Marcus et Philinna

di Ombrone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Catullo ***
Capitolo 2: *** La fuga ***
Capitolo 3: *** Pannonia ***
Capitolo 4: *** Nomentum ***
Capitolo 5: *** Saturnalia ***
Capitolo 6: *** Flemmum ***
Capitolo 7: *** Medea ***
Capitolo 8: *** Camilla ***
Capitolo 9: *** Appendice storico letteraria ***



Capitolo 1
*** Catullo ***


Ricordo perfettamente il giorno in cui tornai Roma.
Era giugno, il quarto giorno dopo le idi di giugno, nel terzo anno di Claudio Cesare, l’anno del consolato di Decimo Valerio Asiatico e Marco Giunio Silano.
Era una splendida giornata di sole, non una nuvola oscurava l’azzurro del cielo.
Era ancora mattina quando entrai in città da Porta Fontinale, non avevo neppure bisogno di guidare Nembo, il mio cavallo. Sentiva anche lui l’odore di casa e prendeva la strada giusta senza bisogno di nessuna indicazione da parte mia.
Era una giornata perfetta, pure la città sembrava puzzare meno di quello che ricordavo. Finalmente ero a casa ed era stupendo, due anni e passa al confine del mondo non erano stati facili da affrontare, ma adesso erano finiti ed ero felice, anche più di quanto fossi stanco e impolverato.
Mia madre, avvisata dà qualche schiavo che aveva lasciato di vedetta, era lì nel vestibolo ad aspettarmi, quando le porte si aprirono, florida, sorridente e orgogliosa, vestita con l’eleganza a lei tipica.
“Figlio mio, amato. Orgoglio e speranza della nostra famiglia e del nostro nome” Così mi accolse. “Bentornato nella tua casa.” Mi abbraccio e mi baciò le guance.
Dietro di lei c’era mio zio Aulo. Lui era tutt’altro che elegante con le sue pretese di stoica modestia, ma anche lui sorrideva felice quando mi abbracciò.
“Marco, un uomo possente sei diventato!” Disse.
Non vi erano altri parenti. Mio padre e il mio fratello maggiore erano morti anni prima. Il resto della piccola folla che mi accolse erano servitori: Eryx il sopraintendente della casa, Cleone il mio vecchio tutore e segretario di famiglia, che si inchinò sorridente, Romolo il grosso robusto schiavo che era stato il primo a insegnarmi come usare una spada quando era ragazzo, non disse nulla, si limitò a inchinarsi, ma riconobbi l’orgoglio nei suoi occhi.
Tanti altri si erano radunati per salutarmi. Mi ricordo le due cameriere personali di mia madre, che mi conoscevano sin da bambino, la mia vecchia balia, l’unica che si permise di piangere quando la abbracciai. Nel retro, seminascosta tra gli altri schiavi riconobbi Sabra, la concubina siriana di Zio Aulo, che mi sorrideva e, non mancai di notarlo, portava ciondolo che le avevo regalato prima di partire.
Al termine dei saluti, uno schiavo mi prese il mantello, mentre altri presero in consegna Nembo e mia madre mi guidò dall’altro lato dell’atrio, all’altare dei Lari e dei Penati e qui gli offrii vino, pane e incenso, per ringraziarli di avermi riportato a casa sano e salvo e per chiedergli salute e fortuna per il mio futuro.
Sentii i piccoli Dei sorridermi e darmi il benvenuto. Finalmente, io, Marco Valerio Corvino, ero tornato a casa.
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Reso grazie agli Dei, il secondo passo necessario dopo un simile viaggio è quello di lavarsi e fu quello che feci. Dopo la prima strigliata venni raggiungo nella vasca da mio zio, pieno di curiosità dei miei viaggi.
“Allora come questa Britannia?” Mi chiese.
“Un posto strano e selvaggio, ma con un suo certo fascino devo dire. La gente però è veramente barbara e incivile, ti assicuro.”
“Pure le donne?” Come dicevo, zio ha la pretesa di essere uno stoico, e a volte, bisogna ammettere, riesce ad essere una convincente imitazione di Zenone di Cizio, ma non per quanto riguarda le donne, in quell’ambito nemmeno prova a fingere.
“Particolari,” dissi, mi interruppi sorseggiando un po’ di vino dalla coppa, divertito dalla sua espressione impaziente, prima che mi facesse fretta, ripresi, “esattamente come la loro terra e i loro uomini sono decisamente selvagge e ben poco raffinate. Possono essere interessanti comunque: pelle pallida, occhi chiari, capelli neri o a volte rossi. Intriganti.” Tornai a bere un altro sorso.
“Ha portato indietro un souvenir?”
Risi.
“No zio, mi dispiace, ma se sei curioso i mercati sono ancora pieni di schiavi britannici. Non è un problema procurarsene qualcuno.”
No, no caro nipote.” Mi replicò. “Sabra è più che sufficiente per soddisfare i desideri che mi possono rimanere alla mia età. Parlavo per te che sei giovane e nel pieno del vigore.”
Il messaggio era chiaro. Zio era stato generoso e paterno a darmi la disponibilità di Sabra quando da ragazzo avevo avuto bisogno di una guida gentile e discreta per educarmi e diventare un uomo, ma era stato subito chiaro che “prestare” occasionalmente non significava “condividere” e adesso voleva rimarcare il punto. Come condannarlo, zio era la persona più generosa e cordiale che io abbia mai conosciuto: le donne erano il suo unico, perdonabilissimo, vizio e raggiunta la sua età Sabra era l’unica di cui avesse ancora bisogno.
Feci un cenno per farmi riempire di nuovo la coppa da uno degli schiavi.
Annuii come a dare il segnale che avevo capito e zio cambiò discorso.
“Allora dimmi altro. Il mio vecchio amico Flavio Vespasiano ti ha trattato bene?”
“Certo zio!” Su questo non vi erano certo dubbi.” Mi ha trattato come se fossi un suo parente. Ti devo ringraziare per la tua lettera di presentazione. Mi ha preso con lui ed è stato un vero maestro. Mi ha insegnato tantissimo su come si guidano gli uomini in battaglia e di come va governata una provincia. Quando c’è stata l’occasione ha fatto in modo che fossi nel seguito dell’Imperatore, per darmi l’occasione di farmi notare.”
“Ottimo! Ottimo, quindi hai avuto modi di farti conoscere dall’Imperatore.”
“Si Zio, sono stato al suo seguito sia sul campo, che in situazioni più rilassate.”
“E dimmi… Com’è?” la sua voce si abbassò a un sussurro, malgrado fossimo solo noi due e in casa nostra. 
Lo imitai nel rispondergli. 
“Claudio Cesare, l’Imperatore, è un uomo molto particolare. Ha una mente sveglia e intelligente e la sua conversazione è colta e interessante, anche se è vero che balbetta a volte. Non è un guerriero, forse, ma conosce l’arte della guerra e sa come condurla e vincerla. Perfino un veterano glorioso come il tuo amico Vespasiano glielo riconosce sinceramente.”
“Bene, bene.” Ripeté. “L’importante è che l’imperatore ti abbia conosciuto e ti abbia notato.”
“Ho fatto del mio meglio zio, ma l’Imperatore è stato laggiù solo pochi mesi e sono anni che è tornato a Roma.”
“Oh, troveremo una maniera per rinfrescargli la memoria, sono sicuro che la tua buona madre si sta già muovendo da quando ha saputo del tuo ritorno. Nessuno è più capace di mia sorella in queste cose. Posso presumere che tu non sia al corrente delle ultime notizie della città?”
Si fece riempire di nuovo la coppa anche lui e passò la successiva ora ad aggiornarmi sugli ultimi avvenimenti della politica e della poesia. Il sale della vita.
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I miei primi giorni a casa, al contrario di quello che avevo sperato, furono tutt’altro che riposanti o rilassanti, ma la mia era stata solo un infantile illusione in effetti.
Il mio ritorno a Roma provocò un immediato afflusso di visitatori e clienti che volevano salutarmi e rendermi omaggio. Durante la mia assenza, questi compiti erano stati svolti da mia madre con l’aiuto di Zio Aulo, ma adesso con il mio ritorno le cose dovevano essere fatte nella maniera adeguata, ero il Pater Familias l’erede dei Corvino e il compito era mio.   
Si iniziava la mattina presto con Eryx e Cleone che accoglievano i visitatori e li ordinavano per rango e precedenza perché potessi riceverli.
Il mio posto era quello che aveva occupato mio padre prima di me, e suo padre e tutti i miei antenati in precedenza, nell’atrio seduto vicino all’altare domestico. Lì accoglievo questa continuo flusso di visitatori, tutti vestiti con le loro migliore toghe, ascoltando i loro saluti e i loro auguri e, fin troppo spesso, le loro richieste. A tutti veniva offerto qualcosa, fosse da mangiare, da bere o un regalo per testimoniare la nostra amicizia, non era accettabile qualcuno se ne andasse a mani vuote.
E se questo non bastasse c’erano cene, visite ad altre famiglie amiche o meno amiche e qualche piacevole incontro con i miei vecchi compagni.
Fu così con grande gioia che alla fine riuscii a ritagliarmi un pomeriggio per me, per godere di un po’ di tranquillità e pace e mi chiusi nel mio piccolo studio per leggere e scrivere.
Il piccolo studio è la mia stanza favorita da quando ero un ragazzino: è al piano superiore e si affaccia sul peristilio e pur essendo piccola è confortevole e piena di luce per la maggior parte del giorno. L’arredamento è semplice e pratico: un tavolino, delle sedie confortevoli, uno scaffale per i rotoli in lettura, un lettino dove ogni tanto spendevo la notte quando mi addormentavo leggendo.
Passai delle ore gradevoli scrivendo lettere ai miei compagni rimasti in Britannia, e soprattutto a Flavio Vespasiano che mi aveva così favorito, per informarlo che ero arrivato sano e salvo a Roma, che il mio viaggio era stato veloce e confortevole e ringraziarlo, ancora una volta, per la sua gentilezza e amicizia.
Stanco di scrivere, presi dallo scaffale un rotolo di Catullo, che giaceva lì da prima della mia partenza, almeno, e scorsi pigramente i suoi versi godendo della loro musica. In quella maniera arrivai alla fine del pomeriggio e quando il sole iniziò a scendere e le ombre ad allungarsi sentii uno schiavo entrare nella stanza.
“Scusate padrone, sono venuta a riempire le lampade” Disse una voce giovane e femminile.
Feci un gesto di consenso senza neppure sollevare la testa dalla mia lettura, ma mi interruppi quando accese la prima lampada ad olio e la luce tremolò sulla pagina.
Era una giovane schiava che mi dava le spalle sistemando le lampade, non la riconobbi dopo tanta assenza, ma non potei fare a meno di notare la sua piacevole figura.
Aveva dei lunghi capelli neri, lievemente mossi, raccolti in una coda di cavallo. Il che la indentificava come una fanciulla non sposata, o, essendo una schiava, almeno senza un compagno ufficioso. Era di media statura, dal fisico delicato, ma la semplice tunica non poteva nascondere, la vita stretta, i bei fianchi e le gambe slanciate. Lo scialle che indossava sopra la tunica era scivolato mostrando una spalla morbida e ben modellato ed esaltando il collo lungo e snello. Non aveva certo la pelle chiara e perfetta di una nobildonna, ma sembrava comunque soffice e liscia senza difetti. Da quella posizione vedevo solo il profilo del suo viso, una guancia delicata e delle ciglia apparentemente lunghissime.
Non so se quel pomeriggio avessi letto troppi versi di Catullo dedicati alla bellezza di Lesbia, o forse era semplicemente venuto il momento che chiedessi a Zio Aulo di prestarmi per una notte Sabra, o trovassi un altro sfogo, ma rimasi incantato dal suo profilo e dai suoi movimenti precisi e delicati.
Si voltò finito il suo lavoro e accorgendosi che la stavo fissando, in una maniera, mi rendo conto, quasi sgarbata, si bloccò evitando di incrociare i miei occhi, sistemò lo scialle coprendosi pudicamente la spalla e abbassò lo sguardo con un gesto così schivo e modesto che avrebbe riscosso l’approvazione anche di Catone di Giovane.
La osservai meglio, le sue ciglia erano veramente folte e lunghe e incorniciavano dei grandi occhi luminosi di un bel color nocciola, le labbra erano ben modellate e pure il naso era di piacevole conformazione. Il viso era di una forma regolare ed elegante, piacevole da contemplare. Mi era stranamente familiare, percui probabilmente non era un nuovo acquisto successivo alla mia partenza, ma non riuscivo a collocarla.
Impiegai un lungo secondo, di impacciato silenzio, prima di riuscire, finalmente, a riconoscerla.
“Filinna!” Esclamai meravigliato, per un attimo fui tentato di aggiungere la banale affermazione di quanto fosse cresciuta (e in nome di Venere Citera era cresciuta assai bene), ma cosciente di quanto avevo odiato essere oggetto di affermazioni simili mi trattenni.
Lei finalmente sorrise, un sorriso ampio e luminoso da illuminare l’intero viso e la stanza, più delle lampade che aveva accesso.
“Padrone, sono contenta che voi siate tornato finalmente a casa sano e salvo.”
Filinna era la figlia di Cleone. Era alcuni anni più giovane di me e quando ero ragazzo faceva abitualmente parte del gruppo di bambini con cui giocavo. Mi ricordo che per un periodo (avrò avuto 11 o 12 anni) si era molto affezionata a me e aveva iniziato a seguirmi dà per tutto con la fedeltà e l’insistenza di un cagnolino, fino a che suo padre non l’aveva rimproverata temendo mi infastidisse. Io a quel tempo mi consideravo il giovane padrone e l’indiscusso capo di tutti i monelli della casa (schiavi o liberi che fossero) e l’avevo apertamente difesa come nella mia mente doveva fare un buon capo. Mi ero meritato la sua totale ammirazione, le prese in giro di mio fratello Gaio e un rimprovero di mia madre.
Quando era partito era ancora una ragazzina ossuta, con un viso forse grazioso ma ancora infantile, per cui non c’era da meravigliarsi se non l’avevo riconosciuta ora che era diventata una giovane donna assai ben fatta.
Per pura cortesia aggiunsi:
“Spero che anche tu stia bene, non ti avevo visto al mio arrivo.”
“Ero in cucina ad aiutare per la vostra cena di benvenuto, padrone e non potei venire ad accogliervi.” Annuii, poi all’improvviso sembrò ricordarsi di dove si trovava e del giusto ordine delle cose e quasi sussultò: “Scusatemi, padrone, non volevo farvi perdere tempo, torno al mio lavoro.”
“Non te ne preoccupare, stavo solo ingannando il tempo scorrendo dei versi di Catullo.”  
Stava per uscire, ma a queste parole ebbe un attimo di esitazione e lessi l’interesse nei suoi occhi. Mi ricordavo bene di lei.
“Lo hai mai letto Catullo?” Le chiesi
Il padre di Filinna era stato il mio tutore ed era tutt’ora il nostro segretario. Era uno schiavo greco, originario di Chio, un uomo di grande cultura e di idee alquanto particolari, che aveva preso l’insolita decisione di insegnare la sua arte e le sue conoscenze non solo a suo figlio, per farne il suo successore, ma anche a sua figlia.
Filinna era l’unica schiava che conoscessi ad essere letterata sia in greco che latino e il padre le aveva dato una vasta conoscenza degli autori e dei testi. A quanto pare malgrado aiutasse in cucina e avesse il compito di riempire le lampade ad olio, non aveva perso questa passione.
“No, Padrone.” Rispose, con un filo di rincrescimento. “Mio padre non me lo ha fatto leggere.”
Mi venne da sorridere al tono di rammarico della sua riposta.
“Beh, immagino che il buon Cleone non lo abbia trovato appropriato come lettura per una fanciulla.”
“Ma lo è per davvero, Padrone?” Gli occhi erano sempre bassi e l’atteggiamento controllato, ma nella voce si era insinuata più che la curiosità.
“Difficile per me giudicare e non vorrei farlo, ma di certo i suoi versi sono notevoli.”
Impossibile non scorgere l’interesse e il desiderio nei suoi occhi e io fui troppo stupido e vano per trattenermi.
“Ci sono due rotoli con i suoi lavori nello scaffale, quando hai del tempo libero, se vuoi puoi leggerli.” 
Mi fisso per un istante, uno solo prima di riabbassare lo sguardo, uno sguardo a cavallo tra la meraviglia e il timore. “Non la vostra libreria… non posso toccare i vostri rotoli.”
“Beh. se io dico che ora puoi, immagino che significhi che ora puoi, non è forse questo il senso delle parole? Poi se sei veramente figlia di tuo padre e mi ricordo bene di quanto eri coscienziosa, i miei volumi sono più al sicuro nelle tue mani che nelle mie.” 
Non sollevò altre obiezioni, rimase alcuni istanti in silenzio prima di rendersi nuovamente conto di cosa stesse facendo.
“Devo continuare il mio giro, Padrone. Vi ringrazio per la vostra gentilezza, ma dove andare.
Annui, concedendoglielo: “Fai pure il tuo dovere, ma ricorda che la mia offerta rimane.” 
Con un lieve inchino del capo si accomiatò e si girò per lasciare la stanza, ma proprio in quell’istante, una coincidenza da pessima messa in scena di una pessima commedia, sulla porta si presentò mio zio, che si scostò lievemente per permetterle di circumnavigare la sua ormai vasta rotondità e uscire
“Caro nipote, ti ho portato un regalo.” Disse mostrandomi un piccolo rotolo. Annuii sorridendo, ancora distratto dalla precedente visita e lui lo notò immediatamente. “Graziosa creatura, vero?”
“Filinna?” Feci recuperando il contegno. “Indubbiamente, molto cambiata rispetto a quando partii.”
“Verissimo” Ridacchio mio zio. “Incredibile come da un uomo sgraziato come Cleone possa fiorire una simile figliola. Pure la madre non è molto meglio del padre, poi.” Mi fece l’occhiolino. “Un mistero.” 
“Povero Cleone, non lo canzonare, ma si di certo, concordo: un mistero, o forse un miracolo, chi può dirlo?
“Lo sai che quella ragazza sa leggere e scrivere?”
“Zio, conosco anch’io Cleone e la sua famiglia certo che lo so, stavamo giusto parlando delle poesie di Catullo.”
“Catullo? Ah, ragazzo mio! Tu, corruttore di giovani vergini!” Mi prese in giro. “Beh, alla tua età ci mancherebbe non provassi a corromperle… ma, ragazzo mio, dai retta a me, concentrati su aspetti più. fisici… è alquanto più soddisfacente.”
“Zio, sei terribile, veramente terribile! Cosa è quel rotolo?” Non mi sembrava conosciuto.
“Giunio Liciniano” disse, quasi a malavoglia.
“Chi?” Nome assolutamente ignoto.
“Poesie, l’ultima moda in città di questi giorni!”
“Ah! Grazie!” Feci, prendendo il rotolo. “Belle?”
“Assolutamente no! Se gli Dei sono pietosi sarà dimenticato presto. Ma comunque devi leggerle se non vuoi fare scena muta a tutte le cene che tua madre sta organizzando.”
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Nei giorni seguenti, preso dai gli impegni e soprattutto da una delle grandi cene organizzata da mia madre a cui partecipò metà Senato e una buona parte della famiglia imperiale, non ebbi certo modo o interesse di ripensare all’incontro con Filinna, ma una sera avevo cercato un attimo riparo e solitudine nello studio e mi accorsi che il rotolo di Catullo era stato spostato.
Allora aveva accettato il mio invito veramente! Che cosa buffa una schiava che leggeva Catullo.
Senza nemmeno riflettere le lasciai un biglietto tra i due rotoli.
“il mio favorito è il Carme CIX”
«Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.»


«Eterno, anima mia, senza ombre
mi prometti questo nostro amore.
Mio dio, fa' che prometta il vero
e lo dica sinceramente, col cuore.
Potesse durare tutta la vita
questo eterno giuramento d'amore.»

“A te quale è piaciuto?”

Per alcuni giorni niente si mosse sullo scaffale, il biglietto rimase non letto.
Poi una sera trovai che una frase era stata aggiunta alla fine, con una scrittura minuta e precisa, elegante, esattamente come l’avrebbe apprezzata Cleone:
“Il mio favorito è il Carme LXXXV”

«Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.»

«Odio ed amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse.
Non lo so, ma sento che succede e mi struggo»

Cosa mai mi potevo aspettare da una ragazza?
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Alcune sere dopo, mia madre convinse Zio Aulo a concedermi per una notte la sua preziosa Sabra. Non trovava sano che un giovane come me accumulasse energie sessuali troppo a lungo, persino uno stoico come zio non poteva che essere d’accordo e non voleva che andassi a cercare conforto in uno degli innumerevoli bordelli della città. Anche i migliori e più elegantemente frequentati erano posti che trovava disprezzabili e poco sicuri.
Sabra aveva due o tre anni più di me ed era stata appositamente acquistata da mia madre come regalo per zio. Mi ricordo ancora il suo arrivo in casa: parlava, allora, pochissime parole di latino, in pratica sapeva solo ripetere a memoria un rozzo adagio insegnatole dal suo venditore: “Io sono la gioia per gli uomini”.
Io ero ancora un ragazzo che era appena entrato in quell’età dove si inizia misteriosamente a sentire una incomprensibile nuovo tipo di attrazione verso le donne e quella semplice frase pronunciata con un accento straniero ed esotico, aveva turbato per parecchio tempo i miei sogni.
Sabra occupava un ruolo molto particolare nella nostra casa. Era totalmente incapace nella maggior parte dei lavori: non sapeva praticamente filare o tessere, a malapena era in grado di cucire o fare qualcosa di utile in cucina, nel lavare i panni o fare i servizi della casa era lenta e decisamente svogliata. Le sue doti consistevano sostanzialmente di saper servire a tavola con eleganza, di avere una bella voce e di saper suonare la lira e la pandura. Era una esperta massaggiatrice e dopo un bagno da sotto le sue mani si usciva rinati. Inoltre, conosceva centinaia di erbe, impiastri e pozioni utili per curare acciacchi e malattie.
La sua arte vera però consisteva nel sapersi prendere stupendamente cura di sé stessa e degli uomini che gli venivano affidati.
Mi sorrise entrando nella mia camera quella sera, i suoi grandi occhi neri brillavano di allegria e il suo saluto mischiato ad una risata scosse la sua ricca criniera di riccioli scuri, era, stata la prima donna che avevo avuto, e, in qualche modo, questo suo primato, la rendeva particolarmente affezionata a me.
Fece un solo passo verso di me, poi fece scivolare le spalline della sua tunica, che scese fino a rimanere un attimo trattenuta dai suoi seni e lei con un movimento esperto, uno scuotimento sensuale dei fianchi, la finì di far cadere a terra senza usare le mani rimanendo splendidamente nuda.
La pelle di Sabra è leggermente più scura della mia, i fianchi larghi e i seni splendidi e pieni con dei capezzoli scuri. Zio si era lamentato che ultimamente mangiava troppo e iniziava ad ingrassare, ma onestamente quello che vedevo mi sembrava stupendo e allettante. Non era solo il corpo, ma i movimenti, i modi e anche gli sguardi a renderla eccezionale: poche donne, che ho conosciuto, sono in grado di essere sensuali come Sabra, e lei lo sapeva bene ed era orgogliosa delle sue doti.
Con un passo usci dalla tunica che si era afflosciata ai suoi piedi, un movimento sciolto e sinuoso, che doveva essere simile a quello con cui Venere appena nata era uscita dalla spuma del mare, fece un altro passo verso di me e mi sorrise quando i nostri occhi si incrociarono. Basto questo a far reagire il mio corpo, ero giovane, molto giovane e lei, vedendolo, rise di nuovo, risata profonda, provocante e felice.
“Oh Padron Marco, anch’io sono molto contenta di vedervi, sapete? Lasciate che ve lo mostri!”
Col senno del poi non ci potevano essere dubbi che eravamo entrambi piuttosto contenti di essere di nuovo insieme e dato che peccai di mancanza di autocontrollo credo che molti, o quanto meno quelli più vicino alla mia stanza, se ne accorsero. Quando alla fine prendemmo una pausa, eravamo sudati ed ansimanti e mi alzai per prendere un po’ di vino per me e per lei, prima di ridistendermi. Sabra mi abbraccio e chiuse gli occhi soddisfatta e sonnolenta. 
Rimanemmo così pisolando leggermente, quando il fresco della notte sveglio entrambi e presi una delle coperte che era scivolata sul pavimento per coprirci. Di nuovo sveglia Sabra riprese ad accarezzarmi e le sue intenzioni sembravano chiare, fino a che la sua mano incontrò la nuova cicatrice che avevo sul fianco e si fermò lì. 
“Cosa avete fatto, Padrone, cosa vi è successo?” Chiese e dopo tanti anni a Roma la sua voce aveva ancora una cadenza speziata di terre lontane ed esotiche.
Possedere una donna rende felice ogni uomo, ma poterle raccontare, e vantarsi, delle sue avventure, dei suoi atti di coraggio e delle sue battaglie a volte è un piacere altrettanto grande. 
Sabra, penso, lo sapesse perfettamente, nella sua esperienza, e quando colsi il suo amo e nella mia presunzione giovanile le decantai di come ero stato ferito, della battaglia (poco più di uno scontro di pattuglie in realtà) in cui era accaduto e di come avessi ucciso innumerevoli barbari britanni, si fermò ad ascoltarmi, apparentemente rapita ed affascinata. Mi crogiolai del suo interesse e del suo atteggiamento, pur cosciente di quanto gli schiavi siano abili a lusingare il padrone in qualsiasi occasione.
Quando finalmente tacqui, mi guadagnai un bacio e poi si rimise comoda 
“Voi però mi state tenendo un segreto, Padrone.”
“Segreti? E quali segreti dovrei mai tenere con te, mia cara Sabra?” Risposi, prima di capire che stava scherzando.
“Ma io lo sento che avete un segreto dentro di voi, Padrone, lo sento.”
Risi, stando al gioco, curioso di sapere dove voleva arrivare. “O Sabra, so che sei brava con le pozioni e le misture ma non sapevo di aver dentro la mia casa anche una vegente!”
Si mosse cercando una posizione più confortevole per la testa nell’incavo della mia spalla.
“Ma Padrone, noi donne siriane siamo tutte un po’ streghe, non lo sanno forse tutti?” Il suo tono si fece improvvisamente serio. “Io sono stata la vostra prima donna e la Grande Madre Astarte mi ha concesso il potere di vedere i vostri desideri!”
“Ah!” ribattei con tono meravigliato. “E quindi tu riesci a vedere i segreti più nascosti del mio cuore?”
“O no, non del vostro cuore.” Rispose sempre serissima. “Ma dei desideri che avete un po’ più in basso.”
La mano scattò in giù afferrandomi i genitali e facendomi sobbalzare per la sorpresa. Entrambi scoppiamo a ridere e ci fu una giocosa lotta, fino a che, senza troppo sforzo, riuscii a bloccarla sotto di me immobilizzandole le braccia.
“E allora, rispondi al tuo Padrone, ragazza e racconta quello che vedi, te lo ordino.” Le dissi, facendo il minaccioso.
“Voi desiderata, una giovane fanciulla, Padrone!”
Inarcai le sopracciglia con aria delusa: “Ma questo non è certo una cosa sorprendente, o un gran segreto, alla mi età, Sabra!” 
“Ma io vedo, le grandi fiamme di un fuoco caldissimo.” Mi replicò, senza riuscire a trattenere una risata. “È una fiamma rovente quella che vi arde nel vostro giovane petto, padrone, e la fanciulla rischia di bruciare ed essere ridotta in cenere, soffrirà e la farete soffrire.”  
Le lascia liberi polsi, ridendo. No, Astarte non le aveva certo dato il dono di leggere i miei desideri, piuttosto le aveva concesso quello assai più tremendo della profezia e di non essere creduta. E io non la capii, forse nemmeno la ascoltai.
“Ah, che lingua mielata che hai Sabra, anche se a volte la usi fin troppo!”
“Lo dice che anche Padron Aulo.” Abbassò il tono della voce ad imitare mio zio: “Ragazza mia tu parli troppo. Che vantaggio ho a questo punto a tenerti? Se devo stare a sentire tutte queste chiacchere, vale la pena che mi prenda una moglie!”
Non potei trattenermi dallo scoppiare di nuovo a ridere, era davvero una perfetta imitazione. Poi atteggiai il viso a una finta severità: “Non dovresti prendere in giro il tuo padrone in questa maniera! Ragazza!”
Ancora bloccata sotto di me Sabra stette al gioco simulando tragico spavento: “O no! Giovane padrone! Non glielo dite vi prego! Non mi fare punire, sono stata cattiva lo so, ma voi mantenete il silenzio!” Sorrise maliziosa. “Mantenete il silenzio e io vi farò vedere come mi faccio perdonare da vostro zio quando parlo troppo!”
“Ah Sai come farti perdonare da Zio Aulo? E come mai lo convinci?”
Sabra mi guardò, a malapena trattenendo le risate, dopo una pausa adeguatamente drammatica rispose:
“Uso la lingua in altra maniera, Giovane Padrone.” Sbattè le ciglia in maniera esagerata. “Volete ve lo faccia vedere?”
La lasciai andare, direi che sembrava in grado di guadagnarsi la mia complicità.
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Nei giorni successivi mi adeguai alla routine della città: il ricevimento dei clienti la mattina, gli incontri al foro o alle terme nel pomeriggio, ricontrollare i conti e i documenti preparati dai nostri amministratori la sera, cene e feste, una vita priva di soprese, ma di certo assai occupata.
In tutto questo mi capitò poco di pensare alla figlia di Cleone, ma poco non significa nulla. Scambiai con lei un altro paio di biglietti nello scaffale dei rotoli, biglietti il cui contenuto dimostrava, devo dire, la sua intelligenza e cultura, e la incrociai più di una volta mentre lavorava per casa. In queste occasioni le facevo un cordiale cenno di saluto con la testa e lei si limitava a rispondere con filo di voce. evitando il mio sguardo e solitamente facendo il suo meglio per lasciare la mia presenza appena possibile senza essere offensiva. Non mi evitava, ma sembrava decisamente imbarazzata dalla mia presenza o forse era timorosa che potessi rivelare il piccolo segreto che avevamo in comune.
Un pomeriggio invece la trovai nello studio piccolo. Non stava lavorando, era seduta sul bordo del lettino leggendo. Era così concentrata dalla lettura che non si accorse della mia presenza e io rimasi un attimo ad osservarla non visto: il viso acceso dai versi che stava scorrendo, le labbra si muovevano leggermente, ma non ne usciva suono, ero affascinato dalla sua lettura silenziosa.
Per alcuni secondi rimanemmo così, poi si accorse della mia presenza e l’incantesimo si ruppe, balzò in piedi dalla sorpresa e il rotolo le sfuggì di mano finendo sul pavimento.
Un rotolo sul pavimento era troppo per la figlia di Cleone che corse a prenderlo con aria terrificata
“Scusatemi Padrone non volevo!” Mi pregò mentre controllava freneticamente che il rotolo non si fosse rovinato.
“Non ti preoccupare, ragazza mia. La colpa è mia che ti ho spaventato.” Le risposi. Lei me lo passò come se fosse un carbone ardente che le stesse bruciando le mani delicate. Era in condizioni perfette. “Vedi.” Le dissi. “Non gli è successo nulla.” Poi lessi l’etichetta. “Saffo.”
Questo semplice nome la rigettò nel panico.
“Avevi finito i due rotoli di Catullo, Padrone e ho osato…” disse in fretta
“Calma, stai calma, ti avevo detto che potevi prenderli dalla mia libreria.”
Era pallida, gli occhi sbarrati e il respiro corto, da temere che mi svenisse lì sul posto.
“Calmati, ti dico, siediti un attimo e calmati. Se no mi svieni.”
Seguì il mio consiglio e si risedette giusto sul bordo del letto. Poggiai il rotolo della discordia sulla scrivania e riempii una coppa dall’anfora dell’acqua fresca, che probabilmente aveva portato proprio lei, e gliela passai. “Bevi, starai meglio.”
Lei ubbidì, ringraziando, ma appena finito si accorse dell’ovvio: lei era seduta e io ero in piedi e peggio l’avevo servita. Si rialzò di colpo (e per un attimo temetti si risentisse male), abbassò gli occhi e si risistemò lo scialle assumendo un atteggiamento più appropriato. Se non altro le era tornato un po’ di colore sulle guance. 
Decisi di provare a calmarla.
“Saffo è sempre una lettura appropriata. Gli Dei le donarono un’arte a cui pochi possono aspirare.”
“Vero Padrone, sono d’accordo con voi.”
“Ἔρος δ' ἐτὶναξέ μοι” recitai “Amore ha sconvolto la mia mente”
E lei continuò senza esitazioni: “φρέναϛ, ὠϛ ἄνεμοϛ κὰτ ὄρος δρύσιν ἐμπέτων. Come un vento che, dalla montagna, si abbatte sulle querce”
Finalmente mi concesse un piccolo sorriso, a cui risposi.
“Stupenda.” Dissi. “Ti senti meglio adesso?”
“Sì, Padrone, grazie.”
“I versi di Saffo sono dei gioielli. Ce ne sono tanti nelle poesie scritte da voi Greci.”
“Vero Padrone. Sono così ancora così vivi dopo tanti secoli. In latino non c’è nulla di paragonabile.
Così disse la schiava greca al suo padrone romano. Impiegò un attimo a rendersene conto. La voce le morì in gola e arrossì violentemente.
“Scusatemi Padrone! Oggi non è il mio giorno fortunato…”
Come non sorridere di fronte a tanto smarrimento?
“Beh, ragazza mia, direi che Orazio concordava con te, no? Graecia capta ferum victorem cepit. La Grecia conquistata, conquisto il selvaggio vincitore. La tua opinione ha potenti alleati!”
Annui, sollevata che non mi fossi offeso.
“Nello scaffale comunque volendo troverai altri grandi poeti greci.” Le indicai Archiloco e Menippo, per passare ad Anacreonte che, le confessai, era il mio preferito. Lei si avvicinò curiosa e commento a sua volta. Continuai con Alceo e lei aggiunse la sua di opinione alla mia, assennata ed espressa con spirito,
Continuammo così, scambiandoci allegramente opinioni sorprendentemente armoniose, sorridendo l’uno all’altra, ogni tanto citava suo padre quando la pensava diversamente da noi, e la sua conversazione era piacevole intelligente e spontanea, un piacere raro.
Non so dire quanto continuammo, ma a un certo momento, stava citando un commento di Stesicoro che aveva trovato in un altro testo, quando mi accorsi di non stare ascoltando: mi si era avvicinata parlando e sentivo il suo profumo, non una fragranza forte e travolgente come quelle usate da Sabra, ma un odore lieve di pulito e di freschezza. Una ciocca di capelli si era liberata dalla coda e adesso ondeggiava libera, mentre parlava animata, sfiorandole le ciglia e lo zigomo, incantandomi con il suo movimento, come l’esca muovendosi nella corrente incanta il pesce curioso.
Con la mano sinistra, con un movimento morbido, la scostai e la nocca del mio dito medio sfiorò il suo zigomo, la tempia liscia e il padiglione del suo orecchio delicato.
Sorpresa, smise di parlare, e si girò a guardarmi meravigliata, la bocca ancora aperta sull’ultima parola pronunciata. Vide cosa mi bruciava nello sguardo e saggiamente decise che era venuto il tempo ritirarsi.
“Scusatemi, Padrone, ma devo andare a lavorare, si sta facendo tardi!” 
Mi sfiorò, passando tra me e la scrivania e suoi capelli accarezzarono il mio viso. Chiusi un attimo gli occhi a questa sensazione, quando li riaprii era già sulla porta.
“Fermati un attimo, Filinna, per favore.”
Si blocco, immobile, senza girarsi.
“Vieni qui, per favore.”
Lentamente, in silenzio, si girò e si avvicinò, gli occhi di nuovo basse, le mani aggrappate l’una all’altra di fronte a lei. 
“Per favore siediti.” Le feci, indicando il letto, lei ubbidì, sempre senza una parola.
Dall’anfora sulla scrivania mi versai una mezza coppa di vino e presi tempo sorseggiandola, insicuro di cosa fare e insicuro persino di cosa volessi. Non ero eccitato o desideroso come avrei potuto essere alla vista di Sabra, ma nel contempo non volevo che se ne andasse.
“Vuoi del vino?” Le offrii, stupidamente.
“No, Padrone, grazie.” Cos’altro mi aspettavo potesse rispondermi? Almeno però aveva aperto bocca.
Poggiai la mia coppa svuotata sulla scrivania, la fissai di nuovo, li immobile che evitava di guardarmi, feci un respiro profondo e mi avvicinai al letto.
La feci alzare, mi sedetti io e poi la guidai a risedersi sulle mie gambe. Ubbidì ad ogni movimento, inespressiva e rigida come se fosse una bambola animata.
Non volevo questo. La ragazza sorridente e vivace con cui stavo scambiando opinioni solo pochi minuti prima era scomparsa. Adesso indossava la tipica maschera di cera priva di qualunque espressione che gli schiavi usano di fronte ai loro padroni tutte le volte che devono nascondere i loro sentimenti.
“Non è la prima volta che mi siedi sulle gambe, Filinna.” Provai a scherzare.
Rispose con voce piatta, gli occhi fissi sulla punta delle sue ginocchia, serrate.
“Eravamo bambini, padrone.”
“Ti ricordi allora? Io facevo il cavallo, e ti facevo saltare sulle gambe come se galoppassi, e tu volevi che corressi più veloce!”
“Sì, me lo ricordo padrone.”
“E mi chiamavi Marco.”
“Eravamo bambini, padrone.” Ripeté di nuovo.
“Sei diventata molto bella, Filinna, lo sai?” Le accarezzai la guancia destra, apprezzando la pelle liscia e morbida, la mano sinistra appoggiata al suo fianco. Lei piegò leggermente la testa, come per evitare la mia mano.
“Devo andare a lavorare, padrone.”
Un po’ spazientito borbottai.
“Sono davvero così brutto e spiacevole, ragazza mia?”
Tra le tante frasi stupide che potrei aver detto, questa di certo era tra le più insulse, ma stranamente fu proprio questa stimolare una reazione. Per un attimo calò la maschera e nel suo volto tornò la vita.
“Oh no, padrone, non è questo, non siete brutto! Anzi per carità.” La voce suonava sincera, come se sentisse il bisogno autentico di rassicurarmi. Fu un attimo, riabbassò gli occhi, sotto quelle ciglia così lunghe e si zittì di nuovo.
“Allora, cos’è? Sei forse impegnata con qualcuno, hai già un innamorato?” Se dice di sì, mi ripromisi, la lascio andare subito, non sarebbe giusto verso di lei. Scosse la testa e non potevo negare di sentirmi sollevato alla risposta
“Quindi non hai mai baciato nessuno, ragazza?”
Venni stupito da un chiaro momento di esitazione.
“Una volta, padrone.” Sussurrò.
Oh! La mia bella Filinna, piena di inaspettate sorprese.
“E chi era questo uomo fortunato?”
“Era il garzone del venditore di papiro, padrone.”
Annuii, “E ti piace ancora?”
La sentii agitarsi sulle mie gambe, morbida e leggera, ma caldissima.
“Non è più a Roma, il suo padrone ha avuto un eredità in Illiria è andato a vivere lì e lo ha portato con sé.”
Quando la fortuna lusinga, lo fa per tradire.” Citai.
“La sorte non può togliere molto a chi poco essa ha dato.” Mi rispose senza esitazioni e molto più appropriatamente citando sempre Publilio Siro e ritrovando per un attimo lo spirito che mi piaceva, sorrisi incantato.
“Allora, per favore, bacia anche me, Filinna.”
Ubbidì: il suo viso si avvicinò al mio senza esitazioni, ma si limitò a sfiorarmi le labbra con le sue prima di ritirarsi.
“Filinna!” Protestai. “Questo non è un bacio! E lo sai.”
Le presi delicatamente il mento con la punta delle dita e la ricondussi alle mie labbra. Questa volta le sue labbra si aprirono e la baciai, accarezzandole la schiena.
La mia mano destra lasciò il suo viso e le si posò su una gamba. Con un sobbalzo si stacco da me e le sue mani volarono entrambe ad afferrarmi il polso per fermarmi, per poi lasciarlo all’improvviso appena si rese conto di cosa stava facendo.
A quel punto dopo quel solo bacio, sentivo il mio sangue pulsare nelle vene con più forza e il desiderio crescere dentro di me, ma era inutile illudersi sulla sua disponibilità. Il suo respiro era affannoso e potevo sentire il battito frenetico del suo di cuore, ma non era per il piacere o per il desiderio, sembrava piuttosto per il panico e la paura. Non era Sabra e non era una prostituta e non sembrava pronta ad accettarmi con piacere, o quanto meno rassegnazione.
Certo avrei potuto ordinarglielo o impormi, era mio diritto, anche con la forza.  
Ma non ero in qualche remoto accampamento di frontiera, ero nella mia casa a Roma e lei non era una prigioniera barbara dalla lingua incomprensibile, era una “verna” una schiava nata e cresciuta in questa stessa casa, era la figlia di Cleone. No, non l’avrei presa in questo modo tra pianti e lacrime. Non era dignitoso e soprattutto non era quello che desideravo.
Sentendo la mia incertezza, ripeté ancora.
“Per favore, padrone.”
Con uno sforzo sensibile e con molto autocontrollo, alzai le mani, lasciandola libera.
“Puoi andare.”
Balzò in piedi e in un lampo fu fuori dalla stanza. Raramente si è vista una cerva colta di sorpresa scattare più velocemente.
Continuavo a sentire il suo profumo e il mio desiderio.
Mi alzai per versarmi un'altra coppa di vino.
Era la giusta occasione per applicare qualcuna della qualità stoiche che Zio Aulo lodava sempre.
Che gran fortuna.

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Capitolo 2
*** La fuga ***


I rotoli delle poesie rimasero immobili da quel giorno e la ragazza quando la incontravo era talmente intimidita da riuscire a malapena a salutare decentemente. 
Avevo compiuto in grave errore di giudizio, il mio comportamento era stato scorretto, lo capivo perfettamente con il senno di poi, avevo permesso una eccessiva familiarità dove non avrebbe dovuto essercene e il risultato era scontato: imbarazzo e mancanza d’armonia nella casa. Il rispetto è quello che regola una casa ben amministrata non certo la paura. La conoscenza del proprio ruolo e dei propri doveri, non certo l’anarchia.
Era stato molto divertente, trattarla in quella maniera, discutendo di lettere e poesia su un piano di parità, ma estremamente vano da parte mia, cosa mai doveva pensare uno schiavo se il suo stesso padrone mancava così palesemente a sé stesso? La sua confusione era colpa mia, il fatto che apprezzassi la sua intelligenza e fosse oggettivamente una fanciulla attraente, era solo una parziale scusante. Anzi imponeva da parte mia maggiore senso del dovere e che, ristabilissi in maniera chiara la situazione proprio per aiutarla a comportarsi in maniera appropriata. Dovevo prendermi le mie responsabilità: le avrei dovuto parlare, ammonendola con gentilezza, viste le mie responsabilità nel suo smarrimento, dandole corrette indicazioni.
Questo era però un pensiero ed una preoccupazione secondaria in quei giorni, ben altri impegni e affari mi attendevano. Nei giorni successivi partii per Tuscolo per la villa di un amico di famiglia dove mi trattenni alcuni giorni discutendo con lui e con i suoi ospiti del mio futuro e delle mie prospettive. Le loro parole mi rincuorarono e mi incoraggiarono: tutti si dichiararono pronti ad appoggiarmi nel mio desiderio di recuperare il seggio in senato che era stato di mio padre e di tutti i miei antenati.
Ben presto avrei raggiunto l’età necessaria a candidarmi a Questore e questa carica mi avrebbe aperto le porte del senato. Potevo contare sul loro appoggio per essere eletto, ma nel frattempo, il parere era unanime, non dovevo impigrirmi e perdere occasioni di mostrare le mie qualità e farmi notare. La cosa migliore era trovare un altro incarico militare in qualche provincia di confine che mi desse la possibilità di distinguermi, magari raggiungendo il grado tribuno in qualche legione.
Ritornai a Roma dopo alcuni giorni, motivato e di buon umore, con la vita che mi sorrideva.
Non dovrebbe destare meraviglia, se, concentrato su questi affari, nei giorni seguenti non pensai né a Filinna né al proposito che avevo fatto di parlarle. Fino a che, un pomeriggio, mi ero al solito ritirato nel piccolo studio quando la sentii entrare per riempire e accendere le lampade.
Quel rumore familiare, mi fece tornare in mente quello che avevo troppo a lungo posposto e decisi di cogliere l’occasione, mi voltai, già sorridendo cordiale, per non intimorirla e predispormi a parlarle con salda cortesia, ma quando alzai gli occhi, invece di trovare la graziosa figura di Filinna, vidi un giovane schiavo, un ragazzetto ossuto a cui iniziavamo appena a spuntare i primi sgraziati ciuffi di barba, di cui non ricordavo il nome.
Lo fissai meravigliato per un attimo.
“Chi saresti tu? Questo lavoro non è di solito svolto da ragazza?”
Lo schiavo si fermò di colpo, l’anforetta dell’olio sollevata a metà nell’atto di riempire una lucerna, e mi fissò giustamente sbigottito dal mio tono di voce e della mia aria irritata. 
Il poveretto balbetto addirittura incespicando nella risposta:
“Sì, padrone. Ci dividiamo il lavoro, ognuno metà casa.”
Ecco una cosa che non sapevo, ma sono dettagli che sfuggono in case così grandi.
“Ah, capisco. Non ti avevo mai visto qui al secondo piano.”
“Io di solito faccio l’altro lato della casa, Padrone.” Si sentì in dovere di spiegare, balbettando un po’ di meno. “Filinna, la ragazza, padrone, mi ha chiesto di scambiarci i posti. Io ho accettato padrone, ci sono meno lampade da sistemare qui.”
Non mi accorsi neppure della sua confessione di pigrizia, preso com’ero da un altro pensiero: aveva chiesto di cambiare lato. Era evidente che volesse evitare questa stanza e di incontrarmi. Il che era ridicolo o forse addirittura offensivo, in qualunque caso non ammissibile.
“Valla a chiamare ragazzo: dille di venire qui perché le voglio parlare.” Ordinai, brusco.
Il ragazzo svanì immediatamente, fin troppo contento di sfuggire a qualsiasi cosa mi stesse innervosendo e io tornai alle mie carte ed aspettai.
Aspettai, finii di scrivere quello che dovevo e ancora nessuno si presentò.
Tutto ciò era veramente eccessivo, mi alzai, quasi contando di sentire i suoi passi nel corridoio che si affrettava, ma era vuoto. Scesi al piano terreno e trovai Eryx nell’atrio intento a controllare la pulizia del pavimento e chiesi direttamente a lui di trovarla.
Non era in cucina, non era negli alloggi degli schiavi. Il ragazzetto che avevo mandato a cercarla per primo venne rintracciato e ci confermò che l’aveva trovata a sistemare le lampade nella camera da letto di mia madre e di averle comunicato il mio ordine.
Chiamammo Cleone, ma non aveva idea di dove fosse la figlia. Due altri schiavi vennero mandati a cercarla in altre parti della casa, ma non c’era traccia di lei, anche se venne ritrovata, in uno degli stanzini, l’anfora d’olio che usava per riempire le lucerne. Mi rattristai ad osservare il volto di Cleone riempirsi di apprensione man mano che risultava sempre più chiaro che Filinna non era più dentro le mura di casa.
A quel punto ci raggiunse anche mia madre attirata da tutto quel movimento.
“Cosa mai sta succedendo? Cos’è tutta questa agitazione? È forse scoppiato un incendio? È in corso una rivolta di gladiatori?”
“No, Padrona.” Le rispose Eryx, usando la sua voce più suadente e serena. “È solo una giovane schiava che è scappata.” Eryx sarebbe davvero stato in grado di far sembrare un incendio o una rivolta un banale inconveniente.
“Tutto questa agitazione, per una fuggitiva? Queste sciocche ragazze stanno sempre a scappare o a fare altre stupidaggini simili. Mandate un messaggio alla milizia con la descrizione e domani fate fare un annuncio dal banditore nel foro, con una ricompensa. La ritroveranno.”
Diretta ed efficace come un generale sul campo di battaglia, la mia cara madre, se non di più. Senza dire altro si girò e se ne andò seguita dalle sue ancelle.
Eryx mi guardò cercando approvazione, l’idea di mia madre era decisamente sensata e pratica, il modo più sicuro per ritrovarla, ma come capendo i nostri pensieri Cleone si aggrappò alla mia tunica e si intromise. 
“Per favore, Padrone! Non so di quale follia sia in preda mia figlia, ma vi prego aiutatemi a ritrovarla padrone! La mia bambina è sola là fuori e sta per calare la notte!” La sua voce era angosciata e piena di paura.
In effetti, malgrado gli sforzi dei Prefetti, Roma era tutt’altro che un luogo sicuro. Al calar del buio era prudente per un uomo girare armato, meglio se scortato. Una ragazza, come Filinna, da sola era decisamente in pericolo, un pericolo molto probabilmente peggiore della punizione spettante a uno schiavo fuggitivo.
Quale follia aveva fatto. Ero arrabbiato con quella sciocca ragazza, ma mi sentivo anche in colpa per i miei errori e non potevo ignorare la disperazione del buon Cleone. 
“Eryx, per favore, avvisa Romolo di preparare i suoi uomini per andare a cercarla e scegli anche degli altri schiavi fidati perché si uniscano a noi. Fai che tutti abbiano un’arma, almeno un bastone robusto o un coltello affilato. Tu, Cleone, vai a parlare con tua moglie e interroga le amiche di tua figlia, se hanno notizie o se anche solo hanno idea di dove potrebbe cercare rifugio. Vado a prepararmi, ci vediamo all’uscita sul retro.”

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All’uscita posteriore, eravamo una ventina di persone, rimandai in casa Cleone, troppo vecchio e troppo agitato, ma accettai con noi suo figlio. Divisi i presenti in 5 gruppi uno diretto di me, uno da Romolo e scelsi dei servi capaci per gli altri, saremmo andati in direzioni diverse, iniziando a cercare nei posti suggeriti dalla madre e dalle sue amiche.
Fu Romolo a trovarla, sui confini della Suburra, dove sicuramente sarebbe scomparsa per sempre inghiottita nei vicoli.  
“Ho tentato di pensare come una ragazza per immaginare dove potesse essere.” Disse Romolo.
“E per fortuna non ne è capace, perché lei aveva sbagliato strada e si era persa e l’abbiamo incrociata solo per caso! Padrone” Lo prese in giro uno dei suoi figli allegro di aver ritrovato la fuggitiva. Romolo gli tirò una affettuosa scoppola.
“Vi ha dato problemi?”
“No Padron Marco, era spaventatissima, aveva capito in che guaio si era messa, era contenta l’avessimo trovato ed è venuta con noi spontaneamente.” Tacque un attimo, poi aggiunse con voce grave. “Filinna è una brava ragazza.” Considerato quanto era taciturno Romolo, questo era l’equivalente dell’intera arringa di un oratore nel foro e di certo era più sincera.
I suoi figli schierati dietro di lui annuirono, le facce serie, quasi perfette imitazioni del loro padre. Eryx mi guardò tentando di nascondere la sua espressione insicuro di come potessi reagire a quella opinione non richiesta. Aveva condotto Filinna, in uno dei magazzini che sotterranei che usavamo come cella quando ce ne era bisogno ed era tornato a controllare con me che tutti fossero rientrati sani e salvi.
“Lo so, Romolo, lo so.” Gli risposi dopo un lungo istante di silenzio. Volevo bene a Romolo, era lui che mi aveva sopportato e mi scortato nelle mie scorribande da ragazzino, proteggendomi, coprendomi e a volte prendendosi le mie colpe. Anche se ora avevo spalle larghe come le sue ed ero addirittura un paio di pollici più alto, per me rimaneva sempre il gigante che da bambino mi sollevava con una mano. Gli posai una mano sulla spalla da uomo a uomo.
“Domani, domani affronteremo la questione, intanto è a casa. Se sono rientrati tutti è venuto il tempo di andare a riposare.” 
Mi avviai ormai stanco e quasi barcollante verso la mia camera, ma le prove di giornata non erano finite, sotto il peristilio mi aspettava Cleone. Dovetti sopportare lunghi minuti di ringraziamenti e di lacrime prima che arrivasse al punto:
“Cosa sarà della mia bambina, Padrone?”
“Domani, dopo una buona notte di sonno che porterà consiglio a tutti sarà giudicata da mia madre.” Ero sfinito e mi si chiudevano le palpebre, ma non ebbi problemi ad interpretare quello che dicevano gli occhi di Cleone e lo fermai prima che si dilungasse a parole: “No, Cleone. È una ragazza e il giudizio spetta a mia madre, questa è l’usanza dei Corvino!” Poi tentati di tranquillizzarlo. “Non farti travolgere dalla preoccupazione. È qui, al sicuro, e nessuno dimenticherà che è tua figlia, e di quanto ci sei stato fedele negli anni. Non ti preoccupare.”
“Grazie Padrone! Grazie… una sola ultima domanda, scusate questo povero padre, le avete parlato? avete idea perché abbia compiuto questa pazzia? Perché?”
Sono stato più volte lodato per il mio coraggio in battaglia, lo stesso Flavio Vespasiano mi rese onore una volta, ma guardando gli occhi di Cleone non ebbi il coraggio di essere sincero.
“No, non mi ha detto nulla.” Ed era vero ed era una menzogna.

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La mattina dopo mi svegliai con uno schiavo, imbarazzatissimo, accanto al mio letto: era stato mandato da mia madre, mi disse per assicurarsi che mi alzassi in tempo per unirmi a lei nell’Atrio.
Quando scesi, le porte erano ancora chiuse e non vi era solita folla di visitatori e postulanti, era assente anche il solito andirivieni e la frenetica attività dei servitori, la casa era silenziosa e immobile.
Mia madre era già arrivata e sedeva, eretta e regale, su uno sgabello, vestita in una austera tunica di lana scura, il viso severo, nel posto più sacro che esiste in una casa, il sacrario dove sono esposte le maschere funebri degli antenati. I Valeri sono una gens antica, risalente ai primi giorni della repubblica. Molte file di maschere di cera coprono il muro dell’atrio, alcune così antiche e consumate dal tempo da avere a malapena conservato dei tratti umani, altre più recenti e riconoscibili, le ultime erano i volti cari e amati di mio padre e di mio fratello Gaio, che si erano suicidati per ordine di Seiano quando io ero un ragazzino.
Passando di fronte all’altare dei Lari non potei fare a meno di notare delle offerte recenti, dei dolci e una piccola pagnotta. Mi domandai se fosse stato Cleone chiedendo la protezione degli Dei per la sua figliola o magari fosse stata mia madre chiedendo aiuto per giudicare saggiamente. 
La raggiunsi, accanto a lei c’era uno sgabello vuoto, per me, dall’altro lato sedeva Zio Aulo, dietro immancabili erano in piedi le sue due ancelle.
“Finalmente sei arrivato.” Mi accolse senza sorridere. “Così possiamo sbrigare questa faccenda.” Aveva preso la cosa in maniera decisamente seria, notai con una certa apprensione. Si girò verso Eryx “Fai portare la schiava fuggitiva.”
Il silenzio e la quiete di quel posto solitamente pieno di vita e movimento era inquietante, eravamo soli, ma ero sicuro che dietro tutte quelle porte chiuse la servitù fosse in attesa, trattenendo il fiato e tendendo le orecchie per ascoltare quello che si sarebbe detto e capire cosa sarebbe successo.
Eryx tornò conducendo Filinna seguita da Cleone e da sua moglie, entrambi, si vedeva chiaramente, avevano l’aria di chi ha passato una notte insonne per l’ansia e la paura. Forse più della stessa Filinna che indossava la sua solita tunica, ma sporca e in disordine dopo la fuga e una notte in cella, anche i suoi bei capelli era scomposti e numerose ciocche le erano sfuggite dalla coda e la coprivano il viso, teneva la testa bassa, con aspetto umile e sottomesso, un atteggiamento prudente e adeguato. Era libera, non aveva né catene né altre costrizioni, sarebbe stato forse esagerato per una ragazza così minuta e poi, mi rendevo conto, anche Eryx, come tutti, la conosceva fin da quando era una bambina e doveva essere a disagio in quella situazione e all’idea di quello che poteva capitarle. Persino la sua grande abilità nel nascondere le emozioni e le opinioni questa volta non bastava.
Si fermarono di fronte a noi ed Eryx proclamò con voce cantilenante: “Padrona, questa schiava, Filinna figlia di Cleone, ieri è fuggita, ma è stata ritrovata e ora è di fronte a voi per essere giudicata.”
A quelle parole Cleone si inginocchiò e fece inginocchiare la figlia.
Uno schiavo non ha famiglia e non ha origini e il fatto che, persino il sempre diplomatico Eryx, invece, evidenziasse chi era il padre era un chiaro segno, una richiesta di considerazione e clemenza Si meritò per tanto ardire uno sguardo di fuoco di mia madre.
“Quindi, ragazza, hai provato a scappare.” Disse mia madre, la voce fredda, dura e con una ostilità che mi soprese spiacevolmente. “Trovi così sgradevole questa casa? Sei insoddisfatta della vita che conduci?” Tanto sarcasmo ovviamente non aspettava risposta, Filinna si limitò saggiamente a piegare la testa ancora di più. “Se davvero desideri lasciarci possiamo accontentarti. Al mercato degli schiavi di sicuro troveresti un nuovo padrone che ti porterebbe lontano da qui ad una nuova vita.”
La madre di Filinna si lasciò sfuggire un gemito di sgomento. Il commento di mia madre era molto crudele: era evidente che al mercato una schiava giovane e graziosa come lei sarebbe stata comprata per qualche bordello, un destino assai triste.
Mia madre girò gli occhi inferocita su Cleone.
“Cleone, controlla il comportamento di tua moglie!” E il pover’uomo ancora prostrato come un mendicante lasciò il fianco della figlia per zittire la moglie.
“Madre,” intervenni, “sappiamo tutti che tentare di fuggire è una colpa e una colpa grave, ma è cresciuta in questa casa e ha sempre servito bene e con fedeltà.”
Mia madre mi guardò dubbiosa, per poi riportare gli occhi su Filinna che aveva silenziosamente iniziato a piangere.
“E allora le daremo un’altra possibilità. Non la venderemo. Allo stesso modo, non credo sia il caso marchiarla come fuggitiva, è una fanciulla graziosa e non voglio sfigurarla.” Mi fissò, come a cercare una mia reazione. Mi limitai ad un cenno di assenso. “Come punire il suo gesto dunque? Se solo si potesse capire le sue ragioni, se di ragione si possa parlare.” Lo sguardo si poggiò di nuovo su di me, chiaro che mi ritenesse coinvolto. “Ma forse sarebbe solo una perdita di tempo indagare sulle motivazioni di una simile follia!”
Tacque un momento, riflettendo.
“Venti colpi di verga. E che venga mandata in qualche fattoria lontana da questa casa.”
Filinna, alzò gli occhi di colpo a guardare mia madre gli occhi terrorizzati, più che per i colpi, per la terribile all’idea di dover lasciare quella casa, poi, unica mossa sensata che poteva fare, piegò di nuovo il capo, soffocando un singhiozzo, la madre invece non riuscì a trattenersi e inizio a gemere. Cleone aveva un’aria sconvolta, all’idea di perdere la figlia, e apriva e chiudeva la bocca senza emettere suono, lui sempre ricco di parole appropriate. Sapevo di dover intervenire, ma prima che potessi dire qualcosa, fu zio Aulo a intromettersi.
“Mia cara sorella, permettimi di dire che il tuo giudizio è forse eccessivamente duro vista la situazione, la ragazza….
Zio, malgrado tutti gli anni di esperienza, malgrado fosse dello stesso sangue di mia madre, ancora non sapeva come prenderla purtroppo, venne bruscamente interrotto, con un gesto e con un’aspra risposta.
“Basta, le lacrime di una fanciulla graziosa ed ecco voi uomini siete disposti a dimenticare e perdonare tutto. Trenta colpi e se sento un altro lamento o pianto finirà in Spagna o in Africa.”
Persino il sempre prudente Eryx sembro guardarmi con la coda dell’occhio come a chiedermi di fare qualcosa.
“Madre,” esordii, meritando un immediato sguardo infuriato, come se la stessi colpendo a tradimento, “il tuo giudizio è severo, ma giusto e saggio.” Parlavo con prudenza, tentando di mettere a frutto tutti gli anni di studio della retorica e dell’oratoria. Sapevo di muovermi in un terreno infido, una parola sbagliata e avrei solo peggiorato la situazione. “Un fuggitivo merita di essere punito e di essere da monito, su una cosa, però ti chiederei rispettosamente di riflettere e rivalutare. Scacciandola e condannandola ad una vita lontana da Roma non punisci solo lei, ma anche chi le vuole bene. Privi un padre dell’amore della sua progenie, spezzi il cuore a un uomo e non ad un uomo qualunque, ma del nostro buon Cleone.” Lo indicai con un gesto del braccio forse un po’ troppo da retore, ma ormai ero lanciato e sapevo dove volevo arrivare. “Madre, non possiamo dimenticare i suoi anni di fedele servizio e la dedizione che ha sempre mostrato per la casa e per l’educazione mia e del mio povero fratello Gaio.” Nominare mio fratello in una conversazione con mia madre non è molto leale, ma visto che ormai eravamo ai Triari qualunque arma era buona, e conclusi. “Se non lei, almeno lui merita misericordia e considerazione. Non diamogli un simile dolore, e non scacciare la sua unica figlia in una terra lontana.”
Scese un attimo di silenzio, gli sguardi dei presenti si appuntavano su mia madre tentando di capire le sue reazioni, escluso quello di Cleone, che colse l’occasione per prostrarsi ancora più profondamente chiedendo clemenza. Al nome di Gaio avevo visto lo sguardo di mia madre vacillare per cui forse una piccola speranza c’era.
“Il fatto che sia proprio la figlia di Cleone ad averci tradito, rende la cosa, forse, ancora più grave.” Furono le sue prime parole, facendomi temere di avere fallito, poi la sua bocca si piego un attimo in una smorfia triste e si arrese. “Rimarrà a Roma, dunque, e speriamo che sappia meritarsi il nostro perdono e riguadagnare la nostra fiducia.”
Rimanevano i trenta i colpi, ed erano tanti per una ragazza minuta come Filinna, ma conoscevo mia madre e di più non ci si poteva spingere, così decisi di interrompere quello spettacolo prima che le cose potessero complicarsi.
“Questa è la decisione di mia madre, ed è saggia, giusta e clemente. Che sia fatto.” Mi alzai. “Sovraintenderò personalmente.” Con un passo mi avvicinai a Eryx e gli dissi, a voce più bassa. “Portala di sotto, non facciamone uno spettacolo e rispettiamo il suo pudore. Ti raggiungerò, appena mangiato un boccone. Poi fai aprire le porte e fai accogliere i visitatori, ma se non ci sono persone importanti e affari urgenti avvisateli di ritornare domani.” Mi voltai verso mia madre come a chiedergli licenza e me ne andai verso il triclinio per fare finalmente colazione.
Qui a servire trovai uno schiavo fidato e che conoscevo bene, dall’esageratissimo nome di Alcmeone, lo feci avvicinare con un gesto.
“Ho un compito per te. Invero ne ho tre. Il primo è trovare Sabra e mandarmela, che le devo parlare. Sai di chi parlo?” Aspettai un suo cenno di assenso. “Poi dovrai andare nella mia camera. Sullo scaffale accanto al letto, in alto, vi è un vasetto di ceramica scura, chiuso con un tappo di cera, prendilo, poi vai nelle stalle e ti fai dare il frustino leggero, quello usato per i puledri, mi hai capito?” Annuii di nuovo e sperai che avesse capito tutto veramente, malgrado il nome da pitagorico non aveva fama di grande intelligenza. “E devi portare tutto ad Eryx giù nel seminterrato ti è chiaro?” Altro cenno con la testa. “Ripeti.” Ordinai per sicurezza. Soddisfatto della sua risposta lo mandai in azione.
Sabra arrivò che avevo appena finito di mangiare finalmente un boccone. Bevetti una coppia di vino per mandarlo giù.
“Sabra, ho bisogno delle tue doti. Una pozione delle tue qualcosa che allievi il dolore.”
“Certo, Padrone, so cosa fare, ma non va presa spesso.” Poi a voce bassa. “È per la figlia di Cleone, vero?” 
Annuii e lei mi sorrise con aria complice. “Vado e ve la porto di sotto.”

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Quando scesi, Eryx era già lì di fronte alla porta chiusa di una delle celle. C’era anche Cleone, con la moglie lacrimosa e singhiozzante, tentarono di aggrapparsi alla mia tunica, ma riuscii a staccarmeli e ad evitare ringraziamenti e implorazioni, feci cenno ad Eryx ed entrammo insieme.
Filinna si alzò in piedi quasi di scatto, ma quando mi vide abbasso la testa evitando il mio sguardo. La tunica sporca, i bei capelli in disordine e il viso rigato di lacrime ne facevano una figura assai pietosa. Se mai avessi voluto rimproverarla di quanto era stata sciocca e folle e di quanto avesse rischiato, mi sarebbe morto in gola a vederla così disperata e spaventata.
MI guardai intorno, quel piccolo magazzino era quello che veniva improvvisato a cella quando ce ne era bisogno. In un angolo c’era uno sgabello su cui Filinna era seduta prima che entrassimo, accanto un tavolato coperto di paglia che funzionava da giaciglio e sull’altro lato un piccolo tavolino di rozza fattura, su cui vidi il vasetto di unguento e il frustino che avevo mandato a cercare 
Non doveva essere un posto piacevole per passare la notte in attesa di essere giudicati, mentre la paura per quello che ti può accadere ti scava nelle viscere.
L’unica luce arrivava da una finestrella poco sotto il soffitto assicurata da grosse sbarre. Sul muro era assicurato un robusto anello di ferro a cui si poteva fissare, se necessario una catena. Da una delle travi del soffitto pendevano delle manette a 4, 5 cubiti dal pavimento e per finire accanto alla porta erano appesi vari tipi di fruste e verghe e un flagrum dall’aria crudele con piccoli pesi di piombo all’estremità delle cordicelle di pelle intrecciata.
Filinna seguì il mio sguardo con preoccupazione. 
“Perdonatemi padrone.” Disse a voce bassa, la prima volta che la sentivo aprir bocca da quando l’avevamo ritrovata.
“È un po’ tardi per chiedere perdono, ragazza. Quello che è fatto e fatto e mia madre ti ha giudicato, ma è quasi finita e presto sarà tutto passato.” 
Non ci furono repliche e feci un cenno a Eryx di procedere.
Fu lui a legarla a con le braccia sollevate, poi prese un piccolo coltello e le taglio il retro della tunica, scoprendole la schiena fino alla vita. I suoi gesti erano esperti, non era certo la prima volta che era incaricato di punire uno schiavo, ma c’era gentilezza nei suoi modi e nelle parole con cui provava a rassicurarla.
Alla fine, prese dalla cintura una striscia di cuoio lunga poco più di un palmo.
“Stringi questo tra i denti, bambina, ti aiuterà a sopportare il dolore, e non ti farà mordere la lingua. Non avrai cicatrici prometto.” Nella su voce c’era apprensione e sollecitudine. Gli penava punirla. 
Andò al tavolo e prese il frustino lo soppesò e mi guardò annuendo.
“Grazie, padrone, avete avuto un ottima idea.”
“Te la senti Eryx? Vuoi.. vuoi che faccia io?”
Impiegò un attimo prima di scuotere la testa.
“No, grazie, padrone, è il mio compito. Tocca a me.”
Mi scostati per lasciargli spazio. Non era certo la prima volta che sovraintendevo a una fustigazione. Era una punizione comune per le mancanze dei legionari, ma era una cosa diversa osservare un uomo robusto, dalla schiena larga e imponente, che, con sguardi di sfida e parole spavalde, era pronto ad affrontare il dolore e la punizione con coraggio. Filinna invece aveva gli occhi sbarrati e tremava dalla paura, la schiena inarcata e tesa era snella e si vedevano le vertebre e la forma delle costole sotto la pelle delicata e faceva pena al cuore a vederla così.
Il primo colpo la colse di sorpresa ed emise un grido a denti stretti, ondeggiando sulle punte dei piedi.
Quando si fermò, Eryx le diede il secondo colpo e poi, seguendo il ritmo, il terzo e il quarto. Colpiva dosando la forza, senza esagerare, mirando ogni volta ad una parte diversa della schiena per non sovrapporli e non ferirla.
Quando, arrivati verso la decima frustrata, Filinna iniziò ad agitarsi come a provare vanamente ad evitare i colpi, fece una pausa.
“Se puoi, bambina, tenta di stare di ferma, più che puoi, se no rischio di farti ancora più male.” Disse. 
Filinna assenti, voltandosi a guardarci con gli occhi lucidi e sbarrati e quando Eryx la colpì di nuovo iniziò a piangere. Dopo il quindicesimo colpo malgrado tutta l‘esperienza e tutte le attenzioni la pelle si iniziò a tagliare e la schiena a macchiarsi di sangue. Quando ne vidi troppo feci fermare Eryx con un gesto della mano.
“Basta così, abbiamo finito.”
“Padrone?” Mi guardò meravigliato.
“Io ho contato trenta colpi, corretto vero?”
Ci fu un attimo di esitazione nella risposta, poi capì e annuì. “Sì padron Marco.”
“Sleghiamola.”
Ci accostammo a Filinna, le spalle scosse dai singhiozzi.
È finita tranquilla, è finita. Adesso ti liberiamo, ce la fai a stare in piedi?” Chiese Eryx. Lei fece un cenno affermativo mentre la scioglieva, ma appena libera fu chiaro che le sue gambe non la sorreggevano. La afferrammo ognuno per un braccio prima che cedessero e la conducemmo verso il pagliericcio. La pelle era fredda, bagnata del sudore gelato della sofferenza.
Quando provò a distendersi a pancia in giù la tunica tagliata rischiò di aprirsi, distolsi lo sguardo per decenza mentre lei si provava a coprire con le mani e il movimento brusco la fece gemere di dolore.
“Tranquilla, è finita.” Le disse Eryx “È tutto finito.” Le accarezzò la testa per consolarla.
“Lasciaci soli un attimo, voglio parlarle.” Dissi io.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle e sul viso di ansioso di Cleone, presi lo sgabello e mi sedetti accanto a lei. 
“Perché hai fatto questa pazzia, Filinna?” Le chiesi finalmente, tenendo un tono gentile per non spaventarla ulteriormente.
Lei alzo gli occhi ancora umidi su di me, una mano salì al volto ad asciugarsi le lacrime. Le tremava la mascella per la tensione.
“Avevo paura che foste arrabbiato con me, padrone.” Rispose alfine.
La fissai perplesso e lei distolse lo sguardo. Forse mia madre aveva ragione: inutile indagare di più della logica che c’era dietro tutto questo, se ce ne era. 
“Beh di certo sei riuscita a farmi arrabbiare e non solo a me.”
“Scusatemi, Padrone.” Ripetè.
“Hai sbagliato, sei stata punita. La questione si chiude qui.” Si mosse per cercare una posizione più comoda e le labbra amabili si piegarono in una smorfia di dolore. La aiutai a sistemarsi. “Non fare altre sciocchezze simili, Filinna, non ti aiuterò come ho fatto questa volta. Ti chiamerò ancora, ma tu non fare sciocchezze. Anche volendo non ti potrei aiutare.” 
I suoi occhi mi evitarono per un attimo mentre rispondeva. “Sì, Padrone.”
“I tuoi genitori sono fuori adesso, li farò entrare. Nel vasetto sul tavolino c’è un unguento che comprai in Gallia, fa meraviglia per rimarginare le ferite e non lasciare le cicatrici, fattelo mettere la sera. Ho chiesto a Sabra di prepararti una delle sue pozioni per alleviare il dolore. Sono sicuro che Eryx ti darà compiti leggeri nei prossimi giorni. Presto tutta questa faccenda sarà solo un brutto ricordo.”
Quando uscii dalla c’era una piccola folla, la madre di Filinna, Sabra e un'altra schiava, che entrarono subito cariche di bende e vasi di acqua tiepida per pulirle le ferite e prendersi cura di lei, Eryx, Cleone e il figlio di questi.
Cleone sembrava finalmente aver recuperato un po’ di colore e un po’ di spirito, questa volta non mi si appese alla tunica o si gettò in terra, si limitò alle parole, di cui era maestro. Partì da un semplice ringraziamento, per iniziare a lodare la mia bontà, si dichiarò commosso dalla mia benevolenza, di quanto avrebbe sofferto nel perdere la sua unica figlia e tanto, tanto, altro, fino ad arrivare a chiudere in maniera che mi soprese e mi fece capire che aveva parlato con la figlia. “Scusatela, se vi ha offeso, Padron Marco, per amor mio perdonatela.”

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Per fortuna, una volta risalito, trovai l’atrio vuoto e nessuno da dover ricevere, così mi cambiai e uscii di casa, accompagnato da un paio di schiavi e puntai verso le terme di Agrippa deciso a svagarmi e a non pensare. Avevo il cuore pesante e avevo bisogno d’aria.
Rientrai a notte fonda e piuttosto alticcio. Avevo passato la giornata nelle terme, rilassandomi e parlando con gli amici che vi avevo incontrato e successivamente la serata a girare per la città in loro compagnia.
Purtroppo, mia madre era ancora in piedi quando arrivai, ancora seduta nel triclinio a filare in compagnia delle sue ancelle, una perfetta rappresentazione della madre dei Gracchi rediviva. Mi guardo attraverso l’atrio con profondo disprezzo, poggiò il fuso in grembo e disse a voce alta e chiara:
“Dovresti andare a dormire Marco, non hai l’aspetto degno di un Valerio.”
Mi avvicinai, tentando di darmi un certo contegno e di fingermi, senza molto successo, in qualche maniera sobrio.
“Ho incontrato degli amici alle Terme e ci siamo… ehm, fermati insieme.”
Lei fece un gesto con la mano come a scostare le mie parole.
“Sciocchezze. Comunque, visto che sei qui e visto che stai prendendo in mano il tuo ruolo di capo famiglia, volevo consigliarti di fare una visita a Baia. Mentre eri via ho iniziato a rinnovare la villa laggiù, è rimasta disabitata per troppi anni, da quando tuo padre e tuo fratello… “La voce sfumò senza completare la frase. “Comunque, ora abbiamo bisogno di nuovo di un posto appropriato fuori Roma. Se vuoi darti alla politica ti servirà un luogo adeguato a ospitare e dare feste. Le tenute a Nomento e a Tusculo sono poco più che fattorie, ottime se ti serve un ritiro agreste e aria buona e fresca, ma non sono un posto per ospiti di riguardo.
“Certo madre, hai ragione.” Biascicai sentendo il ventre in subbuglio, ma mia madre continuò imperterrita.
“C’è bisogno che tu vada a controllare i lavori, tutti dicono che le cose vanno magnificamente, ma di certo nella realtà ci staranno rapinando indegnamente e solo facendo finta di lavorare. Se il padrone si fa vedere forse si limiteranno un poco, non è certo un compito che possiamo svolgere io o tuo zio.”

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Baia è una piccola località a circa 150 miglia a sud di Roma sulla sponda settentrionale del golfo di Napoli, forse uno dei posti più belli che ci sia sulla faccia di questa terra ed è soprattutto una delle località favorite da qualsiasi persone di una certa importanza. Il posto giusto per incontrare gente e avere buona compagnia.
Personalmente non mi dispiaceva minimamente recarmici, in quel posto avevo alcune dei migliori ricordi della mia infanzia, momenti felici che mi riscaldavano il cuore. Non persi tempo a organizzarmi.
Per accompagnarmi scelsi due schiavi fidati a cui aggiunsi il figlio di Cleone, come segretario e, se ci fosse stato bisogno, contabile, era anche un modo di segnalare come lui e la sua famiglia avessero ancora il mio favore e la mia fiducia. Poi, con grande gioia, trovai anche un paio di amici disponibili ad accompagnarmi e a godersi il viaggio con me.
Per raggiungere Baia ci sono due possibili vie, la più lenta è quella via terra, percorrendo la via Appia verso sud, sono 5 forse 6 giorni di viaggio, un po’ di meno se uno sforza i cavalli e la schiena, l’altra, decisamente più rapida è scendere ad Ostia e da lì procedere via mare, in quel caso sono poco più di due giorni, se il tempo è buono e il vento favorevole. 
Fummo seriamente tentati di andare via terra, eravamo tutti giovani e la cavalcata e le soste nelle locande per la notte, promettevano di regalare avventure ed incontri, magari fugaci, ma piacevoli, ma alla fine propendemmo per la saggezza e procedemmo via mare.
Erano anni che non tornavo a Baia, ma ricordavo ogni singolo angolo ancora a memoria. I lavori non avevano modificato la struttura della villa, o cambiato la disposizione dei luoghi, avevano solo rinfrescato e riparato. Solamente gli affreschi e le decorazioni era stato necessario rifarli quasi da capo: il tempo e la salsedine del mare li aveva danneggiati troppo.
Altra cosa che era stata interamente ricostruita erano i Bagni, la vasca del frigidarium era ora esagonale e molto più grande di quella precedente, il fondo decorato da un bel mosaico raffigurante il ratto Proserpina e di come sua madre Cerere la andò cercando e anche il calidarium era stato spostato.
Capivo perfettamente le ragioni di mia madre. Mio padre e mio fratello erano morti in quel posto e voleva cancellare qualsiasi eventuale ricordo, qualsiasi triste memoria. Se mai fosse possibile.
Uscii all’aria aperta, nei giardini, che stavano venendo ripiantati e risistemati. Il mio umore si sollevò assaporando l’aria fresca del mare e alla vista che si apriva ai miei occhi: il golfo si estendeva in tutto il suo splendore di fronte a me e l’occhio spaziava fino a Capri e alla imponente massa del monte Vesuvio, con la cima ancora coperta di neve malgrado la stagione avanzata.
Malgrado tutto non credo che fosse possibile scacciare le memorie da quel posto, forse, a rifletterci bene, non era nemmeno giusto. C’erano ricordi tristi, ma anche tanti altri che sarebbe stato delittuoso anche solo provare a cancellare. Tra quelle siepi giocavo ricorrendo Gaio, su quella panchina in pietra di fronte a me mi sedevo a leggere Omero insieme a mio padre.
“Ma perché padre?! Ma il mare non è rosso, perché mai Omero scrive una cosa simile?!” dicevo con voce alta e acuta
“Marco, cosa scrive Omero? Cosa scrive esattamente? Quali sono le parole che usa? Le ricordi?”
Orgogliosamente citai senza esitazioni: “Oἶνοψ πόντος, padre.”
“Cosa significa esattamente, Oἶνοψ πόντος? Non dice rosso, dice il mare color del vino. Scuro come il vino, il mare è sempre in movimento sempre a cambiare, ma le sue profondità sono sempre scure, Marco. Devi pensare a come lo vedeva Odisseo durante i suoi viaggi, sentendo nel cuore il desiderio di rivedere Itaca, la sua patria, e sua moglie e suo figlio, la sua famiglia. E cosa c’è di più importante della patria e della famiglia?
Padre… Lui non c’era più, stava sulle mie spalle riportare la famiglia al posto che gli spettava.

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Rientrato a Roma ripresi i soliti compiti e i soliti impegni, la routine quotidiana degli incontri e delle udienze, delle cene e delle feste, mi concentrai su quello che erano i miei doveri e miei compiti, poi un pomeriggio, ero sulla porta del tablinium, avevo appena congedato uno degli amministratori venuto a portare i conti e i numeri, quando vidi passare sul lato opposto dell’atrio Filinna, che trasportava una cesta. 
Era alcuni giorni che non l’avevo incrociata, e fui contento di vederla che si muoveva senza problemi, segno che la battitura non le dava più fastidio. Aveva la testa eretta, i capelli, sempre raccolti in una coda ondeggiava audacemente da un lato all’altro al ritmo dei suoi passi la sua schiena flessuosa era inarcata per bilanciare il peso dell’ignoto contenuto della cesta. Si accorse del mio sguardo e chinò la testa, ma mi accorsi  i osservò di sottecchi, gli occhi nascosti sotto quelle belle ciglia. Ammirando la curva del suo collo, il profilo del suo viso, e il suo passo elegante, scoprii di desiderarla di nuovo. Mi voltai verso Eryx che era accanto a me.
“Eryx.”
“Sì, Padrone, ditemi.”
“Per favore, dì a Filinna, che vorrei mi raggiungesse in camera, questa sera, dopo la cena.”
Mi guardò e rispose con voce tranquilla e pacata.
“Certo, Padron Marco. Ci sarà.”

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Capitolo 3
*** Pannonia ***


Questa volta Filinna si presentò e ne fui sollevato. Era evidente, comunque, che nella sua mente non era passato il pensiero di fuggire.
Non indossava la solita tunica con cui la vedevo abitualmente ma una di fine lino, decorata sui bordi, che le lasciava scoperte spalle e braccia e le caviglie e la avvolgeva seguendo il profilo del corpo. 
I capelli, si vedeva, erano stati lavati e acconciati di fresco, non erano raccolti nella normale coda, ma le cadevano sulle spalle sciolti in una nuvola nera. Dei boccoli sulla fronte e sui lati erano stati arricciati a farle da cornice al viso. Le labbra erano arrossate dal minio e le avevano truccato gli occhi, rendendoli ancora più dolci e luminosi.
Rimasi quasi stupito a guardarla, quando entrò, e lei, come confusa dal mio sguardo, si fermò vicino alla porta, nascondendosi, come suo uso, gli occhi dietro le lunghe ciglia. 
Per essere bella, era bella su questo nessuno avrebbe mai potuto contestarlo. 
“Vieni, Filinna, vieni.” Questo fu l’unica cosa riuscì a uscirmi di bocca, in un primo momento. Lei fece due passi in avanti venendomi per poi rifermarsi, in piedi. Si afferrò le mani sul davanti, poi, con quello che era chiaramente un movimento cosciente e forzato, le sciolse e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. 
Tentando di trovare qualcosa da dire e interrompere l’imbarazzante silenzio aggiunsi: “Vuoi del vino?” 
La risposta, sorprendentemente, fu affermativa. Le offrii una coppa e lei la bevve quasi di un fiato e la vidi storcere la bocca e la sorsata le andò quasi di traverso, come può succedere a chi non sia abituato e non ne gradisca il sapore. Quando me la ripassò, gliene offrii una seconda coppia e lei declinò.
“No, grazie padrone, una basta.” Rispose, una nota di imbarazzo nella voce, guardandomi sempre di sottecchi.
“Come va la schiena? È guarita? O ti fa ancora male?”
“No, Padrone, non fa più male, è guarita. Quasi del tutto, padrone. Grazie per l’unguento che mi avete dato. Ha… ha aiutato molto. Vi ringrazio.” 
“Mi è dispiaciuto doverti punire Filinna. Non avrei voluto farlo.
Lei annuì guardandomi in silenzio, poi come ricordandosi in ritardo di avere una lingua rispose:
“Grazie, Padrone… lo so….”
Calò un altro attimo di silenzio, ma in fin dei conti non eravamo lì per far conversazione, mi avrebbe ricordato Zio Aulo. Così prima che si allungasse troppo e tornasse ad essere imbarazzante, mi avvicinai a lei e dissi semplicemente: “Sei davvero molto molto bella, Filinna.” Perché alle donne un complimento fa sempre piacere e quella era la pura verità.
Lei arrossì, sempre nascondendo lo sguardo, ma con abbozzo di sorriso.
“Grazie padrone.”
Allungai la mano e le accarezzai la guancia sorprendendomi di nuovo di quanto fosse morbida.
Era tesa, questo sì, e c’era anche della paura, ma sentivo che era la paura dell’ignoto, e sotto c’era anche un sentimento di aspettativa. Filinna era lì, non c’era solo il suo corpo, e stava a me, mi rendevo conto, fare in modo che ci rimanesse.
Le presi il mento tra le mani e le alzai la testa, i nostri sguardi si incrociarono e per una volta mi fissò negli occhi. Mi chinai e la baciai, il secondo bacio che le davo. Rispose, con cautela, forse timidezza, ma di buon grado. Le sue labbra erano morbide e dolci, mi piaceva il suo profumo.
Ci staccammo e le riaccarezzai il viso delicatamente.
Lei riabbassò istintivamente la testa, tentando, in quello che ormai mi sembrava un gesto usuale, di nascondersi al mio sguardo e disse senza troppo senso un semplice “Padrone….” Mentre veniva scossa come da una piccola risata imbarazzata.
“E sei dolcissima, lo sai.”
La testa si sollevò di nuovo a guardarmi e questa volta nei suoi occhi la scorsi chiaramente l’aspettativa.
Le accarezzai i capelli e il viso, e lei socchiuse gli occhi e io la ribaciai, poi le mie mani scesero sul collo e sulle spalle accarezzandole e le sfilai le spalline, guidandole lungo le braccia per far calare la tunica, fino a lasciarla nuda.
Riaprì gli occhi come meravigliata dal mio gesto e corse a coprirsi il petto con le mani, per poi, vincere il pudore e lasciarle ricadere lungo i fianchi, rialzò lo sguardo a scrutarmi e sul suo viso le emozioni si accavallarono, mentre provava sorridere. Un sorriso piccolo e timido, ma un sorriso.
Le presi per una mano e le feci fare un passo in avanti per liberarsi definitivamente dalla tunica. Il suo non fu il movimento sinuoso, sensuale ed esperto di Sabra, anzi, quasi inciampò, rimanendo impigliata con i piedi, e con una mano dovette afferrarsi al mio braccio per non cadere. La prima volta che mi toccava. Rise imbarazzata, e una volta ripreso l’equilibrio una mano corse a scostare i capelli dal suo viso e sorrise nuovamente a nascondere l’imbarazzo, totalmente splendidamente nuda a un passo da me.
“Scusate, Padrone.” Disse e io la adorai.
Non aveva le curve sensuali di Sabra, era più piccola e più magra, i seni alti e piccoli e la vita stretta, le gambe lunghe e snelle, ma era deliziosa a guardarsi.
“Filinna, di certo Afrodite ti ha concesso i suoi favori, e molti doni preziosi.” Le dissi.
La sua risposta arrivò senza esitazione.
“Così come Marte ha concesso grandi doni a voi, Padrone.”
Rimasi interdetto, cosa voleva dire? Cosa mai c’entrava?
Accorgendosi della mia espressione interrogativa il sorriso le scomparì dalle labbra e riabbassò la testa confusa.
“È.. è una cosa che disse mio padre, padrone. La disse commentando una delle lettere che avevate mandato dalla Britannia che ci era stata letta.” Provò a spiegare 
Iniziai a ridere e nel suo sguardo la confusione fu sostituita dall’apprensione, non capendone il motivo.
“Oh Filinna, tuo padre è sempre ricco di belle parole, ma ti assicuro che certe cose le dice solo per lusingare… No Marte non ha concesso a me nemmeno metà dei favori che Venere ha dato a te, ti assicuro e io non sono abbastanza bravo per esaltarli parole.”
E se ero incapace con le parole, mi dissi, meglio procedere coi fatti. Filinna era appena tornata a sorridere, quando la sorpresi, con un movimento veloce mi chinai e la sollevai di colpo prendendola in braccio, deliziosamente leggera.
Lei reagì un grido di sorpresa, agitando le gambe e gettandomi le braccia al collo, lo sguardo spaventato, prima di scoppiare ridere.
“Padrone!” Nella voce c’era quasi un dolce rimprovero.
“Cosa?” le risposi, fissandola, i nostri visi alla distanza di un palmo. La ribaciai e le sue labbra si schiusero, questa volta non c’era né timidezza né ritrosia.
Poi con due passi arrivai al letto e ce la poggiai distesa, mi raddrizzai e mi spogliai. 
Quando mi chinai sul letto una nuova ombra di paura le passò sugli occhi e nella voce.
“Farà male padrone?” Chiese. 
Cosa risponderle? Sulla faccenda avevo, invero, non troppa esperienza. Sabra non era certo vergine, neppure le ragazze dei bordelli che avevo frequentato… e non lo era neppure una mia cugina, giovane vedova, con cui l’estate prima di partire per la Britannia, avevo intrecciato una relazione e ci eravamo incontrati una mezza dozzina di volte, nel bosco dietro la sua villa sulla costa.
Certo alcune delle ragazze con cui ero stato in Britannia erano state molto probabilmente vergini quando erano entrate nella mia tenda, ma erano delle barbare, con cui non condividevo nessuna lingua e quasi nessuna parola e non mi ero sicuramente curato del loro piacere.
Invece Filinna distesa sotto di me, mi sorrideva incerta e, per qualche ragione, ci tenevo che continuasse a sorridere, mi piaceva il suo sorriso. Ci tenevo che le piacesse e volevo che venisse sorridendo quando l’avessi chiamata di nuovo ed ero già certo che l’avrei richiamata.
Che dirle quindi? Cosa risponderle… di quel poco che potevo sapere?
“Sì, la prima volta può far male.” Le accarezzai il viso per rassicurarla. “Ma se ti faccio male, dimmelo e io mi fermerò. Lo prometto. D’accordo?”
Ci guardammo negli occhi, la vidi annuire e mi abbassai a ribaciarla, mentre iniziavo ad accarezzarla ricordando quello che mi chiedeva Sabra quando voleva le dessi piacere.

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Aprii gli occhi accorgendomi che non era più accanto a me e la vidi in mezzo alla stanza, le lucerne si erano spente ed era illuminata solo dalla luce argentata della luna. Guardandola, capii il lamento dei poeti che si struggono per non avere parole bastanti per descrivere le loro donne. Con quella luce, in quel silenzio sembrava un essere soprannaturale, una ninfa che si fosse mascherata da essere umano, come a volte fanno gli Dei, e che ora stesse rivelando la sua vera natura. 
Persino la piccola Filinna alla luce della luna dopo una notte di amore poteva sembrare tale. 
Rimasi immobile ad osservarla mentre si piegava per raccogliere la tunica abbandonata sul pavimento la vidi piegarla con cura per appoggiarla su uno sgabello. La osservai guardarsi intorno cercando il bacile e la vidi chinarsi per lavarsi. Semplici gesti. La scorsi, bagnata dalla luna, sorridere e fui contento perché ero sicuro che quello era un sorriso vero, non per gli altri, ma per lei stessa.
Alla fine, si accorse che la guardavo e la ninfa scomparve all’improvviso e al suo posto apparve una cerva dalle lunghe gambe, di colpo immobile, colta sorpresa da una presenza inaspettata, che ti fissa sbigottita un attimo prima di balzare via.
“Padrone, siete sveglio… Scusate vi ho svegliato.”
“Non ti preoccupare.” Allungai la mano. “Vieni qui, non prendere freddo.” Lei si lascio guidare fino al letto e si sedette accanto a me, ma non si ridistese
“Padrone io dovrei andare… domani avrò del lavoro da fare.”
“Non temere, Eryx lo sa che stai qua, di sicuro ne terra conto.”
“Non sto lavorando per Eryx questi giorni, sto lavorando con mio padre.”
“E cosa ti sta facendo fare?” Le chiesi, mentre le accarezzavo la mano.
“È un vostro ordine Padrone, stiamo facendo delle copie dei libri per la biblioteca di Baia.”
Mi ricordavo, mi ricordavo bene. La biblioteca laggiù ormai era in pessimo stato e avevo chiesto nuovi volumi.
“Pensavo che facesse fare le copie fuori casa.”
“La maggior parte sì, non si potrebbe fare altrimenti, ma alcuni mio padre preferisce farli fare qui da noi, dice che i copisti esterni fanno sempre pessimi lavori,”
Ahhh la precisione di Cleone, sempre puntiglioso fino all’estremo.
“Su cosa stai lavorando, tu?”
“Orazio padrone, adesso sulle Odi.”
Sorrisi “Avrò gran piacere a rileggerle.” 
E recitai:
Maecenas, atavis edite regibus,
O et praesidium et dulce decus meum,
Sunt quos curriculo pulverem Olympicum
Collegisse iuvat, metaque fervidis
Evitata rotis palmaque nobilis
Terrarum dominos evehit ad deos
.”
“E perché mai dovreste leggerle, se ve le ricordate così bene a memoria?” Fece lei.
“Per il piacere di ricordare la mano graziosa che le ha scritte, deliziosa mano.”
Me la portai alle labbra la baciai giocosamente, Filinna scosse la testa come a rimproverarmi, poi di sua iniziativa mi accarezzo i capelli.
“Vieni a coprirti o prenderai freddo.” Ripetei. “Tuo padre, sa anche lui dove sei. Vieni qui Asterope” Scherzai. Se una ninfa sembrava, di una ninfa prendesse il nome. “Stammi vicino, e tienimi caldo.” 
Ubbidì e si ridistese vicino a me l’avvolsi nella coperta e me la strinsi contro.
“Comunque mi sbagliavo, Filinna.” Feci con voce seria.
“Su cosa padrone?” mi chiese, con una nota di preoccupazione.
“Venere non può essere stata così generosa con te!”
“Cosa volete dire?”
“Non può essere stata così generosa, Filinna.” Feci un attimo di pausa per assaporare la battuta. “Qualcuno deve averle di nascosto rubato tutte i suoi tesori più preziosi che nascondeva e li ha dati a te.” E immaginavo, ridendo dentro di me, il buon Cleone, improbabile eroe del mito, basso, grassoccio e con pochi capelli, magari coperto da una pelle di leone (ma un leone piccolino) che svaligiava gli Dei Olimpici dei loro tesori per donarli alla figlia. 
Filinna, però, non sorrise, come si aspettavo, anzi spalancò gli occhi con aria allarmata e con una mano mi tappò velocemente la bocca.
“No Padrone! Non prendente in giro gli Dei vi prego! No! Lo sanno, ci sentono, e poi ci avversano mandando sfortuna e privandoci del loro aiuto.”
“Oh Filinna, la fortuna dobbiamo costruircela noi, con le nostre azioni, gli Dei ci accompagnano, ma non decidono tutto loro.” Risposi divertito dalla sua reazione.
Rimase in silenzio ad osservarmi e poi scosse la testa e mi rispose la voce seria.
“Questo forse è vero per voi Padrone, che siete un grande uomo, di una grande famiglia, avete i vostri lari e vostri antenati…, ma io sono solo una schiava… gli Dei possono tutto sul mio destino, io sono nelle loro mani. Capite?”
Era bella, era colta, era pia e, a quanto pare, era anche saggia, la figlia di Cleone.

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Mi lasciò la mattina e io, sorridente e allegro, come solo una intera notte con una bella donna possono rendere un uomo, mi recai a cercare qualcosa da mangiare.
Nel triclinio trovai mia madre che sbocconcellava un fico.
“Vi saluto madre, come state?”
Mi chinai per un bacio sulla guancia.
“Bene Marco, bene, e vedo che anche tu stai bene. Dopo una piacevole notte.”
Mi sedetti e anch’io presi un fico e del pane, uno schiavo mi versò una coppa di acqua fresca e limpida.
“Sì madre. Sto bene. Grazie.” Risposi, ignorando la sua provocazione.
“Sono contenta per te. Che finalmente ti sei preso quello desideravi.”
La guardai sorpreso e inghiottii il boccone che stavo masticando.
“Cosa intendi madre?”
“Cosa mai devo intendere, Marco? Sono contento che si sia finalmente concluso questa specie di romanzo.”
“Parli della figlia di Cleone, immagino, ma non capisco comunque cosa intendi.”
“O Giove, figlio mio, non ti dimostrare così stupido. Tutta la casa ne parla, da giorni. Persino le mie due ancelle, seppur vecchie e rinsecchite, sospiravano, emozionate come fanciulle, al pensiero di tutta questa passione. O Marco, lei che scappa, tu che la vai a cercare, anzi a salvare, la difendi e non me la fai scacciare da questa casa, ti preoccupi persino per lei dopo la sua punizione e infine, finalmente la fai tua.” Fece mia madre e gesticolò ironicamente come un teatrante. “Che storia emozionante. Sembrava di vederti nei panni di Perseo che salva Andromeda. Erano tutti col fiato sospeso. C’erano addirittura ridicole voci, che le avessi fatto infliggere meno colpi di quelli a cui l’avevo condannata. Che sciocchezza come se fosse possibile che un figlio disobbedisca alla madre.”
Mi fissò, le labbra strette. Poi bevve un sorso d’acqua e riprese a parlare:
“Precisiamo, Marco. Non sono insoddisfatta della tua scelta. Sei giovane, e fino a che non sarai sposato, ti servirà uno sfogo. La ragazza è carina, pulita, presumo fosse persino vergine. È sana e vive in questa casa e sappiamo da dove viene e cosa fa. Molto meglio di tante altre alternative.” 
Mandai giù a forza un altro boccone, inutile sperare di fermare il suo monologo.
“Approvo, ti dico, tanto è vero che prima ho pure concesso a lei e alla madre di prendersi la mattina e di andare al tempio di Venere a sacrificare e gli ho offerto persino di farsi dare due conigli bianchi in cucina come offerta alla Dea. In fin dei conti è mio figlio che l’ha fatta diventare donna. Non mi guardare con quella faccia sono una donna che ha avuto un marito e ho generato te e tuo fratello, non sono cose a me ignote! Una sola cosa mi dispiace.”
Fece una pausa che capii dover riempire con un doveroso:
“Cosa Madre?”
“Che quel piccolo ometto intrigante di Cleone, ha avuto successo col suo piano.”
“Di quale piano vai parlando?”
“Dell’idea di infilare sua figlia nel tuo letto è chiaro.”
“E perché mai dovrebbe esserci un piano?”
“O sciocco ragazzo, per quale ragione spendere così tanto tempo a insegnare a una schiava a leggere e recitar poesie se non fosse per incantare un sognatore come sei tu, o come era il tuo povero fratello. A quale scopo istruirla? È evidente!”
Mi era piuttosto nota l’antipatia che mia madre provava per Cleone, a trattenerla era solo la stima che mio padre aveva avuto per lui e forse l’affetto che provavo io, ma ogni tanto si sfogava e a volte lo maltrattava apertamente.
“Madre credo che tu stia fantasticando.”
“Davvero? Dici? Dimmi che ieri notte dopo aver soddisfatto i bisogni della carne, non vi siete deliziati scambiarvi versi e dotte citazioni.” Mio malgrado arrossii. “Vedi? E adesso quell’ometto ha la sua figliola che sussurra quello che vuole lui nell’orecchio del padrone, la notte, abbracciati sotto le coperte.”
Sapevo, però, almeno questa volta, come ribattere.
“Madre, stai delirando. Sentimi, ma se tutto questo che ipotizzi fosse vero, se fosse tutto preparato, perché mai allora sarebbe scappata di casa quella sera?”
Mi sembrava un buon argomento, solido e logico, ma mia madre non ne sembrò minimamente colpita, mi fissò di nuovo con biasimo.
“Marco, un giorno anche tu sarai un genitore, farai grandi progetti e avrai grandi aspettative, e allora capirai che i figli possono essere la nostra peggiore delusione.”
Mia madre, impossibile avere l’ultima parola con lei.

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I giorni, le settimane e i mesi successivi furono un periodo molto felice. Uno di quei periodi della gioventù che quando ti volti indietro ad osservarli a distanza di anni ti sembrano dorati e luminosi, splendenti di una vita intensa e piena di prospettive. Sono le prospettive credo a fare la vera differenza, il vasto orizzonte della vita futura che si spande di fronte e a te, una vita che affronti che la spavalderia della giovinezza.
A questo indubbiamente si aggiungeva Filinna, che era man mano diventata una presenza abituale nelle mie notti. Se il futuro che volevo costruirmi era il sole che riempiva di scopi le mie giornate intense, Filinna era diventata la luna che colmava di pace e quiete le mie notti. Un sano contrasto e un’alternanza salutare.
Non era solo uno sfogo fisico delle mie energie sessuali. La sua placida calma, la sua dolcezza, mi aiutavano a rilassarmi e mi davano ristoro, la su intelligenza e la sua cultura mi permettevano di confrontarmi e parlare come ad un mio pari, la sua indubbia pratica saggezza mi faceva riflettere.
Glielo dicevo qualche volta che era saggia, ma lei pensava la prendessi in giro e mi guardava in tralice non osando ribattermi. Poi, man mano, ci abituammo l’uno all’altra e prendemmo familiarità sia nel letto (oh che delizia imparò ad essere) che nelle nostre lunghe (oh quanto lunghe) lunghe discussioni. Diventò meno timida e riservata, imparò a scherzare e a rispondermi, alla fine dopo lungo corteggiamento riuscii persino a farmi, occasionalmente, chiamare per nome quando eravamo in privato e se ci incontravamo durante il giorno smise di sfuggirmi o imbarazzarsi, ma sorrideva e mi salutava.
Sorrideva. Questo soprattutto mi piaceva, in mia presenza si mostrava felice e allegra, e ritengo lo fosse davvero. Certo, con lei ero generoso, succedeva che condividesse la mia tavola, quando mangiavo in camera, le regalai un rotolo di buona stoffa egizia, che andò a vestire tutta la sua famiglia, e una palla che mia madre aveva dismesso, di lana pregiata dai colori brillanti, e fu bello vedere i suoi occhi brillare mentre giocava, provandola e riprovandola, mettendosi in posa di fronte a me.
Le preoccupazioni di mia madre non si materializzarono: Filinna durante quelle notti non chiese niente né per sé né per la sua famiglia. Anzi spesso mi raccontava di cosa succedesse nella casa, e tramite lei scoprii molto di quella vita riservata, se non segreta, che si svolge tra la servitù senza che ce ne rendiamo conto. Mi raccontava di cosa stesse copiando, leggendo o facendo, ma non era molto interessata a come gestissi i miei affari o come questo poteva influenzare le fortune di suo padre.
La cosa che preferiva era che gli raccontassi erano i miei viaggi, quello in Britannia, ma soprattutto quello che da ragazzo avevo fatto in Grecia. Sarebbe stata per ore ad ascoltare mentre descrivevo Olimpia, Sparta o Atene, il passo delle Termopili o degli altri luoghi che avevo visitato e mi piaceva accontentarla.
Non si montò neppure la testa, come spesso succede quando uno schiavo viene favorito da padrone, e decisamente io la favorivo. Spesso in questi casi diventa un piccolo tiranno con gli altri schiavi o prova a iniziare a vendere e concedere favori, ma nulla di questo giunse mai alle mie orecchie. Filinna decisamente era troppo dolce e mite per una cosa simile.
Ci fu unico avvenimento della mia vita sociale che attirò la sua attenzione, ma tutta la casa andò in subbuglio per questo e non solo la servitù. Grazie al brigare di mia madre fui invitato a una privata dell’Imperatore.
Il termine privato è forse ingannevole, vi erano almeno una dozzina di ospiti di alto rango, ma era comunque un onore particolare e una opportunità di ben figurare da non lasciarsi sfuggire.
Filinna mi tempestò di domande nei giorni successivi, ma non certo sulle discussioni che si erano svolte o su chi fosse presente, o su quali opinioni fossero state espresse. Il suo interesse era tutto per l’Imperatrice. Di lei voleva sapere tutto, o almeno tutto quello che può interessare un'altra donna.
Ero, a mio modo, ben preparato. Al mio arrivo ero stato accolto personalmente da Valeria Messalina, aveva sicuramente contribuito al mio invito, era in fin dei conti una parente e mia madre era riuscita ad arrivare fino a lei. “Caro Cugino.” Mi aveva salutato sorridendo al mio arrivo, anche se forse l’avevo incontrata solo un paio di volte in vita mia, quando era ancora una bambina.
Com’era vestita? Una tunica, di fine seta orientale, decorata sui bordi. La stola era di colore verde anche lei decorata con motivi geometrici.
Indossava orecchini d’oro con degli smeraldi egizi, e un diadema decorato di perle.
Come era acconciata, come era truccata? E io rispondevo, osservando il volto appassionato di Filinna.
“Dicono che sia la donna più bella del mondo, l’Imperatrice.”
Non era una domanda, ma un’affermazione di una malinconia sognante. 
Risponderle che sì Valeria Messalina era bella, era elegante ed era raffinata, ma che non aveva niente di più di quello che aveva lei stessa, senza sete e senza gioielli, ma semplicemente con il suo sorriso e la sua allegria?
Non mi avrebbe creduto o forse si sarebbe montata la testa. Tacqui.
L’Imperatrice, comunque, non si era fermata a lungo con noi ospiti, si era ritirata presto lasciandoci ai nostri discorsi.
I commensali eravamo tutti di rango senatorio, conoscevo personalmente quasi tutti e la maggior parte erano in buoni rapporti con la mia famiglia. Ero però il più giovane al tavolo e quindi mantenni una posizione defilata, intervenendo quando potevo e quando mi era richiesto, ma senza sembrare arrogante o supponente.
La Dea Fortuna mi concesse però l’attenzione dell’Imperatore. Bisogna sapere che il principale interesse di Claudio Cesare, prima di assurgere al principato e alla guida dello stato, era stata la storia, interesse che continuava a perseguire quando ne aveva il tempo, specie ora che poteva avere libero accesso a qualsiasi documento agli archivi dello stato. Anche in occasione del banchetto alcuni per ingraziarselo, lo stimolarono a parlare dei suoi studi, lodandoli anche in maniera esagerata.
L’Imperatore è di buon cuore e spinto dall’interesse, anche se simulato, dimostrato degli astanti iniziò a parlare dei suoi libri, un argomento che comprendo ha molto a cuore, e infine parlò della sua intenzione di pubblicare una edizione aggiornata del suo dizionario di etrusco, un’opera che aveva scritto in gioventù.
Lo meravigliai dicendogli che lo avevo letto, ma lo meravigliai ancora di più dicendogli che conoscevo alcune parole di quella lingua che non aveva riportato. 
Raramente ho visto un uomo più felice, pieno di eccitazione chiamò di corsa uno dei suoi segretari perché prendesse nota delle parole che conoscevo e mi interrogò a fondo su questa mia conoscenza.
Invero era una cosa banale, quando ero bambino avevamo un vecchio schiavo che ormai era stato messo a fare il portiere alla casa, opportunamente chiamato Tarquinio, che per ingannare il tempo recitava a noi bambini le filastrocche, le canzoncine e le rime che tanti anni prima sua madre, che veniva dall’Etruria, aveva recitato a lui.
Erano strane ed esotiche e divertivano molto me e Gaio e ancora ricordavo con precisione alcune delle parole e dei significati.
L’Imperatore gioiva: era chiaro che queste parole non fossero nel suo dizionario, lui aveva avuto modo di registrare i ricordi di anziani sacerdoti, che usavano probabilmente termini diversi da quelle delle persone umili e del loro modo di parlare non aveva scoperto quasi nulla. Mi chiese di informarlo se per caso mi fossi ricordato di altri termini.
Feci di più, nei giorni seguenti sguinzagliai Cleone a interrogare tutti gli schiavi che potevano aver conosciuto Tarquinio per vedere se ricordavano a loro volta qualcosa. Raccogliemmo un'altra dozzina di lemmi che mi premurai di mandare all’Imperatore.
Mi venne risposto con un biglietto di sua proprio mano con cui mi ringraziava per la mia cortesia e persino mia madre, sempre controllata, non poté trattenere la soddisfatta sorpresa.
Mi permisi persino di farle notare come per questa volta, il fatto che i Corvino fossero una razza di sognatori, appassionati collezionisti di nozioni strane e apparentemente inutili, ci fosse venuto a chiaro vantaggio. 
Non poté ribattere

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Paradossalmente, fu Sabra, una creatura a che a prima vista aveva pochi contatti con la praticità, a riportarmi, bruscamente, con i piedi per terra. 
Un pomeriggio rientrando a casa dopo essere stato al sepolcro di famiglia a sacrificare, trovai nell’atrio Sabra che mi venne incontro appena varcata la porta ancora impolverato per la cavalcata
“Padrone, avrei bisogno di parlarvi. Per favore.”
Aveva una tale inquietudine nei modi e negli occhi, che quasi mi preoccupai.
“Dimmi pure Sabra cara.”
Lei si guardò intorno, prima di precisare.
“In privato, se possibile, padron Marco.”
“E allora dammi il tempo di cambiarmi e aspettami al tablinio e avrai la mia attenzione.”
Quando tornai la trovai di fronte alla porta, in nervosa attesa, la feci entrare e la feci addirittura sedere.
“Sabra, cara ragazza, cosa succede? Hai una aria da far spavento, mi devo preoccupare?”
Si agitò sulla sedia e capii che cercava le parole giuste, il che mi mise in decisamente allarme, di cosa mai aveva paura?
“Parla, Sabra, non aver paura, lo sai che apprezzo la franchezza, specialmente da te.” La invitai. “E che nulla di male potrà venire dall’essere sincera.”
“Padrone…” Si fermò e si inumidì le labbra. “Mi sono trovata a parlare con Filinna padrone… e…” Incespicò sulle parole. “e, scusate se mi permetto di parlarvi padrone, mi chiedevo se fosse vostra intenzione avere un figlio da lei.” Si zittì un attimo. “Scusate padrone, lo so che non sono affari miei.” La fissai, meravigliato dalle sue parole, mentre comprendevo quello che mi stava dicendo. Sabra mi conosceva abbastanza da saper leggere il mio viso e capì il mio pensiero. “Padrone, Filinna mi ha raccontato che non prendete nessuna precauzione, lei non sa neppure cosa ci sia da fare… in caso... voi non ci avete mai pensato, vero?” 
Che sciocco. Certo non ci avevo mai pensato, con Sabra davo per scontato che gestisse lei in qualche modo femminile la questione e fuori casa non era certo un problema che mi riguardasse. 
“È incinta?” chiesi.
“No, padrone.” Mi rispose. E devo ammettere che provai sollievo. “Ma di certo non mancherà presto l’occasione. Prima o poi accadrà… se non.. se non si fa qualcosa.”
Ci riflettei volevo metter in cinta la ragazza? 
Non è una cosa inusuale che una schiava venga messa in cinta dal suo proprietario, anzi. Manio, uno dei miei migliori amici, solo un anno più anziano di me e anche lui scapolo, si vantava di avere generato già due figli in questo modo, uno quando era ancora un ragazzetto. Sosteneva che le madri stesse erano molto soddisfatte, convinte che lui avrebbe avuto un occhio di riguardo per loro e per marmocchi e che era anche un buon modo per migliorare la qualità della servitù.
Tra i Corvino di solito non si usava… di solito. Per esempio, questo lo sapevo, Romolo era mio cugino, suo padre era figlio di mio nonno e di una schiava, che tutti dicevano che fosse molto bella da giovane. Ma era quasi una eccezione.
Personalmente, non mi piaceva l’idea, un figlio nato in servitù mi sembrava disdicevole, assolutamente. Decisi di no.
“No, non voglio avere un figlio. E cosa sarebbe questo qualcosa da fare di cui accennavi?”
Sabra sembrò essersi tolta un peso dal cuore e sorrise.
“Certo padrone, capisco. Allora se volete spiegherò a Filinna cosa fare. Gli insegnerò come preparare la stessa pozione che uso io. Padrone.”
Cosa avrebbe pensato Filinna? Sarebbe stata sollevata o delusa? Magari, come diceva Manio, sperava di poter restare in cinta di me. 
“Conto su di te. Spero che ubbidirà.”
“Filinna farebbe qualsiasi cosa voi gli diciate di fare, padrone.”
Una affermazione tale da farmi alzare il sopracciglio.
“Non sapevo che la conoscessi così bene e che foste tanto amiche da parlare di queste cose.”
Una delle particolarità di Sabra che è ha bisogno di ben pochi incoraggiamenti per iniziare a parlare, di solito il problema è farla smettere.
“Non particolarmente padrone, abbiamo iniziato a parlare solo da poco. Se devo essere sincera la moglie di Cleone mi ha sempre mal sopportato percui avevo poco a spartire con loro…. Era invidiosa, come molti nella servitù.” Annuii, certo potevo immaginare. Il ruolo di Sabra le concedeva certi privilegi e vantaggi che potevano provocare invidia “Si è un po’ ammorbidita solo quando l’ho aiutata con la schiena di della figlia e poi è stata Filinna stessa a cercarmi per confidarsi e chiedere consiglio.”
“Consiglio?”
La mia voce deve essere suonata strana, perché scoppiò a ridere, la sua splendida scompostamente allegra risata.
“Oh Padrone! Certo! E a chi pensate potessi rivolgersi? In fin dei conti quella ragazza sa ben poco del mondo e non è che la madre possa dirsi esperta di uomini.”
“Forse dovrei preoccuparmi ad essere oggetto delle vostre chiacchiere.” Scherzai, nascondendo una certa inquietudine
Sabra riprese a ridere.
“Padrone sapete che voi siete speciale per me. Io parlo solo bene di voi. Ed è quello che ho detto a quella ragazza quando mi ha raccontato cosa era successo.”
“Quello che è successo, Sabra?”
Si sporse verso di me. La voce complice.
“Di quando l’avete baciata, padrone. Di quanto sia stata stupida ad essersi spaventata, fino a scappare lei. Glielo detto che il suo comportamento è stato idiota.”
Mi venne istintivo difenderla.
“Sabra, in fin dei conti voleva proteggere la sua virtù. Mi sembra un istinto naturale. Tutt’altro che stupido.”
“O che sciocchezza padrone!” Ribatte lasciandomi di stucco per il tono deciso. “La virtù! A che serve la virtù a una schiava? Ve lo dico io, Padrone, a che serve: a regalarla al primo buono a nulla con dei begli occhi e un sorriso furbetto, che farà giusto tempo a riempirti la pancia con un bambino, prima di compiere qualche malefatta ed essere mandato in miniera e tu rimani sola ad allevare un figlio. Ecco a cosa serve la virtù, Padrone. Non siamo mica gran signore.” Rimasi in silenzio, colpito dal tono della voce. “Io glielo detto, Padrone: stupida. Hai il padrone che ti desidera. E abbiamo pure la fortuna che è giovane, è pure bello, ha un cuore buono e generoso, ed è persino un buon amante!”
“Sabra!”
“Ma è vero, padrone. Siete bello e un buon amante.”
“Smettila di lusingarmi, in maniera così smaccata.” Scuotevo la testa, ma non riuscivo a smettere di sorridere.
“Sarà lusinga, ma è anche vero. Padrone. Fatevelo dire, io ci credo. Voi lo sapete siete sempre speciale per me. E spero che anche questa povera Sabra sia speciale per voi.” 
“Lo sai che lo sei, cara Sabra.” Sorrisi al suo atteggiarsi, ma poi le chiesi serio. “Sei forse gelosa di Filinna?”
Scosse la testa.
“No, padrone, io non sono vostra.” Mi sembrava sincera, poi ripete quello che mi sembrava ripetessero tutti. “Filinna è una brava ragazza, sono contenta. Io glielo detto, padrone, di essere felice, perché è fortunata, anche solo dormire in un letto dalle coperte morbide accanto a voi.”

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L’anno finì senza altri eventi degni di essere ricordati. Io ero irrequieto, sentivo che stavo sprecando il mio tempo, ero ancora troppo giovane per candidarmi a una qualche carica, e potevo solo continuare a stringere amicizie e alleanze che mi sarebbero state utili nel futuro, ma questo non bastava a soddisfarmi.
Con l’inizio del nuovo anno, finalmente arrivò una buona notizia, il completamento dei lavori nella villa di Baia, non persi tempo a recarmici per controllare la situazione e ordinare gli ultimi aggiustamenti.
Restai molto soddisfatto da quello che vidi e come dissi a mia madre ero ansioso di trasferirmici e goderne le bellezze e la comodità non appena fosse arrivata la buona stagione.
Mi sbilanciai talmente da promettere persino a Filinna che l’avrei portata con me, per farle vedere quanto era sublime il golfo di Napoli. Mi piaceva vederla felice e bastava in effetti così poco. Niente sembrava turbare il suo buon umore, o in grado di spegnere il suo sorriso, e averla vicino aiutava il mio spirito.
Non mantenni però la mia promessa e quella primavera non andammo a Baia. 
Venni contattato da un buon amico di famiglia Sesto Palpellio, un senatore ed ex console, di origine provinciale, veniva dalla Dalmazia, ma che aveva goduto del favore di Augusto e di Tiberio raggiungendo grandi onori. Claudio Cesare lo aveva appena nominato Governatore della Provincia di Pannonia e mi proponeva di unirmi a lui, aveva bisogno di aiuti validi in quella provincia di confine che andava ancora colonizzata e civilizzata pienamente. Era sicuro, diceva, che avrebbe potuto farmi avere l’incarico di Tribuno Militare in una delle Legioni di quel confine, i cui comandanti erano stati tutti suoi compagni d’arme. A completamento aggiungeva che aveva fatto il mio nome allo stesso Imperatore che si ricordava bene di me (oh benedetti Etruschi), e aveva ricevuto la sua totale approvazione.
La nomina a Tribuno militare avrebbe significato il vero inizio della carriera, del cursus honorum, per me, era una occasione da non perdere.
La reazione di mia madre è ancora viva nei miei ricordi. Rientrando in casa la trovai sotto il peristilio impegnata, come suo solito, a filare in compagnia delle sue ancelle. Non si accorsero a prima vista del mio arrivo, mentre lavoravano chiacchieravano e ciarlavano, in allegria. Raramente mi ricordavo di aver visto mia madre così apertamente spensierata, sembrava quasi una fanciulla e non una matrona, addirittura mi fermai un attimo ad osservarle, quasi meravigliato, prima di interromperle per comunicargli la notizia.
Fu orgogliosa mia madre, capiva quanto me cosa significasse, ma sotto le sue parole notai altro, non so se fosse che era lei ad essere diventata più anziana, o forse ero io ad essere maturato e riuscivo a capirla meglio ma vidi qualcosa che nei suoi occhi non scorgevo da tanto tempo.
Le presi la mano.
“Madre, tornerò, non sarà poi un periodo così lungo.”
Non la ritirò, anzi, me la strinse.
“Mi mancherai, Marco. Il Danubio è lontano.” E non mi sbagliavo gli occhi erano lucidi. Poi la voce tornò ad essere quella a cui ero abituato. “Fai quello che un Corvino deve fare, figlio mio.”
La lasciai con le sue ancelle, silenziose.

Con Filinna fu diverso, molto. La notizia le era arrivata tramite dai pettegolezzi della servitù e nel passaparola chissà come era stata ingigantita e modificata. Quando quella sera mi raggiunse in camera era pallida e tremante per lo sgomento. Come non succedeva da mesi, evitava di guardarmi negli occhi e provava a celarsi al mio sguardo, rispondendo a monosillabi: Sì, no,… Padrone… sì Padrone… no Padrone.
Ci impiegai un certo tempo a tirarla fuori dal suo terrorizzato mutismo e a capire cosa fosse arrivata a fantasticare.
Per quanto incredibile la ragazza aveva pensato che l’avrei portata con me ed era terrificata all’idea di allontanarsi così tanto dai suoi genitori e arrivare in un posto così remoto e barbaro. 
Cosa mai era andata a immaginare: come se potessi presentarmi in servizio accompagnato dall’amante! Nemmeno fosse Agrippina Maggiore che accompagnava il suo sposo, Druso, sul Reno e, come raccontava Tacito, domava con la sua sola presenza un ammutinamento delle legioni. La piccola Filinna.
La cosa sarebbe potuto risultare divertente, di certo era una idea talmente assurda da risultare buffa, ma in lei mi fece una tale tenerezza che invece di ridire mi trovai a consolarla e rassicurarla.
Lei sarebbe rimasta a Roma, a casa e, quando lo capì, abbracciata stretta al petto, la sentii tirare un sospiro di sollievo, enorme e profondo.
Il mio amor proprio venne salvato quando questo sollievo si trasformò ben presto in tristezza per la mia partenza e alla fine dopo aver calmato le sue paure dovetti pure asciugare qualche lacrima.
Lacrime che tornarono, assai copiose, quando nei giorni seguenti le feci un regalo, prima di partire: un bracciale d’oro e ambra del nord. Avevo esagerato, forse, ma quell’ambra mi ricordava il colore dei suoi occhi e volevo lasciarle qualcosa.

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Capitolo 4
*** Nomentum ***


Siamo arrivati al quarto capitolo, ll quinto è in scrittura, ma rischia di andare un po' rilento a causa di un picco lavorativo, me ne scuso.

ATTN ATTN il capitolo presenta scene di violenza sessuale che potrebbero disturbare. Non sono grafiche non sto qui a fare pornografia, ma sono decisamente forti, almeno per me che lo scritte.

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Ad Aulo Emilio Scauro.
Zio, ti saluto e mi auguro che tu stia bene e in salute, così come mia madre e tutti i nostri cari.
Mi dispiace di non avervi potuto inviare prima mie novelle, ma purtroppo i fatti non lo hanno permesso. Io comunque sto bene e sono in salute e la situazione è tornata alla calma e la provincia è in pace.
Come vi saranno sicuramente giunte notizie, negli ultimi mesi il confine è stato in subbuglio. Il re dei Quadi, Vannio, nostro amico e alleato, è stato scacciato da una ribellione fomentata dai re di tribù a lui rivali e ostili a Roma
Come vi avevo accennato nella mia ultima fin troppo breve lettera, il governatore della Pannonia, il nostro buon amico Palpellio, ha quindi fatto trasferire la quindicesima in nuovi quartieri sulla riva del Danubio, un posto assai barbaro dal nome di Carnutum, da cui ora ti sto scrivendo.
Lì sul confine le notizie che ricevevamo hanno fatto temere il peggio e mi è stato affidato il compito di compiere una immediata azione dimostrativa oltre il confine, per questa ragione non ho potuto farvi avere mie notizie aggiornate per così tempo.
Al comando di una vessillazione, rafforzata con vari reparti ausiliari ho attraversato il fiume per condurre una incursione nelle terre degli Ermunduri e mostrargli come non sia saggio brigare contro i nostri alleati.
Abbiamo saccheggiato e bruciato, per alcuni giorni, tutto quello che si è trovato sulla nostra strada fino a che il re di quel popolo, un certo Vibilio, ha provato ad affrontarci prima di perdere la fiducia e la fedeltà del suo popolo.
Temendo la nostra forza ha provato a tenderci un agguato, che è stato sventato dagli esploratori da cui mi facevo precedere, ed è stato costretto a scendere in campo aperto ed affrontarci in battaglia.
I suoi guerrieri non si sono dimostrati migliori di altri popoli della loro razza: indubbiamente coraggiosi e feroci combattenti, ma mancanti di disciplina e nerbo morale. Quando i loro primi violenti assalti non hanno potuto nulla contro la linea dei nostri legionari sono stati presi dai dubbi e colti di sorpresa da un contrattacco della poca cavalleria numida che avevo con me si sono sbandati e sono fuggiti in preda alla disperazione.
Solo la guardia del Re è rimasta salda per permettere al loro sovrano di mettersi al sicuro ed è caduta decorosamente sul campo.
Personalmente ho ucciso uno dei loro comandanti, che le mie guide sostengono si tratti di uno dei figli di Vibilio stesso. In riconoscimento al suo coraggio e al suo valore, gli ho fatto dare una onorevole sepoltura secondo i loro costumi e riporterò a Roma la ricca panoplia che indossava per offrirla al Dio Marte.
Ritengo che i nostri nemici abbiamo capito la lezione e che non oseranno sfidare le nostre armi per molto tempo e siamo potuti rientrati a Carnutum senza altre resistenze, con magro bottino, si tratta di genti povere come non ne ho mai viste, ma orgogliosi della nostra vittoria.
Adesso la situazione è tornata calma e Quadi hanno preso come re i due nipoti di quello che avevano stupidamente deposto e i due nuovi sovrani hanno immediatamente riaffermato la loro alleanza e amicizia con Roma.
Il nobile Palpellio è stato così soddisfatto e ammirato della mia condotta che non solo mi ha lodato pubblicamente, ma ha deciso di concedermi l’onore di tornare a Roma per presentare personalmente rapporto all’Imperatore e annunciargli la ritrovata pace sul confine. Per l’occasione scorterò anche il fratello minore dei due nuovi sovrani che rimarrà presso l’Imperatore come ospite e garanzia di amicizia.
Quindi, caro Zio, avrò presto la gioia di riabbracciarvi, di rivedere casa e la nostra amata città e potrò raccontarti di persona dei miei viaggi e delle mie avventure.
Ti prego di far leggere queste mie notizie anche alla mia cara madre e a tutti i nostri amici.
Con affetto tuo nipote
Marco Valerio Corvino, Tribuno Laticlavio XV Apolinaris

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Questa volta tornando a casa non c’era la folla del mio ritorno dalla Britannia, solo Eryx, 4 o 5 servitori, mia madre e mio zio. 
Le porte si aprirono e loro apparvero nell’Atrio, vidi mia madre sorridere e fare un passo avanti per abbracciarmi, per poi esitare un attimo, assumendo un’aria di perplessità, vedendo chi incombeva, mai parola fu più adatta, alle mie spalle.
A dir la verità, Catualda era vestito in maniera civile: una tunica da viaggio e un buon mantello di lana, niente braghe, cappe di pelliccia di lupo o simili ammennicoli barbari. Si era persino fatto la barba di fresco, pur non avendo voluto rinunciare ai baffi, ma non poteva evitare di essere notato, se non fosse bastata la sua stazza, era persino più alto di me. I capelli biondi che portava ancora alla spalla, gli occhi chiari come il cielo estivo e la pelle pallida lo rendevano tremendamente esotico. Per strada, più di una persona si era fermata a guardarci e una banda di monelli ci aveva pure seguiti, indicandolo affascinati, fino a che la nostra scorta non si era stancata di loro e li aveva scacciati, minacciandoli coi frustini.
Se mia madre sembra a disagio, io sapevo, conoscendolo che quello più in difficoltà era lui. Con tutto il suo aspetto minaccioso, Catualda era un animo che avrei definito gentile e sensibile, ed era assolutamente ansioso di fare una buona figura con mia madre. Era la prima matrona di nobili origini che avrebbe conosciuto e a quanto pare la cosa lo impressionava alquanto.
Così decisi di agire immediatamente
“Madre, permettimi di presentarti il mio amico e compagno di viaggio: Catualda figlio di Vangio. Ha viaggiato con me ed è venuto qui a Roma per presentare all’Imperatore e al Senato gli omaggi e le promesse di amicizia dei suoi fratelli, che sono i nuovi re dei Quadi. Sarà nostro ospite in attesa di essere ricevuto.”
A quel punto fu Catualda che fece un passo avanti, chinò lievemente il capo e salutò. Parlava bene latino, Catualda, anche se con un evidente accento, che in quei primi tempi era ancora più marcato, ma come vi dicevo, ci teneva così tanto a fare una buona impressione con la mia nobile madre, che mi aveva perseguitato per buona parte della serata precedente per provare un saluto adeguato, ripetendolo allo sfinimento pur di avere la pronuncia e il ritmo corretto.
Il risultato fu positivo, forse fu un po’ rigido e poco naturale nella dizione, ma non incespicò, non ebbe esitazioni e non usò nessuno barbarismo, anzi salutò con termini garbati ed eleganti anche se un po’ desueti.
Vidi gli occhi di mia madre addolcirsi, capendo che dietro quell’aspetto straniero c’era un essere civilizzato.
“Nobile Catualda, amico del mio amato figliolo, benvenuto nella nostra casa.” Lo salutò a sua volta invitandolo ad entrare e passò subito all’azione. “Eryx fai preparare una camera per il nostro ospite, la migliore del lato nord.” Riposò lo sguardo su di lui. “Luminosa, e piena del sole di Roma!”
Entrammo e fu la volta di salutare mio zio, dopo di che come tradizione ci recammo per l’altare per il dovuto sacrificio, che Catualda, seppur straniero, seguì con doveroso rispetto.
Finiti i doveri mi voltai verso di lui.
“E adesso facciamo quello che fa ogni buon romano tornato a casa dopo un lungo viaggio, Catualda.”
“E che cosa è amico mio?”
“Un bagno, un bel bagno! Vieni con me!”

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Usciti dal bagno, Catualda se possibile ancora più roseo e pallido, ci mettemmo comodi nel triclinio per mangiare un boccone e venimmo raggiunti da mio zio, curiosissimo del mio l’ospite e immagino più che pronto a predicargli i meriti e i vantaggi della filosofia stoica.
Catualda sembrava trovar congeniale essere il centro dell’attenzione e penso che trovasse simpatico pure mio zio, ma man mano le sue riposte si iniziarono a fare sempre più distratte, la sua attenzione si stava concentrando su Sabra che aggraziava la nostra serata, servendo come amabilissimo coppiere.
Anche lei invero non riusciva a nascondere di essere molto incuriosita da quella esotica presenza e lo scrutava senza ritegno. 
“Sabra, impenitente scansafatiche, smettila di fissare in quella maniera sfacciata il nostro ospite, e riempi la sua e le nostra coppe piuttosto, prima che per colpa tua si muoia di sete.” La sferzò zio, ma con il sorriso sulle labbra. 
Sabra sussultò e si affrettò a riempire le nostre coppe, quella di Catualda con particolare cura.
“Chiedo scusa Nobile Aulo, ma sono io stesso sfacciato col mio sguardo.” Intervenne Catualda. “Ma non immaginavo che le donne di Roma fossero così belle.”
Il sorriso di Sabra fu raggiante, mentre io e zio iniziavamo a ridere. Quella ragazza viveva di ammirazione.
“Sabra in verità è un magnifico gioiello che viene dalla Siria.” Precisai.
E lui approfitto della mia risposta per continuare a lusingare
“Che terra meravigliosa deve essere, se è ricca di donne simili!”
“Oh Catualda, credo siano veramente belle donne, ma la bellezza Sabra di spiccherebbe comunque come rara e preziosa.” Rincarai, divertito.
Mi meritai un sorriso da parte di lei, che inizio a ridere, nascondendo la bocca con la mano, quasi arrossendo. Con la sua affinata malizia riusciva perfino a simulare di essere una timida fanciulla. 
“Padron Marco, voi siete troppo gentile.”
“Basta Marco lodarla, o questa ragazza diventerà fin troppo superba e sarò io, e la mia tranquillità, a pagarne le conseguenze” Intervenne zio, che poi si rivolse a Catualda. “Mio nipote ha un debole per questa graziosa farfallina fin da quando era un ragazzo, e me la vizia ahimé se me la vizia.”
Catualda ci guardava, divertito e forse un po’ confuso e decisi che forse era meglio chiarire la situazione e dargli un dolore subito prima che divenisse un dolore peggiore in seguito.
“Sabra è la concubina di mio zio Aulo, che tra tutte le sue fortune ha anche questa!”
Lui impallidì dalla sorpresa.
“Mi scuso, non volevo, non volevo” la tensione gli fece sbagliare la pronuncia. “ovvendere….” 
Il mio buon zio fu lesto a calmarlo.
“Nessuna offesa, caro amico, nessuna offesa. Sabra attira gli sguardi lo sappiamo, e sappiamo le piace provocare. Sabra sei una cattiva ragazza.”
“Scusate padrone.” Fece lei con la migliore finzione di pentimento che potesse improvvisare così su due piedi. Non un gran che.
Riprendemmo tutti a ridere, in amicizia.
“Comunque,” cambiai discorso “Domani ti porterò un po’ in giro per la città per fartene ammirare le meraviglie, ma prima dovremmo scrivere all’Imperatore per chiedere udienza, e poi al Senato.”
“Spero che avrò il tuo aiuto, su come farlo.”
“Tranquillo amico, ci penseremo noi, domani mattina convocherò la persona giusta per scrivere le lettere nella maniera migliore. Cleone, un gran rettore, è stato il mio maestro e come sa scrivere lui, pochi gli sono al pari.”
Fui interrotto da zio. 
“Cleone non è a Roma, Marco, tua madre lo ha mandato a Baia.”
“Dannazione ora che ci serviva, immagino che non tornerà in tempo utile, cosa mai è andato a fare laggiù?”
“Non torna, Marco. Mia sorella lo ha proprio mandato laggiù in permanenza.”
“E a quale scopo?”
“Oh nessun scopo.” Mio zio sembrava quasi imbarazzato. “lo sai che tua madre non lo ha mai amato, e ha approfittato della prima occasione in cui gli è sembrato poco condiscendente per scacciarlo. Mia sorella è fatta così. La conosci da quando sei nato.” Concluse quasi facendo una battuta.
“Povero Cleone, non ho mai capito le ragioni dell’antipatia di mia madre, di sicuro non se lo meritava. Non riesco neppure a immaginare un comportamento poco accondiscendente da parte sua, proprio non era la persona…. Addirittura, cacciarlo da casa.” Tacqui e sospirai arrivando alle ovvie conclusioni. Mandai giù un altro sorso di vino. “Ecco perché non ho visto Filinna.” Allungai la coppa verso Sabra per farmela riempire e le sorrisi. “Vorrà dire che dovrò andare presto giù a Baia, per incontrarla.”
L’anfora le tremò nelle mani e una goccia di vino mi bagno la mano. I nostri occhi si incrociarono ed era evidente che qualcosa non andava.
“Filinna non è Baia, Padron Marco.” Disse Sabra, come se l’avessi interrogata, la voce quasi strozzata.
Rimasi con la coppa sollevata, stupito.
“E dov’è?” Le chiesi.
“Sabra!” La voce di mio zio, alterata, raramente lo avevo sentito riprendere qualcuno con quel tono di voce. “Non ti impicciare di faccende non tue e ricorda il tuo posto!”
La vide sussultare, era impallidita e questa volta non fingeva. Anche per lei la vista di mio zio arrabbiato doveva essere qualcosa di nuovo. Fece due passi indietro, come se fossimo a un banchetto formale, chinò la testa, silenziosa evitando i nostri sguardi.
MI voltai verso zio.
“Spiegami tu, per favore. Cosa è successo?”
“Oh Marco, cosa vuoi che ne sappia di quello che tua madre fa con una schiava!” E mi era chiaro che mentiva. “È stata mandata via, l’ha mandata credo, a Nomentum.”
“In una villa rustica? A lavorare i campi? Ma perché mai? Cosa può aver fatto?”
“Non ho idea! Avrà fatto qualcosa di sbagliato o detto qualcosa di sbagliato!”
“Zio, ma cosa mai potrà mai aver fatto o detto quella povera ragazza, per una simile punizione?”
“Marco, non lo so.” Tagli corto mio zio. “Non mi sono certo interessato a una questione simile. Non vedo perché avrei dovuto farlo.”
Era evidente che non mi diceva tutto, ed era altrettanto evidente che non mi avrebbe detto altro, smisi di insistere non mi sembrava il caso e avrei rovinato la cena al nostro al nostro ospite.

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Finito di mangiare, chiacchierammo un altro po’ nel giardino del peristilio e poi accompagnai Catualada a riposare nella camera che gli era stata preparata. Tornando indietro trovai Sabra, semi nascosta nell’ombra, che evidentemente mi aspettava al varco.
Gli andai incontro e con un cenno mi feci seguire in un punto di casa sperabilmente un po’ riservato.
“Sabra, gioia, sono felice che tu sia qui. Dimmi tutto cosa è successo e dov’è Filinna?”
Sabra si torceva le mani e si guardava intorno come se temesse che qualcuno ci vedesse parlare insieme.
“Padrone, la prego non dite a Padron Aulo che vi sto parlando, si arrabbierebbe, si arrabbierebbe davvero.” Zio per una volta nella sua vita seriamente arrabbiato doveva averla veramente sconvolta. 
“Tranquilla lo sai che non ti metterò certo nei guai.” Le presi una mano. “Cosa è successo?”
“Si trova a Nomentum, padrone.”
“Ne sei sicura?”
“Sicurissima padrone, conosco bene uno dei carrettieri che viene da lì a consegnare le verdure fresche, padrone e le ho mandato più volte i saluti tramite lui.” Poi aggiunse. “Non è felice padrone. La trattano male.” Vide il mio sguardo interrogativo. “La gente può essere invidiosa e cattiva padrone, gelosa dei servi di casa.”
Annuii, ma prima che potessi farle altre domande riprese lei a parlare man mano che le cose gli venivano in mente, senza una vera logica. “Il fratello è stato mandato con lei. È successo prima dell’estate padrone. Poi anche Cleone è stato mandato via. Era distrutto da quello che era successo ai suoi figli. Povero uomo non era giusta la punizione, padron Marco. No.”
Si zitti di colpo, rendendosi conto di aver appena criticato mi madre, mi fissava temendo la mia reazione.
Le accarezzai un braccio per rassicurarla.
“Non ti preoccupare, dimmi tutto Sabra. Cosa è successo? Perché mai madre l’avrebbe punita?”
“Il bracciale, padrone.” I suoi occhi iniziarono ad evitarmi. “Filinna aveva un gran bel bracciale con l’ambra. Era un regalo vostro, diceva.” Annuii… iniziando a sentire un peso sul petto. “Lei era orgogliosa di quel bracciale, padrone. Tanto, lo portava sempre… Anche perché padrone valeva troppo, dove avrebbe dovuto lasciare per non farselo rubare? … poi… un giorno credo che vostra madre lo notò.”
Si interruppe.
“E quindi?” la premetti.
“Padrone, io non ero presente… io… mi hanno detto che la Padrona gli chiese cos’era e, e poi quando capì che era un vostro regalo le disse che non doveva indossarlo…. e si dice…. Che Filinna sbagliò e gli ripetè che era un regalo vostro…. E vostra madre l’ha punita. Padron Marco io so questo….”
Deglutii sentendomi la gola improvvisamente secca.
“Sabra… grazie. Non lo dimenticherò che mi hai aiutato a capire. Adesso vai tranquilla, prima che ti vedano. Non voglio che zio ti rimproveri.”
“Filinna è una brava ragazza, padrone.”

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Trovai mia madre che si stava preparando per coricarsi. Era seduta sul letto, quando entrai, mi vide e sorrise.
“Marco, figlio, cosa fai qu? cosa c’è?” Mi tese la mano, un gesto inusualmente cordiale per lei.
Gliela presi.
“Madre dovrei parlarti.”
“Dimmi.”
“Da soli per favore.” Non era dignitoso che discutessimo di una schiava di fronte ad altri schiavi
Mia madre mi guardò fissa come cercando di capire, un’ombra di preoccupazione negli occhi, poi mi lascio la mano e fece cenno alle ancelle che la stavano preparando per la notte di uscire.
“Che succede? Qualcosa di grave?” mi fece segno di sedermi accanto a lei, ma rimasi in piedi e appena fummo soli andai al sodo:
“Filinna, madre, perché l’hai scacciata?”
“Filinna?” Fece. “La figlia di Cleone?”
No, non sarebbe stata una discussione facile.
“Madre, sai di chi parlo. Perché l’hai scacciata di casa?”
Ci fu un attimo di esitazione prima di rispondermi con voce decisa
“Era arrogante, e si permessa comportamenti che non poteva permettersi.”
Risposi con uno sbuffo. “Arrogante non è una parola che userei per descriverla, madre, la conosco bene, ed non la vedo ed essere irrispettosa, specie verso la sua padrona.”
“Si vede che non l’hai conosciuta bene, allora, o forse sarà cambiata in tua assenza, è pur sempre figlia di suo padre.”
“Io non ho mai capito cosa mai avrà potuto fare Cleone per meritarsi tanto odio da parte tua.” Alzai una mano a prevenirla. “Ma non ti sto chiedendo di lui, ti sto chiedendo di Filinna.”
“Non ho presenti, adesso, i dettagli.”
“Madre! La ragazza è cresciuta in questa casa, è stata ben educata, sa persino leggere e scrivere. Esiliare una persona come lei in una fattoria tra servi appena comprati, volgari e analfabeti è una punizione tale che di sicuro deve aver fatto qualcosa di grave per meritarla, a tuo giudizio. Sono sicuro che te lo puoi ricordare.”
“Marco, smettila, è solo una schiava. Cosa mai sono tutte queste storie? Sceglitene un'altra per i tuoi bisogni. Ce n’è una nuova che è molto bella, l’hai vista? Altrimenti vai e compratene una che soddisfi i tuoi gusti. Ti sembra degno rivolgerti a tua madre in questa maniera per una questione simile?”
“Le voci dicono che l’hai punita perché portava un bracciale che le avevo regalato.” Insistetti
“E chi mai ti ha raccontato ciò?”
“La casa parla, come ben sai, non importano i nomi. È vero?”
“Solo tu potevi regalare una cosa simile a una serva, che esagerazione.”
“L’esagerazione in caso era mia e non certo sua. Quindi?”
Rievitò, per l’ennesima volta la mia domanda.
“Vedi che avevo ragione quando ti dicevo che Cleone aveva ben preparato i suoi piani? Perché mai ti stai fissando così?”
“Madre, Cleone non c’entra, e i suoi piani sono tue fantasie…”
“E allora?”
E, in effetti, allora?
“Prima che partissi, era preoccupata… e io le promisi che non le sarebbe successo niente e che.. che avrei badato a lei. E ora che fine ha mai fatto?””
Non era forse vero? Non avevo usato parole forse, ma non era forse implicito? Non glielo avevo forse fatto capire con i miei gesti?
“Ahhh, avevi promesso.” Allargò le braccia. “Avevi promesso, una promessa fatta a una schiavo… sciocchezze”
“Madre il valore di una promessa non si basa su chi la persona che la riceve, ma su chi è la fa. E’ una promessa mia, una promessa di un Valerio.”
“Ecco. Sei uguale a tuo padre, purtroppo.” 
“Purtroppo?” MI meravigliai.
“Sì, Marco: idealista, sognatore, sempre a riflettere su cosa è giusto ed è sbagliato. Impegnato a credere in quello che dici e a dire quello in cui credi.”
“E cosa ci sarebbe di sbagliato in questo? Mi sembra il comportamento di un uomo retto, e sarei solo contento di diventare un uomo come mio padre.”
Ci fissammo, poi scosse la testa.
“Non sono i tempi adatti per essere un uomo come era tuo padre.”
“Non è il tempo a fare l’uomo, ma sono gli uomini a fare tempi.” Le risposi… e con meraviglia vidi la furia scatenarsi nei suoi occhi, mentre si alzava e faceva un passo verso di me.
“Sciocchezze! Idiozie! No, Marco! No! Ho già seppellito un marito e un figlio, per queste imbecillità! Marco No! Non voglio dover piangere anche sul tuo di cadavere! Mi hai capito? Mi hai capito?” La guardai senza parole. “Non ti permetterò di farti ammazzare. Sono tempi in cui bisogna sopravvivere.”
Scossi la testa, e la presi per una spalla come a rassicurarla.
“Madre, questo non centra nulla con quello di cui stavamo parlando.”
“C’entra con te, Marco e di come ti abbiamo cresciuto e di cosa devi diventare.” La sua voce era tornata calma e controllata.
“Voglio solo rispettare una promessa stupida che ho fatto, madre. Cosa mai c’entra con tutto questo?”
“Solo per una promessa? Ah, Marco, come se io non ti capissi.”
“È solo questo, madre.”
“Γνῶϑι σεαυτόν, conosci te stesso, Marco. Lascia stare.”
“No, madre, io ho deciso, e se tu non mi sai nemmeno dire una buona ragione percui doveva essere realmente punita. la manderò riprendere.”
Fece un passo indietro e si risedette sul letto.
“Sei tu il Padrone di questa casa.”
Disse. Senza guardami.

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Ero a malapena uscito dalla camera di mia madre, che già stavo iniziando a cambiare idea. Non l’avrei mandata a prendere, sarei andato direttamente io, sarebbe stato decisamente meglio, mi stavo convincendo. 
Avrei capito meglio la situazione e, sì, l’avrei rivista e ci avrei parlato direttamente. Volevo rivederla.
Avrei dovuto cambiare gli impegni del giorno successivo, ero già in parola con Catualda, ma per mia fortuna passando scoprii che era ancora sveglio seduto fuori dalla porta della sua camera, a godersi la serata stellata con un’anfora accanto.
Mi saluto con la mano quando mi vide avvicinarmi.
“Marco, amico. Siediti qui con me e bevi in mia compagnia.” Fece, alzando verso di me l’anfora.
Accettai l’offerta la presi e tirai una sorsata sedendomi vicino a lui.
“Attento Catualda, il vino qui è forte.”
“Lo so.” Rispose, lasciandosi scappare un singhiozzo e capii che se ne era reso conto già da solo. “Forte e buono, ahhh molto buono.”
MI sedetti accanto a lui egli ripassai l’anfora.
“Amico, devo chiederti scusa, ma per domani dovrei cambiare programma, devo andare a sistemare una cosa fuori Roma. Se non ti dispiace chiederò a mio zio di farti fare un primo giro della città.”
Lo vidi scrollare le spalle.
“Tanto non credo che domani mi alzerò poi molto presto, sai?” Sorrise, il che in effetti mi sembrava sempre più realistico ad ogni sorsata che mandava giù.
“Comunque, sarà solo domani, per la sera sarò tornato.”
Mi ripassò l’anfora. 
“È per la ragazza di cui stavi discutendo a cena con tu zio? Vero?”
Assentii e mandai giù io un sorso di vino. Avevo già capito, e nel futuro avrei avuto innumerevoli conferme di quanto, fosse intuitivo Catualda. Vidi un largo sorriso disegnarsi sul suo volto.
“Marco! Amico! Ma allora pure voi romani avete un cuore che pulsa e il sangue che scorre nelle vene!” Mi tirò una feroce pacca sulle spalle. “Delle volte una pensa che siate fatti di pietra come le statue che vi piacciono tanto. È bello vedere che invece non è così.”
Mi prese l’anfora dalle mani e bevve a fondo. “E questa la dedico a Frigg!” E inizio a ridere. “Che la dea protegga la passione del mio amico.” Mi guardò con lo sguardo profondo che hanno gli ubriachi. “Sono le passioni che ci rendono umani. Anche a voi Romani.”
“Ecco giusto una delle tue divinità straniere può benedirmi!”
“Ahhh è una dea potente e ama le follie. Amico. Comunque, quando sarai tornato mi farai conoscere tale bellezza vero? E poi mi accompagnerai al mercato… e mi aiuterai a scegliere una schiava siriana… bella come… come è che si chiama?”
“Sabra!” risposi.
MI guardo un sorriso felice e quasi infantile, si riattacco all’anfora
“Ecco Sabra!”
Mi sentivo un po’ meno in colpa adesso a lasciarlo solo, l’indomani, difficilmente avrebbe combinato qualcosa.

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Lasciai casa poco dopo l’alba, per uscire di città prima che la confusione per le strade diventasse insostenibile con la folla di passanti e carretti che ti ostacola ad ogni passo e gente folle che sembra fare di tutto per finire sotto gli zoccoli dei cavalli. Avevo deciso di viaggiare da solo questa volta, senza essere rallentato da scorte e servitori, in fin dei conti si trattava di poche ore.
Ebbi fortuna e raggiunsi Porta Collina piuttosto in fretta, ma Roma ormai si estende per almeno un miglio oltre le mura e ci impiegai un altro po’ per poter dire di essere uscito dalla città.
Nomentum dista circa 10 leghe ma la nomentana è una buona strada, larga e ben lastricata, ombreggiata da gradi pini che proteggono i viaggiatori dalle intemperie di inverno e dal sole d’estate.
Di solito la mattina è trafficata da carri che portano in città i prodotti freschi coltivati in Sabina, ma quella mattina, Fortuna sembrava avermi in simpatia, era mezza vuota. Ne approfittai, sentivo sotto di me Nembo carico e scalpitante, desideroso di correre e non provai neppure a trattenerlo. Mi bastò sfiorargli i fianchi con i talloni per sentire il suo dorso tendersi mentre scattava al galoppo con un nitrito che non poteva essere che di felicità.
Il mio cuore e il battere dei suoi zoccoli sulla strada presero lo stesso ritmo, e, in quello che mi sembrò un attimo, arrivammo a Nomentum. È una piacevole cittadina, un Municipio, di antica fondazione, era secondo la leggenda una delle colonie di Alba Longa, prima ancora che fosse fondata Roma. La strada attraversa il foro cittadino, che è ben tenuto e aggraziato da svariati monumenti; su tutti domina il tempio di Giove, con una imponente facciata a otto colonne corinzie e sul cui frontone spicca nella dedica il nome dei Valerio Corvino, fu infatti il mio bisnonno a finanziarne l’ampliamento e l’abbellimento. 
La tenuta che possediamo poco fuori dalla città ci rende tra i più importanti possidenti della zona. Qui si coltivano soprattutto verdure e frutta, si allevano pollami e maiali e si producono latte e formaggi, che soddisfano il nostro bisogno casalingo di prodotti freschi, e in buona parte vengono venduti sul mercato romano. Si produce anche un buon vino sia per la nostra tavola che per la vendita.
In verità questa è una delle nostre proprietà più piccole, ne abbiamo molte altre sparse in Italia (nel Sannio, in Emilia, sui Colli Tuscolani a sud di Roma) che nelle provincie: in Spagna Citeriore abbiamo terre vicino a Tarraco e miniere di ferro nel sud della Betica, ma le più ricche e grandi sono le tenute in Sicilia e in Africa dove si coltiva grano e si produce l’olio. Vicino a Tapso abbiamo una proprietà, coltivata a grano, talmente vasta che vi sono impiegati in permanenza più di duemila schiavi.
Uscendo dall’abitato lasciai Nembo al passo, per lasciarlo sbollire, l’entrata delle nostre proprietà era ormai a pochi minuti. La conoscevo bene: due grandi cippi sul lato sinistro della strada principale, da lì partiva uno stradino non lastricato che attraversava i campi salendo sul dolce fianco di una collina; arrivati in cima si apriva la vista su un vasto vallone pieni di alberi da frutta e al di là in cima alla cresta successiva si trovava la villa rustica che era il centro della tenuta e la mia destinazione.
Mentre passavo, gli schiavi al lavoro nei campi sollevavano la testa e si fermavano a guardarmi, chiedendosi evidentemente chi fosse quel cavaliere che vedevano in lontananza.
Sembrava tutto bellissimo: un paradiso agreste e bucolico, i campi ordinati sotto un cielo lindo, i contadini al lavoro. Tutto pronto a essere cantato da Virgilio

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva,
nos patriam fugimus;

Titiro, tu chinato sotto l'ampia copertura d'un faggio,
vai componendo un canto silvestre sull'esile flauto;
noi lasciamo le sponde della patria e i dolci campi,
noi lasciamo la patria;


Ma qui non c’erano poeti e non c’era poesia e per Filinna doveva essere stato un triste esilio, aggravato da un lavoro duro a cui non era abituata.
Arrivato in cima alla collina, mentre il mondo si apriva di fronte ai miei occhi rallentai un attimo il passo di Nembo, quello era un panorama che avevo sempre gradito, specie se la giornata era limpida e luminosa come quella. Quanto doveva essere enorme la differenza per l’animo, riflettei, tra il poter ammirare quella vista liberamente e invece trovarcisi di fronte perché costretti da una punizione ingiusta.
La stessa cosa, la stessa vista, eppure è il nostro animo e il nostro spirito che con il suo giudizio, alla luce dei nostri sentimenti e della nostra situazione,che la rende bellissima oppure orrida.
Sentii il cavallo irrequieto, sotto di me, impaziente, e lo lasciai riprendere il suo passo preferito, chinandomi leggermente in avanti per accarezzargli il collo forte.
Fu in quel momento che la vidi. Sotto di me tra un filare e l’altro degli alberi da frutta. Troppo lontana per riconoscerla in viso, ma inconfondibile nel portamento e nella camminata.
Se non era quello un segno, non avrei saputo cosa altro potesse esserlo. Era proprio lei, lì di fronte a me: Filinna.
Misi Nembo a un trotto allegro scendendo la collina e tagliai il sentiero per raggiungerla.
Si voltò sentendo lo scalpitare del cavallo, ancora prima che la raggiugessi. Mi riconobbe subito, il volto meravigliato. Quando le sorrisi, poggiò l’anfora che portava e si fermò in piedi immobile, attendendo che la raggiungessi.
“Filinna.” Dissi semplicemente e arrivato a poca distanza fermai Nembo e smontai. Taque.
“Filinna.” Ripetei 
Era a malapena passato un anno, dall’ultima volta che la avevo vista. Si vedeva che non era felice e si vedeva quando fosse triste la sua situazione: indossava una tunica grezza e una vecchia stola in lana, con dei buchi visibili. Ai piedi, sporchi di terra, dei semplici sandali. Il viso era meno rotondo e gli occhi più profondi. Era cambiata, sempre bella, ma diversa. Più asciutta e matura.
“Ti ho trovata.” Mi avvicinai e allungai la mano ad accarezzarle il viso come mi piaceva fare, la sua guancia era morbida e amabile come mi ricordavo. Lei mi lascio fare, fissandomi, ma non reagì col sorriso che di solito faceva, socchiudendo gli occhi e godendosi il mio tocco. Rimase ferma. Immobile. 
“Cosa volete, padrone?” Furono le sue prime parole non erano quelle che mi aspettavo. Non sorrideva, né le labbra né gli occhi, dal suo viso era scomparsa la meraviglia ed era diventato improvvisamente illeggibile e inespressivo.
“Portarti a casa.”
Avevo sperato che sorridesse al vedermi, al sapere che ero tornato e che l’avrei portata via, ma continuava a fissarmi, gli occhi castani e profondi adesso privi di vita. 
“Perché?”
“Come perché?” La guardai meravigliato, non capendo la sua reazione, avevo immaginato sarebbe stata contenta di vedermi, di poter lasciare questo posto. “Ti voglio a Roma, questo non è il tuo posto.”
“E ora vi ricordate e venite?”
Scossi la testa, divertito ad una affermazione così sciocca, in fin dei conti ero appena tornato, ma non mi innervosii, in fin dei conti lei poteva non saperlo.
“L’ho saputo solo ieri sera, quello che era successo.” Spiegai, ma non vidi reazioni nel suo viso, e le presi la spalla, lei, con un gesto che mi lasciò di stucco, la piegò come non gradendo il mio tocco. “Filinna.” Feci non capendo le sue illogiche reazioni. “Puoi tornare a Roma, lo capisci?” Gli strinsi la spalla e sorrisi di nuovo. “È tutto sistemato.” 
La vidi scuotere la testa, e con un movimento brusco si liberò dalla mia mano e fece un passo indietro. Quasi inciampò nell’anfora che aveva poggiato a terra, barcollò e recupero l’equilibrio.
“No. Disse, il viso vuoto. “No.” Ripeté scrollando di nuovo la testa.
“Cosa stai dicendo, ragazza?” Non capivo minimamente la sua reazione. “Non dire sciocchezze.” Feci un passo in avanti verso di lei, ma quando tentai di prenderla per un braccio, inaspettatamente lei mi evitò e si sporse in avanti per spingermi via, con tutta la forza che aveva e una rabbia che non conoscevo. Futile ovviamente, pesavo molto più di lei e a malapena mi sbilanciò. 
“Ragazza, che ti prende? Come ti permetti?” Aggiunsi stupito. Ci fu un attimo di silenzio come se anche lei se stesse rendendo conto di cosa avesse fatto, con la coda dell’occhio vidi Nembo che era tentato di allontanarsi in cerca di pastura, lo chiamai per nome e lui scosse la testa deluso e si fermò.
Quando rigirai lo sguardo su Filinna mi accorsi che il suo viso finalmente si era sciolto e mostrava dei sentimenti, purtroppo nei suoi occhi vedevo la rabbia, la rabbia con cui aveva provato a spingermi via.
“Cosa mi prende? Come mi permetto? Scusatemi, padrone, che voi siete venuto a prendermi, scusatemi.” L’ironia nella voce. “Ma siamo soli qui, preferite forse che vi chiami per nome?” Fece una pausa e la vidi inghiottire saliva. “Voi mi avete lasciata, Marco, padrone, mi avete lasciata e mi hanno mandato qui. Avete badato più al benessere dei vostri cani e dei vostri cavalli, che del mio, di loro si sono presi cura, vero? Loro li chiamate per nome, non ragazza… Quante belle parole mi avete detto, padrone, ma io sono stata mandata qui, mio Padre è stato scacciato pure lui, Ora mi venite a prendere. Dite”
Delle ragioni le aveva, non mi sentivo di negarlo, ma il tono non era della Filinna che conoscevo.
“Smettila, Filinna, sono qui per riportarti a casa. Non comportarti così.”
“Comportarmi…” Fece un passo senza di me, fissandomi con aria di sfida. “Cosa volete da me? Cosa cercate padrone?” Le mani scesero ad allisciarsi la gonna. “Siete proprio sicuro?” Le labbra si piegarono in un sorriso spiacevole. “Lo sapete che mio fratello è rimasto zoppo? Gli hanno rotto una gamba. Sapete perché?” Credo che risposi, ma lei continuò come se non avessi parlato. “Voleva difendermi, Marco. Sapete lo scarto della tavola del padrone, interessava a molti. Se vi siete dilettato con me… dovevo essere speciale.” Allargò le braccia in un gesto di ironica rassegnazione.
“Filinna, io…” 
“Ma state tranquillo, Padrone, il sovraintendente ha punito tutti.” Mi si avvicinò a un passo. “E ha deciso che qualcosa che doveva essere così raffinato era solo per lui. Ora, ho da preoccuparmi solo di lui e di star lontana da sua moglie, se no mi toccano i lavori peggiori.” Mi toccò la stoffa della tunica. “Siete sicuro, che mi rivolete, padrone? Magari non vado più bene per voi, ormai.” C’era sfida nei suoi occhi.
“Smettila, Filinna.”
“Se, no, Padrone? Mi mandate ancora più lontano, o magari mi fate frustare di nuovo?” Rise amara e io la percossi. Schiaffeggiai la stessa guancia che avevo appeno accarezzato. Portò la mano là dove avevo colpito e rialzò la testa.
“Grazie, Padrone.” Fece ridendo. “Volete darmene un altro? Vi disturba tanto sapere cosa mi avete fatto? Vi sono davvero mancata?” Quegli occhi che mi erano sempre sembrati così dolci le brillarono, selvaggi. La vidi chinarsi e afferrare la sua gonna tirandosela su fino alla vita. “Quanto padrone?” Mi si strinse addosso, strusciandosi. “Quanto vi sono mancata?” Una mano inizio a cercarmi infilandosi nella mia di tunica
“Ti ho detto di smetterla!” La colpii di nuovo, ma lei insistette. La afferrai per le braccia per fermarla, lei provo a colpirmi a sua volta e io la strinsi per immobilizzarla. Lottava, provando a divincolarsi, la spinsi contro un albero per impedirle di liberarsi e lei si premette contro di me. 
“Ferma.” Mi sentii ringhiare, lei emise un sospiro strozzato e vidi nei suoi occhi la soddisfazione di avermi spinto a tanto. Quando le lascia andare le braccia mi cinsero il collo, mentre la schiacciavo, ancora e ancora, contro l’albero.
Le sue gambe cedettero e mi trascinò a terra con lei. Sentivo il suo ansimare nel mio orecchio e lo strano verso che io stesso stavo facendo. Mi si aggrappava addosso, come un naufrago si aggrappa a un rottame di sballottato dalla tempesta.
Poi la sentii irrigidirsi e dimenarsi, l’ansimare si trasformò in un lamento ritmico e le mani si fecero pugni, mentre mi colpiva vanamente tentando di liberarsi.
Quando finii, mi abbandonai, pesando su di lei. Rimanemmo un attimo in quella posizione. Poi lei si contorse per liberarsi da sotto di me. La lasciai andare e mi rivoltai sulla schiena disteso sull’erba. Lei si rialzò, la vidi guardarsi intorno e strappò un ciuffo di erba alta che usò per pulirsi. 
Su una delle cosce si vedevano dei graffi e un grosso livido, che iniziava giusto ad apparire, ma non era il solo, ce ne erano altri, più vecchi, non miei. Si accorse del mio sguardo e ancora piegata mi fissò, il viso di nuovo senza espressione.
“Grazie Padrone.” Si rialzò, gettò via l’erba e iniziò a sistemarsi la gonna. “Mi siete mancato. Oh tanto, mi siete mancato. Grazie di essere venuto.” Si scosse le vesti per ripulirle sommariamente, raddrizzò la stola e infine afferrò l’anfora che aveva lasciato. Mi riguardò per un lungo attimo, le labbra che si piegavano e tremavano. “Grazie di essere venuto, per me.” Ripeté e mi accorsi che le guance erano bagnate. “Cos’altro volete da me? Lasciatemi stare, per favore.”
La guardai andare via, non si voltò. Poi chiusi gli occhi. Ero venuto per rivederla sorridere, volevo solo quello, non per questo. Cosa era successo. Cosa avevo fatto?

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Mi riscossi solo sentendo il fiato umido e dolce di fieno di Nembo che mi stava annusando e brucando i capelli come se fosse preoccupato del mio stato.
Aprii gli occhi e gli accarezzai le froge, parlandogli dolcemente per rassicurarlo, e mi alzai, era vero lui: lo chiamavo sempre per nome e pure nelle terre più remote mi ero assicurato del suo benessere. 
Nembo mi odorò un’ultima volta, poi come se si fosse realmente tranquillizzato del mio stato, fece un passo indietro e tornò a brucare.
Rimasi seduto un attimo, poi mi rialzai e, come aveva fatto Filinna, mi ripulii le vesti con le mani, scuotendole. Poi ripresi le redini di Nembo ignorando la sua delusione di non poter continuare pacificamente a brucare e gli risalii in groppa.

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“Il Padrone! C’è il Padrone!” Venni riconosciuto appena mi presentati all’ingresso dell’aia della villa rustica. Senza bisogno di altro. Un servo corse a prendermi le redini, un altro mi aiuto a smontare mettendosi a carponi. Un monello scalzo partì di corsa verso uno degli edifici chiamando a gran voce il nome del Sovraintendente.
Non ce ne era bisogno e sulla porta quasi si scontro con lui che stava accorrendo a sua volta, l’uomo scostò il ragazzino con un gesto brusco e mi venne incontro.
“Padrone, benvenuto!” fece allargando le braccia in un gesto di saluto. “Benvenuto! Cosa vi porta qui?  Felice giorno!”
Il sorriso che mostrava mal si accordava con l’ansia che traspariva dallo sguardo. Una visita imprevista dei proprietari di solito celava un qualche problema o una qualche urgenza.
In qualunque caso, era una interferenza sul suo dominio assoluto della tenuta, magari temeva avessi scoperto qualche magagna e ruberia. 
Un sovraintendente onesto è come un cavallo alato: esiste solo nelle leggende. Di sicuro anche quel liberto grassottello, dai capelli unti e le mani grosse che avevo di fronte, provvedeva ad arricchirsi a mio discapito. Di certa gente, bisogna accontentarsi che siano capaci e che curino bene le proprietà, che scremino qualcosa è inevitabile, basta che non ti impoveriscano. Lui non era peggio o meglio della media.
Quando mi fu vicino ricambiai il suo saluto e lui mi invitò con grande premura a seguirlo dentro, a mettermi seduto e riposarmi, mentre comandava di andare a chiamare sua moglie e, di corsa, in fretta, di portare qualcosa per il padrone, da mangiare e da rinfrescarsi.
Mi ritrovai seduto con lui a un tavolo, mentre la moglie, una donnetta ormai più larga che alta, subito arrivata prendeva il controllo delle operazioni provvedendo a farmi accumulare davanti olive, pane, formaggi e vino buono. Anche lei sorrideva con la bocca, ma non nascondeva l’apprensione nello sguardo.
“Padrone.” Riprese. “Cosa vi porta qui cosa posso fare per voi?”
Decisi di andare al punto, inutile cincischiare
“Sono qui per Filinna, la figlia di Cleone.”
Lo vidi impallidire, mentre la moglie si immobilizzava e, avrei scommesso, lo fulminava con lo sguardo.
“Certo… so chi è padrone…” Mandò giù una mezza coppa di vino, come a cercare il coraggio. “Cosa volete da lei?” Nella voce c’era paura, vidi con la coda dell’occhio la donna che ci guardava, sospesa, in attesa della mia risposta.
“Ho deciso…” Cosa avevo deciso? Cosa fare di lei? “Ho deciso che va mandata a Baia, Suo padre è lì. Lei, e il fratello, ovviamente. So che è qui anche lui.” Non stetti neppure spiegare perché mi fossi disturbato ad arrivare fin lì per una cosa simile. Sapeva, sapeva bene e aveva il terrore che sapessi di lui.
Lui assentì in fretta. “Sì padrone. Sono qui entrambi… ehm Erasto è un gran bravo ragazzo, sa leggere e scrivere, e io lo uso per tenere i conti e registri…. Lei lavora… ehm nei campi… e… e con mia moglie in casa. Una brava ragazza.” Si rivolse a lei, come a chiedere sostegno ed ebbe in cambio uno sguardo furioso, ma la donna rispose:
“Si certo, padrone, una brava ragazza, lavoratrice.” 
Immaginai l’ostilità di quella donna verso Filinna, la sentivo chiaramente, e immaginavo cosa fosse stato dover sopportare le attenzioni di lui… La sua punizione, per di più probabilmente immeritata, era stata addirittura più dura di quello che avessi immaginato.
Osservai lui, stava sudando adesso, seppure fosse tutt’altro che freddo. Lo raggelava la paura di essersi spinto troppo in là e che io sapessi e che potessi essere geloso e mi volessi vendicare che aveva messo le mani su qualcosa a cui, era evidente, ancora tenevo. 
Poteva stare tranquillo. Mi ributtava sapere quello che poteva aver fatto a Filinna, ma non ero né geloso, né arrabbiato con lui.
Non ero un gallo la cui unica preoccupazione sono le chiocce con cui razzola nell’aia e la rabbia, c’era rabbia dentro di me, era rivolta a me stesso. Ero forse migliore di lui? Oggi avevo dimostrato di non esserlo, quello che aveva fatto lui, lo avevo fatto anch’io. Se qualcuno aveva sbagliato ero io non curandomi di lei e abbandonandola a questo. Sarebbe stato facile sfogare la mia rabbia su di loro, ma non sarebbe stato giusto.
Sorrisi, per rassicurarlo, e mi feci versare altro vino e passai a chiedere di vedere i conti.
Ecco come le cose cambiano a seconda dei punti di vista e della situazione: quello che in un’altra occasione lo avrebbe sgomentato, ora gli dava sollievo.

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Capitolo 5
*** Saturnalia ***


Tornai a Roma da solo.
Mia madre e mio zio non dissero niente, nessun commento arrivò alle mie orecchie, anche se sicuramente lei si informò, nei giorni seguenti, di quello che avevo fatto e deciso.
Sabra iniziò a gironzolarmi intorno, pur senza il coraggio di chiedere espressamente, fui io, per evitare che zio lo notasse e la rimproverasse di nuovo, che quando ebbi l’occasione la presi da parte e le dissi che avevo dato ordine che Filinna e il fratello fossero mandati a Baia, dai genitori. Lei sorrise, mi baciò. Non le dissi altro.
Catualda non era invece così riservato e la mia faccia corrucciata, e la quantità di vino che ingurgitavo, chiamava una spiegazione. Chiese cos’era successo se per caso non l’avessi ritrovata.
Per un attimo pensai di chiuderla, mentendogli e confermando la sua ipotesi, ma non la feci.
“L’ho trovata, ma… ma non è andata come pensavo, non era quella di una volta.”
“Non era più bella?”
Lo fissai. “No, era.. era bella.” Si lo era. “Come sempre, ma è cambiata. Non… adesso mi odia, amico. Mi dà la colpa delle sue sfortune.”  
Lui si soffermò pensoso e poi risolse i dubbi con un’altra sorsata di vino.
“Le donne ti odiano spesso, poi ti amano, poi ti ri odiano… poi ti riamano, sono donne. E spesso se ti dicono che ti odiano è perché ti amano.” Si fermò a riflettere “Non so. Credo. Sono ubriaco anch’io, Marco.” Su questo ultimo punto non avevo dubbio, sugli altri ne avevo qualcuno in più.
Dopo alcuni giorni, Eryx mi consegnò una lettera di Cleone.
Filinna e il fratello erano arrivati a Baia e lui mi ringraziava. Era una lettera di quelle da conservare: io ero un novello Orfeo, ma assai più saggio, che aveva salvato dagli inferi la sua Euridice. Filinna era Persefone, che con il suo ritorno aveva fatto rinascere la vita anche in lui, padre dolente, e riportato la primavera nella sua esistenza. Insomma, non poteva scriverla meglio e in maniera più commovente, ma non mi diceva nulla di quello che avrei voluto sapere. Come stava? Era felice? Era tornata a sorridere? La guardavo e in quelle righe non trovavo risposta.

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E risposta certo non ero destinato ad averla presto. 
Impegni molto più gravosi mi attendevano, nelle settimane successive dovetti presentare il rapporto di Palpellio al Senato e successivamente all’Imperatore. Rimpiansi di non aver al mio fianco Cleone per rivedere e affinare i miei discorsi, ma tutto andò comunque per il meglio e i miei interventi vennero apprezzati e l’Imperatore mi invito persino ad un'altra cena.
Anche Catualda era presente, come ospite dell’Imperatore, dopo essere stato presentato risiedeva ufficialmente a palazzo, anche se continuavo tenergli a disposizione una camera nella mia casa e probabilmente passava più noti da me che a palazzo. Rimanemmo seduti a tavola fino a tardi, tempestati dalle domande di Claudio Cesare che voleva sapere tutto dei costumi e della storia del popolo dei Quadi e dei loro vicini.
Una discussione piacevolissima e istruttiva. Claudio Cesare era veramente una persona piacevole e in quelle occasioni private estremamente alla mano. 
A fine serata, Cataulda si spinse a canzonarmi amichevolmente proponendo che dovessi aggiungermi il soprannome di Ermonduro, visto il mio successo nella spedizione punitiva che avevo guidato, il buon vino servito aveva talmente rallegrato tutti che l’Imperatore stette al gioco e si disse disposto a proporlo al senato e alla mia faccia sbigottita si fece grosse risate a cui, una volta capito che mi prendevano in giro, mi unii di buon cuore.
Alcune settimane dopo mi candidai alla carica di Questore e visto il favore di cui godevo e dell’appoggio dei numerosi amici della mia famiglia fui eletto senza eccessivi problemi. Il primo passo del cursus honorum che non comportava solo di aver ottenuto l’onore di un Littore che mi scortava in giro per la città, ma soprattutto l’ammissione al Senato. Ero tornato al posto che era stato di mio padre.
Difficile per me descrivere le emozioni che provai il giorno in cui entrai per la prima volta in quell’aula non come visitatore od ospite, ma come un pater conscriptus, accolto dai saluti e dagli abbracci degli amici e dei colleghi di mio padre.
Avrei voluto avere lui e mio fratello accanto quel giorno, ma, forse, c’erano anche se non li vedevo e di sicuro mi sorridevano.

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Scesi a Baia solo al ritorno della buona stagione, in compagnia di un gruppo di amici fidati, tra cui Catualda, che si era ormai inserito benissimo nella vita sociale di Roma ed era un ospite ricercato ovunque per cene e ricevimenti (e anche per i dopo cena, i suoi occhi azzurri avevano spezzato il cuore di svariate fanciulle e matrone). 
Era la prima volta che andavo realmente lì, l’ultima volta prima di partire per la Pannonia la mia era stata una semplice visita per valutare il completamento dei lavori e la casa era ancora quasi vuota, disabitata, ma questa volta era differente. 
La villa era stata preparata nei minimi dettagli per accogliere me e i miei ospiti. Ogni superficie era stata lavata e lucidata, i giardini erano al massimo del loro splendore, sembrava avessero lustrato persino le foglie degli alberi e i petali dei fiori, la servitù preparata, rivestita di nuovo e dall’aria sveglia e attenta.
Feci la figura migliore che fosse possibile e fare e ne fui più che lieto.
La vera gioia fu però re incontrare Cleone. Era lì al mio arrivo, si teneva un po’ discosto, sul lato tra le colonne dell’atrio, ma quando lo vidi non potei trattenermi dal salutarlo appositamente e vidi che ricambiava i miei sentimenti.
Una volta sistemato, mentre gli ospiti si sistemavano a loro volta e si riposavano, andai io a trovarlo, tanto immaginavo dove lo avrei trovato: in biblioteca. Così fu.
La biblioteca occupava una grande stanza, illuminata da due grandi finestre. Il pavimento era decorato con semplici motivi geometrici, ma chiaro per dare ancora più luminosità, che contrastava magnificamente con le pareti coperte dagli scaffali in legno scuro su cui erano riposti custoditi i volumi.
Al centro un grosso tavolo con sedie comodo e due leggii, a cui trovai Cleone e suo figlio Erasto. Non c’era Filinna, non saprei dire se fui deluso o sollevato che non fosse lì. Volevo vederla e sapere come stava e lo temevo allo stesso tempo, come mi avrebbe guardato?
Cleone si balzò immediatamente in piedi:
“Padrone!” Mi venne incontro e abbracciando con un gesto tutto quello che ci circondava. “Vedete che meraviglia?”
Gli sorrisi, era vero, era una biblioteca come poche, un vero gioiello. “Si vede che ce la tua mano, caro Cleone. Veramente stupenda. Non vedo l’ora di potermi rilassare in questo posto, leggendo i volumi che hai preparato.”
Si fermò a un passo di distanza da me. Anche il figlio aveva alzato il viso dal rotolo su cui stava lavorando e ci fissava.
“Li abbiamo preparati per voi. Io vi devo ancora ringraziare per avermi ridato i miei figli.”
Scossi la testa e non era falsa modestia.
“Ho solo rimediato a un mio errore, Cleone, è stata anche colpa mia se è successo quello che è successo.”
“No, padrone, vi prego, non ci sono colpe. Voi mi avete ridato la gioia padrone, ridandomi i miei figli.”
Capii che Cleone, era in imbarazzo, temeva di criticare mia madre di fronte a me e questa era d’altra parte una cosa che volevo evitare di sicuro anch’io. Cambiai argomento e mi rivolsi al figlio.
“Erasto, ho saputo della tua gamba. Spero vada meglio. Se c’è qualcosa che si possa fare, fatemi sapere.” 
“Grazie Padrone, va meglio, per quello che è possibile. Zoppico, ma non è grave.” Minimizzo, malamente. “Per il lavoro e la vita che faccio non è grave.”
Annuii. “Sono sicuro che sei di valido aiuto.”
“Lo è, lo è.” Confermò Cleone. “Ed è la luce che illumina il mio futuro. Ha trovato anche una brava ragazza, qui a Baia.”
Mai visto gli occhi di Cleone brillare così. “Ne sono felice e chi è?” 
“Una delle serve delle cucine, Padrone. Magari avrò dei nipoti.” Quasi risi vedendo quando contrastava l’espressione di aspettativa di Cleone con il viso imbarazzato del figlio.
“Buono a sapersi, farò sapere al sovrintendente che non devono essere separati in nessuno caso. Sono felice per voi!” Ripetei. Poi finalmente riuscii a trovare il coraggio di domandare: “Spero che anche FiIinna stia bene.”
“È rinata anche lei, padrone, rifiorita. La incontrerete di sicuro nei prossimi giorni.” Poi aggiunse lo sguardo triste. “È stata molto dura per lei, Padrone. Voi me l’avete salvata.” Nell’espressione meravigliata che assunse il suo viso, vidi riflessa, la smorfia che improvvisamente distorse il mio. Non so come riuscii a dire.
“Sono contento che stia bene anche lei.”
Fu poi lui con la sua proverbiale delicatezza a cambiare argomento.
“Ma venite a vedere come ho organizzato i volumi Padrone, ci ho a lungo studiato.”
Lo seguii ascoltando le sue spiegazioni: i libri che aveva fatto copiare fuori o che aveva copiato lui stesso (e riconobbi anche la grafia di Filinna), come lì aveva organizzati e classificati. Alla fine, mi parlò anche di come stesse scrivendo un poema che cantava la vittoria di Pompeo su Mitridate e io mi offrii di pubblicarlo non appena lo avesse giudicato pronto. Di sicuro sarebbe stato un successo.

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Filinna la rividi quella sera. Era stata organizzata una cena, una cosa piccola per me e gli ospiti che avevano viaggiato con me. Una cosa semplice: io con cinque ospiti, il grande triclinio era praticamente vuoto, ma reso piacevole dalle discussioni amichevoli e dal buon cibo.
Filinna serviva come coppiere, gli occhi nocciola chiaro belli come ricordavo, era cambiata da quel giorno in cui era venuta ad accendere le lucerne nello studio piccolo, ma era forse persino più bella: per servire il vino ad una cena con degli ospiti importanti aveva indossato, o le avevano fatto indossare, una delle tuniche migliori, stoffa pregiata, le braccia nude e abbastanza corta da mostrare le caviglie, i capelli neri sciolti sulle spalle nude dalla pelle soffice e liscia. I fianchi che premevano la stoffa modellandola.
Girava intorno alla tavola, alternandosi tra gli ospiti mescendo il vino, con movimenti eleganti, non appena vedeva le coppe svuotarsi.
La servitù che serve a tavola è di solito invisibile ai commensali, non si bada a loro, se non per rivolgergli un gesto o al massimo un cenno del capo, ma quando lei si avvicinava trovavo difficile rimanere e indifferente e fingere naturalezza. Mi accorgevo che più tentavo di dissimulare più mi irrigidivo e quando si piegava a riempirmi la coppa, mi sembrava di sentire il suo profumo o il tocco di una sua ciocca di capelli che mi sfiorava il viso.
Non tardai a rendermi conto che anche per lei era lo stesso, per servirmi si fermava impercettibilmente più indietro rispetto a quanto avrebbe dovuto, evitando di guardarmi, anche lei rigida e innaturale, una volta la mano le tremò e finsi di ignorare una goccia di vino cadde sulla tavola. 
Era triste tutto ciò, al ricordo di quando invece alla mia presenza sorrideva e rideva e ridevo anch’io.
Fu Catualda a darmi il colpo di grazia, sporgendosi verso di me, vinto dalla curiosità e sussurrandomi complice.
“Ma è lei la ragazza di Nomentum?” Annuii senza parlare. “Ah! Una delizia, avevi ragione a rivolerla.”
E dopo di ciò non mi restò altro conforto che la coppa di vino, con il risultato che me la trovai ancora più spesso accanto a me a riempirmi la coppa.
Non era comunque l’unico a bere anche gli altri seguirono l’esempio mio e continuammo a dar fondo alle coppe pur non potendo, nessuno di noi, nemmeno sfiorare le intoccabili vette raggiunte da Catualda in materia di vino.
Stavo discutendo con Lucio, uno di quelle profonde discussioni che si fanno da ubriachi, resa ancora più solenne dagli estemporanei interventi di Catualda, quando da abissali profondità mi accorsi che qualcuno mi chiamava in lontananza. Alzai gli occhi per trovarmi di fronte a Gaio a nemmeno due braccia da me che si stava sgolando per richiamare la mia attenzione, ridendo, anche lui con il viso arrossato dal troppo vino.
“Posso prenderla per stanotte?” Alla fine, mi resi conto che mi stava domandando e mi accorsi che FIlinna era in piedi accanto a lui, alzai lo sguardo e per la prima volta nella serata, la prima volta da tanto tempo i nostri occhi si incrociarono e il suo sguardo era di rassegnazione e accusa. Il viso immobile e inespressivo mentre Gaio la teneva per un braccio, scuotendola leggermente, come per mostrarmela ed essere sicuro che capissi di chi parlasse, come se non conoscessi i miei schiavi domestici.
Sentii lo stomaco chiudersi, vedevo le dita delle mani di Gaio che le stringevano forte il braccio affondando nella carne. La testa mi rimbombò mentre Gaio rideva, colpito dalla mia espressione vacua, pensando che fosse semplicemente quella di un ubriaco.
Chiusi gli occhi, come sperando di cancellare quell’immagine, ma quando li riaprii era sempre li. Lei immobile, silente con lo sguardo triste fisso su di me. Scossi la testa come tentassi di recuperare lucidità.
E gliela negai.
Filinna abbassò gli occhi, un sospiro di sollievo, fin troppo visibile, non appena Gaio le lasciò andare il braccio.
Gaio guardo lei e poi me, adesso era la sua meraviglia quella dell’ubriaco, e mi chiese il perché.
Gli risposi, semplicemente, la verità: 
“Perché mi è cara.”
Lucio scoppiò in una risata omerica e gli altri lo seguirono. Ero il solito animo delicato e sensibile, un vero stoico, incorreggibile, lo sapevano tutti quelli che mi volevano bene. 
Sarebbe tutto finito là, se non ci fosse stato Catualda, sempre esotico coi suoi baffi biondi, gli occhi chiari e la pelle pallida, ma la toga come un romano, ormai non la toglieva più da quando gli era stata concessa la cittadinanza.
Catualda continuava a parlare poco, la sua forma e la sua grammatica erano già molto migliorate, ma si vergognava ancora del suo accento barbarico. Parlava poco, ma osservava molto ed era un occhio fine, bisogna riconoscerlo. 
Aveva riso anche lui, forte e tonante, come ci si aspetta, in fin dei conti, che debba ridere un Germano delle foreste del nord, poi aveva alzato la sua coppa e aveva chiamato un brindisi alla mia fortuna, perché era chiaro, diceva, che se a me era cara la ragazza, anch’io ero caro a lei visto come mi aveva guardato per tutta la serata.
Solo il rinato tumulto di risate che era seguito aveva impedito ai miei ospiti di notare come era arrossita Filinna e di come mi aveva guardato, facendo arrossire me questa volta. Quanto l’avevo trovata desiderabile in quel momento.

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La casa era ancora silenziosa, tutti i miei ospiti erano ancora profondamente addormentati, quando uscii dal bagno freddo, rinato dopo la serata di stravizi, uscii nel giardino e mi diressi al mio angolo preferito: una delle panche in pietra sotto il pergolato, quella con la miglior vista sul golfo.
L’aria della mattina era fresca, frizzante di brezza marina, ma il sole già si faceva sentire sulla pelle.
Mi sedetti sulla pietra ancora fredda, accanto a me un’anfora di acqua fresca (niente di meglio che bere molta acqua fresca e pura di sorgente se la sera prima si è ecceduti col vino, come avevo fatto) e un piccolo rotolo di Lucrezio.
Sotto di me si estendeva in tutta la sua magnificenza la vista del golfo di Napoli fino a Capri, di fronte a me, una tavola blu scura punteggiata dalle vele di alcune barche da pesca e da tre splendide triremi che stavano giusto lasciando Pozzuoli.
Sorrisi a me stesso, gioioso di tanta bellezza e srotolai Lucrezio.
“Quando la necessità ci porta a usare parole sincere, cade la maschera e si vede l'uomo”
Qui mi cadde l’occhio e qui mi fermai e non riuscii ad andare avanti. La mia serenità improvvisamente scomparsa. Inutile prendersela con Lucrezio se le sue parole erano così appropriate e se mi colpivano come una freccia dritta nel petto. Lo scopo della poesia è proprio esplorare l’animo umano, a volte di aprirti il cuore come una lama affilata per farti vedere cosa contiene.
Ero stato sincero ieri sera?
La maschera, quello che portavo, era caduta.
Non riuscivo ad essere indifferente a Filinna. Non potevo. Quella era la verità
Ora che dovevo fare? Lasciar svanire quel momento di sincerità?
Sarebbe stato saggio, ma io non sono mai stato saggio.
Sotto di me, uno degli schiavi stava curando le siepi, lento e svogliato, malgrado la mia presenza, non lo conoscevo doveva essere uno dei rustici preso da una delle proprietà agricole per curare i giardini. Quando lo chiamai comunque corse. Svelto e rispettoso.
“Conosci Filinna la figlia di Cleone? Valla a chiamare che le voglio parlare.”
Non dovetti aspettare a lungo, solo il tempo di una coppa di acqua e le triremi uscite dal porto erano ancora visibili ancora ben al di là dal doppiare Capo Miseno. Sentii i passi leggeri di Filinna e sollevai lo sguardo, adesso aveva, i capelli di nuovo raccolti nella sua solita treccia e la tunica più spessa e larga le copriva le braccia e le caviglie, una stola con un motivo geometrico sulle spalle.
“Mi avete fatto chiamare, padrone?”
Non mi guardava, il viso era quello inespressivo, una maschera di cera, tipico degli schiavi di quando hanno paura di qualcosa.
“Si, grazie. Non ti preoccupare non hai fatto nulla di male. Volevo solo parlarti.” Le dissi e per un attimo sollevò lo sguardo, come ad interrogarmi. Parlare è una parola che doveva suonarle strana, non avevo detto che dovevo ordinarle qualcosa o anche solo chiederle qualcosa.
Eravamo soli nel giardino, la guardai, immobile di fronte a me, in piedi, le mani unite di fronte al ventre. Piccole e delicate.
Mi schiarii la gola e istintivamente passai al greco, la lingua più vera tra tutte le lingue.
“Filinna, ti ho chiamato per chiederti scusa.” Ecco questo, provocò una reazione, la vidi come sussultare, gli occhi dardeggiarono sul mio viso, meravigliata da parole tanto inusitate. “Sento di dovermi scusare con te, per quello che è successo. Ho mancato verso di te, quando sono partito per la Pannonia, non ho badato a te, come ti avevo promesso, e ti ho lasciato esposta all’antipatia di mia madre per te e per tuo padre. Non doveva punirti ingiustamente e cacciarti dalla casa di Roma per mandarti a Nomentum. Mi dispiace è stata colpa mia.” Non aveva riabbassato lo sguardo, mi guardava fisso, la bocca stretta, dubbiosa, forse preoccupata per quello che stava succedendo. “E mi devo scusare anche per quello che ti ho fatto io… io quella mattina, quando venni a cercarti.” Ecco quello che mi usciva dalla bocca: una vergogna dopo tutti gli anni a studiare retorica, dialettica e oratoria, ma erano frasi difficili, perché sono vergogne che sentivo veramente. “Ti chiedo scusa sinceramente, Filinna, e spero che vorrai perdonarmi.”
Solo quando smisi di parlare vidi il suo viso diventare vivo, la bocca le tremò. 
“Mi avete portato via da là, padrone, mi avete portato me e mio fratello qui a Baia, dove ci sono i miei genitori, Sto bene e nessuno ci maltratta. Avete rimediato ai torti che avevo subito.” Si interruppe un attimo. “Vi devo essere grata, siete un buon padrone. Sono serena adesso. Come riconoscere la luce se non si è avuto, almeno una volta, l’esperienza del buio?”
Non potei fare a meno di sorridere, degna figlia di Cleone, che citava gli stoici come un oratore nell’agorà mentre io incespicavo nelle parole, come un ignorante. 
“Filinna, sei sempre colta e intelligente quanto sei bella, ma oltre a dire che mi sei grata, puoi perdonarmi per il male che ti ho fatto e ho per quello da cui non ti ho protetto.”
Abbassò la testa e un ciuffo di capelli le calò sulla fronte, oscurandole gli occhi, per un attimo ebbi paura che mi rispondesse di no, che non poteva perdonarmi il male che le avevo fatto.
“Padrone, come posso non perdonarvi, come potrei negarvelo?”
“Grazie. Mi dai sollievo.” Calò un silenzio di attesa che interruppi con la prima cosa che mi venne in mente per avere una scusa per trattenerla. “Va tutto bene qui a Baia, ti serve qualcosa?”
“No, padrone, ho tutto quello che mi serve.” Poi aggiunse. “Avevate ragione è un posto bellissimo.”
Sorrise. 
Quanto mi era mancato quel sorriso. Come potevo negarlo? 
“Mi sei mancata, Filinna, per davvero.” Dissi all’improvviso. Sincero. Ci guardammo negli occhi, entrambi tentando di capire l’animo dell’altro. “Verresti da me stanotte? Vorrei passarla con te.”
Distolse lo sguardo, smise di sorridere.
“Siete il mio padrone.”
Scossi la testa.
“No, non sto dicendo questo. Non sto dicendo questo…. Dovresti conoscermi un poco. Non devi farlo… non è un ordine, o altro, non voglio farti altro male… solo se vuoi venire.” 
Impiego un lunghissimo istante per rispondermi. “Mi siete mancato anche voi…” La vidi piegare le labbra di nuovo un piccolo sorriso. “Era bello, padrone, era un periodo felice.” Poi la vidi rabbuiarsi. “Io non credo che potrà tornare.” Aveva ragione. 
“No, non si può tornare indietro,” ammisi l’ovvio, “ma mi manchi davvero.”
Il sorriso le tornò. “Io verrò.”
Ci sorridemmo a vicenda, le presi una mano e me la tirai vicino.
“Siediti un attimo.”
Esitò e vidi nei suoi occhi brillare di allegra malizia.
“No, padrone. Devo andare a lavorare.” Quanto volte avevo sentito quella frase dalle sue labbra. 
“Nessuno ti rimprovererà. Visto che ti sto trattenendo io.” Le diedi la risposta che le davo tutte le volte.
“Lo so.” Il sorriso si allargò e vidi i suoi occhi ridere “Ma lo saprei io di non aver fatto quello che dovevo.” Fece un passo indietro liberando la mano. “Ci vedremo stasera.” Fece una pausa “Quando mi chiamerete.”
Se ne andò senza chiedere il permesso, lasciandomi solo. Il passo era svelto ed elastico, la schiena dritta e la testa alta. Si voltò solo un attimo per guardarmi in tralice, con un piccolo sorriso.

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Quando rientrai a Roma, lasciai Filinna a Baia. Era la soluzione migliore. Per lei sarebbe stato un dolore per lei essere di nuovo separata dai genitori e dal fratello, era chiaro. Soprattutto riportarla a Roma sarebbe stata una critica implicita, ma chiara, all’operato di mia madre. Non volevo assolutamente offenderla in questa maniera e soprattutto non volevo aprire una contesa con lei, in un contrasto simile sarebbe stata sicuramente Filinna a pagarne le conseguenze. Mi sembrava di averle fatto già fin troppo male. 
A Roma avevo ben altri impegni che mi avrebbero lasciato ben poco tempo per rilassarmi con lei. L’incarico di Questore, le sedute del Senato la gestione dei miei affari erano sufficienti a riempire le mie giornate e buona parte delle mie serate. 
Inoltre, non voglio far sembrare di essere diventato un intimo dell’Imperatore, ma di certo in quel periodo venivo molto considerato da lui e gradiva spesso la mia compagnia. Il che mi portava al centro dell’interesse pubblico se non altro come possibile canale di contatto per ottenere favori o visibilità.
La mia non era una posizione comoda però. Mi era fin troppo chiaro che a corte c’era qualcosa strano in corso e mi sembrava proprio che al centro di tutto fosse l’Imperatrice, Valeria Messalina, e l’Imperatore ne sembrava totalmente inconsapevole.
Rimasi a lungo perplesso su cosa fare e come comportarmi, pensai a lungo all’affermazione di mia madre che i nostri sono tempi per sopravvivere non per essere retti. In più dovevo tener conto dei nostri legami di parentela con Valeria Messalina. Ovviamente dopo tanti tentennamenti e numerose notti insonni (e sì lì rimpiansi di non avere Filinna accanto) feci quello che avrebbe fatto mio padre e tentai di avvisare l’Imperatore, seppur con tatto e diplomazia, che stava succedendo qualcosa di strano.
Non mi diede retta, anzi mi accorsi che lasciava appositamente cadere il discorso, rifiutando di parlarne e cambiando argomento. Mi arresi, e passai le settimane successive ancora più insonne, temendo di averlo offeso e di essere uscito dal suo favore. Per poi spaventarmi ancora di più quando mi accorsi che sembrava che tra noi nulla fosse cambiato. Non capivo cosa stesse succedendo.
Poi quando successe quello che successe e quella sciocca di mia cugina tentò di deporre Claudio Cesare e far nominare Imperatore il suo amante e finì giustiziata, scoprii che l’essermi comportato rettamente era stata la mossa giusta. L’imperatore lungi dal ritenermi complice o legato a Valeria Messalina (e molti caddero in disgrazia o peggio), mi ringrazio per essere stato tra i primi ad avere avuto il coraggio di avvertirlo e rinnovò il suo favore verso di me.
Filinna, dunque, la incontravo a Baia, nei momenti in cui potevo rilassarmi, e non mentirò negando che spesso trovavo ragioni per lasciare Roma più spesso di quanto avrei dovuto.
Filinna era molto cambiata, in una maniera che devo dire non trovavo sgradevole. Era diventata più assertiva. Il suo comportamento era sempre irreprensibile e non potrei neppure accennare ad una mancanza di rispetto, ma, in privato, mi trattava senza nessuna remissività. Prima questo si limitava alle nostre discussioni più intellettuali, in cui le concedevo ampio margine di libertà, ma per il resto la sua soggezione nei miei confronti era stata quasi esagerata. Ora era scomparsa. Affrontava il mondo e me con coraggio a testa alta.
Era diventata una sfida e il suo sorriso una ricompensa da guadagnare.
Non mi dispiaceva.

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Quell’anno passai i Saturnalia a Baia. Dicembre non è la stagione più bella, neppure lì: il cielo è spesso carico di pioggia e le acque del golfo da azzurre diventano grigie e cupe, scure come il vino, omeriche, ma avevo convinto mia madre e zio e unirsi a me per sfuggire alla confusione di Roma in occasione delle festività.
Il giorno della festa partecipai ai riti in onore del dio Saturno nel tempio di Pozzuoli e poi rientrai alla villa per partecipare alla festa della servitù.
Ho molte conoscenze che partecipano attivamente alla festa: indossano una toga colorata e si mischiano agli schiavi della casa per folleggiare con loro in libertà. Io preferisco evitare, non perché mi consideri superiore, ma perché trovo che alla fine la presenza del padrone rovini la loro di festa.
Per una sera e una notte possono festeggiare liberamente godersi la vita come non possono nel resto dell’anno e parlare apertamente. Per quanto la festa renda tutti uguali e sarebbe stato assai disdicevole portare malevolenza per qualcosa successo durante quelle ore, è evidente che in presenza dei padroni la servitù non si sentirà mai pienamente a suo agio. 
Così, mi comporto come mio padre: faccio organizzare un grande banchetto per tutta la servitù, con vino buono in abbondanza e piatti ricchi e speciali per tutti e io mi limito ad essere presente a inizio serata, indosso il pileo (il cappello in feltro dei liberti), mi trucco il volto e aspetto che venga estratto a sorte il principe della serata che guiderà il banchetto e per una notte sarà il padrone di casa (e in quell’occasione fu Aristo, il fratello d Filinna). Gli servo le prime portate e gli faccio da coppiere, dopo di che mi ritiro nella mia camera dove di solito mi sono fatto portare una cena fredda e mi attende una buona lettura.
In quell’occasione mi trattenni un po’ più a lungo, mentre mia madre, come suo solito, distribuiva piccoli regali ai bambini e alle donne, e zio, truccato come un teatrante di provincia cantava dei versi da lui composti accompagnato dalla cetra, malgrado la bella voce non sia tra le sue doti, o forse proprio per questo.
Feci persino una partita a dadi con Aristo e il Sovraintendete della casa, e persi, prima di seguire mia madre e ritirarmi. 
Quella sera in verità la lettura non era né buona né piacevole, dovevo rivedere tutta una serie di documenti del senato e dare gli ultimi ritocchi a una orazione, che pur avendola scritta io stesso, trovavo già indigesta e noiosa.
Non riuscivo a concentrarmi e fissavo la finestra ascoltando il rumoreggiare della festa della folla su cui spiccava la bella voce di Sabra che cantava, quando senti grattare alla porta e al mio comando di entrare mi trovai di fronte Filinna.
Indossava una tunica decorata con strisce di stoffa colorata, i capelli sciolti, le guance colorate di carminio e gli occhi truccati, in cima alla testa il pileo di un rosso vivo era inclinato in precario equilibrio. Era decisamente alticcia. Non che ci volesse molto con lei, visto che non beveva mai.
A quella vista non potei fare a meno di ridere, ma lei mi interruppe subito, rimproverandomi simulando una voce cupa e severa.
“Come ti sei permesso, servo, di lasciare il banchetto senza il permesso della tua padrona?”
Senza smettere di ridere non potei fare a meno di stare al gioco, nello spirito dei Saturnalia, scattai in piedi afferrando il mio di pileo rimettendomelo in testa. 
“Scusate, mia signora.” Feci. “Non l’ho fatto apposta.”
Lei fece un passo avanti. Poi, provando a imitare il mio tono di voce e le espressioni di quando ero arrabbiato.
“Chissà quante scuse stupide tenterai di appiopparmi!”
“O tante, Signora, tante. Mi bastano per tutta la notte!” Cantilenai. Tentando di imitare il servo furbo di tante tipico di tante commedie. “Mettetevi comoda e fatemi dire!” e le offrii la sedia in cui ero seduto io un attimo prima. Lei si sedette con movimenti composti e studiati e si allisciò la gonna con affettazione.
“Del vino, mia signora?” Offrii porgendole la coppa.
“Adesso provi a lusingarmi, ma lo so che sei pigro e assai disobbediente.”
Me la porse e io gliela riempii.
“Dovresti tenere la schiena più dritta quando servi il vino. Sai? La tua posizione è tutt’altro che elegante.” Mi rimproverò.
“Oh, scusatemi mia signora! Perdonate questo povero servitore.”
“Saresti un pessimo schiavo lo sai?”
“Mi volete punire?”
“Lo meriteresti.”
“Datemi una occasione per farmi perdonare!” E chinandomi veloce le rubai un bacio.
“Brigante!” strillò con perfetta finta indignazione. “Brigante! Quale tremenda punizione dovrò darti adesso!”
Provando a imitare la sua capacità di recitazione a quel punto mi gettai in ginocchio ai suoi piedi.
“O Padrona! Abbiate misericordia, cosa volete farmi?” Forse esagerai un po’ perché lei scoppiò a ridere e io la seguii.
Quando smettemmo, mi accarezzò il viso.
“Come servo saresti davvero tremendo. Chissà quante volte saresti punito.”
“Tu invece come padrona di casa saresti perfetta.”
Scosse la testa.
“Non mi prendere in giro. No, non saprei proprio cosa fare o cosa ordinare. A te viene naturale, sai cosa gli altri devono fare e sai come e quando ordinarlo. Io non so come fai, io non sarei capace.” Si chinò e ci scappò un altro bacio.
“Non oserai mai prendere in giro la mia padrona.” Riscoppiammo a ridere. Poi ripresi, vedendola indecisa. “Cosa desidera mia signora? Che le serva la cena?”
Rimasi in silenzio, sempre in ginocchio, con lei che mi osservava dall’alto. Poi la bocca si inarcò in un sorriso, c’era malizia.
“No, ho altre idee.”

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Quando alla fine Filinna terminò di mostrarmi le sue idee, rimanemmo abbracciati avvolti nella coperta. Era stata una nottata sorprendente devo dire. Di sicuro aveva contribuito che avesse bevuto, ma poi mi ero ricordato di averla vista, prima della cena, appartarsi con Sabra e chiacchierare e ridere fitto, il che mi lasciava intuire da dove fossero venute molte delle idee che avevamo appena sperimentato. Molto di quello che mi aveva chiesto di fare, di farle, era decisamente una novità. Giochi decisamente piacevoli, ma ammissibili solo ai Saturnalia e di cui certo era meglio non raccontare.
Non dormivamo, di solito a quel punto iniziavamo qualche sfida letteraria, la più tipica era che uno di noi recitasse i primi due versi di qualcosa e l’altro dovesse continuare, se indovinava era lui a iniziare e all’altro toccava completare. Era difficile batterla a quel gioco, ma quando ci provai mi zittì e si rimise appoggiata a me in silenzio. Le accarezzai il braccio, risalendo fino alla mano, riscendendo mi fermai sul polso lo stesso dove aveva infilato il disgraziato bracciale che le avevo regalato e alla fine glielo chiesi.
“Che fine ha fatto? Chi te lo ha preso?” Era chiaro di cosa parlavo.
“Nessuno lo ha preso. L’ho dato via io.” Rispose senza guardarmi. Poi spiegò “Quando ruppero la gamba a mio fratello. La frattura era brutta e lui soffriva… alla villa c’era solo un vecchio ubriacone incapace che curava noi schiavi…. Lo diedi alla moglie del sovraintendente e lei in cambio fece chiamare un medico vero da Nomentum. Ancora non mi odiava a quel tempo…”
“Quel bracciale valeva molto di più di un medico.”
“Quel bracciale valeva molto meno della vita di mio fratello.” Mi tacitò, con una decisione che mi sorprese e forse in altre occasioni persino offeso. Erano i Saturnalia, aveva bevuto ed era molto maturata Filinna. Ed aveva ragione.
“Mi dispiace… hai ragione, ho detto una sciocchezza.” Ammisi. “Vorrei farti un regalo. Qualcosa che ti piaccia.”
“Un rotolo di stoffa buona, un vestito usato di tua madre. Qualcosa del genere.”
“Volevo farti qualcosa di diverso. Qualcosa che abbia valore e che duri. Qualcosa che ti rimanga anche per il futuro.”
“Perché? Perché vi preoccupate di queste cose?”
“Perché ti voglio bene Filinna.” Dissi. Si alzò di scatto a fissarmi e le accarezzai il viso. “Ti voglio bene e mi preoccupo del tuo futuro. Vorrei che avessi qualcosa. Tu lo sai che prima o poi affrancherò tuo padre e dovresti sapere che lo farò anche con te, basta che lo chiedi.” Poi affrontai un argomento difficile, ma che mi assillava e che ritenevo fosse importante che chiarissi. “Immagino che vorrai avere una famiglia e che sicuramente avrai dei corteggiatori, no? Se mai ci fosse qualcuno… ecco ci fosse qualcuno… basta che me lo dici e ti affrancherò all’istante. E anche lui, se è di mia proprietà, o potrei addirittura comprarlo per liberarlo se non è di casa. Vorrei che tu fossi felice e stessi bene, al sicuro.”
Mi sembrava un’offerta estremamente generosa, ma non vidi nessuna reazione da parte sua. Rimase immobile senza parlare. Nel buio ci scrutavamo a vicenda, incapace di leggere i visi l’uno dell’altra. 
“Non c’è nessuno, Marco.”
“Impossibile che nessuno ti corteggi Filinna.”
“Nessuno che mi interessi.” Precisò
“Non vuoi costruirti una famiglia? Qualcosa per il futuro?” L’età era quella giusta per lei. 
Non mi rispose, m diede due pacche sul petto, quasi degli schiaffi e si alzò.
“Non voglio parlare di questo. Torno alla festa.”
“Rimani ancora un po’” La riafferrai e la ritrascinai sul letto.
“No lasciami.” Si divincolò. “Voglio andare.”
Si vestì in fretta mentre la fissavo dal letto. Era pensierosa, l’occhio lontano.
Uscendo si fermò sulla porta. “Per questa volta sei riuscito a farti perdonare.” E se ne andò

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La settimana successiva, mi cambiò la vita.
Nel tardo pomeriggio rientrò da una visita a casa di conoscenti e si affacciò nel tablinio dove stavo lavorando.
“Per favore Marco, raggiungimi in stanza. Dobbiamo parlare. Credo di averti finalmente trovato una moglie adatta.”

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“Giunia Minore.” Mi annunciò, quando la raggiunsi. “Conosci il padre, sicuramente.”
Ovviamente lo conoscevo, era un senatore assai influente, la nonna era Giulia Minore, figlia di Augusto, una parentela con la casa imperiale ci stava sempre bene.
“È una buona famiglia.” Il che per mia madre indicava che avevano almeno 5 o 6 secoli di antenati conosciuti. “Ed è un ottima alleanza.” Non potevo che darle ragione. “La loro situazione la conosci, no?” Annuii provando a riportare alla memoria, ma venni ovviamente preceduto. “Il figlio maggiore è morto in oriente e il secondo è uno sfaticato incapace e immorale. Il marito della prima figlia non è un gran che neppure lui, anche se di famiglia discreta” Ovvero con non più di un paio di secoli di storia alle spalle. “Se manovri bene sarai tu il suo erede politico. Un’ottima possibilità.”
Sapevo di dovermi sposare, era normale e scontato, era l’età giusta per mettere su famiglia. Anzi tra un po’l’avrei addirittura passata. Persino l’Imperatore, che ci teneva molto che noi patrizi ci sposassimo e avessimo figli, me lo aveva più volte fatto notare, cordialmente, ma con decisione.
“Ci hai già parlato?”
“Certo, la madre è entusiasta. Una donna di sani principi che sa come gestire la famiglia e ha partorito ben sei figli sani senza problemi. Se la figlia ha preso da lei, sarà perfetta.” 
Poi mi venne incontro per fugarmi altri dubbi.
“L’ho vista, lei, è una gran bella ragazza. Non avrai di chi essere scontento. Poi la madre mi ha confessato che legge molto e si diletta persino a scrivere. Il che a te potrebbe non dispiacere.”
Dovetti sorridere al tono con cui lo disse. Il fatto che si interessasse a qualcosa che non fosse la casa e i vestiti di sicuro mi sollevava. Per l’aspetto… non mi fidavo poi molto di mia madre, ma non avevo scelta. Almeno pensavo.
“C’è un solo problema, anche se a un figlio folle come te potrebbe trovarlo piacevole.” La guardai interrogativo, “A quanto pare la ragazza ha un carattere, e il padre l’ha così tanto viziata da averle concesso di poter rifiutare di sposarsi. Così dopo domani saremo invitati a una festa da loro e la conoscerai. Comportati in maniera appropriata e vedi di fare una buona impressione. È un partito da non perdere."

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Capitolo 6
*** Flemmum ***


La festa era ufficialmente destinata a festeggiare un qualche anniversario di una qualche vittoria militare di un qualche antenato dei Giunii ed era, a mio parere, un po’ troppo sopra le righe: con ballerine e giocolieri che si mischiavano tra gli invitati, ma era affollata del meglio della società romana. 
Incontrai più di un collega senatore e più di un amico, tra cui l’immancabile Catualda. Era oggetto dello sfrontato, svergognato interesse di una matrona, sposata, di cui non farò il nome per iscritto. Lo sciagurato sembrava gioirne e di essere più che disposto ad approfittarne in maniera indecente. Gli volevo troppo bene per rimproverarlo, ma di sicuro abbastanza per prenderlo da parte e consigliargli quantomeno una maggiore discrezione. Se a Roma non avrebbe rischiato di essere affrontato da un marito geloso con la spada in pugno, come accadeva nella sua terra natia, c’erano altri metodi, addirittura sotterranei, ma non meno  letali con cui un marito tradito poteva vendicarsi in questa città.
Con mio sollievo seguì il mio consiglio e anche la sua aspirante seduttrice si acquietò, se poi si rincontrarono in altre occasione e in altro luogo più riservato non ne ho idea e non ho mai indagato.
Giunia, ero lì per lei, in fin dei conti, mi fu presentata dalla sua stessa madre ad inizio festa, quando venimmo ricevuti. Fu una normale introduzione, senza lasciar intendere che ci fosse altro che la normale cortesia verso degli ospiti considerati, ma la maniera in cui ci squadrammo fu tutt’altro che normale. Il suo sguardo fu così insistente e penetrante da costringere sua madre a intervenire e allontanarla con una scusa. Lei ubbidì, con un sorriso malizioso sulle labbra.
Aveva ragione mia madre, ammisi con un sospiro di sollievo, era decisamente bella.
Era sorprendentemente alta, forse solo un palmo o due meno di me, un fisico statuario dalle forme piacenti. Le folte sopracciglia evidenziavano dei begli occhi neri con un esotico taglio allungato, i capelli erano anche loro neri e folti composti in una raffinata acconciatura che valorizzava la forma del viso, la bocca era grande, con magnifiche labbra tinte di un rosso seducente, che si aprivano su denti bianchi e dritti. Il trucco e le vesti sembravano usciti dai versi di un libro di Ovidio talmente erano curati e perfetti in ogni dettaglio. Anche i suoi modi erano eleganti e intenzionalmente studiati, si muoveva con cura e grazia
A prima vista sembrava sicuramente interessante e sicuramente attraente.
Certo in una donna e specialmente in una moglie non bisognerebbe cercare solo questo. Sempre per restare Ovidio:

Prima sit in vobis morum tutela, puellae:
ingenio facies conciliante placet.
Certus amor morum est: formam populabitur aetas,
Et placitus rugis vultus aratus erit;
Tempus erit quo vos speculum vidisse pigebit
Et veniet rugis altera causa dolor.
Sufficit et longum probitas perdurat in aevum,
perque suos annos hinc bene pendet amor.

Ragazze, badate che la forma del vostro carattere sia la vostra prima preoccupazione: il
vostro aspetto è piacevole quando la vostra disposizione è accattivante.
L'amore per il buon carattere è sicuro: l'età devasterà la tua bellezza,
e un viso piacevole sarà solcato dalle rughe;
Ci sarà un momento in cui addolorerà guardarti allo specchio
e il dolore diventerà un'altra fonte di rughe.
L'onestà getta le basi e dura a lungo,
e da questo l'amore dipende nel corso dei suoi anni


Crudele, ma vero. Intanto però un dubbio me lo ero levato: non era spiacevole all’occhio.
La persi di vista durante la festa, io facevo il mio dovere di ospite mischiandomi alla folla e godendomi l’intrattenimento e lei era trattenuta dai suoi doveri di figlia dell’anfitrione. Il che mi addolorava, avrei voluto avere modo di scambiarci almeno qualche parola, ma a quanto pare condividevamo lo stesso desiderio perché fu lei, all’improvviso a comparirmi accanto.
Era ormai piuttosto avanti per la serata e mi ero seduto un po’ in disparte. Ero distratto a guardare un giocoliere e la sua particolare abilità di equilibrista, quando dal nulla sentii una presenza accanto a me.
“Marco Valerio.” E me la trovai a pochi centimetri seduta sul mio stesso divanetto. Aveva una voce piena, armonica e gradevole.
“Giunia Silana.” Le risposi, altrettanto formale e senza molto fantasia, colto di sorpresa da quella apparizione. Fu lei a venirmi in aiuto e a mandare avanti la conversazione.
“Vi state divertendo? Vi piace la festa?”
“Molto. Veramente organizzata con gusto, ottima compagnia oltretutto, vi sono grato per l’invito.” Poi aggiunsi. “E sono contento di avere avuto l’occasione di conoscervi.”
Pensavo di aver gettato un amo, pure con una certa galanteria, atto ad avviare la conversazione su una direzione meno formale, magari per conoscerci un attimo meglio, ma venni sorpreso, di nuovo, dalla sua reazione.
“Così dovremmo sposarci.” Disse, senza mezzi termini. “Diventare marito e moglie. Voi cosa ne pensate? Vi interesso?”
Rimasi meravigliato da tanta spavalda franchezza, poi mi ricordai cosa avesse detto mia madre: che aveva “un carattere”. Non mi dispiaceva neppure quello. Decisi di ricambiare la sincerità.
“Giunia Silana, che siete bella, non sarà certo io il primo ad avervelo detto. Immagino. Lo sapete. Per il resto non vi conosco, non ancora almeno. E invece io come vi sembro a questa prima vista?”
“Non siete spiacevole.” Rispose con un sorriso furbo.
“Beh, è un inizio di complimento. Poteva andare peggio!” Risi di cuore e lei si unì a me.
“Qui c’è troppa confusione per parlare.” Disse con voce cospiratoria.  “Seguitemi in un posto più tranquillo. Vedete quella porta a destra? Vicino alla statua del fauno?” Annuii. “Entrate lì, a destra c’è un'altra porta che dà sul giardino interno, attraversatelo. Io sarò dietro il pergolato. Aspettate un attimo prima di seguirmi. Non fatevi notare.”
Detto questo se ne andò, la seguii con lo sguardo: si mischiò un attimo con la folla, salutò un paio di persone, scambiò una battuta con un'altra ragazza, poi prese la porta che mi aveva indicato lanciandomi uno sguardo complice prima di scomparire.
Decisamente “un carattere” non sapevo se essere intrigato o spaventato di potermela trovare come moglie.
Dopo un po’ anch’io mi alzai. Vagai un attimo tra le persone e poi mi infilai per la stessa porta e seguii le sue indicazioni. La trovai dove mi aveva detto, sotto il pergolato alla luce della luna
“Vieni Marco, si sta meglio qui, si può parlare con calma.” Disse, in un greco elegante con un bel accento.
“Ti piace la calma Giunia?” Chiesi nella stessa lingua, e con lo stesso tono informale.
I suoi occhi mi studiarono. “No, non sempre, mi piace stare tra la gente, ma a volte la calma serve. A te Marco?”
Assentii. “Mi piace la calma. Ci si riflette meglio, ma mi piace la compagnia, la buona compagnia.” 
Rise piano. “Mi sembra di capire che tu la preferisca, ma a me le feste piacciono.”
“Che festa sia dunque.” Dissi. “In buona compagnia.”
“In buona compagnia.” Acconsentì. “Mio padre dice che sei colto e di buone letture. Cosa ti piace?”
“Molte cose diverse, amo Tacito o Pollione, trovo Cicerone illuminante, o Zenone…. Sono decisamente favorevole allo Stoicismo. Per diletto leggo i lirici greci quanto posso. Mi piace il teatro se ben messo in scena. Abbiamo un’ottima biblioteca sia qui a Roma, nella villa a Baia.”
“Mio padre me lo diceva che avete una biblioteca molto ben curata.”
“Sono lieto… spero che abbia parlato bene di me anche su altro.”
“Sì.” Concesse. “Sembra avere stima di te.”
“Bene.”
“Mio padre, io lo so, a volte sbaglia a giudicare.”
Venia dignus est humanus error - Ogni errore umano merita perdono.” Gli risposi citando, in latino, Livio.
Cuiusvis hominis est errare: nullius nisi insipientis, - È cosa comune l'errare; è solo dell'ignorante perseverare nell'errore.” Ribatte lei, con Cicerone
“Siete severa con vostro padre, sono sicuro che non sbaglia così spesso. E spero che non sbagli su di me soprattutto.” Tornai al greco
“No, hai ragione, sono stata esagerata per il gusto della citazione…. Ma ti piace Cicerone hai detto… Su di te mi concedo ancora il dubbio.” Disse, ma sorridendo.
“Io ti ho detto cosa mi piace leggere, dimmi invece cosa piace a te.”
“I lirici greci, anche a me, molto. E poi adoro Omero. Il mio preferito è Apollonio Rodio, però.”
“E allora sarai felice sapere che le Argonautiche sono in biblioteca sia a Roma che a Baia.” Questo mi guadagnò un sorriso, ma pacato e controllato, non luminoso come quelli di Filinna, mi trovai improvvisamente a paragonare. “Scrivi anche?”
“Qualche verso, tu?”
Scossi la testa. 
“Ormai solo i miei discorsi… da ragazzo componevo anch’io, almeno pensavo… ma in verità non ho talento. Meglio che mi limiti alla prosa. Di cattivi poeti ce ne sono già troppi.” E questo le strappò una risata, anche lei ben dosata, non travolgente come quelle di Sabra.
“Come ti chiamano a casa?”
“Marco. Semplicemente. Perché? Te?”
“Mio padre mi ha sempre soprannominato Nausicaa, perché, da piccola, amavo l’Odissea.” Sorrisi all’idea.
“Beh… mi morderò la lingua e non dirò quello che sicuramente tutti dicono.”
Questa volta rise di vero cuore e recitò lei, per me, i versi del VI canto di Omero con le parole che Ulisse dedica a Nausicaa.

“εἰ μέν τις θεός ἐσσι, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν,
Ἀρτέμιδί σε ἐγώ γε, Διὸς κούρῃ μεγάλοιο,
εἶδός τε μέγεθός τε φυήν τ' ἄγχιστα ἐΐσκω·
εἰ δέ τίς ἐσσι βροτῶν, οἳ ἐπὶ χθονὶ ναιετάουσι,
τρὶς μάκαρες μὲν σοί γε πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ
τρὶς μάκαρες δὲ κασίγνητοι· μάλα πού σφισι θυμὸς   
αἰὲν ἐϋφροσύνῃσιν ἰαίνεται εἵνεκα σεῖο,
λευσσόντων τοιόνδε θάλος χορὸν εἰσοιχνεῦσαν.

Se un dio tu sei, fra quanti nel vasto cielo hanno loro dimora,
ad Artemide, la figlia del grande Zeus, ti voglio assomigliare,
per la bellezza e la grandezza della tua figura.
Ma se mortale tu sei, fra quanti abitano sulla terra,
tre volte beati il padre tuo e l’augusta tua madre, e beati
tre volte i fratelli, ché per te il loro cuore sempre si scalda
di gioia, quando vedono che un tale germoglio
fa il suo ingresso nel campo di danza.”


Si interruppe e io completai con gli ultimi due versi, sempre sorridendo:

“κεῖνος δ' αὖ περὶ κῆρι μακάρτατος ἔξοχον ἄλλων,
ὅς κέ σ' ἐέδνοισι βρίσας οἶκόνδ' ἀγάγηται.

Ma anche, e più di tutti, nel suo cuore, beato, quell’uomo
che carica di doni ti porterà nella sua casa.”


Lei scoppio di nuovo a ridere schernendosi. “Appunto, ma io sono molto diversa dalla Nausicaa incontrata da Ulisse.”
“Così come io non sono Ulisse, assolutamente no, credo di essere molto meno avventuroso, e saggio. E quindi, dimmi, in cosa saresti così diversa? Non pensi di poter rendere felice tuo marito?”
“Chi lo sa forse… Ti prendi un rischio Marco Valerio.”
“La vita è un rischio, Giunia o Nausicaa, ma dimmi in cos’altro sei diversa?”
“Non sono assolutamente come Nausicaa, Marco. Lei taceva, io invece mi prendo quello che voglio e lo dichiaro.”
Prima che potessi fare qualunque cosa, anche solo meravigliarmi, mi spinse con forza contro il muro e mi baciò.
Fu un bacio lungo, non appassionato, ma sensuale. Di certo non c’era solo istinto, ma anche esperienza e stranamente la cosa, invece di scandalizzarmi, mi incuriosì e stimolò. Le sue mani mi accarezzavano il petto. Ricambiai, io con foga, Mi piaceva il suo profumo era raffinato e leggero, così diverso da quello forte ed esotico di Sabra o da quello fresco e pulito di FiIinna.
Le sue mani si fecero più ardite e le mie la imitarono, ma quando le cinsi i seni, erano grandi, sodi e pesanti, allora si staccò di colpo da me, ansimante.
“Adesso basta, Marco Valerio.” Disse scostandosi. “Di più lo avrai solo dopo avermi sposata.”
Mi leccai le labbra guardandola, infiammato dal desiderio, ma recuperai il controllo e tentati d far tornare il mio respiro normale.
“Allora pensi di sposarmi?” Chiesi.
“È una possibilità, ci rifletterò.” Si capiva che mentiva e che aveva deciso. “Credo che con te si possa parlare… e anche altro.” Sorrideva impudente. “Adesso torniamo di là. Separati. Prima che si noti troppo la nostra assenza.”
“L’avranno notata.” Ribattei. Alla festa c’erano occhi attenti.
La mia affermazione la fece ridere. “Di sicuro, un po’ di pettegolezzi sono divertenti da scatenare, ma non troppi! Adesso torniamo.”
Quando fece per allontanarsi, però la riafferrai e con una mano sulla nuca riportai le sue labbra sulle mie. Ci baciamo di nuovo e solo dopo la lasciai.
“Arrivederci Giunia Silana. A presto.”

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Come previsto la nostra assenza era stata notata e i pettegolezzi iniziarono subito a correre per la città suscitando il fastidio di mia madre. Pensare che ero stato proprio io a fare la morale a Catualda consigliandogli discrezione!
Non fu, però, un grosso problema: era evidente a tutti che sotto c’era qualcos’altro, qualcosa di grosso, e proprio quando, dopo pochi giorni, l’interesse della città raggiunse il suo apice, uscì voce di un nostro imminente fidanzamento con somma soddisfazione di tutti.
In verità, ci volle ancora più di un mese prima di arrivare a un formale fidanzamento, agli sponsalia, ma come d’uso iniziai a frequentare la casa di quella che sarebbe diventata la mia fidanzata. Erano come da prassi visite estremamente formali, sempre in presenza di un accompagnatore, ma almeno avevamo occasione di parlarci e conoscerci un po’ di più.
Giunia era pacata e profonda, amava circondarsi di una affascinante aura di mistero e segreti non detti, era intelligente, non vi erano dubbi, colta, anche se forse un po’ troppo superficialmente alla moda, era sensata e con piedi per terra, con gioia di mia madre, apprezzava i lussi e i piaceri della vita ma senza esagerazioni. 
Faceva del suo meglio per sedurmi, a volte i nostri accompagnatori si concedevano appositi attimi di distrazione. Non era rovente e sensuale come Sabra, o dolce e amabile come Filinna, ma era un mistero da esplorare. Una sfida. In effetti, mia madre sembrava aver fatto una scelta accurata, la vedevo al mio fianco come moglie, padrona della mia casa e come madre della prossima generazione dei Valeri.
Gli amici, soprattutto Catualda, non mancarono di congratularsi e festeggiare e ovviamente prendermi bonariamente in giro, senza nascondere un po’ di invidia (Lucio in particolare non aveva poi avuto molta fortuna con la scelta della sua sposa e non appena lei era rimasta incinta lui aveva trovato occasione per starle lontano). Da parte mia approfittai ampiamente della loro collaborazione. Nessun corteggiamento è veramente completo senza dei versi dedicati alla fanciulla, ma, come accennato, la mia scarsa vena poetica era giunta alla fine già negli anni dell’adolescenza, e così i versi che le dedicai vennero scritti, diciamo, in collaborazione, a più mani. Quello che uscì era sicuramente meglio di quello che avrei potuto fare da solo.
A casa, Eryx, iniziò, con il beneplacito di mia madre, a presentarmi tutta una serie di progetti di ristrutturazione di un lato del peristilio interno allo scopo di creare un alloggio moderno e confortevole per noi sposi. 
La cerimonia di fidanzamento venne organizzata in una delle tenute della famiglia di Giunia fuori Roma e nell’organizzazione si riconosceva la sua mano e che aveva iniziato a capirmi. La cerimonia degli Sponsalia era ormai da molte generazioni decaduta fino ad essere poco più una festa e un banchetto. Giunia conoscendo le mie idee (mi prendeva in giro definendo il mio stoicismo “deliziosamente antiquato”) aveva invece fatto in modo di mantenere per la nostra cerimonia quanto bastava delle antiche tradizioni per darmi soddisfazione: organizzò. con la massima eleganza e senza nessuna pretenziosità, la libagione per gli dei, il sacrificio di un vitello e un venerando aruspice per leggerne le interiora (e la sua divinazione fu molto favorevole alle nostre nozze). 
La festa che ne seguì, in quell’elegante ambiente agreste, culminata con me che le infilavo l’anello di fidanzamento sotto un cielo azzurro e terso, fu una giornata memorabile che fu ricordata per parecchio tempo a Roma. 

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Tornai a Baia due settimane dopo il fidanzamento. Il momento era di quanto più inadatto ci potesse essere: la stagione era ormai troppo avanzata e il clima decisamente pessimo, grigio e piovoso, e lo stesso viaggio da Ostia a Pozzuoli fu terribile a causa del mare mosso. 
La ragione ufficiale, o meglio ufficiosa, fu che era necessario per mettere al sicuro Catualda. Come era scontato che prima o poi succedesse aveva osato con la donna sbagliata, non la matrona della festa, un'altra, e adesso era decisamente meglio che non si facesse vedere a Roma per un certo periodo.
Per il momento si sarebbe fermato da me a Baia, poi ci avrebbe pensato Gaio, che se lo sarebbe portato in Sicilia dove aveva avuto un incarico al seguito di un suo zio che era Propretore della provincia.
Parlo di ragione ufficiosa, perché non voglio nascondere che per me il viaggio a Baia aveva anche un altro scopo. La notizia del mio fidanzamento era ovviamente arrivata anche lì veloce come il vento, Cleone ne aveva subito approfittato per mandarmi un biglietto di auguri e dei versi dedicata a Giunia (che erano stati estremamente graditi) e io onestamente volevo aver modo di parlare con Filinna, per rassicurarla. Dirle che non sarebbe stata abbandonata e che le mie promesse verso di lei rimanevano sempre valide, non volevo che temesse di finire un’altra volta in disgrazia e che io mi potessi dimenticare di badare a lei.
Contavo di parlare la sera del mio arrivo, ma fu nel primo pomeriggio che ebbi occasione di incrociarla, stavo passeggiando in giardino con Catualda, approfittando di un raro momento di sole, quando lui mi diede di gomito con aria cospiratoria.
“Amico mio, siamo spiati da una graziosissima creatura.” Fece indicandomi Filinna, che faceva, finta, si capiva, di essere occupata dietro una delle siepi. Poi alzò a voce rivolgendosi a lei. “Ehi ragazza, vieni qui, avvicinati che il tuo padrone è qui.” Per poi aggiungere, fortunatamente a voce più bassa. “Che vorrebbe anche lui parlarti, ma è troppo timido per chiamarti.”
“Catualda, smettila!”
Non raccolse ovviamente il mio consiglio e quando lei ci si avvicinò, decisamente intimorita dall’essere stata chiamata a gran voce in quella maniera, continuò a dare spettacolo. “Che occhi che hai fanciulla, io sono barbaro e non saprei lodarli con versi appropriati, spero che almeno il tuo sciagurato padrone li canti in maniera adeguata!”
“Smettila di prenderla in giro!” Intervenni in sua difesa, vedendola ondeggiare tra il confuso e l’impaurito. Ogni cosa fuori dall’usuale può spaventare uno schiavo che deve rimettersi esclusivamente alla benevolenza altrui. 
“Ma io sto prendendo in giro te, mica questa splendore di donna.” Si rivolse a lei con aria confidenziale. “In verità ho scoperto che sa citare bene, ma di suo con le rime è poco portato, lo sapevi?”
Filinna guardava me cercando indicazioni e aiuto, non sapendo come rispondere e comportarsi di fronte ad un atteggiamento simile. Catualda sembrava invitarla alla confidenza, ma tutta la sua esperienza le diceva quanto potesse essere sbagliato trattare con troppa familiarità qualcuno di rango superiore, sono sempre situazioni in cui è troppo facile compiere errori pericolosi.
“Catualda.” Ripetei. “Smettila, la stai mettendo a disagio.” Catualda a certe situazioni doveva ancora abituarsi.
“Mi succede con le belle donne.” Ribatté spavaldo. “Ma questa è tutta tua, amico, si vede. Ora vi lascio, che direi volete essere lasciati soli.” Le rivolse un saluto, come se fosse una dama di rango, e se ne andò lasciandoci soli e perplessi.
“Mi dispiace, che ti abbia spaventato.” Le feci. “Non è cattivo e non ce l’aveva con te, scherzava con me.”
“Cosa voleva?” Mi chiese ancora innervosita.
“Da te niente, Filinna, ce l’aveva con me.” Poi aggiunsi. “Non c’era nulla di cui preoccuparsi, c’ero io” 
“Sì Padrone.” Rispose senza guardarmi. 
“Ci sono io.” La provai a tranquillizzare. Annuì senza parlare, cambiai argomento. “Come stai? Tutto bene qui a Baia?”
Finalmente alzò gli occhi.
“Sì, tutto bene, stiamo tutti bene.” 
Le nuvole coprirono il pallido sole invernale, privandoci del poco tepore che ci concedeva. Una folata di maestrale ci colpì e la vidi incurvare le spalle e stringersi la stola in intorno al corpo.
“Vieni.” Le feci. “Andiamo in un posto più riparato.”
Mi seguì, risalendo una delle scalinate che portavano alle terrazze superiore, a metà salita per aiutarla, le tesi, senza pensare, la mano e quasi sussultati quando lei la prese, sentendo la sua stretta. Raggiungemmo una parte riparata del giardino. Un angolo pensato appositamente per essere battuto dal sole, ma riparato dai venti nelle giornate fredde. La posizione lo privava della vista sul golfo, ma lo rendeva intimo e riservato.
“Ho saputo di Aristo.” Dissi parlando del fratello. Girando intorno a quello che volevo dirle senza decidermi. “Tuo padre mi ha scritto che aspetta un figlio.”
“Sì, una grande notizia. Siamo tutti molto felici per loro.” 
Malgrado la presunta felicità, non sorrideva e mi decisi di provare ad andare al punto. Perché mi sentivo sempre un vigliacco di fronte a lei? Con uno sforzo decisi di affrontare l’argomento senza altre esitazioni.
“Hai saputo, la mia di notizia, vero? Che mi sono fidanzato?” 
“Sì, padrone. Ci è giunta notizia, è una cosa molto bella. Sono felice per voi.”
Gli occhi di Filinna dicevano tutto.  Ero contento che si fidasse di me abbastanza da non voler nascondere le sue emozioni, dall’altra mi dispiaceva vederla così, preoccupata o addirittura rattristata.
Sul fondo, devo essere onesto, che il mio vano amor proprio sarebbe stato forse ferito se lei avesse mostrato indifferenza.
“Volevo parlarti Filinna.” Le tenevo ancora la mano, mi accorsi, lei non me l’aveva lasciata e io l’avevo tenuta, gliela accarezzai. “Volevo dirti, che per me non cambia niente, tutto quello che ti ho sempre detto rimane valido. Tutto, baderò a te, non ti succederà niente di male, ci penserò io.” Non succederà come quando ti abbandonai partendo per la Pannonia, pensai, senza dirlo. “Sarai liberata con tuo padre, o anche prima, se vuoi, lo sai. Te lo giuro.” 
I suoi occhi erano piantati nei miei e vedevo chissà quante emozioni passarle in volto. 
“La Padrona… la nuova Padrona non ce l’avrà con me?” Si sentiva l’ansia nella sua voce.
“No, che vai a pensare, Filinna, perché mai dovrebbe? Tranquilla, ti ripeto non succederà niente di male.”
Non vedevo nessuna possibile ragione per la quale Giunia dovesse avere qualcosa contro Filinna, o, Filinna forse temeva addirittura questo, esserne gelosa? Sarebbe stato ridicolo. 
Certo però le donne alle volte possono avere reazioni imprevedibili, percui forse potevo capire le sue paure, in fin dei conti aveva già patito per le esagerazioni di mia madre 
“Filinna, hai la mia parola, non ti succederà nulla, non c’è ragione perché Giunia debba avercela con te e in caso ti proteggerò.” Le mie erano, forse, parole vane: quanti uomini avrebbero discusso o negato qualcosa alla loro novella sposa? Il pensiero mi balenò in mente e lo respinsi. Non avrei mancato alle mie promesse questa volta.
Le accarezzai il viso, per unire il mio tocco alle parole, e lei mi abbracciò all’improvviso, lasciandomi di stucco. Una simile familiarità in pubblico con la servitù era assolutamente inappropriata, mai avrei immaginato che Filinna potesse osare tanto, ma nessuno ci vedeva e capivo le sue paure. La lascia fare.
Era un abbraccio inusuale: non era quello dettato dl fuoco della passione, o quello languido che segue la soddisfazione dei desideri, era quello di chi richiede conforto, protezione, semplice affetto. Ricambiai, stringendola, godendomi il suo calore, il suo profumo e il suono del suo respiro. 
“Andrà tutto bene.” Ripetei con voce dolce
“Posso venire da te stanotte?” Mormorò.
Un’altra ragione per essere ancora più sbalordito mai prima era stata tanto diretta, mai tanto audace, ma a quanto pare era un pomeriggio pieno di sorprese.
“Certo…” E aggiunsi. “Allora il regalo che ti avevo portato te lo darò stasera.”
“Un regalo?” Si staccò da me per guardarmi.
“Un regalo, una sciocchezza.” In verità, era un bel cofanetto di legno intarsiato con una serie di strumenti, spazzole, pettini e altri ammennicoli che le donne usano per truccarsi a cui avevo aggiunto due vasetti di profumo. 
Le occhi le diventarono improvvisamente lucidi.
“Non piangere per favore. Mi rattrista.” Dissi e allungai una mano ad asciugarle una lacrima.

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Rientrai a Roma dopo pochi giorni, lasciando Catualda da solo, sarebbe rimasto a Baia alcune settimane in attesa che Gaio lo raggiungesse per continuare verso la Sicilia. Mi scrisse più di una volta nella sua permanenza, ringraziandomi e raccontandomi quanto apprezzasse la compagnia di Cleone e di Aristo che lo stavano aiutando a perfezionare la sua pronuncia latina e aiutandolo a studiare il greco.
Filinna, pure, lo aiutava, era stupefatto da quanto fosse colta, scriveva, e lodava la sua capacità come insegnante. Mi invidiava, concludeva.
Avevo passato le notti a Baia con lei. Notti venate da una malinconia agrodolce e avvertibile. Avevo passato momenti felici con lei, ma il futuro era insondabile. L’unica cosa che sapevamo di certo era che sarebbe stato diverso e che qualcosa era finito.
Alla scatola di trucchi di e profumi avevo aggiunto una raffinata stola dai colori brillanti, che avevo comprato sul posto. Glielo diedi l’ultima sera, ci si avvolse stringendoselo intorno alle spalle. Ero bella disse, ma nemmeno quello riuscì a farla sorridere.
Pianse quella notte, me ne accorsi, quando venni svegliato da un movimento, mi dava le spalle, girata sul fianco verso la finestra. Provò a resistere quando la afferrai e la avvolsi in un abbraccio, poi si arrese, la tenni stretta in silenzio finché non la sentii finalmente scivolare nel sonno.

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La malinconia o le lacrime, però non ebbero spazio dopo il mio ritorno a Roma. Se non fossero bastati i miei impegni ufficiali come Questore e Senatore e quelli più ufficiosi come confidente dell’Imperatore e futuro genero di uno dei membri più influenti del senato, venivo coinvolto sempre più nei preparativi per il matrimonio.
Era un impegno sicuramente gioioso, ma avevo sperato che se ne occupassero Giunia con l’aiuto della sorella, di sua madre e della mia, mi rendo conto che è la vana speranza di molti futuri mariti, ma in verità venivo spesso coinvolto su decisioni e scelte organizzative che mi sarei risparmiato.
Il mio futuro suocere se la rideva, attirandosi l’ira delle figlie e della moglie avvisandomi che quello era solo l’inizio, ma mi veniva spesso in soccorso, portandomi via con la scusa che servivo a lui.
Malgrado, a sentire le lamentele delle donne, sembrasse impossibile organizzare con successo tutto quanto e che la giornata rischiava di essere un disastro e che saremmo stati svergognati di fronte a tutta Roma, finalmente il giorno fatidico arrivò e fu un meraviglioso.
Come da tradizione arrivai alla casa della sposa accompagnato da un gruppo di amici in festa, i loro canti e i loro scherzi mi aiutarono a sopportare a vincere l’ansia e la tensione, e la loro presenza mi scortò tra la folla di curiosi che già si era iniziata a radunare in attesa del corteo nuziale e della scontata distribuzione di doni.
Lo stesso Imperatore, nel suo ruolo di Pontefice Massimo, ci concesse l’onore di celebrare il sacrificio propiziatorio, che venne effettuato con perfezione e senza errori o ripetizioni, chiaro segno di approvazione degli dèi. La successiva lettura delle interiora confermò la predizione di un matrimonio lungo, felice e fertile.
A quel punto, visti gli auspici favorevoli, potemmo procedere: l’atto di matrimonio venne sottoscritto e potei sollevare il velo rosso del Flemmum di Giunia scoprendo il suo volto sorridente e felice. Ci prendemmo a vicenda la mano e recitata la classica formula (Ubi tu Marcus, ego Giunia, dove sei tu Marco, sarò io Giunia), diventammo marito e moglie. 
Il corteo con cui tornammo a casa mia, la nostra casa, per il banchetto e la festa, fu un altro momento memorabile.
Preceduti dai trombettieri e dagli araldi e seguiti dal meglio delle società romana, attraversammo le strade assiepate di gente che ci festeggiava a cui venivano distribuiti dolci regali e monete. 
Quello che colpì di più la folla di sicuro fu una aggiunta al corteo, forse sopra le righe, che mia moglie aveva chiesto e ottenuto (come non potevo concedere alla mia sposa un suo desiderio): la presenza di animali esotici e meravigliosi. Escluse fiere eccessivamente pericolose (come leoni o come un orrido rinoceronte), ci seguiva comunque un notevole caravanserraglio che scatenò la frenesia della plebe e su cui spiccava una bestia eccezionale, raramente vista a Roma: un camelopardo, a volte chiamato giraffa.
Una bestia dal manto maculato e dal collo sproporzionatamente lungo, talmente alto da poter guardare dentro al primo o al secondo piano di una insula. Animale affascinante devo confessare, con piccole corna in cima alla testa e degli occhi enormi e apparentemente dolcissimi. In verità il suo guardiano mi aveva spiegato che sono animali abbastanza mansueti, ma comunque temibili e che i loro calci sono talmente pericolosi che persino i leoni se ne tengono alla larga.
Il banchetto per gli ospiti era stato organizzato nel grande atrio e con la massima attenzione su tutti i dettagli dal menu, alla servitù, fino all’intrattenimento, mentre fuori ci era stata organizzata una distribuzione di cibo e vino per la plebe.
L’Imperatore, molto sensibilmente declinò l’invito alla festa, riteneva che la sua presenza avrebbe privato noi sposi della dovuta attenzione, ma della casa imperiale parteciparono sua figlia Claudia Antonia e sua nipote Agrippina Minore sorella del defunto Caligola e che veniva ritenuta una delle donne più belle di Roma. Adesso che Claudio Cesare era vedovo, le voci e i pettegolezzi la ritenevano una potenziale candidata a diventare sua moglie
Con lei vi era suo figlio Lucio Domizio, un adolescente un po’ grassottello, a cui stava iniziando a spuntare la prima barba. Un ragazzo timido, sgraziato come molti giovani uomini di quell’età, ma intelligente e sensibile, come avevo scoperto in un paio di occasioni in cui avevo avuto modo di parlargli.
Solo a sera tardi, venne il grande momento e accompagnato dai frizzi e dai lazzi degli ospiti presi in braccio Giunia e la portai in camera. E finalmente chiusi le porte alle nostre spalle.

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I primi mesi di matrimonio, furono un periodo di gioia e felicità, senza nessun dubbio. 
Non si trattava solo della scontata attrazione fisica tra novelli sposi. Quella non mancava, naturalmente, passavamo le notti, e anche parte dei giorni, a conoscerci, a scoprirci, diventando sempre più complici.
Ci raccontavamo a vicenda e scoprii dove aveva imparato a baciare prima di conoscermi, da un cugino di cui era innamorata pazza da ragazzina, e anch’io le raccontati le mie prime esperienze con Sabra e con la mia generosa cugina.  
Giunia si dimostrava sempre più la moglie perfetta per le mie esigenze: era intelligente e spiritosa, dalla battuta pronta e allegra, a volte pungente, colta e pienamente in grado di svolgere le sue responsabilità. Mia madre aveva avuto pienamente ragione nella sua scelta e, con sollievo, vedevo che pure tra di loro andavano d’accordo, senza contrasti visibili. 
Come avevo già accennato il matrimonio aveva rafforzato la mia posizione e il mio prestigio e nessuno metteva in dubbio la mia possibilità di essere rieletto Questore o addirittura Edile, si parlava apertamente di fare una eccezione per me, malgrado non avessi l’età sufficiente.
A questo, va detto, contribuiva personalmente Giunia, che aveva una grande dote di sviluppare le giuste relazioni sociali e le cui qualità le fruttavano istintiva simpatia e amicizia.
Con la buona stagione decidemmo di partire. Giunia aveva un desiderio che mi aveva confessato fin da prima del matrimonio: visitare la Grecia, cosa, che malgrado il padre le avesse concesso di tutto, non le era mai riuscito a fare. Malgrado volessi soddisfarla, e avessi anch’io il desiderio di tornare a visitare quelle terre, in Grecia non avevamo la possibilità di andare. Gli impegni mi impedivano di allontanarmi da Roma per così tanto tempo, così le proposi in alternativa di recarci a visitare la Sicilia, saremmo stati ospiti di Gaio e suo zio, avrei reincontrato Catualda e avremmo fatto visita alla tenuta che avevamo lì, che io stesso non avevo mai visto.
Avremmo viaggiato fino a Baia insieme a mia madre e a zio che si sarebbero fermati lì per l’estate. Saremmo poi partiti per la Sicilia da Pozzuoli, con una delle triremi della flotta. Al ritorno ci saremmo fermati di nuovo a Baia, dove a quel punto ci sarebbero stati anche i suoi genitori, per poi ripartire per Roma tutti insieme.
L’idea venne apprezzata e approvata.

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Capitolo 7
*** Medea ***


Avevo ipotizzato mi mancasse solo un capitolo.... invece no.. Marco e Filinna hanno ancora parecchio da dirsi.... comunque quasi ci siamo: questo è il penultimo, mancano circa 10/12 pagine... e poi mangari una piccola appendice storica e letteraria di spiegazioni.

Grazie ancora per aver gradito, letto, seguito e commentato.

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Giunia si innamorò subito della villa di Baia. Avevano anche loro, una proprietà sul golfo, ma per sua stessa ammissione non era così bella e con una vista paragonabile. 
In verità l’accoglienza per la nuova padrone di casa era stata organizzata con la massima cura per fare la migliore delle impressioni e aveva avuto successo. 
Una volta rifrescati e riposati, la portai a fare un giro per la proprietà, accompagnati dal sovraintendente e in biblioteca venimmo accolti dal sempre impeccabile Cleone.
“Così siete voi Cleone!” Esclamò Giunia. Trattandolo con il massimo del rispetto. “Porto ancora nel cuore i versi che mi avete dedicato, vi devo ringraziare.” 
Il caro vecchio Cleone provò a schernirsi e far finta di essere modesto mentre arrossiva per il piacere, ma la mia cara moglie lo lasciò senza fiato recitandoli a memoria:

“Ὄμματ΄ ἔχεις ῞Ηρης͵ Μελίτη͵ τὰς χεῖρας Ἀθήνης͵ τοὺς μαζοὺς Παφίης͵ τὰ σφυρὰ τῆς Θέτιδος.
εὐδαίμων ὁ βλέπων σε͵ τρισόλβιος ὅστις ἀκούει͵ ἡμίθεος δ΄ ὁ φιλῶν͵ ἀθάνατος δ΄ ὁ γαμῶν.


Ha gli occhi di di Era, o Melite, le mani di Atena, il seno di Afrodite, di Teti le caviglie.
Felice chi ti vede e tre volte felice chi ti ascolta; un semidio chi ti bacia, immortale chi riuscirà ad averti.


Cleone, vi sarò sempre grata, sono dei versi splendidi e il più bel regalo che io abbia mai ricevuto.
Il mio buon Cleone si gonfiò di orgoglio come un pavone di fronte a noi, talmente emozionato da non riuscire quasi a parlare. Ci impiegò un attimo per recuperare il controllo, presentare suo figlio Aristo, con cui ci complimentammo per essere diventato da poco padre, e iniziò a mostrare a Giunia la biblioteca e soprattutto l’opera completa di Apollonio Rodio, che mi ero affrettato a far procurare. Il sorriso di mia moglie, alla vista di tutte le opere del suo autore preferito, fu tale da riempirmi il cuore.
Fu proprio in quel mentre che nella stanza entrò Filinna, si bloccò sulla porta alla nostra vista, i nostri occhi si incrociarono per un breve attimo e abbassò lo sguardo, mentre anche Giunia la guardava interrogativa.
“Mia figlia, Filinna, Padrona.” Intervenne Cleone, a giustificare la sua presenza.
“Ah la famosa Filinna.” Esclamò Giunia, per poi aggiungere a mio favore. “Ma è davvero graziosissima, proprio come diceva tua madre, Marco.” Solo dopo le si avvicinò e si rivolse direttamente a lei. “Mi hanno raccontato di quanto tu sia colta e preparata, qualcuno dice anche più di tuo padre!” 
Vidi Filinna irrigidirsi e trattenere il respiro, piegando le spalle come chi teme di essere colpito, mentre rispondeva, evitando di alzare lo sguardo: “Grazie, Padrona, sono lieta vi abbiano parlato bene di me. Ma di certo non posso essere superiore a mio padre, tutto quello che so lo devo lui.”
Il sorriso che si aprì sul volto di Giunia era sincero quando rispose. “Molto ben detto, ragazza, una risposta saggia e adeguata. Bene, sperò che non ti disturberò se ti chiederò di leggermi qualcosa la sera.”
“Sono al vostro servizio, Padrona.” 
“Ottimo.” Poi girandosi verso di noi. “Cleone sei benedetto dagli Dei per avere la gioia di due figli simili.” 
“Lo sono, Padrona, e ne sono grato agli Dei.”
“Penso passerò del tempo piacevolissimo nella biblioteca che hai creato. Mi complimento ancora. Marco, marito, adesso fammi vedere anche questi famosi giardini, ti prego.”

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Fu proprio in giardino che cenammo quella sera, all’aperto di fronte al golfo. Finito di mangiare mia madre e mio zio si ritirarono presto, stanchi per il viaggio e io e Giunia ci trattenemmo, un attimo, a chiacchierare godendoci il fresco serale.
“Ti ringrazio del pensiero di avermi fatto trovare le opere di Apollonio Rodio, Marco, lo apprezzo.” 
Disse Giunia, mentre finiva di sbocconcellare un frutto.
“Le aggiungeremo anche alla biblioteca di Roma, qui Cleone è stato molto veloce e procurarsele.” Risposi.
“Cleone sembra una persona interessante e notevole.”
“Lo è, ma non lo dire troppo di fronte a mia madre.” La avvisai. “Lei non lo sopporta.”
La vidi esitare un attimo prima di approfondire.
“Lo so, non si è trattenuta a parlare male di lui.” Si fermò un attimo per capire come potevo reagire, poi continuò. “È qualcosa legato… legato a tuo padre, vero?”
Annuii… la morte di mio padre e di mio fratello erano ricordi e pensieri dolorosi, ma aveva il diritto di sapere.
“Mia madre ritiene che sia stata anche colpa di Cleone, se mio padre si guadagnò l’inimicizia di Tiberio e Seiano. Cleone è sempre stato un idealista e avrebbe spinto mio padre in quella direzione…. Erano tempi pericolosi per avere ideali. Come dice lei erano tempi in cui bisognava pensare a sopravvivere.”
“E ha ragione? Cleone ha colpe?”
Fissai la mia coppa, cercando la verità nel vino.
“Io ero ancora un ragazzino, a quei tempi, non ho ricordi chiari che mi aiutino nel giudizio…. Ma ritengo di no. Cleone, se ha colpa, ne ha solo piccola parte. Mio padre era così di suo, alla ricerca della verità e della giustizia. Cleone era al massimo un compagno di strada non certo una guida.” Sospirai. “Se fosse, mio zio Aulo avrebbe le stesse responsabilità, anche lui segue gli stessi ideali.”
“Come te.”
Annuii. “Come me.” Le sorrisi. “Non sono uno stoico squisitamente antiquato? Come dici tu?”
Lei rise. “Si, marito mio, ma io credo che tu sia capace di essere prudente.”
Il sorriso mi si spense.
“Ho visto quello che succede a non essere prudenti… ho promesso a mia madre… che non farò lo stesso errore e penserò alla famiglia.”
“Lo farai, Marco. Lo so che lo farai… anche se ti pesa… a volte vero?”
“Vorrei vivere in tempi più fortunati. Almeno vorrei avere la fortuna di zio.. di potermi ritirare e non fare vita pubblica e pensare solo alle lettere e alla filosofia. Ma non posso.”
La vidi raddrizzarsi interessata: “E cosa faresti se potessi?”
Rimasi un attimo in silenzio pensandoci.
“Me ne andrei a Rodi.” Dissi per prima cosa.
“Rodi! E perché?”
E le raccontati del viaggio che avevo fatto da giovane in Grecia e in Asia Minore a visitare quei luoghi e della villa che avevamo a Rodi. Il posto più bello del mondo anche più di Baia. 
“Ce ne andremmo lì lontani da Roma e dal potere.” Sognai a voce alta. “Coi i nostri libri e accoglieremmo e sosterremmo filosofi e artisti e scrittori. Tu lì scriveresti versi di amore splendidi diventando una novella Saffo.”
Giunia rise allegra all’idea.
“Oh sì riscriverei la storia di Nausicaa e non farei tornare Ulisse da Penelope, ma si fermerebbe da lei conquistato e innamorato.” Mi unii alla sua risata colpito da questa idea così particolare.  “Così visiterei finalmente la Grecia.”
“Ci andremmo.” Promisi. “Prima o poi ci andremo.”
“Sarebbe un sogno!” Esclamò, mentre si ripuliva le dita, finito di mangiare. “E chi porteremo con noi? Cleone?”
“Penso che una prospettiva simile lo renderebbe felice. Ma sai, prima o poi, lo libererò. Lui e la sua famiglia. Non lo ho ancora fatto… solo per rispetto a mia madre.”
Seguì un attimo di silenzio.
“È molto sensibile, da parte tua.” Lo ruppe lei. “Ma sei tu il pater familias. Aspetta il momento adeguato, ma fai quello che devi fare. Segui il tuo giudizio.”
“Immagino ti abbia parlato male di tutti loro.” Dissi.
“Tua madre mi parla di tutto, Marco. È una persona splendida e io le voglio già molto bene. Sono fortunata ad avere lei come suocera.” Partì Giunia in premessa. “Con me non si è trattenuta, parla male dell’intera famiglia. Se fosse per lei se ne libererebbe, di tutti loro, senza remore. Sostiene che la figlia abbia una brutta influenza su di te, che ti abbia distratto dai tuoi doveri.”
“Oh che sciocchezza.”
“Io penso che abbia ragione.” La fissai, ammetto con una certa preoccupazione, temendo che le paure di Filinna potessero essere fondate, prima di accorgermi che gli occhi di Giunia brillavano di divertimento e capii che mi stava prendendo in giro. “Non conosco uomo, giovane o vecchio, che non si faccia distrare dai suoi doveri da una bella ragazza. E lei è molto carina. E tu Marco Valerio Corvino credo che sia simile a tutti gli altri uomini!”
Risi, sollevato. “Di questo mi devo dichiarare colpevole. Sono umano. Credo che però per mia madre sia difficile ammetterlo.”
“Le madri sono spesso così. Dobbiamo capirle.” Concordai con un cenno della testa. Poi lei continuò “Credo di averla spaventata oggi.” 
“Filinna intendi?”
“Sì, parlo di lei.”
“Credo che abbia paura che tu la possa pensare come mia madre e avercela con lei.” Risposi.
“Ecco questa è una sciocchezza.” Ribatté. “Per quale ragione dovrei avercela con lei?” Al mio silenzio continuò. “Sono una Giunia, mio padre era un console, così mio nonno e il mio bisnonno, ho sposato un senatore della Gens Valeria.” Si fermò e mi sorrise. “Che sono sicura sarà Console anche lui prima o poi. Sarò la madre dei tuoi eredi., dovrei forse preoccuparmi di ogni schiava graziosa che attrae il tuo sguardo? Sono schiave e fanno quello che viene detto loro di fare. Sei un uomo Marco, avrai le tue distrazioni e le tue fantasie.”
“Giunia, io ho una sola distrazione e una sola fantasia.” Risposi di istinto. Sollevato di avere una moglie così intelligente e di buon senso.
Mi rispose con una risata allegra e si distese di nuovo, sollevando l’orlo del vestito a scoprire il polpaccio con un movimento quasi naturale.
“Che delizia di marito ho la fortuna di avere.”
“La fortuna è mia di aver te come moglie.”
Il mio complimento non la fece sorridere quanto speravo, i suoi occhi mi fissavano interrogativi. Poi la vidi scuotere lievemente la testa e allungarsi con aria languida.
“Marco Valerio, ma tu devi essere un po’ più rapido nel cogliere le occasioni marito mio.” Disse, ondeggiando la gamba nuda.
Non risposi, evidentemente non voleva belle parole, mi limitai ad alzarmi e, girato intorno al tavolo, mi chinai e la sollevai di peso e, con lei in braccio, mi diressi verso la nostra camera. Non era il caso di scandalizzare la servitù. 

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Il viaggio in Sicilia fu perfetto, anche se, come ci dissero in molti, eravamo nella stagione più calda. Visitammo alcune delle sue città più importanti e ci fermammo a Siracusa ospiti del Propretore, lo zio di Gaio, dove reincontrai con gioia il buon Catualda. Qui passammo dei giorni veramente piacevoli prima di recarci nella proprietà che avevo in quella provincia, nel sud dell’isola in prossimità della città di Agrigento (che i greci chiamano Akragas), una bella città con degli splendidi templi dedicati agli Dei, i cui abitanti avevano ricevuto la cittadinanza romana sotto Ottaviano Augusto.
Prima di raggiungere la tenuta fummo ospiti dei magistrati della città e per ringraziarli della loro gentilezza finanziai l’erezione di una statua di Claudio Cesare nel foro cittadino.
Era la prima volta che visitavo quella proprietà, piuttosto vasta e dedicata principalmente alla coltivazione del grano e alla produzione dell’olio.
Anche quello fu un soggiorno piacevole anche se il posto era veramente rustico e agreste, venimmo infatti raggiunti da Catualda, Gaio e da sua moglie cosicché avemmo una buona compagnia e occasioni di conversazione gradevole.
Durante la mia presenza attuai vari cambiamenti nei metodi di gestione e coltivazione per aumentare la produttività e anche sulla gestione degli schiavi. A parte qualsiasi considerazione morale sono in disaccordo con le opinioni di Catone e profondamente convinto che uno schiavo trattato con considerazione e umanità produce sempre molto di più di un povero disgraziato trattato con brutalità.
Pure il viaggio di ritorno fu ottimo, benedetto da un mare tranquillo e da venti favorevoli. Sbarcammo a Baia e passammo qui ancora alcuni giorni idilliaci, in compagnia anche dei familiari di Giunia prima che i doveri costringessero me mio suocero a tornare a Roma.

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Alcune settimane dopo il ritorno a Roma successe quello in cui tutti speravamo.
Fu una delle ancelle di mia madre a venirmi a chiamare e quando entrai nel triclinio e trovai lei e Giunia sedute l’una vicino all’altra, tese come le corde di un arco, ma entrambi sorridenti e felici non ebbi dubbi su cosa mi stavano per dire.
L’arrivo di un erede è una cosa che ritengo sconvolga qualsiasi famiglia, specie quando è il primogenito, da noi non fu differente. Si tratta comunque di faccende che vedono per protagoniste soprattutto le donne. Noi uomini diventiamo all’improvviso comprimari e, a volte, è piacevole.
L’episodio più curioso, l’unico così particolare da meritare di essere annotato, di quel periodo ebbe come protagonista Romolo.
Si presentò una sera di fronte al tablinum senza preavviso, ma quando me lo annunciarono dissi di lasciarlo passare, la giornata era finita, le cose importanti già fatte e, come avevo già accennato, la mia tolleranza e affetto per lui aveva radici profonde nella mia infanzia.
Entrò accompagnato da un ragazzetto magro, dall’aria sveglia e i cui tratti indicavano chiaramente che era un suo discendente.
Mi salutò col suo solito modo rispettoso, ma disincantato e io gli risposi con sincero piacere.
“Romolo, benvenuto.” Segno di favore, lo invitati addirittura a sedersi, ma lui rifiutò con appropriata modestia. “Cosa posso fare per te? Chiedi pure.” Non mi era difficile immaginare che fosse qualcosa legato al ragazzo, che non riuscivo a inquadrare pienamente. Un nipote, forse. Romolo era stato vigoroso, di figli ne aveva avuti tanti e questi si erano dimostrati pari al padre.
“Volevo complimentarmi con voi, per il vostro primo figlio, padrone.” Rispose.
“Grazie Romolo, grazie molte.” Ribattei, poi vedendo che esitava, come non sapendo come andare al punto, tra le sue qualità non vi era certo l’oratoria, provai ad aiutarlo. “Chi è questo bel ragazzo? Uno dei tuoi nipoti?”
Sussultò, come se si fosse ricordato improvvisamente della presenza del ragazzo. “Oh no, padrone! Tazio è il mio figlio più giovane.” Gli tirò una pacca sulla spalla che lo fece ondeggiare.  
Non nascosi una certa meraviglia, Romolo aveva nipoti ormai adulti. “Beh, non so se tua moglie ti benedice o ti maledice, Romolo, comunque complimenti.” Risi di cuore e lui mi imitò.
Quando smise di ridere rimase di nuovo in silenzio come perso e provai a venirgli incontro.
“E cosa posso fare per te e per lui?” Provai a indagare.
Lo vidi riflettere e poi provare a tornare sull’argomento.
“Ecco padrone… ecco. Voi avrete un figlio.” Annuii invitandolo ad andare avanti. “Vi servirà qualcuno che lo guardi e lo segua, lo protegga e vada con lui, Padrone. Come io ho fatto con voi. Ecco e io l’ho fatto per voi e mio figlio può farlo per vostro figlio.” Una altra pacca arrivò all’improvviso sulle spalle di Tazio. Conoscendo le mani di Romolo erano colpi da far piegare un uomo adulto, ma il ragazzo si limitò a barcollare un attimo tentando persino di mantenere il sorriso.
La cosa era chiara, volendo anche intelligente. Romolo era stato la mia scorta, il mio aiuto e il mio protettore (e anche complice a volte) quando ero un ragazzino, era molto adeguato che suo figlio ricoprisse lo stesso ruolo per il mio.
“Non è detto che sia un figlio, Romolo.” Feci notare l’ovvio. “Potrebbe essere una bambina.”
Non sembrò per niente dissuaso. “Sarà sicuramente un maschio, Padrone.”  Ribatté con un largo sorriso.
Come negarglielo?
“Speriamo che gli Dei ci ascoltino, Romolo. E se sarà maschio, Tazio starà con lui.” Decisi. “Così deve essere.”
Lo fermai, con un gesto della mano, prima che con una terza pacca finisse di spezzare in due il futuro protettore del mio erede. 

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Chiamai, a visitare Giunia, Senofonte di Coo, il medico più famoso in città, che seguiva anche l’Imperatore (in verità Claudio Cesare con me aveva scherzato, col suo tipico umorismo, che non poteva raccomandarlo in quanto malato lo era prima e malato era rimasto anche dopo il suo arrivo). 
Senofonte decretò che Giunia e il bambino dentro di lei stavano bene e in forze e che non c’era nessuno problema evidente, a parte le naturali difficoltà di ogni gravidanza.
Consigliò a mia moglie di non fare sforzi eccessivi e di fare una vita tranquilla e regolare, ma con frequenti passeggiate all’aria aperta. Di mangiare cibi leggeri e non troppo speziati e all’arrivo della stagione calda di trasferirsi in un clima più salubre e ventilato rispetto a quello di Roma.
Presomi da parte mi consigliò, infine, di evitare di pretendere i miei diritti coniugali e di lasciarla riposare.
Ringraziai, promisi di ubbidire e fare la mia parte e feci pagare la sua esorbitante parcella.
La gravidanza proseguì, come aveva previsto, senza nessun grosso problema; anche se Giunia lamentava numerosi fastidi, dalle nausee, al mal di schiena, a tanti altri acciacchi. Diventava insofferente delle minime cose, rispondendo e reagendo con astio e dimostrando che la sua lingua sapeva essere affilata, per poi pentirsene quasi subito e scusarsi, anche con la servitù.
All’arrivo della stagione calda, come consigliato da Senofonte lasciammo Roma. Il mio primo progetto era stato di trasferirci nella villa rustica di Tuscolo più vicina a Roma, ma Giunia insistette, malgrado la maggiore distanza, di arrivare fino Baia: era più confortevole diceva, più piacevole e più facile da raggiungere per chi ci volesse far visita. 

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A Baia in effetti potevamo ricevere facilmente visite e frequentare gli amici si erano sistemati nei dintorni per la stagione calda.
Venne a trovarla persino Agrippina Minore che era alfine diventata la nuova moglie di Claudio Cesare e, per la mia personale gioia, Catualda che era rientrato dal suo prudenziale esilio in Sicilia.
All’avvicinarsi del parto chiamammo da noi, per concessione dell’Imperatore, lo stesso Senofonte, che si sistemò coi suoi assistenti e una levatrice esperta nell’ala degli ospiti, pronti a disposizione.
Senofonte visitava Giunia ogni sera, per poi venirmi a riferire, solitamente che andava tutto bene, dopo di che andavo a trovarla prima di ritirarmi a dormire. Avevamo deciso per il momento di dormire separati, una abitudine comune per molte coppie invero, in modo che Giunia potesse riposare senza essere disturbata.
Quella sera, mentre mi recavo a trovarla, sentii prorompere una cascata di risate dalla sua camera. C’era la risata di Giunia, posata ed elegante, quella di Tullia, la sua cameriera fin da quando era ragazzina, acuta e un po’ chioccia e, riconobbi, quella di Filinna, squillante e allegra.
Da quando eravamo arrivati a Baia, Giunia sembrava gradire sempre di più la sua e, visto che col progredire della gravidanza, le sue passeggiate si stavano limitando al giardino, spesso, quando non era in compagnia di mia madre, la chiamava a farsi leggere qualcosa, per passare il tempo.
Quando mi affacciai Giunia era seduta coi capelli sciolti e già vestita per la notte e rideva con le lacrime agli occhi reggendosi la pancia come a tentare di controllarsi; accanto a lei Tullia con in mano ancora la spazzola che aveva usato per pettinare la padrona era quasi piegata in due; mentre Filinna aveva portato entrambe le mani alla bocca, anche lei come a tentare di frenare le risate, con gli occhi che le scintillavano.
Erano risate sincere, non quelle doverose e più o meno forzate, che uno schiavo furbo concede al padrone quando fa una battuta, che sia realmente spiritosa o meno. L’allegria nella stanza era palpabile e reale.
Quando mi videro, e videro la mia espressione meravigliata, provarono con rinnovato impegno a controllarsi, ottenendo, come ovvio, il risultato contrario. Giunia, con le gote arrossate, tentando di prendere fiato tra una risata e l’altra mi fece cenno di avvicinarmi.
“Vieni, marito mio, vieni. Scusaci. Vieni.” Disse quasi singhiozzando. “O Giunone proteggimi, qui rischio di partorire ora se non la smetto di ridere!” Allungò una mano verso di me mentre con l’altra si asciugava le lacrime.
La presi e lei mi condusse a baciarle le gote.
“Scusaci.” Ripeté, mentre si calmava. Poi provo a spiegarsi. “Ridevamo di voi uomini. Marco mio.” Alla mia aria ancora più perplessa, sia Tullia che Filinna non poterono trattenersi da un altro attacco di risate. “E specialmente dei medici greci… e dei mariti romani.”
“Beh sono contento di rendervi allegre.” Dissi accettando lo scherzo. “Almeno significa che siamo divertenti.”
“Tu mi porti sempre un sorriso.” Rispose Giunia. Poi, un attimo più controllata, si rivolse alle sue ancelle. “Andate lasciatemi sola con mio marito. Tornate più tardi per aiutarmi.”
Tullia e Filinna uscirono tentando di rimanere serie, per poi riscoppiare a ridere appena uscite.
Giunia mi accarezzò un braccio. “O Marco, in verità ridevamo di Senofonte.”
“Cosa ha fatto?”
“Con tutta la sua scienza a volte pensa di sapere cose che voi uomini non potete conoscere.”
“Tutto a posto comunque?”
 “Tutto a posto, Marco. Tranquillo. È bravo, coscienzioso e capace.” Mi tranquillizzò “Ma così incredibilmente pieno di sé.” Non potevo darle torto. Si mosse sulla sedia come a cercare una posizione più comodo, con un piccolo gemito.
“Ti posso aiutare?”
“Sì, aiutami a sedermi sul letto.” Fece lei e si appoggiò al mio braccio per alzarsi, emettendo un altro lamento.
“Non puoi capire quanto mi senta pesante e ingombrante.” Fece, risedendosi sulla sponda del letto. “E continua a tirar calci a tutto spiano.” Si lamentò. “Penso che sia un maschio sai? Non credo che una bambina possa essere così violenta e sgarbata.”
Sorrisi alla battuta. “Mi dispiace che tu stia così male, Giunia.”
Lei fece una smorfia. “Dispiace anche a me ti assicuro! O marito. Penso sia il destino di noi donne.” Sospirò. “Tua madre mi raccontava che anche tu non stavi buono un attimo.” Si fermò a guardarmi. “Dispiace a me di averti scacciato e che tu debba dormire da solo. Scusami, lo so quanto ti pesa, ma ti assicuro non sono in condizioni di essere di compagnia.”
La baciai.
“Non ti preoccupare, capisco le ragioni e seguiremo quello che dice il dottissimo medico di corte.” Sorridemmo entrambi. “E ho la buona compagnia di una buona lettura.”
“Cosa ti stai leggendo?”
“Sto rileggendo.” Precisai. “Medea di Euripide.
“Che coincidenza! MI sto facendo leggere da Filinna la versione scritta da Seneca.”
“Lettura adeguatissima adesso che è stato riabilitato e riammesso a corte come precettore del figlio di Agrippina.” Ormai tutto quello che aveva a che fare con Seneca, appena rientrato con tutti gli onori dell’esilio in Sardegna, inevitabilmente tornava in auge. “Non l’ho letta ancora. Vale?”
“A me piace, Filinna però non lo ama.”
Mi sedetti accanto a lei.
“Filinna ha buoni gusti, avrà le sue motivazioni.” Poi feci la semplice affermazione. “La stai chiamando spesso a tenerti compagnia.”
“È una persona di cultura con cui si può parlare. È una compagnia piacevole.” Inarcò la schiena come per spostare il peso. “Ti dico se non fosse che tua madre non la sopporterebbe, la prenderei come cameriera personale e me la porterei a Roma.”
“Non so se saprebbe coprire quel ruolo.”
“Oh, imparerebbe, sono sciocchezze, e poi ci sarebbe sempre Tullia per le cose complicate. A Roma poi potrebbe badare alla biblioteca di casa.”
La guardai meravigliato. “Ma, Giunia, è una donna!”
“Sarebbe sempre più capace di chi lo sta facendo adesso. Donna o non donna.” Rispose con tono piccato.
Visto il suo stato e le raccomandazioni di Senofonte di non agitarla, decisi di evitare di discutere la sua stramba affermazione e mi limitai ad assentire, lasciando cadere il discorso.
“Domani arriva tuo fratello.”
“Lo so, mi ci mancava solo lui e sua moglie. Soprattutto sua moglie.” Poi si sforzò di tornare a sorridere. “Ma è famiglia e va tenuta da conto.”
Si riagitò. “O in nome degli Dei… non sta fermo un attimo. Credo che ormai voglia veramente uscire a breve. Sai? Marco, ti prego richiama le ancelle e che ho bisogno di mettermi distesa.”
Mi alzai con un ultimo bacio.
“Marco, marito, scusa.” Ripete ancora, mentre mi avviavo ad uscire.
“Non ti preoccupare, sto bene e capisco.
Scosse la testa. “Il fatto che io debba riposare, non significa che tu debba fare penitenza. Marco, non è naturale.”
“Oh, fa tutto molto carattere stoico, moglie mia!” Le risposi con una battuta comune tra di noi.
Riuscii a farla ridere.

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Ero seduto ancora a leggere, ma ormai praticamente quasi convinto che fosse venuta l’ora di distendermi anch’io e chiudere gli occhi quando senti qualcuno grattare alla porta.
Feci immediatamente entrare e, quando mi trovai di fronte Filinna, balzai in piedi, temendo che un suo arrivo a quell’ora della notte significasse qualche problema con Giunia e il bambino.
“Filinna, che succede? Tutto a posto?”
“Sì, padrone, tutto bene, tutto a posto. Mi manda la padrona.” Rispose, rimanendo nell’ombra del corridoio subito fuori della porta. Nella mia agitazione mancai di cogliere il suo tono di voce, calmo se non piatto.
“Cosa serve a mia moglie? Come sta Giunia? Dimmi.”
“Padrone, tutto bene! Tutto bene. La padrona sta benissimo. Mi ha mandato lei da voi, Padrone, non vuole che passiate la notte da solo… ha mandato me. Padrone.”
Filinna, entrò chiudendo la porta alle sue spalle, si tolse la stola, piegandola con cura, la riconoscevo era un mio regalo, e si sciolse i capelli, ravvivandoli con la mano. Rimase ferma a un metro da me, la luce giallastra delle lucerne che danzava sui lineamenti del volto.
Rimasi fermo, meravigliato dal comportamento e dalle attenzioni di mia moglie. Non mi aspettavo che potesse arrivare a preoccuparsi così per me, ma capivo le sue ragioni, le capivo bene.
 Filinna indossava la stessa tunica con cui l’avevo vista poco prima, niente di speciale e curato, non era né truccata né acconciata, ma non riuscivo comunque a toglierle gli occhi di dosso.
Dalla prima volta, anni fa, che l’avevo baciata, Filinna era cambiata: il viso è il corpo avevano perso la delicata morbidezza della gioventù ed erano diventati più affilati, scolpiti, ma era sempre ad essere bella.
Gli occhi, adesso nascosti nell’ombra, erano sempre grandi profondi e dolcissimi, i capelli un’onda nera, le gambe lunghe e snelle, i fianchi pieni, i seni sodi. Sapevo cosa si nascondeva sotto quella semplice tunica. Non aveva bisogno di trucchi o abiti raffinati. Era e bella e desiderabile.
Era più di un mese, dal mio arrivo a Baia, che non mi accostavo a una donna e a vederla così, nella stanza dove avevamo fatto l’amore l’ultima volta, fece esplodere la mia voglia. Sognavo di stringere tra le mie dita la sua vita snella, passarle le mani sul ventre e sentirlo pulsare.
Mi alzai senza dire una parola, totalmente preso dalle mie sensazioni. La raggiunsi, la afferrai, quasi con forza, e la baciai. Respirai il suo odore, chiudendo gli occhi, la assaporai. La abbracciai, stringendola, le accarezzai la schiena, sentendo le scapole, le costole sotto i polpastrelli. Lasciai la sua bocca esplorando con le labbra la linea della mascella, scesi sul collo gustando il sapore della sua pelle delicata.
Una mano risalì a cingerle un seno, sentii il suo capezzolo strusciare contro mio il palmo. Adoravo quei capezzoli, così sensibili e amavo le reazioni di Filinna quando anche mi limitavo solo a sfiorarli, si tendeva e sussultava afferrandomi, combattuta se trattenermi o allontanarmi. 
Non ci fu il fremito a cui era abituato e che mi aspettavo. Sentivo il suo respiro profondo ma costante, mi aveva cinto le spalle con un braccio, la mano poggiata sulla mia nuca, ma era immobile.
Mi scostati. Lei rimase ferma, lasciando ricadere il braccio, abbassando il volto. Non ebbi difficoltà a capire.
“Non vuoi, vero?”
Non rispose, le presi il viso e vidi gli occhi spenti, alla luce tremula delle lampade. La vidi provare a sorridere, mentre le ombre le ondeggiavano sul viso e si alzò persino sulle punte dei piedi a provare a raggiungere il mio viso per baciarmi, mentendo.
La bloccai. “Fermati, lascia stare. Non ti va.” Ripetei. Riabbassò gli occhi e sempre senza parlare, dopo un attimo, scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli. Glieli accarezzai, passando le dita tra le ciocche.
Feci un passo indietro. Deglutii. 
“Non c’è problema, Filinna. Lo sai.” 
Tentati di simulare una calma che non avevo. Mi risedetti, sconfitto, deluso, frustrato. Il mio desiderio era ancora tutto lì, lo sentivo agitarsi e ribellarsi. 
“Padrone… scusatemi.” Disse finalmente, una voce che era quasi un sussurro.
“No, non ti preoccupare, te l’ho sempre detto.”
Mi sporsi per prendere l’anfora del vino e versarmi qualcosa, avevo bisogno di bere. Filinna si affrettò in avanti per prenderla lei e servirmi, ma la fermai con un gesto.
“Faccio da solo.” Dissi.
Si bloccò di nuovo, testa bassa, mani strette di fronte. Quante volte l’avevo vista così? Troppe. Odiavo vederla così.
“Non sono arrabbiato. Filinna, veramente.” Tentai di addolcire la voce, nascondendo la insoddisfazione. “Non sei certo tu responsabile della cosa.” Poi aggiunsi. “Non fare così, non voglio vederti così.”
Alzo finalmente lo sguardo.
“La padrona, mi ha detto…”
“Sì, immagino cosa ti ha detto mia moglie. Filinna. E hai ubbidito, come dovevi fare e sei venuta qui. Hai fatto quello che dovevi. Nessuno può essere arrabbiato con te.” Le presi la mano e gliela accarezzai per rassicurarla.
“Mi dispiace, però.”
Mi trovai a scoppiare a ridere a sentire il suo tono di voce, lasciandola di stucco. “O certo, dispiace anche a me, ti assicuro.” Non era certo la prima volta che Filinna mi lasciava così. Ricordai la prima volta che avevo provato a baciarla nello studio piccolo.
“Adesso smettila, di sentirti in colpa e fare quella faccia, per favore. Siediti un attimo, tienimi compagnia.” Feci indicandole una delle sedie. Mentre bevevo vidi i suoi occhi che mi fissavano interrogativi e riscoppiai a ridere. La situazione era talmente assurda. Sarebbe stato impossibile raccontarla a qualcuno ed essere creduto.
Riprese la stola se la risistemò con cura e finalmente si sedette accanto a me.
“Mia moglie parla bene di te.” Dissi.
“Grazie, padrone.”
“Sono contento che non ci siano problemi, hai visto? È andato tutto bene.”
“Sì, padrone.”
“Filinna…. Siamo soli… potresti chiamarmi anche Marco.”
Una pausa prima di rispondermi.
“Meglio di no, padrone…. Io…. Non è il caso.”
Per un attimo fui sul punto di risponderle che ero io a decidere cosa fosse il caso… poi riflettei sulla situazione e di nuovo tornai a ridere. Mi aveva appena rifiutato... adesso mettersi a contestare su come essere appellato sarebbe stato assurdo. Ancora più assurdo.
“Le stai leggendo la Medea di Seneca, mi ha raccontato.” Dissi quando mi calmai. Filinna mi guardava fissa, probabilmente tentando di capire le mie reazioni. “Mi ha raccontato, però che tu non la giudichi in maniera positiva. Non vale la pena di essere letta?”
Eravamo su un argomento sicuro, che non comportava rischi e su cui era a suo aggio, la vidi rilassarsi e la preoccupazione sparire dai suoi occhi. Ne fui contento.
“No padrone, vale la pena. Non contesto il lavoro di Seneca, è ben scritto e merita. Sono io, che.. che non amo minimamente la storia di Medea. Anche quella di Euripide.”
“Perché?” la invitati ad andare avanti con un gesto. “Come mai? Sono curioso?”
La vide riflettere, cercando sicuramente la maniera corretta di impostare il suo ragionamento, ma invece all’improvviso dichiarò semplicemente.
“Perché Medea è un mostro, Padrone! È una storia crudele ed orribile…” Scosse la testa. “È tutto così mostruoso, uccide innocenti, uccide i suoi stessi figli, solo per vendicarsi di Giasone.”
Colpito dalla veemenza delle sue parole e dei suoi toni, cercai di capire meglio.
“Si vendica, Medea viene tradita e si vendica, il suo comportamento è crudele, concordo con te, ma comprensibile.”
Scosse la testa con forza.
“No, non può essere un cosa simile come si fa ad arrivare a ciò solo per gelosia?”
“Medea aveva lasciato la sua patria per seguire Giasone, lo aiuta a trovare il vello d’oro, perché era innamorata. Gli dà dei figli, lo sposa… e lui a un certo punto decide di abbandonarla per la figlia di re Creone sperando di diventare il suo successore a Corinto. È accecata dalla furia e della gelosia.”
“Come si fa ad uccidere la persona che si ama? Come si fa ad odiarla?”
“Giasone l’abbandona, Filinna, solo per interesse, per poter diventare il successore di Creonte. La tradisce per interesse.”
“Ma le offre di prendersi cura di lei e dei figli… se lei lo amava, lo amava veramente, non dovrebbe, comunque… amarlo ancora… persino… aiutarlo? Se no cosa significava il suo amore… se lo fa soffrire così?”
 “Medea è orgogliosa e lui lascia per ragioni… futili… solo per il potere.”
“E il su orgoglio arriva a vincere sull’amore? Ecco perché non mi piace.”
Sorrisi.
“Filinna: odi et amo. Catullo. Ti ricordi? Avevi detto tu che ti piaceva. Si può amare ed odiare… perché l’amore può far soffrire.”
“È vero.” Ammise. “Ma io non posso odiare chi amo… anche se mi abbandona per un'altra.”
“Perché sei dolce, Filinna.” Risposi, guardandola. “Sei una persona molto dolce. Ma no so come si possa reagire quando… lo si vive realmente. Se un giorno succederà e sarai tradita da chi amavi, forse potrai rispondere…,” mi corressi, precisando, “ma ovviamente non te lo auguro. Spero che non ti succeda mai.”
La vidi scuotere la testa decisa.
“Io lo so padrone, non posso odiare chi amo, forse sono io sbagliata… ma sono così.”
Ci fissammo. Poi confessai. “Non so come mi comporterei io.”
La risposta fu pronta. “Anch’io mi auguro che voi non dobbiate mai scoprirlo, padrone.”
Alzai la coppa a ringraziarla.
Ricadde il silenzio. Lo ruppi io.
“Quindi Seneca può meritare di essere letto.” Conclusi. Lei fece un cenno affermativo col capo. 
Continuammo a parlare. Passammo da Seneca a Diodoro Siculo che aveva recentemente letto e di cui mi parlo largamente, mentre io a mia volta le proposi di leggere gli ultimi lavori di Persio Flacco e le promisi di farglieli avere.
Stavo bene, il desiderio che avevo dovuto reprimere pochi minuti prima, era stato ormai addomesticato, e la sua compagnia mi rasserenava, era bello averla accanto chiacchierando di sciocchezze, avrei potuto continuare a parlare con lei per altre ore, ma sentivo il sonno e capivo che si stava facendo tardi.
“Vai a riposare Filinna è tardi. E non ti preoccupare per la Padrona, tu hai fatto quello che ti aveva chiesto.”
“Grazie, Padrone.” Fece alzandosi. “Pure voi siete molto… buono.” Capii che stava per dire dolce, ma si era corretto non trovandolo appropriato, non mancai di sorriderle. “Buona notte.”
Prima che uscisse però mi colpì una curiosità che avevo.
“Filinna?” la fermai e lei si voltò. “Ti ricordi, di quando eri curiosa di sapere tutto di Valeria Messalina? Adesso che Agrippina Augusta è stata nostra ospite, hai finalmente visto la moglie di un Imperatore da vicino. Che ti è sembrata?”
Era forse una domanda irrispettosa da fare a una schiava, ma eravamo soli e… e lei era Filinna.
La vidi riflettere a trovare le parole adatte.
“Era affascinante padrone.” Disse. “Non si poteva non ammirarla talmente era bella… ed elegante, i suoi modi e le su movenze incantavano.”
Era una buona risposta. Agrippina Augusta non era più una ragazza, ma era una splendida donna. 
Non potevo negare però, che, nella mia follia, avrei sempre preferito il sorriso semplice di Filinna al fascino di un’Agrippina. Dentro di me sorrisi pensando a quando, anni prima, di fronte alla sua ammirazione per Messalina avevo pensato la stessa cosa, ma non le avevo detto nulla per non farla inorgoglire troppo.
Ora la conoscevo meglio e sapevo che non avrebbe reagito male e lo dissi.
“Eppure tu sei addirittura più bella di lei, se devo dire la mia.”
Non provò a schernirsi e non sembrò meravigliata. Si limitò a sorridermi, raggiante.
“Grazie, padrone.”

Cinque giorni dopo Giunia partorì.

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Capitolo 8
*** Camilla ***


Ci siamo, questo è il capitolo finale. A questo seguirà nei prossimi giorni solo una "nota" storico e letteraria per spiegare un po' di cose. Buona Lettura!

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Il parto fu veloce e, a detta della levatrice e di Senofonte, semplice e senza particolari difficoltà. Nel mi primo pomeriggio, mi venne presentato un maschio, in salute e senza difetti. Lo riconobbi come figlio, prendendolo in braccio e gli diedi il nome di Gaio, come mio padre e mio fratello, poi lo riconsegnai alla nutrice.
Ordinai che per cena tutta la casa festeggiasse e ci fosse buon vino falerno per tutta la servitù, con dolci e carni arrosto in abbondanza. L’astrologo più noto di Baia venne chiamato perché leggesse gli astri e profetizzasse il futuro del mio primogenito. Lunga vita e successo, predisse.
Ultimo necessario passo, in compagnia di zio Aulo, mio suocero e mio genero, sacrificai personalmente agli Dei di fronte all’altare di casa per ringraziarli del loro favore.
Giunia dimostrò la sua forza e il suo vigore, presentandosi a cena con noi quella sera stessa. Ancora visibilmente stanca, ma risplendente di felicità si sedette con noi, anche se si ritirò presto.

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La vita a Baia, si adeguò velocemente al nuovo arrivo e alle ritrovate energie della padrona di casa, riprendemmo velocemente fare la vita sociale che Giunia amava. 
Ricevemmo ospiti e facemmo visita. Era il tipo d vita in cui mia moglie si trovava più a suo aggio, ma a volte la trovavo estremamente vana, se non balorda. Uno stucchevole via vai frenetico un quotidiano gioco di incontri e inviti. Piacevole per passare il tempo, forse, ma che lasciava ben poco a fine giornata.
Avrei preferito una vita più calma e riflessiva, ma non mi lamentavo. Avevo tutto quello che gli Dei possono concedere a un uomo. Una moglie perfetta, un figlio appena nato, una famiglia che amavo, il rispetto dei miei pari. Ben presto tornammo a passare le notti insieme.
Non mi mancava nulla, di quello che rende felice un uomo. Almeno questo poteva sembrare, almeno questo pensavo io stesso. 

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Una notte, venni svegliato dal familiare verso di una civetta, che stava cacciando in giardino subito fuori dalla nostra finestra. Capita l’origine del rumore, richiusi subito gli occhi, contando di riaddormentarmi cullato dal respiro dal Giunia e invece mi ritrovai ben presto di nuovo con gli occhi aperti apparentemente incapace di prendere sonno.
Rimasi immobile a fissare il soffitto, poi mi alzai lentamente, tentando di non disturbarla. Feci un cenno allo schiavo che vegliava sul nostro sonno, subito accorso vedendomi muovere, perché pure lui badasse a non far rumore e mi versai da solo una coppa di acqua. Era una splendida notte, il caldo del giorno era ormai svanito addolcito dalla brezza marina. Giunia dormiva su un fianco. Il respiro regolare, era girata sul fianco, parzialmente rannicchiata, i capelli le coprivano morbidamente il viso.
Capii subito che le possibilità di riprendere il sonno erano veramente poche, era inutile ridistendermi, la soluzione migliore era piuttosto, muovermi, alcuni passi nel silenzio e nella calma della notte, in giardino, mi avrebbero, forse aiutato. Se non altro non avrei disturbato.
Mi infilai una toga e uscii in punta di piedi. Mi affacciai nella stanza accanto: Gaio sembrava tranquillo, appena visibile nella culla, solo una manina paffuta visibile da dove mi trovavo. La sua balia pisolava lì accanto, la mano ancora distesa a sfiorarlo.
Non entrai per non rischiare di svegliarlo e, tramite lui, svegliare il resto della casa e tutta Baia. MI ritirai e finalmente uscii all’aria aperta.
Avevo fatto bene a infilarmi una seconda tunica: la serata era perfetta, ma lì all’aperto era addirittura fresco; I profumi del giardino si mischiavano a quello frizzante del mare.
Con la coda dell’occhio mi accorsi di un movimento e rividi la civetta che mi aveva svegliato, ero sicuro, per qualche ragione, che fosse lei. Appollaiata su un ramo, in attesa di un qualsiasi suono o movimento che indicasse una possibile preda. 
Ora, disturbata dalla mia presenza, mi osservava fissa. Spiccò improvvisamente il volo, in irreale silenzio, planando, senza un singolo battito d’ali, verso la parte inferiore del giardino.
Mi lasciai guidare da lei e la seguii verso il basso, percorrendo uno dei sentieri, ammirando il cielo e il mare che si apriva di fronte a me e sentii delle voci. 
Non dovevo esserci nessuno in giardino a quell’ora, ma sapevo che quella era solo la versione ufficiale. Avevo ascoltato sempre con interesse le confessioni di Filinna sulla vita segreta e nascosta che si svolge nelle nostre case a nostra insaputa. Un intero mondo ci è celato. Piccoli segreti e grandi misteri che la servitù ci tieni ben nascosti, la loro vita lontana dai nostri sguardi.
In giardino non avrebbe dovuto esserci nessuno, appunto, ma immaginavo che, al termine della giornata di lavoro, al riparo dell’oscurità, qualcuno della servitù fosse ancora in giro, non per cattiveria, non per malizia, ma anche solo per godere un attimo di tutta quella bellezza che pensiamo sia riservata solo a noi.
Seguii il suono di quelle voci, curioso. Volevo osservare, di nascosto anch’io, quella vita nascosta, da cui ero escluso. Poi sentii la risata. Non potevo non riconoscerla. L’avrei riconosciuta ovunque e sempre. Era Filinna.
Che ci faceva a quell’ora, in quella parte del giardino? Non nascondo quello che pensai in un primo momento e neppure l’improvvisa fitta di stupida gelosia che provai. A quell’ora in quel posto era di certo un uomo. Cosa altro poteva essere? 
Inspirai l’aria fresca, espirai. Non era quello che volevo? Non era forse giusto? Non era quello che io stesso l’avevo invitata a fare? Perché non avrebbe dovuto?
Deglutii, mi girai per tornare indietro, ma invece i miei piedi mi portarono avanti e mi avvicinai in silenzio. Riparato da un albero, mi affacciai osservando dall’altro il piccolo spiazzo da cui avevo sentito ridere.
Filinna era su una delle panchine di pietra, di fronte a lei, sedute una vicina all’altra, strette e avvolte nella stessa stola per proteggersi dalla brezza marina, c’erano Sabra e Tullia, l’ancella di mia moglie; la ascoltavano con rapita intenzione, gli occhi fissi su di lei.
Sentivo il suono della voce di Filinna, il tono melodico e pieno che la distingueva, ero troppo lontano per distinguere più di qualche parola, non avevo, comunque, problemi a riconoscere cosa stesse dicendo. Conoscevo quei versi a memoria quanto lei. Il ritmo e la musica inconfondibili.

Ipse peregrina ferrugine clarus et ostro
spicula torquebat Lycio Gortynia cornu;
aureus ex umeris erat arcus et aurea vati
cassida; tum croceam chlamydemque sinusque crepantis
carbaseos fulvo in nodum collegerat auro,
pictus acu tunicas et barbara tegmina crurum.

Adorno di porpora esotica scura, egli
andava scagliando frecce di Gòrtina con arco Licio.
Sulla spalla del vate, d’oro era l’arco, d’oro
l’elmo; la clàmide crocea e le fruscianti pieghe
di càrbaso aveva raccolte con fulvo fermaglio d’oro;
tunica e barbare gambiere eran trapunte con ago.


Il libro undicesimo dell’Eneide: quando, durante la battaglia, la vergine guerriera Camilla insegue il troiano Cloreo volendo conquistarne le armi dorate e cade vittima delle frecce di Arunte

telum ex insidiis cum tandem tempore capto
concitat et superos Arruns sic voce precatur:

Ed ecco infine, colto il momento, in agguato, Arrunte
incocca uno strale e questa preghiera rivolge ai celesti:


Vidi Sabra e Tullia sporgersi in avanti ascoltando i versi della preghiera di Arunte, seguire con la fantasia la freccia scoccata e sussultare visibilmente al colpo mortale, come se fossero loro ad essere trafitte di sorpresa.

Ergo ut missa manu sonitum dedit hasta per auras,
convertere animos acris oculosque tulere
cuncti ad reginam Volsci. Nihil ipsa neque aurae
nec sonitus memor aut venientis ab aethere teli,
hasta sub exsertam donec periata papillam
haesit virgineumque alte bibit acta cruorem.

Come l’asta scagliata diede ronzio per l’aria,
alla regina i Volsci tutti volsero in ansia
la mente e lo sguardo. Ma essa per nulla dell’aereo
ronzio s’avvide, o del colpo diretto dall’alto,
fin che l’asta giungendo s’infisse sotto la nuda
mammella e a fondo entrata, ne bevve il sangue di vergine
.

Rimasero in silenzio, senza commentare, con gli occhi sbarrati ad ascoltare il racconto della morte dell’eroina:

Illa manu moriens telum trahit, ossa sed inter
ferreus ad costas alto stat volnere mucro;
labitur exsanguis, labuntur frigida leto
lumina, purpureus quondam color ora reliquit.

Essa morente vuoi togliere il dardo, ma fra le coste, 
nell’ossa, con squarcio profondo, sta la ferrea punta.
Esangue si spegne; si spengono vitrei nella morte
gli occhi e il roseo colore d’un tempo le lascia il volto.


Seguii con loro la morte dello stesso Arunte ucciso per vendetta su ordine della dea Diana, la fine della battaglia, la notizia della morte di Camilla portata a Turno dalla sua amica e compagnia Acca ed Enea e i Troiani che rimangono vittoriosi sul campo.

continuoque ineant pugnas et proelia temptent,
ni roseus fessos iam gurgite Phoebus Hibero
tinguat equos noctemque die labente reducat.
Considunt castris ante urbem et moenia vallant.

E subito, tentando la sorte, verrebbero all’armi, se Febo 
roseo nel mare Ibero non bagnasse gli stanchi
cavalli e al cadere del giorno non riportasse la notte.
Pongono tende davanti la città e cingono il campo.


Calò il silenzio, quando Filinna finì di recitare. Vidi una mano di Tullia sollevarsi al viso come ad asciugare delle lacrime.
Rimasero tutte e tre immobili in silenzio. Fu Filinna a romperlo, le parole incomprensibili, ma con un tono di voce più lieto a rallegrare le amiche, che si scossero e sorrisero.
Parlarono un attimo, poi si alzarono tutte e tre, Sabra e Tullia si accostarono a Filinna, avvolgendo anche lei nella stola e, così strette da barcollare rischiando di inciampare l’una sull’altra, si avviarono verso la casa, sparendo alla mia vista. Sentii di nuovo, un’ultima volta, le loro risate.

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Scesi, raggiungendo lo spazio che avevano occupato. Le siepi lo riparavano dal vento e, se nascondevano la vista del mare, non potevano celare lo splendore del cielo stellato.
Mi chinai allungando la mano a toccare la pietra su cui si era appena seduta Filinna, ancora si sentiva il suo tepore. Mi sedetti al suo posto.
Sentii improvvisamente un enorme vuoto, dentro di me. Così enorme e profondo da diventare quasi un dolore fisico e reale.
Avrei voluto essere lì, vicino a lei, a Filinna, mentre recitava. Avrei voluto avere lei vicino a me adesso. Solo questo, solo lei, avrebbe potuto riempire quel pozzo oscuro che sentivo nel petto.
Capii di essere stato colpito da una freccia ben letale di quella di Arunte. Di più, capii da quanto a lungo mi fossi illuso e avessi mentito a me stesso. Perché non era successo oggi. Era da anni che andavo in giro con un’asta conficcata nel cuore e lo negavo, nascondendolo.
Cupido era un Dio crudele. Che sciocco a non tenerne conto.
Filinna, era quello che bramava il mio cuore.
La desideravo, certo, la desideravo, molto, ma non era solo quello: mi sarebbe bastato averla seduta li accanto me, anche in silenzio, per essere felice e se mi avesse sorriso sarebbe stato un dono degli Dei 
Chiusi gli occhi, coprendomi il volto con le mani.
Che pazzia, per chi aveva tutto, desiderare qualcosa.
Pensai a Giunia, addormentata nel nostro letto. La moglie perfetta, la madre di mio figlio. La desideravo? Sì Era bella? Sì. Era intelligente? Sì. Colta, spiritosa, piacevole, mi dava tutto quello che un uomo poteva volere.
Mi amava così come una moglie deve amare un marito
Era la donna perfetta per l’uomo che avrei dovuto essere, ma non per l’uomo che ero.
Sentivo quello che bruciava in petto e no: non era Giunia. Potevo volerle bene, sarei arrivato ad amarla, come si ama una moglie, ne sarei stato capace, ma la passione che sentivo era un’altra. Avrei voluto Filinna, lì accanto a me.
Tornai ad aprire gli occhi puntandoli al cielo sopra di me, feci due respiri profondi, riempendomi i polmoni di aria fresca e pura.
Sarebbe stato facilissimo soddisfare il mio desiderio, ma era solo apparenza. Sapevo che, in verità era impossibile.
Bastava mi alzassi e tornassi alla villa e mandassi qualcuno a chiamarla.
Filinna sarebbe venuta. Se le avessi detto di sedersi accanto a me si sarebbe seduta, le avessi detto di recitare avrebbe recitato, se l’avessi baciata mi avrebbe ricambiato… se le avessi detto di ridire avrebbe riso. Avrebbe detto sì padrone ed avrebbe ubbidito 
Non avrebbe potuto fare altro, che volesse o che non volesse. 
Non aveva scelta e non la aveva mai avuta… Anzi… non era vero, come dimenticarlo, aveva scelto: era scappata, l’avevamo ritrovata e l’avevamo fatta frustare.
Che avrebbe dovuto fare? Si era abituata. Come aveva detto Sabra, era fortunata: ero giovane, di bell’aspetto ed ero generoso, magari anche gentile, tollerante. Ma se fossi stato vecchio, brutto e volgare non sarebbe realmente cambiato nulla. Filinna aveva colto i lati positivi, accettato i regali e i piccoli vantaggi e cercato un momento di felicità in quello che la sorte le offriva, le imponeva.
La mente mi tornò a una cosa che mi aveva raccontato: il primo bacio che aveva dato. Era lo schiavo, ricordavo, di qualche venditore di papiri… e se ne era andato in provincia, dove proprio non mi tornava alla memoria.
Un garzone aveva avuto più di quello che avevo io, la certezza di aver ricevuto un bacio sincero. 
Se, per pazzia, le avessi confessato i miei sentimenti cosa avrei visto nei suoi occhi? Li avrebbe nascosti come faceva spesso per nascondere sé stessa sotto quelle lunghe ciglia. Mi avrebbe preso per un folle e avrebbe taciuto, per paura, per convenienza. La prima notte che avevamo passato insieme, me lo ricordavo bene, era stata chiara e cosciente della sua posizione, “sono solo una schiava e tutto il mio destino è in mano agli Dei.” E a quello che decidevo io.
Come avrebbe potuto essere diverso? Ero stato ben crudele verso la persona che adesso pretendevo di amare, le mie azioni e i miei desideri le avevano portato malasorte: le punizioni, l’esilio a Nomentum, i maltrattamenti, la disgrazia a suo padre e a tutta la sua famiglia. Le avevo negato persino la gioia di avere un  figlio, che l’amasse e le potesse essere di conforto e aiuto negli anni.
Tutto mentre pensavo di essere gentile, attendo e considerato, quando le mie erano solo parole, sorrisi vuoti e qualche regalo e qualche gingillo. 
Cosa mi potevo aspettare in cambio? Nulla.
E cos’è la passione non ricambiata? Una maledizione per entrambi e spesso diventa crudeltà.
Se volevo bene a lei, come dicevo, l’unica cosa giusta era liberarla da tutto ciò, non imporle la mia pazzia. Non portarle altra sfortuna e altre afflizioni.
Non era un caso, che mi fossi trovato lì in quel momento, la mano degli Dei era chiara. Dovevo, decisi, fare un sacrificio ad Atena l’indomani, per ringraziarla della sua guida. Perché malgrado fosse doloroso quanto estrarsi una freccia dalle carni, avevo capito molto. Γνῶϑι σεαυτόν, conosci te stesso. Come diceva mio padre

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Tornammo a Roma alla fine del caldo estivo.  
Le ultime settimane di permanenza a Baia le avevo vissute in maniera strana, alla luce della nuova consapevolezza dei miei sentimenti. Mi trovavo ampiamente a disagio e quindi per una volta partire per Roma, lasciando la bellezza del golfo di Napoli fu quasi un sollievo.
 A Roma, mi trovai immediatamente preso dagli affari del governo, tanto che persino Giunia si lamentò per la mia assenza e i miei impegni, anche se non altro potei condividere la sua ira con suo padre, che lei riteneva addirittura più colpevole di me. In effetti devo ammettere che non aveva tutto i torti il tempo che mi trovavo a poter dedicare alla famiglia era assai ridotto e ne pativo anch’io.
Fu alla metà di settembre che ricevetti la visita di Gaio Valerio Numantino. Che, come potete facilmente capire dal nome, era un liberto di mio padre.
Era solo un liberto, ma, come vi spiegherò, comunque un liberto di riguardo e quindi organizzai per riceverlo alla fine della salutatio matutina, nel tablinium, in privato con del buon vino e un piccolo rinfresco.
Era stato uno schiavo di fiducia di mio padre, originario della Spagna, dalla zona di Numanzia da cui il suo cognome da libero. Si era occupato per anni della vendita del grano prodotto nelle nostre proprietà e mio padre lo aveva affrancato poco prima della sua morte.
Era stata una mossa fortunata e benedetta dagli Dei. Numantino era una persona molto capace e affidatagli la gestione delle vendite del nostro grano era stato capace di farci arricchire e di arricchirsi ancora di più lui stesso. Era diventato ormai uno dei più importanti mercanti di generi alimentari di Roma, con una flotta di mercantili che spaziava per tutto il mediterraneo ed era uno dei principali finanziatori del grande porto commerciale che l’Imperatore stava facendo costruire alla foce del Tevere.
Malgrado i suoi affari con noi fossero ormai solo una piccola parte dei suoi commerci, manteneva con lealtà i suoi obblighi di fedeltà e gratitudine nei nostri confronti, veniva con costanza a renderci omaggio e in più di una occasione, nel periodo oscuro che era seguito alla caduta in disgrazia di mio padre, aveva dimostrato nei fatti la sua amicizia e supporto.
Aveva sposato una donna intelligente e capace che gli aveva dato due figli maschi. Il primo, Manio, di poco più anziano di me, era nell’esercito ed era primo centurione nella XVI Gallica sul confine del Reno, il secondo invece, Prisco, più giovane di me, lo aiutava negli affari ed era con lui al nostro incontro.
La conversazione tra di noi come era prevedibile cominciò dalle sue congratulazioni per la nascita del mio primogenito, sulla salute di mia moglie e su quella della mia signora madre, la sua amata padrona.
Ricambiai le sue cortesie informandomi da parte mia sulla salute della moglie, del figlio legionario (e di quali imprese avesse compiuto dal nostro ultimo incontro) e su Prisco, se finalmente avesse trovato una sposa, per donargli dei nipoti.
“Sono qui per questo invero, Padrone.” Fu la sorprendente risposta.
Incuriosito da cosa mai potessi c’entrare io con il matrimonio del figlio lo invitai ad andare avanti.
Numantino si mosse un po’ a disagio sullo scranno, con l’età la sua figura si era fatta corpulenta e vedevo le mani grassocce ricche di anelli agitarsi nervosamente.
Anche Prisco, che invece era un giovane uomo dal fisico atletico e con un viso dall’espressione sincera, sembrò innervosirsi, lo vidi sedersi, teso, in punta al suo scranno stringendo le labbra preoccupato.
“Alcune settimane fa mi sono recato a Baia, in compagnia di mio figlio Prisco, qui accanto, volevo andare a trovare il mio vecchio amico Cleone, Padrone e non lo vedevo da molto tempo.” Fece una pausa. “E lì, mio figlio ha avuto modo di conoscere la figlia di Cleone, ed innamorarsene.”
Non rimasi neppure meravigliato, quando aveva iniziato a parlare avevo avuto come una premonizione di cosa avrebbe detto. E ora che era che quelle parole erano state pronunciate, mi sentivo improvvisamente immerso in una strana calma eterea. Così risposi.
“Filinna. Certo, una fanciulla amabile come poche.”
Numantino assentì vigorosamente, mentre Prisco rimaneva teso come un arco.
“Sì, padrone, bella, intelligente, colta e pure onesta… Infatti, padrone un fiore. E il mio figliolo come poteva resistere dall’invaghirsene?” Bevette un sorso e riprese subito a parlare. “Vorrebbe farla sua moglie, sarebbe di sicuro una sposa adatta a lui. Poi, è figlia di un vecchio amico. Io sono qui a parlarvene e chiedervi il permesso… ovviamente lei è una vostra schiava e… so… so che vi era molto cara.” Disse, pudicamente senza approfondire, visto che parlava di quella che voleva come futura nuora, ma era chiarissimo.
“Hai ragione e hai fatto bene.” Mi rivolsi al figlio. “Filinna ti ha dato segni di favore? Ricambia?”
“Filinna è un fanciulla cas..,” si interruppe, stava per dire casta, credo, e si era reso conto all’ultimo momento di quanto sarebbe stato inappropriato, “modesta ed educata.” Si corresse.” Riservata, ma penso di esserle simpatico e di poter essere… adatto a lei, padrone. Se solo voi voleste concedermi…” Lo guardavo, si vedeva che ci teneva, era un bel ragazzo, il viso dai tratti regolari, con capelli folti e occhi intelligenti. Il padre era ricco, e lui, da quello che sapevo, sembrava all’altezza di gestire quello che avrebbe ereditato, se non di accrescerlo. Un ottimo partito. Una scelta perfetta per Filinna. Lo interruppi. 
“Certo, che te lo concedo.” Lo vidi bloccato a metà frase, come ricadere all’improvviso a terra, mentre capiva il mio fatidico assenso, e il suo viso si aprì un sorriso.
“Io vi ringrazio!” Iniziò, la voce piena di quella gioia che solo un uomo innamorato può provare, lo fermai.
“Certo che te lo concedo.” Ripetei, la mia calma era scomparsa e adesso dovevo impegnarmi per nascondere il mio turbamento, mi rivolsi al padre. “Vai pure dal nostro Cleone a chiedere la mano di sua figlia. Penso ne sarà felice. E tu,” tornai a lui, nascondendomi dietro un sorriso, “corteggiala come si deve. Lo sai quanto è colta vero?” Lo vidi assentire. “Dovrai sforzarti se vuoi scriverle versi che lei possa apprezzare.” Risi, seguito dal padre e dal figlio.
Alzai la mia coppa e bevemmo insieme.
“Padrone,” fece Numantino, “ovviamente vi ripagherò pienamente il prezzo della ragazza.”
Scossi la testa, rifiutando.
“Non c’è bisogno. Ci mancherebbe. Sarà affrancata, con gioia da parte mia. Sono contento per te e per Cleone e anche per lei. Sarà il mio regalo per gli sposi. Anzi, contribuirò alla dote, ché Filinna non sia un peso per voi e abbia di suo.”
Vidi che la mia offerta faceva gioire il padre quasi quanto il pensiero di Filinna faceva gioire il figlio.
Feci un cenno a uno schiavo ordinando che portassero il miglior vino per brindare a quella bella notizia.
Sentivo il bisogno di bere, perché io non riuscivo a gioire.

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Un mese dopo ricevetti notizie direttamente da Cleone.
Era una serata di tranquilla quiete domestica. Mi trovavo con Giunia, mia madre e zio Aulo nel triclinio. La cena era ormai finita e ci stavamo trattenendo l’uno con l’altro per passare il tempo.
Giunia ci leggeva a voce alta dei versi di Orazio, mentre mia madre filava e io e zio la seguivamo mentre apprezzavamo del buon vino, quando Eryx ci portò alcune lettere appena arrivate.
C’era un messaggio per Giunia, che era immancabilmente un invito a una qualche festa nei giorni seguenti, e due lettere per me, una di Lucio, che mi scriveva dalla Mesia dove aveva avuto un incarico e, appunto, quella di Cleone, che aprii per ultima.
Mi aspettavo francamente una dei soliti piccoli capolavori letterari di Cleone: la notizia del fidanzamento, la descrizione della sua gioia, esagerati ringraziamenti per la mia bontà e generosità, il tutto condito dai riferimenti più dotti che si potessero immaginare. Come minimo, la penna di Cleone avrebbe trasformato Prisco Numantino in un novello Cadmo e Filinna in una semidivina Armonia destinati ad un felice amore eterno, celebrati da tutti gli Dei Olimpici per una volta concordi e festanti.
Invece venni brutalmente smentito fin dall’incipit.
Cleone era talmente sconvolto che la sua stessa scrittura sembrava balbettare. Non solo il suo bello stile era perso, addirittura in tutto il messaggio non vi era neppure un paragone mitologico, ma lo stesso filo logico del discorso si perdeva ed era difficile ricostruirlo. 
Tra sensi del suo dispiacere, tra disperate richieste di perdono per l’offesa recatami e affrante assicurazioni che una giusta severa punizione era stata già inflitta, si traeva in sintesi che Filinna, a quanto pareva, aveva rifiutato la corte di Prisco e non accettava di sposarsi.
La sua angoscia era chiara che potessi prendere come una offesa personale il comportamento della figlia, in fin dei conti aveva rifiutato un pretendente che io avevo approvato. 
Non sapevo veramente cosa pensare e come giudicare la faccenda. Cosa era passato per la mente a Filinna? Cosa aveva visto di così spiacevole in Prisco Numatino, di cui non mi ero accorto? Ero talmente sconcertato che la mia reazione venne notata e mi venne chiesto cosa stesse succedendo. Minimizzai, o meglio era di sé stessa realmente una cosa talmente minima da non essere certo degna di attenzione, dissi che erano solo notizie di Cleone (ottenendo uno sguardo gelido di mia madre) e invece lessi ad alta voce le notizie che dava Lucio.

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Era, doveva essere, una cosa secondaria. Un inconveniente domestico se non piccola rilevanza, Numantino era solo un liberto, ma un liberto da considerare, di certo non importante.
Ma ovviamente io avevo difficoltà a considerarla tale e la mia preoccupazione non era certo quella delle reazioni di Numantino. Il mio cervello si arrovellava nel tentare di capire cosa fosse successo cosa mai potesse passare per la testa di Filinna, cosa mai poteva aver combinato quel ragazzo per essersi fatto rifiutare? Oppure era solo pazzia femminile?
Che fare? Ero tentato di riscrivere a Cleone, ma cosa mi avrebbe potuto rispondermi? Scrivere a Filinna stessa? Pensai persino questo, malgrado sarebbe stato darle una rilevanza assolutamente fuori luogo e oltretutto cosa avrei risolto?
Avrei dovuto pazientare e dare le cose il loro giusto peso e avrei capito e avuto le risposte a tempo debito.
Fallii. 
Quando durante una sessione in Senato la mia mente divagò talmente che sbagliai una delle formule di prassi, facendomi riprendere dal decano che presiedeva la seduta, mi divenne chiaro che dovevo togliermi questa spina.
Trovai una scusa, Gaio che ritornava a Roma e io che gli andavo incontro, e partii per Baia in perfetta solitudine, con solo due schiavi per le necessità fondamentali.

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Il viaggio non fu tremendo come avevo temuto e anzi venni accolto al mio arrivo a Baia da un bel sole che riusciva a far sentire il suo tepore persino in quella giornata invernale.
Arrivato a casa, non feci neppure in tempo a togliermi il mantello che mi trovai di fronte un Cleone affranto e soprattutto visibilmente preoccupato per il mio arrivo non annunciato.
I suoi saluti per quanto tentassero di essere cordiali non celavano la sua apprensione e, come mio solito, mi concessi di essere diretto e sincero nei suoi confronti.
“Sono qui per Filinna, Cleone.” Dissi e mi dispiacque vederlo impallidire.
“Padrone, vi prego, perdonatemi per quest’altro pensiero che la mia famiglia vi provoca.” Mi sedetti, con un sospiro, mentre mi sfilavano i calzari e lui continuò. “Abbiate misericordia, vi prego, non punitela per l’offesa che vi ha recato. L’ho già punita io, vi assicuro. È stata già battuta come si deve.”
“Non ho dubbi Cleone, non ho dubbi che tu abbia fatto quello che deve fare un genitore e ti assicuro non voglio aggiungere altre punizioni. Non sono neppure arrabbiato, amico mio. Voglio solo capire cosa è successo. Capisci? Perché? Cosa mai ha fatto rifiutare a Filinna una offerta simile? Cosa mai aveva il figlio di Numantino che non andava?”
“Non lo so padrone, non lo so. Era un gran bel ragazzo: perfetto.”
“E allora? Cosa mai le è passato per la testa?” 
“Si è rifiutata padrone. Scusatela e scusate me perché è colpa mia. Colpa mia, che sono stato così pazzo da crescerla come l’ho cresciuta, Padrone. Filinna non ha colpe, sono io che le ho insegnato come sognare di volare, ma non le ho potuto dare le ali per poterlo fare. Chi potrebbe? Ma non è colpa sua padrone. È colpa mia se è una creatura infelice e senza pace. Non voleva sposarsi… ho fatto di tutto per convincerla, con le buone e anche con le cattive, ma niente…. Alla fine, quel povero ragazzo si è arreso. Mi ha chiesto di lasciarla stare ed è partito.”
“Ma ti ha detto perché?” Lo vidi scuotere la sua di testa e non rispondermi. “Mandami tua figlia, Cleone. Famici parlare.”

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Filinna mi fece tanto aspettare che per un attimo temetti che, come anni prima, avesse riprovato a scappare, ma alfine mi raggiunse in giardino dove stavo passeggiando per calmare il mio di nervosismo. 
Cleone la accompagnava e vidi la sua evidente riluttanza quando gli dissi di lasciarci soli. Lanciò un ultimo enigmatico sguardo alla figlia, pieno di preoccupazione, rimprovero e rimorso, poi chinò il capo, si voltò e se ne andò.
Rimanemmo io e lei. Mi sedetti. 
Silenzio.
“FIlinna, hai rifiutato Prisco Numantino.” Dissi, una semplice affermazione.
“Sì, padrone. Rispose poi dopo un attimo di pausa sembrò riscuotersi. “Scusatemi, Padrone. Vi prego di perdonarmi. Non era mia intenzione offendervi, o mettere in dubbio la vostra scelta. Vi prego di perdonarmi se vi ho messo in difficoltà. Ho sbagliato.”
Calò di nuovo il silenzio. 
Era un discorsetto evidentemente preparato, pensato con anticipo, che non diceva niente di quello che avrei voluto sapere.
Filinna era ferma di fronte a me. Mani congiunte sul davanti, capo chino, evitava i miei occhi escluse breve occhiate per studiare le reazioni, per poi, rapidissima tornare a celare le sue emozioni.
Era un atteggiamento che conoscevo bene da parte sua. A volte lo faceva per timidezza, ma in quel caso ci metteva sempre un pizzico di deliziosa malizia, gli occhi che dardeggiavano su è giù, mentre sulle labbra aleggiava un sorriso. A volte, come in questo caso, era solo un modo per nascondersi e questa era sempre stata una cosa che avevo odiato con tutto me stesso e, adesso, dopo aver capito la portata dei miei sentimenti mi era finalmente chiaro il perché. Come si può sopportare che chi ami si nasconda a te?
Glielo dissi.
“Non sai quanto odio quando ti comporti così. Ti sto parlando Filinna e vorrei che tu facessi altrettanto con me.”
Questo bastò a farle alzare gli occhi a fissarmi
“Cosa, Padrone, cosa volete che faccia?”
“Parlarmi, Filinna.” Quasi esplosi. “Non dire solo sì padrone, no padrone. Scusate padrone. Perché lo hai rifiutato? Per quali ragioni?” Non rispose, testarda, tornando a nascondere i suoi pensieri e i suoi occhi. Ispirai, tentando di recuperare il controllo, mi sforzai di calmarmi. “Non sono arrabbiato, FIlinna, lo giuro. Non voglio neppure punirti o chissà cosa. Voglio solo sapere.” 
Raddrizzai la testa, schiena dritta, poggiai le mani sulle gambe, ma ancora non rispose. 
“Perché Filinna? Ti ha trattato male?” Sondai “Qualcosa non andava? Non ti piaceva forse? Vabbene anche questo, ma dimmi! Cosa devo fare con te, Filinna? Non vuoi forse trovare un marito? Io vorrei solo tu stessi bene, per Giove Statore. Cosa mai vuoi dalla vita?”
Mi guardò, negli occhi lessi una disperazione che non capivo, ma continuò a tacere. Fino a quando sarei riuscito a mantenere una calma apparente che non sentivo?
“Lo capisci che era un ottimo partito vero?” La vidi assentire. E continuai. “Era un cittadino romano, Filinna. Avresti sposato un Cittadino Romano, i tuoi figli sarebbero stati Cittadini Romani! Sono anche una famiglia assai ricca. Saresti stata libera, avresti avuto tu schiavi al tuo servizio. Ancelle per pettinarti i capelli e aiutarti in qualsiasi tuo bisogno.” Riiniziò ad evitare il mio sguardo mentre continuavo a incalzare. “Prisco ha tutte le possibilità di entrare nell’ordine dei cavalieri e pure presto. Se è capace, coi soldi del padre, potrebbe persino ambire a una carica pubblica ed entrare in senato. Avrebbe il mio appoggio. Cosa credi? Specie… specie se fosse tuo marito. Guardami in faccia!” Le ordinai brusco e ottenni di essere ubbidito “Filinna, lo capisci? Moglie di un senatore! Torneresti nella mia casa come invitata, per banchettare. Non serviresti il vino, te lo servirebbero. Mangeremo insieme allo stesso tavolo. Guardami! Lo capisci vero?” Di nuovo abbassò lo sguardo spingendomi un altro passo verso l’esasperazione. “Si può ancora recuperare tutto, Filinna. Posso parlare con il padre. Lo farò volentieri per te, e Prisco tornerà, ne sono sicuro. Solo un folle non tornerebbe da te.” A quelle parole lei rialzò gli occhi a guardarmi. “Cosa ha fatto di così grave quell’uomo? Cosa non ti convince? Cosa ha di sbagliato?”
“Non ha fatto nulla di sbagliato.” Rispose finalmente. Aprendo finalmente bocca. Finalmente dicendo qualcosa. “Lui non ha nulla di sbagliato.”
“E allora??” Non riuscii a trattenermi dall’alzare la voce, ma come era possibile trattenersi a qual punto? Mi morsi le labbra per non aggiungere altro e non spaventarla e riuscii ad avere una risposta e una spiegazione… se era possibile considerarla tale.
“Io non voglio lasciar…” Sì interruppe. “Lasciare tutti quelli che amo. Non voglio andare via di qui. Vi prego, padrone, non allontanatemi. Non mandatemi via.” Era vero, lo sconforto nella sua voce era sincero, non avevo dubbi che sentiva quello che stava dicendo. “Vi prego.” Aggiunse di nuovo.
Ci impiegai un attimo per assorbire le sue parole e quasi sorrisi rendendomi conto di quello che avevo detto.
“Ma cosa vai a pensare? Ma che sciocchezza Filinna! Non essere stupida! Ti preoccupi per questo? Ma cosa pensi, che sarebbe un problema liberare tuo padre e la tua famiglia? Se è questa la tua preoccupazione, dimenticala. Non lascerai nessuno. Li libererò insieme a te. Come puoi dubitare che non lo avrei fatto? Senza contare che tuo suocero avrebbe abbastanza ricchezze per riscattare due volte tutti voi e sistemarvi comodamente! Che stupidaggine! Ma come puoi pensarlo?”
Non rispondeva
“Non essere stupida, Filinna, questo si può sistemare. Fammi parlare con il padre di Prisco Numantino.
La sua reazione mi prese di sorpresa.
“Non sono io stupida!” Rispose drizzando schiena e testa. La voce irata e una furia improvvisa negli occhi. “Non sono io stupida!” Ripeté, lasciandomi a bocca aperta. “Siete voi stupido! Siete Senatore, siete uomo, ma sei stupido!! Perché sei così stupido? Come fai a non capire? Se mi sposo, se vado via di qua… come ti rivedo…” Si impappinò. “Come vi rived…” Smise di parlare, la rabbia sparita improvvisamente come del fumo disperso da una folata di vento e subito sostituita dall’apprensione.
“Scusate padrone.” Alzò le mani di fronte a lei come a proteggersi. “Io non volevo… io volevo dire questo padrone. Scusate, non vi arrabbiate, non volevo dirlo.” Fece un passo indietro, si voltò come a scappare via. 
Quando non si fermò nemmeno al mio richiamo, la inseguii e la raggiunsi afferrandola per un braccio e costringendola a voltarsi.
“Cosa hai detto Filinna?”
Lei continuava a chiedere scusa, sull’orlo delle lacrime e quando mi prese a sua volta il braccio con cui la tenevo ferma, mi accorsi che la mia stretta le stava facendo male. La lasciai e le presi le spalle con delicatezza ma con fermezza.
“Cosa hai detto?” ripetei.
“Io non volevo padrone… non volevo insultarvi.”
“Cosa hai detto?”
“Non volevo insultarvi!”
“No, cosa hai detto, perché non vuoi andare via?”
“Non volevo. Padrone. Scusate io non volevo… non volevo osare, non volevo dirlo.”
“Filinna perché?” Non rispondeva riprecipitata nel mutismo. La vedevo aprire e chiudere la bocca senza emettere un suono.
Le lasciai le spalle, le presi il viso con entrambe le mani e la baciai. Quando mi staccai la tenni ferma fissandola negli occhi.
“Perché?... Per favore.”
Finalmente mi guardava, finalmente ci guardavamo. Nei suoi occhi c’era dolore, paura, ma anche una folle speranza. Credo vedesse lo stesso nei miei.
Finalmente ripeté le fatidiche parole.
“Non voglio lasciarti. Se me ne vado come ti rivedo?”
Le lasciai il viso permettendole di chinarlo, di nascondersi di nuovo, ma senza esitazione la abbracciai stringendomela contro. Il suo viso affondato sul mio petto, il mio nei suoi capelli. Sentivo il suo respiro spezzato, respiravo il suo profumo. 
Quando alzai lo sguardo, dopo un tempo infinito, vidi a poca di distanza da noi uno degli schiavi del giardino che ci fissava gli occhi sbarrati dalla meraviglia. Quando i nostri occhi si incrociarono, lasciò cadere l’attrezzo che aveva in mano e scappò via, terrorizzato dall’aver visto qualcosa che non doveva.
Non me ne importava.
“Anch’io non voglio lasciarti, Filinna.” Confessai e la sciolsi dall’abbraccio. Rimanemmo a un passo di distanza l’uno dall’altra, alzai le mani ad accarezzarle una guancia bagnata. Le presi una mano e la portai a sedersi accanto a me su una delle panchine in pietra.
“Dite sul serio?” Chiese a voce bassa.
“Sì, mi è molto chiaro adesso. Filinna. Non è molto che l’ho capito, sono stupido, hai ragione tu. Ma l’ho capito quanto sei importante per me.”
Si girò verso di me: “È vero? Vero veramente?” quando annuii, rispose, con la voce piena di orgoglio. “Io l’ho sempre saputo. Non so neppure da quando, ma sono sempre stata innamorata di voi.”
“Sai,” riuscii a dire, “cose simili dovresti dirle chiamandomi Marco.” La vide deglutire come ad ingoiare delle lacrime, ma questo riuscì a farla sorridere.
“Il giorno più felice della mia vita” continuò “fu quando a Roma mi offristi di leggere le tue poesie di Catullo. Ricordi?”
“Certo che ricordo. Eri venuto ad accendere le lucerne. Ed eri così bella.”
“Ero così felice, che ti ricordavi di me. Che mi avevi parlato. Che mi permettevi di leggere i tuoi volumi. Mi lasciavi i biglietti.”
“Poi ti baciai e poi tu scappasti. E io ti feci del male. Come puoi voler bene a chi ti ha fatto male?”
“Ero stupida anch’io, Marco… avevo paura. Non sapevo cosa fare…. È complicato da spiegare.” Tacque. “Ma poi era bellissimo, il periodo più bello, prima che tu partissi.”
“Avrei voluto capirlo prima. Avrei voluto dirtelo prima.”
“Io non volevo, Marco. Non volevo dirtelo. Io come potevo…? Cosa avresti pensato? Non potevo neppure pensarlo. Io non voglio niente Marco, lo giuro, ma non mi mandare via.”
I nostri sguardi non si erano mai incrociati così sinceri. Le strinsi, forte, la mano.
“È una stupidaggine, lo sai?” Non ribatté e continuai. “Dovresti sposarti, saresti libera. Avresti figli, saresti felice. Qui non hai niente. Cosa posso puoi avere qui? È la cosa migliore per te.” Potevo dirlo, perché era la verità.
“Non voglio, non sarei felice… come potrei? Tu pure non saresti felice. Marco, non voglio niente. Non me lo chiedere ancora.” Si interruppe di nuovo. “Sono stupida forse, ma io non voglio lasciarti.”
“Sono stupido anch’io allora, come hai detto tu.” Non sapevo bene cosa avremmo potuto fare, ci avrei pensato, ma dopo. In quel momento ero felice, felice come non ero mai stato. Adesso avevo tutto quello che un uomo può desiderare.
Rimanemmo seduti, senza parlare, tenendoci la mano. Guardando il mare di inverno profondo e scuro come il vino.

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Qui finisce questa storia, pur avendoli creati io non so come andrà la vita di Marco e Filinna da qui in poi. 
Di loro, fossero reali, sapremmo abbastanza poco. 
Di una schiava come Filinna al massimo ci potrebbe rimanere il ricordo di una lapide con iscritto il suo nome, dedicata, chissà, da un figlio addolorato o forse proprio da Marco in lacrime.
Su di lui, visto il suo rango potrebbe rimanere di più. Una, o forse più di una, citazione nei fasti consolari. L’elenco delle magistrature ricoperte, delle iscrizioni marmoree in ricordo di qualche statua o fontana da lui donata a qualche città, o forse targhe commemorative in cui viene lodato il suo saggio governo di qualche provincia imperiale, la Macedonia o magari la Bitinia.
Il resto dovrebbe farlo la nostra fantasia e, certo, potrei andare avanti a scrivere. Ma in verità preferisco lasciarli qui, Marco e Filinna, in un momento di felicità e speranza e non andare oltre, perché temo che difficilmente troverei un lieto fine.
La vita non era semplice nel I° secolo dopo Cristo. Era breve e a volte crudele.
Filinna potrebbe morire di una qualsiasi malattia, delle tante che mietevano senza speranza di cura, o durante un parto, sempre un rischio a quei tempi, se lui deciderà di avere un figlio da lei.
Marco, nella sua elevata posizione, non deve badare solo alla sorte e alle malattie o alle guerre, corre addirittura maggiori rischi: potrebbe cadere vittima come già suo padre di intrighi e gelosie. Alla morte di Claudio, dovrà sopravvivere al regno di Nerone, quel Lucio Domizio che, ospite al suo matrimonio, aveva definito un ragazzo timido, ma intelligente e sensibile. Passato anche Nerone potrebbe facilmente scegliere la fazione sbagliata durante il famigerato anno dei 4 imperatori ed essere eliminato in qualche epurazione.
Se pur dovessero sopravvivere in salute, Giunia potrebbe al fine rendersi conto che quella del marito non è solo una infatuazione per una schiava graziosa e come reagirebbe? Non era atipico per un Patrizio romano avere amanti o concubine, specie se di rango inferiore come Filinna. Ma Giunia, se vedesse in Filinna un vera rivale per il cuore del marito, manterrebbe la sua distaccata superiorità o si vendicherebbe con la furia e la malizia che solo una matrona romana sa scatenare? Marco avrebbe la forza di proteggerla e mantenere le sue promesse?
Sono tante, troppe, le cose che potrebbero andare male.
O invece mi potrei sbagliare. Potrebbe andare tutto bene. Potrebbero essere felici.
Ci sono dei versi, in greco, che sembrerebbero scritti da un Marco più vecchio e più saggio e ancora innamorato della sua Filinna:

Πρόκριτός εστι, Φίλιννα, τεὴ ῥυτὶς ἢ ὀπὸς ἥβης, πάσης. ἱμείρω δ’ ἀμφὶς ἔχειν παλάμαις
μᾶλλον ἐγὼ σέο μῆλα καρηβαρέοντα κορύμβοις, ἢ μαζὸν νεαρῆς ὄρθιον ἡλικίης.
σὸν γὰρ ἔτι φθινόπωρον ὑπέρτερον εἴαρος ἄλλης, χεῖμα σὸν ἀλλοτρίου θερμότερον θέρεος.

Amo di più le tue rughe, Filinna, 
che lo splendore della giovinezza.
Mi piace sentire nella mano
il tuo seno, che piega già pesante
le sue punte, più del seno diritto
d’una ragazza. Il tuo autunno è migliore
della sua primavera ed il tuo inverno
è più caldo della sua estate.


Mi piace sognarli così, anni dopo che li abbiamo lasciati. 
Li ha scritti lui, per lei, una vena di poesia ritrovata dopo tanto tempo. E noi siamo lì a guardarli, mentre lui glieli recita.
Invecchiati, ma ancora innamorati e ancora insieme. Seduti su quella stessa panchina, mano nella mano, ad osservare il mare profondo e scuro come il vino.
Felici.

FINE

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Capitolo 9
*** Appendice storico letteraria ***


Come promesso ecco alcune note a chiusura su quello che avete appena letto.
Per scrivere queste pagine mi sono ispirato e ho attinto da numerose fonti e libri, in particolare per quello che era il mio principale obiettivo, rendere, in maniera realistica, quale poteva essere il rapporto tra i due protagonisti, mi sono basato su tre libri:
 
- The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian (Cambridge Press, 2010) di William Warwick Buckland
- Goddesses, whores, wives, and slaves. Women in classical antiquity (Cambridge Press, 1975) di Sarah Pomeroy

E, meno accademico e più facile da leggere:
 
- Marcus Sidonius Falx - How to manage your slaves (Profile Books 2014) di Jerry Toner 
 
Piacevolissimo, snello, volume in cui l’autore si mette nei panni di un nobile patrizio romano (socialmente equivalente a Marco) che immagina scrivere un trattato su come gestire i propri schiavi. Prezioso per immedesimarsi nel corretto punto di vista dell’epoca e con una ricchissima nota bibliografica di fonti primarie
Chi ha letto “Io Claudio” e il “Divo Claudio”, di Robert Graves, potrebbe notare in più di una pagina delle somiglianze. Non è un caso. Ho sfrontatamente e immodestamente tentato di scopiazzarne lo stile. E quindi spero proprio si noti!
Comunque, se non li avete mai letti, fatelo.
 
Nel testo trovate citati tanti personaggi storici realmente esistiti, alcuni di primo piano: l’imperatore Claudio, con le sue mogli Valeria Messalina e Agrippina Minore, il figlio di questa Lucio Domizio che passerà alla storia col nome di Nerone, Vespasiano che gli succederà. 
Ce ne sono altri meno noti: Sesto Palpellio Istro che porta Marco in Pannonia è realmente esistito, è stato realmente governatore di quella provincia e senatore e console. Ed era un provinciale, nato, come dice il nome, in Istria.
Allo stesso modo è reale il padre di Giunia: Decimo Giunio Silano Torquato, anche lui veramente senatore e console, ma di cui si sa ben poco di più.
Anche Senofonte di Coo il medico che segue Giunia è una persona reale. Era veramente il medico dell’Imperatore Claudio e venne accusato di avergli somministrato il veleno con cui venne assassinato (faceva decisamente bene a non raccomandarlo, vedete?)
 
La maggior parte dei miei personaggi sono invece di pura fantasia a cominciare da Marco e la sua famiglia (anche se i Valerio Corvino, come famiglia, esistettero veramente e un omonimo di Marco nel lII° secolo avanti Cristo fu console per ben 6 volte e morì ultracentenario).
Di pura fantasia lo è anche la servitù di casa: Filinna, Cleone, Romolus, Eryx, Sabra e i due Numantino, così come Catualda.
Ah! Anche il pessimo poeta Giunio Liciniano è una pura invenzione e, se mai è esistito, come auspicava zio Aulo, gli Dei sono stati pietosi ed è stato dimenticato. 
Una precisazione ad uso dei fanatici di storia romana, che potrebbero, unici, notarlo: ho tentato di scrivere un racconto storicamente verosimile, ma non necessariamente storicamente accurato. 
 
Soprattutto ho totalmente ignorato la cronologia degli eventi storici quando non si adattava ai fini del racconto (ad esempio Valeria Messalina cade in disgrazia e viene uccisa ben prima della rivolta in Pannonia da cui Marco torna coperto di onori), ce ne sono anche altre differenze rispetto ai fatti storici reali, ma sono minime: non vi tedio e conto di venir perdonato.
Spero non vi abbia annoiato il fatto che ho inframmezzato alla storia spesso e volentieri dei brani letterari. L’ho voluto fare sia per poter dare pienamente il sapore dell’epoca e il gusto classico dell’erudizione, sia perché la passione tra i due protagonisti nasce non solo dalla pura attrazione fisica, ma anche, e soprattutto, dalla loro affinità intellettuale.
 
Tutte le volte che ho inserito un brano lo ho citato e ho dato indicazioni di chi fosse. Escluso in due punti che vado a chiarire.
Il primo caso e la poesia che Cleone dedica a Giunia: è di Rufino. Un poeta lirico greco di cui si sa ben poco, è il carme 95 e la traduzione italiana che ho usato è quella dell’Antologia Palatina a cura di Salvatore Quasimodo.
 
Il secondo testo, e ben più importante, è il canto finale dedicato a Filinna. L’autore di quegli splendidi versi è Paolo Silenziario, un poeta del VI° secolo che visse alla corte di Giustiniano ricoprendo (quelle suprise!) l’incarico di Silenziario (ovvero precedeva l’imperatore avvisando gli astanti di tacere).
La traduzione è, come nel caso precedente, quella di Quasimodo, per l’edizione Garzanti dell’Antologia Palatina
Si tratta, secondo me, di una delle poesie di amore più belle mai scritte e sì, la mia di Filinna deve il suo nome proprio alla protagonista di quei versi.
 
Grazie di avermi seguito fin qui e di aver seguito Marco e Filinna. Era tanto tempo che li avevo in testa, i loro amori, le loro speranze, le loro sofferenze, e sono contento di essere riuscito finalmente a dargli vita.
Spero che abbiate gradito queste pagine, io di sicuro ho gradito scriverle e apprezzato la vostra compagnia, i vostri suggerimenti e i vostri commenti.
Spero di reincontrarvi per le mie prossime storie.
Arrivederci
 
That’s all folks

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