. Ora aveva premura che Mori trovasse quell’ecografo e gli confermasse che andava tutto bene. 

“Devo pulire il bagno?” Domandò Ango, indossando due guanti in lattice giallo limone. 

Chuuya lo guardò con estrema pietà. “Ci ho già pensato mentre lui dormiva e tu eri fuori.”

“Oh… E come facciamo con la lavatrice nuova?”

“Ci penserà Hirotsu a installarla, dice di essere capace.”

Dazai si rianimò di colpo. “Hirotsu sta venendo qui?”

“Hirotsu ti è venuto a cercare, quando sei scomparso e nessuno di noi sapeva che cosa ti fosse successo,” disse Chuuya. “Dovresti essergli grato.”

Dazai non mostrò alcuna emozione a quella rivelazione. “Mori sapeva benissimo cosa mi era successo.”

Chuuya prese un respiro profondo, poi guardò l’agente governativo. “Quattrocchi vatti a fare una sigaretta fuori.”

“Non fumo,” rispose Ango.

“Allora togliti dai coglioni e basta!” Sbottò Chuuya. “E non guardare lui! Non sei il suo cane e sa cavarsela benissimo da solo!” Nel dubbio che il messaggio non fosse abbastanza chiaro, spintonò l’agente fuori dalla camera e chiuse la porta sbattendola. “Come fai ad averlo per amico? Ci sono stato una notte e ora medito di assassinarlo nel sonno!”

“Ango non è più mio amico,” disse Dazai, con voce incolore. 

Fermo sulla porta, Chuuya si prese un attimo per guardarlo: era ancora pallido come un morto e dalla sua bocca non era uscita nessuna di quelle battutine di merda a cui, suo malgrado, era abituato. Quello che più gli dava sui nervi - perché mai avrebbe ammesso che lo preoccupava - era la totale assenza di espressioni sul viso di Dazai. Quegli occhi scuri passavano dall’essere due lame taglienti a due pozzi vuoti. La bocca era una linea dritta, nessun sorrisino sarcastico, nessuna smorfia derisoria.

Dazai Osamu era lì, proprio di fronte a lui. 

Eppure, Chuuya vedeva solo la sua ombra.

Pur sapendo che si sarebbe pentito di quello che stava per fare, si sedette in fondo al letto appena fatto e guardò fuori dalla finestra. Non vi era un gran panorama, solo una visione più ampia del quartiere, con gli alberi di un piccolo parco giochi a rallegrare il tutto. Sullo sfondo, i palazzi neri della Port Mafia vigilavano silenti anche sotto il sole di primavera.

“Hai freddo?” Domandò Chuuya.

Dazai scosse la testa. “L’aria fresca mi fa passare la nausea.”

“È così terribile?”

Dazai scrollò le spalle. “Non sono bravo a sopportare dolore e malessere, lo sai.”

“E continui a farti male,” commentò Chuuya.

Quelle parole gli fecero guadagnare l’attenzione di quegli occhi scuri. “No, questa volta non mi sono fatto male da solo.”

“Nessuno ha costretto Oda a-“

“No,” lo interruppe Dazai. “Anche se mi odi, ti prego di non pronunciare il suo nome.”

Chuuya non lo odiava. Era la verità contro cui aveva sbattuto la testa, fin dal giorno della sua scomparsa. “Ti ricordi l’ultima volta che ci siamo visti?” Domandò.

“Quando mi hai quasi massacrato di botte?” La voce di Dazai era monocorde.

Non c’erano parole gentili per riassumere quello che era successo. Dazai era stato uno stronzo, ma Chuuya lo aveva aggredito con l’intento di fargli male davvero. Lo aveva fatto con tanta rabbia che erano serviti sia Mori che Hirotsu a dividerli. Se non fosse stato per il loro intervento, Chuuya stesso non sapeva come sarebbe andata a finire.

“Pensi che tu fossi già-?”

“Non lo so, Chuuya.” Dazai scosse la testa. “Posso dirti l’ultima volta che ho fatto l’amore con lui: il giorno prima che Mori lo convocasse.”

Quello era un altro dettaglio su cui Chuuya e Ango avevano dibattuto. “Quindi quell’O-“ Non doveva pronunciare il suo nome. “L’amico tuo e di Ango è il padre del bambino?”

Per la prima volta da quando si erano rivisti, Dazai accennò un sorriso divertito. “E chi altri potrebbe esserlo?”

Chuuya scrollò le spalle. “Vorrei poterti descrivere a parole lo shock che hai provocato a tutti, quando abbiamo capito che non eravate solo amici.”

“Non l’ho mai nascosto,” disse Dazai.

Era quello a fare più male. “Già… Ci siamo sentiti tanto stupidi per tanto tempo. Oh, e ti sei perso la faccia di Ango ieri notte!”

Dazai aggrottò la fronte. “Ango lo ha sempre saputo.”

Chuuya rise. “Ango non ha mai saputo un cazzo, Dazai. Mi è sfuggito mentre eravamo in macchina e ci ha quasi uccisi tutti e due per il trauma.”

Quella rivelazione prese il diciottenne dai capelli scuri in contropiede. “Ango era sempre con noi…”

“È quello che gli ho detto anche io.”

“Pensavo che non ne parlasse perché lo mettevamo in imbarazzo.”

“Invece, no, è solo deficiente.”

Dazai si coprì il viso con le mani e appoggiò la nuca allo schienale della poltrona. “Per questo, un istante fa, non riusciva a guardarmi in faccia.”

“Beh… Non è che tu sia molto amichevole con lui.” Chuuya non era nella posizione di criticarlo, ma lasciò che il discorso scivolasse come arrivava. Fin tanto che lo Sgombro non si chiudeva dietro un inassediabile muro di silenzio, c’era speranza per tutti.

Dazai guardò distrattamente fuori dalla finestra. “Lo considero responsabile di una cosa che non ha causato,” ammise. “So che non è lui il colpevole di tutto, ma non riesco a smettere di biasimarlo.”

Suo malgrado, Chuuya lo poteva capire: Ango era un buon amico, ma ciò non toglieva che fosse un doppiogiochista e che avesse avuto il suo ruolo nel caso Mimic. “Perché mi hai chiamato?” Domandò di colpo.

Dazai rispose al suo sguardo. “Perché hai cercato Ango, quando hai capito che non sarei tornato?” Ribatté.

Era ovvio che il quattrocchi lo avesse informato del loro incontro clandestino, ma questo non avrebbe impedito a Chuuya di dargli un pugno in più. “Volevo sapere se eri morto,” disse. Volevo sapere se stavi bene, intendeva.

Dazai si umettò le labbra. “Tengo una lista di persone per le emergenze. Lo so, detto da me fa ridere, dato che mi piace crearle di proposito.”

Chuuya si morse la lingua per non dare voce alla sua opinione a riguardo.

“Delle persone su quella lista, una è morta e due mi hanno tradito. C’eri rimasto solo tu.”

Chuuya poteva intuire facilmente l’identità delle altre tre. “Hai chiamato anche Ango,” gli ricordò.

“Sapevo che saresti venuto in moto,” disse Dazai. “E ci serviva una macchina.”

Chuuya non avrebbe dovuto ridere, eppure lo fece. “Ehi…” Allungò la gamba e toccò quella dell’altro con la punta del piede. “Aspetti un bambino.” 

Ora che era l’altro lato del Duo Nero a dirlo, a Dazai fece un effetto totalmente diverso. “Sono due linee blu su uno stick di plastica,” disse. 

“Pensavo t’importasse.”

“M’importa. Non mi sembra reale, tutto qui.”

“Beh… Per essere solo due linee su uno stick, il moccioso ne ha fatto di casino.”

Chuuya scosse la testa. “Ma come ti è saltato in mente?”

Finita la magia. Il Duo Nero aveva avuto il suo momento di sintonia e ora si poteva tornare alle vecchie abitudini.

Dazai alzò gli occhi al cielo. “Non cominciare.”

“E non hai idea di quanto andrò avanti!” Esclamò Chuuya. “Scopati chi ti pare, ma usa un cazzo di preservativo!”

“Fino alla parola cazzo, ti potevo dare ragione.”

“Quanto sei fortunato che non posso prenderti a pugni!”




 

La voce di Chuuya si udiva chiaramente anche dal corridoio.

Ango, che non aveva fatto un passo dalla porta chiusa, si lasciò sfuggire un sorriso. Gli andava bene essere quello con la macchina, se Chuuya poteva essere tutto il resto.

“Meravigliosi, vero?” 

L’agente sobbalzò. 

Mori Ougai gli sorrise dal fondo del corridoio semibuio. “Ti fanno ammattire per nove giorni su dieci, ma al decimo ti ripagano di ogni sforzo.”

Ango credeva di capire. “Chuuya è il solo a non aver avuto a che fare con la Mimic e tutta quella brutta storia.”

“E Dazai lo sa,” disse Mori. “Litigheranno ancora, lo stanno già facendo, ma Chuuya non andrà da nessuna parte e Dazai conta su questo.”

“Nemmeno io andrò da nessuna parte,” dichiarò Ango. “So di essere di poca utilità, ma ho un debito da ripagare.”

“Tu sei utile a mantenere stabile la posizione di Dazai,” gli ricordò il Boss della Port Mafia. “In quanto al tuo debito, non sono affari che mi riguardano. Sei libero di agire, fin tanto che è per il bene di questa causa. Mi sono spiegato?”

Mori Ougai ci teneva che la sua clinica rimanesse zona franca, ma questo non gli impediva di ricordare a un agente del Governo che era il Boss della Port Mafia.

“Ha la mia parola, non farò niente per arrecare danno a Dazai o a chiunque di voi,” giurò Ango.

L’espressione di Mori tornò a essere amichevole. “Puoi dire ai ragazzi che ho trovato l’ecografo?” Domandò. “Vediamo questo bambino!”

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Capitolo 3
*** III ***


III

 

Chuuya continuava a passare il peso del corpo da un piede all’altro, teso come una corda di violino. Quel poco di animo che Dazai aveva mostrato con lui, era sparito nel momento in cui aveva messo piede fuori dalla sua stanza. Era un problema su cui avrebbe riflettuto dopo, ora era il grande momento in cui la ragione di tutto quel casino si concretizzava - anche se solo come un’immagine in bianco e nero su di uno schermo.

Dall’altro lato del lettino operatorio, Mori trafficò con lo strumento per le ecografie per un buon quarto d’ora. Prima se la prese con l’impianto elettrico e poi diede un paio di pugni allo schermo, che si accese miracolosamente.

Ango si era tolto dall’equazione.

E Dazai desiderava sinceramente essere ovunque tranne che lì. Odasaku era stato chiaro: non avrebbe mai trovato nulla in grado di superare le sue aspettative. 

Per chi aveva sempre guardato alla vita come un sogno crudele da cui svegliarsi, era impensabile coltivarne una dal nulla. No, ricordò Dazai, non era affatto venuta dal nulla. 

“Dazai, abbassa i pantaloni,” lo istruì Mori.

Fece come gli era stato detto e il medico gli applicò un gel freddo sulla pelle nuda. Non fu piacevole, ma Dazai non se ne lamentò.

“Che ci dobbiamo aspettare?” Domandò Chuuya, sporgendosi eccessivamente sopra il lettino e il coetaneo che vi era disteso. Dazai lo spinse indietro.

“Innanzitutto, mi aspetto il battito forte e veloce di un cuore,” rispose Mori. “Se il feto è cresciuto a dovere, dovremmo riuscire a vedere qualcosa.”

Dazai avrebbe voluto saperne di più di quel qualcosa, ma Chuuya non la smetteva di muoversi e lo stava innervosendo più del dovuto. “Vuoi farla finita?”

Il rosso lo fissò, astioso. “È colpa tua se ho l’ansia,” disse. “Accetta le conseguenze delle tue azioni.”

“Rilassati, Dazai,” disse Mori, prima di premere lo scanner sotto l’ombelico. 

Per sua fortuna, Dazai non ebbe il tempo di chiedersi se qualcosa fosse fuori posto.

“Eccoci qua!” Esclamò il medico con entusiasmo, dopo appena un minuto. “Guardalo, non è per niente timido e comincia anche a muoversi.”

Dazai non ebbe il tempo di voltarsi verso lo schermo, che Chuuya gli si buttò addosso per dare un’occhiata da vicino. “Quella è davvero la testa?” Domandò, incredulo.

“Qui c’è un abbozzo di manina, qui di piedino,” illustrò Mori. “La spina dorsale è già chiusa ed è un’ottima cosa e… Chuuya, fatti indietro!” 

Il diciottenne dai capelli rossi ubbidì con uno sbuffo. Dazai lo ignorò e si sollevò sui gomiti.

Nulla andrà oltre le tue aspettative.

Guarda, Odasaku, avrebbe voluto dirgli. Ti sei dato torto da solo.

Quella cosina sullo schermo a stento aveva le fattezze di un essere umano, ma il potere che ebbe su di lui, Dazai non sarebbe mai riuscito a spiegarlo a parole. 

“Vuoi sentire il cuore?” Domandò Mori.

Dazai annuì, senza staccare gli occhi dall’immagine in bianco e nero sullo schermo.

Mori premette qualche tasto e il silenzio della stanza venne sostituito da un tamburo.

Bum-bum-bum

“È veloce,” commentò Dazai, con un filo di voce.

“Centosessanta battiti al minuto,” specificò Mori, soddisfatto. “È forte e in salute.”

Dazai dischiuse le labbra per dire qualcosa, ma un forte fragore alla sua destra lo fece sobbalzare. Chuuya aveva avuto un mancamento e si era trascinato dietro tutto il carrello operatorio.

Mori sospirò, riponendo lo scanner e porgendo a Dazai della carta per pulirsi. “Chuuya, è solo un’ecografia,” disse, andando in soccorso del giovane. “Il giorno in cui nascerà, cosa farai?”




 

C’era un bar nella via opposta a quella della clinica. A prima vista, non era un luogo sospetto, solo poco frequentato. Fuori dalle vetrate, Ango riusciva a vedere il parco giochi su cui si affacciava la camera di Dazai. Tre bambini si stavano rincorrendo, ridendo, su per le scale dello scivolo. L’ordinarietà di quella scena gli fece bene al cuore, anche se si era completamente dimenticato della tazza di caffè davanti ai suoi occhi. Era stanco come non lo era mai stato in vita sua, eppure non aveva voglia di sentire il sapore amaro della caffeina in bocca e di aggiungere zucchero non se ne parlava, gli dava alla stomaco. Non si sarebbe sorpreso di scoprire che Dazai gli aveva passato le nausee con qualche trucchetto oscuro dei suoi.

Erano trascorse più di dodici ore e ancora non era riuscito a elaborare gli eventi. 

Dazai portava in grembo il figlio di Odasaku. Le uniche due persone che avesse mai osato definire amici si erano amate, senza destare in lui il minimo sospetto.

Chuuya lo aveva capito senza conoscere Odasaku, senza averlo mai visto insieme e Dazai. Avrebbe mentito, se avesse detto che non sentiva la necessità di avere un confronto con il diretto interessato - l’unico ancora vivo - ma non appena Chuuya era entrato nell’equazione, era stato messo da parte.

I motivi erano comprensibili, ma non era sufficiente a mandare via il fastidio.

Chuuya entrò nel bar come un uragano e salutò l’uomo dietro il bancone chiamandolo per nome, ma Ango non si accorse di lui fino a che non si sedette dalla parte opposta del tavolino. Si mosse in modo tanto irruento che per poco non rovesciò il caffè, ormai freddo, addosso all’agente governativo.

“Guarda!” Esclamò il diciottenne, entusiasta. “Ha già il naso dello stronzo, ma possiamo ancora sperare per il resto.”

Ango fissò l’immagine in bianco e nero che l’altro gli stava sventolando davanti agli occhi, ma non vide altro che macchie. “Se continui a muoverla, non ci capisco niente.”

Chuuya sbuffò, poggiando l’ecografia al centro del tavolino. “Vedi?” Indicò quello che sembrava essere un profilo. “È il naso di Dazai, solo più piccolo.”

Ango non era certo della somiglianza, ma di sicuro vedeva un naso, attaccato a una rotondità che doveva essere una testa.

“Sta benissimo,” disse Chuuya con un gran sorriso. “Mori dice che Dazai è alla dodicesima settimana circa e che lei nascerà tra la fine di quest’anno e l’inizio di quello nuovo. Da Natale in poi, dovremmo stare tutti in allerta.”

Chuuya parlava e Ango a stento lo riconosceva. “Lei?” Domandò, con un filo di voce. “Mori ha detto che è una lei?”

Chuuya s’imbronciò. “Non ho bisogno che Mori me lo dica.” Sollevò l’ecografia, nel dubbio che l’agente non la stesse osservando a dovere. “Non la vedi? È bellissima. Non può essere un maschio.”

Le fondamenta scientifiche di quell’intuizione misero Ango in seria difficoltà. “Dazai come sta?”

Chuuya scrollò le spalle. “È tornato a odiarci tutti.”

“E l'emorragia?"

“Mori ha detto qualcosa tipo che è il modo in cui il corpo si adatta al nuovo ospite. Poco male, basta che lei stia bene.”

“Forse non dovremmo rivolgerci a lei come una lei, se non siamo sicuri che sia una lei,” propose Ango.

Chuuya alzò gli occhi al cielo. “Quattrocchi, non ti ci mettere anche tu!” Esclamò. “Siamo stati una notte a rovinarci il fegato per sapere se stava bene, tira un sospiro di sollievo e basta!”

Ango non ci riusciva e non gli faceva piacere. “Dodici settimane,” ripeté. “È il limite massimo per decidere, giusto?”

Chuuya tornò a essere il violento e pericoloso se stesso nel tempo di un battito di ciglia. “Spero per te di aver capito male.”

No, aveva capito benissimo. Ango aveva duellato con quel pensiero tutta la mattina, ma l’aggravante della paternità di Odasaku aveva complicato le cose. Comprendeva il motivo per cui Dazai voleva sobbarcarsi quella responsabilità, ma il lieto evento non cambiava l’incertezza della sua posizione. 

“Dazai è un pentito al servizio del Governo,” gli ricordò Ango.

Era un pentito al servizio del Governo,” lo corresse Chuuya. “È tornato a casa.”

“Perché si sente al sicuro con te, più di quanto ci si senta con me.”

Chuuya inarcò le sopracciglia. “Che centro io? È Mori a proteggerci tutti.”

“Sì, ma Mori è solo un male necessario. È te che Dazai vuole al suo fianco in questo momento. Te lo ha detto lui: io ero solo quello con la macchina.”

“Spia eri e spia sei rimasto!”

“Voglio che rifletti un attimo su quella che potrebbe essere la vita di questo bambino,” disse Ango, con tutta la calma di cui era capace. “Nascere e crescere nella malavita o avere un’esistenza da latitante. Queste sono le uniche opzioni che ha.”

“Pensi che non abbia già fatto questo discorso a me stesso?” Domandò Chuuya, con rabbia. “Pensi che Dazai non ci abbia mai pensato? Cazzo, Ango, è il figlio dell’amico che hai appena sepolto!” Riprese l’ecografia e si alzò in piedi. 

Ango tentò di afferrarlo per il braccio.

Chuuya lo evitò. “Fatti un lungo giro per riflettere, cane del Governo,” propose, quasi ringhiando. “Non provare ad andare da Dazai con queste idee di merda in testa.”




 

“A cosa serve questo?” Domandò Dazai, mentre il medico gli allacciava il laccio emostatico intorno al braccio.

“Sei fortunato, fai parte di una generazione di genitori che può disporre di test diagnostici utili e non invasivi,” spiegò Mori, infilandosi i guanti in lattice. “Basta un prelievo del tuo sangue e potremo indagare un po’ il DNA del tuo bambino.”

“A che pro?”

“Malattie genetiche, essenzialmente.” Mori recuperò un ago per prelievi e una fiala vuota dal carrello operatorio. “Possiamo anche scoprire se è un maschio o una femmina con certezza e in netto anticipo, rispetto all’esame ecografico.”

Dazai non ebbe una particolare risposta emotiva a quella possibilità a sua disposizione.

Mori ne fu sorpreso. “Non vuoi conoscere il sesso?”

Dazai scrollò le spalle, gli occhi fissi su un punto qualunque del pavimento. “Non è importante per me,” ammise.

Parlare con Chuuya lo aveva riportato in superficie per un po’, ma vedere suo figlio lo aveva gettato di nuovo nel baratro creato dalla morte di Odasaku. Mori si era aspettato l’effetto contrario: aveva sperato che quell’ecografia finisse quello che Chuuya aveva iniziato. 

Il dolore di Dazai doveva essere stratificato più di quando Mori avesse dedotto. Non c’era solo quello provocato dalla scomparsa di Oda in sé, mischiato all’odio che provava per lui per averla provocata. Dazai covava altro dentro e il Boss aveva bisogno di scoprire cosa.

“Farà un po’ male,” lo avvertì Mori, prima di pungerlo con l’ago. Dazai storse appena il naso, ma il prelievo fu veloce. 

“Ecco fatto!” Il medico mostrò al giovane la fiala del suo sangue. “Io non ho i mezzi per effettuare questo test diagnostico, ma la Port Mafia ha i suoi laboratori. Poco tempo e sapremo se dovremo appendere un fiocco rosa o azzurro.”

“Uhm…” Fu tutto ciò che disse Dazai in merito.

Mori applicò un cerotto sul punto dove aveva effettuato il prelievo e tolse il laccio emostatico. “Non te lo aspettavi.”

Era un’asserzione un po’ vaga. Dazai non aveva previsto un sacco di cose che erano successe: Odasaku e tutto quello che aveva significato per lui, la sua morte prematura e quel test di gravidanza positivo due settimane dopo averlo perso. 

“Qualcosa doveva pur esserci in quell’ecografia,” replicò.

“Lo so, ma non eri pronto,” disse Mori, gentilmente. “Non fraintendermi, non lo saresti mai stato. È impossibile esserlo con certe cose.”

Dazai sollevò lo sguardo sul viso del Boss. “Come lo sai?”

Mori esitò, come se fosse stato preso alle spalle, ma fu bravo a mascherarsi dietro un sorriso. “Chiamalo istinto di medico.” Sentì la porta d’ingresso sbattere in fondo al corridoio. “E Chuuya è tornato.” Non fu il diciottenne ad affacciarsi sulla sala operatoria. “Testa rossa sbagliata,” aggiunse.

Vedere Ozaki Kouyou con i capelli sciolti e in abiti occidentali era un’occasione più unica che rara, che si sposava perfettamente con la situazione. Senza trucco e con quell’aria contrariata, dimostrava la sua giovane età e Mori la trovava bellissima.

“Kouy-“

Un oggetto volante lo colpì in testa - una padella ospedaliera - e lo fece finire contro il muro. “Sì,” le concesse il medico, massaggiandosi la fronte contusa. Nessuno lo avrebbe salvato da un bernoccolo. “Ammetto di essermelo meritato, ma dove l’hai trova-“

Seguì una borsetta, lo mancò, ma cadde a terra con un tonfo tale che Mori non si sarebbe sorpreso di scoprire che conteneva un mattone. Quando fu certo che i tentativi di ucciderlo fossero finiti, il Boss alzò lo sguardo. 

Kouyou era di fronte a Dazai. “Stai bene?” Domandò, afferrandolo per le spalle. “Questo idiota ha fatto qualcosa di stupido?”

Mori s’imbronciò. “Non credo sia saggio litigare tra di noi di fronte ai ragazzi.”

Kouyou lo zittì con un’occhiata raggelante. “Dov’è Chuuya?”

“Sta parlando con Ango,” rispose Dazai. “Tornerà tra poco.”

Lei passò gli occhi confusi dal diciottenne al Boss della Port Mafia. “La spia del Governo?”

“Sono successe molte cose,” iniziò Mori.

“Mi hai chiamato nel cuore della notte per dirmelo,” gli ricordò Kouyou. 

“Ma te la sei presa comoda per arrivare.”

A quelle parole, persino Dazai si voltò a lanciargli un’occhiata eloquente. Fu proprio lui, posizionato tatticamente tra il Boss e l’assassina, a impedire che si consumasse un omicidio per decapitazione.

Kouyou stemperò la rabbia con un sospiro. “Mi sono presa cura delle tue faccende. Tutti credono che ci sia una buona ragione dietro la tua assenza, non devi preoccuparti.” 

Mori non aveva mai dubitato che avrebbe fatto un ottimo lavoro. “È tornato Dazai!” Esclamò con eccessiva allegria. Il giovane in questione lo giudicò in silenzio.

“Ce la fai a fare un discorso come si deve, Mori?” Domandò Kouyou, con poca aspettativa.

Il medico non ebbe tempo di aprire la bocca, dato che Dazai fece tutto il lavoro per lui. Non dovette nemmeno pronunciare parola, si limitò a mostrare una delle ecografie rimaste alla nuova arrivata. Mori osservò in silenzio il viso di lei cambiare man mano che la consapevolezza prendeva forma.

“Non è successo nulla di brutto,” si sentì in dovere di dire Dazai, perché era certo che Kouyou stesse pensando al peggio. “È accaduto e basta.”

Lei prese l’immagine in bianco e nero tra le dita e il suo viso si addolcì. “Stai bene?” Domandò di nuovo, sinceramente preoccupata. 

“Sì,” rispose Dazai, abbassando lo sguardo sulla pancia che non c’era ancora. “Stiamo bene.”

Chuuya scelse proprio quel momento per entrare nella stanza. Quando vide la sua maestra, si sentì immensamente sollevato: Kouyou era la presenza che ci voleva per evitare che tutti loro andassero nel panico ogni tre per due.

Solo in un secondo momento, notò ciò che lei stringeva tra le dita e lo sguardo accusatorio che gli stava rivolgendo. Chuuya sollevò immediatamente le mani in segno di resa. “Io non ho fatto niente!”




 

Dazai era di Mori e Chuuya era di Kouyou.

Era stato così fin dal giorno zero. Non era un legame costretto delle etichette di maestro e allievo, ma qualcosa di natura più personale. Si somigliavano, quasi che il destino li avesse scelti gli uni per gli altri. Mori non aveva mai fatto mistero del modo in cui rivedeva se stesso in Dazai, mentre Kouyou e Chuuya sembravano una coppia di fratelli. 

In quella clinica, quegli antichi schemi non avevano più alcun valore.

Ora la squadra si era divisa tra chi possedeva un utero e chi no, e tanto era bastato a privare Mori e Chuuya di qualsiasi potere decisionale.

Dopo il suo arrivo, Kouyou si chiuse con Dazai nella stanza di quest’ultimo. Non era la prima volta che accadeva - Mori era certo che avessero legato proprio sparlando di lui - ma Chuuya non era abituato a non essere il preferito della sua maestra. Mentre il medico cercava di capire come mettere insieme una cena che non avvelenasse nessuno, il diciottenne dai capelli rossi si dondolava sulla sedia a capotavola con un broncio da bambino contrariato.

“Cerca di non cadere,” disse Mori, rivolgendosi a internet per qualche ricetta da mettere insieme con quel che i ragazzi avevano comprato. Ora che ci pensava, avrebbe dovuto far fare a Dazai tutti gli esami di routine per scoprire se era immune a infezioni pericolose per il bambino, come la toxoplasmosi. Un tonfo e un’imprecazione lo informarono che Chuuya aveva perso l’equilibrio.

Mori appoggiò la fronte alla credenza chiusa. “Che cosa ti avevo detto?” 

“Non mi sono fatto niente.”

Quando si voltò, Chuuya era ancora contrariato, ma seduto in maniera composta. 

“Kouyou ti ha raccontato com’era la vita per lei, e quelle come lei, sotto il comando del vecchio Boss?”

Chuuya non sapeva perché stavano tirano fuori quell’argomento. “La conosci la risposta,” disse. “Perché credi mi sia sentito una merda, quando mi hai mandato a Kyoto per aver messo le mani addosso a Dazai? Ero certo che lei non avrebbe più voluto sapere niente di me.”

Fosse stato un altro, forse sarebbe accaduto. Kouyou però amava Chuuya: lo avrebbe punito e rieducato, piuttosto che abbandonarlo. La Mimic era arrivata prima che potesse farlo.

“Quello che voglio che tu capisca,” disse Mori, riponendo il cellulare in tasca, “è che in questa circostanza, Kouyou potrebbe mostrarsi molto attenta e protettiva nei confronti di Dazai.”

“Lo so,” disse Chuuya. “Lo ha fatto anche quando abbiamo salvato Dazai dal Marchese De Sade.”

Mori odiava rievocare i ricordi di quell’avvenimento. Non solo lo aveva costretto, dopo anni, a collaborare con Fukuzawa Yukichi, ma era stata anche l’ultima volta che aveva provato paura. Louis Sade, come lo conosceva lui, aveva pagato con la vita per quello, ma Mori non sarebbe mai riuscito a cancellare l’immagine di quando aveva trovato Dazai. Lo fulminò il pensiero che, in qualche modo, Oda Sakunosuke fosse riuscito a gestire anche quella ferita, quando Mori stesso si era limitato a rimanere in silenzio e affidare tutto a Kouyou.

L’uomo scosse la testa e tornò al presente. “Quindi non sei geloso di non essere più il preferito della nostra dama, almeno momentaneamente?”

Chuuya scrollò le spalle. “Non ho cinque anni, Boss.”

No, ne aveva diciotto e rendeva tutto molto più complicato. 

“Che fine ha fatto Ango?”

Il ragazzo dai capelli rossi rispose con un borbottio.

Mori comprese. “Ecco perché sei arrabbiato.”

“Il quattrocchi ha osato avanzare l’ipotesi di un aborto per salvare il… Ma che cazzo ne so!” Esplose Chuuya.

Le diciotto ore che erano servite ad Ango per introdurre quell’opzione erano l’unica cosa a stupire Mori. Si era aspettato un’accesa discussione a riguardo molto prima e con Dazai presente. L’agente doveva averlo evitato per il bene psicologico del suo amico, ma non era riuscito a mordersi la lingua di fronte all’ecografia che gli aveva mostrato Chuuya.

“Che cosa gli hai detto?”

“Di andare al diavolo!”

Come era prevedibile.

“Quello di Ango è stato un discorso ragionevole,” disse Mori e subito gli occhi astiosi di Chuuya furono su di lui.

“Non lo crederai davvero, Boss!”

“Non stiamo parlando di giusto e sbagliato, non avrebbe senso. L’unica cosa ad avere peso qui è la volontà di Dazai, ma dubito che Ango gli farà mai pressioni. Ne ha discusso con te perché è preoccupato e voleva conoscere il tuo punto di vista.”

“Ango continua a parlare come se Dazai fosse completamente da solo.”

“Non ha tutti i torti.”

“Eh?”

Mori allargò le braccia. “Siamo qui per lui, nonostante tutto e tutti, eppure sono certo che si senta tremendamente solo.” Detto questo, estrasse di nuovo il cellulare dalla tasca e lo porse al diciottenne. “Facciamo serata io, te e le loro Maestà di sopra, con un asporto. Che ne pensi?”




 

Ozaki Kouyou aveva conosciuto Oda Sakunosuke anni prima. L’incontro era stato piacevole ma superfluo, nulla a cui una donna nella sua posizione desse valore. Poco tempo dopo, l’assassino che non voleva uccidere si era alleato con Chuuya per lavorare al caso De Sade, nonostante nessuno glielo avesse ordinato. Conclusasi quella storia, Kouyou non aveva sentito parlare di lui per molto tempo, fino a che il suo nome non era arrivato all’ufficio del Boss attraverso la bocca di Dazai. 

“Riesci a gestire i sintomi?” Domandò l’assassina, cercando un pettine nella sua borsetta. Avrebbe rimproverato Chuuya per aver pensato a tutto, tranne a una spazzola. Nessuno meglio di lui sapeva quanto i capelli del suo partner ne avessero bisogno.

“Vorrei solo che questa nausea passasse,” rispose Dazai, frizionando i capelli con l’asciugamano. Si era fatto una doccia e si era cambiato in dei vestiti che non gli buttassero come un sacco. Dovevano essere una cortesia di Chuuya. Ango era bravo nelle intuizioni, ma non quando si trattava d’indovinare la taglia delle persone. 

“Vieni qui.” Kouyou lo invitò a sedersi in fondo al letto, davanti a lei. Il pettine che aveva in mano gli suggerì quali erano le sue intenzioni.

A Dazai non importava un granché dei suoi capelli, anche se a Chuuya era sempre piaciuto perderci tempo perché: “se vai in giro con un nido di rondini in testa, io non mi faccio vedere con te.”

Il nanerottolo era un maniaco dell’estetica, Dazai del phon agitato senza criterio. 

“Non hai mai avuto i capelli così lunghi,” commentò Kouyou, districando i nodi con il pettine. 

“Non me ne sono neanche accorto,” ammise Dazai. Erano più di due mesi che Chuuya non se ne preoccupava e lui si era limitato a lasciarli crescere. 

“In gravidanza crescono di più,” disse Kouyou.

“Ne sai qualcosa?” Dazai lo domandò con un voce incolore e senza alcun tatto. Conosceva il passato di Kouyou e, dopo il caso De Sade, lei stessa gli aveva fatto delle confidenze, ma era stata furba a non rivelargli troppo.

La mano di Kouyou smise di pettinargli i capelli, prima di rispondergli: “no.”

Dazai non le credette. “Anche tu sai tutto, vero?” Non c’era bisogno di specificare l’argomento.

“Anche Hirotsu,” rispose Kouyou. 

Dazai le lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “Qualcosa mi dice che tu sei l’unica a conoscere fino in fondo la versione di Mori.”

L’assassina storse la bella bocca in una smorfia. “Vorrei che le cose fossero andate in modo diverso per te.”

Dazai tornò a guardare di fronte a sé. “Ma Mori no. Lui ha fatto quel che doveva fare.”

“Non lo sopravvalutare,” disse Kouyou, lasciando cadere il pettine sulla coperta. “Le conseguenze del caso Mimic non lo hanno lasciato completamente incolume, è solo bravo a fingere.”

Dazai emise una risatina beffarda. “Pensi davvero che non fosse tutto calcolato?” Domandò. “La morte di Odasaku, la licenza governativa e il mio congedo definitivo dalla scena.”

“Non lo so,” ammise Kouyou, alzandosi in piedi per recuperare il phon dall’ultimo cassetto dell’armadio. “Non ti nascondo che ho avuto molti confronti con Mori a riguardo e, te lo confesso, non sono riuscita a capire fino in fondo cosa volesse davvero da te.” Guardò il diciottenne dritto negli occhi. “Quello che m’importa è che tu sappia che perderti non lo ha lasciato incolume.”

Dazai replicò con una smorfia sprezzante. Si alzò in piedi e prese il phon dalle mani di lei. “Faccio da solo.”




 

Quando la cena d’asporto arrivò, mangiarono tutti insieme.

“Non credo che tutto questo sia molto educativo,” commentò Mori, osservando i due diciottenni divorare le patatine sul letto. 

“No, è completamente privo di classe,” concordò Kouyou, seduta sulla poltrona accanto alla finestra, mentre versava il condimento nella sua insalata. “Ma le circostanze sono particolari.”

Il Boss della Port Mafia si era accomodato sul tappeto a fianco del letto, le gambe incrociate. La sua dignità di uomo adulto era stata ricoperta dalla salsa con cui era condito il suo hamburger e non ne ne sentiva la mancanza. “Visto che siamo tutti qui riuniti-“

“No,” dissero in coro Chuuya e Dazai.

Kouyou strinse le labbra per non ridere. “I bambini stanno mangiando, Mori.”

“I bambini stanno per compiere diciannove anni e sono dotati di orecchie,” replicò il Boss, senza nascondere il suo disappunto. “Possibile che vi si spenga il cervello ogni volta che mangiate?”

“Dazai non mangia quasi mai,” replicò Chuuya.

“Chuuya non ha il cervello,” ribatté Dazai.

“Se uno dei due farà volare del cibo, mi arrabbierò molto,” intervenne Kouyou, prevedendo che il diciottenne dai capelli rossi non se ne sarebbe rimasto buono a farsi insultare.

“Ho capito.” Mori afferrò il suo hamburger e si sollevò. “Mangio in piedi,” disse, soddisfatto di poterli guardare in faccia. Era bello essere di nuovo tutti insieme, ma era inutile dirlo ad alta voce, quando Dazai non ricambiava e Kouyou era ancora arrabbiata con lui.

“Serve un piano a lunga scadenza.” Era il Boss della Port Mafia a parlare, anche se con un panino unto tra le dita. “Prima di tutto, la parte più semplice: Chuuya, ti trasferisci qui. Non voglio portare Dazai troppo in giro, col rischio che qualcuno dei nostri lo riconosca. Fino a nuovo ordine, nessuno alla Port Mafia saprà nulla. Esclusi i presenti, fidatevi solo di Hirotsu.”

“E la spia del governo?” Domando Kouyou.

“Ango è dalla nostra parte.”

Chuuya borbottò qualcosa. Dazai continuò a mangiare patatine, indisturbato.

Sorpreso dalla mancanza di reazioni, Mori si concentrò sul giovane dai capelli rossi. “Hai capito che cosa sei chiamato a fare, Chuuya? Dovrai stare qui ogni minuto di ogni giorno e assicurarti che Dazai stia bene.”

Il ragazzo nemmeno alzò gli occhi dalla sua cena. “E dove sarebbe la novità?” Domandò. “Chi sarebbe in grado di dormire là fuori, mentre lo Sgombro se ne sta qui a fare chissà cosa con la bambina.”

Dazai si riscoprì improvvisamente interessato dalla conversazione. “Quale bambina?”

Chuuya lo inchiodò con lo sguardo. “La bambina.”

Mori disse silenziosamente addio al suo panino: a giudicare dal modo in cui gli occhi scuri di Dazai si accesero d’ira, gli avrebbe fatto comodo avere entrambe le mani libere.

“Non puoi dire una cosa del genere!” Esclamò l’ex Dirigente, con rabbia.

“Io so che è una bambina!” Insistette Chuuya.

“Tu non sai proprio niente!” Ribatté Dazai. “Questa cosa è mia. Solo mia.”

“Ha ragione,” intervenne Kouyou.

Mori le lanciò un’occhiata eloquente, come a pregarla di non peggiorare la situazione. 

“Chuuya, se ti sei affezionato al piccolo non ancora nato, nessuno di noi ha motivo di rimproverarti,” aggiunse l’assassina. “Questo non ti dà il diritto di varcare alcuni confini.”

“Io non mi sono affezionato!” Ribatté il rosso, puntando un indice accusatorio contro il coetaneo. “È lui che non è in grado di prendersi cura di se stesso, figurarsi di qualcun altro!”

“Devo ricordarti cosa è successo l’ultima volta che abbiamo litigato?” Domandò Dazai, diabolico.

“No!” Rispose Mori per tutti. “Dazai, so che con Chuuya sei al sicuro. Potete urlarvi addosso quanto volete, non cambio idea. Nel frattempo, qui serve sia un medico che un adulto, ma c’è un’organizzazione da mandare avanti.” Guardò Kouyou. “Dobbiamo gestircela io e te.”

Kouyou annuì due volte. “La Port Mafia non è dall’altra parte del paese,” disse. “E non è difficile trovare scuse per giustificare la tua assenza, ma non per sei mesi di seguito. Torna a vivere qui anche tu e presentati in ufficio saltuariamente. Io penserò a colmare il vuoto.”

Mori non sapeva davvero quantificare la gratitudine che provava per lei. Non aveva alcuna vergogna ad ammettere che, senza il suo aiuto, tutto sarebbe stato più difficile. “Qualcosa da dire, Dazai?” Domandò. Era il giovane in prima linea quello con meno potere decisionale, ma il Boss voleva che avesse l’occasione di dire la sua.

“Questo bambino è mio,” disse Dazai, fermo, quasi minaccioso. “Voglio che tutti abbiate chiaro questo dettaglio.”

Mori annuì. “È legittimo.”




 

Quando Mori si ritirò nel suo studio con l’hamburger ormai freddo, era quasi mezzanotte. C’erano volute ore per studiare i dettagli della loro nuova routine, complice il continuo battibeccare dei due ragazzini. Il Boss stesso faceva fatica a credere che fossero arrivati quasi a diciannove anni - Chuuya li aveva già compiuti, in realtà - e non mostrassero alcun segno di miglioramento.

“Roba da matti…” Borbottò alla stanza vuota, con la bocca piena.

La sua pausa ebbe durata breve.

Kouyou entrò nella stanza senza bussare e Mori quasi si strozzò nell’ingoiare il suo boccone.

“Dobbiamo parlare,” disse lei, seria, appoggiando la spalla al muro. Nonostante fosse senza trucco era impeccabile, avvolta nella sua gonna blu lunga fino al ginocchio e la camicetta dello stesso colore. 

“E che abbiamo fatto fino ad ora?" Domandò il Boss, fissandole le scarpe rosse, l’unico dettaglio acceso di quel completo.

“Mori…” L’assassina non aveva alcuna voglia di scherzare e il Boss sapeva che non era saggio provocarla.

“Avanti.” L’uomo abbandonò il suo panino sulla scrivania. “Hai tutta la mia attenzione.”

Non c’era nulla di gentile negli occhi di Kouyou. “Sfrutterai questa cosa a tuo vantaggio, vero?” Domandò. “Ti piace giocare al padre premuroso, che non porta rancore per i tradimenti di un figlio. In realtà, stai elaborando un modo per usare il bambino di Dazai contro di lui.”

C’era un motivo se il Boss della Port Mafia si fidava solo di lei, tra tutti i suoi Dirigenti - Dazai era un caso a parte e assai più complesso - ma questo non significava che gli piacesse essere esposto in quel modo. “Kouyou, Dazai ha diciotto anni,” provò la via ragione. Non funzionò.

“Quasi diciannove, lo hai detto tu,” ribatté Kouyou. “Abbi rispetto per la nostra amicizia, se così la vogliamo chiamare, e non prendermi in giro con certi discorsi.”

“È davvero un prendersi in giro, quando le intenzioni sono diverse ma il risultato non cambia?” Domandò Mori. “Certo che rivoglio Dazai indietro e, ovviamente, questa occasione è perfetta per spingerlo a tornare alla Port Mafia. È subdolo e calcolato, ne prendo atto, ma parliamoci da adulti: Dazai ha bisogno di qualcuno che gli copra le spalle. Questo vale indipendentemente dalle mie intenzioni.”

“In cosa speri?” Domandò Kouyou.

“Che Dazai metta da parte la rabbia per usare la testa.”

“Hai ucciso il suo uomo, Mori. Non è un capriccio.”

“Nemmeno la vita di suo figlio lo è.”

L’assassina non voleva deriderlo apertamente, ma lo considerava un illuso. “Tu credi che facendo nascere suo figlio, Dazai dimenticherà che le tue mani sono sporche del sangue di Oda Sakunosuke?”

“Dazai è intelligente.”

“Ti sei dimenticato: orgoglioso, testardo e rancoroso. Proprio come te.”

“Allora mettiamo su una bilancia il suo odio per me e l’amore per suo figlio e vediamo cosa pesa di più,” propose Mori. “È troppo presto per farlo, per giungere a qualche conclusione. A stento si rende conto di quello che gli sta capitando e c’è qualcosa che lo tormenta.”

“Ma davvero?” Kouyou era sarcastica. “Chissà cosa potrà mai essere?”

“Sono serio,” disse Mori. “Non si tratta di me o della morte di Oda, nemmeno del bambino. C’è qualcosa che opprime Dazai e non riesco a capire cosa sia. Dov’è Chuuya?” Aggiunse.

“Con lui,” rispose Kouyou, come se fosse una cosa scontata.

A Mori venne da ridere. “Più il tempo passa e più Chuuya mi riempie di soddisfazioni. È affidabile, come te.”

“Stai attento con Chuuya, Mori,” lo avvertì Kouyou. “Ora più che mai.”

Il Boss inarcò le sopracciglia. “Che vuoi dire?”

“Il fatto che abbia sempre scelto te, non significa che tu venga prima di Dazai. Questo faresti bene a non dimenticarlo.”





 

Chuuya si sarebbe tagliato la lingua prima di ammetterlo, ma momenti come quello erano un balsamo per i suoi nervi. Quando lui e Dazai se ne stavano così, l’uno accanto all’altro, e lo stronzo gli faceva la grazia di tenere la bocca chiusa, tutto andava bene. Chuuya non aveva motivo di preoccuparsi, di chiedersi se Dazai stesse progettando qualcosa per colpirlo - o per colpirsi. Quella calma momentanea dava al rosso un senso di controllo che era puramente illusorio, ma questo non gli impediva di goderne finché durava.

“Ehi…” Diede una gomitata al partner, senza allontanare gli occhi dal soffitto. “A cosa stai pensando?”

“Che non ho la nausea e sono molto felice,” rispose Dazai, “ma so che se mi alzo da questo letto, ricomincerà e sarà un inferno.”

“È tipo come un post-sbronza?”

“No, quello si affronta.”

“Detto da te, che non sopporti nulla.”

“Non hai idea di quanto avrei voglia di ubriacarmi per davvero,” gli confidò Dazai. “Ho bisogno di una pausa dalla mia testa.”

Chuuya sorrise con perfida soddisfazione. “Ben ti sta!” Esclamò. “Ora sai come si sentono tutte le persone che ti stanno attorno!”

“Anche Odasaku mi rimproverava,” disse Dazai, aggiustandosi meglio contro i cuscini. “Quando mi mettevo nei guai, non me le mandava a dire. In particolar modo, se mi mettevo in pericolo di proposito.”

Bastò il nome di Oda Sakunosuke a chiudere la bocca a Chuuya. 

Dazai se ne accorse. “Il gatto ti ha mangiato la lingua?”

“No, idiota!” Rispose il rosso a tono. Malgrado il suo orgoglio, la presenza invisibile di quell’uomo lo inibiva terribilmente. Oda Sakunosuke era la prova di quanto poco conoscesse Dazai Osamu. Se lo avesse detto ad alta voce, avrebbe anche dovuto confessare il fastidio che gli provocava. Troppo rischioso.

Chuuya guardò Dazai con la coda dell’occhio: era sereno, per quanto le circostanze lo permettessero. Gli sarebbe bastato allungare un braccio per toccarlo, ma il fantasma di Oda Sakunosuke era abbastanza per rendere quella distanza incolmabile.

Chuuya decise che quella situazione non gli stava più bene. “Quando è successo?” Domandò. “Non so come tu lo abbia incontrato, ma è stato prima della Testa di Drago. Quando De Sade ti ha rapito, è venuto da me perché lo aiutassi con le ricerche, ma non credevo che-“

“Non c’è un quando,” ammise Dazai. “Se vuoi sapere quando abbiamo fatto l’amore per la prima volta, sì, è stato dopo De Sade.”

“Non lo volevo sape-“

“Quando mi sono presentato in ritardo alla festa del mio diciottesimo compleanno.”

Chuuya chiuse gli occhi e contò fino a dieci. “Ok, me lo hai detto lo stesso.”

Dazai ridacchiò, sadico. “Ti dà fastidio.”

“Immaginare te che scopi con uno non è il mio passatempo preferito!” Ringhiò Chuuya.

“Non scopavamo,” ribatté Dazai, stiracchiandosi. “Tu scopi con le tue ragazze. Io facevo l’amore con Odasaku.”

“Oh, sei diventato un poeta?” Chuuya lo prendeva in giro per non sentirsi inferiore, ma anche lui poteva intuire la differenza. “E mentre facevi l’amore, ti costava tanto usare un preservativo?”

Dazai sbuffò. “Ancora con questa storia? Guarda che è bello farsi venire dentro. Non che tu possa capirlo.”

“No, non posso e non m’interessa!” L’istinto urlava a Chuuya di alzarsi e scappare a gambe levate, ma non poteva rischiare che la porta socchiusa che c’era tra loro venisse sbarrata. “Giugno,” pensò, contando i mesi che erano passati. “Siete stati amanti per meno di un anno e siete riusciti comunque a fare danno?”

Chuuya era finito in una - tragi - commedia romantica e nessuno lo aveva avvisato.

“No, lo siamo stati per un paio d’anni,” lo corresse Dazai.

“Hai appena detto che-“

“Quanto sei superficiale. Una storia non comincia per forza quando ci si scambiano fluidi corporei.”

Chuuya si schiaffò entrambe le mani in faccia. “Smettila, Sgombro.” Ormai era in pista, tanto valeva ballare. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e fissò il soffitto,  cercando tra le crepe dell’intonaco qualcosa che lo facesse desistere dal porre la domanda che aveva sulla punta della lingua. “Lo amavi?” Aveva bisogno di saperlo. Poteva mentire in faccia a tutti, ma non a se stesso. Voleva conoscere nei dettagli la cosa per cui Dazai gli aveva voltato le spalle. Non a Mori. Non alla Port Mafia. A lui.

Il silenzio si prolungò per uno, due, tre minuti. 

Chuuya sbirciò il profilo di Dazai e si accorse che i suoi occhi erano distanti.

“Parlo con il suo fantasma,” confessò quest’ultimo.

“E che ha da dire?” Le parole sfuggirono a Chuuya, prima che avesse il tempo di sentirsi un idiota.

Dazai non gli rispose: aveva smesso di ascoltarlo. “Mi manca parlare con lui.”

La porta tra di loro si era chiusa. 

Chuuya strinse tra l’indice e il pollice la manica di Dazai, tanto per assicurarsi che fosse ancora lì, accanto a lui. 




 

C’era uno specchio a figura intera nella sua camera. 

Doveva avercelo messo Chuuya, perché era certo che prima non ci fosse. Dazai ci passava davanti più volte al giorno, evitando di guardare il suo riflesso. In particolar modo, quando doveva cambiarsi i vestiti. Non era mai stato un cultore della sua immagine - per l’esasperazione di Chuuya - e mai gli era importato apparire bello. Non era un fatto d’insicurezza, a Dazai non erano mai appartenute quelle problematiche adolescenziali. Il concetto stesso di bellezza per lui, che non sapeva cosa farsene della vita, era privo di qualsiasi valore. C’erano caratteristiche estetiche che gli erano più gradite di altre, ma la prima volta che la bellezza lo aveva colpito davvero, tanto da entrargli dentro e provocargli un brivido, era stato quando si era perso negli occhi azzurri di Odasaku.

Da lì in poi, era stato come scoprire i colori del mondo per la prima volta.

Dazai non aveva mai perso tempo a provare amore per se stesso, eppure Odasaku era riuscito a nutrire dell’affetto per lui. Nel suo eterno conflitto con quella gabbia di carne e sangue che era il suo corpo, sotto le carezze di quell’assassino che aveva giurato di non uccidere più, Dazai aveva scoperto la pace.

Entrambi corrotti dal buio, a pezzi a modo loro, si erano sentiti completi nello spazio di un abbraccio. 

Era così che Dazai se l’era sempre raccontata. 

Ma quella era solo la sua storia.

Qualunque cosa avesse provato Odasaku per lui non era stato abbastanza.

Era quel peso sul cuore a impedire a Dazai di notare i piccoli cambiamenti a cui il suo corpo andava incontro, giorno dopo giorno. Lo stesso che lo obbligava a fissare le piastrelle, mentre faceva la doccia; che lo spingeva a dare le spalle a quello specchio nell’angolo della sua camera.

Anche se non era pronto - e non c’era nulla al mondo che potesse prepararlo - Dazai non stava ignorando quello che gli stava succedendo, ma non poteva pensarci troppo o ne sarebbe stato sopraffatto. Sebbene non volontariamente, Odasaku lo aveva privato definitivamente della possibilità di decidere della sua morte. Una promessa poteva sempre essere spezzata, ma il potere della vita che gli cresceva dentro non era quantificabile.

Dall’inizio di giugno, Mori non perse occasione per proporgli di fare un’altra ecografia, “Per assicurarci che tutto sia al posto giusto,” diceva. 

Mancavano pochi giorni al suo diciannovesimo compleanno e Dazai non si era ancora convinto a dirgli di sì. Sapeva che c’era una routine medica da seguire, che quella cosa doveva farla bene, che non gli era concesso provare. Era una situazione da tutto o niente. Più si nascondeva, più Mori e Chuuya gli sarebbero stati addosso e, ben presto, anche Kouyou avrebbe smesso di lottare affinché avesse i suoi spazi.

Quel bambino sarebbe nato. Punto.

Ma Dazai aveva bisogno di una pausa dai pensieri, dalle persone e dai ricordi. Soprattutto dai ricordi.

Il diciannove di giugno era il giorno peggiore per pretendere una cosa del genere da se stesso. 

In strada, il caldo era soffocante e la sua stanza era esposta al sole nelle ore peggiori. Un paio di giorni prima, aveva sentito Mori dire che avrebbe mandato Hirotsu a comprare un nuovo condizionatore, mentre Chuuya bestemmiava per quanto era sudato.

Dazai era tentato di chiedergli se volesse fare cambio. Non aveva mai sofferto il caldo in vita sua, ma quel bambino stava facendo di lui quello che preferiva e non aveva alcuna pietà. I bendaggi che era abituato a indossare erano ormai un lontano ricordo, persino i vestiti che portava per decoro erano una tortura sulla pelle - specialmente sul petto. Fosse stato per lui, sarebbe andato in giro nudo.

Fu solo per disperazione che Dazai uscì dalla sua camera. Se la memoria non lo ingannava, la stanza più in ombra e fresca dell’edificio era lo studio di Mori. C’era un divano lì e Dazai aveva tutte le intenzione di collassarci sopra per il resto dell’estate.

Trovò la porta della stanza chiusa, ma non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello di bussare. 

Qualunque cosa stessero facendo, Mori e Chuuya si pietrificarono non appena lo videro.

Dazai li guardò sospettoso. “Che state combinando?”

“Oh, il morto si è alzato!” Esclamò Chuuya, nascondendo il pennarello rosa che aveva in mano nella tasca del gilet. Sì, indossava un gilet nero sopra la t-shirt bianca e Dazai si chiese fino a che punto uno potesse torturarsi per il bene della moda.

“Ho chiesto che state facendo,” ripeté.

“Niente,” rispose Mori, innocentemente, nascondendo qualcosa con il piede sotto la sua scrivania.

Dazai ipotizzò si trattasse di qualcosa di molto stupido, ma nulla per cui valesse la pena spendere energie. Attraversò la stanza con ampi passi, raggiungendo l'obiettivo: il divano.

“Ehi!” Chuuya gli abbaiò contro, non appena si sedette. “Quello è il mio letto!”

“Ti cedo quello in camera mia, qui è più fresco.” Dazai si distese e i cuscini sfondati lo inghiottirono. Bene, ora non c’era davvero pericolo che si alzasse più di lì.

“Dazai.” Mori gli arrivò di fianco, guardandolo dall’alto in basso. “Tra poco, Hirotsu arriverà con un nuovo condizionatore. Non puoi restare qui, lo dico per la tua schiena.”

Alle sue spalle, Chuuya borbottò qualcosa riguardo al fatto che alla sua di schiena non pensava nessuno.

Dazai fissò il Boss dritto negli occhi. “Che cosa stavate facendo?” Se doveva fare i capricci, lì avrebbe fatti a dovere.

Mori forzò un sorriso. “Un gioco con cui io e Chuuya passiamo il tempo, quando riposi.”

“Con un pennarello rosa?” Domandò Dazai, che di quel gioco aveva intuito natura e regolamento.

Mori aprì la bocca, pronto a sfoderare un’altra scusa perfettamente studiata, ma un pensiero lo interruppe e gli fece fare marcia indietro. “Buon compleanno,” disse.

Alle loro spalle, Chuuya fece cadere qualcosa. “Oh, cazzo!” Esclamò.

Dazai decise che il fresco di quella stanza non valeva tutto quel caos. Non voleva pensare al suo compleanno, nè all’evento che gli ricordava. 

Vedendolo in difficoltà, Mori gli diede una mano ad alzarsi. “A proposito di quell’ecografia-“

“No,” rispose Dazai, prendendo la via della porta.

Chuuya gli si parò davanti. “Ti frega qualcosa della salute del moccioso o no?”

Dazai assottigliò gli occhi. “Che stavi scrivendo con quel pennarello rosa?”

“Nulla che t’interessi.”

“Era rosa, quindi m’interessa.” Dazai lanciò un’occhiata al Boss della Port Mafia. “Non si è mai troppo vecchi per essere infantili, vero?”

Il sorriso di Mori divenne tirato. “Vecchio a chi?”

Dazai era davvero troppo stanco per combattere con le loro assurdità. Chuuya era ancora davanti alla porta e aveva già pronto un commento tagliente per toglierselo di mezzo. Dischiuse le labbra e la stanza prese a girare.

L’immagine di un attico inondato di luce comparve davanti ai suoi occhi. Lenzuola in disordine su di un divano letto e il silenzio riempito da discorsi fatti di tutto e di niente. Gli occhi azzurri di Odasaku che lo vedevano per quello che era.

Perché Oda Sakunosuke era stato il solo che ci fosse riuscito.

Quando tornò in sé, era seduto sul pavimento della clinica e Chuuya con lui. Mori aveva piegato un ginocchio a terra e gli stringeva il polso. Avevano cercato di tenerlo in piedi e non c’erano riusciti.

“Che è successo?” Domandò Chuuya. Era spaventato.

“Ha avuto un mancamento,” spiegò Mori, lasciando la mano di Dazai per liberargli il viso dai capelli umidi di sudore. “Con questo caldo è normale. Chuuya stai con lui, vado a prendergli un bicchiere d’acqua.”

Dazai sentì Mori che si allontanava. Chuuya, invece, si fece più vicino. “Ehi,” lo chiamò. “Dazai sono qui, parlami.”

Il neo-diciannovenne provò ad accontentarlo, ma si accorse della mano del coetaneo sul suo grembo e le parole gli morirono in gola. 

Chuuya lo scosse gentilmente. “Riesci a parlare?”

Dazai fece di no con la testa, coprendo quella mano con la propria. Bastò quel tocco e Chuuya si bloccò. Circondati dal più assoluto silenzio, i loro occhi s’incontrarono ma nessuno dei due osò muoversi. Entrambi avevano il sentore che se lo avessero fatto, qualcosa si sarebbe rotto. 

Non era quella la mano che Dazai voleva nella sua e quegli occhi non erano dell’azzurro giusto, ma erano sinceri. A differenza di tutti gli altri - forse di Odasaku stesso - Chuuya non lo aveva mai tradito.

Mori interruppe il momento portandogli un bicchiere d’acqua. “Chuuya, andate in camera sua. Cerco un ventilatore per guadagnare tempo.”

Non appena varcò la porta della sua stanza, Dazai trovò lo specchio galeotto ad aspettarlo. Il suo riflesso ricambiò lo sguardo e fece fatica a riconoscere se stesso in quegli occhi scuri e nelle guance rese accese da una spolverata di colore. Alle sue spalle, c’era Chuuya.

“Stai bene?” Domandò lui. 

Dazai era troppo impegnato ad affrontare le sue paure per rispondergli. Fece due passi in avanti, deciso a guardare in faccia ciò che aveva scelto per sé - e non solo.

La t-shirt nera cadeva sulle sue spalle senza dare alcuna forma al suo corpo. Dazai si mise di fianco, lisciò la stoffa nera per farla aderire all’addome.

Insoddisfatto dal risultato, sollevò l’orlo e scoprì la pelle pallida, ricoperta da cicatrici.

Nel riflesso, vide Chuuya sorridere. “Comincia a notarsi!”

Sì, Dazai poteva vederlo nella curva appena percettibile sotto l’ombelico. Il bambino suo e di Odasaku cresceva, fregandosene della morte e dell’oscurità che lo circondava.

Dazai fece ricadere la t-shirt al suo posto, poi indietreggiò di due passi per sedersi sul bordo del letto. Chuuya colmò la distanza tra loro. “Puoi parlarmi, per favore?”

Se avesse avuto la forza di essere sadico, Dazai gli avrebbe detto che gli piaceva vederlo preoccupato per lui. Ma c’era qualcun altro che aveva bisogno della sua attenzione. “Puoi farmi una promessa?”

Chuuya s’imbronciò. “Tra noi non ci sono promesse, solo minacce.”

“Non è per me,” si affrettò a dire Dazai. “È per il bambino. So che gli vuoi bene.”

“Io non-“

“Volere bene a mio figlio, non implica volere bene a me.”

Chuuya lasciò andare un sospiro esasperato. “Che cosa vuoi, Dazai?”

“Odasaku,” rispose Dazai con un sorriso triste. “Per il mio compleanno, vorrei solo riavere lui. Ma non si può ed è già abbastanza patetico dirlo ad alta voce.” Rise di se stesso.

Chuuya non ci trovava nulla di divertente.

“Quindi, ti chiedo un altro regalo,” disse Dazai, senza guardarlo negli occhi. “Se mi accadesse qualcosa-“

“No, ti prego!” Chuuya alzò gli occhi al cielo esasperato. “Facciamola finita con questi melodrammi!”

“Se mi accadesse qualcosa, dedicheresti la tua vita a proteggere mio figlio?” Concluse Dazai.

Chuuya impiegò un intero minuto a rispondergli, non perché fosse esitante, ma perché non poter picchiare lo stronzo era uno sforzo non da poco. “Questo posso promettertelo senza che tu vada da nessuna parte. Hai la mia parola.”

Non soddisfatto, con gli occhi ancora fissi sul proprio riflesso nello specchio, Dazai sollevò il mignolo sinistro.

Chuuya era senza parole, ma che altro doveva aspettarsi da Dazai Osamu?

“Chi è quello infantile, ora?” Intrecciò il suo mignolo a quello del partner, suggellando quella promessa come se fosse una cosa da bambini. Forse un po’ lo erano, ma solo quando erano da soli 

Dazai sorrise.



 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

 

Tre settimane dopo il suo compleanno, Dazai si svegliò nel cuore della notte con la fame di chi non tocca cibo da giorni. Più di una volta, Mori gli aveva detto di tenere delle provviste sul comodino, consiglio a cui Chuuya aveva riso e che lui non aveva preso sul serio. Ora, mentre rotolava giù dal suo letto - perché la pancia si vedeva appena, ma quei pochi addominali che aveva non erano più funzionanti da un pezzo - comprendeva la lungimiranza dietro il consiglio del medico.

Mentre passava davanti allo studio, sentì Chuuya russare di gran voga sul divano sfondato. L’immagine di un pennarello rosa tra le mani del partner bloccò Dazai come un muro invisibile e lo convinse a tornare sui suoi passi. I piedi scalzi sul pavimento non emisero alcun rumore, mentre si avvicinava alla scrivania - dove ricordava di aver visto Mori nascondere qualcosa. La sua ricerca fu molto breve: il tabellone, incastrato tra il cestino della spazzatura e il bordo del mobile, era in cartoncino spesso - forse era un pezzo di uno dei tanti scatoloni sparsi per la clinica - ed era diviso in due colonne, boy a destra e girl a sinistra. 

“Davvero un bel gioco,” commentò Dazai con una smorfia contrariata, lanciando un’occhiata al rosso addormentato. La fortuna di Chuuya fu nella pigrizia di Dazai: se quest’ultimo avesse avuto la voglia di cercare quel famoso pennarello rosa, nessuno lo avrebbe fermato dal fargli un Picasso in faccia.

Mentre consumava il suo spuntino notturno, Dazai decise di essere paziente e lavorarsi per bene la sua vittima.

Si alzò presto per fare colazione - complice un altro attacco di fame - e aspettò in cucina che Chuuya si alzasse. Quando lui e Mori lo raggiunsero, il tabellone era appoggiato alla parete, al centro del piano lavoro.

“Parliamo di Charlotte,” disse Dazai. “Pronuncia francese o pronuncia inglese?”

Chuuya si sedette dal capo opposto del tavolo, i vestiti per dormire ancora addosso e i capelli in disordine: era troppo presto per quella merda. Mori continuò indisturbato verso la macchinetta del caffè, come se quella cosa non lo riguardasse.

Cosette,” proseguì Dazai. “Questo è senza dubbio francese. Ma perché proprio il francese?”

“Sono nomi eleganti!” Ringhiò Chuuya. “Ma non mi aspetto che uno Sgombro come te possa capirlo.”

Dazai scorse la lista, cercando un’altra opzione divertente. “Oh, Chuuya, suvvia!” Esclamò incredulo. “Quanto devi essere idiota per proporre Elise?”

Mentre la macchinetta del caffè emetteva un allegro bip, Mori alzò la mano senza voltarsi. “Quella è colpa mia.”

“Un momento!” Piuttosto che alzarsi e andare a vedere la lista da vicino, Chuuya si sporse sul tavolo al punto da stendervisi sopra. “Chi ha proposto Sakura?”

“Io,” disse Dazai. Il sorriso che comparve sulle sue labbra era lo stesso che Mori rivolgeva loro quando si sforzava di essere gentile, sebbene non lo meritassero. “Ed è l’unica opzione di cui terremo conto.”

Con la sua tazzina di caffè tra le dita, Mori si rivolse ai due ragazzi per esprimere il suo modesto parere. “Un nome di fiore per una bambina. Classico, intramontabile. Bellissimo, senza essere stucchevole.”

Dazai non diede segno di averlo udito.

Chuuya fece la sua scenata: sbuffò, s’imbronciò e incrociò le braccia contro il petto. “Anche Violet è un nome di fiore.”

“Ma non è il suo,” ribatté Dazai, portando la pancia in fuori per mostrare quel poco che si vedeva. Mori sorseggiò il suo caffè e fece un paio di calcoli: diciassette settimane, tra poco sarebbe esplosa.

“Ci ho riflettuto,” aggiunse Dazai, accarezzandosi il grembo. “Saku.”

Chuuya inarcò il sopracciglio. “Che?”

“Saku… Sakura per una femmina e Sakunosuke per un maschio.” Dazai sapeva benissimo che avrebbe provocato una reazione con quella rivelazione. Lo fece a posta.

Mori fu bravo a mantenere la calma, mentre ingoiava il caffè che gli era andato di traverso. Chuuya smise di essere contrariato, per divenire mortalmente serio. “Sei sicuro?” Domandò.

Dazai piegò le labbra in un sorriso triste. “Non ho mai chiamato Odasaku col suo vero nome. Per me, Sakunosuke è un nome nuovo e, allo stesso tempo, è per onorarlo.”

Tutto sommato, Chuuya decise che aveva senso. “E Sakura da dove salta fuori?”

Dazai smise di toccarsi la pancia. I suoi occhi non guardavano più il proprio corpo, cambiato dalla presenza di una vita dentro di sé, ma riflettevano un’oscurità di cui Chuuya non si accorse. Mori sì e gli vennero i brividi.

“Anche Sakura è morta,” raccontò Dazai. “È saltata in aria.”

Forse credendo che il coetaneo stesse parlando di una mafiosa caduta, Chuuya rifletté un attimo se quel nome gli ricordava qualcosa. La porta d’ingresso che si apriva e la voce di Kouyou che lo chiamava interruppero il processo.

“Chuuya, mi serve una mano. Ho comprato alcune cose per Dazai e il bambino!”

“Arrivo!” Il diciannovenne dai capelli rossi uscì dalla cucina, senza sapere di essere appena fuggito da un campo di battaglia.

Mori gettò la tazzina nel lavandino e questa fece un rumore spiacevole. Dazai dedusse che era andata in pezzi. “Vieni con me,” ordinò l’uomo.

Dazai non ebbe alcuna paura a seguirlo, nemmeno quando il Boss lo condusse nello studio e chiuse a chiave la porta. Lo guardò, mentre sfilava la pistola dalla fondina sulla schiena e l’appoggiava sulla scrivania, forse per confermare la sua intenzione di non fargli alcun male.

“Sto cercando di essere paziente, Dazai,” disse Mori, fermo. “Non ti ho negato il mio aiuto e-“

“Grazie,” disse Dazai, sprezzante, spostandosi al centro della stanza. “Contento, ora?”

Mori si passò una mano tra i capelli già in disordine. Impossibile, non c’era altra parola per descrivere quella situazione e ciò che rimaneva del loro rapporto. “Qual è la tua prossima mossa?” Domandò, stanco. “Vuoi raccontare a Chuuya che sono un mostro che ammazza i bambini?”

“Non m’interessa coinvolgere Chuuya in questa storia,” replicò Dazai. “Non mi serve. Compromettere un singolo per distruggere un intero ecosistema dall’interno è una cosa che piace fare a te.”

Mori accennò un sorriso. “Come se fosse un modus operandi a te estraneo. Pensi che non sappia che, se volessi, potresti distruggere la Port Mafia domani?”

“Perdi tempo a lusingarmi per tenermi buono, Mori?”

“Non ti lusingo, credo a ogni parola. E se fossi ancora il mostro di quattordici anni che ho incontrato sulla mia strada, lo avresti fatto.” Mori prese a girare intorno al ragazzo, come un predatore che studia la vittima, prima dell’attacco. Peccato che il più giovane fosse fatto della sua stessa pasta.

Dazai osservava i suoi movimenti con la coda dell’occhio, senza paura. “Dici che sono cambiato?”

“Dico che il Demone è diventato umano.”

Dazai lasciò andare una risatina beffarda. “Chiedilo ai tuoi nemici. Ah, no, non possono più risponderti.”

“Non ho detto che tutte le vite hanno lo stesso valore per te,” ribatté Mori. “Quello è un concetto che puoi inculcarti, ma non lo farai mai tuo per davvero. Quando ti ho salvato, eri il mero contenitore di un abisso. Geniale, certo, ma annoiato dalla vita stessa.”

“E pensi che abbia cambiato idea?”

“Penso che Chuuya ti abbia dato la prima spintarella. La Port Mafia ti ha fatto toccare la natura umana al suo peggio, ma con Chuuya avevi quindici, sedici, diciassette anni. Potevi vivere la tua età anche in mezzo a morte a distruzione, perché al tuo fianco c’era qualcuno come te.”

“Chuuya non è mio amico. Lo hai dimenticato?” Domandò Dazai, sarcastico.

Mori rise. “Oh, no, non ci sarà mai amicizia tra di voi. Il vostro legame non avrà mai un nome e va benissimo così!” C’era qualcosa che riempiva l’uomo di un’euforia fuori luogo. Quello era un duello di parole che lo stuzzicava, perché Dazai poteva essere troppo giovane da vincerlo, ma non abbastanza per non tenergli testa. “Avrai altre mille relazioni interpersonali nella tua vita, nessuna sarà come quella che hai con Chuuya.”

“Ne parli come se Chuuya fosse qualcosa di speciale per me.”

Mori scrollò le spalle. “Speciale, no. Nessuno vorrebbe quello che avete, guardandovi. Irripetibile, sì. Andiamo avanti, parliamo di un uomo che è veramente tuo amico: Sakaguchi Ango. Quando hai capito che era un doppiogiochista, come ti sei sentito?”

Dazai aveva iniziato quel gioco, ma ne era già stufo e gli girava la testa. “Non è importante ora.”

“Tradito?” Ipotizzò Mori, portandosi una mano sotto il mento. “Deluso? Magari anche ferito? Ango è più facile da leggere. Lui ti vuole bene e basta e, nonostante i suoi principi siano molto saldi, è disposto a metterli da parte per darti una seconda possibilità. Ecco, lui sì che è un buon amico!”

Dazai raggiunse la porta con ampie falcate e Mori interruppe la sua marcia circolare.

“Fammi uscire,” disse il giovane, afferrando la maniglia.

Il Boss della Port Mafia alzò l’indice e lo mosse da destra a sinistra in un chiaro no. “Se non sei capace di combattere questa battaglia, come credi di riuscire a proteggere tuo figlio?”

Qualcosa scattò in Dazai, come se il Boss avesse fatto scattare un interruttore. Quei giovani occhi brillavano di un bagliore rosso, pericoloso. “Pensi di potermi ferire?” Dazai si staccò dalla porta per fronteggiare il suo nemico. “Pensi di avere questo potere su di me?”

L’ho già fatto. Contro ogni aspettativa, una sfumatura triste rese più scure le iridi di Mori. “Non puoi lanciarti di petto, come se non avessi più nulla da perdere. Vuoi che ti risponda? Sì, posso far del male a tuo figlio e ferire te nel processo. Questo bambino non ti permetterà più di giocarti il tutto per tutto, ricordalo.”

Dazai comprese di cosa si trattava: non era uno scontro, ma una lezione. 

“E per la cronaca,” aggiunse Mori. “Ti ho già strappato il cuore dal petto.”

L’immagine di Odasaku morente oscurò la vista di Dazai per un istante, quello dopo stava puntando una pistola alla testa del Boss della Port Mafia. 

L’uomo lanciò un’occhiata alla scrivania e non si sorprese di non trovare la sua arma dove l’aveva lasciata. Dazai doveva averla presa quando si era avvicinato alla porta.

“Coraggio,” lo incalzò Mori, senza nessuna particolare espressione sul volto. “Ho ucciso il tuo uomo, il tuo desiderio è legittimo.”

Dazai indossava la sua stessa maschera inespressiva, ma il suo braccio non era così fermo. 

“No?” Mori scrollò le spalle. “Andiamo avanti, allora. Parliamo dell’ultima fase della tua umanizzazione: Oda Sakunosuke.”

“Non osare pronunciare il suo nome,” sibilò Dazai. 

“Un balsamo per l’anima,” ricordò Mori. “Non pensavi di averne una prima di lui, vero?”

“Fai silenzio.”

“Quando hai capito che ti batteva un cuore nel petto, hai sentito dolore?”

“Stai zitto.”

“Oda ti ha fatto sentire vivo, Dazai.”

“Zitto!” L’urlo di Dazai riecheggiò contro le pareti dello studio, ma non premette il grilletto. Rimase a boccheggiare in preda alla rabbia. Il Demone non c’era più. Al suo posto, era comparso un giovane di diciannove anni a cui avevano ridotto il cuore in pezzi.

Mori infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. “Toglimi una curiosità,” disse, in tono gentile. “Il fatto che lo abbia ucciso io, è un dettaglio che amplifica il tuo dolore?”

Dazai non rispose. Fece un passo in avanti e premette la canna contro la fronte dell’uomo.

Mori piegò le labbra in un sorriso amaro. “Lo immaginavo.”

Chuuya sfondò la porta dell’ufficio esattamente undici secondi più tardi - Kouyou dietro di lui - appena in tempo per vedere Dazai lasciar cadere la pistola a terra. 

Mori allontanò l’arma con un calcio e questa finì al sicuro sotto il tacco dodici di Kouyou. 

Mentre Dazai faceva due passi indietro per appoggiarsi alla scrivania, Chuuya lo fissò basito. “Voi siete fuori di testa!” Tuonò, passando gli occhi da uno all’altro. “Fuori. Di. Testa!”

“Era impossibile andare avanti senza un confronto,” si giustificò Mori, tirando fuori dalla tasca un elastico per capelli con cui si fece un codino storto. 

Kouyou sollevò la pistola. “Questo, tu lo chiami confronto?”

“Dazai ha fatto la sua scelta,” concluse Mori.

Il giovane in questione non disse una parola.




 

Dazai passò il resto della giornata in camera sua. Chuuya salì e scese le scale tutto il pomeriggio, tra i tentativi di fargli compagnia e gli esaurimenti nervosi che ne ricavava.

“Hai un tabellone dei nomi,” notò Kouyou, fissando la lista scritta in rosa, rimasta dove Dazai l’aveva lasciata. “Perché sono tutti nomi per una bambina?”

Mori girò il cucchiaino nella sua tazza di caffè, stando attento a fare il più rumore possibile. “Perché ho deciso che sarà una femmina.”

“Oh, tu hai deciso.”

“Sì, mia cara, prendere decisioni è il mio lavoro, è ciò che permette a questa grande famiglia di continuare a resistere. Io decido e, magicamente, ci ritroviamo ad avere le spalle coperte dal Governo a un prezzo praticamente simbolico.” Mori ingurgitò il suo caffè in una sola sorsata. “Ricevere odio dalle persone che cerco di proteggere è la mia ricompensa, pensa un po’.”

Kouyou alzò gli occhi al cielo. Quell’uomo non era arrivato dov’era senza meriti ma quel suo lato infantile era insopportabile. “Ed è tua abitudine mettere delle pistole in mano alle persone che vuoi proteggere?”

“Dovevo fare una prova.”

“Quale?”

“Quella di cui abbiamo già discusso,” disse Mori. Sollevò la mano destra. “Odio per me.” Fece lo stesso con la sinistra. “Amore per suo figlio.“ Allargò le braccia a scrollò le spalle. “Che posso dirti? L’amore vince su tutto. Come mentore, m’interessava che prendesse la decisione più ragionevole.”

“Pensi di aver ottenuto il suo perdono così?”

“Penso che abbia scelto di non uccidermi. D’ora in poi, non starà più subendo passivamente questa situazione.”

“Tu hai deciso di mandare a morire l’amore della vita di tuo figlio, Mori,” gli ricordò Kouyou, “Come, in passato, hai deciso di usare una figlia per creare la tua armata perfetta e l’hai spinta sull’orlo della follia.”

Mori la fissò, in silenzio. Avrebbe potuto replicare in mille modi, ma era così stanco che a stento assomigliava al Boss della Port Mafia che il mondo della malavita conosceva. Aveva avuto paura di fronte alla pistola di Dazai? Nemmeno per un istante. L’odio che aveva trovato nelle profondità di quegli occhi scuri gli era indifferente? No, affatto, ma avrebbe imparato a conviverci. Bastava che Dazai facesse la sua parte.

Kouyou si era accorta da un pezzo del patetico stato in cui il suo superiore versava, e non ebbe remore ad approfittarne. “Tu riesci ancora a guardarlo negli occhi e a non provare il ben che minimo pentimento?”

Mori le rispose come sempre. “Ho fatto quello che andava fatto.”

“Quindi, Dazai è quello che chiami prezzo simbolico?”

“Oda era il prezzo simbolico. Dazai è nella sua vecchia stanza, insieme a Chuuya, e non andrà da nessuna parte.”

Lo sguardo di Kouyou rifletteva pietà. “Quanto sei ingenuo, Mori.” Buttò sul tavolo in disordine i risultati del test genetico del bambino di Dazai. “È un maschio e sta bene, ma non si chiamerà Sakura.”




 

Dazai sedeva scompostamente sulla poltrona, lo sguardo rivolto verso l’esterno, perso in qualche riflessione che il coetaneo poteva solo indovinare.

Chuuya piegava vestiti, lamentandosi delle scelte sobrie di Kouyou ad alta voce per stuzzicarlo un po’. Dopo mezz’ora, concluse che non avrebbe mai raggiunto il risultato sperato.

“Ti ha messo alla prova?” Domandò, diretto. “Era una lezione delle sue?” 

Non era una novità che Mori si divertisse a educarli così, a suon di colpi d’urto. Sul momento, Chuuya aveva solo pensato che il binomio Dazai e arma da fuoco fosse tra i più pericolosi possibili.

“Uhm…” Fu l’unica risposta che diede Dazai. Sì, Mori aveva giocato con lui affinché realizzasse che era disarmato, con le spalle contro il muro e bisognoso del loro aiuto. Qualcosa gli diceva che il Boss aveva lasciato quella pistola incustodita a posta, per spingerlo a compiere un gesto estremo. 

C’era stato un attimo in cui aveva temuto per la sua vita? Con Mori era impossibile averne la certezza. Dazai sapeva solo che, con la possibilità di scegliere stretta tra le dita, aveva preferito la sicurezza di suo figlio alla sua vendetta. Negli undici secondi che aveva impiegato Chuuya a interromperli, Dazai era venuto a patti con se stesso in un modo che non si era aspettato: per il bene di Saku, poteva anche dimenticare il modo in cui Odasaku gli era stato portato via. Una parte di lui ne era notevolmente infastidita, l’altra - quella che lo spingeva a toccarsi la pancia, come alla ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi - chinava la testa e accettava la sconfitta.

Bussarono alla porta. Kouyou si affacciò e disse a Dazai che Mori voleva parlargli.

Chuuya smise di fare quello che stava facendo. “Ci sono armi in giro?” Non era che il diciannovenne non si fidasse del Boss, ma Dazai quello pericoloso.

Kouyou gli sorrise, rassicurante. “Ho preso le dovute precauzioni.”

“Non basteranno,” concluse Chuuya, tra le mani una tutina bianca con sopra ricamati dei coniglietti azzurri.

La sua maestra non perse l’occasione per prenderlo un po’ in giro. “Stai bene così,” commentò, mentre Dazai la precedeva in corridoio in totale silenzio.

Chuuya lasciò cadere l’indumento in miniatura sul letto, manco fosse una bomba.




 

Mori lo aspettava nello stesso studio in cui si era quasi consumata la tragedia. Come previsto da Dazai, lo accolse con un sorriso, come se non fosse successo niente.

“La Port Mafia deve essere davvero noiosa senza di me, se non riesci a far passare nemmeno ventiquattro ore tra un giochetto dei tuoi e l’altro,” disse Dazai, con voce incolore.

“Non siamo qui per giocare,” lo rassicurò Mori. “Siediti.” Si alzò dalla poltrona per lasciare il posto al diciannovenne. 

Dazai non era molto felice di farsi fissare dall’alto al basso, ma l’alternativa era restare in piedi e le sue gambe non lo avrebbero sopportato.

“Voglio mostrarti una cosa.” Il medico fece scivolare sulla scrivania i risultati del test genetico.

Dazai afferrò il foglio senza sapere cosa fosse, lo lesse il silenzio e gli angoli della sua bocca si sollevarono un poco.

“Sei felice che sia un maschio?” Domandò Mori.

“Sono felice di non dare alcuna soddisfazione a te e a Chuuya,” rispose Dazai, dando una seconda occhiata al documento. “Qui c’è scritto che il risultato è negativo. È una buona cosa, vero?”

“Un’ottima cosa!” Confermò Mori, allegro. “Quindi, aspettiamo il grande arrivo di Sakunosuke!”

“Io aspetto Sakunosuke.” Dazai lasciò i risultati del test genetico sulla scrivania e si rilassò contro lo schienale della poltrona. “Voi mi state solo intorno.”

“Mancano pochi giorni ad agosto,” disse Mori. “Dobbiamo cominciare a parlare del dopo.”

“Non credo sia saggio farlo ora. Questa mattina ho tentato di ucciderti.”

“Non è un tentativo se non vi è l’intenzione.”

Gli occhi di Dazai erano quelli di una belva in gabbia, consapevole di non potersi ribellare. “Vuoi davvero scoprire se vi era l’intenzione?” 

“Sono stanco che tu mi faccia la guerra, Dazai.” Mori non aveva alcuna vergogna a dirlo ad alta voce. “Ti ho dato la possibilità di uccidermi, ma hai capito che non ci avresti guadagnato nulla. Al contrario, avresti messo in pericolo tuo figlio, oltre all’equilibrio dell’intera Yokohama. Una volta giunto a questa conclusione, che senso ha continuare a odiarmi?”

“Sono l’unico genitore che a Saku è rimasto. In quanto tale, devo pensare a quello che è meglio per lui, non per me,” rispose Dazai. “Ma se credi che questo basti a farmi dimenticare Odasaku, il modo in cui è morto tra le mie braccia e la ragione per cui è successo, ti sbagli di grosso.”

Mori non era sorpreso. “La morte di Oda per la vita di vostro figlio. Per quel che vale, non devi sentirti in difetto.”

“Stai zitto.”

“Vuoi sapere perché non hai messo Chuuya in mezzo a questa storia?” Mori piegò un ginocchio a terra per poterlo guardare negli occhi. “Perché sai bene come ci si sente, quanto tutto il tuo mondo diviene ciò che odi di più. Ora puoi anche dirmi che di Chuuya non te ne importa niente, ma gli hai risparmiato un dolore.”

Dazai sorrise, sarcastico. “Pensi che fossi tu a rappresentare tutto il mio mondo, sul serio?”

“Nah!” Mori sottolineò il concetto con un gesto della mano, come se fosse un ragazzino. “Il tuo mondo era pieno di persone: Ango, Chuuya, Akutagawa, Hirotsu e tanti altri. A me è spettato solo l’ingrato compito di esserne a capo. Oda era diverso da tutti. Me lo hai detto, ti sei fidato - se per ingenuità o abitudine, non lo so - e io l’ho mandato a morire.”

“Che stai facendo?” Dazai reclinò il capo da un lato. “Adesso vuoi convincermi che la morte di Odasaku è una mia responsabilità?”

Mori scosse la testa. “Sto dicendo che l'unica nota stonata nel mondo da cui sei fuggito sono io,” spiegò. “Il mio ruolo all’interno di quel mondo è ciò che ti ha indotto ad andartene. Fossi stato un Dirigente, tuo pari, ti saresti liberato di me e saresti rimasto a casa.”

“Ho mal di testa,” disse Dazai, passandosi una mano tra i capelli. “Puoi arrivare a una conclusione e smetterla di fare discorsi ragionevoli?”

“Odiami,” disse Mori. “Ho capito che non posso fare niente a riguardo, ma alla Port Mafia ci sono persone che ti vogliono bene e tu ne vuoi a loro, a modo tuo. È il luogo migliore per te. È il luogo migliore per tuo figlio. Sei stufo di sentire discorsi ragionevoli ma se non mi hai sparato, vuol dire che te ne sei fatto uno anche tu. Farò nascere tuo figlio, costi quel che costi, e dopo tornerai a casa, alla Port Mafia.” Si alzò in piedi. Non aveva altro d’aggiungere.

“Perché?” Domandò Dazai in un mormorio sommesso.

“Cosa?”

“Fosse stato chiunque altro, gli avresti piantato un proiettile nella testa e tanti saluti. Dici di essere ragionevole ma quando ci siamo ritrovati tutti qui, hai sottolineato che c’eravamo per motivi puramente personali. Hai parlato di umanizzazione e, credimi, faccio fatica a vedere qualcosa di umano in te, ma allora perché fai tutto questo per me?”

Mori non aveva alcuna difficoltà a dire la verità. “Perché sei il mio preferito, Dazai.” Tanto quel ragazzino non gli avrebbe mai creduto. “Perché mi piace quanto mi assomigli.” Avrebbe potuto dirgli che, un giorno, il piccolo Sakunosuke lo avrebbe guardato disprezzandolo e allora, solo allora, lo avrebbe capito. Ma non era un esempio corretto: Dazai non avrebbe mai fatto a Saku quello che Mori aveva fatto a lui.

Il Boss della Port Mafia aprì la porta dell’ufficio per lui. “Vai a dare a Chuuya la buona notizia, sono certo che ne sarà felice.”




 

Chuuya ne fu felice come se lo avessero invitato a un funerale. “Un maschio,” borbottò, ancora occupato a piegare vestitini da neonato. “Era troppo pretendere che tu facessi qualcosa di decente, vero?”

Dazai sbuffò. “Hai saltato una lezione di genetica? È stato Odasaku a deciderlo, non io.”

“Oh, certo!” Esclamò Chuuya, afferrando una pila di tutine per riporle in una cassettiera color azzurro pastello - quasi che Kouyou avesse previsto il futuro. “Diamo la colpa al morto, tanto non può difendersi!”

Dazai inarcò le sopracciglia: era certo che mezz’ora prima quel mobile non ci fosse. “Kouyou ha svaligiato il negozio per bambini o-?”

“Vuoi vedere cosa c’è di là?” Domandò Chuuya, facendo un vago gesto della mano verso la porta. “È impazzita. Siamo tutto impazziti ed è colpa tua!” 

Dazai fece per rispondere a tono, poi si accorse che non stava parlando con lui ma con la sua pancia. Gli venne da ridere. “Parli con Saku, ora?”

Chuuya allargò le braccia. “Con te è impossibile farlo!”

“Puoi fermarti un attimo? Devo chiederti una cosa.”

“No, non mi fermo o qui finiamo per diventare un magazzino per neonati!” Chuuya spostò una torre di confezioni di pannolini dove non dava fastidio. “Ma tu chiedi,” gli concesse.

Dazai prese un respiro profondo. “Si tratta di Ango…”





 

A dispetto delle apparenze, Mori sapeva muoversi perfettamente nel disordine della sua clinica. Dopo l’arrivo di Chuuya e il definitivo trasferimento suo e di Dazai, aveva usato quel luogo come una sorta di magazzino dei ricordi. Chiudendo a chiave la porta d’ingresso, aveva tracciato un confine netto tra la sua nuova vita - quella di Boss della Port Mafia - e tutte quelle precedenti. Era stato un soldato della prima linea, era tornato a Yokohama come medico della zona più buia della sua città e in Europa aveva scritto i veri capitoli della sua formazione. Gli anni che ora vivevano i suoi ragazzi erano gli stessi da cui aveva preso più le distanze. Quella stagione della sua vita era come un arto andato in cancrena: aveva dovuto amputarlo per permettersi di sopravvivere.

Eppure, come la sua esperienza da medico di campo gli aveva insegnato, gli arti fantasma tornano a fare male di tanto in tanto. 

E Dazai, inconsapevolmente, aveva accentuato quel dolore dal giorno in cui era entrato nella sua vita. 

Mori sapeva perfettamente dove trovare quella cassetta di metallo, ma aveva aspettato che tutti fossero a letto per spostare gli scatoloni e il mobilio con cui le aveva creato una muraglia intorno. L’aveva sepolta - quello era il termine più adatto - nella stanza dei libri. Dazai la chiamava biblioteca, anche se era un termine un po’ superbo per definire quel caos di carta impolverata, e ne aveva fatto il suo rifugio durante il loro anno di convivenza. 

Un tempo, quella cassetta era stata rossa, ora era mangiata dalla ruggine. Non vi era una chiave per aprirla: la serratura si era rotta da un pezzo. Al suo interno, vi era custodito un taccuino rilegato in pelle nera. Mori lo prese tra le dita, dimenticandosi del suo misero contenitore in mezzo agli scatoloni: vi era solo morte tra quelle pagine ingiallite, ma meritavano di essere custodite con più dignità.

Sotto la luce tiepida della lampadina appesa al soffitto, Mori si fermò tra gli scaffali polverosi, pieni di libri e concesse a Rintarou di esistere di nuovo, dopo quasi vent’anni.

“Adesso ti nascondi pure?” 

Con gli occhi ancora persi tra le parole scritte in quel taccuino, Mori sorrise. “Pensavo te ne fossi andata,” disse.

“Me ne stavo andando,” ammise Kouyou, muovendo un passo all’interno di quella stanza caotica. “Ho controllato che i ragazzi fossero a posto, poi ho sentito un rumore sospetto mentre scendevo le scale.”

“E io che pensavo di essere stato silenzioso.”

“Lo sei stato, ma non abbastanza.” Kouyou si guardò intorno, sinceramente incuriosita. “Questo posto ha anche dei passaggi segreti? Mi ritrovo ogni giorno in una stanza diversa.”

“Quando ero giovane, all’inizio della mia attività, ammetto di aver pensato che costruirne uno sarebbe stato pittoresco,” raccontò Mori. “Influenza di qualche vecchio romanzo gotico.”

“E quello cos’è?” Domandò Kouyou, indicando il taccuino. 

“Niente.”

“E questo niente è così pericoloso da poter essere letto solo di notte, lontano da occhi indiscreti?”

Mori chiuse il piccolo quaderno e glielo porse. “Non ho nulla da nascondere, non a te.”

Le labbra di Kouyou accennarono una smorfia. “Non so se sia un onore o una condanna,” disse, prendendo tra le mani l’oggetto misterioso.

Tutti e due, avrebbe risposto Mori. 

La delusione di lei fu presto evidente, le bastò sfogliare un paio di pagine. “Non so leggere il tedesco.”

“Sai riconoscerlo però.”

“Ho avuto occasione d’intrattenermi anche con uomini europei.”

“Avrei voluto portare i ragazzi in Europa. Una vacanza, intendo. Gli episodi spiacevoli per cui ci sono finiti, non contano,” disse Mori, con un po’ di amarezza. “Sarebbe piaciuta a entrambi, per motivi diversi.”

“Non mi hai mai parlato di quella stagione della tua vita.” Nonostante non comprendesse le parole, Kouyou continuò a scorrerle con gli occhi, ammirando la calligrafia. “Non è la tua scrittura.”

“No.” Mori appoggiò la spalla allo scaffale alla sua destra. “So scrivere in tedesco, ma quella non è opera mia.”

“Sono poesie?”

“Perspicace…”

“Lo intuisco dal modo in cui tronca le frasi e va a capo.”

“Sì, la maggior parte sono poesie,” confermò Mori. 

Kouyou trovò una data scritta in un angolo, l’unica cosa a lei comprensibile in quell’insieme di caratteri stranieri. “Avevi l’età dei ragazzi.” Il pensiero la divertiva.

"Alcune di quelle liriche risalgono anche a prima. L’ultima è stata scritta che avevo circa vent’anni.”

“Oh!” Lo prese in giro Kouyou. “Anche tu hai avuto vent’anni!”

Mori si portò una mano al petto, fingendosi ferito. “Ne dimostro di più, per caso?”

“Chi è Johann G.?” 

Era da tempo che Mori Ougai non provava quella sensazione, come di lame invisibili che gli trapassavano il corpo da parte a parte. Non gli era mancata. C’era della tragica ironia nel fatto che la giovane donna di fronte a lui non potesse comprendere l’incanto delle parole scritte su quelle pagine, ma fosse stata in grado di leggere quel nome. “Guarda in fondo al taccuino,” disse.

Tra l’ultima pagina e la copertina di pelle, Kouyou trovò una foto. Sorrise, sinceramente sorpresa. “Mi aspettavo ci fosse una Elise nel tuo passato, non uno Johann.”

“Elise era nostra.” 

Non appena vide il sorriso di lei sparire, Mori si rese conto di averlo detto ad alta voce. “Ho raccontato questa storia solo una volta, a una persona che non fa più parte della mia vita. Al tempo, ero certo che non mi avrebbe compreso e questo mi ha aiutato a essere sincero.”

Kouyou fu una maestra della dissimulazione nell'ingoiare lo stupore e continuare la conversazione. “Ed è stato così, non ti ha capito?”

“No, lo ha fatto,” rispose Mori. “A modo suo, ma lo ha fatto.”

Kouyou diede un’ultima occhiata alla foto di Johann G. poi chiuse il taccuino e lo riconsegnò al suo legittimo proprietario. “Un giorno, la racconterai anche a me questa storia?”

“Può darsi…”

Kouyou prese un bel respiro. “Ascolta, io e Hirotsu abbiamo una proposta da farti.”

“Ecco, i ragazzi richiedono tutta la mia attenzione e la mia cerchia di fedelissimi complotta contro di me.” Mori ripose il taccuino di pelle nella tasca interna della giacca, lasciando cadere la questione tra i libri ricoperti di polvere. “E che proposta sarebbe?”

Kouyou reclinò la testa da un lato. “Torna alla Port Mafia.” Si rivolse a lui con lo stesso tono con cui parlava a Chuuya e Dazai.

Mori si chiese che cosa avesse mai fatto di male per meritarselo.

“Hai bisogno di una pausa,” aggiunse Kouyou. “Anche Dazai ce l’ha.”

“Quindi che facciamo?” Domandò Mori, allargando le braccia. “Lasciamo i ragazzi ad autogestirsi e intanto preparo un discorso funebre per Chuuya?”

Kouyou assottigliò gli occhi. “Non sottovalutare i miei allievi.”

“Mia cara, Dazai ha un potente alleato dalla sua parte, non possiamo ignorarlo.”

“Hirotsu resterà qui con loro.”

“Affiderei a Hirotsu la mia vita, ma non mi risulta che abbia conoscenze mediche.” Mori uscì dalla biblioteca per primo, aspettò che la giovane donna lo seguisse e chiuse la porta.

“Dazai sta bene, Mori. Sakunosuke non arriverà prima di Natale, perciò dubito che ti perderai qualcosa dall’alto del tuo ufficio.”

“Esistono i bambini premat- Ahi!” Mori si portò la mano alla nuca, dove la borsetta dell’assassina si era abbattuta. Sì, doveva esserci dentro un mattone.

“Questo è da parte di Dazai,” spiegò lei, con un sorriso angelico. “Non ti sto esiliando dalla tua stessa casa, ti sto dicendo di cambiare aria. Torna al tuo grattacielo, fai il tuo lavoro, gioca con Elise… Non sono stupida, lo so che in presenza di Dazai non ti disturbi a evocarla.”

“Troveresti divertente vederla comparire e sparire ogni qual volta io e Dazai ci tocchiamo, anche per sbaglio.”

“Ottobre,” propose Kouyou. “Torna a fare il Boss della Port Mafia fino a Ottobre. Passa a fare un saluto nei momenti liberi e lascia i ragazzi a me e Hirotsu. Sono sempre stati più tranquilli con lui che con te.”

Suo malgrado, Mori doveva darle ragione e ora Hirotsu godeva del vantaggio di non essere implicato nella morte di Oda Sakunosuke.

“Domani sottopongo Dazai a una visita di controllo generale,” disse Mori. “Dopodiché deciderò.”

Kouyou sorrise soddisfatta e si lasciò accompagnare alla porta. “Toglimi una curiosità,” domandò, prima di andarsene. “La persona a cui hai raccontato quella storia è Yukichi?”

“Buona notte, Kouyou,” la congedò Mori, con un sorriso tirato.




 

La prima volta che il piccolo Sakunosuke si fece sentire, Dazai per poco non ebbe una crisi di panico. Da qualche giorno si sentiva strano, qualcosa lo svegliava nel cuore della notte - a parte il continuo bisogno di fare pipì - e lo metteva in allerta ogni qual volta si sedeva.

“No, non va bene,” disse una mattina, toccandosi la pancia con fare sospetto. 

“Sì, la tua testa,” rispose Chuuya, occupato a rifargli il letto. Lo Sgombro era stato ufficialmente bandito da qualsiasi dovere domestico. Non che facesse molta differenza, rispetto alla normale quotidianità.

Dazai si sedette con cautela sulla poltrona vicino alla finestra. “C’è qualcosa che non va,” ripeté. 

Chuuya alzò gli occhi al cielo, prendendo a pugni uno dei cuscini per sfogare la voglia di fare lo stesso con la faccia dell’altro. “Dazai, dacci un taglio con gli scherzi!”

“Non sto scherzando!” Urlò Dazai. 

Chuuya fu pronto a tirargli la federa appallottolata, poi si accorse che l’altro tremava. “Ohi…”

Dazai non riusciva a muoversi. Aveva paura che il solo respirare fosse sufficiente a peggiorare la situazione.

“Che state facendo?” Kouyou entrò nella camera senza bussare, forse allarmata dall’urlo di Dazai. 

Lo sguardo atterrito dei due ragazzi fu sufficiente come risposta.

“Che cosa succede?” Kouyou si precipitò dal più spaventato dei due.

“Qualcosa non va.” Dazai non sapeva come spiegarsi. “Sento qualcosa, non so che cosa sia, ma non può andare bene.”

Istintivamente, Kouyou appoggiò la mano sulla pancia del diciannovenne - ancora poche settimane e i vestiti larghi non sarebbero più serviti a nasconderla - e le belle labbra si piegarono in un sorriso spontaneo. “Oh, tesoro,” disse, emozionata. “Non è niente di brutto. Quello che senti è il tuo bambino che si muove.”

Gli occhi di Dazai divennero grandi, luminosi. “Davvero?”

“Davvero?” Gli fece eco Chuuya, superando il letto passandoci sopra.

Kouyou posò un bacio sulla guancia di Dazai. “Una prova ulteriore che è sano e forte,” disse. “Anche se a lungo andare non ti farà più dormire.”

“Puoi tenermi sveglio quanto vuoi,” disse Dazai sollevato, rivolgendosi al piccino nella sua pancia. 

“Voglio sentire anche io!” Chuuya si precipitò sul partner. 

Dazai schiaffò via la sua mano, prima che potesse toccarlo. “Stammi lontano.”

“Ehi!” Ringhiò Chuuya. 

“È mio, lo posso toccare solo io.”

“Non te lo rubo mica, voglio solo sentirlo che scalcia!”

Contenta che l’atmosfera fosse tornata quella giusta, Kouyou scivolò via dalla camera da letto, senza essere notata.




 

Hirotsu aveva un potere calmante sui ragazzi, specialmente su Dazai. 

La sua devozione nei confronti della Port Mafia non poteva essere messa in discussione. I suoi meriti e la sua esperienza parlavano per lui. Se fosse stato per Mori, avrebbe occupato una poltrona da Dirigente, ma il veterano non aveva mai voluto saperne.

Qualunque mafioso del suo livello si sarebbe sentito umiliato a sottostare agli ordini di un quindicenne. Hirotsu aveva appoggiato Dazai fin dal primo giorno e non si era mai lamentato della sua caotica condotta. Era stato per affetto che era andato a cercarlo, dopo il caso Mimic. Era stato un piccolo atto di trasgressione su cui Mori aveva sorvolato senza rancore. 

Ora, in nome di quello stesso affetto, aveva lasciato i suoi doveri per indossare un grembiule da cucina e preparare una torta al figliol prodigo della Port Mafia e al prossimo Dirigente della stessa. 

“Ma perché proprio una torta di mele?” Domandò Chuuya. “E da dove viene questo affare?” Aggiunse, indicando il cappello da cuoco sulla sua testa.

“Questo palazzo nasconde meraviglie che noi umani…” Fu la risposta ironica di Dazai, che si dondolava su una sedia, a distanza di sicurezza da qualsiasi tipo di sforzo.

“Tu non sei umano,” gli ricordò Chuuya. “E stai seduto composto. Se cadi, fai male a Sakunosuke.”

Maturo com’era, Dazai gli rispose con una linguaccia.

“Chuuya ha ragione,” intervenne Hirotsu, dando un’ultima occhiata al libro di ricette.

Dazai gli diede retta, ma si annoiò in fretta e si avvicinò al rosso per dargli fastidio. “Ti sta bene questo cappello,” commentò, sarcastico. “Che fine ha fatto il tuo? Non lo vedo dalla sera in cui sei venuto a prendermi.”

“Al sicuro, lontano da te. Quando torneremo ad avere una vita normale, potrò indossarlo come si deve.” 

“Non voglio litigi nella mia cucina,” disse Hirotsu, allungò tre belle mele al giovane dai capelli rossi. “Sbuccia,” ordinò.

Chuuya afferrò la prima e si diede subito da fare. Dazai prese tra le dita una delle due rimasta e la osservò affascinato. “Se ne prendo un morso, morirò come nella favola di Biancaneve?” Lui e Odasaku ne avevano parlato una volta e quest’ultimo si era rivelato piuttosto confuso in materia di fiabe.

“No!” Esclamò Chuuya, togliendogli il frutto di mano. “Si era detto di sospendere l’argomento suicidio, fino a data da destinarsi!” Spostò le mele lontano dalla portata dello stronzetto, manco fossero avvelenate per davvero. “Per la cronaca, Biancaneve non muore.”

Dazai storse la bocca in una smorfia. “Viene salvata dal bacio del vero amore. Nel mondo reale, equivale a rimanere morti.”

Chuuya inarcò le sopracciglia. “E lo dici tu?”

Dazai incrociò le braccia sul tavolo e vi appoggiò la testa stancamente. Non gli rispose.

“Tornando alla tua prima domanda, Chuuya,” disse Hirotsu, rompendo due uova in una ciotola. “Il Boss ha detto che il bambino è bello grosso. Se dobbiamo fare una torta, meglio che sia di frutta o potrebbe crescere troppo.”

“Ma il Boss non è qui.” Dazai sbatté le lunghe ciglia, sfoderando i suoi occhi da cerbiatto.

“Non mi corromperai,” lo avvertì Hirotsu, accennando un sorriso. “Non puoi farlo, nemmeno tu.”

Dazai sbuffò. “Voi uomini d’onore e i vostri saldi principi!” Esclamò. “Voglio qualcosa di calorico, che urli colesterolo e alimentazione scorretta!”

Indeciso se dargli una mela in testa oppure infilargliela in bocca, Chuuya gliene sbatté una davanti al naso con poca grazia. “Se devi rompere i coglioni per tutta la cottura, mangia questa e stai zitto.”

Hirotsu recuperò un quarto pomo rosso dal cesto di frutta vicino al lavandino - Mori ne portava uno nuovo ogni fine settimana, ripetendo come un disco rotto quanto fosse importante che Dazai ne mangiasse - e riprese con la preparazione. “Chuuya, quando hai finito di togliere la buccia, tagliale a spicchi non troppo spessi. Dobbiamo creare una sorta di tappeto intorno alla struttura della torta.”

Dopo aver dato il primo morso alla sua mela, Dazai si mise subito al lavoro per fare quello che gli riusciva meglio. “Come sta Akutagawa?” Lo domandò come se fosse una curiosità da nulla.

Chuuya avvertì come un colpo secco dietro la nuca, per poco il coltello non gli scivolò. Dovette contare fino a dieci per riprendere a sbucciare la mela. Akutagawa Ryuunosuke non era suo amico, non era un collega per cui provava una particolare stima e non lo considerava nemmeno una buona compagnia, ma lo aveva accompagnato passo passo nella sua folle ricerca di Dazai. Non era una sua responsabilità, ma quel ragazzino era l’unico coinvolto in quella vicenda che ancora non fosse a conoscenza della verità. Era giusto che lo stronzo lo sapesse.

“Ti sta cercando,” disse Chuuya, prima che il veterano potesse rispondere.

Dazai apprese la notizia con una scrollata di spalle. “Non mi troverà.” Diede un altro morso alla sua mela.

“Certo che non ti troverà, sei coperto sia dal Boss che dal Governo. Non avrà mai i mezzi per trovarti.”

“Appunto.”

Chuuya voleva prenderlo a schiaffi.

“È molto scosso dalla tua scomparsa,” disse Hirotsu, serio. “Carattere difficile, ma se la caverà.”

“Tu sei bravo con i caratteri difficili, Hirotsu,” disse Dazai, un sorriso sincero gli graziò le labbra. 

“Non mi ascolta,” aggiunse il veterano.

“Oh, non ne dubito!” Esclamò Dazai. “È una testa calda, non ascolterà mai!”

Chuuya aggrottò la fronte. “Era il tuo cagnolino…”

“Quella è solo l’impressione che lascia a un’occhiata superficiale,” disse Dazai, con l’espressione di chi parla di una gran delusione. “Potrebbe avere il mondo ai suoi piedi, ma è destinato a rimanere un perdente.”

Chuuya gettò il cappello da cuoco a terra. “Scusa, Hirotsu, ho bisogno d’aria!”

Nessuno si mosse, fino a che la porta d’ingresso non sbatté, poi Dazai recuperò la mela sbucciata a metà e continuò il lavoro abbandonato dal suo partner. 

“Non sono sicuro che sia il caso di farti impugnare un coltello,” disse Hirotsu, aprendo il sacchetto della farina.

Dazai gli rivolse un sorriso rassicurante. “La mia vita è un conto, quella di Sakunosuke è un altro.”

“Sono importanti tutte e due,” ribatté il veterano.

Dazai sapeva che non c’era modo di fargli cambiare idea. “Saku merita la sua possibilità. Farò tutto ciò che è in mio potere per assicurargliela.” La buccia cadde sul tavolo sotto forma di una spirale rossa. Passò alla seconda mela.

“Parole coraggiose, Dazai.”

“Il coraggio è un’altra cosa…” La lama del coltello scivolò sulla mela e Dazai si tagliò. Il frutto e la posata gli caddero di mano, ma non ebbe il tempo di verificare l’entità del danno che Hirotsu era già accanto a lui, uno strofinaccio pulito in mano.

“Fai pressione sulla ferita,” lo istruì il veterano. “Non credo avrai bisogno di punti.”

Dazai scosse la testa. “Sto bene.”

“Siediti.”

Hirotsu tornò al suo lavoro e Dazai l’osservò in silenzio per alcuni minuti.

“Ti fa male?” Domandò il veterano, una volta finito di riversare tutti gli ingredienti nella ciotola. Recuperò il mestolo e prese a mescolare il tutto.

Dazai scosse la testa, nemmeno si disturbò a controllare se il taglio sanguinasse ancora. “Quante volte, Odasaku ha rifiutato la tua offerta?” Domandò di colpo.

Hirotsu gli lanciò un’occhiata veloce, ma molto eloquente. “Tre,” rispose. “Ho smesso di provarci dopo quello che ti è successo. A quel punto, era chiaro che fosse inutile insistere.”

Dazai sospirò. “Hirotsu, ti prego, almeno tu chiama il caso De Sade con il suo nome. Nemmeno Mori ha il coraggio di farlo.”

Hirotsu lo guardò dritto negli occhi: “credo che Mori non dimenticherà mai il giorno in cui ti ha salvato, Dazai. Forse rivede quella scena nei suoi incubi. Nessuno di noi riuscirà a scordare quello che ti hanno quasi fatto.”

Era semplice: lo avevano rapito, drogato, reso il prodotto di punta di un commercio umano che si finanziava con il benestare di una classe d’élite che correva dall’Asia all’Europa. Nessun silenzio poteva cancellare quegli eventi e Dazai non sopportava di essere trattato come una bambola di ceramica. L’ipocrisia di Mori nel non volerne parlare per il suo bene, quando era stato il suo piano a spingere Odasaku incontro alla morte, era a dir poco ridicola.

“Per tre volte sei andato da Odasaku a proporgli di entrare nella Black Lizard,” disse Dazai, riportando la conversazione nella direzione che gli interessava. “E per tre volte ha detto di no. Lo volevi sotto il tuo comando così tanto?”

Hirotsu scrollò le spalle, con un sorriso amaro. “Tu sai che veniva a sparare insieme agli altri della squadra armata, vero? Diceva di non voler perdere la mano.”

Dazai annuì.

“Oda non era un bravo pistolero,” disse Hirotsu. “Era dotato. Certe cose non le insegni nemmeno con anni di addestramento. Gli chiesi se avesse mai avuto una formazione da cecchino, mi rispose che in passato si era arrangiato per il suo lavoro. Arrangiato, capisci?”

Sì, Dazai poteva capirlo bene. Quando aveva parlato ad Akutagawa delle doti di Odasaku, non lo aveva fatto per il semplice gusto di dargli fastidio. Se quel giovane pistolero non avesse avuto così cara la vita degli altri, nessuno gli avrebbe impedito di fare carriera nel braccio armato della Port Mafia.

“Volevo prepararlo per te,” ammise Hirotsu, sollevando il mestolo per valutare la consistenza dell’impasto. 

Dazai non comprese. “Per me?”

“Diciamo che da qualche tempo fantastico sulla mia pensione.”

“Mori non te la pagherebbe mai. Ti minaccerebbe di miseria pur di farti restare: non sa nemmeno prepararsi il caffè da solo.”

Hirotsu rise, ma non fu un suono allegro. “Oda aveva tutte le carte in regola per essere leader della Black Lizard, gli mancava solo qualche anno sul campo. Se fosse stato il mio successore, me ne sarei andato con la certezza che fossi in mani sicure.”

Il veterano gli voleva bene, Dazai lo sapeva. Odasaku era stato coinvolto nel suo piano per il pensionamento non perché fosse stufo del suo lavoro, ma perché sapeva di non essere eterno. Hirotsu si considerava arrivato, sacrificabile e Odasaku era stato il candidato migliore per rappresentare il suo lascito alla Port Mafia.

La storia era andata diversamente dal previsto.

“Tu lo sapevi,” disse Dazai, accennando un sorriso. “Prima della Mimic e di tutto il casino. Tu lo sapevi cosa eravamo io e Odasaku l’uno per l’altro.”

Hirotsu sollevò la ciotola per versarne il contenuto in una teglia. Si avvalse del diritto di non rispondere.

Dazai non demorse. “Mi ha raccontato della conversazione che avete avuto,” disse. “So che dall’esterno sembrava che parlassi solo io,” aggiunse divertito.

Il veterano portò tutti gli utensili sporchi al lavandino: li avrebbe lavati più tardi. “Era impossibile non notare come vi guardavate. Lui provava a essere discreto, tu neanche un po’.” Una mela era stata mangiata da Dazai, l’altra era caduta a terra. Non gli restava che cominciare a sbucciare la terza. 

Il diciannovenne fece una smorfietta. “Ammetto la mia colpevolezza,” disse. “Non c’è mai stata l’intenzione di nascondere nulla, ma nemmeno di dare spiegazioni. Eravamo quello che eravamo e nessuno se n’è accorto. Tranne te, a quanto pare.”

“Non potevo non parlare con Oda,” si giustificò Hirotsu. “Era più grande di te, veniva dalla strada…”

“Beh, io non sono stato propriamente lasciato in un cestino di fronte alla clinica di Mori.”

“Avevi sedici anni,” gli ricordò Hirotsu. “Mi sentivo responsabile, dovevo tutelarti. Sì, era un compito che spettava a Mori, ma chi ero io per andarglielo a dire?”

“Gli hai parlato del mio corpo,” disse Dazai, passando la mano sana sulla pancia coperta dalla felpa. “Devo ammettere che quando Odasaku me lo ha raccontato, mi sono arrabbiato.”

“Non avevo dubbi.” 

“Era una cosa mia, nemmeno Chuuya sapeva nulla.” 

“Non sono io che ti ho tolto il diritto di rivelarti alle tue condizioni,” gli ricordò Hirotsu. “De Sade giace con una pallottola in testa anche per questo.”

Dazai ne era dolorosamente consapevole. Né De Sade né nessuno dei suoi clienti lo avevano preso carnalmente contro la propria volontà, ma questo non toglieva che lo avessero violato. Avevano esposto il suo corpo come merce da vendere, avevano giocato col modo in cui identificava se stesso. Chi lo aveva salvato, non era colpevole dello stato di nudità - a cui Mori aveva cercato prontamente di rimediare - e semicoscienza in cui lo aveva trovato. 

Ciò non toglieva che Chuuya non l’aveva più guardato nello stesso modo. 

La buccia della mela cadde sul tavolo e Hirotsu prese a tagliarla a spicchi. “Ma già lo sapeva, vero?”

“Eh?”

“All’inizio, pensavo stesse mentendo,” raccontò Hitotsu. “Ho capito in fretta che Oda era un tipo incapace di mentire. Lui conosceva il tuo segreto e, se vuoi saperlo, aveva paura di fare qualcosa che potesse offenderti o ferirti in qualche modo.”

Per Dazai quella era fantascienza. Sì, dopo Mori, Odasaku era stato il primo a vedere cosa nascondesse sotto le bende che gli fasciavano il corpo, ben prima che in loro vi fosse la volontà di legarsi come amanti. Ma avere paura di ferirlo, quando non c’era stata una singola volta in cui lo avesse messo a disagio…

“Ho avuto i miei dubbi,” ammise Hirotsu. “Ma ho avuto anche la sensazione che fosse la persona giusta.”

Dazai si umettò le labbra. “Lo era,” confermò. “Odasaku era la persona giusta.”

Anche se non lo aveva amato.



 

Nessuno dei due si accorse di Chuuya, fermo nel corridoio.




 

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Capitolo 5
*** V ***


V

 

La luce della luna era come un secondo sole in quella notte di fine settembre. L’aria si era fatta più fresca, ma Dazai non riusciva a chiudere occhio. 

“Non vuoi proprio stare buono, Saku-chan?” Mormorò, con un sorriso dolce e amaro al contempo. Ormai riusciva solo a dormire su un fianco e Sakunosuke non faceva che muoversi. “E pensare che tu eri una presenza così tranquilla, Odasaku.”

Il fantasma era di fronte a lui, una silhouette scura contro la luce della luna. Nei suoi deliri, Dazai riusciva a riprodurre la sua voce ma non poteva fare lo stesso col suo viso, coi suoi occhi. Soprattutto i suoi occhi.

“Non so nemmeno perché continuo a parlare con te,” ammise Dazai. “Non mi amavi, dovrei essere in grado di lasciarti andare.”

“Il fatto che tu l’abbia capito, non significa automaticamente accettarlo.”

Dazai voleva che si avvicinasse, che lo toccasse. Avrebbe dovuto essere reale per farlo. “Tu lo avresti voluto?” Domandò, passando la mano sulla pancia. Storse la bocca in una smorfia e si rispose da solo: “certo che lo avresti voluto. Difendere gli orfani e i più deboli… Non avresti mai abbandonato tuo figlio.”

“Ma dovere e amore sono due cose diverse,” ribatté il fantasma con la voce di Odasaku.

“Ma tu lo avresti amato tuo figlio,” ribatté Dazai. Ne era sicuro come poche cose nella sua vita. “Per tuo figlio, forse avresti imparato ad amare anche me. Chi lo sa?”

“Se volevi essere amato, perché nemmeno tu hai mai dato un nome a quello che ci legava?”

Dazai si umettò le labbra. “Questo è ingiusto,” replicò. “Non sono io quello che se n’è andato.”

“Hai evitato di rispondere a Chuuya e ora lo fai anche con te stesso.”

Odasaku non sarebbe mai stato tanto sadico con lui. Se fosse stato davvero lì, lo avrebbe tirato fuori - magari con un po’ di forza - dal vortice distruttivo dei suoi pensieri e lo avrebbe spinto a concentrarsi sulla realtà, sul bambino che cresceva dentro di lui e su cosa era giusto fare per la sua sicurezza. No, non si sarebbe lanciato in finte dichiarazioni di amore per tranquillizzarlo. Hirotsu aveva detto una cosa giusta: Odasaku era un uomo incapace di mentire.

“C’è solo una persona a cui devo una risposta,” replicò Dazai. “Quando il giorno arriverà, sarà a mio figlio che risponderò.”

“Comodo…”

“Non sei nella posizione di dirmi che cosa è comodo e cosa non lo è,” ribatté Dazai, senza alcuna nota di affetto nella voce. Era arrabbiato, lo era da quando Odasaku gli aveva dato le spalle e se ne era andato senza voltarsi indietro. “Tu sei morto e hai condannato me ad avere un futuro, senza di te.”




 

Gli alberi del parco sul retro della clinica si erano tinti di tutte le sfumature del giallo e dell'arancione, quando Mori tornò a vivere lì. La sua prima impressione fu di essere tornato indietro di quattro mesi e mezzo. Dazai aveva smesso di nuovo di parlare e con la scusa che il bambino non lo faceva dormire bene, restava isolato nella sua camera per la maggior parte del tempo.

“Vai tranquillo, Mori, prenditi una pausa!” Esclamò il Boss con sarcasmo, mentre riordinava sulla sua scrivania tutti gli esami e le ecografie che aveva fatto fare a Dazai in quei mesi. “Abbiamo tutto sotto controllo!”

Seduta sul divano sfondato, su cui Chuuya aveva dormito per tutta l’estate, Kouyou gli lanciò un’occhiata tagliente. “Andava tutto bene, fino a che non abbiamo detto a Dazai che saresti tornato.”

“Ma guarda un po’!” Mori non ne era affatto sorpreso. “Figurarsi se non è tutta colpa del brutto Boss cattivo della Port Mafia!”

“Puoi fingerti un uomo adulto?” Domandò Kouyou, sebbene fosse la prima a dubitarne.

“No, ho passato troppo tempo in mezzo agli adolescenti!” 

“Non è colpa tua…”

Ci mancò poco che Mori buttasse tutte le carte per aria per lo spavento. No, non erano tornati indietro di quasi cinque mesi ma di ben cinque anni, quando Dazai si divertiva a girare per la clinica senza far rumore, come il fantasma di un romanzo gotico.

“Dazai,” disse con calma, voltandosi verso la porta aperta. “Potresti tornare ad annunciarti, invece che spuntare fuori dal nulla?”

“È un po’ difficile spuntare fuori dal nulla così,” replicò il giovane, indicando la pancia di sette mesi. “Ripeto: il mio cattivo umore non dipende da te.”

“Oh…” Mori ne era piacevolmente sorpreso. “Ne sono lie-“

“Ti odio e ti auguro di morire in modo lento e doloroso, ma devo accettare che mi servi,” aggiunse Dazai, con schietta semplicità. “Per tanto, non darti l’importanza che non hai.”

Se ne andò senza far rumore, come era arrivato, lasciando Mori con più malanimo di quanto ne avesse prima. La risatina che Kouyou non riuscì a trattenere non fu di aiuto per i suoi nervi. Il Boss della Port Mafia era uscito dal suo ufficio vista mare da meno di un’ora e già non vedeva l’ora di tornarci.

Forse percependo l’enorme stato di stanchezza in cui si trovava, Kouyou si alzò in piedi e gli arrivò accanto. “Beh… È una bella notizia.”

Mori le lanciò un’occhiata eloquente.

“Rispetto al punto di partenza, qualche passo avanti lo ha fatto,” aggiunse lei, facendogli l’occhiolino.

“È successo qualcosa con Chuuya?”

“No… Cioè, non più del solito. Hirotsu mi ha detto che sono stati insolitamente tranquilli nelle ultime settimane.”

“E questo non è sospetto?”

“No, perché Chuuya stesso è venuto a chiedermi se Dazai mi avesse confidato qualcosa.”

“E lo ha fatto?” Indagò Mori.

Kouyou scosse la testa. “Però ho un’intuizione.”

“Ti ascolto.”

“Dazai ha ancora qualche questione irrisolta. Non tu, ti ha detto chiaramente quello che pensa appena un istante fa.”

Mori s’imbronciò. “E cosa potrebbe mai disturbarlo più di me?”

Kouyou alzò gli occhi al cielo. “Tu e Chuuya siete uguali: non potete proprio accettare che Dazai viva in un mondo di cui voi due non fate parte.”

Il medico allargò le braccia. “Per vivere in un mondo simile dovrebbe essere schizofrenico… O ammazzarci tutti e due.” Non sapeva sinceramente quale delle due ipotesi fosse più realistica. “Torniamo alla tua intuizione, mia cara.”

“Per un po’, ho pensato che a turbarlo fosse il bambino.”

Mori aggrottò la fronte. “Non ha mai dato segno di averci ripensato.”

“Tranquillo, Sakunosuke nascerà e non glielo toglieremo più dalle braccia. Di questo ne sono certa.”

“E quindi?”

“Il problema non è Chuuya, non sei nemmeno tu. Per esclusione, resta solo chi lo ha lasciato in questa situazione,” concluse Kouyou, con una nota dolente.

Mori sapeva benissimo a chi si riferiva: “Oda…”

Kouyou posò la mano sulla sua spalla. “Detto e considerato che sei colpevole della sua morte, non lo hai trascinato al quartier generale della Mimic per farsi ammazzare,” disse a bassa voce, quasi fosse un segreto tra loro. “Dazai può essersi sentito tradito da te, ma di sicuro ha vissuto la scelta di Oda come un abbandono.”




 

“Sei riuscito a trovare Ango?” Domandò Dazai, incrociando le gambe e appoggiando la schiena alla moltitudine di cuscini con cui aveva ricoperto la testiera del suo letto. 

Kouyou era di nuovo andata in missione ai grandi magazzini ed era tornata con tanta di quella roba che Chuuya aveva imprecato in una lingua sconosciuta per portare tutto al piano di sopra. 

“Potevi usare la gravità,” era stato il modo in cui Dazai lo aveva accolto in camera sua, carico di un nuovo guardaroba per un bambino non ancora nato. Chuuya non aveva perso tempo a ricordargli che il Boss non voleva che usassero i loro poteri per fare cose ordinarie: Dazai non aveva mai memorizzato la regola perché, a differenza sua, non ne aveva bisogno.

E ora si ritrovavano lì, con un centinaio di completini da ripiegare e il malumore di Chuuya, peggiorato da quel tripudio di azzurro. “Ma anche il rosso va benissimo per i maschi,” si lamentò.

Dazai si appoggiò una tutina sulla pancia e storse la bocca. “Pensavo che fossero più piccoli da neonati!” Esclamò, calcolando quanto dovesse ancora crescere per contenere un bambino di quella stazza.

“Sono completi da dodici mesi,” disse Chuuya. “Se la lasci indisturbata, Kouyou potrebbe arrivare a comprare il suo completo per i diciotto anni.”

“Ho difficoltà a immaginarmi con Saku tra le braccia, figurati se riesco a pensare che un giorno avrà la nostra età.”

“In effetti…”

“Allora, con Ango?”

Chuuya sbuffò esasperato. “Non è più così facile contattarlo e non posso andarlo a rapire quando esce dal lavoro.”

“Davvero? Pensavo che i mafiosi facessero questo.”

“Idiota…” Chuuya continuò a piegare vestitini. 

Passarono alcuni minuti di silenzio e quando si dilatarono troppo, il rosso alzò lo sguardo e trovò gli occhi scuri del suo partner che lo fissavano. Sobbalzò. Dazai rise e si sentì uno stupido.

“Cretino,” lo insultò Chuuya, per il suo attacco d’ilarità.

“Tu non sei qui per dovere,” disse Dazai, col tono di voce di chi è arrivato a una conclusione dopo una lunga riflessione.

“Ma che dovere e dovere…” Chuuya usava il suo solito tono, ma non riusciva a guardarlo negli occhi. “Nessun uomo decente ti volterebbe le spalle in questo momento, nonostante lo stronzo che sei.”

Era una confessione importante, ma Dazai non ne era realmente sorpreso: Chuuya era sempre stato il più umano di tutti loro, anche nei suoi momenti peggiori. “Quel nostro ultimo litigio-“

“No,” lo interruppe Chuuya.

Dazai prese un respiro profondo. “Quando hai incontrato Ango alla villa di Randou, ero lì.”

Chuuya rimase bloccato con una piccola salopette sospesa a mezz’aria. La adagiò sul letto molto lentamente. “Lo sapevo.”

Dazai sorrise e scosse la testa. “Se lo avessi saputo, non saresti stato così disperato e sincero.”

“Non ero disperato!”

“Sei un cane rabbioso.”

“Prego?” 

“Ringhi anche come un cane,” aggiunse Dazai, divertito. “Hai una personalità deleteria.”

“Senti chi parla!”

“E nei miei giorni di noia, il mio unico pensiero è come rovinarti la giornata senza essere banale.”

“Questo lo sanno anche i muri!”

“Ma non sei niente,” aggiunse Dazai con serietà. “Sei la cosa peggiore della mia vita, che è diverso da niente.”

No, Chuuya non poteva davvero reggere il suo sguardo dopo quello. Pensò d’ignorare la cosa e tornare a piegare vestitini color pastello, ma poi si sarebbe trascinato dietro un malanimo troppo pesante e doveva restare lucido per il bene di tutti.

“Col senno di poi, avevo solo perso importanza,” concluse Chuuya, con un’inclinazione amara che non si disturbò a nascondere.

Dazai non lo negò.

“Avevi la testa da un’altra parte,” aggiunse il diciannovenne dai capelli rossi, trovando un improvviso interesse per la finestra alla sua destra e il panorama autunnale fuori. “Adesso lo so. In ogni caso, non avrei mai dovuto metterti le mani addosso in quel modo perché mi sentivo ignorato.”

Dazai accennò un sorriso. “Sono duro a morire.”

Il viso di Chuuya divenne il ritratto della noia. “Dovrebbe far ridere?”

“Non lo so, ma sei tornato a guardarmi in faccia, quindi ha funzionato,” cinguettò Dazai.

Chuuya aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi dichiarò la resa. “Bastardo…”

Tanto vinceva sempre lui.

Passarono dieci minuti di battutine di Dazai e Chuuya che lo intimava di chiudere la bocca, tra un vestitino da piegare e l’altro. Kouyou li trovò così, in quel raro stato di grazia. “Vi divertite?”

“Neanche un po’!” Chuuya si alzò dal letto per riporre gli ultimi indumenti nell’armadio di Dazai - che del legittimo proprietario conteneva davvero poco - imprecando per il poco spazio che era rimasto. “È successo qualcosa?” Aggiunse con voce più cordiale. A dispetto dei loro ruoli, la sua maestra era meno morbida del Boss nell’accettare i suoi toni nervosi.

“Rilassati, non riguarda te,” disse Kouyou.

Chuuya guardò Dazai, che aveva smesso di sorridere. “Ti manda Mori?” Domandò quest’ultimo.

“Sono qui per una mia intuizione,” rispose Kouyou. “Che Mori ne sia informato o meno, non è di alcuna importanza.” Posò gli occhi sul suo allievo, mascherando l’ordine silente con un sorriso gentile.

Chuuya lanciò un’ultima occhiata a Dazai e si prese il suo tempo per uscire, quasi cercasse di leggere nell’atmosfera che era calata un indizio su quanto stava accadendo. Fu Kouyou a spingerlo con cortesia oltre l'architrave della porta e a chiuderlo definitivamente fuori dalla scena.

Seduto dov’era, Dazai si sentiva troppo vulnerabile. Sebbene tutto il suo corpo gli urlasse di non farlo, si alzò in piedi. Scelse il davanzale della finestra come punto di appoggio. “Di cosa mi devi parlare?”

A differenza sua, Kouyou non si fece alcun problema a mettersi comoda sulla poltrona. “Come ti senti?”

Dazai scrollò le spalle. “È una domanda un po’ generica.”

Kouyou si portò una mano sopra al seno. “Ti fa male? Non te ne sei mai lamentato.”

Dazai si guardò il petto: quella felpa troppo grande per lui copriva qualsiasi forma, esclusa quella della pancia. Non che fosse molto difficile. A differenza dell’assassina, non aveva un granché da mostrare. “Sì,” rispose, “ma era peggio all’inizio.” 

Le notti sul divano di Ango erano state un inferno. Ad ogni movimento era seguito del dolore, quasi vi fosse del fuoco liquido a scorrere sotto la sua pelle. Aveva provato una cosa simile durante i primi cicli mestruali: il suo corpo si ribellava contro le fasciature troppo strette sotto cui lo nascondeva, ma aveva imparato a farci l’abitudine e a ricordarsi che era temporaneo. Averlo a ondate per sette mesi di seguito, aveva quasi convinto Dazai a fare a meno delle bende per il resto della vita.

Quasi.

Kouyou sollevò il braccio. “Posso?” Domandò. Solo una donna si sarebbe disturbata a chiedere il permesso. 

Dazai annuì. L’assassina posò il palmo sul suo grembo. “Hai una bella pancia,” commentò intenerita, allontanando la mano. “Posso essere sincera con te? Non credevo che avresti affrontato così bene i cambiamenti del tuo corpo. Ho visto alcune delle mie ragazze avere difficoltà anche con gravidanze desiderate.”

Dazai immaginava che cercare un bambino con un compagno di vita implicasse una certa dose di bene per se stessi. Per lui era pura utopia. Se le circostanze fossero state differenti, forse avrebbe trovato il tempo di lamentarsi di ogni fastidio, delle notti insonni e della dieta da fame che Mori gli aveva imposto - “è quello che succede ad avere figli con uomini con le spalle larghe, sopra il metro e ottanta,” era stato il commento del medico - ma prima avrebbe dovuto liberarsi di tutta l’oscurità che lo tormentava.

“Le tue ragazze devono aver avuto delle gravidanze serene,” commentò Dazai, poggiando la tempia al vetro freddo della finestra. Succedeva. Suonava assurdo, ma accadeva anche alle creature della notte di Yokohama d’innamorarsi. La Port Mafia era piena di coppie che si erano formate sulla strada della malavita e avevano creato famiglie più o meno normali. 

La storia di Dazai con Odasaku non era poi così diversa. La Port Mafia non li aveva messi insieme, ma per la Port Mafia tutto era andato in pezzi. 

Kouyou gli afferrò la mano, un gesto quasi materno, che a lui veniva riservato solo in occasioni particolari. “Non parli mai di Oda.”

Mesi prima, Dazai sarebbe esploso come una bomba nel sentir pronunciare quel nome. Il tempo gli aveva restituito parte della sua capacità di dissimulare. “Non è vero,” obiettò. “Ho minacciato Mori, parlando di lui.”

“Dazai…” Lei lo guardò, come a dirgli che quei giochetti potevano funzionare con Chuuya, ma non con lei.

“Non sei mia madre,” disse il diciannovenne, schietto. Liberò la mano dalla presa di lei. “E nemmeno mia sorella. Io non sono Chuuya.”

“Hai ragione,” gli concesse Kouyou. “Ma penso di essere l’unica persona coinvolta in questa storia che può provare a comprenderti.”

Dazai continuò a fissare il cielo scuro oltre il vetro. “Eri innamorata di quell’uomo, quello che ha tentato di portarti via dalla Port Mafia, prima dell’arrivo di Mori?”

Kouyou piegò le labbra in un sorriso triste. “Come poteva esserlo una ragazzina di quattordici anni a cui non era mai stata mostrata gentilezza.”

“Uhm…”

“E tu lo amavi, il tuo Odasaku?”

Dazai sbuffò. “Perché non fate che chiedermelo?”

“Perché a tutti noi manca un pezzo di te, Dazai,” rispose Kouyou. “Mori e Chuuya, in particolare, non riescono ad accettarlo.”

“Non mi sono mai nascosto.” Dazai aveva perso il conto delle volte che lo aveva ripetuto. “Parlavo con Mori di lui. Quando mai ho parlato con Mori di chiunque?”

“È stata una svista da parte sua-“

“Svista?” Dazai la inchiodò dov’era con uno sguardo. “L’ha mandato a morire appositamente per colpire me!”

Kouyou scosse la testa. “Lo ha mandato a morire perché era l’uomo più sacrificabile.”

“Oh, certo, tutta la Port Mafia si regge sulle belle favole di Mori!”

“Non si aspettava quella reazione da parte tua, te lo posso assicurare.”

“Ovvio. Mi ha sempre considerato la cosa più simile a lui. Perché mai avrei dovuto rispondere in modo diverso dalle sue aspettative?” Domandò Dazai sarcastico, tornando a rivolgere il suo sguardo all’esterno. Era una discussione inutile: Mori Ougai vinceva in partenza.

“Ammetto che c’è un dettaglio non trascurabile a rendere diversa la tua storia dalla mia,” disse Kouyou. “Deve essere insopportabile convivere col pensiero che tuo padre è anche l’assassino dell’uomo che ami.”

Dazai strinse gli occhi e scosse la testa. “Non è così. Mori non ha alcun valore per me.”

“Mori ti ha tradito. Non c’è nulla di sbagliato nel dirlo ad alta voce, Dazai.”

Forse per loro. Chiunque altro si sarebbe guadagnato una pallottola in testa a fare certi discorsi riguardo al Boss della Port Mafia. 

“Lo odio…” Disse Dazai, sommessamente.

Kouyou lo poteva comprendere. “Ma lui ti ama, Dazai,” disse. “Penso che non lo ammetta nemmeno con se stesso, ma io e te possiamo essere sinceri.”

“I Demoni non sono in grado di amare,” replicò il diciannovenne.

“Fino a prova contraria, il Demone fanciullo della Port Mafia sei tu,” ribatté Kouyou, senza cattiveria. “E ti sei innamorato.”

“Insisti?” Dazai tornò a guardarla, esasperato.

“Le tue azioni dicono solo una cosa, tesoro.”

“Le mie azioni…” Dazai si lasciò sfuggire una risatina che derideva solo se stesso. “Ho cercato di dissuadere Odasaku dal fare qualche sciocchezza,” raccontò. “Non mi ha dato ascolto. Il suo mondo era andato distrutto, certo, ma io ero ancora lì. Per lui non ha avuto alcuna importanza. Se le mie azioni urlano, le sue che cosa dicono?”

Eccola lì, la conferma che Kouyou stava cercando.

Dazai era certo che Oda Sakunosuke non lo avesse mai amato. Con quel pensiero a tormentarlo, lei per prima era sorpresa che riuscisse a restare presente a se stesso. Questo spiegava anche perché Dazai non aveva mai mostrato turbamenti riguardo al piccolo Saku: quel bambino era l’unica cosa, in mezzo a tutta quell’oscurità, a tenerlo saldo.

Kouyou inspirò aria dal naso e decise di parlare di un evento che aveva taciuto persino a Mori. “L’ho conosciuto,” disse. “Ho conosciuto Oda Sakunosuke. Intimamente.”

“Lo so,” disse Dazai, sereno. “Me lo ha raccontato.”

Non era abitudine di Kouyou lasciarsi prendere di sorpresa - quello era il suo lavoro - ma impiegò diversi istanti a fare di nuovo ordine tra i pensieri, abbastanza da poter parlare. Alla fine, buttò tutto in una risata. “Non me lo aspettavo.”

“Nemmeno io,” ammise Dazai, per nulla divertito. “Pensavo fossero di tuo interesse uomini di un altro rango.”

Kouyou scrollò le spalle. “Non credo di doverti spiegare nulla. È venuto dalle mie parti a cercare compagnia e ho pensato che un ragazzo di vent’anni tanto bello fosse un’occasione d’afferrare al volo.”

Se quella conversazione fosse avvenuta un anno prima, Dazai avrebbe già pensato a mille e più modi per attentare alla bella chioma di cui Kouyou era tanto fiera. Peccato che essere infantili impiegasse troppe energie per la sua condizione. “Cosa dovrei farmene della tua confessione, di grazia?”

Sapeva già da sé che Odasaku era bello e non gli serviva certo una recensione sulle sue prestazioni da amante.

L’imbarazzo era un’altra emozione che a Kouyou non apparteneva, ma gli occhi scuri del giovane fissi su di lei non le stavano facendo alcun favore. “Abbiamo parlato. Mi ha confessato con molta sincerità che non era sua abitudine frequentare case di piacere,” disse. “Mi ha raccontato che aveva qualcuno per la testa, una persona che forse ricambiava il suo interesse - non ne era sicuro - ma con cui non era saggio superare certi confini.”

L’interesse era ricambiato. I confini erano stati superati. Quella storia non aggiungeva niente a quello che Dazai sapeva già.

“Mi disse che quella persona gli era entrata dentro e che era una cosa a cui non era abituato,” aggiunse Kouyou. “Non so cosa tu gli abbia fatto, ma non riusciva proprio a fare a meno di te.”

“Chi ti dice che stesse parlando di me?” Domandò Dazai.

Kouyou alzò gli occhi al cielo. “Dazai…”

“Non ci credo. Punto.”

“È accaduto poco prima che De Sade ti rapisse. Non appena Mori ha dichiarato lo stato di emergenza, Oda è andato dritto da Chuuya per essere in prima linea. Nessuno glielo aveva ordinato. Non esiste il tempo materiale per dubitare della presenza di una terza persona.”

Quella di Kouyou era un’analisi ragionevole, ma Dazai non riusciva a esserlo quando si parlava di Odasaku. Continuava ad avere pietà di se stesso, della disperazione con cui aveva cercato di trattenerlo a sé. “Trova qualcosa a cui aggrapparti,” aveva detto, nella speranza di essere lui quel qualcosa.

Odasaku non gli aveva riconosciuto un simile valore.

Se le azioni parlavano, le sue avevano mandato un messaggio molto chiaro.

“Chuuya lo sa?” Dazai cambiò discorso. “Di te e Odasaku, intendo.”

Kouyou si alzò in piedi. Erano quasi alti uguali. “Certo che no,” rispose. “Posso contare sulla sua tua discrezione?”

Dazai annuì. “Possiamo raccontarlo a Mori?”

“No.”

“Ma sono certo che non gli farebbe piacere.”

Suo malgrado, Kouyou immaginò la scena e la divertì. “Teniamocelo come asso nella manica per il futuro,” concluse, spettinando con affetto i capelli di Dazai.




 

“Non ho capito,” concluse Mori, alla fine del rapporto.

Kouyou assottigliò gli occhi. “Sul serio, mi spieghi come fai ad essere arrivato dove sei?”

“Non hai fatto altro che dire avevo ragione ogni due parole!” 

La giovane donna si massaggiò la fronte stancamente. “Ti faccio un riassunto. Mi segui?”

Il Boss annuì. 

“Dazai è convinto che Oda non lo amasse.” Quello era il dettaglio chiave. 

“E perché sarebbe una tragedia?”

Kouyou contò fino a dieci. “Lo stai facendo apposta, vero?”

Mori gettò la maschera. “Sì, lo ammetto… Ma non ne posso più di sentirlo nominare!” Trentasette anni di moccioso capriccioso. Ecco chi era davvero il Boss della Port Mafia.

“Il bambino che nascerà avrà il suo stesso nome, fattene una ragione,” gli ricordò Kouyou. “Inoltre, il solo che devi biasimare sei tu.”

“Adesso perché sei arrabbiata con me?”

Kouyou gli lanciò un’occhiata molto eloquente. “Prova a empatizzare. Ce la fai?”

“So cosa vuol dire empatizzare.”

“Di questo non ne dubito. Ti ho chiesto se riesci a farlo.”

Mori crollò contro lo schienale della poltrona, che cigolò pericolosamente. Con la fortuna che aveva, si sarebbe ritrovato a terra senza sapere come. “Dazai era innamorato di Oda? Questo è quello che voglio sapere.”

Kouyou inarcò il sopracciglio destro. “Sei intelligente, deducilo.”

Mori scosse la testa. “No, con Dazai ho smesso di capirci qualcosa dopo il caso Mimic.”

“No, è accaduto prima, solo che non lo sapevi.”

Mori incrocio le braccia sopra la scrivania e vi appoggiò la testa, come un ragazzino. “Alla fine di questa storia, brucerò questo posto,” disse, guardando il suo vecchio ufficio e odiandolo come se fosse la sua prigione.

“Rimanda i tuoi piani da piromane, non hai tempo ora.” Kouyou si avvicinò alla scrivania, tanto d’appoggiarvi i gomiti. “Dazai ha diciannove anni. Tra un paio di mesi, avrà un bambino, il figlio di un uomo che amava ma da cui è certo non essere mai stato ricambiato. Uomo che hai ucciso tu-“

“Giusto, me lo ero scordato,” bofonchiò Mori, sarcastico.

“E tu, mio caro Boss della Port Mafia, eri un punto fermo nella sua vita. No, non darti un’importanza che non hai. Ora a Dazai servi per ragioni pratiche, emotivamente può fare benissimo a meno di te. Il problema: l’odio che prova per te gli impedisce di accettare che parte del suo dolore deriva dal tuo tradimento.”

“Io non-“

“Smettila. Se Oda fosse stato ucciso da Gide e basta, questa storia non sarebbe tanto complicata.”

Mori le diede ragione restando in silenzio. 

“Tuttavia, lo ripeto, non è il pensiero di te a tormentarlo. Non adesso.”

“Ma il dubbio di essere stato amato o meno,” concluse il Boss della Port Mafia.

Kouyou sorrise amaramente. “Esatto. Ma Oda è morto, chi mai potrebbe risolvere un dubbio simile?”

Mori nascose gli occhi contro le braccia piegate. Il primo pensiero che gli attraversò la testa fu di aspettare e vedere come Dazai avrebbe reagito alla nascita del bambino. Forse avere Sakunosuke tra le braccia avrebbe tolto importanza a tutto il resto… O forse avrebbe accresciuto la negatività di certi pensieri. No, si disse, non andava bene. Serviva una strategia attiva, qualcosa che risolvesse la situazione. 

“Se i morti potessero parlare…” Mormorò, abbandonandosi completamente contro la scrivania. Premuto all’interno della tasca interna della giacca, il taccuino di Johann G. gli ricordò la sua presenza. La soluzione si presentò a Mori da sola.

Sollevò la testa. “So cosa fare,” disse.




 

Quella sera, come tutte le sere, Ango fu l’ultimo a uscire dalla Divisione Speciale.

Era appena iniziato novembre e già si percepiva l’imminente arrivo della neve nell’aria. Non appena uscì nel garage sotterraneo, l’agente nascose il mento nella sciarpa e procedette verso la sua auto a passo spedito. Era stata una lunga giornata. Dopo il caso Mimic, Ango viveva solo lunghe giornate. Nemmeno essere carico di lavoro riusciva a ledere un po’ il suo malanimo. 

Il pensiero di Dazai e Odasaku lo accompagnava ogni giorno.

Impossibilitato a parlare di ciò che lo tormentava con un amico - ne aveva avuti solo due nella sua vita e li aveva persi entrambi - Ango ingoiava il boccone amaro e andava avanti. La sua preoccupazione principale era tenere Dazai al sicuro e assicurarsi che nessuno s’intromettesse nel suo caso.

Per tutto il resto, la sua fiducia era riposta in Chuuya.

Non appena prese posto sul sedile, Ango lasciò andare un sospiro stanco. Sfregò i palmi l’uno contro l’altro per recuperare la sensibilità alle dita fredde, prima di mettersi al volante. Mentre allungava il braccio per premere lo Start/Stop, si accorse della telecamera di sicurezza - quella accanto al suo parcheggio - che penzolava dal soffitto, appesa all’unico cavo che non era stato reciso. Non aveva bisogno di guardarsi intorno per sapere che anche le altre aveva fatto la stessa fine.

Ango strinse le labbra e ingoiò a vuoto. “È nato?” 

Sul sedile posteriore, qualcosa si mosse verso il centro. “Siamo a novembre, mancano due mesi,” rispose Chuuya, guardando l’agente attraverso lo specchietto retrovisore. “La data presunta era tra la fine dell’anno e l’inizio di quello nuovo, ricordi?”

“È successo qualcosa di brutto?” 

Chuuya aggrottò la fronte. “Se fosse così, pensi che me ne starei così calmo?”

“Tu non sei mai stato calmo, Chuuya,” ribatté Ango. “Sai mantenere il controllo, fino a che una singola parola storta ti fa scattare.”

Provocare Nakahara Chuuya non era la migliore delle strategie, ma era la prima volta da mesi che Ango poteva parlare apertamente e non aveva nulla di buono da buttare fuori. 

Il mafioso non gli rispose, s’infilò tra i due sedili e si accomodò accanto all’agente.

Era la prima volta, da quella loro litigata nel bar vicino alla clinica, che si guardavano in faccia.

“È un maschio,” disse Chuuya. “Si chiama Sakunosuke. Noi lo chiamiamo solo Saku, il più delle volte.”

“Sakunosuke…” Ripeté Ango, con un filo di voce. Non avrebbe dovuto sorprenderlo tanto.

“Detto tra noi, credo che a Dazai nemmeno piaccia come nome, dato che continua a storpiarlo.”

Ango si sorresse la testa con la mano. “Hai idea di quante settimane ho impiegato a capire che Odasaku era Oda Sakunosuke?”

“Non faccio fatica a crederlo.”

“Parliamo di Dazai. Penso che nessun nome sarebbe stato al sicuro con lui.”

“Vero anche questo.”

“Se continuiamo ad andare d’accordo, finirà per nevicare prima di dicembre,” disse Ango.

Chuuya emise una risata simile a uno sbuffo, ma fu una cosa breve. “Vuole che torni,” disse.

Ango si ostinò a guardare di fronte a sé. “Te lo ha detto lui o-“

“Mi ha chiesto esplicitamente di venirti a cercare,” chiarì Chuuya. “Perché sei scappato in quel modo?”

Ango rispose al suo sguardo. “Credevo di non essere ben accetto.” 

“La tua opinione riguardo al bambino non lo era,” ribatté il rosso. “Non provare a dire che ti ho cacciato io. Tira fuori le palle e ammetti di essere stato un codardo.”

Aveva ragione. 

“Ho dovuto prendere le distanze,” cercò di giustificarsi.

“Quando hai detto a Mori che avresti protetto Dazai, che avevi un debito da ripagare, eri così fiero!” Lo prese in giro Chuuya. “Ammetti che ti sei sentito messo da parte dai tuoi due amici e fatti un favore.”

Ango scattò subito sulla difensiva. “Io non-“

“Eri il terzo incomodo, Ango. Accettalo,” disse Chuuya. “Come lo ero anche io, a modo mio.”

“Non mi sono mai sentito il terzo incomodo,” obiettò Ango. “Se fosse successo, avrei intuito qualcosa.”

Chuuya estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca. “È proprio qui che cadi male. Hai d’accendere?”

“Non fumare nella mia auto!”

“Come se tu non avessi mai fumato in vita tua. Quella volta, alla clinica, mi hai detto una stronzata.”

“Ho cominciato lavorando con te!” 

“Un altro punto a mio favore,” disse Chuuya, riponendo a malincuore le sigarette. “Facciamo un quadro della situazione: ti senti ferito dal fatto che nessuno dei tuoi amici ti abbia confidato che erano amati, ma Dazai sostiene di non essersi mai nascosto. Conclusione: sei un idiota, come tutti noi.”

Ango appoggiò la fronte al volante. “Te lo ripeto: non avevano il comportamento di una coppia. Dazai dice che non si nascondeva, ma non si mostrava nemmeno.”

Chuuya scrollò le spalle. “Forse era un gioco dei suoi,” disse. “Forse voleva che lo beccassimo. Beh… Abbiamo tutti perso miseramente.”

“Non ha alcun senso!”

“Che cazzo, Ango, Dazai ce l’ha?” Chuuya stava perdendo la pazienza. “Sei talmente attaccato alla logica e alla ragionevolezza, che mi chiedo come tu riuscissi a stare dietro ai suoi discorsi.”

“Non lo facevo,” ammise Ango. “Odasaku ci riusciva, almeno in parte.”

Chuuya schioccò le dita. “Ecco, quello era l’indizio e non lo hai saputo leggere.”

“Si conoscevano da più tempo di me!”

Il mafioso fece un gesto con la mano, come a dire di lasciar perdere. “Lo Sgombro ha parlato di alcune fotografie. Almeno questo, ha senso per te?”

Ango esitò, forse per paura di essere giudicato troppo sensibile, poi infilò una mano nella tasca interna della giacca. 

Il commento di Chuuya arrivò puntuale: “sei una vedova di guerra, Ango?”

L’agente non replicò, si limitò a consegnare l’immagine in bianco e nero al più giovane. “Una copia di quella foto è sulla tomba di Odasaku,” disse.

Chuuya concentrò tutta la sua attenzione sull’uomo al centro. Quando Dazai era stato rapito da De Sade, avevano eluso le regole insieme, ma non si erano mai conosciuti davvero. 

“Ne ho altre,” aggiunse Ango. “Una è solo di Odasaku. Penso non vi siano altre sue immagini esistenti.”

Chuuya restituì la foto. “Quando tornerai, portala con te. Non ci mettere troppo.”

Ango annuì. 

Per cinque minuti buoni, nessuno si mosse.

“E portami a casa!” Tuonò Chuuya. “Col cazzo che cammino, con questo freddo!”




 

Mori scelse con cura il momento per andare da Dazai.

Per una serie di coincidenze, sia Chuuya che Kouyou si assentarono dalla clinica per qualche tempo. Il primo doveva prendere mano con l’arte del comando e quale occasione migliore, se non un periodo di assenza del Boss? Ciò nonostante, era necessario che la sua maestra gli stesse accanto, valutando le sue mosse e consigliandolo dove sbagliava.

Come al principio di tutto, Mori e Dazai si ritrovarono da soli.




 

Rintarou conobbe Johann - per lui era solo Hans - all’età di quindici anni, nel salone dei ricevimenti della Port Mafia. La colonna sonora del loro primo incontro fu il pezzo Für Elise di Ludwig van Beethoven. Entrambi morirono cinque anni dopo. Tutto ciò che rimaneva della loro storia era racchiuso tra le pagine di un taccuino rilegato in pelle nera.

Il destino beffardo volle che quella di Dazai e Odasaku avesse un finale simile.

Al contrario delle sue abitudini, Mori esitò. 

Il corridoio del secondo piano era illuminato solo dalle luci della strada, ma l’uomo riusciva a vedere chiaramente il quaderno scuro tra le sue mani. In principio, quando aveva perquisito l’appartamento di Oda Sakunosuke con Hirotsu, Mori aveva portato quell’oggetto con sé con l’intenzione di leggerne ogni pagina. Non appena Chuuya aveva accettato il tradimento di Dazai, lo aveva abbandonato in un cassetto, deciso a lasciarsi quella storia alle spalle a sua volta.

Era arrivato il momento di consegnarlo all’unica persona che avesse diritto di possederlo, dopo il suo autore. Se Oda aveva l’anima di uno scrittore, doveva esserci una traccia di Dazai tra quelle parole. Mori non poteva averne la certezza, ma non conosceva altro modo per dare voce alle emozioni di un uomo morto.

Quando entrò nella camera del ragazzo, Dazai sedeva sulla poltrona con un cellulare tra le mani - aveva la cover rossa, doveva averlo rubato a Chuuya.

“Che cosa c’è?” Domandò il diciannovenne, diretto.

Mori non riuscì a fare altrettanto. “Il bambino non ti fa dormire?”

Dazai bloccò lo schermo del cellulare per posarlo sul davanzale. “Chuuya mi ha fatto scaricare dei giochi con cui intrattenermi nelle notti brutte.”

Ah, almeno non era un furto.

“È una notte brutta?”

“Questo mese e mezzo non passa più.”

Suo malgrado, a Mori sfuggì un sorriso. “È normale.”

“Cos’è quello?” Dazai indicò il quaderno nella mano destra del Boss con la stessa curiosità di un bambino.

Mori sapeva che quella cosa non si poteva fare in modo gentile. Sollevò l’oggetto in questione, in modo che fosse perfettamente visibile. “Non lo riconosci?”

“È un quaderno a copertina rigida dei grandi magazzini,” rispose Dazai, annoiato.

Quando faceva così, Mori aveva l’impressione che avesse ancora quattordici anni. Decise di non girarci troppo intorno. “È di Oda.”

Gli occhi scuri del giovane divennero enormi. “Perché lo hai tu?” Ingoiò a vuoto. “Dove lo hai trovato?”

“Nel suo appartamento,” rispose Mori. “L’ho perquisito personalmente.”

“Perché?”

“Ti cercavo, lo sai.”

Dazai fissò il quaderno con emozioni contrastanti. “Lo hai letto?” 

“No.” 

“È un altro gioco dei tuoi?”

“Tieni.” Mori gli porse il quaderno. “Sono certo che tu sappia riconoscere la sua scrittura.”

Dazai non esitò a controllare, gli bastò sfogliare un paio di pagine per essere certo che quella fosse opera di Odasaku. “Perché non lo hai distrutto?”

“È una prova,” mentì Mori. “Era in archivio, insieme a tutto il resto che riguarda Oda Sakunosuke. Era uno scrittore?”

“Voleva diventarlo…” Rispose Dazai distrattamente, accarezzando la copertina nera come se avesse tra le mani un oggetto prezioso. 

“Dazai,” Mori aspettò che quegli occhi scuri fossero sui suoi. “Alle volte, in preda alla rabbia o alla disperazione, facciamo cose che un istante dopo non ci sfiorerebbero la mente. Tutto sta nel superare quell’istante.”

Odasaku non c’era riuscito. Non aveva trovato quel qualcosa a cui aggrapparsi, perché non si era dato il tempo di vederlo. Dazai strinse il quaderno al petto, sopra la pancia in cui il suo bambino scalciava e si muoveva, incurante del suo turbamento. “Lasciami solo.”

Mori lo accontentò.




 

Non andò a dormire.

Non ci sarebbe mai riuscito.

Mori si chiuse nel suo studio, in attesa.

Al piano di sopra, Dazai stava sicuramente leggendo gli scritti di Oda e non voleva farsi trovare impreparato, qualunque fosse la reazione. 

All’inizio si sedette sul divano - se quel mobile avesse potuto parlare, lo avrebbe mandato al diavolo - e concluse che braccioli, schienale e seduta erano ancora staccati insieme per puro miracolo. Mori rimase immobile, con le orecchie tese a studiare il silenzio, come se da lì potesse sentire Dazai voltare le pagine di quel quaderno. Dopo un po’, si sorprese a contare le mattonelle del pavimento ma si stufò in fretta. 

Il Boss della Port Mafia si alzò in piedi con un saltello, come se fosse ancora un adolescente capriccioso - eccome se lo era stato, Dazai e Chuuya erano acqua liscia in confronto - e prese a girare intorno, con le dita intrecciate dietro la schiena. Andò avanti così per un bel po’, intrattenendosi con le preoccupazioni del momento: era meglio rimandare la promozione di Chuuya a Dirigente a dopo la nascita del bambino, quando sarebbero stati tutti più rilassati - forse - poi bisognava seriamente pensare a dove sistemare Dazai, la clinica non era adatta per crescere un piccino; inoltre, c’era tutta la questione del ritorno del figliol prodigo - munito di figlio a sua volta - da gestire. Quando ebbe finito, Mori aveva un mal di testa tale che crollò sulla poltrona girevole dietro alla scrivania.

Non sapeva che ore fossero e non era certo di volerlo sapere: se cominciava a contare i minuti, ne sarebbe uscito pazzo.

Prese a canticchiare per distrarsi e il motivetto del Für Elise fu il primo che gli venne in mente. Non era la migliore delle scelte, non per una nottata come quella. Chissà se era ancora in grado di suonarla? Ne dubitava, non toccava un pianoforte dai tempi della guerra e non aveva mai imparato a leggere gli spartiti. Ricordava la sequenza dei tasti a memoria, per lui era la via più veloce.

Quante volte Johann lo aveva rimproverato, seppur bonariamente, di usare la sua intelligenza nel modo errato. Mori ricordava ancora quando diceva: “se impegnassi quella mente brillante che hai nel modo corretto, saresti in grado di conquistare il mondo.”

Qualcuno lo toccò e Mori trasalì. 

Fuori albeggiava: si era addormentato.

Accanto a lui, Dazai lo guardava dall’alto al basso, il petto che si alzava e abbassava velocemente. “Non respiro…” Riuscì a dire, con un filo di voce.

La prima cosa che Mori provò fu paura, ma l’accantonò velocemente. “Hai preso qualcosa?” Era quello che lo preoccupava di più. “Hai fatto qualcosa?” Era stato un idiota, non avrebbe mai dovuto lasciarlo da solo.

Quando Dazai scosse la testa, il medico provò un immenso sollievo. “È un attacco di panico,” disse. “Non stai morendo, te lo giuro.” Cercò di toccarlo, ma il giovane si fece indietro, fino a far aderire la schiena al muro.

“Non mi toccare,” sibilò.

“Va bene, ma respira.” 

“Ma Saku-“

“Non succederà nulla a tuo figlio, se respiri.” 

Dazai si portò una mano sulla pancia e chiuse gli occhi.

“Scalcia?” Domandò Mori.

Il ragazzo annuì.

“Bene, concentrati su questo.”

Sembrò funzionare. Dazai non si calmò, ma almeno smise d’iperventilare.

“Posso avvicinarmi?” Tentò il medico.

“No!” 

Mori si aggrappò al bordo della scrivania. Perché quel moccioso doveva sempre rendere tutto così difficile?

“Puo-Puoi venire a sederti, almeno?” Lo faceva innervosire al punto da farlo balbettare. 

Dazai accettò l’offerta. Appena lo ebbe a portata, Mori lo afferrò per il braccio e lo portò fino alla poltrona girevole. Passarono alcuni minuti di silenzio, in cui il Boss della Port Mafia si prese il tempo per ricomporsi a sua volta. 

Contro ogni sua aspettativa, fu Dazai a spezzare il silenzio: “le sue ultime parole sono state per me.”

Colto di sorpresa, Mori impiegò qualche istante per comprendere. “Oh…” Mormorò, alla fine. “Sei arrivato in tempo.”

Dazai scosse la testa, gli occhi fissi in un punto nel vuoto. “No, non in tempo,” ribatté. “Poco prima che troppo tardi.”

“E cosa ti ha detto?” Mori non era certo che gli avrebbe risposto.

“Mi ha dato una ragione per vivere,” disse Dazai, poi si guardò la pancia. “Beh, lo aveva già fatto senza saperlo.”

Mori si concesse un sorriso. “Ora la vita ha un valore?”

“No,” rispose Dazai. “Saku ha valore. Per questo non posso morire.”

Non era proprio la conclusione in cui il Boss aveva sperato. Tempo al tempo, quel bambino doveva ancora nascere e nessuno di loro poteva prevedere l’effetto che avrebbe avuto. Per ora, a Mori importava sapere solo una cosa. “Leggere le sue parole è stato così terribile?”

“No, non terribile.” Dazai scosse la testa. “È stato-“ la voce gli morì in gola. Ingoiò a vuoto e riprovò, ma gli sfuggì solo un singhiozzo. 

“Ehi.” Mori fece scivolare le dita tra i capelli del giovane. “Lasciati andare, Dazai. Lasciati andare.”

Dazai nascose il viso tra le mani. Tremava. 

Le prime lacrime furono ustionanti sulle guance fredde. I singhiozzi gli bruciarono la gola, spezzandogli il respiro. Gli faceva male il petto, come se quel che era rimasto del suo cuore stesse andando in pezzi una volta per tutte. Eppure, per la prima volta da quando l’uomo che amava - era inutile mentire ulteriormente a se stesso - era morto tra le sue braccia, Dazai non sentiva più freddo.

Meraviglioso. Era la parola che non era riuscito a pronunciare.

Quello che Odasaku aveva scritto era meraviglioso. 




 

All’alba di quella fredda mattina di novembre, i primi fiocchi di neve caddero su Yokohama.



 

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Capitolo 6
*** VI ***


VI

 

Era troppo chiedere a Dazai di fare qualcosa in modo semplice, che non diventasse un problema per tutti. La nascita di un bambino era già di per sé complicata, sommata a tutti i casini emotivi e pratici - la clinica era rimasta chiusa per anni e gran parte del materiale medico era contato - si annunciava un caos totale. Il destino, non contento, aveva ben pensato che una bufera di neve nelle settimane del termine fosse una buona idea.

Mori non sapeva più con chi prendersela, mentre affondava gli stivali nella neve fresca con due buste della spesa per mano. Le strade erano impraticabili, questo aveva impedito a Hirotsu di fare il suo solito giro e portare loro il necessario. Al sicuro nei suoi appartamenti, Kouyou rideva delle sue disgrazie e prevedeva con candore l’arrivo di nuove complicazioni.

“Si sa come va a finire con te e Dazai,” aveva detto, l’ultima volta che si erano sentiti al telefono. “Basta la vostra presenza per trasformare una cosa complicata in un disastro. Povero tesoro.”

“Il tesoro sarei io?” Aveva domandato Mori, speranzoso.

“No, Chuuya.”

La conversazione era finita lì, poi il Boss della Port Mafia si era fatto coraggio e aveva affrontato le intemperie per nutrire se stesso e i suoi due rampolli - e mezzo. 

Arrivato alla clinica, gli caddero le chiavi tre volte, prima di riuscire ad aprire. Si trascinò nell’ingresso portandosi dietro tutta la neve del marciapiede. “Sono tornato!” Annunciò, stravolto. Lasciò cadere le quattro buste sul posto e si liberò dell'orribile berretto di lana che aveva in testa - un altro oggetto dimenticato tra gli oggetti dimenticati della clinica. “Chuuya?” Chiamò.

“Sono in cucina,” rispose il rosso.

Mori appese il cappotto invernale alla parete dell’ingresso e decise di lasciare il suo bottino lì dov’era: Chuuya era abbastanza giovane e in forze per fare il resto del lavoro. Strascinò i piedi fino in cucina, la schiena curva, i capelli ridotti a un nido d’uccelli e la voglia di vivere pari a quella di Dazai.

Una volta sulla porta, la tempesta di neve all’esterno gli parve una sfida più invitante.

“Chuuya, no,” si lagnò, senza dignità. “No, non tu.”

Non io, cosa?” Domandò il diciannovenne, osservando con orgoglio una tutina rosso sgargiante. Sul tavolo vi erano una decina di altre varianti. “È Natale. E Natale vuol dire rosso!” Esclamò con euforia. “Maschi, femmine, non ha importanza! A Natale ci si veste di rosso!”

Mori nascose il viso tra le mani, contò fino a dieci e si ricordò che Kouyou non sarebbe stata felice di sapere il suo discepolo sgozzato, poi simulò un sorriso inquietante. “E come saresti arrivato al negozio, di grazia?”

“Volando,” disse Chuuya, col tono di chi risponde con ovvietà. Tempo di realizzare, la sua espressione cambiò in un nano secondo. “Boss, mi dispi-“

“Ah, ti ricordi che sono il Boss, adesso?”

Chuuya aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. 

“C’è una regola sul modo di usare le abilità,” gli ricordò Mori, fermo. “E se proprio devi trasgredirla, fallo per qualcosa di utile!” Era stufo, irritato. Doveva ammetterlo con se stesso: fare il genitore non lo divertiva per niente.

Il portone d’ingresso si aprì.

Mori gelò: tra il peso delle buste e l’impiccio della neve, si era dimenticato le chiavi infilate nella serratura. Si allontanò dalla porta di due passi e fece cenno a Chuuya - teso quanto lui - di prepararsi. Mentre il giovane toccava il ceppo vicino al lavandino per far levitare i sei coltelli che vi erano riposti, Mori sfilò la pistola dalla fondina sulla schiena. Non era nessuno dei loro, ne era certo.

Sia Kouyou che Hirotsu erano alla sede della Port Mafia e chiunque altro non era ben accetto.

Mori contò ventisei secondi, poi Ango Sakaguchi comparve sulla porta.

“Fermi!” L’agente alzò le mani, arretrando. Inciampò sui suoi piedi e cadde a terra. “Non ho male intenzioni."

Chuuya ridacchiò. “Se le avessi, saresti già morto,” disse e i coltelli tornarono al loro posto. Saltellò - letteralmente - fino a ritrovarsi al fianco di Mori, che aveva ancora la pistola puntata. “Boss, avanti, è il quattrocchi.”

Nel dubbio, Ango continuava a tenere le mani in alto.

“Come sei arrivato fino a qui?” Domandò Mori, sospettoso.

“Guidando.”

“Le strade sono bloccate.”

“Non le principali: le stanno ripulendo. Mi sono avvicinato con la macchina fino a che ho potuto, poi ho continuato a piedi.”

“Tutta questa fatica per cosa? 

Ango aggrottò la fronte. “Per Dazai.”

“Perché fate tutto questo baccano? Mi avete svegliato,” si lamentò Dazai, comparendo in cima alle scale. Nel vedere il suo vecchio amico seduto sul pavimento, il giovane viso s’illuminò. “Ango!” 

Mori ritrasse la pistola, prima che l’ultimo arrivato la vedesse e Chuuya allungò la mano per aiutare l’agente ad alzarsi.

“Ho chiesto a Chuuya di venirti a cercare quest’estate e siamo a Natale,” disse Dazai, arrivando di fronte al loro ospite inatteso. “È proprio una Lumaca.”

Il rosso gli alzò il dito medio, tornando al fianco del Boss.

La scena era ironica: Dazai parlava a macchinetta e Ango neanche lo ascoltava, completamente rapito dalla pancia prominente che il più giovane nascondeva - per modo di dire - sotto la felpa nera.

“Sgombro, è andato in tilt,” gli fece notare Chuuya, quando tutto quel casino cominciò a irritarlo.

Dazai seguì la linea dello sguardo dell’agente. Rise. “È cresciuto, non è vero?” Si accarezzò il grembo amorevolmente. 

Ango annuì, ancora non del tutto presente a se stesso. “Sì, decisamente.”

“Sakunosuke,” disse Dazai. “Si chiama Sakunosuke.”

“Sì, Chuuya me lo ha detto.”

Dazai s’imbronciò e si rivolse al coetaneo. “Tu con le sorprese non ce la fai, vero?”

“Ma quali sorprese?” Ribatté il rosso. “Dovevo usare qualche informazione a mio vantaggio, per convincerlo a tornare.”

“Sarei tornato comunque,” si sentì in dovere di dire Ango.

“Sì, sei stato molto presente negli ultimi mesi,” commentò Mori, sarcastico.

Sentendosi in difetto, Ango abbassò la testa. Non poteva rispondere a tono al Boss della Port Mafia. 

Dazai corse in suo soccorso. “Vieni di sopra.” Gli afferrò il polso. “Parliamo in camera mia, lontano da questi corvi.”




 

La camera di Dazai era più accogliente di come se la ricordava, meno spoglia. La poltrona accanto alla finestra era stata sostituita con una sedia a dondolo. Vicino all’armadio, era stata montata una cassettiera color azzurro pastello, completata da un piano fasciatoio. Sulla sola parete rimasta libera era appoggiato uno scatolone ancora intoccato.

“È la sua culla,” disse Dazai, prima che l’agente governativo potesse chiedere. “Chuuya e Mori devono montarla. So già come andrà a finire: la monterà solo Chuuya, mentre Mori starà a guardare.”

Ango si umettò le labbra. “Ti… Ti trovo bene.” Era sincero.

Dazai scrollò le spalle. “Ti dispiace, se mi siedo?”

L’agente scosse la testa e il ragazzo si accomodò sulla sedia a dondolo. “Non riesco più a stare comodo in nessuna posizione,” si lamentò Dazai, aggiustandosi meglio contro lo schienale. “Voglio che tutto questo finisca presto.”

Ango si concesse un’altra occhiata alla pancia dell’amico, ma allontanò lo sguardo immediatamente. “Manca ancora molto?”

“Ogni giorno è buono,” rispose Dazai. “Non vedo l’ora e, al contempo, non voglio farlo. È una cosa strana. Ho come l’impressione che tra l’alba e il tramonto passi un intero anno, mi sento frustrato fino alle lacrime, poi penso che tra la fine di questo capitolo e l’inizio di quello nuovo c’è una terribile parentesi di dolore.” Rabbrividì. “No, non voglio farlo… Cioè, voglio che Saku nasca, ma non voglio farlo io!”

Suo malgrado, Ango si lasciò andare a una risata. “Temo che sia un po’ complicato.”

“Ti disgusta tanto guardarmi?” Domandò Dazai.

Per tutta risposta, lo sguardo dell’agente saettò sul suo viso. “Perché pensi una cosa del genere?”

“Non appena siamo rimasti soli, hai posato gli occhi su qualsiasi cosa in questa stanza, tranne me.”

Aveva ragione. Se Ango avesse potuto prendersi a pugni da solo, lo avrebbe fatto. “Mi dispiace per essere sparito,” disse, anche se Dazai non gli aveva chiesto nessuna giustificazione. “Era… Era troppo per me, avevo bisogno di prendere le distanze.”

Se Chuuya fosse stato lì, gli avrebbe dato del patetico e l’agente non avrebbe saputo come difendersi. Ango non aveva alcun diritto di definire troppo una situazione a cui aveva potuto voltare le spalle. “Sarei dovuto rimanere qui, con te,” aggiunse, a testa bassa.

“Ti saresti solo guadagnato più rancore da parte di Chuuya,” disse Dazai. “Questo è il mio mondo, Ango, so come gestirlo. Tu hai passato anni sotto copertura alla Port Mafia ma, una volta gettata la maschera, non saresti mai riuscito a integrarti.”

Era vero ma non sufficiente a lenire il senso di colpa che appesantiva il petto di Ango. “Sei diverso.”

“Davvero?” Domandò Dazai, sarcastico, puntando l’indice contro la pancia che si doveva portare dietro.

“Quando ti ho trovato nell’appartamento di Odasaku, ho avuto paura che non ce l’avresti fatta… Che io non ce l’avrei fatta a proteggerti,” disse Ango, con amarezza. “Beh, qualcun altro deve aver fatto un ottimo lavoro, perché ora ti guardo e ho la certezza che ce la farai. Non hai bisogno della protezione di nessuno.”

Le labbra di Dazai si tesero in un sorriso malinconico. “Ricordi il nostro ultimo incontro al Lupin, quando hai espresso quel desiderio assurdo sul ritrovarsi come se nulla fosse cambiato?”

Ango annuì.

“Io non credo che riuscirò mai a slegare il tuo tradimento da quello che è successo a Odasaku.” Dazai avrebbe voluto voltare lo sguardo altrove, gli avrebbe reso più facile contenere l’emozione - è colpa degli ormoni, si disse, solo degli ormoni - ma Ango meritava di essere guardato in faccia, mentre pronunciava quelle parole: “ma non è stata colpa tua. Se Odasaku è morto, non è colpa tua.”

Ricevere una pugnalata allo stomaco, avrebbe fatto meno male. Per impedire al proprio autocontrollo di vacillare, Ango dovette stringere i pugni fino a farsi male. Costrinse la sua mente a passare a qualcosa di pratico, che potesse liberarlo da quell’immobilità. Infilò la mancina nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori la ragione principale per cui Chuuya era venuto a cercarlo.

“Tieni,” disse, porgendo al più giovane due delle fotografie scattate al Lupin - quella di gruppo e quella singola di Odasaku. “Fammi cercare da Chuuya, quando il bambino nascerà.”



 

Chuuya stava mettendo a posto la spesa, quando Ango si affacciò sulla cucina come una furia. “Hai una sigaretta?” Domandò al più giovane, come se il Boss della Port Mafia non fosse seduto proprio davanti a lui, a piegare indumenti per neonati.

I due mafiosi si lanciarono un’occhiata. 

“Penso che voglia un compagno di fumate,” buttò lì Mori, quando fu chiaro che il rosso non si sarebbe mosso di un millimetro.

Chuuya chiuse il frigo e si rivolse all’agente. “Avevi smesso.”

“Ho ricominciato,” ribatté l’agente.

“Da quando?”

“Da oggi. Ce l’hai questa sigaretta o no?”

Mori appoggiò il viso al pugno chiuso, osservando la figura tesa dell’agente governativo. “Chuuya, sembra sul punto di esplodere. Dagli questa sigaretta, su.”




 

Il vento si era calmato ma i fiocchi non accennavano a rallentare.

Chuuya recuperò il pacchetto di sigarette dalla tasca e ne estrasse una con le labbra, poi lo porse al suo improbabile compagno.

Ango lo ringraziò e aspettò il suo turno per l’accendino.

“Ti ha sconvolto così tanto rivederlo?” Domandò Chuuya, dopo la prima boccata di fumo.

Prima di rispondere, Ango fece almeno tre tiri. “Promettimi che starà bene.”

“Bell’insolente!” Sbottò Chuuya, dando un calcio a un pezzo di neve ghiacciata in mezzo al marciapiede. “Lo hai lasciato nelle nostre mani per mesi, senza curarti delle conseguenze!”

“Da quel che ho visto, sarebbe stata una perdita di tempo.”

“Esatto!” Chuuya esalò un’altra nuvola di fumo, che si dissolse presto nell’aria gelida. “Dazai sta benissimo qui, con noi. Non ha bisogno di ricominciare da zero chissà dove e chissà con chi.”

Ango lo guardò poco convinto. “Chuuya, non voglio distorcere la percezione che hai della tua famiglia, ma-“

“Hai detto la parola chiave: famiglia,” lo interruppe il più giovane. “Dazai può disprezzarla quanto vuole, ma è quello di cui Saku ha bisogno.”

Per l’agente governativo era molto difficile vedere in un’associazione mafiosa quell’insieme di legami affettivi necessari a crescere un bimbo, ma dubitava di poter esporre a Chuuya il suo punto di vista. Legalità o meno, i fatti raccontavano una storia assurda, ma che non lasciava spazio a fraintendimenti : Dazai aveva chiesto aiuto alla famiglia da cui era scappato e l’aveva ricevuto.

In confronto a questo, Ango che aveva da offrire? Latitanza e incertezza. Era una battaglia persa in partenza.

“Gli hai portato le fotografie?” Domandò Chuuya.

Ango annuì, finendo di fumare la sua sigaretta. La gettò a terra, schiacciandola col tacco della scarpa. 

“Cazzo, quattrocchi, che ti ha fatto lo Sgombro per ridurti in questo modo?”

L’agente fissò la sigaretta schiacciata sul terreno ghiacciato e pensò che quell’immagine fosse un pratico riassunto di come si era sentito in tutti quei mesi. “Mi ha perdonato.”

Distratto dal freddo, Chuuya fraintese. “Per essere sparito dalla primavera scorsa?” Finita la sua sigaretta, ripose il mozzicone nel portacenere tascabile che aveva sempre con sé. “Rientriamo, stai tremando,” disse.

Non era il freddo a scuotere le spalle di Ango. 

Quando Chuuya se ne accorse, la voglia di lasciarlo lì a piangere da solo fu tanta ma la parte di sé che sopportava meno - la stessa che gli impediva di rinunciare a Dazai - lo costrinse a tornare sui suoi passi.

“Ti preoccupavi che Dazai non avesse pianto la morte di Oda, ma non lo hai fatto nemmeno tu, eh?” Chuuya appoggiò la schiena al muro gelato della clinica e si accese una seconda sigaretta. Aveva il sospetto che quelle lacrime non fossero solo per Oda Sakunosuke, ma anche per Dazai e per quel qualcosa che loro tre avevano costruito. Chuuya sapeva com’era perdere un amico, ma non credeva di aver mai vissuto una cosa simile. Un po’ li invidiava è un po’ aveva voglia di prendere il quattrocchi a calci - Dazai era esonerato e doveva pur prendersela con qualcuno.

Rimase accanto ad Ango per tutto il tempo che ne ebbe bisogno.




 

Dazai stava bene, un evento più unico che raro. L’ultima volta che si era sentito così era stato a Marzo, la stessa mattina in cui Mori aveva convocato Odasaku al quartier generale. 

Ora, a Dicembre, accoccolato sotto il piumone caldo del loro letto, Dazai aveva raggiunto la pace dei sensi. Niente nausea, niente dolori alla schiena, era anche riuscito a trovare una posizione confortevole. Il bambino che si muoveva nella sua pancia non lo disturbava ma, al contrario, lo rassicurava che andava tutto bene. Se solo ci fosse stato qualcuno su quel letto, insieme a lui, il momento sarebbe stato perfetto.  

“Osamu?”

Dazai non era ancora abituato al suono del suo nome, pronunciato con tanta nonchalance. Fece capolino da sotto le coperte e gli occhi azzurri di Odasaku gli diedero il buongiorno. “Stai bene?” Domandò, con quella nota di apprensione che lo aveva accompagnato negli ultimi mesi.

Dazai si stiracchiò. “Mai stato meglio.” 

Il suo compagno sedeva per terra, accanto al loro letto, e di fronte a lui vi era la ragione che lo aveva spinto ad alzarsi presto.

Dazai sorrise alla piccola culla bianca. “Sei riuscito a montarla.”

“Non abbiamo più molto tempo a nostra disposizione,” disse Odasaku, sedendosi accanto al compagno. “Dobbiamo cominciare a parlare di cose serie, io e te.”

Dazai gonfiò le guance. Uscì dal piumone controvoglia, sedendosi contro i cuscini. “Sono tutto orecchie,” disse.

Odasaku si sporse quanto bastava per accarezzargli la pancia. “Devi trasferirti nel tuo appartamento alle torri.”

Dazai emise una risatina che si concluse con un “no” secco.

Odasaku lo guardò dritto negli occhi. “Osamu, ogni giorno potrebbe essere quello buono.”

“Come accade ad altre centinaia di persone nelle mie condizioni e non si vanno a trasferire in prigione per questo.”

“Non è una prigione, è casa tua,” gli ricordò Odasaku.

“Oh, certo, con tutta la Black Lizard sulla porta.”

“Il Boss è preoccupato per te-“

“Ah, ecco chi c’è dietro a questa grande idea!”

“E lo sono anche io,” aggiunse Odasaku. “Qualunque cosa accada, al quartier generale possono tenere la situazione sotto controllo.”

Dazai sapeva che aveva ragione, ma questo non significava che gliel’avrebbe data vinta. “Senti come scalcia,” cambiò discorso, spostando la mano del compagno sul punto in cui il bambino si muoveva di più. 

Odasaku lo lasciò fare e per un po’ nessuno dei due disse niente.

“Voglio che questa cosa sia solo mia e tua,” mormorò Dazai. “Non voglio farci entrare nessun altro.”

“Lo sai che non è possibile, Osamu.”

“Perché non fuggiamo insieme?” Dazai sapeva di essere irrazionale, capriccioso, ma era davvero quello che desiderava di più. “Lasciamo la città. Troviamo una casa sul mare e cresciamo Saku lì.”

Odasaku lo ascoltava paziente, ma con l’obiezione già in punta di lingua. “Dovrai superare questa cosa della Mimic, prima o poi.”

“Sei quasi morto, Odasaku.”

“Quasi.”

“Se Mori non mi avesse impedito di venire da te-“

“Sarebbe finita molto peggio,” concluse Odasaku. “I rinforzi non sono serviti a nulla. Da solo, cosa avresti potuto fare? Aspettavi già Saku-“

“Non lo sapevo,” si giustificò Dazai.

“No, non lo sapevi, ma se fossi rimasto ferito, lo avremmo scoperto nel modo peggiore. Sono grato al Boss per averti fermato.”

Dazai assottigliò gli occhi. “Oh, ecco quella cosa chiamata tradimento…” Fece per nascondersi di nuovo sotto il piumone, ma il compagno glielo impedì. 

“Ho già fallito nel proteggere qualcuno, non commetterò lo stesso errore con te,” disse Odasaku, serio.

Dazai sapeva che si riferiva ai bambini che la Mimic gli aveva portato via. Non c’erano capricci che potessero qualcosa contro una replica del genere. “Almeno dimmi che non hai detto sì alla proposta di Mori di divenire la sua guardia del corpo. Per la Port Mafia sei un eroe, potresti fare qualsiasi altra cosa.”

L’espressione di Odasaku si ammorbidì. “Questo genere di decisioni sono tutte rimandate a dopo la nascita di nostro figlio. Ho detto lo stesso anche al Boss.”

Dazai ne fu sollevato. 

“In ogni caso, non possiamo restare qui,” disse Odasaku, guardando l’appartamento di cinquanta metri quadri. “Ci serve una casa più grande.”

“Sul mare, via da questa città.”

“Osamu…”

“Stiamo litigando, per caso?” Dazai era intrigato dalla cosa. Era questo che facevano le coppie: litigare per cose stupide. E loro erano una coppia, con tanto di fagottino di gioia in arrivo, anche agli occhi del Boss della Port Mafia.

“Perché non lavori con me?” Propose Dazai. Era diverso da per me, presupponeva una qualche parità di ruoli. “Potremmo essere partner.” Si sporse in avanti, aspettandosi un bacio.

Ricevette un’altra obiezione. “E che ne vuoi fare di Chuu-?”

“Odasaku!” Esclamò Dazai, esasperato. “Devo trasferirmi al quartier generale, perché così vuole Mori! Non posso proporti di lavorare insieme, perché Chuuya esiste! Che altro?”

Odasaku scrollò le spalle, placido. “Sono pensieri ragionevoli.”

“Io non voglio essere ragionevole!” Replicò Dazai. “Voglio essere capriccioso!” E voleva che fosse un problema di tutti, soprattutto di Mori e Chuuya.

Odasaku gli posò un bacio sulle labbra, disinnescando la situazione in un istante.

Dazai simulò uno sguardo rancoroso. “Ecco perché tutti sono in panico all’idea che non sarai più il tuttofare della Port Mafia. Sei troppo bravo a gestire le crisi.”

Il secondo bacio di Odasaku fu per la sua pancia. “Ti preparo la colazione.”

Mentre Odasaku si allontanava, a Dazai sfuggì un sorriso. Si voltò per seguirlo con lo sguardo, ma non trovò nessuno alle sue spalle.

“Odasaku,” chiamò, ma quello non era più l’appartamento in cui si erano amati innumerevoli volte. 

Dazai era in piedi, al centro di un corridoio. Di fronte a lui vi era la porta socchiusa di una stanza per bambini. La culla bianca era l’unica cosa che riusciva a vedere.

Il pianto di un neonato riempì il silenzio. 

Dazai si guardò: la pancia non c’era più. 

Si precipitò all’interno della cameretta, ma scoprì con orrore che la culla era vuota. 

“Saku!” Chiamò disperato. “Saku!”

Il pianto divenne assordante e Dazai premette entrambe le mani contro le orecchie.

“Sei l’incarnazione del nulla assoluto,” disse una voce nella sua testa. “Che cosa mai potrebbe nascere da te?”

Urlò.




 

Quando aprì gli occhi, Dazai si ritrovò nel suo letto, alla clinica. 

La prima cosa che fece fu toccarsi la pancia: il bambino non si muoveva.

“Saku…” Chiamò con voce tremante, premendo le dita sui punti dove lo sentiva scalciare di solito.

Non accadde nulla.

“Chuuya…” Chiamò in panico. “Chuuya!”




 

“E va tutto perfettamente come deve andare,” disse Mori, senza disturbarsi a trattenere un sonoro sbadiglio. Ripose lo scanner e passò al giovane della carta per ripulirsi. “Il bimbo è in posizione, la circolazione del cordone è perfetta e il battito è bello forte. Saku sta benissimo.”

Dazai scosse la testa. “C’è qualcosa che non va,” insistette.

Dalla parte opposta del lettino, Chuuya afferrò la carta sbuffando. “Stava dormendo, paranoico che non sei altro!” Esclamò, pulendo via il gel con gentilezza. 

“Hai avuto un incubo?” Domandò Mori, cercando di aggiustarsi i capelli passandovi le dita. “Qualcosa ti ha turbato?”

Dazai scosse la testa, abbassando l’orlo della maglietta per coprirsi la pancia. Anche un cieco si sarebbe accorto che era spaventato a morte e non era un evento da tutti i giorni.

“Chuuya, andresti a preparare qualcosa di caldo per tutti e tre. Rilassiamoci un po’, prima di tornare a letto, ci farà bene,” propose Mori, sorridendo gentilmente.

Il giovane dai capelli rossi sapeva che era un messaggio in codice. Togliti dai piedi, questo gli stava dicendo. Suo malgrado, ubbidì e decise che avrebbe scaldato un po’ d’acqua per davvero: nessuno di loro sarebbe tornato a dormire tanto facilmente.

“Che cosa c’è?” Domandò Mori, una volta rimasto solo con quello che era stato il più giovane dei suoi Dirigenti.

Dazai continuava ad accarezzarsi la pancia, come se avesse paura che qualcosa d’irreparabile potesse capitare da un momento all’altro. “L’incarnazione del nulla assoluto,” mormorò. “Ricordi queste parole?”

Era impossibile per Mori dimenticarle: erano state le ultime pronunciate da De Sade, prima di essere giustiziato. “Non erano rivolte a te,” lo rassicurò. “Era un messaggio per me, per qualcosa successo in Europa tanti anni fa.”

“Me lo hai detto anche la notte che mi hai portato a casa.”

“Perché ci stai ripensando ora?” Indagò Mori.

Dazai si umettò le labbra. “Ho sognato la sua voce che mi parlava.” Quella era solo l’ultima parte del sogno, ma della prima non ne avrebbe fatto parola con il Boss. “Se io sono il nulla, qualsiasi cosa accostata a me smette di esistere. È come tentare di moltiplicare lo zero per qualsiasi numero e aspettarsi un risultato diverso dallo zero stesso. Che cosa potrebbe mai nascere da me?”

Mori lanciò un’occhiata allo schermo dell'ecografo. “Un maschietto di tre chili abbondanti, per una lunghezza stimata di cinquanta centimetri,” rispose. 

Dazai lo guardò negli occhi. “Il mio potere lo ucciderà.”

Mori scosse la testa. “Il tuo potere non è in grado di uccidere. Se tuo figlio avrà un’abilità, non avrai su di lui un effetto diverso da quello che hai sulle altre persone.”

“Non è prevedibile, vero?” Dazai non si era mai preoccupato di quell’aspetto. Sapeva che non vi era una scienza esatta sulle abilità - anche se il Dipartimento per cui lavorava Ango ne sapeva di più di quanto lasciasse intendere - e se Saku ne avesse avuta una, probabilmente sarebbe stata diversa da tutte le altre. 

“No,” disse Mori. “A dispetto di quello che molti credono, non è una malattia. Non c’è una valida ragione per diagnosticarla in anticipo.”

“Non ci sono i mezzi,” ribatté Dazai. “Nemmeno il sesso biologico è una malattia, eppure non si vede l’ora di scoprirlo.”

“Farebbe alcuna differenza per te?” 

“No.”

“Allora non ci pensare. Conoscevo qualcuno che ha scoperto di avere un’abilità soltanto in età adulta, e so di un bambino che usava la sua già nel grembo materno. È un fattore imprevedibile, inutile perderci tempo.”

Dazai guardò l’immagine in bianco e nero fissata sullo schermo dell’ecografo. “Non voglio che sia come me.” Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Quel bambino era tutto quel che rimaneva di Odasaku, era giusto che avesse i suoi capelli rossi e i suoi occhi azzurri. Era quello che Dazai aveva sperato fin dall’inizio: stringere tra le braccia suo figlio e rivedere l’amore che aveva perduto. Non era certo che fosse giusto, ma non poteva fare a meno di pensarlo.

“Chuuya dice che ha il tuo profilo,” disse Mori, divertito. “Vedi tu se ti conviene contraddirlo.”




 

La notte tra il 26 e il 27 Dicembre, Dazai venne strappato dal sonno da un dolore improvviso. Rimase immobile, col respiro bloccato in gola e una mano premuta contro la pancia. Attese, certo che ciò che lo aveva svegliato sarebbe tornato più forte di prima.

Non accadde. Saku si mosse nel suo grembo, come se non fosse successo niente.

Secondo Mori, era impensabile prevedere come tutto sarebbe finito. Nascevano bambini dall’alba dei tempi e ancora la medicina non aveva tutte le risposte. Alcuni parti erano veloci, altri infiniti e una gravidanza da manuale non garantiva un lieto fine. Dazai era abituato ai salti nel buio - non solo metaforicamente - ma era difficile aspettare impotenti, quando era una vita quella che gli cresceva dentro.

Mori gli aveva detto che l’unica arma che poteva brandire era la pazienza. Dazai non ne aveva più da mesi. C’erano stati giorni, specialmente all’inizio, in cui si era ritrovato a fare una lista di tutte le variabili che avrebbero potuto compromettere la sua gravidanza e la salute di Saku. Il pensiero era bastato a trascinarlo nel vortice di oscurità che aveva conosciuto con la morte di Odasaku.

Gli aborti spontanei succedevano, anche quelli nel secondo trimestre. I cuori dei bambini si fermavano anche a pochi giorni dal parto per motivi a volte diagnosticabili, a volte no. Era una tragedia che nel mondo era comune, e Dazai ne era terrorizzato. Se succedeva qualcosa a Saku, respirare non gli sarebbe servito più.

Punto. Basta. Fine.

“Non vedo l’ora che tu nasca,” mormorò alla sua pancia.

Saku gli rispose, a modo suo.

Per il resto della notte, Dazai non riuscì più ad addormentarsi.




 

La mattina seguente, Mori entrò nel suo studio con una tazza di caffè americano preso dal bar dietro l’angolo e si ritrovò Dazai accovacciato sul vecchio divano. 

“Dazai, si congela qui!” Esclamò, accedendo con il piede la stufa sotto la scrivania. “Che stai facendo?”

“Voglio stare con te.” Non era una questione emotiva, era più un ho paura di quello che mi sta succedendo e tu sei l’unico a potermi dare una mano.

Mori ne fu sorpreso. “Non ti senti bene?” Domandò, avvicinandosi. Il ragazzo aveva anche la testa nascosta sotto la coperta, come se quella poca luce che arrivava dalla parete in vetrocemento fosse abbagliante. 

“Ehi?” Mori azzardò una carezza tra quei capelli arruffati. “Senti dolore?”

Dazai scoprì il viso, i suoi occhi stanchi incontrarono quelli del medico. “No, non sento dolore,” ammise. “Mi sento strano.”

Mori annuì. “Sì, è meglio che tu sopporti la mia presenza per oggi,” disse. “Magari è solo un disagio dovuto al tuo corpo che si prepara, ma evita d’isolarti di sopra. Va bene?”

Dazai annuì. “Ti sei portato dietro del lavoro?”

Mori lanciò un’occhiata alla scrivania. “Ho qualche documento per i periodi morti, ma perché t’interessa?” 

“Voglio lavorare,” rispose Dazai, mettendosi a sedere. 

Mori sgranò gli occhi. “Questo non è decisamente da te.”

“Mi devo tenere occupato,” si giustificò il giovane. “Hai una trattativa o un piano d’attacco da elaborare? Devo impegnare la testa.”

Una giornata di lavoro con Daza avrebbe risparmiato al Boss un mese di girotondi inutili. “Va bene,” acconsentì. “Ma prendi la mia poltrona: è più comoda.”




 

Chuuya si svegliò due ore dopo e lì trovò ancora così: Dazai seduto alla scrivania, come se a dirigere il gioco fosse lui e Mori che lo aggiornava sulle novità degli ultimi mesi, per fargli comprendere meglio la situazione.

Era uno spettacolo sorprendente e, al contempo, familiare. Chuuya non se la sentì d’interromperli con la sua presenza e se ne rimase nascosto nel corridoio, a godersi quella rara parentesi di normalità, con la tazza di caffè a scaldargli le mani. Non gli importò affatto di essere stato tagliato fuori. Mori e Dazai erano così. Nel modo di percepire il mondo di Chuuya, quando quei due sedevano insieme in quel modo, fosse per lavoro o per una semplice conversazione, era il chiaro sintomo che andava tutto bene.

“Chi è Higuchi?” Domandò Dazai, sollevando una scheda con tanto di foto allegata.

Mori l’afferrò, studiando l’immagine della ragazzina bionda. “Higuchi Ichiyo,” ci pensò. “Non mi ricorda niente. Che ci faceva in mezzo a quei documenti?”

“Ha fatto domanda per divenire assistente di Akutagawa,” intervenne Chuuya, guadagnandosi le occhiate perplesse degli altri due.

“Come segretaria?” Domandò Mori, poco convinto. “Perché sono certo che quel genere di personale non spetti a me selezionarlo.”

Dazai ridacchiò. “Akutagawa con la segretaria personale.” Il pensiero lo divertiva.

Chuuya entrò nello studio. “No, è una che fa sul serio. Non l’ho realmente conosciuta, ma so chi è. Penso abbia una specie di cotta per il tuo cucciolo rabbioso.”

“Akutagawa non è il mio cucciolo,” rispose Dazai. “Non più, ma non sapevo che avesse delle ammiratrici.” 

Si stava divertendo un sacco, Chuuya lo comprese dal mondo in cui gli brillavano gli occhi. 

“Avete meno di vent’anni e, gira e rigira, vi frequentate un po’ tutti. Avere delle cotte è quasi fisiologico,” disse Mori. “Io, per esempio, ero convinto che avesse una cotta per te, Dazai.”

“Chi?” Domandò il diciannovenne, sgranando gli occhi.

“Akutagawa.”

Chuuya rise. “Non ha una cotta, Boss, è solo scemo. Dazai è tipo la prima cosa che ha visto e gli si è attaccato addosso, come gli anatroccoli con la mamma.”

“Oh, un anatroccolo nero,” disse Dazai.

Ovunque fosse, Chuuya era certo che ad Akutagawa Ryuunosuke stessero fischiando le orecchie. “Sì, ma dubito diventerà mai cigno.”

“I cigni neri sono affascinanti,” intervenne Mori, così a caso. “Conoscete il balletto, no?”

“Boss, assumila come assistente di Akutagawa,” decise Daza, puntando l’indice contro la foto di Higuchi Ichiyo. “Se ha una cotta per lui, almeno siamo certi che non lo pugnalerà alle spalle. Akutagawa non è bravo a farsi volere bene dalle persone.”

Chuuya storse la bocca in una smorfia. “Senti di chi parla!”

Mori studiò la scheda della ragazza con espressione critica. “Sei sicuro, Dazai?” Domandò. “Akutagawa ha preso il tuo posto a capo delle forze armate. Sotto di lui, c’è direttamente Hirotsu. Questa ragazza non ha un’abilità e non è nemmeno un’assassina addestrata.”

Chuuya aggrottò la fronte. “E che ci fa alla Port Mafia?”

“Non abbiamo solo personale da battaglia. Prendi Ango, lui non era alla Port Mafia come uomo d’azione.”

Dazai rise. “Poi ha lavorato con Chuuya e si è dovuto adattare.”

“Stai zitto,” ringhiò il coetaneo.

Mori interruppe il loro battibecco. “Quello che sto cercando di dire è che Akutagawa non ricopre più un ruolo secondario. Devi considerare la pericolosità del suo lavoro e si presume che abbia un assistente suo pari.”

“Non esiste qualcuno che possa essere pari di Akutagawa Ryuunosuke,” disse Dazai, serio.

Chuuya sgranò gli occhi. “Era un complimento? Perché suonava come un complimento.”

“Boss, se pensi che Akutagawa abbia bisogno di un partner, uno vero, sono d’accordo,” aggiunse Dazai. “Ma nella Port Mafia non esiste.”

“Affiancargli Higuchi significa farlo combattere da solo,” ribatté Mori.

“E allora che combatta da solo,” concluse Dazai, poi allontanò di colpo la poltrona dalla scrivania, andando a sbattere contro il muro.

Sia Mori che Chuuya sobbalzarono. Fu quest’ultimo a parlare per primo. “Che cazzo ti prende?”

Dazai non gli rispose, lo sguardo fisso a terra. 

Mori si sporse oltre la scrivania. “D’accordo…” Usò la voce più tranquilla che riuscì a simulare. “Si sono rotte le acque, Dazai, va tutto bene.”

Chuuya non gli fu di alcun aiuto. “In che senso rotte le acque?”

Il Boss gli lanciò un’occhiata raggelante e il ragazzo dai capelli rossi ingoiò a vuoto.

“Non va bene,” mormorò Dazai, la voce gli tremava. “Non va bene.”

Mori fece il giro della scrivania. “È esattamente il contrario,” lo rassicurò. “Il tuo bambino vuole nascere ed è anche nei tempi giusti. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

Chuuya decise di bere in fretta l’ultimo sorso di caffè che gli era rimasto. Appoggiò la tazza sulla prima superficie disponibile - uno scatolone accanto alla porta - certo che non avrebbe buttato giù più nulla per un po’. 

Erano passati quasi sette mesi dall’inizio di quella storia. Sette mesi di rancori, conti in sospeso e parole non dette. Sette mesi in cui aveva alternato i ma chi cazzo me lo fa fare ai Dazai ha bisogno di me, anche se Dazai era la cosa peggiore della sua vita. 

Tutto, solo per quel momento.

“Chuuya, se svieni, ti lascio annegare nella tua bava,” lo avvertì Mori, mentre aiutava Dazai ad alzarsi. 

Grazie agli scatoloni, nessuno vide Chuuya aggrapparsi all’architrave della porta, come se da quell’appiglio dipendesse la sua stessa vita. “No, non svengo, Boss.”





 

Dazai rimase silenzioso fino a sera.

Kouyou aveva comprato tre camicie da notte per l’evento, tutte bianche. A Chuuya venne un colpo al pensiero che le avrebbero usate tutte e tre. Sarebbero davvero andati avanti per tanto tempo? Dazai non emetteva un fiato, anche se bastava guardarlo in faccia per capire che non stava bene per niente.

Dopo la visita, Mori fece a tutti un quadro ipotetico della direzione che stavano prendendo. “Il travaglio è partito in modo naturale e questo è un bene. Dobbiamo solo avere pazienza.”

Solo. Chuuya era certo che se quella situazione fosse durata più di due ore, qualcosa sarebbe esploso - probabilmente lui - e Yokohama avrebbe potuto vantare una seconda Suribachi.

Se il Boss si era accorto che, seduto nel suo angolo, era ad un passo da una crisi di panico, lo ignorò completamente. “Stai comodo così, Dazai?” Domandò al ragazzo, che giaceva sul lettino operatorio steso su un fianco. 

“Fa male,” disse il ragazzo. “Ma non così male.”

Mori sorrise, rassicurante. “Non voglio mentirti: andrà a peggiorare di ora in ora.”

“Questo lo so.”

“Ma non appena Sakunosuke sarà nato, passerà tutto. Vuoi che chiami qualcuno? Pensi di sentirti più a tuo agio con Kouyou?”

Dazai scosse la testa: l’unica persona che avrebbe chiamato giaceva sotto una lapide di pietra, in riva al mare. Sentì il dolore crescere gradualmente, ma non si fermò al punto che aveva previsto. Strinse gli occhi, trattenne il respiro e si aggrappò al primo appiglio che trovò: la mano di Mori.

“Respira, Dazai,” lo istruì il Boss. “Se trattieni il respiro quando arriva il dolore, è pericoloso sia per te che per il bambino.”

Chuuya attraversò la stanza con due ampie falcate. “Che succede?” Domandò. “Un istante fa, stava bene.”

Mori non gli rispose, tirò indietro la frangia di capelli scuri per liberare il viso di Dazai e aspettò che la presa sulla sua mano si allentasse. 

Quando Dazai tornò a guardarli, sia lui che Chuuya ripresero fiato.

“Questa era bella forte,” disse Mori. 

“No, questa posizione mi uccide,” singhiozzò Dazai e il medico lo aiutò a mettersi a sedere. 

“Sentiti libero di muoverti,” disse Mori. “Nei libri di medicina è scritto che la vera tortura è stare fermi.”

“Si fottano i libri di medicina,” sibilò Dazai, scendendo dal lettino per vagare nella stanza, senza una meta.

Chuuya sgranò gli occhi: non era solito del suo partner parlare così, quella era una prerogativa sua.

Mori rise. “Bene, questa è rabbia, ti sarà utile.”

Dazai prese un respiro profondo e allargò le braccia, come se si stesse tenendo in equilibrio. “È un dolore terribile,” concluse, “ma non così tanto come lo raccontano. Se riesco a tirare il fiato tra una contrazione e l’altra, ce la posso fare.”

“L’importante è essere positivi.” Mori sollevò il pollice, carico di entusiasmo. 

Chuuya adocchiò l’alcol puro, quello color rosa fluo vicino all’ecografo, chiedendosi se potesse essere utile alla sua causa. Non ebbe il tempo di prendere una decisione che Dazai prese ad urlare: “maledizione!” 

Mori lo raggiunse e lo sorresse per tutta la contrazione. “Respira,” gli ricordò, accarezzandogli i capelli. “Respira.”

Chuuya era pietrificato al centro della stanza, utile come un bicchiere d’acqua in mezzo a un incendio.

Borbottando frasi sconnesse, Dazai tornò al lettino, artigliando le coperte per sorreggersi. “Mori… Mori!” Chiamò, come se il medico non fosse ad appena un passo da lui. “Ho cambiato idea. Non ce la faccio, non lo voglio fare!”

“Uhm, fammi pensare.” Mori fece finta di rifletterci. “Temo proprio che debba farlo tu.”

Dazai prese il cuscino e vi affondò il viso. Vi soffocò un urlo che non aveva nulla a che fare con il dolore e molto con la frustrazione.

Non capitava spesso, ma Mori si sentì in colpa per quel suo goffo tentativo di sdrammatizzare. “Hai ragione,” aggiunse con voce più gentile. “È un inferno ma tieni a mente questo: più il dolore va veloce, più in fretta finirà.”

Dazai si sollevò sulle braccia, riemergendo dal cuscino. “No, non ce la faccio,” singhiozzò.

“Ce la fai,” lo rassicurò Mori. “Te lo prometto io, ti fidi di me?”

“No.”

“Bene, sei ancora in te,” concluse il medico. “Te lo ripeto: appena il dolore arriva, tu cominci a respirare. Se devi urlare, fallo, ma non trattenere il fiato.”

Dazai annuì. “Ho un ordine per voi.”

Il Boss della Port Mafia fu quasi intenerito dal tono imperativo di quelle parole. “Ti concedo una licenza speciale per l’occasione.”

“Questo bambino nascerà,” disse Dazai, lo sguardo basso. “Indipendentemente dalle conseguenze, Sakunosuke nascerà. Sono stato chiaro?”

Chuuya si avvicinò di un paio di passi. “Che stai blaterando, idiota?”

“Non siamo a quel punto, Dazai,” rispose Mori, appoggiando la mano sulla sua nuca. “Giuro su tutta la Port Mafia, che non ci arriveremo”




 

Chuuya fu abbastanza bravo da starsene zitto, fino a che lui e il Boss non furono da soli nel magazzino. “Che voleva dire?”

“Ha paura,” rispose Mori, spostando al centro della stanza un carrello operatorio vuoto. “Ce l’ha dall’inizio della gravidanza.”

“Ma sta andando tutto bene, vero?” Indagò Chuuya, che di timore ne aveva tanto a sua volta. 

“Il travaglio si è avviato da solo e sta procedendo gradualmente. È meglio di quanto avessi sperato. Ho letto cose spiacevoli sui parti indotti e noi l’abbiamo scampata,” disse Mori, recuperando da uno scaffale degli asciugamani ancora avvolti nella plastica. Li passò al più giovane. “Mettili sull’ultimo ripiano, ci serviranno più tardi.”

Seguirono degli attrezzi di chirurgia ancora sigillati.

Chuuya prestò particolare attenzione ai bisturi. “Se va tutto bene, a che servono quelli?”

Mori scrollò le spalle. “Non per forza alle emergenze. In questi mesi, non li ho usati come arma per non sprecarli.”

“E come si riconosce un’emergenza?”

“Il più delle volte, se il bambino va in sofferenza fetale.”

“Eh?”

“Il battito cala troppo durante una contrazione e fa fatica a stabilizzarsi.”

Chuuya pensò al monitor a cui Dazai era attaccato e a tutti quei numeri impazziti sul display, a cui non aveva dato alcuna importanza. “E se succede?”

“Improbabile.”

“Sì, ma se succede? Lo dovrai aprire in due e servirà un anestesista, o cosa cazzo ne so. Ci saranno sangue e urla e-“

“È un cesareo, Chuuya, non un film dell’orrore!” Non era solito di Mori alzare la voce, specie con lui, ma era inutile pretendere che avere Dazai in travaglio non lo mettesse in agitazione - era solo bravo a fingersi un adulto e a controllarsi.

Chuuya rimase pietrificato.

Mori prese un respiro profondo. “Sono stato un chirurgo della prima linea,” disse, anche se era una storia che il ragazzo conosceva già. “Nei primi anni della guerra, facevo amputazioni con una sega e un laccio emostatico. Niente anestesia, nemmeno uno straccio di droga per stordirli. Non avevamo niente, bollivamo le fasciature dei morti perché non potevamo permetterci di buttarle. Qui alla clinica, mi sono sempre preoccupato che ci fosse tutto il necessario. Hai ragione, in una sala operatoria normale sono presenti diverse figure specializzate. Non ho mai avuto il lusso di avere uno staff, così ho imparato ad arrangiarmi da solo. A volte mi è andata bene, a volte no. Ogni medico può raccontarti la stessa storia.” Fece una pausa, tanto per assicurarsi che il ragazzo lo stesse ancora ascoltando. “Ci vogliono circa quaranta minuti per un cesareo, ma per incidere e tirare fuori il bambino ne servono molti meno. Ti racconto tutto questo per chiarire che se dico che ce la faccio, vuol dire che ce la faccio.”

Chuuya annuì, abbassando gli occhi con rispetto.

Mori spinse il carrello operatorio verso di lui. “Torna da Dazai e porta questo con te. Vado a fare un giro di telefonate.”




 

“Io non so se ce la faccio, Kouyou,” ammise Mori, seduto sul pavimento del suo studio, con il cellulare premuto contro l’orecchio.

“Dammi il tempo di contattare Hirotsu,” disse lei, dall’altro capo della linea. “Le strade secondarie sono ancora bloccate dalla neve, ma in qualche ora dovremmo farcela.”

“Spero che sia tutto finito in qualche ora,” ammise Mori, con lo sguardo basso. Dalla stanza in fondo al corridoio, le urla di Dazai arrivavano a intervalli di pochi minuti. Se Chuuya fosse venuto a cercare il suo aiuto, lo avrebbe trovato curvo su se stesso e a un passo dalla disperazione. 

“Non dovrei essere tanto coinvolto,” disse Mori, rimproverando se stesso. “Ai ragazzi non serve questo… A Dazai non serve questo.”

Kouyou sospirò. “Un giorno capirò che tipo di ruolo ti sei imposto,” disse, la gentilezza della sua voce fu come una carezza a distanza. “Non è solo quello di Boss della Port Mafia, è qualcosa di più. So già che tu non me lo dirai mai.”

Mori sorrise amaramente. Era bello avere un’amica, ma era terribile ricordarsi che non poteva permettersi di averne. 

“Però, Mori…” Kouyou pensò con cura alle sue parole successive. “Esiste solo Dazai ora. Il peso del mondo mettilo da una parte, non te lo ruberà nessuno. Arriviamo il prima possibile, promesso.”

Mori interruppe la comunicazione e appoggiò la nuca alla parete fredda. Fuori, attraverso il muro in vetrocemento, poteva intravvedere i fiocchi di neve che cadevano senza far rumore.

“Lascia perdere il mondo, pensa solo a Dazai,” ripeté Mori alla stanza vuota. “Non potrò mai spiegarti che sono la stessa cosa.”

Un lampo di follia lo spinse a cercare un altro numero in rubrica. Avrebbe dovuto cancellarlo da tempo, ma era ancora lì. Premere il tasto di chiamata gli fece fisicamente male.

Era sicuro al novantanove percento che quel numero fosse andato distrutto. Vinse quel misero uno percento, perché seguirono uno, due, tre squilli…

Mori non diede tempo all’altro di parlare. “Sono io.” Si morse la lingua per l'idiozia di quelle parole. “Non essere infantile, non riattaccare.”

Seguì il silenzio e Mori seppe di essere ascoltato.

“Ho bisogno di parlarti…”




 

In tarda serata, le cose cominciarono a mettersi male.

Mori concesse a Chuuya una pausa. “Vai a mangiare qualcosa,” disse. “Se crolliamo anche noi, non facciamo un favore a nessuno.”

Il ragazzo tornò meno di cinque minuti dopo, dicendo che aveva lo stomaco chiuso.

Il medico poteva capirlo. “Ti dispiace se mi faccio un caffè?” Domandò a Dazai, che aveva ripreso a vagare per la stanza. Il partoriente scosse la testa, ma Mori non era certo che lo avesse ascoltato.

Tornò dieci minuti dopo, Chuuya non c’era e Dazai era genuflesso accanto al lettino, le mani giunte. “Non pensare che stia pregando,” disse il giovane. “Questa è l’unica posizione in cui il dolore non mi fa impazzire.”

“Chuuya?” Domandò il medico.

Sospeso in un momento di pausa tra una contrazione e l’altra, Dazai riuscì a parlargli tranquillamente. “Ango ha chiamato otto volte, forse dieci,” rispose. “Si sono provocati un attacco di panico a vicenda e l’ho buttato fuori. Riuscivo addirittura a sentire le urla di Ango dal ricevitore.”

Mori si sedette sul pavimento, accanto al giovane. “Ango sta venendo qui?”

“Se non si ammazza in macchina,” rispose Dazai.

L’orologio appeso sopra la porta informò Mori che erano passate le tre di notte. Dazai versava in quello stato da diciassette ore ed erano in dirittura d’arrivo, ma il tempo cominciava a essere davvero troppo. Reclinò il collo per controllare i valori sul display del monitoraggio: il battito del bambino era perfetto. 

Sakunosuke era un guerriero e Dazai non era da meno.

Dopo il panico iniziale, aveva sopportato il travaglio a testa alta. A Mori bastava guardarlo per accorgersi che era al limite, ma non sul punto di crollare. 

Dazai strinse gli occhi e chinò la testa in avanti.

Mori gli diede la sua mano a cui aggrapparsi. “Respira.” Gli accarezzò i capelli. “Così, bravo, respira.”

Quando il dolore passò, Dazai tremava ma non lasciò andare la mano del Boss. “Voglio Odasaku,” singhiozzò. Si era ripromesso di non dirlo ad alta voce, perché era inutile pregare per qualcosa d’impossibile, ma era troppo stanco per essere ragionevole. “Voglio Odasaku.”

Per un attimo, Mori fu sul punto di chiedergli scusa. Anche se aveva fatto quel che doveva, anche se non provava alcun pentimento per il dolore che aveva inflitto a Dazai, che ora si aggrappava alla sua mano come se da questo dipendesse la sua vita, non significava che gli facesse piacere vederlo soffrire.

Ma Dazai non meritava di essere preso in giro.

Mori accarezzò la mano tra le sue dita. Era più piccola della sua, eppure era certo che quel ragazzino lo avrebbe superato in altezza. Con l’indice, tracciò la cicatrice orizzontale sul polso. Ve ne era una gemella sull’altro braccio. Mori ricordava con esattezza il giorno in cui Dazai se l’era inflitte e quanto tempo ci aveva messo per ripulire il sangue dal pavimento, dalle pareti e da se stesso.

Dazai girò la testa nella sua direzione per guardarlo. “Quel giorno…” Rammentò con un filo di voce. “Tu sei arrivato in tempo.”

Non era un evento che a Mori faceva piacere ricordare. 

“Io non sono arrivato in tempo per Odasaku,” aggiunse Dazai.

“Non avresti potuto fare niente,” ribatté Mori. “Se fossi arrivato un minuto prima, il leader della Mimic avrebbe sparato a te, poi a lui. Sareste morti insieme, non ci sarebbe stato nessun lieto fine.”

“Morire insieme,” ripeté Dazai. “Dal mio punto di vista, non suona così male.”

Mori lo guardò dritto negli occhi. “No, quella stupidaggine del doppio suicidio non sarebbe mai andata bene con Odasaku. Puoi credere che la tua vita non abbia valore, ma la sua era un’altra cosa.”

“Lui aveva qualcosa da fare,” disse Dazai. “Un sogno da realizzare.”

“E tu portavi in grembo suo figlio,” replicò Mori. “Anche se non lo sapevi ancora, avevi una ragione per vivere.”

“Una ragione per vivere.” Dazai si sollevò sui gomiti e si prese la testa tra le mani. “Non posso dare a mio figlio questo peso.”

Mori sorrise tristemente. “Nessun genitore dovrebbe farlo, eppure accade ogni giorno. Ci ripetiamo che i figli non ci appartengono, ma non possiamo fare a meno di essere legati in modo viscerale a quelle vite che abbiamo nutrito, cresciuto e messo al mondo.”

Dazai si mosse, avvertendo l’inizio di una nuova contrazione. “Perché ora ne parli come se lo avessi provato sulla tua pelle?”

Mori trattenne il fiato, ma il dolore raggiunse il suo picco prima che il giovane potesse elaborare. “Coraggio.” Il medico si spostò alle sue spalle, afferrò il ragazzo per i fianchi. “Provo ad alleviare un po’ il dolore. Appoggiati a me.”

Dazai non aveva la possibilità di rifiutare. Mori prese a massaggiargli la schiena e il dolore non passò, ma si attenuò abbastanza da fargli riprendere fiato.

Chuuya tornò nella camera in quel momento. Non fece domande su quanto stava succedendo, si limitò a sedersi sul pavimento a sua volta.

Passata la contrazione, Dazai incrociò le braccia sul bordo del materasso e vi affondò il viso. Fu lui a spezzare il silenzio con un singhiozzo.

“Ohi…” Chuuya gli strinse la mano, allarmato. “Perché piangi, adesso?”

“Lascialo stare, Chuuya,” disse Mori, tornando al suo posto.

Dazai si aggrappò a tutti e due, affrontando le successive contrazioni in quasi silenzio. Era troppo stanco per urlare, per fare qualsiasi cosa che non fosse respirare. 

Di colpo, il dolore cambiò. Sentì bruciore in un punto in cui non avrebbe mai voluto sentirlo. “Devo spingere,” gemette.

Gli occhi di Chuuya divennero enormi. “Che vuol dire?”

Mori sorrise, sollevandosi in piedi. “Vuol dire che ci siamo!” Esclamò, improvvisamente allegro. “Chuuya, aiutami a metterlo sul lettino!”




 

Sakunosuke venne al mondo alle 3.58 del 28 Dicembre.

Dazai aveva creduto che avrebbe impiegato più tempo ad arrivare, che la scena sarebbe stata più drammatica. Aggrappato alla mano di Chuuya, a stento emise un fiato per tutti i quaranta minuti che ci vollero per far nascere suo figlio. Fece male - “come diavolo si può dimenticare un dolore così?” Singhiozzò a un certo punto - e scoppiò a piangere di nuovo, nel bel mezzo del processo. Non gliene importò. 

Chuuya gli parlava, più spaventato di quanto lo fosse lui, ma Dazai non poteva dare ascolto alle sue parole. Era la voce di Mori che lo guidava: fino a che il medico rimaneva tranquillo, sapeva che andava tutto bene.

E, alla fine, eccolo lì.

Il dolore sparì in un battito di ciglia e Dazai sentì ogni residuo di energia scivolargli via di dosso. Si ritrovò con la guancia premuta contro il petto di Chuuya - che era diventato di colpo silenzioso - e le palpebre pesanti. Impiegò tre respiri profondi a tornare presente a se stesso. Per allora, il pianto del suo bambino aveva già riempito la stanza.

“Va tutto bene,” continuava a ripetere Mori. Era la creatura appena nata che guardava, ma Dazai sapeva che si stava rivolgendo a lui. “Va tutto bene.”

Si protese in avanti, ma il braccio di Chuuya lo cingeva e non ebbe la forza di liberarsi dalla stretta. Fu un’attesa di pochi istanti, a Dazai parve un’eternità.

“C’è qualcuno che vuole conoscerti, Sakunosuke.” 

Quando Mori glielo mise tra le braccia, suo figlio aveva gli occhi aperti. Per mesi, Dazai aveva immaginato - meglio,sperato - di rivedere Odasaku sul viso del loro bambino, ma in quello sguardo trovò solo se stesso. Una versione di sé ancora intoccata dall’oscurità, una pagina bianca. 

Dazai passò l’indice tremante sulla testolina ricoperta di capelli scuri - non rossi - e si perse in ogni minuscolo dettaglio, incredulo che fosse opera sua. Era perfetto.

Allora era così che ci si sentiva di fronte alla più pura e sincera sorpresa. 

Eccola lì, l’unica cosa che aveva superato ogni sua aspettativa.

“Sei vivo.” Mormorò Dazai, incredulo. “Sei vivo.”

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Capitolo 7
*** VII ***


VII

 

Nel tempo che Mori impiegò per visitare il neonato, Chuuya aiutò Dazai ad alzarsi e a prendersi cura di sé. Intorno alle cinque del mattino, col cielo ancora scuro, il giovane neo-genitore si coricò nel letto della sua camera, col suo bimbo appena nato tra le braccia.

La prima tutina di Saku fu in ciniglia rossa, il cappellino una riproduzione di quello di Babbo Natale. Anche la copertina in cui era avvolto era dello stesso colore. I mesi passati erano stati il loro personale avvento e quella era la loro natività, avvenuta con tre giorni di ritardo rispetto alla tradizione. 

“Ahi, fa piano, Saku-chan,” mormorò Dazai, quasi avesse paura di disturbare il bambino che si nutriva al suo seno. Si era offerto di farlo con naturalezza, sorprendendo i due mafiosi che lo avevano assistito durante il parto.

“Il mio corpo mi permette di farlo,” aveva detto il neo-genitore, guardando il suo bambino con aria sognante. “E io voglio farlo.”

La questione era finita lì.

Chuuya sedeva sul letto, accanto a Dazai, e guardava la scena con un misto d’imbarazzo e fascinazione. “Ti fa male?”

“Un po’...” Ammise Dazai, ma sorrideva. “Ha tanta fame.”

“Hai sofferto per quasi diciotto ore,” gli ricordò Chuuya. “Se volessi delegare qualcuno e riposarti, nessuno ti giudicherebbe. Abbiamo il latte artificiale.”

Dazai scosse la testa. “È una cosa che voglio fare io,” ripeté.

Chuuya aveva un paio di obiezioni da fare, ma decise di mordersi la lingua. 

“So cosa pensi,” lo precedette il coetaneo. “Paragonate al modo in cui vivo il mio corpo, le mie azioni non hanno senso.”

“Io non sono veramente nessuno per dare giudizi,” disse Chuuya. “Il corpo è tuo, puoi viverlo come preferisci. Se vuoi allattare Saku, fallo. Fanculo le etichette e chi le crea. Volevo solo che sapessi che se non ce la fai, hai le spalle coperte.”

“Non dire parolacce di fronte al bambino.”

“È appena nato, Dazai. Che vuoi che capisca?” 

Saku fece un grande sbadiglio, informando entrambi che era sazio. 

Chuuya voltò lo sguardo con discrezione, permettendo all’altro di ricoprirsi. Sulla sedia a dondolo lì accanto, il Boss era già battuto in ritirata nel mondo dei sogni. Russando, per di più. 

Peccato che il nuovo arrivato in famiglia non volesse seguire il suo esempio.

“Non vuoi proprio dormire, eh?” Saku guardava Dazai con occhi grandi e curiosi, muovendosi come poteva nel fagotto in cui era avvolto. “Guardalo, prova già a sollevare la testa.”

Chuuya sospirò, sconfortato. “Poveri noi, sarà un piccolo diavolo.”

Dazai rise. “Ma questo lo sapevamo fin dal principio, è figlio mio.”

“Che tragedia…” Chuuya si lasciò andare contro i cuscini, come se potessero inghiottirlo. “Avrà tutta l’intelligenza di questo mondo e saprà come usarla, anche contro di noi.”

“Non essere così drammatico, Chuuya.”

“Devo pensarci. Non posso farmi trovare impreparato.”

“Parli come se avessi quarant’anni.”

“Mi sento come se li avessi davvero,” ammise Chuuya e guardò il partner dritto negli occhi. “Non farmi più una cosa del genere,” sibilò.

Dazai inarcò le sopracciglia, le dita strette intorno alla manina di Saku. “Nelle ultime diciotto ore, sono stato troppo impegnato a partorire per farti un torto.”

“Non mi hai fatto un torto,” ammise Chuuya. “Mi hai fatto paura.” Era abituato a Dazai che correva incontro alla morte, lo era di meno alle sue urla di dolore. Era un processo naturale - che cazzo - e non c’era modo per evitarlo - vaffanculo - ma ciò non toglieva che Chuuya fosse rimasto scottato a vita dal grande miracolo della nascita.

Quando Dazai parlò di nuovo, fu come se non lo avesse ascoltato affatto. “Hai mai visto niente di più bello?” Domandò, sognante. 

A parole non sarebbe riuscito a spiegarlo, ma Chuuya era certo che Dazai non si stesse rivolgendo a lui. Da quando era iniziata quella storia, si era sentito di troppo molte volte, ma quella fu la prima occasione in cui gli pesò al punto da chiudergli la gola. Non aveva importanza che fosse rimasto accanto a Dazai per tutto le ore che Saku aveva impiegato a nascere, quel bambino non era suo. Dazai non era suo - anche se non sapeva nemmeno in che veste lo volesse - e competere con il fantasma di Oda Sakunosuke era una strada che conduceva verso la follia.

Chuuya ripensò al dolore che aveva provato alle rovine della casa di Randou, quando Ango gli aveva confermato che Dazai se ne era andato per una sua scelta e non sarebbe più tornato. Non lo aveva analizzato, non lo aveva nemmeno elaborato. Ci era passato sopra con pragmatismo e poi aveva avuto l’ardire di andare da Akutagawa e dirgli di fare lo stesso.

Tempo perso.

Dazai era a casa, aveva dato alla luce un bambino che prometteva il futuro a tutti loro, non come membri della Port Mafia ma come persone legate le une alle altre. A metà strada tra Natale e l’inizio del nuovo anno, Saku aveva regalato loro una pagina vuota su cui scrivere una storia diversa, in cui non avrebbero ripetuto gli errori che li avevano allontanati gli uni dagli altri.

Potevano ricominciare. Potevano provarci.

Chuuya guardò Dazai e pensò che non lo aveva mai visto così. Decise che se ne sarebbe rimasto in silenzio, a memorizzare ogni dettaglio di quell’immagine per poi poterla raccontare. Era importante che Saku conservasse la sua luce e un buon punto di partenza erano i bei ricordi.

Fino a che non fosse stato in grado di crearne per se stesso, Dazai e Chuuya lo avrebbero fatto per lui.




 

Mori si svegliò alle prime luci dell’alba, appena dopo un paio d’ore di sonno. I ragazzi dormivano: Dazai era crollato completamente contro Chuuya - col sole alto, sarebbe stato motivo di lunghe lamentele - ma stringeva ancora il fagottino rosso tra le braccia. Con cura e pazienza, Mori sollevò il neonato e lo depose nella culla accanto al letto, dove era più al sicuro e non troppo lontano dal genitore.

Nella tranquillità del momento, il Boss della Port Mafia si concesse un istante per osservare il nuovo arrivato. Sorrise. 

“Benvenuto in questo folle mondo, piccolo Sakunosuke.”

Uscì dalla camera senza far rumore e percorse il corridoio in punta di piedi. Aveva bisogno di una doccia, di un caffè americano e di tre settimane di sonno. Aveva troppo freddo per buttarsi sotto l’acqua, seppur calda; non sarebbe riuscito a farsi un caffè decente nemmeno con la macchinetta e con un neonato in giro, di notti di riposo non ne avrebbe viste per un po’.

Pensò di andare a sedersi nello studio e lavorare, tanto per concentrare la mente su qualcosa di familiare. Il ricordo del liquido amniotico che bagnava la sua poltrona e il pavimento sotto la scrivania lo fece desistere.

Aveva bisogno di una sbronza come non se la prendeva da vent’anni - in Germania, con Johann - e di uno di quei sigari che non fumava da un po’ - aveva smesso dopo che la convivenza con Dazai era giunta al termine.

Ci pensò il destino a dargli una mano, ma non nel modo in cui se lo sarebbe aspettato.

Fermo, con il piede sull’ultimo gradino della rampa e l’altro sull’ingresso, Mori venne attirato da qualcosa in direzione della porta. 

Non fu un rumore, né una luce.

Niente era fuori posto, eppure sapeva che nell’ombra si nascondeva qualcosa. Il senso di familiarità lo raggiunse, prima dell’instinto di battersi. Suo malgrado, gli sfuggì un sorriso. “Fukuzawa…”

Per nulla intenzionato a rimanere nascosto, l’uomo si fece avanti, comparendo nel fascio di luce proveniente dalla cucina.

Mori lo osservò: non aveva i vestiti adatti per quel tempo, ma non se ne sorprese; forse i capelli argentei erano più lunghi, ma era davvero troppo stanco per mettersi a fare un’analisi meticolosa dei dettagli, come suo solito.

“In tutta sincerità, non credevo ti saresti disturbato a venire,” disse Mori, cortese. Era quasi certo che il loro ultimo incontro non fosse stato dei più amichevoli.

“Negli ultimi mesi, alcuni miei vecchi informatori mi hanno rivelato, in via confidenziale, di alcuni movimenti qui, alla clinica,” spiegò Fukuzawa. “Non pensavo si trattasse di te, fino a che non mi hai chiamato.”

“Beh, sorpresa…”

“Che sei tornato a fare qui, Mori?”

“Fino a prova contraria, è casa mia,” ribatté il Boss della Porta Mafia, sedendosi su uno dei gradini cigolanti. “Accomodati,” lo invitò.

C’era solo sospetto negli occhi chiarissimi di Fukuzawa e Mori non poteva biasimarlo: negli ultimi anni, si era impegnato molto per divenire qualcuno di pericoloso. Lì, su due piedi, era difficile spiegare al suo vecchio partner che quella era un’eccezione. Quando De Sade aveva gettato la città nel caos, raggiungendo l’apice con il rapimento di Dazai, erano riusciti a trovare un punto d’incontro e lavorare insieme ancora una volta. In quel momento, Mori non chiedeva nulla di complesso come un’alleanza, solo una tregua. “Siediti,” insistette, anche se con gentilezza.

Fosse stato un sicario dei tanti che lavoravano per il Governo, Fukuzawa non avrebbe perso neanche un minuto con lui. Ma era proprio per quella coscienza fastidiosa che il Lupo d’Argento aveva smesso di essere un uomo del Governo e, successivamente, anche quello di Mori.

Alla fine, Fukuzawa accettò l’invito. “Che cosa ti è successo, Rintarou?“ 

Mori dedusse che doveva versare in uno stato terribile, se l’altro arrivava a chiamarlo col suo vero nome. “Ricordi il mio ragazzo rapito da De Sade?”

Certo che Fukuzawa lo ricordava. Chiunque fosse stato lì aveva visto ciò che Dazai non avrebbe mai voluto mostrare. Difficilmente ci si scordava di una scena così.

“Quello che ti somiglia, sì.”

In linea cronologica, Mori era stato il primo in assoluto a fare quel commento su Dazai: aveva avuto bisogno che il ragazzino ne fosse annoiato - e molto - prima che qualcun altro avesse l’ardire di farglielo notare ad alta voce. 

“Sì, Dazai. Sarò breve: ha avuto un bambino, appena poche ore fa.”

Fukuzawa sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”

“Niente di brutto,” si affrettò a dire Mori. Lui e Fukuzawa avevano condiviso parte del periodo che il medico aveva trascorso al servizio del vecchio Boss; e quando le donne bussavano alla porta della clinica, non era mai per questioni di routine. 

“Si amavano,” aggiunse Mori. “Dazai e il padre del bambino, intendo. Quest’ultimo è morto nell’ultima guerra che ha messo a soqquadro la città.”

“La Mimic,” disse Fukuzawa. “Taneda mi ha informato, ma non è mai stato richiesto ufficialmente l’intervento dell’Agenzia.”

Mori arrivò dritto al sodo: “tra qualche tempo, forse un anno, il Direttore Taneda ti proporrà Dazai come nuovo Detective per la tua Agenzia.”

Fukuzawa inarcò le sopracciglia. “Proprio quel ragazzino?”

“Proprio quel ragazzino, sì.”

Fukuzawa si preparò allo scontro. “Stai manipolando il Governo stesso per mandare una spia-“

“No. Mi odia come nient'altro al mondo,” aggiunse Mori. “Non lavorerebbe mai per me. Vuole cambiare vita e Taneda gli ha proposto la tua Agenzia. Tutto qui.” Una pausa. “Avanti, Fukuzawa, so che puoi distinguere quando mento da quando sono sincero, e che motivo avrei di dirti una bugia ora?”

“Infatti, non ha alcun senso rivelarmi che assegnerai uno dei tuoi alla mia Agenzia, specie tramite il Governo. Che potere hai acquisito per fare una cosa del genere?”

Mori scosse la testa. “Hai frainteso,” disse. “Il Governo crede che Dazai sia latitante, non con me. Per loro è un pentito da usare, nulla di più.”

“Da usare nella mia Agenzia?”

“È l’unico posto in cui ha accettato di lavorare.”

Fukuzawa assottigliò gli occhi. “Perché?”

Mori scrollò le spalle. “Immagino non voglia essere usato contro di me.”

“Hai appena detto che ti odia.”

“Ma non vuole vendetta. Per far nascere suo figlio, ha cercato me di nascosto dal Governo stesso. È una mina vagante.”

“E tu vuoi mettere una mina vagante nella mia Agenzia?”

“Non io. Taneda.”

Fukuzawa non era mai stato bravo ad afferrare i doppi giochi e quello che Mori e Dazai stavano mandando avanti era un tantino più complesso. Il Boss sospirò. “Anni fa, ti parlai dell’Europa, ricordi?”

Fukuzawa si limitò ad annuire.

“Alla fine del caso De Sade, dopo avermi visto combattere in prima linea per Dazai, mi hai chiesto se lui avesse a che fare con quella storia. Non ti ho risposto.”

“Rammento.”

Non era semplice per Mori fare quella confessione. “Dazai fa parte di quella storia, ma non lo sa.”

A una prima occhiata, l’espressione di Fukuzawa non cambiò ma i suoi occhi d’argento tradirono qualcosa, poi si allontanarono di colpo da quelli del Boss. “Maledizione, Rintarou. Che cosa mi stai affidando?”

Ed erano due volte che lo chiamava per nome: doveva averlo sconvolto parecchio.

Mori concluse che era inutile sottolineare che lui non gli stava affidando niente, che l’Agenzia era saltata fuori durante le trattative tra Ango e Dazai. “Adesso capisci perché ha la mia protezione, nonostante per il Governo sia un latitante?”

Fukuzawa si alzò in piedi. “Avresti dovuto chiamarmi prima.”

Mori gli rivolse un sorriso sarcastico. “Per cosa?” Domandò. “Volevi dimenticarti di tutto il rancore che c’è tra noi e correre in mio soccorso? Non è più il tuo lavoro da anni. A proposito, come sta Yosano?”

Mori non fu affatto sorpreso di ritrovarsi con la punta della katana contro la gola. Fukuzawa non disse nulla, non ce n’era bisogno.

“Bene…” Mori abbassò la lama senza difficoltà. "Alla fine, quello che devi fare non è diverso da ciò che hai già fatto. Un ragazzino con un dono mi volta le spalle e tu lo prendi sotto la tua ala, storia vecchia.”

“Con Yosano era-“

“Lascialo dire a me se è diverso o no,” lo interruppe Mori, alzandosi in piedi. “Ti sto affidando qualcuno - anche se lui non lo saprà mai - questo non cancella il fatto che lo stia perdendo.” A Mori non importava di suonare patetico o drammatico, perché quello era Fukuzawa Yukichi. Se Kouyou fosse entrata dalla porta d’ingresso in quel momento, lo avrebbe abbracciato come un vecchio amico e il Lupo D’Argento sarebbe arrossito come un ragazzino, perché l’aveva conosciuta che era poco più di una bambina e ora era una donna. Tutto questo a dispetto delle fazioni a cui appartenevano.

C’erano legami nel loro mondo che non si potevano spiegare. Esistevano e basta, sospesi tra rancore e ricordi, impossibili da definire con un singolo nome.

“Che devo sapere su questo ragazzino?” Fukuzawa si arrese.

“Non mentirgli.” Fu la prima cosa che Mori gli disse. “Qualunque cosa accada, non mentirgli. È intelligente, molto intelligente, ma è infinitamente pigro. Non mostrerà interesse per nulla che non stuzzichi la sua curiosità. Ah, non gli piacciono i cani. Dovrebbe essere una buona cosa, visto che sei ossessionato dai gatti.”

Fukuzawa a stento riusciva a stargli dietro. “Mi stai facendo una lista?”

“Avrà bisogno di qualcuno che gli tenga testa,” aggiunse Mori. “Non tu. Trovagli un partner che abbia polso, ma sappia ascoltarlo. E con una psiche stabile, soprattutto. Non sarà una compagnia facile da sopportare.”

Fukuzawa non era il tipo da chiudere la porta in faccia a nessuno, ma nemmeno un benefattore. “Se supererà la prova d’ingresso, come chi è venuto prima di lui, non avrò una valida ragione per mandarlo via.”

Mori accennò un sorriso. “Bene.” Non lo ringraziò, troppo sentimentale. “Non ho altri motivi per cui disturbarti.” Fece per tornare al piano di sopra e assicurarsi che i ragazzi non avessero udito nulla.

“Mori,” lo richiamò Fukuzawa. “Come farò a riconoscerlo?”

“Lo hai già visto.”

“Di sfuggita e non al meglio di sé. Voglio essere sicuro.”

“Non credo che ci saranno molti ragazzi padri fuori dalla porta della tua Agenzia.”

“Non è detto che si presenti col bambino. Voglio qualcosa di più specifico.”

“Non puoi sbagliare, non tu.” Mori gli fece l’occhiolino. “Mi somiglia.”






 

Ango fu l’ultimo ad arrivare.

Fosse stato per lui, si sarebbe precipitato alla clinica dopo la prima telefonata di Chuuya, ma c’erano apparenze che doveva mantenere, colleghi che doveva ingannare e un Direttore che non doveva fare domande.

Rimase al lavoro per gran parte delle ore che Dazai passò in travaglio. Chiamò Chuuya a ogni pausa disponibile e non riuscirono mai ad avere una conversazione decente. Come non commise nessun errore che potesse definirsi sospetto rimase un mistero.

Tornato a casa, collassò sul divano, certo che non sarebbe riuscito a prendere sonno.

Il messaggio di Chuuya arrivò alle 4.45.

È nato. Stanno bene tutti e due. Appena puoi, muovi il culo.

Impiegò una mezz’ora buona per calmarsi. 

Il bambino di Dazai e Odasaku era nato e stava bene, quel pensiero era come una ventata d’aria fresca ma tanto violenta da impedirgli di vedere bene davanti a sé. Per prima cosa, si fece una doccia. Non poteva andare a trovare un neonato puzzando di dodici ore di ufficio e ansia. Quando si mise in macchina, erano ormai le sei del mattino e albeggiava.

A causa della neve, non arrivò a destinazione prima della tarda mattinata.

Rischiò di scivolare sul ghiaccio almeno una decina di volte, mentre esauriva la distanza tra l’auto parcheggiata e la clinica. Non appena arrivato davanti alla porta, Chuuya gli aprì prima che avesse il tempo di bussare.

Si scambiarono un lungo sguardo sorpreso.

“Stanno bene?” Domandò Ango, tremando sia per l’agitazione che per il freddo.

Contro le sue aspettative, Chuuya non lo fece entrare ma uscì sul marciapiede e chiuse la porta. “Sì, stanno dormendo,” disse con tono incolore. “Il Boss è dentro con gli altri. Sta raccontando i fatti come una specie di grande impresa epica.”

Il diciannovenne si allontanò dalla porta di un paio di passi. Ango aveva molta urgenza di entrare: voleva vedere che Dazai stava bene con i suoi occhi e conoscere il suo bambino. Ma Chuuya non versava in un gran bello stato.

“Ehi, tutto bene?” Domandò, seguendolo lungo il marciapiede.

Il diciannovenne appoggiò la schiena alla parete gelata, annuendo distrattamente. Un istante dopo, prese a scuotere la testa e strinse gli occhi. “No, cazzo, non sto bene.” Si accovacciò a terra.

Preoccupato, Ango appoggiò un ginocchio sul terreno congelato e gli posò una mano tra le scapole. Tremava. “Chuuya, parlami!”

“Lasciami stare!” Il rosso gli piantò un pugno contro il petto, che non lo fece volare da nessuna parte. Neanche gli fece male. Era solo un modo per tenere l’agente fermo dove stava.

Ango prese un respiro profondo per calmarsi. “Chuuya…” Poteva intuire le emozioni che si agitavano dentro al più giovane e una reazione del genere non era da giudicare. 

Chuuya aveva la testa bassa e i capelli rossi gli coprivano il viso, ma Ango sapeva che stava piangendo.

“Hai avuto paura?” Domandò l’agente. “Ne avevo anche io e non ero lì… A dire il vero, non sono mai stato qui, ma tu sì. Tu hai vissuto questa gravidanza insieme a lui. È normale voler lasciare andare la tensione.”

“Mi serve solo un minuto,” disse Chuuya, con voce spezzata dal pianto. “Non dirlo agli altri. Non dirlo a Dazai.”

“Non lo farò,” promise Ango.





 

Quando Ango salì in camera di Dazai, lo fece da solo.

Chuuya rimase di sotto per intrattenersi coi suoi superiori e lasciare ai due amici un po’ di privacy. Assalito da un senso d’inadeguatezza improvviso, Ango impiegò un’eternità a percorrere il corridoio del secondo piano.

La voce dolce di Dazai lo raggiunse ben prima che la sua camera fosse a portata di occhio. Canticchiava una ninna nanna. Il lamento del neonato lo interruppe e Ango si fermò, come pietrificato.

“Shhh, Saku, va tutto bene,” mormorò Dazai.

La porta della stanza era socchiusa. Ango poteva vedere Dazai vagare lentamente di fronte alla finestra, cullando un fagottino rosso che tra le sue braccia sembrava troppo grande.

Ango rimase così per un po’, troppo intimorito per disturbare quella scena così intima.

Forse sentendosi osservato, Dazai sollevò gli occhi e incrociò i suoi.

L’agente trattenne il respiro, ma il più giovane gli sorrise e gli fece cenno entrare.

“Saku, guarda, lo zio Ango è venuto a trovarci,” disse Dazai, accomodandosi sulla sedia a dondolo.

Forse per il colore, l’agente non riuscì proprio a staccare lo sguardo dal fagottino rosso tra le braccia del più giovane. 

“Siediti, Ango,” Dazai indicò il letto con un cenno del capo. “Vieni a vedere quanto è bello Saku-chan.”

Ango eseguì le istruzioni e non appena ebbe preso posto, il piccolo padrone di casa diede subito un’occhiata al nuovo arrivato. “È vero…” Mormorò l’agente, come il peggiore degli idioti.

Dazai rise. “Lo so, è nato da quasi dodici ore e a stento riesco a crederlo anche io.”

“Tu come stai?”

“Stavo peggio ieri notte. Ora che c’è lui, va tutto bene.” Dazai passò la punta dell’indice sul profilo minuscolo. “Mi assomiglia, vero?”

“Non sono bravo a vedere le somiglianze nei neonati,” disse Ango. “Ma ha i capelli scuri, come i tuoi.”

Le labbra di Dazai si piegarono in un sorriso amaro. “Speravo fossero rossi,” ammise. “Ma possiamo ancora scommettere sul colore degli occhi.”

“Non posso credere che sia qui.” Ango sapeva di non star facendo la migliore delle figure, ma mai in vita sua si era sentito tanto incredulo di fronte a una realtà concreta.

“Visto? Sono ancora bravo a sorprenderti,” scherzò Dazai.

“Sei bravo a farmi prendere colpi,” lo corresse Ango, aggiustandosi gli occhiali sul naso. “E non hai mai smesso di farlo.”

Saku ascoltava le voci intorno a lui, placido. Era stato nutrito e la presenza del genitore lo rassicurava a sufficienza.

“Penserai a tutto tu?” Domandò Dazai, passando a questioni più pratiche. “Il certificato di nascita e tutto il resto.”

Ango strinse le labbra fino a farle diventare una linea sottile. “Ho bisogno che tu mi dica cosa desideri per lui.”

“Che sia libero,” rispose Dazai, senza pensare. “Forse il passato di Odasaku non è così ingombrante, ma il mio sì.”

“Sto già lavorando a quello,” gli ricordò Ango. “Voglio solo sapere se per il mondo, tuo figlio deve esistere.”

Dazai si umettò le labbra. “Come mi presenterai all’Agenzia?”

Ango venne preso in contropiede. “Ci stai ancora pensando?”

“Rispondi.”

“Sarai una proposta del Direttore. Nessun dettaglio, nessun passato. Non saresti il primo a presentarti all’Agenzia così. Tutti i membri si sono lasciati qualcosa alle spalle.”

“E la proposta del Direttore non può avere un bambino a carico?”

“Un bambino porta a più domande.”

“Il mondo è pieno di storie con padri assenti per le più svariate ragioni.”

Ango comprese dove voleva arrivare. “Vuoi interpretare la parte del ragazzo padre?”

Dazai scrollò le spalle. “Se devo…”

“E di Chuuya che mi dici?” Domandò Ango. “È troppo presto per presentarti all’Agenzia, nelle tue condizioni hai bisogno di altro.”

Dazai assottigliò gli occhi. “Perché t’interessa di Chuuya?” 

“Perché si prenderà cura di te e del bambino.”

Dazai non rispose. Non voleva farlo. Era troppo stanco per riflettere sul ruolo di Chuuya in quella storia. Se anche Dazai fosse stato sincero con lui, non avrebbe mai condiviso il suo punto di vista. L’amara verità: non erano né il giudizio né la volontà di Chuuya a fare la differenza.

“Mori sa che non resterò,” disse Dazai.

“Ne avete parlato?” 

“No, ma lo sa. Mi conosce, per quanto m’infastidisca ammetterlo.”

Ango inarcò le sopracciglia. “Ti lascerà restare per il tempo che vorrai e poi ti farà scegliere?”

Dazai scrollò le spalle. “Che vuoi che ti dica?” Sospirò. “Sono il suo preferito.” 




 

Oda Sakunosuke Jr. - non c’era stato verso di convincere Dazai a prendere in esame altre opzioni - nacque alla torre principale della Port Mafia, nella notte del ventotto di Dicembre. Dazai era entrato in travaglio la mattina precedente e nessuno si era mosso dal suo posto dall’allora, ignorando deliberatamente la fine dei turni o il fatto che nessuno avrebbe considerato quelle ore di attesa degli straordinari da pagare. 

Alla Port Mafia si stava verificando un evento senza precedenti, una sorta di natività in ritardo sulla tabella di marcia. Da quelle parti, si era abituati agli omicidi nei corridoi bui, alle pallottole piantate in fronte e alle gole tagliate. Ma una nascita era un evento più unico che raro. 

Il fatto che fosse Dazai Osamu stesso - il più giovane Dirigente della storia della Port Mafia e, secondo le voci, erede stesso di Mori Ougai - a essere impegnato a dare alla luce un bambino, non faceva che rendere tutto più… Più!

Non appena il meccanismo si era avviato, tutti i fedelissimi del giovane Dirigente si erano blindati ai piani superiori del grattacielo, quelli di proprietà di Mori stesso.

Nella sala da parto erano stati ammessi solo i due futuri genitori e il Boss, presente in quanto medico. Nakahara Chuuya era entrato e uscito da quella stanza almeno una decina di volte, per permettere a Odasaku di riprendere fiato. Ango era lì fuori, pronto a dare supporto morale al futuro padre come poteva.

Kouyou e Hirotsu, sebbene emozionati dall’evento, avevano concluso da persone adulte e mature che l’unica cosa da fare fosse pazientare e ingannare l’attesa con una tazza di tè dopo l’altra - Chuuya era certo che, a un certo punto, fosse divenuto sakè.

“Ce l’hai una sigaretta?” Domandò Ango, quando fu ormai chiaro che Odasaku non si sarebbe staccato da Dazai neanche per bere un bicchiere d’acqua.

“Ho finito sia la scorta normale, che quella di emergenza,” ammise il rosso in un sibilo. “Non credevo ci sarebbe voluto così tanto e non scendo a comprarne delle altre. Non mi muovo di qui.”

Parlava a bassa voce, perché i due veterani nell’angolo avevano fatto calare quel genere di sacra atmosfera, ma aveva un gran bisogno di urlare.

“L’ultima volta che sei entrato, come stava?” Domandò Ango, aggiustandosi nervosamente il nodo della cravatta.

Chuuya voleva sputargli in faccia. “Come deve stare uno che sta per partorire, Ango?”

“Ma non si sente urlare.”

“Urlava, urlava… Sono le pareti insonorizzate a evitare a tutti noi di diventare pazzi.”

Ango fece un sospiro. “Sakunosuke, quindi?”

“Saku,” lo corresse Chuuya. “Non cominciamo a creare situazioni confusionarie. Avrà già una vita difficile così, povero bambino.”

“Nessuno chiama Odasaku per nome.”

“Ma Sakunosuke è lungo!” Si lamentò Chuuya. “Metti che a Dazai viene la folle idea di chiamare il suo cucciolo di mastino per nome, che facciamo? Sakunosuke, Ryuunosuke, venite qui… Cioè, immagina.”

“Posso disturbare?” Mori si affacciò sul corridoio, facendoli trasalire entrambi. “Dazai e Oda avrebbero piacere di presentarvi qualcuno.” Si rivolse ai due veterani più in disparte: “potreste dare la lieta notizia a tutti gli altri e cominciare i festeggiamenti? Se si fa troppo giorno, i fuochi d’artificio non-“

A Chuuya e Ango non importò molto di quello che sarebbe stato dei fuochi d’artificio: si scapicollarono nella stanza, trovando la giovane coppia abbracciata sul lettino operatorio. Vedere Odasaku sorridere con tanta spontaneità era di per sé un evento, ma Dazai…

Chuuya era sempre stato certo che non avrebbe mai saputo che aspetto avesse la felicità sul viso di Dazai, eppure eccola lì, brillante come una stella sola nella notte.

“Lumaca è lento a venirti a conoscere, Saku-chan,” disse Dazai.

In effetti, Chuuya era l’unico idiota rimasto sulla porta, ma fu veloce a rimediare. “Ma è tutto lo Sgombro," commentò, annoiato.

Ango gli lanciò un’occhiata storta.

“Osamu si aspettava dei capelli rossi,” disse Odasaku, completamente rapito dal quadretto composto dalla sua famiglia appena nata.

“Possiamo ancora scommettere sul colore degli occhi,” rispose Dazai, appoggiando stancamente la nuca alla sua spalla. Si baciarono. Erano innamorati, felici e con un futuro radioso di fronte a loro - per quanto lo si potesse dire in un mondo che era fatto di tenebra.

Chuuya alzò gli occhi al cielo e li portò sulla vetrata, appena in tempo perché il primo fuoco d’artificio gli esplodesse in faccia. “Ma che cazz-“

“Chuuya, linguaggio, siamo di fronte a un bambino piccolo,” lo rimproverò Ango.

Gli occhi scuri di Dazai si tinsero d’incredulità. “Ma lo ha fatto davvero?” Tentò di alzarsi e reggere il fagottino nello stesso momento.

Chuuya fece per intervenire, ma Odasaku era già lì per aiutarlo.

“Ce la fai?” Domandò quest’ultimo.

“Voglio vedere,” rispose Dazai, come un bambino.

Chuuya rimase in disparte: Dazai non aveva bisogno di lui.

Mori aveva voluto il meglio per la nascita del figlio di Dazai e l’intero cielo di Yokohama brillava a festa, come un Capodanno in anticipo.

Dazai posò un bacio sulla guancia del suo bambino. Odasaku era accanto a lui, ancora incredulo, mentre accarezzava i capelli scuri di suo figlio appena nato.

“Tutto questo è per te, piccolo Sakunosuke.”

Il quartetto non si accorse della quinta persona che li guardava dalla porta. Sul volto, portava un sorriso nostalgico.

“Ehi, Mori…” Lo chiamarono. Non si voltò immediatamente, troppo incantato dal sorriso felice di Dazai.




 

“Mori!” Kouyou gli schioccò le dita di fronte al viso, riportandolo bruscamente alla realtà.

“Ti eri addormentato con gli occhi aperti?” Domandò lei, curiosa.

“Non proprio…” Rispose lui, sbrigativo, sbirciando attraverso la porta socchiusa Chuuya e Dazai che guardavano dalla finestra i fuochi d’artificio per il nuovo anno. Il mondo non sapeva che un bambino speciale era venuto alla luce e non aveva alcuna ragione di congratularsi con i genitori - uno, l’unico vivo - per il lieto evento.

Sakunosuke non era la personale versione della natalità della Port Mafia.

Sakunosuke era un segreto e andava custodito con cura.

Non ci sarebbe stato nessun fuoco d’artificio per lui.

“Guarda… Guarda… Guarda…” Mormorò Kouyou.

Mori la guardò. “Cosa?”

“È rimpianto, quello che vedo?” Domandò lei, passandosi l’indice sul mento. “Oppure è rimorso?”

Sulle labbra del Boss della Port Mafia comparve un sorriso tagliente. “Nessuno dei due, mia cara,” la rassicurò, poi le baciò una guancia. “Buon anno nuovo.”

“Buon anno nuovo,” gli fece eco Kouyou 




 

Il giorno in cui Chuuya divenne Dirigente, Dazai lo comprese senza che nessuno lo informasse. Per la prima volta da quando era nato Saku, non trovò l’altra metà del Duo Nero addormentata sulla sedia a dondolo e nessun messaggio era lì per giustificare la sua assenza. Al piano di sotto erano tutti silenziosi, non udiva Kouyou proporre - per l’ennesima volta - quanto sarebbe stato saggio portare Dazai e il bambino nei suoi quartieri, dove un esercito di donne sarebbe stato al suo servizio; persino Hirotsu non trafficava con le stoviglie, occupato a preparargli la colazione. 

Mentre si sporgeva sulla culla per controllare che Saku stesse bene, Dazai pensò di essere rimasto l’unico nella clinica.

“Finalmente, un po’ di tempo per noi,” mormorò, sollevando il neonato tra le braccia. Saku fissò gli occhi grandi nei suoi, succhiandosi il pugnetto con aspettativa. Un istante di ritardo e sarebbe scoppiato a piangere. “Arrivo, Saku. Sono qui.” Dazai ebbe il tempo di slacciarsi la casacca del pigiama per attaccare il suo bambino al seno, che qualcuno bussò.

La porta era socchiusa - non fosse mai che Chuuya la chiudesse - e Mori era in piedi, vicino all’architrave. Aveva i capelli perfettamente pettinati all’indietro, si era appena rasato e vestito come ci si aspettava dal Boss della Port Mafia.

“Preferisci che torni più tardi?” Domandò l’uomo.

Dazai scosse la testa. “Non mi dai fastidio.” Era inutile provare imbarazzo di fronte a Mori e Chuuya mentre allattava: lo avevano visto in condizioni pessime nel corso degli anni ed erano rimasti lì durante tutto il suo parto.

“Oggi starai solo per un po’,” disse Mori, facendo due passi all’interno della stanza. “Grande festa al castello del Re!” Esclamò allegro.

“E chi sarebbe il Re?”

“Io, ovviamente.”

Dazai lanciò un’occhiata ai cinque edifici neri che si vedevano in lontananza, fuori dalla finestra. “Sembrano cinque versioni dell’oscura torre remota, quella circondata da rovi e custodita da un drago sputa fuoco.”

“Torneremo a parlare di favole quando Saku sarà un po’ più grande, ma prima…” Mori depositò in fondo al letto un volume spesso alcuni centimetri, con una penna stilografica.

Dazai aggrottò la fronte. “Che cosa sarebbe?”

“Un libro di pagine bianche,” disse Mori. “Il mio regalo per te, per la nascita di Saku.”

Dalla posizione in cui era e col bambino attaccato al seno, Dazai non poteva sporgersi per toccare quei doni. “La penna sembra usata.”

“È usata, ma l’inchiostro è nuovo.”

“È tua?”

Le labbra di Mori vennero graziate da un sorriso nostalgico. “Anni fa, non molti a dire il vero, ho sentito il bisogno di tirare una linea metaforica. Alcune persone hanno l’abitudine di raccogliere tutti gli oggetti legati a un periodo in una scatola, hai presente?”

Non si aspettava che Dazai gli rispondesse.

“Una volta che hai racchiuso quella stagione di vita, puoi distruggerla o conservarla. Dipende da te.”

“Cosa stiamo decidendo se distruggere o conservare?” Domandò Dazai.

“Diciamo che, invece di mettere degli oggetti in una scatola, io ho scritto delle parole su delle pagine,” confessò Mori.

“E cosa hai scritto?”

“Tutte le vite di Mori Ougai, prima che divenisse il Boss della Port Mafia.” Prima Di conoscere te.

Dazai passò gli occhi scuri dal viso dell’uomo, alla penna. “Hai usato quella, vero?”

Mori scrollò le spalle. “Mi piace questa tradizione di passarci gli oggetti.”

“Che n’è stato della storia prima del Boss?” Domandò Dazai. “L’hai bruciata?”

Mori scosse la testa. “Ci sono racconti che non possono essere narrati a voce, con un pubblico, ma rendono meglio quando sono scritti nel privato, nero su bianco. C’è una persona a cui vorrei far leggere quella storia, un giorno.”

“E io che cosa dovrei scrivere?” Domandò Dazai, smarrito. “Per chi?”

“Lo sai solo tu,” rispose Mori. “È la tua storia.”

Dazai abbassò lo sguardo sul bambino che si nutriva al suo seno. “La vita che vivrò crescendolo non sarà la stessa che lo ha portato in questo mondo,” disse. “Anche io ho tracciato la mia linea.”

“Puoi scegliere: dimenticare o scrivere. O entrambe le cose.”

Dazai piegò le labbra in un sorrisetto dei suoi. “E cosa pensi che farò?”

Per un istante, uno solo, forse l’ultimo nella storia, ci fu un’intesa tra loro due. Mori estrasse il taccuino di pelle nera dall’interno della giacca. “Te lo ricordi?”

“Ancora esiste?” Domandò Dazai, sorpreso, afferrando l’oggetto con la mano che non sorreggeva Sakunosuke.

“Leggi la poesia a fondo pagina.” Mori lo disse come un maestro che chiede all’allievo di ripetere la lezione del giorno. “In tedesco.”

Dazai prese un respiro profondo. “Wisst ihr, wie ich gewiss euch Epigramme zu Scharen fertige, führet mich nur weit von meiner Liebsten hinweg.”

Mori annuì, soddisfatto. “Che altro potresti fare?” Domandò, riprendendosi il taccuino. “Sei già lontano dal tuo amore.”





 

Era il primo giorno del nuovo anno. 

Nevicava ancora ma Yokohama era di nuovo vivibile. Tutti erano tornati al quartier generale della Port Mafia per un evento importante, tranne Dazai. Quel mondo non era ancora pronto per il suo ritorno, forse non lo sarebbe mai stato. Aveva tracciato con Ango le prime linee di una nuova vita, ma non gli apparteneva ancora. 

Era sospeso, Dazai. L’oscurità e la luce si contendevano il suo cuore in una battaglia silenziosa, pur con la consapevolezza che la prima non lo avrebbe mai abbandonato del tutto. Il buio era parte del suo essere. Quel nulla di cui era l’incarnazione lo avrebbe reso maledetto per il resto dei suoi giorni.

Eppure…

“Guarda cosa abbiamo messo al mondo, Odasaku,” mormorò Dazai, appoggiando la guancia al bordo della culla. Saku ricambiò lo sguardo dal basso, il viso rotondo animato da un’infinita serie di smorfiette. Dazai lo guardava e, per la prima volta nella sua vita, si lasciava travolgere dall’amore che gli scaldava il petto senza paura. Non aveva avuto lo stesso coraggio con Odasaku, ma il loro bambino non avrebbe sofferto a causa della sua difficoltà a riconoscersi come umano. Il suo mondo iniziava e finiva lì, nello spazio dell’abbraccio che conteneva lui e suo figlio. Il dissidio tra luce e ombra poteva anche aspettare.

“È perfetto,” disse il fantasma, fermo di fronte alla culla bianca.

Dazai sollevò il viso e gli occhi azzurri di quell’illusione risposero al suo sguardo. Odasaku era lì, come lo ricordava, come lo avrebbe ricordato fino al suo ultimo respiro.

“Non ti dimenticherò mai,” disse Dazai, con un sorriso triste. “E non credo che riuscirò mai a lasciarti andare veramente.”

Di lui, avrebbe conservato due fotografie e poche parole scritte, ma Saku era la prova indelebile che Odasaku era esistito, che erano stati l’uno dell’altro. Nell’oscurità che li aveva messi al mondo e che li aveva nutriti, avevano trovato uno spiraglio e da quella luce era nato uno splendido fiore.

Quel bagliore non era vissuto abbastanza, ma il loro amore sarebbe divenuto immortale.

“Ma devo smetterla di parlare col tuo fantasma,” concluse Dazai. 

Lo spettro non ribatté, le sue labbra si piegarono in un debole sorriso, lo stesso che gli aveva rivolto prima di lasciarlo per sempre. Sollevò la mano e accarezzò la guancia destra del più giovane, quella che lui stesso aveva liberato dalle bende. Dazai chiuse gli occhi ed ebbe l’impressione di sentire il vero calore delle dita di Odasaku sul viso.

“Non è un addio. Te lo prometto, Odasaku.”

“Con chi stai parlando?” 

Dazai sollevò le palpebre: Chuuya era comparso sulla porta della camera, vestito come se fosse appena tornato da un evento di gala. L’immancabile cappello era tornato al suo posto e così i capelli rossi, perfettamente pettinati. Al suo braccio era appeso un cappotto nero.

Dazai comprese quello che era successo e lo accettò con un sorriso. Non disse nulla, aspettò che Chuuya attraversasse la stanza e si sedesse sul bordo del letto, dal lato opposto della culla. La prima cosa che fece fu allungare una carezza a Saku. “Non ha dormito neanche un po’?” Domandò.

“Penso sia emozionato,” rispose Dazai, con una scrollata di spalle. “I bambini così piccoli sono molto sensibili, deve percepire l’aria di novità.”

Chuuya lo guardò dritto negli occhi, senza smettere di toccare suo figlio. “Sono diventato Dirigente.”

“Lo so,” disse Dazai. “Congratulazioni.”

Non c’era molto altro da dire. Sì, avevano entrambi molte cose a cui pensare e tante altre da fare, ma non c’era nessuno lì a mettere loro fretta.

Nella sua culla, Saku li guardava e si succhiava il pugnetto chiuso, sereno.

Fu un raro momento di pace e se lo godettero in silenzio.




 

Più tardi, Dazai Osamu avrebbe preso tra le mani il libro di pagine bianche che gli era stato donato e avrebbe scritto l’inizio della sua storia, quella che avrebbe raccontato a suo figlio: le persone vivono per salvarsi.




 

Wisst ihr,

wie ich gewiss euch Epigramme zu Scharen fertige,

führet mich nur weit von meiner Liebsten hinweg.

——————————————————————

Sapete

come vi darei epigrammi a non finire?

Basta portarmi via, lontano dal mio amore.

 

[Johann Wolfgang von Goethe]




 

_____________________________________________ Note Finali ____

 

È stato meraviglioso (per auto-citarmi).

Qualche considerazione personale.

Sono sopra questo progetto dal 18 Novembre (sì, mi ricordo la data precisa) e non l’ho mollato fino alla parola fine. È la seconda volta in vita mia che scrivo una storia così lunga così di getto. È stata una ventata di aria fresca, cominciata con il WritOber e confermata con questo calendario dell’Avvento. Rinnovo la mia gratitudine per Fanwriter.it in questo senso, perché offre sempre la scusa buona per mettersi faccia a faccia con la propria creatività. 

Con questa storia voglio anche porre fine a una stagione un po’ triste, creativamente parlando: ho vissuto un blocco totale nel 2020, che nel 2021 ho cercato di superare con risultati altalenanti. Tra la storia del WritOber e questa ho ritrovato la vera voglia di scrivere, di creare nuovi progetti, di rivedere quelli incompiuti. Il tutto con un entusiasmo che non sentivo da molto tempo. So che parliamo di fanfiction. Non so se ci saranno mai dei progetti originali vissuti dall’inizio alla fine nella mia vita, ma non riuscirei a sentirmi davvero viva senza la scrittura (e in questi due anni ne ho sofferto) e sono felice per i fandom che mi danno le emozioni e l’opportunità di sfogare questa creatività. Come lo sono delle persone con cui posso condividere queste avventure, sia qui pubblicamente, che nel mio privato.

Quindi un sincero e personalissimo GRAZIE a chi ha dato una possibilità a questa storia, a chi ha speso il suo tempo per leggerla e lasciare un commento.

 

Ora…

 

Considerazioni d’Autrice

Ho parlato della genesi di questo Macro What If nelle note iniziali, insieme alle altre due parti già pubblicate che ne fanno parte. Ora voglio spendere due parole sul presente e il futuro di questo progetto.

Ho già detto che è molto articolato, ma questi sette capitoli sono il cuore di tutto e metterli nero su bianco per condividerli col mondo è una gran vittoria per me.

C’è chi aveva già letto di Saku nel 2019, ma questo è il vero inizio della sua storia. 

Questo Macro What If, come avete letto, è fatto di tantissimi altri dettagli: sono stati fatti dei riferimenti al Marchese De Sade e a Goethe. Tutti elementi che saranno sviluppati prima di quanto si pensi. 

Allo stato attuale sono in lavorazione 2 PREQUEL - SPIN-OFF e 1 SEQUEL DIRETTO di questa storia. Per ora il cast d’interesse continuerà a essere quello che va Fifteen alla Dark Era (forse passando per Stormbringer). Ma chi ha letto As Pure As The Driven Snow sa che arriveremo a toccare anche Atsushi e Akutagawa. 

Un passo per volta. Questo progetto mi è molto caro e conto di lavorarci parecchio nel corso di questo anno. Non so fare previsioni sulla lunghezza delle varie parti perché le sto scrivendo tutte come storie autoconclusive… Poi mi ritrovo con più di 50k come in questo caso e mi trovo a suddividere per facilitare la lettura.

Per ora, rinnovo i miei ringraziamenti, con la speranza di “rivederci” in occasione dei prossimi capitoli di These Brand New Pages.

In coda vi lascio i miei contatti. Alla prossima!

 


 

Mi trovate su

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IG @od3t0j0y 



Marta Magro.

Se preferite, Marta è più che sufficiente.

Se vi va di fare qualche chiacchiera da fandom,

di parlare dello scrivere o semplicemente per fare due parole,

Scrivetemi!

Scrivo tragedie ma sono simpatica, giuro ✌🏻



 

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