Acqua Cheta

di Lady A
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come in preghiera ***
Capitolo 2: *** Petricore ***
Capitolo 3: *** Fuoco e sangue ***



Capitolo 1
*** Come in preghiera ***


1
 
Mi sono risolto.
Mi sono voltato indietro.
Ho scorto
uno per uno negli occhi
i miei assassini.
Hanno
 – tutti quanti – il mio volto.
Giorgio Caproni – Il franco cacciatore.

 
“ « […] io penso che la verità sia che tu ti sei innamorato di un volto e un corpo, e poi ci hai messo dentro la persona che volevi trovarci »

[…] «Stai dicendo che ci inventiamo le persone che conosciamo. Questo è assurdo! »

« Ma forse è così. Forse ci inventiamo perfino noi stessi. Facciamo in modo di sembrare quel che vorremmo essere»”

Danza sulla mia tomba – Aidan Chambers



 
 
Stupida, stupida, stupida!

No, non piangere, non devo piangere. 

Non più…

È troppo tardi per me.

Il mondo gira veloce e non puoi riavvolgere il tempo.

Un passo falso. Due passi, falsi.

Tre, quattro, cinque, sei, sette.

Ho vent’anni e la mia esistenza è un proiettile vagante, è vaga spuma di mare.
Piango, urlo, mi arrabbio, poi, fingo un sorriso.

Ho vent’anni e sono terribilmente fuori posto. È come essere immersa in un fitto manto di nebbia, tutto è vago e sfocato; ovunque mi volto sono sola, costretta a correre alla cieca verso una destinazione indefinita.

Ovunque poso lo sguardo, là fuori, c'è solo una fitta boscaglia, che da verde intenso sfocia nel nero più angosciante e profondo, là dove è impossibile scorgere perfino il delimitare della propria esistenza.

Il mondo è un’infinita distesa di foglie e rami, alberi e montagne che si estendono come cadaveri e toccano il cielo.

A me non sarà più concesso.

Tutt’attorno esiste solo la natura e questa casa a cupola, dalle tende a colori e dall’aroma selvatico.
L'autunno ha spogliato i primi platani e faggi, colorato di ruggine gli aceri, tinto di oro, bronzo e nudità le campagne.
Esisto anch’io, ma è come se fossi morta.

Sono morta. Su un ring, ad un torneo, a diciannove anni. O forse molto prima.
Cancellata dall’orgoglio, dalla fermezza e le circostanze.

Sono sempre stata sola, da che ne ho memoria. Racchiusa in un castello come in una crisalide, su una montagna tinta di ciliegio, muschio e more selvatiche. Vivevo di fantasia e nella fantasia.
Il mio eroe mi avrebbe liberata dalla solitudine di quell’esistenza.
Lo avrei amato con tutta me stessa, e lui avrebbe fatto lo stesso. Vivevo d’immaginazioni, arroganza e ingenuità e voglia di spiccare il volo in un cielo estraneo.
Goku. Avevo mutato i sogni nelle sue fattezze.
Avevo strappato una promessa. Sciocca, folle, acerba come un frutto.
Mi ero allenata duramente, appreso tecniche di combattimento, vestita di lividi e graffi, sudore e attese.

Lui non è tornato. L’ho cercato.
Passo falso.
Non mi aveva riconosciuta, non sapeva chi fossi, cosa volessi. 
 

Stupida, stupida, stupida!


 
Una fitta mi attraversa il corpo; il dolore è come un fiume che straripa oltre gli argini. Tremo. Mi spingo con le spalle contro la parete gelida. La luce del tramonto affiora in un cielo infuocato, i raggi investono le piastrelle del pavimento, ma non mi sfiorano.
Sono in ombra.
Sono un’ombra coperta da un velo opaco.
Tasto i miei polsi, ad occhi chiusi. Le lacrime giungono alle labbra come sorsi di veleno.
Non c’è alcuna traccia di amore in tutto questo. In questo male che sento fuori e dentro di me, che brucia e scortica il petto e le viscere e la pelle. Che annienta il respiro e la coscienza. Che immobilizza le gambe, gli arti e i battiti. Addenta il cuore, con un ghigno sinistro e orribile. Lo scarnifica e poi lo rigetta in una rossa poltiglia sanguinolenta.

Perché nessuno parla di ciò che accade ad una donna quando abbandona il nido di casa?

Nessuno mi ha detto quello che andava fatto.

Nessuno.

Solo voci, sussurri, frammenti scomposti, colti dalla servitù. Ascoltate con vergogna e il cuore in gola, appiattita nell’ombra del castello, come uno scoiattolo. E un vecchio volume di anatomia della biblioteca. Ricordavo ogni paragrafo. 

Lui penso non volesse niente.
Solo mangiare e combattere e vivere la propria vita come meglio credeva.


Spingo i capelli dietro le orecchie, il volto tra le mani.
Mordo le labbra, le lacrime cadono come in una pioggia torrenziale. La nausea mi pervade come acque putridi e glaciali; s’insinuano nei polmoni a stappare il respiro, la carne e il cuore.
È come affogare, schiacciata nell’oscurità assoluta.

Vorrei essere cieca.
Vorrei essere sorda.
Vorrei essere morta.

Volevo un amore fatto di sangue e ossa e voce e corpo e pensieri.

Ho atteso.
Le settimane hanno sostituito i giorni. Ho visto le convinzione scivolarmi dalle dita.

Non mi aveva mai baciata. Neanche una volta, neanche per sbaglio. Il mio grembo come un deserto inviolato. Il desiderio di essere donna e madre a riversarsi nella pelle, come l’ombra del mare.

Sapevo non sarebbe stato piacevole.

Lo sentivo.

Ho abbracciato timidamente il mio sposo, attinto la mia bocca nella sua, cercato il suo respiro, il suo petto e battito. Guidato le sue mani incerte lungo i miei seni e la schiena. Il mio corpo nudo e pallido sul suo, contro il suo. Aveva visto bestie e animali riprodursi molte volte nella sua vita. Aveva riso un po’ scioccamente, a disagio, grattandosi il capo. Aveva esitato, gentile, perplesso e ingenuo. Infine era accaduto.
Mi aveva girata d’improvviso, come se non avessi peso.
Non capivo.
Non capiva.
L’istinto lo ha guidato, credo, prendendone il controllo: mutandolo in bestia brutale, gelida e crudele.
Quasi avevo urlato.
Violata di colpo; spezzata, dalla forza selvaggia della sua stretta attorno ai miei fianchi. Dietro di me.

Il fiato fermo in gola e il cuore sordo, cieco, muto.
Morto.

Accucciata, le ginocchia piegate sul letto. Il sale sulle labbra. Nella labbra.

Era una lotta e io ero il suo avversario

Rapidamente tutto è finito. Un sussulto alle mie spalle, gemiti sconnessi e nient’altro. I nostri volti non si sono incontrati. Non ci sono stati baci, carezze, parole.

Mi sono sentita sporca e disgustosa.

È così che deve sentirsi una donna?

No, no, no.

Avrei davvero voluto accogliere un bambino nel grembo dopo una cosa simile?

Non è affatto quello che volevo, che immaginavo.
Non è possibile.

I sogni si sono infranti come onde, su di un letto salato. In ginocchio, come in preghiera.

Ricordo di aver pianto follemente subito dopo.

Lui dormiva, con la serenità nel cuore. Quiete, tenero, innocente e nudo.

Stordita, ho raccolto la mia vestaglia. Mi sono coperta come più potevo, le braccia strette attorno al corpo, la vista offuscata e un dolore nelle ossa, nella carne e nell’anima.
Avvertivo il sangue correre lungo le cosce. Sono strisciata via, sola, disperata e ingenua come una ragazzina. La notte era giovane e bruna in un orizzonte increspato di stelle.
Mi sono distesa tra le braccia d’erba bagnata, una falce di luna alle mie spalle e il mormorio sommesso del fiume.

Piangeva con me e per me.

Ho ascoltato il petto e il corpo tremare.
Ho gridato, picchiato i pugni nel prato, strappato i suoi verdi fili e scongiurato.
Il sonno mi ha poi raggiunta.

Ero nel mio vecchio mondo. Sedevo sui talloni, accanto al camino acceso, le fiamme vive e crepitanti, danzavano riflesse nelle pupille. Il volto della luna spuntava nel cielo, in un abbraccio di stelle. Una fila di finestre a sesto acuto a schiudersi lungo l’intera fiancata della mia stanza. Ero lì, nuovamente nel mio imponente castello. A forgiare e muovere fili immaginari; a formulare storie, trame e discorsi, allontanando ogni logica e realtà. A ricreare un mondo nella mia testa per sentirmi meno sola.
Il mio eroe mi avrebbe salvata, ripetevo.
Goku.
Gentile, allegro, sorridente, puro come cristallo.
I capelli neri scossi dal vento, una presa delicatissima su di me eppure forte con il mondo.
Sarebbe tornato da me. Avremmo avuto dei bambini. Avrei insegnato loro matematica, scienze, fisica, filosofia e tanto altro. Preparato dolci deliziosi e colorati.
Letto storie sulle stelle, sulla luna, sul coraggio e sull’amore. 
 
Stupida, stupida, stupida!



 
L’oscurità avanza all’orizzonte. Ogni luce in casa è spenta, tutto è buio, solitario, vuoto e innaturale. Brividi di freddo toccano la mia pelle, mi stringo nel mio scialle, schiacciata contro la parete.
In trappola, le gambe contro il petto bagnato, scosso dal pianto.
Lui è a caccia o ad allenarsi e meditare. La carcassa di un pesce cotto su un letto di patate, si staglia tra le ombra sul tavolo, quasi a graffiarle. Le orbite fisse nel vuoto, la bocca aperta nell’ultimo istante.
Una vita cresce nel mio grembo, si nutre di me, dei miei respiri e battiti e rimpianti.
Si muove, scalcia, e io sento di essere un mostro.
A volte fingo di sorridere, carezzandomi il ventre.
Immagino il suo viso paffuto, l’odore della sua pelle piccina, il calore del suo corpo rannicchiato contro il mio. E inganno me stessa e il tempo.
Non sono felice.
No, non sono affatto felice.
Dove sono i miei sogni?
Dov’è finito l’amore?
Cos’è l’amore?
Una chimera, un’illusione, una balla colossale, qualcosa di irreale?
Non può essere amore quello che vivo.
Non è amore. Fingo di non saperlo. Fingo che tutto vada bene, risanata nel corpo e nell’anima dal germogliare della vita che tanto cercavo.
Mento a me stessa, ancora, ancora e ancora.
Vorrei tornare indietro, riavvolgere il tempo stesso.
Cosa mi è successo? Avverto le spalle e le mani tremare, irrimediabilmente.
Stringo gli occhi, vorrei gridare e scappare, scappare, scappare.
Cosa ho fatto a me stessa?
Dove comincia la realtà e dove la finzione?
Un malessere mi scava nelle viscere, avvelena il mio sangue, il respiro e i pensieri.
Imprigionata in una vita che non voglio, che non posso accettare.
Le catene stringono i polsi fino a sanguinare, le tiro con forza, con rabbia, cigolano ma non cedono. Non cederanno. Resterò per sempre qui, tra i monti verdi. Sola, imprigionata in una follia generata dalla mia mente affamata.
È dura essere soli. Straziante, avvilente, mortale.
Ho catene anche ai piedi. Arranco, cercando di divincolarmi. Serrano con dolore la mia carne, non mi lasceranno mai.
È la mia condanna, la mia punizione, quello che merita una fantasia fervida e ingenua, avida di un amore che non ha senso di esistere.
Non con lui.

Non ha colpe.

Sono io l’unica carnefice della mia pena.
Lui non sa, non capisce, non immagina.
Lui vive la sua vita e basta, fuori dal mio mondo.
Semplice, puro, ancestrale.
Una stretta in grado di uccidere, lacerare le ossa, lasciare segni nella pelle e nell’anima.
Una forza, cieca e brutale.
Oh, ma non mi avrà mai più!
Nuda, piegata e di spalle.



«Sono a casa!».

La porta si spalanca.
Avanza nel buio del salone, allegro, sudato. Percepisco il suo odore. Avverto lo stomaco contrarsi. Stringo le palpebre e massaggio le tempie con movimenti circolari.
Vorrei solo sparire. Vorrei essere morta e sepolta, vorrei scappare.
La luce viene accesa di getto, come una secchiata d’acqua gelida. Ferisce lo sguardo. Mi sforzo di aprire gli occhi, ancora pateticamente raggomitolata su me stessa.
«Cosa facevi al buio?» chiede, «stai bene?» aggiunge subito dopo, fissandomi o fingendo di farlo.
Potrei essere chiunque.
Sono chiunque per lui.
Mi alzo reggendomi al muro, il peso della pancia rende i miei movimenti impacciati, incerti.
Evito di guardarlo, lisciando pieghe immaginare sul mio scialle.
«La cena è pronta» dico solo e per lui smetto di esistere. E io fingo di continuare a vivere, spezzata come le ali di una colomba che mai più volerà come prima.


 

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Capitolo 2
*** Petricore ***


2

 
Forse ci rincontreremo
quando saremo leggermente
più vecchi e le nostre menti
saranno meno frenetiche…
e io andrò bene a te e tu
andrai bene a me.
Ma ora io sono solo caos
per i tuoi pensieri e tu sei
veleno per il mio cuore.

Poesia araba.


 
Un odore di pioggia grava nell’aria. Le nuvole velano l’orizzonte livido, divorano il sole, gettando ombre lungo i sentieri fitti e erbosi, squarciati da putride fauci di fango. Il fiotto lontano del fiume graffia la quiete, in uno straziante e sommesso cantico d’agonia.
Percepisco l’inquietudine del vento. Implacabile e spaventoso, soffia, grida e scalcia; recide foglie, fiori e frutti della terra. Rami deformi, rintoccano e artigliano i vetri delle finestre, come dita scheletriche.
Sfrego gli occhi, rigirandomi tra le coperte, i capelli sparsi sul cuscino come fili d’erba bruciati dal sole. L’alba incontra la pioggia, aspra e accecante. Frusta e annega il terreno, inghiottendo ogni spiraglio di colore. L’angoscia affiora tra le nebbie della coscienza; feroce e selvaggia come una fiera, lacera la carne, la ingurgita e non ne ha mai abbastanza.
Tra poche ore potrei vedere mio figlio spegnersi tra atroci sofferenze, in diretta televisiva. Il fiato si ferma in gola. Il cuore sul punto di scoppiare, straziato e scarnificato. Scuote il mio corpo, come fossi una marionetta di sale, carne, ossa e dolore.
Gohan. Costretto a crescere prima del tempo, ad affrontare tante sue paure senza di me.
Ricaccio indietro le lacrime, girandomi su di un fianco, avvertendo il respiro di Goku contro il mio orecchio.
Una voragine si spalanca ai miei piedi. Il panico grida nella mia testa, i battiti impazziscono nel petto.
Come ha potuto privarmi di mio figlio in quelli che potrebbero essere gli ultimi giorni della Terra?
Come può la salvezza del mondo essere racchiusa in un bambino?
Chiudo gli occhi, voltandomi di lato, incapace di sostenere il suo sguardo.
Vorrei gridare fino a perdere la ragione. Come può non capire?
Mi ucciderà. Questo dolore mi ucciderà.
O forse mi ha già uccisa. Sono viva a metà. Un pallido spettro della ragazza di un tempo.
Ho condannato me stessa, con queste mani sottili, distrutto la mia vita, imprigionato in un’ignota ragnatela un uomo che non mi ama. Che non amo.
Un brivido corre lungo la spina dorsale. Simili a schiocchi di frusta, gocce d’acqua calano sul mondo, infrangendosi e rincorrendosi sui vetri e le ossa marcie dei rami; flagellando il vento in un lamento atroce e distorto. Ha intenzione di farlo combattere contro Cell, di usarlo come cavia, carne da macello.
Raccolgo le braccia al petto, rabbrividendo, premendo le dita contro le tempie.
Vorrei fosse morto per quel dannato virus al cuore, a volte.

«Chichi, sei sveglia?»

Sussulto.
Il suo braccio circonda la mia schiena. Annuisco in silenzio, trattenendo il respiro. Le sue dita scivolano sulla mie pelle. Il rancore morde le viscere. Mi costringo a voltarmi a guardalo, con un sospiro, le unghie conficcate nei palmi. Le lacrime toccano il mio sguardo, pungenti come lame. Le respingo irritata, asciugandole con il dorso della mano, sedendomi tra i cuscini, le ginocchia raccolte al petto.

«Chichi?!»
Lo sgomento affiora sul suo viso. Si solleva, avvolgendomi le spalle. «Ascolta, ripongo molta fiducia nel nostro Gohan », pronuncia con il suo tono rassicurante. Lotto per respirare, sottraendomi bruscamente dalla sua stretta. Il tormento mi afferra il cuore, lo massacra e lo spolpa, come un avvoltoio.
Quante altre morti, quanto altro dolore e violenza dovrà conoscere nostro figlio?
Ha lottato per anni, imparato a uccidere e scontrarsi tra il sangue e nel sangue, per te. Non è forse abbastanza?
Non gettare altri fardelli su di lui. Gohan non è come te. Un egoista, accecato da se stesso.

«Sono così stanca Goku», sospiro, gettando le coperte di lato. «Stanca di odiarti ogni maledettissimo giorno». Stringo gli occhi con forza, scuotendo la testa e massaggiando le tempie con stizza. Lo sconcerto attraversa la sua espressione, come una crepa. Mi fissa confuso, sbattendo le palpebre, sfregandosi i capelli dalle assurde sfumature dorate.
I fulmini raschiano il cielo come artigli affilati; raffiche di pioggia e vento sviscerano il terreno. Respiro a fondo, raddrizzando la schiena.

«Abbi più fiducia in noi, amore mio!», mi sorride gioviale, sfiorandomi amichevolmente la spalla.
Sollevo il mento. Incontrollata, la mia mano scatta in direzione della sua faccia.

«Sei serio, Goku?» urlo, incapace di frenare la mia collera - senziente, orribile e sanguinaria come una belva digiuna. Spezza la mia carne, brancola nel sangue, divora le ossa e deprava la ragione.
Amore mio. Amore mio. Amore mio.
Infida, sogghigna nella mia mente, lacerando muscoli e tessuti, soffocando i miei battiti tra le sue fauci rosse e deformi.
Amore mio. Amore mio. Amore mio.

Il suo volto è a brevissima distanza dal mio. Porta la mano alla guancia. Solleva le sopracciglia interdetto, un tremito percorre la linea della sua mascella.

«Chichi…», sussurra, le labbra dischiuse dallo sconcerto, le pupille dilatate. Incrocio e fermo il suo sguardo nel mio, strattonando con rabbia, il tessuto della sua maglietta, sentendo il suo petto, fremere tra le mie dita.

«Noi non ci amiamo affatto. Neanche un po’, neanche per sbaglio», dico a denti stretti, il respiro impigliato in gola. «Ti odio profondamente Goku, ma ancora di più, odio me stessa per non aver saputo guardare oltre un infantile capriccio!». I miei pugni si abbattono come un’ascia di guerra sul suo corpo di roccia e pietra. Un altro schiaffo giunge al suo viso. Immobile, subisce i miei colpi, senza mai sottrarsi o fermarli. «Muori pure e non tornare più in vita. Io e Gohan andremo avanti lo stesso, come abbiamo già fatto in passato. Sparisci anche per sempre. Non m’importa niente di te. Niente!», grido, senza fiato, avvertendo gli occhi bruciare e il sudore freddo, insinuarsi sulla pelle.
Il mondo sprofonda in una quiete penombra; mitiga il vento, soffocando la corsa furiosa della pioggia. L’alba avanza incolore, come acqua di un torrente. Il cuore arranca cieco e sordo, come una creatura viscida e spettrale. Rabbrividisco, in preda alle vertigini; il sale sulla bocca e i contorni della stanza, vacui e indistinti come pallidi miraggi - come la sua figura.
Tremo, coprendo il volto tra le mani, sentendo le orecchie fischiare, atroci e assordanti e le palpebre pesanti. Le richiudo per un istante, crollando tra i cuscini, come un tramonto tra l’oscurità del cielo.


La luce del sole, investe il mio sguardo come una scarica di frecce infuocate. Sollevo il braccio per proteggere la vista, rigirandomi nell’informe groviglio delle coperte. Drizzo stancamente la schiena, sbattendo le ciglia, spingendo indietro i capelli arruffati, sparsi oltre le scapole. Apro e richiudo febbrilmente le mani, ferma e raggelata dai ricordi di quanto appena successo.
Cosa ho fatto?
Inaspettato, il panico afferra il mio petto, banchettando con i suoi battiti vivi, intensi e brutali. Mi alzo, quasi inciampando nei miei stessi passi. Mi rivesto rapidamente, con dita incerte, indossando un’ampia vestaglia di seta scura. Mi trascino lungo il corridoio e le scale. Il respiro corto.

«Goku?», lo chiamo, quasi senza rendermene conto, non ottenendo alcuna risposta, se non uno spoglio silenzio.
Premo una mano al cuore, abbandonandomi contro la parete del salone. Ispiro e respiro a fondo, il sudore sulla fronte e lungo la schiena. Cosa ho fatto?
Un formicolio alle gambe e un freddo innaturale a strisciare sulla pelle.
Ho ottenuto quello che volevo. Nient’alto che quello che volevo. Ripeto ossessivamente, sfiorandomi distrattamente lo stomaco, imponendomi di ricacciare indietro le lacrime tra le ciglia.

«È tutto a posto? Credevo dormissi ancora».
Sobbalzo di scatto, con una contrazione al petto.
Appare sulla soglia, nella sua tuta arancione, il tono mite e il sorriso spensierato. Si fa spazio tra le ombre della casa, con quel suo aspetto estraneo, gli occhi azzurri come il mare e i capelli d’oro acceso. Una sottile impronta rossa ad estendersi sulla guancia. Avverto il cuore sprofondare. Chino il capo, portando le mani alla bocca, avvertendo le ginocchia cedere.

«Non ti senti bene?», solleva le sopracciglia, la sua presa sui miei fianchi. Scuoto la testa, le spalle al muro, come in trappola. I riflessi del sole carezzano la sua schiena. Distolgo lo sguardo.
«Mi dispiace», dico solo, sottovoce.  
«Ti dispiace per cosa? Non capisco», si gratta la nuca perplesso, gettandomi addosso uno sguardo ingenuo, come un coltello che si insinua a devastare il corpo e la carne. Non fingere, Goku. Ti prego non farlo.
«Quello che è successo… », accenno inquieta, deglutendo a fatica, respirando lentamente. Sollevo il capo, esitando cautamente con le dita sul suo viso, vicinissimo al mio.
Lo vedo ridere divertito.
«In effetti, mi hai preso alla sopravvista, ma è stato un gran bel colpo! Urca! Ad un certo punto, nel sonno, ti sei dimenata come una tigre, pensavo avessi la febbre!», esclama, con un innocente buonumore, tastandomi la fronte.
Sbarro gli occhi, esterrefatta.
No, non è possibile.
L’incertezza freme orribilmente nel petto.
Stai mentendo a me! Come puoi?
Mi scosto, superandolo di un passo, dandogli rigidamente le spalle, i pugni chiusi abbandonanti lungo i fianchi.
È
 un delirio, una finzione generata dalla follia della mia mente? Mi rifiuto di crederlo. Non posso aver sognato tutto. L’ho colpito, davvero, piena di rancore e pena e voglia di ferire, come una bestia crudele.
Perché è rimasto? Abitudine e indifferenza, certo!
Sorrido istericamente, percorrendo a lunghi passi la stanza, scostando le tende e spalancando le imposte. Il sole è alto nel cielo blu, come un oceano di zaffiri.
Cosa accadrà tra poche ore a Gohan e alla Terra?
Ho sognato anche la pioggia e il tormento della Natura? Percepisco la presenza di Goku, al mio fianco.

«So che sei molto preoccupata, ma ripongo molta fiducia in nostro figlio».
Parla, quiete come l’orizzonte che osserva dalla finestra. Mi volto di scatto, interdetta.
Abbiamo già avuto questa conversazione, non ricordi?
Cerco il suo sguardo, corrugando la fronte. Non posso aver sognato le stesse parole, lo stesso egoismo insensato, tra le morbide note della sua voce.
Non posso.
Per un fugace istante, l’espressione dei suoi occhi svelano la sua natura. Il bisogno viscerale di affrontare un avversario potente e letale come Cell, per misurare la propria potenza di guerriero – e non per la salvezza del genere umano.
La sua innocenza è tutta una menzogna, una maschera di cera, dalle fattezze eroiche.
È un gioco, un ruolo, un inganno, perverso forse quanto il mio.

«Dovresti usare del ghiaccio. Per la guancia», mormoro, atona e distaccata, facendogli cenno di sedersi.
Arrotolo le maniche della vestaglia, raccogliendo dei cubetti ghiacciati in un panno. Mi avvicino a lui, ancora in piedi, accanto al tavolo, la posa rilassata. «Siediti», taglio corto nervosamente, con un sospiro.
D’un tratto, distinguo l’odore di terra bagnata; il mio cuore si interrompe di colpo. I suoi capelli e il suo sguardo tornano scuri e profondi come il ventre della sera. Afferra e trattiene le mie dita nelle sue, accostando il freddo tessuto al suo volto. Mi osserva, l’espressione seria e immobile come una roccia eterna, gli occhi scuri accesi come fiamme.
Distolgo lo sguardo, tesa e a disagio, i battiti come sinistri tamburi di guerra. Le sue braccia mi attirano al suo petto. Mi scosto appena, per osservarlo. Le sue mani scivolano e si fermano sui miei fianchi. Sfioro le sue labbra con le mie, lievemente. Accoglie il mio bacio, catturando la mia bocca, con un’inaspettata impazienza; cercando e svelando le nudità della mia pelle e dei seni al disotto della vestaglia. Ricambio i suoi assalti impudenti, circondano il suo collo, in punta di piedi. Lo libero dalla parte superiore della tuta, scoprendo il suo torace ampio e scolpito. Allento la cintura dei suoi pantaloni, con gesti istintivi, involontari, senza mai spezzare la lotta delle nostre labbra. Mi solleva, spingendomi verso il tavolo, chinandosi su di me, ad avvolgermi e divorarmi come un incendio. Trattiene con forza i miei fianchi, in un abbraccio duro e feroce. Raccolgo le ginocchia attorno ai suoi lombi, assecondando la frenetica urgenza del suo desiderio, tra gli incessanti scricchiolii del legno, sotto la mia pelle.
Entrambi, deponiamo momentaneamente le armi, in una guerra antica, umida e scabrosa; un linguaggio intimo, un combattimento nudo e viscerale per placare contrasti e rancori.
Sono così stanca Goku. Stanca di odiarti ogni maledettissimo giorno.
Chiudo gli occhi, le dita intrecciate alle sue.
Noi non ci amiamo affatto. Neanche un po’, neanche per sbaglio.
I suoi baci percorrono la mia spalla, coglie i miei seni tra le labbra, come rosei frutti di collina. Inarco la schiena. Avverto i suoi muscoli contrarsi.
Muori pure e non tornare più in vita.
Mi trattiene a sé, stravolto e senza respiro, il suo corpo a gravare sul mio, come una frana rovente. Crolla al mio fianco, sul tavolo, il suo petto a sollevarsi e abbassarsi affannosamente. Mi ricompongo, infilando velocemente la vestaglia, legandola in vita, scostando i capelli dal viso. Recupera i battiti e il fiato, sollevandosi sui gomiti per afferrare il mio polso e incontrare il mio sguardo. Abbasso il capo, incrociando le braccia, fissando i miei piedi nudi sul pavimento.
Non lasciare che nostro figlio combatta. Non farlo. Non farlo. Non farlo.
Lo avverto rivestirsi senza fretta, pervasa da un tetro senso di impotenza e solitudine. Mi giunge accanto, nuovamente innocente, alieno ed estraneo, nella sua chioma d’oro pallido e il sorriso disarmante. Si china appena, a baciare la mia fronte. D’impulso, sollevo gli occhi e bacio la sua bocca, trattenendo il suo volto contro il mio, lasciando vagare le mani lungo la sua schiena. Di colpo, lascio andare le sue labbra. Per alcuni istanti, sospira piano, contro il mio orecchio, circondandomi con le braccia. Tento di sottrarmi dalla sua presa, premendo lievemente sulle sue spalle. Mi spinge di scatto contro la parete, strappandomi un altro bacio, mordendo la mia bocca con la sua, con famelica insistenza.
«Mi dispiace tanto, Chichi», sussurra sulle mie labbra, trattenendomi a sé con forza maggiore, spezzandomi il respiro; il cuore in fiamme. Si scosta, serio, i muscoli tesi, i capelli infiammati dal sole. Ho solo la forza di annuire, in silenzio.
Si volta con un’ultima, indulgente occhiata e mi lascia indietro, come cenere dopo un incendio.

 

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Capitolo 3
*** Fuoco e sangue ***


3

 

“[...] quanto a me, ho le braccia a pezzi
a forza di abbracciare le nuvole!”

Charles Baudelaire - “I lamenti di un Icaro”

 

“«Non devi piangere, mammina. Anche se non lo vediamo, papà resterà sempre insieme a noi, me lo ha promesso. Sai che posso sentire sempre la sua presenza? »” 1




L’occhio cieco di un gigante, brucia nei roghi del cielo. Sanguina, torbido e viscido, in un tramonto di fiamme. Piange e lacrima, orbo e straziato, lungo il bruno orizzonte. Grida e prega, senza voce, dilaniato dal fuoco, nell’indifferenza del mondo. Le ombre strisciano tetre, sul terreno umido e immerso nel silenzio, come ratti informi. Osservo il tutto con quiete distacco. Il sole, ormai ridotto ad un ammasso putrido e sanguinolento, tra i curvi rami di un salice. Più non vedrà. Mai più vedrà questa gabbia di terra e di dolore. Muore ogni sera, tra le ceneri del crepuscolo. Rinasce ogni maledettissimo giorno, cieco d’agonia. Raccolgo le braccia al petto, abbandonando la testa contro il divano; le tenebre strette attorno, come sentinelle spettrali. I capelli ricadono bagnati sulle spalle; gocciolano sottili, lungo il corpo e la seta della vestaglia. Piangono lacrime che non mi appartengono. Goku è stato distrutto nell’esplosione e ha rifiutato di essere riportato in vita 2.
Sorrido, come uno squarcio in una roccia. Stringo le ginocchia tra le braccia, scuotendo ostinatamente il capo. Muori pure e non tornare più in vita. Una lama perfora i miei polmoni, nell’oscurità della stanza. Stringo gli occhi con forza, concentrandomi solo sul respiro. Il cuore fermo e impassibile come acqua stagnante. Un ago, grande quanto una daga, entra a ricucire la mia carne. Richiude lo squarcio, affondando e riemergendo come zanne affilate, dalle frattaglie di un cadavere. Una mano di pietra serra e strattona la mia gola. Annaspo, senza fiato. Strappa e stritola la mia pelle, in un orrido mattatoio. Il suo pugno ferrato, si abbatte nel mio grembo. Riapro le palpebre di scatto, raddrizzando la testa. Mi alzo in piedi. La luna come un’orbita vuota, mi fissa gelida e cieca, nel cielo scuro. Il buio mi scorre tra le dita, immenso come un fiume; mi assedia come fumo di un incendio. Attacca alle mie spalle. È con me, in questa stanza; ha occhi come voragini. Muta il mio cuore in cenere annerita e sogghigna beffardo. Mi volto ad affrontarlo.

«Sei pronta, ragazzina? ».
«È un’ora che sto aspettando, bello»3.

Accendo le luci, il respiro corto e le viscere aggrovigliate come radici nel mare. Il suo volto, riaffiora di nuovo ai miei occhi, in una fotografia. Sposto lo sguardo, incapace di fissarlo ancora, giorno dopo giorno. Non lo rivedrò più, mai più. Andrò avanti. È quello che volevo. Lo volevo, certo, – a volte. Dimenticherò o fingerò che lui non sia mai stato reale. Solo una finzione, un’illusione sciocca, da me creata e da me distrutta. Lui continuerà ad esistere per Gohan. Suo padre, il suo adorato, amato padre, quasi un compagno, come un fratello o un migliore amico. Smetterà mai di pensarlo? Di darsi ogni colpa? Lui vivrà sempre tra queste mura e oltre; un ricordo silenzioso e in agguato, pronto a investire entrambi, ovunque andremo. Sospiro, reggendo il suo sguardo vuoto e il bel sorriso, avvertendo le spalle tremare incontrollate. Ritrovo le lacrime e una rabbia furiosa e irrefrenabile. Scaglio con forza la sua immagine contro il muro, in un crepitare di vetri e legno bianco come le ossa. Precipitano sul pavimento, disperdendosi in ogni angolo e direzione. Strappo il suo viso, fino a ridurlo in brandelli di carta. Spingo i pugni nei detriti affilati, il sangue sulla pelle e tra le dita. Le ferite aperte tra le mani, il corpo scosso da un pianto feroce e brutale. Chiudo gli occhi, chinando la testa, raggomitolata su me stessa, in ginocchio, continuando a pestare colpi, lacerando la carne e il silenzio. La pioggia cade dai miei capelli, bagnando il sangue e mischiandosi alle lacrime. La furia brucia nel ventre, viva e dilaniante come una bestia implacabile. Grido e lotto contro un’ombra morta, dissolta da questa terra. Confinata dal mondo e da me.

 

“Dunque, tanto tempo fa, Bulma mi disse una cosa che mi colpì. Secondo lei, era colpa mia se il nostro pianeta veniva minacciato in continuazione da strani mostri e a pensarci bene, non aveva torto.

Per questo mi sono convinto che laggiù starete meglio senza di me. Inoltre, ad essere sincero, a me non dispiace affatto questo posto. Ah, sapete, Re Kaioh ha promesso di farmi seguire un allenamento speciale come ricompensa per aver salvato il pianeta. E poi di solito, quando si viene nell’aldilà di noi resta solo l’aura. Io invece, possiedo ancora il mio corpo e rimarrò giovane per sempre. Inoltre, qui ci sono molti personaggi interessanti da conoscere, come i grandi maestri del passato. Mi divertirò un sacco.

Insomma, ciò che voglio dirvi è che apprezzo molto i sentimenti che nutrite per me, ma io preferisco rimanere dove sono.

Il mio Gohan è grande ormai, e non avrei più nulla da insegnargli.” 4
 

No, non è vero, ha ancora bisogno di te! 5
 

«Chichi?! Oh, piccola mia».

Avverto la voce accorata di mio padre, alle mie spalle. Mi raggiunge con passo affrettato. Mi stringe tra le sue braccia sicure, accarezzandomi la schiena. Rialzo il mento, piano, asciugando le lacrime con il dorso della mano; il sangue mi schizza sul viso e tra i capelli. Sussulto, nauseata. Vedo le sue labbra tremare, il volto impallidire come gesso, tra la fitta barba. Mi abbraccia forte, pervaso da un senso di impotenza, raccogliendo le mie dita tra le sue, affranto.

«mamma…?».
Sobbalzo, d’un tratto incapace di respirare. Mio figlio mi guarda, immobile e atterrito, le pupille dilatate, trattenendo un gemito.

«Gohan, la mamma si riprenderà tra un momento, perché nel frattempo non metti a bollire il tè?».
Annuisce docile al sorriso bonario di suo nonno, - le spalle rigide e il piccolo volto di un pallore spettrale, scambiando con lui un lungo sguardo, prima di andare.
Perdonami. Perdonami Gohan, ti prego.
Il rosso imbratta il mio corpo, gli indumenti e il pavimento freddo. Macchia le mani di mio padre, fino a corromperne il candore della camicia. «Andrà tutto bene. Tutto bene, ci sono io con te», sussurra calmo, socchiudendo le palpebre e tenendomi stretta. Un ricordo lontano mi precipita addosso, torbido e improvviso. Raschia la mente, si riversa impietoso nella memoria. Rabbrividisco, afferrandomi il petto e scuotendo il capo, incapace di soffocarne il richiamo. Sposto lo sguardo lungo il televisore spento e le tende alle finestre. Le lacrime si fermano tra le ciglia. Le asciugo bruscamente, con i gomiti e il sangue umido tra le dita. Stringo gli occhi con un sospiro, cercando di riprendere fiato. Rivedo me stessa, sporca e bagnata di un rosso intenso e viscido, tra le gambe. La sua ombra grumosa, ad allargarsi e avanzare fino ai miei piedi, infradiciando il tappeto, strappandomi dolorose fitte al grembo, e grida d’orrore e sconcerto. Mi sono rialzata, instabile e impietrita, afferrando disperatamente il telefono. Papà aiutami. La voce rotta dal pianto, il cuore fermo e una tempesta a infuriare nel cielo. Sono crollata in ginocchio, tremando, braccata da una scia di sangue e crampi laceranti al ventre. Capace solo di emettere versi strozzati di dolore - inghiottiti dai tuoni, e cercare la loro presenza in una fotografia.
Gohan, Goku.
Fuori, una pioggia spietata come una ghigliottina. Uno scalpiccio di passi tra l’acqua. La porta spalancata di colpo, con uno schianto. Braccia rassicuranti mi hanno trattenuto con forza e sollevato piano. Ho riaperto lo sguardo, raccolta tra le coperte di un letto d’ospedale. Ricordo ancora l’odore antisettico della stanza e il gocciolare lento della flebo. L’espressione tesa e smunta di mio padre. Il volto del medico, inespressivo come granito. I loro occhi piantati su di me. «Come si sente?». Le dita del Dottore che si contraggono lievi sulla cartella clinica. Non ha atteso la mia risposta. «Era alla settima settimana di gestazione, circa», ha continuato con voce perentoria, sfogliando il dossier. «L’aborto spontaneo che ha avuto, le ha causato una grave emorragia. La terremo sotto sedativi per alcuni giorni. L’utero risulta compromesso. È assai improbabile che possa tentare altre gravidanze in futuro». Un’ultima impassibile occhiata prima di lasciare la stanza, nel suo camice bianco. Piangevo, sperduta, spezzata come un cadavere nel fuoco, tormentandomi le mani, stringendo le spalle, afferrandomi il viso, cercando di rimettermi in piedi. «Gohan…», ho sussurrato, muovendo alcuni passi, quasi strisciando, trascinandomi dietro la flebo e un dolore impronunciabile. «Lo hanno portato via, il mio bambino… il mio unico bambino, lasciami papà, devo cercarlo», ho continuato con voce febbrile, divincolandomi dal suo abbraccio sgomentato. «Come farà a sopravvivere senza di me? Come farò a sopravvivere io senza di lui? Ti prego lasciami andare! Ha solo quattro anni...», gli occhi inquieti, arrossati dalle lacrime e le notti insonni, i pugni chiusi, deboli come sterpaglie. Sono crollata sulle ginocchia, sorretta dalla sua presa autorevole e gentile. Mi sono ritrovata nuovamente nel letto, senza più la forza di lottare, frastornata dagli antidolorifici. Mio padre seduto su una sedia, accanto a me. Le dita intrecciate alle mie e un pianto sommesso sulle labbra. «Gohan…», ho ripetuto sottovoce, sentendo accapponare la pelle nell’aria fredda e pungente, carica di neve. L’ho osservata calare dal cielo, ammassarsi lungo il davanzale della finestra, appannando i vetri, sfiorandomi inavvertitamente il grembo, con un sussulto. Ho perso mio figlio, l’ho lasciato morire, senza fare niente. È stata tutta colpa mia. Non lo sapevo. Non sapevo di essere incinta. Ho stretto i denti, trattenendo un grido, la mente devastata dalla sofferenza e dal pensiero incessante. Ricordo di aver follemente immaginato di raffigurarne i lineamenti. Una bambina. Una piccola, selvaggia creatura, sottile come un giunco, le guance arrossate e lunghi capelli arruffati, scuri come l’inchiostro, sempre pronta al sorriso. E per un solo istante, ho riso tra le lacrime.

 

Lavo le mani e il volto con acqua fresca, scivola torbida lungo la pelle e le dita insanguinate. Guardo con diffidenza il mio riflesso stravolto allo specchio, frizionando i capelli con un panno, le ferite ancora aperte disseminate tra i palmi, come fiori selvatici tra le crepe. Mio padre sospira apprensivo, sfregandosi il mento, battendo lievemente una mano sulla mia spalla. Dovevamo aspettarcelo da lui? 6 sembra chiedere costernato. Quasi dimentico di respirare. Muori pure e non tornare più in vita. Distolgo lo sguardo, sentendo la testa martellare. Le dita sommerse nella rossa pozzanghera del lavabo. Riapro il rubinetto, facendo scorrere dell’acqua pulita. Le stelle si specchiano e annegano nei miei occhi, asciutti e immoti. Spalanco la finestra, l’aria satura dell’odore di pini, more e legno della foresta. Un sentore di nausea mi coglie improvviso.

«Papà, lasciami sola», dico stancamente, voltando la testa verso di lui. Lo vedo sollevare le sopracciglia e aggrottare la fronte, ansioso. «Sto bene, non preoccuparti», sorrido brevemente, spingendo via i capelli dalla faccia, sforzandomi di non vomitare. «Va’ da Gohan, ha bisogno di te». Esita, con un’espressione rattristata. «Dammi solo qualche minuto… », aggiungo, sciacquandomi nuovamente il viso, con una stretta allo stomaco. Annuisce con un’occhiata, chiudendo la porta dietro di sé. Chino il capo, stringendo le palpebre, sfuggendo dal mio riflesso di vetro. Il petto scavato dal rancore e una tristezza profonda.
Rassegnati, ti ha abbandonata. Ha usato Gohan come una pedina. Vi ha lasciati indietro per non tornare. In fondo non lo volevi tra i piedi, perché restare?
Rialzo il mento, sfregando gli occhi. Il cuore in gola. Ritrovo me stessa allo specchio: tormentata, ostile e irrequieta, le memorie a sussurrare all’orecchio e sulle labbra. Le respingo e mi volto, la schiena alla finestra e al canto sottile del fiume. Un malessere a strisciare tra le tempie e le viscere.
Non l’ho mai amato. Mai. Perché doveva restare?
Per nostro figlio, dannazione!

Il suono della sua voce nella mente, avanza cieca e a tentoni nei ricordi. Il suo sorriso affabile e la risata piena di buonumore, come pugni invisibili contro il mio corpo. Infantile e ingenuo il più delle volte, tutt’altro che uno sprovveduto nelle sue orgogliose ambizioni. Sparisci, anche per sempre. Non m’importa niente di te. Niente! Serro i pugni, pestando i piedi sul pavimento. Piccole gocce di sangue vivo, precipitano sul parquet, come rosse perle. Le pulisco con uno straccio, tamponando le mani con della carta. Riorna nei miei pensieri come una rancorosa ossessione. Vorrei colpirlo, strattonarlo. Affrontare e ribellarmi alla sua natura ostinata ed egoista, da Saiyan, e a quel suo lato innocente e pacato. Rassegnati. È morto. La mente esita nel passato. Respiro profondamente, appoggiandomi con le spalle alla parete. Quella notte lontana, le tenebre avevano marciato su un mondo cieco come un pozzo, foderato di nubi cariche di pioggia. La falce di luna, simile ad un’impronta scheletrica nel cielo, oltre un oceano di erba scura. Ho sistemato Gohan nella sua culla, cantando sottovoce. Il suo pianto inconsolabile, a strapparmi dal sonno come ogni sera. Finalmente si è addormentato, ricordo di aver pensato con sollievo, continuando a guardarlo: la pelle rosata come l’alba, la coda distesa e abbandonata al fianco, la chioma e le ciglia nere come la mezzanotte. Ho chiuso le tende della finestra, lasciando la sua stanza in punta di piedi, con la mente e il corpo a reclamare il riposo. Con una smorfia di frustrazione, ho raccolto gli indumenti fradici di Goku, gettati tra le coperte del letto vuoto. Dove si sarà cacciato con questo tempo? Non potevo più tornare indietro, sottrarmi da quel matrimonio insensato, incompatibile per i nostri caratteri, frutto di una mia assurda e infantile fantasia. Ho sospirato con disappunto, costringendomi a fare l’ennesimo bucato. Il lontano ruggito di un tuono a risuonarmi nelle orecchie. Speriamo che Gohan non si svegli. Ho aperto la portafinestra, ritirando in una cesta, la biancheria stesa all’esterno, con le lucciole raccolte tra le ombre come stelle.

«Che meraviglia, non trovi anche tu?».
Ho voltato la testa, incontrando il suo viso, con una fredda brezza sulla mia pelle e i capelli a dimenarsi come spiriti dannati. Scorgendo il suo torace nudo e i muscoli ben definiti, solcati da lame di luce lunare, simili a pallide cicatrici.

«Oh, eccoti qui!». Ho sibilato piano, aggrottando le fronte e stringendo i pugni, sentendo montare una rabbia profonda. Non è colpa sua. Ho ripetuto a me stessa. Rassegnati, arrenditi. Non vedi che vorrebbe trovarsi altrove e non qui, con te?

«Non riesci a dormire?».
La sua voce quiete, sovrastata dall’ostile susseguirsi dei tuoni in cielo, sempre più vicini.

«Nostro figlio stava piangendo», ricordo di aver risposto, scostante, sfiancata da Gohan e dalle notti insonni; strangolata dai miei doveri in casa. Resterà figlio unico. È giusto e inevitabile. Non posso, né voglio mai più rivivere le sensazioni umilianti di quella sera. Sono già trascorsi più di due anni.

«Oh, non me ne ero accorto!».
La mano dietro al capo e l’espressione sorpresa. Ho sollevato le sopracciglia, fissandolo furibonda, le mie dita a chiudersi e ad aprirsi lungo i fianchi, irrequiete.

«Cosa ne dici di batterci, qui e ora?», ho ringhiato d’un tratto, caparbia, sollevando i pugni.

«Vorresti combattere con me? Urca! Dici sul serio?».
Il suo volto a illuminarsi di un disarmante entusiasmo.

«Certo. Ho proprio voglia di darti una lezione!» Ho annuito, fulminandolo con lo sguardo, ritrovandolo più vicino di un passo. La mia immagine riflessa nei suoi occhi, grandi e scuri come braci. «Sto aspettando», l’ho incalzato, fremente e accigliata. «Allora, hai intenzione di fare sul serio o no? Ti sei rammollito per caso?» ho ripreso, infiammata; stizzita dalla tranquillità del suo sorriso.

«Cominciamo!». Ha esclamato con cenno della testa, in posizione di guardia. Lo sguardo serio e determinato a sfidare il mio. Ho sferrato il primo attacco, scagliandomi contro di lui e colpendo il vuoto cieco, percependo la sua presenza improvvisa, alle mie spalle. Mi sono voltata prontamente, tentando colpi su colpi; al collo, all’addome e ai fianchi, inducendolo solo a scartare di lato, senza alcuno sforzo. Riconosco la sua incredibile abilità, ma sono troppo infuriata con me stessa e con lui, per arrendermi.

«Sai Chichi, sei proprio un tipo interessante!».

Ricordo la sua occhiata compiaciuta, la sensazione del suo stivale, a spingere nel mio costato, costringendomi a barcollare all’indietro per un istante, nel boato crescente dei tuoni, tutt’attorno. La sua rapidità nel prevenire ogni mio attacco. Il mio respiro rapido e affannoso, e il volto a infiammarsi di collera.

«Per caso sei arrabbiata per qualcosa?».
Ho ignorato la sua espressione perplessa, avventandomi contro di lui, parando il suo colpo alla caviglia, ricevendone un altro, forte, allo sterno, cadendo con un ginocchio sull’erba e contraendo il viso dal dolore. Accidenti!

«Ti ho fatto male? Non volevo colpirti così forte, scusami… tesoro».

Le sue mani a posarsi sulle mie spalle, piegandosi a cercare i miei occhi, sbattendo le palpebre, imbarazzato. L’ho guardando di traverso, balzando in piedi di scatto, colpendolo con un calcio alle parti basse e spingendolo a terra. È stato davvero sleale da parte mia, ma mi sono sfogata.

«È tutto a posto, tesoro mio?». Ho sorriso ironica, tendendogli la mano, sentendomi trascinare e cadere d’improvviso sull’erba, accanto a lui, con un fulmine a squarciare a giorno l’oscurità, dietro di noi.

«Sentiamo, cosa avrei fatto stavolta? Vuoi dirmelo?».

Ha avanzato a carponi, confuso, fino a circondarmi ai lati, con entrambe le braccia. Il suo petto nudo e i muscoli tesi, come in attesa, su di me. Ho deglutito a disagio, avvertendo un brivido alla schiena.

«Cosa accidenti vorresti fare, Goku?!», ho sbraitato, allontanandolo con uno spintone e vedendolo trasalire. Rialzandomi rapidamente e spolverandomi la camicia da notte.

«Io…», ha continuato a osservarmi, sfregandosi la testa, seduto a gambe incrociate. «Hai freddo?», ha chiesto innocentemente, rimettendosi in piedi. Ho scosso il capo, incrociando le braccia e voltandomi.

«Vado a dormire, buonanotte». Ho tagliato corto, allontanandomi da lui.

«Cosa ho fatto di sbagliato?», ha ripreso smarrito, raggiungendomi e afferrandomi il polso. Per un attimo, l’ho guardato infuriata, impaziente di prenderlo a schiaffi e vomitare tutta la mia frustrazione. Invece, mi sono ostinata al silenzio. Imponendomi di tenere a freno la mia ira, limitandomi a fissare le pallide lucciole svanire, inghiottite dal bagliore improvviso nel cielo.

«Chichi?!». Il disappunto a mordergli la voce, il volto vicino, quasi a sfiorare il mio. Ho sospirato, divincolandomi dalla sua stretta, respingendo la sua vicinanza, sentendo il sapore della bile in fondo alla gola. Non è colpa sua. Neanche sapeva in che guaio si sarebbe cacciato, tenendo fede a quella sciocca promessa. Hai rovinato la vita ad entrambi, brava Chichi! E pensare che la ricerca del ventaglio di Basho aveva quasi creato un legame tra voi. Ho baciato la sua guancia, sollevandomi in punta di piedi; stemperando debolmente la tensione creata tra noi.

«… continuo a non capirci niente», ha mormorato, con un’occhiata titubante.

«Mi dispiace». Ho sussurrato, chinando il capo.

«… i baci è una cosa che fanno solo le ragazze?», ha chiesto d’un tratto, pensoso, strofinandosi il mento. L’ho guardato incredula, sollevando le sopracciglia. Stai scherzando? Ho scosso il capo.

«Ah, allora posso baciarti anch’io!».

Ricordo di averlo fissato, inquieta; il cuore di colpo impazzito. Il suo viso ad andare incontro al mio, a smorzare il fiato e il mondo intero. Le sue labbra lievi sulla mia fronte e lungo la guancia. Il goffo accenno di un abbraccio sulla mia schiena. Ho trattenuto il respiro, reggendomi alle sue spalle larghe, nude e guizzanti. Afferrando d’impulso il suo mento tra le dite, baciandolo piano sulla bocca e socchiudendo lo sguardo. Lottando per un momento con le sue labbra e i suoi piccoli morsi impacciati, avvertendo le sue mani armeggiare con foga, con la chiusura laterale dei miei indumenti. Ho riaperto gli occhi di scatto, fermandomi d’improvviso, ritraendomi di un passo, spaventata. Mi ha guardato confuso, sbattendo le ciglia e attirandomi a sé con gentilezza. Esitando sulla mia bocca, abbracciandomi e strattonando con calma i miei abiti, per toccare la mia pelle esposta. Ho ricambiato il suo bacio, liberandolo lentamente dai pantaloni, scoprendo il suo corpo forte e bollente contro il mio. Ritrovandomi tra le sue braccia, su un nero letto d’erba, incapace di interrompere l’assalto delle sue labbra su di me. Le lucciole a scrutarci tra le fitte ombre, come mille occhi famelici e indiscreti. Le prime gocce a precipitare dall’alto, come lacrime di un gigante. Gli orli della mia tunica completamente aperta, a schioccare al vento, punti dalla pioggia battente, nera e accecante. Ho chiuso le palpebre, trattenendo la sua schiena. I miei seni a sollevarsi ad ogni suo movimento, le pelle d’oca a risalire lungo le gambe e l’interno coscia, sferzati dall’acqua.
È una tregua momentanea, un negoziato di pace illusoria. Effimero come un temporale estivo.
Un espediente, ricorrente negli anni a venire.


 

L’oscurità indugia sorda e immobile, con un volto di pietra, le fauci dilatate e i lunghi artigli scuri, conficcati nelle viscere della terra. Sposto i capelli sul cuscino, rigirandomi nel letto, raggomitolata tra le lenzuola fresche di bucato. Sottili tracce di sangue incrostato, agli angoli delle dita e sul palmo delle mani. Sfrego gli occhi, voltandomi all’altro lato; la testa pesante e un lieve capogiro. Mi sollevo con un sospiro, stringendo le ginocchia al petto, inquieta. Lo sguardo immerso nel buio feroce e assoluto. Il suo odore ancora nella stanza, persistente e fluttuante come uno spettro in catene. Scalcio le coperte, gli occhi asciutti, fissi alla finestra socchiusa. La notte avanza lenta e strascicante; una creatura viva e infida, tenebrosa. Affamata dei miei pensieri intrappolati nella mente, a impedirmi di dormire. Deglutisco, la luce del lume a lacerare le ombre, come un colpo di mannaia. Percorro la stanza a piedi nudi, avanti e indietro, ricamando a lungo, seduta sul pavimento in attesa del giorno, ascoltando il tetro canto di un gufo.
Se n’è andato davvero, stavolta, e ti ha mollata con un figlio. La farsa può dirsi conclusa. Dimenticalo. È stato solo un capriccio per te. Non pensare più a lui.

Mi rialzo, abbandonando il cucito, colpendo con un pugno, il muro dietro di me. Aprendo una crepa, sprezzante e frastagliata, simile ad un ghigno mostruoso. Giro la schiena, stringendo le palpebre, le dita scorticate e doloranti. Il tiepido abbraccio dell’aurora, giunge alle mie spalle. Il cielo coperto d’oro, rosa, cremisi e arancione. Lo osservo, muovendo stancamente la mano, con un formicolio, spegnendo la luce e riprendendo a cucire. Il mattino incontra un sole ruggente, con le montagne arrossate, in un verde mare erboso. Mi vesto allo specchio, spazzolando e raccogliendo i capelli dietro la nuca. Scendo le scale, con uno sbadiglio, distinguendo un odore di uova fritte e pancetta croccante. Raggiungo Gohan e mio padre in cucina, entrambi attorno ai fornelli, con un grembiule colorato e l’espressione allegra.

«Buongiorno». Dico con un breve sorriso, lanciando un’occhiata distratta al televisore accesso su un programma di cucina francese.

«Buongiorno figliola, la colazione è pronta».

«… sì, buon appetito, mamma!».

Annuisco, scompigliando affettuosamente i capelli del mio bambino. Mi siedo, bevendo del succo d’arancia, cogliendo un sapore acido e amaro a strattonare lo stomaco e il palato. Mangiamo, accompagnati dalle parole del conduttore televisivo, alle prese con l’impasto della torta Saint Honoré. Un’ombra al mio fianco a rivangare l’assenza di Goku, come un secco colpo di frusta. Sposto lo sguardo, alzandomi, cominciando a sparecchiare e a lavare le stoviglie.

«Io continuo i compiti».

Mi volto, accennando un pallido sorriso in direzione di Gohan, contraendo il pugno dolorante con una smorfia.
Non fa niente per oggi. Non fa niente, resta pure qui, con me. Vorrei dirgli, la voce d’un tratto impigliata in gola.
Continuerà a pensarlo, trafitto dai ricordi come chiodi nella carne, rincorrendo un esile filo di fumo, dalle sue fattezze e la risata spensierata.
Non soffrire amore mio, vorrei gridare. Non soffrire per lui, non più. Ci sono io e c’è il nonno, non sei affatto solo. Non soffrire e non sentirti in colpa, neanche per un istante, neanche lui lo vorrebbe.
Perdonami se cercherò di dimenticarlo, di ignorare il suo volto nelle fotografie, il giorno del suo compleanno, e se getterò i suoi vestiti in un baule, per non doverli più vedere.
Perdonami per non essere riuscita a farmi amare e per non averlo mai amato abbastanza.
Perdonami per aver desiderato che sparisse, senza dar peso ai tuoi sentimenti.
Perdonami e continua pure ad amarlo se vuoi, ad avvertire la sua presenza sempre accanto a noi, a pensare che trovi il tempo di guardarci dall’alto, per veder crescere te e invecchiare me. Sappiamo entrambi che non lo farà, non si volterà mai indietro, ma tu continua pure ad amarlo con il tuo cuore di bambino e di figlio. Noi due andremo avanti, insieme. Un giorno questo fardello sarà più leggero, quasi impercettibile. Io cercherò non pensarlo e di non odiarlo troppo. E di dimenticarlo davvero; perché solo allora, sarò libera.

 

«Chichi, figlia mia, hai voglia di parlarne?».

La presenza di mio padre mi riscuote d’improvviso, dopo un lungo momento. Respiro a fondo, sfilando i guanti di gomma, riponendo gli ultimi piatti nella credenza. Spegne il televisore, scrutandomi preoccupato.

«Non c’è nulla da dire…», scrollo le spalle, girandomi verso di lui e incrociando le braccia, fissando il parquet battuto dal sole. «Dico davvero. È morto e ha preferito restare dov'è, va bene così. È una sua scelta», sollevo gli occhi.

«No che non va bene. Il suo posto è qui, con voi, sulla Terra», sospira, corrugando la fronte e agitando il capo, amareggiato. «Come può non capire questo? Accettare che Gohan cresca senza di lui e rinunciare a te…», sussurra contrito, posando affettuosamente una mano sul mio braccio.

«Oh papà…», stringo la sua grande mano nella mia, con il cuore in subbuglio. «il nostro è stato un matrimonio insensato, senza amore», mi ritrovo a dire in tono incredibilmente quiete. «Lui non mi ha mai amata, né tantomeno l’ho fatto io» rivelo, senza distogliere lo sguardo da lui.

«… Chichi, tesoro, sei solo sconvolta, lo sai anche tu…». Solleva il mento, incredulo, i lineamenti scavati dall’esitazione, le pupille dilatate e il volto cereo.

«Invece è la verità», annuisco, chinando leggermente la testa. «… mi conosci come nessun altro. Sono stata io a volermi sposare, a volere un bambino e a muovere i fili di questa farsa assurda. Ho fatto tutto da sola, la colpa è soltanto mia. Ho approfittato del suo buon cuore», ammetto, stringendo le palpebre con stanchezza. Ferita da me stessa.

«Figliola, non sai quello che dici. Lui ti ama, ne sono convinto» si ostina, stringendomi le spalle, imponente come un gigante. «E lo stesso vale per te. Siete affini, adatti l’uno all’altra, anche se diversi e spesso in disaccordo. L’amore è anche questo. Accettare i difetti dell’altro senza sentire la necessità di cambiarlo, rispettare i suoi punti di vista anche se diversi dai tuoi, lasciarlo andare, sapendo che alla fine tornerà…», la sua voce si spegne di colpo. Deglutisco, arretrando di un passo, senza fiato, le unghie ad affondare nel palmo.

«Ha scelto di non tornare. Non m’importa assolutamente nulla di lui. Non lo amo e non l’ho mai amato!».

Grido feroce, a denti stretti. Il furore represso e aggrovigliato come serpi nel petto. Giro la schiena, scorgendo con sgomento la figura di Gohan, in fondo al corridoio. Avanza oltre la porta, l’espressione cupa, le mani intrecciate al grembo e lo sguardo basso.

«… ho terminato gli esercizi».

Una nota aspra nella sua voce appena udibile. Un lampo di irritazione sui suoi lineamenti pallidi, innocenti e gentili, gli occhi fissi sul pavimento.
Oh, no. No. No. Mi dispiace, mi dispiace tanto, tesoro mio.
Rabbrividisco nauseata, scuotendo il capo, piena di sconcerto ed esitazione. Il suo ostinato distacco come uno schiaffo in piena faccia.
Perdonami per tutto questo. Sei la mia unica ragione di vita. Il mio unico e grande amore.

«Perfetto, figliolo! Vieni, andiamo a prendere una boccata d’aria. Potremmo andare a pesca, cosa ne dici?».

Sussulta, annuendo e affiancando suo nonno, senza mai guardarmi.













1, 2, 3, 4, 5, 6: citazioni tratte dall’anime.

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