Please don't say you love me

di Giulss_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

 

 

Just please don't say you love me,
cause I might not say it back,
doesn't mean my heart stops skipping
when you look at me like that.
There's no need to worry when
you see just where we're at,
just please don't say you love me
cause I might not say it back.

 

Terminato l’interrogatorio di Calenzano, Calogiuri lo accompagnò fuori dall’ufficio per procedere all’arresto. Diana, vedendo Imma ancora turbata per quanto avevano appena appreso, tentennò nell’annunciarle che la maestra Strammiello e Nicolas la stavano aspettando per parlarle. Imma, invece, si alzò subito dalla sedia e li raggiunse nel corridoio. Sicuramente avevano qualcosa da riferirle riguardo la morte di Stacchiuccio. 

“Dottoressa, mi scusi ma Nicolas le voleva dire una cosa.”
“E vieni, Nicolas” gli disse, allungando una mano per accompagnarlo dentro al suo ufficio. Il bambino, però, le afferrò e la tirò a sedere su una delle sedie in corridoio.
“Allora, che c’è?” chiese, e lui iniziò a raccontare del giorno in cui avevano seguito Stacchiuccio fino alla grotta dei pipistrelli.
“Lui a un certo punto è scappato via ed è caduto in un buco. Piangeva… e poi… e poi ha smesso di piangere. Io ho pensato che s’era addormentato e sono andato via” disse infine, prendendosi la testa tra le mani e iniziando a piangere. La maestra lo abbracciò e lo accompagnò a prendere un bicchiere d’acqua.

Imma li salutò e appoggiò la testa al muro, distrutta. Quelle giornate sembravano interminabili e l’avevano molto provata emotivamente. Con la morte di Stella Pisicchio, i ricordi del liceo erano tornati a galla, e con loro anche quella sgradevole sensazione di essere sempre quella diversa, quella sbagliata, quella sola. E poi c’era stata la morte di Eustachio Corradino. Vedere il corpo di quel bambino tra le rocce della caverna l’aveva sconvolta già senza sapere che i responsabili erano proprio i suoi amichetti. Erano bambini, non l’avevano spinto, non volevano che morisse, non avevano colpe. Era stato un incidente. Era straziante. 

Calogiuri, dal canto suo, era tornato in tempo per sentire quanto Nicolas aveva raccontato e ne era rimasto turbato quanto Imma. Soprattutto, era dispiaciuto per come la dottoressa stesse soffrendo. Vederla piangere gli provocava sempre una fitta al cuore. Era una donna forte, dal carattere molto particolare, ligia sicuramente più alle regole che alle questioni di cuore, e non era facile che si lasciasse andare ai sentimenti. Così, senza dire nulla per non disturbarla, si sedette accanto a lei nel corridoio e, come lei, appoggiò la testa al muro. 

Imma chiuse gli occhi e voltò la testa verso di lui. Il volto era bagnato di lacrime. Riaprì gli occhi e abbozzò un sorriso. Era contenta di averlo lì in quel momento e Calogiuri lo sapeva, soprattutto dopo il distacco degli ultimi tempi. Erano tante le cose che avrebbe voluto dirle ma non era il momento. C’erano gli occhi a parlare per loro. Così, si limitò a ricambiare il sorriso. 

Quando Imma tornò a guardare dritto davanti a sé, una mano sulla gamba, Calogiuri vi posò sopra la sua, inizialmente incerto, ma poi con presa sicura. Aveva paura di spezzare quell'incantesimo ma allo stesso tempo voleva dimostrarle che c’era. E soprattutto non voleva lasciar passare quel momento senza aver fatto nulla. Poteva dirsi quanto voleva di essere arrabbiato con lei, di non provare nulla se non stima dal punto di vista personale e professionale, ma erano tutte balle. Aveva bisogno di lei, di toccarla, di accarezzarla, di baciarla, di spogliarla. 

Il petto di Imma ora si alzava ed abbassava più velocemente - e no, non era per via del pianto. Non solo. Non si aspettava quel contatto, anche se in quel momento non avrebbe saputo desiderare altro. Poi la mano di Calogiuri si staccò dalla sua. Lo osservava con la coda dell’occhio, e quando lo vide spostarle i capelli dietro le orecchi si sentì mancare il fiato. Sapeva -o sperava- di non essergli indifferente, ma nessuno dei due aveva mai osato un contatto di troppo. 

Calogiuri le posò la mano sulla guancia e con il pollice le sfiorò le labbra. A quel punto tornò a guardarlo. Nella testa non c’erano più casi, morti, ricordi che tenessero. I suoi occhi castani incrociarono quegli azzurri di lui in cerca di risposte, forse sperando di non trovarle. Eppure erano lì, c’erano sempre state. Era lei a non volerle vedere perché era terrorizzata anche solo all’idea di potersi porgere determinate domande, figurarsi darvi una risposta. Ma gli occhi di Calogiuri, spesso timidi ed evasivi, in quel momento non lasciavano spazio a dubbi. E neanche la sua mano, che faticava a terminare quella carezza, con l’indice fermo sul mento, come a non voler rompere quel contatto. 

“Grazie” gli disse, sfiorandogli la gamba con una mano mentre si alzava. “Dovremmo andare a casa, ora.”
“Certo dottoressa” rispose alzandosi a sua volta, “volete che vi accompagno?”
“Non ti preoccupare, Calogiuri.”
Non voleva calcare la mano. Era scossa per la giornata avuta e sentiva ancora il corpo fremere al contatto con la mano del ragazzo, quindi non era del tutto in controllo delle sue facoltà mentali. Avrebbe chiesto a qualche appuntato di farsi accompagnare, anche se non sarebbe stata la stessa cosa. Non lo sarebbe stato mai.


 

Arrivata a casa, salutò Valentina e si buttò sotto la doccia. Lasciò che il getto d’acqua lavasse via i pensieri, le ansie e le frustrazioni della giornata. Cercò di accantonare quegli ultimi momenti in questura, di lasciarli riposare in un cassetto, senza farsi troppo domande. Poi, si mise a cucinare, finché non venne interrotta da un messaggio.
Era Pietro: non sarebbe rientrato a casa. “Valentì” sbuffò, “è pronto!”
“E papà?” chiese la figlia dal salotto.
“E papà non torna a casa” le rispose, mettendo il cibo in tavola.

Aveva appena posato tutto, quando il telefono suonò di nuovo. Era Ernesto Morra, il gioielliere.
“Ho visto il braccialetto che ha lasciato in gioielleria” le disse, “ricordo benissimo chi l’ha comprato, anche perché era un nostro affezionatissimo cliente: il cavalier Latronico.”
Sentì per l’ennesima volta in quella infinita giornata il suolo mancarle da sotto i piedi. Si appoggiò alla parete. “Cenzino Latronico?”
“Sì certo, proprio lui. Spero di esserle stato utile, Dottoressa.”
“Utilissimo, grazie” rispose, chiudendo la telefonata. Le girava la testa, i pensieri si rincorrevano, si mescolavano, le toglievano il fiato. Cadde a terra.

Valentina si voltò. “Mamma?!”
“Sto bene, Valentì” rispose, qualche secondo dopo. Avrebbe preferito essere inghiottita dal pavimento, ma stava bene.
Valentina le tese una mano e l’aiutò a rialzarsi. “Ma che hai?”
“Niente, Valentì, solo una giornata pesante, e adesso che ci penso non ho mangiato, sarà un calo di zuccheri” rispose, sedendosi a tavola e buttando giù una forchettata di insalata.
Valentina la guardava sconvolta. Un minuto prima cadeva a terra, pareva svenuta, e il momento dopo si metteva a tavola a mangiare. Sua madre era strana forte. Comunque, non disse niente e finì la cena.
“Mamma ma sei sicura di stare bene?”
“Sto bene, Valentì, sto bene, uno neanche un calo di zuccheri può avere mo’?”
La figlia sbuffò. “Quindi ti posso lasciare sola? Pensavo di andare a dormire da Bea se non è un problema…”


 

Pietro fuori a cena, Valentina fuori a dormire, lei da sola in casa.
O meglio, in compagnia di un numero indefinito di pensieri che spaziavano tra un centinaio di argomenti che avrebbe volentieri evitato.
Ma, nonostante tutto, uno tornava più forte degli altri.
Prese in mano il telefono ed inviò un messaggio: “Sei impegnato? Non era la sera giusta perché mi lasciassero a casa da sola.”
La risposta non tardò ad arrivare: “Tempo di sistemarmi e passo a prendervi.”

Cosa stava facendo? Ah, non ne aveva idea. Probabilmente stava comprando un biglietto per salire sul Titanic quando già era affondato, ma non le importava. Stava male, si sentiva sola, e c’era una voce nella testa che non la lasciava in pace. Ogni volta che chiudeva gli occhi incrociava due pozze azzurre che la guardavano come se non ci fosse niente di più bello al mondo, che la desideravano. E si chiedeva invece cosa si vedesse da fuori nei suoi occhi.

I sentimenti di Calogiuri le erano chiari - non li capiva, non se li riusciva a spiegare, però erano quello che erano. Ma i suoi? 


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Ebbene sì, dopo SECOLI sono tornata a scrivere più di due righe. In realtà perché devo esercitarmi sulla scrittura creativa (e non sono in grado), ma almeno ne approfitto per riempire il vuoto che 'sti due disgraziati stanno lasciando nella mia vita. Non so minimamente dove andrò a parare, perché ho due idee completamente opposte per questa ff, quindi probabile che ci rivedremo la settimana prossima se non direttamente tra dieci giorni, anche perché sarò un po' presa con le bombe. Anyways, a presto, e se lasciate un commento mi fa solo che piacere!
Giulia

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


2.
 

And I know that I broke all your rules
and, oh, now you’re looking at me
and I'm looking at you like a fool,
but you don't know what it feels like 
to fall in love with you.

 

Calogiuri era arrivato meno di una mezz’ora dopo il messaggio, tempo sufficiente perché Imma si pentisse almeno dieci volte di averlo mandato. Ma ormai il danno era fatto, e comunque a casa da sola quella sera non ci voleva stare. Quando l’aveva raggiunto in macchina, gli aveva chiesto di guidare. Lui, al solito, non aveva fatto domande e si era limitato a fare come lei gli diceva.
“Grazie” gli disse dopo un bel po’ di tempo passato in silenzio, “e scusami se ti ho fatto venire fin qui a quest’ora, dopo la giornata di oggi avevo bisogno d’aria e di non stare da sola.”
“E che fa, sono venuto volentieri” rispose sorridendole.
“Già” sospirò lei. Certo che era venuto volentieri, lo sapeva benissimo, l’aveva capito. Il problema restava perché lei gli avesse chiesto di vedersi.
“Tutto bene, dottoressa?”
“No” rispose lei, un po’ troppo energica. “Cioè, sì” disse, dopo un respiro profondo, passandosi la mano tra i ricci. “Sì, Calogiuri, sto bene, solo che…”
“Che?” chiese il maresciallo, vedendo che Imma non finiva la frase.
Imma fece un altro respiro profondo. No, non era proprio il momento di tirare in ballo argomenti scomodi. Di certo, non sarebbe stata lei la prima a farlo. Aveva una figlia, era sposata - e, per di più, amava suo marito, santo cielo! “Niente, è che non avrei dovuto scomodarti per fatti miei personali, sei mio sottoposto, mica il mio consulente!”
“Non vi preoccupate, davvero” disse, accostando nuovamente nella piazza sotto casa Tataranni. “Sono state giornate pesanti per tutti, purtroppo.”
“Mi ha fatto bene questo giro, comunque, grazie” gli disse, posandogli una mano sul braccio.
“Sono contento” rispose lui.
Imma alzò lo sguardo verso il suo appartamento e notò la luce accesa. “Bene” disse “credo che Pietro sia tornato, io andrei.”
“Buonanotte, dottoressa”
“Buonanotte” lo salutò, scendendo dalla macchina. 
Aveva fatto la scelta giusta. Cosa mai le era venuto in mente? Cosa pensava sarebbe successo? Cosa sperava di ottenere chiamandolo la sera tardi per farsi portare via di casa? 

 

Un anno dopo…

Gli agenti della DIA avevano da poco lasciato l’appartamento della Matarazzo, mentre Imma si era trattenuta con Calogiuri. Erano state giornate intense e non avevano nemmeno avuto modo di scambiarsi un’opinione sulle novità acquisite e su cosa comportassero. Pur avendo mosso ogni passo insieme (lei dai suoi errori imparava eccome, e che non si dicesse il contrario), si trattava di una situazione d’urgenza, dovevano agire in fretta per prevenire situazioni scomode. Il caso Romaniello, lo sapevano, era uno dei più importanti che sarebbe toccato loro in tutta la carriera, e c’erano in gioco pedine ben più grandi di loro, in grado di incidere sulla vita di molti e per molti anni a venire.
“Ti do una mano a mettere un po’ in ordine, Calogiù, poi vado in là che si è fatta una certa e…”  c’era Pietro a casa ad aspettarla, ma era davvero necessario specificare?  “E tu pure avrai le tue cose da fare.”
“Non vi preoccupate dottoressa, posso accompagnarla subito e tornare poi dopo” le rispose.
“Non credo proprio” insistette lei, passandogli accanto per riporre una delle tazzine appena asciugate. 
Nello spazio ristretto della cucina, le braccia si sfiorarono. Non era niente di che, nessun contatto particolare, niente cui ormai non fosse abituata, eppure era tutta la sera che sentiva una corrente particolare. Da un lato, aveva lo stomaco in subbuglio da un punto di vista strettamente professionale: c’era la segretezza che il caso richiedeva, l’aver nascosto la verità alla sua famiglia, trovarsi di nascosto in casa di Matarazzo, poter confidare completamente solo di Calogiuri - questa non era poi una grande novità, ma incideva sul totale; dall’altro lato, a livello emotivo si sentiva come sulle montagne russe. Nell’ultimo mese era più turbata del solito, sentiva sempre di più la necessità di tenerlo lontano e faticava a farlo. 

“Comunque, noi abbiamo ancora un discorso in sospeso” disse, mettendo da parte qualsiasi istinto di sopravvivenza, di quieto vivere, e quel minimo barlume di lucidità che le era rimasto. Per molto tempo aveva fatto finta di niente nei riguardi di molte cose quando si trattava di Calogiuri, si era girata dall’altra parte troppe volte.
Calogiuri la guardò sorpreso. È vero che era stata lei a dire che ne avrebbero riparlato, ma non aveva mai pensato che potesse tirare fuori la questione.
“Sull’onestà, dico, nelle-“
“Sì, certo, nelle questioni di cuore” disse, autocitandosi. “È solo che mi avete colto alla sprovvista.”
“E perché?” chiese lei, con una risatina imbarazzata. Aveva quarant’anni suonati, era lo sceriffo di Matera, eppure con lui le sembrava di tornare un’adolescente - un’adolescente cretina, per di più!
“Mi era sembrato che l’argomento vi mettesse in difficoltà” azzardò Calogiuri.
“Macché, Calogiù, quale difficoltà, volevo solo capire meglio cosa intendevi.”
Calogiuri si spostò dalla cucina al divano, con due birre. Ne aveva bisogno. “Ci sediamo?” 
“Eh, sediamoci” rispose, tenendosi ad una debita distanza. Cosa le era saltato in mente di tirare in ballo? Era davvero pronta a quella conversazione?

“Comunque” riprese il maresciallo, “quello che volevo dire è che io lo so che bisognerebbe dire la verità e saper ammettere i propri sentimenti, però non è sempre facile, soprattutto perché si rischia di fare del male a chi sta dall’altra parte.”
“A Matarazzo?”
Calogiuri annuì.
“La vuoi lasciare?” gli  chiese Imma, bevendo un lungo sorso di birra subito dopo.
“Stiamo bene insieme, ci capiamo, ed essendo del mestiere con lei non ho gli stessi problemi che avevo con Maria Luisa” spiegò, “però io… cioè, noi… non proviamo le stesse cose.”
Imma si attaccò nuovamente alla bottiglia, non sapendo bene cosa rispondere.
Così fu di nuovo Calogiuri a prendere la parola. “Jessica non è stupida, potrei lasciarla dicendole una qualunque scusa ma non ci metterebbe molto a capire la verità, anzi credo che sotto sotto la sappia già, solo che non vuole ammetterlo.”
“La verità?” chiese, riuscendo a malapena ad articolare la domanda.
“Sì, ecco la mia domanda era quella: se è meglio lasciarla inventandosi qualcosa o restando onesto con lei?”
“Calogiuri, con un lungo matrimonio alle spalle ti posso dire che la verità assoluta non è mai un bene, e da donna ti dico pure che non sempre vogliamo proprio sentirla tutta questa benedetta verità, anche se magari  sotto sotto la sappiamo già.”
“Voi credete?”
Imma gli sorrise. “Tu se fossi al posto di Matarazzo non preferiresti una mezza verità che ferisca, sì, ma fino ad un certo punto, piuttosto che sentirti dire qualcosa che faccia ancora più male?”
“Bè, forse sì” rispose lui, prendendo un sorso di birra.
“Ecco” disse lei, sorridendogli. A sentirlo parlare si era un po’ rilassata: si sarebbe aspettata molto peggio da quella conversazione, sapendo i tiri che era in grado di fare Calogiuri quando ci si metteva.
“E voi la volete sapere la verità?” 
Bene, neanche a dirlo.
“Non siete obbligata” aggiunse, vedendo che Imma non accennava a rispondere e si era passata una mano sul viso.
“No, Calogiuri, non è quello, è che ti devo confessare una cosa.”
Calogiuri si irrigidì sul divano. Pensava di essere lui a dover fare una confessione in quel momento.
“L’altra sera, quando mi hai riaccompagnata a casa e io mi sono addormentata… Bè, ecco, credo di aver sentito tutto.”

Questa volta l’aveva fatto sul serio. Aveva sganciato la bomba e ora non c’era più punto di non ritorno. Aveva rimandato questo confronto per troppo tempo. E non si trattava solo di quello che Calogiuri le aveva detto, ma anche di tutto quello che non si erano detti, di tutti i silenzi condivisi in macchina, degli sguardi che si scambiavano, dei gesti, di tutte le volte che era scappata, di quel bacio che si erano dati nel suo ufficio, di quella volta che lo aveva respinto dopo che era tornato dal Sud America, della gelosia che provava ogni volta che lo vedeva con Jessica, di quanto ci fosse rimasta male pensando che uno come lui fosse in grado di tradire la propria fidanzata, della voglia che aveva di proteggerlo, del fatto che in tutta la procura si fidasse ciecamente solo di lui e a lui soltanto avrebbe affidato la sua vita. Non poteva più fare finta di nulla. 
 

Quindi lo sapeva. Sapeva che l’amava. Calogiuri sentì un brivido salirgli lungo tutta la schiena. Aveva il battito accelerato e non si ricordava bene come respirare. Probabilmente non si era mai sentito così vivo prima di quel momento. In macchina, mentre la guardava dormire, finalmente serena dopo le giornate che stavano passando, gli era sembrato naturale dirglielo. Gli si riempiva il cuore pensando che era così tranquilla accanto a lui da potersi addormentare, e poi era così bella, così fragile in quel momento eppure sempre così fiera e forte. Certo che l’amava, come poteva essere altrimenti? “Avete sentito tutto?” 
Imma annuì. “Sì, in parte, credo, comunque abbastanza da… da capire. E poi…” disse, prendendo una busta gialla dalla borsa. “Poi ho ricevuto queste” concluse, posandola sul tavolino di fronte a loro.
Calogiuri la guardò perplessa. 
“Aprila.”
Il maresciallo la prese e con molta calma l’aprì. La serietà di Imma l’aveva preoccupato e aveva sinceramente paura di sapere cosa ci fosse dentro. E poi, cosa c’entrava quella sera in macchina con tutto ciò? Mille domande gli passavano per la testa in quel momento, e la risposta giunse quando tirò fuori dalla busta delle foto. Le prime ritraevano lui che sorreggeva Imma quando era inciampata sui sassi, pochi giorni prima. Lei sorridente, lui che la stringeva a sé. Poi vide tre foto che lo paralizzarono. Erano loro due in macchina, una sera. Lei che dormiva, lui che le si avvicinava ad occhi chiusi e faceva per baciarla. 
“Cosa-“
“Ho già fatto analizzare la busta, nessuna traccia di DNA o qualche indizio su cui lavorare, ma direi che non ce n’è bisogno. Mi aspetto che a breve si farà vivo Romaniello, qualcuno dei Mazzocca o chi per loro, per intimarmi di lasciare perdere o chissà che altro, in modo da non far avere le foto al procuratore.”
“E cosa pensate di fare?”
“Calogiuri, non mi importa di questo adesso. Le ho tirate fuori per farti vedere le cose dal mio punto di vista. Mi importa quello che c’è dietro queste foto, non cosa ne faranno dei criminali.”
“Non siete arrabbiata?”
Imma sgranò gli occhi. “Con te?”
“Sì, io non avevo il diritto di farlo, e come se non bastasse ora vi ho pure messo in pericolo sul lavoro. L’avete detto voi che se si insinuano certe voci in procura è la fine…” disse, mortificato.
“Calogiuri” disse con tutta la dolcezza di cui era capace, avvicinandosi a lui sul divano. “Ormai mi pare dovresti averlo capito che mi è impossibile arrabbiarmi con te, e questo in procura già lo sanno tutti. Certo, mi pareva di essere stata abbastanza chiara quando ho detto che quello che è successo non doveva ripetersi mai più.”
Quell’ultima frase era peggio di una coltellata nel petto. Dunque, nonostante tutto, la pensava comunque così?

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Se siete arrivatx fin qui vi ringrazio perché sincermente io una roba del genere non so se l'avrei letta, ma questo è quello che mi è uscito per cui ve lo cuccate così 🙈 

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

 

Con la tua età io vorrei parlare un po' di noi,
ma sulla tua pancia io scriverò così:
Calorosamente traccerò qualcosa entrando in te,
Silenziosamente ricorderai quel morbido aprirti a me.

[“Non siete arrabbiata?”
Imma sgranò gli occhi. “Con te?”
“Sì, io non avevo il diritto di farlo, e come se non bastasse ora vi ho pure messo in pericolo sul lavoro. L’avete detto voi che se si insinuano certe voci in procura è la fine…” disse, mortificato.
“Calogiuri” disse con tutta la dolcezza di cui era capace, avvicinandosi a lui sul divano. “Ormai mi pare dovresti averlo capito che mi è impossibile arrabbiarmi con te, e questo in procura già lo sanno tutti. Certo, mi pareva di essere stata abbastanza chiara quando ho detto che quello che è successo non doveva ripetersi mai più.”
Quell’ultima frase era peggio di una coltellata nel petto. Dunque, nonostante tutto, la pensava comunque così?]

 

“Certo” rispose, con quel tono da cane bastonato che gli era impossibile evitare quando pensava di averla delusa o fatta arrabbiare. Gli occhi la scrutavano in attesa che aggiungesse qualcosa, sperando che facesse qualcosa, un gesto anche minimo, quel che bastava per contraddirsi un poco, perché non era sicuro di riuscire a vivere con la consapevolezza che gli si stava insinuando nella mente e nel cuore e che gli faceva gelare il sangue nelle vene. Lei però non accennava a muoversi, gli occhi puntati sulle foto che Calogiuri aveva posato sul tavolino davanti al divano. Cosa pensava? Cosa provava in quel momento? Non riusciva a darsi pace, così iniziò a ragionare ad alta voce. “Però io non ci credo che per voi è stato solo un errore, perché se fosse stato così vi sareste comportata diversamente” ed iniziò ad elencare una serie di ricordi che continuavano ad affollargli la mente: “non mi avreste permesso di avvicinarmi a voi così tanto quel giorno al passaggio a livello, che quasi vi baciavo di nuovo, e non avreste giocato al gatto e al topo per settimane pur di non lavorare insieme, anche se poi tornavate sempre proprio quando iniziavo a non sperarci più, e allora tornavano anche gli sguardi, i sorrisi, le teorie, quel modo di lavorare che avete solo con me e che io ho solo con voi, e io lo so che certi momenti non me li sono immaginati, non li ho vissuti solo nella mia testa” concluse, tutto d’un fiato, senza mai toglierle gli occhi di dosso.

Imma si irrigidì. Sapeva benissimo che Calogiuri aveva ragione, certo che aveva ragione, perché una persona ferma sulla propria decisione, senza il minimo dubbio su ciò che prova, non si sarebbe comportata come si era comportata lei negli ultimi mesi. Erano state settimane di tira e molla continui, di tentativi di fuga che lei stessa boicottava tornando a riprenderselo appena era troppo distante o ne sentiva la mancanza a livelli insopportabili, e aveva finito varie volte col fargli scenate di gelosia improponibili e fuori luogo. Perché era facile, a parole, dire che era stato un errore, lo era un po’ meno convincersene. Ma come poteva darsi pace? Non si era mai sentita così, non aveva mai provato nulla di simile, sentiva ogni fibra del suo corpo remare contro quei principi morali che l’avevano tenuta in piedi negli ultimi quarant’anni suonati di vita e soprattutto sentiva che stava mettendo a repentaglio tutto quello che aveva conquistato a livello personale - la sua vita con Pietro, con Valentina - e ancora non riusciva a capire esattamente per cosa. Tacque. Cosa avrebbe dovuto dirgli, “sì lo so, hai ragione, è tutto vero ma è anche tutto sbagliato”?

Quindi riprese Calogiuri a parlare. “Posso capire che avete paura, non è facile-“

“No, Calogiuri, non lo sai! Non lo puoi sapere” sbottò, alzandosi di scatto. Di cosa stavano parlando, di aria fritta? “Non puoi capire come ci si sente dopo vent’anni di matrimonio, tu non sai cosa vuol dire svegliarsi ogni giorno con accanto la stessa persona per anni, condividere pensieri, sorrisi, lacrime, discutendo a giorni alterni per stronzate o questioni di massima importanza, non puoi sapere cosa vuol dire crescere una figlia insieme. Ed è giusto così, come potresti saperlo?” aggiunse, abbassando un po’ i toni dopo averlo visto rimpicciolirsi su quel divano. D’altronde, se essere giovani fosse stata una colpa, l’intera popolazione mondiale avrebbe dovuto trovarsi in carcere. Però come poteva dire che la capiva? Lì, dei due, era lei che si stava giocando il tutto e per tutto, e quello che la sconvolgeva era che una parte di lei pensava ne valesse la pena, che lui ne valesse la pena. 

“Avete ragione, però vorrei tanto saperlo anche io un giorno.”

Imma si sentì mancare la terra sotto i piedi e tornò a sedersi. Sapeva benissimo che c’era un “con te” sottinteso da qualche parte in quella frase, glielo dicevano gli occhi blu che aveva difronte, e la sola consapevolezza di ciò porto il suo cuore a stringersi così tanto da fare fisicamente male. Come poteva un ragazzo come Calogiuri sognare una vita come quella con lei? Non si trattava nemmeno tanto di aspetto fisico o di differenza di età, lei era in tutto e per tutto quanto di più distante potesse esserci da lui. Era convinta di non potergli dare nulla di quello che chiedeva, eppure lui la guardava sempre come se non desiderasse altro dalla vita. “Calogiuri…” sussurrò, il tono a metà tra la scusa e la preghiera di non sentire più frasi del genere perché temeva di non farcela. 

“Lo so che non volete sentirlo però è così e non posso farci niente, perché per me da quel giorno nel vostro ufficio non è cambiato niente, anzi sì, perché in quel momento ero confuso, non sapevo bene cosa provavo, non riuscivo a farmene una ragione, ora invece lo so benissimo cosa provo.”

“Non dirlo, Calogiuri, per favore” implorò con la voce ancora ridotta a un sussurro e il cuore che batteva così forte che quasi non sentiva altro.

“Perché no? Tanto lo sapete già.”

“Per favore” ripetè. Se glielo avesse detto lì, su quel divano, in quell’appartamento, guardandola negli occhi, non ci sarebbe più stata possibilità di tornare indietro. Sperava che, confrontandolo, non avesse osato quanto in macchina qualche sera prima, che magari dovendoglielo dire guardandola negli occhi si ricredesse, che capisse che era tutto così tremendamente complicato. Ma era davvero quello che speravi?, le chiese una vocina nella testa. Non speravi invece proprio questo, di arrivare a un punto di non ritorno?

“Io mi sono innamorato di te” sputò fuori lui.

Una lacrima rigò il volto di Imma; ebbe appena il tempo di sentirne il gusto salato sulle labbra che Calogiuri le asciugò con una carezza la scia che aveva lasciato. Istintivamente, si abbandonò a quel tocco, chiudendo gli occhi. Li riaprì solo quando sentì il respiro di Calogiuri farsi sempre più vicino, ne incrociò lo sguardo a pochissimi centimetri dal suo e senza pensarci due volte annullò definitivamente la distanza che li separava. Le mani dell’uno e dell’altra vagavano dal viso al corpo, impedendosi reciprocamente di allontanarsi finché il bisogno di ossigeno glielo permise. Ripresero fiato, fronte contro fronte, le labbra gonfie, le guance arrossate, e poi tornarono a baciarsi. Non esistevano più la procura, il regolamento, il matrimonio di Imma, la relazione di Calogiuri e Jessica, non esistevano il buon senso né la razionalità. Su quel divano erano solo loro due, Imma e Ippazio, coi loro sospiri, il battito accelerato, le dita tremanti che si spingevano ogni momento un po’ oltre, desiderando scoprire ogni centimetro del corpo dell’altro e avendone al tempo stesso una paura maledetta. 

Fu Imma la prima ad osare, si portò a cavalcioni su Calogiuri e gli slacciò la cintura. Lui, per tutta risposta, approfittò del pieno accesso che quella posizione gli offriva sul collo di Imma e iniziò a lasciarvi una scia di baci e morsi su un lato e sull’altro, mentre con le mani le slacciò il reggiseno da sotto il maglione rosso. A quel punto Imma gli tolse il dolcevita, godendosi lo spettacolo che trovò sotto - qualcosa che aveva già intuito ma come al solito con lui la realtà superava la fantasia. Prima di fare altrettanto tornò a baciarlo, perché era decisamente già passato troppo tempo da quando si erano staccati. 

Calogiuri se la sistemò meglio sulle gambe, la gonna che ormai era di molto sopra al ginocchio. Quando Imma si tolse anche la maglia e se la trovò così, a cavalcioni, quasi completamente nuda, con i capelli spettinati, il volto arrossato, le pupille dilatate dal desiderio, pensò che non aveva mai visto niente di più bello in tutta la sua vita. “Mi sembra di non aver mai desiderato altro” le disse, spostandole un riccio da davanti gli occhi. 

Imma gli sorrise e gli baciò il palmo della mano. “Anche a me” rispose prima di baciarlo, questa volta più dolcemente, con meno foga, desiderando di trovarsi per sempre sospesi in quell’attimo, senza tutto quello che li aspettava fuori, senza dover valutare le conseguenze. Impedendo a tutti quei pensieri di farsi spazio nella sua mente, scivolò su un lato e iniziò a sfilargli i pantaloni.

«Con l’ultimo barlume di coscienza, la dottoressa si augurò che anche per lei qualcuno, un giorno, avrebbe chiesto il minimo della pena.»
 

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Eccoci qui! Tre è il numero perfetto e, soprattutto, non sono in grado di reggere una long, scrivo ad attimi, quindi questo è l'ultimo capitolo, e ho rubato le parole di Mariolina Venezia per concludere, perché quelle righe sono LE righe di tutti i suoi libri su Imma. Detto ciò, spero che un pochino vi sia piaciuto il capitolo, e voi continuate a scrivere  su questi due perché ce n'è bisogno e lo fate meravigliosamente! 

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