Saga di Ikvalibriam - L'Ultima Gilmorgen

di Il_Signore_Oscuro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO


 
 
Il plenilunio splendeva gelido in una mezzanotte perfetta. Le nuvole erano lontane. Avevano lasciato il posto alle stelle, che gremivano il cielo nei reticolati che solo gli astronomi sapevano districare. E certo, Kudai non era un astronomo: una vita di assorta contemplazione non faceva per lui.      
Eppure, provava una sensazione di pace, quando di tanto in tanto osservava quei puntini bianchi, tutti uguali, sopra la sua testa. Se li guardava per abbastanza tempo, avvertiva una sensazione di vertigine: il curioso sentore di precipitare verso il cielo e perdersi nel vuoto. Era quando lo assaliva quella curiosa fantasticheria, che tornava immediatamente con lo sguardo per terra. Rammentando che era lì il suo posto, non fra le stelle.

Fra i due promontori che delimitavano la via verso la montagna, si estendeva una pianura brulla, dalla terra dura e nera, sotto la luce lunare. Laggiù, i millenni di feroci battaglie avevano consumato ogni possibilità che qualunque forma di vita potesse attecchire. Persino le erbacce più resilienti si erano arrese alla desolazione.   
Sulla piana, come un osservatore silente, incombeva il monte Citra, dagli spuntoni smussati dal lento lavorio dei venti. La roccia emetteva un lieve albedo, rifrangendo la luce della luna, e la pietra che componeva ogni tratto della montagna appariva all’occhio come composta di cera friabile. Nessuno conosceva la ragione dietro un simile colore, ciò che vi era di certo era che stare al cospetto del Citra dava una sensazione di profonda solennità: quasi la montagna raccontasse, con voce invisibile e senza parole, gli Ikvalibriam che generazione dopo generazione si erano consumati sotto i suoi occhi.
Del resto, ogni cosa, vivente e non, agli occhi di Kudai sembrava partecipare dell’Ikvalibriam. Il vento, pur con il nulla a ostruirlo, si rifiutava di soffiare e pareva essersi nascosto nel cuore stesso della terra. Gli animali notturni se ne stavano zitti, chiusi nelle loro tane e l’aria era così densa, così carica di tensione, da andar giù a fatica nei polmoni.

Kudai allungò lo sguardo al basso promontorio che accoglieva gli accampamenti del Nakhtife: fuochi da campo gremivano il terreno e fuochi di ben altra natura rollavano in aria.     
Con l’oscurità e a quella distanza, gli era impossibile distinguere il colore e i simboli che fregiavano insegne, padiglioni e stendardi dell’esercito nemico. Ma le voci correvano fra il popolino, giungendo sino alle orecchie dei più alti gradi del Circolo – lui compreso. 
I popoli nomadi de le Steppe del Vento, città indipendenti dell’Arcipelago del Tartaro e persino una rappresentanza di quei bastardi dell’Impero di Falconia. Al solo pensiero l’ira risalì alle tempie come una fitta e Kudai sputò in terra, maledicendoli con tutto il cuore.        
“Come ci si può schierare al fianco di una creatura maligna e abbietta come il Nakhtife? Lui che è il male assoluto e irredimibile.”  
In tempi più antichi e più nobili, quando il Nakhtife si palesava nel mondo, non c’era essere senziente, regno, impero o nazione che non si schierasse al fianco del Gilmorgen per ricacciare quel mostro nell’ombra che l’aveva vomitato fuori. Ma ora i tempi non erano più antichi, né più tanto nobili; e i sovrani – dimentichi della salvezza della propria anima – preferivano schierarsi con colui o colei che prometteva maggiori vantaggi e migliori possibilità di vittoria.       
Come se l’Ikvalibriam fosse soltanto l’ennesimo, banale, banco per i loro effimeri giochi politici, e non invece la battaglia finale fra il Bene e il Male.       
E vano era ogni appello del Circolo, ahimè…   
Fu in preda a simili ragionamenti e contemplazioni che Kudai giunse alle soglie della tenda della Gilmorgen: il padiglione, di un bianco latteo venato di ricami d’oro, era stato posto ad una certa distanza dal resto del campo. Spessi tendaggi di tessuto argentato sigillavano l’unica entrata, dalla quale non proveniva neanche una singola lama di luce.
“Ti sta aspettando” rimuginò Kudai, controllando che le fasce del kimono fossero ben chiuse sul petto e saggiando che la lama della sua spada ricurva avesse ad uscire agevolmente dal fodero, all’occorrenza. Era assai improbabile che il Nakhtife o i suoi seguaci si arrischiassero ad una sortita notturna, ma era sempre bene esser pronti ad ogni evenienza.  
Kudai passò le dita sugli otto anelli in filo d’oro, ricamati ad arte sulla falda sinistra del kimono. Quasi che ricordare il suo grado servisse, in qualche modo, a placare il timore, degno di una recluta, che lo attanagliava ad ogni convocazione della sua Signora.     
Riconosciuto che tutto era in ordine, si inoltrò nella tenda della Gilmorgen.     
All’interno il buio copriva ogni cosa. Le tenebre sembravano essersi fatte più fredde e fitte. Le loro dita incombevano sulla pelle, viscide come spire di serpe e scavavano con artigli crudeli sin dentro le ossa.
Fu ciò che per un attimo sentì Kudai, quando i tendaggi ricaddero alle sue spalle, prima che in un angolo della tenda scorgesse lei: una sagoma tratteggiata dal lume di una candela.       
Il Bene reincarnato. L’ultimo bastione contro l’oscurità.         
La Gilmorgen.

Le brache di tela le cingevano mollemente i fianchi, tenute ferme da un laccio d’argento sottile; il petto era nudo, se non per le strette fasciature di lino che da sempre le comprimevano il seno. Il capo, rasato con cura, era una grigia calotta uniforme. 
«Mi avete convocato, Gilmorgen’Aniku?» Esordì Kudai, mettendosi sull’attenti.         
«Sì, Kudai.» Replicò lei, senza voltarsi. La sua voce era soave e morbida come velluto.
«Siediti di fronte a me e, te ne prego, lascia da parte le formalità. Almeno per questa notte.»   
Egli ubbidì, con un cenno del capo. Si sforzò di rilassare le spalle, mentre sedeva dinanzi alla sua Signora. A dividerli c’era solo la fiammella di una candela, tremolante sul ciglio dello stoppino.           
Kudai osservò il viso della Gilmorgen: era quello di una donna shinbu nel fiore degli anni, con pelle candida come porcellana e due occhi a mandorla che accoglievano un paio di iridi castane, cesellate ai bordi da pagliuzze dorate. Forse la Gilmorgen s’era svegliata da poco, poiché la sclera era un poco arrossata e qualche rimasuglio di lagrimazione risaltava sugli zigomi rotondi.  
A cavalcioni delle gambe, giaceva la zuwarden, infilata nel fodero di bianca magnolia. Su ciascun lato erano incastonati otto anelli: uno d’oro e sette d’argento, uniti da un singolo filo iridescente al lume della candela.      
«Si dice che per un Gilmorgen non esista nulla di più vicino ad un amico, che la sua Alta Sfera. Credo sia per questo che, per tradizione, spetta a noi nominarla.» Disse la Gilmorgen. «Posso dunque considerarti un amico e parlarti liberamente, Kudai?»  
«Senza alcun dubbio,» rispose prontamente, per poi aggiungere – non senza imbarazzo - «Aniku.»           
Lei sorrise, con un sorriso che gli appariva sincero. «Mi riconfermi la giustezza della mia scelta. Ricordi quel giorno, Kudai?»   
“Sto davvero rispolverando vecchie memorie con la Gilmorgen?!”
«Come potrei mai dimenticarlo? È stato il giorno più felice della mia vita!»     
Lei fece un cenno d’apprezzamento. «Quel che più mi è rimasto impresso è stata la faccia del Generale Gundera: sembrava posseduto dal Nakhtife in persona.» La Gilmorgen sorrise, sardonica.           
Quell’espressione sul suo viso parve quasi irreale a Kudai.       
«Vederlo ad un tempo infuriato e costretto a contenersi. Ah, sì, non lo dimenticherò facilmente.»           
«Diciamo pure che le reclute non passarono un bell’anno…»   
Bastò quello scambio a farli ridere, a far sciogliere un poco quel ghiaccio che il codice e la disciplina avevano sempre interposto fra loro. E forse perché più a suo agio, Kudai si arrischiò a porre una domanda a sua volta.   
«Devo ammettere, Aniku, che non ho mai davvero capito perché hai scelto me come tua Alta Sfera. Voglio dire, Gundera – anche se rigido e severo – ha alle spalle una lunga esperienza. E anche se non proprio lui, chiunque altro fra le Sfere sarebbe andato bene. Io ero ancora fresco di nomina, dunque… perché?»     
Lo sguardo della Gilmorgen si scaldò di un calore quasi materno.
«Perché hai un animo buono, prima che giusto, caro Kudai. E questo nonostante la rigida disciplina che ti è stata impartita.» La sua voce sembrò tingersi di eco antiche. «Un’educazione molto severa rende giusto un uomo, ma raramente lo rende buono. Piuttosto, rancore e scontento fermentano sotto la superficie, fino ad esplodere in modi incontrollati e imprevedibili. Non volevo trovarmi di fronte ad una simile eventualità, con la mia Alta Sfera.»          
«Capisco.» Replicò lui, anche se non era certo di aver compreso fino in fondo cosa la Gilmorgen volesse dire: cosa, di fatto, lo rendeva un uomo buono ai suoi occhi? Come chiunque altro in lui c’erano luci ed ombre, che combattevano costantemente le une per prevaricare le altre. In questo Kudai non percepiva alcuna differenza fra sé stesso e le altre Sfere.      

«C’è una domanda che vorrei porti, Kudai. E vorrei che rispondessi con sincerità. Senza tentare di compiacermi.» Riprese a un tratto la Gilmorgen.          
«Chiedi pure, Aniku.» Replicò lui, abbozzando un sorriso. «Risponderò in tutta franchezza.» O, perlomeno, si augurò di esserne capace.           
«Cosa pensi del mio operato? Intendo dire: cosa pensi del mio operato in qualità di Gilmorgen?»            
Quel quesito lo colpì come una ramazzata in testa. Cercò di rispondere con tale fretta che per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. 
«Perché me lo chiedete, mia Signora? Io- io non sono nessuno per giudicare ciò che voi fate o le vostre decisioni. Io sono solo un-» le mani della Gilmorgen, d’improvviso chiuse sulla sua, frenarono il torrente di parole. 
Kudai la guardò, tanto stupito da non emettere un suono: quelle palme, pure irruvidite dall’esercizio con la spada, erano gentili al tocco come petali di ciliegio.          
Lei sorrideva, ma i suoi occhi erano così tristi. 
La voce, tuttavia, risuonò priva di ogni tremore, calda e limpida come sempre. «Guardo indietro, a chi mi ha preceduto, e quel che ho fatto sino ad oggi mi sembra così misera cosa. Gilmorgen’Kudai, di cui porti il nome, mise fine in una sola notte alle guerre che dividevano i regni di Falconia, riunendoli poi in un impero. Gilmorgen’Brunja fondò decine di enclave nelle ostili terre dei Nor. E convinse quel popolo ad abbandonare i loro falsi dei di ferro e sangue, per abbracciare la nostra fede. Gilmorgen’Albier debellò le pestilenze che per quasi un decennio infuriarono nell’Arcipelago del Tartaro. E questi non sono che alcuni. Loro hanno lasciato al mondo un’eredità che è tangibile ancora oggi. Guardo d’altra parte a ciò che ho fatto io e ne vedo l’assoluta inconsistenza.»      
“Mi sta confessando le sue insicurezze o vuole mettermi alla prova?” Pensò Kudai, incerto e col cuore galoppante. “Cosa dovrei dirle? Dannazione!”    
«Io, ecco» si schiarì la voce, cercando le parole «credo che tu sia troppo dura con te stessa, Aniku. Molte delle imprese che hai citato, i tuoi predecessori le hanno compiute solo dopo aver sconfitto il Nakhtife. Ad un’età più avanzata della tua. È ingiusto mettersi a paragone con loro adesso. Sono certo che dopo l’Ikvalibriam compirai opere alla loro altezza, se non superiori! Imprese per cui tutti ricorderanno il tuo nome.»      
«Le tue parole sono così gentili, Kudai.» Il sorriso sulle sue labbra si ampliò, ma gli occhi rimasero tristi. «Temo però di non avere tempo a sufficienza per portare a compimento la mia eredità. Ho paura che dovrò passare ad un altro il fardello della sua realizzazione.»
Kudai fu folgorato dalle implicazioni di quelle parole.  
“Dunque lei ha visto… ha visto la propria morte.”       
Una goccia di cera scivolò, silenziosa come una lacrima, lungo il fusto della candela, spalmandosi contro il piattino di peltro. L’aria si fece densa come fango e Kudai provò la netta sensazione che muovendo un muscolo, le sue ossa sarebbero andate in mille pezzi.
Per un attimo la vista gli si annebbiò e sentì gli occhi pizzicare.           
“Non è possibile, no!” 
«Non permetterò che vi accada nulla di male, mia Gilmorgen. Anche se mi costasse la vita, anche se dovessi oppormi contro i disegni della Trama, io vi proteggerò!» La sua voce venne incrinata dai singhiozzi.      
«Oh, dolce Kudai.» La sua mano destra gli salì al viso, calcando lo zigomo col pollice. «Sono certa della sincerità insita in ogni tua singola parola. E proprio per questo, domani non mi accompagnerai all’Ikvalibriam; partirai invece verso ovest, per compiere il mio disegno.»        
Quelle parole lo ferirono come freddo acciaio nella carne. Kudai si ritrasse da quella carezza. «Cosa?!» Ebbe appena la forza di mormorare. «No! Non se ne parla! Il mio posto è al vostro fianco!» 
Lei sospirò, come se avesse a che fare con i capricci di un bambino. Le sue dita si aggranchirono contro il palmo e la mano tornò lentamente a posarsi sulle ginocchia.  
«Prima del tuo arrivo ho scrutato nelle fila della Trama, lì dove solo il mio sguardo può avventurarsi. Ed è lì che l’ho vista… ancora non lo capisci Kudai, ma questa missione è più importante di ogni altra cosa.» 
Egli si corrucciò, sentì la voce raschiare contro la gola, mentre si sforzava di non scoppiare in urla furiose.
«Cosa potete aver mai visto che sia più prezioso della vostra vita? Della vita di una dea?!»       
Non se ne capacitava. Come poteva essere così sciocca da scegliere di morire, quando esisteva una possibilità di aver salva la vita. Cosa c’era di più importante della sopravvivenza di una Gilmorgen?           
«La fine, Kudai.» Rispose lei, alle sue parole come al suo pensiero, con la voce intrisa della potente eco di ogni sua vita passata. «La fine della più sanguinosa fra le guerre. Niente più Nakhtife, niente più Gilmorgen. Bene e male in equilibrio, in un mondo che finalmente apparterrà ai mortali. L’ultima Ikvalibriam.» 
«Non potete dire sul serio, mia Signora. Come può l’umanità sopravvivere senza la vostra guida?» Protestò, senza più contenere la propria animosità.      
«Può farlo e lo farà, mio dolce Kudai. La tua visione è miope, ma non posso fartene una colpa. Se solo vedessi le alternative, saresti già in sella verso occidente e giudicheresti più che accettabile il sacrificio della mia vita e del tuo nome.» Ricusò la Gilmorgen.
«Non lo credo possibile, ci sarà di certo un altro modo.»          
«Allora che sia tu a giudicare, una madre non può muovere i passi di un figlio, può solo indicargli la direzione. Lascerò che sia tu a giudicare, dopo che avrai visto ciò che ho scorto io… ma adesso basta parole. Dammi la mano.»

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I


 
La Casa del Ceppo era in fermento quella sera. Situata su di un breve altopiano, nel villaggio di Fonderadici, le luci delle sue finestre parevano sfidare la lugubre oscurità che permeava il bosco di salici dirimpetto. La musica, le risa, le grida sgretolavano il silenzio della notte e le sue inquietudini.   
All’interno della sala il fumo di pipa risaliva fino al soffitto, miscelando le fragranze del tabacco combusto all’esalazione dolciastra della birra di resina, distillata dai migliori alchimisti birrai del paesello. Ai tavoli, ricavati da ceppi tagliati, si radunava la più varia umanità: gente del posto, dalla pelle scura, con vesti leggere e usitate, scolorite dal tempo e dal sole. Erano per la gran parte taglialegna dalle braccia inspessite un colpo d’accetta dopo l’altro.
C’erano gli uomini della guarnigione, con la giubba recante il lupo rampante in campo cobalto. Rappresentanza in luogo del Barone Luperini. Fra loro spiccava Ygris, il capitano di guarnigione, la cui chioma era rossa fiamma e gli occhi gelido acciaio. Ogni giovanotto di Fonderadici se ne era infatuato almeno una volta, ma – come si diceva – il suo carattere era più da lupo dell’emblema sul suo petto.
Vi erano poi i musicanti, i saltimbanchi e i giocolieri d’ogni razza, etnia e provenienza. Mezz’uomini dai cappelli piumati e i piedi bitorzoluti; nani dal naso rubicondo e le lunghe barbe intrecciate; elfi silvani, il cui cipiglio era più fiero dei signorotti che di tanto in tanto erano lì di passaggio.       
E, infine, in un angolo all’ombra della balconata, una masnada di uomini dalle facce lunghe e il viso austero, tutti differenti per tratti e carnagione, ma accomunati da un ricamo sulle vesti: una linea in fil di ferro che attraversava da parte a parte un cerchio appena visibile di tessuto.

Al centro della sala, un ceppo ben più ampio degli altri, quindici passi per quindici passi, rilevato di mezzo metro rispetto al pavimento, fungeva da palco per gli artisti che da ogni dove accorrevano ad accompagnare le serate degli avventori, presso la Casa del Ceppo. La corteccia era grigia come il fumo, scavata da profonde rughe; sul bordo, lì dove la lama aveva trapassato la corteccia, un anello di fuliggine delimitava il legno pallido del tronco. Legno solcato da innumerevoli anelli: seimilaseicentonove, stando alle più recenti stime dei pochi, pazienti, che si davano pena di contarli.           

Astoria posò il piatto di peltro sul bancone, prima di raccogliere in un ultimo sguardo la folla di avventori e rivolgersi a Tomujiin.        
L’oste de la Casa del Ceppo era un orco con ormai metà della vita alle spalle, alto una volta e mezzo un uomo di media statura e largo almeno il doppio. Un corpo nerboruto, a stento contenuto dietro il grembiule ingiallito dalle macchie e dal fumo.
Una chioma color del carbone, striata d’argento, scendeva dalla nuca sino alle spalle, mentre un’alta crocchia coronava il capo glabro. Dalla bocca, lievemente prognata, sporgevano due minacciose zanne giallastre, una delle quali doveva esser stata tagliata di netto. Mentre sul viso figuravano un paio d’occhi ambrati.   
«C’è parecchio movimento stasera, vero?» Disse Astoria, dopo aver riferito l’ordine per il tavolo di boscaioli.         
Tomujiin spillò la birra dai barilotti accomodati dietro il bancone, con un gesto deciso, e commentò le parole della ragazza con un mezzo grugnito.
«Fin troppo, così la vedo io. Tutta questa gentaglia non ha niente di meglio da fare che starsene qui a gozzovigliare?!»        
Astoria non avrebbe mai capito perché Tomu sembrasse sempre così scontento di avere clienti a foderargli le tasche di monete. 
«A proposito, occhi aperti al ritorno. Ci sono un sacco di forestieri in giro per le strade.» Continuò l’orco, riponendo i boccali schiumanti sul vassoio.       
«Non preoccuparti, Tomu.» Replicò lei. «Anidai si offre sempre di accompagnarmi, anche a tarda ora.»   
L’orco grugnì nuovamente, e con più rumore, cavandosi dalla veste uno straccio di iuta e passandolo sui boccali ancora da pulire.           
«Come ti fidi di quel barbone, proprio non lo so.» Schioccò la mascella prominente. «È più losco dei dannati forestieri.» Non fosse stata la sua locanda, avrebbe chiosato la frase sputando in terra.           
Astoria si girò, vassoio alla mano, perché non la vedesse ridere.           
A suo modo Tomu si preoccupava per lei. “Grazie agli dei non ha figli, sarebbe la loro condanna.”           
Con passi leggeri e sorriso di cortesia, Astoria si accostò al tavolo dei taglialegna.        
Mentre posava le pinte, seguì con lo sguardo uno zufoliere, dal pastrano a toppe variopinte, lasciare il palco con un paio di inchini, cedendo il posto al prossimo artista.     
Era quest’ultimo un menestrello dal corpo longilineo, la cui chioma pareva oro filato. Astoria lo giudicò come venuto dalle Terre dei Nor e ne ebbe ulteriore conferma quando lo udì parlare.   
Aveva l’accento spigoloso di quelle terre, sebbene parlasse la lingua comune con una certa scioltezza.       
«È un onore far la vostra conoscenza, brava gente di Fonderadici. Il mio nome è Ulfar, musico, cantastorie e poeta errante.» Si prodigò in un inchino, mentre dalla mezza-mantella faceva capolino una cetra.
Lo strumento era assai sobrio nella fattura, l’unico dettaglio di rilievo, era la figurina di donna intagliata su una delle estremità, che si nascondeva il seno col braccio. Le corde della cetra mandavano riflessi d’iride, alla luce delle lanterne.      
«Forse qualcuno avrà già udito, le buone nuove dal nord, signori miei. Falchi bianchi, candidi come neve, hanno spiccato il volo, diretti verso le principali enclave del Circolo. La voce già serpeggia fra la gente, nelle città la gente canta e danza per le strade. Gilmorgen, luce reincarnata, s’è ridestato dal suo lungo sonno!» 
Qualche mormorio d’incredulità venne dagli avventori. Altri innalzarono i boccali, augurando al dio e ai suoi servitori una lunga vita.         
«E quale miglior modo, signori miei, di celebrare la lieta novella, se non un canto che ricordi l’ultima delle sue reincarnazioni?»      
Il menestrello, veduto che il suo pubblico apprezzava, prese a diteggiare i primi accordi de Le Lacrime di Aniku mentre le sale della Casa si facevano silenziose.        
Astoria, tornata al bancone, si fermò ad ascoltare. Persino Tomu lasciò da parte le sue faccende per un momento.  

Vi canto compagni, di un tempo non troppo lontano      
quando Gilmorgen’Aniku, fronteggiò della notte il Sovrano.      
Il Citra osservava silente, dell’Ikvalibriam la tenzone    
a me non rimane, che ripeterne la canzone.


Galoppava Aniku, solitaria nella ressa. 
Diritta dinanzi, la lancia in resta.         
Si fece Nakhtife di contro, sul nero destriero,    
con cuore crudele e cipiglio fiero.        


Tosto lo colpì, Aniku alla testa 
e il Nakhtife ricadde, ma senz’aria mesta.         
“Non così finisce il nostro duello, signora del bene       
sulla punta della mia spada, sconterai le tue pene.”      


Aniku smontò, prode e spavalda,          
che mai e poi mai, la dicesse codarda.  
“Ti fronteggio e t’abbatto, nel cuor non ho timore.       
Vieni alla morte, della notte Signore.”  


Acciaio contro acciaio, lama contro lama         
di nuove cose, s’intesse la Trama.        
Lento fu il passo indietro e ben congeniato,      
poiché al fendente, Nakhtife fu decapitato.        


Tremò la terra, gioì il cielo.     
Gilmorgen aveva trionfato, contro il Re Nero.   
Ma non è storia felice, ahimè, quella che narro 
e alla vostra gioia tocca far sgarro.      


Librò una freccia silente, crudele come gelo     
e di Aniku trafisse, il petto fiero.           
Ricadde alla terra, non fece rumore      
è la fine di Aniku, ma Gilmorgen mai muore.    


Lacrime e singhiozzi le chiudon la gola,
mentre alla morte guarda, ormai sola.  
“Dove sei Kudai? Ahimè, m’hai tradito…         
e in questo giorno per l’eterno, il tuo nome maledico.”


Gli accordi di cetra accompagnarono la canzone verso il silenzio, lentamente, come una vecchia nenia intonata a bocca chiusa. Dai tavoli, qualcuno applaudì, qualcun altro lanciò sul ceppo soldi d’argento e di rame, per mostrare il proprio apprezzamento.     
Soldi che il menestrello non tardò a raccogliere nelle tasche sgualcite, prima di rimettersi a suonare.           
Astoria si asciugò le guance, con il risvolto della manica di lino. Tante volte aveva udito quella triste canzone, e tutte le volte se ne scopriva commossa come la prima. Era curioso come – nonostante quel canto si addicesse assai poco alle atmosfere di taverna – pure ogni volta riscuoteva successo. Che nel pubblico vi fossero nobili signori o gli ultimi fra i contadini.
«Per te è vero ciò che ha detto, Tomu? Il Gilmorgen è di nuovo fra noi?» Chiese la ragazza.    
L’orco, che intanto era tornato alle sue faccende, rispose.        
«Vero o meno, per noi conta poco. Il Gilmorgen e quelli al suo seguito non si interessano dei villaggi o di paesucoli come Fonderadici. Lui guarda ai regni, agli imperi, alle nazioni. Non darti di questi pensieri.»          
«Forse hai ragione.» Mugugnò Astoria, seguendo con lo sguardo il menestrello che si dava a pizzicare una ballata ben più allegra. Ora che la solennità della sua canzone si era dissipata, insieme con la melanconia.

Un rumore secco alle sue spalle la ridestò. Voltandosi, Astoria vide Marion che, posato il vassoio, si prendeva un attimo di respiro, poggiandosi al bancone.
Coi suoi diciotto anni, uno solo in più di lei, Marion era già una donna fatta e finita: il seno ampio e i fianchi larghi promettevano una prole numerosa. Anche se quel sorriso da volpe, incorniciato da boccoli bruni, per Astoria mal si sposavano al viso rassicurante di una madre.  
«A chi importa di Gilmorgen, con un uomo del genere? Potrebbe dirmi che gli asini volano o che i cani si accoppiano coi maiali, gli crederei.» Il sorriso le si allargò, pericoloso sulle labbra. «Che ne dici Astoria, la sua stanza ha bisogno di un’accurata pulizia stanotte, magari fuori orario?»     
«Marion!» Rise lei, sentendo le guance avvampare.     
Lei arcuò un sopracciglio, con una scintilla negli occhi scuri.  
«Cosa c’è, monachella? Non tutte abbiamo un fienile a disposizione per-»       
«Vuoi stare zitta?» Le intimò Astoria, piantandole giocosamente un gomito al fianco. 
«Torniamo al lavoro, signorinelle?!» Tuonò l’orco alle loro spalle. «Non vi pago per passare la serata a chiocciare come galline!»      
«Agli ordini, grande capo.» Rispose Marion, facendogli il verso e allontanandosi prima che Tomu potesse replicare.         
Un sospiro e una scrollata di spalle, anche Astoria si rimise al lavoro.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II


 
I bagordi della serata si erano infine esauriti e gli avventori erano tornati alle proprie case, mentre artisti e forestieri si erano rintanati nelle proprie camere per smaltire la sbornia o approfittare di un dolce incontro notturno. Astoria si asciugò il sudore che le imperlava la fronte con un panno, dopo aver ripulito l’ultimo tavolo.               
Marion era sparita già da un po’ e Tomu nascondeva dietro una delle sue grandi mani verdi l’ennesimo, cavernoso, sbadiglio.        
«Allora io vado, Tomu» disse Astoria, intascando la paga per la serata «ci vediamo domani sera.»           
«Aspetta,» la trattenne l’orco, con gli occhi lucidi per la sonnolenza «perché non dormi qui, stanotte? Ci sono ancora una o due camere libere.»                 
«Non preoccuparti.» Lo rassicurò la ragazza, posando la sua mano su una di quelle grandi spalle. Il suo palmo sembrava quello di un bambino al confronto.          
«Va bene…» sospirò Tomu, «ma fai attenzione.» Il suo alito le investì il viso: aveva l’odore del tabacco aromatico e della birra di resina, così stranamente caldo e rassicurante.
 Astoria infilò la porta d’ingresso, Fonderadici era immersa nell’oscurità, se non per le sparute lanterne che segnalavano l’inizio e la fine delle vie principali, pendendo da paletti di salice intagliato.
La ragazza si strinse nella mantella color antrace e con lo sguardo cercò la famigliare sagoma di stracci rattrappiti che era Anidai.         
Non le ci volle molto per trovarlo: sedeva ricurvo in terra, con le spalle appoggiate contro la staccionata che delimitava il cortile intorno la locanda. Il sollevamento, lento e regolare, del suo petto le suggerì che il pover’uomo doveva essersi appisolato nell’attesa.          
Astoria si guardò intorno, con aria circospetta, mentre gli si avvicinava. Per un attimo fu tentata di lasciarlo riposare, ma ragionandoci meglio risolse che era meglio svegliarlo.     
“Fonderadici è un villaggio tranquillo, ma non è mai sicuro dormire al ciglio di una strada, dovunque si sia.”                    
Gli prese una spalla, scuotendolo con quanta più gentilezza.    
Lui aprì gli occhi, senza un gemito né un sussulto. Aveva iridi scure, in un paio d’occhi limpidi e vigili nonostante l’aspetto trascurato. I capelli, neri e lucidi per la sporcizia, gli scendevano in ciocche unte intorno al viso dalla pelle bronzea.          
«Scusami se hai aspettato così a lungo, Anidai. C’era molta gente stasera e abbiamo finito tardi.» Disse Astoria, con un’espressione carica di premura.    
«Non importa, madonna.» Replicò lui, con voce atona.
Astoria gli aveva ripetuto più d’una volta che non vi era alcun bisogno di chiamarla a quel modo. Si trattava di un titolo riservato alla Baronessa e alle sue consanguinee, ma il mendicante era rimasto sordo ad ogni protesta in tal senso.      
“Sarà qualche strana regola del galateo shinbu, chissà.”          
Questa volta rinunciò a puntualizzare, ma continuò a camminare al suo fianco. Guardandosi la punta dei piedi, come se servisse a sfuggire a quel silenzio carico d’imbarazzo che c’era fra loro. Di cosa mai poteva parlare con un uomo che passava le giornate pensando a come sopravvivere? Dove, trovare degli argomenti in comune?     
Incrociò il suo sguardo, svuotato di ogni vitalità, incrostato dalle placche del sonno, e a quel punto alla mente le tornò la novella che il menestrello del Nor aveva declamato nella locanda. “Anidai è uno shinbu, di certo sarà interessato a una notizia del genere.” 
«Hai sentito la novità, Ani?»   
Lui si voltò a tre quarti, senza arrischiarsi in una reazione.      
«Il Gilmorgen è di nuovo fra noi, non è una bella notizia? La sua luce è tornata a illuminare il mondo, a preservarci da ogni male.»
Le palpebre di Anidai ebbero un fremito appena percettibile, le labbra scavarono un sorriso a bocca chiusa sulla sua faccia. Il barbone tornò a guardare davanti a sé.          
Per un attimo Astoria temette che quello fosse il massimo che le sue parole avrebbero conseguito. Ma con una certa sorpresa notò che, invece, si era creata una piccola breccia nel silenzio.        
«A casa, nella mia terra natale, a quest’ora staranno festeggiando.» Le sue labbra si erano piegate in una smorfia di tenera nostalgia. «Il risveglio del Gilmorgen è occasione di grandi celebrazioni nelle mie terre: carri e cortei in costume sfilano per le vie delle più grandi città, accompagnati da danze e dalle musiche della tradizione. Si beve e si banchetta fino all’alba e il cielo viene illuminato da fuochi color della neve, composti dai più abili piromanti d’ogni regione. Il Tempio in via straordinaria apre le sue porte e anche l’ultimo degli umili può avere l’onore di baciare le ginocchia del Bene reincarnato. Si dice che anche solo sfiorare un lembo di pelle di Gilmorgen porti fortuna per gli anni a venire. All’alba del giorno dopo falchi bianchi si alzano in volo e portano la bella notizia ad ogni enclave sul continente.»          
Astoria sentì scaldarsi il petto da quelle reminiscenze. 
«Deve mancarti molto la tua casa, in un momento come questo.»
«Madonna, non immaginate quanto.» Replicò lui, occhieggiando nella sua direzione.  
«Hai mai pensato di fare ritorno, Ani?» Si arrischiò a chiedergli.
In passato, tanto lei quanto i suoi genitori, avevano provato a scoprire cosa avesse portato Anidai così lontano dalla sua terra, ma l’uomo era rimasto impenetrabile ad ogni indagine: non aveva concesso neanche un singolo cedimento, negli oltre dieci anni da che lo conoscevano. 
«Ci penso ogni giorno, madonna.» Rispose lui, guardando la strada dinanzi a sé. «Di notte faccio sogni, sogni in cui la mia famiglia è lì, sulla soglia di casa e mi riaccoglie a braccia aperte, dopo un lungo cammino. Tuttavia la realtà è diversa… i miei parenti, nella vita reale, non prenderebbero con gioia il mio ritorno. Tutt’altro. Nel migliore dei casi mi scaccerebbero con torce e forconi, intimandomi di andar via.»      
«È per qualcosa che hai fatto?» Chiese Astoria, disperando comunque di avere una risposta.    
«Per qualcosa che ho fatto» rispose Anidai «o che non ho fatto. Dipende dai punti di vista… non sono comunque storie adatte per le orecchie di una fanciulla.» 
Astoria tirò un profondo respiro. Era ciò che più la infastidiva nelle persone e negli uomini in particolare: la convinzione che avere a che fare con lei, equivalesse ad aver a che fare con un vaso di argilla da preservare da ogni urto, quasi le mancasse la forza di volontà. La faceva sentire come una sorta di bestia, incapace di gestire le emozioni. Per un attimo pensò di dirglielo, mettere a nudo la propria irritazione. “Mettimi alla prova” gli avrebbe detto o “Sono più forte di quanto tu non creda”. Ma a che sarebbe servito? Se non a guastare la fragile atmosfera di cordialità e spingere Anidai a richiudersi di nuovo in sé stesso?         
Desistette. E allo steccato, che delimitava il cortile esterno della sua casa, lei lo congedò.        
«Ti ringrazio per la compagnia, Ani. Passa da noi domani mattina, mia madre ti farà trovare una ricca colazione, per il disturbo.»          
«Non mancherò, madonna.» Rispose, in un profondo inchino, prima di avviarsi nell’oscurità della notte.  
«Aspetta, Anidai.» Lo richiamò, dopo qualche istante. La mano già sul cancello dello steccato. «Hai dove dormire, per la notte? Puoi stare nel laboratorio di mio padre, se vuoi. A lui non darà fastidio e c’è un piccolo giaciglio in cui starai comodo e al caldo.»          
«Non preoccupatevi, madonna.» Replicò lo shinbu, declinando con gentilezza «Starò bene.» E senza voltarsi sprofondò nelle tenebre.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III


 
Le dita pallide dell’aurora facevano capolino da est, sciogliendo i filamenti di tenebra della notte precedente. Fra le fronde di salici, i cardellini pigolavano allegri o volavano invisibili, facendo ondeggiare i rami.       
Il fiume Garona scorreva placido, diretto verso sud-est, tagliando in due metà pressoché esatte la macchia di verde. Fluiva silenzioso fra i bassi argini rocciosi, gorgogliando di tanto in tanto contro le asperità che sporgevano timide dal letto del fiume.   
Nel canto discreto della natura, Anidai sedeva in silenzio. Accoccolato nell’incavo delle spesse radici di un salice, antico quasi quanto il bosco stesso. Era il suo personale angolo di pace, quella porzione meridionale della riva del Garona.      
Nei giorni in cui i taglialegna lasciavano da parte le asce, Anidai svaniva dalle vie del villaggio e si rifugiava lì, in quell’antro; invisibile a tutti, se non agli animali che popolavano inosservati il bosco. Non sapeva perché avesse prescelto proprio quel posto, come il suo posto. Forse non c’era una ragione particolare, forse era sufficiente il fatto che fosse lontano dagli occhi di chiunque.
Il mendicante allungò le mani al fagotto, deposto poco prima sulla gobba di una radice: il contenuto era avvolto in un morbido fazzoletto bianco, richiuso con un grazioso nodo sulla cima. Ad avvicinarci il naso, Anidai poteva sentire nelle narici il profumo fragrante del pane abbrustolito e l’aroma quasi stucchevole della marmellata di frutta. Sotto le dita ruvide e impolverate, percepiva la consistenza cedevole del formaggio molle.       
“Stavolta madonna Roma si è davvero superata” pensò, mentre l’acquolina gli inumidiva le fauci. Con i polpastrelli che tremavano sciolse il fiocco alla meraviglia.         
In un tempo ormai lontano era stato quasi del tutto insensibile alle gioie di così piccola portata. Un tempo la sua vita era intessuta unicamente di regole e doveri. Ci pensò in quel momento, come non gli capitava di pensarci da anni ormai. 
E mentre la fetta di pane, zuppa di formaggio e marmellata gli scivolava in bocca, pensò “quanti anni sono passati? Forse sedici? No, ormai sono diciassette.”   
E guardandosi indietro, all’uomo che era stato – e che ormai non era più – l’unica immagine offerta all’occhio della sua mente era una sagoma sfocata, avvolta in una nebbia palpabile.     
Diciassette anni fa, quand’era giunto a Fonderadici, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa: prendere l’ascia e farsi taglialegna; stringere i polpastrelli intorno ad un ago d’osso e divenire sarto; o, persino, imbracciare le armi occidentali. Magari, adesso, ci sarebbe stato lui ad occupare il posto di madonna Ygris.           
“Sì, avrei potuto fare qualsiasi cosa” si disse, buttando giù un boccone che gli raschiò la gola. E invece aveva optato per quella forma miserabile, “Anidai lo straccione, Anidai il nullafacente” che tirava a malapena a campare, giorno per giorno.           
Ma ciò che l’aveva spinto non era stata la paura di un posto sconosciuto, né l’indolenza che come un veleno insidia gli uomini melanconici. Bensì, un’antica eco di quel dovere che con tanta insistenza gli era stato inculcato, nella mente e nel cuore.       
“Diciassette anni di miseria… ho creduto mi valessero il perdono. Ma non ne basterebbero duecento, alla mia espiazione.” Pensò, mettendo da parte la colazione. Lo stomaco ormai chiuso.           
“Troppo grande la mia vergogna, troppo profonda la mia codardia.” Ricordava ancora quel mattino, con una limpidezza ormai rara alla sua mente obnubilata. Aveva lasciato la tenda della sua Signora, ancora confuso e tremante nel vortice di dubbi, di visioni, di parole che lei gli aveva rivolto.    
Non visto, era scivolato sino ai cavalli. Un morello era stato il mezzo per la sua diserzione.      
Aveva galoppato verso ovest, con un’alba grigia a corrergli dietro. E mai, neanche una volta, si era voltato indietro. Mai. Né quando i corni da guerra avevano riempito l’aria, come soffiati dalle viscere stesse del Citra. Né quando il cielo e la terra avevano tremato, sotto la furia dell’Ikvalibriam. Neanche quando, ahimè, aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro di lui. Neanche allora si era voltato, sebbene sapesse che lì, in quel preciso istante, la sua dolce Aniku era morta.
“Se solo potessi tornare indietro” si disse, con gli occhi vuoti, umidi per le lacrime, “io resterei al tuo fianco, mia dolce Aniku. Non ti lascerei a morire. Magari ti infurieresti, magari mi malediresti come nelle ballate. Ma, perlomeno, saresti ancora viva e ad oggi regneresti sul mondo come eri destinata a fare.”         
Chinò il capo. Strinse i pugni. Le sue nocche sbiancarono.      
“Dovevo rifiutarmi, Aniku. Dovevo rifiutarmi di obbedire ai tuoi ordini. Non è affatto giusto che un singolo uomo si carichi del destino del mondo intero, non è mestiere per noi! Gli dei, gli eroi esistono apposta per questo… avremmo trovato un altro modo, Aniku. Avremmo trovato un altro modo.” Sciolse i pugni, sentì le dita indolenzite dalla stretta.   
Alzò lo sguardo, verso il cielo che di minuto in minuto si rischiarava.
poteva prendere una scelta diversa quel mattino di diciassette anni prima, e invece aveva scelto di seguire il filo che la  Trama aveva intessuto per lui. “Come fanno gli uomini che vivono per il dovere.”
Quel pensiero lo fece sorridere, con un retrogusto di bile contro il palato.        
Nello spicchio di cielo, ritagliato fra le fronde dei salici, Anidai scorse d’improvviso qualcosa: un paio di ali bianche, aperte, planavano verso sud. Riconobbe immediatamente l’animale.          
“Un falco bianco, venuto dall’est.”      
Con un cenno del capo sembrò quasi voler salutare il volatile, già sparito dalla sua vista. Comprese che il momento era infine arrivato: l’intreccio della Trama che Aniku aveva veduto e che aveva avuto cura di mostrargli.         
Diciassette anni da invisibile in attesa di quell’istante e adesso l’avrebbe volentieri rimandato. 
Dai risvolti dei suoi abiti cavò il coltello e a passi cadenzati si avvicinò alle acque del fiume. Per un attimo rimirò il riflesso sull’acqua: non riconosceva quell’uomo. Poi spostò lo sguardo al ferro opaco della piccola lama.         
“È tempo di scavare a fondo dentro Anidai. Il suo tempo è finito. Adesso è il momento di liberare Kudai, il maledetto.”

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV


 
Astoria bevve il succo di mirtillo in un singolo sorso. Il sapore asprigno della bevanda le pizzicò il palato, prima di scendere con un retrogusto stucchevole lungo la gola.
«Stamattina Anidai è passato a prendere la sua colazione. Certo ne sarà contento, anche se proprio non immagino dov’è che va a nascondersi per mangiarla, tutte le volte.» Disse Roma, togliendole il bicchiere appena vuotato e infilandolo in un catino ricolmo d’acqua.
Astoria fece spallucce, coprendo con la mano un lungo e profondo sbadiglio. Il sonno non l’aveva ancora lasciata del tutto, nonostante si fosse svegliata ben dopo l’alba. Si sarebbe volentieri rintanata fra le coperte, ma avrebbe voluto dire restare stordita per tutto il pomeriggio: qualcosa che non poteva permettersi, soprattutto in vista del servizio serale in locanda.        
Allungò una mano verso una delle focaccine, ancora fumanti sul bordo del tavolo, e se la infilò in bocca, mangiandola a gran bocconi.
Il sapore era fragrante, nessuno cucinava come sua madre in tutta Fonderadici.       
Roma – o per i più, Donna Roma – viaggiava ormai sulla quarantina. Come la gran parte della gente del villaggio, aveva in sé i tratti tipici di una Alicanti: pelle olivastra come brunita dal sole, lineamenti morbidi e intensi occhi scuri, che in giovinezza dovevano aver catturato lo sguardo di molti uomini. I capelli neri, striati dal primo grigio, erano raccolti sotto una cuffia di lino bianco.
«Tutto bene ieri sera?» Le chiese ad un tratto sua madre, con due piccole fossette a solcarle le guance.           
Astoria fece un pigro cenno d’assenso, deglutendo il boccone «serata impegnativa. C’era tanta di quella gente…» sbarrò gli occhi «oh, non crederai a cosa ho sentito: il Gilmorgen finalmente si è risvegliato!»
Roma chiuse le dita in un pugno, baciò indice e pollice, per poi levare appena la mano in un gesto di ossequio.        
«Sempre sia benedetto, che bella notizia!» Una breve ombra le corrugò la fronte «ora capisco, però, perché Ani sembrava così turbato. Dalle sue parti ci tengono parecchio. Oh, pover’uomo,» sospirò Roma «deve mancargli molto la sua terra.»      
Astoria fece un cenno d’assenso. Non era necessario parlare a sua madre della conversazione dell’altra sera, probabilmente l’avrebbe rimproverata per essere stata tanto invadente.  
«Non lo so, mi ha sempre dato l’impressione di avere ottimi motivi per stare lontano da casa… comunque, dov’è papà? Non l’ho visto in giro.»          
Roma si portò le mani ai fianchi.     
«Chiuso nel suo laboratorio come al solito. La figlioletta di Padron Ramès smaniava per un nuovo balocco e tuo padre si è ovviamente offerto di fabbricargliene uno.» Roma sospirò, scuotendo debolmente il capo. «Vorrei si dedicasse a qualcosa di più remunerativo: se tua nonna era ancora viva gliene diceva quattro. Ma a me, ahimè, non dà ascolto.»  
Astoria non riuscì a contenersi dal ridere.    
«Madre, lo sai che ha avuto sempre un debole per i bambini. Non appena vede un paio di occhioni tristi, non riesce a trattenersi. È più forte di lui.»       
«Non me lo dire. Sarà tuo padre, ma sono io ad averlo sposato. È una battaglia persa.» Replicò lei, alzando gli occhi al cielo e prendendo a pulire le stoviglie nel catino.         
Astoria strinse fra i denti un’altra focaccina e si alzò in piedi, pulendosi le mani sulla tunica da notte.  
«Dove vai, figlia mia?»        
«Esco per delle commissioni, madre. Oggi c’è il mercato. Serve qualcosa?»
 
Stava ancora ripetendo mentalmente le istruzioni di sua madre, quando fece capolino nel laboratorio di suo padre. Una piccola baracca discosta alcuni metri da casa, nel cortile. Quel luogo, quand’era bambina, era stato la fucina in cui veniva forgiata ogni meraviglia che la sua fantasia sapeva inventare. Sulle mensole alle pareti, ogni razza di volatile era stata riprodotta con fedeltà assoluta: il becco piccolo e ricurvo di un falco, l’ingobbirsi ombroso di un corvo, e la dolce irrilevanza di un pettirosso.     
Da bambina le era sufficiente parlare, perché ogni suo sogno divenisse una realtà di legno, pigmenti e giunture: un drago dalle scaglie in corteccia bianca e gli occhi di resina, che aveva popolato i suoi incubi infantili, giaceva impolverato in un angolo; fanciulle dal viso senza occhi, né bocca, né naso, vestite di fiori intagliati e col petto marcato di pigmenti rossi ed arancio, pendevano a mezz’aria su fili invisibili; possenti guerrieri dalle armature che parevano fatte con gusci di molluschi e crostacei innalzavano lance coperte di alghe e coralli.        
Ma il suo balocco preferito era lì: sul banco di lavoro a cui suo padre sedeva ricurvo. Astoria lo aveva veduto in un sogno e l’aveva descritto al genitore con la voce, con gli occhi, col cuore gonfio di meraviglia. Aveva usato parole che una bambina era difficile conoscesse.     
“Padre, il suo viso è un seme sbrecciato in alto e integro in basso; ha un unico occhio che luccica come fuoco di candela. Il suo petto è un groviglio di rovi neri. Le sue mani sono fronde e spine. Le sue gambe sono un intrico di radici.”   
Il mio cavaliere di spine.
Così l’aveva chiamato. Provò un piccolo tuffo al cuore nel rivederlo lì. Era ancora lucido e bello come lo ricordava.       
Suo padre ci aveva lavorato instancabilmente, per sette giorni e sette notti e lei non era mai stata così felice di un suo regalo.     
Astoria sorrise nel ricordare la faccia stanca del genitore, quando le aveva offerto il balocco e lei lo aveva abbracciato forte-forte con le sue braccia di bambina. Non si era neanche resa conto di sua madre che sbiancava, di fronte all’ennesimo orrore di cui non le riusciva di intendere il fascino.           
«Ti piace davvero quel coso?!» Aveva chiesto Roma, con la voce rauca per l’incredulità.      
Astoria le aveva tenuto il broncio per giorni. Nessuno doveva permettersi d’insultare il suo bellissimo Cavaliere di Spine!  
I ricordi le liberarono in petto una scarica di calore, che Astoria sfogò abbracciando suo padre dalle spalle. Gli baciò una guancia, morbida come cuoio invecchiato.   
Lui sussultò un poco “non si è neanche accorto che ero entrata.”
«Oh, ciao bambina mia.» Disse Avel, dissimulando lo spavento con una carezza sulla guancia, data di dorso per non impolverarla di segatura. 
Avel, come sua moglie Roma, aveva i tratti tipici Alicanti. Tuttavia i suoi lineamenti erano più affilati: il naso lungo, come il becco d’un avvoltoio, spiccava da zigomi evidenti, sotto la pelle tirata delle guance. I suoi occhi, sotto le folte sopracciglia arcuate e l’aggrinzita stempiatura, erano limpidi e guardavano lontano, castani come quelli della sua unica figlia.          
«A cosa lavori, padre?» Domandò Astoria, osservando la figurina di legno che prendeva forma sotto le mani esperte di Avel.  
«La dolce Clotine smaniava per una bambola unica nel suo genere. Proprio ieri il buon padron Ramès me ne parlava, poverello, non sapeva come far felice la figliola.» Si schiarì la voce, con un verso buffo. «E allora io gli ho detto: ci penso io, mio buon Ramès. Che la tua figliola una bambola come la mia non la vedrà mai altrove. E allora eccola qui, una damina elfica con un abito a balze di foglie; un occhio di resina e uno di ossidiana.»
«Sono certa se ne innamorerà al primo sguardo, padre.» Sorrise Astoria, provando a immaginare i tratti elfici in quell’ovale di legno alla prima bozza.     
«Lo spero, figlia mia… anche se nulla sarà mai bello come ciò che usciva fuori da quella tua testolina, che-che ne borbottava tua madre.»    
Astoria lo abbracciò forte, posandogli il mento sul capo.      
«Quando avrò dei bambini, non temere… vedrai che ti chiederanno balocchi ancora più assurdi dei miei.»        
Lui sollevò le sopracciglia «lo credo e ci spero! Ah, dovevi proprio diventar grande, bambina mia?»         
«Tocca a tutti, padre.» Gli stampò un altro bacio, sulla guancia soffice. «Adesso vado, ero passata solo a vedere che combinavi.»
«Salutami Moris.» Disse lui, sghignazzando poco dopo.       
«Padre!» Lo rimproverò lei, con l’imbarazzo a levarle di un tono la voce. Ma lui già fischiettava fra sé, come chi fatta la burla poi faccia finta di non saperne nulla.
 
Astoria uscì per le vie di Fonderadici, immergendosi nel groviglio di umanità che già dal primo mattino affollava il borgo. Famiglie di villici, nei loro abiti migliori, portavano offerte di viveri, legno ed argento presso le facciate laterali del municipio, unico edificio in pietra di tutto il villaggio.           
Lungo le pareti         erano scavate nicchie, nelle quali erano inseriti i simulacri di molte divinità, locali e straniere. C’era Panaribu, dalla pelle di corteccia e la barba di fronde, che vegliava sulla macchia di salici a nord di Fonderadici; Resima, la prosperosa fanciulla che sovrintendeva ad ogni affare d’amore, lecito o meno che fosse; Nakfe, il grigio viandante protettore di mercanti, pellegrini e viaggiatori.
Tutti loro e molti altri potevano essere liberamente venerati nelle terre di Arcadia. Anche Gilmorgen aveva la sua effige, a stento visibile dietro gli innumerevoli doni: una figurina di falso oro, con le fattezze d’uno smilzo shinbu dal capo glabro e l’espressione serafica.         
Ma non per fare offerte agli dei, Astoria aveva lasciato l’uscio di casa. Bensì per il mercato che al termine d’ogni settimana affollava la piazza principale di Fonderadici. C’erano banchi di legno, vecchi carrocci itineranti dai tendaggi di mille colori, tappeti dalle stravaganti fantasie, sui quali erano disposti i prodotti più disparati ed esotici.
Pesci dalle armature d’osso giacevano con occhi vacui in bacinelle sotto sale, mentre un uomo dalla pelle verde e gli occhi d’ossidiana strillava per attirare gli avventori; due nani dalle barbe intrecciate contrattavano ferocemente su gemme preziose e statuette intagliate in pietra traslucida, con tale animo che pareva ne valesse della loro vita; un cupo elfo dalla pelle nera e gli occhi rossi, come stille di sangue, cercava di rifilare una casacca di cuoio finemente conciata ad un massiccio boscaiolo locale.          
Odori, tanfi e profumi dei quattro angoli del mondo avvolsero Astoria, come un’aria musicale.           
Sin da piccola quella varietà le aveva fatto brillare gli occhi, esplodere la mente come un fiore.
Ricordava ancora quando sgattaiolava dalla presa di suo padre e scivolava fra la gente, e poi – trovato un mercante – lo riempiva delle domande più svariate. 
L’età e gli scapaccioni l’avevano fatta più discreta, ma certo non meno affascinata dal piccolo scrigno di meraviglie che era il mercato di Fonderadici.
 
Astoria era quasi a metà delle sue commissioni, quando con la coda dell’occhio assistette ad una scena piuttosto curiosa. In uno spazio vuoto fra le baracche, il capitano Ygris era intento a discutere animosamente con qualcuno. Astoria si sporse quel poco per vedere di chi si trattasse. 
Era un mezz’uomo, le pareva di averlo intravisto nella locanda proprio l’altra sera. Calzava un cappello piumato sopra i riccioli biondo-ramato, il naso grosso e schiacciato era tempestato di lentiggini e un ventre pienotto premeva contro il panciotto di velluto bruno. Oltre i lembi della giacca, verde come pianta di palude, Astoria vide sporgere il pomo sferico di una semplice daga – nulla di poi così strano, i viaggiatori dovevano pur badare a loro stessi. Il mezz’uomo forse apparteneva ad una Gilda o qualcosa del genere, poiché sul petto sinistro del suo panciotto baluginava al sole un spilla circolare.   
La ragazza tentò di ascoltare, ma il brusio e il baccano tutto intorno glielo impedì.  
Il mezz’uomo cominciò a battere i piedi, gonfi come zampogne, sul terreno, la sua faccia si fece rossa per il livore, mentre stralci di parole a voce sempre più alta facevano breccia oltre i rumori della folla. A quel punto Ygris contrasse la bocca in una smorfia dura e la mano, guantata di acciaio, scivolò sull’elsa della spada.
Il mezz’uomo, da rosso che era, si fece bianco come un cencio e alzò i tacchi senza dire una parola. 
“Non vorrà diventare un mezzo mezz’uomo.” Pensò la ragazza, grufolando una risata, fra sé e sé, per la pessima battuta. 
«Ne hai di che ridere signorina, che per buona giustizia hanno cacciato quel farabutto.» Le disse l’uomo dalla pelle verde, con la confidenza che solo i mercanti sapevano prendersi.     
Astoria lo guardò con aria interrogativa. L’omone aveva spalle larghe e braccia nude. Un pizzetto scuro gli incorniciava la bocca.
Addosso aveva l’odore del sale.        
L’uomo mandò un’occhiata circospetta a destra e a manca, quasi avesse timore d’essere ascoltato.        
«Non è la prima volta che capita, signorina. Arcadia è una terra libera, ma in altri luoghi o con meno occhi intorno, vi posso assicurare che un Raggio non esita mettere una lama in pancia ad un Ithiano.» Sputò in terra, borbottando fra sé. «Manica di bastardi.»
«E perché dovrebbe farlo?» Chiese Astoria, pur non avendo la minima idea di che fosse un Raggio.
L’Ithiano sorrise amaramente. «È una lunga storia, signorina. Diciamo solo che la regina dell’Arcipelago del Tartaro non riscuote simpatia, in gente come quel mezz’uomo.» A quel punto il mercante agitò una delle sue manone, come per scacciare l’aria cattiva delle sue stesse parole. «Ma bando alle ciance, sei qui per comprare qualcosa?»       
Astoria ebbe appena il tempo di schiudere le labbra. Avrebbe voluto chiedere tante di quelle cose all’Ithiano: chi fosse questa fantomatica regina, chi fossero i Raggi e il motivo di tanto risentimento. Ma fu a quel punto che una mano le si posò sulla spalla sinistra, mentre alla sua destra risuonò una voce familiare.       
Non aveva bisogno di voltarsi per sapere di chi si trattasse. Era sufficiente quel tocco: dolce e caldo come velluto scaldato al sole.
Quel profumo di buono, che solleticava la punta del naso e invitava lo sguardo a seguirne la scia.           
Occhi d’un nocciola uniforme e un sorriso da furfante, sotto baffi ben impomatati. 
«Qualunque cosa prenda la signorina, pago io!»       
«Moris!» Esclamò la ragazza, senza riuscire a frenare né il sorriso ebete, né il calore che istantaneamente le arroventò le guance.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


CAPITOLO V


 
Uscirono dal groviglio del mercato con le mani cariche di sacchi di iuta, in cui erano state infilate le mercanzie acquistate nel giro di un’ora. Ad attenderli, nei pressi di un pozzo, c’era un castrato dal manto color sabbia: i garetti e il crine erano pallidi come fieno al sole. L’animale era tenuto alla briglia dal galoppino di Moris. Un giovane dinoccolato, dai denti sporgenti e il viso infestato dai brufoli di una pubertà ai suoi esordi.    
Il ragazzo portava abiti di almeno una taglia più grande di lui. Una camicia color della pergamena e un paio di calzoni tenuti su’ da bretelle incrociate dietro la schiena.
«Timwul, ragazzo» lo richiamò Moris, alzando il braccio quel tanto che gli era consentito dai suoi fardelli «porta questa roba a casa di Mastro Avel e porgi a Donna Roma i miei saluti.»     
Affidati alle braccia del giovane i sacchi, Moris ebbe cura di foderargli le tasche con tre bei pezzi d’argento. Sussurrandogli,        con aria di intesa «se ti ci scappa uno spuntino in locanda, non fare complimenti.» Chiosò il suggerimento con un occhiolino.
Timwul, ali ai piedi, corse a svolgere il suo incarico: prima avesse finito, prima avrebbe potuto approfittare della gentile offerta del suo signore.          
«Grazie di tutto Moris. Per esserti offerto di pagare e per il facchinaggio.»
Disse Astoria, con un bel sorriso stampato in volto. 
«Adesso, però, sarà meglio che torni a casa. Mia madre mi vorrà di ritorno per l’ora di pranzo.» Ma nonostante le sue parole, non accennò a muovere un passo.
«Aspetta un po’, Astoria» le disse lui. «Perché non ci facciamo una passeggiata, io e te?»
«Mia madre si preoccuperà, non vedendomi tornare» rispose prontamente, inarcando un sopracciglio.    
«Sono certo Donna Roma non si darà pensiero, sapendoti con il sottoscritto.» Ribatté a tono Moris, prendendo una briglia e avvicinandole la cavalcatura.
Astoria infilò il piede nella staffa, issandosi.
«Oh, fossi in lei sarei terrorizzata, invece. Che il signor Moris sia uno sciupafemmine è risaputo in ogni angolo di Fonderadici.»
A quel punto salì sull’arcione anche lui.
«Non so chi vi abbia detto di queste sciocchezze,» rispose, continuando quel frivolo gioco «ma da quel che so io, che il signor Moris lo conosco bene da una vita, lui le donne non le sciupa affatto. Tutt’altro! Pare ne corteggi una che ne vale mille e più.»
Ciò detto, mandò il castrato al passo.
Astoria strinse le braccia intorno ai suoi fianchi, assaporando a pieno respiro il suo profumo, irruvidito dal sudore che il sole gli aveva spremuto fuori dalla pelle. Al suo naso ogni fragranza della sua carne sapeva di buono. E la rinfrancava, come un elisir che desse ubriachezza.
Si allontanarono dai confini della piazza centrale, immettendosi nella via principale, che dalla zona mercato si inoltrava per le frontiere orientali del borgo. Sulla strada di acciottolato gli zoccoli del cavallo risuonavano con un secco clop-clop.
«Lo sapevi? Mio padre sta fabbricando una bambola per la tua sorellina Clotine. L’ho visto all’opera proprio stamane.» La buttò lì, Astoria.
«Una bambola?» Ripeté Moris, rispondendo al saluto di un alchimista birraio sulla via. «Ecco perché la mocciosa era così su di giri, ormai perseguita mio padre esigendo la sua principessa. Non avevo capito parlasse di un balocco.» Scosse appena il capo. «Comunque non preoccuparti. Ricorderò al mio vecchio di aprire il suo bel borsello e alleggerirlo per mastro Avel.»
Astoria gli diede una pacchetta sul ventre, contenta della sua risposta.
 
Il podestà di Fonderadici, ai più noto con il titolo di padron Ramès, era stato eletto a furor di popolo circa sette anni prima; e per altri tre, ancora, avrebbe svolto il proprio incarico di amministratore del borgo. Egli era di origini umili o, perlomeno, non era più nobile di qualsiasi altro suo compaesano.
Tuttavia, forse per uno scherzo tirato dal lustro del suo ruolo, o forse per la bella dimora assegnatagli d’ufficio, strani grilli avevano cominciato a saltargli in testa. E non era quindi raro, da qualche anno a quella parte, vedere padron Ramès procedere in sella impettito, con gran aria di importanza; se pochi occhi erano lì a guardare, si faceva baciar la mano prima di rivolgere la parola al proprio interlocutore o, più odioso fra i vizi, assumeva che l’importanza della sua persona fosse pagamento più che sufficiente allo svolgersi di un servizio.
Aveva, negli effetti, cominciato a considerare il proprio sangue più blu del cielo e dei zaffiri sepolti sotto la dura terra; ma se pur così fosse stato, ciò sarebbe valso ben poco nelle libere terre di Arcadia.
 
Nel mezzo che Astoria faceva di questi pensieri, il castrato aveva macinato già una buona manciata di miglia e, superato il centro abitato, avanzava mollemente fra i campi messi a coltura intorno al villaggio. Lì dove i contadini, cappelli di paglia in capo, setacciavano e seminavano la terra perché desse frutti.
Le spighe di grano rilucevano al sole e si ingobbivano alla brezza, con un unico inchino. Di lontano uno zappatore levò il suo copricapo in direzione di Moris, che ricambiò levando il braccio e distendendo le labbra in un sorriso di cortesia.
Astoria, che aveva presente ben pochi volti fra coloro che lavoravano la terra, si abbandonò alle fantasticherie. Cullata dallo scenario bucolico: immaginò una casupola estiva fra quei campi, Moris dalle fattezze più mature ma bello come era ora. Si immaginò tre pargoli scorrazzare fra le spighe e tediare i contadini con le domande più assurde.
Il più grande, Avel, nel suo sogno ad occhi aperti aveva già la prima peluria sopra al labbro e prometteva al padre baffi più folti e belli dei suoi.
Astoria fantasticò, su come fosse portarsi una vita dentro: sentirla prendere forma poco a poco, scalciare e – dopo abbastanza tempo – vederla venir fuori. Piccola e fragile. Come facesse sentire la consapevolezza che quel frugoletto per un bel tempo sarebbe dipeso soltanto dalle sue braccia, dai suoi seni gravidi di latte, dal suo calore.
Astoria aveva poche certezze sul suo divenire, ma una di queste era il fatto che un giorno sarebbe stata madre.
«Se vuoi, finita la passeggiata, ti porto in un bel posticino.» Esordì Moris, tirandola di forza fuori da quei pensieri. «L’ho scovato l’altro giorno andando a caccia col mio vecchio.»
«Che posto? Dì un po’.» Rispose la ragazza, stringendosi a lui.
Moris si irrigidì, ma quando parlò la sua voce non aveva perso scioltezza, né il tono spigliato di sempre.
«Non ti dico troppo, che ti rovino la sorpresa. È una grotticella, a sud-est della macchia. Lungo il corso del Garona. Parola mia, una meraviglia del genere non l’hai mai vista.»
Astoria emise un mugolio d’eccitazione all’idea.
«Facciamo presto, allora!»
Detto. Fatto.
Moris diede uno schiocco di lingua e a quel comando il castrato accelerò l’andatura, dal passo al trotto. Non ci volle molto perché si lasciassero alle spalle anche i contadini e i campi coltivati, inoltrandosi per le terre che a quel ciclo erano state lasciate al pascolo. Poco più in là, una lunga palizzata alta sui tre-quattro metri delimitava il confine orientale di Fonderadici.
Lì, fra una stazione di posta e una manciata di baracche malandate, avevano messo campo gli uomini del capitano Ygris. Intenti, chi ad una partita a dadi, chi alla pattuglia del confine, chi ancora a scambiare vettovaglie con una manica di elfi oscuri ambulanti.
Degli uomini in arme, ad Astoria saltò all’occhio il luogotenente, faccia nota presso la Casa del Ceppo: questi era un uomo corpulento, con formidabili basette gonfie come cumulonembi di tempesta.
Fu proprio lui a far loro cenno di fermarsi.
Moris non se lo fece ripetere due volte e diede un bello strattone di redini.
«Non sono qui per impedirvi il passaggio, miei signori.» Esordì il luogotenente, con voce grave. «Solo per avvertirvi: non conviene rimanere fuori oltre il tramonto. I miei uomini hanno avvistato più di qualche brutta faccia sul confine: Raggi piuttosto zelanti e dal temperamento nervoso. State accorti, ragazzi. Non si sa mai cosa può essere peccato a quei brutti occhiacci.» E ciò detto, rivolse loro un’occhiata eloquente, prima di far cenno ai suoi uomini di lasciarli passare.
I due ringraziarono e si inoltrarono per le lande selvagge di Arcadia.
Oltre la palizzata furono accolti da stralci di pianura che serpeggiavano fra gobbe di colline, come bisce fra le rocce. Sulle brevi alture qualche sparuto arboscello spiccava fra i cespugli ed i rovi. L’aria era fresca e rinfrancava i polmoni ad ogni respiro.
Volgendo lo sguardo ad est si scorgeva, opaca per la distanza, la Cintura delle Steppe: la catena montuosa che ad est separava Arcadia dalle Terre del Vento.
Tomu le aveva raccontato qualcosa di quella regione: una terra ostile dove orde di orchi e barbari conducevano una vita di sangue, saccheggi e notti all’addiaccio.
 
Quando le baracche furono ormai un punto a stento visibile alle loro spalle e il destriero curvava verso nord, in direzione della macchia di salici, Astoria rivolse una domanda al suo compagno.
«Non è la prima volta che li sento nominare, questi Raggi. Un mercante Ithiano me ne parlava proprio stamattina, al mercato. Si può sapere cosa e chi sono?»
Moris sembrò incupirsi.
«Ne so poco io stesso, Astoria. Ma è ormai qualche tempo che vagano per le strade e nei pressi del villaggio. Qualche volta hanno persino chiesto udienza al mio vecchio. Sembra che siano alla ricerca di qualcuno, forse un disertore, per conto del Circolo.»
«Il Circolo? Continuano a cercare quel tale? Aspetta, com’è che si chiamava? Ah, sì, Kudai.»
«Probabile… mio padre sembrava restio a parlarmene. Ma da quel che so, non sono soltanto alla ricerca del disertore.»
«E di chi altro, allora?» Incalzò Astoria, accigliata.
«Questo proprio non so dirtelo.» Rispose Moris, facendo spallucce. «Non sono riuscito a origliare poi molto e, come ti ho detto, mio padre mi ha raccontato ancora meno. Quel che so, di questi Raggi, è solo che smaniano per diventare membri del Circolo. Sono come dei garzoni di bottega, per intenderci, o degli apprendisti. E seguono a modo loro e con una certa libertà le regole dell’ordine.»
Astoria sbuffò, svuotata di ogni interesse.
«Se chiedessero la mia, è una scemenza bella e buona incaponirsi in questa caccia all’uomo. Quel Kudai ormai sarà nascosto chissà dove, dopo tutti questi anni; ammesso che non sia morto passando per le Terre del Vento.»
«Sono d’accordo con te.» Convenne Moris. «È uno spreco di tempo e di risorse bello e buono. Ma sai… il Circolo viene dall’est, e lì hanno un modo tutto loro di fare le cose.»
Intanto il Garona aveva preso a far sentire la propria voce: il fiume, che sotto i salici era poco più di un ruscello, a quell’altezza si era ingrossato per l’acqua dei molti affluenti e adesso – ormai largo dieci passi – discendeva placido verso sud, dove avrebbe attraversato i confini di Tenebria.
La sua voce era un mesto sciabordio, contro i massi sporgenti dal letto del fiume, così basso da riuscire a coprire a stento l’altezza di un polpaccio.
Al buon trotto risalirono fino a superare le colline gibbose e ad intravedere la macchia cara a Panaribu.
Giunti a quella vista, Astoria notò un’insenatura e – in seno a questa – la spelonca cui Moris aveva fatto cenno durante il cammino: era una cavità nella terra, tenuamente illuminata dal sole di passato-mezzodì.
Moris smontò agilmente e, mano sinistra alla briglia, offrì la destra ad Astoria, che accettò ben volentieri.
Assicurato il castrato ad un arbusto lì nei pressi, il giovane la condusse fino all’ingresso della grotticella, dove la ragazza finalmente vide la meraviglia che le era stata tanto caldamente promessa.
Al centro dell’alcova circolare che era la spelonca, si ergeva un albero di pietra, quindici passi per quindici passi di diametro. Il suo tronco si congiungeva in alto col soffitto e in basso affondava grosse e bitorzolute radici. Al cospetto dell’albero vi era una figura incappucciata, con la mano sinistra stretta intorno ad un nodoso bastone da viaggio e la destra levata, come ad accompagnare un discorso o, forse, un sermone. La figura aveva i palmi ed i piedi avvolti in fasce e i suoi abiti erano stati scolpiti per farlo apparire l’ultimo fra gli umili.
Tutto intorno al predicatore, a far capannello, vi era una dozzina di pellegrini prostrati in terra. C’erano uomini, c’erano donne e persino bambini. Qualcuno indossava le fasce ormai allentate di un turbante, qualcun altro lo aveva posato ancora integro ai propri piedi.
Aguzzando lo sguardo, Astoria notò che taluni – fra quei pellegrini – avevano tratti insolitamente aguzzi, orecchie puntute e lunghi capelli chiusi in trecce assai ricercate.
Il gruppo di statue era stato scolpito nella roccia stessa della spelonca. Da esse si emanava una tale aria di solennità da far vibrare il cuore di Astoria dentro il petto. Avvertì un groppo appesantirle la gola dinanzi a quei volti, al solo pensiero che un tempo dovevano esserci state persone con quelle stesse facce. Ridotti adesso a null’altro che polvere e dimenticati per sempre dalla memoria del mondo.
“È così triste… chi eri tu? E tu? Quali erano i vostri nomi?”
Le orecchie le fischiarono. Il battito del suo cuore le risalì fino ai timpani, dentro la testa. Ma la voce di Moris spezzò quel sortilegio di melanconia.
«Meraviglioso, non è vero?» La voce del ragazzo rimbalzò contro le pareti, in una eco. «Mi chiedo chi sia stato capace di scolpire una simile opera. E, soprattutto, perché abbia deciso di farlo in un posto dimenticato come questo.»
«Sono… senza… parole…» si rese conto, solo in quell’istante, di avere la voce rotta dalla commozione.
«Ehi-ehi» si ridestò Moris, prendendole il viso fra le mani «ti sarai mica commossa?»
Astoria tirò su col naso, mentre goccioloni tiepidi le rigavano le guance.
«Sei un vero idiota, Moris. Non prendermi in gi-» ma le sue parole morirono sulle labbra di lui.
Astoria si sentì attraversare da un brivido e a quel brivido si abbandonò, mentre le loro lingue si intrecciavano, e il corpo di lei bramava il contatto e il calore di quello di lui.
Gli cinse i fianchi, salì su’ per le spalle, segnandogli la tunica con le unghie. Erano spalle snelle e forti sotto i suoi palmi. Ma quel bacio non bastava più.
Astoria anelava di più: voleva di lui ogni brandello di pelle e di carne e di spirito.
«Allontanati da quell’abominio! Adesso!»
 

NdA: Esco per un attimo dal mio antro di scrittore senza volto per porgervi personalmente i miei saluti, sono Marco Ambrosini aka Il_Signore_Oscuro. Eccoci giunti al V Capitolo della Saga di Ikvalibriam, spero vivamente che questa storia fino ad adesso sia stata capace di intrattenervi come si deve. Del resto, un giorno mi piacerebbe pubblicarla con una CE (tempo, culo e ispirazione permettendo.) A tal proposito, ai lettori silenziosi fra voi chiederei una piccola cortesia: qui nella sezione recensioni o, se vi è più comodo, tramite messaggio mi dareste un piccolo feedback? Non parlo di una recensione, ma di un commento - anche breve - con le vostre considerazioni fino ad adesso (suggerimenti, critiche, impressioni, ecc.) Ve ne sarei enormemente grato ^-^

Un abbraccio,
Il_Signore_Oscuro

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


CAPITOLO VI


 
  Il calore del loro abbraccio si sciolse in un istante. Astoria e Moris si voltarono all’unisono.
Oltre l’ingresso della spelonca, cinque energumeni s’erano disposti a ferro di cavallo. Portavano indosso corazze di cuoio vecchio e raffazzonato, mentre fra le mani contadine brandivano rozzi randelli di legno. In mezzo a loro, Astoria vide un viso familiare: si trattava dell’ometto dal cappello piumato, che aveva incrociato quel mattino al mercato e la scorsa sera in locanda.
Era stato proprio questi a parlare, con una voce stridula e gracchiante.
A differenza dei suoi compari umani, il mezz’uomo impugnava una daga e, dal cipiglio negli occhi, sembrava ben deciso ad usarla.
Sul petto di tutti loro figurava una linea in fil di ferro che attraversava da parte a parte un cerchio di tessuto.
“Sono Raggi” riconobbe Astoria “ma che vogliono da noi?”
Moris si fece avanti e la coprì con il proprio corpo. Ma lei si sporse comunque: avrebbe detto la sua, anche di fronte a una simile masnada.
«Se è il disertore quello che state cercando, beh, non si trova qui. Non li avete gli occhi? È troppo giovane e di certo non è uno shinbu.»
Due degli energumeni si scambiarono un’occhiata, prima di spanciarsi dalle risate. Fino a che il mezz’uomo non fece un cenno con le dita e questi si zittirono immediatamente.
«Non è per il traditore che siamo qui.» Sentenziò. «Ma su una cosa hai ragione: il ragazzo non centra nulla con questa storia.»
«E allora-»
«Ho detto il ragazzo, ma tu no.» La interruppe il mezz’uomo, corrugando la fronte. «Tu non sei affatto innocente, Nakhtife’Astoria.»
Ciò detto, sfilò dal panciotto un piccolo rotolo di pergamena segnato a carboncino. Non ci voleva una gran fantasia per riconoscere nel ritratto un’esatta riproduzione del viso di Astoria. Del resto, il suo stesso nome era stato vergato in caratteri eleganti poco sotto.
“Io- Io sarei la Nakhtife?!”
Sgranò gli occhi. Sentì le ginocchia tremare forsennatamente e ogni stilla di calore abbandonarle il corpo, lasciandola incredula e in preda ai brividi.
«Questo è il mandato di esecuzione scritto da Gilmorgen’Hikari in persona.» Spiegò il mezz’uomo. «Non opporre resistenza e ti concederemo una morte rapida e indolore.» A quel punto diede un’inflessione più melensa alla sua voce, gentile persino. «Se ancora c’è in te qualcosa di umano, prova a pensare… prova a pensare alle centinaia, alle migliaia di vite che verranno risparmiate se tu morissi qui e ora. Ora che la malvagità e la follia non hanno ancora corrotto del tutto il tuo cuore. Pensa… pensa al periodo di luce, al periodo di pace che attenderebbe l’umanità, senza il peggiore dei mali ad opporsi al migliore dei beni. Hai l’occasione, più unica che rara, di essere la prima Nakhtife a trovare redenzione – anzi, a scegliere la redenzione. E tutto questo con il sacrificio di una singola, irrilevante, vita.»
Astoria si morse le labbra.
Avrebbe voluto rispondere a tono. Dire qualcosa. Qualsiasi cosa. Ma non le riusciva di trovare le parole: non era possibile che lei, proprio lei, fosse la Nakhtife, checché ne dicesse quella stupida pergamena. Doveva trattarsi di un falso o del macabro scherzo di qualcuno ai suoi danni.
«Io sono l’unica figlia di Avel e di Roma. Una cameriera della Casa del Ceppo. Un’onesta villica di Fonderadici… io non sono il Male Reincarnato. Io non sono il Male Reincarnato!»
Senza rendersene conto urlò quell’ultima frase.
Le sue parole vibrarono contro la pietra e nell’aria che li circondava.
“Moris… lui sa che questi bastardi stanno mentendo, vero? Lui non crederebbe mai a una fandonia del genere.”
Lo guardò.
Il ragazzo continuava a frapporsi fra lei e loro. Neanche per un istante aveva accennato a scostarsi o a rivolgerle uno sguardo adombrato da paura o del più piccolo sospetto. Era rimasto saldo e fermo nel proposito di proteggerla.
Negli occhi aveva uno sguardo furente, le labbra serrate sotto i bei baffi, mentre espirava dalle narici come un toro pronto alla carica.
«Sono solo e soltanto frottole! Conosco Astoria da quando siamo bambini, non farebbe del male a una mosca. È sempre stata gentile e cortese con tutti, non basteranno le parole di un mezz’uomo o uno stupido disegno a convincermi del contrario. Andatevene via e non avrete guai.»
Il mezz’uomo si calcò il cappello sul capo, denegando sconsolato.
«Arcadiani, provare a ragionare con voi è una perdita di tempo. Speravo di poterla risolvere con meno violenza possibile, ma sia come volete.» Sospirò. «Avanti, ragazzi. Non fategli troppo male.»
A quel comando i bifolchi avanzarono in blocco, come se fino ad allora non avessero atteso altro che quel comando.
Astoria trattenne il fiato.
Moris levò i pugni, pronto a vendere cara la pelle di fronte al primo energumeno.
Questi, con una rapidità sorprendente per la sua mole, vibrò il colpo sulla testa del ragazzo, che ricadde in terra a peso morto. Astoria vide con orrore gli occhi del suo compagno che si chiudevano e una rossa scia di sangue calargli lungo la tempia sinistra.
La ragazza si portò le mani alla bocca per provare a frenare le urla, ma queste risuonarono ugualmente: acute e disperate. La vista le si appannò dietro le lacrime e in bocca sentì il sapore acre della bile. La paura l’aveva travolta nella sua onda, negandole ogni reazione.
Cadde a terra, strisciando con la schiena contro il corpo del predicatore di pietra e rannicchiandosi ai suoi piedi.
Il Raggio con il randello ancora sporco del sangue di Moris levò il braccio e poi-

NdA: Sì, sono un po' cane ahahahha ma tranquilli, non dovrete aspettare una settimana per scoprire come andrà a finire questa piccola battaglia... bensì solo fino a domani :D

Un abbraccio,
Il_Signore_Oscuro

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


CAPITOLO VII


 
Quando ad un tratto rovinò a terra con un tonfo, mentre un fiotto caldo e viscoso bagnava la faccia di Astoria. La ragazza, ancora incredula, si passò le mani sul viso e scoprì i suoi palmi ricoperti di rosso.
Guardò al Raggio appena caduto e solo in quel momento notò che un’elsa sporgeva dalla sua nuca squartata.
Gli altri Raggi nel frattempo avevano interrotto la loro avanzata e guardavano all’ingresso della spelonca, mormorando imprecazioni.
Proprio lì uno sconosciuto aveva appena fatto la sua comparsa: il viso e il capo erano rasati di fresco, non indossava altro che un mucchio di stracci malandati. Aveva le mani giunte su una spada a singolo filo, brevemente ricurvo.
I tratti degli occhi e della faccia erano inconfondibilmente quelli di uno shinbu.
Il capo dei Raggi emise un gemito, indietreggiando pallido in volto.
«Il- Il traditore…»
«È tempo di mostrarvi, signori miei, il divario che separa una Sfera da voi Raggi. Piccoli, insignificanti dilettanti.» E così dicendo si mise in guardia.
Astoria ebbe un sussulto: il tono era più fermo e impostato del solito, ma quella voce. Sì. Quella voce era inconfondibile.
“Anidai! Che ci fa qui?”
Il mezz’uomo fu il primo a riaversi dalla sorpresa.
«Gilmorgen vi incenerisca, manica di pelandroni! Che aspettate?! Uccidetelo!»
I Raggi obbedirono, pur con qualche esitazione. Assalirono Anidai da ogni direzione, levando urla di guerra e preparandosi a colpire coi randelli. Fu con orrore che Astoria realizzò che, d’altra parte, il mezz’uomo veniva verso di lei.
Che senso aveva, ora, combattere per la propria vita? Se anche fosse riuscita a difendersi a mani nude dalla lama del piccolo uomo, Anidai prima o poi sarebbe stato sopraffatto – pur abile che fosse. Tuttavia, nonostante questi pensieri, il raziocinio aveva legacci assai deboli su un cuore e una mente insidiati dalla paura.
Quando il mezz’uomo le fu addosso, con la forza della disperazione lei gli afferrò i polsi. Tentò invano di torcerli. Il viso del suo aggressore era gonfio e rosso per lo sforzo, schiuma gli fuoriusciva dalle labbra, mentre latrava «muori dannata puttana!»
La lama, poco a poco, si avvicinava al suo petto, sotto il peso del mezz’uomo. Astoria sentì le dita intorpidirsi, il respiro bloccato in un groppo al centro dello gola, i muscoli delle braccia così contratti da minacciare di esplodere sottopelle.
A quel punto, in una reazione istintiva, piegò una gamba e ruotò su sé stessa. Con tutta la forza che aveva in corpo calciò il mezz’uomo e lo mandò a schiantarsi contro la figura prostrata di un pellegrino. L’aria ritornò a gran sorsate nella sua gola e ogni istante minacciava di lasciarla priva di sensi.
Minuscoli puntini neri sciamavano nel suo sguardo e sentiva la sua coscienza sul ciglio di un burrone.
Ma Astoria strinse i denti, sino a sentirli stridere. E mentre l’ometto si riprendeva dallo stordimento, lei afferrò il randello del Raggio ucciso da Anidai poco prima. Lo impugnò a due mani e lo calò con forza sulla nuca del mezz’uomo.
Questi ricadde al suolo con un singulto, sciogliendo finalmente la presa sulla daga.
 
Avrebbe potuto fermarsi lì. Lasciarlo privo di sensi, con un bernoccolo e un bel mal di testa al risveglio. Ma quel piccolo bastardo l’aveva pedinata. L’aveva accusata di essere un mostro della peggior specie. Aveva fatto sì che Moris rimanesse ferito. Aveva cercato di ucciderla, sordo ad ogni protesta… cieco alle sue lacrime e alla sua paura.
La furia le asciugò gli occhi.
La furia rinsaldò la presa sul randello.
E Astoria colpì un'altra volta quella faccia schifosa. Colpì, colpì, colpì fino a fargli esplodere le cartilagini, fino a ridurgli le labbra in una polpa rossa e carnosa, fino a far schizzare brecce di denti in ogni direzione. Fino a quando non intravide la materia grigia, far capolino sotto il cuoio capelluto e colare spappolata al suolo.
La bile risalì in un flusso acido sino alla sua bocca e Astoria vomitò, sul suolo roccioso. Mentre le forze la abbandonavano.
 
Nel frattempo Anidai, in barba all’inferiorità numerica, aveva passato a fil di spada anche l’ultimo dei Raggi e avanzava nella sua direzione: gli stracci lordi di sangue fresco e in viso un’espressione di mesto compatimento.
“Cosa mi farà ora?” Era una domanda sciocca, lo sapeva. In altri momenti se ne sarebbe accorta. Ma adesso la sua lucidità vacillava nel tormento di quegli ultimi minuti. Lo shinbu degnò di appena un’occhiata il mezz’uomo e il randello sbrecciato abbandonato ai suoi piedi.
Dopodiché guardò lei e con un movimento sciolto si inchinò al suo cospetto. La spada ancora lucida di rosso le veniva offerta con entrambe le mani.
Astoria lo guardò, senza capire. Avrebbe voluto porgli tante di quelle domande: che diamine ci facesse lì; da quando aveva imparato a combattere; dove avesse trovato una spada e perché adesso si inchinava ai suoi piedi.
Ma nessuno di questi quesiti trovò voce.
Fu Anidai a parlare per primo «finalmente, dopo diciassette anni di attesa posso rivelarmi a voi con il nome che mi fu dato da mio padre.» Chiuse gli occhi, chinò il capo, quasi fosse in preghiera. «Io sono Kudai, Alta Sfera della compianta Gilmorgen’Aniku. Mi prostro a voi come servo fedele, offrendo quale pegno la mia vita e la mia spada, Gilmorgen’Astoria.»
La ragazza trasalì, sgranando gli occhi. Per un attimo credette di star sognando: non poteva essere reale. Prima l’accusavano di essere la Nakhtife e adesso, un dannato barbone armato di spada si inchinava di fronte a lei rivelandole di essere, niente meno, che il Bene Reincarnato in persona.
«Vedo confusione nei vostri occhi. Non posso biasimarvi.» Continuò Kudai, di fronte al suo ostinato silenzio. «Ciò che la vostra predecessora aveva vaticinato, ahimè, si è infine compiuto: il più turpe fra i tradimenti, la più malvagia delle eresie. Dovete sapere, mia Signora, che in questo momento un falso Gilmorgern siede sul seggio del Tempio, che fu dei vostri predecessori. Costui è il primogenito del mio ex-confratello Gundera, il quale tira nell’ombra i fili di questo gioco perverso. Il ragazzo altri non è che il Nakhtife reincarnato. E ora, i servi del Bene braccano colei che invece dovrebbero servire e proteggere.»
“Questo è troppo, decisamente troppo! Tutta questa storia non ha il minimo senso!” Pensò Astoria, mentre la paura veniva dissipata dalla rabbia e dalla frustrazione.
«Voi, tutti voi siete una manica di sciroccati! Tu e quei bastardi che volevano farmi la pelle senza un dannato motivo che fosse uno. Apri bene le orecchie e stammi a sentire, Anidai… Kudai o come diamine ti chiami: io-non-sono-la-Gilmorgen, chiaro?! Sono una dannata cameriera, nata a Fonderadici, figlia di due bravi genitori. E prima di questo folle pomeriggio la mia vita era tranquilla e felice.» Si prese un attimo per riprendere fiato. «E adesso, se abbiamo finito con le stronzate, gradirei aiutare l’unica altra persona sana di mente in questa maledetta grotta.»
E così dicendo, ignorando la faccia piena di disappunto di Kudai, si avvicinò a Moris: il sangue sulla tempia si era seccato, ma lui non accennava a riaversi.
«Il ragazzo starà bene, mia Signora. È soltanto svenuto.»
Assicurò Kudai, pulendo la spada su uno dei bruti e riponendola nel fodero.
«Piantala di chiamarmi “mia Signora”!» Le disse Astoria, fra i denti. «Piuttosto, vai a chiamare i soccorsi, io starò qui con lui fino al loro arrivo.»
La ragazza prese un fazzoletto e tamponò delicatamente la ferita di Moris.
Kudai sospirò, sussurrando a mezza voce qualche imprecazione, o qualcosa del genere, nella sua lingua natale.
«Mia Signora, non posso farlo. Potrebbero esserci altri Raggi alla vostra ricerca nei dintorni e la mia priorità assoluta è proteggere voi.»
Astoria alzò gli occhi al cielo.
«Allora caricheremo Moris in sella e mi accompagnerai tu stesso a Fonderadici.»
Kudai denegò col capo.
«Non potete più tornare al villaggio, mia Signora.» Le spiegò. «La gente farà domande e le domande ne attirano sempre delle altre. Fonderadici non è più un posto sicuro per voi… le voci girano e se non ci sono già dei Raggi ad aspettarvi, arriveranno prima di quanto pensiate.»
«Stai dicendo che…» le lacrime le riempirono gli occhi «no! Non se ne parla! Non lascerò tutta la mia vita per una tua fantasia demenziale!»
«Mia Signora,» rispose prontamente Kudai, senza accennare a perdere la calma «poniamo che quanto vi dico non corrisponda al vero, va bene? Non potrete negare tuttavia ciò che avete di fronte ai vostri occhi, in questa grotta: questi uomini volevano assassinarvi, e voi e il vostro compagno ve la siete cavata per il rotto della cuffia. Pensate forse che queste persone» fece cenno ai cadaveri «si faranno scrupoli a ferire o uccidere i vostri cari, se il risultato finale sarà la morte di colei che ritengono il Male reincarnato? Ve lo dico io: no, non se ne faranno. Per un Raggio e ancor più per un mio ex-confratello, il fine giustifica sempre e comunque i mezzi.»
Astoria ammutolì, di fronte a quella logica stringente.
Abbassò lo sguardo su Moris: i suoi riccioli scuri le solleticavano le gambe, mentre il respiro usciva affannoso dal suo naso. Guardando quel viso pensò al burbero Tomu; alla maliziosa Marion; a Roma e le sue premure; ad Avel e la sua tenerezza. Quanti di loro sarebbero morti? Quanti di loro avrebbero sofferto a causa sua, se fosse rimasta facendo finta di nulla.
Guardò Moris, gli sfiorò le labbra morbide con le dita. La sua mente tornò a quella casa che aveva immaginato fra i campi… e stavolta se la figurò avvolta dalle fiamme. Non più risuonante delle risa dei bambini, ma delle loro grida: soffocate dal crepitio del fuoco e dall’esalare del fumo.
“Non posso lasciare che altri soffrano a causa mia. Devo solo aspettare che il malinteso venga chiarito. Se il Gilmorgen si è risvegliato allora presto o tardi lo farà anche il Nakhtife e se invece ha ragione Kudai sarà il Gilmorgen a spuntare fuori da qualche parte. Dopodiché saranno solo fattacci loro, e io… io potrò tornare alla mia vita di sempre.” Alzò lo sguardo all’ex-Alta Sfera “per ora seguirò questo sciroccato di uno shinbu, sarà anche pazzo ma ha dimostrato di potermi tenere al sicuro.”
Si umettò le labbra, prendendo un lungo respiro.
«Dove andremo?»   

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


CAPITOLO VIII


 
L’Alta Sfera rilassò le spalle, forse sollevato dalla sua resa.
«Andremo verso Occidente. Colei che vi ha preceduto ha già da tempo predisposto la strada che seguirete. Ad ovest troveremo un potente alleato: un Ombrandante, un elfo oscuro noto alla sua gente col nome di Basilisco. Sarà lui a darvi i primi rudimenti sull’utilizzo dei vostri poteri, adesso ancora sopiti.»
«Questo Basilisco, spero, potrà aiutarci a chiarire il malinteso e mostrarti che io non sono altro che un comune essere umano. Ma, prima di ogni altra cosa, dobbiamo aiutare Moris. Non ho nessuna intenzione di lasciarlo qui, solo e ferito.»
«Molto bene, mia Signora.» Cedette stavolta Kudai. «Farò sì che lo trovino e gli venga prestato soccorso.»
«E come intendi farlo?»
Kudai non si perse in spiegazioni. Si limitò ad uscire dalla spelonca e levare lo sguardo al cielo. Dopo averlo studiato un poco si rivolse nuovamente alla ragazza.
«Copritevi gli occhi, mia Signora: potreste rimanere accecata.»
Astoria replicò con un’espressione confusa, ma ubbidì.
 
Non fece in tempo a domandarsi che cosa lo shinbu avesse in mente, che un lampo luminoso rischiarò a giorno ogni anfratto della spelonca.
«Potete guardare, ora.»
La rassicurò Kudai, rientrando nelle grotta e cominciando a frugare fra i corpi.
Astoria per poco non si ritrovò con la mascella slogata: lì a pochi passi dall’ingresso della spelonca, filamenti di luce aurea risalivano dal terreno verso la volta celeste. Bianco, oro, arancio si levavano e si intrecciavano, amalgamandosi e districandosi gli uni dagli altri.
Colta da un impulso irrefrenabile, si avvicinò sino a toccare la vena di luce: fu come essere sfiorata da un soffio di vento caldo intriso di una lieve pioggerellina. Per un attimo una sensazione di benessere allontanò gli orrori di quel pomeriggio e nelle orecchie le parve di udire come un canto di donna, lontano, oltre il tempo e lo spazio.
Poco a poco, controvoglia, ritirò le dita e quella giornata tiepida le parve essere d’improvviso così fredda.
***
Kudai ripulì la daga sulle vesti del mezz’uomo. Il suo corpo era stato martoriato in modo disumano. La ragazza doveva aver liberato tutta la propria rabbia, tutte le proprie frustrazioni, sul corpo del Raggio. Non si sentì di biasimarla per questo: nel Circolo venivano impiegati numerosi anni per insegnare alle reclute a gestire le proprie emozioni, in particolare nei frangenti ricchi di tensione. Non si poteva certo pretendere che una comune villica – pur con ciò che aveva dentro – riuscisse a fare un lavoro rapido e pulito, quando ammazzava un uomo.
Lo sguardo dello shinbu si posò lentamente su di lei, imbambolata di fronte alla luce di segnalazione che Kudai aveva evocato poco prima. “È così giovane, così impreparata a ciò che la aspetta lì fuori. Mia dolce Aniku, non ho mai dubitato della tua saggezza in tutti questi anni, ma guardando il prodotto di tutti i tuoi piani, di tutte le tue macchinazioni, non posso fare a meno di chiedermi se sia stato giusto mettere il peso del mondo sulle spalle di una ragazzina.”
E col pensiero alla sua Signora, anche i suoi occhi per un attimo furono stregati dal gioco di luce del suo stesso incantesimo. Provò dapprima una dolce sensazione di nostalgia, presto sostituita da un tocco di gelo dentro il cuore.
Quel trucchetto gli era costato fin troppa dell’essenza di Aniku ancora presente dentro di lui, “sarà bene essere più parsimonioso in futuro. Non posso mai sapere quando avrò davvero  bisogno della Luce.”
«Mia Signora,» la richiamò «è tempo di andare. Le pattuglie saranno ormai in dirittura d’arrivo e non è una scelta saggia rimanere ancora qui.»
L’ipnosi svanì dal volto di Astoria e tutta la melanconia tornò a farle il volto cupo. Indirizzò un’ultima occhiata al figlio del podestà, privo di sensi. La ragazza sembrò sul punto di tornare da lui, ma infine si limitò ad uscire dalla grotta.
Nell’insenatura in cui si celava la spelonca, c’era un castrato dal bel manto color sabbia, legato ad un arbusto. Kudai non faticò a riconoscere l’animale: durante i lunghi anni di copertura, mentre mendicava per le vie di Fonderadici, aveva veduto molto spesso il giovane figlio del podestà in sella a quella bestia, mentre accompagnava il suo vecchio in una passeggiata o per qualche battuta di caccia.
«Salite in sella, mia Signora. Vi anticiperò a piedi.»
Le ingiunse, con quanta più cortesia.
«Non posso.» Replicò pronta lei, aggrottando le sopracciglia «questo è il cavallo di Moris. Sono già un’assassina, non diventerò anche una ladra.»
“Perché dev’essere sempre così testarda?! Ubbidisci e basta, dannata ragazzina.”
Kudai ebbe bisogno di alcuni istanti per mondare la voce da ogni eco di esasperazione.
«Sono dell’idea» cominciò «che il vostro compagno vi offrirebbe volentieri il suo destriero, se fosse al corrente della situazione in cui versate. Non dubito che un giorno avrete occasione di rendergli il favore.»
Astoria, poco a poco, abbassò lo sguardo e strinse i pugni sino a impallidirsi le nocche. Ma infine si avvicinò all’animale.
La bestia era diffidente e recalcitrante. Kudai non avrebbe saputo dire se per via della magia dinanzi ai suoi occhi o per l’odore del sangue che filtrava attraverso le sue narici. Tuttavia al tocco e ai sussurri di Astoria si placò, lasciandosi montare.
«Andiamo a ovest?» Chiese la ragazza, tenendo le redini.
Kudai scrutò il cielo: l’azzurro s’andava colorando dei primi rossori del tramonto.
«Non ancora, mia Signora. L’ora si fa tarda e non è buona cosa avanzare in campo aperto con l’oscurità. No, stasera troveremo rifugio nel bosco di salici. Poi, domattina ripartiremo, alle prime luci dell’alba.»
E ciò detto la precedette, sulla via che seguiva a ritroso il corso del Garona.
La ragazza si attardò, qualche istante ancora, a contemplare l’ingresso della spelonca. Gli occhi gravidi di tristezza. A Kudai sembrò di scorgere una lacrima tracciarle le guance, quando finalmente prese a seguirlo.
 
La macchia di salici li accolse con gentilezza, nelle dolci ombre delle sue chiome verde-scuro. Kudai aguzzò lo sguardo, setacciando alla luce del tramonto fra l’erba e le foglie cadute. Cercò quel sentiero che aveva finito per conoscere così bene: una viuzza sinuosa, formata dal passaggio dei cervi per quelle contrade. I loro escrementi scuri e ormai inodore giacevano ai margini della via, in attesa di essere riassorbiti dalla terra.
Lo shinbu si volse verso la ragazza, che intanto risaliva per un piccolo promontorio, seguito da un ripido declivio sulla pianura.
La voce del bosco era animata dai primi canti notturni; dagli animali in attesa dell’oscurità della sera; dal gorgogliare degli affluenti del Garona nascosti fra il verde, tutto intorno a loro.
Il cammino non fu un’impresa semplice: la ragazza si voltava spaventata ad ogni frusciar di foglie, ad ogni rametto spezzato. Non sembrava versata nell’arte della cavalcatura: la bestia, alla sua guida, procedeva a passo mal cadenzato e più di una volta, forse innervosita dall’ansia della sua cavallerizza, aveva minacciato di imbizzarrirsi.
“Povero animale.”
Alla fine Kudai aveva imposto che anche lei continuasse a piedi, tenendo il castrato ben saldo per la briglia, così da preservarla da eventuali cadute. Quando infine giunsero al rifugio che Kudai aveva allestito per la notte, erano entrambi stanchi e frustrati.
 
Il piccolo campo, affacciato sulle rive del Garona, prevedeva solo l’essenziale per una sosta all’addiaccio: due giacigli giacevano all’ombra di un albero; al centro un focolare di sterpaglie e fogliame secco attendeva di essere acceso, delimitato da un cerchio di rocce coperte di muschio. Sotto alcuni cespugli, lì d’appresso, vi era poi una buca scavata di fresco nella terra. Là sotto, la sua lama e la sua vera identità erano rimaste sepolte per diciassette lunghi anni.
“È così strano tornare a rivestire i miei panni.”
Sedette compostamente, la spada infoderata poggiata di traverso sulle gambe. La ragazza, d’altra parte, si abbandonò sul giaciglio con un gemito, massaggiandosi i piedi provati da lungo cammino. Lo shinbu la studiò con una rapida occhiata: ogni scintilla di luce era scomparsa dai suoi occhi castani.
Non poté negarsi un moto di pietà per quella infelice, per quella bambina che aveva veduto crescere spensierata e serena. Adesso, le sue mani erano lorde di sangue rappreso e le labbra non accennavano alcuno di quei sorrisi, un tempo elargiti con tanta generosità.
Dandosi una schiarita alla voce, Kudai le offrì un sacchetto. Al suo interno vi erano le poche cibarie che aveva avuto tempo e modo di conservare in previsione del loro viaggio.
La ragazza, con un gesto automatico, prese una focaccina rafferma e cominciò a sbocconcellarla, lo sguardo perso da qualche altra parte.
«So cosa provate, mia Signora» esordì Kudai, mentre approntava il necessario per accendere il fuoco. «Diciassette anni fa fui costretto a lasciare tutto ciò che avevo di più caro a questo mondo: la mia Signora, il mio ruolo, il mio onore. Tutto per un bene superiore.» Un filo di fumo sgusciò dalle sterpaglie. «Un po’ come voi.»
Quelle parole, se non la rinfrancarono, servirono perlomeno a strapparla dalla sua apatia.
«Le canzoni dicono che sei uno spergiuro e un traditore.»
Kudai incassò, con un sorriso amaro, mentre i primi bagliori del fuoco gli illuminavano il viso.
«Le canzoni non mentono. Non su tutto, perlomeno.» Si morse le labbra. «È vero, la santa vocazione di un’Alta Sfera è rimanere al fianco del Gilmorgen, anche a costo della propria vita. Quella notte, però, feci una scelta differente.»
«Perché?» Chiese Astoria, in modo semplice e diretto.
«Perché, mi chiedete… ebbene, era la notte prima dell’Ikvalibriam quando Gilmorgen’Aniku mi convocò nella sua tenda. Io, com’era nei miei doveri, mi presentai e ci misi poco a capire che qualcosa la turbava. Aniku voleva che facessi qualcosa per lei, voleva che la lasciassi morire… sapeva che mai e poi mai avrei accettato, anche a costo di contravvenire a un suo ordine diretto. Ragion per cui decise di condividere alcune delle sue visioni con me.» Kudai tirò un lungo respiro, abbassando lo sguardo. «Mi mostrò un’epoca di pace e prosperità, lunga settant’anni. Come mai se ne sono viste al mondo. E, dopo di questa, un’epoca oscura in cui i regni e le nazioni sarebbero caduti l’uno dopo l’altro. Ogni culto dilaniato e infine dimenticato, sotto l’egida di un sole oscuro, mentre il Circolo, da buona fratellanza si sarebbe mutato in un’armata volta a passare a fil di spada ogni dissidente, ogni città che avesse osato opporre resistenza. Un mondo di tirannia, un mondo nelle mani del Nakhtife.»
Astoria, visibilmente a disagio, concentrò lo sguardo sulle lingue di fuoco, danzanti dinanzi a lei.
«Solo dopo quell’orribile visione capii le ragioni di Gilmorgen’Aniku. Ella non poteva permettere che una simile prospettiva diventasse realtà e io ero il suo unico strumento per impedirlo. Mi disse di aver scrutato a lungo nelle fila della Trama, scandagliando tutte le sue possibili reincarnazioni… sino a trovare Voi: l’unica reincarnazione che avrebbe potuto evitare il disastro. Ma perché voi poteste nascere come Gilmorgen e non come comune essere umano, ecco, era necessario che Aniku morisse durante l’Ikvalibriam… nel preciso istante in cui voi uscivate dal grembo di vostra madre.»
Astoria tornò a guardarlo, un lampo di comprensione nello sguardo.
«Quindi…»
«Sì, infine la abbandonai al suo destino. Prima ho parlato di una scelta, ma talvolta mi chiedo se lo sia stata davvero…» lo shinbu sentì gli occhi pizzicare. «Dopo un lungo e periglioso viaggio raggiunsi Fonderadici, sotto la falsa identità di un profugo di nome Anidai. La mia sacra missione era diventata quella di vegliare su di voi, fino a quando non fosse giunto il momento propizio. Quel che è accaduto all’interno della grotta – sapete – io l’ho veduto già molto tempo fa.»
«Ora mi è tutto più chiaro.» Mormorò Astoria, anche se la sua espressione vacua rivelava più dubbi che altro. «Quel che non mi spiego è come faccia questo Nakhtife a sapere della mia esistenza. Dai racconti, Gilmorgen e Nakhtife hanno solo una pallida consapevolezza l’uno dell’altro.»
Kudai incrociò le braccia dinanzi al petto.
«Questo, in tutta sincerità non so dirvelo.» Si strofinò per un attimo il naso. «Aniku non mi ha mostrato ogni cosa, quindi posso fare solo delle supposizioni: la vostra predecessora aveva un dono, questo ormai lo avrete intuito. Il dono del vaticinio. Ebbene, tale capacità non era direttamente collegata alla sua natura di Gilmorgen; per intenderci, avrebbe potuto scrutare nella Trama anche se fosse stata un comune essere umano. Suppongo, quindi, che qualcosa del genere possa essere capitato anche con questo Nakhtife’Hikari. Forse non può vedere ciò che sarà, ma avrà un altro tipo di dono.»
Kudai strinse la mano destra intorno all’elsa della daga, sottratta al mezz’uomo, e la offrì per il manico ad Astoria.
«Ma non ha senso ora preoccuparsi di ciò, piuttosto, prendete. Io vi difenderò con la mia stessa vita se necessario, ma è bene che abbiate sempre un’arma insieme con voi.»
La ragazza strabuzzò gli occhi, per poi contrarre il viso in una smorfia orripilata.
«Tu hai visto cosa ho fatto in quella grotta. Non voglio che ricapiti, mai più! Mai e poi mai metterò le mani su un’altra arma.»
«Invece lo farete, mia Signora.» Le ingiunse, ora che la sua pazienza era giunta al limite. «Prima che questa storia sia finita molto sangue verrà versato: innocente e non. Non crediate che il mondo là fuori sia Fonderadici, perché non lo è. Il mondo là fuori è violento e crudele, e per difendervi dovrete adoperare la violenza che lo vogliate oppure no.»
Ciò detto, le prese le mani e gliele strinse intorno all’elsa della daga.
«Viene il crepuscolo, adesso. Chiudete gli occhi e riposate. Il nostro viaggio è appena cominciato.»  

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