Neve

di drisinil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Restare in campo [2012] ***
Capitolo 2: *** Lo vedi? [2013] ***
Capitolo 3: *** In salita [2014] ***
Capitolo 4: *** Analfabeta [2015] ***
Capitolo 5: *** Sabbia [2016] ***
Capitolo 6: *** Cancellato [2017] ***
Capitolo 7: *** Corrente [2018] ***



Capitolo 1
*** Restare in campo [2012] ***


Nella luce gialla del lampione, gli occhi di Hinata sono fuoco liquido.
Da quando schiaccia la veloce tenendoli aperti, alzare per lui è una droga. Tobio sente il richiamo del suo desiderio di schiacciare mentre lo guarda sottosopra, passando all'indietro, mentre tutta la squadra corre in avanti, mentre gli avversari annaspano cercando di murare a caso. Ogni volta deve resistere alla tentazione di ignorare il gioco e servire lui, soddisfare il suo bisogno.
Servire. Soddisfare. Decisamente, non i verbi di un re.
Chissenefrega.
Chinarsi, distendersi, valutare la tensione, la torsione, la forza, la spinta. Imbrigliare il talento, piegare l'istinto alla traiettoria perfetta, perché la palla si fermi all'apice della sua parabola, esattamente di fronte a Hinata, in linea con la proiezione della mano destra in movimento. E regalargli un istante di onnipotenza. Sospendere il tempo per lui.
Servire.
In partita, Kageyama Tobio alza solo per chi può fare punto, alza per la vittoria. Ma nel parco, quando sono soli, lo fa sempre e soltanto per Hinata Shoyo.
Hanno iniziato ad andare lì in primavera, quando all'ora di chiusura della palestra della scuola, erano gli unici ad avere ancora troppa voglia di giocare. Succedeva ogni tanto. Poi ogni tanto è diventato spesso spesso è diventato sempre, ogni giorno, con ogni tempo, in ogni stagione. Tranne quel mese, in cui non si sono mai rivolti la parola. E sembra tanto indietro nel passato da non avere più alcun senso.
«Ancora una!»
Ancora una. Ancora mille.
Ancora.

Il buio ha iniziato ad arrivare presto; folate di vento gelido trasportano stormi di foglie secche vorticanti. Hinata si confonde nei loro colori e si libra in volo con lo stesso impeto, la stessa capacità di vincere la gravità, di prendere le correnti, la stessa invincibile leggerezza.
La palla percuote l'acrilico con un suono sordo, a velocità impressionante. Perfetta. Shoyo atterra a fianco al suo alzatore, con un sorriso ammirato. Divide sempre il trionfo in parti diseguali, e prende per sé la minore. Crede che sia di Kageyama, il merito di quei miracoli.
«Ancora una!»
Sono quasi le uniche parole che si rivolgono, insieme a una manciata di aggettivi e a qualche insulto occasionale. Sono avari di parole, più che altro perché non ne hanno alcun bisogno. Basta guardarsi.

Tobio alza di nuovo e, come sempre, cerca di leggergli la mente: parallela o diagonale? Lunga o cortissima? Rigida come un rebound o o morbida come un pallonetto? Riesce a indovinare meno di quanto vorrebbe, ma sempre più spesso.
Se potesse, entrerebbe di forza in quella stupida testa arancione, per guardarci dentro, svelare tutti i segreti, conoscere tutti i pensieri, tutti i desideri. Anche quelli meschini, quelli crudeli, quelli sconci. Non gli importa di dare giudizi, va bene tutto. Pur di essere lì, di essere all'interno.
Hinata colpisce. Diagonale, lunga, dura, stile Bokuto Kutarou, esattamente sulla linea di fondo. Perfetta, anche questa.
L'atterraggio non è perfetto, però, e Shoyo si ritrova in ginocchio, a cercare l'equilibrio agitando freneticamente le braccia.
«Stai attento, Boke! Se ti giochi una caviglia prima dei nazionali ti ammazzo.»
«Stai calmo! Sono solo scivolato, è tutto a posto» risponde Shoyo, rialzandosi; si batte le mani contro i pantaloni, si sistema addosso la felpa.
E' orrida, come tutto quello che indossa. Abiti chiassosi, infantili, troppo colorati. Eppure, su Tobio hanno l'effetto di un faro d'automobile contro un animale notturno: impossibile distogliere lo sguardo. Solo quando lo vede cambiarsi, nello spogliatoio, storna subito gli occhi dalle spalle ossute, dalla carne troppo bianca, dai muscoli sottili del dorso che guizzano sottopelle. Meglio vestito.
Ancora una, invoca silenziosamente. Non lo dice, però, perché dev'essere Shoyo a dirlo. Senza un motivo. Funziona così e basta. Hinata supplica, il Re concede.
Hinata ordina, il Re obbedisce.
Ma Shoyo sta fissando in silenzio il cielo notturno, biancastro di nuvole dense che hanno cancellato la luna. Il suo profilo adolescente si staglia netto sotto il lampione, illuminato esattamente a metà.
Apre la mano, come se dal cielo cadessero doni. Ed è così.
«Nevica!» sussurra, trepidante di gioia infantile.
Tobio si guarda intorno: controluce si vedono fiocchi radi che volteggiano. «Che palle! Così dobbiamo andarcene» grugnisce, contrariato.
«Hai mai fatto una partita sotto la neve?» chiede Shoyo, senza smettere di fissare il cielo. I fiocchi gli colpiscono gli zigomi, la fronte, le labbra e si sciolgono a contatto col suo calore, lasciando tracce umide, che rifletttono la luce.
Tobio chiude gli occhi. «Ma quanto sei stupido? No! Ti pare possibile giocare a pallavolo in esterno con la neve?»
«Facciamolo!» esclama Shoyo, per tutta risposta, rosso in viso, eccitato.
Le fiamme gli danzano negli occhi, tutto in lui è sorriso.
E' irresistibile. Letteralmente. Le idee più balzane, espresse come desideri, caricate di aspettativa, vibranti di energia, diventano attuabili solo perché soddisfano le sue voglie. 
Servire. Soddisfare. Tobio si chiede chi sia il re.
Sospira, brontola, lo guarda male. «E' una cosa idiota» commenta. Ma sa già che lo farà.
Anche Shoyo lo sa. «Sì, lo è. Ma non l'ho mai fatta. E tu nemmeno. Dai, facciamolo! Ancora una!» Saltella, guarda in alto, si sfrega le mani. Sorride. Soprattutto, sorride.
«Allora muoviti, Boke! Non stare lì impalato a faccia in su. E guai a te se ti azzardi a prenderti una polmonite o a romperti qualcosa! Ti gonfio.»
Tobio fa roteare la palla fra le dita e offre il suo sorriso al buio, guardando il terreno spolverato dal primo strato di fiocchi ghiacciati.
Giocare a pallavolo con la neve è l'ennesima idiozia che faranno insieme.
Perché è quello che lui vuole. E Tobio desidera i suoi desideri.
Lancia in aria la palla. Aspetta l'attimo del distacco di Hinata dal suolo, calcola i tempi, si riempie gli occhi dell'arco del suo corpo avvolto dal turbinio della neve che cade. E alza per lui.
Ancora una.

***

«Basta!» dice Tobio, chinandosi a prendere la palla da terra.
A Shoyo non piace quel tono di comando. Il motivo per cui non gli piace è che tutte le volte avverte la tentazione di obbedire senza discutere. «Perché? Che ore sono?»
«Non è questione di ora, è che sta nevicando più forte. Ha già attaccato e tu sei scivolato almeno tre volte negli ultimi dieci minuti. L'unico motivo per cui non sei finito col culo per terra è che sei molto agile. E poi fa troppo freddo.»
Shoyo sospira e le sue spalle si abbassano. Tira un paio di calci allo strato di neve, sollevando qualche spruzzo. Raggiunge la panchina e si infila la giacca a vento. «Allora ciao» grugnisce, imbracciando la tracolla della borsa.
Si salutano sempre così, senza tanti convenevoli. Deve sembrare che a nessuno dei due importi granché dell'altro, fa parte di un'abitudine che è già diventata rito.
Shoyo si volta e si aspetta di vedere la mano alzata di Tobio, già incamminato nella direzione opposta. Appena sparito alla vista, arriverà il cicalino del suo messaggio: Scrivi quando arrivi, Boke. Sempre identico, con pochissime variazioni.
Invece stavolta Tobio è fermo lì, con le mani sui fianchi, e il cappotto ben allacciato. «Dove stai andando, Boke?»
«Dove pensi che stia andando? A casa.» Shoyo ha già le mani sul manubrio.
«In salita in bici? Con questo tempo? Se devi morire prima dei nazionali, preferisco ammazzarti io.»
In effetti la nevicata sta rinforzando e l'ultima parte del percorso verso Kami è su una statale che, a essere fortunati, spazzeranno domattina.
«Se butta male, la porto a mano» replica Shoyo.
«Non se ne parla. Ci metterai tre ore e ti verrà la polmonite.»
«Non è che ci sono tante alternative.»
«Fatti venire a prendere.»
«E da chi? Da Natsu?» Shoyo scuote il capo e si avvia verso l'uscita, spingendo la bici.
Il passo di corsa di Kageyama ha un ritmo serrato incredibilmente uniforme, perfetto come tutte le sue prestazioni atletiche. Shoyo sarebbe capace di riconoscerlo fra mille. In questo caso, non c'è neanche bisogno di indovinare. Tobio lo raggiunge e lo afferra per un braccio, con poco garbo.
«Tu a casa in bicicletta con questo tempo non ci vai!»
Shoyo si divincola «Piantala, Baka! Ho detto ciao!»
«Fatti venire a prendere da tua madre.»
«Lo sai che non guida col buio.»
«Aspetta, Boke!» Tobio estrae dalla tasca il telefono e digita furiosamente sui tasti.
Shoyo inizia ad averne abbastanza. E' sempre così con Kageyama, un prepotente su tutti i fronti. Eppure... eppure non ha mai conosciuto nessuno che ammirasse così tanto, e allo stesso tempo con cui si sentisse così libero di essere se stesso, di dire cose stupide, di litigare. Non che siano amici, no. E' qualcosa di diverso, una specie di rivalità, che però contiene anche altre cose che hanno in comune: competitività, per esempio. Passione smodata per la pallavolo. Voglia di vincere. Cose importanti.
«Manda un messaggio a tua madre e dille che arrivi alle nove» ordina Tobio, rimettendosi in tasca il cellulare. «Ti accompagna Miwa, dopo l'ultima cliente.»
«Ma sei deficiente? Hai scomodato tua sorella per accompagnarmi alle nove di sera? Io a casa tua non ci vengo!»
In realtà Shoyo è molto curioso di vedere la casa di Kageyama, anche se preferirebbe farsi prendere a pallonate in faccia da Tsukishima piuttosto che ammetterlo.
«E chi ti ci vuole a casa mia?»
«Pensi di stare fuori sotto la neve fino alle nove? Sei scemo?»
«Andiamo in un posto.»
«Dove?»
«Seguimi!»
Shoyo si trova a obbedire. «Tienimi un attimo la bici!» gli dice, e intanto manda alla mamma un messaggio, pieno di faccine, come piace a lei.
«Mi dici dove andiamo?»
«No. Cammina.»
La strada risulta familiare: è quella che percorrono ogni giorno in senso inverso, per andare al parco. Immersi nella neve che danza, camminano in fretta, Hinata con le mani affondate in tasca e Kageyama continuando a spingere la bici.
«Siamo arrivati.»
«Eh?! Guarda che siamo a scuola!»
Tobio fa dondolare qualcosa davanti al naso di Shoyo. E' una chiave, attaccata a un anello d'acciaio, con un portachiavi di metallo a forma di Mikasa.
Gli occhi di Hinata si accendono come fiamme vive. Kageyama resta a guardarli, abbagliato. Quando si riscuote, stringe in pugno le chiavi con un gesto secco. «Se ci scoprono, ci possiamo scordare il torneo. Quindi cerca di non fare lo scemo.»
Raggiungono il punto dove la recinzione esterna si può sollevare quel tanto che basta per sgattaiolare dentro, si muovono al di fuori dei coni di luce dei lampioni ed entrano in fretta nella grande palestra, immersa nel buio salvo le strisce sotto le finestre larghe e basse, da cui filtrano il biancore della neve e la luce soffusa dei lampioni.
Uno dei posti più familiari al mondo, nonostante frequentino quella scuola da meno di nove mesi.
«Non possiamo giocare» osserva Shoyo deluso.
«Non possiamo neanche accendere la luce. Ma almeno non si muore di freddo.»
«Vado a vedere se i termosifoni negli spogliatoi sono accesi» dice Shoyo a bassa voce. Torna scuotendo la testa. «Come hai fatto ad avere le chiavi?»
«Ho fatto una copia di quelle di Tanaka, quel giorno che ce le ha date perché doveva correre a casa.»
«Sei un criminale.»
Tobio ghigna, come fosse un complimento. E forse un po' lo è.
L'orologio sul muro segna le sette e dieci. «E quindi che facciamo fino a che non arriva tua sorella?» domanda Shoyo, guardando con desiderio la cesta con i palloni.
Tobio si stringe nelle spalle. «Parliamo.»
Shoyo si gira a guardarlo, perplesso. «Parliamo? Di che vuoi parlare?»
«Non lo so» risponde Tobio, stringendosi nelle spalle. Si siede con la schiena contro il muro, sotto la finestra, le gambe distese e caviglie incrociate.
Shoyo si siede lì a fianco, la testa appoggiata sulle ginocchia piegate. «Una cosa di cui vorrei parlare con te ci sarebbe» confessa.
Tobio si volta a guardarlo. «Hai qualcosa da mangiare?»
«Eh?»
«Ho fame.»
«Non te ne frega niente di quello che ho da dire?»
«Non lo so, non l'hai ancora detto. Ma ho fame.»
«E poi fai quello che vuole parlare.»
«Dai, avrai pur qualcosa.»
Shoyo sospira «Ho quei biscotti che mi hai dato tu ieri.»
«Quelli pieni di glassa?» chiede Kageyama schifato.
Shoyo annuisce. «A forma di pupazzo di neve. Sono così carini! Anche la ragazza era molto carina.»
«Tu dici?»
Shoyo annuisce, rovistando nella borsa. Estrae un sacchetto di carta azzurra, con dentro sei o sette biscotti glassati. «Non te ne piace mai nessuna.»
Tobio alza le spalle. «Comunque, chi avrebbe tempo per una ragazza?»
Hinata questo lo capisce. Porge i biscotti a Kageyama, ma prima se ne infila in bocca uno.
«Perché pensi che sia carina?» si informa Tobio, con una curiosità che sembra scientifica, più che romantica.
«Begli occhi, bei capelli, minuta, dolce. Kawaii
Tobio arriccia le labbra, riflettendoci. «Non mi dice niente» conclude, masticando.
«E' una ragazza carina. Cosa deve dirti?»
«Boh. Qualcosa. Quanto sorridono, mi sembrano tutte identiche. Negli occhi non hanno... » Kageyama si volta a fissare Shoyo, che aspetta la conclusione della frase. «...niente di speciale. Niente che valga la pena di guardare. O che ti faccia provare qualcosa.»
«Sei strano.»
L'unica risposta è una mano che si infila nel sacchetto a prendere un altro biscotto.
«Ma prima o poi te ne piacerà una» profetizza Shoyo. Vorrebbe essere allusivo e malizioso, ma la voce suona un po' fasulla.
«Bah! Non credo. A meno che non mi stracci a pallavolo.»
«Vuoi essere stracciato da una ragazza?»
«No.»
Hinata solleva le sopracciglia, poi scuote la testa, sfregandosi le mani. «E quindi? Non ha tanto senso quello che dici.»
«Chissenefrega. Di che volevi parlare?»
«Del ritiro della nazionale giovanile» risponde Shoyo, guardandosi le scarpe. «Non mi hai raccontato quasi niente. Ho capito che è una cosa tua, ma... »
«Che vuoi sapere?»
«Tutto!» E' un tono a metà fra l'esaltazione e la frustrazione.
«Abbiamo giocato molto, in tutti i ruoli. Gli altri erano... forti. Alcune situazioni sono state interessanti. Lo yogurt della mensa era una marca sfigatissima e faceva pena.»
«E...?» 
E tu, Boke, non c'eri. Quindi era buio. Tutto il tempo.  «E cosa?»
Shoyo sbuffa, tirando una pedata a Kageyama. «E ti sei divertito? Ti sei emozionato? Hai imparato cose...tipo wow, stump, swish...»
«Parla come gli umani! E' stato... normale. Pallavolo.»
«Normale.» Il sospiro di Hinata è profondo, con un verso di scoramento. «Vai al ritiro della nazionale giovanile, a Tokyo, e la cosa non ti fa né caldo né freddo. Non ti esalta. Non ti cambia la vita. Sai che ti dico, baka? Tu non te la meriti, la nazionale giovanile! Anche se sei un mostro.»
Kageyama reagisce in un attimo, come sempre. Afferra Hinata per la giacca a vento e lo strattona: «E' tutta colpa tua!»
Shoyo si libera con una manata «Che cavolo dici? Colpa di cosa?»
«Non hai combinato niente. Da cinque a quindici anni non hai fatto un cazzo. Ricevi di merda, servi come uno di prima media! Fai schifo!»
Shoyo incassa quegli insulti con il cuore che gli martella in gola. Fanno male, anche se sono tutte cose vere. Fanno male perché sono vere. E fanno più male perché le dice lui. «Credi che non lo sappia?»
Scatta in piedi, a pugni stretti. E' gonfio di collera fin quasi a scoppiare. E nei suoi occhi, che lo guardano dall'alto in basso, Kageyama vede scoppi, eruzioni, esplosioni fra vampate di fiamma.
«Scusa se non ho il tuo talento! Se mio nonno non faceva l'allenatore di pallavolo e non mi ha messo una palla in mano a tre anni! Se sono basso! Se alle medie sono stato da solo in squadra per due anni e ho dovuto mendicare ogni singola alzata che ho ricevuto. In terza ho trascinato in campo cinque persone a caso solo per iscrivermi al torneo e farmi umiliare da te. Credi che non muoia di invidia ogni volta che ti guardo? Che non ci metta abbastanza impegno? Credi che non volessi essere lì a Tokyo con te? Mi sarei venduto l'anima per esserci!»
Kageyama lo guarda dal basso, con gli occhi socchiusi, senza parlare.
Shoyo si smonta in un attimo. L'ira lo abbandona tutta insieme, come un abito che cade; gli resta addosso un'ansia divorante di rivalsa, e qualcosa in più, come un nodo inestricabile all'altezza dello stomaco, che preme e fa male, lì dentro, da qualche parte.
Quando Tobio gli prende le mani, reagisce al rallentatore. «Si può sapere che vuoi?» grugnisce, liberandosi.
«Hai le mani ghiacciate.»
«E quindi?»
«Vieni qui!» ordina il re del campo.
«Ma dove?»
«Stai zitto. Vieni qui!» Tobio gli afferra un polso e lo torce, tirando verso il basso.
Hinata si ritrova in ginocchio di fronte a lui. «Ahia, mi fai male! Baka! Lasciami!»
Tobio, sordo alle proteste, lo spinge e lo tira, fino a farlo voltare, seduto di schiena in mezzo alle sue gambe aperte. E poi se lo stringe contro, abbracciandolo alla vita con una presa d'acciaio.
«Che diavolo fai?» Shoyo tenta invano di forzargli le braccia.
«Zitto. Ti scaldo.»
«Lasciami andare!»
«Stai zitto, ho detto: ci sentiranno, se continui a urlare come una scimmia. Vuoi sapere o no com'era il ritiro della nazionale giovanile?»
«Non me lo hai appena detto? Non mi hai appena riempito di insulti?»
«E tu non hai capito. Perché sei cretino.»
«Piantala! Levati!» Shoyo assesta un pugno all'indietro, diretto al fianco di Kageyama.
«Tieni ferme queste mani!» Tobio le afferra e le costringe sotto le proprie, tornando ad abbracciarlo più stretto di prima.
«Lasciami...» è una protesta debolissima, una ribellione solo a parole.
«Tu sei cento volte meglio di tutti quelli che erano al ritiro» dice Tobio. Lo dice con il viso nascosto fra il collo di Shoyo e il cappuccio della giacca a vento. L'odore di sole e di zucchero gli stanno dando alla testa.
«Ma...»
«Shhh, ascoltami. La pallavolo è il massimo. E' il meglio che esiste al mondo. E questo vale sempre. Ma senza di te è solo pallavolo. Con te è... » Tobio respira a fondo, in questa posizione, senza guardarlo, è un po' più facile trovare le parole. «E' giusta. E' come dovrebbe essere. Vincere. Esaltarsi. Essere a mille. Sudare. Soffrire. Allenarsi. Allenarsi. Allenarsi. Restare in campo. Restare in campo, Boke. Io e te. Dopo che gli altri hanno mollato. Dopo che gli sfigati, i mosci, gli sfiatati e i perdenti se ne sono andati tutti. Tu e io restiamo in campo. Anche sotto il sole di agosto. Anche sotto la neve.»
Shoyo sta trattenendo il respiro, in un'apnea di ossigeno e sentimenti. Il calore delle braccia che lo stringono supera quattro strati di vestiti e brucia sulla pelle. E quel soffio caldo sul collo lo fa tremare: ogni parola pronunciata è un brivido.
«Muoviti!» gli ordina Tobio, stringendolo più forte, articolando le parole direttamente contro la sua pelle. «Muoviti a recuperare, Boke, sono stufo di aspettarti!»
«Ti straccerò» risponde Shoyo, in un soffio.
«Fallo! Stracciami. E poi gioca con me. Vinci con me! Vola per me! Per me. Hai capito, cretino? Hai capito cosa sto cercando di dirti?»
Shoyo non ha capito. Le sue emozioni sono confuse e acerbe.
«Vinciamo tutto» sussurra. E' un credo, una professione di fede. Una certezza. Il resto è solo un vortice confuso, che parte dal cervello e arriva fra le gambe, mettendo in subbuglio tutto quello che c'è in mezzo.
«Vola per me!» ripete Tobio, soffiandogli le parole nell'orecchio.
«Io volo sempre per te. Sei il mio alzatore. Sei il migliore» risponde Shoyo, con il tono delle verità più ovvie.
Tobio nasconde  il rossore nell'incavo del collo in cui ha affondato il viso.
Basta parole. Ne hanno dette fin troppe. Quindi stanno zitti.
E restano così, abbracciati, abbandonati uno addosso all'altro, senza farsi domande inutili, a sognare lo stesso futuro nei riverberi della neve che cade.

 

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Capitolo 2
*** Lo vedi? [2013] ***


Il corpo di Kageyama Tobio, nel pieno dell’adolescenza, è un modello di perfezione fisica. Manutenuto con scrupolo, allenato con dedizione, è lo strumento atletico al servizio di un talento in crescita e di ambizioni sconfinate. 
Alle sei del mattino, ogni giorno, condizionato da anni di abitudine, quel corpo si risveglia. Torna alla coscienza in un attimo, senza ombre, senza dubbi, senza alcuna indulgenza alle terre del sogno.
La prima cosa che Tobio vede quel mattino, quando i suoi occhi si aprono, è uno strato di neve ghiacciata, accumulato sul davanzale della finestra.
La seconda cosa che vede sono le onde rosse dei capelli di Shoyou, come un fiore di fuoco sbocciato dal cuscino.
Solo dopo, molti secondi dopo, il resto della realtà si incastra nei suoi angusti contorni: l’odore di sudore, i respiri di tutti gli altri nella stanza, uno spiffero ghiacciato che arriva dalla porta. Dormono tutti.
Shoyou si è scoperto, come al solito: le spalle e le braccia sono esposte e un piede nudo sbuca dal fondo del futon. Perfino nel sonno deve bruciare energie e fare lo scemo. Tobio gli rimbocca la coperta sbuffando. Con questo freddo, il cretino si prenderà un altro febbrone.
«Grazie» sussurra Hinata, senza voltarsi. La voce è ancora impastata di sonno.
«Hinata Boke! Lo sai cosa penso degli idioti che non sanno badare a se stessi.»
Shouyou è troppo addormentato per raccogliere la provocazione. «Sono già le sei?»
«Mn» Tobio non ha bisogno di guardare l’orologio, non è mai successo che il suo corpo si sbagliasse.
«Andiamo a correre?» Praticamente, sta ancora dormendo.
«E’ presto, fra ancora troppo freddo. Fra mezz’ora ci prepariamo e poi usciamo mentre gli altri si svegliano.»
«Okay. Che dici? Oggi proviamo ad arrivare oltre il bosco? Ieri c’eravamo quasi.»
«Non so quanto è alta la neve. Meglio se oggi andiamo giù, verso le case.»
«Neve?» Shoyou apre gli occhi e se li strofina. «Wow!» sbadiglia.
«Non ti esaltare. Tanto vinco io. Anche con la neve.»
«Neanche per sogno!» Shoyou si gira di scatto, i suoi occhi fiammeggiano di sfida.
Tobio sopprime un sorriso a favore di un’espressione scocciata «Shhhh!» sibila con l’indice sulle labbra, indicando Ennoshita e Tanaka, sui futon di fronte ai loro. 
«Ti devo dire una cosa. Vieni più in qua!» ordina il Re, in un sussurro perentorio.
Shoyou si avvicina di qualche centimetro. 
E’ un alito tiepido d’estate, appena quel che basta per sentirlo sulla pelle, ma non abbastanza per scaldarsi. Tobio vive nella continua frustrazione di trovarsi sempre sul limitare di un raggio di sole e non fare mai il passo che serve per lasciarsi il buio alle spalle.
«Più vicino! Che c’è, puzzo?»

“E che odore ha la vittoria, Boke?”
“Il tuo.”

«Sì! Baka! Dimmi cosa vuoi e falla finita!»
Kageyama non è noto per la sua pazienza, afferra il futon di Hinata e lo strattona con decisione verso di sé, finché le fiamme non lo lambiscono e l’odore di sole e di zucchero arriva al cervello, a placare un’astinenza poco sana, che riesce a soddisfare pienamente solo in campo.
«Non devi più allenarti tutto quel tempo con Kozume» bisbiglia il Re contrariato.
«Perché no?»
«Perché Kozume è un diavolo. Ti sta studiando e tu nemmeno te ne accorgi. Il Nekoma quest’anno è più affrontabile, senza Yaku e Kuroo, ma il russo fa un po’ meno schifo di prima, ed è sempre alto due metri, e quel primino che fa i flottanti in salto non è per niente male. Non voglio che gli dai dei vantaggi facili.»
«Tu sei pazzo. Kenma è mio amico, mi fa un favore ad allenarsi con me.»
Un favore.   «Vuoi delle alzate? Vieni da me. Quando mai ti ho detto di no?»

“Alzerai ancora per me?”
“Alzerei per te anche se la palla fosse di marmo”

«Baka! Proprio non capisci?»
«Cosa?»
«Che non posso allenarmi sempre con te.»
«Certo che puoi. Devi!»
«Quello che devo fare è recuperare» sussurra Shoyou, duro. «Sua Maestà è stufo di aspettarmi.» I suoi occhi crepitano, seminando scintille. Non si capisce cosa ci sia dentro, che li fa bruciare in quel modo. E da così vicino è troppo. Tobio abbassa le palpebre ed espira sonoramente.
«Lo vedi come sei?» prosegue Hinata. La detesta quell’espressione seccata, in cui si concentra l’insofferenza per tutte le sue mancanze.
Stupido. Abbacinato. Bugiardo. Nudo, come tutti i Re. «Come sono?»  
«Prepotente» sbuffa Shoyo. «Scorbutico.» E sporge le braccia per dargli una spinta.
Tobio gli afferra i polsi e li respinge indietro con un gesto secco. «Boke, quello che dici ha anche meno senso del solito. Non voglio che ti alleni con Kozume. Punto.»
«Non me ne frega niente di quello che vuoi tu» mente Hinata, la cui esistenza, praticamente, ruota intorno a tre istanze fondamentali: la pallavolo, la rivalità con Kageyama Tobio e l’approvazione del medesimo Kageyama Tobio. A pensarci, sono un po’ tutte e tre la stessa cosa, mescolate e confuse, ma potentissime.
«Non volevo litigare, oggi» sospira Hinata, alzandosi a sedere.
«Dove vai?»
«Al bagno. Me la sto facendo sotto. Vestiti, dai, che andiamo a correre.»
Si cambiano in silenzio. Sono esperti nel farlo. E’ la norma che si alzino prima degli altri e smettano di allenarsi per ultimi.
Sono mesi che Kageyama ha smesso di distogliere lo sguardo dal corpo nudo di Hinata. Ora lo guarda. Lo guarda più di quel che dovrebbe ed è bravo a non farsi notare. Più di tutto gli piace la sua schiena, le lentiggini sparse sul collo, il solco della spina dorsale quando alza le braccia, il rilievo appena accennato dei muscoli intorno alle scapole, una fossetta asimmetrica, a destra, dove inizia l’elastico dei boxer. E’ un corpo nevrile e atletico, ancora nel limbo dell’adolescenza. Un corpo leggero, compatto e potente, fatto apposta per la pallavolo, per librarsi a mezz’aria e colpire. Un corpo perfetto. Che Tobio vorrebbe toccare.

“Passami quel tubetto, hai un livido viola enorme qui.”
“Lascia, faccio da solo”
“Boke, non discutere! Mica hai gli occhi sulla schiena!”

La neve non è molto alta, ma c’è un freddo secco che entra nelle ossa. Tobio valuta la situazione dal cancello del complesso del Fukurodani.
«Mettiti un cappello, Boke.»
«Sembro mio nonno, col cappello!»
«Credi di essere bello, senza?»
Shoyou sorride radioso, ammiccando con le sopracciglia. «Tokyo è piena di ragazze sofisticate a cui piacciono gli atleti.»
«Magari quelli più alti di un metro e un barattolo.»
Parte un calcio, che Tobio schiva con un ghigno.
«Ripetilo se hai il coraggio, Baka!»
Tobio si fruga in tasca e poi sbatte qualcosa di morbido sulla faccia di Shoyou. E’ un cappello di lana color panna, spesso e caldo. «Mettitelo!»
Shoyou lo osserva, rigirandoselo fra le mani. Gli si legge in faccia che gli piace. «Ma è il tuo? Mi pare troppo carino per essere il tuo.»
Tobio lo ha scelto insieme a Miwa (che non ha smesso di ridacchiare neanche un secondo) in un negozio di Sendai dove tutto è assurdamente costoso, ma questo non c’è bisogno che Shoyou lo sappia. 
«Certo che parli un sacco… » brontola Tobio. Strappa il cappello dalle mani di Hinata e glielo calca in testa. Il contrasto fra la lana bianca e il rosso dei capelli è esattamente come se lo era immaginato: incandescente. Se resta così vicino, si brucerà. Quindi si volta e inizia a correre: «Dai muoviti!»
E’ sempre Kageyama che decide il percorso. Sempre. Anche le volte che hanno dormito a casa di Hinata e hanno corso al mattino intorno a casa sua.  
E’ fatto così il loro rapporto: una serie di certezze scolpite nella pietra dei loro diciassette anni, immotivate e rassicuranti, che iniziano sul campo di gioco e finiscono nei futon affiancati, nelle chiacchiere sussurrate, nelle parole che nascondono altre parole, nei loro mondi onirici privati, che si sfiorano in più punti senza che debbano dirselo.

“Kageyama! Sai che stanotte ti ho sognato?”
“Ah sì? E che facevamo?”
“Vincevamo.”

Di esplicito, c’è ben poco. Ma restano affiancati, e sempre più vicini. Come quando corrono, a ritmo sostenuto e identico. Perché la gara e la competizione non devono mancare, ma sono relegate all'ultimo chilometro, allo strappo finale del ritorno.
Tobio sceglie di scendere nel quartiere residenziale, evitando il bosco. Con la neve, gli sembra più prudente. 
Le suole scricchiolano sulla neve ghiacciata a ogni battuta, i respiri diventano nuvole bianche, che non reggono il ritmo e restano indietro.
«Sai Kags, ieri è stato fantastico» dice Shyou, pensieroso.
Kags è come può chiamarlo solo lui. E solo in privato. Privatissimo. Quando una volta gli è scappato davanti a Natsu, Tobio si è arrabbiato tanto che hanno litigato. Il risultato è stato che ora Natsu urla gioiosa "Kags" ogni volta che lo vede, e poi scappa per tutta la casa. Con Hinata - con gli Hinata, tutti e due - è così: le cose trascendono fuori dai loro giusti confini e diventano rumorose e colorate. Fastidiose. Fulgide. 
«Cosa, è stato fantastico? Il punto finale contro il Fukurodani, dici?»
«Sì.»
E’ stato impressionante . Tobio pensa che si ricorderà quell’azione tutta la vita. Una schiacciata da Olimpiadi. «Hai volato, Boke.»
Shoyo scuote la testa, allunga la falcata per saltare un tombino coperto di chiaccio. «Era la palla a essere perfetta. Ferma, immobile, proprio dove doveva essere. Giusta di altezza, giusta di posizione. Aspettava me. Come fai?»
«A fare cosa? Ad alzare? Che domanda è?»
«A sapere sempre cosa mi serve. Esattamente.»
«E’ chiaro, Boke. Io ti sento.» Ed è vero. Lo sente. Dentro. Forte e chiaro come una scarica elettrica. Un linguaggio che vibra nei movimenti anziché sulla lingua e contro il palato, ma è altrettanto preciso, altrettanto efficace. Forse più delle parole.
Hinata tace e allunga un po’ il passo, supera Kageyama e poi si volta, correndo all’indietro.
«Capisci perché non posso allenarmi sempre con te?»
«Eh? Voltati, dai, guarda avanti, invece di dire cretinate.»
«Sono serio!» Shoyo si volta un attimo per controllare che non ci siano ostacoli e poi torna a correre all’indietro.
«Sei scemo anche quando sei serio. Ieri è stato un punto spettacolare. La faccia che ha fatto il vecchio Nekomata era da incorniciare. E’ precisamente con me che ti devi allenare.»
Shoyou scuote il capo e si volta di nuovo, correndo in avanti. Resta un passo davanti a Tobio, perché preferisce non guardarlo in faccia.
«Kenma è bravo. Anche Akaashi-senpai. Ma non quanto te.»
Tobio sorride. «Lo so» commenta, soddisfatto.
«Significa che se non sei tu ad alzare per me, io non valgo niente» Shoyou lo dice di getto, saltando a piedi uniti sulla neve e poi correndo avanti.
«Non dire idiozie!» gli grida dietro Tobio e poi aumenta il passo, finché non lo raggiunge.
«Allora dai, coraggio, dimmi la verità: sono anch’io da nazionale under-19? Sono bravo come Hoshiumi?»

“Ma lo hai visto, quello?”
“Sei meglio di lui.”
“Non è vero!”
“E’ vero, se lo dico io.”

La risposta tarda ad arrivare. Hinata si lancia in avanti, alla massima potenza. E’ uno stormo in volo radente sull’asfalto, come se l’aria lo sostenesse e lo spingesse anziché ostacolarlo. Dietro di lui, impronte dimenticate, piccole e regolari in mezzo alla neve intatta del lungofiume.
Tobio sbuffa e inizia a fare sul serio anche lui. Gli ha dato parecchio vantaggio, non è scontato riprenderlo in fretta. Lo raggiunge in un parco pubblico, gli blocca il braccio in una morsa e lo ferma senza garbo. Hanno il fiatone entrambi, cosa che non succede quasi mai.
«Non sei ancora da nazionale, Boke» sputa fuori Kageyama, guardandolo dritto negli occhi.
La luce di Hinata trema, ma non si offusca. «Lo vedi?»
«No! Tu lo vedi? Lo vedi che chiunque abbia mai anche solo pensato di fare l’alzatore sbava dalla voglia di alzare per te? Ma come fai a non capirlo!»
Hinata ha sgranato gli occhi, enormi e ambrati, come una miscela di tè pregiato.
Tobio sbuffa e gli lascia andare il braccio, scrollandolo forte. «Miya dell’Inarizaki viene a vedere le tue partite! Te ne sei accorto? Te ne sei accorto che è venuto a Sendai alla finale contro il Dateko? Da Kobe fino a Sendai! Dio, quanto sei scemo! Pensi che venga per me?»
Shoyou non sa cosa dire. Miya lo ha visto, alla finale. Ma non gli è proprio venuto in mente che fosse lì per lui. Hanno parlato per mezzo minuto prima della partita, davanti alla macchinetta delle bibite. Ma si sono incontrati per caso. O no? Miya gli ha augurato buona fortuna. Gli ha anche offerto un succo di frutta, che però era alla pesca e quindi Shoyou lo ha tenuto per Tobio. “Dicevo sul serio, che prima o poi alzerò per te, non te lo dimenticare!”ha detto Miya, ammiccando, con quel sorriso un po’ sghembo che ha. Ma era così, tanto per dire. O no?
A Kags, non lo ha raccontato.
«Non voglio che ti alleni con Kozume. Non voglio che ti alleni con Miya. A Miya non ti ci devi neanche avvicinare!» sbotta Tobio risentito.
«Smettila!» gli grida Shoyou. «Mi alleno con chi mi pare! Hai capito? Non mi lascio tenere fermo da te! Mi allenerò con Kenma, con Akaashi-san e con tutti e due gli stramaledetti Miya. Mendicherò alzate da Shirabu e da Semi. E anche da Oikawa! Soprattutto da Oikawa!»
Tobio freme di collera, paonazzo. Le ultime parole hanno colpito durissimo.
Hinata prosegue, con i pugni stretti: «Non sono loro che devo stracciare! Io devo stracciare l’alzatore delle prossime Olimpiadi, il migliore del Giappone, come cavolo faccio se continuo ad allenarmici?» Lascia andare tutta l’aria che ha nei polmoni. «Baka! Rovini sempre tutto!» brontola, crollando su una panchina bagnata.
C’è una cosa, di Hinata, a cui Kageyama non si abituerà mai. Ed è la capacità di aggrovigliargli lo stomaco, di fargli provare cose. Indigestioni continue di emozioni.
«Un po’ con Kozume e un po’ con me?» propone a mezza voce, guardandolo dall’alto.
E’ un’offerta di pace chiarissima.
«Tieni!» borbotta Hinata, mettendogli una cosa in mano. Una cosa piccola, e gelida.
E’ un portachiavi a moschettone, a forma di maglia rossa della nazionale, con il numero 9. 
«Buon compleanno, Baka!» sbuffa Shoyou, seccato. «Te l’ho detto che non volevo litigare, oggi!»
Tobio lo guarda e lo maneggia come fosse fatto d’oro. «Dove l’hai preso?» Che Hinata sia sempre senza soldi, addirittura più di lui, è un dato di fatto.
Shoyou si stringe nelle spalle. «Con i punti del negozio online dove abbiamo comprato le ginocchiere e il cerotto.»
«Lo hai preso anche per te?»
«Mn» Shoyou annuisce.
«E che me ne faccio del numero 9? Muoviti, dammi il 10.»
«Ma è il mio!»
«Boke! Cos’è questo?» domanda, facendo dondolare il portachiavi davanti al naso di Hinata.
«Un portachiavi? Ma sei troppo scemo per capirlo?»
«E’ la maglia del Giappone. Ti pare che io sia stato chiamato dalla Nazionale?» Il tono di Tobio è ironico. Si è calmato. Sembra addirittura contento.
Hinata è perplesso, ma come sempre subisce gli umori del suo alzatore e anche lui si rasserena, in modo visibile, come se un banco di nuvole si spostassero dal sole.  «Che cavolo vai dicendo, Baka? Ti chiameranno e come!»
«Ma non è ancora successo. Facciamo che io tengo in ostaggio la tua maglia, e tu la mia. E te la ridò il giorno che ti metti addosso quella vera» propone, prendendo la mano di Hinata e infilandoci dentro il portachiavi. «Dai, coraggio, dammi il 10!»
«Ce l’ho nel borsone.»
«Allora me lo dai dopo.»
«Okay.» 
«Guai a te se ti perdi la mia maglia!» 
Shoyou si infila in tasca quel pezzetto di metallo e per qualche motivo si sente felice. Il sorriso trabocca da ogni parte, filtra dalle giunture del suo corpo, esplode dallo sguardo. Illumina l’inverno. Illumina il giorno.  A Tobio viene da ripararsi gli occhi con la mano.
Hinata si alza, afferra la giacca a vento di Kageyama, si solleva in punta di piedi e gli bacia le labbra. Una cosa che dura un secondo.
Non è nemmeno la prima volta che succede. Ogni tanto lo fa, senza preavviso, come fosse per caso. Ed è una faccenda fantastica. 
Anche se Tobio fa finta di niente. Anche se nessuno dei due sa cosa significhi esattamente. E forse non importa.
«Hai il sedere tutto bagnato, Boke!»
Hinata ride, tastandosi i pantaloni fradici. «Oggi vinco io!» urla, iniziando a correre.
«Neanche per sogno!» grida Tobio di rimando, prendendo subito il ritmo. E senza nessuna idea di dove stiano andando.
Si sono persi anche oggi, da qualche parte nella periferia della capitale. Ennoshita li ucciderà, quando mai riusciranno a trovarli.
E’ il compleanno migliore di sempre.

[Buon Compleanno Kags!]

 

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Capitolo 3
*** In salita [2014] ***


Quegli ultimi sospiri d'estate sono una bugia. Poche cicale stanche che cantano già del vento da occidente, del freddo che incombe, di giornate più corte e più buie. Eppure, mentre corre con i pugni stretti e il fiato cadenzato, Tobio sente il sole bruciare sulle braccia e sulle spalle scoperte.
La sua vita, fino a un paio di settimane fa, era perfetta. Perfettamente rotonda, come una Molten nuova di zecca in volo verso un futuro facile da prevedere.
Scoprirlo era stato sorprendente. Non sapeva quando fosse successo, ma a un certo punto, in un qualche momento negli ultimi due anni, si erano smussati tutti gli spigoli, e le asperità erano sparite, portandosi via, come ricordi sbiaditi, i tormenti del passato, le insicurezze e quell'infida sensazione di incastrarsi di continuo nelle sporgenze ostiche del quotidiano.
Neanche una sfera perfetta, però, rotola in salita. Per la salita, occorre una spinta, un motore, una motivazione.
Una buona corsa richiede falcate corte e veloci, regolari, il baricentro in linea, padronanza del respiro, il peso che poggia sull'avampiede. Allo stesso modo, secondo Tobio, si dovrebbe vivere: con equilibrio e con ritmo, restando bene in linea, senza complicarsi la vita.
Strizza gli occhi e accelera l'andatura. Troppo veloce per pretendere di tenere a lungo il ritmo. Un errore che uno come lui non commette praticamente mai.
Un errore da boke. Da boke che parte e se ne va dall'altra parte del mondo.
E si lascia dietro un povero idiota, che una volta era re di non si sa bene cosa, e che non ha la minima idea di come ce la farà ad affrontare una salita come quella.
Uno dovrebbe arrivarci prima dei diciassette anni (quasi diciotto), all'idea che le cose non facciano altro che cambiare. Doveva capirlo quando è morto il nonno. Quando mamma e papà si sono separati. Quando Miwa si è fidanzata e ha iniziato a parlare di matrimonio. Doveva capirlo il primo giorno di liceo, quando lo stupido Hinata ha iniziato a scombinargli la vita.
E invece niente. Fino a pochi giorni fa lui non lo aveva ancora afferrato. Adesso, invece è chiarissimo. E un modo per conviverci bisogna che lo trovi.

***

«Hinata boke! Si può sapere dov'eri finito?»
Shoyou si volta, asciugandosi le labbra con il dorso della mano. «Guarda che sei tu in ritardo!»
«Perché ho sprecato un sacco di tempo a cercarti.»
«Ero in sala professori, te lo avevo pure detto che ci andavo.»
«Quaranta minuti? Come facevo a pensare che ci avresti messo le tende! Cos'è quella roba?» domanda Tobio, sedendosi accanto a lui.
«Cosa dev'essere? E' la solita aranciata.» Shoyou mostra la lattina piena di goccioline di condensa, Kageyama gliela strappa dalle mani.
«Hey! Ridammela, baka!»
«La bevo io» risponde Tobio.
«Ma se ti fa schifo!»
Tobio distende il braccio, tenendo la lattina fuori portata dei tentativi di Hinata di riprendersela, mentre con l'altra mano fruga nella borsa.
«Tieni, boke» grugnisce, sbattendo sul petto di Shoyou una lattina identica, a temperatura ambiente. «Quante volte te lo devo dire che la roba gelata non la devi bere? Ti viene la diarrea.» La manata punitiva sulla nuca si trasforma in un'arruffata di capelli.
Shoyou la accetta con un sorriso: una piccola dose di luce che Tobio ingoia con gli occhi socchiusi e l'espressione sconclusionata della dipendenza appagata. «Quindi?»
«Quindi cosa?»
«Quindi che hai fatto quaranta minuti in sala professori?»
Hinata strappa la linguetta di metallo e beve un sorso, con calma. «Ho parlato con Takeda-sensai e con il coach Ukai.»
Il sesto senso di Kageyama comunica allerta immediata. L'aranciata schifosa gli va di traverso. «Che volevano da te? C'è qualche problema?»
Shoyou scuote la testa mentre manda giù un altro sorso. Nella vena d'oro dei suoi occhi, Tobio ha individuato una piccola ombra, un'impurità. Un segnale di tensione.
Di un tipo sconosciuto. Né l'ansia stringente prima della partita, che lo costringe a correre in bagno tutte le volte, né la collera trattenuta dei loro battibecchi, e nemmeno la tensione atletica, un istante prima che la palla tocchi terra e si sciolga nella detonazione di un sorriso da milioni di watt. Qualcosa di nuovo e di diverso.
Infatti Hinata non risponde. Guarda in alto, dove il cielo promette l'ennesima giornata estiva di  sfacciata bellezza. Beve a sorsi piccoli. Sorride di pensieri solo suoi.
Qualche volta, Tobio si sente geloso persino di quelli.
«Perciò, che volevano da te?» insiste.
Hinata finisce l'aranciata, gettando indietro la testa per scolare anche l'ultima goccia.
«Ho pensato una cosa, Kags»
«Di solito vai meglio quando non pensi.»
«Baka!»
«Dai, sentiamo questo pensiero.»
«Riguarda l'anno prossimo... »
Kageyama sente un altro brivido alla base della schiena. «E che c'è da pensare? Abbiamo già deciso tutto» grugnisce. Appeso alla sua borsa, il portachiavi con la maglia della nazionale numero dieci oscilla mosso da una mano invisibile.
«Tu hai deciso.»
«Perché tu con la logistica fai schifo.»
«A parte il fatto che fai schifo anche tu. E poi è la mia vita, Kags, non è logistica
Sua. La sua vita. Quelle parole tracciano un confine che il cuore di Tobio ha superato già da tempo. Senza bisogno di definizioni o di giri di parole, o di chissà quali dimostrazioni pratiche. Gli sembra all'improvviso che gli abbiano rubato qualcosa di prezioso, perché fino a un attimo fa quella vita era anche sua, intrecciata alla propria, come fossero una sola.
«Senti, boke, non ho capito di che stiamo parlando. E non me ne frega neanche niente. Noi l'anno prossimo giochiamo e vinciamo, ecco che facciamo. E anche l'anno dopo. E quello dopo ancora, finché non spacchiamo tutto alle olimpiadi. Insieme. Questo è il programma.»
Hinata si alza in piedi, le mani affondate nelle tasche, gli occhi accesi. «Non succederà» dice.
Kageyama si alza a sua volta e lo fissa, in bilico fra la collera e il terrore. Ma gli occhi di Shoyou non si abbassano. Anzi, è Tobio che si trova perduto nei marosi infuocati, ad annaspare in cerca di ossigeno.
«Che cazzo dici, boke?»
«Vieni dentro, te lo faccio vedere» risponde Hinata, scattando in avanti e trascinandolo in palestra per il polso.
«Adesso Kags voglio che mi spari addosso uno dei tuoi servizi bomba e poi mi dici che problemi ho.»
«Lo so già che problema hai: sei cretino!» risponde Tobio, facendo ruotare la palla fra le dita. E' il gesto più rassicurante del mondo. A pari merito con le dita che corrono sulla pelle di Shoyou, sul profilo liscio della guancia, lungo l'insenatura bianca del collo, sulla sporgenza della clavicola. Più in là di così, non si è mai spinto.
«Mira su di me! Vacci giù pesante» urla Hinata da fondo campo.
Come se Kageyama Tobio facesse sconti a qualcuno, sul campo. Non importa che tipo di partita è, e chi ha davanti. La differenza la fanno le quattro linee del perimetro e la rete: dentro quell'arena, non c'è pietà per nessuno.
Lancia la palla in aria con sicurezza, la insegue, piega le ginocchia e spicca il salto. E' un'azione pulita, elegante, la palla arriva esattamente dove deve arrivare, alla naturale estensione del braccio che colpisce. Nell'ultimo anno si è irrobustito, la tecnica si è affinata, la potenza è aumentata senza inficiare la precisione.
La palla è un bolide che supera la rete e va schiantarsi sul bagher di Shoyou con violenza e poi viene sparata di lato, fin a schiantarsi contro una sedia di plastica appoggiata contro la parete. Il rumore scomposto dei rimbalzi è l'unico suono.
«Allora? Dove ho sbagliato?» chiede Hinata, avvicinandosi alla rete.
Tobio alza le spalle. «Il mio servizio non lo prende nessuno.»
«Kags, io non sono nessuno
E' una verità assoluta e anche ovvia, per Tobio. Le sue dita si infilano nelle maglie della rete. Le stringe forte. Gli scoppia la testa da tutte le cose che vorrebbe dire e non riesce.
Prende fiato, alza lo sguardo. «E' troppo potente. E' normale che non lo prendi.»
«Io non sono neanche normale» protesta Hinata, aggrappato anche lui alla rete. Si sporge in avanti come se volesse attraversarla.
«Questo è sicuro!» ribatte Tobio. Vorrebbe essere una battuta, ma il riso gli si inceppa fra le labbra e l'ironia si disperde nell'eco della palestra vuota.
La mano di Shoyou gli afferra la maglietta. «Sono serio, Kageyama, per la miseria!»
Kageyama. Sentire il proprio nome usato per scavare un solco fra loro è una forma di dolore nuova. Si ribella, divincolandosi. E volta le spalle alla rete.
«Coraggio, dimmi dove ho sbagliato!» insiste Shoyou. Fa il giro, lo raggiunge e lo blocca, afferrandolo per il braccio. La presa è solida, anche lui si è irrobustito.
Kageyama sospira. «Eri posizionato bene. Solo non sei riuscito a controllare la traiettoria» risponde, asciutto.
Hinata sbuffa e lo strattona. «Hai mirato su di me, quindi eri tu quello posizionato bene. Avanti, muoviti: voglio sapere dove ho sbagliato. Di preciso.»
«Equilibrio scarso, principalmente. E poi anche spalle contratte. Troppa spinta con le braccia, troppa fretta. Piano di rimbalzo diagonale, infatti la palla è scappata di là.»
«Sei un mostro.» La mano di Shoyou abbandona la presa, la voce vibra di ammirazione. Le ombre passano nei suoi occhi come banchi di nuvole spinti da venti tempestosi. Il sereno torna in un attimo, con lampi accecanti di sole. «Però hai detto proprio quello che penso anch'io, Kags. Un problema di equilibrio, principalmente. Errori di tempismo. Scarso controllo.»
«Non ho ancora capito di che stiamo parlando, Boke. E mi stai dando sui nervi.» Kageyama  scosta Shoyou con il braccio e si avvia a lunghe falcate verso il magazzino.
Hinata gli si para di fronte, con entrambe le mani che spingono contro le sue spalle. «Aspetta un attimo. Kags, un attimo. Dimmi se secondo te posso farcela. Onestamente.»
«A ricevere il mio servizio?»
«Mn.» Gli occhi di Shoyou brillano di sfida, la luce entra di traverso dai finestroni e lo colpisce in diagonale. La bellezza del suo viso è un colpo dritto nel diaframma di Tobio.
«Hinata boke! Pensi che lo farei per chiunque?»
«Cosa?»
Alzare. Servire. Dare. Dare. Dare. Dare tutto, con tutto il corpo, con tutto il cuore. Boke. «Lascia perdere. Sì, per me ce la puoi fare.»
«E allora perché non miglioro?»
Tobio volta lo sguardo di lato e tace.
«Perché non miglioro, Kags?» ripete.
«Non lo so» risponde Tobio collerico. E non è abbastanza lucido per decidere se sia una verità o una menzogna.
«Lo so io. Perché siamo in sei in campo. Perché uno di quelli sei tu, Kags.»
Tobio lo spintona a due braccia. «Che c'è? All'improvviso le regole della pallavolo ti stanno strette? O sono io che non ti vado più bene?»
«Baka, ma che dici? Tu sei...»  alza lo sguardo, mordendosi le labbra. Non trova le parole per esprimere a voce le perfezioni della persona che ammira di più al mondo. «Tu sei un campione, Kags. Sei il meglio del meglio. E le regole mi vanno benissimo, ma se la mia squadra di liceo non ha mai pensato di farmi giocare in difesa, pensi che lo farebbe una squadra di professionisti più avanti?»
Tobio tace ancora, cercando di dissimulare la paura.
«No, Kags. Non lo faranno. Non lo faranno per niente. Mi terranno a fare il centrale, a schiacciare veloci su alzate centomila volte peggio delle tue e io non migliorerò mai veramente, resterò uno da seconda divisione, se mi va bene. E alla nazionale con te non ci arriverò mai.»
A Tobio si secca la bocca. C'è della verità in quelle parole. Un tipo di verità che brucia.
«Kags, forse è colpa mia, se non ho fatto abbastanza. E mi dispiace. Ma la sai una cosa? Io non me lo merito di finire messo da parte. Io la nazionale la voglio.»
Voglio. Tutto di lui pronuncia quel voglio. I pugni stretti, le guance arrossate, i capelli che catturano la luce e la incendiano.
Tobio sente l'influenza di quella volontà come una forza invincibile, la gravità dentro di lui si muove intorno ai desideri di Shoyou. Da anni.
Scappare non servirà, ma ci prova lo stesso: scarta di lato con agilità, lo supera e si infila nel magazzino.
«Kags, non hai niente da dire?» gli urla dietro Shoyou. Lo raggiunge e si chiude la porta alle spalle.
«Non vuoi sapere cosa ho pensato?»
Tobio si volta, la mano sul fianco, la palla incastrata nello spazio fra il braccio piegato e il polso. I suoi occhi sono feroci. «No.»
Shoyou gli assesta uno spintone violento, la palla gli sfugge di mano e rotola fermandosi a ridosso di un materassino azzurro.
«Voglio giocare a beach volley.»
«Cosa?»
«Beach. Volley» scandisce Hinata. «Sai quella pallavolo sulla spiaggia, due contro due che...»
Tobio sgrana gli occhi e scopre di non avere una replica adeguata per un'affermazione simile, il livello di assurdità è oltre ogni possibilità di una risposta razionale. E' quasi comico.
«Idiota. Lo so cos'è. Ma non ha il minimo senso.»
«E invece sì. Sulla sabbia il mio potenziale di salto sarà inferiore, quindi non potrò basarmi su quello. Essere solo in due mi costringerà a migliorare in difesa e al servizio. Dovrò anche alzare. Dovrò fare tutto. E l'equilibrio, su quel terreno, uno è costretto a impararlo, per forza.»
«Hinata Boke, ma parli sul serio?» Tobio alza la voce di un tono, incredulo e indispettito. «Tu vaneggi! Vuoi sprecare altro tempo prezioso in una palestra piena di sabbia finta? E dove li trovi, qui, questi geni del beach volley? Persino la squadra olimpica è piena di sfigati.»
«Chi dice che voglio farlo qui
Tobio si sente precipitare, allunga la mano per appoggiarsi alla cesta dei palloni. «E dove?»
«Dove stanno i migliori: in Brasile!» Gli occhi gli luccicano di speranza, tutto il suo corpo freme di aspettativa. Era questa la tensione di prima, che ora straripa dagli occhi e supera i confini del suo corpo.
Tobio la sente dentro forte e chiara, espressa senza mezzi termini in quel linguaggio senza parole che ormai è diventata un'intesa completa. Un'intesa perfetta, che ora lui sta buttando nel cesso.
«Non so nemmeno dove cazzo sta il Brasile.»
«In sudamerica, penso» Shoyou si era ripromesso di guardare bene su internet, ma poi non lo ha fatto. «Ho visto un sacco di video che... »
«Sembra lontano.»
«Dall'altra parte del mondo. Trenta ore di volo. Io però... »
«Okay» dice la voce di Kageyama. Il suo cervello sta elaborando una distanza di trenta ore di volo. Senza riuscirci.
«Okay?» ripete Shoyou incredulo.
«Fai come ti pare» concede Kageyama con noncuranza, mentre impila con ordine i materassi, facendo combaciare gli angoli. I primini li lanciano uno sull'altro a caso, in un modo sciatto che lo innervosisce.
«Tutto qui?»
«Che vuoi che ti dica?»
Shoyou non lo sa. Non sa cosa si aspettava. Tutto, ma non questo. Non il disinteresse, non l'indifferenza.
«Io... »
Tu, boke? E io invece?  «Tu cosa, stupido? Non hai bisogno del mio permesso. E' la tua vita. Lo hai detto tu.»
«Non fare così... »
«Così come?» Tobio continua a rassettare gli attrezzi, dandogli le spalle.
«Baka!» gli urla Hinata. «Baka! Baka! Baka! Baka! Baka!Ba...»
«Piantala!»
Hinata lo afferra per un braccio e lo strattona, per costringerlo a voltarsi. «Senza di te la pallavolo è solo pallavolo.»
«E allora, cazzo, Shoyou, perché stai scappando?» Da me.
«Perché il divario fra noi aumenta invece che diminuire. E finché ti corro dietro, non ti raggiungerò mai. Devo aggirarti, e arrivarti di fronte.»
«Che stronzata» borbotta Tobio, afferrandolo alla vita e circondandolo con le braccia.  «Boke! Tu mi hai raggiunto da un sacco di tempo. Sei qui, non lo vedi? Più vicino di così è impossibile» gli sussurra fra i capelli. «E questa cosa che vuoi fare io non la capisco. Non la voglio capire. Non la sopporto.»
«Kags... » Shoyou gli appoggia la mano aperta sulla guancia. «Kags, ascoltami. Sai cosa non sopporto io? Che arrivi uno più bravo di te e ti trovi. Uno che non sono io. Voglio essere io. Devo essere io. Lo capisci?»
Tobio non risponde. Lo stringe più forte.
La voce di Shoyou è flebile, triste. «Come faccio a comprare un biglietto e starmene buono su uno spalto a guardare una cosa del genere? A guardarti mentre fai volare un altro, mentre vinci con lui. E sul tetto del mondo ci sali con lui. Voglio essere io... »
«E io, boke? E io che faccio?» Al buio. Da solo.
«Tu segui il piano Kags. Diventi l'atleta più giovane della nazionale. Spacchi tutto alle olimpiadi fra due anni. E ti prepari ad affrontarmi. Perché io torno. Io torno, capito? Torno più forte. Con le ali grandi il doppio. Più forte di Ushiwaka. Di Hoshiumi. Più forte di Kageyama Tobio.»
Ci crede. Hinata è un boke e quindi ci crede davvero. La materia del suo corpo, la sostanza di cui è fatto è energia pura, pronta a esplodere di  luce. Dicono che sia una delle equazioni più complicate del mondo, ma per Tobio, in questo momento, che materia ed energia siano la stessa cosa è di un'evidenza lampante. Spalanca gli occhi, per accecarsi e inizia in quel preciso momento a struggersi di nostalgia.
«Quanto tempo?» la voce di Tobio è cambiata, ma non la forza con cui lo stringe.
«Un paio d' anni. E comunque manca un sacco di tempo, prima che... »
«Zitto, boke. Due anni, non un giorno di più. Giura.»
Shoyou esplode in un singhiozzo.
«Non piangere. Giura.»
Shoyou quelle lacrime non può controllarle. Tenta invano di fermarle strofinandosi gli occhi. «Giuro» balbetta, fra un singhiozzo e l'altro. E intanto sorride. E intanto l'aspettativa e la tristezza lottano dentro il suo stomaco.
Tobio inizia ad asciugargli le lacrime con le dita, appena scivolano lungo le guance. Una a una. Con calma, con metodo.
«Se ti azzardi a perdere tempo, a essere pigro o svogliato anche solo un giorno, vengo in Brasile, dovunque sia, e ti picchio.»
Shoyou scuote la testa con decisione, aggrappato con tutte le forze al suo alzatore, al suo partner, al suo idolo, al suo rivale, al suo amore. Le labbra mormorano tutte quelle parole, come una preghiera. Tranne l'ultima, perché neanche il suo cuore la conosce.
Le lacrime che restano, Tobio le bacia. Impara quel giorno che per amore si soffre così, riempiendosi di sale la bocca.
Ma può solo baciarlo di più. Come non lo ha mai baciato prima. Cerca ancora, e sempre, la luce. Gliela ruba, la respira, la trangugia senza misura. Si lascia stordire dal sapore di zucchero sulla lingua. Gli sembra di cullare un'alba fra le braccia. E nel delirio dei sensi sopraffatti, gli resta lo spazio per un pensiero lucido: che non lo lascerà mai andare. Che non ne avrà le forze. Che non potrà mai più affrontare il buio che c'era prima che lui arrivasse.
E che ne vuole di più. Adesso.
Lo solleva, Shoyou è talmente sopraffatto da non opporre alcuna resistenza, anzi, gli allaccia le caviglie sulla schiena. E si trova premuto contro lo scaffale di metallo sul fondo della stanza, con i pensieri prosciugati da una tensione fisica mai provata, un desiderio insopportabile e meraviglioso.
Nessuno dei due ha idea di cosa stia succedendo esattamente. Stanno solo seguendo la corrente, annusano il vento, sentono l'aria vibrare sotto le ali per un volo nuovo.
Lo scaffale protesta, è soltanto una vecchia scansia di metallo arrugginito. Non che non ne abbia viste parecchie, in quel magazzino, ma a tutto c'è un limite. Reagisce vibrando contrariata: un grosso scatolone frana dall'ultimo ripiano, rovesciandosi in una nevicata fuori stagione
Piccoli fiocchi di polistirolo, leggeri ed elettrizzati, che si aggrappano ai capelli e alle fibre dei vestiti, imbiancano il pavimento, si insinuano nel poco spazio fra i loro corpi, entrano in bocca e nel naso, li fanno tossire. Shoyou scoppia a ridere, tornando a toccare terra con i piedi.
Prende una manata di polistirolo da terra e la tira contro Kageyama, ancora sconvolto e senza fiato. Un attimo dopo, Tobio gli sta scrollando sulla testa l'intero scatolone, con una smorfia in faccia che somiglia molto alla premessa di una risata. Shoyou cerca di scappare e scivola, ridendo ancora più forte.
In quel momento la porta si spalanca e Yamaguchi, con le mani sui fianchi e l'aria truce, appare sull'uscio. Il magazzino è un disastro. I colpevoli ridono a crepapelle anziché scusarsi.
Qualsiasi cosa stesse succedendo un attimo prima, resta sepolta in quella neve che non si scioglie. E poiché non la sapevano, non la capivano, non l'avevano cercata, va bene così.

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Capitolo 4
*** Analfabeta [2015] ***


Boke, mi manchi.
Non lo so un cazzo come si scrive una lettera d'amore. Forse ha ragione Tsukishima che sono analfabeta.
Questa cosa che ci sentiamo una sola volta al mese non mi va bene. L'ho capito perché vuoi che sia così. Me lo hai spiegato. Sono analfabeta, ma non stupido, al contrario tuo. L'ho capito e fa comunque schifo, come il fatto che te ne sei andato. E in ogni caso, vedi che alla fine si fa sempre come decidi tu. Ma sei un grandissimo boke.
Ieri, dopo l'allenamento, l'ho chiesto a Wakatoshi, come si scrive una lettera d'amore. Sai che non è male, lui, quando uno lo conosce un po' meglio. E' fortissimo, ovviamente. Ma è anche uno affidabile che non ti mente mai, che non usa giri di parole, che alle cose ci pensa e non prende per il culo. Non è scemo, come pensano tutti. Anzi.
E' uno che si tiene tante cose dentro, semplicemente perché pensa che agli altri non gliene freghi niente. E spesso è così: la gente è curiosa, ma poi non è che gliene frega davvero qualcosa, di te.
L'ho chiesto a lui, perché sapevo che non avrebbe riso. Non potevo certo chiederlo a Romero o a quel pazzo narcisista di Kourai.
Waka mi ha guardato negli occhi. E mi ha chiesto una cosa che non mi aspettavo.
"Una lettera da spedire o da non spedire?"
"Chi è il baka che si sbatte a scrivere una lettera e poi non la spedisce?"
"Io"  mi ha risposto, senza scomporsi.
Mi sa che ora c'è un altro baka uguale a lui. Perché non lo so proprio, se questa lettera la spedisco. Lo decido alla fine.
E insomma è venuto fuori che lui sono tipo sette anni che scrive lettere d'amore alla stessa persona. E non le spedisce mai. Dice che va bene così.
Mi ha detto che, di norma, è una cosa che non racconta a nessuno, ma sapeva che io non gli avrei chiesto per chi erano le lettere. Infatti, non mi è neanche passato per la testa di domandarglielo.
Comunque, la teoria di Waka è che una buona lettera d'amore è come se tu con la persona a cui scrivi ci parlassi. Non fa niente se la grammatica fa pena o se sbagli qualcosa. Però - e qui è la cosa che mi è piaciuta -  non come se ci parlassi con le parole che davvero gli diresti a voce, ma  con quelle che vorresti dirgli e poi quando sei lì non ti escono. Con te, mi escono pochissime parole, boke, e in fondo ho sempre pensato che andasse bene così. Ma di cose che ti vorrei dire ce ne sono (sempre state) parecchie.

Prima di tutto, Boke, questi sei mesi senza di te sono stati una merda.
Però ho imparato delle cose.
Tipo che pensavo che quando una persona vola via a trenta ore di distanza, la sua mancanza la senti come un vuoto.
E quindi mi sono affannato a cercare di organizzarmi la vita per non avere dei buchi, per riempire i vuoti. Ma ovviamente mi sbagliavo. Me ne sono accorto subito, che ero solo più stanco. Ma non meno triste.
Il punto è che tu non hai lasciato nessun vuoto, tutto il contrario, hai riempito così tanto che non c'è verso, neanche per mezzo secondo, di provare a metterci qualcos'altro. Per esempio: sono a Tokyo da sette mesi e tutta questa gigantesca città per me si riduce ai posti dove siamo stati insieme prima che partissi. Non è che non veda posti nuovi, ma non lo so, le cose a colori sono quelle dove i colori ce li metti tu. Colori di merda, magari, come quelli che ti metti addosso, ma colori veri.

Ho fatto questo discorso a Miwa quando ci siamo visti due settimane fa. (A proposito, quella baka grandissima di mia sorella sta seriamente prendendo in considerazione l' idea di rimandare il matrimonio di un anno perché vuole che ci sia anche tu. Ti rendi conto?)
Dicevo, ho fatto questo discorso dei vuoti e dei pieni a Miwa, e pensavo, boh, che lei dicesse qualcosa di profondo. O almeno mi facesse lamentare un po' in santa pace.
Invece mi ha guardato con la faccia a un palmo dal mio naso, allargando gli occhi, come fa quando pensa che le stia rifilando qualche balla. Mi ha preso il mento con le dita, lo ha voltato di qua e di là e poi mi ha chiesto: "cosa avrebbe riempito Shoyou?"
E io non sapevo che risponderle. Lei ha riso. E ha detto che tu riesci a incasinarmi anche a ventimila chilometri di distanza. E poi ha aggiunto: "meno male!"

Ah, Boke, cosa hai riempito? Non lo so. Tutto, secondo me.
Tutti gli spazi che c'erano.
Tu a me hai riempito la vita. Le cose tangibili della vita. Il corpo, per iniziare. Perché non posso fare un chilometro di corsa senza sentire nelle orecchie il tuo ritmo e pensare di dovermici adeguare. Non posso sentire qualcuno ridere senza pensare a te che ridi in quel modo. Quel modo che così non ride nessuno. Stupido. Stupidissimo, rumoroso, accecante, come benzina buttata su un fuoco. Boke sapessi quanto mi mancano le tue risate. E i tuoi capelli.
Cazzo, non pensavo che avrei mai scritto una cosa del genere. Mi manca quell'orrido arancione, che vorrei proprio sapere da quale pianeta viene il tuo corredo genetico (questa cosa dotta la disse Tsukishima in prima liceo, ma me la ricordo sempre, perché era una delle poche che davvero mi aveva fatto ridere). Mi manca affondarci dentro la faccia, ai tuoi capelli.
Mi manca il fuoco, Boke. Il fuoco che hai dentro e che sei. Mi manca restare accecato e bruciato. Scottarmi di continuo. Scaldarmi. E vederti divorare tutto e tutti con le fiamme. L'effetto che fai alla gente, quando arriva a capire quanto bruci e però è troppo tardi, ormai sono lì, storditi, come falene. Pronti a farsi arrostire.
Mi manca annusarti, mi manca il tuo odore. Ecco una delle cose che non riuscirò a dire a voce neanche fra cent'anni (ho provato a dirla ora a voce alta e non ci riesco anche se sono da solo in casa): hai un odore fantastico, boke. Perché anche quando sudi e sai di sale, non fa mai schifo. Non è mai puzza, è sempre odore, è sempre buono. E ho una paura tremenda che questa cosa si perda, che quando ci rivedremo scoprirò che è rimasta nella palestra del Karasuno o al nostro parchetto di Osaki, perché non ci posso credere a un uomo adulto che continui ad avere quell'odore dopo tre ore di pallavolo. Voglio dire, lo spogliatoio degli Adlers sembra una camera a gas dopo gli allenamenti, specialmente Kourai, che sarà un metro e settanta scarsi, ma puzza come una squadra intera.
Comunque, mi manchi tutto, non solo l'odore.
Boke, le seghe che mi faccio pensando a te non le posso più nemmeno contare. Spero che non facciano male come dice qualcuno, altrimenti, per quando torni, sarò finito in terza divisione in panchina, altro che nazionale.
Qualche volta mi ci sveglio di notte, con nelle orecchie i tuoi sospiri, le tue risatine, quei gemiti sottili che arrivano dentro il sistema nervoso e mi mandano ai matti. Neanche mi servono le tue foto. A me basta chiudere gli occhi e tu ci sei. Capito quando dico che hai riempito tutto?
Ma come si fa a dirle a voce certe cose?
Waka ha ragione, che questo fatto delle lettere d'amore un senso forse ce l'ha. Col cazzo che te la spedisco, la nascondo da qualche parte e forse la vedrai quando sarò morto.

Ma non ho finito.
Mi manca guardarti dormire.
Oh questo mi manca troppo. Tutto storto e sbracato, con le coperte arrotolate. Un piede sempre di fuori. E la bava. Ma può mancarmi la bava di qualcuno?
E invece mi manca. Mi manca quel riflesso, che quando ti sfioro, mentre dormi, prima rabbrividisci, e poi ti avvicini. Mi manca abbracciarti e tenerti addosso così stretto che poi protesti, ma lo sappiano tutti e due che è per finta. Mi manca sentire il battito del cuore dal tuo collo, affondandoci tutta la faccia.
Tu ti rendi conto che abbiamo dormito così tipo per due anni pensando che fosse una cosa normalissima per due persone che giocano insieme. Tipo alzatore/schiacciatore che cercano un'intesa sportiva. Io ci credevo sul serio all'intesa sportiva. E pure tu.
Te lo ricordi quel mattino che Miwa ci ha trovati così e le abbiamo detto "intesa sportiva"? Ti ricordi che quasi bisognava portarla all'ospedale per quanto rideva?
Del resto, a mia discolpa, ero cresciuto con Iwaizumi e Oikawa, che dovevo pensare?
Nel caso non fosse già chiaro, mi manca tanto anche il tuo culo, boke. Avremmo fatto meglio a non chiarirci così tanto l'anno scorso, che se ci chiarivamo un po' meno bene, forse adesso io stavo messo un po' meglio a sanità mentale. Mi mancano le tue mani addosso. Mi manca quel tuo corpo che non so come è possibile è tutto nervi e muscoli eppure è così sottile che sembra di poterlo stringere fra due mani.
Se stai lavorando a modo, non ti troverò così sottile quando ci vedremo. E un po' mi dispiacerà.
Ma spero che tu capisca che anche quello ti serve, di fare muscoli, di gestirti un po' meglio. Ma almeno di questo, abbiamo parlato bene quando ci siamo sentiti. La bicicletta va bene. Ma devi pensare anche agli arti superiori. Nuota, visto che c'è tutto quel mare, no?

Alla fine sto scrivendo da tipo due ore e le due cose che ti volevo dire non te le ho dette.
Primo: è arrivata la convocazione alla Nazionale.
L'ho trovata in posta stamattina, ma mi avevano avvisato ieri per telefono. Giusto la sera dopo che ci siamo sentiti, quindi a voce te lo dirò fra un mese.
Cazzo, la Nazionale.
Ma lo vuoi sapere cosa ho pensato quando me l'hanno detto? Prima di pensare a mio nonno, alla maglia, ai soldi, prima di darmi una pacca sulla spalla, prima di pensare a tutto? Il mio primo pensiero è stato: fra un anno vado a Rio. Lo capisci che è destino? Potevano essere in qualsiasi altro posto nel mondo, le olimpiadi 2016. E invece la nazionale mi porta in volo dritto dritto dove sei tu.
Fra un anno vengo lì, Boke. Vinco qualche partita, porto via qualche medaglia. Mi piacerebbe farti rodere il fegato su qualcosa tipo un MVP. E vedere dal vivo la tua faccia. Sappi che non me ne frega dell'indipendenza, dei principi, del discorso che mi devi aggirare e arrivarmi di fronte. Di quel discorso stupido dei cani che sbavano quando sentono le campane e quindi se sai che chiamo tutte le settimane passi la giornata ad aspettare di sentirmi. Okay, ma non me ne frega. Fra un anno vengo a Rio e trovo il modo di vederti. Di sbatterti su un letto. Di giocare con te. Di parlare. Di guardarti. Di fare indigestione di luce e riuscire a portarmene almeno un po' in questo cazzo di inverno buio e freddo che è iniziato a luglio e durerà finché non torni.
Una cosa che mi piace molto della convocazione in nazionale è che a Miya andrà di traverso la cena, quando lo scoprirà. Spero si affoghi. Mi dispiace solo che sia a Osaka (è con i Jackals) e quindi non possa vedere la sua faccia, ma ho intenzione di fargli fare un replay  fra tre mesi, quando segnerò il primo ace della partita contro di loro giusto accanto al suo piede.
Nazionale. Beh, wow. Ti scaldo il posto, boke.

Il secondo motivo per cui questa lettera la sto scrivendo stasera è che prima è successa una cosa assurda (sempre a proposito di destino) : stavo alla fermata della metro, che mi facevo i fatti miei, quando sono arrivati due ragazzetti, boh delle medie, penso. Intorno alla palestra girano sempre un sacco di ragazzini dei club di pallavolo, in cerca di autografi degli Adlers da smerciare a scuola.
Comunque, sono arrivati due ragazzini e si sono messi seduti dove ero io. Per fortuna, sono titolare da poco, quindi non mi riconosce proprio nessuno (Waka lo tormentano). Si sono messi a parlare e guardare il telefono.
E uno dei due ha detto: "Ma waaaa, lo hai visto questo tipo del beach? Hai visto che robe che fa? Come schiaccia? Quanto salta? Come serve?"
E grande entusiasmo.
"Ma è giapponese?"
"Sì"
"Non ci credo, che cazzo ci fa un giapponese lì?"
"Che cazzo ne so, ma è giapponese. Lo chiamano Ninja Shoyou. Ci sono un sacco di video."
E fin qui, boke, potevo pensare così bene di te, in un momento di brutale nostalgia di quando i video li guardavamo noi insieme, da credere che non ti saresti mai fatto appioppare un soprannome così idiota.
Perché è idiota forte. Ninja? Sul serio? Sai che non te lo scollerai mai di dosso? Quando saremo in nazionale, alle olimpiadi, sarai ancora Ninja Shoyou. Anche a quarant'anni.
Comunque, uno dei due ragazzetti ha detto: "Ti pare che un giapponese abbia quel capelli?"
"Saranno tinti, stupido!"
"Ma chi si farebbe fare la tinta color mandarino?"
"Uno che vuole farsi notare!"
Loro hanno continuato a parlare e io ho capito che il boke che si fa chiamare Ninja Shoyou non potevi essere che tu. E in fondo già lo sapevo. E poi: "come serve" , hai capito?  Okay, come schiaccia, come salta (e chi se la scorda la faccia di Waka quel giorno che gli hai fregato la palla sotto il naso, quando lo abbiamo conosciuto?). Ma... come serve?  Ah Boke, i tuoi video non li voglio guardare. Se li guardo, ci rimango dentro e non va bene. Quindi non li guardo, ma se impressioni le persone per come servi, vuol dire che stai facendo progressi. E' una cosa che non ho mai il coraggio di chiederti quando ci sentiamo, perché ho paura della risposta. E poi non voglio che ti si inceppi il cervello su una logica di risultati rapidi, lo sai che i progressi sportivi non sono lineari. Ne abbiamo parlato seimila volte, ma la tua testa è durissima.
Tornando al discorso originale, la gente carica i tuoi video. Me li sono immaginati, sulla spiaggia, che si fanno i cazzi loro e poi niente, all'improvviso voltano la testa e da lì in poi possono guardare solo te. Mi succedeva di continuo.
Li capisco, restano abbacinati. Anche in un altro continente, la gente si prende a spallate per guardarti giocare. O per giocare con te.
Se penso ai tizi che ci saranno lì, tutti senza maglietta, con quel caldo diabolico...
Boke, se mi tradisci non so che ti faccio. Ma sai che su questo non mi ci arrovello per niente. Tanto se mi tradisci, se ti trovi un altro alzatore, un altro rivale, se insegui un altro sogno, il mio è da buttare nel cesso. Quindi festa finita.

Ecco, questa è l'altra cosa che ho capito.
Che io boke non ho più niente. Ti sei preso tutto tu. Pacchetto completo: l'idiota qui presente, i suoi sogni, i suoi progetti, la pallavolo intera. Sei un ladro di esistenze.
Waka mi ha detto che lui praticamente ha deciso di smezzarsi in due: uno è il Waka che schiaccia di mancina, segna in partita, ha due braccia come cannoni. Mangia bene, si allena, ci mette l'anima. L'altro è il waka che scrive le lettere e si immagina di vivere un'altra vita. E gli basta immaginarsela.
A me non basta. Io non voglio vivere un'altra vita. Io voglio questa. Con te. Quindi vedi di stare ai patti.
E insomma alla fine ho scritto tipo dieci pagine. Mi fa male il polso. E tutto quello che volevo dire è che ho capito che ti amo. Ma ti amo di brutto, boke. Da sempre.
Credo da quando ho visto i tuoi occhi che crepitavano e andavano a fuoco sopra il filo della rete al torneo delle medie. Gli occhi di uno che vince. Gli occhi di uno che spacca il mondo. Eri uno spreco vivente di atletismo e di energie, e un impedito assoluto. Mi facevi incazzare. Ma allo stesso tempo, ti eri già distinto dalla massa, eri già in un posto a parte, avevi già una categoria tutta tua. E io ero già fottuto. E anche se avessi scelto un altro liceo, penso che sarebbe finita così.
Ti amo. Ci vorranno tre secoli prima che riesca a pensare di dirtelo a voce.
E intanto ha iniziato a nevicare. Mi piace solo perché piace a te.

E' il 24 dicembre. Miwa è col fidanzato a Hokkaido. Mio padre chissà dove con la nuova moglie. Mia madre ha conosciuto un tipo qui a Tokyo e vuole che domani vada a pranzo con loro. Ne ho voglia quanto ne avevamo noi di studiare letteratura giapponese con Tsukishima mestruato.
E' il 24 dicembre. Nevica. Se chiudo gli occhi vedo quel cappello di lana bianca sulla tua testa rossa e mi sembra ancora una delle cose più belle del mondo.

Ti amo sul serio Shoyou.

Buon Natale.

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Capitolo 5
*** Sabbia [2016] ***


 

Ha risposto "okay". Anzi no, ha detto: "okay, certo."

Okay, certo. Che significa?

Tobio ci pensa mentre fissa il navigatore sullo schermo del telefono: praia da reserva. Non che ci sia granché da guardare: è un puntino azzurro su una strada tutta dritta. Una lunghissima spiaggia che corre a sinistra e dall'altra parte una specie di parco, o di bosco, con lucidi bagliori lacustri, pozzi di luce misteriosi disegnati dai lampioni.

Il mare, invece, non si vede affatto: il buio l'ha inghiottito, ma non è riuscito a zittirlo: una risacca languida continua a sussurrare se stessa, sfrigolando di schiuma sulla battigia.

I passi cadenzati di Tobio battono al bordo della pista ciclabile parallela alla carreggiata; è quasi il ritmo di una corsa leggera. Quasi ma non ancora.

Così si sente, sospeso nel punto dove le definizioni perdono di senso e la forma delle cose si fa ambigua e incerta: la camminata non si distingue dalla corsa, l'urgenza dall'indugio, la paura dal desiderio.

Il desiderio lo capisce, e infatti ha le mani leggermente sudate e la testa leggera, la paura meno. La conosce bene, è la compagna fidata di qualsiasi atleta professionista, un ingrediente necessario alla ricetta della vittoria, imparare a tenerla a bada fa parte del lavoro. Ma non ci sono stadi gremiti, adesso, né cronisti insolenti, non ci sono avversari, non ci sono Mikasa colorate da far girare sulla punta delle dita, né una rete a segnare i confini della zona di conforto.

Tobio attraversa la pista ciclabile con una singola falcata e si toglie le scarpe, affondando i piedi nella sabbia ancora tiepida.

Merda, non c'è neppure un vero pavimento.

Eppure la paura è ancora lì. Un disagio strisciante, che qualche ora prima si è arrampicato lungo i tralicci dei ripetitori e gli si è intrufolato sottopelle passando per le orecchie, nello spazio di un breve, assordante silenzio.

Okay, certo, ha detto boke. E poi è stato zitto, e lì, nel vuoto delle sue labbra cucite, si sono intrufolati i rumori scomposti della strada, mischiandosi al respiro un po' pesante, al cigolio dei freni, al brusio delle folate di vento caldo amplificate dal microfono.

Tobio ha chiuso gli occhi e dietro le palpebre si è dipinto il quadro della bici accostata al bordo di una strada trafficata, sotto quel sole sfiancante, del piede sul pedale, dei capelli sudati, appiccicati alle tempie, così rossi da incendiare il cemento.

Forse boke era solo stanco. Anzi, lo era di sicuro.

E comunque, ha detto okay. L'ha detto subito, con convinzione, le parole gli sono rotolate fuori dalla bocca come se non ci fosse alcuna altra risposta, il che in effetti è vero: non c'è e non può esserci altra risposta.

C'è Shoyou, invece, poco più avanti. Che è già arrivato; a quanto pare il Brasile lo ha reso puntuale e sembra gli abbia anche insegnato a vestirsi un po' meno da cretino.

E' rivolto verso la riva, sotto una falce di luna velata e poche stelle ostinate, seduto su un quadratino di asciugamano, con le gambe incrociate e lo sguardo perso nella massa liquida e scura dell'oceano, come se lo tenesse insieme lui con la forza immane della sua presenza. Emette luce.

Tobio si ferma e cattura quell'immagine di acqua, di cielo e di calore, ne scatta una foto mentale e la sistema in un album che ha scoperto di avere in testa, pieno di istantanee assurde, un po' sfocate e non sempre significative, ma felicemente monotematiche.

E' un bel momento, denso di un'aspettativa elettrica che si sente fremere addosso, lungo tutto il corpo, come se dovesse battere un servizio in un istante cruciale. E forse è proprio un istante cruciale.

Tra poco boke si volterà, lo sentirà arrivare, la prossimità fra loro farà scattare un allarme interno e stringerà il laccio che si portano dentro e che mesi di silenzi e distanza hanno teso e sfibrato, ma non possono spezzare. E tutto riprenderà esattamente da dove si è fermato.

Non succede.

Shoyou non si accorge di nulla, beatamente ignaro di chi gli sta arrivando alle spalle.

«Boke?»

Solo allora si volta. E si alza, sorride e si fa avanti un paio di passi.

E' lui e non è lui, e anche Tobio ha il dubbio di non essere del tutto se stesso.

«Ciao Boke.»

«Kageyama!» E' un tono basso e allegro, che non conserva nessuna traccia della voce bianca di un tempo.

Kageyama. Pronunciato da lui, tutto intero, sembra un nome lunghissimo. Tobio si sente instabile in mezzo a tutte quelle sillabe, barcolla nella sabbia, la sente viscida e fredda sotto la pianta dei piedi.

Della mano allungata verso di lui, non sa cosa farsene. La guarda con sospetto e non gli viene in mente di stringerla.

E' Shoyou ad afferrare la sua, e a tirarlo verso di sé in un abbraccio goffo.

Per una manciata di secondi, il contatto restituisce a entrambi la misura tattile dei cambiamenti che il tempo e la pallavolo hanno operato sull'altro. C'è molto più di prima da abbracciare, e anche molto di meno.

E c'è qualcosa di nuovo e di strano in come i loro corpi si incontrano, senza riuscire a riconoscersi. E un vuoto in mezzo, anche dove la pelle si sfiora.

«Sei cresciuto» dice Tobio, con una vibrazione che somiglia al rammarico.

Mi sei mancato, boke. Mi sei mancato come l'aria.

«Certo che sono cresciuto! Baka! Ho vent'anni, no? Sono maggiorenne, io, porta rispetto!»

Tobio schiva la manata sulla schiena, fulminea e allo stesso tempo prevedibile. Uguale a prima ma anche diversa, come tutto in Shoyou è uguale e diverso, in un modo indecifrabile e pericoloso. Si difende guardandolo dall'alto in basso, fingendo di misurare con la mano il notevole scarto d'altezza fra loro. 

«Non sei cambiato neanche un po' boke» mente, «sempre stupido e nano.»

«E tu sempre... » 

L'insulto resta impigliato alle labbra di Shoyou, che ridacchia anziché finire la frase, fa spallucce, mette le mani sui fianchi e si stira il collo con un paio di torsioni.

Tobio realizza che non l'ha mai visto sottrarsi così a un confronto. Non sa dire se sia un punto a suo favore, se stia vincendo o perdendo.

«Allora Kags, beviamo qualcosa?»

«Io non... »

«Tu non hai scuse, qui danno da bere anche ai mocciosi!»

«Hinata boke! Non è per l'età... »

E' per la partita, naturalmente, la partita di domani. I quarti di finale, contro la Polonia, non può non saperlo.

Shoyou sta per rispondere, ma di nuovo frena le parole e invece afferra il manubrio della bici. «Vieni, andiamo,  sto morendo di fame. Se non puoi bere puoi almeno mangiare. Lì c'è un chioschetto di coxinha che ti cambia la vita.»

La vita di Tobio è già stata cambiata, diversi anni fa, da un boke di quindici anni, che dev'essere ancora lì, da qualche parte, nascosto sotto tutti quei muscoli, quella spavalderia, quel collo largo, quel timbro scuro di voce, quell'accento un po' straniero.

«Dammela!» ordina il Re, allungando le mani sulla bicicletta, con un breve strattone.

E' uno dei vecchi riti: Shoyou dovrà opporre un minimo di resistenza e poi mollare, biasciare un grazie stentato e incamminarsi mezzo passo avanti, meglio se con le mani in tasca e voltandosi ogni due secondi, per dire qualcosa di scemo e ridere ed essere se stesso, disgustosamente colorato, chiassoso e splendente.

Le mani di Hinata, invece, restano saldamente ancorate al manubrio, il fianco sbatte contro le due grosse borse termiche sul portapacchi e lo zaino rigonfio incastrato sopra. 

«Lascia stare: pesa.»

Il Re ha ordinato, ma Hinata non obbedisce più, i suoi sorrisi tolgono ancora il fiato ma sono densi di ombre.

 

*** 

 

«Allora, ti piace?»

«Caffo se fcotta» Tobio inala aria mentre mastica, per raffreddare il boccone «Ma come fai? Hai la bocca d'amianto?»

«Sono abituato.»

E' abituato. A portarsi la bici da solo, a camminare sulla sabbia, a parlare portoghese, a bere birra dalla bottiglia di vetro, come se fosse la cosa più normale del mondo. A stare in mezzo alla sabbia, e a chissà che altro.

«Sembra kaarage» riflette Tobio, soffiando forte sul pollo fritto.

«Dici?»

«Mn. Ma il kaarage è meglio.»

«Sai che non me lo ricordo più?»

Quello che ferma le mandibole di Tobio non è la frase in sé, perché boke ha sempre avuto la memoria di una gallina, ma la mancanza di emozione: nemmeno un'ombra di tristezza, neppure un po' di nostalgia.

Cos'altro hai dimenticato, boke?

Shoyou divora allegramente i bocconcini, lanciandoseli in bocca e innaffiandoli di birra ghiacciata; qualsiasi preparatore atletico vorrebbe spaccargli la faccia. In quel momento, anche Tobio vorrebbe, mentre cattura con gli occhi il riflesso delle goccioline d'acqua che gli scivolano sul mento.

Stende le gambe, sotto l'orlo dei pantaloncini scuri i quadricipiti guizzano, si appoggia all'indietro sulle braccia tese, i palmi affondano, lui guarda verso l'alto, come se ci fossero cose importanti scritte fra le stelle. «Allora Kags, come ci si sente a fare il professionista? Come va la vita? Racconta!» 

Tobio invece guarda in basso, dove le caviglie spariscono fra la rena ruvida.

Va bene. Ma anche male. Senza di te si vive di merda. Torna, Boke.

«Normale. Un sacco di pallavolo, come sempre. Un sacco di gente che ti dice cosa devi fare, cosa devi mangiare, quanto devi allenarti. E seccature, tipo giornali, sponsor, roba così.»

«Come sempre» gli rifà il verso Shoyou, tenendosi con le mani i capelli appiccicati alla fronte e aggrottando le sopracciglia. «Gli Adlers, la nazionale - la nazionale, baka, ti rendi conto? -, perfino le Olimpiadi, e anche un mucchio di soldi, e per te è come sempre, un sacco di pallavolo. Non cambi proprio mai. Ho ancora voglia di picchiarti come quella volta al liceo dopo il ritiro della giovanile, mi fai ancora incazzare di brutto quando fai così. Anzi, sai che ti dico? Ora mi tiro su le maniche e ti picchio sul serio.»

Tobio lo spintona per finta. «Provaci. Ti gonfio. A proposito, domani ci sono i quarti.»

«Lo so!»

«E quindi, boke? Ci vieni?»

A quella domanda rispondono la voce dell'oceano, l'eco di un motore lontano, il rumore della carta dei coxinha accartocciata.

Il cuore di Kageyama Tobio si incrina e lui serra le labbra e stritola granelli di sabbia fra le dita dei piedi, scoprendosi privo del lessico minimo per gridare i sentimenti. Vorrebbe schiacciargli in faccia, quello sì saprebbe farlo.

Inclina il viso e lo sprofonda nel collo di Hinata, quel luogo tiepido e pulito che ha sempre considerato di sua esclusiva proprietà, dove si disperde la stanchezza, si sciolgono le tensioni, si acquieta l'ansia di vivere e di crescere e di afferrare più cose possibili e provare a dar loro dei nomi. Cerca il battito del cuore con le labbra e aspira forte l'odore: sole e zucchero, ma anche sabbia e sale, e una vaga scia alcolica che promette amarezza.

«Baka, che fai?»

«Ti annuso. Lo sapevo, maledizione!»

«Eh?»

«Non hai lo stesso odore di prima. Non ce l'hai più.»

«Ho pedalato sotto il sole tutto il giorno e poi un baka mi ha dato appuntamento all'improvviso, prima che potessi tornare a casa a farmi una doccia.»

«In effetti un po' puzzi.»

Shoyou si annusa preoccupato, arricciando il naso. «E allora tu stai lontano!»

«Non voglio.»

Ecco una verità senza filtri, ostinata e contraria al moto delle mani di Shoyou, che lo spingono via. «Voglio io. Hai appena detto che puzzo.»

«Chissenefrega.»

«Frega a me!»

«E da quando?»

«Da quando non ho più sedici anni? Da quando ho un minimo di amor proprio. Eddai Kags, siamo cresciuti!»

Tobio non si sente cresciuto. Si sente tradito, ingannato. E spaesato, talmente tanto che ha smarrito persino la bussola dei suoi desideri.

E allora afferra Shoyou alla nuca e lo bacia senza tanti complimenti, perché è esattamente quello che vuole fare, perché ne ha il sacrosanto diritto, perché è maledettamente giusto così.

Gli invade la bocca, gli succhia le labbra e la lingua, cercando di ritrovare il retrogusto di tutti i baci del passato e anche il sapore condensato di tutti quelli che ha perduto, svaniti nell'abisso dei ventimila chilometri fra due continenti agli antipodi.

Baciare Shoyou è salvezza, sollievo, lampi di colore dietro gli occhi chiusi, indigestione di sole.

Si sfiorano le mani, si modellano a vicenda il viso e il collo con i polpastrelli, e si baciano. E questa volta non è casuale, né ingenuo, né tenero. E' umido, caldo, erotico e potente, come una pipe dalla seconda linea, schiacciata con tutte le forze.

Shoyou ha imparato a baciare come gioca, senza esitazioni, con una prepotenza che supera la logica, un'avidità che è l'essenza della sua natura. Un bacio che pretende, incatena, occupa, risveglia i sensi. Un bacio che non ha nulla a che vedere con quelli di un tempo.

Chissenefrega di un tempo, ansima Tobio nei pensieri, mentre prende fiato e apre gli occhi, stupito e affamato.

Shoyou sorride deliziato del proprio potere e poi è lui ad afferrarlo alla nuca, fronte contro fronte, per parlargli sulle labbra. «Che dici, baka? Niente male, vero? Te l'ho detto che sono cresciuto. Puoi chiamarmi senpai

«Hinata boke!» sussurra Tobio, con il fiato corto e le pupille dilatate. Guardarlo da così vicino lo ubriaca di luce in un attimo. «Dimmelo: vuoi ancora che alzi per te?»

Gli occhi di Shoyou si allargano, le fiamme che hanno dentro divampano, il mondo di Tobio s'incendia.

Solo per un attimo. Solo finché Shoyou batte le palpebre, soffia via il respiro dolcemente, allenta la presa della mano, si allontana qualche centimetro.

Sorride il suo nuovo sorriso, adulto e provocatorio, che mette in risalto la linea dura della mascella. «Vorresti alzare per me? Intendi qui? Adesso?»

Ovunque. Comunque. Anche se la palla fosse di marmo.

Proprio non ci arriva, Tobio vuole credere che sia così, che certe metafore intime e sottili, Hinata non le colga mai, perché in fondo è rimasto il solito boke. E forse è proprio sul campo che deve insegnargli di nuovo la forma giusta del mondo. Forse è giocando insieme che possono trovarsi di nuovo e i fili possono essere riannodati più stretti che mai.

«Adesso. Qui. Se non hai appresso una palla sei il peggiore del mondo.»

«Certo che ce l'ho, la palla.»

«Allora?»

Ancora una. Chiedimelo. Ancora una.

Tobio si sta allacciando le scarpe, ha l'espressione di chi ha già chiuso fuori a doppia mandata tutto l'universo, tranne le uniche due cose che contano: la pallavolo e Hinata Shoyou, non importa in quale ordine.

Shoyou però resta seduto, ride e gli assesta un pugno contro il fianco. «Ma sei serio? Baka! Non possiamo: le tue articolazioni sono tesoro nazionale.»

«Eh?»

«Sei un professionista, no? Che gli raccontiamo a Japan se ti sfasci una caviglia per fare l'idiota con me in spiaggia?»

Le spalle di Tobio si piegano sotto il peso di quella saggezza scagliata a piene mani contro di lui. Shoyou può essere tardo nel capire le cose, e inutile quando si tratta di comunicare, ma non lo aveva mai visto tirarsi indietro da una sfida.

Fino a ora.

Alza per me. Giuro che le colpirò tutte. Eppure aveva giurato.

«Boke, quando torni?» C'è una sfumatura di stanchezza nella voce.

«In Giappone?»

«A casa.» Da me.

«Chi lo sa. Quando sarò pronto. Fra un anno, un anno e qualcosa, magari un paio. Ho appena iniziato a ingranare, qui.»

Due anni, non un giorno di più. Giuro. Anche questo, aveva giurato.

«A me questa storia del beach volley sembra ancora una stronzata.» La voce gli esce dalla gola scheggiata come vetri rotti.

«Ma se non hai mai provato! Il beach è forte, Kags. Difficile, anche. E' una cosa... ah non so come dire, diversa. Ma...muito legal

Tobio scopre di odiare tutto del Brasile, a partire da quella lingua come una cantilena odiosa.

«Di' la verità: vuoi mollare?»

«Cosa?»

Me. Noi. Il nostro patto. «La pallavolo vera

«Sei pazzo? No! Neanche per sogno! Ma... la sto prendendo da un lato diverso. La sto imparando di nuovo. Non so se riesco a spiegartelo a parole.»

«Lascia perdere. A parole fai pena.»

«Senti chi parla!»

«Io non ti capisco. Dico sul serio. Ci ho provato, ma non ci riesco per niente e ora che ci sono venuto posso dirlo con certezza: questo posto umido e appiccicoso è una merda. Una merda per giocare e una merda per viverci. Qualsiasi cosa tu stia facendo qui, puoi farla meglio a casa.»

Shoyou si prende un paio di secondi per riflettere, frugando il buio con occhi seri e dolci, mentre le dita rovistano nella sabbia. «No, non credo. Credo che stare qui mi faccia bene, che mi serva. E poi ora mi piace: il mare, la gente.... All'inizio ho fatto fatica, sai. Ma ora sto ingranando sul serio e sto... capendo delle cose.»

«Questa sì che è una novità, boke, tu che capisci delle cose.»

«Baka! Sto davvero capendo delle cose. E non solo di pallavolo. In generale. Anche sulle persone e su me stesso. E' più facile conoscere gente, qui, e più conosci gente, più ti si apre il cervello.»

«Tanto nel tuo ci trovi la segatura. Stai dicendo un mare di cazzate, molte più del solito.»

Il sorriso di Shoyou è triste, ma anche indulgente, fastidiosamente saggio. «Forse per te sono cazzate, ma tu non hai bisogno di guardarti per forza intorno, ti basta camminare dritto per la tua strada, e arrivi sempre dove vuoi.»

Tobio sospira così forte che la saliva gli si incastra in gola. «Che cazzo significa?»

«Che anche se personalmente non te ne frega niente, il mondo è grande, Kags, ed è pieno di persone, di storie, di cose nuove da provare. Quando eravamo a Osaki non l'avevo mai capito. Pensavo mi fregasse solo della pallavolo, che ci fosse un solo percorso per arrivare da qualsiasi parte, che bastasse restare in campo. E invece non è così. Invece mi sbagliavo. Con la pallavolo faccio sempre sul serio, okay, e sta in cima alla lista, e voglio sempre vincere. Ma esistono anche altre cose nella vita, un sacco di altre sfide, di altri tipi di vittoria, di altri modi per sentirsi bene.»

Lo sguardo di Tobio è sconcertato.

Shoyou fa spallucce e gli lancia un sorrisetto da schiaffi. «Mi sa che sono un tipo curioso. E qui ti puoi levare tutte le curiosità che vuoi e divertirti un sacco. Puoi fare esperienze. Qui le persone sono... amichevoli. Disponibili, voglio dire, sia i ragazzi che le ragazze. E' molto facile vivere tutto con leggerezza... »

«Tutto cosa? In che senso?»

«In che senso, Kags? Ti devo fare un disegnino? Sei negli Adlers, e pure in nazionale, ma che vuoi di più? Hai tutto. Sei un maledetto campione, avrai la fila di gente che vuole venire a letto con te davanti alla porta, o no?»

La porta di Kageyama è sempre stata chiusa e lui non ha la minima idea di quanto lunga sia la fila che c'è dietro. Non gli interessa. Non gli interessa nessuno, in quel senso. Non gli è mai interessato nessuno, perché dovrebbe?

E lì, forse per la prima volta, Kageyama Tobio se lo domanda: perché?

Perché lo stupido Hinata conta così tanto, con i suoi capelli arancioni da alieno e le mille cazzate che dice ogni momento, mentre il resto del mondo neanche esiste?

«Mi stai dicendo che te ne vai in giro a scopare con chiunque?»

Shoyou guarda l'oceano e l'oceano, liquido e scuro, gli si infiltra negli occhi. «Detta così è squallida. Volevo dire che esco, faccio amicizia, mi godo gli anni che ho e cerco di fare esperienze nuove, allargo il mio orizzonte. E se capita un po' di sesso, perché no? Non c'è niente di male. Sono adulto, sono libero e sono anche molto figo» ridacchia ammiccante, schioccando le labbra e passandosi la mano fra i capelli.

Sono libero.

I fili rossi penzolano dalle dita di Tobio, come rivoli di sangue da articolazioni spezzate.

«E quindi? Devi dare per forza via il culo solo perché hai messo su un po' di carne sopra quelle quattro ossa e hai compiuto gli anni?»

«Baka! Non do via il culo. Mi diverto. E poi, mica per forza devo darlo via, anzi, ho scoperto che sono bravino anche a stare sopra... magari vuoi provare... »

«Piantala. Non c'è un cazzo da ridere.»

«A me sembra proprio di sì. Guarda che faccia che fai! »

Sul viso di Tobio è scolpita l'espressione incredula e ferita della vittima di una truffa crudele, di un brutale, umiliante tradimento. Gli cade la testa fra le mani, serra gli occhi e li copre con le dita. Se sapesse come fare piangerebbe. «Con chi hai scopato? Quando? Quante volte? Perché?»

«Cosa? Ma sei mia madre? Cioè, nemmeno lei farebbe domande come queste. Con un po' di gente, tutte le volte che mi va. Mica le conto! Perché? Ma c'è bisogno di un motivo? Perché ho vent'anni, perché scoppio di vita, perché l'adrenalina mi consuma, perché una bella sessione di sesso scarica i nervi, è divertente, abbassa la tensione. Non lo dicevi sempre tu che abbassa la tensione e aumenta le prestazioni?»

Tobio non ha una risposta. Lo stomaco ridotto a un nido di vespe, il cuore spaccato in mille pezzi. Non lo sa più cosa andava dicendo a diciott'anni, per giustificare con se stesso l'unica ossessione della sua vita che avesse un senso anche fuori dal campo.

Sapere cosa si vuole e volerlo con forza sovrumana è quello che fanno i re. E Kageyama Tobio vuole vincere su qualsiasi campo del mondo e vuole Hinata per sé. Vuole Shoyou esattamente quanto lo voleva prima. Lo vuole ancora, lo rivuole indietro. Anche se altri gli hanno messo le mani addosso, se l'incavo del suo collo è stato profanato, se hanno bevuto la sua luce, se gli hanno dormito addosso.

Può cancellare quelle tracce, può scriverne di nuove sul suo corpo.

Kageyama Tobio è un re senza corona e senza regno, con le mani vuote e le vene dei polsi che battono un ritmo scomposto.

«Kags. Mi senti? Ehi, Kags, non fare così. Va tutto bene.» Le dita di Shoyou gli sfiorano la guancia, con una dolcezza che brucia sulle ferite aperte. «Stiamo solo diventando grandi. Funziona così.»

Invece non funziona, e che lui non lo capisca è insopportabile.

Qualcosa trema negli occhi di Tobio e attraverso la vista liquida e offuscata si rende conto a un tratto che questa nuova versione di Hinata Shoyou è piena di crepe.

Lunghe crepe voraci che attraversano il solido cemento di cui era fatto e lasciano affiorare, al di sotto, un'instabile, mutevole massa sabbiosa. Dev'essere da lì che viene questo Hinata Shoyou, con le sue bugiarde pose da adulto e il culo dato via senza motivo. Una sagoma di sabbia che cambia forma e consistenza ogni momento, inaffidabile, pronta a sgretolarsi, una terribile impostura.

Eppure non riesce a staccare gli occhi da lui, a pensare di portarselo via e di aprirgli quella testaccia dura e scavare, scavare via con un cucchiaio tutte le idee marce e le cattive abitudini che ci sono finite dentro.

«Vieni a vedermi, domani?»

Shoyou esita, gratta con le dita sulla stoffa dei calzoni.

«Rispondimi! Ci vieni o no?»

«Domani devo... »

«Sì o no. Verrai alla partita?»

Tobio conta fino a cinque, senza battere le palpebre, aspettando una risposta che le labbra di Shoyou non lasciano uscire.

Lo spintone arriva a tradimento e Hinata ruzzola nella sabbia.

Tobio si alza e se ne va, a passo di marcia e con i pugni serrati, come fa quando vorrebbe scappare ma non riesce a mettersi a correre, perché gli pesa troppo il cuore.

 

Shoyou resta impalato a guardarlo mentre va via, scavando una trincea fra il prima e il dopo, un solco buono per seminare sensi di colpa e nuovi sbagli.

La schiena ampia, le gambe dritte e solide come colonne, la testa incassata fra le spalle, Tobio si sta portando via tutte le cose più dolci del passato, che non torneranno, perché Shoyou non se le merita.

E' l'adolescenza che lo abbandona, delusa dal suo ostinarsi a cambiare, come se l'avesse tradita e spinta via, per andare oltre. E forse è proprio quello che ha fatto, quello che doveva fare.

Fa un gran male, ma non c'è rimedio: sono i dolori della crescita, quando non solo le ossa e i muscoli si mettono a bruciare all'improvviso, ma pulsa e duole anche tutto quello che c'è intorno.

Dolori inesorabili, perché nessuno ha il potere, o il diritto, di restare ancorato al passato, tenendo in scacco se stesso, e anche gli altri. Tutti hanno, al contrario, il dovere di muovere il culo, spingere sui pedali, saltare sulla sabbia, strapparsi di dosso la vecchia pelle e combinare qualcosa.

Kags sta combinando qualcosa. Che sia qualcosa di buono è ovvio a chiunque tranne che a lui stesso, ma questo solo perché è un baka fortunato, col talento che gli esce dagli occhi. Prima o poi si accorgerà che sul tetto del mondo c'è già arrivato e guarderà di sotto e tutti gli sembreranno piccoli come formiche.

Questo destino da formica, Shoyou non lo accetta. Non lo vuole accettare, anche se significa scavarsi solchi nella carne e incrostarsi le mani di sabbia, di fatica, di sconfitte e spegnere la nostalgia nei marosi della caipirinha, soffocarla sulle labbra di qualcuno, schiacciarla sotto il peso delle borse termiche delle consegne, piene fino a scoppiare. Pedalando, pedalando, correndo, saltando sotto rete. Cambiare. Evolversi. Coltivarsi, allungando le radici nella sabbia, come i gigli di mare che fioriscono in spiaggia.

 

La schiena di Tobio è già lontana, sempre più piccola, bianca della felpa olimpica, con le spalle rosse, bruciate dal sole del Giappone.

Gli si affianca un pullman che corre sull'asfalto, si sente l'eco della musica allegra sparata a tutto volume all'interno; sulla fiancata campeggia il logo colorato dei cinque anelli e la scritta gigante Rio 2016. Il Brasile ha vinto l'oro per il calcio solo un paio di ore prima, la città è in festa.

I finestrini si abbassano e su Kageyama Tobio e la sua tuta da atleta olimpico nevicano risate, giubilo e lustrini colorati, come fiocchi di metallo, delicati e rigidi, che gli fluttuano intorno e gli si appiccicano addosso.

L'ultima cosa che Shoyou vede di lui sono riflessi rossi e dorati che scintillano sotto le suole delle scarpe, mentre comincia a correre.

La sabbia è fredda, la birra molto amara.

Quando sposta il peso per alzarsi si sente vacillare; cosa si prova a stare al sicuro sul cemento non se lo ricorda più.


****

Chiedo scusa con il capo cosparso di cenere a chiunque abbia aspettato invano per mesi la continuazione di questa storia. E' stato difficile sbloccarmi, non me la sentivo di arrivare a questo punto della storia, a questa rottura inevitabile, ma ugualmente dolorosa. Naturalmente la storia continua, perché per me kagehina è e resta, alla fine dei conti, una fated pair.
Per avermi sbloccato il cervello ringrazio di cuore il gruppo facebook "Non solo Sherlock" e in particolare la challenge "MayIwrite" per la quale questo capitolo è stato scritto.

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Capitolo 6
*** Cancellato [2017] ***


***
Questo capitolo è dedicato a GiorgiBi

con tutto l’affetto del mondo, 

per i suoi nuovi 16 anni 

***



Per un attimo c’è solo una stanza vuota, una lama di luce accecante domata da veneziane bianche, un letto in disordine, un grande zaino aperto, un tappetino da yoga verde mela arrotolato e fermato da un elastico, una mikasa che rotola piano lungo una pendenza invisibile.
Poi compaiono i capelli in fiamme, il viso, le mani più grandi e più inquiete, le spalle che si sono fatte più larghe.
Si siede per terra, la schiena appoggiata al bordo del letto, le gambe incrociate, le braccia scolpite che escono da una maglietta larga con il logo BB.
Per ultimo, alza lo sguardo. Gli occhi sono ancora quelli di un tempo: liquidi, ardenti, forse un po’ più scuri, come se la luce rappresa sul fondo crescendo si fosse sporcata. Si schiarisce la voce, si passa una mano fra i capelli in un gesto che sembra più che altro autoconforto.

 

«Ohi Kags, non so bene che sto facendo. Ma visto che non mi rispondi al telefono, che non apri le mie mail, che non c’è verso di parlarti in nessun modo, ho pensato che forse questo video ci riesco a fartelo arrivare. Non so ancora come. Pensavo di darlo a Yamaguchi-kun, che saprebbe come rifilarlo a Tsukishima, così arriva a Kuroo-san, e lui mi sa che lo vedi spesso. Oppure lo do a Tooru-san, che può girarlo direttamente a Japan, anche se forse Japan è il tipo che si fa troppo i fatti suoi per mettersi in mezzo in una cosa così… ma ci voglio provare lo stesso: è importante, Kags. Sul serio, è importante che almeno mi ascolti. Ti prego, guardalo tutto, fino in fondo. Poi se mi vuoi cancellare, va bene. Però guardalo. Okay?»

Non sembra convinto, oscilla il ginocchio destro seguendo il ritmo del nervosismo, gratta con l’unghia la traccia di un adesivo scollato sulla valigia rigida.

«Comunque, domani torno. Ho il volo alle otto del mattino e ecco, forse non te lo ricordi, o non te ne frega niente, ma domani sono esattamente due anni da che sono partito, che è quello che ti avevo promesso. Quel giorno, nel magazzino della palestra del Karasuno, quando si sono rovesciati gli scatoloni con il polistirolo… due anni, non un giorno di più, te lo ricordi, almeno, quel giorno?
Sembra passata una vita. Hai notato che qualche volta il tempo passa in un attimo, tipo il nostro terzo anno di liceo, e qualche volta invece ogni secondo è lentissimo, come quando sei al servizio in un matchpoint e tra che prendi in mano la palla e senti il fischio, ogni secondo dura un secolo?
Per esempio, mi sembra passato un attimo dall’anno scorso, quando sei venuto qui a luglio. E poi però, fra il momento in cui vedo i lustrini appiccicati alla suola delle tue scarpe mentre te ne vai, e adesso, che fisso lo schermo del telefono facendo finta di parlare con te (che non mi vuoi parlare), mi accorgo che si sono accatastati mille anni polverosi, in cui mi pare di aver solo pedalato, sudato e giocato, mangiato, dormito.»

Si gratta il collo, che è robusto quasi il doppio di quando era un ragazzino smilzo, il sole che filtra dalle persiane gli arriva addosso di traverso, colpendo una ciocca di capelli, un occhio fiammeggiante, l’angolo delle labbra, una spalla; per qualche motivo le efelidi brillano sulla pelle dorata, anziché confondersi con l’abbronzatura. Non sorride, curva appena le labbra e poi abbassa lo sguardo.

«Quando sei venuto qui a Rio, è andato un po’ tutto a cazzo, Kags, mi sa che l’ho capito tardi. Non è che ti ho detto bugie, o cosa, è che… io…  dai, ma quanto sei baka a farmi dire cose come queste chiuso in una stanza e parlando allo schermo del mio telefono?»

Abbassa le palpebre, prende un respiro, riflette. Piega le gambe, blocca gli avambracci contro le ginocchia, intreccia le dita, poi torna a fissare la videocamera. La fissa con sfida e con coraggio e con una specie di tristezza, che gli fa inclinare un po’ la testa dal lato del cuore, come se pesassero troppo entrambi.

«È che non ero pronto, Kags. Per niente. Non ero pronto a vederti, a parlarti, a cercare di capire come stavano le cose fra noi. Non lo sapevo come volevo che stessero. Ho detto tre frasi del cazzo, perchè le cose serie non sapevo come dirtele senza sembrare un coglione. Non ci ero arrivato che non potevo evitarla la figura del coglione. 
La verità, Kags, è che è stata dura. È stata un sacco dura, qui. E intendo tutto. Tutto, compresa la pallavolo, che era la cosa che contava di più. E non mi illudevo che sarebbe stato facile, ma pensavo che sarebbe stato… felice. Che stupido, nè Kags? È che la pallavolo è sempre stata felice, per me, una cosa che ti mette il fuoco dentro, che ti fa volare, anche se sei da solo nel campetto delle medie, anche se al torneo arrivi ultimo, perché pensi che crescerai, che le cose cambieranno, che diventerai un grandissimo figo di quelli che vincono e restano in campo. E poi al liceo era successo veramente. E quando sono arrivato qui, avevo solo un’idea vaga di quello che dovevo fare su me stesso, di quello che volevo fare con il beach. È pazzo il beach, ti smonta e ti rimonta, e sai che ti dico? Ti piacerebbe un casino.
Ma all’inizio, sembrava che tutto quello che toccavo diventasse merda. Ed è durato tantissimo e c’era solo merda ovunque. 
Merda del tipo che mi spaccavo le gambe sei ore al giorno in bici e comunque non ero sicuro di arrivare a fine mese, che se non ci fossero stati i soldi di Kenma, avrei dovuto tornarmene a casa con la coda fra le gambe. Merda che non riuscivo nemmeno a saltare, sulla sabbia. Che non avevo mai alzato una palla e non sapevo da dove cominciare. Tutto di merda, Kags, hai presente? Tipo la nostra pagella, e in più anche Tsukishima che ci prende per il culo. Ecco: di merda.»

Sorride, un sorriso cauto disegnato dalla nostalgia, vagamente imbarazzato. Si tocca la faccia, si strofina il mento, come se gli prudesse.

«Il guaio è che no, tu non ce l’hai presente com’è quando le cose vanno di merda. E il problema forse è questo. Perché della pagella non ti fregava niente (come a me), e dopo la scuola tutto il resto, alla fin fine, ti è venuto gratis.»

Si blocca, scuote la testa, tamburella con le dita contro il ginocchio, storce le labbra.

«No. Ho detto una cazzata: gratis no. Perché tu il culo te lo fai cento volte più degli altri e non sgarri mai e nessuno lo sa meglio di me. Ma il fatto è che dopo esserti fatto il culo, poi le cose vanno tutte al posto giusto, quasi da sole: il provino, i soldi, la squadra, la nazionale. Gli amici, Kags, che tu forse non ci fai troppo caso o pensi che non te ne freghi, perché sei sempre un grandissimo baka, ma lì è pieno di gente che ti vuole bene e a te ci tiene. E se ci pensi bene, lo sai che invece te ne frega. Te lo ricordi com’era alle medie, no? Ci sono cose che solo quando non le hai, capisci che avercele è importante.
Ecco: io qui mi facevo il culo e tutto quello che ci guadagnavo era mangiare sabbia, perdere tutte le partite, passare le serate solo come un cane rintanato sotto le coperte, a ripensare a tutte le cose di prima. A te, baka, che eri un po’ il riassunto tutte le cose di prima, e io non le avevo più. E lo sapevo benissimo che mi fregava di averle, mi  fregava tantissimo. Ma non ne avevo più neanche una, e nemmeno potevo volerle, perché bastava tanto così per farmi mangiare vivo dalla tentazione di fare marcia indietro e mollare tutto come uno sfigato. E faceva male, così tanto male che a un certo punto o mi buttavo di sotto o smettevo di pensarci e tiravo avanti. 
Capito? Dovevo smettere di pensarci.
Davvero Kags, io non lo so se puoi capirmi. Vorrei che ci riuscissi, vorrei cavarmela meglio a parole per spiegarti. Ma come si fa a far capire a te che significa quando tutte le cose che vuoi anziché avvicinarsi diventano lontanissime? 
Tu le cose che vuoi ce le hai sempre di fronte, ti impegni da matti e le afferri mentre corri in avanti, come i personaggi dei giochi di Kenma, le afferri nell’ordine giusto, tutte sempre e comunque a portata di mano, e ognuna che tocchi si trasforma in stelline colorate (sai con quel motivetto stupido di quando vinci nei videogiochi?): denaro, podi, contratti. E non è che non va bene, baka, te lo meriti. Sei un mostro, hai il talento che ti esce dal culo (come dice Tooru-san), sei disciplinato, sei tipo… nato atleta, con la medaglia al collo. È giusto così. Ma non vale per me.»

Si morde le labbra, mentre sembra che cerchi una parola difficile, o forse un concetto più sfuggente. Guarda di lato, come se fosse scritto sul muro, la luce gli scorre addosso, fondendosi con i suoi colori, gettando ombre diverse da prima. Dal buio emerge l’angolo delle labbra, un tendine del collo, la linea definita del bicipite.

«Io penso che tu certe cose non ce la puoi fare a immaginartele, certe sensazioni.
Tipo quando un giorno sei stanco morto, alzi la testa dal traffico e vedi la faccia di quel baka del tuo alzatore su un maxischermo, con quell’espressione che fai dopo un ace, che è proprio tipica, con le labbra strette per tenersi dentro il sorriso e gli occhi che diventano neri dalla concentrazione, perché vorresti metterne a segno subito un altro. Quello è il momento di farti una battuta cretina, baka, ma in nazionale mi sa che non te le fa nessuno. 
Ma lo sai che ho pensato in quel momento, Kags? A parte l’impressione di vedere una scena del genere.
Quello che ho pensato è che io non ero nessuno e non mi ero meritato niente.

Cioè, io avevo avuto per tre anni il miglior alzatore del Giappone come partner e come la avevo sfruttata questa fortuna? Cosa avevo ottenuto? Le chiappe indolenzite dal sellino, il portafoglio sempre vuoto, una solitudine terrificante e un’infilata di sconfitte lunga quanto tutta Copacabana.
La capisci la sproporzione, Kags? È qualcosa più che frustrante. O doloroso. È una cosa che ti marcisce piano piano, ogni volta che ci ripensi.
Me lo aveva detto Tooru-san, che l’invidia e l’amore, se li mischi, diventano veleno e ti ci ammazzi da solo. E io l’ho capito in quel momento cosa voleva dire, davanti al maxischermo, a quella tua espressione di trionfo tenuto sotto controllo, che pensavo di conoscere solo io e invece la stava vedendo tutto il mondo. 
Quella sera ho buttato nel cesso il portachiavi con la maglia della nazionale numero nove. Non so se ce l’hai più, il dieci, forse no. Non mi ricordo nemmeno più bene da dove era venuto fuori. Ma io me lo conservavo. Ci tenevo di brutto. Ci dormivo insieme. E quella sera invece ho pensato che fossero tutte cazzate e l’ho buttato via. Poi ho tirato lo scarico. Poi mi sono messo a piangere come un deficiente e ho allagato il bagno per smontare il sifone.
E alla fine l’ho chiuso in un cassetto.»

Si infila la mano in tasca e tira fuori un pezzetto di metallo luccicante. È un po’ scolorito, ma si vede benissimo il 9 sullo sfondo rosso. Lo fa oscillare verso la videocamera, appeso all’indice, e poi lo stringe nel palmo. 

«E insomma, eccolo qui. E forse non significa niente, di per sé. Ma quello che sto cercando di dire, Kags, è che quella sera ho capito che io dovevo staccarmi da te. Chiudere. Lasciare che l’infanzia finisse e cominciasse quello che veniva dopo. 
Tu lo avevi fatto, eri andato avanti, e infatti eri lì che segnavi un ace dopo l’altro con la nazionale. Io invece passavo le notti sveglio a guardare le foto di noi a scuola, noi ai tornei, noi in bici, noi in giro per Tokyo. Ed era sempre il passato che si mangiava a morsi il futuro.
La tua vita che brillava e la mia che non significava niente. E non è che uno possa evitare di farli, i confronti; non con la persona a cui pensi per prima cosa al mattino quando ti svegli, non con la persona da cui pensi di voler tornare per dimostrargli qualcosa. Non con il tuo rivale, con il tuo partner. I rivali servono apposta a fare i confronti, no? Ma io non potevo più farlo, o sarei rimasto lì, fermo, a guardarti le suole piene di lustrini e il numero sulla schiena. Sarei rimasto indietro per sempre, col fiatone e le gambe pesanti come macigni.
E mi sono reso conto che questo distacco era ancora tutto da fare. Perché anche se non ci vedevamo mai e ci sentivamo una volta al mese, la verità è che pensavo solo a far passare i giorni sul calendario e tornare, come se poi in Giappone avrei potuto ritrovare le cose di prima: la scuola, il campetto sulla statale, la palestra vuota mentre fuori nevica (te lo ricordi?), i baci alla fermata dell’autobus, dietro quel cartello con una pubblicità diversa tutte le settimane. E quello che facevamo chiusi a chiave in camera invece dei compiti, che un po’ spiega perché abbiamo studiato insieme due anni e i nostri voti sono peggiorati. Non è che siamo due geni, ma ci siamo impegnati per fare proprio schifo.
Sai che allora io del sesso non avevo capito niente. Penso neanche tu. Fossi stata una femmina, sarei stata una di quelle baka che si ritrovano incinte e nemmeno capiscono come è successo. Tipo che non ero nemmeno sicuro che quello fosse sesso. Pensavo di sì, ma non è che avessi chiesto a qualcuno o cercato da qualche parte, non me ne importava di cos’era, mi stava bene e basta. Mi piaceva un sacco. Perché eri tu, perché funzionava, perché faceva stare bene anche quando faceva male, perché si trattava di capirsi meglio, di stare vicini, di sentirsi… non lo so, interi, di comunicare, che a parole non ci siamo mai riusciti e con il corpo invece era facilissimo.
Ma staccarsi voleva dire anche questo, Kags.
Accettare che tu fossi cresciuto e dare a me stesso il permesso di crescere anch’io.  Di fare esperienze, di dare nomi alle cose, di farmi qualche domanda diversa, che non avesse Kageyama come risposta, tanto per cambiare.
Ti pare che io potevo credere che tu non avessi tutte le occasioni del mondo di conoscere gente, di farti piacere qualcuno cento volte meglio di me? Ti pare che io potevo credere che tu pensassi ancora a noi come eravamo quando avevamo quindici anni?
Quando sei venuto a Rio ho messo le mani avanti, ho cercato di dimostrarti che ero cresciuto, che potevi stare tranquillo, che potevo accettare che tu andassi avanti e che boh, anch’io stavo combinando qualcosa.
E non l’ho capita tanto, in quel momento, la tua reazione. Non ho pensato nemmeno per un secondo che tutte le sciocchezze che ci siamo detti da ragazzini tu le avessi prese per buone e ci credessi ancora. 
Io ci credevo? A quel punto, non lo sapevo più.
Di sicuro io non ero lo stesso e tu nemmeno.
E quindi le cose che le persone si dicono e si promettono valgono ancora anche se quelle stesse persone crescono e cambiano tanto? Tanto da non riconoscersi?»

Alza le spalle e sospira, gettando un lungo sguardo obliquo verso la videocamera. Degutisce, allunga la mano per afferrare la palla che si è fermata contro la zampa di un tavolino fuori dall'inquadratura e la fa roteare sul pavimento, seguendone le scie di colore. Alla fine la palla si ferma e lui scuote il capo, rassegnato o forse solo triste.

«Non la so la risposta, Kags. Se fosse un quiz a crocette lo sbaglierei, come sempre.»

Quando rialza lo sguardo, sembra cresciuto all'improvviso, è uno sguardo coraggioso, diretto, perfino un po' insolente. Le fiamme gli danzano negli occhi come riflessi del futuro

«Quello che so è che sono cambiato.
E ora lo posso dire: sono cambiato in un modo che forse mi piace, in cui mi riconosco. Che è valso lo sforzo e il culo grandissimo che c’è voluto. E in questo cambiamento ci sono il beach, il nuoto, la bici, lo yoga, chilometri e chilometri di corsa sulla spiaggia cercando di ritrovare la tua cadenza da metronomo, ma c’è anche il coraggio di mettersi in gioco, il farsi avanti, i falò sulla spiaggia, le sbronze, i nuovi amici, i video idioti su youtube, le ragazze (e qualche volta i ragazzi) che ti lasciano il numero nel borsone o appiccicato sotto la condensa del bicchiere, le notti a ballare sul tavolo e quelle in cui ti diverti e basta con qualcuno. Ci sono i conti da pagare, la lavatrice, i pavimenti da pulire, le cavolo di scottature se non ti decidi a mettere la crema solare come si deve, le cene che è meglio che impari a cucinarti se vuoi mangiare qualcosa di decente oltre alle porcherie dei baracchini in spiaggia. Una lingua nuova, un pensiero nuovo, una nuova idea di se stessi, perché poi la cosa più difficile è sempre guardarsi allo specchio.

Ohi, Kags, io sono cambiato un casino, forse un po’ sono diventato grande. E mi sa che sono più figo. Più forte in campo. E magari un po’ meno boke.
Ma di quello che ero prima, di quello che provavo, penso che siano rimaste alcune cose importanti, anche se non so fare la lista. E chi lo sa se è abbastanza per te, o se te ne importa qualcosa, certo però se ti ostini a non parlarmi non lo sapremo mai.
Quindi io ora non lo so tu che vuoi fare. Ti dico cosa faccio io: io domani torno e mi fermo a Tokyo qualche giorno. La prima cosa che ho in programma, dopo una dormita spaziale e una mangiata di omurice, è venire alla palestra degli Adlers, anche se non mi aspetto che accetti di vedermi.
Dopo riparto, vado un mesetto a Osaki da mamma e Natsu e subito dopo cominciano i provini. Ne ho tre da fare per la prima divisione e poi staremo a vedere se è vero che ho combinato qualcosa di buono.
Una volta in campo, Kags, non è che potrai fare finta di non conoscermi. Io di certo non mi lascerò ignorare, lo sai che sono capace di essere ingombrante.
E con te non voglio fare finta. Non ho mai fatto finta, con te, Kags, neanche una volta. E la novità è che sono diventato anche più paziente di prima, quindi, che ne so, se hai bisogno di tempo, perché ti fanno ancora una paura fottuta i cambiamenti, io posso aspettare. Perché credo proprio che ne vale la pena.
Se invece è finito tutto, okay, siamo adulti, lo posso capire, ma devi dirmelo in faccia, devi dirmi i motivi, dobbiamo almeno parlare, anche se facciamo schifo a parole.
Insomma, domani torno, baka, vedi di non scappare; ormai non ci sto più a farmi lasciare indietro…»

Lascia che la frase si spenga e si mordicchia il labbro, incerto se aggiungere qualcosa.
Decide di no, si alza in piedi con l’agilità di un gatto, aggira la videocamera e poi le sue labbra e uno zigomo appaiono sgranate e troppo vicine all’obiettivo, un tassello di pelle abbronzata, due lentiggini, l’angolo di un occhio color caramello dorato.
E poi niente più.


 

Kageyama riceve il video da Wakatoshi, che borbotta qualcosa di insensato sul non interferire nelle vite degli altri, e chiede scusa.
Lo riceve anche da Yamaguchi, allegato a un messaggio imbarazzato su line, e da Kuroo Tetsurou, che si prende il disturbo di venire apposta dagli uffici di Shibuya con una chiavetta usb a forma di ranocchio, particolarmente stupida. Che qualcuno possa tifare Frogs, per Kageyama, è incomprensibile: paradossalmente l’unico giocatore decente là in mezzo è Tsukishima, alto due metri e con le mestruazioni perenni.
Comunque, Tobio cancella tutte le copie.
Nell’anteprima, si vede il grandissimo boke seduto per terra, nella stanza sfatta di chissà chi in Brasile. Fa male guardarlo, sembra vicino. E invece non lo è.

"Tobio, quando te la fai passare?" gli ha chiesto Miwa qualche giorno prima, mentre fingeva di tagliargli i capelli, e invece era in vena di moralizzarlo.
Non le ha risposto, anche se la risposta è facilissima.

Mai.
Il senso di vuoto non passerà mai, la privazione, la fame, il buio in cui è precipitato; diverso, diversissimo da quello di tanti anni prima. Questo non è un buio che avvolge, ma un buio che schiaccia, da tutte le direzioni. Un lento, irrefrenabile affondare, vedendo le luci tremule della superficie sempre più flebili e lontane.
Alla fine, l’oceano che c’è fra Tokyo e Rio l’ha avuta vinta, ha spalancato le sue fauci e l’ha inghiottito, così, intero, come fanno quei serpenti che non hanno nemmeno la grazia di morderti, ti stritolano e ti mandano giù.


Tobio preme CANC e chiude gli occhi, mentre il video sparisce. Tre volte.


 

 

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Capitolo 7
*** Corrente [2018] ***


Che in piena notte Hinata Shoyou si trovi seduto sul piano della cucina di Miya Atsumu, in pantaloni della tuta e maglietta oversize, non è una novità.

Non è una novità nemmeno che Atsumu gli infili in bocca qualcosa di rovente, preso direttamente dalla padella. Nel caso specifico, è un gamberetto, che Shoyou mastica allegramente, aspirando aria fredda dagli angoli delle labbra.

«Ancora due minuti» valuta Shoyou, dopo aver deglutito. «Di sale è perfetto.»

«Non so come fai a non scottarti la cazzo di lingua. Hai la bocca d’amianto?» 

Shoyou sorride alla schiena di Atsumu, mentre la sua mente insegue un qualche ricordo, senza però riuscire a metterlo a fuoco in modo compiuto. È il rumore dell’olio che sfrigola a riportarlo al presente.

Un attimo dopo si trova in mano la ciotola capiente, bianca, lucida, piena fino all’orlo di riso speziato, tofu fritto, uova, gamberetti e qualsiasi altra cosa Miya ci abbia infilato dentro. Un’identica ciotola staziona già di fronte ad Atsumu, appollaiato su uno degli sgabelli del tavolo alto.

Tuffano le bacchette nel piatto con spaventosa sincronia e per un po’ si sente solo un confortante lavorio di mascelle. 

Shoyou solleva lo sguardo verso la finestra: la notte fredda di Osaka, con il vento di mare che scuote i rami spogli dei ginko, è rimasta chiusa fuori dai doppi vetri delle finestre, insieme alla grigia malinconia di dicembre, che lo assale a tradimento appena mette il naso fuori dalla palestra e la pallavolo smette di svolgere la sua silenziosa e potente funzione anodina.

A casa di Miya, nel minuscolo bilocale gemello di quello che occupa Shoyou, nel medesimo residence, quella malinconia si sfilaccia ed evapora nel tepore dei radiatori sempre accesi, come se d’inverno fosse normale andare in giro scalzi, in maniche corte e calzoncini, come se Osaka fosse il Brasile, come se la casa di Kami dove è nato, piena di spifferi, a ridosso di boschi innevati già a metà di novembre, fosse una terra di fiaba, un posto dove non ha mai veramente vissuto.

Ogni volta che Akaashi viene a Osaka, un paio di volte al mese, rifila a entrambi un predicozzo sui cambiamenti climatici e il protocollo di Kyoto, ma Osaka non è Kyoto e la contrizione non dura neanche il tempo di fargli richiudere la bocca; le sue parole sagge si infrangono contro un muro di serietà fasulla e sorrisetti complici, che poi diventano risate e maratone infinite  di anime stupidi, mentre il ramen scorre a fiumi e i bisbigli riempiono la notte.

Vanno d’accordo, l’alzatore e lo schiacciatore dei Jackals, facilmente, naturalmente. Una straordinaria intesa sportiva, dicono tutti.

Ma Shoyou lo sa, e si chiede se anche Atsumu lo sappia, che la verità è leggermente diversa, perché c’è qualcosa fra loro, che nessuno dei due ci tiene a definire, ma che, palesemente, non è intesa sportiva. 

È una specie di tensione ulteriore, un formicolio, un’idea senza contorni che nasce sul campo, fra l’adrenalina e il sudore, ma poi scivola negli spogliatoi, li segue fino a casa e si insinua nelle parole, negli sguardi, nel cibo che condividono, nelle corse del mattino, nelle chiacchiere stupide mentre la città si addormenta.

«Quindi, che c’è?» domanda Atsumu a bruciapelo, intercettando gli occhi di Shoyou sopra l’orlo della ciotola.

«Che c’è?» ripete Shoyou distratto.

«Di solito quando stai seduto e zitto per più di mezzo minuto non è buon segno.»

«Sto mangiando. Ho fame. E questa roba è fantastica.»

Atsumu  cerca invano di trattenere un ghigno soddisfatto. 

Cerca invano di distogliere lo sguardo. 

Cerca invano di smettere di pensare a quello che pensa sempre più spesso, ogni volta che si trova da solo con Shoyou e il mondo inizia all’improvviso a sembrargli molto più pericoloso, gli spigoli aguzzi, i bordi taglienti. Sarebbe facile ferirsi. Samu sostiene che non può finire altro che così e che lui è il solito coglione, che gira intorno alle cose all’infinito e poi in mano non gli resta niente. 

Ad Atsumu piace la sensazione di quel girare intorno alle cose, specie se le cose sono Hinata Shoyou in quella casa, seduto sul ripiano della cucina, con la bocca piena e i piedi scalzi e le lentiggini che brillano quando la luce le colpisce. E tutta la forza del mondo, in un corpo così agile, solido e compatto.

Per questo, di solito manderebbe affanculo con il pensiero il suo prezioso gemello e lascerebbe correre, si godrebbe il momento; ma stanotte è diversa e per qualche motivo non ci riesce.

«È passata una settimana, Sho-kun…»

«Da cosa?»

«Non fare il finto tonto.»

Shoyou mugola un interrogativo dubbioso con le guance gonfie di riso.

«Neanche il vero tonto… »

Shoyou cede, con un breve sospiro e un mezzo sorriso: «Che vuoi sapere?» 

«Tu che vuoi dirmi?» 

Si guardano. Stanno camminando sulle uova, il che è strano, perché il loro rapporto è esplicito, sfacciato, chiassoso. Per la prima volta a Shoyou viene il dubbio che tutto quel rumore serva per coprire quello che c’è sotto.

«Non lo so. È complicato» dice Shoyou. 

«Cosa è complicato?»

«Oh, Tsumu, sei peggio di Tooru-san. Tutto. È tutto complicato.»

«Tutto significa Kageyama

Ecco, Miya l’ha detto. Quel nome enorme si deposita in mezzo al soggiorno, ingombrante come la montagna che è nei suoi kanji. 

Shoyou ha ripreso a masticare lentamente.

«Avete parlato?»

«Sì… » getta indietro la testa, mugola qualcosa di incomprensibile in portoghese. «Anzi, no, mi sa di no.»

«Cioè, sei andato apposta a Tokyo nell’unico fine settimana libero della stagione e lo stronzo arrogante non ti ha nemmeno lasciato parlare? Ma chi si crede di essere?»

«… disse il campione mondiale di umiltà.»

«Quindi lo difendi? Sul serio? Pensi che se lo meriti?»

«Piantala Tsumu. Ti ho detto che è complicato. E forse dovresti farti un po’ di cazzi tuoi, perché questa storia proprio non ti riguarda.»

Gli occhi di Atsumu si spalancano, le sue bacchette sbattono con violenza sull’orlo della ciotola, il riso piove sul piano del tavolo. «E invece sì, che cazzo! Sono il tuo alzatore: come stai mi riguarda; se qualcuno fa lo stronzo con te mi riguarda; se in campo fai schifo perché ti comporti come un sedicenne depresso, mi riguarda e come!»

Il mio alzatore. Le spalle di Shoyou si abbassano, appoggia la ciotola, la sua voce diventa calma e fredda: «Ti ho detto di piantarla, Miya-san.»

«Oh ma che paura! Altrimenti che fai? Chiami Kageyama e ti nascondi dietro le sue spalle come una volta? Mi piacerebbe un sacco spaccargli la faccia, anzi morivo dalla voglia di spaccargliela già al liceo, ma la sai una cosa? Se ora lo chiami, quello neanche ti risponde, perché è un fottuto narcisista e di te non gliene frega proprio un cazzo.»

Magari fosse vero. Kags risponderebbe se lo chiamasse, ma… 

Shoyou salta giù dal ripiano, agile come un gatto, fa scattare il mento in alto, ha gli occhi liquidi di collera e le labbra indurite dalla tensione della mascella, deformate in un sorrisetto crudele. «Pensi davvero di essere meglio di lui, Miya? Sognatelo! La verità è che non lo sei. Come alzatore, come compagno di squadra come…»

«… come cosa? Finisci la frase se hai il coraggio.»

Shoyou schiocca la lingua e sbuffa una specie di risatina insolente «…partner. Come partner. E intendo in tutti i sensi possibili, giusto Miya?»

È una provocazione bella e buona, servita su un piatto d’argento, ma Shoyou non riesce a trattenersi, perché dentro è ridotto a un casino, un groviglio di lacci strappati, un nodo gordiano di orgoglio, delusione, amarezza, un desiderio latente e profondo di sfogarsi, di urlare, di esprimersi, lui che a parole non è mai stato bravo. E quando era a Tokyo la settimana prima, davanti a un tè bollente e al viso composto e sereno di Tobio, le parole che gli sono uscite erano tutte sbagliate. Tutte misere, spezzate, inutili, armi spuntate contro una corazza infrangibile.

Le urla gli sono rimaste compresse sotto il diaframma, bloccate, ghiacciate dalla prima neve che si ammonticchiava fuori dalla vetrina, ai bordi della strada, fra le luci delle auto e i cappotti colorati della folla di Shibuya. 

Tobio era seduto di fronte a lui, ma irraggiungibile. 

E invece Atsumu è lì, con l’arroganza e la collera che gli segnano lo sguardo, pronto a rispondergli per le rime, a insultarlo, a dirgli in faccia tutto quello che non vuole sentire.

È lì. Proprio di fronte, con le nocche sbiancate da quanto forte stringe le bacchette e i chicchi di riso che gli sono schizzati sul collo e sulle mani. 

È in campo, con gli occhi costantemente puntati su di lui; è in palestra ad alzare una palla via l’altra finchè non gli cadono le braccia; è in cucina, con un vecchio grembiule giallo di sua madre, a preparare per lui cibo caldo negli momenti più assurdi; è pronto a ridere di lui e prenderlo per il culo a ogni ora del giorno e della notte. È disposto a discutere, a litigare, ad esporsi, a mostrarsi scoraggiato, debole, sfiancato, o incazzato nero, come in questo momento. 

Miya Atsumu c’è. E da più di un anno, giorno dopo giorno, con una pressione tenace, continua e regolare -  forse neanche del tutto consapevole - sta rimodellando la propria vita quotidiana intorno a lui.

E lui glielo lascia fare. 

Perché?

La risposta si palesa nel mezzo passo furente che fa Atsumu avvicinandosi, nel gesto violento e impulsivo con cui lo afferra per la maglietta e lo inchioda con lo sguardo: Miya Atsumu lo ha preso e lo ha messo al centro esatto del proprio mondo, oggetto della sua smisurata, prepotente, ingombrante, invadente attenzione. 

E a Shoyou questo piace. 

Lo gratifica, lo appaga a un livello profondo. Da quanto tempo non gli succedeva?

 

Atsumu lo afferra e quasi lo solleva, mentre gli pianta addosso suoi occhi strafottenti e sembra che sia sul punto di sputare saliva o insulti, invece lo spinge via, con la testa incassata fra le spalle e un lunghissimo sospiro. «Allora dai, dimmelo, spiegamelo: cos’ha ‘sto stronzo di così unico?»

Shoyou cammina all’indietro, finché la sua schiena non incontra il mobile e capisce che da questo momento non potrà fuggire. E forse la risposta a una domanda così diretta non ce l’ha, perché Kags sa essere stronzo, e sicuramente è unico, ma spiegare perché significa sconfinare in territori inesplorati e pericolosi e scomodare i massimi sistemi, in piena notte, con Miya Atsumu.

«Dobbiamo parlarne adesso? Volevo solo ingozzarmi a scrocco e farmi una dormita. Non mi pare un buon momento per una terapia di coppia… »

Atsumu vede il pericolo nella tensione della posa di Shoyou, che sembra pronto a uno scatto, nelle mani inquiete che tamburellano, nel fondo crepitante della voce, sotto il tono indisponente. Vede il pericolo e decide di corrergli incontro. Samu ha ragione: è un vero coglione.

«Ti interessa la terapia di coppia? Okay, ti servo subito: parliamo di noi

Shoyou alza lo sguardo, incrocia gli occhi espressivi di Atsumu, deglutisce. «Che c’è da dire?»

«Non lo so, finché non ci decidiamo a dirlo. Ma tu sai a cosa mi riferisco, no?»

Shoyou tace, ma lo sa. Lo sa benissimo e ora sa che anche Atsumu lo sa, ed è stato davvero ingenuo a pensare il contrario.

«Ti è caduta la lingua? Okay, parlo io» si offre Atsumu. «E tu mi stai a sentire. Te lo ricordi quando ti dissi che un giorno avrei alzato per te? Ai nazionali, cent’anni fa…  Ecco, io ero l’unico di tutto il fottuto Metropolitan ad aver capito che se c’era uno del Karasuno a cui valesse la pena tenere gli occhi addosso, eri tu. E non sto qui a farti i complimenti perché voglio portarti a letto. O meglio, a letto ti ci voglio portare, e se non l’hai capito sei un cretino, ma quello che intendo è che quel giorno, quando ti ho visto in campo per la prima volta, io ti ho riconosciuto.» 

«Se è solo per portarmi a letto, guarda che non serve che ti sforzi tanto, basta chiedere, tu sei carino e io sono un tipo disponibile…»

«Oh, taci e piantala di rifilarmi merda a caso, Sho. Sono serio e tu lo sai. Cazzo! Ma ti rendi conto che venivo da Kobe a Miyagi per vederti giocare? Tu nemmeno ci hai mai pensato a che significava per me… prendevo il treno alle cinque di mattina, mi spendevo in biglietti per Sendai tutti i risparmi  - hai idea di quanto mi ha preso per il culo mio fratello? - e il motivo per cui lo facevo era che non volevo che ti dimenticassi di me. Anche se era chiaro che avevi una cotta smisurata per lo stronzo ed eri convinto che fosse lui a far girare il mondo, io volevo restare nel tuo campo visivo, perché ero sicuro che prima o poi avresti capito che non aveva il minimo senso che tu gli corressi dietro in quel modo. Avresti capito che per me il mondo girava intorno a qualcun altro. E quando ho saputo che avevi messo tre mutande e due magliette in una borsa ed eri volato in Brasile ho pensato che ci avevo visto giusto, che saresti tornato guarito. E ora però non ne sono più tanto sicuro… » 

«Allora lasciamo perdere. Chiudiamola qui, stiamocene zitti. Mangiamo e poi andiamocene a dormire, prima che vada a finire in qualche modo spiacevole. Perché davvero, Miya, questa faccenda tu non la puoi capire. Perché stai parlando di tanto tempo fa e non hai nemmeno idea di come stavano veramente le cose, o di come stanno ora. Nessuno ne ha un'idea… »

«E allora spiegamelo! Raccontamelo! Fammi capire! Lo vedi? È questo il problema. Sei un ragazzo intelligente, ma quando si parla dello stronzo va a finire che perdi il cervello» replica Atsumu, amareggiato. «Sul serio, devi deciderti a uscirne, una buona volta, a lasciarlo perdere. E lo sai perchè?»

Shoyou si morde le labbra. «No, e neanche tu. Non lo voglio sapere. Forse non voglio nemmeno uscirne…»

 

«E invece ora apri le orecchie e mi stai a sentire: alla base di questa assurda fantasia sentimentale c’è la tua convinzione infantile che lui sia il grande campione e tu la mezza sega. E questa cosa non è più vera. Se lo chiedi a me, vera non è mai stata. Lui ha talento, okay. Si allena come si deve, okay. Ma basta così. È prevedibile, la sua tecnica impeccabile è noiosa, lui è fastidioso come un brufolo fra le chiappe, perfetto come le cose morte, le statue, le mummie. Sho, tu sei vivo. Tu brilli. Illumini lo stadio, illumini il giorno. Quello noi lo abbiamo battuto solo pochi mesi fa. Tu lo hai battuto.»

«Sì, ma… » l’impeto apologetico di Shoyou si schianta contro gli occhi insofferenti di Atsumu, le mani sui fianchi, l’espressione insofferente. Shoyou non ha le parole per spiegargli cosa significa aver battuto Kageyama Tobio sul campo. 

E mai le avrà per descrivere cosa prova per lui. E’ un sentimento contorto, viscerale, aggrappato ai nervi, acuminato, come essere costantemente pieni di schegge di vetro, che scricchiolano e pungono e tagliano a ogni movimento e ti tengono vivo, teso, focalizzato. E forse - questo pensiero è nuovo, e terrificante -  forse è un modo di amare malato, sbagliato, distruttivo.

Ma è venuto fuori il verbo amare, e Shoyou ne contempla la forma oltre la cortina di fumo delle parole di Miya.

«Ma… cosa? Lo hai battuto, punto, ora basta, ora puoi andare avanti. Il liceo è finito da un pezzo, tu, cazzo, tu sei un’altra persona! Lo dici sempre, no? Che il Brasile ti ha fatto crescere! Shoyou vuoi che ti dica di noi?» Atsumu si interrompe solo per un attimo, si passa la mano sul viso, sospira. «Certo che non vuoi, ma io te lo dico lo stesso. Quello che c’è fra noi, a parte l’attrazione fisica, a parte la compatibilità di carattere, la squadra, lo sport, la mia figaggine spaziale e le cosce da panico che ti ritrovi, è che noi siamo uguali. Non è venuta nessuna fatina del cazzo a regalarci la pallavolo in culla, ce la siamo scolpita addosso sputando sangue e facendoci un culo immane. Soffrendo, Sho. Allenandoci a testa bassa. Prendendo palle in faccia. E nel mio caso, visto che sono un coglione vanitoso, fingendo che venisse tutto gratis, mentre mi ci ammazzavo dietro. E questo soffrire e godere, cadere e rialzarsi, è quello che dà il senso alle giornate: si fanno sbagli idioti, si pagano le conseguenze e si prova a imparare qualcosa mentre si sbatte la testa al muro, che è come tirano avanti gli umani, non i tensai del cazzo. E sai che ti dico? C’è un’estetica superiore in questo, anzi, forse non c’è niente di più puro della bellezza che nasce dal dolore… »

«Questa cazzata l’hai letta su un manga… »

Atsumu sorride di traverso. «Drama. Coreano.»

«Che baka!» gli scappa una risatina, che non c’entra niente nel contesto, ma è l’effetto che ha Atsumu su di lui. Un effetto diversivo. Un calmante, un palliativo.

Palliativo, Shoyou pensa a questa parola. Una parola difficile, che forse neanche sarebbe mai entrata nel suo vocabolario se non l’avesse usata Tobio, tanto tempo fa, parlando di suo nonno; una parola che conteneva grumi di dolore, lacrime nascoste, speranze distrutte e un tormento profondo. Ecco, in un mondo fatto di poche parole confuse, come era il loro, quelle legate alle emozioni assolute, positive o negative, sono rimaste tutte, hanno messo radici. Qualcuna è sbocciata.

Sta ancora viaggiando con la mente fra i petali di quella fioritura perduta, quando si accorge che Atsumu gli è proprio di fronte, a una distanza che viola ogni spazio personale. Sta allungando una mano lentamente, con cautela, come se dovesse avvicinare un animale selvatico. Gli sta dando il tempo di negarsi, la libertà di fare marcia indietro. Ma Shoyou non lo fa, invece resta fermo ad aspettare qualsiasi cosa stia per succedere. Non ha le forze, né la determinazione necessaria a una fuga.

«Di che hai paura, Sho-kun? Non di me… lo sai meglio di tutti che sono solo un coglione arrogante, e con te nemmeno ci riesco… »

«A fare il coglione in realtà ci riesci benissimo.» 

«A te piace quando faccio il coglione. E un po’ ti piace anche quando faccio l’arrogante, con tutti tranne che con te… » 

Shoyou non può trattenere un sorriso: Atsumu è bravo a esprimersi. Quello del dialogo è un terreno su cui vincerà sempre, e anche questa volta, le sue parole si insinuano sotto pelle e disegnano certezze provvisorie, dorate come bugie bianche, dolci come cioccolata calda, contro tutto quel freddo e quella malinconia.

Ma ora ha smesso di parlare, gli affonda una mano nei capelli e appoggia le labbra sulle sue, con una gentilezza quasi stonata al personaggio.

E quella stonatura è il segreto profondo di Atsumu: che quasi tutto in lui è apparenza, un costume di carne cucito addosso per nascondere la sostanza della sua fragilità, l’ossessione, l’insicurezza, il continuo sentirsi metà di un intero e al contempo doppio di se stesso. Un essere umano incompleto, imperfetto, incrinato, strano, insofferente e bellissimo, pronto a denudarsi fino alle ossa e riservare il meglio solo a lui.

 

Le labbra di Atsumu sono salate, speziate, come il cibo che cucina. Sapori complicati, dissonanze, contrasti. Così è anche quel bacio: lungo, profondo, con un retrogusto amaro e adulto a cui il palato deve abituarsi.  

Shoyou in Brasile ha baciato parecchie persone, ma tutte per gioco, per curiosità o per lussuria. Qui nessuno sta giocando e la lussuria non è certo l’ingrediente principale.

Si baciano e continuano a baciarsi, sagome scure allacciate contro il muro in corridoio, e poi forme indistinte e aggrovigliate, a luci spente, in camera da letto, con il mare lontano sullo sfondo e una luna calante soffocata di caligine.

Si baciano e, finché dura quel bacio, il cuore di Shoyou si gonfia, si scalda e palpita di nuovo, come una volta. E lui si chiede se sia vero, quel momento, se sia reale il sentimento che prova, se le ali con cui un tempo volava si siano finalmente riparate, dopo che il sole del Brasile ha sciolto tutta la cera e le piume si sono posate al suolo, inerti, morte.

Non lo sa. Ma si lascia portare dalla corrente che è Atsumu, in una direzione che sembra possibile.

 

 

 

«Tsumu?»

«Mn...?»

«Alzeresti per me se la palla fosse di marmo?»

Atsumu è mezzo addormentato. Si rivolta fra le lenzuola e risponde senza nemmeno aprire gli occhi. «Di marmo? Ma che dici, Sho? Ti senti bene?» 

Shoyou non lo sa che sta dicendo. Sbadiglia, si strofina il naso, lotta contro la corrente di ricordi che vorrebbe travolgerlo, la argina tenendo gli occhi bene aperti, fissi fuori dalla finestra.

Nella soffice luce dell'alba, vede volteggiare il primo fiocco. 

È il ventuno di dicembre, l’inverno ha rubato tutto il colore del mondo; la malinconia non è mai stata così forte, il silenzio è assordante.

Shoyou afferra la mano calda di Atsumu e se la porta addosso, contro la pelle nuda, perché i ciechi e gli stolti hanno sempre bisogno di una guida.

 

 

 

 

«E quindi? Che volevi dirmi? Quanto sei boke, non serviva venire fino a Tokyo, potevi telefonarmi.»

«E tu mi avresti risposto?»

«Beh certo. Oddio, se chiami mentre mi alleno no… ma altrimenti sì, perché no?»

«Io ti chiamo e tu mi rispondi? Sul serio?»

«Mn. Certo. Funziona così il telefono, boke.»

«Ma se mi hai ignorato per più di un anno!»

«Ero… ah, non lo so, ero parecchio storto. Avevo bisogno di stare per conto mio. Ma ora sono a posto. E sono contento di vederti. E vorrei proprio scoprire perché ti sei fatto questi cinquecento chilometri... »

«Ah… beh… non è che dovessi dirti chissà che, insomma…è solo che sono tornato, Kags… »

«Boke! Lo so! Certo che sei tornato. Abbiamo anche giocato, no?»

« Mn. E che ne pensi?»

«Che alla prossima partita ti faccio nero.»

«E poi?»

«E poi niente. Ohi, sei diventato forte, se ti fai notare ora come ora potresti davvero arrivarci, in nazionale. Korai e Waka coprono bene, ma sono poco… flessibili, ecco. Un centrale come si deve ci farebbe molto comodo… »

«Kags… »

«Sì?»

«Senti, è tutto molto strano. Se ce l’hai ancora con me va bene, lo capisco, ma…»

«No che non ce l’ho con te. Perché dovrei avercela con te?»

«Non lo so…»

«E quando mai sai qualcosa, boke… Va tutto bene, davvero, ci ho messo un po’ a capire quello che è successo in Brasile, a mettere tutto in prospettiva, ma penso che alla fin fine tu avessi ragione. Forse ero venuto lì aspettandomi… boh, chissà che. Ero molto incasinato, in quel periodo, e poi lo sai che non sono per niente bravo ad affrontare… quelle cose»

«Quali cose?»

«Tipo… le emozioni, le mie soprattutto. E i cambiamenti. E le persone. Insomma, lì per lì non ti ho capito. Però poi ci ho pensato. In realtà ci ho pensato parecchio. Cioè, non è che tutto può rimanere per sempre congelato: andare al liceo, allenarsi al club, giocare al campetto fino a che non viene notte, scopare di nascosto anziché che fare i compiti. È un miracolo che ci siamo diplomati, però è successo. E magari è meglio come va ora. Anzi, di sicuro: niente compiti, niente rotture di palle. Solo pallavolo tutti i giorni, tutto il giorno, e per giocare ci pagano anche. Figo, no?»

«…»

«Insomma, dai, boke, non è male essere adulti. Non eri tu che non vedevi l’ora di diventare grande per goderti la vita? Quella storia di dare via il culo, andare alle feste, fare esperienze, quelle faccende lì. Uno come me ci mette un po’ per far pace con l’idea che le cose che gli piacciono, a cui è abituato, debbano per forza cambiare, ma se poi ci pensi, è normale che succeda, te ne fa una ragione e va bene così.»

«E tu… te ne sei fatto una ragione?»

«Beh, certo.»

«E davvero va bene così? Io… non sono tanto sicuro che a me vada bene così. Kags, ti prego, di’ la verità: a te va bene così?»

«Mn. Mi piace la mia vita. Sai, ne ho parlato anche con Miwa, e me l’ha fatto capire lei che che è inutile, e stupido, pensare di poter riavvolgere il tempo, e restare lì immobili ad aspettare cose che non succederanno, invece di vivere la vita che hai. Ecco, cambiare va bene, basta che le cose davvero importanti uno non le perda di vista.»

«E quali sono per te? Le cose davvero importanti… »

«La pallavolo, che altro?»



 

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