Le Petit Cygne

di MaikoxMilo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


1

 

 

Camus’s POV

 

 

Ci sono dei libri che riescono a perforarti da dentro.

Dei libri che sembrano stati scritti apposta per te, la tua biografia, come se tu stesso avessi preso in mano la penna e avessi cominciato a scrivere.

Ne ho molti così… essi coprono varie fasi della mia esistenza, la intercorrono, quasi la sublimano, intersecandosi.

Ho sempre amato leggere, quasi fosse un’abilità innata. Ho amato leggere di tutto.

Ma se dovessi scegliere un libro che rispecchi perfettamente la mia vita; un libro in cui la voce di un personaggio sia la stessa mia, sarebbe di sicuro “Le Petit Prince” di Antoine de Saint-Exupéry.

Tuttavia non sono io il protagonista di questo racconto, bensì Hyoga, è lui il Piccolo Principe, io ne sono solo l’aviatore, colui che credeva di insegnargli e che invece ha imparato così tanto da lui.

Da lui, il mio ometto dai capelli color del grano!

Credo di aver letto cinque volte, durante la mia fanciullezza, il libro, senza mai capirlo del tutto pienamente. Ero troppo piccolo, ed ero cresciuto troppo in fretta. Presto me ne dimenticai, quasi ne persi le tracce, finché… proprio come il Piccolo Principe che comparì nel deserto davanti all’aviatore; anche Hyoga piombò nella mia vita, stravolgendola.

Quello fu senza ombra di dubbio l’inizio di tutto, ed è una storia che merita di essere raccontata, perché è intessuta con noi, con me e il mio allievo, tanto da esserne l’ambasciatrice.

Dunque… come l’aviatore, partirò brevemente dal mio principio.

In un tempo che mi pare lontano, anche io ebbi 6 anni e mi trovai, di capocollo, al Santuario, separato dalla mia famiglia, dagli affetti, per volere di altri, senza nemmeno sapere perché. Contrariamente all’autore, non disegnavo boa sia fuori che dentro, ma “i grandi” coloro che erano considerati tali da me, consigliavano vivamente, e sempre maggiormente, di lasciar perdere le cose da “piccoli” per concentrarsi su ciò che contava davvero, perché eravamo designati a grandissime cose, il nostro destino sarebbe apparso più luminoso di qualsiasi altro bimbo, poiché eravamo tra i prescelti per diventare Cavalieri d’Oro e proteggere così la giustizia sulla Terra al fianco della dea Atena.

Fu così che all’età di 5 anni e ¾, appena appena intiepidito dai sentimenti, io rinunziai per sempre alla mia infanzia, gettando indietro le mie uniche certezze in previsione di un futuro che era misterioso ma era decantato più luminoso che mai.

Lasciai le cose per bambini ad altri, volgendomi in avanti, credendomi pronto: io sarei diventato Cavaliere, e un Cavaliere non ha tempo per simili distrazioni, qualcuno doveva farlo, e quel qualcuno non potevo che essere io.

Abbandonai quindi tutto, sforzandomi di maturare e diventare sempre più forte. Diventai in fretta Aquarius, viaggiai, fui iniziato allo Sciamanesimo Siberiano, crebbi a vista d’occhio, sperimentai i miei primi, veri, lutti, per poi ritrovarmi, ancora in giovanissima età, come maestro; maestro di poveri bambini sventurati.

Svetlan…

Lisakki…

Isaac…

Due di loro morirono nel processo di crescita forzata. Il mio, ma anche il loro. Perché essere aspiranti Cavalieri esigeva il sacrifico di qualcosa di grande, di immenso, che tuttavia non si riusciva ad acciuffare ancora a causa della troppa inesperienza; qualcosa che non sarebbe più tornato, che sarebbe scomparso per sempre: l’infanzia, le emozioni, la spensieratezza, lo stesso approccio alla vita…

Mi credevo pronto, non lo ero, e furono loro a pagarne il fio. Irreversibilmente.

Rimase il solo Isaac al mio fianco… io tredicenne, lui di soli sette anni, con la tempesta negli occhi, l’animo audace, la sofferenza di chi doveva costringersi a crescere a stento trattenuta.

A 13 anni si è praticamente ancora dei bambini, degli ometti in miniatura, ed io avevo il compito di far crescere in fretta e furia, strappandogli l’innocenza, un bambino più piccolo di me.

Lo feci comunque, lui mi seguiva con devozione, sforzandosi di stare al mio passo, di perseguire le mie orme senza dimostrare mai la stanchezza. Il sacrificio si ripeteva, ancora e ancora. Sapevo non sarebbe stato giusto, per lui, per me, ma non mi posi il problema se fosse sbagliato o meno: diventare forti era l’unica soluzione, o si era degni o si periva, questo avevo imparato subito.

E Isaac… era ben più che degno!

Ero soddisfatto e fiero di lui, al punto da non desiderare più alcun altro. Dal mio punto di vista, lui era talmente abile e dotato che non sarebbe servito sacrificare nessun’altra esistenza in nome di un ideale aleatorio che ci avevano inculcato in testa per una dea quasi senza nome e mai vista.

Trascorse quindi un anno, prima di ricevere una nuova lettera dal Grande Sacerdote. In quella missiva c’era il preciso ordine di recarmi nella locanda di Pavel, dove mi stava attendendo un nuovo allievo. Ero mal disposto al solo pensiero che avrei dovuto sacrificare la vita di un altro ragazzino, ma, ancora una volta, non mi opposi e, dopo aver raccomandato ad Isaac di rimanere all’isba, ormai la casa di entrambi, mi recai nel luogo in questione.

Ora ti immaginerai che, proprio come il Piccolo Principe, io mi sia trovato questo esserino su per giù a guardarmi dal basso verso l’alto, chiedendomi di disegnare una pecora, ma… non fu così e, del resto, Hyoga non è mai stato un tipo da rompere lui per primo il ghiaccio, né da chiedermi qualcosa. Il nostro incontro, in effetti, fu molto più… a senso unico!

Quando entrai nella locanda e vidi subito questo piccoletto dai capelli color del grano, infagottato nella sua giacca, pesante, certo, ma non abbastanza per i rigori siberiani, intento a dormire sul tavolo per la stanchezza del lungo viaggio cui era stato costretto, qualcosa nel mio cuore sussultò, riconoscendolo istantaneamente come se fosse una mia creatura. Non ne conoscevo ancora il nome, ma… lo sentivo, dentro di me, è difficile da spiegare, ma… lo sentivo, più forte che mai!

“Vedo che avete già individuato subito il nuovo venuto, Maestro dei Ghiacci, assolutamente degno di voi!”

“Pavel… - riconobbi la sua voce prima ancora che il giovane uomo, dai capelli rossicci, entrasse nel mio campo visivo – Cosa mi puoi dire di lui?” indicai il bimbo con un cenno del capo, andando dritto al punto. Non era da me perdere tempo in formalismi.

“E’ restio a parlare di sé, in tutta franchezza non ha spiccicato che poche, semplici, parole per farci capire che aveva sete, fame o sonno – iniziò a spiegarmi, guardandolo tristemente – Pensiamo sia orfano ma non ne abbiamo la certezza, ce lo hanno consegnato su per giù stamattina degli uomini vestiti elegantemente, neanche fosse un fagotto, quasi nessuna spiegazione, e poi si sono dileguati, troppo il freddo e assolutamente inadatto il loro vestiario. Il piccolo dormiva, si è svegliato poco fa per poi crollare di nuovo, il viaggio deve essere stato estenuante!”

Un altro orfano… come Svetlan, come Lisakki, come Isaac… sembra lo facciano apposta a prelevare bambini sfortunati!

Riuscii solo a pensare, scrutando a fondo il suo visetto addormentato, senza lasciar tuttavia trapelare alcuna emozione, prima di tornare sul giovane uomo.

“Altre informazioni?” chiesi, ancora più serio.

“Dai lineamenti sembra russo, anche se ha qualcosa di… non saprei come dire, ancora più orientale?!”

Affinai lo sguardo sul piccolo, effettivamente sembrava un meticcio, la pelle chiara, i capelli biondi, gli occhi un poco più allungati rispetto a quelli di Isaac. Era la prima volta che mi trovavo davanti quel miscuglio di etnie, un poco mi incuriosiva.

“E lui non parla? Non conoscete il suo nome?”

“No… è difficile intrattenere un discorso con lui, come vi abbiamo detto, non parla di sé… non parla proprio, in effetti, ma sembra un bimbo sveglio e intelligente, prima di cedere al sonno faceva costruzioni con i lego. E’ molto abile!”

Annuii comprensivo, avvicinandomi un poco a lui nel rammentarmi che anche io, da piccolo, amavo passare il tempo libero nell’ingegnarmi nel medesimo compito, ma quelle erano cose ormai passate, non aveva senso rinvangarle.

“Puoi… svegliarlo? - chiesi gentilmente al giovane uomo, osservandolo negli occhi – Meglio se sia tu a farlo, visto che ti conosce, anche se solo di vista!”

Pavel compì un cenno di assenso, prima di posare amorevolmente la mano sopra la schiena del piccolo in un modo che io stesso non sarei probabilmente riuscito a fare con uno sconosciuto. Ma, del resto, sapevo che lui e Leya, sua moglie, stavano provando a diventare genitori, erano quindi intrinsecamente portati con i bambini.

Finalmente, dopo alcune pacche tra le scapole, al suo terzo: “coraggio, piccoletto, svegliati!”, il bimbo riaprì gli occhi che si incrociarono con i miei, data la posizione. Subito lo vidi sussultare, forse imbarazzato dall’essersi fatto avvicinare da uno sconosciuto. Guardò intensamente Pavel, come a chiedergli chi fossi, lasciandosi poi rassicurare dalle parole dell’uomo.

“Sarà il tuo maestro da ora in avanti, Camus il Cavaliere d’Oro dell’Acquario e lo Sciamano, colui di cui ti ho parlato e che si prenderà cura di te da ora in poi!” gli spiegò, in tono soffice, non lesinando, ancora una volta, in tenerezze nell’accarezzargli i capelli del colore del grano.

Il piccolo mi fissò, accennando un passo nella mia direzione, prima di torturarsi un poco le mani, a disagio. Io lo fissai a mia volta, un poco rigido nella postura. Passarono alcuni secondi.

“Come ti ha detto Pavel, io mi chiamo Camus e sarai affidato a me da ora in avanti, finché non diventerai abbastanza forte per assurgere al ruolo di Cavaliere del Cigno. Lo sapevi già?”

Lui annuì, sempre muto, anche se al suono della parola ‘Cavaliere’ i suoi occhi si erano fatti brevemente più determinati: bramava quell’armatura per sé, anche se le motivazioni non le conoscevo ancora.

“L’allenamento sarà molto duro, potresti morire, ti hanno informato anche di questo?”

Lui di nuovo fece cenno di sì con la testa, riuscendo finalmente a sorreggere il mio sguardo senza tentennamenti.

“Potresti morire, bimbo, sotto questa bellissima aurora che avrai sicuramente visto prima di entrare nella locanda di Pavel. Ne sei sicuro? Non tornerai più indietro da questa scelta!”

Scrollò la testa come a dire che non era importante, continuando a guardarmi nell’affinare ulteriormente la sua espressione. Mi piacque la sua determinazione, pertanto addolcii la mia espressione, accennando un breve sorriso.

“Ma questo da domani, per il momento… sei infreddolito, che ne dici di venire con me e mangiare una zuppa calda? Non è molto quello che possiamo offrirti, un pasto caldo e un tetto sotto cui ripararti, ma è già qualcosa, per il momento, no?” gli proposi, porgendogli la mano destra.

Lui alle mie parole sgranò gli occhi incredulo, come se gli avessi promesso il più bel giocattolo su questa pianeta. Come ti ho già accennato, non mi chiese di disegnare alcuna pecora, non rispose neppure, in effetti, ma nel nostro breve, brevissimo, dialogo a senso unico, avvertii qualcosa di caldo dentro di me e, forse, anche lui percepì la medesima sensazione.

Non mi disegnò alcuna pecora, allora... ma protrasse la sua mano nella mia direzione, prima di afferrare, con un poco di riluttanza, le mie dita e stringerle tra le sue, esattamente come sto facendo io ora.

Stringi forte questa mano, mio Hyoga, come quel tempo ormai lontano in cui le nostre strade divennero una sola. Io sono qui, al tuo fianco, stavolta non ti lascerò più solo!

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccomi di nuovo qui per un esperimento, l’ennesimo. Stavolta, come è facilmente intuibile, l’ispirazione me l’ha data il Piccolo Principe, uno dei libri preferiti della mia infanzia.

E me l’ha data come, questa ispirazione? Semplicemente rileggendolo per l’ennesima volta, ho avuto come un flash, infatti la figura del Piccolo Principe e del “mio” Hyoga sono molto simili tra loro, così come quella dell’aviatore e del “mio” Camus, e da lì… PUFF, è partito tutto! Mi sono messa in testa di ripercorrere buona parte della storia del Piccolo Principe come quella di Camus e Hyoga, il loro percorso verso la crescita, il fatto che, alla fine dei giochi, sarà molto più il Cigno ad aver insegnato a Camus che non quest’ultimo.

La raccolta farà sicuramente parte dei “missing moments” del primo anno di addestramento di Hyoga (il secondo per Isaac) con una sorpresa in fondo.

Non riuscendo del tutto a scrivere storie completamente slegate dalla mia serie principale a cui sono legatissima, ho attuato questo procedimento, ovvero dei capitoletti accessibili e capibili da tutti che però raffigurano un quadro che sarà presente più in là nella Melodia della neve (la mia terza macro-storia).

Ne potete già individuare alcuni elementi, come il rivolgersi di Camus ad un “tu” e l’ultima frase che racchiude il pensiero del Cavaliere dell’Acquario proprio in quel momento, ovvero quando racconta a questo “tu” generico (che sarà chiarito) il suo primo incontro con il Cigno.

Tutti i capitoletti saranno narrati alla prima persona dal punto di vista di Cam, mi piace molto il suo POV, anche se è difficile renderlo abbastanza in linea con il personaggio XD

Per il primo incontro tra i due, ho optato, piuttosto che scegliere la versione di Kurumada sulla banchisa, presente durante lo scontro di Milo e Hyoga nel volumetto in questione, quella di Okada in Episode G Assassin, anche se ne ho cambiato il luogo. Alcune frasi sono liberamente ispirate proprio a quel momento infatti, come la zuppa e il fatto di morire sotto l’aurora.

Altro da dire? Ah, sì, Leya e Pavel saranno i genitori di Jacob, anche se lui non è ancora nato.

Svetlan e Lisakki invece sono, per me, i primi due allievi di Camus, parlo di loro qua e là nelle mie storie.

La storia si concentrerà sul travagliato rapporto tra Camus e Hyoga, ma anche Isaac avrà una certa importanza, infatti definirò maggiormente perché per l’Acquario il piccolo sia così importante per lui, nonché il legame che si instaurerà tra i due bimbetti.

Dovrei aver detto praticamente tutto, per dubbi, curiosità e altro non esitate a contattarmi, ho sempre molto piacere a scambiare riflessioni con gli altri.

A presto! :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2

 

 

Ci misi un po’ di tempo a capire da dove venisse. In effetti, dovetti impiegare tutto il viaggio per tornare all’isba, per estorcergli anche una sola parola da quella boccuccia corrucciata e sofferente che sembrava non appartenere neppure ad un bimbo.

Hyoga Kido, così si chiamava, non era avvezzo a parlare, né tanto meno a rispondere a domande personali che lo destabilizzavano.

Io soffrivo dello stesso problema.

Ma io avevo 14 anni.

Lui 8.

Quindi colui che dei due doveva tendersi di più verso l’altro ero proprio io, cosa affatto facile per me, figurarsi poi con lui, introverso come me.

Lui, a differenza del Piccolo Principe, non mi poneva alcuna domanda, ero io a dover rompere il ghiaccio, anche se non mi rispondeva quasi mai verbalmente, rendendo così impossibile la partenza di un qualsiasi tipo di dialogo tra noi.

Si limitava a fissare davanti a sé, camminando al mio fianco. La borsa che si portava appresso, fin troppo grande per lui, lo sbilanciava, ma non demordeva, rendendolo così simile, almeno su quel versante, ad Isaac. Aveva il nasino sgocciolante e arrossato, dava colpi di tosse secca che non mi piacevano affatto, perché non era la prima volta che il Santuario, o chi per esso, mi mandava un bimbo già malaticcio e, molto spesso, qualora fossero riusciti ad arrivare, non riuscivano comunque a sfuggire da un destino di morte.

Come Svetlan…

Il pensarlo mi diede una fitta, mentre, recuperando la mia naturale compostezza lo osservavo con attenzione, cercando di capire, concentrandomi sul suo respiro un poco irregolare, quante possibilità potesse avere di resistere almeno una settimana. Nonostante la fatica però -lo avevo ben notato da subito- tratteneva a sé la borsa, come se fosse un tesoro preziosissimo.

“Cosa tieni lì, con così tanta foga?” gli chiesi, sperando che mi potesse rispondere, ma il piccolo, per tutta risposta, arrossendo, guardò altrove, tenendosi ancora più stretta la sacca nella paura che gliela potessi estorcere con una azione violenta -con chi diavolo era stato, fino a quel momento, per avere simili paure?!-

“Va bene se non te la senti di dirmelo, puoi tenerla per te, di certo non te la butterò via… - mi ritrovai ad acconsentire, un poco burbero – Ma mi dovresti almeno spiegare perché un russo, con un cognome giapponese, sia stato portato qui per seguire un addestramento da Cavaliere!”

Ancora non mi rispose. Sbuffai e sospirai insieme, e lui, irrigidendosi, non mi nascose il suo mettersi istintivamente sulla difensiva. Pensai per un istante di delegare tutto ad Isaac, ben più portato di me a comunicare, quando finalmente gli occhioni del bimbo, come carpiti da qualcosa, mi osservarono con un inaspettato interesse, ispezionandomi da cima a fondo.

Mi sentii io stesso destabilizzato da quello sguardo innocente e candido che mi rivolgeva, ma feci di tutto per non darglielo a vedere.

“Tu… vieni da un altro pianeta?! O... dal cielo?!” mi chiese ingenuamente.

Fermai quindi i miei passi, un poco stizzito, sospirando per poi chiudere e riaprire gli occhi.

“Voi...”

“E-eh?!”

“Usa il Voi, sarò il tuo maestro, come ti ho detto alla locanda di Pavel…”

“Oh…”

Lo avevo pungolato intenzionalmente per vedere se avrebbe reagito in maniera forte o temperata, in modo da sondarne il temperamento, ma lui, tirando su con il naso, si limitò a pormi nuovamente la domanda in tono più formale.

“Voi… venite dal cielo?!”

“No, dalla Francia, sono nato là… a Nizza!” risposi in fretta, un poco secco, lasciando cadere il discorso.

La Francia… era vero che mi aveva dato i natali, ma ormai era patria mia non meno che la Germania o la Spagna, con cui non avevo mai avuto nulla da spartire, ormai non avevo più nulla di quel bambino corrucciato e sfuggente che veniva strappato dalle braccia della madre, se non… la mia versione bionda, davanti a me, perché Hyoga sembrava molto affine al mio carattere. Ciò rendeva tutto molto più complesso.

“Un Francese in Russia...” riprese lui dopo un po’, perplesso, infastidendomi mio malgrado.

Era chiaro dovesse essere stranito dal fatto che io fossi lì, non meno di me nel constatare che era Russo ma aveva un cognome giapponese, e che la sua candidatura a Cavaliere mi era, sì, arrivata dal Santuario, ma in maniera del tutto diversa dal solito.

“Ca-mus! - ripeté il mio nome, sbagliando ovviamente accento come ormai ero abituato facessero tutti, dalla Grecia alla Siberia. Vidi distintamente le sillabe del mio nome rimbalzare in quella sua testolina da una parte all’altra, come se dovesse rimuginarci sopra, poi annuì tra sé e sé – Suona strano, ma mi piace!”

“Non deve piacerti, è un nome, un dato di fatto, null’altro...”

“Però suona bene, si può spezzare, come il mio, farebbe così: Hyo-ga, come il t… cioè il vostro Ca-mus! Vedete?”

Suona bene perché sbagli accento, lo dici alla giapponese, con quell’IU finale e prolungato… lo pronunciassi in francese sarebbe tutta un’altra storia!

Mi ritrovai a pensare senza aggiungere nient’altro, se non il suono dei nostri passi nella neve. Tuttavia sembrava quasi che a Hyoga avessi inconsapevolmente schiacciato qualche pulsante di avviamento, perché riprese a parlare.

“Sapete... mia madre mi raccontava che chi ha un colore di capelli così appariscente deve venire dal cielo o… o da un’altra dimensione!”

“E tua madre… dove sarebbe? Sa che sei qui?”

Avevo affinato lo sguardo nel tentare di carpirlo. Di nuovo. Sebbene avessi già intuito che sarebbe stato un argomento dolente. Qualcosa nel suo tono non mi era piaciuto, fino a diventare certezza, perché, proprio in quel momento, lui guardò altrove, una vena di malinconia gli attraversò gli occhi per poi diffondersi a tutto il corpo.

Capii immediatamente che quello, molto più della sua apparente fragile costituzione, lo avrebbe ucciso. Faticò a continuare ma non si arrese, sembrava che alcuni argomenti lo facessero intestardire più di altri, lo compresi già da quel breve dialogo. La madre era di certo uno di quelli.

“Non importa… la mamma mi ha raccontato tante, tantissime, cose, ed io pensavo che, oltre il mare, lo avrei incontrato, lo immaginavo con i capelli come… come i vostri!”

“Chi, Hyoga?! Di chi stai parlando?”

Ma lui scosse il capo, gli occhi lucidi, sul punto di piangere, come a dire che non era importante. A quel punto, quasi meccanicamente, mi ritrovai ad asciugargliele quelle lacrime, prima che esse scivolassero lungo le sue guance pallide. Nonostante mi indisponessero, nonostante le considerassi sinonimo di debolezza, la mia mano si era protratta comunque nella sua direzione, annullando così la distanza fisica tra noi.

Ancora non sapevo bene. Tuttavia ero già in grado di riconoscere la manifestazione di un rimpianto.

Rimorsi, malinconie varie, ricordi che sfociano in pianto… avrebbe dovuto imparare a scacciarle via il prima possibile, altrimenti lo avrebbero schiacciato: era la Legge della Siberia, era la legge stessa del Mondo!

“Queste… sono le ultime che devi versare! - gli dissi, severo, inginocchiandomi davanti a lui per indurire, senza tuttavia eccedere, la mia espressione – Intesi?”

Inaspettatamente però, il mio cenno, sembrava averlo sconvolto. Mi fissava sorpreso, quasi emozionato, come se non si ricordasse cosa volesse dire essere accarezzato, essere confortato… era così disabituato a ricevere anche solo il più piccolo gesto di affetto, per reagire così?! Non era mai… stato sfiorato in quel modo, se non da sua madre?!

“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”

Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.

“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.

Imparai dopo, forse tardi, a mie spese, che ‘dritto davanti a sé’ era davvero sin troppo limitato, ma in quel momento la frase non mi scalfi', la feci passare in sordina, relegandola ad una consapevolezza infantile che io dovevo necessariamente levargli, ma a tempo debito, con calma, come l’acqua che lavorava la roccia senza fretta, certa di vincere la sua battaglia grazie all’azione del tempo, suo compagno.

Non parlammo più per tutto il tragitto verso la casetta che condividevo da un anno con Isaac. Quando la raggiungemmo, diedi indicazioni a Hyoga di rimanere un attimo fuori, entrai e chiamai a gran voce l’altro mio allievo, ottenendo come risposta solo un silenzio assordante, che ormai non riuscivo più a riconoscere come parte integrante di quel luogo, visto che era stato spazzato via dalla vivacità del piccolo, vera e propria linfa vitale per me.

Non trovandolo quindi nell’immediato, giacché, quando rincasavo, era solito fiondarsi a salutarmi, entrai istintivamente in cucina, dove vidi una letterina. Era stata scritta proprio da lui, a caratteri ancora un poco tremolanti ma chiari, mi informava che era andato ad allenarsi da solo nel solito posto non molto distante dall’isba, perché in casa non ce la faceva più ad aspettare per l’emozione di conoscere il bimbo nuovo.

Sorrisi automaticamente, riponendo il foglietto nella tasca dei pantaloni, prima di uscire nuovamente dall’isba, prendere la mano di Hyoga, che era rimasto giudiziosamente fermo ad aspettarmi, e incamminarci verso la zona indicata. Durante quel breve tratto, gli accennai dell’altro mio allievo, di dove si trovasse, e che sarebbero stati compagni di addestramento, lui annuì comprensivo, anche se si era un poco irrigidito, forse agitato all’idea di avere a che fare con un coetaneo. Non ci conoscevano che da una manciata di ore, ma credevo di averlo già ampiamente inteso: era timido e docile, a tratti apparentemente remissivo, tutto il contrario di Isaac, che sembrava già possedere l’’attitudine da leader e un carattere molto forte, malgrado la giovane età. Due tipologie di bimbi quasi opposti, mi dissi mentalmente, chiedendomi altresì se avessero potuto amalgamarsi bene tra loro.

Arrivammo nel luogo in questione, tra i ghiacci splendenti della banchisa e, da distante, vidi subito il mio ometto intento a sferrare pugni all’aria, muovendosi con agilità da una parte all’altra per mantenere il corpo attivo e resistere al freddo spietato della Cukotka di fine febbraio. Notai che non aveva indossato alcuna giacchetta, probabilmente desideroso di farmi vedere i suoi ulteriori progressi in quell’ambito.

Mi ritrovai a sorridere di nuovo, il cuore ricolmo di orgoglio per lui, per ciò che si stava sforzando di diventare senza lasciarsi abbattere dall’ombra di un passato che, ne ero consapevole, ancora era marchiato a fuoco nel suo animo intrepido come piaga insanabile. Era esattamente così che gli avevo insegnato a fare, e lui, come sempre, perseguiva le mie direttive con solerzia, desideroso di essere alla mia altezza.

Lasciai la mano di Hyoga per avvicinarmi lentamente a lui senza manifestare però il mio cosmo, sospingendo al contempo, il più delicatamente possibile, il mio nuovo allievo, che, in un attimo di incertezza, sembrava quasi volersi ritrarre. Solamente quando fui abbastanza vicino lo chiamai per nome.

“Isaac...”

Lui riconobbe subito la mia voce, si girò nella mia direzione, regalandomi un largo sorriso: “Maestro!” mi chiamò, buttandosi a capofitto verso di me.

Per un istante ebbi il timore che si volesse fiondare per davvero tra le mie braccia per stringermi a sé. Per sua natura, lo faceva spesso, era molto affettuoso ed espansivo, ma gli avevo vietato di farlo, perché non era un comportamento idoneo per un futuro Cavaliere dei Ghiacci che avrebbe dovuto mantenersi sempre solenne e composto.

Per quel lungo attimo di corsa sfrenata in cui lui sembrava aver bandito tutte le mie direttive, temetti davvero di trovarmelo addosso, con Hyoga che invece costantemente cercava di indietreggiare, incerto, ma fortunatamente il mio piccolo lupetto si arrestò prima, a debita distanza, sorridendomi in attesa delle presentazioni.

Annuii, regalandogli un’occhiata mista di affetto e orgoglio, indicativa di quanto avesse fatto bene a non balzarmi addosso, ancora di più con il nuovo venuto così a disagio.

“Isaac, lui è Hyoga, come ti avevo già accennato, da oggi si allenerà con te per diventare un Cavaliere!”

“Ho capito, Maestro Camus...” mi rispose, pronto, prima di concentrarsi su di lui, guardandolo con attenzione, prima di continuare.

“Io mi chiamo Isaac… piacere, Hyoga, e benvenuto in Siberia, mio… compagno e avversario!” si presentò porgendogli la mano con naturalezza.

Vidi Hyoga ritrarsi ulteriormente a quelle parole, anziché ricambiare la stretta, non sapeva bene cosa fare, tentennava, i modi troppo diretti di Isaac lo avevano messo a disagio. Lo sospinsi quindi delicatamente in avanti, addolcendo la mia espressione e annuendo come ad indicargli che non correva il minimo pericolo con lui. Il piccolo mi guardò un poco negli occhi, poi, forse rassicurato da qualcosa, compì qualche passo traballante, ricambiando goffamente il gesto, sebbene le sue dita strinsero appena la presa.

“P-piacere mio...”

“Ah, ma che c’è, hai paura di me? - chiese Isaac, prima di alleggerire ulteriormente il tono per tentare di metterlo a suo agio – Dovresti temere di più il freddo di questi luoghi e l’addestramento, che sarà durissimo!”

… ovviamente a suo modo, visto che, alle sue parole, la prima reazione del bimbo biondo fu quella di sussultare e indietreggiare di un passo.

“DAVVERO?!”

Malgrado lo avessi già informato alla locanda, della pericolosità dell’addestramento, Hyoga parve rizzarsi ulteriormente, timoroso, forse non aspettandosi la stessa dichiarazione da quello che, da lì in avanti, avrebbe dovuto essere un suo compagno. Mi sentii in dovere di intervenire.

“Su, Isaac, non spaventarlo, è appena agli inizi!”

A quel punto lui si voltò nell’altra direzione, mettendosi le mani dietro la testa per assumere a sua volta un’espressione da perfetto maestrino.

“Devo farlo, perché si abitui fin dal principio, non voglio che pensi alla fuga come capita a me… - sciolinò prima di riscuotersi e tapparsi la bocca con espressione burlesca – Uh! Mi è scappato!”

Risi a quella frase, e lui con me, si aggiunse anche Hyoga, che, proprio grazie a quella confessione, sembrò essersi messo quasi del tutto a suo agio, capendo di trovarsi, sì, in un ambiente climaticamente ostile, ma in mezzo a persone che potevano dirsi normali, o almeno più normali di quelli che, da quanto avevo intuito osservando le sue reazioni, lo avevano avuto in carica fino a quel momento.

Isaac, non visto, mi fece l’occhiolino, io mi ritrovai a sorridergli, nuovamente grato. Sapevo bene che il mio soldo di cacio non aveva mai nemmeno pensato di tentare la fuga, né di allontanarsi, complice anche ciò che era successo allo sventurato Lisakki, ma compresi perfettamente che aveva fatto quella battuta per tentare di scacciare il nervosismo del suo nuovo compagno di addestramento. E ci era riuscito, come solo lui sapeva fare.

Era sempre stato così il mio Isaac, forte, coraggioso e determinato, sveglio sopra ogni dire, era il mio sostegno, più di quanto, forse, sono stato capace di essere io per lui...

“Comunque… - riprese in mano il discorso poco dopo, facendosi serio – Quelli che vengono in Siberia dell’Est non riescono davvero a sopportare i duri allenamenti, sparendo quasi subito...”

Non approfondì ulteriormente quel discorso, né permise alla tristezza di lambirlo spietatamente, sebbene una luce malinconica, che ben conoscevo, baluginò nei suoi occhi nel ripensare a Lisakki. Sapevo bene che si stava riferendo al suo compagno deceduto, d’altronde la sua perdita aveva colpito duramente sia me che lui, non avremmo mai potuto dimenticarlo, solo… andare avanti, e Isaac, ancora una volta, stava eseguendo quel difficile compito in maniera splendida.

“E’ da quasi un anno che mi alleno da solo col Maestro Camus e ci sentivamo un po’ soli… per cui resisti almeno per due o tre giorni, Hyoga, ok?”

Resistere… li guardai un poco amareggiato. Stavano provando a parlare tra loro senza particolari imbarazzi, sebbene quest’ultimo fosse molto più marcato nel nuovo arrivato che non in Isaac.

Ero perfettamente consapevole che il mio lupetto si sentisse solo, come già ti avevo detto prima, lui non aveva che me, ma io ero più grande di lui e non sul suo stesso livello, essendo il suo maestro, ragione per cui aveva un forte bisogno di avere un altro bambino al suo fianco, dopo il trauma Lisakki. Ero quindi felice che anche Hyoga fosse arrivato tra noi ma, allo stesso tempo, mi chiedevo quanti sacrifici sarebbero ancora serviti per placare la sete di giustizia di una dea che io dovevo venerare sopra ogni cosa ma che, a conti fatti, non avevo ancora conosciuto e non sapevo che forma avesse. Ne conoscevo solo l’intermediario, il Grande Sacerdote, che però era diventato così diverso da colui che mi aveva portato al Santuario, non riuscivo più a riconoscerlo, né ad accostarlo a quella figura evanescente, austera ma giusta, delle mie memorie. Sapevo solo che dovevo seguire i suoi ordini, che molto spesso richiedevano di addestrare dei bambini in età scolare. I tributi, per l’appunto!

Bambini di non più di 7/8 anni… che io dovevo allenare per far diventare forti e conquistare una pesante corazza che avrebbe rivestito i loro corpi ancora imberbi e che, probabilmente, gli avrebbe strappato la vita anzitempo, perché questo era il destino dei guerrieri della dea. A quello si aggiungeva che l’armatura comunque era solo una; solo uno di loro si sarebbe rivelato degno, quale quindi il destino dell’altro? Purtroppo lo sapevo già… proprio per questo cercavo di non pensarci, non in quel momento, ma quel qualcosa dentro di me, quel dubbio velato che io, come Cavaliere, non avrei MAI dovuto provare, mi mordeva e attanagliava la coscienza. Era giusto quello che stavo facendo?! Ero… dalla parte corretta?

“...Ho ragione, vero, Maestro?”

Quasi sussultai nel rendermi conto che i due bambini mi stavano entrambi osservando in trepidante attesa, come se si aspettassero qualcosa da me.

Mio malgrado, mi trovarono impreparato.

“Co-cosa?”

“Oh, non preoccuparti nemmeno di questo, Hyoga – lo rassicurò Isaac, solare – Anche questo è perfettamente normale, ogni tanto il Maestro si perde nelle sue congetture e non ritorna più a terra per un po’, però poi si riprende e...”

“ISAAC!”

“O-ops, mi è scappato anche questo! - ancora si tappò la bocca, ridacchiando rumorosamente tra sé e sé, seguito a breve distanza da Hyoga, sempre più a suo agio in quel siparietto – Stavo assicurando a Hyoga che voi fate le minestre più buone del mondo, saporite, un poco saline, vanno dritte in pancia e danno un calore piacevole!” disse, massaggiandosi il ventre con soddisfazione, come ad indicarmi che aveva anche un certo languorino e che non aspettava altro che le mie direttive per tornare all’isba e mangiare.

Effettivamente le poche ore di luce a disposizione stavano volgendo al termine e con esse la fine della giornata. Non c’era poi molto da fare, quel giorno, se non far conoscere al nuovo arrivato l’ambiente e alla casa.

“Benissimo, Isaac, visto che ti trovi molto a tuo agio nel ruolo di guru, che ne diresti di accompagnare Hyoga a fare il giro dell’isba mentre io preparo la minestra che tu sostieni essere così buona?!” gli chiesi, riprendendo in mano il discorso, che non era da me farmi trovare così impreparato in un dialogo.

“ASSOLUTAMENTE, Maestro!” trillò lui, vivace, tamburellando i piedi nel mettersi, con orgoglio, a capo del terzetto per aprire così la strada verso casa. Io glielo permisi, rimanendo dietro con Hyoga che, anche se ancora un poco titubante, sembrava prendere terreno passo per passo.

“Hyoga… come ti ha già accennato Isaac, il luogo che stai per visitare potrai considerarlo casa, almeno finché non sarai abbastanza abile da ottenere l’obiettivo che ti sei prefissato: l’armatura del Cigno”

“Ca-casa?” ripeté il bimbo, osservandomi quasi spaesato.

“Sì, è la nostra casa! - annuì Isaac, allegro come suo solito, prima di affinare lo sguardo, caparbio – Ma per l’armatura dovrai vedertela con me, perché anche io la bramo!”

“Oh...” Hyoga sembrava sfiduciato, abbassò conseguentemente lo sguardo.

“Ora non correre troppo, soldo di cacio, c’è tempo per quello!” gli rimproverai la troppa grinta, che anche se ben riposta e adoperata allo scopo anche di incentivare lo spirito combattivo di Hyoga, sembrava invece averlo scoraggiato nel profondo.

“Dovremo… combattere?” si chiese infatti Hyoga, incerto. Non sembrava affatto possedere l’attitudine agonistica di Isaac, anche quello sarebbe stato da correggere, lavorandoci su con impegno e costanza.

“Ora non ci pensare! - gli consigliai, in tono un poco più morbido – Per il momento questa è la tua casa, nient’altro. Dai tempo al tempo, non c’è fretta, Hyoga!”

“La mia… casa!” si ripeté il piccolo, un poco scettico, cercando di convincersi su quella frase. Di nuovo si chiuse a riccio per tutto il tragitto di ritorno, di nuovo ebbi la sensazione che mi scivolasse via, che fosse impossibile da acciuffare. Pregai, dentro di me, che la mia prima impressione fosse fallace.

Non potevo saperlo allora, che la sua casa era già da un’altra parte, sotto metri e metri d’acqua e che volesse raggiungerla ad ogni costo, per tornare nel nido che gli era stato strappato. Avrei tanto voluto che lo sentisse, che percepisse che la sua casa, da quel momento in avanti, sarebbe stata al nostro fianco, che poteva quindi lasciare il passato al passato e ricominciare, come già era stato capace di fare Isaac. In fondo, se c’era riuscito lui, perché non Hyoga?!

Ma, come ben sai… ho fallito… non sono riuscito a farlo sentire come parte di noi, ho lasciato che mi sfuggisse dalle mani, che mi scivolasse via, non gli… non sono riuscito a tenergli la mano, a proteggerlo, come non l’ho fatto con Isaac, come non lo riesco mai a fare con voi.

Ho fallito… e le condizioni disperate in cui versa in questo momento, lo dimostrano, piccola mia!

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci al secondo capitolo di questa storiella, ispirato, in larga parte, al terzo capitoletto del Piccolo Principe. La frase sull’andare “dritto davanti a sé”, leggibile anche nella presentazione, è presa proprio da qui.

Dunque… un capitolo di presentazioni in cui Hyoga e Isaac si conoscono. Lo avrete sicuramente notato, ma i dialoghi sono presi sia dal manga che dall’anime, anche se in quest’ultimo vi è ovviamente il Maestro dei Ghiacci al posto di Camus. Ho fatto una specie di mash-up, aggiungendoci anche qualcosa di mio, spero possa piacere.

La diatriba sul nome Camus e sulla difficoltà di pronunciarlo, mi è sorta con naturalezza. Mi capita spesso di rivedere l’opera originale in lingua madre (ovviamente con i sub Ita) e, alla giapponese, il nome Camus si scrive, con i loro caratteri, in qualcosa che è simile a questo: “Kamyu” con evidente pronuncia e prolungamento dell’IU, come dice lo stesso Cam. In lingua francese però il cognome Camus (che io uso però come nome proprio) si dovrebbe pronunciare in qualcosa di simile a questo: “Camu” (purtroppo non saprei mettere l’accento ma comunque senza la “I”) Tra le due pronunce, io sono abituata (e mi piace di più) quella giapponese ( non ammazzatemi, questione di orecchio XD) nella mia testa infatti tutti, dalla Russia alla Grecia, lo chiamano così e quindi ho voluto inserire questo buffo scambio di battute tra i due, visto che Hyoga è comunque per metà giapponese e quindi me lo immagino a chiamarlo così. :)

Anche verso la fine di questo capitolo viene rivelato qualcosa di nuovo, che sta accadendo nel tempo presente, prima di tutto chi sia il “tu” al quale Camus sta raccontando la storia (chi segue la mia serie principale riconoscerà di certo il vezzeggiativo), e in second’ordine che le condizioni di Hyoga non sono buone, anche se non si conosce la ragione.

Ovviamente il tutto verrà rivelato alla fine, così come l’allacciamento futuro con “La melodia della neve” ;)

Al solito ringrazio chi mi segue, chi recensisce, chi ha messo la storia tra le seguite e via dicendo. Ricordatevi che mi piace sempre molto interagire con voi! :)

Dovrebbe seguire, non in tempi lunghissimi, un aggiornamento alla fic dei 5 Pilastri. Buona serata a tutti e alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3

 

 

Conobbi a poco a poco la malinconia che quel piccolo, fragile, esserino, si portava dietro. Essa avvenne per intuizione, analogia, tentativi ed errori.

Hyoga era restio a parlarne, ancora di più dopo avermi rivelato, pochi giorni dopo il nostro primo incontro, il motivo per cui desiderava diventare Cavaliere e aver riscontrato, da parte mia, la più concreta disapprovazione.

“Morirai...”

Avevo affermato, secco, senza mezzi termini. Lui si era rizzato, aveva indurito a sua volta l’espressione, guardandomi torvo. E sapevo che aveva capito, era un bambino intelligente, ma che non mi avrebbe mai ascoltato, che per togliergli quell’ossessione avrei dovuto faticare parecchio, premere, scavare a fondo, diventare spietato all’occorrenza, perché le sue erano speranze di morte, non certo di vita e quelle, solo quelle, lo avrebbero distrutto, cancellato, ed io non potevo accettarlo.

Da quel momento si era stabilito un tacito accordo, tra noi, di non rimarcare quel discorso. Nella fattispecie, per Hyoga, quello voleva dire altresì non parlarmi più affatto di sé stesso.

Proprio per quel motivo, era raro che il suo vissuto antecedente trasparisse, se non per mezze frasi o soliloqui tra sé e sé -aveva la buffa abitudine di parlare da solo, forse perché abituato a non avere nessuno su cui contare!- in ogni caso, le mie ulteriori domande, i miei tentativi di farlo aprire, perché desideravo conoscere il mio discepolo, non ottenevano risposta, se non raramente.

Fortunatamente invece il rapporto tra lui e Isaac aveva da subito imbroccato la giusta via. Isaac, del resto, era sempre stato una macchinetta frenetica dispensatrice di parole, asserzioni e discorsi, impossibile non avere argomenti con lui. Già poco dopo il nostro incontro, dopo l’iniziale timidezza, aveva iniziato a parlarmi a raffica, riempiendomi di domande su domande, parlando di sé stesso, della sua vita, a sua volta vessata da un trauma atroce che, tuttavia, al contrario di Hyoga, sembrava sulla buona strada per superare, approcciandosi al futuro, invece che al passato; alla vita, anziché alla morte, come io gli avevo insegnato a fare fin da subito.

I due bambini, pur nella loro diversità, andavano perfettamente d’accordo, si miscelavano in maniera splendida, appianando i loro rispettivi difetti con l’altro, sostenendosi, sempre e comunque, come due fratellini. Io ero davvero felice di quel traguardo, già raggiunto pochi giorni dopo la loro conoscenza.

Isaac, te l’ho già detto, dopo la perdita dei suoi genitori, dopo quella di Lisakki, non aveva avuto altri che me, che tuttavia non ero della sua età. Non poteva quindi esprimersi come voleva, non eravamo sullo stesso piano e lo sapevamo entrambi, sebbene il rapporto tra noi diventasse sempre più profondo di giorno in giorno. Avevo quindi temuto che si potesse sentire solo; da solo con me in Siberia a seguire degli addestramenti che, nonostante la sua straordinaria attitudine, risultavano spossanti per un soldo di cacio di appena 8 anni e pochi giorni.

Ma Hyoga era arrivato da noi, come Aurora Boreale inaspettata, come sole tra le nuvole, come germoglio tra la neve, ed Isaac era entusiasta di quella situazione.

Sapevo bene che ne avrebbe tratto giovamento, che un altro bambino, più riflessivo, lo avrebbe aiutato oltre che sul piano relazionale, anche come sprono a fare di meglio, quindi competitivamente.

Speravo che per Hyoga potesse essere lo stesso, che il fatto di vivere insieme a noi lo aiutasse a superare a sua volta il trauma che lo aveva segnato, ma lui, a differenza di Isaac, non sembrava affatto interessato alla questione, né a fare di meglio, di più. Niente. Aveva accolto una particolare dipendenza verso l’allievo più maturo, il fatto non sembrava pesargli affatto, come se fosse già assodato e non un qualcosa ancora da stabilire: aveva accettato la sua posizione di presunta inferiorità senza protestare, relegandosi ad una posizione di comprimario. Questo invece non mi piaceva per niente.

Non sapevo però come trattare l’argomento con lui, il suo mondo mi era oscuro e misterioso, inaccessibile, metteva quasi in soggezione, proprio me, che mi dicevo maturo abbastanza per capire, nonostante la mia giovane età.

Un giorno di marzo, era trascorso circa un mesetto dall’arrivo di Hyoga, ero affaccendato nelle incombenze domestiche dell’isba, avevo quindi lasciato i miei ragazzi ad allenarsi nella steppa sotto le direttive di Isaac, ritagliandomi così un po’ di tempo tra me e me; tempo che tuttavia persi nel rinchiudermi nei miei pensieri e nel mio vissuto antico -marzo è sempre stato un mese piuttosto malinconico per me, non credo debba spiegarti perché, piccola mia...- reputavo i due bimbi abbastanza attrezzati per passare un paio di ore in solitudine in Siberia, soprattutto avevo fiducia in Isaac, che ben si destreggiava in quell’ambiente. Dovevo assolutamente insegnare a Hyoga, il prima possibile, la dura vita della Siberia, e così del mondo, e contavo così sul mio ometto per farlo.

Così, come ti dicevo, li avevo lasciati senza la mia sorveglianza, raccomandandomi di tornare prima del calare del sole. Io mi sarei occupato della gestione dell’isba, che con due bambini al seguito, e non più uno, si era fatta più disordinata e sporca anche se maggiormente viva. Avevo da poco finito di pulire, stavo giusto ravvivando il fuoco nel camino con il pellets, quando Isaac entrò nella casetta, togliendosi la neve di dosso.

“Certo che si è messo un vento… si sta preparando proprio una bella tempesta, Maestro, esattamente come ci avevate detto!” asserì, a mo’ di saluto, elettrizzato come sempre che le mie previsioni sembravano avverarsi con precisione. Mi ero infatti raccomandato di tornare prima del calare del sole proprio perché sentivo che sarebbe arrivata una brutta bufera, di quella subdole, tipiche della fine dell’inverno.

Alzai quindi lo sguardo verso di lui per contraccambiare il sorriso. Lo guardai. Lui mi guardò. Qualcosa nella mia espressione mutò, il cambio di sguardo gli arrivò istantaneamente dritto al cuore, facendolo sussultare spaventato e, con ogni probabilità, portandolo a domandarsi cosa avesse combinato quella volta.

Un nodo mi si strinse al petto con foga nel constatare che era solo quando non avrebbe dovuto esserlo.

“Isaac, dov’è Hyoga?!” esclamai, lasciando trasparire fin troppo la mia preoccupazione.

“Io… Maestro, lui mi ha detto che sarebbe rincasato prima e… - si guardò febbrilmente intorno, accorgendosi che non c’era da nessuna parte – pensavo fosse già arrivato!”

“Sciocco! - lo sgridai, con un pizzico di brutalità, avvicinandomi impetuosamente a lui, mentre si faceva piccolo piccolo e indietreggiava – E tu lo hai lasciato andare senza opporti?!”

“M-ma mi aveva detto che ricordava la strada di casa d-da solo!”

“Sciocco due volte, allora! Ma ti rendi conto che… CHE!!! - mi sforzai di ricompormi, facendo respiri lunghi e profondi. Mi stavo agitando troppo e lo stavo erroneamente dimostrando, a lui, al mio discepolo che stavo addestrando a mantenere invece la calma in qualunque circostanza. Lasciai che il mio respiro mi gonfiasse, e poi sgonfiasse, il petto in maniera più naturale, recuperando il controllo prima di proseguire – Isaac, devi cercare di capire che lui non si ritrova ancora molto in questo luogo, non è… non riesce ad essere perfettamente stabile, come invece siamo io e te, per questo ti avevo chiesto di darci un occhio in più!”

Isaac mi guardò con gli occhi lucidi e percettivi. Aveva compreso il mio rimprovero, ma più ancora sembrava deluso dal non essere stato all’altezza delle mie aspettative. Tirò su con il naso, ma non pianse, mordendosi il labbro inferiore.

“I-io, l-lo so, Maestro… sigh – gli era comunque sfuggito un singhiozzo, poi celato subito – S-siamo stati insieme per tutto il tempo, ma poi lui ha guardato tristemente il cielo, ci ha visto qualcosa, forse… e mi ha detto che si sarebbe recato qui prima di me. I-io… pensavo sarebbe rincasato subito!”

“Qui non è mai arrivato, Isaac...”

“L-lo so, ma… mi sono fidato! Maestro, io non volevo, ero convinto che...

“Va bene. Ora però sforzarti di ricordare se hai visto qualcosa, nelle sue azioni, nelle sue movenze, o in base alle sue parole, che ci possa aiutare a stabilire dove sia andato. Tra poco farà molto freddo, e lui… lui non è ancora in grado di sopportarlo, dobbiamo sbrigarci!”

Sapevo fosse una domanda difficile, che un bambino, per quanto naturalizzato da più di un anno in Siberia, non potesse avere ancora grandi punti di riferimento, ma lo vidi comunque rimuginarci su, sforzandosi nel rammentare. Improvvisamente si illuminò, aprendo la bocca con fare sorpreso.

“Parlava di voler vedere il tramonto! Io gli ho detto che verso la parete di ghiaccio eterno poteva farlo, lui si è fatto tutto interessato, mi ha chiesto dove fosse, io glielo ho detto, ma poi siamo tornati ad allenarci ancora ed è caduto il discorso”esclamò, sbattendo il pungo destro contro il palmo della mano sinistra.

Dov’è contenuta l’armatura del Cigno…

Realizzai, facendomi ancora più serio. Il piccolo non poteva saperlo che proprio lì vi era racchiusa, eppure, a detta di Isaac, si era recato proprio in quel luogo per… un semplice tramonto?! Ma cosa aveva nel cervello?!?

“Pensi dunque si sia recato laggiù?” chiesi conferma, ancora più serio.

“Sì, senza alcun dubbio!”

Non c’era comunque un istante da perdere. A marzo le giornate, nella Chukotka, sono ancora brevi, brevissime, e spietate. Al primo calare del sole, se non accuratamente attrezzati, si può già morire di ipotermia, e la neve ricopre subito le povere spoglie del defunto.

Anche quello lo avevo scoperto per esperienza diretta...

Mi morsi il labbro inferiore, ricordandomi che presto sarebbe giunta anche una tempesta di neve: dovevo recuperarlo al più presto!

“Isaac, tu...” feci per parlare al bambino, raccomandandomi di stare al sicuro in casa, ma era scomparso, come volatilizzato.

Non ebbi comunque il tempo di chiedermi nient’altro che me lo vidi sbucare dall’ingresso, tutto agghindato con gli scarponi, la giacca al contrario, il cappello alla rinfusa, una torcia tra le mani e una sciarpa che pendeva al suo collo.

“Isaac, ma cosa…?” non trattenni un mormorio divertito, nel vedermelo così, ma lo nascosi dietro alla mia solita espressione composta.

“Vi aiuterò a cercarlo, in due lo ritroveremo prima!” stabilì, pronto, gli occhi luminosi che si imprimevano nei miei.

Mi abbandonai ad un leggero sorriso davanti a quella manifestazione propositiva e sin troppo coraggiosa. Il bagliore nelle iridi di Isaac era sempre stato sacro per me, dalla prima volta che i nostri sguardi si erano soffermati reciprocamente su quelli dell’altro. Il mio ometto era intraprendente sopra ogni dire, persino temerario in certi frangenti, ma non lo avrei coinvolto in problemi miei, non più. Non dopo Lisakki, non dopo aver rischiato di perdere anche lui.

“No, soldo di calcio...” addolcii anche la mia espressione.

“E’ stata colpa mia! Lasciate che vi...”

Ma la mano che gli posai sulla testa, carezzandogli la chioma verde, un poco irsuta, lo bloccò, facendolo arrossire di netto.

“E’ compito mio, questo! Tu occupati di mantenere la casa sufficientemente calda, va bene?”

“Ma io...”

“Conta su di me, intesi? Non… succederà più, non perderai un altro compagno!”

Isaac esitò un attimo, tremò appena, poi, come una mina vagante che trova finalmente il suo obiettivo, si intrufolò tra le mie braccia, in grembo, stringendomi i fianchi in una manifestazione affettuosa che gli avevo consigliato di limitare il più possibile, ma che in quel momento, stante la situazione sempre sul filo del rasoio, aveva urgenza di espletare.

Mi immobilizzai, affatto abituato alle effusioni, il mio cuore però accelerò i suoi battiti.

“Isaac… sai che non dovresti!” bastò il mio tono per rimproverargli l’improvvisa debolezza e farlo allontanare, sebbene la mia espressione fosse ancora addolcita e provassi calore nel petto al suo abbraccio.

“In presenza di Hyoga, sì...” tentò di scusarsi lui, maldestro, grattandosi la testa.

“No, sempre, soldo di cacio, è debolezza e...”

“...E la debolezza mostra la nostra fragilità, permettendo così agli altri di trovare il varco per ferirci, lo so!” ripeté lui, sospirando.

“Sei molto agitato, lo capisco, ma… non sei forse un piccolo guerriero dei ghiacci?” gli sorrisi, chinandomi verso di lui per poi dargli un leggero, leggerissimo, buffetto sulla guancia di sinistra.

Lui alle mie parole si ringalluzzì tutto, fiero, gli occhi sempre più brillanti, la bocca aperta in un sorriso trasognato. Gonfiò trepidante il petto.

“Sì, lo sono!”

“E allora, da guerriero a guerriero, lascia a me questa missione, te lo riporterò vivo e intatto, non permetterò più che si ripeta il fatto Lisakki… riesci a darmi fiducia su questo, Isaac?” gli chiesi, raddrizzandomi, prima di prendere la giacca, e dargli le spalle. Mi girai poi un poco verso di lui, notando la sua espressione sofferente per un breve istante. Ma si riprese subito il mio coraggiosissimo Isaac, si riprendeva sempre, perché era un bambino forte ed io ero orgoglioso di lui.

“Certo, Maestro, io ho fiducia assoluta in voi!”

Gli sorrisi un’ultima volta, poi uscii quasi correndo per la preoccupazione sempre più manifesta in me e che non potevo certo dimostrargli. Sentivo questa strana dissonanza in me, un peso sul cuore, una paura quasi atavica che tentavo in ogni modo di riportare sotto il controllo della ragione.

Mi ero preparato al peggio, la Siberia mi aveva insegnato ben presto che si perde tutto nella vita, fino a restare soli, ma non avrei più permesso, CATEGORICAMENTE, che un altro allievo potesse fare la fine di Svetlan o Lisakki, o degli altri che avevano tentato di arrivare in questa terra inospitale, morendo nel tragitto. Di loro non mi era rimasto nemmeno il nome, solo un corpicino raggrinzito sepolto dal ghiaccio crudele, nebbia bianca che li aveva raggiunti, lambiti, congelandogli il respiro, irrigidendo le loro membra fino a far scomparire la loro parvenza umana.

Così, sempre così… nel mio addestramento per diventare Sciamano, così come in quel momento in cui io stesso ero un maestro. Scacciai quei pensieri, ripetendomi che non avrei più permesso nulla di simile, mai più.

Fortunatamente, in barba alle mie preoccupazioni, trovai subito Hyoga. Lo trovai vivo, sebbene infreddolito, intento inspiegabilmente a tentare di scalare la montagna del ghiaccio eterno.

Mi dava le spalle, incaponendosi testardamente a salire il picco ghiacciato con le sue solo forze, che non gli sarebbero certo bastate, ma lui continuava, determinato. La ragione era un mistero ma, per un istante, ammirai la sua cocciutaggine.

Sospirai, accorgendomi che i muscoli, tutti, si erano notevolmente rilassati nel trovarmelo in buone condizioni. Il mio primo istinto fu comunque quello di suonargliele per bene, ma una tale reazione mal si conciliava con il mio essere insegnante; ero il suo maestro, in effetti, non certo suo padre, la reazione sarebbe stata sproporzionata alla pena, ed era necessario equilibrio. Ma aveva comunque disubbidito a me, che gli avevo dato precise direttive di seguire Isaac, cosa che non aveva puntualmente fatto.

Inarcai un sopracciglio nel vedermelo ripiombare giù, strisciando sul ghiaccio e ferendosi le mani, prima di riprendere dal principio, come se nulla fosse. Decisi di avvicinarmi per interrompere quell’inutile spreco di forze, anche se lodevole.

“Hyoga...”

Il mio tono di voce riuscì nell’intento di incutergli timore, si irrigidì. Mi riconobbe subito, lo capii da come mi guardò, quasi atterrito.

“Maestro Camus!”

“Cosa fai qui, quando hai detto ad Isaac che saresti venuto a casa?!”

“Io...”

“Ti avevo dato precise direttive di seguire le sue parole, non di prendere e andartene per gli affari tuoi!”

“S-sì, ma...”

“Ho facoltà di metterti in punizione, per questo, lo sai?” continuai, quasi lapidario, sempre più incalzante, scrutandolo nel profondo e trovandovi come sempre la malinconia, che avrei dovuto scacciare.

“L-lo so, Maestro...”

Dunque sapeva, e mi aveva disobbedito comunque. Presi un altro profondo respiro

“Lo farò senz’altro, ma ora vieni qui, fammi vedere le mani...”

Hyoga eseguì docile, lasciando momentaneamente i suoi propositi di fare la scimmietta per approcciarsi così a me e mostrarmi le mani, già arrossate e piene di duroni, stante il contatto con il ghiaccio. Ero solito tenere all’isba delle pomate per i più svariati utilizzi e delle fasciature, gli sarebbero servite senz’altro, anche se le sue condizioni non sembravano troppo compromesse; i giusti rimedi, insomma, e sarebbe tornate come nuovo. Più preoccupazione mi dava invece quella brutta tosse che ogni tanto lo scuoteva e dalla quale, dal nostro primo incontro, non era ancora guarito, ma non ci diedi peso in quel frangente. Continuai l’ispezione con accuratezza, pigiando in determinati punti per vedere se avesse ancora tanto male.

Hyoga non mi guardava, tentava anche di non mostrarmi il suo dolore, gli occhi cristallini perpetuamente diretti verso una crepa del suolo. Avrei davvero dovuto metterlo in punizione per quello che aveva combinato, ma in quel momento, così spaurito e remissivo, mi faceva solo tenerezza, pertanto, mettendo momentaneamente da parte il fatto di doverlo anche sgridare, gli tenni stretta, pur con delicatezza, la mano messa meglio con l’intento di riaccompagnarlo all’isba, ma lui scrollando nuovamente la testa e puntellando i piedi, mi fece capire che aveva bisogno di qualcosa.

“Cosa c’è adesso? Sei infreddolito e le tue mani hanno bisogno di cure, prima ti porto al caldo e meglio sarà per...”

“D-dove posso vedere un tramonto?” mi chiese, speranzoso, tornando a guardami.

La domanda era totalmente decontestualizzata. Isaac me lo aveva riferito che, quel giorno, sembrava essersi fissato inspiegabilmente su quell’argomento. Lo osservai, inarcando un sopracciglio.

“Verso ovest!” gli dissi pratico, con ovvietà.

“Q-questo lo so, m-ma da qui sotto… non si vede!” riprese lui, quasi arrabbiato da quella consapevolezza.

“No, certo, la parete di ghiaccio copre esattamente il punto dove il sole dovrebbe tramontare, dovresti quindi arrampicarti come stavi provando a fare, incurante però delle tue dimensioni ridotte. Inoltre in questa stagione è difficile vederlo, perché, come ti sarai accorto tu stesso, è perennemente nuvolo e il cielo è bianco lattiginoso!” gli provai a spiegare, sottintendendo di rassegnarsi e che per il tramonto avrebbe dovuto aspettare ancora un po’.

“Ma si è fatto limpido! Se riuscissi a salire, forse...”

Si è fatto limpido perché la tempesta da Nord-Est sta risucchiando tutte le nuvole in là, tra poco non sarà più così limpido e comincerà a nevicare, e tu saresti stato impreparato. Il gelo ti avrebbe colto, crudele, silenzioso, e saresti morto, Hyoga, ma a te… di morire non importa, è questa la cosa in assoluto più preoccupante.

Pensai, fissando la parete di ghiaccio: dunque voleva salire davvero per un semplice tramonto…

“Sei troppo piccolo per arrampicarti fin lassù, quando sarai Cavaliere forse...”

“Io voglio vedere un tramonto!” ribadì, in tono più alto, cominciando a fare i capricci e strattonarmi per il braccio, non tollerando più la mia stretta sul suo polso.

“Ora non puoi! - ribadii anche io, alzando a mia volta il tono di voce – Aspetta qualche mese e...”

“IO LO VOGLIO VEDERE ADESSO!!!”

A quel punto davvero mi venne da dargli un ceffone, staccai la mano da lui, ma fermai comunque il gesto a metà, rendendomi conto che non potevo, non ne avevo alcun diritto. Mi calmai, passandomi una mano tra i capelli, ma le mie intenzioni non sfuggirono al piccolo, il quale si chiuse ancora di più, dandomi la schiena per poi allontanarsi di qualche passo e sedersi sul permafrost, le ginocchia vicine al petto.

“Non puoi fare quello che vuoi qui, non sei a casa tua!” gli dissi, in tono comunque un poco più soffice.

Subito mi morsi il labbro nell’avere detto una simile frase che cozzava con quanto gli avevo riferito il primo giorno. Ma era troppo tardi.

“Ne sono consapevole! Ma mi credo sempre a casa mia, da quando vi ho conosciuti!” si lasciò sfuggire, asciugandosi in fretta la faccia nel nascondermi le lacrime che, con ogni probabilità, gli avevano lambito il volto.

Passai sopra a quell’ennesima manifestazione di debolezza, accorgendomi che comunque ci stava provando a non piangere. Sempre meglio di niente!

Rimasi in silenzio per una serie di secondi, il tempo sufficiente per riappropriarmi del pieno controllo della mia voce.

“Perché vuoi vedere un tramonto proprio oggi?” gli chiesi, ma lui non mi rispose, continuando a fissare malinconicamente il leggero rossore che permeava il cielo, degno della tempesta che si sarebbe abbattuta. Quella sera ci sarebbe stato per davvero un bellissimo crepuscolo, l’aria era talmente cristallina da sembrare trasparente.

“Hyoga..?” tentai ancora, accennando un altro passo.

Ancora non mi rispose, si rannicchiò ancora di più sulle sue ginocchia, come un cucciolo abbandonato e uggiolante. Lui esigeva il suo crepuscolo, e non poteva averlo, ciò lo frustrava ancora di più.

Non so bene dire cosa scattò in me a quella manifestazione, forse rividi il me stesso bambino che si isolava alla ricerca di un conforto, rifuggendo però tutti e rimanendo racchiuso nella propria intimità; so solo che, istintivamente, lo presi in braccio e raggiunsi in meno di un secondo la cima del Picco Ghiacciato.

Hyoga annaspò appena quando lo riposi dolcemente a terra, osservando adorante prima me e poi il sole morente. Io finsi indifferenza, preferendo concentrarmi su quello spettacolo senza pari piuttosto che dare tante spiegazioni: era davvero uno splendido, pittoresco, tramonto, sarebbe stato davvero uno spettacolo perderlo, anche perché, a giudicare dalla tempesta in avvicinamento, ci avrebbero aspettato giorni assai perturbati.

Mi sedetti sullo sperone di ghiaccio, le gambe accavallate, poco dopo il piccolo Hyoga prese posto accanto a me, osservando sbalordito il tramonto.

“E’ bello, vero?”

“Sì, tanto!” annuì lui, gli occhi celesti che andavano tingendosi di bagliori cremisi.

Tacemmo poi entrambi rimirare il crepuscolo, che diventava sempre più rosso acceso, fino a declinare poi nell’arancione, nel giallo e infine nel rosa, prima di essere ingurgitato da un ammasso di nuvole nere che lasciavano ben poco spazio all’immaginazione su ciò che sarebbe accaduto da lì a breve. Un vento gelido si era nel frattempo alzato, minaccioso, Hyoga rabbrividì conseguentemente per il freddo: era vicino al limite di sopportazione, ma non voleva che me ne accorgessi.

“Perché desideravi vedere così tanto un tramonto?” gli domandai ancora, tentando di acciuffare i suoi occhi sempre sfuggenti. Per quanto ci si sforzasse di trattenerlo, Hyoga svicolava via, sempre.

Mi domandai se Milo, il mio migliore amico, avesse provato la stessa sensazione mia di quel momento, quando, da piccoli, tentava di approcciarsi a me.

“Quando si è molto tristi si amano i tramonti...” biascicò solo il piccolo, appoggiando il mento sulle ginocchia e sospirando impercettibilmente.

“E perché ti senti così tanto triste?” gli chiesi ancora, ma di nuovo non mi rispose, gli occhioni celesti sempre puntati verso l’orizzonte, la luce del tramonto, che si rifletteva in lui, andava scomparendo. Si era chiuso, impossibile raggiungerlo a voce, non in quel frangente. Non avrei ottenuto risposta. Di nuovo.

Istintivamente gli carezzai brevemente i capelli del color del grano, lui si irrigidì ancora, non aspettandoselo, guardandomi sbalordito.

Mi alzai quindi in piedi, scrollandomi i pantaloni bagnati di neve, prima di porgergli nuovamente la mano e convincerlo ad alzarsi a sua volta, cosa che fece senza discutere, pur rimanendo chiuso e corrucciato su sé stesso. Ancora una volta le sue dita si strinsero sulle mie, un poco più intensamente della volta precedente. Mi meravigliai di quanta forza potesse esserci racchiusa dentro quel corpicino apparentemente fragile che nascondeva un animo tempestoso e malinconico.

Tornammo velocemente a casa dove ci attendeva Isaac, il quale, nel desiderio di essere utile, aveva già preparato tavola, ravvivato il fuoco della stufa e preparato coperte pesanti.

Hyoga sorrise, un poco più rasserenato, lo feci di riflesso anche io. La punizione non l’avevo dimenticata, no… ma ci sarebbe stato tempo il giorno dopo per attuarla. Per quella sera, lasciai che i due bambini giocassero un poco tra di loro, finalmente risollevati, e risollevato nell’animo anche io nel preparare la cena.

Decisi che non avrei più spinto il mio piccolo dai capelli biondi a parlarmi del suo passato, non se non avesse voluto. Del resto, il passato doveva essere lasciato tale.

Solo diversi anni dopo scoprii che anche per Hyoga marzo era un mese molto triste, e che quel giorno particolare in cui lui desiderava follemente rimirare un tramonto, era il primo anniversario della perdita di sua madre…

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci qua anche per questo terzo capitoletto (come vedete vanno ad allungarsi, non c’è da meravigliarsi con me, ma state tranquilli, non si arriverà mai ai papiri delle altre storie).

Dunque anche qui non ho molto da aggiungere (il paragrafo degli spiegoni vi attenderà quando riuscirò a pubblicare il nuovo dei 5 pilastri, sappiatelo XD) ma qualcosa vi dico comunque. :)

Si intravede, ancora una volta, la diversità di approccio che Camus ha con Isaac e Hyoga, nonché il profondissimo legame che ha già instaurato con il primo, ma… non vi sembra anche a voi che, come manifestazioni fisiche, diciamo, il nostro Cam sia più propenso verso Hyoga che non lo stesso Isaac?! Questo particolare si vedrà ancora meglio nei prossimi. Camus vede molto di sé stesso nel bambino dai capelli color del grano, gli fa tenerezza, anche se ha tanti, tantissimi, problemi a manifestarlo apertamente, ad esternare tutto il suo mondo. E’ interessante notare come invece nelle altre mie storie della mia serie, ciò gli riesca meglio con le allieve femmine, anche se è un tasto sempre un po’ problematico per lui. Ciò dimostra la sua evoluzione come personaggio.

Il Picco Ghiacciato in cui si reca Hyoga, in soldoni, è quello visto nel terzo episodio della serie classica e nel manga, ovvero dove è tenuta l’armatura del Cigno. Ovviamente lui non lo sa, neanche Isaac, eppure mi sembrava bello mettere questo particolare. :)

Questo capitolo è ispirato, per chi ha presente il libro di riferimento, ai 43 tramonti del Piccolo Principe, alcune frasi, “quando si è molto tristi si amano i tramonti” è presa da lì.

Dovrei aver finito. Spero abbiate apprezzato anche questo capitoletto.

Non so ancora se il prossimo aggiornamento sarà inerente ai “5 Pilastri” o di nuovo qui, di sicuro il format così breve e immediato incentiva molto di più la velocità in questa storia che non nelle altre, ma tempo al tempo aggiornerò tutto.

Grazie ancora una volta e buona domenica a tutti! :)

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4

 

In breve tempo fu Aprile; Aprile, che in Siberia Orientale è un mese invernale quasi al pari di ottobre. Le giornate si allungano, è vero, durante il giorno, se si è avvezzati al freddo, si ha pure l’impressione di stare bene, ma è tutta una messinscena, un inganno della natura, del ghiaccio che ancora si ostina a non ritirarsi.

Ad Aprile le giornate sono più lunghe, eppure è proprio per questo che, molto spesso, al viaggiatore ignaro e sprovveduto, capita di incorrere in una improvvisa bufera di neve, fenomeno tipico di queste latitudini, che si genera in un battibaleno ed è capace di uccidere in un altrettanto, breve, respiro di tempo.

I mesi primaverili nei dintorni Pevek sono sempre stati i più spietati. Era sempre in quei mesi che si registrava il numero maggiore di vittime nella steppa, persone che, seguendo l’illusione di una rinascita che invece era ben lontana da attuarsi, rimanevano più tempo fuori dalle proprie abitazioni, finché non sopraggiungeva, lesta, la nebbia bianca della morte, che congelava il respiro, arrivava ai polmoni per privare così della vita, senza che lo sventurato se ne rendesse concretamente conto.

Quel mercoledì infatti ero in pensiero. La stufa a pellet si era rotta quella stessa mattina e il rischio concreto che, durante la notte, il freddo assassino potesse penetrare all’interno dell’isba, prendendosi nel sonno Hyoga e Isaac, ancora non del tutto abituati a quei rigori climatici, mi scuoteva le membra fin nel profondo.

Ero quindi teso e agitato anche se cercavo di non darlo a vedere, quando i due bambini, appena tornati dalla missione che gli avevo affidato a Kobotec, aprirono la porta.

“Ti dico che sono sciocchezze!” sentii esclamare Isaac, a voce alta, mentre i suoi passi scricchiolavano sul legno.

“No, non lo sono… non è il primo che me lo dice, te lo assicuro!” Hyoga sembrava punto sul vivo da qualcosa e i due sembravano discutere, ma non ci diedi retta. Avevo ben altro a cui pensare.

“D’accordo, mettiamo che sia vero quello che dicono… va comunque contro gli insegnamenti che riceviamo dal Maestro Camus!” lanciò la sfida Isaac, quasi supponente.

Hyoga produsse un sibilo, quasi soffiò fuori aria, come quando doveva difendere qualcosa, prima ti intestardirsi come di consueto: “Perché?! Non è una cosa affascinante?!”

“E’ una scemenza, invece! Noi dobbiamo pensare al qui e ora, al futuro, non certo...”

“Se non hai nulla a cui appoggiare i piedi non esiste né il presente né il futuro! - il tono di Hyoga salì fino a quasi strozzarsi, mentre io tentavo, con un calcio, di far funzionare la maledetta stufa – Io glielo vado a chiedere, lui deve saperlo per forza se esiste davvero tale possibilità!”

“No, sciocco!”

Ebbi appena il tempo di domandarmi a cosa alludesse che lo percepii dietro di me, ma non mi girai. Hyoga sapeva essere insistente su molte cose, peccato che la maggior parte di esse fossero erronee e poste in un momento ancora più erroneo, come in quel caso.

“Maestro, io… - esitò solo un attimo, prima di giungere al punto – Mi chiedevo se… voi sapete se esista davvero la reincarnazione?”

Non lo sapevo. Neanche me lo domandavo, a dire la verità. Si potrebbe quindi dire che non mi ponessi il problema, che fossi agnostico: era al di fuori dei miei doveri e compiti, nonché del tutto superfluo per vivere.

“Mmh...” mi limitai a bofonchiare, provando ad avvitare meglio una delle viti che si era allentata. Da quello strumento dipendeva la vita, e il benessere, mio e dei miei allievi, non c’era difesa contro il freddo che entrava in casa in piena notte, cogliendoci addormentati, non senza un cosmo sufficientemente sviluppato.

Sfortunatamente Hyoga non era tipo da lasciare in sospeso le questioni che gli premessero davvero, per quanto esse fossero nulla di più, né di meno, che favoleggiamenti vani.

“Maestro… quelli del villaggio dicono che l’anima, la nostra anima, si reincarni dopo la morte, è vero?”

“Quelli del villaggio dicono tante cose, Hyoga, e ne credono altrettante… è più facile vivere con una consolazione, che sia un dio, o la vita dopo la morte. Questa è la loro!”

“Ma quindi… non esiste?” sembrava deluso, rattristato, sfiduciato.

“Potrebbe essere, come non essere… è una speranza, una religione, possiamo dire, non abbiamo prove che sia vero o falso. Non ancora.”

“Quindi… potrebbe effettivamente esistere?”

Sentii i suoi occhi brillanti su di me, ma non gli diedi di nuovo peso. Picchiai un poco bruscamente il pugno sullo sportello, maledicendolo mentalmente perché non si chiudeva completamente, oltre a non dare cenni di attivazione. La situazione stava volgendo verso il peggio.

“Quindi? C’è...”

Ero arrabbiato, per cui risposi malamente, scoccandogli una breve, quanto intensa, occhiata furente: “Nessuna di queste cose è reale, Hyoga! Ti ho appena detto che è una speranza, null’altro, gli uomini vivono di esse, ci costruiscono i castelli, per esse; ma esse non servono a niente! Non servono a me, non servono a voi… NON SERVONO!”

“Oh...”

Hyoga c’era rimasto visibilmente male, dietro le sue spalle Isaac sibilò un: “Psss, te lo avevo detto!” che tuttavia il bambino biondo, testardo, quasi intrepido, non ascoltò.

Era intelligente, aveva individuato una falla nel mio discorso, per questo ci si aggrappò con tutto sé stesso, come se, per lui, quel discorso, fosse tutto. Una ragione di vita, un auspicio.

“Maestro Camus, ma voi avete detto che non ci sono prove che lo escludano...”

“Non ci sono infatti, né che lo confermino! - inarcai un sopracciglio, nervoso – Proprio per questo non ha senso cercare una risposta a questo genere di questioni del tutto futili!”

“Futili!” ripeté lui, oltraggiato, quasi come se gli avessi offeso la madre.

“Futili sì, per non dire dannose! - ribadii più deciso, imprimendo la mia espressione nella sua, che tuttavia non si ritrasse, sorreggendo invece il mio sguardo con una determinazione ammirevole, per quanto fosse così erronea – E’ questo tuo continuo attaccarti con morbosità a cose che non esistono che ti porterà a perderti! Pensi alla reincarnazione, quando invece dovresti concentrarti soltanto a diventare Cavaliere per...”

Mi trattenni. Sapevo che il motivo che lo spingeva a perseguire gli allenamenti e ad irrobustirsi era unicamente legato alla madre, e in quel momento in cui un bambino di soli 8 anni mi chiedeva se fosse possibile rinascere per rincontrarsi con la persona amata, un mio passo sbagliato, una parola di troppo, avrebbe rovinato tutto. Lo avrei perso, perché la vita di quel piccolo era labile come una goccia di rugiada al mattino, destinata a evaporare per il troppo calore.

Nulla avevo contro la reincarnazione, semplicemente non mi ponevo il problema, ma l’avrei ostracizzata in qualunque maniera, a qualunque prezzo, in Hyoga, perché non farlo, dargli adito che, forse, c’era una possibilità che quelle teorie fossero vere, lo avrebbe smarrito per sempre!

Mi ricomposi, buttando fuori aria e tornando a concentrarmi sulla stufa. Il discorso doveva concludersi, a più nulla avrebbe giovato incaponirsi a parlare. Avevo intuito la ragione delle sue domande, proprio per questo non potevo assecondarle.

“Concentrati sui tuoi obiettivi, sulle cose serie, e non su queste sciocchezze infantili prive di fondamento!”

La risposta inaspettatamente mi arrivò subito, soffiata in mezzo ai denti, con un ringhio sommesso, in un tono sin troppo alto: “Sulle cose serie! - esclamò, con una vena ironica che non gli avevo mai visto nei primi mesi, quasi sfrontata – Dare pugni al muro del ghiaccio eterno finché non si spacca?!”

“Hyoga!!!” la voce acutissima di Isaac era uscita a metà strada tra l’avvertimento e l’angosciato. Aveva osato troppo.

Mi girai al rallentatore, implacabile, osservandolo dall’alto al basso. Lui si rizzò ma resistette temerario. Malgrado la mia espressione forzatamente gelida, le pupille puntate su di lui e le labbra ridotte ad un’unica linea di biasimo, non mi sentivo arrabbiato con lui. Non ancora.

“Prego?”

Volevo semplicemente saggiare quanto a fondo volesse affrontarmi. Lo vidi indietreggiare di un poco, ma non fuggì, né mi diede le spalle, limitandosi ad ingoiare a vuoto.

“Quelle sono per voi le cose importanti?! Quelle...” si fermò, mi ero avvicinato ulteriormente a lui, minaccioso. In quel momento sì che mi stavo arrabbiando, e lui lo percepiva.

“Farvi diventare forti e coriacei in modo da resistere a questo clima per non soccombere, darvi un obiettivo e una ragione per continuare a vivere… - gli dissi, prima di alzare ulteriormente il tono, cosa non da me, ma quel raffronto forzato e inaspettato mi aveva colto impreparato – Sì, lo sono, Hyoga! Queste sono le cose serie: vivere la vita per quello che è, non per quello che è stata!”

Lo vidi tirare su con il naso, ostinato, fissando momentaneamente il pavimento, refrattario a farsi scorgere il viso da me: “La vita!” ripeté, gli occhi lucidi.

“Che ti piaccia o meno, questa è la tua vita adesso, Hyoga, e che ti piaccia o meno io, ciò che ti ho appena detto, è ancora meno importante. Tu vivrai; vivrai per i vivi, non per i morti!”

Lo avrei fatto vivere… intendevo, perché qualcosa, nei suoi occhi, dalla prima volta che lo avevo guardato, mi era entrato dentro, pizzicandomi. Li avrei fatti vivere entrambi, i miei allievi, non li avrei più persi e sarebbero diventati forti; forti più di qualsiasi altro per resistere a quel mondo spietato che li aveva visti nascere senza che la loro volontà ne potesse prendere parte.

Isaac lo sapeva fin troppo bene, assecondava i miei intenti con una voglia di vivere e di diventare grande che mi abbagliava.

Hyoga no, anzi, per lui, le mie parole, quel giorno, suonarono come una sentenza capitale.

Feci quindi per voltarmi, convinto che il discorso fosse concluso. Avrei lasciato come sempre ad Isaac il compito di consolarlo, sapeva farlo certo meglio di me, ma il piccolo era sin troppo ostinato, lo avevo imparato a conoscere in quei mesi, e non gettava mai da parte un discorso importante per lui. Mai! Checché io pensassi fosse puerile.

“E’ da fagioli...”

“Cosa?!”

Non ero sicuro di aver capito bene la parola, professata come un insulto a denti stretti, ma quando mi girai, incontrandomi nuovamente con gli occhi azzurri di Hyoga, inondati di lacrime che mi indisponevano, compresi che davvero si era rivolto a me come… come…

“Siete un fagiolo, allora! Che nasce lì, nel grembo del terreno, e cresce, apatico, senza chiedersi se non ci sia qualcosa di più grande!”

“Un… fagiolo?” chiesi, scettico, dando così a lui occasione di ritrattare. Non ritrattò.

“Un fagiolo, sì!!! - esclamò con asprezza, rincarando la dose – Parlate di vita, e di dover vivere, ma non vi chiedete se ci sia qualcosa di più grande! Da milioni e milioni di anni la gente nasce e muore su questo pianeta, sempre, come un circolo, a volte prematuramente, altre volte dopo decenni… e non è importante stabilire se quelle persone, forse, abbiano già vissuto?! Se potremmo rivedere un giorno gli affetti che ci sono stati strappati, pur sotto un’altra forma?!? Non sono cose importanti, queste?!?”

Nella stanza cadde un silenzio colossale, persino Isaac, solitamente loquace, si era ammutolito nell’ammirare l’exploit di Hyoga, che parlava di cose più grandi e difficili di lui, che aveva appena 8 anni ma che si esprimeva come se ne avesse avuti il triplo, che si comportava come… come me alla sua età!

Ma io ero fragile dentro, lui… non doveva esserlo, non POTEVA esserlo, glielo avrei impedito!

Sospirai, calmandomi impercettibilmente.

“Non sono cose che competono ai vostri doveri, non...”

“Dovere, dovere e ancora dovere… sembrate quel vecchio, quel… - lo vidi rabbrividire, come se il solo pronunciare una simile frase lo schifasse fin nel profondo – ...mio padre!”

Pronunciò quella parola con uno sdegno estremamente palpabile. Era la prima volta che lo faceva, non mi aveva mai parlato di lui prima di quel momento, ma da quella frase capii che doveva essere ancora vivo, e che essere accostato a lui doveva risultare, nel suo gergo, un insulto peggiore che essere sottostimato alla carica di fagiolo.

“Hyoga, tuo padre… tuo padre è ancora vivo?” chiese sbigottito Isaac, non senza un pizzico di tristezza nel rammentare il suo, che invece gli era stato ucciso davanti agli occhi.

“Sì, e lo vorrei morto, invece!!!” quasi urlò, furioso. Non lo avevamo mai visto così.

“M-ma è comunque tuo...” tentò Isaac, per la prima volta remissivo nei suoi confronti, cercando di dare un senso a tutta quella rabbia che non capiva, ma venne interrotto.

“Non ha importanza! - stabilì Hyoga, incassando la testa tra le spalle, i suoi capelli dorati vennero scossi da un fremito sempre più consistente – Quell’uomo, per dovere, per… amore verso la giustizia, diceva mia madre, ha sfornato figli a destra e a manca, 100 in tutto, io e i miei fratelli. Non ci ha chiesto se volevamo, lo ha fatto, ci ha fatto finire qui, in questo mondo così freddo, senza degnarci mai di una carezza, di un gesto, di una parola gentile… queste sono le cose serie dei grandi?! Queste?!? IO NON LE VOGLIO!!!” urlò, con quanto fiato avesse in gola, prima di scappare via, verso la camera, senza più guardare né me né Isaac, il quale però, d’istinto, si era dirottato nella sua direzione per tentare di fermarlo.

“Lascialo stare un po’ da solo, Isaac...” lo avvertii, gettando gli utensili sul pavimento, guardando altrove. Non avrei continuato a provare ad aggiustare la stufa, non ero più in vena. Quella discussione mi aveva stravolto.

“Ma, Maestro, Hyoga stava soffrendo...” tentò lui, emotivamente coinvolto.

“Lo so, proprio per questo… lascialo stare, quando gli sarà passata si farà vivo lui” affermai, sdraiandomi poi sul divano, sospirando, osservando il soffitto nel passarmi una mano sulla fronte.

Vi era ancora un po’ di tempo prima del tramonto, abbastanza per trovare una soluzione al freddo, ma in quel momento avevo solo bisogno di chiudere un po’ gli occhi, di riposare.

“Maestro?” chiese Isaac, affatto abituato a vedermi così.

“Va tutto bene, sono solo un po’ stanco, chiudo gli occhi cinque minuti, va bene? Vai… vai pure a giocare”

Non udii la risposta verbale, ma avvertii distintamente i suoi passi allontanarsi.

I confronti forzati con quel piccolo che da poco era penetrato nella vita mia e di Isaac, rendendola splendente, mi esaurivano sempre senza che mi capacitassi neanche totalmente del perché. In verità lo capivo,capivo Hyoga, ma, proprio per quello, non potevo appoggiarlo.

Mi addormentai poco dopo, vinto, e caddii in un sonno profondo, dal quale tuttavia fui svegliato di soprassalto diverso tempo imprecisato dopo dagli scossoni. Sobbalzai, mettendomi a sedere di slancio mentre Isaac, che contrariamente ai miei insegnamenti, si era fiondato tra le mie braccia per strattonarmi, balzava giù, sbracciandosi. Aveva il terrore dipinto in volto.

“Che… che succede?” gli chiesi, notando che era sul punto di piangere, cosa che non era assolutamente da lui. Gettai di riflesso un’occhiata fuori dalla finestra, scorgendo il lento declinare del sole e il veloce approcciarsi delle tenebre. Per quanto avevo dormito?! Inspiegabilmente avvertii un groppo in gola...

“E’ Hyoga! E-ero andato a consolarlo, ma lui non ne voleva sapere, piangeva tanto, Maestro, mi ha detto di lasciarlo stare e allora ho preso sonno nel mio letto, al mio risveglio lui… lui non c’era!!!”

Il groppo in gola si fece istantaneamente più pesante, sussultai a mia volta, prendendolo per le spalle per guardarlo negli occhi “Ne sei sicuro, Isaac?!”

“S-sì...” tirò su col naso lui, addolorato, spaventato, non sapendo minimamente che fare.

“Maledizione!” imprecai, a denti stretti mentre, scattando, mi affrettai a fare un breve giro di perlustrazione con lui al seguito nella vana speranza che Hyoga si fosse solo nascosto.

Non poteva essere uscito per davvero, non con l’avanzare delle tenebre e del gelo… no! Doveva essere ancora in casa, DOVEVA!

Ma il piccolo dai capelli del grano non c’era, il suo letto era sfatto, mancava anche la sua borsa che lasciava nella sua camera solo quando doveva allenarsi, perché sapeva di tornare. Sempre. Il fatto che non ci fosse più, poteva solo significare che…

Sentii freddo dentro di me, mentre il cuore perse un battito: Hyoga, per essersela portata dietro, aveva intenzione di non tornare più, di…

N-no… sciocco!

“Maestro… - Isaac era sconfortato mentre mi guardava con espressione da cane bastonato – V-voi mi avete insegnato che u-un essere umano adulto n-non può che resistere pochi, pochissimi, minuti là fuori in questa stagione, a-anche se fosse coperto. E… e Hyoga è… è… solo…”

“...”

“Maestro Camus… - mi chiamò ancora, gli occhi sgranati, il trauma della perdita ancora ben vivo in lui – Hyo-Hyoga sarà quindi...”

Dovevo tranquillizzarlo, non potevo permettermi, io, di brancolare nel buio quando il mio lupetto dipendeva da me. Dovevo essere una certezza e un punto fermo per lui, dovevo dimostrarmi forte e sicuro, anche se ero a mia volta spaventato.

“No, soldo di cacio! - lo fermai, passandogli una mano tra i capelli, tentando di apparire tranquillo e imperturbabile come gli avevo insegnato ad essere – Non succederà, noi lo troveremo prima!”

“D-Davvero?!” una lacrima gli sfuggì, anche se fece di tutto per nasconderla, ingoiò il magone a forza. Aveva già perso tantissimo per avere solo 8 anni, era chiaro che avesse paura di perdere anche Hyoga, al quale si era legato emotivamente fin da subito come ad un fratello.

Mi chinai quindi verso di lui, scacciandogli la gocciolina dal solco del naso con breve gesto del pollice, permettendomi di sorridergli per tranquillizzarlo.

“Cosa ti ho insegnato in quest’anno?”

“A-ad essere inamovibile, persino in queste situazioni, anzi, proprio in queste situazioni, perché gli altri dipendono da noi...”

“...E Hyoga dipende da noi, questo lo sai, vero?”

“S-sì – mi disse tremante, prima di tirare su col naso e farsi determinato – SI!” ribadì, con grinta.

“Bravo così, piccolo!” annuii, orgoglioso di lui, rialzandomi in piedi per gettare una nuova occhiata fuori dalla finestra e nascondere così il tremore del mio corpo.

Esitai, sapevo cosa dovevo fare ma, individualmente, non sarebbe stato facile. Hyoga poteva essersi recato ovunque, non aveva ancora un cosmo sviluppato, non avrei quindi potuto rintracciarlo così agevolmente.

In quel momento Isaac mi tirò la maglietta, desiderando la mia attenzione. Il pianto di prima, il suo breve attimo di debolezza, era già un lontano ricordo.

“Ci sono anche io, Maestro, siamo in due!” esclamò, mostrandomi così le sue intenzioni di aiutarmi.

“Te la senti davvero… Isaac?” chiesi, avviandovi verso l’entrata per prendere subito il giaccone mio e suo.

Non avrei mai più voluto sobbarcargli i miei problemi, non dopo Lisakki, ma in quel frangente non avevo scelta, il tempo scorreva veloce e sin troppo spietato.

Il suo visetto si illuminò di riflesso: “Certo!”

“D’accordo, allora, gli Husky ci possono aiutare! Tu prenderai Sasha, io Nikita e andremo in due direzioni diverse. Loro possono riconoscere l’odore di Hyoga, lo troveremo grazie a loro. Pensi di riuscire a tenerla al guinzaglio? E’ bella grossa!”

“Sasha è mia amica, sì, posso farlo, Maestro!”

“Conto su di te, mio ometto!” gli sorrisi ancora una volta, scompigliandogli i capelli prima di uscire trafelato fuori dall’isba. Andammo insieme nella stalla sul retro, che offriva rifugio alla mia muta di Husky, e poi ci separammo, lo vidi sparire in tutta fretta tra la luce sempre più debole del sole.

Era la prima volta che contavo su uno dei miei allievi, sperai, con tutto il cuore, che ciò non lo avrebbe messo in pericolo. Presi due profonde boccate d’aria per riportarmi alla calma, prima di prendere l’altro Husky.

Permisi quindi a Nikita di annusare uno dei vestiti di Hyoga per trovare così una pista e mi lasciai guidare da lui, il cuore in tumulto per l’agitazione e un groppo in gola che non riuscivo a sciogliere. Raccomandai tutte le mie speranze a quel giovane cane Husky di un anno e qualche mese, fratello di Sasha, dal mantello bianco e marroncino che avevo preso insieme ad Isaac l’anno prima grazie ad un allevatore. Li sapevo entrambi dotati di un olfatto eccellente, intelligenti e attenti. La femmina era bianco-grigia, meno robusta ma più agile, il maschio invece più possente, ma un poco lento e impacciato sulle lunghe distanze.

Avevo dunque affidato tutte le mie speranze a loro, Nikita le aveva colte, dandosi da fare per recuperare l’odore di Hyoga, che tuttavia gli sfuggiva. Ci eravamo diretti verso il mare, ma non riusciva a trovare una pista duratura, come se essa si perdesse, non riuscendo più a trovare il filo conduttore. Lo vedevo cambiare traccia, tornare indietro, tentennare, e il vederlo così confuso, sperso, senza un’apparente spiegazione, mi gettava nella più nera disperazione.

Nikita, ti prego, trovalo… devi trovarlo! Perché mi hai condotto fin qui?! Cosa hai sentito? Hyoga?! Eppure qui non c’è, non avverto la scintilla del suo cosmo… maledizione, il tempo stringe e quel piccolo… no, dobbiamo trovarlo, ti supplico!

Non riuscivo a pensare ad altro. Mi accorsi che avevo paura e che non avrei dovuto averla, perché anni e anni in Siberia mi avrebbero dovuto ben temprare alle perdite, e invece… invece brancolavo nel buio, una fitta appena sotto il capezzolo di sinistra, il fiato corto per l’ansia, alla sola idea, che mi si era formata in mente, di ritrovarmelo completamente congelato, come era già successo con altri.

Ma Hyoga non era ‘altri’, la sua perdita mi avrebbe straziato, me ne resi conto, con sgomento, proprio quel giorno.

Ad un certo punto Nikita uggiolò due volte in una direzione non ben definita, sperai di vedere Hyoga, ma una coda scodinzolante fu l’unica cosa che distinsi in avvicinamento. Raggelai quando riconobbi Sasha che correva nella nostra direzione. I due cani si annusarono brevemente, prima di darsi delle musate e fissarmi con occhi profondi.

“Sasha… - la mia voce uscì più tremante di quanto avrei voluto – Dove… dove è Isaac?!”

Come se mi avesse capito, dopo aver abbassato due volte le orecchie all’indietro, puntò verso una direzione, scattando poi in avanti seguito da me e Nikita. I battiti del cuore mi si erano fatti sempre più serrati, frenetici. Aveva anche cominciato a nevicare da qualche minuto, di quelle precipitazioni fitte che ricoprivano e ammantavano tutto nel giro di pochissimo. Sperai angosciosamente che non fosse troppo tardi.

Sasha ci condusse lestamente in una radura non molto distante da casa -era davvero lì, il mio Hyoga, così poco lontano dall’isba?!- dove subito notai un mucchietto più alto di neve del tutto insolito, proprio dove stavano puntando i due Husky. Accelerai di lunga il passo, avvicinandomi e riuscendo finalmente a riconoscere due figure stese abbracciate, già parzialmente coperte. Il mio cuore perse uno, due, tre battiti… mi sembrò quasi che, per qualche istante, si potesse fermare del tutto.

“ISAAAAAC!!! HYOGAAAAA!!!” urlai, con quanto fiato avessi in corpo, gettandomi quasi ai loro piedi mentre Nikita e Sasha, sempre scodinzolando, si chinavano a leccare i loro visetti con foga.

“Maledizione… - digrignai tra i denti, togliendo la dama bianca dai corpi dei miei due allievi – Non fatemi questo, no!” mi lasciai sfuggire, in tono denso di pena, gli occhi lucidi.

Non seppi bene perché, ma Isaac, forse udendo il suono distorto della mia voce, riaprì debolmente gli occhi affaticati, cercando comunque di sorridermi nel riconoscermi.

“Maestro… Camus!” biascicò, prima di tossire perché il gelo gli era penetrato nei polmoni. Non aveva che una sola maglia addosso e i pantaloni, la giacca e la felpa le aveva cedute a Hyoga, che stava abbracciando con tutte le sue forze nel tentativo di dargli calore, di non lasciarlo scivolare via.

“Non parlare, piccolo! Sono qui… SONO QUI! Ora andrà tutto bene!” gli dissi, fremendo distintamente, togliendomi di riflesso la mia, di giacca, per avvilupparli entrambi.

“Hy-Hyoga, io… l’ho trovato, avete visto? N-non avrei potuto t-tollerare un altro fatto Lisakki... - sorrise ancora, stringendo a sé il compagno, che respirava ancora, anche se aveva i capelli biondi già congelati e la pelle sin troppo fredda, eppure, pur nell’incoscienza, continuava a tenere a sé la misteriosa sacca dal contenuto segreto, come se fosse l’ultimo tesoro – A-anche io non… non permetterò più che v-voi perdiate un altro allievo...” riuscì ancora a biascicare, prima di perdere definitivamente i sensi.

“Sei stato più che bravo, Isaac, è grazie a te se Hyoga è ancora vivo, ora riposa… riposa, soldo di cacio! Al resto ci penso io!” lo spronai, stringendoli entrambi a me con tutte le forze di cui disponessi. Prima di alzarmi in piedi nonostante il tremore delle gambe.

Li portai entrambi, di corsa, all’isba, diedi direttive a Nikita e Sasha di rimanere seduti nell’ingresso, cosa che fecero.

Hyoga era privo di coscienza e già ad uno stato avanzato di ipotermia, anche se il suo cuoricino -che ormai l’avevo capito, era più forte di quanto potessi immaginare!- aveva retto; Isaac invece, forse rimesso in sesto dal caldo della mia giacca, più avvezzato a quel clima, ci mise relativamente poco per recuperare la maggior parte delle sue funzioni corporee, al punto che, una volta giunto all’isba, era già quasi del tutto vigile, anche se faticava ancora a muoversi perché le ossa e i muscoli risentivano ancora di quel gelo bastardo che gli era entrato in profondità.

Quando lo posai a terra, tenendo ancora Hyoga in braccio, barcollò un poco, tentando comunque di rimanere dritto, gli presi quindi una coperta e lo avvolsi, raccomandandomi di non togliersela.

“C-che cosa p-posso f-fare, m-maestro?” mi chiese, battendo i denti, stringendosi ancora di più la coperta sul corpicino e andando verso la stufa, ma ricordandosi che era ancora rotta.

Anche io lo rammentai in quell’esatto momento, imprecando tra me e me, prima di stendere Hyoga sul divano e togliergli i pesanti scarponi.

“Tu niente, Isaac, riposa… - gli dissi, liberando il bimbo dai capelli dorati degli abiti che aveva indosso, prima di rendermi conto che il tempo stringeva, che il suo cuore batteva aritmicamente e che le estremità corporee erano già molto fredde – Coraggio, Hyoga, non cedere, non arrenderti!” gli sussurrai, accarezzandogli brevemente la testa, prima di spogliarlo del tutto e drappeggiarlo con un’altra coperta.

“Maestro! E’ così… gelido!” mi fece notare Isaac, con enorme sforzo, toccandogli di riflesso la manina abbandonata.

Era vero, era gelido e la sua temperatura corporea continuava a diminuire anziché alzarsi. Non esitai più, mi sfilai a mia volta la maglia, rimanendo così a busto scoperto, prendendolo poi tra le braccia e portandomelo al petto, stringendolo a me, mentre affondavo il viso tra i suoi capelli incrostati dal ghiaccio. Il magone crebbe in me, nella mia gola, riportandomi alla mente per la milionesima volta, la triste dipartita di Svetlan, morto a causa della mia inesperienza.

“Coraggio, piccolo, tu devi farcela! Sei forte e testardo, non è da te arrenderti!” gli sussurrai, cullandolo brevemente prima di farlo appoggiare sulla mia spalla, in modo che percepisse il mio calore corporeo e glielo potessi cedere più agevolmente.

Ero spaventato. La sola idea di perderlo mi attanagliava, ma feci del mio meglio per non darlo a vedere. Dovevo riscaldarlo il prima possibile, meglio quindi portarlo a letto, tenerlo stretto, e avvolgerci sotto le coperte, unica discrepante che avrebbe reso salva la vita a Hyoga. Ma anche Isaac aveva bisogno di cure, come…?

Lo guardai, chiedendomi che fare, ma il mio giovane allievo era già impegnato a sfilarsi via la trapunta di dosso, per poi passare a togliersi gli abiti senza un minimo di esitazione.

“No, Isaac, che sta facendo?! Devi stare al caldo, non stai ancora...”

“Serve il calore corporeo per farlo stare meglio, vero, Maestro? - mi chiese retoricamente lui, calandosi giù i pantaloni con non poca difficoltà, stante i suoi tremori continui – Lo farò anche io, insieme a voi, lo riscalderemo insieme!” stabilì, alzando una gamba e poi l’altra per liberarsi dall’indumento.

“Ma… - non sapevo cosa dire, il tempo stringeva, non c’era tempo per le esitazioni. Infine annuii – Va bene, ravanello, ma non c’era bisogno di spogliarti completamente!” gli feci notare, cercando di alleggerire la tensione con un tono di voce più tranquillo. Si era effettivamente denudato del tutto, davanti a me, senza un minimo di vergogna, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

“Così lo riscaldo meglio!” disse, determinato. Riuscii a farmi sfuggire un sorriso, sebbene la situazione fosse disperata.

Andammo quindi in camera mia portandoci dietro la coperta e coricandoci tra le coperte: Hyoga, che respirava con un poco più di forze, in mezzo, Isaac sul lato sinistro, che lo teneva forte forte stretto a sé, come se non volesse lasciarlo andare, io che abbracciavo entrambi, che pregavo non so bene quale divinità per averli entrambi salvi.

Ad un certo punto Isaac tossì più volte, non abbandonando però la posizione e anzi rannicchiandosi ancora di più sul compagno per dargli calore.

“Isaac…” lo chiamai, dandogli due pacche sulla schiena perché vedevo che faticava a sua volta a respirare.

“Andrà tutto bene, Maestro… - rispose lui, gli occhi brillanti come di consueto, di quella luce che per me era sacra – A-adesso siamo in due, n-no? L’ho già detto...”

In due. Ripetei quella frase tra me e me più volte, annuendo infine, prima di accarezzargli la chioma irsuta con tenerezza.

“Sì, hai ragione, siamo in due… ma adesso riposa, soldo di cacio!” gli sussurrai, grato, mentre lo vedevo cedere al sonno e addormentarsi, lì in quella posizione.

Avevo sempre creduto di essere solo, nonostante Milo mi rammentasse, ogni singolo giorno, che così non fosse e, in quel momento, anche Isaac, un soldo di cacio di appena 8 anni, si offriva di camminare al mio fianco. Avvertii i miei occhi farsi lucidi, fui grato che il piccolo si fosse addormentato dopo quella frase, in modo da non assistere al mio momento di debolezza.

Tornai a concentrarmi su Hyoga, che respirava con maggior forza, la boccuccia appena aperta, i ciuffi biondi della frangetta che vibravano appena al mio respiro.

Non strappatemi anche loro, vi prego! Ho già perso così tanto…

Mi ritrovai a pensare, posando le labbra sulla sua fronte appena tiepida. Li strinsi a me, entrambi, serrando dolorosamente gli occhi.

“Coraggio… Hyoga! Isaac! Siete due fieri lupetti delle nevi, supererete anche questa!” mormorai, prima di cedere io stesso al sonno per la stanchezza e la tensione.

Mi ripresi solo nel cuore della notte. Qualcosa mi aveva tirato una delle ciocche di capelli che mi ricadeva sul petto, poco dopo, una manina si era mossa verso di me, accarezzandomi dolcemente il volto. Riaprii gli occhi, trovandomi davanti proprio gli occhioni celesti di Hyoga ancora oscurati dall’esperienza appena vissuta.

“Piccolo… - riuscii a biascicare, mentre, un poco goffamente, gli presi delicatamente la manina per posargliela poi tra le coperte e stringergliela. L’intorpidimento da sonno inibiva di fatto il mio tentativo di schermarmi e di darmi sempre un tono, ma non mi importava, ero solo felice di vederlo sveglio – Stai meglio ora?”

“Pa-pà… - sussultai a quell’appellativo altisonante, capendo che era rivolto proprio a me e non al suo padre biologico. Anche lui doveva essere parecchio rintontito per manifestarlo così apertamente – Scusami...”

“Per... cosa?”

Lo vidi piangere debolmente tra sé e sé, quella volta non lo fermai, troppo sollevato nel vedermelo reattivo, come solo un futuro guerriero avrebbe potuto essere. Ne fui orgoglioso.

“Non è vero che sei come… Kido! - biascicò, riferendosi stavolta a suo padre biologico, singhiozzando tutta la sua frustrazione, sopraffatto dalle emozioni – Ero solo tanto, tanto, arrabbiato!” disse ancora, quasi supplicando, prima di rannicchiarsi contro di me, piangendo sul mio petto.

“Hy-Hyoga, i-io...”

“Avrei voluto… fossi tu mio padre, n-non… sigh!” borbottò ancora, tremando sempre di più.

Non sapevo bene cosa dirgli, cosa fare... lo cullai, LI cullai entrambi. Mi sentivo così maldestro, non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo. Il Paese delle lacrime… era per me ancora così misterioso!

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Altrove penso di aver reso Nikita e Sasha come due femmine, ma siccome questa storia è un inno ai rapporti fraterni e genitoriali (anche se questi ultimi quasi mai sanguigni), alla fine ho optato per un maschietto e una femminuccia.

Eccomi qui, comunque… domando innanzitutto scusa, avrei dovuto pubblicare i 5 Pilastri, ma devo ancora concludere il capitolo e in questo periodo sono davvero piena di impegni, quindi alla fine ho scelto di proseguire con questa storiella che è (per il momento) di più facile attuazione.

Il racconto è ispirato al Piccolo Principe quando litiga con l’aviatore che non riesce a far ripartire il motore, questo mi ha dato ispirazione per rendere questo momento tra Camus e Hyoga. Spero sia stato di vostro gradimento. La frase finale è chiaramente presa dal libro in questione.

Dunque… un capitoletto che mette ancora in luce quanto poco facile sia gestire un tipetto solo apparentemente docile come Hyoga, quanto questo sfinisca Camus e, nondimeno, quanto l’Acquario sia legato emozionalmente a lui. Hyoga è il primo a chiamarlo papà, Isaac ci metterà molto di più (Sonia’s side story) anche se il legame è sempre quello. Spero inoltre di aver dato un’ulteriore idea del perché il legame tra Camus e Isaac sia così speciale, su quanto il piccolo aiuti il Cavaliere, malgrado la giovane età, su quanto sia uno dei suoi basamenti centrali.

Hyoga ha sentito parlare di reincarnazioni dagli abitanti del villaggio di Kobotec e si chiede se quindi sua madre possa rinascere a nuova vita per poterla così incontrare ancora, un desiderio legittimo essendo il piccolo di soli 8 anni. Camus (che nella mia storia è reincarnazione di Dègel, anche se qui ancora non lo sa e non se lo ricorda) lo cassa in maniera anche piuttosto spietata, ma anche questo mi sembra legittimo e dato da motivazioni capibili… qui infatti Camus ha già perso tantissimo, come si intuisce, ha il terrore di perdere anche loro, oltre al fatto che gli deve dare una ragione per vivere, non per morire.

A me questo capitoletto piace molto, sarei contenta se mi diceste se ha trasmesso qualcosa anche a voi. Ho notato che questa storia ha un largo successo, ne sono veramente lieta e vi rinnovo, ancora una volta, i miei più sentiti ringraziamenti. Spero di arrivare con l’aggiornamento dei 5 Pilastri entro la fine di settembre, incrociamo le dita.

A presto! :)

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


5

 

Lo sai bene anche tu, Hyoga, al quale, come a me, hanno strappato l’infanzia...

All’età di 14 anni, quando normalmente un ragazzo si affaccia alla vita, mi avevano affidato 4 allievi e avevo già conosciuto un numero stupefacente di personalità, alcune bizzarre, altre rudi, altre ancora piuttosto eccentriche.

A partire proprio dalle mie origini…

Nacqui in una famiglia franco-italiana, o, per meglio dire, visto chi effettivamente sia mio padre Efesto, franco-italiana e pure greca, sebbene rifiutassi, e rifiuti tutt’ora, quest’ultima origine, disprezzandola totalmente.

La parte di sangue francese derivava da mia nonna, quella italiana da mio nonno. Mia madre Antoinette nacque a sua volta in Francia, a Nizza; lo stesso luogo mi diede i natali, ragion per cui mi sono sempre reputato francese, malgrado conoscessi e parlassi già due lingue dalla più tenera età. Come sai, ho anche una sorellina, che hai conosciuto, ma all’epoca dell’addestramento tuo e di Isaac ho cercato di non parlarvene mai, mi faceva troppo male la sua lontananza...

Dunque… un franco-italiano, dicevo, già un bel miscuglio di attitudini in partenza, alle quali si aggiungevano gli anni passati in Grecia, e poi quelli in Russia.

Ho incontrato così tante persone in 23 anni di vita, un numero imprecisato di personalità, per l’appunto, delle più svariate.

Mia nonna Ines, Agnese, in italiano, era originaria della Provenza. Aveva una personalità gentile, duttile, dolce, rassicurante, ma anche malleabile, tendeva infatti ad assumere il colore dell’ambiente circostante o delle persone che aveva di fronte, adattandosi, come i camaleonti.

Di contro, mio nonno Dante era la sua antitesi. Burbero, severo, intransigente, ma anche passionale e generoso, all’occorrenza. Da lui, dall’unica figura maschile presente nella mia vita nei primi cinque anni di età, probabilmente deriva gran parte del mio carattere.

Il mio grand-père non riusciva a stare mai fermo, aveva sempre bisogno di avere qualcosa in mano, di lavorare, di adoperarsi. Non lesinava rimproveri e insegnamenti, ma era estremamente parco nei gesti, tanto da sfiorarmi a malapena. A quelle, alle carezze, prediligeva le parole, mi chiamava il suo ometto, questo me lo ricordo bene, e voleva responsabilizzarmi, perché, oltre a lui, sarei stato io l’unico uomo del nucleo famigliare: il suo orgogliosissimo nipote.

Come ti ho raccontato, era nato a Genova e, quando la mamma rimase incinta per la seconda volta, non esitò a farci trasferire tutti nella sua città natia, senza sapere cosa ne pensassimo. Lui decideva, lui solo sapeva cosa fosse meglio per noi, del resto… si reputava il Pater Familias, questo non lo aveva mai nascosto, non si sarebbe quindi mai abbassato a prendere ordini da quel derelitto di mio padre che neanche si preoccupava delle nostre sorti.

Mia madre, come puoi forse immaginare, era la corretta trasposizione di queste due macro identità. Dolce senza sfociare nella debolezza, risoluta senza essere indisponente, forte senza dimenticarsi della delicatezza. La amavo molto da piccolo, per me è sempre stata un punto di riferimento, lo è ancora, per certi versi, la prima, vera, figura sulla quale poter contare e appoggiarmi.

Quando finalmente nacque Marta il 15 marzo del 1994, feci di tutto per darle una mano, anche se non sapevo bene cosa fare, perché le emozioni, i sentimenti stessi, prima di quel giorno, li sentivo molto… diluiti… non so se rendo l’idea. Il mio mondo era inspiegabilmente triste e grigio, per un bambino di appena 5 anni, come se qualcosa dentro di me fosse sigillato.

Ma sai, Hyoga, le ho voluto bene fin dal primo vagito, no anzi, da ben prima, quando, appoggiandomi sul ventre di mia madre, potevo avvertirla dare i calcetti irrequieta. E’ sempre stata un po’ così, la mia piccola, le costrizioni non le sono mai piaciute e… aveva fretta di vivere, infatti è nata prematura di un mese ed è dovuta stare in ospedale per un periodo, prima di poter venire a casa.

Badare a quel piccolo batuffolo di soffici petali di rosa e dalla pelle di pesco, dagli occhi ancora neri e non dipinti del colore che le avrebbe poi impresso lo sguardo, mi faceva stare bene, mi sentivo finalmente… completo, in pace, rassicurato.

Pensavo quindi che sarei cresciuto lì con la mia famiglia, insieme alla mia sorellina; il gelo che avevo percepito come parte di me fin dalla mia nascita andava sfumandosi; i colori del mondo, prima indistinguibili al mio sguardo perché costantemente avvolto da un’ombra buia e raccapricciante, si ravvivarono, acquisendo tinte sempre più diversificate. Ero vivo e potevo amare, me ne accorsi quando la strinsi per la prima volta al mio petto durante una notte burrascosa. Ero vivo… e non ero che un bimbo, un semplice bimbo con il desiderio di proteggere la propria sorellina. Perché io ero piccolo, sì, ma lei era più piccina persino di me, sembravo un gigante, a suo confronto.

Tuttavia, purtroppo, proprio come il Piccolo Principe, anche io prima di imparare ad amare totalmente senza riserva, mi trovai ad essere sballottato di pianeta in pianeta, di mondo in mondo: venne Shion, mi prese con sé, perché ero destinato a grandi cose; venne Shion, mi separò dalla mia famiglia di origine perché ero un prescelto. E la mia vita cambiò drasticamente.

Nizza, Genova, Atene e Pevek… questi sono i luoghi cardine della mia esistenza, ma esserne strappato, regolarmente, da ognuno di loro, dava una scossa alla mia anima, procurandomi sofferenza. Ogni volta era come finire in pezzi, ogni volta dovevo raccogliere i cocci. E non sempre, quasi mai, è stato facile.

Dalla mia famiglia ai miei camerati; dai miei camerati alla Siberia, per l’addestramento per diventare Sciamano, dalla Siberia ancora in Grecia e poi di nuovo in Siberia.

Ho conosciuto così tante persone… ho definito non so quante tipologie umane!

Quella di Milo, il mio migliore amico, caleidoscopica, per forme e colori.

Quella di Mu, mite come il lento gorgogliare di un ruscello di montagna.

E, ancora, quella di Aldebaran, gentile come un albero di quercia su cui far riposare le membra.

Ci sono state personalità in cui non mi sono trovato fin dal primo momento, come quella narcisistica di Aphrodite o quella detestabile di Death Mask. Altre ancora mi ci è voluto più tempo per afferrarle, ma poi le ho apprezzate, per esempio la frattura insanabile tra luce e oscurità di Saga, o la flemma quasi totalizzante di Shura.

E comunque, in tutto questo universo di andare e venire, di eterno movimento, una sola persona, dopo lo strappo con la mia famiglia di origine, è stata in grado di stabilizzare completamente la mia esistenza. Colui che ho sempre considerato il mio vero padre, il punto fermo su cui costruire l’intera mia vita: Fyodor della Siberia Orientale.

Il mio Maestro Fyodor, Hyoga, che né tu né Isaac avete potuto conoscere... colui che mi ha insegnato ad essere ciò che sono, colui che mi ha cresciuto, e che, in un certo senso, racchiudeva, lui solo, tutte le personalità che più mi avevano coinvolto nella mia giovane e inesperta vita.

Lo conobbi nell’estate dei miei 6 anni. Devi sapere che mi avevano portato al Santuario il novembre prima, spezzando tutti i legami che avevo formato fino a quel momento, così come il calore medesimo; lui, quello stesso calore, me lo riconsegnò, sebbene di diversa origine rispetto a quello che avevo provato all’interno del mio nucleo famigliare.

Ma il calore è sempre calore… io lo rifuggivo, lo sai bene, mio allievo, ma, in fondo, è sempre stato tutto ciò di cui ho avuto bisogno. E’ che… non ero in grado di esprimerlo!

Fyodor, lo Sciamano… che era madre, padre, maestro, quercia, ruscello, vento, tempesta, uragano, slavina, brina, rugiada, roccia, pace, silenzio…

Fyodor che mi insegnò ad udire la Melodia della Neve e tutte le voci che erano intorno a me, accarezzandomi con la delicatezza di una piuma, spronandomi come solo un genitore avrebbe potuto fare.

Fyodor che poteva essere tutto e il contrario di tutto, il sole nascente, la notte più nera, grazia e compostezza, tumulto e fremito.

Fyodor che amava la vita e che, con le sue dita taumaturgiche, poteva far rinascere una piantina da un germoglio seccato...

Non ho mai stimato nessuno come lui, al solo pensarlo, una fitta al petto mi investe. Per questo cerco di non ricondurre la mente a lui, fa… troppo male e, come sai, mio caro Hyoga, la mia prima reazione ad un coinvolgimento così forte è, vigliaccamente, la fuga, in questo non sono cambiato, no… sebbene tu e Marta mi abbiate insegnato che si può essere forti anche manifestando le proprie debolezze.

Mi manca ancora Fyodor, dopo tutti questi anni… e il solo sapere che non lo potrò rivedere mai più, che l’ho perso, è insopportabile. In questo senso, ti ho sempre capito quando tentavi di ricongiungerti a tua madre.

Sai, siamo molto… simili… mio amato discepolo!

Ma io sono un debole, tu no, lo hai dimostrato più volte. Per questa ragione, non perderti Hyoga, mio… coraggiosissimo ragazzo! Non devi perderti, sei forte; sei forte, piccolo, non scordarlo mai!

Non arrenderti, Hyoga, sono qui… vicino a te, puoi percepirmi, sto stringendo la tua mano tra le mie dita.

Mi manchi… perdonami per non essere stato degno di te, per averti lasciato solo contro quel mostro.

Mi mancate tanto, Maestro Fyodor… avrei così tanto bisogno di voi adesso, qui, in questa notte così fredda, mentre il mio allievo lotta per la vita. Come ho potuto permettere si riducesse così?! Come ho potuto?!? Io… avrei dovuto proteggerlo, avrei dovuto proteggere mio figlio, che razza di…

“Camus!”

La voce di Marta mi raggiunge di nuovo, odo la porta aprirsi e richiudersi delicatamente dietro le sue spalle, mi asciugo velocemente gli occhi, non voglio che mi veda così, anche se, come ama ripetermi spesso Milo, mi ha visto in condizioni peggiori di queste…

Prende nuovamente posto al mio fianco, posando sul comodino le bende nuove necessarie per la medicazione di Hyoga. Faccio quindi per staccare la mano da lui per adoperarmi, ma lei me la trattiene lì, sorridendomi con dolcezza.

“No, continua a tenerlo così, Cam, ne ha… bisogno! Taglio io le bende nuove, tu te la senti di continuare nel racconto?”

“S-sì...” la voce mi esce a fatica, in un tono che non mi riconosco. La guardo brevemente, ha gli occhi lucidi come me, ma fa di tutto per sorridermi e rassicurarmi.

Non avrei la stessa forza, se lei non fosse con me… non riuscirei a sopportare il peso di un’altra eventuale perdita, ma lei continua a sussurrarmi che andrà tutto bene, perché ho un allievo forte e testardo che non si arrenderà per nulla al mondo, l’ho cresciuto io, del resto!

Ed è questa sua fiducia incrollabile che non mi getta nello sconforto più completo, sebbene le condizioni del mio ragazzo siano così gravi, appese ad un sottilissimo filo...

Stringo più forte la mano immota di Hyoga, gliela alzo un poco, portandomela alla fronte, dove la trattengo nella paura che mi possa scivolare via, come nelle notti seguenti alla sua fuga, quando ha lottato -e vinto!- strenuamente contro il gelo dell’ipotermia che quasi me lo stava strappando anzitempo.

Sono con te, forza!

“Dunque avevi un maestro, mi dicevi, Fyodor della Siberia Orientale… - riprende lei, modulando la voce perché deve capire quanto mi faccia ancora male parlarne. Allo stesso tempo si adopera per tagliare la benda delle dimensioni giuste, è straordinariamente brava in questo, deve averle insegnato nostra madre – Colui che ti ha fatto crescere...”

“Sì… anche quelle notti, mentre vegliavo su Hyoga, pensavo a lui, a quanto mi mancasse, a quanto mi sentissi fratturato, perso, senza la sua guida. A-avevo paura, piccola mia, come ne ho adesso e...”

“Coraggio, sono qui...” mi sussurra lei, accarezzandomi brevemente il braccio per farmi percepire la sua vicinanza.

Annuisco, raschiandomi la gola e cercando al contempo di darmi un tono nel riprendere il racconto...

 

“Maestro!” una vocetta mi raggiunse insistentemente mentre stavo sognando, riconnettendo gli organi sensoriali al mio cervello. Le palpebre, tuttavia, facevano ancora fatica a riaprirsi.

Mi venne posata delicatamente una coperta addosso, sentii caldo, ciò mi spinse a darmi una scrollata.

“Fyo… - ovviamente non era lui, non poteva esserlo. Riconobbi con un poco di ritardo il mio soldo di cacio che trepidava al mio fianco – Isa-ac, cosa…?”

“Prenderete feddo, Maestro!” mi rispose lui, con voce nasale, tossendo un poco nello sforzo di parlare.

Rammentai dei fatti precedenti, mi raddrizzai, ancora un poco sbalestrato e intontito, osservando i contorni della camera, prima di posare lo sguardo su Hyoga, fragile tra le coperte del letto, il respiro ancora un poco accelerato e irregolare.

Gli sistemai meglio le lenzuola e la pezza sulla fronte, dandogli una veloce carezza tra i capelli. Anche il mio respiro era a tratti dispnoico, sapevo di non essere uscito del tutto illeso dalla fuga di Hyoga, dal riscaldarlo con il mio corpo, dal trovarlo esanime a terra, e… non lo era neppure Isaac, che era stato male fino al pomeriggio prima, ma che in quel momento mi aveva posato la coperta sopra per riscaldarmi, sebbene gli avessi raccomandato almeno dieci volte di non alzarsi.

Polmonite. I miei lupetti avevano sviluppato una brutta polmonite e… anche io, ma non riuscivo ad ammetterlo e, del resto, non potevo neanche permettermi di mostrarlo. Quei due bambini dipendevano in tutto e per tutto da me, non potevo farmi vedere debole da loro.

Tossii nascondendomi la bocca con le mani, ingoiai a forza qualcosa che, dal sapore nauseabondo e dal bruciore, doveva essere catarro, ma, ancora, non ci diedi peso, resistendo orgogliosamente.

Hyoga era comunque quello messo peggio dei tre. Avevo giurato a me stesso che, finché non si fosse rimesso in piedi, non avrei abbandonato il suo fianco. Pertanto resistevo, anche se il mio fisico cominciava a dare segni di cedimento.

Ad un certo punto, percepii la manina di Isaac toccare e stringere la mia, che avevo lasciato involontariamente andare lungo il mio fianco. Mi riscossi, rendendomi conto che tutto, intorno a me, cominciava a farsi nebuloso, la vista mi si offuscava, le vertigini mi davano noia, ma non potevo permettermi di crollare.

“Siete… caldo! Cough! Cough!” constatò lui, in apprensione, prima di piegarsi in avanti nel tenersi lo sterno, sconquassato da una tosse persistente che gli stavo trattando insieme a quella di Hyoga.

“E tu dovresti, anf, riposare, Isaac!” riuscii a rantolare, mio malgrado, sentendomi un peso sul petto.

“Ho riposato, Maestro! Voi no, perché eravate al mio fianco, vi percepivo, non avete chiuso occhio!”

“Isaac...”

Il piccolo mi scrutava a fondo con gli occhi vigili e attenti nonostante la malattia. La luce che emanavano le sue iridi era sacra per me. Sorrisi, sfiorandogli, con la punta dell’indice, una guancia ancora calda ed estremamente arrossata.

“La febbre… non ti è ancora scesa, soldo di cacio, dovresti stare a letto, mi ero raccomandato!”

“Sì, 10 volte, 11 con questa!” rispose lui, vivace.

“E quante ne hai seguite, anf?”

“Zero – ammise, grattandosi imbarazzato la testa, prima di tornare a guardarmi – P-però la temperatura un po’ è scesa, rispetto a prima, e a voi che sta salendo vertiginosamente!” insistette, cocciuto.

Non ebbi il tempo per obiettare, che me lo ritrovai praticamente ad arrampicarsi sulle mie gambe per raggiungere con la manina la mia fronte. Ovviamente le energie non erano sufficienti, rischiò di cadere, obbligando me ad acciuffarlo per evitargli un contatto ravvicinato con il pavimento. Isaac sfruttò così quella situazione per posare il suo palmo sulla mia fronte, prima di essere ricondotto a forza con i piedi per terra perché non volevo che percepisse il sudore sulla mia pelle, né il rialzo della mia temperatura corporea. Ma era tardi, lo sapevo...

“Vedete?!”

“Non è niente, scimmietta, nulla di cui preoccuparsi!”

“Ma...”

“S-se vuoi essere di aiuto a qualcuno, anf, vai a prendere un poco più di acqua per Hyoga, suda molto e rischia di disidratarsi!” gli dissi, un poco burbero, tornando a concentrarmi sull’altro allievo.

Ancora gli occhi di Isaac si illuminarono ulteriormente nell’avere avuto delle indicazioni, adorava sentirsi utile ed essere responsabilizzato. Mi sorrise, assicurandomi sarebbe tornato subito e trotterellò poi in direzione della cucina.

Sbuffai divertito davanti alle sue energie, ma venni subito punito da uno sciame di colpi di tosse che riuscirono ad infastidirmi solo di più. Può il signore dei ghiacci soccombere davanti ad una quisquilia simile?! Rifiutavo quella debolezza, non mi ero più ammalato dal primo anno di addestramento con il Maestro Fyodor, credevo di essere forte e in piena salute. Evidentemente sbagliavo.

Perché, in fondo, anche il fiore che predilige di più l’ombra ha comunque bisogno di un minimo di calore per fiorire. Il calore era basilare se si voleva sopravvivere in un mondo fatto di ghiaccio come la Siberia; io, da quel calore, cercavo di rifuggire, vergognandomi, eppure era tutto ciò di cui necessitavo.

Hyoga rimase in stato comatoso per tre giorni, non lasciai quasi mai il suo fianco, aiutandolo a idratarsi e a nutrirsi con zuppe che scendevano in gola con naturalezza. Lo cambiavo, lo pulivo, tenevo sotto controllo la sua temperatura corporea. Ogni tanto, quasi inconsciamente, l’occhio mi cadeva sulla sacca gialla che si portava dietro dal primo giorno che lo avevo conosciuto.

Era uno zainetto di quelli scolastici, sembrava che il piccolo ci tenesse molto perché l’aveva sempre con sé. Gli avevo permesso di tenerlo, lui non lo apriva mai, ma ogni tanto la toccava, ci dormiva insieme, come un peluche. Capivo che quello, solo quello, era l’unico legame rimastogli di un passato che era andato in fumo, che privarlo di ciò lo avrebbe anche potuto uccidere, perché Hyoga non era ancora pronto a staccarsi. Non ancora.

Come maestro, mi era comunque venuto il dubbio, all’inizio, se toglierglielo, perché il suo attaccamento a quella cosa stava diventando troppo malsano. Non riuscivo a capire cosa potesse contenere, né perché ci fosse così tanto legato. Il suo comportamento mi sembrava, sì, esagerato, ma in quel momento mi limitavo ad osservarlo con diffidenza, chiedendomi cosa potesse contenere.

Io riuscivo a trattenermi… qualcun altro però no!

“Is-a-ac… - ormai, dopo giorni di veglia, incurante del mio malessere che si acuiva invece di placarsi, parlavo con un filo di voce, ma sufficiente per farlo scattare subito sull’attenti – Non frugare, anf, in cose che non ti riguardano!”

Il piccolo infatti era sgattaiolato a curiosarci dentro, come era naturale fare per un bambino.

“Maestro, ma questa è di Hyoga, se la tiene sempre appresso ma non ci dice perché...”

“Lo so...”

“E… e non dovrebbe dircelo? Siamo la sua… famiglia, no?”

Per Isaac era tutto così semplice… si legava a qualcuno? Questi diventava parte della famiglia che si era ricreato, cedendo così tutto sé stesso. Quel vezzo, che lo rendeva a sua volta vulnerabile, non ero ancora riuscito a levarglielo.

“Alcune cose, anf, alcune piaghe, r-rimangono per sempre dentro di noi. Non importa quanto siamo legati agli altri… alcune cicatrici, immagini vissute, ricordi, rimangono segregati in questa nostra zona intima che dobbiamo custodire gelosamente!”

“Ma...”

Non sembrava convinto.

“Isaac, ognuno di noi deve avere una parte di sé, anf, chiusa a tutti gli altri… deve rimanere inaccessibile per chiunque, fuorché a noi stessi, ce la portiamo dietro, segregata, e non la manifestiamo...”

“Ma perché, Maestro?”

“Per diversi motivi, anf… perché ci sono cose che è impossibile dire a parole, perché è pernicioso mettere totalmente a nudo la nostra anima, ci rende deboli...”

“Ma se io mi fidassi, Maestro, io, queste cose, questa parte così intima, la cederei a qualcuno, a voi, per esempio, senza rimpianti! So che posso rimanerne ferito, ma… questa parte appartiene a me, fa parte del mio bagaglio di esperienze, desidererei condividerla!”

“E’… è troppo rischioso, soldo di cacio! Sguarnire così il fianco fa sì che l’altro possa disporre di noi come vuole, non importa quanto ci voglia bene, o quanto noi siamo legati a lui, fa parte della natura umana… infierire… laddove si trova un varco accessibile. Io non faccio differenza!”

“Ho capito, Maestro, ma non mi piace così… - sbuffò lui, leggermente corrucciato e deluso – Io voglio donarmi, a voi e a Hyoga, siete la mia… famiglia!”

“Ognuno è fatto a modo suo... - gli feci notare, sebbene non riuscissi quasi più a parlare – Devi accettarlo, piccolo… è questo che significa volere bene: accettare l’altro per quello che è e per quello che può dare, anf, anche laddove, nella tua percezione, ti sembri meno rispetto a quello che dai tu...”

Lo vidi annuire, sebbene avesse gli occhi lucidi. Gli sorrisi, dandogli una leggera pacca sulle spalle.

Le condizioni di Isaac in quei giorni erano in miglioramento progressivo, le mie… cercavo di non pensarci, ma sapevo fin troppo bene che quella stupida polmonite si stava evolvendo in qualcosa di molto più serio, che rifuggivo con tutto me stesso.

Debolezza, fragilità… erano cose umane che io non potevo permettermi, ma più il tempo passava più il mio corpo capitolava. Stavo sempre peggio, avevo le vertigini, poi caldo e poi ancora freddo, sudavo, tentando al contempo di non far vedere ad Isaac, sempre vigile e attento, quanto stessi male.

Finalmente una mattina, mentre lo stavo cambiando con una tutina nuova, gli occhioni di Hyoga si aprirono, con lentezza, trasmettendo un brivido nuovo sia a me che ad Isaac. Si osservò intorno, intontito, prima di soffermarsi su di noi, ma non ebbe il tempo per parlare che si sentì avvolgere, in uno slancio, dal compagno di addestramento che, al settimo cielo, era corso ad abbracciarlo.

Lo vidi stupirsi ancora di più, arrossì e boccheggiò più volte nel guardarmi, io cercai di sorridergli come meglio potevo, non ero estroverso ed estroflesso come Isaac, ma mi sentivo comunque sollevato della sua parziale ripresa e volevo che lo percepisse.

“Sei sveglio, Hyoga, ci… hai fatto tribolare ben bene, sai, anf?”

Le sue labbra non trovarono le parole per un po’, anche se continuava a guardarmi con quei due occhioni color ruscello di montagna. Teneva stretto a sua volta Isaac in un abbraccio tiepido e vergognoso, vidi tremare distintamente le sue labbra, alla ricerca di parole che non trovava. Poi...

“Pa-pà...”

Mi irrigidii a quell’appellativo, era la seconda volta che mi chiamava così, complice il non essere propriamente in sé, tuttavia non potevo più far finta di nulla. Non era un nome adatto, tra noi, ma non sapevo come dirglielo. Con soli 6 anni più di lui non potevo essere certo suo padre, tutt’al più un fratello maggiore, ma avevo già quel ruolo per qualcuno, come ben sai, e, più ancora, io li avrei dovuti addestrare a combattere per degli ideali più grandi di loro, non poteva davvero esserci tutto quello, anche se una particina del mio cuore aveva avuto un impulso davanti a quella parola un po’ bislacca. Non volevo che, a continuare a chiamarmi così, si avvezzasse male, le distanze tra noi andavano mantenute, ne andava della loro sopravvivenza, tuttavia non trovai subito un’argomentazione per oppormi a quell’appellativo. Tentennai, come un Cavaliere non avrebbe mai dovuto fare.

Fortunatamente Hyoga intuì qualcosa passare tra i miei occhi, una scintilla di biasimo, forse, se ne vergognò, arrossendo più di quanto non fosse già a causa della febbre e delle effusioni del compagno di addestramento. Si nascose semplicemente sotto le coperte in modo da non farsi più vedere ai miei occhi.

Isaac mi salvò dal resto, scoppiando un poco a ridere, a metà strada tra il sollievo e l’ilarità. Prese quindi a stuzzicarlo.

“Papà?! Ma se ha solo 6 anni più di noi, come potrebbe essere tale?!”

“I-io...”

“Papà… ahahahaha!!!”

“I-io non… v-volevo!”

Hyoga si nascose ancora di più tra le lenzuola, sempre più imbarazzato. Sembrava davvero in difficoltà, ragion per cui decisi di intervenire, soprassedendo sull’altra questione per passare a rimproverare l’altro mio allievo.

“Isaac… è ancora molto stanco, anf, non è il caso di turbarlo ulteriormente!” gli dissi, calcando un poco nel tono per fargli capire che disapprovavo il suo modo di porsi.

“Uh, io… avete ragione, Maestro! S-solo che ero così felice di vederlo sveglio che...”

“Anche se sei felice e lo vuoi amichevolmente punzecchiare, non è il caso di farlo, ci sarà tempo dopo, cough! Cough!” sottolineai, inarcando un sopracciglio prima di alzarmi faticosamente in piedi. La testa mi girò istantaneamente di 180° gradi ma non lo diedi a vedere.

“Scu-scusami, Hyoga! - chinò il capo Isaac, sinceramente dispiaciuto – E’ bello che tu ti sia svegliato!” aggiunse, accarezzandogli i capelli del colore del grano.

Il volto di Hyoga fece capolino fuori, i suoi occhi però fissavano altrove un punto fermo non ben definito. Sembrava mortificato, ragion per cui, addolcendo un poco la mia espressione, lo accarezzai brevemente sulla testa prima di rimboccargli meglio le coperte.

“Sei ancora molto debole, Hyoga, riposa e non fare sforzi, siamo intesi?” mi raccomandai, serio.

“S-sì, p… Maestro Camus!”

Si corresse prima, ma percepii che gli stava nuovamente uscendo quella parola e, insieme a quella, anche il bisogno di prolungare il contatto tra noi, che invece era stato furtivo come tutti gli altri gesti che, parco, regalavo ai miei ragazzi, senza eccedere nelle effusioni.

Dovevo essere così, razionale e rigoroso, solo in questo modo ci sarebbero state chance di sopravvivenza per entrambi. Mi limitati quindi ad annuire, prima di tornare a concentrarmi su Isaac, il quale mi osservava con attenzione crescente.

“Stai un po’ con lui, va bene? I-io vado a prendere un’altra borsa dell’acqua calda”

In verità avevo bisogno di stendermi ma non lo dissi. Non potevo riposare, non potevo cedere con due bimbi così piccoli. Non attesi risposta verbale, mi bastò il suo cenno, sapevo che avrebbe eseguito i miei ordini come sempre, parola per parola. Uscii dalla camera per scendere le scale e dirigermi in cucina.

Nel processo, mi sfregai più volte la fronte per scacciare via il sudore, le gambe non mi reggevano che a stento, il fiato sembrava quasi mancarmi. Mio malgrado, mi resi conto di stare sempre più male, e che non avevo medicine dietro, né erbe, avendole date tutti ai miei ragazzi. Che fare?

Da anni non provavo un malessere simile; da anni non mi mancava così il respiro, come se avessi avuto una carriola di mattoni sul petto a pesare sempre di più.

Da… da quando avevo 8 anni -realizzai nel rammentarmi delle mie memorie- rendendomi conto che avevo la stessa età dei miei lupetti e che, con me, c’era Fyodor.

Ero stato male, quella volta, ma con me c’era lui, il mio maestro, l’uomo che mi aveva insegnato tutto. C’era Fyodor con me, quando avevo la febbre e respiravo male nel letto, i polmoni pieni di catarro. Come in quel momento. E anche io avevo fatto quell’errore, lo avevo chiamato ‘babbo’, o qualcosa di simile, e lui mi aveva sorriso, con quell’universo di calore che riusciva ad infondere semplicemente con quel gesto. Non mi aveva rimproverato, mi aveva rassicurato, baciandomi la fronte, dicendomi che andava bene così, che potevo chiamarlo tale, se era ciò che sentivo.

Avevo avuto bisogno di un conforto, e lui me lo aveva dato. Anche Hyoga… anche Hyoga aveva bisogno di una simile premura, lo avevo percepito, ma io mi ero invece allontanato, come avrebbe fatto Elisey.

Elisey… così diverso dal fratello minore Fyodor!

Mentre scendevo quelle dannate scale, che mi parevano chilometri e chilometri di una strada infinita di notte, con le luci che sfrecciavano ai lati, stordendomi ancora di più, mi ricordai che il solo Elisey sarebbe stato in grado di aiutarmi, ma…

Non avevo un bel rapporto con lui, si poteva dire che lo odiassi. L’ultima volta che ci eravamo visti e avevamo interagito tra noi, stavo già addestrando da mesi Isaac e non era finita molto bene, affatto.

Non avevo che lui, capace di intervenire… ma non sapevo dove si trovasse e meglio così.

Non volevo il suo aiuto.

Non volevo la sua presenza.

Nella maniera più assoluta!

Non volevo nulla da quell’uomo che, pur condividendo il sangue con il mio maestro, non aveva nulla con cui spartire.

Non volevo nulla!

Non voglio nulla, da te, Elisey! Preferire morire che avere un debito nei tuoi confronti, preferirei...

La mia mente sempre più febbricitante, aveva preso il largo, non riuscivo a pensare ad altro che non volevo lì, che non potevo cedere non solo per i miei lupetti, ma soprattutto per lui.

Assolutamente!

Lo pensai con insistenza più volte, mentre i miei sensi si facevano sempre più appannati e le vertigini sempre più insostenibili: stavo perdendo contatto con la realtà!

Accadde infine con naturalezza. Semplicemente un piede, nel sollevarsi, si inceppò con l’altro, non me ne resi neanche limpidamente conto. A stento avvertii cadere il mio corpo nel vuoto, sapevo di non avere energie per impedirlo. Semplicemente successe.

Tutto si fece buio, le percezioni esterne svanirono completamente per diversi secondi. Non sentii né dolore né altro. Rimasi lì, il respiro sempre più dispnoico; mi sembrò di galleggiare nel vuoto per tempo immemore. Tutto si era fatto confuso, le percezioni, i sensi… mi sembrò che qualcuno urlasse il mio nome, ma non lo distinsi. Probabilmente il tempo scorreva fuori da me, ma non potevo parteciparvi, non ne avevo la facoltà.

Mi parve di essere toccato, scrollato, tastato, ma ancora non distinsi.

Poi di nuovo il nulla, ma pieno, come pieni erano i miei polmoni. L’atto del respirare, per quanto semplice fosse, ormai mi raschiava la gola. Stentavo a continuare quel processo da solo...

Poi un’altra mano, più fredda, mi voltò supino. Le sue dita mi toccarono il collo, controllando qualcosa che non riuscivo a comprendere, poi scesero sul petto, dove rimasero ferme, facendomi istintivamente rabbrividire.

Nella perdita di sensi che probabilmente mi aveva avvolto, non vedevo altri che il volto arcigno di Elisey che mi sogghignava con malignità. Lo odiavo, non riuscivo a pensare ad altro.

No… non voglio davvero nulla da te… Elisey! NULLA!

Pensai strenuamente, sperando che quel messaggio potesse essere comunque percepito. Poi cedetti del tutto e le ombre si fecero ancora più lunghe.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccomi qua, come promesso, anche per l’aggiornamento di questa storiella.

Capitoletto un poco più lungo e diverso dai precedenti che si divide in due parti: una raffigurante il presente corrente di Camus, dove il Cavaliere sta raccontando della sua vita all’allievo in gravi condizioni; l’altra che riprende direttamente il racconto dal punto in cui eravamo rimasti nello scorso. Ovviamente (ma si capiva) Camus sta parlando a Marta che, nella mia serie di storie, è la sorella minore dell’Acquario.

Chi segue la serie completa, sa che, dai 5 Pilastri, le condizioni di Hyoga sono tutt’altro che buone, e tuttavia… dove si situano, nello specifico, i fatti narrati? Lo capirete…

Amo molto rendere il punto di vista di Camus. Portarlo a parlare della sua famiglia di origine è stato molto emozionante per me: con difficoltà (dopo tutto quello che ha subito nelle precedenti serie), sta aprendo il suo cuore, non solo a Marta, ma anche allo stesso Hyoga con il quale ha un rapporto così difficile, sebbene lo ami come se fosse suo figlio -questi due mi faranno struggere, aaaaaaah!-

Per Hyoga, nato da un padre che potrebbe essergli nonno, non c’è alcuna difficoltà a considerare Camus, ancora giovanissimo, come un genitore (ricordo che anche la madre era piuttosto giovane quando rimase incinta di lui!), ma condivido il pensieri di chi, tra voi, mi fa notare che: “Kurumada avrebbe fatto meglio ad aumentare un po’ le età”… d’accordissimo, però la mia serie (che è una AU) coprirà un bel po’ di anni, quindi, il fatto che durante l’addestramento degli allievi Camus avesse dai 13 ai 20 anni, mi viene bene proprio perché, nel corso delle 4 storie principali, arriverà ad averne anche 30, se non di più. Dunque… per quanto possa farvi arricciare il naso (e lo capisco!), prendetela per buona che, nonostante gli appena 6 anni di differenza, il legame tra Camus e Hyoga (e Isaac!) sia quello tra padre e figlio, anche perché è così che è costruito nel manga originale.

Camus, così come io l’ho pensato, non si limita a parlare della sua famiglia di origine, ma anche del suo addestramento (da Sciamano, però, Cavaliere d’Oro lo era già quando è stato portato in Siberia!).

Fyodor è figura importante ed essenziale nella sua crescita, colui che gli ha fatto da padre. Ironicamente non è ancora mai apparso fisicamente in nessuna delle mie storie (per ora, ihi!) di lui si sa poco, se non quello che è stato per Camus e… altre cose… che qui non dico, per evitare spoiler, ma che si vengono a sapere nella Sonia’s side story.

Caso diverso invece per Elisey, suo fratello maggiore, oh sì, lui sì che è già ampiamente apparso, e avrà anche un ruolo decisamente centrale nella Melodia della Neve. In questi due capitoli (questo e il prossimo) approfondirò il loro legame che, da come avete potuto constatare, non è esattamente il massimo dell’idillio, soprattutto da parte dello stesso Camus.

Mi pare di avervi detto tutto anche per questa volta. Spero che questo capitolo, un poco diverso dai precedenti, risulti comunque apprezzabile anche se mi rendo conto che, chi tra voi non ha seguito tutta la serie, lo possa trovare un poco difficile in alcuni punti. Al solito, per domande, curiosità e pareri sono sempre qui.

Grazie ancora una volta a tutti! <3

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


6

 

 

Tipologie umane… vi è un pezzo, nel Piccolo Principe, in cui lui, sentendo il bisogno di allontanarsi dal suo pianeta per non reputarsi all’altezza di prendersi cura della sua rosa, incontra, lungo il suo percorso, questi individui che rappresentano il mondo degli adulti.

Il re.

Il vanitoso.

L’Ubriacone.

L’uomo d’affari.

Il lampionaio.

Tralascio momentaneamente il sesto pianeta, quello abitato dal geografo.

Ecco, queste personalità, io le ho sempre associate ad un unico individuo, di cui infatti volevo avere il meno possibile a che fare: Elisey!

Elisey era il fratello maggiore del mio maestro Fyodor, ma, di lui, non aveva nulla. NULLA!

D’altronde, era troppo pieno di sé, per essere anche solo lontanamente simile a lui.

Credeva di poter governare su tutto, di comprendere tutto, di essere tutto, e solo lui, come se avesse il dono dell’illuminazione divina. Non sapeva niente, invece! Era solo un montato, irritante, so-tutto-io fermamente convinto di essere arrivato al senso più profondo della vita.

Esattamente come il re, il vanitoso e l’uomo d’affari.

Come se non bastasse, dopo la morte di suo fratello, aveva pure cominciato ad ubriacarsi per dimenticarlo e scordarsi, io penso, persino di dovermi tirare su. Del resto… il mio addestramento da Sciamano non era completo quando morì Fyodor, e lui, suo fratello, voleva portarmi allo stato di piena maturazione, calpestando i miei sentimenti, le mie incertezze, obbligandomi a percorrere una strada che non era la mia. Lo odiavo. Senza se e senza ma.

Nell’incompatibilità dei nostri caratteri, ad un certo punto, quando era particolarmente avvinazzato, prese perfino a sfogare su di me la sua rabbia e frustrazione, arrivando a picchiarmi quando mi opponevo ai suoi desideri.

Non potevo, non volevo, diventare suo allievo; non potevo, non volevo, assurgere al ruolo di Evocatore che lui aveva già tracciato per me, pertanto, dopo vari tentativi infruttuosi, mi lasciò perdere, decidendo di andare a zonzo in lungo e in largo per la Siberia e disinteressarsi conseguentemente del mio addestramento.

Ma io ero pur sempre una sua responsabilità, sebbene ricaduta forzatamente sulle sue spalle, lui non poteva, come niente, sparire e non farsi più vedere -cosa che avrei preferito alquanto!- perciò se la risolse facendomi visita saltuariamente, giusto per sincerarsi se io fossi ancora vivo e tutto integro. Questo anche fino al primo anno di addestramento con Isaac.

Vedi, persino un individuo simile, stracolmo di difetti, cercava di portare a termine, nel migliore dei modi concessogli, la sua consegna, il suo compito, rimanendogli fedele, esattamente come il lampionaio, esattamente come feci poi io, erroneamente, nei confronti di Hyoga.

Elisey non era adatto a quel ruolo; non era adatto ad essere un maestro, così io, ma ci provò comunque in maniera che a me appariva spietata e incomprensibile, ma necessaria.

Ciò che non comprendevo allora, e che ancora adesso riesco appena a percepire, era che la sua consegna fosse molto più grande di lui stesso, e non si riduceva a forzarmi a maturare, diventando lo Sciamano che Fyodor avrebbe voluto per me, ma… molto di più!

All’epoca sapevo solo che non volevo più nulla da lui, né il suo aiuto, né tanto meno i suoi interessamenti, eppure, ancora una volta, quando io avevo bisogno di lui, perché avevo sottovalutato una polmonite, che era diventata bilaterale e si era notevolmente aggravata, lui apparve, così come sempre nel momento del bisogno. Ai suoi modi.

Alla Elisey.

Quando caddii a terra, il respiro rotto, la sensazione di avere i polmoni pieni d’acqua, le mie percezioni divennero frammentate. So solo che quando cominciai lentamente a rinvenire, mi sentivo bollente e avevo la perenne sensazione di essere in apnea. Una mano un poco nodulosa mi stava alzando la maglia, scoprendomi l’addome fino allo sterno. Ebbi l’impulso appannato di dibattermi, di mandare al diavolo chi osasse importunarmi in una simile maniera, ma le energie, nello specifico, erano calanti; gemetti quindi appena, rabbrividendo. Non potevo fare nient’altro. Quella stessa mano mi schiacciò la pancia in più punti, sopra, sotto, dai due lati dell’ombelico, pur avendo l’accortezza di non toccarmi proprio la fossetta che, come sai, è una zona che avverto sensibilissima. Comunque mi toccò in lungo e in largo ed io non potevo oppormi, il solo pensiero mi dava le vertigini, facendomi sentire male.

Qualcuno parlò al di fuori di me, ma non riuscii a codificare nulla, sembravano schiamazzi. Qualcun altro era in apprensione, ma non lo riconoscevo, ero troppo stremato per farlo. Questo qualcuno parlò di nuovo, sbuffò sonoramente, poi avvertii la pressione sul mio sterno diminuire, l’ombra sembrò allontanarsi di un poco, prima di venire colpito da quella che a me parve una sberla fatta e finita, affatto labile, inferta allo scopo di farmi male e nient’altro. Mi lamentai, ma ancora non uscì nulla di concreto dalle mie labbra.

“Andiamo, idiota, non ho affatto voglia di farti da badante, né di partecipare al tuo funerale!”

Quella volta riconobbi il tono così aspro, mi mossi appena con l’ovvio intento di mandarlo al diavolo per la direttissima, ma in quell’istante avvertii uno dei lupetti correre frenetico per la stanza, prima di saltare addosso, con ogni probabilità, proprio ad Elisey.

Un’altra imprecazione in russo nell’aria, qualcun altro ringhiava e sibilava insieme, come se volesse proteggere qualcosa, qualcuno, con tutte le sue forze.

“Se lo tocchi ancora una volta a quel modo te la faccio vedere nera!” gridò, affatto docile.

“Tu fuori di qui, microbo, mi ostruisci!”

“TU fuori di qui, non è casa tua! Non ti devi permettere neanche di toccarlo il Maestro Camus!”

“Sei tu che mi hai chiamato per lui, piccolo ingrato, e ora… AHIA! Questo idiota che non sa nemmeno prendersi cura della sua salute ti ha insegnato a mordere come i cani?! SPARISCI!”

Mi prese quasi un colpo nell’avvertire un tonfo sordo seguito dal rumore secco della porta che sbatteva, mentre l’immagine di Isaac -sapevo trattarsi del mio ometto, potevo percepire la sua voce nelle tenebre più fitte- che veniva lanciato malamente fuori, mi diede le energie sufficienti per incamminarmi verso la coscienza.

“N-non devi permetterti di, anf...”

A giudicare dalla sua non-reazione, non doveva però avermi udito.

“Certo che lo hai allevato davvero selvatico, quello, menomale che l’altro, il biondino, sembra sano di mente, probabilmente non è stato ancora contaminato da te! - mi disse, rude, con la solita franchezza che mi irritava al solo udirsi – Comunque grazie, Camus, per avermi avvertito di aver avuto in affido un altro allievo, la tua lettera ricca di passione e buona creanza mi ha commosso!” ironizzò poi, sarcastico, cominciando a frugare qualcosa da qualche parte.

Ovviamente non gli avevo inviato alcuna lettera, neanche ce lo volevo lì, a dirla tutta. Dalla nostra accesa discussione dell’anno prima, quando mi aveva picchiato più violentemente del solito e Isaac era intervenuto, mi ero prefissato di chiudere tutti i ponti con lui. Lo odiavo e basta, e non lo capivo; non potevo capirlo! Un po’ per il senso di colpa verso il mio maestro, un po’ perché, in fondo, eravamo dannatamente simili.

“Me lo sono trovato davanti, con il nasino rosso e gocciolante, l’espressione terrorizzata… Hyoga si chiama, eh?! Anche questo lo so grazie ad Isaac, fosse per te… pffff, ma figuriamoci!” mi disse ancora, prima di piegarsi nuovamente su di me. Sembrava risentito.

Mi alzò ulteriormente la maglia fino a metà torace per poi posarmi un tondino freddo al centro del petto e scendere, auscultandomi. Sussultai, provai freddo e nausea a quella sensazione, raccolsi quindi tutte le energie per riaprire gli occhi e parlargli.

“T-toglimi questo dannato coso di dosso, anf, Elisey!” lo minacciai, con il respiro però troppo corto per essere credibile. Lui infatti ghignò di riflesso, tronfio a sua volta.

“Beh, buongiorno anche a te, Camus, ben svegliato! Che brutta cera che hai...”

“Vai… al diavolo, anf!”

“Io no… tu però ci stavi per andare: polmonite bilaterale e… anzi, facilmente bronco-polmonite, per non farci proprio mancare nulla. Hai i polmoni e i bronchi ridotti ad un catorcio!” dichiarò, continuando ad ispezionarmi con quel dannato affare.

“S-se mi tocchi ancora una volta, i-io…”

“Cosa?! Cosa vorresti fare, Camus? Non puoi nulla al momento, non ti reggi neanche in piedi da solo e sei svenuto come un sacco di patate. Se nessuno mi avesse avvertito, dovevamo chiamare direttamente i becchini, neanche l’ospedale più vicino sarebbe bastato, oltre al fatto che, come ben sai, non è che il sistema sanitario russo sia proprio la migliore delle soluzioni!”

“Non sono… problemi tuoi!” gli risposi, piccato, guardandolo male. Non ero in forma, non potevo ribellarmi, ma non potevo tollerare di sottostare così a lui.

“A quanto pare il tuo lupacchiotto selvatico preferito, Isaac, non la pensava così, visto che mi è venuto a chiamare. Ti ha trovato svenuto per terra e si è spaventato; io fortunatamente ero nei paraggi, sento le percezioni di ogni cosa, lo sai, no? Sentivo ci fosse qualcosa che non andasse e quando mi è arrivato il pargolo quasi in lacrime, ne ho avuto conferma. Eccomi quindi qui a salvarti la vita!”

“Non ho… bisogno di niente!” mi opposi ancora, strizzando le palpebre nell’avvertire un giramento di testa, rimproverandomi la mia debolezza.

“Se hai voglia di morire nel tuo stesso catarro procedi… non è una bella morte, però!”

Non ribattei nulla quella volta, mi abbandonai con la testa di lato, stremato, il peso sempre più fitto sul petto, la bocca semi-aperta, alla ricerca dell’ossigeno. Non stavo bene ed Elisey aveva ragione, ma il mio orgoglio mi impediva di ammetterlo, soprattutto mi impediva di accettare il suo aiuto.

Inaspettatamente il mio silenzio venne accolto da lui con un lungo sospiro e un cambio di tono che mi confuse ancora di più.

“Sul serio, ragazzo… hai i polmoni messi veramente male, i bronchi devo ancora controllarli minuziosamente, ma dalle mie percezioni non sono messi tanto meglio. Girati su un fianco, se riesci, cosicché io...”

“Io… non ho bisogno di n-niente, Elisey, me la sono sempre cavata… da solo, anf! P-perché tu...”

...Mi hai lasciato da solo, dopo la morte di Fyodor, che era tutto per me, mi hai lasciato solo e smarrito perché non mi reputavi sufficientemente degno. Non hai nemmeno rispettato il mio volere di rimanere un Guaritore, non ti posso perdonare!

Pensai, ma non glielo dissi, sarei risultato troppo patetico.

“Può non importare a te, ma ad Isaac sì, era molto preoccupato, mi è venuto a cercare, sfidando la tormenta fuori… sai che non andiamo d’accordo, io e lui, eppure per te lo ha fatto… non vanificare i suoi sforzi!”

“Is-a-ac...”

Buttai un occhio dalla finestra, effettivamente nevicava: una tormenta polare a maggio, rabbrividii: era ancora troppo debole per sfidarla da solo, anche lui aveva avuto una brutta polmonite, eppure…

“Come certamente saprai, perché ho visto che gliela hai trattata, non è ancora guarito, eppure non ha esitato un attimo per te! - sottolineò infatti, poco dopo, in un tono che mi rammentava Fyodor – Per cui fallo almeno per lui, girati su un fianco e permettimi di visitarti.”

Non dissi nulla ma, forse convinto dalla debolezza, o dalla sua improvvisa dolcezza, mi cercai di girare faticosamente da un lato in modo da dargli la schiena e nascondere i miei occhi lucidi, ma mi dovette comunque aiutare lui, stavo troppo male per farlo da solo.

Annaspai, spossato. Lui mi posizionò meglio le braccia in modo che non ostruissero con la sua visita, mi posò una mano sul diaframma per sondare il mio respiro, che appariva ai suoi occhi sin troppo frenetico. Le gambe, che io avevo piegato istintivamente verso il ventre per nascondere un minimo la pancia, mi vennero forzatamente distese, prima di passare a controllarmi la schiena.

“Va bene così, ragazzo, farò più veloce possibile!”

Ecco perché odiavo Elisey sopra ogni cosa, ecco perché non lo potevo tollerare... perché era uno stronzo patentato, un farabutto, un ubriacone pieno di sé e persino un vanitoso, ma sapeva essere come Fyodor, all’occorrenza, ed io, quello, non potevo sopportarlo in alcun modo.

Mi pigiò le spalle per spingermi ad incurvarmi di più, poi mi sollevò la maglietta fino ad oltre le scapole, che cominciò a picchiettare con le dita esperte. Strinsi le dita sul lenzuolo, cercando di trattenermi il più possibile dall’impulso di scappare. Odiavo sentirmi scoperto e ancora di più maneggiato, ma non avevo comunque le forze per oppormi. Respiravo male, sempre peggio, il catarro mi bruciava nel petto. Ansavo. Mi lasciai andare sul cuscino, gli occhi chiusi, serrati, cercando di resistere al malessere che mi provocava il suo tocco.

Mi tastò la schiena, con precisione, prima di posarmi nuovamente il tondino freddo tra le scapole, sussultai appena, faticavo sempre più a rimanere cosciente. La consapevolezza di avere la maglia tirata su sia davanti che dietro, mostrando così buona parte del busto, mi metteva sempre più a disagio, la coscienza veniva meno mano a mano che il mio respiro diventava sempre più difficoltoso.

“Dai un colpo di tosse!”

“N-n… anf...”

“Fai così tanta fatica? Provaci, almeno...”

Eseguii quell’ordine, rendendomi conto che il suono che ne derivò pareva quasi un sibilo striminzito di una vespa che agonizzava.

“Fai un altro tentativo...”

Provai ad assecondarlo, ma fu peggio della prima.

“Come supponevo, ragazzo...” arrivò alla conclusione, sospirando, prima di alzarsi in piedi, fare il giro del letto e chinarsi nuovamente su di me.

Mi aiutò a voltarmi supino, posizionandomi meglio sul cuscino, le braccia lungo i fianchi, prima di passare a tastarmi, pratico, il costato, costola per costola. Ancora mi premette il tondino sul petto, prima al centro, poi sotto il capezzolo di sinistra, il destro, per auscultarmi il cuore e i polmoni. Mi fece tossire di nuovo, ma non riuscivo a fare di meglio. Ero stanco, totalmente alla sua mercé, la testa girava vorticosamente. Desiderai solo essere ricoperto, mi sentivo totalmente a disagio così, con quella maglia tirata a quel modo, ammucchiata sopra le clavicole, il torace e l’addome scoperti.

“Bisogna liberarti al più presto di questo catarro che ti rende così difficoltosa la respirazione. Fortunatamente ho sempre con me delle erbe adatte allo scopo, posso ridurle in poltiglia e somministrartele per via orale tramite un aerosol… ehi, Camus, riesci ancora a sentirmi?” mi posò una mano sul diaframma mentre lo diceva. Sussultai con forza.

“S-sì, a-arf, anf...”

Volevo rispondergli meglio, ma non mi riusciva, non avevo quasi più fiato. Lo avvertii nuovamente incombere su me, mi sforzò ad aprire meglio la bocca, reclinandomi la testa indietro per controllarmi la gola, le tonsille. Poi le sue mani esperte scesero nuovamente su mio collo, me lo schiaccio in più punti. Inarcai di riflesso la schiena, sentendomi in trappola, sin troppo vulnerabile al suo cospetto.

“Calmati… intanto ti passo una mistura di erbe che dovrebbero aprirti maggiormente le vie aeree” mi avvisò ancora, prima di allontanarsi.

Udii appena i suoi passi sempre più lontani, poi una parte della mia coscienza si perse per un tempo indefinito.

Rinvenni non so quanto bene dopo, senza però riuscire ad aprire gli occhi, avvertendo le sue mani passarmi pratiche sul petto con movimenti circolari. Percepivo la pelle unta, ma riuscivo a respirare con maggior regolarità. Avevo freddo, non avevo più la maglia indosso, probabilmente me l’aveva tolta, lasciandomi tuttavia i pantaloni, sebbene fossero tirati giù quasi fino al livello dell’inguine. Non volevo continuare quel supplizio, provai a dirglielo, ma dalle mie labbra non uscì nulla.

Non potevo fare altro che subire, non avevo altre energie in corpo. Udii appena dei tonfi intorno a me, qualcosa che veniva aperto e poi chiuso, e poi ancora la presenza di Elisey, mi sollevò un poco la nuca, legandomi dietro un qualcosa di rassomigliante ad un laccio, prima di posare sul mio volto una mascherina e azionare così il marchingegno che doveva essere un aerosol, o qualcosa di simile. Il suono che ne derivò, peraltro continuo, mi disturbò non poco, spingendomi a tentare di ribellarmi, voltando il capo da una parte e dall’altra.

“Stai un po’ quieto… tra non molto starai meglio. Ti verrà anche sonnolenza, tu seguila senza opporti!” si raccomandò, riadagiandomi sul cuscino, percorrendo la linea del mio addome con quelle sue dita, che sembravano onde calme del mare che lambivano dolcemente uno scoglio.

Ero confuso dalla situazione, dal suo atteggiamento, mi parve infine di avvertire una mano passarmi gentilmente tra i capelli, riportandomi alla mente ancora Fyodor. Il pensiero di lui mi calmò per un attimo.

Il pensiero di lui...

Pa-pà...

“Bravo così, ragazzo… respira con più calma ora, e addormentati!”

Persino lì, in quelle nebbie, non riuscivo a pensare ad altro che detestassi Elisey, che non potevo fidarmi, che era tutto sbagliato, e che era ingiusto che, in simili situazioni, si permettesse di essere gentile e delicato come suo fratello.

Lui non era Fyodor, non avrebbe mai potuto esserlo e, mi odiava, così come io odiavo lui, e allora perché quel tocco, quelle attenzioni, quelle cure non richieste?! Perché mi sentivo comunque più tranquillo, con lui al mio fianco?! No… NO! Io non avevo bisogno di lui, non lo volevo, non potevo volerlo!

Mi divincolai di nuovo a vuoto, tentando di oppormi.

“N-no, no… anf!”

“Devi stare tranquillo, Camus, ora non sei nelle condizioni di poterti muovere!” mi disse, tirandomi un poco su la coperta in modo da coprirmi il ventre che si alzava e abbassava freneticamente.

“Va’ via… p-per favore, anf!” gli dissi, quasi implorando, perché non avevo le forze per utilizzare un altro tono.

La sua mano si immobilizzò sul mio petto che mi stava nuovamente auscultando. Sapevo di essermi appena comportato da ingrato, che Elisey era giunto per me, pur chiamato dal mio soldo di cacio, mi aveva appena soccorso e, probabilmente, senza il suo intervento, sarei morto soffocato dal mio stesso catarro, ma avercelo lì, ad assistermi, a contemplare la mia debolezza con quei suoi occhi freddi e scuri, lontani anni luce dai miei bisogni, era insostenibile per me.

“V-va’ via...” rimarcai debolmente.

“Sì… so bene che non sei a tuo agio con me qui, tra poco me ne andrò, non temere. Ti chiamo il pargolo, darò poi a lui le istruzioni per accudirti quando sarà passata la fase critica – mi rispose infine, un poco a fatica, in un tono talmente sommesso da essere quasi irriconoscibile – ISAAC, vieni qui, per favore!” chiamò poi il mio allievo, togliendo la mano dal mio petto per poi voltarsi in direzione della porta.

“Mmmh!” non seppi bene cosa avessi desiderato comunicargli, ma la frase si perse nel vuoto, così come il mio gesto di trattenergli l’orlo della veste per farlo rimanere lì, al mio fianco.

Non… andartene!

Non capivo lui e… neanche me! Non avevo bisogno di lui, allora perché lo cercavo?!

I miei sensi andavano offuscandosi… quella dannata cosa che mi stava somministrato Elisey per via orale mi rimbambiva di più, rendendomi fragile ai suoi occhi, o a quelli dei miei allievi. Facevo fatica ad accettarlo. Le mie percezioni andavano svanendosi, tutte, ad eccezioni di quella di Isaac che, a giudicare dallo scricchiolio del pavimento, era appena entrato quatto quatto nella stanza, un poco timoroso, forse da vedermi ridotto in simili condizioni.

Il mio ometto potevo avvertirlo sempre, sempre, qualsiasi cosa avesse potuto succedere intorno a me. Anche in quel caso mi parve quasi, pur tenendo gli occhi chiusi, di vedermelo avvicinarsi.

“Non disturbarlo, mi raccomando, fallo dormire. Quando la soluzione si esaurisce avvertimi che gliela cambio. E’ in gravi condizioni, ma è un Cavaliere d’Oro, penso che dopo questo trattamento intensivo, tempo una manciata di giorni, la fase acuta dell’infiammazione dovrebbe iniziare a scemare”

Non ci fu alcuna risposta verbale per una manciata di secondi, poi avvertii le sue piccole dita carezzarmi il dorso della mano, ancora così grande rispetto alla sua, per poi stringermela.

“Cosa… ha?” il suo sembrò quasi un pigolio che nulla aveva con il suo solito tono vivace e squillante.

“Quello che avete avuto tu e Hyoga ma elevato al metro cubo perché non se lo è trattato!” fu la sbrigativa risposta.

“Dovevamo accorgercene...”

“Voi?! Due bimbi di 8 anni?! Se non li sa lui i suoi limiti...”

“Elisey...” ringhiò ancora il piccolo, prima di essere interrotto da quella che, a giudicare dal suono, parve una leggera pacca sulla spalla.

“Hai agito bene, non fartene cruccio!”

Sentii Isaac sospirare abbattuto, in pena per me, mentre Elisey mi rimboccava ulteriormente le coperte, avendo cura di lasciare il braccio destro, quello che stringeva il mio ometto, fuori. Mi passò una mano nodulosa tra i capelli, sulla fronte, alzandomi un poco i ciuffi per poi farmeli ricadere con naturalezza.

Come anche Fyodor faceva… in un tempo sempre più lontano che mi mancava sempre di più.

Le mie palpebre fremettero nel cercare di dire le parole che non riuscivo ad esprimere, ma lui mi adagiò meglio la testa sul cuscino.

“Riposa, Camus...” mi sussurrò, e, per un istante, vidi il volto gentile di Fyodor al posto del suo.

“Hyoga è in piedi, anche se non dovrebbe. Ha ancora la tosse e l’affanno, ma era preoccupato per il Maestro. E’ proprio qui fuori, l’ho imbacuccato con la coperta, per quanto sono riuscito. Trema tutto!”

“Beh, neanche tu stai proprio come un fiorellino, eh, anche se prima sembravi una iena! – la buttò lì Elisey, quasi sbuffando – Ci penso io a Hyoga, lo rimetto a letto, tu stai un po’ con lui, lo tranquillizzerà!”

E uscì, chiudendosi la porta dietro senza sbatterla.

La situazione sembrò quasi cristallizzarsi, sentivo forte e chiara la presenza del mio ometto vicino a me, quella sua manina, che si era mossa per stringere la mia, e che racchiudeva a stento le mie dita.

Sapevo di apparire fragile agli occhietti del mio ometto, come un oggetto vuoto, e non volevo. Lui aveva bisogno di me, ero io a doverlo proteggere, dopo ciò che era accaduto ai suoi genitori, eppure...

Isaac, dopo un poco di riluttanza e qualche colpo di tosse, si arrampicò sul letto come una scimmietta, rimanendo ad osservarmi per un tempo indefinito. La sua piccola mano tornò su di me, accarezzandomi dolcemente i capelli con movimenti ritmati, un po’ come avevo fatto io quando era mancato Lisakki. Mi acquietai, cullato dal suo tocco e dal suo profumo un poco selvatico -come lo aveva riconosciuto anche Elisey- che mi stava accompagnando verso il sonno.

Cercavo sempre di non darlo a vedere, ma… mi piaceva molto essere toccato tra i capelli, mi faceva sentire un po’ a casa. Lo faceva spesso nostra madre, lo faceva spesso Fyodor, ed io mi sentivo al sicuro con lui, esattamente come mi sento adesso con voi, ma bichette.

Anche all’epoca, mi sentivo così al sicuro con il mio soldo di cacio vicino… ma non potevo dirlo, era più piccolo di me, aveva lui bisogno di protezione, non il contrario. E quindi mi dimostravo burbero e distante ma averlo lì, a ripercorrere piano piano i miei stessi passi, mi rendeva più sicuro: era il mio sostegno.

Ripensai al nostro primo incontro, a quanto tempo sembrava fosse passato da allora; ripensai anche al lampionaio del Piccolo Principe, che era un po’ Isaac. Anche per lui la consegna si era modificata, diventando mano a mano sempre più complicata e difficile, già in giovanissima età. In principio era stata adeguata a qualunque altro bambino in età prescolare e scolare, ma poi si era infittita: il massacro dei suoi genitori, l’arrivo in Siberia, la morte di Lisakki, i compiti che gli assegnavo ogni volta, severo, sempre più spossanti, per farlo crescere, per renderlo forte e adeguato ad affrontare la vita, a volte eccedendo con la disciplina. Eppure lui non si lamentava mai; mai un secondo aveva avuto un dubbio, sul mio conto, su ciò che gli chiedevo, perseguendo le mie direttive con tutta la forza di cui potesse disporre, con devozione, nutrito dalla voglia di essere alla mia altezza.

Isaac non aveva che 8 anni e un paio di mesi in quel momento, ma io ero sempre più orgoglioso di lui, ogni singolo giorno di più e… non glielo ho mai detto, il solo pensarlo mi fa star male… ma lui, per me, era tutto, la mia forza, il mio coraggio, la mia… casa!

Pensavo questo anche allora, tra il brivido e le vertigini per il malessere e l’ampio sforzo a cui avevo costretto i miei polmoni, quando lo percepii rannicchiarsi al mio fianco, appoggiandosi al cuscino, mentre con le manine posate sul mio torace, si stringeva a me. Non parlava per non disturbarmi, come gli aveva consigliato Elisey, ma in quel momento la sua presenza per me era la miglior cura che potessi avere.

Provai l’istinto annebbiato di ricambiare il suo abbraccio, come spesso accadeva quando il me stesso che mi ero costretto a raggiungere come forma si diluiva in altri me stessi, che io rifuggivo ma che, probabilmente, erano più consoni al vero “io”; provai l’istinto di abbracciarlo ma le forze non erano abbastanza, per cui mi appoggiai debolmente a lui, posando la guancia sui suoi capelli irsuti, sebbene il rumore del nebulizzatore mi desse fastidio.

Mio… piccolo Isaac!

Lui ridacchiò tra sé e sé, forse percependo qualcosa dei miei pensieri che correvano alla rinfusa, poi chiuse la manina sopra il mio sterno, che in quel momento si alzava e si abbassava un poco più regolarmente.

“Sono qui, siamo in due, anzi, direttamente in tre, l’ho già detto, no, Maestro? Guarite presto!”

Sorrisi anche io, per quanto le forze me lo consentissero: tra noi non c’era bisogno di usare altre parole per comprenderci.

Pensai fermamente che, in un mondo ove tutto cambia, almeno ciò non sarebbe mai cambiato. Lo credetti fermamente e ne fui rassicurato, prima di lasciarmi andare completamente alle vertigini del sonno.

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Un capitoletto che si incentra sul difficile rapporto tra Camus ed Elisey, che fonda le radici su un passato comune dei due e che tuttavia non ho ancora spiegato nelle mie storie.

Elisey è personalità sopra le righe, possiamo dire, dotato di una ironia sprezzante, a volte fastidiosa, pieno di difetti e vizi, ma… comprensivo e delicato, all’occorrenza, come il fratello Fyodor. Ed è proprio questo che Camus non riesce a perdonargli, oltre al devastante senso di colpa che prova verso la morte del proprio maestro. Mi piace molto descriverli… Elisey sembra tante cose, decisamente un tipo poco raccomandabile, il più delle volte, eppure nel momento del bisogno c’è sempre per Camus (chi ha letto la Sonia’s side story sa); Camus, dal canto suo fa di tutto per allontanarlo e dice di odiarlo, ma… sarà poi vero? Lo odia davvero così tanto? O odia più sé stesso? Spero comunque che vi sia piaciuto il modo in cui l’ho descritto dal suo punto di vista.

A regolare la bilancia dall’altro lato, vi è invece Isaac, l’importanza, basilare, che il piccolo riveste per lui e che qui ho descritto. C’è un rapporto molto stretto tra i due, che va oltre l’uso delle parole, che rende il loro legame così speciale. E anche loro mi piacciono molto, purtroppo di Isaac, dal manga, non sappiamo quasi nulla della relazione che lo legasse a Camus, ma io l’ho sempre percepito così, con questa devozione incrollabile che lui nutre per il maestro.

Per chi è abituato ad avere a che fare con il Camus originale, magari questo capitoletto risulterà un po’ strano, del resto risulta molto fragile qui… ebbene è ovviamente una mia visione del personaggio, che coincide con la mia serie di storie. Non ama essere toccato, né visitato, anzi, patisce veramente tanto quando ciò succede (ed io giustamente lo faccio visitare e star male ogni 2x3 ma vabbé XD) anche qui i motivi psicologici del suo sentirsi così vulnerabile ci sono, si trovano in giro per tutte le mie storie. Per lo stesso motivo, al ‘mio’ Camus piace molto essere accarezzato tra i capelli; questo è specificato già in Sentimenti che Attraversano il Tempo ( è Dègel ad averlo capito per primo!), i motivi però sono descritti per la prima volta qui: praticamente è una rimembranza infantile che lo fa sentire protetto e al sicuro, e così rassicurato -mi sciolgo, awwwww!- sono piccole cose, non descritte nell’opera, di mia invenzione, certo, ma che me lo fanno sembrare più ‘vero’ e ‘verosimile’.

Anche questa volta dovrei avervi detto tutto. Il prossimo aggiornamento dovrebbe essere nuovamente sui 5 Pilastri, dopodiché, potrà riprendere anche la Melodia della Neve, ferma da un annetto.

P.s: ah, “ma bichette” è un vezzeggiativo francese che significa qualcosa di simile a “mia cerbiatta”, anche questo nuovo nomignolo avrà un significato specifico, Camus lo userà nei confronti di una sola persona... :)

Vi ringrazio di cuore a tutti, come sempre avrò molto piacere a rispondere alle vostre considerazioni, se vorrete :) a presto!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


7

 

 

“Maestro, cosa vuol dire effimero?”

La voce acuta di Isaac mi riscosse dalla lettura che stavo portando a termine su Dostoevskij. Lo guardai brevemente, era ritto sulla porta di entrata con la solita espressione curiosa e un poco determinata nell’attesa di ricevere una risposta.

“Significa che è minacciato di scomparire in un tempo breve, anf” gli dissi, pratico, posando il libro al mio fianco sul letto.

Non ero ancora completamente guarito dal ‘raffreddamento’ che avevo avuto, mi mancava ancora il fiato. I miei ragazzi invece erano sulla via della guarigione, anche se ogni tanto tossivano e tiravano ancora su con il naso. Elisey fortunatamente aveva levato le tende dopo essersi raccomandato, direttamente minacciandomi, di rimanere a riposo ancora per tre giorni. Il catarro era in scioglimento, l’infiammazione stava passando ma io avrei dovuto rimanere a riposare ancora per un po’, almeno secondo le sue direttive.

A letto, chiaro?! -mi aveva infatti redarguito, muovendo il bastone, che aveva sempre con sé, sotto il mio naso per esemplificare l’avvertimento- Non uscire dall’isba e rimani al caldo, intesi? Non una gita a Pevek, non a spasso per la Siberia incontaminata, né a sgranchirti le gambe appena qui fuori! Le faccende domestiche lasciale ai bambini per alcuni giorni, tanto sanno come fare. Non compiere sforzo alcuno, capito? Altrimenti sai che so sempre tutto, lo verrò a sapere e lì sono botte, ragazzino, non ho la pazienza di Fyodor!

Ragazzino… io!!!

Sbuffai nel ripensare alla paternale non richiesta. Fortuna che il vecchio se ne era andato, lasciandomi finalmente quietare. Ovviamente avrei fatto di testa mia, tre giorni erano troppi, gliene avrei potuto concedere ancora uno e giusto perché volevo terminare la lettura di ‘Memorie dal sottosuolo’, non di certo per un’altra ragione.

Isaac zampettò verso di me, raggiungendomi vicino alla testata del letto, continuando a fissarmi con espressione partecipante e la solita lucetta negli occhi che, da sola, era in grado di rinfrancarmi.

“Quindi i fiori sono effimeri?”

“Sì...”

“E anche Nikita, Sasha e gli altri Husky della muta, giusto?” chiese conferma lui, un poco corrucciato.

“Esattamente”

“Oh...” mormorò, quasi dispiaciuto, guardando altrove.

Isaac non era uno sprovveduto, aveva avuto già a che fare con la Nera Signora, troppe volte per essere solo un bimbo di 8 anni, ma ci rimase comunque male perché quella parola dal retrogusto così amaro -effimero- non la conosceva bene e, dal suo punto di vista, era troppo lapidale.

Avvertii il suo sconforto (anche se conosceva la morte sperava, in cuor suo di rimanere eternamente con me, Hyoga e gli Husky della muta) mi chiesi come raggiungerlo, come confortarlo, ma non c’erano parole da dire e la sentenza era davvero capitale.

Chi veniva al mondo si ritrovava circondato da cose destinate a scomparire in un arco di tempo brevissimo, lo stesso nascere decretava la morte. Era spietato, era crudele, per questo avrei dovuto rafforzarli il prima possibile, renderli capaci di sorreggere un simile peso.

Sentivo le sue emozioni, ma non avevo parole da dire in un frangente simile…

Fortunatamente il suo visetto si illuminò improvvisamente, tornando a guardarmi. Mi sorrise, come se avesse trovato una soluzione a tutto.

“Però la vetta dello Iskhodnaya nella catena montuosa dello Chantal, che mi avete mostrato voi, lei non è effimera, vero?”

“In tempi umani, quindi brevi… no!”

Fu di nuovo deluso dalla mia frase, vidi quella lucetta spegnersi, mentre un leggero broncio gli solcò le guance.

“Come sarebbe a dire in tempi brevi no?!?” volle sapere con tutte le sue forze.

“Isaac… - rimisi il libro compostamente sul comodino, voltandomi verso di lui per fissarlo bene negli occhi – Nulla su questo pianeta, nello stesso universo, è eterno… la nascita reca in sé il gene della distruzione.”

Lo vidi annuire, un poco circospetto, prendendo comunque per vero quanto gli dicevo. Non mi fece osservare che io ripetevo all’infinito di prendere come esempio di robustezza e inflessibilità cose che, a loro volta, erano destinate a scomparire, in tempi molto più lunghi, certo, ma pur sempre effimeri; tuttavia ben sapevo che lo stavo pensando, chiedendosi perché rimarcassi la compostezza e la fierezza di cose a loro volta così… vacue…

“La differenza la fa la durata” gli dissi, alzandogli un poco il visetto con due dita per far sì che mi guardasse negli occhi.

“La… durata?”

“Sì, quanto tempo puoi resistere sotto il diluvio senza essere vinto dalla tempesta!”

“Non capisco, Maestro...”

“Conosci il mito di Sisifo?”

“Me ne avete parlato voi! - rispose lesto Isaac, desideroso di mostrarmi quanto avesse imparato da me – Il re Sisifo, costretto, per punizione, a spingere eternamente una grossa roccia fino alla cima di una vetta, ma poi questa crollava nuovamente a valle, obbligando lui a ricominciare...”

“Sì, la versione del mito è grossomodo così – acconsentii, soddisfatto, chiudendo e riaprendo gli occhi - Un autore del secolo scorso, però, ne da una visione affascinante, anf...” rimasi in sospeso, studiando la sua reazione, che si era fatta più attenta.

Non gli dissi, no, che quell’autore portava il mio stesso nome, anche se il suo era un cognome. Inavvertitamente sorrisi.

“Sembra tutto così assurdo e inconsistente portare una roccia che poi frana a valle, non ti sembra, Isaac? Quale è lo scopo di una vita simile?”

“S-sì è… strano, u-un po’… - rispose lui, lesto, prima di rimuginarci su e confermare – Un po’ TANTO strano!”

“Eppure… persino in un compito così ingrato e gravoso una volta arrivati in cima si può godere di un paesaggio stupendo. Ciò basta per riempire l’animo umano”

“Q-quindi...”

Giustamente aveva difficoltà a comprendere. Era un bambino fin troppo sveglio, ma quei discorsi Metafisici lo confondevano e smarrivano. Ne cercava testardamente il filo conduttore per rimanermi dietro, per dimostrarsi degno, il non riuscirci lo umiliava. Gli carezzai brevemente la testolina, regalandogli un nuovo sorriso, prima di posare la mano sul tomo che avevo lasciato sul comodino per toccarne gentilmente la copertina con le dita. Farlo mi dava un brivido, soprattutto con i volumi antichi, era come tornare a casa.

“Tutti noi nasciamo in questo mondo con un fardello, Isaac, è la vita stessa a richiederlo. Nel momento in cui nasci, l’unica certezza è che un giorno morirai, non importa cosa farai della tua vita, chi avrai conosciuto, le emozioni provate… tutto verrà cancellato, i tuoi atomi, disfacendosi, torneranno nel Grande Cerchio del mondo per poi raggrupparsi nuovamente, ma non sarai più tu, questo lo sai fin troppo bene, soldo di cacio...”

“S-sì” annuì, gli occhi un poco lucidi che tuttavia rigettavano le lacrime.

“Ciò che fa la differenza è però quanto tempo tu riesca a resistere… i fiori, lo hai ben visto nei tuoi 8 anni di vita, sono effimeri, non durano che una stagione, poi appassiscono. Anche le montagne verranno erose dalle intemperie, molte di loro si abbassano di pochissimo ogni anno, lo sapevi? - gli chiesi retoricamente, guardando istintivamente fuori dalla finestra – Ma passeranno ere geologiche prima di cedere, a differenza dei fiori… tu devi essere montagna per gli altri!”

“Devo… essere montagna!” si ripeté, determinato.

“Questo è il nostro fardello; il fardello del Cavaliere, il suo percorso per salvaguardare gli altri, la giustizia sulla Terra, e per permettere... ecco, per permettere a quella piccola campanula che nasce sulle sue pendici di continuare a vivere, allietando così il bosco”

“Io montagna… sarò montagna allora, Maestro!” mi rispose Isaac, sorridendo raggiante, più determinato di prima.

Gli sorrisi a mia volta, sollevato nello spirito, il cuore gremito di orgoglio mentre, tornando a concentrarmi sul libro, lo riaprii alla pagina che avevo lasciato.

Lo pensavo veramente, davvero ne ero convinto e, in cuor mio, desideravo che Isaac perseguisse il mio cammino, che fosse fortezza, dura roccia che resisteva fiera alle intemperie. Ma sottovalutavo la potenza dei fiori, la VOSTRA forza, Marta e Hyoga: i fiori sanno essere persino più duri e coriacei di alcuni minerali, non hanno paura di sfiorire per poi rinascere a nuova vita l’anno dopo, così come gli alberi, che cambiano le foglie, le perdono, prima di reinventarsi. E questo, piccola mia, è un principio molto più infinito di qualsiasi altro, ma all’epoca non me ne rendevo affatto conto, ero… troppo immaturo!

“Hyoga è… strano! - mi disse ad un certo punto Isaac, dopo un lungo silenzio, come a soppesare se fosse il caso di riferirmelo oppure no – E’ un po’ giù...”

Era vero, lo sapevo bene, da quando mi ero ripreso grazie alle cure di Elisey non aveva che dato qualche sbirciatina dall’esterno della mia camera, come a controllare che fossi vivo e in buone condizioni, ma quando provavo a contraccambiare lo sguardo, immediatamente si nascondeva, tutto vergognoso. In quei giorni fumosi, quello era stato l’unico contatto, prettamente visivo, tra me e l’altro mio allievo.

“Definisci meglio il suo essere un po’ giù”

“Ecco… parla poco, voglio dire, meno del solito. E’ successo da quando ha conosciuto Elisey, credo lo ammiri, tze!” mi spiegò, non nascondendo il biasimo nella sua voce.

“Isaac, anf, dovresti ammirarlo anche tu, è comunque più grande di te, ha molta più esperienza sulle sue spalle, conosce un sacco di cose e...”

“A ME NON PIACE, MAESTRO! - mi fermò, brusco, gli occhi lampeggiarono come lapilli di lava – Non mi è mai piaciuto, e poi… e poi quello che vi ha fatto!”

“Isaac… - sospirai, cercando di attirare la sua attenzione nel tirargli dolcemente uno dei due piccoli ciuffi verdi che gli scendevano dall’orecchio. Era un rimprovero il mio, ma velato di dolcezza – Ciò che c’è tra me e lui, i nostri problemi, non sono cose che devono offuscare il tuo giudizio. A te non ha mai torto nemmeno un capello, no?”

“No… - confermò Isaac, attento, fremendo però un poco – Ma a voi sì, vi ha fatto del male quel giorno che era ubriaco e vi ha alzato le mani addosso, ed anche prima, da quanto ho capito, per questo non lo posso perdonare!”

Il mio ometto era sempre stato molto protettivo nei miei confronti, ancora una volta troppo per essere solo un bimbo di 8 anni, mi lusingava, ma non potevo permettere che quello, solo quello, ombrasse i suoi pensieri. Sapevo bene a che contesto si riferisse, vedevo bene la rabbia dentro di lui, quel furore che lo aveva sempre contraddistinto e dal quale dipendevano gran parte delle sue energie, ne ero perfettamente consapevole e tuttavia il mio compito di maestro mi obbligava ad inibire il più possibile una tale attitudine. Del resto, cedere alla rabbia era sbagliato per chiunque, ancora di più per un futuro Cavaliere di Atena che avrebbe dovuto essere solenne e incorruttibile perché agiva per un bene superiore.

“Isaac, Elisey ha le sue ragioni per reagire così, le aveva anche quel giorno, il fatto che fosse ubriaco ha eliminato in lui ogni più piccolo controllo sul suo corpo. Tu non devi seguire il suo esempio, perseguendo la rabbia, ma, allo stesso tempo, non devi avercelo in odio per quanto ha fatto a me”

“P-però...”

“Un Cavaliere di Atena ha un cuore grandissimo, deve essere l’ago della bilancia tra il bene e il male, essere dotato di capacità di discernimento e giudizio, questo lo sai bene, vero, mio ometto?”

“S-sì!”

“E allora, se puoi, rispetta il fardello che si porta dietro lui stesso, e che, in gran parte, gli ho inflitto io. Questa è la mia richiesta, Isaac, anche se concepisco sia difficile per te”

“Non ha ragioni per essere così… scorbutico!” soffiò fuori Isaac, ancora restio ad accontentarmi.

“Le ha… le ha! Gli ho strappato la persona per lui più importante...” biascicai, socchiudendo dolorosamente gli occhi, il mio respiro si spezzò per un istante, malgrado cercassi di controllarmi.

“Il Sommo Fyodor?”

“Lui, sì...” dissi ancora, prima di tacere.

Il piccolo rispettò per l’ennesima volta il mio silenzio su quella questione.

“Me lo prometti, Isaac? Ci proverai, almeno?” rinvenni poco dopo dalle tenebre, scrollandomi via quel torpore che mi avvolgeva quando il suo nome veniva pronunciato difficoltosamente dalle mie labbra-

“Sì, Maestro!”

Annuii ancora una volta, sentendomi più rilassato, prima di tornare all’argomento centrale: “Quindi mi dicevi che Hyoga..?”

“E’ molto giù di morale, Maestro, ogni tanto straparla fra sé sé, dice cose come ‘effimero’, ‘morte’, ‘destino’… non so come prenderlo, non sapevo neanche che significasse effimero prima di arrivare da voi e chiedervelo”

Sì, di certo in quel periodo in cui io mi ero ammalato aveva parlato molto con Elisey per uscirsene con frasi simili. Ciò era male, perché lui era molto ruvido, aspro, persino crudo, non nascondeva né camuffava la verità per addolcirla, essendo fin troppo diretto, ma con un bambino così instabile come Hyoga era deleterio. Pensai che dovevo cercare di porvi rimedio ad ogni costo, io, come suo maestro.

“Pensi di riuscire a portarmelo qui, anf? Vorrei parlarci!” chiesi al mio allievo, sebbene mi costasse non alzarmi di mio per prenderlo io stesso. Mi sentivo ancora debole, sebbene non lo manifestassi apertamente.

Il visetto di Isaac si illuminò di nuovo, mi diede un’occhiata adorante per poi raddrizzare la schiena nel cercare di assumere un’espressione estremamente solenne.

“Certo che sì!” affermò, prima di trotterellare via.

Non dovetti attendere molto per il suo ritorno. Avvertii un brusio, poi un incespicare, un colpo, e poi ancora le piante dei piedi che strisciavano sul sul pavimento. Infine dall’uscio della porta si palesò una chioma bionda, seguita da un’altra verdolina subito dietro di lui. I suoi occhi azzurri si incrociarono con i miei, guizzarono quindi velocemente altrove, mentre, liberandosi dalla spinta di Isaac che lo tallonava senza pietà, fece per scappare fuori, trovandovi però una valida resistenza.

“Daaaaaaai, Hyoga, il Maestro Camus ti vuole parlare!” esclamò temerario Isaac, allargando le braccia e le gambe per ostruire l’uscita

“No, no no… spostati!” si oppose Hyoga, cercando una falla per svignarsela ma finendo per essere trattenuto dal compagno.

“Non fare lo scemo, ravanello giallo! - lo rimproverò Isaac, utilizzando un vocabolo con il quale era solito chiamare Hyoga nei (rari) momenti di screzio – Tutti i giorni mi chiedi come sta, ti preoccupi, però non entri, eddaaaaaai!”

“No, no, no!” ribadì il biondo, tutto vergognoso (gli si erano arrossate le orecchie, lo potevo vedere dalla mia posizione), opponendo una fiera, quanto testarda, resistenza.

“Sei proprio tonto, eh, perché fai così?!”

“Lasciami stare, Isaac! Lasciami...” non ebbe il tempo di ultimare la frase che una spinta più forte delle precedenti lo sbilanciò, facendolo finire sul pavimento e il compagno sopra di lui.

Si ritrovarono così uno sopra l’altro, entrambi per terra, e presero a litigare come due lupetti.

“Mi hai fatto male!!! Pesi troppo, Isaac!” si lagnò Hyoga, massaggiandosi la spalla.

“Anche tu mi hai fatto male, mi hai graffiato nel tentativo di scappare via!”

“La colpa è tua, se mi avessi lasciato stare di là non sarebbe successo!” ribatté il biondo, grintoso, sollevandosi un poco sui gomiti nel guardarlo negli occhi.

“Di là a essere tutto solo e catatocoso?!”

“Cata-che???”

“Cata… - Isaac aveva in mente una parola, ma non gli sovveniva – Insomma, privo di iniziativa, nel tuo mondo, a fissare la parete e straparlare!”

“Aaaaaah catatonico, allora!”

“Cat… sì, quello!” tagliò corto Isaac, ferito nell’orgoglio dal fatto che Hyoga, suo coetaneo, avesse un lessico ben più sviluppato.

“Non è affar tuo quello che faccio, o non faccio!”

“Sì che lo è; lo è se ci fai preoccupare!”

A quel punto Hyoga, spazientito, esplose: “Io sto bene da solo, tra me stesso e me stesso, se mi chiudo c’è un motivo, non ho bisogno di… di!!!”

Si stava vistosamente agitando, decisi di interrompere la baruffa tra i due, anche se i loro piccoli alterchi allietavano le mie giornate e mi spingevano a guarire più velocemente.

“Hyoga… - lo chiamai semplicemente, facendolo rizzare e interrompere. Sussultò, alzando timoroso il capo nella mia direzione – Isaac ti ha condotto qui perché sono stato io a chiederlo. Volevo parlarti!”

Lo vidi tremare per poi annuire, perdendo istantaneamente tutta la vivacità. Si alzò in piedi ma era bigio, cosa che permise al compagno di prendere la palla al balzo.

“Visto? Era lui a volerti parlare, ci stai facendo preoccupare, Hyoga!”

“I-io...”

“Vieni qui, Hyoga, al mio fianco!” lo incitai, cercando di non apparire troppo rude.

Il piccolo lentamente si avvicinò al letto, pur rimanendo con lo sguardo basso e distante. Faceva tenerezza, dovetti ammettere, ma non potevamo continuare così, ad inseguirci senza raggiungerci.

“Che succede, Maestro?” mi chiese poi, sempre avendo premura di non guardarmi negli occhi. Era troppo difficile per lui.

“Sono io a chiederlo a te… mi dice Isaac che sei giù”

“U-un poco...”

“Quale è la ragione?”

“I-io, ecco...”

Hyoga non riusciva a comunicare bene con me, con Isaac era stato molto più facile. Si era aperto, ci discuteva, mostrava la sua volontà, con me invece qualcosa lo frenava, non sapevo bene cosa, ma era la stessa cosa che frenava me. Era così difficile il rapporto con lui... per quanto ci provassi sembrava irraggiungibile, per quanto tentassi mi trovavo sempre un muro davanti, e lo stesso probabilmente provava lui nei miei confronti.

Ma era entrato nel mio cuore molto velocemente, il vedermelo lì, così corrucciato, mi inteneriva. Sapevo di sua madre, dei suoi desideri, del considerare la sua vita come una maledizione e nient’altro, lo vedevo fragile, esattamente come Svetlan, e il pensare di rischiare di perdere anche lui, di vederlo arrendersi all’esistenza, mi dilaniava.

Hyoga non riuscì a rispondermi verbalmente, i suoi occhi si diressero verso la finestra, fuori, palpitarono nel distinguere i fiocchi di neve che cadevano e si accumulavano sugli infissi, poi tornò dentro, si concentrò sulle coperte del letto, sul il macchinario dell’aerosol posto sopra comodino. Assottigliò le labbra, le sue pupille tremarono, ed io compresi quello che non era in grado di esprimere.

“E’ per me… che ti senti così?”

Annuì, laconico, continuando a non guardarmi.

“Ti senti in colpa perché ti reputi responsabile del mio stato fisico e di quello di Isaac?”

Annuì ancora, stavolta il suo sguardo si alzò un poco. Mi osservò con insistenza il torace un poco lucido per via della miscela di erbe medicinali che mi aveva dato in dotazione Elisey e che mi ero spalmato poco prima sulla pelle. Ero ancora a petto nudo, in effetti, davanti ai miei ragazzi, ciò mi metteva a disagio anche se tentavo di non darlo a vedere.

“E’ per questo che arrivi, sbuchi dall’uscio, mi guardi, ci guardiamo, ma poi scappi via?”

Annuì per la terza volta, ingoiando a vuoto.

“H-Hyoga, ascolta, t-tu s-sei...”

“...Sei proprio scemo allora, eh!!! - l’esclamazione di Isaac troncò di netto le mie intenzioni, nondimeno fece sussultare il piccolo che, basito, si voltò nella sua direzione – Tu fai parte della nostra famiglia, è normale che ci preoccupiamo per te e che ti veniamo a cercare quando ti perdi, tonto!”

“F-famiglia...”

“E’ così, tontastro! - ribadì Isaac, dandogli una pugnetto sulla nuca per esemplificare quanto diceva – E’ questo che fa una famiglia… ti raggiunge, anche quando sei troppo lontano per essere raggiunto!”

Hyoga era rimasto senza parole, rabboccava aria, osservando prima lui poi me, o meglio la mia spalla, perché sembrava del tutto incapace di osare di più. Vidi i suoi occhi farsi lucidi, le sue labbra si incresparono in diversi punti, come a trattenere un singhiozzo.

L’exploit di Isaac lo aveva colpito e scosso, non sapeva più cosa dire, si emozionò visibilmente.

“Ascolta, Hyoga… - ripresi il controllo sulla mia voce, grato ancora una volta del fatto che qualcuno avesse espresso ciò che sentivo al posto mio, facilitandomi il continuo del discorso – Se ti senti così in colpa per quello che mi, ci, è successo, allora prometti che non lo farai più, non… non proverai più a scappare!”

“M-Maestro, i-io...”

“Non… farlo, va bene? La Siberia non perdona, lo hai ben visto, stavolta siamo riusciti a raggiungerti, Isaac ti ha coperto in tempo, ma… molti altri, prima di te, non sono stati così fortunati!”

Svetlan… e poi ancora Lisakki, ed altri volti senza nome.

“Mi… dispiace!” biascicò ancora lui, torturandosi le mani, lo sguardo perennemente basso.

“E puoi guardami in faccia, piccolo, non hai nulla di cui vergognarti: un uomo guarda sempre in faccia gli altri, senza remore, conscio e certo della strada intrapresa!”

Hyoga annuì per la quarta volta, riuscendo finalmente a incrociare il suo sguardo azzurrino con il mio. Vidi nelle sue iridi l’intenzione di azzerare la distanza tra noi e abbracciarmi, poi stoicamente trattenuta.

Fu il mio turno di annuire, soddisfatto. Allungai io il braccio nella sua direzione, sfiorandogli delicatamente i capelli del color del grano mentre, con il pollice, gli stuzzicavo leggermente la guancia sinistra. Lui socchiuse gli occhi, lo avvertii tremare, un unica volta, prima di vedere le sue mani alzarsi per toccare la mia, premendola contro di sé come se non riuscisse quasi più a celare il suo bisogno di stipulare un contatto con me.

Non gli rimproverai quella manifestazione genuina, ma, pur nella delicatezza del gesto, lentamente, abbandonai quel contatto, costringendomi a non mostrare oltre altre effusioni. Loro erano pur sempre gli allievi, io il maestro!

“Hai parlato molto con Elisey in questi giorni, vero?” gli chiesi, cambiando argomento.

“Sì...”

“E’ anche per questo che ti sei demoralizzato?”

“U-un po’. Mi ha detto cose che… mmh!”

Di nuovo aveva problemi a comunicare, fui costretto io ad ultimare la sua frase.

“Aspre? Crude?”

“S-sì… - si confidò, pur non approfondendo il discorso, prima di sussultare e scrollare il capo, come se avesse paura che le sue parole potessero essere fraintese – N-non è il Sommo Elisey ad essere brutale, eh, no, lui è stato gentile, ma i suoi discorsi...”

“SONO SOLO STRONZATE!”

“ISAAC! - lo rimproverai, saltando su, mentre lui si tappava la bocca, capendo di aver esagerato – Dove hai imparato questa brutta parola?!?”

“I-io, ecco…” si mise a ridacchiare, incrociando le braccia dietro la testa e cominciando a ciondolare con aria innocente.

“Erano discorsi molto profondi, ma… duri… difficile da accettare!” continuò Hyoga, un poco teso.

“Elisey è sempre stato diretto in qualsiasi frangente… ma dovrebbe imparare a ponderare il linguaggio, soprattutto con bambini come voi”

“Però, Maestro… - mi fece notare Isaac, lesto – Anche voi non siete molto diverso, eh, la prima volta che sono giunto qui mi avete riferito che il 70% dei bimbi muore nel primo anno di addestramento!”

Fu il mio turno di arrossire, colto in fallo, gabbato, mi voltai dall’altra parte, in direzione della finestra, borbottando un: “Sciocchezze...” che fece scoppiare a ridere entrambi i miei allievi.

“A-anche a me ha riferito qualcosa di simile, che sarei potuto morire sotto l’Aurora!” alzò la mano Hyoga, già in pace con Isaac e felice di ritrovare l’alleato di sempre.

“Vedete?!” sottolineò quest’ultimo, sempre più divertito.

“Sciocchezze, anf!” ribadii, un poco infastidito dal loro darsi manforte a scapito mio, come due veri fratelli.

Isaac si accorse nitidamente del mio fiatone che non riuscivo più a sopperire, pertanto, non facendomelo pesare, perché sapeva bene quanto mi costasse, propose a Hyoga di andare un po’ a giocare in soggiorno prima di mettersi ad apparecchiare la tavola. Lo faceva per non farmi ulteriormente stancare, lo sapevo, ma mal tolleravo stare su un letto a non far niente, delegare le faccende domestiche ai due piccoli, insomma, in una parola: essere un peso!

Mi stesi quindi sul letto, sistemandomi il cuscino, ripromettendomi che mi sarebbero bastate poche ore di riposo per riuscire a recuperare, altro che i tre giorni che paventava quel vecchio. I due lupetti si stavano preparando per uscire dalla camera, mi tirai su le coperte fino a metà torace, socchiudendo gli occhi per addormentarmi, ma un altro pensiero mi percorse.

“Hyoga, ancora un attimo, per favore... ti ha detto qualcos’altro Elisey? - volli sapere, fermando il piccolo sullo stipite della porta – Qualcosa circa… me, anf? O… sé stesso?”

“Di voi ha solo detto che vi conosce da anni, mentre su di lui ha semplicemente definito sé stesso come un geografo ed esploratore.

Geografo ed esploratore, eh?

“Ho capito, grazie, vai pure a giocare con Isaac, Hyoga, io… giusto poche ore di riposo e poi torno operativo” gli dissi, chiudendo stancamente gli occhi.

Attesi che la porta si chiudesse dietro alle sue spalle per lasciar trapelare un lungo sospiro dalle mie labbra. Riaprii le palpebre, sentendomi bagordo, posai una mano sulla mia fronte, avvertendola sudata, l’altra sopra lo sterno, le mie dita ne percorsero brevemente l’insenatura. La mia temperatura corporea era nuovamente in aumento e non di poco, ciò mi seccava. Buttai un occhio alla scatoletta di erbe medicamentose che mi aveva lasciato Elisey, ritrovandomi a sbuffare infastidito.

Mi odiava, ma si prendeva cura di me… sempre!

Mi detestava… ma non mi avrebbe mai permesso di morire.

Era forse perché, quel supplizio, quel peso di essere stato responsabile della morte di colui che mi aveva cresciuto come un figlio, doveva necessariamente accompagnarmi per un lungo, lunghissimo, periodo senza darmi più respiro?! Vi erano dei momenti in cui avrei voluto non sentire più nulla, NULLA, ma Elisey non me lo consentiva.

Vivere per continuare a convivere con le mie colpe…

Vivere per continuare a convivere con il ribrezzo che provavo per me stesso...

Geografo ed esploratore, eh? -sibilai tra me e me ad un certo punto, quasi non riconoscendo la mia voce da quanto snaturata fosse – Ci stai provando con tutte le tue forze ad essere con gli altri come era tuo fratello, lo vedo bene, ma il punto è che non lo sarai mai, Elisey, non potrai mai essere come lui, MAI! Sei troppo arido dentro, ed io… io ti odio!

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Trovo che Camus che cita Camus (Albert) sia sempre sensazionale, per cui… eccovelo servito su un piatto d’argento, aha!

Capitoletto che fila come l’olio, senza il bisogno di tante spiegazioni a riguardo. Si situa alcuni giorni dopo il precedente e sottolinea ancora di più l’impossibilità di raggiungere pienamente l’altro tra i personaggi di Camus ed Elisey ma anche di Hyoga.

La domanda ricorrente è di sicuro: ma quindi, in tutto questo, cosa diavolo è successo a Fyodor, è davvero morto per colpa di Camus?! Ma temo dovrete aspettare un bel po’ per questa risposta, l’importante, ai fini della trama, è che l’Acquario si senta il solo responsabile e tanto basta, perché questo lo condizionerà per sempre anche nei rapporti futuri.

Al di là di ciò, Camus che parla, che spiega, a me affascina sempre moltissimo, e vederlo relazionarsi con gli allievi, pur in due modi diversi, è una delle cose che mi piace descrivere maggiormente nelle mie storie anche se non è sempre possibile.

Non mi resta che augurarvi buona serata e di rinnovare l’appuntamento per la prossima volta, grazie a tutti :)

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


8

 

 

Quell’estate sognai diverse volte di essere un cigno dalle candide ali bianche.

Non mi era mai capitato, in vita, di sognarmi di essere un cigno. D’altronde, per come era mutato il mio animo, lo trovavo molto sciocco e insensato.

Eppure quell’anno, 260 anni dopo la data della mia morte, mi capitò diverse volte.

Ero quindi un cigno, volavo su un deserto di ghiaccio e non incontravo nessuno, né uomini né animali che fossero. Ero solo. Meglio così, lo preferivo. Dalla gente io tendevo ad allontanarmi, ritagliando per me uno spazio di intimità che nessuno, privo del mio permesso, sarebbe stato in grado di valicare.

Volavo indisturbato sul permafrost, sui mari, ascendevo i monti, le Alpi, che avevo attraversato da piccolo per giungere ad Atene, la catena montuosa del Taigeto, dove ci portarono “i grandi” poco prima della nostra investitura a Cavalieri d’Oro, e infine gli Urali, che avevo visto dall’aereo, quando il mio Maestro Fyodor mi portò in Siberia per addestrarmi allo Sciamanesimo.

Il Maestro Fyodor… o forse mi inganno ed era il Maestro Krest? Come giunsi in Siberia? Come conobbi lei?!

Non rammento più… i ricordi si accavallano e ingarbugliano.

Non rammento più.

In ogni caso, stavo bene da solo, a volare così, senza una meta né pensieri, eppure… soffrivo la solitudine e non ne capivo la motivazione. Non MI sono mai capito probabilmente!

Mai.

E ora sono finito in pezzi.

Ad un certo punto del mio lungo peregrinare senza capo né coda, individuai una figura evanescente in mezzo ai ghiacci perenni, piccola e apparentemente insignificante. Mosso da un istinto caldo, non meglio definito, planai al suo fianco, atterrando elegantemente e smuovendo appena l’aere, senza tuttavia produrre alcun fono.

Buonanotte…” lo salutai educatamente (erano infatti calate le tenebre, anche se i dintorni erano illuminati), chiudendo di riflesso le ali nell’attesa che si voltasse verso di me.

L’esserino sussultò, si girò quindi verso di me, ed io riconobbi i suoi capelli del bagliore del grano prima ancora dei suoi occhi di un azzurro puro che mi ricordavano il colore chiaro dell’interno del ghiacciaio che veniva chiamato ‘Mer de Glace’.

Buonanotte – mi rispose con lo stesso tono, spalancando meravigliato la bocca e gli occhioni – Come sei bello!”

Era il mio Hyoga, persino più piccolo del nostro primo incontro. Sembrava avere 6 anni, l’età in cui, supponevo, aveva perso la madre. Inspiegabilmente, non fui sbalordito da quel prodigio, come se già fossi stato precedentemente consapevole di quell’incontro.

Grazie… - gli risposi, arruffando un poco le piume – Ho ali grandi e forti, posso coprire lunghe distanze!”

Davvero?! Non sembrerebbe, con quel collo sottile, le zampe palmate e il becco tondo… sei elegante e bello, delicato, certo, ma forte non...” lasciò cadere il discorso nella paura che mi potessi offendere.

Non ci diedi peso, mi limitai a zampettare vicino a lui, mostrando la mia apertura alare in tutto il suo splendore: “Eppure sono resistente come pochi! Posso compiere in volto un tragitto lungo moltissimi chilometri, pensa, dalla tundra siberiana al Mar Nero...”

E come… come fai con quel corpicino?” volle sapere ancora Hyoga, carpito dalla mia rivelazione, fissandomi con quei due occhioni che manifestavano ammirazione crescente.

Sono forte e vigoroso, ho ali robuste, e zampe adatte al nuoto. Non mi stanco facilmente, mi muovo parecchio...”

Incredibile… quanta forza, in un corpo così apparentemente esile!”

Puoi esserlo anche tu, basta allenarsi… a tutto ci si abitua, basta avvezzarsi alla pioggia fredda, alla stanchezza, alla sofferenza… è così che si diventa forti!”

Oh… - biascicò ad un tratto lui, tornando a rannicchiarsi su sé stesso, fissando un punto lontano non ben definito – No, io non lo sono...”

Perché?”

Perché non sono adatto a questo mondo!” sorrise malinconicamente lui, buttando fuori un grosso sospiro.

Ebbene, non lo ero neanche io.

Mi avvicinai ulteriormente, prendendo posto al suo fianco, accovacciandomi come quando tenevo al caldo e al sicuro le uova. Non lo dimostravo, ma ero stanco dal lungo viaggio, mi sembrava di aver volato per secoli e secoli senza meta, senza un posto dove andare, da solo, alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, che avevo perso. Chi? Era passato talmente tanto tempo... non lo rammentavo più.

Chi stavo cercando?

Se avessi rincontrato quella persona che tanto andavo a cercare… la mia sofferenza sarebbe diminuita? O aumentata? Avrei potuto trovare… pace?

Che cosa stavi facendo? Cosa ti ha portato qui?” domandai, indagando sulla sua situazione per non pensare alla mia. Mi feci attento e percettivo, scrutando nel profondo ogni più piccolo cambio di espressione.

Nulla... mi sentivo sperso, privo di radici, mi sono state strappate, sai? - mi mostrò la sua tristezza, come io davo sfoggio delle mie ali, senza tuttavia dare cenno di vergogna. Era di gran lunga più forte e coraggioso di me che provavo, invece, ad atteggiarmi – Proprio alla ricerca di quelle, mia madre ed io avevamo intrapreso un viaggio per conoscere mio padre, ma… non è andata bene, e così sono qui da solo, non c’è più nessuno...”

Lo guardai, comprensivo. Anche io le avevo perse, le radici, per questo vagabondavo senza una meta, volando in lungo e in largo senza mai posarmi. Anche i miei ricordi, così come la mia essenza, andavano frantumandosi in mille e forse più frammenti.

Troppo, davvero troppo era trascorso. Il mio nome non lo rammentavo che a stento. Aveva forse a che fare con la fusione del ghiaccio, dei ghiacciai che, umiliati da quel calore che talvolta è vita e talvolta è morte, franavano a valle, fondendosi poi nell’acqua. Ma non ero affatto sicuro che quel nome fosse ancora quello corretto.

Ad un tratto, avvertii Hyoga trarre un nuovo sospiro prolungato, gli occhioni lucidi, mentre, appoggiando il mento alle ginocchia, aggiungeva ancora qualcosa: “Sì è un po’ soli, in questo deserto di ghiaccio, non trovi?”

Sì è soli anche con gli uomini… - dissi, cupo, mentre con il becco prendevo un po’ di cristalli di ghiaccio per dissetarmi – Anzi, al mio modesto modo di vedere le cose, si è addirittura PIU’ soli in mezzo agli uomini!”

Il bimbo ci rimuginò un po’ su come era solito fare quando qualcosa di non concepito prima dalla sua testolina veniva espresso da terzi. Soppesò, trattenne quelle parole un poco rudi. Decise infine di non lasciarle, permise loro di attecchire dentro di sé, filtrandole.

Forse hai ragione… - acconsentì, cupo, prima di scrollare la testa e sorride amaramente – Effettivamente sono stato in mezzo alla gente estranea e mi sentivo solo uguale, soltanto mia madre mi faceva sentire a casa, al sicuro e… non c’è più! E’ stata inghiottita dalle acque...”

Io sono anche un animale acquatico… - affermai, fissando il mare in lontananza al quale lui sembrava così irrimediabilmente attratto – Colui che lo desidera io posso riportarlo all’elemento primigenio...”

Da-davvero?!”

Mi fai pena, tu, così fragile in mezzo a questo mondo fatto di ghiaccio, freddo e crudele… se un giorno la sofferenza sarà troppa, se non riuscirai più a reggerla… io posso riportarti al luogo a cui sei stato brutalmente strappato!”

Mi… mi ci puoi riportare?! - chiese conferma, speranzoso – Mi ci porterai tu se… se deciderò di arrendermi?”

Arrendersi. Morire.

Intendeva questo ed io lo sapevo, il cuore mi diede una fitta di avvertimento, ma mi sforzai di continuare.

Non vi è nulla di male nella resa. Quando si è troppo stanchi e soli, quando il dolore diventa insopportabile, quando si desidera solo la pace interiore… allora, forse, il nulla che sussegue la morte non è poi così male, no?”

No, non lo è! - acconsentì ancora, gli occhi lucidi, tornando a scrutare il mare – Non lo è… anche se mia madre mi aveva chiesto di vivere!”

Vivere. Non era solo sua madre a desiderarlo. Il mio ardire in quel discorso stava cozzando con qualcos’altro; qualcuno… qualcuno che non era affatto d’accordo. Qualcuno che, proprio in quel momento, mi urlò nella testa, e il suo grido, gutturale, vibrò nel mio petto ancora inesperto.

Incongruenza. Cosa diavolo stavo dicendo?! Io, che mi ero prefissato di forzarlo a crescere, a strapparlo da un destino nero di morte, che professavo quelle parole arrendevoli, dandogli anche la mia benedizione per una eventuale riuscita?!?

Mi sentii frastornato… era come se quei pensieri fossero doppi, dati da due individui strettamente affini, se non legati da una stessa essenza, ma dotati di due personalità diverse, per certi versi agli antipodi. Mi venne disgusto e nausea -i cigni provano nausea?!?- nel non riuscire a raccapezzarmi. Provai per la prima volta su di me le vertigini, ed era folle, perché percorrevo sempre lunghe, lunghissime, distanze ad alta quota senza mai fermarmi, come era quindi possibile che…

Non ultimai il pensiero, le braccine di Hyoga mi avvolsero dolcemente. Mi sospinse verso di lui, permettendomi di appoggiare il lungo collo, sottile fascio di luna, sulla sua spalla per essermi così di conforto. Era riuscito a raggiungermi.

Improvvisamente mi sentii inspiegabilmente pieno, al sicuro; una sensazione di tepore mi avvolse inaspettatamente. Credevo di averlo ormai scordato, il tepore, il calore… e invece tornava, consegnandomi una spiacevole sensazione di pianto.

Ma ero un cigno, non potevo piangere. Non più.

Non ero ancora tornato a casa, tuttavia fino a quel giorno, lo avvertii distintamente, mi ero mosso in lungo e in largo proprio per incontrarlo e legarmi a lui, sparuto piccolo fiore a tre petali che racchiudeva però il senso della vita.

Per legarmi a lui, già...

Vale anche per te… - mi confortò, con voce calda e rassicurante – Se non ne potrai più, se sarai troppo stanco, ti coverò dentro di me, riportandoti al luogo che ti spetta!”

Il luogo che mi..?”

Tutti ce l’hanno, io lo so… non so quale sia il tuo, ma… lo troveremo, te lo giuro!”

Annuii, quasi tremando. Ero effettivamente già molto stanco, smarrito, privo di radici, ma avevo trovato lui, il suo cuore, disposto ad accettare e cullare ciò che era rimasto di me.

Un unico frammento impazzito nel crocevia del tempo. Un’unicum.

Un unico frammento impazzito che mi legava ancora a lei, e che presto tuttavia mi avrebbe contaminato. Mi rabbuiai a quel pensiero.

Avevo ancora facoltà di parola, pur in quella forma, non potevo permettermi di perderla!

Hyoga, ascolta...” il mio tono si era fatto pesante, un poco grave. Desiderai l’attenzione del piccolo che lui mi concesse subito, con i suoi occhioni azzurri.

Dentro di me sorrisi, anche se i cigni non erano in grado di farlo. Sarebbe, infine, andato tutto bene.

Hai detto… che ti piace il candore delle mie piume?”

Oh, sì, tantissimo!” le sue iridi si erano fatte percettive, brillavano nella notte ricolma di stelle.

Ebbene… molto presto questo colore si tingerà di sfumature fosche, esse cresceranno mano a mano che si protrarrà la mia presenza in questo mondo.”

Oh no, e che si fa?!” sembrava dispiaciuto, mi guardò con foga, come a dire che ci sarebbe stato lui a proteggermi. Non mentiva, lo sapevo. Non sarebbe comunque bastato. Sapevo anche questo.

Devi promettermi che quando ciò succederà, quando sarò ormai irrecuperabile… tu mi fermerai!”

Ma io non ti voglio fermare! - si oppose il bimbo, cocciuto – Sei gentile e buono, perché dici questo? Troveremo una soluzione!”

Non posso evitarlo, purtroppo… per questo ho bisogno di te, lo farai? Mi… fermerai tu?”

Io non voglio fermarti...”

Ti troverai nella situazione di dover decidere, piccolo, non ci saranno alternative, ma se sarai tu a farlo, io sarò comunque salvato!”

Non capisco… sei così bello e splendente, perché mi dici questo?”

Devi promettermelo!”

E se non ti volessi lasciare andare?”

Te lo chiedo… come mio ultimo desiderio!”

E’ follia!”

Non… se riuscirai a salvare altri; altre persone che tu ami!” sorrisi con naturalezza, sebbene faticassi non poco ad esprimermi.

Mmm, i-io... – non voleva accettare, lo capii, ma non c’erano altre soluzioni – va bene, però tu mi devi promettere che, almeno, ci proverai a non farti risucchiare!”

Farò quanto è nei miei poteri, lo giuro!” acconsentii, cercando di essere il più convincente possibile.

Ma non sarà sufficiente, prima o poi questo mondo riuscirà a corrompermi… e lì sarà la mia fine!

Pensai ancora, ma non glielo dissi. Avevo paura. Non potevo permettere che la provasse anche lui. Lo vidi annuire di nuovo, prima di avvicinarsi nuovamente a me e stringermi nell’accarezzare le piume ancora bianche. Ancora…

Chiusi gli occhi nel sentirmi rasserenato. Da quel momento in poi, sarei rimasto con lui finché avrei potuto. Mi chiesi tacitamente per quanto tempo ancora sarei riuscito a mantenere una mia autocoscienza prima di ricongiungermi con l’altra mia ala, come giusto che fosse. Un brivido di timore mi sconvolse, ma le carezze del piccolo mi chetarono. Sarebbe andato tutto bene, in qualche modo, avrei combattuto oltre la vita affinché tutto potesse sistemarsi… per lei, anche se non ne ricordavo più il nome; per un futuro migliore, sebbene, in quello stesso futuro, non fosse più prevista la mia presenza...

Perché l’avrei protetta, anche se sotto un’altra forma.

L’avrei protetta.

Ad ogni costo.

Perché l’amavo.

E l’amore, sebbene muti inequivocabilmente, è qualcosa che rimane impresso nell’anima.

Per sempre.

La mia.

Come la sua.

Lo sai anche tu, vero..?

 

...Marta...

Ti osservo mentre pigramente sonnecchi, la bocca leggermente dischiusa. Hai la testa delicatamente appoggiata alle braccia tenute incrociate sopra la sponda del letto, l’espressione un poco tirata, non del tutto serena, le sopracciglia arcuate dalla tensione accumulata che tu hai deciso di aiutarmi a sostenere. Così vicina a me, sia emotivamente che fisicamente...

Ti accarezzo dolcemente la testa con la mano libera, sostando sui tuoi capelli del colore delle castagne mature che, a seconda della luce, emanano qualche scintillio rossiccio non sempre facile da scorgere. Arrivo fino alle scapole, prima di fermarmi e ricominciare, partendo dal capo.

Proteggerti… ci riuscirò mai? Ho detto così ad ognuno di voi, credevo fermamente di riuscirci, e invece… vi ho persi, o rischiato di perdervi, innumerevoli volte. Tante. Troppe. E un uomo, questo, non dovrebbe MAI permetterlo!

La mia mano si ferma improvvisamente, le dita stringono convulsamente il palmo fin quasi a conficcarsi nella carne. Mi sfugge un singhiozzo, non riesco a trattenerlo.

Non devo, no… non ora.

Non ora, maledizione!

“Camus...”

La tua voce. Mi rendo conto appena di aver stretto disperatamente le palpebre. Tutto si è fatto buio, non so per quanto, solo un leggero svolazzio di ali mi è sembrato di udire; in un istante, l’immagine di alcune piume bianche fluttuanti si forma nella mia mente.

Mi ci potrei smarrire nel tentare di tenerle tra le mie mani, perché esse mi sfuggono dalle dita.

Mi ci potrei smarrire ad inseguirle, ma quando sento la tua voce chiamare leggiadra il mio nome, qualcosa si incrina ulteriormente dentro di me.

Impiego un po’ a recuperare la capacità di parlare, a fatica riapro le palpebre che vorrebbero solo rimanere chiuse nel ricordo. Tu sei davanti a me, mi fissi con occhi pieni e percettivi senza farmi sentire sbagliato in questa mia debolezza che non ho ancora imparato ad accettare pienamente. Ma tu sì.

Come Hyoga.

Che cosa farei… se non vi avessi al mio fianco?

“Cam?”

Mi richiami, stavolta abbreviando il nome, forse preoccupata dalla mia non reazione. Mi sforzo di sorriderti.

“Dovresti andare a riposare, piccola… mi hai aiutato in tutto e per tutto con i medicamenti per Hyoga, a lavarlo e a cambiarlo, ma ora sei stremata...” ti dico, guardando imbarazzato altrove. Perché anche se sono consapevole della tua scelta di provare su di te le mie emozioni, non riesco ancora nemmeno a pensare di farmi vedere così fragile da te, da voi.

“E tu? Se abbiamo già fatto tutto, potremmo chiedere il cambio a Michela o a Milo per stanotte...” mi proponi, alzando un poco la testa.

“No, io… sto qui, devo stargli vicino, non posso lasciarlo - biascico, stringendo di riflesso la mano di Hyoga che non ho mai smesso di tenere per tutto questo tempo – Tu, però...”

“Non ancora… - è la tua serafica affermazione, mentre mi sorridi teneramente, come se ti fossi aspettata questa mia risposta e fossi stata pronta a ribattere – Sono sveglia adesso. Continua… continua a raccontarCI, Camus!”

Ci..?

Non riesco a parlare, ma deve essere la mia faccia sorpresa a farlo al posto mio, perché tu, ridacchiando con naturalezza, dopo esserti stiracchiata brevemente come sei solita fare, torni a sistemarti compostamente sul bordo del letto, gli occhi nuovamente puntati su di me.

“A me e Hyoga, sì! Stiamo entrambi… ascoltando!”

“M-ma Hy-Hyoga...”

Guardo il mio ragazzo, il suo viso pallido e sfatto; i capelli, di un biondo spento, scarmigliati e incollati alla pelle, nuovamente sudata malgrado il lavaggio di poco fa. Non riesco a proseguire, un groppo mi si forma in gola, diffondendosi poi anche nel petto. Con la mano tremante, gli sfioro la fronte con le dita, scostandogli alcuni ciuffi di capelli che gli ricadevano sulle palpebre abbassate segnate da rughe di sofferenza.

Come potrebbe udirmi… in queste condizioni?!

“Oh, sono convinta che ci riesca piuttosto bene, sai? Anzi, starà borbottando fra sé e sé… - mi rassicuri, leggendomi dentro, prima di sollevarti un poco, tossicchiare per darti un tono e gonfiare il petto nel tentare di imitare una voce maschile – ma guarda se dovevo farmi simil ammazzare per fargli cavare qualcosa dal buco, sgrunt!”

Butto fuori aria nello scaricare un poco la tensione accumulata. Sentirti parlare mi tranquillizza, mi riscuote, mi fa sperare davvero in un risvolto favorevole. E’ come prendere una boccata di aria pulita. I miei polmoni tornano a respirare, avverto l’ossigeno prendere il posto dell’immane peso di poco fa.

“Non credo che Hyoga si esprima così… - nego con la testa, regalandoti un leggero sorriso – Questa è una frase molto più da Isaac!”

“Oh? Forse! - acconsenti, prima di tornare giù, regalarmi un’altra espressione dolce, e socchiudere gli occhi – Però il succo è qualcosa di simile! Continua a raccontare, Camus, la tua voce è molto bella… e delicata! Può raggiungerlo… dovunque si trovi ora!”

“Pensi che… anch’io ci possa riuscire? N-non sono mai...”

...stato in grado di arrivare ai vostri cuori. Siete voi ad aver raggiunto me, ad avermi sorretto, ad avermi dato la forza in tutti questi anni. Ed io… ed io…

“Suo padre ne è in grado, sai, ha una percezione incredibile! E’ stato in coma profondo ma sentiva comunque le parole di chi gli stava intorno - mi rispondi con un nuovo sorriso, sebbene un poco più tremante, lasciando che le palpebre ti si chiudano, vinte dalla stanchezza – E, sempre suo padre, è l’uomo più puro e giusto che ci sia, nonché… emotivo! Se lascerà che scorrano, i suoi sentimenti raggiungeranno sicuramente il cuore di suo figlio!”

L’uomo più puro e giusto che ci sia… come mi chiamava Isaac, con gli stessi occhietti carichi di adorazione. Quanto… quanto gli somigli, piccola mia, tu non lo immagini neanche!

Non ho più parole. Ancora una volta sono state prosciugate da una naturalezza disarmante, come quella del mio ometto.

Tu devi percepire i miei occhi lucidi, perché ti nascondi ancora di più tra le braccia in modo da farmi sentire al sicuro nel manifestare ciò che provo. Lo fai per me perché lo sai. Sai che io non sono ancora pronto a sostenere questa debolezza, men che meno trasformarla in forza, ma tu sì, ci riesci per entrambi. Ed io non posso che essere fiero, e orgoglioso, ancora una volta, che tu abbia scelto di camminare al mio fianco, permettendomi di sorreggermi a te senza farmi sentire vulnerabile.

Non sono più vulnerabile… perché io ho voi!

Il mio respiro muta, mentre, lentamente, mi chino verso di te, scostandoti un poco i ciuffi dalla fronte.

“Hai… hai ragione… come sempre! - biascico, posandoti appena le labbra sulla tua pelle, sostandoci un po’, prima di regalarti un leggero bacio e successivamente raddrizzarmi, pur tenendoti la mano sulla testolina – Dove… dove eravamo arrivati, nel racconto?”

Tu strizzi le palpebre, non mi rispondi subito, crogiolandoti invece nel mio gesto, che so piacerti particolarmente.

Perché è qualcosa che mette direttamente a contatto le nostre anime, oltre che i nostri corpi, e significa: da ora in poi ti proteggerò, qualsiasi cosa accada!

“Mmm, dunque… ah, ci eravamo avvicinati all’estate, se non ricordo male, la prima, con Hyoga!”

“La prima, sì...” stringo di riflesso la mano del mio ragazzo, che continuo a sorreggere in questi giorni così difficili, accarezzandogli di riflesso il dorso. L’altra invece, ancora posata su di te, trema con più forza, al punto da metterti in allarme.

“Te la senti?” mi chiedi conferma, pur mantenendo gli occhi chiusi per non mettermi in ulteriore imbarazzo.

“Sì, io… - mi raschio a fatica la gola, cercando di recuperare un minimo di voce – Ce la posso fare!”

...Perché non sono più solo, anche se mi trovo in mezzo a cento, mille estranei, o isolato in un deserto, di ghiaccio o sabbia che sia, non sono più solo!

Perché io… ho voi!

 

 

Quell’anno, l’anno in cui il piccolo Hyoga entrò nelle vite mie e di Isaac, fu insolito.

Insolito, su tutti i fronti.

Avevo preso a fare un sogno strano, ricorrente, sempre uguale a sé stesso.

Uno spiraglio di altre vite, forse.

Più semplicemente, data la mia mente analitica e critica, una bizzarria di cose insensate.

Un sogno che non c’era verso di rammentare. Nella maniera più assoluta.

Ed era vero che i sogni dovevano rimanere tali fino al risveglio per poi essere relegati ad un angolo della propria mente, ma in quel particolare frangente non riuscivo a darmi pace nel non ricordare alcunché di quanto fosse successo nel mondo onirico.

Accadde poi che una notte, sempre in quell’estate del 2003, durante uno di questi momenti, mi svegliai più bruscamente del solito.

Anche quello era inusuale.

Generalmente non permettevo mai che le chimere prendessero il sopravvento.

Non era razionale.

Non era da Cavaliere.

Era semplice debolezza e futilità.

Ma successe e fu talmente intenso che ciò mi sconvolse, al punto di rimanere boccheggiante e attonito sul letto per diversi minuti.

Frastornato.

Scosso.

Scardinato.

Al punto da non rammentarmi, per qualche secondo, chi fossi.

Chi ero?

No, cosa ero?

Dove stavo andando?

Ci misi quindi un po’ a capacitarmi di chiamarmi Camus, di essere Cavaliere d’Oro di Aquarius, di trovarmi nella mia stanza all’isba e, cosa non meno importante, di avere due allievi scavezzacollo a cui badare, nonostante la mia giovane età.

Isaac e Hyoga...

Mi girai appena, attirato dalla luce di fuori che già penetrava prepotentemente dalle persiane serrate… automaticamente sbuffai.

Ah, giusto, siamo durante l’Estate Artica, il sole che non tramonta mai.. che giubilo!

Pensai, innervosito, maledicendo mentalmente la luce che comunque riusciva a penetrare, sebbene avessi chiuso tutto.

Fortunatamente il sogno, che mi aveva sconvolto fin dal profondo dell’anima come gli altri suoi consimili di quell’annata, stava velocemente sparendo tra le nebbie dell’incoscienza. Non riuscivo quasi più ad afferrarlo, a ricordarmi cosa avessi visto, ma la sensazione di sbigottimento, di paura, di… lacerazione, mi era rimasta.

E faceva male, quella, dannatamente male, perché mi sentivo divelto, fratturato, non completo. Irreversibilmente segnato.

Assurdo! Era tutto così assurdo, che proprio io rimanessi frastornato da una inezia come poteva solo essere un sogno adolescenziale.

Mi scrollai via di dosso tutta quella sensazione così intollerabile per me. Mi alzai in fretta dal letto e, senza accendere la luce -che tanto non ce ne era bisogno, ci sarebbe voluto di spegnere il sole!- mi rivestii, provando fastidio al solo sentire i vestiti incollarsi alla mia pelle a causa del sudore già preesistente. Necessitavo di una doccia e anche in fretta, ma prima avevo un compito da svolgere. Aprii quindi la porta di camera mia, girando la chiave, per poi uscire.

Mi resi in fretta presentabile, perché non potevo salire al piano di sopra, a vedere come stavano i miei lupetti, con la maglia che ancora era ammucchiata confusamente sui pantaloni, rialzata in alcuni punti, perché comunque -lo sai- tendo ad indossare indumenti piuttosto corti a dispetto del disagio che mi procura mostrare quella zona. Del resto… ho sempre amato avvertire il venticello leggero sfiorarmi il ventre, giocando con il tessuto del mio vestiario, scoprendomi dolcemente la pelle con movenze leggere e sinuose che ricordavano il lento ondeggiare dei campi di grano in estate.

Al ripensare al grano, mi sovvenne di Hyoga, il sogno fatto, che, pur andando a scomparire, mi riportava alla mente il suo visetto corrucciato sulla banchisa. Diedi un’occhiata all’orologio, erano le tre di notte, eppure il sole brillava, rischiarando già i contorni della casetta. Era troppo presto per svegliare i miei allievi, ma non mi sarei più addormentato, ne ero consapevole, decisi quindi di salire al piano di sopra per vedere comunque come stessero.

Entrambi erano guariti bene dalla polmonite, ed erano tornati forti più di prima, ma avevo preso l’abitudine, quando dormivano, di soffermarmi a guardarli, in silenzio, cercando di imprimere dentro di me ogni più piccola loro movenza, che era specifica e unica, e che delineava il loro temperamento così diverso.

Arrivai su, aprendo la porta senza far rumore, trovandomeli ancora intenti a dormire profondamente. Il letto di Isaac era il più vicino alla porta, quello di Hyoga alla finestra, dalla quale entrava un raggio di sole che gli illuminava un poco la fronte e i capelli biondi. Sorrisi tra me e me, avviandomi all’interno per soffermarmi a vedere prima uno e poi l’altro.

Isaac dormiva tutto storto, in posizione scomposta, la coperta gettata sul fondo, le gambe divaricate, e la maglietta del pigiama quasi completamente rivoltata, da quanto si fosse mosso come una anguilla. Dormiva con la bocca aperta e un’espressione beata, una delle sue manine era parzialmente nascosta sotto il tessuto, come se, prima di assopirsi pesantemente, si fosse grattato appena sotto la clavicola. Gliela presi garbatamente, adagiandogliela lungo il fianco, mentre, con fare protettivo, gli risistemavo compostamente la maglietta giù. Isaac non aveva certo i miei problemi di pudore, anzi, ma vedermelo lì, così stravaccato, con il pancino ben in mostra, mi aveva dato l’impulso di ricoprirlo.

Lui probabilmente avvertì la mia vicinanza, perché, impastando un poco con la bocca, si sistemò meglio sul cuscino, iniziando a parlottare nel sonno: “Avete visto, Maestro Camus? Uh, sono sempre più forte, p-presto sarò in grado di proteggervi!”

Sorrisi a quelle sue parole, avvertendo calore dentro di me. Gli accarezzai un poco i capelli irsuti, prima di prendere il lenzuolo in fondo al letto e accompagnarlo sopra di lui in modo da coprirlo.

“Certo, soldo di cacio, ma ora dormi e riposa tranquillo, altrimenti sarai troppo stanco per seguire gli allenamenti!” gli dissi, intenerito, regalandogli un buffetto sul naso prima di raddrizzarmi e dirigermi verso l’altro letto.

Anche Hyoga era caduto in un sonno di piombo, dormiva a sua volta profondamente, ma in posizione assai più composta, su un fianco, le coperte tirate fin quasi a nascondere il visetto. Abbozzolato. Come se solo così potesse sentirsi schermato dalle brutture della vita. Gli scostai leggermente la trapunta per poterlo vedere meglio.

Aveva preso sonno stringendo la sacca misteriosa che si portava dietro dal primo giorno, un po’ come una coperta di Linus, la boccuccia chiusa, l’espressione un poco corrucciata. Per un solo attimo, mi chiesi se anche lui avesse fatto un sogno simile al mio, sebbene non lo ricordassi affatto, ma mi scrollai in fretta quel pensiero.

Mi chinai verso di lui, giocherellai un po’ con i suoi capelli biondi, prima di scendere con le dita, alle guance, che gli solleticai, in vena di tenerezze. Le sue braccine avvolgevano in maniera protettiva lo zainetto, quasi fosse stato un peluches. Mosse appena le dita.

“Cosa tieni, lì, con così tanta cura? - gli chiesi, bisbigliando in modo che non mi sentisse – E’ stata una delle mie prime domande a cui non mi hai dato risposta; la prima di una lunga serie...” commentai, amaramente, osservando brevemente la sacca e provando l’istinto di vedere cosa potesse contenere.

Anche Isaac ne era sempre molto incuriosito, gli avevo proibito di indagare, rispettando la riservatezza di Hyoga, ma, effettivamente, anche io provavo una certa curiosità a quel mistero.

La osservai a lungo. Era gialla e, per come fosse posizionata, avrei potuto in quel momento sbirciare dentro. Si apriva infatti con un bottone, bastava sforzarlo e… scrollai la testa, dicendomi che non era assolutamente il caso.

“Sei un bell’enigma, tu… - gli sussurrai ancora, massaggiandogli dolcemente i capelli, soffermandomi sulla morbidezza dei suoi ciuffi – Di tutti gli allievi che ho avuto, no, anzi, di tutte le persone che io abbia mai conosciuto, tu sei, senza ombra di dubbio, il più...”

Non mi veniva la parola, mi fermai, continuando però ad accarezzarlo con naturalezza, cosa assolutamente non da me.

“Sembri davvero caduto da una stella… da quando sei entrato nelle nostre vite, i sogni di cui non ricordo nemmeno l’impronta si sono moltiplicati, perché? Da dove vieni, Hyoga? Da dove…?”

“Mmmh...” si lamentò debolmente, forse disturbato dalla mia voce o dal mio tocco, ciò mi spinse ad arrestare le mie carezze.

Vidi le sue palpebre fremere diverse volte, pareva sul punto di svegliarsi, quindi decisi di lasciarlo stare, meritava di riposare un altro paio di ore, come Isaac. Lo ricoprii con cura, regalandogli un altro breve, furtivo, tocco, prima di uscire dalla loro stanza senza fare il minimo rumore.

Si è soli anche con gli uomini…

Mi ripetei mentalmente, mentre scendevo le scale per andarmi a preparare un caffè che avrebbe accompagnato il vortice dei miei pensieri fino al risveglio dei due pargoli. Quella frase era come un mantra per me, ma per quanto mi sforzassi di rammentarne la motivazione, non mi veniva in mente.

La sensazione di solitudine che, forse, avevo già provato nel sogno, per un istante, si acuì. Mi ero sentito per così tanto tempo solo, lontano, divelto, fratturato… quasi da non rammentarmi più cosa significasse provare calore, respirare, vedere, sentire e… vivere! Tuttavia...

Arrestai il mio moto prima di fare l’ultimo gradino, voltando la testa in direzione della camera dei miei allievi. Un leggero sorriso si delineò sulle mie labbra.

Era vero, si era soli anche con gli uomini, lo sapevo bene, però io non lo ero più già da un po’ e, quello, lo dovevo ai miei meravigliosi Isaac e Hyoga!

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Lo so, sono passati alcuni mesi dalla mia ultima pubblicazione ma, come già accennato in precedenza, ho davvero poco tempo libero tra lavoro, impegni vari e altro.

Ho finalmente concluso la modifica del capitolo 38 di Sentimenti che Attraversano il Tempo (ci avviciniamo alla revisione completa alla quale ne succederà un’altra grammaticale) e adesso questo capitoletto, che scrissi mesi fa e che ho finito di correggere proprio oggi.

Capitoletto che si divide in tre parti e che risponde all’osservazione del Sommo Shion nell’ultima pubblicazione dei 5 Pilastri di Marduk: (il frammento dell’anima di Dégel) deve essersi legato a qualcosa, a qualcuno, per permettergli di continuare a interagire con il mondo.

Ecco, appunto!

E’ il piccolo Hyoga, ad averlo accolto!

Questa questione merita un ulteriore approfondimento. I più attenti di voi forse rammenteranno che Myrto poteva vedere l’anima di Dègel ben prima della nascita di Hyoga… come è quindi potuto succedere?

Per sommi capi, senza spoilerare troppo l’avvenire, posso dirvi che il mondo onirico in cui l’ex Aquarius e il futuro Aquarius si incontrano, non è per forza reale, perché è essenzialmente un luogo atemporale dove due anime strettamente affini, legate da una solitudine comune, si incontrano, si uniscono e prendono a vivere in simbiosi. Una sorta di “sentiero” all’Attack on Titan, per intenderci.

Il frammento dell’anima di Dègel, l’ultimo mancante, è dentro il cuore di Hyoga, ciò gli ha permesso di conservare una sorta di autocoscienza, ma per quanto? I prodromi non sono dei migliori…

E’ oltretutto un Dégel spurio, legato già alla coscienza di Camus, pur non essendone invischiato totalmente. Ovviamente gli atti mancati di Camus, il suo non ricordare, è perché la sua anima, di fatto, è ancora fratturata. Va da sé che, finché rimane tale, non potrà completarsi.

Ma completarsi significa far sparire Dégel. Per sempre…

E, per dire, vi ricordo che il corpo fisico di Dègel è ancora ad Atlantide, intatto. POTREBBE essere utilizzato.

Potrebbe, eh…

* Si censura *

Perché proprio un cigno? Beh… qui non penso servano tante spiegazioni! E poi il cigno, per antonomasia, è l’uccello monogamo per eccellenza (anche se qualche scappatella se la fanno, a onor del vero, ma dettagli, su u.u), vagheggiato come uno tra gli animali più romanticamente fedeli alla compagna… ho mantenuto questo luogo comune perché, ovviamente, cade a fagiolo per la mia storia (oltre ad essere collegato a Hyoga, alla promessa fatta a Unity, ecc…)

L’intermezzo, legato al presente, non aggiunge niente di nuovo rispetto a quanto già sapete: Camus sta raccontando del primo anno di allenamento di Hyoga, il 2003, alla sorellina e al Cigno stesso che versa, però, in gravissime condizioni. Quest’aura di mistero su cosa sia effettivamente successo, è voluta, e verrà spiegata solo nei capitoli nuovi della Melodia della Neve (quando e se riuscirò a tornare a pubblicare stabilmente, l’impresa sembra disperata).

Al solito, amo descrivere Camus in questa tenuta così fragile, ha subito un durissimo colpo nel vedere l’allievo ridotto così e sentirsi (come sempre) responsabile. E’ lampante che, rispetto al passato, dopo tutto quello che ha subito e sofferto, sia molto cambiato rispetto ad allora, ma ancora -come è degno di lui, peraltro!- fatica non poco a mostrarsi così vulnerabile agli occhi delle persone che ama, anche se è consapevole che Marta percepisca praticamente tutto di lui e, in questa circostanza particolare, lo vedrete, si sia sorretto completamente a lei per evitare di crollare.

Il “mio” Camus ha perso tantissimo nella sua vita… chi ha seguito tutte le storie lo sa. E’ ovviamente diverso dal Camus originale (non può essere diversamente) ma il suo sviluppo mi sembra coerente con tutto ciò che gli ho fatto subire. E mi piace molto, non lo nego, sono orgogliosa di dove lo stia conducendo insieme a Hyoga e a tutti gli altri. Passin passetto.

 

Dovrei aver finito con le spiegazioni necessarie, ma se avete piacere di farmi domande, o comunque di lasciare un qualche tipo di commento, di osservazione, sono sempre a vostra disposizione e ben felice di spiegarvi il mio punto di vista.

Grazie a tutti come sempre e alla prossima! :)

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9

 

 

Anadyr, con le sue case multi-colorate e quadrangolari che ricordano più o meno fedelmente dei lego, è situata nell’estremo oriente russo ed è uno dei porti più importanti della Cukotka.

Prende il nome dall’omonimo fiume che sfocia nel mare di Bering, costituendone una rotta indispensabile per i commerci del Mare del Nord, disponendo altresì di una stazione meteorologica e, non lontano, di una miniera per l’estrazione di piccole quantità di lignite utilizzate dai locali.

Proprio in virtù della sua posizione favorevole e del suo binomio di cittadina/porto, alla fine di ogni estate vi si celebrava una sorta di grande fiera, dove persone provenienti da ogni luogo, persino dall’Alaska data la vicinanza con l’altro continente, si radunavano per comprare e scambiare merci, in una settimana di feste, danze e specialità gastronomiche volte a salutare la bella, seppur breve, stagione e prepararsi così ad accogliere il sopraggiungere dell’inverno.

Recarmi lì ogni anno a settembre, era una consuetudine che avevo già con il maestro Fyodor e che avevo mantenuto, tramandandola, anche ad Isaac. Quell’anno poi, che Hyoga era arrivato a riempire e riscaldare le nostre vite, ci tenevo particolarmente a portare i due pargoli a vedere la cittadina. Per un motivo specifico.

Il viaggio in slitta da Pevek a ad Anadyr contava diversi giorni. Pur con la possibilità di fermarsi in tappe intermedie per rifocillarsi e rifocillare soprattutto i cani, si trattava di un percorso parecchio estenuante per chi non fosse avvezzato a quel clima.

Ci eravamo organizzati con due slitte, una, quella di Isaac, era capitanata da Sasha, l’altra, quella che gestivo io e che portava anche Hyoga, da Nikita. Era la prima volta che affidavo una tale responsabilità al mio soldo di cacio, reputandolo sufficientemente forte ed esperto per riuscire a controllare gli Husky malgrado la giovane età. Ancora una volta non mi deluse, dimostrandosi ben più che degno delle mie speranze nel saper tenere perfettamente la linea retta e guidare i cani nelle zone più pericolose.

Arrivammo alle idi di settembre, a metà settimana, di mercoledì, lo ricordo ancora, nel bel mezzo dell’evento. Subito ci recammo alla locanda detta del Cacciatore per lasciare riposare la muta di Husky.

Al nostro arrivo, diedi ordine ai cani di rallentare la loro corsa fino a fermarsi completamente. Calcai un poco il terreno con il piede destro prima di balzare giù dalla slitta e aiutare così a scendere il piccolo Hyoga, il quale sembrava ancora abbagliato dallo spettacolo della Polvere di Diamanti che ci era danzata intorno per tutta la durata del tragitto. Un luccichio accattivante quanto mortale.

Dovevo, prima di tutto, accordarmi con il locandiere: ci saremmo fermati per tre notti massimo, poi saremmo ripartiti all’alba del quarto giorno onde evitare le tempeste di neve improvvise che, proprio a partire dalla terza decade del mese, colpivano soventemente quei luoghi. Isaac, subito dietro di me, fermò la slitta un poco più bruscamente, balzando giù del tutto euforico per poi piombare ad abbracciare Sasha che, con la lingua a penzoloni per lo sforzo, si mise a leccargli festosa il volto.

“Sei stata bravissima… siete stati tutti, bravissimi!!!” si congratulò lui, tutto scalpitante, correndo da una parte all’altra ad abbracciare tutti i cani che lo avevano accompagnato.

Sorrisi tra me e me nel vederlo così felice, prima di andare a parlare con il locandiere. A differenza del compagno, Hyoga rimaneva vicino a me, la manina sollevata a tenere e stringere maldestramente tra le sue dita l’orlo del mantello che avevo indossato per il viaggio. Era attentissimo a seguire il dialogo tra me e il taverniere, come a volerne carpire ogni singola sfumatura, ma il suo sguardo, a metà strada tra l’ammirazione sfrenata e la gelosia accesa, era tutto per il coetaneo e amico.

Dopo aver stretto i necessari accordi, tornai a recuperare Isaac, ancora preda dell’iperattività, del tutto affaccendato a balzare da una parte all’altra della taverna come un caprioletto nell’erba.

“Vieni, Isaac, i cani hanno bisogno di riposo dopo il lungo viaggio, cammineremo con le nostre gambe fino a stasera, quindi conserva una parte delle energie, o crollerai addormentato come l’anno scorso!”

Lui ovviamente notò il mio avvicinamento e, sempre correndo, si buttò a capofitto verso di noi, non smettendo neanche per un secondo di saltellare e muovere le braccia in lungo e in largo.

“Maestro! Maestro Maestro! E’ stato un viaggio spaziale, megagalittico, sembrava a volte di volare, così avvolti dalla nebbiolina, altre di navigare, e poi e poi… il suono della slitta sul permafrost, lo zampettare dei cani, noi… c’eravamo solo noi in mezzo alla tundra, è stato bellissimo!!!”

“Certo, Isaac, ma ora...”

Non mi lasciò finire la frase, quando era così elettrizzato era impossibile fermarlo.

“E poi Sasha… Sasha è stata WOW, sa dove andare, vi guardava sempre, sapete? Siete il suo punto di riferimento!!! E poi ancora l’alba dietro alle montagne innevate, sembrava che il cielo si accendesse, i capelli di Hyoga parevano quasi assorbire tali raggi e… e...”

“Isaac… - sorrisi nel vedermelo così entusiasta di tutto, sempre e comunque – Va bene, lo so; so che ti è piaciuto e che vorresti rifarlo presto, ma ora non esaurire tutte le tue energie giornaliere con la tua parlantina. Come ti dicevo, abbiamo ancora tanto da fare!” mi raccomandai, pigiando un poco sulla sua testa per dargli una calmata.

Lui si fermò, aveva il fiato corto da quanto si muovesse, mi sorrise raggiante, prima di proseguire comunque: “Voi siete stato fenomenale, Maestro! Io so tenere i cani, ma senza la vostra presenza durante la bufera di vento, quando le dune della Polvere di Diamanti sembravano alzarsi, riducendo al minimo la visibilità, non avrei saputo dove andare. Ma c’eravate voi, avete indicato la via a me e a Sasha e… e SIAMO ARRIVATI!”

“Con il tempo e l’esperienza saprai orientarti anche tu da solo, soldo di cacio, in qualunque circostanza ti troverai, in qualunque condizione. Devi solo… pazientare!”

“Sì, Maestro!” i suoi occhi si illuminarono ulteriormente, mentre lentamente tornava alla calma.

Più o meno nello stesso momento, mi sentii tirare un poco il mantello tabarro che indossavo per proteggermi dalla pioggia e dalla neve. Era Hyoga che, guardandomi corrucciato per non dire un poco imbronciato, si era abbassato il cappuccio per riuscire a tenere meglio il suo solito zainetto giallo che si portava sempre dietro. Aveva gonfiato un poco le guance, dando così l’idea di essere un criceto con la bocca piena di semini.

“A-anche io?” mi chiese, velatamente speranzoso, indicandomi con gli occhi Isaac che stava spazzando via dal mantello dei piccoli cristallini di ghiaccio che si erano formati sul tessuto.

“Cosa, Hyoga?” chiesi, non capendo bene a cosa alludesse.

“Saprò farlo anche io? Portare gli Husky, a-avere il controllo della… slitta?”

Capii che gli doveva aver pesato vedere Isaac, un suo coetaneo persino più piccolo di lui di alcune settimane, riuscire in una impresa che prima aveva visto compiere solo a me senza avere avuto l’occasione di provarci a sua volta.

Ma Hyoga non aveva l’esperienza giusta per farlo, non in quel momento, ed era quella la ragione che mi aveva spinto a non lasciargli fare nemmeno un tentativo. Isaac invece era con me da più tempo, mi aveva visto guidare la muta più volte, aveva appreso le mie movenze, i miei riflessi, era quindi arrivato a quella data pronto, per questo mi ero arrischiato a consegnargli il comando della seconda muta. E non mi aveva deluso!

“Certo, Hyoga, con il tempo...”

“Qua-quanto tempo?” insistette lui, quasi febbricitante, torturandosi il labbro inferiore nella paura di sentire che non ci sarebbe mai riuscito. Ma sapevo bene che si sarebbe rivelato degno anche lui, solo... non in quel momento. Era ancora troppo prematuro!

“Il prossimo anno… il prossimo anno ti prometto che sarai in grado di farlo anche tu.” provai a tranquillizzarlo, sfiorandogli i ciuffi del colore del grano.

“Da-davvero?!”

“Sì, ne sono convinto, ma per questa volta eri ancora troppo inesperto, non so se mi riesci ad intendere. Isaac ha impiegato più di un anno per saperlo fare!”

Hyoga annuì, sembrava che la spiegazione lo avesse convinto, e tacque, aspettando che il compagno ultimasse i preparativi per poi dirigerci in città.

Li presi entrambi per mano, uno da una parte e l’altro dall’altra, per poi recarci in centro. La fiera era occasione propizia per fare scorte e rifornimenti in preparazione del lungo inverno che, presto, sarebbe giunto a lambire l’intero territorio, rendendolo più sterile e accidentato di quanto già non fosse. Per Isaac sarebbe stato il secondo, per Hyoga solo il primo. Era necessario quindi comprare dei vestiti più coprenti per entrambi, oltre che innumerevoli altre cose che mi ero già appuntato mentalmente, quali spezie, medicinali e stoffe che sarebbero serviti per affrontare adeguatamente i rigori climatici con due bambini ancora piccoli e inesperti.

Le strade di Anadyr in quel periodo dell’anno si affollavano delle più svariate etnie, rendendo affollate le strade. Il fiume omonimo, tra le principali reti di comunicazione con il porto, era solo parzialmente ghiacciato, e le vie, pur indurite dal gelo, ancora percorribili. Proprio per quella ragione, a settembre, il numero delle persone che alloggiava nelle varie osterie, taverne e simili, triplicava di fatto il numero dei residenti effettivi, con ovvio incremento del traffico e dei pericoli. A maggior ragione io, che dovevo badare a due bimbi, uno dei quali -Isaac!- tendenzialmente iperattivo, dovevo avere un occhio di riguardo in più. Per entrambi.

Fortunatamente l’arrivo di Hyoga, il suo temperamento schivo e riservato, aveva funzionato da calmante anche per lui, che quindi, invece di correre in lungo e in largo come l’anno prima e farmi tribolare nell’ansia di vedermelo investito da qualche camion -cosa che peraltro era quasi successa!- rimaneva docile al mio fianco, tenendomi la mano sinistra e limitandosi a guardarsi curiosamente intorno con gli occhi estremamente percettivi e atti ad assorbire il più possibile dall’ambiente circostante. Come era sua natura essere.

Anche Hyoga lo era, curioso, percettivo e osservatore, ma in maniera diversa. Rispetto al compagno, infatti, per sua natura rimaneva sempre un passo indietro, mantenendo le distanze al punto tale da rendersi invisibile ai più. Questa sua attitudine gli permetteva di studiare e calmierare ogni cosa, portandolo a mantenere una visione generale dell’insieme senza farsi coinvolgere, come invece capitava spesso ad Isaac.

Nella loro diversità, l’ho già detto, ero molto fiero di loro, ed era proprio quella ragione ad avermi spinto a farmi accompagnare da loro in un luogo così lontano da casa. I tessuti, gli alimenti, le spezie e le medicine, nei miei intenti, passavano in second’ordine.

Se ne accorse quasi subito Isaac quando, rendendosi conto di star percorrendo una stradina laterale mai fatta prima, strinse le sue dita nella mia mano, tirandola poi a sé.

“Maestro Camus, dove stiamo andando? - mi chiese, studiando capillarmente la zona in ogni singolo anfratto – Non siamo passati qui l’anno scorso.”

“Corretto, Isaac.” dissi solo, un leggero sorriso tra le labbra.

“Non è la solita via piena di negozi, è diversa!” osservò ancora, in un fremito di eccitazione, lasciandosi condurre fiduciosamente.

“Corretto anche questo, Isaac.” annuii ancora, mantenendo volutamente il mistero.

“E dove stiamo andando? - gli occhi del piccolo si illuminarono – E’ un posto nuovo? E’ una prova nuova?”

“Lo vedrai appena ci arriveremo.”

Non era da me non dare spiegazioni, ma sapevo bene dove mi stavo dirigendo, ed era necessario mantenere il riserbo fino al momento giusto.

Finalmente arrivammo nel luogo che stavo cercando, una specie di casermone con una larga porta, simile ad un garage. Vi entrai con loro, sempre più incuriositi dall’intera faccenda.

Isaac aveva sulla punta della lingua un’altra domanda, l’ennesima, ma la sua esposizione venne interrotta dal guaire stridulo e diffuso di alcune cucciolate di cani presenti dentro a dei grossi recinti ben distanziati gli uni dagli altri.

Lasciai loro le mani nello stesso momento in cui le bocche dei due piccoli si aprirono simultaneamente in una ‘o’ che, pur rimanendo muta, racchiudeva tutto lo stupore di quel momento. Sorrisi soddisfatto tra me e me, salutando al contempo il proprietario che, riconoscendomi, si era nel frattempo avvicinato a noi.

Erano quattro cucciolate di Husky in tutto, ognuna delle quali composta da 5 o 6 unità. I cagnetti erano ancora troppo piccoli per essere separati dalla madre, ma abbastanza grandi per avere già un temperamento sufficientemente delineato per stabilire il carattere che avrebbero assunto da grandi. Un po’ come i miei Hyoga e Isaac.

Ed ecco la ragione principale per essermi avventurato lontano da casa con i miei lupetti.

“Maestro, non… non capisco!” mi disse Isaac in tono di chi, pur avendo compreso tutto, per scaramanzia o paura, manteneva le riserve nel timore di rimanerne deluso.

“Io invece penso che tu abbia capito bene, soldo di cacio.” gli dissi, ammiccando appena, mentre il proprietario, dopo gli iniziali convenevoli, si girava a sua volta nella direzione dei due bambini.

“Ma… - il visetto di Isaac si spostava incredulo da noi a quel muoversi frenetico di cuccioli presente nei recinti – Da-davvero?”

“Non sei stato forse tu a chiedermi, giusto l’anno scorso, che volevi anche tu un Husky tutto tuo?” gli chiesi retoricamente, sostenendo il suo sguardo.

“S-sì ma...” Isaac era come commosso, tremava dall’emozione, stentando ancora a credere a quanto andavo dicendo. Hyoga invece era semplicemente pietrificato. Mi dava la schiena, osservando con insistenza i cani in una postura che mi faceva presagire il suo controllarsi strenuamente per sopperire alla voglia di correre verso loro e accarezzarli tutti.

“Non lo vuoi più?”

“N-no, è che… - Isaac si grattò la testa, prima di alzare il capo e sorridermi raggiante – Non pensavo che davvero l’avreste fatto!”

“Potete sceglierne uno a testa. - gli illustrai, sempre con quel lieve sorriso sulle labbra – Quando saranno svezzati li porterò all’isba, li introdurremo al branco e, cosa non meno importante, sarete voi a crescerli!”

Isaac si era fatto serio, aveva assunto un’espressione determinata, annuendo con la testa come a dire che era pronto e preparato anche a quel compito gravoso, cioè il prendersi cura di un altro essere vivente.

“M-ma… anche io ne posso scegliere uno?” chiese Hyoga, sorpreso, girandosi verso di me come per saggiare, dalla mia espressione, se le mie parole fossero vere o si trattasse di una nuova prova.

“Certo, Hyoga, perché tu non dovresti?” gli chiesi con naturalezza, prima di assistere al loro guardarsi l’un l’altro, come a sincerarsi che entrambi avessero udito bene, per poi abbracciarsi di slancio.

“Hai sentito?! Avremo un cane nostro, Isaac!”

“Due! Ci pensi???”

“Saranno fratelli anche loro!”

“O sorelle!”

“Sììììì!”

“Ma sarà il mio ad essere il maggiore, contrariamente a noi!”

“No! Io sono più grande, per cui...”

“Frena! Frena! Frena! Io sono però più esperto, per cui…”

“Sai che importa, questo! Sarà il mio a...”

“Coff, coff, c’è un tuttavia...”

Mi schiarii la voce nel placare l’abbozzo di baruffa che stava prendendo piede tra loro; subito i due bambini si raddrizzarono nel farsi attenti. Avevano percepito il mio tono e, non di meno, il mio sguardo farsi un poco più affilato. Mi inginocchiai davanti a loro, chiedendogli tacitamente di avvicinarsi a me.

“Sapete cosa significa addomesticare?”

Entrambi negarono con la testa, seri e percettivi come ogni volta che spiegavo loro qualcosa; seri e percettivi come mi dimostravano costantemente di essere.

“E’ un qualcosa di molto antico e, talvolta, ormai dimenticato. Significa creare un legame...”

“Un legame?” chiese conferma Hyoga, scrutandomi a fondo.

“Un legame, sì… tra uomo e cane, fin dalla notte dei tempi, quando il primo lupo, cercando cibo, si è avvicinato all’accampamento dei primi esseri umani e questi ultimi hanno capito che ne poteva nascere un rapporto basato sulla mutua fiducia e simbiosi.”

“Addomesticare si dice solo tra uomo e cane? Non va bene tra persone?” chiese a sua volta Isaac, cercando di capire il mio ragionamento.

“Mmm, no, tra persone non lo definirei propriamente così. La domesticazione è un concetto ampio, ma non può racchiudere i rapporti umani”

“Però… - rimuginò ancora Isaac, pensieroso, una mano sotto il mento – Non mi sembra così diverso da...”

Decisi di lasciar cadere il discorso che si stava disperdendo, tornando a forza al nocciolo della questione.

“Ciò che deve risultarvi importante e imprescindibile, è che addomesticare, per voi, deve equivalere a responsabilizzarvi… - presi una breve pausa, chiudendo appena gli occhi, prima di riaprirli – Si diventa responsabili per sempre di ciò che si ha addomesticato!”

“Si diventa responsabili per sempre… di ciò che si ha addomesticato!” ripeterono entrambi, guardandosi l’un l’altro, un poco timorosi, come a chiedersi se davvero si sarebbero dimostrati degni, perché quella, ai loro occhi ma anche ai miei, risultava come un’altra prova, forse perfino più importante delle precedenti.

“Vi sentite all’altezza?” gli domandai ancora, cercando nel loro sguardo limpido la determinazione di accettare un simile fardello.

“Sì!” mi risposero, dopo un breve, infinitesimale, attimo di esitazione.

Annuii orgoglioso, cercando di imprimere in loro la consapevolezza di quanto mi rendessero fieri giorno dopo giorno. Posai le mani sulla testa di entrambi.

“Se è così, andate a scegliere la vostra responsabilità!”

Quasi saltarono sul posto, prima di correre via per due direzioni opposte, sprizzanti di gioia. Li osservai a lungo muoversi in lungo e in largo tra i recinti, prima di spostare la mia attenzione verso il proprietario.

“Grazie per questa opportunità!” gli dissi, cordiale, pur mantenendo la solita distanza con cui ero abituato a trattare chiunque.

“Grazie a voi, Maestro dei Ghiacci. Sono più che sicuro che i cani scelti si troveranno davvero bene con voi. I vostri allievi sembrano svegli e determinati al punto giusto.”

“Lo sono. - confermai, fiero, prima di passare ad altro – Tra quanto saranno disponibili i piccoli?”

“Un mese massimo e saranno svezzati.”

“Capisco. Tra un mese li verrò a prendere io stesso.” annuii, tornando a concentrarmi sui miei ragazzi.

Hyoga, inaspettatamente, stava già tornando da me con una pallina paffuta tra le braccia. Corse frenetico fino a raggiungermi, gli occhi limpidi e liquidi, come se trattenesse una forte emozione.

“Maestro! Maestro! Questo! Questo!!! - mi mostrò brevemente il cagnolino tenuto tra le mani, prima di riportarselo al petto e cullarlo – Si è avvicinato subito a me e mi ha leccato!” mi spiegò, mentre il cucciolo, come a dimostrare la veridicità delle sue parole, gli diede una leccata sotto il mento, facendolo ridacchiare come mai lo avevo sentito fino a quel momento.

Era raro vedere un Hyoga così decisionista andare dritto per la sua strada senza la minima esitazione. Osservai attentamente l’animale che, proprio in quel momento, aveva preso a guaire per la felicità. Aveva il pelo molto chiaro, argentato quasi, con una macchia grigia che partiva dalle due orecchie ancora accartocciate su sé stesse e scendeva sul muso per fermarsi solo poco prima del tartufo. Anche gli occhi erano molto chiari, quasi trasparenti, del tutto simili a quelli di Hyoga, del colore cristallino dei laghi glaciali.

“E’ una femmina. Ha un temperamento giocoso e solidale. - ci delucidò il proprietario, guardandoci, prima di ridacchiare – Sembra essere stato amore a prima vista, tra voi!”

“E’ la tua scelta, Hyoga?” gli domandai, guardandolo con solennità.

“Sì, la vorrei… LA VORREI, per favore! So anche già il nome!”

“E come la vorresti chiamare?” chiesi ancora, genuinamente interessato.

“Zaira!” andò a botta sicura il piccolo, gli occhioni sempre luminosi.

Zaira… con il significato di ‘fiore che sboccia’ in qualche lingua che ora non ricordo. Nome inusuale per un Husky, discendente diretto del lupo, corridore instancabile della steppa, ma lo trovai comunque gradevole e, non meno, degno della sensibilità del mio allievo.

“E’ davvero un bel nome, Hyoga...” gli sorrisi, carezzandogli appena i ciuffi biondi, lui si illuminò ulteriormente a quel contatto, prima di stringere la cagnolina a sé come se fosse il regalo più prezioso che potesse ricevere.

La prima cucciola era stata scelta. Spostai quindi l’attenzione da lui ad Isaac che, inaspettatamente non meno di Hyoga, vista la sua indole, era ancora affaccendato nella ricerca del cane giusto. Entrambi avevano avuto reazioni opposte capaci di stupirmi. Sembrava proprio che, per quella particolare occasione, si fossero invertiti i soliti ruoli.

Hyoga si era dimostrato deciso.

Isaac invece esitava.

Decisi di aspettarlo per un altro paio di minuti, quando, ad un certo punto, lo vidi sbucare da dietro un recinto, facendo cenno con le braccia di raggiungerlo. Raccomandandomi quindi a Hyoga di rimanere fermo senza strozzare la cucciola, giacché con lei si dimostrava espansivo, stringendola forte a sé, al suo giovane cuore, per poi strofinarsi estasiato sul suo musino, decisi di raggiungere l’altro mio allievo inspiegabilmente tentennante. Il proprietario mi seguì a breve distanza.

“Lui chi è?” ci chiese Isaac una volta avvicinati sufficientemente, indicando una pallina di pelo color caramello raggomitolata contro il muro.

“E’ una lei, ma… non è in vendita.” spiegò il proprietario, diventano improvvisamente serio.

La osservai, capendo immediatamente la motivazione di quella scelta. Non Isaac.

“E perché?” chiese infatti, deluso, guardandolo nella speranza che potesse cambiare idea.

“Non credo la vorrebbe nessuno, bimbo, come vedi non ha più l’occhio sinistro...”

“E come mai?” mi intromisi anch’io, osservandolo con attenzione prima lui e poi la cagnolina, che dal nostro arrivo stava ancora di più rannicchiata contro il muro, la coda tra le gambe, gli occhioni spaventati.

“Una grave cataratta giovanile, non abbiamo potuto far altro che toglierle l’occhio e ne è rimasta terrorizzata.” ci venne semplicemente spiegato, quasi con noncuranza.

Isaac sembrava dispiaciuto. La fissava insistentemente porgendole la mano in attesa paziente che fosse la cucciola ad avvicinarsi a lui, con scarsi esiti, perché la piccola era veramente terrorizzata. Eppure lui attendeva. Attendeva. Trepidante. Senza farle alcuna fretta.

“Non pensi di riuscire a venderla a qualche famiglia?” mi interessai, ricercando il suo sguardo.

“Onestamente non credo. Ha una brutta cicatrice, come potete vedere, ed è rimasta traumatizzata dall’esperienza. E’ molto difficile da gestire...”

“Neanche a darla in adozione?” tentai, tornando ad osservare il mio soldo di cacio del tutto preso a instaurare un primo approccio con l’esserino terrorizzato, cosa che quasi insperatamente avvenne, perché la cucciola, pur con riluttanza, dopo aver fatto un passo traballante nella sua direzione, finalmente lo annusò per poi dargli una breve leccata e ritrarsi tutta tremante.

“Dubito che qualcuno possa volerla, non...”

“La prendo io! - stabilì Isaac, sorprendendo sia me che lui, una luce favillante negli occhi – Viene via con noi.”

“Bimbo, non penso che...”

“Viene con noi! - esclamò ancora più deciso, alzando un poco il tono nel volersi imporsi, quasi zittendo il proprietario – Se nessuno la vuole noi sì, il Maestro Camus prende tutti!” aggiunse, abbassando un poco lo sguardo. Mi accorsi che stava tremando.

“Isaac...”

“E’ così, vero Maestro?”

Mi guardò con quella luce solenne negli occhi, trepidante, implorante, perfino. Era difficile dirgli di no, non avevo neanche una valida ragione per vietarglielo, pertanto mi ritrovai ad acconsentire… ad una condizione, però!

“Te ne prenderai cura?”

“Certo!”

“E’ una bella responsabilità, Isaac, ne sei consapevole?”

“Sì!”

“Non sarà come con gli altri cuccioli, immagino tu te ne renda conto...”

“Sarà più difficile, lo so! - annuì, prima di mettersi una mano sul petto e stringere forte la presa sulla mantello che indossava – Ma è comunque la mia scelta!”

Ne era dunque perfettamente conscio. Annuii, passandogli brevemente la mano tra i ciuffi ribelli.

“Che nome le darai?” gli chiesi, sorridendo tiepidamente.

“Zana.” mi rispose lui senza la minima esitazione, mentre qualcosa gli rendeva lo sguardo più liquido del consueto.

Il suo trauma. Capii, comprendendo altresì le ragioni che lo avevano mosso e che avrei approfondito solo una volta usciti da quel luogo.

“E Zana sia, allora.” dissi, voltandomi poi verso il proprietario per prendere accordi.

“Ne siete sicuri?” ci chiese ancora lui, un poco riluttante.

“Hai udito le parole del mio allievo, no? - sottolineai senza esitazione – Zana verrà via con noi, ha bisogno di crescere in una famiglia e noi… possiamo dargliela!” stabilì senza dare possibilità al proprietario di obiettare, mentre percepivo gli occhietti luminosi di Isaac guardarmi con ammirazione.

 

Presi i necessari accordi, ero quindi uscito con i due piccoli, dedicandomi insieme a loro alle altre compere di cui abbisognavamo per superare indenni l’inverno. Le due cucciole scelte sarebbero rimaste con le rispettive madri per un altro mese circa, poi mi sarei recato io stesso a prenderle per portarle nel luogo che avrebbe fatto loro da casa da quel momento in avanti.

Ero fiducioso, ma il malessere di Isaac, il suo trauma, e le ragioni che lo avevano portato a scegliere proprio Zana non le avevo dimenticate, no, le avevo semplicemente accantonate, finché, quello stesso pomeriggio, sedendomi momentaneamente su una panchina con tutta la roba comprata, non avevo autorizzato i miei allievi a girare liberamente per le vetrine della piazza principale.

Era partito -insolitamente, ancora una volta!- solo Hyoga, curioso e discreto come era nella sua natuta, mentre Isaac distratto, o meglio, assorbito dai traumi della sua mente che conoscevo bene, era rimasto nei dintorni. Fu in quel momento che decisi di intervenire apertamente con lui. Lo chiamai, dicendogli di venirmi vicino, cosa che lui fece subito, sebbene non con la consueta allegria che lo distingueva.

Come dicevo, ero perfettamente consapevole dell’esperienza terribile che aveva vissuto prima che Pavel lo affidasse a me, ma non ne parlavamo mai apertamente, se non in particolari circostanze.

Non serviva, ad Isaac, rivivere quei momenti.

Non serviva, per Isaac, parlarne, se non a farlo stare più male, quando invece devolveva risoluto tutte le sue forze verso il futuro, come era giusto che fosse.

Non serviva. Punto.

E tuttavia il vedere la cucciolotta in quelle condizioni terribili, terrorizzata da tutto, aveva riportato alla sua giovane mente l’immagine di un sé stesso che lui tentava disperatamente di eliminare e che io cercavo in ogni modo di estrarre dalla sua psiche.

Lo guardai dritto negli occhi, mentre, addolcendo il tono, ponevo a lui la fatidica domanda diretta: “Cosa ti ha spinto a scegliere proprio Zana, tra tutti i cani che c’erano?”

Lui tergiversò colto in fallo, visibilmente a disagio, prima di guardare da tutt’altra parte. Non amava mostrarsi vulnerabile, così come era in quel momento, men che meno a me. Ma io sapevo quanto fosse forte, il mio piccolo lupetto, indipendentemente da quello.

“Lo sapete, Maestro Camus...”

“Lo suppongo. - lo corressi, prima di indicargli di sedersi vicino a me, comodo -Ma supporre è diverso da conoscere, Isaac...”

“Io… - ancora esitò, prima che i suoi occhi baluginassero ardentemente. Prese posto al mio fianco – Ho pensato che Zana potesse essere felice con noi, per davvero, e… rinascere. Come… come...”

Non ultimò la frase, ma ciò che voleva esprimere era fin troppo chiaro ai miei occhi.

“...Come te?” finii io per lui, dando nel frattempo un’occhiata di attenzione in più a Hyoga che girava educatamente tra le vetrine senza appoggiarsi o dare fastidio agli altri, sebbene i colori e le forme all’interno di esse lo incuriosissero.

“Come me, sì… - ammise il piccolo, corrugando le sopracciglia nel farsi corrucciato – Vi ho deluso?”

A quel punto mi accigliai, sia per la domanda che per il tono in cui l’aveva espressa.

“No, perché avresti dovuto, Isaac? Anzi, è stato molto coraggioso da parte tua scegliere un cane non facile da gestire, tuttavia, ancora una volta, ti chiedo: ne sei sicuro?”

“Sì, la voglio aiutare! - si raddrizzò lui, tornando determinato – Come voi avete fatto con me!” aggiunse, un poco imbarazzato.

“Non sarà facile, Isaac, tu meglio di chiunque altro sai bene quanto ti… segni… il vivere un’esperienza traumatica. Quanto… ti corroda dentro!”

“Lo so… - annuì lui, portandosi una mano al petto per posarsela lì – Sentivo tanto male qua dentro, quando… quando è successa quella cosa ai miei. Non sanguinavo, ma… era insopportabile!” mi spiegò, un poco impacciato, massaggiandosi il petto.

Io lo guardai con attenzione nel cercare di carpire ogni più piccolo segno di cedimento o di crollo nel suo dialogo, prima che potesse manifestarsi pienamente.

Perché Isaac era un bimbo davvero coraggioso e tenace, ma quello che aveva vissuto nel vedere trucidati i suoi genitori sarebbe stato ingestibile perfino per un adulto, figurarsi per un soldo di cacio di appena 6 anni, l’età che aveva quando successero i fatti.

E invece Isaac parlava, con voce tremante, ma solida; gli occhi ombrati ma allo stesso tempo brillanti di consapevolezza, di chi è stato invischiato dall’abisso ma ne è poi uscito, rimanendo poi sul burrone a scrutare consapevolmente le tenebre. Il mio ometto...

“Anche io, se non mi avesse raccolto nessuno sarei stato come lei, no? - tremò nell’esprimerlo, rifiutandosi di cedere – Però voi mi avete raccolto e curato, a-anche dentro, soprattutto.. qui dentro!”

Mi emozionai al sentirlo pronunciare quella frase, penso che la mia emozione lui la percepì attraverso gli occhi, perché nel guardarmi mi sorrise, arrossendo.

“Tu sei molto forte e coraggioso, Isaac, anche senza di me, in qualche modo, avresti trovato la strada.” gli dissi, increspando appena le labbra in un sorriso.

“I-io non credo, Maestro, voi mi avete dato un rifugio e una famiglia, una… - si guardò un poco intorno imbarazzato, prima di tornare su di me – Una ragione per vivere!”

“Isaac...”

“E, allo stesso modo, anche io vorrei dare questa possibilità a Zana!” ultimò il suo discorso, nuovamente risoluto.

Trascorsero attimi di silenzio. Il piccolo aveva finito di esporsi, il mio cuore batteva più forte, anche se, memore dei miei stessi insegnamenti, non potevo svelarmi a lui. Ad un certo punto presi un profondo respiro, lui si girò verso di me per incontrare il mio dito che picchiettò sulla sua fronte. Gli tracciai un motivetto a onde prima di inframezzarlo con un’unica linea retta. Feci la stessa cosa sul suo petto.

“Ebbene, lo sei anche per me, Isaac...” gli dissi solo, rimanendo a guardarlo.

“COSA? E’ ancora quel simbolo, Maestro, quello dell’altra volta!” lo riconobbe lui, meravigliato, massaggiandosi la fronte con entrambi i palmi delle mani.

“Sì.”

“E cosa… cosa significa?” insistette lui, gli occhi ancor più luminosi.

“Davvero non l’hai ancora capito?”

“No!”

“Lo capirai con la crescita, allora.”

“Sono già cresciuto!”

“Forse non ancora abbastanza...”

Lui gonfiò le gote, arrabbiato e deluso dalla mia affermazione. Voleva di certo altre spiegazioni ma io non gliele potevo dare a parole, non il me di allora, perlomeno. Forse quello di adesso…

“Ma… ce la farò? Lo… capirò prima o poi?”

“Non ho alcun dubbio!” gli sorrisi, dandomi la spinta per rimettermi in piedi.

“Maestro, adesso dove andiamo?” mi chiese lui, vivace, mettendosi davanti a me nel vedere che mi alzavo e mi apprestavo a prendere le varie borse.

“Al momento a recuperare Hyoga che si sta aggirando per le vetrine dei negozi, poi proseguiremo per le vie della città a comprare altre riserve di cibo per questo inverno.”

“Yuppieeee!!! Mi piace girare così!”

Aveva recuperato il solito buonumore, l’ombra se ne era nuovamente andata ed io mi potevo ritenere più che soddisfatto dei suoi continui e costanti passi avanti. Sorrisi, mentre, lasciando che il piccolo mi affiancasse, mi dirigevo verso Hyoga.

Il bambino era fermo a guardare una vetrina, del tutto assorbito da quello che vi era all’interno. Lo chiamai a gran voce ma non ottenni risposta.. Non era da lui. Corrugai un poco la fronte nel cercare di capire cosa avesse. Di nuovo lo chiamai per nome. Niente. Anche Isaac prese a farlo, con lo stesso identico risultato. Il mio allievo sembrava rimasto imbambolato davanti alle vetrine della bigiotteria, ed era strano questo, perché aveva 8 anni come Isaac e mi sarei aspettato una tale fissazione per un negozio di giocattoli, o animali, o qualcosa di simile.

E invece…

Finalmente lo raggiungemmo. Guardai diffidente la vetrina nel tentare di capire cosa lo assorbisse così reconditamente, ma per il mio modo di vedere le cose non c’era niente di interessante, men che meno per un bambino. Solo orpelli, bracciali, collane e anelli fatti dei più svariati materiali preziosi.

“HYOGA!”

Il piccolo finalmente mi udì, prendendosi anche un risalto nel non aspettarmi di averci dietro. Si sfregò velocemente le palpebre prima di girarsi verso di noi.

“Sì, Maestro?”

Mi infastidii un poco nel constatare che, per l’ennesima volta, stava piangendo per un qualche tipo di motivo. Era stato bravo ad asciugarsi e a nascondersi, ma gli occhi azzurri erano ancora profondamente arrossati.

“Che stavi facendo? Ti stiamo chiamando da diverso tempo!” gli feci presente, soprassedendo sulle sue lacrime.

“Io...” esitò, tornando a guardare la vetrina, il nasino quasi appiccicato al vetro.

“Ma che roba è? - chiese ingenuamente Isaac, cercando qualcosa che lo potesse attirare senza trovarlo – Le persone pagano per queste cose?”

“Sì e anche molto. Sono oggetti preziosi.”

“Bah! - commentò lui, incrociando le braccia al petto – Non ha senso.”

Poi si rese conto che, dato l’interesse del compagno di addestramento, qualcosa di interessante doveva pur esserci, per cui, scrollando la testa, si sentì di aggiungere ancora qualcosa.

“Scusami, Hyoga, a te, di questo, piace invece qualcosa?”

Non ottenne nuovamente risposta, gli occhi del piccolo erano concentrati sull’ala laterale della vetrina dove spiccava un ciondolo dorato a forma di croce ortodossa con una pietra preziosa nel mezzo. Ragionai che doveva essere quello ad averlo rapito a tal punto per qualche ragione inspiegabile

“Hyoga...” lo chiamai di nuovo, in tono però più dolce, facendolo sussultare ancora una volta.

“N-no, non c’è nulla che… che mi piaccia.” tornò alla domanda del compagno, sospirando lungamente.

Non seppi bene perché ma quel tono e quel respiro lungo, quasi di apnea e mancanza, non mi piacque per niente. Guardai nuovamente la vetrina, ragionai che dovevo allontanarlo in fretta da lì, perché quel singolo oggetto, fragile come era il mio allievo, me lo avrebbe potuto far perdere per sempre come il relitto in cui riposava sua madre. Poggiai la mano dietro la sua nuca, tra i ciuffi biondi, lui mi guardò con attenzione, accorgendosi della mia tensione. Il mio sguardo tagliente non era rivolto a lui ma per quella croce ortodossa che sembrava volerlo assimilare con quel suo insano luccichio accattivante e superfluo al tempo stesso.

“Vieni, Hyoga, abbiamo ancora molte cose da comprare...”

 

 

* * *

 

 

Quella stessa notte mi svegliai un poco di soprassalto nell’accorgermi che qualcuno si era intrufolato nel mio letto, rumoreggiando nel sonno. Ero sdraiato su un fianco, lentamente mi appoggiai con il gomito sul materasso, discostando poi le coperte e trovandovi Isaac, addormentato vicino a me. Allungai un poco la mano nell’accedere la lampada, stando attento a non disturbarlo. Il piccolo sembrava profondamente addormentato, ma la piega delle sue sopracciglia e la postura nascondeva un malessere estremamente concreto. Si era rannicchiato al mio fianco, prendendomi il lembo della maglietta del pigiama per portarselo al visetto e nascondersi lì, trattenendo il tessuto tra le mani.

Tuttavia, ciò che mi sorprese di più, era che il mio soldo di cacio, sempre forte e combattivo, che cercava di dimostrarsi degno dei miei insegnamenti sempre e comunque, stava invece piangendo, lamentandosi debolmente nel sonno. Le lacrime gli incollavano le ciglia sulle guance mentre, a fatica, chiamava ininterrottamente qualcuno supplicandogli di non andare via.

Il rivedersi in Zana doveva avergli fatto rivivere la morte traumatica dei suoi genitori, e nonostante ai miei occhi volesse comunque dimostrarsi forte e combattivo, non c’era alcuna difesa dagli incubi nel momento in cui la coscienza lasciava posto alle ombre che si allungavano nella sua mente per ghermirlo.

Gli carezzai un poco i capelli irsuti, lui parve acquietarsi, sebbene continuasse a stringere il tessuto della mia maglia tra le sue dita, gli asciugai un poco le lacrime con il pollice, modulando la mia voce per tentare di tranquillizzarlo.

“Ciò che stai vedendo ora dentro di te… è passato! Non può nuocerti più, mio ometto!” gli dissi, rimanendo diverso tempo a vezzeggiargli il viso, cosa che mi riusciva più facile perché stava dormendo.

Strinse ancora una volta le palpebre, si chiuse ancora di più, il respiro ancora un poco frenetico.

“Imparerai a farlo, Isaac, imparerai a controllarlo perché io sarò con te, non permetterò più… che ti succeda qualcosa di così terribile!”

“Mmm… mmmmm!”

“Sì, non ti succederà più niente, te lo prometto, soldo di cacio!” gli dissi ancora, in un moto di tenerezza.

Le promesse in quei momenti… non andrebbero mai fatte! Eppure io continuo a farvele...

Finalmente il malessere scivolò via, sostituto da un sonno ancora più profondo. Sempre con estrema delicatezza, gli presi le manine, sistemandolo meglio sul cuscino, perché per attaccarsi così a me aveva preso sonno tutto storto e rannicchiato. Sorrisi, apprestandomi a chiudere la luce e tornare al dormire, ma uno scricchiolare del pavimento nell’altra stanza, come di passi che zampettavano, mi mise in allerta. Se Isaac stava dormendo al mio fianco, il responsabile di quei suoni doveva essere certamente Hyoga, insonne a sua volta.

Ricordai che si era comportato in maniera strana per tutto il giorno dopo la nostra visita al negozio di bigiotteria, e che non c’era stato verso di farlo parlare. Sospirai, capendo che quella notte probabilmente, tra Isaac che si intrufolava nel mio letto e Hyoga che si faceva le passeggiate per la camera, probabilmente non avrei dormito. Mi alzai quindi in piedi stando attento a non fare troppo rumore, coprii il piccolo ormai placidamente addormentato con la coperta, per poi chiudere definitivamente la luce e recarmi così nell’altra stanza.

Come avevo sospettato, vi trovai Hyoga, seduto per terra e intento a guardare fuori dalla finestra. Non si accorse subito della mia presenza, sembrava perso nei suoi pensieri e nuovamente pregno di quella malinconia che, per tutta l’estate appena trascorsa, sembrava quasi aver sconfitto. Quasi… perché quell’unico giorno, per una ragione che non conoscevo ancora, pareva aver nullificato tutti i passi avanti di quei mesi.

“Hyoga...” lo chiamai, a bassa voce per non disturbare Isaac o gli altri inquilini della taverna.

Lui sembrò riscuotersi, si voltò un poco verso di me, gli occhi lucidi e un poco arrossati.

“Maestro Camus...” mi rispose, prima di tornare a concentrarsi fuori, sulle luci della strada che lo attiravano.

Mi avvicinai lentamente, prendendo posto a gambe incrociate vicino a lui. Con quell’esserino bisognava andarci con i piedi di piombo, non forzandolo a fare le cose bensì accompagnandolo piano piano. Ormai lo avevo capito.

“Non hai sonno? - gli chiesi, modulando la voce anche con lui – E’ da oggi pomeriggio, quando ti sei fermato su quella vetrina, che sei strano...”

“Io...” Hyoga esitò, si strinse ancora di più la solita sacca gialla che si portava sempre dietro, come se fosse indeciso sul da farsi.

“Che cosa ti ha reso così?” continuai, sporgendomi un poco verso di lui.

“Stavo pensando, Maestro...”

“A cosa? - domandai ancora, vedendolo che scacciava qualcosa dagli occhietti. Pensai che avesse ceduto nuovamente alle lacrime e, quella volta, non potevo più chiudere un occhio – Oh, Hyoga, sai bene che...”

Si scrollò con forza, aprendo poi lo zainetto, che fino ad allora aveva tenuto segreto sia a me che ad Isaac, per poi rovistarci dentro.

Non seppi bene se fissare il suo operato o guardare altrove, per rispetto ai segreti che si portava dietro. Alla fine decisi di osservare a mia volta le luci di fuori, che abbagliavano, nell’attesa che il bambino si decidesse.

Finalmente un tintinnio seguito da un breve scintillio nella penombra della stanza mi fece comprendere che Hyoga aveva estratto ciò che cercava e, con mano tremante e visetto vergognoso, me lo porgeva.

“Ne sei sicuro? Vuoi che veda cosa tieni nel tuo zainetto con tanta cura?” gli domandai, capendo che per lui fosse un grande passo.

“S-sì, guardate...” mi posò il gingillo sul palmo, prima di ritrarsi e tornare a fissare il paesaggio fuori.

Me lo girai un poco tra le mani, capendo di cosa si trattasse.

“Una croce ortodossa?” osservai, catturato dai bagliori misto dorato/cremisi che emanava. Il pendaglio infatti rappresentava proprio una croce russa fatta d’oro e cosparsa di piccole pietruzze rosse che creavano un miscuglio di luci affascinanti.

“S-sì...”

“Come quella che fissavi insistentemente nella vetrina della bigiotteria?”

“S-sì...” confermò lui, incassando ancora di più la testa nelle spalle, quasi accartocciandosi su sé stesso, come pressato dagli eventi.

Non capivo pienamente… o forse sì, avevo una pista, ma preferii aspettare che continuasse lui invece di tirare a indovinare.

“E’ un regalo… è un regalo di mia madre!”

Avevo supposto centrasse lei, e, in quel momento, compresi anche cosa stesse vorticando nella sua testolina. Non gli avevo, no, vietato espressamente di nominare sua madre, ma tra di noi c’era un tacito accordo di non tirare fuori quell’argomento. Tuttavia io avevo posto la domanda, lui mi aveva risposto, sebbene con enorme difficoltà.

“Tua madre era cristiana?” chiesi, un poco meravigliato, sforzandomi di mantenere un tono confidente e non accusatorio.

In verità ero teso, ma non lo dimostravo, perché tirare fuori lei, sua madre, che era morta per salvarlo, lo allontanava da me e Isaac; dalla vita… aspirandolo in un gorgo di morte e disperazione, ma non potevo altresì continuare a fare come se il problema non esistesse. Esisteva eccome!

“S-sì… me lo ha regalato, dicendomi che mi avrebbe protetto!”

Come se un gingillo di quel calibro avesse potuto proteggere un bimbo così fragile! Non riuscii a trattenere uno sbuffo, lui di certo percepì il mio stato, chiudendosi ancora di più a riccio.

“E come può, questo, che è un ricordo di tua madre, farti tristezza?” gli chiesi, riponendoglielo tra le manine, che subito si chiusero e corsero a nasconderlo, come se l’avermelo mostrato lo avesse fatto sentire fragile ed esposto. E anche Hyoga, come me, odiava farsi vedere così.

“L-lei mi aveva detto che era… e-era unico!” si lasciò sfuggire lui, chiaramente dispiaciuto, trattenendosi la borsa contro il petto.

“Unico?”

“Che era una benedizione, per me, che era… era speciale!”

“...”

E capii, in quell’esatto momento, cosa lo facesse sentire così male.

“Ma oggi ho visto quella vetrina e c’era una croce praticamente identica, ce ne saranno di certo altre nel mondo, tutte uguali… cosa ha quindi di diverso la mia, cosa ha di di speciale? La mia croce è uguale ad altre cento, se non mille, croci!” si interrogò, ma la domanda non era rivolta a me, bensì a sé stesso.

“Hyoga...”

“Mi credevo ricco di una collana unica al mondo, e non ne possiedo che una qualsiasi! - tirò su con il naso, ma ottusamente non pianse – Ciò non fa di questo regalo, un qualcosa di così importante come pensavo...” arrivò alla triste conclusione, rannicchiandosi su sé stesso.

Una persona più espansiva di me lo avrebbe forse abbracciato per confortarlo, perché Hyoga aveva bisogno di un sostegno…

Una persona più abile nel linguaggio gli avrebbe detto qualcosa, perché Hyoga necessitava di qualcuno che gli dicesse che così non era, che la sua collana era speciale e unica.

Perché era il fatto che sua madre avesse pensato di donare a lui quanto di probabilmente avesse di più caro a rendere unico quel pendaglio, a costituire una benedizione, non l’oggetto in sé che, per chiunque, eccetto Hyoga, sarebbe risultato banale. Ed era in fondo proprio quello il punto nevralgico, ciò che distingueva quella croce da qualsiasi altra.

Ma io ero incapace di destreggiarmi in situazioni simili, sia verbalmente che fisicamente, pertanto rimasi in silenzio, non sapendo come esprimere quel concetto, almeno finché il piccolo, facendosi coraggio, non si alzò in piedi e, dopo aver lasciato la borsa per terra e aver dato un’ultima occhiata alla finestra, non mi diede le spalle per allontanarsi.

“Ora torno a dormire… buonanotte, Maestro Camus!” mi disse, sempre più abbattuto, lasciandomi lì.

“Ah, Hyoga!” mi alzai quasi di scatto per fermarlo, tuttavia rimasi fermo in piedi, una mano protratta verso di lui, le parole ancora una volta incastrate nella laringe.

Il piccolo si voltò verso di me nel fissarmi. Sembrava molto triste e si sentiva solo, aveva freddo, probabilmente; un freddo ben più pungente della Siberia medesima.

“I-io… uff! - sospirai, guardando poi altrove, la parete rischiarata dalla luce di fuori – Isaac è venuto a dormire con me, di là, v-uoi, v-vorresti..?”

Non ebbi il tempo di finire la frase che lui si fiondò subito nel mio grembo, abbracciandomi di slancio e rischiando di farmi sbilanciare da quanta forza ci avesse messo.

“Hyo...”

Lo vidi, il visetto parzialmente nascosto dalle sue braccia che erano corse a stringermi il pigiama. Non ne vedevo che una parte, ma riuscivo a percepire le sue labbra dischiuse, il pianto che tuttavia non lasciava trapelare, costringendosi a mostrarsi forte, il respiro un poco accelerato.

Senza dire una parola, lo presi da sotto le ascelle e lo tenni in braccio. Lui continuava a voler celare il suo viso ai miei occhi, nascondendosi appena sopra il mio sterno, le manine che arpionavano il leggero tessuto del pigiama. Ancora non dissi niente, mi limitai a tenerlo lì, tornando dalla finestra per prendere anche la sua sacca.

Il suo volto venne brevemente rischiarato dalla luce esterna, mi ci soffermai. Aveva gli occhietti chiusi e la boccuccia semi-aperta, le palpebre fremevano appena nel tentare di combattere contro il pianto. La sua pelle così rischiarata sembrava il medesimo riflesso della luna in un laghetto nascosto tra due fenditure.

“La forma dell’oggetto, così simile a cento, forse mille altre, non è altro che la scorza, Hyoga… - gli sussurrai, cullandolo brevemente tra le mie braccia – Vi è altro… di ben più importante!”

“Mmh...” bofonchiò un poco lui, forse udendomi appena.

Gli accarezzai dolcemente la schiena finché non parve tranquillizzarsi e sprofondare in un sonno di piombo, come Isaac prima di lui. Sorrisi. E allora, solo allora, una volta che ero certo di non poter essere percepito, gli baciai la nuca, provando un intenso desiderio di protezione verso quel giovane cigno che sembrava caduto da chissà dove.

“Lo capirai con la crescita… piccolo! - gli dissi ancora, socchiudendo appena gli occhi nel sentirlo respirare così vicino a me – Ed io sarò con te, al tuo fianco!”

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Buona domenica a tutti! Lo so, latito da mesi, la mia ultima pubblicazione deve risalire a giugno o luglio, ma purtroppo, come già anticipato, mi è davvero difficile trovare il tempo per scrivere e, a maggior ragione, correggere prima della pubblicazione. Il prossimo aggiornamento dovrebbe comunque essere sui “5 Pilastri di Marduk” (spero!)

Come per il caso precedente, questo capitolo era già abbozzato da diversi mesi, ma sono riuscita a revisionarlo e correggere solo recentemente. Ed eccolo qui!

Capitolo che si ispira chiaramente al Piccolo Principe che, una volta arrivato sulla Terra, vede un giardino di rose e si rende conto che quindi, la sua, considerata da sempre speciale, non lo sia più di tanto -ovviamente sbagliando, ma nella mente di un bimbo ci sta!-

Ci avviciniamo alla parte centrale della storia, nonché al concetto profondo di “addomesticare”, uno dei significati centrali dell’opera e che, pertanto, meriterà più capitoli in proposito. :)

Camus affida la cura e la tutela degli Husky Zaira e Zana (quest’ultima non a caso non ha un occhio!) ai suoi amati allievi, cercando di insegnargli il concetto di responsabilità… saranno poi ovviamente gli allievi, nel prossimo capitolo, a insegnargli, a loro volta, qualcosa di estremamente importante.

Mi è molto piaciuto farli relazionare in un luogo lontano da casa, anche se per la brevità di questi capitoli non è stato possibile approfondire ulteriormente. Non escludo lo farò in altre mie storie ;)

 

Anche per questa volta dovrei averi finito con le spiegazioni. Grazie a tutti per seguire questa storia, sono molto contenta che piaccia così tanto ^_^

Al prossimo capitolo allora!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


10

 

 

Tengo quello stesso pendaglio, seppur ora così diverso di forma, tra le mie dita. Sospiro, sentendomi smarrito davanti all’ennesimo mistero. Osservo nuovamente il viso lontano di Hyoga, rischiarato dalla fioca luce che penetra da fuori. E’ ancora rassomigliante a quello di allora, così illuminato da sembrare una falce lunare che si rispecchia nel mezzo di un laghetto segreto. E’ cresciuto, lo so bene, ma ancora, mi pare quell’esserino fragile che io dovevo proteggere… ancora, sebbene sia arrivato molto più distante di me, sebbene sia un uomo… infinitamente migliore di me! Ed io… cosa ho potuto fare per lui? Cosa, per impedirgli di finire così, a lottare disperatamente tra la vita e la morte. Che cosa?!

Un padre dovrebbe saper proteggere le proprie creature. Non ci sono riuscito con Isaac; non ci sono riuscito nemmeno con lui, con il mio Hyoga, anzi, è stato lui a dover…

Serro la mascella nel trattenere un singhiozzo dentro di me. Stringo convulsamente il pendaglio rotto a seguito dell’ultima battaglia per poi incassare la testa tra le spalle, al limite. Mi sento… al limite!

Vorrei urlare, ma a cosa gioverebbe?! Ho detto a Michela che piangere è inutile, che non aiuterà Hyoga a salvarsi. Lei si è costretta ad asciugarsi le lacrime, ingoiando a vuoto il magone. Sta diventando davvero forte, così come Marta e Francesca. Posso io cedere?! Dopo tutti gli insegnamenti impartiti ai mie ragazzi? No, non mi è concesso!

Mi alzo brevemente in piedi, tremante, per accarezzare dolcemente i capelli color del grano del mio Hyoga, smarrito in chissà quali lidi dell’incoscienza. Infine, sollevandogli un poco la testa, gli metto il ciondolo al collo, riaccompagnandolo poi giù sul cuscino.

“Questo è tuo, piccolo… è la tua benedizione!” gli sussurro a fatica, prima di baciargli la fronte stentatamente calda e prendergli la mano tra le mie.

“Quel giorno… - provo a parlargli, anche se a fatica – pensasti che il pendaglio che ti aveva regalato tua madre fosse del tutto simile a 100, 1000 altri. Non è così, Hyoga, è il tuo tesoro, è la sua protezione per te, e adesso… ha perfino cambiato forma, non è più una semplice croce ortodossa. Sono sicuro che ti piacerà ancora di più, nessuno di noi ha mai visto una cosa lontanamente simile a questa, né Shaka né Mu, è davvero particolare e… devi vederla con i tuoi occhi, ti sorprenderà!”

Gli accarezzo delicatamente il palmo con il pollice, cercando di sollecitarlo a reagire, sebbene versi in condizioni pressoché disperate.

Ha perso così tanto sangue -il mio occhio cade automaticamente sulle bende che gli stringono la parte alta dell’addome- la sua pelle è secca, tirata. Ad eccezione dei bordi della ferita che sono molto caldi, sembra quasi freddo al tocco, nonostante il cuore invitto batta ancora strenuamente, così come è sempre stato il mio ragazzo, forte e delicato al tempo stesso.

“Ti voglio bene, Hyoga, perdonami… perdonami se non sono mai stato capace di dirtelo, di essere franco con te, di manifestare quanto tu fossi importante per me. Sei… sei mio figlio, piccolo! Sai, una delle gioie più grandi della mia vita è stata quella di crescervi, tu ed Isaac. Sono… avete reso la mia vita così luminosa, l-la mia...”

Mi devo fermare, non riesco più a parlare, qualcosa mi blocca in gola e fa male. Mi occorrono diversi minuti per riprendermi. Lo osservo ancora, un fremito più intenso mi pervade. Nella paura che possa avere freddo, perché siamo ormai a dicembre, gli rimbocco meglio le coperte, adagiandogli compostamente la mano sopra le lenzuola. Lo continuo ad accarezzare per diversi minuti, tornando solo in un secondo momento a recuperare il libro che avevo momentaneamente messo da parte.

“Sono qui, Hyoga, non arrenderti! - lo provo ad incoraggiare, riaprendo le pagine che avevo lasciato in sospeso – Sono qui. Ora continuo, so che ti piace tanto sentirmi leggere, lo chiedevi spesso da bambino...”

Non riesco tuttavia a ricominciare subito, perché la porta si apre e una figura conosciuta entra nella stanza, zampettando in maniera buffa verso di me.

“Marta… - la saluto, sforzandomi di sorriderle, sebbene mi riesca difficile, mentre la luce della lampada rischiara la sua figura avvolta ancora dalla camicia da notte – Non ti sei concessa che sole poche ore di riposo...”

“Oh, fratellino, tu invece proprio nulla, sei ancora qui. Non… non ti sei staccato un attimo da lui!” mi rimprovera bonariamente, lo sguardo lucido.

“Non riesco ad allontanarmi… - le dico, prima di far trasparire il mio pensiero completo – Ho paura che mi scivoli via...”

Mi raschia la gola a dover esprimere una cosa simile. Le palpebre mi pungono, il peso sul mio petto si acuisce, l’aria sembra mancarmi... eppure non riesco a non essere cristallino con lei: è il mio sostegno!

Lei sente sempre più intensamente ciò che provo, una parte di me non lo vorrebbe, l’altra… si aggrappa con tutta sé stessa a questa consapevolezza! Mi ha percepito prima, l’altro giorno, quando ho dovuto decidere se far tentare a Hyoga l’operazione di emergenza con il rischio che mi morisse sotto i ferri; lo sente anche adesso, che sono così sperso e in balia di tutto e tutti.

Devo essermi indebolito in questi anni... prima affrontavo -o cercavo di affrontare!- tutto da solo, con le mie sole forze, ora non ci riuscirei più. Ho bisogno di lei, della mia sorellina, di Michela, di Francesca, di Sonia, di Milo, degli altri Cavalieri d’Oro; ho bisogno di tutti loro e… anche il mio Hyoga ne ha bisogno, perché se non fosse stato per gli altri lui non sarebbe più qui.

Marta rimane in silenzio per una serie di secondi, sempre più partecipe del mio stato, poi, accorgendosi del libro che tengo tra le mani e che sto leggendo al mio Hyoga, mi sorride con calore.

“Il Piccolo Principe! - mi dice, gli occhietti luminosi, sfiorando appena i ciuffi biondi del mio ragazzo per fargli forza a sua volta – E’ uno dei mie libri preferiti! Da noi, ti parlo di quando facevo le Elementari, è venuta apposta un’insegnante per leggercelo. Ci abbiamo fatto anche un lavoro di gruppo!” mi racconta, in tono basso ma tangibile.

“Sì… - confermo, prima di recuperare aria per parlare – E’ di Hyoga, lo ha sempre tenuto nella sacca gialla di cui ti ho parlato. E’ il suo tesoro insieme al ciondolo!”

“Il ciondolo, quello che teneva al collo e che si è spezzato nella battaglia?” chiede conferma lei, dispiaciuta.

“S-sì, quello!” lo indico con un cenno del dito nel farle notare la nuova forma assunta, inspiegabile ai nostri occhi.

“E’ un mistero e un prodigio, ma lo trovo comunque più bello rispetto a prima.”

“Qualunque sia la sua forma, ciò che conta è la sostanza: è l’ultimo lascito di sua madre Natassia!”

“Vero. - conferma lei, intenerita, prima di tornare a concentrarsi sulla copertina del libro – Quindi glielo stai leggendo in russo?!”

Stavolta non le rispondo verbalmente, ma annuisco, prima di lasciarlo tra le sue mani in modo che lo possa sfogliare con agio.

“Ah, ma guarda, è davvero complicatissimo ma riesco a capirlo, a grandi linee!” esclama, sinceramente meravigliata dalla scoperta.

“Seraphina, suppongo.” le sorrido sempre più a fatica, scompigliandole teneramente i capelli.

“Sì, è grazie a lei che...”

Lascia la frase in sospeso, sospirando appena, prima di passarmi nuovamente il libro.

“Il russo è davvero complicato, confermo, ma è la lingua madre di Hyoga, ho pensato che… che potesse farlo sentire più a casa!” le rivelo, sebbene anche in questo caso la voce mi si spezzi a metà.

“Fratellino…” il suono con cui pronuncia l’appellativo mi riscalda il cuore, sollevandomi un poco d’animo.

“Marta, io...”

...Ho tanto bisogno di te, per non crollare, e tu… tu sei sempre qui con me, piccola mia! Mi dispiace, percepisci il mio stato d’animo su di te, non deve essere facile prendere sonno con le mie emozioni che ti soverchiano, ma non le rifiuti, anzi, mi aiuti a capirle, io che con le emozioni ho sempre avuto difficoltà, io che nella mia vita ho sempre sbagliato. Con Hyoga. Ma anche con tutti voi.

“A che punto sei?” mi chiede ad un certo punto, probabilmente percependo le mie difficoltà.

“A-alla volpe, deve arrivare lei...”

“Continua… è un pezzo bellissimo!” mi esorta, rannicchiandosi nuovamente sul letto, il mento appoggiato alle braccia, gli occhi vispi che mi osservano.

Ed io continuo, un po’ perché incoraggiato dalla sua presenza, un po’ perché è davvero un pezzo bellissimo, e un altro po’ perché vorrei ricordare a mio figlio una cosa, la più importante…

Discorro lentamente, calcando con lentezza le frasi, in modo che lui le riesca ad udirmi e seguire la mia voce, ovunque si trovi ora la sua coscienza.

Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, ed io sarò per te unica al mondo.

(…) C’è un fiore… credo mi abbia addomesticato…

I miei ragazzi mi hanno addomesticato… aveva ragione Isaac quella volta -realizzo, con una punta di paura e brivido- i miei ragazzi, i miei fiori…

“La mia vita è monotona… - gracchio, a fatica, raschiandomi la gola perché l’emozione è davvero tanta, troppo, a stento la trattengo – Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata...”

“...Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. - continua al posto mio Marta, in italiano, gli occhi chiusi e un leggere sorriso sulle labbra, come se conoscesse tutto alla perfezione – Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...”

“Conosci tutto a memoria… deve piacerti parecchio!” le sorrido, permettendomi ancora una volta di accarezzarle la testa con la punta delle dita.

Riuscissi a spiegarti quanto mi sei cara, piccola mia, quanta forza mi da la tua vicinanza…

“Come ti dicevo… è uno dei miei libri preferiti della mia infanzia insieme alla Gabbianella e il Gatto. Più ancora… - si alza in piedi, compie pochi passi, prima circondarmi le spalle con le braccia in una stretta delicata e salvifica al tempo stesso. Appoggia dolcemente la testa sulla mia e tutto, per un istante, sembra raddrizzarsi – E’ così che ti vedo anche io.”

“M-Marta...” poso di riflesso una delle mie mani sul suo polso destro, stringendo appena la presa.

Anche io vi vedo così. Avete tutti un ruolo nel mio cuore, una parte solo vostra che non vi può strappare nessuno. Vi voglio bene, vorrei essere capace di dimostrarvelo come voi tutti fate con me. Vorrei essere riuscito a dirglielo anche a Hyoga, prima di tutto questo, vorrei che lo avesse capito, di quanto lui sia essenziale per me. Non l’ombra di Isaac, non la tua ombra, Marta, ma lui… solo lui, il mio ragazzo dai capelli color del grano che ho cresciuto io, il mio Hyoga!

“Sei tu ciò che il Piccolo Principe è per la volpe.” farfuglia, un poco imbarazzata, stringendo la presa su di me. Anche io la stringo di riflesso su lei, lasciandomi cullare.

“Pi-piccola… - ancora le parole mi muoiono in gola, faticando non poco ad uscire – L-lo sei anche tu, p-per me, mi hai… mi avete... insegnato così tanto!”

“Grazie, tu hai fatto lo stesso per noi, ma sei un testone e non te ne rendi conto...”

No, grazie a te per essere al mio fianco, per essere il mio sostegno, il mio porto, il luogo sicuro, dove mi sento protetto… la mia casa!

“Stai facendo passi da gigante, lo sai, Cam? Sono… sono così orgogliosa di te!”

Mi lascio andare ad un sospiro prolungato, appoggiandomi quasi completamente su di lei, confortato dalla sua vicinanza e dal suo calore. Nello stesso momento, con le dita, le accarezzo il polso con movimenti delicati. Vorrei fare di più per lei, farle percepire tutto ciò che sento, la sicurezza che provo nell’averla sempre, sempre, al mio fianco. Ma non sono bravo con le parole, in questo non sono cambiato rispetto ad allora e...e…

“Stai tranquillo… - lei deve percepire il mio respiro accelerato per l’emozione, mi bacia teneramente la nuca, prima di riprendere a parlare – Andrà per il meglio, hai allievi molto forti, Cam!” mi rassicura, socchiudendo gli occhi.

Annuisco, rimanendo un po’ lì, il libro tenuto sulle ginocchia, l’altra mano sopra la copertina e il cuore in tumulto. Imito il suo gesto di socchiudere gli occhi, rendendomi conto per la prima volta di essere davvero stanco.

“Devi crederlo con tutto te stesso, intesi? Sei tu che li hai addestrati!”

“I-io li ho addestrati, ma loro… l-loro...”

“Loro..?” mi incentiva, riaprendo gli occhioni che mi scrutano nel profondo.

“Penso mia abbiano addomesticato, Marta… i miei ragazzi...”

“Può darsi sia successo, sì. - ridacchia lei, staccandosi un poco – Accade di tutto in Siberia Orientale!” ricalca poi una frase del libro, facendomi l’occhiolino.

“Mi avete addomesticato un po’ tutti, in realtà...”

“Questo non è per forza una male: addomesticare significa creare dei legami!” mi risponde saggiamente lei, sempre ricalcando il libro.

“L-lo disse anche Isaac quel giorno, penso avesse riflettuto molto sul concetto di addomesticare...”

“Quale giorno?” mi domanda lei, attenta, riprendendo posto sulla sua sedia.

Taccio per una serie di secondi, con lo sguardo torno su Hyoga. Il suo respiro sembra un poco mutato, facendosi più forte e sicuro. Richiudo quindi il il libro con il pensiero di continuare a leggerglielo dopo. Di nuovo gli prendo la mano tra le mie, di nuovo gliela stringo, tentando di fargli percepire la mia presenza e dargli tanto coraggio, più di quanto ne abbia dimostrato in tutti questi anni.

Forza, piccolo… sono con te, SIAMO con te! Resisti!

“Quel giorno che Isaac, con la sua semplicità e a parole molto schiette, le stesse attitudini tue... – le sorrido con calore, accorgendomi ancora una vola di quanto il mio soldo di cacio e la mia sorellina si assomiglino – riuscì, lui solo, a far comprendere a Hyoga il reale significato, e l’importanza, del regalo di sua madre...”

 

 

Avevo preso l’abitudine di osservare spesso i miei ragazzi in diversi momenti della giornata, anche e soprattutto quando loro non si accorgevano della mia presenza. Così accadde quel giorno. Era fine settembre, ormai, e il tempo volgeva al brutto. La prima neve era infatti già caduta oltre il Circolo Polare Artico, Pevek e i dintorni non facevano eccezione. In mattinata ero andato a comprare le provviste in città, mi ero mosso con la solita slitta di Husky ma avevo preferito lasciare i miei allievi a casa.

Avevo fatto più in fretta del previsto e, una volta rientrato, li avevo visti intenti a giocare in camera loro con i vagoni del trenino e le statuine che gli avevo regalato quell’estate. Non si erano accorti del mio arrivo, troppo presi a giocare tra loro come due bambini normali, pertanto, una volta finito di mettere a posto la roba, avevo acceso il bollitore per farmi qualcosa di caldo. Ultimati i preparativi, sempre con il massimo riserbo, mi ero quindi recato dietro il muro di camera loro, dove mi ero seduto appoggiandomi. La porta della cameretta era aperta, la luce rischiarava parzialmente la parete di fronte a me, tramite la quale mi era così possibile scorgere le loro ombre quando si alzavano e passavano da lì per muoversi.

Sorrisi, rimanendo in ascolto dei loro parlottii e dei piccoli rumori che producevano. Al contempo, cercavo anche di figurarmeli in testa, i loro visetti, la luce che li rischiarava, le loro espressioni. Ero felice e forse neanche lo sapevo, mentre, prendendo una prima sorsata della bevanda calda nella tazza, il sapore inconfondibile della cannella mi si stampava nel palato. Tesi maggiormente l’orecchio verso loro, su quello che stava architettando.

Isaac, al solito, era il più attivo dei due. Dirigeva e coordinava i movimenti per la costruzione della ferrovia sulla quale poi avrebbero inaugurato il trenino. Aveva già un piano in testa, ben delineato, e faceva di tutto per arrivare all’obiettivo finale che si era prefissato lui stesso. Hyoga, al contrario, eseguiva docile, senza opporsi, meticolosamente, prestando attenzione anche ai particolari apparentemente più insignificanti.

Assaporai il secondo sorso prima di buttarlo giù, trovando piacevole il calore che si diradava nella mia gola. Quasi inconsciamente, venni carpito dai movimenti concentrici del liquido che veniva mosso dalla mia mano. Mi soffermai anche sul colore di quella tisana, tendente quasi al rosso, complice la presenza della mela essiccata. Pareva una cosa da nulla, in verità, eppure parte della mia felicità era data anche da quella: lì, in quello spazio di tempo, lontano dagli ordini spietati del Santuario, ero un semplice ragazzo a cui piaceva soffermarsi ad osservare i giochi di due bambini altrettanto normali.

“Oh, attento, Hyoga, così non...”

Avvertii appena l’esclamazione di Isaac, prima di udire il rumore di innumerevoli pezzi che finivano sparpagliati sul pavimento. Attimi di silenzio, poi la silhouette di Hyoga fece capolino sulla parete illuminata dalla luce. Dalla leggera curvatura del capo ne dedussi che fosse rammaricato.

“Scusami, Isaac...”

Percepii nell’aria un sospiro prolungato, qualcosa doveva essere andato storto nei preparativi. Generalmente, il non riuscire negli obiettivi prestabiliti, non piaceva affatto ad Isaac, ma quella volta, sorprendendomi non poco, non disse niente. Semplicemente aiutò il compagno a rimettere in ordine prima di aprire il discorso.

“Che ti succede, Hyoga? Sei fuori forma?” chiese poi, un poco apprensivo.

“Io...”

Hyoga aveva le mie stesse difficoltà di esprimersi a parole, se poteva, non si pronunciava su questioni private. Con me lo aveva fatto perché si era trovato costretto a spiegarsi, avendolo beccato a crucciarsi dalla finestra quei giorni che ci eravamo recati ad Anadyr.

In effetti, era proprio da quel momento che si era chiuso ancora di più. Sempre più soventemente era malinconico, serrato nel suo dolore, nella sua sofferenza, nelle domande, senza risposta alcuna, sul perché sua madre gli avesse fatto un regalo che, per lui, doveva essere unico e irripetibile, ma che, in verità, era uguale a cento, mille altri ciondoli che raffiguravano tutti croci ortodosse di fattura pressoché identica.

Io, al solito, avevo deciso di non tirare più fuori quella questione, sbagliando evidentemente, nella speranza che al piccolo passasse, ma… non gli era passata affatto! Neanche si esprimeva, del resto, ed io… non ero adatto a dischiuderlo dal guscio.

Presi un’altra sorsata, rigirandomela brevemente nel palato prima di deglutire, poi posai la tazza per terra, al mio fianco.

“Ho scoperto una cosa che mi ha fatto male...” riuscì infine a mormorare Hyoga, con estrema difficoltà.

“Una cosa… COSA?” la voce di Isaac era trillante, la curiosità stava nuovamente prendendo il sopravvento, cosa che invece metteva sempre sulla difensiva l’altro piccolo.

Con Hyoga bisognava sempre andarci con i passi leggeri, aspettare, tastare il terreno più volte, non forzarlo, un po’ come con me, ma il mio soldo di cacio era ancora immaturo su quello, non riusciva ancora a trattenersi, in certe circostanze. Contro le previsioni di tutti, tuttavia, il bambino dai capelli color del grano ci sorprese.

“Ti è mai capitato di… di considerare unico e speciale un oggetto e poi capire che, in fondo, così unico e speciale non lo è?”

“Hai voglia! Mi è successo con una foglia di… di acero, un giorno che i miei genitori mi avevano portato con loro in un viaggio verso Sud. Era rossa, io le foglie rosse non le avevo mai viste, pensavo che fosse una cosa rara, che venisse da un altro mondo; ma proprio da un altro pianeta, sai?! Ero così elettrizzato, al mio ritorno nel villaggio dove abitavo con i miei l’ho fatta vedere a tutti, la custodivo gelosamente, ma poi...”

“Poi?”

Vidi la sagoma di Isaac alzarsi a sua volta, allargare le braccia, prima di congiungerle e picchiettare i due indici uno contro l’altro.

“Poi la feci vedere alla balia che teneva me e altri bambini quando i nostri genitori non potevano, anche lei veniva dal Sud, conosceva molte cose. Comunque la vide, se la rigirò tra le mani, mi aspettavo che mi dicesse chissà cosa, sai? E invece… lei mi spiegò che in autunno molti alberi perdono le foglie, che prima di questo passaggio si tingono dei più svariati colori, anche se il perché non me lo ricordo... - ammise, in tono un poco più fievole, prima di darsi una scrollata – La mia bellissima foglia di acero era quindi uguale a cento, mille, altre foglie di acero… Mi è caduto il mondo addosso!”

La sua voce era forzatamente salita per calcare il suo stato emotivo. Il mio soldo di cacio era abile a farlo, aveva una tonalità e un accento per ogni evenienza ed era bravissimo a comunicare con chiunque. Una dote, la sua, che gli invidiavo, anche se tendeva a mostrare, sbagliando, troppa parte di sé agli altri.

“Insomma una brutta faccenda...” si trovò d’accordo Hyoga, dispiaciuto

“Questo è l’esempio più… - gli mancava la parola ‘eclatante’, fece spallucce e continuò – Beh, comunque buttai via la foglia, alla fine.”

“Uh… no!”

“Sì, ero scemo… - sospirò, non nascondendo il biasimo – E poi non è mica vero che tutte le foglie sono uguali in autunno, me lo ha insegnato il Maestro Camus: esse possono cambiare enormemente anche se appartengono allo stesso albero-madre, dipende da un sacco di fattori. Non c’è, non ci può essere, una foglia del tutto identica all’altra!”

“Quindi… hai buttato via una cosa che era veramente unica.”

“Già...”

“Il mio invece doveva essere un regalo solo mio… speciale, solo per me!” si lasciò sfuggire Hyoga, in tono sempre più sofferente.

“Un regalo?” chiese conferma Isaac, tutto attento.

“Sì, di mia madre.”

“E non lo consideri speciale?”

“Lo consideravo tale… ma non lo è!

“E perché?”

Non ci fu subito risposta verbale, il piccolo si alzò in piedi e diresse i suoi passi verso un angolo della stanza. Pochi secondi dopo, giunse alle mie orecchie il suono delle sue manine che frugavano dentro la sacca. Capii, da quei rumori di sottofondo, che stava estraendo la collana con la croce ortodossa che già aveva mostrato a me quella notte inconsolabile in cui si era rannicchiato tra le mie braccia. Altri passi nella stanza, un tintinnio, di nuovo la sua sagoma sul muro nell’atto di posare il ciondolo tra le mani del compagno.

“Una croce dorata?” chiese Isaac, in tono interrogativo, osservandola con attenzione

“Sì, una croce… uguale a centomila altre croci!” commentò aspramente Hyoga, provato da quella affermazione. Non se ne era fatto ancora una ragione.

“Non capisco, Hyoga...”

“Mia madre me la diede come protezione. Io la pensavo unica e speciale, invece… - prese una pausa, inghiottendo a vuoto – Quando siamo andati alla Fiera dell’Est con il Maestro Camus, in quel negozio, ce ne erano altre, tutte uguali!”

“E’ vero, lo ricordo...”

“Quindi… quindi non è affatto un qualcosa di unico e speciale, è un oggetto come tanti, uguale a centomila altri. Io mi credevo ricco… di una cosa che è banale!”

Il suo tono tremava nel pronunciare quelle parole, ma non piangeva, non più, aveva smesso già da un po’, come se le lacrime gli si fossero finalmente congelate nel petto. Passarono altri secondi di silenzio, poi ad un certo punto…

“Non è vero, non è banale! E tu sei un tontastro, Hyoga!” gli disse Isaac, con un pizzico di severità nella voce, prima di dargli amichevolmente un pugnetto dietro la nuca.

“I-io...” Hyoga sembrava interdetto da quell’affermazione. Vidi il suo braccio piegarsi maldestro per consentire alla mano di massaggiarsi la zona colpita.

Si leggeva stupore, tra le righe, e attesi che il discorso continuasse.

“Non è banale, è un esemplare unico!” affermò con ancora più decisione Isaac.

“Ma… ma se è uguale a...”

“Può sembrare uguale, sì, ma non lo è, Hyoga, non lo è! - il tono di Isaac si era fatto caldo, percepii un sorriso increspargli le labbra – E’ il regalo che la tua mamma ha pensato per te!”

Hyoga, a giudicare dal silenzio pesante che si era creato, era rimasto a bocca aperta, tremante, trepidante, assolutamente affascinato dalle parole del compagno di addestramento.

Vidi, tramite le ombre sulla parete, Isaac muoversi verso di lui, gli mise la collana al collo prima di guardarlo frontalmente, posandogli le mani sulle spalle in un gesto amichevole e aperto.

“Sono io a non capire adesso, Isaac...” sussurrò il piccolo dai capelli color del grano, in un sussurro.

“Questa croce è speciale… perché può essere simile alle altre che hai visto al negozio, sì, ma non lo è! Questa è la collana che tua madre ha scelto per te, per proteggerti, proprio questa, tra quelle che poteva scegliere! Ha pensato a te, mentre la prendeva, a te solo, è la tua collana, Hyoga, solo tua… già questo la rende straordinaria!”

“Lo è… perché è il suo regalo? Perché ha pensato alla mia protezione quando l’ha presa?”

“Quando l’ha presa, o forse chissà, era un ricordo di famiglia. Se così fosse, è ancora più speciale: porta con sé la benedizione dei tuoi avi!” azzardò una ipotesi Isaac, quasi in fibrillazione nel pronunciare quelle parole.

Hyoga sembrava stupito e sbalordito, stentava ancora a crederci, o forse non ci aveva proprio pensato. Rimase attonito, davanti ad Isaac, il quale, dopo alcune pacche sulle sue spalle, si girò in direzione opposta.

“Mi hai mostrato finalmente cosa celavi con così tanta cura nello zainetto giallo… allora anche io ti faccio vedere una cosa che custodisco gelosamente!” affermò, dirigendosi verso il suo comodino per aprire il cassetto, estrarre qualcosa, e tornare così dal compagno di addestramento.

Dall’ombra proiettata sul muro, lo vidi intento a sfasciare con cura l’oggetto, prima di porgerglielo a Hyoga. Da quel poco che percepivo, aveva una forma ovoidale.

“Questa è… una pietra?!”

“Una pietra uguale a cento, mille, anzi diecimila altre pietre, sì… ma solo in apparenza!” rispose tutto orgoglioso Isaac, gli occhi che mi immaginavo brillanti, anche se non li potevo vedere direttamente.

“E’ un regalo anche il tuo?” ne dedusse Hyoga, rigirandosi l’oggetto tra le mani con estrema attenzione, quasi avesse paura di danneggiarlo, scalfirlo o anche solo sporcarlo.

“Mmh, sì, di mio padre, sai… mio padre! – ebbe un fremito, si avvertì nell’aria, come accadeva sempre quando nominava il genitore a cui era così legato. Riuscì a ricomporsi solo diversi secondi dopo – Era… era un appassionato di rocce e minerali, questa la prese in uno dei suoi viaggi verso l’estremo Nord.”

“Però… però potrebbe sembrare una comunissima pietra grigia di quelle che si possono trovare un po’ ovunque sulle spiagge, o no? Perché scelse proprio questa?”

“Perché, mi disse, in quel momento stava guardando proprio il mare, pensando quanto gli mancassimo io e la mamma. Ha abbassato istintivamente lo sguardo e c’era questa pietra proprio davanti ai suoi piedi, apparentemente anonima, posata su una roccia di dimensioni maggiori, come se… volesse essere trovata proprio da lui! - gli spiegò Isaac, tutto preso nei suoi ricordi – Lo vedi il segno bianco storto che la segna?”

“Sì, è una linea trasversale che sembra quasi dividerla a metà...”

“Ecco, era così che si sentiva lui in quel momento, fratturato tra il suo lavoro che lo appassionava e la famiglia che lo aspettava, per questo la prese e me la regalò. – annuì Isaac, riprendendosi l’oggetto per stringerselo forte contro il petto – Può sembrare una banalissima pietra uguale a cento, forse mille altre, ma non lo è… è la mia pietra, perché mio padre, raccogliendola, ha pensato a me, a noi, ed è speciale proprio per questo!”

“Oh… - Hyoga era rimasto senza parole, ma stava cominciando a capire. Lentamente. - Quindi è questo che voleva intendere anche il Maestro Camus quando glielo ho raccontato!” rimuginò tra sé e sé.

“E’ così anche per le relazioni, sai? Cosa abbiamo di diverso noi, rispetto ad altri bambini?”

“Che siamo… - Hyoga ci pensò attentamente su per una serie di secondi – Noi!” arrivò banalmente alla conclusione.

“Io non ho mai visto i campi di grano del Sud, dicono siano meravigliosamente gialli. Prima di giungere qui, non ho mai visto nient’altro, di quel colore, se non alcune foglie e il sole, il tiepido sole. Ma, dal mio arrivo in Siberia, ho conosciuto la steppa. - continuò a provare a spiegarsi, in tono quasi evocativo, cercando di imitare il mio modo di raccontare, lo ben sapevo – In principio non mi ha mai detto nulla la steppa, troppo arida, troppo piatta, troppo scolorita… ma quando il vento ne accarezza gli arbusti, questi fili lunghi e sottili si muovono come quando il Maestro Camus ci sfiora i capelli e, cosa ugualmente importante, nella tarda stagione estiva si tinge di giallo; un giallo che sotto i raggi del sole splende… come il colore dei tuoi ciuffi!”

“I miei… brillano quindi di biondo?!” esclamò Hyoga, tutto emozionato dal paragone.

“Talvolta sembrano proprio dorati!”

“Oh, dorati… come l’armatura del Maestro Camus!”

“Sì. Prima la steppa non mi diceva nulla, era troppo distante dall’ambiente in cui ero cresciuto, e brulla, ma ora ho scoperto che il suo colore è il tuo, e che quando il vento muove i ciuffi, questi danzano nell’aria, come i miei capelli quando il Maestro mi passa una mano sulla testa… - spiegò, enfatizzando il tono nell’imitare il gesto – Mi avete regalato qualcosa che nessun altro essere vivente potrà mai darmi! Ora amo la steppa perché mi ricorda voi. Questo, e molto altro, rende il nostro legame speciale, diverso dagli altri. Io non sono uguale a nessun altro bambino, sono speciale, e tu anche, lo sei per me… il nostro legame lo è, e siamo fratelli, non di sangue, ma per scelta!”

“Per… scelta, Isaac?” chiese dubbioso Hyoga. Ciò che omise in quel frangente, per non ferire il compagno, fu ‘...di altri’.

Per scelta di altri… perché, in effetti, si erano trovati lì, a seguire i miei allenamenti, per un volere ben più grande di loro.

“Non ha importanza! - si oppose a viva voce Isaac, comprendendo bene ciò che il compagno aveva cercato di sottacere – Nessuno ci ha obbligato ad andare d’accordo! Siamo allievi di uno stesso maestro, d’accordo, ma siamo fratelli per scelta!”

“Oh, me l’hai già ripetuto più volte, questo… - mormorò Hyoga, vistosamente imbarazzato – La prima, quando mi hai detto che potevo bere dal tuo bicchiere, visto che il mio si era rotto.”

“Siamo fratelli, Hyoga. - confermò il piccolo, posandogli nuovamente le mani sulle spalle – Siamo fratelli anche perché viviamo sotto uno stesso tetto e… e facciamo anche delle cose tutti i giorni, alle stesse ore, ma poi… toh, salta fuori un giorno in cui facciamo qualcosa di speciale, come farebbe una famiglia, come farebbe...”

“Una sorta di rito, intendi?” chiese il bimbo biondo, ravvivandosi nel ricordare qualcosa di ben preciso nella sua mente.

“I riti, sì! - esclamò l’altro, ad altissima voce, felice che avesse inteso – Ogni giorno ci svegliamo, facciamo colazione alla data ora, poi sotto con l’allenamento; alla sera accade sempre che ci addormentiamo in salotto, ma poi, stupificiosamente ci ritroviamo nel nostro letto a dormire. Ci vogliono i riti e noi li abbiamo, il Maestro Camus ce li ha, eppure, essi, sono sempre un po’ diversi ogni giorno… messi insieme fanno parte della nostra quotidianità!”

Posai nuovamente la tazza, ormai vuota, sul pavimento di fianco a me, rimanendo ad ascoltare, con un mezzo sorriso, i discorsi dei miei piccoli, che parlavano di quanto fosse importante mantenere tutto quello, che a rendere speciale il loro, il nostro, legame, erano proprio i riti, le abitudini, la quotidianità stessa.

Decisi che dopo tutto quel parlare, ascoltato da me senza che loro potessero percepirmi, era giunto il momento, giacché parlavano di riti, di pulire la casa, perché era venerdì ed era… rituale, appunto, il fine settimana dopo gli allenamenti e i giochi, devolvere le nostre energie per lavare l’isba che ci ospitava, ma proprio in quel momento una frase di Isaac mi bloccò nell’atto di alzarmi.

“Ciò non vale solo per noi, sai? Ma anche per il Maestro Camus: noi lo abbiamo addomesticato!”

Addomesticato… rimuginai a lungo su quella frase un poco altisonante che, in quel momento, mi pareva fuori luogo e fuori contesto, quasi da irritarmi e indispormi.

Potevo tollerarlo per alcuni animali, questo sì, io stesso avevo dato il permesso ai miei allievi di allevare e addestrare due cani. Tuttavia, dal punto di vista umano, avevo sempre reputato il concetto estremamente negativo, sullo stesso livello della dipendenza affettiva, cosa che, infatti, tentavo di combattere aspramente da tutta una vita. Addomesticare per me significava privare della libertà, e un essere umano si doveva amare proprio per quello, nel renderlo libero di agire come meglio credeva. Per questo motivo mi irrigidii notevolmente, e fui lieto di non essere visto dai miei ometti, perché nella mia espressione si era stampato qualcosa di rassomigliante al più cocente disgusto.

“Ma… addomesticare, Isaac? Il Maestro Camus?!” chiese scettico Hyoga, probabilmente reputandolo a sua volta oltraggioso.

“Addomesticare significa creare dei legami, no? Lo ha inteso lui stesso… perché dovrebbe essere un male?!” fu la serafica risposta di Isaac, che fece spallucce.

“Ma non è un cane, non è come Zana o Zaira...

“Oooooh, ma è addomesticato comunque! Siamo stati proprio noi a...”

“Chi avreste addomesticato, Isaac?!”

Mi ero infine palesato dalla porta, le braccia conserte, gli occhi con quel pizzico di severità che non guastava mai. I due piccoli si rizzarono istantaneamente, mi lanciarono uno sguardo terrorizzato, mentre Hyoga, puntando subito il dito contro il compagno, sudava vistosamente freddo.

“Lo ha detto lui!!!”

“Io?! Io...”

“Sì, Isaac, lo hai detto! Hai asserito che il Maestro…”

Non ultimò la frase, il compagno gli saltò addosso, tappandogli immediatamente la bocca con una mano: “Io non intendevo che… che… uff, sei uno spione, Hyoga!”

“Mmmmh, t-tsu sei uno...”

“NO! V-volevo dire che… erk!”

Mi diressi tacitamente dalla finestra, chiudendo le tende in silenzio senza guardarli più negli occhi per diversi secondi. Poi lentamente mi voltai, scrutandoli a fondo entrambi. Erano uno più spaventato dell’altro, Hyoga ancora con la mano del compagno davanti alla bocca, Isaac intento a mostrarmi la sua più adorabile espressione innocente per intenerirmi. Sospirai, prima di alleggerire un poco la tensione che avevo involontariamente creato.

“Diceste poco fa che ci vogliono i riti, giusto? Ebbene è venerdì oggi, non c’era forse un accordo, già precostituito tra noi, di pulire la casa?”

I due si scambiarono uno sguardo stupito, prima di mettersi sull’attenti, gli occhi comunque colpevoli.

“Maestro, ma… ma da quando stavate ascoltando?” si arrischiò Isaac, arrossendo un poco.

“Più o meno dal principio.”

“Oh…” si massaggiò dietro la nuca, sempre più vergognoso. Decisi quindi di non infierire ulteriormente.

“Mettete a posto qui in camera e poi venite giù in salotto, per prima cosa puliremo il bagno!” gli ordinai, in tono di chi non ammetteva repliche.

Loro annuirono, apprestandosi poi a seguire le mie direttive. Sorrisi soddisfatto, fiero come sempre di loro. Feci quindi per accomiatarmi da loro con l’intento di imbastire i primi preparativi di sotto, ma in quel momento notai, con la coda dell’occhio, che Isaac stava fasciando il suo tesoro, la pietra regalata da suo padre, con un qualcosa che io ben riuscivo a riconoscere.

“Isaac, quello...” non ultimai la frase, non vi riuscivo, un fremito mi aveva investito.

Il piccolo capì subito a cosa mi stessi riferendo, mi sorrise, imprimendo quel suo solito scintillio, nello sguardo, che fece istantaneamente abbassare il mio.

“Sì, Maestro, è vostro.”

Lo avevo riconosciuto, quel fazzoletto verde e stropicciato che il mio soldo di cacio custodiva gelosamente per avvolgere il regalo di suo padre. Lo avevo utilizzato per asciugargli le lacrime quando era morto Lisakki, dimenticandomene poi, da quanto lo avevo reputato superfluo. Lui, invece, se lo era tenuto, lo trattava come reliquia, persino, allo stesso livello della pietra di suo padre. Mi allontanai in fretta verso la porta, poggiandoci una mano sopra nel patetico tentativo di schermarmi ai suoi occhi.

“Isaac, è solo un fazzoletto vecchio e logoro...” gli feci presente, cercando di controllare il mio tono di voce.

“Non lo è, Maestro, vale quello che ho detto prima, se mi avete sentito...”

Mi girai nuovamente verso di lui, mi sorrideva con quell’espressione che emanava caparbietà e dolcezza al solo vedersi; quell’espressione che avevo imparato ad amare, che mi era di conforto in ogni situazione difficile mi trovassi, nonostante lui fosse più piccolo di me e avessi io la responsabilità di proteggerlo. Mi sentii la gola secca, il respiro accelerato. Hyoga ci guardava distante, non lasciandosi comunque sfuggire il benché minimo cambio delle nostre espressioni.

“Maestro, io… - Isaac prese una boccata d’aria, prima di socchiude gli occhi – Non ho paura di essere addomesticato!”

Quella frase mi perforò dentro con una schiettezza disarmante. Mi ritrovai a rabboccare aria, colpito e affondato, ci misi più tempo del solito a riportarmi forzatamente alla calma. Isaac, dal basso dei suoi 8 anni, mi aveva appena impartito una lezione che non avrei mai dimenticato. Mi ritrovai davanti al fatto compiuto che il mio allievo, su molti campi, era molto più avanti di me.

“E questo oggetto, per me, rappresenta l’inizio del nostro legame...” aggiunse poco dopo, sempre con quel sorriso tra sé e sé.

“Il… uff! - diedi il tutto e per tutto per ricompormi, mi sentivo troppo vulnerabile per proseguire quel discorso – Fate come vi ho detto prima. Quando siete pronti, venite giù, c’è molto lavoro da fare!” ripresi infine il controllo, nuovamente distante, uscendo dalla loro camera senza ulteriori indugi.

Gli occhioni un poco rattristati del mio soldo di calcio furono l’ultima cosa nitida che distinsi.

Arrivai al piano di sotto ben conscio di dover preparare il necessario per le pulizie, ma quel nuovo raffronto mi aveva stremato. Mi sdraiai momentaneamente sul divano, la mano sopra la fronte nel respirare con estrema lentezza. Il musetto di Isaac fece nuovamente capolino tra i miei pensieri, insieme alle sue parole che mi risuonarono dolcemente in testa.

Quel fazzoletto apparentemente insulso rappresentava per lui l’inizio del nostro legame.

Lui non aveva paura di crearli, questi legami, di essere… addomesticato… sebbene già in tenera età avesse subito una serie di lutti che sarebbero stati capaci di annichilire chiunque. Già, lui non provava paura, un soldo di cacio di appena 8 anni che aveva perso brutalmente i genitori e il primo amico, Lisakki, che avesse mai avuto. Già, lui non aveva paura, io… sì, ne ero proprio terrorizzato. Avere dei legami rendeva fragili, farsi addomesticare creava dipendenza, un qualcosa che mi si sarebbe ritorto contro, distruggendomi, ed io ero già stato duramente devastato dalla perdita di Fyodor. Anche il mio ometto era perfettamente consapevole di quel rischio, di essere divelto, del resto lo aveva sperimentato sulla propria pelle. Eppure non aveva perso la capacità di amare, affatto. Era un raggio di sole, un rimedio balsamico per me. Ed io… non riuscivo a dimostrarglielo!

Sospirai, affranto, costringendomi ad alzarmi per rimettermi seduto e scacciare così il malessere. Sul tavolino a poca distanza da me, non visti in un primo momento, vi erano i due cavallini in legno di Hyoga e Isaac, posti uno di fronte all’altro e lasciati momentaneamente lì dai due bambini. Sorrisi nello scorgerli, ricacciando indietro il bruciore fastidioso che mi pizzicava gli occhi.

Sì, forse era vero che mi avevano addomesticato, ed io… gli avevo permesso di farlo, nonostante le mie paure. Probabilmente era troppo tardi per poter tornare indietro.

“Troppo tardi, già...” ripetei tra me e me, picchiettando con gli indici proprio i due cavallini che dondolarono simultaneamente.

Il calore era entrato, sarebbe stato ormai impossibile scacciarlo. Invero ne avevo paura, ma mi sentivo anche sollevato.

 

(…) Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ho ormai perso il conto di tutte le volte che vi ho detto che avrei pubblicato una storia diversa e che, puntualmente, poi mi sono trovata a pubblicare sempre la stessa.

Chiedo scusa a chi aspetta le altre, purtroppo il tempo a mia disposizione non è così tanto e il periodo, l’anno, non è stato dei migliori, per cui spero di tornare a scrivere attivamente anche tutte le altre storie, ma per il momento dovrete “accontentarvi” di questa.

Vedo comunque che questo racconto piace a molti e vi ringrazio dal profondo del cuore. Mi sono trovata splendidamente con il POV di Camus e narrare della Famiglia Siberiana mi rende felice, non finirei mai!

Capitolo direttamente collegato al precedente, l’espediente è il pendaglio di Hyoga, la croce ortodossa regalata da sua madre e che tuttavia, pare, abbia cambiato inspiegabilmente forma al seguito dell’ultima battaglia in cui il Cigno è rimasto gravemente ferito.

Per saperne di più, come al solito, dovrete aspettare la pubblicazione della Melodia della Neve, questo non è il luogo adatto per approfondire ulteriormente il discorso.

Ci troviamo ormai ai capitoli principali sia del Piccolo Principe che di questa serie di capitoli, il tema basilare gioca sulla parola “addomesticare” inteso come creare dei legami.

Il Camus del presente (che ha quasi 23 anni!) è molto maturato sia come consapevolezza di sé che come apertura verso gli altri, chi segue la mia serie principale ne conosce il motivo; invece il Camus del passato (14 anni), come avete più volte potuto constatare, è ancora molto “indietro” su molti aspetti, ma ci sta, è pur sempre un ragazzo che è stato allontanato precocemente dalla famiglia di origine. Ha inoltre perso brutalmente il padre adottivo, due allievi, e deve crescerne altri due con le sue sole forze (non per niente è molto più fedele all’originale!).

In entrambi i casi, comunque, è stato capace di sviluppare un forte attaccamento emotivo nei confronti prima di Isaac e poi di Marta. Queste due persone sono, per lui, i pilastri centrali su cui si poggia la sua esistenza.

Lo è anche Hyoga, certo, ma il legame che unisce maestro e allievo, ricco di incomprensioni e sbagli soprattutto da parte dell’Acquario, non è dei più semplici, anche se, come avrete forse intuito, desidero che nelle mie storie diventi ancora più profondo e saldo dopo gli ultimi fatti accaduti.

Un’ultima chicca per chi ha seguito tutti i progetti finiti e in corso: il fazzoletto che Isaac tira fuori qui, è lo stesso che appare nel capitolo 12 della Melodia della Neve (quando avviene il contatto con Marta, per intenderci!) e che tiene stretto al polso, ultimo ricordo tangibile che lo unisce ancora a Camus, perfino nella landa timorata dagli dei in cui è precipitato (Parallel hearts). Ci tenevo a lasciargli qualcosa che gli ricordasse i legami perduti e quanto doloroso sarà ancora il suo percorso di crescita, avendo perduto le radici che lo legavano alle due persone più importanti della sua vita.

 

Anche a questo giro dovrei aver finito. Io, come sempre, vi ringrazio e colgo l’occasione per augurarvi un Buon Natale e un felice anno nuovo. Spero davvero che il 2023 sarà migliore dal punto di vista delle mie pubblicazioni… a presto! ^_^

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