Lo specchio dell'anima

di Neamh Moonstar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il libro ***
Capitolo 2: *** Il pub ***
Capitolo 3: *** Strane sensazioni ***
Capitolo 4: *** Tra chi non sa più e chi sa troppo ***
Capitolo 5: *** Furto con scasso ***
Capitolo 6: *** Strani individui e... una segreteria telefonica? ***
Capitolo 7: *** Un'anima inquieta ***
Capitolo 8: *** Il vicolo ***



Capitolo 1
*** Il libro ***


Ci sono regole non scritte nel mondo: cose che si fanno o non si fanno per convenzione, o perché ormai sono consolidate come fossero parte integrante del DNA umano. Alcune di esse sono imposte in modo tacito e indiretto, ed entrano nella mente dei diretti interessati come fossero chiavette USB. Ad esempio, tutti sapevano che - nonostante il nome e nonostante nessuno lo avesse mai ufficialmente affermato - nella libreria del signor Fell i libri si leggevano ma non si compravano né si prestavano. Potevi prendere posto dove volevi: le poltrone, le sedie, i divanetti, il pavimento o persino gli scalini che portavano di sopra se volevi; bastava fare silenzio - come fossi in una piccola biblioteca - comportarsi bene, trattare i libri ancora meglio ed essere gentile. Se lo facevi - ma lì lo facevano tutti - il proprietario ti portava persino una buona tazza di tè. Se eri "cliente" abituale non dovevi nemmeno chiedere: ad un certo punto ti ritrovavi a sorseggiare matcha, immerso con tutto il naso in qualche volume vecchio come il mondo.

Come facesse quel posto a campare senza una singola vendita, poco importava. Certo, giravano voci su affari segreti - roba da librai accaniti e malati di antichità stampate su carta vecchia, ma la questione scivolava via come acqua sulle piume di un'anatra. Il mistero e la particolarità di quel luogo erano una calamita per gente ancora fermamente convinta che le piccole librerie dovessero sopravvivere, senza venire inglobate da quei giganti che erano le grandi case editrici. Ma gli umani, si sa, sono curiosi.

Ann. Ann era molto curiosa, ad esempio.


Il suo vero nome era Annalise, ma nessuno la chiamava mai così. Era sulla ventina, ma sembrava più giovane: magra, bassina, capelli chiari e ondulati, occhietti azzurri circondati da un bel paio di occhiali rotondi. Adorava leggere: poteva farlo per ore, circondata dal profumo di tè, cioccolata e polvere che caratterizzava quello che lei considerava un'oasi di pace nel bel mezzo di Soho. 

Studiare le piaceva meno, per questo aveva smesso di farlo. Aveva involontariamente seguito le orme di suo cugino Zachary: un rosso malpelo con la passione per la vecchia musica.


Ad Ann piaceva molto il signor Fell. Sembrava esso stesso uscito da un libro, o comunque balzato fuori da qualche macchina del tempo-barra-portale interdimensionale. Era decisamente un uomo di altri tempi e non era solo l'abbigliamento sui toni del beige a dirlo. Anche lui, come Ann, doveva essere decisamente più vecchio di quel che sembrava: alle volte se ne usciva con vocaboli che o non esistevano, o erano esistiti cinquant'anni prima; per non parlare del fare da gentiluomo di epoca vittoriana e del fatto che nella sua libreria c'erano oggetti per i quali un museo avrebbe fatto carte false. Era un uomo misterioso, poco ma sicuro, e la giovane passava molto tempo ad osservarlo mentre lavorava - e per "lavorare" s'intende che sceglieva un libro anche lui e si eclissava dietro l'inutile cassa di cui disponeva. 

Ah già, aveva un serpente. Non lo teneva sempre con sé - quasi sicuramente aveva una teca nascosta nella stanza sul retro - ma alle volte se lo portava in giro per la libreria come fosse una sciarpa sonnacchiosa.

Ann adorava tutti gli animali, compresi quelli che la stragrande maggioranza delle persone schifa, e quel rettile dalle lucide squame nere e rossastre l'aveva conquistata in meno di un nanosecondo. Aveva degli occhi che sembravano pepite d'oro incastonate nella pietra lavica; più volte si era chiesta perché tutti decidessero di stare alla larga da un essere di cotanta bellezza.


Ahimè, il serpente non c'era il giorno in cui Ann mise le mani su una piccola ma elegantissima copia dei "Sonetti" di Shakespeare. Dopo una sola letta - avvenuta in più visite - la giovane era arrivata ad una contrastante conclusione: Shakespeare era molto meglio come poeta che come drammaturgo.

Il volumetto in questione doveva essere passato per una moltitudine infinita di mani diverse a giudicare dagli appunti in inchiostro sbiadito che di tanto in tanto facevano capolino a bordo pagina. Non che ciò lo rendesse più brutto o più rovinato, anzi, Ann passò una buona manciata di minuti ad analizzare quegli sgangherati corsivi, presa dalla curiosità. Inutile dire che non cavò un ragno dal buco.

Una cosa la fece, però: sviluppò il fortissimo desiderio di portarsi via quel libricino in modo da rivedere con calma le parole che tanto l'avevano rapita. Non avrebbe saputo dire perché, ma aveva passato così tanto tempo a rileggere, rivedere, scandagliare le note a piè di pagina, trascrivere su un quadernetto, che aveva sperimentato l'attaccamento che riservava a pochi altri oggetti eletti - tipo il suo smartphone, quello guai a chi glielo toccava. 

Qualsiasi buon lettore l'avrebbe capita: tutti hanno quel libro diverso dagli altri; quello che si porterebbero sempre dietro come un vecchio amico in modo da poterlo aprire in metro o aspettando il bus. E il signor Fell era decisamente un buon lettore, anzi, Ann era certa che non ce ne fossero come lui. Il problema era proprio quel tacito ma pesante regolamento riassumibile con: è una libreria ma i libri non si comprano. 

Ma Ann non voleva certo comprarlo. Ann voleva solo tenerselo per tre giorni al massimo, nulla più.

Chiedere non costa nulla e tentar non nuoce, si disse. Così si avvicinò timidamente al proprietario di quel luogo strabordante di vecchi tomi e polvere, e fece la sua insolita richiesta. Nel peggiore dei casi avrebbe scoperto in che modo quell'uomo fosse capace di dissuadere i potenziali clienti - ed era una prospettiva interessante.


Incredibile ma vero, il signor Fell acconsentì.


E fu così che tre giorni passarono.

Il giorno del reso, Ann si svegliò di buon'ora e si incamminò in quella fredda mattina di ottobre, direzione Soho. Aveva ancora un'ora prima di andare a lavoro, perciò decise di fare un salto alla libreria. Non era certa di trovarla aperta, nessuno lo era mai. Gli orari di quel posto erano una specie di rebus, ma era certa di trovarvi il signor Fell. Quell'uomo doveva avere radici - e un'area abitabile - lì dentro, o la sua perenne presenza non si spiegava.

Sarebbe stato felice di sapere che il suo beneamato libricino era tornato a casa sano e salvo, senza pieghe né macchie o appunti in più. Ann era stata molto attenta a lasciarlo così come le era stato dato e sapeva che il libraio se ne sarebbe reso conto.

Bussò sul vetro dell'ingresso, preparando un bel sorriso. Ad aprirle, però, non fu colui che si sarebbe aspettata.

   «Ehm, buongiorno» disse all'uomo sulla porta. «Il proprietario c'è? Dovrei parlargli.»

   Il ragazzo all'ingresso doveva aver superato di poco la trentina e somigliava vagamente ad un tecnico informatico con l'influenza. Aveva un nido di scuri capelli spettinati, gli occhiali mezzi storti sul naso, un maglione orrendo e gli occhi di chi non si faceva una buona notte di sonno da chissà quanto. Non ci voleva un detective per capire che la causa della sua brutta cera era l'adorabile fagottino rosa che teneva in braccio. «Oh, ehm, no. Non c'è, ma posso aiutarti io?»

   Ann decise bene di non far stare quel poveretto e sua figlia sulla soglia. Il freddo quel giorno era pungente e l'apparente influenza sarebbe potuta diventare reale nel giro di poco. «Sarebbe carino da parte sua. In realtà devo solo restituire questo» spiegò, porgendo il libricino.

   Il ragazzo lo prese con la mano libera, fissandolo interdetto. Rimase per qualche secondo immobile, bocca socchiusa, come se muoversi avesse in qualche modo causato il blocco del suo ragionamento. «Te lo ha- cioè, te l'ha davvero prestato?» Chiese, stupefatto. «Non lo hai rubato o che, vero?»

   La giovane si mise a ridere: «Le posso assicurare che mi ha concesso di tenerlo per qualche giorno. Non so perché abbia improvvisamente cambiato idea ma-» scrollò le spalle, «-immagino di essere stata fortunata.»

   L'altro annuì lentamente, ponderando la questione. «Decisamente, sì» rispose infine con un sorriso tirato.

   «Può chiederglielo se vuole. Vengo spesso da queste parti: in un certo senso è come se ci conoscessimo... Di vista.»

   «Sì, certo. Cioè, non che non mi fidi, solo che A- ehm-»

Ann sbatté le palpebre, confusa: in un attimo si era alzata un'aria di nervosismo persistente. Riusciva quasi a sentire la preoccupazione del suo interlocutore salire più veloce di un aereo al decollo.

   «Con calma, quando torna» disse allora, cercando di trasmettere un po' di calma col sorriso.

   «Sì, giusto. Quando torna» rispose il ragazzo, ora mesto e con un'ombra sul volto stanco. «Allora alla prossima. Grazie per, sai-» disse alzando il libro come per sottolineare il concetto.

   «Si figuri.»

Si lasciarono così, dopo un paio di stentati "arrivederci". Quando fu di nuovo sola davanti all'ingresso, Ann sentì uno strano nodo allo stomaco e dovette combattere contro le sue gambe per riprendere a camminare e recarsi a lavoro. 

Non aveva mai avuto un sesto senso eccezionale: di solito prendeva la vita così come veniva, facendosi le poche domande necessarie. Più si allontanava da Soho, però, più sentiva uno strano senso di preoccupazione pressarle la mente. Perché si sentiva come se qualcosa stesse per andare male? O forse qualcosa era già andato male e quelli erano i postumi. 

Si infilò le mani nelle tasche del cappotto, mordicchiandosi un labbro e attraversando distrattamente le strade, percorrendo il tragitto che ormai conosceva come il palmo della sua mano.


Se dall'uscio della libreria si fosse voltata e avesse dato uno sguardo all'edificio di fronte, sarebbe rimasta colpita anche da qualcos'altro.

Peccato che i suoi pensieri glielo avessero impedito.

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Capitolo 2
*** Il pub ***


Il suo vero nome era Zachary, nessuno lo chiamava così e non avrebbe dovuto essere lì. O meglio, Zac aveva due lavori: uno ufficiale e uno che faceva quando aveva bisogno di due soldi in più o si annoiava. Il secondo era lo stesso di Ann, il primo era quello che amava di più: era perfetto per un ragazzo instancabile come lui, e non lo avrebbe lasciato per nulla al mondo. Tantomeno avrebbe saltato un turno, cosa che stava facendo.

    Ann controllò ora e data sul cellulare per sicurezza e sì: erano le nove meno cinque di un lunedì mattina. Suo cugino sarebbe decisamente dovuto essere altrove. Per questo, quando lo vide spolverare allegramente una mensola con la musica sparata nelle orecchie, vi si avvicinò e gli tolse l'airpod dall'orecchio destro. «Buongiorno anche a te» disse, sarcastica. «Che ci fai qui?»

    Zac riprese la cuffietta, se la cacciò in tasca e fermò la traccia con un sorriso. «Mary non te l'ha detto?»

    «Sono appena arrivata: non ci siamo ancora viste.»

    «Ah, sarà sul retro. Sicuramente ti butterà in magazzino oggi: preparati ad un bagno di polvere.»

Ann appese il cappotto con un sospiro: prima o poi arrivava il giorno in cui era costretta a riorganizzare le mille milioni di scatole, scatoline e scatoloni del negozio. Era la cosa che meno le piaceva: preferiva stare alla cassa o guidare i clienti attraverso file e file di ben impilati vinili.

Il negozio di musica in cui lei - e a volte suo cugino- lavorava, esisteva sin da quando la sua ora cinquantenne proprietaria aveva iniziato ad avere una strana ossessione per i giradischi. Col tempo si era evoluto abbastanza da stare al passo anche con le richieste delle nuove generazioni: disponeva di una buona fornitura di CD, stereo neri e lucidi - di quelli con le manopole lisce che girano fluide come l'olio, set da DJ e persino strumenti musicali.

    «Me ne farò una ragione,» riprese Ann. «Ora sono curiosa, però. Non dovresti essere al pub?»

Non che un pub avesse molto da fare a quell'ora del mattino. Per questo Zac e i suoi colleghi andavano lì alle prime ore del giorno giusto per assicurarsi che tutto fosse pulito, in ordine e rifornito per la sera. A detta sua, però, non c'era mai veramente nulla da fare: quel posto era sempre miracolosamente lucido, splendente e pieno zeppo di alcolici. Non era il solito ritrovo per vecchi seguaci della squadra locale, no: il maxischermo lì serviva solo per sintonizzarsi sui migliori canali di musica ventiquattro ore su ventiquattro - quando non c'era musica dal vivo, e lì la musica dal vivo c'era sempre. Ann non c'era mai stata - non era esattamente il suo ambiente - ma Zac glielo aveva sempre descritto come un luogo "fighissimo". 

Si trovava sulla stessa strada della libreria. Proprio davanti.

    «Come? Non hai sentito?» trillò una voce dal retro, impedendo al ragazzo di iniziare la sua spiegazione.

Mary arrivò e poggiò uno scatolone sul bancone. Era una donna magra come uno spillo, i capelli riccissimi e di un biondo non esattamente naturale. Era un'amica di famiglia, una perenne zitella, una gattara convinta - ne aveva sei in appartamento - e un amante del pettegolezzo; la classica donna che andava dalla parrucchiera una volta sì e l'altra anche per raccogliere a sé le sue discepole e parlare della tresca di Tizio, il tradimento di Caio e il nuovo amore di Sempronio. 

    Zac alzò gli occhi scuri al cielo, senza smettere di sorridere: «No, è appena arrivata. Comunque ti cedo le redini: so che espolderesti se non ti lasciassi raccontare tutto.»

Ann guardò prima suo cugino, poi la sua datrice di lavoro, chiedendosi quale pazzesco scandalo fosse accaduto per attirare l'attenzione totale di quest'ultima.

    «Il capo di Zac ha inviato un messaggio sul gruppo del pub dicendo che avrebbero chiuso a tempo indeterminato» spiegò Mary, il tono sommesso di chi sta raccontando un grande segreto.

    «Il signor C?»

    Zachary annuì: «Assurdo, vero? Quell'uomo ama il suo lavoro e ama quel posto. E dopo cinque anni di apertura ininterrotta se ne esce sospendendo l'attività.»

Il modo tranquillo e per niente preoccupato o interdetto in cui lo disse, fece alzare un sopracciglio - e tantissimi dubbi - ad Ann. Il signor C era il "capo numero uno" di suo cugino: non aveva idea di quale fosse il suo vero nome, né lo aveva mai visto; sapeva solo che era un tipo strano, un po' eccentrico, ma anche un sacco simpatico. Come gestiva la baracca lui, non gestiva niente nessuno.

    «E la cosa non ti stranisce?» Chiese, notando il fare disinvolto con cui Zac si era rimesso a spolverare.

    Questi fece spallucce: «Avrà i suoi motivi.»

Suo cugino era sempre stato un ottimista: probabilmente nel profondo era convinto che avrebbero riaperto presto. La cosa era comunque strana: possibile che non si fosse fatto domande o non avesse chiesto spiegazioni? Lì gatta ci covava, e non solo al pub.

    «Assurdo» Commentò Ann. «Neanche il signor Fell era a lavoro oggi, il che è strano.»

    «Oh, giusto: mi avevi parlato di quel libro che dovevi restituire» esclamò Mary, ricordandosi della conversazione che avevano avuto pochi giorni prima. «Non hai notato la serranda abbassata del pub quando sei stata lì?»

    Ann scosse la testa: «In effetti no.»

    Zac si buttò lo straccio che stava usando sulla spalla e fissò la cugina, sopracciglia aggrottate: «Quello che lavora dall'altra parte della strada, no? La libreria dove vai sempre». Era una domanda retorica - soprattutto perché non esistevano tanti altri posti del genere a cui fare riferimento - così continuò: «Viene da noi quasi tutte le sere. Chiude, attraversa la strada e ci viene a trovare. A quanto pare, lui e il signor C si conoscono.»

    Mary parve illuminarsi come una lampadina: «Il diavolo e l'acqua santa, proprio.»

    «Beh, non è detto» riprese, Ann. «Lavorare in un posto silenzioso e tranquillo non implica che non ti piacciano l'alcool e la buona musica, no?»

    Zac sbuffò con un sorriso, un po' ad indicare un concetto che andava ben oltre quella semplice affermazione. «La buona musica non saprei, ma posso assicurarti che quei due da soli drenerebbero l'Inghilterra intera. Quando non vanno a chiacchierare nello studio del signor C, restano al bancone a bere e parlottare tra un bicchiere e l'altro. Sembrano lo stereotipo di amici di vecchia data, sai: quelli che si salutano a pacche sulle spalle.»

    Mary emise una risatina subito accompagnata dal sorriso furbetto di chi sa quale argomento portare alle sue amiche la prossima volta che dovrà ritoccare la ricrescita. «Amici, dici.»

    Ann inclinò un po' la testa a quel pensiero, prima di raggiungere la conclusione che sì, almeno il signor Fell era decisamente tipo da avere un... Beh, un tipo. Era un'altra di quelle cose ovvie ma non dette, forse addirittura un po' stereotipiche, inoltre: «Questo spiegherebbe perché sono andati via lo stesso giorno. Magari volevano fare qualcosa assieme.»

    «Non mi stupirebbe» rispose Zac tirando un'occhiata a Mary. «Le poche volte che ho sentito quello che si dicevano, parlavano sempre dell'andare assieme da qualche parte: al ristorante, al parco, al cottage, a Edimburgo... Cose così.»

    Mary riprese lo scatolone con un unico, fluido movimento del suo corpo scheletrico: «Siete così ciechi, ragazzi miei: stanno ovviamente pianificando qualcosa». Poi guardò la porta d'ingresso come per assicurarsi che nessuno avesse intenzione di entrare e sussurrò: «Torneranno sposati, ve lo dico io.»

Zac annuì, ponderando la questione e scrollando le spalle in un tacito: "Può essere". Ann si ritrovò a sorridere all'idea: suonava alquanto adorabile come cosa, e si disse di tenere d'occhio il libraio in futuro, alla ricerca di eventuali anelli di fidanzamento. Eppure c'era qualcosa che non la convinceva, o meglio, più di una. L'indifferenza di suo cugino alla notizia della chiusura di uno dei suoi posti preferiti in assoluto aveva lasciato un'impronta profonda e indelebile dentro di lei. Inoltre, l'uomo con la bambina che adesso stava a guardia della libreria le era parso decisamente nervoso e impacciato. Se aveva così tanto da fare con sua figlia, perché accettare l'incarico? Nessuna persona a modo glielo avrebbe mai affidato in primis, tantomeno il signor Fell - indipendentemente dal rapporto che poteva esserci tra loro.

    «Va bene, basta chiacchiere» trillò Mary. «Abbiamo un magazzino da sistemare, Annie.»

Ann annuì, osservandola mentre spariva tra gli scaffali più in fondo. Improvvisamente l'idea di dover passare il pomeriggio a riorganizzare quel luogo angusto non le parve male: aveva tutto il tempo di ragionare su quella bizzarra situazione.

    «Qualcosa non va?» Zac si era messo a guardarla confuso, forse anche leggermente preoccupato.

Tra loro c'era sempre stato un buon rapporto. Vivevano l'uno accanto all'altra sin da quando erano bambini e, nel momento in cui Ann aveva deciso di lasciare gli studi, Zac era stato il primo a farsi avanti per sostenere la sua voglia di indipendenza. Aveva patteggiato con Mary perché le desse la possibilità di lavorare, aveva trovato modo di farle avere l'appartamento sopra il suo, insomma: Ann gli doveva tanto. Anche per questo erano abituati a dirsi tutto e anche per questo si conoscevano come il palmo della loro mano.

    «Pensi che Mary possa avere ragione?» Gli chiese quindi, iniziando a torturarsi distrattamente le dita.

    «O questo,» iniziò Zac con il tono di chi sa bene cosa sta succedendo, «o il tuo libraio di fiducia vuole mettere le mani su qualche copia stravecchia di non so che opera dell'avanti Cristo, e il signor C lo ha accompagnato. Sai: roba da antiquari strambi. Stai tranquilla.»

Ed Ann ci provò a tranquillizzarsi. Provò a spostare i suoi pensieri altrove, salvo poi ritrovarli a pensare a quelle due sparizioni improvvise, a quegli avvenimenti... beh, avvenuti di fretta, al suo stomaco che si richiudeva ad ogni ipotesi che provava a darsi. Doveva ripassare da Soho, si disse. Come se fare una passeggiata da quelle parti potesse aiutarla a capirci qualcosa.

Magari ci stava pensando troppo e Zac e Mary avevano ragione, cosa che sperava.


**


Ann e Zac andavano a casa insieme ogni volta che potevano, ma quella sera la giovane disse al cugino che aveva alcune cose da fare prima di rientrare.

    Il rosso si stupì fino ad un certo punto: di solito era lui quello che mancava per via di qualche appuntamento. Capì subito dove Ann volesse andare a parare, però. «Avvisami semmai dovessi veder il mio capo» disse. «Lo noti subito: ha una macchina d'epoca e i Queen sempre sparati a palla.»

Forse Mary non aveva poi tutti i torti sulla storia del diavolo e l'acqua santa.


Le luci della sera rendevano l'affollata Soho un po' meno soffocante. Ann puntò subito gli occhi sull'edificio man mano che si avvicinava, facendosi agilmente strada tra la gente, e notò subito che effettivamente c'era un'auto parcheggiata, vecchia anche, ma sicuramente non d'epoca. Era tozza, rotonda, ferma dove non era consentito fermarsi e con il cofano aperto. Anche la porta d'ingresso della libreria era aperta, ma stranamente la ragazza non sentì nessuno cenno di speranza, né si aspettò di vedere la nuvoletta di capelli candidi che ben conosceva uscirne. Semplicemente, si piazzò davanti all'entrata: c'erano un paio di valige e alcuni scatoloni sparsi in giro; dall'interno provenivano due voci e il pianto di un neonato.

    «Dove ti poggio questi?» Disse una voce maschile che Ann riconobbe come la stessa di quella mattina. Proveniva da dietro un tavolo pieno di volumi che la ragazza andava sempre a controllare quando visitava la libreria. L'ordine dei libri cambiava sempre non solo lì ma praticamente su ogni scaffale, perciò era una specie di sorpresa ogni volta:;non sapevi mai cos'avresti trovato.

I suoi sospetti vennero confermati quando l'uomo dal volto stravolto si rialzò con una pila di oggetti dall'aspetto particolare tra le braccia. Sembrava stare leggermente meglio rispetto a quella mattina, forse perché la pargoletta era stata affidata a qualcun altro.

Quel qualcun altro era una donna, più o meno della stessa età di quello che presumibilmente era il suo compagno, che fece capolino da un punto non ben precisato della libreria. La piangente creaturina di rosa vestita tra le sue braccia le somigliava incredibilmente: entrambe erano davvero carine, caratterizzate da pelle leggermente ambrata e occhi e capelli che viaggiavano tra tanti toni di castano.

    «Forse potrei usare la stanza di sopra» disse lei, cullando la figlia. 

Sembravano nel bel mezzo di un trasloco, il che confuse Ann ancora di più. Forse non avrebbe dovuto intromettersi, ma bussare al lato della porta di ingresso le venne quasi automatico. Non avrebbe saputo dire se era stata la curiosità a guidarla, o semplicemente la voglia di dare una mano.


Genitori e figlia si voltarono all'unisono. Quest'ultima, forse perché distratta da qualsiasi cosa la stesse turbando, smise di lamentarsi e spalancò i grossi occhi nocciola.

    «Ehm, salve» salutò Ann con una mano. «Ho visto che siete indaffarati e, beh, forse posso aiutarvi?»

Ci furono pochi secondi di attonito silenzio. L'uomo guardò la compagna ed essa - sopracciglia aggrottate e bocca socchiusa - si mise a fissare Ann così intensamente che la giovane temette di ritrovarsi spinta nuovamente in strada da una mano invisible.

    Fu l'unico uomo della situazione a rompere il ghiaccio con un inutile e nervoso schiarimento di voce: «Ciao di nuovo» salutò con un sorriso tirato.

    L'attenzione si spostò tutta su di lui. «Vi conoscete?» Chiese la compagna.

    «È la ragazza del libro.»

Ann si sentì un po' a disagio, o meglio: continuò a sentirsi a disagio. Non pensava di essere diventata "famosa" per una cosa semplice come prendere un libro da una libreria, eppure eccola lì: ferma in mezzo al freddo di Soho e le luci calde di quel luogo accogliente, con tre paia di occhi tutte puntate su di lei.

    «Sentite,» disse, cercando di abbassare il livello di imbarazzo generale. «Se volete essere lasciati soli ai vostri spostamenti, capisco» affermò con un sorriso. «Non volevo intromettermi.»

    Ciò parve abbastanza da addolcire la bolla di tensione tra loro. «Sei gentile, ma-» riprese la donna guardandosi un po' attorno, come se la risposta risiedesse nelle copertine consunte. «Ce la caveremo.»

    Ann annuì, indietreggiando come ad indicare che sarebbe tornata sui suoi passi: «Bene, allora vi auguro buona serata.»

Si salutarono e persino la bambina parve voler alzare un pugnetto ambrato verso di lei in un tenero: "arrivederci".


Sembrava volessero cacciarmi, si ritrovò a pensare Ann mentre tornava a casa. Un'intera famiglia in quel posto mentre il signor Fell non c'era aggravò ancor di più la sua teoria secondo la quale qualcosa non quadrava. Forse avrebbe dovuto parlarne con Zachary, anche se persino lui era strano. La giornata in sé era stata strana.

Dicono che la notte porti consiglio. Ann sperò fosse vero.

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Capitolo 3
*** Strane sensazioni ***


C'era qualcosa di automatico e naturale nel modo in cui si era recata in quella pasticceria, quella dove facevano quegli adorabili ed invitanti pasticcini che aveva scelto con una sicurezza e una meticolosità che non sapeva di avere.

Aveva parlato con Zac quella mattina, aggiornandolo sulla famigliola che stava ora a guardia della libreria e del modo in cui si era sentita quasi oppressa e non voluta. Suo cugino aveva subito suggerito potesse trattarsi di famigliari disposti a dare una mano intanto che il proprietario era via, e che forse erano semplicemente tipi chiusi e protettori assidui della loro privacy. Ciò aveva portato Ann a sentirsi in colpa e a chiedersi se davvero avesse arrecato così tanto fastidio.

Nonostante ciò, appena uscita di casa, le gambe l'avevano portata in quell'adorabile edificio dalle pareti color crema in cui non era mai stata, e di cui nessuno dei suoi pochi amici e conoscenti le aveva parlato. Una parte non ben specificata della sua mente le aveva suggerito che quello era il modo perfetto per farsi perdonare il disturbo; così si era fatta preparare un vassoio ben incartato, aveva aperto l'ombrello e si era nuovamente incamminata verso Soho, approfittando della sua seppur piovigginosa mattinata libera.

Durante il tragitto, i suoi pensieri tornarono spesso a Zac che faceva spallucce, dicendole che dal gruppo del pub non erano arrivate novità. Nessuno dei suoi colleghi sembrava sorpreso: era come se nessuno di loro avesse effettivamente perso il lavoro a tempo indeterminato. E per quanto provasse a darsi una risposta plausibile, Ann sentiva come se il suo cervello si fosse perennemente settato su quei due edifici a lati opposti della stessa strada, ora entrambi privi dei loro rispettivi proprietari, e sul velo di stranezza che avvolgeva il tutto.

Sospirò, non sapendo cosa farsene di quella ossessione stile Mary quando scopriva l'ennesima tresca. L'unico consiglio che la notte insonne le aveva portato se ne stava ora ben poggiato sul suo braccio e profumava di zucchero; il resto sfumava ormai nel ticchettio della pioggia sul suo ombrello e nel profumo di aria umida e inquinata.

Aveva sempre amato la pioggia, ma quel giorno sembrava più piacevole del solito: un balsamo per l'anima e un calmante per i pensieri.


Arrivò nel quartiere incriminato rendendosene conto a malapena, fermandosi in mezzo alla strada e beccandosi più occhiatacce dalle persone di fretta. Per la prima volta si girò verso sinistra, osservando il pub chiuso con un'attenzione che mai gli aveva dedicato. Spesso e volentieri, aveva visto suo cugino entrarvi e uscirvi, parcheggiare il motorino più in là e battere il cinque a qualche collega prima di iniziare il turno di lavoro; ma mai aveva lasciato che il suo sguardo si soffermasse sul contorno nero di quel luogo che, ora come ora, sembrava emanare un'aurea di desolazione quasi palpabile.

Con sorpresa, Ann si rese conto che non aveva idea di come si chiamasse il posto, né c'era un'insegna al di fuori che glielo suggerisse. Anzi, a dirla tutta: la facciata era spoglia se non si contava lo stencil di un bel serpente attorcigliato su se stesso, bello visibile sulla vetrata e persino sulla serranda abbassata. Bastò quello per far suonare un'ipotetica campanella nella testa della giovane, la quale si ricordò della meravigliosa creatura dalle squame rossastre che - sicuramente, non poteva essere altrimenti, no? - doveva essere ora con il suo padrone, ovunque egli fosse.

Finita la contemplazione, si fermò sotto al tendone di un bar poco distante per mandare un messaggio a Zac. Il rosso era con Mary, la quale aveva risistemato i turni in quattro e quattr'otto perché si adattasero alla posizione del ragazzo. Gli chiese semplicemente il nome del pub, così, per curiosità; dopodiché, tornò all'entrata della libreria, ovviamente chiusa. Si rese conto che la piccola automobile della sera prima non c'era più e che l'edificio sembrava vuoto. Bastò bussare più volte per confermare quella teoria.

Ann non si scoraggiò, non subito: poteva sempre aspettare nelle vicinanze che la famigliola tornasse. E se non fosse tornata per tutto il giorno? Ecco, quello poteva essere un problema; inoltre, avrebbe reso il suo arrivo ancora più strano. Si sentiva una specie di stalker.

Rimase ferma davanti alla porta, senza sapere bene che cosa fare. La pioggia si fece più lieve, permettendole di poggiare l'ombrello ancora aperto accanto a sé. La sua mano ora libera andò da sola verso la maniglia, quasi come se la sua mente avesse bisogno dell'ennesima conferma dell'ovvio.

Non si sarebbe mai aspettata di sentirla abbassarsi e sbloccarsi come niente fosse, come se il suo tocco l'avesse convinta ad aprirsi per lasciarla passare. Fu un movimento così repentino e così naturale che le ci volle un attimo per realizzare il tutto.

Ann sbarrò gli occhi, le lenti degli occhiali ora offuscate dalla differenza di temperatura tra l'aria al di fuori e quella proveniente dall'interno. Si guardò attorno, confusa, sperando che nessuno avesse preso quel gesto come un possibile tentativo di effrazione. L'intera Soho, però, sembrava aver cancellato del tutto la sua esistenza, come se attorno a lei ci fosse una specie di bolla che la rendeva invisibile.

    Spinse un po' la porta, facendo suonare la familiare campanella che sempre aveva annunciato il suo arrivo. «C'è nessuno?» Chiese, ma la sua voce si perse nel vuoto e nella polvere. 

Forse non avrebbe dovuto farlo. Si sporse con la testa oltre l'uscio pensando che, sicuramente, si erano dimenticati di chiudere la porta, il che era decisamente un grosso problema. Entrare l'avrebbe messa in una posizione oltremodo scomoda e ambigua, quando la cosa più saggia da fare sarebbe stata chiamare qualcuno e assicurarsi che la famiglia si rendesse conto di- troppo tardi. Le sue gambe si erano nuovamente mosse di loro sponte.

La porta si chiuse, Ann portò il vassoio sul bancone e notò che i "Sonetti" erano ancora lì, abbandonati, senza le sapienti e ben curate mani che avrebbero dovuto rimetterli al proprio posto. Osservò la miriade di scatole lasciate sul pavimento e sentì qualcosa stringerle il cuore alla vista di tutti i libri che erano stati tolti dagli scaffali e spostati altrove. Non avrebbe saputo dire cosa la famigliola avesse intenzione di fare: dare una sistemata agli scaffali in attesa di libri nuovi, magari? Forse il motivo era semplicemente quello e Zac ci aveva visto giusto.

Per un lungo, interminabile minuto, il silenzio piombò. Nessun'auto o persona al di fuori era udibile, le orecchie di Ann presero a fischiare lievemente e il mix di odore di chiuso, carta vecchia e antico le pervase le narici. Non c'era più odore di tè, però; né di cioccolata calda. Non c'era più il metaforico calore che normalmente pervadeva quel luogo, ora ridotto ad un guscio vuoto. Nell'aria aleggiava solo il senso di abbandono, come se quello fosse il centro di un deserto o lo spazio in mezzo ad una carcassa vuota.

Se si concentrava abbastanza, la giovane poteva quasi sentire il filo conduttore che legava la libreria al pub di fronte. Non si trattava solo dei proprietari, ma del senso generale di sbagliato. Così come ci sono regole non scritte nel mondo, ci sono anche cose che, quando non vanno, si vede e si sente. È una specie di istinto, qualcosa che ti fa capire quando dovresti metterti a riparo o quando dovresti fare il primo passo. 

Riprese il cellulare: Zac non aveva ancora risposto, ma al momento non era importante. Aprì una nota e vi ticchettò freneticamente sopra, appuntandosi tutto ciò che la sua mente continuava a rielaborare da ormai poco più di ventiquattro ore, come fosse un disco rotto che girava a vuoto, intonando sempre la stessa melodia. Ancora, ancora e ancora.

    Mai si sarebbe basata tanto su una sensazione. Avrebbe dovuto seguire il consiglio che Zac le aveva rivolto quella mattina, alzando gli occhi al cielo: «Ricorda l'undicesimo comandamento, Ann. "Fatti i fatti tuoi". A meno che tu non sia Mary, ficcare il naso in affari altrui non porta mai a nulla di buono.»

Ma era impossibile. Non avrebbe saputo dire perché; semplicemente, quella questione l'aveva circondata come una pattuglia davanti al luogo di una rapina.

A proposito... Meglio assicurarsi che non accada davvero, si disse. 

Uscì di corsa, chiudendo la porta e sperando che nessun altro la riaprisse. Non che ci fosse granché da rubare in una libreria, ma il signor Fell era pieno di talmente tante cose stravecchie che anche un ignorante in antiquariato avrebbe potuto pensare che valessero qualcosa. 


**


Chiusa nel suo appartamento, Ann rimase alcuni minuti a fissare il suo smartphone. Le parole che aveva digitato di fretta l'avevano aiutata a creare una mappa mentale degli avvenimenti. 

Non sapeva a chi rivolgersi o se rivolgersi effettivamente a qualcuno. Aveva paura di essere presa per pazza, e forse lo era davvero. Forse ci stava pensando troppo e i tumulti che sentiva dentro erano causati da qualcos'altro, qualcosa di innocuo e assolutamente normale. Assolutamente spiegabile.

La mattina stava lentamente sfumando nel primo pomeriggio e presto sarebbe dovuta tornare a lavorare. Avrebbe dovuto lasciare da parte la questione e concentrarsi sulla sua routine, ma era ormai chiaro che i metaforici fili rossi di collegamenti nella sua testa avrebbero soffocato tutto il resto.

Qualcosa non va, si disse per la centesima volta. Ma cosa?


Il cellulare si mise a squillare di colpo, strappando Ann dai suoi pensieri. Era Mary.

Rispose senza pensarci su due volte. Il suo capo chiamava spesso, vuoi per riferire una storia interessante o vuoi perché era finito il prodotto per pulire la cassa. Il tono con il quale parlò, però, fece subito aggrottare le sopracciglia alla giovane.

    «Ehi, Annie,» esordì Mary, evidentemente preoccupata. «Stai bene, cara?»

    Ann sbatté gli occhi, confusa: «Certo, perché non dovrei?»

    «Zac ha letto un tuo messaggio ed è volato fuori dal negozio. Era bianco come un cadavere! Ho pensato ti fosse successo qualcosa.»

    La ragazza saltò subito giù dal divano. «In che senso? Sta bene?»

    «Non ne ho idea, tesoro» sospirò l'altra. «Ascolta, dovrebbe essere da te a momenti. Chiamami non appena succede qualcosa, ok?»

Ann acconsentì, chiudendo la chiamata. Adesso sì che era in panico. Scorse la chat con suo cugino e l'ultimo messaggio era il suo, quello che aveva inviato davanti al bar:

Ehi Zac, com'è che si chiama il pub? Non ricordo se me l'avevi detto.

Letto, visualizzato ma nessuna risposta.

Cosa c'era in quelle parole di così assurdo da mandare Zac in paranoia? Le cose che potevano farlo reagire in quel modo si contavano sulla punta delle dita e, date le circostanze e le sue reazioni inusuali nelle ultime ore, Ann non era più sicura neanche di quelle.


Si armò di pazienza, la voglia di chiamarlo sempre più pressante. Fortunatamente ci vollero solo quindici minuti prima che qualcuno bussasse alla porta: qualche colpo ritmato, quello che lei e Zac adoperavano da sempre per riconoscere l'arrivo l'uno dall'altra. 

    Volò all'ingresso e lo aprì di colpo. La sola vista del cappotto fradicio del cugino la fece stare istantaneamente meglio. «Zac, che c'è?» Chiese subito, quasi istintivamente.

Ma Zac non rispose. Se ne stava sull'uscio, le maniche gocciolanti, gli occhi scuri e lo sguardo stravolto fissi sullo schermo del telefono. Ann diede un'occhiata veloce al display e scorse la loro conversazione, il messaggio del pub, quell'unica domanda.

    «Zac,» ripeté con urgenza, mettendogli una mano sulla spalla. 

    L'altro sbatté gli occhi un paio di volte, poi balbettò: «Non lo so.»

Furono tre parole impercettibili che si bloccarono nel corridoio come fossero incastrate nel cemento armato.

    «Cosa, Zac? Cosa non sai?» Chiese Ann, quasi pregandolo di riprendersi, troppo spaventata per fare il collegamento che avrebbe dovuto fare.

    «Non so come si chiama il pub,» chiarì il rosso, l'espressione invariata. «Lo sapevo, lo giuro, solo... Aveva un gran bel nome, ma...»

    La ragazza sbarrò lentamente gli occhi. Una scarica di adrenalina le cadde addosso come un velo, portandola ad afferrare entrambe le spalle di Zac. «Non lo sai più?»

L'altro scrollò la testa.


Ora sì che decisamente qualcosa non quadrava.


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Capitolo 4
*** Tra chi non sa più e chi sa troppo ***


Se ne stavano sul divano del salotto, immobili davanti alla televisione spenta. Al di fuori la pioggia e il traffico la facevano da padroni, dando loro un rumore sordo di sottofondo e la possibilità di ascoltare i propri pensieri. Una cosa era certa: Ann sentiva i suoi correre impazziti, rotti solo dalla vista di Zac inebetito accanto a lei. Il rosso aveva lo sguardo perso nel vuoto, la fronte che si aggrottava a ritmo delle sue preoccupazioni. Di tanto in tanto dava un'occhiata al cellulare, rabbuiandosi ogni secondo di più.

    «Niente?» Gli chiese Ann.

    «Ho chiesto a Sam, il mio collega, se sapesse qualcosa riguardo al pub» iniziò lui, passandosi la mano sugli occhi. «Ha liquidato la domanda come se non gliel'avessi mai fatta. Non è da lui, Ann. Mi racconta sempre tutto quello che gli capita a lavoro.»

Seguì un altro lunghissimo attimo di silenzio che la giovane utilizzò per accarezzare il braccio del cugino, il quale era troppo sopraffatto dalla situazione per rendersene conto.

    «Avevi ragione tu. Qualcosa non va e inizio seriamente a preoccuparmi» riprese Zac, il fiato corto e un panico che Ann non gli aveva mai visto addosso. «Stesse succedendo solo a me, sarei già corso da un medico. Ma questo?» Indicò il cellulare, «Cos'è? Isteria di massa? Amnesia collettiva?»

Sembrava sull'orlo di una crisi di nervi, anzi, era decisamente sull'orlo di una crisi di nervi.

    «Ascolta,» prese a dire Ann, spostando la mano sulla sua schiena in un disperato tentativo di calmarlo. «Facciamo così: chiamo Mary, le dico che non ti senti bene e che ho bisogno di farti compagnia. Poi ti preparo un té, ti rilassi, e raccogliamo le idee. Ti piace come piano?»

    Zac fece un mezzo sorrisetto: «Mary non ti liquiderà così, lo sai, vero? Si preoccuperà, vorrà sapere tutto e fiuta le bugie peggio di un segugio.»

    «Troverò una soluzione. Tu cerca di rilassarti.»


Fu facilissimo a dirsi ma difficilissimo a farsi.

Chiusa nella cucina, Ann dovette discutere con la sua ora preoccupatissima datrice di lavoro per cinque minuti buoni.

    «Lo hai portato all'ospedale?» Aveva chiesto Mary. «Se vuoi passo io e vi ci porto.»

    La giovane sospirò: «Non ce n'è bisogno, ascolta: ha solo bisogno di un po' di riposo, credo che-» e qui dovette fermarsi in modo da saggiare bene le parole, «Credo che l'aver perso il lavoro lo abbia scombussolato più del previsto.»

Era una mezza bugia, ma anche una mezza verità. Sperò ardentemente che avrebbe funzionato.

    Mary sospirò: «Posso assicurarti che semmai dovessi rivedere il suo capo, gli darò una bella mazzolata.»

    Sembrava decisamente poco convinta, ma Ann non poté che farsi scappare una leggera risata a metà tra lo sconforto e l'immagine di una Mary vendicativa. «Non ce n'è bisogno» ripeté. «Mi prenderò cura di Zac, e se vuoi domani faccio un salto ad aiutarti.»

    «Non preoccuparti, cara. Pensa a farlo riprendere per adesso. Magari ci mettiamo d'accordo per dopodomani, mh? E chiamate un medico, per l'amor del cielo. Tutta quest'ansia in giovane età non fa bene.»

Ann le disse che avrebbe chiamato qualcuno in caso d'emergenza e la ringraziò di cuore. Chiuse la chiamata tirando un sospiro di sollievo e mettendosi a fare il tè a entrambi. Almeno adesso potevano stare tranquilli per un po'.


Una coperta sulle spalle e qualche sorso dopo, Zac iniziò lentamente a calmarsi. Aveva lasciato il cellulare sul tavolino davanti al divano e lo aveva ignorato, come se riprenderlo in mano potesse provocargli un altro mezzo attacco di panico.

    «Stai meglio?» Gli chiese Ann, mettendogli da parte la tazza vuota.

    «Sto ancora cercando di spremermi le meningi, ma...» scosse il capo. «Non capisco, Ann. Tu ci sei arrivata subito, e io mi sento come se avessi un buco in testa.»

    «Posso assicurarti che sembra anche che tu ne abbia fisicamente uno» commentò l'altra. «Dovresti dormire. Poi se vuoi ne riparliamo. Vuoi che passi dal tuo appartamento a prenderti qualcosa?»

Si misero d'accordo e Zac le diede le chiavi di casa per andare a raccattargli il pigiama e lo spazzolino. Li separavano solo un paio di rampe di scale, perciò non ci volle che qualche minuto.

Quando tornò, suo cugino stava già sonnecchiando sul divano e tanto bastò a farle tirare un respiro di sollievo. Gli posò una mano sulla fronte, ma non sembrava essere particolarmente calda. Almeno non aveva la febbre, anche se forse quella sarebbe stata una spiegazione più che logica per la sua confusione mentale. Andò comunque a raccattargli le compresse che teneva nell'armadietto in bagno e che con lei avevano sempre fatto miracoli con il mal di testa.

Non le rimaneva che aspettare, così prese un plaid per se stessa e andò a sedersi davanti al divano, app delle note aperta tra le mani e un occhio sempre vigile su Zac, che fortunatamente non sembrava avere problemi. Sperava riuscisse a riprendersi abbastanza da affrontare il discorso che stavano per avere.


Un'ora dopo, il rosso iniziò a stirarsi piano ed Ann fu subito al suo fianco. Attese che riaprisse gli occhi per chiedergli di nuovo come si sentisse.

    «Meglio» affermò lui con un sorriso.

L'aria si fece subito più leggera, così come il cuore della giovane. Zac era l'unico parente e amico che aveva accanto ventiquattr'ore al giorno: vederlo in difficoltà era una cosa che avrebbe volentieri evitato di ripetere. Gli voleva troppo bene per vederlo ridotto in quello stato ma, da un lato, era anche felice di non essere sola in mezzo a quella storia.

    «Ti ho preso questa» gli disse porgendogli la pastiglia e il bicchiere d'acqua che aveva già preparato sul tavolino. «Spero aiuti.»

    Zac si mise a sedere e le accettò volentieri. «Grazie, Annie. Sei un angelo.»

    Aspettò che suo cugino finisse di bere per riprendere il cellulare. «Ho fatto una lista degli eventi» disse, facendola scorrere davanti agli occhi dell'altro. «Cerchiamo di partire dal principio e vediamo cosa può aver causato la tua amnesia.»

Zac non poté che essere d'accordo.

    Ann allora iniziò: «Bene, la prima cosa fuori dal normale è stato il libro.»

    «Ah sì. Dicevi sempre che il signor Fell non li voleva fuori dalla libreria,» rammentò l'altro. «Ma perché ha una libreria, allora?»

Ann fece spallucce. Non si era mai posta il problema, seppur - come tutti - si fosse spesso fatta domande. Era così e basta: Fell era eccentrico a modo suo, e comportamenti del genere gli calzavano come un guanto. Alla fine si erano messi tutti l'anima in pace.

    Ma quell'incantesimo non sembrava funzionare tanto bene su Zac, il quale emise un "mh" molto poco convinto, prima di affermare: «E quindi il fatto che a te ne abbia dato uno è strano.»

    «Esatto. Me lo ha lasciato per tre giorni, raccomandandomi di stare attenta ed evitare che si spargesse la voce. Non ho idea del perché. Non so perché a me e perché così di colpo». Ora che lo diceva ad alta voce, Ann si rese conto di quanto effettivamente assurda fosse quella cosa.

    «Tre giorni» rimuginò il rosso. «Il signor C c'era in quel periodo, di questo sono certo. È mancato solo il giorno prima del messaggio che annunciava la chiusura.»

    Stava facendo uno sforzo immane per ricordare, tanto che Ann credette di vederlo sbiancare. Lo costrinse a poggiarsi allo schienale del divano, intanto che ragionava. «Quindi sono spariti tra la notte dell'otto e la mattina del dieci ottobre?» Chiese a sé stessa, fissando le date sul calendario del suo smartphone. «Hai detto che il tuo capo ha un'auto d'epoca. Se non lo hai più visto in giro, è probabile che siano andati via con quella». Tutte quelle puntate di CSI stavano dando i loro frutti.

    «È una possibilità» affermò Zac. «Te l'ho detto: sembrano molto uniti.»

    «Va bene, possiamo accettare il fatto che siano andati insieme da qualche parte. Ora: cosa di così importante porterebbe qualcuno a chiudere temporaneamente bottega?»

    «Beh, il classico. Matrimoni, battesimi, compleanni, funerali o che so io» elencò il rosso. «Ricordi cosa ti ho detto da Mary? Può anche essere che siano fuori per lavoro, o che uno dei due lo sia e l'altro lo abbia accompagnato.»

    Ann annuì. Poi affermò: «Beh, non conosco il signor C, ma se io dovessi andare via per qualsivoglia motivo, avviserei in modo dettagliato i miei dipendenti e di certo non con un messaggino.»

    L'altro rise appena, più che d'accordo. «Funerale, allora. Forse ha perso qualcuno, era triste e non è riuscito a comunicarcelo.»

    «E l'amore della sua vita-barra-migliore amico ha voluto stargli vicino» completò Ann. «Prendiamola come possibilità. Questo comunque non spiega cosa stia accadendo a te e ai tuoi colleghi.»

    Ci furono cinque intensi secondi di silenzio in cui Zac aveva ripreso a pensare e in cui Ann lo aveva osservato, in pensiero. «E la libreria?» Chiese lui d'un tratto. «Tu ricordi bene tutto della libreria, giusto?»

    Ann non dovette nemmeno pensarci: «Certo che sì. Però, ora che mi ci fai pensare, non ero l'unica "cliente abituale", per così dire. C'era altra gente che sembrava venire a cadenza regolare. Non ho più visto nessuno di loro avvicinarsi alla libreria, nemmeno per curiosità. Ma potrebbe tranquillamente essere una coincidenza...»

    Zac annuì. «Facciamo finta per un secondo che la famigliola sia effettivamente l'unica a mettere piede lì dentro, allora. Mi hai detto che sembravano stupiti, come se non ti volessero lì. Giusto?»

    Qualcosa fece un metaforico "clic" nella mente di Ann. «Non si aspettavano nessuno» mormorò.

    «E la libreria non ha mai ufficialmente chiuso» riprese Zac. «Niente volantini, niente cartelli, niente avvisi... solo tre persone a caso spuntate dal nulla una mattina. Com'è possibile che non si aspettassero l'arrivo di uno dei frequentatori? Se sono lì per dare una mano, poi.»

    «Già. E poi parliamo di tre persone - anzi, due senza contare la piccola - che si sono trasferite lì dentro e hanno iniziato a tirare fuori i libri dagli scaffali. Sono stata lì stamattina: ho visto in che stato è ridotto il posto» disse Ann, tutto d'un fiato. «Si sente il vuoto, lì dentro. Non hanno nemmeno chiuso la porta prima di andarsene.»

    Con un sospiro, il rosso prese a massaggiarsi le tempie. Era bianco come un lenzuolo. «Tu, cosa

    Ann capì di aver parlato troppo. «So a cosa stai pensando. Volevo solo passare a chiedere scusa per il disturbo e ho trovato la porta aperta. Loro non c'erano-»

    «E sei entrata?!»

    «Zac, calmati. Non mi ha vista nessuno.»

    «Come può non vederti nessuno a Soho, Ann?»

Si guardarono per un attimo. Attimo in cui entrambi i loro volti assunsero una o più sfumature di sbigottimento.

    «Già...» disse Ann. «Come può non vedermi nessuno nell'affollatissimo quartiere di Soho?». Le tornò in mente quell'assurdo momento davanti all'ingresso in cui si era sentita invisibile. Era durato poco, subito travolto dalla sua curiosità e dalla sua entrata clandestina, ma era stato davvero strano.

    Zac non era convinto. «Non dire idiozie, qualcuno lo avrà sicuramente notato.»

    «A me non è parso, e sono stata lì una buona manciata di minuti.»

    «È comunque effrazione, Ann. Ti sei bevuta il cervello?»

Era ormai chiaro a entrambi che non sarebbero mai andati da nessuna parte in quel modo. Zac dovette far cadere la questione non proprio a cuor leggero, facendo promettere ad Ann che non avrebbe mai più fatto una cosa del genere. Lei ovviamente acconsentì.

    «Cos'altro hai nella tua magica lista?» Riprese lui.

    Ann prese a scrollare: «Tu che ti comporti in modo strano e il senso di desolazione in quella strada. Oltre al logo del pub». Poi sbarrò gli occhi: «Aspetta, ricordi il logo del pub, vero?»

    Zac annuì, passandosi una mano sugli occhi. «Il serpente, sì. Me lo ricordo.»

Tutte le volte che doveva pensare a qualcosa riguardante il suo luogo di lavoro, sembrava sul punto svenire, ed Ann arrivò subito alla conclusione che non poteva essere un caso.

    «Credo sia il suo animale preferito,» riprese il rosso. «Ne ha uno tatuato sulla tempia. La tempia, Ann. Hai idea di quanto faccia male?»

    In effetti, alla giovane salì un brivido lungo la schiena. Almeno la cosa fece sorridere un po' entrambi. «Non è l'unico, sai?» Aggiunse poi. «Indovina chi ne ha uno come animale domestico?»

    Zac sbarrò così tanto gli occhi che Ann credette che avrebbe potuto perderli. «Ma è legale una cosa del genere?»

    L'altra fece spallucce: «Avrà un qualche tipo di permesso. È una creatura stupenda: dovresti vederla. Comunque, è per questo che me lo sono segnato.»

    Il rosso scosse la testa, incredulo: «Fell con un serpente. E io che quando lo guardavo gli affibbiavo al massimo, che ne so, un gatto persiano.»

    Ann ridacchiò: «Quando impari a conoscerlo non ti sembra poi così strano.»

    «Se lo dici tu. Altro?»

    «Direi di iniziare dalle cose più ovvie». Ann aprì tutti i possibili social media di cui disponeva - ma in cui non postava poi granché - e si fece più vicina a Zac perché potesse vedere lo schermo nella sua interezza. «Ho già provato tempo fa a vedere se la libreria fosse su qualche sito web, ma quel posto non è solo vecchio come il mondo: funziona anche come un posto vecchio come il mondo.»

    Zac sbuffò divertito: «E scommetto che mister in beige e papillon non sa nemmeno cosa sia un sito web.»

    «Non mi stupirebbe. Ho provato a cercare anche lui ma, uno: non so quale sia il suo nome, e a giudicare dall'insegna della libreria pare ne abbia addirittura due. E, beh...»

    «Probabilmente non ha nemmeno idea di cosa sia un social?»

    «Già. Il che ci lascia con una sola opzione.»

    Con un sussulto, il rosso si sbatté una mano in faccia: «Ma certo! So cosa vuoi fare.»

    Ann gli sorrise: «Esatto. Il signor C ha un nome?»


Anthony J. Crowley sapeva benissimo cosa fosse un social, per fortuna. Zac non aveva idea di quale fosse il suo secondo nome ma, a parte quello, il fatto che si ricordasse certi dettagli era rincuorante.

    Anche lui aveva dei profili abbastanza scarni, ma decisamente più interessanti di qualsiasi cosa Ann avrebbe mai potuto sperare di trovare. «Vive a Mayfair?» Chiese ad un certo punto, sconvolta. Il nome del quartiere era ben esposto sotto la foto della pianta da appartamento più verde del mondo. «Lavori per un milionario o qualcosa del genere? Gli affitti lì costano l'ira di Dio.»

    «Annie, quello lì ha una Bentley. L'ultima volta che ho cercato quanto potesse valere un gioiellino d'epoca simile al suo, mi è venuto male. E poi,» precisò Zac, «nemmeno Soho è economica e il tuo libraio preferito nemmeno li vende i libri. Secondo me veniamo a scoprire che sono ladri internazionali ricercati in mezzo mondo.»

    «Potrei scriverci un libro. Grazie cugino.»

    «No, no: sono serio. Come te la spieghi?»

    Ann non poté soffocare una risata: «E l'amnesia di massa l'hanno provocata loro con uno scientifico e tecnologico aggeggio che rilascia sostanze tossiche nell'aria, o cose del genere?»

    «Può essere. Ne riparleremo quando verremo braccati dall'Intelligence britannica.»

Si misero a ridere entrambi, seppur la situazione fosse effettivamente strana. Più cercavano di scavare, più erano le assurdità in cui si imbattevano. Se non fosse stato per le condizioni di Zac, Ann lo avrebbe persino trovato intrigante.

    «Va bene. Vediamo chi ha tra gli amici il nostro Arsenio Lupin» disse lei, riportandoli alla realtà. Fece giusto un altro veloce giro di foto e notò un paio di selfie, più altre foto ovviamente scattate da qualcun altro. «Wow» esclamò, aprendone una.

    «Già. Mary non ha tutti i torti: guardalo. Ce lo vedi a girare con quel marshmallow di Fell?»

    In effetti, erano l'uno l'esatto contrario dell'altro. Crowley era magro, in ogni foto era vestito di nero, aveva un bel paio di occhiali da sole che - Ann avrebbe potuto scommetterci - rientravano in quella categoria di cose delle quali era meglio non conoscere il valore, e aveva dei ben acconciati capelli rossi - non come quelli di Zac, il vero e proprio pel di carota, ma rossi come le ciliegie mature. «È carino» commentò. Non avrebbe saputo dargli un'età, ma di certo dimostrava meno anni di quelli che aveva. Un po' come lei. Un po' come il suo compare.

    «Credimi, sa bene di esserlo» disse Zac con un sorrisetto. «Dovresti vedere come si atteggia. Sono sicuro che lo faccia apposta: non si è mai nemmeno tolto gli occhiali. Secondo me è strabico, o qualcosa del genere.»

    Ann ridacchiò: «Ma dai, poverino. Per me si sente figo così.»

    «Oppure è cieco. O magari entrambe.»

Alzando gli occhi al cielo, la ragazza tornò a fare quel che stava facendo in precedenza. Con una punta di tenerezza, riconobbe molti colleghi di Zac - e Zac stesso - nella lista. Insieme a un po' di gente che non conosceva e-

    «Oh mio Dio, eccoli!» Esclamò, indicando lo schermo. «I due della libreria.»

    «Il mondo è piccolo» commentò il rosso. Poi inarcò un sopracciglio: «Va bene. Chi cavolo chiamerebbe mai la propria figlia "Anathema"?»

    «O il proprio figlio Newton.»

    «Non oso immaginare come si chiami la bambina.»

    «Grace» disse Ann in un soffio, con la stessa leggerezza di un singhiozzo.

I due secondi di silenzio che calarono le fecero fischiare le orecchie. Le salì una specie di formicolio lungo la schiena e sbarrò gli occhi, ancora puntati sullo smartphone ma ormai incapaci di vederlo.

    «Aspetta, te l'hanno detto?» Chiese Zac, confuso. «Pensavo che non-» si bloccò per un attimo, ora sconvolto quanto la cugina. «Non... Non te l'hanno detto, vero? Hai sparato un nome a caso?»

Ann non seppe bene cosa rispondere. Tecnicamente sì: aveva sparato un nome a caso, ma qualcosa le aveva suggerito che quello era il nome giusto.

Fece la cosa più logica che le venne in mente. Aprì il profilo della giovane con il nome improponibile e diede un'occhiata veloce alle informazioni e alle foto. Ce n'era una - sicuramente scattata dal compagno - della piccolina appena nata nella culletta. Sotto alla suddetta foto c'era un solo nome, seguito da un cuore.

    Il respiro le si bloccò in gola. Udì a malapena Zac che la richiamava. Con un filo di voce disse solo: «Si chiama davvero così.»

    Suo cugino mise subito le mani avanti: «Va bene, va bene. Può essere una coincidenza.»

    «Non lo so, Zac. È come se lo sapessi già. Io-» si bloccò. Lei cosa? Non sapeva come spiegare il repentino ed automatico ragionamento della sua mente.

    «Quindi, fammi capire bene» riprese l'altro. «Io dimentico le cose e a te ne vengono in mente altre che non dovresti sapere?»

    «Beh, ehm, a quanto pare?»

    Zac si lasciò cadere sul cuscino, cosa che portò Ann a catapultarsi al suo fianco. «Va bene: ora, gentilmente, mi dai una spiegazione logica a tutto questo» lamentò lui, un braccio sulla fronte.

    «A questo punto non credo ci sia, sai?» Rispose l'altra, prendendogli una mano e fissando lo smartphone nell'altra. Fu mentre scorreva distrattamente il profilo della neomamma che notò una voce che all'inizio era passata inosservata: «Anche perché la ragazza è un'occultista.»

    Zac la guardò storto: «Quindi Ana-cosa è una Man in Black? Una Ghostbuster o che so io?»

    Ann sorrise appena. «Direi più una strega. Tu non l'hai mai vista, ma posso assicurarti che sembra una modella da quant'è carina: le caratteristiche le ha tutte.»

    «Rincuorante» commentò l'altro in modo palesemente sarcastico. «Quindi? Abbiamo a che fare con i fantasmi adesso?»

    «Non penso che gli occultisti si occupino di queste cose. O almeno credo...»

Ann si rese conto di essere assolutamente ignorante in materia. Quelle erano cose che leggeva negli horror, alle volte nei gialli, ma mai avrebbe immaginato di ritrovarsele davanti nella vita reale.

    «Senti, forse non ti piacerà,» disse poi, stringendo un po' di più la mano di Zac. «Ma forse lei è la persona perfetta a cui chiedere.»

    Il rosso non parve convinto: «Non mi pare tu le vada a genio, sai? E poi: sicuramente è in combutta con i nostri due possibili nemici della legge. Conosce sicuramente il mio capo, e di conseguenza potrebbe conoscere Fell. Ergo: non ti dirà una parola.»

    Ann sospirò. Sì, Zac aveva assolutamente ragione - non riguardo alla storia della malvivenza, ma riguardo al resto. Forse però poteva esserci una via d'uscita da quella situazione. Nella sua testa iniziò a formarsi un'idea, un'altra che suo cugino non avrebbe amato particolarmente: «Io non le vado a genio, forse è vero, ma conosciamo entrambi una persona dal chiacchiericcio facile e dal fiuto di un segugio alla quale questa storia piacerebbe» disse poi, cercando di sorridere.

    Zac sbarrò gli occhi: «Mary? Sei sicura di volerla coinvolgere?»

    «Beh, tu stai male e di certo non puoi andare là fuori ad indagare per adesso. I tuoi colleghi sono messi peggio di te e nessuno dei miei conoscenti gira per Soho. Vedi altre alternative?»

    Con un sospiro, il rosso si riaccasciò sul divano: «No, in effetti no.»


Così, decisero di chiamare Mary il giorno seguente. Nel frattempo pensarono di chiudere la questione, o meglio: Ann pensò di chiuderla per il bene di Zac.

Si distrassero guardando un po' di televisione, ed Ann preparò qualcosa di caldo per entrambi a cena. Suo cugino riprese a poco colore e vitalità, ma nulla gli impedì di crollare sul divano qualche ora dopo. Fisicamente sembrava stare ancora bene, perciò la ragazza si limitò a rimboccargli le coperte e a sperare che si riprendesse del tutto: aveva decisamente bisogno di lui in mezzo a quel marasma di eventi al limite del credibile.

Nel silenzio della tarda serata riuscì anche a rimettere in ordine i pensieri. Il nome della piccola si era ormai adagiato nella sua testa come un ospite che entra e si siede comodamente sul divano di casa, così, come fosse sempre stato lì. Si rese conto di tutte le altre cose istintive che le erano successe: la pasticceria di quella mattina, per esempio. Il suo tentare di aprire la libreria - pur sapendo che nel novanta percento dei casi sarebbe stata chiusa - non era stata un'azione completamente guidata dalla sua curiosità. Ancora prima, la sua voglia di andare a controllare cosa stesse accadendo nell'edificio era stato un pensiero fisso che l'aveva poi portata ad avere tutti quegli sguardi confusi addosso. 

Andò in camera sua, appuntò tutto ciò che le veniva in mente e mise in carica il cellulare. Non era spaventata: era più in ansia, e non avrebbe saputo dire se fosse una buona cosa o meno.

    «Ho bisogno di distrarmi» si disse, afferrando il suo quadernetto. Ci aveva scritto tante possibili idee di trame per un ipotetico futuro libro: un sogno lontano che solo poche volte aveva avuto il coraggio di considerare fattibile. Insieme ad esse, sbucavano gli appunti dei "Sonetti" con tanto delle migliori frasi che vi aveva trovato dentro.

Ce n'era una in particolare, presa dal sonetto 116, che l'aveva particolarmente colpita. Era famosa, tanto da averla sicuramente già letta o sentita da qualche altra parte, ma l'averla assaporata con calma e in solitudine le aveva fatto prendere un senso nuovo. Recitava:

Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio.

Se questo e' errore e mi sara' provato, Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

    «È incredibile che la tua opera più famosa sia "Romeo e Giulietta" quando eri capace di scrivere versi del genere» disse Ann al foglio che si era già messa a strappare lungo il bordo. Lo andò ad appendere alla bacheca dove aveva appuntato qualche bella foto di famiglia e si disse che faceva proprio bella figura.

L'indomani, si disse, avrebbero provato a dare un senso a tutta quella storia.


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Capitolo 5
*** Furto con scasso ***


Non furono loro a chiamare Mary, ma Mary a chiamare loro.

Era mattina, Zac si era finalmente alzato dal divano per andare a far colazione con Ann in cucina. Non avevano ancora ripreso a parlare degli eventi della sera prima, e il silenzio attorno a loro venne improvvisamente interrotto dallo squillare del cellulare di Ann. 

    Già si immaginavano il classico: "Come state? Tutto bene? Siete andati da un medico?" Ma nulla di tutto ciò accade. Anzi, neanche il tempo di mettere il vivavoce che: «Non crederete mai a cos'è successo» esordì Mary.

    Ann e Zac si guardarono stralunati e fu lei a rispondere: «Ehm, cos'è successo?»

    «Sono andata a spostare un appuntamento dalla parrucchiera,» iniziò l'altra. In sottofondo si sentivano chiaramente il rumore del traffico e quello dei suoi tacchetti sull'asfalto. «E lì ho incontrato una vecchia amica. Si chiama Tracy e non ci vedevamo da anni! Se n'è andata via tempo fa con il nuovo amore della sua vita per allontanarsi dalla città.»

    «Beh, buon per te» commentò Zac con un sorrisetto ed una scrollata di testa.

    Mary ridacchiò: «Oh, ma non sono ancora arrivata alla parte interessante. È tornata per fare un favore ad un paio di amici: dice che sono occupati e non c'è nessuno che badi alla loro bambina.»

    I cugini si fissarono di nuovo, occhi sbarrati e un'ansia generale già annidata nei loro stomaci. «U-un paio di amici?» Ripeté Ann.

    «Esatto. Un paio di amici che, a quanto pare, sono al momento impegnati nella tua libreria preferita perché il proprietario non c'è. Appena me l'ha detto, ho capito che saresti stata interessata». Stava usando il tono da uccellino canterino che adottava quando una questione la attraeva particolarmente. Forse convincerla sarebbe stato più semplice del previsto. «D'altronde» continuò, «Ha detto che li conosce e si sentono da ormai cinque anni, e che il suo uomo ha lavorato per un sacco di tempo per la famiglia del signor C. Sembra proprio che Londra non sia grande come sembra, eh?»

    Quindi c'erano molte più persone implicate in quella storia del previsto. Dopo un cenno da parte di Zac, ormai sul bordo della sedia, Ann chiese: «E ti ha per caso detto dove siano andati il signor Fell e il suo amico?»

    «No, ma stai certa che lo scoprirò» canticchiò Mary. «So come far chiacchierare Tracy. A dirla tutta: so come far chiacchierare chiunque.»

I due sorrisero: era bello sapere che, di tanto in tanto, la vita ti viene incontro.

    «Ehi Mary» esclamò poi il rosso. «Cosa ne pensi del paranormale?»

    «È bizzarro che tu mi abbia fatto questa domanda» rispose la donna con fare furbetto. «Perché me lo chiedi?»

Se c'era una cosa che Mary amava oltre al raccontare storie, era il sentirsele dire. Senza scendere nei dettagli più bizzarri, i cugini la informarono di come Ann avesse conosciuto i due della libreria, di Anathema e del suo lavoro; cosa che parve suscitare un certo stupore nella donna dall'altra parte della cornetta.

    «Anche Tracy lavorava nel paranormale, così come il suo uomo e, a rigor di logica, la famiglia del signor C» spiegò poi quest'ultima. A giudicare dal rumore ora più ovattato, era ovvio fosse entrata in negozio. «Non è intrigante? Mi chiedo se i vostri uomini scomparsi non siano finiti in mezzo a qualche strana trama da film horror.»

    «Preferivo l'Intelligence» commentò Zac sottovoce, ora un po' mesto.

    Ann, dal canto suo, si disse che - a quel punto - doveva ovviamente essere per questo che le cose stavano prendendo una strana piega. Normalmente avrebbe fatto un sorrisetto confuso davanti a certe storie, ma date le condizioni di suo cugino - e in parte anche le sue - era persino disposta a crederci. Come disse Sherlock Holmes: "Quando hai eliminato l'impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità". «Hai detto cinque anni fa?» Chiese poi, mettendo in background la chiamata e aprendo le solite note.

    Mary emise un "mhmh". «Esattamente. Che se non sbaglio è anche l'anno in cui ha aperto il pub.»

    Zac annuì: «Cinque anni fa, subito dopo l'estate. Il terzo colloquio di lavoro in una stagione non si scorda mai.»

    «Sono felice di sapere che volete indagare con me» riprese l'altra. «Magari vi distraete un po'. A tal proposito: tutto bene? Siete andati da un medico?»

Per quanto sapessero che prima o poi sarebbe stato necessario metterla al corrente su tutto, Ann e Zac optarono di fare con calma - un po' anche per paura di mandare Mary in confusione dopo l'occasione che si erano ritrovati davanti. Mentirle sarebbe stato inutile, perciò le dissero che non ce n'era stato bisogno (che in parte era vero), che Zac stava già meglio (fortunatamente, anche quello era vero) e che era bastato un po' di riposo e il tutto si era risolto.

Mary parve soddisfatta e li lasciò con un paio di baci dal momento che doveva correre da un cliente. 


    Poco dopo, davanti al pc di Ann, Zac si mise subito a rimuginare: «Quindi mi stai dicendo che sei tizi un sacco strani si sono incontrati tutti cinque anni fa. E guarda caso, cinque anni esatti dopo iniziano a succedere cose altrettanto strane che li riguardano più o meno tutti». Sospirò, si passò le mani sugli occhi e continuò: «Non può essere un caso, vero? Nemmeno il nostro coinvolgimento. E purtroppo non può esserlo nemmeno il fatto che più della metà di loro è coinvolta nel paranormale, o lo è stata, per quel che conta.»

    «Significa che dobbiamo iniziare a pensare fuori dagli schemi in qualche modo. Fuori dai binari della normalità.» rispose Ann iniziando a ticchettare sulla tastiera. «Prima di tutto, cinque anni fa. Vediamo un po' cosa riusciamo a trovare.»

    Tutti gli anni sono caratterizzati da eventi particolari. Ce ne sono alcuni che lasciano l'impronta più di altri ed entrano nella storia per i motivi più disparati, e la ricerca dei cugini fece risollevare più di un ricordo - il che fu un sollievo, soprattutto per Zac. «Oh aspetta,» disse infatti. «Ricordi? L'anno in cui hanno sparato tutte quelle baggianate su Atlantide.»

Uscivano sempre fuori notizie del genere, ma quell'anno fu davvero un casino. Il più degli avvenimenti venne catalogato come una voce, una bufala, una svista o una storiella ben architettata da qualche blogger fantasioso. Nel giro di una settimana era passato tutto e nessuno ci aveva più pensato.

    Ann sorrise: «Cielo, sì. Perché, ricordi la storia degli alieni?»

    «Sai, la cosa mi rincuora. Non è che magari abbiamo a che fare con sei teorici del complotto?»

    «Continui a dimenticare la tua amnesia e la mia strana conoscenza di cose che non dovrei sapere?»

    Zac sbuffò: «Mi piacerebbe poterlo fare, ma no» commentò. Poi aggrottò le sopracciglia: «Senti, tanto ormai abbiamo capito che nulla ha più senso, perciò: non è che se ti sforzi puoi farti venire in mente qualcos'altro?»

    Ann non era granché convinta: «Non è esattamente un super potere, sai?»

    «Almeno provaci.»

Non funzionò, soprattutto perché Ann non sapeva bene a cos'avrebbe dovuto pensare. Fino ad allora tutti i dubbi, le sensazioni e le conoscenze le erano arrivate in automatico, senza che lei si sforzasse. Lo spiegò anche a Zac: la pasticceria che non aveva mai visto ma della quale sembrava conoscere l'ubicazione e tutto il resto che si era appuntata la sera prima. Non aveva dormito che qualche ora, perciò aveva avuto tutto il tempo di ripensarci - e così facevano due notti insonni, si disse, ma non era stanca e tantomeno lo sembrava. Decise di omettere quest'ultima parte: suo cugino ne aveva sentite già troppe.

    «Va bene, evitiamo che esploda la testa anche a te» si arrese alla fine il rosso, rimettendosi a pensare. «Altra cosa assurda: il fatto che io e i miei colleghi ci siamo dimenticati del pub - o almeno, loro di sicuro - e il fatto che nessuno ti ha vista entrare in libreria, non ti danno come l'impressione che quei due posti non siano mai esistiti? Insomma pensaci: dire che una persona è andata via per qualche motivo è facile, ma far sparire un intero luogo no.»

    Ann sbarrò gli occhi: «Oh mio Dio, hai ragione. Questo spiegherebbe il senso di vuoto e desolazione. Stanno cercando di sparire?»

    «Forse non loro, o almeno: io mi sarei dimenticato del mio capo e non avremmo trovato mezzo profilo social. Ma i luoghi dove lavorano sì... Per qualche strano motivo.»

    Come per fare la prova del nove, Ann aprì una mappa virtuale e iniziò a girovagare per Londra. Incredibilmente, nessuno dei due fu così stupito nel vedere che né il pub né la libreria erano più segnati. Al loro posto c'erano due bei buchi vuoti attorniati da bar e altri edifici tra attività e appartamenti. «Va bene: ed ecco perché la coppia non si aspettava visite. Guarda caso, però, l'amica di Mary si ricorda della libreria. Quali possono essere i motivi per fare una cosa del genere?» Chiese poi lei.

    Zac scosse la testa: «Non lo so. Nascondere qualcosa? O nascondere qualcuno.»

    «O entrambe.»

Stamparono un po' delle pagine più bizzarre che avevano trovato riguardo agli avvenimenti di cinque anni prima. Poi decisero di frugare un po' di più nei social, ma i due della libreria erano gli unici ad avere più di dieci foto - ed erano tutte di loro stessi, di Grace e di qualche gita. Una cosa era certa: avevano bisogno di più informazioni se volevano svelare i segreti dietro a quella storia.

    «Forse ho un'idea» disse Ann dopo aver riletto qualche bizzarro articolo su un reattore nucleare scomparso - che si era rivelata una montatura. «Ma non so se ti piacerà.»

    Zac, che ne frattempo aveva fatto un secondo giro nel profilo del suo capo, la guardò preoccupato: «Perché? Che vuoi fare?»

    «Ti ho promesso che non sarei più entrata nella libreria di nascosto» rispose lei con un sorriso tirato. «Ma non ti ho detto che non sarei entrata di nascosto nel pub, no?»

    Il rosso aggrottò subito la fronte: «Questa storia sta facendo uscire di testa anche te.»

    «Eddai Zac, ragiona. Quei due posti non esistono più: sarà come diventare invisibili». Invisibili come quel reattore, si disse poi.


**


    «Ricordami perché ti sto dando corda» lamentò Zac davanti alla serranda chiusa del pub.

Faceva particolarmente freddo quella mattina. Entrambi erano ben imbacuccati, immobili davanti alla sinuosa figura del serpente. Dietro di loro - Ann ci aveva dato un'occhiata - la libreria era chiusa ma la macchinina della coppietta era tornata, perciò loro dovevano essere all'interno.

    «Dobbiamo trovare il modo di entrare» disse la ragazza, ignorando la lamentela del cugino. «Non so se quei due possano vederci, o meglio: non so se lei possa vederci, ma mai dare le cose per scontate.»

    «Strega o no,» commentò il rosso guardandosi attorno, «avevi ragione sull'invisibilità. Il trucchetto pare funzionare alla grande». Provò persino a mettersi davanti a un signore al telefono, salvo spostarsi all'ultimo, ma questi lo ignorò completamente, andando per la sua strada. «È fichissimo e spaventoso allo stesso tempo.»

Qualsiasi tipo di strana magia fosse - sempre che fosse magia in primis - doveva essere entrata in funzione la sera in cui Ann aveva visto la famigliola la prima volta. Ricordava benissimo come Mary avesse notato il pub chiuso la mattina dello stesso giorno, chiedendo ad Ann se ci avesse fatto caso. Zac l'aveva persino elogiata per quell'attenzione ai dettagli, e si era chiesto se anche Mary - ora che era infilata a sua volta nella questione - sarebbe stata vittima degli strani eventi. Decisero di tenere d'occhio anche quel dettaglio e andare avanti.

    Ann annuì all'affermazione del cugino. «La serranda ha una maniglia» disse poi. «E non è nemmeno bloccata. Temevo fosse automatica» ammise con una punta di timore. Era una di quelle pesanti serrande aperte, la cui griglia frontale le aveva dato la possibilità di osservare i dettagli della facciata. Se ci si metteva in mezzo alla strada, le linee rosse sulla griglia formavano l'ormai familiare serpente. Invisibilità o meno, aprirla era pur sempre un reato, e Ann aveva già fatto arrabbiare suo cugino una volta.

    «Sì, ha fatto strano a tutti all' inizio. Il signor C ha detto che anche aprendola sarebbe impossibile rompere il vetro, o la porta» spiegò Zac, facendo spallucce. «Non che ci sia molto da rubare in un pub, comunque. Men che meno adesso che possiamo vederlo solo noi». Detto ciò, andò ad afferrare la maniglia. Ann si propose di dargli una mano, ma lui disse che era troppo pesante e si sarebbe fatta male. Gli ci volle un bel po'di sforzo, ma alla fine riuscì a sollevare la serranda. «Ed ecco perché di solito ci pensiamo io e Sam. Che fatica.»

Ann a quel punto fissò l'elegante porta d'ingresso sul quale, ovviamente, era stato messo un altro bel serpente rossastro. Niente nomi, niente indicazioni: solo quel logo ancora e ancora.

    «E ovviamente la porta è chiusa» fece notare Zac dopo aver tentato di aprire anche quella. «E le chiavi ce le ha Sam. Hai una forcina per capelli?»

    Ann alzò un sopracciglio: «Da quando scassini porte?»

    «Da mai» precisò lui. «Ma hai altre idee?»

Ann riprese a fissare l'ingresso e le venne in mente un'altro pensiero inconscio: se aveva funzionato con la libreria, allora poteva funzionare col pub. Non aveva senso ed era molto improbabile che fosse così - la libreria era rimasta aperta per sbaglio, si disse. Ma di nuovo, il suo braccio fece da sé, andando a sbloccare la maniglia come se nessuno l'avesse mai bloccata in primis. L'ingresso si aprì senza un rumore, senza un cigolio. Davanti a loro si stagliò una scura stanza vuota che odorava di pulito.

    Entrambi rimasero in silenzio, inebetiti. «Cosa sei, un passpartout?» Chiese Zac, guardando davanti a sé come se si trovasse davanti ad una delle sette meraviglie del mondo.

    «Immagino di sì» bisbigliò Ann, entrando per prima.

Un bancone, qualche tavolo, la tv, uno spazio rialzato a mo' di palco... Tutto era perfettamente pulito e in ordine, nonostante nessuno passasse a riordinare e controllare da ormai da poco più di un paio di giorni. Inoltre, incredibilmente, Ann non sentì il senso di vuoto che aveva sentito nell'edificio di fronte. L'unica cosa strana che aleggiava nell'aria lì dentro era uno strano senso di ansia, ma la giovane non riuscì a capire se fosse il suo stato d'animo o qualcos'altro.

    Si riscosse quando sentì la spalla di Zac contro la sua. Era tornato pallido e si guardava attorno con timore. «Tutto bene?» Gli chiese, prendendogli un braccio. Avevano pensato che potesse sentirsi male già prima di uscire, tanto che Ann aveva riconsiderato più volte l'idea di venire da sola. Il problema era che Zac conosceva il pub, perciò poteva darle qualche dritta - e poi si era categoricamente rifiutato di farla andare via senza di lui.

    Il rosso annuì: «Sì, scusa. È che ho come l'impressione che non dovrei essere qui.»

    «Diamo un'occhiata in giro e andiamo via» propose Ann, iniziando a cercare, beh, qualcosa. Lasciò che suo cugino si staccasse da lei, ma continuò comunque a buttare un occhio su di lui di tanto in tanto.

    «Sembra tutto come lo abbiamo lasciato» disse quest'ultimo facendo scivolare le dita sul bancone di mogano. «Odio doverlo dire, ma potresti fare la tua magia sulla porta dell'ufficio. Il capo lo chiude sempre a chiave prima di andarsene.»

Zac accompagnò Ann oltre i bagni. Da lì si apriva un breve corridoio che dava su due porte: secondo il rosso, a destra c'era la stanza dei dipendenti - laddove lasciavano borse e cappotti prima del turno - e a sinistra la proibitissima tana del serpente - era così che chiamavano l'ufficio.

    «Non ci siete mai stati?» Chiese Ann guardando la bella e lucida porta nera davanti a sé.

    Zac fece spallucce: «Nah, non ne abbiamo mai avuto motivo. Ma se fossi nel signor C, è lì che nasconderei qualcosa all'occorrenza.»

    E così Ann decise di abbassare anche quella maniglia. «A questo punto, ho come l'impressione che la libreria fosse effettivamente chiusa ieri» disse, aprendo anche quella porta.

    L'altro scosse la testa: «Ormai non mi stupisco più... beh, più o meno. Ho comunque la pelle d'oca.»

Entrarono senza far rumore ed Ann si rese conto di essersi aspettata chissà cosa. L'ufficio di Crowley era scuro, ordinato e pulito: tre cose che ormai aveva capito essere parte integrante della sua personalità. C'erano un elegante tavolino con due sedie, scaffali pieni di liquori dall'aspetto lucido e addirittura invitante, qualche cassettiera e una scrivania in fondo, proprio davanti alla finestra. Su di essa erano poggiate alcune foto incorniciate, un libro e un pc cosi sottile da sembrare un foglio. Accanto alla finestra c'erano persino due belle e floride piante - del tutto simili a quella che Ann aveva visto in foto il giorno prima - che non sembravano aver sofferto né la poca luce soffusa, né la mancanza di acqua.

    «Dici che è stato qui?» Chiese Zac indicandole. «Il terreno nei vasi dovrebbe essere secco a quest'ora.»

    «Se è così, sarà meglio sbrigarsi» affermò Ann. «Anche perché non hai una bella cera.»

    L'altro non poté essere più d'accordo. Qualsiasi cosa ci fosse attorno a quel posto sembrava farlo stare male, ed Ann era decisa a voler trovare una soluzione. «Siediti qui» gli disse, facendolo accomodare sulla morbida sedia da ufficio dietro la scrivania.

    Zac si sedette, quasi affaticato. «Ma tu guarda,» disse poi, prendendo una delle foto. «Non sono Ana-come si chiama e il suo compagno?»

    Ann diede subito un'occhiata: «Loro, il signor Fell, il signor C e Grace, sicuramente non molto dopo la sua nascita. Beh, volevamo la conferma? Eccola qui. Si conoscono.»

    Poi lo sguardo di entrambi cadde sulla foto più vicina. Fu Ann a prenderla. «Sbaglio o sembra bella vecchia?»

    «Non sbagli. Sembra di guardare nell'album del nonno» commentò Zac.

Ritraeva i loro due misteriosi ricercati felici e contenti al tavolo di un bar, o un altro pub. In effetti l'immagine era consunta, sui toni del grigio, una di quelle che trovi nelle soffitte delle persone anziane.

    «Tu quanti anni daresti al tuo capo?» Chiese Ann, comparando la sua foto con quella in mano al cugino.

    Zac, che si era messo a fare la stessa cosa, sembrò avere un groppo in gola. «Non saprei. Una cinquantina? Poco meno? È difficile da dire.»

    «Quindi significa che è nato nel settanta? Settantacinque?»

    «Ann, questa foto sarà del settanta, settantacinque» affermò il rosso, dando voce ai pensieri di entrambi. «Quindi le cose sono due: o assomigliano terribilmente ai loro parenti, o qualcosa qui non quadra.»

    La giovane continuò a fissare le foto, ma si rese conto che l'unica vera differenza era la lunghezza dei capelli di Crowley. Per il resto, era chiaro come il sole che i soggetti fossero gli stessi: Fell aveva lo stesso sorriso cordiale che lei stessa gli aveva visto in volto un sacco di volte, gli stessi abiti eleganti dall'aria datata - con lievi variazioni - e persino lo stesso identico taglio di capelli. «Chi accidenti sono questi due?» Sussurrò, incredula.

    Zac si era poggiato un braccio sulla fronte, la foto in grembo e lo sguardo verso il vuoto. «Ah guarda, a questo punto potrebbero essere vampiri, o zombie, o che so io.»

Ann avrebbe voluto ribattere, ma non sapeva più cosa dire. Rimise la foto apposto, rimettendosi a pensare. Che ci fossero forze oscure dietro quella storia era chiaro, ma dovevano capirne la natura e capire cosa centrassero loro due in tutto ciò. Era come se qualcosa li stesse attraendo in mezzo al marasma, anzi: era come se qualcuno volesse che lei stessa svelasse l'arcano. In fin dei conti, Zac sarebbe dovuto restare all'oscuro di tutto, ed era solo per via del suo messaggio che si era accorto che qualcosa non andava. Vero era che lo stesso trucchetto non sembrava funzionare anche con i suoi colleghi, però...

    Non sapendo che altro fare, il rosso decise di prendere il libro accanto a sé: «Beh, sei tu la lettrice: ti dice qualcosa?» Chiese, passandolo alla cugina.

    Ann scosse la testa. «No, ma sembra un thriller» affermò, dando una veloce occhiata al retro. Lo aprì delicatamente e sbarrò gli occhi: «C'è un messaggio» disse. Era scritto a matita nel corsivo più dolce e pulito che avesse mai visto.

    «Ah sì? Cosa dice?»

    «L'ho visto stamattina dietro ad una vetrina. Sembra aver avuto successo e sembra anche una delle poche cose che leggeresti volentieri» lesse Ann. «Fammi sapere cosa ne pensi, firmato-» Quel nome si stagliò davanti ai suoi occhi come se fosse appena comparso sulla pagina. Suonava particolare, bizzarro e incredibilmente familiare. Tanto, troppo familiare.

    Zac sbatté gli occhi un paio di volte: «Che c'è?» Chiese, alzandosi a fatica.

Ann non rispose: si sentiva bloccata sul posto, quasi congelata. Sentì suo cugino avvicinarsi per dare un'occhiata al messaggio e il suo sguardo si posò sul computer. Le informazioni dovevano essere lì, si disse, mettendo distrattamente il libro nelle mani di Zac e andando ad afferrare il leggerissimo pc.

    L'altro non ci fece subito caso, troppo occupato a decifrare il corsivo: «Ma c'è qualcuno che abbia un nome normale da queste parti?» Commentò. «Aziraphale? Andiamo. Mai sentito in vita mia.»

    «Nemmeno io. Eppure sono sicura di conoscerlo» disse Ann, mettendosi la refurtiva sotto braccio.

    «Come con Grace?» Chiese Zac. Poi alzò lo sguardo su di lei e divenne più pallido di prima: «Non lo vorrai rubare?» Chiese, indicando il pc.

    «Beh, direi che è un po' tardi» rispose lei andando verso la porta.

Zac ebbe un po' da ridire mentre uscivano, ma fu subito chiaro che ormai avevano compiuto il furto con scasso più strano della storia. Alla fine si era portato il libro dietro, un po' perché era rimasto stupefatto dagli eventi, un po' perché tanto ormai si sarebbe potuto portare via una bottiglia di whisky e non sarebbe cambiato granché.

Si curarono solo di chiudere la porta e si avviarono verso casa.

    «Mi sento decisamente meglio» commentò il rosso a metà strada. «Tu? Sembravi scossa prima» chiese, evidentemente preoccupato.

    Ann annuì, cercando di apparire il più tranquilla possibile. «Sai, la libreria sembra innaturalmente vuota e il pub sembra pervaso da una strana nebbia di, beh, ansia e disagio» Spiegò. «Ricordi quando hai detto che se avessi dovuto dire che fine avesse fatto il tuo capo, avresti detto che era andato ad un funerale?»

    Zac annuì: «Perdere qualcuno è devastante. Anche io avrei chiuso tutto e avrei liquidato il personale se mi fosse successo.»

    «E se fosse così?» Propose Ann. «E se fosse quello il motivo per il quale ha voluto farvi dimenticare il pub? Magari ha perso qualcuno, ha deciso di chiudere, e col tempo vi sareste dimenticati anche di lui.»

    «E magari è per quello che mi sono sentito come se non avessi dovuto trovarmi lì...» ragionò lui. «Aspetta, ma hai detto "ansia e disagio" no? Non tristezza, lutto o che so io. Sempre se ho capito come funziona.»

    Ann spostò lo sguardo verso il thriller in mano al cugino. Lui seguì e si fermò in mezzo al marciapiede, costringendo lei a fare altrettanto. «Però hai anche detto che la libreria sembra vuota» Realizzò. «Come se...». Riaprì la pagina con il messaggio, rimirandolo.

    «Aziraphale,» ripeté Ann. «L'insegna della libreria dice che il primo nome del signor Fell inizia per "A".»

    «Nome ridondante» commentò Zac. «Aspetta... Vuoi dirmi che quello davvero scomparso è lui?» Concluse.

    Ann annuì: «Avrebbe senso. Pensaci: hai detto che sono amici, e a giudicare dalle foto si conoscono da chissà quanto di quel tempo. La libreria sembra desolata, oltre che in mano a due persone che stanno mettendo tutto a soqquadro, e posso assicurarti che secondo Fell c'è un posto all'inferno apposta per chi lascia i libri in giro - testuali parole». Si fermò per lasciare che suo cugino si facesse una risatina, poi continuò: «In sostanza, è ovvio che il proprietario sia sparito ed è doppiamente ovvio che Crowley lo stia cercando in ansia.»

    «Quindi ci stiamo basando sulle tue sensazioni? Va bene, posso accettarlo» concluse Zac. «Mettiamo caso che sia vero: sono amici, ciò spiegherebbe il coinvolgimento del resto del gruppetto. Ora la domanda è: cosa centriamo noi in tutto ciò? Va bene, un tizio-barra-essere sovrannaturale di qualche sorta è sparito. E quindi? Siamo comuni mortali noi: a cosa serviamo?»

    «Tu lavoravi nel pub» ragionò Ann. «E grazie al mio messaggio sei l'unico ad essere sfuggito all'amnesia totale. Io, beh... Non posso fare a meno di pensare che il libro che mi è stato prestato centri qualcosa.»

Ripresero a camminare.

    «Va bene, proposta» disse Zac dopo qualche minuto di silenzio. «A casa rivediamo di che tratta il libro che ti ha dato Fell e frughiamo nel computer del mio capo. Dopo aver mangiato, però. Stare lì dentro mi ha distrutto.»

Ann acconsentì e insieme tornarono in appartamento.

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Capitolo 6
*** Strani individui e... una segreteria telefonica? ***


    «Shakespeare, eh?» Commentò Zac, rileggendo gli appunti di Ann. «Ma non scriveva opere teatrali?»

    «Sì, anche» affermò lei. «Ma i sonetti erano popolari all'epoca: tutti ne scrivevano una raccolta.»

    Zac annuì, riprendendo a leggere ciò che sua cugina aveva tanto elegantemente ricopiato. «Sono un appassionato di musica, non di letteratura» disse poi con un sospiro. «Non capisco molto il senso di queste parole.»

Si erano spostati in camera di lei dopo pranzo e subito avevano aperto il pc di Crowley solo per scoprire che era ovviamente protetto da una password. Intanto che Ann provava a scoprire se le sue doti di scassinatrice valevano anche per le porte chiuse virtuali, Zac si era offerto di rileggere qualche verso.

    «Nemmeno io ho capito tutto all'inizio» disse lei intanto che osservava la casella vuota sullo schermo di fronte a sé, «così ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che i "Sonetti" di Shakespeare possono essere divisi in due parti, dedicate ognuna ad un soggetto diverso.»

    Zac alzò un sopracciglio: «Ricordami perché hai smesso con gli studi?»

    Ann scosse la testa, ignorando la domanda. Poi continuò: «Primo soggetto: un ragazzo giovane, bello, biondo, quasi divino. Dall'altro una donna non esattamente bellissima, anzi: proprio brutta, ma che a quanto pare ci sa fare con gli uomini.»

    Il rosso ridacchiò. «Ehi» esclamò poi, «il diavolo e l'acqua santa, come direbbe Mary.»

    Ann lo fissò sbalordita. «Esatto! Cavolo, Zac. Sei un genio!»

Il rosso sbatté un paio di volte le palpebre, confuso.

    «Ragiona» lo spronò lei. «Fell e il tuo capo sono praticamente opposti: gusti, atteggiamenti, persino aspetto fisico. Come i destinatari delle poesie.»

    Zac schioccò le dita: «Il libro parla di loro» concluse. «Tipo metafora di loro stessi.»

    «E Fell me lo ha lasciato...» ragionò Ann. «Come se sapesse già.»

    «Aspetta. Sapeva che sarebbe sparito?»

    «È plausibile. E poi c'è questa» disse lei, indicando i versi che aveva staccato dalla bacheca. «Parla dell'amore in generale. È quella che mi ha maggiormente colpito: dev'esserci un motivo.»

    Zac prese il pezzetto di carta, rileggendolo più volte. «Magari si riferisce alla loro relazione» Azzardò. «Non so se ho capito bene, ma parla dell'amore come qualcosa di duraturo.»

    Ann annuì: «Duraturo e abbastanza forte da sopravvivere all'apocalisse. Ha senso se ripensi alla foto in bianco e nero.»

    «Appunto. L'amore immortale... Carino, ma mette i brividi» commentò suo cugino. «Beh, ora abbiamo la conferma del fatto che stanno assieme. Anche se "conferma" è un parolone.»

    «Quanto dev'essere terribile perdere l'amore della propria vita?» Mormorò Ann ripensando a ciò che avevano detto poche ore prima, durante il tragitto di ritorno. 

    «E se Fell non fosse scomparso nel senso di sparito, ma scomparso nel senso di, beh...» propose Zac, incespicando nell'ultima parola che non pronunciò mai. «Magari qualcuno o qualcosa ha trovato il modo di farlo fuori? Tutte le creature immortali hanno un punto debole: vedi i vampiri.»

    Ann avrebbe voluto alzare gli occhi al cielo alla cosa del vampiro, ma il suo cuore perse un battito all'idea del cugino. «E pensi che tutti gli altri stiano indagando per trovare il colpevole?»

Zac annuì e non disse nient'altro. Certo, era un'opzione davvero triste ma altrettanto plausibile.

    «Spero tu abbia torto» sospirò Ann, tornando a guardare il computer con aria sconsolata. «In quanto alla password, temo di non riuscire a passare da ladra in erba ad hacker in così poco tempo.»

    «Ed io non posso aiutarti» affermò Zac. «Avrei provato a sparare una data di nascita, ma questo punto non ne ho idea.»

    «E quindi siamo bloccati. Nessuno a cui chiedere, niente contatti... Possiamo solo contare su Mary.»

    «Che d'altronde non ha né chiamato, né inviato un messaggio» notò Zac prendendo il suo cellulare. «Dici che è riuscita a cavare un ragno dal buco?»

    Ann fece spallucce: «Quando e se accadrà ce lo farà sapere, immagino: sai com'è quando si concentra su qualcosa. E poi domani dobbiamo comunque tornare da lei.»

    «Giusto, giusto» affermò il rosso.

Seguirono alcuni minuti di silenzio in cui Zac si mise a girare distrattamente tra le app ed Ann ad aggiornare le note.

    «Ehi,» disse quest'ultima ad un certo punto. «Forse è un'idea stupida ma, e se provassi a chiamare il tuo capo? Hai il suo numero in fondo.»

    In risposta, suo cugino si mise il telefono all'orecchio e recitò: «Oh salve signor C, come va? Non è che può dirmi la password del pc che le ho appena rubato dall'ufficio?»

    Ann si mise a ridere: «Stupido. Non è un'idea così terribile, dai.»

    «Non lo sarebbe se solo rispondesse alle chiamate» puntualizzò Zac. «Giuro: è difficile che risponda di persona. Ha una maledetta segreteria telefonica che lavora al posto suo.»

    «C'è ancora chi usa la segreteria telefonica?»

    «Immagina scoprirlo quando hai bisogno di un cambio turno. Però se vuoi posso provare lo stesso.»

    Ann sorrise: «Saresti fantastico, grazie.»

    Osservò suo cugino prendere il numero dalla rubrica e poggiarsi il cellulare all'orecchio. Neanche tre secondi dopo, il rosso alzò gli occhi al cielo: «Sì, sì, so cosa devo fare e mi piacerebbe farlo con stile ma ehi, la situazione è grave» sussurrò frustrato al messaggio registrato - frustrato e con una buona dose di sarcasmo. Ann alzò un sopracciglio, evidentemente confusa, ma non commentò.

    Subito dopo, Zac provò un altro paio di volte ma non ci fu niente da fare. «Però adesso sa che ho provato a parlargli. Magari si renderà conto che il suo piano di occultamento è fallito e proverà a contattarmi?» Azzardò poi.

    «Non sarebbe male» rispose l'altra spegnendo il pc e alzandosi. «Direi che potremmo prenderci una pausa a questo punto.»


Passarono il pomeriggio guardando un film, chiacchierando di qualcosa che non implicasse gente scomparsa o piani della realtà che non fossero quello visibile. Tornarono in camera di Ann solo più tardi perché a Zac era venuta l'idea di provare a mettere la data di cinque anni prima, il 2019, come password del pc del suo capo, ma l'idea si rivelò un buco nell'acqua.

Ormai decisa a lasciar perdere, Ann andò ad appostarsi contro la finestra, la mente in subbuglio. La sera si stava trasformando in una grigia nottata autunnale e il lampione dall'altro lato della strada si accese tremolando. Passava poca gente, soprattutto di ritorno da lavoro, imbacuccata come pupazzi di neve per sopravvivere al vento.

    Zac si mise davanti a lei, anche lui con lo sguardo fisso sulla strada. «Ehi, la mia era solo una supposizione» disse, il tono dispiaciuto. «Per quel che riguarda Fell, dico. Sai che sono ottimista di solito, ma-»

    «Lo so, lo so. Non è per quello, non preoccuparti, è che...» sospirò lei, «non mi piace sentirmi davanti ad un muro.»

    «Nemmeno a me. Ma che vuoi farci?» Rispose lui, irrompendo in uno sbadiglio. Era presto ma gli eventi di quella mattina avevano lasciato il segno, almeno su Zac.

    Già, si disse Ann, forse avevano ficcanasato abbastanza per il momento. Magari era la volta buona per farsi una sana dormita e cercare di riprendere un minimo di vita normale dopo gli ultimi eventi. Fece per staccarsi dal vetro e chiedere a suo cugino se volesse dormire di nuovo da lei, ma qualcosa attirò la sua attenzione: «Lo vedi anche tu?» Chiese, indicando l'area sotto al lampione.

    Zac aggrottò le sopracciglia e strinse gli occhi, osservando a sua volta: «Che cosa?»

Ad Ann pareva come se l'asfalto si stesse deformando, ondeggiando quasi. Stava per chiarire quel concetto, quando dal terreno iniziò a sbucare qualcosa, anzi, qualcuno.

Se non li avessero visti spuntare dal marciapiede come nulla fosse, li avrebbero probabilmente scambiati per senzatetto. Uno di loro era avvolto in una giacca vecchia e consunta, così come vecchia e consunta pareva la sua faccia grigiastra. Alla penombra del lampione i suoi occhi sembravano neri e vuoti - o forse lo erano davvero, difficile dirlo. Il suo smilzo compare dalla pelle scura appariva più giovane, reduce probabilmente da una delle peggiori fasi emo mai viste - oltre che da uno degli appuntamenti dal parrucchiere più disastrosi della storia, a giudicare dalla strana capigliatura a mo' di corna.

Si erano messi a conversare come se per loro emergere dal marciapiede fosse l'equivalente di un appuntamento al bar. Il primo si accese una sigaretta venuta fuori dal nulla, guardandosi attorno con una punta di curiosità, mentre l'altro aveva materializzato un blocco note del quale stava probabilmente recitando qualche punto. Non c'era bisogno di una conferma per capire che non erano esattamente tizi raccomandabili: erano proprio lo stereotipo delle persone a cui non affideresti nemmeno le piante d'appartamento.

Ann non poté vedere di più, dato che Zac tirò le tende così velocemente da lasciarla inebetita per un secondo.

    «Cosa diavolo ho appena visto?» Chiese lui, il respiro veloce e gli occhi sbarrati di chi sa di non poter dare una spiegazione logica a ciò a cui ha assistito.

    Ann scosse la testa: «Non ne ho la minima idea.»

    Zac si allontanò dalla finestra, mettendosi a passeggiare freneticamente per la stanza. «Non è un caso: sono qui per noi. Siamo inseguiti da- da... Cosa diamine sono quelli?»

    «Qualunque cosa siano» rispose lei, affiancandolo, «sicuramente non se ne andranno se ci facciamo prendere dal panico.»

    Il rosso iniziò ad annuire in un disperato tentativo di riprendere in mano le redini della situazione. Non ci riuscì. «Va bene, d'accordo. Sorvoliamo sul fatto che hai appena visto due cosi venir fuori dall'asfalto e non hai quasi battuto ciglio. Ora che he facciamo? Gli chiediamo gentilmente di levare le tende?»

La verità era che Ann aveva sì paura: brevi ondate di ansia e preoccupazione le facevano su e giù per la spina dorsale come in balìa di un ascensore impazzito. Aveva iniziato a torturarsi le mani non sapendo bene cosa dire, conscia del fatto che in ogni storia c'è un antagonista, e forse i loro li aveva appena raggiunti.

    In mancanza di una risposta, Zac riprese il suo frenetico andirivieni. «Dobbiamo fare qualcosa» disse. Poi sbarrò gli occhi: «Aspetta, sanno che siamo implicati? Come accidenti fanno a sapere che siamo implicati?»

    Con un sospiro, Ann lo bloccò delicatamente, prendendolo per le spalle. «Rilassati. Dobbiamo ragionare, va bene? Ragioniamo». Cercò di mettere su il tono più convincente possibile, soprattutto perché vedere suo cugino in preda al panico era una prassi, ormai, che non le piaceva per niente.

Zac scosse la testa, senza dire un'altra parola. Era terrorizzato ma almeno aveva smesso di gironzolare, il che era già qualcosa.

In assenza di altre idee, Ann lo avvolse in un abbraccio, passandogli la mano lungo la schiena. Incredibilmente sembrò funzionare: poté sentire la tensione scivolare via dalle spalle dell'altro, il respiro che si calmava e persino la tensione generale che dissipava. Attorno a loro calò il più assoluto silenzio, rotto solo dallo strusciare della mano di Ann contro la maglia di Zac.

    «Va meglio?» Gli chiese lei dopo un po', senza staccarsi.

    Lui annuì, facendo mezzo passo indietro. Sembrava solo terribilmente stanco adesso, oltre che un filo preoccupato. «Sono ancora lì?» Chiese cauto.

Ann voltò la testa verso le tende. Poteva sentire come una specie di vibrazione nell'aria che le diceva che sì, erano ancora ben appostati sotto al lampione. Perciò non si stupì tanto quando fece un leggero spiraglio e si accorse di avere ragione.

    «Ascolta» disse poi a Zac, «finchè restano fermi lì non c'è problema, no?»

    Il rosso sospirò: «Non lo so. Non voglio che tu stia qui, però: e se ti vedono ed entrano?»

Era come se il breve panico lo avesse lasciato con poco più di un minimo di energie, ed Ann non poteva certo accettarlo. Non poteva nemmeno accettare che si preoccupasse tanto, perciò decise di lasciar perdere momentaneamente tutto ed occuparsi di lui.

    «Ho un'idea» disse, andando a recuperare qualche cuscino e coperta nell'armadio.

    «Che vuoi fare?» Mormorò Zac, lo sguardo interrogativo.

    Ann gli fece cenno di seguirla e andò in salotto. «Ricordi quando da piccoli giocavamo al campeggio?» Chiese, sapendo che suo cugino se lo ricordava eccome. «Ci mettevamo a dormire per terra e i nonni ci lasciavano mangiare schifezze.»

    Sul volto dell'altro fece breccia un sorriso: «Ancora mi chiedo come abbiamo fatto a non avere mai una carie.»

Ecco, quello era lo Zac che Ann conosceva.


Spostarono il tavolino davanti alla tv e prepararono il loro giaciglio improvvisato. Ann fece avanti e indietro per prendere i cellulari e metterli in carica alle prese più vicine, dopodiché andò a raggomitolarsi sotto le coperte.

Da piccoli lei e Zac erano capaci di andare avanti a parlare fino a notte fonda, ma stavolta suo cugino si addormentò non appena ebbe toccato la guancia col cuscino. Un po' le dispiacque: conversare lo avrebbe distratto, ma vero era che aveva bisogno di riposare. In quanto a lei, beh: dormire era diventata una cosa strana.

Provò a chiudere gli occhi ma si svegliò poco più che mezz'oretta dopo, avvolta nel buio dell'appartamento, dal rumore delle poche auto che passavano e da quello del lieve respiro di suo cugino. Sbuffò, chiedendosi se la sua insonnia non fosse colpa dello stress. Ricordò poi che l'insonnia dovrebbe lasciarti senza energie, nervoso, stanco... Lei era fresca come una rosa.

Si tirò su senza far rumore, tenendo d'occhio occhio Zac per paura di svegliarlo. Riprese il suo smartphone e gli occhiali, andò in punta di piedi in camera sua e buttò subito un veloce sguardo fuori dalla finestra. Il duo della notte non era in vista, ma il suo sesto senso le diceva che erano ancora lì e sicuramente stavano facendo il giro della via. Suo cugino aveva ragione: li stavano cercando; vagavano in tondo come se sapessero chi fosse il loro obiettivo ma non conoscessero l'ubicazione precisa. 

La trama si stava infittendo ma Ann ancora non ci stava capendo granché. Le sembrava di essere nel bel mezzo di un labirinto che si faceva sempre più intricato, e ora aveva persino qualcuno da evitare: figure misteriose provenienti dai bassifondi. In un momento migliore l'avrebbe appuntata come idea per un fantasy.

Si passò una mano tra i capelli e andò a sedersi sul letto. In condizioni normali avrebbe persino chiamato la polizia, ma qualcosa le disse che Scotland Yard le avrebbe riso in faccia se avesse detto che aveva paura di due tizi dal fare poco raccomandabile - oltre che dall'aspetto improbabile - emersi dal marciapiede come il Kraken dalle profondità dell'oceano.

No, dovevano cavarsela da soli. Anzi: avrebbe volentieri lasciato Zac fuori da tutta quella storia e forse forse anche Mary. Si sentì in colpa ad averli tirati dentro in primis, ma vero era che ormai erano in ballo.

Sbloccò lo smartphone e si rimise a girovagare distrattamente tra le note, le pagine social salvate, persino tra i vecchi messaggi tra lei e Zac. Rilesse qualche notizia risalente a cinque anni prima senza sapere bene cosa cercare, poi passò a qualcosa che potesse distrarla - aveva sviluppato una predilezione per i reel di persone che costruivano piccoli oggetti o ne riparavano altri, libri inclusi. Si fece l'una di notte e lei, ovviamente per nulla stanca, decise di dare un'occhiata al thriller che avevano preso dall'ufficio di Crowley per passare il tempo.

Fu allora, poco prima di bloccare il dispositivo, che il suo pollice ricadde prima sull'icona della rubrica telefonica e poi sull'icona del tastierino numerico. Istintivo e fluido, un movimento che ormai Ann conosceva bene, così come conosceva bene quella specifica regola del gioco. Era stato facile come trovare la pasticceria, aprire le porte chiuse, percepire le sensazioni che ormai usava come bussola.

Osservò la tastiera e decise di lasciarsi guidare: in fondo, finora le era sempre stato utile assecondare quella particolare capacità.

Compose un numero una cifra alla volta, spostando le dita da un tasto all'altro come se sapesse esattamente chi stava per raggiungere. Salvò il nuovo contatto come: "Qualcuno" e andò ad aprire l'app che usava per chattare. A meno che "Qualcuno" non avesse specifiche impostazioni di privacy attive, avrebbe dovuto vedere l'immagine di profilo, o perlomeno il nome, forse anche l'ultimo accesso. Magari c'era qualcun altro invischiato in quella bizzarra faccenda, qualcuno che i suoi misteriosi e nuovi "superpoteri" le avevano consigliato di contattare, il "Qualcuno" per eccellenza.

Quando riuscì a trovarlo tra i nuovi contatti - le riuscì facile dato che era l'unico - Ann sussultò e balzò in piedi, il cuore a mille.

Non aveva un'immagine profilo vera e propria, ma nel classico cerchietto c'era lo stesso identico serpente attorcigliato su sé stesso che se ne stava ben raffigurato in ogni possibile vetrata del pub. Non aveva nemmeno un nome vero e proprio ma tre lettere in stampatello: AJC. Minimal, un profilo fatto apposta per essere raggiunto e riconosciuto solo dai suoi conoscenti - e non c'era bisogno di Sherlock Holmes per arrivare a quella conclusione. 

Ann aveva appena scoperto - ma come non avrebbe saputo dire - il numero di Crowley. Zac non glielo aveva mai dato, di quello era sicura - anche perché non ne avrebbe avuto motivo. Perciò non sapeva quale spiegazione logica darsi, ma capì presto che non ce n'era una: lo conosceva e basta... Per qualche motivo.

Rimase in piedi, immobile, senza sapere cosa fare. Aprendo la chat, venne a scoprire che l'ultimo accesso di ex-Qualcuno era invisibile, ma alla fine non era un problema così rilevante. Che doveva fare? Mandare un messaggio? Sì, certo: Salve signor C, conosco uno dei suoi dipendenti. Si può sapere che sta succedendo?

No, ovviamente non poteva porsi così. Anzi, forse non era cosa saggia farsi bloccare sul nascere ed eliminare quell'unica possibilità di contatto. Magari avrebbe potuto chiamarlo, o meglio, avrebbe potuto lasciare un messaggio in segreteria. Sarebbe stata breve, concisa, e avrebbe spiegato nel modo migliore possibile la situazione - sempre sperando che Crowley ascoltasse ancora i messaggi.

Così Ann si mise all'opera. Prese il suo quadernetto e provò a buttare giù un breve resoconto degli eventi. Non sapeva con chi aveva a che fare, nonostante ciò c'era qualcosa dentro di lei che le diceva che quella era la soluzione migliore. Forse sarebbe finalmente riuscita a sbrogliare almeno un po' di quella matassa di eventi al di fuori del normale; o almeno: quella era la speranza.

Si disse anche che lasciare messaggi a quell'ora della notte era oltremodo fuoriluogo, ma non poteva aspettare fino al mattino, non quando la sua stessa casa era diventata un posto poco sicuro - o meglio: la strada al disotto.

Alla fine rilesse più e più volte le righe che aveva buttato giù, sapendo che da quelle dipendeva la sua prossima mossa. Si rialzò, cellulare in una mano e discorsetto nell'altra - passeggiare mentre telefonava era prassi per lei: lo aveva fatto anche al negozio di Mary quando qualcuno chiamava per un'informazione. Fece partire la chiamata e si poggiò il telefono all'orecchio, tenendo il fiato sospeso.


Ann non aveva mai risposto ad una segreteria telefonica, perciò non sapeva bene cos'aspettarsi.

Quel problema venne stroncato sul nascere.

Non partì nessun messaggio, nessuna voce registrata che le diceva di fare quel che doveva - con stile, a detta di Zac - o comunque nessun: "lasciare il messaggio dopo il bip". Ciò che la ragazza sentì poco dopo aver fatto partire la chiamata, furono i suoni lunghi, bassi, leggermente tremolanti e prolungati di un telefono che squilla.

Qualcuno avrebbe effettivamente risposto stavolta.

    La ragazza non fece in tempo a pensare a cosa fare adesso che la situazione si era ribaltata. I suoni finirono e dall'altra parte della cornetta si sentirono vari fruscii, uno scricchiolare di ruote sull'asfalto, un motore che si spegneva e vari colpetti che non avrebbe saputo identificare. «Pronto?» Balbettò, non sapendo che altro fare.

    Ci fu un secondo di silenzio, poi una voce maschile chiese: «Chi è?»

Era un tono duro, leggermente roco, a metà tra il confuso, il seccato e lo speranzoso. Un tono che Ann non aveva mai sentito.

Ma che le fece salire il cuore in gola.


Fu come se qualcuno avesse premuto il tasto "pausa" sul telecomando del mondo. La ragazza smise di respirare, gli occhi sbarrati e i brividi a mille. 

Finora le sensazioni erano state lievi ed istintive, mentre stavolta fu come essere travolti da uno tsunami. La sua mente andò in subbuglio, colpita da tanti sprazzi lontani ma udibili di quella stessa voce che diceva: "Ehilà!", "'Giorno", "Come va?", "Che si fa stasera?". Ricordò che Zac le aveva detto che Crowley e Fell parlavano sempre del più e del meno le volte che si vedevano, e ora poteva tranquillamente figurarsi quella voce dire cose come: "Qual'è quel ristorante di cui mi avevi parlato?", "Passeggiata al parco domani?", "Giuro che se una delle rose al cottage ha anche solo provato ad appassire...". 

E poi la sentì ridere.

Ricordava quella risata così naturale, con la testa che ricadeva all'indietro.


    Si sentì un altro fruscio. «Ehilà? C'è qualcuno?» Esclamò Crowley, ora con molto più che una punta di sbigottimento. Sembrava preoccupato, quasi ansioso, come se non stesse aspettando una semplice risposta ma una risposta in particolare.

Ma Ann si fece scivolare il cellulare dalle mani. Sentiva il cuore sbatterle contro le costole e dovette poggiarsi alla scrivania per non traballare fino a terra. Era la prima volta che lo telefonava, allora perché si sentiva come se gliene avesse fatte mille? Non si erano mai visti, allora come faceva a sapere in che modo rideva? O come si rivolgeva alle sue piante? O comunque come parlava con-

Non con lei, no. Non si conoscevano, non avrebbe avuto senso. Infatti tutti gli sprazzi di conversazione che le stavano soffocando il cervello non erano rivolti a lei.

    «Nah, sai che a me non cambia niente» aveva detto una volta. «Solo, non è da te cancellare una cena in questo modo.»

Ann non aveva idea di cosa volesse dire, né del perché tutto ciò stesse accadendo adesso. Sentiva solo un terribile senso di nausea, oltre che un crescente disorientamento.

Provò a fare qualche passo, ma si ritrovò a terra, presa dal fiatone e sopraffatta da qualsiasi cosa le fosse preso. Provò a chiamare Zac, ma la voce le morì in gola. Provò a muoversi, ma si sentì mancare un attimo dopo averci provato.

Chiuse gli occhi e si lasciò andare.

L'incoscienza si portò via anche le voci nella sua testa.

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Capitolo 7
*** Un'anima inquieta ***


L'aria gli entrò nei polmoni tutta in un solo, dolorosissimo colpo. Sentiva il cuore, non suo, battergli all'impazzata nel petto, rimbombando tra le costole come se volesse romperle e schizzare fuori. Tossì più volte, per un attimo incapace di regolare il respiro di cui non aveva mai avuto bisogno ma che ormai era diventato automatico. Sopra di sé un soffitto bianco e blando che non riconosceva; attorno a sé una stanza, anch'essa sconosciuta, avvolta nella penombra.

Percepiva tante cose, forse addirittura troppe: gente che dormiva, avventurieri della notte che passeggiavano ubriachi, auto che passavano silenziose in mezzo al buio. E poi c'erano due auree oscure e malevole che strisciavano tra le vie attorno al luogo in cui si trovava, alla ricerca di qualcosa che sapevano essere lì ma che non riuscivano a raggiungere.

Erano tornati e lo stavano cercando.


Si tirò su debolmente, cercando di assestarsi in quel corpo troppo minuto rispetto a ciò a cui era abituato: più leggero, giovane e contenuto del suo. Si rimise delicatamente gli occhiali sul naso e la leggera sfocatura che per un attimo aveva avvolto il mondo svanì. A non svanire, invece, fu il terribile senso di stordimento che gli faceva girare la testa, unito al dolore atroce che la ferita nella sua aurea gli provocava: una stilettata decisa e pulsante all'altezza dell'addome.

Per giorni si era rifugiato, nascosto agli occhi di tutti, percependo a sprazzi la realtà attraverso la povera ragazza che aveva tanto poco cerimoniosamente occupato. Adesso si sentiva come se qualcuno lo avesse strappato al suo giaciglio prendendolo per i capelli, gridandogli che era arrivato il momento di muoversi.

Era la seconda volta che succedeva in cinque anni: una specie di primato, poco ma sicuro. Certo, anche stavolta era stata un'emergenza: una situazione che aveva fiutato e che aveva preparato con cautela quasi meticolosa, ma che alla fine non era andata come aveva previsto. 

Si sentiva uno stupido. Ormai avrebbe dovuto sapere che i guai avevano una cotta per lui e che tanto amavano rincorrerlo come un cane da caccia fa con la volpe. La differenza, stavolta, è che non era stato salvato per il rotto della cuffia come al solito.

Ed era tutta colpa sua.


Odiava mettere gli umani in mezzo a certe questioni, ma alle volte diventava necessario.

Annalise era molto sveglia per una giovane donna della sua età, ed era anche positivamente intuitiva. Guidarla e coinvolgerla era stato relativamente facile: gli era bastato darle qualche spinta verso la giusta direzione e il resto era venuto da sé. Certo, aveva sperato che almeno Anathema sarebbe stata capace di percepirlo, ma non si era stupito tanto quando aveva notato che si era nascosto fin troppo bene. La sua aurea altro non era che una leggera luce nascosta dentro al guscio più improbabile di sempre: una ragazza normale con una vita normale e un aspetto assolutamente nella norma. In fondo, si sa che il modo migliore per nascondere qualcosa è metterla sotto gli occhi di tutti.

Peccato che sparire, raggomitolarsi tra le proprie ali e nascondersi, fosse l'ultima spiaggia di un qualsiasi angelo ferito. Aziraphale sapeva di avere i giorni contati, così come sapeva di dover trarre il meglio da quei momenti di lucidità. Doveva spargere più indizi possibili e guidare i suoi nuovi improbabili aiutanti verso una soluzione - molto più di quanto non avesse fatto con le porte chiuse, i pezzi di sonetti e gli articoli risalenti a cinque anni prima; senza dimenticare i pasticcini, ma quelli li aveva presi perché la famigliola facesse colazione: se lo meritavano dopo tutta la fatica che avevano fatto per cercare di capire cosa gli fosse successo.


Zachary e la donna del negozio erano entrati nell'equazione quasi per caso. A dirla tutta, conosceva il ragazzo di vista: un tipetto frizzante che lavorava spesso dietro al bancone del pub. Anche lui era sveglio, il che giocava tutto a suo favore; peccato che coinvolgerlo lo avesse messo in una posizione scomoda e non propriamente salutare - diciamo pure che gli aveva fatto venire un paio di ipotetici infarti, poverino. La cosa buona era che Zachary conosceva Crowley ed Annalise si trovava decisamente meglio se suo cugino era nei paraggi.


Già, Crowley.


Traballando verso la scrivania, Aziraphale posò lo sguardo verso il cellulare a terra. Sapeva che chiamarlo sarebbe servito, ma non immaginava un risvolto così repentino...

Già il fatto che fosse riuscito a sparire dal radar del demone la diceva lunga sulle sue condizioni, si disse intanto che andava a raccogliere il dispositivo, pulendone lo schermo contro la maglietta di Annalise. Almeno adesso Crowley aveva una pista da seguire - per quanto leggera ed incerta. Lo conosceva abbastanza da sapere che non si sarebbe dato pace finché non avesse scoperto l'origine della chiamata, dopodiché sarebbe stato tutto in discesa... O almeno sperava.

Ma soprattutto, sperava di non averlo fatto arrabbiare.

Con un sospiro, si lasciò cadere sulla sedia alle sue spalle. Lo aveva decisamente fatto arrabbiare, e come biasimarlo.

Ma avrebbe sistemato le cose. Non poteva lasciare che il mondo che avevano tanto faticosamente costruito crollasse in così poco tempo, tutto per un suo stupido errore di valutazione.

    Tirando il sottilissimo computer nero a sé, tolse delicatamente gli occhiali dal volto di Annalise per dar loro una pulita. L'azione fece ricadere sull'ambiente una specie di velo. «Accidenti, ragazza mia» commentò. La voce gli uscì rotta, flebile e roca, quasi irriconoscibile. Il solo parlare gli fece salire una stilettata lungo tutta l'ipotetica spina dorsale, ma decise di ignorarla. Non era quello il momento.

Conosceva bene quel pc e sarebbe stato capace di indovinare la password al primo tentativo se Crowley non gliel'avesse detta il giorno stesso in cui l'aveva impostata. La verità era che quella serie di lettere e numeri serviva solo per tenere lontani eventuali umani curiosi, esisteva per formalità ed era assolutamente inutile. Nessun mortale sarebbe mai comunque riuscito ad accedere a quel computer: era fatto apposta per essere una piccola cassaforte della quale solo due, diciamo, persone conoscevano la combinazione.

Ne conosceva bene anche l'esiguo contenuto: un accesso a Internet, due cartelle dai nomi troppo lunghi ("vecchie scartoffie troppo divertenti da cestinare" era un esempio) contenenti l'inutile burocrazia infernale riguardante gli incarichi che Crowley aveva gestito nei modi più assurdi, seguite da un'altra cartella piena di documenti del pub. Questi ultimi erano lì sotto ferrea volontà di Aziraphale stesso - che sapeva benissimo quanto gli umani amassero indagare e ficcare il naso nella documentazione di un qualsivoglia proprietario di attività, alla ricerca di tutte le irregolarità possibili. E poi c'erano tutte le foto che avrebbero meritato una parete nel cottage, ben ordinate per data (ma anche per grado di apprezzamento del demone).

Sicuramente i cugini vi avrebbero trovato quello che cercavano e capito almeno parte della situazione. Il difficile veniva adesso, si disse l'angelo andando a sfogliare le notizie risalenti all'anno della quasi apocalisse. Fosse stato per lui, avrebbe spiegato tutto come aveva fatto con Tracy durante quell'impossibile giornata, ma al solo pensiero sentì l'aura ferita rivoltarsi su sé stessa - segno inequivocabile del fatto che un contatto così diretto lo avrebbe ucciso.

No, stavolta doveva fare con calma ed essere cauto. Doveva lavorare nell'ombra come aveva fatto finora e stare in campana, senza spingersi oltre limiti che lo avrebbero portato fino ad un punto di non ritorno.

Poteva ancora salvarsi, si convinse intanto che faceva volare lo sguardo - non suo - sui fogli che aveva in mano. Passò in rassegna un po' di articoli decretando che sarebbe stato inutile evidenziare i punti focali di ciascuno. Alla fin fine, tutti quegli eventi altro non erano che un'ombra lontana di una catastrofe scampata; un ricordo sbiadito e frammentato nella mente di quasi tutti gli esseri umani che vi erano rimasti coinvolti. 

Ma Aziraphale sapeva come semplificarsi il lavoro. Ringraziando mentalmente la buon'anima di Shakespeare per avergli dato l'idea, andò a recuperare il foglietto dove Annalise aveva riscritto le righe fondamentali, quelle che lui stesso aveva molto debolmente suggerito:

Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio.

Sottolineò le ultime quattro parole con il primo evidenziatore che si trovò davanti e poggiò il piccolo pezzo di carta in cima alla pila di notizie. Le mani gli tremavano, notò con sconforto, tanto che l'inchiostro fosforescente risultò in una riga mezza ondulata che sbavava contro l'inchiostro nero al di sotto.

Si mise una mano sul ventre e cercò di rimettere la testa in moto. Almeno Annalise doveva sapere cosa gli fosse successo: era importante perché poi lo riferisse agli altri. Ora come ora non poteva dirglielo, però: era un discorso lungo e lui aveva a malapena le forze di restare presente. Inoltre, ora c'erano quei due maledetti demoni attorno alla via, perciò uscire sarebbe stato impossibile.

Domani, si disse. Sarà la prima cosa che faremo.

Passò le mani su quelle braccia magroline, chiedendosi se non avesse sbagliato a rintanarsi in quel corpicino che avrebbe potuto rigettarlo. Senza di esso, però, si sarebbe disgregato e non avrebbe avuto possibilità di tornare indietro. 

Con cautela, andò a mettersi sul letto. La testa gli girava e la sua mente in subbuglio andò a fissarsi su tutti quei rumori che normalmente lo avrebbero calmato: il fruscio delle pagine, il tè caldo che veniva versato, il leggero sbattere dei cucchiaini contro la porcellana, il tintinnio di un cin-cin e quella bellissima, genuina, dolce risata.

Lo hai fatto arrabbiare, si disse. Sicuro. Tutto perché non hai voluto dirgli niente e guardati adesso.

I suoi errori amavano tormentarlo, non importava quanto tempo passasse. Era sempre stato abituato a vedere le cose di lui che non andavano, che lo allontanavano dalla plastica e bianca perfezione che avrebbe dovuto incarnare. E forse era tutto vero.

Si accarezzò la pancia all'altezza dello squarcio nella sua aurea e chiuse gli occhi. Aveva già tartassato quella povera ragazza abbastanza; ora avrebbe lasciato che si riposasse a sua volta.


**


La luce del mattino, seppur flebile, la fece svegliare con un sobbalzo. 

Agitata, Ann si mise una mano sul petto e fece un paio di respiri profondi. I ricordi di quella notte le rimbalzavano in testa, confondendosi l'un l'altro come ingredienti in un frullatore. Dopo aver cercato invano di ordinarli, seguì quello più ridondante e andò subito a catapultarsi al pc di Crowley.

Era aperto, acceso e sbloccato.

Gli occhi le si sbarrarono e si portò le mani alla bocca. Fece volare lo sguardo sulla scrivania, laddove il pezzo di sonetto se ne stava ben poggiato esattamente dove si sarebbe aspettata di trovarlo, e capì più cose tutte nello stesso momento - tutte letteralmente impossibili.

Non avrebbe saputo come spiegare, ma in qualche modo doveva mettere Zac al corrente. Così uscì da camera sua per tornare in salotto, laddove suo cugino stava ancora beatamente ronfando davanti al divano. Si tuffò al suo fianco e prese molto poco cerimoniosamente a scrollarlo.

    Ovviamente, la prima reazione di lui fu quella di allontanare malamente le mani della cugina dalla sua spalla, infastidito e ancora mezzo stordito. «Ann, che c'è?» Chiese, assonnato e gracchiante. Non appena ebbe posato bene lo sguardo sull'altra, però, il suo umore cambiò di colpo. «Ann, stai bene? Sembra che tu abbia visto un fantasma.»

    La ragazza sapeva bene di essere in condizioni preoccupanti, ma dopo quella pazzesca nottata era il minimo. Semplicemente, dopo aver preso un bel respiro, tirò fuori l'unica cosa che il suo incasinatissimo cervello riuscì a partorire. «So dov'è Fell» affermò d'un soffio.

Il silenzio che seguì fu assordante e sul volto di Zac si dipinse una maschera di sconcerto.

    Il rosso sbatté un paio di volte gli occhi scuri prima di dire: «Ok, credo... Ottimo. E dove sarebbe?»

Con una lentezza disarmante e un gesto che sembrava ancor meno convinto di lei, Ann si puntò un dito contro il petto. Al tocco, sentì una parte di sé tremare come una fiammella al vento - o forse non era stata lei, si disse.

    Zac aggrottò le sopracciglia, mettendosi a sedere e fissando la cugina senza capire. «Sarà meglio che inizi a spiegare» affermò infatti.

    Con un sospiro, Ann fece ricadere il braccio sulle cosce. «È successo stanotte» iniziò; «non riuscivo a dormire, così sono andata in camera mia. Dal nulla mi sono ritrovata a chiamare il tuo capo-»

    «Come accidenti fai ad avere il numero del mio capo?» Esclamò il rosso. Poi, come in una specie di auto-rimprovero, si passò due dita sugli occhi: «Oh, ma perché mi stupisco? Vai avanti.»

    Ed Ann eseguì: «Non ha risposto la segreteria telefonica, ma lui. Penso fosse in macchina e sembrava... Non so. Sembrava si aspettasse qualcosa; una parola, una conferma che non sono riuscita a dargli.»

Sotto lo sguardo stralunato di suo cugino, la ragazza prese a raccontare delle voci che aveva sentito, di tutto ciò che era accaduto, delle rivelazioni - o almeno, una parte di tutto ciò che riusciva faticosamente a ricordare. Disse - e farlo la aiutò a capire la vera entità delle cose - del perché aveva sentito il vuoto nella libreria e l'ansia nel pub, del perché era riuscita ad aprire le porte, del perché Anathema l'aveva guardata in modo strano, del perché il sonetto 116 le piaceva tanto e del perché di praticamente buona parte dei bizzarri avvenimenti nel quale si trovavano in mezzo. E più andava avanti, più le cose si facevano chiare. Ma più andava avanti, più ombre piombavano sul labirinto che stava percorrendo.

    E Zac, che tra le tante cose era bravo a sintetizzare, riuscì a rielaborare il tutto nel concetto che Ann aveva cercato di spiegargli all'inizio: «È dentro di te?!» Esclamò, la voce strozzata.

Certo, detta così sembra volgare, sussurrò una voce che la ragazza sentì scivolare come acqua tra le dita.

    Facendosi scappare un sorrisetto, questa annuì: «Temo di sì. Qualcuno o qualcosa deve averlo ferito e la sua anima o... Aura, credo, ne ha risentito. Ha bisogno di un posto sicuro dove stare.»

    «E quindi si è nascosto dentro di te? Che accidenti è? Un fantasma? Un demone?» Poi sussultò: «Sei posseduta?»

    «Cielo, no» ribatté Ann senza neanche rendersene conto. «Aziraphale non è un demone, è un-» beh, non ne aveva idea, in effetti. «Sicuramente non è umano, però.»

    Zac mise su un'espressione sarcastica e vagamente nervosa: «Cosa te lo fa pensare?»

    Ignorando la domanda, la ragazza continuò: «Non è la prima volta che lo fa. È successa la stessa cosa con Tracy cinque anni fa.»

    «Tracy l'amica di Mary? Cacchio» commentò il rosso. «Che razza di creatura salta di corpo in corpo in questo modo?»

    «Una creatura sovrannaturale con un bel taglio sulla pancia» sospirò Ann prendendosi la testa tra le mani. «Non ho idea di cosa gli sia successo: non è riuscito a "dirmelo"» spiegò, mimando le virgolette con le dita. «Ma lo farà. Dobbiamo avvisare i due della libreria.»

    Ancora ben infilato nella sua espressione di scherno stizzito, Zac batté due volte sul pavimento. «Oh, salve signora strega. So che non dovrei essere qui, ma il suo amico fantasma mezzo morto ha deciso di prendere in prestito il mio corpo.»

    Ann gli rivolse uno sguardo molto poco divertito. «Vuoi aiutarmi sì o no?» Chiese solo, sapendo già la risposta. «Fantasma mezzo morto o no che sia,» che non ha senso, poi: se sei un fantasma sei morto per forza, «ci ha lasciato alcuni indizi importanti.»

    «Ho quasi paura» sospirò il rosso passandosi una mano sugli occhi. «Ma va bene, vediamo di capirci qualcosa».


Entrarono in camera di Ann con due tazze di caffè fumante tra le mani. Zac andò subito a dare un'occhiata fuori dalla finestra e, una volta essersi assicurato di non aver visto nemmeno un'ombra girovagare attorno all'edificio, andò subito ad affiancare la cugina.

    «Cacchio» esclamò, fissando il pc. «Posso avere l'onore di frugarci dentro?» Chiese, appropriandosi subito del dispositivo.

    Ann si sedette accanto a lui, dando un'occhiata ai fogli alla sua sinistra. «Ehi, Zac» mormorò, «cosa risponderesti se ti dicessi che cinque anni fa il mondo stava per finire?». Mentre parlava, riprese il foglietto e lo guardò mesta. Mai avrebbe immaginato un significato così letterale di quelle righe, eppure ora eccole d'innanzi a lei, chiare come non mai.

Era così concentrata a ripensare alla pazzesca veridicità di tutte quelle storie su Atlantide che a malapena si accorse del silenzio che le era arrivato in risposta.

    Stranita si voltò verso Zac, sobbalzando appena d'innanzi ai suoi occhi sbarrati ed incollati allo schermo. «Che c'è?» Chiese, avvicinandosi alla sua spalla e fissando anche lei il file aperto da suo cugino.

    «Ti risponderei che ci credo» balbettò lui, scuotendo la testa d'innanzi a quello che altro non era lo scanner di un documento scritto in una calligrafia scombinata ma comunque comprensibile.

    «È una lettera?» Chiese Ann, inclinando la testa.

    «Una specie. È un rapporto.»

Da quel che la giovane aveva evinto,"Vecchie scartoffie troppo divertenti da cestinare" era piena di documenti identici a quello. Erano tutti fogli dall'aspetto malandato, come se fossero stati tenuti lontani dalla luce in un ambiente umido e ammuffito. Nonostante nessuno scrivesse più nulla a mano, in quel pc erano stati catalogati tantissimi resoconti scritti dallo stesso pugno, intestati tutti alla stessa persona e tutti con lo stesso timbro - sbavato, rossastro, il più delle volte visibile a malapena.

Il file che Ann si ritrovò davanti faceva venire i brividi, non tanto per l'aspetto generale quanto per il contenuto. Effettivamente, la parola "Armageddon" veniva ripetuta anche troppe volte, come se dovesse essere sottolineata in qualche modo.

    Il resto venne prontamente tirato fuori da Zac - che nel mentre era passato da stupito a visibilmente nervoso. «Dev'essere uno scherzo» balbettò, il volto segnato da un sorriso tirato. «Anticristo? Inferno? Belzebù? Insomma, dai. Un mio amico aveva un cane che si chiamava Belzebù, e sai cos'era? Un chihuahua. Capisci cosa intendo? Ti ritrovavi davanti questo scricciolo con un nome demoniaco e-»

    Ann gli piantò una mano davanti alla bocca: «Zac, calmati» ordinò, gli occhi ben puntati su quelli scuri dell'altro. «Chi si farebbe mai un'intera cartella di documenti finti?»

    Zac fece passare più volte lo sguardo tra lei e lo schermo. Poi si scostò delicatamente il braccio della cugina dalla faccia e tornò serio. «Nessuno» ammise, «ma allora che significa tutto questo?»

    Lei non dovette nemmeno pensarci: «Proprio quello che vedi» affermò, dando voce a quella parte di lei che ormai sapeva non essere sua. Fissò la calligrafia che riempiva il misterioso rapporto e quasi riuscì a figurarla su foglietti, lettere, note e messaggi passati di nascosto dietro agli angoli delle strade.

Il rosso non rispose subito, ovviamente. Anche lui si era messo ad analizzare ogni singola lettera, ogni singolo punto e virgola, ogni singola firma sgangherata con l'espressione che solo chi cerca di trovare un senso a qualcosa che va oltre i limiti dell'assurdo può avere. Si mise a girare per la cartella come se stesse cercando un indizio ulteriore, un documento che avesse scritto: "Ahaha, era tutto uno scherzo" in stampatello sulla prima facciata. Quando non lo trovò, sbiancò tutto d'un colpo, realizzando finalmente una situazione che Ann aveva già passivamente accettato dato il bizzarro contesto in cui si trovava.

    Incredibilmente, Zac non andò su di giri nel mondo in cui sua cugina si sarebbe aspettata. Semplicemente, si mise a tamburellare con le dita sulla scrivania mentre si mordicchiava un labbro. Si spostò sulla sedia più volte prima di affermare: «Il mio capo è un demone.»

Ann annuì.

    «E i tizi sotto casa?»

    «Idem. In effetti, sono quasi certa che Aziraphale lo abbia accennato stanotte» affermò lei puntellandosi il mento con un dito. I ricordi di ciò che era successo andavano e venivano, riaffiorando un po' alla volta e a seconda di ciò che le serviva riferire. Non era semplice: probabilmente richiedeva un dispendio di energie che la povera aura martoriata dentro di lei non si poteva permettere.

    Il rosso fece un lento segno di assenso, lungo abbastanza da far trasparire la fatica che stava facendo per non urlare. «E lui?» Chiese poi, indicando il ventre di sua cugina.

    Ann alzò gli occhi al cielo: «No, Zac. Te l'ho già detto.»

    Questi sospirò «Ottimo». Poi, come una molla lasciata in tensione troppo a lungo, balzò in piedi: «E che accidenti è allora?!»

    «Non lo so» scandì l'altra alzandosi a sua volta. «Però ci sta mettendo sulla pista giusta per aiutarlo. Se lo seguiamo, ci dirà come risolvere il problema.»

    Zac scosse la testa: «Se seguiamo chi, Ann? Non sappiamo con chi abbiamo a che fare. La tizia dal nome impronunciabile è una strega, il mio capo e il duo poco raccomandabile sguazzano regolarmente in chissà quale pozza di fuoco infernale, per non parlare del fatto che, a quanto pare, cinque anni fa il Kraken, qualche alieno e la popolazione di Atlantide sono andati a farsi un pic-nic in attesa che il mondo finisse» elencò, parlando così velocemente da doversi fermare a prendere fiato. «E adesso tu sei diventata un contenitore per creature ferite non ben identificate. Per non parlare del fatto che la stai prendendo con molta filosofia.»

    Ann prese a torturarsi le dita intanto che quella valanga di paura, nervosismo, preoccupazione e amaro sarcasmo le si riversava addosso. Aggrottò le sopracciglia e rivolse lo sguardo verso il pavimento, cercando di trovare un modo per calmare suo cugino e cercare di andare avanti. Alla fine sospirò e disse: «So che è tutto assurdo e che hai paura, ma che cos'altro possiamo fare?» Poi rialzò la testa: «Andrò io da dalla coppia della libreria, va bene? Non devi aiutarmi per forza. Non avrei dovuto farti finire in questa situazione in primis.»

Non appena ebbe finito di pronunciare quelle ultime parole, le ondine sulla fronte di Zac si distesero. Era ancora contrariato, ma adesso nei suoi occhi c'era una punta evidente di profondo dispiacere.

    «Sei fuori di testa se pensi che ti lascerò da sola» affermò lui lasciando ricadere la tensione dalle sue spalle. «È solo che... Sai...»

Il movimento indeciso che fece con le braccia portò Ann a capire che cosa intendesse. In effetti erano tante cose da digerire tutte in un colpo solo, ma avrebbero rimesso insieme i pezzi - o almeno, questo era ciò che stava cercando di ripetersi.

    «Grazie» mormorò, avvicinandosi a Zac per abbracciarlo. Come la sera prima, poté quasi sentire la tensione tra loro sciogliersi come un gelato lasciato troppo al sole.

    Con un sospiro, lui prese a darle qualche leggero colpetto sulla testa: «Figurati» gorgogliò. Poi, con un tono quasi rassegnato, chiese: «Sta tanto male?»

    Ann si staccò per passarsi una mano sulla pancia. Annuì, seppur non esattamente certa dell'effettiva gravità della situazione. Non che avesse visto il danno o sentito qualche tipo di dolore; l'unico trauma che le restava della nottata erano le voci che le avevano invaso il cervello. Ponderò se dirlo a Zac o meno, ma alla fine optò di farla semplice. «Beh, immagino sia questo che succede se ti scegli un demone come compare» scherzò, finendo però con un sorriso tirato sul volto e la testa incassata nelle spalle. E addio tentativo di risollevare il morale.

    Il rosso tornò ad accasciarsi sulla sedia. Annuì intanto che andava a chiudere la cartella dei documenti per andare ad aprire quella delle foto. «Beh, per quanto mi faccia strano ammetterlo: il signor C non emana certo la stessa aria spaventosa degli altri due» affermò, indicando la finestra con un dito. «E Fell si fida di lui. Non abbiamo ragione di preoccuparci, no? Forse non ti mangerà quando scoprirà che sei posseduta dal suo fidanzato.»

    Ann sorrise, scuotendo la testa all'ultima battuta e affiancandolo: «Esatto. E poi, guardali» disse, facendo cenno verso un vecchio scatto, «ti sembrano pericolosi?»

Era una foto sbiadita, scattata all'aperto e caratterizzata da una luce giallastra e smunta. I soggetti in primo piano sorridevano, vicini, colti nel bel mezzo di una conversazione.

La ragazza sentì un leggero calore avvolgerle il cuore e quasi riuscì a sentire gli echi di un paio di risate spensierate.

    Zac scosse la testa, poi guardò di nuovo sua cugina non senza ancora una punta di dubbio. «Spero solo che questo non sia dannoso più per te che per lui.»

    «Beh, Tracy è sopravvissuta, no?»

    «E non è l'unica cosa a cui è sopravvissuta» puntualizzò l'altro accennando ai fogli sulla scrivania. «Non dovremmo essere tutti morti a quest'ora?»

Fu così che il gruppetto divenne quello de: "I Sei dell'Apocalisse" - nome ovviamente ideato da Zac - formato dall'amica di Mary, il suo compagno, la coppia della libreria e loro; gli esseri sovrannaturali ai quali Shakespeare pareva ammiccare. Che cosa avessero fatto, come e in che modo ciò andasse ad intaccare la situazione attuale, i cugini ancora non lo sapevano.

    «Scusa una cosa» disse allora Zac, «perchè non richiami direttamente Crowley? A te risponde, no?»

    «Beh, sì» rispose Ann, iniziando a sentire uno strano nodo allo stomaco. «In effetti, è più probabile che lui mi ascolti più volentieri data la situazione.»

    «E conosce Ana-cosa e compagno. Alla fine dovremmo riuscire ad avvisare tutti, indipendentemente da chi contattiamo.»

Era fin troppo semplice come soluzione, il che fece affiorare non pochi dubbi nella testa della giovane. D'altronde, Aziraphale era sembrato un po' restio e preoccupato nei confronti dell'altro, come se avessero avuto una discussione o come se ci fosse qualcosa che non andava tra loro.

Però non potevano starsene con le mani in mano, né farsi bloccare da semplici dubbi. Ann prese quindi il cellulare, pronta a ricontattare il numero della notte prima, ma l'azione venne fermata da un'altra chiamata in arrivo.

Era Mary.

Giusto. Con tutto ciò che era successo, si era quasi dimenticata del loro "agente sotto copertura".

    Diede una veloce occhiata a Zac e mise il vivavoce: «Ehilà?»

    La vocina cinguettante dall'altra parte si sovrappose al rumore del traffico cittadino: «Buongiorno, Annie! Zac è ancora con te?»

    Il rosso ridacchiò: «Qualcosa mi dice che hai novità da raccontare.»

    L'altra sbuffò: «Non quanto vorrei. Tracy si è chiusa a riccio quando ho provato a chiamarla e chiederle di più sulla faccenda - ma se devo dirla tutta, non mi pare molto informata. Sa solo che si è trattata di una situazione inaspettata ed improvvisa, ergo: non hai idea di dove siano i nostri ricercati. Perciò ho deciso di fare la cosa più logica.»

    I cugini si guardarono incuriositi, ma non fecero nemmeno in tempo a chiedere che Mary li batté sul tempo: «Sto andando in libreria.»

Sia Ann che Zac sussultarono sollevati. Qualsiasi trucchetto avessero usato per nascondere il luogo - anzi, i luoghi - era facile da raggirare - anche se erano convinti entrambi del fatto che ancora non esistesse qualcosa capace di tenere Mary all'oscuro di un fatto che le interessava.

    «Alla grande!» Esclamò Zac. «Facci sapere se scopri qualcosa.»

    Mary ridacchiò: «Non devi nemmeno chiedermelo. Mi fareste il favore di andare ad aprire il negozio nel mentre? Non so quanto mi prenderà questa piccola deviazione».


Così, Ann e Zac andarono a prepararsi. Prima di andare via, lei decise di mettere il pc e il thriller - che comunque pareva interessante, tanto che pensò di prenderne una copia per sé - nella sua affidabile borsa.

    Quando si rividero, Zac aveva due caschi tra le mani. «Prendiamo la moto» disse intanto che si dirigevano all'ingresso. «Spero sia più veloce di due demoni a piedi. Sai, in caso di emergenza».

Non varcarono il portone d'ingresso senza aver prima dato un'occhiata alla via mettendo il naso oltre la soglia. Anche allora, il rosso prese l'altra per il polso, spronandola a sbrigarsi.

    «Non sono in giro» affermò Ann infilandosi il casco.

    «Non sono in giro adesso» replicò Zac avviando il motore, «potrebbero ricomparire da un momento all'altro». Si fece un po' più in avanti, accennando con la testa al sedile dietro di sé: «Salite su.»

Lei sorrise, ma non riuscì a fare che un passo.

Qualcosa le fece voltare la testa verso la strada, intimandole di andare verso una certa direzione. Era come essere legati ad un filo che veniva debolmente strattonato.

    «Dove vuoi portarmi?» Sussurrò, sapendo che quella era come la spinta che l'aveva portata a scoprire i punti chiave di tutta quella storia, dalle porte chiuse, al numero di telefono, alla password del pc...

    «Ann?» Richiamò Zac, evidentemente preoccupato. «Che succede?»

    Lei lo guardò e una delle sue mani andò automaticamente a posarsi sulla sua pancia. «Ti va di fare una piccola deviazione?» Chiese, iniziando a prendere posto sul sedile.

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Capitolo 8
*** Il vicolo ***


    «Beh, che dire» commentò Zac mettendosi le mani sui fianchi. «Un posticino adorabile.»

Erano all'entrata di un vicolo. Alla loro destra c'era la porta sul retro del ristorante di sushi che dava sulla strada, a sinistra un cassonetto della spazzatura.

I vicoli di Londra possono essere divisi in due categorie: quelli carini, pieni di finestrelle, porticine e bici accostate ai muri; e quelli lugubri, grigiastri, poco illuminati, probabilmente luogo d'incontro di disadattati e malviventi. Ovviamente, quello che avevano davanti apparteneva alla seconda categoria.

    Ann si guardò attorno, abbandonando il casco accanto al motorino di Zac. «Eppure il posto è questo, posso assicurartelo.»

Avevano seguito la pista che lei stessa aveva indicato man mano che si facevano strada per le vie della capitale inglese. Erano capitati non troppo lontano da Soho in una strada bazzicatissima che nessuno dei due percorreva spesso, guidati dall'essere malandato che si era annidato nel corpo di Ann.

    «Non lo metto in dubbio» la rassicurò lui. «Solo... Cosa stiamo cercando, esattamente?»

Ottima domanda. Qualunque fosse il loro obbiettivo, si trovava lì, tra il traffico alle loro spalle e la viottola che si estendeva davanti ai loro occhi. Le strette pareti di mattoni non avevano né un segno, né un particolare che potesse dire loro qualcosa, nulla di nulla. Erano soli in mezzo ai rumori della città e all'umidità costante.

    «Non so come funzioni» riprese lui, «ma Fell non ti ha detto niente?»

    «Non è che mi parla» spiegò Ann, «è sempre più un gioco di sensazioni.»

    «E hai sensazioni particolari su questo posto?»

    «No. So solo che dobbiamo essere qui per qualche motivo.»

Zac emise un: "mh" e fece volare lo sguardo sul pavimento, sui muri, persino verso i tetti. Poi adocchiò il bidone dei rifiuti, uno di quelli grossi e grigi che adoperavano i ristoranti o le attività di grandi dimensioni. Aveva delle ruote al di sotto e, quando il rosso vi si avvicinò, Ann capì subito cosa volesse fare.

    «Ti aiuto» annunciò, andando a spingere dal lato opposto a quello del cugino - il quale si era invece messo a tirare.

Non fu semplice, quel bestione pesava parecchio - e puzzava da morire - ma presto riuscirono a scostarlo abbastanza da scoprire il pezzo di muro che vi si celava dietro.

Con un sospiro, Ann si massaggiò le braccia già doloranti e diede un'occhiata al punto scoperto. Subito sussultò, indietreggiando di qualche passo e mettendosi una mano sulla bocca.

    Zac la raggiunse di colpo: «Cosa? Che c'è?» Chiese ansioso, prima di buttare l'occhio a sua volta e sbiancare. «Non dirmi che è ciò che penso che sia...» Sussurrò.

Tra il terreno e il muro si estendevano alcune macchie scure e gocciolanti che nemmeno la pioggia era riuscita a cancellare del tutto. L'effetto era quello che si sarebbe ottenuto lanciando scolare un po' di vernice contro una parete per poi lasciare che si asciugasse da sé. Il peggio sembrava essersi abbattuto proprio sulla pavimentazione, laddove si estendeva una bella chiazza nerastra dai vaghi riflessi bordeaux.

Per un attimo, i cugini rimasero in silenzio. Nessuno dei due ebbe il coraggio di dire cosa sembrasse ciò che avevano davanti, per quanto ovvio potesse essere.

    Fu Zac a rompere la quiete: «Che cos'è successo qui?» Chiese, tremando appena.

Ann non rispose. Sembravano i rimasugli di una scena del crimine e la sua mano volò quasi istintivamente al ventre, dicendole che la ferita doveva aver avuto origine lì, sì. Ma come?

    «Non saranno stati loro...» Sussurrò sovrappensiero.

    «Chi?» Chiese Zac, ancora fissando il muro. «I demoni del lampione?»

    «Forse è per questo che girano per il nostro quartiere. Devono finire il lavoro.»

    Il rosso sbarrò gli occhi, volgendosi totalmente verso la cugina. «Il loro lavoro è dentro di te, Ann. Se lo scoprono, è te che ammazzano.»

    Giusto. Nonostante la gravità della situazione, però, Ann riuscì a mantenere la calma in un modo che non sarebbe riuscita a spiegarsi. Semplicemente, fece un bel respiro profondo e guardò Zac con quella che sperò essere determinazione. «Cerchiamo altri indizi, allora. E in fretta.»

Lui non parve del tutto convinto, ma Ann lo conosceva abbastanza da sapere che tenerlo occupato lo avrebbe distratto dal farsi prendere dall'ansia. Lo osservò fare un cenno di assenso e mettersi a perlustrare i dintorni, rimanendo sempre nei pressi del bidone.

    «I demoni lasciano tracce?» Chiese accendendo la torcia del cellulare.

    Lei fece spallucce: «Non ne ho idea.»

L'unica traccia visibile erano quelle linee irregolari di, presumibilmente, sangue che si facevano strada sulla parete davanti ai suoi occhi. Ma vero è che leggere i libri di Arthur Conan Doyle e guardare CSI non ti rendono un investigatore - fatto di cui Ann si accorse molto presto.

Non sapeva bene dove sbattere la testa e Aziraphale aveva deciso bene di smettere di "parlarle" proprio quando erano arrivati a destinazione. Si chiese se ci fosse un modo per conversarci, così come Zac aveva suggerito, ma il loro era un dialogo a senso unico in cui lei poteva solo stare a sentire.

In mancanza di idee, si avvicinò al muro. Ne sfiorò la superficie ruvida e umida con i polpastrelli, e solo allora notò una cosa particolare. In mezzo al bordeaux si intravedevano sottili e leggermente luccicanti linee dorate.


**


    «Sei da solo, eh? Ottima decisione» sogghignò Hastur, perforandolo con gli orribili occhi vuoti che si ritrovava.

Avrebbe preferito non rivederlo. Credeva di aver chiuso con tutta quella storia; sperava di potersi costruire una vita, adesso. E invece si era ritrovato tra le mani una lettera minatoria talmente intrisa di Inferno da fargli male alle dita; lettera che gli ordinava di recarsi lì: nel vicolo accanto ad uno dei suoi ristoranti preferiti. Ironia della sorte o subdolo giochetto? Non avrebbe saputo dirlo.

    «Vediamo di risolvere la cosa pacificamente» rispose solo. Tremava leggermente, le mani parzialmente nascoste dalle maniche della sua giacca preferita, e qualcosa gli disse che i due demoni davanti a lui lo avevano già notato.

A dirla tutta, tecnicamente erano due; nella pratica era circondato da un gruppo di cloni dalla capigliatura improbabile e lo sguardo di chi ha la vittoria in pugno.

Una parte di lui gli stava urlando di fuggire, che non avrebbe dovuto essere lì, che non sarebbe dovuto venire da solo... Ma aveva faticato troppo per guadagnarsi la sua libertà. Non avrebbe certo mollato così.


Il demone dalla pelle grigiastra si infilò le mani nelle tasche con finta nonchalance. Sembrava fin troppo tranquillo, il che poteva significare una sola cosa.

    «Sappiamo tutto» annunciò infatti. «È bastato osservarvi.»

Aziraphale si morse l'interno della guancia, cercando di non far trasparire ulteriore nervosismo. Sapevano che quel giorno sarebbe arrivato, solo non così presto...

Avevano effettivamente allentato la corda negli ultimi tempi. Certo, all'inizio avevano provato a vivere con nonchalance, ma c'era sempre una specie di tacito accordo in cui uno guardava a destra e l'altro a sinistra mentre passeggiavano; si infilavano nei posti più lontani dal centro con la scusa di andare a mangiare in un posto nuovo, prendevano scorciatoie senza accorgersene - guidati un po' dal timore e un po' dall'abitudine.

Poi la tensione si era progressivamente sciolta, un passo alla volta, lentamente ma inesorabilmente. Era diventato tutto fin troppo facile, fin troppo tranquillo, fin troppo felice. C'era calma. Troppa calma.

Nulla è per sempre. La loro speranza era sempre stata quella di rimanere una specie di caso a parte, un nucleo a sé stante. Sapevano di avere sempre qualche occhio addosso, ma speravano che le cose si fermassero lì.

Quanto ci sbagliavamo.

    Con un respiro profondo ma - almeno sperava - ben camuffato, Aziraphale squadrò il suo indesiderato interlocutore. «Bene, e allora?» Chiese, ostentando una sicurezza che non aveva assolutamente.

    L'altro fece spallucce: «Beh, sei fortunato. Avrei potuto spifferare tutto ai piani bassi, ma ho deciso di tenermi la scoperta per me. Diciamo che l'ho fatta diventare una questione personale.»

L'angelo alzò un sopracciglio e diede una rapida occhiata ad uno dei cloni attorno a lui. Non sembrava molto "personale", ma decise di non sottolineare quel particolare. Piuttosto, cercò di analizzare quella scomoda situazione. Un duca dell'Inferno non si sarebbe mai preso il disturbo se non fosse stato importante, ma soprattutto: non si sarebbe mai sognato di tenere nascosta una cosa del genere ai suoi superiori. Qualcosa non quadrava.

    «Non me la racconti giusta» mormorò. Doveva prendere tempo, sì... Ma tempo per fare cosa, esattamente? Era bloccato in quel vicolo.

    «Da che pulpito» sogghignò Hastur. «Allora siamo in due.»

L'aria si era improvvisamente fatta pesante. Aziraphale conosceva fin troppo bene quella sensazione.

Guai in arrivo.

Fortunatamente, aveva già una mezza idea su cosa fare nel caso le cose si fossero messe particolarmente male. Sperava ovviamente di non arrivare mai a quel punto, ma ormai la situazione stava per degenerare.


Il duca si mise una mano nella tasca e vi tirò fuori un'arma piccola e apparentemente leggera. Sembrava in tutto e per tutto un coltello dalla lama vagamente incandescente.

Avevano effettivamente scoperto tutto, in un modo o nell'altro. Sapevano come fargli male davvero e non avrebbero esitato.

    Il demone parve rendersi conto del suo cambio d'espressione. Giocherellò con la lama senza smettere un secondo di sorridere. «Per il bene tuo e di quello del tuo fidanzatino,» sputò, «ti consiglio di metterti al muro, angioletto.»

Stava ovviamente bluffando: dopo di lui, sarebbero andati da Crowley in ogni caso - e chissà come sarebbe andata a finire. Eppure Aziraphale continuava a sentire che qualcosa non quadrava. Era un rumore sordo agli angoli della sua coscienza, una vocina che gli suggeriva che quella che stava per consumarsi non era semplice vendetta o ripicca per la mancata fine del mondo.

C'era altro. Che cosa? Non ne aveva idea. Dubitava seriamente che avesse a che fare con il piccolo "incidente" con l'acqua santa a casa di Crowley. I demoni non fanno certamente amicizia tra di loro - o comunque, non tanto da vendicarsi a vicenda.

    Il biondo scosse la testa: «Perchè scomodarsi tanto? Le cose non cambieranno di certo.»

In un certo senso, l'equilibrio era stato rotto cinque anni prima. Certo, la tregua aveva i giorni contati, ma anche volendo ritornare sotto l'attenzione dei superiori, questi ultimi sapevano di avere a che fare con due casi estremamente particolari. Si sarebbero davvero azzardati ad arrivare a tanto?

Il passo avanti di Hastur parlò per lui.

Ci siamo davvero sbagliati?


Parlare, conversare, cercare di mettere pace a parole... Non aveva mai funzionato. Sotto sotto, non si aspettava certo un cambiamento.

A dirla tutta, non si era mai aspettato un finale diverso. Per questo aveva preparato tutto preventivamente. Per questo aveva pensato a più piani di scorta.


Una mano lo tirò violentemente contro il muro alla sua sinistra. L'istinto stava per portarlo a lamentarsi, anche perché era già la seconda volta che veniva trattato in quel modo - di nuovo, non avrebbe saputo dire se fosse ironia della sorte o meno.

Stavolta, però, non se la sarebbe cavata con un pugno nello stomaco.

I suoi aguzzini non dissero più una parola. C'era un'ipotetica ombra negli occhi di Hastur, il quale aveva improvvisamente smesso di scherzare. Semplicemente, guardò Aziraphale dritto negli occhi e, con un unico e ben calcolato movimento del braccio, affondò la lama nel ventre della sua vittima, trapassandone il guscio come fosse burro fuso.

La punta infuocata dell'arma andò a recidere l'aura altrimenti immacolata dell'angelo, il quale non emise un suono, non un lamento, niente. Strinse solo gli occhi e lasciò che il duca rimovesse la lama per afferrargli il bavero e costringerlo a mettersi di faccia contro la parete umida. Poteva sentire il suo sangue scorrere tra le fughe dei mattoncini e scivolare verso terra.

Il dolore arrivò in ritardo, quasi come se non si fosse accorto che ormai era il suo turno di colpire. Il bruciore seguì subito dopo, inondando l'area ferita e preparandosi a migrare tra le scapole di Aziraphale, laddove Hastur aveva adesso poggiato la punta della sua piccola e letale arma.

Era un gesto simbolico: da lì partivano le sue perennemente nascoste ali. Erano il punto più debole e facile da colpire, tanto che era lì che si doveva puntare in caso di scontri.

Forse avrebbe dovuto reagire. Se si fosse impegnato, avrebbe potuto incenerire sia Hastur che il suo improbabile collega. Ne era perfettamente capace: era nato per quello, in fondo.

Ma no, non lo aveva fatto che una volta e da allora aveva deciso che non ne valeva la pena. Aveva altro in mente.

Anche se forse Crowley non lo avrebbe mai perdonato.


E così rimase immobile e tremante, la guancia pressata contro il muro e gli occhi serrati. Le gambe presero a tremargli e l'aura a lamentarsi al posto suo, ma non si mosse. Sentì la lama iniziare lentamente a perforargli la giacca - non senza una punta di stizza - e quasi iniziò a pregare di morire prima che l'operazione finisse.

Qualcosa non va, continuava a ripetersi. Qualcosa non va, qualcosa non-


La presa che lo teneva in posizione si allentò di colpo.

Cadde a terra e si girò sulla schiena, confuso. Aprì gli occhi, ma il cielo ricoperto di nubi sopra di lui sembrava un'ammasso di chiazze confuse. Udì dei suoni, una grossa e lunga ombra si fece strada in mezzo al suo campo visivo, ma non riuscì a capire cosa stesse accadendo.


Qualcosa non va, si disse. Poi il mondo cadde nell'oscurità.


**


Ann sbatté gli occhi un paio di volte, confusa. Aveva ancora le dita attaccate al muro e attorno a lei si udiva ancora il viavai frenetico della città. Si voltò: Zac stava ancora scandagliando l'area con la torcia del cellulare intanto che si grattava la testa, più confuso di lei.

Non sembrava essersi accorto di niente.

Da quanto era lì? Quanto tempo era effettivamente passato?

Senza sapere che dire, la ragazza aggrottò le sopracciglia e - quasi d'istinto - prese il cellulare dalla tasca. Nessuno l'aveva più richiamata, ma ormai si stava facendo tardi e ancora dovevano aprire il negozio per Mary.

    Sospirò e guardò il rosso: «Dovremmo andare» disse solo, la voce incerta.

Ciò che aveva visto continuava a ballarle davanti agli occhi. Era come se fosse stata lì a guardare la scena dagli occhi del protagonista. Le era sembrato di essere davanti allo schermo del cinema o davanti alla scena di un thriller ben scritto, di quelli che rimangono per settimane dietro alle vetrine delle librerie. Esattamente come quello trovato al pub.

    Zac annuì: «Beh, sappiamo dov'è il posto. Possiamo sempre tornarci all'occorrenza» disse, facendo spallucce. Poi squadrò meglio la cugina e aggrottò la fronte: «Qualcosa non va?»

Qualcosa non va.

    Ann si passò le mani sulle braccia, dando una veloce occhiata alle chiazze sul muro. «So cos'è successo» annunciò senza troppi giri di parole. «Ti dirò tutto al negozio.»

    Zac sbarrò gli occhi, puntandole un dito contro la pancia: «Te lo ha detto lui?» Chiese, evidentemente incapace di stupirsi ulteriormente, ormai.

    «Più o meno. Te l'ho detto: non parla.»

    Il rosso emise un poco convinto: "mh", storcendo il naso. «Beh, allora poteva anche evitare di farmi andare avanti e indietro per un vicolo con una torcia in pieno giorno. Meno male che non è passato nessuno.»

Ad Ann scappò un sorriso. In effetti, lei impalata davanti ad un muro e lui che girovagava attorno ad un cassonetto... doveva essere una scena esilarante - e forse un po' inquietante. Di certo non avevano bisogno anche di sguardi indiscreti, perciò ringraziò la loro buona stella che nessuno - nonostante la folla alle loro spalle - avesse deciso di indagare ulteriormente. Un vero e proprio miracolo.

    «E comunque,» aggiunse Zac, avviandosi verso il motorino, «capisco le sue condizioni, ma Fell dovrebbe trattarti meglio. Sei di nuovo pallida come un cencio.»


Fu una voce dietro di lui a rispondere.

    «Il ragazzo non ha tutti i torti.»

Ann spostò velocemente lo sguardo e il suo cuore perse un battito. Andò subito ad afferrare Zac per il cappotto, tirandolo a sé e portandolo quindi il più possibile lontano dall'inatteso intruso.

Il rosso, dapprima confuso, si lasciò strappare via da colui che, solo adesso, riuscì a vedere per bene.

I cugini rimasero l'uno accanto all'altra, impietriti. Ann, soprattutto, sentì un brivido percorrerle la spina dorsale.


Davanti a loro, comparso probabilmente come la prima volta che lo avevano visto, se ne stava il demone dalla pelle scura e la capigliatura improbabile. Li guardava con le braccia incrociate al petto e un sorrisino divertito. Alle sue spalle, Londra continuava a vivere come nulla fosse.

Erano invisibili come il pub e la libreria. Tutti i luoghi che avevano avuto a che fare con quella storia parevano svanire nel nulla, e con loro le persone al loro interno.

Ovviamente, il demone era lo stesso del lampione, lo stesso che Ann aveva visto nella sua visione-barra-flashback. Lo stesso che aveva contribuito alla ferita invisibile che adesso sembrava quasi pulsare imperterrita nel suo ventre.


    Con uno sbuffo beffardo, il nuovo arrivato li squadrò dall'alto in basso. «Sapete cosa si dice delle anime tormentate?» Disse, gesticolando scherzosamente con le dita mentre pronunciava le ultime parole.

Il silenzio piombò per un lunghissimo secondo, ricadendo come una cupola di vetro tra i tre.

Il demone scosse la testa, come sorpreso dal fatto che i ragazzi non sapessero la risposta. «Che tornano sempre nel luogo del delitto» continuò infine. «Se avessi saputo che era vero, non avremmo perso tanto tempo a cercare.»


Ann sentì il respiro mancarle. Zac si mise davanti a lei, un protettivo braccio davanti alle sue spalle come ad intimare al demone di non muoversi. C'era un velo di paura nei suoi occhi e la ragazza non poteva certo biasimarlo.


Erano in trappola.

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