Chi va e chi resta

di Nao Yoshikawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Matrimonio di guerra ***
Capitolo 2: *** Vento su vernice blu ***
Capitolo 3: *** In tre, forse ***



Capitolo 1
*** Matrimonio di guerra ***


Matrimonio di guerra

In my dreams
I'll always see you soar
Above the sky
In my heart
There will always be a place

For you for all my life
[There you'll be]

 
Gennaio, 1942
 
Orihime Inoue aveva sempre avuto la capacità di vedere la bellezza nel mondo anche lì dove sembrava esserci solo dolore. L’inizio della guerra non aveva intaccato il suo buon umore, anzi, se possibile l’aveva rafforzato. Si diceva sempre che bisognava farsi forza e andare avanti, anche nei momenti in cui moriva di paura. Ma c’era stata una cosa in grado di far vacillare per qualche attimo le sue convinzioni.
«Tocca a noi, a me.»
Ulquiorra era sempre stato di poche parole, ma con quelle parole arrivava dritto al punto. Orihime aveva sorriso. Nessuno di loro era un ingenuo o un illuso. Gli uomini sapevano che era loro dovere andare in guerra (anche se non lo avevano scelto o voluto), le donne sapevano che sarebbe toccato loro attendere e magari diventare anche vedove, in alcuni casi.
Orihime strinse la sua mano. Pioveva e avvertiva un brivido di freddo nonostante il kimono invernale.
«Quando?» domandò lei senza quasi muovere le labbra.
«Credo... dieci giorni. Mi dispiace.»
Ulquiorra si scusava come se fosse colpa sua, come se avesse deciso lui di attaccare l’America, di provare di nuovo ad attaccarla, mandando a morire chissà quanti uomini. A lui la guerra non piaceva. Ma dopotutto, c’era davvero qualcuno a cui piaceva? Ad un folle, forse.
Lei sorrise dolcemente, gli accarezzò il viso e Ulquiorra socchiuse gli occhi. Era sempre controllato, lui. Sempre tranquillo, sempre ad osservare il mondo e ad esprimersi su carta con gli acquerelli. Era un artista, non un soldato. Ma questo aveva poca importanza. Creava, non distruggeva.
«Andrà bene. So che sarà così» sussurrò Orihime, ma il tremore nella sua voce la tradì. Essere positivi o allegri sarebbe stato impossibile. Stava male, sarebbe stata male per mesi, forse addirittura anni? Chi poteva avere la certezza in momenti come quelli?
Come si poteva vivere ogni giorno con la paura che la persona che si amava potesse venire uccisa?
Non erano quelli i loro progetti. Sognavano di sposarsi, un giorno. Andare a vivere in una casetta in campagna, magari avere dei figli e invecchiare insieme. Erano stati quelli i loro sogni, fino a quando forze più grandi avevano deciso altro.
Ulquiorra fece una smorfia. Orihime era stata l’unica donna in grado di toccare il suo cuore ed era certo che non ci sarebbe stato nessuna a parte lei.
E proprio lei non meritava di soffrire aspettandolo, senza mai avere una certezza. Meritava di realizzare quei sogni, di sposarsi, di osservare il sole dalla sua casetta di campagna. Tutte certezze che avrebbe potuto darle fino a qualche giorno prima, non ora.
«Ascolta, Orihime, forse noi dovremmo las-»
«Forse noi dovremmo sposarci.»
«…Eh…?»
Arrivò un tuono ma nessuno dei due se ne accorse. Orihime non sorrideva, anzi, non era mai stata così seria.
«Tu vuoi sposarmi? Adesso?» chiese Ulquiorra lentamene. «Ma questo non ha senso.»
«Invece ha senso eccome. Abbiamo sempre parlato di sposarci, perché non farlo ora? Perché aspettare, se non abbiamo certezza?»
«Ma tu hai detto che…»
«So cosa ho detto!»
Orihime strinse i pugni e abbassò il viso. La vista le si appannò e le lacrime iniziarono a rigarle il viso. Non sarebbe andato tutto bene, non poteva avere alcuna certezza. La gente in guerra veniva uccisa. La gente moriva, giovani vite venivano spezzate e lei non poteva farci niente. Non aveva alcun potere e questo era terribile. Ulquiorra le portò una mano dietro la schiena e la strinse a sé.
«Io non posso permettermi di fare di te una vedova.»
Lei chiuse gli occhi. Avrebbe impresso il suo odore e il suo calore nella memoria.
«E io non posso permettermi di perdere quest’occasione. È ora o mai più. Ma se non vuoi non ce l’avrò con te.»
Non era così che Ulquiorra se l’era immaginato.
Aveva immaginato di farle una vera proposta, di avere più tempo. Anche se non erano ricchi o nobili, avrebbero avuto una bella cerimonia. Quello era il tentativo disperato di sancire la loro unione, di realizzare un sogno prima che fosse tropo tardi. Doveva capire che oramai niente sarebbe stato come lo aveva immaginato.
 
 
«Allora è così? Vi sposate, infine?»
Nnoitra non era stato in grado di nascondere il suo disaccordo. Ulquiorra non se la sarebbe presa, conosceva il suo modo di pensare e sapeva che era nella sua natura dire sempre ciò che pensava, senza filtri.
«È così. Tu e Grimmjow ci sarete, non è vero?»
Nnoitra si voltò mentre arrossiva. Quel giorno c’era un sole cocente, come se la primavera stesse cercando di arrivare in anticipo.
«Detesto i matrimoni, ma sì, è ovvio» disse distrattamente.
Nel frattempo, Grimmjow era arrivato, sedendosi mentre teneva in mano una bottiglia di saké.
«Non può esserci matrimonio senza di me. Coraggio, brindiamo al lieto evento!»
Erano solo le quattro del pomeriggio e Grimmjow era già brillo. Da quando aveva saputo che sarebbe partito per la guerra, aveva iniziato a bere. Per stordirsi, per non pensare.
«Piantala con quella roba!» disse Nnoitra, brusco.,
«È più facile che mi uccidano quei bastardi degli americani, non temere!»
Nnoitra alzò gli occhi al cielo e decise di lasciarlo perdere. Avevano tutti paura e ognuno di loro cercava di affrontare la paura come meglio poteva, per evitare di impazzire.
«Quando sarà?» domandò poi. Ulquiorra sembrava assente e profondamente infelice. Per forza, dopotutto chi poteva essere felice e tranquillo in un momento come quello?
«Fra qualche giorno…»
 
 
Qualche giorno era un lasso di tempo troppo breve. Orihime era spinta dall’amore e dalla paura. Aveva sentito dire che erano tante le coppie che erano corse a sposarsi, prima di essere costrette a separarsi, da quando la guerra era iniziata.
«Allora sei sicura? Sei proprio sicura?» domandò Tatsuki, una delle sue migliori amiche. Una ragazza molto più pratica e razionale che avrebbe fatto di tutto per evitarle una sofferenza. Ma nemmeno lei avrebbe potuto fare molto, quella volta.
«Sono sicura» sussurrò. «Ed è una delle poche sicurezze che ho.»
Neliel entrò con passo pesante, tenendo una rivista in mano. Al contrario loro, indossava dei vestiti all’occidentale e sembrava che il suo entusiasmo non fosse stato intaccato.
«Vorresti un matrimonio tradizionale o occidentale? Oh, gli abiti da sposa che vendono in America sono così belli!»
«Non credo che avremo il tempo di comprare un abito da sposa» fece notare Rukia, che dietro Orihime le stava pettinando i capelli.
«Ma è un abito da sposa è essenziale. Non lascerò che la mia migliore amica si sposi conciata come una poveraccia. Forse possiamo recuperare qualcosa…» insistette Neliel, gettando la rivista in un angolo. Tatsuki sospirò, guardando Orihime.
«Sono solo preoccupata che soffrirai…»
«Soffrirò comunque, Tatsuki. Soffriremo tutte, perché tutte abbiamo qualcosa da perdere.»
Forse Tatsuki si sbagliava a vedere ancora Orihime come la ragazzina dolce e goffa che aveva conosciuto un tempo. La dura realtà l’aveva fatta crescere in fretta e ora il suo sguardo appariva più determinato che mai. Rukia le strinse le spalle.
«Forse. Ma comunque faremo in modo che il tuo matrimonio sia un momento felice. Tuo fratello che ne pensa?»
Cosa avrebbe dovuto pensare Sora? Suo fratello era uno degli uomini più di buon cuore che conoscesse e il pensiero di poter perdere anche lui le provocava una stretta allo stomaco. Quando gli aveva comunicato la sua decisione di sposarsi, Sora aveva sorriso e poi le aveva detto: “È bello che ci sia ancora un po’ d’amore nel mondo. Ulquiorra ti ama, su questo non ho mai avuto dubbi”.
Orihime aveva pianto, di nascosto. Temeva che ogni cosa bella nella sua vita potesse andare perduta. Era tutto effimero.
«Lui approva» disse semplicemente.
Erano tutti giovani, da un certo punto di vista erano ancora bambini. Ma dovevano crescere in fretta.
 
Dopo cinque giorni, venne il momento per Orihime di sposarsi. Lei e Ulquiorra avevano optato per una cerimonia shintoista e la ragazza aveva deciso di indossare l’abito della madre: uno irouchikake rosso sgargiante. Neliel aveva cercato fino all’ultimo di convincerla ad indossare un abito bianco occidentale, ma alla fine aveva ammesso quanto quell’abito le stesse bene.
Poi un filo di trucco e i capelli appuntati.
Non aveva mai desiderato niente di sfarzoso, adesso più che mai.
«Va bene, d’accordo, possiamo sbrigarci? Sto scomoda» si lamentò Neliel, non abituata a indossare i kimono.
«E smettila di aggrapparti a me» borbottò Tatsuki. «Hime, sei pronta? Gli altri sono qui.»
Sorrise. Anche se la situazione era strana, si sentiva una vera sposa. Raggiante, emozionante, con le guance arrossate.
 
«Oh, oh, ma tu guarda. Sei un figurino. Forse un po’ pallido» Nnoitra diede un colpetto sul viso di Ulquiorra, il quale aveva un’espressione tesa e sentiva il cuore martellargli nel petto. Non sentiva Grimmjow scherzare e fare battute, né ascoltava le conversazioni tra Ichigo e Ishida.
«Ho la nausea» ammise.
«Vuoi bere?» propose Grimmjow, ma Ichigo lo colpì alla testa e gli intimò di darci un taglio.
Sora aveva preceduto la sorella e per un attimo gli altri pensarono che si trattasse della sposa.
«Sono soltanto io, mi dispiace deludervi» disse divertito, divenendo poi serio quando guardò Ulquiorra. La sua adorata sorella meritava qualcuno che l’amasse e rispettasse e quel qualcuno era lui, lo sentiva. «Non essere nervoso. Non è la cosa più difficile che farai.»
Ulquiorra annuì. Avrebbe voluto dirgli tante cose.
Combatteremo fianco a fianco per tornare dalla stessa donna.
Oppure.
Farò di tutto per tornare, per non perdere la mia luce in questa vita così oscura.
Ma non un suono uscì dalle sue labbra. Nnoitra gli diede una gomitata e gli fece segno poi di guardare davanti a sé. Orihime era uscita di casa seguita dalle sue amiche. La trovò bellissima, più bella che mai.
E come non mai capì che doveva sopravvivere.
«Stai benissimo» sussurrò lei, con un sorriso dolce e un po’ malizioso.
«Anche tu» rispose sottovoce, porgendole una mano. L’altra mano di Orihime si era stretta in quella di Sora.
Si diressero insieme verso il santuario più vicino. Erano quasi tutti in coppia: Nnoitra con Neliel, Rukia con Ichigo, Ishida con Tastsuki. E poi c’era Grimmjow. Tutti si aspettavano qualche battuta da parte sua, ma era serio, assorto a pensare a chissà cosa. Di solito quel momento era accompagnato della musica, ma ne avrebbero fatto a meno.
Il santuario era proprio dietro una collinetta e quando arrivarono il sacerdote era lì ad attenderli.
Orihime sapeva bene come funzionava. Lei e Ulquiorra si sarebbero inginocchiati e il sacerdote avrebbe agitato attorno alle loro teste dei rametti di camelia.
Era una sensazione molto strana. Si sentiva entusiasta, triste e felice nello stesso momento. Si chiese cosa Ulquiorra stesse provando, era difficile decifrare la sua espressione seria, attenta.
Durante la cerimonia non avrebbe dovuto fare molto. C’erano le preghiere, le invocazioni agli dèi, e poi c’era ciò che Orihime preferiva: il “San-San ku do”.
Lei e Ulquiorra si alzarono in piedi e mentre si guardavano dritto in viso, si scambiarono per tre volte delle tazze di saké, il gesto che simboleggiava la loro unione.
Era davvero tanto intimo.
Dopo che Ulquiorra ebbe bevuto il saké per la terza volta, all’improvviso arrossì, ma non a causa dell’alcol.
«Gli anelli» mormorò.
«Eh? Cosa?» domandò Orihime.
«Gli anelli, non abbiamo gli anelli» gemette, in imbarazzo.
Giusto. Non ci avevano pensato e anche se avessero avuto tempo, delle fedi sarebbero costate molto. Orihime retrasse la mano, e prima che avesse il tempo di rassicurarlo (perché alla fine non era importante), Sora si alzò.
«Scusate, a volte ho la memoria corta. Ecco gli anelli, ce li ho io.»
Orihime e Ulquiorra arrossirono e sentirono delle risate sommesse da parte dei loro amici. Quegli sciocchi, folli e splendidi amici.
«Ma… ma Sora, io…» sussurrò Orihime con gli occhi lucidi.
«Consideralo un regalo di nozze» la rassicurò il fratello, sorridendole e porgendo loro gli anelli: erano sottili, d’oro. Erano di oro vero! Non osava pensare a quanto fossero costate, ma in quel momento non le importava. Ulquiorra prese l’anello e con un movimento un po’ tremante lo infilò al suo dito. Orihime fece lo stesso e poi lo guardò negli occhi.
Erano sposati.
Lo avevano fatto davvero. Prima di quanto avevano previsto.
Nel momento sbagliato, eppure anche quello più giusto.
 
Le sacerdotesse miko avevano appena concluso la loro danza e Orihime si era bagnata le labbra con il saké. Si era resa conto che in fondo non avrebbe potuto avere matrimonio migliore di quello. Circondata dalla gente che amava, dai suoi amici che portavano tanta allegria, anche se il futuro sembrava così incerto. Ulquiorra era silenzioso, ma sapeva che avrebbe preso a parlare nel momento in cui sarebbero rimasti soli. Intanto sentiva la sua mano sulla schiena, il suo odore. Grimmjow sembrava aver ritrovato il suo solito spirito e aveva iniziato a fare battute riguardo la prima notte di nozze, questo fin quando Tatsuki non gli aveva dato un pugno per zittirlo. Orihime aveva abbassato lo sguardo, arrossendo. A quello non aveva pensato, non ancora almeno,
Ulquiorra viveva da solo. La sua casa era piccola e molto spartana, ma per la loro prima notte di nozze sarebbe stato sufficiente.
Prima di lasciarsi. Per mesi, forse per anni.
Lui e Orihime erano arrivati e si erano fermati una volta entrati nella camera con il futon già sistemato. La luna, già alta in cielo, illuminava l’ambiente con naturalezza.
«Vuoi che accenda la luce?»
«No, mi piace così. Come ti senti?» domandò stringendogli il braccio.
Non avevano avuto occasione di parlare molto. Ai matrimoni gli sposi non riuscivano a parlare molto tra loro.
«Sto… bene, credo. Un po’ stordito» ammise. Sentiva il calore di Orihime, la morbidezza del suo seno sul braccio. Ora lei era sua e lui apparteneva a lei.
«Anche io. Sei pentito?» domandò, con la voce rotta forse dall’impazienza. Ulquiorra la guardò e le accarezzò i capelli. Non rispose, ma la baciò sulle labbra. La prima vola e poi una seconda e una terza, senza riuscire più a fermarsi.
Siete giovani e sconsiderati, gli avrebbero detto.
Sposarsi in questo momento, senza nessuna certezza.
Ma avrebbero risposto che non a loro non importava, che finché ci sarebbe stato amore nel mondo si sarebbero aggrappati ad esso con tutte le forze.
 
 
Orihime sentì il sole baciarle la pelle. Aveva dormito splendidamente e si era ritrovata abbracciata a Ulquiorra, dopo la notte più bella della sua vita. Nessuno dei due avrebbe mai dimenticato la sensazione del calore, dei baci, dell’eccitazione umida sui loro corpi. Forse erano un po’ cresciuti in quella notte. Orihime sollevò lo sguardo, spostò i capelli dal viso di Ulquiorra.
«Buongiorno» gli sussurrò.
Oh, se solo avessero potuto vivere di quei dolci momenti per sempre.
Lui le baciò la fronte.
«Buongiorno,»
No, non c’era una singola cosa di cui si pentiva.
 
I giorni che avevano potuto vivere insieme come una coppia appena sposata furono pochi, davvero pochi. Di giorno, Orihime puliva la casa, usciva e vedeva le sue amiche, andava a fare la spesa. La notte lei e Ulquiorra rimanevano svegli a fare l’amore, a parlare. Parlare delle paure e dei sogni, perché a quest’ultimi non avrebbero mai rinunciato.
«Voglio ancora vivere in una casetta in campagna. E magari avere tanti bambini. Non m’importa se non saremo ricchi, preferisco una vita semplice, ma felice» gli sussurrò Orihime la sera prima della sua partenza. «E magari avremo anche tanti animali. Però non deve essere un posto troppo lontano, altrimenti i nostri amici non potranno venire a trovarci.»
Ulquiorra l’ascoltò, accarezzandole i capelli. Anche lui voleva tutto ciò, lo voleva più di ogni altra cosa.
«Mi sento fortunato» disse ad un tratto, stringendole i capelli tra le dita. Orihime sorrise e si fece vicino, fin quando i loro nasi non si sfiorarono.
Fortunati, avrebbe detto qualcuno, siete ingenui e illusi. Praticamente dei bambini che corrono troppo.
Ma correvano perché non avevano altra scelta. Perché la paura e l’incertezza aumentavano la brama di amarsi e amarsi ancora. Anche se la notte era breve e si stava esaurendo in fretta.
«Penserai a me?» chiese Orihime accarezzandogli le ciglia.
«Sempre.»
Lei era stata forte, non si era mai mostrata abbattuta o in lacrime. Ma Ulquiorra sentì quella sera le sue lacrime bagnargli il viso.
Mi dispiace, gli aveva detto, vorrei essere più forte.
Nemmeno Ulquiorra piangeva mai. Ero stoico, controllato. Ma mentre si stringeva a lei, sentì che alle lacrime di Orihime si aggiungevano le proprie.
«Ti amo, Hime. Tornerò» le promise. Lei sorrise, donandogli baci al sapore di lacrime e dicendogli che l’amava anche lei e che lo avrebbe atteso sempre.
La notte intanto si esauriva e un nuovo giorno arivava.

Nota dell'autrice
Doveva succedere prima o poi. Chi mi conosce sa benissimo quante fanfiction AU io abbia scritto sulla Seconda Guerra Mondiale sui fandom più svariati. Mi piacerebbe scrivere una long su Bleach con tutti i personaggi e le coppie che mi piacciono, ma essendoci già passata so che bisogna essere nel mood giusto, e che ci vuole pazienza, ricerche e tempo. Per il momento mi va bene anche scrivere storie auto-conclusive su alcune delle coppie che più amo. Ulquiorra e Orihime fra tutti, non poteva che uscire fuori una storia molto, ma molto romantica. Per la cerimonia shintoista, le informazioni le ho trovate qui. Inizialmente avevo pensato ad un matrimonio occidentale, proprio come voleva Nel, ma effettivamente siamo nel Giappone degli anni quaranta, quindi ho ritenuto più opportuno una cerimonia tradizionale. Lo so che il contesto è molto triste e terribile, ma volendoci vedere il lato romantico, si possono creare cose interessanti e io mi sono molto appassionata a scrivere sia questa OS che le altre, quindi spero vi sia piaciuta perché ci tengo molto.
A presto (;
 

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Capitolo 2
*** Vento su vernice blu ***


 

Questa storia è candidata agli Oscar della penna 2022 indetti dal forum Ferisce la penna

Vento su vernice blu

Nnoitra aveva le sue abitudini, dei momenti a cui non avrebbe mai rinunciato.
Svegliarsi la mattina e sentire Neliel cantare le canzoni alla radio, in un inglese molto improbabile. Discutere con lei ogni tre per due, per ogni sciocchezza, poi fare pace.
Prenderla in giro e farsi prendere in giro, lasciarsi tirare i capelli, prenderla in braccio e bloccarla sul letto, tra le sue braccia.
Erano diversi dagli altri. Erano andati a vivere insieme senza essere sposati e andavano in giro vestiti come due occidentali. Neliel si acconciava i capelli come le attrici dei film americani che guardava, molto spesso senza capirci molto, ma al contempo capendo ciò che la storia voleva dirle. Portava i vestiti che arrivavano alle ginocchia, delle camicette e tanti accessori, scatenando scalpore.
Ma per Nnoitra era bellissima e che se ne andassero al diavolo tutti. Nnoitra faceva un po’ di tutto per mantenersi ed era bravo in tutto ciò che occorreva la manualità.
Neliel gli aveva detto di voler cambiare il colore delle pareti.
Ci vorrebbe un colore più allegro, come l’azzurro del mare. Fallo azzurro.
Nnoitra si era lamentato – aveva fatto finta di lamentarsi – ma poi l’aveva accontentata. Si era dovuto legare i capelli e aveva sciolto le bretelle per stare più comodo, ma la camicia aveva finito con lo sporcarsi.
Accidenti.
La radio era accesa.
Ma la musica era stata interrotta e quando aveva sentito la notizia, a Nnoitra era caduto il pennello di mano. Neliel aveva smesso di cantare e si era immobilizzata.
«Nnoitra?» domandò. Sembrava quasi una bambina.
«Non è niente, vedrai» le rispose lui, prendendo in mano il pennello.
Ma si era sbagliato.
 
«Tu non puoi andare! Lo capisci o no che non puoi lasciarmi qui?»
Nnoitra non si era sorpreso, aveva saputo sin dal primo istante che era suo dovere combattere una guerra che era anche la sua.
Parlano di patria, andare, lottare e vincere. Ma lui non voleva andare da nessuna parte, solo che non aveva altra scelta. La parte più difficile era stato dirlo a Neliel.
Che adesso piangeva come una bambina, il suo viso diventava tutto rosso e singhiozzava. Sembrava davvero piccola in confronto a lui.
«Nel, non ho altra scelta. Non posso farci nulla, lo capisci o no?» domandò scocciato.
Lo capisci o no che ci mandano a morire come animali?
Nel però non si sarebbe arresa. Si aggrappò a lui.
«Scappiamo, andiamocene. Andiamo via.»
«No, Nel. Il mondo è in guerra, non possiamo evitarlo.»
Cercava di essere razionale anche se il suo mondo stava andando in pezzi. Neliel aveva poggiato il viso sul suo petto e singhiozzava. Era sempre stata così emotiva lei, proprio per questo funzionavano, proprio per questo stavano così bene insieme.
«Ma ci deve essere un modo!» singhiozzò. «Tu non puoi andare. Potresti morire e io non voglio. Nnoitra, per favore…»
Resta.
Nnoitra non poteva fare nulla per fermare quelle lacrime e ciò era orribile. La strinse a sé più forte. In genere, le intimava in modo un po’ brusco di smettere di lamentarsi per tutto, ma in quel momento non avrebbe potuto, si poteva solo piangere.
La strinse più forte, come per reggerla, come per reggersi.
«Non dire sciocchezze. Figurati se mi faccio ammazzare così facilmente» le disse, provando a essere duro, distaccato, ma il tremore nella sua voce lo tradì. Il vento aveva preso a soffiare, a far muovere le tende e nessuno dei due fu più in grado di dire se tremasse per il freddo o per la paura.
 
Grimmjow era l’amico single che sognava l’amore. Questo non lo aveva mai detto, perché troppo orgoglioso per farlo. Ma il suo saltare da una ragazza ad un’altra era il tentativo di trovare l’anima gemella, perché in fondo gli sarebbe piaciuto.
Gli sarebbe piaciuto avere una relazione come quella di Nnoitra e Nel, i suoi migliori amici.
Nnoitra e Grimmjow erano come fratelli e a nessuno dei due era stato risparmiato un dolore così grande. Neliel aveva creduto che avrebbe saputo affrontarla al meglio, perché lui era così, sapeva affrontare sempre tutto.
Per questo era rimasta senza parole quando era arrivato a casa loro con addosso uno sgradevole odore di alcol.
«Grimmjow, come cazzo ti sei ridotto?» disse Nnoitra infastidito, forse un po’ preoccupato. L’amico gli si aggrappò addosso, quasi facendolo cadere. Doveva aver bevuto parecchio.
«Nnoitra, sparami» gemette.
«Che cosa? Sei fuori di testa.»
Neliel indietreggiò, poggiando la schiena contro il muro, tremando. Non sapeva ancora quanto la guerra rendesse pazzi, quanto la paura portasse a fare e dire cose assurde. Grimmjow non sembrava più lui, aveva il terrore negli occhi.
«Devi aiutarmi.»
«Sta fermo e siediti! Tu non sai quello che dici!» gli disse. Non si era accorto che l’amico aveva tirato fuori una pistola e ora gliela stava porgendo e Neliel aveva smesso di respirare.
«Io non ho il coraggio. Sparami, così non sarò costretto ad andare. Preferisco essere storpio a vita che andare a morire.»
Dove aveva preso la pistola? Grimmjow era forse uscito di senno?
Nonostante fosse di corporatura più esile, Nnoitra aveva abbastanza forza da tenerlo a bada. Gli lanciò un pugno sul viso, più per farlo tornare in sé che per fargli male.
«Smettila. Io non faccio un bel niente, scordatelo. Non ti sparerò. E dammi quest’affare, dove l’hai presa?» afferrò la pistola e Grimmjow fece un po’ di resistenza. Ma era talmente ubriaco che dovette mollare. Cadde in ginocchio e solo allora Neliel trovò il coraggio di avvicinarsi. Le sembrava un bambino.
«Grimmjow, ti prego. Non fare così» gli disse, abbracciandolo.
Ma aveva ragione di disperarsi così. Anche lei avrebbe voluto lasciarsi andare, anche Nnoitra aveva pensato più di una volta di rendersi storpio per non andare.
Ma quello era il suo dovere.
«Già, siamo tutti nella stessa barca e io non intendo fare niente di quello che mi chiedi!» disse, un po’ duro. «Non lasciarti abbattere in questo modo, tu non sei un debole.»
Non era sua abitudine dispensare complimenti, ma oramai cosa se ne faceva dell’orgoglio? Adesso che tutto poteva andare perduto così, con un battito di ciglia? Non infierì ulteriormente su Grimmjow, che nascondeva il viso e la vergogna dietro la sua stessa mano, mentre Neliel gli porgeva una tazza con dentro un liquido caldo. Nnoitra afferrò la pistola.
«E comunque questa deve sparire» disse duramente.
 
Da quel giorno Grimmjow non tentò più di farsi del male, né parlò ma di quanto accaduto, perché sarebbe stato troppo doloroso per la sua dignità. Piuttosto iniziò a comportarsi come al solito, con finta leggerezza, nascondendo tutto dietro sarcasmo, battute e divertimento. Nnoitra sapeva che era tutta finzione, ma taceva.
«Allora andrai?» gli sussurrò Neliel dopo qualche giorno.
«Non ho altra scelta» Nnoitra si sedette su una sedia. «E soprattutto, io non sono un codardo.»
Neliel lo sapeva bene e avrebbe evitato di dire cose come “Potresti morire”, perché lui lo sapeva per certo. Provò una rabbia sconfinata, perché avrebbe voluto fare qualcosa, perché l’avrebbe seguito anche lei, ma era solo una donna, come le ricordavano in molti. E quindi tutto ciò che poteva fare era rimanere lì, attendere, sperare, non piangere. Aveva pianto troppo, ma adesso era finito il tempo delle lacrime.
«Comunque, tagliali. Sono troppo lunghi e non posso tenerli» disse Nnoitra indicandosi i capelli che aveva sempre portato lunghi. Nel si avvicinò e con un groppo in gola iniziò a tagliarli con le forbici, ciocca dopo ciocca.
No, si era detta, davanti a lui non avrebbe pianto, solo quando sarebbe stata sola si sarebbe lasciata andare alle lacrime.
Nel pensò che fosse tutto così terribile. Pensò a Ulquiorra e Orihime, che si sarebbero sposati presto. I matrimoni di guerra, così romantici e tristi. E pensò a sé stessa, alla loro amata quotidianità per sempre interrotta. Nnoitra rimase immobile e in silenzio e quando Neliel finì, si portò una mano sulla testa, sui capelli decisamente più corti e quando si voltò vide la sua ragazza con gli occhi lucidi.
«Sto davvero così male?»
Nel rise.
«No, stai bene. È solo che è tutto così triste, ma mi sono ripromessa di non piangere più.»
Nnoitra sospirò e portò una mano sulla sua testa. Lui aveva sempre odiato i piagnistei, ma questa volta non avrebbe avuto nulla in contrario.
«Se vuoi piangere puoi farlo.»
E ci mancò poco, davvero poco, che le lacrime uscissero. Neliel però sorrise, nonostante gli occhi che bruciavano.
«Sto bene.»
 
 
Era ciò che rispondeva a tutti quando le chiedevano “come stai?”.
Dopotutto, Neliel era abituata ad affrontare la vita con un sorriso. Anche quando non c’era un lato positivo a cui aggrapparsi. Per fortuna l’organizzazione del matrimonio di Hime l’aveva distratta e le aveva riempito il cuore di gioia il sapere che niente poteva fermare l’amore.
Il giorno del matrimonio, poi, aveva potuto vedere con i suoi occhi – come mai prima d’allora – il sentimento profondo tra Orihime e Ulquiorra. E allora qualche lacrima era sfuggita al suo controllo: lacrime di gioia, malinconia e tristezza. Poi con la coda dell’occhio aveva guardato Nnoitra, pensando di trovarlo annoiato. Invece, seduto tra Ichigo e Grimmjow, era serio, attento.
Loro non avevano mai parlato di matrimonio, questo non voleva dire che non avessero intenzione di sposarsi. Anche se ora era troppo difficile per entrambi pensare al futuro.
Non piangere, non piangere.
 
Era stata una bellissima cerimonia, molto intima e dolce. Neliel aveva detto a Nnoitra che Hime e Ulquiorra avevano avuto molto coraggio e, borbottando, lui le aveva dato ragione. Quando poi erano tornati nella loro casa, avevano l’impressione che fosse più vuota e fredda. con le pareti dipinte a metà. Era ancora presto e nessuno dei due aveva intenzione di andare a dormire. Anzi, avevano l’impressione che non sarebbero riusciti a prendere sonno quella notte.
«Sakè?» domandò Nnoitra. Neliel annuì, mentre andava ad accendere a radio, aveva bisogno che la musica riempisse il silenzio. A entrambi piaceva molto il jazz e Nel fu abbastanza fortunata da trovare una stazione che trasmetteva proprio musica jazz. E poi bevve il saké dal bicchiere che Nnoitra gli aveva dato, non aveva intenzione di ubriacarsi, ma un po’ di alcol avrebbe fatto bene al suo umore. Poi abbracciò Nnoitra e prese a ballare con lui. Nnoitra odiava ballare in pubblico, ma in privato con Nel lo faceva spesso ed era anche piuttosto bravo. Quante volte avevano acceso la radio agli orari più improbabili, seguendo le note di quelle canzoni di cui a stendo capivano le parole. Ma il loro ballo era lento, quasi triste.
«Non sarà la stessa cosa senza di te» mormorò Neliel guardandolo negli occhi.
«Lo so. Ma non provare a tradirmi con un altro» disse lui, cercando goffamente di sdrammatizzare.
«Oh, sono io che dovrei preoccuparmi. So che le straniere sanno essere affascinanti.»
«Forse, ma… le altre non sono te» arrossì e imbronciato distolse lo sguardo. «Lo sai che è Grimmjow quello propenso alle avventure con le straniere.»
Neliel si fece più vicina, lo strinse e lo guardò dal basso. Doveva essere coraggiosa si era detta, perché la donna di un soldato non può essere debole, si era detta. Ma forse lei non era neanche debole, era solo umana e in quel momento avrebbe tanto voluto non esserlo.
«Nnoitra, lo sai che ti amo.»
Non se lo dicevano ogni giorno, non lo ritenevano necessario. Quando Nnoitra abbassò lo sguardo su di lei, ci vide la disperazione, la sua e la propria.
«Lo so. E lo sai che ti amo anche io, anche se non te lo dico spesso. Non abbiamo mai avuto bisogno di dircelo» le accarezzò il viso. Non si poteva certo dire che fosse una persona dai modi dolce e affabile, ma con Neliel usciva fuori il suo lato più umano, più sentimentale. «Odio tutto questo, non mi fa dormire la notte. Non mi preoccupa tanto l’andare in guerra, mi preoccupa il lasciarti sola. Anche se so che te la caverai bene senza di me.»
Neliel si morse la lingua, gemette dal dolore e nel tentativo di trattenere le lacrime.
«Oh, certo. Che credi? Io sono indipendente e forte» rise, ma i suoi occhi piangevano.
«Neliel, per favore. Se vuoi piangere, fallo. Io faccio schifo nell’esprimere i miei sentimenti, sei tu quella più umana, è per questo che mi completi.»
Sembrava che Nnoitra stesse facendo di tutto per farla piangere. E forse era proprio così. Neliel lo strinse più forte e lo abbracciò e allora, sul suo petto, versò tutte le lacrime, il dolore e la paura, come una bambina spaventata. Chissà, forse anche Nnoitra aveva preso a piangere, in un modo silenzioso e composto, come un adulto fatto e finito.
Ma Neliel non avrebbe sollevato lo sguardo. La musica li accompagnava ancora.
«È che ho paura.»
«Anche io, ma tornerò» le disse Nnoitra.
«E se non torni?»
«Io devo tornare. Non c’è un’altra opzione» disse duramente, col tono che assumeva quando non ammetteva repliche. Anche lui l’aveva stretta più forte, affondando il viso tra i suoi capelli, ma fu Neliel a baciarlo con disperazione.
«Stai con me, adesso» ansimò. E Nnoitra capì bene cosa voleva dire. Annuì e ricambiò il bacio e poi la prese tra le braccia.
 
 
La mattina dopo Neliel fu la prima a svegliarsi, come al solito. Aveva aperto le finestre, aveva messo la musica alla radio e aveva svegliato Nnoitra con un bacio, come a voler fingere che fosse tutto come al solito, per il tempo che rimaneva loro. E Nnoitra certo non avrebbe rovinato i suoi piani. Anche se Neliel aveva gli occhi arrossati per il pianto, anche se sorrideva solo la bocca e non lo sguardo. Lui prese il barattolo con la vernice e tornò a dipingere la parete, mentre Neliel apriva la finestra e il vento, entrando, scuoteva le tende.


Nota dell'autrice
Non ho molto da dire su questa seconda OS. Mi è piaciuto tanto scriverla, delle tre che ho scritto forse è la mia preferita, non saprei dire perché. Spero che piaccia anche a voi.

Nao

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Capitolo 3
*** In tre, forse ***


In tre, forse

Rukia se ne stava a passeggiare avanti e indietro. Sembrava star facendo di tutto per evitare un attacco di panico. Orihime, Ishida e Tatsuki la guardavano in silenzio, cercando qualcosa da dire. Anche se, a dire il vero, trovare qualcosa da dire sarebbe stato difficile. Orihime però si era fatta coraggio, ad un certo punto.
«Rukia, stai bene? Sicura che non vuoi sederti?»
Lei scosse la testa. Era vero che spesso le belle e le brutte notizie arrivavano insieme, ma non pensava in modo così crudele. Quella mattina aveva saputo che Ichigo sarebbe dovuto partire per la guerra e questo non aveva sorpreso né lui né lei. Avevano cercato di non lasciarsi andare alla disperazione e Rukia in realtà non aveva avuto il tempo di metabolizzare quella notizia, che ne era arrivata subito un’altra, anche se di tutt’altro genere.
«Io… io non ci posso credere» mormorò come se stesse parlando più a sé stessa che a loro. «Non posso essere incinta, è successo nel momento sbagliato.»
Ishida arrossì e si alzò, sistemandogli gli occhiali.
«Sono di troppo, meglio se me ne vado.»
Tatsuki lo afferrò subito per un braccio.
«Non lo dirai a Ichigo, vero? Se lo fai io… io ti lascio!»
Ishida aggrottò la fronte.
«No che non glielo dico, non è una cosa che riguarda me, anche se è il mio migliore amico.»
Rukia sembrò entrare in un nuovo livello di crisi. Non è che gli dispiacesse troppo l’idea di essere incinta, in un contesto normale ne sarebbe stata felice. Ma era accaduto nel momento peggiore e non sapeva come comportarsi. Era spaventata, era giovane e inesperta e Ichigo lo sarebbe stato altrettanto o almeno così credeva. Non lo sapeva a dire il vero, non sapeva nulla.
«Ho la nausea» gemette. Orihime sorrise e con dolcezza l’abbracciò.
«Tranquilla, Rukia. Andrà tutto bene.»
E lei non avrebbe avuto nulla da obiettare, non quella volta: aveva bisogno di quelle rassicurazioni. Orihime l’aveva poi tranquillizzata dicendole che Ichigo non l’avrebbe mai e poi mai presa male. E non era questo a preoccuparla infatti, ma tutto il resto, tutta la situazione.
 
Quella sera, lei e Ichigo si erano dati appuntamento, come facevano spesso. Lei lo aveva visto arrivare, lo avrebbe riconosciuto anche a chilometri da distanza: la sua camminata un po’ annoiata, le mani nelle tasche, l’espressione imbronciata che un po’ si distendeva quando vedeva Rukia. Poi le si avvicinava, la circondava con un braccio e la baciava. E Rukia lì si sentiva protetta.
«Ti senti meglio?» le domandò Ichigo, che ultimamente l’aveva vista un po’ stanca. Rukia annuì e lo tirò per un braccio. Era inverno e faceva un po’ freddo, tuttavia la serata era limpida e tranquilla.
«Senti, non ho voglia di starmene in mezzo alla gente. Ti devo parlare.»
Ichigo sospirò.
«Io non ho problemi, ma il ti devo parlare non prometteva mai niente di buono.»
Chissà perché a Rukia venne da ridere. Si strinse al suo braccio, a causa della sua bassa statura a volte si sentiva una bambina. Ma non era più una bambina oramai, era una donna, addirittura una madre. Era assurdo pensarlo, eppure era la realtà. Presero a passeggiare per le vie della città, alcuni locali erano pieni di giovani della loro età che trascorrevano le ultime serate di libertà a bere. Probabilmente lì in mezzo – aveva detto Ichigo – ci avrebbero trovato anche Grimmjow.
Ichigo l’aveva presa più razionalmente, o almeno ci stava provando. Era umano anche lui e anche per lui la paura sarebbe stata un’ospite costante e sgradita. Ma non era alla guerra e alla sua partenza che pensava in quel momento, bensì a Rukia.
«Avanti, non tenermi sulle spine. Che è successo? Se vuoi lasciami – e non potrei darti torto – niente scene da film.»
«Non fare il cretino» borbottò Rukia. «Non voglio lasciarti. È che ho scoperto una cosa.»
Sono incinta e lo so che è capitato nel momento sbagliato, ma come potevamo immaginarlo?
«Va bene, allora parla. Peggio della notizia che ho ricevuto oggi non può esserci nulla. Almeno spero.»
Rukia lo guardò, con gli occhi lucidi carichi di preoccupazione. Lui le accarezzò una guancia, perdendo immediatamente la voglia di fare sarcasmo.
«Che è successo?»
Abbassò la testa e lo mormorò pianissimo.
«Sono incinta.»
E nonostante tutto Ichigo lo sentì comunque. Rimase qualche istante fermo mentre due ragazzi ubriachi gli passavano accanto, cantando una canzone in modo stonato. Solo dopo aver pronunciato quelle parole, Rukia trovò il coraggio di guardarlo.
«L’ho scoperto oggi. Io… io non so cosa fare, come comportarmi…»
Ichigo ancora non rispondeva. Ora si spiegava il perché Ishida si fosse comportato in modo strano tutto il giorno, era stato sfuggente. E si spiegava perché Rukia fosse stata poco bene in quell’ultimo periodo. Non appena iniziò a metabolizzare un minimo quella notizia, Ichigo sperimentò una nuova paura, ancora più devastante: una cosa era partire per la guerra con la consapevolezza terribile di lasciare la persona che amava. Ma un’altra era la consapevolezza di lasciare anche un figlio. Lasciarlo anche orfano magari, chi poteva dirlo?
Indietreggiò e si guardò intorno.
«Tu stai bene?» domandò.
Oh, che sciocco, pensò Rukia. Lui era sotto shock e chiedeva a lei se stava bene?
«Io… sì, sto bene, sono solo spaventata. Se fosse successo in un momento diverso, sarei stata anche più felice.»
Ichigo annuì.
«Io non posso andare, non ora che mi hai detto questo»
Rukia si era immaginata una cosa del genere, ma sfortunatamente non era così facile.
«Ichigo, lo sai che devi andare.»
«Ma non posso farlo. Non posso lasciarti da sola in queste condizioni» c’era un leggero tremolio nella sua voce. «Non posso.»
Rukia si fece più vicina, cercando di farlo ragionare.
«Lo so, ma è tuo compito servire il paese.»
«È il mio compito esserci per te» sibilò lui, stringendola delicatamente. Ah, se solo fosse stato abbastanza codardo da menomarsi o fuggire, lo avrebbe fatto volentieri. Ma Ichigo non era un codardo e conosceva fin troppo i suoi doveri, quelli verso il suo paese e quelli verso la donna che amava.
Rukia prese il suo viso tra le mani.
«Ascoltami. È anche per nostro figlio che devi andare. C’è bisogno di un mondo migliore e, anche se in piccola parte, tu hai il potere. Ti prego…»
Rukia aveva ragione, era questo a rendere tutto così difficile. Ichigo non era né codardo, né uno che fuggiva dai propri doveri, ma davanti ad una situazione del genere come si faceva a sapere ciò che era davvero giusto? Se avesse dato ascolto alla sua parte irrazionale, sarebbe rimasto lì con Rukia.
«E se non tornassi?» sussurrò ed ebbe l’impressione che dicendolo la sua paura divenisse reale. Non è che Rukia non ci avesse pensato, anzi. E forse era un po’ ingenuo da parte sua, ma si fidava di Ichigo e sapeva che ora più che mai sarebbe tornato. Aveva una determinazione che nessuno possedeva.
«Vieni qui» Rukia si sollevò sulle punte, abbracciandolo. «Io lo so che tornerai sano e salvo. Non ho dubbi.»
Fu in quel momento che Ichigo si sentì uno stupido, perché era lei a consolare lui, anche se era lei la ragazza incinta e che avrebbe vissuto quei mesi da sola. Ichigo dovette ben presto scendere a patti con l’idea che non le sarebbe potuto stare accanto, che non avrebbe potuto vedere suo figlio nascere, probabilmente non avrebbe potuto conoscerlo per un po’. Magari anche mai, ma questo non lo disse, era superfluo.
 
Il fratello di Rukia viveva nell’Hokkaido e lei lo aveva subito informato della sua gravidanza spedendogli una lettera. Byakuya era una delle altre persone che temeva di perdere, ma suo fratello – lo sapeva – avrebbe affrontato il tutto con stoica razionalità.
E Rukia doveva fidarsi anche di lui, se non voleva impazzire.
Ichigo aveva due sorelle gemelle più piccole, Karin e Yuzu, che erano state felicissime quando Rukia aveva detto loro della gravidanza. E anche suo padre Isshin non aveva trattenuto l’entusiasmo, non si era trattenuto dal dire che ci sperava da un po’. E poi aveva suggerito a Rukia di trascorrere quei mesi in compagnia di Yuzu e Karin, perché nelle sue condizioni non era opportuno rimanere da sola.
«Loro si prenderanno cura di te e tu di loro, dal momento che né io né Ichigo ci saremo» aveva detto con un entusiasmo forse fuori luogo.
«Tsk, non c’è niente di cui essere felici, stupido vecchio» si lamentò Ichigo, alzandosi e andando in giardino. Lui non aveva mai avuto nessun vizio, ma in quei giorni aveva iniziato a fumare parecchio perché la nicotina, almeno per qualche ora, calmava la sua paura.
Suo padre lo aveva raggiunto poco dopo.
«Adesso fumi anche? Devi essere più preoccupato di quanto sembri.»
«Ma davvero, eh? Che strano, vero? La ragazza che amo aspetta un figlio da me e tra qualche giorno dovrò partire a causa di questa maledetta guerra. Non capisco la gente come faccia a fare finta di niente.»
Ichigo era arrabbiato. E preoccupato e in ansia, e niente era sotto il suo controllo e ciò aumentava rabbia, preoccupazione e ansia.
«È che a volte le persone non hanno altra scelta» disse Isshin.
«Già, bello schifo. È che questo non è giusto. Perché ora? Perché così? E se venissi ucciso? In guerra la gente muore. Io ho troppo da perdere e mio figlio sarebbe uno dei tanti orfani di guerra. E Rukia sarebbe sola e io… odio maledettamente tutto ciò.»
Aveva dato il via al suo sfogo che pian piano era mutato in un pianto sommesso. Ichigo non avrebbe voluto piangere, si diceva sempre che oramai era troppo cresciuto per lasciarsi andare in quel modo.
Ma a volte le persone non avevano scelta.
«Hai ragione» disse Isshin. «Tutto ciò fa schifo e hai ben ragione di arrabbiarti. Non abbiamo scelta, nessuno di noi. Ma Rukia si fida di te, sa che tornerai. E lo penso anche io.»
Sembrava che tuti si fidassero di lui, tutti meno che sé stesso. Avere paura era terribile, non avere scelta era terribile. Ma non poteva scappare, né tornare indietro.
«Come lo sai?» bisbigliò.
Suo padre gli portò affettuosamente una mano su una spalla.
«Non lo so. Me lo sento.»
Ah, accidenti a quello stupido vecchio e al suo modo di vedere la vita. Anche se forse un po’ Ichigo lo invidiava, anche se questo mai e poi mai gliel’avrebbe detto.
 
I giorni seguenti erano stati frenetici, c’era stato il matrimonio di Orihime e Ulquiorra e lui e Rukia si erano poi ritrovati a passare insieme ogni minuto di ogni giorno. Si erano ripromessi di non disperarsi, di non sprecare il tempo che rimaneva loro.
«Preferiresti un maschio o una femmina?»
Rukia era stesa sul tatami accanto a lui, era notte.
«Andrebbe bene comunque» mormorò Ichigo, che aveva provato a immaginare tante volte come sarebbe potuto essere un bambino con i tratti suoi e di Rukia.
«Hai ragione. Però se è un maschio lo chiamiamo Kaien.»
Ichigo fece una smorfia.
«Dobbiamo chiamare nostro figlio come il tuo ex?»
Rukia arrossì e gli diede una gomitata.
«Dai, non è il mio ex. Per lui ero come una sorella.»
«Ma a te piaceva.»
«Ero una ragazzina, non essere geloso»
No, Ichigo non era geloso. Chiunque aveva una storia e aveva avuto qualcuno d’importante, ed era stato così anche per Rukia. Rukia che aveva già perduto il suo primo amore, non in guerra ma durante una lite, un colpo di pistola ed era finito tutto. Adesso rischiava di perdere anche lui e Ichigo non poteva fare a meno di chiedersi quanta forza possedesse.
«E va bene, d’accordo, lo chiameremo così» disse accarezzandole i capelli. «Ma quanto tornerò, per il bambino sarò un estraneo»
«No, perché gli parlerò sempre di te. I bambini sentono tutto ancor prima di nascere» Rukia strofinò con dolcezza il viso sul suo petto e poi lo guardò. «Tu sei un eroe, Ichigo.»
Gli venne un brivido. Avrebbe voluto dirgli che non era un eroe, non era più coraggioso degli altri, forse era addirittura più impaurito. Ma non lo disse, si limitò a regalarle un lieve sorriso. Rukia stava cercando di essere forte in modo straordinario, portando su di sé il peso della paura e dei dubbi. E lui non sarebbe stato da meno. Posò le labbra sulla sua fronte.
Nessuno di noi è un eroe, siamo soldati. Soldatini di plastica che verranno spezzati, ma per te voglio essere un eroe.
 
Ichigo indossava la sua divisa color kaki e Rukia doveva ammettere di trovarlo molto fascinoso, anche se aveva l’espressione addolorata e seria. Si erano detti “niente addii strappalacrime”, attorno a loro c’erano fin troppe coppie disperate – e avevano ragione di esserlo.
«Fai attenzione» le disse Ichigo posando una mano sulla sua testa. «Non fare sforzi e mangia bene.»
«Scemo, so cosa devo e non devo fare. Non so se una gravidanza è più terribile di una guerra» Rukia arrossì, Ichigo l’avrebbe sempre trattata come se fosse una bambina, anche se oramai era sbocciata del tutto in una donna.
«Già, chissà. Ci vedremo presto, Rukia. Solo che quando tornerò, saremo in tre.»
Rukia sorrise mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Già si immaginava benissimo: lei, lui e il loro bambino.
«Se non mantieni la tua promessa, ti uccido» mormorò. Ichigo allora la prese in braccio e la sollevò da terra, baciandola. Rukia tremò qualche attimo quando sentì la terra mancarle sotto i piedi, ma poi si aggrappò saldamente a lui.
«Mantengo sempre le mie promesse, lo sai» la rassicurò. E questo era vero. Non avrebbe dato a Rukia un altro dolore. Non avrebbe lasciato che si perdessero, si separassero, che la loro famiglia venisse spezzata.
Avevano troppo da perdere.
 
 
Rukia aveva passato quei mesi circondata dalle sue amiche e cognate e questo l’aveva aiutata a sopportare la lontananza, la tristezza e il dolore. C’erano stati alcuni scambi di lettere tra lei e Ichigo, anche se pochi. Ma andava bene così, le bastava quel poco e sapere che lui stava bene.
E poi c’era stata la sorpresa inaspettata, un giorno. Rukia aveva messo al mondo due gemelli e anche se il sospetto l’aveva accarezzata da un po’ – Tatsuki le diceva che il suo ventre era fin troppo grosso – era stato comunque sconvolgente.
Così erano venuti al mondo Kaien e Masato, il primo con i capelli di quel bizzarro colore aranciato come Ichigo, il secondo dai capelli scuri. Erano in due ed erano in perfetta salute. Erano in due e dormivano vicini, con le piccole manine intrecciate, quasi a volersi proteggere dal mondo enorme e vasto in cui si trovavano.
E mentre i due gemelli riposavano nella loro culla, Rukia li guardava e scriveva una lettera a Ichigo.
 
… Lo avresti mai immaginato? Abbiamo avuto dei gemelli, a Tatsuki quasi non è venuto un colpo, tua sorella Yuzu invece era entusiasta. Li ho chiamati Kaien e Masato. Con Masato ho dovuto improvvisare, non avevo pensato ad altri nomi, però mi piace. I nostri bambini sono identici tranne per il colore dei capelli e sono già molto amati. Le ragazze si prendono cura di loro e li coccolano, e di ciò sono molto grata perché non mi sono ancora ripresa dal parto. Metterne al mondo uno è difficile, ma due? Credevo di morire, se fossi stato qui ti avrei insultato. Però adesso sono molto felice. Sai, ho mantenuto la mia promessa, ho parlato loro di te, ho raccontato proprio tutto, dei pregi e dei difetti e di come ci siamo incontrati. È tutto quasi perfetto, ma manca la pace e manchi tu. Spero che la guerra finisca presto. Non saremo in tre, ma in quattro, quando tornerai. Perché devi tornare. Adesso scusa, ma Kaien ha iniziato a piangere e non vorrei che svegliasse anche Masato. Chissà da chi ha preso questo carattere…
 
Lasciò la lettera in sospeso e si avvicinò ai bambini. Kaien si lamentava e Masato accanto a lui dormiva beato. E mentre li guardava, Rukia si ritrovò a pensare che la vita sapeva essere crudele, come quando c’era una guerra. Eppure straordinaria, come quando due persone insieme creavano qualcosa di unico. Sarebbe stata dura, ma ce l’avrebbero fatta.

Nota dell'autrice
Ed ecco qui l'ultimo capitolo dedicato a Ichigo e Rukia. Anche per loro avevo le idee chiare fin dall'inizio, forse sono stata un po' troppo cattiva. Povera Rukia e poveri bambini :) Io poi ho questo headcanon che Ichigo e Rukia avrebbero dei gemelli e quindi mi sembrava una cosa carina da inserire. Visto che il finale è aperto ognuno può immaginare un po' come vuole, ma se questa storia fosse stata una long, lo dico, avrei fatto tornare Ichigo sano e salvo perché non avrei avuto il cuore di farlo ammazzare in modo così miserabile. E questo è quanto, spero tanto che quest'ultima OS vi sia piaciuta.
Alla prossima gente :),

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