Il Cavaliere del Destino

di Saga no Gemini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Emergenza ***
Capitolo 2: *** Il Demone del Vento ***
Capitolo 3: *** L'erede di Gemini ***
Capitolo 4: *** Zambiya e Nanniya ***
Capitolo 5: *** Oscure trame ***
Capitolo 6: *** Terra e acqua ***
Capitolo 7: *** Fulmine e luce ***
Capitolo 8: *** Ghiaccio e vento ***
Capitolo 9: *** Misteri svelati ***
Capitolo 10: *** Il consesso del Monte Athos ***
Capitolo 11: *** Attacco al Grande Tempio ***
Capitolo 12: *** Una situazione difficile ***
Capitolo 13: *** Alleanze ***
Capitolo 14: *** I Semi del Male ***
Capitolo 15: *** Il maestro delle anime ***
Capitolo 16: *** Un sogno ricorrente ***
Capitolo 17: *** Anche gli eroi muoiono ***
Capitolo 18: *** Il Bastione delle Sette Ombre ***
Capitolo 19: *** Un padre e un figlio ***
Capitolo 20: *** La rinascita di Nergal ***
Capitolo 21: *** Il ritorno di Calx ***
Capitolo 22: *** Il Bagliore del Crepuscolo ***
Capitolo 23: *** Dumuzi, l'Ametista di Vento ***
Capitolo 24: *** Un nobile avversario ***
Capitolo 25: *** Le Colline della Folgore ***
Capitolo 26: *** La Valle della Solitudine ***
Capitolo 27: *** Il Lago delle Lacrime ***
Capitolo 28: *** L'ultima gemma ***
Capitolo 29: *** Il Cavaliere del Destino ***
Capitolo 30: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Emergenza ***


Capitolo I
EMERGENZA
 
Grande Tempio di Atena, novembre 1050 d. C.
 
   Il soldato si diresse ad una porta segreta posta sul lato est della montagna che ospitava il Grande Tempio. Era un passaggio noto solo ai Cavalieri d'Oro e alla guardia preposta alla protezione di quei luoghi.
   Aprì la porta, che emise un sinistro scricchiolio, ed imboccò la scalinata di pietra che s'inerpicava fino alla tredicesima casa, la residenza del Sommo Sacerdote. La scalinata era semioscura, illuminata qua e là da torce poste in punti chiave per indicare il percorso a chi vi si avventurava. L'uomo, però, ne conosceva a menadito ogni anfratto, ogni svolta, ogni più piccolo dettaglio. Erano anni che la percorreva, ogni volta che un'emergenza, una richiesta d'aiuto giungeva alla dimora terrena di Atena.
   Mentre risaliva quella strada di pietra, guardò la pergamena accuratamente ripiegata e sigillata che teneva fra le mani. L'aveva consegnata pochi minuti prima alla guardia di pattuglia ai confini occidentali del territorio del Santuario un uomo incappucciato a cavallo, giunto a nome dell'Imperatore di Bisanzio, Costantino IX Monomaco. Il sigillo che chiudeva il plico recava l'effigie ed il nome dell'Imperatore.
   I soldati, vedendo quel sigillo e la premura con cui l'uomo incappucciato aveva chiesto di recapitare la missiva al Sommo Sacerdote, avevano subito inviato qualcuno a consegnarla.
   La risalita sembrava interminabile, ma, alla fine, il soldato vide la porta che si apriva sulla tredicesima casa, su un corridoio secondario che immetteva direttamente nell'atrio del palazzo. L'uomo percorse la breve distanza che lo separava dalle stanze del rappresentante di Atena in terra ed arrivò ad un alto portone abbellito da motivi floreali ed intarsiato d'oro, accanto al quale due guardie armate di lance sorvegliavano il corridoio.
   - Ho una lettera per il Sommo Alexer, la invia l'Imperatore di Bisanzio. È urgente! -, disse l'uomo, sventolando il plico che aveva in mano. Le guardie, che conoscevano bene quel soldato, aprirono il portone e lo fecero entrare.
 
   La stanza era ampia, arredata da arazzi rossi che impreziosivano le pareti e da un tappeto dello stesso colore che conduceva fino al trono. Alle spalle del trono, si apriva una lunga scalinata di marmo che giungeva fino alla statua della dea. Ai suoi lati vi erano due corridoi: quello a destra portava agli alloggi privati del Sacerdote, l'altro alla balconata, da cui si poteva ammirare la bellezza e la sobrietà del Grande Tempio.
   Il soldato si fermò a pochi passi dagli scalini su cui si ergeva il trono di marmo ed attese che il Sacerdote si facesse vedere. L'attesa non fu lunga, qualche secondo dopo, un uomo alto, con un elmo d'oro, munito di una cresta dello stesso materiale che partiva dalla fronte e si estendeva fino alla nuca, apparve dal corridoio sinistro. Indossava una tunica bianca e spallacci di cuoio adornati di spuntoni.
   - Sei tu, Kaios. Cosa ti porta qui? -, esordì con voce profonda e sicura l'uomo.
   Kaios alzò il capo, che finora aveva tenuto abbassato in segno di rispetto, e rispose: - Mio signore, poco fa alle porte occidentali del Grande Tempio si è presentato un uomo incappucciato che ci ha consegnato questa pergamena da parte dell'Imperatore di Bisanzio, dicendo di recapitarvela subito -. Il soldato porse il plico al Sommo Sacerdote e tornò ad abbassare il capo.
   - Ti ringrazio, mio buon Kaios. Ora puoi andare. -, disse Alexer, congedando il soldato che, inchinatosi ancora una volta, se ne andò.
   Non appena il soldato si chiuse la porta alle spalle, Alexer fissò il sigillo apposto su quella pergamena, poi lo spezzò e ne lesse il contenuto:
    "L'Imperatore di Bisanzio, Costantino IX Monomaco saluta Alexer, Sommo Sacerdote di Atena.
   So che in passato fra i nostri regni vi sono state divergenze e incomprensioni, ma è ora di mettere da parte ogni dissapore e di iniziare una proficua collaborazione. Vorrei affidarvi la custodia della nipote di Argiro, mio catepano in Italia, da poco vedova ed in attesa di un figlio. La situazione nei territori italici è preoccupante ed egli vorrebbe tenere al sicuro la ragazza in un luogo neutrale. Se acconsentirete alla mia richiesta, rinuncerò ai miei propositi ostili nei vostri confronti.
   In attesa della vostra risposta, vi porgo i miei omaggi".
   Dopo aver letto quelle righe, il Sacerdote di Atena s'interrogò sulle intenzioni dell'Imperatore. Il tono umile della lettera e la rinuncia così repentina ai suoi disegni lo impensierivano. Fin da quando era salito al trono, aveva tentato in tutti i modi di abbattere il culto di Atena e la schiera dei Cavalieri, pur sapendo di non avere speranze contro uomini addestrati da secoli a combattere gli dei. Alexer aveva sempre tentato la via della diplomazia, non potendo permettersi di provocare una guerra contro gli uomini che la sua dea difendeva fin dalla notte dei tempi. Costantino, però, sembrava sordo ad ogni proposta di accordo e continuava a cercare un motivo di scontro. Erano passati otto anni e nulla sembrava sopire l'ostilità dell'Imperatore. Ora, però, quella strana lettera sembrava porre le basi di una conciliazione.
   Il Sacerdote suonò un campanello d'argento che teneva nascosto in uno scomparto segreto del trono e poco dopo davanti a lui si presentò una guardia che, inchinatasi, chiese al sommo pontefice cosa desiderasse.
   - Recati all'undicesima casa e convoca Jorkell di Aquarius. Digli di presentarsi subito al mio cospetto! -
   La guardia annuì e scomparve nel corridoio da dove era giunta.
   Il giorno era uggioso, il cielo era coperto da pesanti nubi e minacciava tempesta. L'estate era passata in fretta e i primi freddi iniziavano ad alitare sul Santuario della dea della giustizia. Alexer uscì sulla balconata, in attesa di Jorkell, e vide la maestosità del marmo bianco delle dodici case, la meridiana spenta che svettava alta sull'intera zona e in lontananza l'arena e le case dei soldati. Voltandosi dall'altro lato vide l'imponente Altura delle Stelle, sede degli archivi, e la solitaria e triste collina adibita a cimitero, dove riposavano i corpi dei gloriosi Cavalieri del passato ed i suoi compagni di un tempo.
   Il messo di Atena respirò l'aria a pieni polmoni. Lo aveva fatto tante volte, prima da Cavaliere, poi da Sacerdote. Mille ricordi gli si affacciarono alla mente: le voci dei compagni, il fragore della battaglia e soprattutto le parole accorate e colme di amore dell'ultima incarnazione di Atena, scomparsa qualche anno dopo la fine della Guerra Sacra.
   "Alexer, abbi cura del Grande Tempio e dei miei Cavalieri. Affido a te il comando dei paladini della giustizia fino al mio ritorno!"
   Erano state queste le ultime parole della dea prima di svanire per sempre.
   All'inizio, quella enorme responsabilità gli era pesata un po': non si sentiva del tutto adeguato al ruolo di capo, ma il supporto dei suoi compagni, col tempo, gli aveva dato la forza necessaria per accettare quella nuova posizione.
   D'un tratto, i suoi ricordi furono interrotti dal rumore di passi che si avvicinavano. Era Jorkell, la cui elegante armatura d'oro rifulgeva alla luce delle torce della stanza.
   - Sommo Alexer, Jorkell di Aquarius è qui, come avete richiesto. -, si presentò l'uomo inchinandosi davanti al trono. Aveva sui trent'anni, la folta chioma bionda si confondeva con l'oro dell'armatura. I suoi occhi blu erano piccoli, ma carichi di espressività. Il naso regolare ed il volto ben disegnato lo rendevano misterioso e affascinante.
   Alexer si sedette sul trono e fece cenno al Cavaliere di alzarsi. Poi, mostrandogli la lettera di Costantino, raccontò:
   - Sembra che l'Imperatore di Bisanzio chieda il nostro aiuto. Vorrebbe che accogliessimo fra le nostre mura la nipote del catepano d'Italia e la tenessimo al sicuro; in cambio promette di cessare ogni ostilità verso il Santuario -.
   A queste parole, Jorkell aggrottò le ciglia e rispose: - Strano che l'uomo che da anni vuole annientare il culto di Atena, tutto d'un tratto ci chieda assistenza. Potrebbe essere una trappola, ci avete pensato? -
   L'ambasciatore di Atena in terra rimase impassibile e porse la lettera al custode dell'undicesima casa: - Da' un'occhiata a questo scritto e ti accorgerai che ha un tono ben lontano dagli altisonanti proclami cui è abituato Costantino -.
   Jorkell prese la pergamena dalle mani del Sacerdote e lesse le parole che vi erano vergate: non aveva mai visto una lettera tanto remissiva e arrendevole. Non sembrava dettata da un re, ma da qualcuno disposto a sacrificare quanto di più prezioso in suo possesso pur di risolvere una questione grave. In passato aveva letto altre missive inviate da Costantino, ma ostentavano orgoglio e superbia, non certo parole di collaborazione e pace.
    - Cosa intendete fare, signore? -, chiese d'un tratto Jorkell.
    - Gli scriverò una lettera di risposta ed invierò un Cavaliere di Bronzo a portargliela e a farci dare ulteriori indicazioni. Non appena le avremo, ti dirigerai in Italia con un paio di Cavalieri. Ho la sensazione che l'Imperatore non ci abbia detto tutto -.  
   - Molto bene, signore. Attendo i vostri ordini -. Il Cavaliere fece un inchino e si congedò.
   Rimasto solo, Alexer si diresse nei suoi appartamenti privati. Dopo un ampio vestibolo, ornato da due statue della dea, si entrava in un salone rettangolare, su cui si apriva una larga finestra chiusa da grate di ferro che lasciavano trasparire la luce del giorno. Sotto di essa si trovava un piccolo scrittoio di faggio, su cui era poggiato materiale da scrittura: penne, pergamene, calamai. Sulla parete opposta vi erano degli scaffali su cui erano adagiati volumi in greco, in latino, ma anche in arabo e sanscrito. Alcuni erano molto semplici, altri avevano copertine rivestite d'oro o con borchie di bronzo e d'argento. Sulla parete opposta all'entrata si apriva un angusto corridoio, su cui si affacciavano tre porte: una portava ai balnea, l'altra alla camera da letto e l'ultima alla sala di convegno, dove il Sacerdote teneva udienza con la dea o coi dignitari stranieri.
   Alexer si sedette allo scrittoio, preparò una pergamena ed intinse la penna nel calamaio. Scrisse all'Imperatore che accettava l'incarico e che avrebbe dovuto dare istruzioni al messaggero che gli avrebbe recapitato la risposta su come, dove e quando prelevare la ragazza. Poi sigillò la lettera con l'effigie della civetta, animale sacro alla dea della giustizia.
   Fece chiamare un Cavaliere di Bronzo, lo istruì a dovere sull'incarico che doveva svolgere e gli disse di fare il prima possibile.
   Congedato il Cavaliere, la mente di Alexer fu percorsa da un dubbio: perché l'Imperatore era arrivato a chiedere l'intervento dei Cavalieri? Come aveva potuto un uomo tanto orgoglioso e testardo riuscire a mettere da parte la sua vera natura pur di ottenere aiuto? Ci doveva essere dell'altro, ne era sicuro. Sperava che il messaggero gli avrebbe portato informazioni utili a svelare parte del mistero. Al momento, però, non poteva far altro che attendere.
   Decise di prendere una boccata d'aria e, attraverso il passaggio segreto da cui era venuto Kaios, giunse ai piedi del Grande Tempio. Vide alcune reclute addestrarsi, guardie armate pattugliare la zona, donne e bambini del vicino villaggio di Rodorio portare vettovaglie. Non appena lo videro, tutti smisero per un attimo le loro faccende e s'inchinarono. Con sguardo gentile e rassicurante, il Sacerdote li fece alzare, si avvicinò ai bambini, un po' intimiditi dall'elmo, e carezzò loro la testa, ebbe parole cortesi per le donne e le guardie, incoraggiò le reclute con tono paterno.
   Poi si avviò verso il sentiero che conduceva alla collina del cimitero. Era uno stretto acciottolato, ornato qui e là da ciuffi d'erba, che seguiva le curve naturali della collina. Il sentiero immetteva in un immenso spiazzo pianeggiante coperto d'erba, di anemoni e ciclamini, e fitto di lapidi. Sul versante occidentale, quello che guardava verso Atene, vi erano le tombe più antiche, ormai ridotte a meri ruderi. Nei secoli, se ne erano aggiunte di nuove, fino a quelle dell'ultima Guerra Sacra, combattuta oltre trent'anni prima.
   Il vicario di Atena si avvicinò ad una di esse, su cui era inciso in caratteri greci: 'Himrar, Cavaliere d'Oro'. Erano diventati Cavalieri lo stesso giorno ed avevano sempre combattuto fianco a fianco. Poi, però, la guerra li aveva portati su campi di battaglia diversi. Himrar era rimasto a difesa di Rodorio, minacciata da un manipolo di nemici. Alexer avrebbe voluto aiutarlo, ma gli era stata affidata una missione più importante e delicata. Lo aveva esortato a farsi dare manforte da qualche altro Cavaliere, ma l'amico aveva rifiutato categoricamente.
   "Se le stelle hanno decretato che muoia in questa battaglia, sono pronto ad accettare il mio destino. Ma nessun altro dovrà condividere la mia sorte! Himrar di Sagittarius compirà il suo dovere, manterrà il giuramento fatto il giorno dell'investitura e sarà degno del titolo di Cavaliere d'Oro. Tu pensa piuttosto alla tua missione e cerca di non morire, amico mio!"
   Erano state queste le ultime parole che gli aveva sentito pronunciare. La missione aveva avuto successo, il nemico era stato sconfitto, ma Himrar aveva riportato ferite troppo gravi. I cerusici della cittadina avevano tentato di curarlo, ma era troppo malridotto per poterlo salvare. Rideva, mentre si spegneva: era felice di aver protetto tante vite e grato alla dea della fiducia che gli aveva accordato. L'ultimo pensiero l'aveva rivolto all'amico:
   "Dite ad Alexer che mi mancheranno le nostre chiacchierate; ditegli che ci rivedremo nel Paradiso dei Cavalieri!"
   Quando la sua salma era tornata al Santuario, Alexer aveva trattenuto a stento le lacrime. Il suo corpo era pieno di ferite e l'armatura aveva ceduto in più punti. Dal suo volto, tuttavia, traspariva pace e appagamento. Aveva compiuto il suo dovere: questa era la cosa più importante. Il sacrificio della sua sola vita ne aveva salvate molte altre, solo questo contava. Alexer conosceva perfettamente quell'espressione e il concetto che vi si celava dietro.
   - Sono già passati trentasei anni da quando mi hai lasciato. Tuo era il nome di uno dei più gloriosi paladini di Atena, ancora oggi fonte d'ispirazione per tanti aspiranti Cavalieri.
   Qualcosa di oscuro si profila all'orizzonte, amico mio. Come vorrei che fossi ancora al mio fianco, ma, ahimè, il destino ha scelto strade diverse per noi due.
   Della casta più forte dell'esercito di Atena restano solo due Cavalieri e non siamo in grado di affrontare una nuova minaccia. Sono alla continua ricerca di nuovi candidati, degni di vestire le armature della giustizia. Abbiamo solo soldati semplici, guardie, qualche Cavaliere di Bronzo e qualche aspirante al rango di Cavaliere d'Argento. Spero che la suprema Atena metta sulla mia strada uomini e donne valorosi per aiutarmi nella mia missione di proteggere l'umanità. Sono sicuro che anche tu veglierai sul Grande Tempio dall'alto del Paradiso dei Cavalieri, Himrar! -
   Detto questo, volse lo sguardo alle tombe vicine, le sepolture degli altri suoi compagni morti in quella scellerata guerra. Mentre le osservava, alla mente gli riaffioravano volti, voci, gesta, caratteri. Ricordava l'imperturbabilità di Libra, la bonaria arroganza di Leo, la fierezza di Taurus. Tutti loro avevano ormai concluso la loro battaglia, ma il loro esempio e la loro abnegazione erano rimasti vivi nella mente e nel cuore del messo di Atena.  
   Il fragore d'un fulmine caduto poco lontano lo distolse da questi pensieri. Alzò lo sguardo e una goccia di pioggia gli bagnò il viso. Anche il cielo sembrava commemorare con lacrime l'eroico sacrificio di quegli uomini e quelle donne. D'un tratto, si udì lo stridulo verso di un corvo.
   Alexer si accigliò. Il canto del corvo, uccello abitatore dei cimiteri, era ritenuto presagio di morte.
   Diede un frettoloso saluto alle tombe e ritornò ai suoi appartamenti. La pioggia si era infittita e una coltre di nubi nere ammantava l'orizzonte.
   Il vicario di Atena si chiedeva come stesse procedendo il colloquio con Costantino e si augurava che il messaggero tornasse presto. L'avvenimento di poco prima lo aveva messo in agitazione: sentiva che qualcosa di oscuro e terribile si stava risvegliando e presto sarebbe stato chiamato ad affrontarlo.
   Quel giorno interminabile alla fine passò. Il temporale era cessato e Alexer si concesse un po' di riposo.
   Il suo sonno, però, fu di breve durata. Era passata qualche ora, quando un incubo lo svegliò di soprassalto: una fitta tenebra squarciata da grida e lamenti di uomini, due fiumi che si univano e davano vita ad una cascata di sangue, un bambino avvolto di luce e tenebra, una foresta morta in mezzo alla quale si ergeva una sorta di torre ed infine una maschera celata dall'ombra.
   Confuso da quelle immagini, Alexer scese dal letto e si avvicinò alla finestra della stanza. Era ancora buio. La pioggia era ricominciata e gettava un alone sinistro sulla dimora di Atena.
   - Prima il corvo, ora questo sogno. C'è qualcosa che non va e devo scoprire di cosa si tratta! - pensò l'uomo, guardando dalla finestra.
   Mentre era perso in queste riflessioni, qualcuno bussò alla porta della stanza.
   - Avanti! -, disse il Sacerdote, voltandosi verso l'ingresso.
   Era una guardia del turno di notte. Restando sulla porta, s'inchinò e disse:
   - Signore, il Cavaliere che avete mandato a Bisanzio è tornato e chiede udienza. -
   - Molto bene, grazie. Digli che lo riceverò fra breve e fa chiamare Jorkell di Aquarius -.
   L'uomo annuì e si precipitò ad eseguire gli ordini.
   - Finalmente saprò qualcosa di più di questa storia e spero anche che mi chiarisca quel sogno! -, si disse Alexer, preparandosi a ricevere il Cavaliere.
   Dieci minuti dopo si presentò nella sala del trono dove lo aspettavano Jorkell ed il messaggero.
   Quest'ultimo era un ragazzo sui vent'anni. Aveva occhi e capelli neri, era più basso sia di Jorkell che del Sacerdote, ed indossava un'armatura di colore blu che copriva solo una ridotta percentuale di corpo. L'elmo a casco aveva le forme della testa di un cavallo. Gli spallacci erano piccoli, lisci e tondeggianti, il cui bordo tendeva al viola. Una placca metallica munita di due fasce che si agganciavano sulla schiena gli proteggeva il cuore. I bracciali, lunghi fino al gomito, presentavano striature orizzontali e le manopole avevano la forma di zoccoli. Un gonnellino a frange gli copriva il bacino e schinieri alti fino alle ginocchia, in tutto simili ai bracciali, concludevano l'armatura.
   Non appena i due Cavalieri videro il Sacerdote entrare, s'inginocchiarono. Con voce giovanile e colma di rispetto, il Cavaliere di Bronzo si rivolse al portavoce d'Atena:
   - Sommo Alexer, Midra di Equuleus è qui per fare rapporto. Perdonate l'ora, ma ho ritenuto fosse giusto informarvi subito sull'esito del colloquio tenuto con l'Imperatore -.
   - Hai fatto bene, Midra, continua -, rispose Alexer, ansioso di conoscere i dettagli.
   - L'Imperatore ha detto che la ragazza si chiama Irene e si  trova in una città italica chiamata Bari, nel palazzo dei governatori, che Argiro ha confiscato. La situazione nella penisola inizia a farsi pericolosa e Costantino ha garantito al catepano che avrebbe provveduto un luogo sicuro per la nipote, che è amica d'infanzia della principessa Anastasia. Per non farci trovare ostacoli con la guarnigione stanziata in Italia, mi ha consegnato l'anello con il suo sigillo -. Nel dire questo, il ragazzo alzò la mano verso il Sacerdote, la aprì e gli mostrò l'anello. Era un grosso monile d'oro finemente cesellato, al cui centro era incastonato un rubino su cui erano incise due lettere: KM, le iniziali del sovrano.
   - C'è altro? -, chiese il Sacerdote, sperando in qualche ulteriore informazione.
   - No, signore. Ho provato a farmi dare altre informazioni, come mi avevate richiesto, ma l'Imperatore ha detto che le avremo una volta arrivati in Italia -, rispose Midra, con una punta di delusione nella voce.
   - Hai fatto un ottimo lavoro, Midra, ti ringrazio -, lo rassicurò Alexer. Poi si rivolse a Jorkell che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad ascoltare:
    - Jorkell, alle prime luci dell'alba ti dirigerai a Bari. Porta con te Midra ed un altro Cavaliere di tua scelta. Se procederete alla velocità del suono arriverete in poco tempo. Una volta prelevata la ragazza, tornerete in nave fino a Patrasso, lì troverete un carro e raggiungerete Atene. Se sarete costretti a combattere, la vostra priorità è garantire che la nipote del catepano giunga fin qui sana e salva, ho molte domande da porle -.
   Il Cavaliere fece un cenno d'assenso e s'inchinò.
   - Ora potete andare, domani vi attende un arduo compito, ma mi raccomando, siate prudenti! -, concluse il Sacerdote, puntando gli occhi soprattutto sul Cavaliere di Aquarius.
   I Cavalieri tornarono alle loro dimore, ma le parole e lo sguardo del Sacerdote lasciarono il custode dell'undicesima casa un po' perplesso. Era una missione delicata, ma nessun esercito umano avrebbe potuto tener testa ai paladini della dea della giustizia.
   Conosceva bene Alexer e sapeva che le sue parole celavano altro. Doveva tenere gli occhi aperti e, in qualità di Cavaliere d'Oro, era tenuto a preservare non solo la vita degli innocenti, ma anche quella dei suoi compagni. Era pronto ad affrontare qualsiasi sfida e a onorare il suo grado.
   - Non temete, Sommo Alexer. Avete affidato la missione alla persona giusta. Saprò essere degno del titolo di Cavaliere di Atena! -, pensò incamminandosi verso la Casa dell'Acquario.
***
   Alle prime luci dell'alba, tre Cavalieri si ritrovarono nei pressi dell'arena del Grande Tempio: erano Jorkell di Aquarius, Midra di Equuleus e Laurion di Leo Minor.
   Di poco più vecchio di Midra, Laurion aveva già accompagnato in missione il custode dell'undicesima casa. Aveva i capelli rossi e gli occhi marrone scuro. Le guance erano coperte da una barba corta e ben curata. Era leggermente più basso di Jorkell, ma aveva una corporatura robusta e possente.
   - Il nostro obiettivo è portare sana e salva al Grande Tempio la nipote di Argiro. Raggiungeremo Bari alla velocità del suono, preleveremo la ragazza e torneremo qui con mezzi convenzionali. Inoltre, dobbiamo scoprire la verità che si cela dietro questa richiesta d'aiuto. Porteremo con noi anche gli scrigni per le armature. So che non sono pratici, ma non possiamo andare in giro con le nostre corazze. Andiamo, Cavalieri! -, disse Jorkell ai due giovani. I ragazzi annuirono, si caricarono gli scrigni sulle spalle e poco dopo tre comete si allontanarono dal Santuario.
   In breve tempo raggiunsero la loro meta. La città brulicava di soldati, armati di lance e spade. Agli accessi della città erano appostati arcieri e guardie che controllavano chiunque entrasse o uscisse.
   Jorkell, seguito dai Cavalieri di Bronzo, si presentò davanti a un drappello di guardia alla porta ovest. Vedendoli arrivare, un grasso soldato si avvicinò e con fare arrogante chiese:
   - Chi siete? Quali affari vi portano in questa città? -
   - Siamo ambasciatori del Grande Tempio di Atene, veniamo da parte dell'Imperatore Costantino IX Monomaco! Dobbiamo parlare col catepano Argiro -, rispose Jorkell con tono pacato e gentile.
   - Bella storia! Avete prove a supporto di quello che dite? Per me potreste essere anche dei luridi sicari assoldati dai Normanni per attentare alla vita del duca o spie venute ad indagare sulle difese della città! -, ribatté l'uomo accigliandosi e puntando la spada alla gola di Jorkell, mentre altri soldati gli si facevano intorno. Con un'occhiata impercettibile, il Cavaliere di Aquarius vide alcuni arcieri sulla cinta muraria prendere la mira.
   - Midra, mostra loro l'anello imperiale! -, ordinò imperturbabile il signore delle energie fredde.
   Il ragazzo annuì e tirò fuori l'anello consegnatogli il giorno prima dall'Imperatore. Avvicinandosi al soldato, aprì la mano e glielo mostrò. L'uomo lo osservò e restò per qualche secondo in silenzio. Poi sollevò la mano e gli arcieri ritirarono gli archi, chiamò a sé quattro uomini del suo drappello e disse:
   - I miei uomini vi scorteranno fino al palazzo del duca -, facendo loro poi segno di proseguire.
   Superato il cancello, a poca distanza, vi era una massiccia fortificazione: una possente cinta muraria separava il castello dal resto della città. Sembrava una sorta di città incastrata in un'altra città. Si vedevano due alte torri svettare al di sopra delle mura e innumerevoli soldati appostati sui camminatoi.
   Il gruppo superò un'altra porta e si ritrovò in un ampio spiazzo, pattugliato da guardie pesantemente armate. Al centro di quel piazzale si ergeva un possente palazzo, ai cui lati si stagliavano le alte torri merlate che avevano visto all'esterno. Altre guardie vigilavano all'ingresso.
   Uno dei soldati di scorta ai Cavalieri si staccò dal gruppo e andò a parlare con una delle sentinelle. Tornò dopo poco e fece cenno agli altri di seguirlo.
   Soldati e Cavalieri si addentrarono in un lungo corridoio, illuminato qua e là da qualche finestra che si affacciava sulla parte posteriore dello spiazzo e percorso da ancelle e servitù.
   Giunsero, finalmente, ad una porta di legno, su cui erano incastonate grosse borchie di ferro. La guardia che controllava l'ingresso intimò al gruppo di fermarsi e chiese il motivo della visita.
   Il soldato che aveva parlato con la sentinella alla porta del palazzo salutò e rispose:
   - Signore, questi sono messi inviati dall'Imperatore. Hanno mostrato l'anello imperiale col sigillo di sire Costantino. Chiedono udienza al duca Argiro -.
   - D'accordo. Seguitemi! -, disse di rimando l'uomo.
   La porta si aprì. In fondo all'ampia sala si vedevano due scranni poggiati su tre alti scalini di pietra. Un pesante tappeto purpureo conduceva fino alla base di essi. Ai due lati della sala c'erano due file di sedili, quelli più vicini alle pareti erano rialzati da terra grazie ad uno scalino di legno di faggio. Alcuni erano occupati da uomini in abiti eleganti e fastosi. Accanto ai sedili si aprivano altre porte, una per lato. Due bracieri ardevano alla base degli scalini di pietra. Arazzi, scudi, spade e lance pendevano dalle pareti.
   Sullo scranno destro sedeva un uomo sui cinquant'anni. Aveva i capelli ricci ed una folta barba sul volto, entrambi brizzolati. Occhi nerissimi e carnagione abbronzata. Era un uomo robusto e dal piglio sicuro.
   Indossava una sopravveste di lino pregiato lunga fino ai polpacci, legata in vita da una cintura di cuoio, di colore verde scuro e ornata di forme romboidali di un verde pallido, brache bianche lunghe e delle calze dello stesso colore della sopravveste, stivali lunghi fino alle caviglie ed un mantello rosso con bordi bianchi di lana pregiata legato a ganci posti sulle spalline della veste.
   La guardia s'inchinò e disse: - Mio signore, gli ambasciatori del Tempio di Atena chiedono udienza -.
   Argiro fece cenno all'uomo con una mano di alzarsi e di andare via. Poi, sempre con un cenno congedò anche i quattro soldati che avevano scortato i Cavalieri e gli uomini che si trovavano in sala.
   Jorkell fece un passo avanti, s'inchinò ed esordì: - Nobile Argiro, sono Jorkell di Aquarius, Cavaliere d'Oro e custode dell'undicesima casa dello Zodiaco; loro sono due Cavalieri di Bronzo, Laurion di Leo Minor e Midra di Equuleus -.
   Il duca scese i tre scalini e si avvicinò a Jorkell, guardandolo con una sorta di vaga curiosità.
   - Non credevo che l'Imperatore avrebbe acconsentito alla mia richiesta. Sono anni che cerca di annientarvi, anche se non ho mai compreso appieno le sue ragioni. Vi prego di seguirmi! -, commentò con voce profonda e sorpresa.
   Imboccò la porta che si trovava alla sinistra degli scalini, che immetteva in un corridoio illuminato da torce agganciate alle pareti e leggermente più basso di quello preso in precedenza.
   Giunsero in un'ampia sala, su cui si aprivano quattro ampi porticati. Al centro c'era un lungo tavolo rettangolare, attorniato da sedici sedie e su cui erano poggiati quattro candelabri d'oro.
Il duca d'Italia invitò i tre Cavalieri a prendere posto. I paladini di Atena si tolsero dalle spalle i pesanti scrigni in cui erano riposte le armature e si sedettero. Jorkell, memore delle parole del Sacerdote, prese la parola, mostrando garbo e rispetto. Voleva a tutti i costi conoscere i motivi che avevano spinto il catepano a chiedere l'intervento di Atene.
   - Nobile Argiro, il Sommo Sacerdote Alexer vorrebbe conoscere maggiori dettagli riguardo alla vostra richiesta. L'Imperatore è stato parco d'informazioni, purtroppo, ed ha rimesso a voi il compito di darci spiegazioni ulteriori -.
   - È tipico di Costantino! -, cominciò, concedendosi un breve sorriso. - Comunque -, continuò, - è stata mia nipote Irene, in realtà, a supplicarmi di chiedere il vostro intervento. Circa due mesi fa venne da me tutta tremante, sembrava aver visto un fantasma, pregandomi di sollecitare l'Imperatore a chiedere asilo per lei presso la corte di Atena. Cercai spiegazioni in merito, ma rimase molto vaga e non volle scendere nei dettagli. All'inizio, non badai molto alla sua richiesta, soprattutto perché conoscevo il pensiero di Costantino su di voi. Poi, tre settimane fa, suo marito, il generale Basilio, è stato ucciso in un agguato dagli uomini di Drogone, mentre tornava da una missione diplomatica. Quest'evento e il silenzio di Irene mi hanno spinto a scrivere a Costantino ed a chiedergli di cessare ogni proposito ostile che aveva nei vostri confronti per acconsentire al desiderio di mia nipote, che era anche cresciuta con la principessa Anastasia. A quanto pare, è riuscito a mettere da parte i suoi piani se oggi voi siete qui -.
   Stava ancora parlando, quando una serva si presentò e mise in tavola dei calici di terracotta, una brocca di vino locale e scodelle con pane fresco ed olive.
   - Dalle vostre parole, arguisco che donna Irene nasconda un segreto -, suppose Jorkell, non appena il duca finì di parlare.
   - Così parrebbe -, confermò Argiro. - Ma il problema maggiore è che Irene aspetta un bambino e la situazione qui comincia a scaldarsi. Finora, su ordine di Costantino, ho sempre mantenuto un atteggiamento diplomatico nei confronti dei Normanni, ma, per loro, io non sono credibile come ambasciatore di Bisanzio -, aggiunse con velata malinconia.
   - Cosa intendete dire? -, chiese rispettosamente il Cavaliere delle energie fredde, quasi assecondando un celato desiderio di sfogo del catepano.
   - Per anni questa città ha tenuto testa alle ambizioni dei Bizantini. Mio padre, Melo, ha combattuto strenuamente a sua difesa. Ero un bambino quando, dopo la disfatta del suo esercito, fui fatto prigioniero e portato a Bisanzio assieme a mia madre e mia sorella. Lì crebbi fra il disprezzo e la derisione. Le uniche persone che ci aiutarono furono le principesse Zoe e Teodora. Furono loro ad introdurmi a corte. Grazie al loro appoggio fui incaricato di varie missioni nei territori dell'Impero, finché con la morte di Michele IV e la delegittimazione dell'imperatrice Zoe e di sua sorella non mi ribellai e mi schierai coi Macedoni che sostenevano il loro ritorno sul trono. La situazione non cambiò e così appoggiai anche i Longobardi e i Normanni capeggiati da Rainulfo Drengot, che mi elessero duca d'Italia, lo stesso titolo che aveva avuto mio padre.
   Alla fine, però, la mia devozione all'imperatrice Zoe ebbe il sopravvento. Quando Costantino la sposò e divenne imperatore, tornai fedele alla corona imperiale e tradii la fiducia di coloro che mi avevano acclamato duca. Fu allora che è iniziata la mia discesa all'inferno: otto mesi fa Costantino mi ha nominato catepano d'Italia. Ho preso possesso di Bari e mi sono messo sulle tracce dei suoi governatori che, alla notizia del mio arrivo con l'esercito imperiale, se la sono data a gambe. Nel frattempo, i Normanni, miei vecchi compagni d'arme, sono diventati più forti, grazie alla guida di Drogone d'Altavilla. Finora ho evitato la guerra corrompendo e comprando quanti più nobili Normanni ho potuto, ma il pugno di ferro di Drogone incute terrore e li tiene stretti a sé. L'assassinio di Basilio è stato solo il preludio di un conflitto che si prefigura lungo e sanguinoso -.  
   Il volto del duca si fece cupo al ricordo del suo passato. Poi, d'improvviso, riprese il suo piglio serio, come se avesse rimosso quelle memorie con un deciso colpo di spugna. - Elis! -, gridò d'un tratto.
   Dalla sala accanto tornò la serva che prima aveva portato le vivande. Il duca la fissò e le disse: - Chiama mia nipote Irene e dille di presentarsi subito al mio cospetto! - La ragazza annuì e scomparve da dove era venuta.
   Poco dopo tornò accompagnata da una ragazza sui 25 anni che indossava una sottoveste di seta bianca lunga fino a terra, una sopravveste azzurra più corta e ricamata con ghirigori floreali intessuti d'oro. Dal rigonfiamento della veste sull'addome si notavano i segni della gravidanza. Un piccolo panno di un azzurro pallido le copriva la piccola testa, sotto cui s'intravedeva una chioma castana chiara. Aveva gli occhi grandi, di colore verde marino, la pelle bianca e le gote rosee, forse colorate con qualche estratto d'erbe. La bocca piccola e regolare, di un rosso spento, e il naso greco le conferivano un aspetto nobile, ma al contempo triste e remissivo.
   Argiro si alzò e si avvicinò alla donna che, dopo aver dato un rapido sguardo ai tre sconosciuti, aveva abbassato d'istinto il capo.
   - Questi sono i Cavalieri di Atena, ti scorteranno al Santuario della dea. Sembra che l'Imperatore abbia ascoltato le nostre richieste, presto sarai al sicuro -, le disse il catepano, facendole un sorriso per rassicurarla e sollevandole delicatamente il volto con la mano.
   - Donna Irene, sono Jorkell di Aquarius e loro sono Laurion di Leo Minor e Midra di Equuleus. Non abbiate timore, con noi sarete al sicuro -, affermò il padrone delle energie fredde inchinandosi assieme ai suoi compagni.
   La donna, rassicurata, accennò un sorriso e disse: - Vi ringrazio di essere venuti, prodi Cavalieri. Spero di non essere un fardello per voi -.
   - Una leggiadra fanciulla non può essere un fardello per chi è avvezzo al dolore e alla furia della battaglia. Ma ditemi, perché avete chiesto con tanta urgenza asilo tra le nostre mura? -, rispose Jorkell, tentando di trovare risposta ai dubbi del Sacerdote.
   La domanda del Cavaliere turbò la ragazza, il cui volto tornò ad indossare tristezza e paura.
   - Mi spiace farvi torto, ma non posso dirvi nulla. Parlerò soltanto col Sommo Sacerdote -, spiegò con voce dura.
   Jorkell capì che la donna custodiva gelosamente il suo segreto, ma l'intenzione di aprirsi col Sacerdote lo rincuorava. Accennando un inchino si scusò:
   - Perdonate, se vi ho offesa, donna Irene. Non era mia intenzione! -, con tono calmo e rassicurante.
   La donna annuì. Ci fu un attimo di silenzio, poi Argiro, come a sgomberare le ombre di quella domanda scomoda, disse: - Al porto della città vi attende una nave. L'ho fatta allestire nel caso foste arrivati. Vi farò scortare dai miei uomini fin lì -. Poi diede un bacio sulla fronte alla nipote, fece portare il suo bagaglio e ritornarono alla Sala del Consiglio, dove aveva ricevuto i messi. Qui li salutò e li fece scortare all'ingresso del palazzo.
   Ad attenderli c'era un carro coperto. Jorkell aiutò Irene a salire e si avviarono verso il porto. Il viaggio era breve, avrebbero raggiunto la meta in poco tempo.
   Mentre il carro procedeva, però, i Cavalieri avvertirono qualcosa: un cosmo opprimente era apparso all'improvviso, come portato dal vento.
   Per evitare che Irene s'impaurisse, Jorkell comunicò telepaticamente coi suoi compagni:
   - Laurion, Midra, portate donna Irene al Santuario. Io devo scoprire a chi appartiene questo cosmo -.
   I due giovani annuirono con un impercettibile cenno del capo. Irene, assorta nei suoi pensieri, non si era accorta di nulla. Jorkell scese dal carro ad incredibile velocità e distolse per un attimo la ragazza dal suo mondo privato.
   - Dov'è andato messere Jorkell? -, chiese un po' inquieta.
   - Non preoccupatevi, voleva solo assicurarsi che non ci fossero problemi e poi a lui piace camminare a piedi -, sdrammatizzò con un sorriso Laurion.
   La donna non parve convinta, ma fece finta di credere alle parole del ragazzo. Voleva incontrare il prima possibile Alexer: non riusciva più a vivere con il dubbio e sperava che il messo di Atena potesse spiegarle ciò che non capiva.
   Tornò a vagare nei propri pensieri, cullata dal rumore ritmico degli zoccoli del cavallo e delle ruote del carro.
   Il Cavaliere d'Aquarius stava seguendo la traccia di cosmo che aveva percepito. D'un tratto però, essa scomparve. Jorkell era giunto alle porte orientali della città. Continuò a proseguire per un po', tendendo i sensi in cerca di quello strano cosmo, ma nulla; era completamente svanito.
   Decise di dirigersi al porto, dove ormai i suoi compagni di viaggio sarebbero già dovuti arrivare. Li trovò, infatti, che stavano smontando dal carro in compagnia del capitano della nave e li raggiunse.
   - Perché siete sparito, messere Jorkell? -, chiese con malcelata inquietudine la giovane Irene.
   Il Cavaliere guardò dapprima i due compagni, come a volerli rimproverare di non aver saputo trovare una scusa che giustificasse il suo allontanamento, poi, con volto sereno, rispose:
   - Ho solo perlustrato i dintorni per vedere se ci fossero pericoli, in fondo è nostro compito proteggervi, no? -
   La ragazza si calmò e annuì.
   Mentre parlavano, il cosmo di prima riapparve. Era vicinissimo, proveniva da una radura poco distante dal porto.
   - Salite sulla nave e salpate immediatamente! -, ordinò Jorkell ai compagni con voce preoccupata.
   Donna Irene rimase confusa da quell'ordine improvviso, ma si limitò a salire sulla nave aiutata da Midra e Laurion e dal capitano del vascello.
   Ridisceso a terra, Laurion si avvicinò al Cavaliere d'Oro ed iniziò a parlare, dicendo: - Signore, permettetemi... -, ma il Cavaliere dell'undicesima casa lo zittì.
   - La nostra priorità è portare incolume donna Irene ad Atene! Il cosmo che si sta avvicinando è potente e oscuro, soltanto io sono in grado di affrontarlo! Andate, e che Atena sia con voi! -
   Laurion annuì e, masticando amaro, risalì sulla nave mentre Jorkell indossava l'armatura.  
   Le ancore furono issate, gli ormeggi vennero mollati e la nave si abbandonò pian piano alle onde.
   Dalla radura partì un potente raggio rossastro, diretto verso l'imbarcazione. Con un gesto fulmineo Jorkell innalzò un muro di ghiaccio a difesa della nave e delle persone all'intorno. Non appena aveva visto la scena, la gente era fuggita in preda al panico e in pochi secondi il porto si era svuotato.
   Nell'aria, come portata dal vento, si levò una risata sommessa e sinistra. Poi risuonò una voce fredda e fiera: - Piacere d'incontrarti, Cavaliere di Aquarius. Hai interferito con la mia missione e pagherai per questo. Preparati ad una morte lenta e dolorosa! -
   Jorkell non si scosse, ma con un sorriso di sfida, replicò: - Parole colme di superbia, le tue. Ma io non temo chi fa altisonanti proclami senza mostrare il proprio volto o presentarsi -.
   Una nuova risata si diffuse nell'aria. Fra gli alberi della radura apparve un'ombra. - Chi sei? -, gli urlò Jorkell, mentre l'eco della sua voce si propagava all'intorno.
   - A che ti giova sapere il nome di chi si prenderà la tua vita? -, disse l'ombra. Poi, dopo una breve pausa, riprese: - Ma ho deciso di essere clemente e assecondare il tuo vano desiderio, magari ti sarà utile quando raggiungerai le solitarie terre dell'Oltretomba! Sono Umma, demone del vento, e sto per prendermi la tua inutile esistenza! -
   Accigliatosi, Jorkell si preparò alla battaglia.

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Capitolo 2
*** Il Demone del Vento ***


Capitolo II
IL DEMONE DEL VENTO
 
   - Demone del vento, hai detto? -, chiese Jorkell, incuriosito dall'inconsueto titolo usato dal nemico.
   - Credevo che i Cavalieri di Atena fossero guerrieri coraggiosi e capaci, ma sembra che il tuo solo talento sia sfinire il nemico con vane domande! -, disse l'ombra con un cenno di fastidio nella voce.
   Poi finalmente si mostrò. Era un ragazzo alto quasi quanto Jorkell, robusto e dalla carnagione pallida. Indossava un elmo rosso a casco dalle forme di uccello che gli copriva gli occhi e il naso, e sotto cui scendeva una folta chioma grigia che arrivava alle ginocchia. Il pettorale era anch'esso di colore rosso, con al centro un triangolo di colore nero. Copriva la cassa toracica ed evidenziava la linea dei muscoli pettorali. Sotto indossava una tunica grigia, forse di panno. Gli spallacci superavano di poco la spalla, terminavano ad uncino ricurvo verso il basso ed erano neri e cilindrici. Aveva due grossi braccialetti neri, ornati da triangoli rossi a rilievo, al posto dei copribicipiti. I bracciali, invece, partivano dal gomito e coprivano anche le dita formando artigli affilati. Il gonnellino era forse il pezzo più particolare: lungo fino a metà coscia davanti, dietro formava una coda che raggiungeva le caviglie. Era rosso con bordi neri ed al centro aveva un piccolo triangolo nero. Gli schinieri erano alti fino alle ginocchia, erano rossi con striature nere, coprivano anche i piedi, da qui partivano tre artigli: uno al centro e due ai lati. Infine, agganciate sulla schiena, aveva due imponenti ali d'averla ripiegate: i bordi esterni erano neri, mentre il resto era di un rosso vivo.
   Jorkell non aveva mai visto un'armatura come quella. Sembrava davvero il manto di un uccello. 
   Lo guardò con un certo distacco, tenendo a freno ogni frase di rivalsa e disse soltanto: - Scoprirai presto quali sono i miei talenti, demone! -
   Detto questo, fece scattare il pugno destro verso il nemico, lanciandogli contro gelidi cristalli di ghiaccio avvolti di cosmo.
   Umma non si scompose. Aprì le ali e creò una poderosa raffica di vento che rimandò al mittente l'attacco di ghiaccio. Jorkell si gettò di lato per evitare l'assalto del suo stesso colpo.
   - Sei un degno avversario! -, disse poi, fissandolo con aria di sfida.
   Il demone rise e con tono perentorio affermò: - Sei un illuso se credi che le tue tecniche di ghiaccio ti salveranno dalla morte. Dovresti eguagliare l'abilità e la potenza del sommo Agga per avere ragione di me. Ma il tuo cosmo non sembra così minaccioso e potente! -
   Tenendo le ali spiegate, bruciò il suo cosmo rosso sangue e creò un vento intensissimo. Le barche e i pontili del porto più vicini furono letteralmente spazzati via, alcune file di alberi divelte e la sabbia si levò al cielo oscurando la vista di Jorkell, che cercava in tutti i modi di tenere i piedi saldi a terra, benché la natura scivolosa del suolo glielo impedisse.
   Il Cavaliere bruciò il proprio cosmo nel tentativo di opporsi alla furia del vento, ma la preoccupazione per gli effetti che quell'attacco poteva avere sulla vicina città lo fece esitare. Fu un errore, perché il vento lo sbalzò via e lo fece precipitare in mare.
   Dalla nave il porto si vedeva ancora. Laurion, sportosi dal parapetto di poppa, assistette all'intera scena. Voleva correre ad aiutare il compagno; stava per saltare, quando una mano lo trattenne.
   - Non farlo! -, disse una voce. Era Midra. - Dobbiamo aver fiducia in Jorkell e portare a compimento la nostra missione. Un nemico come quello non è all'altezza di un Cavaliere d'Oro come lui. Sta' calmo, presto ci raggiungerà! -, continuò, poggiandogli una mano sulla spalla.
   Laurion annuì, anche se l'inquietudine e l'ansia continuavano ad attanagliargli il cuore.
   Umma, visto il nemico precipitare in mare, accennò un sorriso, puntò gli occhi sulla nave in lontananza e si apprestò a raggiungerla. Fece appena qualche passo prima di librare le ali, quando un cosmo minaccioso ed intenso s'infiammò alle sue spalle.
   - Vedo che sei ancora vivo, Cavaliere. C'era da aspettarselo da un umano ostinato come te. Tuttavia, la tua cocciutaggine a rialzarti e a voler affrontare un avverso destino presto ti perderà -, esclamò il demone con una punta di fastidio nella voce e senza voltarsi.
   - Spiacente, ma noi Cavalieri di Atena non ci arrendiamo mai, combattiamo per un ideale troppo alto e nobile, un ideale che esseri della tua risma non capiranno mai! -, ribatté Jorkell con convinzione e trasporto.
   - E ora ti farò assaggiare il colpo di un paladino della giustizia e della libertà! Sta' in guardia, demone! -, continuò incassando il braccio destro e avvolgendolo di un cosmo dorato.
   - Che la potenza dei ghiacci del nord faccia trionfare la giustizia! Diamántōn Konía![1] -, urlò il Cavaliere rilasciando una potente corrente gelida che si diresse verso il demone, ancora immobile e di spalle.
   Prima di raggiungere l'obiettivo, però, la corrente si fermò, come ostacolata da un muro.
   Jorkell impresse ancora più forza nel colpo, ma nulla sembrava abbattere la barriera che divideva la Polvere di Diamanti dalla sua meta.
   D'un tratto, la corrente fu inghiottita da un vento impetuoso e dispersa. Jorkell saltò all'indietro di un paio di metri per non essere investito dalla furia della contromossa nemica.
   - Ha solide difese questo guerriero; devo trovare il modo di distruggerle o mi ucciderà -, pensò il Cavaliere dell'undicesimo tempio, un po' in affanno.
   - Allora? Dov'è finito il trionfo della giustizia di cui parli tanto? Te lo ripeto: non hai speranze contro di me, il tuo gelo è poca cosa in confronto a quello del sommo Agga! Se ti arrendi adesso, potrei anche essere clemente e risparmiarti, ma se intendi ancora porti sulla mia strada non esiterò a ucciderti! -, disse con tono minaccioso Umma, avanzando di qualche passo e bruciando il suo cosmo rosso sangue.
   - Non so chi sia questo Agga di cui continui a tessere le lodi, ma finora non ti ho mostrato che solo una piccola parte del mio potere. Lo scontro non è ancora finito, non credere che la forza dei Cavalieri d'Oro sia così misera! Preparati: Diamántōn Konía! -, replicò il signore delle energie fredde scagliando di nuovo il suo colpo segreto.
   Umma eresse di nuovo la sua barriera di vento, ostentando noia e fastidio. - Non vuoi proprio capire... -, commentò con disprezzo e ironia. Bruciando ancor più intensamente il suo cosmo e ripiegando le ali a coprirgli il corpo, il demone fece esplodere la barriera che si trasformò in un uragano e si abbatté violentemente contro Jorkell, ancora impegnato a mantenere attivo il proprio colpo.
   - Shedu Umulak![2] -, gridò il demone, mentre il vento sempre più intenso e violento scaraventava in aria il Cavaliere assieme a sabbia, alberi e rottami di navi.
   All'interno del mulinello, Jorkell si accorse che quello non era un vento normale: una sostanza verdognola e appiccicosa vorticava all'interno di esso e si dissolveva ogni volta che entrava a contatto con l'armatura. Una parte di essa, però, gli penetrò nelle zone lasciate scoperte dalla corazza. Un dolore lancinante s'impossessò per un attimo del corpo del Cavaliere, che emise un tremendo grido.
   Quando il vortice si esaurì, Jorkell precipitò fragorosamente a terra, coperto di sabbia, rami e detriti di legno.
   Intanto, in città, la gente scappata dal porto all'avvento della battaglia aveva sparso la voce che due creature celesti stavano combattendo nei pressi della radura. Argiro, saputa la nuova, era salito sulla torre sinistra del palazzo e guardava in direzione del porto. Aveva visto il vortice di vento spazzare via alberi, sabbia e navi e, preso dall'ansia per sua nipote, ordinò che gli venisse portata l'armatura e che si preparasse una schiera di soldati scelti.
   - Che diavoleria è mai questa? Come possono degli uomini avere poteri del genere? Irene, nipote mia, ora vengo a salvarti! -, pensò fra sé mentre ridiscendeva le scale della torre, accompagnato da alcune guardie.
   Umma si avvicinò a Jorkell, ancora riverso a terra. Lo guardò con un misto di disprezzo e di scherno e disse: - Ben misera cosa era il potere dei Cavalieri d'Oro! Addio, Jorkell di Aquarius! - Si chinò su di lui, alzò la mano, su cui brillavano gli artigli dell'armatura, e stava per dargli il colpo di grazia, quando una voce dalle mura della città gli intimò di fermarsi.
   Il demone si rialzò in piedi e volse lo sguardo alle mura, da cui era provenuto l'ordine. Accennò un sorriso e disse con tono carico di disprezzo: - Chi sei tu, misero mortale? Come osi rivolgerti a me, Umma, secondo demone del vento e portatore di distruzione, in tal modo? -
   Il titolo di demone per un attimo impaurì l'uomo che, però, non lasciando trasparire i suoi veri sentimenti, replicò con volto duro: - Io mi chiamo Argiro e governo su questi luoghi in nome e per conto dell'Imperatore di Bisanzio, il sommo Costantino IX. Cosa cerchi in queste terre? E perché hai attaccato un messo imperiale? -
   Scoppiando a ridere, Umma, avvolse il braccio sinistro del suo cosmo scarlatto e lanciò un colpo verso le mura. I soldati di scorta al duca si posero a difesa coi loro scudi. A pochi metri dall'obiettivo, però, esso si infranse su una barriera invisibile.
   Argiro, fatto capolino dal muro di scudi, si accorse che non era successo niente. Si avvicinò di nuovo ai merli delle mura e notò qualcosa di strano: non sentiva il fruscio del vento e la luce del sole sembrava riflessa da una superficie trasparente. Appoggiò timidamente la mano e sentì al tatto una lastra gelida e solida.
   - U-Una parete di ghiaccio? Com'è possibile? Chi l'ha eretta? -, disse il catepano, incredulo ai suoi occhi.
   - Io! -, esclamò una voce proveniente dalle spalle di Umma. Era Jorkell. Pochi attimi dopo, la barriera trasparente si tramutò in acqua e si sciolse fra il panico dei soldati e lo stupore del duca.
   - Duca, vi prego, allontanatevi assieme ai vostri uomini. Mi occuperò io di quest'essere. Abbiamo un conto in sospeso -, disse il Cavaliere facendo esplodere il suo cosmo.
   A malincuore, il catepano annuì e con un gesto intimò ai suoi uomini di allontanarsi.
   - Interessante quella tua tecnica di vento, ma come puoi vedere non è bastata a sconfiggermi -, disse poi Jorkell, rivolgendosi al demone.
   - Se fossi in te, non ne sarei così sicuro. Lo Shedu Umulak può sembrarti un colpo innocuo perché non lascia segni sul corpo, ma il suo potere è letale per chiunque. Una persona comune sarebbe morta in pochi secondi; è solo grazie al cosmo che sei ancora in piedi, anche se non durerai a lungo -, rispose il demone con una punta di soddisfazione nella voce.
   - Che vuoi dire? -, interrogò il Cavaliere d'Aquarius, infastidito dal tono di sufficienza del nemico.
   - Conosci la storia di Umul? O a voi miseri Cavalieri non insegnano i misteri degli antichi dei? -, disse con sarcasmo Umma.
   - Non ne ho mai sentito parlare, ma cosa c'entra col tuo colpo segreto? -, rispose un po' spazientito il Cavaliere.
   - Lo immaginavo -, commentò il demone. - Bene, prima di cancellarti da questo mondo, ti rivelerò l'origine del potere della mia tecnica. Consideralo un ultimo atto di clemenza! -
   Dopo una breve pausa, riprese: - Agli albori del creato, gli dei Enki e Ninmah cercarono di creare un essere perfetto. Fecero molti tentativi, ma si rivelarono tutti un fallimento. L'ultimo di essi fu una creatura chiamata Umul, nata dal seno di Ninmah, che, però, al pari delle altre, non soddisfaceva le aspettative delle due divinità. Enki, che aveva provveduto a tessere un destino appropriato per le altre creature imperfette, chiese a Ninmah di occuparsi di Umul, ma quest'ultima, delusa che dal suo ventre fosse nato un essere menomato e privo di perfezione, lo esiliò e lo costrinse a vivere nelle viscere del mondo, dove ben presto trovò la morte fra disperazione e delusione.
   I due dei, alla fine, riuscirono a creare un essere che li soddisfacesse, seppure non rispecchiasse appieno il loro ideale di perfezione: l'uomo. Col tempo, però, anche gli uomini manifestarono la loro natura vana ed impura, deludendo i loro creatori che ne presero sempre di più le distanze.
   Quando l'universo venne costituito e gli dei si spartirono il dominio, la signora dell'abisso, Ereshkigal, annetté la valle dove aveva vissuto Umul al suo regno e la chiamò Piana del Vento Silente. Tutti coloro che finivano lì divenivano preda della dimenticanza e tenevano perennemente gli occhi spalancati e la bocca aperta, incapace di emettere gemiti, rivolti verso l'alto.
    Dagli angoli delle loro bocche colava una bava verdognola, intrisa di odio, rancore, disperazione, rimorso, agonia.  Essa rivelò avere un potere incredibile: era in grado di infettare e distruggere l'anima di ogni creatura vivente.
   In pratica, quella bava, di cui la mia tecnica si fregia, fa ammalare l'anima fino ad annientarla. E non esiste rimedio umano o divino per annullare questo fato ineluttabile -.
   Jorkell aveva ascoltato il racconto di Umma con attenzione, ma anche con un certo disprezzo. Ora era più che mai convinto di dover concludere quello scontro ed eliminare un essere tanto pericoloso.
   - Tsk, non credere di spaventarmi con l'idea della morte. Un Cavaliere di Atena vive perennemente accanto alla nera signora, il suo alito soffia continuamente sul nostro collo. Siamo abituati a convivere con lei. Se il mio destino è questo, lo accetterò nel solo modo che conosco: combattendo. Ora preparati, Umma! -, disse Jorkell, bruciando ancora più intensamente il suo cosmo. Sentiva, tuttavia, che qualcosa, dentro di lui, veniva meno; era una senso di impotenza e di rassegnazione, ma strinse i denti e scacciò lo sconforto dalla sua mente, concentrandosi sullo scontro.
   - Diamántōn Konía! -, gridò con quanto fiato aveva in gola, mentre una potente raffica di aria gelida e neve si abbatteva sul demone.
   Umma, a sua volta, approntò la difesa di vento che inghiottì e ribatté il colpo di Jorkell. Poi fece esplodere di nuovo la barriera per creare il vortice dello Shedu Umulak che avvolse il Cavaliere sollevandolo al cielo e scaraventandolo, poi, malamente a terra.
   All'interno del turbine, Jorkell cominciò a sentire il sapore del sangue in bocca, il suo cuore sembrava battere all'impazzata e il respiro diventare affannoso e pesante. Poi si ritrovò di nuovo a terra, coperto di sabbia, rami e assi di legno.
   - Come faccio a vincerlo? -, pensò, mentre i sensi cominciavano ad abbandonarlo. Scosse la testa, come per riprendere il controllo del suo corpo, ed aprì gli occhi, sporchi di sabbia e terriccio.
   Si rialzò a fatica, la vista appannata, la testa che girava, le orecchie ovattate.
   - Sei più resistente di quanto mi aspettassi! -, commentò Umma. - Hai subito per due volte l'impeto del mio colpo segreto e sei ancora in piedi, seppure tu sia allo stremo, ormai -, continuò con un sorriso beffardo.
   Jorkell sentì a stento quelle parole, gli effetti della bava penetrata nella sua carne cominciavano a farsi sentire, ma il Cavaliere teneva duro e continuava a fissare il suo avversario, in cerca di un punto debole.
   Umma aveva alzato il braccio, attorno al quale vorticava un accenno di vento, e lo stava puntando verso il custode dell'undicesima casa, quando, d'un tratto, la brezza proveniente dal mare si arrestò, facendo impallidire il demone. Attorno all'arto il vento svanì ed Umma fece una smorfia di disappunto.
   Abbassò il braccio e, fingendo calma, si avvicinò al Cavaliere puntandogli gli artigli alla gola. - Ti ucciderò a mani nude, senza utilizzare i miei poteri -, disse minaccioso, pronto a colpire, nella speranza che Jorkell non si fosse accorto di nulla.
   Il Cavaliere accennò un sorriso, mentre gli artigli di Umma si conficcavano in una barriera trasparente che, al loro tocco, andò in frantumi. Dietro, però, non c'era nessuno: Jorkell sembrava sparito.
   - Ma che succede? -, disse il demone, confuso dall'accaduto. Poi avvertì un cosmo provenire dalle sue spalle e un brivido gli attraversò la schiena.
   Si voltò di scatto e vide Jorkell bruciare intensamente il suo cosmo e pronto a colpire.
   - Perché non ti abbandoni all'abbraccio della morte? Perché ti ostini a combattere? Non hai né la forza, né i mezzi per sconfiggermi! Rinuncia ai tuoi propositi, ormai sei agli sgoccioli! -, propose Umma, con un tono seccato e rabbioso.
   - Chi ha detto che non ho mezzi per sconfiggerti? Ho trovato un modo, Umma. Credevi che il gesto che hai fatto prima mi fosse sfuggito? Ho capito qual è il tuo punto debole: da solo non riesci a generare il vento, puoi solo alimentarlo col tuo cosmo.
   Il vento si è fermato e tu non puoi più usarlo in battaglia. Ora tocca a me contrattaccare! -, disse Jorkell, avvolto da un intenso cosmo dorato.
   Mentre si preparava a colpire, il vento riprese a soffiare e Umma accennò un sorriso divertito, preparandosi a sferrare per la terza volta la sua tremenda tecnica.
   Il Cavaliere si accorse del pericolo e iniziò a innalzare pareti di ghiaccio attorno a sé e ad Umma. Il demone sentì di nuovo il vento sparire, avvertì un'aria gelida e capì che Jorkell aveva creato una barriera in grado di isolarli dall'ambiente circostante.
   - Non credere che queste pareti trasparenti mi tratterranno -, disse con tono convinto. Poi spiegò le ali dell'armatura e cominciò a librarsi verso l'alto, in cerca di una brezza di vento da poter utilizzare in battaglia.
   - Non così in fretta... -, disse fra sé Jorkell, mentre il nemico tentava di uscire da quella gabbia di ghiaccio. Concentrò ancora di più il cosmo e l'aria si riempì di cristalli di neve.
   - Págou Lepídes![3] -, gridò il signore delle energie fredde. Al suo comando, i cristalli di neve si solidificarono e formarono lame affilatissime che si conficcarono nelle ali dell'armatura di Umma.
   - Credi che questi trucchetti mi fermeranno? -, commentò il demone, ma le parole gli morirono in bocca. Il gelo delle lame stava sbriciolando le ali che non ressero più il peso di Umma e lo fecero precipitare.
   Adirato per l'affronto subito, il demone del vento si rialzò, non riuscendo a capire come facesse Jorkell ad avere ancora tanta energia.
   - Come ha potuto il tuo misero gelo frantumare le mie ali? Dovresti essere finito: anche con un cosmo potente, lo Shedu Umulak non lascia scampo, da dove scaturisce la fonte di tanta forza? -, chiese, confuso dalla tenacia del Cavaliere.
   - Il mio gelo ha il potere dello zero assoluto, cioè della temperatura più bassa esistente che corrisponde a -273°. Nulla a questo mondo può sottrarsi alla sua forza distruttiva, forse solo le armature degli dei maggiori resisterebbero.
   Tuttavia, per distruggere le tue ali è bastata una temperatura di appena -200°, vale a dire che la loro resistenza non è paragonabile neppure a un'armatura d'argento -, disse il Cavaliere, rispondendo al primo dei due quesiti.
   A quelle parole, Umma fece una smorfia di disappunto e si rese conto, per la prima volta, di aver sottovalutato l'avversario.
   - Atena e la difesa del mondo sono la mia fonte di forza: è a loro che ho votato la mia vita tanti anni fa ed è per loro che indosso queste vestigia -, continuò Jorkell, ripensando al giorno in cui decise di diventare un paladino della giustizia.
   Umma fu stupito dalla convinzione con cui Jorkell palesava i suoi ideali. Aveva trascorso secoli sulla Terra, ma mai aveva incontrato qualcuno con tanta abnegazione e tanta forza di volontà.
   - Vedo che non tutti gli esseri umani sono pavidi ed egoisti. Se tutti i Cavalieri di Atena sono come te, sarà una guerra difficile da gestire -, commentò il demone, con un sorriso tirato.
   - Guerra? Chi ti ha mandato, Umma? -, chiese Jorkell, intenzionato a scoprire qualcosa di più sul suo misterioso nemico, prima che lo scontro terminasse.
   - Credi davvero che te lo direi? Sei un ingenuo, se lo pensi. Comunque sia, quando il mio Signore verrà, tu sarai solo un ricordo! -, rispose Umma, senza aggiungere altro.
   Il Cavaliere di Aquarius si rese conto che l'essere che aveva di fronte non gli avrebbe mai rivelato nulla e si preparò a concludere lo scontro. Il suo fisico risentiva degli effetti della tecnica di Umma ed il suo cosmo iniziava a cedere.
   Unì i pugni ed alzò le braccia al cielo. Il demone vide apparirgli alle spalle una fanciulla che teneva in spalla un'anfora colma di energia cosmica puntata verso di lui. Umma era inerme, senza l'ausilio del vento o delle ali non avrebbe mai potuto evitare di essere colpito. Incrociò, come ultima difesa, le braccia davanti al volto, bruciò il proprio cosmo e si preparò ad incassare il colpo.
   - Preparati a ricevere la tecnica più potente di Aquarius, essa ti accompagnerà nell'oblio, dove un giorno, forse, ci rivedremo. Héō Ekteléiōsis[4]! -, disse Jorkell abbassando di colpo i pugni uniti e scatenando contro Umma tutta la potenza dello zero assoluto.
   Impotente di fronte a quell'esplosione di energia cosmica, il demone del vento venne spazzato via, l'armatura completamente distrutta, mentre le pareti di ghiaccio cadevano.
   Umma precipitò all'interno della radura portandosi dietro alcuni alberi. Jorkell cadde in ginocchio, spossato dalla battaglia. Gli doleva in ogni parte del corpo, il respiro era affannoso, la testa gli scoppiava.
   Si rialzò a fatica e si trascinò verso la radura, dove giaceva Umma. Quest'ultimo era riverso a terra, in una pozza di sangue bluastro. Per la prima volta, il Cavaliere poté vederne il volto: era impossibile stabilire quanti anni avesse; le labbra della bocca semichiusa, attraversata da un rivolo di sangue, erano pallide e gli occhi, chiusi per metà, non presentavano iridi, ma erano completamente neri.
   - Sei stato un avversario difficile da superare. La tua tecnica è davvero terribile, ora... comincio a sentirne... il peso -, disse Jorkell, cadendo in ginocchio davanti al corpo di Umma, che cominciava a dissolversi in una nuvola di fumo bluastra.
   - Hai vinto... perché... ti ho sottovalutato... e grazie... alla tua immensa... forza di volontà -, rispose con un filo di voce il demone del vento, girando lentamente la testa verso Jorkell.
   - No, - ribatté il Cavaliere d'Oro, - è stata solo fortuna. Se non mi fossi accorto... che non eri... in grado di creare... il vento dal nulla... avrei perso -.
   - Già...  la maledizione... degli Utukki... ti ha favorito -, disse Umma, annuendo leggermente con la testa e spegnendosi. Il corpo del demone si dissolse completamente, lasciando solo una pozza di sangue bluastro e la sagoma del cadavere.
   - La maledizione... degli Utukki? -, ripeté Jorkell fra sé. Non aveva capito cosa intendesse il demone e ormai non poteva più chiederglielo, anche se in cuor suo sapeva che l'orgoglio di Umma non gli avrebbe mai permesso di rivelare i dettagli della faccenda.
   Si rimise in piedi, in qualche modo. Doveva raggiungere la nave e i suoi amici, che lo stavano aspettando. Rimase immobile per qualche secondo, come per riprendere il controllo sul suo corpo che, dopo la battaglia, sembrava non rispondere nemmeno ai comandi più elementari.
   Attorno a lui c'era solo silenzio, interrotto, di tanto in tanto, dal ritmo delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia e dal leggero fruscio del vento. Jorkell si concentrò per evitare di perdere i sensi e cadere, poi aprì gli occhi appannati dalle sue precarie condizioni e iniziò a incamminarsi verso lo scrigno, che aveva lasciato sulla battigia all'inizio dello scontro.
   Mentre camminava, sentì una voce chiamarlo, sebbene gli sembrasse quasi un'eco o uno scherzo della mente. Si voltò verso l'origine della voce e vide Argiro venirgli incontro con una dozzina di guardie.
   - Cavaliere! Cavaliere! State bene? -, gli domandò il catepano d'Italia, guardandosi intorno e  vedendo la devastazione provocata dallo scontro. Jorkell annuì.
   Argiro si accorse che non c'era né Irene, né i Cavalieri che lo avevano accompagnato e, preso dalla preoccupazione, iniziò ad incalzare il Cavaliere con altre domande:
    - Dov'è mia nipote? Quell'essere l'ha forse uccisa? Ditemelo, vi prego! -
   - No, state tranquillo, vostra nipote è al sicuro. I miei compagni la stanno scortando in Grecia -, lo rassicurò il custode dell'undicesima casa.
   Rincuorato dal sapere sua nipote incolume e già diretta verso Atene, il duca tirò un sospiro di sollievo. Poi si soffermò per un attimo a guardare l'uomo in armatura che aveva davanti: sembrava illeso, eppure il suo volto pallido, gli occhi privi di vitalità, il respiro affannoso e le gambe che a stento lo reggevano, gli diedero un senso d'inquietudine.
   - Cos'era quell'essere, Cavaliere? Ha detto di essere un demone, ma com'è possibile una cosa del genere? -
   - Il mondo è pieno di esseri soprannaturali: dei, demoni, creature mitologiche, non sono soltanto leggende o miti, ma una realtà che agli occhi dei comuni mortali viene celata -, rispose Jorkell, sedendosi sulla spiaggia, accanto allo scrigno.
   - Celata? -, chiese un po' confuso il duca.
   - Per il vostro bene. Noi combattiamo gli dei e le creature che vorrebbero annientare il genere umano. Atena, la nostra dea, fin dalla notte dei tempi si è assunta l'incarico di preservare e proteggere la vita umana, perché ne ha rispetto e crede nelle potenzialità degli uomini -, spiegò il dorato custode, lasciando il duca senza parole.
   - Capisco -, disse soltanto. Poi Jorkell si rialzò, appoggiandosi sullo scrigno. Con un colpo deciso, lo sollevò e se lo mise in spalla. Sembrava star bene, anche se gli si leggeva in volto un certo sforzo.
   - Abbiate cura di voi, duca, e non temete per vostra nipote, con noi starà bene -, disse, prima di svanire come un fantasma, lasciando tutti a bocca aperta.
   - L'Imperatore si sbaglia sul conto di questi uomini -, pensò il duca, guardando verso l'orizzonte.
   Midra e Laurion erano sul ponte della nave, guardavano i remi fendere le onde e la sterminata distesa azzurra che avevano davanti, persi nei loro pensieri. Si chiedevano quando e se sarebbe ritornato il loro compagno. Laurion, in particolare, era inquieto e continuava a percorrere il ponte in lungo e in largo.
   D'improvviso, una luce dorata li distolse dalle loro ansie. Era Jorkell, che crollò a terra svenuto. I due Cavalieri si precipitarono a soccorrerlo.
   - Dev'essere stato uno scontro tremendo -, affermò Laurion, poggiandogli una mano sulla fronte e accorgendosi che aveva la febbre alta.
   - Portiamolo sottocoperta, ha bisogno di riposare -, continuò il Cavaliere di Leo Minor. Lo prese in braccio e si avviò, mentre Midra si caricava in spalla lo scrigno.
   Laurion adagiò il compagno su un pagliericcio, su cui era distesa una coperta di lana grezza, usò il mantello dell'armatura del Cavaliere per coprirlo e mandò Midra a cercare un bacile con dell'acqua e delle pezzuole.
   Jorkell aveva il respiro affannoso, era sudato e il suo sonno sembrava turbato da incubi del passato.
***
   Il rumore ritmico del martello sulla lama incandescente spezzava il silenzio di quell'afoso giorno. L'uomo si passò una mano sulla fronte madida di sudore e riprese il suo lavoro di forgiatura.
   - Padre, tieni! Rinfrescati un po'! -, disse un bambino di circa tre anni dalla chioma bionda e riccioluta e dagli occhi blu, porgendo una brocca d'acqua fresca all'uomo.
   - Grazie, Jorkell -, disse l'uomo, accarezzando la testa del ragazzino ed accettando il dono ristoratore.
   Il bambino sorrise, felice di aver potuto contribuire a dare un po' di ristoro al suo amato genitore. Lo osservava, mentre beveva. Erano molto diversi: lui biondo con occhi blu, il padre castano scuro, occhi marroni e una barba incolta, impreziosita da fili argentei.
   Dicevano tutti che fosse l'esatta replica di sua madre, la bella Gudrun, che ora stava per dargli un fratellino o una sorellina.
   - Non dovevi andare dal frate? Non ti sta insegnando a leggere e scrivere? Su, sbrigati, pelandrone, o farai tardi! -, disse l'uomo, che aveva ripreso a lavorare.
   - Ci vado subito, padre -, rispose il bambino con un sorriso innocente. Poi salutò il genitore e di corsa percorse l'acciottolato che dalla bottega di famiglia portava alla chiesa, dove Frate Rolf, due volte a settimana, spendeva qualche oretta ad istruire i bambini del villaggio.
   Mentre correva, incontrò la signora Malin, la vecchia vicina di casa, la salutò, ma la donna non gli rispose; sembrava angosciata da qualcosa e si stava dirigendo a passo svelto verso la bottega di suo padre.
   Il bambino si fermò, un po' confuso dal comportamento dell'anziana donna. Era sempre stata una signora dolce e premurosa, ma ora sembrava presa da gravi pensieri. Decise di seguirla, senza farsi vedere, e di tirarle uno scherzo per restituirle il sorriso.
   Giunta all'ingresso della bottega, la donna cominciò a gridare: - Trym! Trym! Corri, presto! Gudrun sta male! -
   - Cos'è successo, Malin? -, le chiese l'uomo, impallidendo.
   - Il bambino... il bambino, Trym! -, rispose la donna con le lacrime agli occhi.
   Trym si precipitò a casa col cuore in gola. Jorkell aveva assistito alla scena da dietro un albero. Non capiva cosa stesse succedendo, ma la felicità che fino a poco prima l'aveva inondato, stava scemando vertiginosamente.
   Si avvicinò alla vecchia Malin e con aria triste le chiese: - La mia mamma sta bene? E il mio fratellino? - Aveva la voce rotta, le lacrime iniziarono a rigargli il bel viso, mentre l'anziana lo stringeva a sé nel tentativo di rassicurarlo. Ma anche lei piangeva, anche lei sentiva una profonda tristezza nel cuore.
   Trym spalancò la porta della modesta casa, grondante sudore e in evidente affanno. Entrò in camera da letto, dove trovò la moglie distesa, accudita da Synne, figlia di Malin e levatrice del villaggio.
   Appena lo vide, Gudrun gli sorrise e lo invitò ad avvicinarsi: - Amore mio, mi dispiace, il nostro bambino... -, iniziò a parlare, prima di scoppiare in un pianto dirotto.
   - Cos'è successo al bambino? -, chiese l'uomo, guardando verso Synne.
   - È nato morto -, rispose la donna, tenendo gli occhi bassi.
   Trym aveva capito che la levatrice gli nascondeva dell'altro. Qualcosa che Gudrun non doveva sapere.
   Si avvicinò ancor di più alla moglie, l'abbracciò delicatamente, baciandole ripetutamente la fronte e sussurrandole parole di conforto. Trattenne le lacrime e il dolore seppellendoli nel fondo dell'anima, per non aggravare la sofferenza della sua adorata sposa.
   Nel frattempo, erano sopraggiunti anche Malin e il piccolo Jorkell. La donna aveva convinto il bambino a seguirla a casa sua, con la scusa di avergli preparato il suo dolce preferito, il pasticcio di fragole e lamponi.
   Coccolata dalle carezze e dalle parole del marito, Gudrun si era addormentata. Trym ne approfittò per interrogare Synne, che sembrava a disagio.
   - Dimmi la verità, Synne! Cos'è successo? -, le si rivolse con tono duro e una malcelata inquietudine.
   La donna esitò per qualche secondo, come per cercare le parole adatte a rivelare una terribile verità.
   Poi, sospirando profondamente, parlò: - Gudrun ha avuto un parto difficile e la bambina è stata soffocata dal cordone ombelicale. Ho cercato di salvarla, ma era già troppo tardi. Inoltre, tua moglie ha avuto un'emorragia che non sono riuscita ad arrestare. Ho mandato mio figlio a chiamare il medico del villaggio vicino, ma non so se riuscirà ad arrivare in tempo -.
   - Dov'è la bambina? Voglio vederla! -, proruppe improvvisamente Trym, versando calde lacrime.
   Synne si diresse verso un tavolino di legno grezzo nell'angolo della stanza e prese fra le braccia un piccolo fagotto avvolto in un panno intriso di sangue. Si avvicinò a Trym e glielo porse.
   L'uomo prese delicatamente quell'involto, con mani tremanti, lo guardò e qualcosa dentro di lui si spezzò. Vide quel visino tenero, coperto di sangue e dai capelli scuri, umidi e imbrattati di una sostanza appiccicosa.
   La tenne solo pochi istanti, poi la riconsegnò a Synne. Il dolore e la rabbia che finora aveva trattenuto in corpo esplosero in tutta la loro veemenza. Fiumi di lacrime sgorgarono dai suoi occhi, mentre il suo mondo sembrava sgretolarglisi fra le mani.
   Quella stessa sera, Gudrun morì. Il medico arrivò due ore dopo e dovette affrontare l'ira di Trym che lo incolpava, assieme a Synne, della prematura morte della sua sposa e della sua bambina.
   I funerali celebrati da Frate Rolf il giorno successivo gettarono un alone di sconforto e di tristezza su tutto il villaggio. Trym era diventato un altro uomo. In un solo giorno sembrava aver perso tutta la sua umanità: era diventato scontroso, distante, sprezzante. Anche Jorkell non sorrideva più. I suoi occhi blu che, fino al giorno prima, sembravano gioire di ogni piccolo gesto quotidiano, ora erano spenti e assenti.
   Si sentiva sempre più solo. Suo padre aveva iniziato a frequentare l'osteria e a giocare a dadi. Tornava la sera sbronzo e senza un soldo. Aveva accumulato parecchi debiti e spesso era stato picchiato per invogliarlo a saldarli. Lavorava poco e la qualità dei suoi prodotti, un tempo rinomata anche nei villaggi vicini, era divenuta scadente, tanto da fargli perdere molti clienti.
   Un giorno, Trym si fece prestare una grossa somma da Gunnar, figlio di Oddvar lo Spietato, vassallo del re Olaf II e conte di Notodden, che, assieme ad altri nobili, stavano tramando contro il sovrano.
   Gli scagnozzi di Gunnar si recavano al villaggio quasi ogni settimana per riscuotere il debito, ma Trym, che ormai lavorava sempre meno, li rimandava ora con una scusa, ora con una promessa.
   Jorkell trascorreva i giorni dalla vecchia Malin, che tentava di non fargli pesare troppo la mancanza della madre. Il bambino aveva perso tutta la sua allegria, la sua spensieratezza era svanita e aveva preso a odiare suo padre. Lo vedeva ubriacarsi e scommettere nella locanda del paese in compagnia di loschi figuri e poi tornare a casa senza curarsi minimamente di lui.
   L'anziana signora si era accorta di quel brusco cambiamento e, a volte, aveva tentato di parlarne con Trym, che si limitava a consigliarle di non impicciarsi in faccende non sue.
   Il bambino cresceva, ma si sentiva sempre più solo, benché accudito e amato da Malin. Aveva sette anni quando, una sera che si era trattenuto a dormire dalla vicina, vide un intenso bagliore provenire da casa sua. Si affacciò alla finestrella della stanza e si accorse che la casa stava bruciando. Si alzò di scatto, andò a svegliare Malin e poi si gettò in strada per chiedere soccorso.
   Le grida del bambino svegliarono alcuni vicini. Tutti accorsero al pozzo per prendere acqua con cui spegnere il rogo, ma la casa, fatta di legno e paglia, bruciò in poco tempo. Quando le fiamme si placarono, Jorkell cercò fra le ceneri tracce di suo padre: non ce n'erano.
   D'istinto, corse verso la bottega di famiglia. Era ancora lì, alla fine della strada. Il bambino entrò e vide uno spettacolo raccapricciante: suo padre era riverso in una pozza di sangue, la gola recisa.
   Jorkell emise un urlo terribile e svenne. Si risvegliò poco tempo dopo in casa di Malin. La donna era seduta accanto a lui, in lacrime.
   Passò qualche settimana, si scoprì che l'incendio e l'assassinio di Trym erano stati perpetrati dagli sgherri del conte, stanco delle continue menzogne dell'uomo.
   Il bambino decise di andarsene, l'aria di quel villaggio non gli piaceva più. Chiese a Frate Rolf di portarlo con lui in città la prossima volta che avrebbe fatto visita al vescovo. Il religioso accettò, anche se a malincuore. Lasciare un bambino di quell'età in un posto che non conosceva lo spaventava. Aveva così deciso di affidarlo al vescovo che avrebbe saputo trovargli una sistemazione.
   Partirono una domenica mattina. Il viaggio sarebbe stato lungo e difficile in quella stagione. Jorkell abbracciò Malin che aveva il volto rigato di lacrime. Era l'unica persona di cui avrebbe sentito la mancanza. Si guardò un'ultima volta intorno e poi salì sul carro. Il frate diede un colpo di briglia e il cavallo si avviò lentamente.
   Percorsero un fitto bosco, costeggiarono la riva di un fiume e s'inoltrarono in una foresta di querce e faggi. Al di là di essa vi era la città.
   Il sole era calato e il frate aveva deciso che avrebbero passato la notte lì, in quella foresta, visto che non c'erano locande lungo il percorso. Sarebbero ripartiti alle prime luci dell'alba.
   Accesero un fuoco per cuocere i conigli che il frate si era portato dietro e per scaldarsi un po'. Fu un pasto silenzioso, proprio come lo era stato il viaggio. Poi si accucciarono attorno alla tenue fiamma per riposare. Il frate si addormentò quasi subito, ma Jorkell non riusciva a prendere sonno.
   Da quando aveva visto il padre sgozzato gli riusciva difficile abbandonarsi alle braccia di Morfeo e ogniqualvolta i suoi occhi cedevano alla stanchezza, rivedeva quella scena raccapricciante.
   Il silenzio di quel luogo era interrotto dal lugubre canto dei gufi e dal russare del frate. D'improvviso, però, Jorkell sentì un fruscio dai cespugli che li attorniavano. Con un gesto rapido, afferrò un grosso ramo dal fuoco e si alzò con circospezione.
   Si avvicinò lentamente al frate, guardandosi intorno, lo scosse, ma l'uomo dormiva profondamente. Riprovò ancora e ancora, e finalmente Rolf si svegliò, anche se un po' confuso.
   Dal fitto dei cespugli si udirono dei latrati: erano lupi. Li avevano circondati. Il frate, compresa la situazione, si armò anche lui di un bastone e si pose a protezione del bambino.
   Il capobranco ululò e i lupi si gettarono all'attacco. Rolf faceva roteare il bastone a destra e a sinistra e riuscì a colpirne e ad allontanarne un paio. Anche Jorkell tentava di tenerli lontani puntandogli contro tizzoni ardenti.
   Uno dei lupi più esperti saltò da un cespuglio alle spalle del frate e gli azzannò una spalla, gettandolo a terra. Subito gli altri compagni gli si fecero dappresso e cominciarono a morderlo e a strappargli brandelli di carne.
   L'uomo fece appena in tempo a dire a Jorkell di fuggire che le zanne di uno dei lupi più giovani gli squarciarono la gola.
   Il bambino annuì e scappò, tenendo in mano uno dei tizzoni su cui ardeva un'intensa fiamma. Tre lupi si gettarono all'inseguimento.
   Jorkell correva con tutte le forze, ma i lupi erano sempre più vicini. Cambiò sentieri un paio di volte, in cerca di qualche posto dove ripararsi. La fiaccola che aveva in mano stava per spegnersi e il buio pesto della notte gli impediva di orientarsi.
   Giunse sul ciglio di un crepaccio, dove si affacciava un'imponente quercia. Vi si arrampicò a fatica, mentre i lupi, raggruppatisi sotto l'albero, mostravano i denti e latravano. Uno di loro cercò di tirarlo giù, saltando e sferrando artigliate. Jorkell, a sua volta, aggrappandosi ai robusti rami, tirava calci. Riuscì a colpirlo al muso; l'animale, perso l'equilibrio, precipitò nel burrone, lanciando un prolungato ululato che si disperse nella notte.
   I due lupi rimasti, alla vista del compagno caduto, affondarono gli artigli nella corteccia dell'albero e tentarono di arrampicarsi. Jorkell aveva le braccia doloranti, non ce la faceva più a sferrare calci. Lasciò la presa e si accoccolò sul ramo, in attesa della fine.
   D'improvviso, i lupi smisero l'arrampicata e si ammansirono. Il bambino rimase attonito, non capiva quello strano prodigio.
   Poi sentì dei passi e vide un uomo rivestito d'oro con un lungo mantello bianco che gli pendeva dalle spalle.
***
   - Kanaad... -, esclamò Jorkell, svegliandosi e guardandosi intorno.
   Accanto a lui trovò Irene, che gli poggiava una pezzuola zuppa d'acqua gelida sulla fronte.
   - Dove sono? Cosa state facendo, donna Irene? -, chiese il Cavaliere con voce stanca.
   La donna sorrise e rispose con tono dolce e cortese: - Siete sulla nave diretta in Grecia. Non appena siete arrivato, avete perso i sensi. I vostri compagni vi hanno portato qui e vi hanno adagiato su questo giaciglio. Quando l'ho saputo, sono corsa ad accudirvi, per ringraziarvi di avermi salvata. Avevate la febbre alta e avete delirato finché non vi siete svegliato -.  
   - Quanto sono rimasto incosciente? -, domandò ancora il paladino di Atena.
   - Circa quattro ore -, rispose Irene, controllando se la febbre fosse scesa. Purtroppo, la fronte scottava ancora e la donna, senza perdersi d'animo, prese un'altra pezzuola dal mucchietto che aveva accanto al piccolo sgabello su cui era seduta, la bagnò nel bacile di rame colmo d'acqua portato da Midra e la poggiò sul capo di Jorkell.
   Poi, con un una buona dose di titubanza, Irene chiese delucidazioni al Cavaliere su una cosa che la incuriosiva: - Messere Jorkell... chi è Kanaad? Lo avete nominato poco prima di svegliarvi... -
   Il custode dell'undicesima casa accennò un sorriso e, tirando le fila dei ricordi, rispose: - Kanaad di Virgo è l'uomo che mi ha salvato la vita e mi ha insegnato a essere un Cavaliere di Atena. Grazie a lui ho riscoperto il valore dell'amore per gli altri, l'importanza di lottare per un ideale e la ricchezza dell'amicizia -.
   - E ora dov'è? È morto? -, continuò la donna, dando sfogo alla sua curiosità.
   - No -, rispose Jorkell, - vive ancora. Dopo avermi addestrato, però, tornò in India, il suo paese natio, e si rinchiuse in un monastero. È un sopravvissuto dell'ultima guerra sacra, come il sommo Alexer. Sono ormai diciassette anni che non lo vedo, anche se lui e il Sacerdote si scambiano di continuo missive. Oggi dovrebbe avere all'incirca sessant'anni -.
   - Come mai si è chiuso in un convento? È diventato cristiano? -, domandò Irene, un po' confusa.
   Jorkell la guardò con aria divertita e sorrise: - In realtà il maestro Kanaad è buddhista, non cristiano. Al Grande Tempio ognuno professa la religione tramandatagli dai propri avi. Io e il Sommo Alexer, ad esempio, siamo cristiani; Midra segue la religione saracena e Laurion discende da una famiglia di monofisiti -.
   - Com'è possibile? Voi non adorate Atena? -, esclamò incredula la nipote di Argiro.
   - Atena ha a cuore il bene e la felicità degli uomini. Tutti noi le abbiamo giurato fedeltà per aiutarla in quest'ardua impresa, ma a nessuno è stato chiesto di rinnegare ciò in cui crede. Anche se assistere perennemente a eventi straordinari ci ha fatto ridimensionare di molto il valore e la portata del nostro credo. Molte delle conoscenze che abbiamo acquisito non vengono insegnate nelle cattedrali o nelle moschee.
   Tuttavia, l'ardente desiderio di difendere i deboli e di proteggere quanto di buono c'è nel mondo annulla le differenze e le barriere che possono allontanarci. Sono ideali che ci uniscono e ci rendono fratelli, anche se veniamo da luoghi ed esperienze diversi. So che può sembrare assurdo ed utopistico, ma questa realtà ha contraddistinto l'esercito di Atena nel corso dei secoli e gli ha concesso anche vittorie insperate -, disse Jorkell con convinzione e passione.
   Irene scorse negli occhi del Cavaliere risolutezza e decisione. Aveva sentito tante volte l'Imperatore inveire contro il Grande Tempio, definendo i suoi abitanti 'empi', 'pagani' e 'sobillatori', ma le parole e le gesta di Jorkell e dei suoi compagni le avevano ora rivelato una realtà completamente diversa.
   La donna si alzò e con un sorriso disse: - Vado a chiamare i vostri compagni. Erano preoccupati e saranno sollevati di vedervi sveglio -.
   Jorkell la ringraziò e la osservò allontanarsi. Fece un sospiro profondo e in cuor suo benedisse il maestro che lo aveva reso uomo e Cavaliere.
   Il viaggio in nave fu lungo. Sbarcati a Patrasso, chiesero un passaggio a un mercante diretto ad Atene. L'uomo accettò di buon grado, felice di avere un po' di compagnia.
   Giunti ad Atene, raggiunsero in poco tempo Rodorio e da lì il Santuario di Atena.
   Le condizioni di Jorkell non erano migliorate ed era costretto ad appoggiarsi a Laurion o a Midra per camminare.
   Finalmente arrivarono al cospetto di Alexer, che li attendeva con trepidazione e ansia.
   Irene era rimasta meravigliata dalla bellezza di quei luoghi: il marmo bianco degli edifici, l'aspetto brullo del paesaggio, l'imponenza dell'Altura delle Stelle e della meridiana. Le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, in un'epoca di eroismo e sacrificio.
   Il gruppo si presentò davanti ad Alexer, che li aspettava alla fine del corridoio. I Cavalieri s'inchinarono, Irene abbassò il capo in segno di saluto, mentre il Sacerdote le prendeva la mano e la baciava.
   Il messo di Atena notò le condizioni di Jorkell, sorretto dai due Cavalieri di Bronzo e il suo volto si fece cupo, per un attimo.
   Fece loro segno di seguirlo: attraversarono il vestibolo, la sala dello scrittoio ed imboccarono il corridoio. Alexer aprì la porta che si trovava in fondo: era un'ampia sala, su cui si apriva una finestra chiusa da grate di ferro e ornata di vetri colorati che creavano giochi di luce. Al centro un tavolo rettangolare su cui era intagliata la figura dell'egida, lo scudo della dea della guerra. Attorno ad esso c'erano alti scranni in legno di pino.
   - Prego, accomodatevi, nobile Irene. Attendevo con ansia il vostro arrivo -, disse con garbo il Sacerdote.
   La donna annuì e si sedette in disparte, lontano da Jorkell e dagli altri Cavalieri. Si sentiva a disagio in mezzo a tutti quegli uomini. Inoltre, Alexer le metteva soggezione: il suo portamento fiero, il tono sicuro e cortese, ma anche severo e autoritario, l'elmo dorato e la tunica bianca, che gli conferivano un non so che di sacro ed etereo, glielo facevano apparire come una creatura non terrena.
   Il Sacerdote si volse verso Jorkell e i Cavalieri di Bronzo: - Cos'è successo? -, chiese con tono paterno.
   Un po' a fatica, il padrone delle energie fredde iniziò a raccontargli l'accaduto: - Siamo stati attaccati da un certo Umma, che si definiva demone del vento. Laurion e Midra si sono imbarcati con donna Irene ed io sono rimasto ad affrontarlo.
   È stato uno scontro duro, ma alla fine sono riuscito a sconfiggerlo. Purtroppo, non ho saputo molto di lui e dell'esercito a cui appartiene. Ha nominato dei di cui non conoscevo l'esistenza: ne ricordo solo uno, Enki. Ha affermato che presto il suo signore sarebbe arrivato e poco prima di morire ha parlato di una maledizione, la "maledizione degli Utukki". I suoi colpi sfruttavano il vento e il nome della sua tecnica era in una lingua a me ignota, anche se credo fosse molto antica -.
   Alexer ascoltò con attenzione le parole del Cavaliere e, guardando il suo stato, si rese conto di quanto si fosse rivelato ostico quel nemico. Rimase in silenzio, come per formulare un'ipotesi in base alle informazioni ricevute. Poi, alla mente riaffiorarono vaghi ricordi.
   - Utukki, hai detto? Ho già sentito questo nome, ma non ricordo dove e quando, - disse perplesso il Sacerdote, che ormai aveva avuto la conferma che i suoi sospetti sull'avvento di una nuova minaccia fossero fondati.
   Jorkell cominciò a sentirsi di nuovo male e Alexer ordinò ai Cavalieri di Bronzo di portarlo all'undicesima casa. - Hai svolto la tua missione in modo egregio, Jorkell, il tuo maestro ne sarà contento quando glielo riferirò, ma ora va' a riposarti. Anche i Cavalieri sono esseri umani -, gli disse, mentre Midra e Laurion lo portavano via a spalla.
   Irene si sentiva colpevole di quanto accaduto al Cavaliere: se non fosse stato inviato a prenderla, ora sarebbe stato bene. Abbassò il capo e attese che uscisse.
   Il Sacerdote si accorse del rimorso che le pesava sul cuore e, accennando un sorriso, la rassicurò: - Voi non siete responsabile di quanto è successo. Le ferite e la morte in battaglia sono fedeli compagne di ogni guerriero. Jorkell è un uomo forte e tenace, non si lascerà sopraffare così facilmente. Il suo cosmo e la sua determinazione lo aiuteranno a riprendersi, non temete! -
   Poi cambiò discorso: - Ma ora ditemi, nobile Irene, cosa vi ha spinto a chiedere asilo al Santuario di Atena? -
   La ragazza esitò un po' prima di parlare. Non si aspettava un così repentino cambio d'argomento. Fece un profondo respiro e iniziò la sua storia:
   - Sono stata sposata con mio marito, il generale Basilio, per dieci anni e il mio unico e solo rammarico è stato di non avergli dato eredi. Circa due mesi fa, un uomo in tutto simile a mio marito entrò in camera mia. Chiesi spiegazioni di questa intrusione, ben sapendo che la persona che mi stava di fronte non poteva essere realmente il mio consorte, che in quei giorni era in missione diplomatica.
   Mi disse che mi sbagliavo, che lui era davvero mio marito e che era tornato prima e non aveva detto nulla per farmi una sorpresa. La sua voce e i suoi gesti mi convinsero che fosse proprio lui; così, lasciato ogni dubbio, corsi ad abbracciarlo.
   Passammo la notte insieme, ma poi, prima di andarsene, mi disse tre cose che mi lasciarono perplessa: che avrei avuto un figlio, che avrei dovuto chiedere asilo al Grande Tempio di Atena e che il bambino sarebbe dovuto diventare un Cavaliere.
   Dopo aver detto queste cose, uscì dalla stanza, senza darmi il tempo di chiedere chiarimenti. Solo due giorni dopo mi resi conto che quell'uomo non era il mio sposo: Basilio tornò e disse che non vedeva l'ora di potermi riabbracciare.
   Mi sentii morire, ma non dissi niente. La vergogna era troppo grande. Inoltre, da quella fatidica notte, il mio sonno cominciò a essere turbato da uno strano incubo: una fitta oscurità squarciata da lamenti e grida, due fiumi che formavano una cascata di sangue, un bambino avvolto di luce e tenebre... -
   - ...Un'alta torre in mezzo ad una foresta e una maschera in penombra, giusto? -, concluse Alexer, sbalordendo Irene, che rimase interdetta.
   - Come fate a saperlo? -, chiese con voce tremante.
   - Il giorno in cui mi giunse la vostra richiesta d'asilo feci lo stesso sogno, ciò significa che l'essere che vi ha resa madre non era un mortale, bensì un nume celeste. Atena è assente al momento e potrebbe averci inviato un aiuto nella guerra che sembra avvicinarsi -.
   Irene non riusciva a credere alle sue orecchie. Istintivamente si accarezzò il ventre e cominciò a tremare.
   - Perché mi è successo tutto questo? Perché proprio io? -, disse, scoppiando in lacrime.
   - Non lo so. I disegni divini a volte ci sono oscuri, dovrò fare delle ricerche per trovare la soluzione a questo arcano. Il racconto di Jorkell mi ha dato motivo di credere che ci sia un'eminenza grigia dietro tutto questo -, commentò il Sacerdote, cercando di analizzare e trovare un senso alle informazioni che gli erano state date.
   - Vi sentite una peccatrice, nobile Irene? Non dovete! Anch'io sono cristiano, ma ho imparato a guardare la realtà con occhi diversi. Voi siete come le madri degli eroi del mito, benedetta dagli dei per preservare la vita umana -, cercò poi di confortarla.
   La ragazza non sembrava del tutto convinta dal discorso del Sacerdote. Tutti quegli avvenimenti prodigiosi e strani l'avevano confusa e impaurita. Ciononostante, si calmò, asciugandosi le lacrime col dorso della mano.
   - Mi chiedo chi possa aver mandato un demone a uccidervi. Costantino non sarebbe capace di controllare una forza a lui superiore. Qualcun altro conosce la storia che mi avete raccontato? -, continuò Alexer, alzandosi ed avvicinandosi alla finestra con lo sguardo corrucciato.
   - Siete l'unico a cui l'ho detto. Tutti credono che questo bambino sia il frutto delle preghiere che io e mio marito abbiamo levato alla Madonna -, rispose Irene, la cui voce aveva riacquistato un barlume di serenità.
   Alexer rimase un attimo pensieroso, poi riprese: - Voi siete stata alla corte di Bisanzio per lungo tempo, avete mai notato nulla di strano o di inconsueto? Qualcosa o qualcuno di sospetto? -
   La nipote di Argiro sembrò riflettere un attimo, poi, scuotendo la testa, disse: - Non mi pare. L'Imperatore sbraitava spesso contro il Grande Tempio e minacciava di distruggerlo, benché la maggior parte dei suoi consiglieri cercasse di dissuaderlo da tale proposito. Alcuni furono anche rimossi dal Consiglio a causa di questa loro presa di posizione. Diceva di aver conosciuto la vostra meschinità e il vostro finto altruismo a Salonicco, ma non è mai sceso nei dettagli. Oltre questo non mi sovviene nient'altro -.
   Il Sacerdote ebbe un moto di sorpresa: - Salonicco, avete detto? - Immagini di un tempo passato tornarono ad affacciarsi alla sua memoria.
   Irene lo guardò come a chiedergli spiegazioni di quell'improvviso cambio d'umore. Il messo di Atena tornò a sedersi e riavvolgendo il filo dei ricordi disse: - Adesso capisco da dove deriva l'odio dell'Imperatore nei nostri confronti. Trentasei anni fa, nel corso dell'ultima guerra sacra, alcuni Specter e un folto esercito di Skeletons, i guerrieri di Ade, il dio dell'Oltretomba, occuparono Salonicco. Uccisero la maggior parte degli abitanti e resero schiavi le donne e i bambini. Eravamo in pochi e non sempre riuscivamo a seguire il nemico.
   Comunque sia, io e Kanaad, Cavaliere di Virgo e maestro di Jorkell, giungemmo a Salonicco e in poco tempo sconfiggemmo Specter e Skeletons. Cercammo superstiti e ne trovammo un centinaio rinchiusi in un fienile. Erano perlopiù donne e bambini, ma c'era anche un gruppo di ragazzi più grandi.
    Furono tutti felici e grati di essere liberati dal giogo di un nemico troppo potente, tranne un ragazzo, che ci trattò con asprezza e rabbia. Venimmo a sapere, poco dopo, che era un nobile a cui erano stati uccisi la madre, gli zii e i cugini, rei di aver osato opporsi all'invasione. A quanto pare,  quel ragazzo era Costantino, l'attuale Imperatore di Bisanzio -.
   Irene lo ascoltò con attenzione, poi, d'improvviso, le sovvenne un particolare: - Ora che ci penso, a corte qualche anno fa è giunto uno strano individuo che indossa sempre un cappuccio. Sembra un frate, ma nessuno lo ha mai visto in volto. Ha sostituito il barone Giovanni Bumbaca, espulso dal Consiglio per sospetta corruzione.
   Da quando è arrivato, l'Imperatore sembra pendere dalle sue labbra: in qualsiasi decisione ha sempre l'ultima parola e si prodiga molto per compiacere il sovrano. Sono in molti a odiarlo e anche Costantino sta perdendo credibilità.
    Io l'ho incrociato qualche volta nei corridoio del castello e ne ho sempre avuto paura. Sembra avvolto da un'inquietante aura negativa. Purtroppo, non ricordo come si chiama -.
   Alexer rimase pensoso per qualche minuto, poi prese la parola: - Finalmente la situazione mi è chiara: voi eravate l'esca che serviva all'Imperatore per dichiarare guerra al Grande Tempio, ma il suo piano è fallito. Questo consigliere di cui mi avete parlato deve aver convinto Costantino di avere i mezzi per abbattere il culto di Atena. Quando è giunta a corte la vostra richiesta ha trovato l'occasione perfetta: se voi foste stata uccisa mentr'eravate sotto la nostra custodia, l'Imperatore avrebbe dimostrato la nostra malafede e avrebbe unito sotto la bandiera del bene comune i sovrani con cui intrattiene rapporti per farci guerra. Era una mossa troppo astuta per essere stata concepita dalla mente malata di Costantino. Dobbiamo trovare questo consigliere e impedire una sanguinosa battaglia! -
***
   Alla periferia di Bisanzio, vi era un'antica villa tardo-imperiale diroccata. Era attorniata da un vasto appezzamento di terra, ormai residenza di erbacce e cespugli. Dietro uno di essi, vi era un piccolo edificio circolare che immetteva in un sotterraneo umido e freddo. Era una stanza molto ampia, nelle cui pareti si aprivano nicchie chiuse da sbarre, o vi erano conficcate catene e ceppi. Vi era anche un piccolo pozzo, chiuso anch'esso con sbarre di ferro. Un tempo, doveva essere stata una prigione. Al centro della stanza c'era un ampio tavolo di legno grezzo, roso dai tarli, su cui era poggiato uno scrigno e dietro cui sedeva un uomo intento a leggere un grosso volume.
   Lo scrigno era di giada e aveva una forma rettangolare. Poggiava su quattro piedi di bronzo, finemente lavorati, che avevano la forma di zampe di leone. Sui lati lunghi era inciso a rilievo un volto di leone, su quelli brevi, invece, ali di corvo. Il coperchio aveva incise, ai lati, corna di toro ed al centro erano incastonate sette pietre in forma di piramide: un diamante, un'ametista, un diaspro, un eliodoro, un crisolito, un calcedonio e un topazio, che emettevano un intenso bagliore.
   Nel momento in cui Umma spirava, il bagliore dell'ametista si affievolì leggermente. L'uomo se ne accorse e con voce cavernosa disse: - Hai fallito, demone del vento! Poco male, ben presto questo mondo vedrà la sua fine e con esso i tirapiedi di Atena! -
   Una cupa risata riecheggiò nell'aria tetra di quel sotterraneo, mentre il cielo s'incupiva e la pioggia s'abbatteva su tutto ciò che incontrava.
 
[1] "Polvere di Diamanti".
[2] "Anima di Umul".
[3] "Lame di Ghiaccio".
[4] "Per il Sacro Aquarius".

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Capitolo 3
*** L'erede di Gemini ***


Capitolo III
L'EREDE DI GEMINI
    
   Irene cominciava ad ambientarsi alla vita del Grande Tempio. Trascorreva molto tempo a parlare con Jorkell, a cui faceva visita quasi ogni giorno.
   Le condizioni del Cavaliere non miglioravano, tanto che ormai non riusciva più neppure a indossare la propria armatura. Tuttavia, resisteva, non avendo intenzione di cedere alla morte senza trovare un degno custode che la ereditasse.
   La donna lo aiutava per ripagarlo di averla salvata. Jorkell, spesso, le faceva garbatamente notare che nel suo stato non avrebbe dovuto affaticarsi, ma Irene, con un dolce sorriso e fissandolo coi suoi occhi innocenti, non si lasciava intimidire.
   Alexer passava buona parte dei giorni all'Altura delle Stelle per cercare informazioni sulla minaccia incombente. Erano passati mesi, ma non era riuscito che a trovare scarne notizie, a cui tentava di dare un senso condividendole e discutendone col Cavaliere di Aquarius.
   Ai primi di giugno del 1051, Irene aveva dato alla luce un bambino. Alcune donne di Rodorio si erano offerte di aiutarla a partorire e il Sommo Sacerdote aveva loro concesso, in via eccezionale, l'accesso alle dodici case.
   Il bambino era robusto, aveva capelli castani e occhi azzurro cielo. Venne chiamato Calx, come una delle stelle della costellazione dei Gemelli.
   Pochi mesi dopo la sua nascita, Irene chiese al Sacerdote di potersi trasferire in una delle residenze solitamente assegnate alle famiglie dei soldati. Alexer, all'inizio, rimase un po' sorpreso dalla richiesta della donna, ma poi capì che stare a contatto con persone che le apparivano più 'normali' la faceva sentire a suo agio.
   Il ministro di Atena acconsentì con un sorriso bonario e gliene assegnò una disabitata da qualche tempo. Era fatta di pietra e aveva il tetto di legno e paglia. Aveva un'unica stanza: in un angolo, sotto una finestra chiusa da un'anta di legno, vi era un letto imbottito di paglia, completamente coperto di polvere. C'era un tavolino e una sedia vecchia e malandata. Dall'altro lato della stanza vi era un piccolo focolare annerito, qualche pentola di rame appesa alla parete e, di fronte, un'altra finestra che si affacciava sul Grande Tempio.
   Il Sacerdote si scusò per la modestia della casa, ma Irene ne fu contenta. Quando aveva lasciato Bisanzio per seguire suo marito in Italia, il suo cuore si era liberato da un peso: si era finalmente gettata alle spalle i pettegolezzi, le trame e i sotterfugi della corte; la paura di esprimere opinioni o fare commenti che avrebbero potuto nuocerle. Lasciare Anastasia, la sua amica d'infanzia, era stato l'unico rammarico che aveva avuto. Ora tutto questo sembrava finito: la sua nuova vita era ricominciata non appena aveva calcato il suolo del Santuario di Atena.
   Col tempo aveva imparato a rammendare indumenti, a lavare i panni alla fonte e a cucinare grazie ai sapienti consigli delle mogli dei soldati, delle quali era diventata molto amica.
   Mentre al Grande Tempio Irene iniziava un nuovo percorso di vita e Alexer ricomponeva il difficile mosaico della guerra che sembrava imminente, il mondo cambiava.
   Argiro era stato costretto a combattere e ad affrontare i Normanni in campo aperto: era stato sconfitto a Siponto, mentre tentava di ricongiungersi alle truppe papali, e obbligato a trovare rifugio a Vieste, dove aveva impiantato la nuova sede del catepanato.
   L'anno successivo, però, era stato richiamato a Bisanzio, dove il patriarca Michele Cerulario aveva scomunicato il pontefice di Roma e aveva definitivamente rotto i rapporti col papato e con le chiese latine, isolando ancora di più l'impero dalla storia europea.
   Nel gennaio del 1055, Costantino moriva, liberando il Grande Tempio dai suoi propositi di vendetta. Poco prima della sua dipartita, l'uomo incappucciato di cui aveva raccontato Irene era svanito nel nulla senza lasciare tracce. Alexer lo aveva fatto cercare a lungo, ma senza risultati.
   I successivi imperatori, troppo presi dalle beghe di palazzo, dalle ribellioni sorte in varie parti dell'impero e dalla minaccia dei Turchi, avevano mantenuto buoni rapporti col Santuario.
   Otto anni dopo la sua nomina, Argiro aveva abbandonato il titolo di catepano e si era ritirato in un monastero del Monte Athos, nella penisola Calcidica.
   Anche il Santuario sembrava aver ripreso vita: nuovi aspiranti Cavalieri si stavano riunendo lì da varie parti del mondo. Kanaad aveva scritto al Sacerdote di aver finalmente trovato un degno successore all'armatura di Virgo. Atena sembrava aver ascoltato le preghiere di Alexer e l'esercito dei suoi paladini si stava ricostituendo.
   Calx aveva raggiunto i sei anni e fin da piccolo aveva dimostrato di possedere un potente cosmo, anche senza rendersene conto. Una mattina di primavera una guardia bussò alla sua porta. Irene, vedendo quell'uomo sull'uscio, capì subito che il bambino era stato convocato alla tredicesima casa.
   Lo chiamò e, con un piglio freddo e severo, lo esortò a seguire la guardia, che lo avrebbe accompagnato dal Sacerdote. Calx, che aveva visto Alexer soltanto in rare occasioni, era un po' intimidito, ma, con un cenno del capo e senza proferire parola, si avviò verso la porta, dando un'ultima occhiata alla madre, come a voler scorgere un repentino cambio d'idea nel volto dell'amata genitrice.
   Irene, però, mantenne un'aria incoraggiante e con la mano gli faceva segno di seguire l'uomo senza preoccuparsi. Il bambino, col cuore in gola, si rassegnò e andò dietro alla guardia, che gli faceva strada.
   Passarono accanto a un campo d'addestramento, dove alcuni ragazzini, di poco più grandi di lui, si allenavano.
   Li aveva visti spesso farlo e qualche volta, di nascosto, aveva imitato le loro mosse tanto per giocare.
   Giunsero alle porte della sala del trono. Calx fu sopraffatto dal timore, le gambe iniziarono a tremargli. Aveva visto solo l'undicesima casa, qualche volta, quando aveva accompagnato sua madre a far visita a Jorkell.
   I soldati a guardia dell'ingresso aprirono il grosso portone e fecero entrare Calx e la guardia.
   Gli arazzi rossi e il lungo tappeto che giungeva ai piedi del trono, il marmo bianco delle scale alle sue spalle e la sacralità che traspariva da quel luogo impressionarono il bambino, che si guardava intorno con grande stupore.
   Alexer si alzò dal trono, scese i tre scalini e attese alla base di essi che i due si avvicinassero. La guardia e il bambino s'inchinarono. Il Sacerdote li fece alzare e congedò la guardia che, fatto un nuovo inchino, andò via.
   - Benvenuto alla tredicesima casa, Calx! -, lo salutò il vicario di Atena. Poi, si tolse l'elmo, rivelando, forse per la prima volta dopo anni, il proprio volto a qualcuno.
   Aveva i capelli castano scuri lunghi fino alla base del collo e occhi profondi, di un brillante verde smeraldo. Il naso era piccolo e proporzionato, le labbra rosse e carnose. Avrebbe dovuto avere più di settant'anni, ma per lui il tempo non sembrava essere trascorso.
   Calx rimase interdetto e con l'ingenuità di un bambino della sua età chiese il motivo di quell'aspetto tanto giovanile.
   Alexer rise e, inginocchiandosi per poter guardare il bambino negli occhi, rispose: - Col tempo e con l'addestramento scoprirai che i Cavalieri possiedono un potere inimmaginabile! -
   Poi si rialzò e chiese al bambino di seguirlo. Calx, che aveva scacciato il timore e il disagio grazie all'affabilità dimostratagli dal Sacerdote, annuì e gli tenne dietro.
   Il Sacerdote si fermò quasi al centro della sala per poi spostarsi verso destra, in direzione di uno degli arazzi appesi alla parete. Lo scostò e rivelò una porta. Entrò, invitando Calx a seguirlo.
   Subito dopo l'ingresso vi era un arco di pietra che si apriva su un'angusta sala. Guardandosi intorno, il bambino vide quattro piedistalli, due per lato, su cui erano poggiate armature in forma di totem e alla cui base vi erano degli scrigni. Su ogni colonna, inoltre, era inciso, in greco, il nome della corazza.
   Attraversarono un altro arco, sulla cui sommità si scorgeva la scritta "armature di bronzo". Era una sala molto ampia: c'erano quarantotto colonne, ventiquattro per lato, suddivise in due serie di dodici ciascuna. Anche qui c'erano scrigni e nomi incisi sui piedistalli. Alcune colonne, però, erano vuote, segno che quelle armature avevano già trovato un degno custode.
   Calx non capiva perché il Sacerdote l'avesse portato in quel luogo, così domandò: - Signore, che ci facciamo qui? -
   - Fra poco lo vedrai, mio giovane Calx! -, rispose il Sacerdote, continuando a camminare.
   Erano arrivati in un'altra stanza: qui c'erano ventiquattro colonne, dodici per lato. Anche qui alcune armature mancavano.
   Infine giunsero in un'ampia sala che non aveva sbocchi. Di fronte all'entrata, sull'imponente parete era scolpito lo scettro di Nike, simbolo di Atena. Alla base, in forma di ferro di cavallo, vi erano dodici piedistalli. Le armature che vi poggiavano sopra erano diverse da tutte le altre viste finora. Erano d'oro ed emanavano una luce intensa. Tuttavia, all'appello ne mancava una.
   Alexer si avvicinò alla terza armatura che si trovava sulla sinistra. Calx ne seguì l'esempio e lesse il nome inciso sulla colonna: 'Gemelli'.
   La fissò e i volti posti ai lati dell'elmo lo impaurirono un po'. Il Sacerdote notò l'inquietudine del bambino e, poggiandogli le mani sulle spalle, come a rassicurarlo, iniziò a parlare:
   - Quelle che hai visto fin qui sono le 88 armature di Atena, ispirate alle costellazioni della volta celeste e votate alla difesa dell'umanità. A ogni Cavaliere corrisponde una costellazione e di conseguenza l'armatura che la rappresenta. Tu sei l'erede di Gemini, custode della terza casa del Grande Tempio e membro della schiera più potente dell'esercito di Atena. Tu sei il mio successore, Calx! -
   - Successore? -, chiese il ragazzo, un po' confuso.
   Il Sacerdote annuì e spiegò: - Un tempo io ero Alexer di Gemini, ma il mio ruolo di Sacerdote e la mia età mi obbligano a trovare e addestrare un nuovo custode dell'armatura. Se riuscirai a terminare l'addestramento e a sviluppare i requisiti necessari per indossarla, ossia muoversi alla velocità della luce e raggiungere il settimo senso, diverrai il nuovo custode della terza casa. Da oggi in poi, io sarò il tuo maestro e ti insegnerò a diventare un Cavaliere potente e valoroso -.
   Calx guardò il volto serio del Sacerdote ed annuì con decisione. Essere discepolo dell'uomo su cui aleggiava un alone di leggenda e di mistero lo inorgogliva, anche se un velo di timore gli copriva il cuore.
   Dandogli una pacca sulla spalla, il Sacerdote lo distolse dai suoi pensieri. - Ora ti presenterò agli altri ragazzi che si stanno già addestrando per diventare tuoi parigrado -, aggiunse poi, incamminandosi verso l'uscita della sala delle armature.
   Durante il tragitto si rimise l'elmo dorato che aveva tenuto sotto il braccio nel corso dell'udienza con Calx.
   Raggiunsero il campo di addestramento, dove tre ragazzi si stavano allenando con manichini imbottiti di paglia fissati su aste di legno.
   Quello che sembrava essere il più grande dei tre, vedendo il Sommo Sacerdote, interruppe l'allenamento e s'inchinò, seguito a ruota dagli altri due.
   Il Sacerdote li fece alzare e invitò Calx ad avanzare di un passo. Poi disse, con tono solenne: - Miei giovani apprendisti, sono lieto di presentarvi Calx, che sarà l'erede dell'armatura di Gemini e mio successore, se riuscirà a portare a termine l'addestramento. Non temete, però, continuerò a supervisionare anche il vostro allenamento -.
   I ragazzi si fecero avanti uno per volta: quello che sembrava il capo del gruppetto si avvicinò e tese la mano al futuro parigrado. Aveva i capelli neri e ricci, gli occhi marrone chiaro, un naso stretto ed un viso tondeggiante, solcato qui e là da lentiggini.
   - Io mi chiamo Pelag, mi addestro per ereditare l'armatura del Sagittario, che fu del celebre e valoroso Himrar -, disse con passione e fervore.
   Poi fu la volta di un ragazzo dagli occhi grandi e di un bell'azzurro, dal naso lineare e dai capelli biondo cenere lunghi e fluenti fino alle spalle. Invece di porgergli la mano, come aveva fatto Pelag, s'inchinò leggermente e disse con tono distaccato:
   - Perdonami se non ti porgo la mano, ma il mio addestramento m'impone di non avere contatti fisici con gli altri. Sono Vernalis, candidato all'eredità dell'armatura dei Pesci -.
   L'ultimo ragazzo, più piccolo dei precedenti due, aveva un piglio serioso e poco amichevole. I suoi capelli rossi arruffati e gli occhi nerissimi e piccoli gli davano un non so che di misterioso. Aveva un piccolo neo sulla guancia destra, le sopracciglia folte e un naso piccolo e schiacciato. Si avvicinò con la fronte aggrottata e tendendo la mano quasi svogliatamente.
   - Io sono Nashira, futuro Cavaliere d'Oro del Capricorno. Piacere di conoscerti! -, si presentò con aria quasi seccata.
   Calx fu contento di conoscere finalmente quei ragazzi che tante volte aveva visto addestrarsi e, accennando un sorriso, disse:
   - È un onore per me essere vostro compagno d'arme. Mi impegnerò al massimo per diventare un potente Cavaliere d'Oro! -
   Pelag e Vernalis sorrisero e annuirono con lo sguardo; Nashira, invece, restò sulle sue, senza esprimere emozioni di sorta.
   L'addestramento era duro e il Sacerdote, quando era presente, li spronava a impegnarsi di più o gli insegnava i segreti del cosmo.
   Calx sembrava apprendere molto in fretta: a differenza dei suoi tre compagni riusciva a manipolare il cosmo con poche difficoltà e superava, spesso, i suoi parigrado, sebbene si allenassero da molto prima di lui.
   Nashira ne soffriva più degli altri due. Non riusciva a capacitarsi del fatto che in pochi mesi di allenamento Calx lo avesse già superato, benché lui si addestrasse da oltre un anno.
   Cominciò a impegnarsi ancora di più, continuando ad addestrarsi anche quando gli altri smettevano.
   A nessuno era stato rivelato il mistero che circondava l'erede di Gemini, neppure lui lo conosceva. Gli unici a conoscere la verità erano il Sacerdote, Jorkell, Irene e Kanaad.
   Alcuni mesi dopo, giunsero al Grande Tempio tre nuovi aspiranti Cavalieri d'Oro: Hamal, candidato all'eredità dell'armatura di Aries; Sertan, figlio di un ex Cavaliere e aspirante erede di Cancer; e Altager, addestrato a diventare successore di Jorkell e custode dell'armatura di Aquarius.
   Hamal era un ragazzino taciturno; aveva capelli nerissimi lunghi fino alle natiche, occhi marrone scuro e il naso all'insù. Aveva toni gentili e cordiali con tutti.
   Sertan, essendo figlio di un ex Cavaliere, conosceva meglio degli altri lo stile di vita del Grande Tempio. Aveva capelli biondo platino e occhi verde scuro, il naso piccolo e un'espressione dura e scostante.
   Altager, da ultimo, aveva capelli rossi corti, occhi marrone chiaro e un naso lineare. Era un ragazzo molto aperto e disponibile, sempre pronto ad aiutare gli altri.
   Gli aspiranti Cavalieri si addestravano insieme, condividevano i pasti alla stessa tavola e dormivano sotto lo stesso tetto: dovevano imparare a conoscersi e a diventare un gruppo unito e fedele alla causa di Atena.
   Jorkell aveva chiesto di addestrare personalmente l'erede alla sua armatura, ma, all'inizio, Alexer aveva rifiutato. Le sue precarie condizioni di salute non gli consentivano di affrontare troppi sforzi. Il Cavaliere, però, aveva insistito, spiegando che soltanto lui poteva insegnargli come sfruttare al meglio i poteri del ghiaccio.
   Da quando aveva combattuto contro Umma, il suo mondo era crollato. Si sentiva inutile, un peso per Alexer e per gli altri. Desiderava poter tornare a essere il Cavaliere di un tempo, o meglio, dal momento che il suo destino sembrava ormai segnato, voleva almeno poter addestrare il suo successore.
   Dopo molte insistenze, il Sacerdote aveva acconsentito e ad Altager venne permesso di accedere all'undicesima casa, dove si sarebbe addestrato sotto la guida di Jorkell.
   Ben presto, Calx riuscì a legare con la maggior parte dei suoi compagni, tranne che con Nashira e Sertan, che sembravano interessati solo a diventare potenti e intrepidi Cavalieri.
   Il loro comportamento, in parte, lo feriva: la meta di tutti loro era l'investitura a Cavaliere, eppure quei due sembravano dover conseguire un obiettivo più grande, un traguardo privilegiato e distante da quello degli altri.
   Una sera, fattosi coraggio, il discepolo di Alexer si avvicinò a Sertan e gli rivolse la parola. Voleva capire da cosa nascesse quella freddezza e quel distacco nei confronti suoi e degli altri.
   Sertan lo guardò con occhi curiosi; il trasporto e l'umiltà con cui il compagno gli si era rivolto, lo stupirono. Abbassando il capo e accennando un sorriso, chiuse gli occhi e rispose:
   - Hai interpretato male il mio comportamento e me ne dispiace. La barriera che ho posto fra me e voialtri non vuole essere un atto di superbia o di superiorità. Tutt'altro. Sono io a non sentirmi ancora degno di avere compagni come voi -.
   - Che significa? -, esclamò l'erede di Gemini, sbigottito dalle parole di Sertan.
   - Mio padre era un Cavaliere di Atena, ma tradì la causa a cui aveva giurato fedeltà e per questo l'armatura lo abbandonò. Poi scomparve nel nulla senza curarsi neppure di me e di mia madre. Seppi, in seguito, che fu giustiziato per i suoi crimini.
   Lo avevo sempre ammirato e guardarlo indossare l'armatura mi riempiva d'orgoglio; volevo diventare come lui.
    Quando, però, la sua indole mutò e divenne un assassino senza scrupoli, nel mio cuore, da eroe si trasformò in demone.
   Decisi, allora, che sarei diventato Cavaliere per riabilitare il nome della mia famiglia e l'onore infangato da mio padre. Ma per farlo, avrei dovuto prima dimostrare al Sacerdote e ai miei compagni di essere diverso da lui, di essere un uomo che vive per la giustizia e la difesa dei deboli.
   Solo quando diverrò un Cavaliere migliore di mio padre potrò ritenermi degno della vostra amicizia e della vostra fiducia -, replicò il futuro Cavaliere della quarta casa, abbandonandosi ai dolorosi ricordi.
   Calx rimase impressionato dalle ragioni addotte dal suo futuro vicino di casa. Lo aveva sempre ritenuto un ragazzo superbo e spocchioso, fiero di poter vantare la discendenza da un Cavaliere di Atena, ma ora aveva compreso di essere in errore e in cuor suo se ne rimproverava.
   - Anche Nashira condivide il tuo stesso pensiero? -, domandò, poi, con una certa esitazione, ormai sicuro di avere un'opinione sbagliata anche su di lui.
   - No. Io e Nashira veniamo da storie completamente diverse. Suo padre era un abile spadaccino al servizio del re di León e fin dalla più tenera età lo ha addestrato all'uso della spada. Gli è stato inculcato di eccellere su tutti, compagni compresi, non per motivi di superiorità, bensì per non dipendere da nessuno o essere di peso agli altri.
   Quando è giunto al Grande Tempio e ha iniziato l'addestramento per diventare Cavaliere ha applicato lo stesso principio e si sentiva sicuro perché nessuno dei suoi compagni sembrava essere più bravo di lui.
   Poi sei arrivato tu e in poco tempo hai superato sia lui che gli altri. Ciò lo ha mandato in crisi e ha sgretolato le sue certezze. Ha tentato in tutti i modi di sanare il divario che si è creato fra voi, ma invano.
   Che lo voglia o no, il tuo cosmo è più potente del suo e ormai sembra essersene fatto una ragione. Ciononostante, continua ad allenarsi senza sosta pur di raggiungere il grado di eccellenza a cui lo esortava il padre -.
   L'allievo del Sacerdote aveva ascoltato con attenzione le parole del compagno. Lo ringraziò per le spiegazioni che gli aveva fornito e si scusò per aver dubitato di loro. Poi se ne andò, pensando alla fatica e al dolore che i suoi compagni avevano dovuto sopportare nel corso della loro breve esistenza, e si ripromise di diventare un buon compagno per tutti loro.
   In qualche modo, si sentiva diverso da tutti quelli che abitavano al Grande Tempio: ognuno di loro aveva esperienze, spesso dolorose, da condividere o da cui trarre insegnamento. Lui aveva ancora una madre, una persona cara a cui regalare affetto e premura, aveva avuto un'infanzia normale, lontana da tragedie o affanni, e ora si trovava a convivere con storie e realtà che spesso non riusciva a comprendere appieno.
   Tutto questo gli velava il cuore di un senso d'inadeguatezza e spesso lo faceva sentire fuori luogo. Che ci faceva uno come lui fra le schiere di Atena, votate al servizio dell'umanità? Era diventato indubbiamente forte, ma, da sola, la forza non poteva risolvere gli infiniti dilemmi dell'esistenza.
   Tuttavia, ascoltare frammenti di vita e realtà a lui ignote lo aiutava a crescere e a scegliere nel suo cuore la via da seguire.
   Una mattina il Sacerdote lo convocò alla tredicesima casa. Calx fu sorpreso da questa convocazione: di solito, Alexer preferiva allenarlo al campo di addestramento, assieme ai suoi compagni.
   Pervaso dalla curiosità, giunse sulla soglia della sala del trono. Ormai conosceva bene quei luoghi, ci aveva trascorso gran parte del suo tempo nell'ultimo anno e mezzo.
   Entrò e, a passo lento, si diresse verso il trono. Notò che alla base degli scalini vi era l'armatura di Gemini in forma di totem e la sua curiosità s'intensificò.
   - Maestro, eccomi al vostro cospetto -, disse, inchinandosi rispettosamente davanti al trono.
   - Ti starai chiedendo perché ti abbia convocato qui, Calx. Ebbene, oggi ti svelerò una caratteristica dei Cavalieri di Gemini che dovrai tenere sempre ben chiara nella mente. È un segreto che solo i custodi della terza casa e i Sacerdoti debbono conoscere, per questo ho voluto incontrarti alla sala del trono -, parlò con tono grave Alexer, scendendo gli scalini e avvicinandosi all'allievo.
   - Vi ascolto, maestro -, disse il ragazzo, guardando con attenzione il Sacerdote.
   - Ti sei mai chiesto perché ai lati dell'elmo di Gemini siano posti due volti con espressioni diametralmente opposte? -, esordì il messo di Atena, sondando il volto del discepolo.
   - Sì, signore, molte volte mi sono posto questo quesito e sono lieto che me ne spieghiate le ragioni -, rispose con tono deciso il nipote di Argiro.
   - I volti dell'elmo di Gemini rappresentano la luce della giustizia e le tenebre dell'ambizione. Coloro che ereditano quest'armatura sono spesso dilaniati da conflitti interni oppure hanno un alter ego, un gemello dall'animo corrotto -, proseguì il Sacerdote, sfiorando l'elmo dell'armatura che, al suo tocco, rifulse per un attimo.
   - Come sarebbe? -, chiese Calx, incredulo alle parole del suo maestro. - Mi state dicendo che i Cavalieri di Gemini rischiano di votarsi alle forze oscure? Perché mai Atena accetterebbe tra le sue fila uomini tanto ambigui? -, incalzò il giovane, fissando negli occhi Alexer.
   - Atena lascia a ogni Cavaliere e a ogni uomo facoltà di scelta, non costringe nessuno a seguire la via dell'onore e della rettitudine. Chi, però, nasce sotto le stelle della costellazione dei Dioscuri, si trova a dover affrontare il demone della propria ambiguità e non sempre lo risolve nel modo giusto.
   La maggior parte dei Cavalieri di Gemini condivide questo dilemma con un fratello gemello che, solitamente, ha una visione distorta e corrotta della giustizia ed è spinto da ambizione e desiderio di rivalsa.
   I restanti sono come me e te, che non abbiamo fratelli gemelli. Il nostro campo di battaglia è l'anima: il desiderio di vendetta, l'invidia, il rancore, l'odio possono spingerci a voltare le spalle alla giustizia e ad abbracciare la causa dell'oscurità -, rispose Alexer con sguardo severo.
    - Eppure a me non sembra che voi abbiate coltivato l'oscurità nel vostro cuore. Tutti parlano di voi con riverenza e devozione, additandovi a modello di giustizia e di onore -, replicò il giovane apprendista, come per scacciare quella triste eventualità dalla sua vita.
   A quelle parole, il Sacerdote abbassò lo sguardo, sprofondando in lontani ricordi: - Ti sbagli, Calx. Molti anni fa anch'io fui preda dell'odio e roso dal desiderio di vendetta -.
   - Che cosa? -, esclamò Calx, incapace di credere alle asserzioni del messo di Atena.
   - Avevo più o meno la tua età quando mia madre fu barbaramente uccisa dal mio patrigno. Era un uomo violento e dedito ai piaceri del vino, sempre pronto ad azzuffarsi con chiunque per il minimo capriccio.
   Dopo quel tragico evento, fuggii dalla mia casa e dal mio villaggio, covando nel cuore un odio viscerale e un'indicibile brama di vendetta. Volevo diventare forte e costringerlo a chiedere perdono per tutti i crimini che aveva commesso nella sua nefasta esistenza e soprattutto per ciò che aveva fatto a mia madre.
   Qualche giorno dopo la mia fuga incontrai un uomo vestito di bianco e con un elmo dorato: era il precedente Sommo Sacerdote. Disse di aver sentito dentro di me la forza delle stelle e mi invitò a seguirlo al Santuario di Atena per diventare Cavaliere della giustizia.
   Accettai senza esitazioni: diventare forte era quello che più desideravo in quel momento. Già immaginavo la scena della mia rivalsa: lui, inginocchiato e in lacrime, con la voce rotta dalla paura e implorante pietà; io, con gli occhi ardenti di rabbia e una lama affondata fino all'elsa nel suo cuore marcio.
   Cominciai ad allenarmi e in breve tempo diventai forte; tuttavia, notavo che negli occhi dei miei compagni rifulgeva una luce pura e scevra di qualsivoglia inquietudine.
   Questa situazione mi tormentava, ma non capivo cosa mi differenziasse da tutti loro. Ero convinto che il mio senso di giustizia fosse identico al loro, ma mi sbagliavo.
   Un giorno mi ritrovai a parlarne con quello che sarebbe diventato il mio più caro amico: Himrar.
   La guerra gli aveva portato via tutti gli affetti, ma la sua risposta a quella tragedia non era stata la vendetta o il rancore, bensì la volontà di difendere e preservare la vita di tutti, anche di coloro che gli avevano strappato ogni cosa.
   Capii che era quel sentimento ad alimentare l'intensa luce nei suoi occhi e lo pregai d'insegnarmi come raggiungere quel nobile intento.
   "Devi solo scegliere. Se lasci che il tuo cosmo arda per vendetta o rancore, diventerai potente, ma il dolore e la tristezza non ti abbandoneranno mai; continuerai a vivere una vita a metà e prima o poi verrai consumato. Se, invece, lo fai ardere nel tepore della giustizia, nessun ostacolo riuscirà mai a vincerti, anche la situazione più disperata arriderà a tuo favore", mi disse con convinzione.
 
   Fu allora che il mio cuore si liberò dall'oppressione e dal tormento, quando scelsi, finalmente, per chi far bruciare il mio cosmo -, raccontò l'antico custode del terzo tempio, mentre l'allievo rifletteva su quanto gli era stato narrato.
   - Decidi di ardere il tuo cosmo per amore e per giustizia e l'oscurità non prevarrà mai su di te, Calx. In ogni situazione, metti da parte l'odio, il rancore, la vendetta; sii sempre fedele ai principi che da secoli regolano la vita e il comportamento dei Cavalieri. Fai onore ad Atena e all'armatura che indossi! Solo così diverrai un potente difensore della Terra! -, aggiunse infine Alexer, con decisione e fervore.
   Il ragazzo annuì. Quella discussione col maestro gli aveva dato risposte che cercava da tempo. Aveva capito che non è importante chi si è, ma qual è il ruolo che si sceglie di rivestire.
   Da quel giorno aveva cominciato a guardare i suoi compagni sotto un'altra luce: tutti loro, sebbene avessero caratteri distinti e provenissero da luoghi ed esperienze diversi, avevano negli occhi la luce della giustizia e il desiderio di proteggere l'umanità.
   Verso la fine di quell'anno giunse un nuovo aspirante Cavaliere: si chiamava Zosma ed era candidato all'armatura d'oro di Leo. Aveva capelli  corti neri e grandi occhi color nocciola. Era un ragazzo dal passato burrascoso, ma con un forte senso di giustizia.
   Calx aveva legato subito con lui e i due erano diventati molto amici. Li si vedeva spesso parlare o allenarsi fianco a fianco.
   Ai primi dell'anno successivo, Hamal partì per il Jamir, dove avrebbe appreso l'arte di riparare le armature, indispensabile in periodi di guerra.
   La sua assenza, però, fu compensata, qualche mese più tardi, dall'arrivo di un ragazzo alto, dai capelli biondo scuro e dagli occhi azzurri, dal portamento fiero e dallo sguardo sprezzante: si chiamava Elnath e avrebbe dovuto allenarsi per ereditare l'armatura di Taurus.
   All'inizio aveva rifiutato di aggregarsi alle schiere di Atena; non gli interessava salvare un mondo corrotto e privo di giustizia. Preferiva vederlo sprofondare nell'abisso del suo stesso marciume e restarsene in disparte a osservare.
   Aveva visto troppe persone oppresse dai capricci di altri esseri umani che, solo in virtù del loro ruolo, si erano sentite in diritto di angariare i deboli e farli soffrire.
   - Perché dovrei difendere anche oppressori e aguzzini? -, ripeteva spesso al Sommo Sacerdote con asprezza.
   Un giorno, Alexer lo portò a fare un giro fra i soldati e gli aspiranti Cavalieri; poi si recarono a Rodorio, dove il Sacerdote doveva far visita ad un vecchio moribondo che aveva richiesto la sua benedizione.
   Nel vedere tutte quelle persone così impegnate nello svolgere le loro mansioni e quegli occhi colmi di serenità e risolutezza, Elnath provò un certo stupore. Non ci aveva mai fatto caso prima, forse perché troppo preso dai suoi pensieri.
   Uscendo dalla casa dell'anziano a cui avevano fatto visita, Alexer disse al giovane: - Questo villaggio sarebbe dovuto sparire una cinquantina di anni fa, ma ci fu un uomo che sacrificò la sua giovane vita per assicurare nuove generazioni a questa gente.
   I re, gli imperatori, coloro che credono di avere qualche diritto divino di opprimere e fare del male restano pur sempre uomini come me e te. Il loro potere non dura per sempre e spetta a noi insegnare l'amore e il rispetto per l'altro attraverso le nostre gesta e la nostra abnegazione.
   Perché credi che questa gente rimanga qui, pur sapendo di essere facile bersaglio di qualche nemico? Perché la loro fiducia nella giustizia e nella forza dei Cavalieri di Atena cancella la loro paura e gli infonde coraggio.
   Tu disprezzi le angherie e i soprusi degli uomini, ma restartene in disparte non aiuterà il mondo a cambiare. Tutti noi abbiamo provato dolore e privazione, abbiamo toccato la morte e l'ingiustizia con mano, eppure abbiamo scelto di difendere la vita e di credere nel buono che alberga nell'umanità, anche se a volte risulta offuscato dalle tenebre della malvagità.
   Atena si è sempre battuta per preservare la vita umana ed è arrivata a sfidare persino le altre divinità che avevano trovato nell'egoismo e nell'empietà degli esseri umani un valido motivo per spazzarla via. Ma ciò avrebbe comportato l'annientamento anche dei deboli e degli innocenti.
   La tua coscienza approverebbe un atto del genere? Non credo, visto il tuo astio nei confronti dei soli potenti -.
   Elnath rimase in silenzio, riflettendo sulle accorate parole espresse dall'anziano vicario di Atena.
   Aveva ragione: non muovere un dito avrebbe significato abbandonare a un triste destino anche coloro che non lo meritavano. Ora capiva che il suo era solo un gesto egoista, un comportamento infantile. Aveva preso una decisione: si sarebbe allenato per diventare Cavaliere e avrebbe dato una mano a preservare la pace sulla Terra.
   Con un sorriso beffardo disse ad Alexer: - D'accordo. Diventerò un Cavaliere di Atena e difenderò i deboli, ma mi allenerò da solo, non mi piace avere compagnia! -
   Il Sacerdote acconsentì e lasciò che si allenasse da solo. Benché fosse un tipo scostante e solitario, aveva un cuore nobile e sarebbe diventato un valido elemento nell'esercito di Atena.
   Nella primavera dell'anno successivo furono assegnate le prime investiture. Alexer convocò tutti all'arena: Pelag, Nashira e Vernalis, assieme a quattro Cavalieri d'argento e due di bronzo, erano stati chiamati a superare l'ultima prova e conseguire l'investitura.
   Le gradinate dell'arena erano gremite di soldati semplici, apprendisti e Cavalieri. Mancava solo Irene, rimasta a fare compagnia a Jorkell, impossibilitato a lasciare l'undicesima casa.
   Il Sacerdote prese la parola, spiegando ai giovani, in piedi al centro dell'arena, cosa fare: - Giovani allievi, bruciate il vostro cosmo e toccate con l'indice l'armatura per la quale vi siete allenati. Essa valuterà il vostro cuore e la vostra determinazione in accordo con gli spiriti dei precedenti possessori. Se sarete ritenuti degni, l'armatura si scomporrà e rivestirà il vostro corpo per donarvi solida protezione contro i nemici della giustizia; se, invece, sarete valutati non idonei, essa rimarrà immobile e il suo cosmo non si allineerà col vostro -.
   Ascoltate con attenzione le parole del sommo pontefice, i ragazzi si avvicinarono alle rispettive armature, bruciando i loro cosmi variopinti, mentre lo spiazzo s'illuminava di bagliori multicolori.
   Passarono alcuni secondi prima che l'intensa luce si disperdesse e rivelasse nove figure ammantate di scintillanti armature. Dalle gradinate si levarono urla di gioia e applausi.
   Alexer si alzò, con un cenno del braccio destro calmò gli entusiasmi e con tono solenne disse: - Le armature della giustizia, forgiate per volere di Atena ai tempi del mito, hanno trovato nuovi custodi. Lode a voi, Cavalieri della speranza e difensori della pace sulla Terra! Che Atena possa sempre guidare il vostro braccio e il vostro cosmo al bene dell'umanità! -
   Calx aveva osservato con curiosità la scena e vedere i suoi compagni vestire le nobili armature per cui tanto avevano faticato lo emozionò. Si congratulò con ognuno di loro, promettendo che presto anche lui avrebbe indossato la corazza di Gemini.
   I nuovi Cavalieri d'Oro furono contenti del calore e dell'affetto del futuro parigrado. Nashira, che aveva avuto sempre un atteggiamento freddo e ostile nei confronti dell'allievo del Sacerdote, gli si rivolse con parole che Calx non si sarebbe mai aspettato di sentire.
   - Ognuno di noi ha dei limiti. Mio padre mi ha insegnato a essere sempre un gradino al di sopra degli altri, ma ora comprendo che vi sono situazioni in cui non è possibile farlo. Tu mi sei superiore, anche se io indosso già un'armatura e tu no. Ormai l'ho accettato e sappi che sarò felice di combattere al tuo fianco! -
   Calx rimase senza parole, ma dal suo viso traspariva commozione e stupore. Guardò istintivamente in direzione di Sertan, poco distante da loro, e lo vide sorridere e annuire: era stato lui a parlare con Nashira e a fargli capire che questa rivalità latente nel suo cuore avrebbe potuto pregiudicargli l'investitura.
   Il ragazzo lo ringraziò con lo sguardo, mentre il futuro custode della quarta casa si allontanava.
***
   All'undicesima casa, Irene era seduta accanto al letto di Jorkell. Dell'uomo che aveva conosciuto era rimasto ben poco: la chioma, un tempo bionda e folta, era diventata canuta e rada; gli occhi erano spenti e privi di vitalità, il volto solcato da profonde rughe.
   L'addestramento di Altager aveva peggiorato la sua salute e il suo cosmo ormai era al limite. Grazie a una ferrea volontà e a un'adamantina risolutezza era riuscito a sfuggire al destino di morte predettogli da Umma per quasi undici anni, ma la nera signora sembrava ormai prossima a esigere la sua vita.
   Irene lo guardava con infinita tristezza. Aveva capito di amarlo, nel corso di quei lunghi anni, ma aveva sempre represso questo suo sentimento, un po' per pudore, un po' per soggezione.
   Conosceva bene il pensiero di Jorkell sull'amore: il sentimento più potente dell'universo, ma anche il più pericoloso e infido. Un nettare che ottenebra la mente e la ragione, che può rendere un uomo beato o misero e vuoto.
   Ripensando ai tanti momenti passati a parlare con lui o a guardarlo agitarsi nelle ombre dei suoi incubi, il suo viso si bagnò di calde lacrime.
   Dalla finestra si sentì, d'improvviso, un boato di gioia e scroscianti applausi. Asciugandosi il volto, la donna si alzò e vi si affacciò.
   Si vedeva solo una porzione dell'arena. Ai gesti e alle voci allegre degli astanti Irene contrapponeva il suo crudo dolore.
   - Che succede, donna Irene? -, esordì una voce stanca e flebile. Era Jorkell. Non si sorprese di trovare la ragazza al suo capezzale; in quegli anni spesso il suo risveglio era stato accolto dal sorriso dolce e malinconico della donna.
   - Nulla. Si è appena conclusa la cerimonia d'investitura dei nuovi Cavalieri -, rispose Irene con voce calma e atona.
   Il Cavaliere la guardò e accennò un sorriso: per un attimo ricordò il giorno in cui ottenne l'armatura di Aquarius. Erano passati quasi trent'anni, eppure l'emozione di quel momento era ancora viva nel suo cuore.
   Poi si soffermò a guardare il volto della nipote di Argiro: sembrava più mesto del solito, come velato da un'angoscia opprimente.
   - Cos'avete? Sembrate angosciata -, le chiese Jorkell con un filo di voce.
   Irene abbassò il capo, continuando a guardare dalla finestra. L'arena si era quasi svuotata e il Sacerdote si era fermato a dare le ultime istruzioni ai nuovi Cavalieri.
   - Non preoccupatevi, messere Jorkell, non è nulla -, rispose con voce piatta, ma inquieta.
   Il custode dell'undicesimo tempio rise e, nonostante il suo tono fosse ormai una pallida imitazione di quello scanzonato e cortese di un tempo, cercò di rincuorare la ragazza:
   - Il mio maestro, una volta, mi disse che la morte non è la fine di tutto, ma solo un ulteriore stadio dell'esistenza. Il mio corpo e il mio spirito hanno ormai raggiunto il limite e il mio cosmo non alimenta più il mio desiderio di vivere e di continuare a combattere. Ma sono felice, felice di aver salvato gli innocenti. Felice di aver salvato voi e vostro figlio da un destino immeritato.
   So che siete angosciata per la mia sorte, ma non dovete! La mia vita è giunta al capolinea, ma se sono riuscito ad arrivare fin qui e ad addestrare il mio successore è anche merito vostro! Pensate a questo, quando i miei occhi si chiuderanno per sempre: altri innocenti si salveranno perché l'armatura di Aquarius ha trovato un degno custode! -
   Irene non riusciva più a trattenere le lacrime e si sciolse in un pianto muto. Jorkell vide le sue spalle magre tremare e si accorse del suo stato d'animo.
   - Non piangete, donna Irene... vi... scongiuro. Non... lasciatemi morire... con questo... peso sul cuore -, la esortò il Cavaliere, faticando a parlare. Il suo cuore sembrava impazzito, il respiro si era fatto pesante e il petto gli sembrava lacerarsi.
   Irene si girò, notando la fatica di Jorkell nel parlare. Si avvicinò al letto, col cuore in gola e gli occhi colmi di lacrime.
   - Messere Jorkell, che vi succede? -, iniziò a gridare la donna, sempre più terrorizzata all'idea che il momento fatale, che tanto aveva sperato non giungesse mai, stesse per arrivare.
   Il corpo del Cavaliere era scosso da terribili convulsioni. Irene non sapeva cosa fare, riusciva solo a piangere e a gridare agli dei la sua rabbia.
   D'un tratto, le convulsioni si calmarono e il respiro si attenuò. Jorkell aprì gli occhi, fissò per un attimo la donna e reclinò il capo. Era spirato.
   Un urlo terrificante riecheggiò nell'undicesima casa. Una guardia che passava davanti all'edificio durante la pattuglia accorse e trovò Irene china sul corpo del Cavaliere senza vita.
   Senza farsi vedere corse fuori e si diresse verso la zona dell'arena, dove c'era ancora un folto assembramento.
   - Sommo Alexer! Sommo Alexer! Presto, il nobile Jorkell! -, gridò l'uomo, in affanno e madido di sudore.
   Alexer si diresse subito alle scale private che conducevano alla casa del Sacerdote, ma avevano anche accessi sulle dodici case.
   Non appena videro la scena, anche Laurion, Calx e Altager lo seguirono.
   Giunti a destinazione, videro Irene seduta al capezzale di Jorkell, gli occhi rossi ed il viso sconvolto.
   Laurion fremeva e stringeva i pugni per la rabbia; Calx aveva il capo chino e, a passo lento, si era avvicinato a sua madre, abbracciandola; Altager era immobile, incredulo che il suo maestro fosse morto.
   Il giorno successivo furono svolti i funerali. La gioia per le investiture era stata spazzata via e sui volti di tutti era calata una profonda tristezza.
   Nel vedere quella lapide e lo sconforto disegnato sulle facce dei presenti, Alexer rivisse, per un attimo, la tragica sorte dei suoi compagni caduti nell'ultima Guerra Sacra.
   Nei giorni seguenti, Irene si chiuse nel proprio dolore. Aveva perso il suo sorriso malinconico, non frequentava più le mogli dei soldati e preferiva restarsene da sola. Di tanto in tanto, fissava lo sguardo sul monte del Grande Tempio, in direzione dell'undicesima casa.
***
   Una mattina Alexer percepì un cosmo oscuro provenire da oriente e convocò Midra e Laurion.
   I due si presentarono immediatamente al cospetto del Sacerdote e, inchinatisi, chiesero il motivo della convocazione.
   Dopo l'incontro con Umma avevano girato per il mondo in cerca di nuovi Ca-valieri. Erano stati loro a riunire la maggior parte delle nuove leve, su indicazione del Sacerdote.
   - Vi ho convocati qui perché ho percepito un cosmo oscuro. Dovrebbe trovarsi nella zona della mezzaluna fertile. Andate a indagare e state attenti! -
   I Cavalieri annuirono. Laurion sembrava particolarmente ansioso di affrontare finalmente un nemico vero. In lui era ancora viva la rabbia per la morte di Jorkell.
   Congedati i due, Alexer si ritirò nello studiolo del suo appartamento. Aveva preso dei volumi dall'Altura delle Stelle che forse potevano fornirgli lumi sull'identità del misterioso nemico.
   Trascorse ore a leggere, finché il sole non declinò all'orizzonte. Si alzò e si diresse verso la terrazza che dava sul Santuario. La brezza primaverile gli carezzava il volto e il silenzio all'intorno donava al luogo un irreale senso di quiete.
   D'improvviso avvertì un cosmo familiare. Era vicinissimo. Entrò nella sala del trono, ma non vide nessuno.
   La porta si aprì ed entrarono due individui: un ragazzo e un anziano.
   - Finalmente ci rivediamo, amico mio! -, disse il vecchio, con voce pacata ed eterea, uscendo dall'ombra della sala semioscura.
   Aveva capelli bianchi lunghi fino alle caviglie, occhi nerissimi e un tilak di colore rosso sulla fronte.
   - Kanaad! -, proruppe Alexer, incredulo alla vista dell'antico Cavaliere di Virgo. - Cosa ci fai qui? Non ti aspettavo -, proseguì il messo di Atena.
   - Sono venuto ad aiutarti. È il momento che anch'io torni al mio ruolo di Cavaliere. Mentre venivamo qui ho avvertito un cosmo sinistro e ho inviato Syrma, mio allievo e nuovo Cavaliere di Virgo, ad indagare -, rispose l'uomo.
   - Hai già ratificato la sua investitura? -, disse con tono ironico Alexer, - Comunque anch'io ho inviato due Cavalieri di Bronzo a investigare -, concluse poi.
   Kanaad fece avvicinare il ragazzo che lo accompagnava. Aveva all'incirca dodici anni, occhi a mandorla di un marrone chiaro, capelli neri corti e arruffati e un naso piccolo e sottile.
   - Questo è Yeng, si sta addestrando per ottenere l'investitura a Cavaliere di Libra -, disse l'anziano Cavaliere, mentre il ragazzo s'inginocchiava davanti al Sacerdote e gli porgeva i suoi saluti.
   - Kanaad, mi duole informarti che Jorkell... -, iniziò con voce mesta Alexer, ma Kanaad lo fermò, dicendo con tono imperturbabile: - Lo so già. Ho avvertito il suo cosmo spegnersi, non serve aggiungere altro -.
***
   Midra e Laurion erano giunti nel luogo indicato loro dal Sommo Alexer. Si ritrovarono in un villaggio completamente distrutto, disseminato di cadaveri e pregno di un odore di morte.

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Capitolo 4
*** Zambiya e Nanniya ***


Capitolo IV
ZAMBIYA E NANNIYA
 
Area mesopotamica, maggio 1062
  
   Nella luce fioca di quell'umido sotterraneo, l'uomo pronunciava formule in una lingua oscura.
   D'improvviso due ombre, avvolte da un tenue bagliore, presero sostanza di fronte a lui. Erano due figure alte e possenti e indossavano un'armatura identica, tranne che per il colore: una era dorata con ocelli argentei, l'altra, viceversa, era argentea con ocelli dorati.
   L'elmo era a casco: di forma sferica, con bordi arrotondati, da cui scendevano due piastre metalliche a protezione del viso. Al centro aveva una protuberanza, da cui partiva una lunga coda di pesce che scendeva lungo le spalle e giungeva alle ginocchia. Aveva tre ocelli molto vistosi sul fregio frontale e due sulle piastre a protezione delle guance.
   Gli spallacci, come il resto dell'armatura, erano fatti di scaglie: di poco eccedenti la spalla, terminavano a punta, rivolta verso l'alto. Pettorale e cinturino formavano un blocco unico: di forma cilindrica, il pettorale era adornato da ocelli che disegnavano un triangolo rovesciato e si connetteva direttamente al cinturino, lungo fino a metà coscia davanti e dietro, e fino alle ginocchia sui fianchi. Bracciali e schinieri erano anch'essi di forma cilindrica, ornati da pinne a tre punte capaci di lacerare carne e ossa.
   I due esseri fissarono l'uomo che li aveva richiamati dal loro sonno e notarono che al collo portava un monile che da tempo immemore non vedevano più. S'inchinarono e con voce rispettosa si presentarono:
   - Zambiya, quinto demone del fulmine, è qui per servirvi -, disse quello che indossava l'armatura dorata. Aveva occhi e capelli argentei lunghi fino a metà schiena, un naso grosso e schiacciato e una voce cupa e lugubre.
   - Anche Nanniya, settimo demone del fulmine, è al vostro servizio! , proseguì quello con l'armatura argentea. Era in tutto identico al precedente, tranne che per colore di occhi e capelli, dorati in questo caso, e per il tono di voce stridulo e assordante.
   - Le Torpedini del Massacro, i gemelli del fulmine -, esclamò l'uomo, il cui volto era celato da un ampio cappuccio.
   All'udire quegli epiteti, i due demoni sorrisero fieri e i loro occhi s'infiammarono d'orgoglio e di una ritrovata crudeltà.
   L'uomo incappucciato li fissò e con tono grave spiegò i motivi per cui li aveva risvegliati:
   - Il mio nome è Sorush, sono l'ultimo Sacerdote vivente del potente Nergal, il vostro signore. Fra non molto, il sovrano di Irkalla tornerà a nuova vita e porterà a compimento la sua brama di sangue e di conquista.
   Ma prima del suo avvento, c'è un'urgente questione da risolvere. Ai tempi del mito, gli dei di Sumer scagliarono su di voi una tremenda maledizione per aver appoggiato i piani di Nergal. Vi confinarono in un corpo umano e ridussero drasticamente il vostro potere -.
   I due demoni ebbero un moto di disprezzo nel ricordare il castigo ricevuto in un tempo ormai lontano e strinsero i pugni.
   - Tuttavia, esiste una soluzione -, continuò Sorush, accendendo di speranza gli occhi delle due creature. - Gli dei di Sumer hanno ormai abbandonato questo piano dell'esistenza da secoli e la morsa del loro potere su di voi si è indebolita. Non posso restituirvi la vostra forma originaria, ma posso annullare gli effetti della maledizione grazie a un antichissimo rituale: il Rito dei Mille Innocenti! -
   Quel nome riecheggiò nella mente delle Torpedini del Massacro come il suono di un dolce strumento e sui loro volti si allargò un sorriso sinistro.
   - Il vostro potere vi fu sottratto purificando le acque dei Due Fiumi dalla malvagità con cui il cosmo di Nergal le aveva corrotte. Basterà arrossarle col sangue di mille persone innocenti e le catene che ancora vi legano saranno spezzate! -, concluse il servo del sovrano di Irkalla.
   - Sarà fatto! -, esclamò Zambiya, già respirando l'odore della morte che tante volte, in passato, aveva elargito con somma gioia.
   Sorush mostrò loro due orci in cui avrebbero dovuto versare il sangue delle vittime sacrificali e diede loro appuntamento nel punto in cui il Tigri e l'Eufrate s'incontravano, nei pressi della città di Bassora.
   I due demoni partirono alla volta della piana mesopotamica, luogo in cui, un tempo, avevano vissuto e arrecato terrore e sofferenza. Vi giunsero in pochi minuti e decisero di iniziare la loro missione di sangue da un piccolo villaggio vicino a Edessa, adagiata sulla sponda settentrionale del corso superiore del Tigri.
   Il villaggio era ancora immerso nel tepore del sonno. Le strade erano deserte, si udiva soltanto un cane abbaiare in lontananza. Una bambina uscì di casa per recarsi al pozzo a prendere l'acqua. Mentre s'incamminava, si strofinò gli occhi per allontanare gli ultimi fumi del sonno. Fece un profondo sbadiglio e poggiò a terra la giara che stringeva fra le mani. Calò il secchio nel pozzo lentamente, guardandosi intorno. Non c'era nessuno; non si udiva alcun rumore, tranne l'abbaio intermittente e prolungato del cane che creava una sorta di lugubre lamento.
   D'improvviso, la bambina udì un sibilo, poi avvertì una leggera fitta al collo e i suoi occhi tornarono a sprofondare nell'oblio. Era morta.
   Nanniya si avvicinò al corpicino ancora caldo della ragazzina, ne estrasse dal collo la pinna a tre punte che l'aveva trafitta e ne lasciò sgorgare il sangue nell'orcio. Alcune gocce macchiarono la mano del demone, che tornò a provare l'ebbrezza delle stragi e dei massacri di un tempo.
   - La prima vittima sacrificale del nuovo ordine cosmico è caduta, fratello! Elargiamo terrore e morte nel nome del sommo Nergal, come facevamo ai tempi del mito -, disse poi, leccando il sangue dalla mano e con lo sguardo carico di un'insana ferocia. Zambiya annuì e i due fratelli si mossero verso le case più vicine. Attorno a loro vorticavano le pinne a tre punte che si erano staccate dalle armature: sembravano assetate di linfa vitale.
   Sfondarono le porte di due case della piazza. C'erano alcuni bambini, delle donne e qualche anziano. Il rumore li aveva svegliati di soprassalto, ma non fecero in tempo a comprendere cosa stava accadendo. Le pinne a tre punte dei due demoni recisero loro le gole, spargendo sangue ovunque.
   Gli orci iniziavano a riscuotere il tributo di vite che la maledizione degli Utukki esigeva per essere spezzata.
   In pochi istanti di quel villaggio non era rimasto nulla, se non cadaveri e pozze di sangue. Alcuni avevano tentato di scappare, una volta avvedutisi del pericolo, ma le pinne dei demoni gemelli li avevano raggiunti e trucidati senza pietà.
   Terminata quella carneficina, Nanniya, sempre più avido di morte e distruzione, propose al fratello di dirigersi a Edessa, dove avrebbero trovato più vittime da immolare alla loro causa.
   Zambiya, però, rifiutò categoricamente. - Limitiamoci ai piccoli villaggi, in modo da non destare allarme. La morte di un piccolo borgo può passare inosservata, ma l'annientamento di un'intera città no. Non temere, verrà il giorno che tutte le città e i regni di questo mondo piegheranno il capo di fronte all'esercito di Irkalla! -, aggiunse, poi, guardando il fratello, il cui volto si era contorto in una smorfia di delusione e disappunto.
   Costeggiarono il fiume, lungo il quale si affacciavano piccoli villaggi. Nel rivederlo, Zambiya rimase sorpreso: molto era cambiato dall'ultima volta che lo aveva ammirato. Le città sumeriche con le loro alte ziqqurat avevano lasciato il posto a sparute casupole che gettavano un velo di ineluttabilità sull'incessante scorrere del tempo.
   Entrarono in un altro villaggio, preceduti dalle pinne a tre punte che seminavano morte e paura. La tranquillità di quel luogo era stata spezzata dalle grida e dai pianti degli inermi abitanti, che non si spiegavano un simile atto di crudeltà gratuita. I sopravvissuti chiesero pietà con voce tremante e gli occhi grondanti lacrime. I due demoni, però, rimasero impassibili di fronte alle preghiere di quella gente indifesa e sgomenta, e la trucidarono con efferata freddezza.
   Lasciato anche quel villaggio, giunsero nei territori del califfato abbaside, nei pressi di Baghdad, dove fecero strage delle tribù nomadi e dei contadini che incontravano.
   Un manipolo di soldati a cavallo diretti in città notò del fumo provenire da alcune tende e corse a controllare. Uno spettacolo terrificante si palesò ai loro occhi: corpi straziati, sangue ovunque e un intenso odore di morte. Il capitano del drappello diede subito ordine di dividersi e cercare i responsabili di quell'atroce massacro.
   I soldati obbedirono immediatamente e si divisero in tre gruppi, ma non riuscirono a lasciare quel posto. Strani sibili risuonarono nell'aria muta e attorno al capitano si ammucchiarono corpi privi di vita con la gola recisa, mentre i cavalli, spaventati, fuggivano di gran carriera. L'uomo si guardò intorno incredulo e un velo di terrore gli coprì il cuore. Vide due figure farsi avanti con indosso curiose corazze e circondate da oggetti metallici che ruotavano nell'aria.
   Il cavallo s'imbizzarrì e lo disarcionò, fuggendo come avevano fatto gli altri. L'uomo si rialzò, sguainò la scimitarra che portava alla cintura e, puntandola contro i due, chiese se fossero stati loro a perpetrare quel terribile crimine e perché lo avessero commesso.
   Zambiya avanzò di un passo e lo fissò negli occhi, scorgendovi paura e angoscia.
   - Che patetica creatura! -, esclamò. D'improvviso, una delle lame che gli vorticavano intorno si mosse e decapitò l'uomo, che cadde a terra supino.
   - Andiamo, fratello mio! Sorush ci attende! -, aggiunse poi, rivolto a Nanniya, che aveva assistito alla scena divertito.
   I due demoni sterminarono un'altra decina di villaggi posti lungo il cammino. Poi attraversarono il Tigri ed entrarono nei territori che un tempo appartenevano alla civiltà sumerica. Giunsero alla confluenza dei due fiumi e vi trovarono Sorush ad aspettarli.
   Poggiarono a terra gli orci, colmi di sangue fino all'orlo, e s'inchinarono di fronte al Sacerdote. - Ecco il prezzo della nostra liberazione dalle catene degli antichi dei! -, esclamò Nanniya, un po' deluso dalla caccia, che riteneva poco divertente rispetto a quelle cui era abituato ai tempi del mito.
   - Molto bene! -, disse Sorush, osservando con attenzione le chiazze rosse che macchiavano gli orci.
   - Avvicinatevi ai fiumi e, al mio segnale, versate la preziosa linfa scarlatta! -, continuò. I demoni gemelli presero direzioni diverse: Zambiya si diresse verso il Tigri, Nanniya verso l'Eufrate.
   Levando la voce al cielo, Sorush iniziò a recitare formule in un'antica lingua. Il cielo, limpido fino a poco prima, cominciò a rannuvolarsi. Il Sacerdote fece cenno ai demoni di versare il sangue fra le acque dei fiumi.
   All'inizio, il fluido scarlatto sembrò dissolversi fra la corrente, poi, d'improvviso, le acque cessarono il loro corso, si arrossarono e s'innalzarono verso l'alto. Dal cielo caddero fulmini e dalla terra sorsero spine e scintille di fuoco. Poi le nuvole si diradarono e il cielo si tinse di un bagliore accecante, mentre sottili lame di ghiaccio venivano portate via da una forte raffica di vento.
   Zambiya e Nanniya furono stupiti da quegli eventi. Mentre contemplavano i fenomeni che si stavano verificando, le loro armature iniziarono a circondarsi di scariche elettriche e sentirono il loro cosmo accrescersi.
   Nanniya alzò il braccio destro, bruciò il cosmo e nella sua mano si formò una sfera di energia. Con gli occhi accesi da un'insana gioia, il demone lanciò quel globo contro uno degli alberi posti sulle rive dell'Eufrate. L'esplosione che ne seguì rilasciò dei fulmini che abbatterono e incendiarono gli alberi circostanti. Il demone proruppe in una stridula risata, colmo di giubilo e soddisfazione per aver ritrovato, dopo secoli, il suo antico potere.
   - Ora gli elementi vi sono di nuovo sottoposti -, esclamò il Sacerdote di Nergal, fiero del suo operato.
   - È tempo che il mondo riconosca la supremazia dell'esercito di Irkalla! -, disse poi, sempre più eccitato all'idea del ritorno del suo signore.
   - I Cavalieri di Atena si saranno già accorti della nostra presenza, a quest'ora. Presto verranno per combatterci. Date loro il benvenuto e dimostrategli che la vittoria ottenuta su Umma è stata solo opera della fortuna! Io vi aspetterò qui! -, aggiunse, voltandosi verso i due gemelli con volto imperioso.
   I due fratelli s'inchinarono e con un sorriso sinistro si allontanarono, impazienti di affrontare un vero scontro, dopo aver stroncato solo vite di gente inerme e spaventata.
***
   Midra e Laurion si guardavano intorno: silenzio e morte sembravano essere i padroni di quel luogo. Videro alcuni bambini sgozzati e riversi in pozze di sangue opaco. I Cavalieri rabbrividirono di fronte a quell'orrendo spettacolo e si augurarono di trovare quanto prima i responsabili di quella strage. Continuarono a proseguire fino all'uscita del villaggio, oltre cui si estendeva un boschetto di palme.
   Laurion si fermò di colpo e spinse via Midra, confuso da quel repentino gesto. Una sfera d'energia si abbatté proprio nel punto in cui si erano fermati ed esplose rilasciando numerose scariche elettriche che si dispersero in ogni direzione, bruciando tutto ciò che incontravano.
   - Cos'è successo? -, chiese il Cavaliere di Equuleus, rimettendosi in piedi.
   Laurion si guardò intorno e, con volto cupo, spiegò: - Sembra che l'artefice di questo massacro si sia fatto vivo. L'odore di morte che sentivamo copriva il cosmo di quest'individuo. Ma non appena abbiamo lasciato il villaggio, l'ho avvertito chiaramente e ho potuto schivare il suo attacco -.
   - Perché io non me ne sono accorto? -, domandò Midra, turbato dalla propria pochezza.
   - Forse perché quest'odore mortifero è in grado di ottenebrare i sensi e di disorientarli -, rispose il Cavaliere di Leo Minor, continuando a guardarsi intorno.
   - Ma vedo che i tuoi sensi non si sono lasciati ingannare! -, esclamò una voce proveniente dal boschetto. Dal folto degli alberi apparve una figura possente, circondata da oggetti metallici che vorticavano nell'aria.
   - Chi sei? Rivelati! -, gridò Laurion, con voce dura. La figura uscì dall'ombra, incuriosita dalla destrezza con cui il Cavaliere era riuscito a scoprire il suo trucco.
   - Come hai fatto a capire che l'odore che percepivi serviva a celare il mio cosmo? -, chiese poi, manifestando a parole la sua curiosità.
   Senza abbassare la guardia, il Cavaliere rispose: - Anni fa ho affrontato un guerriero che celava la sua presenza usando il profumo dei papaveri. Era in grado di offuscare la mente e di falsare le percezioni. Fu difficile avere ragione di lui, ma come vedi alla fine ci riuscii. Tu chi sei? -
   - Capisco. Noto che voi sudditi di Atena tenete in sommo onore le noiose regole della cavalleria. Ti accontenterò: il mio nome è Zambiya, sono un demone del fulmine e voi siete le mie prede! -, rispose con tono annoiato lo sgherro d'Irkalla, lanciando contro i Cavalieri le pinne a tre punte che si erano avvolte di scariche di energia.
   Laurion e Midra ne schivarono alcune, ma altre riuscirono a colpirli a braccia e gambe. A contatto col loro corpo, le scariche elettriche si intensificarono fino ad avvolgere gli arti dei Cavalieri.
   Il dolore fu intenso e insopportabile. Le loro membra sembravano perdere progressivamente sensibilità e disgregarsi. Laurion diede un'occhiata fugace al compagno, che appariva incapace di affrontare una sofferenza così profonda. Fece esplodere il suo cosmo e allontanò gli infernali arnesi. Quelli che avevano colpito Midra lo abbandonarono e si diressero verso il nuovo obiettivo, mentre il Cavaliere crollava al suolo svenuto.
   Il Cavaliere del Leone Minore si avvolse del suo cosmo rossastro e caricò il proprio colpo segreto.
   - Léontos Mikroû Ékrēxis[1]! -, gridò, spazzando via il nuovo assalto con una spallata carica di energia cosmica.
   Zambiya non si stupì più di tanto, anzi sorrise e concentrò il suo cosmo dorato nella mano destra, creando una piccola sfera di energia, percorsa da fulmini.
   - Sei ostinato come il Cavaliere che ha sconfitto Umma. Non c'è che dire, voi sudditi di Atena siete delle creature interessanti! -, commentò il demone, nei cui occhi argentei e privi di iridi si scorgeva una profonda e malevola determinazione.
   - Chi ti ha raccontato dello scontro fra Jorkell e Umma? -, chiese Laurion, ripensando all'amico che aveva sacrificato la vita per salvare donna Irene dalle mire del demone del vento.
   Il suddito di Nergal rise e rispose: - Nessuno. Noi demoni abbiamo una mente collettiva. Condividiamo ricordi, eventi, tutto! Conosco ogni minimo dettaglio dello scontro che ha decretato la morte del mio compagno e conosco anche te e il tuo amico, Cavaliere! Foste voi a portare via la donna che Umma doveva uccidere! -
   Laurion restò di sasso di fronte a quella rivelazione inaspettata. Se le parole del demone erano vere, ciò significava che, dovunque fossero, i suoi simili, in quel momento, stavano vedendo quello scontro e conoscevano le abilità e le debolezze dei Cavalieri incontrati finora.
   Zambiya notò lo sconcerto sul volto del suo avversario e liberò la sfera che teneva ancora stretta in mano. Essa s'ingrandì e le pinne a tre punte abbattute dai Cavalieri tornarono a vorticare nell'aria, penetrarono nella sfera e ne crearono altre più piccole. Queste ultime si disposero in cerchio attorno al demone e cominciarono a girare.
   - Ora ti mostrerò il vero potere di un demone infernale, Cavaliere! Preparati! -, disse la Torpedine del Massacro, bruciando il proprio cosmo dorato.  Alzò le braccia verso il cielo, avvolte da scariche elettriche, le sfere si raggrupparono fino a formare un globo di energia dall'intenso colore dorato e dalla luce accecante.
   Laurion si preparò a schivare. Una sfera così grande sarebbe stata facile da evitare. Sorrise e fece ardere il proprio cosmo rossastro, in attesa del momento propizio per attaccare.
   - Ĝishra[2] Uduk[3]! -, gridò Zambiya, puntando verso l'avversario l'enorme globo di energia. La sfera sfrecciò verso il Cavaliere, che all'ultimo secondo saltò all'indietro di alcuni metri. Abbattutasi al suolo, essa esplose in un'intensa bolla di luce che avvolse per qualche secondo lo spazio fra i due contendenti.
   Il Cavaliere di Bronzo ne approfittò per passare al contrattacco. Si avvolse del suo cosmo, corse verso il nemico e saltò iniziando a girare su se stesso. Il bagliore del colpo di Zambiya si spense e Laurion vide venirgli incontro le pinne che prima erano confluite nella sfera. Facendo esplodere il proprio cosmo e girando più velocemente le spazzò via, puntando dritto al corpo del demone.
   - Léontos Mikroû Embolé[4]! -, gridò. Il demone del fulmine, che fino a poco prima aveva sul volto un sorriso beffardo, si avvide troppo tardi della mossa del nemico e venne colpito in pieno. Scaraventato contro gli alberi del boschetto, sbatté violentemente contro una robusta palma, perdendo i sensi.
   Atterrato a pochi passi dal nemico, il Cavaliere corse verso Midra, che si era appena rialzato.
   - Tutto bene? -, chiese al compagno, ancora dolorante.
   Il Cavaliere di Equuleus annuì e con voce sofferente disse: - Allontanati, Laurion! - Poi bruciò il proprio cosmo azzurro e incassò il pugno destro.
   Laurion rimase per un attimo confuso dal comportamento dell'amico, quando si accorse che un altro cosmo si era avvicinato. Si voltò verso la fonte di quella nuova aura e vide una sfera argentea puntare verso di loro. Si preparò a contrastare il colpo, ma Midra gli si parò davanti.
   - Hipparíou Metéōra[5]! -, gridò il Cavaliere del Cavallino, lanciando innumerevoli sfere azzurre verso il globo di energia argenteo diretto verso il campo di battaglia. Il colpo di Midra, però, non ebbe effetto. Le sue sfere azzurre vennero letteralmente assorbite. Laurion spinse il compagno di lato, lasciando esplodere al suolo la sfera.
   - Sei patetico, fratello! Lasciarti colpire da un misero Cavaliere di Bronzo! -, commentò una voce acuta e ironica. Dalle palme del boschetto emerse una figura in tutto simile a Zambiya, tranne che per colore di occhi e capelli.
   - Chi sei? -, gli domandò Laurion, incuriosito dall'incredibile somiglianza che il nuovo arrivato aveva col demone del fulmine e dall'averlo chiamato "fratello".
   - Il mio nome è Nanniya, sono il settimo demone del fulmine -, rispose la creatura, fissando i due Cavalieri con un certo disprezzo.
   - Sono io il tuo avversario! -, esclamò Laurion, guardandolo torvo e avvicinandosi a lui. Il demone sorrise e si preparò allo scontro, bramoso di sangue guerriero.
   - No, Laurion! Lo affronterò io! -, intervenne Midra, afferrandogli il braccio e facendo un passo avanti.
   - L'altro demone non è stato ancora sconfitto e presto si rialzerà. Lascia a me costui! In fondo, sono anch'io un Cavaliere di Atena, no? -, gli disse, con un sorriso complice e sincero.
   Il ragazzo non aveva mai affrontato nemici finora. Aveva sempre e solo partecipato a missioni diplomatiche o di basso profilo e non aveva mai potuto dimostrare il suo valore guerriero sul campo. Ma era ormai giunto il momento che anche lui contribuisse alla causa di Atena in maniera attiva.
   Il Cavaliere di Leo Minor annuì a malincuore e si fece da parte, lasciando la battaglia all'amico. Conosceva l'onestà del suo cuore e il suo forte senso di giustizia. Poggiandogli una mano sulla spalla, lo guardò dritto negli occhi e gli disse: - Che Atena sia con te, amico mio! Sta' attento! -
   Midra gli sorrise e annuì. Poi si voltò verso il suo avversario e con voce decisa e risoluta disse: - Dovrai affrontare me, demone! Preparati alla lotta! -
   Nanniya proruppe in una sonora risata e con sguardo sprezzante ribatté: - Questo luogo sarà la tua tomba, umano! I miei fulmini ti spazzeranno via dalla faccia della terra! -
   Bruciando il suo cosmo azzurro, il Cavaliere di Equuleus si gettò contro il demone, tirando pugni. Nanniya li schivò senza alcuna apparente difficoltà, divertito più che impensierito dai tentativi del giovane. D'un tratto smise di evitare i pugni di Midra e si lasciò colpire. Il ragazzo sorrise: finalmente era riuscito ad assestare un colpo.
   Laurion era preoccupato, si era accorto che il demone si era lasciato colpire di proposito e tentò di far riflettere l'amico: - Fa' attenzione, Midra! È una trappola! -
   Il ragazzo sentì le parole dell'amico, ma era troppo tardi per fare qualcosa. Nel punto in cui il suo pugno si era abbattuto comparvero dei fulmini che gli avvolsero il braccio, martoriandolo. Il Cavaliere si ritrasse, lanciando un tremendo grido, mentre Nanniya scoppiava in una grassa risata.
   Laurion fece qualche passo verso l'amico, ma Midra gli intimò di restare indietro. Quella battaglia era sua e voleva combatterla fino in fondo. Non aveva ancora perso, né aveva intenzione di cedere di fronte a un essere colpevole dell'assassinio di tanti innocenti.
   Si rialzò, benché il braccio gli dolesse e fosse ustionato in alcuni punti, fissò gli occhi sul demone e bruciò il proprio cosmo, lanciando il suo colpo segreto. Nanniya non si scompose, creò davanti a sé un cerchio di energia, su cui si abbatterono le sfere azzurre della tecnica di Midra che vennero assorbite. Poi quel cerchio si trasformò in una sfera argentea che il demone indirizzò contro l'avversario.
   Midra si aspettava una mossa del genere e all'ultimo secondo saltò verso l'alto, concentrò il cosmo nella gamba destra e sferrò un poderoso calcio al volto del servitore di Nergal. Nanniya, impreparato a una simile strategia, venne colpito in pieno e fu spinto indietro, verso l'ingresso del villaggio.
   Atterrato dietro al demone, il paladino di Atena si voltò e, senza dare tregua al nemico, fece esplodere il proprio cosmo. Alle sue spalle apparve un maestoso cavallo rampante di colore bianco. - Eccoti il colpo supremo della costellazione del Cavallino, Nanniya! Torna alle tenebre da cui sei venuto! Leukoû Híppou Hyperoché![6]-
   Attorno a lui apparvero dieci sfere multicolori che, ad un suo cenno, si lanciarono contro il demone. Una luce accecante rifulse all'impatto, ma durò pochi istanti, poi si spense, come inghiottita da qualcosa.
   Midra era esterrefatto. Nanniya era ancora lì, con un ghigno divertito, protetto da un cerchio di energia, che aveva completamente assorbito l'impeto del suo colpo segreto.
   - Hai fegato, ragazzo, ma non sei avvezzo alla battaglia! Hai scoperto troppo presto le tue carte e ora assaggerai il potere di un demone del fulmine. Patirai atroci sofferenze, maledicendo il giorno in cui sei venuto al mondo! Ĝishra Ituduk![7]-, gridò il demone, trasformando il cerchio in una sfera colma di energia e lanciandola contro il nemico.
   Il Cavaliere di Equuleus aveva infuso nel suo colpo massimo gran parte del suo cosmo, era in affanno e i colpi subiti iniziavano a farsi sentire. Tuttavia, non si perse d'animo, fece avvampare l'aura azzurra del suo cosmo e lanciò di nuovo le sfere della sua tecnica più potente.
   Laurion stava per intervenire, ma venne attaccato dalle pinne a tre punte e fu costretto a difendersi. Zambiya si era ripreso e aveva il volto furente di rabbia.
   Come avvenuto poco prima, le sfere di Midra vennero assorbite dal colpo di Nanniya che giunse in pochi secondi al suo bersaglio. Anziché esplodere, però, il globo inghiottì il Cavaliere e l'energia che conteneva si abbatté con veemenza contro di lui. Il giovane era inerme di fronte alla furia delle scariche elettriche che gli straziavano le carni. Laurion, incurante di Zambiya, cercò di fare qualcosa per salvare l'amico in pericolo, ma un nuovo assalto delle armi del demone glielo impedì, ferendolo a braccia e gambe. Il Cavaliere cadde in ginocchio, mentre la sfera che intrappolava Midra esplose, scaraventandolo a terra.
   Il Cavaliere di Leo Minor si rimise in piedi e si avvicinò all'amico, immobile e ricoperto di ustioni, l'armatura quasi distrutta e fumante.
   - Midra! Midra! Apri gli occhi, amico mio! Ti prego, rispondi! -, gli gridò, scuotendolo e cercando di rianimarlo.
   Midra aprì lentamente gli occhi, mentre rivoli di sangue sgorgavano da un'infinità di ferite. Guardò l'amico con un'espressione amara e delusa: - Pe... Perdonami, Laurion! No... Non... sono degno... di appartenere... alle gloriose schiere... di Atena. Ho... fallito! -, disse con un filo di voce, versando calde lacrime. Fissò un'ultima volta il volto del compagno, poi le tenebre dell'oblio spensero per sempre il suo spirito e il suo cosmo.
   - No! Resisti, amico mio! Non puoi morire adesso! -, urlò di dolore il Cavaliere, stringendo tra le braccia il corpo esanime dell'amico.
   - Giusta fine per un debole, anche se devo riconoscerne il coraggio. Ma è nell'ordine naturale delle cose che il forte domini sul debole! -, commentò Nanniya, con un ghigno soddisfatto stampato sul volto.
   Dominio. Questa parola accese di rabbia Laurion e gli riportò alla mente i tristi ricordi della sua infanzia. Si voltò verso il demone, guardandolo con occhi colmi di astio e disprezzo, sentimenti che aveva provato molti anni prima.
***
   Come ogni anno lo stratega del Peloponneso aveva inviato nei territori sotto la sua giurisdizione i gabellieri per riscuotere le tasse. Erano giunti anche a Cencrea, piccolo villaggio nei pressi della capitale, Corinto. Due quarti del raccolto di ogni famiglia erano dovuti all'imperatore e un quarto allo stratega, che, non ricevendo uno stipendio da Bisanzio, viveva a spese della popolazione. I raccolti degli ultimi anni, però, erano stati scarsi e a stento gli abitanti del thema erano riusciti a sopravvivere e a pagare i tributi all'impero. Invano avevano chiesto una riduzione delle tasse all'imperatore Michele IV e allo stratega, scandalizzati dalla richiesta degli abitanti del distretto.
   I gabellieri, scortati da un manipolo di soldati, erano giunti a cavallo. Ogni contadino aveva portato nella piccola piazza la propria parte del tributo. Muniti di pergamene e penne d'oca, gli emissari imperiali annotavano l'entità dei tributi e valutavano se fosse in linea con le tabelle fornite dalla corte imperiale.
   Uno di loro si avvicinò a un contadino dal viso stanco ed emaciato, con la barba incolta e ingrigita dalle innumerevoli fatiche. Accanto a lui vi era una donna con gli occhi di un marrone spento, col capo chino e i capelli disordinati e sudici. Davanti a loro vi erano due ragazzini, uno dai capelli rossi e occhi marrone, di circa dieci anni, con lo sguardo perso e vagamente triste; l'altro, anch'esso rossiccio, ma con gli occhi di un verde scuro, di circa tredici anni, aveva la fronte aggrottata e i denti stretti, come per trattenere un moto di ribellione.
    L'esattore li guardò con una certa superbia, controllò l'ammontare del tributo dovuto e diede un'occhiata ai sacchi di grano che aveva davanti.
   - Qui risulta che i sacchi da versare come tributo sono trenta e io ne vedo soltanto dieci. Dove sono gli altri? -, domandò l'ufficiale con sguardo sprezzante.
   Il vecchio tentennò, poi si fece forza e parlò, chinando il capo: - Mio signore, il raccolto è stato scarso anche quest'anno. I sacchi che vedete sono quanto siamo riusciti a mettere da parte per il tributo all'imperatore e allo stratega -.
   Il gabelliere lo guardò torvo, poi si voltò verso i soldati e ne chiamò a sé tre. - Perquisite la casa di questo bifolco e portatemi tutto ciò che troverete! -, ordinò con piglio autoritario. Gli uomini fecero un inchino e corsero a eseguire gli ordini.
   Poco dopo, i tre tornarono portando altri dieci sacchi di grano che gettarono ai piedi dell'ufficiale. L'uomo accennò un sorriso malevolo, fissò il vecchio negli occhi e disse: - Bene! Vedo che volevate sottrarre alle autorità che vi governano ciò che spetta loro! -
   Il vecchio, colto da paura, tentò di giustificarsi: - No, mio signore! Vi sbagliate! Non volevamo derubare nessuno! Contavamo di trattenere questa parte per sostentarci fino all'anno prossimo e di restituire all'impero quanto gli spetta con gli interessi al prossimo raccolto! -
   - Avete osato provvedere più al vostro ventre che al benessere dell'impero? Che sudditi ingrati! Questi sono i tuoi figli, vecchio? -, esclamò scandalizzato il gabelliere, fissando i due ragazzini con sguardo gelido.
   - Sì -, confermò l'uomo. - Lui è Dolkas, il maggiore, ha tredici anni -, continuò, indicando il ragazzo alla sua sinistra. - E l'altro è Laurion, che ne ha soltanto dieci -, concluse, poggiando una mano sulla spalla all'altro ragazzo.
   Avuta la risposta, l'ufficiale si voltò, ordinò ai soldati di caricare sul carro tutti i sacchi e montò sul suo cavallo, dicendo: - Uccidete quel vecchio e sua moglie, ma risparmiate i loro figli: diverranno schiavi per ripagare la parte di tributo mancante! -
   I soldati separarono genitori e figli, che piangevano e si dimenavano per liberarsi dalla stretta di quella sorte infausta. Il vecchio e sua moglie furono portati al centro della piazza e giustiziati, sotto gli occhi increduli e colmi di lacrime dei due ragazzini.
   Laurion era rimasto immobile, aveva smesso di dimenarsi, le guance bagnate da un pianto amaro e silenzioso. Dolkas, invece, era riuscito a liberarsi dalla presa del soldato ed era corso verso il gabelliere. Aveva preso un sasso da terra e glielo aveva lanciato, chiamandolo "bastardo".
   L'uomo era stato colpito di striscio alla guancia, era smontato da cavallo e aveva strappato di mano la spada a un soldato. Senza la minima esitazione, aveva trafitto il ragazzo, commentando che per quell'anno l'imperatore e lo stratega avrebbero dovuto farsi bastare quanto raccolto.
   Tutta quella scena aveva terrorizzato l'intero villaggio e in particolare Laurion che in pochi istanti aveva visto spegnersi una dopo l'altra le persone che amava. Si sentiva inerme, svuotato e non oppose resistenza quando un soldato gli legò le mani e lo aggregò a un altro gruppo di persone, anch'esse rese schiave per sopperire ai tributi mancanti.
   Erano diretti a Corinto, la capitale, dove la sorte di ognuno di loro sarebbe stata decisa dal governatore: alcuni sarebbero stati venduti, altri arruolati, altri ancora impiegati nelle terre dello stratega o dell'imperatore.
   Laurion camminava perso nei suoi pensieri, continuando a lasciarsi dietro una scia di lacrime. Perché gli uomini erano così crudeli? Perché i governanti godono delle sofferenze dei deboli? Di tanto in tanto guardava l'ufficiale che aveva decretato lo sterminio della sua famiglia e nel cuore gli scoppiava un odio profondo e doloroso.
   Si guardava intorno e nei volti mesti e spenti di quella folla umana scorgeva i suoi stessi dubbi e le sue stesse domande. Vedeva occhi gonfi di pianto, corpi tremanti, volti assuefatti a dolori e sofferenze, senza più un briciolo di vita nel cuore.
   Il corteo viaggiava lento e il rumore ritmico di passi, ruote e zoccoli immalinconiva l'atmosfera come una triste melodia. Poi d'improvviso, si fermò. Laurion alzò gli occhi, vide l'ufficiale scendere da cavallo e avvicinarsi ad un uomo che indossava una strana corazza.
   - Chi siete? -, chiese con voce sprezzante l'ufficiale all'uomo che impediva loro il prosieguo del viaggio.
   L'uomo sorrise e disse con tono ironico: - Non ditemi che non avete riconosciuto un Cavaliere di Atena! È ben strano che gli ufficiali dello stratega ignorino la nostra esistenza! -
   L'ufficiale, per un attimo, divenne pallido e con fare condiscendente si scusò per non averlo riconosciuto. Il Cavaliere accettò le scuse e si presentò ufficialmente: - Sono Shelyak di Lyra, Cavaliere d'Argento. Sono venuto a chiedervi dove state portando questa gente -, disse poi, fissando con piglio severo il gabelliere imperiale.
   L'uomo cercò di schermirsi, raccontando che quella gente aveva messo in piedi una ribellione ed era stata catturata. Dalla folla di prigionieri si levò una voce, che attirò su di sé l'attenzione di tutti: - Non è vero! Queste persone sono state rese schiave solo perché non erano in grado di pagare l'intera quota del tributo annuale all'impero. Quell'uomo ha sterminato le nostre famiglie, accusandoci ingiustamente di furto! -
   Era Laurion. L'atteggiamento umile e servile che l'ufficiale aveva assunto dopo aver scoperto l'identità del Cavaliere, gli aveva fatto ribollire il sangue e gli aveva dato modo di smascherare l'indole malvagia di quell'uomo.
   L'ufficiale lo fissò con sguardo truce, ma il ragazzino non si lasciò intimorire e anzi, rispose con un sorriso beffardo.
   Shelyak gli si avvicinò, chiese il suo nome e guardò i suoi occhi. Non stava mentendo, le sue parole erano veritiere. Si voltò verso l'ufficiale, aggrottando la fronte.
   - Liberate questa gente! Secondo la stipula di Atene è illecito rendere schiavo qualcuno per debiti contro l'impero. Dovreste conoscere le regole! -.
   - Ma mio signore... -, cercò di ribattere l'uomo. Shelyak, però, lo zittì con lo sguardo e, avvicinandosi, gli disse: - Vuoi che riferisca all'imperatore come sta amministrando questo thema lo stratega? Non credo gli farà piacere saperlo. La stipula permette a noi Cavalieri di vigilare sui territori imperiali e denunciare chi abusa del proprio potere. Sta a te scegliere: o liberi queste persone o verrai rimosso dal tuo incarico! -
   Il gabelliere, messo alle strette, ordinò ai soldati di rilasciare i prigionieri. Poi risalì a cavallo, dando un'ultima occhiata odiosa al suo delatore e il corteo si rimise in marcia, ma senza più bottino umano.
   I contadini si dispersero, tornando ognuno al proprio villaggio. Laurion riuscì a scorgere qualche sorriso e un barlume di speranza sui volti di quelle persone che fino a un attimo prima sembravano aver rinunciato a qualsiasi possibilità di salvezza.
   - Tu non torni al tuo villaggio? -, gli chiese Shelyak, distogliendolo dai suoi pensieri.
   - No, signore. Non ho più nessuno lì -, rispose il ragazzo, abbassando gli occhi, che erano tornati a bagnarsi di lacrime.
   - Ti andrebbe di provare a diventare un Cavaliere come me? Di votare la tua vita alla causa della giustizia? -, propose il Cavaliere, poggiandogli una mano sulla spalla.
   Il ragazzo annuì sorridendo, pronto a iniziare un nuovo percorso di vita, in cui avrebbe potuto finalmente agire e non restarsene inerme in attesa della fine.
***
   Erano passati più di vent'anni da quell'incontro. Shelyak era ormai morto da anni e ora anche Jorkell e Midra avevano abbandonato i campi di battaglia per raggiungere la quiete eterna.
   Laurion si era stancato di veder morire uno dopo l'altro i compagni che aveva imparato ad amare come fratelli. Si rialzò, bruciando il proprio cosmo e preparandosi all'attacco.
   D'improvviso, però, il paesaggio cambiò. Al posto del villaggio e del boschetto di palme apparve un immenso giardino di fiori colorati, reso vivo dal volo di farfalle variopinte. In direzione del villaggio si stagliavano colonne corinzie diroccate dal tempo e un cosmo immenso si palesò.
   Sia i demoni che Laurion si chiesero a chi appartenesse un'aura cosmica tanto elevata. Dalle colonne apparve una luce dorata che scintillava intensa e poi un uomo in posa da meditazione con indosso un'armatura d'oro.
   - Le vestigia di Virgo! -, esclamò il Cavaliere di Leo Minor, riconoscendo la forma dell'armatura. Possibile che l'antico maestro di Jorkell fosse giunto in loro aiuto? Lo riteneva improbabile. Poi l'uomo si avvicinò, levitando a mezz'aria, e Laurion si accorse che era solo un ragazzo.
   Sotto l'elmo scendeva una folta capigliatura nera lunga fino a metà schiena. Aveva la pelle olivastra, gli occhi chiusi e un naso piccolo e longilineo. Il ragazzo lasciò la posa meditativa e si avvicinò ancora di più al campo di battaglia. Le colonne corinzie, i prati e le farfalle svanirono e il paesaggio riacquistò il suo aspetto originario.
   - Un altro Cavaliere è venuto a morire! -, ironizzò Nanniya, avanzando di un passo verso il nuovo arrivato. Zambiya lo guardò con malcelata irrequietezza e storse la bocca in una smorfia di disprezzo. Il Cavaliere rimase impassibile; il suo cosmo ardeva calmo e fiero.
   Si voltò in direzione di Laurion e disse: - Porta via il tuo compagno e lascia a me la battaglia! -
   Laurion ebbe un moto di rabbia e lo guardò bieco: - Non lo farò! Sono un Cavaliere anch'io e non me ne starò in disparte! Non voglio che altri combattano al posto mio e rischino la vita, come ha fatto Midra! -
   Il custode della sesta casa non si scompose, ma assunse un tono severo e autoritario: - Non ho chiesto la tua opinione! Sei un Cavaliere di Bronzo e, in quanto tale, sei tenuto a obbedire agli ordini dei superiori senza fiatare, pena l'accusa di alto tradimento! Te lo ripeterò soltanto un'altra volta: vattene o sarai il primo a cadere! -
   La voce calma e gelida del Cavaliere turbò profondamente Laurion. La legge del Grande Tempio gli imponeva di farsi da parte e di lasciare il campo a un Cavaliere d'Oro, qualora quest'ultimo decidesse di scendere personalmente in battaglia. Stringendo i denti e trattenendo l'ira, prese il corpo di Midra tra le braccia e si allontanò in direzione del villaggio. Mentre passava accanto al dorato custode lo guardò e gli chiese: - Qual è il tuo nome, Cavaliere? -
   Senza voltarsi e riprendendo la posa meditativa, il giovane rispose: - Syrma di Virgo è il mio nome celeste, custode della sesta casa del Grande Tempio e fedele servitore di Atena! -
   Il campo di battaglia era pronto. Syrma, con tono sprezzante, si rivolse ai demoni gemelli: - Mostratemi il vostro valore, se ne avete! Pagherete per i vostri innumerevoli crimini! -
   Zambiya e Nanniya, stanchi di chiacchiere e decisi a concludere lo scontro, scagliarono i loro colpi segreti contemporaneamente. Le due sfere di energia raggiunsero in pochi attimi l'obiettivo e d'un tratto scomparvero. Zambiya vide le pinne nascoste all'interno della sua sfera disintegrarsi a contatto con l'aura cosmica del nemico e aggrottò la fronte preoccupato. Nanniya rimase incredulo nel constatare che era stato il suo globo di energia a essere assorbito e una smorfia di disappunto gli si disegnò sul volto.
   - Tutta qui la vostra forza? -, commentò il Cavaliere di Virgo con voce calma e piatta. I gemelli del fulmine si avvidero che era protetto da una barriera cremisi, che aveva impedito alle loro tecniche di annientarlo. Syrma fece ardere il suo cosmo più intensamente e disse: - Dopo la difesa giunge l'attacco! Questo di Virgo è il cosmo: Khan! -
   L'aura dorata attorno a lui si levò maestosa, le sfere dei due demoni riapparvero e si scagliarono contro di loro. Con un boato tremendo, i sudditi del signore d'Irkalla vennero scaraventati violentemente contro alcune palme, abbattendole. Si rialzarono con le armature crepate in alcuni punti e l'orgoglio ferito.
   Nanniya, col volto alterato dall'ira e dallo smacco subito, lo guardò con odio e disse: - Come ha fatto quella tua barriera ad assorbire e a respingere i nostri attacchi? Nessuno mai era riuscito a evitare di essere colpito! -
   Senza mostrare la minima emozione e continuando a tenere gli occhi chiusi, Syrma rispose con una tranquillità che irritò il demone ancor di più: - La barriera che protegge il mio corpo è formata dalle fiamme di Garuda, la cavalcatura di Vishnu. Esse sono in grado di respingere attacchi ben più potenti dei vostri! Voi due siete soltanto demoni d'infimo livello, ben lungi dall'impensierire il custode della porta eterna! -
   - Sei solo un moccioso arrogante, come tutti gli esseri umani! Anche se noi cadiamo qui, altri verranno a reclamare vendetta e ad annientare le schiere di Atena. Nessuno può opporsi ai decreti del fato, neppure la dea della giustizia! Presto il sole si oscurerà e le tenebre dell'oblio avvolgeranno l'universo! -, lo rimbrottò Zambiya, che nel frattempo si era avvicinato al fratello.
   Per la prima volta, Syrma accennò un sorriso e chinò leggermente il capo. Poi, con la sua solita placida compostezza, rispose: - Molti hanno tentato di assoggettare l'universo, fin dai tempi del mito. Eppure, ancora oggi, la speranza di un mondo scevro da guerre e dispute, lontano dalle mire degli dei malvagi continua a divampare nei nostri cuori. Il male, il terrore, l'ingiustizia non potranno mai prevalere su un ideale di pace così alto! -
   Con una smorfia di disprezzo, Nanniya fece bruciare il suo cosmo argenteo e ricreò la sfera dello Ĝishra Ituduk, infondendovi ancora più energia. Il colpo raggiunse il bersaglio, ma come prima scomparve. Il demone, sopraffatto dall'ira, si gettò contro il Cavaliere, ma venne investito da un bagliore di luce che lo scaraventò a terra, spaccandogli parte del bracciale destro. Era stato di nuovo atterrato dalla sua stessa tecnica.
   - Sembra che le nostre tecniche segrete non sortiscano effetti su di te. Vuol dire che per abbatterti uniremo le forze e sferreremo il colpo massimo che i nostri cosmi possono generare -, esclamò Zambiya, senza, però, scorgere alcun segno di curiosità o di esitazione sul volto del nemico.
   Nanniya si rialzò e si avvicinò al fratello. Le code dei loro elmi si mossero e si unirono. Scariche elettriche percorsero le armature dei demoni. Nanniya alzò al cielo il braccio destro; Zambiya alzò il sinistro. I bracciali si avvolsero di fulmini e un'immensa sfera di energia si formò sulle loro teste. Aveva tinte dorate e argentee ed emanava un intenso bagliore. - Ĝishra Darik Mulmulak![8] -, gridarono all'unisono i demoni gemelli. La sfera sfrecciò verso Syrma, immobile e imperturbabile.
   L'immensa energia si abbatté sulla barriera eretta dal custode della sesta casa, esplodendo e aprendo un profondo cratere sul luogo dell'impatto. I due demoni sorrisero, certi di aver eliminato il loro avversario, ma dalla polvere emerse una figura, del tutto incolume, le mani giunte davanti al petto. Increduli di fronte a quella scena, i gemelli del fulmine si prepararono a un nuovo assalto.
   - Tutte le vostre tattiche sono inutili contro di me. Ve l'ho detto: siete solo demoni d'infimo livello! Il vostro cosmo non è altro che una fuggevole brezza per me e ve lo dimostrerò. Questo di Virgo è il colpo: Daimónōn Hypóbasis![9]-, disse, disgiungendo le mani e rilasciando un'immensa onda di energia cosmica. Sul campo di battaglia apparve una fanciulla in decomposizione a cavallo, attorniata da ossa e teschi. Nella luce del colpo segreto di Syrma i demoni furono letteralmente disintegrati e di loro non rimase più nulla. L'odore di morte che fino a poco prima aveva permeato quei luoghi si dissolse.
   Voltatosi verso Laurion, Syrma gli rivolse la parola: - Quando sono arrivato ho percepito la flebile traccia di un altro cosmo. Vado a controllare, tu aspettami qui. Sarò presto di ritorno -. Il Cavaliere annuì e il custode della porta eterna svanì nella luce del teletrasporto.
***
   Sorush aspettava il ritorno delle Torpedini del Massacro e aveva avvertito i loro cosmi prepararsi alla battaglia. Trepidava. Sperava che i suoi demoni tornassero vittoriosi ed eliminassero gli invadenti Cavalieri che osavano ostacolare il disegno del fato.
   - Sei un uomo difficile da trovare, Sacerdote! -, esordì d'improvviso una voce profonda e sicura, distogliendolo dai suoi pensieri.
   - Chi sei? Come hai fatto a trovarmi? -, esclamò voltandosi Sorush, sorpreso che qualcuno fosse riuscito a trovarlo e temendo di avere di fronte un nemico venuto a prendersi la sua vita.
   - Ho seguito le stragi compiute dai tuoi demoni e ho compreso che dovevi essere da queste parti. Sta' di buon cuore; non voglio farti del male, mi chiamo Kharax -, rispose l'uomo, con un sorriso complice sul volto.
   Sorush lo fissò per un attimo: aveva circa quarant'anni, capelli ricci di un biondo spento lunghi fino alla nuca, occhi verde scuro e un naso schiacciato e leggermente deviato verso destra, forse frutto di un pugno ricevuto in pieno volto. Una vistosa cicatrice sotto l'occhio sinistro serpeggiava fino alla guancia.
   - Cosa vuoi da me? -, gli disse con tono diffidente e una punta di timore. - Aiutarti! -, rispose con disarmante semplicità colui che aveva detto di chiamarsi Kharax.
   La risposta ricevuta spiazzò Sorush, che, però, continuava a non fidarsi della parola di un uomo apparso dal nulla. Inoltre, il suo aspetto, indicava che fosse un individuo avvezzo alla battaglia e che celasse qualche segreto.
   - In cosa potresti essermi utile? -, ribatté con aria seccata e con sguardo scettico. Kharax rise e con estrema naturalezza replicò: - Conosco i nemici che stai combattendo: i Cavalieri di Atena. I miei consigli potrebbero risultare decisivi per la tua causa! -
    l Sacerdote di Nergal ponderò per un attimo l'offerta dello sconosciuto, poi, per testarne l'attendibilità, chiese: - Di quanti Cavalieri dispone il Sacerdote Alexer? -
   - Non molti, a dire il vero. Circa otto mesi fa sono stati investiti nove Cavalieri e altri sono prossimi a ricevere un'armatura. Al momento sono stati nominati quattro Cavalieri d'Oro d altri quattro stanno per ottenere l'investitura -, rispose l'uomo.
   - Sono davvero così temibili come si racconta? -, domandò ancora Sorush, desideroso di conoscere meglio il proprio nemico.
   - Sì! -, fu la risposta secca di Kharax. - Sono stati quasi tutti allenati dal Grande Sacerdote, che ha fama di guerriero abile e potente. Si racconta che abbia sconfitto praticamente da solo Ade, il dio greco dell'Oltretomba, e ne abbia messo in fuga l'anima -.
   Quest'ultima informazione fece trasalire Sorush. - Ma il suo allievo diretto, Calx, destinato a ereditare l'armatura di Gemini, sembra essergli addirittura superiore -, continuò Kharax, notando l'inquietudine nei gesti del suddito di Nergal.
   - Il tuo aiuto gioverà grandemente alla mia causa, Kharax -, concluse Sorush, convinto di poter sfruttare le informazioni fornitegli da quell'uomo per realizzare i propri fini e di poterlo eliminare qualora diventasse scomodo.
   - Anche tu sembri un uomo molto abile, Sacerdote. In tutti questi anni nessuno è riuscito a rintracciare il tuo cosmo. Come fai a celarlo? -, chiese Kharax con tono schietto e spontaneo.
   - Non mi è possibile risvegliare il cosmo. Ai tempi del mito, il dio che servo, scelse sette uomini come suoi Sacerdoti e li rese partecipi del suo piano di dominio. Tuttavia, conoscendo l'ambizione e la volubilità del cuore umano, sigillò il loro cosmo, affinché non giungessero mai a sfidarlo. Il sigillo è stato tramandato anche ai loro discendenti e a me, che sono l'ultimo di essi! -, spiegò Sorush, ricordando la storia che gli aveva raccontato il padre molti anni prima.
   - Posso solo percepire il cosmo, grazie al ciondolo che porto al collo -, continuò dopo una breve pausa. Kharax aveva notato quella strana collana: era un triangolo privo di base che pendeva da una catenella d'oro, su cui erano incastonate sette pietre dai colori vivaci che brillavano ai raggi del sole.
   - Capisco. Ecco perché, pur con tutta la sua abilità, Alexer non ti ha mai trovato. Sono stato fortunato, quindi, a scoprire dov'eri. Sembra che il fato arrida a un nuovo ordine cosmico! -, commentò l'uomo, concedendosi un sorriso soddisfatto.
   D'improvviso, avvertirono il cosmo di un Cavaliere innalzarsi e spegnersi poco dopo. Sotto il cappuccio, il volto di Sorush s'illuminò e il suo cuore esultò all'idea che la vittoria dei demoni gemelli fosse prossima.
   - La vita di un Cavaliere si è spenta -, esclamò con gaudio.
   Kharax lo riportò alla realtà, avvertendo un cosmo imponente e vitale: - Non cantare vittoria troppo presto. Un altro Cavaliere è sceso in campo. È il discepolo di Kanaad, altro eroe dell'ultima guerra sacra, e fiero custode delle vestigia di Virgo. È uno dei Cavalieri d'oro più temibili, sarà difficile batterlo -.
   - Avverto la sua aura cosmica. Ha una forza inaudita, superiore a quella delle Torpedini del Massacro. Se riuscisse a batterli, ci troverebbe! -, proruppe Sorush, la cui voce palesava inquietudine e timore.
   Queste ultime parole impensierirono Kharax. I Cavalieri di Virgo avevano da sempre una spiccata abilità nel rintracciare i cosmi e forse il suo era già stato individuato. Mentre rifletteva, un cosmo immenso sovrastò quello dei demoni gemelli, che svanirono completamente.
   - Sarà meglio continuare la nostra discussione da un'altra parte -, disse il Sacerdote di Nergal, tirando fuori da una tasca della lunga tunica viola che indossava un prisma multicolore. Lo avvicinò alla collana che aveva al collo, afferrò Kharax per un braccio e in un lampo di luce i due scomparvero.
   Syrma si materializzò sulla riva del Tigri, si guardò intorno, ma non c'era nessuno. Tese i sensi per trovare una traccia di cosmo, ma non ne trovò. Abbassò lo sguardo verso il fiume, un olezzo pungente e nauseabondo proveniva dalle acque. - Cos'è successo qui? -, si chiese, turbato dal misterioso cosmo che lo aveva attirato fin lì.
   Tornò da Laurion, ancora accanto al cadavere di Midra. Lo osservò e avvertì il profondo dolore che affliggeva il suo cuore. Si avvicinò e con voce cortese e garbata disse:
   - Mi dispiace. Se solo fossi arrivato prima, il tuo compagno non sarebbe morto. Ma sono stato trattenuto a Baghdad; sembra che quei due demoni abbiano cancellato decine di villaggi oltre a questo e anche un drappello di soldati non si è presentato in caserma. Toghrul Beg, l'usurpatore turco che governa al posto del debole califfo al-Qaim, mi ha interrogato a lungo, chiedendomi spiegazioni in merito. Perdonami per il mio ritardo -.
   Laurion scosse il capo e rispose: - Non devi scusarti. Midra è morto cercando di compiere il proprio dovere, come ogni Cavaliere. Hai trovato quello che cercavi? -
   Syrma fece cenno di no. Poi, avvicinatosi ai compagni, bruciò il proprio cosmo e teletrasportò tutti ai piedi del Grande Tempio.
   Si presentarono al Sommo Alexer. Syrma s'inchinò, mettendosi al servizio del ministro di Atena. I Cavalieri superstiti fecero rapporto, raccontando nei dettagli ciò che era accaduto e anche dell'infelice morte di Midra. Nuovo dolore velò il cuore del Sacerdote e di Kanaad, la cui fierezza per la forza del suo discepolo era stata smussata dalla triste notizia.
   Dopo i funerali, Alexer convocò Calx nella sala del trono. Giunto, il ragazzo s'inchinò di fronte a lui e gli chiese il motivo della chiamata.
   Il Sacerdote si alzò e, con tono solenne, rispose: - Il tuo addestramento è ormai ultimato. Hai raggiunto gli obiettivi che ti erano stati imposti in maniera eccellente. Tuttavia, prima di ottenere l'investitura, dovrai imparare una tecnica di difficile esecuzione da me creata. Io l'ho usata soltanto una volta e mi è quasi costata la vita. Ma il tuo cosmo è potente e sono sicuro che riuscirai a controllarla -.
   Il ragazzo annuì, orgoglioso della fiducia accordatagli dal suo maestro e promise che si sarebbe impegnato al massimo per farla sua.
 
[1] "Lionet Bomber".
[2] Leggi "nghishra".
[3] "Colpo del Sole".
[4] "Assalto del Leone Minore".
[5] "Meteore di Equuleus".
[6] "Ascesa del Cavallo Bianco".
[7] "Colpo della Luna".
[8] "Colpo degli Astri Eterni".
[9] "Abbandono dell'Oriente".

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Capitolo 5
*** Oscure trame ***


Capitolo V
OSCURE TRAME
 
   Kharax si ritrovò in un sotterraneo umido e freddo. Si guardò intorno e vide nicchie chiuse da sbarre, catene e ceppi. Un po' confuso, fissò Sorush con sguardo interrogativo e chiese: - Che posto è mai questo? -
   Il Sacerdote di Nergal accennò un sorriso e rispose: - È il posto più sicuro del mondo. Siamo nella prigione sotterranea di una villa tardo-romana in rovina. È protetta da una barriera che impedisce di rilevare il cosmo, quindi non devi preoccuparti, qui nessuno ti troverà -.
   Kharax aveva notato il tavolo, e soprattutto lo scrigno e il grosso volume che vi erano poggiati sopra. Si avvicinò per osservarli meglio, ma il gesto sembrò infastidire Sorush che, per distoglierlo dalla sua molesta curiosità, iniziò a interrogarlo:
   - Non mi hai ancora spiegato come fai a conoscere così bene i Cavalieri di Atena. Eri forse uno di loro? Il tuo cosmo sembrerebbe indicare di sì -.
   L'uomo rise, abbassando il capo: - Sì, ero uno di loro, molto tempo fa. Ero un Cavaliere d'Argento, Kharax di Crater, ma venni condannato a morte e abbandonai l'armatura -.
   Sorush ascoltò quelle parole con attenzione, ma rimase un po' scettico: - Che cosa? Perché mai saresti stato condannato e avresti abbandonato l'armatura che indossavi? -
   - All'inizio, come tutti i miei compagni, avevo piena fiducia nel piano di Atena, ma poi mi accorsi della realtà: per quanto l'uomo tema gli dei e la morte, il vizio, l'avidità, l'utile e l'interesse dominano prepotentemente il suo cuore. Ho visto persone piangere e disperarsi di fronte alla falce del tristo mietitore, ma quando la salvezza è giunta insperata e le ha trascinate via dal baratro della morte, l'infida malvagità del loro animo è riaffiorata.
   In tanti secoli di guerre, Atena non ha fatto altro che sacrificare innumerevoli Cavalieri sull'altare di una falsa giustizia per poi lasciare il mondo nelle mani corrotte degli uomini. Non si è mai erta a giudice o a sovrana della Terra, ha sempre sperato che l'uomo comprendesse i propri errori e cambiasse. Ma la sua è stata pura inavvedutezza! L'uomo non cambierà mai, perché il suo cuore è traviato e debole, troppo vacillante per potersi indirizzare verso la giustizia!
   Quando i miei occhi si aprirono e la realtà delle cose mi apparve finalmente chiara, decisi di non seguire più le sciocche regole imposte da una dea incapace di mettere da parte il suo smodato amore per l'umanità in nome della sua autorità divina. Iniziai così a imporre il mio ruolo di Cavaliere sugli altri, punendo con la morte tutti coloro che non si comportavano secondo giustizia! Non m'importava che fossero donne, bambini o vecchi: chi non seguiva i principi della giustizia andava eliminato!
   Ad Alexer, però, non sfuggiva niente e fu così che venni catturato, imprigionato e processato. L'esecuzione della pena era stata affidata a un mio compagno d'armi, Alsam. Avrebbe dovuto usare armi convenzionali e non i poteri del cosmo. Fui legato a un albero dalle guardie che ci scortavano per attestare l'avvenuta esecuzione. Alsam era versato nel tiro con l'arco, era Cavaliere di Sagitta e mio parigrado. Mi scagliò contro un'intera faretra, gli occhi pieni di lacrime e il volto contratto dalla rabbia.
   Le frecce colpirono con precisione i punti indicati dall'arciere. Il dolore era talmente lancinante che il mio corpo non resse più e svenni. Il mio cosmo si affievolì fino a diventare impercettibile, Alsam pensò che fossi morto e si allontanò accompagnato dalle guardie.
   Mi risvegliai qualche giorno più tardi in casa di un falegname, accudito dalle cure di sua figlia, nei cui occhi rividi per un attimo la famiglia che ero stato costretto a lasciare.
   Alsam non aveva colpito punti vitali, di proposito. Sperava che morissi dissanguato, non voleva vivere col fardello di aver ucciso un amico, seppure meritevole di punizione.
    Ora è giunto il momento che la custodia della Terra passi a un dio che sappia usare il pugno di ferro e spazzi via per sempre il ricordo di Atena e delle sue schiere! Metterò al tuo servizio tutta la mia conoscenza sul Grande Tempio. Ho ancora degli amici a Rodorio che potrebbero aiutarci a realizzare il progetto di conquista di Nergal, il tuo dio! -, raccontò Kharax, ripercorrendo con la mente il suo triste passato e dichiarando senza remore le sue convinzioni.
   - Capisco -, esclamò Sorush, riflettendo sulla storia che aveva appena udito. - E che ne è stato del tuo compagno Cavaliere? -, chiese poi, mosso da un insolito interesse.
   L'ex Cavaliere lo guardò con aria compiaciuta e rispose: - L'ho ammazzato! Un anno dopo la mia esecuzione lo intravidi ad Atene, dove era stato mandato a controllare i movimenti dello stratega dell'Ellade, accusato da molti di violare regolarmente la stipula firmata dall'Imperatore e dal Sommo Sacerdote.
   Lo sgozzai in un vicolo. Tutti credettero che fosse stata opera di una banda di briganti che infestava la città. Un Cavaliere può combattere e uccidere solo secondo il principio di giustizia, cioè a parità di armi e condizioni; e Alsam era un guerriero ligio alle regole, ma poco intelligente: non avrebbe mai ucciso un uomo armato di pugnale! -
   Dopo queste parole ci fu un attimo di silenzio. Sorush sembrava assorto nel ponderare quella storia. Kharax prese l'occasione per togliersi un dubbio: aveva notato, nel corso della loro prima conversazione, una certa inquietudine sul volto del Sacerdote nel percepire il cosmo del Cavaliere di Virgo e nel sentire della straordinaria forza dei custodi dorati.
   Così, con aria disinvolta e schietta, gli rivolse la parola: - Ho scorto una certa inquietudine nel tuo volto la prima volta che abbiamo parlato. Temi che i Cavalieri d'Oro possano spezzare le ambizioni del tuo dio? O c'è dell'altro che non mi hai ancora detto, Sorush? Credo di essermi guadagnato la tua fiducia, no? -
   Sorush si girò verso di lui. Era difficile leggere l'espressione sul suo volto, mezzo coperto dall'ampio cappuccio. Tuttavia, Kharax avvertì un leggero disagio nei movimenti dell'uomo. Il Sacerdote rifletté sulla necessità di rivelare un segreto che avrebbe potuto nuocere ai piani del suo signore e sull'utilità delle informazioni che quell'uomo poteva fornirgli, aiutandolo a formulare una strategia vincente. Alla fine, dopo un'attenta riflessione, decise di metterlo a parte di quel segreto.
   - C'è una profezia che annuncia la definitiva caduta di Nergal per mano di 'colui che dal destino ha ricevuto in dono vile sangue e sacra linfa'. Il cosmo di quel Cavaliere e la potenza dei dorati custodi di cui mi hai parlato mi hanno fatto sorgere il dubbio che uno di loro potesse essere l'avversario del signore di Irkalla decretato dal fato! -, raccontò Sorush con tono grave e preoccupato.
   - Vile sangue e sacra linfa, hai detto? -, domandò Kharax, incuriosito dalle strane parole che aveva udito. Sorush si avvicinò al grosso volume adagiato sul tavolo e ne aprì le ultime pagine.
   - Nelle vene di colui che dovrebbe sconfiggere Nergal scorre sia sangue umano che ichor divino -, spiegò, chiudendo il libro e riappoggiandolo sul tavolo.
   - Vuoi dire che soltanto un semidio può annientarlo? Se è così, allora la vittoria è già assicurata! Nel corso dei secoli i Cavalieri hanno raggiunto vette di potenza inaudite, ma gli dei sono sempre stati sconfitti grazie all'aiuto di Atena o di miracoli. I custodi della sesta casa sono quanto di più vicino a un dio il Grande Tempio possa vantare, ma restano pur sempre semplici esseri umani! -, lo rassicurò Kharax, ridendo delle ansie infondate che lo attanagliavano.
   - Non ne sono così convinto -, replicò Sorush. Poi si avvicinò allo scrigno, da cui provenivano bagliori multicolori. - Questo è il Nabhatum Darik, lo Scrigno dell'Eternità, una prigione inviolabile. È da tempo immemore che incatena l'anima e il corpo di Nergal e dei suoi demoni. Tuttavia, circa mille anni fa gli antichi Sacerdoti miei antenati persuasero il dio egizio Onuris, che aveva mire di dominio sulla Terra, a risvegliare il mio signore e a farsi aiutare nella guerra contro Atena. Il dio accettò e versò il suo sangue divino sullo scrigno. Soltanto un nume celeste poteva liberarlo dall'eterna condanna comminatagli. I sigilli dello scrigno furono spezzati, ma Nergal aveva bisogno di tempo per tornare a nuova vita.
   Nel frattempo, Onuris venne sconfitto e Atena si accorse dell'aura oscura che si stava risvegliando, così cercò di rintracciarla, scortata da due Cavalieri. Trovò il luogo dov'era conservato lo scrigno e tentò di sventare la minaccia di un nuovo conflitto con i sigilli intrisi del suo sangue. Ma essi non ebbero alcun effetto, anzi sembravano accelerare il processo di risveglio del signore di Irkalla. Fu così che i Cavalieri di Leo e di Scorpius che l'accompagnavano bagnarono del loro sangue lo scrigno, come ultimo tentativo per evitare l'ennesima guerra. Il loro sforzo ebbe successo, anche se richiese la loro vita. Nergal sprofondò di nuovo in un lungo sonno. Atena fece seppellire lo scrigno e il tempio in cui si trovava, ma un Sacerdote che aveva assistito alla scena riuscì a recuperarlo e a tramandarlo fino a me. Tornata al Grande Tempio, la dea interrogò l'oracolo di Delfi, che predisse il ritorno di quella minaccia dopo mille anni e la sua definitiva disfatta per mano di un emissario divino.
   Fra non molto i mille anni si compiranno e il mio signore tornerà per reclamare il dominio dell'universo, ma se apparisse colui che è destinato ad affrontarlo tutti i suoi piani svanirebbero! -, spiegò con voce cupa e inquieta.
   L'ex Cavaliere di Crater aggrottò la fronte, fissando un punto nel vuoto. Se le parole di Sorush erano veritiere e questo fantomatico semidio era davvero destinato ad apparire, la situazione poteva prendere pieghe inaspettate e forse aiutarlo a realizzare il sogno che coltivava ormai da molti anni.
   - Nel caso giungesse, potresti sempre inviare un demone a eliminarlo, no? -, propose poi, rilassando lo sguardo e fissandolo in attesa di un suo cenno d'assenso, che, però, non arrivò.
   Sorush si sedette sulla piccola seggiola posta dietro il tavolo, giunse le mani e abbassando il capo replicò: - Non è così semplice. Nessun demone avrebbe il potere necessario a sconfiggerlo, soprattutto i Sabitti, che sono soltanto forze ausiliarie di Nergal. -
   - I Sabitti? -, chiese Kharax, un po' deluso dalla risposta del Sacerdote e confuso dal nome con cui aveva chiamato i demoni.
   - I demoni che hanno combattuto finora e che al momento posso richiamare dal sonno eterno sono i Sabitti, i quarantanove demoni elementali suddivisi in sette schiere, a seconda dell'elemento che padroneggiano. Le sette schiere sono comandate dai Guardiani, gli Utukki, i sette demoni che aiutarono Nergal nella conquista di Irkalla e che si risveglieranno soltanto all'avvento del mio signore -, spiegò Sorush, lasciando l'ex Cavaliere con l'amaro in bocca.
   - Quindi ci sono sette elementi? Interessante -, commentò Kharax, un po' disorientato dal discorso del Sacerdote. - Sì! -, confermò il servo di Nergal, - Luce, vento, fuoco, fulmine, terra, acqua e ghiaccio sono gli elementi di cui è costituito Irkalla, il regno infernale su cui governa incontrastato Nergal.
   Comunque sia, saremo costretti a vigilare e a prendere provvedimenti per evitare che questo misterioso semidio giunga a ostacolare i piani del sovrano di Irkalla -, concluse, fissando lo scrigno che aveva davanti.
   - Si potrebbe infiltrare qualcuno a Rodorio, il villaggio situato ai piedi del Grande Tempio -, propose d'un tratto l'ex Cavaliere, assecondando un'idea che gli era balenata nella mente.
   Sorush lo guardò con interesse, esaminando la proposta dell'alleato, e sotto il cappuccio il suo viso si allargò in un ampio sorriso. - E come penseresti di fare, Kharax? Rodorio è una comunità piccola e chiusa, dove si conoscono tutti. Se uno straniero vi si trasferisse, desterebbe sospetti, non credi? -
   - Certo, ma la mia idea era quella di sostituire la spia con un abitante del posto. L'unico problema resterebbe la somiglianza, il modo di parlare e di porsi con gli altri. Tutte queste cose non passerebbero inosservate -, spiegò Kharax, che iniziava ad avere dubbi sull'effettiva validità di quell'idea.
   Il Sacerdote rise, alzandosi e avvicinandosi all'ex Cavaliere. - La tua idea potrebbe rivelarsi valida, in effetti. Fra i Sabitti vi è un demone che ha la capacità di mutare forma a suo piacimento. Avevo già intenzione di richiamarlo, ma non sapevo come sfruttarne il potere. Ora, grazie a te, l'ho capito -, rivelò, lasciando Kharax piuttosto stupito.
   Poi si avvicinò allo scrigno e iniziò a recitare formule in uno strano idioma. All'ingresso della prigione apparve una figura in ginocchio, avvolta di fiamme che illuminarono le zone in ombra del luogo.
   - Lamashtu, primo demone del fuoco è al vostro servizio, nobile Sorush! -, disse una voce armoniosa e delicata in tono rispettoso.
   La figura si alzò. Indossava un'armatura di colore rosa pallido. L'elmo, a casco, copriva occhi e naso con una maschera dagli occhi viola ed era costituito da placche metalliche sovrapposte che circondavano la calotta cranica. Al centro una cresta sottile e appuntita scendeva fino alla nuca, da cui fluiva una chioma viola che giungeva fino ai piedi.
   Il pettorale seguiva le forme sinuose della figura e terminava all'altezza dell'ombelico, coperto da un panno di lino bianco che il demone indossava sotto la corazza. Un largo bavero proteggeva il collo e si apriva a triangolo sul petto, dove il pettorale si rigonfiava per alloggiare i seni del demone.
   Le spalle piccole e magre erano protette da spallacci concavi, composti da due placche metalliche sovrapposte, decorate da triangoli di colore bianco. I bracciali erano stretti ai polsi e si allargavano man mano che risalivano il braccio, terminando in spuntoni aguzzi, collegati fra loro da sottili placche metalliche. Sulle manopole e sugli spuntoni erano presenti altri triangoli di colore bianco.
   Il cinturino formava un ampio gonnellino a placche sovrapposte che giungeva sino alle ginocchia. Gli schinieri erano di forma cilindrica, su cui era incastrata una piastra superiore più larga, ornata, al centro, da tre triangoli bianchi.
   Non appena Kharax notò le fattezze femminili del demone, esclamò con tono sarcastico e provocatorio: - Non credevo esistessero anche demoni donna! -
   Lamashtu lo guardò impassibile e con voce fredda e priva di qualsivoglia emozione, commentò: - Questa che vedi è solo la forma in cui gli dei di Sumer mi imprigionarono ai tempi del mito, ma se preferisci una figura maschile ti accontento subito! -
   Puntò la mano destra aperta verso Kharax; piccole scintille si levarono in alto e circondarono l'ex Cavaliere. La forma del demone mutò e il traditore di Atena vide apparirgli davanti un altro se stesso. Un profondo stupore lo colse e un sorriso stizzito gli si disegnò in volto.
   - Davvero impressionante! Ma ti pregherei di riprendere le tue fattezze! -, commentò, infastidito dal gioco del demone. Il corpo di Lamashtu tremolò per un attimo e riprese il suo aspetto originario.
   Quella dimostrazione non gli era piaciuta. Da quando il suo volto era stato sfregiato non si guardava più nemmeno nel riflesso dell'acqua. Il ricordo di quella ferita lo metteva a disagio.
   Sorush si era accorto dell'imbarazzo di cui si era velato il tono ironico e dissacratorio di Kharax e, per smorzare la tensione, disse: - Hai già in mente qualcuno da poter sostituire con Lamashtu? -
   L'antico Cavaliere di Crater riprese il suo solito piglio e accennando un sorriso annuì: - A Rodorio vi è un fornaio di nome Makarios. È un uomo molto devoto alla causa dei Cavalieri, ma, come tutti gli esseri umani, ha un lato oscuro. Circa tre anni fa sua sorella morì e Makarios fu costretto a prendersi cura di sua nipote, Eyra. Tuttavia, la sua natura turpe e libidinosa ben presto lo divorò: avere una bambina in casa gli suscitava empie voglie e fin da subito costrinse la nipote ad assecondare i suoi abietti desideri, minacciandola di morte qualora avesse rivelato a qualcuno la situazione.
   Conobbi Eyra circa un anno e mezzo fa al forno di suo zio, intenta a preparare il pane per gli abitanti del Grande Tempio. All'inizio era una ragazzina diffidente e spaventata, spesso silenziosa e col capo perennemente chino. Col tempo riuscii a vincere le sue paure e mi feci raccontare tutto ciò che le stava accadendo. Piangeva e tremava mentre mi confidava la sua triste storia e si stringeva forte alle mie braccia. Le promisi che l'avrei liberata da quel mostro in cambio d'informazioni sul Grande Tempio. Lei accettò senza esitazioni e mi guardò con occhi colmi di speranza. Finora, però, non ho potuto tener fede alla mia parola. Un omicidio a Rodorio non passerebbe mai inosservato e potrebbe attirare l'attenzione dei Cavalieri. Lamashtu prenderà il posto di Makarios, in modo da non destare allarmi -, spiegò Kharax, con una punta di disgusto nella voce nel ricordare le parole di Eyra.
   - Mi sembra un ottimo piano: Lamashtu potrà infiltrarsi senza problemi e tu potrai assolvere alla promessa che avevi fatto. Ma sei sicuro che la ragazzina collaborerà? -, commentò il Sacerdote.
   - Eyra detesta Rodorio e non ha interesse per Atena e i Cavalieri, ci aiuterà senza alcun dubbio -, confermò l'antico Cavaliere, sicuro della scelta che aveva fatto.
   - Al tramonto, quando le strade di Rodorio si saranno svuotate, metteremo in atto il nostro piano -, concluse, ricevendo l'approvazione di Sorush.
***
   Rodorio era ormai deserta. Le torce poste all'esterno delle case illuminavano a tratti le strade sterrate e indicavano a malapena i percorsi. Sulla strada principale, che tagliava il villaggio praticamente a metà e su cui si aprivano una serie di viottoli semioscuri, quasi a ridosso della piccola piazza, vi era una casa in pietra bianca sul cui uscio vi era un'insegna di legno con la dicitura artopoiós[1].
   Kharax e Lamashtu, coperti da ampi mantelli e cappucci, bussarono alla porta. Dall'interno, una voce giovane e timorosa chiese chi venisse a disturbare a quell'ora. L'ex Cavaliere di Crater si fece riconoscere. Si sentì il rumore di una chiave girare nella toppa e l'uscio si aprì completamente.
   I due si trovarono davanti una ragazzina dalla folta chioma corvina, lunga fino a metà schiena, dagli occhi grandi color nocciola e un naso piccolo e lineare. Indossava un'umile veste lunga fino ai piedi di un colore marroncino spento, qui e là costellata da macchie o da aloni bianchi.
   - Buonasera, Eyra, possiamo entrare? -, chiese Kharax con voce dolce e rassicurante. La ragazza annuì e si spostò per farli accomodare.
   La stanza era rettangolare, ma non molto grande. Sulla sinistra vi era un tavolo di legno, attorniato da sgabelli di pino, dietro il quale si ergeva un focolare annerito e abbellito da mensole colme di vasi di legno e terracotta. Accanto vi era un tavolino basso su cui erano poggiate pentole di rame e piatti di terracotta. Una finestrella alla sinistra del tavolo illuminava l'ambiente. Sulla parete di fronte all'ingresso si apriva un'altra porta, che immetteva nella camera da letto di Makarios; sulla destra ve n'era un'altra, quella del forno vero e proprio.
   Eyra fissò per un attimo l'uomo a cui aveva confidato il più terribile dei segreti e il suo accompagnatore, poi domandò: - Cosa ci fate qui a quest'ora, nobile Kharax? E chi è l'uomo che vi accompagna? -
   L'ex Cavaliere sorrise, poi s'inginocchiò e poggiò le mani sulle spalle della ragazza, dicendo: - Sono venuto a compiere la promessa che ti ho fatto! Dov'è tuo zio? -
   La risposta dell'uomo le aveva fatto balzare il cuore in petto. Era ormai convinta che non si sarebbe mai liberata dell'essere spregevole che dormiva sotto il suo stesso tetto, ma ora la speranza era tornata a rifiorire nel suo animo.
   Con gli occhi colmi di attesa rispose: - È andato a letto circa un'ora fa, ma se dovete ucciderlo fate in fretta, prima che si svegli! Ha il sonno leggero! -
   Quasi a confermare le ultime parole della ragazza, dalla stanza si udì una voce dura e sgradevole: - Eyra! Che diavolo fai ancora alzata? Vattene a dormire o sarò costretto a punirti! -
   A queste parole minacciose seguirono dei passi pesanti e sulla soglia della camera apparve un omone pingue: aveva gli occhi neri, i capelli brizzolati, un accenno di barba argentea. Indossava delle brache di lino bianco e il torso nudo e villoso ballonzolava a ogni passo.
   - E voi chi siete? Come siete entrati? -, chiese con asprezza alle due figure incappucciate che si era trovato in casa. Guardò Eyra con occhi di fuoco e le si avvicinò minaccioso levando il braccio.
   Lamashtu puntò il palmo verso di lui, avvolto di un alone rosato. Makarios sentì un forte bruciore alla gola, si fermò e tentò di parlare, ma dalla bocca gli uscirono soltanto rivoli di sangue.
   - È inutile! Non puoi più parlare, né gridare, né chiedere aiuto! Ho bruciato le tue corde vocali! -, spiegò il demone con tono secco e disinteressato, come se fosse il gesto più naturale del mondo.
   Makarios s'infuriò e levando le braccia tentò di afferrare lo sconosciuto per il collo. Fu tutto vano: una strana forza lo bloccava e un intenso calore gli invase ogni cellula del corpo. Sentiva un fuoco ardente strappargli la vita e dopo alcuni secondi crollò a terra esanime. Lamashtu chiuse il pugno e il corpo di Makarios scomparve, mentre una violenta luce rosea avvolgeva il demone.
   Eyra aveva assistito alla scena con timore e confusione. Si era rintanata in un cantuccio e aveva chiuso gli occhi per un momento. Quando li aveva riaperti, aveva visto il cadavere dell'odiato zio svanire come per magia. Si era alzata incredula, attonita, disorientata. Si era avvicinata al punto in cui era caduto Makarios e il suo corpo fu scosso da una risata mista a lacrime. Dopo anni di soprusi e violenze poteva finalmente considerarsi libera. Si girò verso Kharax e con un sorriso lo ringraziò; poi, d'improvviso, il suo volto s'incupì di nuovo: l'uomo che aveva ucciso suo zio aveva abbassato il cappuccio, mostrando il volto del fornaio.
   La ragazza fece qualche passo indietro, terrorizzata. - Che significa tutto questo? Mi avete per caso ingannata? -
   Kharax si avvicinò e con voce dolce e rassicurante cercò di calmarla: - No, Eyra! Tuo zio è morto, come ti avevo promesso, ma se domani risultasse scomparso attireremmo le guardie del Grande Tempio! Questo mio amico si chiama Lamashtu e ha il potere di assumere l'aspetto di qualsiasi persona, non ti farà del male, ti do la mia parola! -
   Il demone si avvicinò e per un attimo riprese le sue vere sembianze. - Kharax ti ha detto la verità: ho assunto l'identità del tuo odiato zio per poter spiare da vicino il Grande Tempio grazie al tuo aiuto, ma non dovrai più temere le angherie che hai subito finora -, disse con la sua solita aria distaccata e fredda.
   Eyra si calmò, mentre Kharax le asciugava delicatamente le lacrime. Poi li invitò a sedersi a tavola e offrì loro del vino. L'ex Cavaliere accettò di buon grado, ma Lamashtu declinò l'offerta, restando in piedi accanto alla finestra e guardando dai fori dell'anta tarlata.
***
   Al Grande Tempio, Alexer si svegliò di soprassalto. Aveva avvertito una flebile traccia di cosmo provenire da Rodorio e svanire improvvisamente. Gli era risultato praticamente impossibile riconoscerla. Si alzò dal letto di scatto. Uscì dalla stanza e chiamò il soldato di guardia alla porta. Gli ordinò di radunare i Cavalieri d'Argento e di Bronzo nell'arena.
   Il soldato s'inchinò e corse a eseguire gli ordini, mentre Alexer tornava in camera e indossava i paramenti sacri. Circa mezz'ora dopo, nell'arena si ritrovò un gruppetto di Cavalieri dalle corazze variopinte. Si chiedevano il motivo di quell'improvvisa convocazione e molti domandavano a Laurion se sapesse qualcosa. Il Cavaliere scuoteva la testa o rispondeva con un secco "no". Un sommesso brusio permeava l'arena, squarciando il silenzio della notte. D'improvviso, sugli spalti, accompagnato da due guardie armate di torce, apparve Alexer. Il mormorio cessò e un secco rumore metallico indicò che i Cavalieri si erano inginocchiati di fronte al vicario di Atena.
   - Si facciano avanti Mothalla di Triangulum e Laurion di Leo Minor! -, ordinò il Sacerdote con tono severo e inquieto. I due Cavalieri si alzarono, si posero in testa al gruppetto e tornarono a inchinarsi.
   - Ho avvertito uno strano cosmo provenire da Rodorio poco fa e ho il presentimento che il nostro misterioso nemico stia preparando un piano d'attacco. A partire da adesso, pattuglierete il villaggio giorno e notte e mi riferirete qualsiasi movimento sospetto. Non esitate a perquisire anche le case, domani parlerò con l'archēgós[2] per informarlo di quanto sta accadendo. Mothalla, Laurion, in quanto comandanti delle schiere dei Cavalieri d'Argento e di Bronzo, provvederete ai turni di pattuglia e valuterete i rapporti che vi verranno fatti. Qualora aveste sospetti o dubbi su qualcosa o su qualcuno, riferite immediatamente a me! Intesi? -, spiegò Alexer.
   - Sì, signore! -, risposero i Cavalieri. Poi il Sacerdote si voltò e andò via, seguito dalle guardie.
   Mothalla e Laurion si accordarono in poco tempo: i Cavalieri d'Argento avrebbero pattugliato il villaggio e quelli di Bronzo l'area circostante. Radunarono ciascuno i propri uomini e si avviarono verso Rodorio.
   Lamashtu, che nel frattempo aveva ripreso le sembianze del fornaio, guardava dalla finestra. D'improvviso udì un rumore metallico: qualcuno si stava avvicinando.
   - A quanto pare siamo stati scoperti! -, disse, - Sembra sia stato inviato un drappello di guardie a controllare i dintorni. Forse è giunto il momento che tu te ne vada, Kharax! -
   L'ex Cavaliere restò turbato nell'apprendere la nuova e con un moto di stizza esclamò: - Com'è possibile? -, fissando il demone in cerca di una risposta. Il servo di Nergal rimase per un attimo in silenzio, abbassando il capo.
   Poi, guardando negli occhi il compagno, sbottò: - Per eliminare Makarios ho dovuto bruciare una piccola frazione del mio cosmo, ma non credevo venisse rilevata tanto facilmente -.
   - Alexer... -, esclamò con rabbia il traditore del Santuario. - Soltanto lui avrebbe potuto rilevare una traccia di cosmo tanto flebile -, continuò, alzandosi di scatto. Si guardò intorno, cercando un posto dove nascondersi. D'un tratto, Eyra, che aveva ascoltato lo scambio di battute fra i due senza fiatare, lo afferrò per un braccio e iniziò a strattonarlo. Kharax la guardò confuso. La ragazza gli sorrise e diede risposta alle domande che gli si erano dipinte sul volto:
   - Seguitemi, nobile Kharax, vi farò fuggire io. Accanto alla stanza del forno vi è il deposito delle provviste, dove di solito dormo io. Da lì si accede a una stradina secondaria, che mio zio usa per i carri che trasportano cibarie e materiale per la sua bottega -.
   Senza por tempo in mezzo, l'antico Cavaliere della Coppa seguì la ragazza. Attraversarono di corsa la stanza del forno e il deposito e si ritrovarono all'aperto. Un pendio irregolare, ornato da ciuffi d'erba, scendeva a valle e si perdeva nel buio della notte. - Dove conduce questo sentiero? -, chiese Kharax, fissando la ragazza.
   - Ad Atene -, rispose la fanciulla, invitandolo a sbrigarsi. L'uomo le carezzò per un attimo il viso, la ringraziò e scomparve fra le ombre della notte.
   Eyra rientrò, chiuse piano la porta e tornò verso la stanza principale. Udì delle voci e il suo cuore fu preso dall'inquietudine. Vide Lamashtu dialogare servilmente con un Cavaliere e restò sbigottita: le sembrava davvero di rivedere suo zio nei gesti, nelle movenze e nel tono di voce assunti dal demone.
   - Che succede, zio? -, esclamò, facendo notare la sua presenza. - Nulla. Non preoccuparti. I Cavalieri sono qui solo per un controllo -, rispose il demone, imitando alla perfezione l'espressione di Makarios. Quel colloquio durò ancora qualche minuto, poi i sudditi di Atena si congedarono, scusandosi per aver interrotto il loro sonno. Lamashtu li accompagnò alla porta, inchinandosi e lodando la solerzia del Grande Tempio e del Sommo Sacerdote.
   Era quasi l'alba. Alexer rifletteva affacciato dalla terrazza del tredicesimo tempio. Gli si avvicinò una figura, che lo osservò per un attimo e poi gli rivolse la parola: - Sembri turbato, amico mio, cos'è successo? -
   Richiamato da quella voce, il Sacerdote abbandonò per un attimo i suoi pensieri e si voltò: - Ho un cattivo presentimento, Kanaad! La percezione di uno strano cosmo proveniente da Rodorio mi ha messo in agitazione. Forse lo spettro del passato è tornato ad esigere la propria vendetta! -
   Le ultime parole del messo di Atena suonarono criptiche all'orecchio dell'antico Cavaliere di Virgo. - Che intendi dire, Alexer? -, chiese l'anziano compagno.
   - Parlo di quell'uomo. Dovrebbe essere morto quasi dieci anni fa, ma ho la sensazione che dietro la traccia di cosmo che ho avvertito ieri ci sia lui. Gli abitanti di Rodorio sono diffidenti nei confronti degli stranieri e non inviterebbero a entrare nessuno in casa loro. Dai rapporti che ho ricevuto da Mothalla e Laurion sembra che non ci sia nulla di anomalo al villaggio, eppure l'agitazione non cessa di assillarmi -, spiegò Alexer, guardando in direzione di Rodorio, coperto dalla collina che ospitava il cimitero.
   Poi si voltò verso la sala del trono, fece qualche passo e disse: - Devo incontrare l'archēgós e poi portare Calx sulle colline di Grevena per addestrarlo. A proposito, come va l'allenamento di Altager e degli altri? -
   - L'investitura non è lontana. Fra qualche mese saranno pronti a indossare le armature e a combattere in nome di Atena! -, rispose con fierezza e decisione l'antico custode della sesta casa.
   - Molto bene -, replicò Alexer, scomparendo nell'ombra delle fiaccole per prepararsi all'incontro con il capo villaggio di Rodorio.
   Quei pochi mesi passarono in fretta. Lamashtu era ormai entrato nel suo ruolo e ogni giorno Eyra gli riferiva ciò che aveva sentito riguardo al Grande Tempio. Erano perlopiù voci di corridoio o informazioni inutili. Il demone cominciava a spazientirsi, ma Kharax, che nel frattempo aveva trovato rifugio ad Atene, lo invitava alla calma e a evitare di farsi scoprire.
***
   Il giorno dell'investitura era ormai prossimo. Alexer andò a far visita a Irene, che dalla morte di Jorkell, si era isolata dal mondo. La donna aprì la porta, sorpresa di trovarsi di fronte il messo di Atena. Lo invitò a entrare e si scusò per l'umile accoglienza che poteva offrirgli. Il Sacerdote la rassicurò e si accomodò su un vecchio sgabello. La donna si sedette di fronte a lui, col capo chino e in evidente imbarazzo: fin dal loro primo incontro si era sentita a disagio e in soggezione, anche se non ne capiva il motivo.
   Alexer la fissò per un attimo e notò subito che della donna dal portamento nobile e abituata ai grandi palazzi non era rimasto più nulla. Il vestito semplice, i capelli un po' in disordine, tenuti insieme dal velo che le copriva il capo, gli occhi spenti e il viso pallido e smagrito la rendevano una persona completamente diversa.
   - Sono venuto per sapere come vi sentite e per ricordarvi che domani Calx riceverà l'investitura di Cavaliere di Gemini. Spero ci sarete, vostro figlio ci tiene molto -.
   Irene restò per un attimo immobile: aveva capito fin dall'inizio il motivo della visita di Alexer. Poi sollevò il capo e con voce piatta rispose: - Sì, Calx mi ha informata dell'investitura. È venuto stamattina e non la smetteva più di mostrarmi la sua eccitazione. Comunque, non preoccupatevi, verrò! -
   Il tono con cui aveva pronunciato quelle frasi turbò il Sacerdote: avvertiva una certa freddezza e un profondo distacco nel parlare di suo figlio. Decise di andare più a fondo, sapendo che Irene non sarebbe riuscita a tenersi dentro ciò che provava in realtà. - Sento un certo allontanamento da vostro figlio, è forse successo qualcosa? -
   Irene si alzò, il cuore incerto, un malcelato disagio nel volto. Si diresse verso la finestra, da cui penetravano tiepidi raggi di sole. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva provato quella sensazione. Continuava a tormentarsi le mani, poi, dopo attimi di silenzio che erano sembrati eterni, si decise a parlare:
   - Forse vi sembrerò una madre snaturata e folle, ma la verità è che non ho mai considerato Calx veramente mio figlio. L'ho portato in grembo, gli ho dato la vita, l'ho allattato e allevato, eppure l'ho sempre sentito un estraneo -.
   Quelle parole uscirono di getto, scivolarono come un fiume privo di ostacoli e costrizioni. Alexer rimase in silenzio, riflettendo sui sentimenti che la donna aveva esternato. La guardò: tremava e lacrime mute le rigavano le pallide guance. - Comprendo ciò che provate: Calx è il frutto di un capriccio divino e non dell'amore di due sposi innamorati. Ciononostante, vi vuole bene e spesso agli allenamenti era distratto perché sentiva il peso della vostra freddezza. Non potete incolpare lui per un sogno che non si è realizzato come volevate. La sua nascita è stata dettata dal fato: non conosciamo ancora il compito preciso per cui i numi celesti lo hanno fatto venire al mondo e credo sia proprio questo che vi spaventa e vi allontana da lui. La paura di perderlo in qualsiasi momento per lo stesso capriccio che lo ha generato -, disse infine, con voce paterna e rassicurante.
   Irene sembrò calmarsi: le parole del Sacerdote di Atena avevano colto nel segno. Era stato l'incerto motivo per cui era venuto al mondo che l'aveva spinta a respingerlo e a non sentirlo suo: il destino da Cavaliere che gli era stato predetto la terrorizzava. La possibilità che morisse in battaglia per mano di un nemico superiore o di un dio le faceva gelare il sangue. Ogni volta che lo guardava, che riceveva un suo sorriso o una sua carezza; ogni volta che le rivolgeva parole amorevoli, qualcosa dentro di lei si spezzava e il suo cuore si ammantava di una freddezza opprimente e soffocante. Un algore granitico e insolubile estingueva ogni slancio d'affetto e di tenerezza, sprofondandola in un abisso di imperturbabile indifferenza.
   - Credete che se Calx fosse stato figlio vostro e del generale Basilio le cose sarebbero state più semplici? Non sarebbe diventato un soldato comunque? Non sarebbe stato costretto a partecipare a campagne militari e a star lontano da casa per mesi e persino per anni? Non ci sarebbe stata la possibilità di morire nel corso di un assedio di malattia o di spada? Il cammino che ci è stato posto davanti è destinato a compiersi, nel bene e nel male. A noi è dato solo scegliere i modi e i tempi in cui percorrerlo e accettare o rifiutare le prove e le sfide che incontreremo lungo la strada. Voi, io, gli abitanti del Grande Tempio, di Rodorio e del mondo intero siamo il risultato delle scelte che abbiamo fatto nel corso della nostra esistenza. Volete davvero che Calx vi ricordi come una madre schiva, fredda e disamorata? -
   Irene si lasciò cadere sullo sgabello, stringendo fra i pugni chiusi il grembiule che aveva indosso. Chinò il capo, lasciando che le parole di Alexer risuonassero nella sua mente. Passò qualche secondo, poi si asciugò le lacrime col dorso della mano e sul volto le apparve un sorriso: - Avete ragione -, disse con la voce ancora intrisa di pianto, - finora ho pensato solo ai miei sentimenti senza curarmi degli effetti che il mio comportamento poteva avere su di lui. Sono stata una sciocca e un'irresponsabile e non vi biasimo se mi considerate una pessima madre. Ma ora ho capito, finalmente. In questi anni varie volte avete tentato di farmi ragionare su questo punto, ma prima la confusione per quello che mi era accaduto, poi la morte di Jorkell e di Midra mi avevano convinta che stessi facendo la cosa giusta. Come riuscite a entrare così profondamente nell'animo degli altri, Sommo Alexer? -, concluse col cuore più sereno, come se si fosse svegliata da un lungo incubo percorso da agonia e affanno.
   - Ho vissuto a lungo e il mio ruolo di Sacerdote mi spinge a conoscere a fondo il cuore degli uomini -, rispose semplicemente il Sacerdote, alzandosi e avvicinandosi ad Irene. La fissò per un attimo, poi le carezzò la guancia. Il calore di quelle dita le infuse conforto e pace, sensazioni che a lungo aveva dimenticato e invano ricercato. - Vi aspetto domani all'arena, donna Irene -, si congedò, mentre la donna lo ringraziava per averla aiutata a guarire dal suo stato di apatia.
***
   Sul golfo di Atene il sole del tramonto tingeva cielo e mare di sfumature rosse, arancio e gialle. Nel dormitorio degli aspiranti Cavalieri d'Oro erano tutti riuniti. Era una stanza molto ampia, di forma rettangolare. I giacigli dei giovani apprendisti erano disposti ai lati dell'ingresso: tre sulla parete dove si apriva la porta e tre di fronte. Accanto a ogni letto vi era uno sgabello dove poggiare abiti o altri effetti personali.
   C'era grande fermento e impazienza. Nessuno riusciva a dormire. - Finalmente ci uniremo ai nostri compagni nella lotta contro le forze oscure! -, esclamò Calx, eccitato all'idea di indossare l'armatura di Gemini dopo i lunghi e faticosi anni dell'addestramento.
   - Spero di indossare l'armatura al più presto anch'io -, replicò Zosma, seduto accanto al compagno.
   - Ce la farai, Zosma, non preoccuparti! Così come ci riusciranno Yeng ed Elnath! -, lo incoraggiò il prossimo custode della terza casa.
   Il futuro Cavaliere di Taurus se ne stava in disparte, sdraiato sul proprio giaciglio, dando le spalle ai compagni. - Qualcuno ha fatto il mio nome? -, disse, girando leggermente il volto verso il gruppo.
   I ragazzi risero. La solitudine a cui si era votato Elnath non era mai stata fonte di disprezzo o di discussione per loro. L'avevano accettata perché conoscevano la profonda bontà del suo cuore, benché fosse restio a palesare i propri sentimenti. - Perché non andate a dormire? Domani vi attende una dura giornata! E poi smettetela di tormentarmi le orecchie con le vostre ciarle! -, sbottò annoiato il possente ragazzo.
   - Yeng, che tipo è il Cavaliere di Virgo, tu lo conosci, vero? -, chiese d'un tratto Altager, in piedi al centro della stanza.
   - Sì. È un ragazzo dalla forza straordinaria. Era già allievo del maestro Kanaad quando lo incontrai. Può sembrare un tipo freddo e distaccato, ma è una persona di grande umanità e saggezza -, rispose il giovane guerriero di Cina, seduto sul suo letto con le gambe incrociate.
   - Tipico dei Cavalieri di quel segno -, commentò Sertan, intento a piegare con cura gli abiti che doveva indossare alla cerimonia. La battuta suscitò risate e altri commenti umoristici.
   Calx osservò per un attimo Hamal, seduto di fronte a lui. Pur partecipando alla discussione, sembrava distratto e perso tra i pensieri. - Sei tornato da una settimana ma ancora non ci hai raccontato nulla del Jamir! Avanti, vogliamo sapere che posto è! -, lo interrogò l'allievo del Sacerdote, trascinandolo via dal suo mondo privato.
   - Beh, non c'è molto da dire. È un posto isolato, dove si fa fatica persino a respirare a causa dell'aria rarefatta, ma in compenso si avverte un senso di pace e di tranquillità che rinfranca lo spirito -, rispose il prossimo custode della prima casa, guardando verso il compagno che gli aveva rivolto la domanda.
   - Avanti, non fare il misterioso, a cosa stavi pensando? -, provocò Sertan, che dopo aver piegato gli abiti si era seduto accanto a lui.
   Hamal lo guardò, si sentì scoperto e con un sorriso tirato disse: - Pensavo a Midra. È stato lui a portarmi al Grande Tempio. Conoscevo già i Cavalieri dalle storie che mi raccontava la mia balia da bambino, ma lui è stato il primo vero paladino della giustizia che ho incontrato -.
   Le parole di Hamal smorzarono il tono giocoso della conversazione e nella stanza scese un triste silenzio. Tutti abbassarono il capo, persino Elnath, che non partecipava alla discussione, affondò il volto nel guanciale, ripensando alla prima volta che aveva incontrato il Cavaliere del Cavallino nelle lontane e gelide terre del nord.
   Fu Altager a rompere il silenzio e a scuotere i cuori dei compagni, soffocati da una repentina tristezza: - Midra ed il maestro Jorkell ci hanno mostrato la via dei Cavalieri. Spetta a noi onorare il loro nome e la loro missione portando pace nel mondo e annientando ogni potere malvagio che tenta d'impossessarsi della Terra! -
   Il trasporto con cui aveva pronunciato quelle parole risvegliò gli animi dei compagni, che unirono i pugni e si ripromisero di diventare Cavalieri degni di Atena. Forti di quella determinazione, andarono a dormire. Elnath in cuor suo sorrise e provò grande orgoglio nel sentirsi parte di quel mondo.
   Il sole si levò alto, l'aria era resa frizzante dalla brezza proveniente dal golfo. Stormi di rondini danzavano e allietavano il cielo col loro melodioso canto. L'arena era piena: sulle gradinate più basse si erano ammassate guardie e soldati; i Cavalieri d'Argento e di Bronzo si erano raggruppati sulla tribuna di fronte agli spalti dove sedeva il Sommo Sacerdote. Laurion e Mothalla parlavano fitto dei rapporti ricevuti dall'ultimo turno di sorveglianza di Rodorio. Sugli spalti, al centro, sedeva Alexer, alla sua destra Kanaad e alla sinistra Irene. Dietro di loro, in piedi, c'erano i Cavalieri d'Oro già nominati.
   Nell'arena, Calx e i suoi parigrado erano affiancati da un aspirante Cavaliere d'Argento e due di Bronzo. Erano tutti tesi, emozionati, bramosi di indossare l'armatura che avevano davanti e usarla per il bene e la pace dell'umanità.
   Poi il Sacerdote si alzò, la platea ammutolì e i ragazzi toccarono le rispettive armature: si levò un intenso bagliore multicolore, mentre le corazze si scomponevano e si posizionavano sul corpo dei loro nuovi custodi. Un boato di giubilo e un applauso fragoroso ruppero il silenzio. Alexer placò gli animi con un cenno della mano, si avvicinò al bordo degli spalti e parlò:
   - Sette nuovi Cavalieri oggi si uniscono alle schiere di Atena, dea della giustizia! Un nuovo nemico si è affacciato all'orizzonte e già due nostri compagni, il valoroso Jorkell di Aquarius e il generoso Midra di Equuleus, hanno perso la vita per fermare i suoi piani. Onorateli combattendo con lealtà e determinazione per la pace e la sicurezza dell'umanità. Presto sarete chiamati alla battaglia: ricordate gli insegnamenti che avete ricevuto e non cedete mai alla collera o alla sete di vendetta! Sia l'amore per la giustizia e per la dea Atena a guidare i vostri passi, in qualsiasi circostanza! -
   I nuovi Cavalieri s'inchinarono di fronte al vicario di Atena e promisero lealtà e obbedienza. Dalle gradinate si levarono grida di gioia e applausi: Yeng e Zosma corsero ad abbracciare i compagni e a congratularsi con loro. Elnath rimase appoggiato a una colonna col volto annoiato, ma il cuore gioioso. Calx e i compagni incontrarono, poi, gli altri Cavalieri d'Oro venuti a salutarli ed ebbero finalmente la possibilità di conoscere Syrma. Nashira porse la mano al custode della terza casa e, sorridendo, gli rinnovò le parole di stima dettegli tempo prima. Anche Irene andò ad abbracciare il figlio. Calx ne restò felicemente sorpreso. La guardò negli occhi e si accorse che quel velo di freddezza e di apatia che l'aveva sempre contraddistinta era finalmente sparito.
***
   Kharax apparve davanti a Sorush. - Molto utile questo gingillo -, gli disse, guardando il prisma col quale si era teletrasportato dalla Grecia.
   - I nuovi Cavalieri sono stati nominati, cosa intendi fare? -, domandò, poggiando l'oggetto sul tavolo.
   - È giunto il momento di verificare se i miei sospetti sono fondati o meno. Era mia intenzione fin dall'inizio minare la credibilità dei Cavalieri agli occhi dei governi del mondo. Tuttavia, Costantino e la corte bizantina si sono dimostrati deboli e incapaci. L'attuale imperatore, Isacco, ha addirittura profonda stima di Alexer. Gli dimostreremo che la sua fiducia è malriposta -, rispose il Sacerdote di Nergal, avvicinandosi allo scrigno.
   Pronunciò le solite formule in quella oscura lingua che Kharax non riusciva a comprendere, per quanto si sforzasse di afferrarne qualche concetto. Sei figure dalle armature variopinte apparvero davanti a loro in ginocchio e si presentarono una dopo l'altra.
   - Ilku, quarto demone della luce è qui per servirvi -, disse una figura esile e slanciata dall'armatura bianca e celeste.
   - Dadasig, terzo demone del vento è pronto a lottare per la gloria di Irkalla -, esclamò il secondo demone, alto e possente, con un'armatura grigia e viola.
   - Yarla, sesto demone del fulmine è ai vostri ordini -, si presentò il terzo, di bassa statura e con indosso una corazza nera e grigia.
   - Bazi, terzo demone della terra è in attesa di ordini -, disse con voce cortese e gentile il quarto demone dalla corporatura magra e dall'armatura verde e gialla.
   - Iltasadum, quarto demone dell'acqua è al vostro servizio -, proferì con noia e distacco la quinta figura, di corporatura media, che indossava una corazza azzurra e bianca.
   - Ibate, quinto demone del ghiaccio è pronto a servirvi -, disse l'ultimo con un risolino perfido. Era basso e tarchiato e indossava un'armatura argento e blu.
   Sorush li guardò soddisfatto e, scrutandoli uno per volta, ordinò: - Vi recherete nelle città che vi indicherò e spargerete morte e distruzione. Non lascerete in vita nessuno e dimostrerete al mondo che nulla può opporsi all'ascesa di Nergal! Abbatterete i Cavalieri di Atena che verranno a combattervi e porrete fine alla loro esistenza! -
   - Sì, signore -, gridarono all'unisono i demoni, già pregustando la vittoria e gli onori conseguenti.
 
[1] Fornaio.
[2] Capo villaggio.

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Capitolo 6
*** Terra e acqua ***


Capitolo VI
TERRA E ACQUA
 
Medio Oriente, ottobre 1062
 
   Hamal era pronto a portare a compimento il suo primo incarico da Cavaliere. L'apparizione di sei cosmi fra l'Asia e l'Europa aveva allertato il Sommo Alexer e lo aveva spinto ad inviare i dorati custodi nelle zone in cui si erano manifestati. La sua meta era Baghdad, la capitale del califfato abbaside e città d'origine della sua famiglia. Da piccolo, prima suo padre e poi la sua nutrice, Sherefa, gliene avevano parlato, ma non aveva mai avuto occasione di visitarla, soprattutto dopo la tragedia che lo aveva privato di tutti i suoi cari.  Fu una voce a scrollarlo dai suoi pensieri e a ricordargli che Sertan e Calx erano con lui.
   - Io sono arrivato, amici! State attenti! -, disse il custode della terza casa, voltandosi alla sua sinistra e dirigendosi alla volta di Bisanzio, dove era apparso uno dei cosmi. I compagni annuirono e lo videro scomparire nello scintillio dorato della sua armatura.
   - Sembra eccitato all'idea di affrontare la sua prima battaglia. Spero non faccia sciocchezze! -, commentò il Cavaliere del primo segno, mentre il compagno svaniva all'orizzonte.
   - Non preoccuparti. Calx ha un cosmo straordinario e poi è troppo modesto per lasciarsi prendere dalla foga del combattimento. Se la caverà egregiamente! -, rispose Sertan, la cui capacità di leggere l'animo umano gli aveva sempre permesso di rinfrancare lo spirito altrui e di risolvere situazioni complicate.
   Hamal accennò un sorriso e tornò a concentrarsi sui propri pensieri. Il Cavaliere di Cancer lo osservò per un attimo, poi con voce distesa e amichevole chiese: - Qualcosa non va, amico mio? -
   - Nulla di particolare. La mia destinazione mi ha riportato alla memoria ricordi della mia infanzia. La mia famiglia era originaria di Baghdad e mio padre me ne parlava spesso con entusiasmo e orgoglio -, spiegò con tono calmo e gentile il Cavaliere di Aries, tentando di celare la muta rabbia che accompagnava le sue parole.
   - Ma l'uomo che adesso la governa l'ha resa ingiusta e spietata, vero? -, terminò Sertan, leggendo nel tono del compagno un senso di tristezza e disprezzo. Hamal lo fissò e accennò un sorriso tirato. Si conoscevano ormai da anni, ma ancora non riusciva ad abituarsi al suo talento nel comprendere fin nel profondo il cuore umano. - Come sempre non ti si può nascondere niente! -, esclamò, un po' contrariato dal sentirsi così nudo e indifeso di fronte agli occhi del compagno.
   - Non è un crimine esprimere i propri sentimenti! So che anche la tua infanzia non è stata lieta e mi stupirebbe se non provassi niente al ricordo di chi amavi -, replicò Sertan, abbandonando per un attimo il suo solito piglio ironico.
   Il custode del primo tempio lo fissò per un secondo, poi abbassò lo sguardo e disse: - Edessa! La tua meta, Sertan -.
   Il Cavaliere di Cancer fece un sorriso compiaciuto ed esclamò: - Ci sarà da divertirsi! A presto, amico mio, e che Atena sia con te! - Hamal ricambiò il saluto e proseguì il suo viaggio.
   Tornò a chiudersi nel suo mondo e si concentrò sulla battaglia che stava per ingaggiare. Avrebbe presto scoperto l'identità del demone e sperava anche di conoscere il nome del dio che serviva. I nemici incontrati fino a quel momento erano sempre stati cauti a non rivelare dettagli che permettessero al Grande Tempio di chiarire i punti oscuri di tutta quella vicenda. Il Sacerdote aveva caldamente invitato i Cavalieri a carpire dagli avversari che avrebbero affrontato quante più notizie possibili.
   Mentre nella sua mente vorticavano tutti questi pensieri, giunse in vista di Baghdad. Notò subito del fumo levarsi alto dall'interno della città, nugoli di persone urlanti e in fuga e schiere di soldati pesantemente armati. - L'attacco è già iniziato! Devo sbrigarmi prima che la città venga rasa al suolo! -, pensò, atterrando in prossimità delle mura.
   Notò un manipolo di soldati che correva in città e un uomo che li incitava a combattere per la gloria dell'Islam ed a sconfiggere il nemico anche a costo della vita. Hamal si avvicinò e lo chiamò con tono cortese, salutandolo in lingua araba. Il soldato lo guardò con aria stupita; notò la strana armatura che indossava e soprattutto le vistose corna appuntite che gli ornavano le spalle. - Chi sei? -, sbottò dubbioso, con la mano stretta sull'elsa della scimitarra.
   Accennando un sorriso bonario, il Cavaliere rispose: - Sono un Cavaliere di Atena, sono venuto per aiutarvi! Dov'è diretto il jinn che vi ha attaccati? -
   - Hai detto jinn? Vuoi dire che quell'essere è un demone del mondo antico? Ma non è possibile! I jinn non hanno tutto questo potere! -, esclamò il soldato, dal cui volto traspariva un'espressione confusa, mista a incredulità e repulsione.
   - Non è il momento di discutere su cosa sia possibile e cosa no! Dimmi dov'è diretto quell'essere! -, tagliò corto Hamal, un po' spazientito dalle parole del soldato.
   L'uomo piantò gli occhi su di lui e disse con tono sgarbato e stizzito: - Sta andando verso la cittadella, al Palazzo del Sultano. Va' via, Cavaliere, questo non è posto per gli infedeli! -
   - Siete degli sciocchi se pensate di avere la meglio su di lui! Fareste meglio a ritirarvi, fra poco sarà tutto finito! -, commentò il custode della prima casa, sparendo davanti ai suoi occhi.
   In città il demone seminava caos e distruzione. Aveva appena ucciso un gruppetto di soldati e si apprestava a eliminare i civili che fuggivano ovunque in cerca di salvezza. Alzò il braccio per colpire, ma una misteriosa forza gli impediva di muoversi. D'un tratto, udì una voce alle sue spalle dire: - Vieni con me! -; una mano gli afferrò stretto il braccio e si ritrovò in una zona deserta, costellata qua e là da collinette e battuta da un vento caldo e asfissiante.
   - Chiunque tu sia, mostrati! -, urlò, in preda alla frustrazione di essere stato distolto dalla sua missione.
   Aveva un elmo a casco di colore verde intenso, come il resto dell'armatura, dalle forme di serpente, al cui centro era ornato da triangoli uniti gli uni agli altri a formare una catena. Un largo bavero a forma di calice gli proteggeva il collo e s'innestava sugli spallacci tondeggianti e piccoli. Il pettorale era aderente e copriva interamente il torace, fino al bacino, prolungandosi in due code puntute. Sul petto aveva due triangoli, all'altezza dei seni, e un altro nella zona dell'ombelico. Il cinturino era formato da due piastre, una anteriore, l'altra posteriore, che coprivano le zone lasciate scoperte dalle code del pettorale. La parte anteriore era adornata da due rombi orizzontali e terminava in due lamine appuntite, che sembravano zanne di serpente. Bracciali e cosciali erano in tutto identici: lisci e adornati di rombi gialli sulla parte frontale, nei lati erano bombati, per riprodurre la forma dei muscoli, e somiglianti a squame. Non aveva copribicipiti. I bordi, gli occhi dell'elmo e i vari triangoli dell'armatura erano tutti di colore giallo. Dall'elmo fuoriuscivano ciocche marroni e sul volto si aprivano occhi neri, privi di iridi, in netto contrasto con la carnagione pallida e smunta.
   - Sono qui, demone! -, riecheggiò l'eco di una voce calma e pacata proveniente dalle sue spalle. Il demone si voltò e vide un ragazzo dall'armatura dorata seduto su un gruppetto di rocce poco distante.
   - Chi sei? Come hai fatto a portarmi qui? -, sbottò il Sabitta, stizzito dal tono del nemico.
   - Semplice: ho usato il teletrasporto! -, rispose con aria tranquilla e disinvolta Hamal, come se non temesse affatto la battaglia imminente.
   - Mi chiamo Hamal di Aries, sono un Cavaliere d'Oro del Grande Tempio di Atena. Qual è il tuo nome, demone? -, chiese poi, avvicinandosi all'avversario, di poco più alto di lui.
   - Il mio nome è Bazi, terzo demone della terra. Tieni bene a mente questo nome, perché sarà il tuo lasciapassare per l'aldilà! -, sbraitò con orgoglio e superbia l'emissario d'Irkalla. 
   A quelle parole, Hamal chiuse gli occhi e accennò un sorriso. - Sei molto sicuro di te, Bazi, ma devi sconfiggermi prima di cantar vittoria -, commentò il Cavaliere, preparandosi allo scontro.
   - Hai osato distogliermi dalla mia missione di sangue e pagherai per questo -, sibilò il demone, lanciandosi contro di lui e cominciando a tempestarlo di pugni carichi di un cosmo verde scuro, ma che il Cavaliere prontamente schivava. La velocità dell'Ariete irritò il demone, che tentò un nuovo assalto. Stavolta, però, Hamal caricò una piccola sfera di cosmo nella mano destra e la lanciò verso il nemico, che non riuscì a evitarla e venne sbalzato a terra.
   - Sei troppo lento! È facile prevedere i tuoi attacchi! Come speri di vincermi? -, disse il custode della prima casa, ma in risposta ebbe solo una risata sommessa e uno sguardo di profonda determinazione.
   - Vincerò per onorare il mio dio, Cavaliere! E né tu, né nessun altro potrete fermarmi! -, esclamò con enfasi, rialzandosi in piedi e facendo avvampare il suo cosmo verdognolo. 
   Si lanciò di nuovo con foga verso il custode della prima casa. Hamal non si scompose, sapeva che i colpi del nemico erano troppo prevedibili e che sarebbe stato uno scherzo evitarli. Notò che la velocità dell'assalto era aumentata rispetto all'inizio e si complimentò con l'avversario, prima di scaraventarlo di nuovo a terra.
   - Nonostante i tuoi attacchi siano diventati più rapidi, sei lontano dal poter affrontare chi padroneggia la velocità della luce -, aggiunse poi, guardando Bazi che si rialzava con crescente ostinazione.
   - Non importa. Lo scopo che mi spinge a combattere sarà più che sufficiente ad avere ragione di te! -, affermò con convinzione il demone della terra, preparandosi ad un nuovo assalto.
   Hamal rimase sorpreso dalle parole del demone e chiese, attonito: - Cos'è che ti spinge a combattere? Spiegamelo! -
   Bazi lo fissò per un attimo, ponderando la richiesta del nemico, poi abbassò le braccia e placò il suo cosmo. - Ti accontenterò, Cavaliere. Così capirai quanto sia radicata e forte la mia fedeltà al mio imperatore.
   - Ai tempi del mito, quando il mio signore sconfisse l'oscura sovrana di Irkalla e lo sottrasse al suo dominio, noi Sabitti, timorosi delle ritorsioni della regina del regno dell'oblio, non prendemmo parte alla battaglia e lasciammo l'onere e l'onore delle armi agli Utukki. Quando la conquista fu conclusa e il mio signore decise di sposare Ereshkigal, la deposta sovrana d'Irkalla, ci facemmo avanti e gli giurammo fedeltà. Con riluttanza e diffidenza il nuovo dio delle terre perdute ci accordò di servirlo, ma non ci considerò mai parte del suo esercito. L'onta subita dal nostro comportamento era troppo grave per essere dimenticata con facilità. Ci relegò al ruolo di truppe ausiliarie e non avemmo alcuna parte nelle fasi più importanti dei suoi piani. Poi gli dei di Sumer lo ingannarono e lo sprofondarono nel sonno eterno, ma ora che il tempo del suo risveglio è giunto, gli dimostrerò che può avere fiducia nei Sabitti! Sconfiggerò qualsiasi nemico mi si parerà davanti, a cominciare da te! -
   Concluso il suo racconto, Bazi tornò a bruciare il proprio cosmo e si apprestò a riprendere lo scontro. Si accorse, però, che Hamal era rimasto immobile, senza neppure alzare le difese e lo guardava con occhi carichi di una triste ironia. Quello sguardo lo infastidì e, senza indugiare oltre, si avventò contro il Cavaliere, che sollevò il braccio sinistro, bruciando una minima frazione di cosmo. Sul bracciale dell'armatura apparve una barriera trasparente, su cui s'infranse il pugno del demone. Mentre l'armatura dell'Ariete era rimasta indenne, la manopola di Bazi aveva subito gravi danni e gocce di sangue bluastro cominciarono a bagnare la polvere assetata.
   Stringendosi la mano dolorante, il demone della terra ebbe un moto di rabbia e chiese con tono feroce che cos'avesse fermato il suo colpo. - Sono in grado di creare barriere di cristallo capaci di respingere qualsiasi attacco. Avrei potuto anche evitare di adoperarle, ma volevo dimostrarti che l'ideale per cui combatti non ti concederà mai la vittoria! -, rispose Hamal, accentuando il tono della voce sulle ultime parole per farle meglio comprendere al rivale.
   - Come osi? Tu non puoi capire lo zelo che agita il mio cuore! -, urlò furente Bazi, guardandolo bieco e storcendo la bocca in una smorfia di cieca indignazione. Il suo cosmo verdognolo s'innalzò e nei suoi occhi di fitta tenebra Hamal riuscì a scorgere un'ostinazione sorda e profonda. Coi pugni avvolti di un'intensa aura cosmica, il fedele guerriero di Irkalla iniziò a sferrare colpi a velocità sempre maggiore. Il Cavaliere schivava quasi con noia, ma aveva notato qualcosa di strano: la mano che aveva colpito la barriera difensiva sembrava intatta, vista l'agilità con cui il demone la muoveva, ma dalle spaccature della manopola cadevano, di tanto in tanto, gocce bluastre.
   - La corazza che indossa è molto strana -, pensò fra sé, continuando a schivare i colpi intrisi di cosmo che il demone indirizzava al suo corpo. Stanco di questo gioco, Hamal concentrò una sfera di energia nella destra e la fece detonare all'altezza dello stomaco di Bazi. Il servo di Nergal venne sbalzato in aria e cadde pesantemente a terra, sollevando nugoli di polvere e sabbia. Si rialzò, toccandosi la parte colpita, da cui fuoriuscivano fiotti di sangue. L'armatura aveva piccole crepe, ma la vista della linfa vitale impensierì il custode del Palazzo del Montone Bianco.
   - Il colpo non era così potente da procurargli ferite, da dove proviene quel liquido bluastro simile a sangue? -, si chiese, osservandolo avvicinarsi barcollante.
   - Rinuncia alla lotta. Non hai possibilità di sconfiggermi! Ritirati e ti risparmierò la vita! -, propose, con voce ferma e impassibile.
   A quelle parole, Bazi si sentì ferito nell'orgoglio, si accigliò, strinse i pugni e sibilò parole sprezzanti e colme di rabbia: - Mai! Credi che mi arrenderò così facilmente? Ho detto che ti sconfiggerò e lo farò, a costo di sprofondare nel freddo sonno della morte! Finora ho solo giocato con te, non ti ho ancora mostrato tutto il mio potere! -
   - Credi che le tue motivazioni riusciranno a darti la forza sufficiente a battermi? Ti sbagli, Bazi! La storia che mi hai raccontato dimostra quanto siano vacue e risibili le tue ragioni! Tu lotti per scrollarti di dosso la fama di vigliacco e opportunista; una fama che tu stesso hai ammesso di meritare per esserti comportato con viltà e paura. Chi scende in campo con un ideale tanto scialbo e debole non ha speranze di vittoria! -, affermò con decisione e passione il primo guerriero dorato. Nei suoi occhi marroni, Bazi vide ardere la calda fiamma della risolutezza e accennò un sorriso di sfida.
   - Un umano con degli ideali! Che assurdità! Di tutte le creature dell'universo voi siete la specie più egoista, spietata e traditrice che conosca! Nei secoli che ho trascorso sulla Terra ho avuto più volte modo di constatare quanto la vostra tracotanza abbia contaminato la purezza del mondo donatovi dagli dei. E da quello che ho visto oggi, mi rendo conto che dopo interminabili lustri continuate a comportarvi sempre alla stessa maniera! -, commentò sprezzante, avvolgendosi del suo cosmo.
   - È vero, gli uomini non sono perfetti e forse mai lo saranno. Ma neppure gli dei lo sono: la loro sete di vendetta e di potere palesa la loro vera natura. Si sentono oltraggiati e minacciati dagli uomini, ma non si accorgono di condividere i loro stessi difetti. Dici di voler vincere in virtù dei tuoi alti ideali, ma anch'io ho un compito ben preciso: proteggere gli innocenti e gli indifesi da chi, come te, si arroga il diritto di decidere del destino altrui. Ti sfido a verificare quale fra i nostri ideali è quello più forte! -, replicò Hamal, deciso a chiudere la partita, facendo risplendere il suo cosmo dorato.
   - La tua folle presunzione nel disconoscere la celeste perfezione divina ti condanna! Sono più che certo che la vittoria arriderà a mio favore! Preparati, Cavaliere, la sfida che hai appena lanciato decreterà la tua fine! Igi Ishibak![1] -, affermò delirante il demone, levando le braccia al cielo e lanciando per la prima volta il suo colpo segreto. Il cielo si oscurò e un leggero ma penetrante sibilo si diffuse nell'aria. Hamal si accigliò, mentre attorno a lui iniziarono a danzare voci che mai avrebbe immaginato di risentire. Cercò di restare vigile e di non farsi ingannare, ma dopo un po' il suo cuore cedette all'assalto opprimente dei ricordi. Rivide il volto sorridente di sua madre, quello fiero di suo padre, quello delicato e dolce delle sorelle e quello gentile dei fratelli. Non riuscì a trattenere il fiume di lacrime che gli sgorgava prepotente dagli occhi e si accasciò sulle ginocchia, come svuotato di ogni volontà di reazione.
   Bazi ne approfittò e cominciò a tempestarlo di colpi sempre più veloci e potenti, schernendolo per la futilità delle sue convinzioni. - A quanto pare, la tua determinazione non è poi granché. Sono bastati pochi ricordi a spogliarti delle tue difese e della tua prosopopea. Come ogni altro uomo, di fronte ai sentimenti hai ceduto le armi e ti sei arreso! -, provocò, nel tentativo di spezzare ancora di più l'animo di Hamal.
***
   Nella mente di Aries tornarono vivide le immagini di quell'ultimo giorno che aveva trascorso assieme alla sua famiglia. Suo padre aveva fatto uscire tutti dalla tenda padronale per parlare con gli ambasciatori inviati da Baghdad. Lui, che era il più piccolo, si era allontanato con Sherefa, la sua balia, che gli aveva promesso una storia; i fratelli più grandi si erano sparsi per il campo e giocavano a rincorrersi; la madre, le sorelle e le altre mogli del padre si erano ritirate in un padiglione più distante, lontane da occhi indiscreti.
   Era passata più di un'ora dall'arrivo dei messi della capitale e li si udiva discutere animatamente. Hamal, cullato dalla dolce voce di Sherefa, si era addormentato e la balia gli carezzava i capelli corvini e il volto morbido e paffuto. Un grido repentino e soffocato la distolse da quelle effusioni d'affetto e la spinse a scostare un lembo della tenda e a guardare cosa accadeva all'esterno. Uno spettacolo raccapricciante le si palesò alla vista: Rashid al-Haman, padre di Hamal e gran visir del califfo, giaceva riverso all'ingresso della tenda in una pozza di sangue. Da varie parti del campo si levarono altre grida, di donne e bambini. Sherefa, terrorizzata, prese delicatamente tra le braccia Hamal e si nascose dietro una pila di barili e stoffe a ridosso di una parete della tenda. Il bambino si svegliò, ma la donna gli fece cenno di restare in silenzio e di abbassarsi il più possibile.
   Poco dopo, uno dei messi entrò con la scimitarra sguainata, diede una rapida occhiata in giro, senza curarsi di verificare se ci fosse ancora qualcuno, e disse ai compagni che il campo era sgombro. Si allontanò e si udirono cavalli correre a spron battuto nella luce del crepuscolo. Sherefa e Hamal aspettarono ancora qualche ora distesi nel loro nascondiglio per timore che uno degli assassini si fosse attardato in cerca di sopravvissuti, ma non c'era nessuno. Il vento della sera alitava sulle tende ormai vuote e spargeva nell'aria il pungente olezzo della morte.
   Sherefa uscì lentamente e con circospezione, tenendo per mano il piccolo Hamal. Tentò di distoglierlo dal guardare lo sterminio che aveva di fronte, ma il bambino si ribellò e corse a controllare se oltre lui qualche altro membro della sua famiglia fosse sfuggito all'abbraccio della morte. Purtroppo, la nera signora, quel giorno, aveva fatto incetta di vite e lo aveva lasciato senza più nessuno da amare. Gli restava solo la balia che, per quanto amasse e rispettasse, non avrebbe mai potuto sostituire l'affetto dei suoi cari.
***
   - Non posso farmi vincere dai ricordi del passato. Ho giurato di proteggere gli indifesi e di fare quanto è in mio potere per offrire loro un mondo scevro dal male e dal dolore! Devo reagire! -, pensò fra sé, mentre un potente calcio di Bazi gli faceva volare l'elmo e lo atterrava. Il demone si avvicinò soddisfatto, già pregustando gli allori, e schiacciò col piede il volto di Hamal nella sabbia ardente.
   - Voi esseri umani tenete troppo in conto i sentimenti! Il vostro cuore è la vostra debolezza! È finita, Cavaliere di Atena! -, lo schernì, scoppiando in una grassa risata. Alzò il pugno carico di cosmo e si apprestò a colpire, ma una strana forza lo bloccò e lo spinse lontano.
   Confuso, Bazi vide l'Ariete rialzarsi e bruciare intensamente il suo cosmo dorato. - Te lo ripeto, Bazi, il tuo desiderio di redenzione agli occhi del tuo signore è una ragione troppo futile per prevalere contro la giustizia! Non c'è altro ideale per cui valga la pena morire! Il dolore e la rabbia che la tua tecnica aveva scatenato in me mi avevano fatto perdere di vista il mio obiettivo. Ma ora è ben chiaro nella mia mente e nel mio cuore! Faresti meglio a ritirarti perché non avrò pietà di chi si diverte a torturare gli altri con tristi ricordi! -, affermò con tono grave e minaccioso il custode della prima casa, ricevendo in cambio soltanto un'occhiata sprezzante e rabbiosa.
   - Preferisco morire combattendo che coprirmi di vergogna ritirandomi! -, rispose Bazi, sollevando le braccia per eseguire di nuovo il suo colpo segreto. Hamal chiuse gli occhi e accennò un sorriso: aveva notato che mentre lanciava la sua tecnica le code dell'armatura ondeggiavano verso l'alto come spire di serpe.
   - Igi Ishibak! -, gridò il demone d'Irkalla, lasciando che il sibilo della sua tecnica si diffondesse sul campo di battaglia e che memorie di uno straziante passato affollassero la mente dell'avversario. Si preparò a colpirlo con tutta la forza che aveva, ma all'ultimo secondo Hamal sparì dalla sua vista e il servo delle oscure lande avvertì un dolore lancinante invadergli il fianco sinistro. Si girò e si accorse che una delle code era stata distrutta e che macchie bluastre tingevano i calzoni di lino che indossava sotto.
   - Sei ancora convinto di voler combattere, Bazi? -, provocò Hamal, riapparso davanti a lui in un alone di luce dorata.
   - Come hai fatto a scoprire la fonte del mio potere? -, chiese livido il Sabitta, incredulo di fronte alla scoperta del Cavaliere.
   - Il mio compito non consiste soltanto nel combattere le forze del male, ma anche e soprattutto nel riparare le armature, e la tua è decisamente particolare. Pur avendo una consistenza metallica, ho notato che sanguina e che le code che possiede si animano quando lanci la tua tecnica speciale.
   - Durante l'addestramento il mio maestro in Jamir mi aveva raccontato di armature simili, ma mi aveva anche detto che erano estremamente rare. Vengono chiamate 'Arâia', 'corazze maledette', perché imprigionano le anime di chi si è macchiato di tradimento verso gli dei e lo condannano a morte eterna se vengono distrutte, anche se sono numi celesti a indossarle. Sono state le divinità di Sumer a infliggervi questa punizione, vero? -, spiegò il Cavaliere d'Ariete, notando nello sguardo dell'avversario stupore e indicibile sconforto.
   - Sì, hai visto giusto. Queste corazze contengono la nostra essenza e il corpo che ricoprono è solo un simulacro per consentirci d'interagire con ciò che ci circonda. È per questo che il nostro aspetto è molto simile: nessuno di noi ha caratteristiche fisiche particolari -, ammise Bazi, guardando l'avversario che aveva di fronte con malcelato astio. - Ma aver scoperto questo segreto non ti aiuterà a vincere! Mi resta ancora una coda, non dimenticarlo, ed è più che sufficiente a batterti! -, aggiunse con un'oscura luce negli occhi.
   - Non ne sarei così sicuro. Osservala bene! -, esclamò il Cavaliere, invitandolo a controllare. Quasi d'istinto, come avvinto da un improvviso e angoscioso dubbio, Bazi girò la testa verso la coda rimasta: notò i bordi scheggiati e crepe diffuse. - Se lanci adesso il tuo colpo segreto la manderai in pezzi e per te sarà la fine -, concluse l'Ariete, guardandolo serio.
   - Che tu sia maledetto, Cavaliere! Con un colpo solo mi hai privato delle mie armi, ma te l'ho detto: preferisco la morte alla resa! Se devo morire, morirò combattendo! Preparati! Igi Ishibak! -, sibilò il demone, in preda alla disperazione.
   Hamal bruciò il proprio cosmo e levò in alto la destra: il cielo attorno a lui s'illuminò di stelle. "Astérōn Peristrophé![2]-, gridò: miriadi di astri luminosi si diressero contro Bazi, ne penetrarono il pettorale dell'armatura ed esplosero, scaraventandolo via di alcuni metri.
   Il Sabitta era immobile, circondato da un alone di linfa vitale, e il vento asfissiante e secco portava con sé il fumo in cui il suo corpo si stava dissolvendo. Hamal si avvicinò e lo guardò con espressione triste:
   - La giustizia è il solo ideale per cui vale la pena morire! Mio padre lo ripeteva spesso e pagò il prezzo di questa sua ferma convinzione! Quando Atena mi ha concesso l'armatura che indosso ho capito che era questa la strada che dovevo percorrere. La città che oggi ho difeso è governata da coloro che mi hanno privato dei miei affetti e per un momento la mia mente è stata sfiorata dall'idea di lasciarla affondare. Ma le parole di mio padre e il giuramento fatto ad Atena sono stati più forti: la giustizia è ideale troppo alto per essere infangato dall'odio e dalla vendetta! È questo che mi ha permesso di vincere, Bazi! -, affermò con una determinazione che mai avrebbe immaginato di possedere.
   Il demone lo fissò sbalordito. La fierezza e la calma che spiravano da quel ragazzo che ora lo sovrastava e quegli occhi risoluti e luminosi lo turbarono. - Che sciocche... creature... sono gli umani! -, commentò prima di sparire per sempre tra polvere e sabbia, macchiate di linfa vitale. Hamal seguì con lo sguardo la nebbiolina bluastra dissiparsi contro il cielo cristallino e terso.
   A Baghdad, la notizia dell'improvvisa scomparsa dell'assalitore si era diffusa rapidamente. Toghrul Beg, il sultano, consegnò una lettera a un araldo e gli ordinò di recapitarla al Sacerdote di Atena.
***
   Sertan si avvicinò a Edessa: sembrava deserta. Non si udivano grida, né fragore di lotta; non si vedevano soldati, né persone in fuga. Quel silenzio innaturale lo turbava; percepiva una strana aura, fredda e priva di qualsivoglia scrupolo. Giunto in vista della porta della città, scorse dei corpi accasciati a terra, immobili. Si avvicinò con circospezione per controllare se fossero ancora vivi. Erano un uomo, una donna e un bambino, forse una famiglia che rientrava in città. Girò l'uomo, sdraiato supino, e notò che aveva il volto cosparso da un liquido simile a sudore, ma viscoso, e che sembrava non asciugare mai.
   - Che diavoleria è mai questa? -, pensò fra sé, soppesando la situazione, mentre il cosmo gelido che aveva avvertito prima si palesò in tutta la sua crudele essenza.
   - Finalmente sei giunto, Cavaliere. Cominciavo ad annoiarmi, i guerrieri di questa città non hanno saputo intrattenermi, spero ci riesca tu! -, risuonò l'eco di una voce giovanile, ma fredda e inespressiva. Si udirono dei passi, lenti e ritmici. Poi apparve una figura, alta e di corporatura media, che si fermò sulla soglia della porta della città.
   Aveva occhi e capelli acquamarina, lisci e lunghi fino alle spalle. Indossava un'armatura azzurra e bianca, dalle forme assai singolari: l'elmo, a casco, era munito di un paio di corna arrotondate e leggermente rivolte verso l'alto che partivano dai lati della testa. Gli spallacci erano concavi e curvi, a ricoprire interamente la spalla, ornati da due spuntoni, mentre il pettorale proteggeva la cassa toracica e si univa al cinturino tramite una piastra a forma di punta di lancia, su cui appariva il fregio di due triangoli uniti per la base di colore bianco. Il cinturino copriva il bacino e presentava quattro lunghe piastre: due sui fianchi, più piccole e strette a forma di punta di freccia, e altre due più larghe davanti e dietro dai bordi bianchi. Gli schinieri, alti fino alle ginocchia, seguivano le forme della gamba e terminavano in tre punte: una anteriore, le altre ai lati. I cosciali erano formati da piastre cilindriche che avvolgevano l'arto, al cui centro erano ornate da un triangolo bianco. Dello stesso colore erano anche i bordi. I bracciali, infine, coprivano dalla mano ai copribicipiti, permettendo i movimenti grazie a giunture poste all'altezza dei gomiti. Erano ornati da una lunga piastra affilata e bianca che, partendo dal polso, giungeva fino all'altezza del gomito.
   - Sono Iltasadum, quarto demone dell'acqua. Come ti chiami, Cavaliere? Non mi piace uccidere persone di cui non conosco il nome -, disse, fissandolo in volto con occhi penetranti e curiosi.
   Sertan ne sostenne lo sguardo e accennò un sorriso sarcastico: - Oh, un demone che conosce le regole della cavalleria! Interessante! Il mio nome è Sertan di Cancer, Cavaliere d'Oro di Atene! Perdonami se ti chiamerò semplicemente 'demone', ma hai un nome impronunciabile! -, aggiunse in modo provocatorio, scrutando ogni minimo cambio d'espressione dell'avversario.
   - Come vuoi -, rispose Iltasadum, - tanto non avrai più occasione di pronunciarlo dopo questa battaglia -. Facendo seguire i fatti alle parole, un cosmo celeste lo circondò e l'aria, calda e secca fino a poco prima, divenne fredda e il cielo si rannuvolò, minacciando tempesta. Il volto di Sertan si rabbuiò: qualcosa lo rendeva inquieto, una strana sensazione gli balenò repentina nel cuore e un'antica angoscia lo pervase. Non era il demone che aveva di fronte a preoccuparlo, ma voci di lontane sofferenze che credeva fossero scomparse per sempre.
   Si preparò alla battaglia, conscio di non potersi concedere distrazioni e dell'importanza della missione affidatagli. La brezza umida aveva acquistato vigore e ammantava di tristezza e solitudine la zona. Gocce d'acqua caddero dal cielo e si avventarono contro il Cavaliere. Sertan bruciò il proprio cosmo dorato e il demone vide che le gocce scomparivano in bolle biancastre ed evanescenti. Provò a intensificare l'attacco, ma ogni singola goccia veniva intercettata e annullata. Il suo volto non sembrava allarmato, anzi si distese in un sinistro sorriso.
   - Un Cavaliere che sfrutta le anime per difendersi! Comportamento davvero nobile, il tuo! E poi sarei io il demone! Ah ah ah... -, provocò Iltasadum, ridendo e fissandolo con aria sprezzante.
   Sertan lasciò cadere le provocazioni del nemico e gli puntò addosso i suoi occhi accesi di lucida convinzione: - Ti sbagli, demone! Non sono io a costringere le anime a difendermi, lo fanno spontaneamente. Hanno cura del loro custode, anche se mi rende triste il loro sacrificio! -, lo corresse il Cavaliere di Cancer, sorprendendolo.
   - I tuoi sono solo patetici vaneggiamenti! Le anime, troppo legate al mondo a cui sono state strappate, non acconsentirebbero mai a sacrificarsi per qualcun altro. Magari non vuoi ammettere che ti diverte avere tutto questo potere su entità incapaci di difendersi, ma utili armi in battaglia -, insinuò il demone dell'acqua, bramoso di trarre da questo scontro il massimo della soddisfazione possibile.
   Le parole di Iltasadum irritarono il giovane Cavaliere, che per anni si era addestrato per imparare a sopportare e a gestire il peso che indossare l'armatura del Cancro comportava. Nei suoi occhi verdi, come quelli di suo padre, passarono brandelli di vite che non aveva mai conosciuto, ma che aveva imparato a osservare e capire.
   - Forse per voi demoni è divertente continuare a opprimere e ad affliggere chi non può difendersi, ma io sono un Cavaliere ed è compito di chi indossa quest'armatura portare avanti le speranze e i sogni di coloro che non possono più farlo -, ribatté, stringendo i pugni e circondandosi di un alone dorato.
   - Interessante! -, commentò il demone, - Sono certo che questo scontro mi pro-curerà un'immensa soddisfazione! Erano secoli che aspettavo questo momento! - Il suo cosmo celeste avvampò e una fitta pioggia si abbatté su Sertan.
   Difeso dalle anime, il Cavaliere si avvicinò a Iltasadum e iniziò a tempestarlo di pugni al volto e al corpo. Il demone schivava o parava, ma molti colpi andavano a segno e alla fine dovette cessare l'attacco.
   - Non sei niente male, Sertan! Seppur giovane, il tuo cosmo arde fiero e luminoso, sorretto da una fede che mai ho conosciuto prima d'oggi. Sarà un vero piacere uccidere un guerriero del tuo spessore! -, concesse Iltasadum, che neppure fra i suoi parigrado aveva trovato tanta forza d'animo.
   - Vuoi blandirmi? Hai forse paura? Ricordati: uno soltanto uscirà vivo da questo campo di battaglia e quello sarò io! -, replicò Sertan, riprendendo l'assalto e assestando un poderoso montante al mento del demone, che si ritrovò a terra di schiena.
   - Vedremo chi la spunterà. Questa battaglia è appena iniziata e io non mi sono ancora divertito abbastanza! -, ribatté Iltasadum, rialzandosi. Fece bruciare il proprio cosmo, incrociò le braccia davanti al petto e poi le fece scattare in avanti, mentre le lame sui bracciali dell'armatura s'illuminavano.
   - Shir Erenak![3] -, gridò, scagliando il suo colpo segreto. Una fitta pioggia si abbatté su Sertan, immobilizzandogli le gambe e impedendogli di muoversi. Le gocce di cui era formata quella raffica erano viscose e si attaccavano alla pelle e all'armatura. Il Cavaliere capì che era la stessa arma usata per piegare gli abitanti di Edessa.
   - Il venerabile Nergal mi ricompenserà per aver sconfitto un Cavaliere di Atena e per aver conquistato questa città. Che c'è di meglio di un sano divertimento e di un cospicuo premio? La vittoria, da sola, non ha valore se non si ricevono onori e compensi! -, affermò Iltasadum, convinto di avere in pugno il custode della quarta casa.
   Sertan, che cominciava a perdere i sensi, si fece forza e concentrò nelle mani il proprio cosmo, creando due sfere biancastre.
   - Pneumatiké Phylaké![4] -, gridò. Al suo comando le sfere si levarono in alto e si divisero in miriadi di fuochi fatui che inglobarono le gocce create dalla tecnica del demone e le dissolsero.
   Iltasadum rimase interdetto. La mossa del nemico l'aveva lasciato senza parole. Confuso e in collera chiese: - Come hai fatto a liberarti dalla morsa della mia tecnica? Nessuno c'era mai riuscito! -
   Ormai libero di muoversi e di contrattaccare, Sertan lo fissò con aria di sfida e sorrise: - Le anime sono mie amiche! Esse mi rivelano molti particolari che all'occhio umano possono sfuggire. In loro è custodita una conoscenza che nessun rotolo o volume potrebbe contenere! La tua tecnica adopera sostanza spirituale e grazie all'aiuto delle anime io sono in grado di annientarla! Avevi ragione quando dicevi che le anime possono essere utili armi in battaglia, ma lo diventano ancora di più quando scelgono liberamente di affiancare colui che se ne serve! -
   Poi fece avvampare il suo cosmo e si avventò contro il demone, colpendolo con calci e pugni portati alla velocità della luce. L'attacco fu devastante e Iltasadum si schiantò contro le mura della città, creando un'enorme cratere. Quando si rialzò, aveva l'armatura piena di scheggiature e crepe, da cui fuoriuscivano rivoli bluastri che si confondevano con l'azzurro dell'armatura.
   - Non ci credo! Non è possibile! Come può la tua tecnica annientare la mia, se usano entrambi materia spirituale? -, chiese stizzito il Sabitta, non del tutto convinto dalle parole dell'avversario.
   - Non è così difficile da comprendere: tutta la materia spirituale conserva un barlume di vita e di coscienza. Essa trattiene ricordi, rabbia, rancore, dolore, speranze, delusioni, tutti i sentimenti provati nella sua forma fisica. Tu che l'hai sempre e solo usata come arma e l'hai costretta a strappare altre vite non ti sei mai soffermato ad ascoltarne la voce. Ma oggi, in me, essa ha trovato un alleato e ha deciso di abbandonarti! -, spiegò il Cavaliere, fissando il nemico con sguardo serio e grave.
   Iltasadum storse la bocca in un grugnito di rabbia, deponendo per un attimo la freddezza e il distacco che il suo volto aveva mostrato fino a quel momento. - Che idiozie vai farneticando? Le tue parole sono soltanto vane ciance. Gli spiriti sono mera servitù, atta a dilettare il loro padrone e a eseguirne gli ordini. È questa la legge di Irkalla e in essa è riposta la mia totale fiducia! -, rispose, circondandosi di nuovo della sua aura cosmica.
   Sertan schioccò le dita e una fiamma azzurra avvolse il corpo del demone, impedendogli qualsiasi movimento e provocandogli un'indicibile sofferenza.
   - Phátnēs Epouránia Phlóx![5] -, gridò, mentre Iltasadum lanciava un urlo di agonia.
   - Che cosa mi hai fatto? -, chiese dilaniato dal dolore, tentando in tutti i modi di liberarsi dalla morsa di quell'atroce supplizio.
   - Quella fiamma è generata dalla materia spirituale della tua tecnica -, rispose secco il Cavaliere. - Coloro che hai barbaramente ucciso per mero divertimento ora ti stanno ripagando con la stessa moneta. E ora, prima che il fuoco della loro vendetta ti consumi, dimmi quali sono i piani di Nergal e chi è venuto con te! -, interrogò, tentando di scoprire la causa del turbamento che lo aveva pervaso all'inizio dello scontro.
   - I piani del mio signore non li conosco, né mai te li rivelerei, e nessuno mi ha accompagnato, sono qui da solo o forse credi che questa città non sia caduta per mano mia? -, rispose Iltasadum, la cui armatura cominciava a sgretolarsi e a dissolversi in fumo bluastro.
   - Che vanto c'è nel conquistare una città d'indifesi? -, ribatté Sertan, irritato dall'ultima frase del demone. - Non credo proprio che il tuo signore non vi abbia messo a parte dei suoi piani. Rispondi, prima che la vita ti abbandoni del tutto e l'oblio eterno ti schiuda le sue porte! -, insistette, aumentando l'intensità e la potenza della propria tecnica, ma in modo da non pregiudicare la vita del demone.
   - A noi semplici Sabitti il sommo Nergal non ha mai rivelato i suoi piani. Solo gli Utukki, i sette Guardiani di Irkalla, ne sono al corrente. Noi siamo solo forze ausiliarie, lontani dalle confidenze del signore delle terre perdute -, rivelò Iltasadum, prostrato dall'agonia e dal tormento. Si accasciò a terra, strinse le braccia al petto e cadde prono. La fiamma del colpo segreto di Sertan s'innalzò maestosa e del corpo di Iltasadum non restò nient'altro che cenere, spazzata via dalla calda brezza che soffiava sul pianoro.
   Il sole era tornato a rischiarare la zona e i palmizi che adornavano il luogo ondeggiavano carezzati dal vento. Sertan si diresse verso di loro: da lì proveniva la presenza che lo aveva inquietato durante il combattimento. Quando vi giunse, non c'era nessuno. Si guardò intorno, tendendo i sensi, ma non avvertì nessuna traccia di cosmo.
   Tornò indietro e vide che le persone svenute all'ingresso della città si erano riprese e si stavano lentamente rialzando, confuse e frastornate. Si avvicinò loro sorridendo e aiutandoli. Un gruppetto di guardie si affacciò alla porta, in perlustrazione, e, notato il Cavaliere, chiese spiegazioni in merito all'accaduto. Sertan spiegò per sommi capi gli eventi e affidò alle loro cure i tre individui che aveva aiutato e rincuorato.
   Mentre si allontanavano, una decina di anime cominciarono a vorticargli attorno: erano le vittime di quella città, che non avevano resistito al colpo mortale di Iltasadum. Una lacrima solcò il viso del Cavaliere che, in cuor suo, elevò per loro una preghiera. Le vide danzare ancora per qualche attimo intorno a lui e poi svanire. La cupa inquietudine provata all'inizio dello scontro si riaffacciò prepotente nel suo cuore.
   Erano passati molti anni da quando quella grigia sensazione lo aveva assalito. La prima volta che l'aveva avvertita aveva due anni e suo padre si era macchiato di gravi crimini. Quella sera aveva significato per lui anni di dolore e di frustrazione. Ma ormai era un Cavaliere e aveva vinto i suoi demoni, perché quello spettro tornava a turbarlo? Cosa significava? Suo padre era morto da anni ormai, perché il suo ricordo continuava a perseguitarlo? Non riusciva a darsi una spiegazione plausibile; mille ipotesi gli affollavano la mente, ma nessuna lo convinceva. O forse non voleva convincersene? Un dubbio cominciò a farsi strada nel suo cuore, una terribile verità che forse aveva cercato di rimuovere, sprofondandola fra le brutture del passato. Quella triste eventualità lo colmò di rabbia e di astio.
   - Possibile che sia ancora vivo? -, pensò fra sé, stringendo forte il pugno e lasciando quei luoghi alla velocità della luce.
 
[1] "Occhio del Negromante".
[2] "Rivoluzione Stellare".
[3] "Sinfonia di Lacrime".
[4] "Prigione Spirituale".
[5] "Sekishiki Kisouen".

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Capitolo 7
*** Fulmine e luce ***


Capitolo VII
FULMINE E LUCE
 
Mediterraneo nordorientale, ottobre 1062
 
   -No, ti prego, non uccidermi -, implorò la guardia. - Ti dirò tutto ciò che vuoi sapere! -, concluse, con la paura stampata sul volto e le membra tremanti.
   Con un ghigno malevolo, lo strano essere che stava disseminando il terrore a Bisanzio lasciò la presa e con sguardo penetrante e sinistro lo interrogò: - Dov'è il vostro imperatore? Parla in fretta o lascerai questo mondo fra atroci sofferenze! -
   D'improvviso, miriadi di frecce sibilarono nel cielo. L'essere diede una rapida occhiata e il suo volto s'illuminò di un sorriso divertito. - Che armi puerili! -, esclamò, prima di intercettarle e distruggerle tutte insieme con una scarica d'energia lanciata a mano aperta. Poi si voltò e avvolse il bracciale dell'armatura di fulmini, incassò il braccio nel fianco e scagliò il colpo in direzione degli arcieri. Questi ultimi, visto il pericolo, tentarono di ripararsi dietro i muri delle case o di fuggire, ma d'improvviso le saette svanirono, come inghiottite dal nulla.
   Il demone rimase stupito e si girò completamente in direzione di quello strano fenomeno, permettendo alla guardia che stava interrogando di scappare. - Che significa? -, pensò fra sé, quando una voce giovane ma salda riecheggiò nell'aria.
   - Prenditela con qualcuno che può starti a fronte e lascia stare queste persone innocenti, demone! -, e nel punto dove i fulmini del servo d'Irkalla erano spariti apparve un ragazzo dalla scintillante armatura dorata, dalle cui spalle pendeva un mantello bianco agitato dal vento e il cui elmo rappresentava due volti contrapposti. A quella visione, alcuni arcieri ebbero timore e indietreggiarono ancora di più.
   Il demone accennò un sorriso e i suoi occhi rosso rubino si accesero di curiosità: - Un Cavaliere d'Oro di Atene! Ora sì che si ragiona! -
   Il Cavaliere lo osservò con attenzione: aveva più o meno la sua altezza e l'armatura che indossava era quasi completamente nera. Aveva un elmo a maschera che gli proteggeva parte della testa, ma lasciava scoperta la nuca, fitta di capelli lunghi fino alle spalle di un arancione spento. Dalle tempie partivano due piccole antenne, unite nel primo tratto all'elmo e svettanti verso l'alto nell'ultimo. Il pettorale, squadrato, aveva un bavero che circondava l'intero collo e si chiudeva in un piccolo triangolo rovesciato e aggettante. Era adornato da triangoli di colore grigio. Gli spallacci terminavano a forbice, in cui s'innestava una lamina grigia appuntita rivolta verso il basso. All'altezza dello sterno un'altra lamina grigia dalle forme arrotondate e circondata da sette triangoli si allungava fino al cinturino. Quest'ultimo era formato da due spesse placche sovrapposte che coprivano i fianchi. Al centro era adornato da un piccolo stemma a forma di rombo. I bracciali partivano dal gomito e coprivano persino le dita. Erano ornati da tre lame di colore grigio. Anche gli schinieri, lunghi fino al ginocchio, presentavano due lame, ma avevano forma cilindrica.
   - Hai indovinato, sono un Cavaliere d'Oro! Il mio nome è Calx di Gemini; qual è il tuo, demone? -
   L'essere infernale lo guardò con interesse e rispose con tono minaccioso: - Mi chiamo Yarla, sono il sesto demone del fulmine e oggi vendicherò la morte dei miei compagni! - Queste ultime parole furono pronunciate con un palese compiacimento.
   Attorno a lui si accese un cosmo smeraldino e si preparò ad attaccare, ma d'improvviso Calx lo guardò con aria seria e disse: - Sarà un piacere affrontarti, ma lontano dalla città. Questo scontro riguarda soltanto noi due! Se vincerai, potrai tornare a completare il tuo lavoro! -
   Yarla scoppiò a ridere. - Vorresti dettare le condizioni della battaglia? Perché dovrei assecondare il tuo volere? Che gli uomini si rendano conto di essere soltanto pulviscolo nella galassia, un mero capriccio divino destinato all'oblio! -, sbottò con voce ferma e cruda.
   A quelle parole, notò che molti soldati si ritrassero o sbiancarono. Un'espressione fiera gli illuminò il volto. Tuttavia, si accorse che Calx non era affatto turbato, ma continuava a osservarlo con la stessa fermezza di prima.
   Un accenno di cosmo circondò il Cavaliere, che non aveva ribattuto nulla alle affermazioni del Sabitta. Yarla si preparò allo scontro, ma d'improvviso si ritrovò in un luogo buio, privo di qualsiasi luce o rumore, e percorso da strani piani d'energia. Confusione e sconcerto lo colsero, mentre si guardava intorno, in cerca di punti di riferimento e di spiegazioni.
   Una delle guardie che aveva visto sparire il demone si avvicinò a Calx tremante, gli prese la mano protetta dall'armatura e tentò di baciarla. Il Cavaliere si ritrasse infastidito. - Non sono un dio! Sono un essere umano come te! Pensa piuttosto a dare una mano ai feriti assieme ai tuoi compagni! - Il tono irritato di Gemini terrorizzò la guardia che, a capo chino, si ritirò e corse verso i propri camerati.
   Fin da quando aveva cominciato l'addestramento da Cavaliere, attorno a lui si era creata un'aura di leggenda: la sua forza e la sua naturale predisposizione a manipolare il cosmo gli avevano attirato addosso occhi stupiti ed indiscreti. I suoi stessi parigrado a volte sembravano temere e, a un tempo, invidiare le sue capacità. Aveva cercato di non farci caso o di attribuire gli elogi alla modestia dei lodatori. Col tempo, però, si era accorto che il suo corpo e il suo spirito trasudavano una forza e un cosmo inimmaginabili e questa scoperta lo aveva messo a disagio. La sua indole umile e altruista tentava di sconfessare i meriti e le lodi che gli venivano elargiti, ma spesso temeva di risultare ipocrita o affettato.
   Scacciò questi pensieri dalla mente e, dopo aver dato altre disposizioni a guardie e soldati, si recò sull'altra sponda del Bosforo e si fermò su un colle disseminato qua e là di abeti bianchi, faggi e ampie zone brulle. Bruciò il cosmo e il paesaggio si aprì davanti a lui, facendo riapparire il demone, furioso per l'umiliazione subita.
   - Mi hai imprigionato in un'altra dimensione per portarmi qui, non è vero? -, chiese, col volto livido di rabbia. - L'hai notato, vedo! Ora possiamo combattere senza indugi! -, rispose il Cavaliere senza scomporsi.
   Il cielo era cupo, nuvole grigie ammantavano l'aria di tristezza. Una pioggia fine e silenziosa cominciò a cadere, facendo risuonare le armature ogni volta che vi impattava. Yarla fece avvampare il suo cosmo smeraldino e i bracciali della sua corazza si circondarono di fulmini. Una potente scarica elettrica saettò verso Calx, che chiuse gli occhi, bruciò il proprio cosmo e allargò le braccia davanti a sé. Si aprì un varco dimensionale che risucchiò il colpo e lo disperse.
   Il demone strinse i pugni in preda all'ira e gli rivolse un'occhiata spregiosa. - Il tuo cosmo rivaleggia con quello degli dei, ma è mio dovere portare a termine la missione affidatami! Non posso lasciarmi sconfiggere! -
   - Sono stanco di sentirmi dire sempre le solite parole! Io combatto da uomo e a difesa dell'umanità! Della forza degli dei non so che farmene! -, fu la risposta del Cavaliere, i cui occhi azzurro cielo si erano velati di una muta insofferenza.
   Yarla lo guardò con sdegno e derisione, poi disse: - Vedo che l'uomo vive ancora sull'orlo di un precipizio. Nonostante i secoli, nonostante gli insegnamenti della storia, continuate a ergervi al di sopra dei numi celesti! È questo il risultato delle guerre intraprese da Atena? A tale empietà e miscredenza vi ha condotto la sua guida? Che delusione! Se questo è il mondo di pace cui la progenie del Cronide tanto anelava, direi che ha fallito! -
   Le parole del demone non sembrarono irritare Calx. - Non ho avuto il piacere di conoscere Atena, per cui le tue affermazioni non mi tangono! Ho però conosciuto uomini che hanno sacrificato le loro stesse vite per salvaguardare l'incolumità degli innocenti e questo mi basta per spingermi a combattere! -, affermò con spontanea convinzione.
   - Allora sarà una battaglia eterna, priva di vincitori, ma satura di vittime! La pace non prevarrà mai, perché il cuore umano nasconde tenebre più fitte di qualsiasi regno infernale! Sei pronto a rinunciare a tutto, alla tua stessa giovane vita, per raggiungere il tuo scopo? -, provocò il demone del fulmine, scorgendo negli occhi dell'avversario una rinnovata luce di speranza.
   - Chi non conosce l'umanità non può giudicarla. Non tutti gli esseri umani sono come li descrivi tu. Ci sono uomini e donne che con coraggio e sacrificio si battono ogni giorno per creare un futuro migliore e radioso. Se il mio contributo servirà a raggiungere lo scopo, sarò ben felice di darlo! -, rispose senza mezzi termini il discepolo di Alexer, facendo ardere il suo cosmo dorato.
   - Che animo nobile! Sono colpito dalla convinzione che traspare dalle tue parole, anche se non durerà per sempre! Un giorno, i tuoi sentimenti prevarranno sulla tua abnegazione e la giustizia ti sembrerà soltanto uno spettro irraggiungibile, un'utopia troppo cara! Allora l'egoismo e il disinteresse verso l'altro avranno la meglio e tutta la tua nobiltà d'animo diverrà cenere! -, ribadì Yarla, avvolgendosi del suo cosmo e circondando le braccia di scariche elettriche.
   - Hai una visione troppo ristretta degli uomini. Io non ho progetti per il domani e forse un giorno mi stancherò di lottare, ma l'amore per la giustizia resterà inciso nel mio cuore per sempre! Non so cosa il destino mi riserverà, ma,  fintanto che lo aspetto, ho scelto di donare la mia forza ai deboli -, affermò il custode della terza casa, il cui cosmo ardeva splendente e limpido.
   Yarla era visibilmente stupito: aveva di fronte a sé poco più di un ragazzino, ma da lui spirava una genuina sincerità ed un'umiltà disarmante che mal si addicevano al suo immenso potenziale cosmico.
   - Da questo ragazzo proviene un cosmo tremendo, forse persino superiore a quello dei Sette Guardiani, eppure non avverto superbia o alterigia in lui. La sua calma e la sua schiettezza mi confondono: come può un umano possedere la nobiltà dei numi celesti? -, pensò fra sé, preparandosi alla battaglia. D'improvviso avvertì il cosmo di due dei suoi compagni spegnersi: la situazione non era delle più rosee, i Cavalieri erano venuti a conoscenza di molti dettagli e soprattutto del nome del sovrano di Irkalla. Yarla si accigliò, maledicendo Iltasadum che aveva incautamente svelato l'identità del loro signore.
   - Sembra che alcuni dei miei compagni abbiano fallito la loro missione, ma tu non rivedrai mai più il tuo suolo natio! -, sbottò il demone, lanciando contro Calx l'energia che aveva accumulato attorno ai bracciali dell'armatura.
   Il Cavaliere rimase immobile e con un gesto della mano aprì un varco dimensionale che risucchiò il colpo. - Ho avvertito anch'io lo spegnersi dei cosmi dei tuoi amici, ma, se fossi in te, aspetterei prima di dichiararmi vincitore. Finora non sei riuscito neppure a sfiorarmi! -, lo provocò, guardandolo fisso negli occhi con aria serena e curiosa.
   Yarla rise, divertito dall'improvvisa ironia del Cavaliere. Tuttavia, il ragazzo aveva ragione: nonostante i suoi sforzi finora non aveva raggiunto nessun risultato. L'abilità e la velocità con cui Calx manipolava le dimensioni erano straordinarie e impossibili da superare per un demone del suo livello. In tanti secoli non gli era mai capitato un nemico così ostico: forse l'unico modo per avere ragione di lui era usare la tecnica che da tempo immemore non adoperava più. Doveva concentrare buona parte del suo cosmo per poterle dare il massimo potere e aveva bisogno di risparmiare le forze per accumularlo.
   - Devo ammetterlo, sei un avversario di tutto rispetto. Sei un tipo insolito, profondamente diverso da qualsiasi altro uomo abbia mai incontrato. Sarà un piacere prendermi la mia vendetta su di te! Preparati a calcare le desolate terre degli Inferi! -, disse il demone del fulmine, lanciandosi contro Calx coi pugni avvolti di scariche elettriche.
   Il Cavaliere schivò i primi colpi, poi assestò un poderoso pugno allo stomaco del demone, facendogli sputare l'aria dai polmoni e scaraventandolo a qualche metro di distanza. Yarla si rialzò subito e tentò un nuovo assalto. Proprio nel momento in cui stava per attaccare, sentì un acuto dolore al braccio destro e vide il bracciale esplodere in frantumi fra schegge e schizzi di sangue.
   Guardò stupito l'arto nudo, ustionato e dolorante. - Come hai fatto? Non ti ho visto sferrare il colpo! -, domandò incredulo, gli occhi dilatati e intrisi di un vago terrore.
   - Non è difficile difendersi e attaccare simultaneamente quando si è padroni della velocità della luce. E poi, la tua virtù guerriera sembra inferiore persino a quella di un Cavaliere di Bronzo. Ora capisco perché vi divertite a torturare coloro che non possono difendersi. Mi rende triste constatare che gli dei, dipinti dagli uomini come saggi e clementi, abbiano di tali trastulli. A che scopo creare degli esseri viventi? Solo per giocarci? Forse non lo capirò mai, ma se il destino mi ha donato questa forza, la metterò al servizio dei miei simili! Non amo combattere, ma le grida degli innocenti m'impongono di sradicare il male che serpeggia nel mondo! -, commentò Calx, lo sguardo perso nel vuoto e la voce amareggiata.
   Le parole di Gemini lasciarono il demone indifferente. Sapeva di essere soltanto un guerriero di bassa casta, ma le sue azioni non erano mai state volte a trarre soddisfazione dalle vite che aveva stroncato. Uccideva perché era questo il suo compito nell'universo. - Un demone infernale non può che seguire il cammino tracciato per lui dagli dei -, si diceva spesso, ogni volta che il viso implorante di qualche innocente incrociava il suo sguardo. Fin dalla notte dei tempi, il fato aveva decretato che luce e tenebre si scontrassero in un conflitto eterno; un conflitto che aveva visto prevalere ora una fazione ora l'altra. A lui toccava far trionfare i desideri di Nergal senza obiettare, profondendo ogni fibra del suo essere per conseguire lo scopo.
   - Il bene e il male non sono altro che due facce della stessa moneta. Voi esseri umani siete il simbolo di questa dicotomia: sapete ergervi a difesa della creatura più infima e un attimo dopo togliete la vita al vostro prossimo senza scrupoli solo per interesse e avidità. A me non interessa la gloria in battaglia, né bramo il sangue degli innocenti. Io sono soltanto un umile servitore, pronto ad adempiere il compito affidatomi dal fato -, affermò Yarla con ritrovata freddezza e lucidità.
   - Combatti per decreto del fato? È questo che ti conduce in battaglia? Che assurdità! -, esclamò con aria delusa il discepolo di Alexer, suscitando nel demone un misto di rabbia e collera.
   - Lottare dovrebbe essere una scelta, non un'imposizione dettata dal destino o da chicchessia! Ti darò una dimostrazione di ciò che vado affermando: sfodera il tuo colpo migliore, non userò le dimensioni per difendermi, ma soltanto la forza del mio cosmo. Se è realmente il destino a manovrarci come burattini, tu avrai la tua vendetta e io lascerò questo mondo, ma se così non fosse... preparati a raggiungere i tuoi compagni nell'eterno oblio! -, propose infine, assumendo un tono grave che, per un attimo, impaurì Yarla.
   - Come vuoi, ma sappi che te ne pentirai! -, rispose il demone, celando nel fondo del cuore un profondo turbamento. Avvicinò le mani alla piastra circolare attorniata dai sette triangoli che aveva sull'armatura e fece bruciare il proprio cosmo.
   - Avrai l'onore di morire per mezzo della tecnica donatami dal sommo Etana, il Guardiano del Fulmine! Preparati: Ilu Inim Diĝirenek![1] - Attorno a lui apparvero sette frecce di cosmo, di colore diverso, puntate in direzione di Calx.
   - Si narra che questa tecnica sia stata descritta in un antico poema sumerico ormai perduto. In esso veniva raccontato come i sette mali primigeni del mondo presero vita e si diffusero. Ognuna di queste frecce rappresenta uno di quei mali: essi ti tortureranno e ti strapperanno via la tua giovane esistenza! Ilu, il pianto, il lamento della miseria umana, primo a palesare angosce e tristezza, sta per abbattersi su di te! Prendi! -, spiegò il demone, lanciando contro Gemini una freccia quasi trasparente, che superò le difese dell'armatura e si conficcò al centro del torace, scomparendo. Il Cavaliere chiuse gli occhi e il suo cuore fu invaso da un senso di inquietudine.
   Yarla sorrise e si accinse a scagliare il secondo dardo: - Dulum, il dolore, figlio delle delusioni, è il secondo male che sta per avvolgerti! A te! -, disse, e una freccia scarlatta trapassò la spalla destra del Cavaliere, il cui viso si contrasse in una smorfia di sofferenza. Fiducioso nella propria arma, il demone del fulmine continuò, senza dare tregua al nemico che, dal suo punto di vista, aveva deciso di subire passivamente i colpi solo per una dimostrazione d'orgoglio.
   - E dopo il dolore, la fedele compagna di ogni umana creatura: Ni, la paura, il terrore delle debolezze! -, a queste parole un dardo verde penetrò il fianco sinistro di Calx, suscitando nel Cavaliere uno spavento ingiustificato che lo fece tremare. - Uri, il sangue, versato per brama o per diletto, linfa vitale delle umane genti! Sgorga! -, un'altra freccia, di colore rosso rubino, affondò all'altezza del cuore del giovane custode della terza casa. Calx fu costretto in ginocchio e iniziò a sputare sangue.
   Nell'osservare quella scena, un moto di compiacimento si disegnò sul volto del demone: - La tua ingenuità decreterà la mia vittoria. Gli ultimi tre colpi della mia tecnica ti attendono. Preparati! Shum, il massacro, che sazia ogni desiderio di dominio! -, ricominciò e stavolta fu una freccia blu a saettare verso il Cavaliere e a trafiggergli il capo. Calx sentì ogni cellula del proprio corpo ribollire ed esplodere. - Le fatali strofe del mio canto stanno per concludersi! Namtar, il destino, a cui ogni creatura è suo malgrado soggetta! -, uno strale arancione si conficcò nel braccio sinistro, il respiro divenne affannoso e irregolare. - Ultimo fra i dardi del mio turcasso e ultima meta d'ogni vivente, Ush, la morte! -, l'ultima quadrella, di colore nero, penetrò lo stomaco di Calx, che cadde a terra supino.
   Yarla si avvicinò al corpo immobile dell'allievo di Alexer e commentò deluso: - Forse ti ho sopravvalutato. In fondo ti sei rivelato un nemico tutt'altro che ostico. Ora posso tornare alla mia missione! - S'incamminò per tornare a Bisanzio, ma d'improvviso avvertì di nuovo il cosmo di Calx. Si voltò di scatto e vide che il corpo del Cavaliere non c'era più.
   - Ti facevo più furbo, Yarla! -, risuonò una voce proveniente da un gruppetto di alberi. Il demone si girò verso l'origine di quelle parole e scorse Gemini che si avvicinava.
   - Com'è possibile? Come hai fatto a sopravvivere? -, domandò incredulo, sopraffatto dal turbamento che lo aveva colto poco prima di scagliare il suo colpo segreto.
   - Non è me che hai colpito, ma il fantasma di Gemini, una mia copia illusoria. Nel momento in cui stavi per lanciare la tua tecnica, ho lasciato l'armatura e mi sono teletrasportato dietro gli alberi. Non te ne sei accorto perché eri troppo occupato a concentrare il tuo cosmo. Così ho potuto controllarla a distanza. Sono state le tue parole all'inizio dello scontro a convincermi che nascondessi qualcosa: mi reputavi simile a un dio, eppure i tuoi assalti continuavano a essere blandi e inconcludenti. Ho notato che tentavi di risparmiare le forze e di non impegnarti troppo: solo chi ha un asso nella manica azzarderebbe una mossa del genere! Così ho solleticato il tuo orgoglio e tu sei caduto nella trappola! -, spiegò Calx, sul cui volto splendeva un sorriso soddisfatto.
   - Che tu sia maledetto! Mi hai ingannato! Pagherai per questo affronto! -, rispose furente il demone, contrariato dallo smacco subito. Si lanciò di nuovo contro Calx, che lo respinse con la sola emanazione cosmica.
   - Sei troppo debole! Per sferrare il tuo attacco migliore hai consumato gran parte della tua energia. Ti avevo avvertito che combattere per assecondare il fato è una sciocchezza e ora questo errore ti costerà la vita -, affermò il giovane guerriero, agitando le braccia e avvicinando le mani davanti al torace. Attorno a Yarla apparve un'intera galassia. Il servo d'Irkalla tentò di reagire, ma la forza di attrazione dei pianeti e la stanchezza gli impedivano qualsiasi movimento.
   - Osserva la tecnica di Gemini, capace di frantumare persino le stelle: Galaxíou Ékrēxis![2] - I pianeti esplosero all'unisono investendo Yarla e dilaniandone le carni.
   - Ho sbagliato! Avrei dovuto usare... fin dall'inizio... tutto il mio potere! Mi... sono lasciato... ingannare... dalla tua giovane età... -, disse con un filo di voce il demone prima di dissolversi fra la pioggia. Calx si sedette all'ombra di un albero: aveva vinto la sua prima battaglia, ma si domandava quanto a lungo sarebbe ancora durata quella guerra.
   Alzò gli occhi verso il cielo grigio, li chiuse e tese i sensi: alcuni dei suoi compagni combattevano ancora. - Vi aspetto al Grande Tempio, amici miei! -
***
   Venezia era in subbuglio. Il doge, l'anziano Domenico Contarini, aveva disposto una sacca di resistenza nella piazza principale della città, dove si ergeva la chiesa di San Marco, riedificata per volontà di Pietro Orseolo circa un centinaio di anni prima.    Tuttavia, le difese si stavano rivelando inefficaci contro l'essere che stava attaccando la città. Le barricate di fortuna, messe su adoperando sacchi e carretti, erano state in parte spazzate via e il corpo centrale della chiesa era stato parzialmente distrutto. Il doge, assieme al consiglio, aveva valutato altre opzioni di difesa, ma, alla fine, la resa incondizionata all'aggressore si era imposta su tutte le proposte suggerite. Il Contarini si era recato in piazza con le mani alzate e aveva intimato ai soldati di abbassare le armi. Si era avvicinato all'essere dall'armatura bianca e celeste e si era prostrato ai suoi piedi in segno di resa, quando una voce gli ordinò di non farlo.
   L'anziano governatore di Venezia sollevò il capo e vide alle spalle dell'essere un ragazzo dall'armatura dorata, impreziosita da imponenti ali. Lo osservò avvicinarsi, mentre il demone si voltava per guardare in volto il nuovo arrivato.
   - Un Cavaliere di Atena! Il custode delle vestigia di Sagittarius, a quanto vedo -, parlò l'essere, con voce suadente, ma fredda e crudele.
   - Hai buon occhio, sono Pelag di Sagittarius, custode della nona casa del Grande Tempio! -, rispose il guerriero di Atene.
   Il servo di Nergal lo fissò con interesse, poi s'inchinò leggermente e si presentò: - Io sono Ilku, quarto demone della luce, piacere di fare la tua conoscenza! -
   Indossava una corazza prevalentemente bianca. L'elmo era a casco, con al centro quattro antenne e un triangolo all'altezza della fronte, tutti di colore celeste. Aveva occhi di colore verde intenso e capelli di un grigio cenere. Il pettorale copriva buona parte del torace, ma lasciava scoperta la zona fra lo sterno e il ventre, riparata da una camiciola di lino grezzo. Gli spallacci trasbordavano la spalla, andando a ripiegarsi sulle braccia. Erano lisci col bordo celeste, ornati di un piccolo corno al centro.  Il cinturino presentava due larghe placche davanti e a tergo, e due più strette e tondeggianti sui fianchi. Sulla piastra centrale erano incisi tre triangoli di colore celeste. I bracciali, lunghi fino al gomito, erano formati da due piastre sovrapposte: una che avvolgeva l'arto e l'altra incastrata sopra a creare alette taglienti. Gli schinieri erano in tutto uguali, fatta eccezione per i triangoli che li adornavano.  
   - Doge, andate via e fate evacuare la zona. Penserò io al demone -, ordinò l'arciere dorato. Domenico Contarini annuì, fece cenno a guardie e soldati di eseguire l'ordine e iniziò a indietreggiare. Il demone sorrise, fece schioccare le dita e, dalla terra, sorsero colonne di luce che intrappolarono tutti coloro che stavano tentando di scappare. Pelag assunse un'espressione preoccupata e fissò lo sguardo su Ilku, che sembrava molto sicuro di sé.
   - Allora, Cavaliere, ti va di giocare con me? -, chiese l'essere infernale, osservandolo con curiosità e cruda ironia.
   - Non sono venuto fin qui per giocare, ma per annientarti! -, rispose secco il Sagittario, circondandosi di un alone di cosmo dorato e suscitando una grassa risata nel demone, che aveva sempre inteso la battaglia come un'immensa fonte di studio. Analizzare sentimenti, emozioni e comportamenti era da sempre stato un gradevole svago per lui. L'espressione del viso di Pelag lo incuriosiva oltremodo: la fama che da sempre circondava la casta più alta dell'esercito di Atena aveva stimolato in lui un profondo interesse e trovarsi di fronte a uno dei rappresentanti di quella leggenda lo eccitava e lo spingeva a scandagliare ogni dettaglio.
   - Libera immediatamente questa gente! -, ordinò con malcelata collera il Cavaliere, sparando verso il demone un fascio d'energia. Ilku bruciò il suo cosmo bianco e due figure di luce gli si posero davanti. Il colpo di Pelag le centrò in pieno ed esse esplosero in pezzi come vetro infranto.
   - Temi che possano morire? Ogni creatura di questo mondo è destinata a incontrare la nera signora, prima o poi! -, commentò il sicario infernale, muovendo qualche passo verso l'avversario.
   - È vero, la morte è ultima compagna di ogni essere vivente, ma le tue azioni le daranno in pasto molte più vittime di quante il fato ne abbia decretate! -, ribatté il dorato arciere, guardandolo torvo.
   - Tu credi? Quando il mio signore verrà, di questo mondo non resterà che cenere e vaghe memorie! Perché rimandare un destino già scritto? Eliminandoli oggi eviterò loro sofferenze maggiori! È un puro atto di misericordia! -, disse Ilku con naturalezza, scrutando ogni minimo cambiamento nell'espressione del Cavaliere.
   Pelag strinse i pugni, tentando di dominare la rabbia che quelle parole avevano generato dentro di lui.
***
   Fin da bambino, lo aveva guidato un innato istinto di protezione e di responsabilità nei confronti degli altri. Sua madre, Jobeth, era rimasta vedova pochi mesi dopo la sua nascita e aveva faticato per allevarlo. Già a quattro anni si alzava di buon ora e aiutava i contadini delle tranquille campagne del Wessex in cambio di un tozzo di pane, di un cesto di frutta o di un sacchetto di farina. Aveva dieci anni quando sua madre si ammalò e morì, lasciandolo con un lontano parente, un certo Amias, che viveva d'imbrogli e di espedienti. Quest'ultimo si era subito installato in casa e costringeva il ragazzo a procacciarsi denaro per soddisfare i suoi innumerevoli vizi. Era un uomo estremamente avido e insaziabile, e ogni volta che Pelag rincasava senza aver guadagnato quanto richiesto o addirittura senza soldi lo bastonava e lo costringeva a dormire sul freddo pavimento. Il ragazzo aveva resistito qualche mese a quella tortura. Una notte, raccolte le sue poche cose, fuggì via. Girovagò per i villaggi, offrendo i propri servigi in cambio di ospitalità. Era diretto a Dorchester il giorno in cui un evento straordinario gli aveva cambiato la vita e lo aveva condotto alla corte di Atena.
   La strada che portava in città attraversava un fitto bosco di querce. Era il sentiero più breve, ma anche il più pericoloso. La vegetazione compatta e profonda che si dispiegava ai lati della via era rifugio non solo di animali selvaggi, ma anche di malviventi e sbandati in fuga dalle autorità. I carri che la percorrevano erano quasi sempre scortati e anche i viandanti preferivano attraversarla in gruppo. Molti erano scomparsi fra quegli alberi o vi avevano trovato la loro fine, ma Pelag non aveva paura. Era giunto a metà del percorso quando udì un pianto sommesso provenire dall'incavo di una quercia secolare. Si avvicinò circospetto, si affacciò e notò due figure rannicchiate e tremanti. Guardò meglio e vide una donna e una ragazzina di poco più piccola di lui.
   - Cosa vi è successo? -, chiese con voce accorata. La bambina gridò, spaventata da quell'improvvisa presenza e si strinse ancora di più alla donna. Pelag si scusò e domandò se poteva essere d'aiuto. La giovane ragazza lo fissò per qualche attimo: il volto tondeggiante, gli occhi marroni colmi di sincera disponibilità e le buffe lentiggini sparse sulle guance la rasserenarono. Accennò un sorriso e parole quasi sussurrate, ma pregne di un dolore vivo, le si affacciarono alle labbra di un rosso spento:
   - Mi chiamo Merideth e questa è mia figlia Twyla. Mentre eravamo in viaggio per Dorchester siamo stati attaccati da un balordo. Mio marito è riuscito a farci scappare, ma... -, s'interruppe e i suoi occhi neri si riempirono di calde lacrime.
   Senza pensarci due volte, Pelag si offrì di accompagnarle. Dorchester era anche la sua meta. Merideth gliene fu grata, ma l'idea di affidarsi alla protezione di un ragazzo poco più grande di sua figlia non la rassicurava. Se suo marito non era riuscito a prevalere sulla furia di uno sbandato, cos'avrebbe mai potuto fare un ragazzino di quell'età? Il futuro Cavaliere del nono segno dovette faticare parecchio per convincerla, ma alla fine si rimisero in cammino. La piccola Twyla procedeva attaccata all'ampia veste della madre e tremava al minimo stormire delle foglie. Merideth, dal canto suo, le carezzava la folta chioma fulva e tentava di rassicurarla. Sperava di trovare un gruppo a cui accodarsi, ma quel giorno il sentiero sembrava particolarmente deserto e silenzioso. D'improvviso, dal folto degli alberi si udì un sinistro fruscio: Pelag pensò a un cervo o a qualche coniglio; Twyla vide un'ombra, le gambe cominciarono a vacillarle e un grido acuto squarciò l'aria. Un omone ben piantato, dai capelli ispidi e neri, con una lunga cicatrice che gli solcava la fronte e armato di un bastone nodoso, sbarrò loro la strada. Merideth si strinse alla figlia, spaurita e in lacrime, riconoscendo il furfante che aveva loro teso l'imboscata.
   Pelag si pose a difesa delle due donne. Sfilò il fagotto dall'asticciola che aveva sulle spalle e la usò a mo' di spada. Il malnato accennò un sorriso e vibrò un poderoso fendente verso il ragazzo, che riuscì incredibilmente a schivare. La prontezza di riflessi di Pelag lo irritò e stavolta diresse il colpo verso l'asticciola. L'impatto fu devastante: la forza con cui era stata sferrata la stoccata aveva mandato in pezzi l'asticciola e scaraventato a terra il giovane. Un po' frastornato, Pelag vide l'uomo avvicinarsi a Merideth e alla figlia. Le donne indietreggiarono ancora di più. Un piede in fallo della madre la fece cadere, trascinandosi dietro anche la figlia, vinta dal terrore. Con una risata sguaiata e gli occhi iniettati di sangue, il criminale si preparò a ucciderle a bastonate.
   Quella scena provocò in Pelag una reazione inaspettata: si alzò, chiuse la mano a pugno e dentro di lui sentì sprigionarsi un fuoco, una forza incredibile che attendeva solo di esplodere. Notò attorno al pugno uno strano alone di un dorato pallido, fissò l'uomo che si apprestava ad abbattere i suoi colpi sulle inermi vittime che aveva davanti, spiccò un salto e si lanciò contro di lui con tutta la forza che aveva in corpo. Il bandito si voltò, sicuro di poter spazzare via quel ragazzino irritante, ma i movimenti di Pelag sembravano improvvisamente più veloci. Schivò il colpo di bastone e gli assestò al volto un potente pugno, che gli fracassò la mascella e lo scaraventò contro una quercia, mandandola in frantumi. Appena tornò a terra, tutta l'energia che gli ardeva dentro sembrò esaurirsi d'un tratto, costringendolo in ginocchio e in affanno. Il cuore gli batteva all'impazzata, ma un senso di pace e di serenità lo pervase: era riuscito a salvare la vita di due persone innocenti.
   Il giorno successivo aveva incontrato Laurion, che gli aveva parlato del Grande Tempio e della missione di Atena e gli aveva anche spiegato lo strano fenomeno che gli era capitato il giorno prima. Da allora, ottenere l'investitura a Cavaliere era diventato il suo obiettivo primario e ora che si trovava ad affrontare una battaglia con in gioco tante vite doveva dimostrare che i suoi ideali erano più forti della malvagità e dei capricci divini.
***
   Ilku gli ricordava in parte sia suo zio Amias che il balordo di quel giorno. Dai suoi occhi verdi affiorava una cruda efferatezza, unita a una fredda calma, come se uccidere innocenti fosse il più naturale dei mestieri. - Sei troppo sicuro di te, demone! Finché ci sarà chi si batte per la giustizia il male non prevarrà mai! Il tuo signore, chiunque egli sia, è solo una delle tante divinità che si arrogano il diritto di prevaricare sui deboli senza meritare alcun rispetto! -, ribatté il Cavaliere, fissando dritto negli occhi il nemico.
   - La tracotanza non ti fa difetto! Ma se credi che i nemici affrontati finora siano solo lontanamente paragonabili a quello che vi aspetta, ti sbagli di grosso! Anche se riuscissi a sconfiggermi non salveresti comunque queste persone! -, commentò Ilku, notando che le sue ultime parole avevano insinuato nell'avversario un'opprimente inquietudine.
   Riprese la parola, indicando la colonna di luce dove era intrappolato il doge: - La luce di Irkalla ha un fascino ammaliante! Chiunque vi rimane imprigionato perde ogni volontà di vivere! E più debole è la sua volontà più la morte sopraggiunge lesta! Anche se mi sconfiggessi e distruggessi le colonne di luce, gli effetti non cesserebbero. Come vedi, questa città è comunque destinata a soccombere! Sarà il mio regalo di benvenuto al signore delle oscure lande! -
   Pelag si calmò, per impedire che la collera lo pervadesse e gli facesse commettere errori. Essere lucidi in battaglia, anche nella situazione più disperata, era stata la prima lezione che aveva ricevuto. Il demone della luce restò stupito dal repentino cambiamento d'umore dell'avversario e tentò di stuzzicarlo nuovamente: - Vedo che ti sei rassegnato all'ineluttabilità del fato! A quanto pare, le voci del vostro spirito di sacrificio e della vostra testarda fede nella giustizia erano pura leggenda! Mi fai pena, Cavaliere! Quell'armatura si è scelta un indegno custode! -
   Il Sagittario rise, guardando il demone con aria di sfida. - Ormai ho capito il tuo gioco, Ilku! Credi che le tue provocazioni mi faranno perdere di vista l'obiettivo della mia missione? Non m'interessano le tue parole, so solo che Atena non permetterà l'assassinio di tutte queste persone innocenti! Io ho fede in questo e nessuno potrà convincermi del contrario! -, affermò con decisione, facendo ardere il suo cosmo dorato.
   Ilku era meravigliato: nessun uomo, per quanto potente, aveva mai dimostrato di possedere una tempra così adamantina. Nell'osservare il ragazzo che aveva di fronte e il suo cosmo luminoso e puro, provò un senso di disprezzo e decise di mettere in campo tutto il suo potere, pur di spazzare via un essere umano tanto singolare.
   - Come vuoi, Cavaliere! Proverai sulla tua carne la malia della luce d'Irkalla! Addio! -, rispose il demone, schioccando le dita e imprigionandolo in una colonna di luce. Soddisfatto, si voltò per lasciare la piazza e continuare la conquista della città.  D'improvviso, un boato risuonò d'intorno sovrastando il monotono rumore del mare. Un brivido percorse la schiena del demone, che si fermò di colpo e tornò sui suoi passi.
   - Non è possibile! Come hai fatto a liberarti? -, chiese incredulo, osservando il Cavaliere incolume e padrone delle sue forze.
   - L'hai detto tu che sono le volontà deboli a farsi sopraffare! E per tua sfortuna io sono testardo, non mi arrendo mai! -, rispose con una punta d'ironia l'arciere dorato. Ilku chiuse gli occhi e fece ardere il suo cosmo candido come neve.
   - Sei stato bravo a sfuggire all'oblio, per questa volta. Ma non credere che ti concederò altre possibilità! Avrei voluto usare la mia tecnica segreta in un altro momento, ma tu non mi lasci scelta! Venite a me, anime dei guerrieri di Sumer! Biluda Kieĝik![3] - Al suo comando, sorsero dalla terra figure smunte e vacue armate di lance, spade e fionde che si avventarono contro il Cavaliere.
   Pelag ne abbatté alcuni con fasci di energia, ma altri riuscirono ad avvicinarsi e a colpirlo. Le loro armi non provocavano ferite e, subito dopo aver centrato l'obiettivo, sparivano assieme al guerriero che le brandiva, ma il dolore che il Cavaliere avvertiva era reale. Un rivolo di sangue gli si affacciò all'angolo della bocca. Concentrò al massimo le sue forze, ignorando l'indicibile sofferenza che gli devastava il corpo, fece esplodere il proprio cosmo e annientò il gruppetto che tentava di circondarlo. Ne arrivavano altri, a passo cadenzato; Pelag ebbe un capogiro, ma rimase vigile e continuò ad attaccare gli spettri che si avvicinavano. D'improvviso una lancia gli sfiorò la guancia e il proiettile di un fromboliere lo colpì al collo. C'era qualcosa di strano in quei dardi privi di sostanza, ma carichi di un'oscura energia cosmica che riusciva a superare persino le difese dell'armatura. Se voleva vincere, doveva eliminare le pedine messe in campo dal demone.  
   - Ti vedo provato, Cavaliere! Dov'è finita la tua caparbietà? Sono bastate poche anime di Irkalla a ridurti all'impotenza? Perirai assieme a questa città e la gloria della mia vittoria mi assicurerà un posto d'onore accanto al sommo Alulim! -, lo derise Ilku, già assaporando gli allori e godendo dell'invidia che avrebbe suscitato nei suoi compagni.
   - La tua tecnica... è riuscita a superare le difese... di un'armatura d'oro..., notevole... -, disse Pelag con voce incerta e sofferente. Aveva un piano e doveva metterlo in atto subito, prima che il dolore avesse la meglio sul suo fisico e sul suo cosmo.
   Dalla parte posteriore del cinturino trasse l'arco e dallo spallaccio destro la freccia del Sagittario. La incoccò e si preparò a scagliarla, mentre le anime continuavano a bersagliarlo di colpi. Ilku lo guardò curioso e disse: - Sei giunto a tale disperazione da infrangere le regole imposte dalla tua dea? Assieme alla tua vita se ne va anche l'onore! -
   - Ti sbagli, Ilku! Non sei tu il mio obiettivo -, ribatté Pelag, scagliando la freccia verso uno spettro alla destra del demone e facendolo scomparire. Il dardo dorato si fermò per un attimo, rifulse di un intenso bagliore e cominciò a percorrere la piazza, annientando in poco tempo tutte le anime evocate dalla tecnica del quarto demone della luce. Poi riapparve in mano al Cavaliere e la vigorosa luce di cui era rivestita ne ravvivò il cosmo, affievolito dagli attacchi subiti. Ilku spalancò gli occhi: la freccia aveva assorbito l'energia infusa nelle anime e l'aveva donata al proprio custode. Un moto di paura lo fece indietreggiare inconsapevolmente di un passo.
   - Maledetto! Sei un semplice essere umano, come puoi possedere un potere del genere? -, chiese Ilku, in preda all'ira e all'incredulità.
   - Nel corso dell'addestramento mi fu detto che l'armatura del Sagittario è stata da sempre indossata da coloro che hanno il più puro senso di giustizia! Il sommo Alexer mi raccontò che Himrar, il precedente custode di questa corazza, aveva elevato le proprie potenzialità cosmiche proprio in virtù di questa sua caratteristica. Proteggere le persone e assicurare loro un futuro migliore è ciò che più desidero al mondo! Ho fatto tesoro di quest'insegnamento e ho seguito le orme di chi mi ha preceduto. Forse ho rischiato, perché non sapevo se il mio piano avrebbe avuto successo. Ma d'altronde un antico detto recita: 'la fortuna aiuta gli audaci'! -, replicò il custode della nona casa, circondandosi di un cosmo dalle intense tinte dorate. Alle sue spalle apparve la costellazione del centauro dall'arco teso.
   Ilku innalzò attorno a sé colonne di luce per difendersi dall'attacco imminente. Pelag incassò il pugno destro, che si avvolse di una poderosa energia cosmica, e lo fece scattare in avanti, rilasciando migliaia di sfere di cosmo:
   - Átomōn Keraunós![4] -, gridò e i globi si abbatterono sulle difese di Ilku, mandandole in pezzi. Il demone della luce fu investito da una miriade di colpi e la sua armatura esplose in frantumi. Strisciò a terra per lungo tratto, aprendo un profondo solco e tingendolo di un colore bluastro.
   Il Sagittario gli si avvicinò e si accorse che il corpo del demone si dissolveva come polvere spazzata via dal vento.
   - Hai vinto... una battaglia... ma... questa guerra... è ancora... lontana dalla conclusione... -, sibilò il sicario d'Irkalla, guardando il Cavaliere con disprezzo e odio. Poi i suoi occhi si spensero e scomparve.
   Pelag alzò gli occhi verso le colonne di luce. Le vide sbiadire poco a poco e poi svanire completamente, lasciando liberi i prigionieri. Ringraziò Atena e corse verso il doge per accertarsi che fosse ancora in vita. Ben presto tutti cominciarono a rialzarsi, un po' confusi dagli eventi, ma felici di aver superato il grave momento.
   Il Contarini si avvicinò al Cavaliere di Sagittarius un po' titubante e lo ringraziò per aver loro salvato la vita. Il ragazzo si schermì e con tono gentile disse: - Ho solo fatto il mio dovere. La giustizia è un ideale troppo prezioso che non può essere barattato con niente in questo mondo -.
   Il doge lo guardò negli occhi e vi scorse una profonda convinzione. Abbassò il capo e con espressione sconsolata parlò: - Sono stato uno sciocco a cedere le armi, se magari avessimo opposto maggiore resistenza... -
   - ...Ora ci sarebbero più morti da piangere! -, lo precedette Pelag. L'anziano governatore della Serenissima rialzò la testa e cercò parole per controbattere l'ultima frase del Cavaliere, ma non ne trovò.
   - Avete solo fatto ciò che più ritenevate giusto per preservare l'incolumità dei vostri concittadini. Non dovete rimproverarvi di questo! Se aveste agito d'impulso, a quest'ora non solo questa piazza, ma l'intera città sarebbe stata rasa al suolo! Abbiate cura di voi e dei vostri concittadini! Addio! -, aggiunse infine il dorato arciere, congedandosi e spiccando il volo. Il doge lo vide allontanarsi nel cielo e benedisse Dio per la generosità e l'altruismo di quel giovane.
 
[1] "Canto dei Sette Dei".
[2] "Esplosione Galattica".
[3] "Gesta di Sumer".
[4] "Per il Sacro Sagitter".

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Capitolo 8
*** Ghiaccio e vento ***


Capitolo VIII
GHIACCIO E VENTO
 
Europa centro-occidentale, ottobre 1062
 
   Vernalis era partito dal Grande Tempio in compagnia di Pelag e Nashira, ma ben presto li aveva salutati e si era diretto di buona lena verso le terre di Francia: Parigi era la sua meta. Si fermò ai piedi di un boschetto di lecci, si avvicinò a un albero e vi poggiò sopra una mano. Il demone era passato di là, ma sembrava aver deviato dal suo percorso. Si addentrò nella boscaglia e si fermò al centro di un piccolo spiazzo. Alzò la testa al cielo, chiuse gli occhi e concentrò la sua attenzione sulla voce delle foglie, agitate da un vento freddo e malinconico. Proseguì, ricostruendo il cammino intrapreso dal servo di Nergal grazie alla vegetazione che lo circondava. Piante, fiori, cespugli erano per lui fedeli compagni di battaglia, in grado di svelargli particolari impercettibili agli occhi.  
   Si ritrovò in un villaggio deserto. Si notavano tracce di ghiaccio sciolto, ma non c'era ombra di cadaveri. Tese i sensi e i suoi occhi si appuntarono su un vecchio granaio fatiscente. Vi entrò e si guardò in giro: era una stanza rettangolare, alle cui pareti erano accatastati covoni e sacchi. Fino a poco tempo prima doveva esserci stato qualcuno: il grano sparso a terra in un angolo e alcuni falcetti abbandonati con noncuranza sul pavimento denotavano che qualcosa era accaduto. Si inginocchiò e prese alcune spighe, avvolgendole del suo cosmo dorato. Poi si rialzò e si avvicinò a un gruppo di sacchi sistemati alla rinfusa. Notò una botola, sorrise e l'aprì. - Non voglio farti del male, sono tuo amico! Su, vieni fuori! -, esclamò con tono gentile.
   Dalla botola fece capolino un ragazzino di circa sei anni. Aveva occhi blu e capelli color rame. Stringeva fra le mani tremanti un falcetto che istintivamente puntò contro lo straniero. - C-Chi siete voi? -, chiese col terrore dipinto sulla faccia. Vernalis gli tese la mano, guardandolo con espressione bonaria e amichevole.
   - Sono un Cavaliere di Atena, mi chiamo Vernalis di Pisces -, rispose, tentando di vincere la giusta diffidenza del bambino. A quelle parole, il ragazzino sembrò calmarsi e abbassò l'arma che aveva in mano.
   - Voi siete un Cavaliere? Allora non siete in combutta col mostro che ha devastato il villaggio! -, proferì a bassa voce, con lo sguardo perso nel vuoto come a rincorrere un terribile ricordo.
   - Cos'è successo? -, domandò l'ultimo custode dorato, aiutandolo a uscire dalla sua latebra.
   - Non lo so con certezza. Stavo aiutando mio zio a sistemare i sacchi di farina, quando d'improvviso uno strano gelo si è disteso sull'intero villaggio. Avevo un cattivo presentimento, ma lo zio mi ha costretto a nascondermi. Così ho preso questo falcetto e sono sceso nella botola. Sentivo le urla delle persone che conoscevo e volevo fare qualcosa. Mi sono affacciato dal mio nascondiglio, ho visto mio zio voltarsi verso di me e scuotere la testa per intimarmi di restare dov'ero e poi avventarsi contro una figura dalla strana armatura argentata. L'ultima cosa che ho udito è stato il suo grido straziante. È finito tutto in poco tempo: l'intero villaggio è stato sterminato -, raccontò il bambino, i cui occhi si erano velati di calde lacrime.
   - Non mi sono imbattuto in cadaveri venendo qui. Forse li avrà portati da qualche altra parte -, rifletté ad alta voce il Cavaliere, lasciando il bambino incerto.
   - Non è possibile! -, ribatté con forza quest'ultimo. - Dopo che tutto era finito, sono uscito a dare un'occhiata. Gli abitanti del villaggio erano tutti qui, rinchiusi in teche di ghiaccio. Poi sono tornato a nascondermi perché ho sentito dei rumori -.
   - Teche di ghiaccio, dici? -, replicò, allontanandosi di qualche passo e distogliendo lo sguardo. Un'orrenda verità gli si palesò alla mente: nello sciogliersi, il ghiaccio doveva aver consumato anche i corpi delle malcapitate vittime.
   - Come ti chiami, ragazzo? -, domandò d'un tratto, voltandosi di nuovo verso di lui.
   - Sargas -, rispose prontamente il bambino.
   - Bene, Sargas, ti ringrazio per le informazioni che mi hai dato, ma ora devo andare! Quell'essere deve essere sconfitto prima che mieta altre vite! -, lo salutò Vernalis, incamminandosi verso l'uscita.
   - Aspettate! -, lo fermò il fanciullo dagli occhi blu, fissandolo con decisione. - Voglio venire con voi! Questo posto odora di morte e non ci sono altri villaggi nelle vicinanze -.
   Il Cavaliere di Pisces abbassò lo sguardo su di lui, pensieroso. - È troppo pericoloso! Non posso combattere e badare anche a te! -, rispose schietto, varcando rapido la soglia del granaio.
   - Dove siete diretto? -, incalzò Sargas, raggiungendolo e strattonandolo per il mantello.
   Vernalis sospirò e, senza voltarsi, replicò: - A Parigi -.  
   - Bene, allora potete lasciarmi lì mentre combattete! -, soggiunse il ragazzo, fiero di aver trovato un argomento con cui controbattere alla riluttanza del Cavaliere.
   - D'accordo, ma a un'unica condizione: farai tutto ciò che ti dirò senza battere ciglio! -, acconsentì il dorato custode, dal cui sguardo spirava autorevolezza e nobiltà. Sargas annuì.
   Il Cavaliere gli cinse i fianchi col braccio e lo sollevò: - Sta' pronto! Fra poco saremo a Parigi! - Iniziò a prendere la rincorsa e spiccò un poderoso salto alla velocità della luce. Il bambino non capiva cosa stava succedendo, ma d'un tratto si ritrovò sulla riva della Senna. Avevano percorso un centinaio di chilometri in una frazione di secondo.
   - Come avete fatto? -, chiese stupito.  
   - I Cavalieri d'Oro hanno la capacità di muoversi a grande velocità e di coprire distanze anche molto lunghe in pochissimi secondi -, rispose il Cavaliere con naturalezza, avviandosi verso le mura della città con le mani alzate.
   Le guardie di pattuglia alla porta videro il giovane rivestito d'oro e il bambino avvicinarsi e si prepararono a riceverli. - Chi siete e cosa fate a Parigi? -, chiese con arroganza un soldato alto e robusto, puntando contro di loro la lancia che teneva in pugno.
   Con voce calma e gentile, Vernalis rispose: - Sono un Cavaliere d'Oro di Atene. Mi chiamo Vernalis di Pisces e ho urgenza di parlare col sovrano di queste terre! -
   La guardia lo osservò con curiosità e rise di gusto: - Non ho mai sentito parlare di Cavalieri di Atene! Dimmi chi ti manda! -
   Il Cavaliere aggrottò le ciglia, infastidito dal tono di sufficienza del soldato e stava per ribattere, quando una voce profonda e autoritaria lo fermò: - Gutlac! Lascialo passare! Dice il vero: è un Cavaliere dell'esercito della dea Atena! -
   Un uomo ben piantato, dai capelli brizzolati e dalla folta barba, si fece largo fra le guardie e apparve davanti a Vernalis. Il viso di Gutlac si era vestito di un pallore repentino e l'arroganza aveva lasciato il posto a un'umile reverenza. - Perdonate il comportamento dei miei uomini, nobile Cavaliere. Sono Briac, capo delle sentinelle di Parigi, vi prego di seguirmi. Vi condurrò dal conte Baldovino -. Il tono disteso e affabile di quell'uomo donò nuova bonarietà all'espressione di Vernalis.
   Il cammino non durò molto a lungo. Sulla sponda della Senna si ergeva una fortezza alta e compatta, difesa da quattro torri e custodita da un folto manipolo di guardie. Briac condusse i due stranieri lungo corridoi e sale, fino a un'alta porta di legno di faggio, ornata di borchie di metallo. Il capo delle sentinelle la aprì e si ritrovarono in un'ampia stanza, tappezzata di arazzi rossi e azzurri. Su un piccolo podio si ergeva un trono di marmo e avorio finemente lavorato, dietro cui svettava lo stemma della casa reale di Francia: uno scudo azzurro disseminato di gigli d'oro. Vi sedeva un uomo sui cinquant'anni, dai capelli argentati e dagli occhi grandi ed espressivi di un verde vivo. Sembrava preso da gravi pensieri e non si era accorto dell'arrivo degli ospiti. Fu la voce di Briac a distoglierlo dalle sue angustie.
   - Mio signore -, esordì inchinandosi, - questo nobile Cavaliere di Atene desidera parlarvi -. Baldovino volse lo sguardo verso i tre individui, scese dal trono, indossò un sorriso di circostanza e salutò gli stranieri, non riuscendo a nascondere l'evidente disagio che lo scuoteva. Vernalis si avvicinò, s'inchinò e parlò con voce cortese:
   - Nobile Baldovino, sono giunto fin qui per avvertirvi di una minaccia imminente. Un demone si sta dirigendo qui a Parigi con l'intenzione di raderla al suolo. Ha già distrutto il villaggio di questo bambino, la cui custodia vorrei affidarvi. Vi consiglio di far ritirare tutte le truppe e di mettere al sicuro i cittadini; a lui penserò io! -
   Baldovino restò confuso dalle informazioni portategli dal Cavaliere: - Cosa? Un demone? A Parigi? -
   Vernalis annuì e aggiunse: - Dobbiamo fare in fretta, non abbiamo molto tempo! - Il conte fece mente locale e per un attimo tentò di mettere da parte le conseguenze dello scandalo in cui la regina madre di Francia aveva gettato la corte e di concentrarsi sulla minaccia attuale.
   - Briac, informa il capo dell'esercito, e portate i cittadini al sicuro nella fortezza di Argenteuil! - La guardia annuì, s'inchinò e corse a eseguire gli ordini. Il conte si avvicinò poi a Vernalis, lo guardò con occhi disperati e disse: - Cavaliere, vi prego, siamo nelle vostre mani! -
   Senza proferire parola, il Cavaliere di Pisces s'inchinò e si congedò, seguito dal piccolo Sargas, che per tutto il tempo non aveva aperto bocca. A metà del corridoio Vernalis si fermò, volgendo lo sguardo verso di lui.
   Si inginocchiò e, stringendogli le spalle, disse: - Le nostre strade si separano, Sargas! Raggiungi Argenteuil e cerca di ricucire le fila della tua vita! Addio! - Il bambino trattenne le lacrime e lo fissò per un istante, tentando di trovare parole adatte a controbatterlo; ma i patti erano chiari: Vernalis lo aveva portato con sé a Parigi con la promessa che non avrebbe contestato le sue decisioni. Sargas distolse lo sguardo e corse via, sparendo nel corridoio semioscuro.
   Uscito all'aperto, Pisces si diresse ai merli delle mura, mentre i soldati si occupavano dell'evacuazione della città. Giuntovi, si voltò indietro, osservando la lunga fila umana che si dirigeva alla porta nord. Intravide Sargas dare una mano ai soldati con le persone anziane e un sorriso orgoglioso gli illuminò il volto. D'improvviso un sinistro gelo e un cosmo dalla tetra malvagità lo riportarono alla sua missione. Dalla radura che si estendeva di fronte alle porte della città apparve una figura non molto alta, protetta da un'armatura prevalentemente argentata.
   Aveva un elmo a casco su cui erano fissati tre triangoli di colore blu, sulle tempie e sulla fronte. Il pettorale aveva la forma di un triangolo rovesciato e copriva anche le spalle su cui erano fissate due alette a forma di mezza luna. I bracciali erano circolari, adornati da una serie di piccole scaglie blu, leggermente rialzate verso l'alto. Il cinturino presentava due larghe piastre sui fianchi dai bordi blu e una più stretta dietro. Un fregio a forma di prisma era fissato nella parte anteriore. I cosciali erano circolari e staccati dagli schinieri. Anch'essi presentavano piccole scaglie blu. Gli schinieri, alti fino alle ginocchia erano ornati da strisce blu davanti e sui lati.
   - Ti aspettavo, demone! -, esordì Vernalis dall'alto delle mura. L'essere volse lo sguardo in direzione della voce che lo aveva accolto e sorrise. Aveva occhi di un grigio spento e dall'elmo spuntavano ciuffi di un verde chiaro.
   - Un cane di Atene! -, replicò, fermandosi e guardandolo con aria di sfida.
   - Eccoti il mio benvenuto, creatura infernale! -, ribatté il Cavaliere. Il demone iniziò a percepire un intenso profumo di fiori, abbassò lo sguardo e vide un fitto tappeto di rose rosse estendersi ai suoi piedi.
   - Ti ringrazio per il gentile omaggio, ma i fiori mi disgustano! -, ironizzò, bruciando il proprio cosmo violaceo e ricoprendo di ghiaccio il giardino creato dal Cavaliere. Le rose scomparvero, sciolte dal gelido manto.
   - Allora -, esclamò il servo d'Irkalla, - presumo che anche un cane di Atena abbia un nome. Come ti chiami, Cavaliere? -
   L'ultimo custode dorato chiuse gli occhi e accennò un sorriso: - Il mio nome è Vernalis di Pisces e immagino che anche a demoni della tua risma abbiano affibbiato un nome -, rispose, rispedendo al mittente le provocazioni.
   Il demone era divertito: - Mi chiamo Ibate, sono il quinto demone del ghiaccio. Non speravo di trovare un Cavaliere ad aspettarmi, avrei preferito prima giocare un po' con gli abitanti di questa città e magari bagnarmi del loro sangue innocente! - Pisces rimase inorridito dalla calma ferocia con cui l'essere infernale esprimeva le proprie convinzioni.
   - Hai già fatto abbastanza per oggi. Non ti è bastato distruggere un intero villaggio? La tua sete di sangue non è ancora paga? -, replicò con un certo disprezzo nella voce.
   - Le mie mani non sono mai stanche di mietere vittime! Perché dovrebbero? Non c'è soddisfazione più grande nell'udire le grida disperate di inermi moscerini e nel vedere i loro occhi spauriti e imploranti! -, affermò Ibate, il cui volto rifulse di una luce sinistra. Poi bruciò il suo cosmo violaceo e una candida distesa di ghiaccio iniziò a propagarsi e ad a risalire le mura della città. Il cosmo dorato di Vernalis creò robuste radici che spuntarono dal suolo e si posero a difesa di Parigi. Il ghiaccio le sciolse senza particolari problemi, ma non intaccò i blocchi di pietra della cinta muraria. Anche se per poco, il Cavaliere era riuscito a impedirne il crollo.
   - Sei un ingenuo! Tutte le piante dell'universo non ti doneranno la vittoria! Non hai mezzi adatti per affrontarmi! Cedi le armi e abbandonati al tuo inevitabile destino! -, propose il demone, guardandolo con ironico biasimo per la sua incapacità nel condurre la battaglia.
   - Non mi pare che tu mi abbia già messo alle corde, demone. E poi ho ancora molte frecce al mio arco! -
   - Te lo ripeto, i tuoi fiori non possono competere contro il potere corrosivo del mio ghiaccio. Hai sprecato solo anni di addestramento e non riuscirai a salvare la gente che tanto ti affanni a proteggere! La loro fuga è destinata a interrompersi prima del previsto! -, ribatté Ibate, insinuando un dubbio nel cuore del Cavaliere. Vernalis tese i sensi, afferrò delle foglie, portate via dal vento che si era fatto più intenso, e le interrogò. Nella sua mente apparvero delle immagini: su un'ansa della Senna vide un'immensa distesa di ghiaccio da cui si innalzavano spuntoni acuminati. Si trovava proprio nella direzione che aveva preso il popolo di Parigi. Scosso da quella visione, si voltò indietro e scorse Sargas che si attardava per far uscire gli ultimi cittadini. Il bambino avvertì qualcosa e si girò verso le mura: osservò lo sguardo crucciato del Cavaliere e, mosso da un istintivo timore, annuì e corse verso la testa della fila umana.
   Vernalis tornò a concentrarsi sul demone, la cui crudele risata riecheggiava nel silenzio della radura. Sperava in cuor suo che Sargas avesse intuito qualcosa e stesse avvertendo Briac e il capo dell'esercito. - Credevi davvero che non avessi avvertito la tua presenza e non avessi preso delle precauzioni? -, provocò Ibate, sempre più divertito dagli eventi.
   - Il tuo piano non funzionerà, Ibate! -, affermò il Cavaliere, ritrovando calma e decisione. - La tua stoltezza ti condurrà alla rovina, Cavaliere -, gridò il demone, puntando il braccio sinistro verso l'avversario e creando attorno a lui del nevischio denso e compatto. Vernalis bruciò il proprio cosmo e petali di rose nere lo circondarono e annullarono gli effetti del gelo di Ibate.
   - Che cosa? -, disse quest'ultimo, incredulo. - Come hanno fatto quei miseri petali ad annullare il mio gelo? -, aggiunse, contrariato e confuso dalla contromossa nemica. Un sorriso soddisfatto si disegnò sul volto del Cavaliere e nei suoi occhi azzurri il demone scorse una salda fiducia.
   - Le mie rose nere sono in grado di disintegrare qualsiasi materiale, e anche neve e ghiaccio hanno consistenza solida! -, rispose il giovane custode dorato, osservando l'indignazione e lo scorno che avevano velato il volto di Ibate, fino a poco prima ilare e fiero.
   - Dannato moccioso! Pagherai per quest'affronto! Non avrò pietà! Rimpiangerai il giorno in cui hai deciso d'indossare quella corazza dorata! -, urlò il servo di Nergal, in preda alla rabbia. Il suo cosmo violaceo iniziò ad ardere intenso e il suolo ghiacciò. L'umidità presente nell'aria cominciò a condensarsi e a solidificarsi. I bracciali e i cosciali dell'armatura del demone s'illuminarono e apparvero sottili aghi acuminati sia dal suolo che nell'aria.
   - Dudu Dihak![1] -, gridò, lanciando il suo colpo segreto. Una miriade di aculei si avventò contro Vernalis, che si circondò di fusti e petali di rose nere. Tuttavia, la difesa si rivelò inefficace: le ridotte dimensioni permettevano agli aghi di penetrare negli interstizi delle piante e di colpire il Cavaliere, che fu sbalzato dalle mura e cadde fragorosamente ai piedi della porta sud.
   Sargas tornò proprio in quel momento e, lanciando un urlo, corse in direzione del Cavaliere, col cuore gonfio di angoscia e tristezza. Si accorse che il corpo di Vernalis era avvolto da una strana aura dorata. Si fermò, sorpreso da quell'improvviso fenomeno, e avvertì un potere terrificante provenire da quell'intenso alone dorato. - Nobile Vernalis! -, gli urlò.
   Il custode delle vestigia di Pisces si rialzò, un po' dolorante, e senza voltarsi rivolse parole gentili al bambino: - Va' via di qui, Sargas! Questo luogo non è sicuro per te! Sbrigati! - Un po' titubante, il fanciullo seguì il consiglio e si allontanò, continuando a guardare di tanto in tanto il Cavaliere.
   Il ghiaccio di Ibate sgretolò la robusta porta ed egli entrò con espressione eccitata e avida di sangue e morte. Quando si avvide che il Cavaliere era un po' provato ma del tutto incolume, rabbia e disprezzo tornarono a velargli il volto. - Sei sopravvissuto? Non è possibile! -, sibilò, stufo della scomoda presenza di quel ragazzo che non faceva altro che intralciare il suo divertimento.
   - È stata l'armatura a proteggermi, e ora proverai sulla tua pelle quanto possa essere letale il bacio della natura! -, rispose Vernalis, spingendolo fuori dalla città con la sola emanazione cosmica.
   Ibate si rialzò confuso: sembrava che il cosmo del Cavaliere fosse cambiato, diventando più aggressivo e freddo. Avvertì una repentina paura e non se ne spiegava il motivo. - Avanti, lancia di nuovo il tuo colpo segreto! -, lo provocò Vernalis, la cui aura cosmica cominciava a diventare opprimente. Il demone cercò di scrollarsi di dosso l'inquietudine che lo aveva invaso e concentrò il proprio cosmo: non voleva più giocare, quel Cavaliere andava eliminato subito. Si preparò di nuovo a lanciare la propria tecnica, quando delle nodose radici irte di spine gli cinsero le gambe, provocando crepe e graffi all'armatura. Un manto di ghiaccio le ricoprì, ma Ibate si accorse che la forza del suo gelo sembrava scemata.
   Guardò Vernalis con odio e gridò: - Dudu Dihak! - Gli aghi vennero avvolti da petali viola e rimasero immobili nell'aria senza muoversi per poi scomparire. Ibate sgranò gli occhi, cercando di liberarsi dalla morsa delle radici create dal Cavaliere, ma più si dimenava più il suo cosmo sembrava indebolirsi.
   - Che cosa mi hai fatto, dannato Cavaliere? -, domandò furente il demone, concentrando tutte le forze nelle gambe, coperte di sangue e percorse da un dolore lancinante. Vernalis aprì la mano destra che stringeva un fiore viola dal profumo intenso e suadente.
   - Questo piccolo fiore ti accompagnerà nel tuo viaggio di ritorno agli Inferi, ma prima ho delle domande da porti: dov'è il tuo dio? Chi comanda le vostre schiere? E soprattutto, quali sono i loro piani? -
   - Mai e poi mai rivelerei a un nemico i segreti del mio signore! Puoi divertirti a torturarmi, ma da me non caverai alcuna informazione -, ribatté il demone, accennando un sorriso tirato e fissandolo con astio e furiosa rassegnazione. - Come desideri -, commentò il Cavaliere. Levò la mano destra verso l'alto e il suo cosmo creò del polline viola che andò a depositarsi sul corpo di Ibate, facendolo urlare di dolore. - Thanásimon Phílēma![2] -, disse Pisces e il sistema nervoso del demone collassò. Ibate si accasciò ormai privo di vita e il suo corpo si dissolse.
   Sargas corse dal Cavaliere. Lo raggiunse e si accorse che il terrore e la freddezza del suo potere erano cessati. - Cavaliere, state bene? -, chiese con tono accorato. Vernalis annuì e si diresse lentamente verso le sponde della Senna.
   Il bambino lo seguì. - Gli abitanti di Parigi sono tutti salvi. Sono riuscito a fermarli prima che si avviassero verso Argenteuil -, lo informò, guardandolo fisso e notando un velo di malinconia nel suo sguardo.
   - Come hai fatto a capire che bisognava fermarli? -, chiese Pisces, tenendo gli occhi piantati sul fiume. Sargas stava per rispondere quando sopraggiunse il conte Baldovino, seguito da Briac e dal capo dell'esercito.
   - Cavaliere, re Filippo, io, Parigi e la Francia intera vi siamo immensamente debitori! Senza il vostro aiuto questa città e i suoi abitanti non esisterebbero più. Chiedete qualsiasi ricompensa e vi sarà accordata; e a questo bambino che ci ha dato una mano e ci ha avvertito del pericolo che si annidava sulla strada per Argenteuil verrà concesso un posto a corte! -, esordì sorridendo e con tono affabile. Vernalis si voltò verso di lui, inchinandosi.
   Alzò lo sguardo e con voce ferma rispose: - Vi ringrazio per le vostre parole, ma per i Cavalieri di Atene la salvezza e la protezione dell'umanità sono una missione che non richiede ricompense! È la fede in Atena e nella giustizia a muoverci, non gli allori o le ricchezze. La vita di ogni singolo essere umano, anche del più insignificante, è preziosa per noi! Spero che le mie parole non vi abbiano offeso. Comunque sia, l'aver garantito un tetto e la sopravvivenza a questo bambino è già un compenso sufficiente per me -.
   Il conte rimase impressionato dall'umiltà di quel giovane. Aveva un potere soprannaturale, eppure non se ne vantava e non lo usava per ricavarne un proprio tornaconto. Aveva sentito tante volte parlare dei paladini del Grande Tempio, ma aveva sempre creduto che molte delle cose che si raccontavano sul loro conto fossero esagerazioni o leggende. Tuttavia, ora aveva davanti agli occhi uno di quei tanto decantati Cavalieri e non poteva far altro che ammettere i propri errori nel giudicare le voci che aveva sentito nel corso degli anni. Volse poi lo sguardo al bambino, dicendo: - Qual è il tuo nome, ragazzo? -
   Un po' intimidito dall'autorità che lo stava interrogando, il fanciullo rispose: - Mi chiamo Sargas, signore! -
   - Bene, Sargas, diverrai mio paggio personale e se ti farai valere potrai diventare cavaliere del regno! -, disse Baldovino, il cui volto era illuminato da un sorriso. Sargas abbassò il capo, deglutendo nervosamente.
   Poi rialzò il volto, da cui promanò una subitanea risolutezza e con voce salda replicò: - Sono onorato della vostra offerta, mio signore, ma devo declinarla! I fatti di oggi mi hanno convinto che servire un'unica nazione, anche se è la mia, non sarebbe giusto. È bastata una sola creatura infernale a spazzare via il mio villaggio e a mettere in ginocchio una città, e se non fosse intervenuto il nobile Vernalis a quest'ora la Senna sarebbe arrossata dal sangue di vittime innocenti. Anche per me la vita di ogni singolo essere umano è preziosa e servire la Francia mi costringerebbe ad affrontare i suoi nemici e a stroncare anche vite incolpevoli. Non ho aiutato questa gente per ottenere privilegi, è stato il mio cuore a spingermi a farlo! -
   Baldovino si fece serio e i suoi occhi si rivestirono di ammirazione. Quel bambino era più piccolo del re di Francia, eppure dimostrava una nobiltà d'animo e una maturità impressionanti. Sperava che un giorno anche Filippo sviluppasse così alte aspirazioni e riuscisse a governare il suo paese con amore e dedizione. - Rispetto la tua scelta, Sargas! E sappi che la corte ti accoglierà a braccia aperte, qualora cambiassi idea -, disse. Poi si congedò e, accompagnato da Briac e dal capo dell'esercito, tornò in città.
   Vernalis osservò Sargas, ancora in preda all'emozione per aver avuto la possibilità di parlare al reggente di Francia. - Puoi rilassarti, adesso -, consigliò il Cavaliere, sorridendo. - Allora, vuoi spiegarmi come hai fatto a capire che la strada per Argenteuil non era sicura? -, aggiunse, riprendendo le fila del discorso interrotto dall'arrivo del conte.
   Il ragazzino alzò il viso e rispose: - Quando i nostri sguardi si sono incrociati, dentro di me è balenato un timore ingiustificato. Qualcosa mi ha spinto a fermare quel corteo di anime, ma non sapevo se le mie sensazioni fossero giuste oppure no. Ho detto loro che la strada era pericolosa solo per costringerli ad arrestare la marcia, non avevo nessuna prova che lo fosse realmente -.
   Il Cavaliere rifletté per un attimo su quelle parole, poi disse: - Hai un intuito molto sviluppato per la tua età. Notevole! -
   Sargas era incuriosito dall'aura dorata che aveva visto avvolgere il Cavaliere e dal potere terrificante che ne era scaturito, così vinse la timidezza che lo spingeva a tacere e domandò: - Nobile Vernalis, cos'era quella luce dorata che vi circondava e da dove proveniva quel terribile potere che ho avvertito? -
   Il dodicesimo custode dorato restò di stucco: quel bambino possedeva le abilità tipiche di chi ha un cosmo prossimo a manifestarsi. Possibile che anche lui l'avesse risvegliato inconsciamente? Ciò giustificava anche l'enorme capacità intuitiva che aveva mostrato. - Te lo dirò, ma prima devi soddisfare la mia curiosità. Hai rifiutato l'offerta del conte perché vuoi diventare Cavaliere di Atena, vero? -, replicò serio Pisces.
   Sargas sostenne il suo sguardo e annuì. - L'addestramento da Cavaliere è lungo e difficile, richiede enormi sacrifici e potrebbe anche condurti alla morte. Sei pronto ad affrontare tutto questo? -, aggiunse Vernalis. Il bambino distolse lo sguardo, fissando il suo volto riflesso dall'acqua.
   - La morte mi accompagna fin dalla mia nascita, perché dovrei temerla? Avevo un anno quando i miei genitori perirono in un incendio. Il fratello di mia madre e sua moglie mi accolsero come un figlio, ma anche loro ormai non ci sono più. Se devo affrontare la nera signora per garantire ad altri serenità e pace, sono pronto a farlo! - Fu questa la risposta di Sargas.
   - Sei un ragazzino risoluto e maturo per la tua età. Mi hai convinto, ti porterò con me al Grande Tempio -, concluse soddisfatto il Cavaliere.
   Il bambino lo guardò con orgoglio e un sorriso sbarazzino gli si dipinse sul volto. - E ora risponderò alle tue domande -, riprese Vernalis. A quelle parole, l'espressione del fanciullo tornò seria e la sua attenzione si fece più intensa.
   Il Cavaliere cominciò: - L'aura dorata che mi avvolgeva è la manifestazione fisica del cosmo. Ogni essere umano racchiude dentro di sé un piccolo universo, ma solo in pochi riescono a risvegliarlo. Questo universo è il cosmo, un potere che rende capaci di compiere imprese straordinarie. I Cavalieri di Atena non sono gli unici a saperlo manipolare; molti sono gli dei su questa terra e diverse le schiere che li accompagnano in battaglia. Il nostro compito è sventare ogni minaccia divina volta all'annientamento della razza umana -. Fece una pausa per permettere al fanciullo di comprendere fino in fondo le sue parole. Sargas sembrava riflettere sul discorso, ma la risolutezza nei suoi occhi blu non scomparve, bensì si rafforzò.
***
   Fissando lo scorrere del fiume davanti a sé, Vernalis riprese a parlare: - Sono nato in terra germanica, in un ridente e rigoglioso villaggio sito sulla sponda di un fiume molto simile a questo, il Neckar, ai piedi della Foresta Nera. Il mio villaggio viveva di commercio, grazie al fiume che permetteva di raggiungere Stoccarda. Avevamo persino un medico, visto che la città era molto lontana. Mio padre era un rinomato artigiano e sperava che io, il suo unico figlio, ne seguissi le orme. Tuttavia, io non amavo lavorare il ferro e mal sopportavo il calore della fucina; preferivo di gran lunga immergermi nella natura ed esplorare gli angoli più nascosti della Foresta Nera. Trovavo i fiori, gli alberi e le piante meravigliosi, e dietro casa mia avevo approntato un piccolo giardino, dove piantavo gli esemplari più belli che riuscivo a reperire. A volte chiedevo consiglio al medico del paese, che si dilettava anche di botanica. Era questa la mia vita finché un giorno tutto cambiò.
   Mi ero spinto lontano dalla zona che di solito visitavo. Avevo voglia di trovare qualcosa di nuovo, fiori e piante insolite o particolari. Giunsi in un'immensa vallata verdeggiante, delimitata da un boschetto di querce. L'aria era pregna di un profumo dolce e inebriante. Notai, ai piedi degli alberi, cespugli di strani fiori viola. Mi avvicinai: avevano uno stelo di un verde intenso e irto di spine, su cui si dispiegavano cinque petali di un viola scuro a forma di mano aperta. Quando il vento li carezzava sembravano davvero mani che invitavano chi li guardava ad appressarsi. Portavo sempre con me un cesto e uno strumento di mia invenzione che usavo per scalzare le radici delle piante che raccoglievo. Rapito dalla bellezza e dalla fragranza di quel fiore, mi misi all'opera. Benché le mani mi facessero male e sanguinassero a causa delle innumerevoli punture delle spine aguzze di quei fiori, non mi diedi per vinto e alla fine riuscii a coglierne un paio. Felice di quei nuovi cimeli, corsi a casa per ripiantarli prima che appassissero. Mi recai nel mio piccolo giardino e con solerzia diedi loro nuova terra dove poter vivere rigogliosi. Poi varcai l'uscio di casa mia, ma una vertigine ed un senso di mancamento mi fecero crollare al suolo. Sentii le grida di mia madre perdersi nel tetro sonno in cui stavo cadendo.
   Arrivò il medico, mi visitò, ma non riuscì a trovare nulla. I segni delle punture dalle mie dita erano spariti. Conoscendo la mia passione per la natura, chiese a mia madre se anche quella mattina ero uscito a fare la mia consueta esplorazione. Alla di lei risposta affermativa, corse subito nel giardino dietro casa mia, ma lo spettacolo che vide lo fece trasalire. I fiori che avevo colto quella mattina venivano chiamati "Teufelhände[3]" e le loro spine erano letali per chiunque. Si fece portare subito della legna e bruciò l'intero giardino.
   Sarei dovuto morire in poche ore e invece la mia agonia durò quattro giorni. Ero perennemente scosso da incubi e nessun rimedio sembrava lenire la mia sofferenza. E poi tutto finì, così com'era iniziato. All'alba del quarto giorno la febbre scomparve e tornai finalmente a rivedere il sole e le persone che amavo. Erano tutti increduli. Molti pensarono a un miracolo della provvidenza divina, altri restarono più dubbiosi e incerti.
   La mia vita aveva ripreso il suo corso, ma io sentivo che qualcosa dentro di me era cambiato. La natura, che prima ammiravo solo per l'incanto che sapeva trasmettermi, aveva preso coscienza e mi parlava. Ogni volta che toccavo un albero o udivo lo stormire delle foglie, sentivo voci, suoni, strane percezioni. Tutto ciò che mi dicevano si avverava in un modo o nell'altro. Notavo che anche le persone che conoscevo fin dalla nascita cominciavano a guardarmi con occhi diversi: sembravano impauriti e a disagio quando c'ero io oppure parlavano a bassa voce se mi vedevano passare. Era frustrante sentirsi d'un tratto escluso da tutto e da tutti. Mi rifugiai sempre di più nella mia passione per la natura, ricostruii il giardino, ma dentro di me sapevo che nulla sarebbe tornato come prima.
   Un giorno, un'improvvisa epidemia si palesò nella vita semplice del mio villaggio. La gente iniziava ad ammalarsi e il medico non era in grado di curarli. Molti persero la vita e, fra loro, anche i miei genitori. Io ero l'unico a sembrare immune a questa grave catastrofe e ciò suscitò nei superstiti nuove illazioni sul mio conto. Credevano che fosse stato il diavolo a risparmiarmi e a darmi la facoltà di annientare l'intera comunità. Decisi di andare via, stanco delle occhiate bieche e delle frasi a mezza bocca, e di lasciarmi alle spalle tutto il disprezzo che mi gravava addosso.
   Ero seduto sulla riva del Neckar, in lacrime, quando sentii arrivare qualcuno. Era un Cavaliere di Atena, si chiamava Midra di Equuleus. Mi disse che il Sommo Sacerdote di Atene aveva udito il pianto del mio cuore e voleva conoscermi. Ero talmente deluso che, pur non sapendo nulla di Atena e dei suoi Cavalieri, lo seguii senza fare domande. Pensavo di non aver più niente da perdere ormai. Fu il vicario della dea della giustizia, il sommo Alexer, a rivelarmi la verità su quanto mi era accaduto.
   L'epidemia era stata scatenata da un'imbarcazione infetta approdata nel porticciolo del villaggio, non da me. Inoltre, la valle in cui avevo trovato i Teufelhände è da sempre dominio di Ade, il dio greco dell'Oltretomba e acerrimo nemico di Atena. Circa ogni duecentocinquant'anni in quella zona appare la sua dimora per accogliere la sua rinascita. Quei fiori provengono dagli Inferi e sono un monito per tutti coloro che vi si avventurano. Io sono sopravvissuto perché il cosmo latente dentro di me si è risvegliato e ne ha assorbito gli effetti nocivi. Ed è per questo che ogni volta che arde intenso diventa freddo e terrificante: il potere nefasto e letale di quei fiori si sprigiona e annienta tutto ciò che lo circonda. Il cosmo del demone che ho affrontato si è dapprima indebolito e poi il polline da me creato ha aggredito il suo sistema nervoso disintegrandolo -.
   Sargas aveva ascoltato il racconto in silenzio. Fissò la propria immagine riflessa dall'acqua: - Dovevate sentirvi molto solo, all'inizio -, esclamò, quasi senza badare alle parole che stava pronunciando.
   - Non solo all'inizio. Anche durante il periodo di addestramento cercavo di limitare i contatti coi miei compagni per timore di far loro del male, ma grazie alla saggezza del Sommo Sacerdote e al sostegno dei miei amici ho compreso che il cosmo rispecchia l'animo di chi lo possiede. Il cosmo di chi ha un cuore votato alla giustizia e al bene è gentile con gli innocenti e spietato con i malvagi! -, rispose Vernalis.
   - Capisco -, replicò il bambino, senza aggiungere altro.
   - Ora andiamo. Il Grande Tempio ci aspetta! -, riprese Pisces con un sorriso. Sargas annuì, e dalle sponde della Senna saettò verso sud-est una luce dorata.
***
   Nashira lasciò la sala contrariato e deluso, tenendo l'elmo dell'armatura saldamente stretto sotto il braccio. Il conte di Barcellona, Raimondo Berengario, non aveva dato credito alle sue parole e lo aveva trattato con sufficienza e superbia. Stava percorrendo il corridoio che lo avrebbe condotto all'uscita, quando una voce giovane e sarcastica lo distolse dai suoi pensieri:
   - Allora è vero che il figlio di Kemen il Battagliero è tornato all'ovile! -
   Il Cavaliere alzò lo sguardo e vide due figure: una era appoggiata alla parete, l'altra gli stava vicino e teneva uno scudo. La sua attenzione si appuntò sul ragazzo che aveva pronunciato quella frase. Aveva occhi verdi e capelli lunghi fino alla nuca di un castano chiaro. Nashira ebbe un moto di sorpresa nel riconoscere il volto del suo amico d'infanzia. - Rodrigo? Cosa ci fai qui a Barcellona? -
   Il ragazzo si scostò dalla parete e si avvicinò a lui: - Il principe Sancho ha deciso di muovere guerra a suo zio Ramiro ed è in cerca di alleati. Sono stato mandato qui per chiedere aiuto al conte -, rispose, squadrandolo dalla testa ai piedi.
   Erano passati sette anni dall'ultima volta che si erano visti. Erano cresciuti insieme come fratelli, benché Nashira fosse più giovane di Rodrigo di sei anni. D'un tratto, gli allenamenti con la spada che Kemen lo aveva costretto a sostenere fin dalla più tenera età gli tornarono alla mente e si rivide su quello spiazzo polveroso antistante la loro casa, la pesante lama impugnata nella destra e il polso dolorante. Sentiva ancora le esortazioni del padre e dell'amico a colpire e a difendersi, e un velo di malinconia gli coprì il volto.
   - Non troverai alcun aiuto, qui. Il conte Berengario è troppo assuefatto alla sua politica di non belligeranza. Non si lascerà mai coinvolgere in una guerra intestina fra la Castiglia e l'Aragona. Hai fatto un viaggio inutile! -, replicò con tono secco e distaccato il Cavaliere di Capricornus.
   Rodrigo fece una smorfia di disappunto e sfiorò con le dita uno degli spallacci dell'armatura dell'amico: - È d'oro vero questa corazza? Quale regno o signore stai servendo adesso? Da quando tuo padre morì sotto le mura di Siviglia sei sparito! -, domandò, analizzando ogni singolo pezzo di quell'insolito usbergo.
   - È frutto di una lega di metalli rari, difficili da reperire. Sono un Cavaliere di Atena, dea della giustizia, adesso -, rispose asciutto Nashira.
   Rodrigo restò confuso e, con tono irriverente, sbottò: - Mi prendi in giro? Come ti vengono queste trovate balzane? -
   Il Cavaliere chiuse gli occhi, consapevole che l'amico non avrebbe mai compreso le sue spiegazioni, e si limitò ad aggiungere: - Ti basti sapere che servo l'umanità. Ogni uomo, chiunque esso sia, sono chiamato a difendere! È stato un piacere rivederti, ma ora devo andare! -
   Il Cavaliere fece per riprendere il cammino, quando la voce di Rodrigo divenne d'un tratto seria e triste: - Sei cambiato, Nashira. Da bambino non facevi altro che agitare la spada che ti aveva regalato tuo padre per diventare il miglior spadaccino di Spagna e ora davanti a me vedo un giovane uomo che si erge a protettore dell'intera razza umana e che ha lasciato da parte ogni velleità di primeggiare. Cosa ti è successo? -
   Nashira si voltò e dai suoi occhi neri s'irradiò una luce che sorprese l'amico. - Gli insegnamenti di mio padre li porterò sempre con me, ma esistono cose più importanti della gloria e della fama. Ho imparato che tutti abbiamo dei limiti oltre i quali è difficile andare. Mio padre stesso ne è stato la prova: ha vinto innumerevoli battaglie, si è distinto per coraggio e dedizione, ma il suo profondo odio per gli infedeli gli è costato la vita. Era così concentrato ad annientare i suoi nemici di sempre che non si accorse della lama amica che gli trapassò il cuore. Questo era il suo limite. Io ho conosciuto uomini che non potrò mai superare in battaglia, perché la natura li ha forniti di una forza straordinaria e all'inizio ero roso dall'invidia. Volevo superarli, ma più mi intestardivo, più la mia forza scemava. Poi un mio compagno d'arme mi aprì gli occhi: se avessi continuato a farmi vincere dai miei sentimenti, non sarei mai diventato forte. Se oggi sono qui è perché ho vinto le mie insicurezze e ho ben chiari i miei limiti -, affermò con calma e lucidità. Poi si girò di nuovo e riprese il cammino.
   - E ora dove vai? -, riprese a interrogarlo Rodrigo, raggiungendolo. Senza voltarsi, il custode delle vestigia di Capricornus rispose:  
   - Su questa città incombe una minaccia. L'attirerò nei pressi del Besòs e le impedirò di fare danni -.
   - Una minaccia? Quale minaccia? -, incalzò il giovane castigliano.
    - Non c'è tempo per le spiegazioni, addio! -, tagliò corto Nashira, spiccando un salto e scomparendo alla vista.
   - Isidro! -, tuonò Rodrigo, chiamando il ragazzo che lo accompagnava. Il giovane accorse e fece un inchino. - Dammi lo scudo e anche la tua spada. Riferisci al conte Berengario che presto gli porterò la testa di un nemico. Sono sicuro che acconsentirà a darci una mano nella battaglia contro Ramiro d'Aragona. Portami il cavallo! - L'atteggiamento scostante e la fretta di andare via dimostrate dall'amico di un tempo lo avevano insospettito. Era convinto che nascondesse qualcosa e che stesse lavorando proprio per conto dei nemici del suo signore. Non appena Isidro gli portò il cavallo, lo montò e corse via a spron battuto.
   Giunto sulle rive del Besòs, Nashira fece bruciare il proprio cosmo per attirare l'attenzione del demone che si dirigeva verso Barcellona. L'attesa non fu lunga. Un vento intenso scosse le cime degli alberi e una figura alata, alta e vigorosa si parò davanti al Cavaliere con un'espressione gelida sul volto.
   Indossava un'armatura prevalentemente grigia con inserti viola. L'elmo aveva la forma di una testa d'uccello, col becco ricurvo che creava una sorta di visiera. Il pettorale copriva il torace e si allungava fino ai fianchi, coprendo la schiena, ma lasciando scoperto il ventre. Gli spallacci erano composti da due piastre sovrapposte a forma di ali. I bracciali proteggevano le braccia fino al gomito ed erano muniti di artigli affilati di colore viola che coprivano le dita del demone. Il gonnellino, formato da piccole frange metalliche, presentava nella parte posteriore una coda d'uccello. Gli schinieri, alti fino alle ginocchia, avevano davanti e ai lati artigli viola ricurvi verso l'alto. Agganciate alla schiena svettavano imponenti ali di sparviero. Erano presenti triangoli sugli spallacci, al centro del cinturino e sulle manopole dell'armatura, tutti di colore viola.
   - Contavo che saresti venuto! -, esordì il Capricorno, fissandolo con aria di sfida.
   - Non vedevo l'ora di saggiare la forza di un Cavaliere! Come ti chiami, ragazzo? Io sono Dadasig, terzo demone del vento! -, fu la risposta dell'essere infernale.
   - E io Nashira di Capricornus, Cavaliere d'Oro di Atena! -, replicò il giovane paladino della giustizia, facendo bruciare il proprio cosmo e lanciandosi all'attacco. Spazzò l'aria col braccio destro e lame d'energia puntarono il corpo di Dadasig, che sorrise e si preparò a parare. Allargando le braccia, eresse una barriera di vento che, tuttavia, sembrò inefficace contro il colpo del Cavaliere: le lame l'attraversarono, ma il demone riuscì a schivare, librandosi in alto grazie alle ali dell'armatura.
   - Per essere solo un ragazzino non sei male! Sei degno del titolo di Cavaliere d'Oro. Nessuno era mai riuscito a penetrare la mia barriera. Tuttavia, la mia sete di vendetta non ha limiti! Schiaccerò tutti voi Cavalieri per aver assassinato Umma, che consideravo alla stregua di un fratello! -, commentò il demone, facendo ardere il suo cosmo arancione pallido.
   - Anche noi abbiamo perso dei compagni, ma la morte nel corso di una guerra è più che naturale! Chi non la accetta e vive di cieca vendetta non ha speranze di vittoria -, ritorse Nashira, lanciando un poderoso fendente contro l'avversario, che prontamente schivò aiutato dalle maestose ali.
   Una smorfia di disappunto si delineò sul volto severo del ragazzo: - Devo sbarazzarmi di quelle ali, se voglio portarmi in vantaggio! -, pensò, caricando di nuovo il cosmo nel braccio destro.
   Seguendo il corso del fiume, Rodrigo era arrivato in prossimità del luogo dello scontro. Si fermò, scese da cavallo, lo legò al tronco di un albero, sotto cui verdeggiavano rigogliosi cespugli, e si nascose dietro una sporgenza di roccia, da dove poteva guardare ciò che accadeva. Voleva aspettare il momento opportuno per intervenire e affrontare la "minaccia" cui aveva accennato Nashira. Osservava lo scontro che si stava consumando, ma non ne afferrava la dinamica: l'amico sembrava immobile col braccio alzato, eppure attorno al suo avversario si erano aperte improvvise crepe nel suolo. Si chiedeva cosa significasse quello strano fenomeno e chi ne fosse l'artefice. Le parole del suo vecchio amico gli erano sembrate incomprensibili: cosa significava 'servire l'umanità'? E perché si era comportato in modo freddo e scostante? Gli aveva mentito per non destare sospetti? Eppure il ragazzino che era cresciuto con lui non avrebbe mai detto bugie! D'un tratto si ricordò della luce che gli aveva visto negli occhi e un dubbio s'insinuò nel suo cuore: si era forse sbagliato? Nashira gli aveva detto la verità? Doveva scoprirlo! Saltò fuori dal suo nascondiglio, sguainando la fedele Tizona, la spada donatagli da Donna Urraca il giorno in cui era stato nominato cavaliere. D'un tratto, però, si ritrovò a terra, spinto via da una forza invisibile.
   - Va' via, Rodrigo! Questo non è posto per te! - La voce di Nashira gli arrivò ovattata e lontana. Si rialzò un po' frastornato, scuotendo la testa come per riprendere lucidità. Il demone approfittò dell'attimo di distrazione del Cavaliere per scatenare contro di loro un turbine di vento. Avvistosi del pericolo, Nashira balzò accanto all'amico e lo portò in salvo, mentre il vento spazzava via ogni cosa. Il cavallo di Rodrigo s'imbizzarrì, spezzò la fune che lo legava e corse via al galoppo.
   - Chi è il tuo signore, Nashira? Sono sicuro che mi stai nascondendo qualcosa! -, proferì con tono frustrato e infastidito il giovane castigliano.
   Il Cavaliere di Capricornus lo fissò serio e rispose: - Nasconditi dietro quella fila di alberi laggiù e quando mi sarò sbarazzato di quell'essere ne riparleremo! Presto! - Rodrigo annuì e corse verso il luogo indicato, una fitta boscaglia che correva lungo il corso del fiume, creando un corridoio di terra fra la riva e gli alberi.
   Nashira tornò a concentrarsi su Dadasig e fece ardere il suo cosmo dorato. - Vedo che finalmente possiamo combattere senza altre interruzioni! - esordì il demone del vento, fissando il Cavaliere e muovendo un passo verso di lui.
   - Preparati a pagare per l'assassinio del mio compagno! Non avrò pietà! - Un cosmo arancione pallido s'innalzò attorno a lui e gli artigli sparsi sull'armatura s'illuminarono e presero vita. - Umbin Garashak![4] -, gridò il demone. Gli artigli si moltiplicarono e iniziarono a vorticare nell'aria creando turbini di vento ed energia cosmica. L'acqua del fiume, spinta dalla forza del colpo del demone, s'innalzò mescolandosi alle zolle di terra, ai rami e alla polvere sollevate dalla fiera corrente d'aria. Nashira tentò di coprirsi il volto, bersagliato dal pulviscolo, e di tenere ancorate le gambe al suolo. D'improvviso, gli artigli che si erano staccati dall'armatura e moltiplicati nell'aria iniziarono a bombardare le parti lasciate scoperte dall'armatura del Cavaliere. Un dolore fitto e paralizzante s'impadronì dei suoi arti, impedendogli il minimo movimento. - E ora il colpo di grazia! -, proruppe Dadasig, nei cui occhi bianchi come neve balenò una luce di trionfo.
   - Non è ancora finita, demone! Sei stato sciocco a mostrare le tue armi così presto! Te lo ripeto: chi vive di cieca vendetta non ha speranza di vittoria! - La voce salda e la stoica resistenza che Nashira mostrava impressionarono Dadasig e lo spinsero a intensificare ancora di più l'attacco. Il turbine levò in alto il giovane Capricorno e lo gettò violentemente tra le acque del fiume. Il demone rise tronfio, eccitato all'idea di aver eliminato uno dei guerrieri della casta più potente dell'esercito di Atena, e volse lo sguardo verso Rodrigo, nascosto fra la boscaglia. - Ora tocca a te, misero umano! -, sibilò con tono gelido. Rodrigo impugnava saldamente Tizona in una mano e nell'altra teneva lo scudo su cui era disegnato lo stemma del regno di Castiglia: un castello d'oro merlato alla guelfa. Dadasig levò il braccio per colpire, quando una lama d'energia lo centrò alla schiena spaccandogli un'ala.
   Il demone si voltò di scatto, furioso di collera, e vide Nashira avvolto da un'intensa aura dorata col braccio teso verso l'alto rifulgente d'energia. - Verme! Sei ancora vivo? -, sbottò il servo d'Irkalla, lanciandogli contro miriadi di artigli viola. Il Cavaliere spazzò l'aria, distruggendoli tutti in un colpo solo.
   - Rodrigo, torna al tuo nascondiglio! Questa battaglia è mia! -, ordinò poi il Capricorno, fissando l'amico con occhi che non ammettevano repliche. Il ragazzo abbassò le armi e tornò nella boscaglia, seppure di malavoglia.
   - Sono stanco di giocare, ragazzino! Stavolta non te la caverai! - In preda all'ira, Dadasig si preparò a lanciare di nuovo il proprio colpo segreto, ma Nashira saltò, fece una capriola e agganciò i piedi sotto le braccia del demone, scagliandolo in aria. Atterrato, si diede una nuova spinta e col braccio teso, avvolto d'energia, iniziò a girare su sé stesso e davanti a lui apparve una lama d'energia:
   - Hypértaton Excalibur![5] - La spada di energia passò da parte a parte il demone, il cui corpo si dissolse all'istante, come una goccia d'acqua a contatto con l'oceano. Nashira tornò a terra placando il proprio cosmo e fu raggiunto dal giovane condottiero di Castiglia, incredulo e confuso dal combattimento cui aveva assistito.
   - Quale immane potere! -, esclamò Rodrigo, che in quel guerriero non riconosceva il suo vecchio compagno d'infanzia. Ricordava un ragazzino sempre incerto, mai soddisfatto dei risultati ottenuti e spesso iroso e intrattabile. Ora invece vedeva un adolescente calmo e lucido, dotato di una forza che nessun uomo avrebbe mai potuto eguagliare.
   Gli si fece più dappresso e, col capo chino, si scusò, dicendo: - Perdonami se ho dubitato di te. Quando sei andato via, la tua freddezza e le tue parole mi hanno insospettito, credevo stessi lavorando per l'Aragona -.
   - Non cambi mai! Anche quando eravamo bambini ti fidavi poco di tutti. Dovresti sapere che non è mia abitudine mentire e se non ti ho raccontato certe cose è solo perché non riusciresti a capirle. L'unico scopo per cui sono tornato era salvare gli abitanti di Barcellona e, di riflesso, tutta la Spagna -, replicò Nashira, la cui voce si era ingentilita e sul cui volto era apparso un lieve sorriso.
   - E poi non avrei mai servito nessuna corte. Se ben ricordi era la cosa che più detestavo: dovermi spostare di città in città solo per assecondare i rigidi principi di mio padre.  La sua integrità e il suo onore cristiano gli impedivano di combattere contro i propri fratelli e ogni volta che due regni entravano in conflitto lui se ne andava. Aveva un unico scopo nella vita: punire gli infedeli per le atrocità commesse! -, aggiunse con un velo di tristezza negli occhi.
   - Ricordo bene le sue parole. Anche mio padre trovava eccessivi alcuni dei suoi principi morali. Ma dimmi, Nashira, perché sei andato via quella sera di sette anni fa? Per anni ho creduto che fossi morto; chiesi anche a mio padre notizie su di te, ma mi disse di non saperne niente -, replicò il giovane paladino di Castiglia, palesando una domanda che a lungo non aveva trovato risposta. Nashira sembrò turbato e riprese il suo atteggiamento distaccato, distogliendo lo sguardo e spostandosi di qualche passo.
   - Cos'è successo quella sera? Perché non vuoi dirmelo? -, incalzò Rodrigo, frustrato dalla reticenza dell'amico.
   Il Cavaliere, conoscendo l'indole sospettosa di Rodrigo, fece un profondo respiro e disse: - Tuo padre conosce la verità. Chiedilo a lui! -
   Il guerriero di Castiglia si accigliò e, continuando l'offensiva, ribatté: - Dovrai dirmelo tu, perché mio padre è morto quattro anni fa! Se lui c'entra qualcosa, voglio saperlo! Ora! -
***
   Nashira, messo alle strette, dovette cedere e malgrado la verità sarebbe stata amara per l'amico, decise di rivelargliela: - Come ben sai, nessuno aveva saputo dirmi chi avesse ucciso mio padre. Dicevano tutti che nel bel mezzo di una battaglia non sempre è facile capire da dove giungano i colpi. Poi tu chiedesti a tuo padre di prendermi in casa con voi e lui accettò senza obiettare: d'altronde dopo la morte di mio padre ero rimasto orfano, visto che mia madre era morta per mettermi al mondo.
   Quella fatidica sera non riuscivo a dormire. Ero affacciato a una finestra e guardavo il cielo adorno di stelle. Avevo gli occhi bagnati di lacrime e stavo pensando a cosa fosse successo. Tuo padre tornava da una delle sue solite serate passate a bere con i commilitoni ed era ubriaco fradicio. Camminava con una coppa in mano biascicando le parole di un canto militare. Appena lo vidi, mi asciugai gli occhi e lo salutai. Mi chiese cosa facessi alzato a quell'ora, quando l'argentea luce della luna m'illuminò il volto. La sua espressione divertita e allegra si rabbuiò e la coppa gli cadde dalle mani. Domandai se si sentisse bene, ma d'improvviso s'inginocchiò davanti a me e scoppiò in lacrime.
   Con un groppo alla gola, mi rivelò che il pugnale che aveva trafitto a tradimento il cuore di mio padre era stato brandito da lui. Il re di Castiglia gli aveva ordinato di eliminarlo: non aveva sopportato che mio padre gli avesse preferito il suo avversario, il re di León, più attivo nella lotta contro gli infedeli. Tuo padre si era opposto a quest'ordine, ma il re lo aveva minacciato di uccidere te e tua madre. Non aveva avuto scelta e, per non destare sospetti, aveva adoperato un pugnale arabo per assassinarlo. Si scusò più volte, ma il dolore che provai in quel momento mi spinse ad abbandonare tutto e ad andare via all'istante. Così corsi in camera mia, raccolsi le mie poche cose e fuggii via -.
***
   Rodrigo rimase di sasso. Aveva notato che suo padre, dopo la morte dell'amico, era diventato chiuso e burbero, ma non avrebbe mai immaginato che si portasse dietro un tale fardello. Abbassò il capo, poi sguainò la spada che aveva riposto nel fodero dopo essere tornato nella boscaglia e, inginocchiatosi, la porse all'amico: - Questa è Tizona, la spada donatami due anni fa da Donna Urraca per la mia investitura a cavaliere di Castiglia. Ha un valore immenso per me, ma te la cedo per ripagare all'infamia arrecata da mio padre! -, disse, sollevando il volto, colmo di tristezza.
   Nashira sorrise e dai suoi occhi trasparivano una serenità e una fermezza strabilianti: - Non possiamo cambiare ciò che è stato e tu non hai colpa di quanto è successo. I nostri genitori hanno seguito il loro destino e non possiamo rimanere attaccati al passato, anche se abbiamo subito ingiustizie. Dobbiamo guardare al futuro, a ciò che il fato ha in serbo per noi. Tu sei Rodrigo Díaz de Vivar, figlio di Diego Laínez, e sono certo che quella spada ti aiuterà a forgiare il tuo futuro. E poi, io ho già una spada: l'invincibile lama tramandatami dall'epoca del mito, Excalibur! -
   - Excalibur?! Ma io non vedo nessuna spada! -, esclamò confuso. Si rialzò e rinfoderò Tizona, guardandosi intorno. Il Capricorno rise, divertito dal viso incerto di Rodrigo.
   - Nelle mie braccia risiede il filo di Excalibur, la spada sacra che Atena donò ad Askos, il primo custode di quest'armatura, per celebrarne il valore e la fedeltà. Quel dono è giunto fino a me e passerà alle future generazioni di Cavalieri di Capricornus! - Rodrigo aveva compreso poco della spiegazione datagli dall'amico, ma il trasporto con cui aveva parlato gli bastò.
   - Addio, amico mio! Il mio dovere è compiuto, devo andare! -, lo salutò il Cavaliere preparandosi a partire, ma Rodrigo lo fermò e, serio, gli rivolse queste parole:
   - Forse non ci rivedremo mai più e vorrei almeno rivivere i giorni in cui ci allenavamo insieme. Ti sfido a duello! Ho giusto un'altra spada qui con me! Tieni! - Nashira era incuriosito dalla richiesta dell'amico e, osservando la lama che gli veniva offerta, accettò senza esitazioni. Si spogliò dell'armatura, che si ricompose a totem, stupendo Rodrigo, e si mise in posizione.
   - Che vinca il migliore! -, esclamò il condottiero di Castiglia, scagliando il primo affondo. Il rumore del fiume accompagnava il suono delle lame come una stridula melodia.
***
   Sorush aveva assistito agli scontri dal suo nascondiglio e un groviglio di pensieri gli era sorto nella mente. A distoglierlo giunse Kharax, scuro in volto e palesemente contrariato. - Hai soddisfatto la tua curiosità? -, disse in tono secco il Sacerdote di Nergal, ma l'ex Cavaliere gli lanciò un'occhiata torva e non rispose.
   - Torno da Lamashtu -, sbottò d'un tratto, scomparendo grazie al prisma fornitogli dal servo del signore delle perdute lande.
 
[1] "Vortice del Caos".
[2] Bacio Mortale".
[3] "Mani del Diavolo".
[4] "Artiglio della Catastrofe".
[5] "Suprema Excalibur".

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Capitolo 9
*** Misteri svelati ***


Capitolo IX
MISTERI SVELATI
  
   Kharax tornò ad Atene. Avrebbe raggiunto Rodorio al calar della notte, lontano da occhi indiscreti. Giocherellava col prisma che teneva in mano, guardando dalla finestra della casupola che un vecchio conoscente gli aveva concesso di abitare gratuitamente. Osservava i pescatori intenti a rassettare le reti e a controllare le piccole barche bianche. Quando Sorush gli aveva riferito quali Cavalieri fossero scesi in campo, gli era sorta un'innaturale curiosità verso uno di loro. Senza pensarci due volte, si era teletrasportato in una zona appartata e aveva seguito le prime fasi dello scontro. Aveva riconosciuto subito quel Cavaliere e il sangue gli si era gelato nelle vene. Anche lui era stato sedotto dalle promesse di pace di Atena? Come aveva osato Alexer allungare l'ombra della sua nefasta persuasione su di lui? Era furioso: si sarebbe aspettato di tutto, tranne che il suo stesso figlio diventasse un burattino del Grande Tempio. Prima era stato costretto ad abbandonare la sua famiglia e ora doveva sopportare anche la conversione del figlio a una falsa giustizia? La rabbia lo assaliva ogni volta che queste domande gli si affacciavano alla mente. - Dannato Alexer, pagherai per aver ingannato mio figlio! -, disse fra sé, battendo il pugno sulla parete e creando un piccolo cratere.
   Intanto, al piano superiore della tredicesima casa della residenza terrena di Atena, Alexer e Kanaad attendevano il ritorno dei Cavalieri nella Sala dello Zodiaco. Quest'ultima era un'ampia stanza, al cui centro era posto un tavolo semicircolare di legno di quercia. Sul lato lungo erano accostati due scranni, mentre altri dodici erano distribuiti lungo i lati semicircolari, sei da una parte, sei dall'altra. Dietro ognuno di questi scranni svettava una colonna di marmo bianco su cui era poggiata la rappresentazione crisoelefantina di uno dei segni zodiacali. Erano ordinate in senso orario, da destra verso sinistra. Oltre al Sacerdote e all'ex Cavaliere di Virgo erano presenti anche Altager e Syrma, seduti sotto le colonne corrispondenti al loro segno. Una guardia era stata incaricata di aspettare i custodi dorati di ritorno dalla missione all'ingresso del Palazzo del Sacerdote e di indirizzarli verso la sala. Era stato indetto un Consiglio Dorato, una rara riunione convocata in tempi di profonda crisi.
   Il primo ad arrivare fu Pelag. Con espressione fiera e soddisfatta varcò la soglia della stanza, s'inchinò e andò a occupare lo scranno sotto la colonna del Sagittario. Poco dopo entrò Hamal con l'elmo sottobraccio e il volto inespressivo. Anch'egli andò a sedersi dopo aver espletato il rigido protocollo della corte di Atena. Una decina di minuti dopo, le voci di Calx e Nashira, incontratisi all'ingresso del Grande Tempio, annunciarono la loro venuta. Il Cavaliere di Gemini aveva un'aria vagamente triste, mentre il custode della decima casa aveva stampato sul viso un insolito sorriso, che suscitò sguardi incerti fra i parigrado.
   La sfida che gli aveva lanciato Rodrigo era finita in parità. Nessuno dei due era riuscito a prevalere sull'altro e il loro antico vincolo di fratellanza si era rinsaldato. Rodrigo gli aveva promesso che avrebbe cercato di non combattere solo per la gloria e di contribuire a creare un futuro migliore, in nome della loro ritrovata amicizia. Nashira gli aveva stretto forte la mano, col cuore colmo di gioia, ed era andato via, promettendogli che forse un giorno si sarebbero rivisti.
   I due Cavalieri presero posto e poco dopo arrivò Vernalis, i cui modi gentili erano in grado di rasserenare anche l'animo più agitato. Mancava all'appello solo Sertan. Il Sacerdote attese ancora, ma del custode della quarta casa non si vedeva neppure l'ombra. Sapeva che lo scontro che aveva sostenuto a Edessa era finito, ma non riusciva a spiegarsi il motivo di un tale ritardo.
   Decise di iniziare senza di lui e, presa la parola, disse: - Anche se manca Sertan, dichiaro aperto il Consiglio Dorato! Vi ho riuniti qui per raccogliere le informazioni che avete ottenuto durante gli scontri e per capire chi si nasconde dietro questa nuova minaccia. - Dopo aver pronunciato queste parole, Alexer fissò i suoi Cavalieri. Hamal si alzò per primo e chiese di poter intervenire. Il Sacerdote annuì e il custode della prima casa iniziò il suo resoconto:
   - Sommo Alexer, ho fatto scoperte molto interessanti durante il duello che ho sostenuto a Baghdad! Potrebbero essere cruciali per vincere questa guerra! Noi tutti sappiamo che non è possibile uccidere gli dei, perché la loro anima continua a perdurare e può reincarnarsi anche in corpi temporanei, ma vi sono eccezioni. Gli dei di un'antichissima e misteriosa civiltà, Sumer, usavano armature maledette per imprigionare le anime delle creature celesti macchiatesi di alto tradimento. Queste corazze vengono chiamate 'Arâia'. Se vengono distrutte, anche l'anima che incatenano muore e non può più reincarnarsi. I demoni che stiamo affrontando indossano questo tipo di armatura e credo siano il retaggio di quell'antica civiltà. Inoltre, Bazi, il demone con cui ho combattuto, ha definito sé stesso e i suoi compagni 'Sabitti', forze ausiliarie di Irkalla -.
   Il Sacerdote ringraziò il Cavaliere e rifletté sulle notizie che aveva portato: - Probabilmente anche il dio che li governa possiede un'armatura simile. Sarà il nostro obiettivo principale distruggere la sua corazza nel momento in cui risorgerà. Mi chiedo se sia questa la maledizione degli Utukki di cui parlava Jorkell -.
   - Non credo, signore! -, intervenne Syrma, il cui volto serio aveva attratto l'attenzione di tutti gli astanti. - Il nobile Jorkell asseriva che Umma, il demone che aveva affrontato, non era in grado di generare il vento grazie al proprio cosmo. I nemici che abbiamo incontrato finora, invece, sono capaci di creare l'elemento che li contraddistingue. Ritengo che quella maledizione si riferisse a questo e sia stata in qualche modo annullata. Deve essere stata opera del misterioso consigliere di Bisanzio che abbiamo a lungo cercato -.
   Alexer concordò con l'analisi del Cavaliere di Virgo. Il burattinaio che stava tirando i fili di quella intricata trama si stava dimostrando un uomo paziente e lucido. Ma c'era anche qualcos'altro che lo preoccupava: il cosmo che mesi prima aveva avvertito a Rodorio: - Quell'uomo non opera da solo. Uno strano cosmo si è palesato a Rodorio mesi fa e da allora sto facendo sorvegliare il villaggio e i dintorni giorno e notte, ma finora non ne ho ricavato nulla! -
   Queste ultime parole incuriosirono Syrma, che ricordava la strana aura cosmica avvertita presso la confluenza del Tigri e dell'Eufrate e scomparsa improvvisamente. - È probabile che sia lo stesso cosmo che percepii io nei pressi di Bassora -, disse, guardando il Sacerdote.
   Alexer, però, scosse il capo: - Quell'aura cosmica si manifestò per pochi attimi e non sono riuscito a riconoscerla. Tuttavia, per affacciarsi così vicino al Grande Tempio deve essere guidata da qualcuno che conosce questi luoghi -, affermò con tono grave, fissando un punto indefinito del tavolo.
   - Intendete dire che c'è un traditore al Santuario? -, proruppe Pelag, visibilmente turbato dalle affermazioni del Sacerdote.
   Sospirando, Alexer si alzò e iniziò a esternare le proprie supposizioni: - Circa dieci anni fa, il Grande Tempio fu scosso da un grave scandalo. Un Cavaliere d'Argento, ribellatosi alle leggi e ai dettami di Atena, cominciò a uccidere degli innocenti, mosso da un distorto senso di giustizia. Fu catturato e condannato a morte. Un suo parigrado, Alsam di Sagitta, fu incaricato dell'esecuzione. Un anno dopo, Alsam fu sgozzato in un vicolo di Atene mentr'era in missione. Alcuni testimoni dissero che era stata opera di una banda di briganti che imperversava in città, ma io non ho mai dato credito a questa storia! Alsam aveva un animo estremamente gentile, ma non si sarebbe mai lasciato uccidere così facilmente. Credo che quell'uomo sia scampato al suo destino e stia tramando col nemico per attuare i propri piani! -
   I Cavalieri erano rimasti interdetti. Sapevano già qualcosa di quella brutta storia, ma l'avevano sempre ritenuta una pagina del passato che mai più si sarebbe ripresentata. - Qual era il nome di quel traditore? -, chiese Altager, guardando il Sacerdote con reverenza e rispetto.
   - Kharax di Crater... mio padre! -, esordì una voce. Tutti si volsero verso l'ingresso, da cui fece capolino Sertan, scuro in volto e palesemente agitato. Entrò con passo fermo, s'inginocchiò e andò a sedersi accanto a Calx.
   - Le vostre supposizioni sono corrette, Sommo Alexer. Ho avvertito la sua presenza a Edessa, ma è sparito nel nulla! -, aggiunse, tentando di smorzare i sentimenti contrastanti che gli attanagliavano il petto. - Inoltre, ho scoperto il nome del dio che minaccia l'umanità: si chiama Nergal, signore di Irkalla, l'Oltretomba di Sumeri e Babilonesi -.
   L'improvvisa comparsa del custode della quarta casa e le sue incredibili rivelazioni gettarono la sala in un profondo silenzio. Alexer tornò a sedersi e, riprendendo il controllo della riunione, esclamò: - Un altro dio infernale... quale ironia! - Per un attimo, ricordò il dolore e le sofferenze patite nell'ultima Guerra Sacra e la valorosa caduta dei suoi compagni. Stavolta desiderava ardentemente poter assicurare ai suoi Cavalieri una vittoria senza troppi spargimenti di sangue, ma si rendeva conto che se Kharax aveva deciso di passare dalla parte del nemico ogni paladino di Atena sarebbe stato un bersaglio da eliminare.
   - Signore, mio padre sarebbe stato in grado di padroneggiare il teletrasporto? -, chiese Sertan, in cerca di lumi per allestire una strategia atta a stanarlo.
   - No -, rispose secco Alexer. - Serve un cosmo adeguato per padroneggiarlo e non è comunque facile ottenere una tale abilità: voi appartenete alla casta più alta dell'esercito di Atena, eppure solo in pochissimi possedete un tale potere. Tuo padre era un combattente abile e forte, ma il suo cosmo restava quello di un Cavaliere d'Argento. Inoltre, il teletrasporto lascia tracce, ma dal rapporto che mi fece Syrma dopo la sconfitta dei demoni gemelli, sembra che in questo caso non ve ne siano -.
   Sertan parve ponderare un attimo la risposta del Sacerdote e capì il motivo per cui subito dopo la scomparsa del cosmo di Kharax gli era risultato impossibile rintracciarlo. Aveva girato in lungo e in largo i dintorni di Edessa, si era spinto fino a Samarra, ma ben presto il suo cuore era divenuto preda di una cruda frustrazione e di un umiliante senso d'impotenza. - Ora mi è chiaro perché non sono riuscito a trovarlo! -, esclamò a voce bassa, con lo sguardo perso davanti a sé.
   - Se non può spostarsi tramite teletrasporto, come fa a eludere le nostre ricerche? -, esordì Calx.
   - Probabilmente adopera qualche manufatto che gli permette di spostarsi senza essere individuato -, rispose Hamal, attirando su di sé l'attenzione dei compagni.
   - Esistono oggetti del genere? -, esclamò Nashira, che aveva seguito la discussione in silenzio.
   - Sì. Il mio maestro in Jamir raccontava spesso di strumenti di fattura divina in grado di sopperire ad alcune abilità. Uno di questi è il 'Prisma d'Ambra' che ha appunto la capacità di teletrasportare chi lo impugna -, spiegò il custode della prima casa. - È probabile che Kharax ne abbia ricevuto uno dal misterioso consigliere quando hanno stretto alleanza -, concluse.
   Il Sacerdote annuì, appoggiando l'analisi fatta dal Cavaliere. Poi prese la parola, dicendo: - Ora dobbiamo capire chi sono gli Utukki. Sono sicuro di aver già sentito questo nome, ma sembra che la mia memoria cominci a indebolirsi -. Un'espressione ironica e al contempo turbata gli si disegnò sul volto.
   - Sono i Sette Guardiani di Irkalla, così li ha definiti il demone che ho affrontato -, intervenne Sertan, memore delle parole dettegli da Iltasadum alla fine del loro scontro.
   - E probabilmente hanno un cosmo molto più potente dei semplici Sabitti. Il demone che ho incontrato a Venezia ha lasciato intendere che non sarà facile sconfiggerli -, aggiunse Pelag con voce ferma e seria.
   - Cercano d'indebolirci per consentire a Nergal di agire più agevolmente. Il fatto stesso che siano state attaccate città specifiche dimostra che il loro intento è suscitare terrore e diffidenza fra la gente. Sono sicuro che qualcuno approfitterà di questa situazione per gettare in discredito il Grande Tempio. Dobbiamo stare attenti -, asserì il Sacerdote, che ormai sembrava aver compreso appieno la tattica nemica. Tuttavia, sperava di trovare negli archivi dell'Altura delle Stelle notizie più esaustive, ora che sapeva finalmente con chi aveva a che fare.
   - Vi siete dimostrati degni guerrieri della giustizia! Sono fiero di voi, Cavalieri! Avete raccolto preziose informazioni e avete salvato innumerevoli vite umane! La seduta è tolta, potete andare! -, disse il Sacerdote, alzandosi e congedando i dorati custodi.
   - Signore! -, esclamò Vernalis, con voce gentile e rispettosa. Alexer lo guardò, chiedendogli cosa volesse. - Ho portato un aspirante Cavaliere da Parigi. Mi ha aiutato a mettere in salvo gli abitanti della città e ha una spiccata intuizione -, rispose Pisces, inchinandosi leggermente.
   Il vicario di Atena sorrise e replicò: - Conducilo alla sala del trono e attendetemi lì! - Il giovane annuì e corse a eseguire le volontà del Sommo Alexer.
   Sertan parlava con Syrma e Calx mentre usciva, con espressione greve e turbata. Alexer lo chiamò. Il custode della quarta casa rispose subito alla chiamata e si avvicinò, inchinandosi.
   Il Sacerdote gli strinse le spalle e con tono paterno gli rivolse la parola: - Non dev'essere stato facile scoprire che gli spettri del passato sono tornati. Perdonami se non ti ho messo a parte dei miei sospetti, ma volevo esserne certo prima di sbilanciarmi. Ricordati che puoi sempre contare su di me e sui tuoi compagni! Il desiderio di Atena è proprio questo: rendere gli uomini fratelli che si sostengono a vicenda! -
   Sertan lo guardò con espressione risoluta e grata. S'inginocchiò e rispose: - Vi ringrazio per le vostre parole! Voi siete per me il padre che il fato mi ha negato e senza di voi forse ora sarei preda della follia! Terrò fede al mio giuramento e sradicherò il male da questo mondo, a partire dal traditore Kharax! - Poi si alzò, lo sguardo fiero e ardente di giustizia, e lasciò la stanza.
   Nei suoi occhi verdi, Alexer aveva ritrovato la determinazione e la sete di giustizia della sfortunata Elestoria, moglie di Kharax e madre di Sertan, che dopo il tradimento e l'infamia del marito aveva continuato a perseguire e a inculcare al figlio i principi del Grande Tempio. Ricordava ancora quella notte di pioggia quando il piccolo Sertan, bagnato e infreddolito, pretese di vederlo e chiese di diventare un Cavaliere per "riabilitare il nome del suo casato". La tristezza e lo sconcerto che spiravano dal corpicino esile e tremante di quel bambino ora si erano tramutati in risolutezza e amore di giustizia. Quanta strada aveva fatto il Cavaliere di Cancer! Quante sfide aveva dovuto sostenere per dominare i sentimenti contrastanti del suo cuore e veicolare le voci delle anime che lo assillavano in continuazione! - Atena non poteva trovare migliore custode delle anime! -, disse fra sé il Sacerdote, guardandolo uscire e raggiungere i compagni.
***
   Sargas era seduto sull'ultimo scalino della tredicesima casa. Guardava il cielo grigio e le nuvole cariche di pioggia. I suoi occhi spaziarono sulla vastità e la quiete del Grande Tempio: le case dello zodiaco, ognuna con forme e caratteristiche peculiari, l'imponente meridiana, l'arena e le zone residenziali, talmente lontane da sembrare minuscole, la solitaria Altura delle Stelle e la triste collina del cimitero fitta di lapidi, memorie di glorie e guerre passate. D'improvviso, dei passi provenienti dalle sue spalle lo distolsero da quella visione e lo spinsero a voltarsi: era Vernalis.
   - Che te ne pare della dimora di Atena? -, esordì il Cavaliere, il cui volto era illuminato da un sorriso.
    Il bambino lo fissò per un attimo, poi rispose: - Nonostante sia un luogo spartano, adagiato su di un monte brullo e triste, trasmette una maestosità e una solennità straordinarie! -
   - La stessa impressione che fece a me quando lo vidi per la prima volta -, commentò Pisces, nella cui mente tornò vivido il ricordo della sua prima visita al Grande Tempio.
   - Andiamo! Il Sacerdote ti aspetta! -, lo incitò poi, dandogli una pacca sulla spalla e invitandolo a seguirlo. Sargas annuì e, un po' in apprensione, si lasciò guidare verso la sala del trono. Il corridoio era silenzioso, illuminato da torce fissate alle pareti di pietra. Il bambino si guardava intorno, colpito dalla mancanza di sfarzo che aveva sempre ritenuto essere il punto forte di una corte. Questo pensiero gli fece affiorare un sorriso: cosa ne poteva sapere l'umile figlio di contadini di lusso e di corti? La sua famiglia aveva sempre dovuto combattere contro la miseria e gli stenti per sopravvivere. La corte del re di Francia o i vari castelli di vassalli e signorotti, situati in luoghi impervi e difficili da raggiungere erano solo ombre lontane, dimore di un potere a loro ignoto, ma allo stesso tempo accettato e rispettato.
   Raggiunsero la porta della sala del trono, sorvegliata da due guardie. Queste ultime fecero un leggero inchino al Cavaliere e gli aprirono i battenti. Davanti agli occhi di Sargas apparvero un lungo tappeto rosso e arazzi dello stesso colore che adornavano le pareti. In fondo notò il trono posto su tre scalini e due figure: una seduta, l'altra appoggiata alla destra del soglio sacerdotale. Vide Vernalis inginocchiarsi e ne seguì l'esempio, tenendo lo sguardo basso: un'aura di autorità ammantava i due uomini che aveva davanti. Un repentino timore lo investì e un crudo disagio gli si disegnò in volto.
   Il Sacerdote fece loro cenno di alzarsi, poi puntò lo sguardo sul bambino e iniziò a parlare: - Qual è il tuo nome, ragazzo? -
   Un po' esitante, a causa dell'emozione e del disagio che provava, alzò lo sguardo e rispose:  -Mi chiamo Sargas, signore -.
   - Benvenuto al Grande Tempio di Atena, Sargas. Io sono Alexer, Sommo Sacerdote della dea della giustizia, e l'uomo al mio fianco è il nobile Kanaad, ex Cavaliere di Virgo e attuale Primo Ministro -, si presentò il vicario di Atena, suscitando in Kanaad un misto di confusione e curiosità al sentirsi investito di quel gravoso titolo.
   - Dimmi, Sargas, cosa ti ha spinto a chiedere di diventare un Cavaliere? È un cammino lungo e tortuoso che non sempre conduce alla meta agognata. Molti hanno perso la vita nel tentativo di assurgere al rango di Cavaliere, sei consapevole di questo? -, interrogò Alexer, con tono serio e autoritario.
   Il ragazzo sollevò il capo, guardando il Sacerdote, il cui viso era seminascosto dall'elmo, e con fermezza rispose: - Oggi per me è stato un giorno di lutto, ma anche di rinnovata speranza: ho perso quel che restava della mia famiglia, ma ho potuto contribuire, seppur in minima parte, a salvare un'intera città. Le gesta del nobile Vernalis, la sua abnegazione e la sua gentilezza mi hanno schiuso le porte di un mondo nuovo. Diventare Cavaliere e poter dare speranza e pace agli altri è ciò a cui desidero votare la mia vita. So che sarà un sentiero irto di difficoltà e che forse mi condurrà a prematura morte, ma voglio tentare. Voglio aiutare le persone a ritrovare i perduti sorrisi e a costruirsi un futuro scevro di sofferenze e miseria -.
   Alexer aveva ascoltato con attenzione le parole del fanciullo che aveva davanti. Incrociò per un attimo lo sguardo con Kanaad, che sorrise in segno di approvazione, poi scese gli scalini e si avvicinò a Sargas. Gli pose una mano sulla testa e fece bruciare una frazione del proprio cosmo. - Avverti qualcosa? -, gli chiese.  
   Il bambino annuì col capo e aggiunse: - Un'immensa energia spira dal vostro corpo, Sommo Alexer! Un'energia colma di giustizia e di amore -. Il Sacerdote era stupito, pochissime persone normali erano riuscite a percepire così distintamente un'aura cosmica.
   - Il cosmo assopito dentro di te è prossimo a risvegliarsi. Al momento, però, è impossibile stabilire quale sarà la tua costellazione guida -, commentò Alexer, ritirando la mano dal capo del ragazzo.
   - Costellazione guida? -, domandò Sargas, incuriosito dalle parole del messo di Atena.
   - L'esercito di Atena è composto da 88 Cavalieri che prendono il nome dalle costellazioni dei due emisferi. A ogni costellazione corrisponde un unico Cavaliere per ogni epoca. Solo il prescelto dalle stelle può indossare l'armatura che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza. I Cavalieri si dividono in quattro caste: i 12 Cavalieri d'Oro, i più potenti, che possono indossare soltanto l'armatura d'oro che corrisponde al loro segno zodiacale; i 24 Cavalieri d'Argento, la casta intermedia; i 48 Cavalieri di Bronzo, il rango più basso dell'esercito di Atena; e infine i 4 Cavalieri che indossano corazze di materiale sconosciuto. Nessuno conosce la portata della loro forza perché rare sono state le volte che sono apparsi sulla Terra. Nel momento in cui il tuo cosmo si risveglierà potrò conoscerne la natura e sapere con certezza a quale costellazione sei destinato -, rispose Alexer, assumendo un tono più disteso e gioviale.
   Poi guardò Vernalis e gli rivolse la parola: - A te l'onore di addestrare Sargas all'uso del cosmo, Cavaliere -. Un po' spiazzato, Pisces s'inchinò e annuì, leggendo nel gesto del Sacerdote un significato più profondo.
   A lungo aveva vissuto in solitudine e solo a costo di grandi sforzi era riuscito a legare con i compagni. Tuttavia, a volte, sentiva ancora la voce dell'isolamento richiamarlo a sé e gli capitava di estraniarsi, proprio com'era successo durante il Consiglio di poco prima. Alexer doveva averlo compreso e gli aveva affidato l'addestramento di Sargas per tenerlo in costante contatto con qualcuno. In cuor suo gliene fu grato e accettò di buon grado l'incarico. Guardò il suo allievo e gli sorrise. Poi il Sacerdote li congedò: si erano dati appuntamento a quando Sargas avrebbe finalmente risvegliato il cosmo.
***
   Una volta usciti, Kanaad chiese spiegazioni all'amico: - Cos'è questa storia del Primo Ministro? -
   Alexer lo guardò freddo e rispose: - Te lo dirò mentre raggiungiamo l'Altura delle Stelle. Ci sono ancora delle cose che devo sapere riguardo al nostro nemico! - L'ex Cavaliere di Virgo annuì e lo seguì verso le sue stanze. Giunti nella sala di convegno, Alexer appoggiò una mano sulla parete che guardava verso l'Altura delle Stelle e aprì un varco dimensionale, lo attraversarono e pochi istanti dopo si ritrovarono sull'alto monte, di fronte a colonne di marmo corinzio incassate nella roccia. Il tempio era stato scavato all'interno della cima della montagna, dalla quale si poteva ammirare la maestosità del Grande Tempio. Il cielo si era fatto cupo e i lampi creavano squarci di luce improvvisi; alitava un vento freddo, che portava con sé foglie ingiallite.
   Il volto di Alexer si fece serio e i suoi occhi si appuntarono su Kanaad, in attesa di risposte. - Ho uno strano presentimento. Sento che questa guerra vedrà anche la mia fine -.
   Confuso, l'ex Cavaliere di Virgo gli poggiò una mano sulla spalla e lo trattenne, esclamando: - Che cosa stai dicendo? E cosa c'entra con la mia nomina a Primo Ministro? - Alexer si divincolò dalla stretta, scuro in volto, e varcò la soglia dell'edificio a passo sostenuto. Kanaad lo seguì, sempre più sorpreso dal repentino cambio d'umore dell'amico. Lo raggiunse e insistette.
   Il ministro di Atena si fermò e senza voltarsi affermò con tono grave e solenne: - È dovere imprescindibile di ogni Sacerdote assicurare un governo stabile al Grande Tempio dopo la sua dipartita. I ministri di Atena vengono scelti fra i Cavalieri d'Oro e, in assenza di candidati idonei, il governo è garantito dal Primo Ministro, che di solito è il Cavaliere d'Argento di Ara. Al momento l'armatura di Ara non è stata ancora assegnata e i custodi dorati sono ancora troppo giovani. L'unico che potrebbe accedere alla carica è Pelag, ma compirà 18 anni soltanto l'anno prossimo. Tu conosci i segreti e i misteri di questo luogo quanto me e sei la persona più adatta a ricoprire quest'incarico. Ti prego, Kanaad, non rifiutare quest'offerta! - Accompagnò le ultime parole poggiando una mano sulla spalla dell'amico e stringendola forte. L'ex Cavaliere di Virgo lesse in quel gesto una profonda inquietudine e acconsentì al desiderio di Alexer.
   Erano passati molti anni dall'ultima volta che lo aveva visto in quello stato: l'esercito di Ade imperversava in Grecia e l'esiguo numero di Cavalieri non consentiva strategie su larga scala. La gente moriva e Alexer si sentiva impotente: forse per la prima volta nella storia le schiere di Atena rischiavano la sconfitta. Grazie al suo sangue freddo e a una granitica lucidità era riuscito a risollevare gli animi, mettendo da parte i suoi timori. La Guerra Sacra era stata vinta, ma aveva lasciato segni indelebili nel vicario della dea della giustizia che lo spingevano a rendere sempre più forte e motivato il nuovo esercito di Cavalieri.
   Alexer ringraziò l'amico e un sorriso sollevato gli si disegnò in volto. Un lungo corridoio illuminato da torce, su cui si aprivano innumerevoli porte, si allungava davanti a loro. Imboccarono una porta sulla destra ed entrarono in un'ampia sala gremita di scaffali su cui erano accatastati codici e papiri. Al centro c'era un piccolo tavolo impolverato su cui era poggiato un candelabro di bronzo e candele per metà consumate.
   - Qui sono conservate le memorie dei Sacerdoti del Grande Tempio, vero? -, chiese Kanaad, guardando la mole di documenti stipati in quella stanza.
   - Sì, sono sicuro che qui troveremo altre informazioni su Nergal e il suo esercito -, replicò il messo di Atena.
   - Mi avevi detto di aver già cercato notizie in questo archivio e di non aver trovato nulla -, commentò il neoeletto Primo Ministro.  
   - Finora non sapevo cosa cercare, ma adesso che i Cavalieri hanno svelato parte dei misteri, so dove guardare! -, affermò con convinzione e ritrovata determinazione Alexer.
   Si diresse verso una serie di scaffali su cui erano poggiati documenti molto antichi: nel corso dei secoli numerosi scritti erano stati ricopiati e racchiusi in codici per preservarne le preziose notizie conservate. Alexer si fermò davanti a una libreria stracolma e iniziò a leggere i titoli dei vari volumi. Si soffermò su un grosso libro dalla copertina verde ornata da borchie d'argento. Vi era scritto, in greco: 'Cronache delle Guerre del Grande Tempio dal Regno di Adonis a quello di Teudi'. Abbracciava quasi ottocento anni di storia e in esso erano contenuti minuziosi racconti delle guerre sostenute dai Cavalieri e degli dei che avevano incontrato nel corso di quei secoli.
   - Come fai a sapere che in questo volume troverai ciò che cerchi? -, domandò Kanaad, incuriosito dalla scelta dell'amico.
   - Non so se troverò qualcosa, ma è uno dei codici che finora non avevo ancora visionato -, rispose Alexer, lasciando alquanto interdetto l'ex Cavaliere di Virgo. Si spostarono verso il tavolo e Alexer iniziò a sfogliare il volume, scritto in onciale e fitto di parole. Certi passaggi erano difficili da decifrare, a causa dell'usura del tempo e dell'alternarsi di scrittori diversi. Il Sacerdote si armò di pazienza e con somma fatica riuscì a superare i punti più ostici del testo.
   I lampi illuminavano le zone oscure della sala e il vento, penetrando dalle feritoie nelle pareti, agitava la fiamma delle torce: il temporale si era intensificato, ma la spessa roccia del monte impediva al rumore della pioggia e dei fulmini di raggiungere le sale. Kanaad iniziò a girare per l'ampio salone, in cerca di altri volumi da consultare, sfogliandone alcuni e perdendosi a leggere brani che riteneva interessanti. - Ci siamo! -, proruppe d'un tratto Alexer, distogliendo l'amico dalla sua lettura.
   - Cos'hai trovato? -, domandò Kanaad, avvicinandosi al tavolo.
   - Sembra che il nostro nemico abbia fatto la sua prima apparizione sotto il regno di Teremun, il successore di Adonis. I Cavalieri stavano affrontando il dio egizio Onuris. Il testo dice che dopo la sua sconfitta, un'intensa aura malvagia apparve in Oriente. Atena, affiancata dai Cavalieri d'Oro Gordias di Leo ed Emyr di Scorpio, trovò il tempio da cui proveniva la fonte cosmica. I talismani intrisi del sangue di Atena furono inefficaci a sigillare quel nuovo nemico. Solo il sacrificio dei due Cavalieri garantì la vittoria alla dea. Kanaad, potresti portarmi il 'Libro delle Profezie di Delfi'? Qui dice che Atena consultò l'oracolo per saperne di più di quella nuova minaccia -, raccontò il Sacerdote, con volto serio e meditabondo.
   L'ex Cavaliere di Virgo si recò a passo svelto nella stanza adiacente e tornò pochi minuti dopo con un grosso volume nero. Lo porse al compagno, che lo ringraziò, e gli si pose accanto, in attesa di rivelazioni. Alexer lo sfogliò fino alle profezie pronunciate sotto il regno di Teremun. - L'ho trovata, Kanaad! Sono state aggiunte anche molte informazioni! Il Sacerdote Teremun doveva essere un uomo piuttosto scrupoloso! - Il testo era il seguente:
Ἀναιρέσεως ϑεός, παλαιοῦ γένους δαίμων,
ϰόσμου ϰαϰόνους πληγή, ἀνϑρώπων ἐφιάλτης.
Πάλαι πρόγονοι ϑεοί αὐτόν ϰατεδίϰασαν,
φαῦλος λέων ἀλλότριος αὐτόν ἐξέλυσε,
ὑπ'ἀνϑρώπων ἐσφραγίσϑη,
ἐν τῇ σϰιᾷ χίλια ἔτη ἀναμενεῖ
εἶτα αὐτοῦ ϰῶμα ἀφήσει ϰαί ἀναβλαστήσει.
Ὁ γεννηϑείς μόνον ὑπό δειλοῦ αἵματος ϰαί ἁγίου ἰχῶρος
τόν ϑανατηφόρον νιϰᾶν δυνήσεται.
[Dio di distruzione, nume d'antica stirpe, / nefasta piaga dell'universo, incubo degli uomini. / Un tempo, dei primigeni lo giudicarono, / un infido leone straniero lo liberò, / dagli uomini fu sigillato. / Nell'ombra resterà mille anni, / poi il suo sonno cesserà e ritornerà in vita. / Solo colui ch'è nato da vile sangue e sacra linfa / potrà trionfare sul portatore di morte.]
   Dopo aver letto queste parole, Alexer spalancò gli occhi: il sogno che sia lui che donna Irene avevano fatto e la nascita stessa di Calx assumevano un senso profondo. Inoltre, alcune frasi le aveva già sentite. Scavò a fondo nei ricordi e la memoria di quelle parole gli tornò. - Ora è tutto chiaro! -, esclamò, ricomponendo quell'intricato mosaico nella mente.
   - Potresti spiegarlo anche a me? -, sbottò Kanaad, un po' spazientito.
   Il Sacerdote lo guardò con occhi severi e iniziò a parlare: - Questa profezia si riferisce a Calx! Ci siamo a lungo chiesti il motivo della sua nascita e ora l'ho scoperto! Donna Irene ha sempre detto che il padre del ragazzo non era suo marito, ma qualcuno che ne aveva assunto le sembianze. Sai quanto me che solo gli dei hanno simili poteri e i loro rampolli vengono definiti semidei perché condividono la natura umana e quella divina. Tutti al Grande Tempio hanno notato la naturalezza con cui manipola il cosmo e inoltre è riuscito a riprodurre ed a migliorare il colpo segreto che io non sono mai stato in grado di perfezionare -.
   Queste ultime parole lasciarono di stucco Kanaad: - Ti riferisci al colpo... che utilizzasti per sconfiggere Ade? Tu riuscisti a sopravvivere a malapena al potere devastante di quella tecnica! -
   - Infatti -, rispose il messo di Atena, - ma Calx è riuscito non solo a controllarla, ma anche a migliorarla! Anche il Cavaliere cosmicamente più dotato verrebbe sopraffatto da un potere così vasto, ma non lui! -
   L'ex Cavaliere della sesta casa rimase pensieroso e, quasi senza accorgersene, sussurrò: - Quindi... Calx è stato inviato da Atena? - Ad Alexer non sfuggì quel bisbiglio.
   Abbassò lo sguardo sulle righe del testo che aveva davanti e, sospirando, replicò: - È probabile, anche se la nostra dea non ha mai agito in questo modo. Forse non lo scopriremo mai, ma l'importante è sapere di avere i mezzi adatti per sventare questa minaccia. Ho ricordato anche dove avevo sentito parlare degli Utukki.
   Stavamo tornando da un incontro con l'imperatore Basilio II. Passammo davanti alla piazza di Santa Sofia e c'era un folto gruppo di persone: il vescovo Eustazio aveva appena pronunciato una sentenza di condanna contro un uomo accusato di eresia. A quel tempo i rapporti fra il Papato e le Chiese d'Oriente erano molto tesi ed Eustazio cercava in tutti i modi di mediare fra le opposte posizioni. Ti ricordi cosa urlava l'uomo mentre veniva cosparso d'olio bollente? -
   Kanaad rifletté, tirando le fila di quelle lontane memorie, e poi esclamò: - "Il millennio sta per scadere, gli Utukki e il loro sovrano oscureranno il sole"... avevo dimenticato anch'io questo particolare! All'epoca credevamo che si trattasse di uno dei tanti fanatici religiosi che cominciavano a far parlare di sé, ma ora tutto ha più senso -.
   - Chiederò al Patriarca e all'Imperatore di consultare i loro archivi: è molto probabile che il misterioso consigliere sia legato a quell'uomo -, replicò il Sacerdote, il cui volto sembrava più disteso e rilassato. Tuttavia, le scoperte che aveva fatto sull'origine di Calx decise di tenerle per sé e vincolò al silenzio anche Kanaad.
   - Perché vuoi tenere il ragazzo all'oscuro? -, chiese l'ex custode della sesta casa, un po' contrario alla decisione dell'amico.
   - Calx è ancora giovane e ha un temperamento vulnerabile. Se gli mettessimo addosso un fardello simile, crollerebbe e l'armatura non gli sarebbe d'aiuto. Un Cavaliere deve combattere volontariamente e non costretto da un obbligo. Se è davvero riposta in lui la nostra unica speranza di salvezza, dobbiamo lasciare che sia il fato a dipanare gli eventi. In fondo, se è scritto che Nergal verrà sconfitto da un semidio, avverrà! Se cerchiamo di incanalare il corso della storia secondo i nostri piani rischiamo di stravolgere gli esiti di questa battaglia! -
   Kanaad era un po' perplesso, ma aveva fiducia nelle parole dell'ex Cavaliere di Gemini. Negli anni aveva dimostrato acume e ampie doti strategiche. Era un uomo che tendeva a scrutare oltre le apparenze e a sondare il cuore di ogni persona che incontrava.
   - Da quanto riporta il testo, mancano ancora sei anni alla rinascita del dio d'Irkalla. Qui dice che gli Utukki vengono definiti le 'Sette Pietre Preziose d'Irkalla' e che rinasceranno assieme al loro signore -, aggiunse Alexer, riassumendo quanto scritto nel volume che aveva davanti. - Gli Utukki sono forse i demoni più potenti dell'universo, in grado di manipolare con maestria i sette elementi del regno infernale. Tuttavia, non sono imbattibili: se la gemma incastonata nella loro armatura verrà spezzata sia loro che Nergal sprofonderanno nell'oblio per sempre -, lesse il Sacerdote, riflettendo su quelle parole. - La nostra priorità, al momento, è trovare la spia che si annida a Rodorio e Kharax. Sono certo che molto presto faranno la prossima mossa! -, concluse Alexer. Poi si alzò, chiuse il volume, mettendoselo sottobraccio, e uscì dalla sala, seguito da Kanaad.
***
   Per tornare alla tredicesima casa presero un'altra strada. Circa cinquecento anni prima il Sacerdote Faramund aveva fatto costruire una galleria sotterranea che collegava l'Altura delle Stelle alle Case dello Zodiaco. I due s'incamminarono per il lungo corridoio e, d'un tratto, Alexer, quasi spinto da un'antica curiosità, disse: - Mi sono sempre chiesto perché Atena abbia affidato a me il governo del Grande Tempio. Il Sommo Garlef non mi è mai sembrato particolarmente propenso a nominare me come suo successore. Mi raccontava sempre del Cavaliere di Gemini che aveva combattuto con lui: si chiamava Sisoes e aveva un fratello gemello di nome Thiroes. Pur avendo un cosmo simile, l'armatura di Gemini fu assegnata a Sisoes, mentre al fratello minore venne affidata l'armatura d'argento di Canes Venatici. Questa scelta aveva esacerbato l'animo già tumultuoso di Thiroes. I conflitti fra i due fratelli si erano fatti più aspri e col tempo sfociarono in una vera e propria guerra. Thiroes divenne un traditore, passando nelle fila del nemico per tessere i suoi piani di vendetta, e Sisoes, per lavare l'onta subita, abbandonò il conflitto che i Cavalieri stavano sostenendo per punire il fratello. Ci fu una Guerra dei Mille Giorni e alla fine si uccisero a vicenda. La guerra fu vinta, ma le informazioni che Thiroes aveva fornito al nemico rischiarono di portare alla disfatta l'esercito di Atena. Ogni volta che l'anziano Garlef mi raccontava questa storia avevo il presentimento che non si fidasse di me. Pensavo che saresti stato tu a succedergli, visto che eri suo allievo, o il vecchio Waman di Aries -.
   Kanaad aveva ascoltato con attenzione le parole dell'amico e rise: - Ti sbagli, Alexer, il mio maestro ti stimava profondamente e mi confidava spesso che se tutti i Cavalieri di Gemini fossero stati come te, il Grande Tempio ne avrebbe tratto solo vantaggi. Mi consigliò addirittura di prendere esempio da te! Secondo lui, tu eri il Cavaliere perfetto: potente, intelligente e devoto alla causa. Anche Waman gli suggerì di scegliere te come Sacerdote: lui si considerava troppo vecchio e inadatto al ruolo di capo. Garlef era intenzionato a dirtelo, ma la guerra lo uccise prima di poterlo fare -. Le parole dell'antico compagno lo stupirono: non aveva mai realmente compreso il motivo della sua nomina, ma ora i continui ammonimenti e la freddezza con cui era stato trattato nel periodo in cui aveva ricoperto il ruolo di Cavaliere di Gemini assumevano un senso. Garlef voleva solo renderlo forte abbastanza da reggere la pressione e le responsabilità del vicario di Atena sulla Terra.
   I due amici continuarono a discorrere lungo il cammino, ricordando i vecchi tempi e pianificando le prossime mosse. Quando giunsero alla tredicesima casa, le prime stelle iniziavano a brillare nel cielo. Il temporale era cessato ed una brezza fredda e umida spazzava il monte.
***
   Intanto, aiutata dalle tenebre, un'ombra si muoveva in direzione di Rodorio. Con passo circospetto, Kharax si avvicinò alla porta del deposito della casa del fornaio, bussò tre volte e dopo poco vide Eyra aprirgli con un sorriso. Entrò svelto e chiese dove fosse Lamashtu. La ragazza lo accompagnò in cucina, dove il demone sedeva sotto la finestra, guardando fisso l'esterno.
   Lamashtu si girò, osservando il volto scuro e deluso dell'ex Cavaliere, e lo salutò con un cenno della testa. - Dobbiamo parlare -, gli disse Kharax con una punta d'ira nella voce.
   Il demone lasciò la sedia su cui era accomodato  e si avvicinò, domandando: - Che ti è successo? Sembri sconvolto. Forse hai saputo che i Cavalieri hanno scoperto il nome del signore d'Irkalla? - Kharax lo guardò dritto in volto, poi chiese a Eyra di portargli una bottiglia di vino e di lasciarli soli. La ragazza obbedì e, dopo avergli servito il nettare dal color rubino, se ne tornò al deposito.
   L'ex Cavaliere di Crater riempì il bicchiere di terracotta fino all'orlo e bevve tutto d'un fiato. Il demone lo osservava perplesso: negli occhi del compagno notava una profonda rabbia e si chiedeva cosa lo avesse reso così fuori di sé. Kharax si versò un altro bicchiere e lo tracannò d'un soffio.
   - La vigilanza qui a Rodorio è sempre serrata, vero? -, esclamò d'un tratto, fissando Lamashtu col volto rosso. Il demone fece cenno di sì, cercando di scoprire la fonte dell'ira che scuoteva il traditore di Atena:
   - Si può sapere cosa ti è successo? Non ti ho mai visto così adirato! -, lo incalzò, sedendosi di fronte a lui.
   L'uomo abbassò il capo, stringendo il bicchiere che teneva in mano così forte da frantumarlo. Il suo palmo e il tavolo si tinsero di rosso. - Voi demoni avete una mente collettiva, quindi dovresti sapere come si sono svolti gli scontri -, disse, alzando gli occhi verso Lamashtu. Quest'ultimo annuì.
   - Hai scoperto quale Cavaliere potrebbe essere l'emissario divino? -, continuò Kharax, sorseggiando il vino direttamente dalla bottiglia.
   - È difficile stabilirlo con certezza. Noi Sabitti non siamo gli avversari più adatti a saggiare la potenza dei Cavalieri d'Oro. Sembrano tutti molto potenti, anche se due di loro possiedono un cosmo incredibile -, rispose il demone, ripensando agli scontri cui aveva assistito nella sua mente.
   - Chi sono? -, chiese con foga Kharax, nei cui occhi si era accesa una luce sinistra.
   - I Cavalieri di Gemini e Pisces -, rispose il demone, ancora stupito dallo strano comportamento del compagno.
   L'ex Cavaliere si alzò e, gettando la bottiglia ormai vuota in un angolo, accennò un sorriso: - Molto bene, sembra che la profezia stia prendendo vita! -, esclamò, parlando più a sé stesso che a Lamashtu. - È il momento di fare un passo avanti: dovrai prendere il posto di un Cavaliere o di una guardia del Grande Tempio e osservare da vicino Gemini e Pisces -, continuò, tornando a puntare gli occhi sul demone.
   - Il vino ti fa sragionare, Kharax! -, obiettò Lamashtu, - Se assumessi la forma di un Cavaliere verrei scoperto all'istante. Il mio cosmo è in grado di adattarsi a un comune mortale, ma entrerebbe in conflitto con quello di un Cavaliere. Si noterebbe subito un cambiamento e perirei senza aver concluso nulla. Inoltre, l'assenza di Makarios non passerebbe inosservata e potrebbe destare non pochi sospetti. L'archēgós riferisce ai Cavalieri di Bronzo e d'Argento che pattugliano il villaggio e i dintorni ogni minimo dettaglio che ritiene dubbio -. Le argomentazioni del demone velarono di delusione gli occhi di Kharax che, in preda all'ira, picchiò forte il pugno sul tavolo.
   - Allora dobbiamo distogliere l'attenzione da Rodorio! Chiederò a Sorush d'inviare un demone ad attaccare questo villaggio e a indicare l'archēgós come complice di Nergal! Makarios è benvoluto da tutti qui e la sua dedizione alla causa potrebbe garantirgli l'incarico di capo villaggio. In tal modo, potrai spostarti senza destare sospetti e prendere il posto di una delle guardie del Grande Tempio, che non hanno cosmo! - Fiero di questo diabolico piano, Kharax scoppiò in una grassa risata.
   A Lamashtu quel piano non convinceva del tutto: per uccidere una guardia e assumerne le sembianze avrebbe dovuto bruciare una frazione di cosmo che sarebbe stata di certo individuata come avvenuto tempo prima per Makarios. E se ciò accadesse dopo la sconfitta del demone inviato da Sorush, sarebbe stato tutto vano.
   Passò un po' di tempo a riflettere, poi gli venne un'idea: - Chiedi a Sorush di mandarne due: uno qui a Rodorio, l'altro al Grande Tempio! In questo modo potrò agire senza essere scoperto. Il cosmo dei miei compagni celerà il mio! - Kharax ne fu soddisfatto e, tirando fuori dalla tasca il prisma d'ambra, salutò e sparì. Riapparve nel giardino fatiscente e desolato della villa tardo-romana in cui si rifugiava il Sacerdote di Nergal, pronto a mettere in atto quanto concordato col demone del fuoco.
   La perplessità di Lamashtu, però, non si era spenta: l'ex Cavaliere di Crater non aveva dato spiegazioni del suo umore nero e sembrava nascondere qualcosa. Tornò alla finestra, guardando dalle fessure delle ante il cielo privo di stelle e la luna velata dalle nuvole. - Possiamo fidarci di te, Kharax? -, si chiese, sospirando pensieroso.
***
   L'alba aveva sgombrato il cielo dalle nubi e un sole tiepido e scialbo illuminava il Grande Tempio. Alexer e Kanaad erano sulla terrazza della sala del trono. - Kanaad, in mia assenza il Santuario è nelle tue mani. Devo incontrare l'Imperatore e il Patriarca per scoprire il nome del misterioso consigliere, e voglio farlo subito -. L'ex Cavaliere di Virgo annuì e lo vide sparire in un varco dimensionale da lui aperto.
   Alexer riapparve davanti al Palazzo Imperiale e si fece annunciare dalle guardie al cancello. Fu scortato fino alla Sala delle Udienze, dove Costantino Ducas lo attendeva. Era un uomo di quasi sessant'anni, canuto, dagli occhi nocciola, vestito con abiti sontuosi, intarsiati d'oro e di gemme. Il sacerdote di Atena salutò, facendo un leggero inchino, e fu invitato a sedersi.
   - Non credevo sareste venuto così presto, nobile Alexer. I miei soldati mi hanno raccontato dello straordinario eroismo del vostro Cavaliere. Tutta Bisanzio è in debito con voi! -, disse Costantino, profondendosi in lodi.
   - Bisanzio non è stata l'unica città a essere attaccata. Ce ne sono state altre! Proprio per questo oggi mi trovo qui: ho urgente bisogno di consultare gli archivi imperiali e anche quelli della basilica di Santa Sofia. Sospetto che l'uomo che si cela dietro questi attacchi sia un ex consigliere imperiale -, rispose il Sacerdote con tono grave e incurante degli elogi dell'Imperatore.
   Costantino parve turbato dalle dichiarazioni del vicario di Atena. Fin dai tempi di Costantino il Grande i rapporti fra l'Impero e il Santuario di Atena erano sempre stati buoni, tanto che il Sacerdote della dea della giustizia ricopriva un ruolo importante nella gestione dei territori imperiali.
   - Avete delle prove a sostegno delle vostre parole? -, chiese il Ducas, un po' indispettito dalle accuse mosse alla sua corte.
   - Nobile Costantino, avrete di certo saputo dell'ostilità che il Monomaco aveva nei confronti del Grande Tempio. Ebbene, l'uomo di cui parliamo era un suo consigliere. Attentò alla vita di una giovane nobildonna bizantina affidata alla nostra custodia per trovare pretesti contro di noi, coalizzare gli alleati dell'Impero e muoverci guerra -, spiegò Alexer, suscitando nell'Imperatore sentimenti contrastanti.
   Conosceva bene gli interessi e le trame di palazzo, in cui era incorso anche il suo predecessore, Isacco Comneno, che aveva abdicato pur di allontanarsi dallo strapotere del Patriarca e dalle pressioni turche ai confini del regno. Sapeva anche che il Monomaco aveva cercato di tessere una fitta rete di accordi proprio per concentrare la sua attenzione sul Grande Tempio, ma che i suoi piani erano sfumati.
   Rimase sovrappensiero per un attimo, poi disse: - Vi darò accesso agli archivi, nobile Alexer, ma per quanto riguarda quelli di Santa Sofia dovrete parlarne con Costantino Licude, il Patriarca -.
   Parlarono di molte altre cose, dei sospetti che Costantino aveva su alcuni strateghi e delle ansie che gli davano i Turchi. Il Sacerdote di Atena lo ascoltò con attenzione, limitandosi ad annuire e concordare, poi lo ringraziò e l'Imperatore lo fece scortare fino alla sede degli archivi, che si trovava in un edificio non molto lontano dal palazzo.
   Giuntovi, Alexer si fece indicare i documenti del regno del Monomaco e iniziò a sfogliare alcuni volumi: erano perlopiù trattati o resoconti di eventi occorsi durante la sua permanenza sul soglio imperiale. Ne controllò altri, finché non s'imbatté in un piccolo volume dorato sul cui frontespizio era riportato: 'Notabili del regno di Costantino Monomaco'. L'aveva trovato. Si sedette su uno dei tanti scranni presenti nella sala e iniziò a leggerlo attentamente.
   Si concentrò soprattutto sulla fine degli anni Quaranta del secolo, seguendo le informazioni fornitegli da Donna Irene. Dopo alcune pagine trovò ciò che cercava: - Addì 10 maggio 6557 dell'Anno del Mondo[1], il nobile Sorush di Feroz, persiano, sostituisce il barone Giovanni Bumbaca, accusato di corruzione -.
   Soddisfatto, Alexer lasciò l'archivio e si diresse verso Santa Sofia per incontrare il Patriarca. Quest'ultimo era un uomo basso, dal volto cosparso di rughe, su cui si aprivano due occhi verdi molto espressivi. Aveva sempre un sorriso accomodante e la sua voce, seppur malferma, denotava un piglio autoritario e severo. Conosceva Alexer fin dai tempi del Monomaco, sotto il cui regno era stato proedro[2]. Non aveva mai appoggiato i piani di Costantino IX e si era schierato apertamente contro di lui. Quando aveva udito la richiesta del Sacerdote di Atena aveva acconsentito subito e lo aveva accompagnato personalmente.
   - Costantino era un folle e molti dei suoi consiglieri lo appoggiavano spinti dall'interesse. Ricordo questo Sorush di cui mi avete parlato: era un uomo misterioso, difficile da avvicinare, ma aveva un'influenza incredibile sulla debole mente dell'Imperatore. Più volte mi scontrai con Costantino a causa sua e dei progetti che portava avanti, ma non mi diede mai ascolto. Non avrei mai immaginato che dietro l'attacco a Bisanzio ci fosse lui! -, raccontò il Patriarca, mentre raggiungevano la biblioteca della basilica.
   Prese un volume color porpora, adornato da borchie d'argento e lo porse al Sacerdote: - Le informazioni che cercate dovrebbero essere qui. Eustazio non scrisse molto, ma era attento ai problemi con il Papato di Roma e non disdegnava di compiere atti estremi, pur di appianare i contrasti -. Alexer lo ringraziò e di buona lena si mise a cercare l'evento che gli era tornato in mente all'Altura delle Stelle.
   Non ci mise molto a trovarlo: - Ecco qui: addì 9 agosto 6532 dell'Anno del Mondo[3], io, Eustazio, vescovo di Bisanzio, alla presenza del popolo e dei diaconi Giorgio Amauras e Michele Nisseno, condanno alla pena capitale Feroz, originario della Persia, reo di eresia. Il condannato non ha accettato di abiurare il suo credo e di abbracciare l'ortodossia e pertanto è stato bruciato vivo nella pubblica piazza. L'uomo aveva un figlio: gli incaricati del vescovado l'hanno cercato, ma risulta scomparso. Le ricerche sono state sospese -, lesse il Sacerdote. Guardò in volto il Patriarca, che gli era seduto accanto e accennò un sorriso: - Quindi il consigliere di Costantino è figlio di quest'eretico! -, concluse, chiudendo il volume e ringraziando il Patriarca per il tempo che gli aveva concesso.
   - Confido che riuscirete a catturarlo e che portiate pace all'Impero -, lo salutò quest'ultimo, accompagnandolo fino al sagrato della basilica.
   Alexer tornò al Grande Tempio, riunì di nuovo i Cavalieri d'Oro e raccontò loro le ultime scoperte. Tuttavia, tenne nascosto il ruolo di Calx e la sua vera identità. In quei giorni arrivarono parecchie missive: i regni che erano stati attaccati chiedevano spiegazioni in merito, ma una su tutte, inviata da Toghrul Beg, era un'aperta accusa alle azioni del Grande Tempio. Il Sacerdote di Atena era deciso a convocare i vari re al Monte Athos per chiarire la situazione e mettere all'angolo il sultano che sembrava aver ereditato l'astio del Monomaco nei confronti del Santuario di Atena. Scrisse numerose lettere e l'appuntamento fu fissato per il giugno successivo.
***
   Nel marzo del 1063 anche Elnath, Zosma e Yeng ottennero l'investitura e andarono a occupare rispettivamente le case del Toro, del Leone e della Bilancia. Sorush aveva approvato il piano di Kharax, ma volle aspettare il consesso per poter agire: eliminare buona parte dei regnanti in un colpo solo avrebbe gettato il mondo nel caos.
 
 
 
[1] "23 maggio 1048".
[2] "Presidente del Senato".
[3] "22 agosto 1023".

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Capitolo 10
*** Il consesso del Monte Athos ***


Capitolo X
IL CONSESSO DEL MONTE ATHOS
 
Monte Athos, penisola calcidica, giugno 1063
 
   Quei mesi passarono in fretta. Il Sacerdote di Atena si era recato più volte al Monte Athos per incontrare Demetrios, capo dei monasteri e suo buon amico, e limare i dettagli del consesso. Si erano conosciuti ai tempi della Guerra Sacra e pian piano la loro amicizia era diventata sempre più stretta. Il nemico non aveva più attaccato, ma Alexer sapeva che era solo questione di tempo: prima o poi avrebbe fatto la prossima mossa. La sua preoccupazione maggiore, tuttavia, erano i piani di Toghrul Beg: negli ultimi anni i Turchi avevano seminato il panico in Asia e si erano affacciati alle porte d'Europa. Gli imperatori bizantini non erano sempre stati all'altezza di affrontarli e soprattutto Costantino Ducas sembrava incapace di arginare la loro avanzata. Molti sovrani erano in ansia per la situazione e alcuni stavano pensando di stipulare accordi che garantissero loro sicurezza. Il sultano, inoltre, sembrava aver ereditato lo stesso astio del Monomaco nei confronti del Grande Tempio e la missiva che era giunta nelle mani di Alexer non lasciava presagire nulla di buono.
   Il giorno prima dell'inizio del consesso, il Sacerdote riunì i Cavalieri d'Oro e i rappresentanti delle caste d'argento e di bronzo alla tredicesima casa.
   - Vi ho riuniti qui per darvi disposizioni prima della mia partenza. In qualità di Primo Ministro, il nobile Kanaad mi sostituirà nel governo del Grande Tempio. A te, Calx, affido la supervisione dei pattugliamenti di Rodorio. Collabora con Laurion e Mothalla e riferisci qualsiasi novità al Primo Ministro. Elnath e Altager mi accompagneranno al Monte Athos, tutti gli altri continueranno a svolgere i loro compiti abituali -, disse il messo di Atena, congedando i Cavalieri. Altager era entusiasta di poter entrare in azione, mentre Elnath non sembrava gradire particolarmente di assistere alle discussioni di "miserabili che si atteggiavano a re", com'era solito definire i regnanti.
   L'indomani, di buon'ora, tre cosmi dorati sfrecciarono dal piazzale della prima casa e poco dopo si ritrovarono davanti a un enorme edificio bianco, dal tetto spiovente sulla cui punta svettava una croce d'avorio: erano giunti al luogo dell'incontro.
   Ad attenderli all'ingresso vi era un uomo alto e prestante sui sessant'anni, capelli e barba bianchi percorsi da fili castani e profondi occhi azzurri. Era Demetrios. Li accolse con un sorriso e li guidò fino alla sala che era stata scelta per la riunione. Era un'ampia stanza di forma circolare, adornata da mosaici intarsiati d'oro raffiguranti vite dei santi. Al centro vi era un lungo tavolo rettangolare di faggio, contornato da alti seggi. Non vi era mobilio di sorta o altri simboli prettamente cristiani. Lungo le pareti erano accostate altre sedie, su cui far accomodare i segretari dei vari sovrani per prendere nota delle discussioni che si sarebbero svolte.
   - È un onore conoscere dei giovani che si sono assunti l'onere di difendere l'umanità. È passato molto tempo da quando ho avuto modo di conoscerne altri -, disse Demetrios, rivolto ai Cavalieri che accompagnavano Alexer con tono gentile e accorato.
   - Siete stato al Grande Tempio? -, chiese con curiosità Altager, che aveva notato in quell'uomo un portamento e una nobiltà da Cavaliere.
   Il monaco lo guardò con occhi nostalgici e, sorridendo, rispose: - Un tempo anch'io desideravo indossare un'armatura e combattere contro gli dei malvagi, ma non sono mai riuscito a risvegliare il cosmo. Così decisi di entrare nell'ordine basiliano e di soddisfare la mia sete di giustizia dall'interno della chiesa, anche se si è rivelata un'impresa più ardua del previsto -.
   Altager era rimasto impressionato dalla risposta dell'anziano monaco, ma anche Elnath sembrava incuriosito da quelle rivelazioni. Si era tenuto sempre in disparte, sulle sue, assorto nei suoi pensieri. Fu Demetrios a riportarlo alla realtà: - Per essere un Cavaliere sei piuttosto silenzioso e distante, ragazzo! -, lo interrogò, avvicinandosi.
   Elnath era un po' turbato, volse lo sguardo verso Alexer, divertito dalla situazione, e poi tornò a guardare il monaco.  - Non siete il primo a dirmelo, ma la mia indole mi spinge a compiere il mio dovere senza cercare di piacere per forza agli altri. Non sono bravo a coltivare amicizie e non ci tengo a farlo. Ho accettato di diventare un Cavaliere solo perché in questo modo potevo dare una speranza di un futuro migliore ai deboli e agli indifesi -, rispose con piglio duro e quasi infastidito.
   Demetrios lo fissò pensieroso, poi sorrise e gli diede una pacca sullo spallaccio. - Nonostante il tuo carattere burbero, hai un cuore sincero e devoto alla causa! Noto con piacere che il nobile Alexer non ha perso il suo intuito nel corso degli anni -, esclamò compiaciuto. D'un tratto, un diacono giunse di corsa, gli si avvicinò e gli riferì che i primi ospiti iniziavano ad arrivare.
   - Vado subito a riceverli -, rispose, portandosi verso l'ingresso dell'edificio.
   Giuntovi, vide uomini dall'abbigliamento di foggia araba seguiti da un gruppo di soldati armati. Si avvicinavano a passo moderato, parlando fra loro. Demetrios li guardava appressarsi e in cuor suo sperava che non accadesse nulla d'inconsulto che potesse coprire di vergogna e d'imbarazzo l'onorabilità di quei luoghi.
   Il più giovane dei due delegati presentò se stesso e il suo accompagnatore: - Nobile Demetrios, il mio nome è Ahmed al-Bakri, sono l'emissario degli emiri di Spagna. L'uomo al mio fianco è Harun al-Muqtar, incaricato di redigere il verbale della riunione -. Aveva capelli e occhi nerissimi, carnagione scura e un tono gentile e cordiale. Poteva avere all'incirca trent'anni, anche se la folta barba e i capelli lunghi lo facevano apparire più vecchio. Il suo compagno, invece, pur condividendo il colore degli occhi e dei capelli, aveva un incarnato leggermente più chiaro e portava un pizzetto e lunghi mustacchi. Teneva delle pergamene sottobraccio e aveva fatto un breve inchino quando aveva sentito pronunciare il suo nome. Il monaco li fece accomodare all'interno dell'edificio per presentarli agli altri, ma vietò ai soldati di entrare armati. Questi ultimi furono accompagnati dal diacono a un edificio non molto distante, situato su un promontorio a strapiombo sul mare, dove erano state preparate stanze per le guardie al seguito dei reali. Qui poterono rifocillarsi e riposarsi dopo il lungo viaggio.
   Nel corso della giornata arrivarono altri re e delegati: Harald III di Norvegia, il conte Baldovino di Fiandra, l'ambasciatore Alvise Mastalizi da Venezia, Jogindra, inviato del re indiano Virarajendra Chola, Liefried von Ragensberg, delegato di re Enrico IV del Sacro Romano Impero, l'imperatore Costantino X Ducas, Kornil Osipovič, emissario di Izjaslav di Kiev, Wilmot di Bath, ambasciatore di Edoardo il Confessore, Bencivenne da Morimondo, nunzio di papa Alessandro II, e il sultano Toghrul Beg. La riunione si sarebbe tenuta l'indomani e Demetrios passò l'intera giornata ad accogliere come si conveniva gli importanti ospiti. Alexer lo aiutò ad assegnare gli alloggi alle truppe per evitare che sorgessero screzi e litigi. La buona riuscita del consesso dipendeva dal dettaglio più insignificante e il Sacerdote di Atena sapeva bene che la minima disattenzione avrebbe potuto creare dissapori e recriminazioni. Soprattutto perché fra molti dei sovrani presenti non correva buon sangue e in alcuni casi erano anche prossimi alla guerra. Quella sera andò a riposare molto tardi e non riuscì a chiudere occhio, pensando all'incontro che lo attendeva poche ore dopo.
***
   Quella notte il Sacerdote non fu l'unico a sfuggire al dolce abbraccio del sonno: Elnath era seduto sulla spiaggia e guardava il cielo terso e adorno di stelle. Sentì dei passi avvicinarsi, ma non si girò.
   Una voce gentile gli rivolse la parola: - Ti ho trovato, finalmente! Quando mi sono svegliato e non ti ho visto, mi sono preoccupato! -.
   - E perché mai? Il Sacerdote ti ha forse chiesto di farmi da balia, Altager? -, chiese con tono contrariato il Cavaliere di Taurus.
   Il giovane compagno rise e si accomodò accanto a lui, dandogli una pacca sulla spalla. - Sai bene che il Sommo Alexer non farebbe mai una cosa del genere! Ma da quando siamo qui sei diventato ancora più sfuggente e taciturno del solito. C'è qualcosa che ti turba? -, replicò con semplicità il nuovo Cavaliere delle energie fredde.
   Elnath abbassò il capo e accennò un sorriso beffardo: - Dopo tutti questi anni non hai ancora imparato come sono fatto? Dovresti sapere ormai che non rivelo facilmente i miei pensieri. Ciò che mi turba è affar mio! -, ritorse il possente guerriero, tentando di mettere fine a un discorso che non gli piaceva.
   Altager lo fissò per un momento, consapevole di aver toccato un tasto dolente, poi volse gli occhi al mare, li chiuse e fece un profondo respiro. - Prima di arrivare in Grecia non avevo mai visto il mare. Il paese da dove vengo io è coperto di neve per la maggior parte dell'anno e il sole è sempre tiepido, anche d'estate. Ci sono solo foreste, montagne e villaggi sperduti. Il tuo com'è? -, riprese, cambiando discorso nel tentativo di intavolare una discussione. - Non molto diverso dal tuo. L'unica differenza è che il mio villaggio si affacciava sul mare ed era abitato da pescatori -, rispose freddo Elnath, continuando a fissare davanti a sé.
   - Deve essere un bel posto! -, commentò il compagno.
   Il custode della seconda casa fece un sospiro sommesso, come a seppellire nel fondo dell'anima ogni ricordo, e replicò:
   - Lo era, prima che la guerra lo riducesse in cenere -. Il tono con cui aveva proferito quella frase denotava disagio e collera.
   Il Cavaliere di Aquarius cadde in un profondo silenzio: sembrava che qualsiasi argomento spingesse il compagno a chiudersi sempre di più in sé stesso. Era frustrante non poter dialogare con qualcuno serenamente, ma non poteva farci niente. Fece per alzarsi, quando Elnath gli pose una domanda inaspettata: - Che uomo era tuo padre? -
   Altager si rimise a sedere, stupito da quel quesito ma allo stesso tempo lieto di poter finalmente intraprendere una conversazione: - Era un uomo dabbene, allevava renne e si spaccava la schiena per sfamarci. Si chiamava Sofon. Si tolse la vita che avevo all'incirca cinque anni. Le nostre finanze non gli consentivano più di tirare avanti e sperava che il matrimonio che aveva combinato fra mia sorella Raisa e il figlio di uno dei più ricchi allevatori del nostro villaggio potessero risollevarle. Purtroppo, poco prima delle nozze, mia sorella si ammalò e morì. Mio padre fu annientato da quella sciagura e dopo qualche tempo s'impiccò nel nostro fienile. Eravamo rimasti soltanto io e mia madre. Lei non era in grado di gestire un gregge, così, per vivere, cominciò a rammendare i vestiti logori degli abitanti del villaggio, ma il denaro che guadagnava non era sufficiente. Fu costretta a vendere i capi di bestiame uno dopo l'altro e in breve tempo perse il senno. Una mattina d'inverno la trovai riversa sul suo letto, esanime -, raccontò, disegnando con un dito forme indistinte sulla sabbia umida.
   Il custode della seconda casa lo aveva ascoltato con attenzione, ma aveva notato che in tutta quella storia il suo nome non era figurato affatto. - E il tuo ruolo in tutta questa faccenda qual è stato? -, gli chiese, distogliendo per la prima volta lo sguardo dal mare.
   Altager accennò un sorriso colmo di tristezza e, puntando gli occhi su di lui, rispose: - Quando sono nato ero così gracile e malaticcio che la levatrice disse a mia madre che non sarei vissuto a lungo. Il rigido clima delle mie terre è spietato con chi non dispone di un corpo forte. Mi ammalavo spesso ed ero costretto a passare lunghi periodi a letto. Non potevo far altro che vedere la mia famiglia cadere in rovina senza poter muovere un dito. Non uscivo quasi mai di casa e maledicevo il fato per la salute cagionevole che mi aveva provveduto. Quando anche mia madre morì, decisi di raggiungere i miei cari nella tomba: senza nessuno che si prendesse cura di me, sarei passato a miglior vita molto presto. Fu allora che alla mia porta si presentò Laurion. Mi parlò del cosmo e dei Cavalieri, m'infuse speranza: così accettai di seguirlo al Santuario. Qui incontrai Jorkell, il mio maestro, e grazie a lui compresi il vero significato di essere un Cavaliere di Atena. Nonostante la malattia e le atroci sofferenze, continuava a spronarmi con autorevolezza e passione. In lui rivedevo un po' di me, anche se il suo modo di affrontare la sua situazione mi aprì a un mondo a me ignoto. Se oggi indosso quest'armatura e sono diventato l'uomo che vedi, lo devo a lui. Grazie al cosmo, la mia salute è migliorata e ora posso sfruttare questa nuova occasione per aiutare gli altri, cosa che non sono riuscito a fare con la mia famiglia -.
   Elnath rifletté sulle parole del compagno, poi disse: - Vedo che la solitudine e il dolore sono appannaggio imprescindibile di tutti i Cavalieri. Ammiro la vostra capacità di riuscire a dare fiducia agli altri, nonostante il vostro passato. Si è fatto tardi, è meglio andare a dormire -. Si alzò e si avviò verso l'edificio dove si trovava il dormitorio, senza aspettare Altager. Il Cavaliere di Aquarius sorrise e scosse il capo. Si rimise in piedi e lo raggiunse, tentando di continuare il discorso.
***
   Il sole tornò a splendere fiero nell'azzurro cielo sgombro di nuvole. Era un giugno piuttosto caldo; guardie e soldati, non ammessi alla riunione, tentavano di trovare frescura all'ombra degli alberi o sotto i portici degli edifici. Si vedevano gruppetti sparsi, con indosso armature di foggia e colore differenti, parlare, ridere o anche litigare su futili argomenti.
   Nella sala circolare riservata al consesso, Alexer, Demetrios e i due Cavalieri attendevano gli ospiti. Arrivarono uno dopo l'altro, scortati da monaci e diaconi, e si sedettero in silenzio. A capo tavola, di fronte al Sacerdote di Atena, aveva preso posto Toghrul Beg. Era un uomo attempato, il viso rugoso e sfiorito, capelli e baffi candidi come neve. Aveva occhi neri, vivi e penetranti. Portava un turbante di seta dai colori accesi e una leggera armatura di cuoio con borchie di ferro sulle spalle. A prima vista sembrava un uomo innocuo e tranquillo, ma tutti, in quella stanza, conoscevano la sua fama e la sua insaziabile sete di potere.
   Alla sua destra si era seduto Harald di Norvegia. Aveva lunghi capelli biondi e occhi di un verde vivace. Una corta barba gli contornava il volto, illuminato da un'espressione sprezzante e fredda. Era alto e prestante, nonostante andasse per i cinquanta. Si guardava intorno, fissando i convenuti e chinando il capo in segno di saluto. Sperava che quella riunione gli avrebbe fruttato nuove alleanze. D'un tratto, fermò lo sguardo su Elnath, in piedi alle spalle del Sacerdote, e una strana sensazione lo invase. Tentò di scacciarla via, concentrandosi sulla discussione che stava per iniziare.
   Di fronte a lui aveva preso posto l'imperatore Costantino, sul cui volto si leggevano ansia e preoccupazione. Tentava di tenere lo sguardo fisso in un punto, senza guardarsi intorno, ma si sentiva osservato. Alzò gli occhi e vide Harald rivolgergli un sorriso e salutarlo con un cenno del capo. Rispose istintivamente abbassando lo sguardo e l'inquietudine che lo attanagliava crebbe d'improvviso. Conosceva bene il sovrano di Norvegia, che un tempo era stato al servizio di Bisanzio, e la sua smisurata ambizione.
   Accanto a lui si era assiso il nunzio papale, Bencivenne da Morimondo, un uomo pingue e calvo, dagli occhi neri infossati e vestito di un saio di panno ruvido di color granato e dalle ampie maniche. Al collo portava un vistoso crocifisso d'oro, che si perdeva tra le pieghe della veste. Teneva le mani conserte sul ventre e sembrava in attesa dell'inizio della riunione. Ogni tanto guardava di sottecchi Demetrios, seduto accanto al Sacerdote di Atena.
   Dirimpetto gli era seduto Mastalizi, l'ambasciatore di Venezia. Era un uomo esile, dal volto emaciato, occhi marroni piccoli e inespressivi, capelli neri lunghi fino alla nuca. Parlava con Wilmot di Bath, che gli era seduto accanto. Quest'ultimo aveva capelli e barba rossicci, era corpulento e aveva un carattere allegro e socievole. Disquisivano di falconi e su come addestrarli. Sembravano molto presi dalla loro discussione privata e si erano completamente estraniati dalla sala.
   Baldovino si era seduto accanto a Bencivenne e dialogava affabilmente con al-Bakri, seduto di fronte a lui, e con l'Osipovič, che aveva preso posto accanto all'ambasciatore degli emiri di Spagna. L'ambasciatore dei Rus aveva una capigliatura biondo cenere ed estremamente rada, gli occhi di un azzurro chiaro e il volto glabro; poteva avere all'incirca cinquant'anni e ogni volta che rideva il suo viso si cospargeva di rughe.
   Gli ultimi posti erano occupati da Jogindra e Liefried. Il primo aveva la carnagione olivastra e vestiva un abito lungo di un rosso acceso. Aveva capelli neri e ricci molto corti e occhi di un nocciola spento. Un piccolo tilak gli ornava la fronte; dimostrava all'incirca quarant'anni e sembrava che la presenza del sultano lo mettesse a disagio. Liefried era, invece, un omone robusto, dagli occhi marroni e dalla folta barba castana, coi capelli lunghi fin sopra le spalle. Al centro della fronte si notava una vistosa cicatrice che giungeva sul naso, ricordo di una passata battaglia. Aveva all'incirca trentacinque anni.
   Quando tutti i convenuti ebbero preso posto, Alexer si alzò, spegnendo il bisbiglio che serpeggiava nella sala e attirando su di sé l'attenzione degli astanti.  
   - Nobili signori e ambasciatori, vi ringrazio di essere intervenuti oggi a questa riunione. Ho ricevuto molte missive che mi chiedevano delucidazioni in merito agli attacchi subiti da città sotto la vostra giurisdizione e ho ritenuto opportuno convocare anche i rappresentanti di regni che potrebbero essere i prossimi bersagli -, esordì il messo di Atena, spiegando le motivazioni di quel consesso.
   - Un nemico incombe sulla sopravvivenza dell'umanità. Una divinità malvagia, retaggio di una perduta civiltà, sta per tornare a nuova vita e brama conquistare non solo la terra, ma l'universo intero! Alcuni di voi hanno già avuto modo di constatare quanto i guerrieri di questo dio siano di gran lunga più potenti di un esercito ben addestrato. Ciò che vi chiedo è fiducia nei Cavalieri. So che alcuni di voi hanno delle riserve sull'operato del Grande Tempio, ma noi siamo gli unici a poter garantire la sconfitta di questo nume che minaccia l'incolumità di tutti gli esseri viventi -, continuò, tentando di persuadere anche i più restii. I convenuti sembravano riflettere e ponderare le parole del Sacerdote, quando una voce si levò sul silenzio calato d'un tratto nella sala.
   - Dovremmo fidarci del Grande Tempio? Ci state chiedendo di affidarvi le nostre stesse vite, Sacerdote! Sapete bene qual è la mia opinione in merito! Io non mi fido neppure dei miei congiunti che posso controllare, figurarsi di chi possiede un potere che supera ogni immaginazione! - A parlare era stato il sultano, sul cui volto era apparso un piglio di sfida.
   - Eppure Baghdad è ancora in piedi grazie all'intervento di un Cavaliere, l'avete dimenticato, sultano? -, controbatté Alexer, che si aspettava il giudizio severo del canuto capo dei Turchi.
   - Sì, è vero, ma il vostro guerriero è scomparso assieme all'assalitore subito dopo essere giunto in città. Nessuno sa se abbia realmente sconfitto il nemico o se era tutta una messinscena -, insinuò l'uomo, tentando di minare la credibilità del Sommo Sacerdote.
   - Da quanto mi hanno riferito anche nelle altre città attaccate nessuno ha potuto assistere alla battaglia! Una coincidenza piuttosto strana! Mi chiedo se tutto questo non sia parte di un piano studiato fin dall'inizio -, continuò, istigando il dubbio nel cuore dei presenti.
   - Su questo punto devo dissentire, sultano! -, intervenne una voce giovane, ma risoluta. - Un testimone ha potuto assistere alla battaglia che si è svolta sulle rive del Besòs, in Spagna, e afferma di aver visto l'essere che voleva attaccare Barcellona sconfitto dal Cavaliere di Capricornus -, raccontò Ahmed al-Bakri, compiaciuto di poter mettere in ombra le parole sdegnose e melliflue del sultano.
   Mostrando un sorriso accondiscendente, ma meditando nel cuore una feroce punizione per l'uomo che aveva osato contraddirlo, il capo turco domandò: - E chi sarebbe questo temerario che ha avuto la ventura di assistere a quel titanico scontro? Perché non è qui, oggi? -
   - Il suo nome è Rodrigo Díaz de Vivar, un nobile castigliano amico del Cavaliere che ha sconfitto il demone. Al momento sta combattendo contro il re di Aragona, per questo non è qui. Aveva chiesto al suo signore di poter partecipare a questa riunione, ma non ha ottenuto il permesso -, rispose l'ambasciatore degli emiri spagnoli, suscitando una smorfia di soddisfazione e d'ironia nello sguardo di Toghrul Beg.
   - Il testimone sarebbe un cristiano, per di più amico del Cavaliere? E gli emiri di Spagna si fidano della parola di un infedele? Ora capisco perché la potenza islamica ha cominciato a sfaldarsi! -, provocò spavaldo il sultano, facendo accigliare al-Bakri, che strinse i pugni per trattenere la rabbia.
   - Pensate davvero che i Cavalieri di Atena non siano soggetti alla stessa cupidigia dei comuni mortali? Chi ci garantisce che non stiano lavorando per qualche potenza che noi ignoriamo? Se io avessi creduto a tutte le fandonie e ai buoni propositi che mi hanno raccontato nel corso della mia lunga vita, a quest'ora la mia missione di portare l'Islam alla gloria sarebbe terminata da un pezzo! -, proseguì l'attempato sovrano, parlando con passione e fervore.
   - E la vostra missione implica anche eliminare i fratelli che si oppongono alla vostra autorità? Provate a raccontare la vostra buona fede ai figli dell'Islam d'Egitto e di Siria! Avete sterminato senza esitazione vecchi, donne e bambini solo perché erano legati ai vostri oppositori! E vorreste farci credere che siete stato investito dalla volontà divina? -, ritorse al-Bakri, rinfacciandogli le stragi commesse pochi anni prima tra i Fatimidi d'Egitto e di Siria. Anche suo padre e suo fratello erano state vittime innocenti di quel massacro e sentir parlare il loro assassino con tanto orgoglio dei suoi crimini lo aveva fatto rabbrividire.
   Furibondo per l'offesa recatagli, Toghrul Beg lo guardò torvo e accennò una smorfia di disprezzo. - Come osate rivolgervi a me con tale impudenza? Avete venduto la vostra dignità agli infedeli al punto di collaborare con loro e criticate il mio operato? Io sono disposto a usare qualsiasi mezzo, anche ad affrontare la mia stessa gente, se servirà ad assicurare gloria e rispetto all'Islam! -, affermò con decisione il sultano, dissimulando il livore per l'affronto subito.
   Prima che la situazione degenerasse, intervenne Harald di Norvegia che, con parole concilianti, tentò di placare gli animi: - Calma, signori! Non siamo qui per rivangare vecchi rancori! Ciò che è stato, è stato! Ora dobbiamo pensare alla presente minaccia. Se mi è concesso esprimere la mia opinione, mi trovo d'accordo col sultano su alcuni punti -. Queste parole scossero Costantino, che alzò la testa e fissò per un attimo il viso sornione del re nordico.
   - Conosco bene il vostro animo integro e sincero, Sacerdote -, continuò, - ma anche i Cavalieri sono uomini e come tali sono soggetti alle passioni e alle tentazioni. Anche voi avete un prezzo e potete essere comprati: chi ci assicura che la storia che ci avete raccontato sia vera? Come facciamo a sapere che non state tramando alle spalle di tutti noi? -
   Alexer rise, stupendo i presenti, e con un'imperturbabilità disarmante rispose: - Forse v'illudete di conoscerci, nobile Harald, ma non è così! Fin dall'epoca del mito i Cavalieri di Atena non hanno mai combattuto per interesse o per profitto personale! Il denaro non ci tange, e neppure al potere aspiriamo! Il nostro unico e solo scopo è proteggere la terra dalla distruzione! Senza il nostro intervento, questo mondo sarebbe scomparso da tempo per il capriccio di qualche divinità! -
   - Il Sacerdote ha ragione e posso produrre le prove di questa mia convinzione -, intervenne Jogindra, guardando dritto negli occhi il sultano, che percepì una latente ostilità nel suo sguardo.
   - Anni or sono, un gruppo di ribelli liberò un'antica divinità dal suo sonno e minacciò il nostro regno. Nonostante i nostri sforzi, subimmo pesanti sconfitte finché non giunse un Cavaliere, il nobile Kanaad di Virgo, che ci affrancò da quella piaga. Il re gli offrì onori e ricchezze, ma lui rifiutò qualsiasi dono. Usò le stesse parole pronunciate dal Sommo Alexer e aggiunse che la ricompensa più grande era l'aver salvato delle vite -. Le parole dell'ambasciatore indiano trovarono conferma nelle parole di Baldovino e di Mastalizi: anche i Cavalieri intervenuti in aiuto di Parigi e di Venezia avevano rifiutato gloria e compensi. Tutte queste testimonianze parvero convincere anche i più riottosi e incerti, ma si scontrarono con le opinioni avverse di Harald e del sultano.
   Prendendo spunto dalle parole di Jogindra, Costantino, rimasto finora in silenzio, prese a parlare: - L'impero bizantino è da sempre in debito coi Cavalieri di Atena. Fin dai tempi di Costantino il Grande ci hanno aiutato nei momenti più difficili senza mai chiedere nulla in cambio, per onorare la stipula di Atene. Il Sommo Alexer e i suoi guerrieri sono preziosi alleati per tutti noi: hanno salvato le nostre città e i nostri sudditi da morte certa e sono andati via senza pretendere alcunché. Eppure alcuni di noi tentano di sminuire o addirittura di negare il loro apporto alla sopravvivenza dell'umanità solo per timore di un potere che non comprendono! -
   - I Cavalieri esistono da oltre due millenni, perché aspettare così tanto per impossessarsi del mondo? Già da principio avevano i mezzi per sottometterci, perché non l'hanno fatto? -, esordì Bencivenne, volgendo lo sguardo severo in direzione del sultano.
   - Le vostre sono solo parole dettate dal fanatismo e dall'ambizione! Avete testé dichiarato di avere una missione di sangue e pretendete davvero che vi si presti fede? I Turchi hanno imperversato senza sosta per anni e si sono spinti fino alle porte d'Europa! Fu il vostro predecessore, Seljuk, a iniziare la campagna di conquista e conversione! Perché dovremmo fidarci di un despota e non del Sommo Alexer che si è guadagnato il nostro rispetto negli ultimi cinquant'anni? Siete solo un illuso, sultano! -
   L'intervento del nunzio papale, carico di disprezzo e di astio, e le parole di Costantino, che mai si era esposto così tanto, fecero ribollire di rabbia il sultano, che strinse le labbra pallide per tentare di celare il suo stato d'animo. - Non mi meraviglia il vostro atteggiamento! La vostra presa di posizione è dettata da paura e servilismo, più che da lucido raziocinio! Ma io non posso permettermi esitazioni o ripensamenti! Il mio paese è allo stremo: Baghdad è stata solo l'ultima vittima! Molti villaggi sono stati spazzati via e i due fiumi sembrano produrre soltanto morte e desolazione! L'artefice di tutto questo deve pagare! -, proruppe, quasi sfogando pensieri a cui non avrebbe voluto dare voce.
   Quelle parole incuriosirono Alexer, che tentò di approfondire l'argomento: - Che intendete dire, sultano? Cosa sta succedendo al Tigri e all'Eufrate? - Toghrul Beg guardò dritto negli occhi il messo di Atena con espressione furiosa e ad un tempo disperata.
   - Le loro acque non sono più pescose come un tempo e hanno effetti deleteri sulle coltivazioni! È da circa un anno che va avanti così -, spiegò con tono preoccupato. Anche Costantino sembrò turbato da quella rivelazione e si ricordò di un rapporto che gli aveva inviato il domestico di Edessa alcuni mesi prima.
   - Ora che ci penso anche nei territori limitrofi di Edessa sta accadendo la stessa cosa. Ne sono stato informato qualche mese fa. Anche il momento in cui tutto è iniziato coincide. È forse opera di questo misterioso nemico? -, intervenne, volgendo lo sguardo ad Alexer.
   - Probabile -, esordì il Sacerdote. - In quello stesso periodo fecero la loro comparsa i demoni gemelli, che sterminarono alcuni villaggi fra Edessa e Baghdad. È possibile che siano stati loro a inquinare i fiumi -. Quelle parole esacerbarono l'animo del sultano, che si sentiva offeso e preso in giro.
   Strinse i pugni e con voce severa diede sfogo al suo astio più recondito: - I miei uomini mi riferirono che c'era un Cavaliere da quelle parti e io lo feci chiamare. Mi trattò con sufficienza e sfuggì a ogni mia domanda. Non volle darmi spiegazioni e si affrettò ad andarsene. Ora, signori, ditemi se questo non è un comportamento sospetto. Avete elogiato e glorificato l'operato di questi presunti paladini della giustizia, eppure le terre del califfato stanno patendo indicibili pene! Volete ancora farci credere di essere estraneo a tutto quello che sta accadendo, Sacerdote? -
   Alexer non si scompose di fronte alle accuse mossegli dal sultano. Sapeva bene che in quella riunione il vecchio capo turco avrebbe usato ogni mezzo a sua disposizione per screditare il Grande Tempio e spingere i convenuti a revocargli il loro supporto. - Anch'io ho perso un guerriero quel giorno! Midra di Equuleus morì nel tentativo di sconfiggere i demoni gemelli. Per questo Syrma di Virgo, il Cavaliere da voi convocato, aveva fretta di andare via. Voleva salvare almeno l'altro compagno d'arme rimasto sul campo, Laurion di Leo Minor. E poi, all'epoca, non conoscevamo ancora l'identità del nostro nemico. Era la prima volta che attaccava! -
   L'imperatore di Bisanzio notò che il Sacerdote non aveva fatto riferimento allo scontro con Umma, avvenuto tredici anni prima sulla spiaggia di Bari, del quale era stato messo a parte nel loro ultimo incontro. In cuor suo ne fu sollevato. Un'informazione del genere avrebbe messo in cattiva luce l'impero e avrebbe destato sospetti di collusione con il misterioso nemico di cui si stava discutendo.
***
   Altager, in piedi accanto a Elnath, stava seguendo la discussione in silenzio e quando il Sommo Sacerdote ricordò il triste giorno della morte di Midra una fiumana di pensieri e sensazioni gli invase la mente. Aveva sempre ritenuto Syrma un Cavaliere troppo distante e freddo. Persino Elnath e Nashira, che pure non erano espansivi, si erano ritagliati un loro posto all'interno dei dorati custodi. Ma Syrma gli era sembrato diverso, fin dal primo giorno che lo aveva conosciuto. La sua aria serafica e atarassica metteva a disagio un po' tutti, solo l'indole sarcastica di Sertan sembrava tenergli testa. Nonostante fosse condiscepolo di Yeng, neppure con lui sembrava aver sviluppato un rapporto d'amicizia; mentre gli altri si riunivano anche solo per scambiare due chiacchiere, lui se ne restava alla Casa della Vergine in meditazione. Era un ragazzo misterioso, lo si vedeva parlare con Kanaad e scambiare rapide battute col custode della quarta casa solo in rarissime occasioni. Spesso aveva chiesto informazioni a Yeng, ma nemmeno lui sapeva molto del suo vecchio compagno d'addestramento. Ora le parole del Sacerdote gli mostravano un lato di Syrma di cui mai avrebbe potuto immaginare l'esistenza. Si rese conto di non essere la persona più adatta a giudicare gli altri.
   Si girò verso Elnath, col quale la sera prima si era intrattenuto a chiacchierare e si accorse che era più turbato del solito. Con la coda dell'occhio vide il re di Norvegia fissare il custode della seconda casa, di tanto in tanto, e se ne chiese il motivo. Era forse Harald ad incupirlo così tanto? E perché mai? Rimuginò a lungo sui suoi compagni, astraendosi completamente dalla discussione che si stava svolgendo.
***
   Si era fatto avanti Kornil Osipovič, l'ambasciatore del re dei Rus, che fino a quel momento aveva seguito in silenzio gli interventi dei suoi colleghi. Aveva fama di essere un uomo dall'acume così spiccato da essere diventato consigliere appena ventenne sotto il regno di Jaroslav I.
   Si alzò in piedi e, schiarendosi la voce, rivolse parole amare al sultano: - All'inizio di questo consesso nutrivo parecchie perplessità. I Rus e il Grande Tempio hanno sempre avuto scarsi contatti e non sapevo cosa aspettarmi da questo incontro, né quale piega avrebbe preso la discussione. Ma ora che ho ascoltato la maggior parte dei convenuti, esporrò il mio pensiero.
   La brama di mettere in ombra il Sacerdote Alexer e i Cavalieri del Grande Tempio vi ha tradito, sultano. Disprezzate le altre fedi e non disdegnate nemmeno di eliminare i vostri stessi fratelli islamici, pur di ottenere quello che volete. Come pretendete che vi venga concessa fiducia o che le vostre parole siano accettate? Finora l'unico che sembra appoggiarvi è il sovrano di Norvegia, presumo per scopi a noi ignoti. Ma dovreste diffidare di chi ha prestato il suo braccio come mercenario sia ai Rus che ai Bizantini -. Fece una pausa e rivolse lo sguardo alle due autorevoli figure, che sedevano vicine: entrambi avevano il volto contratto dalla collera. Harald tentava di fissare un punto indistinto della stanza per non incrociare gli occhi degli astanti; Toghrul Beg, invece, puntò gli occhi ardenti sul suo accusatore e strinse le mani, come a smorzare un'insistente sete di vendetta.
   - Tutti i presenti -, riprese, - hanno espresso il loro supporto incondizionato ai paladini di Atena, che si sono contraddistinti nel corso dei secoli per valore e altruismo e io non trovo obiezioni. Voi lamentate che i vostri domini siano stati più volte bersaglio di questo misterioso nemico e tentate di addossare la colpa a uomini che hanno impedito un numero di vittime maggiore! L'ingratitudine e l'ambizione vi ottenebrano il senno, sultano! A nome di re Izjaslav, i Rus sostengono la causa del Grande Tempio e concedono libero accesso nei loro territori ai Cavalieri di Atena, qualora se ne presentasse l'occasione -. La solennità con cui aveva pronunciato il suo discorso e lo sguardo severo con cui si era rivolto agli astanti dissiparono gli ultimi dubbi dei convenuti, se ancora ce n'erano.
   Wilmot e Liefried, gli unici che non erano ancora intervenuti, si accodarono alle parole di Kornil e diedero il loro pieno appoggio ad Alexer e a i suoi Cavalieri. La seduta si sarebbe conclusa di lì a poco, ma il Sacerdote si accigliò e si girò per un attimo verso Elnath e Altager.
   Poi, con voce calma, si rivolse a Demetrios, che gli sedeva accanto: - C'è un posto sicuro dove poter alloggiare i nostri graditi ospiti? -
   Il monaco lo guardò perplesso, poi comprese che qualche pericolo si stava avvicinando. - Da questa stanza si accede a un'alta torre seminascosta dagli alberi; è un luogo piuttosto sicuro -, rispose l'uomo. Alexer lo ringraziò, si alzò e invitò i presenti, confusi e smarriti, a seguire Demetrios verso la torre.
   - Elnath, Altager, tocca a voi! Fate allontanare i soldati che stazionano all'ingresso degli edifici vicini e cercate di delimitare il campo di battaglia -. I Cavalieri fecero un cenno con la testa e si precipitarono fuori dall'edificio.
   - Che sta succedendo, nobile Alexer? -, chiese spaventato Wilmot, mentre si allontanava assieme a reali e segretari.
   - Il nemico sta arrivando, ma non temete, i miei Cavalieri sapranno come batterlo. Ora dirigiamoci alla torre il prima possibile -, rispose il messo di Atena, aiutando i presenti a uscire e a raggiungere il bastione. Quando tutti ebbero lasciato la sala, fece ardere una frazione del suo cosmo, chiuse gli occhi e poi si unì gli altri. Il corridoio si era riempito del brusio di quella folla umana che, incerta e spaurita, pensava solo a salvarsi da quella inattesa situazione. Toghrul Beg, in testa alla fila, subito dietro Demetrios, meditava vendetta e sperava che il nuovo inconveniente ribaltasse le decisioni del consesso. Harald voleva invece assistere alla battaglia, per soppesare la reale forza dei Cavalieri e soprattutto di Elnath, che fin dall'inizio lo aveva incuriosito.
   Mentre s'incamminavano a passo rapido verso l'uscita, Altager disse al compagno: - Cerca di attirare il tuo avversario lontano da qui! -
   - Perché? -, chiese il Cavaliere di Taurus, intrigato dalle enigmatiche parole dell'allievo di Jorkell.
   - Tu assecondami e lo capirai! - Elnath annuì, senza investigare ulteriormente. Non aveva mai visto in azione il padrone delle energie fredde; in cuor suo sorrise e s'impegnò a dare il meglio di sé sul campo di battaglia, per non essere da meno del compagno.
   Usciti all'esterno, intimarono alle guardie che indugiavano sotto gli alberi e i portici di asserragliarsi negli edifici e di non muoversi. Alcuni tentarono di ribellarsi a quell'ordine e di reagire, ma il potere che sembrava spirare da quei giovani ragazzi consigliò loro di obbedire e di rintanarsi nei loro alloggi.
   - Cerca di non morire! -, disse Elnath al parigrado, prima di allontanarsi facendo ardere il proprio cosmo per attirare il suo avversario.
   - Buona fortuna anche a te -, ricambiò il Cavaliere di Aquarius, accennando un sorriso. Poi si concentrò e un'aura dorata lo circondò: nell'aria iniziò a formarsi una nebbia sempre più fitta. Divenne così spessa che risultava difficile distinguere le sagome degli alberi e degli edifici. Il custode della seconda casa notò il fenomeno e comprese finalmente il motivo per cui era stato invitato ad allontanarsi.
***
   Due meteore scesero dal cielo puntando in direzioni diverse. Altager notò una sfavillante luce cadere nella coltre di nebbia e un sorriso gli illuminò il volto. Era riuscito ad attirare uno dei due cosmi che si stavano dirigendo sulla penisola calcidica ed era deciso a fare la sua parte in questa guerra, per amore dell'umanità e per rispetto del suo defunto maestro. - Benvenuto alla tua ultima meta, demone! -, esordì, mostrando orgoglio e autorità. Si udì una risata sommessa e crudele, fredda come il ghiaccio delle terre da cui proveniva il Cavaliere.
   - Bel trucchetto -, ribatté la voce bassa e inquietante del demone, - ma con me ti ci vorrà ben altro per vincere! - Un cosmo di un grigio pallido divampò e la nebbia si disperse come rugiada vinta dal sole. Il signore delle energie fredde rimase impassibile, seppur nel suo cuore provasse un moto d'ammirazione nei confronti del nemico.
   - Ben fatto! -, si congratulò Altager, avvolgendosi di un intenso cosmo dorato. - Prima di continuare, vorrei conoscere il tuo nome, demone! -, riprese, suscitando un sorriso malevolo nel nemico che gli stava di fronte.
   - Vuoi conoscere il mio nome? Ebbene, ti accontenterò: sono Miqut, secondo demone della luce. Soddisfatto? -, rispose l'essere, con un tono ironico e beffardo. Altager non si lasciò intimorire e si presentò a sua volta.
   Il demone aveva notato la foggia dell'armatura e, scoppiando in una risata compiaciuta, esclamò: - Sembra che alla fine Umma sia riuscito a eliminare il precedente Cavaliere di Aquarius. Ora tocca a me sbarazzarmi di te e delle tue vestigia! -
   Miqut indossava un'armatura di colore argento, con inserti blu. L'elmo assomigliava a un cappuccio dentellato che si fondeva cogli spallacci e col bavero e da cui spuntavano ciocche marroni. Una maschera gli copriva gli occhi e il naso. Gli spallacci erano lunghi oltre le spalle e terminavano con due uncini: uno rivolto verso l'alto, l'altro verso il basso. Erano contornati da sferette metalliche. Il blocco centrale s'innestava sotto il bavero e proseguiva fino al bacino, dove si connetteva al cinturino. Presentava triangoli blu che, partendo dalle ascelle si congiungevano all'altezza dell'ombelico. Il cinturino era composto da una fascia metallica sottostante e da piastre più spesse a copertura dei fianchi. Sulla parte posteriore ed anteriore terminava in un sottile triangolo appuntito. Anche qui erano presenti sferette blu che ne adornavano i contorni. Gambali e bracciali erano sottili e lunghi, con una pinna affilata sui lati. Un piccolo artiglio spuntava dalle manopole.
   - Parole sprezzanti le tue. Ma la battaglia non è ancora iniziata; sarà il nostro cosmo a decretare il vincitore! Fatti avanti, Miqut! -, ritorse il Cavaliere, preparandosi allo scontro. Il demone non si fece ripetere l'invito e si scagliò contro di lui facendo esplodere il suo cosmo grigio pallido. Altager riusciva agevolmente a schivare i colpi, la cui velocità era ben lontana da quella dei custodi dorati. Si stancò ben presto del debole assalto e con un pugno all'addome fece strisciare Miqut per qualche metro. L'essere infernale non si scompose, anzi si congratulò con l'avversario per il suo talento guerriero.
   - Nonostante tu sia solo un moccioso, sembri avvezzo alla battaglia! Sarà un vero onore cancellarti dalla faccia della terra! -, esclamò la voce gelida del secondo demone della luce.
   - Non contarci troppo, Miqut! L'unico a essere cancellato da questo mondo sarai tu! Pagherá Kataighís![1] -, disse il Cavaliere, tirando indietro le braccia per poi farle scattare in avanti.
   Il campo di battaglia si tramutò in una distesa ghiacciata e turbini di neve e grandine assalirono Miqut, che si difendeva creando scudi di luce. Fortunatamente, Elnath e il suo avversario si erano spostati in un'altra zona e non furono investiti dall'impeto della tecnica del padrone delle energie fredde.
   Il demone era riuscito in qualche modo a difendersi, sebbene gli scudi da lui creati fossero stati sistematicamente distrutti. - Il gelo del tuo cosmo è superbo, Cavaliere! Sei stato il primo ad annientare le mie difese, ma non credere che io sia già finito! -, commentò con distacco e orgoglio il servo di Nergal. Fece ardere il suo cosmo grigiastro e i suoi pugni si bagnarono di una luce accecante, ma allo stesso tempo fredda e terrificante.
   - Gudene Ugak![2] -, gridò. Tutte le sfere presenti sull'armatura s'illuminarono di un bagliore immenso e le mani di Miqut si trasformarono in fruste di luce, che iniziarono a sferzare il corpo di Altager. Il Cavaliere opponeva muri di ghiaccio all'assalto delle lucenti staffilate. Ma stavolta era toccato a lui veder crollare tutte le sue difese. La frusta destra gli si attorcigliò attorno alle braccia, impedendogli i movimenti, mentre la sinistra puntò al collo, stringendolo forte.
   Altager si dimenava, tentando in ogni modo di divincolarsi da quella stretta mortale, ma sentiva dentro di sé che c'era qualcosa di più in quell'attacco, qualcosa che gli impediva di ribellarsi a quella morsa. - Abbandonati alla malia della luce d'Irkalla! Il mondo della dimenticanza ti attende, Cavaliere! -, la tetra voce del demone risuonò suadente nella sua mente. I suoi occhi si ottenebrarono, come se un sonno improvviso lo avesse invaso con la sua irresistibile dolcezza. Attorno a lui non sentì più alcun rumore: né il mare in lontananza, né lo stormire delle foglie alle carezze del vento inebriante d'estate, né il cinguettio degli uccelli.
   Cadde in ginocchio, privo di ogni volontà d'azione. Il silenzio fu scacciato da una risata oscura e fredda. Avvertì una presenza avvicinarsi e tentò invano di sollevare la testa. - È tutto inutile, Cavaliere -, riprese Miqut, - la luce d'Irkalla priva di ogni volontà. Sei alla mia mercé ormai, non hai più scampo! -. Iniziò a torturarlo sferzandolo violentemente con le fruste. Altager non provava dolore, udiva soltanto il suono dei colpi che gli venivano inferti e le risate divertite del demone.
   - Non mi sono mai arreso in vita mia, e di certo non lo farò adesso! -, come un grido, quelle parole gli riecheggiarono alla mente, distogliendolo dal torpore che lo aveva vinto. Vide l'undicesima casa; il suo maestro, Jorkell, appoggiato a una colonna della sala principale, sudato e in affanno. Aveva il volto pallido e contratto dalla frustrazione.
   - Credi che questa malattia mi impedirà di assolvere al mio compito? No, Altager! Un Cavaliere di Atena affronta ogni sfida senza mai arrendersi! Se vuoi diventare un vero paladino della giustizia, devi sopportare ogni dolore e ogni sofferenza; devi imparare a ribaltare la tua sorte, se vuoi essere d'aiuto agli altri! - Ricordava perfettamente quella discussione. Quel giorno Jorkell era particolarmente stanco, ma non aveva voluto rinunciare all'addestramento del suo erede. Altager, preoccupato per la salute dell'ex Cavaliere, non si stava impegnando più di tanto, per evitare che il suo mentore si aggravasse. Ma l'antico custode dell'undicesima casa lo aveva intuito e si era sentito offeso da quell'apprensione non richiesta. Lo aveva rimproverato severamente e aveva continuato ad allenarlo, senza curarsi delle sue precarie condizioni di salute.
   Il Cavaliere di Aquarius iniziò a riprendere la sua forza di volontà, mentre il demone si preparava a sferrargli il colpo di grazia. D'improvviso un cosmo dorato s'innalzò fiero dal corpo inerme di Altager, una nuova fitta coltre di nebbia coprì il campo di battaglia e occultò la vista di Miqut, incredulo a quanto stava accadendo. Nell'aria risuonò la giovane voce del Cavaliere: - Non è ancora finita, essere infernale! - Miqut se lo ritrovò davanti. Poi avvertì una fitta allo stomaco e fu scaraventato a terra, nella sabbia bagnata. Si mise a sedere, confuso e dolorante; si portò una mano alla zona colpita e notò crepe nell'armatura e grumi di linfa vitale.
   - Come hai fatto a liberarti dalla luce d'Irkalla? -, chiese con un tono intriso di rabbia e stupore.
   - La tua tecnica è davvero terribile, ma hai dimenticato che i Cavalieri di Atena non si arrendono mai! È stata la determinazione che mi ha trasmesso il mio maestro a consentirmi di ribaltare la situazione -, spiegò con orgoglio il padrone delle energie fredde.
   - Dici che è stata la tua determinazione a liberarti dalle mie fruste? Allora non devo far altro che annientarla! -, ribatté Miqut, rimettendosi in piedi e preparandosi a un nuovo assalto.
   - Gudene Ugak! -, gridò il demone della luce, bruciando al massimo il suo cosmo. Altager si aspettava di nuovo le fruste lucenti, ma stavolta il colpo provenne dal suolo. Corde di luce lo avvolsero, aggirando le sue difese, e lo strinsero con forza. Il Cavaliere di Aquarius oppose fiera resistenza a quell'opprimente presa, ma si accorse che non era più la sua volontà a venir colpita, bensì il suo cosmo. Più tentava di liberarsi, più la sua energia scemava.
   - Ebbene, Cavaliere? Che ne è della tua determinazione? -, lo schernì Miqut, continuando a stringere la morsa.
   La fronte del Cavaliere s'imperlò di sudore: forse aveva sottovalutato troppo la forza del nemico, tuttavia non poteva cedere. Si era ripromesso di onorare il giuramento che aveva fatto quando si era unito alle schiere di Atena. Concentrò tutto sé stesso, chiuse gli occhi, e il suo cosmo dorato iniziò a vorticare quieto attorno a lui. Miqut sorrideva, assaporando l'agognata vittoria, ma, d'un tratto, vide le corde di luce vibrare per un attimo ed esplodere in frantumi. Un brivido di paura gli attraversò la schiena: come aveva fatto quel Cavaliere a ridurre in pezzi la sua luce?
   Quella paura si tramutò subitaneamente in un moto d'ira e di frustrazione: mai aveva subito uno smacco così cocente nella sua lunghissima esistenza. Altager notò lo sconcerto sul volto dell'avversario e i suoi occhi marrone si accesero di una luce sfavillante.
   - Sei sorpreso, Miqut? Scorgo timore e stupore nei tuoi occhi! Vuoi sapere come ho fatto a disperdere la tua luce? Ebbene, te lo dirò! - Lo sguardo del demone si fece attento, pronto a elaborare un piano per colmare il divario che ora si era venuto a creare fra loro.
    - Mi è bastato rallentare il moto delle particelle di luce fino a bloccarle completamente! I Cavalieri di Aquarius hanno da sempre tale capacità, dovevo solo trovare un modo per sfruttarla al meglio! -, continuò Altager, avvicinandosi all'avversario. Miqut abbassò il capo e iniziò a ridere sguaiatamente, come in preda a una repentina follia. Ma quando rialzò la testa, il signore delle energie fredde vi scorse un profondo odio e un ardente desiderio di rivalsa.
   - Non riuscirai comunque a sconfiggermi, Cavaliere! Il potere della mia tecnica segreta riserva ancora delle sorprese! - Senza por tempo in mezzo, il demone della luce fece esplodere il proprio cosmo, sprigionando una luce abbagliante, ma velata di ombre e di gelida tristezza. Le sfere sulla sua armatura avvamparono di un bagliore insistente e penetrante. Il suolo sotto i suoi piedi si spaccò, il mare s'increspò e miriadi di fasci di luce lo circondarono.
   - Gudene Ugak! -, gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
   I fasci di luce si allargarono in tutte le direzioni, puntando agli edifici e, soprattutto, alla cattedrale alle spalle del Cavaliere. Altager ricreò la nebbia per confondere il demone e impedirgli di attaccare la zona circostante, ma Miqut ne minò le speranze: - È inutile! Una volta assegnata loro una traiettoria, i miei fasci di luce non abbandonano mai il loro percorso! Non vincerai questa battaglia! - Una risata eccitata e diabolica accompagnò le parole dell'antico demone sumero, mentre il Cavaliere di Aquarius cercava un modo per sventare quell'esecrabile desiderio di distruzione.
    Altager ebbe un attimo di sconforto: i fasci di luce erano troppi e non potevano essere distrutti singolarmente. Forse aveva un modo per annullare la tecnica avversaria, ma se avesse fallito l'intera area circostante sarebbe stata spazzata via. - Non ho altra scelta! È l'unica possibilità che ho... anche se non ho avuto modo e tempo di perfezionare quel colpo! -, disse fra sé il Cavaliere.
   Intanto i dignitari, i loro segretari, Alexer e Demetrios avevano raggiunto il primo anello della torre. Harald iniziò a ispezionare le ampie finestre, ma la visuale era impedita dagli alberi e non c'era modo di assistere alla battaglia. Adocchiò un'altra rampa di scale che saliva, la imboccò e a passo svelto raggiunse il secondo anello. Il Sacerdote lo seguì, sorpreso dall'interesse che d'un tratto il re di Norvegia mostrava nei confronti dei paladini del Grande Tempio. Tutti gli altri astanti, incuriositi, si riversarono sulle scale per vedere cosa stesse accadendo. Toghrul Beg, sospettoso e sempre attento, era in testa, seguito da Demetrios e dagli altri. Alexer trovò il re nordico affacciato a una delle finestre che davano sul lato posteriore della cattedrale. Gli si avvicinò in silenzio e capì che stava osservando qualcuno combattere: era Elnath. In cuor suo si chiese cosa tramasse e perché fosse tanto interessato al custode della seconda casa.
   All'esterno, lo scontro fra Altager e Miqut era giunto all'apice. I fasci di luce creati dal demone continuavano ad avanzare e iniziavano a lambire gli edifici. - Adesso! -, proruppe il Cavaliere. Il suo cosmo dorato avvampò sfolgorante e dal suo corpo si propagarono cristalli di ghiaccio.
   - Ousías Katápsyxis![3] -, gridò. Il ghiaccio che formava i cristalli avvolse i fasci di luce. Si levò un intenso bagliore che, per un momento, accecò la vista dei contendenti e a cui seguì un tremendo boato. Quando la luce svanì, dei fasci di luce non era rimasto altro che crateri più o meno profondi sparsi per il campo di battaglia.
   L'esplosione e le tremende scosse che ne erano seguite terrorizzarono gli spettatori della torre: si allontanarono dalle finestre, raggruppandosi al centro della stanza e temendo per la loro vita. Alexer usò la sua autorità per calmare gli animi e tutti si scossero dalla loro paura. Soltanto Harald era rimasto imperturbabile: si era voltato un istante, contrariato dall'importuna distrazione, e subito era tornato a interessarsi allo scontro di Elnath.
   Miqut era stanco e sconvolto. Aveva impresso buona parte del suo cosmo nella forma ultima del suo attacco, e si era visto sfumare la vittoria a causa della contromossa nemica. Anche il Cavaliere d'Aquarius era stremato: l'uso di quella tecnica ancora imperfetta lo aveva fiaccato più di quanto avesse immaginato; tuttavia era soddisfatto del risultato. Ora doveva solo concludere quello scontro; non aveva più forze per protrarlo ancora a lungo. Il demone la pensava allo stesso modo: finora i Sabitti si erano dimostrati troppo deboli di fronte ai Cavalieri di Atena; il loro onore e la loro destrezza guerriera erano stati sistematicamente messi in ridicolo da ragazzini imberbi e ancora inesperti. Era un'onta insopportabile. Aveva il dovere di vincere per il suo signore. Non gli importava di perdere la vita; solo il trionfo del sovrano d'Irkalla gli premeva. Decise di usare le ultime forze per spazzare via quel luogo, assieme ai Cavalieri e ai re degli uomini che vi si trovavano.
   Allargò le braccia, levandole contro il cielo. Il suo cosmo ardeva intenso e fiero. Sollevò la testa e gridò: - Per la gloria d'Irkalla! -. Una luce immensa lo avvolse formando enormi onde concentriche che iniziarono a diramarsi in ogni direzione.
   - Preparati a raggiungere l'Oltretomba, Cavaliere! La luce finale del mio cosmo inghiottirà ogni anima vivente di questa penisola! - Altager lo guardò bieco; avvertì che stava consumando la sua stessa vita pur di guadagnare la vittoria. Percepiva cosmi ardere fino al parossismo e poi spegnersi: non solo Elnath stava facendo esplodere il suo cosmo, ma anche al Grande Tempio infuriava la battaglia. Sostenne la stanchezza, fece avvampare la sua dorata aura cosmica e chiuse sé stesso e il demone in una cupola di ghiaccio.
   - Credi che questa tua mossa m'impedirà di ghermire ogni vita presente in questo luogo? La vittoria è mia! -
   Il Cavaliere d'Aquarius rise e guardandolo con decisione e fierezza tuonò: - La convinzione è cattiva maestra, Miqut! Hai perso! Héō Lykóphōs![4] - All'interno della cupola la temperatura scese vertiginosamente e le onde di luce si bloccarono. L'armatura del demone iniziò a congelare e a disintegrarsi. Miqut era esterrefatto: non riusciva più a muoversi e il suo cosmo si spegneva di secondo in secondo.
   - Cosa mi hai fatto? -, chiese in preda alla disperazione e all'ira.
   - Semplice: ricordi la nebbia che ho formato nel corso del nostro scontro? Non ha solo uno scopo difensivo, ma anche offensivo! Tutte le volte che hai usato il tuo cosmo per disperderla, essa lo indeboliva e quando lo hai bruciato fino al parossismo il suo effetto è stato letale! Non ti sei accorto che il tuo ultimo attacco era privo di forza? -
   Il demone si fermò a riflettere sulle parole del nemico e si rese conto dell'amara verità: si sentiva spossato e intorpidito; l'armatura aveva crepe dappertutto e il suo corpo era dilaniato da innumerevoli ferite grondanti sangue. Cadde in ginocchio, vinto dalla stanchezza. Tentò di rialzarsi, ma uno strano torpore lo opprimeva. Alzò lo sguardo verso Altager, immobile davanti a lui, mentre un atroce dolore cominciava a tormentarlo.
   - Che... mi... succede? -, balbettò.
   - Gli atomi del tuo corpo si stanno disgregando, presto sarai cenere! -
   - Che tu... sia maledetto... Cavaliere! -, imprecò Miqut prima di svanire del tutto, lasciando a ricordo del suo passaggio solo un alone bluastro. Altager si sedette in terra; tutta la fatica accumulata durante quello scontro si riaffacciò prepotente. Il ragazzo si tolse l'elmo, asciugandosi il sudore dalla fronte e fissando le cerulee acque del mare, che lambivano calme la sabbia umida e compatta.
   - Maestro Jorkell... devo ringraziare voi per questa vittoria! -, pensò fra sé, e gli parve di scorgere all'orizzonte il volto sorridente e orgoglioso dell'antico custode dell'undicesima casa. D'un tratto avvertì in lontananza un cosmo esplodere prepotente e poi calare d'intensità fino a spegnersi del tutto: - Non è possibile... -, sussurrò, mentre gli occhi gli si empivano di lacrime.
***
   Elnath aveva compreso che la nebbia creata dal compagno avrebbe potuto pregiudicare l'esito dello scontro che si accingeva a sostenere. Così, facendo ardere il suo cosmo dorato, corse dall'altro lato della cattedrale, dove si apriva un altro ampio spiazzo. Un cosmo celeste lo seguì, credendo che il Cavaliere fuggisse al proprio dovere, ma poi lo vide arrestarsi, incrociare le braccia al petto e restare in attesa. - Vedo che hai deciso di affrontarmi, servo di Atena! -, sibilò una voce intrisa di crudeltà e di disprezzo.
   - Perché dovrei temere un essere che non ha neppure il coraggio di mostrarsi? E poi hai frainteso le mie intenzioni: ti ho attirato qui per evitarti l'umiliazione di cadere sotto gli occhi della tua balia -, rispose sprezzante il custode della seconda casa.
   - Come osi farti gioco di Rimush, quinto demone del fuoco? Ti farò pentire delle tue insolenti parole! -, sbottò la creatura, apparendo per la prima volta davanti a Elnath. Indossava un'armatura prevalentemente rossa, abbellita qua e là con inserti azzurri. Aveva un elmo a maschera che gli copriva le guance e terminava con due corte antenne. I suoi occhi erano di un celeste spento e i capelli lunghi fino alle spalle di un azzurro cupo. Il pettorale era formato da un blocco unico su cui si apriva un bavero a forma di triangolo, sui cui bordi erano intagliati altri triangoli più piccoli di colore azzurro. Al posto degli spallacci aveva una mantellina a frange agganciata al pettorale e dietro cui spuntavano piume metalliche che creavano una sorta di coda azzurra. Il cinturino era formato da piastre laterali che coprivano i fianchi e adornate di piccoli triangoli azzurri. I bracciali e i gambali sembravano formati da piume sovrapposte ed erano muniti di artigli e spuntoni.
   Elnath era rimasto impassibile di fronte alle minacce del servo di Nergal; anzi gli sembrava persino ridicola e fuori luogo la prosopopea di Rimush. Sapeva, tuttavia, di non dover prendere sottogamba lo scontro che stava per iniziare. Quell'essere lo turbava, in qualche modo. Il demone non perse tempo e cominciò a bombardare il Cavaliere di Taurus con sfere di fuoco. Al giovane bastavano pochi movimenti per evitare di essere colpito, ma Rimush non sembrava curarsene. Questa sua indifferenza di fronte al fallimento di tutti i tentativi di colpirlo invitò Elnath a riflettere. Si accorse che ogniqualvolta le sfere toccavano il suolo non esplodevano, bensì sembravano venir risucchiate dalla terra. Era un fenomeno piuttosto strano e il possente Cavaliere del secondo segno decise di verificare se i suoi sospetti fossero fondati. Fece esplodere il suo cosmo e rilasciò un'onda d'energia contro le ultime sfere che lo bersagliavano. D'improvviso, spirali di fuoco lo circondarono e si abbatterono su di lui con grande impeto. Rimush rise, convinto che la battaglia fosse già finita.
   Il vortice di fiamme si gonfiò ed esplose, dissolvendosi. Con sommo stupore, il demone si accorse che il suo avversario era del tutto incolume. Né la corazza, né i punti da essa lasciati scoperti mostravano segni di bruciature. - Non è possibile! -, pensò fra sé l'essere infernale, fissando lo scintillio dell'armatura di Elnath contro i raggi del sole penetrante.
   Il Cavaliere incassò il pugno destro e lo avvolse di un intenso bagliore dorato: - Dopo la difesa viene l'attacco! Preparati, demone! Táurou Dóry![5] - Un poderoso raggio d'energia dorata saettò contro Rimush, che approntò a difesa un muro di fuoco. Tuttavia, la forza dell'energia sprigionata dal colpo del custode della seconda casa riuscì a sfondare la barriera e ad abbattersi sul demone, che fu sbalzato a qualche metro di distanza.
   Si rialzò livido, ferito nell'orgoglio e nel corpo. - Come può un misero umano arrecarmi danno? Io appartengo alla razza degli antichi demoni, solo gli dei possono sconfiggermi! -, sibilò con rabbia e disprezzo, avvicinandosi all'avversario.
   Elnath tornò a incrociare le braccia e lo guardò con commiserazione: - Sei un illuso, Rimush! I Cavalieri di Atena hanno già abbattuto altri tuoi simili, come puoi credere a ciò che vai affermando? -
   Rimush non rispose, ma la collera lo invase: mai nessuno lo aveva umiliato così tanto. Il suo status di essere superiore gli imponeva di riportare la vittoria a qualunque costo. Perdere contro un semplice umano sarebbe stata un'onta incancellabile. Fece ardere il suo cosmo celeste e si preparò a dar fondo a tutte le sue forze. Lui non era come gli altri Sabitti, deboli e arrendevoli, e avrebbe dimostrato coi fatti la sua forza e la sua supremazia.
    Intanto due occhi verdi osservavano voraci lo scontro. Harald si era completamente astratto dalla sala e dalle voci inquiete degli altri nobili partecipanti al consesso. C'era qualcosa di familiare nel possente Cavaliere che stava fissando, qualcosa che gli riportava alla mente lontani ricordi. Era turbato. Da una parte si sentiva attratto dalla forza di quel ragazzo, dall'altra ne era terrorizzato. Riusciva a comprendere poco le dinamiche della battaglia a causa della velocità impressionante degli attacchi, ma quel potere gli piaceva. Cominciava a delineare nella sua mente grandi propositi e un repentino sorriso gli adornò il volto maturo.
   - Assaggia la tecnica mortale di un demone del fuoco, Cavaliere! Ganzerene Niĝhalamak![6] -, ringhiò la creatura infernale. Colonne di fuoco attorniarono Elnath e lo coprirono alla vista. Il Cavaliere tentò di far esplodere il suo cosmo e di dissiparle come aveva fatto in precedenza, ma il calore che esse emanavano era asfissiante e soffocante. In breve tempo si sentì spossato e il sudore cominciò a scorrere copioso sull'armatura. Tentò di scovare spiragli fra i muri ondeggianti di quelle rosse fiamme, ma non ve n'erano.
   Sentì vicina la voce orgogliosa dell'avversario, carica di euforia e di sete di vittoria: - Queste fiamme ti accompagneranno nel tuo ultimo viaggio, Cavaliere! Esse nascono dalle viscere del Vulcano dell'Incubo, il terzo mondo d'Irkalla! La loro temperatura sfiora i mille gradi! Diverrai cenere in pochi istanti! Addio! - Una risata soddisfatta accompagnò le parole di Rimush, ormai certo di aver vinto lo scontro.
   Fece per voltarsi, puntando alla cattedrale, ma fu costretto ad arrestarsi quasi subito. Le fiamme si erano tinte d'oro e iniziavano a brillare. Ne seguì un'esplosione che sbalzò via il demone, scaraventandolo a parecchi metri di distanza. Elnath grondava sudore da ogni poro e aveva il respiro affannoso. Leggere bruciature erano visibili sui punti in cui l'armatura lasciava scoperta la pelle. Rimush si era rialzato di scatto e la scoperta che il suo colpo segreto avesse arrecato danni insignificanti al suo rivale lo rese furente.
   - Il mio colpo ha fallito? Perché? Perché non ha avuto effetto? - Incredulità e frustrazione si fecero largo nel suo animo, sconvolto dall'esperienza che stava vivendo. Da quel ragazzo non spirava un cosmo divino, eppure stava venendo sopraffatto. Cosa lo rendeva così resistente alle sue fiamme, capaci d'incenerire l'universo?
   Il Cavaliere ansimava. L'elevata temperatura delle fiamme lo aveva spossato. Il sole si ergeva alto e luminoso nel terso cielo di giugno, e di certo non lo aiutava a vincere la fatica. Avvertiva il cosmo di Altager fiero e potente; poi ne percepì altri, lontani: istintivamente volse lo sguardo verso sud-ovest, in direzione della Grecia e del Grande Tempio. Anche lì si consumava la battaglia.
   Tornò a concentrarsi sullo scontro e lesse sul volto dell'avversario sconcerto e delusione. Ne approfittò, tentando di stuzzicare ancor di più l'amor proprio ferito del demone. - Il tuo fuoco è poca cosa, Rimush. Se questa è la potenza che possono offrire gli sgherri di Nergal, questa guerra finirà prima del previsto! Táurou Thymós![7] - Allargando le braccia, il Cavaliere creò una devastante onda di energia dalle forme taurine. Rimush si circondò di una barriera di fuoco, ma la furia dell'attacco fu devastante: l'animale di energia sfondò la difesa e si abbatté impetuoso sull'inerme bersaglio. Un urlo disumano si levò nell'aria fra schizzi di sangue bluastro e frammenti d'armatura.
   Il demone del fuoco si rialzò a fatica. Gli doleva dappertutto. Gli antichi dei di Sumer avevano fatto un buon lavoro: la condanna a patire le sofferenze che un tempo lui e gli altri Sabitti avevano inflitte stava dando i suoi frutti. Nei suoi occhi scintillava una rabbia profonda, e il suo orgoglio ferito e dileggiato invocava vendetta.
   Fissò il Cavaliere con uno sguardo truce e convogliò tutta la sua ira e la sua frustrazione nel contrattacco: - Ora vedrai di cosa è capace un servo del Sommo Nergal! Preparati a dire addio alla tua inutile esistenza! Ganzerene Niĝhalamak! -
   Nuove colonne di fuoco si abbatterono su Elnath, inghiottendolo. Stavolta la temperatura sembrava molto più elevata di prima. In alcuni punti l'armatura si annerì e nuove bruciature apparvero sulla pelle nuda. Elnath sopportò il dolore: era certo che il piano che aveva in mente avrebbe avuto successo.
   D'improvviso, infatti, l'intensità del calore iniziò a scemare e le fiamme si placarono attorno a lui. Il giovane custode della seconda casa stese la mano dinanzi a sé e le lingue di fuoco si riunirono in una sfera nel suo palmo. Rimush sgranò gli occhi. Non riusciva a credere che le sue fiamme si fossero piegate al volere di un lurido Cavaliere.
   - Che significa tutto questo? -, chiese quasi di getto, come se stesse cercando di risvegliarsi da un orribile incubo.
   Elnath si avvicinò, accennando un sorriso sornione: - In battaglia l'ira è cattiva consigliera, Rimush! E anche l'orgoglio e la superbia sono armi a doppio taglio! Hai assaggiato la forza di un Cavaliere d'Oro, hai perso molti compagni in battaglia, eppure non ti sei fermato nemmeno un attimo a riflettere sulle cause di tutto ciò; hai continuato per la tua strada al solo scopo di appagare la tua presunta superiorità e ora pagane le conseguenze! -
   Il demone fece una smorfia di disprezzo e guardò torvo il giovane che aveva davanti. Era stato umiliato e ridotto a mal partito da un moccioso, ma non aveva intenzione di ammettere la sconfitta. - Cosa ne può sapere un bambino che da poco si è affacciato alla vita di cosa sia l'esistenza di esseri eterni e da sempre rispettati e temuti? Sei solo un'insolente creatura, un mero battito di ciglia nell'eternità dell'universo! Non ti permetterò di sconfiggermi! Mi riprenderò l'onore di un tempo e spezzerò il vincolo della morte, a cui gli dei di Sumer ci destinarono quando imprigionarono il mio signore! A te: Ganzerene Niĝhalamak! - Le fiamme circondarono ancora una volta Elnath, ma ardevano innocue e d'un tratto vennero assorbite dalla sfera infuocata che il giovane Taurus teneva in mano.
   - Questa è stata la tua ultima mossa, Rimush! Ormai i tuoi colpi non hanno più effetto su di me! -, disse il ragazzo, osservando il volto incredulo e confuso del rivale. - Dovresti averlo capito: chi combatte spinto dall'odio e dall'orgoglio non accresce il proprio potere, ma anzi lo indebolisce! Se avessi mantenuto il sangue freddo e ti fossi concentrato di più sul nostro scontro, ora sarei io a giacere prostrato! Addio! Méga Kéras![8] -, continuò, lasciando cadere al suolo la sfera di fuoco che si estinse e lanciando migliaia di colpi alla velocità della luce. Rimush, ancora distratto dai suoi pensieri, fu investito in pieno e scaraventato a ridosso del muro della cattedrale. Il suo corpo, dilaniato dai colpi, si dissolse in pochi istanti.
   Il Cavaliere tese i sensi e si accorse che lo scontro di Altager era terminato, mentre al Grande Tempio un ultimo cosmo sfolgorò per un attimo e poi si spense. Si voltò di scatto in direzione della dimora di Atena e stringendo i pugni, disse: - Anche tu, Cavaliere... -
***
   Il sole stava calando all'orizzonte e presto si sarebbe immerso nelle azzurre acque del Mediterraneo. L'attacco dei demoni e la pronta risposta di Alexer e dei Cavalieri avevano dissipato le ultime incertezze dei partecipanti al consesso. Solo Toghrul Beg era uscito dalla cattedrale col volto contratto dalla bruciante sconfitta. Harald aveva lo sguardo raggiante e disteso: non aveva trovato alleanze, ma forse qualcosa di più. I Cavalieri raggiunsero il messo di Atena, che li guardò con soddisfazione e gratitudine. - Sono fiero di voi, Cavalieri! Avete onorato Atena con il vostro coraggio e la vostra abnegazione! Ora andate a riposare, partiremo domani all'alba! -
   - Signore -, disse serio Altager, - il cosmo che si è spento al Grande Tempio apparteneva a... -
   Il Sacerdote annuì, abbassando per un attimo il capo: - La guerra è fonte di dolorosi lutti, e temo che molti altri amici saremo costretti a seppellire prima che questo conflitto finisca -. Si voltò e fece per raggiungere Demetrios, che stava conversando con Kornil e Liefried.
   - Sommo Alexer -, chiamò Elnath. L'uomo volse il capo verso di lui, attendendo. - Mentre combattevo ho avvertito un altro cosmo proteggere questo luogo: era il vostro, vero? - Alexer sorrise e proseguì.
   Il Cavaliere d'Aquarius lo guardò e chiese spiegazioni: - Perché io non ho avvertito niente? -
   - Non lo so -, rispose il custode della seconda casa, - forse eri troppo concentrato sulla battaglia e non te ne sei accorto -. Altager non parve del tutto convinto, ma era curioso di sapere di più sul cosmo del Sacerdote. Nonostante vivessero al Grande Tempio da molti anni ormai, erano state rare le occasioni in cui avevano avvertito l'aura cosmica del sommo Alexer.
   - È un cosmo vasto, ma calmo e luminoso; ardente di giustizia e di amore -, riferì il giovane Taurus, incamminandosi col compagno verso i loro alloggi.
***
   Il mattino giunse lieto. Stormi di gabbiani accompagnavano il lento moto delle onde con il loro triste canto. All'alba, Toghrul Beg aveva raccolto il suo seguito e se n'era andato in fretta, senza salutare nessuno. Quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio: ai primi di settembre, infatti, spirò lasciando il sultanato a suo nipote Alp Arslan, che tuttavia non aveva il carisma e l'autorità dello zio.
   Il Sacerdote stava salutando Demetrios, quando sopraggiunse una guardia reale del re di Norvegia. S'inchinò e disse: - Nobile Alexer, il mio signore, re Harald, desidera incontrare il Cavaliere di Taurus prima di partire -. Il Sacerdote chiamò Elnath, in attesa a poca distanza assieme ad Altager. Il ragazzo si avvicinò.
   - Sembra che il re di Norvegia richieda la tua presenza, Elnath! Fa' in fretta, dobbiamo tornare al Grande Tempio! -, spiegò. Il custode del secondo tempio dello Zodiaco fu turbato da quella convocazione, ma senza por tempo in mezzo seguì la guardia.
   In breve tempo raggiunsero un edificio bianco, imponente e adornato con nicchie in cui erano alloggiate statue di santi. Era la residenza di Demetrios, il capo dei monasteri, che era stata destinata ai reali durante la loro permanenza al Monte Athos. Percorsero un corridoio di pietra, illuminato da torce fissate alle pareti e giunsero a un'alta porta sostenuta da pesanti cardini di bronzo. La guardia bussò e, ricevuto l'ordine di entrare, varcò la soglia seguita dal Cavaliere. Una figura prestante e fiera guardava da una delle ampie finestre che lasciavano filtrare la calda luce del sole.
   La guardia fece un profondo inchino e disse: - Mio signore, il Cavaliere di Taurus è qui, come avete richiesto! - Il re si voltò e fece cenno al suo sottoposto di allontanarsi e di lasciarlo da solo con l'ospite. Poi indossò un sorriso gentile e invitò il giovane a sedersi. Vi era un piccolo tavolo sotto una delle finestre, attorniato da qualche sedia. Elnath si accomodò col cuore in preda all'agitazione. Il re batté le mani prima di sedersi a sua volta e ordinò ad un servitore, sbucato da una porta sulla parete est della stanza, di portare una bottiglia d'idromele e due coppe. Nonostante il sorriso e i modi cortesi, anche Harald sembrava turbato da quell'incontro.
   - Perché mi avete fatto chiamare, signore? -, esclamò il Cavaliere con voce apparentemente distesa, stanco di quell'attesa snervante che iniziava a pesargli. Harald si rese subito conto di avere di fronte un giovane di poche parole, che preferiva giungere rapidamente al nocciolo della questione. Il suo volto si fece serio. Sopraggiunse il servo con in mano quanto richiesto dal sovrano, poggiò il tutto delicatamente sul tavolo e si congedò con un inchino.
   - Ti ho osservato combattere e volevo conoscere il giovane guerriero che ci ha salvati! -, esordì Harald, versando la bevanda gialligna nelle coppe.
   - Allora dovevate convocare anche Altager, il mio compagno, perché ha combattuto assieme a me per proteggervi! -, rispose contrariato il Cavaliere, aggrottando le ciglia e congiungendo freneticamente le mani.
   - Dal tuo accento presumo tu non sia greco, mi sbaglio? -, cambiò discorso il re, dopo aver vuotato la sua coppa.
   - Non vi sbagliate, sono nato nelle terre di Danimarca -, confermò il ragazzo, con tono più disteso.
   - Sei danese? Che ironia! E qual è la tua città? -, riprese Harald, sempre più curioso di quel ragazzo dall'aria tanto familiare. Si versò un altro bicchiere, invitando l'ospite a bere il suo.
   - Sono nato nel villaggio di Hovetøje, che ormai non esiste più -, rispose secco Elnath, che cominciava a stancarsi di tutte quelle domande.  Quel nome fece trasalire il sovrano di Norvegia, che posò la coppa sul tavolo per evitare di versarla.
   - Hovetøje, hai detto? -, disse con un filo di voce, e innumerevoli ricordi gli riaffiorarono alla mente. Il suo corpo fu percorso da un brivido improvviso e il suo volto impallidì senza preavviso.
   - Sono il figlio di Ragnild, la levatrice del villaggio, la donna a cui di tanto in tanto facevate visita, re Harald! -, continuò Elnath, arrivando dritto al punto.
   - Capisco -, disse il re, abbassando leggermente il capo.
   - E poi, come ogni nobile, ve ne siete sbarazzato quando è diventata un peso, vero? -, lo accusò il Cavaliere trattenendo la rabbia e stringendo i pugni.
   - Amavo tua madre -, si difese Harald, - fin dalla prima volta che la vidi! Non era solo bella, ma intelligente e colta... e tu sei mio figlio! -
   - Vi sbagliate, signore! Io non ho padre e voi siete solo un assassino bramoso di potere! Nient'altro! -, ribatté il giovane, alzandosi e voltandosi in direzione dell'uscita.
   - Aspetta! -, lo trattenne Harald. - Tu non conosci la realtà dei fatti! Dovresti sapere che da anni ormai sono in guerra con Sweyn che accampa diritti sulla Danimarca. È stata la guerra a causare la morte di Ragnild, non io! -
   Elnath lo guardò torvo. Il sovrano ne fu spaventato, ma mantenne una parvenza di serenità. - Io c'ero quando il villaggio fu dato alle fiamme e i suoi abitanti passati a fil di spada! Quando i soldati entrarono in casa nostra fecero il vostro nome, re Harald, non quello di Sweyn! Mia madre mi fece da scudo e fu ferita mortalmente dal fendente di un soldato, che non badò a me, forse perché credeva di avermi colpito assieme a lei. I re giustificano tutto con la guerra, ma la realtà è che in quel periodo voi eravate in trattative con il ribelle Sweyn per sposare una delle sue numerose figlie, e avere un bastardo che un giorno avrebbe potuto vantare pretese sarebbe stato un problema! Era questo l'amore che millantate di aver provato per mia madre? - Elnath aveva tirato fuori tutta la rabbia che aveva in corpo e si accingeva a lasciare quella stanza che olezzava d'ipocrisia.
   - Forse hai ragione, ho sbagliato nei vostri confronti, ma vorrei riparare. Ti andrebbe di diventare generale delle mie armate? Col tuo potere la Norvegia diverrebbe grande! -, disse Harald, avvicinandosi al ragazzo e tentando di guadagnare il suo favore.
   Elnath lo guardò quasi con pietà e con tono più posato rispose: - Ancora una volta siete in errore, signore! Io non conosco nulla di strategie militari e, inoltre, non mi è concesso usare il mio potere per assecondare né le mie brame, né quelle di qualcun altro! Voi mi usereste per raggiungere i vostri scopi, non sarei altro che una delle tante frecce al vostro arco. Ma io combatto non per quelli come voi, capaci solo di vessare e annichilire il prossimo; io combatto per coloro che meritano davvero protezione! Addio, re Harald! - Fece un frettoloso inchino e uscì a passo sostenuto dall'edificio.
   Il sovrano di Norvegia era costernato. Tornò al tavolo, afferrò la coppa ancora piena di Elnath e, in un moto di rabbia, la scaraventò contro il muro. L'idromele imbrattò le pareti e il pavimento, mentre la coppa rotolò a terra con un rumore sordo.
   Uscito all'aria aperta, Elnath fece un profondo respiro. Il peso che per anni aveva oppresso il suo cuore d'un tratto era svanito; si sentiva leggero, pronto ad affrontare appieno il suo ruolo di Cavaliere. Tornò dal Sacerdote e da Altager: era quella ormai la sua famiglia.
   - Siamo pronti? -, disse Alexer. I due giovani Cavalieri annuirono e tre comete lucenti sfrecciarono in direzione della Grecia.
 
[1] "Bufera di Ghiaccio".
[2] "Spire di Luce".
[3] "Ibernazione della Materia".
[4] "Crepuscolo dell'Aurora".
[5] "Picca del Toro".
[6] "Fiamme dell'Annientamento".
[7] "Furia del Toro".
[8] "Per il Sacro Toro".

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Capitolo 11
*** Attacco al Grande Tempio ***


Capitolo XI
ATTACCO AL GRANDE TEMPIO
 
Area del Grande Tempio, giugno 1063
 
   La porta si aprì con un leggero scricchiolio. Vernalis entrò e si accorse subito che il suo discepolo dormiva ancora. - È ora di alzarsi, dormiglione! -, disse, scuotendo con forza il giaciglio del ragazzo. Sargas si svegliò di soprassalto, si stropicciò gli occhi e tra i fumi del sonno ancora vivo scorse il proprio maestro, vestito dell'armatura e con l'elmo sottobraccio. Il ragazzo si alzò, voltandosi verso la finestra. Doveva essere l'alba.
   - Ti aspetto fuori, cerca di sbrigarti! Ci attende una dura giornata -, riprese il Cavaliere di Pisces, imboccando l'uscita. Il ragazzo annuì e iniziò a prepararsi: erano già passati sei mesi da quando era arrivato al Grande Tempio, ma finora non era ancora riuscito a risvegliare il suo cosmo. Sebbene Vernalis lo rassicurasse e gli spiegasse che era normale non riuscire a bruciare il cosmo dopo così poco tempo, il ragazzo sentiva, a volte, di deludere tutte le aspettative del suo mentore.
   Si vestì in fretta, versò l'acqua di una brocca in un bacile di rame e si lavò la faccia assonnata. Gli ultimi fumi del sonno si dissolsero a contatto col tocco rinfrescante di quell'acqua. Uscì di corsa e vide Vernalis in piedi, alla fine del breve sentiero. Gli si avvicinò, rallentando il passo, e con voce abbattuta domandò: - Dove ci alleneremo oggi, maestro? -
   Il Cavaliere di Pisces lo guardò per un attimo con occhi severi, poi rispose: - Andremo a Psittalia, una piccola isola poco più a nord del Pireo. C'è una zona disabitata, ci alleneremo lì -. Sargas annuì. Da quando era diventato maestro, la gentilezza e l'affabile cordialità del custode dell'ultima casa si erano ammantate di una certa freddezza e di una buona dose di severità.
   Senza proferire altre parole, Vernalis cinse i fianchi dell'allievo con un braccio e in un attimo si ritrovarono nella zona meridionale di Psittalia. Era una spiaggia brulla, disseminata qua e là da radi cespugli. Gli unici rumori percepibili erano la voce del mare calmo che carezzava la bassa battigia e il melanconico grido dei gabbiani. Sargas si fermò a guardare l'immensa distesa azzurra, il volto mesto e la mente affollata da innumerevoli pensieri. Vernalis non approvava quell'inutile mestizia e quella tristezza che sembravano essersi impadroniti del suo discepolo. Si piantò davanti a lui e con voce ferma e lapidaria lo rimproverò: - Sei ancora convinto di diventare Cavaliere? - Il ragazzo, distolto dai suoi pensieri, fissò il volto duro e accigliato del maestro e annuì col capo senza proferire parola.
   Un manrovescio del Cavaliere lo gettò a terra. Sargas si massaggiò la guancia dolorante e vide il maestro farsi ancor più dappresso. - Vuoi ancora diventare un Cavaliere? -, ripeté il custode dell'armatura di Pisces con tono autoritario.
   - Sì... -, rispose il ragazzo con voce rotta.
   - Allora alzati e dimostrami che dici il vero! Non si diventa Cavalieri rimuginando sui propri fallimenti, ma perseverando e faticando! Se non impari ad accettare i tuoi errori e a superarli, non indosserai mai un'armatura! Senza determinazione nessuno può combattere! Smettila di fare il ragazzino piagnucoloso e comincia a metterci serio impegno! -, aggiunse Vernalis, allontanandosi di qualche passo.
   Sorpreso dal gesto del maestro, Sargas si rimise in piedi. Era strano per lui vedere un uomo pacato come Vernalis inveire con tanta veemenza, ma in fondo il rimprovero se l'era meritato. L'entusiasmo dei primi giorni aveva iniziato a scemare non appena la difficoltà di risvegliare il cosmo si era fatta più evidente. Nella sua mente si era affastellata una congerie di pensieri negativi che stava minando la sua determinazione. Ma se voleva diventare Cavaliere, doveva scrollarsi di dosso ogni incertezza e armarsi di pazienza e costanza.
   Vernalis fece bruciare una scintilla di cosmo e dalla sabbia sorsero quattro arbusti spessi e possenti. - Ora concentrati! Tendi i tuoi sensi, percepisci ogni cellula del tuo corpo, incanala tutta la tua energia in un unico punto e poi colpisci! -, suggerì al discepolo, che sembrava aver ripreso un barlume di fermezza. Sargas chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e concentrò tutto se stesso. Quando si sentì pronto sferrò un poderoso pugno a uno degli arbusti, ma il risultato non fu quello sperato. Il tronco era rimasto intatto, mentre la mano del ragazzo era ferita, sanguinava e tremava per il dolore lancinante. I suoi occhi si bagnarono di lacrime: perché non riusciva a superare quella situazione di stallo? Perché continuava a commettere gli stessi errori?
   Vernalis gli si avvicinò. Il giovane apprendista si aspettava un nuovo rimprovero e magari anche un altro schiaffo, ma così non fu. - Fammi vedere la mano! -, disse il Cavaliere. Sargas gliela mostrò titubante, convinto di incorrere di nuovo nelle ire del maestro. Vernalis la strinse fra i palmi avvolti di cosmo e il ragazzo avvertì il dolore svanire completamente. Percepiva solo un forte calore, e una repentina calma lo invase.
   - Come avete fatto? -, chiese d'impeto, vedendo la mano risanata.
   - È merito del cosmo! Grazie a esso un Cavaliere può travalicare i limiti umani e sviluppare abilità particolari -, rispose il custode della dodicesima casa con tono più disteso. - Ora riprendiamo l'allenamento -, aggiunse, tornando sui suoi passi.
   Sargas guardò la mano guarita per un istante, poi si voltò verso il maestro e disse: - Signore, ho paura di non riuscire. Voglio diventare Cavaliere con tutto me stesso, ma il dubbio di non farcela continua a riaffiorare -.
   Il Cavaliere incrociò le braccia e abbassò il capo: era lieto che il suo discepolo gli palesasse le inquietudini che lo assillavano. - Sei in dubbio perché hai perso di vista lo scopo che all'inizio ti ha spinto ad abbracciare questo cammino! Dov'è finita la tua volontà di aiutare i deboli, di creare un futuro di pace e tranquillità? Se non riacquisti la determinazione e la fiducia in te stesso non risveglierai mai il cosmo! -, spiegò Vernalis con espressione dura e severa. Il ragazzo si fermò a riflettere sulle parole del maestro e capì di aver smarrito il proposito che lo aveva indotto a candidarsi alle schiere di Atena. Forte di questa consapevolezza, il suo sguardo si spogliò dell'aria triste e malinconica che aveva indossato finora e si vestì di nuova luce e limpida speranza.
   Intanto il sole aveva lasciato il suo giaciglio e aveva fatto capolino nel cielo terso e sgombro di nuvole. Lontane, all'orizzonte, alcune barche di pescatori tornavano a casa dopo una notte di duro lavoro. Erano dirette al porticciolo a nord dell'isola o al Pireo, dove il carico sarebbe stato scaricato e venduto.
***
   Al Grande Tempio, nella Casa dei Gemelli, Calx stava lucidando l'armatura prima di indossarla per uscire. Si sentiva stranamente inquieto, come colto da uno strano presentimento, ma forse era solo la naturale agitazione per il nuovo incarico che il Sacerdote gli aveva affidato. Si chiedeva se il consesso fosse già iniziato e se le cose stessero andando per il verso giusto. Sperava che non accadesse nulla d'irreparabile e che i compagni tornassero presto a casa.
   Stretto da questi pensieri si alzò, si avvolse di una luce dorata e l'armatura, richiamata dal cosmo del proprio custode, si scompose e si agganciò sul suo corpo. Il ragazzo lasciò la terza casa, imboccò le scale che conducevano alla dimora di Elnath e proseguì lentamente. Il silenzio del monte spoglio e grigio, rotto dal gioioso canto di uccelli giocosi e dai passi metallici del Cavaliere, evocava un senso di pace e di serenità. Il giovane attraversò l'imponente ingresso posteriore della Casa del Toro, vuota per l'assenza del suo custode, e puntò dritto a quella del Montone Bianco, dove si trovava Hamal.
   Entrato nella prima casa, Calx iniziò a chiamare il compagno. La voce si disperdeva nel reticolo di corridoi e stanze illuminati a sprazzi dai raggi del sole. Il Cavaliere di Gemini continuava a proseguire e a pronunciare il nome del parigrado che, finalmente, rispose. - Sono qui, Calx, vieni avanti -. La voce proveniva da un corridoio sulla destra del Cavaliere che conduceva a una piccola stanza. Calx lo trovò seduto, vestito dell'armatura, intento a leggere un grosso volume dalla copertina rossa.
   - Stai andando a Rodorio? -, chiese Hamal, distogliendo gli occhi dalla lettura.
   Il giovane Gemini annuì e aggiunse: - Volevo chiederti il permesso di attraversare la tua casa -.
   - Fai pure, non serve chiedermelo! -, replicò il Cavaliere di Aries con tono affabile, tornando a puntare gli occhi sul testo che stava divorando.
   - Cosa leggi di tanto interessante? -, domandò Calx, vedendolo profondamente preso da quel grosso volume.
   - Sto cercando altre informazioni sulle Arâia e sul loro legame con le pietre preziose. Il Sacerdote me ne ha accennato prima di partire e ho deciso d'indagare -, spiegò Hamal.
   - E hai trovato qualcosa? -, riprese il custode della terza casa.
   - Ancora no, purtroppo. Ma sono certo che ci riuscirò! -, rispose fiducioso il Cavaliere di Aries.
   - Ti lascio alla tua ricerca, allora -, disse Calx, congedandosi dall'amico e dalla prima casa.
   Uscito dalla dimora del Montone Bianco discese l'ultima rampa di scale che conduceva ai piedi del monte e si diresse verso la zona del mercato. Chiunque incontrava si fermava per un attimo e si inchinava. Era un'antica forma di rispetto che gli abitanti del Grande Tempio tributavano ai Cavalieri di più alto rango fin dall'era del mito. Tuttavia, Calx si sentiva a disagio ogni volta che qualcuno gli offriva quell'omaggio. Giunse infine alla meta: il mercato era a ridosso di un monte; aveva la forma di un ampio semicerchio adornato di colonne corinzie diroccate o fitte di crepe. Da un anfratto del monte si notava un folto andirivieni di persone: erano i mercanti di Rodorio che portavano approvvigionamenti alla dimora di Atena.
   Calx puntò verso quell'anfratto: non c'era nessun sentiero che collegasse Rodorio al Grande Tempio, ma era solo un inganno. Per impedire che gli abitanti del villaggio si perdessero fra gli angusti passi di montagna o rischiassero di morire fra gli innumerevoli crepacci della zona, confusi dalla barriera che proteggeva la dimora terrena della dea, Atena aveva creato una porta dimensionale nella zona del mercato che immettesse direttamente a Rodorio e viceversa. Il Cavaliere attraversò quel portale nascosto e si ritrovò su una larga via che, a un visitatore ignaro, sarebbe apparsa solo come un vicolo cieco.
   Rodorio aveva una pianta a spina di pesce: era attraversato da una larga strada che tutti chiamavano Sfondilica[1], la quale a ovest conduceva al demo di Colargo e a est a quello di Pallene. Ai lati della via principale si aprivano innumerevoli viuzze e stradine e, proprio al centro del paese, la Sfondilica era intersecata da un'altra via, la Odeporica[2], la strada su cui si trovava Calx. Quest'ultima, a nord, risultava essere un vicolo cieco, poiché terminava sotto un grigio ammasso di roccia; a sud, invece, conduceva al demo di Peania.
   Il custode della terza casa si avviò lentamente, guardandosi intorno con curiosità. La vivacità e la serenità nei volti di quelle persone, nonostante la situazione di pericolo e le continue perlustrazioni dei Cavalieri, lo avevano lasciato senza parole: vivere a contatto con minacce costanti e reali li aveva fortificati a tal punto? Eppure sapeva che più di una volta, in passato, Rodorio era stato sull'orlo dell'annientamento. Ma in quelle facce poteva scorgere il fuoco della speranza e la fiamma della fiducia in Atena e nei suoi paladini. Sentiva addosso una responsabilità ancora maggiore, mentre tutti s'inchinavano al suo passaggio. Rallentò il passo fino a fermarsi, ponderando le sensazioni che gli suscitavano quegli sguardi e quei comportamenti: il tempo sembrava essersi fermato per quella gente e i pericoli del mondo sembravano solo lontane dicerie per loro. Calx era ammirato e sorpreso ad un tempo.
   Mentre la sua mente era occupata a meditare, qualcuno lo urtò violentemente e cadde a terra per l'impatto. Calx si voltò di scatto e vide una fanciulla dai capelli corvini rialzarsi. Le tese una mano, ma lei la scansò dicendo: - Non ho bisogno del vostro aiuto, posso alzarmi anche da sola! - Si rimise in piedi, scrollandosi di dosso la polvere, prese la cesta che le era caduta e la infilò sotto il braccio.
   - Perdonatemi, signorina! Siete ferita? -, chiese il giovane guerriero della dea. Con aria annoiata e quasi infastidita, la ragazza riprese il cammino dicendogli che stava bene. Il Cavaliere di Gemini era rimasto di sasso: la reazione di quella fanciulla, il suo modo di rivolgersi a un paladino di Atena, il suo agio a parlare con lui non se li sarebbe mai aspettati. Di solito le ragazze del villaggio si mostravano timide e arrossivano abbassando il capo se un Cavaliere le rivolgeva la parola, ma quella ragazza sembrava totalmente diversa.
   Calx riprese il cammino e iniziò a seguirla, tentando di intavolare una conversazione. La fanciulla camminava a passo svelto e, sentendosi osservata e seguita, di tanto in tanto girava lo sguardo verso il suo inseguitore e un'espressione contrariata e spazientita le si dipingeva negli occhi.
   - Posso chiedervi il vostro nome? -, domandò il Cavaliere, che aveva deciso di raggiungerla per evitare ulteriori malintesi.
   - E che ve ne fareste del mio nome? Sono una ragazza qualunque! -, rispose la fanciulla dai capelli corvini.
   - Eppure non avete l'aria di essere nata qui. Il vostro atteggiamento tradisce un'origine diversa! -, le fece notare il discepolo del Sommo Alexer. La giovane ragazza lo guardò per un attimo e un leggero sorriso le adornò il viso.
   - Può darsi -, ribatté continuando a tenerlo sulla corda.
   - Allora, posso sapere il vostro nome? -, incalzò Calx che si sentiva stranamente attratto da quella fanciulla così diretta e per certi versi insolente.
   - Siete ostinato, vedo. Tuttavia, il mio nome non è cosa che vi riguardi! -, s'impuntò la ragazza. Eyra era cambiata parecchio. Da quando suo zio Makarios era stato assassinato, si era sentita rinata e aveva potuto dare sfogo alla sua rabbia a lungo repressa. La sua sfacciataggine e il suo carattere altero e freddo avevano trovato terreno fertile, ora che non era più una vittima. Il suo unico scopo era fuggire dalla monotonia di quel villaggio e tornare ad Atene, la sua città natale, per scrollarsi di dosso i problemi del Grande Tempio e dei suoi Cavalieri.
   - Perché continuate a seguirmi? -, riprese, guardando con disappunto l'imbarazzato Calx.
   - Non vi sto seguendo, sono solo diretto alla locanda di Niketas, che si trova sulla Sfondilica -, rispose il Cavaliere di Gemini, simulando orgoglio e sicurezza.
   - Capisco -, commentò la nipote di Makarios, continuando a procedere a passo spedito. Calx la guardò per un fugace istante, in silenzio, e sentì il suo cuore sobbalzare. Era una sensazione strana, improvvisa, nuova. Non riusciva a spiegarsi il motivo di quell'inattesa confusione che gli aveva scombussolato l'anima.
   Proseguirono ancora per un tratto, muti e, allo stesso tempo, interessati l'uno all'altra. - Sono arrivata. Addio, signor Cavaliere! -, esclamò la fanciulla, distogliendolo dai suoi pensieri.
   - Arrivederci! -, ricambiò il custode della terza casa, con imbarazzo e a bassa voce. La vide dirigersi verso il forno e sparire oltre l'uscio. Poi tornò alla sua missione e seguitò il suo cammino in direzione della locanda.
   Anche Lamashtu si accorse che gli occhi di Calx avevano indugiato su Eyra prima di proseguire e un inconsueto sorriso gli si dipinse sul volto. Nella sua mente iniziarono a prendere forma idee che voleva sottoporre a Kharax.
   Calx varcò la soglia della locanda, ancora vuota a quell'ora, e vide quattro Cavalieri parlare fitto attorno a un tavolo in fondo alla sala. Riconobbe le voci di Laurion e Mothalla, che si scambiavano animate opinioni. Si avvicinò e, non appena lo videro, i Cavalieri si alzarono in segno di rispetto. Oltre ai custodi delle armature di Leo Minor e Triangulum, vi erano anche Yue di Aquila, una Sacerdotessa guerriera dai capelli biondi stretti in una lunga treccia e dal volto coperto da un'anonima maschera argentea, e Kargadan di Monocerus, un possente Cavaliere di Bronzo dagli occhi azzurri e dai capelli castano chiaro.
   - Sedetevi e parliamo, amici! -, esordì Calx, poggiando l'elmo sul tavolo e occupando una sedia libera.
   - Le nostre ricerche continuano a non dare frutto. Abbiamo controllato ogni centimetro di questo villaggio senza il minimo risultato -, affermò deluso il Cavaliere di Triangulum.
   - Forse perché la spia con cui abbiamo a che fare non è sprovveduta! -, intervenne una voce ben nota a tutti. I Cavalieri si alzarono, mentre Calx si voltò curioso: - Zosma, che ci fai qui? -
   Il custode della quinta casa accennò un sorriso: - Ero stufo di restarmene chiuso nella casa del Leone, così ho chiesto al nobile Kanaad il permesso di aiutare i nostri compagni di Bronzo e d'Argento con le ricerche -.
   - Capisco -, rispose Calx.
   - Deve essere molto scaltro se finora ha eluso i nostri controlli. Riesce a contenere il proprio cosmo e a non tradirsi, recitando a perfezione la parte della persona a cui ha rubato le sembianze -, aggiunse il custode della quinta casa.
   - Temo che finché non sarà costretto a usare il proprio cosmo non lo rintracceremo -, disse Laurion, col volto cupo e pensieroso.
   - Non possiamo attendere così a lungo, dobbiamo trovare una soluzione più immediata -, commentò Calx.
   - I nostri compagni le hanno tentate tutte pur di stanare la spia nemica, eppure siamo ancora in alto mare. Quest'essere possiede la pazienza di un ragno! Sarà oltremodo difficile trovarlo! -, aggiunse Zosma, incrociando le braccia al petto.
   - L'unica cosa certa è che si tratta di qualcuno molto vicino al Santuario -, disse Laurion, con aria sconfortata.
   - Ma questo non restringe il campo: tutti a Rodorio hanno contatti con il Grande Tempio. Potrebbe essere chiunque, dal momento che non manifesta mai il proprio cosmo -, obiettò il Cavaliere di Triangulum.
   Calx si alzò, si avvicinò all'ampia finestra bagnata di luce e, senza voltarsi, disse: - Laurion, Mothalla, Cavalieri, fate evacuare Rodorio! Si avvicinano dei cosmi insoliti! - Quando si voltò, Zosma era già partito a dare il benvenuto ai nemici.
   Il Cavaliere di Gemini sorrise e aggiunse: - Dei demoni ci occuperemo io e Zosma, voi proteggete la popolazione a ogni costo! - I Cavalieri annuirono e corsero a eseguire gli ordini, mentre Calx usciva per andare incontro al suo avversario.     
   D'un tratto, i cosmi deviarono in direzione del Grande Tempio e si separarono. Il Cavaliere di Gemini corrugò la fronte e in un lampo attraversò il villaggio e l'anfratto che immetteva al Santuario. Seguì uno dei cosmi, che si dirigeva verso l'Altura delle Stelle e scomparve.
   Intanto, Laurion e i suoi compagni facevano uscire dalle case gli abitanti del villaggio e li guidavano verso l'Odeporica. Il brusio di voci preoccupate e il pianto di alcuni bambini avevano interrotto bruscamente la tranquillità di quel giorno qualunque. Tra la folla vi era Lamashtu, pronto ad attuare il piano concordato. Camminava accanto a Eyra, con indosso una lunga casacca munita di cappuccio. Tentava di passare inosservato, come uno dei tanti poveri indifesi che cercavano riparo tra le sicure mura della residenza terrena di Atena. Eyra, dal canto suo, provava un misto di paura e di noia. Non aveva intenzione di morire; non in quel posto almeno. Ma quell'imprevisto poteva cancellare tutti i suoi sogni e questo la amareggiava.
   - Sta' tranquilla, Eyra! Presto finirà tutto -, le sussurrava Lamashtu, guardandola con aria eccitata. Era sicuro che sarebbe andato tutto per il meglio.
   Mentre la processione di anime scorreva costante e ordinata, il suolo esplose in migliaia di frammenti e un nuovo cosmo si palesò. Laurion si voltò in direzione della sorgente d'energia, chiamò Kargadan, il Cavaliere che gli era più vicino, e disse: - Porta via di qui questa gente il prima possibile, di questo nuovo nemico mi occupo io! - Un po' incerto, il giovane Monocerus annuì e continuò la sua missione.
***
    Uno dei demoni era atterrato in una zona periferica del Grande Tempio. Era un ampio spiazzo contornato da grigie pareti di roccia. Si guardò intorno, cercando una via che conducesse al monte delle Dodici Case. Vide uno stretto sentiero e vi s'incamminò, quando, d'un tratto, una potente energia lo scaraventò contro un'aguzza roccia sporgente. L'essere avvertiva la presenza di un cosmo, ma non riusciva a capire in quale direzione si trovasse.
   - Non crederai mica che ti lasci raggiungere il Grande Tempio, vero? -, risuonò l'eco di una giovane voce portata dalla brezza estiva. Il demone puntò i suoi occhi mobili in ogni anfratto, fessura o spuntone di roccia, ma non vide nessuno. Un altro colpo lo raggiunse in pieno petto e lo gettò con forza contro un'altra sporgenza rocciosa, mandandola in frantumi.
   Rialzatosi furioso, il demone iniziò a urlare a gran voce: - Mai mi sarei aspettato che un Cavaliere di Atena attaccasse di soppiatto! Se sei un vero guerriero, mostrati e combatti come si conviene! - Il tono aggressivo e sprezzante del demone si perse nel silenzio del luogo. Una risata riecheggiò nell'aria e in un repentino lampo di luce apparve davanti al guerriero di Nergal un ragazzo dai corti capelli neri e dagli occhi color nocciola. Il demone si ritrovò per la terza volta con la schiena conficcata tra le rocce.
   - Sono Zosma di Leo, Cavaliere d'Oro e custode della quinta casa. Preparati, perché questo sarà l'ultimo luogo che vedrai! -, si presentò con tono minaccioso il giovane leone dorato. Il demone si rimise in piedi, lo sguardo truce e una smorfia di disprezzo disegnata sul volto.
   - Il mio nome è Libu, secondo demone dell'acqua! Presto ti farò pentire della tua insolenza! -, replicò l'essere infernale. Indossava un'armatura dalle tonalità verdi e marroni. Gli occhi erano coperti da una maschera, unita all'elmo tondeggiante e aderente alle forme della testa. Una lunga chioma arancione, suddivisa in quattro trecce, scendeva lungo le spalle. Il pettorale era formato da piastre verdi sovrapposte a mo' di squame che coprivano soltanto la cassa toracica. Un bavero stretto e adornato da triangoli marroni proteggeva il collo. Gli spallacci avevano la forma di un guscio e coprivano anche una breve porzione del braccio. Una larga fascia metallica con al centro un grosso triangolo circondava i fianchi e scendeva lungo le cosce a formare un gonnellino di piastre verdi e marroni alternate: le prime erano leggermente più lunghe delle seconde. I bracciali erano anch'essi formati da piastre sovrapposte e ornati da piccoli scudi ovali di colore marrone. I gambali avevano la medesima forma, ma al posto degli scudi erano incisi triangoli all'altezza delle ginocchia.
   Zosma non si lasciò intimidire dalle parole del demone e con un sorriso di sfida si lanciò all'attacco, i pugni bagnati di un cosmo dorato. Libu non si fece trovare impreparato e aperti i palmi delle mani, iniziò a scagliargli contro proiettili d'acqua. Il giovane leone schivò agilmente i dardi e, grazie alla sua velocità, gli assestò un poderoso gancio al mento, che lo scaraventò verso le rocce. Il demone, tuttavia, riuscì a riprendere l'equilibrio e atterrò senza problemi, un rivolo di sangue bluastro all'angolo destro della bocca.
   Libu si ripulì dal sangue con una mano, guardò con curiosità l'avversario e disse: - Sei un valente guerriero, hai la veemenza e la forza di una fiera! Eppure, presto questo tuo fuoco si estinguerà! - La serietà e la convinzione con cui aveva pronunciato quelle parole non smossero minimamente il Cavaliere che, anzi, trovò divertente l'eccessiva fiducia del demone.
   - Desolato, ma se vuoi avere ragione di me, dovrai impegnarti molto di più. Le parole non hanno potere contro un guerriero! Solo la lotta può appagarlo! -, ritorse Zosma, lanciandogli contro una scarica di energia dorata. Il demone parò il colpo, creando un mulinello d'acqua fra le mani e disperdendo l'impeto dell'energia.
   Il giovane leone continuò l'assalto e una volta avvicinatosi all'avversario fece esplodere una bolla d'energia. Stranamente, però, il colpo sembrò non sortire l'effetto sperato: difatti, fu Zosma a essere sbalzato via e non il demone. Per la prima volta dall'inizio dello scontro fu lui a ritrovarsi a terra. Si rialzò subito, stupito da quanto era accaduto e si preparò a un nuovo assalto.
   Mentre faceva esplodere il suo cosmo dorato, il cielo si coprì di nuvole inspiegabilmente. L'aria divenne umida e improvvise gocce di pioggia apparvero a mezz'aria.  - Credi di impressionarmi con i tuoi giochetti, essere infernale? -, provocò il custode della quinta casa.
   - Certo che no. Voglio solo dimostrarti quanto un demone di alto rango sia un avversario difficile da battere! -, ribatté Libu, con una punta di sarcasmo nella voce.
   Fece roteare in alto le braccia, come a disegnare una strana figura. Il suolo sotto i piedi di Zosma tremò, e quattro colonne d'acqua lo circondarono e lo avvolsero. - A Azla![3] -, sussurrò Libu, come se pronunciasse un incantesimo.
   All'interno della bolla d'acqua, il Cavaliere di Leo tentava in tutti i modi di aprirsi un varco e uscire, ma in quella trappola l'ossigeno era rarefatto e più Zosma s'impegnava ad abbatterla, più gli costava fatica respirare. Dalle pareti trasparenti d'acqua intravedeva la sagoma tremolante del demone che intensificava il suo attacco.
   - Se cedi alla furia delle acque d'Irkalla, avrai un trapasso più agevole. Se, invece, ti ostinerai a resisterle, ogni cellula del tuo corpo andrà in pezzi, ma prima sarai straziato da indicibili tormenti! -, spiegò Libu, con gli occhi fissi sulla vita che stava per ghermire.
   A Zosma quelle parole arrivarono come un'eco lontana; lo scroscio dell'acqua e la progressiva perdita di forze gli impedivano di sentire distintamente qualsiasi altro suono. Ma non gli importava: il suo unico obiettivo era di abbattere quella trappola infernale prima che lo riducesse all'impotenza. Raccolse tutta la forza che gli restava e in un lampo di luce scomparve.
   Il demone, contrariato, si avvide che in qualche modo la sua preda era sfuggita alla trappola, ma non se ne preoccupò. Per aggirare la sua letale tecnica doveva aver consumato parecchia energia e non avrebbe avuto la forza per continuare a combattere. Decise di provocarlo e di farlo uscire allo scoperto per dargli il colpo di grazia: - Che delusione, Cavaliere! Vedo che gli esseri umani non hanno fatto progressi nel corso dei secoli, restano ancora creature pavide e inermi, così facili da corrompere e manovrare! -
   Il Cavaliere di Leo lasciò cadere le provocazioni e si preparò a un nuovo assalto. Sentiva in lontananza altri cosmi impegnati in battaglia e in cuor suo pregò Atena di dar forza a tutti loro. - Forse hai ragione, gli uomini continuano a perseverare nei loro errori, ma per tutti c'è speranza di redenzione! Io ne sono la prova vivente! -, affermò Zosma, uscendo da un anfratto tra le rocce.
   - Un tempo io ero un ladro e un assassino, eppure oggi quest'armatura mi ha scelto come suo custode! -, continuò, avvicinandosi all'avversario. Libu rise.
   - A quanto pare, la divina Atena ha perso il senno! Non sa più nemmeno scegliere i propri paladini! -, commentò divertito, pronto a sferrare il colpo ferale.
   - Ridi pure, se vuoi, ma tu non conosci gli esseri umani. La nostra vita è un'eterna lotta e non sempre ci indirizza verso un cammino di giustizia. Spesso ci appoggiamo ai più forti solo per un istinto di sopravvivenza e non perché abbiamo un animo malvagio!
   Quando nacqui fui abbandonato sulla soglia di un postribolo! La tenutaria di quella casa di malaffare mi allevò insegnandomi l'arte del furto e della truffa e le sue uniche carezze erano le frustate che m'infliggeva quando il bottino che portavo a casa non la soddisfaceva! Ho ucciso un uomo ubriaco e violento con un coltello perché mi aveva scambiato per una delle tante meretrici del bordello! Mi salvai dal carcere solo grazie all'influenza che la mia padrona esercitava sul governatore di quelle zone! Ho vissuto l'orrore di un'infanzia grigia e arida, ma nel mio cuore sapevo che tutto ciò che facevo era sbagliato! Aspettavo una svolta, qualcosa che mi permettesse di lasciare la nefandezza e l'obbrobrio di quel posto! Gli anni passavano, la mia vita restava immobile, ma il mio cuore non cedeva alla disperazione! Finché un giorno non arrivò un uomo che mi strappò via da quelle tenebre!
   Fu il Sommo Alexer, una sera, a presentarsi all'uscio della bettola in cui vivevo. Il ricordo di quel giorno è marchiato a fuoco nella mia mente! Si appartò con la mia padrona in una stanza lontana da orecchie indiscrete e conversarono a lungo! Non ho mai saputo cosa si dissero, ma non avevo mai visto il volto della mia padrona così sconvolto! Quella sera le mie stelle cambiarono e ora il mio cuore può combattere per difendere gli altri! -, raccontò con trasporto il custode della quinta casa.
   Stupito dal passato di quel ragazzo all'apparenza innocente e ingenuo, Libu accennò un sorriso e con voce sprezzante e sarcastica replicò: - Sei proprio uno stolto! Hai conosciuto la parte peggiore dell'umanità e continui a ergerti a suo difensore? -
   - Sì! -, ribatté con forza il Cavaliere. - Ogni uomo in questo mondo ha un lato buono, persino la mia padrona! Avrebbe potuto farmi morire e invece scelse di allevarmi! Avrebbe potuto farmi marcire in prigione, eppure usò i suoi agganci per salvarmi! Forse non sapeva esprimere la bontà del suo cuore, ma oggi posso dare una lettura diversa a quei gesti che un tempo non capivo! -, concluse, incuriosendo Libu, che era rimasto affascinato dalla lucida convinzione del suo antagonista.
   - Sei un tipo insolito, Cavaliere di Leo! Ora capisco perché quell'armatura ti ha scelto come suo custode! Ma è giunto il momento di concludere questo scontro -, disse il demone, mentre gli scudi sulle sue braccia risplendevano di un cosmo arancione. Zosma non aspettò che il suo avversario portasse a termine la sua mossa e, alzati i pugni al petto, si accinse a lanciare il suo colpo. Le gocce di pioggia che stazionavano a mezz'aria, però, d'un tratto scomparvero per poi riapparire attorno ai bracciali dell'armatura di Leo. Li avvolsero e impedirono a Zosma di sferrare la sua tecnica. Il Cavaliere capì che il demone doveva avere ancora qualche asso nella manica e aggrottò le ciglia, puntando gli occhi su di lui.
   Libu rideva. Fece esplodere il suo cosmo gridando: - A Azla! -, mentre l'acqua che aveva avvolto le braccia del Cavaliere lo copriva totalmente. Zosma cadde a terra prono, immobile. L'acqua continuava a scorrergli addosso vorticosamente, come se volesse consumarlo.
   - Per quanto ammiri la tua fede nella speranza che ogni uomo possa avere una seconda occasione, permettimi di dissentire! -, esclamò Libu, avvicinandosi al nemico ormai prostrato al suolo. - L'umanità ha avuto innumerevoli possibilità di cambiare il proprio cammino, ogni volta che si è trovata sull'orlo dell'estinzione, eppure ha sempre continuato testardamente a proseguire sul sentiero della distruzione! Quelli che a te appaiono gesti di inconscia bontà d'animo non sono altro che scelte dettate dall'interesse del momento e dal profitto di domani! Puoi sperare quanto vuoi che l'uomo cambi strada e si ravveda dai suoi misfatti, ma è pura utopia! -, concluse, aumentando la velocità dell'acqua e stringendola sempre più come spire di serpe attorno al corpo inerme del Cavaliere di Leo.
   - Ti sbagli, Libu! Io so per certo che un giorno gli uomini cambieranno le loro stelle e riusciranno a liberarsi dalle catene dell'odio e della cieca ambizione! -, ritorse Zosma, il cui corpo iniziava a cedere all'incessante pressione sprigionata dal colpo del demone. Se voleva salvarsi da quella morsa opprimente doveva escogitare in fretta un piano. Sollevò leggermente il capo e dalla cristallina e tremula prigione che lo stava soffocando intravide una pozza d'acqua ai piedi di Libu. Un'improvvisa idea gli balenò nella mente e, come già fatto in precedenza, scomparve. In quell'attimo il sorriso beffardo sul volto del demone si spense e al suo posto spuntò un'ombra di fastidio.
***
   - Signore, quella è l'armatura di Leo? -, disse il bambino, ammirato dal bagliore di quel leone dorato che aveva davanti.
   - Sì, Zosma, è la corazza che devi conquistare se vuoi essere Cavaliere! -, rispose il Sacerdote, appoggiandogli una mano sulla spalla. Il giovane apprendista continuò a fissare quella figura lucente e un senso di sconforto lo colmò.
   Abbassò il capo e con tono sconsolato chiese: - Signore, come può un'armatura da cui spira tanta nobiltà e giustizia scegliere un delinquente come me per suo custode? Ho inflitto troppo male! Non riuscirò mai a conquistarla! -
   Alexer s'inginocchiò davanti a lui e gli sollevò delicatamente il capo con una mano. Lo guardò dritto negli occhi e disse: - È proprio per questo che riuscirai a ottenerla! Tu non avevi mai conosciuto il bene, eppure quando la luce si è presentata a te, hai abbandonato le tenebre e l'hai abbracciata! Hai preferito vivere per un ideale di pace e di libertà, piuttosto che sotto il giogo della prepotenza e dell'ingiustizia! -
   Il Sacerdote si rialzò e, portando il ragazzo più vicino all'armatura, continuò: - Tu sei come il leone rappresentato da quell'armatura: combatti per la libertà di scegliere il tuo destino e per permettere agli altri di fare la medesima cosa. Non lasciare che il tuo passato ti perseguiti, va' avanti e fa' trionfare la luce che ti ha salvato! - Zosma si sentì rincuorato e il sorriso tornò ad illuminargli il volto.
***
   Quelle parole gli ritornavano ora alla mente; ora che si preparava a sferrare il colpo che avrebbe annientato il suo avversario. Riapparve a meno di un metro da Libu, sollevò la mano destra e puntò l'indice al cielo: - Léontos Maniódēs Astrapé![4] - Dal cielo cadde sul demone una potente saetta che, alimentata dall'acqua, si intensificò fino a esplodere. Libu fu scaraventato lontano, con l'armatura distrutta in più punti e fumante.
   - F-Fulmini? -, farfugliò meravigliato. Si rialzò a fatica; la sua corazza era ancora percorsa da scariche elettriche che gli impedivano di muoversi correttamente.
   - Esatto, Libu! Quando iniziai ad allenarmi per conquistare questa corazza, il sommo Alexer mi raccontò che all'epoca del mito Atena commissionò la forgiatura delle armature dei suoi Cavalieri agli alchimisti del perduto continente di Mu e ordinò loro di infondere in ognuna di esse un requisito particolare che permettesse di scegliere il custode ideale a indossarle. Così, coloro che intendono ottenere l'armatura di Leo devono risvegliare la capacità di evocare e generare i fulmini! Purtroppo per te il tuo elemento, l'acqua, è un potente conduttore elettrico, un terreno fertile per le mie abilità. Grazie al mio cosmo, sono riuscito a sovraccaricare l'energia del fulmine che ti ha colpito e a produrre una violenta esplosione. Arrenditi, Libu, sei ancora in tempo -.
   Il demone si era rimesso in piedi, in qualche modo. Benché il racconto di Zosma lo avesse stupito, non si diede per vinto e con le ultime forze tentò un nuovo attacco, anche se il suo cosmo e la sua vita erano ormai al limite. - Sei un avversario pieno di sorprese, Cavaliere, ma non accetto di morire senza combattere. Preparati! A Azla! -
   Il custode della quinta casa chiuse gli occhi, tirò indietro i pugni, li fece scattare in avanti e sprigionò un possente reticolato d'energia: - Keraunón Diktýon![5] - Propagandosi attraverso l'acqua generata dal cosmo di Libu, le folgori richiamate da Zosma penetrarono attraverso l'armatura del demone ed esplosero con un boato assordante. Pezzi di corazza e schizzi di sangue bluastro si dispersero sullo spiazzo, mentre il Cavaliere di Leo placava l'impeto del suo cosmo. Alzò lo sguardo verso il cielo che, dopo la dipartita del demone, era tornato terso e sereno; poi, a gran velocità, si diresse nella zona del mercato per aiutare i compagni con l'evacuazione di Rodorio.
***
   Intanto, sull'isola di Psittalia, Sargas continuava il suo addestramento. Vernalis lo osservava e, di tanto in tanto, lo ammoniva e lo esortava a impegnarsi di più. D'un tratto, il Cavaliere di Pisces fu attratto dall'innalzarsi di cosmi insoliti. Si voltò in direzione del Pireo e aggrottò le ciglia. Sargas si accorse dell'improvvisa distrazione del maestro e ne comprese subito il motivo: era talmente concentrato nell'allenamento che, all'inizio, non si era reso conto dell'agitarsi di cosmi anomali sul Grande Tempio. Si avvicinò al maestro e, con voce preoccupata, chiese: - Signore, che sta succedendo? -
   - Il nostro nemico ha fatto la sua mossa -, rispose secco il custode dell'ultima casa dello Zodiaco, senza distogliere lo sguardo. - Io devo raggiungere il Santuario, tu continua ad allenarti! -, aggiunse, preparandosi a raggiungere senza ulteriore indugio la meta che si era prefissata.
   - Vengo con voi, maestro! -, esclamò il giovane discepolo, trattenendolo per un braccio. Vernalis lo guardò con occhi severi, ma si accorse che il suo allievo era determinato a seguirlo.
   - Non sei ancora un Cavaliere! Rischieresti solo di farti uccidere! -, lo rimproverò il maestro, ma Sargas non si lasciò convincere.
   - Diceste la stessa cosa quando vi chiesi di portarmi con voi a Parigi! Eppure non mi pare che allora me la sia cavata male! -, rispose il ragazzo, vincendo le riserve del Cavaliere di Pisces.
   - D'accordo, ti porterò con me, ma se le cose si mettono male, trova un posto sicuro dove rifugiarti! -, acconsentì Vernalis, felice di ritrovare risolutezza e determinazione nel discepolo. Gli cinse i fianchi e in un attimo giunsero alla dimora terrena di Atena.
***
   Nella zona del mercato, la folla di anime proveniente da Rodorio iniziava a essere smistata nei rifugi costruiti in tempi antichi per far fronte alle emergenze come questa. Lamashtu approfittò della confusione e del trambusto per mettere in atto la propria missione. Si staccò dal fiume umano che procedeva e, assunto il volto di un giovane adolescente, si diresse nella zona in cui risiedevano i soldati, nascondendosi tra le rocce. Vide una guardia controllare se le case fossero state evacuate e decise di agire. Tese la mano verso la preda e scintille infuocate sfrecciarono verso il malcapitato. Colto alla sprovvista, il soldato si accasciò a terra, con un rantolo soffocato, e spirò.
   Soddisfatto, il demone si guardò intorno. Non si vedeva anima viva. Uscì dal suo nascondiglio e si avvicinò alla preda, pronto a rubarne le sembianze. Appoggiò una mano sul volto della sua vittima e bruciò una frazione del suo cosmo, quando, d'un tratto, si ritrovò davanti un ragazzo in armatura d'oro. Alzò lo sguardo, incredulo, e vide il Cavaliere di Libra osservarlo con sguardo feroce.
   Il demone si rialzò in piedi e, quasi inconsciamente, indietreggiò, colto da una repentina paura. - Da dove sei apparso? Non ho avvertito alcun cosmo! -, esclamò, stupito da quell'inatteso incontro.
   - Finalmente ti sei scoperto! È giunto il momento di pagare per tutti i tuoi crimini! -, rispose Yeng, glissando sulle domande di Lamashtu. Il demone decise di assumere la sua vera forma e di prepararsi a combattere: sapeva di non potersi sottrarre a uno scontro ora che era stato scoperto, ma non aveva intenzione di perdere la vita; aveva ancora un compito da svolgere.
   Yeng iniziò con una raffica di calci e pugni che, però, il demone sembrò in grado di parare. - Sei abile e veloce, ammirevole! -, commentò il custode della settima casa. - La mia forza e la mia abilità sono seconde solo agli Utukki! Io sono il primo demone del fuoco! -, ribatté Lamashtu, con un sorriso beffardo sulle labbra. Si circondò di fiamme e iniziò a sparare dardi contro il Cavaliere. Yeng si difendeva usando gli scudi di Libra, posti sugli avambracci, ma il calore emanato da quelle sfere infuocate era intenso e soffocante. Il custode della settima casa strinse i denti e fece esplodere il suo cosmo dorato. Un tornado d'energia spazzò via le fiamme e fece indietreggiare il demone.
   - Anatolikoû Boós Prosbolé![6] -, gridò Yeng, lanciando il suo colpo segreto, ma un muro di fiamme si parò fra il bufalo d'energia e il demone. Il Cavaliere tentò d'intensificare l'attacco, ma la barriera innalzata da Lamashtu ne disperse la forza.
   - Mi aspettavo di meglio da un Cavaliere d'Oro. Vorrei giocare ancora un po' con te, ma ho una missione da compiere! Addio! -, commentò sarcastico il demone, circondando l'avversario con alte fiamme dall'intenso calore.
   Il Cavaliere di Libra tentava di difendersi con gli scudi e di abbattere quella gabbia di fuoco, intensificando il suo cosmo. Lamashtu ne approfittò per fuggire e riprendere le sembianze di Makarios. Giunse di nuovo in vista del corteo di sfollati e, con circospezione, si unì alla fila. Eyra lo vide tornare, scuro in volto, ed evitò di porgli domande: in fondo, non le interessava granché conoscere le ambasce di quell'essere che, per quanto la trattasse con rispetto, le incuteva comunque una certa soggezione. Il muro di fiamme scomparve non appena il cosmo di Lamashtu svanì, lasciando Yeng in affanno e col cuore colmo di delusione. Il Cavaliere voleva inseguirlo, ma della sua aura cosmica non c'era più traccia. Diede un pugno a uno spuntone di roccia, che cadde in frantumi e poi si diresse verso le Dodici Case.
***
   All'Altura delle Stelle, il demone osservava l'imponenza del monte in cui erano custoditi i più grandi segreti del Grande Tempio. Percepì il cosmo di un Cavaliere e in cuor suo sorrise: dopo secoli di inattività poteva finalmente tornare a calcare il campo di battaglia. Girò il volto in direzione del suo avversario e rimase stupito: - Che ironia! Dopo tanti secoli il primo Cavaliere che incontro è il custode della terza casa! -, esclamò, con una punta di soddisfazione nella voce. Calx aggrottò le ciglia, incuriosito dalle parole del nemico.
   - Hai già incontrato un altro Cavaliere di Gemini? -, chiese, mantenendo un atteggiamento vigile e diffidente.
   - Sì, il primo uomo ad aver indossato l'armatura che ora ti appartiene. Si chiamava Megakles, era un guerriero rozzo e testardo, morto nel corso della prima guerra sacra della storia! -, spiegò il Sabitta, con voce ferma. Calx si ricordò che il conflitto a cui aveva accennato il demone era avvenuto nella remota età del mito: mai avrebbe immaginato che le creature che stavano affrontando fossero così ancestrali.
   Ne osservò l'armatura: era nera con inserti bianchi. L'elmo a casco aveva le forme di una testa d'uccello: all'altezza delle tempie vi erano due ovali bianchi simili ad occhi, ed una visiera a forma di becco dello stesso colore che scendeva lungo il naso dell'essere infernale. Gli occhi grigi e i capelli blu del demone creavano uno strano contrasto di colori. Il pettorale era un blocco unico che incorporava anche il cinturino. Era nero, costellato da piccoli triangoli bianchi. Gli spallacci erano piccoli e squadrati, dai bordi lisci e adornati da linguette nere. Il cinturino copriva soltanto i fianchi grazie a due grosse piastre su cui era inciso un triangolo bianco. I bracciali avevano la forma di tozze pinne sovrapposte e sulle manopole era presente il solito triangolo. Gli schinieri erano composti da due pezzi: uno aderente alla gamba, e un altro più largo che copriva la coscia e terminava a forma di calice.
   - Qual è il tuo nome? -, domandò il discepolo di Alexer.
   - Urur, terzo demone del ghiaccio. E tu, giovane Cavaliere di Gemini, come ti chiami? -, rispose il Sabitta con tono garbato.
   - Calx! -, disse secco il Cavaliere, che iniziava a provare una strana inquietudine.
   - Come una delle stelle della tua costellazione guida! Un nome appropriato, direi! -, commentò Urur, lo sguardo enigmatico e un sorriso abbozzato.
   - Sei un essere molto informato per aver dormito così a lungo! -, ironizzò Calx, tentando di disfarsi dell'agitazione che iniziava a invaderlo.
   Il guerriero di Irkalla fece una smorfia divertita e assunse un'espressione fiera: - Quando il mio signore Nergal sedeva tra le divine schiere, il mio compito era raccogliere informazioni sulle altre divinità e i loro eserciti, così da allestire strategie atte a sconfiggerli! - Il Cavaliere di Gemini restò stupito dalle dichiarazioni dell'avversario, ma la calma e la fierezza che spiravano da quelle parole accrebbero la sua inquietudine.
   - Quindi eri uno stratega! Eppure non mi sembra che il tuo lavoro abbia giovato alla causa del tuo signore! -, affermò sprezzante l'allievo di Alexer.
   Urur non sembrò offeso da quelle parole, anzi i suoi occhi grigi si accesero di una luce sinistra. - Tra i numi non mancano conflitti e rivalità, voi Cavalieri dovreste saperne qualcosa! -, ribatté il demone, notando un certo turbamento nel giovane che aveva di fronte. Colse l'occasione e rincarò la dose: - La dea che servi non fa eccezione! -, affermò con tono crudo e deciso.
   - Non osare parlare di Atena in tal modo! Lei è l'unica divinità a prendersi cura del genere umano! -, proruppe Calx, indignato dalla frase provocatoria dell'avversario.
   La creatura infernale rise di gusto. - Io conosco Atena meglio di chiunque altro! Il suo presunto amore per voi miseri mortali è solo una maschera! -, dichiarò Urur, senza la minima esitazione. Il giovane erede di Gemini era adirato, ma in cuor suo sbocciò un inatteso dubbio.
   - Una maschera? Che significa? -, chiese quasi senza rendersene conto.
   Il viso del demone del ghiaccio si fece serio e, guardando dritto negli occhi il giovane avversario, iniziò il suo racconto: - Atena nacque dall'unione di Zeus, il re degli Olimpici, e di Meti, antica dea della saggezza e sua prima sposa. L'ancestrale dea possedeva la capacità di tramutarsi in qualsiasi cosa, dalla particella più piccola e invisibile all'oggetto più grosso e pesante. A Zeus l'oracolo di Delfi profetizzò che se avesse avuto un figlio da Meti sarebbe stato detronizzato e avrebbe perso il comando dell'Olimpo. Temendo la fine di Crono e di Urano, quella sera stessa, mentre stringeva a sé la sposa, le chiese di trasformarsi in una goccia d'acqua. Meti restò confusa dalla richiesta del potente consorte, ma soddisfece quel capriccio improvviso. Non appena le sue aggraziate sembianze cambiarono forma e si mutarono in una chiara e trasparente goccia d'acqua, il re degli Olimpici la inghiottì.
   Inorridita dal gesto del marito, Meti tentò di riprendere il suo aspetto, ma il potere del signore del fulmine non glielo permise. Tuttavia, Zeus non sapeva che la sua sposa già portava in grembo il frutto dei loro amplessi. Passarono così nove mesi e alla fine, dal capo del padre dei numi dell'Olimpo, nacque Atena intonando un tremendo canto di guerra e con indosso una lucente armatura d'oro -.
   Il racconto del demone sulla nascita della dea che proteggeva incuriosì Calx a tal punto che quasi si dimenticò che quello che aveva di fronte era un nemico da sconfiggere. Il servo di Nergal si accorse dell'interesse suscitato nell'avversario e, senza por tempo in mezzo, continuò la sua storia:
   - Fin da bambina, la dea della guerra saggia dimostrò superbe doti e a dieci anni ottenne dal padre di restare vergine per sempre. Nel suo cuore, però, crebbe un aspro rancore nei confronti del genitore, che l'aveva privata della figura materna. Sapeva di non poterlo affrontare direttamente, così decise di prendersi la sua vendetta prima sugli altri numi del monte sacro, che non avevano mosso un dito per salvare Meti. Fu così che, quando Poseidone mirò al possesso dell'Attica, Atena scese in lizza. Offrì agli abitanti del paese l'olivo, che avrebbe incrementato il commercio e la prosperità della regione, vincendo la partita a mani basse. Il dio dei mari, furioso per l'affronto subito, le dichiarò guerra e diede vita al primo conflitto sacro della storia.
   All'epoca, Atena aveva un esercito di Cavalieri in grado di manipolare il cosmo, ma privi di armatura. Vennero quasi tutti spazzati via dai Generali degli Abissi, già muniti di corazze di scaglie, e la guerra sembrava sul punto di volgere al peggio. Per evitare la sconfitta, la prediletta figlia di Zeus si rivolse agli alchimisti del perduto continente di Mu e commissionò loro 88 armature che richiamassero le costellazioni celesti. Una volta ottenute, donò quelle di più alto rango, le corazze d'oro, ai suoi paladini più meritevoli e distribuì le altre al resto dell'esercito. La guerra fu vinta, ma Poseidone riparò dal fratello Ade che, a sua volta, ingaggiò battaglia con la nipote. Anche questo nuovo conflitto fu vinto e Atena iniziò a pensare che forse la sua agognata vendetta si sarebbe presto concretizzata -.
   Nonostante tentasse di celare l'agitazione che il racconto di Urur gli aveva messo addosso, Calx non riusciva a smettere di pensare a quelle parole: aveva ascoltato centinaia di volte la storia delle guerre sacre, ma ora gli appariva completamente diversa, e anche la figura di Atena, che non aveva mai conosciuto, assumeva un aspetto del tutto nuovo ai suoi occhi. Strinse i pugni e provò a ribattere alle insinuazioni suggerite dal Sabitta: - Non credo a una parola di ciò che dici! Stai solo cercando di gettare fango sulla bontà d'animo di Atena! -
   Il demone del ghiaccio scoppiò in una grassa risata: il disagio che attanagliava Calx era chiaro come il sole e le sue parole, prive di convinzione e di trasporto, lo avevano smascherato. Per acuire il senso d'incertezza dell'avversario, Urur riprese il suo discorso: - Se Atena tenesse davvero alla salvezza dell'umanità, non credi che a quest'ora le guerre, le discordie, le invidie e la violenza sarebbero state debellate? Sono oltre due millenni che la figlia di Zeus si erge a difesa delle umane genti, eppure io ho trovato il mondo peggiorato dall'ultima volta che l'ho visto. La grandezza e l'onore dei tempi antichi si sono oscurati nella grettezza e nella meschinità attuale. Ti sei chiesto perché Atena non abbia mai messo un freno alla tracotanza umana e le abbia permesso d'infangare questa bella terra? -
   Il giovane Cavaliere di Gemini chiuse gli occhi e abbassò il capo: - Perché Atena crede nelle possibilità dell'uomo. Ogni essere umano può cambiare vita e volgersi al bene, può scegliere di vivere secondo i dettami della giustizia e dell'onore. Ma Atena lascia a ogni individuo il libero arbitrio: non è una tiranna che costringe gli uomini a cambiare; aspetta che siano loro a rendersi conto del cammino che stanno seguendo, - rispose con forza.
   Il Sabitta non si lasciò impressionare e trasse a suo vantaggio la risposta datagli dal Cavaliere. - Credi davvero che l'uomo sia disposto a cambiare? Neppure i Cavalieri ci riescono sempre: persino tra di voi si contano traditori e fanatici assassini! La natura umana è troppo volubile per essere lasciata a briglie sciolte; serve mano ferma e autorità per tenerla a bada, e Atena non ha intenzione di portare ordine in questo mondo. Te lo ripeto: il suo unico obiettivo è la vendetta! -, esclamò Urur con un tono astioso e risoluto.
   Nonostante cercasse di allontanare dalla sua mente i dubbi che cominciavano ad assillarlo, Calx non poté impedire a quelle parole di far breccia nel suo animo incerto. Qualcosa, dentro di lui, si era spezzato; avvertiva un senso d'impotenza e ogni tentativo di reagire si rivelò vano; sebbene s'impegnasse a spazzare via il dubbio dal suo animo, esso aveva messo radici così profonde da ottenebrargli la mente e il cuore. Si accorse che la sua armatura, fino a poco prima più leggera d'una piuma, era diventata, d'un tratto, pesante come un enorme macigno.
   - Che mi succede? -, disse fra sé, tentando di resistere a quell'insolita sensazione. Ogni minimo movimento gli riusciva impossibile e, d'improvviso, l'eccessivo peso della corazza lo trascinò a terra con un sordo rumore metallico.
   Urur scoppiò a ridere, certo ormai di avere la vittoria in pugno, si avvicinò all'avversario con aria beffarda e lo schernì dicendo: - A quanto pare la tua armatura ti ha abbandonato: non combatterà al tuo fianco, non ti sarà più solida difesa in battaglia! Ti conviene arrenderti, Cavaliere! -
   - Non ti credo! -, ribatté il giovane Gemini, cercando invano di rimettersi in piedi. - Dannazione! -, sussurrò poi fra i denti, vinto dalla frustrazione e dalla rabbia: più tentava di muoversi, più l'armatura lo inchiodava al suolo. Il Sabitta ne approfittò per lanciare il suo colpo segreto, così da eliminare uno dei probabili avversari del suo signore. Assaporava già gli onori e le lodi che Nergal gli avrebbe tributato, indicandolo a modello per gli altri Sabitti. Incrociò le braccia al petto e le pinne dei bracciali s'illuminarono di un cosmo violaceo:
   - Per te è finita, Cavaliere! -, proruppe con gli occhi spiritati. - Ĝirene Dudak![7] -, urlò, e centinaia di lame di ghiaccio si avventarono contro l'inerme Calx.
   Il Cavaliere tentò di reagire, ma il suo cosmo non ardeva e l'armatura non dava segni di collaborazione. Chiuse gli occhi, pronto ormai ad accettare un destino che sembrava ineluttabile, quando, improvvisamente, una luce dorata giunse a parare e respingere l'attacco. D'istinto, il discepolo di Alexer riaprì gli occhi e, incredulo, vide uno degli scudi di Libra fermare l'attacco di Urur.
   - Yeng? Cosa ci fai qui? -, esclamò.
   - Ho avvertito il tuo cosmo vacillare e sono accorso! -, spiegò il custode del settimo tempio senza distogliere gli occhi dal nemico. Il demone assunse un'espressione contrariata e con occhi furiosi guardò di sbieco il nuovo arrivato.
   - Un'altra vittima dell'ambizione di Atena, vedo -, lo apostrofò, rimanendo in posizione di attacco.
   - Tieni per te le tue squallide battute, demone, e preparati ad affrontare il cosmo di Libra! -, replicò Yeng, poco incline all'ironia. - Stai bene, Calx? -, si rivolse poi al compagno, che annuì col capo. Il suo cosmo s'innalzò maestoso e, facendo scattare in avanti le braccia, gridò: - Anatolikoû Boós Prosbolé! -. L'energia sprigionata dal colpo prese la forma di un bufalo furente e si scagliò a piena potenza contro l'avversario. Urur creò attorno a sé una spessa gabbia di ghiaccio per difendersi dalla furia dell'attacco. L'impatto fu devastante: la barriera del demone andò in frantumi, scaraventandolo a qualche metro di distanza, ma gli salvò la vita. Tuttavia, l'armatura aveva subito danni ai bracciali, al pettorale e agli schinieri. Osservando quelle crepe, il Sabitta provò un senso di appagamento: le ferite in battaglia sono simbolo di coraggio e determinazione, pensò. Anche questo avrebbe giocato a suo favore al risveglio del suo signore.
   - Tecnica potente, Cavaliere! Non c'è che dire! Ma la vittoria sarà mia! -, affermò con decisione il demone del ghiaccio, facendo esplodere il suo cosmo violaceo. Incrociò le braccia al petto e centinaia di lame affilate si disposero sul campo di battaglia. - Ucciderò entrambi con un colpo solo! Preparatevi a incontrare la nera signora! -, urlò, inebriato dalla vittoria che ormai vedeva a portata di mano. Con un cenno delle mani indicò l'obiettivo alle sue gelide armi ed esse si prepararono ad attaccare. Yeng staccò gli scudi dall'armatura e, grazie alle catene di cui erano muniti, approntò le difese.
   Non appena le lame si scagliarono su di loro, il Cavaliere di Libra fece ruotare gli scudi che frantumarono i dardi ghiacciati senza fatica. La sua preoccupazione maggiore era per Calx, inerme a pochi passi da lui. Mentre respingeva l'attacco, si avvicinò all'amico per tenerlo al sicuro e per evitare che venisse colpito. - Ben fatto! -, concesse il demone, ma non sembrava affatto turbato dalla piega che stava assumendo lo scontro. Yeng si avvide della serenità nello sguardo dell'avversario e uno strano presentimento gli sorse nel cuore.
   Si preparò a contrattaccare senza ribattere all'elogio dal sapore ironico del demone e scagliò di nuovo contro il nemico il bufalo d'energia creato dalla sua tecnica segreta. Urur eresse ancora una volta la barriera di ghiaccio, pronto a respingere l'assalto. L'impatto provocò un profondo boato e un'immensa esplosione d'energia, ma stavolta la barriera era rimasta intatta, aveva subito solo scalfitture superficiali.
   Incredulo, Yeng fece un passo indietro. - Che significa? Il mio colpo era già riuscito ad abbattere le tue difese, perché ora quella gabbia di ghiaccio è ancora in piedi? -, esclamò, non trovando spiegazione a quanto era appena accaduto.
   - L'avventatezza è nemica del guerriero! -, rispose Urur, facendo un passo avanti. - Il ghiaccio della mia tecnica è in grado d'indebolire gli attacchi nemici. Infrangendo le mie lame di ghiaccio, i tuoi scudi hanno acquisito una debolezza che si è propagata all'armatura e al cosmo. Il tuo ultimo attacco non era potente quanto il primo! -, continuò, palesando le ragioni di quello strano evento.
   Il custode della settima casa si accigliò, strinse i pugni in preda alla frustrazione e cercò una strategia atta a risolvere quella condizione d'inferiorità e a vincere la battaglia. Calx, a sua volta, soffriva della sua impotenza e tentava in tutti i modi di reagire a quella situazione e di riacquistare il suo potere: se l'amico fosse morto per colpa sua, non se lo sarebbe mai perdonato. Si spinse in avanti per rimettersi in piedi, ma a nulla gli valse lo sforzo: l'armatura era diventata una prigione che gli impediva il minimo movimento.
   Il Cavaliere di Libra provava un certo sconforto, ma il senso del dovere che gli aveva instillato il suo maestro ai tempi dell'addestramento lo spingeva a trovare una rapida soluzione al problema. I danni che aveva causato all'armatura del nemico erano di lieve entità e sapeva bene che l'unico modo di abbattere il Sabitta era sprigionare tutto il potere di cui disponeva.
   Urur si trovava in vantaggio e decise di chiudere lo scontro il prima possibile: era consapevole che le sorti di una battaglia sono mutevoli e che la fortuna è una dea dall'animo capriccioso. Unì le braccia al petto, liberandole poi di colpo, e scatenò le sue lame di ghiaccio contro il Cavaliere. Yeng ebbe un'idea, ma aveva bisogno dell'aiuto del compagno.
   - Calx, sei in grado di aprire un varco dimensionale e deviare il colpo del demone? -, si rivolse telepaticamente al custode della terza casa. Il giovane Gemini rimase spiazzato per un attimo: non riusciva a capire il motivo di una simile richiesta, tuttavia la domanda dell'amico gli aveva dato nuovo slancio. Concentrò tutto sé stesso e con uno sforzo immane riuscì, in parte, a forzare la volontà dell'armatura.
   - Sì, posso farlo! -, rispose, mentre la fronte gli s'imperlava di un sudore freddo.
   Rincuorato, il discepolo di Kanaad accennò un sorriso e disse: - Bene! Allora vediamo come se la cava col suo stesso colpo! -
   Le lame avevano quasi raggiunto il loro bersaglio quando, d'un tratto, scompar-vero. Urur, incredulo, indietreggiò di un passo e si barricò dietro la gabbia di ghiaccio, convinto della repentina contromossa dell'avversario. Vi fu un attimo di silenzio, persino il vento sembrò tacere. Il demone si guardava intorno, vinto da una greve inquietudine. Vide ricomparire le lame alla sua destra e tentò di fermarle con il suo cosmo, ma non ci riuscì. Un'esplosione di ghiaccio ed energia illuminò la piana e quando la luce si spense, il Sabitta era in ginocchio e grondava linfa bluastra da innumerevoli crepe nell'armatura. Alzò il capo, gli occhi di brace e il viso contratto dalla rabbia, e con voce furiosa chiese: - Com'è possibile? Sei riuscito a prendere il controllo della mia tecnica e a rimandarla indietro? -
   Yeng abbassò la testa e con un leggero sorriso rispose: - Non è stato tutto merito mio: un amico mi ha aiutato! - Urur volse lo sguardo verso Calx e notò il suo volto affaticato e madido di sudore, il respiro affannoso e il suo cosmo stremato. Gli sembrava impossibile che fosse riuscito a forzare la volontà dell'armatura; si rialzò, a fatica, e, anche a costo di morire, era deciso a sbarazzarsi di quei due fastidiosi Cavalieri. Tornò a incrociare le braccia al petto, ma si rese conto che la sua energia cosmica stava scemando assieme alla sua vita.
   - Che mi succede? -, pensò tra sé. - Ora è il mio cosmo a essere indebolito! Come ci è riuscito? -, una smorfia di disprezzo gli si stampò in viso.
   Fissò il Cavaliere di Libra e, senza curarsi delle ferite, scagliò nuovamente la sua tecnica speciale. Yeng fece esplodere una frazione del proprio cosmo e le lame create dal demone furono annientate. Urur rimase di sasso, si guardò le mani come a rimproverarle di essere fiacche e incapaci di abbattere un nemico. Lanciò un grido tremendo e, con le ultime forze, tentò di avere la meglio usando calci e pugni. Per il Cavaliere fu un gioco da ragazzi parare e schivare i lenti colpi sferrati dall'avversario.
   Poi,  con un lampo d'energia il demone fu sbalzato all'indietro. Rabbia e confusione gli si palesarono allo sguardo: non capiva come avesse fatto quell'imberbe guerriero a passare in vantaggio tanto rapidamente e a ridurlo a mal partito. Yeng accennò un sorriso e, quasi come se gli avesse letto nel pensiero, esclamò: - Ai Cavalieri di Libra spetta l'onere di vegliare affinché forza e giustizia siano in perfetto equilibrio. Per tale scopo ci addestriamo a discernere la natura del cosmo e a prenderne il controllo, se necessario. Ho chiesto a Calx di aprire un varco dimensionale per rispedirti il colpo che avevi lanciato, ma l'ho caricato anche del mio cosmo e di quello del mio compagno, per questo la tua barriera ha ceduto! Ora assaggerai la tecnica più potente del custode della settima casa dello Zodiaco! - Un cosmo lucente, puro e colmo di giustizia circondò il Cavaliere, immobile in posa meditativa. - Dódeka Hóplōn Chorós![8] -, gridò e dodici armi d'energia, unite a formare una ruota, saettarono verso l'inerme Urur.
   Il demone chiuse gli occhi e tentò di difendersi con le mani: fu tutto inutile. Il colpo, scagliato alla massima potenza, lo travolse e lo disintegrò. Un'immensa esplosione di pura energia rischiarò l'intera piana e, quando si dissolse, un ampio cratere al suolo e profonde crepe sulle pareti dell'Altura delle Stelle restarono a testimoniare la potenza della tecnica del Cavaliere di Libra.
   Yeng si voltò verso il compagno: lo vide svenuto a terra e si apprestò a prenderlo in braccio, quando, d'improvviso, in un lampo di luce dorata la corazza di Gemini si staccò dal suo custode, si riassemblò a totem e si diresse spedita verso la terza casa. - Il tuo cosmo è incerto, Calx! Che cosa ti è successo, amico? -, disse fra sé il giovane discepolo di Kanaad, mentre sollevava tra le braccia il compagno. Si voltò verso Rodorio, poi in direzione del Monte Athos e avvertì altri cosmi bruciare: la battaglia non era ancora finita.
***
   Kargadan si era allontanato in fretta, esortando i cittadini più lenti e impauriti ad accelerare il passo. Laurion gliene fu grato e si concentrò sulla nuova minaccia appena apparsa. Dal suolo era sorto un essere alto e robusto, vestito di un'armatura marrone dagli inserti verdi.
   Il demone indossava un elmo a maschera sui cui lati si notavano delle corna di cervo. Il pettorale era formato da un sottile blocco centrale su cui erano fissate fasce metalliche che coprivano la cassa toracica e il ventre. Su ogni fascia era inciso un triangolo di colore verde. Gli spallacci avevano la forma di un'onda e protrudevano verso l'alto. Il cinturino era formato da una sorta di sospensorio che scendeva sui fianchi con due piastre metalliche di un verde vivace. Schinieri e bracciali erano lisci e lucidi, ma coprivano solo cosce e avambracci. Sulle manopole erano presenti tre fori. L'essere aveva capelli corti di un biondo fulvo e occhi grigi e spenti.
   - Mi sarei aspettato un Cavaliere di rango superiore, vuol dire che ti userò come riscaldamento! -, esordì con un tono ironico e sprezzante. Laurion non ne fu turbato, anzi assunse a sua volta un'espressione severa e arcigna.
   - Sarete anche degli esseri ancestrali, ma voi demoni difettate delle più basilari regole della cavalleria! -, asserì, chiudendo superbamente gli occhi.
   Il servo di Nergal fece una smorfia con la bocca e, avanzando di un passo, disse: - Non mi sono mai curato delle regole! Vincere è il mio unico obiettivo! E per raggiungere il mio scopo sono disposto a usare qualunque mezzo! Tuttavia, visto che ti interessa tanto, ti rivelerò il mio nome: sono Lugalbanda, sesto demone della terra! -
   Soddisfatto, il Cavaliere di Leo Minor si preparò ad affrontare la nuova battaglia. La strada era deserta: il clamore e la gioia delle voci che fino a poco prima avevano rallegrato quel terso giorno di giugno si erano dapprima tramutate in grida di spavento e poi si erano allontanate fino a spegnersi del tutto. Ora rimaneva soltanto lui a difendere Rodorio, e intendeva farlo in modo degno di Atena. Avvertiva i cosmi dei compagni al Grande Tempio e persino al Monte Athos ardere e innalzarsi maestosi.
   Il demone accennò un sorriso e, facendo esplodere il suo cosmo arancione, sollevò la polvere e creò una fitta coltre che coprì il campo di battaglia. Laurion si sentì soffocare e gli occhi cominciarono a lagrimare e a bruciare. Perse l'orientamento e, d'improvviso, avvertì una fitta allo stomaco e si sentì spinto all'indietro da una forza tremenda. Si ritrovò con le spalle al suolo, la vista ottenebrata dalla polvere e il ventre dolorante. Si rialzò subito e si avvolse del suo cosmo rossastro, lo fece avvampare e si liberò della polvere che lo aveva coperto. Si lanciò al contrattacco e, concentrando il cosmo nella spalla destra, gridò: - Léontos Mikroû Ékrēxis! -
   Lugalbanda sembrava impreparato all'assalto del nemico, ma, all'ultimo secondo, si avvolse di una fitta coltre di polvere e scomparve alla vista. Spiazzato, Laurion tentò di arrestare l'attacco, frenandone di colpo l'impeto, ma la spalla non ne uscì indenne: i legamenti si strapparono e un dolore lancinante invase il corpo del Cavaliere. Il Sabitta riapparve dietro di lui e, col sorriso stampato sul volto e gli occhi vacui ma pregni di una malvagità senza limiti, lo scaraventò a terra. - Sei già finito, Cavaliere? Che delusione! Speravo fossi un guerriero più capace! -, ironizzò, imprigionandolo in un feretro di polvere e terra.
   Quelle parole ferirono l'orgoglio del Cavaliere che, per un attimo, si sentì inerme e spogliato di ogni forza. Si ricordò degli amici che nel corso di quei lunghi anni aveva perso: tutti loro avevano combattuto senza mai arrendersi e avevano concluso la loro esistenza onorando gli impegni che si erano assunti. Con un grido di rabbia si liberò dalla morsa in cui era intrappolato e si rimise in piedi. Era in affanno, sporco di polvere e terriccio, ma dai suoi occhi spirava una determinazione inimmaginabile. Il demone si accorse di questa nuova energia che ardeva incessante nell'avversario e se ne compiacque: ora vedeva un vero guerriero davanti ai suoi occhi.
   - Ritiro quanto ho detto: in fondo, sei riuscito a sopravvivere all'assalto dei miei colpi! Sembra che l'esperienza ti abbia temprato, Cavaliere! -, ammise Lugalbanda, assumendo un'espressione seria e solenne.
   - Il mio nome è Laurion! Laurion di Leo Minor, demone! Non ti permetterò di torcere neppure un capello agli abitanti di questo villaggio! A costo di sacrificare la vita, giuro su Atena e su tutto ciò che la schiera dei suoi Cavalieri rappresenta che ti sconfiggerò! -, esclamò con orgoglio il discepolo di Shelyak.
   Strinse i denti e concentrò il proprio cosmo, pronto a lanciare un nuovo attacco. - Léontos Mikroû Ékrēxis! -, gridò, sferrando nuovamente la sua tecnica segreta. Lugalbanda si sentì quasi offeso nel constatare quanto le altisonanti parole dell'avversario si risolvessero in un colpo già visto e parato. Ancora una volta scomparve tra la polvere, impedendo a Laurion di condurre a termine l'assalto.
   - Che ti succede? Tutto qui quello che sai fare? Ben misera cosa sono i Cavalieri di Bronzo! Che essere inutile! -, ironizzò il Sabitta, ricomparendo alle spalle di Leo Minor, in affanno e carico di rabbia.
   - Sei troppo debole! Non riesci a destare il mio interesse! -, continuò, avvolgendosi di un cosmo arancione. Il suolo cominciò a tremare e aguzzi spuntoni di roccia rossa accerchiarono Laurion.
   - Sei un vero impiastro! Na Ud![9] -, esclamò sarcastico. Le lame di pietra si avventarono sul Cavaliere vorticando. Il guerriero, però, non era disposto a morire, almeno finché la minaccia di Nergal e dei suoi tirapiedi continuava a essere una realtà. Il rossore del suo cosmo esplose con veemenza, annientando quelle affilate armi. Si rialzò, gli occhi accesi di una vivida fiamma e, senza preavviso, si lanciò contro il nemico, bagnando i pugni di un'ardente aura cosmica. Lugalbanda lo fece avvicinare e, alla fine, con un sorriso sornione, sparì per l'ennesima volta.
   Laurion era frustrato; la spalla gli doleva e non riusciva a concludere quello scontro. Si sforzava di capire come facesse quell'essere infernale a svanire senza lasciare traccia e a ricomparire improvvisamente, ma i suoi ragionamenti sembravano non trovare soluzione. - Voi esseri umani siete degli sciocchi! -, esordì una voce alle sue spalle.
   - Pensate davvero di poter sconfiggere forze ancestrali con la sola fede in Atena? - Il Cavaliere si girò e vide Lugalbanda col volto ridente, attorniato dalle sue aguzze pietre rosse.
   - Ti darò una possibilità: se ora rinunci alla lotta e diventi mio servo, intercederò per te presso Nergal, al suo risveglio! -, propose quasi di getto, come a mostrare un barlume di misericordia nei confronti di un nemico che riteneva indegno di lottare contro di lui.
   Quella proposta disgustò Leo Minor che, oltre all'incapacità di eliminare il suo avversario, ora si vedeva addirittura dileggiato e offeso. - Mai! -, gridò a gran voce, facendo esplodere il proprio cosmo con furiosa violenza. - Ho giurato di proteggere questo mondo al fianco di Atena e non mi tirerò indietro! -, affermò con forza.
   Il Sabitta rise, divertito da quelle parole: - Non hai il potere di sconfiggere un demone di basso rango e vorresti proteggere gli altri? Sei proprio un illuso, Cavaliere! -, commentò. Seppur a malincuore, Laurion dovette ammettere che quella creatura aveva ragione: nonostante i suoi sforzi non era riuscito ad assestargli neppure un colpo. Un senso di avvilimento iniziò a pervaderlo, ma vi fece fronte, ripensando a quante situazioni difficili aveva superato in passato.
   Rialzò il capo, mentre il suo cosmo lo avvolgeva completamente. Lugalbanda si scoprì ad ammirare i patetici tentativi dell'avversario e, di nuovo, gli propose la resa: - Non essere orgoglioso! Tutti gli uomini prima o poi scendono a patti, pur di sopravvivere. Anche gli abitanti di questo villaggio, che ti ostini a difendere con tanto ardore, hanno già fatto la loro scelta! -, disse con tono subdolo e sicuro. Laurion rimase attonito, poco convinto della veridicità di quella repentina insinuazione. Tuttavia, acquetò la propria aura cosmica e pensò che quelle parole potevano riferirsi alla spia che ormai da lungo tempo tutti loro si affannavano a cercare.
   Ma perché tirare fuori quel discorso? Quale vantaggio avrebbe tratto dal rivelare l'identità della spia? Chiese: - Che cosa vorresti dire? - Il Sabitta accennò un sorriso: il pesce era caduto nella rete. Si apprestava a tessere l'ultimo inganno, quando una luce dorata scese sul campo di battaglia.
   Dal bagliore accecante emersero Vernalis e il suo discepolo. Laurion avvertì il cosmo dell'ultimo custode dorato e un senso di sconforto gli adombrò il cuore. Era stanco di dover cedere il campo ai Cavalieri di rango superiore e ora, più che mai, non aveva alcuna intenzione di farsi da parte. Si girò, il volto accigliato e fiero, e con tono quasi sprezzante esclamò: - Nobile Vernalis, tornate sui vostri passi! Questa battaglia è mia! - Il giovane Pisces non si offese, ma con la sua solita gentilezza provò a convincerlo, vedendolo provato e dolorante. Tuttavia, il tentativo non sortì l'effetto sperato: Laurion si voltò completamente, contrariato e livido. - Se volete rendervi utile, controllate che tutti siano stati evacuati! -, ribatté con una sfacciataggine che non gli era congeniale.
   Lugalbanda osservava i due paladini di Atena battibeccare e nella sua mente limò i dettagli del piano che gli era stato affidato. Aveva percepito il fallimento della missione di Lamashtu e non voleva farsi sfuggire la possibilità di metterlo in cattiva luce agli occhi del suo signore. Ingannare quel misero Cavaliere di Bronzo sarebbe stato un gioco da ragazzi, ma con uno dei dodici custodi dello Zodiaco il discorso sembrava più complicato. Ma in fondo, pensava, Urur era riuscito a penetrare nell'animo dell'avversario e a insinuarvi il dubbio, anche se lo sforzo gli era costato la vita. Un sorriso gli si dipinse sul volto e decise di eliminare Laurion e di dedicarsi a una preda più appetitosa.
   Mentre i due Cavalieri discutevano, il Sabitta levò la mano in alto e l'avvolse del suo cosmo. Sargas si avvide della mossa nemica e, lanciando un grido, corse in direzione di Lugalbanda. Laurion e Vernalis smisero di parlare. Il Cavaliere di Pisces notò qualcosa di strano nel suo discepolo: un'aura cosmica dai colori indistinti gli sfolgorò d'intorno e dalla sua mano tesa sfrecciò un raggio cremisi che trapassò il braccio del demone. Poi il bambino crollò, spossato da un immenso potere che non era in grado di gestire. Il servo di Nergal fu costretto a fermare l'attacco per il dolore straziante che quel colpo inatteso gli aveva provocato. Sentiva il braccio intorpidirsi e diventare insensibile. - Dannato ragazzino! -, sbraitò, furioso per l'affronto subito.
   Laurion guardò per un attimo il bambino che aveva appena rischiato la vita per salvarlo e gli si strinse il cuore: si stava comportando da stupido e rischiava di perdere di vista la sua missione. Si girò di nuovo verso l'avversario e, rivolto a Vernalis, disse: - Perdonate la mia arroganza, nobile Vernalis! Portate al sicuro il vostro discepolo e ringraziatelo da parte mia! Lasciate a me l'onere di questa battaglia! - Il giovane custode dorato si avvicinò al corpo immobile di Sargas e lo sollevò tra le braccia. Si voltò e si incamminò verso il centro della Sfondilica.
   Fece pochi passi, si fermò e, senza voltarsi, esclamò: - Se vuoi vincere questo scontro non usare i tuoi occhi, ma lascia che sia il cosmo a indicarti la via! -
   Sul momento, il Cavaliere non capì cosa intendesse dire il compagno, tuttavia gli era chiaro che Vernalis aveva intuito qualcosa dell'avversario che a lui era sfuggito. Fece un cenno col capo in segno di ringraziamento, mentre l'ultimo custode dorato si allontanava in silenzio. Lugalbanda era furente. Il braccio colpito da Sargas era ormai inutilizzabile e ciò avrebbe reso più difficile la conduzione della battaglia. Ciononostante, la sua missione non era ancora conclusa e aveva tutta l'intenzione di portarla a termine, sebbene si ritrovasse di nuovo ad affrontare un misero Cavaliere di Bronzo. Il Leone Minore tentò di riprendere le fila del discorso interrotto dall'arrivo di Venalis e, puntando gli occhi sul demone, domandò: - Cosa significavano quelle tue parole, scagnozzo? Hai detto che gli abitanti di questo villaggio hanno già deciso da che parte stare! -
   Il Sabitta lo guardò torvo. Poi accennò un sorriso tirato: - Noto che quantomeno sei un tipo attento! Non ti è sfuggita la mia insinuazione -, disse con voce piatta e priva di qualsiasi emozione.
   - Ebbene sia, te lo dirò! L'uomo che governa su questo villaggio ha stretto accordi con noi in cambio della vita sua e degli abitanti del posto -, continuò senza esitazione alcuna. Laurion restò di sasso, ma come poteva fidarsi della parola di un nemico? Conosceva bene Theodulos, il vecchio archēgós: era un uomo burbero e spesso detestabile, ma non avrebbe mai tradito il Grande Tempio.
   - Stai mentendo! -, ribatté il Cavaliere, - Se fosse vero, non avresti mai accusato colui che potrebbe darti informazioni preziose! -
   Lugalbanda rise con un certo sforzo: il dolore al braccio non accennava a dimi-nuire. - Abbiamo già tutte le informazioni che ci servono per vincere questa guerra, il tuo amico non ci è più di alcuna utilità! -, fu la sua risposta sprezzante.
   - Quali sarebbero queste informazioni? -, chiese il Leone Minore, sospettoso e diffidente.
   - Ora chiedi troppo! Sei libero di credermi oppure no, ciononostante il destino di voi Cavalieri e dell'intero universo ormai è segnato -, tagliò corto il demone, sicuro di aver fatto breccia nell'animo di Laurion.
***
   Intanto Vernalis aveva notato un uscio aperto e vi era entrato. Aveva adagiato il suo discepolo sul primo giaciglio che aveva trovato e stava per apporgli sulla fronte accaldata e imperlata di sudore un panno bagnato, quando, d'improvviso, il giovane Sargas si risvegliò di soprassalto, dolorante ed esausto, come se avesse sostenuto un estenuante scontro. - Non credevo ti saresti ripreso così presto -, esclamò Pisces, stupito dal rapido recupero dell'allievo.
   - Cosa mi è accaduto? -, domandò il ragazzo con un filo di voce.
   - A quanto pare, per salvare una vita, hai risvegliato il tuo cosmo -, rispose Vernalis.
   - Sul serio? -, disse l'apprendista, incredulo e allo stesso tempo felice della notizia. - Ora potrò conoscere quale sarà la mia costellazione guida, vero? -, continuò, cominciando a immaginare e a costruire quel futuro da Cavaliere che fino a poco tempo prima gli era sembrato tanto lontano. L'ultimo custode dorato gli fece cenno di sì.
   Poi Sargas si fermò a osservarlo e, di getto, gli chiese perché non fosse rimasto ad aiutare Laurion. Vernalis chiuse gli occhi e, tirando un sospiro, disse: - Quello scontro non era mio. Seppure di rango inferiore, anche i Cavalieri di Bronzo combattono per Atena. Ed è giusto che dimostrino il loro valore guerriero sul campo di battaglia. Troppo spesso l'orgoglio derivante dalla nostra posizione, spinge noi Cavalieri d'Oro a prevaricare sulle altre caste. Laurion ha bisogno di sentirsi ancora parte dell'esercito di Atena, soprattutto dopo aver perso tanti cari compagni -. Il giovane discepolo concordava, ma aveva scorto nello sguardo del maestro un velo di tristezza e non ne comprendeva il motivo.
***
   Lugalbanda scagliò contro l'avversario le pietre acuminate della sua tecnica; Laurion le respingeva coi pugni bagnati da un cosmo ardente. Tuttavia, nel suo cuore, non poteva fare a meno di pensare alle parole del demone, che avevano accusato un uomo che tutti ritenevano integerrimo. - Vuoi ancora sprecare tempo ed energie per proteggere esseri indegni e pronti al tradimento? -, lo rimbrottò il Sabitta, sparendo tra polvere e terricio.
   - Lottare per l'affrancamento dal tristo giogo della tirannia non è mai uno spreco! -, ribatté il Cavaliere di Leo Minor, concentrandosi sul proprio cosmo come gli aveva consigliato il compagno prima di andare via.
   Il Sabitta, dal segreto del suo nascondiglio, si preparava ad attaccare e a concludere quella battaglia che gli dava ben poca soddisfazione, quando, d''un tratto, Laurion si girò verso la sua posizione e gli assestò un poderoso pugno al ventre. Il demone si ritrovò con la schiena al suolo, pesto e colmo di stupore. Si rialzò di scatto, ma il Cavaliere non gli diede respiro: espanse il proprio cosmo e si lanciò contro il nemico, urlando la sua tecnica segreta. Preso alla sprovvista, Lugalbanda fu scaraventato a qualche metro di distanza, l'armatura disseminata di crepe nel punto dell'impatto.
   - Com'è possibile? -, esclamò in preda alla rabbia e allo stupore. - Finora ero riuscito a eludere facilmente i tuoi attacchi, come hai fatto a colpirmi? -, chiese col volto livido e contratto.
   - Ho seguito il consiglio di un amico -, rispose Leo Minor, preparandosi a un nuovo assalto. Lugalbanda si rialzò e tentò di celarsi di nuovo tra la polvere, convinto che il colpo assestatogli dall'avversario fosse stato il frutto di pura fortuna. Ma la sua convinzione ebbe vita breve: come accaduto poco prima, si ritrovò con la schiena a terra, indolenzito e incredulo.
   Ancora una volta si rimise in piedi; dei rivoli di sangue gli macchiavano gli angoli della bocca. Respirava a fatica e nei suoi occhi grigi, privi di vitalità, si poteva scorgere una profonda determinazione, seppure ora si trovasse in posizione di svantaggio. - Accada quel che accada, la morte oggi ti sarà compagna, Cavaliere! -, affermò con tono sprezzante e deciso.
   - Se questo è il mio fato, lo accetterò senza rimpianti, demone! Ma prima devo eliminare te! -, rispose Laurion con voce calma e ferma. - Ormai il tuo trucchetto non ha più alcun effetto. La polvere che usi in battaglia si comporta come una testuggine che sigilla il tuo cosmo, impedendo al nemico di trovarti. Ma in questa tua barriera c'è una falla: nel vorticare attorno a te, la polvere lascia piccole zone scoperte difficili da individuare. È stato grazie al consiglio di Vernalis che sono riuscito a scovarle -, aggiunse, mentre il suo cosmo lo avvolgeva completamente.
   - Sei stato abile a trasformare il consiglio di un amico in un'arma capace di eliminare il mio vantaggio; tuttavia, la battaglia non è ancora finita! Na Ud! -, rispose Lugalbanda, determinato a vincere. Le pietre aguzze della sua tecnica sfrecciarono contro il Leone Minore, pronte a ghermirne la vita. Laurion corse loro incontro e le distrusse, sotto lo sguardo contrariato del demone. Senza fermarsi,  proseguì l'assalto, deciso a porre fine a quello scontro e a verificare l'innocenza di Theodulos. Con un forte slancio si fiondò contro l'avversario. Il Sabitta si preparò a parare l'assalto, avendo già visto più volte la tecnica segreta del Cavaliere di Bronzo. Stavolta, però, Laurion aveva iniziato a girare a mezz'aria su se stesso come una cometa rossa pronta a schiantarsi.
   - Léontos Mikroû Embolé! -, gridò l'allievo di Shelyak, abbattendosi sul nemico. Il demone sentì la pressione di quella tecnica inattesa squarciargli ad un tempo l'armatura e la vita. Prima della fine, però, dai fori presenti sul coprimano sinistro sorsero tre artigli di pietra che Lugalbanda conficcò nel ventre scoperto del Cavaliere con tutta la forza che gli rimaneva.
   Laurion sentì il sangue affluirgli alla bocca, ma concentrò ancora di più il suo cosmo e con un grido tremendo vide il demone disintegrarsi in un misto di particelle e linfa bluastra. Il Cavaliere cadde a terra strisciando e lasciandosi dietro una lunga scia rossa. La stanchezza e lo straziante dolore al ventre gli impedivano qualsiasi movimento. D'un tratto avvertì la presenza di qualcuno farglisi dappresso: avrebbe voluto girarsi per capire chi fosse, dal momento che ormai il suo cosmo era al limite e non gli permetteva di riconoscere se chi si appropinquava fosse amico o nemico.
   L'uomo si inginocchiò e lo girò delicatamente: era Vernalis. Gli poggiò una mano sul ventre, tentando di curare la ferita che sgorgava copioso sangue. Laurion accennò un sorriso, poi scosse il capo. L'ultimo custode dorato comprese che il compagno sapeva di non avere speranze: la morte predetta dal demone della terra si era alla fine presentata. Laurion guardò Vernalis e, con un filo di voce, disse: - Theodulos... la spia... Theodulos... - Tossì sangue, mentre il corpo era scosso da tremiti e la fronte zuppa di sudore. Rivolse lo sguardo al cielo e, nell'azzurro di giugno, gli parve di vedere Shelyak, Jorkell e Midra sorridergli. D'istinto, sorrise di rimando, poi reclinò il capo e spirò.
   Trattenendo il dolore, Vernalis gli chiuse gli occhi, sfilò il mantello dalla propria armatura e ne coprì il corpo esanime. Il candore del tessuto si tinse di un rosso scuro. Lo sollevò tra le braccia e si incamminò verso il piazzale della prima casa. Trovò ad aspettarlo Hamal, Yeng, Zosma e Sargas, in lacrime. Entrarono nel palazzo del Montone Bianco e il Cavaliere di Pisces adagiò il cadavere su un giaciglio di pietra, senza proferire parola. Poi si voltò verso i compagni e, con lo sguardo serio, disse: - Prima di morire, Laurion mi ha fatto intendere che la spia potrebbe essere Theodulos -. La notizia lasciò sgomenti i Cavalieri, che iniziarono a guardarsi e a scambiarsi opinioni.
   - Per ora ci converrà informare il nobile Kanaad. Oggi non abbiamo perso solo Laurion: Calx è stato abbandonato dall'armatura. Ho dovuto riaccompagnarlo alla terza casa in spalla. La situazione comincia a farsi difficile -, concluse Yeng, preoccupato per quanto era avvenuto in quella giornata.
 
[1] "Via della Lisca".
[2] "Via dei Pellegrini".
[3] "Gabbia d'Acqua".
[4] "Folgore Furiosa del Leone".
[5] "Rete di Fulmini".
[6] "Assalto del Bufalo d'Oriente".
[7] "Lame della Discordia".
[8] "Danza delle Dodici Armi".
[9] "Bufera di Pietre".

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Capitolo 12
*** Una situazione difficile ***


Capitolo XII
UNA SITUAZIONE DIFFICILE
 
   Il ritorno di Alexer e dei Cavalieri di Taurus e Aquarius era stato accolto non soltanto dalla funesta notizia della morte di Laurion, ma anche dai sospetti di tradimento caduti su Theodulos e dal grave incidente occorso a Calx.
   Il mattino era limpido; dall'Egeo spirava una piacevole brezza che spargeva nell'aria il dolce profumo dei fiori variopinti che tappezzavano la collina del cimitero. Attorno alla lapide di pietra grezza di Laurion scolpita dagli artigiani di Rodorio si erano riuniti Cavalieri, soldati semplici e rappresentanti del villaggio, fra cui l'archēgós; all'appello mancava soltanto Calx. Il Sacerdote osservava uno per uno gli astanti, ma furono due le cose che attirarono la sua attenzione: il volto corrucciato di Pelag che denunciava una feroce insofferenza per l'assenza del parigrado e l'atteggiamento visibilmente commosso e dignitoso di Theodulos, in piedi accanto a una guardia.
   Il capo villaggio era un uomo robusto, di bassa statura, dai capelli ricci e grigi, baffi piccoli e ordinati, due grandi occhi nocciola e uno sguardo fiero. Sul naso affilato e dritto come una punta di freccia faceva capolino un vistoso porro che lo rendeva, ad un tempo, bizzarro e ripugnante. Aveva ormai raggiunto i sessantacinque anni e da quasi trenta deteneva il governo di Rodorio. Era una persona intransigente, il più delle volte sgarbata e priva di tatto, ma schietta e candida.
   Alexer osservava la tristezza nei volti, ma avvertiva l'indomita volontà di far trionfare il bene ardere violentemente nei loro cuori. Ciò lo rinfrancò e gli diede forza per compiere quel rito funebre che mai avrebbe voluto celebrare. Alzò la voce, così che le sue parole potessero giungere anche ai presenti più lontani, e cominciò: - Oggi diciamo addio a un uomo di valore, a un guerriero che non ha risparmiato la sua stessa vita per salvaguardare quella degli altri. Che il suo esempio sia di monito e di guida a tutti noi! Anche se la sua dipartita ci costerà dolore e lacrime, rendiamogli onore continuando a combattere con forza e decisione! - L'elogio delle gesta del defunto Cavaliere e le esortazioni a perseguire gli ideali che Atena aveva tanto a cuore furono l'oggetto del suo discorso. Mentre egli parlava, si videro molti capi annuire e occhi lucidi di pianto, mani stringersi a pugno e labbra tremare al vento in preda alla rabbia.
   Terminato il discorso, in breve tempo la collina si svuotò. Ognuno tornò alle proprie mansioni in silenzio, a capo chino, una lugubre mestizia nel cuore. Pelag era stato il primo a lasciare il cimitero e si era diretto a passo spedito verso il Grande Tempio. Alexer l'aveva visto correre di gran carriera verso l'accesso segreto alle Dodici Case e nel suo cuore aleggiò un'ombra di turbamento. Il Cavaliere di Sagittarius aveva assunto, in quegli anni, una condotta spocchiosa e altera, poco incline alla comprensione e al dialogo. Indossare l'armatura di un guerriero unanimamente riconosciuto leggendario lo aveva spinto a seguirne le orme, anche se in modo spesso ostile e fastidioso.
   Il vicario di Atena tirò un sospiro amaro e raggiunse il capo villaggio che scendeva il pendio con molta attenzione. Gli si avvicinò, e con voce affabile e cordiale disse: - Nobile Theodulos, ho urgenza di parlarvi. Vorrei che mi aspettaste al Palazzo del Sacerdote -.
   Il vecchio archēgós scosse il capo e, corrugando la fronte, rispose seccato: - Spiacente, ma non posso accontentarvi. Oggi ho troppe faccende da sbrigare, e poi sapete bene che dovete avvisarmi almeno con una settimana d'anticipo -.
   Alexer non si stupì della risposta, tuttavia gli si parò davanti, sbarrandogli il cammino, e con autorevolezza insistette: - Desolato, ma stavolta sarete costretto a rimandare i vostri impegni e a dedicarmi un po' del vostro tempo -. Theodulos storse il naso e accennò un gesto di protesta con la mano, ma si vide obbligato a obbedire. Il Sacerdote chiamò due guardie e le pregò di scortare l'archēgós fino alla tredicesima casa.
   Alexer lo vide dirigersi alle scale che conducevano alla Casa del Montone Bianco indispettito, attese che le risalisse e poi si avviò al passaggio segreto. La sua mente era affollata di pensieri e ansie, il suo cuore era sconfortato anche se il suo volto continuava a manifestare risolutezza e saldezza. In breve tempo giunse alla terza casa, ne varcò l'uscio e sentì in lontananza la voce aggressiva e collerica di Pelag che inveiva contro Calx.
   - Sei una vergogna per l'intera schiera dei Cavalieri! L'armatura ti ha abbandonato, hai deluso il tuo maestro e non ti sei neppure presentato al funerale del prode Laurion! Sei solo una nullità! Credevo saresti stato un valido e potente compagno d'arme, e invece non sei altro che un vile voltagabbana, un essere abietto che ha gettato fango sul Sommo Alexer e su tutti noi! Se fossi in te, lascerei questo sacro monte il prima possibile! -, urlava il custode delle vestigia di Himrar. Calx era seduto sul suo giaciglio: se ne stava in silenzio, il volto basso, le mani strette sulla tunica. Le parole del compagno erano aspre e spietate, forse fin troppo per il difficile dilemma che il discepolo di Alexer si trovava ad affrontare. L'impietoso giudizio di Pelag lo aveva avvilito ancora di più e il suo cuore, già lacerato dal dissidio e dalle conseguenze che esso comportava, si velò di profonda tristezza.
   Il Cavaliere di Sagittarius andò via a passo svelto, come a volersi allontanare quanto prima da un uomo marchiato dall'infamia. Alexer aveva celato il suo cosmo per poter ascoltare la discussione senza essere notato. Quando il silenzio tornò a dimorare nella terza casa, l'animo del Sacerdote era affranto: l'armonia del Grande Tempio sembrava vacillare e il comportamento altero e superbo del custode della nona casa gli aveva fatto capire che non sarebbe stato un buon candidato a succedergli. Lasciò il suo nascondiglio e lentamente si affacciò alla stanza dove si era consumato l'alterco. Vide l'allievo seduto, il volto tra le mani. Ne sondò il cosmo e scoprì un'amarezza infinita e inaccessibile. Pur provando pena per lui, il suo ruolo gli imponeva di essere freddo e distaccato.
   - Calx! -, esordì con tono piatto e autorevole. Il giovane rialzò lo sguardo e il suo volto si tinse d'un rossore acceso. Tentò di distogliere gli occhi dal suo maestro, troppo grave era l'imbarazzo che gli ardeva dentro. Il vecchio Sacerdote non ci diede peso e continuò a parlare: - Al tramonto sei convocato nella sala del trono -.
   Attese pochi istanti e poi andò via così com'era arrivato, senza alcuna parola di conforto o di biasimo. Calx, rimasto solo, si alzò, si diresse alla sala principale della casa, al cui centro vi era il basamento su cui poggiava l'armatura di Gemini. La guardò per un istante, tese la mano per richiamarla, ma essa restò immobile e tacita. Si sentiva finito: l'abisso d'incertezza che si era aperto nel suo animo era così fondo da impedire qualsiasi speranza di risalita. Uscì a prendere una boccata d'aria: le pareti della terza casa sembravano stringerlo in una morsa tale da tagliargli il respiro. Guardò il mare in lontananza, le imbarcazioni che lo solcavano piano spezzando i flutti al ritmo dei remi. La perfetta cadenza di quelle braccia che si muovevano all'unisono gli parve quasi un rimprovero. L'azzurro dei suoi occhi si bagnò di calde lacrime, mentre la brezza di giugno gli carezzava i capelli e gli gonfiava la veste.
***
   Alexer giunse al Palazzo del Sacerdote prima del capo villaggio: il passaggio segreto consentiva un arrivo più rapido alla cima del monte. Trovò Kanaad assorto nei suoi pensieri e gli si avvicinò con espressione interrogativa. Era assai inconsueto scorgere zone d'ombra nella granitica imperturbabilità del Primo Ministro. - Che hai? -, chiese il Sacerdote, distogliendolo dal groviglio delle sue riflessioni.
   Kanaad accennò un sorriso tirato, ma sul suo volto l'inquietudine era palese. - Ho retto il Santuario per soli tre giorni e guarda cos'è successo. Aveva ragione il vecchio Garlef quando mi consigliava di osservare con più attenzione l'agire dei capi! Perdonami, Alexer, ho fallito! -, disse con voce mesta e sommessa. L'antico custode delle vestigia di Virgo aveva sempre preferito combattere o addestrare nuove generazioni di Cavalieri piuttosto che occuparsi di funzioni di comando e temeva di aver deluso la fiducia accordatagli dall'amico. Il vicario di Atena lo guardò, e un moto di affetto gli addolcì il cuore.
   Gli strinse una spalla con la destra e, ritrovando un po' della sua proverbiale fermezza, rispose in tono accorato: - Ti sbagli! Ti sei comportato come un vero capo: se non avessi permesso a Zosma e a Yeng di recarsi a Rodorio a quest'ora il numero dei caduti sarebbe incalcolabile. Posso solo ringraziarti! -
   L'anziano Cavaliere fu sollevato da quelle parole, ma in cuor suo sapeva di avere molti meno meriti di quanti gliene attribuisse l'amico. Ricambiò il gesto d'affetto di Alexer e si concentrò sul processo che di lì a breve sarebbe stato allestito. - Credi che Theodulos sia colpevole? -, chiese di getto, come a voler trovare una soluzione al dubbio che gli serrava il petto da quando aveva appreso la notizia del presunto tradimento.
   - No! -, rispose secco Alexer, lasciando interdetto il suo interlocutore.
   - Che vuoi dire? -, esclamò Kanaad, non pienamente convinto da quella inattesa risposta.
   - A meno che il demone affrontato da Yeng non abbia il dono dell'ubiquità, non può essere Theodulos -, chiarì il Sacerdote. - Nel momento in cui i due stavano combattendo, il capo villaggio si occupava dell'evacuazione di Rodorio. Sono molti i testimoni che asseriscono di averlo visto -, aggiunse Alexer per rispondere allo sguardo incerto del compagno.
   - Ma allora... perché lo hai convocato? -, domandò sempre più confuso l'antico Cavaliere di Virgo.
   - È mio compito indagare su tutto ciò che accade. Anche le parole di un nemico vanno vagliate, ed è ciò che intendo fare -, dichiarò con decisione il messo di Atena.
   - Quindi istruirai un processo per verificare la veridicità di quelle accuse -, incalzò il Primo Ministro.
   - Affatto! -, rispose Alexer, spiazzandolo. Kanaad iniziava a non capirci più nulla e guardò il compagno con occhi incerti e bisognosi di spiegazioni. Il Sacerdote si avvide della perplessità del compagno e palesò il suo pensiero: - Un processo impiegherebbe troppo tempo per giungere alla verità e rischierebbe di macchiare la reputazione del Grande Tempio qualora Theodulos risultasse innocente. Per tale motivo ho deciso di convocare l'archēgós per sottoporlo alla Kósmou Anághnōsis[1] -.
   - Che cosa? La Kósmou Anághnōsis? Sei forse impazzito? -, proruppe Kanaad, ancora incredulo alle parole che aveva appena udito. - Atena ne ha proibito l'uso! Hai forse dimenticato cosa accadde ad Antipas? -, continuò quasi preso dal terrore di rivivere un'esperienza drammatica che, al sentire il nome di quella tecnica, gli si affacciava prepotente alla memoria.
***
   Nell'ultima guerra sacra, Ade aveva trovato l'uomo più puro dell'epoca in un giovane pescatore di Atene chiamato Gourias. Costui commerciava con Rodorio e aveva un fratello di nome Antipas, che per lui provava una profonda venerazione. Sotto l'influsso del dio dell'Oltretomba, Gourias iniziò a interessarsi dei Cavalieri e del Grande Tempio e ad Antipas parve alquanto strano il suo atteggiamento. Inoltre, aveva preso l'abitudine di portare al collo la stella a cinque punte che la loro madre gli aveva lasciato prima di morire. Era un monile donatole da una suora al tempo della nascita di Gourias.
   Una sera, Ade, stufo delle insistenti domande del ragazzo, gli rivelò la verità: - Io sono Ade, il Re degli Inferi, e tuo fratello ha ottenuto il privilegio di ospitare la mia anima. Se mi aiuterai a cancellare l'esistenza di Atena e dei suoi Cavalieri dalla faccia della terra, donerò a te e a tuo fratello la vita eterna! Devi scoprire quanti Cavalieri ha a disposizione Atena! -
   Sbalordito dalla rivelazione, Antipas rifletté sull'offerta che gli era stata fatta: non gli interessava di vivere in eterno, ma solo di riavere il suo amato fratello. Accettò senza troppi tentennamenti, nella speranza di tornare alla vita semplice ma felice che conducevano prima della possessione. Ogni giorno si recava a Rodorio per vendere il proprio pescato tendendo l'orecchio tutte le volte che spuntava fuori un tema riguardante il Santuario di Atena. Fu così che una mattina ascoltò due guardie parlare in maniera preoccupata dell'esiguo numero di Cavalieri presenti al Grande Tempio e del fermento per l'imminente avvento della guerra sacra.
   Il ragazzo tornò a casa baldanzoso, certo di riottenere la sua vecchia vita ora che aveva assolto al suo compito. Il figlio di Crono fu allietato dalla nuova, tuttavia disse al giovane pescatore di dover aspettare la fine della guerra per riavere indietro il fratello. Antipas restò deluso dalla risposta ricevuta, ma non si arrese, convinto che alla fine lui e suo fratello sarebbero riusciti a superare quella difficile situazione.
   Ade manifestò il proprio cosmo, trasformando la modesta casa dei due pescatori in una roccaforte e dispiegando su Atene una terribile barriera che riduceva il cosmo degli esseri viventi a un decimo della loro forza. Donò ad Antipas un bracciale formato da due serpenti intrecciati, onde preservarlo dagli effetti deleteri della barriera. Richiamò a raccolta tutti gli Specter e gli Skeleton e ordinò loro di conquistare le maggiori città greche, così da dividere le forze di Atena. In pochissimo tempo Corinto, Salonicco, Patrasso, Ioannina, Iraklion, Khania e molti altri centri caddero nelle mani dei guerrieri infernali.
   Il contrattacco di Atena non si fece attendere, ma il limitato numero di Cavalieri non permetteva di coprire nello stesso momento tutti i luoghi assediati: liberata una città si doveva passare a un'altra e ciò aveva provocato cospicue vittime. Inoltre, ricevuta la notizia dell'improvviso attacco, l'imperatore Basilio II aveva radunato tutti i reparti militari per fronteggiare il misterioso nemico. Il Sacerdote Garlef gli aveva inviato ambasciatori per tranquillizzarlo e consigliargli di non scendere in campo con le sue truppe, ma le trattative si rivelarono difficili. Un contingente salpò da Smirne per raggiungere Iraklion, ma venne attaccato e totalmente annientato dallo Specter del Basilisco. La disfatta della flotta acuì le tensioni e Garlef riuscì a stento a tenere a bada le ire dell'imperatore che minacciava dure sanzioni contro il Santuario.
   Nel frattempo, mentre le città assediate venivano liberate, si cercò un modo per penetrare la barriera posta a difesa di Atene così da affrancarla dal dominio di Ade. Atena creò talismani intrisi del suo sangue che consentivano a chi li indossava di non subire gli effetti del cosmo mortifero spirante dal baluardo difensivo del Signore degli Inferi. Furono consegnati a Waman di Aries e a due Cavalieri d'Argento, che partirono alla volta della capitale greca. In breve tempo, gli Specter minori vennero eliminati grazie al sacrificio dei due eroi che accompagnavano il possessore delle vestigia dell'Ariete. Il custode della prima casa, invece, ingaggiò una cruenta battaglia col Giudice della Viverna, riuscendo infine a prevalere e a sconfiggerlo. Poi si recò alla fortezza degli Inferi per affrontare Ade in persona, ma non lo trovò. Notò, tuttavia, un ragazzo che tentava di scappare senza farsi vedere: era Antipas. Waman gli si pose davanti e lo interrogò, ma si rese conto subito che quel giovane non avrebbe parlato. Così lo imprigionò in una gabbia di cosmo e lo portò con sé al Grande Tempio, per rimetterlo al giudizio della dea.
   Giunto al Tempio di Atena col prigioniero, Waman trovò soltanto la sua sovrana e Alexer: il Sacerdote era stato convocato d'urgenza a Bisanzio dai consiglieri dell'imperatore che non riuscivano più a farlo ragionare. Il gran numero di vittime aveva esarcerbato l'animo di Basilio, che non voleva più accettare consigli da nessuno. Atena e Alexer tentarono di interrogare il ragazzo, ma Antipas si ostinava a restare in silenzio: se avesse detto la verità, pensava, avrebbe messo a rischio la vita del suo adorato fratello. Intanto, man mano che i Cavalieri tornavano al Santuario per riferire gli avvenimenti, la figlia di Zeus cedeva sempre più allo sconforto e al dolore per le innumerevoli vite perdute. Fu così che, dopo l'ennesimo resoconto di innocenti morti anzitempo per le brame di Ade, fece convocare il giovane prigioniero e decise di sottoporlo alla Kósmou Anághnōsis. A questa sua presa di posizione erano presenti Alexer, il Sacerdote, da poco tornato dalla corte imperiale, e Kanaad, appena giunto da Mitilene: la esortarono a ponderare bene la sua scelta e a non fare passi avventati, ma Atena fu irremovibile.
   Il ragazzo venne tradotto alla sua presenza e, senza por tempo in mezzo, la dea fece avvampare il suo cosmo e sottopose il prigioniero alla terribile tecnica sotto gli sguardi preoccupati degli astanti. Atena vide l'incontro fra Antipas e il dio degli Inferi e scoprì le prossime mosse del divino zio. Quando tutto fu finito, il ragazzo fu percorso da fremiti, un copioso sudore gli bagnò le membra, il respiro divenne affannoso e, infine, svenne. Credettero tutti che sarebbe spirato di lì a qualche ora, ma dopo poco si riprese, alleviando il peso che si portavano sul cuore. Lo riportarono in cella, mentre Atena approntava un piano per sconfiggere il signore della morte.
   Kanaad partì alla volta di Cipro, dove un ultimo manipolo di Specter si era rifugiato, mentre Ade, convinto di trovare la nipote inerme e priva di protezione, apparve sulla soglia delle Dodici Case. Trovò ad attenderlo Atena con indosso la sua dorata armatura.
   Le due divinità si scontrarono alla pari, non potendo espandere il loro cosmo divino a causa della limitatezza del corpo che rivestivano. Ben presto, però, la dea della giustizia, già debilitata dalla creazione dei talismani, iniziò a cedere. Dalle ombre della casa del Montone Bianco sbucò Garlef, che lanciò contro il Signore degli Inferi gli ultimi talismani rimasti per sigillarne il cosmo. L'unico effetto che ebbero, fu quello di far volare via la stella a cinque punte che Gourias portava al collo. Ade, furioso per l'inganno subito, si adornò di una luce violacea e distrusse i manufatti. Poi puntò la spada verso il mortale che aveva osato sfidarlo e lo colpì con una violenta scarica d'energia. Atena tentò di fermarlo, ma Garlef glielo impedì disponendosi a parare il colpo. Fu tutto inutile: l'energia del dio, intrisa d'ira e di risentimento, lo sbalzò via schiantandolo esanime contro una delle colonne della prima casa.
   Eliminato l'ostacolo, puntò gli occhi su Atena, quando, attorno a lui, si aprirono numerose dimensioni. Alle spalle della dea era apparso Alexer, le lacrime al volto e forte di una risoluta aura dorata. Il corpo di Gourias, troppo debole per sostenere una così grande pressione, iniziò a soffrire atrocemente. Ade fu costretto ad abbandonarlo e a fuggire via, sparendo tra le diafane nuvole di maggio. Alexer, spossato dalla forza di quella tecnica ancora imperfetta, cessò l'attacco, ma era troppo tardi: il giovane pescatore era spirato.
   L'estenuante guerra sacra era terminata, ma si era lasciata dietro una lunga scia di sangue e di morte. Antipas venne liberato qualche giorno dopo: fu accompagnato da alcune guardie fino all'ingresso della prima casa. Discese l'ultima rampa di scale lentamente, quando un luccichio attirò la sua attenzione. Alla base delle scale, in una piccola cavità, ritrovò il medaglione di suo fratello: era finito lì durante lo scontro. Si guardò intorno furtivamente e con mano veloce lo prese e lo nascose nelle pieghe della veste. Poi accelerò il passo e fuggì da quel luogo che tanto dolore gli aveva procurato. Tornò ad Atene, alla casa che era stata requisita da Ade e che ora restava vuota e silenziosa. Riprese a uscire con la barca, ma chi lo conosceva si accorse del profondo cambiamento che aveva subito: spesso se ne restava muto tutta la giornata o si perdeva in soliloqui o ancora sembrava assente e distante. Persino di notte si svegliava di soprassalto, perseguitato dagli incubi, zuppo di sudore. Talvolta i vicini avevano cercato di soccorrerlo, ma lui aveva sempre rifiutato qualsiasi tipo di aiuto: voleva restare da solo.
   Quest'agonia non durò a lungo: meno di un mese dopo scomparve. Lo cercarono per molti giorni, coinvolgendo persino il Santuario di Atena. Alla fine lo ritrovarono in fondo al Precipizio delle Vedove, un burrone tristemente noto in passato per essere luogo d'incontro di spose che avevano perso tra quegli impervi sentieri i loro mariti. Della stella a cinque punte non si trovò traccia.
   La notizia della morte di Antipas turbò Atena, che sentiva di aver fallito il suo compito: non solo aveva permesso che tante vite venissero spente, ma anche le innocenti vittime dell'inganno di Ade erano passate a miglior vita. Il rimorso e la colpa le gravavano sul cuore. Emise un decreto che proibiva l'uso della Kósmou Anághnōsis e, poco tempo dopo, nominò Alexer nuovo Sommo Sacerdote prima di sparire fino all'avvento della prossima guerra sacra. Il primo compito dell'ex Cavaliere di Gemini era stato quello di ricucire i rapporti con l'impero, incrinatisi nel corso del conflitto.
***
   - Sta' tranquillo, Kanaad. So quello che faccio -, lo rassicurò Alexer. L'ex custode della sesta casa rimase stupito dalla calma che pervadeva il vecchio compagno nel rivangare lo spettro di antichi orrori. Tuttavia sapeva bene che Alexer era un uomo prudente e che mai avrebbe agito senza prima soppesare ogni aspetto della situazione. Smise di farsi domande e preferì stare a guardare l'evolversi della faccenda.
   Mentre i due amici scambiavano tra loro queste parole, le porte della sala si aprirono e apparvero Theodulos, madido di sudore e in affanno, e le due guardie di scorta. Giunto ai piedi del trono, l'anziano capo villaggio tirò un sospiro e con voce stanca ma stizzita esclamò: - Come si può chiedere a un vecchio di fare tutte quelle scale? Siete un uomo crudele, Sommo Alexer! Spero che almeno abbiate un motivo più che valido per avermi fatto salire fin quassù! -
   Il viso del Sacerdote si aprì in un gioviale sorriso, fece cenno a una delle due guardie di portare una sedia e, con voce accomodante, disse: - Vi chiedo perdono, nobile Theodulos, ma se il motivo non fosse stato serio non vi avrei convocato -.
   - Lo spero bene -, rispose l'archēgós, sistemandosi sullo scranno che la guardia gli aveva porto. Alexer ordinò ai due soldati di lasciare la stanza ed essi, dopo un breve inchino, si apprestarono a uscire. Quando si chiusero la porta alle spalle, il vicario di Atena discese gli scalini del trono e si avvicinò a Theodulos, attonito e confuso, facendo ardere una frazione del suo cosmo. Pose le mani sulle tempie dell'archēgós, che cadde all'istante in un profondo sonno, e iniziò a espandere lentamente la sua aura cosmica. Kanaad osservava la scena con apprensione, ma si accorse subito che il cosmo del compagno era pacato e sereno, privo di ombre e di incertezze. Una luce accecante invase la sala e Alexer si ritrovò in una sorta di dimensione parallela: era la mente del capo villaggio.
   Vide dapprima un bambino di circa dieci anni preso in giro e dileggiato da altri suoi coetanei: correva in lacrime lungo un sentiero di campagna, mentre i suoi aguzzini si divertivano a inseguirlo e a lanciargli sassi. Poi l'immagine cambiò e quel bambino era diventato ormai un adolescente innamorato di una ragazza dai lunghi capelli neri. Alexer lo vide sospirare sulla riva di un fiume in una tersa sera d'estate, una lettera tra le mani tremanti: la ragazza rifiutava le sue profferte d'amore. Il giovane Theodulos si specchiò nell'acqua e non vide un novello Narciso, bensì una ripugnante creatura a cui gli dei avevano negato la felicità. Tuttavia, una nuova scena lo presentava vestito a festa, accompagnato da una fanciulla avvolta in un abito rosso porpora. Quella felicità tanto agognata svanì di nuovo, non appena il Sacerdote osservò il capo villaggio in lacrime, seduto accanto al corpo esanime della sposa e della creatura nata dal loro amore. Ancora una volta la scena mutò e un archēgós ormai adulto veniva eletto per amministrare Rodorio. Alexer ricordava bene quel giorno: era stato proprio lui a consegnargli la fascia purpurea da appuntare sulla veste. Apparvero altri brandelli della vita di Theodulos, fino a quella mattina in cui avevano avuto l'ultimo battibecco. Poi si fece buio e la connessione fra le due menti s'interruppe.
   Alexer acquietò il suo cosmo e il bagliore che aveva investito la stanza si spense. Il Primo Ministro puntava gli occhi ora su di lui ora sul capo villaggio ancora assopito. - Ebbene? -, esclamò in preda all'agitazione.
   - Non è la spia, come immaginavo. Quel demone voleva solo ingannarci per chissà quale ragione -, rispose il vicario di Atena, risalendo gli scalini. Kanaad assunse un'espressione meditabonda, quando uno sbadiglio di Theodulos spostò di nuovo l'attenzione su di lui. L'anziano capo villaggio si stiracchiò un po' e, grattandosi la testa, si guardò intorno confuso.
   - Che mi è successo? -, chiese stupito, fissando il volto dei due uomini che aveva di fronte.
   - Abbiamo parlato dei lavori di ricostruzione di Rodorio e del resoconto dei danni causati dall'attacco, non ricordate? -, precisò Alexer. Il canuto Theodulos fece mente locale e gli riaffiorarono ricordi di una lunga discussione sostenuta col Sacerdote ed il Primo Ministro. Sorrise e, alzandosi in piedi, sistemò la fascia rossa che gli adornava il petto.
   - Certo che me ne ricordo -, rispose soddisfatto. - Ora torno alle mie occupazioni -, aggiunse, congedandosi, ma Alexer lo fermò:
   - Aspettate! Per dimostrarvi che non mi diletta il farvi salire e scendere le innumerevoli scalinate del Grande Tempio, vi farò riportare ai piedi della prima casa con la lettiga sacerdotale -. Senza perdere tempo, tirò fuori il campanello dallo scomparto del trono e richiamò le guardie, ordinando loro di riaccompagnare il capo villaggio con la vettura del Sacerdote. Esse prelevarono Theodulos, che ringraziò il messo di Atena per la sua gentilezza, e lo condussero alla sala della lettiga.
   Rimasti soli, Kanaad interrogò l'amico: - La tecnica che hai usato non era la Kósmou Anághnōsis, vero? -
   Alexer gli rivolse uno sguardo curioso e, sorridendo, rispose: - E invece era proprio la tecnica proibita, amico mio -. Il Primo Ministro non capiva: la sensazione che aveva provato nel vederla non era stata di orrore o repulsione, bensì di pace e serenità.
   - La differenza sta nella qualità del cosmo che la usa -, aggiunse l'ex Cavaliere della terza casa.
   - La qualità del cosmo? Che significa? -, chiese l'attempato compagno d'arme.  
   - Quando Atena adoperò questa tecnica su Antipas il suo cosmo era offuscato dall'angoscia e dall'incertezza. Fu per questo che ebbe quegli effetti nefasti: i sentimenti negativi di Atena andarono a ledere l'anima di quel povero ragazzo, portandolo al suicidio. Ma stavolta è stato diverso, perché il mio cosmo era privo di ombre. Quando la connessione fra la mia mente e quella di Theodulos si è interrotta l'unica cosa che gli è rimasta è stata quel falso ricordo della nostra discussione -.
   Kanaad rimase stupito dalla profonda conoscenza del compagno su quella tecnica che per lungo tempo era stata considerata pericolosa. Era stato un piccolo errore di calcolo, dettato da una situazione estremamente delicata, a spegnere la vita di un innocente. Questo non si poteva più cambiare, ormai, ma le scoperte di Alexer avrebbero dato modo alle future generazioni di adoperare con maggior cautela e consapevolezza tecniche che sarebbero potute risultare devastanti, se usate in modo inappropriato.
***
   Alla Casa dei Pesci Sargas camminava nervosamente su e giù per la sala principale, mentre il suo maestro se ne stava appoggiato a una parete con le braccia conserte e gli occhi bassi. Aveva avvertito la potente aura cosmica che si era innalzata nella sala del trono e si chiedeva cosa mai avesse spinto il Sacerdote ad adoperare il cosmo. Anche il suo giovane discepolo aveva arrestato per un attimo i suoi passi e aveva stretto le mani al petto. - È passata più di un'ora da quando Theodulos e la sua scorta mi hanno chiesto di poter passare da qui. Spero proprio che le insinuazioni di quel demone si rivelino infondate -, pensò tra sé il Cavaliere del dodicesimo segno.
   Mentre meditava su queste cose, udì una voce provenire dall'ingresso posteriore della casa. Si diresse subito sul luogo da dove si era originata quella voce, seguito dall'allievo, e vide quattro guardie trasportare il capo villaggio su una lettiga. - Nobile Vernalis -, disse una di loro, - vi chiediamo il permesso di superare la vostra casa -.
   - Accordato -, rispose il Cavaliere, spostandosi di lato e consentendo al veicolo di proseguire. Lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava e si domandava se la spossatezza che aveva letto nell'espressione dell'archēgós fosse il risultato del cosmo di Alexer.
   Poi si voltò verso il discepolo, che fissava l'uscita della casa, ed esclamò: - È ora di scoprire qual è la tua costellazione guida, Sargas. Andiamo, il Sacerdote ci aspetta! - Il giovane allievo aveva il volto teso e sentiva il cuore battere all'impazzata, ma annuì e, facendosi forza, si avviò sulle scale della tredicesima casa. Vernalis avvertiva un misto di paura e determinazione nel cosmo del ragazzo; un sorriso gli accese il volto, convinto che sarebbe divenuto un valido guerriero degno della protezione di Atena.
   Giunti sulla soglia della sala del trono, Vernalis fermò l'allievo stringendogli una mano sulla spalla. Sargas lo guardò cercando spiegazioni. - È buona norma che sia il maestro a precedere l'allievo alla presenza del Sommo Sacerdote. Sta' dietro di me! -, chiarì il Cavaliere di Pisces. Il giovane apprendista sorrise e lasciò che fosse il suo mentore a entrare per primo.
   Alexer e Kanaad li videro avvicinarsi a passo lento e inginocchiarsi di fronte al trono. - Sommo Alexer, ho condotto a voi Sargas, il mio allievo, per sottoporlo all'Exétasis[2] -, esordì il Cavaliere.
   - Quale ragione, valoroso Vernalis, ti spinge a condurlo al nostro giudizio? -, chiese il Sacerdote.
   - L'abnegazione e il valore mostrato nel corso della battaglia di Rodorio ne hanno risvegliato il cosmo. Ora spetta a voi indicargli le stelle che l'hanno eletto a loro custode -, rispose Vernalis.
   Il vicario di Atena si alzò e discese gli scalini. - Fatti avanti, giovane guerriero, e lasciami esaminare il tuo cosmo -.
   Sargas si alzò e si pose di fronte al Sacerdote con fare rispettoso, dicendo: - Eccomi, o prescelto dalla dea a guida delle sue schiere, sono pronto a sottopormi all'esame che mi indicherà di quale costellazione avrò l'onore di fregiarmi -.
   Alexer sorrise: il custode delle vestigia di Pisces aveva istruito bene il suo discepolo sul protocollo del Grande Tempio e ciò gli consigliava di tenerlo presente come futuro candidato a succedergli. Con questi pensieri nella mente, fissò il giovane Sargas e, con tono autorevole, iniziò: - Chiudi gli occhi e concentra ogni fibra del tuo essere fino a circondarti di un'aura cosmica -. Il ragazzo seguì le istruzioni fornitegli e, non senza sforzo, riuscì a far apparire attorno a sé un alone di cosmo dai riflessi ancora indistinti. Il vicario di Atena avvolse l'indice della mano destra di una tenue luce e lo poggiò sulla fronte del discepolo di Vernalis: il cosmo del ragazzo iniziò a colorarsi di tinte dorate e dietro di lui apparvero quindici stelle di cui una, al centro, brillava di un intenso rosso rubino.
   Il Sacerdote acquietò il suo cosmo, si girò, tornò verso il trono e vi si assise. Il silenzio che imperava nella sala esacerbava l'animo inquieto di Sargas che non vedeva l'ora di conoscere quale sarebbe stata la sua costellazione guida. D'un tratto Alexer ruppe gli indugi ed esclamò: - Ricordi il giorno del tuo genetliaco, Sargas? -
   Il giovane apprendista annuì e rispose: - Secondo il calendario in vigore al Santuario sono nato il venticinquesimo giorno di Pianepsione[3] -.
   Il vecchio Cavaliere di Gemini accennò un sorriso e con voce allegra disse: - Dopo quasi due secoli, sembra che il Grande Tempio tornerà ad ascoltare l'Eufonia! -.
   A quelle parole, il custode della dodicesima casa spalancò gli occhi e fece un passo avanti: - Volete dire... -, cominciò.
   - Esatto. Il tuo giovane allievo è destinato all'ultima armatura d'oro ancora priva di custode, quella di Scorpio -, concluse Alexer, anticipandolo. Sargas guardò il maestro col cuore gonfio d'orgoglio e fece un profondo inchino al Sacerdote.
   Poi con voce commossa e tremante iniziò a parlare: - Giuro solennemente che onorerò l'armatura e questo sacro luogo con la mia stessa vita, se sarà necessario -.
   - Il tuo cuore è nobile, ragazzo, ma la strada per diventare un Cavaliere d'Oro, uno dei dodici guerrieri più potenti di questo mondo, è ancora lunga e irta di difficoltà -, avvertì il vecchio Alexer.
   - So bene che il traguardo richiede grande impegno ed è fonte di molta sofferenza, ma mi sono ripromesso di aiutare i deboli e gli innocenti, pertanto non posso fallire! - ribatté l'apprendista con convinzione.
   - Sono lieto di vedere tanta determinazione. Per prima cosa dovrai imparare a muoverti e ad attaccare alla velocità della luce, e in questo potrà aiutarti il tuo maestro. Poi dovrai diventare padrone dei colpi che vado a mostrarti: solo così l'armatura ti riconoscerà come suo legittimo custode. Avvicinati! -, proseguì Alexer, invitandolo a superare gli scalini che li separavano. Sargas li risalì senza indugio alcuno e attese le indicazioni del vicario di Atena. Il Sacerdote espanse il proprio cosmo e nella mente del ragazzo apparvero le scene di una battaglia: vide un uomo rivestito da una sfavillante armatura dorata puntare l'indice destro contro un nemico avvolto da una coltre di nebbia. Osservò l'unghia trasformarsi in un pungiglione rosso e lanciare aghi di cosmo: alcuni erano scagliati singolarmente, altri in gruppo. Ne contò quindici. Poi la scena mutò e vide delle onde concentriche avvolgersi attorno a un individuo in ombra e stringerlo quasi fino a stritolarlo.
   Quando il cosmo di Alexer si placò anche le immagini nella mente di Sargas svanirono. - Queste sono le tecniche proprie dei custodi dell'ottava casa. La prima, la Kokkínē Belónē[4], si compone di quindici colpi, tanti quante sono le stelle di Scorpio, che sono volte a danneggiare il sistema nervoso e a finire l'avversario grazie alle numerose emorragie provocate. L'ultimo di essi, quello fatale, viene chiamato Antares, come la stella principale della costellazione. L'altra tecnica si chiama Periorismós[5] e serve a intrappolare il nemico in una morsa cosmica. I Cavalieri più abili sono in grado addirittura di uccidere il loro antagonista grazie all'enorme pressione esercitata. A questi colpi potrai aggiungerne altri di tua creazione e decidere se tramandarli ai posteri oppure no -, chiarì il Sommo Sacerdote, guardando dritto negli occhi il discepolo di Vernalis.
   Sargas ringraziò il messo di Atena per le sue spiegazioni e raggiunse il suo maestro. I due s'inchinarono di nuovo e, in breve tempo, guadagnarono l'uscita. Kanaad li aveva seguiti con lo sguardo e nel suo cuore gioiva nel trovare ancora speranza in un mondo che giorno per giorno sembrava sempre più attanagliato dalla violenza e dall'ambizione.
   - È un buon candidato a succedermi, non credi? -, lo interrogò Alexer, distogliendolo dalle sue riflessioni.
   - Il ragazzo, intendi? -, chiese l'antico Cavaliere di Virgo, confuso dall'improvvisa domanda del compagno.
   - Vernalis -, chiarì il Sacerdote.
   - Sì, certo. Ma come mai hai messo da parte Pelag? -, interrogò Kanaad, incuriosito da quella proposta.
   Alexer tirò un sospiro amaro e, puntando gli occhi dritto davanti a sé, rispose: - Pelag è il più vecchio tra i Cavalieri d'Oro, ma ha un'indole troppo immatura per assumersi una responsabilità tanto gravosa. Ha un'asprezza e una mancanza di empatia che pregiudicano fortemente il suo successo come Sacerdote. Chi ha troppa presunzione, anche se per fini nobili, non è adatto a un ruolo di comando -. Il vecchio custode della sesta casa comprese che il compagno aveva volontariamente omesso dei dettagli e non indagò oltre, fidandosi dell'intuito che da sempre aveva contraddistinto Alexer.
***
   Sulle scale per la dodicesima casa, Sargas, ancora incredulo e col cuore colmo di gioia, rifletteva sulle parole del Sommo Sacerdote e, ripensando a un dettaglio, si rivolse a Vernalis, che camminava accanto a lui: - Maestro, che cos'è l'Eufonia di cui parlava il Sommo Alexer? -
   Il Cavaliere di Pisces sorrise e, carezzando il capo del ragazzo, spiegò: - L'Eufonia è un fenomeno raro che si verifica solo quando tutte e dodici le armature d'oro possiedono un custode e si trovano nello stesso luogo. Si tratta di una dolce melodia che fa risuonare le vestigia dello Zodiaco celeste e le mette in comunicazione tra loro. Nessuno sa per certo se sia una manifestazione della volontà delle armature o un canto che esse elevano alla loro sovrana -. Il giovane apprendista fu sorpreso dalla spiegazione e sentì una responsabilità ancora maggiore gravargli sulle spalle. Ora conosceva chiaramente qual era il suo obiettivo e non voleva deludere le aspettative che tutti si erano create su di lui.
***
   Quel giorno sembrò scorrere lentamente. Calx era rimasto a guardare il cielo appoggiato a una delle colonne della terza casa. Quando vide approssimarsi il crepuscolo rientrò col cuore più agitato che mai: avrebbe dovuto affrontare il Sommo Alexer e sapeva bene quanto sarebbe stato difficile guardarlo negli occhi senza provare vergogna e disagio. Si cambiò d'abito. Indossò una camiciuola verde con un'apertura a triangolo munita di laccetti e calzoni dello stesso colore. Sulle spalle legò i suoi vecchi spallacci da allenamento e infilò calzari di stoffa, allacciandoli attorno al polpaccio. Quand'ebbe terminato di vestirsi sospirò profondamente socchiudendo gli occhi. Poi s'incamminò verso il passaggio segreto, imboccò la porta e iniziò a salire piano, come a voler procrastinare quel fatale incontro. Le torce disseminate lungo il percorso lasciavano ampie zone prive di luce e, di tanto in tanto, Calx si fermava appoggiandosi alle pareti fredde e aguzze. Sul pavimento delle scale levigato dal tempo e dagli innumerevoli passi s'infrangevano le lacrime del Cavaliere che tentava invano di mantenere un certo controllo sulle emozioni che gli ribollivano nell'animo.
   Giunse alla porta che immetteva nella casa di Pelag e una repentina angoscia gli strinse le membra. Per un attimo s'irrigidì, come se le forze per continuare quel terribile cammino fossero fuggite in un impeto di paura. Tirò un lungo sospiro e, pur di proseguire, fece leva sugli spuntoni di roccia disseminati lungo le pareti. Finalmente, l'uscio della tredicesima casa gli si palesò alla vista. Lo spalancò di getto, come se si fosse lasciato alle spalle l'ansia e la vergogna che aveva provate fino a un minuto prima. Ma era solo un'impressione. Non appena s'incamminò sul lungo corridoio silenzioso, il suo cuore iniziò a martellargli prepotente nel petto e le gambe a tremargli. Deglutì nervosamente quando vide le sentinelle di guardia alla sala del trono. Esse non proferirono parola, si limitarono a chinare leggermente il capo in segno di saluto e poi aprirono i battenti della porta, permettendo al Cavaliere di presentarsi al Sommo Sacerdote.
   Alexer assunse un'aria severa, mentre Kanaad mostrava un volto scuro e pensoso. Quelle espressioni gettarono definitivamente nello sconforto Calx, certo di ricevere una punizione esemplare per aver perso la protezione dell'armatura che un tempo era appartenuta al suo maestro. Il custode della terza casa s'inchinò di fronte al trono e, con voce piatta e priva di qualsivoglia slancio, esordì: - Calx di Gemini è qui per servirvi, Sommo Alexer -. A questa frase seguì un lungo silenzio che agitò ancor di più l'animo del giovane. Poi, d'un tratto, il vicario di Atena si alzò in piedi e, con un tono misto di severità e di indulgenza, cominciò a interrogare il suo vecchio discepolo: - Yeng mi ha riferito che nel corso della battaglia che stavi sostenendo ai piedi dell'Altura delle Stelle l'armatura ha smesso di proteggerti. Cos'è successo? -
   Calx annuì e, tentando di reprimere il groviglio di sentimenti e di emozioni che lo attanagliavano, rispose: - Il mio cuore è incerto: non sa più se fidarsi di Atena -. Quella rivelazione sconvolse sia il Sacerdote che il Primo Ministro: chi mai aveva potuto gettare il seme del dubbio in un cuore tanto gentile e umile quanto quello del custode della terza casa? - Il demone che stavo affrontando mi ha mostrato un volto di Atena che mai avrei immaginato esistesse -, continuò, facendo accigliare Alexer.
   - E tu presti fede ai vaneggiamenti di un nemico? -, domandò quest'ultimo con una certa veemenza nella voce.
   - Potrebbe anche aver esagerato su alcuni punti, ma le informazioni che mi ha fornito erano troppo dettagliate per essere mendaci -, ribatté il giovane discepolo con tono sicuro, anche se il suo animo era in subbuglio.
   - Doveva essere un formidabile mistificatore per riuscire a ingannare un Cavaliere. Ma dimmi, cosa ti ha raccontato per far vacillare la tua fede? -, incalzò Alexer, col cuore gravido di dolore e delusione.
   - Che Atena difende gli uomini per un unico scopo: diventare forte al punto da poter sconfiggere suo padre Zeus, verso cui prova un antico rancore per averla privata dell'amata genitrice -, spiegò il Cavaliere, guardando per la prima volta dall'inizio dell'incontro in direzione del maestro.
   - Che immane sciocchezza! -, sbottò il Sacerdote, irritato da quelle parole insinuanti e offensive. - Sia io che il Primo Ministro abbiamo avuto l'onore di conoscere Atena e possiamo garantirti che non c'è divinità più altruista e generosa di lei in tutto l'universo. Senza il suo intervento a quest'ora della nostra bella terra non rimarrebbe che un mucchio di cenere cosmica! -, proseguì, ripensando ai momenti che aveva vissuto con l'ultima reincarnazione della dea della giustizia.
   Il tono di quell'affermazione fece abbassare di nuovo il capo di Calx. - Vorrei avere la vostra stessa certezza, maestro, ma il mio cuore continua a chiedersi se tutte le guerre sostenute finora, se gli stessi Cavalieri non siano altro che strumenti inconsapevoli di un disegno più grande. È questa sensazione di essere solo un burattino nelle mani dell'ennesimo nume malevolo che si riveste di finta bontà a frenarmi. Voi mi garantite che Atena è ciò che dice di essere, ma nemmeno voi conoscete il suo vero animo -, replicò il giovane con un evidente sconforto nella voce.
   - È l'amore a contraddistinguere l'animo di Atena e ad ammantarne il cosmo. Ma non si tratta di un amore comune, bensì di un sentimento che riesce a penetrare in ogni cellula dell'esistenza e a guarire anche le ferite più profonde attraverso la speranza di un futuro migliore. Nessun uomo, per quanto forte e generoso, potrà mai ispirare una certezza tanto solida ed eterna. Solo uno sciocco penserebbe che dietro a un amore così puro si nascondano fini tanto venali -, controbatté Alexer con grande trasporto e decisione.
   Il giovane rimase senza parole e, per un attimo, si fermò a riflettere su quanto gli era stato appena detto. Tuttavia, il suo animo restava ancora fortemente legato a quel dubbio che aveva affondato radici robuste e potenti. Si levò in piedi, sospirando sommessamente. Fissò lo sguardo sul suo maestro e, con aria dimessa e stanca, disse: - Sommo Alexer, ditemi quale sarà il mio destino. Lascerò la terza casa questa sera stessa e anche il Grande Tempio, se dovrò -. Il Sacerdote chiuse gli occhi, un dolore opprimente nel petto, e tornò a sedersi.
   - Lascia pure la terza casa, ma ti concedo un anno di tempo per riconquistare l'armatura. Se non ci riuscirai, sarò costretto a bandirti dal Santuario! - Il ragazzo ascoltò con attenzione il giudizio del suo antico maestro, annuì, fece un inchino e andò via.
   La strada del ritorno verso la terza casa risultò più leggera: il peso che gli gravava sul cuore era sparito assieme all'angoscia. Gli restava soltanto una tristezza profonda e amara, una delusione pungente e livida. Rivedeva il volto del suo maestro così composto all'apparenza, ma brulicante di sentimenti contrastanti. Gli faceva male provocare tanta sofferenza all'uomo che lo aveva cresciuto come un figlio, ma non poteva farci niente. Avrebbe voluto evitare quella maledetta situazione; avrebbe preferito morire da Cavaliere piuttosto che sentirsi una nullità. Aveva un anno di tempo per riprendersi l'armatura, anche se in cuor suo sapeva che difficilmente ci sarebbe riuscito.
***
   - Perché l'hai lasciato andare via così? -, chiese Kanaad al compagno, rimasto seduto e immobile dopo l'uscita di Calx.
   - Hai sondato il suo cosmo? È in preda a una grave confusione. Ha smarrito il motivo per cui combatte; quel demone è stato molto abile a manipolarlo -, rispose il Sacerdote con voce cupa e amareggiata.
   - Lo so, ma cosa facciamo se non riuscirà a indossare l'armatura di nuovo? Senza di lui la guerra contro Nergal è perduta! -, ricordò il Primo Ministro, tentando di trovare una soluzione.
   - Ne sono consapevole -, ribatté Alexer, - ma non si può costringere qualcuno a combattere, se non vuole. Tuttavia sono certo che Calx ritroverà la sua determinazione e riuscirà a sprigionare davvero il suo cosmo divino -.
   - Lo spero -, disse l'antico Cavaliere di Virgo, sospirando senza troppe attese.
***
   Calx raggiunse la terza casa col cuore un po' più sollevato. Nell'imboccare la porta segreta udì delle voci familiari provenire dalla stanza principale. Incuriosito, avanzò fino a guadagnarne la soglia: vide Sertan, Zosma e Yeng che parlavano tra loro. - Cosa ci fate qui? -, esordì, distogliendoli dai loro discorsi.
   - Ti aspettavamo -, rispose il custode della quinta casa.
   - Com'è andato l'incontro col Sommo Alexer? -, continuò Yeng, arrivando subito al nocciolo della questione.
   - Meglio di quanto sperassi -, disse il giovane Gemini. - Dovrò lasciare la terza casa, ma mi è stato concesso un anno di tempo per tentare di riottenere l'armatura -, proseguì con tono quasi sereno. Quelle parole turbarono i presenti, poco propensi a lasciare andare via uno di loro.
   - Si può sapere cosa ti ha fatto quel demone? -, proruppe Sertan, fissando il parigrado.
   - Forse mi ha aperto gli occhi -, rispose Calx, accennando un sorriso e distogliendo lo sguardo.
   - Che sciocchezza! -, esclamò il custode delle vestigia di Cancer.
   - Vorresti dirmi che sono bastate le parole di un nemico qualsiasi per abbattere la tua determinazione e gettarti nel dubbio? -, obiettò Zosma, avvicinandosi al compagno.
   Sentendosi alle strette, Calx fece qualche passo avanti e, di spalle, cercò di concludere quella discussione che lo riempiva di amarezza. Non voleva ferire nessuno, men che meno i suoi amici, ma aveva bisogno di stare da solo e di riflettere senza doversi giustificare con tutti quelli che incontrava.
   - Mi dispiace, amici, di non essere stato all'altezza delle vostre aspettative e di quelle del Sacerdote, ma ora vi prego di tornare alle vostre case. Si sta facendo tardi e se voglio raccogliere le mie cose e raggiungere mia madre devo sbrigarmi -, tagliò corto, dirigendosi verso la stanza in cui era solito riposare. Zosma tentò di seguirlo, ma Sertan lo trattenne sconsigliandogli di continuare quella discussione. I tre uscirono dalla terza casa delusi e addolorati, ma speravano fortemente che il compagno riuscisse a superare quella condizione d'incertezza.
   Il cuore di Calx era lacerato dal dolore e dall'afflizione. Fece i bagagli in poco tempo, non aveva molto da portare con sé. Guardò un'ultima volta quella casa che lo aveva ospitato per un po' e l'armatura che aveva indossato fino al giorno prima. Tentò ancora una volta di richiamarla facendo avvampare il suo cosmo, ma lo sforzo non ebbe alcun esito. Uscì da quel luogo in tutta fretta e, in breve tempo, si ritrovò ai piedi delle dodici case. Puntò dritto all'alloggio di sua madre, a poca distanza dalla zona sacra. Irene fu felice e attonita di vedere il figlio che portava sulle spalle un fagotto legato a un'asticella. Cercò spiegazioni, ma il ragazzo le rimandò al mattino seguente, adducendo di essere stanco e di voler andare a letto. La donna lo assecondò e preparò frettolosamente l'antico giaciglio su cui Calx aveva dormito fino al giorno in cui aveva iniziato l'addestramento. Il giovane ringraziò la madre e vi si accomodò, tentando di rilassare la mente e di mettere da parte gli innumerevoli pensieri che lo assillavano.
***
   A Rodorio, Lamashtu se ne stava seduto a godersi la fresca brezza che penetrava dalle fessure della finestra e a escogitare un modo per poter sfruttare la simpatia che il Cavaliere di Gemini aveva mostrato per Eyra. - Cosa fai? Dormi? -, esclamò la voce profonda di Kharax.
   Il demone si voltò, non lo aveva sentito né bussare né entrare. - Riflettevo -, disse seccamente.
   - Sui tuoi fallimenti? -, ironizzò sarcastico l'ex paladino di Atena.
   - Se non fosse stato per l'intervento di Libra, a quest'ora sarei una delle guardie delle dodici case -, si difese il servo di Nergal, smorzando l'ironia del compagno.
   - E di Theodulos che mi dici? Mi pare che occupi ancora il suo posto -, chiese con tono cupo e sprezzante Kharax.
   - Non credo ci sarà un processo. Il Sacerdote l'ha trattenuto alla Sala del Trono per più di un'ora e poi l'ha lasciato andare -, spiegò Lamashtu, alzandosi e prendendo un fiasco di vino rosso dalla dispensa.
   - Dovevo immaginarlo! Quel dannato Alexer ha sempre un asso nella manica! -, sbottò l'ex Cavaliere dando un pugno sul tavolo.
   - Tuttavia, il Cavaliere di Gemini è stato messo fuori gioco da Urur. D'ora in poi non sarà più un problema -, annunciò il demone d'Irkalla. Kharax sorrise e afferrò il fiasco di vino, ne strappò il turacciolo e ne tracannò un lungo sorso.
   - Finalmente una buona notizia! Ma siamo sicuri che non si riprenderà? -, disse, pulendosi le labbra col dorso della mano.
   - Ho già un piano per allontanarlo definitivamente dal Grande Tempio -, insinuò Lamashtu, destando la curiosità del suo interlocutore.
   - E quale sarebbe? -, domandò l'antico custode delle vestigia di Crater mentre prendeva un altro sorso di vino.
   - Eyra! -, rispose con un sorriso sornione sul volto. Kharax non colse l'allusione fatta dal socio e Lamashtu fu costretto a spiegargli in dettaglio cosa aveva in mente: - Sembra che il nostro Cavaliere di Gemini provi una certa simpatia per la tua protetta. Se convincessimo Eyra a farselo amico, magari il legame che potrebbe nascere fra loro lo distoglierebbe totalmente dai suoi obblighi nei confronti del Santuario -.
   Kharax ponderò per qualche minuto quella proposta e, alla fine, il suo sguardo s'illuminò di una luce sinistra: - Sì, potrebbe funzionare -. Con uno scatto si portò sulla soglia del magazzino dove dormiva la ragazza e la chiamò. Eyra aprì gli occhi e si alzò dirigendosi verso il suo salvatore. Kharax le spiegò con calma ciò che doveva fare, ma la fanciulla sembrava restia ad accettare un incarico tanto gravoso: dopo la terribile esperienza vissuta con suo zio, l'idea di avvicinarsi a un uomo, magari per farlo innamorare, la ripugnava non poco. Tuttavia, dopo tanta insistenza, accettò: in fondo, pensava, era stato Kharax a liberarla dalle disgustose attenzioni di Makarios e doveva pur ripagarlo in qualche modo.
   Il demone del fuoco e l'ex Cavaliere furono lieti della collaborazione della ragazza. - Ora bisognerà eliminare dal gioco anche il Cavaliere di Pisces, l'altra potenziale minaccia per il Sommo Nergal -, disse Lamashtu.
   - Forse un modo c'è! Parlerò con Sorush, ma prima è necessario scatenare contro il Santuario un altro nemico -, propose Kharax. Il Sabitta si accigliò e chiese spiegazioni, ma l'antico traditore gli rivolse uno sguardo beffardo e rispose: - A tempo debito lo scoprirai! -
 
[1] "Lettura del Cosmo".
[2] "Ricerca".
[3] "Il 10 novembre".
[4] "Cuspide Scarlatta".
[5] "Onde di Scorpio".

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Capitolo 13
*** Alleanze ***


Capitolo XIII
ALLEANZE
  
   Sorush era completamente immerso nella lettura del grosso volume che custodiva gelosamente. - Hai sempre gli occhi puntati su quelle storielle? -, lo schernì Kharax, apparendo dal nulla con in mano il Prisma d'Ambra.
   - In questo volume è racchiusa l'unica testimonianza del glorioso passato della civiltà di Sumer, non storielle! -, sbottò il Sacerdote, distogliendo lo sguardo dalla lettura.
   - Come preferisci -, ribatté l'ex Cavaliere, già stufo di quella sterile e inconcludente discussione. - Ho una proposta da farti -, esclamò d'improvviso, cambiando discorso.
   Sorush lo guardò con occhi curiosi e, incrociando le braccia al petto, disse: - Sentiamo! -.
   - Voglio chiedere udienza ad Alp Arslan, il nuovo sultano turco. Sembra sia risentito per la morte di suo zio e provi una forte avversione nei confronti del Grande Tempio. Ho intenzione di alimentare questo suo odio e di scatenarlo contro Alexer e i suoi tirapiedi -, propose Kharax con un sorriso sornione a illuminargli il volto.
   Erano passati ormai tre mesi dalla morte di Toghrul Beg e le voci che denunciavano il Sommo Alexer come colpevole di quel trapasso si erano moltiplicate nel territorio retto dal sultano. Tutto ciò aveva esacerbato l'animo di suo nipote che intendeva vendicare non solo la memoria di suo zio, ma anche dare prova della propria autorità e del proprio diritto a essere sultano.
   - E perché lo dici a me? Per quanto mi riguarda puoi fomentare tutti i conflitti che vuoi, non hai bisogno del mio permesso -, rispose sorpreso l'ultimo ministro di Nergal.
   - Ma dei tuoi demoni sì -, affermò beffardo il traditore.
   - Ora capisco -, replicò Sorush, accennando un sorriso. - Quanti te ne necessitano? -, chiese poi, alzandosi e chiudendo il libro.
   - Almeno tre -, precisò Kharax, - ma uno deve essere in grado di mettere fuori gioco per lungo tempo un Cavaliere d'Oro -, aggiunse.
   Il Sacerdote rifletté per un attimo, soppesando le inusuali richieste dell'alleato, e, dopo attenta considerazione, annuì. Chiuse gli occhi e, avvicinandosi allo scigno, iniziò a recitare le solite formule con cui evocava i demoni. Tre luci si sprigionarono dalle pietre preziose che lo adornavano e diedero forma ad altrettante figure.
   - Atab, terzo demone della luce, è al vostro servizio -, esclamò il primo demone dalla corazza bianca e blu, inginocchiandosi davanti al Sacerdote.
   - Kuda, sesto demone del fuoco, è ai vostri ordini -, si presentò il secondo dall'armatura verde e marrone e dal fisico possente.
   - Sarabda, primo demone dell'acqua, è pronto a servirvi -, disse la voce melliflua e suadente del terzo demone, vestito di un'armatura dalle tinte celesti e turchesi.
   Fu su quest'ultimo che lo sguardo di Sorush indugiò più a lungo. Kharax si avvide dell'espressione soddisfatta e orgogliosa del socio e capì che sarebbe stato quello il demone che gli avrebbe garantito l'eliminazione dalla scacchiera di un altro pezzo importante.
   - Eccoti accontentato -, disse poi il Sacerdote, fissando lo sguardo sul suo compare.
   - Molto bene -, sussurrò compiaciuto l'ex Cavaliere, progettando nella sua mente le prossime mosse. - Mettiamoci all'opera -, soggiunse, sfregandosi le mani e accennando un sorriso fiero. Sollevando la destra in cui stringeva il Prisma d'Ambra sparì seguito dai tre Sabitti.
   Sorush si rimise a sedere, il volto raggiante e il cuore fremente. - Gioca quanto ti pare, Kharax, ma ben presto anche tu dovrai chinarti all'immortale possanza del signore d'Irkalla -, pensò tra sé, riaprendo il libro e indugiando su un disegno che rappresentava una sorta di scettro. - Presto gli Ane Huluk[1] saranno riuniti e la rinascita del mio Signore potrà essere avviata -, proseguì, accarezzando quella pagina con occhi sognanti.
***
   A Rodorio, il giorno successivo alla discussione tenuta con Kharax, Eyra si era subito messa in moto. Aveva tentato d'incontrare il Cavaliere di Gemini con ogni mezzo, ma non ci era riuscita. E così era stato per quasi una settimana. La frustrazione, alla fine, aveva cominciato a suscitare un profondo malessere nella fanciulla: aveva accettato quello sciagurato compito solo per una sorta di gratitudine nei confronti di quelli che riteneva essere i suoi salvatori. Si era quasi arresa quando, all'improvviso, lo intravide seduto davanti a una delle case dei soldati semplici, ben lontano dalla zona delle Dodici Case e dal territorio sacro del Santuario. Fu sollevata da quel ritrovamento: poteva mettere in atto la sua missione, che tanto le costava, e non deludere le aspettative dei suoi benefattori. Prima di qualunque azione, però, si era informata dai vicini, a cui consegnava il pane ogni mattina, su chi abitasse quella casa e, soprattutto, se anche Calx vi dimorasse abitualmente. Saputo quanto le serviva, si era decisa finalmente a fare il primo passo. Tre giorni dopo, fingendo di passare casualmente da quelle parti, vide il giovane Cavaliere spaccare legna e tentò un primo approccio: si era fermata e l'aveva salutato, ma Calx sembrava alquanto infastidito da quell'incontro e, senza rispondere al saluto, era rientrato in casa. Eyra era rimasta offesa da quella reazione e, in preda all'ira, aveva lasciato quel luogo a passo spedito. Mai avrebbe immaginato che quel ragazzo, fino a poco prima gentile e introverso, la trattasse in maniera tanto inelegante.
   Per il Cavaliere di Gemini i giorni successivi al suo allontanamento dal Santuario erano stati terribili: il rammarico e la vergogna nei confronti dei suoi compagni e del suo maestro, le insistenti domande di sua madre, che chiedeva spiegazioni ogni momento, e i dubbi che continuavano a lacerargli l'anima e la mente iniziavano a pesare sul suo cuore come un enorme macigno. La vista di Eyra, la ragazza per cui aveva provato uno strano e inusuale sentimento, gli era sembrata troppo da sopportare e per questo aveva evitato di attaccare bottone. Voleva restare solo, ma più lo desiderava, più sembrava che gli girasse intorno una folla sempre più folta. La sua vita era diventata, d'un tratto, asfissiante e prigioniera; prigioniera dei dubbi e delle domande, delle incertezze e della confusione; asfissiante perché chi gli stava attorno non cercava altro che spiegazioni che lui non aveva.
   In quei giorni era venuto a trovarlo spesso Zosma, che aveva tentato di farlo ragionare su quanto avvenuto e di incoraggiarlo per il futuro. - Può capitare a tutti un momento d'indecisione -, gli ripeteva, ma Calx, pur apprezzando sinceramente le parole accorate dell'amico, sapeva bene che i suoi dubbi avevano radici profonde e difficili da svellere. Il Cavaliere di Leo aveva compreso che il dilemma dell'amico non era di facile soluzione, tuttavia, da uomo tenace, continuava di tanto in tanto a esortarlo e a fargli forza, spesso coadiuvato anche da Sertan e talvolta da Yeng. Il giovane era grato dell'amicizia dimostratagli dai suoi compagni, ma vedere tanta apprensione non ricevere il giusto risultato lo affliggeva non poco.
   Eyra era tornata a casa sconfitta. Aveva gettato in un angolo la cesta delle consegne e si era rintanata nel suo cantuccio. Lamashtu, che mai l'aveva vista tanto scossa dalla morte di Makarios, andò a parlarle. - Cos'è successo? -, le chiese con noncuranza. - Niente -, rispose indispettita la ragazza. - I tuoi piani col Cavaliere non hanno funzionato come avresti voluto? -, insinuò il primo demone del fuoco, intuendo il motivo del malumore di Eyra.
   - Ero riuscita a trovarlo dopo lungo tempo e lui non mi ha degnata neppure di uno sguardo! Come faccio a portare a termine la mia missione se non riesco nemmeno ad avvicinarlo? -, proruppe la fanciulla, in preda a uno sfogo istintivo.
   - Nessuno ha detto che il tuo era un compito semplice. Devi imparare ad attendere il momento giusto e a sfruttare le occasioni, se vuoi riuscire nel tuo intento! Abbi pazienza e vedrai che raggiungerai il tuo obiettivo -, spiegò il Sabitta. Eyra fu rincuorata da quelle parole e prese la risoluzione di non desistere più alla prima difficoltà. Il giorno dopo si era recata di nuovo nella zona dove abitavano i soldati, pronta a compiere l'onere che si era assunta.
   Tuttavia, la situazione non cambiò: anche stavolta, non appena la vide di lontano, Calx rincasò senza lasciarle il tempo di rivolgergli parola alcuna. Questo stallo durò quasi un mese, nonostante Eyra si ingegnasse qualsiasi cosa pur di creare un'occasione di approccio. Il giovane Gemini provava un certo rimorso a trattarla con tanta freddezza e distanza, soprattutto perché il suo cuore sembrava sempre più attratto da quella indisponente fanciulla. Era ormai sicuro di non poter continuare a evitare il mondo e a isolarsi, doveva reagire. Per prima cosa spense le insistenze di Irene che, dal giorno in cui se l'era ritrovato in casa, non aveva mai smesso di chiedere chiarimenti. Una sera si sedettero a tavola e il discepolo di Alexer le spiegò in dettaglio quanto era accaduto. Irene provò grande angoscia per il figlio, ma, dentro di sé, fu grata che il suo unico rampollo potesse vivere una vita normale e lontana dai pericoli.
   La mattina seguente attese l'arrivo di Eyra sull'uscio di casa. La ragazza passò puntuale, la cesta in mano, e, come suo solito, lo salutò. Convinta di essere ignorata anche questa volta, fece per proseguire, ma il condottiero di Atena le corse incontro e iniziò a parlarle: - Perdonami se in questo periodo sono stato scontroso e sgradevole, ma il mio cuore era sconvolto da mille moti contrastanti -. Eyra fu sorpresa da quella confessione tanto schietta quanto inattesa.
   - Non preoccuparti -, rispose con tono sereno, - avevo intuito che qualcosa ti turbava -. Stavolta fu Calx a restare di sasso: la prima volta che si erano incontrati l'atteggiamento di quella ragazza si era rivelato altezzoso e provocatorio, ma ora sembrava aver acquisito il carattere docile e premuroso delle donne di Rodorio. Fu una scoperta che gettò nel suo cuore i semi di un affetto sconosciuto. - Il mio nome è Eyra! -, esclamò d'un tratto la fanciulla dai capelli corvini.
   Il Cavaliere fu colpito da un attimo di confusione, ma Eyra lo riportò coi piedi per terra: - Non volevi conoscere il mio nome? Hai insistito tanto perché te lo rivelassi e ora te ne resti lì imbambolato? - Calx accennò un sorriso, il primo dopo lunghi giorni, e si scusò per non aver capito. - Bene, devo andare, adesso. Mio zio sarà in pensiero.   Ma ci rivedremo presto -, concluse la ragazza, infilando la cesta sotto il braccio e illuminando il volto di un candido sorriso. Un rossore intenso tinse le guance di Calx, che abbassò gli occhi e annuì.
   Qualche giorno dopo bussò alla sua porta Zosma, in una delle sue visite ormai abituali, e lo trovò alquanto cambiato: non presentava più il volto cupo e perennemente malinconico, l'atteggiamento privo di slanci e di stimoli, l'insofferenza verso ogni forma di comunicazione; e ne fu lieto. Si accomodò, seguito da Calx.
   - Vedo che finalmente ti sei ripreso! -, affermò con gioia e col cuore colmo di speranza.
   Calx indossò un sorriso amaro e, prima che l'amico si facesse inutili illusioni, gli spiegò i motivi del suo cambiamento: - Sì, il mio cuore ha placato un po' il suo affanno, ma non per ciò che credi tu -, esordì. Il Cavaliere di Leo aggrottò i sopraccigli: quelle parole non promettevano nulla di buono.
   Tuttavia, lo lasciò proseguire. - Ho compreso che forse il mio posto non è fra le schiere di Atena. Come Cavaliere sono stato un fallimento, ho deluso tutti voi ed è un'onta che non potrò lavare mai; ma come uomo posso ancora adoperare le mie capacità per aiutare il prossimo, anche senza appartenere a un esercito -, continuò secco Calx, evitando qualsiasi tentativo di rendere meno dolorosa quella scelta.
   Il custode della quinta casa deglutì nervosamente e scosse il capo. - Non puoi fare sul serio, Calx! Tu sei il migliore fra i Cavalieri d'Oro di questa generazione e non puoi abbandonarci all'avvento di una nuova guerra sacra! -, disse, tentando di farlo ragionare. Calx abbassò gli occhi, fissando le mani che presentavano le prime callosità dovute al lavoro manuale.
   - Non si può essere Cavaliere senza aver fiducia in Atena, e io l'ho perduta! -, esclamò a voce bassa, come colto da un moto di vergogna.
   - Se non fosse per l'intervento di Atena questo mondo non esisterebbe più da un pezzo. Perché non lo capisci? -, proruppe con una certa veemenza Zosma.
   - Ci siamo sempre basati sui racconti degli altri, ma ti sei mai domandato se siano veri o falsi? Ci hanno insegnato ad accettarli come fatti certi, indiscutibili; e se la realtà fosse ben diversa? Te la sentiresti di essere complice di qualcuno che finge di essere dalla parte degli uomini solo per raggiungere uno scopo personale? -, gli chiese il discepolo di Alexer, palesando fino in fondo il suo pensiero.
   - Vorresti farmi credere che Atena finge di proteggere l'umanità? Che sciocchezza! Io ho visto cos'è l'uomo e quanto sia irrispettoso sia verso gli dei che verso i suoi simili. Quale nume sarebbe così folle da tenere in vita creature tanto infide e volubili se non avesse fiducia nelle loro potenzialità? Lo farebbe in vista di uno scopo che potrebbe anche non realizzarsi mai? Non crederò mai a una simile ipotesi! -, affermò con forza il custode delle vestigia di Leo.
   - Sono contento che la tua fede sia così incrollabile, amico mio! Ma i miei giorni da Cavaliere sono finiti -, concluse Calx, poggiando una mano sulla spalla del compagno e alzandosi all'impiedi.
   Deluso, Zosma si levò a sua volta e fece un ultimo tentativo prima di andarsene: - Non essere precipitoso! Ti separano ancora molti mesi dalla scadenza fissata da Alexer! Se alla fine sceglierai un'altra strada, ti appoggerò, ma devi continuare a provare fino all'ultimo giorno! - Mentre parlava i suoi occhi si velarono di lacrime. Il giovane Gemini provò un dolore greve nel percepire l'apprensione del compagno. Gli promise che avrebbe tentato e lo osservò percorrere il sentiero che lo riportava alle Dodici Case.
   - Perdonami, amico mio, se ti ho arrecato dolore -, disse fra sé nel serrare l'uscio.
   Il Cavaliere tornò alle Dodici Case a capo chino. Superò le prime due case ma, giunto all'ingresso della terza, avvertì un cosmo a un tempo triste e risoluto. Lo riconobbe subito. - Cosa vi porta nella terza casa, Sommo Alexer? -, esclamò, percorrendo il corridoio fino alla sala principale. L'anziano vicario di Atena se ne stava in piedi davanti al totem dell'armatura del terzo segno, le braccia conserte al petto e l'aria stanca.
   - I ricordi, prode Zosma. Hai di nuovo fatto visita al tuo compagno? -, rispose con voce atona e distante.
   - Sì -, confermò Zosma.
   - Hai buone nuove? -, chiese Alexer senza voltarsi.
   - Purtroppo no -, confessò il Cavaliere, denunciando una forte delusione nella voce.
   - Lo immaginavo -, commentò il Sacerdote, sfiorando con le dita i volti sull'elmo dell'armatura. - Tuttavia, ho fiducia che prima o poi si renderà conto di qual è il suo ruolo nella storia -, aggiunse enigmatico. Zosma rifletté su quelle parole: aveva l'impressione che l'antico Cavaliere sapesse più di quanto lasciasse trasparire e ciò lo spinse a osare qualche domanda.
   - Voi siete il Sacerdote e nulla vi sfugge, perché non avete insistito con Calx? Perché l'avete lasciato andare senza battere ciglio? -
   Alexer si volse a guardarlo e, corrugando la fronte, gli si avvicinò: - Nessun uomo, neppure il più potente, può combattere sotto costrizione. Si diventa Cavalieri per scelta e per fiducia, non perché qualcuno lo comanda. Finché Calx non capirà che i suoi dubbi sono privi di fondamento e non sceglierà di abbracciare di nuovo un ideale di giustizia, qualsiasi tentativo risulterà vano -, affermò con autorevolezza.
   Il custode della quinta casa strinse i pugni e, preso da un impeto di rabbia, inveì contro di lui: - Siete sempre stato un uomo equo e pronto ad aiutare, perché non gli avete spiegato la verità? Perché non lo avete convinto? Eppure era il vostro discepolo, l'erede della vostra armatura! -
   - Tu non sai di cosa parli! Credi che un Sacerdote possa operare miracoli solo per il ruolo che ricopre? Ci ho provato, ma ho fallito, proprio come te! -, ribatté Alexer, riportando nei ranghi il giovane leone.
   - Tutti vorremmo che Calx continuasse a presiedere questa casa, ma forse è ancora troppo immaturo per acquisire la lucidità e la freddezza di un guerriero. Questa sua scelta potrebbe essergli utile per crescere o per allontanarlo definitivamente dal Grande Tempio. Nessuno di noi può cambiare le cose, al momento -, concluse, dando le spalle al Cavaliere e dirigendosi verso l'uscita posteriore.
   Zosma si sentiva mortificato per aver aggredito a quel modo il Sommo Alexer, ma il vincolo d'amicizia che aveva costruito con Calx in quegli anni era troppo importante per lasciarlo dissipare. Attese a lungo prima di andare via da quel luogo. Sentiva un profondo sconforto e un impellente bisogno di sfogare la sua ira. Si diresse verso il passaggio segreto, ridiscese alla base delle Dodici Case e, in un lampo di luce, raggiunse Sifno, un'isoletta a sud-est di Atene, dove cominciò a tirare pugni agli alberi e a lanciare scariche di cosmo contro massi e cespugli.
   Dalle sue stanze, il Sacerdote percepì il cosmo inquieto del giovane e si affacciò alla terrazza. - L'amicizia è un sentimento superbo, in grado di colmare anche distanze insormontabili. Forse tu riuscirai più di me nel proposito di riportare Calx fra di noi, a fargli ritrovare quella fede che sembra aver smarrito -, pensò, alzando lo sguardo verso il cielo arrossato dal tramonto.
   Nei giorni seguenti Eyra e Calx si incontrarono spesso. Il giovane allievo del Sacerdote era incuriosito dal repentino cambio di fronte della ragazza e, nel momento in cui entrarono più in confidenza, le palesò questa sua perplessità.
   Eyra abbassò il capo e, con un sospiro languido, chiarì il suo nuovo atteggiamento: - È stato mio zio a mostrarmi l'errore che avevo commesso. Quel giorno ci vide dalla finestra e notò la mia espressione altezzosa e poco incline al dialogo. Non appena rientrai mi rimproverò aspramente, spiegandomi il rispetto e la cordialità con cui si devono onorare i Cavalieri di Atena, che vivono per difenderci dalle minacce degli dei malvagi -.
   Calx assorbì quelle semplici parole e accantonò per sempre le sue innumerevoli domande. Sorrise e la osservò con un certo interesse: gli occhi grandi e penetranti color nocciola, il naso piccolo e lineare, i lunghi capelli corvini accarezzati dal vento suscitavano in lui sensazioni contrastanti. Avrebbe voluto abbracciarla, ma il pudore gli vietava categoricamente di farlo; avrebbe voluto restare ad ascoltare il suono della sua voce, caldo e armonioso, tutto il giorno, ma non poteva trattenerla dai suoi impegni.   Ciò che provava ogni volta che la vedeva era indescrivibile: il suo cuore sembrava impazzito, le sue mani si ricoprivano di sudore e il candore del suo volto si tingeva di un lieve rossore. Eyra aveva capito che il ragazzo cominciava ad affezionarsi a lei, e faceva in modo che quel sentimento crescesse sempre di più. Maggiore sarebbe stato l'interesse per lei, minore la volontà di riprendere le armi.
   Ogni sera, quando rincasava, Lamashtu si informava sulla progressione di quella relazione che avrebbe potuto invertire le sorti della guerra. Anche Kharax veniva messo a parte dell'evoluzione di quel piano e si compiaceva di come la presunta unità del Grande Tempio cominciasse a sgretolarsi. Ora, però, il suo obiettivo principe era scatenare contro Alexer e i suoi paladini un nemico che non avrebbero potuto combattere: qualora il sultano turco avesse accettato la sua proposta e avesse deciso di sferrare un attacco al Santuario, pensava, i Cavalieri avrebbero potuto soltanto tentare di difendersi, ma non contrattaccare, perché le leggi di Atena proibivano qualsiasi azione violenta nei confronti dei comuni mortali.
   Dopo la fine del consesso tenutosi sul Monte Athos avrebbe voluto avvicinare Toghrul Beg e illustrargli il suo disegno, ma il viaggio dell'anziano delegato del califfo lo aveva affaticato troppo e la via del ritorno aveva richiesto più tempo del dovuto: poiché le condizioni del sultano, ormai anziano, peggioravano, il comandante della scorta che lo aveva accompagnato alla riunione, un certo Asuman, decise di fermarsi a Rey, in Persia, per fargli prestare le prime cure. Inviò anche un messaggio ad Arslan, che attendeva con trepidazione l'arrivo di suo zio. I medici della città tentarono in tutti i modi di guarire il vecchio sultano, ma fu tutto inutile: la sera del 4 settembre, un giovedì, Toghrul Beg era spirato tra le braccia del nipote, accorso non appena gli era giunto il messaggio inviato da Asuman. Vista la situazione, Kharax aveva atteso che il sultano si riprendesse o che venisse sostituito. Quando la nuova della morte di Toghrul Beg si diffuse, l'ex Cavaliere iniziò a muoversi: sondò gli umori del popolo sulla figura di Arslan e cercò di capire quali fossero le idee e le posizioni politiche del nuovo sultano per poter avviare una fruttuosa negoziazione.
***
   Quando tutto fu pronto, Kharax, seguito dai tre demoni richiamati da Sorush, partì alla volta di Samarra, dove Arslan aveva stabilito la sua residenza. I quattro, avvolti in mantelli neri, camminavano lungo il corso orientale del Tigri. La pioggia e il freddo dell'inverno erano giunti, stranamente, anche in quei luoghi baciati dal sole: era la metà di dicembre e le quattro figure si riparavano all'ombra dei radi alberi ancora in vita.
   - Ehi, Lulul, si può sapere dove ci stai portando? -, sibilò la voce infastidita e sprezzante di Sarabda.
   - Fra poco lo scoprirai! E poi non mi chiamo Lulul! -, rispose stizzito l'ex Cavaliere.
   Il primo demone dell'acqua rise e con tono compiaciuto spiegò: - Nell'antica lingua di Sumer la parola 'lulul' significa 'traditore', un titolo che ti si addice, non credi? -
   Kharax si voltò di scatto, arrestando il passo. - Conserva il tuo sarcasmo per la missione che devi svolgere e chiudi il becco! -, sbottò seccamente, riprendendo il cammino seguito da Atab e Kuda.
   - Come preferisci, Lulul -, ironizzò il demone, dando un'occhiata divertita ai suoi due compagni e proseguendo a passo lento. Si godeva la pioggia e pensava al compito di cui gli aveva parlato l'ex paladino della giustizia. Non vedeva l'ora di dimostrare la sua forza e le sue capacità: sapeva bene che il suo potere era in grado di mettere in seria difficoltà persino un Cavaliere d'Oro e non voleva sprecare l'occasione di apparire superiore ai suoi stessi parigrado.
   - Perché non usiamo il Prisma d'Ambra per giungere fino a destinazione? -, si lamentò Kuda, che mal sopportava quel clima piovoso e freddo.
   - Creeremmo diffidenza se apparissimo dal nulla. Stringete i denti, non manca molto -, ribatté Kharax. Erano in viaggio da quasi tre giorni: si erano teletrasportati nei pressi del tratto inferiore del Tigri e da lì avevano iniziato a risalire verso nord.
   Il cielo si era rannuvolato dopo qualche ora di cammino e una pioggia battente aveva cominciato a cadere incessante e continua. Il rito compiuto anni prima da Sorush alla confluenza dei due fiumi aveva avuto effetti disastrosi su quelle zone: un olezzo nauseabondo impregnava l'aria e sembrava sparita da quella pianura, un tempo verdeggiante e ricca, ogni forma di vita. Non si udiva il canto di uccelli, né lo stormire di foglie, né si scorgeva alcun animale abbeverarsi o brucare l'erba. Morte e desolazione erano gli unici abitanti di quell'area. Kharax si accigliò nel vedere tanta devastazione: gli dei riescono ad essere malevoli anche con l'opera delle loro stesse mani, pensava; ma al momento il suo unico obiettivo era piegare definitivamente l'esercito di Atena, al resto avrebbe trovato una soluzione in seguito. Usciti dai rimasugli di quella che un tempo doveva essere una rigogliosa selva, la pioggia cessò improvvisa, così com'era cominciata: forse era il preludio dell'incontro che stava per tenersi.
   Giunti in vista delle mura di Samarra, Kharax si fermò e si girò verso i suoi compagni di viaggio. - Indossate il cappuccio e lasciate parlare me, intesi? -, ordinò. I demoni annuirono, anche se Sarabda sembrava poco propenso a obbedire agli ordini di un comune mortale. Proseguirono e si avvicinarono al cancello della città. Un gruppo di guardie sbarrò loro il passo, chiedendo il motivo che li aveva condotti a Samarra.
   - Ho urgenza di parlare con il sultano. Ho delle informazioni sul Santuario di Atena -, spiegò l'ex Cavaliere di Crater, abbassando il cappuccio e mostrando il volto sfigurato alla guardia. Quest'ultima chiamò il comandante che, ascoltate le parole del traditore, decise di farlo scortare fino alla sala del trono per poter riferire al sultano le informazioni in suo possesso. Kharax fece cenno ai suoi scagnozzi di seguirlo e, dopo un breve cammino, furono introdotti in un alto palazzo decorato con ghirigori d'oro e d'argento.
   Una volta entrati nella sala del trono, Kharax poté ammirare lo splendore e lo sfarzo della corte che era stata di Toghrul Beg. Emiri e alti ufficiali con indosso abiti sgargianti e colorati popolavano quella stanza ornata di arazzi e tende pesanti che nascondevano altri ambienti. Arslan era assiso sul suo scranno: aveva lo sguardo fiero, gli occhi piccoli e nerissimi, il volto incorniciato da una barba corvina e folta. Aveva meno di quarant'anni, ma i lunghi giorni passati sui campi di battaglia lo avevano fatto invecchiare precocemente. Non appena vide entrare gli ospiti si alzò e, con un cenno della mano, acquietò il vocio che risuonava nel padiglione.
   - Avvicinatevi -, disse, invitando Kharax e i suoi compagni a raggiungerlo. Essi non persero tempo e, giunti davanti a lui, fecero un profondo inchino.
   - Nobile sultano, il mio nome è Kharax e sono qui per offrirvi il mio aiuto -, esordì l'ex Cavaliere, fissando lo sguardo sul suo interlocutore.
   - Aiuto? E in cosa potreste essermi utile? -, replicò il sultano, con una punta di sarcasmo nella voce. Il traditore di Atena non si scompose, ma arrivò dritto al punto:
   - A vendicare la morte del vostro venerabile zio! - A quella frase il volto di Arslan s'incupì e la sua espressione si fece curiosa. - Come fate a saperlo? -
   - Non vi avrei mai offerto il mio aiuto senza conoscere i vostri desideri -, rispose Kharax con tono affettato e mellifluo, profondendosi in un nuovo inchino.
   - Interessante -, commentò il sultano, accarezzandosi la barba. - E in cosa consisterebbe questo vostro ausilio? -, continuò, appoggiandosi sui cuscini sistemati lungo lo schienale del trono.
   - Vi condurrò fino alle porte del Grande Tempio di Atena: anche se attaccherete, i Cavalieri non risponderanno ai colpi, si limiteranno a difendersi -, spiegò Kharax.
   - Come fate a esserne così sicuro? -, chiese il sultano, non del tutto convinto da quel discorso.
   Il traditore accennò un sorriso e, tornando a fissare lo sguardo sul nipote di Toghrul Beg, chiarì: - Perché un tempo ero un Cavaliere anch'io e conosco le leggi che regolano la loro esistenza: fin dalla notte dei tempi Atena ha divietato di arrecare danno alle persone comuni, anche se esse si mostrano ostili. Un Cavaliere può combattere soltanto contro nemici in grado di utilizzare il cosmo, un potere di ascendenza divina -.
   La spiegazione di Kharax aprì uno spiraglio di speranza nell'animo di Arslan che, sebbene provasse un profondo astio nei confronti di coloro che riteneva responsabili della morte dello stimato zio, fino a quel momento non aveva potuto attuare i suoi propositi di vendetta.
   Il volto del sultano si fece serio e meditabondo: poteva fidarsi di quest'uomo giunto dal nulla? E, più di ogni cosa, poteva sperare di vincere un nemico tanto potente e diverso da quelli affrontati fino ad allora? Mentre rimuginava su tali quesiti, fu Kharax a riprendere la parola e a distoglierlo dai suoi pensieri: - Di quanti uomini disponete, mio signore? -
   La domanda lasciò per un attimo attonito il sultano: - Perché vorreste saperlo? -
   - So che il mio arrivo e la mia proposta improvvisa vi sembreranno singolari, ma per dimostrarvi la mia buona fede vi ho portato dei guerrieri che assicureranno un felice esito al vostro proponimento -, rispose l'ex Cavaliere, usando le sue abilità oratorie per convincerlo della genuinità del suo aiuto. - Radunate le truppe di cui disponete e vi mostrerò il loro ardore guerriero! -, concluse, sicuro di aver colto nel segno.
   Per la prima volta dal loro incontro, il sultano si concesse un sorriso misto di sarcasmo e di ironia: - Devo ammettere che siete un bravo oratore, ma se il vostro intento è sincero mi darete tempo di conoscere l'opinione dei mei consiglieri. Per i prossimi tre giorni sarete miei ospiti e, se mi userete la cortesia di attendere, vi darò la mia risposta -, tagliò corto Arslan che voleva confrontarsi coi suoi più intimi confidenti prima di fare una scelta che avrebbe potuto pregiudicare non solo i suoi sudditi, ma anche la sua credibilità di sovrano.
   Kharax abbassò il capo masticando amaro e annuì. Si congedò dal sultano e fu scortato, assieme ai compagni, nell'ala del palazzo riservata agli ospiti. I tre demoni si innervosirono all'idea di restare per tre giorni a braccia conserte; dopo secoli trascorsi nell'oblio di un sonno perenne, ora volevano solo mettere di nuovo alla prova il loro potere.
   - Avevo sentito dire che il nuovo sultano non è inferiore al precedente, ma non lo credevo tanto cauto. Gli anni al fianco di suo zio ne hanno temprato a tal punto il carattere da renderlo astuto e riflessivo. Ne sarà valsa la pena, se riuscirò a convincerlo! - pensò Kharax, mentre le guardie gli aprivano la stanza dove avrebbe dimorato per i prossimi tre giorni coi suoi accompagnatori.
   - Voi mortali siete degli esseri indefinibili. -, ironizzò Sarabda, girando per l'ampia camera e toccando gli oggetti che gli apparivano strani o sconosciuti. - Sapete essere prudenti e impulsivi, pavidi o intrepidi, leali o traditori. Siete una razza complessa, sebbene siate solo una mera particella del vasto universo. -, continuò con un sorriso sornione. 
   - Se ti aspetti che restiamo qui per tutto questo tempo, ti sbagli! -, sbottò Atab, che non aveva proferito verbo fino ad allora.
   - La diplomazia è ardua, ma se si sa giocare bene conduce a risultati insperati. So che la vostra unica vocazione è menare le mani, ma se avrete pazienza potrete sfoggiare tutta la vostra abilità guerriera. Non dovete dimenticare che questa gente sta patendo indicibili sofferenze a causa vostra: se malauguratamente il sultano ne venisse a conoscenza, tutti i miei sforzi risulterebbero vani! - I tre seguaci di Nergal si guardarono e dovettero convenire che 'Lulul' - così avevano ribattezzato Kharax - non avesse tutti i torti.
***
   Sul Grande Tempio soffiava un vento gelido. Il grigiore delle nuvole che minacciavano tempesta immergeva la dimora terrena di Atena in un'atmosfera di tristezza e malinconia. Calx passeggiava fuori dall'area sacra assieme a Eyra: si erano diretti sulla cima di uno degli innumerevoli monti che circondavano il Santuario e ne celavano la presenza agli occhi indiscreti. Una candida coltre di soffice neve ammantava lo spiazzo che guardava verso sud, in direzione di Atene e del mare. Nell'osservare quello spettacolo, il cuore di Eyra fu invaso dai ricordi: laggiù, un tempo, era nata e aveva vissuto una bella infanzia finché il destino crudele non le aveva strappato tutto, trascinandola nel baratro della violenza e dell'angoscia. Abbassò il capo e tirò un lungo sospiro, diffondendo nell'aria sbuffi di fumo. Il giovane discepolo di Alexer le si avvicinò timidamente e tentò di capire cosa potesse affliggere una ragazza tanto forte ed energica.
   - Cos'hai? -, le disse, trovando il coraggio di interrogarla.
   Eyra lo guardò e accennò un sorriso: - Nulla. È colpa della nostalgia: vedere Atene così vicina e non poterci abitare di nuovo suscita dentro di me un senso d'amarezza. Ma sta' tranquillo, presto passerà. -, rispose, facendo qualche passo avanti.
   Calx fu colto da un moto di tenerezza e, sfiorandole il viso con una mano, le fece una promessa: - Ti giuro che un giorno ti ci porterò io -. La fanciulla, sorpresa, lo fissò per un attimo e, come per ringraziarlo, lo abbracciò: il calore di quella stretta gli addolcì il cuore e in parte lo spogliò del dolore che gli martoriava l'animo.
   Mentre parlavano, si scoprivano per certi versi simili: nessuno dei due aveva conosciuto il padre; entrambi erano stati strappati dai loro luoghi d'origine. Quella conversazione diede modo a Calx di svelare dei lati inediti di quella fanciulla dai capelli corvini e dal carattere ribelle. Si ritrovò a provare un affetto totalizzante e carico di sensazioni nuove. Tornarono a casa al tramonto, col cuore gonfio di gioia e di attesa.
   Lamashtu era compiaciuto dell'operato della giovane pupilla di Kharax: non si aspettava una tale freddezza e astuzia da una ragazza nel fiore degli anni. Tuttavia, sebbene lo nascondesse, anche Eyra sembrava affascinata dal Cavaliere della terza casa. Irene era felice di vedere il figlio vivere una vita normale e provava simpatia per la fornaia che lo aveva aiutato a disfarsi della perenne tristezza che gli deturpava il volto.
   Qualche giorno dopo era tornato a fargli visita Zosma: sbollita la rabbia e riacquistato il controllo, aveva deciso di provare ancora una volta a riportare l'amico sulla via della ragione. Per farlo, si era fatto accompagnare da Sertan, uomo più diplomatico e persuasivo di lui. Calx era gioviale, sorridente e sembrava aver perso parte della sua estrema timidezza per lasciare spazio a una cordialità e a una estroversione che nessuno gli avrebbe mai attribuito. I due Cavalieri si lanciavano occhiate ogni volta che il compagno raccontava qualcosa che li lasciava sorpresi e attoniti. D'un tratto, però, come se questa nuova energia avesse esaurito la sua forza, il volto del custode della terza casa si rabbuiò.
   Divenne serio e pensieroso; puntò gli occhi sui due paladini di Atena, ancora intenti a capire l'origine di quel repentino mutamento d'umore, e con voce tremante chiese: - So che forse mi riterrete uno sciocco, ma da quando frequento Eyra provo strane sensazioni a cui non so dare un nome. Voi sapreste spiegarmi che cosa mi sta accadendo? -
   Zosma strinse i pugni: ormai era palese che i sentimenti che Calx provava per quella ragazza lo avrebbero allontanato sempre di più dal giuramento che aveva prestato il giorno in cui aveva ricevuto l'investitura a Cavaliere.
   Tuttavia, sforzandosi di mantenere il sangue freddo, abbozzò una risposta: - Sembra che tu ti sia innamorato di questa ragazza, anche se l'amore che ho conosciuto io non aveva nulla di nobile o di sacro. Non era altro che uno sfrenato sfogo dei sensi, scevro di qualsiasi sentimento -. L'amarezza con cui il custode della quinta casa aveva pronunciato quelle parole non stupì Calx, che ben conosceva il tremendo passato dell'amico.
   - Purtroppo nessuno di noi può dare una risposta esaustiva alla tua domanda -, intervenne Sertan, - perché nessuno di noi ha mai sperimentato un sentimento così alto e gentile -. Nel discepolo di Alexer s'insinuò un barlume di sconforto che, tuttavia, egli scacciò in breve tempo: non voleva che quelle demoralizzanti parole gli portassero via quel briciolo di felicità che aveva cominciato a gustare. Dopo quello scambio di battute, la conversazione si fece più fredda e distante: sia Zosma che Sertan avevano rinunciato a convincere il compagno, ormai irremovibile dalla sua scelta.
   Si salutarono con una certa formalità, ma durante il tragitto, Zosma non poté trattenere il fiele che si portava dentro: - Doveva sopraggiungere anche l'amore a spazzare via quel poco di speranza a cui mi ero aggrappato! -, disse con tono irritato.
   Sertan lo guardò con occhi ammonitori e cercò di far riflettere l'agitato custode della quinta casa: - La tua rabbia non serve a nulla. Calx ha perso il requisito principe per un Cavaliere: la fiducia in Atena. Senza di essa non tornerà mai a indossare l'armatura, nonostante gli sforzi che facciamo! - Zosma abbassò il capo in segno di resa: l'amico aveva ragione, non c'era possibilità di far tornare Calx fra la schiera dorata, almeno per il momento.
   I due risalirono le prime case assieme e, giunti alla quarta, si separarono. Sertan attese che il Cavaliere di Leo lasciasse la Casa del Cancro prima d'imboccare il passaggio segreto e raggiungere la sala del trono: fin da quando il suo vicino di casa era andato via, il figlio di Kharax si era sempre chiesto perché il Sommo Alexer avesse riservato tanta indulgenza al suo allievo. Era sicuro che si nascondesse qualcosa dietro quella scelta e anche dietro la forza di Calx, che fin dall'inizio era apparsa a tutti estremamente imponente. In poco tempo raggiunse il corridoio che conduceva alla sala del trono. Le sentinelle gli aprirono rivolgendogli un rispettoso saluto. Varcata la soglia, non vide nessuno e cominciò a chiamare a gran voce il Sacerdote. Passarono alcuni minuti e da una delle tende fecero capolino Alexer e Kanaad.
   Il vicario di Atena si accigliò e chiese delucidazioni al Cavaliere sui modi tenuti e sui motivi che lo avevano spinto fino alla tredicesima casa. Sertan si scusò per la rudezza dimostrata, dicendo: - Perdonate la scortesia con cui mi sono presentato qui, ma ho urgenza di parlarvi -.
   - Palesa ciò che ti tormenta l'animo, Cavaliere, senza timore alcuno -, accondiscese il Sacerdote. Il custode della quarta casa s'inginocchiò e con tono risoluto espresse quanto gli mordeva il cuore: - Qual è il segreto che Calx nasconde? -.
   Quella domanda spontanea e precisa meravigliò Alexer che, scambiato uno sguardo col Primo Ministro, finse di non sapere di cosa parlasse Sertan: - Segreto? Ti sbagli, Cavaliere. Il mio giovane allievo non nasconde alcun segreto -.
   Il giovane Cancer non si lasciò ingannare e, con un sorriso scaltro, rispose: - Un uomo come voi non allontanerebbe mai un guerriero dal cosmo straordinario come Calx solo perché ha smarrito la motivazione -.
   Il Sacerdote sorrise di rimando e scese lentamente gli scalini che lo separavano dal suo interlocutore: - Per quanto forte, un uomo senza fede non giova alla causa, mio giovane amico! Il motivo della mia scelta è questo. E l'avrei fatta con chiunque, senza eccezioni. Il compito di un sacerdote non consiste soltanto nell'addestrare nuove generazioni di Cavalieri, ma anche nel prendere decisioni sofferte e spesso impopolari per garantire una perfetta difesa dell'umanità. Se le mie parole ti hanno persuaso, puoi andare! -, ribatté Alexer con autorevolezza.
   Il ragazzo si alzò e fissò il volto dell'uomo che gli aveva permesso di diventare un paladino della giustizia e di riscattare il buon nome della sua famiglia dal disprezzo in cui l'aveva gettata suo padre; tirò un sospiro amaro ma, non pago delle risposte ricevute, insisté: - Eppure sono convinto che il suo cosmo nasconda qualcosa. A nessun essere umano è concessa la forza di un dio, ma a Calx sì, perché? -.
   Kanaad si avvicinò al suo vecchio compagno d'armi e, stringendogli la spalla con una mano, gli fece cenno di dire la verità: avere un Cavaliere che conoscesse la realtà dei fatti poteva aiutarli a mantenere quell'equilibrio che il Santuario sembrava aver smarrito.
   Alexer si dichiarò vinto e, invitando il custode delle vestigia di Cancer a seguirlo sulla terrazza, decise di rivelargli quanto sapeva sul suo discepolo: - La tua scaltrezza aumenta ogni giorno di più, Sertan. Perdona la mia riluttanza a dirti la verità, ma non tutti i Cavalieri hanno la capacità di analizzare le situazioni. Il vero padre di Calx non era il generale Basilio, ma un nume di cui non conosciamo l'identità. Forse è stata Atena stessa a inviarcelo in vista del conflitto che stiamo affrontando e forse è proprio per questo che il nemico ha deciso di allontanarlo dalla battaglia, instillando in lui il seme del dubbio -.
   Sertan ascoltò con attenzione le spiegazioni del Sommo Sacerdote e tutte le domande sul compagno che aveva accumulato nel corso di quegli anni trovarono una risposta. Ora finalmente conosceva la verità e riusciva anche a comprendere il motivo delle scelte del vicario di Atena. - Sei vincolato al silenzio -, ordinò Alexer alla fine di quella discussione.
   Il giovane Cancer annuì, promettendo che quel segreto non avrebbe mai lasciato quella stanza. Poi si congedò e tornò alla quarta casa col cuore sgombro di interrogativi, ma pieno di frustrazione. Capiva bene il dissidio interiore che lacerava l'animo del compagno; tuttavia era impotente e non poteva far altro che attendere l'evolversi della situazione cercando di far ragionare Calx e di farlo rinsavire.
***
   Per i demoni che avevano accompagnato Kharax a Samarra quei tre giorni sembrarono interminabili: Sarabda si divertiva a provocare i soldati ed a sfidarli a duello, mentre l'ex Cavaliere continuava a richiamarlo all'ordine e alla disciplina.
   - Sono stufo di aspettare! -, reagì il primo demone dell'acqua dopo l'ennesimo rimprovero.
   - Non capisci che il tuo comportamento potrebbe pregiudicare la nostra alleanza col sultano? -, tuonò Kharax, ormai al limite della tolleranza e della pazienza.
   - Io non ho interesse per i vostri intrighi politici. Il mio unico scopo è servire il sommo Nergal e realizzare i suoi desideri! -, sibilò sprezzante Sarabda, guardando torvo l'uomo che pretendeva di comandarlo a bacchetta.
   I suoi due compagni si avvicinarono per spalleggiarlo, ma il vecchio custode delle vestigia di Crater non si lasciò intimidire: - Mancano poche ore allo scadere dei tre giorni, ormai. Presto potrete tornare a stroncare vite e a distruggere ciò che vi pare -. Pronunciò quelle frasi con una tale risolutezza da spingere i tre guerrieri d'Irkalla a fare un passo indietro e a piegarsi alla sua volontà.
   Il mattino seguente si svegliò uggioso e cupo: nuvole cariche di pioggia si addensavano sulla città e un vento forte e tagliente sferzava tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. Una guardia bussò alla camera in cui erano ospitati i quattro stranieri. Kharax aprì e fu invitato a raggiungere la sala del trono coi suoi compagni: il momento di conoscere la decisione del sultano era finalmente giunto.
   Arslan aveva un'aria particolarmente cortese e non lesinò gentilezze ai suoi ospiti. Li fece accomodare su soffici cuscini ricamati e ordinò di servirgli primizie di frutta e leccornie varie. Kharax interpretò tutte quelle attenzioni come un segno positivo e ciò lo invogliò ancora di più a gustare le prelibatezze che gli venivano porte. Mentre si rifocillava, il sultano notò che gli altri tre non allungavano le mani per cibarsi.
   Mosso da un misto di curiosità e di offesa, aggrottò la fronte e palesò il suo disappunto: - Vedo che la mia ospitalità non è gradita a tutti -.
   L'ex Cavaliere accennò un sorriso e, mantenendo la calma, si scusò: - Dovete perdonarli, mio signore, ma i miei tre compagni non sono comuni mortali e non sentono il bisogno di assumere cibo; non volevano in alcun modo mancarvi di rispetto -. Arslan si portò la mano al mento, soppesando le parole di quell'uomo che gli aveva spalancato le porte della speranza.
   - Capisco -, rispose e riprese il suo atteggiamento gioviale.
   Quando Kharax si fu saziato e i servi portarono via le vivande, si passò a trattare di affari: - Presumo vogliate conoscere la decisione che io e i miei consiglieri abbiamo preso -, esordì il sultano, attirando su di sé gli sguardi dei quattro ospiti.    
   - Dopo averne discusso a lungo abbiamo convenuto che un'alleanza fra le nostre fazioni è possibile, ma i miei consiglieri vogliono sincerarsi che i guerrieri che intendete offrirci siano all'altezza della guerra che ci apprestiamo a combattere -.
   Il vecchio traditore si alzò all'impiedi e, dopo un leggero inchino, fece qualche passo avanti, puntò gli occhi sul sultano con aria seria e propose: - Radunate nella piazza della città tutte le forze di cui disponete e avrete la prova della mia sincerità -. Arslan annuì e con un cenno della mano fece avvicinare una delle guardie all'ingresso della sala; gli comunicò qualcosa sottovoce e il ragazzo, inchinatosi, si congedò con molta fretta.
   - Fra un'ora ci ritroveremo sulla piazza. Se le vostre parole si dimostreranno veritiere, l'accordo sarà concluso; altrimenti sarete giustiziato assieme ai vostri compagni -, concluse il sultano.
   - Così sia -, accettò Kharax. Tutti uscirono dalla sala in trepidante attesa della dimostrazione che si sarebbe svolta di lì a un'ora.
   Quando Kharax tornò nella camera che l'aveva ospitato in quei giorni decise di parlare ai tre demoni: - Sembra che il mio piano abbia dato i suoi frutti, ma se vogliamo che il nostro nemico non scopra le nostre mosse, dovrete affrontare l'esercito del sultano senza bruciare il cosmo -.
   I tre lo guardarono con stupore e Atab, esprimendo le perplessità di tutti, protestò: - Che follia è mai questa? Perché dovremmo reprimere il nostro potere? Nessuno ci ha mai chiesto una cosa del genere! -
   - Ne sono consapevole, ma è l'unico modo per evitare di essere scoperti. Ad Alexer non sfugge neppure la minima traccia di cosmo e se si avvedesse che qui sta accadendo qualcosa d'insolito non esiterebbe a inviare qualche Cavaliere -, spiegò l'ex custode delle vestigia di Crater.
   - Ma almeno potremmo affrontare i cani di Atena che hanno massacrato i nostri compagni! -, ribatté Kuda, appoggiato da Sarabda, che mal sopportava le restrizioni alla sua sete di sangue.
   - Ci sarà tempo per sopprimere quegli odiosi Cavalieri, ma per ora vi conviene attenervi al piano se volete che il vostro signore trionfi -, insisté Kharax. Anche lui, in fondo, desiderava ardentemente contemplare la rovina del Santuario di Atena e dei suoi abitanti; il suo orgoglio ferito e la scoperta che suo figlio era al servizio di Alexer, l'uomo che più detestava al mondo, gli imponevano di far crollare dalle fondamenta quel ricettacolo di ipocriti. I tre demoni si scambiarono delle occhiate e, seppur di malavoglia, accettarono di combattere senza adoperare il cosmo.
   Quell'ora passò in fretta e quando i quattro raggiunsero la piazza la trovarono gremita: l'esercito schierato al centro, arcieri in prima fila, cavalleria armata di lunghe lance subito dietro e, infine, i soldati appiedati. Ai lati c'erano due ali di folla dagli abiti e dai turbanti variopinti. Il sultano si portò tra i due schieramenti e, a gran voce, annunciò l'inizio della dimostrazione. Kharax fu invitato ad assistere accanto al sultano. I primi ad attaccare furono gli arcieri: nugoli di frecce puntarono i tre guerrieri che, con rapidi e impercettibili movimenti ne spazzarono via la maggior parte, mentre le restanti s'infrangevano sulle corazze nascoste dai mantelli. Poi fu la volta della cavalleria: li circondarono e cominciarono a stringerli rivolgendogli contro le aguzze aste. Con un movimento fulmineo e impercettibile vennero tutte spezzate, mettendo fine anche alla seconda ondata di soldati. Quando fu la volta della fanteria, Arslan ordinò di porre fine alla prova: gli era ormai chiaro che anche un esercito ben addestrato avrebbe difficilmente battuto quelle tre misteriose creature.
   Tornò di nuovo a porsi fra i contendenti accompagnato da Kharax e disse: - La prova è superata e l'alleanza è sancita. Ora non mi resta che inviare un messaggero a Costantino e obbligarlo a concedermi il passaggio dell'Egeo e un attracco sicuro al porto di Atene -.
   - Un'ottima idea, mio signore: sono certo che l'imperatore non rifiuterà un accordo con voi solo per proteggere quegli ipocriti Cavalieri -, lo appoggiò il traditore, fiero di essere riuscito a convincere il sultano.
   - Brindiamo alla nostra alleanza! -, esortò Arslan, incamminandosi di nuovo verso il palazzo reale.
***
   L'ultimo sacerdote di Nergal si avvicinò allo scrigno che incatenava le anime dei demoni e del loro signore: le gemme incastonate sul coperchio avevano perso gran parte della loro luce a seguito della morte di molti Sabitti. - È finalmente giunto il tempo! È ora di riunire i Semi del Male! -, sussurrò imponendo le mani sul cofanetto. - Io ti evoco, Tirid, primo demone della terra, signore delle ombre, palesati! -
   Una figura dall'armatura completamente nera, ornata qua e là da qualche inserto giallo, s'inchinò davanti a lui: - Ai vostri ordini -, disse la creatura con tono di sussiego e ossequio. Sorush gli porse una mappa, che il demone prese senza esitare; la osservò con molta attenzione: c'erano segnati sette punti.
   - In questi luoghi troverai delle onici nere su cui è incisa una parola in sumerico. Se pronuncerai quella parola, la gemma verrà da te. Ogni volta che ne prenderai una, sostituiscila con una di queste pietre, così nessuno si accorgerà del furto -, spiegò il messaggero del signore d'Irkalla, porgendogli sette pietruzze scure con incisa una parola sumerica. - Tu hai il dono di celarti fra le ombre e di passare inosservato; non ti serviranno i tuoi poteri per ottenere i Semi del Male. Va' e non deludermi, prode Tirid! -, concluse.
   - Sì, come desiderate -, rispose il demone prendendo le pietre dalla mano del sacerdote e svanendo nell'oscurità di quella cripta.
   - Grazie ai Semi del Male potrò avviare il processo di risveglio di Nergal e quando il mio Signore tornerà a calcare questa terra, io otterrò ciò per cui ho atteso tutta la vita! - pensò tra sé, sperando nella buona riuscita della missione che aveva affidato a Tirid.
 
[1] "Semi del Male".

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Capitolo 14
*** I Semi del Male ***


CAPITOLO XIV
I SEMI DEL MALE
 
   Le ombre del crepuscolo gettavano un'aria sinistra e inquietante sulle rovine della villa tardo-imperiale che Sorush aveva eletto a suo covo. Tirid uscì all'aperto e si acquattò nell'oscurità. Indossava un elmo a casco che presentava una corona di triangoli bianchi attorno all'apertura e due fasce simili a zanne che coprivano le mascelle. Una visiera nascondeva gli occhi e il naso. Folti capelli di un viola scuro si allungavano sulla schiena. Il bavero formava una sorta di mantellina che inglobava anche gli spallacci. Sotto di essa si notava il pettorale, aderente al torace muscoloso della creatura, adornato da zampe, in numero di otto, che, partendo dalla schiena, scendevano strette lungo i fianchi. Il cinturino era formato da centinaia di sottili lamelle nere che, nella parte posteriore, terminavano in una sorta di coda ovale su cui erano posti altri triangoli bianchi. Schinieri e bracciali presentavano, sui lati, delle sottili linee in rilievo, simili a zampe d'insetto, e sulle manopole si notava l'ennesimo triangolo bianco.
   Tirid si mise a esaminare con maggiore attenzione la mappa fornitagli dal sacerdote: notò subito che la pietra più vicina si trovava a Bisanzio, in un luogo chiamato Santa Sofia. Il demone sorrise e, senza indugiare oltre, scomparve tra le tenebre. Riapparve davanti al portale della chiesa: non c'era anima viva, la città sembrava già immersa in un sonno profondo. Si accorse che una porta laterale era socchiusa; si fuse con l'ombra creata dal pallido bagliore della luna e si ritrovò in una delle navate laterali, scarsamente illuminata. Strisciando nel buio, giunse in vista dell'altare, posto nell'abside della navata centrale, ma un rumore sommesso, come l'eco di un lamento, attirò la sua attenzione: fissò lo sguardo nel punto da cui sembrava arrivare quel suono e vide un uomo vestito di un misero saio, prostrato a terra. Il Sabitta fece una smorfia di disappunto e, in silenzio, si avvicinò senza farsi scoprire. Sfiorò con le dita il collo nudo di quel monaco e la monotonia di quella voce cessò.
   - Ora dormirai un po' -, sussurrò con tono gelido, dirigendosi verso l'altare.
   Raggiunta la meta si guardò intorno con circospezione: sperava non ci fossero altri scocciatori. La chiesa era immersa in un silenzio innaturale e le poche candele accese nelle varie cappelle illuminavano a sprazzi le navate. Tirid sorrise e, con calma, esaminò le pietre che adornavano l'ara.
   Notò subito, al centro, l'onice nero e, senza ulteriore indugio, sibilò: - Kukku![1] - La pietra, mossa da un'improvvisa volontà, emise un intenso bagliore violaceo e si trasferì da sola nella mano di chi l'aveva richiamata. Il primo demone della terra la osservò compiaciuto e la ripose nella sacca che Sorush gli aveva fornito assieme alle gemme false. Poi tirò fuori quella che avrebbe dovuto sostituirla e la incastonò nel foro lasciato da quella originale. Diede un'ultima occhiata in giro per accertarsi che nessuno avesse assistito alla sostituzione e, come aveva fatto prima, si dileguò fra le ombre.
   Poco dopo il monaco si risvegliò di soprassalto: aveva un forte mal di testa e si guardava intorno confuso. Convinto di essersi addormentato, iniziò a battersi il petto in segno di pentimento e riprese a recitare le sue orazioni.
   Il Sabitta trovò riparo nell'oscurità di un porticato e scoprì sulla mappa la seconda tappa di quel viaggio: una località chiamata Amarna, situata nel cuore dell'Egitto, adagiata sul Nilo. Approfittando dell'ombra in cui si era rifugiato, sparì di nuovo e rispuntò fuori a migliaia di chilometri, in un palmeto affacciato sul deserto. Il demone si guardò intorno e notò, poco distante, le propaggini di una piccola cittadina. Il cielo terso formicolava di stelle e un estremo silenzio dominava il pianoro. Le indicazioni segnate sulla mappa indicavano una grotta che immetteva in un'antica città: era lì che doveva trovarsi l'onice nera.
   Tirid cominciò a osservare con attenzione il paesaggio che lo circondava: oltre all'oasi in cui si era ritrovato e agli ultimi edifici che delimitavano i confini di Amarna, non si vedeva che sabbia a perdita d'occhio. Si diresse nella direzione opposta all'abitato: cercava una collinetta o una duna che potesse nascondere l'ingresso di una caverna. Camminò per un lungo tratto senza trovare nulla che gli desse speranza di riuscire in quella missione.
   D'un tratto, giunse presso una fitta radura e, tra le basse palme, notò uno strano avvallamento; si avvicinò con discrezione e si accorse che quella collina di sabbia aveva una forma innaturale. Iniziò a scavare, certo che quello dovesse essere il punto da cui accedere all'antico insediamento. Ben presto vennero alla luce porzioni di pareti e parte di un corridoio buio e quasi completamente sommerso di sabbia.
   Il signore delle ombre riuscì a ricavare un cunicolo sufficiente e vi si infilò. Si fuse all'oscurità di quello stretto passaggio e riemerse in un ambulacro sgombro, fitto di iscrizioni e immagini, su cui si aprivano altre stanze e corridoi. Fece qualche passo avanti e rifletté su quale porta imboccare. Girò sulla destra e prese una sala non molto grande su cui davano altre porte. Si vedevano le spoglie di quelli che un tempo dovevano essere sfarzosi complementi d'arredo seminascosti dalla sabbia. Proseguì tenendo sempre la destra e giunse in una stanza priva di sbocchi: il pavimento, coperto di rena, era disseminato di tavolette fittamente scritte. Tirid si inginocchiò per esaminarne alcune e si accorse, con stupore, che molte erano redatte nell'antica scrittura di Sumer. Parecchie erano relative ad accordi commerciali o riportavano editti e leggi; su altre, invece, erano stesi contratti matrimoniali.
   Proprio su uno di essi si concentrò l'attenzione del demone: - Curioso -, sussurrò. - Qui dice che il re di Mitanni, Tushratta, inviò in sposa sua figlia Tadukhipa al re Akhenaton assieme a cospicui doni: gioielli, cavalli, una sella d'oro e un carro tempestato di pietre preziose e di un'onice nero di rara bellezza -, lesse con grande interesse. - Dove sarà finito quel dannato carro? -, si chiese poi, cercando risposta tra quei testi sparsi dappertutto.
   Ne controllò molti, altri li tralasciò subito. Alla fine, quando la ricerca sembrava ormai giunta a un punto morto, dalla sabbia affiorò una tavoletta consunta, dai bordi irregolari e spezzata a metà. Tirid la prese con delicatezza e iniziò a leggerla: era un catalogo di beni posseduti dal re di quelle terre con l'indicazione del luogo in cui erano conservati. Nella prima parte non c'era menzione del carro, così il Sabitta si mise a cercare il pezzo mancante della tavoletta; lo trovò dopo una breve ricerca e scoprì finalmente l'ubicazione di quel maledetto cocchio: era stato collocato nella tomba della principessa di Mitanni, poco più a nord dal punto in cui si trovava, nella valle adibita ad area cimiteriale.
   - Che disdetta! -, mormorò, stanco di vagare tra cumuli di sabbia e stanze graveolenti.
   Tornò nel corridoio da cui era giunto e scomparve tra le ombre ancora una volta. Riapparve nella radura e puntò verso nord: avrebbe trovato qualche altra singolare duna a segnalargli l'ingresso all'antico cimitero. Camminò per quel deserto monotono e infinito a lungo, rimuginando nella mente quanto quella missione in apparenza semplice si stesse rivelando oltremodo complicata. Il terreno iniziava a salire e a un certo punto formava un'enorme depressione da cui spuntavano qua e là piccole collinette. Scese verso di esse sperando di trovare quella che gli avrebbe fatto guadagnare l'accesso alla necropoli.
   Mentre setacciava la sabbia, avvertì un cosmo quasi impercettibile: si voltò con circospezione da ogni lato, credendo che qualcuno lo stesse spiando. Ma la notte stellata non riservava sorprese: non c'era nessuno in quel luogo privo di vita. Si rilassò e decise di seguire quella flebile traccia cosmica che per un attimo gli aveva dato noia. Giunse a una bassa duna, troppo squadrata per essere naturale, ricominciò a scavare e, non appena riuscì a ricavare un'apertura grande abbastanza, si lasciò accompagnare dall'oscurità all'altro capo del cunicolo. Si ritrovò in un corridoio di pietra grezza, privo di immagini e di iscrizioni. Dal momento che su di esso non affacciava alcuna porta, fu costretto a seguirne il percorso.
   - Spero vivamente che il secondo Seme sia qui! -, disse fra sé il, camminando a passo spedito. Dopo alcuni minuti, che gli erano parsi interminabili, arrivò a un a biforcazione. Aggrottando le ciglia, prese il varco di destra, stretto e quasi privo d'aria. Poco dopo gli si parò davanti una pesante porta di pietra: il cosmo che aveva percepito prima si era fatto più intenso; la creatura cui apparteneva doveva trovarsi dietro quella parete.
   Diede un poderoso pugno a quella barriera di mattoni a secco, che si sbriciolò in pochi secondi. Entrò nella stanza e si accorse subito di essere in una tomba ancora intatta, colma di oggetti e di arredi. Al centro vi era un feretro di pietra finemente lavorato su cui era adagiato un coperchio d'oro battuto raffigurante il sembiante del defunto. Tutt'intorno a esso erano disposti tavoli con gioielli e monili di mirabile fattura, statue cariche di collane e di bracciali, sedie, argenteria e centinaia di altre cose; ma gli occhi di Tirid cercavano un solo oggetto: il carro della principessa mitannica. Lo scorse nell'angolo sinistro della stanza, seminascosto da enormi armadi d'ebano. Si avvicinò e avidamente cercò l'onice nero che tanto lo aveva fatto penare. Tuttavia, fu distratto da quella traccia cosmica che lo perseguitava fin da quando era giunto e decise di scoprire a chi appartenesse: notò una piccola anfora di bronzo su cui erano apposti strani sigilli vergati in una lingua che gli era sconosciuta.
   - Potrebbe esserci il cosmo di una divinità chiuso in quest'urna. Sarà meglio non indagare oltre -, pensò, tornando alla sua missione.
   Si focalizzò di nuovo sul cocchio e quasi subito individuò il seme che cercava: - Me![2] -, sussurrò ed esso, come aveva già fatto il suo compagno, si staccò da solo in un bagliore violaceo. Presolo al volo, Tirid si affrettò a sostituirlo e a lasciare per sempre quei luoghi che ormai non sopportava più.
***
   Sorush era inquieto. Non vedeva l'ora di avere tra le mani i Semi che lo avrebbero aiutato a far risorgere il Signore d'Irkalla: aveva premura di chiedere la ricompensa che gli toccava. Infilò la mano in una delle ampie tasche della tunica che indossava e tirò fuori un anello d'oro impreziosito da un rubino, troppo piccolo per le sue dita. Lo osservò a lungo e i suoi occhi neri si velarono di una cupa tristezza. Mentre contemplava quell'oggetto, sopraggiunse Kharax in un lampo di luce accecante. Il sacerdote era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno dell'arrivo del socio, finché non gli rivolse la parola.
   - Da oggi abbiamo un nuovo alleato, il sultano turco Alp Arslan -, annunciò l'ex Cavaliere con una punta d'orgoglio nella voce.
   - Ottimo -, si limitò a rispondere Sorush, ancora immerso nei suoi lontani ricordi. Il vecchio traditore capì subito che lo stato d'animo del compagno era legato a quell'anello che teneva stretto in mano.
   - Che ti prende? Cos'è quella malinconia che ti rattrista il volto? -, domandò con un pizzico d'ironia. Sorush lo guardò torvo e con una severità che per un attimo lo mise a disagio.
   - Hai mai amato qualcuno? -, lo interrogò, rilassando il volto e sprofondando di nuovo nel suo repentino languore. Spiazzato dalla domanda, Kharax impiegò qualche secondo prima di rispondere.
   - Sì -, ammise alla fine, riaprendo antiche ferite e riportando alla luce rimorsi inveterati.
   - Quest'anello apparteneva a mia moglie. Si chiamava Darice. Era figlia di uno dei più influenti consiglieri dell'emiro di Persia. Aveva folti capelli rossi e occhi verdi; un sorriso ammaliante e una dolcezza infinita.
   Avevo dieci anni quando mio padre venne accusato di eresia e condannato a morte per ordine del vescovo di Bisanzio. Io riuscii a fuggire col denaro che mi aveva lasciato e con tutto ciò che riguardava il Sommo Nergal. Me ne tornai in Persia, dov'ero nato, e per un periodo lavorai come apprendista presso un mercante di tappeti. Verso i vent'anni, grazie al denaro accumulato, aprii una mia attività e, in breve tempo, divenni uno dei più noti commercianti di tappeti, al punto che anche la nobiltà cominciò a servirsi da me. Fu allora che conobbi Darice. Fu un amore a prima vista, ma le differenze di classe non ci consentivano di unirci in matrimonio. Provai tre volte a chiedere la mano della fanciulla a suo padre, ma egli rifiutò schernendomi.
   Un giorno la mia amata venne a trovarmi in lacrime: suo padre aveva deciso di darla in sposa ad un suo lontano parente, un uomo rude e violento, dedito al vino e alla lussuria. Ero disperato e non sapevo come salvarla dalle grinfie di quel bruto, finché non venni a sapere che si stava preparando una congiura ai danni dell'emiro Anushiravan, da pochi anni asceso al trono. Era la mia occasione: riuscii ad entrare nella cerchia dei congiurati e scoprii che la prima vittima di quel complotto sarebbe stato proprio il padre di Darice, a causa della sua superbia e del suo disprezzo per i ceti più bassi. Il giorno dell'attentato, mentre la mano assassina levava il pugnale contro il consigliere approfittando della folla che lo salutava e gli rendeva omaggio, io mi avventai su di lui e lo spinsi lontano, salvandolo dal colpo ferale. Le guardie arrestarono il congiurato e i suoi complici, e io divenni, agli occhi del consigliere, un eroe. Così Darice e io potemmo coronare il nostro sogno d'amore. Desideravo ricostruire la grande dinastia dei Sacerdoti di Nergal, ma il destino mi privò di eredi: nessun frutto nacque dalla nostra profonda affezione. Anche la vitalità e la spensieratezza di Darice inaridirono presto: quattro anni dopo le nozze contrasse una misteriosa malattia e in pochi mesi morì. Ora solo questo monile mi resta di lei -, confessò il servo del dio dell'oltretomba sumero.
   Kharax l'aveva ascoltato in silenzio; aveva intuito il suo bisogno di palesare il dolore e l'angoscia che si portava dentro da anni e lo aveva lasciato sfogare. Abbassò gli occhi ripensando per un attimo al sorriso della sua Elestoria e ai capricci di un piccolissimo Sertan. Cercò di distogliere dalla mente quegli affetti e di restare lucido per portare a compimento la sua vendetta.
   - Mi spiace per quanto ti è accaduto -, disse, con una chiara amarezza nel tono della voce.
   - Ma so che presto potrò riabbracciarla e realizzare il mio sogno -, affermò con una ritrovata speranza il sacerdote. - Quando Nergal risorgerà, rimeriterà i servigi che gli ho reso: gli chiederò di riportare in vita Darice e di donarmi dei figli! -, spiegò, sebbene Kharax sembrasse scettico a riguardo.
   - Ti auguro che egli ti conceda ciò che il tuo cuore desidera -, si limitò a dire. Poi lo salutò e, stringendo tra le dita il Prisma d'Ambra, scomparve. Poco dopo era di nuovo a Samarra: le ultime parole di Sorush erano state dettate da una speme ancora viva, ma Kharax sapeva bene che forse neppure le divinità hanno il dono di resuscitare i morti; provava pena per il compagno; anche se, in futuro, avrebbe potuto trarre profitto da quella confessione.
***
   Dall'ombra di un alto peccio, Tirid osservò l'andirivieni di sentinelle sul ponte che collegava la collina su cui si ergeva il castello al resto della città. Il gelido inverno aveva creato lastre di ghiaccio sulle limpide acque della Vistola e la neve rivestiva di bianco i merli delle mura del castello e i bassi tetti delle case. Il demone doveva aggirare la stretta sorveglianza attorno al palazzo reale e raggiungere le stanze private del sovrano: un giovanotto poco più che ventenne, così attaccato alla sua corona da tenerla sempre accanto a sé.
   Sulla mappa quella fortezza era identificata come Castello di Wawel e il re che la abitava si chiamava Boleslao. Sgusciando fra le tenebre, il Sabitta si avvicinò a una delle torri che fiancheggiavano l'enorme arco della porta. Vide alcune guardie scambiarsi parole e ridere, poi dividersi e ritornare alle loro postazioni. Ne osservò altre battere i denti per il freddo o sfregarsi le mani intirizzite per scaldarle. Notando che il viavai di guardie era cessato, sgattaiolò tra le lunghe ombre disegnate dalle torce che, appese alle mura, languivano a causa dell'aria gelida che spirava da nord.
   S'infilò in un ingresso che dava su una rampa di scale. Udì delle voci provenire dal piano superiore e s'immerse totalmente nel buio, svanendo. Ricomparve su uno stretto corridoio scarsamente illuminato: ampie finestre filtravano il chiarore della luna, reso pallido dalla folla di nubi che attraversava il cielo. D'improvviso, cominciò a nevicare. Tirid percorse in silenzio quell'andito, sperando di trovare in fretta la stanza in cui era custodita la corona. Il corridoio svoltava a destra e, non appena ebbe girato l'angolo, scorse due coppie di sentinelle ferme davanti a una porta di legno massiccio, da cui sporgevano spuntoni di bronzo.
   - Ci sono troppe guardie: forse l'onice si trova lì -, pensò, quando si accorse che due di loro si dirigevano verso di lui. Per evitare di essere scoperto e di dover combattere, chiuse gli occhi e si lasciò assorbire dall'oscurità.
   - Il duca deve essere impazzito! Tiene sempre accanto a sé quella corona e pretende che venga sorvegliata costantemente. Come se non avessimo nient'altro da fare! -, si lamentava una delle guardie, aggiustandosi il cinturone su cui poggiava il fodero della spada.
   - Taci, Cibor, o finiremo nei guai! In questo palazzo anche i muri hanno orecchie -, lo rimproverò il compagno, guardandosi intorno per sincerarsi che nessun orecchio indiscreto avesse ascoltato quelle parole oltraggiose.
   Non appena i due svoltarono, il Sabitta riemerse dalle tenebre: gli toccava neutralizzare le altre sentinelle rimaste. Si fuse ancora una volta tra le ombre di quello stretto corridoio e, avvicinandosi, li colpì con le dita alla base del collo e li appoggiò al muro. Aprì lentamente la porta, che emise un leggero cigolio, entrò a rapidi passi e se la chiuse alle spalle.
   La stanza aveva poco mobilio, un tavolo di legno consumato dai tarli e una vecchia sedia malferma. Al centro vi era un baldacchino sontuoso, incorniciato da drappi di seta, che mal si combinava con il resto delle suppellettili. Si sentiva un respiro quieto: Tirid osservò per un attimo il letto e notò che le coperte facevano su e giù a intervalli regolari e capì che il duca di cui parlavano le guardie doveva essere l'uomo che dormiva tranquillo tra quelle soffici coltri. Sulla parete destra si apriva un altra porta, che immetteva in un'ampia stanza, arredata in maniera fastosa ed elegante; su un tripode d'oro poggiava una corona tempestata di lapislazzuli e rubini, da cui svettavano tre punte: sulle due laterali era incastonato un topazio, mentre su quella centrale brillava l'onice nero.
   - Ash![3] -, sibilò il demone e, così come avevano fatto gli altri due, anche questo si depose nella mano del Sabitta. Tirid incastonò quello falso nel vano rimasto vuoto e si affrettò ad andarsene. Tornò sul corridoio da cui era entrato - le guardie erano ancora tramortite al muro - e svanì nell'oscurità, riapparendo sotto il peccio da cui era partito.
   Il quarto onice segnato sulla mappa si trovava a oltre seicento chilometri dal Castello di Wawel, ma per il demone quella distanza era poca cosa: si avvolse nell'ombra dell'albero sotto cui sostava e riemerse ai piedi di un tiglio ramoso, ma completamente spoglio, coperto di un leggero strato di neve. Si guardò intorno e si rese conto di trovarsi su un isolotto in mezzo a un fiume parzialmente ghiacciato, collegato alla terraferma da ponticelli di pietra. Controllò la pergamena fornitagli da Sorush e scoprì che quel fiume era il Danubio. Non distante da dove era riapparso doveva sorgere un complesso religioso di recente costruzione, in cui era conservata un'icona raffigurante una donna con un bambino. Non c'era nessuno in giro. Prese il ponte che gli era più vicino e lo attraversò rapidamente, per poi nascondersi nell'assoluta oscurità di quelle strade deserte. Odiava quella soffice neve che gli impediva di camminare in maniera più spedita. La strada declinava dolcemente verso destra: si sentivano dei cani abbaiare in lontananza e dal fondo della via proveniva la tenue luce di un'osteria, animata dalle risate e dalle canzoni sguaiate degli avventori avvinazzati.
   Tirid storse il naso: era costretto a usare le tenebre per superare quell'allegra combriccola di scioperati. - Anche se le generazioni e i secoli scorrono via come l'acqua di una cascata, i mortali si ostinano a mostrare il loro lato peggiore. Non posso biasimare il mio Signore, che vuole purificare da questa feccia il creato. Vi onorerò al massimo delle mie possibilità, Sommo Nergal, affinché la vostra gloria risplenda suprema nell'universo -, pensò, deplorando quegli atteggiamenti vergognosi e disdicevoli. La via si apriva in un incrocio: sulla destra si ergeva un edificio di grandi dimensioni, intonacato di un bianco ancora vivido.
   - Ci siamo. Questa deve essere la Cappella indicata dalla mappa. Devo solo trovare un punto d'accesso -, pensò il Sabitta, dando una rapida occhiata alle finestre e ai portoni della struttura. Notò una fievole luce provenire da una sorta di feritoia: appoggiò la mano sull'ombra che creava e scomparve. Emerse dalle lunghe tenebre formate dalle candele sparse all'interno della chiesa. Sorrise e si apprestò a cercare l'icona su cui era incastonato l'onice. La trovò nella navata destra: era un piccolo quadretto su cui vi era dipinta una madre con in braccio il suo pargolo; le teste avvolte da aureole impreziosite da zirconi. Sulla mano della donna, Tirid scorse la gemma che cercava.
   - Saĝgishra![4] -, sussurrò, e la pietra venne in suo possesso. Compiuta la solita sostituzione, sprofondò nel buio e se ne andò.
***
   A Rodorio la vita trascorreva tranquilla: dopo l'attacco subito sei mesi prima, gli abitanti del villaggio erano tornati alle loro abitudini quotidiane; le riparazioni, guidate da Theodulos, erano terminate celermente. Calx si sentiva ormai libero dall'oppressione dei dubbi, soprattutto grazie all'aiuto di Eyra: da quando avevano cominciato a frequentarsi, il discepolo di Alexer stava imparando, giorno dopo giorno, a guardare il mondo e le cose da una prospettiva diversa. La semplicità con cui la gente del villaggio viveva, l'assenza di un rigido protocollo da seguire e il sorriso della giovane fornaia gli avevano stravolto il cuore.
   Anche sua madre appariva più serena e gioconda: dopo la morte di Jorkell si era chiusa in se stessa e soltanto di rado scambiava quattro chiacchiere con qualche donna mentre si recava al pozzo. Ma ora che nella sua desolata casetta era ritornata la vita grazie a Calx e a Eyra, si sentiva più sollevata. Nel suo cuore, però, aleggiava ancora un'ansia atroce: temeva che, continuando a vivere a Rodorio, il figlio fosse tentato di riprendere il suo ruolo di Cavaliere o che qualcuno potesse persuaderlo a indossare ancora una volta la sua armatura. Ormai i fatti che molti anni prima l'avevano spinta a chiedere asilo al Grande Tempio erano soltanto uno sbiadito ricordo. Non ci pensava più. Preferiva godersi quei momenti di tranquillità e sentirsi una madre, come le donne che spesso incontrava al pozzo accompagnate dai loro pargoli. Per una volta, le sembrava di vivere la vita che aveva sempre desiderato, con una famiglia da amare e da accudire.
   Calx ed Eyra facevano lunghe passeggiate sui monti avvolti nei loro pesanti mantelli di lana. Spesso si divertivano a lanciarsi palle di neve: il ragazzo fingeva di mancarla, ma si lasciava colpire volentieri; vederla ridere gli procurava una gioia incommensurabile. Era deciso a gettarsi tutto alle spalle ora che poteva contare su qualcuno che lo apprezzava per chi era e non per il titolo che aveva. Eyra aveva recitato la parte della fanciulla innamorata con molta naturalezza, all'inizio, ma col passare dei mesi, più imparava a conoscere il custode della terza casa, più il suo cuore ne sembrava attratto. Tentava di reprimere quel sentimento che si faceva strada nel suo animo con forza, ma più ci provava, più esso attecchiva.
   Una sera che la giovane fornaia si era fermata a cena con loro, su invito di Irene, qualcosa di inatteso era accaduto: mentre Calx la riaccompagnava da suo zio, arrestò il passo per un attimo, iniziò a guardarla con tenerezza e, strettala a sé, le diede un appassionato bacio. Sulle prime, Eyra sembrò titubante, ma alla fine si sciolse in un abbraccio e rispose a quel bacio con altrettanta passione. Per alcuni minuti il mondo parve scomparire, come inghiottito da quell'istante di reciproco ardore. Quando l'amplesso si sciolse, i due si fissarono, quasi increduli di quanto era avvenuto.
   - Ti amo! -, confessò con trasporto Calx, lasciando interdetta la ragazza, che arrossì e abbassò lo sguardo, impreparata a quell'esternazione improvvisa.
   Eyra riprese il controllo, deglutì nervosamente e con un sorriso sognante gli carezzò il volto, intirizzito dal gelido vento dell'est. Lo salutò regalandogli un altro bacio e corse via, verso l'uscio del forno. Calx la seguì con gli occhi finché non si richiuse alle spalle la porta. Se ne tornò a casa baldanzoso, colmo di nuova gioia e di fervide speranze: aveva infine deposto il suo atteggiamento perennemente mesto e malinconico; aveva finalmente compreso che cosa doveva fare. Giunto a casa, si adagiò sul suo giaciglio col cuore in pace, felice di aver confessato il suo amore alla bella fornaia che lo aveva salvato dal baratro della disperazione. Un dolce sonno lo colse e, dopo lungo tempo, poté concedere riposo, per la prima volta, al suo animo stremato e lasso.
   La fanciulla dai capelli corvini, varcata la soglia di casa, aveva immediatamente rimosso la sua maschera di felicità: mai si sarebbe aspettata una simile audacia da quel ragazzo che fino a poco fa aveva dimostrato una straordinaria timidezza. Da quando i suoi dubbi si erano dissipati, Calx aveva acquistato più determinazione e coraggio, e tutto ciò la terrorizzava. Era consapevole di provare dell'affetto per quel giovane dai modi gentili, ma non aveva intenzione di lasciarsi coinvolgere dai sentimenti; si era avvicinata a Calx soltanto per ripagare un favore, nient'altro. Eppure ogni volta che si ripeteva quella motivazione nella mente, un tremendo rimorso le lacerava l'anima e la coscienza l'ammoniva a riconoscere la verità.
   Questo dissidio interiore non le dava tregua e non si sentiva a suo agio a parlarne con Lamashtu che, comunque, non avrebbe mai potuto comprenderla, né tantomeno consigliarla. Ma neppure a Kharax sarebbe riuscita a confidare quel suo senso di disorientamento e quell'amara inquietudine. Decise di tenere per sé quanto stava avvenendo e di trovare una soluzione per conto suo. Quella nuova situazione l'aveva resa consapevole di una realtà di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ogni sera, chiuso l'uscio del magazzino in cui dormiva, passava ore e ore a riflettere, ad architettare e a smontare piani senza mai riuscire a sciogliere i nodi di quell'intricato crogiuolo di sentimenti e titubanze che l'aveva conquistata. E, quando infine la stanchezza si faceva sentire, si lasciava vincere dal sonno, fra un dolce ricordo e un dilemma assillante.
***
   Alexer passeggiava su e giù per la sala del trono, le mani dietro la schiena e la fronte bassa. Nella sua mente gravata da pensieri e paure egli tirava le somme di quei quasi cinquant'anni di governo. Si sentiva spossato: non era riuscito a fermare la minaccia di Kharax, a evitare l'allontanamento di Calx, a smussare le spigolosità del carattere di Pelag e a impedire, nel lontano passato, la morte di tanti innocenti. Il suo cuore era affranto da quella che riteneva essere una lunga serie di fallimenti. I suoi passi lo condussero sulla terrazza: un candido spettacolo gli si presentò agli occhi, mentre il vento pungente s'abbatteva sulla sua ampia veste facendola svolazzare. Ora più che mai avrebbe voluto accanto a sé Atena, per trovare in lei la forza di continuare a lottare. Alzò lo sguardo verso il cielo, coperto da fosche nubi, e in cuor suo pregava di trovare quanto prima un successore: sentiva il fiato della nera signora farsi sempre più vicino e non voleva lasciare il Grande Tempio privo di un capo abile e generoso.
***
   Tirid era riapparso al di fuori delle mura di una piccola città. Di fronte a lui si ergeva un monte circondato dal mare su cui sorgevano vari edifici difesi da una modesta cinta muraria. Il cielo era cupo, squarciato dai lampi e dal rombo dei tuoni. Le acque erano agitate e creavano alte onde, che si abbattevano con forza sul ponte che collegava l'isolotto alla terraferma. Iniziò a cadere una fitta pioggia. Il demone della terra era contrariato: tutti i luoghi che aveva visitato fino a quel momento erano funestati dal maltempo e rimpiangeva le assolate pianure e la frescura delle sere in cui il cielo terso sfoggiava il bagliore di innumerevoli stelle.
   - Il quinto onice dovrebbe essere incastonato su di una teca che conserva un cranio umano -, ricordò, mentre imboccava il ponte bersagliato dalle raffiche di vento e dagli spruzzi d'acqua. Non era intenzionato a percorrere quel viadotto per intero, così scomparve e riemerse sotto la bassa muraglia posta a protezione di quel misterioso luogo. Notò subito delle croci svettare dai tetti di alcuni edifici: era un elemento che aveva già osservato a Bisanzio, Cracovia e Ratisbona e capì che, benché lontani fra loro, quei territori dovevano essere accomunati dalle stesse credenze religiose.
   - Ironico! Sebbene siano uniti dallo stesso dio, questi uomini continuano a farsi guerra e a spargere morte. Ma presto il Sommo Nergal sradicherà dall'universo la feccia che lo insozza con la sua tracotanza -, disse tra sé. Il Sabitta studiò con lo sguardo quelle pareti di pietra alla ricerca di una feritoia o di una fessura da sfruttare per poter penetrare nell'abitato, ma purtroppo non ne trovò.
   Senza pensarci due volte, con un poderoso salto superò l'ostacolo e atterrò in una specie di orto, pregno di odori intensi che si confondevano all'aria umida e alla pioggia scrosciante. Seguendo la linea delle mura, si diresse verso destra e giunse in quella che sembrava un'area cimiteriale: croci di legno conficcate nel terreno su cui erano incise parole sbiadite dal tempo in una lingua al demone ignota. Proseguì e, in un punto in cui la strada si restringeva, vide una sorta di sacrario illuminato dalla luce di qualche candela. La porta era solo accostata. Tirid vi entrò e scorse su un altare di pietra una teca d'oro circondata da ceri. All'interno vi era un cranio che presentava, nella parte posteriore, un vistoso foro. Il coperchio di quel reliquiario era adornato da cinque gemme: sui lati vi erano opali gialli, mentre al centro campeggiava l'onice nero.
   - Eccolo, finalmente! -, esclamò a voce bassa, avvicinandosi. - Ada![5] -, sussurrò poi. La gemma brillò per un attimo e si posizionò sulla mano di colui che l'aveva evocata. Incastonato l'onice falso, il signore delle ombre s'immerse nell'oscurità e abbandonò quei luoghi.
   Ricomparve tra slanciate querce che adornavano un sentiero bagnato e ricco di sassi levigati. Notò subito delle luci provenire da destra. Si addentrò nel fitto del querceto e vide una moltitudine d'individui camminare a passo lento, le torce alte salde nella mano, e intonare un solenne canto di cui non capiva le parole. All'orizzonte, la luna penzolava in mezzo a nuvole scure e bizzarre: l'inverno era giunto anche lì. Si accorse che tutte quelle persone si dirigevano verso lo stesso punto. In lontananza vide un possente edificio illuminato a festa; consultò la mappa: il luogo in cui convergeva quella folta umanità era il Santuario di un certo San Giacomo, e sulla di lui cosiddetta tomba avrebbe trovato il sesto onice.
   - Il posto è questo, ma come farò a raggiungere la meta con tutte queste persone? Potrei usare il mio cosmo, ma verrei scoperto e avrei fatto tanta fatica per nulla. Devo escogitare qualcosa per sottrarre la pietra senza destare sospetti -, si disse, riapparendo più vicino alla cattedrale per sondare meglio il terreno.
   All'esterno dell'edificio un uomo vestito da un'umile tonaca lasciava passare soltanto tre pellegrini per volta. Tirid controllò quanto tempo impiegassero per uscire e permettere a un altro gruppetto di entrare: sostavano all'interno della chiesa una decina di minuti circa.
   - Mi basterà -, esclamò il Sabitta, approfittando della ressa che invadeva il sagrato e la piazza antistante. Notò che una parte della cattedrale era in restauro e alcune impalcature di legno giungevano sino a una finestra che doveva immettere in una stanza adiacente alla navata principale della chiesa. Accompagnato dalle tenebre, si ritrovò davanti a quel varco, vi s'infilò tosto e cercò una via che gli consentisse di raggiungere il sepolcro del santo.
   L'ambiente era totalmente vuoto e le pareti erano prive d'intonaco. In un angolo erano ammucchiati attrezzi da lavoro. Vide una porta e la varcò. Si ritrovò in un piccolo disimpegno da cui partiva una rampa di scale addossata al muro e senza parapetto. La discese molto velocemente e giunse a una sala molto ampia e spartana: vi erano collocate in ordine sparso alcune statue di gesso rappresentanti dei o forse personaggi illustri; Tirid non aveva alcuna idea di chi raffigurassero quei simulacri dalle pose ascetiche. Si guardò intorno, e da una lunga fessura nella parete destra si accorse che proveniva una flebile luce. Si avvicinò per dare un'occhiata e scorse tre donne velate inginocchiarsi davanti a una lastra di marmo, fare dei gesti con le mani e poi giungerle per pregare. La pietra si trovava al centro di quel sarcofago. Attese che un nuovo gruppo venisse a omaggiare la tomba del santo e poi agì: non appena essi s'incamminarono verso l'uscita, egli comparve dalle tenebre dell'altare. Con un movimento fulmineo s'accostò al marmo bianco su cui era incisa una croce d'oro, adornata da rubini rossi. L'onice si trovava nella parte inferiore di quel simbolo.
   - Hulgig![6] -, sussurrò il Sabitta. La pietra si staccò dal sarcofago e si adagiò sulla mano di Tirid, che si apprestò subito a sostituire la gemma. Aveva appena terminato, quando udì il rumore dei passi del nuovo gruppo di pellegrini. Sostenuto dall'oscurità dell'altare, tornò tra le querce che lo avevano accolto al suo arrivo.
   - Ne manca solo uno e la missione sarà compiuta -, disse con un sorriso soddisfatto sul volto.
***
   Kharax era tornato a Samarra, dove lo attendevano i tre Sabitti. Il sultano lo ricevette con grandi onori e lo invitò a unirsi a lui per cena. Il traditore accettò senza troppi convenevoli. Nell'ampia sala del banchetto erano stati sistemati tre lunghi tavoli rettangolari, - uno al centro a cui erano accostati gli altri due, uno a destra e l'altro a sinistra, - sfarzosamente addobbati per ospitare i convitati. All'ex Cavaliere fu assegnato il primo posto del tavolo di destra. Vi si assise appagato, orgoglioso dei risultati che fino a quel momento aveva conseguito. Molti notabili presero parte al convito: alti funzionari, generali e, soprattutto, l'uomo di cui Arslan si fidava ciecamente, il suo consigliere e primo generale, Turgay, che gli sedeva accanto. Quando tutti gli invitati ebbero preso posto, il nipote di Toghrul Beg ordinò ai servi di mescere il vino più pregiato della casa: aveva un importante annuncio da fare.
   Non appena le coppe furono tutte ricolme, levò il calice ed esortò gli astanti a fare la medesima cosa. - Oggi è un grande giorno per il popolo turco -, esordì con voce stentorea e solenne. - Il nostro nuovo amico Kharax ci ha promesso una via sicura per raggiungere il Santuario di Atena e guerrieri potenti per affrontare i Cavalieri che lo difendono. Una settimana fa ho inviato un messo all'imperatore Costantino per chiedergli un salvacondotto per la città di Atene. Ieri ho ottenuto la risposta: mi dà appuntamento a Edessa il prossimo giugno per discutere di persona della mia richiesta. Sono sicuro che troveremo un accordo e ciò ci consentirà di vendicare il mio onorato zio -, continuò, con un fulgore negli occhi che mostrava tutto il suo entusiasmo.
   I convitati mandarono grida di approvazione e la cena poté cominciare allietata da queste nuove. Kharax non si aspettava tanta pubblicità, ma essere riuscito a entrare nella cerchia ristretta delle amicizie del sultano non gli dispiaceva.
   Tuttavia, c'era qualcuno che non sembrava così infervorato da quelle notizie. Turgay trovava l'aiuto disinteressato di quel misterioso individuo, spuntato da chissà dove, fin troppo sospetto. Ne aveva parlato al sultano, ma l'enorme senso di appagamento che gli aveva donato la speranza di poter prevalere sulle forze di Atena l'aveva talmente colmato di gioia da non sentire più ragioni. Ciononostante, aveva deciso di tenere sotto controllo quell'uomo ambiguo e losco. Subito dopo la fine della cena, ritiratosi nei propri alloggi, fece chiamare Ergin, il suo luogotenente, e gli ordinò di sorvegliare Kharax e il suo capannello di demoni.
   Arslan e il suo nuovo alleato rimasero a conversare a lungo dopo il lauto banchetto. - Non credete di essere stato troppo precipitoso nell'annunciare l'imminente attacco al Grande Tempio, mio signore? -, chiedeva Kharax, mandando giù tutta d'un fiato l'ennesima coppa di vino.
   Il sultano sorrise e con una certa soddisfazione ammise: - Se non avessi la certezza della collaborazione di Costantino, non avrei mai fatto quel proclama. All'imperatore conviene scendere a patti con me: la corte di Bisanzio è un covo di serpi e non passa giorno che il sovrano non senta il morso della congiura strappargli il potere. Avere anche un nemico potente come l'esercito turco significherebbe mandare in rovina un regno che dura da svariati secoli -. Bevve con gusto dal suo calice d'oro, apprezzando quel nettare che proveniva da Samarcanda.
   L'ex Cavaliere fu ammirato dalla lucidità di pensiero e dalle abilità diplomatiche del suo socio; inoltre, aveva notato che, dietro il suo lato autorevole e regale, si celava anche una solida generosità e un'incrollabile lealtà: erano doti che aveva in comune con il suo defunto zio, sebbene in lui si fossero potenziate fino a raggiungere quasi uno stadio di perfezione. Quella chiacchierata si protrasse ben oltre la mezzanotte, finché il vino e il sonno non consigliarono ai due interlocutori di andare a dormire.
***
   Il primo demone della terra ricomparve ai piedi di un monte nel basso Lazio. Una stradina stretta e ripida, incorniciata da grossi massi e da spoglie sagome di olmi e terebinti, conduceva alle mura dell'abbazia dov'era conservato l'ultimo onice. Un vento freddo e secco sferzava la cima di quell'ammasso di roccia e asciugava il terreno imbevuto di pioggia. Tirid percorse quella faticosa erta in un lampo e giunse di fronte all'immenso portone chiuso. Si voltò indietro e, dallo spiazzo antistante le mura, vide un piccolo borgo poco lontano dal monte. Una parete di roccia rasentava un tratto di muraglia: il Sabitta la usò per scavalcare e atterrò accanto a degli edifici da cui provenivano strani rumori e odori putidi. Si affacciò e vide cavalli, pecore, maiali e capre: erano gli stabbi. Si allontanò in fretta, diretto verso la torre in cui era ubicata la biblioteca.
   Superò un vialetto coperto da ciuffi d'erba bruciati dal gelo. Passò davanti a una chiesa, illuminata da grossi ceri: dalle porte spalancate non si scorgeva nessuno, solo le scure panche di legno mostravano la loro presenza. Vide, poco lontano, un'altra serie di edifici: erano probabilmente i dormitori. Tirid non avvertiva alcuna presenza umana e proseguiva il suo cammino in direzione della torre, addossata alle mura occidentali e situata su un terrapieno, da cui il sole giungeva con maggiore intensità. Accanto erano state sistemate le cucine e la mensa. Fu da lì che il demone decise di entrare. La porta era solo accostata. Il Sabitta s'intrufolò in silenzio e raggiunse la sala in cui i monaci erano soliti mangiare: era una stanza piccola e disadorna al cui centro c'era un lungo tavolo consunto ma pulito, e panchetti disposti sui lati lunghi.
   Alcuni scalini di pietra immettevano in quello che era lo scriptorium: un'ampia camera illuminata da larghe finestre sotto cui erano sistemati tavoli e scranni adibiti alla copiatura dei testi. Su alcuni erano presenti volumi finemente miniati o fogli sparsi su cui erano state stese righe di scrittura. Tirid si guardò intorno e vide, a ridosso di una delle pareti, una scala a chiocciola alla cui sinistra vi erano un tavolino e una sedia. Si avvicinò e la risalì in fretta, ritrovandosi in una saletta angusta su cui si apriva un arco. Attraversatolo, vide un lungo corridoio alle cui pareti erano appoggiati enormi scaffali in cui erano allogati codici e pergamene. Il corridoio seguiva il perimetro della torre, ma spesso era interrotto da altri passaggi che creavano una sorta di intricato labirinto. Un po' disorientato da quella rete di ambulacri, s'immerse nel fitto delle tenebre e si lasciò guidare da esse nella direzione giusta. Vide una porta fatiscente e sbarrata alla fine di un corridoio alla sua sinistra. Riemerse a pochi metri da essa: poiché era chiusa doveva trovare il modo di superarla senza scassinarla.
   La serratura era grossa e consunta. Tirid vi inserì un dito e si lasciò assorbire dall'oscurità della stanza che nascondeva. Quando riapparve, capitò in una stanzetta stretta, affollata di scaffali oberati di volumi. Esaminò quell'imponente mole di libri e, alla fine, scovò quello che cercava: era un codice di piccole dimensioni, con una copertina verde senza rifinimenti particolari, tranne che per l'onice nero che si stagliava al centro. Il Sabitta sorrise e pronunciò il nome dell'ultima gemma:
   - Garash![7] - Così come avevano fatto i suoi fratelli, anche l'onice finale si depose sulla mano di colui che lo evocava. Non appena l'ebbe sostituito, il primo demone della terra tornò in breve tempo presso le cucine e da lì, guidato dalle tenebre, si ritrovò ai piedi del monte. Osservò per un attimo le pietre preziose nella sacca che aveva a tracolla e, con sommo vanto, si dileguò tra le ombre per raggiungere il covo di Sorush.
***
   Al Grande Tempio soffiava un vento gelido che spazzava le cime brulle del monte. Zosma e Yeng erano scesi alla Casa del Grande Cancro per conversare con Sertan; il giovane rampollo di Kharax li ricevette con cordialità e li invitò a sedersi e a prendere un bicchiere d'acquavite. I due Cavalieri si accomodarono, ringraziando il compagno per la gentile offerta.
   - Grazie Sertan, ma non siamo qui per bere -, aggiunse Zosma, scuro in volto e palesemente nervoso.
   - Sei ancora arrabbiato per le scelte di Calx, vero? -, intuì il custode della quarta casa.
   - Mi hanno riferito che è passato dalle parole ai fatti: si è dichiarato a quella ragazza! -, sbottò il Cavaliere di Leo.
    - E temi che non tornerà più tra noi, lo capisco -, concluse Sertan, come se sapesse leggere nella mente altrui.
   - Di sicuro l'ho trovato molto più determinato e deciso rispetto a quand'era qui -, intervenne Yeng, che aveva incontrato il custode delle vestigia di Gemini qualche giorno prima.
   - E allora cos'è che vi preoccupa? Sembra che questa nuova vita gli stia facendo scoprire una risolutezza che non credeva di avere; la trovo una notizia positiva! -, affermò con molta calma il Cavaliere di Cancer. I due ospiti si lanciarono occhiate curiose: sembrava che il loro amico avesse preso con eccessiva disinvoltura la defezione di Calx.
   Sertan non si stupì della loro reazione e, prima che iniziassero a tempestarlo di domande, spiegò i motivi del suo ottimismo, ma senza rivelare il segreto di cui l'avevano messo a parte il Sacerdote e il Primo Ministro: - Anch'io sono triste per l'allontanamento di Calx, sia chiaro! Ma cerco di non farmi sopraffare dalle emozioni e di analizzare la situazione con lucidità: sappiamo tutti quanto sia stato difficile per il nostro compagno trovare un equilibrio mentre indossava l'armatura di Gemini; e infatti, al primo dubbio, la sua fuggevole determinazione è crollata. Ora sembra aver acquisito una solida consapevolezza della propria condizione e ciò può portargli solo giovamento. Non ci resta che sperare che questa nuova realtà rinnovelli in lui la fiducia in Atena -.
   Zosma e Yeng si guardarono in silenzio: il ragionamento di Sertan non li aveva convinti appieno, ma aveva una sua plausibilità. - Io resto dell'idea che vada fatto qualcosa per riportare Calx sulla retta via -, insisté il custode della quinta casa.
   - E cosa? Gli abbiamo parlato innumerevoli volte senza mai cavare un ragno dal buco. E poi, finché l'armatura non gli accorda nuovamente la sua fiducia, non potrà tornare a occupare la terza casa -, rispose il Cavaliere di Libra, appoggiando l'opinione di Sertan, che, seppure non esaustiva, gli appariva più condivisibile. Quella discussione si protrasse fino al tramonto, poi ognuno ritornò a presidiare il palazzo che gli era stato affidato.
***
   Dagli alberi scheletriti che adornavano il desolato panorama del rifugio del servo di Nergal emerse Tirid, che discese le scale della prigione ipogea in cui lo attendeva Sorush. Non appena il sacerdote lo vide, il suo volto, dapprima mesto e angosciato, rinvigorì e s'illuminò di una speranza a lungo stretta al petto.
   - Ci sei riuscito! -, esclamò con gioia e stupore. Il demone annuì con un sorriso soddisfatto e, togliendosi la sacca dalla spalla, gliela consegnò. Sorush rovesciò gli onici sul tavolo: emettevano una scialba luce e sembravano aver perso la loro forza cosmica.
    Il Sabitta restò attonito e disse: - Perché non reagiscono fra loro? Ora che sono di nuovo tutte insieme dovrebbero acquisire la forza di un tempo -. Sorush scosse il capo.
   - Non è così. Non basta riunirle per azionarne il potere, bisogna disporle secondo un ordine prestabilito -, precisò, tirando fuori da un cassetto ricavato in una delle pareti una tavoletta d'argilla dai bordi smussati.
   - E quella cos'è? -, chiese Tirid, sempre più confuso.
   - Questa tavoletta riporta un'antica favola scritta in codice da un mio lontanissimo antenato. Serve a rimettere in ordine gli onici per evocare lo Ĝidri Namkalgak,[8] l'arma di Nergal capace di distruggere e rifondare l'universo. Tuttavia, non sono mai riuscito a decifrarla: non sembra sumerico, o almeno non quello che conosco io -, spiegò il sacerdote, con una punta di rammarico nella voce.
   - Posso vederla? -, domandò il Sabitta. Sorush gliela porse ed egli la scutò da cima a fondo, provando a trovare un senso a quegli oscuri segni. Tentò più volte, ma tutte le esegesi che gli venivano in mente risultavano insoddisfacenti.
   Gli venne un'idea che avrebbe potuto sciogliere l'arcano che nascondeva quella tavoletta e la sottopose al suo interlocutore: - Avete ragione, non è comune sumerico: il vostro antenato ha usato anche l'accadico e il caldeo, rendendo più complicata la traduzione del testo. Tuttavia, credo di essere in grado di decifrarla: chiederò alle tenebre di indirizzarmi verso l'interpretazione giusta -.
   Sorush non capì cosa intendeva dire Tirid, ma era interessato a qualsiasi cosa potesse svelargli il contenuto di quello scritto. - Chiederai alle tenebre? Che significa? -
   Il Sabitta sorrise e subito chiarì il suo pensiero: - L'oscurità è antica quanto l'universo e conosce anche i segreti più reconditi: mi immergerò in essa e mi farò rivelare il significato di queste parole -. Il sacerdote era ammirato dal progetto del Sabitta e accettò tosto la proposta.
   Il primo demone della terra si diresse nell'angolo più buio della stanza e scomparve. Sorush rimase in trepidante attesa e si augurava che l'idea di Tirid avesse successo. Si fermò a contemplare gli onici e ne sfiorò alcuni con le dita, come a vagliarne il potenziale. Poi uscì all'aria aperta: il cielo nero era acceso dai lampi e scosso dai tuoni. Sorush alzò gli occhi, mentre fredde gocce di pioggia gli bagnavano il volto.
 
[1] "Oscurità".
[2] "Guerra".
[3] "Maledizione".
[4] "Omicidio".
[5] "Contesa".
[6] "Odio".
[7] "Catastrofe".
[8] "Scettro del Potere".

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Capitolo 15
*** Il maestro delle anime ***


CAPITOLO XV
IL MAESTRO DELLE ANIME
 
Europa centro-orientale - Asia Minore, giugno 1064
 
   Il demone guardava dalla finestra l'addestramento delle guardie del sultano. I suoi compagni erano sdraiati sui letti, ormai stufi di quella situazione di inerzia e di ozio. La porta scricchiolò attirando l'attenzione dei tre: Kharax entrò con un sorriso soddisfatto e col volto di chi ha in mente mille progetti.
   - Il tuo momento è giunto, Sarabda! Recati al villaggio di Flusshaus, nella Foresta Nera, e mettilo a ferro e fuoco! Sono certo che il Cavaliere di Pisces accorrerà per soccorrere i suoi vecchi concittadini -, ordinò l'ex paladino di Atena. Atab e Kuda si levarono di scatto dai loro giacigli e si avvicinarono al loro socio.
   Il primo sbottò contrariato: - Vorresti lasciarci in disparte, Lulul? Il nostro cosmo freme e siamo stanchi di starcene con le mani in mano! - Kharax chiuse gli occhi e abbassò lo sguardo, tirando un sospiro annoiato.
   - Avrete modo anche voi di mettervi in luce. Fra una settimana avrà luogo l'abboccamento fra Costantino e Arslan. Se le cose andranno come prevedo, ben presto partiremo alla volta della Grecia con il contingente turco e, una volta raggiunta la nostra meta, potrete massacrare chiunque vi si parerà davanti -, spiegò, suscitando nei suoi interlocutori un forte moto di gioia.
   Il primo demone dell'acqua partì subito e, in poco tempo, raggiunse Flusshaus. Era un villaggio incastonato in un'ansa del Neckar e circondato da una fitta foresta, popolato da poche centinaia di anime, i sopravvissuti all'epidemia diffusasi ai tempi in cui ci viveva Vernalis, e i loro discendenti. Le case di legno coi tetti di paglia, i recinti che proteggevano i pochi capi di bestiame terrei e rinsecchiti denunciavano una miseria straziante. Sarabda provava solo disprezzo per quelle creature smunte che si ostinavano a restare attaccate a uno scampolo di vita. Discese in mezzo ad alcuni frassini accarezzati dal vento e sorrise: finalmente poteva dare libero sfogo alla sua sete di sangue e affrontare i guerrieri di Atena.
   Osservò le acque del fiume scorrere quiete e, nascosto dal folto degli alberi, si avvicinò a esse. Poggiò le mani sullo specchio d'acqua e fece avvampare il suo cosmo di un pallido azzurro. Il fiume s'increspò e alte onde s'innalzarono fra gli sguardi increduli e sbigottiti degli abitanti del villaggio. Tutti cominciarono a correre in cerca di salvezza e molte donne levarono stridule grida in preda al terrore. Sulla cima delle onde apparve Sarabda che, bruciando il cosmo, si mise a bombardare case e recinti con potenti getti d'acqua. Sotto quella raffica di colpi, non solo le abitazioni ma anche gli alberi vennero spazzati via portando con sé i poveri malcapitati che non erano riusciti ad allontanarsi in tempo. Poi comandò ai flutti di riportarlo a terra e iniziò a uccidere i superstiti, inseguendoli fino alle radici del bosco. In poco tempo l'intero pianoro e parte della foresta adiacente si riempirono di cadaveri: donne, vecchi, bambini; la crudeltà del Sabitta non aveva risparmiato nessuno.
   - Ora tocca a te, Cavaliere! -, disse fra sé, facendo risuonare l'aria con la sua risata.
***
   Alla dodicesima casa Vernalis era inquieto: aveva percepito un cosmo maligno e passeggiava nervosamente tra le sale della sua dimora. Poi, d'improvviso, si fermò avvertendo l'appressarsi di qualcuno: un suono metallico riecheggiava nel silenzio del corridoio centrale.
   - Posso attraversare la tua casa, Vernalis? -, esordì una voce fiera e giovane: era Nashira.
   - Sei stato convocato dal Sacerdote? -, chiese il custode dell'ultima casa.
   - Esatto -, fu la risposta.
   - Ti spiace se ti accompagno? -, propose il Cavaliere, attendendolo all'uscita del palazzo.
   - Affatto -, disse il possessore di Excalibur. I due si avviarono sulla rampa di scale che conduceva alla sala del trono parlando dell'aura malefica apparsa in Occidente.
   - Quel cosmo è sorto nei pressi del mio villaggio, ne sono certo -, confessò Vernalis, rendendo palese il suo disagio interiore.
   - Quindi è per questo che hai voluto seguirmi, giusto? -, intuì il Cavaliere di Capricornus, accennando un sorriso.
   - Perdonami, amico mio, ma se davvero qualche demone è giunto nel mio paese d'origine, non posso permettere che siano altri ad affrontarlo -, ammise perentorio il giovane Pisces, fissando lo sguardo sul compagno.
   Nashira si fermò e mise una mano sulla spalla dell'ultimo custode dorato: - Se il luogo in cui quel cosmo si è fatto vivo risulterà essere il tuo villaggio natio, non farò rimostranze, ti lascerò andare -, concesse, e senza indugiare oltre proseguì. Vernalis gliene fu intimamente grato e lo raggiunse, continuando a discorrere.
   Arrivati a destinazione, Alexer guardò con una certa curiosità il maestro di Sargas e gli domandò il motivo della sua presenza alla tredicesima casa. Vernalis si avvicinò e si profuse in un inchino.
   - Signore, sospetto che il cosmo oscuro che abbiamo percepito si trovi nei pressi di Flusshaus, il mio villaggio natio -, rivelò il ragazzo con voce tremula.
   - Sì, è lì che si trova -, confermò il vicario di Atena, - ma ho convocato Nashira per occuparsi della questione -.
   Il giovane Pisces si alzò e fissò lo sguardo sul Sacerdote, ribattendo: - So bene di trovarmi qui senza permesso, ma vi prego di affidare a me questa missione. La Foresta Nera è insidiosa per chi non la conosce e non di rado ci si perde a girare tra valli, monti, laghi e boschi. Flusshaus è difficile da localizzare, solo chi ha dimestichezza con quei luoghi è in grado di raggiungerlo -.
   Il vicario di Atena fece un profondo respiro e rivolse la parola a Nashira: - Tu sei d'accordo? -
   Il Cavaliere della decima casa rispose con tono rilassato: - Vernalis mi ha palesato le sue perplessità lungo il cammino verso la sala del trono e io gli ho promesso che se il suo presentimento si fosse rivelato fondato, gli avrei ceduto volentieri il campo. Mi reputo un uomo d'onore e confermo quanto gli ho garantito. Affidate a lui l'incarico, sarò ben felice di lasciarglielo -.
   Dopo quelle parole, nella stanza calarono alcuni minuti di silenzio. L'attesa esacerbò alquanto l'animo del giovane Pisces, che temeva di arrivare troppo tardi a destinazione. Alexer volse lo sguardo verso Kanaad, che annuì con un cenno del capo. Poi tornò a guardare i due paladini della giustizia che aveva di fronte e, con voce solenne, esclamò: - E sia! La missione è tua, Vernalis -. Liberato finalmente da quell'opprimente frustrazione, il custode della dodicesima casa ringraziò il Sommo Alexer.
   Uscito dalla sala col compagno, lo guardò con occhi grati e, prima di partire, gli disse: - Vorrei chiederti un favore: potresti dare un'occhiata all'addestramento del mio discepolo durante la mia assenza? - Nashira annuì.
   - Lo troverai a Psittalia. Fagli anche sapere della mia partenza -, aggiunse e, dopo averlo salutato calorosamente, corse via dalla zona sacra per potersi teletrasportare in Germania.
   Il giovane Pisces sparì sotto gli occhi del compagno che, in cuor suo, gli augurava di tornare sano e salvo. Poi si mosse alla velocità della luce e raggiunse in un lampo l'isoletta dove si addestrava Sargas. Il ragazzo tentava di colpire un'agile lucertola che, avvedutasi del pericolo, si nascondeva tra i bassi e radi cespugli. Ma ben presto l'apprendista si spazientì e cominciò a prendere a calci i ciottoli immersi nella sabbia.
   - La pazienza è l'arma più potente di un Cavaliere, devi imparare a farla tua, ragazzo! -, esordì il detentore di Excalibur, che lo osservava poco lontano a braccia conserte. Sargas trasalì: non si era minimamente accorto della presenza di Nashira. Fece un breve inchino e si scusò per la sua imperizia.
   - Cosa ci fate qui? -, chiese, sorpreso da quella visita.
   Il Cavaliere fece qualche passo avanti e con sguardo inespressivo spiegò secco: - Vernalis è partito per una missione e mi ha affidato la supervisione del tuo addestramento -.
    - Partito? -, esclamò cupo il ragazzo con un gesto di rabbia. - Perché non mi ha portato con sé? -, gli rimproverò a voce alta.
   - Smettila di agitarti! Sei solo un apprendista che non sa ancora adoperare a dovere il cosmo. Saresti stato solo d'intralcio a Vernalis: la sua è una missione che richiede fermezza e lucidità; trascinarsi dietro un marmocchio come te avrebbe potuto comprometterne il successo -, asserì irritato Nashira, poco incline a trattare con gentilezza le persone e avvezzo a usare il pugno duro con chiunque.
   Il ragazzo si calmò e abbassò lo sguardo. Deglutì tutta l'amarezza di quelle parole e domandò come fare per acquisire la pazienza. Il Cavaliere di Capricornus fece un lungo respiro e sollevò il braccio destro verso l'alto.
   - Osserva -, disse poi, rivolto al giovane apprendista. Puntò la lucertola che già Sargas aveva tentato invano di colpire: si era acquattata in un cespite d'erba verdeggiante per confondere chi le dava la caccia e si guardava intorno, alla ricerca di qualche insetto da invitare a pranzo. Nashira attese qualche secondo e poi calò con grande rapidità il braccio. Una tenue luce disegnò una lunga linea sul terreno, e Sargas si avvide che il rettile giaceva a terra tagliato a metà. Colto dallo stupore, fece un passo indietro e capì quanto fosse lontano dalla destrezza e dalla precisione del custode della decima casa.
   - Prima di sferrare il colpo, impara a fonderti con ciò che ti circonda: controlla la direzione del vento, lo stormire delle foglie, i movimenti della preda che vuoi colpire. Solo quando hai la sicurezza di centrare l'obiettivo devi agire! -, consigliò Nashira, sempre con volto severo e accigliato. Il discepolo di Vernalis lo guardò esterrefatto e si rese conto di essere troppo precipitoso nello scagliare i colpi. Notò un'altra lucertola intenta a godersi uno sventurato lombrico. Con l'indice destro prese la mira e concentrò il proprio cosmo. Tentò di seguire i consigli che gli erano stati forniti e, non appena si sentì pronto, lanciò un sottile fascio di energia cremisi contro il rettile. Purtroppo il colpo si abbatté su un gruppo di foglie, mentre la lucertola scappava a gran velocità, impaurita da quell'attacco improvviso.
   - Riprova! -, gli ordinò Nashira, tornando a incrociare le braccia.
***
   Dalle ombre della prigione umida apparve Tirid, col volto trionfante e la tavoletta tra le mani. Sorush lo guardò e comprese subito che l'oscuro testo era stato decifrato. - Ebbene? Hai svelato l'arcano? -, chiese trepidante.
   - Sì, anche se il farlo ha richiesto più del necessario -, rispose il demone della terra. Il sacerdote non diede peso al ritardo, ma volle conoscere all'istante cosa raccontasse quello scritto.
   - Avanti, traduci! Io trascriverò le tue parole -, ordinò con una certa fretta.
   Il Sabitta annuì e iniziò a declamare: - Prima che gli dei celesti creassero gli uomini, due alberi spuntarono sulle rive opposte del Tigri: sulla destra sorse Esh Melamak, l'albero della luce, mentre sulla sponda sinistra germogliò Esh Kukkuk, l'albero dell'oscurità. Quando entrambi crebbero abbeverandosi alle benedette acque del fiume, l'albero della luce si coprì di rami robusti, affondò radici profonde nel terreno e si rivestì di foglie verdeggianti e copiose; l'albero dell'oscurità, invece, aveva rami anneriti e secchi, radici visibili a occhio nudo e foglie accartocciate e ingiallite. Quando il vento ne carezzava le chiome, dall'albero della luce si spargeva un profumo dolce e invitante, ma dal suo dirimpettaio si levava un odore acre e pungente.
   Col tempo, l'invidia spinse l'albero dell'oscurità ad attaccare il suo scomodo vicino e così produsse un frutto, Hulgig, l'odio, il cui seme cadde in terra. Ogni volta che il vento spirava lanciava i suoi lunghi rami contro le foglie del nemico e molte precipitavano. In risposta, l'albero della luce produsse il frutto dell'amore, il cui seme cadde in terra, per cercare di placare l'astio di cui era oggetto.
   Ancora più furioso, l'albero dell'oscurità produsse un secondo frutto, Ash, la maledizione, il cui seme cadde in terra. Ogni volta che le possenti radici del suo nemico si allungavano sul fiume per dissetarsi, esso rilasciava sul pelo dell'acqua una sostanza violacea che gli impediva di bere. Per difendersi da questo nuovo attacco, l'albero della luce produsse il frutto della benedizione, il cui seme cadde in terra, per purificare le acque da quella materia venefica.
   Non pago del risultato, l'albero dell'oscurità produsse un terzo frutto, Ada, la contesa, il cui seme cadde in terra. Quando il Tigri riduceva il suo apporto d'acqua, esso allungava i rami e circondava i rigagnoli per impedire al nemico di abbeverarsi. Anche stavolta l'albero della luce produsse un frutto, quello della conciliazione, il cui seme cadde in terra, e grazie a esso era in grado di assumere quel tanto d'acqua che gli necessitava per sostentarsi.
   Deluso ancora una volta dalla sua strategia, l'albero dell'oscurità produsse un quarto frutto, Me, la guerra, il cui seme cadde in terra. Affilò i suoi rami e iniziò a perforare le radici dell'avversario per indebolirlo. A sua volta l'albero della luce produsse il frutto della pace, il cui seme cadde in terra. Così, ogni volta che subiva un attacco, poteva rigenerare le sue radici senza problemi.
   Poco incline alla sconfitta, l'albero dell'oscurità produsse un quinto frutto, Saĝgishra, l'omicidio, il cui seme cadde in terra. Sfruttando i venti e la pioggia cominciò a conficcare le proprie foglie marce nel rigoglioso tronco del nemico. L'albero della luce si contorse e sofferse indicibilmente.
   Fu allora che l'albero dell'oscurità produsse il sesto e ultimo frutto, Garash, la catastrofe, il cui seme cadde in terra. Allungando tutti i suoi rami e agitando tutte le sue foglie sradicò dalla terra l'albero della luce e lo ridusse in frantumi per evitare che si ricomponesse. Così, l'albero oscuro ottenne la sua vittoria e i semi che aveva sparso sul terreno si sparpagliarono nel mondo -.
   Finita la traduzione, il demone riconsegnò la tavoletta a Sorush, che aveva terminato di scrivere le parole appena udite. Rilesse in fretta quanto aveva vergato su quelle pagine e i suoi occhi s'irradiarono di una luce sinistra.
   - Ora conosco l'ordine in cui gli onici vanno posizionati! Ben fatto, Tirid! Recati a Samarra, dai tuoi compagni, e mettiti al servizio di Kharax -, disse poi al Sabitta, continuando a esaminare lo scritto che aveva davanti. Senza por tempo in mezzo, il fido servo di Nergal si lasciò assorbire dalle tenebre e sparì.
***
   Calx stava abbracciando teneramente Eyra: fra pochi minuti doveva comparire di fronte al Sommo Alexer per comunicargli la sua decisione. Era teso, il cuore gli batteva forte, ma forse per la prima volta nella sua vita era risoluto. La fanciulla dai capelli corvini si accorse dell'inquietudine che gravava sul suo compagno e tentò di placarla accarezzandolo con dolcezza e sussurrandogli parole d'amore. La tensione del giovane Gemini si allentò e nei suoi occhi azzurri il sole di giugno rifletté un animo rasserenato. Diede un ulteriore bacio alla ragazza e s'incamminò verso le dodici case, promettendole che si sarebbero rivisti più tardi.
   Mentre si allontanava, Eyra non poté fare a meno di riconsiderare quanto era avvenuto nell'ultimo anno: quella che era cominciata come una semplice missione per rimuovere un guerriero scomodo dal campo di battaglia si era alla fine tramutata in una stupenda passione. Aveva iniziato a sentirsi viva, amata in modo pudico e senza secondi fini, libera di poter finalmente provare un sentimento pulito e privo d'ipocrisia. Ma, in fondo al cuore, quell'amore le sembrava un tradimento nei confronti di Kharax e Lamashtu: i due erano felici che il loro piano funzionasse, eppure avvertiva un vago rimorso rimproverarla di continuo. Ogni volta che le si affacciava alla mente lo scacciava via perché l'avido desiderio di felicità pretendeva obbedienza. Ora che Calx era deciso ad abbandonare le sue attività belliche e a dedicarsi a una vita più ordinaria e meno avventurosa, poteva realizzare il suo tanto agognato sogno: tornare ad Atene. Ne aveva parlato a Kharax, che le aveva concesso l'uso della sua modesta casa poco lontana dalla spiaggia in cui aveva abitato saltuariamente. Dopo tante sofferenze e soprusi aveva la possibilità di riscattare il suo amaro passato e di dare nuova linfa alla sua esistenza.
   Il giovane discepolo del Sacerdote preferì prendere il passaggio segreto per giungere in cima al monte: non aveva voglia di affrontare uno a uno tutti i suoi ex compagni. Salì le scale senza esitazione, pronto a lasciarsi alle spalle guerre e dubbi. Giunto all'altezza della quinta casa, notò un'ombra appoggiata alla parete. Rallentò il passo, aveva intuito subito chi lo stava aspettando: era Zosma.
   Tirò un sospiro e lo raggiunse: - Cosa ci fai qui? -, lo apostrofò, visibilmente spazientito.
   - Siamo amici, è naturale che sia qui, e poi immaginavo che avresti preso la scorciatoia. Dimmi, che cosa hai deciso? L'apprensione mi sta logorando: non riesco a raffigurarmi un Grande Tempio senza di te -, rispose il Cavaliere di Leo, trattenendo in corpo la rabbia.
   Calx abbassò lo sguardo e con tono fermo infranse le fievoli speranze del compagno: - Dovrai abituarti all'idea di non vedermi più girare tra questi corridoi. Non ho più fiducia in Atena e non ho intenzione di riprendere l'armatura. Se mi sei davvero amico, saprai capirmi -, affermò, riprendendo il cammino senza attendere la replica di Zosma.
   Il custode della quinta casa avrebbe voluto controbattere per scalfire quella granitica risolutezza, ma dopo innumerevoli tentativi gli era ormai chiaro che Calx non sarebbe mai tornato sui suoi passi. Gli consentì di proseguire e, con un groppo alla gola, infilò la porta che lo ricondusse al suo presidio.
   Il giovane Gemini percorse rapidamente il corridoio che immetteva nell'atrio della tredicesima casa e si ritrovò davanti alla sala del trono. Vi entrò e scorse, sul fondo, le figure del suo maestro e del Primo Ministro. Si avvicinò e fece un riverente inchino.
   Alexer si alzò in piedi e, con voce tonante, si rivolse al suo discepolo: - L'anno che ti avevo concesso per sciogliere i tuoi dubbi è passato. È ora di farci conoscere la tua decisione -. Era ben conscio di ciò che avrebbe udito, ma dissimulò l'amarezza che lo pervadeva e si calò freddamente nel suo ruolo.
   Il custode della terza casa guardò i suoi interlocutori e con grande serenità espose quanto aveva deciso: - Non vi è ignota la mia mancanza di fede in Atena e quanto ciò sia pregiudizievole per indossare un'armatura. I miei dubbi sono ormai svaniti, ma non tornerò a occupare il Palazzo dei Bambini Gemelli. Serberò con affetto gli insegnamenti che mi avete impartito, anche se mi spiace di avervi deluso. Perdonatemi, se potete. Io vi sarò sempre grato. Addio! -
   Fece un altro inchino e si voltò verso l'uscita, quando la voce di Kanaad lo fermò: - Sei sicuro che la tua decisione sia dettata da una sincera volontà? Esiste un modo per farti cambiare idea? -
   Calx tornò a voltarsi e, per un attimo, soppesò le domande che gli erano state rivolte. Senza lasciarsi intimidire, rispose: - So che vorreste tenermi al vostro fianco, che il vostro affetto e le vostre parole sono volte a farmi ponderare a fondo la mia scelta, ma posso garantirvi che ci ho pensato giorno e notte e che non ho trovato alcun motivo per restare. Privo di armatura e di fede a cosa servirei? Se le persone avranno bisogno di me, potrò aiutarle anche senza far parte di una casta d'eroi. Quanti uomini, ogni giorno, sfidano il destino e vincono? Eppure non c'è nessuno a ricordarsi di loro o a riverirli come esseri speciali. Il mio braccio sarà sempre accanto agli indifesi e ai deboli, qualora gli occorresse il mio aiuto -.
   Il Primo Ministro non ribatté: ormai il giovane che gli stava davanti aveva acquisito una consapevolezza e una forza che solo un dio poteva scardinare. Calx non aggiunse altro e uscì dalla sala, col cuore leggero e la mente affollata di mille progetti di vita. Desiderava soltanto tornare da Eyra e poterle dire che un nuovo corso iniziava per entrambi.
   Alexer si diresse verso la terrazza, e pregò sommessamente Atena di aprire gli occhi al suo discepolo, affinché scoprisse la realtà. Kanaad gli si accostò e, una mano sulla spalla, cercava di confortarlo.
   Calx corse giù fino ai piedi del monte, senza fermarsi. Uscito dalla porta segreta vide alcuni dei suoi compagni: era stato Zosma ad avvertire i parigrado della scelta del custode della terza casa, ed essi avevano convenuto di dargli un ultimo saluto. Oltre al Cavaliere di Leo erano presenti anche Hamal, Elnath, Sertan, Yeng, Altager e persino Syrma che, per l'occasione, aveva abbandonato l'isolamento della sesta casa. Mancavano all'appello Pelag, che aveva sdegnosamente rifiutato di partecipare a quella riunione di commiato; Nashira, intento a sovrintendere all'addestramento di Sargas; e Vernalis, partito per la Foresta Nera. Lo abbracciarono, cercando ancora una volta di convincerlo, e lo salutarono con le lacrime agli occhi. Calx fu colpito da tutta quella manifestazione d'affetto e si commosse, scusandosi e chiedendo perdono per il suo allontanamento.
***
   Dalle ombre della stanza emerse Tirid. Kuda e Atab lo riconobbero subito e gli si avvicinarono per salutarlo. Il sesto demone del fuoco, sorpreso di vederlo, chiese: - Che ci fai da queste parti? Sono secoli che non ci vediamo! - Il Sabitta accennò un breve sorriso e, senza rispondere alla domanda, fece qualche passo avanti in direzione dell'uomo affacciato all finestra che non si era minimmente scomposto alla sua apparizione.
   - Siete voi Kharax, giusto? Il mio nome è Tirid, il signore delle ombre, primo demone della terra. Il Sommo Sorush mi ha inviato ad aiutarvi -, si presentò con enorme riguardo.
   Il traditore si voltò a guardarlo per un attimo e annuì col capo, senza proferire parola alcuna: sembrava molto preso dai suoi pensieri. Tirid rimase interdetto; volse lo sguardo e si accorse che mancava Sarabda: non aveva avvertito la sua morte, né alla sua mente si erano affacciate scene di battaglia che lo avevano visto coinvolto; tornò a indossare il suo tono cortese e domandò a quell'uomo all'apparenza restio a parlare dove si trovasse il compagno.
   Kharax fece un lungo sospiro e, rivolti di nuovo gli occhi alla finestra, spiegò: - Sarabda ha ricevuto una missione speciale che lo terrà lontano da qui per un bel po' -. Tirid comprese che non avrebbe ottenuto altri dettagli da quello strano individuo e decise di non interrogarlo oltre. Si riunì a Kuda e Atab, e i tre cominciarono a parlare fittamente di eventi passati e di progetti futuri.
   D'improvviso si sentì un colpo alla porta: un inserviente era stato inviato ad avvertire Kharax che il sultano lo attendeva nel cortile. L'antico Cavaliere annuì e si mosse per seguirlo. Prima di uscire, diede un'ultima occhiata ai suoi scagnozzi e, con un sorriso sornione, tuonò: - Cercate di non combinare guai, intesi? -
   I Sabitti lo fissarono con volto serio e, all'unisono, risposero: - Sì! -
   Chiusa la porta, Kharax percorse rapidamente il corridoio e la rampa di scale che lo avrebbero condotto nella corte: vi era uno scelto manipolo di guardie di palazzo e, in sella a cavalli arabi, Turgay ed Ergin; al centro dello spiazzo, maestoso, campeggiava il carro del sultano, adornato di sfarzosi drappi intessuti d'oro. Di fronte a quello spettacolo, il traditore di Atena arrestò il passo guardandosi intorno. Da una delle tende che nascondeva alla vista gli occupanti del carro fece capolino il sultano che, con aria soddisfatta, esortò il socio a prendere posto sulla sua vettura perché il viaggio sarebbe stato lungo. Kharax vi montò subito e si sedette accanto ad Arslan, sotto gli occhi sprezzanti di Turgay.
   Il convoglio si mise in marcia: file di guardie a cavallo proteggevano da ogni lato il carro; Turgay e il suo luogotenente viaggiavano accanto al cocchio, sempre vigili e pronti a esaudire i desideri del loro signore. Kharax e il sultano parlavano dell'accordo da offrire a Costantino, della attuale debolezza interna dell'impero bizantino e, soprattutto, del Grande Tempio e dei paladini di Atena. Arslan era galvanizzato all'idea di poter annientare e sottomettere il regno più longevo e autorevole del mondo: l'impresa avrebbe eternato il suo nome e reso ancora più temibile l'esercito turco.
   Dopo due giorni di viaggio, la compagnia giunse finalmente a destinazione: Costantino li attendeva nel palazzo del domestico, teso per le richieste che gli aveva fatto il sultano. Sapeva che stava contravvenendo alla stipula di Atene e che stava tradendo qualcuno che non lo meritava, ma la situazione a Bisanzio non era a suo favore: intrighi di corte e sollevazioni nelle province lo inducevano a prendere decisioni che, in un momento diverso, non gli avrebbero neppure sfiorato la mente. Tuttavia, se fosse riuscito a tenere a freno le ambizioni espansionistiche turche per risolvere i problemi interni ne avrebbe guadagnato tanto in prestigio quanto in autorità; d'altronde, ormai, anche a corte molti si lamentavano che l'accordo col Grande Tempio non aveva prodotto alcun beneficio all'impero: in realtà, la stretta sorveglianza tenuta per anni dai Cavalieri aveva impedito a parecchi funzionari di fare ciò che volevano nei rispettivi territori di competenza. La dilagante corruzione e la perdita anche di aree ritenute vitali per la sopravvivenza dell'impero avevano attirato accuse e gravi rimproveri ai sovrani e in particolar modo a Costantino che sembrava non riuscire a far fronte alle innumerevoli questioni che si era trovato a dover dirimere.
   Il sultano superò la soglia del palazzo assieme a Turgay e a Kharax, che aveva indossato un cappuccio atto a nascondere il suo volto deturpato: il vero motivo per cui aveva celato la sua faccia era che non voleva farsi riconoscere. Non sapeva se l'Imperatore fosse stato messo a parte della sua esistenza e delle sue trame, pertanto non voleva correre rischi inutili.
   Costantino li accolse con una inquieta cortesia e gli indicò alte sedie attorno a un tavolo di pietra grezza. L'Imperatore e il sultano si sedettero l'uno di fronte all'altro. Sulla destra presero posto il luogotenente di Arslan e il traditore di Atena; sulla sinistra si assisero Michele Psello, consigliere di Costantino, e l'ambiguo eunuco Niceforo, che godeva di grande influenza a corte. Dopo i convenevoli di rito, i due sovrani si dedicarono a discutere dell'oggetto del loro incontro.
   Arslan sciolse la cordicella ritorta che chiudeva la pergamena che teneva in mano. Aprì il documento e, con una mano, delicatamente lo stese. Gli diede un'ultima occhiata e, porgendola a Costantino, esordì: - Su questo scritto troverete le mie offerte per siglare l'accordo con l'Impero -. L'Imperatore lo fissò per un attimo e fu colto da un improvviso turbamento. Poi rivolse lo sguardo alle parole scure vergate su quel pezzo di pelle levigata e ne rimase stupito: non aveva immaginato di ricevere condizioni tanto favorevoli. Il sultano s'impegnava a ritirare le truppe stanziate sui confini dell'Impero, a garantire cinque anni di non belligeranza e a versare un'indennità alla città di Edessa per le continue scorrerie inflittele dal suo popolo; in cambio chiedeva un salvacondotto fino ad Atene e la concessione di dieci dromoni da guerra bizantini.
   Una volta lette le offerte, Costantino porse il documento ai suoi accompagnatori: lo Psello sembrava piuttosto soddisfatto dell'accordo, ma a Niceforo non piaceva la richiesta di navi. Così, dopo averlo esaminato attentamente, chiese con tono provocatorio: - Perché mai dovremmo affidarvi delle navi da guerra? Il Grande Tempio si trova sulla terraferma, non in mare -.
   Il sultano accennò un sorriso lasciando cadere le provocazioni di quell'insignificante funzionario imperiale e, con fare disteso, chiarì: - Se usassimo le nostre navi per attraversare l'Egeo potremmo destare sospetti, dal momento che di questo accordo sono a conoscenza soltanto un ristretto numero di persone -.
   Niceforo storse la bocca: la motivazione del sultano aveva una sua indiscutibile logica. Guardò il compagno che aveva accanto e, con un cenno del capo, restituì la pergamena a Costantino. L'Imperatore indugiò ancora per qualche secondo su quelle offerte ma, alla fine, si convinse della provvidenzialità della proposta del sultano e firmò quell'accordo. Arslan fu contento di essere riuscito ad addivenire a una soluzione e, a sua volta, appose il proprio sigillo sul documento.
   Ora non restava che fissare il giorno della partenza: Costantino propose la metà di luglio, così avrebbe avuto modo e tempo di allestire le navi e di informare i governatori delle città coinvolte. Seppure non del tutto soddisfatto, il sultano accettò. Quando tutti i preparativi sarebbero stati completati, ad Arslan sarebbe stata inviata una guida che lo avrebbe condotto assieme all'esercito fino al porto di Smirne. Dopo queste ultime rassicurazioni, Costantino, il sultano e i loro accompagnatori si recarono a cena nella sala principale del palazzo, in cui il domestico aveva fatto preparare un lauto banchetto.
   Terminato il convito, vista l'ora tarda, l'Imperatore ordinò al domestico di approntare delle stanze per sé e per i suoi ospiti. L'uomo non si lasciò sfuggire l'occasione di dimostrare la propria fedeltà al sovrano e lo informò di aver già provveduto alla bisogna. Stupito da tanta solerzia, Costantino gli promise una gratifica. Felice che fosse reso merito alle sue azioni, condusse i visitatori alle loro stanze sotto lo sguardo ingeneroso di Niceforo e la severa apatia dello Psello.
   La notte si trascinò pigra e il sole si levò quasi di malavoglia. Alle prime luci dell'alba, l'Imperatore e il sultano si salutarono stringendosi le mani e scambiandosi parole di reciproca stima. L'animo di Kharax era in trionfo: finalmente i piani meditati nelle lunghe nottate insonni, il rancore che provava nei confronti di Alexer, la brama di smascherare l'ipocrita giustizia di Atena avrebbero trovato una degna conclusione. Confidava nel potere di Arslan non solo per abbattere il Grande Tempio, ma anche per debellare la minaccia del dio sumero, di cui, però, si sarebbe occupato al momento opportuno.
   Tornati nei loro rispettivi domini, ognuno si adoperò per affrettare i tempi di attuazione del piano concordato: Costantino inviò dispacci allo stratega del Peloponneso e a quello di Samos avvertendoli dell'arrivo del sultano ed esortandoli a collaborare con lui; Arslan, invece, ordinò il ritiro di tutte le truppe dal confine con l'Impero e iniziò a selezionare i membri dell'esercito da sbarcare in Grecia.
***
   Vernalis raggiunse Flusshaus in breve tempo. Si trovò di fronte a uno spettacolo orribile: le misere case dai tetti di paglia si erano trasformate in rovine indistinte; pozze d'acqua mista a sangue coloravano il pianoro; interi filari d'alberi divelti erano sparsi qua e là, ma non si vedeva alcun cadavere, né si sentiva voce alcuna emettere lamenti o chiedere aiuto. Tutta quella devastazione e il profondo silenzio che dominavano su quel luogo insinuarono una greve angoscia nel cuore del Cavaliere e gli mostrarono una cruda verità: era arrivato troppo tardi; del suo antico villaggio non restavano che morte e distruzione. S'infuriò, stringendo i pugni, e a gran voce ordinò al carnefice di mostrarsi.
   Dal folto degli alberi apparve una figura dal cosmo turchese: era Sarabda. Indossava un elmo celeste a cappuccio che, nella forma, ricordava la testa di un ippocampo dal lungo muso: esso copriva non solo la testa, ma anche il collo e le spalle allargandosi a mo' di mantellina sulla schiena, al cui centro si notava un vistoso triangolo turchese. Gli occhi erano nascosti da una maschera e non si notavano ciocche di capelli fuoriuscire dall'elmo. Il pettorale copriva completamente il torace, ma lasciava scoperti i fianchi. Il cinturino, sempre di colore celeste, era composto da due lunghe piastre rettangolari fissate sul bacino da una larga striscia di metallo tempestata di triangoli turchesi agganciata al pettorale. I bracciali si allungavano fino al gomito, da dove partiva una lunga protuberanza; sulle manopole era presente un altro triangolo. I gambali avvolgevano la gamba fino al ginocchio; piccole protuberanze piegate all'indietro erano attaccate ai lati. Nella destra stringeva un pugnale fatto d'acqua.
   Vernalis si preparò all'attacco: voleva eliminare il prima possibile quel demone che aveva stroncato le vite di tante persone innocenti; sentiva in cuore la responsabilità di fare giustizia.
   - Fatti avanti e combatti! -, lo esortò facendo esplodere il suo cosmo dorato. Il Sabitta avanzò di qualche passo, mostrando fierezza e una spietata sete di battaglia.
   Fermatosi a una decina di metri da lui, fece un ironico inchino e si presentò: - Sono Sarabda, primo demone dell'acqua -.
   Benché fosse in preda alla rabbia, Vernalis ritrovò un barlume di lucidità ma, quando aprì la bocca per dire il proprio nome, il demone lo anticipò: - So chi sei! Vernalis della dodicesima casa. Sei il guerriero che ha sconfitto e ucciso Ibate -.
   Nonostante la sorpresa, Vernalis mantenne il sangue freddo e, con tono di sfida, rispose sarcastico: - Visto che sai già tutto possiamo anche cominciare -. Puntò i palmi verso terra e il suo cosmo creò rami irti di spine aguzze che si lanciarono contro il nemico: - Assaggia questo! Basanismoû Kládoi![1] -
   Il demone non si scompose e, con un gesto annoiato, sollevò verso l'alto il pugnale che teneva nella destra: - Badara Didak![2] -, sussurrò e d'improvviso l'impeto dei rami scagliati dal Cavaliere si arrestò.
   Poi indicò Vernalis ed essi, tornati indietro, si abbatterono su di lui. Riuscito a schivarli, il giovane Pisces non capiva come il suo avversario avesse fatto a ribattere il suo attacco. Aveva intuito che l'insolita arma impugnata dal Sabitta fosse l'artefice di quella inattesa contromossa. Decise così di sbarazzarsene e attuò subito una strategia che lo portasse in vantaggio. Continuò a infondere il suo cosmo nel terreno e ordinò ai rami di un albero alle spalle di Sarabda di colpirlo. Essi si allungarono verso l'obiettivo con violenza, ma giunti a pochi centimetri dal corpo del Sabita si ritirarono, come persuasi da una forza misteriosa. Deluso dal fallimento del suo piano, provò ad avvicinarsi e a strappargli di mano direttamente quel pugnale infernale. Con grande rapidità si portò a poca distanza dal suo nemico e stava per sferrargli un pugno carico di energia cosmica quando udì un rumore repentino, come un lamento tremulo che riecheggiava tra gli alberi. Si distrasse e Sarabda ne approfittò per attaccarlo con una serie di calci.
   Vernalis fu scaraventato lontano e terminò il suo volo fra le rovine di una casa. Il demone dell'acqua scoppiò a ridere e, per rendere più interessante lo scontro, provò a solleticarne l'orgoglio: - Che ti succede? Dov'è finito il prode guerriero che ha sconfitto Ibate a Parigi? Avanti, alzati! Mostrami la forza dei tanto decantati Cavalieri d'Oro -.
   - Che tu sia maledetto, demone! -, inveì il custode dell'ultimo tempio faticando a rialzarsi.
   - Credi forse che saranno le imprecazioni a concederti la vittoria? -, lo schernì Sarabda, incombendo su di lui. Il giovane Pisces sfruttò la vicinanza per calciare la destra del demone. Colto alla sprovvista, il Sabitta fece un passo indietro, mentre la daga si dissolse come vapore.
Eliminato finalmente lo svantaggio, Vernalis si rialzò e, bruciando il proprio cosmo, lanciò un nuovo colpo segreto: - Peistérion Ánthos![3] - Attorno al demone sorsero fiori viola dal profumo dolce e suadente che ne rendevano fiacche e intorpidite le membra. Sarabda sembrò accasciarsi, vinto da quelll'improvvisa sonnolenza, ma non fu altro che un'illusione. Un intenso cosmo turchese spazzò via la tecnica del Cavaliere, e Vernalis si accorse subito che una nuova daga d'acqua si era formata nella mano del Sabitta.
   Un terribile stupore s'affacciò nell'animo del custode dell'ultimo tempio. A Sarabda non sfuggì quel moto d'incredulità negli occhi dell'avversario e, con profondo orgoglio, spiegò: - Quest'arma mi fu data in dono dalla regina Ereshkigal, l'inclita sposa del Sommo Nergal. Grazie a essa potevo controllare le anime confinate nella sesta dimora, il Lago delle Lacrime, e asservirle ai miei desideri. Dovrebbe esserti chiaro, adesso, che non hai possibilità di distruggerla -.
   Il giovane Pisces strinse i denti, ma non rimase impressionato da quel chiarimento: 'chi vive e agisce secondo giustizia non teme sconfitta', gli aveva un giorno dichiarato solennemente il Sacerdote; e a quella massima si era sempre attenuto. Anche se le parole del demone corrispondevano a verità, non aveva intenzione di arrendersi per nulla al mondo, avrebbe combattuto fino al sacrificio della vita.
   Fece avvampare il proprio cosmo e, levando la destra verso l'alto, gridò: - Thanásimon Phílēma! - Il polline creato da quella tecnica si diresse verso il corpo di Sarabda e, così come aveva fatto nel precedente scontro con Ibate, tentò di espugnare le difese del demone.
   Il Sabitta agitò la nuova daga nell'aria disegnando una sorta di triangolo e, davanti a lui, apparve un cadavere scarnificato, con indosso un abito logoro e strappato. Venne investito in pieno dalla tecnica del Cavaliere e i resti delle sue membra decomposte esplosero in mille pezzi e si sparpagliarono sul pianoro.
   Vernalis fu turbato da quell'improvvisa apparizione e, con un gesto quasi meccanico, fece un passo indietro. - Da dove è spuntata fuori quella salma? Che sia capace di richiamare i defunti dall'aldilà? - si chiese il giovane Pisces, senza però rendere palese la propria inquietudine.
   Sarabda indossò un sorriso soddisfatto, sicuro di aver destato nel suo avversario se non timore, almeno cautela. - Questo villaggio ti diede i natali, vero, Cavaliere? Immagino tu abbia lasciato molti cari ricordi qui. In fondo, anche voi tirapiedi di Atena avete un passato -, domandò con tono mellifluo il Sabitta. Vernalis notò delle velate allusioni in quegli interrogativi; ma pensò che fosse solo un vile mezzo per distrarlo.
   - Nulla più mi lega a questo luogo e il mio passato non è affare che ti riguardi -, rispose seccamente il custode dell'ultima casa dello Zodiaco.
   - Sapevo che avresti reagito in questo modo, ma il tuo è solo un tentativo di spostare il discorso da un argomento che non vuoi rivangare -, insinuò il demone, fingendo delusione.
   Vernalis si accigliò e, per porre fine a quelle chiacchiere che non gli piacevano, scagliò un colpo energetico contro l'avversario aggiungendo: - Smettila di parlare e fatti avanti! -
   Il Sabitta, evitato l'attacco, intuì che il suo rivale in battaglia andava piegato non solo con le parole, ma anche coi fatti. - Come vuoi -, accondiscese e, levando il braccio verso l'alto, fece ardere il suo cosmo turchese. - Badara Didak -, gridò e dal folto della foresta si sentì di nuovo quel lamento che già prima aveva incuriosito il Cavaliere.
   D'improvviso apparvero ombre che più si avvicinavano, più acquistavano consistenza: un manipolo di morti coperti da vesti insanguinate e dal passo incerto si fermò a pochi metri da Sarabda. Vernalis fu a un tempo irritato e stupito dalla mossa del demone: uccidere tanti innocenti per poi adoperare i loro cadaveri nello scontro era un atto infimo e crudele.
   - Avevo dimenticato di dirti che i miei fratelli mi chiamano 'il maestro delle anime' per la mia innata abilità nel controllare le misere carcasse dei trapassati -, si vantò Sarabda, pronto a giocare col suo avversario e a ridurlo all'impotenza.
   Il giovane Pisces era inorridito, ma non si lasciò sgomentare: ingoiò tutta la rabbia e le memorie che lo legavano a quel villaggio e si preparò a lanciare un nuovo assalto. I suoi colpi speciali non avevano sortito effetti: era ora di sfoderare le tecniche tradizionali della dodicesima costellazione dello Zodiaco.
   Il suo cosmo dorato s'accese intenso e, attorno al demone, spuntarono rose rosse dal profumo inebriante: - Pankálliston Rhódon![4] -, gridò, e i fiori si scagliarono contro il demone. Tuttavia, non riuscirono a raggiungere l'obiettivo: Sarabda aveva sollevato la daga e due dei cadaveri della mischia avevano offerto le loro carni putrescenti a protezione del servo di Nergal.
   Rise e, fiero della propria crudeltà, costrinse il Cavaliere a rivangare antichi ricordi: - Ti rammenti di Telsa e di suo fratello Isger? Erano i tuoi compagni di gioco, da bambino; come hai potuto percuoterli? -
   Vernalis indietreggiò; il cuore gli sobbalzò nel petto: l'ultima volta che li aveva visti si trovavano al capezzale della loro madre, colpita dall'epidemia; era andato via senza salutare: le dicerie e i pettegolezzi sul suo conto avevano incrinato quell'amicizia infantile, e li avevano progressivamente allontanati. Ora, sapere di aver colpito due persone che gli erano ancora care risultava un peso insostenibile.
   Tentò di scacciare l'opprimente sensazione di aver commesso un errore e di riprendere il controllo di sé, ma Sarabda non gliene diede il tempo: - Telsa aveva trovato sollievo agli affanni nell'amore di un marito e suo fratello, fra pochi mesi, avrebbe abbracciato suo nipote; è solo colpa tua se tutto questo non accadrà più -.  
   Il Cavaliere si turò le orecchie con le mani: quelle accuse repentine quanto gravi gli calarono addosso come una lama tagliente che gli squarciò il petto. Senza avvedersene, un leggero tremore gli attraversò il corpo: gli sfilavano davanti volti, voci, eventi di un passato che considerava concluso; eppure eccoli di nuovo là, in fila come un lugubre corteo, pronti a nutrirsi delle certezze che Vernalis si era costruito nel corso di quegli anni. Ripensava a Calx e alla sofferenza che stava patendo per aver dato ascolto alle parole di un demone; non voleva seguirlo su quel sentiero di solitario dolore e, facendosi forza, riacquistò un barlume di determinazione.
   - Non mi farò soggiogare dalle tue parole, demone! -, proruppe, avvolgendosi del suo cosmo dorato. Tra le mani gli apparve una rosa di colore nero: "Ora proverai un dolore indicibile! Prega che il mio colpo ti doni una morte istantanea! Moiráias Goēthéias Rhódon![5] -, gridò Vernalis, lanciando contro il demone centinaia di rose brune.
   Il servo di Nergal sollevò il braccio e un gruppetto di defunti si schierò a difesa del loro aguzzino: martoriati dalle spine delle rose, quelle povere vittime levarono urla agghiaccianti prima di schiantarsi al suolo. - Credevo avessi compreso di non avere possibilità contro di me, ma a quanto pare mi sbagliavo -, sbottò, deluso dalla resistenza dell'avversario.
   - Solo adesso mi rendo conto che l'altruismo tanto millantato da voi Cavalieri è una mera maschera -, continuò nel suo obiettivo di destabilizzare la psiche di Vernalis.
   - L'amore per l'umanità non è un gioco, ma una ragione di vita per noi -, rintuzzò il giovane Pisces senza perdersi d'animo.
   - Eppure hai colpito i corpi di persone che conoscevi senza battere ciglio. Come puoi affermare con tanta iattanza di amare l'umanità? Sei solo un ipocrita! -, lo accusò Sarabda, con un ghigno malefico sul volto.
   Il Cavaliere aggrottò le sopracciglia: gli era ormai chiaro che il demone cercava in tutti i modi di fare leva sui suoi sentimenti, ma il tono che aveva usato stavolta gli era parso alquanto perentorio.
   - Sono profondamente addolorato di non essere riuscito a salvare gli abitanti del mio villaggio, ma ciò non trascinerà nel baratro della disperazione il mio cuore. Se credi di poter far breccia nel mio animo sei fuori strada -, disse, smascherando l'intento di Sarabda.
   Il Sabitta rimase impassibile, come se quella presa di coscienza non lo avesse colto alla sprovvista: - Non ho mai nascosto i miei propositi, erano talmente palesi che anche un bambino se ne sarebbe avveduto; ma forse ti sopravvaluti, Cavaliere! -, replicò ironico. Vernalis ebbe come l'impressione che qualcosa gli sfuggisse: l'intemerata calma di quell'essere infernale era troppo sospetta, era sicuro che celasse dell'altro.
   La risposta a quel dubbio arrivò all'istante: - Per i morti non c'è salvezza, è vero; ma la tua ipocrisia è così manifesta da ottunderti persino la capacità di riconoscere la tua stessa famiglia -, continuò il demone. Il giovane Pisces ebbe un sussulto: i suoi genitori si erano spenti un decennio prima durante la grande epidemia, e non aveva altri parenti al mondo. Di quale famiglia parlava quel mostro? Era forse un altro dei suoi trucchi? Non sapeva cosa pensare.
   Sarabda lesse quel disagio negli occhi dell'avversario e, approfittando dell'attimo di smarrimento che l'aveva colto, rincarò la dose: - Osserva i due cadaveri al centro, non noti nulla di familiare? So che per voi umani la memoria è lo strumento capace di avvicinarvi all'immortalità, ma sembra che tu abbia rimosso completamente il ricordo di coloro che amavi. Provo disprezzo verso tutti quelli che non perpetuano la vita dei loro cari e li condannano all'oblio. Tu ti ergi a difensore delle genti, pretendi di dare giustizia alle vittime innocenti, eppure hai dimenticato coloro che ti hanno messo al mondo -. Aveva assunto un tono quasi aspro, venato di un astio inspiegabile, come se davvero provasse pena per quelle carni esanimi.
   - Che vuoi dire? La mia famiglia è scomparsa molto tempo fa -, sbottò il Cavaliere, preso da un repentino senso di orrore. Aveva intuito dove il demone volesse andare a parare, ma il suo cuore si rifiutava categoricamente di accettarlo.
   Quel dubbio si concretizzò non appena Sarabda accennò un sorriso malevolo: - Certo, la morte deturpa i volti e cancella i tratti peculiari degli individui; ma se osservi attentamente quei due corpi, scoprirai qualcosa che non ti aspetti -, affermò, indicando con la daga d'acqua quelle misere spoglie.
   Quasi come irretito da un'opprimente brama di sapere, Vernalis iniziò a fissare quelle salme e, sebbene consumate dalla nera signora e ridotte a fragili ossa su cui erano ancora attaccati brandelli di carne, notò la mascella prominente di quello che sembrava un corpo maschile e i radi ciuffi riccioluti che spuntavano dal cranio, scuriti dalla mancanza di esposizione al sole. Gli ricordava vagamente il padre, ma quella subitanea consapevolezza lo irrigidì in un raccapriccio estremo, e un sudore freddo gli bagnò le membra facendolo tremare di paura. Era una sensazione insolita, aliena al suo carattere, ma non riusciva a sopprimerla; era stato catapultato in un lontano passato, ai momenti felici trascorsi in famiglia prima della tragedia. Un dolore acuto e persistente lo invase quando riconobbe, nel cadavere che giaceva accanto a quello del genitore, la madre: l'aveva riconosciuta dai resti dell'abito che indossava. Indietreggiò, confuso e furente; mai avrebbe immaginato che la crudeltà potesse raggiungere picchi così elevati. Fece esplodere il suo cosmo, e per un attimo mise da parte la sua natura gentile: un essere tanto maligno non meritava di vivere; ma prima doveva restituire la pace a quei defunti che, loro malgrado, erano diventati burattini di quella malestrua creatura.
   - Haimatērón Rhódon![6] -, gridò il custode dell'ultima casa dello Zodiaco, e centinaia di candide rose si conficcarono nei tronchi degli alberi e nel petto degli sventurati cadaveri. Una si diresse verso il demone, ma si infisse nella daga, che Sarabda aveva usato per proteggersi il torace. Le rose si tinsero di un azzurro cupo: privati della forza che li teneva in piedi, i morti si accasciarono al suolo; mentre la vegetazione, liberata dal vincolo malefico del Sabitta, era tornata a comunicare col cosmo del Cavaliere. Soltanto la rosa parata dal pugnale era appassita e si era polverizzata in un istante.
   A Vernalis restava ormai un ultimo asso nella manica: tutte le tecniche che possedeva non avevano sortito alcun effetto; stava per sfoderare la più potente delle armi del suo arsenale, ma era una soluzione che gli ripugnava, perché gli ricordava il rapporto indiretto che aveva con Ade. In circostanze diverse non avrebbe mai optato per quel colpo terrificante, ma la fiera opposizione dimostrata dal demone gli imponeva una scelta sofferta. Chiuse gli occhi e si circondò di una lucente aura cosmica assai differente da quella mostrata in precedenza: al calore della giustizia si sostituì una pungente freddezza, al colore dorato si affiancarono venature violacee. Per la prima volta dall'inizio dello scontro, Sarabda era meravigliato. 
   - Finalmente scorgo nel tuo cosmo una traccia di divino; ma ormai è troppo tardi: la tua caduta è vicina, Cavaliere! -, esclamò, sollevando la daga con un movimento fulmineo. Le rose sparse sul campo di battaglia si staccarono dagli alberi e dai cadaveri e puntarono Vernalis. Il giovane si accigliò; credeva di aver neutralizzato gli effetti di quell'arma infernale. Un altro gesto del demone, e le rose si scagliarono contro di lui.
   - Ghýreōs Aspís![7] -, gridò il Cavaliere, scomparendo in una coltre di polvere finissima.
   Il Sabitta non si scompose, sapeva che ormai la battaglia era conclusa: qualunque mossa il custode dell'ultimo tempio avesse tentato, sarebbe risultata vana. Gran parte delle rose si conficcò al suolo o finì nel fiume, ma due continuarono a inseguire il bersaglio e, alla fine, lo raggiunsero: una gli perforò l'armatura all'altezza del cuore, l'altra lo colpì alle spalle. Il polline difensivo svanì così com'era apparso, e Vernalis cadde sulle ginocchia, ansimando. Strappò via dal corpo le rose, che avevano riacquistato quasi completamente il loro candore, e le gettò in terra. Al solo contatto col suolo i fiori si disintegrarono e si dispersero nel vento.
   Si rialzò in piedi, a fatica. Fissò Sarabda, serio in volto. Si avvolse ancora una volta del suo cosmo dorato, ma non lo sentiva bruciare. Provò nuovamente, senza alcun esito. I suoi occhi, pur colmi di determinazione, palesavano una frustrazione immensa. Il demone sorrise e, con tono grave, disse: - Nutro una sincera ammirazione per te, ma ti consiglio di rinunciare. La vittoria non ti arriderà oggi -.
   Il giovane Pisces strinse i pugni e, con forza, respinse l'offerta: - Chi vive e lotta per la giustizia non teme sconfitta -.
   Il Sabitta abbozzò una smorfia di disappunto e scoppiò a ridere, esclamando: - E che cos'è la giustizia? Ne ho sentito parlare fino alla nausea, eppure non ho mai avuto occasione di riscontrarla. Nel tempo che ho passato sulla Terra non ho trovato prove dell'esistenza della giustizia, per me non è altro che un concetto astratto -.
   Vernalis levò lo sguardo verso il cielo, cercando di restare in piedi e, respirando profondamente, rispose: - Non mi sorprende. Hai vissuto solo per uccidere e distruggere, ma chi conosce la giustizia sa discernere i confini del bene e del male; sa dove finisce la propria libertà e dove inizia quella degli altri; sa che bisogna dare a ciascuno ciò che gli spetta, in modo equo. Ma la malapianta della malvagità ti ha impedito di scorgere la luce di questa virtù imprescindibile -.
   Estremamente scettico sulla veridicità di quelle parole ma impressionato dal fervore con cui il Cavaliere aveva perorato la causa della giustizia, il demone assunse un'espressione dubbiosa e, con voce calma e piatta, ribatté: - Sono secoli che vi affannate a sventare le minacce divine, spesso a costo della vostra stessa vita, eppure il mondo non ha ancora abbracciato la giustizia che andate predicando. Quanti giovani eroi hanno indossato le vestigia di cui ora ti fregi tu? Certamente tanti, ma tutti si sono spenti anzitempo senza avvertire un cambiamento nell'umanità. Finché i mortali sceglieranno il seme dell'oscurità, la tua agognata giustizia non si realizzerà mai. Potrai combattere e sacrificare la tua vita, ma nessun uomo seguirà i tuoi ideali ed esemplerà la sua esistenza sulla tua. Te lo ripeto, la giustizia è soltanto un'utopia -.
   - Ti dimostrerò che sei in errore -, replicò Vernalis, tentando di bruciare fino al limite estremo il suo cosmo. Lo sforzo gli costò caro: le gambe iniziarono a tremargli e, d'improvviso, si ritrovò di nuovo in ginocchio. Grondava sudore da ogni centimetro di pelle e il respiro si era fatto affannoso. Guardò Sarabda, in piedi a pochi metri da lui e, aiutandosi con le mani, provò a rialzarsi.
   - Non c'è più nulla che tu possa fare: le acque d'Irkalla sono penetrate nel flusso sanguigno e hanno preso il controllo del tuo sistema nervoso. La tua volontà ti sta abbandonando a poco a poco; presto diverrai una larva asservita al mio potere -, spiegò il seguace di Nergal, osservando la stoica risolutezza del Cavaliere.
   - Preferisco morire piuttosto che assecondare i tuoi capricci -, inveì Vernalis, con le esigue forze che gli rimanevano.
   - Morire? Il tuo destino verrà deciso dal Sommo Nergal, per ora t'incamminerai verso il mondo della dimenticanza -, obiettò il Sabitta, sollevando in alto la daga d'acqua.
   - Eitima Buruk![8] -, chiamò e il suolo fu scosso da un tremendo terremoto. Dal terreno emerse una sorta di gabbia rettangolare, adornata da colonne a forma di serpente che mostravano, minacciosi, la lingua biforcuta. Vernalis riuscì a malapena a voltarsi per osservare cosa stesse avvenendo.
   - Quella che vedi è una prigione divina; per un breve periodo ospitò la regina Ereshkigal, dopo la sconfitta subita dal Sommo Nergal. Ma poi il mio Signore s'invaghì della sua bellezza, la liberò e la fece sua sposa -, raccontò il demone, avanzando lentamente.
   Il Cavaliere di Pisces cercava di opporsi all'avversa sorte che lo voleva vinto. Si rimise in piedi, ma sentiva che ormai il suo corpo non gli apparteneva più: una volontà aliena aveva preso possesso dei suoi movimenti, e la consapevolezza di poter diventare uno strumento al servizio del male lo angosciava; tuttavia, nelle condizioni in cui versava, gli era preclusa ogni via d'uscita. Reagì un'ultima volta, ma Sarabda, vibrando la daga, lo costrinse a dirigersi verso la gabbia sorta dal suolo.
   - La tua sconfitta dimostrerà anche a Zamug, il Guardiano della Sesta Dimora, il valore del primo demone dell'acqua. Un tempo ero io a governare quei luoghi, finché il Calcedonio d'Acqua non mi sostituì. Il suo potere è superiore al mio, lo ammetto, ma la sua supponenza mi ripugna. Ora capirà che si è sbagliato a sottovalutarmi -, confessò, e con un ultimo movimento del braccio, fece entrare il suo avversario nella cella divina. Non appena Vernalis vi fu cacciato dentro, la prigione si riempì di un liquido azzurrognolo e il giovane Pisces cadde svenuto. La risata di giubilo di Sarabda lacerò il silenzio della spianata e indusse uno sparuto stormo di uccelli a volare via in preda alla paura.
***
   Al Grande Tempio il turbamento per la scomparsa del cosmo del Cavaliere si diffuse rapidamente: Alexer strinse i pugni, mentre Kanaad abbandonava il capo tra le mani; a Psittalia, Sargas sfogava la propria tristezza sferrando colpi agli alberi; Nashira guardava il mare a capo chino, la mente percorsa da un viavai di pensieri.
   Ad Atene, Calx lasciò cadere le fascine che stava portando a casa e i suoi occhi s'inumidirono di lacrime. Non riusciva a capacitarsi che quel ragazzino schivo e caparbio, conosciuto molti anni prima, fosse stato sconfitto. Si guardò le mani e, folle di rabbia, lanciò un grido tremendo, suscitando spavento e curiosità in quelli che passavano.
 
[1] "Rami del Supplizio".
[2] "Daga del Giudizio".
[3] "Fiore di Persuasione".
[4] "Rosa di Sublime Bellezza".
[5] "Rosa di Fatale Incanto".
[6] "Rosa Bianca".
[7] "Scudo di Polline".
[8] "Cella dell'Abisso".

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Capitolo 16
*** Un sogno ricorrente ***


CAPITOLO XVI
UN SOGNO RICORRENTE
  
Grecia, agosto 1064
 
   La scomparsa di Vernalis e l'allontanamento di Calx avevano gettato il Grande Tempio in un profondo sconforto. Alexer era certo che il Cavaliere dell'ultima casa non fosse morto: riusciva ancora a percepire una stilla del suo cosmo, ma non era in grado di localizzarlo. Questa situazione lo aveva destabilizzato: per la prima volta in cinquant'anni di governo era confuso e avvilito. Kanaad, da parte sua, tentava di incoraggiarlo e lo invitava a riprendere il suo sangue freddo e a scacciare dal suo cuore l'oppressione che lo attanagliava. Molti Cavalieri si erano avvicendati nella ricerca del giovane Pisces, ma la Foresta Nera sembrava aver inghiottito sia lui che il villaggio di Flusshaus. Nessuno aveva portato notizie rassicuranti, e nessuno sapeva cosa fosse realmente accaduto nel corso di quella battaglia.
***
   In quei mesi d'attesa Sargas aveva proseguito l'addestramento sotto l'occhio vigile di Nashira, che aveva assunto quel ruolo con grande impegno per onorare la memoria dell'amico. Il ragazzo si allenava in silenzio, seguendo alla lettera i consigli che di volta in volta il suo nuovo maestro gli dispensava. Aveva fatto molti progressi: la volontà di diventare sempre più forte per poter essere degno di indossare le vestigia di Scorpio e poter vendicare l'amato Vernalis lo spingeva a cimentarsi ogni giorno con prove sempre più dure. Nashira aveva intuito l'origine di quella sua fiera risolutezza, e non sentiva la necessità di arginarla: ogni guerriero ha una sua motivazione, pensava, e, finché essa indirizza verso il bene, va coltivata e accresciuta.
***
   Ad Atene, Calx, sua madre ed Eyra, si erano stabiliti nell'alloggio che fino a poco tempo prima era stato abitato da Kharax. La nipote di Makarios aveva dovuto mentire per rendere ragione di quell'abitazione; aveva detto che apparteneva a suo zio e che era stata casa sua fino alla morte di sua madre. Irene, però, si era accorta che quel luogo non era disabitato da molto tempo, ed aveva chiesto spiegazioni. Eyra aveva inventato che suo zio l'avesse affittata fino a qualche mese prima. Madre e figlio furono convinti da quelle parole, e non indagarono oltre.
   - Tuttavia, ha bisogno di essere raccomodata -, disse Calx, sfiorando con la mano la crepa che il traditore, in preda all'ira, aveva provocato nel muro di una delle finestre. Eyra annuì e provò a distogliere l'attenzione dalle perplessità che quella dimora suscitava: era brava a mentire, ma non all'infinito; e poi dover ingannare persone a cui teneva le risultava troppo odioso.
   Quando il cosmo di Vernalis era scomparso, il cuore di Calx si era velato di una amara tristezza. Avvertiva un certo rimorso per aver abbandonato i suoi compagni nel bel mezzo della lotta, ma era altrettanto consapevole di non avere alternative. Se fosse rimasto al Grande Tempio cosa avrebbe mai potuto fare? Combattere anche a rischio della vita, si era detto a volte. Ma come si può combattere dalla parte di un dio in cui non si ha più fiducia? Si domandava infine, e i suoi buoni propositi finivano per cedere il passo allo sconforto. Poi guardava Eyra, i suoi lunghi capelli corvini, il suo viso innocente, e il mondo cambiava prospettiva: i Cavalieri avrebbero sventato anche la minaccia corrente, nonostante la sua assenza. In fondo, pensava, avevano vinto persino in situazioni molto più difficili di quella attuale.
   Aveva deciso di intraprendere la carriera di pescatore, tra le rimostranze e le apprensioni della madre e di Eyra. Ma ormai nessuno l'avrebbe distolto da quella sua nuova voglia. Le due donne temevano le insidie del mare e che l'inesperienza del giovane potesse essergli fatale. Calx le rassicurava e, ogni giorno, si dirigeva al Pireo da un certo Kendreas, che aveva accettato di assumerlo.
   Nonostante l'ansia, Irene era felice della piega che aveva preso l'esistenza del figlio. Anche la compagnia di Eyra non le dispiaceva: era una ragazza dolce, premurosa, divertente, anche se a tratti mostrava un lato oltremodo triste e languido. Ma ella non ci badava tanto: in fondo, si diceva, era riuscita a restituire il sorriso al suo unico rampollo. Le era assai grata, in cuor suo. Quando li vedeva ridere e scherzare, i ricordi degli anni passati con Basilio tornavano a farle visita: sebbene Calx non fosse il frutto dei loro amplessi, condivideva col defunto generale una bontà d'animo e una nobiltà senza pari. Si era convinta, col tempo, che l'esperienza vissuta con il sosia del suo antico sposo fosse solo un sogno, non una realtà, e che il ragazzo che aveva davanti fosse l'esaudimento delle loro assidue preghiere, non il capriccio di qualche ignota divinità.
***
   Samarra era in pieno fermento. I preparativi per l'imminente attacco alla dimora terrena di Atena avevano assorbito sia il sultano che Kharax. Il sovrano turco passava il tempo a scegliere i soldati migliori da portare con sé in battaglia, coadiuvato dal fedele Turgay. L'ex Cavaliere di Crater, invece, trascorreva buona parte della giornata in compagnia dei Sabitti; oltre a Tirid, Kuda e Atab, erano stati inviati da Sorush anche: Saghulhaza, secondo demone del fuoco; Zimudar, quarto demone del fuoco; Muttabriqu, secondo demone del ghiaccio; Shulgi, sesto demone del ghiaccio; Elulu, quinto demone della terra; Puannum, settimo demone della terra; Rabishu, primo demone del fulmine; Kalbum, quarto demone del vento e Alalgar, sesto demone dell'acqua.
   Tutti questi rinforzi davano a Kharax una grande speranza di successo: anche se non fosse riuscito a far crollare il Santuario, avrebbe di sicuro assottigliato le fila dei paladini della giustizia. Non vedeva l'ora di provare il sapore della vittoria ed esortava i suoi nuovi alleati a non lasciare respiro ai Cavalieri; ne sondava le capacità, la destrezza e la potenza dei colpi, e il suo piano di vendetta acquistava sempre più concretezza.
   Alla metà di luglio finalmente giunse il messo da Bisanzio: il sultano poteva dare il segnale di partenza. Avrebbe trovato la strada sgombra e un capitano ad attenderlo al porto di Smirne. L'appuntamento era fissato per il 5 di agosto, data oltre la quale l'accordo sarebbe saltato. Arslan non perse tempo: il giorno successivo radunò l'esercito, che teneva pronto da un pezzo, e partì alla volta della città costiera. Pur di arrivare entro il giorno stabilito, il nipote di Toghrul Beg costrinse le truppe a marce forzate e, spesso, a viaggiare anche di notte. Ciò gli consentì di giungere a destinazione con tre giorni di anticipo.
   - Benvenuto al porto di Smirne -, lo salutò il capitano, notando la stanchezza negli occhi dei soldati, stremati dal lungo viaggio. - Il mio nome è Phocas, e sarò la vostra guida fino ad Atene. Dividete le truppe fra i dieci vascelli che vedete ormeggiati alle mie spalle e permettete loro di riposare, altrimenti non riusciranno mai a brandire una spada e a combattere in queste condizioni -, proseguì con tono ossequioso, ma, ad un tempo, diffidente. Il sultano annuì e diede ordine ai comandanti delle varie schiere di far salire le loro truppe sulle navi. Kharax e i demoni si unirono ad Arslan sull'ammiraglia e, prima del tramonto, la flotta lasciò il porto.
***
   A notte fonda, da una nave veneziana poco distante dalla costa di Chio, la vedetta, dall'alto dell'albero maestro, chiamò a gran voce il capitano. Nel buio, alla luce di una lampada, una figura magra, col volto segnato dai tanti anni passati in mare, si avvicinò.
   - Cos'hai visto? -, gridò, alzando gli occhi e dirigendo la luce verso il punto da cui era giunto quel richiamo.
   Dopo un attimo di silenzio, il ragazzo esclamò: - Davanti a noi ci sono delle navi da guerra bizantine. Dalle luci credo siano almeno dieci -. Il capitano ordinò di spegnere le lampade della nave e di restare in attesa. Dalle ombre si fece avanti un altro uomo, basso e tarchiato.
   Osservò per un attimo sfilare sulle onde la piccola flotta e poi sorrise: - Sembra che il vecchio Costantino abbia in programma qualche guerra. Quei dromoni navigano veloci e non ci hanno neppure avvistato -, disse con tono sereno.
   - Forse hai ragione, Dolfo, ma non appena attracchiamo nel porto di Caffa manderò un messaggio al Doge -, rispose il capitano, non troppo convinto delle parole del compagno.
***
   Kharax era sul ponte di poppa in compagnia di Tirid. La scia scura lasciata dallo scafo della nave era l'unico indizio che si stavano muovendo. L'ex Cavaliere guardava la piatta sagoma del mare e le navi al seguito dell'ammiraglia.
   - Vi porterò fino alle porte del Grande Tempio, ma poi andrò via -, esordì improvvisamente, quasi senza pensarci.
   - Perché mai? -, chiese il signore delle ombre, immerso nell'oscurità.
   - Se le cose si mettessero male, non avrei modo di difendermi; e inoltre non ho intenzione di finire i miei giorni nelle prigioni del Santuario -, spiegò il traditore, senza volgere lo sguardo al suo interlocutore.
   - Hai così poca fiducia nelle nostre capacità, Lulul? -, interrogò piccato il primo demone della terra.
   - Anche se siete in tanti non riuscirete mai ad abbattere la dimora terrena di Atena e tutti i suoi paladini. Di una cosa sono certo, però: trascinerete con voi nella tomba qualche Cavaliere, e ciò mi è già sufficiente. Il vostro unico scopo è indebolire le forze di Atena, sarà poi il Sommo Nergal a distruggerlo -, rispose con estrema schiettezza Kharax, che già pregustava lo stupore di fronte alla sorpresa che aveva preparato per l'odiato Alexer. Ma vi era anche un altro motivo che lo spingeva ad allontanarsi prima dell'infuriare della battaglia: non voleva incontrare suo figlio; non ancora, almeno.
   Il demone della terra rimase perplesso: non sapeva come interpretare le parole dell'ambiguo alleato. Era l'atteggiamento di un vile o di chi nasconde altri fini? Voleva davvero consegnare il mondo nelle mani del Signore d'Irkalla? Sorush sembrava fidarsi di quell'uomo dal volto deturpato, ma forse era stato avventato a dare credito a un individuo dalla dubbia fedeltà.
   - Credevo volessi contemplare coi tuoi stessi occhi il crollo della dimora di Atena. Cos'è cambiato? -, insinuò, tamburellando con le dita sul parapetto del ponte.
   - Nulla. So per certo che vedrò la fine di quel covo d'ipocrisia e del suo alfiere, ma ho ancora molte cose da fare prima di morire -, ritorse Kharax, guardando di sbieco il suo interlocutore e concludendo quel discorso che iniziava a stancarlo. Lasciò il ponte e tornò sottocoperta, mentre Tirid, fissando l'acqua immobile, meditava in silenzio su quanto aveva sentito.
   Scomparso tra le ombre della notte, anche Tirid raggiunse i suoi compagni: la sua espressione crucciata non passò inosservata; Rabishu lo interrogò, incuriosito dal volto palesemente teso del compagno. Il Sabitta tirò un lungo sospiro e senza indugio riferì la discussione che aveva poco prima sostenuto con Kharax. I demoni si guardarono con accenti discordanti: alcuni erano increduli, altri stupiti, altri ancora indignati o furiosi.
   - E di cosa ti preoccupi, Tirid? -, lo criticò il primo demone del fulmine.
   Il signore delle ombre lo guardò torvo e ribatté: - Della riuscita della nostra missione, Rabishu. Dovremmo lasciare che Lulul ci usi per i suoi loschi fini? -
   Il Sabitta dall'armatura verde e gialla rise, suscitando disappunto non solo in Tirid ma anche nella maggior parte dei compagni; poi disse: - Ricordati che il nostro compito è spianare la strada al ritorno del Sommo Nergal: se Lulul ci condurrà fino ai piedi del monte sacro ad Atena, poco m'importa se la sua fedeltà è fasulla -.
   - Forse hai ragione, ma se falliamo l'ira del Signore d'Irkalla si accenderà indomita -, intervenne Atab, scuro in volto e in evidente disagio.
   Gli animi stavano per scaldarsi quando, dal fondo dell'oscurità, si levò una voce calma e autorevole: - Smettetela di litigare! Non vi è ancora chiaro che noi siamo soltanto delle pedine? Se il Sommo Nergal vincerà non ci sarà posto né per noi, né per Sorush, né tantomeno per Lulul nel suo mondo -. Dal buio sorse la figura che aveva pronunciato quelle parole: Muttabriqu, secondo demone del ghiaccio. I suoi compagni abbassarono il capo, senza fiatare.
   Guardandoli uno per volta, il Sabitta dall'armatura grigia e nera continuò il suo monito: - Moriremo tutti in questa guerra e non ci sarà concesso contemplare il nuovo ordine delle cose. Fin dal giorno in cui il Sommo Nergal conquistò Irkalla e noi rimanemmo neutrali questo destino incombe sulla nostra vita. Forse per alcuni apparirà crudele, ma noi abbiamo vissuto abbastanza da sapere che la morte in battaglia, onorando il proprio signore, è preferibile all'ignominia della viltà e della codardia. Noi combattiamo per l'onore e per la gloria, per dimostrare agli Utukki e a Nergal che non siamo un gregge di pavide pecore. Abbiamo il vantaggio di conoscere le tecniche del nemico grazie ai ricordi dei nostri compagni caduti. Mettiamo da parte, per una volta, le nostre divergenze e sfruttiamo questo privilegio per allestire una strategia che possa annientare l'esercito di Atena -.
   Il sermone di Muttabriqu aveva rincuorato i compagni che, forse per la prima volta dopo tanti secoli, si sentivano una vera e propria conventicola. Tutti gridarono di gioia, levando in alto i pugni e cominciando a mettere a punto un piano che li aiutasse a eliminare gli odiati Cavalieri. Dal suo cantuccio, Kharax, già pronto ad abbandonarsi alle braccia del dolce sonno, ebbe un sussulto, ignorando quale fosse la ragione di tutto quel trambusto. Maledicendo in cuor suo quelle infide creature, si girò verso la parete dello scafo e si addormentò.
***
   Ad Atene la notte era quieta e calda. I grilli levavano il loro canto tra i cespugli e accordavano la loro melodia col riposo degli abitanti che, a quell'ora, dormivano già da un po'. Solo a Calx sembrava preclusa la dolcezza del sonno. Fin da quando aveva messo piede in quella casa, ogni volta che chiudeva gli occhi, una congerie di immagini confuse gli affollava la mente e lo faceva sobbalzare. Allora si sedeva sul letto, madido di sudore, appoggiava la fronte sulle mani e si domandava il motivo di quelle visioni sconnesse. A volte usciva a prendere una boccata d'aria o si affacciava alla finestra per contemplare le stelle. Sembrava che l'ossessiva inquietudine che si portava dietro non volesse saperne di abbandonarlo. Nonostante l'amore di Eyra, l'affetto di sua madre e la distrazione che gli procurava il lavoro, il suo cuore continuava a stringere tenacemente l'angoscia e una certa sollecitudine. Ormai gli era venuta l'idea che non avrebbe mai trovato la serenità assoluta: quel velo di malinconia e disagio era destinato ad accompagnarlo fino alla tomba. Certi giorni si sentiva estraneo a tutto ciò che lo circondava, come se appartenesse a un mondo lontano; inoltre, aveva il presentimento che di lì a poco si sarebbe consumata una tragedia terribile; e i sogni che ogni sera tornavano a fargli visita senza posa non lo rassicuravano affatto. Al mattino si levava prima dell'alba e usciva mentre ancora le sue donne erano immerse nel sonno; così poteva celare ai loro occhi i contrasti del suo cuore ed evitare domande a cui non avrebbe saputo rispondere.
***
   Dopo tre giorni di navigazione, i dromoni attraccarono al Pireo. Il capitano Phocas aveva affidato l'armata turca al delegato del governatore, un certo Kyros Koniates, che aveva il compito di scortarla fino al demo di Pallene. Lo stratega del Peloponneso aveva diramato un ordine che vietava a tutti gli abitanti di Atene di uscire di casa quel 5 di agosto: si sarebbero svolte operazioni militari e per i cittadini trovarsi in strada sarebbe potuto risultare pericoloso.
   Calx era insofferente: starsene rintanato in casa con le mani in mano lo deprimeva; trascorrere un intero giorno in compagnia dei suoi pensieri lo agitava parecchio; cercava di trovare qualcosa che lo distraesse e gli permettesse di superare quella nefasta giornata. D'un tratto si sentì un colpo alla porta: Eyra e Irene credevano si trattasse delle guardie che stavano controllando se tutti erano in casa. Il giovane Gemini andò ad aprire e si trovò davanti l'amico Kendreas: facendogli cenno di stare zitto, varcò l'uscio e si richiuse alle spalle la porta frettolosamente.
   - Cosa ci fai tu qui? -, chiese Calx, stupito da quella visita inattesa.
   Il pescatore fece qualche passo avanti lentamente e, guardando il ragazzo, disse: - Al Pireo sono appena arrivate dieci navi da guerra -.
   - Come? Navi da guerra? E perché mai? -, si domandò il discepolo di Alexer. - L'imperatore prepara forse qualche attacco? -, continuò, corrugando la fronte.
   Kendreas scosse il capo e gli si avvicinò, come se sentisse il bisogno impellente di rivelare un gravoso segreto. - I soldati scesi da quelle navi non appartengono all'esercito imperiale; conosco bene le loro uniformi e quegli uomini indossano vesti totalmente diverse -, bisbigliò, con un malcelato tremore nella voce.
   Insospettito da quella notizia, il giovane Cavaliere si mise a sbirciare dalle fessure della finestra; quello che vide lo lasciò perplesso: le truppe che attraversavano la città in formazione compatta indossavano corazze di foggia orientale; inoltre, avvertiva fievoli aure cosmiche levarsi da quello strano esercito. Un brivido gli percorse la schiena: quel presagio di tragedia si stava forse realizzando? E cosa ci facevano schiere straniere sul suolo dell'impero? Perché il domestico non aveva inviato nessuno a difendere la città? Tutta quella situazione gli appariva inverosimile: perché far passare un'invasione nemica come una semplice operazione militare? Possibile che il domestico tramasse contro l'imperatore? Qualsiasi ipotesi formulasse, non riusciva a trovare un motivo plausibile per quanto stava avvenendo sotto i suoi occhi.
   - Restate qui! -, intimò a quelli che erano in casa. - Che vuoi fare? -, chiese Eyra, spaventata.
   - Ho bisogno di capire -, rispose il giovane, aprendo uno spiraglio della porta e controllando che non ci fossero sentinelle. Assicuratosi che nessuno li stesse sorvegliando, uscì di scatto, chiuse l'uscio e si allontanò, nascondendosi dietro i muri delle case. Osservava la marcia di quei terrificanti soldati e, d'improvviso, notò che un manipolo di sei individui della retroguardia, coperti da un lungo mantello nero e da un cappuccio, aveva lasciato la schiera e si era fermato. Li vedeva parlare fittamente e ridacchiare. Provava una profonda angoscia: tutta quella situazione gli sembrava surreale. Dov'era diretto quell'esercito? E perché quei sinistri militi si erano fermati ad Atene? Quali erano le loro intenzioni? Una fitta rete di interrogativi gli investiva la mente: voleva scoprire lo scopo di quella ingente mobilitazione. Strisciò lungo il muro di una grande villa che si affacciava sulla piazza principale. Vide un uomo vestito di tutto punto dare indicazioni a quello che sembrava essere il capo della spedizione. Alla fine della strada svoltarono sulla destra: Calx sgranò gli occhi; avevano imboccato il sentiero che conduceva a Pallene; da lì avrebbero potuto raggiungere il Grande Tempio.
   - Dobbiamo aspettare che le truppe guadagnino la dimora di Atena -, esclamò uno dei guerrieri incappucciati che si erano trattenuti in città. Calx si appiattì al muro, li sentiva vicini.
   - Io sono stanco di questa continua attesa. Sono rimasto inerme per troppo tempo, devo riscaldare i muscoli! -, sbottò un altro, denunciando una certa collera nella voce. Quello scambio di battute confermò i dubbi del giovane Cavaliere. Inoltre, quegli individui incappucciati erano sicuramente demoni ingaggiati dall'oscuro mandante di quell'attacco. Decise di farsi avanti e di affrontare quelle creature infernali per evitare che spargessero sangue innocente, ma prima concentrò il suo cosmo e inviò un messaggio telepatico al suo antico maestro, avvisandolo del pericolo imminente.
   Poi, stringendo i pugni, fece avvampare la sua aura cosmica e uscì allo scoperto. - Non vi permetterò di soddisfare la vostra brama di sangue! -, gridò, attirando l'attenzione dei sei Sabitti.
***
   Alexer era seduto sul trono, il gomito appoggiato sul bracciolo del marmoreo scranno e la fronte sprofondata nella mano, immerso nei suoi pensieri; Kanaad gli era accanto, anch'egli perso in colloqui con sé stesso. D'un tratto, entrambi furono raggiunti da una voce ben nota: la mente delle due massime autorità del Grande Tempio si fece attenta; il Sacerdote trasalì alle parole che gli risuonovano nel cervello, mentre il Primo Ministro scese gli scalini, volgendosi verso il compagno.
    Alexer annuì e gli si avvicinò: concentrandosi, ordinò telepaticamente ai custodi delle dodici case di mantenere le loro postazioni; poi, i due vecchi commilitoni presero il passaggio segreto e scesero ai piedi del monte; si mossero fino alle falde dell'ammasso roccioso dove si apriva il varco dimensionale e attesero l'arrivo dell'esercito nemico. Lungo il tragitto reclutarono Yue e Kargadan, già pronti ad affrontare l'orda di demoni che avanzava verso di loro.
   Kharax camminava nelle file della retroguardia assieme ai Sabitti che non erano rimasti ad Atene. Dopo aver imboccato l'Odeporica aveva abbandonato la testa dell'esercito e aveva raggiunto i demoni che chiudevano la schiera. Teneva in mano il Prisma d'Ambra e si preparava a usarlo al momento opportuno. Quando giunsero a Rodorio, gli abitanti, poco avvezzi a veder sfilare eserciti umani, furono colti da un misto di spavento e meraviglia; ognuno tornò alla propria dimora, convinto da un repentino senso di pericolo, sebbene quella fiumana di uomini armati non sembrasse minimamente interessata a loro.
   Non appena ebbero percorso tutta la strada, Kharax tornò ad avvicinarsi al sultano: - Se attraverserete questa parete di roccia, vi ritroverete nell'area del Grande Tempio -, disse, lasciando Arslan piuttosto incerto. - Non temete, è solo un artificio per impedire agli estranei di accedere alla dimora di Atena -, spiegò, invitandolo a vincere i propri dubbi e a proseguire.
   Il sultano esitò ancora qualche secondo; tuttavia, la sete di vendetta che lo animava risultò più forte e lo spinse a superare quel finto ostacolo. Avanzò con grande regalità, seguito da Turgay, Ergin e dal resto della truppa.
   Kharax attese che fosse passato anche l'ultimo soldato; poi, rivolto ai Sabitti, disse: - Le nostre strade si separano, per ora. Se otterrete la vittoria, ci rivedremo; ma se la sorte vi assegnerà la morte, almeno provate a portare con voi nella tomba qualche Cavaliere -. I demoni annuirono, mentre il traditore, stringendo il prisma nella destra, scomparve senza lasciare alcuna traccia.
   Superato il portale dimensionale, Arslan e i suoi uomini si ritrovarono a calpestare il suolo del Santuario; a poca distanza, il capo turco notò due figure all'impiedi, vestite di abiti semplici ma solenni. Camminò, seguito dalle truppe, fino a raggiungerle, lo sguardo corrucciato e l'animo fremente. Alexer e Kanaad lo salutarono con rispetto. Per tutta risposta, il sultano sguainò la spada che gli pendeva dalla cintola e la puntò contro di loro.
   - Sono venuto a vendicare la memoria di mio zio, il grande Toghrul Beg, che voi avete oltraggiato al punto da causargli la morte -, asserì, mentre Turgay ed Ergin lo affiacavano con le lame in pugno. Alla vista del loro sovrano in assetto d'attacco, anche i soldati sfoderarono le armi. Il vicario di Atena non si lasciò intimidire da quella dimostrazione di forza, ma con tono cordiale cercò di capire che cosa intendesse dire il giovane uomo che lo stava minacciando.
   - In che modo avrei causato la morte del vostro amato zio? -, gli chiese con una semplicità e una schiettezza disarmanti. Arslan si accigliò, stringendo il brando con maggior forza.
   - Tentate di ingannarmi? Quando lasciò Samarra, mio zio era in perfetta salute. Come mai al ritorno fu colto da una morte inspiegabile? I medici che lo assistettero a Rey non seppero darmi alcuna spiegazione di quel decesso. Quindi è evidente che siete stato voi a tramare contro di lui! Era una spina nel fianco che ostacolava i vostri oscuri fini, per questo l'avete eliminato -, sbottò il sultano, manifestando un livido astio. Alexer abbassò il capo e ritornò con la mente all'ultimo incontro che aveva avuto col vecchio Toghrul Beg.
   - Vi sbagliate, nobile Arslan! -, asserì il Sacerdote con tono serio e deciso. - L'uomo di cui parlate non era quello che conoscevo io -, continuò, fissando lo sguardo sul suo interlocutore.
   Il capo turco, sorpreso da quella perentoria affermazione, piegò l'arma a terra e volle sentire anche la versione di quell'individuo da cui spirava grande autorevolezza. La sua integrità morale gli imponeva di non gettarsi a capofitto in uno scontro insensato e privo di qualsiasi fondamento. Ordinò con lo sguardo ai due soldati che aveva a fianco di riporre le spade; anche le truppe seguirono l'esempio dei comandanti, benché si chiedessero quale fosse il motivo di tutto quel temporeggiare.
   - Affermate che mio zio fosse già malato al suo arrivo al Monte Athos? -, lo interrogò il sultano, colto da un repentino dubbio che iniziava a erodere il castello di certezze che lo aveva guidato fino a quel preciso istante.
   - Ebbene sì -, fu la secca risposta di Alexer. - Durante il consesso mostrò grande intransigenza e nessuno immaginava quale sofferenza si trascinasse dietro, nemmeno io. Me ne avvidi soltanto la sera precedente alla partenza: lo trovai appoggiato ad un rigoglioso tiglio, solo, vessato da una tremenda tosse. Quando si accorse della mia presenza provò a ricomporsi e a riprendere il suo solito piglio austero, ma si rese conto che ormai era troppo tardi, avevo assistito all'intera scena. Mi avvicinai con premura per prestargli aiuto ma, come mi aspettavo, rifiutò sdegnosamente. Gli chiesi come mai si fosse allontanato dalla sua scorta e preferisse restarsene in disparte. Non rispose, ma lo vidi ripulirsi furtivamente la mano su cui aveva tossito.
   Capii che c'era qualcosa che desiderava nascondere a tutti i costi. Non gli piaceva scoprirsi debole davanti a una persona che considerava un nemico. Dopo molte reticenze, riuscii a metterlo a suo agio: divenne un fiume in piena, palesandomi le sue inquietudini più remote. Grazie al mio cosmo compresi che il suo vecchio corpo era afflitto da una grave infermità ai polmoni e che solo la sua forza di volontà gli permetteva di tenere perfettamente celate le sue precarie condizioni di salute. Mi disse che la sua più grande preoccupazione era la devastazione provocata dalle acque ammorbate dei due fiumi. La sua paura più profonda era perdere la fiducia e la devozione da parte vostra, per questo non vi aveva messo a parte della sua malattia. Nonostante la sua arroganza, vostro zio era un uomo che teneva alla sua gente e a voi. Gli promisi che sarei andato in fondo a questa storia e che avrei restituito la serenità ai popoli mesopotamici; lui accennò un sorriso e mi ringraziò con lo sguardo; poi andò via -.
   Quella spiegazione lasciò turbato Arslan. Si sentiva svuotato, senza idee, tradito. Aveva sperimentato l'orgoglio di suo zio innumerevoli volte, e le parole del Sacerdote erano pienamente coerenti con l'atteggiamento arcigno e superbo del vecchio Toghrul Beg. Masticò amaro: la brama di vendetta, l'ambizione di piegare un avversario tanto potente, la gloria che ne sarebbe derivata ormai si erano estinte in una diafana illusione, in un sogno velleitario.
   - All'epoca non sapevo ancora chi fosse l'artefice di tutto quel dolore, ma ora lo conosco bene. L'uomo che vi ha condotto fin qui si chiama Kharax, vero? -, riprese Alexer, riportando il sultano all'attenzione.
   - Sì -, ammise con un filo di voce il capo turco, gravato da un opprimente peso sul cuore. Il vicario di Atena scosse la testa, come per confermare i suoi sospetti.
   - Quell'uomo è complice di chi ha portato le fertili terre di Mesopotamia sull'orlo della distruzione -.
   - Mentite! -, protestò Arslan tremante e incredulo.
   - Perché dovrei? -, ribatté il Sacerdote; - I Cavalieri non temono eserciti umani -, ammise senza esitazione.
   Il sultano si rese conto di essere stato ingannato, di aver agito con troppa leggerezza nel fidarsi di uno sconosciuto. Ferito nell'orgoglio, lasciò cadere la spada, che emise un sordo rumore metallico, e l'ira s'impossessò di lui, trasformando il suo volto disteso e solenne in una maschera d'odio e di frustrazione. Guardò Turgay e gli ordinò di trovare Kharax e di condurlo al suo cospetto. Il capitano si mosse all'istante, ma, dopo una breve ricerca, tornò dal suo signore, costernato: dell'ex Cavaliere non c'era traccia.
   Dalla retroguardia avanzarono sei figure incappucciate che si facevano largo tra i soldati spintonandoli o gettandoli a terra. I Sabitti avevano avvertito che le cose stavano prendendo una brutta china e avevano deciso di palesare la loro presenza.  
   - Parleremo con calma più tardi, nobile sultano -, promise Alexer. Poi chiamò Yue e Kargadan, e ordinò loro di scortare Arslan e l'esercito turco in un luogo sicuro. Kanaad fece bruciare il suo cosmo e trattenne l'avanzata dei demoni imprigionandoli in una sfera d'energia. Dalle dodici case sfrecciò un raggio dorato diretto ad Atene.
   Nella mente del Sacerdote e del Primo Ministro riecheggiò la ben nota voce di Pelag: - Perdonatemi se contravvengo al vostro ordine, ma Atene ha bisogno d'aiuto -. Alexer gli concesse di intervenire: il cosmo di Calx era sceso in battaglia, e il vecchio vicario di Atena sperava, in cuor suo, non solo che il suo discepolo ritrovasse la fede perduta, ma anche che si riconciliasse col custode della nona casa.
   Non appena la piana del mercato si fu spopolata, Kanaad liberò i demoni dalla morsa in cui li aveva bloccati. Ripresisi da quell'attacco improvviso, i Sabitti si avvicinarono ai loro avversari e si disfecero dei mantelli che ne paludavano le fattezze. Le armature dai colori sgargianti brillarono al contatto coi raggi del sole. Alexer si girò verso il compagno e gli consigliò di farsi da parte.
   Kanaad, un po' contrariato, rispose: - Dovresti conoscermi bene: io non sono come i miei predecessori, non sono un fine oratore o un bravo pensatore, la mia vocazione è prettamente bellica! E poi, non è la prima volta che affronto un nemico senza difese! - Sul volto del Sacerdote spuntò un sorriso e, in cuor suo, fu felice di poter tornare a calcare il campo di battaglia con l'amico di un tempo. Con un gesto fulmineo si liberò delle vesti sacerdotali; poi levando la destra contro il cielo richiamò la sua antica armatura.
   Dalla terza casa partì una luce che investì il corpo di Alexer: quando il bagliore si fu dissolto, il vicario di Atena riapparve nello splendore dorato delle vestigia dei Dioscuri. - Il mio nome è Alexer di Gemini, Sommo Sacerdote di Atena e capo dei Cavalieri -, si presentò con tono solenne. - Ed io sono Kanaad di Virgo, Primo Ministro del Santuario -, gli fece eco il maestro di Syrma e Yeng.
   Il primo demone fece un passo avanti, battendo i pugni. - Io sono Kuda, sesto demone del fuoco -, disse.
   Aveva una figura slanciata e robusta, occhi color sabbia e capelli di un rosso scuro. Indossava una corazza in prevalenza marrone con inserti neri. La testa era protetta da un elmo a casco, su cui erano fissate due lunghe corna ritorte. Il pettorale, aderente e massiccio, era adornato da cerchi formati da triangoli neri; sulle spalle erano agganciati ovali lisci dal bordo nero; il cinturino era composto da frange metalliche sovrapposte che lo rendeva simile a un gonnellino. Bracciali e schinieri erano striati e terminavano a forma di zoccolo.
   - Io, invece, sono Shulgi, sesto demone del ghiaccio -, affermò il secondo, affiancandosi al compagno.
   Lunghi capelli color senape affioravano dall'elmo a maschera, munito di una sottile cresta centrale che giungeva fino alla nuca; sulla fronte si notava una sorta di protuberanza simile a una proboscide; occhi di un verde spento davano un po' di vita al volto pallido e smunto. Dalla schiena due grosse zanne si adagiavano sulle spalle, ricordando vagamente l'armatura di Aries. Il pettorale era costituito da sottilissime lamelle metalliche di un grigio cupo. Il cinturino era fatto di pelo animale, di un grigio più chiaro, e giungeva a coprire le gambe fino al ginocchio. I bracciali si allungavano dal gomito al polso ed erano privi di manopole. Presentavano una serie di triangoli rosa lungo la linea del braccio. Gli schinieri, aperti nella parte posteriore, proteggevano la gamba e il ginocchio, e anch'essi, all'altezza del femore, avevano inciso un vistoso triangolo rosa. 
   Fu la volta del terzo Sabitta. - Il mio nome è Puannum, settimo demone della terra -, rivelò con un certo disprezzo nella voce.
   Una figura alta e robusta, con gli occhi arancione, si avvicinò alle altre che si erano già presentate. Un elmo a casco di colore verde, da cui fuoriuscivano ciuffi marrone, gli proteggeva la testa: aderente alla fronte e alle guance, nella parte posteriore mostrava un rigonfiamento simile a una gobba. Il pettorale copriva soltanto la zona della casa toracica: era di un verde acceso e, al centro, uno sgargiante triangolo rosso fungeva da ornamento. Gli spallacci erano grossi e tondeggianti, adornati da tre file di triangoli rossi. Il cinturino, agganciato ai fianchi, era formato da quattro piastre triangolari di un verde più tenue rispetto a quello del pettorale. I bracciali terminavano a calice, da cui apparivano le manopole. Anche qui erano presenti triangoli rossi. Gli schinieri, lisci e aderenti alle gambe, di un verde scuro, erano incastonati di sottili lamelle rosse.   
   Con un volto accigliato, illuminato da occhi viola, si fece avanti anche il quarto demone. - La vostra morte ci procurerà sommo onore: io sono il quarto demone del fuoco, Zimudar -, proclamò con voce ferma e stizzosa.
   Di statura media, aveva un elmo estremamente semplice: un cerchietto su cui era collocata la testa di un cane e dai cui lati scendevano due sottili piastre bianche a protezione delle guance. Il pettorale era formato da una mera fascia metallica di un bianco sporco allacciata alla schiena con una piastra quadrata all'altezza del cuore, su cui si stagliava un triangolo nero. Due ovali neri fungevano da coprispalle. Il cinturino era costituito da due piastre triangolari, ornate da piccoli triangoli neri. I bracciali coprivano solo la parte alta del braccio ed erano bloccate da strisce metalliche nere. Anche questa corazza era priva di manopole. Gli schinieri erano in tutto simili ai bracciali: una piastra a protezione di femore e ginocchio, fissata alla gamba tramite legacci neri.
   Poi si presentò un demone basso e tarchiato, dall'andatura quasi claudicante e dalla voce sommessa e tremolante: - Il mio nome è Elulu, quinto demone della terra -, disse con un certo sforzo.
   Indossava un'armatura marrone con inserti grigi. L'elmo a casco aveva le sembianze della testa di una iena, i cui canini aguzzi spuntavano dalle fauci. Aveva occhi neri e capelli ocra. Il pettorale era formato da un blocco unico intersecato da due fasce grigie che formavano una sorta di croce piegata verso destra. Su di esse erano incisi triangoli marroni. Gli spallacci somigliavano a zampe munite di artigli. Il cinturino era formato da cinque piastre circolari: sulla parte frontale era incastrato un triangolo grigio. Schinieri e bracciali erano semplici cilindri marrone che terminavano con punte artigliate.
   Anche l'ultimo Sabitta fece il suo ingresso in scena. - Io mi chiamo Alalgar, sono il quinto demone dell'acqua -, esclamò con voce possente e sicura.
   Aveva una corporatura asciutta e longilinea, occhi turchesi e capelli corti verdi. La sua armatura era azzurra con alcuni dettagli color castagno. L'elmo, a maschera, incorniciava il volto e aderiva alla nuca grazie a una sorta di pinna sottile e affilata. Il pettorale era fatto di scaglie e si univa al cinturino, anch'esso formato da migliaia di lamelle. Gli spallacci erano incurvati tanto da proteggere anche i bicipiti. Piccoli bracciali muniti di pinne erano agganciati alle manopole. I cosciali coprivano soltanto la parte anteriore e si tenevano su tramite fascette che li legavano ai polpacci. Triangoli di color castagno si notavano sulle manopole e sui gambali.
    Cinque dei demoni si lanciarono contro i ministri di Atena; soltanto Elulu rimase in disparte. Mentre correvano verso gli avversari, Alalgar si staccò dal gruppo e, con un balzo formidabile, scagliò il suo colpo speciale: - Shum Gallak![1] - Sotto i piedi di Alexer e Kanaad la terra tremò: un vortice d'acqua, sorto dal terreno, si strinse attorno ai corpi dei due Cavalieri.
   Approfittando della loro temporanea immobilità, anche Kuda e Shulgi sfoggiarono le loro tecniche. - An Usanusan![2] -, gridò il sesto demone del fuoco. Dai bracciali dell'armatura apparvero lunghe lingue di fuoco che si abbatterono sugli inermi guerrieri.
   - Kuggal Tiene![3] -, proruppe l'altro, puntando il braccio destro contro gli obiettivi: una pioggia di dardi neri coprì alla vista i reggitori della dimora terrena della dea della giustizia.
   La concentrazione di tutte quelle mosse sollevò una fitta coltre di polvere, ma, non appena si diradò, i Sabitti dovettero constatare con grande amarezza che i loro sforzi non avevano sortito alcun effetto. Un'abbacinante sfera di luce aveva protetto il Sacerdote e il Primo Ministro dall'assalto. - Sapevo che non sareste stati una minaccia per noi. Siete solo manovalanza -, ironizzò Kanaad, abbassando la sfera formata dalle fiamme di Garuda e concentrandone la forza nella sinistra. - Assaggiate le vostre stesse tecniche, demoni! Khan! -, continuò, rilasciando l'enorme quantità d'energia che aveva accumulato nella mano.
   Elulu bruciò un cosmo violetto e, con voce malferma, lanciò il suo colpo segreto: - Girimene Huluk![4] - Sul campo di battaglia comparvero fiorellini triangolari neri e grigi. La potenza del colpo di Kanaad produsse un fragoroso boato, ma fu smorzata dalla strana mossa del demone. - Un uomo dalla veneranda età dovrebbe riflettere prima di parlare -, chiosò il quinto demone della terra.
   Dalla polvere apparvero Zimudar e Puannum, pronti a sferrare le loro tecniche; -Namshid Irkalak![5] -, gridò il primo: cavalli di fuoco accesero il campo di battaglia e si gettarono con impeto contro il bersaglio.
   - A Kusig![6] -, esclamò l'altro, creando spuntoni di roccia acuminati che si unirono alle fiamme del colpo di Zimudar.
   Alexer fece esplodere il suo cosmo, emanando un bagliore intenso e accecante. Allargando le braccia, aprì davanti a sé e al compagno un varco dimensionale, che inghiottì le tecniche nemiche. Poi, concentrando nelle mani la sua energia cosmica, formò un enorme pianeta incandescente e lo lanciò sulla schiera avversaria, urlando: - Galaxíou Ékrēxis! -.
   I demoni sembravano impreparati a un tale sfoggio di forza. Puannum guardò i compagni e, con un sorriso convinto, bruciò il proprio cosmo marroncino e si pose a loro difesa. La potenza del colpo del Sacerdote si abbatté tremenda: l'ultimo Sabitta della terra riuscì a frenare solo in parte la veemenza con cui il pianeta era esploso. Venne completamente disintegrato, e i proiettili rilasciati dalla detonazione colpirono i suoi compagni e li atterrarono.
   Elulu fu il primo a rialzarsi, un po' dolorante. Gli altri lo seguirono uno dopo l'altro: erano sconcertati e increduli; Puannum, il più debole del gruppo, aveva deciso di sacrificarsi per dare una possibilità di vittoria ai suoi alleati. Aveva scelto la strada più difficile, pur di non essere di peso. I ministri di Atena furono stupiti da quell'atto di abnegazione e di coraggio.
   - Non credevo vi fosse tanta fratellanza tra le creature infernali. Nelle innumerevoli guerre sostenute dai guerrieri di Atena voi siete i primi a manifestare sentimenti così umani -, ammise Alexer, provando una sincera ammirazione nei confronti di quegli esseri ancestrali.
   Il quinto demone della terra, col volto contratto dalla rabbia, assunse un'espressione superba e solenne: - Credete di essere gli unici a conoscere la solidarietà e l'onore? I Sabitti combattono insieme dalla notte dei tempi non soltanto per portare gloria al loro re, ma anche per dimostrare la loro forza e il loro coraggio in battaglia -, affermò. A quelle parole i suoi compagni annuirono e, stringendo i pugni, fecero ardere i loro cosmi multicolori.
   - A quanto pare vi ho giudicato troppo in fretta -, confessò Kanaad, lasciandosi avvolgere da un lucente cosmo dorato. Gli strani fiori prodotti dalla tecnica di Elulu coprirono il campo di battaglia, mentre nell'aria si spargeva una sorta di densa nebbiolina che rendeva difficile distinguere oggetti e persone. Il Sacerdote si accigliò: sembrava che quel gruppo di Sabitti non attaccasse a caso, ma conoscesse il loro modo di combattere. Non era preoccupato da quel cambio di strategia; tuttavia ciò gli faceva presumere che i tempi per il ritorno di Nergal si stavano avvicinando.
   Dalla nebbia emersero frecce nere, fruste ignee e cavalli di fuoco. Alexer lasciò che le sue abilità dimensionali risucchiassero quegli attacchi, ma non permise che tutta quell'energia finisse sprecata: la fece abbattere sui fiori di Elulu. L'impatto fu devastante, ma non bastò a spazzare via né le infiorescenze, né tantomeno la nebbiolina. Ciononostante, la mossa rese più agevole vedere i movimenti nemici. Alalgar provò a imprigionare di nuovo i suoi avversari in una morsa d'acqua per dare tempo ai suoi compagni di colpire. La sua intenzione sfumò: non appena il vortice si apprestò a cingere i corpi di Alexer e Kanaad, quest'ultimo fece esplodere la sua aura cosmica vanificando la tecnica del Sabitta. Contrariato, Alalgar proferì fra i denti incomprensibili imprecazioni. Kuda, allora, avvolse le mani con le sue sferze di fuoco e iniziò a staffilare il terreno, appressandosi sempre più ai due ex Cavalieri.
   Sacerdote e Primo Ministro schivarono per un po', finché Alexer, con la sola emanazione cosmica, non fece arretrare il demone fino ad atterrarlo. Non appena vide il compagno a terra, Shulgi fece scattare il braccio destro in alto e un nugolo di dardi neri sfrecciò contro i nemici, che sembravano un muro invalicabile. Fu Kanaad a rispondere a quell'attacco: assunse una posa meditativa e, bruciando una minima frazione di cosmo, lanciò la sua tecnica.
   - Epiblabê Pnéumata, Kyriéuete toû Ouranoû![7] -, gridò, e numerosi spiriti si gettarono contro le frecce, annientandole. Fermato l'assalto, puntarono ai demoni, che tentarono di difendersi. Tuttavia, benché smorzata dalla resistenza cosmica dei Sabitti, la forza del colpo li sbalzò lontano.
   Si rialzarono, dolenti e con le armature piene di crepe, da cui defluiva un liquido bluastro. Tuttavia, nonostante la palese inferiorità cosmica, i demoni erano decisi a riportare la vittoria da quello scontro. Alalgar e Shulgi si gettarono di nuovo all'attacco, fermi nella risoluzione di portarsi nella tomba almeno uno dei due paladini di Atena. Congiunsero le loro forze e le loro tecniche, fuse assieme, si scagliarono contro Alexer. Il Sacerdote chiuse gli occhi, innalzando un cosmo maestoso. Allargò le braccia, creando due sfere di luce estremamente luminose. Contrappose la prima all'attacco combinato dei Sabitti, che ne venne totalmente assorbito; poi la unì, carica della nuova energia, alla seconda e, quando i due Sabitti furono troppo vicini per schivare, gliele lanciò addosso. Inermi di fronte a quella immensa potenza cosmica, il sesto demone del ghiaccio e il quinto Sabitta dell'acqua si limitarono a parare con le braccia, ma fu tutto inutile: il colpo fu tremendo e li annientò; di loro non restarono che brani di cenere portati via dal vento. Elulu, Zimudar e Kuda furono pervasi da collera e rabbia: il fiero ostacolo che si opponeva alla loro gloria esigeva sacrificio e lacrime.
   Il quinto demone della terra, per la prima volta dall'inizio di quel certame, fece qualche passo avanti: il volto scuro, i pugni serrati, il corpo percorso da un fremito incontenibile:
   - Sembra che ci risulterà arduo eliminarvi; avete già tolto la vita a tre dei nostri compagni, non vi consentiremo di uccidere anche noi -, esordì con voce sofferente ma risoluta. Guardò per un attimo i suoi compagni: lesse nei loro occhi vacui una determinazione e una brama di rivalsa che mai gli era riuscito di scorgere in passato. Avanzò di un altro passo e si lasciò avvolgere dal suo cosmo violetto: germogli neri e grigi spuntarono dal terreno, allungarono gli steli e si avvinghiarono attorno al corpo di Kuda e Zimudar.
   Il Sacerdote e il Primo Ministro osservarono i due demoni scossi da dolori lancinanti; tuttavia essi non emisero il minimo gemito: sopportavano in silenzio l'atroce supplizio e, anzi, a uno sguardo più attento, sembravano addirittura sorridere. Pochi istanti dopo, dei due demoni del fuoco non vi era più traccia. I fiori, carichi di cosmo, si diedero poi ad avvolgere le carni del loro padrone: un potere vigoroso e vivace si sprigionò dal corpo di quel demone che fino a poco prima appariva il meno pericoloso del gruppo. Una luce violacea avvolse Elulu, che mutò aspetto: divenne alto e robusto, la sua andatura si raffermò e anche la sua voce acquisì una freschezza e una solennità di cui in precedenza era sprovvista.
   Alexer e Kanaad rimasero sconcertati: mai avrebbero immaginato di assistere a un sacrificio così inaspettato. Tuttavia, la decisione del demone di assorbire i suoi compagni era stata sicuramente preventivata: ciò significava anche che il potere sorto da quella fusione doveva superare di gran lunga quello delle singole creature infernali. Attesero che quell'ibrido essere facesse la sua prima mossa. Elulu puntò l'indice verso il terreno, lo avvolse di un alone violaceo, e un sottile raggio penetrò a fondo nella zolla.
   - Avreste fatto meglio a deporre le armi all'inizio dello scontro. Ora assaggerete sulla vostra pelle l'ira d'Irkalla: - Aga Barrimak![8] -, proclamò.
   Un terribile terremoto scosse la piana; alcune colonne del mercato, già indebolite dal tempo, crollarono. Fitti roveti coprirono l'intero spiazzo, imprigionando Alexer e Kanaad. Quest'ultimo, per nulla impressionato dal colpo nemico, tentò di divincolarsi, cominciando a sgombrare il terreno con fasci di cosmo; ma ogni volta che un roveto veniva distrutto, altri due spuntavano al suo posto. Il Primo Ministro continuò questa sorta di battaglia privata per un po'; in seguito, spossato, decise di smettere e di cercare un modo meno dispendioso per sbarazzarsi di quelle orribili piante.
   Il Sacerdote, invece, era rimasto fermo a riflettere: se era vero che quella tecnica avesse un potere maggiore rispetto a quello degli attacchi mostrati singolarmente dai Sabitti, doveva esserci dell'altro. Quegli innocui cespugli di spine nascondevano di certo un'arma letale. L'attacco di Kanaad gli aveva già chiarito quanto sarebbe risultato disagevole superare quella situazione di stallo. Facendo esplodere il suo splendente cosmo, aprì un varco dimensionale che coinvolse anche Kanaad.
   - Állē Diástasis![9] -, gridò, e la porta spaziotemporale inghiottì sia lui che il Primo Ministro.
   Riapparvero alle spalle del demone ma, con grande sorpresa, erano ancora circondati dai rovi, che iniziarono a stringerglisi addosso e ad allungare le loro spine verso i corpi dei Cavalieri. Elulu si girò e, nell'ossevare quello spettacolo, proruppe in una sguaiata risata.
   - I tuoi giochetti dimensionali non ti aiuteranno a sfuggire dalla morsa di quei cespugli -, affermò, fiero di essere riuscito a mettere sotto scacco addirittura coloro che governavano sul Grande Tempio.
   Kanaad, privo di difese, aveva innalzato le fiamme di Garuda, ma le spine, seppure a rilento, sembravano capaci di penetrare quell'infallibile barriera. Alexer, in ansia per la sorte del compagno, rifletteva sul modo di liberarsi da quella trappola infernale. Mentre meditava, si accorse che dalla corazza del Sabitta si levavano strani bagliori. Una fioca luce violetta si proiettava dal centro del torace, una verdastra dal braccio destro e un'ultima marroncina sul sinistro.
   Accennò un sorriso e, voltosi in direzione del vecchio amico, gli propose la sua idea: - Forse ho trovato un modo per annientare quel demone -.
   - Allora parla in fretta, perché non credo che la mia barriera durerà ancora  lungo -, rispose Kanaad, che tentava in tutti i modi di rafforzare le sue difese.
   - Quando te lo dico, scaglia il Daimónōn Hypóbasis e dirigilo alle braccia del demone; nello stesso tempo io lancerò la Galaxíou Ékrēxis al petto! -, spiegò, attendendo il momento opportuno per colpire.
   - Vi conviene arrendervi! Non avete alcuna speranza di salvarvi -, consigliò Elulu, convinto di avere in pugno la vittoria. Passò alla mossa successiva e, levando in alto il braccio, schioccò le dita. Le spine dei rovi s'incendiarono di fiamme blu. Tuttavia, né Alexer, né Kanaad avvertirono l'ardore di quel fuoco. C'era qualcosa di bizzarro e, ad un tempo, di agghiacciante in quella tecnica. Un sudore freddo imperlò la fronte dei due eroi, quando, d'improvviso, alcuni triboli si conficcarono nelle gambe del Primo Ministro.
   Egli non avvertì dolore, ma iniziò a sentirsi spossato, privo di energie, come molestato da un repentino senso di vuoto. Si sforzò di reagire a quella sensazione nuova facendo esplodere la sua dorata aura cosmica, ma più si ostinava a rispondere, più la sua mente e il suo cuore vacillavano. Alexer si rese conto che avrebbe dovuto abbattere da solo quell'orrido mostro, Kanaad non poteva aiutarlo.
   - Come ci si sente a provare sulla propria carne il fuoco d'Irkalla? Senti la vita sfuggirti tra le dita, vero? Le fiamme dell'oltretomba sumero sono generate dalle anime dei defunti, dai loro rancori, dalle loro speranze disattese, dai loro desideri inappagati; e sono in grado di gettare i nemici nell'oblio della dimenticanza -, disse il Sabitta con orgoglio e vanto.
   - Ti ci vorrà ben altro per eliminarci, demone -, asserì il Sacerdote, innalzando un cosmo che, per un attimo, impressionò Elulu. - Ti mostrerò il vero potere del vicario di Atena, preparati! -, aggiunse, creando onde di luce che si propagarono sul campo di battaglia. I rovi iniziarono ad avvizzire e bruciarono. Inavvertitamente, il Sabitta fece un passo indietro, colto da stupore e da paura.
   - Che cosa? Sei riuscito ad annientare la mia tecnica? Non è possibile! -, sbottò, sgranando gli occhi e con una certa apprensione nella voce.
   - Sei stato avventato! Mi hai rivelato l'origine del tuo potere. I Sacerdoti di Atena devono imparare ad affrontare qualsiasi genere di nemico, che sia umano o divino. Nel corso degli anni ci studiamo di apprendere tutto ciò che serve ad assicurarci la vittoria -, spiegò Alexer, dando un'occhiata a Kanaad, in ginocchio ma salvo.
   Il Primo Ministro si rimise in piedi, un po' a fatica: d'altronde egli non era più un giovincello, sul suo fisico gravava il peso degli anni. - Il mio amico ha ragione. Non conosci ancora il vero potere dei ministri di Atena -, ribadì, circondandosi di un abbagliante alone di cosmo.
   Seccato da quelle altisonanti parole, Elulu riprese il suo sangue freddo e si preparò a lanciare di nuovo la sua tecnica. Quando il suo cosmo si accese, nei punti notati in precedenza da Alexer riapparvero ancora una volta quelle sfumature di colore. Era il momento di attaccare e di porre fine a quell'estenuante scontro.
   - Kanaad, sei con me? -, chiese, sincerandosi che il compagno avesse forza a sufficenza per scagliare il suo colpo ferale. Il Primo Ministro annuì e fece scintillare sempre più il suo cosmo.
   - Ora! -, gridò il Sacerdote, generando i pianeti dell'Esplosione Galattica, mentre i teschi e lo scheletro della vergine a cavallo dell'Abbandono dell'Oriente si palesavano nell'aria. In quel momento, Elulu richiamò la sua tecnica, ma fu troppo tardi. I colpi dei due eroi centrarono il bersaglio provocando un tremendo boato e sollevando polvere e detriti. Quando la forza dell'impatto si fu esaurita, Kuda, Zimudar ed Elulu erano riversi a terra, le corazze totalmente distrutte e i corpi che si dissolvevano in cenere bluastra.
   Il quinto demone della terra, con un ultimo afflato, si rivolse a quegli uomini dal potere incredibile: - Sono... felice... di morire... per mano... di avversari... così degni -. Poi reclinò il capo e scomparve nel vento assieme ai suoi due compagni.
   D'improvviso, Alexer avvertì una vita spegnersi. Proveniva da Rodorio, ma il fervore della battaglia lo aveva talmente preso da fargli dimenticare lo scontro che si stava consumando nel villaggio vicino al Santuario. Scambiò una rapida occhiata con Kanaad, e, con moto fulmineo, i due attraversarono il varco che immetteva sull'Odeporica.
***
   - Non vi permetterò di mettere a ferro e fuoco questa città -, ruggì Calx, rivolto a quelle creature dalle lucide armature multicolori. Si lasciò avvolgere dalla sua aura cosmica, tra lo stupore degli astanti.
   - Sei forse un Cavaliere? -, chiese Tirid, incuriosito da quella visione. Anche gli altri Sabitti sembravano interessati a conoscere l'identità di quel ragazzo.
   - No. Sono un umile pescatore, il mio nome è Calx -, disse seccamente: non intendeva ripetere la sgradevole esperienza vissuta con Urur; erano già troppe le certezze che aveva perduto. - Voi, piuttosto, chi siete? E cosa cercate in questa pacifica città? -, domandò, aggrottando la fronte.
   - Se ti preme così tanto sapere chi siamo, ti accontenteremo; e poi ti sacrificheremo sull'altare d'Irkalla! Il mio nome è Atab, terzo demone della luce -, si presentò il primo. Indossava un elmo a casco, formato da piastre tubolari di colore blu che gli coprivano interamente la testa; sulla fronte, al centro, vi era un triangolo bianco. Sul volto cadaverico brillavano due occhi verdi e capelli dello stesso colore spuntavano dal cimiero. Una sorta di lungo tentacolo azzurro s'innestava sul bavero e proteggeva le spalle. Il pettorale era composto da piastre rettangolari bianche e azzurre, e lasciava scoperta la zona dell'ombelico. Il cinturino somigliava a un polipo acefalo, i cui tentacoli si allungavano fino alle ginocchia. Analoghe propaggini mostravano i bracciali e gli schinieri.
   Ridendo e avanzando di un passo, un Sabitta alto e dal fisico asciutto palesò il suo nome: - Io sono Saghulhaza, secondo demone del fuoco -. Indossava una corazza di un colore marrone opaco. L'elmo presentava due orecchie e un muso volpini; una maschera impediva di vederne gli occhi. Una folta chioma bionda gli scendeva lungo il fondoschiena. Il pettorale aveva la forma di un triangolo rovesciato, da cui affiorava un aggettante bavero. La base del triangolo fungeva da spallacci. Il cinturino, di un marrone più chiaro rispetto al resto della corazza, era costituito da fasce rettangolari; nella parte posteriore una piccola coda svettava verso il cielo. Bracciali e schinieri avevano l'aspetto di zampe, ed erano costellate di piccoli triangoli neri.
   Dopo di lui, fu la volta del demone dall'armatura nera, colui che all'inizio si era rivolto a Calx: - Io mi chiamo Tirid, e sono il primo demone della terra -. Il suo tono cortese e calmo stupì il giovane discepolo di Alexer.
   - Tu sei il Cavaliere che ha combattuto contro Urur, vero? -, chiese il quarto sgherro di Nergal. Calx negò, non volendo rivangare quel tragico incontro che, se da un lato gli aveva aperto gli occhi, dall'altro l'aveva reso un vigliacco e un debole di fronte ai guerrieri del Grande Tempio.
   Il demone non si scompose e continuò la sua presentazione: - Io sono Muttabriqu, secondo demone del ghiaccio -. La sua armatura era prevalentemente grigia, con inserti di colore nero. L'elmo a casco ricordava la forma di un tricheco, le cui lunghe zanne seguivano la morbida linea delle guance. Anch'egli indossava una maschera. Dalla fronte si affacciavano ciuffi di capelli rossi. Gli spallacci erano neri, lisci e simili a pinne. Il pettorale aderiva perfettamente alle forme del torace, prominente e muscoloso: lo attraversava una striscia di triangoli neri. Il gonnellino era formato da piastre circolari grigie e nere. I bracciali coprivano soltanto mani e avambracci, mentre gli schinieri montavano, ai lati, pinne triangolari.
   - Il mio amico ha ragione. Sei un Cavaliere, sei colui che ha sconfitto Yarla -, esordì il quinto Sabitta. - Sarà un piacere ridurti in cenere! Io, Rabishu, primo demone del fulmine, avrò l'onore di vendicarlo -, continuò, sbattendo i pugni. Uno spaventoso elmo gli copriva il capo: sembrava la testa di un mostro dai denti aguzzi, dagli occhi gialli e con un piccolo corno da cui pendeva una bizzarra sfera. Capelli grigi lunghi fino alle spalle spuntavano dalle aperture. La solita maschera ne celava gli occhi. Il pettorale era composto da numerose scaglie metalliche che formavano una sorta di coda sul fondoschiena. Il centurino era attaccato al pettorale e ne riproduceva la fitta trama delle scaglie. Della medesima fattura erano anche bracciali e gambali che, però, erano adornati da pinne squamose.
   L'ultimo demone dall'armatura rossa con sfumature brune puntò gli occhi sul giovane avversario e con voce perentoria tuonò: - Io sono Kalbum, quarto demone del vento -. I suoi occhi turchesi spiravano risolutezza e orgoglio. Il suo elmo aveva le forme d'una testa d'uccello. Grandi ali, incastrate sulla schiena, coprivano le spalle e le braccia del Sabitta. Non aveva bracciali, ma solo manopole munite di artigli affilati. Il pettorale riproduceva il manto di un volatile, ma lasciava scoperto il ventre. Il cinturino, formato da piume metalliche, presentava nella parte posteriore una coda a ventaglio. Gli schinieri, anch'essi artigliati, si estendevano fino alle ginocchia. Sia sulle ali che sulla coda si notavano triangoli bruni.
   - Mi ricorderò dei vostri nomi nelle serate tristi -, ironizzò Calx bagnando i pugni di cosmo e lanciando sfere di luce contro i suoi avversari. Sapeva di non avere grandi speranze di successo senza la protezione di un'armatura, ma preferiva morire provando a sventare il pericolo piuttosto che lasciarsi sopraffare dalla morte restando a mani conserte.
   I demoni schivarono con facilità il debole attacco; ridendo, Rabishu fece avvampare il suo cosmo blu e la sfera sul suo elmo iniziò a brillare. - Preparati, la morte incombe su di te! Gidim Gallak![10] -, gridò, e fantasmi diafani si avventarono su di lui.
   Calx provò a reagire, liberando il proprio cosmo: ci riuscì solo in parte, perché alcuni spettri sfuggirono alla sua mossa. Raggiunta la preda, iniziarono a torturarla con scariche elettriche. Il ragazzo resisteva, ma un dolore atroce gli percorreva le membra senza dargli tregua. Tuttavia, con un grande sforzo di volontà, si sottrasse al supplizio di quel colpo. Cadde a terra, il respiro affannoso e gli abiti bruciacchiati. Rabishu era meravigliato: non si aspettava tanta ostinazione da quell'indifeso moccioso.
   L'allievo di Alexer si rimise in piedi, pronto a riprendere le ostilità; d'improvviso, però, un intenso bagliore dorato investì il campo di battaglia. I demoni furono sbalzati all'indietro, e anche Calx dovette faticare per tenersi ancorato al terreno. Quando la luce svanì, le eleganti ali dorate dell'armatura della nona casa apparvero in tutto il loro splendore. - Vattene -, sibilò la voce rabbiosa di Pelag. - Questa tenzone non si addice ai vigliacchi e ai pusillanimi -, concluse sprezzante.
   Ferito nell'orgoglio, Calx non aveva intenzione di andarsene: non era più un Cavaliere, ma aveva ancora forza a sufficienza per combattere. - So che le mie decisioni non hanno trovato la tua approvazione, ma non puoi mandarmi via se scelgo di battermi! -, affermò con grande fervore.
   - Non costringermi a spazzarti via assieme a queste luride creature -, replicò con rabbia e senza voltarsi a guardarlo. Gli premeva soltanto salvare Atene da quella masnada di loschi figuri. Calx era una semplice distrazione che andava rimossa dal campo.
   I demoni non erano propensi ad assistere a quell'alterco; i loro pugni fremevano e i loro cosmi ardevano smaniosi di sangue. Kalbum librò le ali e spiccò il volo, avvolgendosi di un alone rosa. - Tumu Esad![11] -, gridò, scagliando il suo colpo speciale. Il movimento delle ali aveva creato intense raffiche di vento che portavano via tutto ciò che incontravano. Pelag e Calx, intenti a discutere, approntarono troppo tardi le difese e furono scaraventati lontano e terminarono la loro corsa contro il muro di un recinto, abbattendolo. Si rialzarono dopo alcuni secondi, coperti di polvere. Il Cavaliere di Sagittarius tornò verso gli avversari, seguito a poca distanza dal compagno.
   Stanco dell'ostinazione di Calx, Pelag si fermò improvvisamente e, caricando il cosmo, lanciò un sottile raggio dorato in direzione del custode della terza casa. Il ragazzo provò a difendersi, ma quel fascio di luce gli trafisse una spalla, lasciandolo sanguinante e in preda a un dolore lancinante. Cadde in ginocchio, vinto dalla inaspettata mossa del compagno. - Così smetterai di intralciarmi -, sibilò il Cavaliere, pronto a tornare in battaglia.
   - Adesso posso dedicarmi a voi, esseri malefici -, disse con tono di sfida. Un sorriso malevolo e compiaciuto illuminò il volto dei servi di Nergal. Pelag fece ardere il suo cosmo e, puntando il pugno contro i nemici, rilasciò la sua tecnica segreta: - Átomōn Keraunós! - Invocate dal loro padrone, migliaia di sfere cosmiche si abbatterono sui Sabitti alla velocità della luce. Tuttavia, non raggiunsero il bersaglio. Una barriera lucente protesse i demoni dalla tecnica di Pelag. Era stato Atab a innalzarla per vanificare l'attacco nemico.
   - Ben poca cosa il tuo colpo speciale, Cavaliere. Non so come tu abbia fatto a sconfiggere Ilku -, lo canzonò il terzo demone della luce. Al Cavaliere quel nome ricordava il suo primo scontro, avvenuto a Venezia. Ma gli rammentò anche il motivo per cui quel giorno aveva vinto: la difesa degli innocenti. Ora era Atene il luogo del cimento, e la devozione che aveva per Himrar, il precedente custode della nona casa, gli imponeva di dare fondo a ogni singola stilla d'energia non solo per onorare quell'eroe, ma anche per far trionfare la giustizia.
   Con una smorfia di disappunto, tornò ad attaccare, ma Atab non aspettò che eseguisse di nuovo la sua tecnica: innalzando un cosmo candido, levò le braccia al cielo; - Du Shedu'enek![12] -, sussurrò, e dalla terra emersero ombre scure che circondarono Pelag e lo strinsero in una solida morsa. Provò a divincolarsi, ma quelle figure iniziarono a mordere l'armatura.
   Il Cavaliere avvertì un senso di confusione e spossatezza: anche Atab utilizzava materia spirituale come Ilku; se già una volta era riuscito ad annullare gli effetti di una tecnica simile, allora poteva farlo anche adesso, pensava. Cercò di liberare un braccio per afferrare la freccia che custodiva sotto la scapola.
   Grondava sudore da ogni centimetro di pelle; lo sforzo che intendeva operare richiedeva un cospicuo dispendio di energie. Più tentava di allentare quella presa, più le ombre si serravano al suo corpo e affondavano i denti nell'armatura. Il Cavaliere urlò, straziato dalle ferite; faticava a respirare e la vista gli si annebbiava. Le figure demoniache si moltiplicavano davanti ai suoi occhi ingannati; le udiva ridere e proferire parole di scherno o di biasimo. Lottava tenacemente per affrancarsi da quei fantasmi che sembrava gli stessero succhiando via l'anima. La testa iniziò a vorticargli, si sentiva svenire, quando si accorse che un cosmo si era acceso. Pochi attimi dopo, il boato di un'esplosione mise fine al suo supplizio. Si accasciò al suolo, stremato e in affanno. Si voltò lentamente verso la fonte i quell'energia cosmica, e ciò che vide lo lasciò esterrefatto.
   Benché la spalla stillasse sangue, Calx era riuscito a espandere il suo cosmo e ad annullare la tecnica del demone. Tuttavia, lo sforzo gli fece perdere i sensi, e le sue membra sprofondarono nella polvere. Il Cavaliere della nona casa provò un moto di gratitudine verso l'ex parigrado: si domandava se l'atteggiamento altezzoso e sprezzante con cui lo aveva trattato fino a quel momento non fosse frutto della sua incapacità a comprendere la complessità dell'animo del discepolo del Sacerdote. In fondo, Pelag era un giovane pragmatico, poco incline ai sofismi o alle disquisizioni intellettuali: rimandò a un altro momento i suoi quesiti; ora bisognava concentrarsi sui Sabitti.
   Atab era stizzito per l'intromissione del sedicente pescatore, ma ora che sembrava finalmente essere fuori gioco poteva sbarazzarsi anche del Sagittario. Rabishu, però, lo fermò: - Questa battaglia appartiene a tutti noi, ricordi? Dobbiamo combattere insieme se vogliamo avere ragione di lui, non essere avventato -. Il terzo demone della luce cedette alle parole del compagno, seppure a malincuore.
   Kalbum spiccò di nuovo il volo e sollevò potenti raffiche di vento; Pelag cercò di restare in piedi e di non lasciarsi trascinare dalla corrente d'aria. Rabishu liberò gli spettri del Gidim Gallak, che rilasciarono scariche elettriche contro il Cavaliere; Atab lo avvinghiò con le anime, che tornarono a morderlo con maggior veemenza.
   Saghulhaza allargò le braccia al cielo formando un semicerchio e richiamò la sua tecnica: - Er Huluk ![13]" - gocce di fuoco cominciarono a tempestare il ragazzo.
   Muttabriqu innalzò il suo cosmo gelido e creò asce di ghiaccio; - Ib Sheĝak![14] -, gridò dirigendole contro l'avversario.
   Per ultimo Tirid manifestò il suo potere: avvolto da un cosmo nero come la pece, dalle sue mani emersero fili sottilissimi che s'insinuarono nelle pieghe dell'armatura di Pelag. - Massu Sheduk![15] -, sibilò, e i filamenti della sua tecnica, penetrati nelle fessure della corazza, cominciarono a scavare nelle carni del Cavaliere.
   Investito da quei colpi segreti tanto vari nella forma quanto simili nella sofferenza che procuravano, Pelag fu attraversato da sensazioni contrastanti: ora avvertiva freddo, ora caldo; sentiva il respiro sfuggirgli e la vita abbandonarlo. Poi riacquistava lucidità e determinazione: doveva a tutti i costi mantenere la promessa che aveva fatto e non lasciarsi sopraffare dagli eventi. Urlò con tutta la forza che teneva in corpo e un'immensa luce dorata si sprigionò da lui. Una tremenda esplosione cosmica fece tremare la terra, costringendo i demoni a coprirsi gli occhi. Pensavano che la deflagrazione delle loro tecniche avesse disintegrato il Cavaliere. Ma quando il boato e la luce si furono dissolti, Pelag era ancora lì, in piedi, in affanno e con l'armatura che presentava leggere crepe in vari punti.
    - È ancora vivo? -, disse Tirid, sbalordito dalla resistenza che mostrava quel ragazzo: aveva subito l'effetto di sei tecniche speciali, eppure continuava a restare in piedi.
   - Sì, ma ancora per poco -, commentò Muttabriqu. - Osserva bene: non è uscito indenne da quell'attacco -, proseguì, ridimensionando lo stupore del compagno.
   - Allora non ci resta che finirlo -, chiosò Rabishu, con un sorriso soddisfatto sulle labbra. La vittoria sembrava a un passo, ma notò sul volto del nemico un'espressione seria e convinta. Quella visione lo infastidì: gli esseri umani non capiscono mai quand'è il momento di arrendersi. - Attacchiamolo di nuovo -, suggerì, facendo ardere il suo cosmo.
   I demoni si prepararono a sferrare quello che consideravano il colpo di grazia, quando Pelag estrasse dalle spalle una freccia d'oro lucente e un arco dalle forme eleganti. Incoccò il dardo ma, invece di puntarlo contro i Sabitti, lo indirizzò verso il cielo; si avvolse del suo cosmo e lo concentrò sulla punta dello strale. - Díkēs Bélos![16] -, gridò, liberando la quadrella nell'aria. Essa si moltiplicò in innumerevoli dardi che si diressero verso i demoni. Atab innalzò lo scudo di luce a protezione sua e dei suoi compagni, ma stavolta non riuscì a trattenere del tutto l'impatto. Alcune saette superarono la barriera e si conficcarono nelle membra di Kalbum e dello stesso demone della luce.
   Una volta raggiunto il bersaglio, le frecce s'illuminarono ed esplosero. I Sabitti che erano stati colpiti vennero orrendamente mutilati: dalle estese ferite grondavano fiotti di sangue bluastro. Atab e Kalbum si dibattevano nel dolore, levando alti gemiti, e, in poco tempo, le loro membra si sciolsero nel vento.
   Gli altri demoni erano inorriditi: con un colpo solo quel giovane Cavaliere aveva ucciso i loro compagni; forse lo avevano sottovalutato e, se volevano riportare la vittoria, dovevano tenere gli occhi aperti.
   Proprio nell'attimo in cui il demone della luce e quello del vento morivano, Calx si ridestò: si appoggiò su un un gomito; osservò la spalla; gli doleva, ma almeno aveva smesso di sanguinare. Poi rivolse lo sguardo al compagno: era sporco di sudore e polvere, fiaccato dall'immane sforzo di resistere agli attacchi di tutte quelle creature infernali, ma spinto da una inenarrabile determinazione.
   La prima freccia scoccata dall'arco di Pelag era ritornata nelle mani del suo padrone. Egli la stringeva con mano tremante, fissando i suoi occhi marroni sui volti corrucciati e sprezzanti dei Sabitti. Poi, per qualche secondo, spostò lo sguardo su Calx, e fu sollevato che stesse bene. Aveva esagerato con lui; il suo comportamento nei suoi confronti non era stato conforme alle norme della cavalleria.
   I demoni rimasti, ripresisi dallo sconcerto per la perdita dei compagni, fecero rifulgere di nuovo i loro cosmi e attaccarono tutti insieme, come prima. Saghulhaza sprigionò le sue gocce di fuoco; Muttabriqu scagliò le asce di ghiaccio; Rabishu liberò gli spettri e Tirid i fili. Le tecniche si avventarono con violenza contro il custode della nona casa, nascondendolo alla vista. Il supplizio di quei colpi lo prostrò e lo scaraventò contro le palizzate di un recinto.
   Nuove crepe e ferite apparvero sull'armatura e sul corpo del Cavaliere. Si rialzò lentamente, un rivolo di sangue gli scendava dal bordo della bocca. Increduli, i Sabitti fremevano di rabbia: quel ragazzo, pur essendo giunto allo stremo, non voleva saperne di tirare le cuoia. Pelag levò l'arco verso l'alto e incoccò di nuovo la freccia, avvolgendola di cosmo. Le braccia, doloranti e coperte di bruciature e profondi graffi, erano malferme. Con quanto fiato gli restava, evocò la sua tecnica segreta: la saetta ne produsse altre, sibilando. Muttabriqu provò a fermarle erigendo una fitta coltre di ghiaccio, ma esse la attraversarono senza rallentare la corsa. Si udì un grido: Saghulhaza era stato colpito da tre dardi in pieno petto che esplosero con un forte boato. Quando tutto fu finito, del secondo demone del fuoco non vi era più traccia.
   - Che tu sia maledetto! -, inveì Rabishu. - Ma ormai il tuo corpo e il tuo cosmo sono ridotti al lumicino. Non resisterai ancora a lungo -, affermò con odio, mentre un alone blu lo circondava.
   Quelle parole giunsero al Cavaliere come un'eco lontana. Sapeva di non avere più molto tempo da vivere, ma non voleva morire nella vergogna di aver giudicato male un parigrado. Lo doveva all'armatura che indossava e al guerriero che l'aveva onorata in passato.
   Mentre raccoglieva le forze per sferrare un nuovo attacco, i tre Sabitti si precipitarono a lanciare i loro colpi segreti. Preso in contropiede, Pelag provò a resistere e a respingere quella bordata cosmica. Dalle ferite del Cavaliere defluiva linfa vitale e i suoi occhi si velarono d'ombra. I demoni intensificarono l'attacco, decisi a concludere quello scontro. Il giovane Sagittario era sul punto di soccombere, quando un cosmo portentoso pose fine a quell'assalto: Rabishu, Muttabriqu e Tirid furono sbalzati lontano e terminarono la loro corsa fra le pietre di un pozzo.
   Calx si era rialzato e aveva evitato che il compagno venisse ucciso. Pelag era in ginocchio, respirava a fatica, l'armatura macchiata di sangue. Si girò verso il giovane Gemini e accennò un sorriso in segno di gratitudine. Poi si rimise in piedi, barcollando. I demoni, tornati in campo, erano fradici d'acqua. Osservarono il ragazzo che si era intromesso nella loro battaglia e optarono di sbarazzarsi prima di lui.
   Il custode della nona casa, benché avesse compreso i propri errori, non accettò di essere considerato sconfitto. Gettò a terra la freccia che aveva in mano e, dalle spalle ne trasse un'altra, più grande e maggiormente elaborata sulla punta e sulle piume. Diede fondo a ogni briciola di cosmo e la caricò sull'arco.
   - Che vuoi fare? -, gli urlò Calx. - Non hai più forza per lanciare un altro colpo! Vuoi forse morire? -, proseguì, cercando di raggiungerlo; ma Pelag lo guardò con una serietà e una risolutezza tali che lo costrinsero ad arrestare il passo: gli era chiaro che il suo vecchio compagno non aveva intenzione di rinunciare al proprio onore, anche a costo di perdere la vita.
   Le guance del discepolo di Alexer si rigarono di lacrime. - Questa è la tecnica più potente che possiedo: la freccia sacra montata su quest'arco è un dono di Atena ai Cavalieri del nono segno. Essa è in grado di distruggere qualsiasi entità, di qualunque genere sia. Noi che siamo i suoi custodi abbiamo imparato a trarne il massimo vantaggio: Kríseōs Bélos![17] -, spiegò Pelag, puntando verso i demoni il dardo rilucente.
    - Non avrai tempo di scagliare quella freccia -, sibilò Tirid, innalzando il suo cosmo oscuro. - Massu Sheduk! -, gridò, e i fili della sua tecnica penetrarono in tutte le crepe e le fessure dell'armatura nemica. Il giovane Cavaliere strinse i denti e scoccò la saetta.
   Mentre il primo Sabitta della terra torturava il paladino della giustizia, Muttabriqu e Rabishu approntarono le difese; tuttavia, durante il tragitto, la freccia appariva e scompariva, rendendo impossibile capire chi avrebbe colpito per primo. I due si guardavano intorno, gli occhi attenti e la guardia alta. Il dardo riapparve a pochi centimetri dal demone del fulmine per poi sparire nuovamente.
   Rabishu rimase confuso da quello strano andamento, ma, d'improvviso, avvertì una fitta al basso ventre: sentiva il corpo in fiamme e le membra sfrigolare. Abbassò lo sguardo, ma non vide altro che una profonda ferita da cui sgorgava linfa bluastra. Le sue grida si persero nel vento assieme alle sue ceneri.
   Il demone del ghiaccio era inorridito e spaventato. Muoveva gli occhi ossessivamente, in cerca del dardo ferale, ma non lo scorse. Sentì soltanto un atroce dolore alla schiena e vide la saetta trapassarlo da parte a parte. Cercò di contenere l'emorragia che ne scaturì con una mano, ma la vita gli scivolò via dalle vene in un lampo, sciogliendosi in un fumo bluastro.
   Tirid continuò a mantenere l'attacco, senza curarsi minimamente del pericolo che lo attendeva. Bruciò il suo cosmo fino al limite estremo per ottenere il massimo effetto dalla sua tremenda tecnica. La freccia gli trapassò il cranio, spegnendone ad un tempo la vita e il cosmo. I fili, venuta a mancare la loro fonte d'energia, si sbriciolarono in minute pagliuzze.
   Il Cavaliere di Sagittarius lasciò cadere l'arco e crollò tra le braccia di Calx, corso ad aiutarlo. Pelag lo guardò e, con voce flebile, gli rivolse parole accorate: - Ti chiedo perdono, amico mio. Solo ora mi rendo conto di non aver capito il dilemma che ti affligge l'anima. È stato un onore conoscerti e combattere al tuo fianco. Perché ci si ravvede sempre quando incombe la morte? Perché solo adesso la mia superbia e il mio orgoglio fanno un passo indietro? Perdonami, Calx! Non avrei voluto trattarti con tanta acrimonia; perdonami... -.
   Lo sforzo che aveva fatto per riconciliarsi col suo vecchio parigrado lo stancò ulteriormente. Iniziava a tossire sangue e il respiro gli si strozzava in gola. Calx piangeva e tentava di rianimarlo, usando il cosmo per curargli le ferite. Pelag strinse forte la mano del custode della terza casa, poi reclinò il capo sul suo petto e spirò. L'armatura, non avvertendo più la vita nel suo custode, lo lasciò, si riassemblò e, con un bagliore dorato, tornò alle dodici case.
   Calx si accorse dello straziante dolore che Pelag aveva provato: dalle ferite, oltre a sangue, fuoriuscivano tessuti, nervi e brandelli di organi. Abbracciò forte il corpo dilaniato del compagno, versando calde lacrime. Lo raggiunsero Alexer, che si era liberato dall'armatura, e Kanaad, che correva più lentamente a causa delle ferite subite durante lo scontro. Non appena li vide, preso da grande vergogna, fuggì via, senza rivolgere loro la parola.
   Il Sacerdote non se ne ebbe a male: sapeva bene che la morte di Pelag aveva sconvolto ancora di più l'animo tormentato di Calx e che era stata la mortificazione a farlo allontanare frettolosamente. Poi guardò il corpo martoriato del Cavaliere e trattenne le lacrime: il volto sereno si contrapponeva allo scempio delle membra. Era certo che la sua speranza si fosse realizzata. Lo prese tra le braccia e, in silenzio, lo riportò al Grande Tempio.
   Kanaad era triste: la vista di un giovane valoroso strappato alla vita in modo così orrendo lo amareggiava; avrebbe voluto ritrovare la giovinezza di un tempo per assicurare un futuro migliore a quei ragazzi dall'indomito coraggio. Seguì Alexer a capo chino, recitando una preghiera nella sua mente.
***
   Il giovane Gemini imboccò la porta di casa e se la chiuse alle spalle, sentendo un certo sollievo. Nel vederlo sporco di sangue, coi vestiti laceri e strinati, e la spalla ferita, le donne di casa ebbero un moto di apprensione e gli corsero incontro a prestargli le prime cure. Calx era infastidito da tutte quelle attenzioni e cercava di scrollarsele di dosso: la morte dell'amico, avvenuta davanti ai suoi occhi, lo aveva oltremodo turbato.
   Anche Kendreas restò stupito dalle condizioni in cui era tornato il collega. La ferita che si era procurato alla spalla indicava che avesse combattuto: gli sembrava incredibile che fosse sopravvissuto all'assalto. - Come hai fatto a riportare solo una lesione alla spalla con tutti quei soldati? -, chiese di getto, roso dalla curiosità di scoprire qualcosa in più su quel misterioso ragazzo.
   - Tornatene a casa, Kendreas, non hai più bisogno di nasconderti -, replicò Calx, glissando sulla domanda e sedendosi. Non aveva alcuna voglia di intavolare discussioni o di condividere l'esperienza appena vissuta; desiderava soltanto essere lasciato in pace.
   Eyra aveva preso degli stracci nuovi per ripulire la ferita. L'idea che Calx fosse tornato sul campo di battaglia la colmò di angoscia: se i suoi complici l'avessero scoperto, l'avrebbero di certo rimproverata aspramente e ritenuta inadatta alla delicata missione che le era stata affidata. Temeva di essere allontanata da quel ragazzo che aveva imparato ad amare.
   Kendreas, deluso dalle parole dell'amico, fece una smorfia di disappunto. Salutò frettolosamente e andò via: poiché Calx aveva preferito tacere, avrebbe trovato da solo la risposta ai suoi quesiti. Scorse un piccolo assembramento che osservava la piazza e discuteva animatamente. Incuriosito, si avvicinò e vide uno spettacolo incredibile: muri abbattuti, recinti divelti, grosse crepe e buche nel terreno. - Che razza di esercito può provocare danni simili? -, pensò, ascoltando le teorie di quelli che erano presenti.
   - Smettila, Eyra! Sto bene -, diceva il giovane Gemini alla ragazza che con tanta premura si prendeva cura di lui. Ella si ritrasse, un po' indispettita: lo amava, e vederlo ridotto in quello stato le suscitava ansie e paure; ma sembrava che il suo affetto non fosse più ricambiato: l'uomo che le aveva rubato il cuore ora le appariva distante e freddo. Strinse lo straccio tra le mani e si allontanò, chiaramente turbata.
   Irene si avvide dell'umore nero di Eyra e, con tono calmo e autorevole, rimproverò il figlio: - Non essere così sgarbato! Eyra cercava solo di aiutarti -. Calx abbassò il capo: la piega che stava prendendo quella discussione cominciava a stancarlo. L'unica cosa a cui riusciva a pensare in quel momento erano le parole di perdono che gli aveva rivolto Pelag poco prima di morire.
   Si alzò di colpo e, con voce gentile, si scusò con Eyra per i suoi modi bruschi. La ragazza abbozzò un sorriso, soddisfatta solo in parte. Calx uscì di nuovo, dicendo: - Non aspettatemi per cena -. Le due donne rimasero in silenzio, ognuna facendo congetture su cosa avesse scosso a tal punto l'animo del giovane.
   L'allievo di Alexer si recò su una spiaggia deserta, lontana da Atene, sfruttando la sua velocità. Si sedette su un masso, di fronte al mare piatto, e finalmente poté dedicarsi ai suoi pensieri.
***
   Alexer adagiò il cadavere di Pelag su un letto di pietra all'interno della prima casa. Hamal tratteneva le lacrime, mentre Kanaad se ne stava muto con le braccia ciondolanti. Dalle case superiori discesero gli altri custodi dorati per rendere omaggio all'amico caduto. Nell'aria aleggiava una greve mestizia e il silenzio, reso snervante dai singhiozzi e dai gemiti soffocati, aveva immerso gli animi in un profondo sconforto.
   Benché il dolore fosse cocente e incontenibile, il custode della prima casa volle mettere a parte delle sue scoperte il Sacerdote e il Primo Ministro. Li invitò a seguirlo in una stanza attigua, dove avrebbero potuto parlare con tranquillità. Hamal iniziò con voce rotta: - Ho trovato il nesso fra le Arâia e le pietre preziose. In uno dei libri che ho preso in prestito da voi si dice che le gemme possono essere adoperate come barriera -.
   - Come barriera? -, lo interruppe Kanaad. - Intendi una barriera simile a quella del castello di Ade, per caso? -, chiese, rammentando la peculiarità della dimora terrena del dio degli Inferi, capace di ridurre a un decimo la forza di un Cavaliere e di uccidere i comuni esseri umani.
   - Purtroppo no, Primo Ministro -, lo contraddisse Aries, avvicinandosi al tavolo e prendendo tra le mani un volume di mitologia dalla copertina arancione. - La barriera di cui parlo non riduce il cosmo degli esseri viventi, ma quello delle divinità -, chiarì, lasciando perplessi i ministri di Atena.
   - Che vuoi dire? Spiegati meglio -, ordinò Alexer, che aveva intuito dove volesse andare a parare il Cavaliere, ma voleva esserne sicuro.
   Hamal sfogliò qualche pagina del volume e scorse qualche riga di testo, poi, dopo aver tirato un lungo sospiro, lesse: - Gli dei di Sumer concessero a Nergal un esercito di sette demoni, gli Utukki, per conquistare Irkalla e spodestare la malvagia Ereshkigal. Egli portò a compimento la missione ma, dopo aver assunto il controllo dell'Aldilà, liberò la precedente regina di quei luoghi e la fece sua sposa. Per impedire agli dei la vendetta, affidò agli Utukki sette pietre, da incastonare nelle armature, che creassero una barriera capace di annullare il cosmo di qualsiasi divinità -. Terminata la lettura, chiuse il libro e lo pose sul tavolo. - Avete capito, ora? -, chiese infine, con un certo scoramento nell'espressione.
   Alexer annuì, ma si rese conto che il custode della casa del Montone Bianco era alquanto confuso. - Signore, vi chiedo scusa se ho impiegato così tanto tempo prima di svelare l'arcano, ma ho dovuto confrontare testi e lemmi in lingue diverse e capire se avessero significati simili o sfumature differenti. Ciò mi ha richiesto più tempo del previsto -, ammise il ragazzo, col volto basso e l'animo amareggiato.
   - Hai fatto un ottimo lavoro, Hamal. Sei un Cavaliere dalle molte doti, ti ringrazio -, lo rassicurò il vicario di Atena, muovendosi verso l'uscita; ma la voce di Hamal lo fermò:
   - Perdonatemi se in questo giorno infausto prendo l'ardire di trattenervi ancora qualche secondo: abbiamo scoperto a cosa servono le pietre preziose, ma non mi è chiaro perché bloccare il cosmo degli dei. I Cavalieri sono semplici esseri umani e combattono senza nono senso; perché non utilizzare una barriera come quella di Ade? -
   Il Sacerdote chiuse gli occhi e abbassò il capo: - Ciò che hai scoperto finora è più che sufficiente, non indagare oltre -, gli intimò, con voce ferma e autoritaria. Il Cavaliere restò di sasso.
   - Spiegatemi almeno il motivo -, chiese costernato, impreparato a quel deciso divieto. I suoi occhi marrone denunciavano una forte brama di conoscere ciò che il Sacerdote sembrava volergli celare.
   Alexer troncò quella discussione; non voleva rivelare anche a lui ciò che era stato costretto a svelare a Sertan quando Calx aveva abbandonato la terza casa e il Grande Tempio. - Verrà un tempo in cui tutti voi Cavalieri conoscerete la verità, ma non oggi -. Uscì dalla stanza seguito da Kanaad, lasciando Hamal interdetto.
   Tornato nella sala principale, vide all'ingresso due figure attendere che qualcuno le invitasse a entrare: erano il sultano e il fedele Turgay. Alexer andò loro incontro e li accolse calorosamente.
   Arslan e il suo sottoposto entrarono in silenzio, condividendo il cordoglio e la tristezza che attanagliavano tutti. Aveva commesso un grosso errore, sfociato in un esito fatale: un uomo aveva perso la vita a motivo della sua ingiustificata sete di vendetta. Provava un profondo rimorso, e avrebbe voluto scusarsi pubblicamente con gli astanti, se il suo orgoglio di monarca non glielo avesse sconsigliato. Si avvicinò al feretro e osservò l'orrido scempio di quel corpo. Se ne restò in silenzio, a capo chino, rimuginando sulla sua avventatezza.
***
   Il rumore delle onde cullava i pensieri di Calx: aveva lasciato lo scomodo masso su cui si era seduto per la molle battigia. Il vento, caldo e forte, gli carezzava il volto e, penetrando fra i capelli, li muoveva scompostamente. Si sdraiò, poggiando il capo su di un braccio, e chiuse gli occhi: si sentiva spossato, vuoto e inutile. Le palpebre gli pesavano, ma ormai anche il sonno per lui era una chimera: l'insonnia era diventata la sua più fedele compagna.
   Tuttavia, la stanchezza sembrò vincere la battaglia, per una volta; il ragazzo si addormentò profondamente, ma una serie di immagini sfocate e illogiche iniziò a vorticargli nella mente. Fu una rassegna rapida e breve, poi tornò il buio. Ma anch'esso non durò a lungo: nuove immagini, stavolta nitide e sensate, cominciarono a scorrere davanti a lui.
   Vide la statua di Atena ergersi fiera sul suo piedistallo e, ai suoi piedi, una grande anfora a figure rosse, in cui una fanciulla dai capelli azzurri e dall'abito candido come la neve versava sangue: si era tagliata un polso e lasciava che la sua linfa vitale fluisse nel vaso.
   Sopraggiunse un uomo in abiti sacerdotali e le si prostrò dinnanzi, chiedendole rispettosamente: - Cosa fate, mia dea? -. La ragazza illuminò l'altra mano di un cosmo dorato e la impose sulla ferita: il sangue si ristagnò e il taglio si richiuse senza formare alcuna cicatrice. Poi rivolse i suoi occhi verdi come il mare al suo interlocutore e gli indirizzò un sorriso dolce e sincero.
   - Dovresti sapere che l'ichor contenuto in quest'anfora va rivitalizzato a ogni rinascita di Atena, ed è quello che sto facendo -, rispose con un'amabilità e una leggerezza sorprendenti.
   - Perdonate la mia impudenza, Atena, ma la vostra convocazione qui mi ha piuttosto stupito -, si schermì il Sacerdote, ansioso di sapere il motivo di tanta urgenza.
   La ragazza sorrise ancora e, con un elegante gesto della mano, invitò l'uomo a rialzarsi. Egli obbedì, attendendo che la dea sciogliesse le sue dotte elucubrazioni. Atena gli carezzò un braccio e, assumendo un'aria composta e autorevole, disse: - Sono passati oltre tre anni dalla fine della guerra sacra. È giunto il tempo che io vada via fino all'avvento del prossimo conflitto. So che tu e i tuoi successori continuerete l'opera di difesa della Terra e custodirete la mia dimora. Sii forte, Alexer, e abbi cura dei miei Cavalieri -.
   Il Sacerdote provò a trattenerla con pretesti. - Ma, mia signora, il Grande Tempio ha bisogno della vostra presenza e del vostro amabile cosmo. Cosa vi spinge a lasciare questi luoghi con tanta premura? -, domandò, nel tentativo di capire quale cruccio opprimesse la dea che aveva giurato di difendere.
   Atena rilassò il volto e strinse il braccio di Alexer. - Nessun motivo particolare mi costringe a partire, ma mio padre Zeus richiede la mia presenza sull'Olimpo. Voglio scoprire cosa vuole dirmi -, mentì, volgendo di nuovo lo sguardo e i passi al piedistallo della statua che la ritraeva.
   - Capisco -, si arrese Alexer. La chiamata del re degli dei era sicuramente una ragione più che sufficiente per andare. La dea della giustizia gli concesse un ultimo sorriso, poi appoggiò la destra sul basamento e si lasciò avvolgere dal suo splendente cosmo dorato. Un varco dimensionale si aprì: sentieri di vario colore e lunghezza conducevano ad altrettante nebulose variopinte.
   - Che succede? -, chiese il Sacerdote, stupefatto. - Non conoscevo questa realtà dimensionale, che cos'è? -, continuò, avvicinandosi di qualche passo.
   - Fermati, Alexer -, gli intimò la dea con voce salda. - Questo è il Cammino degli Dei: solo ai numi è concesso il passaggio. Per i mortali esso non riserva altro che la morte fra atroci sofferenze -, spiegò, addentrandosi nel portale.
   Alexer restò attonito, mentre osservava il varco chiudersi e nascondere alla sua vista la dea. Quando il portale scomparve, Alexer si avvicinò ai mattoni del piedistallo, e un velo di tristezza gli calò sul cuore: - State attenta, Atena, in quella realtà i Cavalieri non possono difendervi -, sussurrò, versando calde lacrime che cadevano sull'anfora sottostante.
   Atena imboccò un sentiero lungo e tortuoso che immetteva in una nebulosa azzurra. Una volta attraversata, si ritrovò in un mondo privo di luce, costituito di rocce aguzze e di cespugli spinosi. La dea percorse una strada polverosa e coperta di sterpaglie pungenti. Si ferì i piedi, e l'orlo dell'abito le si strappò. Camminò a lungo finché non vide un alto palazzo scavato nella roccia.
   Giunta all'ingresso, si trovò davanti ampie scale di marmo nero: le risalì, macchiandole di prezioso ichor. In cima alla scalinata si apriva un largo corridoio tenebroso, da cui svettavano alte colonne di pietra grezza. Atena lo attraversò fino a una grande porta d'argento su cui erano incisi due cerchi intersecati. La aprì e alla vista le apparve un'ampia sala: al centro era collocata una sorta di piattaforma rettangolare, raggiungibile tramite scalini, su cui erano disposti sette scranni. Quello centrale era più grande e più elaborato degli altri. La figlia di Zeus alzò lo sguardo e notò una balconata che abbracciava l'intera stanza: accanto alla porta erano poste le scale da cui vi si accedeva. L'inferriata era costituita da stilizzati telamoni di forma animale.
   La dea si fermò a poca distanza dalla piattaforma e, inginocchiatasi, cominciò a parlare: - O antichi dei di Sumer, io invoco la vostra presenza e chiedo il vostro soccorso. - Le parole riecheggiarono nel silenzio di quel vacuo ambiente. Nessuno sembrò rispondere a quell'appello, ma Atena insistette, intenzionata a non lasciare quei luoghi senza ricevere ciò per cui aveva fatto tanta strada.
   Dopo l'ennesima invocazione, che s'infranse contro le tetre pareti di quell'insolita magione, una voce profonda e autoritaria ruppe il silenzio: - Chi sei? Cosa cerchi dai remoti rifugi degli antichi dei? -
   Atena si prostrò e, con grande umiltà, si presentò: - Sono Atena, figlia di Zeus, il re degli Olimpici, e sono giunta fin qui per chiedere il vostro aiuto -.
   - Una dea di Grecia viene a implorare l'aiuto degli dei di Sumer? Che sciocchezza! Noi abbiamo abbandonato la terra eoni fa, non abbiamo più nulla da spartire col mondo degli uomini -, tuonò la voce, poco incline ad ascoltare le richieste della dea della giustizia.
   - Non sarei giunta fin qui se non avessi già provato a trovare altre soluzioni: nessun dio, tranne voi, può liberare l'universo dal pericolo che corre. Il Signore d'Irkalla presto rinascerà e porterà con sé il terrore dell'oblio -, pregò Atena, cercando di scuotere il padrone di quella voce.
   Davanti al trono centrale apparve una figura alta, col naso dritto e le labbra sottili, occhi d'avorio e capelli argentei, un pizzetto sul mento racchiuso da un retino d'oro e una tiara circolare sul capo. - Alzati, Atena. Un dio non deve genuflettersi di fronte a un altro nume. Il mio nome è Enki, il dio della conoscenza e della creazione, felice di conoscerti. Nergal fu imprigionato nello Scrigno dell'Eternità prima che lasciassimo per sempre il piano dell'esistenza terrena. Non dovrebbe più essere in grado di risorgere, a meno che non abbia ricevuto l'ichor di un'altra divinità. Spiegami cos'è accaduto! -, disse, sedendosi sul trono pronto ad ascoltare la storia di Atena.
   La figlia di Zeus si rialzò, sollevata di essere riuscita a ottenere udienza, e cominciò: - Circa mille anni fa, Onuris, il dio egizio della guerra, fu persuaso dai seguaci di Nergal a infrangere il sigillo eterno che lo teneva prigioniero. Tuttavia, la mia incarnazione dell'epoca e i Cavalieri ne impedirono la rinascita. Venne poi consultato l'oracolo di Delfi, che profetizzò il ritorno inevitabile del Signore d'Irkalla dopo un millenio. Mancano poco più di cinquant'anni allo scadere del termine, e per quanto abbia cercato nessuna divinità ha saputo indicarmi cosa fare. È stato mio padre a suggerirmi di rivolgermi a voi e a fornirmi i mezzi per raggiungervi -.
   Enki aveva seguito con attenzione il racconto. Nel suo animo riaffiorarono ricordi ormai sopiti da un tempo incalcolabile. - Tuo padre è un dio saggio. Nessuna divinità può sconfiggere Nergal, se non colui che condivide il suo stesso sangue -, affermò, lasciando Atena in preda alle congetture.
   - Che significa? La profezia diceva che soltanto 'colui che è nato da vile sangue e sacra linfa' può batterlo -, replicò, confusa dalle parole dell'ancestrale nume.
   - E così è, in effetti. Ma la 'sacra linfa' di cui parla il tuo oracolo si riferisce al sangue di Erra, il fratello gemello di Nergal -, chiarì Enki con un'espressione grave sul volto.
   - Erra? -, ripeté Atena, ancora incredula all'idea che il suo prossimo nemico avesse un fratello.
   - Sì. Erra, dio del calore solare e del fuoco. Nell'era mitologica, Nergal ed Erra erano in perenne conflitto: il primo bramava la distruzione dell'universo e di tutte le altre divinità; l'altro cercava di rimediare alle nefande azioni del fratello. Fu così che gli uomini confusero le loro identità e spesso li scambiavano. Nergal non tollerava le ingerenze di Erra e progettò di eliminarlo: lo invitò nell'An Diĝirenek, il Giardino degli Dei, un luogo incontaminato e sacro. Quando Erra vi giunse, felice che il fratello si fosse ravveduto, Nergal lo colpì sette volte alla testa col suo scettro: copiosi fiotti di sangue imbrattarono quell'immacolato suolo e mossero a sdegno noi, che non avevamo previsto un esito tanto tragico.
   Per sbarazzarci di lui lo inviammo a conquistare l'Irkalla e a spodestare la scellerata Ereshkigal, convinti che sarebbe stato sconfitto. Ma la fortuna gli arrise ancora, e non solo ottenne il dominio dell'aldilà, ma ne sposò anche la regina.
   Ci sentivamo dileggiati e offesi, così corrompemmo Ereshkigal, dea ambiziosa e poco avvezza a condividere il potere. Le fornimmo una fiala di acqua primordiale, un liquido capace di indebolire anche la divinità più potente. Ella la versò nella coppa del vino e la porse al suo sposo: Nergal bevve avidamente e, pochi istanti dopo, si addormentò. La regina degli Inferi lo fece trasportare fuori dal palazzo, in cui gli dei non potevano entrare, e lo lasciò alla nostra mercé.
   - Gli Utukki si ribellarono e uccisero la loro regina, poi vennero ad affrontare noi. Avevamo purificato le acque dei due fiumi prima di scendere agli Inferi, così essi ci vennero contro con solo un decimo del loro potere. Riuscimmo a imprigionarli tutti nello Scrigno dell'Eternità, e lo sotterrammo a Kutah, sotto il pavimento della ziqqurat di Nergal stesso. Facemmo sparire la città, ma qualcuno deve averlo trovato e spostato altrove -, raccontò il dio della conoscenza, amareggiato dal rivangare memorie così spiacevoli.
   - Dove posso trovare Erra per chiedergli di aiutarmi? -, domandò Atena, inorridita da quei crudi fatti di sangue.
   - È qui -, ammise candidamente Enki. - La sua anima ha trovato ricetto fra queste mura -, proseguì, indicando con la mano l'ultimo trono alla sua sinistra. Davanti a esso apparve un'altra figura: robusta, slanciata, coi capelli biondi e un pizzetto dritto avvolto da un retino d'argento, occhi azzurri e naso breve e largo. Aveva un'espressione malinconica, ma, ad un tempo, sincera e gentile. Atena fece per inginocchiarsi, ma il nuovo arrivato glielo impedì.
   - Benvenuta, Atena, paladina dell'umanità. Ti aiuterò, non temere. Mio fratello non ha paura di nulla, né degli uomini, né tantomeno degli dei. L'unica cosa che gli reca inquietudine è la sua ombra, perché gli ricorda me -, esclamò, con voce giovane e triste.
   - Al tempo opportuno tornerò nel mondo degli uomini per un'ultima volta e trasmetterò il mio seme e la mia essenza a un figlio. Egli diventerà un tuo Cavaliere e affronterà il suo destino. Ora va', Atena, ritorna alla luce della vita -, concluse, sparendo di nuovo tra le ombre diafane di quella sala.
   - Vi ringrazio per il vostro aiuto; vorrei ricambiare donandovi un luogo più consono alla vostra nobiltà, non potete continuare a vivere in mezzo a tutta questa oscurità -, disse la dea della giustizia, guardando pietosa Enki.
   - I tuoi sentimenti sono magnanimi quanto il tuo cuore, Atena. Un tempo questo luogo era splendente di giardini e di colori, ma ormai i nostri templi sono sommersi dalla polvere; più nessuno brucia incenso od offre libagioni sui nostri altari. Noi siamo numi dimenticati. Che la fortuna ti assista e possa il Fato essere dalla tua parte -, dichiarò solennemente, svanendo anch'egli.
   Col cuore più sollevato, Atena andò via da quell'oscuro palazzo. Le immagini si sfocarono fino a dissolversi, lasciando il posto ad altre figure.
   - Signora! Signora! Il generale è tornato! -, gridò la voce squillante della serva, entrando nella stanza. Irene sussultò, infastidita dall'improvvisa irruzione della sua ancella.
   - Smettila di gridare! Non c'è bisogno di fare tutto questo baccano! Sei sicura che mio marito sia qui? -, le chiese, rimproverandola per i modi poco eleganti con cui si era presentata al suo cospetto.
   - Mi scusi, signora -, disse la ragazza, abbassando il capo. - Il generale è appena sceso da cavallo -, confermò, lasciando Irene perplessa: il marito era partito di buon mattino alla volta di Taranto e non sarebbe ritornato prima di dieci giorni. Cosa ci faceva a palazzo poche ore dopo?
   Mentre si arrovellava su molteplici ipotesi, il suo consorte entrò nella stanza. Era un uomo alto e robusto sulla trentina; aveva capelli e occhi nerissimi, il volto glabro e indossava una corazza leggera; al fianco gli pendeva una lunga spada. - Amore mio! -, disse rivolto a Irene, allargando le braccia per abbracciarla. La donna fece un passo indietro: prima di lasciarsi andare alle effusioni d'affetto voleva capire il motivo del repentino ritorno del marito.
   - Aspetta! -, replicò la donna. - Cosa ci fai qui? Non dovresti essere in viaggio per Taranto? Ieri tu e mio zio eravate così preoccupati da partire prima dell'alba, e ora ti presenti con l'aria serena e spensierata? -, lo incalzò Irene, temendo che ci fosse qualcosa che le stava nascondendo.
   Le domande della moglie frenarono lo slancio del generale. - Hai ragione, perdonami! Ma sono tornato a prendere un altro manipolo di soldati e anche un forziere con pezzi d'oro. Tuo zio teme che le trattative potrebbero richiedere un maggiore sforzo economico o, in caso la diplomazia fallisse, che un più folto numero di soldati potrebbe garantirci la vittoria. Visto che non ti vedrò per i prossimi dieci giorni ero passato a farti un saluto, dal momento che sono scappato via prima dell'alba -, spiegò Basilio, con tono calmo e comprensivo.
   Irene sembrò convinta dalle accorate parole del suo sposo, e congedò la serva. Gli gettò le braccia al collo e gli donò un lungo bacio. La passione li coinvolse e finirono a letto in preda al desiderio. Quando la carne fu soddisfatta, Basilio si alzò e iniziò a vestirsi, guardando in direzione della finestra. Il suo volto si era fatto serio e, con voce decisa, disse alla moglie: - Avrai un figlio maschio -.
   La donna si sedette in mezzo al letto, coprendosi col lenzuolo il seno nudo. - Che stai dicendo? Sono dieci anni che proviamo ad avere un bambino e finora nessun santo ci ha fatto la grazia, come ti viene in mente di dire una cosa del genere? -, lo apostrofò con astio.
   Basilio non si curò di quelle parole, ma proseguì col suo discorso: - Te lo ripeto, avrai un figlio maschio. Chiedi asilo al Grande Tempio di Atene e lascia che il bambino diventi un Cavaliere -.
   La nipote di Argiro s'infuriò. Non capiva nulla di ciò che le stava dicendo il suo sposo, e avrebbe voluto sapere il motivo di quello strano discorso. Provò a trattenerlo, ma Basilio prese rapidamente la porta. Irene si alzò, coprendosi col lenzuolo, per raggiungerlo; ma quando si affacciò sul corridoio vide soltanto della polvere aleggiare nell'aria. Rimase attonita, e nella sua mente i dubbi e le supposizioni si moltiplicarono.
   Calx si svegliò di soprassalto, le membra sudate e sporche di sabbia. Guardò il sole morente all'orizzonte e il volo dei gabbiani, il cui canto lamentoso riecheggiava lungo la spiaggia. Con le mani tremanti raccolse dell'acqua per sciacquarsi il volto: era tiepida. Tirò un respiro angosciato e, vedendo la sua faccia riflessa dall'onda, si disse: - Chi sono io? Che significa quel sogno? -
   Le immagini che fino ad allora avevano turbato il suo sonno in maniera illogica e confusa ora avevano assunto un senso ben preciso; un senso che però lo gettò nell'ansia più cruda. Ora gli era chiara la forza che lo contraddistingueva, ma non riusciva ad accettare quel fardello improvviso che gli era caduto addosso.
***
   Il mattino seguente, nel cimitero del Grande Tempio, i Cavalieri e il sultano onorarono la memoria di Pelag: il corpo del custode della nona casa era stato lavato e avvolto in un sudario di lino; due oboli gli erano stati posti sugli occhi. Alexer iniziò il suo discorso di commiato: - Oggi siamo qui riuniti per rendere omaggio al prode Pelag che, pur di salvare la vita agli abitanti di Atene, non ha risparmiato la sua stessa vita. Era un giovane valoroso che si era ripromesso di seguire le orme del suo predecessore, il nobile Himrar. Per un ironico scherzo del destino, la morte li ha accomunati: entrambi hanno trovato la loro fine sul campo di battaglia per difendere gli innocenti.
   Oggi il nostro cuore è in lutto, ma dobbiamo ritrovare il coraggio di portare avanti la missione che ci è stata affidata; che Pelag e tutti i nostri compagni caduti in questa guerra ci insegnino che la giustizia è l'unica arma in grado di restituire equilibrio a questo mondo -.
   Finita l'omelia, la salma venne inumata. Alexer, Kanaad e il sultano, tornati nella zona delle dodici case, tennero una riunione privata. Arslan raccontò tutto ciò che era accaduto, scusandosi per il profondo dolore che aveva causato: ora, però, aveva compreso che il suo giudizio era fallato e si impegnò a sostenere la causa del Grande Tempio.
   Dopo un'ultima stretta di mano, il sultano e il suo esercito salirono sulle navi per fare ritorno al porto di Smirne. Alexer guardava i dromoni allontanarsi, e il suo cuore s'incupì ripensando a quanto era accaduto.
 
[1] "Stretta del Demone".
[2] "Fruste Celesti".
[3] "Frecce Sacre".
[4] "Fiori del Male".
[5] "Cavalcata Infernale".
[6] "Braccio di Oricalco".
[7] "Elevatevi. Spiriti! Danzate, Ombre delle Tenebre!".
[8] "Corona del Deserto".
[9] "Dimensione Oscura".
[10] "Spettro Demoniaco".
[11] "Trappola di Vento".
[12] "Vortice d'Anime".
[13] "Lacrime del Male".
[14] "Ira di Ghiaccio".
[15] "Espulsione dell'Anima".
[16] "Freccia di Giustizia".
[17] "Freccia del Giudizio".

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Capitolo 17
*** Anche gli eroi muoiono ***


CAPITOLO XVII
ANCHE GLI EROI MUOIONO
 
Germania, maggio 1066
 
   Dopo la battaglia di Atene, Eyra accampò la scusa di voler rivedere suo zio per tornare a Rodorio: pensava che se avesse rivelato la verità sul coinvolgimento di Calx in quello scontro e si fosse presentata umilmente e con cuore contrito, avrebbe potuto ottenere di mantenere il suo incarico.
   Quando Lamashtu la vide a capo chino, con gli occhi tristi e il volto disfatto dalla sconfitta, provò un'insolita compassione. - So perché sei qui -, le disse, con voce piatta e fredda. - Il tuo Cavaliere ha mostrato di nuovo le zanne, ad Atene -, proseguì senza rivolgerle neppure uno sguardo. Impastava la farina con una certa maestria: sembrava che svolgesse quel lavoro da sempre.
   - Non sono riuscita a trattenerlo -, ammise la fanciulla, guardando il demone con occhi imploranti perdono. Il Sabitta le rivolse uno sguardo distratto, ma non parve acconsentire a quella tacita richiesta. Si lasciò assorbire dall'attività che stava svolgendo e, con maggior foga, si diede a produrre pagnotte e filoni.
   - Ormai non importa più. Tuttavia, se vuoi conservare la nostra fiducia e continuare la missione che ti è stata affidata, impara a trattenerlo e impediscigli di impicciarsi di ciò che non gli compete. Intesi? -, ordinò imperioso, abbandonando per un attimo sul bancone la molle pasta.
   - Sì -, rispose Eyra, dal cui sguardo s'irradiava un certo sollievo: il volto si rasserenò e il corpo, teso fino a poco prima, si rilassò. Il piano escogitato per restare al fianco di Calx aveva dato i suoi frutti, e la ragazza, in preda alla gioia, abbracciò Lamashtu, ringraziandolo per la sua comprensione.
   Il demone, per nulla avvezzo alle smancerie, la scostò in malo modo; la guardò torvo e, stupito da quella dimostrazione d'affetto, si rimise a impastare. - Provi qualcosa per quel giovanotto, vero? -, le chiese, mentre arrotondava una forma di pane.
   La fanciulla dai capelli corvini non si aspettava una domanda tanto diretta: temeva che, se avesse detto la verità, si sarebbe attirata addosso ingiurie e rimbrotti; ma il demone sembrava conoscere il sentimento che le ardeva nell'anima e negare non le avrebbe di sicuro giovato. Così decise di essere sincera e confessò che si era perdutamente innamorata di quel ragazzo che doveva soltanto allontanare dalla guerra.
   Lamashtu sospirò: i suoi sospetti erano fondati, ma non riteneva un problema l'attaccamento di Eyra a quel Cavaliere; anzi, pensava, l'idea di perderlo l'avrebbe certamente resa più guardinga e attenta. E se rivelasse l'inganno? Si domandò, poi. Ma anche per tale quesito la risposta restava la medesima: la paura dell'odio di Calx, una volta saputa la realtà dei fatti, le avrebbe consigliato di non aprire bocca.
   - Ora va', torna ad Atene -, la esortò, addolcendo la voce. Non ne capiva il motivo, ma nel vedere quella ragazzina salutare allegra e andare via, una inattesa nostalgia gli velò il cuore. Scosse il capo e tornò al suo lavoro, per impedire a inusuali pensieri di rovinargli la giornata.
***
   Alla tredicesima casa, Alexer era seduto davanti al tavolo del suo studiolo. Stava scrivendo l'ennesima missiva all'imperatore. Dopo la partenza del sultano, aveva chiesto udienza a Costantino, ma i suoi consiglieri non gli consentivano d'incontrarlo: sostenevano che una strana malattia avesse colpito il loro signore e non gli permettesse di ricevere visite, di nessun genere. Ormai stanco di quelle continue scuse, il vicario di Atena aveva deciso di inviare quell'ultima lettera e, in caso di esito negativo, si sarebbe presentato di persona alla corte di Bisanzio.
   Passarono altri quindici giorni, e infine la risposta arrivò: Costantino non poteva riceverlo. Alexer non batté ciglio; raggiunse Kanaad e gli affidò il governo del Santuario; poi, lasciata l'area delle dodici case, si teletrasportò davanti al palazzo imperiale. Le sentinelle provarono a trattenerlo e a impedirgli l'ingresso, ma il Sacerdote era determinato a venire a capo di quell'insolita situazione.
   Superò altri drappelli di guardia e giunse di fronte alla porta della sala del trono: alcuni consiglieri, allertati dai capitani di reparto, si erano riuniti lì per arrestare il cammino di Alexer. - L'imperatore non può ricevere nessuno, al momento -, gracchiò un vecchio basso e pingue, vestito sontuosamente.
   - Ma sarà costretto a ricevere me -, replicò il Sacerdote, facendosi largo tra quel manipolo di politicanti dagli abiti sgargianti. Il vecchio di prima provò a trattenerlo afferrandogli la tunica, ma con un rapido gesto Alexer si divincolò e si diresse verso il trono.
   Mentre incedeva verso la scalinata su cui poggiava lo scranno regale, il padre dei Cavalieri notò qualcosa di bizzarro: Costantino era seduto sul trono, senza corona, i capelli completamente bianchi, il volto emaciato, gli occhi infossati. Parlottava con un interlocutore invisibile, gesticolava animatamente; poi smetteva, si guardava intorno come per scovare spie, sorrideva e tornava a bofonchiare parole incomprensibili.
   Alexer immaginò che stesse recitando per evitare di assumersi le proprie responsabilità, forse in combutta con quegli stessi consiglieri che avevano provato a dissuaderlo. - Nobile Costantino, ho urgenza di parlarvi -, esordì, fermandosi alla base delle scale.
   Costantino guardò l'uomo che lo aveva chiamato: spalancò gli occhi, inarcò le labbra e scoppiò in una sonora risata. Il Sacerdote si accigliò: quella commedia era durata fin troppo. Risalì gli scalini, ma una voce tremula e accorata lo implorò: - Vi prego, Sommo Alexer, l'imperatore non è in sé. Non è più l'uomo che conoscevate! Lasciatelo stare! -
   Il Sacerdote si voltò, e vide il gruppetto di consiglieri che aveva lasciato alla porta. Era stato un giovane sui trent'anni dagli occhi azzurri e dai capelli castani a rivolgergli la parola. Alexer osservò l'imperatore ancora una volta e si avvide che quel comportamento stravagante e insensato non era una finzione.
   - Cosa gli è accaduto? -, chiese al giovane dagli occhi azzurri.
   L'uomo si fece avanti e, con voce preoccupata, rispose: - Neppure i medici conoscono la causa del suo male. Poco dopo il suo ritorno da Edessa è cambiato, ha iniziato a sragionare, a dimenticare anche cose importanti e, come vedete, ormai non è altro che l'ombra dell'uomo che è stato -.
   Il vicario di Atena ridiscese la scalinata di marmo e si avvicinò al giovane che aveva appena parlato. - Comprendo. Tuttavia, è mia intenzione chiedere la revoca della stipula di Atene -, dichiarò, guardandolo dritto negli occhi. Il consigliere fu pervaso da una certa soggezione, e fece qualche passo indietro, intimidito dal tono di Alexer.
   Il vecchio che per primo gli si era opposto, lo guardò con occhi di sfida, e con un sorriso finto sbottò: - Non possiamo esservi d'aiuto in questo. Solo l'imperatore può revocare quell'atto e, come voi stesso avete avuto modo di constatare, non ne è in grado -. L'espressione del Sacerdote non mutò, ma quel consigliere basso e dai modi goffi provò un certo piacere nel distruggerne le certezze. Per lui fu una sorta di vendetta, di incruenta rivalsa.
   - Siete costretto ad aspettare che salga al soglio imperiale un nuovo sovrano -, notò con una certa costernazione il giovane consigliere. Il Sacerdote si crucciò: non sapeva quanto fosse grave la malattia di Costantino e quanto avrebbe impiegato a consumarlo; non voleva, tuttavia, dover aspettare a lungo prima di recidere quel legame che già da troppo tempo vincolava il Grande Tempio.
   - Non posso farlo -, sbottò Alexer, il cui animo era reso inquieto da tutte le vicissitudini che si erano dipanate nell'ultimo periodo. - Trovate un modo per aggirare l'ostacolo -, suggerì, avviandosi verso l'uscita.
   - Non c'è modo di trovare una scorciatoia per abrogare quel patto. Costantino il Grande era un uomo furbo, sapeva che gli uomini sono corruttibili e per questo avocò all'autorità imperiale il diritto di annullarlo. Non potete far altro che attendere la morte dell'attuale imperatore e sperare che il suo successore vi conceda quanto chiedete -, gli gridò il vecchio con voce nasale.
   Il vicario di Atena arrestò il passo, si voltò e, con tono deciso, replicò: - Me lo concederà! Lo obbligherò a rinunciare alla stipula -. Quelle parole riecheggiarono nella sala come una minaccia. Alexer andò via col cuore in subbuglio e si affrettò a tornare al Santuario.
***
   In quei quasi due anni dalla morte di Pelag e dalla scomparsa di Vernalis, i Cavalieri avevano cercato delle occupazioni che li distraessero dal dolore e dall'angoscia: Hamal, dopo la discussione col Sacerdote durante il funerale del custode della nona casa, si era deciso a trovare le risposte da solo, convinto che dalle alte sfere i suoi dubbi non sarebbero mai stati sciolti.
   A Elnath erano state recapitate innumerevoli missive, tutte inviate dal re di Norvegia che si accingeva a partire per l'Inghilterra: gli era stato promesso il trono dell'isola se avesse appoggiato il conte di Northumbria, Tostig del Wessex, contro suo fratello, il re Harold. La spedizione sarebbe iniziata in settembre, e Harald caldeggiava la partecipazione del figlio. Dal canto suo, il Cavaliere di Taurus, per nulla interessato a compiacere le ambizioni dell'odiato genitore, le strappò tutte, dalla prima all'ultima, e ordinò di non consegnargliene altre.
   Sertan, invece, era andato in cerca di suo padre: era stanco dei suoi crimini e delle sue azioni vili. Alexer gli aveva concesso di partire, ma lo aveva avvertito di stare attento: Kharax era un uomo subdolo e astuto. Il Cavaliere lo rassicurò e giurò che, una volta catturato, l'avrebbe tradotto alla presenza del Sacerdote.
    Zosma si era dedicato all'addestramento delle nuove reclute: la delusione procuratagli dalla scelta di Calx lo aveva reso cupo e inflessibile. I suoi allievi erano terrorizzati dai suoi metodi brutali e dalla sua mancanza di comprensione. Il giovane Leo sfogava su quegli incolpevoli ragazzini la sua rabbia repressa, al punto che alcuni di essi disertarono e, una volta scoperti, furono sottoposti a giudizio. La clemenza di Alexer li aveva salvati dalla morte e gli aveva restituito la libertà. Al Cavaliere fu ordinato di cambiare atteggiamento, pena la rimozione dall'incarico. Zosma comprese i propri errori e, dal quel momento, indirizzò la collera che si portava dentro allenandosi in luoghi deserti.
   Anche Yeng si assentava spesso dal Grande Tempio: approfittando della tregua che il nemico sembrava aver concesso loro, si assunse l'incarico di trovare Vernalis. Ma sebbene avesse girato mezzo mondo, le sue ricerche non avevano dato alcun esito; tuttavia il Cavaliere di Libra non si arrese e continuava caparbiamente a setacciare i luoghi più remoti del pianeta.
   Nashira trascorreva le giornate in compagnia di Sargas: l'aspirante Cavaliere di Scorpio era cresciuto moltissimo in quel periodo; aveva imparato le tecniche proprie della sua costellazione e a muoversi alla velocità della luce, gli mancava soltanto la destrezza e l'agilità nello scagliare i colpi per ottenere la nomina a custode dell'ottava casa. Il possessore della leggendaria Excalibur ora lo esortava, ora lo ammoniva, e sperava in cuor suo che Vernalis potesse vedere i progressi fatti dal suo pupillo.
   Altager si era offerto di aiutare Atene nei lavori di ricostruzione. Il suo contributo aveva reso più celere la ripresa della città. Di tanto in tanto aveva incrociato anche Calx che, però, sembrava evitarlo. Il padrone delle energie fredde provò un profondo dispiacere nel vedere l'antico compagno ridotto in quello stato. Ma non parlò a nessuno di quei fugaci incontri: al Santuario l'aria era già troppo pesante.
***
   Nella modesta casa di Atene, Eyra e Irene erano inquiete: dal giorno dell'attacco Calx sembrava profondamente cambiato. Usciva e rincasava senza proferire parola, era perennemente imbronciato e scontroso. Anche Kendreas aveva notato questa sua ostinata chiusura verso gli altri: a volte aveva provato a porgli qualche domanda per scuoterlo da quel suo torpore, ma le reazioni dell'amico lo avevano ben presto convinto a lasciar perdere.
   Lo sconforto procuratogli dal vedersi morire Pelag tra le braccia e la nuova realtà presentatagli da quel sogno che continuava a tormentarlo ogni notte avevano distrutto in lui ogni volontà e slancio. Era confuso, non sapeva cosa fare: da un lato l'amore che sentiva per Eyra era sincero, ma non riusciva a colmare quel senso di squilibrio che ormai gli si serrava addosso come una veste troppo stretta; dall'altro la curiosità di scoprire cosa si celasse dietro la sua nascita e chi fosse veramente non gli permetteva di vivere in tranquillità. Tuttavia, gli mancava il coraggio di interrogare sua madre, né aveva animo di tornare a calpestare i gradini del Grande Tempio per chiedere delucidazioni al Sommo Alexer. I suoi errori erano troppo gravi per consentirgli di svelare il mistero agevolmente.
   Il suo malanimo si ripercuoteva irrimediabilmente su tutti coloro che lo circondavano: l'assenza di dialogo, il silenzio imbarazzante a tavola, la freddezza nei rapporti umani. L'impalpabile distanza che li aveva allontanati faceva soffrire Eyra, che non accettava la possibilità di perdere definitivamente l'uomo che amava. Per stornare dalla sua mente quell'infausta eventualità, cercava di avvicinarsi, di dispensargli carezze e tenerezze: a Calx quelle attenzioni piacevano, ma un inspiegabile rimorso gli bruciava dentro.
   Anche Irene non si lasciò vincere dall'algida solitudine in cui suo figlio trovava rifugio: gli chiedeva come procedesse il lavoro, se fosse stanco, se volesse mangiare qualcosa di speciale. Calx apprezzava quei tentativi, in cuor suo era grato di tutto quell'affetto, ma era anche consapevole che nulla poteva strapparlo da quel baratro d'incertezza e di crisi in cui era precipitato. Ogni volta che qualcuno provava ad avvicinarlo, scappava, l'animo agitato e la mente oppressa da intricati e gravosi pensieri. Nessuno sarebbe stato capace di comprenderlo, per questo preferiva fuggire piuttosto che palesare le proprie inquietudini. Anche Altager aveva pagato lo scotto di questa sua condizione: l'ex compagno non voleva impelagarsi in discorsi che gli procuravano una muta e stringente sofferenza.
***
   L'unico a non subire la pressione di tutti quegli avvenimenti era stato Syrma. Dopo le prime inconcludenti ricerche di Vernalis, aveva deciso di trovarlo ricorrendo ai poteri della meditazione. Aveva chiesto ai suoi compagni di non disturbarlo e, per lunghi mesi, si era abbandonato a pratiche ascetiche, senza prendere cibo o riposarsi. Tuttavia, alla fine, ne era uscito spossato e indebolito. Kanaad comprendeva il nobile scopo del suo allievo, ma lo esortava a utilizzare con moderazione il suo cosmo.
   - Non temete, maestro, - gli rispondeva il discepolo, - il mio fisico è stanco, ma il mio potere si accresce sempre di più; so che se sarò costante riuscirò a trovare il nostro compagno -.
   La caparbietà di Syrma preoccupava il Primo Ministro: ciononostante conosceva le potenzialità del custode della sesta casa, e si era accorto dell'affinamento di cosmo che la meditazione gli aveva procurato. Aveva anche notato, però, che il suo fisico si stava irreparabilmente deteriorando e, prima che la morte gli impedisse di portare a termine ciò che si era prefissato, lo indirizzò verso la giusta via da percorrere:
   - Ti sei avviato su una china pericolosa, Syrma. So che stai tentando di raggiungere il nono senso, il cosmo degli dei, ma è un obiettivo estremamente difficile da centrare. Se continui, presto la nera signora ghermirà la tua giovane vita e tu rischi di perderla invano -.
   Syrma fissò i suoi occhi nerissimi sul maestro, poi abbassò leggermente il capo e, con tono gentile, disse: - Il cosmo del mio compagno è avviluppato in una barriera divina e solo il nono senso può darmi la possibilità di trovarlo. So che il rischio di morire è molto alto, ma la salvezza di un amico vale più di ogni cosa per me. Ho già il rimorso di non aver strappato alla morte Midra anni fa, non voglio ripetere quell'orribile esperienza -.
   Il Primo Ministro guardò quel ragazzo dal fisico asciutto e dai muscoli poco accennati. Poteva sentire la forza del suo cosmo e della sua determinazione, ma anche la profonda delusione di chi non riusciva a trovare una soluzione a un problema che avvertiva vitale. Sospirò lentamente e, con una certa ritrosia, decise di metterlo a parte di un segreto riguardante l'armatura della Vergine. - Un modo per acquisire il nono senso, almeno temporaneamente, esiste. Tra le dodici armature dello Zodiaco, due posseggono una maschera: quella di Virgo e quella di Aquarius -.
   - La maschera? Credevo avesse solo una funzione ornamentale! -, ammise Syrma, meravigliato da quella rivelazione. Tornò a osservare il maestro, in attesa di ulteriori spiegazioni.
   - No. Essa ha la capacità di annullare tutti i sensi permettendo a chi la indossa di elevare il proprio cosmo fino al potere degli dei, ma l'effetto è temporaneo: se ti ostinassi ad addentrarti ancor di più in quel potere, il castigo sarebbe la morte, capito? -, chiarì Kanaad. - Un'ultima cosa: prima di indossarla devi imparare a rimuovere i sensi uno per volta, altrimenti verrai annientato all'istante -, lo ammonì. - Comunque sia, ti seguirò io in questo nuovo percorso, non temere -, concluse, dirigendosi verso l'uscita.
   L'addestramento fu lungo ed estenuante: finché si trattò di rimuovere i sensi uno alla volta, il Cavaliere non ebbe problemi, ma quando fu costretto a sopprimerne due o tre assieme, le cose si fecero più difficili: era preso ora da svenimenti, ora da tremore improvviso, ora da allucinazioni. Kanaad osservava gli sforzi del suo allievo: era cambiato da quando lo aveva liberato dal suo crudele destino. Da ragazzo schivo e freddo, era diventato altruista e generoso, anche se il suo atteggiamento distaccato celava queste sue qualità agli occhi dei meno attenti. Era grato ad Atena per quei progressi morali, ma l'accanimento con cui si impegnava per sfiorare il nono senso e ritrovare il compagno gli dava non poca preoccupazione. Da ciò gli era maturata la decisione di aiutarlo, ma l'impresa appariva piuttosto ardua.
   Dopo l'ennesimo svenimento, il Primo Ministro proibì all'allievo di continuare nella sua ostinata ricerca. Ma Syrma non volle desistere, anzi s'intestardì ancora di più: - Comprendo la vostra decisione, ma il mio proposito di raggiungere il nono senso resta fermo! Devo trovare Vernalis! -
   Kanaad abbassò il capo e indugiò qualche istante sulle risolute parole dell'allievo: sapeva bene che il giovane Cavaliere di Virgo si era integrato con grande fatica nel gruppo dei paladini di Atena e che trovava ancora difficoltà a confrontarsi con loro in alcuni frangenti. Quel desiderio smodato di sfiorare il cosmo degli dei era un modo non solo per ringraziare i suoi compagni, ma anche per dimostrare loro quanto fosse salda la sua fiducia nella giustizia e nella causa del Grande Tempio. - Non ho detto che ti abbandonerò, ma non devi avere fretta. Il nono senso è un cosmo troppo vasto per un semplice essere umano. Bisogna arrivarci per gradi, senza forzare troppo la mano -, lo rassicurò il vecchio Cavaliere.
   Syrma fu rincuorato dal sostegno che il suo maestro gli offriva. Lo ringraziò con le lacrime agli occhi e si rimise subito all'opera. Fece ardere il suo cosmo e seguì alla lettera i consigli che di volta in volta Kanaad gli largiva. Sentì il suo potere crescere lentamente, ma con costanza. In lui rinacque la speranza, avvertiva nuove forze dargli vigore; era pronto a superare la sfida.
***
   Calx se n'era andato presto dal porto, quel giorno. Non era tornato a casa, ma aveva preferito passeggiare in un luogo deserto, lontano da Atene e dagli uomini. Non faceva altro che ripensare alle immagini e ai discorsi che quel sogno gli metteva davanti quasi ogni notte. Era un prescelto? Un messo divino per eliminare la minaccia di Nergal? Com'era possibile? E se era tutto vero, perché sua madre non gliene aveva mai parlato? Erano forse i rimorsi? Stava diventando pazzo? Ricordava ancora i volti sull'elmo dell'armatura di Gemini e la spiegazione che il Sommo Alexer gli aveva fornito: era in bilico fra il bene e il male? Era giunto il momento di affrontare la contraddittoria natura di chi nasce sotto l'influsso del terzo segno? Mille interrogativi scuotevano l'animo del ragazzo, che ormai sembrava svuotato di tutto. Non sapeva neppure chi era e quale fosse lo scopo della sua esistenza: quel sogno gli aveva dato una chiave di lettura totalmente nuova, ma assai difficile da accettare, ora che sentiva una enorme responsabilità nei confronti di Irene e di Eyra. Cosa doveva fare? Dar retta a quel sogno e affrontare un destino che sembrava già segnato? E se quel sogno non fosse altro che una menzogna? Non aveva modo di saperlo, se non confrontandosi con coloro che potevano fornirgli qualche chiarimento.
   Decise di parlarne con sua madre: era stanco di ignorare tante cose e di doversi affidare a sogni ingannatori e indizi poco chiari. Aveva un'impellente necessità di sapere qualcosa in più riguardo alla sua nascita e al padre che non aveva mai conosciuto. Era determinato a scoprire se quei sogni fossero frutto di un'illusione o avessero un qualche fondamento. Sfruttando la sua velocità, si ritrovò davanti all'uscio di casa in un baleno. Trepidava all'idea di cominciare quella discussione, ma non aveva scelta: se voleva fare luce sulla sua vera identità, doveva farsi avanti e porre domande scomode.
   Infilò la porta lentamente: trovò le due donne sedute a tavola, in silenzio; ciascuna persa nei propri pensieri. Quando lo videro fare capolino dall'uscio, si alzarono, come se le loro segrete preghiere fossero state esaudite. - Dove eri finito? Eravamo in ansia -, sbottò Irene, facendo qualche passo verso di lui.
   - Mi spiace, ma avevo bisogno di una boccata d'aria -, spiegò il ragazzo, con tono calmo e penitente. Eyra si sentì morire: quelle parole le suonarono alle orecchie come un rimprovero. Ormai la travolgente passione che li aveva uniti in un vincolo d'amore sembrava essere scemata. Eppure lei continuava ad amarlo, anche forse più di prima, ma la distanza che Calx pareva aver posto fra loro la feriva profondamente. Proprio mentre la sua mente indugiava sulla questione, avvertì di essere osservata: era il suo giovane innamorato.
   - Eyra, devo parlare con mia madre in privato. Potresti lasciarci da soli? -, le disse, con voce gentile. Eyra annuì, senza proferire parola, ma col cuore immerso in una nera tristezza. Aprì la porta di una delle due camere e sparì nell'ombra. Irene era sorpresa da quella frase: da quando aveva lasciato la terza casa per tornare a vivere con lei non era mai accaduto che Calx volesse un confronto. - Dimmi, figliolo, cosa vuoi chiedermi? -, fu subito disponibile a rispondere .
   Rinfrancato dall'apertura della madre, Calx acquistò sicurezza e, tutto d'un fiato, espresse il dubbio che lo tormentava: - Voglio sapere la verità su mio padre -. Lo stupore di Irene si tramutò, all'istante, in un terrore gelido: da dove proveniva quella improvvisa curiosità? E come avrebbe dovuto rispondere: con sincerità o con la menzogna? Il volto le diventò repentinamente pallido e la voce le si strozzò in gola. Era consapevole che ogni tentennamento avrebbe pregiudicato la sua credibilità agli occhi del figlio, per cui, nell'immediato, si tenne sul vago: - Ma come ti viene a quest'ora di farmi certe domande? Sai bene che tuo padre era un generale dell'esercito bizantino! -
   Calx conosceva a memoria quella storia, ma si accorse all'istante del disagio della sua genitrice a parlare di quell'argomento: - Questo lo so. Ciò che mi preme conoscere è chi era in realtà, non il suo grado militare o la sua abilità guerriera! -, specificò il ragazzo, contrariato dall'atteggiamento restio di sua madre.
   - Era un uomo come tanti, rude e spietato in battaglia ma gentile e premuroso tra le mura domestiche -, rispose Irene, ricordando il buon carattere del defunto marito; ma poi, osservando l'interesse suscitato nel figlio da quella semplice descrizione, cominciò a mescolare verità e menzogna: - Amava pescare, fare lunghe passeggiate e regalarmi fiori, soprattutto rose. Quando seppe di te era felicissimo, perché ormai disperava della gioia di diventare padre. Ma poi, come ti ho raccontato tante volte, cadde vittima di un'imboscata degli Altavilla -.
   Il ragazzo notò una vena d'amarezza nella voce della donna e ne fu turbato; forse aveva preteso troppo dalla madre: farle rivangare ricordi tristi era una tortura crudele da infliggere, benché necessaria. Non era del tutto convinto da ciò che gli era stato raccontato, e volle fare un altro tentativo, prima di lasciare la presa: - Ciò che dici è la verità, madre? O stai cercando di raggirarmi? - Quelle domande così insidiose offesero Irene che, col volto scuro e tirato, in un moto d'orgoglio rispose: - Come potrei mentirti? Sei mio figlio, l'unico che ho -. Proferì quelle frasi con tanto accoramento da far desistere Calx. Il ragazzo le lanciò un ultimo sguardo, la ringraziò e imboccò la porta di camera sua. Irene fu costretta a sedersi: il cuore le batteva all'impazzata, le gambe le tremavano e gli occhi le si riempirono di lacrime. Eyra si era accorta del silenzio nella sala principale e si era affacciata alla porta: vide la suocera affranta e le si avvicinò con premura, chiedendole cosa fosse accaduto.
   La donna era grata di quel riguardo e le spiegò in breve il dialogo che aveva avuto con il figlio. Eyra si domandava il motivo di quella strana domanda, visto che, come lei, Calx non aveva mai nutrito interesse per il padre. Irene le rivolse uno sguardo colmo di rammarico, e la fanciulla intuì che nascondeva qualcosa. Non volle, però, insistere, per non darle ulteriore disagio e, anzi, preferì sedersi accanto a lei e confortarla. Irene l'abbracciò teneramente per ringraziarla e, in un impeto di sfogo, le raccontò la verità: Calx era figlio di un dio che lei non conosceva, il quale le aveva anche ordinato di avviarlo alla causa dei Cavalieri.
   La ragazza rimase esterrefatta: ora le era chiaro il motivo per cui Kharax aveva voluto a tutti i costi avvicinarla al Cavaliere; voleva togliersi dai piedi una pedina estremamente pericolosa! Le parole di Irene non facevano altro che confermare il senso di abbandono che Calx le procurava. Un vuoto le si spalancò nell'anima: era felice che sua suocera avesse mentito, ma non nutriva più molta speranza nell'amore del suo giovane guerriero. Se i dubbi erano tornati ad assalirlo, come si poteva ovviare al problema? Esistevano parole o gesti capaci di distoglierlo dal groviglio dei suoi pensieri? Passò intere notti a trovare una soluzione, ma tutte quelle che le venivano in mente risultavano sciocche o inefficaci. Ciò le causò un livore represso, un'inquietudine cupa e una cruda irascibilità.
   In casa la tensione e l'incomprensione fra i due aumentarono: Eyra iniziò a sputare parole velenose, mentre Calx, poco avvezzo agli alterchi, tentava di calmarla, coadiuvato da sua madre. Nelle rare giornate di pace, la fanciulla trovava pretesti per esprimere la rabbia che le ardeva dentro, ma il giovane allievo di Alexer, stanco dei battibecchi, andava via e ritornava solo a notte fonda.
***
   Syrma era finalmente riuscito a privarsi dei sensi senza svenire o patire altre sofferenze: il regime di addestramento a cui l'aveva sottoposto Kanaad sembrava aver dato i suoi frutti. Il Cavaliere di Virgo era maturato non solo nel cosmo, ma anche nell'anima: ora l'obiettivo che si era prefissato gli appariva più vicino. Tuttavia, il maestro gli impose di continuare a rafforzarsi prima di indossare la maschera, nonostante i progressi raggiunti. Il ragazzo si diede un altro po' di tempo per imparare meglio a controllare il suo potere.
   Era passato un altro mese e, ormai sicuro delle proprie capacità, Syrma sfilò la maschera dall'elmo, la guardò per un attimo, fece ardere il suo cosmo e la indossò lentamente. Kanaad era lì per monitorare la situazione e soccorrerlo in caso di problemi. Il buio e il silenzio gli provocarono un senso di sbandamento e confusione, ma Syrma tenne duro, resistendo a denti stretti al richiamo della dimenticanza. Intravide un folto gruppo di alberi da cui promanava un cosmo straordinario; poi una luce e una sorta di cassa rettangolare apparvero ai suoi occhi: l'aveva trovato.
   Si tolse la maschera, riacquisendo tutti i sensi, ma sentì il suo corpo gravemente spossato. Un forte capogiro gli fece perdere l'equilibrio, ma non cadde, riuscì a puntellarsi con le mani sul pavimento. - Tutto bene? -, chiese il Primo Ministro, preoccupato. - Sì -, rispose il ragazzo con un filo di voce. - Flusshaus... Vernalis è là. Dobbiamo informare il Sommo Alexer e andare a liberarlo -, esclamò con più forza, stringendo le braccia del maestro.
   - Ci andrò io, tu riposati -, lo fermò Kanaad. - No, signore, il mio compito non è ancora terminato -, ribatté l'allievo, determinato a recarsi in Germania e riportare l'amico al Grande Tempio. - Sei troppo stanco per affrontare una qualsivoglia battaglia! Manderemo qualcun altro a salvarlo -.
   Syrma si alzò in piedi, il volto serio e i pugni stretti. Non era mai stato polemico, né aveva mai contraddetto gli ordini del maestro, ma da quando Vernalis era scomparso sembrava essere padrone di motivazioni ignote a tutti, che lo spingevano ad assumere un atteggiamento spesso indecifrabile e oscuro. Il Primo Ministro l'aveva percepito sin dall'inizio, ma aveva preferito non indagare oltre, almeno fino a quel momento: - Perché hai mortificato il tuo corpo e il tuo cosmo per raggiungere il cosmo degli dei, Syrma? Non lo hai fatto solo per trovare Vernalis! -
   Il Cavaliere di Virgo abbassò gli occhi e accennò un sorriso, sentendosi scoperto: - Non vi si può ingannare, maestro. Sapete bene che il nono senso è chiamato anche 'cosmo onnisciente', perché consente ai numi non solo di conoscere il presente, il passato e il futuro, ma anche l'essenza dell'universo -. Kanaad annuì. - Ebbene, la cella che imprigiona Vernalis necessita della luce fornita dall'esplosione primordiale per essere distrutta, e io sono l'unico a poterla abbattere -.
   Il vecchio ministro ponderò alcuni minuti in silenzio la spiegazione fornitagli dall'allievo. Lo fissò con sguardo grave e poi gli strinse le spalle: - Sei il miglior discepolo che potessi chiedere ad Atena, Syrma. Andiamo! -, disse infine. Felice per le parole del suo mentore, il Cavaliere sorrise, mentre i suoi occhi neri si accendevano della luce della speranza.
   In breve tempo raggiunsero la sala del trono: trovarono Yeng che riferiva al Sacerdote il fallimentare esito del suo ultimo viaggio. Syrma e il Primo Ministro irruppero proprio nel bel mezzo del rapporto, tra lo stupore di Alexer e del Cavaliere. - Abbiamo notizie importanti su Vernalis -, esordì Kanaad, attirando su di sé l'attenzione di tutti.
   - L'avete trovato? -, chiese di getto il custode della settima casa. Syrma gli fece cenno di sì con la testa. - Dove si trova? -, domandò Alexer con tono più contenuto. - Nel luogo in cui ha combattuto -, rispose con semplicità il Cavaliere. - Ma è avvolto da una barriera di natura divina -, aggiunse, puntando gli occhi sul Sacerdote.
   - Capisco -, disse il Sacerdote, rivolgendo lo sguardo a Yeng. - Affido a te, Yeng, il compito di salvare Vernalis. Porta con te anche Mothalla! - Il Cavaliere di Libra si piegò in un rapido inchino e fece per avviarsi verso l'uscita, quando Syrma gridò a voce alta, forse per la prima volta in vita sua: - Devo andarci anch'io! Non potete escludermi dal salvataggio di un amico! Non me ne resterò qui con le mani in mano; che lo vogliate o no, io ci andrò -.
   Il tono del Cavaliere di Virgo meravigliò non poco il Sacerdote, che si alzò in piedi e scese i gradini. - Non volevo tenerti in disparte, ma solo farti riacquistare le forze, Syrma! -, ribatté con voce autorevole, ma senza intenzione di rimproverarlo. Aveva accettato con molte riserve l'idea di farlo addestrare per raggiungere il cosmo degli dei, ma ora Syrma desiderava mettere a frutto quanto aveva appreso e non avrebbe desistito di buon animo. Non gli erano ignote le sue motivazioni, ma avrebbe voluto quantomeno risparmiargli la fatica di affrontare un combattimento, viste le sue condizioni.
   - D'accordo, se credi di potercela fare, va' pure. Unisciti a Yeng e Mothalla -, concesse il vicario di Atena, il cui cuore si velò di un sinistro presentimento. Il Cavaliere s'inchinò, ringraziandolo per la comprensione.
   I due compagni si allontanarono in fretta e, giunti ai piedi del Santuario, andarono a chiamare Mothalla per portarlo con loro. Poco dopo, tre sfere di luce colorate lasciarono la dimora di Atena e riapparvero nella Foresta Nera, in Germania.
***
   Alla periferia di Bisanzio, Sorush teneva gli occhi incollati su una pagina del grosso volume, su cui era disegnata una mappa. Il Sacerdote stava cercando la perduta città di Nergal, Kutha, scomparsa ai tempi del mito. Sarabda si era dedicato a setacciare i luoghi in cui poteva trovarsi, ma gli dei di Sumer sembravano averla celata molto bene. Inoltre, preferiva stare lontano da Lulul, che aveva preso a disprezzare dopo la defezione di Atene. Kharax, dal canto suo, s'interessava poco dello spregio del demone; ormai la sua attenzione era tutta rivolta al figlio: grazie al cosmo ne aveva percepito gli spostamenti e si era reso conto che anche Sertan lo stava cercando.
   Tuttavia, ritenne di aspettare ancora prima di farsi trovare, e rimandò il confronto con la comprensibile ira del figlio a un altro momento. Doveva ancora sistemare l'alleanza con Sorush e i suoi tirapiedi: il suo unico scopo era veder crollare il Grande Tempio, ma non aveva intenzione di affidare il mondo a una divinità come Nergal. Al momento opportuno si sarebbe sbarazzato anche di quel pesante fardello. La Terra, prima o poi, avrebbe trovato un modo per annientarsi da sola, pensava, e forse sarebbe stato meglio così. Priva di numi capricciosi che pretendevano di purificarla con i mezzi più svariati, essa avrebbe seguito il corso naturale della sua vita, per giungere infine all'estremo traguardo, la morte.
   Mentre Sorush leggeva, egli passeggiava nei dintorni di quella villa fatiscente, sperando in cuor suo di poter riacquistare la fiducia e la stima del figlio. Dal folto di alcuni alberi emerse la figura di Sarabda, di ritorno dall'ennesimo giro di controllo nella Mezzaluna fertile. Non appena lo vide, il volto si contrasse in una smorfia di astio. Provò a ignorarlo, allungando il passo verso le prigioni, ma Kharax lo fermò: - Trovato niente? -, gli disse con tono beffardo.
   Il demone gli rivolse uno sguardo odioso e, con tono pungente, tagliò corto: - Può darsi! - Si allontanò in fretta, mentre Kharax gli rivolgeva un sorriso sarcastico. Non lo feriva quell'atteggiamento di supponenza, gli premeva solo che Sarabda e i suoi compagni togliessero di mezzo quanti più Cavalieri possibili.
   Giunto dinanzi a Sorush, lo chiamò, distogliendolo dalla sua lettura: - Signore, ho trovato qualcosa! -, esordì, inchinandosi. Il Sacerdote si alzò, palpitante e curioso. - Bene, dimmi tutto! -, lo esortò il Sacerdote, trepidante all'idea di ritrovare la città perduta. - Ho riscontrato, al centro della regione, una sorta di depressione. È una zona desertica che presenta una strana traccia cosmica: è priva di vegetazione e di insediamenti umani. Sono convinto che Kutha sia lì -, spiegò il demone.
   Kharax aveva ascoltato la relazione in cima alle scale. Le ridiscese piano, elogiando l'operato del Sabitta. La voce di Lulul indispettì non poco il demone che, però, non diede peso alle provocazioni. - Piantatela di punzecchiarvi -, tuonò il Sacerdote, stanco delle continue discussioni fra i due. - Dovremo tornarci, perché ho bisogno di accertarmi che quello sia il posto giusto -, proseguì rivolto al servo di Nergal, che annuì.
   - Credo dovrai farlo da solo, Sorush -, intervenne Kharax. Il Sacerdote era confuso da quell'affermazione, ma fu Sarabda a sciogliergli ogni dubbio. - A quanto pare hanno trovato la Cella dell'Abisso. Devo partire subito! - Ma l'ultimo celebrante di Nergal lo fermò, dicendo: - Aspetta! Non ci andrai da solo! - Pronunciò le solite formule davanti allo Scrigno dell'Eternità e undici figure dalle armature variopinte s'inchinarono a lui.
***
   I tre Cavalieri atterrarono nei pressi di un laghetto circondato da una fitta rete di alberi. - Da qui proseguiremo a piedi -, disse Syrma, incamminandosi verso uno stretto sentiero fra i tronchi degli alti arbusti. L'ombra concedeva refrigerio, ma l'aria era bassa e i profumi spiranti dalla vegetazione solleticavano fastidiosamente le narici. - Non vedo l'ora di uscire da qui -, si lamentò Mothalla, facendosi largo fra i rami pendenti. Finalmente, i filari di alberi si fecero più radi e l'aria divenne più aperta. Il Cavaliere di Triangulum, sollevato di essere uscito da quella trappola naturale, guardò per un attimo i suoi compagni di viaggio, orgoglioso di partecipare a una missione con ben due esponenti del rango più elevato dei paladini di Atena. Aveva sempre nutrito una insana curiosità nei confronti dei dorati custodi, e gli sarebbe piaciuto conoscerli un po' di più.
   - È un vero onore per me combattere al vostro fianco! -, esordì, sperando di scalfire la corazza di riservatezza che contraddistingueva la casta più alta dell'esercito di Atena. Yeng gli rispose con un cenno del capo, ma non sembrava molto interessato a quei convenevoli. Syrma, invece, nemmeno lo aveva ascoltato, troppo proteso a raggiungere l'obiettivo della missione.
   Mothalla, seccato da tutta quell'indifferenza, decise di palesare la sua curiosità senza veli: - Com'è possibile che voi Cavalieri d'Oro siate tutti così riservati e poco inclini a confrontarvi con gli altri guerrieri delle due caste inferiori? Pur lottando e morendo insieme, noi non conosciamo nulla di voi, del vostro passato. È avvilente per noi -. Il tono indispettito e carico di sconforto sembrò destare l'attenzione dei due dorati Cavalieri.
   - Perdonaci, Mothalla! Hai pienamente ragione! -, si scusò con tono gentile il giovane Virgo. - Non è per supponenza o per disprezzo che agiamo così, ma solo per mantenere una certa autorevolezza verso di voi -. Il Cavaliere di Triangulum capiva che il ruolo dei dorati custodi era estremamente importante, ma non condivideva tutta quella distanza.
   - E per dimostrarti che vi consideriamo amici preziosi ti racconteremo il nostro passato, sei d'accordo, Syrma? -, concluse Yeng, ricevendo l'approvazione del compagno. Mothalla era felice di poter avere qualche informazione in più su quei guerrieri tanto potenti quanto misteriosi.
   - Io sono nato in Cina, un lontano paese dell'Asia. Mio padre era un generale dell'esercito cinese, stimato sia dai suoi sottoposti che dalla corona. Al tempo, l'imperatore era in guerra con un gruppo di ribelli e inviò mio padre ad annientarli. Fedele al suo signore, vi andò, ma ben presto si rese conto che quegli uomini chiedevano soltanto di ridurre l'esoso carico fiscale, ma l'imperatore non ne voleva sapere. Mio padre, che era sempre stato dalla parte dei deboli, decise di abbandonare il suo sovrano e di difendere quella povera gente.
    Quando Ren Zong, il re, fu informato del tradimento di mio padre, gli inviò contro il suo più spietato generale, Shen Kuo. Io, mia madre e mia sorella eravamo stati avvertiti da un messaggero e fuggimmo da Kaifeng verso la costa. Il generale Kuo vinse la battaglia e condusse mio padre in catene al palazzo dell'imperatore, dove venne condannato alla pena capitale.
   Noi ci imbarcammo per l'isola di Taprobane, sapendo che un drappello imperiale era stato incaricato di inseguirci e ucciderci. Riuscimmo a sfuggire alle grinfie di Zong, ma una violenta tempesta ci sorprese non molto lontano dalla costa dell'isola. La nave si sfasciò e tutti i suoi occupanti, tranne me, perirono. Stretto a un pezzo di legno raggiunsi la spiaggia, ormai solo al mondo. Mi ritrovarono privo di sensi alcuni monaci di Anuradhapura. Mi portarono al monastero, mi curarono e lì incontrai il maestro Kanaad e Syrma -, raccontò il custode della settima casa, lasciando senza parole il possente Cavaliere dai grandi occhi nocciola e dai corti capelli castani.
   Quest'ultimo rivolse poi lo sguardo a Syrma, un po' titubante all'idea di dover narrare gli orrori della sua infanzia; ma aveva accettato e quindi era costretto a rispettare l'accordo: - Non mi è così facile ricordare il mio passato ed è per questo che quasi nessuno lo conosce. Mia madre aveva avuto altri sette figli prima di me, ma morirono tutti subito dopo la nascita. Si chiamava Yashoda. Mio padre era il coppiere personale del re Rajadhiraja Chola. Il suo nome era Anjan. Fin qui sembrerebbe una famiglia come un'altra, ma mio padre aveva un'indole isospettabilmente malvagia.
   Dopo la mia nascita, cominciò a uscire a notte fonda e a rientrare sempre più tardi, tanto da essere allontanato dal suo delicato incarico. Ma a mio padre non interessò affatto questa decisione del sovrano. Tuttavia, pochi mesi dopo, il re morì misteriosamente. Una sera sparì anche mia madre: uscì con mio padre e non tornò più. Da lì iniziò l'orrore per me: ogni sera venivo condotto in una strana grotta, davanti a una statua dalle fattezze demoniache; mio padre intonava canti e svolgeva riti propiziatori.
    In principio, non capivo il motivo di quelle riunioni, finché non udii il nome della divinità invocata da mio padre: Kalì, la distruttrice. Io ero l'ultima vittima, dopo mia madre e dopo il re in persona, che gli serviva per risvegliare l'anima della dea oscura e offrirsi come corpo ospite. Non fu in grado di uccidermi, ma il sigillo che teneva incatenata Kalì venne meno ed ella s'impossessò del corpo di mio padre. Tentai in tutti i modi di oppormi al cosmo di quel nume, ma stavo per soccombere: per mia fortuna giunse il maestro Kanaad, che la sconfisse e la riconfinò nel sonno eterno. Mio padre morì poco dopo, rammaricandosi di non essere riuscito a conquistare il mondo. Da allora ho seguito il Primo Ministro e grazie a lui oggi indosso le vestigia di Virgo -. Sia Yeng che Mothalla erano rimasti allibiti dalla storia che avevano appena udito. Nessuno si sarebbe aspettato un passato così crudele e agghiacciante.
   - Mi spiace per tutto quello che vi è successo! -, esclamò il Cavaliere d'Argento, un po' a disagio ora che aveva saputo la verità sul passato dei compagni. Adesso era giunto il momento di proseguire in silenzio, pensava. Aveva chiesto già troppo! Mentre rifletteva, avvertì molti cosmi innalzarsi. - Abbiamo compagnia! -, disse Syrma, sbucando su un pianoro disseminato di rami e rovine.
   - Vi aspettavamo, Cavalieri! -, li salutò una figura ai margini del bosco. Dietro di lui ve n'erano delle altre, tutte col sorriso stampato sul volto e i pugni frementi di battaglia. - Io sono Sarabda, primo demone dell'acqua -, continuò facendo un passo avanti e impugnando saldamente la sua spada d'acqua.
   - Il mio nome è Limer, terzo demone del fuoco -, disse il secondo, dalla voce stentorea. Aveva occhi rossi e capelli blu. Indossava una corazza prevalentemente grigia: l'elmo a casco aveva, al centro, un corno ricurvo. Il pettorale formava un pezzo unico con gli spallacci, tondi e aderenti alla spalla, e il cinturino, costituito da grosse lamine di metallo su cui erano montati piccoli corni. Bracciali e schinieri erano anch'essi muniti di corni di varie dimensioni. Sulla fronte e in mezzo al pettorale si notava un triangolo di colore verde.
   - Io sono Tiriga, terzo demone del fulmine -, affermò il terzo, dagli occhi viola e dai capelli color cenere. Indossava un elmo a maschera, formato da lamelle sottili sovrapposte. Il pettorale ricordava vagamente quello dell'armatura di Scorpio, ma senza il bavero di forma cilindrica. Sul petto si notavano piastre metalliche giustapposte e dentellate. Gli spallacci erano alti e concavi, lisci e privi di fregi. Il cinturino era costituito da una fascia metallica su cui erano agganciate due piastre rettangolari ai lati, una quadrata sul davanti, e una lunga coda di scorpione dietro. I bracciali coprivano soltanto avambracci e mani, su cui erano montate delle pinze, così come gli schinieri si limitavano a proteggere stinchi e polpacci. L'armatura era di un dorato opaco e presentava triangoli grigi sulle mani, sul pettorale e sul cinturino.
   - Se siete venuti a riscattare la vita del vostro compagno, io, Hadanish, settimo demone della luce, stroncherò il vostro cosmo! -, provocò il quarto, un tipo alto e possente, dagli occhi e dai capelli grigi. Indossava un elmo rosso a cerchio, che copriva la parte superiore del cranio, ma lasciava scoperta buona parte della testa. Anche il pettorale aveva forma cilindrica: su di esso erano agganciati degli spallacci ovali di un rosso spento. Il cinturino era costituito da un unico pezzo metallico che s'avvolgeva a giro attorno ai fianchi. I bracciali presentavano dei filamenti che avviluppavano l'intero arto. Un solo triangolo rosa si trovava al centro del pettorale.
   - Io sono Irgigi, quarto demone del ghiaccio -, proclamò il quinto, dagli occhi verdi e dai capelli rossi. Indossava un'armatura in prevalenza bianca, con inserti neri. L'elmo era a casco e aveva la forma di una testa d'orso. Il pettorale era costituito da sottilissime lamelle metalliche e aderiva al corpo del demone. Tre triangoli neri, al centro, formavano una sorta di piramide priva di base. Il cinturino, agganciato al pettorale, era formato da piastre bianche dai bordi neri. Bracciali e schinieri, anch'essi composti da minute lamelle, terminavano con artigli affilati.
   - Il mio nome è Susuda, settimo demone dell'acqua -, esclamò il sesto, un demone tozzo e grassoccio, dagli occhi blu e dalla folta chioma azzurra. L'armatura che indossava era di un verde chiaro, con inserti arancioni. L'elmo a maschera incorniciava il volto e, sui lati, mostrava due antennine sottili. Il pettorale era un blocco massiccio, adornato da fasce metalliche sovrapposte, su cui erano incisi piccoli triangoli arancioni. Il cinturino aveva la forma di un triangolo rovesciato. Gli schinieri erano lisci, privi di incisioni, ma erano muniti di lunghi tentacoli avvolti attorno alle gambe. I bracciali erano simili ai cosciali, ma i tentacoli, in questo caso, restavano appesi.
   - La resa dei conti è giunta Cavalieri! Per mano di Idiptu, primo demone del vento -, esordì il settimo, un demone gigantesco, dai capelli corvini. Indossava un'elmo rosso a casco che terminava con un becco d'uccello. Una mascherina gli copriva gli occhi. Sulle spalle indossava una sorta di scialle di piume metalliche rosse che fungeva da spallacci e si allungava sul pettorale. Quest'ultimo lasciava scoperto il ventre ed era ornato da sottili lamelle argentee su cui erano incisi triangoli rossi. Il cinturino era un pezzo unico che circondava il bacino e sul cui bordo erano allineati piccoli triangoli rossi. Schinieri e bracciali erano formati da piume metalliche sovrapposte. Sulla schiena erano agganciate ali d'uccello di rosso al centro e d'argento sui bordi. Una piccola coda a ventaglio si allungava dalla parte posteriore del cinturino.
   - Il vostro viaggio si conclude qui; io, Sidana, primo demone della luce, vi annienterò! -, minacciò l'ottavo, un Sabitta di statura media e dal fisico asciutto. Indossava un elmo a maschera che copriva il cranio e le orecchie. Aveva la forma della testa di un insetto con antenne poco pronunciate ai lati; era di colore rossiccio. Il pettorale era costituito da piastre rettangolari sovrapposte, dalle tinte marroncine e rossastre. Il cinturino era identico e così pure gli schinieri e i bracciali. Sul dorso del pettorale si notavano alette d'insetto trasparenti.     
   Si fece avanti il nono demone e, con fare borioso e ironico, si presentò senza altisonanti proclami: - Io sono Mamagal, sesto demone della luce -. Possedeva una corazza beige e grigia. L'elmo era a casco e aveva la forma di una testa di rettile. Gli occhi granata e i capelli ocra creavano un forte contrasto coi colori dell'armatura. Il pettorale era beige, costellato da triangoli variopinti, aderente al fisico robusto del demone. Inglobava anche il cinturino, costituito da due frange ai lati e da una sottile fascia nella parte anteriore e posteriore. Gli spallacci erano piccoli e tondeggianti, di un grigio chiaro, che coprivano a malapena le spalle. Schinieri e bracciali seguivano le linee di gambe e braccia. Sulle mani e sui piedi formavano lunghe dita.
   - Finalmente ho l'occasione di affrontare guerrieri di rango! Il mio nome è Mimma Lemnu, primo demone del ghiaccio -, asserì il decimo, dal fisico imponente. Indossava un usbergo dalle tonalità blu e bianche. L'elmo ricordava la testa di una balena: copriva interamente la testa, gli occhi e il naso. Era collegato al pettorale, che proteggeva interamente il tronco e le spalle del Sabitta. Tutto il blocco presentava scanalature da cui affioravano triangoli bianchi. Il cinturino s'innestava alla base del pettorale ed era costituito da una parte superiore liscia e da una inferiore che terminava a frange triangolari. Sui bracciali e sugli schinieri erano montate affilate pinne bianche.
   - Non vedo l'ora di schiacciarvi come vermi! Io sono Bel Uri, secondo demone della terra -, sentenziò l'undicesimo, dalla corporatura muscolosa e slanciata. L'elmo a casco, di un marrone scuro, proteggeva la calotta cranica e terminava con degli occhialini che nascondevano parte del volto. Il pettorale sembrava fatto di pelo marrone con venature grigiastre e inglobava anche gli spallacci. Il cinturino circondava interamente il bacino, era corto e i filamenti marroncini ricadevano sulle gambe. Stesso criterio seguivano schinieri e bracciali: le lamelle e i filamenti pendevano al vento. Triangoli grigi erano presenti al centro dell'elmo, sulle manopole e sugli schinieri.
   - Il mio nome è Tizqar, terzo demone dell'acqua -, sibilò l'ultimo, dagli occhi porpora e dai capelli argentei. Indossava un'armatura azzurra e acquamarina. L'elmo era costituito da una sorta di cerchietto sul cui fronte era montato una sorta di pesce stilizzato. Il pettorale era formato da tre blocchi uniti fra loro di una tonalità azzurra più chiara. Gli spallacci erano ricurvi con una piccola pinna rivolta verso l'alto. Il cinturino era a frange e si allungava fin quasi alle ginocchia. Bracciali e schinieri montavano pinne sui lati. Triangoli acquamarina erano presenti sul pettorale e sul cinturino.
   - Bene. Sarà un piacere sconfiggervi -, ironizzò il Cavaliere di Libra. - Io sono Yeng di Libra e loro sono Syrma di Virgo e Mothalla di Triangulum -, continuò, stufo di tutti i convenevoli imposti dalla cavalleria.
   Sarabda abbozzò un sorriso e fece cenno ai compagni di dividersi: un gruppo si diresse dall'altra parte del fiume, un altro restò sul luogo e un altro ancora s'inoltrò nel folto della foresta. - Seguiteli! -, ordinò Syrma. - Io mi occupo dei demoni rimasti -, proseguì, mentre i compagni partivano all'inseguimento.
***
   Yeng raggiunse i quattro demoni sull'altra riva. - È ora che la vostra stirpe si estingua! Avete già causato troppi danni per i miei gusti! -, gridò con impazienza. Fece esplodere il proprio cosmo dorato, impressionando non poco il manipolo nemico. - Sarà una vera goduria ucciderti, Cavaliere -, ribatté Sidana, pronto a rispondere all'assalto assieme ai suoi compagni.
   - Anatolikoû Boós Prosbolé! -, urlò il Cavaliere, lanciando la sua tecnica speciale. Il bufalo di cosmo si avventò contro i Sabitti, ma Idiptu passò al contrattacco: - Tumu Galla![1] -, sibilò, e un vento impetuoso si oppose all'assalto del colpo di Yeng. Le due energie cosmiche collidero ed esplosero, sbalzando all'indietro coloro che le avevano generate.
   Gli altri demoni non aspettarono che il custode della settima casa tornasse all'attacco. - Ziga Abzuk![2] -, disse Limer, richiamando la propria tecnica segreta. Figure di fuoco e lava si gettarono sull'impreparato Yeng, che si difese con gli scudi. - Dumdam Anmumamuk![3] -, esclamò Sidana: un mostro di luce dalle mille zampe avvolse il corpo del Cavaliere, stritolandolo. Per ultimo, anche Mimma Lemnu liberò il proprio potere: le pinne dell'armatura s'illuminarono di un cosmo verdastro. - Hulu Umbinene![4] -, evocò, e lame affilatissime si diressero contro l'obiettivo.
   Vinto da quell'assalto congiunto, il discepolo di Kanaad cadde in ginocchio. Le lame lanciate dall'ultimo demone si erano conficcate negli spazi lasciati scoperti dall'armatura e avevano un effetto soporifero. Si sentiva svenire, il ferruginoso sapore del sangue gli invadeva la bocca, il respiro era soffocato dal mostro di luce che lo avvinghiava, le figure di lava e fuoco che emettevano un calore insopportabile. Doveva reagire, non poteva cedere al primo attacco. Ripensò agli anni dell'addestramento e alle continue esortazioni ricevute dal suo maestro. Fece avvampare il proprio cosmo, che s'innalzò maestoso. Una luce accecante lo investì e, quando si dissolse, Yeng era libero: alcuni rivoli di sangue imbrattavano l'armatura, la fronte era imperlata di sudore e il respiro leggermente affannoso, ma tutto sommato stava bene.
   I Sabitti erano attoniti, non riuscivano a capire come avesse fatto a uscire quasi indenne da quell'attacco combinato. - Non vuoi morire, vedo -, sussurrò sarcastico l'imponente Idiptu. Allargò le braccia, mentre un cosmo rosato lo avvolgeva. Una tempesta di vento calò sul campo di battaglia, sradicando alberi e strappando cespugli. - Preparati, Cavaliere! Tumu Galla! -, minacciò. La forte raffica d'aria si abbatté su Yeng, colpendolo con tutto ciò che trascinava con sé: il custode della settima casa usò gli scudi per parare i dardi che lo bersagliavano, ma, all'improvviso, avvertì un intenso calore.
   Limer aveva approfittato della distrazione del Cavaliere per portarsi alle sue spalle e rilasciare la sua tecnica. Yeng se ne accorse troppo tardi e finì tra le braccia delle figure di lava fiammeggiante. Un bruciore penetrante superò le difese dell'armatura e iniziò a martoriare le carni del giovane eroe. Il dolore lancinante e la pressione esercitata dal vento lo fecero crollare al suolo svenuto. I demoni scoppiarono in una risata compiaciuta al vederlo inerme.
   Il Cavaliere si rialzò, dolorante e ferito. Senza aprire bocca, si lasciò avvolgere dal suo cosmo dorato e, ancora una volta, diede vita al bufalo d'energia della sua tecnica. Idiptu rispose innalzando un muro di vento, che si combinò ai colpi dei compagni e annientò l'attacco nemico. - Spiacente, Cavaliere, ma oggi la vittoria non ti arriderà. Abbiamo aspettato troppo a lungo il trionfo del divino Nergal -, istigò Limer, avvicinandosi a Yeng, di nuovo a terra.
   - Mi credi così debole da lasciarmi sconfiggere senza opporre resistenza? Sei un folle, demone! -, ritorse il custode delle vestigia di Libra, rimettendosi in piedi con uno scatto fulmineo. Rivolse alla creatura demoniaca uno sguardo truce e un pugno carico di energia cosmica. Il terzo demone del fuoco si avvide troppo tardi di quella improvvisa reazione e fu scaraventato contro il tronco di una ramuta quercia.
   - La tua ostinazione è vana, Cavaliere! Hulu Umbinene! -, ribatté Mimma Lemnu, lanciando le lame della sua tecnica contro Yeng. Il giovane Libra sollevò gli scudi e ne parò gran parte, ma, d'un tratto, il loro movimento accelerò, sospinti dall'impeto del vento di Idiptu. Molte si conficcarono nei punti scoperti dell'armatura e andarono ad allargare le ferite dei precedenti assalti. Un dolore acuto e straziante gli percorse le membra, costringendolo in ginocchio.
   Tuttavia, il Cavaliere era stanco di subire senza arrecare alcun danno ai suoi avversari. Riprese il controllo del proprio corpo e innalzò il suo cosmo fino al limite estremo. L'energia che lo stava sfiancando scomparve, mentre la potenza cosmica di Yeng sembrò moltiplicarsi. - Dynámeōs Kyría![5] -, gridò, riversando tutta la potenza accumulata contro i Sabitti. Idiptu cercò di frenare l'impeto di quella mossa col suo vento, ma non ci riuscì: per la prima volta, dall'inizio di quello scontro, i demoni si ritrovarono con la schiena a terra. Non solo: il colpo li aveva anche privati di una parte delle loro forze e aveva coperto di crepe le loro armature.
   - Come sei riuscito a sprigionare tutta quell'energia? -, chiese Sidana incredulo, puntellandosi sui gomiti. Yeng, un po' in affanno, accennò un sorriso beffardo e rispose: - Sul custode della settima casa ricade da sempre l'onere di mantenere l'equilibrio tra le forze del Grande Tempio, ma, nei secoli, la portata di quel compito si è evoluta: abbiamo imparato a controllare anche il cosmo del nemico e a sfruttarlo per sconfiggerlo. Il colpo che vi ha investito era intriso della vostra stessa energia -.
   Sul volto dei demoni apparve un misto di sollecitudine e incredulità. Limer, poco impressionabile, richiamò sul campo le figure di lava della sua tecnica e, con odio, le scagliò contro il Cavaliere. Il giovane Libra congiunse le mani, che si circondarono di un'aura dorata. Non appena le creature fiammeggianti si avvicinarono, una luce accecante le investì facendole svanire. Colmo di rabbia, il Sabitta si gettò contro Yeng. Il Cavaliere fece un passo indietro e poi, puntando i palmi contro l'avversario rilasciò una potente scarica di fuoco e lava, che si avventò sull'impreparato demone. Limer non riuscì ad abbozzare alcuna difesa e venne colpito in pieno.
   Scaraventato a terra, il demone non riusciva più a rialzarsi: la lava aveva consumato alcune parti dell'armatura e un liquido bluastro fuoriusciva dalle numerose ferite. - Dannato, Cavaliere! -, sussurrò tra i denti, sollevandosi su un braccio. I compagni erano rimasti immobili, scossi da quel vantaggio repentino che Yeng sembrava aver acquisito. Mentre si sforzava di rimettersi in piedi, Limer sentì le gambe cedere e cadde nuovamente nella polvere. Il suo corpo cominciò a sgretolarsi nell'aria.
   I Sabitti guardarono con odio il Cavaliere e, facendo esplodere il loro cosmo, attaccarono tutti assieme. Alla violenta tempesta di vento prodotta da Idiptu si unirono il mostro di Sidana e le lame di Mimma Lemnu. Il custode delle vestigia di Libra si lasciò investire dalla furia di quell'assalto combinato, per poi prenderne il controllo. I demoni, increduli e confusi, provarono ad attaccare di nuovo, ma Yeng liberò l'energia che aveva incamerato e li sbalzò lontano, contro gli alberi, tra pezzi di corazza e schizzi di sangue.
   Tuttavia, il Cavaliere sentiva di non poter continuare in quel modo: impossessarsi del cosmo altrui gli costava parecchia fatica; il suo corpo non avrebbe sopportato a lungo quell'enorme pressione d'energia. Restavano, però, ancora tre avversari da battere e, se voleva vincerli, doveva essere pronto anche a sacrificare la sua giovane vita. Avrebbe fatto come suo padre: avrebbe lottato non solo per la liberazione di Vernalis, ma anche per sradicare dal mondo la minaccia di Nergal.
   Nonostante la stanchezza, si accinse a concludere quello scontro. L'ombra di Idiptu incombeva su di lui furiosa. - Sono stufo di te, Cavaliere! È ora che tu soccomba! Tumu Galla! -, sbottò, la voce adirata e il volto contratto. Un veemente turbine d'aria iniziò a sollevare polvere, pietre, rami, foglie e tronchi d'albero. Yeng si avvide che Sidana e Mimma Lemnu si erano posizionati sui lati e avevano lanciato anch'essi le loro tecniche. Non potendo assorbirle tutte e tre, viste le direzioni differenti da cui erano state scagliate, si spostò alla velocità della luce facendole scontrare fra loro.
   - Dódeka Hóplōn Chorós! -, gridò il Cavaliere, riemergendo dopo la deflagrazione dei colpi dei Sabitti. Le armi di cosmo si abbatterono sui demoni impreparati, ma Idiptu, stanco di quei giochetti, innalzò una barriera d'aria. La tecnica di Yeng trovò fiera opposizione, ma, alla fine, riuscì a penetrare quella difesa, anche se l'impatto ne fu drasticamente smorzato. I servi di Nergal furono gettati a terra e nuove crepe si aprirono sulle loro armature.
   I Sabitti, di nuovo in piedi, non persero tempo e ripresero l'attacco. Unirono ancora una volta i loro colpi segreti e, con maggior impeto, li puntarono contro il loro fiero avversario. Yeng si preparò ad assorbire e ribattere quell'energia, ma sentiva di non avere più abbastanza forza per farlo: gli restava quell'unica possibilità di eliminarli. Concentrò tutto sé stesso e, quando i colpi arrivarono, ne prese il controllo: faticò non poco a farlo, e le ferite subite fino a quel momento si riaprirono. Sanguinava copiosamente ma, senza dar peso al dolore e allo sfinimento, rispedì al mittente l'assalto.
   I demoni furono investiti dalla loro stessa energia, sebbene raddoppiata dal cosmo di Libra. Tentarono una difesa, ma furono spazzati via dall'immane potenza del colpo. Quando la luce della deflagrazione si spense, Yeng scorse Idiptu che cercava di rialzarsi: privo della parte inferiore del corpo, puntò lo sguardo collerico sul Cavaliere. - Hai vinto, Libra, ma non potrai godere del tuo successo. Anche la tua vita è agli sgoccioli! - Detto questo, strabuzzò gli occhi viola e reclinò il capo, dissolvendosi nell'aria.
   Yeng abbozzò un sorriso all'udire le ultime parole del demone del vento. Era vero, aveva vinto ma non poteva gioirne. Le gambe non lo ressero più; cadde in ginocchio e iniziò a sputare sangue. Avvertiva il cosmo dei suoi compagni raggiungere il limite estremo e si augurava che almeno loro sopravvivessero. La testa gli batteva come un tamburo, il respiro gli si strozzava in gola; il cuore rallentò e il Cavaliere si accasciò a terra, chiudendo gli occhi. Poco dopo, piegò il capo sulla spalla e spirò. L'armatura, percependo il calore del suo custode svanire, si staccò, si ricompose a totem e si diresse al Grande Tempio.
***
   Mothalla si era fatto strada tra il folto della foresta e aveva ritrovato i demoni in una piccola radura adagiata lungo un lago. - Eccoti, finalmente -, disse Mamagal, sesto demone della luce. - Non vedevamo l'ora di uccidere un Cavaliere! -, aggiunse Susuda, il settimo Sabitta dell'acqua. - Peccato tu sia un misero Cavaliere d'Argento -, si lamentò Irgigi, quarto demone del ghiaccio. - Basta con le chiacchiere! Leviamoci dai piedi quest'insetto! -, propose Hadanish, ultimo Sabitta della luce.
   Senza ulteriori convenevoli, i cosmi variopinti dei guerrieri d'Irkalla s'innalzarono. Ognuno sfoggiò la propria tecnica. - Murgu Didak![6] -, evocò Mamagal, e ventose cosmiche s'avventarono contro Mothalla. - Isishene Ĝissu'a![7] -, chiamò Susuda, e spiriti urlanti si gettarono a capofitto sulla preda. - Us Bulugene![8] -, gridò Irgigi, e aghi sottili dalla punta arrossata indirizzarono l'obiettivo. - Murmara Inbirak![9] -, sussurrò Hadanish, e guerrieri armati di tutto punto sorsero da fasci di luce posti ai lati del demone.
   Il Cavaliere di Triangulum saltò all'ultimo minuto, per evitare l'attacco. Tuttavia non riuscì a evitarlo del tutto: se gli aculei di Irgigi e le ventose di Mamagal terminarono la loro corsa sugli inermi alberi, facendoli avvizzire ed esplodere, gli spiriti di Susuda e i guerrieri di Hadanish continuarono a caricarlo. L'urlo provocato dai fantasmi fece perdere l'equilibrio al paladino di Atena, che atterrò a qualche metro di distanza, mentre i soldati gli scagliavano contro dardi di luce. Mothalla creò scudi triangolari, su cui s'infransero i proiettili, ma il rumore assordante di quel grido gli annebbiava la mente.
   - Devo limitare l'influenza di questo attacco sonico -, pensò, mentre faceva ardere il suo cosmo arancione. - Trigōnikós Klōbós![10] -, richiamò, e una barriera d'energia lo attorniò. La voce degli spiriti sembrò attenuarsi e Mothalla poté dedicarsi a contrattaccare. Bagnò d'energia i pugni e lanciò sfere di luce in direzione degli avversari. I demoni non sembrarono impressionati e, con una certa facilità, si sbarazzarono apparentemente di quella mossa.
   - Che delusione, Cavaliere! -, commentò Mamagal, ma l'ironia ben presto si mutò in perplessità: vide Mothalla sorridere e gli sembrò piuttosto sospetto, visto che il di lui assalto era stato respinto. - Cos'hai da ridere? - sbottò il Sabitta, stizzito dall'atteggiamento indifferente del Cavaliere. - Credete di aver già vinto, ma la preseunzione è un'infida alleata e presto ve ne renderete conto -, rispose il capo dei Cavalieri d'Argento.
   - Che significa? Vuoi solo intimidirci! -, ribatté Susuda, avvicinandosi al compagno. - Abbiamo sconfitto guerrieri più valenti di te! Tu non sei altro che un moscerino! -, continuò, ingiuriandolo. Mothalla non batté ciglio, si limitò a sorridere e poi schioccò le dita, dicendo: - Siōpēlé Epíthesis![11] -
   Sulle mani dei demoni apparvero triangoli arancione che provocarono un dolore lancinante ai servi del Signore d'Irkalla. - Come hai fatto? -, sibilò Hadanish, contorcendosi per l'agonia che lo stava investendo. Mothalla chiuse gli occhi e tirò un sospiro deluso.
   - Vi ritenevo più scaltri, ma vedo che mi sbagliavo. Per voi contano soltanto i Cavalieri d'Oro, i guerrieri più potenti della Terra, ma non considerate che anche i membri delle altre caste possono rivelarsi ostici. L'energia delle sfere che avete dissolto si è depositata sul vostro corpo e al mio richiamo si è riattivata, rilasciando le scariche elettriche che vi stanno straziando -, spiegò con tono di sufficienza. Si sentiva alquanto ferito dalla poca considerazione con cui era stato ricevuto.
   - Maledetto! -, sbottò Irgigi, facendo esplodere il proprio cosmo. - Sarai anche forte, ma la tua vita è nelle nostre mani -, aggiunse, lanciandogli contro gli aghi della sua tecnica. A essi si affiancarono le ventose di Mamagal e i guerrieri di Hadanish. Il Cavaliere di Triangulum non si impensierì: la barriera che aveva innalzato era più che sufficiente a contenere quell'attacco.
   D'improvviso, però, alte grida spezzarono il silenzio della radura: alle spalle di Mothalla erano apparsi gli spiriti di Susuda. L'intensità delle loro urla era aumentata e la barriera di Mothalla iniziò a vibrare fino ad incrinarsi e a cadere. I colpi dei demoni, allora, si abbatterono con furia su di lui. Il capo dei Cavalieri d'Argento fu scaraventato al suolo, dove scavò un profondo solco.
   I demoni si avvicinarono, pronti a sbarazzarsi di quel guerriero tanto molesto. Dal solco sorse Mothalla, in una luce abbagliante, schioccando le dita. I Sabitti furono di nuovo straziati da scariche elettriche e dovettero indietreggiare. Quando riapparve alla vista, sull'armatura del Cavaliere si notavano piccole crepe e rivoli di sangue, provenienti dalla fronte, dal naso e dalla bocca, gli imbrattavano il volto.
   - Sei ancora vivo, verme! -, inveì Susuda, furente di rabbia e prostrato dalla frustrazione. - Isishene Ĝissu'a! -, gridò, richiamando gli spiriti che iniziarono a lanciare alte strida. Mothalla fu costretto a turarsi le orecchie, che principiavano a sanguinare. Tuttavia, non riuscì ad attutire quello stridulo suono e la sua mente si annebbiò. Cadde in ginoccho, mentre gli spiriti lo attorniavano e levavano la loro sinistra voce.
***
    Il viso del Cavaliere divenne una maschera di sangue: la testa batteva forte e sembrava sul punto di scoppiare. Gli sovvennero dei ricordi che credeva perduti per sempre. Rivide là l'affollato porto di Gibilterra, il florido faccione di suo padre e le mani delicate di sua madre.
    Era un giorno d'estate quando li aveva lasciati per unirsi alle schiere dei Cavalieri: continuare l'attività paterna non era nei suoi progetti; voleva rendersi utile, compiere azioni che potessero giovare all'intera comunità degli uomini. Aveva trovato la sua vocazione al Grande Tempio e, pur con riluttanza, era andato via per uno scopo più nobile.
   Stringendogli le spalle, con le lacrime trattenute dall'orgoglio, suo padre gli aveva detto: - Hai un cuore grande, figlio mio. Non cedere mai allo sconforto e non permettere che l'egoismo o i facili vantaggi ti rendano gretto e indifferente ai bisogni altrui. Il tuo buon cuore è la tua arma migliore, ricordalo! -
   Da quella volta non aveva più visto i suoi genitori: erano rimasti uccisi nel corso di una scorreria di pirati spagnoli. Molti anni erano passati da quella tragedia. Mothalla era corso lì in preda alla disperazione: li aveva trovati abbracciati, uniti nella morte così come lo erano stati in vita. Pianse, portandosi le mani al volto, ma le parole che suo padre gli aveva rivolto il giorno in cui era partito erano ancora incise sul suo cuore.
***
   Ora, stordito da quel suono assordante, alla sua mente riaffioravano quelle memorie sepolte da tempo. Ritrovò la forza di reagire e, con un immane sforzo, innalzò nuovamente la barriera per proteggersi: sapeva che gli avrebbe fornito soltanto un breve respiro, ma se voleva vincere quel cimento doveva rischiare. Fece esplodere il suo cosmo e lanciò innumerevoli sfere in ogni direzione. I demoni, consapevoli dell'effetto di quella mossa, si apprestarono a schivarle. Non trovando un obiettivo, le sfere si infransero al suolo. I servi di Nergal, contenti, cercarono di approfittare della situazione e si avventarono su di lui, avvolti nel loro cosmo. Ma, al primo slancio, le sfere riemersero dal terreno e li colpirono, annullando l'offensiva. I Sabitti impattarono di schiena contro gli alberi o a terra, le armature fumanti e coperte di numerose crepe, il corpo ferito in più punti.
    Il primo a rialzarsi fu Susuda, gli occhi iniettati di sangue e spiranti rabbia. - Sono stanco di giocare, Cavaliere! Forse ti abbiamo sottovalutato, ma adesso basta! Muori! Isishene Ĝissu'a! - Gli spiriti evocati dal demone iniziarono ad urlare senza posa. Mothalla si sentiva confuso e svuotato, ma non poteva cedere. Doveva zittire quegli spettri e sbarazzarsi di quella fastidiosa creatura infernale.
   Incurante dello strazio che le urla di quegli spiriti gli causavano, sollevò le braccia al cielo e disegnò un triangolo nell'aria: - Thanátou Trígōnon![12] -, sussurrò, ed esso, dapprima assorbì le forme evanescenti create da Susuda, e poi inghiottì il demone. Il triangolo si richiuse ed esplose: del Sabitta e dei suoi spettri non vi era più traccia. Mothalla cadde in ginocchio, ma non aveva tempo di riposare: gli altri tre avversari si stavano rimettendo in piedi.
   Si voltò, un acre sapore in bocca, la testa dolente, gli occhi in fiamme. Vide i Sabitti prepararsi a un nuovo assalto, raccolse le ultime forze ed evocò ancora una volta la sua ultima tecnica. Non appena scorse la luce dei colpi segreti nemici farglisi dappresso, sferrò il triangolo d'energia, che spazzò via i guerrieri, gli aculei e le ventose. Piombò addosso agli impreparati demoni, che abbozzarono una vana difesa. Furono ingollati ed esplosero, liberando il Cavaliere dalla morsa della battaglia. Tornato il silenzio, Mothalla osservò per un attimo la devastazione provocata dallo scontro; tese i sensi e avvertì il cosmo dei suoi compagni di viaggio raggiungere il limite estremo; fu sopraffatto dalla stanchezza, gli occhi si chiusero e svenne sulla riva del lago.
***
   - Se credi che ti permetteremo di liberare il tuo compagno ti sbagli di grosso, Cavaliere -, tuonò Sarabda, tenendo stretta tra le mani la sua daga d'acqua. - All'attacco, fratelli! -, spronò, e Tiriga, Bel Uri e Tizqar si lanciarono all'assalto. Syrma assunse una posizione meditativa e attivò la barriera delle fiamme di Garuda.
   - Mamu Hulu Ĝiunak![13] -, gridò Tiriga, e scorpioni di cosmo marciarono contro il Cavaliere di Virgo. - Lulubuna Sumugak![14] -, evocò Bel Uri, e un fumo nero e denso si levò dalla terra e avvolse Syrma; - Gaĝsisa Irkalak![15] -, proruppe Tizqar, lanciando dardi d'acqua contro il discepolo di Kanaad.
   I colpi s'infransero contro la potente barriera eretta dal custode della sesta casa. - Khan! -, invocò il giovane Cavaliere, e l'energia delle tecniche nemiche, bloccata dalle fiamme difensive, si abbatté contro i demoni. I seguaci di Nergal riuscirono a evitare di essere travolti, ma Sarabda era incuriosito dal singolare cosmo dell'avversario. Sollevò la daga e sia dal fiume che dal terreno sorse un esercito di morti. Syrma s'incupì alla vista di quegli innocenti trattati da burattini. Alzò una mano al cielo e richiamò la sua tecnica: - Epiblabê Pnéumata, Kyriéuete toû Ouranoû! - Le figure demoniache create dal Cavaliere si gettarono sui cadaveri, facendoli a brandelli e annullando l'attacco.
   Il primo demone dell'acqua era esterrefatto: non immaginava che tra le fila dei guerrieri di Atena vi fosse qualcuno in grado di controllare gli spiriti demoniaci. - Sei una vera sorpresa, giovane Virgo! -, si complimentò il Sabitta, abbozzando un sorriso compiaciuto. - Non devi meravigliarti, vile creatura! Le risorse di chi lotta per la giustizia non hanno limiti! -, ribatté il ragazzo, senza lasciarsi distrarre.
   Unì le mani davanti al petto e il paesaggio all'intorno cambiò: un tappeto di mandala buddhisti ricoprì il campo di battaglia. Abbassò la barriera e si preparò a concludere lo scontro, ansioso di liberare Vernalis. - Fra poco lascerete questo mondo in pace! Ormai non potete né difendervi, né attaccare! Hághioi Kýkloi Ouránioi Choréuontes![16] -, disse il paladino di Atena. I Sabitti erano rimasti interdetti da quello strano attacco, ma si resero immediatamente conto di non poter reagire.
   - Privazione del primo senso! -, gridò Syrma. Un forte calore investì la gola dei demoni, che non riuscivano più a parlare e, furenti, cercavano un modo per sfuggire a quella situazione di stallo. Sarabda, intuendo che l'avversario tramava qualcosa, si era defilato prima che il Cavaliere sferrasse il colpo, senza farsi notare. Osservava l'effetto di quella tecnica e si apprestava a fare la sua mossa.
   - Privazione del secondo senso! -, riprese il custode della sesta casa, e i demoni si accorsero di aver perduto il tatto. Prima che Syrma li annichilisse del tutto, Sarabda si spostò alle spalle del Cavaliere e, richiamando la Badara Didak, spinse gli alberi ad attaccarlo. Mentre il discepolo di Kanaad si apprestava a rimuovere il terzo senso dei demoni, fu raggiunto da violente staffilate alla schiena. Fu gettato a terra e, una volta persa la concentrazione, anche la sua tecnica venne meno. Finalmente liberi, i Sabitti si accinsero a sfogare su quell'insignificante umano la loro ira.
   - Sei così preoccupato della sorte del tuo compagno da non prestare attenzione al numero di nemici che attcchi -, lo rimproverò Sarabda, scoppiando in una grassa risata. - Il tuo potere è notevole, ma non hai speranza contro di noi! -, continuò, sollevando il braccio e ordinando agli alberi di percuoterlo. Da essi sorse un fumo nero e nugoli di scorpioni, che cominciarono a pungerlo e a provocargli un dolore lancinante; dal fiume schizzarono aghi d'acqua che gli penetrarono la carne, facendone grondare sangue. Syrma aveva imparato a sopportare sofferenze e affanni: chiuse gli occhi e fece esplodere il proprio cosmo violentemente. La deflagrazione sbalzò indietro i Sabitti, che finirono a terra di schiena.
   Il Cavaliere riapparve avvolto dalle fiamme di Garuda in posizione meditativa. Si notava qualche macchia di sangue qua e là e il volto leggermente livido; aveva perso l'elmo e i suoi lunghi capelli neri fluttuavano nell'aria agitati dal cosmo. - Come hai fatto a scampare? -, chiese Bel Uri, incredulo che quel ragazzo fosse uscito quasi indenne dall'attacco.
   Syrma accennò un timido sorriso e, con lo sguardo di fuoco, rispose: - Ho promesso a me stesso e al mio maestro che avrei difeso l'umanità dai soprusi degli dei e che avrei salvato i miei compagni dal pericolo. Purtroppo, però, non sempre sono stato capace di mantenere la mia promessa e questa, per me, è un'amara sconfitta. Ma oggi non lascerò che un mio compagno soffra o muoia per il diletto di esseri vili e crudeli. Preparatevi a soccombere! Daimónōn Hypóbasis! -
   Il terreno di battaglia divenne un ossario sormontato da un cavallo che teneva in groppa lo scheletro d'una fanciulla. I demoni furono sbalzati via da una luce accecante che, al suo diradarsi, ne fece riapparire soltanto due, malconci e sanguinanti: Tizqar e Tiriga erano stati disintegrati.
   I Sabitti rimanenti si guardarono in faccia, colmi di rabbia e di frustrazione. - Che tu sia maledetto, Cavaliere! -, gli urlò contro Bel Uri. - Prendi! Lulubuna Sumugak! -, proseguì, creando dal suolo un fumo nero e denso che circondò Syrma, tentando di forzare la barriera che lo proteggeva. Poiché non vi riusciva, il secondo demone della terra intensificò l'attacco. Giunse a dargli manforte il cosmo di Sarabda: la barriera cadde e Syrma fu inghiottito dalla nube di fumo. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene e un senso di spossatezza invaderlo. Chiuse gli occhi e, elevando la propria aura cosmica, dissipò la coltre nera. Tornò a terra in affanno, senza distogliere lo sguardo dagli avversari.
   Il primo demone dell'acqua, per non concedergli tregua, levò al cielo la sua daga, ma Syrma era pronto a disfarsi di quell'arma divina. - Non essere tanto fiero di quel dono, demone! Stai per perderlo per sempre! -, ironizzò, ma Sarabda era convinto si trattasse della vuota minaccia di un guerriero giunto alla disperazione. Puntò il pugnale contro il giovane Virgo e gli alberi, l'acqua e il vento si abbatterono su di lui. - Epiblabê Pnéumata, Kyriéuete toû Ouranoû! -, gridò il discepolo di Kanaad, e le creature demoniache richiamate dalla tecnica s'addensarono attorno alla daga del Sabitta. Sarabda provò ad allontanarle, ma invano. L'acqua che formava l'arma si asciugò e il demone non fu più in grado di ripristinarla.
   Bel Uri aveva attaccato quegli spiriti col suo fumo, per ricambiare l'aiuto che il compagno gli aveva fornito; ma quel gesto altruista gli era costato caro: una parte degli spettri gli piombò addosso, mordendolo e strappandogli brandelli di carne e d'armatura. Il secondo demone della terra si accasciò, esalando l'ultimo respiro mentre tendeva una mano verso Sarabda. D'un tratto, i suoi resti svanirono in un nugolo di polvere bluastra.
   Privato della sua arma e con la morte del compagno implorante ancora davanti agli occhi, il Sabitta dell'acqua era in preda al delirio: cominciò a sradicare alberi e cespugli e a scagliarli contro Syrma, che schivava senza troppi sforzi. Ma si stancò presto e, con un attacco telecinetico, il custode della sesta casa lo scaraventò verso un fitto gruppo di arbusti. Sarabda cadde privo di sensi.
   Ora il Cavaliere poteva dedicarsi al recupero di Vernalis: tese i sensi per trovare l'ubicazione esatta della prigione in cui era tenuto, ma avvertì qualcosa che gli fece tremare le gambe e lo costrinse in ginocchio: percepiva il cosmo di Yeng spegnersi a ogni nuovo attacco. Gli occhi gli si bagnarono di calde lacrime, strinse nel pugno il molle terreno e invocò Atena affinché vegliasse sull'amico. Si rialzò a fatica, cercò l'elmo perso durante lo scontro; lo trovò a qualche metro di distanza, vi infilò dentro la mano e tirò fuori la maschera. La guardò per un attimo, poi chiuse gli occhi umidi e disse: - Perdonatemi, maestro, ma è l'unico modo che ho per salvare il mio compagno -.
   Si concentrò soltanto sul cosmo di Vernalis: ne trovò traccia poco più avanti. Nel folto degli alberi si apriva una grotta, seminascosta dalla vegetazione; Syrma vi entrò e vide, grazie ai raggi di luce che penetravano da qualche crepa, una cassa rettangolare sostenuta da telamoni serpentiformi e colma di un liquido bluastro; sul fondo si notava una figura umana dormiente. - Vernalis! Finalmente! -, proruppe il Cavaliere, felice di aver trovato l'amico che aveva cercato a lungo.
   Tirò un ampio respiro, si sedette in posizione meditativa e indossò la maschera. Un mondo di tenebre e di silenzio gli si parò davanti agli occhi, ma avvertiva il suo cosmo accrescersi e diventare sempre più potente. Nel frattempo, Sarabda si era ripreso ed era corso alla caverna per fermare il Cavaliere. Non appena giunto all'ingresso, si rese conto che un cosmo immenso e divino pervadeva l'antro. - Che succede? -, si chiese, provando a entrare, ma una forza tremenda gli impediva di proseguire.
   Syrma aveva raggiunto la soglia del nono senso, lo capiva dalla reazione del suo corpo, che cominciava a tremare, e della sua mente, che s'annebbiava ogni minuto di più. - Ora! -, sussurrò, - Daimónōn Hypóbasis! -, poi urlò, e un'innumerevole turba di figure demoniache assalì quella cassa. La forza di quell'attacco spazzò via Sarabda, che finì nel fiume.
   Il fisico del Cavaliere iniziava a cedere: profonde ferite gli si aprivano sul corpo e copioso sangue ne sgorgava. Syrma sapeva di non poter perdere troppo tempo, altrimenti sarebbe morto prima di liberare Vernalis, così infuse nella sua tecnica tutta la forza che era riuscito ad accumulare. Con un fragoroso boato, la Cella dell'Abisso cedette e venne disintegrata. Il contraccolpo travolse anche il giovane Virgo, che fu gettato fra gli alberi.
   Syrma si tolse la maschera lentamente, ansimando. Aprì gli occhi, ma non vide niente; tese le orecchie, ma s'imbatté in un silenzio sconfinato. Aveva perso l'uso dei cinque sensi, ma sorrideva ed era felice di aver salvato un amico. Sentiva l'alito della morte carezzargli il volto, e non ne ebbe paura: in fondo, oltre la morte vi è ancora vita, pensava. Le palpebre gli si abbassarono piano, assieme al respiro, che s'arrestò del tutto. La nera signora aveva ghermito la sua giovinezza, ma gli aveva consentito di regalare quell'ultimo sorriso al sole, che non lo avrebbe più riscaldato col suo tepore.
***
   Vernalis si destò di soprassalto: era coperto da un denso liquido bluastro; se lo scrollò di dosso e si fermò un attimo a capire cosa gli fosse capitato. Ricordò lo scontro col demone dell'acqua e la sconfitta; strinse i pugni, maledicendo la sua debolezza e uscì dalla grotta. Tornato alla luce, gli si presentò uno spettacolo di morte e desolazione: fissò gli occhi su un gruppo di alberi caduti e notò dei riflessi dorati; si avvicinò e, d'improvviso, un intenso bagliore lo investì. L'armatura di Virgo, riassemblata a totem, corse al Grande Tempio in un lampo di luce.
   Il Cavaliere di Pisces vide il cadavere di Syrma e si precipitò verso di lui: provò a rianimarlo coi suoi poteri curativi, ma era troppo tardi. Un pianto dirotto lo colse: gli era chiaro che il compagno aveva sacrificato la vita per salvarlo. Lo trasse fuori da quel groviglio di rami e tronchi spezzati e lo adagiò su un lembo di terreno pianeggiante. Poi toccò uno degli alberi ancora integri e bruciò una frazione del suo cosmo: doveva sapere cos'era accaduto. Scoprì che anche Yeng e Mothalla erano lì e s'incamminò per cercarli.
   Fece solo pochi passi, quando udì una voce provenire dal fiume: - L'altruismo del tuo amico ti ha salvato, Vernalis! Non credevo fosse in grado di sprigionare un potere tanto vasto, ma il suo sacrificio è stato vano. Io sono ancora vivo! -, esordì Sarabda, che si trascinava appoggiandosi al fusto degli alberi. - Ancora tu! -, proferì in preda all'ira l'ultimo custode dorato. - Sei un cadavere ambulante, credi di avere la meglio contro un Cavaliere dall'animo furibondo? -, continuò sprezzante.
   - Non sottovalutarmi! Il mio cosmo serba ancora qualche sorpresa! -, sibilò il demone, sogghignando. Si avvolse della sua aura cosmica e dal fiume sorsero decine di pugnali d'acqua che puntarono il Cavaliere. Vernalis, colmo di un profondo dolore, non si curò di schivare o di parare; tuttavia, quei dardi non sortirono alcun effetto: s'infransero sull'armatura come un'onda su uno scoglio.
   - Sarebbe questa la sorpresa che andavi millantando? Senza il potere della tua regina sei un'inutile creatura priva di senno. Ti mostrerò io il potere di un dio! Nel mio sangue scorre una porzione del cosmo di Ade, il dio greco dell'Oltretomba! È con riluttanza che ne faccio uso, ma per un essere della tua risma lo ritengo appropriato! -, minacciò Vernalis, e il suo cosmo dorato si tinse di sfumature nere.
   - Asphodélou Hosmé![17] -, gridò il Cavaliere, e attorno alle gambe del demone si attorcigliarono fiori dal lungo stelo nudo. Dalla corolla fuoriuscirono delle spore che penetrarono nella pelle di Sarabda. - Tra breve la dimenticanza ti condurrà alla morte. Addio, miseranda creatura! -, si congedò il Cavaliere, allontanandosi in cerca dei compagni.
   La mente del Sabitta fu percorsa da numerosi ricordi, in successione rapida. Poi calò il buio e il demone dimenticò persino il suo nome. Si guardava attorno, ma non riconosceva nulla; provava a parlare, ma la bocca restava muta; vedeva le sue carni svanire e la paura di perdere quella nuova vita lo assalì; cadde a terra prono, privo di qualsiasi sensazione, un colpo di vento lo ridusse in cenere, che si disperse fra la vegetazione.
   Con un balzo, Vernalis aveva raggiunto l'altra sponda del fiume, notò segni di battaglia e si lasciò guidare fino al corpo di Yeng, anch'esso privo di armatura. Proprio come Syrma, anche il custode della settima casa aveva dato la vita pur di liberarlo. Nuove lacrime e nuovo dolore lo sconvolsero. Prese in braccio il cadavere dell'amico e lo portò dall'altra parte, accanto al discepolo di Kanaad.
   Poco più avanti trovò Mothalla, e stavolta poté tirare un sospiro di sollievo: era soltanto svenuto. Radunati i compagni, diede un ultimo sguardo al luogo che aveva visto la sua nascita e anche la dissoluzione della sua famiglia. Poi teletrasportò tutti sul piazzale della prima casa. Gli venne incontro Hamal, che, pur felice di aver ritrovato un amico, non poteva non essere addolorato dalla morte degli altri due parigrado. In poco tempo, tutto il Grande Tempio si riunì su quello spiazzo. Mothalla venne portato via per essere curato, mentre il cordoglio per quella duplice perdita gettò nello sconforto dal più umile servo al Cavaliere più potente.
   Calx era da solo sulla spiaggia e piangeva tutte le sue lacrime. Aveva sentito svenire i cosmi dei compagni e un'agonia profonda e inaccessibile lo colmò. Prese a pugni il mare e la battigia, gridando al cielo la sua disperazione. Da quando era andato via, il Santuario aveva subito ingenti perdite: se ne sentiva responsabile e un senso di vergogna e di mortificazione gli rodeva l'anima. Non poteva continuare così: doveva capire cosa fare.
***
   Alla periferia di Bisanzio, Sorush, in cima alle scale del suo rifugio, guardava il cielo stellato. Benché i suoi demoni fossero stati annientati, poteva ben consolarsi con la morte dei Cavalieri d'Oro. Era convinto che ormai nulla potesse osteggiare la vittoria del suo Signore. Respirò l'aria a pieni polmoni e fece per rientrare, quando apparve Kharax, col volto teso e lo sguardo torvo.
   - Dovresti essere contento. Due Cavalieri sono finiti nella tomba -, gli disse il Sacerdote, nel tentativo di strappargli un moto di soddisfazione, ma il traditore di Atena non sembrava intenzionato a condividere quel compiacimento. - È vero, abbiamo due impiastri in meno di cui occuparci, ma non sono stati i tuoi tirapiedi a farli fuori! -, puntualizzò Kharax, lasciando alquanto perplesso il ministro di Nergal.
   - Che intendi dire? -, chiese Sorush, mostrando il velo d'incertezza che il suo compare gli aveva calato addosso. - Che Yeng e Syrma sono morti volontariamente: hanno raggiunto il limite massimo del loro cosmo pur di vincere e di liberare il loro compagno. E il prezzo di chi si spinge oltre quel limite è la morte! -, chiarì Lulul, disprezzando in cuor suo la gioia del Sacerdote.
   - Poco importa il motivo per cui sono morti, l'importante è aver eliminato dalla scacchiera due pedine che sarebbero potute risultare importune -, tagliò corto Sorush, che non voleva veder sminuita la sua prorompente letizia. Kharax decise di non ribattere: il mondo tanto agognato da quell'uomo era soltanto un'utopia; non gli avrebbe mai permesso di realizzarlo.
   - Ora dobbiamo scoprire se la depressione scoperta da Sarabda nasconde l'antica città di Kutha! Soltanto quando verrà trovata, potrò avviare il processo di risveglio del mio Signore e rivedere la mia amata Darice -, affermò, cambiando discorso e immergendosi, per un istante, nel dolce ricordo della sua sposa.
   - Ti aiuterò a trovarla, così potremo finalmente concludere questa guerra e abbattere le schiere di Atena! -, lo appoggiò l'ex Cavaliere, già pronto a mettere in atto l'ultima parte del suo piano. - Ecco, così mi piaci! -, si rallegrò Sorush, che in quelle parole ritrovava il suo antico alleato.
***
   I funerali di Yeng e Syrma furono solenni: tutti gli abitanti del Grande Tempio vi presero parte. L'orazione di Alexer ricordò non solo le gesta, ma anche il buon cuore dei due Cavalieri, giunti al sacrificio della vita per amore di un compagno. - Anche gli eroi muoiono, - concluse, - ma spetta a coloro che restano seguirne le orme -. La commozione e il dolore strariparono da ogni cuore e, alla fine di quella cerimonia, nessuno aveva voglia di riprendere la propria quotidianità.
   Vernalis riabbracciò Sargas, ormai cresciuto sia nel corpo che nel cosmo, e i suoi compagni. Seppe della morte di Pelag e il suo cuore si amareggiò ancora di più. Il Sommo Alexer lasciò passare qualche giorno e poi lo convocò alla tredicesima casa.
    Appena giunto, dopo i convenevoli di rito, il ministro di Atena gli diede una notizia che mai si sarebbe aspettata: - Vernalis, da oggi comincerai l'istruzione per diventare Sommo Sacerdote. Il prossimo sovrano del Grande Tempio sarai tu! - In un misto di gratitudine e di confusione, il custode dell'ultima casa accettò, seppur con qualche riserva.
 
[1] "Vento del Demone".
[2] "Ascesa dell'Abisso".
[3] "Ruggito della Bestia Celeste".
[4] "Artigli Malefici".
[5] "Per il Sacro Libra".
[6] "Furore del Cimento".
[7] "Sospiri nell'Ombra".
[8] "Aculei Venefici".
[9] "Fragore di Guerra".
[10] "Gabbia Triangolare".
[11] "Attacco Silente".
[12] "Triangolo della Morte".
[13] "Brivido Notturno".
[14] "Manto delle Tenebre".
[15] "Strali dell'Oltretomba".
[16] "Per il Sacro Virgo".
[17] "Essenza d'Asfodelo".

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Capitolo 18
*** Il Bastione delle Sette Ombre ***


Capitolo XVIII
IL BASTIONE DELLE SETTE OMBRE
 
Europa/ Asia, settembre 1068
 
   La gioia per il ritorno di Vernalis era stata drasticamente ridimensionata dalla morte dei custodi della sesta e della settima casa. Il Cavaliere di Pisces aveva accolto la candidatura a nuovo Sacerdote molto freddamente: si sentiva inadeguato e immaturo ad assumersi un ruolo tanto gravoso. Tuttavia, Alexer gli aveva garantito che nessun vicario di Atena era giunto preparato appieno al soglio regale. Le parole del ministro della dea della giustizia lo rassicuravano, anche se la paura di diventare l'anello debole del Grande Tempio continuava ad agitargli il cuore.
***
   Mentre alla dimora di Atena le novità avevano destato qualche motivo di conversazione, il mondo continuava il suo corso senza posa e gli scenari mutavano di giorno in giorno. Dopo qualche timido successo, la campagna di Harald alla conquista del trono inglese si era rivelata un completo fallimento: una freccia lo aveva raggiunto alla gola sul campo di Stamford Bridge, nei pressi di York, e ne aveva spento per sempre le ambizioni. Era il 25 settembre del 1066. Quando Elnath ne apprese la notizia rimase indifferente, senza esprimere alcuna emozione.
   Altager era sceso alla seconda casa per portargli il suo conforto, ma il Cavaliere di Taurus ne fu quasi infastidito: - Non ce n'è bisogno -, gli aveva detto, - quell'uomo non aveva alcuna importanza per me, come non l'aveva per i figli che ha generato. La smodata ambizione di cui era affetto lo ha condotto alla tomba, com'era prevedibile -. La flemma con cui aveva pronunciato quelle frasi lasciò perplesso il custode dell'undicesima casa, spingendolo a non farne mai più parola.
   A Bisanzio, Costantino X Ducas, ormai debilitato dalla malattia, spirava il 22 maggio del 1067. Poco prima di morire, in un ultimo afflato di lucidità,  aveva obbligato sua moglie Eudocia a non risposarsi e le aveva chiesto di nominare come successore il figlio Michele. Alexer, pur rammaricato dalla dipartita di un buon alleato, ne approfittò per incalzare i consiglieri a sottoporre la sua richiesta alla vedova che, nel frattempo, era stata scelta come reggente. Ma le minacce provenienti dai ribelli interni e dai nemici esterni le suggerirono di non ottemperare all'istanza del Sacerdote di Atene. Con l'andare dei mesi, incapace di contenere da sola le pressanti intimidazioni, Eudocia chiese e ottenne di poter prendere marito e scelse Romano Diogene che, con le nozze, celebrate il primo giorno del nuovo anno, era diventato imperatore. Alexer, allora, aveva deciso di aggirare la vedova e di chiedere la revoca della stipula di Atene direttamente a lui. Ma Romano, istigato dalla consorte, gli aveva negato udienza e non aveva voluto saperne di abrogare quel documento. Il suo interesse era puntato sui Turchi: nonostante Arslan avesse richiamato le truppe dal confine, continuasse a pagare l'indennità a Edessa e non desse motivo all'Impero per dichiarare guerra, il nuovo imperatore cercava lo scontro.
***
   Nel gennaio di quell'anno anche Sargas poté finalmente indossare l'armatura che gli era destinata. Sebbene il cielo annunciasse tempesta, tutti erano riuniti nell'arena: Vernalis e Nashira sedevano l'uno accanto all'altro e guardavano con orgoglio quel ragazzo che era riuscito a completare l'addestramento. - Grazie per esserti preso cura di lui e per averlo guidato verso l'investitura -, si rivolse il custode dell'ultima casa al compagno.
   Nashira scosse il capo e accennò un sorriso. - Non devi ringraziarmi. Sargas ha fatto tutto da solo, io gli ho dato solo qualche consiglio. Quando sei sparito, la paura di non rivederti più lo ha spinto a impegnarsi al massimo delle sue possibilità: ho dovuto distoglierlo molte volte dal progetto di venirti a cercare -, raccontò, ricordando i fatti con un misto di allegrezza e di malinconia.
   Il Cavaliere di Pisces aveva ascoltato con attenzione le parole dell'amico e gli strinse una spalla, ribadendo: - Non fare il modesto. Sei stato un maestro molto più abile di me: hai permesso a Sargas di ottenere le vestigia di Scorpio, e di questo ti sarò eternamente grato -.
   Sentendosi a disagio per tutte quelle lodi e quei ringraziamenti, Nashira cambiò discorso e s'informò sull'istruzione del compagno a futuro Sacerdote. Vernalis tentennò qualche secondo prima di parlare, ma invece di elencare i suoi progressi, fece una domanda al parigrado: - Credi che sia in grado di prendere il posto del Sommo Alexer? -
   Il custode della decima casa lo guardò negli occhi e, con tono serio, rispose: - Sono pienamente convinto che il Sacerdote abbia scelto bene. Sei un uomo saggio, forte, umile, altruista e devoto alla causa. Chi potrebbe guidare il Grande Tempio meglio di te? - Vernalis abbassò il capo e sorrise: la stima del compagno gli aveva infuso coraggio e, nonostante le difficoltà, si sentiva pronto a raccogliere quella nuova sfida.
   Il Sacerdote si alzò e intimò il silenzio. Sargas era al centro dell'arena, di fronte al totem dell'armatura di Scorpio. - Tocca con l'indice le vestigia dell'ottavo segno e fa' bruciare il tuo cosmo: se l'armatura ti accetterà, si scomporrà e si adagerà sulle tue membra; in caso contrario, resterà immobile -, spiegò il vicario di Atena. Il ragazzo annuì e, toccando il dorato usbergo col dito, si ammantò di una leggera aura cosmica. Per qualche attimo non sembrò accadere nulla, ma, alla fine, in un intenso bagliore di luce, Sargas si ritrovò addosso la sfavillante armatura. - Oggi nasce un nuovo  Cavaliere: Sargas di Scorpio! -, annunciò Alexer.
   Un alto scroscio d'applausi e di grida gioiose ruppe il silenzio e l'arena si riempì di gente festante. Felice, il ragazzo stringeva le mani di tutti coloro che gli si avvicinavano per congratularsi. Il suo obiettivo, però, era raggiungere i suoi maestri. Li vide parlare con Sertan e Altager, gli si appressò e, in uno slancio di gratitudine, gli si gettò al collo, piangendo. - Grazie per la vostra pazienza! -, riuscì soltanto a dire, mentre Vernalis e Nashira si schermivano, elogiando l'impegno che l'allievo aveva profuso in quei lunghi anni d'addestramento.
   Sopraggiunse anche il Sacerdote, felicitandosi per l'investitura, e gli spiegò che da quel momento in poi avrebbe occupato l'ottava casa e avrebbe dovuto contribuire a sventare la minaccia che si trovavano ad affrontare. Il ragazzo fu orgoglioso di poter finalmente essere utile alla missione di Atena.
***
   Alla porta di Irene bussò una guardia del Santuario. Quando la donna se la trovò davanti pensò che fosse venuta per il figlio, ma non fu così: le consegnò una missiva senza proferire parola e, chinando leggermente il capo, si congedò. Turbata da quel foglio di pergamena, si sedette e aprì lentamente il plico: vi erano due pagine scritte in caratteri diversi. La prima, su cui erano vergate poche righe, riportava una sorta di postilla; l'altra, invece, era una lunga lettera dal carattere minuto e tondeggiante. Lesse dapprima la breve annotazione:
   "Nobile Irene, mi chiamo Demetrios e sono il capo dei monasteri del Monte Athos. Vi scrivo queste poche righe per informarvi che vostro zio, il catepano Argiro, è venuto a mancare alle prime luci dell'alba del giorno 16 di gennaio. Vi allego la lettera che mi affidò prima di morire e che desiderava farvi pervenire. Che il Signore, nostro Dio, vi assista e vi guidi dall'alto dei cieli".
   La notizia della dipartita dell'amato zio, dopo un silenzio durato quasi dieci anni, le gettò una cruda tristezza addosso. Sospirando, strinse tra le mani quel foglio dalla scrittura piccola e a tratti incerta, come se il vecchio duca avesse tremato mentre tratteggiava quelle lettere. Si fece forza, ma in principio non riusciva a leggerla.
   Eyra, indaffarata nell'altra stanza, non aveva fatto caso a quanto era accaduto; d'improvviso sentì un pianto sommesso e si precipitò nella sala principale. Vide Irene stringere una pergamena e le si avvicinò chiedendo spiegazioni e cercando di consolarla. - Se volete, posso leggervela io -, le propose, carezzandole i capelli. La donna annuì e gliela porse. La fanciulla si fermò un attimo a decifrare la calligrafia, poi, assumendo un'espressione solenne, cominciò:
   "Mia carissima nipote, perdonami se ti scrivo solo ora, alla fine dei miei giorni, dopo tanti anni di silenzio, ma qui al monastero la vita scorre monotona: ci si sveglia, si prega, si lavora e si torna a dormire. Tuttavia, grazie alla semplicità di queste persone ho riscoperto il vero significato della parola 'pace'. Forse per la prima volta in vita mia mi sento realmente a contatto con Dio, anche se non mi è possibile dimenticare l'odore del sangue e le atroci barbarie della guerra.
   Da quando sei partita per la Grecia hai lasciato un vuoto nel mio cuore: in fondo, al mondo non avevo che te e il bambino che portavi in grembo. A proposito, come sta? Ormai sarà un giovanotto vigoroso e prestante, e anche un onorevole Cavaliere. Penso spesso al giorno in cui quell'essere ingaggiò battaglia sulla spiaggia di Bari col prode Jorkell: avevo il cuore in gola e credevo che saresti stata uccisa. Corsi a salvarti, ma mi ritrovai nel bel mezzo dello scontro: fui salvato anch'io da quel valoroso guerriero, proprio come te! So che è morto alcuni anni fa, e la notizia mi ha rattristato parecchio: magari ci fossero uomini con un tale senso di giustizia! Il mondo sarebbe certamente un luogo migliore.
   Mi hanno poi riferito che anche qui, sulla penisola calcidica, quelle creature infernali hanno portato la devastazione e che i paladini di Atena sono riusciti a evitare la catastrofe. Tuo figlio si è assunto un compito gravoso, ma necessario alla sopravvivenza dell'umanità. Da soli non saremmo in grado di vincere battaglie contro esseri sovrannaturali, non ne avremmo né la forza, né l'intelligenza. Il suo potere sarà di grande aiuto a noi miseri mortali, spero che tu non l'abbia ostacolato nel seguire il cammino che gli è stato assegnato.
   Vorrei continuare a scriverti, ma la mano inizia a tremarmi: non sono più l'uomo robusto e forte di un tempo, la vecchiaia e i malanni hanno raggiunto anche me. Ho voluto tracciare queste righe per dirti che vi voglio bene prima di congedarmi per sempre da questa vita, anche se finora non vi ho mai inviato notizie di me. Addio, nipote mia!"
   Il contenuto di quell'epistola aveva lasciato l'amaro in bocca alle due donne: Eyra non condivideva l'esortazione a usare Calx per la salvezza del mondo; nel cuore di Irene, invece, si erano affacciati ricordi dolorosi e una nuova consapevolezza: il figlio che aveva portato in grembo e cullato non apparteneva a lei, ma ad Atena e al Grande Tempio. Si levò dalla sedia con un certo sforzo, convinta di doverlo restituire alla sua missione. La ragazza dai capelli corvini lesse nell'espressione della suocera un velo di rassegnazione e trasalì: se Calx fosse tornato sul campo non soltanto avrebbe perso la fiducia di Kharax e Lamashtu, ma anche l'amore della sua vita. Non poteva permettere che ciò accadesse, doveva trovare un modo per far ragionare Irene.
***
   Calx aveva cominciato a rincasare sempre più tardi: quando rientrava, trovava sempre un piatto di terracotta coperto da un panno sul tavolo. Le donne di casa lo aspettavano più a lungo che potevano, ma poi il sonno cadeva loro addosso facendole ciondolare e capivano che era l'ora di coricarsi. Al mattino si levavano tardi e non riuscivano mai a incrociare il giovane, che si recava al porto prima dell'alba.
   Quella sera Eyra, sebbene stanca e assonnata, aveva deciso di attendere il rientro di Calx. Si sedette di fronte alla porta, appoggiando la testa fra le mani e pensando al discorso da fare. Sapeva bene che Irene, spinta dalla lettera ricevuta, avrebbe invogliato il figlio a tornare al Santuario. Quell'idea le ripugnava, la spaventava fino al punto di sentirsi svenire. Si fece forza e si convinse che il modo migliore di trattenere il suo amato fosse insinuare nel suo cuore i sensi di colpa verso di lei e di sua madre. Conosceva ormai il disagio che Calx provava nel far soffrire qualcuno, e negli ultimi tempi il loro rapporto sembrava essersi deteriorato.
   Mentre ripeteva nella mente le parole da dire, la porta si aprì piano. Calx entrò in silenzio e se la richiuse alle spalle senza fare alcun rumore. Guardò sul tavolo e vide il solito piatto coperto, ma si avvide anche di una presenza che lo fissava nel buio. - Eyra! Cosa ci fai ancora sveglia? -, le disse bisbigliando, per evitare che sua madre si destasse.
   - Bentornato, Calx! Ti aspettavo perché ho urgenza di parlarti -, fu la risposta della ragazza, il volto grave e la voce ferma. - Ora sono molto stanco e voglio dormire. Parleremo domani! -, commentò il ragazzo, poco propenso a iniziare una discussione a tarda notte.
   - No! Adesso! -, s'impose Eyra, alzandosi e avvicinandosi a lui coi pugni tesi in avanti. Calx non poteva esimersi dall'ascoltare le urgenti parole della fanciulla, anche se il suo cuore era già in subbuglio e la sua mente distratta.
   - D'accordo! -, acconsentì, sedendosi e spostando il panno che nascondeva una porzione di stufato. Si portò il primo boccone alle labbra, la fanciulla prese posto accanto a lui e ripeté il bel discorso che aveva preparato.
   - Tua madre ha ricevuto una lettera stamattina: sembra che lo zio Argiro sia morto -, cominciò, lasciando Calx alquanto stupito. Sebbene non lo avesse mai incontrato, sua madre gliene aveva sempre parlato, descrivendolo come un uomo forte e generoso.
   Gli dispiaceva, ma non poteva provare sentimenti più profondi nei confronti di chi neppure conosceva. - E mi hai aspettato per raccontarmi questo? -, chiese stizzito, quasi a rimproverarla di quell'atteggiamento aggressivo che aveva percepito rientrando in casa.
   Eyra  lo guardò indispettita. - No! -, rispose, - Ma per avvertirti che tua madre ti esorterà a riprendere i panni del Cavaliere per volere di suo zio. Lei è in ansia e non vorrebbe saperti di nuovo invischiato nelle guerre del Grande Tempio, me l'ha confessato stamane. Però non vuole disattendere l'ultimo desiderio di Argiro, per il quale nutriva una profonda stima -.
   Le parole della ragazza turbarono non poco Calx, che sentì una stretta allo stomaco e smise di mangiare. - E quale interesse aveva lo zio a farmi intraprendere il cammino dei Cavalieri? Avrò avuto circa sette anni quando abbandonò la politica attiva e si ritirò sul Monte Athos. E all'epoca avevo cominciato da poco l'addestramento. Dov'è la lettera? - A quella domanda la nipote di Makarios ebbe un moto di paura: - L'ha conservata tua madre; non so dove sia -, si affrettò a rispondere.
   Alzandosi, il discepolo di Alexer accarezzò il volto di Eyra e le disse: - Trovala e fammela avere! Buonanotte! - Le diede un bacio sulla guancia e si ritirò nella sua stanza, chiudendo piano la porta. La ragazza strinse i pugni, delusa dalla piega che aveva preso quella conversazione e timorosa di aver peggiorato la situazione. Entrò in camera, dove la suocera dormiva tranquilla, e si gettò sul letto, in preda al pianto e alla paura.
***
   Kharax e Sorush avevano perlustrato la zona indicata da Sarabda come probabile ubicazione di Kutha e, ben presto, si erano resi conto di aver trovato ciò che cercavano. La depressione nascondeva una sorta di grotta da cui si accedeva a uno spiazzo sotterraneo coperto di rovine. Il Sacerdote di Nergal riconobbe la scrittura incisa sulle pietre e poté accertare che il posto fosse quello giusto. - Ora che abbiamo trovato la città perduta, sono in grado di riforgiare lo scettro di Nergal -, proruppe. Cacciò dalla tasca gli onici recuperati da Tirid e li mise in fila secondo l'ordine della filastrocca: "Kukku, Hulgig, Ash, Ada, Me, Saĝgishra e Garash[1]".
   Le pietre emisero un intenso bagliore violaceo che, quando si diradò, mostrò un bastone di colore nero: alla base presentava zampe di leone e zoccoli taurini; al centro, ali di corvo spiegate e, sulla sommità, teste di leone e di toro; una testa di corvo torreggiava a mo' di pennacchio tra di esse. Sorush lo impugnò per poi puntarlo verso lo Scrigno dell'Eternità: - Che gli ultimi dieci Sabitti si ridestino dal loro sonno! -, pronunciò, e dieci figure dalle armature variopinte apparvero davanti a loro. - Che Tuge, quinto demone del vento, e Silulumesh, settimo demone del ghiaccio, si facciano avanti! -, chiamò, e i due Sabitti fecero un passo avanti. Dopo averli chiamati, conficcò lo scettro a terra rivolto verso le rovine: esso si avvolse di un tenue cosmo violaceo e il suolo iniziò a tremare.
   Tuge aveva occhi neri e capelli arancioni; era di statura media e aveva muscoli appena accennati. Indossava una corazza in prevalenza marrone con ampie parti di colore verde. L'elmo, a maschera, incorniciava il volto e sembrava fatto di piume sovrapposte. Al centro del pettorale campeggiava una testa di falco stilizzata. Gli spallacci costituivano parte delle ali che coprivano la schiena del Sabitta. Il cinturino era formato da lamelle piumate terminanti in una piccola coda. Bracciali e schinieri sembravano anch'essi un manto di piume da cui fuoriuscivano artigli affilati. Sul capo del falco vi era un triangolo verde.
   L'ultimo demone del ghiaccio aveva una folta capigliatura grigia e occhi viola; era corpulento e alto. Teneva calato sulla testa un elmo blu a casco che ricordava il muso di uno squalo. Il pettorale era formato da tre piastre cilindriche che ne avvolgevano il torace: su di esso erano presenti due file di triangoli bianchi. Gli spallacci erano lunghi, con una piccola pinna montata sopra. Il cinturino era a piastre sottili bianche e blu. Schinieri e bracciali coprivano quasi tutto il braccio e montavano grandi pinne appuntite.
   - Voi resterete qui a vegliare su questa città. A breve sorgerà il tempio di Nergal e accoglierà il suo Signore. Tutti gli altri si sparpaglino per il mondo e tengano distratti i Cavalieri. Questo luogo sarà rivelato solo al momento opportuno -, ordinò Sorush, ringalluzzito dal pensiero che i suoi desideri stessero per realizzarsi. Kharax aveva osservato la scena in silenzio, ma era d'altro avviso: ora che il dio d'Irkalla stava per tornare, doveva muovere le sue pedine per impedirne la vittoria.
***
   I cosmi rabbiosi risvegliati da Sorush attirarono l'attenzione del Sommo Alexer, che convocò tutti i Cavalieri alla tredicesima casa. Quando i paladini della giustizia furono riuniti, il Sacerdote si alzò spegnendo il brusio di voci che riempiva la sala. - Il momento della battaglia decisiva è prossimo. Ho avvertito il cosmo di almeno otto esseri infernali dirigersi in varie zone del mondo: uno è in Cina, un altro nelle terre dei Rus, uno in Inghilterra, un altro ancora in Italia, uno sulle coste africane, uno in India, uno in Grecia e infine uno in Irlanda. Hamal, tu andrai in Cina, Altager si recherà presso i Rus, Elnath in Inghilterra, Zosma in Italia, Sargas in Africa, Nashira in India, Vernalis resterà in Grecia e Sertan andrà in Irlanda. Tutti gli altri presidieranno i confini del Grande Tempio -.
   I guerrieri annuirono, e ciascuno si diresse a compiere la propria missione. Hamal, i cui dubbi sui motivi che avevano spinto il nemico a munirsi di una barriera contro il potere divino non trovavano ancora spiegazione, dopo aver salutato i compagni, si teletrasportò nei pressi del lago Dongting, nella provincia dell'Hunan. Seguì la traccia di cosmo che avvertiva nelle vicinanze e si ritrovò tra le rovine di un villaggio. Udì qualcuno gridare poco lontano e, in un lampo, raggiunse il luogo: un demone teneva al muro con una mano un uomo di mezza età e lo colpiva con l'altra. Ai suoi piedi vi era una bambina in lacrime che implorava l'empia creatura di lasciarlo andare.
   - Prenditela con qualcuno che può starti a fronte, essere immondo! -, proruppe Hamal, inorridito dalla violenza gratuita del Sabitta. Quest'ultimo si voltò, lasciando la presa sull'uomo che, approfittando della distrazione di quel demonio, afferrò la bambina e tentò di fuggire.
   - Non ancora! -, sussurrò il servo di Nergal e, puntando il dito contro di loro, scagliò un vigoroso raggio luminoso che li trafisse entrambi. Nel vederli accasciarsi esanimi, scoppiò in una sonora risata e volse lo sguardo all'avversario, aggiungendo: - La speranza è un'alleata troppo debole, perché basta un battito di ciglia a spegnerla! -
   Il Cavaliere di Aries ribolliva di rabbia, desiderava ardentemente punire quella creatura malvagia e vendicare gli innocenti a cui aveva strappato la vita. Il Sabitta si avvide della collera del rivale e, continuando a sorridere, si presentò: - Il mio nome è Enmerkar, sono il quinto demone della luce. Piacere di conoscerti, Cavaliere d'Ariete! -
   Indossava un elmo a casco azzurro, dalla cui cima fuoriuscivano filamenti simili a quelli di una pianta. Aveva occhi verdi e capelli rossi, di cui s'intravedeva qualche ciocca dall'apertura dell'elmo; era alto e robusto, la voce cavernosa e l'espressione truce. Il pettorale era costituito da filamenti che si attorcigliavano attorno al torace, al cui centro vi era un triangolo nero. Gli spallacci erano una prosecuzione del pettorale e terminavano con filamenti appuntiti. Al posto del cinturino aveva una sorta di sospensorio, adornato da triangoli neri. Bracciali e schinieri erano anch'essi il risultato di filamenti attorcigliati attorno agli arti.
   - Vedo che mi conosci! -, sbottò il custode della prima casa. - Quindi non serve che io mi presenti -, continuò, facendo bruciare il suo cosmo e preparandosi ad attaccare.
   Ma il suo avversario fu più lesto e, allungando i filamenti dell'armatura, ne bloccò i movimenti. - Ni Sumugak![2] -, gridò, e le fibre si accesero di un bagliore accecante. Hamal sentì dapprima un brivido, poi gli apparvero nella mente immagini contorte e udì voci urlanti di persone del suo passato. Prima che quel colpo lo sottomettesse, si teletrasportò di nuovo, lasciando il demone con un palmo di naso.
   - Questi giochetti non ti salveranno! -, minacciò irritato Enmerkar. Il primo custode dorato gli riapparve davanti e, concentrando il cosmo in una mano, lo scaraventò lontano. Il seguace di Nergal si rialzò dolorante, con profonde crepe sull'addome, da cui fuoriusciva un liquido bluastro.
   - Bella mossa, Cavaliere! -, ammise il demone del fulmine. - Tuttavia, non ti lascerò mai la vittoria! Soprattutto ora che il mio Signore è alle porte! -, aggiunse, mentre i suoi occhi verdi brillavano di determinazione. Alzò le braccia al cielo e dal suo corpo spuntarono innumerevoli filamenti che strinsero in una solida morsa il Cavaliere.
   Hamal provò un dolore atroce, ma da tempo aveva imparato a sopportare le più orribili sofferenze. Bruciò una frazione di cosmo, sorridendo, e la infuse in quelle corde che lo trattenevano. Si teletrasportò ancora una volta, infastidendo oltremodo il demone. - Sono stufo! Sai solo difenderti? Dov'è finito il guerriero che ha sconfitto Bazi? -, provocò Enmerkar, preparandosi a un nuovo attacco.
   - Hai fretta di raggiungere i tuoi compagni? -, ironizzò il Cavaliere, avanzando di qualche passo. - Non ti credevo così faceto! -, ribatté il Sabitta, tornando ad allungare i filamenti dell'armatura. Tuttavia, si rese subito conto di non essere più in grado di farlo.
   - Che cosa mi hai fatto? -, gridò, dimenandosi, ma non riuscendo a ritrovare la libertà nei movimenti. - Ho solo bloccato la tua facoltà di spostarti con la Krystállou Paghís[3]. Prima di finirti, vorrei che mi dicessi perché il tuo signore necessita di una barriera che inibisce il potere divino -.
   Il Sabitta si accigliò, sorpreso da quella domanda così specifica. - Perché vuoi saperlo? -, chiese, provando a liberarsi dalla morsa in cui era stato immobilizzato. - Pura curiosità! -, rispose Hamal, piantandosi di fronte all'avversario in attesa di una risposta che gli svelasse l'arcano nascosto dietro le sibilline parole del Sacerdote.
   Enmerkar rifletté un attimo su quella risposta; poi, come posseduto da un'entità aliena, scoppiò in una sonora risata e, guardando il Cavaliere con un'espressione perentoria, affermò: - Siete degli illusi se pensate di vincere questa guerra! Soltanto la progenie di un nume potrebbe battere il Sommo Nergal! E anche se un tale individuo esistesse, le Sette Pietre incastonate nelle armature degli Utukki ne annienterebbero il potere, lasciando mano libera al mio Signore -.
   - Il figlio di un dio? -, ripeté il custode della prima casa, fissando il volto del demone, intento a cercare di divincolarsi dalla stretta che lo tratteneva. - Ora mi è tutto chiaro! -, asserì infine, permettendo al suo cosmo dorato di avvolgerlo. - Preparati a raggiungere i tuoi compagni! Astérōn Peristrophé! -, sussurrò, levando una mano al cielo e scagliando una potente onda di luce contro Enmerkar, che venne completamente disintegrato.
   Si guardò intorno e, mosso a pietà, diede sepoltura ai cadaveri delle ultime vittime del demone. Ne trovò altre e anche a loro concesse gli onori funebri. Quand'ebbe finito, volse lo sguardo in direzione del Grande Tempio: - Senza Calx non vinceremo questo conflitto! -, pensò con una punta di angoscia nel volto.
***
 
   Altager era giunto nei pressi di Kiev, la capitale dei Rus, dove si era manifestato il cosmo demoniaco. Rivedere quei luoghi gli suscitava non pochi ricordi, tuttavia la missione era più importante. A qualche centinaio di metri da lui vide un villaggio costituito da uno sparuto agglomerato di casupole basse dai tetti spioventi, imbiancato qua e là da sprazzi di neve. Lo raggiunse, ma non notò anima viva; gli sembrò sospetto, e cominciò a guardarsi intorno con circospezione. Camminò per un breve tratto, quando da una casa uscì il Sabitta, le mani grondanti sangue e il viso estasiato.
   Aveva gli occhi di un verde smeraldo e capelli di un grigio spento. Indossava un elmo a maschera dalle fattezze d'uccello, che proteggeva le mascelle e la nuca. Il pettorale era costituito da fasce trasversali di colore marrone che s'intersecavano fra loro. Al centro vi era un piccolo triangolo bianco. Gli spallacci avevano forma ovale e tondeggiante: su di essi erano agganciate un paio di ali dai contorni bianchi. Il cinturino era unito al pettorale, da cui partivano due piastre rettangolari a protezione dei fianchi, chiuse sul lato posteriore da una piccola coda a ventaglio. Schinieri e bracciali erano muniti di alette appuntite ornate da triangoli bianchi.
   - Vedo che trucidare gli innocenti è il vostro diletto preferito! -, esordì il Cavaliere di Aquarius, parandosi davanti a lui e avvolgendosi del suo lucente cosmo. - Finalmente un avversario degno! Io sono Nani, sesto demone del vento, e tu devi essere l'erede di colui che sconfisse Umma, vero? -, disse la creatura infernale, lieta di poter affrontare uno dei dorati custodi.
   - Mi hai riconosciuto. Sono Altager, discepolo del prode Jorkell e Cavaliere d'Aquarius -, si presentò, gli occhi puntati sul nemico.
   - Sarà un vero piacere sbarazzarmi di te, Altager! -, lo schernì il Sabitta, circondandosi di un cosmo nero come la pece.
   - Dovrai impegnarti se vuoi sconfiggermi! Preparati! Diamántōn Konía! -, rispose Altager, passando subito all'attacco. Il demone non si scompose, ma si avvolse nelle sue ali per proteggersi dal colpo.
   Quando la corrente gelida si fu esaurita, Nani aprì le ali e piume di cosmo si scgliarono contro l'impreparato Cavaliere: - Gug Tab![4] -, gridò, mentre il custode delle energie fredde erigeva un muro di ghiaccio. Tuttavia, i dardi riuscirono a perforarlo e a continuare il loro percorso fino a raggiungere l'obiettivo: trafissero le braccia di Altager, che lanciò un urlo straziante prima di cadere a terra.
   Il Sabitta rise, avvicinandosi e pregustando la vittoria: - Non ho dovuto faticare granché per piegarti! -, commentò ironico, facendo avvampare di nuovo la sua aura cosmica.
   - Prima di proclamarti vincitore dovrai uccidermi, ma dubito che ne sarai capace! -, ribatté il Cavaliere, rimettendosi in piedi. Attorno a lui la temperatura calò improvvisamente, al punto che iniziò a nevicare.
   - Che succede? Nevica? -, si domandò il demone, guardandosi intorno. Poi cominciò a capire: era il cosmo del Cavaliere ad aver provocato quel brusco cambiamento di clima. - Che intenzioni hai? -, disse, rivolgendosi all'avversario, sul cui volto era comparso un risoluto sorriso.
   - Fra poco lo scoprirai! -, rispose il Cavaliere, facendo esplodere al massimo il proprio cosmo: la nevicata si trasformò in tormenta, e Nani fu costretto a coprirsi gli occhi e ad arretrare. Il suo corpo s'irrigidì, investito dalla morsa del freddo, ma il demone non aveva alcuna intenzione di arrendersi: spiegando le ali spiccò il volo e si allontanò da quella violenta bufera.
   - Devo darti atto che sei stato abile a sfuggire alla mia tempesta di neve e ghiaccio, ma non ti servirà a prevalere! -, ammise il giovane Aquarius, concentrando il proprio cosmo nelle mani. Nani, però, partì al contrattacco e scagliò di nuovo il suo colpo speciale verso il Cavaliere. Altager non si mosse, ma lasciò che i dardi si avvicinassero: quando furono a un passo dal colpirlo, rilasciò l'energia che aveva accumulato nei pugni e la riversò sulle lame, che esplosero in mille pezzi. Impressionato dalla mossa dell'avversario, il demone non demorse e continuò a bersagliarlo con altre piume affilate. Il Cavaliere d'Aquarius creò cristalli di ghiaccio che iniziarono a fluttuare nell'aria e a circondare le lame lanciate dal demone; altri, invece, attorniarono Nani, che non capiva cosa cercasse di fare Altager.
   Senza perdere tempo, il demone del vento intensificò gli attacchi, ma senza cavarne alcun risultato: i cristalli avvolgevano le piume e le riducevano in cenere, impedendo loro di raggiungere l'obiettivo. Frustrato da quella situazione di stallo, il Sabitta bruciò al massimo il suo cosmo, alzando un vento impetuoso che spazzò via i cristalli; tuttavia, quelli che gli erano intorno si attaccarono all'armatura e alle ali, forzandolo ad atterrare. - Non hai più scampo, Nani! Ormai ti ho in pugno! -, minacciò Altager, avvolto dal bagliore del suo cosmo.
   - Non esserne così convinto, Cavaliere! La morte attende te! Gug Tab! -, gridò il guerriero infernale, scagliando centinaia di aguzze piume.
   Il Cavaliere schioccò le dita e i cristalli sulla corazza di Nani s'accesero di una luce abbagliante. - Héō Lykóphōs! -, evocò Altager, e i cristalli esplosero mandando in frantumi l'armatura del demone. Il Sabitta cadde a terra: sentiva fuggire la vita poco alla volta; diede una bieca occhiata al suo avversario e si dissolse nell'aria.
   - Chi si è macchiato di sangue innocente non può sopraffare chi combatte per la giustizia! -, sentenziò il custode dell'undicesima casa a bassa voce, gli occhi fissi sul punto in cui il demone era spirato.
***
   L'idea di recarsi in Inghilterra non entusiasmava Elnath: non voleva incontrare persone che potessero parlargli del suo odiato genitore, che proprio sul suolo inglese aveva trovato la morte. Tuttavia, quell'inutile scrupolo non poteva esimerlo dal compiere il dovere che si era assunto, così era partito assieme a Sertan, diretto in Irlanda, e in poco tempo era giunto sul fiume Aln, a poca distanza dalla città di Alnwick, la piazzaforte posta a sorvegliare il confine con la Scozia. Aveva subito notato l'andirivieni di pattuglie di soldati: un gruppetto in particolare parlava animatamente, e quella foga lo incuriosì a tal punto da consigliargli di avvicinarsi.
   - Buongiorno, signori! -, li salutò, - Siete stati per caso attaccati da qualche strana creatura? -, continuò, suscitando l'interesse degli astanti.
   - Siete un Cavaliere di Grecia, vero? -, domandò un giovanotto dagli occhi azzurri e dal fisico asciutto. Elnath annuì. - Mentre io e i miei compagni tornavamo dalla ronda, abbiamo sentito delle grida provenire da alcune capanne poste lungo il fiume. Siamo stati attaccati da un essere orribile, che ci ha letteralmente spazzato via. Soltanto io e un altro soldato siamo riusciti a tornare qui -, spiegò il ragazzo, la voce avvilita e gli occhi colmi di rabbia.
   - Sai dov'è andato? -, chiese il Cavaliere, fissandolo con attenzione. - Sta venendo qui! - fu la risposta.
   Il possente Taurus li esortò a rifugiarsi in città e a richiamare tutte le pattuglie sparse nei dintorni. I giovani soldati si allontanarono, riferendo ai compagni che trovavano lungo il tragitto quanto stava avvenendo e il consiglio fornito loro dal Cavaliere. In breve, la pianura si svuotò ed Elnath si preparò a ricevere l'avversario, che sarebbe giunto a momenti. Si accomodò su un masso, fissando l'orizzonte. L'attesa non fu lunga: una sagoma tozza e dall'andatura claudicante si avvicinava lentamente. Quando i contorni divennero più chiari, la figura del demone apparve di bassa statura, con occhi di un rosso acceso e capelli grigi che scendevano fino alla schiena.
   Indossava un'armatura in prevalenza nera con inserti gialli. L'elmo a maschera presentava una sorta di cresta al centro. Il pettorale sembrava una cotta di maglia su cui erano innestati triangoli gialli. Gli spallacci erano alti e tondeggianti, tanto da farlo apparire ancora più basso. Il cinturino era formato da due lunghe piastre dai bordi gialli a copertura dei fianchi, che terminavano in una coda fluente che si diramava su tre file. Schinieri e bracciali erano lisci e aderenti agli arti: sul ginocchietto e sulle manopole era inciso un triangolo giallo. Sulla schiena erano agganciate due piccole ali nere dai bordi gialli.
   - Non credevo di essere atteso! Il Grande Tempio ha fatto presto a inviarti da me! Il mio nome è Anba, sono il settimo demone del vento! - gracchiò il Sabitta, fermandosi a pochi passi dall'avversario.
   - Io sono Elnath, il Cavaliere d'Oro di Taurus! -, ricambiò il custode della seconda casa. Incrociò le braccia, avvolgendosi del suo cosmo e attese che il nemico facesse la sua mossa.
   - A quanto pare i tuoi pugni fremono! Vediamo come te la cavi con questo: Tumu Ud![5] -, gridò, e vortici di vento impetuoso si abbatterono su Elnath, che sembrava non avere intenzione di difendersi. La violenza del colpo lo trascinò per lungo tratto, aprendo profondi solchi nel terreno; tuttavia, quando l'impeto del vento scemò, il Cavaliere era ancora in piedi e totalmente illeso.
   - Com'è possibile? Nessuno resiste alla forza della mia tecnica! -, s'interrogò perplesso il demone, incredulo a quanto aveva davanti agli occhi.
   Elnath rise e, con un certo sarcasmo, ribatté: - Forse i guerrieri che hai affrontato in passato erano minutaglia, ma con me il tuo cosmo non ha speranza! - Le parole sprezzanti di Taurus infastidirono tremendamente il Sabitta che assunse un'espressione rabbiosa.
   - Lo vedremo! Tumu Ud! -, gridò, innalzando vortici di maggiore intensità e velocità. Il Cavaliere abbandonò la posizione di attesa e, facendo ardere il suo cosmo, bloccò l'ammasso d'aria con le mani fino a disperderlo del tutto.
   Anba indietreggiò, attonito e frustrato: la sua tecnica, che gli aveva concesso tante vittorie in passato, non riusciva a imporsi sulla forza di quel Cavaliere. Inoltre, egli era l'ultimo demone del vento ancora in vita e non voleva cedere al decreto del fato come avevano fatto i suoi compagni. - Ti ucciderò! -, urlò con tutto il fiato che aveva in gola e scagliandogli addosso il suo intero cosmo.
   I vortici creati dal demone divennero imponenti; persino dalle torri di Alnwick erano visibili. Investirono Elnath con veemenza, scaraventandolo su alcune rocce lungo il fiume che, al suo tocco, andarono in frantumi. Affaticato, gli occhi spiranti minaccia, Anba si avvicinò alla preda, convinto di essere riuscito a sopraffarlo. - E ora, muori! -, sussurrò, ebbro di gioia, puntandogli le dita alla gola. Mentre sferrava il colpo ferale, il cosmo di Elnath si accese immenso, gettandolo a terra.
   - Se credi di aver vinto ti sbagli! Preparati all'oblio! Méga Kéras! -, rispose il Cavaliere, assalendo il suo avversario con un toro d'energia cosmica. Impreparato e fiaccato dal precedente attacco, Anba fu travolto e la sua armatura fu ridotta in cenere assieme a lui. - La vostra millantata forza è solo un'illusione. Spero che gli Utukki sapranno darmi maggior soddisfazione -, pensò Elnath, mentre s'allontanava.
***
   Salutato il compagno, Sertan raggiunse la piccola cittadina di Sligo, adagiata su un'insenatura che affacciava sull'Atlantico. Il borgo era abitato per lo più da pescatori, ma quel giorno appariva particolarmente deserto. Si avvicinò piano, tendendo i sensi per percepire qualche anima defunta. Al richiamo del suo cosmo alcuni spiriti inquieti gli si presentarono e gli raccontarono quanto stava accadendo. Ricevute le informazioni di cui necessitava, il Cavaliere spedì quelle misere presenze diafane alla Valle della Morte, così da raggiungere l'aldilà e la pace.
   Sertan costeggiò il fiume che attraversava la cittadina prima di riversarsi nell'oceano. Poco lontano vide una casa da cui fuoriusciva un vortice d'acqua e udì le grida di chi l'abitava. Corse subito in aiuto e si trovò di fronte un essere alto, dalla strana corazza verde, che si divertiva a suppliziare quella povera gente. - Phátnēs Epouránia Phlóx! -, gridò il Cavaliere, e il demone, sorpreso da un dolore lancinante al petto, fu costretto a interrompere l'attacco.
   Si voltò contrariato e fissò il viso di chi l'aveva disturbato: - Un Cavaliere d'Oro! Magnifico! Il mio nome è Mashda, sono il sesto demone dell'acqua! -, esclamò, facendo scintillare il blu dei suoi occhi.
   Indossava un elmo triangolare che s'innestava sul pettorale, da cui sortivano ciocche violacee. Il pettorale copriva tutto il corpo e si apriva in un gonnellino stretto e lungo. Sulla schiena due lunghe pinne coprivano le braccia e si allargavano sotto le ascelle, terminando con due punte sul cinturino. Non presentava spallacci, né manopole. Bracciali e schinieri erano lisci e avevano impressi piccoli triangoli rossi.
   - Io sono Sertan, Cavaliere di Cancer. Ti farò pentire di aver ucciso tutta questa gente! -, disse il custode della quarta casa, concentrando il proprio cosmo nei pugni e iniziando a lanciargli contro sfere d'energia.
   Il Sabitta sembrò parare senza sforzo, anzi oppose alla mossa nemica la sua tecnica speciale: - Ush Sheĝ![6] -, evocò, e gocce d'acqua corrosiva fronteggiarono le sfere di Sertan. In poco tempo l'assalto del Cavaliere venne fermato.
   - Non credevo fossero rimasti ancora demoni di un certo livello! Immaginavo che voi foste gli scarti della retroguardia! -, ironizzò il custode della quarta casa, per nulla impressionato dall'offensiva nemica.
   - Non si giudica prima di provare, dovresti saperlo! -, sentenziò Mashda, indirizzando il suo colpo verso Sertan. - La morte ti attende, tirapiedi di Atena -, continuò, ricambiando le offese ricevute.
    - Ne sei convinto? -, rispose calmo il paladino della giustizia, schioccando le dita e creando sfere di materia spirituale che avvolsero le gocce del demone e le lasciarono sospese in aria.
   - Sei riuscito a bloccare il mio colpo? Come hai fatto? -, chiese con profonda curiosità e con un pizzico di disprezzo.
   - Per quanto vi affanniate a combattere e a dimostrare di essere potenti, siete limitati dall'armatura che indossate: è lei il vero demone, non voi! E ogni volta che lanciate un colpo lo caricate di una piccola porzione di materia spirituale. Ho già sconfitto un demone dell'acqua ben più insidioso di te! Non hai speranze! -, spiegò Sertan, fissandolo con un certo interesse.
   - Iltasadum! Sei stato tu a ucciderlo, solo ora me ne rammento! Vuol dire che avrò io il piacere di strapparti alla vita! -, disse Mashda, concentrando maggiormente il suo cosmo per liberare le gocce d'acqua dalla morsa delle sfere di Sertan.
   - Consumerai solo il tuo cosmo a provarci, ma non otterrai nulla! -, ribatté il Cavaliere, prima di schioccare nuovamente le dita e far esplodere le sfere, annullando definitivamente l'attacco del Sabitta.
   Il corpo di Mashda fu assalito da un'onda bianca che gli impedì i movimenti e gli causò un dolore lancinante. - Prima di finirti, ho una cosa da chiederti -, esclamò Sertan: gli era improvvisamente balenata nella mente un'idea.
   - Chiedi pure, ma non è detto che otterrai risposta o che riuscirai ad avere la meglio su di me -, asserì con orgoglio il demone.
   Sertan abbassò gli occhi e accennò un sorriso, divertito dall'ingenua ostinazione del suo avversario. - Dove si trova Kharax? Lo conosci, vero? -, chiese di getto, spiazzando il Sabitta, che si aspettava altro.
   - Lulul? Il traditore, intendi? -, disse, cercando di prendere tempo.
   - Sì, proprio lui. Dov'è? -, insisté il Cavaliere, intensificando il potere dell'onda che avvolgeva Mashda.
   - P-Perché lo c-cerchi? -, ribatté, incuriosito dall'interesse che quel Cavaliere mostrava per Lulul.
   - Non sono affari che ti riguardano. Rispondi alla domanda! -, sbottò Sertan con tono imperioso, provocando un intenso dolore al demone che fu costretto in ginocchio.
   - D-D'accordo, te lo dirò! -, cedette il Sabitta, il volto madido di sudore e gli occhi contratti dal dolore. - Lulul è a Kutha, la città perduta di Nergal! -, rivelò, sforzandosi di sopportare l'atroce tortura dell'onda spirituale del Cavaliere.
   - Kutha? E dov'è questa città? -, chiese ancora, sempre più motivato ad affrontare il suo infausto genitore. Mashda alzò gli occhi e, accennando un sorriso stanco, rispose:
   - F-Fra poco il palazzo di Nergal risorgerà e il cosmo che da esso promanerà ti guiderà fino alla città perduta! -.
   Avute le informazioni di cui abbisognava, Sertan smise d'infierire sulla creatura infernale e le diede il colpo di grazia: - Phátnēs Epouránia Phlóx! -, sussurrò, e la corazza del demone esplose in mille pezzi. Quando le ceneri di Mashda furono portate via dal vento, il custode della quarta casa guardò l'orizzonte e disse fra sé: - La resa dei conti è vicina, traditore! -
***
   Il terreno riarso e il fumo che si levava dall'Etna erano così diversi dal luogo in cui era nato il Cavaliere di Leo. Zosma si trovava di nuovo sul suolo italico per eliminare la creatura infernale che minacciava la tranquillità degli abitanti di quella zona. Scorse un villaggio di pescatori e vi si recò con una certa fretta: non notò segni di battaglia; la vita sembrava scorrere pacifica. Molti erano indaffarati al porto con le reti e le nasse; alcune donne, sugli usci, guardavano i figli giocare mentre sciorinavano i loro miseri capi di vestiario. Il Cavaliere di Leo percepiva un cosmo, ma non riusciva a fissarne la posizione. Lasciò il villaggio senza farsi notare e si diresse verso le campagne dell'entroterra. Raggiunse un piccolo casale, apparentemente abbandonato, e si rese conto che l'aura cosmica era diventata più evidente. Entrò nella casa malandata e un nauseante odore di morte gli si appalesò alle narici: vide tre corpi carbonizzati ancora fumanti e un'espressione d'orrore e repulsione gli colorò il volto.
   - Pensavo non venissi più! -, esordì una voce grave e inquietante alle sue spalle. Zosma si voltò di scatto e davanti si trovò un demone gigantesco dagli occhi turchese e dai capelli arancione.
   - Perché mi hai attirato qui, mostro? -, sbottò il ragazzo, ancora inorridito dalla crudele fine cui il suo avversario aveva destinato quegli inermi contadini.
   - Il mio nome è Ibranum, settimo demone del fuoco. Non c'è un motivo particolare per cui ti abbia portato qui. Magari adoro la campagna! -, rispose il servo di Nergal con tono sarcastico e vagamente compiaciuto.
   Indossava un elmo a casco munito di spuntoni ripartiti su tre file. Il pettorale era liscio e ornato da triangoli verdi al centro, ai lati presentava spuntoni più piccoli. Gli spallacci erano piccoli e muniti di numerose punte aguzze estremamente piccole. Il cinturino era formato da piastre strette e corte: nella parte posteriore si allungava in una piccola coda di verme orlata di grossi spuntoni. I bracciali erano lisci, coperti di triangoli verdi sull'avambraccio e da uno spuntone sulle manopole. Anche gli schinieri erano lisci, con un triangolo verde inciso sul ginocchietto.
    - Odio chi si compiace della morte! Ti eliminerò subito! Keraunobólos Astrapé![7] -, gridò Zosma, lanciando dal dito indice un sottile fascio d'energia che trafisse la spalla di Ibranum, incapace di tener testa all'incredibile velocità del Cavaliere.
   Ferito e sanguinante, il Sabitta allargò le braccia e tutti gli spuntoni presenti sull'armatura caddero a terra, trasformandosi in rapidi vermi: - Isishene Ushak![8] -, ordinò, e quelle strane creature, con un sibilo terrificante, s'avvilupparono sul corpo di Zosma, prendendo fuoco.
   Il calore di quelle fiamme s'insinuò nelle parti scoperte dell'armatura, provocando ustioni e un dolore indicibile al custode della quinta casa. Tuttavia, la determinazione di Zosma ebbe il sopravvento: richiamando il suo cosmo, si avvolse in un'intensa luce e i vermi creati dalla tecnica di Ibranum si tramutarono in cenere. Esterrefatto, il demone indietreggiò di qualche passo. Un po' dolorante, il Cavaliere bagnò di cosmo i pugni e cominciò un assalto corpo a corpo. Per quanto si sforzasse di schivare i colpi, il Sabitta si rese conto che l'avversario era troppo veloce e non riusciva a evitare di essere colpito.
   Ibranum fu scaraventato al muro, che andò in frantumi, e si ritrovò a terra. - Isishene Ushak! -, evocò, e gli spuntoni, ricresciuti, si gettarono come proiettili contro Zosma, che dovette cessare l'attacco e difendersi. Alcuni furono distrutti, altri si attaccarono al corpo e s'incendiarono. Il Cavaliere, stavolta, non attese che quegli aculei infernali gli provocassero danni, ma reagì subito sbarazzandosi di loro.
   - Non credevo mi avresti dato tanto filo da torcere! -, ammise il custode del quinto tempio, leggermente in affanno. - Ma non durerai ancora a lungo! -, aggiunse, levando il braccio in alto e puntando l'indice al cielo.
   Ibranum si rialzò, pronto a lanciare ancora una volta la sua tecnica speciale, ma il Cavaliere lo prevenne: - Léontos Maniódēs Astrapé! -, esclamò, e una potente folgore si abbatté sull'impreparato demone, che lanciò un grido disumano e cadde in ginocchio, l'armatura fumante e crepata in svariati punti.
   Il Sabitta si rimise in piedi, poco incline ad accettare la sconfitta, e con la sua ombra sovrastò il Cavaliere; gli si vvicinò con volto arcigno e, allargando le braccia, lo cinse in una possente morsa e richiamò di nuovo la sua tecnica. Gli spuntoni s'infiammarono e avvolsero il corpo di Zosma, che si dimenava cercando in tutti i modi di divincolarsi da quella stretta opprimente; ma più tentava, più il demone lo stringeva a sé.
   - Non ti lascerò andare finché il fuoco non ci avrà consumati entrambi! -, affermò Ibranum, ridendo e fissando gli occhi in quelli dell'avversario. - Non ci sperare! -, rispose Zosma, scomparendo e riapparendo a qualche metro di distanza, bruciacchiato e in affanno.
   Senza por tempo in mezzo, incassò le braccia e poi le rilasciò di scatto, scagliando il colpo di grazia all'avversario: - Keraunón Diktýon! - Una rete di fulmini penetrò nel corpo del demone, martoriato dal fuoco, e lo fece esplodere, uccidendolo. Lo scontro era terminato e il Cavaliere, sedutosi sull'erba, si concesse un minuto per riprendere fiato e riacquistare le forze.
***
   Eyra era riuscita a convincere Irene a non rivelare la verità a suo figlio: le metteva davanti tutti gli aspetti negativi che sarebbero derivati da quella rivelazione, spesso calcando la mano o esagerando alcune reazioni. La nipote di Argiro, che aveva imparato ad amare quel figlio così speciale, si persuase che le parole della nuora avessero un fondo di avvedutezza e non pensò più a quanto le aveva scritto suo zio.
   Calx aveva ormai compreso che la missiva ricevuta da sua madre non gli sarebbe stata mai consegnata da Eyra. E forse ne capiva le ragioni: da un lato, la ragazza provava rimorso a tradire la fiducia della suocera e, dall'altro, non voleva che il suo amato si convincesse a tornare sui campi di battaglia. Prese quindi la decisione di trovare da solo quella lettera che lo incuriosiva oltremodo. L'occasione si presentò in un giorno di mercato: le sue donne passavano lunghe ore a provare abiti, contemplare oggetti e dialogare coi forestieri su quanto stesse avvenendo nel mondo.
   Il discepolo di Alexer entrò in camera di sua madre e, in un angolo, notò un forziere di pregio in cui teneva custoditi i ricordi più importanti. Lo aprì, facendo attenzione a non mettere disordine, e in fondo trovò due fogli di pergamena ripiegati. Lesse prima il messaggio di Demetrios e poi passò a quello di suo zio: rimase attonito quando scoprì che era destinato a diventare Cavaliere fin dal grembo di sua madre. Perché? Si chiedeva. E come mai sua madre non gliene aveva mai parlato? In tutta quella faccenda c'erano molti pezzi che non combaciavano: il sogno che lo perseguitava ogni notte, il potere che tutti gli avevano invidiato, compreso il suo maestro, quando indossava ancora l'armatura di Gemini, il volto di Eyra ogni volta che si tirava in ballo il Grande Tempio.
   Gli era chiaro ormai che solo il Sommo Alexer avrebbe potuto sciogliere i suoi dubbi e fornirgli le risposte che cercava da tempo; tuttavia un velo di vergogna lo frenava, soprattutto dopo la morte di molti suoi compagni. Rimise a posto la lettera e tornò al porto, meditando su cosa fare.
***
   Alle rovine di Kutha, Tuge e Silulumesh rammentavano le battaglie del passato e ognuno vantava i propri successi. Sorush osservava lo scettro fornire energia a quel luogo dimenticato e, al colmo dell'eccitazione, disse a Kharax, che gli stava accanto: - Finalmente potrò riabbracciare la mia Darice! Il prodigioso cosmo di Nergal la riporterà in vita per ricompensarmi! Non vedo l'ora di poterla stringere a me! -
   Il traditore di Atena sembrava nutrire poca fiducia nelle speranze dell'alleato, ma finse di condividerne la gioia e gli augurò che i suoi desideri venissero esauditi al più presto. Levarono i calici e brindarono alla nascita di un nuovo ordine cosmico; ma dopo quel momento di empatia, Kharax si congedò e, impugnato il Prisma d'Ambra, si teletrasportò a Rodorio. A quell'ora del giorno era rischioso avventurarsi nel villaggio, ma ormai non aveva più tempo per concludere il suo piano. Varcò la porta posteriore del forno e se la richiuse alle spalle lentamente, poi entrò nella sala principale, dove trovò Lamashtu seduto, come al solito, alla finestra.
   - Cosa ci fai qui a quest'ora? -, chiese con una certa sorpresa il primo demone del fuoco. - Dobbiamo parlare! -, rispose serio l'antico Cavaliere di Crater. Il Sabitta inarcò le sopracciglia, perplesso dal tono con cui aveva parlato il compagno.
   - È giunto il tempo che il Cavaliere di Gemini torni a calpestare il campo di battaglia! -, continuò, lasciando Lamashtu a bocca aperta.
   - Come sarebbe? Abbiamo fatto tanto per allontanarlo dal Grande Tempio e ora vorresti vanificare tutti i nostri sforzi -, sbottò il demone, alzandosi all'impiedi e battendo un pugno sul tavolo.
   Kharax non si lasciò impressionare dalla foga dello sgherro di Nergal e, con molta calma, spiegò: - Sorush ha trovato una tavoletta a Kutha, in cui si dice che lo scontro fra il tuo signore e il guerriero del destino è ineluttabile. Se i due non si affronteranno, il fato non potrà compiersi e il tuo dio non potrà reclamare l'universo! -
   Lamashtu cadde su una sedia, riflettendo sulle parole appena udite. La frustrazione di aver lavorato invano lo consumava, ma se quello scontro era inevitabile non avrebbe mai osato ostacolare il fato. - Che devo fare? -, domandò a bassa voce, arrendendosi all'evidenza dei fatti.
   - Uccidi Eyra e la madre del Cavaliere. Anzi, lascia alla nostra complice dai capelli corvini il tempo di dire la verità al suo presunto amante, prima di eliminarla! -, propose il traditore, con una freddezza nella voce e nell'espressione che fecero inorridire persino il demone.
   Lamashtu annuì, ma in cuor suo gli pesava sopprimere quella ragazzina con cui aveva trascorso tanto tempo. Sentiva una sorta di affetto nei confronti di Eyra e l'idea di usare il suo potere per strapparla alla vita gli ripugnava, in un certo senso. Ma la devozione al suo signore gli imponeva di fare una scelta: anche se a malincuore, era costretto a compiere quella missione.
   Mentre i due discorrevano, un cosmo potentissimo si levò da Kutha: il palazzo di Nergal era riapparso dall'oblio delle sabbie. - Finalmente! -, proruppe il primo demone del fuoco, entusiasta all'idea di rivedere il suo signore.
   - Io torno da Sorush! Sbrigati a compiere quanto ti ho detto! -, gli ripeté Kharax, prima di svanire di nuovo.
***
   Un terremoto squassò la caverna delle rovine di Kutha e il soffitto crollò. Dalla sabbia sorse un imponente palazzo: aveva sette ingressi, sui cui stipiti erano incise parole in alfabeto cuneiforme. Al centro vi era un'alta torre, sulla cui cima s'intravedeva un tempio sostenuto da colonne molto particolari: il basamento aveva la forma di zampe di leone, sul fusto erano scolpite a rilievo ali di corvo e il capitello presentava una testa di toro e l'altra di leone.
   - Anzagar Imin Ĝissuenek, il Bastione delle Sette Ombre, la residenza terrena del Supremo Nergal si è palesata ai nostri occhi! -, gridò Sorush, eccitato e pieno di speranza per il futuro. Lo scettro e lo scrigno si alzarono in volo e si diressero al tempio in cima alla ziqqurat. - Fra poco il dio d'Irkalla risorgerà! -, esclamò, proprio nel momento in cui Kharax tornava da Rodorio.
   Di fronte all'imponenza di quell'edificio, il traditore restò sconcertato e impacciato: in cuor suo bramava che Lamashtu non perdesse tempo e portasse a termine il piano. Sorush gli si avvicinò e, fissandolo negli occhi, disse: - Devo raggiungere il tempio e accogliere il mio Signore, voi sorvegliate il palazzo! - Poi, correndo, imboccò uno degli ingressi e sparì tra le ombre. Kharax fece qualche passo verso Tuge e Silulumesh, quando udì una voce chiamarlo: - Alla fine ti ho trovato, padre! -, si voltò e vide gli occhi verdi e lo scintillio dei capelli biondi di Sertan, di suo figlio. Abbassò lo sguardo e fece un profondo respiro: il momento tanto atteso era giunto!  
 
[1] Oscurità, Odio, Maledizione, Contesa, Guerra, Omicidio e Catastrofe.
[2] "Orrore dell'Oblio".
[3] "Trappola di Cristallo".
[4] "Duplice Lama".
[5] "Tempesta di Vento".
[6] "Pioggia Acida".
[7] "Zanna del Leone".
[8] "Sussurri di Morte".

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Capitolo 19
*** Un padre e un figlio ***


Capitolo XIX
UN PADRE E UN FIGLIO
  
Area mediterranea - Asia, settembre 1068
 
   Il sole cocente e la sabbia trasportata dal vento infastidivano non poco Sargas: il cosmo del demone cui stava dando la caccia lo aveva condotto tra le desolate lande del Sahara. Percorreva le dune di quel deserto già da un po' e cominciava a spazientirsi: quella era la sua prima battaglia nelle vesti di Cavaliere e non voleva certo risultare meno efficiente dei suoi parigrado. Camminò ancora per una mezz'ora, quando, da una duna, avvertì l'innalzarsi di un cosmo. La raggiunse rapidamente e scorse il suo avversario seduto sulla cima di un ammasso di sabbia.
   - Ti aspettavo, Cavaliere. Io sono Bennu, secondo demone del fulmine! - Indossava un elmo a forma di cappello di colore celeste, da cui scendevano tentacoli verdi, misti al nero della capigliatura. Una maschera gli copriva gli occhi. Il pettorale era formato da fasce che avvolgevano l'intero busto e su cui erano impressi triangoli verdi. Gli spallacci erano piccoli e tondeggianti, e protrudevano leggermente le spalle. Il cinturino era costituito da due larghe piastre poste a protezione dei fianchi. Schinieri e bracciali presentavano tentacoli che li adornavano e che, nella parte finale, andavano a creare le manopole.
   - Il mio nome è Sargas, Cavaliere di Scorpio! -, si presentò con orgoglio il ragazzo, fiero dell'armatura che lo proteggeva. Poi fece esplodere il suo cosmo e, puntando il dito contro l'avversario, sussurrò: - Periorismós![1] - Cerchi di cosmo avvolsero il Sabitta, che sembrava inerme di fronte a quella mossa improvvisa. Tuttavia, subito una larga risata gli illuminò il volto e, in un lampo, scomparve, lasciando il giovane Scorpio senza parole.
   - Non essere così sorpreso! -, lo prese in giro il demone, riapparendo a poca distanza da lui. - Sono una creatura difficile da domare! -, continuò, sollevando le braccia al cielo. - Ti mostrerò la mia forza! Prendi! Ĝishba Ĝirak![2] -, aggiunse, abbassando le braccia e rilasciando due potenti sfere di energia che si avventarono contro il Cavaliere. Sargas le schivò entrambe e, convinto che il suo antagonista si vantasse troppo delle sue doti guerriere, si lanciò all'attacco. Dalla sabbia, però, nel punto in cui le sfere si erano infrante, emersero scariche elettriche che sferzarono vigorosamente l'impreparato custode dell'ottava casa. Quando il potere della tecnica si fu esaurito, Sargas cadde prono, straziato da quella possente energia.
   - Contento del trattamento che ti ho riservato, Cavaliere? -, chiese con ironia Bennu, avvicinandosi al corpo svenuto del ragazzo. - E ora, il colpo di grazia! -, proseguì, sollevando il braccio per colpirlo col taglio della mano avvolta di cosmo.
   Ma d'improvviso Sargas aprì gli occhi e, con un gesto fulmineo, puntò l'indice contro l'avversario richiamando la sua tecnica: - Kokkínē Belónē![3] - Un dolore lancinante invase le membra del Sabitta e lo costrinse a fermare l'attacco: guardò l'armatura e notò tre fori da cui sgorgava linfa bluastra.
   - Hai subito le prime tre punture della mia tecnica speciale. Si dice sia la più lenta tra tutti i colpi segreti dei paladini di Atena, ma lascia a chi malauguratamente ne assaggia gli effetti la possibilità di scegliere fra morte e follia. Prima di raggiungere il colpo ferale puoi ancora arrenderti, demone -, spiegò Sargas, rimettendosi in piedi, pronto a un nuovo assalto. Bennu, però, non era disposto a cedere le armi con tanta facilità e, levando le braccia al cielo, creò centinaia di sfere che lasciò precipitare al suolo: esse penetrarono nella sabbia e scomparvero.
   Sargas aveva compreso che quella mossa non era dettata dalla disperazione, ma aveva uno scopo ben preciso: spiccò un salto e si preparò a lanciare quattro nuove cuspidi quando, d'improvviso, scariche elettriche emersero dal terreno e lo raggiunsero, straziandolo e impedendogli di portare a termine l'attacco. Atterrò malamente e fu costretto in ginocchio.
   Il demone del fulmine lo osservò e, sorridendo, pregustò la vittoria: - Sei ostinato, ragazzino! Ma non riuscirai mai a colpirmi di nuovo! -, asserì con tono soddisfatto; poi alzò ancora una volta le braccia per richiamare la sua tecnica.
   Il giovane Scorpio ne approfittò e, con una rapidità invidiabile, lanciò altre quattro cuspidi. Due trapassarono le braccia del demone, indebolendole e costringendo Bennu a fermare l'attacco; le altre due si conficcarono una nel petto e l'altra nella gamba destra.
   Ferito nell'orgoglio, il Sabitta tentò un nuovo assalto, ma la testa iniziava a girargli e dai piccoli fori causati dal colpo avversario sgorgavano abbondanti fiotti di sangue. - Come hai fatto a colpirmi, moccioso? Io sono il secondo demone del fulmine! Nessuno può battermi! -, gridò, livido in volto e con voce sprezzante.
   - La tua superbia decreterà la tua rovina, demone! I miei maestri mi hanno insegnato che nessuna battaglia è facile e che ogni volta bisogna imparare ad approcciarsi all'avversario, se si vuole avere ragione di lui -, affermò con vigore Sargas, felice di essere stato allievo di due uomini tanto diversi, ma il cui obiettivo era sempre stato il medesimo.
   - Che tu sia maledetto, ragazzino! Ma non è ancora finita! -, sbottò il demone, sollevando le braccia con sommo sforzo. Sargas lanciò altre cinque cuspidi, e Bennu, la vista annebbiata e le forze svanite, cadde in ginocchio, tentando di restare lucido. Provò a rimettersi in piedi, ma le ferite esplosero, macchiando la sabbia di un colore bluastro. Allungò una mano verso il Cavaliere, aggrottando la fronte e sputando sangue: - Sei riuscito... dove nessuno... è mai arrivato! -, ammise, spirando e confondendosi alla polvere.
   - Sei stato un degno avversario, demone, ma l'orgoglio e la superbia sono pessimi compagni in battaglia! -, sussurrò, guardando il cielo. Poi raggiunse la dimora di Atena alla velocità della luce.
***
   Nashira aveva seguito alla lettera le indicazioni fornitegli da Kanaad per trovare la città di Agra, in India, adagiata sulle sponde del Gange. Quei luoghi immersi nella natura e le persone cordiali e pacifiche gli ricordarono quanto fosse bellicosa e sanguinaria la sua terra natia. Tuttavia, quella pace era stata interrotta dall'arrivo del demone, che aveva cominciato a seminare morte e devastazione in quel tranquillo angolo di mondo. Sul fiume galleggiavano corpi esangui e il Cavaliere affrettò il passo per raggiungere il suo avversario. Lo trovò intento a torturare dei bambini e la sua rabbia non ebbe più requie. Sollevò il braccio e spaccò il terreno fra il carnefice e le sue vittime. Il Sabitta, distratto da quell'evento incredibile, si voltò verso il cosmo che l'aveva provocato.
   Felice di incontrare un Cavaliere d'Oro, abbandonò il suo trastullo, fece un ironico inchino, e si presentò: - Io sono Shulme, quarto demone del fulmine. Piacere di fare la tua conoscenza, Cavaliere -. Il tono caloroso ma affettato del servo di Nergal infastidì oltremodo il custode della decima casa che, per tutta risposta, cominciò a fendere il terreno attorno a lui. Con un agile salto Shulme si spostò dalla zona di pericolo e atterrò in un'area più sicura.
   Aveva occhi smeraldini e capelli rosso fuoco lunghi fino a metà schiena. Indossava un'armatura in prevalenza gialla con inserti arancione. L'elmo a casco aveva la forma della testa di un insetto su cui svettavano piccole antenne arancioni. Il pettorale copriva il torace e i fianchi, ma lasciava scoperto il ventre e la parte finale della schiena. Al centro era adornato da sette triangoli arancioni. Gli spallacci erano piccoli e terminavano con una sorta di mantellina che ricadeva sulla schiena. Il cinturino era costituito da piastre lunghe fino alle ginocchia. I bracciali proteggevano solo gli avambracci e a essi erano agganciate le manopole. Gli schinieri erano lisci e coprivano le gambe fino alle ginocchia.
   - Vedo che sei uomo di poche parole. Mi piacciono i guerrieri che non si sprecano in sterili discorsi. Se vuoi la lotta, preparati! Shedu'ene Lukarra![4] -, disse e, schioccando le dita, creò particelle elettriche che si fermarono a mezz'aria. Nashira provò a spazzarle via col taglio della mano, ma il suo tentativo gli si ritorse contro: le particelle si attaccarono al braccio e, penetrando le difese dell'armatura, gli straziarono l'arto.
   - Spiacente, Cavaliere, ma non è possibile annullare il mio colpo: ognuna di queste particelle ti penetrerà la carne e ti strapperà l'anima! -, spiegò Shulme, fiero della propria tecnica segreta. Il Capricorno fu costretto a ritirare il braccio, dolorante e bruciacchiato. Era consapevole che non sarebbe stato facile abbattere l'avversario, ma non aveva alcuna intenzione di arrendersi: anche a costo di morire, avrebbe riportato la vittoria.
   Balzò di qualche metro all'indietro e lanciò rapide occhiate all'intorno: il campo di battaglia era deserto, tutti i superstiti si erano dati alla fuga alla prima occasione. Nashira fu grato di quella solitudine perché poteva agire senza doversi preoccupare degli indifesi. Decise, pertanto, di tentare una tecnica che aveva soltanto creato, ma non ancora messa a punto. Spiccò un poderoso salto e iniziò a lanciare fendenti ovunque, come se non avesse alcun obiettivo.
   Shulme assunse un'espressione sarcastica e, muovendo le braccia, ordinò alle sue particelle di colpire il Cavaliere. Esse si mossero rapidamente verso la meta assegnata, ma d'improvviso scoppiarono prima di raggiungere Nashira. Il Sabitta restò attonito, incapace di comprendere cosa fosse appena accaduto. Quasi d'istinto, indietreggiò di un passo e, nel suo cuore, nacque il dubbio che forse aveva sottovalutato quel taciturno Cavaliere.
   Il custode della decima casa tornò a terra; il demone notò una sorta di riflesso di luce attorno a lui e s'incupì: innalzò nuovamente il suo cosmo per ricreare le particelle, ma su tutto il corpo gli appavero tagli più o meno profondi, che cominciarono a versare copiosi fiotti di linfa vitale. Shulme osservò quel repentino fenomeno e si chiese come avesse fatto quel ragazzo a infliggergli danni così ingenti.
   Nashira si avvide della perplessità sorta negli occhi dell'avversario e accennò un sorriso soddisfatto. Poi chiuse gli occhi e con tono fiero dissolse gli interrogativi che attanagliavano il Sabitta: - Sei stato il primo ad assaggiare l'Excalibur Antanáklasis[5] -.
   - Di che parli? -, sbottò Shulme, sentendo le forze svanire e ancora oppresso dai dubbi.
   - I fendenti che sembro lanciare a caso hanno in realtà una traiettoria ben precisa: una parte funge da scudo trasparente che inganna l'avversario e mi ripara dagli attacchi, l'altra invece colpisce l'ignaro malcapitato ritardandone l'atroce supplizio -, chiarì il Capricorno, lasciando il demone stupito e contrariato.
   - Di primo acchito credevo fossi solo un moccioso con indosso ferraglia luccicante, ma devo darti atto che sei un vero guerriero -, ammise Shulme, prima che un abbondante zampillo di sangue gli fuoriuscisse dalla bocca. Cadde a terra, provando a rialzarsi, ma la nera signora lo coprì col suo manto e lo trascinò con sé a cavallo del vento.
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   Vernalis si ritrovò in una remota zona dell'isola di Creta: il cosmo che lo aveva guidato fin lì era sparito improvvisamente. Aveva compreso che al suo avversario piaceva giocare, ma lui era stanco di fare da pupazzo ai suoi nemici. Concentrò il cosmo in una mano, la poggiò delicatamente su un cespuglio e scoprì il nascondiglio del demone: si era acquattato in una piccola insenatura. Il custode dell'ultima casa dello Zodiaco lo raggiunse e lo trovò a raccogliere pietruzze sulla sabbia. Alquanto incuriosito da quel bizzarro comportamento lo osservò con un certo interesse.
   Aveva una folta capigliatura verde e occhi di nero pece, un fisico possente e muscoloso. Indossava un elmo a casco, dai cui lati si ergevano corna ritorte. Il pettorale ricordava quello dell'armatura di Taurus, ma di colore marrone con triangoli rossi incisi sul torace. Gli spallacci erano grandi e tondeggianti, muniti di piccoli spuntoni. Il cinturino era costituito da quattro piastre di diversa dimensione: le due che coprivano i fianchi erano più corte, mentre le altre due raggiungevano le ginocchia. Bracciali e schinieri erano lisci, ma montavano piccoli corni aguzzi.
   Accortosi della presenza del Cavaliere, il Sabitta abbandonò il suo passatempo e lo guardò con espressione ambigua: da un lato sembrava irritato dall'essere stato distratto, dall'altro appariva annoiato all'idea di combattere. Si schiarì la voce con un colpo di tosse, e poi si presentò: - Il mio nome è Argandea e sono il quarto demone della terra -. Parlò senza troppa convinzione, lasciando Vernalis piuttosto incerto su quel modo di fare.
   Per levarsi ogni dubbio, il giovane Pisces iniziò a solleticare l'orgoglio del demone: - Se preferisci arrenderti, mi risparmi la fatica di eliminarti! -
   Argandea rise di gusto a quella battuta, ma non apparve scosso o indispettito dall'insinuazione. Ciò insospettì ulteriormente il Cavaliere, che decise di mettere da parte le chiacchiere e di passare all'offensiva. Si avvolse del suo dorato cosmo e creò nel palmo della mano un fiore viola.
   - Thanásimon Phílēma! -, sibilò, scagliandolo contro l'avversario. Argandea si abbassò a raccogliere un sasso e lo indirizzò verso il fiore, senza scomporsi o abbozzare difesa alcuna. Quando il letale germoglio del Cavaliere impattò su quella semplice pietruzza perse d'efficacia e cadde a terra, dissolvendosi.
   Vernalis corrugò la fronte, impressionato da quella strana mossa, e capì che forse aveva giudicato troppo presto il comportamento di quel singolare demone. Argandea sorrise, felice di aver destato interesse nell'avversario; tuttavia, non aveva voglia di protrarre a lungo quello scontro: guerre e conflitti non gli avevano mai regalato alcuna soddisfazione, erano solo inutili beghe tra dei a cui era costretto a prender parte in virtù del suo ruolo.
   - So che la tua mente cerca risposte a quanto è appena successo, perciò lascia che t'illumini io -, esordì con voce annoiata, prendendo un altro sasso dal mucchietto e facendolo roteare nell'aria.
   - Il mio cosmo è in grado di manipolare lo spirito della materia e, di conseguenza, può annullare anche gli effetti dei tuoi colpi -, spiegò, osservando il sassolino che teneva in mano e facendo ardere il suo cosmo grigio.
   - Guarda bene! Namlul Sheduk![6] -, invocò, e tutte le pietre si sollevarono e cambiarono forma, assumendo linee aguzze e taglienti. Puntò il dito contro l'avversario, ed esse gli si avventarono contro con violenza.
   Vernalis predispose le difese, ma ogni volta che una delle pietruzze colpiva la barriera, essa cedeva, gettando il Cavaliere in una situazione difficile da gestire. Si teletrasportò per evitare danni consistenti e provò ad avvicinarsi per impedirgli di lanciare nuovamente quella terribile tecnica. Dal terreno sorsero steli coperti di spine che avvolsero il demone, impedendogli il minimo movimento.
   - Basanismoû Kládoi! -, gridò, e i rami si strinsero ancora di più sul corpo di Argandea, conficcandone le spine nell'armatura e nella carne.
   Il Sabitta provava a divincolarsi e a bruciare il proprio cosmo, ma sembrava tutto vano: si sentiva debole, stordito, la vista gli si annebbiava. Non capiva cosa avesse quella tecnica di così letale da ridurlo all'impotenza. Vernalis scorse nel suo volto un moto d'ira e di rifiuto della sconfitta, e ricambiò il favore spiegandogli cos'era successo.
   - Il tuo cosmo può manipolare lo spirito della materia, ma non il potere degli dei -, esordì, lasciando l'avversario stupito da quell'affermazione. Argandea immaginò di trovarsi di fronte al guerriero destinato a opporsi a Nergal e, con ancor più impegno, cercò la libertà dal giogo di quel groviglio.
   - Non sforzarti, è tutto inutile. Le spine della mia tecnica contengono il veleno del Lete, una sostanza prodotta dall'omonimo fiume infernale che ha il compito di annichilire la volontà delle anime ancora troppo legate ai ricordi terreni. Fra non molto perderai l'uso dei cinque sensi e la tua ritrovata vita si spegnerà in un sonno privo di dolore -, concluse, con una certa amarezza nella voce: usare quel potere non gli era mai piaciuto, ma ormai aveva compreso che contro quelle creature prive di qualsivoglia sentimento non erano necessari tanti scrupoli.
   Argandea cadde in ginocchio, puntando lo sguardo sfocato verso l'avversario che con un colpo di mano gli aveva strappato la vittoria. Avrebbe voluto terminare quella sua nuova esistenza con qualche battuta sarcastica, ma dalla sua bocca non uscivano suoni. Si rese conto di essere giunto al capolinea e abbozzò un sorriso prima di diventare cenere.
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    All'udire l'appellativo con cui il Cavaliere si era rivolto a Kharax, i due Sabitti a guardia del palazzo di Nergal avanzarono di qualche passo. - Conosci questo tirapiedi di Atena, Lulul? -, chiese Silulumesh con tono grave ed espressione corrucciata. Il traditore annuì.
   - E perché ti ha chiamato 'padre'? -, aggiunse Tuge sprezzante, affiancando il compagno.
   L'ex Cavaliere di Crater si voltò, guardandoli torvamente. - Questi non sono affari che vi riguardano -, sbottò, tentando di dissuaderli e di farli allontanare, ma il suo piano fallì.
   Il settimo demone del ghiaccio avanzò di un altro passo e, incrociando le braccia, insinuò: - Hai forse deciso di cambiare fronte ancora una volta? D'altronde, visto il tuo passato, non me ne meraviglierei! -
   Quelle crude parole spezzarono le catene di tolleranza di Kharax, che finora aveva sopportato ingiurie e compromessi per portare a termine i suoi disegni. - Volete sfidarmi, vili creature? -, provocò, lasciando che un alone di cosmo azzurro lo avvolgesse dopo lunghi anni. Sertan aveva intuito che l'odiato genitore desiderava sbarazzarsi di quegli scomodi compagni di viaggio e attese in disparte.
   - Osi mostrare le zanne davanti ai guerrieri del Supremo Nergal? -, proruppe Tuge, che mal sopportava l'improvvisa ribellione dell'alleato.
   - Ti vanti come se foste creature da temere, ma in realtà siete soltanto reclute d'infimo valore -, rispose Lulul, che finalmente poteva esprimere la sua vera opinione su quell'orda demoniaca.
   - Preparati a morire, traditore! Il gelo d'Irkalla ti accompagnerà nell'oblio! Mes Sheĝ![7] -, gridò Silulumesh, lanciando strali di ghiaccio nero contro Kharax.
    - Gabarahum![8] -, lo appoggiò Tuge, e raffiche di vento urlanti si gettarono sull'obiettivo. L'antico custode di Crater non si scompose, anzi indossò un sorriso sornione e, con piccoli movimenti delle braccia creò un vortice d'aria gelida che inghiottì i dardi di Silulumesh e assorbì il vento di Tuge.
   Il mulinello d'aria s'intensificò in maniera esponenziale: Kharax allargò le braccia e lo diresse contro i suoi avversari, gridando: - Leukoû Lōtoû Pagherá Lónchē![9] - La coltre gelida investì i due malcapitati e, quando si disperse, innumerevoli picche di ghiaccio avevano trafitto i due Sabitti che, in un battito di ciglia, vennero spazzati via. Quel colpo aveva fiaccato parecchio il padre di Sertan, oramai disavvezzo da anni all'uso del cosmo.
   - È così che eliminavi le tue vittime innocenti? -, provocò Sertan, stupito dalla potenza della tecnica del genitore. Kharax lasciò cadere le allusioni del figlio, abbassò il capo e rilassò i muscoli, ancora tesi dopo il rilascio del suo impressionante cosmo.
   - Sì! -, rispose in un sussurro. - Ma non erano innocenti! -, puntualizzò, rivolgendo al Cavaliere uno sguardo che pretendeva comprensione.
   Il custode della quarta casa abbozzò un sorriso amaro: neppure nei suoi incubi peggiori avrebbe immaginato che il padre fosse capace di mentire così spudoratamente al suo stesso sangue.
   - Come fai a mentire con tanta disinvoltura? -, sbottò irritato, guardando con odio l'uomo che aveva coperto di ignominia il buon nome della sua famiglia.
   - Non sto mentendo! -, insisté il traditore di Atena, incurvando la fronte a quelle accuse che riteneva infondate.
   - E quei bambini che hai trucidato a Durazzo? Li hai forse dimenticati? -, urlò il suo giovane rampollo, riversandogli addosso tutto il livore che gli appesantiva il cuore.
   Il vecchio guerriero sgranò gli occhi, provando a spiegarsi come facesse Sertan a conoscere quella storia, mentre alla mente gli riaffioravano tristi memorie: rivide quei tre fanciulli vestiti di cenci, il viso sporco e i capelli scarmigliati; una gallina avvolta in un panno scuro e tenuta sottobraccio. Poi gli apparve l'immagine dei loro occhi spauriti e confusi - riusciva ancora a percepire il tremore che li avviluppava - e, infine, eccoli privi di vita in una pozza di sangue. A quella visione Kharax deglutì nervosamente e strinse i pugni: - Saranno stati anche dei mocciosi, ma restavano pur sempre dei criminali! -, si difese tra i denti.
   - Quei bambini rubavano solo per sfamarsi. Credi che in una situazione diversa avrebbero macchiato le loro mani col furto? -, controbatté Sertan, sempre più consapevole delle deviate idee del padre.
   - Sei rimasto troppo tempo dietro le mura del Grande Tempio, non hai avuto modo di conoscere la feccia che abita la Terra -, ritorse il traditore, fissando lo sguardo sul figlio.
   L'aveva lasciato che era soltanto un bambino, e ora si trovava di fronte un giovane prestante e forte, fiero della sua corazza d'oro lucente, che lo accusava di azioni nefande. Pensò che quell'odio nei suoi confronti gli fosse stato instillato dai racconti di Alexer, ed esecrò il Sacerdote ancor di più per questo. La sua speranza di vederlo morto era ormai solo una chimera, una brama inappagata che si sarebbe trascinato nella tomba.
   - Alexer deve essersi divertito a spargere veleno sul mio conto. Ti ha rccontato solo ciò che avrebbe potuto suscitare la tua indignazione. Bella mossa! Devo ammettere che sa quello che fa -, affermò sdegnato l'antico Cavaliere di Crater, guardando il figlio impassibile di fronte a quelle accuse.
   - Sei così accecato dal tuo astio che non fai altro che dire fandonie. Il Sacerdote non mi ha mai raccontato nulla dei tuoi crimini, né io gli ho mai chiesto spiegazioni sul motivo della tua condanna -, ribatté Sertan, l'espressione seria e il tono risoluto e fermo. Il traditore capì che non mentiva: in questo era come sua madre, donna onesta e schietta, priva di infingimenti e strenua seguace della giustizia. Forse solo l'abilità guerriera aveva ereditato da lui. Tuttavia, se non era stato Alexer, chi gli aveva riferito i suoi delitti?
   - Sono state le tue stesse vittime a svelarmi la verità! -, continuò, lasciando il padre in balia di sentimenti contrastanti. Kharax indietreggiò di un passo, corrugando la fronte e affollando la mente di domande.
   - Che significa? -, proruppe, dando sfogo alla questione che gli premeva più di tutte. Sertan indossò un sorriso amaro e, rovistando nella memoria, riportò alla luce il crudo ricordo del passato:
   - Avevo all'incirca due anni quando iniziasti la tua campagna di giustizia sommaria: spesso ti assentavi per lunghi giorni, sempre in giro per quelle che tu chiamavi 'missioni'. Eppure, ogni volta che m'infilavo a letto e tentavo di addormentarmi, avvertivo sinistre presenze e udivo voci dolenti raccontarmi alle orecchie di crimini orribili. Molti di essi erano stati commessi da te. Mi turavo le orecchie per non ascoltare, ma quelle accuse e quei macabri racconti giungevano comunque alla mia mente; così mi rannicchiavo in un angolo, piangendo e credendo che la mia mente fosse preda della follia.
   All'inizio, pensavo fossero solo mie paranoie, ma ogni notte, puntualmente, quegli inquietanti spiriti bussavano alla mia porta e insistevano a narrarmi le circostanze in cui erano stati strappati alla vita. Nel frattempo, tu eri stato catturato e condannato a morte, mentre la mamma, incredula alle pesanti accuse che ti erano state mosse, si abbandonava al dolore che di lì a poco l'avrebbe consumata. Da un momento all'altro mi ritrovai senza genitori, oppresso da quelle terrificanti visite notturne di cui non riuscivo a parlare a nessuno. Fu allora che mi resi conto della verità che si celava dietro quelle raccapriccianti storie e che cominciai a disprezzarti e a coltivare il desiderio di riabilitare il buon nome della nostra famiglia.
   Quando la mamma morì, mi recai al Grande Tempio: era tardi, pioveva a dirotto e le guardie m'impedivano di accedere alle dodici case. Iniziai a gridare il nome del Sommo Sacerdote e a chiedergli udienza. Non passò molto tempo che dall'ingresso della prima casa uscì un uomo vestito di una solenne tunica e un elmo che ne nascondeva le fattezze. Era lui: fece allontnare le guardie, mi prese per mano, mi condusse tra le colonne del pronao del palazzo del Montone Bianco e parlammo a lungo. Scoprii finalmente il motivo che spingeva quelle anime a farmi visita: erano attirate dal cosmo assopito dentro di me! Quello era il segno che l'armatura di Cancer mi attendeva per essere il suo custode.
   Iniziai ad allenarmi strenuamente, in solitudine, senza relazionarmi ai miei compagni, perché volevo dimostrare con i fatti che la giustizia che dimorava in me era pura, scevra di qualsivoglia macchia. Oggi chiuderò i conti col passato, punendoti per i tuoi scellerati crimini -.
   Il racconto del figlio turbò non poco il traditore: era consapevole che le sue scelte avevano condizionato anche la vita dei suoi cari, ma ormai non si poteva più tornare indietro. - Comprendo quanto sia stato difficile affrontare le critiche e il disprezzo di chi ti circondava, ma rifarei tutto ciò che ho fatto, perché sono convinto delle mie azioni -, asserì, rivolgendo di nuovo lo sguardo a Sertan, irritato dalla spregiudicatezza con cui il genitore declinava le proprie idee.
   - Tu consideri quei tre ragazzini vittime innocenti della mia follia solo perché le loro ombre ti hanno raccontato una versione dei fatti, ma anche gli spiriti sanno mentire! -, continuò, leggendo un moto di biasimo nello sguardo del Cavaliere.
   - Quei giovani pendagli da forca non erano specializzati solo nel furto di galline. Poco tempo prima avevano aggredito e quasi ucciso una coppia di anziani per un magro bottino, e l'avevano fatta franca. Ciò li aveva resi intrepidi e spavaldi quando mi recai a riscuotere la loro testa. Mi sfidarono, forti delle loro precedenti imprese, e solo quando notarono l'armatura che indossavo sotto il mantello i loro occhi si tinsero di terrore. Tuttavia, non indietreggiarono, ma si fiondarono su di me, coltelli alla mano. Un istante dopo erano riversi a terra, in una pozza di sangue. Era questa l'innocenza delle tue ombre -, narrò il traditore, con la collera ancora scolpita nella voce.
   Sertan lo guardò con un'espressione piatta, priva di qualsiasi emozione, e, con tono sprezzante, disse: - Ma fu quella strage a farti perdere l'armatura! E tanto basta a renderti un assassino senza scrupoli! - Quelle parole ferirono l'orgoglio di Kharax, soprattutto perché era stato suo figlio a pronunciarle: ormai, però, sapeva bene che ricucire gli strappi di un rapporto quasi inesistente sarebbe stato impossibile, così decise di rivelargli la verità. La sua!
   - Sì, subito dopo quel delitto l'armatura abbandonò il mio corpo e riprese la sua forma a totem. Ero cosciente che ciò avrebbe segnato la mia condanna a morte, ma prima che gli emissari di Alexer mi catturassero, riempì d'acqua l'armatura di Crater da una fonte vicina -, ricominciò, destando curiosità in Sertan, che non capiva il motivo di un tale atto.
   Il traditore di Atena si accorse di aver generato un certo interesse nel suo rampollo e proseguì il suo racconto: - L'armatura della Coppa possiede proprietà sia curative che preveggenti: basta versare dell'acqua al suo interno non solo per riacquistare le forze o guarire piaghe, ma anche per conoscere il futuro. Mi ci specchiai e vidi la mia esecuzione, ma non la morte! Poi l'incontro col sacerdote di Nergal e ciò che avremmo compiuto insieme, ma in realtà mi avvidi ben presto che tutta quella successione di eventi aveva un solo scopo: annientare Nergal per sempre! -
   - Ma che vai cianciando? Vorresti farmi credere che il tuo piano era di eliminare il dio d'Irkalla fin dall'inizio? Le tue azioni hanno condotto a morte prematura molti dei miei compagni e ora, pur di scampare ancora una volta al fato, cerchi di imbonirmi con le tue belle storielle! -, sbottò Sertan, giunto al colmo dell'ira e del disgusto per l'uomo che la sorte gli aveva assegnato come padre.
   - Ti sbagli, stavolta non sfuggirò al mio destino: sarà per mano tua che la mia vita si spegnerà! -, ribatté il traditore, con la rassegnazione dipinta sul volto. - Ma almeno consentimi di spiegarti i motivi del mio presunto tradimento -, chiese prima di continuare, cercando assenso negli occhi del figlio. Sertan fu turbato dalle parole del padre e, per un attimo, decise di deporre il suo profondo risentimento e di ascoltare quanto aveva da dire. Rincuorato dall'approvazione ricevuta, Kharax iniziò a perorare la propria causa:
   - Sono ormai più di duemila anni che Atena e i Cavalieri combattono sanguinose guerre sacre, senza mai ottenere una vittoria definitiva. Gli dei ostili all'umanità continuano a tornare ciclicamente, costringendo nuove schiere di Cavalieri a soccombere per sventarne la minaccia. Intanto la sopraffazione, le ostilità, le ambizioni dilagano tra gli uomini, che restano sballottati e confusi, prede di loro stessi e di nemici divini. Atena afferma di credere nelle possibilità della razza umana, eppure non si limita a salvaguardare i deboli e gli innocenti, ma risparmia e perdona addirittura i corrotti, i carnefici, gli spietati, i più nefandi criminali. E questa sarebbe giustizia? Mi accusi di essere un assassino, ma quante vittime ha mietuto l'indulgenza di Atena? Gli uomini devono svegliarsi e diventare artefici del loro destino: spetta a coloro che sanno manipolare il cosmo prendere le redini dell'umanità e governarla con rettitudine ed equità, punendo i malvagi e sostenendo i deboli. Forse il mio progetto non si realizzerà mai, ma se posso contribuire a eliminare per sempre un dio lo farò con immenso piacere! -
   - E pur di raggiungere i tuoi scopi non hai esitato ad uccidere giovani guerrieri che credevano in un ideale di pace! Solo per indebolire Alexer! E come pensavi di battere Nergal? Sentiamo cos'altro t'inventerai! -, ritorse il Cavaliere, poco propenso a dare retta alle giustificazioni del genitore. Kharax non si scompose, consapevole di non avere alcuna possibilità di fare breccia nell'animo del figlio; tuttavia, non voleva morire senza aver rivelato al suo unico rampollo qual era il suo piano.
   - Credi forse che sia un caso l'allontanamento del custode della terza casa e la prigionia di quello della dodicesima? -, domandò, notando un'espressione dubbiosa e confusa sul volto del figlio.
   - Nergal può essere affrontato soltanto dal 'guerriero del destino', cioè da colui che ha in sé sangue umano misto a ichor divino, e i tuoi due compagni rispondevano perfettamente alla descrizione dell'antica profezia! -, spiegò, lasciando Sertan sbalordito e meditabondo.
   - Tu sai, dunque! -, proruppe, quasi volesse strapparsi dall'anima l'inquietudine che quella rivelazione gli aveva gettato addosso.
   Kharax annuì. - Li avevo preservati dalla battaglia solo per indebolirvi e per gustarmi la vendetta contro Alexer: veder morire tante giovani vite gli avrebbe procurato un dolore indicibile e ne avrebbe fiaccato la risolutezza. Al momento opportuno, avrei rimesso in gioco i Cavalieri superstiti che avrebbero affrontato il Signore d'Irkalla -, continuò, provocando nuovamente lo sdegno di Sertan.
   - Ma non hai calcolato la barriera che protegge il palazzo di Nergal e inibisce il potere degli dei -, puntualizzò il giovane Cancer, che solo in parte riusciva a comprendere le motivazioni di suo padre, anche dopo le spiegazioni ricevute.
   Kharax abbozzò un sorriso e, con una punta di soddisfazione, ritorse: - Proprio per questo i tuoi compagni sono ancora in vita. Ho dovuto cambiare in corsa il mio piano non appena ho saputo della barriera. Non mi bastavano più soltanto i probabili avversari del dio d'Irkalla, ma avevo bisogno anche di qualcuno che si occupasse dei sigilli. Per ovviare al problema consigliai a Sorush, il sacerdote di Nergal che ora si trova in cima a quella torre, di separare gli ultimi Sabitti in modo da distrarvi e da concedergli tempo per ultimare i rituali necessari alla rinascita del suo dio. La trovò una buona idea e li inviò in luoghi diversi, dove hanno trovato la morte per mano vostra. -
   Sertan si rese conto che suo padre era un uomo assennato, che non lasciava nulla al caso, ma progettava ogni mossa con grande cura; inoltre, aveva notato anche le sue doti di fine oratore, che gli erano valse l'amicizia e la stima dei potenti. Se solo avesse adoperato queste qualità per i giusti fini, pensava, ora avrebbe rivaleggiato persino col Sommo Alexer. Ma depose quasi subito quella riflessione per concentrarsi sul momento che stava vivendo. - Purtroppo per te, l'unico in grado di sconfiggere Nergal difficilmente tornerà a combattere -, affermò con tono alquanto rassegnato e stizzito, ripensando alle parole che Kharax gli aveva rivolto poco prima.
   - Sai, contavo di rivederti, un giorno, e di spiegarti il motivo della mia assenza, ma non immaginavo che saresti diventato un Cavaliere. Quando ti vidi combattere sotto le mura di Edessa, le mie speranze s'infransero: vederti indossare un'armatura d'oro e seguire le direttive di colui che più odiavo al mondo mi colmarono di rabbia. Col tempo, però, ho imparato ad accettare la situazione e, conoscendo il mio destino, ho procrastinato il nostro incontro il più a lungo possibile -, confessò il traditore, concedendosi una pausa da tutte quelle ingombranti rivelazioni.
   Il custode della quarta casa lesse in quello sfogo improvviso un moto d'affetto, sebbene velato d'orgoglio, ma non volle impugnare quel segno di riavvicinamento: troppo dolore aveva causato Kharax per cavarsela con un semplice perdono; meritava la morte. Ma prima Sertan desiderava conoscere fino in fondo i piani del genitore. - E come vinceremo il nume sumero senza Calx? A questo non hai pensato? -, lo incalzò, tornando al tema principale della loro discussione.
   Lulul tirò un lungo sospiro, intuendo che il suo tentativo era stato vano. - Sei cocciuto come tua madre! Non devi temere per il tuo amico, a breve tornerà sul campo di battaglia. Ho già predisposto ogni cosa -, rispose, con il volto serio e il tono fermo di chi conosce le proprie mosse.
   Per l'ennesima volta, Sertan si sentì sconfitto dalla lungimiranza paterna: la sua meticolosa attenzione ai minimi dettagli lo sorprendeva a ogni nuova scoperta. Per certi versi, gli somigliava: aveva uno spiccato intuito, riusciva a scrutare l'animo umano oltre le apparenze ed era in grado di approntare strategie in breve tempo. Tuttavia, le loro somiglianze terminavano qui: il profondo senso di giustizia e di onore, che al padre sembrava mancare, lo aveva ereditato da sua madre.
   - Ora che sai tutto, possiamo anche concludere la nostra rimpatriata: avanti, compi il tuo dovere -, riprese Kharax, allargando le braccia e offrendo il petto indifeso ai colpi del figlio.
   Sertan fu sorpreso dalla determinazione con cui aveva pronunciato quella frase, e, per un attimo, esitò: era davvero così che doveva finire? E se Kharax avesse pagato per i suoi innumerevoli crimini, si sarebbe sentito meglio? Avrebbe finalmente lavato l'onta della vergogna che gli pesava da sempre nell'animo? Tutti questi interrogativi lo frenavano, impedendogli di portare a termine il suo proposito.
   - Non opporti al destino, figliolo! Colpiscimi! Preferisco morire per mano del mio stesso sangue che soccombere alla vecchiaia o ai colpi di un dio che non riconosco. Spero solo che un giorno comprenderai che le mie azioni non erano dettate da smania di potere o da follia, quanto da un consapevole amore per l'umanità -, lo incitò Kharax, avanzando di qualche passo, le braccia levate in alto e gli occhi puntati sul figlio.
   Il giovane Cancer si arrese al destino, mettendo da parte le sue remore. - Come vuoi, - disse, - ma non sarò io a spegnere la tua vita! Phátnēs Aídēlon Kŷma![10] - Puntò l'indice verso il cielo e onde scure avvilupparono sia Kharax che il Cavaliere. Si ritrovarono su un monte brullo, battuto da un vento gelido, percorso da immense folle che procedevano a passo lento e riempivano l'aria di gemiti e sinistri lamenti.
   - Dove siamo? E chi sono tutte queste persone? -, chiese il traditore, che provava un intenso disagio di fronte a quel paesaggio tanto inusuale.
   - Benvenuto nella Valle degli Inferi! Quelle che vedi sono anime di defunti dirette verso il cratere che si trova in fondo a quella depressione, chiamato 'Bocca di Ade'! -, spiegò il Cavaliere, avvertendo il fastidio che quell'orribile visione suscitava nel padre. Kharax si voltò nel punto indicato da Sertan e si accorse che le anime, giunte sul ciglio del precipizio, vi si gettavano dentro senza alcuna esitazione.
   - Cosa intendevi quando hai detto che non saresti stato tu a prendere la mia vita? -, domandò per dare voce all'inquietudine che gli pervadeva il cuore.
   - I custodi della quarta casa hanno il compito di prendersi cura delle anime che non riescono a trovare la strada dell'Aldilà a causa dei conti in sospeso che si sono lasciate alle spalle quando abitavano un corpo. Esse si riuniscono alla casa del Grande Cancro, che è uno degli accessi per raggiungere la Valle degli Inferi, e noi le indirizziamo verso la Bocca di Ade, ma molte sono ostinate e continuano a tornare, mal sopportando l'idea di non poter chiudere i conti prima dell'eterno riposo -, rispose Sertan, osservando lo stupore nel volto del genitore.
   Il traditore si fermò a riflettere su quanto aveva ascoltato e capì cosa suo figlio gli aveva riservato: - Userai le anime per uccidermi, non è vero? -
   Sertan annuì, ma precisò: - Non saranno anime qualunque, ma quelle di coloro a cui hai strappato la vita. Nonostante siano passati molti anni dalla loro dipartita, continuano a tornare e non vogliono saperne di pervenire alla loro meta ultima. Ora, finalmente, potranno trovare pace -. Allargò le bracccia, creando un'onda che investì le ombre erranti della Valle ed evocò una nuova tecnica: - Ekdikéseōs Pnéuma![11] -
   Al richiamo di quella tecnica, decine di anime lasciarono il fiume di ombre diretto alla porta degli Inferi e si avventarono su Kharax, dilaniandone le carni e macchiando di sangue caldo quel luogo privo di vita. Il traditore non emise un grido, ma stoicamente accettò il supplizio che gli veniva inflitto. Si accasciò a terra, rivolgendo un'ultima occhiata al figlio, ed esalò lo spirito. Dal suo corpo s'innalzò un azzurrognolo fuoco fatuo, che tentò di fuggire via; ma le anime lo incalzarono, sballottandolo in ogni direzione, lo condussero sul ciglio del cratere e lo trascinarono con loro lungo il passaggio che giungeva alla porta degli Inferi.
   Sertan osservò il cadavere straziato di Kharax adagiato nel suo stesso sangue e non poté impedire a una lacrima di rigargli la guancia. - Agli uomini è impossibile sconfiggere gli dei senza Atena! Sei stato uno sciocco a non comprenderlo! -, pensò. Asciugò quella lacrima col dorso della mano, quando avvertì un cosmo immane manifestarsi all'improvviso. - Nergal è tornato! -, disse fra sé.
***
   Sulla terrazza della tredicesima casa, Alexer seguiva gli scontri grazie al cosmo. Sapeva bene che quelle improvvise apparizioni di demoni erano solo un diversivo: tra poco la minaccia di Nergal si sarebbe concretizzata. Aveva avvertito un cosmo molto potente levarsi dalla Mesopotamia, segno che il palazzo del Signore d'Irkalla era pronto ad accogliere il suo sovrano. Dei passi lo distolsero dai suoi pensieri; si voltò e vide Kanaad farglisi incontro.
   - Ti ho cercato dappertutto. Che ci fai qui? -, esordì, accostandosi al parapetto della balconata. Il vicario di Atena rimase in silenzio, come se non avesse affatto ascoltato le parole che gli erano state appena rivolte.
   - La battaglia finale è vicina, Kanaad -, disse con voce piatta, puntando lo sguardo greve sull'amico.
   - Lo so -, rispose il Primo Ministro, leggendo nel tono del vecchio compagno d'arme un velo di angoscia e di rassegnazione.
   Alexer strinse una spalla dell'ex Cavaliere di Virgo e gli rivolse un sorriso intriso di amarezza: - È giunto il tempo di salutarci, amico mio! Presto il nostro nemico tornerà a nuova vita e io debbo prepararmi ad affrontarlo! -, confessò, gettando Kanaad in un vortice di confusione.
   - Che vorresti fare? -, gli domandò, stringendogli forte il braccio e inarcando la fronte. Il Sommo Sacerdote fece qualche passo verso la sala del trono, si fermò a pochi passi dall'ingresso e tornò a fissare gli occhi sul compagno.
   - Non sappiamo se Calx ritornerà sui suoi passi e deciderà di tornare a combattere, né possiamo mandare al massacro i Cavalieri, che non hanno alcuna speranza contro questo nume. Sarò io a scendere in campo e ad assumermi il peso di questa battaglia, - chiarì; ma la perplessità del Primo Ministro non accennava a dissiparsi.
   - Tu non hai ascendenze divine, come intendi tener testa a Nergal? Vuoi forse suicidarti? -, ribatté con tono concitato e severo.
   Alexer tirò un lungo sospiro e, indossata la sua abituale espressione di autorevolezza, rivelò le sue intenzioni: - Da un po' di tempo ho iniziato ad assumere il sangue di Atena per elevare il mio cosmo e renderlo il più simile possibile a quello di un dio -.
   Sconvolto da quella inattesa rivelazione, Kanaad sgranò gli occhi e strinse i pugni: - Sei impazzito? Il sacro ichor di Atena ti ucciderà! Nessuno può resistere all'immenso potere cosmico del sangue di un dio, se non ha la ventura di condividerne la natura -. Il Sommo Sacerdote non batté ciglio alle parole dell'amico, varcò la soglia della sala del trono e, a passo svelto, raggiunse il suo scranno. Il Primo Ministro lo seguì: non aveva intenzione di dargliela vinta.
   Gli si avvicinò e fece per riprendere il discorso, ma Alexer sollevò una mano e disse: - Conosco bene i rischi che corro e so che il prezzo da pagare sarà la mia vita, ma sono l'unico a poter sopportare questo fardello. Anche se ci fosse qualcun altro che fosse in grado di farsene carico, non gli chiederei mai un tale sacrificio. Io ho vissuto a lungo, più della maggior parte degli uomini, ma ho votato la mia esistenza alla giustizia, ero e resto un guerriero, quindi è giusto che io concluda la mia vita combattendo -.
   - Ma dobbiamo ancora acciuffare Kharax e scoprire chi è la spia -, insinuò l'antico custode delle vestigia di Virgo. Alexer sorrise, apprezzando la premura con cui l'amico tentava di dissuaderlo, ma sapeva già che ormai non c'era più bisogno di preoccuparsi di loro.
   - Sertan si sta recando da Kharax per affrontarlo e la spia dovrà uscire allo scoperto non appena il suo signore apparirà. Anche su questo fronte la storia volge all'epilogo -, spiegò. Il Primo Ministro si ritrovò con le armi spuntate, ma non voleva cedere all'idea di perdere l'ultimo dei suoi commilitoni.
   - Allora lo affronterò io! -, propose d'impeto, stupendo Alexer che, pur conoscendo il buon cuore dell'amico, non si aspettava una tale offerta.
   - Sei un uomo dalle qualità straordinarie, Kanaad, ma il tuo posto è qui accanto a Vernalis, il prossimo Sacerdote, e ai Cavalieri rimasti. Tu sei la saggia voce che getterà le fondamenta del futuro Grande Tempio -, disse, con un tono soddisfatto e accorato. Quella poteva essere l'ultima volta che conversavano piacevolmente e non voleva lasciare attriti o malintesi fra loro. Il Primo Ministro depose le armi e, trattenendo le lacrime, decise di godersi quegli estremi momenti con l'amico di tutta una vita.
   Ricordarono la loro giovinezza, gli allenamenti, il giorno dell'investitura a Cavalieri e le numerose battaglie sostenute in nome della giustizia. Passarono ore a ripercorrere i giorni che li avevano visti lottare l'uno di fianco all'altro, a rammentare le gioie per la vittoria e il dolore per la prematura dipartita dei compagni.
   A un tratto, però, il loro dialogo si arrestò: un possente cosmo sorse dall'Oriente e Alexer si alzò di scatto dal trono: - Ci siamo! -, esclamò. Dallo scomparto segreto posto sul bracciolo del trono tirò fuori un'ampolla piena di un liquido rosso, l'aprì e ne trangugiò rapidamente il contenuto. Strinse gli occhi, appoggiandosi allo scranno regale, ma si riprese subito. Sollevò la mano al cielo, avvolgendola di un alone di cosmo, e l'armatura di Gemini apparve e lo rivestì.
   - Abbi cura dei miei ragazzi, Kanaad! -, raccomandò all'amico, che annuì. Si recò nuovamente sulla terrazza, guardò un'ultima volta Kanaad e, con un sorriso sereno, disse: - Addio, amico mio! Ci rivedremo nel Paradiso dei Cavalieri -. In un lampo di luce sparì all'orizzonte, mentre il Primo Ministro non poteva impedire alle lacrime di scaldargli le grinzose guance.
***
   A Rodorio, Lamashtu aveva trascorso ore inquiete dopo il colloquio con Kharax. L'idea di uccidere Eyra non lo allettava, ma d'altronde se non l'avesse fatto lui sarebbe comunque rimasta vittima dell'opera di purificazione dell'universo propugnata da Nergal. Ma era rimasto sbigottito e scosso soprattutto quando aveva visto i suoi compagni perire sotto le mura di Kutha per mano proprio dell'ex Cavaliere. Andava su e giù per la stanza, rimuginando su cosa fare: temeva di essere stato ingannato, ma se Calx era davvero il guerriero del fato ne avrebbe saggiato le abilità e, se fosse riuscito a sconfiggerlo, il Supremo Nergal gliene avrebbe reso merito. Ora che i suoi compagni erano scivolati nel sonno eterno, era l'unico rimasto a poter dimostrare il valore dei Sabitti. Uscì dalla porta posteriore e, a passo spedito, si diresse ad Atene, dove avrebbe aspettato il momento opportuno per agire.
***
   Al porto Calx lavorava di malavoglia, pensando al modo di presentarsi al Grande Tempio e di parlare al suo maestro. Dopo il suo allontanamento non era più riuscito ad avvicinarsi alla dimora di Atena, ma il tormento a cui quel persistente sogno lo sottoponeva, la scoperta che sua madre gli nascondesse la verità e la paura che leggeva negli occhi di Eyra ogni volta che si tirava in ballo la guerra lo spingevano a prendere coraggio e ad affrontare il Sacerdote. Kendreas lo guardava perso nei suoi pensieri e lo richiamava alla realtà. Il ragazzo chiedeva scusa e riprendeva ciò che stava facendo. Si risolse a non indugiare oltre: una volta concluso il suo lavoro al porto, sarebbe corso al Santuario per chiedere udienza al vicario di Atena. Non vedeva l'ora che finisse quella giornata per togliersi i dubbi che lo stritolavano da ormai lungo tempo. Tuttavia, percepì qualcosa che gli gettò il cuore in balia dell'angoscia.
 
[1] "Onde di Scorpio".
[2] "Pugno del Fulmine".
[3] "Cuspide Scarlatta".
[4] "Divoratore d'Anime".
[5] "Riflesso di Excalibur".
[6] "Manipolazione dello Spirito".
[7] "Gelo Oscuro".
[8] "Disperazione".
[9] "Lance di Ghiaccio del Loto Bianco".
[10] "Strati di Spirito".
[11] "Spirito di Vendetta".

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Capitolo 20
*** La rinascita di Nergal ***


Capitolo XX
LA RINASCITA DI NERGAL
 
Atene - Kutha, settembre 1068
 
   Lamashtu percorreva quella strada sterrata e solitaria accompagnato dai suoi pensieri: non riusciva a capacitarsi delle ambigue azioni di Kharax e si augurava che il Cavaliere che stava affrontando in quel momento gli riservasse una morte lenta e atroce. Avrebbe voluto ucciderlo con le sue stesse mani, ma la rinascita di Nergal era ormai imminente, non poteva indugiare oltre: doveva compiere la sua odiosa missione. Era quasi giunto in vista di Atene quando, d'un tratto, il cosmo del traditore sparì assieme a quello del guerriero di Atena. Il demone del fuoco arrestò il passo per un attimo e tese i sensi per capire dove fossero andati, ma non li trovò più. Un amaro sorriso gli si disegnò sul volto e, stringendo i pugni, riprese il suo cammino.
   Giunse ad Atene, ma cercò di evitare i luoghi affollati, infilandosi in vicoli bui e deserti e nascondendosi tra filari di alberi e cespugli. Osservava le persone impegnate nei propri affari, ignare di quanto stava per accadere e immaginò il terrore che avrebbe stravolto la serenità di quei volti all'apparizione del portatore di morte. Gioì, in cuor suo, di quella spaventosa immagine e si affrettò a raggiungere la casa in cui l'attendevano le sue vittime. Bussò alla porta con molta disinvoltura e, dopo qualche secondo, venne ad aprirgli Eyra che, non appena lo vide, si sentì invasa da una repentina ansia.
   - Zio, cosa ci fate qui? Avete chiuso il forno per venire a farci visita? -, chiese, dissimulando l'agitazione che le percorreva le membra.  Irene si affacciò per capire chi fosse giunto alla loro porta a quell'ora inconsueta e fu meravigliata di scorgere la sagoma di Makarios. Lo salutò con un sorriso e lo invitò ad accomodarsi, ma l'ospite declinò.
   - Non sono venuto per una visita di cortesia, ma per spegnere la vostra esistenza! -, affermò senza mezzi termini, lasciando interdette le due donne, che non capivano cosa intendesse dire con quelle strane parole. Irene si avvicinò per chiedere spiegazioni, ma il demone sollevò una mano e la donna, presa da un lancinante dolore alla gola e con gli occhi spalancati dalla paura, si accasciò al suolo.
   Eyra guardò inorridita la scena e, piangendo, si rivolse a Lamashtu: - Che significa tutto questo? Perché vuoi ucciderci? Noi non ti abbiamo fatto niente! - Il Sabitta la guardò con aria pietosa ma inflessibile: - Non sei più utile alla nostra causa: è tempo che il tuo spasimante affronti il suo destino! -, rispose sbrigativamente, senza fornire dettagli.
   La fanciulla dai capelli corvini si adirò: le era costata enormi sacrifici quella missione; era stata fonte di gravi rimorsi e di dolorose angosce; aveva messo in campo tutte le sue abilità per tenere Calx lontano dalla battaglia, e ora si rendeva conto che il suo operato era stato totalmente vano. - Ho gettato via il mio tempo per niente, quindi? -, gridò Eyra, sfogando la sua rabbia sul demone.
   - Credevi che l'amore ti avrebbe affrancato dalle grinfie del fato? Sei solo una sciocca ragazzina che si nutre di fugaci sogni e di progetti irrealizzabili. Voi umani siete solo delle creature moleste, avete contaminato l'ordine cosmico con la vostra tracotanza e il vostro disprezzo degli dei -, ribatté Lamashtu, poco incline alle sterili discussioni.
   Mentre i due ragionavano, Irene, ripresasi, si appoggiò a una sedia per rimettersi in piedi. Un dolore profondo e acuto le devastava la gola e le impediva di parlare, ma la volontà di venire a capo di quella insolita situazione la spingeva a rialzarsi a tutti i costi. Lamashtu la vide e provò a colpirla di nuovo, ma Eyra gli si parò davanti, dicendo: - Prenditela con me, se vuoi. Ma lascia stare quella donna, lei non ha alcuna colpa -.
   Il demone rise e riassunse il suo aspetto originario: finalmente era libero di poter manifestare la sua vera forma e il potere che era stato costretto a reprimere per lungo tempo. - Gesto misericordioso quanto inutile, il tuo. L'universo presto dovrà piegarsi al volere del Signore d'Irkalla e non vi sarà spazio per alcuna creatura. Le risparmierò l'atroce sofferenza di morire sotto i colpi del Supremo Nergal -, commentò, scaraventando contro il muro la sua finta nipote. L'urto fece perdere i sensi alla fanciulla.
   Lamashtu si avvicinò a Irene che si reggeva in piedi a stento, rivoli di sangue agli angoli della bocca e occhi colmi di lacrime. Provò a indirizzare qualche parola di rimprovero a quell'essere crudele, ma non riuscì ad articolare nessun suono. Il Sabitta le poggiò una mano sulla fronte e una fiammella rossa le penetrò la testa. Irene strabuzzò gli occhi e il suo corpo esanime scivolò tra le braccia di Lamashtu, che l'adagiò a terra con cura. - Addio, spero che il tuo trapasso sia stato indolore -, sussurrò, per poi volgere lo sguardo verso Eyra che, un po' stordita, si stava rialzando.
   Alla vista della donna priva di vita, riversa sul pavimento, la ragazza dai capelli corvini ebbe un moto di rabbia e, stringendo i denti, si rimise in piedi un po' barcollante, sollevò la destra e colpì il volto del demone protetto dall'elmo. Tuttavia, il suo sfogo non sortì l'esito sperato: Lamashtu non risentì affatto di quel debole schiaffo, mentre la mano di Eyra rimase ferita. Livida, la fanciulla si diede a colpirlo al petto con tutte le forze che aveva, ma ben presto le braccia si stancarono e gli occhi le si empirono di calde lacrime.
   - Mi rincresce doverti strappare alla vita, sei una mocciosa interessante, ma è mio dovere assecondare la volontà del mio Signore -, disse il Sabitta, afferrando i polsi di Eyra. - Prima di lasciare questo mondo avrai il tempo di raccontare la verità al tuo amato Cavaliere. Cerca di essere sincera, almeno prima di congedarti da questa vita -, continuò, mentre un calore intenso s'impossessava della ragazza, che sentì le sue energie vitali scemare lentamente.
   Il demone l'appoggiò a una parete e, dopo averla osservata per un ultima volta, lasciò la stanza e cercò un nascondiglio da cui poter sorvegliare la casa e attendere l'arrivo di Calx. Si acquattò dietro alcuni alberi dal fusto largo, impaziente di conoscere la reazione del Cavaliere.
***
   L'allievo di Alexer preparava le reti, pregando che quella giornata terminasse il prima possibile per correre al Grande Tempio e parlare finalmente al Sommo Sacerdote; tuttavia, una sottile inquietudine gli aleggiava sul cuore e gli impediva di lavorare con il giusto impegno: così il tempo sembrava scorrere più lentamente del solito e quel giorno risultò interminabile. Il ragazzo provava a concentrarsi maggiormente su quanto stava facendo, ma la sua mente si rifiutava di collaborare e lo teneva costantemente incollato ai suoi pensieri.
   Kendreas lo richiamò più volte alla concentrazione, ma Calx sembrava estremamente distratto e privo di volontà, tanto che il compagno, a un certo punto, si arrabbiò: - Che hai, oggi? Lavori svogliatamente ed è già la quarta volta che ti ripeto di non piegare le reti in quel modo! Se perdiamo altro tempo non porteremo niente al mercato! -
   Calx annuì senza troppa convinzione, ma d'improvviso avvertì dei cosmi innalzarsi: alcuni erano sconosciuti, altri ben noti. Sapeva che l'ora della battaglia finale era prossima e non voleva continuare ad alimentare i suoi dubbi, mentre altri perivano. Si sforzò di accantonare le sue innumerevoli riflessioni e svolgere il suo lavoro con l'impegno richiesto, ma i suoi buoni propositi non durarono a lungo: percepì una traccia di cosmo provenire dalla zona in cui abitava, e un'angoscia profonda s'impadronì di lui. Immaginò che quella preoccupazione nascesse dalla difficile situazione che si andava delineando, ma, d'un tratto, le reti gli scivolarono dalle mani; un sudore freddo si accompagnò a un tremore ingiustificato e una folle paura lo spinse a tornare a casa. Senza proferire parola, abbandonò Kendreas e la barca; corse furiosamente verso il suo alloggio e trovò la porta disserrata.
   Ristette un attimo sull'uscio, come se non volesse scoprire una verità che gli era già palese. Varcò la porta lentamente, quasi a voler procrastinare un dolore che bramava di ferirgli il cuore. Si affacciò nella sala principale e vide sua madre riversa a terra. Le si avvicinò con premura, prendendola tra le braccia: non mostrava segni di lotta o di torture, ma quando ne osservò il volto, notò rivoli di sangue dalla bocca e dal naso. Trattenne le lacrime, stringendola a sé e chiedendosi chi avesse mai potuto uccidere una donna tanto gentile e delicata.
   Un colpo di tosse lo ridestò dal suo dolore: si voltò e si accorse che Eyra era appoggiata a una parete, ancora viva. Sollevato dal poter almeno salvare una delle sue donne, riadagiò a terra con cura il corpo esanime di sua madre e raggiunse la ragazza dai capelli corvini. Eyra piangeva. Con la mano carezzò dolcemente il viso del suo amato, mentre Calx le chiedeva cosa fosse accsduto.
   La fanciulla chiuse gli occhi per un istante, consapevole che le parole che stava per pronunciare avrebbero potuto attirarle addosso il disprezzo di colui che amava. Si fece forza e, tirando un profondo sospiro, cominciò a raccontare: - Ricordi la spia a cui il Grande Tempio dava la caccia? Era mio zio, o meglio un demone che ne aveva preso le sembianze dopo averlo ucciso -.
   Calx aggrottò la fronte: - Che significa? Tu hai sempre saputo chi era e non hai mai detto nulla? Perché? Perché? Parla! -, intervenne, stringendo le spalle della ragazza, incredulo e deluso da quella inattesa confessione.
   Eyra lo guardò con occhi pentiti; le lacrime sgorgavano senza posa, ma non si lasciò intimidire dal tono minaccioso dell'allievo di Alexer: ormai era pronta a togliersi quel gravoso fardello dal cuore. - Quando mia madre morì, fui affidata alle cure di mio zio, l'unico parente che ancora mi rimaneva; ma quell'uomo, all'apparenza schivo e devoto ad Atena, covava nell'animo l'indole di un mostro. Mi molestava, mi trattava male, e i giorni che ho passato in sua compagnia sono stati i peggiori della mia vita! - Fu costretta a fermarsi: il pianto dirotto e il ricordo di quelle orribili violenze la soffocavano.
   - E cosa c'entra tutto questo con la spia? Avanti! Dimmelo! -, incalzò Calx, stanco di non conoscere mai appieno la verità. Eyra si sollevò un po', facendosi forza sulle braccia, ma si accorse di non sentire più le gambe e di non essere più in grado di ruotare il bacino: le fiamme di Lamashtu la stavano progressivamente paralizzando e l'avrebbero condotta a morte in breve tempo. Senza indugiare oltre, continuò il suo racconto:
   - Kharax era a conoscenza degli abusi che subivo e mi promise che avrebbe posto fine a quell'abominio. Una sera si presentò davanti alla nostra porta in compagnia di un demone. Li feci accomodare; mio zio riposava. Iniziammo a parlare e Makarios si svegliò: ci raggiunse con aria minacciosa, ma il demone lo strappò alla vita in pochi secondi e ne assunse le sembianze. In principio non capivo cosa stesse accadendo, ma Kharax mi assicurò che da quel momento in poi non avrei più dovuto temere le angherie di nessuno! Fu allora che accettai di tenergli il gioco: in fondo, non avevo mai amato il Santuario di Atena e forse un giorno sarei tornata ad Atene, la mia città natia, che mi mancava tanto -.
   Calx lasciò le spalle della ragazza e le sue mani scivolarono lungo le braccia di Eyra: non si era mai reso conto di nulla, né aveva mai avvertito nessun cosmo provenire da quell'uomo corpulento, dall'andatura pesante e di poche parole. Ma ora gli si parava davanti una verità assurda e terribile che faticava ad accettare. Una muta rabbia gli avvelenò il cuore: strinse i pugni e fissò gli occhi di Eyra, che lo osservavano con ritrosia e rimorso.
   - Fu lui a chiedermi di avvicinarti; voleva che ti tenessi lontano dalla guerra. Ci aveva visti il giorno del nostro primo incontro. All'inizio ti cercai solo perché volevo pagare il debito di gratitudine che provavo nei confronti suoi e di Kharax, ma poi la tua gentilezza e il tuo profondo rispetto mi hanno fatto innamorare di te. Da allora è stato l'amore a pretendere che tu non combattessi più. Quando tornasti a casa dopo l'attacco di Atene, ferito e stravolto, ebbi paura; ma ora so che questo conflitto è il tuo destino! Perdonami, se puoi! Non lasciarmi morire col ricordo del disprezzo impresso nei tuoi occhi! Ora va', trovalo, e vendica tua madre! -, terminò la ragazza, spossata da quell'inevitabile chiarimento. Cominciò a tossire, e fiotti di sangue le imbrattarono il vestito. Si aggrappò a Calx, gli rivolse un'ultima occhiata e rese l'anima, reclinando il capo sul petto del suo amato.
   Un pianto sommesso scosse il corpo dell'erede di Gemini, che carezzò i lunghi capelli di Eyra. La prese in braccio e la depose accanto a sua madre. Si rialzò, diede loro uno sguardo fugace, e lasciò rapidamente la casa, chiudendosi la porta alle spalle. Tese i sensi per scovare l'artefice di quegli insensati assassinii, ma non ce ne fu bisogno: da una fila di alberi poco distante apparve una figura dalla corazza rosa e dalle forme femminili.
   - Ecco il frutto di vil sangue e sacra linfa! -, esordì, avvicinandosi a Calx con grande fierezza e orgoglio. Il ragazzo chiuse gli occhi e strinse i pugni; si girò completamente verso il demone e gli rivolse uno sguardo colmo di astio e rancore. - Se il fato ha scelto te per ostacolare le ambizioni del supremo Nergal, il mio Signore s'impadronirà dell'universo in un batter di ciglia! Un uomo così gravato da dubbi e da incertezze non riuscirà mai a sopraffare un nume! -, continuò il Sabitta, schernendo il giovane e provocandolo.
   L'erede di Gemini non si scompose, ma, con tono deciso e aggressivo, ribatté: - Se fossi in te, fuggirei lontano, prima che la nera signora esiga il suo tributo! Sei l'ultimo della tua razza e, se decidi di affrontarmi, non rivedrai più la luce del sole -. Quelle minacce stupirono Lamashtu, ma non lo convinsero affatto.
   - La disperazione ti fa proferire vuote intimidazioni, ma i pusillanimi sono bravi solo a parole! Osserva il potere di Lamashtu, primo demone del fuoco! Izi Hulu'e![1] -, commentò sprezzante. Un cosmo rosato lo avvolse e lingue di fuoco gli attorniarono le braccia. Il demone le rivolse a Calx, immobie di fronte a lui. Le fiamme lo avvolsero fino a farlo scomparire; il Sabitta rise, convinto di aver già vinto e di poter vantare una cospicua ricompensa dal suo Signore.
   Ma quelle alte fiamme, d'un tratto, si spensero, come soffocate da un'improvvisa fiumana. Calx riapparve indenne: soltanto i vestiti presentavano leggere bruciature. Lamashtu era incredulo: - Come hai fatto a resistere ai mille gradi di quel rogo? Nessuno è in grado di sopravvivere! -
   - Tu dimentichi che io non sono un comune mortale: nelle mie vene scorre il sangue di un dio. Forse per troppo tempo ho permesso alle mie emozioni e hai miei dubbi di dirigere le mie scelte, ma oggi ho una consapevolezza nuova: sono nato per fermare la minaccia di Nergal, ed è ciò che farò! Troppe vite si sono spente a causa delle mie mancanze, ora tocca a me condurre a termine il compito affidatomi dal fato -, disse il ragazzo, circondandosi di un leggero alone di cosmo.
   Lamashtu lo osservò con meraviglia: il cosmo di Calx, seppur velato di tristezza, gli ricordava molto quello del suo Signore. Ma com'era possibile?  Perché la traccia cosmica di quel moccioso era così simile a quella di Nergal? Che legame c'era fra loro? Kharax sapeva o non ne era a conoscenza? Gli aveva nascosto qualcosa? Queste e innumerevoli altre domande gli si affacciarono alla mente.
   D'improvviso gli calò addosso una fitta oscurità e si ritrovò su una spiaggia deserta, circondata dal mare: erano su un'isola. Di fronte a lui c'era Calx, avvolto da un'aura dorata. - Come siamo finiti qui? -, chiese, un po' a disagio.
   - Sfruttando varchi dimensionali. Atene è troppo affollata e non voglio coinvolgere nessuno nel nostro scontro. Ma prima di iniziare, devo ringraziarti. Oggi ho compreso ciò che il mio maestro mi diceva negli anni di addestramento: l'attaccamento a singole persone può essere un grave rischio per un Cavaliere. In questi anni le mie decisioni errate mi hanno portato via cari amici e tu hai completato il percorso, sterminando la mia famiglia! Ora ho imparato a conoscere la tristezza e il dolore che i miei compagni si trascinano dietro, senza però lasciarsi abbattere e continuando a lottare per la libertà. Ti dimostrerò che le mie incertezze sono ormai parte del passato -, rispose Calx, facendo esplodere la piena potenza del suo cosmo.
   Il Sabitta ebbe paura: quel potere così vasto e risoluto lo convinse che quel giovane era davvero il guerriero del fato dell'antica profezia. Tuttavia, non aveva intenzione di fuggire di fronte a un nemico e, pur consapevole che ben presto avrebbe raggiunto l'Oltretomba, si preparò alla battaglia. - Izi Hulu'e! -, gridò con quanto fiato aveva in gola. Le fiamme s'innalzarono maestose attorno a Calx e un calore insostenibile lo investì. Per alcuni minuti una colonna di fuoco devastò quella spiaggia, ma, come prima, si spense in un lampo, come la fievole fiammella di una candela.
   Il giovane Gemini sollevò una mano per contrattaccare, ma un cosmo immenso s'innalzò a est. Lamashtu scoppiò a ridere, dicendo: - Il mio Signore è tornato! La nostra vittoria è vicina! - Calx lasciò che quelle parole svanissero nel vento e si preparò a chiudere la partita con quel fastidioso demone. Dalla mano alzata divampò una potente fiammata che investì il Sabitta. Quest'ultimo provò a parare il colpo, ma fu sbalzato in un gruppo di cespugli, che s'incendiarono come sterpaglie.
   Il demone del fuoco si rialzò dolorante e in affanno: i bracciali della sua armatura erano anneriti e quasi fusi. - Hai ribattuto la mia tecnica e l'hai caricata anche del tuo cosmo, vero? -, chiese, riprendendo fiato.
   Calx annuì; poi aggiunse: - Ma noto con rammarico di non essere riuscito ad annientarti. Vuol dire che utlizzerò un'altra tecnica -. Allargò entrambe le braccia, lasciando che il suo cosmo lo avvolgesse totalmente. Sopra di lui si formò un pianeta di luce; il Cavaliere era in procinto di scagliarlo contro l'avversario, quando percepì un cosmo partire dal Grande Tempio: era quello del suo maestro, ma aveva qualcosa di diverso. Aggrottò le ciglia, disperdendo l'accumulo di energia del pianeta e si voltò in direzione della dimora di Atena. - Cosa intendete fare, maestro? -, pensò, mentre uno strano presentimento si faceva strada nel suo cuore.
   Lamashtu approfittò di quella vantaggiosa distrazione per dare fondo a tutte le sue forze: un'immensa gabbia di fuoco imprigionò il Cavaliere, sottraendolo alla vista. - Stavolta non hai scampo! -, esultò il demone, convinto di aver sconfitto il suo nemico. Tuttavia, le fiamme iniziarono a vorticare fino a estinguersi. Se non si fossero notate bruciature sulla camiciola e sui calzoni indossati dal ragazzo, nessuno avrebbe mai creduto che fosse stato investito da un fuoco consumante.
   Il Sabitta ebbe un moto di disappunto: sperava che quella sua mossa potesse dare una svolta decisiva alla guerra, ma era stato tutto vano. Calx tornò a voltarsi verso di lui e, con un sorriso amaro, gli disse: - Non ti è ancora chiaro che tutti i tuoi sforzi non ti daranno l'esito che desideri? Preparati a raggiungere i tuoi compagni! - Ricreò il pianeta di cosmo che prima aveva distrutto e, con furia spaventosa, lo scagliò contro Lamashtu, gridando: - Galaxíou Ékrēxis! -. La tecnica si abbatté sul demone con forza devastante e l'esplosione che ne seguì fu così violenta da creare una profonda e ampia insenatura. Quando la polvere e il fumo diradarono, le onde s'infransero impetuose su quella nuova calanca.
   L'allievo di Alexer fissò per un attimo gli occhi sull'orizzonte, poi, sfruttando la velocità della luce, ritornò ad Atene. Aprì di nuovo la porta di casa sua e davanti gli si parò il triste spettacolo della morte: sua madre ed Eyra giacevano ancora immobili. Si avvicinò, si caricò i loro corpi tiepidi sulle spalle, prese una vanga, riposta in un cantuccio della stanza, e si diresse su una collinetta affacciata sul mare, ombreggiata da mirti e ginepri, dove spesso aveva condotto Eyra a passeggiare o a contemplare i colori dell'Egeo nelle assolate giornate d'estate.
   Adagiò i cadaveri a terra e scavò due profonde fosse; vi depose i corpi, dando loro un ultimo saluto umido di lacrime. Coprì di terra quelle vittime innocenti delle sue incertezze e, prima di congedarsi, rivolse loro poche parole: - Perdonate la mia incapacità. Non ho saputo cogliere i segnali che i comportamenti di tutti mi lanciavano. A motivo della mia stoltezza, le vostre vite sono giunte sulle rive dell'Acheronte anzitempo. Vi prometto che non permetterò a Nergal di conquistare l'universo. L'umanità, sebbene si macchi di nefandi misfatti, può ancora cambiare rotta, grazie all'aiuto di Atena. Combatterò per lei... e per voi! - Offrì una breve e silenziosa preghiera; poi se ne andò: il Santuario attendeva il suo ritorno.
***
   Sorush se ne stava in ginocchio davanti allo Scrigno dell'Eternità, in attesa che il suo Signore tornasse e gli concedesse la ricompensa che tanto anelava. Sognava già la sua nuova vita con Darice, illuminata dalla nascita di una numerosa prole: questo pensiero lo fortificava e gli instillava fiducia nel piano di Nergal.
   D'improvviso, le gemme incastonate sul coperchio del cofanetto emisero un intenso bagliore violaceo e sette colonne di fumo nero si levarono verso l'alto, si posizionarono alle spalle del trono e assunsero forma fisica.
   Le figure apparse da quel fumo indossavano un'armatura del tutto identica, tranne che per gli elmi integrali, rappresentanti teste di animali, e per la posizione della gemma, montata o sul cinturino o sul pettorale. Quest'ultimo era aderente al torace, sormontato da spallacci protrudenti e appuntiti che si agganciavano a un bavero stretto e formato da un triangolo rovesciato privo di base. Il cinturino era attaccato al pettorale e consisteva in due lunghe piastre metalliche che fasciavano interamente il bacino, lasciando scoperta solo la parte anteriore, che formava un triangolo. Bracciali e schinieri coprivano interamente gli arti, lasciando scoperte soltanto la zona ascellare e quella inguinale.
   Sorush fu lieto di vedere gli Utukki, che preannunciavano l'imminente resurrezione del suo Signore. Poco dopo, infatti, lo Scrigno si dissolse in una spirale violacea, da cui apparve una figura imponente: era Nergal.
   Indossava un'armatura in prevalenza viola, con inserti rossi. L'elmo era integrale e aveva le fattezze della testa di un leone. Il pettorale era aderente e metteva in risalto i muscoli sottostanti; gli spallacci erano diversi l'uno dall'altro: quello di destra rappresentava la testa di un corvo; quello di sinistra il volto di un toro, munito di piccole corna ritorte. Il cinturino, agganciato al pettorale, era formato da due lunghe placche poste a protezione dei fianchi, e altre due a ventaglio, che coprivano la zona anteriore e quella posteriore. I bracciali coprivano interamente gli arti, terminando in manopole provviste di artigli lunghi e affilati. Gli schinieri coprivano gambe e cosce, un triangolo rosso proteggeva il ginocchio e fungeva da giuntura, e le uose avevano la forma di uno zoccolo. Concludevano la corazza un maestoso paio di ali nere agganciate sulla schiena.
   Il dio d'Irkalla tese la mano verso lo scettro che, richiamato dal cosmo del suo Signore, si lasciò impugnare. - Finalmente! L'ora della conquista è giunta! Nessuno potrà impedirmi di governare l'universo! - Gli Utukki si erano inginocchiati all'apparizione del loro re e restavano immobili, in attesa di ordini.
   Nergal vide un uomo prostrato a terra e un sorriso malefico gli illuminò il volto, celato dall'elmo. Si accomodò sul trono e gli rivolse la parola: - Palesa il tuo nome, umano! -
   Sorush, eccitato all'idea di poter infine ricevere l'agognato premio per la sua fedeltà, sollevò il capo e, con tono ossequioso, rispose: - Mi chiamo Sorush, figlio di Feroz, e sono l'ultimo dei vostri sacerdoti -. Tornò ad abbassare il capo, pronto a eseguire ciò che il dio d'Irkalla gli avrebbe chiesto.
   - Ti sei comportato con lealtà e devozione. Ora lascia che ti ricompensi per i tuoi servigi. Dimmi cosa desideri e io realizzerò le tue richieste -, riprese Nergal, con tono grave e autoritario. Sorush non ebbe tentennamenti: per anni aveva sognato di poter esternare i propri desideri e ora essi avevano la possibilità di prendere corpo.
   - Vorrei riabbracciare la mia Darice, morta prematuramente, e avere una numerosa prole, che possa servirvi devotamente come ho fatto io -, proruppe il sacerdote, con le mani giunte e gli occhi speranzosi e imploranti.
   Dopo quelle parole vi fu un attimo di silenzio, squarciato da una risata dapprima sommessa e poi man mano più vigorosa. Sorush non capiva i motivi di tanta ilarità, ma non osò chiedere spiegazioni: si limitò ad abbassare lo sguardo e ad attendere, con timore, la ricompensa del suo Signore.
   Nergal osservò con disprezzo quel mortale che pretendeva tanta magnanimità dal distruttore dell'universo. - Sei un folle! -, ribatté, alzandosi dal trono e avvicinandosi a Sorush, prostrato fino a terra, con passo lento. - Non ti sei mai chiesto come mai delle sette rigogliose famiglie sacerdotali al mio servizio sia rimasto soltanto tu? Era tutto previsto. Oltre a sigillare il vostro cosmo per evitare ribellioni e defezioni, ho anche instillato in voi il seme della sterilità: più si avvicinava il giorno del mio risveglio, più le fila della vostra stirpe si assottigliavano. Non ho mai pensato di rendervi partecipi della mia vittoria -, raccontò, lasciando interdetto il sacerdote che non si aspettava una realtà tanto cruda e terribile.
   - Io non concedo la vita, ma offro il dolce silenzio della morte! Accetta questo dono dal tuo Signore, così potrai rivedere colei che affermi di amare -, concluse, sollevando lo scettro. Sorush era incredulo: aveva speso la vita intera a proteggere lo Scrigno per consentire al dio d'Irkalla di tornare sulla Terra, nella convinzione che i suoi sforzi sarebbero stati premiati, e invece l'amarezza della morte sarebbe stato il suo unico compenso. Chiuse gli occhi; dal bastone di Nergal partì una scarica d'energia nera che lo investì e ne consumò le carni: di lui restò solo la lunga tunica, lacera e consunta.
    - Un cosmo ostile si avvicina, Imperatore! Volete che ce ne sbarazziamo? -, esordì uno degli Utukki, dalla voce profonda e sicura. Nergal scosse il capo. - L'ho avvertito anch'io. Voi raggiungete le vostre postazioni, all'intruso penserò io; in fondo, non è una reale minaccia -, rispose. I demoni annuirono e scomparvero. Il Signore d'Irkalla si affacciò dalla terrazza della sala del trono e vide un uomo rivestito d'oro ai piedi della ziqqurat. Spiegò le ali e si librò nell'aria, atterrando dolcemente a pochi metri dall'ignoto nemico.
   - Non avrei mai immaginato che un misero mortale osasse sfidarmi! Cosa speri di ottenere? Il tuo cosmo, seppur rafforzato dal sangue di un dio, non è in grado di battermi! -, provocò, stringendo forte nella destra lo scettro e osservando con curiosità la corazza indossata dall'avversario.
   - Il mio nome è Alexer di Gemini, Sommo Sacerdote della dea Atena. Credi forse che le tue parole mi distoglieranno dai miei propositi? Ho già affrontato gli dei! Tu sei soltanto l'ennesimo nume che minaccia la pace e la sopravvivenza dell'umanità -, ritorse il vicario della dea della giustizia, avvolgendosi di un maestoso e sfavillante cosmo dorato.
   - Noto con disgusto che il vostro deplorevole atteggiamento di tracotanza nei confronti degli dei non è mai cambiato. Da sempre la creatura anela sopraffare i creatori per emanciparsi dalla sua finitezza, ma il suo destino è di soccombere per mano mia! Tutti gli uomini verranno spazzati via dall'ombra del dio d'Irkalla; tu e i tuoi adorati Cavalieri non riuscirete a sottrarli a quest'esito ineluttabile. La fine della vita nell'universo è giunta! E tu sarai il primo a cadere! -, rintuzzò Nergal, piccato dalle oltraggiose parole che gli erano state rivolte. Sollevò lo scettro, che rilasciò una potente scarica di energia contro Alexer.
   Il Sacerdote riparò in un varco dimensionale, mentre il colpo s'infrangeva a terra con un grosso boato, lasciando un profondo cratere. - Ti nasconderai finché non avrò più forza per attaccarti? È questa la tua strategia? Folle! Gli dei non temono fatica e stanchezza! Preparati a morire! -, provocò il Signore d'Irkalla, pronto a sferrare un nuovo attacco.
   Alexer riapparve accanto a lui, scagliandogli contro sfere d'enegia. Nergal non si scompose: spazzò l'aria con lo scettro, vanificando l'attacco dell'avversario. Fallito il primo tentativo, il vicario di Atena scomparve per tentare un nuovo attacco. Il nume sumerico scoppiò a ridere e iniziò a schernirlo: - Continua a provare, ma non mi arrecherai mai danno, mortale! La tua malriposta speranza prima o poi ti perderà! -
   L'antico Cavaliere riapparve ancora una volta per attaccare, ma una strana forza lo bloccava e gli impediva di raggiungere l'obiettivo. Nergal lanciò una scarica d'energia che si abbatté sul petto di Alexer, scaraventandolo a qualche metro di distanza. Era stato un colpo tremendo che aveva provocato crepe al pettorale dell'armatura. - Non ti accorgi che l'aver assunto il sangue di un dio non ti avvantaggia contro di me? Riponi le armi e ti concederò una morte rapida! -, propose il Signore d'Irkalla, con tono freddo e terrificante.
   - Non mi piegherò mai alle lusinghe del male! Il mio compito è combattere per il bene di questo mondo! E se devo morire per ottenerlo, sono pronto a correre il rischio! -, ribatté Alexer con forza, rialzandosi e circondandosi di un intenso cosmo dorato. - Atena, prestami il tuo potere e assistimi in battaglia! -, pregò in cuor suo. L'alone aureo attorno a lui divenne sempre più ampio e la terra cominciò a tremare e a fendersi.
   Il distruttore di mondi si accigliò: il cosmo di quel mortale stava mutando; avvertiva un potere immenso sprigionarsi da quell'uomo; si chiedeva come facesse a resistere alla pressione che quella forza esercitava sul suo fisico. Colmo di disprezzo per l'ostinazione e la protervia di quella creatura, Nergal distese le ali richiamando il suo cosmo e abbatté su Alexer una furiosa tempesta di vento carica di fulmini.
   Scariche elettriche e raffiche impetuose flagellavano il corpo del Sacerdote. Alexer cadde in ginocchio: nuove crepe apparvero sull'armatura. Il vicario di Atena notò che le sue mani erano coperte di macchie e di grinze: il sangue della dea della giustizia stava consumando la sua forza vitale; gli restava poco tempo per sferrare un attacco capace di superare le difese del dio e di mostrargli quanto fosse vulnerabile.
   Si rimise in piedi, un rivolo di sangue gli macchiava il volto; lo asciugò col dorso della mano e si preparò a realizzare l'impossibile: insegnare a un dio la tenacia degli esseri umani. Fece esplodere il suo cosmo e riuscì a spegnere l'attacco nemico. Lo sforzo fu enorme, ma non diede tempo all'avversario di riorganizzarsi: - Galaxíou Ékrēxis! -, gridò, e innumerevoli pianeti di fuoco si precipitarono su Nergal.
   Il dio sottovalutò quell'attacco: innalzò lo scettro, che riuscì a smorzarne la forza, ma venne comunque spinto indietro. Quando l'energia si dissolse e la polvere si diradò, il Signore d'Irkalla assunse un'espressione compiaciuta: quell'ultimo palpito aveva praticamente esaurito le forze del Cavaliere.
   - Ti sei tanto affannato e alla fine hai fallito! Un misero umano non può sconfiggere un nume! Il sangue della tua stessa dea ti sta consumando! Ironico, vero? Colei che predica pace e vita ti sta strappando l'anima senza neppure concederti la vittoria! -, commentò sarcastico. Si preparava a sferrare l'attacco decisivo, quando l'elmo esplose in pezzi, rivelando il volto del dio sumero. Aveva occhi rossi e lunghi capelli neri. Non appena si rese conto che l'attacco nemico lo aveva colpito, sebbene non in modo grave, s'infuriò.
   - Hai parlato troppo presto. Gli umani sono in grado di generare miracoli a volte. Ora conosci anche tu le nostre potenzialità -, sbottò Alexer, in affanno e grondante linfa vitale. Quelle parole esacerbarono l'animo già pregno di rabbia di Nergal: i suoi occhi si accesero e un cosmo tremendo lo avvolse; sollevò lo scettro, che emise un sinistro bagliore, e una saetta di cosmo si avventò contro il vecchio paladino della giustizia. Il Sacerdote non aveva più forza di reagire, tuttavia strinse i denti e provò a opporsi all'ennesimo attacco.
   D'un tratto, le sue esigue forze vennero corroborate da un altro cosmo. - Pnéumatōn Aspís![2] -, gridò una voce ben nota: ombre diafane si posero a difesa del Sacerdote e del nuovo arrivato, ma l'impatto fu devastante. Lo scudo andò in pezzi e i due guerrieri furono sbalzati lontano; tuttavia, erano ancora vivi.
   Alexer rivolse lo sguardo al suo salvatore: - Sertan, perché sei qui? -, lo interrogò, rialzandosi con grande fatica.
   Il giovane custode della quarta casa rispose senza distogliere lo sguardo da Nergal, sempre più turbato e infastidito dalla resistenza di quelle vili creature. - Signore, dovete tornare al Grande Tempio. Presto Calx verrà a cercarvi per conoscere la verità: siete l'unico a potergliela raccontare -.
   - Come fai a essere così certo del suo ritorno? Ho sperato fino al risveglio di questo demone scellerato che si facesse vivo, ma non è avvenuto -, replicò il Sacerdote, denunciando una certa delusione nella voce.
   - Me l'ha detto Kharax nel corso della nostra battaglia. Ha fatto in modo che scendesse di nuovo in campo e affrontasse il suo destino -, confessò il Cavaliere, preparandosi a schivare un nuovo attacco di Nergal. - Non abbiamo molto tempo, dobbiamo sbrigarci! -
   Il Signore d'Irkalla stava per colpire le sue indifese vittime, quando un cosmo maestoso e possente sorse a occidente. Un sinistro presentimento le pervase e una consapevolezza gli nacque nel cuore: il guerriero del fato, il semidio annunciato dalla profezia era giunto! Una rabbia muta e ardente lo investì.
   - Come puoi credere a un traditore? -, ritorse Alexer, poco incline a dare retta alle parole di un uomo infido, ma il custode della quarta casa sembrava sicuro di quanto asseriva. A convincere il vicario di Atena, però, fu la risposta del ragazzo.
   - Kharax non si è neppure difeso durante lo scontro. Ha addirittura eliminato i suoi soci per raccontarmi la sua versione dei fatti. Il cosmo che abbiamo appena avvertito è quello di Calx: ha sconfitto la spia che si era annidata a Rodorio e presto farà ritorno al Santuario. Dovete andare! La salvezza dell'umanità dipende da lui. Vi rimanderò alla quarta casa. Lì qualcuno, avvertito dal vostro cosmo, verrà a soccorrervi -.
   - E tu? Che intenzioni hai? -, chiese il vicario di Atena, preoccupato dal piano del ragazzo. Sertan sorrise con tono disteso, lo invitò a non lasciarsi prendere dalle ansie e gli disse che lo avrebbe seguito subito dopo.
   Il dio delle pestilenze tornò a interessarsi ai Cavalieri che aveva di fronte. - Eliminerò prima voi e poi mi occuperò dell'araldo del fato! -, proruppe rabbioso, concentrando il cosmo nello scettro e scagliando raggi d'energia contro gli avversari.
   - Ora! -, disse Sertan. - Zōês Anéleusis![3] -, gridò, puntando il dito contro il Sacerdote. Onde concentriche avvolsero il vecchio Cavaliere che, in poco tempo, scomparve. Il colpo di Nergal giunse lesto e scaraventò il giovane Cancer nella sabbia tra schizzi di sangue e pezzi d'armatura. Egli si rialzò, con la corazza spaccata, grondando sangue da innumerevoli ferite.
   - Sei riuscito a salvare il tuo amico, ma tu non sopravviverai! -, sibilò l'imperatore degli Utukki, avvicinandosi di qualche passo. Notò che l'espressione dell'avversario non era intimorita o tremante, anzi sorrideva e lo guardava con occhi di sfida.
   - Il tuo effimero regno sta per terminare, Nergal! La tua nuova vita sarà più breve di quella di una farfalla! -, lo schernì. Il dio sumero non apprezzò l'ironia di quel giovane mortale e lo immobilizzò calpestandolo con un piede.
   - La tua vita si spegne oggi, insetto! -, affermò sprezzante, puntando lo scettro contro il suo volto, ma onde concentriche avvolsero il Cavaliere e lo condussero via. - Dannati vermi! Vi spazzerò via dall'universo! -, grugnì fra i denti. Poi volse gli occhi alla sommità della ziqqurat. Uno specchio triangolare si attivò, lanciando un potente raggio verso il Sole. - Ancora un po' e la vita cesserà! - pensò. Volò alla propria dimora e comunicò agli Utukki di prepararsi all'arrivo del guerriero del fato.
***
   Al grande Tempio, i Cavalieri d'Oro erano radunati alla tredicesima casa e discutevano animatamente. Kanaad cercava di mediare. - Dovevamo essere noi ad attaccare il tempio di Nergal! Perché il Sommo Alexer si è precipitato lì da solo? -, chiedeva Zosma, confuso dalle azioni del Sacerdote.
   - Quando sarà qui glielo chiederemo, per ora non ci resta che attendere -, tentava di calmarlo Vernalis.
   Hamal se ne stava in disparte, appoggiato a una colonna, totalmente immerso nei suoi pensieri. Dopo lo scontro col Sabitta in Cina e la partenza del vicario di Atena, aveva cominciato a mettere insieme i pezzi di quegli eventi strani e aveva concluso che la chiave di volta di quell'intricata situazione era Calx.
   - Non è il momento di discutere delle decisioni del Sacerdote -, tuonò Kanaad, stanco di quelle sterili chiacchiere. All'improvviso, tutti avvertirono un cosmo immenso provenire da una piccola isola dell'Egeo.
   - A chi appartiene questo cosmo smisurato? -, si chiese Sargas, meravigliato da quell'aura così ampia. Un vocio sommesso percorse la sala: ognuno faceva congetture, ma soltanto Hamal e Kanaad intuirono chi fosse l'individuo che aveva sprigionato quella possente forza.
   - Qualcuno è entrato nella quarta casa! -, esclamò Zosma. - Il Sacerdote è tornato, ma è molto debole; il suo cosmo... -, continuò. Poi, preso da un'improvvisa paura, corse a perdifiato verso il palazzo del Grande Cancro; lo seguì anche Altager, spinto dagli stessi timori del parigrado. Non appena vi giunsero, trovarono Alexer riverso a terra, con l'armatura piena di crepe e macchiata di sangue. Zosma lo prese delicatamente tra le braccia e lo condusse alle sue stanze, facendosi largo tra i compagni, ancora increduli dello stato in cui versava la loro guida.
   Poco dopo un altro cosmo si palesò nella quarta casa: era quello del suo custode. Stavolta furono Hamal e Sargas ad accorrere. Lo trovarono semicosciente. Quando li vide, Sertan, ormai in fin di vita, riuscì a pronunciare solo poche parole: - Calx... Attendete, Calx! - Poi, prima che il soffio vitale lo lasciasse, toccò il braccio di Hamal, che finalmente poté conoscere la verità che si nascondeva dietro il cosmo di Calx e le azioni del Sacerdote.
 
[1] "Fuoco Distruttore".
[2] "Scudo d'Anime".
[3] "Ritorno di Vita".

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Capitolo 21
*** Il ritorno di Calx ***


Capitolo XXI
IL RITORNO DI CALX
 
Grande Tempio, settembre 1068
 
   Il giovane allievo del Sacerdote procedeva a passi lenti: sapeva che il suo maestro non si trovava al Grande Tempio; il suo cosmo era ancora impegnato ad affrontare la terribile minaccia sorta improvvisamente a est. Per un attimo Calx si fermò a sondare l'oscura aura cosmica del Signore d'Irkalla. L'impietosa perfidia che spirava dal cuore di quel nume gli gettò addosso un tacito disagio: ora gli era chiara la distanza che lo separava da suo fratello Erra. - Sono come il giorno e la notte -, pensò, riprendendo il cammino e riesumando dalla memoria le immagini del sogno che a lungo lo aveva perseguitato. Aveva gettato via buona parte della sua vita alimentando dubbi e lasciandosi persuadere dai nemici. Si sentiva a pezzi: dover affrontare gli sguardi truci e le taglienti parole di rimprovero dei compagni sarebbe stato insopportabile, ma decise di reprimere l'ansia che lo investiva e di concentrarsi sull'imminente battaglia.
   Era giunto alle porte di Rodorio e avvertì il cosmo di Alexer tornare al Santuario; tuttavia, percepiva qualcosa di strano: il vigore che lo aveva contraddistinto fino a poco prima era totalmente svanito. Una greve spossatezza lo opprimeva e la fiamma vitale sembrava prossima a spegnersi. Il suo cuore sobbalzò all'idea che il maestro si congedasse da questo mondo prima di potergli parlare. Affrettò il passo, ma la percezione di un altro cosmo familiare lo fece trasalire: - Sertan... no! -, balbettò, sbarrando gli occhi, mentre un'immensurabile tristezza gli calava sull'anima. Iniziò a correre, e i suoi occhi principiarono a versare calde lacrime di dolore.
   Gli abitanti del villaggio che percorrevano l'Odeporica lo videro sfrecciare su quella strada e si chiesero chi fosse quel forestiero e perché corresse a rotta di collo. Calx non badava a nessuno: urtò un barroccino e l'ambulante che a fatica lo trascinava; rovesciò alcune botti lasciate all'esterno di un'osteria, attirandosi i veementi insulti del taverniere. Non appena vide il portale che immetteva nella zona del mercato del Grande Tempio rallentò e, quando l'ebbe oltrepassato, arrestò il passo. Osservò il monte delle Dodici Case in lontananza, parzialmente coperto da basse nuvole sbiadite. Alcune guardie notarono l'intruso e gli si avvicinarono con fare minaccioso; non lo avevano riconosciuto. - Come sei arrivato fin qui, straniero? Torna indietro o saremo costretti a ucciderti! -, esordì un uomo alto e robusto, armato di lancia e con indosso protezioni di cuoio.
   Calx chiuse gli occhi e tirò un lungo sospiro. - Non ho intenzione di farvi alcun male, ma lasciatemi passare. Ho bisogno di parlare al Sommo Alexer! -, rispose con tono calmo ma fermo.
   - Per ordine del Primo Ministro le udienze sono sospese. Ci è stato tassativamente imposto di non permettere a nessuno di avvicinarsi all'area sacra. Ti conviene andartene, ragazzo! -, chiarì un'altra sentinella di statura media, dal fisico asciutto e armato di una spada corta e affilata.
   Il ragazzo aveva compreso che non gli sarebbe stato facile superare quel drappello di soldati e optò per le maniere forti: bruciando una piccolissima frazione di cosmo, agitò una mano e tutti caddero a terra svenuti. - A breve riprenderete i sensi -, disse, osservandoli un'ultima volta e puntando alle Dodici Case.
   Giunto alla soglia del tempio del Montone Bianco, deviò verso l'ingresso segreto; spalancò la porta e, per un attimo, attese: era il momento di farsi forza e di sostenere la battaglia più impegnativa della sua vita, il confronto con i suoi vecchi compagni. Immaginava i loro volti alterati dall'ira e le loro parole ad un tempo sprezzanti e veraci, ma non gli importava più: sapeva di meritare tutto quel dispregio; l'avrebbe accettato come un monito e uno sprone; stavolta, però, non avrebbe ceduto allo sconforto e all'incertezza. Ormai gli era chiaro qual era il suo destino e non aveva più intenzione di sfuggirgli.
   Mentre rimuginava su questi pensieri, raggiunse la terza casa. Sentì il bisogno di rivederla: vi entrò e un egro silenzio lo accolse. Nulla era cambiato dalla sua partenza: quel luogo sembrava possedere il dono di non percepire lo scorrere inesorabile del tempo; varcò la soglia della sala principale: era tutto uguale, mancava solo l'armatura di Gemini, tornata a proteggere il corpo del suo antico custode.
   La consapevolezza che il suo maestro aveva indossato ancora una volta i panni del Cavaliere per sventare la minaccia di Nergal e che per tale motivo la sua vita stava per spegnersi gli instillò un senso di vergogna. Corse via e riprese la scalata alla tredicesima casa. Ne attraversò l'atrio e si accorse che non c'erano guardie all'ingresso della sala del trono: gli parve alquanto insolito. Si avvicinò al massiccio portale e udì delle voci provenire dalla stanza.
   - Io non ho intenzione di starmene con le mani in mano! -, imprecava Zosma, rivolto ad Hamal che lo invitava a non lasciarsi guidare dall'avventatezza.
   - Se il Sacerdote non è riuscito a sconfiggerlo, tu quali speranze credi di avere? -, obiettò Elnath, appoggiato a una colonna a braccia conserte.
   - Stai forse pensando di arrenderti, Elnath? -, ribatté il custode della quinta casa, stringendo i pugni e aggrottando la fronte.
   - Qui nessuno vuole cedere le armi a Nergal, ma Elnath ha ragione. Il Signore d'Irkalla sembra avere un potere molto più vasto di Ade: è un dettaglio che non va dimenticato! -, intervenne Nashira, attirando su di sé l'attenzione di tutti gli astanti.
   - Spiegati meglio -, chiese Altager, incuriosito dal paragone che il parigrado aveva istituito fra le due divinità infernali. Gli era, in effetti, apparso piuttosto anomalo non solo il comportamento del Sommo Alexer, ma anche la pesante sconfitta che aveva subito.
   Il custode della decima casa abbassò il capo, come per raccogliere le idee; poi tirò un sospiro e schiarì la voce; infine, parlò: - Sappiamo che il Sacerdote riuscì a sconfiggere Ade con uno sforzo minore rispetto a quello che ha impiegato per affrontare Nergal, eppure il risultato è stato catastrofico. Ciò mi fa pensare che ci troviamo di fonte a un nemico che per nessuno di noi sarà possibile battere. Ed è molto probabile che questa guerra segnerà la fine del Grande Tempio e dei Cavalieri -.
   - Dimentichi che Ade si reincarna sempre in un corpo ospite il quale, per quanto resistente, non è in grado di contenere l'intera potenza di un dio. Nergal, invece, riveste il suo corpo mitologico e forse è questo il motivo per cui si rivela un nemico più ostico di quanto immaginiamo -, commentò Vernalis, che se ne stava in disparte al capezzale di Sertan, adagiato su di un catafalco di fortuna.
   - Magari è vero -, ammise il Capricorno, tornando a indossare un'espressione meditabonda e cominciando a camminare su e giù per la stanza.
   - Il Primo Ministro ci ha lasciati qui senza darci indicazioni e mi chiedo il perché -, riprese Zosma, battendo leggermente i pugni sui fianchi.
   - Il Sacerdote non sopravviverà a lungo, è normale che Kanaad lo assista! -, rispose Elnath, un po' annoiato da tutte quelle chiacchiere che non portavano da nessuna parte.
   Sargas iniziò a fissare Hamal. Le ultime parole del Cavaliere del Cancro gli rimbombavano ancora forte nella mente; si avvicinò al compagno e, a bassa voce, gli disse: - Cosa significavano le parole di Sertan? Perché non le condividiamo anche con gli altri? -
   Il custode della prima casa gli rivolse uno sguardo incerto: ormai la verità gli era palese, ma sentiva che non era ancora il momento di rivelarla. - Non ora! -, tagliò corto, provando a distoglierlo da quegli assillanti interrogativi.
   Mentre i paladini di Atena si scambiavano opinioni e facevano supposizioni, la porta della sala si aprì e tutti, sorpresi, volsero gli occhi verso l'ingresso. Non appena videro apparire Calx, emozioni contrastanti assalirono i loro cuori. Hamal e Sargas erano stupiti di rivedere il compagno, soprattutto dopo le parole del compianto Sertan. Vernalis e Nashira furono colti da grande contento, sperando che l'ex custode della terza casa fosse tornato per lottare al loro fianco. Altager lo osservò con uno sguardo indagatore, persuaso che quella repentina apparizione fosse dovuta alle critiche condizioni del Sacerdote. A Elnath la vista del compagno destò soltanto curiosità. Ma fu Zosma ad avere la reazione più vigorosa: strinse i pugni e, con atteggiamento aggressivo, si avvicinò all'amico.
   - Che ci fai qui? Perché ti presenti soltanto adesso? Lascia subito questa stanza, se non vuoi che ti riduca in cenere! -, gli gridò, incassando il pugno e avvolgendolo di una fiera frazione di cosmo. I Cavalieri restarono immobili, attoniti, col cuore in subbuglio per il gesto estremo che il compagno intendeva compiere.
   Vernalis si fece avanti e tentò di porre fine a quell'insensato alterco prima che si consumasse. - Smettila, Zosma! Non è il momento di rivangare vecchi rancori! Lasciamo che spieghi il motivo della sua venuta! -, propose, afferrando il braccio del custode della quinta casa; ma egli non accettò mediazioni e, strattonando il compagno, lo allontanò; continuò a puntare Calx, che se ne stava fermo, con lo sguardo fisso verso le sale private del Sacerdote.
   - Sono stanco di te! Mentre ti comportavi da stolto e ti trastullavi con le gioie d'amore, i nostri compagni morivano per salvare il mondo da un nemico senz'anima! Perché ricompari adesso? Perché dovremmo fingere che nulla sia accaduto e riammetterti tra i Cavalieri d'Oro? -, inveì, lanciandogli contro una sfera di cosmo.
   Calx si lasciò colpire e fu scagliato contro una parete, che si riempì di profonde crepe. Sapeva bene che il livore di Zosma era più che giustificato e non desiderava opporsi alla sua furia. Si rialzò, senza proferire parola, e indirizzò il passo verso gli scalini. - Dove credi di andare? Non abbiamo ancora finito! -, riprese il giovane Leone, non ancora pago della lezione che gli aveva appena impartito. Gli afferrò la camiciola e si preparava a sferrargli un pugno in piena faccia.
   - Adesso basta! -, tuonò una voce. Era Kanaad, scuro in volto, in piedi accanto al trono. - Il tuo comportamento è inqualificabile, Zosma! Calx è qui per un motivo ben preciso! Fallo passare! -, proseguì, lasciando che quelle sibilline parole colmassero di domande l'animo già confuso dei Cavalieri.
   - Ma, signore... -, provò a giustificarsi Zosma, abbandonando la presa sull'amico. Il Primo Ministro gli lanciò una torva occhiata che lo ridusse al silenzio.
   - Vieni, il Sacerdote ti aspetta! -, disse poi, rivolto al discepolo del vicario di Atena. Calx salì rapidamente gli scalini; il Primo Ministro gli cinse le spalle con un braccio e lo condusse al cospetto di Alexer, lasciando i guerrieri dorati nello smarrimento più totale.
   Quando i due sparirono tra le luci soffuse delle stanze private del Sacerdote, Zosma riprese il suo atteggiamento insofferente e, al culmine dell'ira, tirò un pugno a una colonna mandandola in frantumi. - Perché tanto mistero? Perché nessuno ci spiega cosa sta succedendo? -, sbottò, in preda alla frustrazione.
   Osservando l'inquietudine del compagno, Hamal decise che era giunto il momento di condividere le sue scoperte e le mute rivelazioni del Cavaliere del Cancro: - Prima che tu faccia crollare la tredicesima casa, è giusto che metta a parte te e gli altri di quanto so di questa storia -, esordì con voce sicura.
   Il giovane Leone lo fissò costernato: - Tu sapevi? Sapevi e non hai detto nulla? -, sibilò, sempre più disorientato. Si avvicinò al compagno e, con occhi imploranti, gli gridò: - Parla! Tutti questi segreti non fanno per me! -
   Hamal si portò al centro della stanza seguito da Sargas e da tutti gli altri Cavalieri. - Nel corso delle mie ricerche sui demoni di Nergal ho scoperto che il dio d'Irkalla è protetto da una barriera che inibisce il cosmo divino. Me ne chiedevo il motivo, visto che i Cavalieri sono uomini, e provai a farmelo spiegare dal Sacerdote, il quale, però, non volle in alcun modo darmi delucidazioni. Poi, mentre affrontavo il demone apparso in Cina, la verità mi fu palese: Calx non è un semplice mortale come noi, ma un semidio destinato ad affrontare Nergal. E ne ho avuto ulteriore conferma da Sertan: prima di morire mi ha rivelato, attraverso il cosmo, che Calx è l'unico a poter affrontare la minaccia del Signore d'Irkalla -.
   La rivelazione dell'Ariete sgomentò non solo il custode della quinta casa, ma tutti i presenti. - Sei certo di quanto affermi? -, domandò Altager, ancora incredulo alle parole che aveva appena udite.
   Hamal annuì. Ognuno parve riflettere e trovare risposte a lungo rimaste inappagate. Ora potevano essere spiegati l'inusitato potere di Calx e la sconfinata tolleranza del Sommo Alexer e del Primo Ministro.
   - Ma Sertan come faceva a conoscere la vera natura di Calx? -, proruppe Nashira, che ricominciò a percorrere la sala avanti e indietro. A quella domanda il custode della prima casa non sapeva rispondere: non gli restava che attendere la fine del colloquio tra il Sacerdote e l'allievo per conoscere i dettagli.
***
   Scortato dal Primo Ministro, Calx entrò nella camera da letto del vecchio Alexer: era una stanza non molto ampia, su cui si apriva una larga finestra che guardava in direzione del mare. Accanto era sistemato un baldacchino a cui erano agganciati drappi di lino; di fronte vi era un piccolo scrittoio, su cui erano appoggiate, in bell'ordine, alcune pergamene. Su una sedia erano state adagiate la tunica e la maschera del Sommo Sacerdote; in un angolo si trovava l'armatura di Gemini, montata a totem e spaccata in più punti. Il ragazzo le diede una fugace occhiata, poi distolse lo sguardo e si soffermò a osservare il suo maestro.
   Dell'uomo di un tempo non era rimasto più nulla: i suoi capelli castano scuri si erano stinti in un grigio pallido; la pelle, in passato giovane e fresca, era ora cosparsa di profonde rughe e macchie nere. La tiepida luce di settembre, penetrando dalla finestra, rendeva ancora più nitide queste differenze: il giovane allievo sentì una stretta al cuore e, con delicatezza, s'inginocchiò a un lato del letto. - Alexer! Il tuo discepolo è qui! -, disse il Primo Ministro. Il vecchio Sacerdote aprì gli occhi e, lentamente, volse il capo e incrociò lo sguardo di Calx, abbozzando un sorriso.
   Negli occhi ormai privi di vivezza di Alexer, il Cavaliere scorse i segni della sua imminente dipartita: aveva resistito solo per incontrarlo un'ultima volta e per rivelargli la verità. - Perdonatemi, maestro, sono stato un pessimo allievo. Ho deluso voi e il Grande Tempio, ma soprattutto non ho saputo raccogliere la vostra eredità: ho dubitato di Atena! -, esordì il ragazzo, con voce rotta e lo sguardo basso.
   Il Sacerdote strinse la mano del discepolo. Calx, stupito, lo guardò e non trovò espressioni di rimprovero sul suo volto. - Ciò che più conta è che adesso sei qui -, replicò l'anziano rettore del Santuario con tono stanco e privo di mordente. - È ora che tu sappia la verità sulle tue origini, figliolo -, continuò, fissandolo con grande serietà.
   Calx scosse la testa. - So già tutto, maestro! Non è necessario che vi affatichiate a darmi spiegazioni -, lo interruppe, lasciando il vecchio Sacerdote sgomento. - Un sogno che mi ha assillato a lungo mi ha mostrato la realtà -, proseguì, destando un forte interesse nel suo interlocutore. Alexer non si aspettava che l'allievo sarebbe tornato al Grande Tempio già consapevole del suo ruolo; ma ne fu lieto.
   - Parlami di questo sogno, ti prego -, chiese, sforzandosi di concentrare tutto il suo essere all'ascolto di quel racconto e di mettere da parte il dolore lancinante e incessante che gli trafiggeva ogni singola cellula del corpo.
   - Dopo l'ultima guerra sacra, Atena si recò nella Dimensione degli Dei Perduti per incontrare le antiche divinità di Sumer: era a conoscenza del prossimo ritorno di Nergal e dell'impossibilità di sconfiggerlo con mezzi tradizionali. L'accolse Enki, il quale le spiegò che soltanto il sangue di Erra, fratello gemello di Nergal, era in grado di fermarlo. Atena chiese di poter conferire con lui ed egli apparve e le accordò il suo aiuto. Quando fu il tempo, prese le sembianze del marito di mia madre, la sedusse e la ingravidò -, narrò brevemente il giovane.
   Alexer aveva annuito spesso durante il racconto: alcune delle supposizioni che aveva formulato nel corso degli anni trovavano ora conferma. La dea per cui aveva tanto combattuto era stata lungimirante e aveva fornito loro un'arma indispensabile per vincere quella difficile guerra.
   - Dunque tu saresti il nipote di colui che intende annientare la vita nell'universo. Curioso come Nergal abbia un fratello gemello! -, commentò il vicario di Atena, quasi parlando a sé stesso. Poi, rivolto al discepolo, disse: - Quando la conobbi, tua madre si rammaricava del tuo insolito concepimento e per lungo tempo non lo accettò. Si chiedeva perché fosse capitato a lei e il giorno in cui nascesti non volle neppure tenerti in braccio. Faticò parecchio prima di rendersi conto dello sviscerato amore che provava per te. Temeva di perderti, ma ormai non dovrà più preoccuparsene. Mi raccontò un sogno la prima volta che c'incontrammo, un sogno che avevo fatto anch'io -.
   - Un sogno? Quale? -, chiese mosso dalla curiosità il discepolo. Benché ormai avesse scoperto le sue vere origini, mancavano ancora alcuni pezzi per completare il misterioso mosaico della sua vita.
   - Una fitta oscurità dilacerata da lamenti, due fiumi che si fondevano a formare una cascata di sangue, un'alta torre in una foresta, un bambino avvolto da luce e tenebre e una maschera in penombra -, spiegò il vecchio Alexer, sempre più affaticato da quel colloquio.
   - E qual è il significato, maestro? -, domandò, desideroso più che mai di conoscere ogni pur minima sfaccettatura di quella complessa storia.
   - L'oscurità e i lamenti sono ciò che Nergal intende spargere sulla Terra; la torre è il suo palazzo; i fiumi di sangue sono il Tigri e l'Eufrate, contaminati dal cosmo mortifero dei demoni; le tenebre e la luce che avvolgevano il bambino credevo fossero una tua doppia personalità, ma ora so che si trattava dello scontro fra la bontà d'animo di Erra e la malvagità di Nergal; l'elmo in penombra immaginavo fosse quello di Gemini, ma in realtà era il cimiero del Signore d'Irkalla -, espose il Sacerdote.
   Calx soppesò le spiegazioni del maestro, poi indirizzò di nuovo il pensiero a sua madre. - Lei conosceva la verità, eppure non ha mai voluto rivelarmela, neanche quando ho insistito. Chi altro ne era a conoscenza? -, domandò. Gli era ormai chiara tutta la faccenda; voleva solo spegnere le ambizioni del suo inaspettato zio.  
   - Oltre me e tua madre, lo sapevano anche il Primo Ministro, il defunto Jorkell e... Sertan -, rivelò il Sommo Alexer, esitando solo a mentovare l'ultimo nome.
   - Sertan? Per questo vi ha raggiunto al palazzo di Nergal? -, chiese il giovane discepolo che, giunto nella sala del trono, aveva intravisto il corpo dell'amico adagiato sul feretro.
   Il vicario di Atena annuì. - Era venuto per riportarmi al Santuario. Kharax gli aveva rivelato che saresti tornato qui. Voleva che ti dicessi la verità -, ammise, osservando per un attimo il soffitto. Non riuscì a trattenere le lacrime, che gli rigarono le gote e bagnarono il guanciale.
   Calx abbassò il capo: il suo cuore era lacerato dal dolore, a motivo delle tante morti premature che la sua defezione aveva causato. Se ne avesse avuto la possibilità, sarebbe tornato indietro nel tempo per impedire alla nera signora di mietere quelle vittime, ma non poteva farlo; poteva soltanto andare avanti e compiere il suo destino per evitare la distruzione dell'universo.
   - Sertan mi ha aiutato a riavermi dal mio smarrimento. Lui ha avuto fiducia nel tuo ritorno fino alla fine, ed è morto con questa convinzione. Era nel giusto: tu sei tornato! -, riprese il vecchio Sacerdote, che ormai sentiva la vita abbandonarlo rapidamente.
   Guardò ancora una volta il discepolo che, a capo chino, aveva ascoltato le sue ultime parole e aveva iniziato a piangere. Gli carezzò la testa con una mano e gli disse: - Ora va', ragazzo mio. L'armatura di Gemini ti attende per compiere il tuo destino -.
   Calx asciugò le lacrime e osservò il maestro: - Non credo che i miei compagni si fideranno più di me, e non ho neppure la speranza che mi riammetteranno tra i dorati custodi -, dichiarò, con voce triste e angustiata.
   Il vicario di Atena assunse un'espressione bonaria e rispose: - Non temere del loro giudizio. I Cavalieri d'Oro di quest'epoca hanno l'intelligenza e la bontà d'animo necessarie per comprendere le motivazioni che ti hanno allontanato dal Grande Tempio -. Proferì quelle frasi velocemente, poi si fermò di colpo. Strinse la coperta coi pugni per reprimere il dolore lancinante che gli torturava le membra. Fissò gli occhi ormai spenti sull'allievo e, con sommo sforzo, riuscì soltanto a dire: - Va'! -
   Fiotti di sangue cominciarono a zampillare dalla bocca e dal naso, imbrattando il letto, il pavimento e la camiciola di Calx. Il ragazzo, atterrito, provò ad arrestare quel fiume vermiglio, ma in pochi attimi il prode Alexer smise di respirare. L'erede di Gemini cacciò un grido disumano, allarmando i Cavalieri e il Primo Ministro. Quest'ultimo irruppe in camera, seguito dai paladini di Atena, e trovò l'amico immerso in un lago di sangue e il custode della terza casa al suo capezzale, in lacrime e sporco di linfa vitale.
   Kanaad gli si avvicinò e lo invitò ad alzarsi, dicendo: - Non c'è tempo per il cordoglio, il nemico si prepara ad annientare ogni essere vivente. Dobbiamo mettere da parte il dolore, per ora, e trovare la forza di concludere questa guerra -.
   Il ragazzo annuì, ma lesse nelle parole del Primo Ministro una pena profonda per la perdita dell'amico di una vita. Si rialzò e, rivolto ad Hamal, in piedi accanto alla porta, disse: - Quanto ti occorre per riparare l'armatura di Gemini? -
   Il giovane Ariete fu ad un tempo sorpreso e contento della richiesta del compagno. - Hai intenzione di riprendere il tuo ruolo di Cavaliere? -, gli chiese, palesando la domanda che tutti avrebbero voluto rivolgergli.
   L'allievo del Sacerdote confermò e i suoi compagni si scambiarono occhiate perplesse. Calx intuì la loro titubanza e si decise a sciogliere i loro dubbi: - So che molti di voi mi ritengono un traditore e comprendo il vostro disappunto nel rivedermi qui, ma non è il momento di rivangare il passato. Io sono colui che deve affrontare Nergal per decreto del fato: soltanto io posso sconfiggerlo. Non vi chiedo di credermi, ma di aiutarmi a salvare l'umanità! Quanto ti occorre, Hamal? -
   - Meno di un'ora -, rispose il custode della casa del Montone Bianco. Poi si portò accanto all'amico e rivolse agli altri uno sguardo deciso e parole importanti: - Il palazzo di Nergal è circondato da una barriera che inibisce il cosmo divino, originata da gemme, ormai ne siete consapevoli. Se vogliamo dare una possibilità a Calx dobbiamo affrontare gli Utukki e distruggere le gemme incastonate nelle loro armature. La salvezza del genere umano è la nostra priorità, siete con me? -
   I Cavalieri annuirono, forti di una nuova speranza. Hamal portò via l'armatura di Gemini e subito iniziò la riparazione. Zosma si avvicinò a Calx, il capo basso e l'espressione contrita; si scusò per l'atteggiamento violento con cui l'aveva accolto e l'abbracciò con trasporto, felice di aver ritrovato il suo amico. Anche gli altri custodi dorati lo salutarono come non avevano fatto prima.
   Il Primo Ministro provò un moto d'orgoglio nel constatare la ritrovata armonia tra le fila della dorata casta. Alexer sarebbe stato gioioso quanto lui nel respirare di nuovo quell'aria di serenità che a lungo era mancata.
   Nell'attesa che il custode della prima casa terminasse il lavoro sull'armatura dei Gemelli, i Cavalieri approntarono una strategia di battaglia. - Tu, Calx, aspetterai che sconfiggiamo gli Utukki prima di attaccare Nergal -, propose Zosma, cercando l'approvazione dei compagni.
   - No! -, rispose secco il discepolo di Alexer. - Mentre voi affrontate i demoni, io ingaggerò battaglia col Signore d'Irkalla -, suggerì, senza però risultare convincente.
   - Sarebbe un rischio che non possiamo permetterci! Ricordati che finché la barriera sarà in piedi non potrai combattere a piena potenza! Finiresti per farti uccidere e lasceresti il mondo alla mercè di quel folle nume! -, obiettò Nashira, che sembrò avere maggior fortuna nell'assicurarsi l'appoggio dei compagni.
   Calx continuava a perorare la sua opinione, ma quasi tutti cercavano di farlo ragionare e di indirizzarlo a un piano che non prevedesse un suo intervento immediato. Il giovane Cavaliere non voleva saperne, sembrava intenzionato a immolarsi per espiare le proprie colpe. Vernalis si rese conto di questo suo proposito e in cuor suo ne capiva le motivazioni: anch'egli aveva visto morire due compagni a causa della sua debolezza. - So che ti senti avvilito per la perdita di tanti amici, ma gettare via la tua vita non li riporterà indietro -, s'intromise, facendo leva sul rimorso provato dal ragazzo.
   - Sono consapevole che non rivedremo mai più coloro che abbiamo perduto; tuttavia, è mio dovere sventare un pericolo che minaccia di estinguere non solo il genere umano, ma la vita dall'universo intero. Ho vissuto troppo a lungo nell'incertezza, attirandomi addosso sdegno e giudizi severi. Ormai non è più il momento di temporeggiare, è ora di agire! Non me ne starò in disparte mentre voi rischiate di morire per abbattere quella barriera; e nessuno di voi riuscirà a convincermi del contrario! -, tagliò corto Calx, che mal sopportava tutta quella premura nei suoi confronti.
   Sebbene a malincuore, i Cavalieri accettarono il pensiero del custode della terza casa e non l'ostacolarono più. Poco dopo sopraggiunse Hamal e consegnò al compagno l'armatura riparata. Calx fece un lungo sospiro: prima di ritornare sul campo di battaglia doveva guadagnarsi nuovamente la fiducia della sua antica corazza.
   Puntò l'indice verso le vestigia, avvolgendolo di un cosmo dorato. In principio sembrò che l'armatura non lo ritenesse degno, ma, alla fine, si scompose e ne rivestì il corpo. Furono tutti sollevati di vederlo ancora una volta indossare la nobile lorica dei Gemelli.
   Kanaad prese la parola e catturò l'attenzione di tutti gli astanti: - Anche questo conflitto sta per giungere a termine. Lo scopo dei Cavalieri è mantenere la pace sulla Terra e conservare la vita umana. Le nostre speranze sono riposte in Calx, il guerriero decretato dal fato per sconfiggere il nostro nemico. Voi avete l'obbligo di sostenerlo e di consentirgli di compiere il suo dovere. Affronterete gli Utukki e distruggerete le gemme, così spianerete la strada verso la vittoria al vostro compagno. Atena sarà con voi e vi guiderà. Andate! -
   Un poderoso "sì" si levò nella stanza e, rincuorati dal discorso dell' ex Cavaliere della Vergine, partirono alla volta di Kutha, la città di Nergal. Giunti davanti al palazzo, Vernalis guardò i suoi parigrado e Calx: - Per Atena e per l'umanità! -, affermò, correndo verso uno degli ingressi. Gli altri ne seguirono l'esempio, e uno a uno scomparvero fra le ombre di quegli accessi.
   Calx osservò l'alta torre e il tempio del Signore d'Irkalla posto sulla sommità. - A noi due! -, disse fra sé. Si teletrasportò alla base di quel bastione, si spogliò dell'armatura e, usando le feritoie come appigli, iniziò a scalarlo. La battaglia finale era iniziata!  

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Capitolo 22
*** Il Bagliore del Crepuscolo ***


CAPITOLO XXII
IL BAGLIORE DEL CREPUSCOLO
 
Kutha, settembre 1068
 
   Elnath varcò l'ingresso della prima sala e si ritrovò in un ambiente illuminato da una luce soffusa e privo di qualsivoglia arredo o elemento naturale. Avanzò lentamente, guardandosi intorno alla ricerca del custode di quell'inquietante luogo. D'un tratto, notò una sorta di sporgenza rocciosa su cui era seduta una figura dall'armatura nera. Teneva le braccia conserte e indossava un elmo integrale dalle fattezze di un orripilante insetto.
   - Benvenuto nel mio umile regno, Cavaliere. Il mio nome è Alulim, il Diamante di Luce, Guardiano del Bagliore del Crepuscolo -, esordì una voce calma e suadente. L'Utukki si alzò e fece qualche passo verso il suo ospite. Elnath adocchiò, al centro del pettorale, una pietra di colore bianco azzurrato. Sapeva bene che era quello il suo obiettivo principale.
   - Io sono Elnath di Taurus, Cavaliere d'Oro di Atena -, si presentò, lo sguardo fiero e un alone di cosmo a incorniciargli le membra. - Sono qui per smantellare i nefandi piani del tuo padrone. Ti offro la possibilità di arrenderti e di cedermi la gemma incastonata nella tua corazza. Se accetti, ti lascerò libero di andare -, proseguì, tentando di concludere quello scontro con la diplomazia.
   Il demone scoppiò in una risata che portava in sé da un lato il disprezzo per l'offerta appena udita, dall'altra il ribrezzo per colui che aveva osato proporla. Quando la sua sarcastica ilarità si fu placata, Alulim assunse un tono borioso: - Credi che i ministri di Nergal siano così venali? Fin dal giorno in cui Belili, la dea della luce, mi plasmò per servire il supremo Nergal non sono mai venuto meno ai miei obblighi. Anche stavolta, eliminerò gli ostacoli che si frappongono fra il mio Signore e la conquista dell'universo -.
   Le parole sprezzanti del demone non sorpresero più di tanto Elnath: era consapevole di trovarsi di fronte a uno degli ultimi baluardi del re d'Irkalla e che la battaglia che si profilava all'orizzonte sarebbe stata ardua; tuttavia, negli anni che aveva passato al Grande Tempio in compagnia degli altri Cavalieri, aveva imparato a non attaccare a testa bassa, ma a riflettere e ponderare ogni soluzione prima d'ingaggiare lo scontro.
   - Finora hai avuto buon gioco con i Sabitti, ma la tua corsa termina qui. Non avrai mai il diamante che adorna la mia corazza. Preparati ad assaggiare la potenza degli Utukki! -, proseguì il demone, sollevando le braccia verso l'alto e ammantandosi di un cosmo violaceo. - Eshbar Diĝirenek![1] -, gridò, e dall'indistinto cielo di quella stanza caddero gocce di luce.
   Il possente Toro osservò quei batuffoli luminosi scendere lentamente, si accigliò e capì che qualcosa di tremendo stava per accadere. Espanse la sua aura cosmica, che investì le luci più vicine: un fragoroso boato squarciò il silenzio di quel luogo. Elnath fu gettato a terra e un senso di spossatezza gli calò sulle membra.
   - Che mi succede? -, si chiese. Quella strana tecnica si era scontrata soltanto col suo cosmo e l'aveva abbattuto senza neppure colpirlo direttamente. Cosa riservava quella creatura? Da dove derivava la sua forza devastante? Il custode della seconda casa capì che la fama degli Utukki, tanto decantata dai Sabitti, era realtà. Si rialzò a fatica, determinato a distruggere la gemma protetta dal demone, così da aprire la strada a Calx verso la vittoria.
   - Ora che hai assaggiato la potenza del mio cosmo, sono io a chiederti di cedere il passo se non vuoi perdere la vita -, asserì sarcastico Alulim, convinto della propria supremazia in battaglia. Guardò l'avversario rialzarsi con un certo sforzo e sorrise: le parole che aveva udito sulla forza dei Cavalieri d'Oro erano dunque mendaci? O era il suo nemico a fregiarsi indegnamente di un titolo che non gli si addiceva? Quelle domande gli attraversarono la mente per qualche secondo, poi svanirono, come inghiottite da una repentina incuranza e da una fiera albagia.
   La frase proferita dal demone risuonò alle orecchie del Cavaliere con tutta la sua carica mordace e umiliante. Elnath non si scompose, benché il suo orgoglio scalpitasse per replicare, ma lo guardò con espressione quasi condiscendente, provocando un certo disappunto nel guardiano di quei luoghi.
   Il custode della seconda casa allargò le braccia, concentrando il suo cosmo dorato, e creò un'onda d'energia dalle sembianze taurine: - Táurou Thymós! -, gridò, scagliandola contro il nemico. Il colpo centrò in pieno Alulim, che apparve inerme di fronte a quella potenza inattesa. Quando l'intenso bagliore della tecnica diradò, del demone non vi era più traccia. Elnath non era convinto di quella facile vittoria; il cosmo mostrato dal suo opponente lo aveva messo in allerta.
   Mentre se ne stava in attesa con aria guardinga, fu investito da un fascio di luce che lo scaraventò lontano e gli provocò leggere crepe sull'armatura. Attonito e frastornato, Elnath si rimise in piedi e, davanti agli occhi, gli si stagliò la figura del demone, incolume e pieno di energie.
   La vista del suo avversario in condizioni perfette lo lasciò sconcertato: era certo che il colpo scagliato avesse investito Alulim, ma come mai non gli aveva provocato alcun danno? C'era qualcosa di molto strano in quel luogo e nell'essere che stava affrontando; se voleva vincere e distruggere la gemma doveva trovare risposta a tutte quelle domande.
   Sovrastando Elnath, il Diamante di Luce sollevò la destra, su cui comparve una sfera splendente: - Preparati a raggiungere l'oblio, Cavaliere. Il tuo cammino si ferma qui! Ti Ugak![2] -, disse. La sfera si frantumò in centinaia di particelle che si allungarono e assunsero la forma di sottili frecce acuminate. Dirette dalla mano da cui erano state generate, esse si avventarono sul possente Toro. Elnath rotolò sul pavimento per evitare l'impatto, ma alcuni di quei dardi gli si conficcarono nella schiena, esplodendo e provocandogli cospicue ferite.
   Nonostante il dolore lancinante, il Cavaliere si rialzò, deciso a non subire più i colpi del nemico. Ancora una volta allargò le braccia per lanciare la sua tecnica e anche per provare a capire perché non avesse effetto sul suo avversario.  Così com'era avvenuto in precedenza, il colpo sembrò giungere a segno; tuttavia, il risultato non mutò: svanito l'impeto dell'urto, del demone non vi era traccia. Il paladino di Atena si guardò interno, sapendo che da qualche punto della stanza sarebbe arrivata la contromossa nemica. Poco dopo un'onda di luce assalì il Cavaliere alle spalle, precipitandolo dall'altra parte della sala.
   Dolorante fin nelle più remote fibre del suo corpo, Elnath si rimise in piedi; era madido di sudore, affannato, intontito dai colpi ricevuti, ma non aveva alcuna intenzione di cedere. - Perché ti ostini a combattere? Non ti accorgi di non avere speranze contro di me? -, esordì Alulim, con un tono annoiato e sdegnoso, avvicinandosi lentamente e incrociando le braccia.
   Il Cavaliere provò a ribattere, ma una vertigine gli fece perdere l'equilibrio e lo gettò a terra. La risata ovattata del demone lo schernì. Elnath alzò gli occhi, sfocati e prede di un intenso bruciore; aprì le labbra e, con voce strozzata, ribatté: - Continua a ridere, se ti fa sentire appagato; ma sappi che la vittoria arriderà a me, perché Atena guida il mio braccio e il mio cosmo -.
   - La vostra fede in Atena ha del ridicolo in una situazione del genere! L'universo è destinato a soccombere al potere del supremo Nergal! Ogni creatura vivente conoscerà la quiete dell'oblio, proprio come te -, asserì Alulim, come se quella battaglia fosse il vano tentativo di chi si incaparbisce a voler sfidare i decreti del fato.
   Il giovane Toro abbozzò un sorriso: la sicurezza delle affermazioni del demone cozzava con quanto gli aveva insegnato il Sommo Alexer. Levandosi all'impiedi, affissò lo sguardo sul suo antagonista e, con autorevolezza, rispose: - Il destino non è immutabile; spetta agli uomini scegliere se adeguarsi ai suoi statuti o emendarne ciò che, a loro giudizio, appare intollerabile. Credi davvero che Nergal abbia già la vittoria in pugno? -
   Alulim scoppiò in una grassa risata, provando pena per quel mortale dagli alti ideali. - Voi infime creature non fate altro che aggrapparvi all'insensata speranza di poter deviare il corso del fato! La vostra è soltanto una mera illusione! -, ritorse, preparandosi a dare il colpo di grazia a quel guerriero testardo e poco incline ad arrendersi.
   - Se fosse vero, perché mai il destino avrebbe inviato il suo araldo ad affrontare Nergal? -, ribatté il custode della seconda casa, facendo leva sulle braccia per rimettersi in piedi. L'Utukki strinse i pugni: le impertinenti domande di quel ragazzo dalla corporatura robusta e dallo sguardo fiero cominciavano a infastidirlo. Lo colpì con un manrovescio carico di energia cosmica, facendogli volare via l'elmo e procurandogli una leggera ferita alla guancia. Elnath capì che il demone stava perdendo la pazienza e rincarò la dose: - A quanto pare hai dei dubbi; nemmeno tu sei poi così convinto della vittoria del tuo Signore! -
   Il Diamante di Luce abbassò il capo, tirando un lungo sospiro. - Sei uno sciocco se dai retta agli oracoli! L'oblio è l'unica soluzione per un mondo guidato dal caos e dalla tracotanza! Mille anni fa i Cavalieri d'Oro impedirono la risurrezione del supremo Nergal, ma l'unico risultato che ottennero fu di procrastinare l'estinzione della vita nell'universo! Il re d'Irkalla non ama la sofferenza né tantomeno le stragi, anche se il mito lo ha sempre dipinto come un mostro assetato di sangue! -, disse, con una certa decisione nella voce.
   Le ultime parole di quel discorso incuriosirono non poco Elnath: - Nergal non ama sofferenza e stragi? Ti burli di me? Questa regione sta diventando una landa desolata a causa del sortilegio che avete fatto ai due fiumi! -, puntualizzò, aggrottando la fronte.
   - Irkalla non è un regno di punizione, né di ricompensa. Tutti coloro che scendono qui trovano la quiete dell'oblio: dimenticano la loro identità, i sogni, le paure, i rancori, gli amori, la gloria, la solitudine. Ogni sentimento, sia esso buono o cattivo, si spegne nei recessi di questi luoghi. Se Nergal fosse un dio malvagio, non governerebbe mai su un regno di misericordia, non credi? Ecco perché il fato decreterà la sua vittoria! -, spiegò il demone, come rapito dalle sue stesse parole. Il rispetto che provava per il suo Signore era profondo e sincero; niente e nessuno gli avrebbero fatto cambiare idea.
   - Se la tua curiosità è soddisfatta, è giunto il momento di eliminarti. Userò la tecnica più potente in mio possesso. Preparati a diventare parte di questo luogo! Aguzigga Dima'ak![3] -, continuò minaccioso Alulim. Una sfera di luce lo occultò alla vista e si allargò fino a investire Elnath, che avvertì una forte pressione. L'armatura e il suo stesso corpo sembravano sbriciolarsi, come percossi da un martello vibrato a piena potenza. Il Cavaliere fece bruciare il proprio cosmo per contrastare l'effetto del colpo ricevuto e, in parte, riuscì a smorzarne la portata. Tuttavia, si ritrovò sbalzato contro un muro, su cui si aprirono profonde crepe. L'urto gli fece perdere i sensi e, per qualche minuto, restò immobile col capo chino.
   Quella breve pausa gli riportò alla mente i duri allenamenti a cui si era sottoposto per diventare un paladino della giustizia, il sostegno dei compagni nonostante la sua poca socievolezza e, infine, il corpo esanime di Alexer, che aveva speso la vita intera a servizio dell'umanità. Spalancò gli occhi e scosse il capo, come a scrollarsi di dosso il torpore che lo aveva investito. Vide Alulim avvicinarsi e, aggrappandosi alla parete, si rimise in piedi. Notò che, al muro, era appesa una lunga serie di specchi, da cui promanava la luce soffusa che irradiava la stanza. Quella scoperta lo incuriosì non poco: tirò un pugno al più vicino, provando a infrangerlo, ma su di esso non apparve neppure una crepa.
   - Stolto! Credi davvero che un semplice pugno possa distruggere i Burene Shedu'enek[4]? Pensavo che voi Cavalieri foste più intelligenti, ma mi sbagliavo, a quanto pare -, dichiarò il Diamante di Luce, fermandosi a pochi passi dall'avversario.
   - Di che diavolo parli? -, sbottò Elnath, frustrato dall'assoluta inefficacia dei suoi tentativi di battere il demone e spinto dalla sete di conoscere maggiormente il nemico che stava affrontando.
   Alulim sospirò annoiato: bell'avversario gli aveva riservato la sorte! Un ragazzone alto e robusto, vestito di ferraglia dorata che pretendeva di atteggiarsi a prode guerriero, pensò. Tuttavia, come gesto magnanimo, decise di spiegargli la funzione di quegli specchi prima di ucciderlo.
   - Il Bagliore del Crepuscolo accoglie coloro che la morte ghermì prematuramente: bambini, giovani, guerrieri caduti in battaglia. Gli specchi che vedi racchiudono le loro anime e potenziano il mio cosmo -.
   - Che cosa? Il tuo potere è frutto delle anime imprigionate in questo luogo? -, esclamò il custode della seconda casa, pronto a continuare lo scontro ora che poteva usufruire di queste rivelazioni. - Per un attimo avevo supposto che non sarei riuscito a sconfiggerti, ma adesso mi rendo conto che non sei così forte! Ti eliminerò anche a nome di coloro di cui ti avvali per servire il tuo signore! -. Fece esplodere il suo cosmo e, allargando le braccia, gridò: - Táurou Thymós! -. Il toro d'energia corse verso il bersaglio che gli era stato indicato, ma ancora una volta non ottenne il risultato sperato. Tuttavia, riuscì a vedere, per la prima volta, i movimenti del demone. Non appena la furia cosmica del Cavaliere l'aveva preso di mira, Alulim si era lasciato assorbire da uno degli specchi, mentre un altro di quegli arnesi infernali inghiottiva l'energia del colpo.
   Elnath sapeva che da un momento all'altro sarebbe stato attaccato e, invece di starsene fermo a capire da quale direzione sarebbe giunta la risposta dell'Utukki, cominciò a concentrare il suo cosmo, per provare a intercettarla. Ma non fu sufficiente: un fascio di luce gli sfiorò la spalla sinistra, sbalordendolo. Poco dopo riapparve Alulim.
   - Forse hai frainteso le mie parole -, esordì, con tono divertito e sarcastico. - Il mio potere è reale, non è generato dallo sfruttamento delle anime che qui riposano -, continuò, facendo qualche passo verso il Cavaliere.
   - Che c'è? Hai intenzione di rimangiarti le tue affermazioni? -, replicò ironico il custode della seconda casa: era stanco di non riuscire a trovare una via d'uscita a quella situazione di stallo.
   Alulim puntò lo sguardo verso l'alto e, con voce quasi ammirata, rispose: - Gli esseri umani sono le creature più ostinate e attaccate alla vita che io conosca. Neppure la morte riesce a spezzare il loro legame con l'esistenza che hanno appena lasciato. Il nostro compito di guardiani infernali ci impone di disperdere questo loro pernicioso attaccamento a ciò che non gli appartiene più; per tale motivo usiamo i sentimenti che ancora li pervadono contro coloro che osano violare la quiete d'Irkalla -.
   - E questa sarebbe la vostra misericordia? Assoggettare anime per adoperarle come armi in battaglia? Provo solo disgusto nei vostri confronti! Non siete migliori degli esseri viventi che con tanto ardore tentate di annientare -, ritorse il Cavaliere, espandendo di nuovo il suo cosmo e preparandosi ad attaccare. Tuttavia, il demone lo anticipò, creando ancora una volta la sfera di luce che invase l'intera sala. Elnath provò a contrastare la forza di quel colpo, ma, come sempre, fu scaraventato lontano.
   Stanco, con l'armatura piena di crepe e il corpo fiaccato dalla forza straordinaria delle tecniche del demone, il giovane Toro iniziava a perdere la speranza di vincere. Si rialzò a fatica: doveva distruggere gli specchi con un colpo solo per ottenere qualche vantaggio, ma come fare? La sua mente si arrabattava per trovare una soluzione, mentre Alulim gli andava incontro a passo lento e disteso.
   Il custode della seconda casa lo vide avvicinarsi e si morse le labbra: non poteva lasciarsi vincere dallo sconforto; l'esito della guerra dipendeva anche da lui. Tuttavia, come sarebbe riuscito a distruggere tutti gli specchi contemporaneamente? Nessuna delle sue tecniche era in grado di sortire l'effetto desiderato. Alulim era ormai vicino e, se l'avesse colpito, sarebbe stata la fine.
   Per guadagnare un po' di tempo, spiccò un salto e atterrò alle spalle del demone: doveva pensare in fretta a una strategia che gli consentisse di distruggere la pietra e rendere inoffensivo il suo portatore. Mentre s'ingegnava a trovare una soluzione, frecce di luce lo assalirono e gli trafissero braccia e gambe. Elnath cacciò un urlo straziante e cadde a terra supino.
***
   In un Santuario immerso nella torrida canicola di luglio, Alexer aveva riunito gli aspiranti Cavalieri d'Oro sotto la frescura dei portici di un antico edificio pubblico di Atene per una lezione speciale. - Miei giovani apprendisti, - esordì, - vi ho riuniti qui oggi per parlarvi dei sensi e in particolar modo del settimo senso -.
   I ragazzi, sempre pronti ad ascoltare le parole del Sommo Sacerdote, quel giorno sembravano alquanto insofferenti, forse per il duro allenamento sostenuto sotto il cocente sole d'estate. - Signore, non possiamo rimandare? - osò suggerire Sertan che mutò in parole il pensiero di tutti i compagni.
   - Se ambite al titolo di Cavaliere, dovete imparare a tollerare ogni genere di situazione: un difensore di Atena non si lascia abbattere né dal caldo più intenso né dal gelo più pungente. Imparate ad avere il pieno controllo del vostro corpo! - ribatté Alexer, con una punta di rimprovero nel tono della voce.
   Sertan abbassò il capo, scusandosi. Senza soffermarsi troppo su quel trascurabile incidente di percorso, il vicario di Atena li fece accomodare su alcuni blocchi di marmo rimasti lì dopo l'abbandono dell'edificio.
   - Bene, ragazzi, possiamo cominciare. Ormai sapete che gli esseri umani possiedono cinque sensi, e alcuni ne sviluppano anche un sesto, identificato con l'intuizione. I Cavalieri di Atena, però, sono in grado di giungere fino all'ottavo senso, che permette di entrare da vivi nell'Aldilà senza sottostarne alle leggi. Infine, vi è anche un nono senso, privilegio degli dei. Quando Atena commissionò agli alchimisti di Mu la fabbricazione delle armature, fece munire le vestigia di Virgo e Aquarius di maschere che permettessero ai loro custodi di raggiungere, seppur per pochi secondi, il cosmo divino. I pochi che hanno provato ad acquisirlo sono morti all'istante senza riuscire nell'intento di ottenerlo.
   Ma vi ho detto che oggi parleremo nello specifico del settimo senso. Molti credono che esso abbia il solo scopo di concedere, a chi lo raggiunge, la possibilità di muoversi e lanciare colpi alla velocità della luce, ma è un errore. Questa è solo una caratteristica superficiale: il cosmo di un Cavaliere d'Oro nasconde un potere molto più vasto. Un potere che permette persino di sfidare gli dei! -
   Quell'ultima frase destò l'attenzione di tutti: conoscere il modo di affrontare i numi e di batterli per difendere l'umanità era lo scopo di ogni paladino di Atena. - Parlate dello stesso potere che vi ha consentito di sconfiggere Ade? -, proruppe il futuro custode della quarta casa, curioso di scoprire se la leggenda che aleggiava attorno alla figura del Sacerdote fosse veritiera o solo un'invenzione. Alexer sorrise e, per un attimo, ponderò l'idea di raccontare o meno quella storia; alla fine si decise a rivelarla, considerandola un buon esempio per chiarire i concetti che voleva loro trasmettere.
   - Sì, Sertan, anche se allora non conoscevo ancora tutte le potenzialità del settimo senso. Quando Ade attaccò il Grande Tempio, convinto che Atena fosse priva di difesa, il Sacerdote Garlef, mio predecessore, provò a usare dei talismani imbevuti dal sangue della nostra dea per arginare il potere del Signore degli Inferi, ma fallì. Avevamo concordato che io sarei stato l'ultimo baluardo a difesa di Atena se le cose si fossero volte al peggio, così, non appena vidi il vecchio vicario del Santuario inerme di fronte alla ferocia e alla crudeltà di Ade, sentii il mio cosmo crescere a dismisura, uscì dal mio nascondiglio e sfoderai una tecnica sconosciuta. Il Re dell'Oltretomba provò a resistere, ma il corpo che lo ospitava cedette e lui fu costretto a fuggire. Fu così che vincemmo l'ultima guerra sacra. -, spiegò Alexer, riportando alla memoria lo scontro finale col figlio di Crono.
   - Quindi avete scoperto il vero potere del settimo senso per un caso fortuito? - chiese Sertan, che si aspettava qualcosa di diverso. Il Sacerdote annuì e aggiunse: - Ma una volta diventato Sacerdote ho studiato a lungo il settimo senso per capire da dove derivasse quel potere e alla fine l'ho trovato! -
   - E qual è questo potere? Ditecelo, Sommo Alexer! - intervenne Zosma, eccitato all'idea di diventare ancora più forte. Il vicario di Atena era divertito da quell'improvviso interesse e notò con piacere che nessuno faceva più caso al sole rovente.
   - Viene comunemente chiamato hyperébdomon, vale a dire supersettimo o estremo settimo senso. Esso permette di accrescere non solo il cosmo, ma rafforza e potenzia anche la portata dei colpi; inoltre consente di creare tecniche molto potenti in base all'impronta cosmica di ogni singolo guerriero -.
   - Impronta cosmica? Che cos'è? - domandò Calx, che aveva seguito con attenzione tutto il discorso. Alexer fu felice di quella domanda e rispose: - Ogni Cavaliere ha un marchio identificativo che serve a riconoscerlo fra tutti gli altri e che viene denominato "impronta cosmica". Esso definisce la natura e le abilità specifiche di ogni cosmo. -
   - Potete essere più specifico? - azzardò il suo giovane discepolo che, nonostante avesse una forza fuori dal comune, spesso faceva fatica a imparare concetti e teorie. Gli serviva una spiegazione più semplice e immediata per afferrare le dinamiche di discorsi complessi.
   Il vicario di Atena chiuse gli occhi, conoscendo bene le difficoltà dell'allievo e chiarì le sue parole: - Te lo spiegherò facendoti un esempio: i Cavalieri di Gemini sono in grado di manipolare le dimensioni; questa è la natura del loro cosmo. Alla natura del cosmo sono ovviamente correlate le abilità. Tuttavia, esistono cosmi semplici e cosmi misti: i primi possiedono un unico elemento distintivo; i secondi, invece, possono dominarne più di uno, anche se non in egual misura. -
   Calx aveva finalmente capito tutto quel discorso e ringraziò il maestro per la pazienza che aveva nello spiegargli le cose. Alexer sorrise.
***
   Elnath si  riebbe: scosse la testa; gli sembrava passata un'eternità da quando aveva perso i sensi, ma in realtà erano trascorsi solo pochi secondi. Vide Alulim sempre più vicino, pronto a dargli il colpo di grazia e tentò di rialzarsi: riuscì soltanto a sollevarsi sulle ginocchia. - La tua fine è giunta, Cavaliere! -, minacciò l'Utukki della luce, preparando il suo micidiale attacco.
   Ripensando alle immagini che aveva visto durante la sua breve incoscienza, provò a risvegliare l'estremo settimo senso: era l'unico modo che aveva per sbarazzarsi, ad un tempo, degli specchi e del demone. D'improvviso, però, la stanza s'illuminò di nuovo della sfera luminosa creata da Alulim che lo investì sbattendolo brutalmente contro una parete.
   Convinto che ormai la partita fosse chiusa, l'Utukki cominciò a ridere e a canzonare il Cavaliere: - Tutta la tua giustizia non è servita a cambiare i sentieri del destino! È tempo che Atena ceda il passo alla sconfinata e tacita oscurità di Nergal! Se speri che il tuo amico, il sedicente araldo del fato, abbia la minima possibilità di sopraffare la maestosa potenza del Signore d'Irkalla, sei un folle! -
   Quelle parole colme di sdegno e di sarcasmo esacerbarono l'animo già frustrato del giovane Toro, che non riusciva ad avere ragione del suo avversario con mezzi convenzionali. - Non credere di aver già vinto! Potrai atterrarmi anche mille volte, ma io mi rialzerò più forte di prima! -
   La disperata ostinazione del Cavaliere suscitava nel servo di Nergal un misto di divertimento e disprezzo. - Finora il tuo potere non mi è parso affatto temibile. Il tuo cosmo può far paura soltanto ai codardi Sabitti -, ribatté Alulim che si era stancato di giocare. Allargò le braccia per scatenare tutta la sua potenza nell'ultimo colpo che avrebbe scagliato e decretato la sua vittoria.
   Il custode della seconda casa sapeva che non sarebbe sopravvissuto a un nuovo attacco: chiuse gli occhi e rivide per un attimo l'abnegazione del Sacerdote e dei suoi compagni caduti in battaglia. Chiese, forse per la prima volta da quando era entrato a far parte della schiera dorata, l'assistenza di Atena. Sentì il suo cosmo crescere a dismisura e vi riversò tutti i sentimenti che per anni aveva tenuto chiusi nel cuore: rabbia, affetto, frustrazione, amicizia, rancore. Poggiò la mano sul pavimento e vi fece scorrere la potenza accumulata. Apparvero dapprima delle fiammelle, ma in pochi istanti esse si trasformarono in un immenso rogo. Alulim, incredulo a quanto gli accadeva sotto gli occhi, richiamò le ali della sua armatura, che spuntarono sulla schiena, e spiccò il volo.
   Le fiamme risalirono le pareti e inghiottirono gli specchi: poco dopo si udì un forte rumore di vetri infranti e profondi lamenti salire verso il cielo in nuvole di luce. Le ali di Alulim furono arse dal calore soffocante e il demone cadde in mezzo al rogo, tentando di difendersi con una bolla di luce.
   Quando l'impeto delle fiamme si fu esaurito, Elnath si alzò in piedi e puntò le braccia verso il petto del demone, lanciando la sua tecnica sacra. L'Utukki, ancora alle prese con le ultime lingue di fuoco, non si avvide della mossa del nemico e ne fu colpito in pieno, finendo sbalzato contro una parete, che gli crollò addosso.
   Elnath non aveva più un briciolo di forze; aveva profuso ogni fibra del suo potere in quell'ultimo assalto: se la vittoria non gli arrideva adesso, non avrebbe avuto altre occasioni. Dalle macerie riapparve Alulim, l'armatura semidistrutta e grondante sangue. - Cos'era quel colpo di fuoco? -, esordì con un filo di voce.
   L'elmo era stato distrutto dall'immane forza di quella tecnica e, per la prima volta, il giovane Toro poté conoscere il volto del suo avversario: capelli di un viola scuro macchiati di liquido bluastro e occhi di un verde intenso.
   - Vuoi sapere cosa ti ha investito? -, disse Elnath, dolorante ma felice che quella battaglia fosse giunta al termine. - Sei stato sconfitto dal potere più alto cui un mortale può aspirare, l'estremo settimo senso! -, proseguì, notando lo sguardo indispettito e attonito dell'avversario.
   - Vorresti dire che gli esseri umani nascondono un potere così devastante? È assurdo! Siete creature inferiori, non potete competere coi numi celesti! -, gridò, quasi cercasse di risvegliarsi da un incubo. Un repentino terrore lo spinse a toccare la pietra incastonata sul pettorale: nonostante la potenza sprigionata dal Cavaliere, il Diamante di Luce era ancora intatto, ancora predisposto ad assolvere al suo compito. Ne fu compiaciuto.
   Quel gesto non sfuggì al custode della seconda casa, che ne approfittò per dissipare le fragili speranze del demone: - Se pensi che quella pietra sia rimasta indenne alla potenza dell'estremo settimo senso, sei in errore! Osserva bene! -, commentò, lasciandolo perplesso.
   Alulim sentì al tatto il diamante frantumarsi in tanti piccoli pezzi; guardò la mano che brillava di frammenti e rivolse uno sguardo truce al Cavaliere: - Che tu sia dannato! -, gli disse, poi cadde in ginocchio, gli occhi vacui, e il suo corpo si dissolse in una tenue nebbiolina bluastra.
   Non appena il cadavere del demone svanì, la sala fu percorsa da forti scosse e le pareti iniziarono a sgretolarsi. Elnath, recuperato l'elmo cadutogli nel corso dello scontro, uscì da quel luogo con andatura claudicante, - l'ultimo attacco del demone gli aveva ferito una gamba, - e si recò a una collina ombrata da palme poco distante, si sedette sotto una di esse e appoggiò l'elmo sul terreno. Pregò che i compagni che ancora lottavano risvegliassero l'hyperébdomon e ringraziò Atena per il sostegno ricevuto. Una brezza leggera gli portò un po' di frescura, poggiò il capo su un tronco e, disfatto dalla fatica della battaglia, perse i sensi.
 
[1] "Vendetta divina".
[2] "Dardi di Luce".
[3] "Alba del Creato".
[4] "Recessi delle Anime".

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Capitolo 23
*** Dumuzi, l'Ametista di Vento ***


Capitolo XXIII
DUMUZI, L'AMETISTA DI VENTO
 
Kutha, settembre 1068
 
   Non appena varcò la soglia della stanza, Nashira fu accolto da violente raffiche di vento: da destra giungeva una corrente torrida e soffocante; da sinistra, invece, ne arrivava una gelida e paralizzante. Si avvolse nel mantello e provò a farsi strada a piccoli passi. Raggiunse a fatica il centro della sala e, d'improvviso, la bufera d'aria si arrestò. Il Cavaliere lasciò cadere il mantello e vide davanti a sé un piccolo scranno, ai cui lati erano poggiate quattro urne: una rossa, un'altra azzurra, un'altra ancora gialla e infine una verde.
   Da sinistra apparve una figura dall'armatura nera, con un elmo integrale che ricordava il fiero volto di un'aquila; sul cinturino brillava una pietra viola e sulla schiena svettavano ali lunghe e possenti. - Benvenuto nella mia umile dimora, Cavaliere! -, esordì l'essere con voce suadente, amplificata dalla maschera. - Io sono Dumuzi, l'Ametista di Vento, Guardiano della Piana del Vento Silente -, si presentò, portandosi di fronte al Cavaliere.
   - Il mio nome è Nashira di Capricornus, Cavaliere d'Oro che presiede la decima casa dello Zodiaco -, s'introdusse a sua volta il paladino di Atena. Il demone schioccò le dita e la sala divenne una pianura erbosa accarezzata da una leggera brezza. Nashira si guardò intorno con circospezione e abbozzò un sorriso.
   - Il vento che hai sollevato per accogliermi aveva lo scopo di mostrarmi la tua forza? Se è così, hai fatto male i calcoli! Un Cavaliere di Atena non teme nulla, tantomeno qualche sbuffo d'aria -, disse con tono sprezzante e poco incline a tollerare i giochetti a cui l'Utukki sembrava volerlo sottoporre.
   Il servo di Nergal rise. - Vedo che indossare quelle vestigia dorate ti rende colmo di boria. Sapevo bene che la mia accoglienza non ti avrebbe impressionato: era solo un modo come un altro per sondare la tua reazione. Comunque sia, presto ti accorgerai che disprezzare un nemico che non si conosce può rivelarsi un grave errore! -, ritorse, librando le ali e allargando le braccia.
   La leggera brezza iniziò a intensificarsi e ad abbattersi con foga contro il Cavaliere. Nashira provò a tagliare la corrente con la lama di Excalibur, ma sembrava che il vento deviasse i colpi. - Shedu'ene Zaha[1]! -, gridò il demone; a quelle parole, il vento si mutò in vortici che s'ingrossarono e si scagliarono con veemenza contro Nashira che provava a difendersi o a contrattaccare, ma senza risultato. Ogni colpo della spada sacra non riusciva a raggiungere l'obiettivo e si infrangeva in qualche punto a caso della stanza.
   - Il filo della tua spada è troppo debole per spezzare il mio attacco! -, asserì Dumuzi, scaraventando l'avversario contro una parete. Nashira si rialzò subito: c'era qualcosa di strano che alimentava quelle correnti d'aria ed era deciso a scoprirlo quanto prima per concludere quello scontro.
   - La forza del tuo attacco è ben strana, demone! Il vento che usi in battaglia agisce quasi come fosse vivo! -, ribatté il custode della decima casa, al quale quella situazione non piaceva affatto. L'Utukki fece qualche passo verso di lui e iniziò a battere le mani. Il Cavaliere si preparò al contrattacco, convinto che stesse per sferrare un nuovo colpo.
   - Nonostante la tua alterigia, sei un uomo acuto, Cavaliere! Il vento che uso in battaglia è costituito dalle anime che riposano in questo luogo -, ammise Dumuzi, ammantandosi di un cosmo candido come la neve.
   - Anime? Ma questo posto sembra deserto! -, commentò Nashira, guardandosi intorno e provando un certo disagio dopo quella inattesa rivelazione. Poi, preso da un repentino senso di disgusto per il trattamento che sembrava riservato agli spiriti dei defunti, aggiunse: - Come si può essere così crudeli con chi non ha più modo di difendersi? Le anime non sono oggetti di trastullo! -
   Il demone lasciò cadere quel commento che gli appariva ingiusto e, prima di mettere a tacere per sempre il suo spocchioso avversario, decise di spiegargli la realtà del regno d'Irkalla. - La Piana del Vento Silente accoglie le anime di chi, in vita, era in perenne agitazione, privo di ideali solidi ma pronto a cavare un utile da tutto ciò che faceva. Qui risiedono traditori, disertori, fraudolenti. Essi sono come il vento: incostanti, infidi, terrificanti. Senza la nostra guida, la loro energia vitale rischierebbe di compromettere gli equilibri decretati dal fato. Nel regno d'Irkalla non esistono castighi, né premi, ma soltanto il silenzio dell'oblio. Ti sembriamo ancora così crudeli? -.
   - Che il vostro regno infernale non dispensi pene o compensi poco m'importa! Il mio unico scopo è distruggere il gioiello che hai incastonato nell'armatura! -, rispose il Cavaliere, che non amava troppo i lunghi discorsi. Stese il braccio davanti a sé e, con una serie di movimenti velocissimi, lanciò un gran numero di fasci di luce taglienti. Dumuzi spiegò le ali e allargò le braccia: davanti a sé creò un mulinello d'aria che deviò i colpi del nemico uno a uno.
   - Come farai a battermi, Cavaliere, se le tue tecniche non giungono neppure a sfiorarmi? -, lo canzonò il demone. - Puoi sferrare tutti gli attacchi che vuoi, il vento di Irkalla li annienterà senza indugio! -, continuò, instillando nel giovane Capricorno un senso di frustrazione.
   - Troverò il modo di sconfiggerti, anche a costo della vita! Lo scopo che mi spinge a combattere è troppo importante, non posso cedere! -, affermò il Cavaliere, facendo risplendere il suo cosmo dorato. - Assaggia il filo della lama che la dea Atena donò ai custodi della decima casa! Hypértaton Excalibur! -. Un possente raggio di energia si diresse contro Dumuzi che innalzò una poderosa barriera di vento. Tuttavia, stavolta riuscì soltanto a smorzarne la portata e a dirottarne parzialmente il corso: una parte, infatti, sfiorò l'elmo del demone e s'infranse sulla parete alle spalle dello scranno, mandandola in frantumi.
   - Devo ammettere che il tuo colpo non è male! Credevo che la tua superbia derivasse soltanto dal grado che occupi tra le schiere di Atena, ma mi sbagliavo. Non immaginavo che gli esseri umani potessero ancora coltivare alti ideali! Bene, vuol dire che farò sul serio anch'io! Preparati ad affrontare l'ira del vento d'Irkalla! -, commentò Dumuzi, stupito. Poi ripiegò le ali e le braccia sul torace e si lasciò avvolgere dal suo candido cosmo: - Tumu Imin Diĝirenek[2]! -, gridò, e una violenta bufera d'aria gelida e rovente investì Nashira, scaraventandolo in alto e martoriandone gli arti col freddo e col calore. Il Cavaliere si accorse che la parte inferiore del corpo stava diventando insensibile a causa del gelo, mentre quella superiore bruciava per l'intensa vampa.
   Quando il potere di quel vento si esaurì, Nashira cadde a terra supino. Non riusciva a rialzarsi: le gambe erano paralizzate dal freddo e la pelle delle braccia e del torace, nonostante la protezione dell'armatura, gli ardeva come se fosse rimasto a lungo sotto la canicola d'agosto. Si mise a sedere, provando a bruciare il proprio cosmo per ripristinare la sensibilità delle gambe e vi riuscì. Si rialzò barcollando, ma la vista per un attimo gli si annebbiò. Scosse il capo per allontanare il senso di stordimento che cercava di assalirlo.
   - Sei resistente, ma presto sarai cenere! -, chiosò il demone, accumulando di nuovo il proprio cosmo per lanciare un nuovo attacco. Nashira creò un cerchio davanti a sé con la destra e si preparò a ricevere il colpo. Dumuzi emise una cupa risata e, prima di riversargli addosso la potenza della sua tecnica, lo schernì: - Povero illuso! Quel cerchio di energia non ti salverà! Tumu Imin Diĝirenek! -.
   La forza devastante del vento si abbatté sullo scudo creato dal Cavaliere che tentava in tutti i modi di resistere e di vanificarlo. Le sue speranze durarono qualche secondo: la barriera venne abbattuta e la massa d'aria lo investì con tale violenza da fargli perdere i sensi.
   - Alzati! -, gli gridava una voce in lontananza. Nel silenzio della sua mente quella parola pronunciata con autorità gli ricordava il padre. Quando il buio si diradò, apparve il volto duro del genitore, la barba argentata macchiata di sangue. - Alzati! -, sentì di nuovo e, spinto da quell'ordine perentorio, riaprì gli occhi. Dapprima vide immagini sfocate che man mano diventavano più nitide.
   - Il tuo tempo è finito! Diverrai parte del vento di questo regno! -, sibilò il demone, sollevando le braccia e preparandosi a scagliare il colpo di grazia. Sollevò una terribile bufera di vento e la indirizzò rabbiosamente contro l'avversario. Nonostante la sua mente fosse ancora soggetta agli effetti dell'ultimo attacco, Nashira, colto da un istinto di sopravvivenza e da una disperata brama di vittoria, spazzò l'aria con con la destra creando un possente fendente d'energia che non solo riuscì a tranciare di netto la tempesta d'aria, ma tagliò l'elmo a metà e distrusse un'ala dell'armatura avversaria.
   Dumuzi fu costretto a indietreggiare di qualche passo e, incredulo, si toccò il volto, da cui sgorgava un rivolo di sangue bluastro, e la spalla, da cui l'ala era stata strappata via. - Non è possibile! -, disse fra i denti. I suoi occhi rossi esprimevano ira e vendetta, mentre i ciuffi arancioni della sua chioma mostravano piccole chiazze di linfa vitale.
   Nashira ebbe tempo di riprendere fiato e di rimettersi in piedi. Scorse sul viso del nemico sensazioni contrastanti e, ammantandosi di una rinnovata fierezza, esclamò: - Come puoi vedere sono riuscito a sfiorarti e anche a provocarti danni piuttosto ingenti! -.
   Ritrovata di nuovo la sua freddezza, l'Utukki abbozzò un sorriso malevolo, fissando con occhi colmi di disprezzo il giovane custode della decima casa. - Non hai ancora vinto; -, ribatté, - il tuo è stato solo un colpo fortunato! -.
   Non fece in tempo a pronunciare queste parole, che un boato alle sue spalle lo fece trasalire. Si voltò di scatto e vide l'urna rossa distrutta: nella stanza si levò un vento torrido percorso da raccapriccianti lamenti. La tempesta durò qualche secondo per poi cessare del tutto e far ripiombare quel luogo in un silenzio innaturale. - L'urna del Vento del Sud... sei riuscito a infrangerla! - commentò incredulo Dumuzi, ancora scosso dalla dimostrazione di forza del suo avversario.
   - Per essere stato un colpo fortunato, direi che ti ha stupito parecchio! -, ironizzò il custode della decima casa, preparandosi a lanciare un nuovo attacco ora che la fortuna gli arrideva.
   Dumuzi era rimasto immobile, gli occhi fissi sull'urna in frantumi. Non aveva neppure ascoltato la frase canzonatoria che il Cavaliere gli aveva rivolto. Il suo corpo fremeva di rabbia e il suo orgoglio di demone si rifiutava di accettare quanto era appena accaduto. Nashira attaccò, ma i suoi fendenti non sfiorarono neppure il corpo dell'Utukki. Il giovane Capricorno restò attonito: non riusciva a spiegarsi come avesse fatto Dumuzi a schivare tutti quei colpi senza muovere un dito.
   - Ti farò pentire di essere nato, servo di Atena! Finora ho solo giocato, ma adesso preparati a un'atroce sofferenza! La maledizione di Umul, la forma grezza di mortale che Ninmah relegò nella Piana del Vento Silente, sta per abbattersi su di te! -, disse con tono cupo e furente l'Ametista di Vento, sollevando la destra e bagnandola di cosmo. - Umah Dulumak[3]! -, sussurrò.
   Le tre urne restanti si aprirono, sprigionando una violenta tempesta d'aria che si diresse contro Nashira. Il Cavaliere provò a tagliarla, ma il suo corpo venne avvolto da una sostanza viscosa e verdognola. Cadde in ginocchio, il respiro affannoso, la testa in preda a un dolore lancinante. - Cosa mi hai fatto? -, riuscì soltanto a dire, maledicendo la propria pochezza in battaglia.
   Dumuzi scoppiò a ridere, felice di vedere il nemico prostrato e inerme. - Con questa mia tecnica definitiva ho decretato la tua morte! -, rispose lapidario il demone, osservando la sostanza penetrare nel corpo del Cavaliere e infliggergli un'indicibile sofferenza.
   - Cosa c'era in quella raffica di vento? -, insistette Nashira, sollevando lentamente il capo, la fronte madida di sudore e i denti stretti. - I sentimenti di coloro che scendono in questo luogo. -, rispose Dumuzi, con tono più disteso. - Per raggiungere l'oblio, i defunti devono abbandonare ogni legame e sentimento terreni. Questi ultimi si trasformano nella sostanza collosa che ti ha investito e possono privarti dello spirito riducendoti a un guscio vuoto. -, aggiunse, avviandosi verso lo scranno attorniato dalle urne. - Mi godrò da qui lo spettacolo della tua morte! -, concluse, sedendosi.
   D'improvviso la stanza fu scossa da un violento terremoto. - Non è possibile! -, esclamò l'Utukki, rialzandosi di scatto. - Alulim... è stato sconfitto? -, soggiunse incredulo. Si voltò verso Nashira e un nuovo moto di rabbia lo assalì. - Il Diamante di Luce era uno sciocco e si è fatto battere da un misero Cavaliere d'Oro, ma io sono stato creato dal potente Enlil, il dio del vento, e nessuno riuscirà a vincermi! - sbottò, avvicinandosi all'avversario e cominciando a colpirlo con calci e pugni.
   Il paladino di Atena si difendeva come meglio poteva, ma l'ultimo attacco dell'Utukki lo aveva privato delle forze: si sentiva inerme, spossato, senza volontà. Un calcio al volto lo scaraventò contro una parete che gli franò addosso. - Il tuo spirito guerriero si è già sopito? Il Cavaliere che affrontò Umma era decisamente più degno dell'armatura che indossava. -, disse Dumuzi con tono sprezzante e deluso.
   La mente di Nashira era annebbiata; gli sembrava di trovarsi in un limbo oscuro e silenzioso, dove le ingiurie del demone giungevano come echi ovattati. Neppure gli attacchi che stava subendo gli procuravano dolore: la sua vita scivolava sempre di più nell'oblio e lui non riusciva a opporsi a questo fato che appariva ineluttabile.
   - Nessun nemico è invincibile e nessuna situazione è insormontabile, ricordatelo, figlio mio! La chiave della vittoria è già nelle tue mani, devi solo imparare come usarla al meglio! -, riecheggiò, d'improvviso, nella sua mente la voce possente e autoritaria di suo padre. Riuscì a ricordarne il volto, la corporatura, e le giornate passate a imparare a combattere con la spada.
   - Padre... -, sussurrò, e nel suo cuore tornò ad ardere una nuova speranza. Sentì un'imprevista forza infondergli vigore. Dumuzi gli sferrò l'ennesimo calcio ma, stavolta, il Cavaliere lo parò e, afferrata la gamba del nemico, lo scagliò lontano; poi si rialzò e fece bruciare il proprio cosmo.
   - Come hai fatto a opporti all'oblio? Credevo ti fossi arreso! -, commentò l'Ametista di Vento, atterrando nei pressi dello scranno. Senza dargli respiro, il giovane Capricorno lanciò innumerevoli fendenti alla velocità della luce. Dumuzi creò un mulinello d'aria per disperdere quei dardi di cosmo, ma riuscì a deviarne e a bloccarne solo una parte: il resto lo investì, spaccandogli l'armatura in più punti.
   Una nuova esplosione lo sbalzò in avanti; si voltò lentamente e vide il trono e l'urna azzurra in frantumi: un vento gelido accompagnato da terrificanti gemiti e grida stridule invase la stanza per qualche secondo, sferzando il Cavaliere già provato da quello scontro tremendo.
   Quando il vento si placò, l'Utukki vide il volto di Nashira sorridere: nonostante il dolore e la progressiva perdita di forza, era riuscito a ridurlo a mal partito. Non si capacitava dell'ostinazione e della risolutezza di quel ragazzo tanto freddo quanto tenace. - Perché non riesco più a respingere i tuoi attacchi? -, chiese quasi con rabbia.
   - Mentre sprofondavo tra i recessi dell'oblio, ho sentito la voce di mio padre ricordarmi che la chiave della vittoria è già nelle mie mani. E aveva ragione: Sertan, mio compianto amico e compagno d'arme, ucciso dal tuo Signore, che aveva la capacità di manipolare la materia spirituale, un giorno mi spiegò che per riuscire a battere un nemico che la adopera in battaglia, avrei dovuto indirizzare i miei colpi a livello subatomico. Sembra che le anime siano composte da atomi più leggeri e sottili. Così ho cominciato a lanciare colpi che inveece di distruggere gli atomi frantumassero le minuscole particelle di materia spirituale. -, spiegò il giovane Capricorno, lasciando l'avversario senza parole.
   - Eliminando le urne, limiterò anche il tuo potere: così potrò distruggere la gemma che tieni incastonata nel cinturino e permettere al Cavaliere di Gemini di sventare la minaccia di Nergal! -, aggiunse, ammantandosi nuovamente di un cosmo dorato e preparandosi a scagliare un altro colpo.
   - Credi che mi lascerò battere tanto facilmente? Dimentichi che il mio ultimo attacco ti ha quasi spedito nella dimora del non ritorno, l'oblio! È tempo che questa battaglia si compia! Umah Dulumak! -, ritorse il demone. Le urne rimaste si aprirono e versarono sul Cavaliere tutto il loro potere: Nashira provava a resistere, ma la bava gli si attaccava sul corpo e gli penetrava a fondo nelle carni, aggirando le difese dell'armatura.
   La raffica di vento lo sopraffece e lo gettò contro una parete, che cadde in frantumi. Sotto le macerie Nashira sentiva il sapore metallico del sangue in bocca. Tentava di rialzarsi, ma il suo corpo sembrava rifiutare recisamente gli ordini che gli venivano impartiti. Più si sforzava di reagire, più gli arti restavano inchiodati a terra.
   - Ormai sei alla mia mercé! -, sussurrò Dumuzi, avvicinandosi a passo lento all'avversario, gli occhi spiritati e folli, il sorriso malevolo e ferino. - Non ti lascerò morire senza soffrire! Devi pagare per aver offeso con le tue armi il mio corpo e la mia armatura! -, aggiunse con tono ebbro di trionfo.
   Il Cavaliere non badava alle boriose parole del demone, anzi cercava in tutti i modi di riprendere il controllo del suo corpo. Fece esplodere il suo cosmo con un grido terribile e la stanza s'illuminò d'una intensa luce dorata che acceccò l'Utukki, pronto a sferrare il colpo di grazia. Nashira si rialzò in piedi ansimando, ma con la decisa intenzione di non lasciare più spazio agli attacchi avversari. Lanciò una fitta serie di fendenti d'energia che colsero di sorpresa il demone e lo costrinsero a schivare, all'ultimo secondo, i colpi che riusciva a intercettare. Quelli che non era in grado di evitare lo colpirono senza posa fino a schiantarlo contro una parete.
   Straziato da numerose ferite, Dumuzi non demorse e, barcollando, si rimise in piedi per continuare lo scontro: il suo obiettivo era eliminare quel cocciuto Cavaliere e dimostrare che la profezia del guerriero inviato dal fato fosse soltanto una fandonia. Il re d'Irkalla era destinato a regnare sull'universo e a signoreggiare sugli altri dei, non poteva essere sconfitto da un vile essere umano, seppur dotato di sangue divino.
   - Puoi provarci quanto vuoi, - sbottò, - ma non mi piegherai! La vittoria del supremo Nergal è scritta nelle stelle e nessun oracolo di questo mondo mi convincerà del contrario! - I suoi occhi fieri ostentavano una sicurezza che Nashira non aveva mai riscontrato in nessun altro avversario: neppure i Sabitti, con tutte le loro credenze, avevano mostrato una fede tanto incrollabile.
   - La fiducia che hai nel trionfo del tuo Signore ti fa onore, ma non si realizzerà mai! Chi desidera sostituire la vita col tetro silenzio dell'oblio non può ottenere vittoria! L'universo fu creato da un'esplosione vitale che ha generato mondi ed esseri viventi: credi forse che oggi la vita ceda lo scettro alle brame di un dio infernale? -, ribatté Nashira, che, grazie a quello scambio di battute, aveva potuto riacquistare un po' di forze. L'Ametista di Vento gli rivolse uno sguardo torvo e si avvide che dall'armatura del nemico colava una sostanza viscida e collosa: era la bava prodotta dalla sua tecnica! Ma come aveva fatto quel ragazzino a espellerla dal corpo e ad annullarne gli effetti?
   - Non è possibile! Sei riuscito a rendere vano l'Umah Dulumak? Nessuno è mai stato capace di farlo, tantomeno un misero mortale! -, esclamò il demone, incredulo a ciò che stava osservando.
   - Sei un essere bizzarro, Dumuzi! -, ribatté il paladino di Atena, - Non conosci l'hyperébdomon? -. L'Utukki aggrottò la fronte, facendo qualche passo indietro. - Hyperébdomon, hai detto? Sarebbe questo che ti ha permesso di vanificare il mio colpo speciale? -.
   Il giovane Capricorno annuì. - Per diventare Cavalieri d'Oro bisogna acquisire il settimo senso, ma ciò non basta a sconfiggere nemici con un cosmo più potente. Ecco perché il Sommo Alexer ci ha insegnato a ricercare l'hyperébdomon, l'estremo settimo senso. Grazie a esso, le differenze cosmiche si riequilibrano e diventa più semplice affrontare poteri superiori! -, spiegò, lasciandosi avvolgere da un'intensa aura dorata.
   - Non m'importa se i nostri poteri ora si equivalgono, io ho il compito di batterti e di spianare la strada al regno eterno del mio Signore! -, sbottò Dumuzi, allargando le braccia e richiamando il vento dalle urne rimaste. La stanza fu spazzata da una bufera d'aria che trascinò Nashira per aria e lo ricopriva di quella nauseante sostanza verdognola.
   - Stavolta non avrai modo di annientare la mia tecnica! Ho attinto a tutto il mio potere per eliminarti e così sarà! -, aggiunse, intensificando la forza del vento. Nashira provava a resistere e a evitare che la bava gli penetrasse la carne, ma, alla lunga, il suo fisico spossato dalla estenuante battaglia cedette. Fu sbattuto violentemente a terra e fiotti di sangue gli zampillarono dalla bocca. La testa cominciò a girare e il vigore a svanire rapidamente. Si sentiva ormai allo stremo: nella sua mente si affollarono i volti dei compagni caduti che lo incoraggiavano a rialzarsi e a non lasciarsi prendere dallo sconforto. Forse per la prima volta, dopo tanti anni, gli occhi del Cavaliere s'inumidirono di pianto: non poteva arrendersi, non prima di aver sconfitto il suo avversario!
   Si rimise in piedi a fatica, l'armatura macchiata di sangue e il volto grondante di sudore. Dumuzi non si capacitava dell'ostinazione di quel ragazzo: possibile che gli esseri umani fossero tanto risoluti a portare avanti i loro ideali? Possibile che in loro risiedesse così tanta forza di volontà? Aveva sempre immaginato l'umanità come un gregge pavido e sottomesso, meschino e traditore all'occorrenza, interessato e servizievole a seconda delle situazioni. Ma ora si trovava di fronte a un giovane che non accettava di piegarsi davanti alla sua superiorità, che rifiutava di obbedire ai decreti del fato.
   - Non ho mai incontrato nessuno come te, Cavaliere! -, ammise l'Ametista di Vento, ammirato dalla tenacia di quell'imberbe giovanotto. - Proprio per questo devo eliminarti: il mio ruolo di Guardiano me lo impone! -, soggiunse, elevando ancora una volta una violenta raffica di vento.
   Stavolta Nashira era pronto a concludere lo scontro: grazie all'estremo settimo senso era riuscito a recuperare le energie molto più velocemente. - Dopo di me non incontrerai nessun altro, Dumuzi! Ti dimostrerò che il destino non è immutabile, ma è costruito da coloro che vivono per la giustizia! -, disse. Poi spiccò un salto e cominciò a girare su se stesso. - Excalibur Antanáklasis! -, gridò e migliaia di fendenti di luce si abbatterono sulla tempesta di vento e la dispersero. Annullato il colpo del demone, i dardi di cosmo distrussero le ultime due urne e si abbatterono su Dumuzi, infliggendogli numerose ferite e recidendogli un braccio.
   L'Utukki cadde in ginocchio: non riusciva a credere di essere stato sconfitto. Un fiume di sangue gli sgorgava dalle ferite portandosi via la sua vita. Per un attimo osservò il cinturino e un sorriso folle gli si disegnò in viso: la pietra era ancora intatta!
   - Hai sconfitto me... ma non sei riuscito a distruggere la gemma! -, sussurrò quasi con soddisfazione. Poi scoppiò in una risata isterica; il sangue gli gorgogliava in gola e a ogni scoppio di risa fuoriusciva dai bordi della bocca.
   - Sei in errore, Dumuzi. Non ti sei nemmeno accorto che la maggior parte dei fasci di luce era diretta al gioiello sul cinturino. Toccalo, e vedrai se ciò che dico corrisponde a verità! -, lo corresse Nashira che, pur mostrando una tempra adamantina, era totalmente disfatto dalla battaglia.
   Spinto da quelle parole, l'Utukki sfiorò la gemma con mano tremante ed essa esplose in mille pezzi. Poi sollevò lo sguardo che si velò di una smorfia di dolore: - Devo ammettere la sconfitta e dare merito al tuo valore, Cavaliere! -, disse con voce fioca, poi si accasciò a terra e divenne cenere.
   La casa iniziò a tremare e le pareti a crollare. Nashira guadagnò l'uscita a passo lento: tutta la fatica di quel cimento era divenuta opprimente e il suo corpo era ormai al limite. Uscito all'aria calda del giorno fece pochi passi, poi inciampò e cadde svenuto. Si risvegliò di soprassalto, come incalzato dall'istinto di lasciare quel luogo, e vide a poca distanza una collina adornata di palmizi da cui proveniva un bagliore dorato. Decise di raggiungerla, mentre la stanza di Dumuzi crollava del tutto sollevando polvere e sabbia.
 
[1] "Anime Perdute".
[2] "Vento dei Sette Dei".
[3] "Soffio del Tormento".

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Capitolo 24
*** Un nobile avversario ***


Capitolo XXIV
UN NOBILE AVVERSARIO
 
Kutha, settembre 1068
 
   Zosma aveva imboccato l'uscio della terza stanza con una grande rabbia in corpo: le rivelazioni su Calx, la morte di tanti compagni e del Sacerdote ne avevano esacerbato l'animo, già incline all'ira. Entrato nella sala, lo accolse un calore asfissiante e, guardandosi intorno, vide vulcani eruttanti e fiumi di lava rovente serpeggiare su una pianura brulla e riarsa. Davanti a sé, fra due ruscelli di fuoco scorse un trono fatto di lava, alle cui spalle si ergeva un maestoso vulcano sormontato da un astro incandescente; si avvide che anche sugli altri crateri era visibile un disco ardente che somigliava al sole.
   Si guardò intorno, ma non percepì la presenza di alcun nemico: ciò condusse al colmo l'ira e la frustrazione che si portava dentro. D'improvviso, però, avvertì una leggera aura cosmica provenire dalle sue spalle. Si voltò di scatto e dalla lava apparve una figura dall'armatura nera, con un elmo raffigurante un inquietante drago e due possenti ali che s'innalzavano dalla schiena.
   - Benvenuto al Vulcano dell'Incubo, Cavaliere. Il mio nome è Jushur, il Diaspro di Fuoco, e sono il custode di questi luoghi! -, si presentò il demone, avvicinandosi a passo lento verso l'ospite.
   Zosma notò che la gemma che era stato mandato a distruggere era incastonata quasi al centro del pettorale: una pietra tondeggiante, di un rosso vivace, screziata da venature gialle e verdi.
   - Io sono Zosma di Leo, Cavaliere d'Oro di Atena! Non vedevo l'ora di incontrarti e di poter pareggiare i conti! -, sbottò con tono sprezzante e adirato il custode della quinta casa.
   - Pareggiare i conti? -, chiese quasi infastidito l'Utukki. L'esuberanza e l'alterigia che risuonavano in quelle parole gli procurarono una profonda delusione. A differenza dei Sabitti e dei suoi stessi parigrado, Jushur non aveva mai amato molto la violenza o la gloria del sangue. Non gli piaceva infierire sui nemici, né tantomeno infliggere loro sofferenze gratuite. Ora gli capitava un avversario che, invece, desiderava ardentemente la vittoria e che l'avrebbe ricercata con ogni mezzo.
   - Il tuo ardore guerriero potrebbe trovare riposo in questo luogo. Qui finiscono tutti coloro che vissero spinti da un'ardente e ferrea passione. Il fuoco che li investiva durante la vita in questo regno li forgia all'oblio! -, aggiunse, guardando verso i vulcani che formavano il panorama.
   - Se vuoi che diventi parte del tuo regno dovrai prima sconfiggermi! -, replicò il Leone, pronto a mostrare al demone tutta la sua furia: - Léontos Maniódēs Astrapé! -, gridò, puntando l'indice verso l'alto. Un poderoso fulmine si abbatté su Jushur che, però, scomparve senza esserne colpito. La folgore terminò la sua corsa in uno dei fiumi di lava, sollevando alte fiamme.
   - Se credi di sconfiggermi con così poco, sei in errore, Cavaliere! -, risuonò la voce di Jushur, che riapparve da un altro fiume. Zosma si voltò verso di lui, incredulo: era illeso. - Io fui creato da Utu, il dio del sole, l'astro che riscalda e dà vita a ogni cosa. La sua forza risiede nel mio pugno e queste fiamme sono il frutto della sua possanza! Non amo la crudeltà, ma ti ucciderò per onorare il Supremo Nergal! Prendi: Igi Nubandak[1]! -, continuò l'Utukki, tornando sul campo di battaglia.
   Non appena evocò la sua tecnica segreta, dai fiumi s'innalzarono gocce di lava che si avventarono sul Cavaliere. Zosma fece esplodere il suo cosmo, preparandosi a ribattere il colpo. Incassò i pugni e poi li rilasciò, lanciando fasci di luce che spazzarono via quelle gocce incandescenti, o almeno così gli sembrò.
   Quando il contrattacco cessò, le gocce riapparvero attorno al Cavaliere e lo attaccarono, penetrandogli nella carne, ma senza infliggergli alcun dolore. Il custode della quinta casa non riusciva a capire come avesse fatto il colpo di quel singolare Utukki a superare le sue difese. La risposta a quel quesito non tardò ad arrivare.
   - La lava richiamata dal mio colpo segreto è quella di tutti i fiumi di questo luogo, non di uno solo. Per questo è in grado di funzionare anche dopo essere stata respinta. Ora potrò conoscere la tua anima ed estirpare dal tuo corpo l'ardore che la contraddistingue. Arrenditi e ti sarà più facile abbandonarti nelle braccia dell'oblio! -, disse Jushur con tono pacato e quasi amichevole.
   Sebbene le parole del demone risuonassero come il consiglio di un amico piuttosto che come l'ordine di uno che si sente superiore, il Cavaliere ne fu profondamente infastidito: quel tono affabile e gentile gli appariva stucchevole, finto, privo di senso in un contesto bellico.
   - La tua ipocrita gentilezza non ti aiuterà a vincermi. -, sbottò Zosma, facendo esplodere nuovamente il suo cosmo e preparandosi a un nuovo attacco, ma qualcosa lo trattenne: nonostante non riuscisse a scorgere il volto del suo avversario, celato dall'elmo, sentì una profonda tristezza provenire dal di lui cosmo.
   - Ho una domanda da porti, Cavaliere. -, esordì il Diaspro di Fuoco, lasciando il custode della quita casa incerto. - Tu hai vissuto l'inferno, hai toccato con mano il lato peggiore dell'umanità, eppure continui a proteggerla. Perché? -, concluse con un'insolita mestizia nella voce.
   Zosma corrugò la fronte: - Come fai a conoscere il mio passato? -, domandò con una buona dose di agitazione nel cuore. - Le gocce di lava che ti hanno trafitto la carne possiedono la capacità di leggere l'animo di chi le ha ricevute: è così che riesco a placare le violente passioni degli esseri umani che giungono in questo luogo. Ora che ho risposto alla tua domanda, vorrei che tu rispondessi alla mia. -, disse l'Utukki, impaziente di vedere soddisfatta la sua curiosità.
   Il Cavaliere abbassò le braccia e, chiudendo gli occhi, decise di esaudire la richiesta dell'avversario: - Grazie ad Atena ho capito che tutti gli uomini, anche i più malvagi ed empi, hanno una possibilità di riscatto! Io stesso sono la prova vivente di ciò che ti sto dicendo. Quando avevo perso le speranze di un futuro luminoso, privo di soprusi e di inganni, il Sommo Alexer mi diede l'occasione di cambiare le mie stelle. Oggi combatto per dare anche ad altri la possibilità di cambiare! -.
   - Nutri così tanta speranza di redenzione per l'umanità? Ammirevole! Ma gli uomini che giungono qui sono troppo spesso sopraffatti dalle emozioni, dal fanatismo, dal desiderio di primeggiare. Ciò li conduce sovente a sfidare persino gli dei e ad assommare così tanta tracotanza e superbia da perdere di vista il loro ruolo nell'universo. Come possono trovare salvazione creature simili? -, commentò il demone, stupito dalla determinazione con cui quel Cavaliere gli aveva risposto.
   - Agli occhi degli dei o di altri esseri l'umanità è soltanto una menda nella perfezione dell'universo. Ma forse dimenticano che gli uomini sono stati creati da loro e i figli difficilmente differiscono dai genitori. Nel corso dei secoli Atena si è assunta l'onere di difendere questi figli abbandonati e rinnegati dai loro creatori. Lei crede in noi e io la aiuterò a salvare questo mondo con tutto quanto è in mio potere. -, ribatté il paladino della dea della giustizia, avvolgendosi di un intenso cosmo dorato.
   - Non avevo mai udito parole simili! Ammiro la nobiltà del tuo cuore, Cavaliere! Non ti affronterò come un nemico, né come un essere inferiore, bensì come un mio pari. Se riuscirai a sconfiggermi, non mi opporrò alla distruzione della gemma, hai la mia parola! -, rispose Jushur, portandosi un braccio al petto e stringendo il pugno.
   - Non ti opporrai? Perché? -, chiese Zosma, con un'espressione di sospetto nel volto. - Chi ha ideali così alti e solida dedizione alla causa per cui combatte non può perdere. Se l'amore di Atena per l'umanità risulterà più potente del disprezzo di Nergal per la vostra razza, non potrò che inchinarmi alla volontà del fato. -, replicò con voce ferma e sincera il demone.
   Con un gesto della mano si liberò dell'elmo e lo gettò a terra con noncuranza. Aveva capelli arruffati di un arancione tenue e occhi di un rosso vivo. Dal suo volto non traspariva né disprezzo, né superbia. Zosma sentì la sua rabbia scemare e il suo cosmo ardere placido e potente. - La mia ira è svanita... -, disse fra sé, guardandosi i pugni intrisi di un accecante bagliore dorato.
   - Chi è in preda alle emozioni non può combattere al meglio. -, chiosò il demone, fissando lo sguardo sul Cavaliere. - Ho usato la mia tecnica per rimuovere dal tuo cosmo ogni sentimento che avrebbe potuto infirmare la forza del tuo cosmo. -, continuò, stupendo Zosma, che non capiva tutta quella gentilezza e lealtà nei suoi confronti.
   - Avresti potuto approfittare del mio stato d'animo, perché non l'hai fatto? -, chiese, incredulo di tanta onestà guerriera. - Trarre vantaggio da un avversario indebolito dalle sue emozioni non è leale. Preferisco combattere ad armi pari! Ora che sei padrone del tuo cosmo, possiamo iniziare il nostro cimento! Izi Aya[2]! -
   La lava dei fiumi s'innalzò e s'incendiò; un lamento sommesso e cantilenante accompagnò le fiamme verso il Cavaliere, che si preparò a respingere quell'attacco con una barriera di cosmo. Tuttavia, il suono e l'intensità delle fiamme prevalsero e avvolsero Zosma in una pira rovente.
   Il Cavaliere notò subito che quel fuoco, seppure travolgente e opprimente, non gli causava alcuna ustione. Sentiva, però, le sue forze consumarsi e le sue membra cedere a un'insolita rifinitezza. - Non posso lasciarmi sopraffare! Devo spianare la strada a Calx! -, disse fra sé e, con un potente grido, fece esplodere il suo cosmo e annientò le fiamme, e i lamenti che le accompagnavano. Senza perdere tempo, incassò il braccio destro e lanciò un possente fascio di cosmo contro Jushur, urlando: - Keraunobólos Astrapé! -.
   Il bagliore di quell'attacco si abbatté a piena potenza sul demone che tentò di arrestarlo col palmo della mano: fu spinto indietro di qualche metro e scariche elettriche iniziarono a torturargli il braccio. Il Diaspro di Fuoco fece ardere il suo cosmo e mutò quei fulmini in fuoco: era riuscito a smorzare il colpo, ma il bracciale presentava crepe da cui fuoriuscivano sbuffi di fumo.
   L'attacco di Zosma gli aveva procurato dolore, ma non provava rabbia o rancore nei confronti del suo avversario, bensì una profonda ammirazione. Quella sofferenza gli aveva dimostrato l'indomita tempra del Cavaliere e anche il valore dei suoi ideali. Sorrise inconsapevolmente e quella battaglia gli sembrò il coronamento di una lunga vita d'attesa. L'attesa di poter finalmente affrontare qualcuno che non fosse spinto dalla brama di vittoria, ma da ideali solidi e nobili. Era felice, per la prima volta dopo secoli, di avere la possibilità di combattere un degno avversario.
   - Meriti rispetto, Zosma! Il tuo spirito guerriero e la tua nobiltà d'animo sono ciò che ho sempre desiderato in un avversario! Sono felice che il fato ti abbia posto sul mio cammino! -, esclamò, guardando l'armatura martoriata dall'attacco del Leone.
   - Sei un demone bizzarro, Jushur; devo ammetterlo! Nessuno dei miei nemici coltivava una così profonda onestà! Se la guerra non ci avesse posto su campi di battaglia opposti, avrei combattuto volentieri al tuo fianco! -, commentò il custode della quinta casa, preparandosi a un nuovo attacco. Il Diaspro di Fuoco sorrise e fece esplodere il suo cosmo. - Izi Aya!, gridò e ancora una volta la lava si avventò sul giovane Leone mutandosi in alte fiamme.
   Il Cavaliere sapeva che per annullare quella tecnica doveva bruciare al massimo il proprio cosmo, ma gli effetti di quell'attacco, sebbene smorzati dalla sua granitica forza di volontà, cominciavano a farsi sentire. Riuscì a liberarsi dalla morsa delle fiamme, ma era affannato e madido di sudore. Guardò l'Utukki e notò che i suoi occhi erano colmi di ammirazione. Non era abituato ad avversari del genere e quel comportamento così nobile e fiero lo metteva a disagio.
   D'improvviso, i muri della stanza furono scossi da un terremoto. - Alulim... -, disse fra sé l'Utukki. Zosma ritrovò nuovo slancio nell'avvertire la vittoria di Elnath e riprese l'attacco. Si avvicinò al demone e cominciò a colpirlo con pugni intrisi di cosmo. Jushur non reagì e venne scaraventato ai piedi del trono di lava.
   Il giovane Leone trovò molto strano quel repentino atteggiamento remissivo: gli appariva pensieroso, come se la sconfitta del parigrado gli avesse affollato la mente di inquietudine e di incertezza. - Che ti prende? Sei stanco di combattere? -, proruppe Zosma, cercando di ridestarlo dalla sua distrazione.
   Il demone si rialzò, asciugandosi un rivolo di sangue all'angolo della bocca. La morte di Alulim significava che i Cavalieri erano davvero nel giusto? Che il piano di Nergal era dettato da orgoglio e presunzione? Che il fato non desiderava l'estinzione della vita nell'universo? Jushur voleva capire se quella battaglia era realmente necessaria. A questo quesito, però, poteva rispondere soltanto il Cavaliere che stava affrontando. Decise di scoprire quale fosse la verità di quella guerra e di seguire il suo cuore piuttosto che la brama di potere di un nume o la superbia degli uomini: avrebbe scelto da solo il suo fato.
   - Sono pronto a riprendere lo scontro, Zosma! -, esclamò, rialzandosi. Il suo cosmo s'innalzò maestoso e richiamò le fiamme della sua tecnica speciale. - Stavolta non riuscirai a uscire indenne dal mio attacco! Izi Aya! -. Un turbine di fuoco avvolse il Cavaliere e, con maggior foga, tentava di precipitarlo nell'oblio.
   Tuttavia, il paladino di Atena continuava a resistere a quella vampa che provava a persuaderlo ad arrendersi alla dimenticanza. Ancora una volta annientò il colpo nemico, anche se il suo fisico iniziava a intorpidirsi. Nel suo sguardo fiero e tenace Jushur lesse una fede incrollabile e una forza difficile da piegare.
   - Per essere un mortale sei potente, Zosma! Nessuno era mai stato in grado di spezzare così tante volte il mio attacco! Vuol dire che adopererò una tecnica che non ho mai avuto necessità di usare! Il mio colpo più potente! -, ammise il demone e, facendo ardere il suo cosmo, spiegò le ali e si librò in alto, sollevò le braccia e richiamò la sua arma definitiva: - Dari Me[3]! -, esclamò e il sole del vulcano più grande assorbì l'energia degli altri e la fece convergere tra le mani di Jushur, il quale la scagliò contro il Cavaliere, pronto a contrattaccare.
   Una gigantesca sfera di fuoco lo investì, abbattendo ogni possibilità di difesa. S'innalzò verso il cielo e, prima di raggiungere il tetto della sala, esplose violentemente. L'Utukki abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi: forse si era illuso che gli ideali di quel Cavaliere fossero così solidi; eppure non riusciva a capire come Alulim avesse potuto perdere. Si voltò amareggiato e decise di immergersi in uno dei fiumi per riposare. Ma non appena toccò col piede la lava, avvertì un possente cosmo elevarsi.
   Si girò di scatto e vide Zosma avvolto nel suo cosmo: l'armatura presentava leggere crepe, ma tutto sommato non sembrava aver subito gravi danni. - Sei sopravvissuto? Come? -, chiese sbigottito. Il suo colpo più potente non l'aveva vinto? Era stato il fato a salvarlo?
   - Non è facile domare un leone! Tocca a me farti assaggiare la mia tecnica più potente! Preparati: Keraunón Diktýon! - La rete di fulmini del colpo del custode della quinta casa si allargò verso il demone, che, richiamando l'energia dei soli, creò una potente barriera di fuoco. A contatto con le fiamme, i fulmini esplosero con un tremendo boato e una luce accecante invase l'intera stanza.
   Quando il bagliore diradò, la sala era piena di detriti e polvere. Zosma sapeva che il suo attacco non era stato risolutivo: il demone che stava affrontando dimostrava una forte tempra e una potenza notevole. Difatti, poco dopo, Jushur riapparve: era in affanno, un bracciale e parte del cinturino dell'armatura erano in pezzi, e un rivolo di sangue gli macchiava il volto.
   - Non immaginavo possedessi un colpo così potente! Mi hai causato danni ingenti! Ma non ho ancora capito come sei sfuggito al mio attacco! -, confessò Jushur, osservando le profonde crepe sulla sua corazza.
   - Spegnendo la rabbia che avevo dentro ti sei precluso la possibilità di vincere. È stata una mossa avventata! I Cavalieri di Leo hanno da sempre un'indole bellicosa e testarda; non si fermano davanti a nessun ostacolo, né provano timore al cospetto del nemico. Io non ti cederò mai il passo! Potrai attaccarmi altre mille volte, io continuerò a rialzarmi sempre più forte! -, spiegò Zosma, avvolto da un'intensa aura cosmica.
   - Ti sbagli! Concedere a un avversario di combattere ad armi pari non è una mossa avventata, ma un atto di rispetto! Anche tra nemici vi può essere lealtà! E ora so che la causa per cui combatti è degna! -, rispose il demone.
   Mentre i due si scambiavano queste battute, la stanza tremò ancora una volta. - Anche Dumuzi è stato sconfitto? -, sussurrò Jushur. Il dubbio che gli agitava il cuore era cresciuto: possibile che Nergal fosse nel torto? Per un attimo guardò il sole che troneggiava sul vulcano più alto. Zosma aggrottò la fronte: cosa aveva in mente quel demone?
   Poi il Diaspro di Fuoco tornò a fissare gli occhi sul Cavaliere e accennò un sorriso sincero. Dopo secoli poteva finalmente conoscere la verità! Gli era chiaro che il fato non avrebbe mai concesso a Nergal di spegnere la vita dell'universo e di regnare su un abisso di morte e silenzio.
   Si ammantò di una placida aura cosmica e disse: - Zosma, dimostrami per l'ultima volta che il destino è dalla tua parte! Se riuscirai a sopravvivere alla mia tecnica definitiva lanciata a piena potenza mi riterrò sconfitto e ti cederò la gemma, come ti avevo promesso -.
   - D'accordo! -, rispose il Cavaliere, espandendo il suo cosmo e preparandosi a ricevere l'attacco del Diaspro di Fuoco. Levatosi in alto, Jushur richiamò il potere dei soli e lo riversò addosso al giovane Leone, che venne avvolto da una nuova ondata di fiamme e sbalzato verso il cielo. Stavolta, però, il potere di quel colpo era decisamente diverso: l'armatura si spaccò in più punti e Zosma sentì la mente e il cuore svuotarsi pogressivamente.
   Chiuse gli occhi e strinse i pugni: il suo cosmo sembrava restio a rispondere al suo padrone; la quiete che provava lo persuadeva a cedere e a lasciarsi trasportare tra le ombre dell'oblio. D'un tratto, tuttavia, riaprì gli occhi e ripensò a quanto era in gioco: non poteva accettare la sconfitta, la salvezza dell'umanità era più importante di qualsiasi altra cosa. Lanciò un grido tremendo e il suo cosmo esplose accecante; la sfera di fuoco s'ingrossò ed esplose; l'onda d'urto scaraventò indietro persino Jushur.
   Per un attimo il guerriero d'Irkalla credette che l'avversario fosse morto, e questa eventualità lo rammaricò non poco: aveva sperato fino alla fine che quel Cavaliere lo aiutasse a fugare i suoi dubbi. Si rialzò e a piccoli passi si diresse verso il punto dell'esplosione. Si fermò di colpo: avvertiva il cosmo di Zosma. Ne percepiva non solo la risolutezza, ma anche la luce della giustizia. In cuor suo ringraziò gli dei.
   Il Cavaliere del quinto segno era in piedi, ansimante, l'armatura spaccata in più punti, ma il volto fiero e gli occhi scintillanti. - Ben fatto, Zosma! -, si complimentò il demone. - Per un istante ho creduto che ti fossi arreso all'oblio, ma sono felice che tu abbia reagito. Era la risposta che attendevo da lungo tempo! -, aggiunse.
   - Che vuoi dire? -, chiese il paladino di Atena, incuriosito dalle parole dell'avversario. Perché si era congratulato? Perché era felice che un nemico fosse sopravvissuto al suo attacco? E qual era la risposta che attendeva?
   - Quando Utu mi creò, mi disse che il sole non è solo fonte di luce e di calore, ma ha anche il compito di alimentare la vita. All'inizio, queste parole mi spinsero a improntare la mia esistenza a salvaguardare ciò in cui credeva il mio creatore. Tuttavia, quando fui assegnato al servizio di Nergal le cose cambiarono. Il mio ruolo di custode delle anime mi pose davanti a un dilemma: come si poteva preservare la vita di esseri meschini, gretti, traditori? Perché Utu mi aveva detto quelle cose se i mortali stessi sembravano non amare la vita?
   Tutte queste domande mi convinsero che forse il mio creatore aveva torto, così iniziai a credere al piano di Nergal: forse l'oblio era l'unica scelta per trovare una risposta. Poi giunse il tempo della sconfitta e del confino nelle tacite tenebre dello Scrigno dell'Eternità. I miei quesiti erano rimasti irrisolti e per lungo tempo pensai che forse non avrei mai sciolto i miei dubbi, finché non percepii il sangue dei Cavalieri che impedirono la prima resurrezione del Signore d'Irkalla. Era risoluto, luminoso, nobile, privo di tutte le scorie che possedevano le anime che avevo incontrato.
   Fu allora che in me rinacque la speranza di poter vedere soddisfatte le mie domande e attesi con pazienza di ritornare in questo mondo. Quando hai varcato la soglia di questa stanza ho avvertito la stessa sensazione di allora e ho capito che finalmente avrei chiarito ogni dubbio.-, raccontò il demone, con voce gentile e sincera. Sollevò la destra e la conficcò nel pettorale dell'armatura, ne estrasse la gemma e la porse a Zosma.
   - Eccoti la gemma! Mi hai sconfitto. L'universo deve continuare a vivere; avevi ragione: ogni creatura può cambiare, è stato il tuo cosmo a mostrarmelo. -, continuò, invitando il Cavaliere a compiere la missione per cui era venuto.
   Il custode della quinta casa fu colto da emozioni contrastanti: da un lato era contento che lo scontro si fosse concluso senza spargimenti di sangue, dall'altro temeva che il demone volesse tendergli una trappola.
   Jushur sorrise e, chiudendo gli occhi, disse: - Non ho intenzione di ingannarti! Dovresti averlo compreso, ormai. Avanti, distruggi la gemma per donare speranza a questo mondo! -. Il Cavaliere annuì e si preparò a ridurre in cenere la pietra, ma accadde qualcosa di inatteso.
   Nere scariche di cosmo colpirono l'Utukki che si lasciò scivolare dalle mani il gioiello. Alte urla si levarono dal guerriero infernale: cadde in ginocchio, straziato da quel cosmo mortifero. Zosma rimase per un attimo confuso, poi corse in aiuto del demone che gli faceva cenno di allontanarsi. La gemma iniziò a levitare, attirata dal richiamo del suo padrone. Jushur sgranò gli occhi: non avrebbe mai permesso al Signore di Irkalla di portare avanti i suoi piani, non più almeno.
   - Presto, Zosma! Distruggi la pietra prima che Nergal ne entri in possesso! -, gridò al Cavaliere incerto. Il giovane Leone annuì e facendo esplodere il suo cosmo attaccò la gemma con un poderoso fulmine. In pochi istanti fu ridotta in cenere e anche l'oscura aura del dio sumero svanì.
   Il paladino di Atena raggiunse il demone, ormai in fin di vita. - Ti porto via da questo posto! Tu meriti di conoscere il valore insito in ogni uomo! -, lo esortò, tendendogli la mano e provando a sollevarlo.
   L'Utukki scosse il capo. - No, Zosma! Ora che ho appagato il mio desiderio posso morire in pace! -, sussurrò, con gli occhi velati dal mantello della morte. Appoggiò la mano tremante e insanguinata su uno spallaccio del ragazzo. - Sii il sole di questo mondo! Usa i tuoi pugni per salvaguardare la vita dell'universo! Tu puoi farlo, Zosma, perché hai la giustizia dalla tua parte! Addio... -, aggiunse, poi reclinò il capo e il suo corpo iniziò a dissolversi.
   Zosma provò un'indicibile pena per quel singolare avversario e i suoi occhi si bagnarono di calde lacrime. - Addio, Jushur, porterò con me le tue parole, per sempre, affinché mi aiutino a proteggere la pace in questo mondo! -, disse. La stanza cominciò a crollare ed egli uscì in fretta. Sull'uscio diede un ultimo sguardo alla chiazza bluastra lasciata dal demone e poi andò via.
   Volse lo sguardo alla collina e vide i suoi compagni. Li raggiunse e notò Nashira immobile sotto una palma ed Elnath con l'espressione preoccupata. - Che succede? -, gli chiese. Il possente custode della seconda casa lo guardò con occhi tristi e rispose:
   - Nashira deve aver affrontato un terribile nemico. Quando è uscito da quella malefica torre è svenuto più volte. L'ho portato io qui, ma non sta bene: avverto il suo cosmo indebolirsi sempre di più. Avrei voluto aiutarlo, ma sono allo stremo delle forze. Che possiamo fare? -.
   Il giovane Leone rifletté qualche secondo, poi si avvolse della sua lucente aura cosmica e pose le mani sul torace dell'amico. - Che vuoi fare? -, domandò il Toro. - Gli infonderò parte del mio cosmo, così dovrebbe risvegliarsi da questo sonno! -, chiarì il custode della quinta casa.
   - Sei impazzito? -, esclamò il parigrado. - Affatto. So quello che faccio! -, replicò l'altro. Nashira cominciò a muovere le dita e il capo, aprì lentamente gli occhi e vide attorno a sé i compagni.
   - Che mi è successo? -, sussurrò intontito. Stringendogli una spalla, Zosma sorrise e disse: - Ben tornato fra noi, amico mio! -. I due compagni lo fissarono un po' incerti, ma notarono nel suo sguardo una quiete immensa, insolita per lui. Finalmente anche lui sembrava aver deposto la rabbia che lo contraddistingueva.
 
[1] "Occhio Indagatore".
[2] "Urla di Fuoco".
[3] "Eterno Silenzio".

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Capitolo 25
*** Le Colline della Folgore ***


Capitolo XXV
LE COLLINE DELLA FOLGORE
 
Kutha, settembre 1068
 
   Il panorama che apparve a Hamal, non appena varcò l'uscio della stanza, lo lasciò alquanto stupito: una fitta distesa di basse colline sulla cui cima erano poste delle conche. Dal soffitto poderosi fulmini, accompagnati da un cupo fragore e da una luce sfavillante, le colpivano senza recarle danno alcuno. In fondo alla stanza vide una creatura dall'armatura totalmente nera assisa su un trono quasi trasparente. Si avvicinò lentamente e vide lo strano elmo che celava il volto del suo avversario: somigliava a una medusa aggrovigliata sul capo di un uomo. Alla base del cinturino era incastonata una piccola pietra triangolare di un giallo spento.
   - Il mio nome è Hamal di Aries, Cavaliere d'Oro di Atena. Sono venuto a reclamare la gemma incastonata nella tua armatura. -, esordì il ragazzo, fissando la maschera inespressiva che aveva davanti. L'Utukki si alzò e con voce profonda e piatta rispose:
   - Io sono Etana, l'Eliodoro del Fulmine, e questo è il regno di mia competenza, le Colline della Folgore. Non ti sarà facile piegarmi e a breve te ne accorgerai, né avrai l'occasione di impadronirti del gioiello che il Sommo Nergal mi ha affidato, Cavaliere. -. Fece qualche passo avanti e si fermò a un palmo dall'Ariete.
   - Parole alquanto arroganti, le tue. - . ribatté il custode della prima casa. - Devi confidare molto nel tuo potere, altrimenti saresti già fuggito di fronte alle vestigia dell'Ariete. -, continuò, destando un moto di repulsione nel demone che si sentiva dileggiato.
   - E accusi me di arroganza? -, replicò, poco incline a sentirsi sminuire da un ragazzino imberbe. - Non sai con chi hai a che fare? Io sono uno dei sette guardiani di Irkalla, uno dei demoni più potenti dell'universo! Prima di annientarti per sempre t'insegnerò un briciolo di umiltà! Namlugal Ĝirak[1]! -, concluse, facendo ardere il suo cosmo e creando una poderosa saetta percorsa da scariche d'energia.
   Il fulmine si avventò su Hamal, che non sembrava affatto preparato a respingere quell'assalto. Raggiunto il suo obiettivo, il dardo detonò con un tremendo boato. Etana esultò, convinto di aver ottenuto la vittoria. Ma quando la polvere diradò anche la sua baldanza si spense: il dorato Cavaliere era incolume!
   Interdetto, l'Utukki fece un passo indietro: il suo colpo non aveva neppure scalfito la corazza a protezione dell'avversario. Possibile che le parole pronunciate da quel moccioso nascondessero dell'altro? Non pago dello smacco appena subito, il servo di Nergal scagliò di nuovo la sua tecnica segreta contro il Cavaliere. Il risultato non cambiò: sia Hamal che la sua armatura erano del tutto indenni.
   Etana fremeva: non riusciva a comprendere come mai i suoi attacchi risultassero tanto inefficaci. Il custode della prima casa dello Zodiaco si avvicinò al demone con passo fermo e deciso. - Puoi scagliarmi contro tutti gli strali del tuo turcasso, ma non riuscirai a piegarmi! -, asserì con tono serio ed espressione fiera.
   - Persino gli dei si sono inchinati al mio potere, e ora un misero mortale afferma ch'io sia impotente a fermarlo? -, rintuzzò l'Utukki del fulmine, adirato per quelle parole che lo sminuivano.
   Quella frase pronunciata sotto l'impulso della collera non sfuggì a Hamal, che aggrottò la fronte e decise di saperne di più: in fondo, pensava, gli Utukki dovevano essersi macchiati di un crimine efferato per incorrere in un castigo tanto penoso. - Vorresti farmi credere che hai ucciso un dio? -, chiese con un certo scetticismo nella voce.
   Il guardiano delle Colline della Folgore sollevò il capo superbamente e, stringendo i pugni, raccontò la sua storia e il misfatto che l'aveva condotto alla condanna assieme ai suoi compagni:
   - Fui creato da Ishkur, l'antico dio delle tempeste e creatore dei fulmini, per aiutare il supremo Nergal nella conquista d'Irkalla. La battaglia fu incruenta perché i Sabitti non reagirono ed Ereshkigal, la regina dell'oltretomba, si arrese. Il mio signore prese possesso del regno dei morti e decise di sposare la sua vinta avversaria.
   Per i miei servigi ottenni il governo di questo luogo, in cui riposano le anime degli eroi. Per un tempo vivemmo compiendo il nostro dovere di guardiani, ma non ci eravamo resi conto che l'infida Ereshkigal tramava alle spalle del nostro signore. Io avevo cominciato a nutrire dei sospetti durante un banchetto: osservavo la regina e nei suoi occhi scorsi una muta insofferenza, una vindice brama di rivalsa che mi fece rabbrividire.
   Ne parlai coi miei parigrado, ma nessuno diede peso alla mia sollecitudine. In particolare Jushur, il Diaspro di Fuoco, riteneva che il rapporto tra Nergal e la sua sposa fosse una questione che andava al di là delle nostre incombenze. Io non ne ero convinto, e avevo ragione: la sera in cui Nergal fu tradito ero acquattato dietro una delle colonne della sala principale del palazzo. I due numi mangiavano datteri e levavano in alto coppe d'argento colme di vino. Mi accorsi che il mio signore tracannava calici uno dopo l'altro, mentre la regina continuava a sorseggiare da quell'unica coppa che le era stata versata.
   Corsi ad avvisare i miei compagni: alcuni risposero al mio appello, ma altri, come Jushur, se ne restarono neutrali, convinti della loro estraneità alle vicende personali degli dei. Giunsi assieme ai miei pochi alleati nella sala principale, ma non trovai nessuno. Ordinai agli altri di cercare i sovrani nelle stanze laterali, ma alcuni di essi, impauriti dalla reazione che avrebbero potuto suscitare, si tirarono indietro e se ne ritornarono alle loro mansioni.
   Un cattivo presentimento mi aleggiava sul cuore: iniziai a controllare il labirinto di camere del palazzo, ma di Nergal ed Ereshkigal non c'era alcuna traccia. D'un tratto, udì la voce della regina provenire dall'esterno: invocava l'apparizione degli dei del cielo. Enki e altri numi si presentarono e presero in custodia Nergal, avvolto in un laido lenzuolo e adagiato su un letto malandato. 
   Riunii i miei sodali e, stavolta, anche gli scettici si avvidero della fondatezza dei miei dubbi. Aspettammo Ereshkigal all'ingresso del palazzo: aveva commesso un badiale errore! Uscendo dalla ziqqurat aveva perduto la sua immunità ai nostri poteri. Dopo una lunga e sofferta battaglia, in cui la dea si difese con le unghie e con i denti, riuscimmo a sconfiggerla e a giustiziarla grazie al potere delle gemme. Esse possono inibire il potere di un dio fino a privarlo del cosmo.
   Poco dopo sopraggiunse il castigo divino: i nostri creatori ci spogliarono dei nostri poteri e delle nostre armature rinchiudendoci nello Scrigno dell'Eternità assieme a Nergal e ai Sabitti -.
   Il lungo racconto di Etana stupì il Cavaliere e gli chiarì anche la natura così perentoria del castigo: sopprimere l'essenza di un nume significava impedirgli di ritornare in vita. Era un crimine a cui neppure i paladini di Atena, che pure difendevano la Terra da due millenni, erano mai giunti.
   Hamal abbassò il capo e chiuse gli occhi: - Credevo fossi riuscito a vincere da solo, invece ti è servito l'apporto dei tuoi compagni! Prendersi il merito di ciò che hanno fatto anche altri non solo non è onesto, ma neppure giusto! Ecco perché dicevo che puoi sfoderare tutte le tue tecniche segrete ma senza ottenere il minimo risultato! -, commentò con una certa vena di sarcasmo nella voce.
   L'Utukki fu nuovamente avvolto dall'ira. Quel moccioso ardiva sfidare un deicida con tanta sfrontatezza e leggerezza senza rendersene conto. Ma ci avrebbe pensato lui a ridimensionare quella boriosa tracotanza. Allargò le braccia espandendo il suo cosmo: dalla schiena apparvero tentacoli luminosi che strisciarono verso il Cavaliere: - Ora vedrai di cosa è capace l'Eliodoro del Fulmine! Namgula Ĝirak[2]! -, disse, e le spire di quel nuovo colpo si strinsero addosso a Hamal, rilasciando potenti scariche elettriche.
   Stavolta sembrò che la tecnica risultasse efficace, ma fu solo un'illusione: il custode del palazzo del Montone Bianco scomparve e riapparve alle spalle del demone. Etana si voltò di scatto, incredulo e deluso. L'inquietante elmo che ne celava le fattezze esplose in mille pezzi rivelandone finalmente il volto: aveva corti capelli viola e occhi di un blu intenso.
   - Sei riuscito a evitare l'abbraccio dei miei tentacoli? Come? -, chiese, quasi senza pensare al fatto di essere stato appena privato di un pezzo d'armatura. Fissava quel ragazzo dall'espressione calma e decisa: la fiducia nel suo potere non gli era mai mancata, né aveva provato disagio di fronte a un nemico, ma quel Cavaliere duro a morire lo defraudava di ogni certezza.
   - Possibile che tu non riesca a comprenderlo? -, replicò Hamal, abbozzando un sorriso tirato e chiudendo gli occhi. - Sai come viene chiamata l'armatura che indossi? -, continuò, senza rispondere direttamente al quesito dell'Eliodoro del Fulmine.
   Il demone non capiva a cosa volesse alludere il Cavaliere con quella domanda: gli premeva soltanto scoprire com'era rimasto incolume il suo giovane avversario dopo aver subito ben due delle sue tecniche. - Non m'interessa il nome con cui chiamano questa corazza! Ciò che voglio è sapere come hai fatto a sopravvivere ai miei attacchi! -, ribatté, troppo scosso dalla piega che stava prendendo quella battaglia.
   Il ragazzo abbassò il capo, scuotendolo in segno di disapprovazione. - La mia domanda aveva lo scopo di dimostrarti quanto sia effimero il tuo potere. -, affermò. Sembrava voler evitare qualsiasi risposta che potesse dissolvere i dubbi che attanagliavano l'animo orgoglioso di quella creatura, ma non era così.
   D'improvviso, la stanza iniziò a tremare. Etana sgranò gli occhi e il suo pensiero corse al Bagliore dell'Aurora: Alulim era stato sconfitto dal suo avversario! Concentrò il proprio cosmo per conoscere come si era svolto quello scontro e se il compagno aveva riscontrato le sue stesse difficoltà. Il confronto fu impietoso: Elnath era stato ridotto a mal partito e aveva vinto solo grazie alla risolutezza del suo cosmo.
   Una risata diabolica gli illuminò il volto: ora capiva perché non riusciva a sconfiggere il suo rivale tanto facilmente! Gli era toccato in sorte uno dei guerrieri più forti dell'esercito di Atena! Il destino gli concedeva una grande occasione: era questa l'unica spiegazione. Ma ora aveva la possibilità di mostrare anche ai suoi parigrado la supremazia del suo potere. Se fosse riuscito a prevalere e a conservare intatta la gemma sarebbe diventato il capo indiscusso degli Utukki e Nergal lo avrebbe colmato di onori! Sì, doveva vincere e proclamare la sua superiorità.
   Hamal aveva intuito il motivo di quella risata così repentina e ritenne patetico l'entusiasmo manifestato dal demone. - Credi che l'inefficacia dei tuoi attacchi sia dettata dalla mia forza guerriera? Non sai quanto tu sia in errore! -, commentò, catturando l'attenzione di Etana, che smise di ridere e aggrottò la fronte.
   - La tua debolezza proviene dall'armatura che indossi e dalla superbia che ostenti di fronte ai tuoi avversari. Non ti sei ancora reso conto di essere solo un'apparenza? -, proseguì, mentre il demone stringeva i pugni ed espandeva il proprio cosmo.
   - Mi hai stancato con i tuoi enigmi! Namgula Ĝirak! -, gridò, lanciando nuovamente i tentacoli contro il Cavaliere. Ancora una volta Hamal si teletrasportò lontano dalla traiettoria dell'attacco. Non appena riapparve, il servo di Nergal provò a colpirlo, ma lo spallaccio sinistro cadde in frantumi. Etana rimase attonito: la sua armatura si sgretolava senza che nessuno la toccasse.
   - Che potere diabolico, il tuo! Non mi era mai capitato un avversario così resistente. Sei un degno rivale! Grazie a te il mio nome otterrà un posto d'onore tra coloro che aiutarono il sommo Nergal a conquistare l'universo! -, disse quasi in un sussurro. I suoi occhi fissavano un punto indistinto della figura di Hamal, ma la sua mente era già proiettata verso la gloria del trionfo.
   - Stolto! -, lo rimbrottò il Cavaliere. - La tua ossessiva e cieca ricerca della vittoria non ti assicurerà mai ciò che desideri. Sei il più debole fra i tuoi parigrado, eppure non te ne rendi conto! Avverto il cosmo dei miei compagni impegnati in battaglia e nessuno di loro ne sta uscendo incolume! -, continuò, con una certa asprezza nella voce.
   Tuttavia, quelle parole non sortirono altro effetto che esacerbare l'animo dell'ostinato Utukki. - Forse è vero, finora non ti ho arrecato alcun danno, ma non ti ho ancora mostrato il mio pieno potere! Ora assaggerai la tecnica finale di Etana! -, affermò, lasciandosi avvolgere dal suo cosmo.
   Nuove scosse fecero tremare la stanza. - Non è possibile! Anche Dumuzi... -, disse fra sé, senza terminare la frase. Questi Cavalieri dovevano essere i nemici più forti che avessero mai affrontato se erano riusciti a eliminare già due di loro. Tuttavia, continuava a pensare che la forza degli altri non poteva competere con la sua e ben presto lo avrebbe dimostrato.
   - Sembra che gli altri Utukki si siano arresi davanti al vostro potere, ma io sono diverso. La mia forza mi ha permesso di governare questo luogo e di ottenere la lealtà dei Sabitti del fulmine. A uno di loro donai persino una delle mie tecniche! Forza e magnanimità costituiscono il nerbo del mio trionfo! Preparati ad aggregarti alle anime di questo regno! Didal Irkalak[3]! -, enunciò, richiamando i fulmini che si abbattevano sulle conche.
   Centinaia di folgori iniziarono a tempestare il Cavaliere, che scomparve sotto un denso nugolo di polvere, fasci di luce e scariche elettriche. Un immenso boato riecheggiò nella stanza, mentre la sinistra risata di Etana, inizialmente sommessa, divenne sempre più sonora e fragorosa.
   - Ora che sono riuscito ad annientarti più nessuno oserà dubitare della mia possanza! -, commentò soddisfatto, in attesa che la polvere diradasse e gli palesasse il cadavere del Cavaliere. Non vedeva l'ora di potersi presentare al suo signore dopo la vittoria e sentirsi lodare per aver compiuto, unico tra gli Utukki, la sua missione.
   - Se questo è il tuo massimo potere, vuol dire che dovrò mostrarti io qual è la vera forza! -, asserì la ben nota voce di Hamal, che riemerse dalla polvere e dalle macerie provocate dall'attacco del demone.
   - No! Tu? Sei ancora vivo? -, sbottò Etana, confuso nel rivederlo. Un rivolo di sangue scendeva dal naso e un altro dalla bocca del Cavaliere, ma l'armatura non aveva subito alcun danno da quel tremendo attacco. L'Eliodoro del Fulmine si guardò le mani come a rimproverarle della loro fiacchezza; poi le strinse e, preso dall'ira, si gettò contro il ragazzo.
   Iniziò a scagliare pugni intrisi di cosmo, ma Hamal li schivava agilmente. Questa ridda di colpi continuò per un po', finché il giovane Ariete, stanco dei tentativi inconcludenti del demone, bloccò l'ultimo pugno con un dito: la manopola si frantumò e gocce di linfa vitale defluirono dalla mano. Etana provò un dolore lancinante e cessò l'assalto; osservò l'espressione pacata del rivale e una rabbia incontenibile lo spinse a cacciare un urlo e a esclamare: - Come puoi essere più potente di un dio? Sei solo un misero mortale! -.
   Il custode della prima casa dello Zodiaco gli rivolse uno sguardo impietoso: - Non sono più potente di un dio, né mi affido alla forza bruta per combattere. -, disse. L'Utukki fece una smorfia ambigua e Hamal decise che era il momento di spiegargli il motivo dell'inefficacia dei suoi colpi.
   - Il precedente possessore di questa corazza, Waman, è stato uno dei più grandi riparatori d'armature della storia. Ha tramandato quest'arte ai suoi tre figli. Uno di essi, Bedroun, è stato il mio maestro. -, cominciò, suscitando una certa curiosità nell'avversario, che lo fissava con espressioni mutevoli.
   - Egli mi ha insegnato che le armature hanno un'anima e se si impara a riconoscerne la natura diventa più semplice affrontare chi la indossa. Io conosco l'anima della tua corazza, è per questo che non sei in grado di battermi. -, continuò, sbalordendo il demone, che per un istante si fermò a riflettere sulle parole appena udite.
   Bastava conoscere la natura delle vestigia per vincere? Ma ciò non spiegava perché tutti i suoi attacchi, persino il più devastante, non avessero sortito alcun effetto. Si sentiva quasi dileggiato e offeso. Come poteva un guerriero offrirgli una spiegazione tanto misera? Scosse il capo: non trovava alcuna giustificazione alla debolezza che aveva mostrato fino a quel momento e questo lo feriva più della stessa sconfitta.
   - Le tue parole non hanno senso per me! Solo la forza può decretare la vittoria, tutto il resto non conta! -, asserì a voce bassa, proseguendo nella sua ostinazione. Hamal non si stupì di tanta diffidenza; in fondo, è difficile estirpare convinzioni radicate da tempo immemore, pensava. Decise, allora, di dimostrarglielo coi fatti anziché con le parole.
   Un tremendo terremoto fece vacillare la stanza: un altro Utukki era caduto, ma stavolta non era stato un Cavaliere a sconfiggerlo, ma la maligna aura di Nergal. Etana sgranò gli occhi e strinse i pugni: - Jushur... ha tradito? -, disse a sé stesso, volgendo per un attimo lo sguardo in direzione del cosmo del compagno che si dissolveva rapidamente.
   - Sembra che il tuo signore abbia appena ucciso un guerriero di valore. -, commentò il giovane Ariete, osservando l'espressione di disprezzo che il demone aveva assunto. - Guerriero di valore? -, ripeté il demone, lanciando un'occhiata ironica al Cavaliere. - Che valore ha un traditore? Jushur era un demone particolare, aveva dei saldi principi, ma non credevo si macchiasse di un crimine tanto scellerato! -, chiosò, con un tono che suonava ad un tempo spregioso e contristato.
   - La nobiltà d'animo non è una dote ben accetta tra i demoni, vedo. Ma essa, al pari della conoscenza, può diventare un'arma superba in battaglia. Tu basi tutto sulla forza, ma essa è solo il risultato di innumerevoli fattori! -, ribatté Hamal che, per la prima volta dall'inizio dello scontro, si ammantò della propria aura cosmica.
   Il bagliore dorato che circondava il Cavaliere lasciò perplesso Etana: non aveva mai percepito un cosmo così calmo e risoluto, autorevole e umile come quello che avvertiva adesso. Per la prima volta nella sua lunga esistenza un brivido di terrore gli attraversò la schiena. Tuttavia, non si lasciò sopraffare da quelle insolite emozioni e, a sua volta, bruciò il proprio cosmo.
   - Didal Irkalak! -, urlò, richiamando nuovamente i fulmini della sua tecnica segreta. Le folgori si gettarono su Hamal e detonarono all'unisono. Negli occhi del demone si accese un barlume di speranza: quel moccioso non poteva sopravvivere a un secondo attacco di tale potenza.
   Una sfavillante luce aurea si fece strada tra la polvere e un Hamal circondato da una solida barriera protettiva riemerse incolume. L'Eliodoro del Fulmine non riusciva a credere a ciò che stava osservando: percepiva un cosmo vasto, impressionante e fiero. Ora cominciava a comprendere: la sua forza non poteva rivaleggiare con un potere così grande. Si coprì gli occhi, abbagliato dalla luce, e indietreggiò di qualche passo.
   - Il cosmo che avverti è l'hyperebdomon, l'estremo settimo senso, il potere più eccelso a cui un essere umano possa aspirare. Grazie a esso sono in grado di lanciare la mia tecnica più potente. -, disse il giovane Ariete, notando il disagio che tribolava il demone.
   - L'estremo settimo senso? Un mero mortale può ambire a siffatte vette di potenza? Perché? Perché un simile privilegio è stato accordato a voi? -, chiese Etana, furente per aver scoperto la cocente verità.
   - L'armatura che indossi è stata maledetta dagli dei che ti hanno confinato per interminabili secoli in una prigione oscura. Tu stesso sei solo un'apparenza: è la corazza a darti un sembiante per interagire col mondo esterno. E il potere che tanto millanti non appartiene a te, ma alle vestigia che ti hanno creato. Gli dei di Sumer furono abili: sigillarono le vostre anime nelle armature e ne ridussero drasticamente sia il potere offensivo che quello difensivo. -, chiarì finalmente Hamal, gettando nello sconforto il demone, le cui convinzioni erano ormai crollate come un castello di sabbia.
   - I Cavalieri non hanno questo limite. Più acquistiamo consapevolezza del cosmo che possediamo, più il nostro potere si accresce. Bedroun mi ha anche insegnato a prendere il controllo delle corazze altrui: è così che sono riuscito a danneggiare la tua armatura. All'inizio del nostro scontro ho richiamato la mia tecnica segreta chiamata Panoplíōn Kyría[4]. Grazie a essa, posso entrare in risonanza con la corazza del mio nemico e ordinarle di fare ciò che voglio senza nemmeno sfiorarla. -, aggiunse.
   L'Eliodoro del Fulmine guardò le vestigia che lo ricoprivano e in cuor suo le disprezzò. Era stato tradito dalla sua stessa armatura. D'improvviso si sentì totalmente impotente: aveva usato tutte le armi in suo possesso, ma nulla gli era valso la vittoria. Dov'era finita la forza in cui aveva riposto la sua fiducia? Dove si era infranta la deferenza che i suoi sottoposti gli avevano sempre mostrato? E, soprattutto, come poteva consegnare l'universo al suo Signore? Fu preso da un insano terrore: e se fosse stato dichiarato traditore alla stregua di Jushur? Se Nergal gli avesse gettato addosso l'obbrobrio di quell'onta?
   Questo turbinio di domande gli sferzava la mente. L'unica risposta che riusciva a darsi era di morire per la causa, di gettarsi in un attacco disperato provando a capovolgere l'esito di quella battaglia: se la sua forza era una menzogna, la sua devozione al signore d'Irkalla era, però, indubbia.
   Concentrò tutto il suo cosmo, levando al cielo un grido liberatorio, e scagliò la sua tecnica più potente contro Hamal. Il ragazzo scosse la testa, disapprovando la sconsideratezza con cui Etana aveva deciso di concludere quel cimento. Le folgori richiamate dal demone vennero assorbite dalla barriera del Cavaliere e respinte verso le conche, che esplosero. Dai detriti si liberarono numerosi fuochi fatui: erano le anime imprigionate in quel luogo.
   - Non ti resta più nulla con cui attaccarmi, Etana. Arrenditi e consegnami la gemma! -, propose il Cavaliere, ma l'Utukki lo guardò con odio e, stringendo le labbra in un moto d'ira, sbottò:
   - Mi hai già spogliato della forza, vuoi anche privarmi dell'onore? Se la tua missione è distruggere la gemma, dovrai uccidermi per averla! -.
   Il custode della prima casa sospirò; aveva sperato in un esito diverso, ma le parole del demone gli avevano aperto gli occhi: la presunzione è un difetto grave, ma infangare l'onore di un nemico è un crimine nefando.
   - Come preferisci, Etana. Ti accontenterò. -, acconsentì. Schioccò le dita e l'armatura del demone si riempì di crepe e iniziò a sfaldarsi. Il demone strabuzzò gli occhi e fiotti di sangue bluastro gli fuoriuscirono dalla bocca. Quando il suo corpo scomparve nella polvere, Hamal recuperò la gemma rimasta a terra.
   La osservò per un attimo dicendo: - Quanta sofferenza hanno arrecato queste semplici pietre! Presto il vostro turpe compito si esaurirà e Calx potrà garantire la sopravvivenza a questo mondo. -. Chiuse la mano circondandola di cosmo e la gemma fu ridotta in briciole.
   La stanza iniziò a crollare. Hamal uscì in tutta fretta e raggiunse i compagni sulla collina. Non appena lo videro incolume e con l'armatura intatta, ne furono stupiti. - Sembra quasi che tu non abbia neppure combattuto. -, commentò Zosma, squadrandolo da capo a piedi.
   Il giovane Ariete rise: - Mi è toccato in sorte un nemico piuttosto debole. Vedo che voi, invece, avete ottenuto una sudata vittoria. E a me toccherà riparare i danni che le vostre corazze hanno subito. -, replicò, strappando un sorriso anche ai suoi compagni.
   Poi si voltò verso la torre, dalla cui cima giungevano bagliori e cadevano massi. - Non preoccuparti, Calx. Presto potrai affrontare alla pari il tuo nemico! Abbi fiducia in noi e non cedere al potere di Nergal! -, disse fra sé.
 
[1] "Folgore Regale".
[2] "Abbraccio del Fulmine".
[3] "Scintille d'Irkalla".
[4] "Dominio delle Vestigia".

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Capitolo 26
*** La Valle della Solitudine ***


Capitolo XXVI
LA VALLE DELLA SOLITUDINE
 
Kutha, settembre 1068
 
   -Benvenuto nella Valle della Solitudine, Cavaliere. Il mio nome è Balih, il Crisolito di Terra -, riecheggiò una voce calma e gentile che accolse l'ingresso di Altager. La stanza era buia e non consentiva agli occhi di discernere oggetti o persone. Il custode dell'undicesima casa avanzò di qualche passo provando a orientarsi in quella fitta oscurità.
   - La gentilezza della tua voce tradisce le tenebre della tua indole. Perché non ti mostri? -, ribatté il Cavaliere, fermandosi e aspettando che il nemico si decidesse ad apparire. Una risata sommessa scosse l'oscurità.
   - Lo farò, ma prima vorrei conoscere il nome del Cavaliere d'Oro che la sorte mi ha assegnato come avversario. -, rispose il demone.
   - Altager di Aquarius. -, lo assecondò il Cavaliere, sperando così di convincere il nemico a uscire allo scoperto.
   D'un tratto, la stanza s'illuminò di un bagliore soffuso, tenue, che permise al padrone delle energie fredde di identificare i vari punti di quello strano posto: si trattava di una pianura dal terreno scuro, come se fosse stato arso dalle fiamme, costellato di spuntoni di roccia e adornato di inquietanti scheletri rinsecchiti d'alberi. Di fronte a lui vide una figura alta, dall'armatura nera, con un elmo somigliante a una feroce tigre che gli copriva persino il volto. Al centro del pettorale brillava una pietra triangolare di colore verde.
   - La tua dimora è piuttosto tetra -, commentò l'allievo di Jorkell, guardandosi intorno.
   L'Utukki rise. - Ciò dipende dalle anime che la abitano. La Valle della Solitudine è popolata da coloro che spensero l'altrui vita per diletto. Una malvagità tanto profonda non può certo creare un paradiso! -, rispose, mantenendo inalterato il suo tono accomodante e pacato.
   Ad Altager non sfuggì lo stridente contrasto tra la gentilezza del demone e l'aspetto raccapricciante del luogo.
   - Osserva quanto è scuro il terreno di questa mia dimora. Sono state le anime che lo popolano a renderlo così cupo! Il sangue che hanno sparso reclama vendetta e si tinge di un manto di tenebra -, proseguì il Crisolito di Terra, lasciando Altager in preda a sensazioni contrastanti.
   - Vorresti insinuare che la malvagità sia insita in ogni uomo? -, ribatté il Cavaliere, aggrottando la fronte e provando un certo disagio di fronte alle calme parole dell'avversario.
   L'agevolezza e l'imperturbabilità con cui pronunciava le sue affermazioni, l'ostentata sicurezza nel palesare le proprie idee, rendevano l'Utukki alquanto inquietante. Altager aveva già affrontato nemici arroccati sulle loro posizioni ideologiche, ma tutti avevano mostrato un'emozione, un sentimento di rabbia o di disprezzo; Balih sembrava diverso, privo di qualsivoglia moto d'animo.
   - Esatto, e mi sembra piuttosto evidente. -, rispose il servo di Nergal. - Lo dimostra l'innumerevole folla d'anime ospitata in questo luogo. Tutte si sono macchiate del medesimo efferato crimine! -.
   - Eppure conosco persone disposte a immolarsi per gli altri; persone dalla spiccata abnegazione che non sprecherebbero tempo in riflessioni prima di salvare gli altri! -, affermò con forza Altager, stringendo i pugni e lasciandosi avvolgere dal proprio cosmo.
   Balih accennò un sorriso piatto. - Quanta vuota retorica nelle tue parole! Altruismo e abnegazione sono solo maschere dietro cui si cela la vera natura dell'uomo; una natura melliflua, incoerente, incostante, priva di ogni legge e di ogni morale. L'uomo crea la società, ne fissa le regole di convivenza, ma, alla fine, trova sempre un modo per eluderle. Siete tracotanti, prevaricatori, gonfi, indegni di fiducia; ogni mossa o gesto da voi compiuto sottintende un fine ben preciso; anche voi Cavalieri lottate per ideali tutt'altro che nobili: ricercate la gloria e bramate ostentare il vostro potere, ma non tenete realmente alla salvezza dell'umanità. Vi illudete che gli uomini possano coltivare alti sentimenti -.
   Il lungo discorso del demone esacerbò l'animo del Cavaliere, che mal sopportava le menzognere considerazioni del nemico. - Vuol dire che sarò io a mostrarti la vera essenza dell'umanità! -, replicò, circondandosi di una densa nebbiolina gelida.
   - Provaci, ma resterai deluso. Nessuno è mai riuscito a tenermi testa. -, disse l'Utukki, con la solita calma nella voce.
   Altager rimase turbato dalla granitica sicurezza con cui quel demone parlava; tuttavia, mantenne la lucidità guerriera e si concentrò sullo scontro che stava per aver luogo.
   - Diamántōn Konía! -, gridò, scagliando una intensa raffica d'aria gelida contro Balih.
   Il demone non si scompose: eresse una barriera di roccia che, congelatasi, finì in pezzi.
   Un po' frustrato dall'inefficacia della sua tecnica, il Cavaliere non si perse, però, d'animo; caricò ancora il colpo e una nuova bordata d'aria congelante s'infranse contro le rocce innalzate a difesa dal demone.
   - Ben misero il tuo potere, Cavaliere! Mi avevano riferito che la forza dei dorati custodi non ha rivali tra i mortali, ma forse le notizie che ho ricevuto erano false. D'altronde, la certezza di un fatto dipende dall'esperienza! -, commentò il Crisolito di Terra con tono sarcastico ma sempre piatto.
   Il custode dell'undicesima casa, piccato da quel tagliente commento, aggrottò la fronte e decise di usare una tecnica diversa. Tuttavia, il demone sembrava non prenderlo sul serio: non emanava alcun cosmo, si era sempre limitato a difendersi e non aveva mai attaccato. Ciò lo turbò: era probabile che quell'essere nascondesse un'arma segreta che non aveva intenzione di rivelare ancora.
   - Colei che mi ha dato la vita, la dea Ki, la madre terra, condivideva la visione del Supremo Nergal. Dopo avermi plasmato e concesso il suo potere, mi ordinò di onorarla cancellando dall'universo la feccia dei mortali. Poi, disgustata dal destino che aveva decretato la nostra sconfitta, lasciò questo piano dell'esistenza e si ritirò nel perduto mondo degli dei, - raccontò il demone.
   Per la prima volta, la sua voce tradì un moto di collera e di disprezzo. La mancata vittoria del suo signore lo feriva profondamente; ora, però, quel Cavaliere rispondeva perfettamente al suo desiderio di rivalsa, alla brama di realizzare la promessa fatta alla sua antica creatrice.
   - Grazie a te il sogno di Ki e di Nergal ora diverrà realtà. Se ti elimino e riesco a proteggere la gemma che mi è stata affidata, il Signore d'Irkalla vincerà facilmente il suo avversario e l'universo verrà purificato dalle colpe di voi indegni mortali! -, aggiunse, riprendendo il suo solito tono.
   Altager comprendeva lo stato d'animo del suo rivale, anche se non compartecipava ai suoi ideali: aveva conosciuto l'orrore della morte e della distruzione, ma ora si batteva per costruire un mondo di pace e di giustizia; e se l'ostacolo al raggiungimento di tale obiettivo era quell'Utukki, lo avrebbe sconfitto senza alcuna riserva. Fece esplodere il proprio cosmo, ma, d'un tratto, il suo corpo si paralizzò.
   - Shutagga Namtarak[1]! -, sussurrò Balih. Il terreno caliginoso si liquefece e risalì le gambe del Cavaliere fino a coprirlo completamente per poi solidificarsi.
   - Nella prigione in cui ti ho rinchiuso non c'è aria; presto la tua vita si spegnerà tra angoscia e disperazione! -, spiegò Balih, ritenendo già sconfitto il nemico.
   Voltò le spalle al nuovo spuntone di roccia che ora abbelliva la sua dimora e, a passo lento, si diresse verso uno scranno nero incassato tra le pietre per sedersi. Era deluso. Il giovane Cavaliere non si era dimostrato degno di affrontarlo. Si adagiò, annoiato, osservando la desolazione da cui era circondato. Un profondo silenzio aleggiava nella semioscurità di quel luogo; d'un tratto, però, vide il blocco di pietra illuminarsi. Si alzò di scatto, e sentì crescere nell'animo una forte curiosità.
   La prigione di pietra scoppiò in frantumi; Altager, un po' in affanno, riemerse dalle rovine e avanzò di qualche passo. Tirò le braccia indietro avvolgendole di cosmo e poi le fece scattare in avanti: - Pagherá Kataighís! -, gridò, scatenando una bufera di ghiaccio e neve contro il nemico.
   Balih provò a difendersi innalzando nuovamente la barriera, ma la potenza del colpo avversario risultò talmente schiacciante da scaraventarlo contro uno dei numerosi mucchi di pietre sparsi per la valle frantumandolo. Ne risalirono dei fuochi fatui che, rapidamente, raggiunsero il soffitto e scapparono dalle crepe. Il demone provò rabbia nel vedere le anime sotto la sua custodia sfuggire al suo controllo.
   Si rialzò, riappropriandosi della sua imperturbabilità. - I miei complimenti: non solo sei riuscito a liberarti dalla mia prigione, ma anche a colpirmi -, commentò il Crisolito di Terra.
   - Tuttavia, il tuo colpo non mi ha arrecato alcun danno! -, proseguì con un percettibile tono derisorio.
   - Questo era solo un assaggio del mio vero potere: presto imparerai che il desiderio di pace che ci portiamo dentro non è una mera illusione, ma la ferrea volontà che ci conduce alla vittoria! -, replicò Altager, coi pugni stretti e gli occhi scintillanti di risoluzione.
   Balih non era affatto impressionato dalle altisonanti parole dell'avversario: secoli da custode ad anime scevre di qualsivoglia misericordia lo avevano reso poco incline a credere ai buoni propositi di chi incontrava.
   D'improvviso, si udì un boato e la stanza fu percorsa da terribili scosse. Il Crisolito di Terra restò attonito: uno dei suoi compagni era stato sconfitto! Tese i sensi; il cosmo di Etana era scomparso! Sotto l'elmo che ne celava le fattezze aggrottò le ciglia: l'Eliodoro del Fulmine era sinceramente votato alla causa di Nergal, come aveva potuto lasciarsi sconfiggere?
   - Un misero mortale è riuscito a sopraffare uno dei sette Utukki! Notevole! -, esclamò senza far trasparire alcuna inquietudine.
   Sapeva bene che alcuni dei suoi compagni avrebbero o avevano già ceduto ai colpi di quegli esseri inferiori che cercavano di deturpare e distruggere la bellezza del creato, ma Etana non era certamente tra questi.
    La caduta di uno dei più strenui difensori del piano di Nergal mise sull'avviso Balih: non doveva sottovalutare il ragazzo che gli stava di fronte; doveva combattere per realizzare il sogno dei suoi dei.
   - Finora ho solo giocato con te, Cavaliere; ma ora ti mostrerò il vero potere degli Utukki, i demoni più potenti dell'universo! Ki Eme[2]! -, disse con un tono severo e freddo.
   Il terreno si suddivise in strisce sottili che afferrarono Altager e lo strinsero al muro: il Cavaliere provò a liberarsi da quella morsa opprimente, ma più bruciava il suo cosmo, più sentiva le forze scemare.
   - Puoi provare quanto vuoi a sfuggire alla stretta del mio colpo, ma morirai nel tentativo. La terra di questo luogo ha assorbito per millenni l'atra malvagità delle creature umane. Essa ora si nutre e si rafforza grazie al tuo cosmo! Non hai possibilità di affrontare l'essenza del male con la tua forza di Cavaliere! -, spiegò il demone, compiaciuto nel constatare la sofferenza sul volto del paladino di Atena.
   Altager lottava con tutte le forze per opporsi all'agonia che quelle lingue di terra gli stavano infliggendo. Ma il dolore non era solo fisico: sentiva l'animo in subbuglio, scosso da terrore e da angoscia. Mai aveva provato sensazioni così orribili, neppure quando aveva guardato in faccia la morte. Spossato da quell'atroce supplizio, svenne e un nugolo di ricordi gli affollò la mente.
***
   Il cuore gli batteva forte in petto: stava per incontrare il suo maestro, colui dal quale avrebbe ereditato l'armatura di Aquarius. Davanti a lui, con passo solenne, camminava il Sacerdote. Altager aveva il capo abbassato, fissava gli scalini che stava risalendo e ripeteva nella mente qualche parola di presentazione: non voleva fare brutta figura!
   - Siamo arrivati! -, disse calmo il Sommo Alexer.
   Il ragazzo sollevò lo sguardo: erano giunti all'ingresso di una stanza spartana. C'erano solo un letto di pietra su cui era adagiata una coperta in disordine, una piccola scrivania e uno sedia posta di fronte alla finestra, su cui sedeva un uomo dai capelli stinti ma che un tempo dovevano essere stati biondi.
   - Jorkell, ti ho portato il tuo futuro allievo! -, disse il Sacerdote, rivolgendogli la parola.
   L'uomo si alzò, lentamente. Si appoggiò al davanzale della finestra e si girò in direzione del suo interlocutore. Altager abbassò di nuovo il capo, istintivamente. Jorkell lo osservò per un pezzo, poi disse al Sacerdote:
   - Sento troppa incertezza in questo ragazzo, non ha la forza di guardarmi negli occhi. Portatelo via! -
   Il tono sprezzante con cui aveva proferito quelle parole invitò il ragazzo ad alzare gli occhi e a osservarlo. Il volto di Jorkell sembrava gravato da una vecchiezza incalzante: numerose rughe solcavano quei tratti che in passato erano appartenuti a un uomo di bell'aspetto. Altager provò un misto di pena e di reverenza per lui; tuttavia, aveva deciso di diventare Cavaliere e non poteva permettere che il suo futuro maestro si facesse un'opinione sbagliata di lui.
   - Non ho alcuna incertezza; ho gli occhi puntati su di voi, maestro! -, esordì, con voce sicura e risoluta.
   Il Cavaliere accennò un sorriso e rivolse lo sguardo al vicario di Atena:
   - Vi ringrazio per aver esaudito il mio desiderio, Sommo Alexer! -, disse, con voce grata e gentile.
   Alexer annuì. Sperava in cuor suo che l'incarico di addestrare il futuro padrone delle energie fredde lo distogliesse dall'acedia in cui era sprofondato dopo la battaglia contro Umma.
   - Lo affido a te, dunque. Rendilo un Cavaliere degno delle vestigia di Aquarius! -, commentò il Sacerdote, congedandosi.
   - Qual è il tuo nome? -, chiese Jorkell al ragazzo, non appena il Sommo Alexer se ne fu andato.
   - Altager -, rispose il ragazzo, assumendo un piglio deciso.
   L'antico custode dell'undicesima casa abbozzò un sorriso e fece cenno al ragazzo di avvicinarsi.
   - Hai paura della morte? -, chiese con tono serio.
   Il ragazzo rispose di no, continuando a tenere fissi gli occhi sul suo interlocutore. Jorkell ne fu lieto.
   - Bene. La prima lezione che un Cavaliere deve imparare è di non temere la morte! Ricordalo, Altager! La morte è assidua compagna di un paladino di Atena, ma se ti spaventa non combatterai mai al meglio! -
***
   Le immagini divennero sfocate e mutarono: un altro episodio del periodo dell'addestramento riaffiorò alla mente del tramortito Cavaliere.
***
   - Il giorno dell'investitura si avvicina, Altager! -, gridò Jorkell, redarguendo il discepolo che sembrava ancora incerto nel dominio dello zero assoluto.
   - Lo so, Maestro, ma ho paura di arrecarvi danno! -, si giustificava il ragazzo, abbassando il capo.
   - Stolto! -, reagì il vecchio Cavaliere a quelle parole.
   - Non ti ho forse insegnato che l'esitazione è nemica di un guerriero? -, domandò con tono severo.
   Altager annuì.
   - Allora ferma il moto degli atomi del mio pugno! Te lo ordino! -, tuonò Jorkell.
   Quel perentorio comando non ammetteva repliche. Il ragazzo deglutì nervosamente, chiuse gli occhi e, facendo esplodere il suo cosmo, concentrò il colpo sulla mano chiusa del maestro. La corrente gelida che ne scaturì congelò il pugno di Jorkell che, per un attimo, ritrasse il braccio e fu avvolto da un dolore lancinante.
   - Ben fatto, ragazzo mio... -, disse a bassa voce e con un certo sforzo, lasciandosi cadere sulla sedia.
   Altager accorse ai piedi del maestro in preda al terrore di aver immesso troppa energia nel colpo. Jorkell lo rassicurò, dicendo:
   - Sta' tranquillo! Non sei riuscito a congelare i tessuti interni della mano, anche se ci sei andato vicino. Perché ti sei trattenuto? -
   Il ragazzo abbassò gli occhi. - Non avrei mai potuto vivere nell'onore se vi avessi ferito gravemente. Mi avete insegnato che non c'è gloria nell'infierire sul nemico, né tantomeno nel provare gioia a far del male. Un Cavaliere combatte per la pace e la salvaguardia dell'umanità, non per sé stesso -, rispose, trovando nuovamente l'animo di guardarlo in viso.
   Jorkell aveva gli occhi lucidi d'orgoglio. - Hai raggiunto la piena padronanza dello zero assoluto, anche se non hai eseguito i miei ordini alla lettera. Ma non posso biasimarti: il cuore di un seguace di Atena deve essere scevro di ogni malvagità e colmo di altruismo e abnegazione. Sei stato un bravo allievo, Altager; ora sei pronto per ricevere l'investitura a Cavaliere di Aquarius -, commentò con tono dolce e paterno.
***
   Nuove scosse destarono dal suo sonno il giovane custode dell'undicesima casa, ancora intrappolato nella morsa della tecnica segreta del demone. La testa gli girava e la vista era appannata. Credeva che quel novello sisma fosse provocato dalla caduta di un altro Utukki, ma, non appena riuscì a vedere meglio, si accorse che i tumuli di rocce erano scomparsi, lasciando il posto a innumerevoli fuochi fatui.
   - Finalmente ti sei svegliato, Cavaliere -, esordì Balih, con la solita strana gentilezza nella voce. - Temevo fossi già morto, ma vedo con piacere che mi sbagliavo! -
   Altager si sentiva intorpidito e privo di forze. Osservava le anime richiamate dal demone fluttuare nell'aria e già presagiva quello che sarebbe accaduto tra qualche istante. Provò a liberarsi dalla stretta che lo teneva imprigionato alla parete, ma fu tutto vano: non aveva forza a sufficienza per espandere il suo cosmo.
   - Ho aspettato che riprendessi i sensi per spedirti all'altro mondo con la mia tecnica definitiva. Ora proverai sulle tue deboli membra l'essenza della malvagità umana. Le anime di questo regno non assaggiano carne fresca da millenni: sarai un prelibato asciolvere, anche se non potrai placare la loro inestinguibile fame. Bala Kishak[3]! -, continuò Balih, scagliando contro il paladino di Atena le fiammelle impazienti di banchettare.
   Quei fuochi blu e celesti investirono Altager con una furia disumana. Il Cavaliere rabbrividì: percepiva un'oscurità da quelle anime che non aveva riscontrato in nessun altro essere. Per la prima volta, riusciva a comprendere il motivo per cui il suo avversario aveva dato un giudizio così inflessibile sul genere umano.
   Il giovane Aquarius cacciò un urlo terribile e perse nuovamente i sensi. Si ritrovò in un luogo buio e freddo, silenzioso e inquietante. Non avvertiva più alcun dolore, né fatica. Provò ad abbandonarsi a quella quiete che lo invitava a lasciar perdere la lotta. Qualcosa, però, gli impediva di arrendersi e lo teneva desto.
   D'improvviso avvertì i cosmi dei compagni che combattevano nelle altre stanze di quel palazzo: molti di loro avevano già superato il cimento e aspettavano che gli altri ponessero fine a quella lunga ed estenuante guerra con la vittoria. Poi una luce apparve nelle tenebre dell'incoscienza: Calx stava affrontando il Signore d'Irkalla; veniva abbattuto ripetutamente, ma ogni volta si rialzava più forte e determinato di prima.
   - Non è questo che ti ho insegnato! -, proruppe una voce dura che squarciò il silenzio. - Un Cavaliere di Atena non si lascia sconfiggere, finché possiede un cosmo da ardere! -
   La voce imperiosa di Jorkell, che non si era lasciato vincere dai colpi inferti dal suo ultimo avversario, lo ammoniva a non perdersi d'animo e a riprendere la lotta con maggior vigore.
   - Maestro, il mio cosmo è esausto! Non sono più in grado di bruciarlo! -, si giustificò il discepolo, che si sentiva svuotato fin nelle più remote fibre.
   - Le stelle di Aquarius non solo facili da spegnere! Ti ho affidato quelle vestigia perché portassi avanti gli ideali di Atena! Non tradire il giuramento che hai fatto! -, incalzava la voce del maestro, sorda alle scuse accampate dall'allievo.
   - Non ho armi da opporre al mio nemico! -, si difendeva Altager.
   - Ti sbagli! Usa lo zero assoluto! Permetti a Calx di combattere ad armi pari e dona speranza all'umanità! -, lo esortava Jorkell.
   Altager si riebbe. Concentrò tutta la sua essenza e il suo cosmo ricominciò ad ardere intensamente. Una tremenda esplosione pose fine all'attacco perpetrato dal demone. Il Cavaliere era di nuovo in piedi, di fronte a Balih.
   Nonostante si notassero i segni della fatica sul volto del giovane, l'Utukki restò di sasso nello scorgere una ferrea volontà di vittoria nei suoi occhi.
   - Non credo a ciò che vedo: sei riuscito a spezzare i miei attacchi più potenti. La determinazione non ti fa difetto, ma ormai sei allo stremo delle forze, non puoi attaccarmi e sperare di vincere! -, commentò, preparandosi a sferrare di nuovo le sue tremende tecniche.
   - Non illuderti, demone. Ho ancora una freccia al mio arco: osserva sopra di te! -, disse il Cavaliere, con voce ferma e sguardo deciso.
   Balih sollevò il capo e notò una fitta coltre di cristalli di ghiaccio aleggiare su di lui. - Sarebbe questo il tuo ultimo dardo? Credi davvero che una patetica foschia possa sconfiggermi? Devi aver perso il senno! -, sbottò, innalzando il suo cosmo per attaccare.
   - Ousías Katápsyxis! -, gridò il Cavaliere. A quelle parole, i cristalli si attaccarono sull'armatura del demone e sulla gemma.
   Balih provò a scrollarseli di dosso, ma, d'improvviso, si sentì paralizzare. Le sue vestigia esplosero in mille pezzi assieme alla gemma. Egli cadde sulle ginocchia. Rivolse uno sguardo bieco al ragazzo che lo aveva sconfitto e lo maledisse in cuor suo.
   - Suprema Ki... Sommo Nergal... perdonate la mia pochezza nel rendervi onore. Muoio... senza aver realizzato... il vostro sogno -, sussurrò. Poi si accasciò bocconi e il suo corpo si tramutò in cenere.
   La stanza iniziò a crollare. Altager ringraziò il compianto maestro per l'ennesima lezione che gli aveva impartito e, lentamente, andò via.
   Uscito, respirò l'aria a pieni polmoni e raggiunse i compagni sulla collinetta.
 
[1] "Tocco del Fato"
[2] "Lingue di Terra"
[3] "Rivoluzione della Natura"

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Capitolo 27
*** Il Lago delle Lacrime ***


Capitolo XXVII
IL LAGO DELLE LACRIME
 
Kutha, settembre 1068
 
   Superato l'ingresso, Sargas si ritrovò su un ponte di legno sospeso su un immensa distesa d'acqua. Dai quattro canti della stanza proveniva il reboante suono di cascate che si riversavano con forza su quello strano lago. Al centro della sala, il ponte ne incontrava un altro, formando un crocicchio.
   Il Cavaliere camminava a passo lento, scrutando con gli occhi ogni piccolo dettaglio di quel singolare luogo. Giunto al crocevia, ristette per un attimo: davanti a lui, in fondo al ponte, su uno spuntone di roccia coperto dal vapore degli scrosci d'acqua, notò un trono su cui era seduto in silenzio un individuo dall'armatura nera.
   - Sono il Cavaliere d'Oro di Scorpio, mi chiamo Sargas e sono qui per sconfiggerti e liberare il mondo dalla minaccia di Nergal -, gridò, stringendo i pugni e sperando di attirare l'attenzione del nemico, che sembrava totalmente incurante della sua presenza.
   La risposta del demone giunse dopo qualche secondo, che a Sargas sembrò un tempo infinito.
   - Benvenuto nel mio umile regno, Cavaliere. Il mio nome è Zamug, il Calcedonio d'Acqua, e questo che vedi è il Lago delle Lacrime, che io presiedo. -, rispose alzandosi in piedi e scendendo dalla piccola altura con una certa flemma.
   Sargas provava un senso d'inquietudine: quella era la sua prima battaglia importante e dal suo successo sarebbe derivato anche l'esito dell'intero conflitto. Si concentrò sullo scontro imminente, facendo affidamento sugli insegnamenti ricevuti da Vernalis e Nashira.
   Il demone arrestò il passo a un tiro di sasso da lui e incrociò le braccia. La sua armatura presentava pinne affilate su braccia e gambe e l'elmo ricordava la testa di un grosso pesce. Sul cinturino era incastonata una gemma di un vivace azzurro.
   - Hai detto di essere venuto a sconfiggermi, ma non credo che un moccioso come te abbia la forza di sopraffare un demone del mio livello! -, chiosò Zamug, quasi infastidito all'idea di dover affrontare un guerriero che era poco più di un bambino.
   - Non lasciarti impressionare dalla mia giovinezza, il mio spirito arde del fuoco della giustizia che nessuno può spegnere, nemmeno tu! -, ribatté il ragazzo, assumendo la posizione d'attacco.
   Il demone rise di gusto: le parole di quell'imberbe ragazzino lo divertivano. Anche se si trattava di una lotta impari, decise di non trattenersi e di eliminare quel molesto insetto dalla sua strada.
   - Kokkínē Belónē! -, gridò Sargas, lanciando tre delle Cuspidi dello Scorpione.
   Zamug non si scompose: passò una mano davanti a sé creando uno specchio d'acqua trasparente. I colpi scarlatti del Cavaliere furono assorbiti dallo specchio e svanirono, come risucchiati in un'altra dimensione.
   Stupito da quella mossa, Sargas non si diede per vinto e ne lanciò altre quattro, ma il risultato non cambiò: ancora una volta, i colpi sparirono nel nulla.
   - Puerili le tue tecniche, Cavaliere, così come la tua infondata caparbietà. Io sono Zamug; fu Enki stesso, il principe degli dei di Sumer, a plasmarmi. Non hai speranze di vittoria. Osserva il vero potere di un Utukki! Ush Uru[1]! -, disse il servo di Nergal, sollevando le braccia al cielo.
   Le acque si arrossarono e investirono Sargas, trascinandolo sul fondo del lago. Un senso di paura e di impotenza s'impossessò di lui; cercò di nuotare verso la superficie, ma un torpore improvviso gli impediva qualsiasi movimento.
   Davanti a lui apparve il demone, lo osservò con disprezzo e, quasi per diletto, iniziò a parlare alla sua mente:
   - Il Lago delle Lacrime è il frutto del pianto di coloro che in vita subirono angherie, soprusi e avvilimenti. La loro incapacità di reagire e di opporsi alla violenza del fato impregna queste acque ed è penetrata fin nel midollo delle tue ossa. Non riuscirai a battermi! Perciò arrenditi alla quiete di questo lago e condividi la stessa sorte di coloro che qui dimorano. -
   Le voce del demone risuonava nella testa di Sargas come un decreto inappellabile, ma lui conosceva il significato di una vita passata a sopportare mortificazioni: ricordava la fatica e i bocconi amari che suo zio aveva ingoiato per continuare ad assicurare un pasto caldo a lui e a sua zia. Smise di agitarsi e concentrò il proprio cosmo sull'acqua: da esso rifulse di un'intensa luce dorata che spezzò le invisibili catene che lo stringevano sul fondo del lago. Ritornò sul ponte, ansante ma pronto a riprendere lo scontro.
   - Notevole! Sei riuscito a spezzare la morsa del mio attacco, ma questo non ti garantirà di certo la vittoria -, commentò Zamug, incrociando nuovamente le braccia.
   D'improvviso, si udì il fragore di un crollo e, tendendo i sensi, il Calcedonio d'Acqua percepì la caduta di uno dei suoi compagni. Si accigliò e, per un attimo, volse lo sguardo verso il punto da cui era provenuto il boato.
   - La caduta del tuo compagno è segno che noi Cavalieri siamo venuti con l'intenzione di porre fine ai malvagi piani di Nergal. Tu sarai il prossimo! -, esordì il custode dell'ottava casa, preparandosi a scagliare di nuovo il suo colpo letale.
   - Che uno dei miei compagni sia stato sconfitto non significa nulla! Ogni Utukki combatte per sé stesso e per il Sommo Nergal. Chi fallisce non è degno di regnare assieme al Signore d'Irkalla! -, replicò Zamug, pronto a concludere quella battaglia e a dimostrare la sua superiorità.
   - Kokkínē Belónē!, gridò Sargas e quattro raggi cremisi si avventarono sul demone. Zamug si accinse a erigere ancora una volta la sua barriera, annoiato dai vani tentativi di quel ragazzino, ma sentiva le membra pesanti e non riuscì a evitare l'impatto con i colpi, che gli perforarono l'armatura e la macchiarono di linfa vitale.
   Il demone cadde in ginocchio, torturato dall'indicibile dolore procuratogli da quella strana tecnica. Guardò Sargas, ancora in posizione d'attacco, e notò che attorno alla mano che non aveva sferrato il colpo ondeggiavano piccoli anelli di cosmo.
   - Che significa? -, si chiese, sorpreso da quella mossa inattesa.
   - Mi sono accorto che hai bisogno di accumulare una certa quantità di cosmo prima di innalzare la barriera che ti protegge dagli attacchi. Impieghi una manciata di secondi a metterla in campo: ne ho approfittato per lanciarti anche il Periorismós, una tecnica che mi consente di paralizzare il nemico -, spiegò il Cavaliere, con una certa soddisfazione nella voce.
   Zamug si rialzò in piedi e disse: - Nonostante la tua giovane età, ho compreso che non devo sottovalutarti se voglio avere ragione di te. Bene! Sarà uno scontro eccitante. Preparati a subire l'ira di un Utukki: A Zalag[2]! -
   Le cascate arrestarono il loro corso e nella stanza piombò un silenzio innaturale: l'acqua divenne trasparente e dal tetto iniziò a cadere una pioggerella fitta. Sargas non capiva cosa intendesse fare l'avversario, ma non ci badò e si preparò a lanciare altre Cuspidi. Tuttavia, non riusciva a far esplodere il suo cosmo e cominciò a provare una terribile spossatezza: cadde in ginocchio, respirava a fatica e sentiva il suo vigore scivolare via senza comprenderne il motivo.
   - Che mi hai fatto? -, sussurrò, inerme di fronte a quella strana sensazione.
   Il demone rise. Fece qualche passo in avanti e sferrò un calcio al volto di Sargas, gettandolo a terra e facendogli volare via l'elmo. - Sai che l'acqua è fonte di vita per voi esseri mortali? Senza di essa non potete vivere: la mia tecnica segreta prosciuga l'acqua contenuta nel tuo organismo accelerando la morte cellulare. Tra poco, la tua giovane vita si spezzerà! -, affermò con tono tagliente e crudele.
   - Non... ci riuscirai... -, ribatté il Cavaliere con grande sforzo.
   Zamug lo derise e gli sferrò un nuovo calcio.  - Dovresti aver capito che la tua speranza è malriposta, ormai. La tua vita mi appartiene e presto la tua anima diverrà mia umile schiava. Non opporti al destino; i tuoi compagni hanno commesso un grave errore a farti scendere in battaglia! Ora muori! -, rispose, tempestandolo di calci sull'addome.
   Sargas avvertiva il dolore di quei colpi violenti e provava una profonda vergogna a vedersi sopraffatto in quel modo. D'un tratto, il demone smise di accanirsi sul suo corpo inerme: altre scosse avevano raggiunto la sua dimora; un altro Utukki aveva ceduto al potere di un Cavaliere.
   Il custode dell'ottava casa ne approfittò per tirare un sospiro, ma la pioggerella continuava a cadere senza sosta. Doveva interromperla se voleva avere qualche speranza di vittoria: convogliò il cosmo che gli restava nell'unghia di Scorpio e la conficcò in una gamba del demone, distratto dalle scosse.
   Zamug provò un dolore lancinante e, lanciando un grido, si allontanò dal Cavaliere e pose fine all'attacco. Le cascate ripresero a precipitare nel lago e Sargas poté finalmente riprendersi.
   Si mise seduto, prendendo grossi respiri. Poi si alzò in piedi, appoggiandosi al corrimano del ponte. Lanciò uno sguardo sofferente al suo avversario, ancora in preda al malessere provocato dalla sua ultima mossa.
   Con andatura claudicante, Zamug, adirato dall'insolenza di quell'imberbe ragazzino, proferì frasi di astioso disappunto: - Solo i vigliacchi approfittano della distrazione del nemico per attaccarlo. Non credevo che i Cavalieri sbeffeggiassero così a bella posta le regole fondamentali di un duello! -
   Il giovane Scorpio non si lasciò toccare da quelle taglienti parole, ma ribatté senza mezzi termini: - Sei stato tu a sottovalutare chi avevi di fronte e ad abbassare la guardia. Un guerriero adopera tutti gli artifizi in suo possesso per ottenere la vittoria! -
   L'Utukki si era stancato di giocare con quel ragazzino che gli stava causando non pochi grattacapi. I suoi compagni si stavano dimostrando incapaci di difendere le gemme che gli erano state affidate e Nergal rischiava di perdere la guerra, se la barriera fosse caduta.
   Una terza serie di scosse gli consigliò di mettere in campo tutta la sua abilità bellica per avere ragione di quel Cavaliere fanciullo che non acennava ad arrendersi. Si tolse l'elmo, come se avesse bisogno di ossigeno, rivelando due grandi occhi verdi e fitti capelli arruffati di un azzurro chiaro sul capo.
   Osservandone per la prima volta i lineamenti, Sargas poté leggere in essi la ferrea volontà di chi ha un disperato bisogno di vincere. Nuovi sussulti avvisavano che altre battaglie si erano concluse: era tempo che anche l'allievo di Vernalis e Nashira si apprestasse a chiudere quello scontro.
   Zamug era pronto a sferrare il suo attacco più potente. Incrociò le braccia davanti al petto, chiuse gli occhi e richiamò la sua tecnica definitiva: - Namgu Min Id-idak[3]! - Le acque del lago e quelle delle cascate divennero torbide e un olezzo di morte si diffuse nell'aria. Due pareti d'acqua s'innalzarono e si riversarono su Sargas, ancora aggrappato al ponte.
   Il vortice sbalzò via il Cavaliere che riusciva a percepire il cosmo morente di numerose anime, che cercavano di trascinarlo via. Sargas inorridì al sentire quegli spiriti innocenti vinti dalla disperazione e dal rimpianto di un precoce trapasso.
   L'Utukki scoppiò a ridere; poi disse: - Le anime che percepisci sono le vittime sacrificali del Rito dei Mille Innocenti. Il loro sangue ha ammorbato le acque del Tigri e dell'Eufrate causando morte e distruzione. La mia tecnica ha il potere di attingere alla forza dei due fiumi per strappare via l'anima e il cosmo del mio avversario. Per te è finita, Cavaliere! -
   Benché giunte smorzate dallo scroscio dell'acqua, le parole del demone gelarono il sangue di Sargas: come si poteva elargire tanta crudeltà gratuita? Perché spargere tanta sofferenza immeritata? Le spiegazioni di Zamug esacerbarono l'animo del giovane Scorpio che provava a reagire, ma il suo corpo si rifiutava di obbedire.
***
   Gli tornò in mente l'incontro che ebbe con Vernalis dopo la sua liberazione. Non indossava l'armatura, ma abiti civili: aveva il volto segnato dal dolore e Nashira gli poggiava amichevolmente una mano sulla spalla.
   Quel giorno aveva provato una gioia immensa: era corso ad abbracciare in lacrime il suo antico maestro; lo aveva stretto forte per sfogare l'angoscia che per tutto quel tempo gli era aleggiata sul cuore. Vernalis aveva risposto accarezzandogli la testa e cercando di placare quel pianto dirotto.
   Si erano seduti tutte e tre sotto un portico, dove Vernalis aveva raccontato al discepolo la triste missione che lo aveva allontanato dal Grande Tempio a lungo. I suoi occhi spenti e il tono dimesso con cui parlava ferivano l'animo del giovane allievo, che sentiva di aver perduto per sempre il suo vecchio mentore.
   - Dovete aver passato momenti terribili, maestro. Non oso immaginare quanto abbiate sofferto! -, commentò il ragazzo, sinceramente addolorato per le vicende che gli erano state appena narrate.
   Vernalis aveva abbassato lo sguardo, si sfregava nervosamente le mani e, con tono dolente, aveva detto: - Ciò che ho passato in quella cella è niente in confronto alla perdita dei miei cari amici. Se avessi avuto più forza di volontà a quest'ora Syrma e Yeng sarebbero ancora vivi. Ma ho fallito, come Cavaliere e come maestro! Ho permesso che quella prigione infernale annientasse il mio spirito guerriero e mi avvilisse con terribili ricordi! -
   Si coprì il volto con le mani e iniziò a piangere. Nashira, seduto accanto a lui, gli strinse una spalla e replicò: - Anche i Cavalieri sono uomini! Non è colpa tua se il fato ci ha strappato i nostri compagni! Credo che tutti noi, nella tua stessa situazione, avremmo esitato e saremmo sprofondati nell'impotenza! -
   Le parole dell'amico avevano strappato un mezzo sorriso a Vernalis che, però, non ne era convinto fino in fondo.
   La giornata era passata in fretta. - Tornerete ad allenarmi? -, aveva chiesto Sargas al suo antico maestro prima che andasse via. Il Cavaliere di Pisces scosse il capo: non si sentiva più all'altezza di addestrarlo; Nashira avrebbe completato il suo percorso per mutarlo in un paladino di Atena.
   - Non potete abbandonarmi così! -, aveva risposto il ragazzo, stringendo irosamente i pugni. - Non è giusto! -, continuò, correndo via.
   Vernalis l'aveva raggiunto; gli aveva stretto le spalle, l'aveva girato verso di sé e si era messo in ginocchio per guardarlo dritto negli occhi. - Hai ragione, - gli aveva detto - non posso lasciarti così. Vuol dire che prima di andare ti darò un ultimo insegnamento: non perdere mai la tua forza di volontà, lotta sempre per ciò in cui credi e non ti arrendere di fronte a una chiara sconfitta! Un Cavaliere deve sempre essere in grado di trovare una via per la vittoria. Io ho fallito in questo, provocando la morte dei miei amici, ma tu... tu devi promettermi che ti impegnerai a tener fede agli ideali che hai deciso di seguire! -
   Sargas annuì e accennò un sorriso. Poi, non riuscendo a trattenersi, gli aveva gettato le braccia al collo e aveva pianto assieme al suo ormai ex maestro.
***
   Quel ricordo e quelle parole lo rinfrancarono: con un urlo disumano, fece esplodere il suo cosmo lucente, liberandosi dalla tormentosa morsa di quell'attacco.
   Zamug rimase attonito. Indietreggiò di un passo, incapace di credere a ciò che gli stava accadendo davanti agli occhi. - Com'è possibile... Nessuno è mai sfuggito alla mia massima tecnica... Cos'è questo cosmo pregno di una luce inestinguibile che si emana da quel mortale? -, si chiedeva, fissando gli occhi sull'avversario.
   Sargas riapparve davanti a lui provato, ma forte di una ferrea ostinazione. Ringraziò in cuor suo il Cavaliere del dodicesimo tempio che, indirettamente, lo aveva sostenuto ancora una volta in una situazione difficile.
   - Non posso arrendermi, Zamug! Ho fatto una promessa a cui non posso venir meno! Ormai nessuna delle tue tecniche potrà più farmi del male! Sarai il primo a sperimentare il potere della nuova tecnica di Scorpio! -, affermò, attorniato da un'accecante aura cosmica. Sollevò all'indietro la gamba sinistra e protese le braccia in avanti. Alle sue spalle apparve la figura di uno scorpione in posizione di attacco. Il demone fu impressionato da quella strana posizione e si accigliò.
   - Skorpíou Kauté Kataighís[4]! -, gridò Sargas, e un vento asfissiante attraversato da scariche di cosmo si abbatté su tutta la stanza. Dei lamenti si elevarono dall'acqua e fuochi fatui fuggirono dappertutto in cerca di libertà.
   Quando l'attacco cessò, del lago e delle cascate non vi era più traccia. Zamug si guardò intorno incredulo. Come aveva fatto un ragazzino morente a ridurlo a così mal partito? Era inaccettabile che gli Utukki stessero perdendo contro dei semplici mortali!
   - Non credere di aver già vinto! Ricordati che senza distruggere la gemma sulla mia armatura la barriera non cadrà! -, sbottò, preparandosi ad attaccare e a dare fondo al suo cosmo pur di ottenere la vittoria.
   Attorno a lui apparvero globi d'acqua che roteavano nella stanza, pronti a soddisfare i desideri del loro creatore. Zamug ne lanciò un paio contro il ragazzo; Sargas rispose con altrettante Cuspidi che, in un primo momento, furono assorbite da quelle strane sfere e poi sparirono. I globi raggiunsero il loro obiettivo e si attaccarono alle mani del Cavaliere, spezzando l'unghia dello Scorpione.
   Il liquido di cui erano costituite quelle sfere non sembrava acqua, ma era viscoso e colloso. Sargas non riusciva a muovere più le dita e un repentino indolimento gli piombò addosso, costringendolo in ginocchio.
   - Ora pagherai per le offese che mi hai arrecato! Io, Zamug, il Calcedonio d'Acqua, mi prenderò la tua anima come trofeo di battaglia! -, asserì il demone, richiamando a sé i globi con cui aveva colpito il Cavaliere.
   Quando la morsa smise di martoriare le mani del custode dell'ottava casa, esse rimasero insensibili e immobili: Sargas non sembrava più in grado di usarle.
   - Ogni parte del tuo corpo perderà la sua funzione e tu diverrai una larva priva di vita! Forse non lo sai, ma il Sommo Enki creò i mortali dal sangue di Kingu, figlio di Tiamat, che gli si ribellò, mischiato con l'argilla. Per infondergli vita lo lavò nelle acque di Nammu, il mare primordiale. Dopo tanti fallimenti, il suo progetto di creare servitori degni degli dei era finalmente raggiunto. Grazie ad Enki, io posso attingere alle acque eterne della dea degli oceani per sferrare i miei attacchi, anche senza l'ausilio delle anime imprigionate nel regno che presiedo -, aggiunse il Calcedonio d'Acqua, avvicinandosi al Cavaliere e fissandolo con astio.
   Sargas ascoltò quelle parole distrattamente: il dolore provocato dall'attacco, benché sopportabile, si era diffuso in tutto il corpo e non gli permetteva di ragionare con lucidità sulle mosse da compiere per concludere quello scontro.
   Provò a rimettersi in piedi, ma si sentiva terribilmente spossato; i suoi occhi offuscati e la testa in fiamme non lo aiutavano a riprendere il controllo del proprio corpo; le mani erano intorpidite e il respiro era affannoso e pesante.
   Il demone gli sferrò l'ennesimo calcio atterrandolo nuovamente. - Sembra che non riuscirai a mantenere la promessa che hai fatto. Un guerriero acerbo come te come sperava di sopraffare un nemico del mio livello? -, disse Zamug, con un sorriso sornione che gli illuminava il volto.
   - Da' il tuo congedo alla vita, Cavaliere! Almeno morirai giovane, prima che l'oziosa vecchiezza triboli i tuoi ultimi giorni! - continuò, richiamando un'altra delle sfere che aveva alle spalle.
   Sargas chiuse gli occhi, convinto di essere ormai spacciato. D'improvviso, però, avvertì un cosmo spaventoso: lo aveva già percepito anni prima, a Parigi.  - Maestro... - sussurrò.
   - Non arrenderti, Sargas! Non è questo che mi hai promesso! La sopravvivenza del mondo dipende anche da te! Brucia il tuo cosmo, rialzati e vinci in nome di Atena! -.
   Queste parole gli risuonarono nella mente: Vernalis aveva sentito il suo scoraggiamento e lo esortava a reagire.
      Al giovane Cavaliere scesero lacrime di commozione: anche nell'ora del cimento il suo antico maestro gli giungeva in soccorso. Quell'esortazione lo scosse dalla prostrazione in cui era precipitato. Prima che la sfera lo colpisse, rotolò su un fianco fino ad allontanarsi dalla traiettoria di tiro del nemico.
   Combattendo contro il suo stesso corpo, riuscì a rimettersi in piedi e a far esplodere ancora una volta il suo cosmo.
   Incredulo, il Calcedonio d'Acqua provò un odio viscerale nei confronti di quel ragazzotto che non accennava ad arrendersi. Richiamò tutte le sfere alle sue spalle e le lanciò all'attacco, impaziente di poter brandire la coppa della vittoria.
   Ma non appena i globi si avvicinarono, furono spazzati via da un'immensa esplosione cosmica, che scaraventò lontano lo stesso demone. Zamug terminò la sua corsa contro lo spuntone di roccia su cui si ergeva il trono, che cadde rovinosamente in frantumi sopra di lui.
   Rialzatosi col volto tirato dall'ira, l'Utukki si gettò addosso al Cavaliere lanciando pugni intrisi di cosmo. Con grande agilità, Sargas li schivò tutti e assestò un poderoso pugno sotto il mento del demone, che fu scaraventato a terra.
   Di nuovo in piedi, la bocca sanguinante e gli occhi feroci, Zamug osservò quel ragazzino che gli stava causando non poche grane: avvertì in lui una luce pura, scevra d'ombre, limpida come acqua cristallina.
   - Da dove nasce tanta forza? Nessuno ha mai resistito tanto ai miei attacchi e tu sei solo un bambino che si diletta a combattere... Come hai fatto? -, chiese, frustrato dalla granitica resistenza mostrata da Sargas.
   - La fede nella giustizia e l'amore per la vita umana guidano da sempre le azioni dei Cavalieri, ma se non fosse stato il mio maestro a scuotermi dall'abbattimento, ora staresti solennizzando la vittoria! -, rispose il custode dell'ottava casa, facendo apparire sull'indice sinistro l'unghia scarlatta di Scorpio.
   - Vorresti usare di nuovo quella tecnica? Poche punture non possono uccidermi! -, ironizzò Zamug, preparandosi alla difesa.
   - No, userò un colpo più rapido e potente! - disse Sargas. Poi, muovendosi alla velocità della luce, si avvicinò al demone, gridando: - Hypertátē Belónē[5]! -, conficcando l'unghia al centro del torace del nemico.
   Zamug non era riuscito a seguire i movimenti del giovane guerriero ed era troppo tardi quando si avvide dell'accaduto. Portandosi le mani sul punto in cui era stato colpito, cadde in ginocchio, sputando copioso sangue dalla bocca. D'un tratto, fu scosso da violente convulsioni che gli strappavano urla terribili.
   - Il tuo sistema nervoso è impazzito. Soffrirai atrocemente, ma per poco tempo -, disse il Cavaliere, mentre il demone era scosso dagli ultimi sussurri; poi non si mosse più e il suo corpo si ridusse in polvere. La gemma cadde sul pavimento con un suono sordo. Sargas la raccolse, la strinse tra le mani e, concentrandovi il suo cosmo, la frantumò.
   Un terribile terremoto squassò la stanza, che iniziò a crollare. Con le ultime forze, il ragazzo andò via e, quando rivide la luce del sole e poté sentirne il calore sulla pelle, sorrise ringraziando il suo maestro.
   - Mancate solo voi, nobile Vernalis! Raggiungeteci presto! -, pensò fra sé, osservando l'ingresso dell'ultima sala ancora in piedi.
 
[1] "Diluvio di Sangue".
[2] "Acqua Pura".
[3] "Assalto dei Due Fiumi".
[4] "Tempesta Rovente di Scorpio".
[5] "Cuspide Suprema"

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Capitolo 28
*** L'ultima gemma ***


CAPITOLO XXVIII
L'ULTIMA GEMMA
 
Kutha, settembre 1068
 
   Non appena varcò la soglia della stanza, Vernalis sentì sul viso un'aria gelida. Fece pochi passi e si ritrovò su una distesa di ghiaccio, costellata da stalattiti e stalagmiti. Appariva come una grotta angusta, bassa e soffocante, attorniata da montagnole spruzzate di neve. Sul fondo della sala, incastrato in una parete di ghiaccio, si intravedeva un piccolo trono.
   Vernalis si guardò intorno con circospezione: cercava il custode di quell'inquietante luogo, ma non vide nessuno. Provò a tendere i sensi, ma non avvertiva alcun cosmo. Si fermò quasi al centro di quella strana caverna, osservando ogni angolo buio o anfratto da cui sarebbe potuto emergere il suo avversario.
   Se la vista e la percezione del cosmo non lo aiutavano, non gli restava che provare a usare le parole per far apparire il demone: - Mi chiamo Vernalis, sono il Cavaliere d'Oro di Pisces; vengo a reclamare la tua gemma! Avanti, fatti vedere! O forse hai paura di affrontarmi? -
   La voce del custode della dodicesima casa risuonò tra le silenziose pareti di quella solitaria stanza. Tuttavia, neppure così riuscì a invogliare l'Utukki a presentarsi.
   Tese di nuovo i sensi, aspettandosi una mossa imprevista. Non accadde nulla.
   - Possibile che questo posto non si presieduto da nessuno? -, pensò tra sé, mentre una repentina inquietudine gli affiorava nel cuore.
   Si udirono dei sibili, delle voci indistinte, cupe, gelide. Vernalis indirizzò lo sguardo verso l'area da cui provenivano. Notò una sorta di pozza ghiacciata in mezzo a spuntoni aguzzi. Si guardò intorno e, d'un tratto, avvertì una presenza alle sue spalle. Non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi che si ritrovò a terra supino.
   - Benvenuto, Cavaliere! Agga, il Topazio di Ghiaccio, ti porge la sua gelida accoglienza ai Monti dell'Eterno Affanno! -, esordì una voce sottile, piatta, venata da un tono ironico ma crudele.
   Vernalis si rimise subito in piedi e vide un guerriero non molto slanciato, con indosso un'armatura nera e un elmo integrale simile alla testa di un pesce da cui spuntava un lungo corno. Sul pettorale era ben visibile una pietra triangolare di colore giallognolo.
   Agga si accorse che lo sguardo del Cavaliere indugiava sulla gemma; la sfiorò con una mano e disse: - Sei venuto per questa, vero? Ma dubito che riuscirai a ottenerla. Comunque sia, puoi tentare -.
   Il tono di quelle parole appariva sarcastico, come se il demone volesse giocare più che combattere. Vernalis si accigliò, intuendo che quella battaglia si sarebbe rivelata piuttosto difficile: non solo non aveva percepito il cosmo dell'Utukki, non era neanche riuscito a difendersi.
   - Certo che ci proverò! La tua gemma sancirà un passo avanti verso la vittoria! -, ritorse il Cavaliere, pronto a passare al contrattacco. Sollevò la destra, facendo ardere il suo cosmo, e creò del polline viola che diresse verso il demone, gridando - Thanásimon Phílēma!
   Agga non si scompose; attese che il colpo giungesse a destinazione, poi, con un semplice schiocco di dita, lo annullò. Vernalis ne rimase stupito: in fondo, pensava, aveva già usato quella tecnica contro il Sabitta di Parigi, che condivideva lo stesso elemento dell'Utukki che ora stava affrontando.
   Il demone rise, immaginando la frustrazione che attanagliava il Cavaliere. - Credevi che il colpo con cui hai sconfitto Ibate avesse effetto su di me? Sei uno sciocco, ragazzo! Io non sono un demone di bassa lega come lui, mio padre è Enten, dio dell'inverno, conosciuto anche con il nome di Fattore degli dei. Era lui ad occuparsi della progenie degli animali e dei frutti degli alberi. Un compito ingrato, a suo dire. Il suo stesso fratello, Emesh, dio dell'estate, ne contestava l'operato. Tuttavia, Enlil premiò Enten per il suo lavoro e costrinse Emesh a scusarsi. Fu mio padre a creare le gemme e a infondere in loro il potere di inibire il cosmo degli dei! -, raccontò con un certo orgoglio nella voce.
   Vernalis rimase stupito, ma non capiva come quelle pietre preziose fossero cadute nelle mani di Nergal. - E perché mai tuo padre creò le gemme e le consegnò al Signore d'Irkalla? Perché decise di inimicarsi gli altri numi? -, domandò.
    - Cerchi di prendere tempo, Cavaliere? Gli dei di Sumer ormai hanno lasciato questo piano dell'esistenza, abbandonando gli esseri umani a loro stessi. Il Sommo Nergal è l'unico che può riportare ordine nell'universo! -, replicò il Topazio di Ghiaccio, evitando di rispondere.
   La stanza oscillò per qualche secondo. Agga scosse il capo, stringendo i pugni: uno degli Utukki era stato battuto. - Quello sciocco di Alulim! Non credevo fosse tanto debole da lasciarsi uccidere da un misero verme! -, sussurrò.
   Poi fece esplodere il suo cosmo e un'aria gelida, mista a gemiti e lamenti, invase la sala. - Paĝta Irkalak[1]! -, gridò, e ombre diafane si gettarono all'assalto del custode dell'ultimo tempio.
   Nella mente del Cavaliere iniziarono a riecheggiare voci che non udiva da lungo tempo. Provò a turarsi le orecchie, ma quei suoni gli tuonavano nella mente: erano disperate grida d'aiuto. Per un attimo si rivide immerso nella caligine della cella in cui era stato chiuso per un periodo incalcolabile.
   Cadde in ginocchio, madido di sudore e in preda a tremori incontrollabili. Sentiva l'anima lacerarsi di fronte a quelle urla strazianti, ma non riusciva a reagire: il suo corpo sembrava impietrito dal rimorso, dalla debolezza con cui aveva affrontato Sarabda, dal dolore per la morte di Syrma e Yeng.
   - Non immaginavo fossi così attaccato al passato, Cavaliere! -, ironizzò il Topazio di Ghiaccio, aumentando l'intensità dell'attacco.
      La stanza fu di nuovo percorsa da scosse e, ancora una volta, l'animo del demone fu disgustato dall'incapacità dei suoi compagni di fronteggiare i paladini di Atena.
   - Com'è possibile che anche Dumuzi abbia fallito? Io ho piegato il mio avversario in poche mosse! -, pensava tra sé, non riuscendo a trovare spiegazioni su quanto stava accadendo.
   Le voci continuavano a torturare l'animo rotto di Vernalis. I suoi occhi versavano calde lacrime, e le immagini di morte e devastazione che avevano incorniciato la sua amara esistenza incalzavano la sua mente confusa.
   Mentre versava in quello stato, il Cavaliere di Pisces percepì il cosmo del suo allievo: avrebbe voluto incoraggiarlo, ma come poteva? Egli stesso necessitava di aiuto in quel momento. Ripensò al Sommo Alexer e alle parole che gli aveva rivolto dopo il suo ritorno.
***
   Era giunto alla base degli scalini su cui si ergeva il trono sacerdotale. Con passo lento, Alexer era sceso verso di lui allargando le braccia. Gli aveva cinto le spalle con un'accorata stretta e subito gli aveva detto: - Grazie ad Atena stai bene! -
   Vernalis aveva il capo basso, vergognandosi della pessima gestione del combattimento sostenuto contro il primo demone dell'acqua. Il Sacerdote gli aveva preso il mento e gli aveva fatto alzare lo sguardo: due occhi gonfi di lacrime e colmi di un profondo dolore gli si pararono davanti.
   Alexer gli diede una paterna pacca sulla spalla e lo invitò a seguirlo sulla terrazza. Il ragazzo aveva annuito senza proferire parola. Arrivati a destinazione, il Sacerdote si era soffermato per un attimo a guardare il panorama e a sentire la quiete del Grande Tempio.
   Poi alzò l'indice, puntando verso la collina del cimitero. - Ero molto giovane quando sono diventato Cavaliere e molte di quelle lapidi non c'erano ancora al tempo della mia investitura. -, esordì con tono calmo e chiaro. - Ma nel corso dei miei lunghi anni ho visto crescere il numero degli ospiti di quella collina. La precedente Guerra Sacra ha ucciso quasi tutti i Cavalieri, mi ha portato via Himrar, che consideravo alla stregua di un fratello, e il precedente Sommo Sacerdote, che ho visto morire davanti ai miei occhi - continuò.
   - Alcuni mi ritengono un eroe perché ho sconfitto Ade, ma per anni mi sono trascinato dietro l'onta di non aver salvato la vita a Garlef! Un Cavaliere non smette mai di soffrire per la morte dei compagni! Da Sacerdote ho celebrato tanti funerali di giovani guerrieri, mentre io invecchiavo e vivevo lunghi giorni. Shelyak, Jorkell, Midra, Laurion... quanti valenti Cavalieri hanno perso la vita per realizzare un ideale di pace!
   Tu provi rimorso per la morte di Syrma e Yeng, e posso comprenderlo. Tuttavia, se continui a colpevolizzarti e ad abbatterti per il destino che hanno avuto in sorte, gli ideali per cui sono morti periranno assieme a loro. Ai sopravvissuti, loro malgrado, resta l'onere di impugnare il vessillo della libertà e di combattere per essa! Non ti consiglierò di non soffrire più, ma di convogliare questa sofferenza nel tuo cosmo e di usarla come arma contro i capricci degli dei! -, concluse, fissando su di lui uno sguardo fiero e determinato.
***
   - Trasformerò questa mia sofferenza nell'arma che mi consentirà di abbattere il mio nemico! -, disse tra sé Vernalis, facendo esplodere il suo cosmo che iniziò a tingersi di leggere ombre nere. L'aria ghiacciata creata da Agga scomparve assieme ai gemiti, lasciando interdetto il demone.
   Sotto l'elmo, lo sguardo del Topazio di Ghiaccio si accigliò: ora cominciava a capire perché i suoi compagni avessero fallito. I Cavalieri di Atena, pur essendo miseri mortali, si stavano dimostrando avversari degni di rispetto.
   - Vedo che sei riuscito ad affrancarti dalla morsa del dolore del passato. Non è dote comune negli esseri umani. Atena deve avervi istruito davvero bene! -, disse, assumendo un tono più posato e meno ironico.
   Aveva appena finito di pronunciare quelle parole che nuove scosse avvertirono la caduta di un altro Utukki. Agga abbassò leggermente il capo, come se volesse meditare su ciò che si stava verificando.
   Vernalis interruppe quel momento di pausa dall'attacco: - Non ti aspettavi che i paladini di Atena fossero così agguerriti? Immagino ti dispiaccia perdere tanti compagni in un colpo solo! -
   Il demone rialzò la testa e scoppiò a ridere: - Dispiacermi io? Non potresti essere più lontano dalla verità! I miei compagni combattono per i motivi più disparati: chi per la gloria, chi per ottenere favori, chi per un personale senso di giustizia! Io combatto per la preservazione della gemma che mi è stata affidata! -, rispose l'Utukki con una certa solennità nella voce.
   - Bene! Io, all'inverso, combatto per distruggerla! Vediamo chi la spunterà! -, replicò il Cavaliere e, puntando i palmi verso il pavimento, gridò: - Basanismoû Kládoi! -.
   Dal ghiaccio emersero nodosi rami colmi di spine che avvinghiarono Agga e gli lacerarono armatura e carne. Il demone trattenne il dolore che quel colpo gli stava arrecando e congelò i rami, mandandoli in frantumi. Sull'armatura affiorarono macchie bluastre, mentre il corpo dell'Utukki era percorso da ininterrotti spasmi.
  - Una tecnica potente e insidiosa, ma non è abbastanza per sopraffarmi! Se vuoi avere ragione di me, dovrai dare fondo al tuo cosmo! Finché ti tratterrai, non riuscirai a sconfiggermi! -, commentò il Topazio di Ghiaccio, avvolgendosi della sua aura cosmica.
   - Prova a spezzare quest'attacco! Sheĝ Aya[2]! -. A quel richiamo, il ghiaccio sotto i piedi del Cavaliere iniziò a risalirne le gambe, intrappolandolo. Poi, dal soffitto, calarono aguzze stalattiti che gli penetrarono braccia e gambe. - Tra poco il gelo di questa mia tecnica danneggerà i tuoi organi interni conducendoti tra le braccia della morte! -, aggiunse Agga, ridendo e pregustando la vittoria.
   Vernalis sentiva il suo corpo diventare progressivamente insensibile. Il cuore gli batteva forte e sembrava volergli lacerare il petto e balzare fuori.
   - Prima che tu muoia, risponderò alla domanda che mi hai posto al principio di questo scontro. Le gemme non furono create per Nergal, ma per Ereshkigal, la prima regina d'Irkalla. Enten le forgiò e gliele offrì per ricambiarla dell'assistenza che gli aveva fornito durante la contesa con suo fratello Emesh.
   Ma Ereshkigal era una dea sdegnosa, irrispettosa degli altri numi, e ciò le causò l'ira di Enki. Il dio dell'acqua convocò un concilio in cui dichiarò guerra alla sovrana dell'Aldilà. Nergal si offrì di vendicare l'onore degli dei e sette dei crearono noi Utukki per aiutarlo nella battaglia. Enten rivelò a Nergal il segreto delle gemme e gli consigliò d'inviare me a sottrarle prima di attaccare.
   Io mi presentai da Ereshkigal con una finta missione per conto di Enten. La dea, memore dei favori di mio padre, mi accolse con grande ospitalità e mi concesse di riposare nel suo palazzo fino all'alba. Approfittai delle tenebre per penetrare nella stanza in cui erano custodite le gemme e trafugarle. Poi, uscito dal palazzo, utilizzai un segnale convenuto per confermare il buon esito dell'incombenza e spingere Nergal a muovere verso il Bastione delle Sette Ombre.
   Fu così che Nergal ottenne le gemme e il trono d'Irkalla, anche se gli dei lo avevano ingannato per imprigionarlo nello Scrigno dell'Eternità e punirlo per i suoi misfatti. -, raccontò Agga, leggendo negli occhi dell'avversario il disperato desiderio di liberarsi da quella condizione d'impotenza.  
   Vernalis aveva ascoltato quel discorso a tratti: torceva le membra per opporsi alla paralisi che incombeva su di lui e bruciava il cosmo per spezzare la morsa di quel terribile attacco.
   Per la quarta volta le pareti di quella buia caverna tremarono annunciando la caduta di un altro Utukki. Il giovane Pisces era orgoglioso che i suoi compagni stessero spianando la strada a Calx, ma se voleva assicurargli la vittoria doveva sbrigarsi a distruggere la gemma custodita da Agga.
   A malincuore, fu costretto ad ammettere che forse l'unico modo che aveva per sottrarsi a quel destino che sembrava ineluttabile era ricorrere al potere di Ade che per anni aveva sepolto nei recessi del suo cosmo.
   Ruppe gli indugi e manifestò tutto il suo potere: l'oro brillante del suo cosmo divenne nero come pece e gli spuntoni che gli trafiggevano gli arti si sciolsero come neve al sole.
   Agga fu turbato da quell'improvviso mutamento di cosmo: non aveva più di fronte un semplice Cavaliere; ora poteva avvertire la forza di un dio spirare da quel ragazzo, che fino a poco prima era agonizzante.
   - Cos'è successo al tuo cosmo? Tu non sei un dio e neppure il prescelto dal Fato per affrontare il Supremo Nergal, come hai ottenuto questo potere? -, chiese il demone, meravigliato dall'accaduto.
   - Ho sempre odiato questo potere; non lo adopero a cuor leggero. Ero bambino quando la mia passione per la natura mi condusse a scoprire le Mani del Diavolo, un fiore che cresce nella zona in cui Ade, il dio greco dell'Oltretomba, pone la sua dimora ogni qual volta ritorna sulla Terra. Le spine di quel dannato fiore mi punsero e, se il mio cosmo non si fosse risvegliato, sarei morto in poche ore. Da allora mi trascino dietro questo fardello di morte che mi sono sempre rifiutato di utilizzare. Solo una volta ne ho saggiato il vero potenziale: contro Sarabda, il primo demone dell'acqua -.
   Il Topazio di Ghiaccio s'incupì profondamente al sentire il nome del sottoposto di Zamug: tra i Sabitti era forse l'unico del quale nutriva una certa stima. - Sì, ora ricordo. Sei stato tu a dargli il colpo di grazia. Pagherai per la sua morte! -
   La stanza tremò ancora. Già cinque gemme erano state distrutte. Agga, adirato e turbato dalla piega che la battaglia stava prendendo e dalla sorte che sembrava premiare i Cavalieri, decise che era arrivato il momento di sfoderare la sua arma più letale.
   - Ora so che anche tu sei un pericolo per i piani del Supremo Nergal! Credevo fossi un guerriero qualunque, ma mi sbagliavo! Se i miei compagni non sono stati in grado di tener fede al compito che si sono assunti, io lo porterò a compimento! Elevatevi, spiriti tracotanti ed empi, estirpate l'anima da quest'uomo che si oppone ai desideri del Signore d'Irkalla! Ud Shedu'enek[3]! -
   Un forte vento gelido cominciò a sferzare la stanza e ombre diafane sorgenti dal ghiaccio iniziarono a mordere le braccia e le gambe di Vernalis. Il Cavaliere era ormai pronto a contrastare l'attacco nemico: non aveva più remore nell'adoperare il potere trasmessogli involontariamente da Ade; il ricordo delle parole di Alexer e dello scontro sostenuto con Sarabda gli avevano dissipato ogni dubbio.       
    Il cosmo di Vernalis esplose in tutta la sua forza, ormai completamente tinto di atra caligine: il vento si estinse e gli spiriti evaporarono; gli spuntoni disseminati per la stanza si dissiparono, lasciando emergere fuochi fatui che fuggirono inorriditi dall'aura del Cavaliere.
   Il giovane Pisces percepì di nuovo il cosmo del suo allievo: era in estrema difficoltà e il suo cuore stava per cedere. Lo esortò a mantenere la promessa che gli aveva fatto al suo ritorno dalla prigionia nella teca di Sarabda. Si accorse che il discepolo aveva ritrovato la forza di combattere e ne fu grato ad Atena.
   Poi volse lo sguardo verso Agga, che si guardava intorno incredulo. Un inatteso brivido gli percorse la schiena: non poteva fallire, non lui! Gli altri Utukki avevano lottato per la causa sbagliata, ma egli no; egli combatteva per proteggere la gemma che avrebbe garantito vittoria al suo signore.
   Mentre gli si affollavano tutti questi interrogativi nella mente, un nuovo terremoto scosse la stanza: anche Zamug era caduto! Per un recondito istinto, Agga si guardò il petto: l'ultima gemma, quella che avrebbe permesso a Nergal di prevalere sull'araldo del Fato, era ancora incastonata nell'armatura.
   Un barlume di speranza gli s'accese nel cuore: finché quella pietra sarebbe rimasta intatta i Cavalieri non avrebbero vinto. Si lasciò avvolgere dal suo cosmo, ma una coltre di fitta tenebra calò d'un tratto nella sala e l'aria si fece pesante.
   Dal suolo spuntarono esili steli su cui svettava una spiga di fiori totalmente nera. Una leggera brezza li faceva ondeggiare e ne spargeva il polline tutt'intorno. Il Topazio di Ghiaccio fu colto da un'inaspettata inquietudine: quelle strane piante gli agitavano il cuore apparentemente senza motivo.
   Vernalis mosse di un passo. - Ti racconterò la storia di questi fiori, prima di annientarti! -, disse.
   L'Utukki rimase interdetto: si sentiva impotente, spossato, privo di iniziativa. La sua esistenza sembrava essersi arrestata di fronte a quel giardino oscuro sorto nel suo regno. Si tolse l'elmo; provava una sensazione di soffocamento e di confusione, aveva le vertigini e fu costretto ad appoggiarsi al moncone di una stalagmite.
   - Perché non riesco a oppormi a questo torpore? Cos'è quest'opprimente potere che sento? - chiese Agga, infastidito.
   - Te lo spiegherò alla fine della storia che sto per raccontarti. -, rispose Vernalis. - Ade, il Signore degli Inferi, fu ingannato da suo fratello Zeus, il Re degli dei. Passava i giorni a meditare vendetta per l'affronto subito finché, un giorno, scorse una fanciulla raccogliere fiori in un variopinto prato: era Persefone, figlia di Zeus e di Demetra, la dea delle messi.
   Egli la rapì per farne la sua sposa e costringerla a vivere con lui nel cieco mondo dei defunti, ma Persefone piangeva continuamente ripensando alle verdi colline di Grecia e all'azzurro cielo. Demetra si mise alla disperata ricerca della figlia, causando gravi carestie, mentre Zeus intimò al fratello di restituire la ragazza rapita.
   Dopo innumerevoli discussioni e lunghe trattative, si giunse a un accordo: Persefone avrebbe trascorso sei mesi sulla Terra e altri sei negli Inferi. Ma ogni volta che la fanciulla varcava le fredde porte di Dite, il suo volto si rattristava e la gioia svaniva di colpo dai suoi occhi.
   Fu così che Ade escogitò un modo per impedire che la nostalgia del mondo esterno turbasse il soggiorno della ragazza nell'Aldilà. Creò un grande giardino di asfodeli, dove Persefone poteva trascorrere il tempo gioiosamente.
   Ma quell'ameno giardino aveva un altro compito molto più infido: far dimenticare alla fanciulla la bellezza, i colori e i profumi della Terra. Questi fiori ti stanno svuotando di ogni volontà: ciò che avevi riservato a me lo proverai sulla tua stessa pelle! -, concluse il Cavaliere.
   Il suo cosmo si agitò violentemente scuotendo i fiori che saturarono l'aria di un profumo esiziale. Gli occhi azzurri del demone iniziarono ad annebbiarsi; egli cadde ginocchioni, ansimando e sputando sangue. Nonostante sentisse l'alito della morte soffiargli sul collo, non si arrese e con un imponente sforzo si rimise in piedi. Richiamò il suo cosmo, ma fu tutto inutile. Si guardò le mani, come a rimproverarle della fiacchezza in cui versavano.
   - I-Il mio cosmo... cos'è successo? -, disse, frastornato e smarrito.
   - Il polline dei miei fiori assorbe il cosmo nemico e lo spoglia di qualsiasi volontà: tra poco diventerai un guscio vuoto! Asphodélōn Képos[4]! -, rispose Vernalis.
   Il polline si attaccò sull'armatura di Agga e la sbriciolò. Il demone si accasciò a terra e divenne polvere. La gemma cadde con un rumore sordo: il Cavaliere la afferrò e, bruciando una frazione del suo cosmo, la ridusse in cenere.
   La stanza iniziò a crollare e il custode dell'ultima Casa dello Zodiaco uscì in fretta. Vide i suoi amici radunati sulla collinetta e li raggiunse: Elnath e Nashira erano seduti e appoggiavano la schiena al tronco di una palma; gli altri erano in piedi o seduti sulla sabbia con lo sguardo rivolto alla cima della torre, avvolta da una densa nube, percorsa da scariche di cosmo e illuminata da accecanti bagliori.
   - Sapevo che ce l'avresti fatta, sei un guerriero difficile da battere! -, lo accolse il Cavaliere di Taurus, con un sorriso tirato sulla faccia: le ferite della battaglia sostenuta contro Alulim gli dolevano ancora.
   - Maestro! -, esclamò Sargas, con l'emozione nella voce per aver ritrovato finalmente l'uomo che aveva conosciuto a Parigi.
   - Ora che siamo tutti qui perché non raggiungiamo quella dannata torre e aiutiamo Calx a sconfiggere il dio d'Irkalla? -, propose Zosma, seduto accanto a Nashira.
   - Gli saremmo solo d'impaccio! -, ribatté Hamal, in piedi con le braccia conserte e l'aria meditabonda. - Calx è l'unico che può sconfiggere Nergal. Il nostro compito era di distruggere le gemme che gli impedivano di sfoderare il suo cosmo divino. Ora potrà combattere liberamente - concluse.
   - Hamal ha ragione. Contro il dio sumero noi saremmo soltanto facili prede. Spetta a Calx concludere questa lunga guerra. Noi lo assisteremo col nostro cosmo e con l'aiuto di Atena! -, concordò Vernalis, pronunciando quelle parole con un tono così solenne da convincere tutti gli astanti.
   - Compi il tuo dovere, Calx, e ritorna tra noi! -, pensò tra sé Zosma, pregando di rivedere al più presto l'amico.
 
[1] "Sospiro d'Irkalla".
[2] "Gemito di Ghiaccio".
[3] "Tempesta di Spiriti".
[4] "Giardino d'Asfodeli".

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Capitolo 29
*** Il Cavaliere del Destino ***


CAPITOLO XXIX
IL CAVALIERE DEL DESTINO
 
Kutha, settembre 1068
 
   Mentre Calx risaliva l'alta torre, avvertì il cosmo dei compagni ingaggiare battaglia. Arrestò per un attimo l'ascesa e chiuse gli occhi: nonostante i suoi innumerevoli errori, i paladini della giustizia avevano deciso di dargli fiducia ancora una volta. Scosse il capo per fugare dalla mente il rimorso degli antichi falli e riprese la scalata.
   Ripensò alla dea Atena, che aveva veduta soltanto nei suoi sogni. Nella sua mente risuonava la sua voce calda e gentile che implorava l'aiuto degli dei di Sumer. Sentì il suo cuore pronto a soffrire qualunque pena pur di realizzare l'ideale di pace di cui tante volte aveva ascoltato tessere le lodi dal Sommo Alexer.
   Il Sommo Alexer, l'uomo che l'aveva reso Cavaliere. Quanta delusione aveva avvertito nella sua voce quando aveva preso la sciocca decisione di abbandonare il Grande Tempio! E quanto affetto aveva letto nei suoi occhi poco prima che si spegnessero per sempre!
   Le sue guance si rigarono di calde lacrime e, a denti stretti, chiese perdono. Alzò lo sguardo e, tra le nubi addensate attorno alla cima della torre, notò un raggio violaceo diretto verso il Sole. Osservò l'astro e si accorse che il suo bagliore stava sbiadendo. - Vorresti spegnere il sole, Nergal? Non te ne darò l'occasione! -, disse fra sé, risalendo più velocemente.
   Raggiunse le colonne che sorreggevano le stanze del dio infernale, spiccò un salto e atterrò sul tetto. Richiamò l'armatura, che aveva lasciato alla base della torre: un bagliore dorato lo investì e sul suo corpo si posizionarono i pezzi della corazza del terzo segno. Guardò dritto davanti a sé e notò uno strano marchingegno che sottraeva calore e luce all'astro splendente. Fece esplodere il proprio cosmo: sollevò le braccia in alto, creò un pianeta incandescente e lo lanciò contro quell'aggeggio, gridando: - Galaxíou Ékrēxis! - Un tremendo boato annunciò la distruzione dell'infernale arnese. Il raggio scomparve, ma l'immensa potenza del colpo di Calx fece crollare il tetto.
   Quando la polvere prodotta dal crollo diradò, il discepolo di Alexer si ritrovò davanti a un individuo possente dall'armatura viola e rossa che impugnava uno scettro finemente lavorato nella destra. Se ne stava seduto, imperturbabile di fronte alla dimostrazione di potenza a cui aveva or ora assistito.
   Il Signore d'Irkalla si levò in piedi e mosse qualche passo verso l'avversario. - Hai avuto coraggio a venire fin qui e a distruggere l'arma che mi avrebbe aiutato a spegnere quell'orribile fonte di luce! -, esordì, osservando l'armatura che aveva danneggiato poco tempo prima risplendere di nuovo. - Ma hai solo rallentato di qualche ora l'estinzione della vita dall'universo. Ho già sconfitto una volta la corazza che indossi; non hai speranza di prevalere contro un destino già scritto! -, continuò, con una punta di disprezzo nella voce.
   - Non sottovalutare un nemico che non conosci. Alexer, il Cavaliere che hai sconfitto, era il mio maestro e Sommo Sacerdote di Atena. L'hai sopraffatto solo perché non era nato con un cosmo divino! -, ribatté il ragazzo, pronto a combattere la battaglia che avrebbe posto fine a quel lungo conflitto.
   - E così il mortale che ha osato affrontarmi si chiamava Alexer... Tu, invece... Qual è il tuo nome? - chiese Nergal con aria beffarda. Non si era mai posto il problema di conoscere il nome di coloro che eliminava, ma quel ragazzo gli suscitava un interesse imprevisto.
   - Io sono Calx di Gemini, il Cavaliere del Destino! -, rispose con tono autorevole il giovane discepolo del Sommo Alexer. Strinse i pugni e fece esplodere la sua luminosa aura dorata.
   Nergal aggrottò le ciglia: il cosmo di quel misero mortale non solo si dimostrava vasto e potente, ma gli sembrava addirittura familiare. Un velo d'inquietudine pervase per un attimo l'animo del nume: cosa significava? Forse il fato non approvava i suoi piani? O era soltanto una sua immaginazione? Qualunque fosse stata la risposta a quelle domande, una cosa era certa: se la profezia offriva un barlume di speranza agli esseri viventi ponendo un ostacolo di fronte alla sua ascesa, doveva fare attenzione e giocare d'astuzia.
   Mentre indugiava su questi pensieri, Calx plasmò sfere d'energia tra le mani e le scagliò contro il dio. Nergal le parò con lo scettro, annullandole. - Se credi che riuscirai a battermi con questi colpi puerili, sei davvero uno stolto! Gli esseri viventi sono come una scintilla tra le sterpaglie: il fuoco che creano sembra imponente, ma dura lo spazio di un battito di ciglia! Un tempo vivevate sotto le sicure ali degli dei come servi, ma avete scelto di ribellarvi e di seguire sogni perituri e sciocchi in nome di una libertà che vi ha condotto alla catastrofe! Se non pongo fine alla vostra ribellione, presto l'universo diverrà un luogo empio e immondo! -, affermò, gli occhi bassi e la voce tremante di rabbia.
   - Nessuna creatura vivente merita di trascorrere in catene la propria esistenza! Credi forse che gli uomini siano gingilli con cui trastullarsi nei momenti di noia? -, ritorse il Cavaliere, di nuovo in posizione di attacco.
  - Vano è resistere e sperare di vincere contro colui che il fato ha designato come Sterminatore della Vita! I tuoi compagni moriranno senza riuscire a distruggere le gemme e tu perderai la tua breve vita per mano mia, proprio com'è accaduto al tuo maestro! -, esclamò Nergal, convinto di avere il destino dalla sua parte. - In fondo, voi mortali non siete altro che fanghiglia nobilitata dal soffio divino! -, asserì il Signore d'Irkalla, lo sguardo tronfio e truce.
   - Speri che il tuo disprezzo mi faccia desistere dal combattere? Ti sbagli! Troppe volte ho rinunciato a lottare a causa della titubanza che incatenava il mio cuore, ma ormai il tempo dell'incertezza è finito! Porterò a termine la missione affidatami dal fato! -, rispose il Cavaliere con tono perentorio.
   Il dio infernale abbozzò un sorriso compiaciuto. - Come preferisci! -, disse, sollevando lo scettro. - Anir Irkalak![1] -, gridò, e dal bastone partirono sette raggi di diverso colore. Calx si preparò a rispondere a quell'attacco, senza sapere, però, cosa aspettarsi.
   I raggi prodotti dallo scettro si condensarono in uno solo. Il giovane custode della terza casa si preparò a ricevere il colpo e a schivarlo, ma la potenza della tecnica di Nergal era troppo vasta e lo scaraventò contro una colonna che gli crollò addosso.
   Il dio di Sumer fu lieto di vedere il suo nemico già a terra: era convinto che non avrebbe resistito a lungo e che forse l'inquietudine che sentiva nel fondo dell'animo era del tutto infondata. Dalle macerie non percepiva alcun cosmo e ciò ne corroborava la fiducia. Una risata sommessa squarciò il silenzio di quel tempio e riecheggiò nelle deserte sale adiacenti. - Il tuo tempo è già finito, Cavaliere! Nessun uomo, anche se vanta ascendenze divine, può ostacolare l'avvento del regno di Nergal! -, affermò con soddisfazione.
   Si voltò per raggiungere nuovamente il suo trono e attendere la vittoria degli Utukki. D'un tratto arrestò il passo: l'inquietudine che lo possedeva fin dall'inizio di quella battaglia crebbe in maniera incredibile. Il dio rivolse lo sguardo verso la colonna crollata e vide le macerie muoversi leggermente. Con lo stupore impresso sul volto, osservò il paladino di Atena rialzarsi in piedi, nonostante una profonda crepa sfregiasse l'armatura al centro del pettorale.
   - La tua convinzione ti perderà, Nergal! Tu non conosci abbastanza il genere umano da sapere quanto sia tenace e quanto si ostini a lottare con tutte le forze contro il destino avverso! Per chi conduce una vita parca di soddisfazioni e colma di fatica e dolore l'affrancamento dalla schiavitù del destino è l'unico compiacimento che può permettersi! -, tuonò il custode della terza casa, facendo esplodere il suo cosmo e scagliando sfere d'energia contro il nume infernale.
   Nergal respinse gli attacchi senza fatica e rispose alle provocazioni del Cavaliere imprigionandolo in una rete di tenebre: Calx provò a liberarsi, ma venne investito da terribili scariche elettriche che gli provocarono un dolore indicibile. Il dio si godette la sofferenza dell'avversario che, come un topo in trappola, tentava di sfuggire alle grinfie della morte.
   - Che pena, Cavaliere! Sei riemerso dall'oceano dell'incertezza per perire in una battaglia senza speranza! Atena è una folle sognatrice se pensa di mutare il corso del destino per offrire una via di scampo all'umanità! Non c'è riscatto per creature infime come voi! Il tempo delle tenebre e del silenzio è giunto! Più nessun'anima vivente recherà danno all'atra purezza del creato! -, commentò il dio, nei cui occhi rifulgeva una sinistra luce al pensiero dell'imminente vittoria.
   D'improvviso si udì un boato lontano. Nergal sgranò gli occhi: il cosmo di Alulim, il Diamante di Luce, era scomparso e la gemma era stata distrutta. - Impossibile! -, disse tra sé, - Il fato non può mutare! I Cavalieri sono destinati alla sconfitta! E allora, perché? -, continuò, incredulo. Poi rivolse lo sguardo a Calx: il ragazzo rideva; una luce immensa si sprigionò dal suo corpo e la gabbia creata dal dio andò in frantumi.
   - Sei troppo sicuro di te, Nergal! Ma la profezia non ha mai affermato che avresti vinto! Dovresti mettere da parte le tue convinzioni e accettare la possibilità della sconfitta! -, esordì il Cavaliere, sollevando le braccia sulla testa e creando un pianeta avvolto dalle fiamme. - Assaggia la tecnica suprema di Gemini: Galaxíou Ékrēxis!
   La sfera incandescente puntò dritta contro Nergal. Il dio agitò il bastone formando una barriera d'aria che arrestasse la veemenza del colpo. La mossa ebbe successo, anche se il Signore d'Irkalla fu spinto indietro di qualche passo.
   Per la prima volta dall'inizio di quello scontro l'attacco nemico l'aveva fatto indietreggiare. La furia del dio infernale raggiunse il culmine: come poteva un misero mortale tenergli testa a quel modo? Doveva al più presto sbarazzarsi di quel verme dall'armatura dorata e ripristinare l'autorità del suo nome.
   Sollevò lo scettro e generò una serie di scariche elettriche che indirizzò verso il ragazzo: con grande maestria, il discepolo di Alexer aprì numerosi varchi dimensionali in cui imprigionò i colpi del dio. Poi ne schiuse un altro, in cui aveva condensato tutti i fasci d'energia, e rispedì al mittente una forma potenziata della sua stessa mossa. Nergal fu lesto e riuscì a schivare il colpo, che si schiantò contro il trono, disintegrandolo.
   L'inattesa contromossa del Cavaliere gettò l'ombra di un dubbio nella mente del dio delle pestilenze: perché non riusciva a prevalere? Perché i suoi colpi non erano risolutivi? E perché quel ragazzo aveva un'aria tanto familiare? Ma più si arrovellava a trovare risposte, più il suo animo s'inquietava e una sottile paura s'insinuò silenziosamente nelle sue viscere.
   Aggrottò la fronte, smanioso di gettare nel silenzio delle tenebre ogni anima vivente. Decise di affrontare la sua nemesi con una tecnica che gli avrebbe permesso di vincere facilmente quella tenzone. Disegnò nell'aria un triangolo con lo scettro e, con voce gelida, gridò: - Mushalum Namtarak![2] -.
   Tre triangoli di energia circondarono Calx, intrappolandolo in una sorta di teca trasparente. Il Cavaliere sentiva le forze defluire dal suo corpo e rafforzare quella strana prigione di cosmo. I suoi occhi furono gravati da una stanchezza sfibrante e si chiusero in un sonno profondo e privo di sogni.
   Nergal puntò lo scettro sulla teca e lo avvolse della sua oscura aura cosmica: nella sua mente iniziarono a far capolino immagini dapprima sbiadite e poi pian piano sempre più nitide. Vide una figura dai lunghi capelli con l'orlo del vestito strappato e i piedi insanguinati percorrere l'erto sentiero che conduceva alla dimora dei perduti dei di Sumer.
   Le immagini si dissolsero in colori indistinti, lasciando spazio ad altre figure: rivide Enki e provò un greve rancore. Era stato lui a rinchiuderlo nello Scrigno dell'Eternità e a impedirgli di realizzare i suoi propositi. Ora, però, non poteva più nuocergli, perché era soltanto uno degli innumerevoli numi dimenticati.
   D'un tratto i suoi occhi si spalancarono e il suo cuore sobbalzò: l'attenzione della ragazza era stata catturata da un'altra figura. L'immagine risultava sfocata, ma il Signore d'Irkalla sentiva di conoscere l'individuo che l'ostinazione del Cavaliere gli negava di scorgere. Provava a forzare la resistenza opposta da Calx, ma risultava fatica vana. Riuscì soltanto a udire qualche brandello di frase pronunciato da quella misteriosa sagoma e trasalì. - N-Non è possibile... -, disse tra i denti, socchiudendo gli occhi in preda a una fiumana di emozioni contrastanti.
   Ormai divorato dalla smania di conoscere il volto di quell'individuo che gli suscitava tanto disagio, aumentò la potenza del colpo per abbattere la fiera opposizione fatta dal ragazzo. Tuttavia, Calx continuava a impedire il completo accesso alla sua mente e, anzi, provava a liberarsi dalla morsa di quella prigione.
   Nergal si spazientì al punto da desiderare ardentemente di punire con un'atroce morte quel pugnace mortale che osava sfidarlo con tanta tracotanza. Mentre approntava il suo proposito, un forte fragore giunse dalle sale sottostanti. Il nume si voltò in direzione del boato, distogliendo per un attimo l'attenzione dalla battaglia.
   Quei pochi secondi diedero il tempo a Calx di annullare la tecnica nemica e di ritornare in pieno possesso del suo corpo. - Anche la seconda gemma è andata distrutta! -, esclamò, irritando oltremodo il dio, che gli lanciò una torva occhiata.
   Anche Dumuzi aveva dovuto cedere il passo a un semplice mortale? Cosa stava accadendo? Perché il suo sogno di riportare l'universo al silenzio primordiale gli stava venendo precluso? Tutte queste domande affollavano la mente del Signore d'Irkalla. Quel giovane dagli occhi splendenti, animato dal desiderio impellente di garantire la sopravvivenza al genere umano avrebbe mandato a monte i suoi piani? Perché il fato gli aveva tirato uno scherzo tanto meschino?
   - Chi sei tu, in realtà? -, chiese di getto, come a trovare risposte agli innumerevoli interrogativi che stavano a poco a poco scardinando le sue certezze. - Nessuno è mai riuscito a resistere ai miei attacchi senza subire alcun danno, tu sei il primo a risultare pressoché indenne ai miei colpi! Chi sei? Dimmelo! Chi è il dio che ti ha generato? -, incalzò, fremente di rabbia e roso dalla frustrazione.
   Calx rimase per qualche secondo in silenzio, poi si tolse lentamente l'elmo rivelando il suo volto. Nergal lo osservò avidamente, ma ciò che vide lo gettò nella confusione più totale: - Ma tu sei... no, non ci credo... non puoi essere tu, perché... sei morto, sono stato io a strapparti alla vita! -, balbettò, scosso dalla sorpresa e dall'incredulità.
   Il discepolo di Alexer abbozzò un sorriso sornione: - Ti sbagli, io non sono tuo fratello Erra. Sono suo figlio! -, dichiarò; il sangue di Nergal raggelò all'udire quelle affermazioni.
   - Suo... figlio? -, ripeté incredulo l'ancestrale nume. - Mio fratello è morto nell'età del mito e tu sei un ragazzino... come puoi essere suo figlio? -, continuò, gli occhi sbarrati e la fronte corrugata. - Stai mentendo! Non è possibile! -, sentenziò alla fine, riprendendo il suo solito cipiglio.
   - Mentire? E perché dovrei? -, rispose Calx, fissando lo sguardo su Nergal, che sentì montargli la collera. - La figura che anelavi vedere mentre leggevi nel mio animo era quella di Erra. Ne hai persino riconosciuto la voce! -, affermò, inchiodando il Signore d'Irkalla alla dura realtà dei fatti.
   Nergal avvolse lo scettro di un cosmo oscuro e freddo; lo puntò contro il ragazzo e cominciò a bersagliarlo con scariche elettriche. Il giovane custode della terza casa sfuggì all'attacco nemico rifugiandosi tra le dimensioni e questo fece infuriare oltremodo il dio.
   - Lo spettro di mio fratello continua a perseguitarmi! Fin da quando siamo nati! -, sbottò Nergal, stringendo il pugno attorno allo scettro e scagliando gli ultimi colpi. Il Cavaliere li aveva evitati tutti ed era riapparso alle spalle del dio.
   - Tuo fratello non meritava la morte che gli hai riservato! -, proruppe Gemini, bagnando i pugni di cosmo e attaccando corpo a corpo il Signore d'Irkalla. Nergal parava col bastone e rispondeva con scariche d'energia, che Calx deviava o schivava con maestria. Nessuno dei due sembrava prevalere. La battaglia era in stallo.
   - Cosa può saperne un vile mortale come te? Ha addirittura abbandonato le remote dimore dell'oblio per ostacolarmi! Chi l'avrebbe mai detto! -, commentò il nume, attaccando nuovamente.
   - Lo ha fatto per impedirti di spegnere la vita nell'universo! -, rintuzzò il discepolo di Alexer, arrestando l'assalto nemico e attaccando di rimando.
      - Sarebbe proprio da lui! - ribatté Nergal, parando il colpo nemico. - Ogni volta che mi proponevo di arrecar danno alle umane genti, Erra interveniva in loro favore e vanificava i miei sforzi. Lo ha fatto così a lungo che, a un certo punto, i mortali finirono per identificarci. E l'idea di passare per un dio gentile e magnanimo mi ripugna. Voglio che le creature inferiori mi temano per la mia crudeltà, non che mi amino per i benefici procurati da un altro -.
   Le ultime parole del Signore d'Irkalla contristarono l'animo del Cavaliere: l'odio che spirava dal cosmo del suo avversario era profondo e livido, covato da tempo immemore e riluttante a qualsiasi forma di redenzione.
   - Hai ucciso tuo fratello solo perché rimediava ai tuoi errori, dunque? - sbottò, avvolto dal suo accecante cosmo dorato. Sollevò le braccia e si preparò a scagliare la sua tecnica definitiva, quando un sorriso sinistro illuminò il volto del dio.
   - Rimediare ai miei errori? Che sciocchezza! Mio fratello era convinto di poter cambiare la mia natura, ma si sbagliava! Io voglio che l'universo sprofondi nel tacito oblio, che la sua oscura purezza rimanga intatta! E se non cancello da esso la vita, non potrò conseguire il mio scopo! -, affermò Nergal, pronto a respingere l'attacco nemico.
   Il colpo di Calx si abbatté con veemenza sull'obiettivo. Quando il bagliore creato dall'esplosione diradò, il dio riapparve incolume, protetto dal suo scettro.
   - La malvagità è la mia essenza! Un giorno Erra mi invitò a raggiungerlo nel Giardino degli Dei: voleva parlarmi, diceva. Ma le sue parole suonarono inconcepibili e offensive alle mie orecchie: i suoi ideali di pace, d'amore, di giustizia e di convivenza con l'umanità risultavano solo una risibile utopia. Giammai avrei potuto accettare un mondo simile! Mi infuriai e, senza pensare troppo alle conseguenze, macchiai l'immacolato suolo di quel luogo col caldo sangue di mio fratello! -, raccontò, con aria tronfia e priva di qualsivoglia rimorso.
   - La vostra è una storia vecchia quanto il mondo! -, commentò il Cavaliere, avvolto da un cosmo calmo e rilucente.
   - Che intendi dire? -, chiese il dio con malcelato disappunto. Un'assurda curiosità di scoprire quali verità nascondessero le ultime parole pronunciate dal Cavaliere lo invase: la tranquillità e la fierezza manifestate dal suo cosmo lo indussero a bandire una breve tregua e ad ascoltare quel misero mortale.
   - Osserva l'elmo della mia armatura! -, riprese il giovane discepolo di Alexer, indicando il copricapo che aveva abbandonato poco prima sui resti della colonna crollata sotto il suo peso. - Come puoi vedere i volti posti ai suoi lati hanno espressioni diametralmente opposte. Eppure, i Gemelli a cui è dedicata l'omonima costellazione vissero in perfetta armonia, sebbene l'uno fosse mortale e l'altro immortale. Castore era figlio di Zeus, il re degli Olimpici, mentre Polluce era nato dal seme di Tindaro, un semplice mortale. Furono concepiti nella stessa notte e combatterono sempre insieme, ma, quando la morte colse Polluce, Castore rinunciò al privilegio dell'immortalità per accompagnare il fratello nelle desolate terre dell'Oltretomba. Zeus creò la costellazione dei Gemelli in loro memoria, anche se i Cavalieri che nascono sotto il terzo segno sono gravati da un oscuro destino! -
   - E cosa ha a che fare questo con me e mio fratello? Il Castore di cui parli è stato uno scellerato a gettare via la sua natura divina per seguire un comune mortale! -, ribatté il dio, che non capiva dove volesse arrivare il Cavaliere.
   - Nell'era del mito si svolse la prima Guerra Sacra tra Atena e Poseidone, il dio dei mari. Nonostante i Cavalieri di Atena fossero in grado di manipolare il cosmo non possedevano armature che li proteggessero dagli attacchi nemici e furono quasi del tutto sterminati. La dea allora si rivolse agli alchimisti del perduto continente di Mu e commissionò loro la forgiatura di corazze che si ispirassero alle stelle, le più potenti delle quali dovevano richiamare le dodici costellazioni zodiacali. I fabbri furono divisi in quattro gruppi: ai maestri spettarono le armature di materiale sconosciuto, ai più abili artigiani quelle d'oro, a quelli di media capacità quelle d'argento e ai mediocri quelle di bronzo.
   Tra questi alchimisti vi erano due fratelli: Robur, che per il suo innato talento si vide assegnare la creazione dell'armatura di Gemini, e Tibur, che, invece, ottenne in sorte una misera armatura di bronzo a causa della sua scarsa abilità. Fu proprio questa inferiorità a suscitare nel più giovane una insana invidia verso i successi del fratello maggiore. Così, la notte prima della consegna delle armature, Tibur decise di sfruttare la sua bravura nelle pozioni per mettere in cattiva luce il fratello: penetrò nel suo laboratorio e rimase ammirato dal lavoro che aveva svolto nella realizzazione dell'armatura. Tirò fuori da una tasca dell'ampia veste un'ampolla contenente del liquido verdastro, la aprì e ne versò delle gocce sull'armatura. I volti sull'elmo mutarono d'aspetto: uno mantenne un'espressione serena e gentile, l'altro assunse un ghigno malefico. Aveva innestato nell'armatura che indosso il seme della discordia. Da allora i Cavalieri di Gemini che hanno un fratello sono in perenne conflitto con loro e quelli che, invece, non ce l'hanno sono costretti ad affrontare i demoni della loro anima! -, spiegò il ragazzo con una punta d'amarezza nella voce.
   - Ora capisco cosa intendi! Ma la mia malvagità non è frutto di una maledizione, bensì di un'indole coltivata fin dalla più tenera età! E non ho certo intenzione di abbandonare i miei propositi ora che la vittoria è a un passo! -, chiosò Nergal, pronto a riprendere le armi con maggior ferocia.
   - Forse hai ragione, tu sei la metà oscura di Erra! Non vi è luce nel tuo animo, ma solo fitta tenebra! E ora tutto mi è più chiaro! -, ribatté il Cavaliere, facendo avvampare il suo cosmo.
   Il dio non badò alle parole del ragazzo: la sua mente era completamente assorbita dal desiderio di ridurre al silenzio ogni cuore pulsante. Era stanco dei discorsi e delle altisonanti ragioni della presunta giustizia! La morte era l'unica soluzione alla corruzione che in un futuro prossimo avrebbe condotto non solo la Terra, ma l'universo intero a una catastrofe irreversibile.
   Sollevò in alto lo scettro e nella sala si diffuse una tetra caligine che non permetteva agli occhi di poter distinguere le superfici dell'ambiente circostante. - Aguzigga Irkalak![3] -, sussurrò, e Calx venne investito da potenti raggi di tenebra senza possibilità di difendersi.
   In quella densa oscurità il giovane Gemini poté scorgere tutta la malvagità e l'insensibilità del dio. Subiva colpi da ogni direzione, ma non riusciva a schivarli, né tantomeno a pararli o a deviarli. Ogni percossa gli infliggeva un dolore atroce che lo costringeva a piegarsi.
   La voce del dio strisciò tra le tenebre: - Il dolore ti farà rinsavire, Cavaliere! La sofferenza che provi è la stessa che ogni giorno le effimere creature come voi impongono all'universo. Estinguendo tutte le anime viventi gli restituirò la purezza e la pace che merita! -     
    Nel silenzio di quella cupa agonia Calx riuscì a percepire il cosmo dei compagni che combattevano senza sosta per garantirgli la vittoria. Proruppe in un grido muto, soffocato dalla plumbea oscurità che lo imprigionava. Caricò i pugni di cosmo, ma i suoi sforzi non sembravano ottenere risultati. La stanchezza e lo sconforto iniziarono a consigliargli di desistere e di abbandonarsi al dolce oblio che gli carezzava il cuore. D'un tratto, però, le ombre fuggirono, atterrite da un immenso bagliore: da esso emerse una figura che gli apparve subito familiare.
   - Voi? -, disse telepaticamente. - Perché siete qui? -, continuò, ancora perplesso di fronte alla fanciulla elegante che gli si avvicinava lentamente.
   - Poco fa ti eri reso conto di qualcosa, ma pare che tu non ne abbia compreso appieno l'importanza. -, esordì una voce gentile e calma.
   Calx si riebbe. - Avete ragione, divina Atena! Enki affermò che soltanto il sangue di Erra avrebbe potuto annientare Nergal. Quel sangue era colmo di luce e di giustizia, di altruismo e di amore, proprio come il vostro! Ora ho capito: devo abbattere questa oscurità col potere della luce di Erra! -, commentò il ragazzo, nei cui occhi rifulgeva una nuova speranza.
   Atena accarezzò il volto del giovane e il suo sguardo si vestì di una repentina mestizia. - So cosa devo fare! -, disse il ragazzo, asciugando le lacrime che rigavano le graziose guance della dea. - Non lasciate che il vostro cuore si veli di un'amara tristezza, morire per la giustizia è forse l'ideale più alto a cui si possa aspirare! -
   La fanciulla abbozzò un sorriso colmo di dolore e scomparve tra le tenebre in cui aveva aperto una breccia. - Atena è con te! -, gli aveva promesso prima di svanire per sempre.
   Rincuorato dall'appoggio della dea, Calx chiuse gli occhi e bruciò il suo cosmo più che mai: una luce accecante si diffuse dal suo corpo e squarciò l'opprimente morsa delle tenebre. Persino Nergal fu costretto a coprirsi gli occhi per impedire a quel fulgore di ferirgli gli occhi.
   Quando la luce diradò, il Cavaliere era piegato su un ginocchio e ansimava: il potere che aveva liberato era ancora troppo vasto per poter essere controllato. La barriera del Signore di Irkalla, seppur indebolita, non gli consentiva di gestire il cosmo di un dio.
   - Ancora una volta sei riuscito ad affrancarti dalla morte! Tuttavia, finché le gemme non saranno tutte distrutte, non potrai acquisire i pieni poteri di Erra! -, affermò Nergal, sogghignando.
   Calx fissò lo sguardo sull'avversario e, con un sorriso schietto, ne stuzzicò l'animo suscettibile: - Tra poco un'altra gemma finirà nell'oblio. Sembra che uno dei tuoi seguaci si sia reso conto di star combattendo dalla parte sbagliata! -
   Quelle parole irritarono il dio che mal sopportava l'idea che uno dei suoi più fidati guerrieri lo tradisse in maniera così palese. - Ti sbagli, ragazzo! Nergal non lascerà impunito un simile sacrilegio! -, sbottò, conficcando lo scettro nel pavimento. Scariche nere si propagarono per la stanza e penetrarono tra i mattoni per raggiungere l'obiettivo indicato.
   - Ti mostrerò la purezza del male! Ti renderò partecipe delle sofferenze di Jushur, che ha osato voltarmi le spalle poco prima del mio trionfo! -, soggiunse, guardando Calx con occhi folli di rabbia.
   Il Cavaliere avvertì tutto il dolore provato da quello sconosciuto Utukki, ma anche la sua determinazione a perseguire un ideale di giustizia agognato per interminabili eoni.
   - E ora sarò io a custodire il Diaspro di Fuoco, così nessuno potrà distruggerlo! -, disse poi il dio, richiamando la gemma col suo oscuro cosmo.
   Il discepolo di Alexer aggrottò la fronte: non poteva concedere un simile vantaggio al nemico. Si rialzò in piedi e, con la destra, formò un cerchio davanti a sé: una decina di pianeti si disposero a mo' di corona e si diressero, roteando velocemente, verso il dio. - Kosmiké Sýnkrousis![4] -, gridò e, una volta raggiunta la meta, i pianeti collisero provocando una tremenda esplosione. Nergal impugnò nuovamente lo scettro per difendersi, ma la tecnica lanciata dal Cavaliere sembrava più potente di quelle mostrate fino a quel momento. L'esplosione lo scaraventò indietro, gettandolo tra le macerie del trono.
   Si rialzò quasi subito, livido in volto. Per la prima volta era stato atterrato. Ma un misto d'ira e stupore lo colse quando si avvide che il coprispalla destro della sua armatura era stato completamente divelto e la spalla gli sanguinava.
   Un nuovo boato scosse la sala distrutta dalla battaglia, annunciando che anche la terza gemma era andata perduta. Nergal aveva sopportato abbastanza: non solo era stato ferito due volte da misere creature, ma anche la barriera che gli avrebbe consentito di vincere senza grandi difficoltà stava crollando sotto i colpi tracotanti dei Cavalieri.
   - Sei proprio come mio fratello! Ti ostini a lottare per esseri immeritevoli che presto ammorberanno l'intero universo! -, proruppe, con la voce satura di rabbia. - Se le creature viventi continueranno a farsi gioco dei limiti posti loro dalle divinità, giungeranno al punto di elevarsi a tale protervia da alterare l'ordine costituito! Non si atterranno più ad alcuna legge, non avranno timore di nulla e di nessuno, non si porranno alcuno scrupolo! -, continuò, gli occhi coperti da un velo di tristezza e le mani strette a pugno.
   - Non puoi sapere cosa faranno gli uomini nei secoli a venire. La sfida che Atena ha accettato è proprio questa: nonostante la sua mutevolezza e imperfezione, l'uomo può migliorarsi e imparare a seguire un sentiero di giustizia. Lei ha posto questa fiducia nell'umanità e noi Cavalieri l'aiutiamo a realizzare il sogno di cambiare il mondo! -, rispose il giovane Gemini, con tono risoluto e schietto.
   - Solo uno sciocco spererebbe di salvare una razza destinata all'annientamento dell'universo. Io ho visto cosa farà l'umanità nel futuro: non si accontenterà di contaminare questo pianeta, ma si avventerà sull'universo, come uno sciame di locuste sul raccolto. L'ideale a cui aspirate voi e la vostra dea è pura utopia! -, ritorse il dio, scuro in volto e accigliato.
   Calx restò stupito dalle ultime affermazioni del nume: aveva forse poteri profetici? O le sue parole erano solo l'esito di un disprezzo atavico per le umane genti? Eppure, fino a quel momento aveva palesato senza remore il suo odio, ripeterlo a cosa gli sarebbe giovato? Era convinto che quelle frasi celassero un significato recondito.
   - Hai visto... il futuro? Che vuoi dire? - chiese, spinto dalla curiosità di conoscere la fonte da cui aveva avuto origine il dispregio del Signore d'Irkalla.
   Il dio annuì. - Ho il privilegio di poter leggere nel remoto futuro, ma non in quello prossimo. Solo ciò che avverrà tra molti secoli mi è dato conoscere, ciò che accadrà oggi mi è precluso -, spiegò, chiarendo i dubbi del giovane avversario.
   Sollevò lo scettro e creò davanti a sé una sfera trasparente. D'un tratto, apparvero uomini con indosso strane armature di stoffa e armi che emettevano strani lampi di luce; carri di ferro che lanciavano proiettili esplosivi; bizzarre macchine che roteavano attorno alla terra o atterravano sulla Luna e su Marte. Le foreste bruciavano e le città erano velate da una fitta nebbia scura; i mari erano opachi e melmosi; gli animali cadevano nei mattatoi o per mancanza di cibo e d'acqua. Innumerevoli cadaveri giacevano insepolti alla mercé dei corvi: bambini, donne, vecchi, tutte vittime dell'umana follia.
   Poi Nergal abbassò il bastone e la sfera si dissolse. - Questo è il futuro dell'universo, se l'umanità proseguirà nei suoi atteggiamenti delittuosi. Mio fratello non ha mai compreso la mia missione, né tantomeno mi dava ascolto quando gliene parlavo! Avete già offeso abbastanza il mondo che vi è stato concesso: non permetterò che contaminiate anche l'universo! -, concluse, preparandosi a un nuovo assalto.
   La stanza tremò ancora: Etana, l'Eliodoro del Fulmine, era caduto. Nergal avvolse nuovamente l'ambiente di pesanti tenebre e lanciò l'Aguzigga Irkalak. Calx si ritrovò a dover lottare al buio senza sapere la provenienza dei colpi, ma, stavolta, aveva ben chiaro il modo di annullare quella tecnica.
   La barriera cominciava a indebolirsi gravemente e il Cavaliere sentiva fluire nel suo corpo un potere sempre maggiore. Sollevò le braccia al cielo e plasmò tra le mani un pianeta incandescente, tese i sensi e lo scagliò in direzione dello scettro del dio.
   Nergal si preparò a parare, ma la potenza di quel proiettile lo fece sudare parecchio prima di lasciarsi annullare. Il suo volto s'incupì: più quella battaglia proseguiva, più quell'imberbe ragazzino dominava il cosmo divino. Doveva impedire a ogni costo che risvegliasse il potere di Erra e gli precludesse l'attuazione del suo piano.
   Aveva ancora una tecnica da mostrare, una tecnica che forse gli avrebbe assicurato la vittoria definitiva contro quel mortale che tanto gli ricordava l'odiato volto di suo fratello. Fisse il bastone nel pavimento, spiegò le ali della sua armatura e attorno a lui apparvero sette fasci d'energia colorati. Iniziarono a vorticargli intorno creando una sorta di difesa. - Namlugal Ankik![5] -, pronunciò, e lingue di fuoco si avventarono su Calx.
   Il ragazzo le respinse, ma esse si tramutarono in fulmini, gli avvolsero le braccia e le martoriarono con potenti scariche. Cadde all'indietro, ma un vento impetuoso lo sbalzò in alto. Poi la corrente s'acquetò e il Cavaliere precipitò al suolo in una pozza di fango che lo inghiottì completamente.
   - Degna fine per un mortale che si atteggia a nume! Mi hai fatto penare, ma alla fine hai ceduto il passo al volere del fato! -, disse con soddisfazione.
   Il sole aveva già percorso metà del suo cammino e il cielo, spolverato da scialbe nuvole lente, era attraversato da stormi di uccelli canterini che squarciavano il silenzio di quel deserto. Nergal alzò il capo e chiuse gli occhi: - Presto, ogni cosa tornerà a splendere nelle tenebre dell'oblio -, pensò tra sé. D'un tratto, avvertì l'agitarsi di un cosmo e si voltò di scatto.
   - Galaxíou Ékrēxis! -, gridò una voce ben nota. Un enorme pianeta si abbatté sul dio, che riuscì a salvarsi appena in tempo, prima che il colpo lo centrasse in pieno.
   Il pianeta fu deviato verso l'alto ed esplose in mille pezzi, creando meteoriti che si abbatterono sulle rovine di quella che fino a prima di quello scontro era stata la sala del trono del Signore d'Irkalla.
   - Sei ancora vivo? Ho avvertito lo spegnersi del tuo cosmo, come hai fatto a sfuggire alle grinfie dell'alata signora! -, domandò il dio, sbigottito dalla tenacia dimostrata da quel ragazzino.
   - I Cavalieri di Gemini sono in grado di ingannare i sensi dell'avversario: prima di cadere in quella melmosa pozza ho aperto un varco dimensionale facendoti credere di essere morto. Il tuo colpo massimo non è poi granché! -, rispose Calx, con tono sarcastico.
   - Nessuno ha mai osato dileggiarmi in tal modo! Pagherai per la tua sprezzante ironia, misero mortale! Namlugal Ankik! -, sbottò irritato il dio delle pestilenze.
   I fasci di energia lo circondarono di nuovo, ma stavolta il giovane Gemini fu bersagliato da aguzze lame di ghiaccio. Il ragazzo le schivò quasi tutte, ma una gli si piantò nella spalla e lo gettò a terra. Da essa si sprigionò una tenue luce che gli avvolse il braccio e parte del torace. Il corpo del custode della terza casa iniziò a perdere sensibilità.
   - Ora sprofonderai tra le ombre dell'oblio! Addio, Cavaliere, il tempo delle illusioni è ormai giunto al termine! -, sentenziò il dio, trasformando quella tenue luce in fitte tenebre. Calx provò un dolore straziante, ma strinse i denti e continuò a resistere.
   Doveva resistere fino alla distruzione dell'ultima gemma: solo allora avrebbe potuto sferrare l'attacco definitivo e concludere finalmente quella logorante guerra. Espanse il suo cosmo dorato per contrastare l'attacco nemico e, dopo immani sforzi, riuscì ad affrancarsi dal giogo delle ombre.
   - Non è ancora il momento di lasciare questa vita, almeno finché non avrò sventato i tuoi piani, Nergal! -, asserì Calx, pronto a riprendere la lotta.
   Lo spallaccio sinistro era stato squarciato dalla lama nemica e dalla spalla sottostante cominciarono a zampillare fiotti di sangue che arrossarono il pavimento, mescolandosi a polvere e detriti.
   Il Signore d'Irkalla rise e lo schernì, dicendo: - Pur essendo prole di un dio, il tuo sangue è scarlatto come quello di qualsiasi mortale! Finora la sorte ti è stata amica, ma il tuo cosmo umano sta per esaurirsi e mancano ancora tre gemme per abbattere la barriera posta a mia difesa! -.
   Richiamò la sua tecnica più potente e si preparò ad attaccare nuovamente: non voleva concedere più tempo a quel moccioso che aveva dimostrato una tempra così adamantina. Calx, a sua volta, era pronto a respingere qualsiasi colpo: la fiducia che riponeva nei suoi compagni gli forniva la forza necssaria per affrontare tutte le armi nemiche senza alcuna esitazione.
   Nergal lanciò il Namlugal Ankik, ma, invece di pararlo o deviarlo, il giovane discepolo di Alexer aprì davanti a sé piccoli varchi dimensionali che intercettarono le varie anime della tecnica nemica e le vanificarono inglobandoli e disperdendoli in remoti universi.
  Il dio era esterrefatto: nonostante la barriera fosse ancora in piedi, quel Cavaliere continuava a tenergli testa e a proseguire la missione di sventare i suoi piani. Era riuscito persino a resistere e ad annullare il suo colpo massimo. Che scherzo barbino gli aveva giocato il destino! Possibile che dovesse arrendersi a una sconfitta ormai certa? Ma il suo nome, già infangato dalle opere caritatevoli di Erra, ne sarebbe stato irreparabilmente compromesso! Non poteva cedere! Non poteva perdere dopo aver passato innumerevoli secoli nell'attesa di un riscatto!
   Mentre il suo animo esacerbato si macerava e cercava una via d'uscita a quella situazione di stallo, l'ennesimo terremoto avvertiva che un'altra gemma era stata distrutta. Una frustrante collera s'impossessò di lui: provò un astio inimmaginabile per suo fratello. Lo rivedeva negli occhi, nel portamento e nel cosmo di quel ragazzo che con tanta ostinazione gli si opponeva. Doveva eliminarlo, come aveva fatto ai tempi del mito, ma stavolta per sempre!
   Mentre rimuginava su quanto stava accadendo, fu investito dall'immensa luce di un pianeta incandescente. Lo parò con lo scettro, ma la forza dei colpi nemici continuava a crescere e non gli era più così semplice annullarli. Il sangue divino di Calx si risvegliava di minuto in minuto e minacciava pesantemente la sua sete di vittoria.
   Riuscì a smorzare la potenza della tecnica nemica e la ridusse all'impotenza, tuttavia si avvide che sullo scettro erano comparse crepe e incrinature: anch'esso iniziava a risentire di quell'estenuante scontro.
   - Sono stanco di giocare con te, Cavaliere! -, sbottò d'un tratto il dio, avvolgendosi del suo cosmo oscuro. - Namlugal Ankik! -, gridò, lanciando la sua tecnica definitiva che assunse una nuova forma.
   Calx venne circondato da alte fiamme, mentre il terreno sotto i suoi piedi diventava sabbioso. Il Cavaliere iniziò ad affondare, ma avvertiva un gelo pungente agli arti; non solo, dalle fiamme si scatenò una tempesta di fulmini che bersagliò il ragazzo, ustionandogli le esigue parti del corpo lasciate scoperte dall'armatura.
   Il custode della terza casa strinse i denti, opponendo il proprio cosmo all'opprimente assalto della tecnica segreta del dio. Provava un dolore atroce e sentiva, da un lato, le carni sfrigolare sotto le sferzate di quelle saette; dall'altro, i piedi e le gambe perdevano progressivamente sensibilità e non lo aiutavano ad affrancarsi da quel giogo di morte decretato per lui.
   - Non posso morire adesso! Devo reagire! Devo farlo per Atena, per il Sommo Alexer e per i miei compagni! Non posso lasciarmi annientare a un passo dalla vittoria! L'umanità merita di vivere, non posso precluderle questa possibilità! -, pensò tra sé. Sollevò lo sguardo e vide Nergal corrucciato e insofferente. In quel colpo aveva riversato tutto l'odio e il rancore che covava nell'animo dai tempi del mito.
   Poteva avvertire il profondo disprezzo che provava per le umane genti e per la loro sacrilega arroganza, il desiderio ardente di rifondare l'universo e di immergerlo nell'eterno silenzio e nella quiete delle tenebre. Si sentì avvilito e sconcertato da quei sentimenti così oscuri e scevri di misericordia. Non poteva lasciarsi andare: doveva sconfiggere Nergal prima che il cosmo intero venisse derubato del calore della luce e della scintilla della vita.
   Chiuse gli occhi e si lasciò assorbire da una delle innumerevoli dimensioni che riusciva ad aprire grazie alle sue abilità cosmiche. Nel vederlo scomparire, il dio d'Irkalla gioì in cuor suo: pensava che la sua tecnica più potente avesse finalmente sortito l'effetto sperato. Quando di Calx non restò più nulla il colpo del nume si esaurì e nella stanza calò un silenzo surreale.
   Il volto di Nergal si distese e i suoi occhi puntarono al cielo: il destino aveva ripreso il suo corso originario e ora poteva realizzare un sogno che si portava dietro da lunghi secoli.
   - Se anche i Cavalieri vincessero gli ultimi due scontri, nessuno di loro potrebbe sconfiggermi. La vittoria è a un passo! Più nessuno ostacolerà la mia ascesa: né Erra, né il suo sedicente figlio! -, disse, col petto gonfio d'orgoglio e di speranza.
   Levò lo scettro verso l'alto e si preparò a ricostruire il marchingegno distrutto da Calx poco prima della battaglia. D'un tratto, però, esso esplose in mille pezzi, lasciando il dio oltremodo perplesso.
   - Cos'è successo?! -, disse fra sé. - Possibile che l'ultimo colpo del Cavaliere l'avesse danneggiato a tal punto? -, continuò, cercando una risposta a quell'inaspettato evento. Un dubbio gli fece capolino nel cuore: a ripensarci bene, Calx, che fino a quel momento aveva resistito con somma fierezza, era morto in modo troppo repentino. Forse la sete di vittoria lo aveva accecato a tal punto da non rendersi conto della verità?
   Tese i sensi per avvertire il più flebile afflato di cosmo, ma, a parte quelli dei Cavalieri impegnati ancora a combattere, non sentiva nulla. Sollevato da quella scoperta, alzò le mani verso il cielo e riprese la sua opera di ripristino del congegno che avrebbe spento per sempre la luce del Sole.
   La stanza tremò ancora: anche la sesta gemma era stata distrutta. Nergal non ci badò, era troppo preso dalla sua opera di rifondazione dell'universo. Non si accorse neppure del cosmo che gli appariva alle spalle e s'innalzava maestoso.
   - Un'ultima gemma e la velleità del tuo sogno ti diverrà palese! -, tuonò la voce di Calx, avvolto da un'aura cosmica imponente.
   Nergal abbassò lentamente le braccia e si voltò verso il ragazzo, guardandolo torvo. - Non sei morto, dunque. Eppure il tuo cosmo era svanito! -, commentò, con la voce rotta dalla collera.
   - Le dimensioni create da Gemini sono un rifugio insostituibile per sfuggire agli occhi del nemico, anche se si tratta di un dio! -, ironizzò il Cavaliere, formando con la destra un cerchio davanti a sé e richiamando la Kosmiké Sýnkrousis. I pianeti si avventarono sul dio roteando e avvicinandoi sempre di più. Il Signore d'Irkalla incrociò le braccia per parare il colpo, ma venne spinto indietro di parecchi metri. I bracciali della sua armatura si riempirono di crepe, da cui iniziarono a sgorgare gocce di linfa vitale.
   Ombre nere avvolsero i pianeti che entrarono in collisione e impedirono che l'esplosione si riversasse sul loro padrone. Nergal era in affanno: mai prima di allora aveva penato tanto in uno scontro. Si sentiva svuotato del suo privilegio di essere un nume; si sentiva defraudato del suo sogno di potere. - Che tu sia dannato, Cavaliere! La tua ostinazione a opporti a un dio è imperdonabile! -, sbottò, al colmo della frustrazione e della rabbia.
   Spiegò le ali e un cosmo nero come la pece oscurò il cielo terso. Un vento tagliente si abbatté su Calx e lo spinse verso il ciglio della stanza. Il ragazzo provò ad ancorarsi a una delle poche colonne rimaste in piedi, ma la potenza di quel soffio lo travolse e rischiò di cadere ai piedi della torre. Ancora una volta sparì tra le dimensioni e riapparve alle spalle del dio, incolume.
   Nel momento in cui il sole illuminò di nuovo l'orizzonte, l'ultima gemma fu ridotta in cenere. Nergal spalancò gli occhi: il ragazzo che ora aveva di fronte non era più un semplice umano, ma aveva risvegliato il cosmo di un dio. Lo percepiva: era immenso, puro, caldo, colmo di giustizia. Era il cosmo di Erra.
   - Siamo alla resa dei conti, Nergal! -, disse Calx, spogliandosi dell'armatura. Presentava una ferita alla spalla e un sottile squarcio sul torace, entrambe macchiate di sangue ormai rappreso. Il dio fu sorpreso da quella mossa. - Vorresti affrontarmi senza neppure l'ausilio della tua corazza? A tali vette giunge la tua alterigia? -, commentò sprezzante, livido e insofferente.
   - L'armatura di Gemini mi ha protetto dai tuoi colpi, ma ora è tempo che ritorni alle Dodici Case. Non voglio coinvolgerla nell'assalto finale! -, spiegò il giovane Gemini, sollevando il braccio sinistro e incassando il destro.
   - Eccoti la tecnica creata dal mio maestro e da me perfezionata: Galaxíou Aphánisis![6] -, a quelle parole, un enorme vortice dimensionale, circondato da una luce abbagliante, si aprì sulle loro teste. Nergal sentì le membra intorpidite e più tentava di muoversi, più restava immobilizzato.
   - Non riuscirai a liberarti! La forza di attrazione di tutte le dimensioni esistenti ti impedisce il più impercettibile movimento. Questa tecnica ha già sconfitto un dio che, al contrario di te, è destinato a ritornare e a combattere ancora contro i Cavalieri. Le tue tenebre, invece, si disperderanno nei remoti meandri delle dimensioni e verranno soppresse dalla luce che le investe! Il bagliore che vedi è l'essenza cosmica di tuo fratello: sarà esso a cancellare per sempre la tua oscurità! -
   - Forse ho sottovalutato sia te che la profezia, ma io sono un dio e una tecnica così banale non riuscirà a piegarmi! -, proruppe Nergal, che fece esplodere il suo cosmo per avere ragione di quell'invisibile prigione.
    Tuttavia, le tenebre sprigionate dal suo cosmo vennero risucchiate dal vortice e il potere del dio scemò di colpo. L'armatura che indossava cominciò a sbriciolarsi e anche le sue membra sembravano sciogliersi come neve al sole.
   - C-Che mi succede? -, disse, incredulo. -  I-Il mio corpo... si dissolve come misera polvere... -, proseguì, mentre la sua vita si disperdeva tra le pieghe delle dimensioni. - Alla fine... hai vinto! Ora puoi gioire del tuo trionfo... assieme ai tuoi compagni mortali! -, concluse, deluso e adirato contro il fato.
   - Non temere, Nergal, ti accompagnerò nel tuo ultimo viaggio! Sono costretto a chiudere il portale dall'interno, altrimenti il vortice dimensionale collasserà e finirà per spazzare via un intero continente! Ma una volta chiuso, non è più possibile tornare indietro. -, spiegò Calx, il volto sereno e pronto a incontrare la nera signora.
   Socchiuse gli occhi e, usando le sue capacità telepatiche, si congedò dai suoi amici: - Addio, nobili Cavalieri di Atena! Il destino che ci ha visti a lungo separati ci divide ancora una volta. Vi ringrazio per il sostegno e la fiducia che mi avete concesso in questa mia ultima battaglia: affido a voi la pace e la giustizia in nome di Atena! Un giorno ci rivedremo nel Paradiso dei Cavalieri! -
   Il vortice dimensionale emise un bagliore accecante che irradiò l'intera pianura. Quando la luce si estinse non vi era più traccia né di Calx, né di Nergal, né del suo palazzo. A testimonianza della cruenta battaglia era rimasta una piccola depressione nella sabbia.
   La battaglia era finita, ma nel cuore dei Cavalieri riuniti sotto i palmizi non c'era la gioia per la vittoria, bensì il lutto per la perdita di un amico.
 
[1] "Lamento di Irkalla".
[2] "Specchio del Destino".
[3] "Aurora Infernale".
[4] "Collisione Cosmica".
[5] "Dominio del Cielo e della Terra".
[6] "Estinzione della Galassia".

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Capitolo 30
*** Epilogo ***


CAPITOLO XXX
EPILOGO
 
   Il messaggio di Calx fu seguito da un bagliore accecante che gettò nello sconforto i compagni radunati sulla collinetta. Zosma cadde sulle ginocchia e cominciò a prendere a pugni la sabbia, versando amare lacrime. Sentiva un peso opprimente sul cuore: il loro ultimo incontro non era stato così amichevole, ma si era ripromesso di rimediare alla propria scortesia alla fine di quella insulsa guerra. Ora, però, non avrebbe più potuto farlo perché Calx non sarebbe ritornato.
   Vernalis gli si avvicinò e cercò di confortarlo: conosceva il rimorso e la sofferenza che si provano nel sentirsi impotenti di fronte alla morte di persone care. Aveva ancora davanti agli occhi i corpi straziati di Syrma e Yeng, caduti per salvarlo. Nel ripensare a loro, strinse la spalla al compagno.
   - Perché ha deciso d'immolarsi? Perché? Si è allenato tante volte per perfezionare quella tecnica e non è mai accaduto niente, perché allora è morto? -, chiedeva il custode della quinta casa, sfogando la rabbia che aveva in corpo per quella scomparsa inattesa.
   - Calx ha usato la forma più potente di quella tecnica. La luce che ci ha investiti all'apice dell'attacco era il cosmo di un dio. Se il nostro compagno non si fosse sacrificato, non soltanto noi, ma chissà quante migliaia di persone sarebbero state risucchiate da quello spaventoso vortice dimensionale. Ciascuno di noi avrebbe preferito rinunciare alla propria vita piuttosto che coinvolgere degli innocenti -, rispose il Cavaliere di Pisces, con tono cupo ma deciso.
   - Quanti altri Cavalieri dovranno morire a causa di quella tecnica? Non è giusto! -, commentò il Leone, chinando il capo e continuando a piangere.
   A Elnath sembrò quasi assurda quella sfuriata del compagno: tutto sommato, la morte è eterna compagna di un guerriero. Poi, però, si fermò un attimo a riflettere e si rese conto che forse non poteva esprimere giudizi sull'amicizia, dal momento che si era sempre tenuto in disparte e non aveva mai legato fino in fondo con nessun altro Cavaliere. L'unico con cui si era aperto un po' di più era stato Altager, ma di certo non la considerava una vera amicizia.
   - Torniamo al Grande Tempio! -, disse d'un tratto Vernalis, guardando Hamal. Il custode della prima casa annuì e invitò tutti i compagni ad avvicinarsi. Fece ardere il suo cosmo e, adoperando le abilità psicocinetiche che aveva acquisito nei lunghi anni di addestramento in Jamir, teletrasportò tutti sul piazzale antistante la casa del Montone Bianco.
   Vernalis ordinò ad Altager e a Sargas di accompagnare alle rispettive case Elnath e Nashira, che più di tutti avevano subito gli attacchi nemici. I due Cavalieri rifiutarono di andarsene:
   - Abbiamo degli amici da onorare! Non troveremo pace finché non avremo dato loro il nostro ultimo saluto! -, ribatté Nashira, che nello sguardo del compagno trovò piena approvazione.
   Il custode della dodicesima casa sorrise, orgoglioso del senso di unità e di appartenenza che legava i paladini della dea Atena. Annuì e chiese a tutti di attendere nella dimora di Hamal, mentr'egli si sarebbe recato dal Primo Ministro a fare rapporto. Il Cavaliere guadagnò rapidamente l'accesso segreto e iniziò la risalita delle Dodici Case.
***
   Nella sala del trono Kanaad passeggiava su e giù per la stanza: aveva avvertito i cosmi dei Cavalieri combattere e quello di Calx crescere oltremodo per poi svanire nel nulla. D'un tratto, sentì lo scricchiolio delle porte e volse lo sguardo: vide Vernalis con l'elmo sotto braccio raggiungere la base degli scalini. Li discese con una certa flemma, mentre il giovane guerriero gli porgeva un inchino.
   - Vengo a fare rapporto. -, disse, aspettando che il suo interlocutore gli concedesse di parlare. Kanaad fece un cenno con la mano e Vernalis iniziò il suo resoconto:
   - La battaglia è vinta. Nergal non tornerà mai più a minacciare la Terra: il suo corpo e la sua anima vagano tra le infinite dimensioni come granelli di cenere. Tuttavia, - proseguì, abbassando il capo, - la vittoria ha richiesto in sacrificio la vita di Calx! -
   Gli occhi del Primo Ministro si tinsero di una malinconica tristezza: quante perdite in quella scellerata guerra! Quante giovani vite spezzate dall'alterigia divina! Sentiva un dolore lancinante straziargli il cuore, ma evitò di mostrarlo a Vernalis.
   - Avete svolto un ottimo lavoro, Atena sarà fiera di voi! -, affermò, con tono ammirato e paterno. - Ora, però, ci spetta l'ingrato compito di seppellire i compagni caduti. Dove sono gli altri Cavalieri? -, continuò, appoggiando una mano sulla spalla del giovane Pisces.
   - Sono riuniti alla Casa dell'Ariete. -, rispose il ragazzo. Il Primo Ministro annuì; poi, chiamato un soldato, lo incaricò di riferire ai capi dei Cavalieri d'Argento e di Bronzo di riunire i loro sottoposti sul piazzale della prima casa. Il soldato fece un inchino e corse subito a svolgere il compito assegnatogli.
  Kanaad e Vernalis si avviarono verso la dimora di Hamal, discorrendo non solo di quanto era avvenuto, ma anche della prossima elezione del Grande Sacerdote. - Il ruolo che ti accingi a ricoprire non è semplice: prima dovrai ottenere la fiducia dei Cavalieri! -, disse il Primo Ministro. Il ragazzo gli rivolse uno sguardo incerto: era davvero pronto a rivestire la carica più importante del Santuario?
   - Alexer era un uomo potente e autorevole, ha saputo destreggiarsi tra intrighi politici e venti di guerra, eppure anch'egli aveva la tua stessa espressione quando Atena lo chiamò a questa responsabilità! -, esclamò l'anziano Cavaliere, con voce dolce e rassicurante.
   - Ma io non potrò mai eguagliare il Sommo Alexer! -, si oppose il ragazzo, provando un certo disagio. - Non sarò mai alla sua altezza! -, chiarì.
   Kanaad arrestò il passo e gli si parò davanti con piglio severo: - Nessun Sacerdote è identico al suo predecessore. In oltre due millenni, sul soglio sacerdotale si sono avvicendati molti guerrieri, spesso totalmente diversi tra loro. Tuttavia, ciò che li accomunava era l'amore per Atena e per l'umanità; e quell'amore lo possiedi anche tu! Sovente ti troverai a dover fare delle scelte difficili e l'incertezza verrà a visitarti per fiaccare la tua volontà, ma i compagni coi quali hai combattuto ti sosterranno per sempre. Non dimenticarlo mai, Vernalis! L'amicizia e la fiducia sono il fondamento dell'esercito di Atena: se possiedi questi due pilastri, nessuna schiera nemica potrà sopraffarti! -, affermò il vegliardo, riprendendo il cammino.
   Rincuorato da quell'esortazione, il Cavaliere seguì il Primo Ministro. In breve tempo, raggiunsero i piedi del Grande Tempio ed entrarono nella prima casa. Hamal e i compagni erano riuniti attorno al catafalco su cui giaceva il corpo di Sertan; parlavano a bassa voce e, quando videro le due figure avvicinarsi, tacquero del tutto.
   Quattro inservienti chiesero il permesso a Hamal di poter accedere alla sua casa: erano giunti a prelevare la salma del custode del quarto tempio per la sepoltura. Il giovane Ariete concesse loro il passaggio. Rapidamente quegli individui portarono dentro una sorta di lettiga; la deposero a terra e, con estrema delicatezza, vi adagiarono il corpo esanime di Sertan, avvolto in un candido sudario e cosparso di resine odorose.
   I quattro uomini uscirono dal tempio, facendosi largo tra i Cavalieri che attendevano sul piazzale. Dietro di loro si formò un lungo e silenzioso corteo, che lentamente raggiunse la collina dove riposavano gli eroi defunti.
   I Cavalieri videro un carretto tirato da un asino da cui un marmista di Rodorio stava tirando giù due lapidi aiutato dal suo apprendista. La prima su cui appariva a chiare lettere il nome del custode delle vestigia del Cancro venne piantata davanti a una fossa; l'altra, invece, venne semplicemente conficcata accanto alla prima: su di essa era inciso il nome di Calx.
   Gli inservienti si fermarono accanto alla fossa, vi fecero scivolare delicatamente dentro il corpo di Sertan e si allontanarono. Kanaad si pose tra le due lapidi e, guardando gli astanti, fu colto da una profonda tristezza. Tuttavia, il suo ruolo gli imponeva di mantenere il controllo e di non lasciarsi soverchiare dai sentimenti.
   Si schiarì la voce e iniziò la cerimonia funebre che tanto gli dava dolore: - Oggi dovrebbe essere un giorno di gioia, perché il nemico che abbiamo combattuto per lunghi anni è stato finalmente sconfitto; ma il nostro cuore non può abbandonarsi al giubilo perché è gravato dalla perdita di cari compagni e dalla scomparsa del Sommo Alexer. Grazie al loro sacrificio l'umanità può ancora sopravvivere e continuare a sperare in un domani migliore. Onoriamo i nostri fratelli portando avanti il loro ideale di pace e di giustizia e combattendo in nome di Atena! -, affermò con tono risoluto, anche se talvolta tradiva un certo disagio.
   Terminato il discorso di commiato, gli inservienti chiusero la fossa e la folla si disperse in piccoli gruppi. Kanaad e gli inservienti raggiunsero, poi, la tredicesima casa, dove ancora giaceva il cadavere del Sommo Sacerdote: la tradizione prevedeva un funerale privato e la sepoltura nel Cimitero dei Pontefici situato sull'Altura delle Stelle.
   Lo sparuto corteo prese la galleria di Faramund e, in breve, raggiunse la cima del monte. In fondo al lungo corridoio del tempio scavato nella roccia, in un andito poco illuminato dalle torce, si apriva un alto portone. Il gruppetto vi entrò e si ritrovò in una stanza assai ampia, divisa da pareti in cui erano incassate delle necchie, perlopiù vuote, che creavano vari corridoi.
   Giunti quasi a metà della sala, Kanaad e il suo seguito svoltarono in un ambulacro su cui si affacciavano decine di loculi aperti, tranne uno, posto alla fine della parete destra: là riposavano le spoglie del Sommo Garlef. Accanto alla tomba del precedente vicario di Atena era appoggiata una lapide. Gli inservienti posizionarono il corpo di Alexer nella nicchia posta sopra quella di Garlef; poi presero la lapide e chiusero il loculo, sigillandolo col gesso.
   Una volta terminato il loro ufficio, Kanaad gli ordinò di andare via: essi, fatto un inchino e presa sotto braccio la lettiga, si allontanarono rapidamente. Il Primo Ministro, che fino a quel momento aveva trattenuto le lacrime e il dolore che gli lacerava l'anima, scoppiò in un pianto liberatorio, accarezzando più volte il marmo splendente della lastra.
   - Sei andato via anche tu! Del poderoso esercito che affrontò Ade non resto che io, un vecchio guerriero fiaccato dagli anni trascorsi a Taprobane! Se solo ti fossi stato più vicino! Se solo avessi scelto di rimanere al Grande Tempio, forse... -, sbottò, arrestando repentinamente la frase.
   - Ormai è inutile rimuginare sul passato! Me l'hai insegnato proprio tu: un Cavaliere non ha rimpianti! Ti prometto, amico mio, che finché avrò un alito di vita affiancherò il tuo successore e gli trasmetterò i valori che da sempre contraddistinguono i paladini della dea Atena! E presto raggiungerò te, i nostri compagni e i discepoli che questo conflitto ha trascinato nell'oblio, nella quiete del Paradiso dei Cavalieri! Arrivederci, amico mio, spero di non dover attendere molto il nostro incontro! -, riprese. Carezzò un'ultima volta la lapide vergata con lettere d'oro e lasciò la stanza, assumendo di nuovo il suo piglio severo. Uscito all'aria aperta, si accorse che il sole moriva all'orizzonte tingendo il cielo di tenui sfumature di rosso.
***
   Dopo i funerali, i Cavalieri cercarono di riprendere la loro quotidianità: Vernalis passava molto tempo col Primo Ministro in vista dell'elezione a Sommo Pontefice; Elnath e Nashira furono costretti al riposo, ma ricevevano spesso la visita rispettivamente di Altager e Sargas; Hamal si era rintanato nel suo palazzo a riparare armature: quando giunse il momento di riportare all'antico splendore quella di Gemini, il suo volto, dapprima corrucciato, si rasserenò.
   Zosma aveva chiesto e ottenuto di tornare ad addestrare le nuove leve: era un modo per distogliere l'attenzione dal dolore per la perdita del compagno. Lo si vedeva percorrere il campo d'addestramento, le mani dietro la schiena e gli occhi puntati sugli aspiranti Cavalieri, ora rimproverare, ora esortare, ora correggere. Fu così che lo trovò Hamal un giorno che venne a fargli visita. Zosma lo scorse da lontano e, a passo lento, lo raggiunse.
   - Cosa ci fai da queste parti? Credevo stessi riparando le armature! -, lo apostrofò, con tono serio e quasi annoiato.
   Il custode della prima casa sorrise e, con voce garbata, spiegò il motivo di quella visita: - Sono venuto a chiarirti un dubbio. -
   - Un dubbio? Che vuoi dire? -, chiese il giovane Leone, incuriosito dalle parole del compagno. Poi, gettando lo sguardo sul campo d'addestramento, vide un ragazzino provare a frantumare un enorme ammasso di roccia, ma senza risultati. Scosse il capo contrariato e farfugliò tra i denti una frase incomprensibile.
   - Ricordi cosa dicesti sulla collinetta quando ti avvedesti che Calx non sarebbe più tornato? -, domandò Hamal, riportandolo alla conversazione che avevano intavolato.
   A quella domanda il volto di Zosma s'incupì: stava facendo di tutto per mettere a tacere il rimorso che lo attanagliava e ora il parigrado rivangava un discorso che avrebbe voluto dimenticare.
   Hamal si accorse del disagio che il suo quesito aveva riversato sul compagno e, per evitargli ulteriore imbarazzo, palesò senza indugio il suo pensiero: - Perdonami se ho turbato il tuo cuore, ma volevo rassicurarti che la tecnica finale usata da Calx non potrà mai più essere riprodotta -.
   La notizia che aveva appena ottenuto diede un barlume di speranza al giovane Leone: - Cosa? -, riuscì soltanto a dire. Fissò gli occhi del compagno con aria implorante: desiderava sapere come avesse fatto a scoprirlo.
   - Quando ho riparato l'armatura di Gemini, mi sono unito alla sua memoria attraverso la telecinesi, ma di quella tecnica non vi è alcuna traccia. Ciò significa che Calx non l'ha mai adoperata mentre indossava l'armatura. -, chiarì Hamal.
   Una parte del fardello che opprimeva Zosma si alleggerì: ringraziò il compagno per la novella che gli aveva riferito e tornò sul campo d'addestramento con rinnovato vigore.
***
   Il 5 di ottobre Kanaad riunì alla tredicesima casa i dorati custodi, Mothalla di Triangulum, capo dei Cavalieri d'Argento, e Kargadan di Monocerus, che aveva assunto il comando dei Cavalieri di Bronzo dopo la dipartita di Laurion.
   I paladini di Atena giunsero nella sala del trono e trovarono degli scranni disposti di fronte al soglio, su cui erano poggiati la veste sacerdotale ripiegata e l'elmo che soleva cingere il capo di Alexer. I Cavalieri presero posto, aspettando l'ingresso del Primo Ministro.
   Kargadan scorse il giovane Scorpio tra i Cavalieri d'Oro e gli si avvicinò con molta deferenza: - Posso parlarvi, nobile Sargas? -, gli chiese, invitandolo ad appartarsi per poter conversare in santa pace.
   Il ragazzo, incuriosito dalla richiesta del compagno, lo seguì in un angolo della stanza. L'Unicorno era in forte imbarazzo e non sapeva come rivolgersi a uno dei guerrieri più potenti del Santuario; tuttavia, doveva parlargli con urgenza prima dell'arrivo di Kanaad.
   Sargas notò la sua ritrosia e provò a metterlo a suo agio: - Dimmi cosa ti turba, Kargadan, non avere timore! Combattiamo entrambi in nome della giustizia, non devi sentirti a disagio! -
   Il capo della casta più bassa dell'esercito di Atena fece un profondo respiro e iniziò a parlare: - I Cavalieri di Bronzo non sono del tutto convinti dell'elezione del nobile Vernalis a Sommo Sacerdote -.
   - E perché mai? -, chiese Scorpio, stupito da quella rivelazione.
   - Molti pensano che il nobile Vernalis non sia adatto al ruolo di pontefice perché ha lasciato morire il prode Laurion senza offrirgli il suo aiuto. Durante la battaglia di Rodorio si allontanò portandovi in braccio svenuto e addossò l'onere dello scontro al Cavaliere di Leo Minor. Ma siccome ai Cavalieri di Bronzo non sempre i fatti sono chiari, mi hanno incaricato di appurare la verità prima di appoggiare l'elezione del nuovo Sacerdote. E chi più di voi che siete stato suo discepolo può illuminarmi su una questione così importante? -, spiegò Kargadan, parlando con tono gentile e ossequioso.
   Il custode dell'ottava casa ascoltò con attenzione il discorso del Cavaliere e, per un attimo, provò un profondo fastidio nel sentire opinioni così poco lusinghiere sulla condotta del suo maestro; poi, fissando il suo interlocutore, si apprestò a scioglierne i dubbi:
   - I Cavalieri di Bronzo si sbagliano: il nobile Vernalis si offrì di combattere al posto di Laurion, ma egli non volle farsi da parte. Già una volta, nei pressi di Edessa, era stato costretto a cedere il passo a Syrma di Virgo e non voleva saperne di abbandonare il campo di battaglia. Il suo orgoglio di Cavaliere lo spingeva a sconfiggere i nemici che avevano ucciso Midra di Equuleus e Jorkell di Aquarius, i suoi più cari amici. Il mio maestro aveva compreso il suo desiderio di rivalsa contro un destino che lo aveva relegato al ruolo di Cavaliere di Bronzo, il rango più basso dell'esercito di Atena; per questo non fece appello alla sua autorità di custode dorato e lo lasciò combattere. Non furono codardia o paura a fargli fare un passo indietro, ma il rispetto e la fiducia che aveva nei confronti del compagno! -.
   Il Cavaliere di Monocerus lesse nelle parole di Scorpio una sincerità che lo convinse senza ulteriore indugio. Lo ringraziò, porgendogli un breve inchino, proprio mentre il Primo Ministro e Vernalis apparivano dalle stanze alle spalle del trono.
   I due guerrieri tornarono al loro posto. Anche Vernalis, con indosso l'armatura di Pisces, si accomodò sull'ultimo scranno libero rimasto. Kanaad osservò i volti degli astanti e, con tono paterno, iniziò a parlare:
   - Benvenuti, Cavalieri. Vi ho convocati qui perché la legge del Grande Tempio prescrive che i dorati custodi e i rappresentanti dei Cavalieri d'Argento e di Bronzo confermino o invalidino la scelta del nuovo Sacerdote operata dal Sommo Alexer. La tradizione vuole che sia il Cavaliere sotto la cui costellazione ricade il giorno della cerimonia d'elezione a presiederla, ma il prode Yeng di Libra, purtroppo, ci ha lasciati nel corso della guerra contro Nergal. Pertanto, spetta a me, in quanto Primo Ministro, presenziare questa riunione.
   Il Sommo Alexer ha scelto come proprio successore Vernalis di Pisces: qualora non si raggiungesse la maggioranza, si aprirebbe un periodo d'interregno fino alla proclamazione di un nuovo Sacerdote. In oltre venti secoli, il Santuario di Atena non ha mai dovuto applicare l'interregno, ma ha sempre scelto un giovane Cavaliere d'Oro che lo guidasse alla futura generazione. Ora chiederò a ciascuno di voi di esprimere il proprio appoggio o la propria opposizione all'elezione di Vernalis. Hamal? -
   Il custode della prima casa si alzò ed espresse il suo voto: - Approvo la scelta del Sommo Alexer e ritengo Vernalis il miglior candidato a ricoprire la massima carica del Grande Tempio -.
   - Elnath? -
   - Anch'io appoggio l'elezione di Vernalis -, rispose con poche parole il possente Toro.
   - Zosma?
   - Non ho nulla da opporre alla decisione del Sommo Alexer -, affermò con tono deciso l'impetuoso Leone.
   - Sargas? -
   - Vernalis è stato uno dei miei maestri e sono onorato di servire sotto il suo comando! -, disse il giovane Scorpione.
   - Nashira? -
   - Il Cavaliere di Pisces è un grande condottiero e sono certo sarà anche un eccellente Sacerdote! -, proferì con tono serioso il custode di Excalibur.
   - Altager?
   - Approvo in pieno l'elezione di Vernalis -, pronunciò con voce calma il padrone delle energie fredde.
   - Molto bene, - riprese Kanaad, - ora è il turno dei rappresentanti delle altre due caste. Mothalla? -
   - A nome dei Cavalieri d'Argento appoggio l'elezione del Cavaliere di Pisces! -, dichiarò il Cavaliere di Triangulum.
   - E tu, Kargadan? -
   Il neoeletto comandante dei Cavalieri di Bronzo si alzò e, tutto d'un fiato, proclamò: - Anche i Cavalieri di Bronzo hanno deciso di appoggiare l'elezione di Vernalis! -
   Ascoltate tutte le votazioni, il Primo Ministro invitò Vernalis ad alzarsi e ad avvicinarsi. Toccò con la destra la parte centrale del pettorale e l'armatura si staccò dal corpo del guerriero e si ricompose a totem a qualche passo da loro.
   Poi risalì gli scalini che conducevano al trono, prese la veste e l'elmo, ridiscese rapidamente e chiese a Vernalis di chinarsi. Il Cavaliere obbedì e Kanaad lo aiutò ad infilare l'abito sacerdotale, dicendo: - Da oggi tu non sei più Vernalis di Pisces, ma il Sommo Vernalis, sacerdote di Atena e suo vicario sulla Terra. Tuo dovere sarà far trionfare la pace e l'amore in questo mondo in nome della nostra dea. Provvederai a cercare e ad addestrare un Cavaliere che possa indossare l'armatura dei Pesci e presidiare la dodicesima casa -.
   Prese l'elmo e lo fece scivolare sul capo del ragazzo: - Quest'elmo ti proteggerà dalle influenze esterne e sarà il segno della tua autorità non solo per il Grande Tempio, ma anche per tutti gli uomini! -, disse, spiegando il significato di quei paramenti.
   I Cavalieri presenti si alzarono e s'inchinarono di fronte al nuovo pontefice. Vernalis aveva lo stomaco in subbuglio, si sentiva investito da un peso schiacciante, ma la presenza del Primo Ministro gli infondeva un barlume di calma.
   Kanaad lo condusse sul balcone: ai piedi del colle c'erano gli abitanti del Santuario e di Rodorio ad attendere la sua apparizione. Quando lo videro si levarono alte grida di giubilo e applausi scroscianti. - Vi presento il nuovo Sacerdote di Atena, il Sommo Vernalis! -, proclamò il Primo Ministro, eccitando gli animi allegri della popolazione. 
***
   Intanto, lontano dalla dimora di Atena, i rapporti fra l'impero bizantino e il sultano turco cominciavano a deteriorarsi irreparabilmente. Romano, incurante del patto che il suo predecessore aveva stipulato con Alp Arslan, continuava a inviare soldati sui confini per mettere in atto scorrerie nei territori turchi. Voleva dimostrare, in questo modo, la sua legittimità a sedere sul trono imperiale, titolo contestatogli non solo da alcuni membri della corte che appoggiavano la dinastia Ducas, cui apparteneva il suo predecessore, ma anche dai Ducas stessi. Il sultano era riuscito in parte ad appianare le divergenze per evitare lo scontro armato, ma la tregua fu di breve durata.
   L'occasione di riscatto per la dinastia Ducas giunse con la ripresa delle ostilità: Romano conquistò Manzicerta e il sultano fu costretto a imbracciare le armi; la battaglia durò tutto il giorno senza che nessuno dei due eserciti prevalesse, finché Andronico Ducas, seminando false notizie sul campo, fece arretrare parte dell'esercito concedendo, in tal modo, ad Alp Arslan la vittoria. Era il 26 agosto del 1071 e Romano fu catturato e condotto al cospetto del sultano: fu trattato da sovrano, ma l'orgoglio e la presunzione che lo consumavano non resero facili le trattative.
   L'imperatrice Eudocia, temendo il colpo di mano dei Ducas, inviò una delegazione al Grande Tempio per chiedere l'intervento di Vernalis. Il Sacerdote approfittò delle lotte interne alla corte imperiale per avanzare una richiesta che a lungo ad Alexer era stata negata: sarebbe intervenuto solo se la stipula di Atene fosse stata revocata.
   A malincuore la regina accettò. Prima di recarsi dal sultano, Vernalis si fermò a Bisanzio, dove fu redatto l'atto di revoca firmato dall'imperatrice e dal figlio. Ottenuto ciò che voleva, l'ex Cavaliere di Pisces si presentò alla corte di Arslan.
   Il sultano lo ricevette con grandi onori e lo invitò a mediare nelle ostiche trattative che da quasi una settimana intratteneva con l'imperatore. Con grande lucidità il giovane successore di Alexer riuscì a vincere la riottosità di Romano ad accondiscendere alle offerte di Arslan. Il giorno successivo l'imperatore fu liberato e poté tornare in patria accompagnato da Vernalis. Tuttavia, la situazione a Bisanzio era mutata: Romano non era più imperatore e venne esiliato dai Ducas.
   Disgustato dalle beghe di palazzo e dai giochi politici, ora che finalmente la stipula di Atene non aveva più valore alcuno, Vernalis allontanò progressivamente il Santuario di Atena dal mondo esterno. Col tempo la memoria dei Cavalieri e della dimora di Atena svanì dalla mente dell'umanità: solo i potenti ne conoscevano l'esistenza, ma ormai non sapevano più come trovarli. Tuttavia, ancora oggi, nascosti all'ombra della storia, i paladini della dea della giustizia continuano a difendere l'umanità dalle forze del male.     

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