Stralcio

di Bethan__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fine prima dell'inizio ***
Capitolo 2: *** Priorità ***
Capitolo 3: *** La volontà di imparare ***



Capitolo 1
*** La fine prima dell'inizio ***


La Fine Prima dell'Inizio


Ricadde sulle lenzuola cercando di mascherare il respiro affannoso che, come ogni volta, faticava a controllare. Con il tempo l’imbarazzo era scemato ma c’erano sensazioni che erano non solo dure a morire, ma neanche sembravano avere intenzione di indebolirsi.
Lui era disteso a pochi centimetri di distanza, gli occhi fissi sul soffitto, l’inconfondibile espressione imperturbabile dipinta sul viso. Visto che le loro mani erano vicine, la ragazza si arrischiò a sfiorargli le dita. Era una di quelle volte in cui, sorprendendola, decise di darle corda. Perciò, senza dire una parola, rispose ai suoi movimenti cercando di mimarli, fino a bloccarle la mano in una stretta leggera e a lasciarle scorrere il pollice sul polso attraverso una serie di carezze appena accennate. Il suo tocco era ruvido, calloso, eppure così incredibilmente piacevole. Fu quello, unito al fatto che non le avesse chiesto di andarsene subito dopo, a darle un briciolo di coraggio.
“Stavo riflettendo su una cosa”, accennò con voce sommessa, senza guardarlo. 
Aveva passato settimane, forse l’ultimo mese per intero ad arrovellarsi su quel discorso. La prima volta che ci aveva pensato, si era data immediatamente della stupida e aveva messo da parte l’idea di anche solo provare a prendere l’iniziativa per parlarne. No, si era detta. Non cadere così in basso. Non renderti tanto ridicola.
Ma quei pensieri avevano continuato a tormentarla, a tenerla sveglia le notti in cui tornava nella sua camerata in punta di piedi, pregando che nessuno si svegliasse. E alla fine si era convinta di avere abbastanza dignità da meritarsi una risposta. Almeno forse avrebbe ripreso a dormire.
“Cioè?”, chiese lui, senza sembrare particolarmente interessato.
La ragazza cercò di non farsi distrarre dalle dita che ora avevano iniziato a percorrerle pigramente l’avambraccio.
“Questa… dinamica che c’è tra di noi, non sarebbe bello se si evolvesse?”, fu una scelta di parole eccezionalmente banale, lo riconobbe nell’istante stesso in cui le ebbe pronunciate. 
Le carezze cessarono, la sua mano si allontanò ma lui si voltò finalmente a guardarla.
“Se si evolvesse?”, domandò, con tono di scherno. Lei sostenne coraggiosamente il suo sguardo.
“E diventasse qualcosa in più”.
L’uomo rimase in silenzio per qualche secondo prima di rivolgerle un mezzo sorriso sprezzante.
“Non si può evolvere qualcosa che non c’è”.
“Già, è vero. Come ho fatto a non pensarci”, mormorò lei con tono sarcastico. 
“La prima cosa che ti ho detto è stata di non farti venire strane idee”.
“Lo so”.
“E di non dimenticarti mai, in nessun momento, di essere una mia sottoposta”.
“Come potrei dimenticarlo se non fai che ricordarmelo?”.
“Allora non sopravvalutarti”.
“È una richiesta o un ordine, capitano?”.
Levi la guardò per un tempo che parve infinito, prima di concentrare nuovamente la sua attenzione sul soffitto.
“Questa dinamica, come la chiami tu, è finita. Non c’è mai stato niente. Adesso vattene”.
La ragazza accennò un sorriso, lo sguardo basso fisso sulle lenzuola stropicciate. Poi, senza dire niente, si alzò per rivestirsi. Se lo meritava, quel dolore. Perché lo aveva scelto. Sapeva benissimo quello che le avrebbe risposto e forse aveva sperato che andasse esattamente in quel modo, che finisse. Perché non c’era sollievo nell’idea che quel rapporto dovesse continuare a consumarla. Aveva bisogno di uno strappo netto per trovare la forza di cominciare a guarire.


 

Questa è una storia molto breve, uno stralcio, appunto, che ho deciso di dividere in tre parti. Si parte con qualcosa che ha bisogno di finire prima di poter iniziare, non sono davvero riuscita a immaginarla in altro modo. Questa storia è per Levi, uno dei miei personaggi preferiti: ho voluto dargli qualcosa che non credo si sia mai sentito pronto a concedersi. Perdonate le possibili imprecisioni, ho scritto tutto di getto e non ho avuto modo di controllare che proprio tutto fosse giusto. Spero che questo piccolo, umile omaggio possa piacere a qualcun*.
Ci tengo a sottolineare che le sequenze di azione nella seconda parte sono liberamente ispirate a quelle nella storia della bravissima @Iris02059, che nelle descrizioni è molto più brava di me e spero possa perdonarmi una piccola attinzione. Sarò felice se vorrete leggere e farmi sapere cosa ne pensate dei miei vaneggiamenti.

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Capitolo 2
*** Priorità ***


Priorità


Far parte del corpo di ricerca significava abituarsi a strane dilatazioni del tempo. C’erano giorni in cui le ore sembravano dilungarsi all’infinito, minuti che si estendevano fino a diventare delle ore. Altri e molto più frequenti erano i giorni in cui il tempo scorreva implacabile e tutto sembrava scivolare via con una rapidità disarmante.
Quello era uno dei giorni appartenenti alla seconda categoria. Lea era seduta sul proprio letto, il dispositivo di manovra tridimensionale lucidato alla perfezione come prima di ogni spedizione esplorativa, un rituale che serviva a calmarla. Era il prima, il problema. Una volta fuori dai cancelli l’adrenalina e l’istinto di sopravvivenza prendevano il sopravvento, non sperimentava esitazione, non lasciava al suo cervello l’opportunità di elaborare quello che era costretto ad affrontare. C’era tempo per lasciare spazio all’emotività, agli incubi. Dopo.
Lo sguardo le cadde su uno dei letti dall’altra parte della stanza e la presa attorno al dispositivo di manovra si fece più salda.
Quanto mi manchi. 
“Il capitano ci vuole in sella tra dieci minuti”, una voce familiare interruppe bruscamente il flusso dei suoi pensieri, un attimo prima che gli occhi le si riempissero di lacrime.
“Sì, arrivo”, rispose senza voltarsi, sbattendo le palpebre un paio di volte. La gola le faceva un gran male.
Il ragazzo indugiò sulla soglia per qualche secondo prima di entrare nel dormitorio e lasciarsi cadere accanto a lei.
“Oggi non dovremmo spingerci troppo lontano”, disse con studiata noncuranza.
“Non è un problema”.
Lui le diede una piccola spinta con la spalla.
“Hai paura che stavolta tocchi a me?”.
Lea sollevò lo sguardo di scatto e rispose alla spinta in maniera molto meno giocosa.
“Non dirlo mai più, Klaus. I giganti non possono prenderti a calci, io sì”.
Il ragazzo sorrise, passandole un braccio attorno alle spalle e tenendola stretta contro il suo corpo. Non lo avrebbe mai ammesso ma ne aveva bisogno più di lei.
“Tu però non puoi ingerirmi”.
Lea emise un suono strozzato.
“Smettila”, mormorò, senza riuscire a impedire che la voce le si incrinasse. Lui la strinse più forte.
“Sto scherzando. Ci vedremo a cena come ogni sera, così potrò raccontarti delle mie pene d’amore e tu potrai raccontarmi delle tue”.
“Io non ho pene d’amore e neanche tu, a giudicare dai suoni che sfortunatamente ho sentito provenire dalle cucine ieri notte. E quella prima. E quella prima ancora”.
Klaus tossì, imbarazzato.
“Perché sei in giro a quell’ora?”.
“Non riesco a dormire e ogni volta spero di potermi fare un tè per conciliare il sonno ma tu lo rendi estremamente difficile”, rispose lei, il viso accartocciato in una finta smorfia di disgusto.
“Scusa. Stanotte niente cucine, giuro solennemente. Se mi racconti chi è il fortunato che ti tiene sveglia”.
Lei alzò gli occhi al cielo.
“Non ti sembra che abbiamo più che un’abbondanza di motivi per non chiudere occhio la notte?”.
Klaus si aprì in un sorriso beffardo.
“Non so di che parli”.
Poi le baciò la fronte e si alzò, allungando una mano con aria stupidamente solenne.
“Adesso andiamo o al ritorno il capitano ci farà pulire le stalle. L’ultima volta sei inciampata in un secchio di letame e non mi sembra il caso di replicare”.
La ragazza gli prese la mano, sulle labbra uno di quei sorrisi genuini che riusciva sempre a strapparle. Doveva essere grata per molte cose, cercava di ricordarlo a se stessa ogni giorno. Aveva perso tanto ma qualcosa le era anche stato dato. Klaus era una di quelle cose che non solo le erano state miracolosamente date, ma che altrettanto miracolosamente erano anche rimaste. Non erano tante le cose che rimanevano a chi faceva parte del corpo di ricerca, né particolarmente numerose erano le persone che riuscivano a rimanere vive abbastanza a lungo da costruire dei legami significativi. A lei era stato concesso molto più di quello che era stato concesso a tanti dei suoi compagni. 
Con un respiro profondo, si lasciò guidare verso il cortile.


Cavalcare fino a lasciarsi le mura alle spalle non era qualcosa a cui ci si abituava facilmente. Di solito si era troppo occupati a sentire il cuore in gola per lasciare spazio all’eccitazione, all’emozione di essere fuori dalle mura della città. Eppure Lea desiderava tenersi stretta quell’impareggiabile sensazione di libertà, di meraviglia, ogni volta che si trovava davanti immense distese verdeggianti e un cielo sconfinato. Per qualche secondo, solo per qualche secondo, si concedeva di non pensare e di essere felice per il calore del sole, per il vento che le scompigliava i corti capelli scuri e le faceva lacrimare gli occhi, per l’odore dell’erba. Per qualche secondo il mondo esterno era solo verde e azzurro, i giganti non esistevano e lei poteva cavalcare fino alla fine dell’orizzonte, fino a scoprire cosa ci fosse il più lontano possibile dalla città.
Quel giorno il cielo era coperto da opprimenti nuvoloni grigi, l’aria era pesante e umida. Minuscole e sporadiche gocce di pioggia erano già iniziate a cadere prima che i soldati attraversassero i cancelli.
“Capitano, un cinque metri in avvicinamento!”, urlò una delle vedette.
“Gunther!”, tuonò Levi, senza voltarsi. 
Lui non se lo fece ripetere due volte e abbandonò la formazione per lanciarsi verso il gigante che avanzava verso di loro. Con una fluidità dei movimenti sorprendente, lo ferì alle gambe prima di conficcargli gli arpioni nel collo e volargli addosso con le lame pronte e la nuca come obiettivo. Fu nuovamente a cavallo in meno di un minuto.
“Esibizionista”, sorrise Petra, guadagnandosi un occhiolino.
Lea si voltò, alle loro spalle c’erano altre tre squadre che avanzavano tenendosi a distanza. Era un’idea nuova, quella di non cavalcare tutti insieme. Essere divisi in gruppi più piccoli avrebbe dovuto rendere più facile la gestione delle spedizioni e, si sperava, gli attacchi dei giganti. C’era una foresta che i loro superiori avevano insistito per esplorare, nella speranza di trovare qualcosa. Da tempo avevano dei sospetti ridicoli su alcuni esemplari, soprattutto su quelli che facevano parte della categoria anomali. Stavano prendendo in considerazione la possibilità che certi giganti fossero dotati di abbastanza intelletto da collaborare, o almeno comprendersi a vicenda in qualche assurdo modo. Per organizzarsi. Forse era quello il motivo per cui non riuscivano a prevedere alcuni dei loro attacchi.
Un altro gigante si avvicinò da sinistra ma non ci fu bisogno di alcun ordine. Klaus schizzò in avanti insieme a un altro soldato, Abel, e saltò abbastanza in alto da tranciare via il braccio che il gigante stava tendendo verso la squadra. Il sangue inzuppò entrambi ma non fecero una pi
ega. Fu Abel a metterlo fuori combattimento ma non prima di essere colpito dall’altra mano del gigante, che si era voltato con un grugnito sofferente quando Klaus lo aveva mutilato. 
Cadde per terra con un rumore sordo, il braccio sinistro piegato in una posizione troppo strana per essere normale. Klaus gli fu subito accanto.
“Tutto bene?”, domandò mentre già si strappava via un pezzo dell’uniforme per legarlo attorno al compagno e tenergli fermo il braccio fino al loro ritorno in città.
Abel aveva il viso congelato in una smorfia di dolore ma annuì.
“Dovrei riuscire a cavalcare”, rispose, facendosi dare una mano per rimontare in sella.
“Resta dietro di me”, disse Klaus, un lampo di preoccupazione nello sguardo prima di spronare nuovamente il cavallo e riprendere la propria posizione all’interno della formazione.
“Ehi, guarda avanti”.
Lea si voltò all’istante, lasciandosi però andare a un sospiro di sollievo. Ogni volta si riprometteva di non distrarsi e ogni volta falliva. Sapeva che Klaus era perfettamente in grado di cavarsela da solo ma non riusciva a controllare quell’impulso: non le restava nessun altro.
“Stavo guardando avanti”, mentì in maniera infantile, lo sguardo fisso sui cavalli dei suoi compagni davanti a lei.
Marie sorrise, divertita, ma non disse altro.
Le piaceva, Marie. Ogni tanto si sedeva accanto a lei a cena e spesso erano in coppia durante gli allenamenti. Era sempre sorridente, disponibile con tutti. Ricordava che dopo quello che era successo ad Anne era stata l’unica della camerata a non lamentarsi perché i suoi singhiozzi le impedivano di dormire. Invece di rivolgerle vuote parole di consolazione era uscita nel cuore della notte per tornare con una fumante tazza di latte caldo, poi si era seduta sul suo letto e le aveva stretto forte la mano finchè aveva smesso di piangere e il tremore alle mani le era diminuito abbastanza da permetterle di reggere la tazza.
Arrivarono alla foresta segnata sulle mappe in poco tempo e senza particolari problemi. La vegetazione era particolarmente fitta, perciò i soldati rallentarono e iniziarono ad avanzare più adagio. La pioggia veniva giù a secchiate e la visuale era estremamente compromessa, una situazione che non avrebbe reso facile il gestire eventuali problemi.
Le altre squadre erano rimaste indietro e la comunicazione era stata resa assai difficoltosa a causa della pioggia. Il poco cielo che Lea riusciva a scorgere attraverso le foglie era scuro, quasi minaccioso, mentre attraverso gli alberi la pioggia si riversava con violenza tale da coprire qualsiasi altro rumore. 
“Dodici metri!”, una voce si levò da un punto non identificabile della formazione ma fu subito coperta dal boato di un tuono che fece tremare la terra. La ragazza non riuscì a impedirsi di sobbalzare.
Sentì il panico minacciare di travolgerla quando sentì altre grida da qualche parte alle sue spalle. Non riuscì a distinguere le urla e gli ordini che venivano coperti dal rumore incessante della pioggia, perciò si voltò ancora una volta, l’angoscia resa ancora più grande da quanto poco lontano riuscisse a vedere a causa del temporale. Klaus non era lì. Era rimasto indietro. Perché non era lì?
Le urla continuavano a giungere smorzate dalla tempesta prima che l’attenzione della squadra fosse catturata da qualcosa che doveva essere mostruosamente grande, a giudicare dagli alberi che avevano preso a piegarsi fino a spezzarsi come fossero stati bastoncini di bambù. 
“Merda”, imprecò un soldato alla sua destra, intento a sostituire i cilindri del gas del proprio dispositivo. 
“Soldati, lasciate andare i cavalli!”, urlò Levi, le lame sguainate. Incrociò il suo sguardo per meno di un secondo ma Lea la percepì prima ancora di vederla, la preoccupazione. Si stava mettendo male.
Resta vivo. Ti prego.
“Stanno risalendo la formazione!”, la voce di una donna, impossibile individuarne la posizione.
“Più di uno?”, fece Petra, impallidendo.
“Che vengano”, mormorò Lea con rabbia, gli occhi socchiusi a causa della pioggia.
I soldati abbandonarono i cavalli e si lanciarono in alto, verso gli alberi dai rami più spessi, in attesa di capire quale sarebbe stata la loro prossima mossa. Lea sentì il sangue gelarsi nelle vene quando qualcuno gridò in maniera dolorosamente familiare, proprio mentre si alzava un’altra voce che poco lontano abbaiava imprecazioni.
“Ritirata!”.
“Anomali!”.
Il cuore di Lea martellava così forte da farle credere che presto le sarebbe uscito dal petto. Restare lì, in attesa, era la cosa peggiore. Voleva raggiungerli, voleva combattere, voleva aiutare.
Lanciò un’occhiata al soldato più vicino a lei, a qualche ramo di distanza. Gunther le fece segno di prendere un respiro profondo e lei obbedì. Sapeva che in realtà le stava ordinando di concentrarsi ma lei lo era, concentrata. Sentiva i muscoli delle gambe e delle braccia fremere, il sangue rimbombarle nelle orecchie.
Finalmente una delle squadre che si erano lasciati alle spalle giunse ai loro piedi, proprio mentre il bosco veniva squarciato da un lampo. Lea si lasciò sfuggire un suono strozzato quando riuscì a mettere a fuoco la scena che le si presentava davanti: la maggior parte dei cavalli non avevano nessuno in sella, era chiaro che fossero in fuga. I pochi soldati rimasti giunsero pochi secondi dopo, in una corsa disperata: erano coperti di sangue, c’era una ragazza a cui mancava un braccio, aggrappata a un compagno che cercava di scrollarsela di dosso. Urlavano cose che da quell’altezza non era possibile distinguere ma quando sollevarono lo sguardo verso gli alberi le loro voci si fusero in un’unica, straziante richiesta di aiuto. Petra si piegò sulle gambe con uno scatto istintivo e altri compagni di squadra la imitarono, pronti a saltare giù dagli alberi, ma Levi si lasciò andare a un’imprecazione furibonda e ordinò loro di restare dov’erano. Sarebbe stato più saggio evitare lo scontro ma non c’era modo di verificare che il perimetro fossero libero: erano stati inspiegabilmente colti di sorpresa.
Gli anomali comparvero subito dopo: anche se dalle cime degli alberi non era possibile stabilirne la classe con precisione, la loro andatura barcollante ma rapida, unita alle bocche macchiate di scarlatto e le espressioni vuote erano caratteristiche sufficienti a far accapponare la pelle. In uno spettacolo raccapricciante, furono addosso ai pochi superstiti della squadra in pochi attimi e Lea non riuscì a non distogliere lo sguardo, anche se non potè impedirsi di sentire le urla o quel disgustoso rumore di mandibole impegnate a masticare.
Rimasero immobili sotto la pioggia, congelati sul posto in ogni senso possibile. Levi, a denti stretti, aveva valutato la situazione ed era costretto ad ammettere che in quel momento la priorità doveva essere quella di portare la sua squadra al sicuro. Salvo imprevisti, avevano la possibilità di aspettare che i giganti sotto di loro si lasciassero la loro posizione alle spalle e scomparissero nella foresta senza notarli.
Si voltò verso i soldati più vicini al suo ramo, pronto a far loro segno di prepararsi alla ritirata, ma un boato eccezionalmente vicino e improvviso non gliene diede la possibilità. Lea riuscì a stento a scorgere i rami dietro di lei spezzarsi, poi sentì qualcosa colpirla con violenza alla schiena e venne scaraventata in avanti, lontano, attraverso gli alberi e i rami che la ferirono alle mani e al volto, con appena il tempo di intravedere altri soldati scagliati in aria con la sua stessa espressione sorpresa. Attraverso l’equipaggiamento, cercò di controllare la caduta nella speranza di non spaccarsi la testa contro un albero ma, quando azionò il gas, si rese conto di averne troppo poco a disposizione e finì con l’attutire solo in minima parte la violenza con cui finì per terra, ai piedi di un tronco particolarmente spesso contro il quale riuscì per miracolo a non sbattere.
Si prese un momento per respirare, azione che le provocò una fitta non troppo incoraggiante alla schiena. La testa le girava ma si costrinse a mettersi a sedere per valutare la situazione il più rapidamente possibile. La pioggia continuava a venire giù a secchiate ma diverse spedizioni le avevano insegnato che in una situazione di emergenza non era mai prudente rimanere nello stesso posto troppo a lungo: doveva muoversi e doveva farlo in fretta.
Maledizione.
Sostituì i cilindri del gas della propria attrezzatura per tenere le mani impegnate e cercò di pensare. Non sapeva che fine avessero fatto la sua squadra e il resto dei soldati, non sapeva quanti giganti ci fossero nelle vicinanze e non aveva idea di cosa stesse succedendo. C’era un combattimento in corso? Se sì, quanto lontano? La sua squadra era stata completamente divisa? 
Cercò di non cedere al panico, nonostante l’unica cosa che riuscisse a sentire fosse il temporale che non accennava a placarsi.
Decise di spostarsi attraverso gli alberi nella speranza di intravedere presto qualcuno ai suoi piedi. Vivo o meno, si disse, cercando di non soffermarsi troppo sul pensiero di Klaus.
Si spostò il più velocemente possibile, saltando da un ramo all’altro, fino a scorgere una radura al cui centro troneggiava il cadavere di un gigante, sommerso dal vapore che ne ostruiva la vista. Intorno, i corpi erano sparpagliati in maniera disordinata, come bambole rotte. Inorridita, si fermò: uno di loro era Abel, lo riconobbe con una fitta particolarmente dolorosa al petto.
Oh, no. No. 
Avrebbe voluto fare qualcosa, strappare pezzi del suo mantello per coprirne almeno i volti, chiudere loro gli occhi. Sapeva che non c’era tempo ma scese lo stesso dall’albero con un balzo, incapace di trattenersi.
Un urlo straziante la congelò sul posto solo per un istante, poi si mise a correre nella direzione da cui proveniva, rimpiangendo di aver lasciato andare il proprio cavallo. Si ritrovò in una radura costellata di cadaveri sui quali non ebbe il tempo di soffermarsi perché, non troppo lontano da lei, un viso noto stava fronteggiando da sola un sette metri.
“Marie!”.
Lei non non diede segno di essersi accorta di lei, era ferita e sanguinava dalla testa. Il gigante si piegò di lei, cercando di afferrarla, e Lea non perse altro tempo. Non aveva altri appigli, perciò conficcò gli arpioni della propria attrezzatura nelle spalle del mostro e lo colpì agli occhi per poi, con uno slancio disperato e le lame pronte, tranciargli la nuca con un taglio netto.
Il gigante crollò a terra con un rumore sordo e lei atterrò poco lontano, sbilanciata: il capogiro non le era ancora passato del tutto.
“Come stai? Dove sono gli altri?”, si precipitò dalla compagna, che era sporca di sangue e aveva il fiatone.
Ma prima che potesse rispondere, dovette afferrarla e spingerla per terra per evitare che un’altra mano si chiudesse su entrambe. Caddero sul terreno fradicio, ormai divenuto poltiglia marrone, e Lea ebbe un solo secondo per agitare una lama che ferì il gigante al polso, facendolo ululare dal dolore. Marie tossì ma riuscì a rimettersi in piedi, barcollando. Fece per avanzare ma Lea, spinta da una disperata determinazione, la spinse indietro e, cercando di non perdere l’equilibrio e scivolare nel fango, conficcò gli arpioni nelle gambe del gigante per poi lanciarsi verso di lui e ferirlo dietro alle ginocchia, sperando fosse abbastanza per farlo cadere.
Riuscì a sbilanciarlo ma lui allungò comunque una mano verso di lei. Imprecando, Lea gli tranciò due dita e si lanciò di lato, voltandosi in tempo per lanciarsi nuovamente su di lui, girandogli attorno. Usò al massimo il gas che le restava e riuscì a tagliargli la nuca di netto.
Quando tornò a terra, sentiva di non avere più fiato.
“Dobbiamo andarcene! Svelta, dobbiamo…”.
Si voltò quando Marie urlò, stretta nella morsa di una mano gigantesca che la teneva sollevata da terra. Anche Lea gridò, corse verso l’amica il più rapidamente possibile, conscia di aver praticamene finito il gas e non avere più niente per sostituirlo. Ricacciò indietro le lacrime e si passò una mano sul viso, la pioggia le impediva di vedere come avrebbe voluto e sentiva gli arti intorpiditi dall’acqua e dal freddo. 
“Lasciami! Lasciami andare! Lea!”, Marie continuava ad agitarsi, il viso deformato dalla paura.
“Marie, sta’ calma!”.
Lea raggiunse l’amica giusto in tempo per vedere il gigante aprire la bocca e portare la mano con cui la teneva ancora più in alto. 
No!”, urlò e, conficcati gli arpioni nelle spalle del gigante utilizzando l’ultima parte di gas che le rimaneva, prese ad arrampicarsi su di lui con l’obiettivo di tenergli la bocca aperta abbastanza a lungo da permettere all’amica di liberarsi: le lame si erano consumate troppo perché potesse sperare di falciargli via la mano di netto, e in quella posizione non aveva tempo per sbloccare quelle di ricambio. Era un’impresa disperata e sapeva che non sarebbe riuscita a resistere a lungo ma doveva provare. Era già successo che non fosse riuscita a salvare qualcuno, avevano già perso troppi compagni, non avrebbe permesso che altri le fossero portati via.
Non lei. Non di nuovo.
“Lea, grazie. Salutami quel tuo amico”, Marie le sorrise coraggiosamente, la voce tremante e le lacrime che le bagnavano le guance. Aveva tentato di incastrare le sue lame nella bocca del gigante ma non aveva saputo indovinare la posizione giusta e se le era fatte scivolare dalle mani.
“No! Ci sono quasi, dammi la mano!”.
Il sorriso di Marie, scossa dai singhiozzi, tremò.
“Grazie”, ripetè in un sussurro.
Lea, accecata dalla pioggia e dalle lacrime, tentò angosciosamente di sollevarsi più in alto, il braccio teso e i palmi macchiati di sangue. 
Che diavolo stai facendo?”, una voce parecchi metri più in basso la distrasse per un secondo, solo per un secondo, ma fu abbastanza. Il gigante, infastidito, la afferrò con l’altra mano e la strinse come se fosse stata un pupazzo, per poi scaraventarla di lato, mandandola a sbattere contro un albero. Lea battè la testa e sentì un suono allarmante provenire dal braccio sinistro prima che il dolore esplodesse al punto di toglierle il respiro. Poi fu a terra e, un istante dopo, vide crollare anche il gigante in una nube di vapore. 
Levi le fu accanto in un secondo, gli stivali solitamente lucidi erano macchiati e anche lui era sporco di sangue da capo a piedi. Si chinò su di lei, l’espressione a metà tra l’incredulo e l’arrabbiato.
“Lea, resta sveglia. Parlami. Che cazzo, guardami!”, sbottò, una mano allungata che non sapeva bene dove posare. Non sapeva quanto fosse ferita e dove, era impossibile da capire attraverso quel sangue. Tutto quel sangue. La macchia scura che le si stava allargando sotto la testa catturò la sua attenzione con allarmante rapidità.
“Marie”, mormorò lei, le guance bagnate di lacrime, gli occhi fissi sui resti del gigante a pochi metri di distanza. Pensò che per il dolore il petto le sarebbe esploso, eppure non riuscì a impedire che fosse squassato da piccoli singhiozzi silenziosi. Forse sarebbe morta così, piangendo fino a smettere di respirare. Si augurò che la fine arrivasse il prima possibile.
Levi strappò una striscia di tessuto dalla sua uniforme e le sollevò delicatamente la testa per legargliela attorno.
“Dobbiamo andare, dimmi dove sei ferita. Ce la fai ad alzarti?”.
La ragazza non rispose e chiuse gli occhi per un secondo, faticando a riaprirli. Lui imprecò.
Si chinò nuovamente su di lei e fece per prenderla in braccio ma quando le toccò la parte sinistra del corpo, Lea urlò così forte da congelarlo sul posto, anche se solo per un attimo. In ultimo riuscì a sollevarla, cercando di toccare il meno possibile le parti che sembravano dolerle di più, e raggiunse il suo cavallo, che aveva lasciato al limitare della radura, il più rapidamente possibile. 
A labbra serrate, dovette farle nuovamente male per issarla in sella con lui. La stoffa che le aveva avvolto attorno alla testa era già fradicia.
“Non chiudere gli occhi. Parla con me. Dimmi che cazzo pensavi di fare”.
Non voleva avere un tono così arrabbiato, non mentre trasportava un membro della sua squadra che sembrava a un passo dal morire. Ma lo era, arrabbiato. Si erano lasciati cogliere di sorpresa, avevano perso chissà quanti uomini e senza ottenere assolutamente niente che potesse giustificare un tale fallimento.
Lea riaprì gli occhi e riuscì a metterlo a fuoco. 
“Sei vivo”, esalò, la testa che le scoppiava ma il cuore più leggero. Lui incontrò il suo sguardo per un secondo. Il sollievo nella sua voce lo irritò.
“Non vedo perché non dovrei esserlo. Hai intenzione di dirmi perché tu eri invece impegnata a cercare di suicidarti?”.
“Non sono stata abbastanza brava. Non sono riuscita a salvarla”, mormorò lei, gli occhi nuovamente pieni di lacrime.
“Stavi per farti ammazzare!”. 
Va bene, forse quella spedizione fallimentare non era esattamente l’unico motivo per il quale era furente. Forse non era solo rabbia, quella che stava provando. Forse lo disturbava l’idea di avere tra le braccia proprio lei, in quello stato. E sapere che in quel momento la sua salvezza non dipendeva da lui perché non c’era niente che potesse fare. Solo avanzare il più velocemente possibile e sperare che fosse ancora viva quando sarebbero tornati in città.
“Ne sarebbe valsa la pena”, scandì lentamente la ragazza, come se pronunciare ogni parola le costasse uno sforzo disumano. Levi abbassò lo sguardo sul suo viso e sentì una fitta di apprensione alla vista di quanto rapidamente stesse perdendo colore. 
“Resta sveglia. Mi senti?”.
“Quante perdite?”, chiese Lea a fatica.
“Troppe. Perciò resisti, è chiaro?”.
“Ma tu stai bene”.
“Piantala di pensare a come sto io, piantala di pensare agli altri. Non è così che arriverai viva alla prossima spedizione”.
Lei accennò un debole sorriso.
“Sei sempre arrabbiato. Non importa, stai bene”.
Se le rispose o meno, in seguito la ragazza non sarebbe stata in grado di dirlo. Ricordava solo di aver provato a stringere la sua uniforme bagnata tra le dita ma nessuna parte del suo corpo sembrava avere più l’energia per obbedirle. Quando chiuse gli occhi, vinta dalla stanchezza, l’ultima cosa a cui pensò fu che si sentiva fortunata. A prescindere da quello che provava, dal suo orgoglio ferito, a prescindere da quello che lui non voleva, era felice di essere riuscita a vederlo un’ultima volta.


Quando riaprì gli occhi, la gola le bruciava per la sete.
Era in un letto, in quella che era una stanza vuota adibita a infermeria. Provò a mettersi a sedere ma una fitta di dolore alle costole la costrinse a rinunciare. Un paio di mani furono sulle sue spalle all’istante e la spinsero delicatamente verso il cuscino.
“Stai giù, brutta stupida altruista incosciente!”, sbottò il ragazzo, il volto esangue e gli occhi cerchiati da segni scuri. L’uniforme slacciata lasciava intravedere una fasciatura che gli percorreva il petto, meno visibile era invece quella alla gamba destra.
“Klaus!”, esclamò lei, cercando nuovamente di mettersi a sedere e allungando il braccio che non era appeso al collo verso di lui.
“Ti ho detto di non muoverti!”, fece lui, chinandosi su di lei per abbracciarla. Si strinsero così forte da farsi male ma nessuno dei due accennò a lasciar andare l’altro.
“Oh, Dio. Sei vivo. Sei vivo”, mormorò lei, iniziando a piangere senza neanche rendersene conto. Almeno tu. Stai bene.
“Sì, e tu mi hai quasi mollato qui. La prossima volta che decidi di farti ammazzare gradirei essere avvisato, così mi risparmio l’infarto che mi è venuto quando ti ho vista in quello stato”.
Lei si allontanò appena e gli fece segno di aiutarla a sedersi, chiedendogli di sistemarle il cuscino dietro la schiena.
“Mi dispiace”, fu l’unica cosa che riuscì a dire.
“Ti dispiace? Tutto qua? Hai sentito la parte in cui dico che mi è quasi venuto un colpo quando il capitano ti ha portata fuori dalla foresta?”.
“Tu avresti fatto lo stesso. Non ho intenzione di lasciar morire nessun altro senza neanche provare a fare qualcosa ma fossi in te starei tranquilla, ho fallito ancora e che io ci provi o meno è irrilevante perché le persone continuano a morirmi davanti e quindi forse sono nel posto sbagliato, forse non dovrei essere un soldato. Forse sono inutile”.
Klaus tacque, amareggiato. Detestava vederla piangere e detestava l’idea che non avesse smesso di incolparsi neanche per un giorno da quando aveva perso Anne. Invece continuava a punirsi, a ritenersi responsabile.
“Sei uno dei soldati migliori della nostra squadra, smettila di dire sciocchezze”.
Lei gli rivolse uno sguardo sarcastico.
“Davvero? Vogliamo fare una rapida conta delle persone che sono riuscita a mettere in salvo negli ultimi tempi?”.
“Lea, non puoi essere responsabile delle vite degli altri. Non siamo qui per questo”.
“Perciò dobbiamo lasciarci morire a vicenda per cosa, il futuro dell’umanità? Perché l’importante è portare a termine le missioni? Beh, non è solo per questo che io sono qui. Non sono solo un soldato, sono un essere umano. E mi rifiuto di dimenticarmene”.
Klaus si allungò verso di lei per accarezzarle una guancia, facendo attenzione a evitare i graffi che non erano ancora guariti. Aveva sempre amato quel lato di lei, il modo in cui a dispetto di tutte le cose orribili a cui aveva dovuto assistere nella sua vita fosse riuscita  mantenere saldi l’altruismo e l’empatia che la contraddistinguevano. Non era scontato, non nel mondo in cui erano costretti a vivere o nella realtà che erano costretti ad affrontare. Eppure non poteva sopportare l’idea che le succedesse qualcosa, il solo pensiero gli toglieva il fiato.
“Allora puoi ricordarti anche un’altra cosa?”, domandò, scrutandola.
La ragazza aggrottò le sopracciglia, interrogativa.
“Anne non è morta per colpa tua. Nessuno è morto per colpa tua, neanche Marie. Non è colpa tua, Lea”.
Lei sospirò e si sporse in avanti per poggiare delicatamente la fronte sulla sua. Chiuse gli occhi per un attimo.
“Klaus, gli allenamenti stanno per iniziare”, una voce impassibile li fece sussultare e il ragazzo si alzò dalla sedia di legno su cui era seduto con uno scatto meccanico.
“Sì, capitano”. Poi si voltò a guardare la sua amica e le sorrise. “Torno a trovarti presto. Riposati”.
“Grazie”, rispose lei, ricambiando il sorriso con dolcezza.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando uscì dalla stanza e poi si concentrò con ferrea attenzione sulle proprie mani, intrecciate sulle lenzuola. Il suono della porta che veniva chiusa servì solo a renderla più nervosa.
“Sei sveglia”, osservò Levi, avvicinandosi al suo letto e lasciandosi cadere sulla stessa sedia di legno che aveva occupato Klaus.
“Contro ogni aspettativa”, rispose la ragazza, pentendosene subito. Non era la persona adatta con cui usare il senso dell’umorismo e neanche il momento era dei migliori.
“Sei stata una stupida. Ti ho insegnato meglio di così”.
Ecco, appunto.
Finalmente sollevò lo sguardo e non fu sorpresa dal trovarsi davanti degli occhi di ghiaccio. Eppure non riuscì a non pensare, stupidamente, a quanto le fossero mancati. Doveva aver battuto la testa veramente troppo forte.
“Mi dispiace”, si costrinse a dire.
Lui si sporse verso di lei, i gomiti poggiati sulle ginocchia.
“No che non ti dispiace. Rifaresti la stessa cosa alla prima occasione”.
“Sei qui per farmi la predica?”.
Levi socchiuse gli occhi, imponendosi di stare calmo. Aveva passato tutta la notte ad aspettare che si svegliasse, litigare non era esattamente la prima cosa che volesse fare.
“Dovrei essere qui per buttarti fuori dalla mia squadra”.
Lea non riuscì a trattenere una risata incredula.
“Cos’è, una nuova regola della tua squadra, capitano? Bisogna lasciar morire i propri compagni?”.
“I miei soldati sono tra i migliori dell’intero corpo di ricerca, devono esserlo. Non posso portare con me quelli che trasformerebbero ogni spedizione in una missione suicida”.
La ragazza tacque per qualche secondo, troppo stravolta per sapere cosa dire. Non riusciva a credere alle proprie orecchie.
“Questo è un reclamo ufficiale. Fallo un’altra volta e sei fuori”.
“Lo farò sempre, capitano. Ogni volta che avrò l’occasione di salvare qualcuno, io proverò a farlo”, rispose lei con decisione, sostenendo il suo sguardo con la medesima freddezza.
Levi si alzò dalla sedia.
“Bene, magari alla fine otterrai quello che vuoi e finirai nella bocca di un gigante. Forse allora sarai soddisfatta”.
Detto questo, si voltò e si diresse verso la porta con passo misurato. Non voleva dare a vedere quanto fosse realmente irritato con lei.
La ragazza fissò lo sguardo sulla sua schiena, mordendosi il labbro inferiore per trovare il coraggio necessario. Non avrebbe avuto un’altra occasione per congedarsi da lui in modo migliore, più giusto. Per dirgli quello che si era tenuto dentro dal primo giorno in cui le aveva rivolto la parola.
“Te la meriti, sai?”, riuscì a dire, incapace di trattenersi. 
Lui si fermò e si voltò a guardarla.
Lea sorrise. Dopo quella notte non si erano praticamente più parlati, neanche guardati, tutto era tornato esattamente come prima. Come se non ci fosse mai stato niente, con buona pace di entrambi. Lei stava bene, aveva ricominciato a concentrare la sua attenzione su questioni più urgenti di un uomo, se n’era fatta una ragione. Perciò forse si sarebbe pentita di quello che stava per dirgli ma aveva davvero importanza? Era stata spiaccicata contro un albero, non poteva andare peggio di così.
“Una persona che tenga a te, qualcuno a cui importi. Nessuno è troppo al di sopra dell’essere amato e tu, anche se te lo dimentichi, sei una persona. Eccezionalmente dotata, certo, forse il soldato più forte attualmente a disposizione del genere umano, ma sei una persona. E io spero davvero tanto che un giorno tu permetta a qualcuno di tenere a te. Quel qualcuno chiaramente non sono io, probabilmente è un bene dato che comunque non credo vivrò abbastanza a lungo, ma tu dovresti davvero concederti una dinamica da evolvere, ecco”.
Levi restò fermo a guardarla senza rispondere. Anche se avesse voluto, non avrebbe saputo cosa dire.
Lei si schiarì la voce e scivolò nuovamente sotto le lenzuola, a fatica e con una smorfia di dolore. La testa le pulsava e non riusciva a respirare troppo profondamente senza che delle fitte le esplodessero nel petto.
“Quanto sono messa male? Posso tornare alla mia camerata, allenarmi?”, domandò, sperando di alleggerire quel silenzio imbarazzante.
“Sei messa abbastanza male da dover passare un paio di notti qui, dovresti rimetterti completamente tra qualche settimana. Gli allenamenti sono sconsigliati ma farai quello che potrai, ci sono altri feriti e abbiamo pensato a come non tenervi a letto tutto il giorno. Se sarai troppo stanca, darai una mano in ufficio con inventari e rapporti”.
La ragazza annuì con lentezza. Certo che si sarebbe allenata, avrebbe fatto tutto il necessario. Tutto quello che ci si aspettava da un soldato, ferito o meno.
“Ricevuto, capitano”, rispose con un altro sorriso stanco, abbandonando la testa sul cuscino. La fasciatura era stretta e le dava fastidio ma si trattenne dall’allentarla.
Levi si diresse verso la porta e la aprì ma, prima di uscire dalla stanza, si voltò a guardarla un’ultima volta.
“Lo sei stata, abbastanza brava. E il tuo amico ha ragione, non sei responsabile delle vite altrui”.


Tre settimane dopo, Lea era felice di attraversare il cortile alla luce arancione del tramonto, le braccia indolenzite e le gambe nuovamente piene di lividi a causa degli allenamenti. Stava avendo qualche difficoltà ad adattarsi ai ritmi notoriamente faticosi dopo il periodo passato a cercare di ristabilirsi, ma le era mancato arrivare a fine giornata dolorante per i motivi giusti.
Continuava a chiedere ai suoi superiori quando le sarebbe stato concesso di partecipare nuovamente alle spedizioni esplorative ma tutti le rispondevano la stessa cosa: è presto. Cominciava a pensare, con grande imbarazzo e umiliazione, che non la ritenessero più un elemento abbastanza valido da portarsi dietro nelle missioni esplorative. Forse ormai pensavano che fosse troppo emotivamente instabile, impulsiva, o qualcosa del genere. Levi doveva aver fatto presente l’episodio che l’aveva coinvolta con Marie, forse aveva riportato anche le parole ostinate che gli aveva rivolto l’unica volta che era venuto a farle visita in infermeria. Forse anche Klaus era stato avvicinato, invitato a confermare quanto fosse più saggio tenerla dentro le mura, possibilmente ad allenarsi tutto il giorno e a compilare documenti rinchiusa in uno degli uffici.
Tutto ciò la faceva sentire frustrata oltre l’inverosimile ma non aveva alcuna intenzione di ritrattare la sua posizione. Non sarebbe andata a implorare di poter essere riammessa tra le fila della sua squadra, promettendo che si sarebbe limitata a fare il suo dovere di soldato senza lasciarsi coinvolgere a livello emotivo. Non voleva che il mondo le togliesse anche quello, non voleva che la sua identità venisse ulteriormente stravolta.
Calciò una pietra, indispettita. Aveva sempre fatto quello che le era stato ordinato, era stata disciplinata, si era impegnata, non aveva messo in discussione il modo di agire dei suoi superiori. Ma ne aveva abbastanza dell’essere punita o dell’essere giudicata inaffidabile per aver tentato di aiutare un’amica. Non poteva accettarlo. Perciò decise, con risoluzione febbrile, che l’indomani avrebbe insistito con maggiore decisione. Se necessario, avrebbe fatto l’ultima cosa che avrebbe voluto fare: avrebbe parlato con Levi, lo avrebbe pregato di darle fiducia, si sarebbe resa ridicola fino al punto di supplicare, se fosse servito a qualcosa.
Passò dalla sua camerata per mettersi una camicia pulita e fece una smorfia quando vide il livido che le si stava allargando sull’avambraccio destro. Si era lasciata distrarre ed Elfiede l’aveva afferrata e atterrata con violenza, cogliendo l’occasione al volo. Klaus si era lasciato scappare uno sbuffo divertito dal naso e lei aveva altezzosamente rifiutato la mano che Elfiede le aveva offerto per aiutarla a rialzarsi.
Si fermò qualche secondo per massaggiarsi una spalla a occhi chiusi, poi uscì dalla stanza vuota per dirigersi in mensa. Le fu servita una densa zuppa di patate con del pane raffermo e un boccale d’acqua fredda, bottino che portò al tavolo dove Klaus e altri loro compagni erano seduti, impegnati in un allegro chiacchiericcio.
Lui le fece subito spazio e lasciò a metà la frase che stava rivolgendo a Petra.
“Ehi, come va? Sembri stanca”, osservò, il tono preoccupato.
Lea, che stava morendo di fame e aveva subito cominciato a mangiare, scosse la testa.
“Sto bene, sono solo passata a cambiarmi. Di che parlavate?”.
“Della spedizione di stamattina! Klaus ha eliminato due dieci metri con un unico attacco, Gunther era furioso”, sorrise Petra, divertita.
Il diretto interessato, seduto all’altro estremo del tavolo, le puntò contro un dito.
“Mi ha scavalcato”.
“Vuoi sempre l’esclusiva”, rise Klaus.
“Me la sono guadagnata con la mia illustre reputazione”.
Lea accennò un sorriso.
“Scoperto qualcosa di interessante?”, domandò.
Petra si strinse nelle spalle.
“Non ancora ma il comandante sta pensando di costruire una base militare all’interno della foresta. Dobbiamo tornare a esplorare la zona per capire come farlo in sicurezza”.
“Lo faremo lavorando di notte, immagino. Mi sembra l’opzione migliore”.
Klaus le lanciò un’occhiata e si schiarì la voce.
“Nel senso che vuoi unirti anche tu?”.
La ragazza aggrottò le sopracciglia.
“L’ultima volta che ho controllato, eravamo nella stessa squadra”.
“Sì ma, ecco, credevo… insomma, non è molto meglio restare dentro le mura? È più sicuro e non dovresti, sai, sentirti in ansia o responsabile o qualcosa del genere”.
Lea tacque per qualche secondo, passando in rassegna i volti dei suoi compagni seduti al tavolo. Sembravano tutti distratti da qualcosa, nessuno ricambiò il suo sguardo o diede segno di aver sentito quello scambio di battute. Anche Petra sembrava improvvisamente concentrata sulla sua zuppa.
“Klaus, perché non parli chiaramente?”.
Lui sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
“Mi piace non vederti in pericolo e preferisco di gran lunga quando non rischi di farti ammazzare in nome dell’altruismo”.
“Hai detto che mi ritieni uno dei soldati migliori della nostra squadra”.
Gunther sbuffò una risata ma lei, anche se a fatica, lo ignorò. Petra gli pestò un piede.
“Ed è così, lo sei. Sai che lo penso”.
“Perciò stai suggerendo che uno dei soldati migliori della squadra non partecipi più alle spedizioni esplorative”.
Sophia tamburellò le dita sul tavolo, impaziente.
“Sta suggerendo che sei troppo sensibile per fare questa vita e che forse il tuo posto non è tra noi”.
“Sophia!”, sbottò Petra, indignata.
“No, io non sto affatto dicendo questo”, puntualizzò Klaus con tono piccato.
“Anche i nostri superiori devono pensarla allo stesso modo, dopotutto è con te che il capitano ha parlato”, continuò la ragazza seduta accanto a Gunther.
Klaus la incenerì con lo sguardo.
“Incredibile quanto la mia reputazione sia stata compromessa”, riflettè Lea, il tono inespressivo. 
“Ascolta, stai fraintendendo quello che…”.
“Sophia, sbaglio o Marie era anche amica tua? Mi pare passaste molto tempo insieme”.
La ragazza le rivolse un sorriso sprezzante.
“Non provarci”.
“Devo essermi persa il momento in cui abbiamo collettivamente deciso che provare ad aiutare un’amica significhi essere un cattivo soldato”.
“Nelle giuste circostanze, non un cattivo soldato, solo una stupida”.
“Sophia, piantala!”, sbottò Klaus, guadagnandosi una risata come risposta.
“Lea, non ascoltarla, nessuno di noi lo pensa”, mormorò Petra, allungandosi sul tavolo per toccarle un braccio.
“Potete pensare quello che volete ma niente vi da il diritto di mettere bocca sulla mia posizione all’interno del corpo di ricerca”. Si voltò verso Klaus, il viso teso in un’espressione dura. “Hai parlato con il capitano?”.
“Lea, ti prego, gli ho solo detto che sono preoccupato per te. Non…”.
“Sono un soldato”.
“Lo so!”.
“Ho seguito lo stesso addestramento di tutti quelli seduti a questo tavolo”.
Lo so. Se solo mi lasciassi…”
“Se finirò nello stomaco di un gigante per aver tentato di salvare la vita a qualcuno, sarà una mia scelta. Tu non hai nessun diritto di mettere in discussione il mio ruolo, men che meno con il nostro capitano”.
Il ragazzo sospirò, passandosi una mano sul viso.
“Mi dispiace, d’accordo? Non avrei dovuto farlo. Volevo solo tenerti al sicuro”.
“Quindi se io provo a fare qualcosa di buono sono una pazza troppo emotiva che non merita di uscire più dalle mura ma tu saresti cosa? Un ottimo amico?”.
L’espressione di Klaus rese evidente quanto quelle parole lo avessero ferito ma non disse niente, limitandosi ad abbassare la testa. Improvvisamente disgustata dall’odore della zuppa, Lea spinse via il vassoio e si alzò, scatenando ancora una volta l’ilarità di Sophia.
“Lea, non andartene”, Petra le parlò con tono gentile, gli occhi colmi di una sincera preoccupazione. La ragazza si sforzò di sorriderle.
“Non ho più fame. Ci vediamo più tardi”.

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Capitolo 3
*** La volontà di imparare ***


La volontà di imparare


Era già a letto quando le ragazze della sua camerata tornarono dalla mensa, portando con loro conversazioni dal tono allegro e risate divertite. Ci fu un breve silenzio quando notarono la sua sagoma sepolta sotto le lenzuola ma nessuna fece commenti e cominciarono a prepararsi per la notte continuando a discutere in un’atmosfera piacevolmente rilassata. Qualcuno, forse Petra, le appoggiò con dolcezza una mano sulla spalla, lasciandola indugiare lì per qualche secondo. Poco dopo, la stanza fu immersa nel buio e lei non ebbe più bisogno di fingere di essere addormentata.
Si sdraiò sulla schiena, gli occhi che scrutavano il soffitto, impaziente di sentire i respiri delle sue compagne farsi più pesanti. Aveva un gran bisogno di scappare in cucina, sedersi da sola con una tazza di tè e calmarsi. 
Sapeva di essere stata ingiusta con Klaus, lo conosceva abbastanza da essere sicura che non avesse avuto cattive intenzioni. Non le importava che qualcuno pensasse che non fosse forte abbastanza da restare in squadra, non era a loro che doveva provare di essere un elemento valido. Desiderava che le si desse l’occasione di dimostrarlo, però. Voleva che la vedessero rimanere viva abbastanza a lungo da ricredersi. Non era pentita di ciò che aveva fatto, eppure le bruciava la facilità con cui chi le stava intorno l’aveva declassata.
Avrebbe parlato con Klaus, gli avrebbe detto che sapeva quanto il suo intento volesse essere gentile, ma avrebbe sottolineato con fermezza che si aspettava non facesse più nulla del genere. Aveva bisogno di potersi fidare dell’unico vero amico che le era rimasto, altrimenti non avrebbe avuto più niente.
Quando nella stanza gli unici rumori udibili divennero respiri sommessi e lievi fruscii di lenzuola, Lea scostò le coperte e scese dal letto in punta di piedi, attenta come sempre a non far rumore. Quando si chiuse la porta alle spalle, il più silenziosamente possibile, pregò che a Klaus non fosse venuta voglia di intrattenersi nuovamente nelle cucine, magari per distrarsi dalla discussione che avevano avuto a cena.
Per fortuna tutto sembrava buio e tranquillo abbastanza da farle tirare un respiro di sollievo. Tuttavia, quando entrò nelle cucine, quello stesso respiro le si bloccò in gola per la sorpresa. 
“Oh. Scusa, non pensavo ci fosse qualcuno”, mormorò, colta alla sprovvista. Si dondolò sui talloni, a disagio.
Il capitano, seduto all’unico tavolo disponibile, le rivolse uno sguardo imperturbabile. Era esattamente in quel modo che era cominciata, ricordò la ragazza con una spiacevole contrazione dello stomaco. 
“Torno a letto”, fece infine, imbarazzata da quel silenzio prolungato.
Si voltò ed era già con un piede fuori dalla stanza quando Levi aprì bocca.
“Ce n’è abbastanza per due”, disse, riferendosi alla tazza fumante e alla teiera poggiati davanti a lui.
La ragazza esitò solo per un istante. Vinta dal freddo e dal bisogno di non restare da sola, accolse l’invito con un cenno della testa che sperò esprimesse gratitudine. 
Recuperò una tazza pulita e si sedette al tavolo, lo sguardo basso mentre lui le versava la miscela di tè nero che aveva preparato. Aveva un odore confortante, dolce ma speziato.
“Non riesci a dormire?”, gli domandò. Non sopportava l’idea di restare in silenzio e non osava concentrarsi sul fatto che non si fossero trovati più da soli da quell’ultima volta. Esclusa la missione di salvataggio a cui lo aveva costretto nella foresta, si capisce. Bevve un sorso, sperando di scaldarsi.
“Ho del lavoro da finire, sto facendo una pausa”, rispose lui, la voce che non tradiva alcuna emozione.
“Beh, se vuoi posso dare una mano. Non ho comunque in programma di dormire”.
“Per quale motivo?”.
“Domani non ho niente da fare”.
“Hai gli allenamenti”.
“Ho solo gli allenamenti”.
Levi la scrutò in silenzio per qualche secondo. Contro ogni previsione, si era abituato a lei. In modo del tutto involontario, era capace di capire con allarmante chiarezza quando fosse arrabbiata, infastidita, triste o agitata. In quel momento sembrava essere tutte e quattro le cose insieme.
“Vuoi uscire”, osservò con calma.
Lei sollevò lo sguardo, incontrando il suo. Strinse la tazza un po’ più forte, scottandosi le dita.
“Per quanto tempo hai intenzione di punirmi?”, chiese a voce bassa.
Lui aggrottò le sopracciglia.
“Come?”.
“La mia punizione, quanto deve durare? Sai, per essere stata stupida. Un cattivo soldato, indegno della squadra Levi. Un elemento problematico. Quando verrò assolta?”.
Per un secondo, l’attenzione dell’uomo fu catturata dai polpastrelli arrossati della ragazza quando appoggiò la propria tazza di tè sul tavolo. 
“Nessuno ti sta punendo, Lea”.
“Allora perché non mi è permesso partecipare? Perché più passa il tempo, più mi sembra di essere stata buttata fuori? Pensano tutti che così sia meglio, i miei compagni. E lo so che hai parlato con Klaus, che pensi la stessa cosa anche tu. Ma io non lo trovo giusto, ho sacrificato tanto per il corpo di ricerca e mi ritengo un buon soldato e vorrei davvero tanto non essere messa da parte così facilmente perché…”.
“Non alzare la voce”.
Lea tacque all’istante, ritraendosi per riflesso. Era facile dimenticarsi che quello che le sedeva davanti era il suo capitano, dopo tutto quel tempo quando lo guardava vedeva ancora la persona di cui si era stupidamente innamorata.
Imbarazzata, si ordinò mentalmente di controllarsi.
Levi si alzò, la tazza nuovamente piena nella mano destra. Lei non sollevò lo sguardo dal tavolo, perciò emise qualcosa di simile a un sospiro spazientito.
“Vieni”, disse, facendolo suonare più come un ordine che come una richiesta.
Cinque minuti più tardi, erano nel suo ufficio. Lui le aveva dato la propria tazza perché lo aveva seguito senza prendere la sua. Entrambi erano in piedi, la ragazza appoggiata alla scrivania dove le candele lasciate accese illuminavano una quantità spaventosa di carte e documenti macchiati d’inchiostro. La stupì non poco quel disordine ma decise di non fare commenti.
“È per questo che avete discusso, a cena?”, le chiese lui.
A disagio, Lea percorse distrattamente il bordo della tazza con l’indice. Doveva aver dato più spettacolo di quanto avesse pensato. 
“È possibile”, mormorò.
“E qualcuno ti avrebbe detto cosa penso io?”.
“Klaus mi ha detto di aver parlato con te e Sophia sembrava piuttosto sicura che…”.
“Il tuo amico è venuto a dirmi di essere preoccupato per te. Gli ho risposto che, quando sarà capitano, potrà decidere come gestire i soldati di cui si preoccupa ma che per adesso non ho bisogno di seconde opinioni”.
Lea sollevò la testa, sorpresa.
“Dopo il trauma che hai subito alla testa i tuoi riflessi sono lenti, è la ragione per cui passi gli allenamenti più con il culo nella polvere che in piedi. L’unico motivo per cui non stai partecipando alle missioni è che ho bisogno di essere sicuro che tu sia al meglio della forma. Perché Klaus ha ragione, sei tra le migliori risorse della squadra, e se non te ne rendi conto sei davvero stupida come dicono”.
La ragazza dovette appoggiare la tazza sulla scrivania perché le mani avevano iniziato a tremarle. Non sapeva se sentirsi in imbarazzo per essersi lasciata manipolare così facilmente dai propri pensieri negativi, o se avvampare per aver ricevuto quello che era probabilmente il complimento più grande che avrebbe potuto farle.
“Anche tu mi hai dato della stupida”, fu l’unica cosa che riuscì a dire, schiarendosi la voce.
“Io posso farlo, sono un tuo superiore”.
Lei gli lanciò un’occhiata esasperata e ricevette in risposta l’accenno di un sorriso, così impercettibile che qualcuno avrebbe potuto scambiarlo per una contrazione involontaria delle labbra.
Sapeva di doversene tornare a letto, e pure abbastanza in fretta visto la reazione che il suo stomaco aveva a quello sguardo rivestito di uno strato di ghiaccio più sottile del solito, ma non riusciva a trovare la forza di uscire da quell’ufficio. Forse era l’ultima vera occasione che avrebbero avuto per essere soli e voleva prolungarla per il maggior tempo possibile.
“Beh, grazie”, mormorò, la voce densa di sincera gratitudine.
Lui inclinò leggermente la testa.
“Per averti dato della stupida?”.
“Per non aver pensato che sono un cattivo soldato. E per aver scelto di non buttarmi fuori. Non vorrei far parte di nessun’altra squadra, capitano”.
“Smettila di chiamarmi così”.
La ragazza accennò un sorriso triste.
“Sono una tua sottoposta, è così che devo chiamarti”, rispose. 
Lui chiuse gli occhi per un secondo e, quando li aprì, parve improvvisamente molto più stanco di quanto le fosse mai sembrato. Provò l’impulso di scostargli i capelli dalla fronte e accarezzargli una guancia, chiedergli se stesse bene. Cosa lo preoccupasse.
“Lea”, il modo in cui pronunciò il suo nome, con una nota severa ma anche come se non sapesse che altro dire, le diede la spinta giusta per staccarsi da quella scrivania.
“Torno a dormire. Grazie per il tè, il tuo è sempre il migliore”, si sforzò di sorridergli, di suonare gentile. 
Che stupida era stata a pensare di averla superata così facilmente. Erano bastati pochi minuti da sola con lui per sentirsi disgustosamente vulnerabile, imbarazzata dall’ascendente che continuava ad avere sulle sue emozioni. Tenersi a distanza rendeva le cose più semplici, forse ingannevolmente, ma che importava? Avrebbe fatto in modo di non avvicinarsi mai più se significava indugiare per più tempo in uno stato di serena indifferenza. Lo doveva a se stessa, alla sua dignità ma anche al suo cuore.
Non fu sorpresa dalla rapidità con cui agì, era preparata all'idea che avrebbe voluto farle un’altra paternale. Perciò, quando la afferrò per un braccio, impedendole di lasciare la stanza, non si voltò subito. Si sentiva instabile, come se il pavimento avesse preso a ondeggiare. 
“Io non ti posso dare quello che vuoi”, le parlò con quel suo familiare tono duro, che non ammetteva repliche. Che non aspettava di ricevere risposta.
“Non lo sai neanche, cosa voglio”, disse lei, calma.
“Bene. Non ti posso dare quello che dovresti volere”.
Lea si voltò, tirando via il braccio con un movimento brusco.
“Cosa pensi che voglia, di preciso? Il matrimonio? Che passeggi con me tenendomi per mano?”.
I lineamenti dell’uomo si rilassarono ma lo sguardo restò distaccato.
“Dovresti volerlo. Qualcuno con cui poter fare progetti, che possa conoscere i tuoi amici. Che cazzo pensavi di poter evolvere, con me? Cosa credevi potessi darti? Non sei una stupida ma giuro che a volte ti comporti come se non volessi sembrare altro. Mi manda fuori di testa”.
Lea non si rese conto del fatto che il suo respiro fosse diventato irregolare. Percepì tuttavia i battiti accelerati che le risuonavano nelle orecchie, nel petto, nello stomaco.
Fece un passo indietro, cercando di controllarsi.
“Sei un ipocrita”, scandì con lentezza. 
“Tra le altre cose”, replicò freddamente lui.
“No. Non ti permetto di esserlo. Sei un esempio, essere nella tua squadra è probabilmente l’unica cosa che da un valore alle nostre esistenze. E tu rischi la vita ogni giorno, combatti per qualcosa in cui neanche credi. A te non importa del genere umano, non ti interessa cosa succederà. Tu ti batti per un futuro a cui non dai il minimo valore. Come osi non dargli valore?”.
Levi tacque, continuando a fissarla. La ragazza avrebbe voluto sedersi, era impallidita e la fronte era ricoperta da un sottile strato di sudore. 
“Pensi di non poter dare niente. Non vuoi dare niente, non vuoi riceverlo. Te ne stai rintanato nella tua preziosa solitudine, nell’infelicità. Beh, fallo per sempre se vuoi. Ma non ti permetto di ridicolizzarmi per aver voluto tentare. Per aver pensato di essere abbastanza da allontanarti da quell’esistenza desolante che ti piace così tanto. Perché ne stiamo parlando? Mi hai detto di andarmene e l’ho fatto. Perché devi anche farmi sentire così?”.
Non si accorse di aver cominciato a piangere. Restò a guardarlo registrando appena un pulsare doloroso al centro del petto. Lui fece un passo avanti, per un attimo le parve avesse voluto allungare una mano verso il suo viso, ma sapeva di essersi sbagliata.
“Non ho niente da dare. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro”. Parlò con calma ma qualcosa era cambiato nella sua voce. Sembrava meno fredda, era più bassa. 
Lea avrebbe voluto spingerlo, o schiaffeggiarlo. Era talmente sopraffatta da non riuscire a capire se fosse più arrabbiata o ferita.
“Se tu non avessi avuto niente da dare, io non ti avrei amato. Puoi riderne, se vuoi. Ma io ti ho amato”.
Levi si sforzò di dissimulare ma lei lo vide reagire con un sussulto a quelle parole. Doveva esserne sorpreso quanto disgustato. La ragazza inspirò profondamente.
Senti, dimentica tutto. Che sia come vuoi tu, d’accordo? Non immaginare un futuro. Non concederti niente, rifiuta l’idea che a qualcuno possa importare di te e, ti prego, continua a fingere di essere incapace di provare affetto per altri esseri umani”.
Finalmente si accorse di avere le guance umide e se le strofinò di scatto, con rabbia. 
“Quello che volevo era solo che ti concedessi una possibilità. Non a me, o a nessun altro. A te. Perché non sei solo una macchina da guerra, sei la persona che ammiro di più, anche con quell’insopportabile carattere scostante che ti ritrovi, tu…”, le tolse sia la possibilità di continuare che di respirare quando la attirò improvvisamente a sé per baciarla in un modo che le risultò tanto familiare da farle male. Dovette appellarsi alla forza di ogni singola cellula del proprio corpo per allontanarlo con quello che voleva essere uno spintone.
“Smettila. Non sono un giocattolo”, mormorò, sconvolta e nuovamente sopraffatta dalla voglia di piangere. Lui, che le aveva permesso di scostarlo solo in minima parte, continuò a tenerla per le braccia, piegandosi leggermente in avanti.
“Non so fare niente di quello che dici”, disse con lentezza, come se stesse pesando le parole. “Non so dare, non so ricevere, non so avere speranza, non so cosa significhi amare qualcuno. Essere amato. Non sto fingendo, io non lo so fare”.
C’era un’inflessione impaziente nel suo tono di voce, ma lei riuscì a coglierne la vibrazione dolorosa. Le stava offrendo molto più di quanto avesse mai offerto, le stava mostrando la sua vulnerabilità. 
Non solo non lo sai fare, pensi anche di non meritartelo. 
“Il tuo primo progetto per il futuro potrebbe essere quello di imparare”, suggerì piano, cercando il suo sguardo. 
“Dimmi come si fa”.
“Sposami”.
Levi sollevò lo sguardo così di scatto che la ragazza non riuscì a trattenersi e scoppiò in una risata nervosa, lievemente isterica.
“Scusa, non ho resistito”, sorrise davanti alla sua espressione esasperata.
Poi prese un respiro perché la gola le faceva male, le sembrava di aver ingoiato un grumo di cenere che le impediva di deglutire come avrebbe voluto. Riusciva quasi a sentirne il sapore.
“Si fa così, condividendo quello che provi, dando fiducia agli altri. Lo stai già facendo”, aggiunse, sperando di incoraggiarlo. Lui socchiuse gli occhi.
“Visto che siamo in vena di condivisioni, penso di aver sbagliato. Non avremmo mai dovuto iniziare e io non avrei dovuto permettere che continuasse. È stato stupido, egoista e irresponsabile da parte mia”.
Lea tentò di ignorare il bruciore al petto che quelle parole le causarono. Cercò di fare un passo indietro ma, ancora una volta, lui glielo impedì e strinse la presa sulle sue braccia.
“È ancora irresponsabile. Ma sento la tua mancanza e non riesco a farci assolutamente niente”. Lo disse con rabbia, quasi con disprezzo, ma lei riconobbe la stessa frustrazione da cui veniva tormentata ogni volta che lo vedeva. Sapeva che non era innamorato di lei, eppure non riuscì a fare a meno di lasciare che la fiammella di una piccola, insignificante speranza si accendesse dentro di lei.
Lasciò andare un respiro che non si era accorta di stare trattenendo. Sostenne il suo sguardo per qualche secondo, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse farle pensare che stesse mentendo in nome di un naturale bisogno fisico. Ma non aveva bisogno di farlo, mentire non era nella natura di Levi. Non avrebbe pronunciato una frase del genere se non fosse stata veritiera.
“Quello che puoi fare è trovare un’altra cadetta che venga a letto con te. Sicuramente non lo sai ma sei piuttosto popolare”, disse ugualmente, per tastare il terreno. Lui si accigliò.
“Lea”.
“Stai dicendo che ti manco anche se lo ritieni stupido e sbagliato?”.
La presa sulle braccia si allentò.
Più di quanto riesca a controllare, avrebbe voluto rispondere, ma riuscì a impedirselo. Non aveva bisogno di far sapere a un’altra persona di non riuscire a gestire una cosa tanto elementare, praticamente irrisoria. Non c’era momento in cui quel sentimento non lo avesse riempito di un’irritazione cieca, fastidiosa al punto da dargli la nausea. 
“E se io rispondessi che non voglio saperne più niente?”.
“Sarei sollevato all’idea che tu abbia recuperato un minimo di buonsenso e ti lascerei libera di essere l’unica cosa che dovresti essere. Un ottimo soldato e una giovane donna con tutta la vita davanti”.
Lea alzò gli occhi al cielo, godendosi per un attimo un’improvvisa sensazione di leggerezza che non provava da mesi e che l’aveva investita tutta in una volta, rendendole difficile respirare. Era come se qualcuno, senza alcun preavviso, le avesse fisicamente sollevato un masso dal petto, dalla schiena, dalle gambe.
Gli circondò il collo con le braccia, sfiorandogli i capelli alla base della nuca.
“Sai, penso sia per questo che piaci così tanto. Hai l’aspetto di un giovane uomo e la saggezza di un ottantenne. Una combinazione decisamente attraente e niente affatto irritante”.
Lo vide chiudere gli occhi e non riuscì a capire se il respiro che esalò e che le solleticò il viso fosse dovuto a sollievo, irritazione, o qualcos’altro. Non perse tempo a chiederselo, non con le sue mani che finalmente le lasciarono le braccia per stringerle i fianchi, non con le sue labbra che finalmente cercarono le sue con la stessa urgenza di prima, un’urgenza che i mesi di lontananza avevano reso più brusca. Si abbandonò contro di lui e lasciò scorrere le mani dai suoi capelli, al collo, alle spalle, premendo il corpo contro il suo con forza tale da strappargli un suono frustrato, insoddisfatto. Detestò il bisogno di respirare che la costrinse a ritrarsi per un istante, un tempo che gli diede l’opportunità di concentrarsi su un punto particolarmente sensibile del collo, alla base dell’orecchio sinistro. Rabbrividendo, la ragazza non riuscì a trattenersi dall’esalare il suo nome per la prima volta dopo tanto, troppo tempo, e lo sentì accennare un sorriso quando la baciò ancora, guidandola con decisione e ben poca delicatezza contro il muro accanto alla porta della sua camera. 
“Vieni qui”, sussurrò e la ragazza dovette compiere uno sforzo minimo per lasciare che la sollevasse. Gli circondò la vita con le gambe e si ritrasse il giusto per sorridergli e scostargli i capelli dal viso. Lui non ricambiò il sorriso ma la strinse a sé con più forza mentre, senza alcuna fatica, dovette reggerla con un braccio solo per aprire la porta della sua stanza.


Quel letto era forse l’unico elemento dell’intero edificio a essere sempre morbido e profumato di pulito. Le piaceva, era un odore che aveva imparato ad associare a lui e che perciò la tranquillizzava, facendola sentire al sicuro. 
Se ne stava sdraiata a pancia in giù, le braccia infilate sotto il cuscino, a osservarlo mentre le lasciava scorrere le dita sulla schiena con un’espressione seria e concentrata che trovava estremamente divertente. 
“Ti ho fatto male?”, domandò, le sopracciglia aggrottate, la mano che indugiò su un punto della sua spalla. Confusamente, le sembrò di ricordare di essere venuta a contatto con i suoi denti oltre che con le sue labbra. 
“No”, rispose con un sorriso. “La mia soglia del dolore è abbastanza elevata. Sai che una volta un gigante mi ha quasi spaccato la testa contro un albero?”.
Lui si irrigidì e la mano gli si bloccò una seconda volta.
“Non è divertente”.
“Per te niente lo è mai”.
“Tu che rischi di svegliare mezzo edificio lo definirei divertente”.
Lea arrossì e affondò la guancia nel cuscino, rivolgendogli un’occhiata di disapprovazione.
“Non essere sfrontato, sei un capitano del corpo di ricerca”.
La mano che le percorreva la schiena risalì fino al collo e la ragazza venne attirata più vicino.
“Allora non essere insolente”, mormorò lui abbassandosi per baciarla in un gesto talmente intimo che la face arrossire di nuovo. 
Con un sospiro, si allontanò di malavoglia e si mise a sedere, sporgendosi oltre il letto per individuare i propri vestiti. Le venne da ridere a vederli sparpagliati in modo disordinato a distanza, sul pavimento. Sperò che niente si fosse strappato.
“Cercherò di non esserlo”, disse con sorriso e gli scostò delicatamente il braccio con cui le aveva circondato la vita prima di scalciare via le lenzuola.
“Che stai facendo?”, domandò lui, che si era puntellato su un gomito.
“Vado a dormire. Qualcosa mi dice che se domani arriverò stanca agli allenamenti mi farai rimpiangere il giorno in cui mi sono arruolata, come hai fatto la settimana scorsa”.
Levi fece una pausa, pensieroso. Poi, gli occhi fissi sulla schiena della ragazza, impegnata a districare i nodi che le si erano formati nei capelli, si schiarì la voce.
“Resta. Se ti va”.
Lea si voltò a guardarlo, sorpresa. 
“Davvero?”.
“Non è un ordine”.
L’espressione della ragazza si addolcì. 
“E a te va?”.
“Perché diavolo avrei dovuto dirtelo se non mi andasse?”.
Lea trattenne un sorriso e si infilò nuovamente sotto le lenzuola, contenta nel sentirlo rilassarsi. Non le diede il tempo di dire niente, la avvolse immediatamente con un braccio e la attirò a sé, sdraiandosi sulla schiena e fissando lo sguardo sul soffitto, come per distaccarsi mentalmente dalle azioni che il suo corpo stava compiendo. Lei si sistemò meglio contro di lui, il viso affondato nell’incavo tra il collo e la spalla. Aveva ripreso ad accarezzarle distrattamente la schiena con una delicatezza tale da renderle impossibile il credere che fosse così poco abituato a situazioni del genere.
“Non posso proteggerti”, disse dopo un silenzio così prolungato da averle fatto credere di essersi addormentato. La ragazza sollevò leggermente la testa per guardarlo, interrogativa.
“Non posso trattarti diversamente dai tuoi compagni. Non posso impedire che partecipi alle spedizioni”.
Lea si sollevò su un gomito di scatto e cercò di liberarsi dalla sua presa che però divenne ferrea. 
“Pensi che voglia un trattamento di favore?”, sbottò, indignata. Lui ricambiò il suo sguardo infervorato con tranquillità, sdraiato come se quello scambio non stesse avvenendo. Chiuse gli occhi per un attimo.
“No. Ma io vorrei dartelo”.
“Non lo faresti mai. E io non lo vorrei mai”.
Levi riaprì gli occhi e allungò anche l’altro braccio per guidarla nuovamente verso di lui, stringendola per la prima volta in un abbraccio vero e proprio. La resistenza che oppose la ragazza fu minima, quasi insignificante. Le sfiorò i capelli con le labbra quando parlò nuovamente.
“Ho un ordine”. 
Aspettò qualche secondo prima di fissare nuovamente lo sguardo sul soffitto e respirare profondamente.
“Quello che ho visto nella foresta non dovrà ripetersi. Fai quello che ti pare, prova a salvare chi vuoi,  ma non…”, si interruppe, non sapendo come dare forma ai propri pensieri. 
Toccò a lei chiudere gli occhi, per comprendere meglio quello che non le stava dicendo in maniera diretta. La voleva al sicuro e sapeva che non sarebbe mai stato in grado di ottenere una garanzia del genere, perciò le stava chiedendo di stare attenta. Perché un po’ gli importava di lei. Quella realizzazione le fece contrarre lo stomaco, si sentiva ancora incapace di interpretare tutto quello che era successo quella notte ma avrebbe tanto voluto poter congelare il tempo. Avrebbe voluto il potere di prolungare quel momento così incredibile, così impensabile, all’infinito.
“Quando hai detto che tu non sei la persona adatta perché non vivrai abbastanza a lungo. Non dirlo più”, continuò lui, la voce bassa. 
“Farò il possibile per restare viva”, promise la ragazza, allungando una mano per sfiorargli il viso. 
“No. Mi aspetto che tu faccia l’impossibile”.
“Agli ordini, capitano”.
Inclinò appena la testa per guardarla, un sopracciglio inarcato.
“Sai, quella parola fa tutto un altro effetto quando sei nuda e nel mio letto”.
La ragazza si divincolò il giusto per liberare un braccio e pizzicargli una gamba, consapevole di essere arrossita ancora. Lui non fece una piega.
“Per essere uno che dice di non esserci abituato, sei davvero bravo in queste cose”, voleva essere un’osservazione ma Lea non riuscì a nascondere una nota accusatoria nel suo tono di voce. 
“Sei una brava insegnante, anche se a volte alzi troppo la voce”.
“Non posso credere alla quantità di battute a sfondo sessuale che sto ascoltando”.
Il braccio che le cingeva la vita si allentò leggermente e una mano cominciò ad accarezzarle castamente una gamba, sfiorandola appena, il tocco di chi sapeva benissimo quello che stava facendo.
“Se vuoi posso smetterla con le battute”, disse l’uomo, lo guardo imperturbabile fisso nel suo. Lea rabbrividì e dovette costringersi a una distanza di sicurezza per non cedere. Si liberò dalle sue braccia e si sollevò su un gomito, prendendogli la mano perché la smettesse di percorrerle la coscia.
“Sta’ fermo un minuto”, ordinò, cercando di darsi un tono autoritario.
Lui obbedì, senza smettere di guardarla. 
Compiaciuta, la ragazza analizzò con meticolosità le sue dita, il palmo calloso, il polso sottile. Risalì con lentezza il braccio, i muscoli in evidenza anche se non era in tensione, la pelle calda in contrasto con i suoi polpastrelli sempre freddi. Incontrò qualche segno lungo il percorso, piccole ferite e cicatrici di cui avrebbe voluto conoscere la storia.
“Che stai facendo?”, le chiese quando, dalla spalla, passò al collo e poi alla gola.
“Esploro”, rispose la ragazza, concentrata. 
“Non troverai niente di interessante”.
“Questo lascialo decidere a me”.
La linea della mascella, per una volta rilassata. Le labbra che si dischiusero leggermente al tocco delle sue dita, un naso piccolo e dritto, zigomi alti. Lo costrinse a chiudere gli occhi quando gli accarezzò le guance e risalì a sfiorargli le palpebre. Non lo aveva mai visto dormire, realizzò.
Gli distese la fronte leggermente corrugata e, con una certa soddisfazione, gli passò la mano tra quei capelli morbidi e lucidi che tanto le piacevano. Continuò a farlo per un po’, pensierosa, finchè lui riaprì gli occhi e la guardò in modo tanto serio da metterla in imbarazzo.
“Sei giunta a una conclusione?”, domandò, sembrando sinceramente interessato. 
Lei sorrise.
“Sì. Sei eccezionalmente attraente”.
“Non essere ridicola”.
“Ehi, mia la ricerca, miei i risultati. Non puoi metterli in discussione”.
“Per avere credibilità, una ricerca deve essere giustificata”.
Lea appoggiò nuovamente la testa sul cuscino, tirandosi il lenzuolo fin sopra la spalla. 
“Sono curiosa”, disse piano, con esitazione. 
“Della mia anatomia?”.
“Di te e basta”.
Lui aggrottò le sopracciglia. Non disse che lo trovava assurdo, insensato.
“Cosa vuoi sapere?”.
La ragazza accennò un sorriso.
“Com’è la tua famiglia? Com’è stata la tua infanzia? Avevi degli amici nella tua città? Cosa ti piace? Cosa non sopporti?”.
L’espressione del suo viso cambiò in maniera così evidente da spegnerle qualunque traccia di buonumore.
Lui fissò lo sguardo sulle lenzuola stropicciate. Pensò di voler rispondere, non provava fastidio all’idea di condividere dettagli tanto privati, eppure non riuscì a dire una parola. C’erano delle immagini che minacciarono di affacciarsi nella sua mente, immagini che negli anni aveva faticosamente accantonato, consapevole di non essere in grado di dimenticarle. Fece del suo meglio per tenerle lontane e si chiese invece perché stesse trovando così difficile rispondere. Era vergogna? Paura? No, impossibile. Non gli importava del suo passato. Ma lei gli interessava. Era abbastanza per permetterle di conoscerlo? Non aveva niente di bello da raccontare, non l’aveva mai avuto. Forse era meno distaccato dal passato di quanto pensasse, forse avrebbe trovato più facile raccontare il disastro deludente che era stata la sua vita a qualcuno di cui non gli importava.
Lea gli sfiorò una mano con gentilezza e accennò un altro sorriso, più dolce. Sperò di non sembrare dispiaciuta, come se le facesse pena.
“Ho cambiato idea, voglio sapere qualcosa di più facile. Cosa faresti se tutto questo non esistesse? Le mura, i giganti. Se fossimo liberi. I miei genitori hanno un negozio di spezie, hanno sempre voluto che lo prendessi in gestione ma anche senza il corpo di ricerca credo che avrei scelto una strada diversa. Indovina quale”.
Chiacchierò in fretta nella speranza di distrarlo e cancellargli quell’espressione insopportabilmente assorta, distaccata. Era dolore quello che stava nascondendo, ne era certa. Nessuno aveva quello sguardo senza prima aver sofferto.
Levi comprese quello che stava facendo e le sfiorò la mano a sua volta, in tacito segno di ringraziamento. Dedicava un’attenzione particolare allo stato d’animo altrui ed era brava a dissimulare, un talento che lui non aveva mai posseduto. La sua unica strategia era di tenere alte le mura, renderle impenetrabili, proteggerle con violenza, egoismo, freddezza, solitudine. Impensabile che ci fossero altri modi.
“Saresti un’insegnante”, disse piano.
Lei si illuminò.
“Come hai fatto a indovinare?”.
“Ti ho vista con le reclute più giovani, ti vedo con i cadetti. Sei brava con le persone e loro ti vedono come un punto di riferimento”.
Si sollevò nuovamente su un gomito e la guardò, scostandole distrattamente una ciocca di capelli castani dal viso. Aveva di nuovo le guance arrossate, non credeva di averla mai vista tanto aperta e, al tempo stesso, vulnerabile. Lo infastidì l’effetto che aveva su di lei. Lo infastidì che una persona del genere permettesse a qualcuno come lui di imbarazzarla, renderla allegra, triste, arrabbiata.
“E poi hai una bella voce. Una di quelle che gli studenti starebbero ad ascoltare”, concluse con una cadenza amara che non riuscì del tutto a nascondere.
Anche lei si sollevò su un gomito e gli sorrise.
“Dovrò annotarmi tutti i complimenti che mi stai facendo stanotte o finirò con il dimenticarmeli”.
Levi non diede segno di averla sentita. Le prese una mano, un gesto a cui sembrava essersi abituato con rapidità sorprendente, e iniziò a giocherellare distrattamente con le sue dita. Proprio lui che non toccava né amava essere toccato da nessuno. O almeno, così aveva sempre pensato.
“Nei momenti liberi aiuteresti comunque i tuoi genitori con il loro negozio. Vorresti spostarti di più, esplorare, ma non riesci a lasciarli soli. Così ti fai andare bene le giornate trascorse dietro un bancone, dicendoti che è una situazione temporanea. Ma un giorno ti ritrovi a servire un cliente nuovo, non credi di averlo mai visto. È alto, ha un accento diverso dal tuo, i capelli chiari. Ti trova gentile, pensa che tu sia attraente, gli piace il modo in cui gesticoli quando parli e l’attenzione con cui gli descrivi le spezie che ti ha chiesto di consigliargli. E a te piace come ti guarda e sorride, trovi la sua cadenza interessante e sei felice di vederlo tornare al negozio sempre più spesso”. 
Si fermò per un attimo, sollevando lo sguardo dalle sue dita per assicurarsi che non la stesse annoiando. Lei sembrava totalmente assorta e con un piccolo sorriso gli fece segno di continuare.
“Perciò iniziate a parlare, passate molto tempo insieme, ti racconta della sua città e di tutte le altre città che ha visitato. Ti dice che vorrebbe andassi con lui. Ma tu non puoi, hai i tuoi genitori, i tuoi studenti, i tuoi amici. Non abbandoneresti la tua vita per un uomo. Lui lo capisce e, alla fine, decide di restare. Decide che non vale la pena essere in qualunque altro posto senza di te. Promette di renderti felice e chiede ai tuoi genitori il permesso di sposarti, cosa che ti fa arrabbiare perché Dio non voglia che un uomo chieda a qualcun altro quello che dovrebbe chiedere solo a te. Ma lui è un tradizionalista, non voleva offenderti, la tua risposta è l’unica di cui gli importa davvero. E tu gli dici di sì, ovviamente. Così avrai davanti a te una vita semplice ma piena, mai noiosa, fatta della stessa felicità che sei sempre riuscita a trovare nelle piccole cose”.
Fece per lasciarle andare la mano ma lei, istintivamente, fece scivolare le dita tra le sue. Chiuse gli occhi per un attimo, lasciandosi andare a un sospiro. Poi li riaprì e si ritrovò a fissare uno sguardo distaccato che, in apparenza, non tradiva alcuna emozione. 
“È una bella storia”, disse piano. 
“È la storia che ti meriteresti”.
“E tu quale storia meriteresti?”.
Levi tacque, non sapendo cosa rispondere. 
Non le piaceva quell’aria triste che riusciva a camuffare quasi del tutto, non le piacevano le implicazioni di quel racconto. Sapeva cosa aveva voluto dirle. Che senza le mura avrebbe avuto una vita normale, piena, serena, con qualcuno che avrebbe potuto amarla incondizionatamente e darle tutto quello che desiderava. Una vita che sicuramente non avrebbe compreso il trovarsi nel letto di una persona come lui.
“Forse anche tu avresti un negozio”, esordì senza pensarci, lo sguardo fisso sulle loro mani. “Venderesti foglie di tè, solo le migliori, i prezzi non sarebbero trattabili perché è un progetto in cui hai investito troppo. Tuttavia, quando le giornate diventano particolarmente fredde, offri tazze di tè bollente ai tuoi clienti. Nevica spesso nella tua città e non ti piace l’idea di rispedirli al gelo senza che abbiano avuto la possibilità di scaldarsi. Soprattutto i bambini, che vengono al posto dei loro genitori, e che per qualche motivo che non riesci a spiegarti, ti trovano piacevole. A tratti divertente. Forse è perché nonostante quella perenne espressione corrucciata e le lamentele per il fango che lasciano sul pavimento, hai sempre del latte da parte per loro”.
L’uomo alzò gli occhi al cielo in una finta espressione scettica che la fece sorridere. Gli strinse la mano un po’ più forte.
“Non sei sposato, non ne senti il bisogno. A casa c’è qualcuno che conosci da così tanto tempo da non dover ufficializzare il rapporto perfettamente equilibrato che avete sempre avuto. Siete amici d’infanzia, lei ha sempre saputo che si sarebbe innamorata di te, tu ci hai messo più tempo. È davvero bella, ha i capelli scuri come i tuoi, gli occhi gentili, le mani morbide. Quando rientri sai che il fuoco sarà acceso e avrà preparato il pane e ogni sera sarà felice di vederti allo stesso modo, perché sei la cosa più bella e importante della sua vita e non saprebbe davvero cosa fare o chi essere, senza di te. Tu non hai bisogno di dirle che la ami, non troppo spesso. Non sei bravo con le parole ma a lei non importa perché è talmente ovvio, in ogni tuo sguardo. Ogni notte, prima di addormentarti accanto a lei, pensi a quanto sei fortunato senza soffermarti abbastanza su quanto si senta fortunata lei ad avere accanto qualcuno di così leale e dedito alla pulizia. Non ricorda di aver mai visto una singola mensola impolverata, a casa vostra”.
Le scaldò il cuore vederlo aprirsi in un mezzo sorriso.
“Sarebbe stata una bella vita”, ammise, suo malgrado.
“Può ancora esserlo. Non passeremo la vita a combattere e a nasconderci dietro le mura, prima o poi questa storia finirà. Avrai la possibilità di essere altro, Levi. Ne sono sicura”.
“Prima o poi dovrai anche lasciar andare questo bisogno di assicurarti sempre che gli altri siano felici, lo sai?”.
Lei si strinse nelle spalle, tentando di ignorare un fastidioso nodo alla gola. 
“Al momento mi aiuta a ricordarmi che siamo più di carne da macello di un governo a cui non importa se arriviamo vivi a domani. Perciò lasciamelo, il volermi assicurare che le persone a cui tengo siano felici”.
Levi sospirò, arreso. La sensazione di sconforto si fece più forte, sorprendendolo alla bocca dello stomaco. Si sentì così inadeguato da volersi alzare e lasciare la stanza ma, senza alcun preavviso, lei sollevò le loro mani ancora unite e sfiorò il dorso della sua con le labbra. Era un gesto talmente dolce, intimo, che gli si asciugò la bocca.
“Puoi promettermi che ci proverai? Quando non avremo più mura e giganti e corpo di ricerca. Proverai a pensare di meritarti una vita normale?”.
“Sarai lì ad assicurarti che lo faccia?”.
“Chi altro pensi che avrà il coraggio di entrare nel tuo negozio e pretendere una tazza di tè dopo aver camminato sotto la neve?”.
Lui sorrise ancora e la ragazza non riuscì a non pensare a quanto quell’espressione rilassata gli si addicesse, molto più di quella fredda e infastidita con cui aveva imparato a conoscerlo. Riusciva a renderlo più che affascinante, riusciva a renderlo bello. Le venne voglia di baciarlo ancora, lo avrebbe baciato per tutta la notte se glielo avesse permesso. Le venne da ridere al pensiero di quanto fosse stata convinta di non esserne più innamorata.
“Non sono bravo con le promesse”.
“Fingi che io sia il comandante Smith”, disse lei, e non ebbe neanche il tempo di ridere per la rapidità con cui le fece perdere l’equilibrio e ricadere sul cuscino, attirandola più vicino con il fluido movimento di un braccio.
“Ti avevo detto di non essere insolente”, disse, mimando il tono autoritario con cui si rivolgeva ai suoi soldati. La ragazza rise, per niente scontenta di ritrovarsi nuovamente così vicina da sentire il calore della sua pelle.
“Chiedo scusa, capitano”.
Anche lui si sdraiò, il naso che quasi sfiorava il suo, un braccio ancora saldamente ancorato intorno alla sua vita. Trovò incredibile quanto gli piacesse toccarla, tenerla stretta. Forse era vero, si stava precludendo cose normali che però avrebbe gradito ben oltre la media. Non pensava fosse equilibrato né normale, il volerla tenere in quel letto anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. Forse una vita come quella che gli aveva descritto era davvero ciò che desiderava. La tranquillità dell’avere qualcuno con cui parlare tutta la notte, la pace che deriva dal non doversi preoccupare di chi arriverà vivo al giorno successivo. Del non doversi chiedere a chi altro sarà costretto a sopravvivere. Una vita solo sua, in cui avrebbe vissuto solo per se stesso. Un lusso del genere gli sembrava semplicemente impossibile da immaginare.
“E tu, ci proverai? Quando non avremo mura, giganti e corpo di ricerca”, chiese, la voce così bassa da risultare poco più che un sussurro.
Lea esitò. Se sarò viva, pensò.
“Farò del mio meglio”, rispose poi con sincerità. Non sapeva se una vita normale sarebbe mai stata possibile per loro che avevano visto, sentito e sperimentato il peggio. Ma le piaceva crederlo.
“Così potrai conoscere quel cliente”.
La ragazza sorrise.
“Era una bella storia ma hai sbagliato un punto fondamentale”.
“E sarebbe?”.
“Non mi piacciono i biondi”.
Lui accartocciò il viso in una smorfia.
“D’accordo, non sarà biondo”.
Lea posò il braccio sul suo, accarezzandogli distrattamente una spalla.
“Non sono neanche particolarmente attratta dagli uomini alti”.
Le pizzicò un fianco, facendola ridere.
“Non verrò nel tuo negozio di spezie a chiedere ai tuoi genitori il permesso di sposarti”.
“Guarda che non ti aprirei neanche la porta. Aspetterò qualcun altro di non biondo e non alto”.
“Fai ancora un qualsiasi altro riferimento alla mia statura e ti faccio trasferire nella gendarmeria”.
La ragazza tacque, un sorriso a labbra chiuse che le illuminava il viso. Non riuscì a non scostarle i capelli per poterlo vedere meglio.
“Quante storie. Non so più in che modo dirti quanto fastidiosamente bello io ti trovi. Riesci a esserlo anche quando sei ricoperto di sangue, quando ci urli di correre più veloce, quando sei silenzioso, arrabbiato, quindi praticamente sempre, quando…”, mentalmente, lo ringraziò per aver deciso di interromperla con un bacio che era probabilmente solo un modo per dirle di farla finita e stare zitta. Forse avrebbe dovuto farlo, considerando che il giorno dopo si sarebbe quasi sicuramente pentita di tutte quelle chiacchiere sfacciate, dense di sincerità gratuita. Lo attirò più vicino perché non aveva più voglia di parlare, non avrebbe aperto bocca per il resto della vita se fosse servito a rimanere lì. In seguito si sarebbe vergognata all’idea di quanto i giganti, l’esercito e le mura le fossero sembrati problemi insignificanti, praticamente ridicoli mentre lui le baciava la linea della mascella con lentezza esasperante.
Lo sentì produrre una specie di sbuffo divertito quando si allontanò e lei gli arpionò il collo per impedirglielo, contrariata.
“C’era del vino nel tè che hai preparato?”, domandò, seria.
Lui aggrottò le sopracciglia.
“Non l’ultima volta che ho controllato”.
“Possiamo fingere che ci fosse? Così domani non dovrò desiderare che una voragine si apra per inghiottirmi”.
“Ti consideri compromessa?”.
Lea si massaggiò la fronte, facendo una smorfia imbarazzata.
“Ho appena detto che ti trovo bello. Quando sei ricoperto di sangue”.
“Ho sentito”.
“E lo penso davvero. Ma tu avresti anche potuto non venire a conoscenza di questa mia riflessione, non credo te ne dimenticherai facilmente”.
“Sto cercando di decidere se tenerla a mente più o meno dell’altra tua riflessione sul mio essere eccezionalmente attraente”.
Lea strinse le labbra.
“Questo rapporto era già abbastanza sbilanciato dal tuo essere un mio superiore, adesso lo è ancora di più dal mio non saper tenere la bocca chiusa”.
“Pensi veramente che stanotte io non mi sia compromesso?”.
“Solo perché sei venuto a letto con me? Niente che tu non abbia già fatto”.
Lui non rispose, indeciso su cosa dire. Si chiese se lo stesse prendendo in giro e ne ebbe la conferma quando gli sorrise, lasciandogli un bacio leggero sulla spalla.
“Sto scherzando. Ma sulla scia di questa brutale sincerità, avrei una domanda”.
“Strano”.
Lea alzò gli occhi al cielo ma poi increspò le labbra, esitando per qualche secondo, tanto che lui le strinse leggermente un fianco per incoraggiarla.
“Questa cosa. Come vuoi definirla? Vuoi che continui com’è sempre continuata? È cambiato qualcosa?”, chiese la ragazza, cercando di camuffare il nervosismo che minacciava di deformarle la voce. Lui corrugò la fronte.
“È importante solo quello che voglio io?”.
“Sei tu che hai deciso di continuarla e sei tu che hai deciso di finirla, l’ultima volta. Va bene se vuoi finirla ancora, dopo stanotte. Ma ho bisogno di saperlo”.
Riflettè su quelle parole, la mano che aveva ripreso a percorrerle una gamba senza che neanche se ne accorgesse. L’idea di mettere fine a quel legame indefinito non gli recava dolore o tormento ma un considerevole tasso di fastidio. Non sapeva come dare un nome a quello che sentiva, non sapeva cosa fossero o cosa voleva che diventassero, non sapeva neanche se sarebbe stato in grado di spiegarle quei pensieri a parole. Quello che sapeva era che, quando aveva rischiato di morirgli tra le braccia, si era spaventato. E lui non si spaventava. Perdere un membro della sua squadra gli incendiava lo stomaco di rabbia, odiava doverne dare notizia a famiglie gonfie d’orgoglio per il ruolo che i loro figli occupavano nel corpo di ricerca, lo addolorava assistere alla morte di giovani soldati che avevano riposto in lui e nei suoi superiori tutta la loro fiducia e le loro speranze. Ma non provava quella paura fredda e sconosciuta che lo aveva congelato quel giorno, nella foresta. Quello che sapeva era che più di una volta, negli ultimi mesi, aveva sentito la sua mancanza. Era gentile, intelligente, forte, pungente. E a lui piaceva che lo fosse. Non era però sicuro gli piacesse il modo in cui avrebbe voluto chiuderla in una stanza e tenerla al sicuro dal mondo esterno, perchè non sopportava l'idea di vederla in pericolo. Non era sicuro gli piacesse che ne fosse attratto al punto da non avere più voglia di essere etico.
Eppure lei riusciva a farlo sentire meno stanco, meno arrabbiato, meno nauseato dall’esistenza che erano costretti a condurre. Pensava ancora di non avere niente da darle ma sarebbe stato così sbagliato accogliere quello che lei era pronta a offrire? Se lei era pronta a concedergli una possibilità, non avrebbe forse potuto provare a concederne una a se stesso? 
“Non è la prima notte che passo dalle cucine”, disse con studiata lentezza, incontrando il suo sguardo. Lei non disse niente, in attesa. Sembrava trattenere il respiro.
“Questa cosa… non so cosa sia. Ma non è la stessa di prima e non voglio che finisca. Farò del mio meglio”.
La ragazza si aprì in un sorriso radioso che le illuminò gli occhi.
“Mi sembra ragionevole. Io cerco di non finire nello stomaco di un gigante, tu cerchi di lasciarti andare con un altro essere umano”.
“Apprezzerei molto se la smettessi di alludere alla tua morte”.
“Dio, sembri Klaus”.
“A questo proposito, non ho potuto fare a meno di notare che non sia biondo né particolarmente alto”.
La ragazza scoppiò a ridere, sorpresa e divertita al tempo stesso.
“È praticamente mio fratello”.
“Un fratello che sembrava sul punto di baciarti, in infermeria”.
“Stai cercando di cambiare discorso?”.
“Non era chiuso, il discorso?”.
Lei si inumidì le labbra, l’aria pensierosa.
“Volevo solo aggiungere due cose. La prima è che ti chiedo di non mettere in dubbio la mia integrità di soldato. Sei ancora il mio capitano e voglio essere trattata al pari degli altri”.
“E io che avevo in programma di lasciarti passare gli allenamenti a dormire nella tua camerata”.
Non so se ti hanno mai detto che fare del sarcasmo non implica essere per forza divertenti”.
Levi accennò un sorriso paziente.
“Qual è la seconda cosa?”.
La ragazza si morse il labbro inferiore, prendendosi qualche secondo per decidere come formulare la frase successiva. Sperò di non suonare ridicola o sdolcinata o entrambe le cose.
“Vorrei che tu ti sentissi libero di parlarmi. Se questa cosa dovesse annoiarti o non ti andasse più di continuare o ti sentissi arrabbiato, abbattuto, qualunque cosa tu voglia condividere, ti prego di farlo. Senza mentirmi, mai”.
È spaventata. Rendersi vulnerabile rende nervosa anche lei.
Trovò interessante che stesse cercando di farla sembrare una rassicurazione per lui quando, in realtà, era ovvio che fosse lei quella ad averne bisogno. Pensò anche che stesse trovando eccezionalmente facile fare quello che le aveva chiesto, parlare con sincerità. Non c’era niente che gli facesse pensare che non avrebbe voluto continuare a farlo, né che si sarebbe annoiato.
La circondò nuovamente con le braccia, senza guardarla, lasciando che lo abbracciasse a sua volta, come se non avesse aspettato altro. 
“D’accordo. Allenamenti doppi e qualche conversazione, mi sembra equilibrato”.
Sentì la sua risata vibrargli contro il petto e non riuscì a non sorridere.
“Grazie, Levi”.
Incredibile quanto il suo nome suonasse diverso quando veniva pronunciato da lei. Sembrava prendere colore, assumere forma, significato. E anche lui sentiva di aver acquisito consistenza quella notte, forse per la prima volta nella sua vita. Essere un soldato, uccidere giganti, sperare un giorno di capire, erano tutte cose che servivano a dargli un obiettivo. Ma un obiettivo non sempre è abbastanza per esistere. E lei sembrava esistere in un modo totalmente diverso dal suo, un modo che gli sembrava stupido, ridicolo, rischioso, ma che racchiudeva certamente più significato. Trovava incredibile che anche in lui riuscisse a vedere qualcosa di rilevante abbastanza dall’offrirgli così tanto. La sua fiducia, la sua vulnerabilità, le sue preoccupazioni. Gli sembrò giusto offrirle qualcosa in cambio. Tra il poco che aveva a disposizione per scegliere, un frammento di verità gli parve l’elemento più di valore che potesse darle.
“Anche tu hai sbagliato un punto fondamentale, nella tua storia”, disse piano, quasi con cautela. 
“Stai per negare la storia del latte?”.
Lui piegò le labbra in un sorriso impercettibile.
“No. Non ho avuto un’infanzia”.
La ragazza tacque, trattenendo il respiro per qualche istante. Sentiva di doversi tenere stretto quel piccolo pezzo di lui che aveva scelto di darle, forse la prima e unica informazione personale che avesse mai condiviso con qualcuno. Si sentì lusingata per la fiducia che le stava dimostrando ma cercò di parlare con tono di voce normale, che non lasciasse trasparire nulla che potesse assomigliare a tristezza o commiserazione. L’avrebbe odiato. Cercò la sua mano e la strinse appena, delicatamente.
“Ti va di parlarne?”, domandò, gentile.
“Non particolarmente”.
“D’accordo. Vorrà dire che cambierò la mia storia”.
Lui corrugò la fronte, interrogativo.
“La donna che ti aspetta a casa non è la bambina con cui sei cresciuto. È entrata a far parte della tua vita per caso, a malapena te ne sei accorto, anche se a lei è bastato vederti per strada una sola volta per innamorarsi di te. Purtroppo anche in questa storia sei piuttosto carino, non posso modificare troppi dettagli, lei però la renderemo meno bella perché mi infastidisce davvero l’idea di questa persona perfetta che ti prepara il pane ogni sera e tiene la casa in ordine”.
Il sollievo e la sorpresa la investirono in un’unica ondata quando lo sentì ridere. Non riusciva a ricordarsi di altre occasioni in cui fosse successo perché non le sembrava di aver mai sentito qualcosa di tanto bello.
“Stai dicendo che ti infastidiscono i dettagli che tu hai deciso?”, domandò, sinceramente divertito.
Lei si strinse nelle spalle, senza rispondere. Sperò ridesse ancora.
Levi si limitò ad accennare un sorriso, lo sguardo rivolto al soffitto. Apprezzò quello che aveva fatto. Aveva alleggerito una tensione che neanche si era accorto di provare nel modo più naturale e semplice possibile, riuscendo addirittura a divertirlo. Pensò che fosse stato facile, dirle qualcosa di lui. Pensò che avrebbe voluto farlo ancora, anche se aveva poco da raccontare e sicuramente niente che potesse considerarsi piacevole. Era strano sentirsi in quel modo, non gli era mai successo prima di sentirsi così stranamente al sicuro. Per merito di un’altra persona. Era sempre stato lui l’unico su cui aveva potuto fare affidamento e da troppo poco tempo aveva dovuto abituarsi al fatto che troppe altre persone facessero affidamento su di lui.
“Hai sonno? Oggi non ci sono andato piano”, a dispetto di quelle riflessioni, fu tutto quello che gli venne in mente di dire. Ricordava quanto gli fosse sembrata stanca dopo gli allenamenti.
Lei rise.
“No, non ci sei andato piano”.
“Perché la cosa ti diverte?”.
La ragazza rise ancora e scosse la testa.
“Scusa, pensavo ad altro. Tu hai sonno?”.
In un attimo, si accorse di essere effettivamente stanco. Non propriamente assonnato ma, se avesse chiuso gli occhi, era probabile che avrebbe dormito. Anche se c’era qualcun altro nel suo letto. Soprattutto perché c’era qualcun altro nel suo letto. E lui non dormiva praticamente mai.
“Qualcosa del genere. Sei tu che dovresti riposare”.
“Non voglio ancora che questa giornata finisca”, ammise la ragazza, le guance nuovamente tinte di un rosa acceso. 
Levi inspirò profondamente. Nemmeno io, si ritrovò a pensare. Lo disgustava l’idea dell’affacciarsi dell’ennesimo giorno in cui sarebbe stato un suo superiore, il pensiero che presto sarebbe arrivato l’ordine di permetterle di partecipare nuovamente alle spedizioni fuori dalle mura. Più di tutto, odiava il sapere che entrambi avrebbero fatto tutto quello che ci si aspettava da loro. Lui avrebbe continuato a essere inflessibile, etico e letale. Lei avrebbe continuato a obbedire agli ordini e a essere un ottimo soldato. Nessuno dei due aveva la minima intenzione di lasciare che quella situazione influenzasse i loro ruoli. Certo, forse avrebbero voluto, ma nel loro mondo i desideri personali non erano concessi, non erano importanti.
Eppure non c’era il pensiero di un’imminente fine a opprimerlo. Ovviamente era possibile che la volta successiva non sarebbe stata abbastanza fortunata da sopravvivere quando un gigante l’avrebbe lanciata contro il tronco di un albero, ma con un po’ di fortuna avrebbe potuto continuare a vederla, a parlarle, ad averla nel suo letto. L’idea bastava a concedergli un po’ di sollievo.
Stava per farglielo presente quando, cogliendolo di sorpresa, sobbalzò tra le sue braccia. La sua camera, al contrario dell’ufficio, non aveva finestre: perciò non si era accorto del temporale. Per un attimo pensò che qualcuno avesse aperto la porta.
“Che succede?”, domandò, irrigidendosi. 
“Niente”, rispose lei. Non fece in tempo a rispondere che un tuono rimbombò fuori dalla piccola stanza, facendole trattenere bruscamente il respiro.
L’espressione di lui si ammorbidì e rilassò i muscoli che aveva teso.
“Hai paura dei temporali?”, domandò, nella voce una nota di divertimento. 
“Dei rumori forti”, puntualizzò la ragazza.
“Non mi sei mai sembrata particolarmente nervosa durante un temporale”.
“Non lo sono, se ho qualcosa che mi distrae. L’ultima volta ero troppo impegnata a chiedermi se foste vivi, basta avere qualche gigante intorno per non fare caso ai tuoni”.
“Vuoi che ti distragga?”.
Lei accennò un sorriso.
“Sei già una distrazione più che sufficiente, grazie. Mi ha solo colta di sorpresa”.
Eppure sobbalzò di nuovo al tuono successivo, tanto che Levi la strinse più forte e sollevò la coperta perché la coprisse meglio.
“Perché i rumori forti ti disturbano?”, chiese con sincera curiosità.
Lei chiuse gli occhi per un attimo, forte del fatto che non potesse vederla. Nella sua mente si susseguirono immagini dai contorni sfocati, voci e suoni che cercava di tenere lontani, segregati al sicuro dietro una porta che preferiva tenere chiusa. Tutto quello che di brutto le era successo nella vita, non era mai avvenuto nel silenzio. Non credeva sarebbe più riuscita a non associare un temporale a quel giorno nella foresta.
Rimase in silenzio abbastanza a lungo da fargli immaginare a cosa stesse pensando. Improvvisamente si rese conto di non sapere niente di lei, se non quello che gli aveva lasciato intravedere nel pochissimo tempo che avevano trascorso insieme. Sapeva come cavalcava, in quale tipo di combattimento era svantaggiata, la classe del gigante più grosso che aveva abbattuto, i componenti della squadra con cui andava meno d’accordo. Sapeva che era intelligente, spesso inflessibile, che le piaceva far ridere gli altri, quanto fosse testarda e altruista. Eppure non la conosceva. Aveva dei ricordi, certo, sprazzi di scenari a cui aveva assistito da una posizione marginale e priva di importanza. Non aveva dimenticato il giorno in cui avevano perso un soldato di nome Anne, e di come lei avesse pianto silenziosamente per giorni, a ogni allenamento, senza però mai aprire bocca.
“Ho cambiato idea, voglio sapere qualcosa di più facile”, la imitò, facendola ridere. Non si era accorto di aver iniziato a lasciar scorrere una mano tra i suoi capelli, pensieroso.
“C’è un colore che ti piace più degli altri?”, chiese, sentendosi un imbecille. Non aveva mai fatto una domanda del genere e gli sembrò stupida nel momento stesso in cui finì di pronunciarla.
Lei sollevò la testa il giusto per poter incontrare il suo sguardo e gli sorrise, grata. La rendeva stupidamente felice il fatto che si stesse interessando a lei, che stesse facendo uno sforzo. Aveva ancora troppa paura per potersi permettere di fidarsi totalmente, ma non sapeva quanto tempo le restasse e trascorrerlo senza almeno sperare le pareva una scelta ridicola.
“Tutti quelli che non sono il marrone. Non a caso trovo le nostre divise spaventose nella loro bruttezza”. 
“Mi è sempre sembrato che ti stesse bene, la divisa”.
“Sospetto sia perché non mi hai mai vista indossare altro”.
Levi tacque. Per un attimo si chiese se, prima di entrare a far parte del corpo militare, Lea fosse stata una di quelle ragazze spensierate che attraversavano la città in vestiti di cotone freschi e leggeri. Non che ne avesse viste, crescendo. Solo dopo essere diventato un soldato aveva scoperto che il mondo non era tutto un buco buio, umido e sporco in cui le persone vestivano di stracci e puzzavano di vino rancido.
“Mi piace il verde”, disse la ragazza, prima che potesse pensare a cosa risponderle.
“Quello chiaro dei prati che attraversiamo quando usciamo dalle mura. Mi ricorda la campagna in cui i miei genitori ci portavano molti anni fa, prima che aprissero il negozio”.
“Vi?”.
La ragazza sussultò nuovamente, come per riflesso. Non si era accorta di aver usato il plurale. 
“Me e mia sorella”, mormorò piano. Le sembrò giusto condividere qualcosa di personale a sua volta, un pezzo di vita per un altro. Eppure non ebbe la forza di pronunciare il suo nome.
Levi avrebbe voluto chiederle di più, conosceva quel tipo di reazione abbastanza da domandarsi cosa fosse successo a sua sorella. Aveva voglia di sapere come fosse cresciuta e cosa avesse turbato l’equilibrio della sua vita familiare ma non gli piaceva sentirla sobbalzare in quel modo, come se qualcuno le causasse una fitta di dolore improvvisa.
“Anche a me piace quel verde”, disse con sincerità, anche se era qualcosa a cui non aveva mai davvero pensato. “Non mi ricorda niente perché è qui che l’ho visto per la prima volta. Non sapevo neanche esistesse, un colore del genere”.
La ragazza chiuse gli occhi, sentendo di colpo tutta la stanchezza della giornata e della notte insonne. Era quasi certa che il cielo avesse già iniziato a schiarirsi. 
“E il profumo. L’aria ha un odore diverso fuori dalle mura, non trovi? Anche la consistenza sembra diversa. È crudele, sperimentare quello che potremmo avere e farlo rischiando la vita”, riflettè.
Certo che era crudele. D’altra parte, non c’era nulla nella sua vita che non lo fosse stato.
“Levi”, lo chiamò la ragazza, la voce ridotta a poco più di un sussurro. Lui capì che era a un passo dall’addormentarsi e sollevò la coperta ancora un po’, per assicurarsi che non sentisse freddo.
“Sì?”.
Ti amo, avrebbe voluto dirgli. Vorrei restare così per sempre, preferirei vedere il mondo bruciare piuttosto che abbandonare questo letto, non voglio essere in nessun posto e non voglio esistere in nessun tempo che non mi permetta di esserti così vicina.
“Grazie”, disse invece.
Lui corrugò la fronte.
No, grazie a te, avrebbe voluto rispondere. Per quello che sei stata disposta a darmi non solo stanotte, ma dal primo momento. Per avermi fatto capire cosa sono disposto a dare io.
“Per cosa?”, domandò.
Ma lei non rispose, il respiro si era fatto più pesante e la mano che stringeva la sua aveva mollato la presa.
Levi sospirò e chiuse gli occhi, sorprendendosi già abituato a quell’assoluto e naturale senso di tranquillità che lo aveva pervaso. Era ancora nervoso all’idea di intrattenere qualunque cosa stessero intrattenendo, ma l’idea di non farlo riusciva a renderlo ancora più nervoso. Non gli importava. Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta in cui si fosse concesso di prendere una decisione solo per sé e averla lì con lui, anche dopo tutto quel tempo, anche dopo il modo in cui aveva cercato di allontanarla, a ringraziarlo e raccontargli la vita che immaginava per lui, bastava. Era abbastanza per fargli scegliere l’impensabile: la speranza.
Si addormentò senza accorgersene.     

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