La ragazza dei gelsomini

di MercuryGirl93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Gelsomino ***
Capitolo 2: *** II Lavanda ***
Capitolo 3: *** III Girasole ***
Capitolo 4: *** IV Azalea ***
Capitolo 5: *** V Fiordaliso ***
Capitolo 6: *** VI Margherita ***
Capitolo 7: *** VII Tulipano ***
Capitolo 8: *** VIII Orchidea ***
Capitolo 9: *** IX Rododendro ***
Capitolo 10: *** X Papavero ***
Capitolo 11: *** XI Ortensia ***
Capitolo 12: *** XII Violetta ***
Capitolo 13: *** XIII Fresia ***
Capitolo 14: *** XIV Anemone ***
Capitolo 15: *** XV Magnolia ***
Capitolo 16: *** XVI Bocca di Leone ***
Capitolo 17: *** XVII Gardenia ***
Capitolo 18: *** XVIII Bucaneve ***
Capitolo 19: *** XIX Garofano ***
Capitolo 20: *** XX Peonia ***



Capitolo 1
*** I Gelsomino ***


I Gelsomino
 
 Esisteva una volta Kitza, la madre di tutte le stelle, che nel suo palazzo di nuvole era intenta a preparare abiti d'oro per tutti i suoi figli astri quando improvvisamente si presentarono davanti a lei un gruppo di stelline che protestavano perchè, secondo loro, le loro vesti non erano sufficientemente belle. La madre cercò di rabbonirle e le pregava di non fare troppo chiasso e di non farle perdere tempo perchè doveva ancora vestire tutti gli altri astri. Ma le stelline non l'ascoltavano e continuavano a lamentarsi. A quel punto passò da quelle parti Micar, il re degli spazi che, dopo aver saputo il motivo per il quale le stelline facevano tanto rumore, si indignò a tal punto che le cacciò dal firmamento strappandole di dosso gli abiti che avevano e scagliandole nella terra in mezzo al fango. Kitza, profondamente addolorata di quanto era accaduto era inconsolabile perchè pensava che le sue stelline sarebbero state in quel modo calpestate ed umiliate dagli uomini. Ma la signora dei giardini Bersto ebbe pietà della povera madre e decise di trasformare le stelline in fiori profumatissimi. Nacquero così i gelsomini. *
 
 
Passeggiava con le mani dentro le tasche dei jeans sulla strada verso casa: dieci minuti di strada a partire dal Bangladesh, un localetto che dava direttamente sul mare, dove Federico e i suoi amici si riunivano per bere birra nelle calde serate estive.
Erano le due passate, ma la strada era sicura anche a quell’ora in quella località balneare dove sorgevano prevalentemente piccoli alberghi, negozietti e villette con il prato all’inglese. L’unica impresa che poteva rivelarsi ardua per il ragazzo era arrivare in camera sua alla chetichella, senza farsi sentire dalla madre. Federico già se la figurava in piedi, in fondo al corridoio, con la sua inconfondibile camicia da notte a fiori azzurri, mentre gli chiedeva con curiosità “Eri con una ragazza?”. Del resto, la curiosità di sua madre non era altro che un modo per costruire un ponte verso il figlio, che sentiva lontano ormai da troppo tempo.
Federico sapeva che le intenzioni erano buone, ma meno informazioni elargiva relativamente alla sua vita, più si sentiva sereno con sé stesso e con il mondo. Forse, perché il mondo lo teneva lontano. Una strategia come un’altra per tirarsi avanti in un momento della sua vita in cui tutto appariva strano, complicato, difficile.
Mentre pensava alla strategia più opportuna da adottare per non farsi sentire mentre rientrava, il portoncino di casa si faceva sempre più vicino. La proprietà della famiglia Visconti, alla fine della strada acciottolata, era unica, inconfondibile tra tutte le altre villette: a chiunque venisse dalla strada, la visuale sul piccolo giardino era resa impossibile da un’enorme pianta di gelsomino, che cresceva rigogliosa arrampicandosi sul cancello in ferro. I piccoli fiorellini bianchi erano a migliaia e impregnavano l’aria di un profumo delizioso. E, tra sguardi meravigliati e curiosi, la casa venne soprannominata Villa dei gelsomini.
Era stato il nonno di Federico a piantare quel cespuglio, quando aveva più o meno la sua età; quella pianta, nel corso del tempo, era diventata parte integrante della casa, come un arredo raro da trovare.
Quando finalmente Federico giunse davanti al portoncino, scorse una figura sconosciuta, appollaiata sotto l’ormai ingestibile cespuglio.
Vista l’ora e la totale assenza di passanti, la mano gli corse lesta verso il cellulare, pronto a chiamare la polizia per cacciare via quel ladro che tentava di entrare in casa sua… Ma i ladri, abitualmente, non rubano mazzetti di gelsomino, no?
Quando realizzò che il pericolo era tutt’altro che vicino, si sentì più tranquillo, e il sospetto che aveva inizialmente nutrito si trasformò in sincera curiosità.
-Che stai facendo?
-Oddio!
Un gridolino spaventato, una voce così dolce e vivace da sembrare quella di una bambina. Aveva anche le sembianze di una bambina, si disse Federico, una volta realizzato quanto fosse minuta e bassina.
Un paio di grandi occhi verdi lo fissarono con sorpresa: -Mi hai spaventata- sussurrò questa volta la piccoletta, sollevando le folte sopracciglia chiare. Stringeva in una mano una decina di piccoli fiorellini bianchi, mentre con l’altra ne coglieva altri.
-Cosa stai facendo?
La ragazza gli agitò il mazzetto sotto gli occhi, sbuffando. –Non si vede?
La cosa buffa era che non aveva interrotto la sua attività, neanche quando lui l’aveva spaventata con la sua presenza. Aveva continuato a cogliere fiori come se nulla fosse.
-Nessuno ti ha insegnato a non rispondere con un’altra domanda? - sorrise.
-Qualcuno deve avermelo detto, ma di rado faccio quello che mi dicono gli altri.
Federico si appollaiò accanto a lei, perché si sentiva sinceramente affascinato da quella scena così surreale: una ragazza che gli rubava i fiori nel cuore della notte e che, nonostante fosse stata colta in flagrante, non si sentiva in torto o in colpa, al contrario era così sicura di poter proseguire nel misfatto da rifilare risposte sarcastiche. Si sentiva stranamente ammaliato.
Colse un fiore e glielo porse: -A cosa ti servono?
Nel farlo, si sporse leggermente in avanti, nel tentativo di osservarle meglio il viso nascosto dall’ombra della pianta.
-Non lo so ancora – fece lei - magari li faccio diventare secchi e ci faccio un collage carino, o li metto in un barattolo così posso sentirne il profumo anche in camera mia. Insomma, sono piuttosto creativa, mi verrà in mente qualcosa.
-Forse l’idea del barattolo non è granché – disse lui, ricordando quando sua madre aveva provato lo stesso esperimento: il barattolo dopo giorni emanava un fetore indescrivibile, come se il contenuto fosse totalmente pregno di muffa.
Lei sbuffò, come se la risposta di lui le avesse arrecato una gran noia. Lui la trovò adorabile.
- Evidentemente non ti piace essere creativo.
- Non credo che ai proprietari farà piacere che tu prenda tutti questi fiori- proseguì lui, ma gli porse ugualmente un altro paio di boccioli bianchi.
Ormai gli era perfettamente chiaro che lei non avesse idea che lui stesso abitasse quella casa. Maturata questa consapevolezza, che cosa aveva da perdere? Tanto valeva prendere un po’ in giro quella ragazzetta buffa.
La piccoletta fece una risatina soffocata, probabilmente nel timore di farsi sentire da qualcuno dentro casa. Suonò dolcissima anche questa volta, alle orecchie di lui. –Sciocchezze, non se ne accorgeranno.
-E perché mai? – la incalzò curioso.
-Perché lo fanno tutti, da sempre- disse lei, avvicinando il naso a patata ai boccioli per sentirne l’odore. -La gente passa e strappa due o tre fiorellini, non se ne accorgono mai. Ai bambini piacciono, agli anziani piacciono, piacciono a tutti.
Federico aggrottò le sopracciglia: non se n’era mai accorto, ma avrebbe dovuto immaginarlo.
-Capirai, - proseguì lei, la mano ormai piena di fiori - non possono mica contarli ogni giorno e quindi sapere se ne manca qualcuno.
Fu così sinceramente conquistato dalla verità delle sue parole, che scoppiò a ridere, così forte che lei balzò in piedi. -Hai ragione- annuì lui, rimettendosi in piedi, dietro lei.
Alla luce del lampione, i tratti del viso di lei erano molto più chiari: aveva una spruzzata di lentiggini sulle guance piene, il naso a patata sproporzionato su di un viso tondo. Non era bella, né brutta, sentenziò il ragazzo alla fine, ma aveva qualcosa di così curioso e unico che la trovava quasi ipnotica.
-Ma sei matto? – borbottò lei, tirandolo per un braccio – Così ci sentiranno sicuro.
Lo trattò quasi come un complice della marachella, mentre si lasciava andare ad un gesto che aveva una grande confidenzialità: la stretta di lei era decisa ma debole, le mani gelide, le dita lunghe. Federico si ritrovò – stranamente – perfettamente a suo agio davanti quella buffa sconosciuta ladra.
Lei si incamminò a grandi falcate nella stradina acciottolata. Lui, dal canto suo, si sentiva così curiosamente colpito da quella situazione che si scoprì a seguirla, con una sincera curiosità nel cuore.
-Oltretutto non capisco perché non potino questa benedetta pianta, di tanto in tanto non farebbe poi male. Probabilmente sono troppo pigri per sprecare le loro energie a prendere un paio di cesoie in mano, oppure degli sciattoni che non si curano di niente- borbottava lei, mentre si rigirava i fiori tra le mani, quasi come se sapesse già che Federico le sarebbe andato dietro.
Aveva i corti capelli rossastri dietro le orecchie elfiche, e si muoveva con una sicurezza disarmante, come se sapesse perfettamente l’effetto ipnotico che sortiva nelle persone.
-Penso che ne darò una parte al nonno: piace anche a lui avere il profumo di gelsomino in camera.
Sembrava che stesse parlando più con sé stessa che con lui, ma Federico rispose comunque, con un sorriso in viso, continuando a seguirla: -Non dargliene troppi, altrimenti non puoi usarli per le tue idee creative.
-Con il nonno posso condividere tutto- sentenziò severa. Questa volta sembrò essersi stufata di lui ed allungò il passo, anche se le gambe troppo corte non le consentivano di seminarlo troppo facilmente.
Federico si sentiva in un sogno buffo e stranissimo, ma non poteva porre fine alla cosa in quel modo. -Dove stai andando?
Gli rispose senza girarsi: -A rubare le peonie alla signora Averna.
-La signora Averna non coltiva peonie, che io sappia- disse lui, e la raggiunse con due rapide falcate.
-Infatti, era una battuta- ribattè, senza guardarlo; evidentemente l’attrazione che lui sentiva per lei, non era affatto ricambiata. –Ovviamente sto andando a casa. Cosa pensi, che me ne vada in giro tutta la notte a rubare fiori di casa in casa?
Federico, per la prima volta, si indispettì per la risposta stizzita che lei gli aveva riservato. –Se credi che io pensi questo è perché sai di avermi dato una brutta impressione.
Lei finalmente lo guardò, senza smettere di camminare. Quei grandi occhi verdi lo studiarono con rinnovato interesse, come se si stesse accorgendo del suo interlocutore solo in quel momento.
-Beh, alla fine ho preso un po’ di gelsomino a delle persone che non se ne fanno nulla, non è un dramma. Tu, piuttosto, perché mi vieni dietro? Sei mica un maniaco?
-Di solito i maniaci come ti rispondono a questa domanda?
Lei lo guardò senza rispondere.
-Ti accompagno, non dovresti andare in giro da sola. – concluse lui, quando lo sguardo inquisitorio di lei si fece troppo. Di certo, non poteva rivelare alla sconosciuta folletto dei boschi che aveva acceso in lui una curiosità così ciecamente folle da spingerlo a seguirla.
-E perché mai? – fece lei.
-Perché sono un gentiluomo e a quest’ora non dovresti camminare da sola – mentì lui.
Le labbra di lei si piegarono in un ghigno. –Capirai, il massimo che può accadermi da queste parti è essere attaccata da una falena.
-Possono essere letali.
-Vuoi fare il disinfestatore?
-In realtà non è tra le mie aspirazioni.
Un dolce risata nel silenzio della notte. Dolce, delicata, da riascoltare cento volte.
-Mi piaci – fece lei. -Mi sembri il complice giusto per le mie marachelle notturne.
Federico si compiacque delle parole di lei. –Dove stai?
-Non è tanta strada, due minuti e sono arrivata.
-Mi ci vorrà meno tempo per tornare indietro.
Girarono per un’altra stradina, ancora più acciottolata. Le pietre scricchiolavano sotto il peso dei loro passi. I lampioni non erano sufficienti a combattere l’oscurità della notte. Se non altro, si poteva ammirare meglio il manto di stelle.
-Abito nella villetta qui in fondo- indicò lei. –Siamo io e il nonno in una casa forse troppo grande, ma stiamo bene. Litighiamo solo per il vino, ne va matto ed io so che gli fa male. Un settantenne che beve tre litri al giorno non si può, ti pare?
Lui fece spallucce. –Se gli piace.
-Io dico che non deve e basta, ma non mi ascolta- sbuffò lei. –A mia zia invece non importa niente se beve troppo, le poche volte che viene a casa con quello zotico di suo marito è per chiedere soldi al nonno. Appena ottenuti, se ne vanno, senza nemmeno degnarsi di chiedergli come sta, se di tanto in tanto ha bisogno di aiuto, o se i soldi per arrivare a fine mese a lui bastavano. Niente, eppure è sua figlia, no? Io non ho parole davanti a tanta ingratitudine.
Federico rimase zitto, bombardato da una serie di informazioni che gli arrivavano addosso così, come un fiume in piena, senza apparente ragione. E se la ragione c’era, la conosceva solo lei, quel folletto dalla lingua lunga.
La sincera spontaneità di lei era disarmante per lui.
-Sono arrivata- dichiarò lei, alla fine di una serie di chiacchiere, arrivati davanti un grande cancello arrugginito. La casa non si distingueva con il buio, non c’era neanche una luce ad illuminare la porta d’ingresso.
Federico decise di non farle domande, anche se avrebbe voluto. –Bene.
-A proposito, io sono Emma.
Le strinse la mano piccola, ora leggermente sudata. –Sono lo sciattone non curante di nulla, o forse il pigrone nullafacente –devo ancora capirlo questo- che abita nella casa con la pianta di gelsomino. Puoi chiamarmi Federico, se vuoi.
Emma ritirò subito la mano, spalancando gli occhioni verdi. Lui si sentì compiaciuto per l’espressione di lei, per averla stupita. – Questo è davvero imbarazzante- sibilò, guardando la mano con cui stringeva il mazzetto di fiorellini.
-Più per te che per me.
-Emh… mi sa che questa sarà la prima e l’ultima volta che ci incontriamo. Piacere di averti conosciuto, Federico, spero di non incontrarti mai più.
Federico rise. –Ma dai? Per un po’ di fiorellini?
-Mi dispiace, non volevo rubarli.
-Fa niente, tanto li rubano tutti. E poi mi sembri tutto, fuorché dispiaciuta, posso dirlo?  
Lei questa volta fece un sorriso pieno, sincero. -Già, non lo sono per niente in realtà, vale quello che ho detto poco fa.
-E allora va bene. Sono felice di contribuire alla coltivazione di una mente creativa.
Emma rise. –Bene, allora… ciao?
-Ciao, ci si vede in giro.
O, almeno, lui se lo augurava.  
 –Forse – disse lei, questa volta più diffidente, probabilmente chiedendosi perché mai quello sconosciuto a cui aveva rubato i fiori dal giardino volesse rivederla.
Buffo come il suo stato d’animo, le sue emozioni cambiassero così velocemente, in un’altalena che va su e giù, sempre più in alto, sempre più in basso, senza mai fermarsi.
Si allontanò, aprendo il portone cigolante e sparendo nel buio di quel giardino misterioso.
Erano le tre e dieci quando Federico aprì la porta della sua stanza.
-Eri con una ragazza? - chiese sua madre in un bisbiglio, dal fondo del corridoio.
 
Tre tonfi.  
-Alzati pigrone! - gridò Albertina sbattendo il pugnetto sulla porta altre tre volte. –La mamma dice che essere rientrato tardi non ti autorizza a dormire fino all’ora di pranzo.
–Sparisci mostriciattolo! - borbottò da sotto le coperte, sperando che quel soldatino devoto a sua madre filasse via.
Si alzò a fatica, arrancando nel buio della camera da letto, e scostò le tende: la luce solare lo investì con forza, facendogli dedurre che fosse mezzogiorno passato.
Trascinarsi fino al bagno fu un’impresa titanica, strisciava i piedi sul parquet scuro stropicciandosi gli occhi ancora stanchi. Solo l’acqua fredda riuscì a riportarlo sulla terra, la testa improvvisamente lucida, gli occhi svegli e attenti.
Albertina, la sua sorellina di sei anni, lanciò un gridolino quando lo vide entrare in cucina: -Fede-Fede-Fede-Fede! Fede sto cucinando!
Gli agitò sotto il naso un mestolo di legno sporco di salsa, che mamma Simona si premurò di sequestrarle prima che finisse sul pavimento.
-Mattiniero come al solito. – lo rimproverò bonariamente la madre. Ancora una volta, in lei si scorgeva la volontà di legame, la voglia di scoprire maggiormente il figlio attraverso una finta complicità genitoriale che, tuttavia, Federico non trovava stimolante.
-Il gallo non ha cantato.
Guardò la mamma mescolare la salsa nella pentola e Albertina, alla sua sinistra, attenta come un piccolo soldatino e irrequieta come una pulce. Erano identiche: stessi capelli scuri, stessi tratti delicati. Albertina era la copia di sua mamma all’età di sei anni, e a provarlo c’erano delle foto in bianco e nero di una piccola Simona in un costumino da bagno più grande di lei.
-Non sfidarmi, tesoro, domani mattina potrei assicurarmi che ci sia un gallo sotto la tua finestra- sorrise, e le piccole rughe d’espressione fecero capolino vicino alle labbra sottili. La rendevano più bella.
-Sì! - gridò la piccola pulce, affascinata dall’idea. –A fare chicchirichì a Fede!
La mamma era il suo idolo, la seguiva come un’ombra ovunque. Non c’era mai niente di sbagliato in quello che faceva: la mamma era bella, buona, brava, simpatica, divertente, agli occhi di Albertina, senza difetti. Voleva essere come lei.
-Non ti chiedo cosa vuoi per colazione, tra poco pranziamo.
-Cosa si mangia?
-La mamma ed io abbiamo cucinato il ragù! - saltellò felice la bimba, facendo svolazzare la sua gonnellina fucsia.
-Sarà buonissimo, pulce- rise, allungando una mano verso una carota sulla tavola.
-Ma così ti rovini il pranzo! - borbottò in risposta lei. Il piccolo soldatino marciò, gonfiando le guance. –Dammela subito!
Eccola lì, il visino severo e le braccia sui fianchi, a comportarsi come una perfetta mammina. Era esilarante.
-Se mi dai un bacio.
La bambina accettò le condizioni, stampò un bacio sulla guancia del fratello e gli sequestrò la carota rubata, trionfante per essere riuscita ad ottenere ciò che voleva.
Mamma Simona si fece aiutare a prendere tovaglia e posate per apparecchiare in sala da pranzo.
-Devi farti la barba- gli disse prima di uscire dalla cucina, sfiorando il mento spinoso dopo quattro giorni dall’ultima rasatura.
La prima cosa che fece Federico, una volta in camera sua, fu tastarsi il viso. La barba era corta e pungente, fastidiosa per chi provava ad accarezzargli una guancia: era così che la portava suo padre. Gli venne in mente quando da piccolo gli strizzava le guanciotte, reclamando baci sul suo viso ruvido. Lo faceva anche con Albertina, un paio di anni prima…
Sembrò provvidenziale vedere il nome del padre apparire sullo schermo del telefono, mentre processava quei pensieri sulla sua vecchia famiglia felice.
-Allora – incominciò allegro suo padre, dall’altra parte del telefono – Perché mi devo sorbire sempre tua madre che si lamenta di te che rientri tardi la sera?
Federico sbuffò. La curiosità di sua madre era così sconfinata che se non riusciva a cavargli di bocca le cose, lasciava che fosse suo padre a farlo per lei.
Del resto, però, a Federico era sempre stato più facile parlare con suo padre piuttosto che con sua madre. Forse per i caratteri maggiormente compatibili, o forse perché abitava a chilomentri di distanza e quindi non sentiva il suo fiato sul collo costantemente. O, ancora, magari perché non imputava a lui la fine della sua “famiglia felice”. Alcuni anni prima, era stata sua madre, infatti, a tradire il padre con un uomo insulso; un gesto che ancora Federico non riusciva a perdonarle, tanto da portarlo a volerla tagliare fuori da tutto ciò che lo riguardava intimamente.
-Ed io perché mi devo sorbire questo interrogatorio ogni volta? – rise lui, consapevole del fatto che qualsiasi cosa avesse raccontato al padre, non sarebbe arrivata alla madre.
La fiducia era difficile da concedere, ma Giancarlo Visconti, suo padre, se l’era sempre meritata.
-Ma va’ – brontolò suo padre. -Come se a me fregasse qualcosa di quello che fai.
-Infatti, non ti frega niente.
Suo padre rise. -Basta che non fai niente che possa farti finire in galera, puoi fare quello che vuoi.
-Così si riduce notevolmente il mio margine di manovra, però.
 
-Era sexy da morire, ti giuro- disse Marco estasiato, gli occhi ancora brillanti per l’eccitazione.
Federico rideva, scarabocchiando su un blocco sottili petali delicati. –Ah sì?
-Sì, cazzo! Ma non l’hai vista ieri sera?
Federico ricordò vagamente una figura sottile, sinuosa, con lunghi capelli rossi come il fuoco. –Forse. – borbottò. In realtà i dettagli erano la sua specialità, ma non li incamerava se l’oggetto in sé non suscitava davvero il suo interesse.
-Ma dai, quella salta agli occhi di chiunque! - ululò lui, muovendo le mani su un corpo che conosceva solo lui. A Federico veniva in mente solo un aggettivo per descrivere il suo amico: sconcio. Incarnava perfettamente tutte le caratteristiche più primordiali dell’uomo predatore, dall’atteggiamento bavoso, al registro linguistico da cavernicolo, passando per la gestualità dell’homo erectus. Eppure, in quel quadro disperato, Marco era l’unico amico non ancora fuggito davanti alla crescente apatia di Federico, come se la sua missione di vita fosse farlo uscire dal guscio in cui lui si era volontariamente ficcato negli ultimi anni.
-Ed io ci ho fatto sesso, porca miseriea! Del gran sesso!
I petali che Federico stava disegnando erano diventati un bocciolo piccolo piccolo, a forma di stella. –Puoi non gridarlo? Mia sorella potrebbe sentire.
Già si immaginava Albertina che chiedeva alla mamma ‘Che vuol dire sesso?’. Decisamente non doveva succedere.
Marco non sembrò affatto toccato dalla rivelazione, stravaccato sul dondolo nel giardino di casa Visconti sembrava più preso dalle immagini che stava rievocando con il suo racconto.
-Dovevi vedere come si muoveva, era una visione meravigliosa.
-Ah-ah, immagino- Federico non si scomponeva per niente, teneva i piedi incrociati sopra il tavolo da esterno del suo giardino, cosa che avrebbe senz’altro fatto infuriare la madre, se solo lo avesse visto.
Nel blocco, che sembrava più meritevole di attenzione del suo amico, aveva tracciato accanto ai piccoli fiorellini delle foglie, in un tentativo di copiare la pianta che invadeva la sua proprietà nella parte anteriore. A quel punto, mancava solo Emma nel disegno, quel piccolo folletto che nella notte gli aveva rubato i fiori. Alcune – troppe - piccole cose la rievocavano insistentemente, portandolo a pensare fin troppo ad una perfetta sconosciuta che, probabilmente, non avrebbe mai rivisto.
-Dillo che non te ne frega niente.
-Non me ne frega niente, infatti- ripeté Federico, mettendosi la matita dietro l’orecchio.
Risero entrambi, forte. –Non riesco a capire come le tue fantasie erotiche non possano risvegliarsi ai miei racconti.
-Forse ci eccitiamo per cose diverse.
-O forse sei gay.
-Ho sempre provato una certa attrazione nei tuoi confronti, magari è per questo- ammiccò.
Marco parve soddisfatto della risposta. –E chi non la prova?
Le piante ondeggiarono, sospinte da un’improvvisa ma delicata folata di vento. Qualche fogliolina verde finì su Marco, sui ricci biondi che facevano impazzire tutte le ragazze che gli capitavano a tiro, esattamente come il fisico muscoloso, gli occhi trasparenti come l’acqua e la mascella quadrata.
-Quindi la richiami? - Quella era la prova del nove. Tutti le conversazioni sulle sue conquiste si concludevano con quella domanda, con un ‘no’ secco, e con qualche scusa accampata come giustificazione. ‘Non lavorava bene di lingua’, ‘Era totalmente piatta’, ‘Le puzzavano i piedi’, quando dieci minuti prima ne tesseva le lodi eccitato.
-Credo proprio di no.
Tipico di Marco, si disse Federico. –E perché? – anche se già sapeva la risposta. Un difetto lo si trovava sempre, del resto.
-Perché non penso che riuscirei a sopportare ancora il suo difetto di pronuncia- disse, grattandosi il mento liscio. Paradossalmente, a vent’anni non gli cresceva ancora la barba. –Per carità, era sexy, ma il gioco non vale la candela.
-Come sempre, no?
Marco si sedette accanto all’amico, spingendogli giù dalla tavolai piedi. –Smettila di fare quei disegni e ascoltami.
-Sono tutto orecchi.
C’era una velata presa in giro, nei suoi occhi, nel suo tono, nel modo in cui chiuse il suo blocco e incrociò le braccia sul tavolo alla richiesta di Marco. Sapeva che si stava per lanciare in uno di quei discorsi da uomo vissuto, che non gli si addicevano affatto.
-Il gioco non vale mai la candela, quando si tratta di donne- spiegò lui, serio e convinto. –A vent’anni, una donna ti serve solo per riscaldare il letto una notte, per divertirti. Non vale la pena fare nient’altro.
-Sì, certo.
Gli lasciò un’energica pacca sulla spalla. –Ecco bravo, ricordatelo stasera. Si rimorchia di brutto!
Federico storse il naso. –No, stasera non ci sono. – si inventò.
-E cosa c’è di meglio che portarsi a letto qualche bella pollastra?
-Ognuno ha le sue priorità.
Marco si alzò: non era nel suo interesse stare ancora lì, né tantomeno insistere affinché Federico gli dicesse di più. Si conoscevano da una vita, ma non si conoscevano affatto. Lo stare insieme era fine a sé stesso, non c’era affetto a legarli.
-Va bene, quando smetterai di essere annoiato dal mondo e avrai voglia di una bella botta di vita, fammi uno squillo, amico.
Un cenno del capo, e si era già avviato. Federico lo seguì, un po’ con lo sguardo, un po’ camminando. Si fermò davanti alla pianta di gelsomino, quando Marco era già uscito dal cancelletto.
I piccoli fiorellini bianchi erano identici a quelli che aveva disegnato con maestria sul suo blocco, ma non avevano lo stesso odore.
 
*Fonte: www.ilgiardinodegliilluminati.it

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Capitolo 2
*** II Lavanda ***


II Lavanda
 
Una bellissima fata di nome Lavandula nata fra le lande selvagge della montagna di Lure, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Lavandula, un giorno, si mise a cercare un bel posto dove andare a vivere e iniziò a sfogliare un libro di paesaggi. Ad un certo punto, si fermò sulla pagina della Provenza e cominciò a piangere alla vista delle povere terre aride e incolte. Ecco allora che tutte le sue lacrime caddero sulla pagina e finirono per macchiarla. Cercando di nascondere il danno fatto, la fata si asciugò i magnifici occhi blu ma provocò ancora più danni, spargendo le gocce di lacrime dappertutto sulla pagina. Disperata, la fata prese un grande pezzo di cielo blu sulla Provenza per dimenticare tutte le macchie. Da quel giorno, la lavanda cresce in quelle terre e le fanciulle bionde di Provenza hanno gli occhi blu con scintille color lavanda, soprattutto quando in estate, al calar della sera, si mettono a guardare il cielo che scende sui campi di lavanda in fiore. *
 
-Mamma!
Il grido terrorizzato di Albertina rimbombò per tutta la casa.
-Che succede pulce? - le chiese Federico, entrando nella stanza della piccola, ma senza prestare particolare attenzione: era più concentrato ad infilare i bottoni nelle asole della sua camicia a quadri.
-C’è un ragno! - continuò la bambina, spaventata, saltando sul suo lettone dalla trapunta rosa confetto. I cuscini e i pupazzi facevano su e giù seguendo il ritmo dei suoi salti, e alla fine si sparpagliarono sul pavimento.
Federico non si sentiva particolarmente sensibile davanti ai problemi della bambina. Ma, del resto, il mondo dei bambini lo aveva sempre vissuto con distacco. Non si immedesimava nelle loro paure, non le comprendeva, e, conseguentemente, non era mai stato capace di fornire reale supporto a sua sorella davanti a queste piccole cose.
-Ah sì, dimenticavo che la colonia si trova proprio dentro la tua casa delle bambole.
L’unica cosa che gli restava da fare era essere sé stesso, il sarcastico Federico.
La bimba era sull’orlo delle lacrime a quella rivelazione. –Mamma! – strillò ancora.
Federico si spazientì davanti a quelle urla di intensità crescente. -Ma non frignare Alberta, sono solo ragni- la scacciò lui con fare annoiato.
Lacrime calde bagnavano le guance paffute della bambina, ma Federico era insensibile anche davanti a quello.
-Ma potrebbero mordermi.
-Sciocchezze- minimizzò. –Al massimo possono zampettarti su per le braccine ed entrarti nel naso e nelle orecchie.
Le afferrò il polso sottile e le fece avanzare due dita su per il braccio. Alberta gridò ancora, ma Federico trovo che la reazione della sorellina, questa volta, fosse divertente.
Non contento, prese la ragione di tante grida dal davanzale. –E poi scusami, - proseguì imperterrito nella sua tortura psicologica, agitandole sotto il naso l’animaletto. –non lo trovi adorabile?
-Federico! – tuonò sua madre entrando nella cameretta.
Per Albertina fu come vedere un angelo sceso dal cielo: saltò in braccio alla madre e continuò a piagnucolare spaventata.
-Perché devi essere così crudele? – lo rimproverò Simona.
Federico sembrò indifferente allo sguardo di fuoco della madre. –È solo un ragnetto.
-E lei ha solo sei anni, perché non la lasci in pace?
-Ma dai, è solo una frignona, dovrà pur capire che è una cosetta assolutamente innocua- sbuffò lui, pronto a ritornare all’attacco con la sua piccola arma ad otto zampe.
Esasperata, Simona ordinò alla figlia di scendere giù in salotto a vedere un po’ di televisione. Consapevole che di lì a poco avrebbe ricevuto una strigliata, Federico si sentì già annoiato per la cosa.
-Devi smetterla di comportarti in questo modo con Alberta- lo sgridò, infatti, la madre, puntandogli un dito contro.
-In quale modo?
-In questo modo… Così…- gesticolò. –Sei crudele.
Federico le voltò le spalle, pronto ad andare via. –Sì, lo hai già detto.
Paonazza, sua madre insisté. - Guardami quando ti parlo, Federico, non ho finito!
Da tempo, aveva tolto a sua madre anche il lusso di sgridarlo, non si sforzava neanche di darle la parvenza di ascoltare, perché non lo faceva. Non aveva niente da imparare, da quella figura genitoriale. Sapeva quanto questa cosa facesse soffrire Simona, e forse proprio per questo motivo insisteva in questa linea comportamentale, per punirla.
-Senti, mamma, non me ne frega niente. Era solo uno stupido ragno e lei è una frignona, fine della discussione.
La madre, nonostante tutto, non demorse: -No, non è finita! Come pensi che tua sorella possa fidarsi di te se la torturi continuamente in questo modo?
-Fiducia?
Simona sembrò felice di aver catturato il suo interesse. –Già, fiducia, è proprio di questo che si tratta: non hai notato che Alberta si rivolge sempre a me, per qualsiasi cosa?
Federico minimizzò. - Questo è perché passa molto più tempo con te che con me.
Poi realizzò Simona stava facendo solo un altro tentativo di scalfirlo - l’ennesimo – mettendo di mezzo la sorella per appellarsi a qualcuno che non aveva motivo di punire.
-Per lei non sei un punto di riferimento come fratello maggiore.
Federico, esasperato, si passò una mano sul viso. –Senti, se stai cercando di rifilarmi il tuo stereotipo di famiglia felice sei fuori strada.
Un muro di mattoni, che preso a spallate non si scalfisce, se mai danneggia la spalla che cercava con disperazione di buttarlo giù: era questa l’aria che si respirava tra madre e figlio.
-Federico, non ti comporti come un fratello… Sei… Sei come qualcuno con cui è costretta a stare insieme ma la cui presenza la infastidisce di continuo.
-Mamma, in tutta sincerità, non me ne importa niente di queste stronzate.
Un tonfo, il suono dell’ennesima porta sbattuta in faccia.
-È diffidente perché non sa mai quale tortura hai in serbo per lei! - proseguì Simona, sbattendo i pugni contro la porta del figlio. –Smettila di torturarla e guadagnati la sua fiducia.
Pensò con un sorriso amaro che sua madre era l’ultima delle persone nella sua vita a potergli impartire lezioni su come guadagnarsi la fiducia.
 
Alberta, che piangeva perché non voleva salire sulla giostra, neanche se l’avesse accompagnata Federico, voleva solo la mamma, che minacciava i bimbi dispettosi di chiamare la madre, non Federico, che non credeva al fratello maggiore quando gli raccontava le favole, ci credeva solo se era la madre a raccontarle.
Di certo, la persona in cui riponeva maggiormente la sua fiducia era mamma Simona, ma lui cosa poteva farci? Non era colpa sua se non riusciva ad ispirare fiducia alla sorellina di sei anni. E aveva altro a cui pensare che entrare nella psicologia dei bambini.
I problemi di fiducia familiare che la madre gli aveva sbattuto in faccia potevano aspettare, si disse spingendo la porta del Bangladesh.
-Mi dai una birra, Andrea? - disse, appoggiandosi sul bancone con la stessa disinvoltura che userebbe nell’appoggiarsi al tavolo della sua cucina.
-Fede! - lo salutò l’omone che trafficava con le bottiglie, agitando le grosse mani pelose per aria. –Te le porto al tavolo, bello?
-No, devo andare.
-Che c’hai, una donzella che ti aspetta?
Gli porse la bottiglia, pulendo il bancone con uno straccio leggermente lurido. Federico pagò e con un cenno del capo si congedò, senza neanche rispondere alla domanda.
La birra era deliziosamente ghiacciata, quello che ci voleva in una calda serata estiva. Andò a berla in riva al mare, dove credeva di potersene stare un po’ in pace.
-Sei in ritardo. – brontolò una voce familiare, esasperata come non mai.
-Perché, avevamo un appuntamento? – borbottò Federico, tirando fuori dalla sua borsa il blocco da disegno, senza neanche fare lo sforzo di sollevare lo sguardo verso la figura che cercava di richiamare la sua attenzione.
Annamaria Saccone, braccia incrociate al petto, sopracciglia aggrottate e aria annoiata. Il profumo di albicocche dei suoi lunghi capelli biondi gli arrivava aggressivo come non mai al naso, sospinto dalla leggera brezza marina.
-Te ne dimentichi sempre – brontolò la ragazza, come se dovesse rivendicare qualcosa che in realtà non le apparteneva per nulla.
Finalmente, Federico la guardò. -Me ne dimentico perché non me ne importa, Anna – sbuffò, intento a disegnare. – E soprattutto perché non puoi pretendere niente da me, lo sai.
La ragazza parve rilassarsi un attimo, finalmente. Si sedette accanto a Federico, cercando tuttavia di mantenere la distanza necessaria a non metterlo a disagio. Si abbracciò le gambe lunghe, lasciate nude dal pantaloncino corto di jeans.
-Ho visto Marco con Federica, ieri sera.
Ecco la ragione di tanta agitazione, si disse Federico.
Da sempre, Annamaria andava dietro a quel cavernicolo del suo amico Marco e, per qualche bizzarra ragione, si era pure riservata il diritto di rovinargli le serate in cui decideva di dedicarsi al disegno sciorinandogli le sue struggenti sensazioni davanti alla condotta di Marco.
Non gli era mai importato di essere di supporto per nessuno, tanto più per una vicina di casa insistente che lo aveva incoronato suo psicologo senza neanche chiedergli il consenso, eppure si ritrovava puntualmente incastrato in quelle conversazioni a quattr’occhi con Annamaria Saccone.
-Sai com’è fatto. – tagliò corto, un po’ cinico. Non voleva sbilanciarsi né a difendere Marco né a consolarla.
Con la coda dell’occhio studiò il viso della ragazza. Pur essendo buio, colse perfettamente la tristezza nei suoi occhi castani, la piega triste che le labbra carnose avevano.
-Dopo che si è fatto pure quella semi-analfabeta funzionale, sono più che convinta di farmi avanti pure io – disse la ragazza, motivata, anche se Federico sapeva che tutta quella apparente sicurezza celava una ragazza timida, impacciata, insicura, non certamente il tipo del suo amico Marco. Se la sarebbe mangiata in un sol boccone, ne avrebbe fatto ciò che voleva, e poi l’avrebbe scaricata, come accadeva puntualmente.
Federico rise. -Sicuramente lui non si tirerà indietro, ma non nel modo che credi tu.
Annamaria, però, oltre ad essere perseverante con Marco, aveva anche una fiducia nel suo prossimo di cui Federico non riusciva a capacitarsi, neanche sforzandosi.
-Guarda che si comporta così solo perché non ha conosciuto la persona giusta – lo difese lei.
-E saresti tu? – la incalzò lui, senza scollare gli occhi dal suo foglio da disegno.
Gli sembrava di aver vissuto quella conversazione come minimo un altro centinaio di volte, sempre con lo stesso incipit, svolgimento e conclusione. Annamaria era una sciocca innamorata di un’idea che si discostava grandemente dalla realtà effettiva: Marco non era una persona di cui fidarsi dal punto di vista sentimentale.
Federico, consapevole che la sua serata di tranquillità era ormai andata a monte, si alzò dalla sabbia, chiudendo il suo blocco da disegno. Afferrò la sua borsa e ripose le sue cose già incamminandosi verso casa; magari lì avrebbe trovato tranquillità.
Annamaria gli andò subito dietro, senza demordere.
-Aspetta Federico!
Lui sbuffò, ma non rispose.
-Facciamo sesso o no? - insisté lei, sempre seguendolo.
La naturale prosecuzione dello sfogo di Annamaria, gelosa marcia delle ragazze con cui Marco andava a letto, era fare sesso con Federico. Si trattava di rapporti occasionali senza alcun coinvolgimento che si concedevano forse per noia, forse per mancanza di qualcosa di meglio, forse per sfogare un po’ della rabbia repressa che entrambi avevano, anche se per ragioni diverse.
Federico si voltò a guardarla. Annamaria era indubbiamente bella, con i suoi tratti nordici e la sua pelle candida, ma non gli suscitava neanche lontanamente alcun tipo di curiosità, nessun brivido. Non gli smuoveva proprio niente dentro.
Era in procinto di tirarsi indietro, come era accaduto altre volte, poi qualcosa cambiò. Gli balenò in testa il ricordo di Emma, una perfetta sconosciuta, che tuttavia era molto più stimolante di chiunque altra avesse conosciuto negli ultimi tempi, Annamaria inclusa.
Il pensiero di lei lo spinse a dire di sì alla ragazza che aveva di fronte.
 
Raccolse dal sedile dell’auto la sua scarpa; gli si era sfilata nella foga del momento.
Mentre si allacciava le Converse, Federico pensò che abitualmente non c’era trasporto con Annamaria, ma quella volta il pensiero di Emma aveva cambiato le carte in tavola.
Realizzò che anche la ragazza al suo fianco aveva la stessa opinione a riguardo, sebbene non sapesse il motivo per cui il sesso era stato così diverso.
Ancora nuda, i lunghi capelli biondi a sfiorarle i seni, lo studiava curiosa.
-Ma a cosa pensavi? – lo interrogò.
Federico non si preoccupò neanche di inventarsi una scusa per giustificarsi.
- È un modo per dirmi che di solito non ti soddisfa?
Annamaria sorrise. -Di solito è appena passabile, e lo sai anche tu – Lo sapeva. – Ma oggi è stato fantastico, direi, o no?
Lei si sporse verso di lui, con il bagliore della curiosità ancora negli occhi, pronta a sondare qualsiasi cosa gli potesse spiegare il perché. Federico afferrò i pantaloncini di lei e glieli tirò; non le avrebbe dato la soddisfazione di concordare con lei per nulla al mondo, non era da lui.
-Non ti ci abituare, Anna, questa è stata l’ultima volta – disse, e scese dalla macchina.
Era prassi ammonirla in quel modo, anche se entrambi erano consapevoli che non sarebbe stata l’ultima volta. In fondo erano così simili: entrambi smarriti, confusi, non consapevoli di cosa volessero in realtà… Era così naturale cercarsi, per quei piccoli momenti di sfogo; difficilmente ci avrebbero messo un punto.
Mentre si incamminava verso casa, le mani nelle tasche dei pantaloni, sentì la macchina di Annamaria accendersi in lontananza, e partire verso la sua stessa direzione. Lei lo superò, senza offrirgli passaggio, probabilmente stizzita per le risposte che lui le aveva riservato.
Poco importava, per Federico, tra qualche giorno lo avrebbe cercato comunque. O magari l’avrebbe cercata lui, anche se accadeva più di rado. Sfogarsi, di tanto in tanto, gli faceva piacere, ma non era una cosa che ricercava spesso.
Un rumore lo strappò da quei pensieri. In cima ad un albero, le foglie si muovevano bruscamente, sebbene non ci fosse vento. Sembrava che un gatto fosse rimasto incastrato in cima e cercasse di venir giù. Un gatto, o una ragazza abbastanza agile da riuscire a salire e scendere senza problemi.
Emma venne giù con un salto felino e Federico rimase leggermente perplesso.
Si chiese cosa ci facesse in cima ad un albero e come fosse possibile che non l’aveva mai vista in vita sua, ed ora la incontrava per la seconda volta in due giorni.
L’ironia della sorte gli fece scappare una risatina, che risuonò nel silenzio della sera. Emma lo sentì e si voltò stupita; quando però lo identificò la sua espressione divenne perplessa.
- Che stavi facendo lassù? – le chiese avvicinandosi.
Emma ridusse gli occhi verdi a due fessure, le guance le si gonfiarono leggermente mentre la bocca sottile si piegava in una smorfia. -Allora devo pensare sul serio che sei una specie di stalker. – Fece lei incrociando le braccia al petto.
La diffidenza da parte di lei era palpabile, ma il caso era il responsabile del loro incontro, e Federico si chiede per quale strano motivo la sua strada fosse di nuovo incrociata con quella di lei.
Qualcosa gli ribolliva dentro a guardarla, l’aveva pensata tutto il giorno, e quell’ossessione deliziosa era culminata con Annamaria, poco prima. Buffo che adesso lei fosse proprio davanti a lui.
-O magari si tratta di una coincidenza.
Lei raccolse una borsa ai piedi dell’albero che fino a poco prima Federico non aveva notato, e si incamminò.
-Non ci ho mai creduto alle coincidenze – fece lei, squadrandolo. – Penso piuttosto che mi segui, come stai facendo ora.
Non si era neanche accorto di essersi incamminato dietro di lei, come attirato da una calamita.
-E come non potrei, sei così ipnotica – si sbilanciò. Lo aveva detto con un tono sarcastico, ma in realtà non mentiva affatto.
Lei lo ignorò.
-Hai la puzza di sesso addosso, è disgustoso. – brontolò con fastidio.
-Che olfatto delicato hai.
Un’altra caratteristica da registrare su di lei. Federico realizzò quanto fosse infastidita in quel momento. La sua lingua non lavorava in velocità come aveva fatto la sera precedente, quando gli aveva vomitato addosso una serie di informazioni sconnesse sulla sua vita, forse pensando che non lo avrebbe più rivisto.
-In realtà ti ho visto scendere dall’auto di quella ragazza – concluse lei.
-Quindi sei tu che mi spii – constatò lui, sorpreso.
-Non volontariamente, non mi importa nulla di te, Federico.
Lui realizzò che lei ricordava il suo nome, e a quel punto comprese che l’inspiegabile attrazione che sentiva per lei forse era ricambiata, nonostante lei stesse facendo resistenza e diffidasse da lui in maniera chiara.
Emma inciampò su un sassolino, una delle infrandito che portava ai piedi per poco non la fece cadere rovinosamente per terra.
Federico si sporse per aiutarla, porgendole la mano. Lei, sguardo di fuoco e orgoglio di ferro, scansò la sua mano, aggiustò le ciabatte e stringendo orgogliosamente la sua grande borsa proseguì. Sembrava intenzionata a non concedergli nessun momento di contatto, né fisico né intellettuale.
Non voleva demordere. - Che ci hai fatto con il gelsomino?
La risposta fu breve, incolore: -Ci devo ancora pensare.
-E un po’ di fiori a tuo nonno li hai dati?
-Sì.
-Gli sono piaciuti?
-Sì- Fu la risposta, fredda come la sabbia che avevano sotto i piedi.
Le chiacchere che avevano animato il breve tempo trascorso insieme la sera prima non c’erano, nonostante i deboli tentativi di Federico. Emma, in quel momento, non sembrava la stessa ragazza.
Buffo come per una volta non fosse Federico il muro da abbattere.
La guardò, ed Emma fece lo stesso, entrambi apparentemente disinteressati alla persona che avevano di fronte. Solo all’apparenza, perché la curiosità di Federico era ormai incontenibile e conoscere quella ragazza era la sua missione.
-Ci stai provando?
Sì, forse, sentenziò lui nella sua testa. Provare a conoscerla, per lo meno.
-Cosa te lo fa pensare?
-È così? - insisté lei, incurvando le labbra sottili per la prima volta.
-Non per adesso- ribattè lui, ed era sincero. –Stavo cercando di fare conversazione.
-Tentativi fiacchi di fare conversazione, direi.
Federico fece spallucce. –Tu non ci stai provando nemmeno.
Una scintilla eloquente in quegli occhioni verdi. –Sei tu che ci stai provando, non dimenticarlo. Sei tu che mi segui, sono io la tua ossessione.
Emma rise, e così anche lui. –Beh, potresti ignorarmi.
-Ci stavo provando – sentenziò lei.
-Ma non ci riesci, dico bene? – la sfidò lui. -Per questo sei scesa dall’albero quando sapevi che stavo passando di qui. Potevi restare lassù, aspettare che fossi lontano, e venire fuori dopo, dal momento che mi avevi visto. Invece volevi che ti sentissi perché volevi parlare con me. Quindi siamo pari, no?
Emma si fermò di colpo e si voltò a guardarlo, spiazzata e stupita. Federico, attento osservatore, l’aveva scalfita. Alla fine, forse per alleggerire la tensione tra loro, scoppiò a ridere.
-Mi piaci, sai? – gli sorrise, compiaciuta di quell’intesa strana che si era creata tra loro. -Ma non mi ispiri fiducia.
Federico non demorse. -Al momento.
-Al momento, sì. - mugugnò lei in conferma, strofinandosi con le dita sottili il mento.
-Eppure, ieri sera non ti sei fatta problemi a spiattellarmi dettagli sulla tua vita che non mi interessava sapere – la incalzò lui, sempre con quel leggero tono di sfida che poco prima le era piaciuto.
Lei annuì, più rilassata. –Questo è vero.
-Ma...?
-Non sapevo che ti avrei rivisto, non era nei programmi, e spiattellare quattro sciocchezze ad un estraneo non è la fine del mondo se dopo non devi conviverci.
Questo era chiaro a Federico. Sua madre lo diceva sempre: un estraneo è l’ascoltatore migliore che puoi trovare. Non sa chi sei, non ti giudica, dimentica in fretta ciò che gli dici perché non lo rivedi più.
-Quindi sei a disagio perché so delle cose di te. Per questo non ti fidi.
Lei non rispose, ma lui sapeva di aver c’entrato perfettamente il punto della questione.
-Magari – la incalzò. – Possiamo costruire questa fiducia non incontrandoci più per caso, ma concordandolo, l’incontro.
Emma mugugnò, ma non rispose alla domanda.
Vederla fare così la difficile un po’ creò del fastidio in Federico. -Sei un po’ complicata, sai?
-Non sai quanto, caro. – gli sorrise piccata. -Però tu vuoi tutto e subito, mi sa; tendenzialmente la gente è diffidente, soprattutto durante i primi incontri.
Continuava a tirare la corda invisibile della pazienza di Federico, per giocare con lui, per sfidarlo così come lui aveva fatto con lei.
Federico mugugnò: -Cosa sei, un’aspirante psicologa o un’esperta di relazioni sociali?
-Suvvia, sforzati di essere più gentile.
-Lo sono, con te. – ed era vero. Il suo essere così affascinante lo continuava a spingere verso di lei, altrimenti avrebbe già rinunciato da un pezzo a quella conversazione.
Emma rise. -E allora con gli altri come fai? Che brutto atteggiamento.
Quella frase suonò stonata sulla bocca di lei, che non lo conosceva nemmeno.
Si erano parlati solo una volta, eppure aveva la presunzione di aver capito con chi avesse a che fare. E la cosa peggiore era che in qualche modo aveva c’entrato il punto.
 
Federico la guardò allontanarsi nel buio della notte.
Emma non aveva voluto che lui la accompagnasse fino a casa e lui non le aveva imposto la sua compagnia come la sera precedente. Probabilmente, in lui era rimasta della delusione data dal fatto che lei non avesse accettato di rivederlo. Si piacevano, e questo lo sapevano entrambi, le cose potevano essere più facili per entrambi.
Mentre percorreva il corridoio in punta di piedi, si accorse che non tutti in casa stavano dormendo.
Uno spiraglio di luce proveniva dalla cameretta di Albertina, la cui porta era accostata. Dall’interno si sentiva la voce della bambina, una serie di sussurri e piagnucolii.
-Alberta? – la chiamò.
La piccola sussultò vedendo il fratello fare il suo ingresso nella cameretta. Era sul suo letto, seduta sopra una pila di cuscini e pupazzi, i capelli scuri un groviglio incontrollabile.
Federico provò una sincera tenerezza davanti a quell’immagine.
La bimba si portò un dito sulle labbra. –Zitto, o la mamma si sveglia.
Si chiuse la porta alle spalle, il più silenziosamente possibile. –Che stai facendo?
Lo investì in pieno viso un forte odore di fiori, così forte e penetrante che se lo ritrovò pure sui vestiti. Era come se fosse stato cosparso su ogni singolo oggetto in quell’ambiente un bagnoschiuma alla… Lavanda?
-Cosa vuoi? - disse la bimba immusonita, incrociando le braccine. Evidentemente era ancora seccata per quello che era successo poco prima.
-Perché sei ancora sveglia a quest’ora? - Dopo una rapida occhiata all’ambiente si accorse che la camera era a soqquadro, i giocattoli sparsi per terra a formare una barricata davanti al letto. –Che stai combinando?
-Shh! - gli fece la bambina. –Sveglierai la mamma!
Federico calciò un paio di bambole. -Se non mi spieghi che stai combinando grido così forte che non sarà solo la mamma a svegliarsi. – la minacciò giocosamente.
Sul punto di scoppiare a frignare per la rabbia, Alberta lo fissò.
-Sei cattivo! - si lamentò Alberta, scalciando a vuoto. –Sei cattivo Fede! Non voglio che la mamma mi scopra!
La pila di cuscini crollò, e la bambina cadde sul letto, la faccina paffuta sprofondata sulla trapunta.
-E perché no?
Alberta si tirò su. –Perché altrimenti non sarei coraggiosa come lei.
Federico rise, ma la bambina lo guardò, gli occhi scuri grandi e lucidi. –Ti prego non le dire nulla.
Fu come se accendesse un interruttore che fino a quel momento era rimasto spento. La sguardò supplicante della sorellina risvegliò il bisogno di fare qualcosa per lei, qualcosa di buono e giusto.
Federico si sentì un po’ in colpa per come l’aveva trattata, dopotutto era soltanto una bambina.
Pensò anche ad Emma, a quello che gli aveva detto.
-Ma no, non glielo dico- la rassicurò lui, sedendosi al fianco della piccola, cercando di creare un ponte di fiducia che non c’era mai stato e di cui la bambina sembrava necessitare.
-Davvero? - Alberta sembrava sorpresa.
-No, te lo prometto.
Allungò un mignolo verso la piccola, perché sapeva che il suo modo preferito per suggellare una promessa era stringerlo. Tra il sorpreso e lo stranito, Albertina glielo strinse.
-Di cosa hai paura? – la incoraggiò ancora una volta.
Gli occhietti piccoli celavano qualche riserva, ancora. - Prometti di non ridere?
-E quando mai l’ho fatto?
-Sempre! - sbuffò la bimba. –Ridi sempre di me, sei cattivo.
Federico scosse la testa. –Prometto di non ridere, mano sul cuore.
Alberta sorrise felice. Mise le mani a coppa davanti la bocca e si avvicinò all’orecchio del fratello.
I suoi capelli avevano un profumo ancora più forte di quello della stanza circostante. Sempre lo stesso odore, sempre la lavanda.
-C’è il ragno, dentro la casetta delle bambole. Ha portato tutti i suoi amici.
Allontanatasi di scatto, gli scrutò il viso severa, un’espressione che ricordava in tutto e per tutto la madre. Cercava di capire se Federico tenesse fede alla promessa di non ridere.
Federico le diede corda. –Davvero?
-Sì! - annuì la bimba, soddisfatta che il fratello avesse mantenuto la sua promessa. –Non posso dormire, vogliono pizzicarmi le dita dei piedi con le loro zampette pelose – disse spaventata.
Federico comprese che era colpa sua se la bambina aveva così tanta paura, e si sentì ancora più in colpa.
-Oh, tesoro- fece lui, accarezzandole i capelli, fin troppo profumati. –Non lo faranno.
Il gesto stranamente paterno sorprese Alberta. –No?
-No. Stavo scherzando quando dicevo quelle cose oggi pomeriggio. – la rassicurò.
La bambina sembrava sorpresa per i gesti di affetto.
-Lo vedi che sei cattivo- incrociò le braccia al petto. –Mi prendi sempre in giro.
Federico scosse la testa. –Prometto di non farlo mai più.
La bimba mugugnò. –E cosa faccio con i ragni?
-Secondo me non c’è nessun ragno nella casetta delle bambole.
-Come fai a saperlo? Io li ho visti!
-Vuoi che controlli?
Albertina annuì.
La casa delle bambole era impolverata, disgustosamente rosa e piena di mobili ricavati da oggetti della casa. Di ragni non c’era traccia, era solo una suggestione della bimba per quello che lui stesso gli aveva detto qualche ora prima. Cosa che lo fece sentire estremamente in colpa.
-Nessun ragno- sentenziò alla fine, raccattando un paio di giochi da terra.
-Io però li ho visti Fede…
Lo sguardo della piccola diceva tutto: quella sera non avrebbe dormito se non fosse stata completamente certa che non c’era niente a minacciare i suoi piedini.
-Se vuoi resto qui con te, per stasera.
Si pentì subito della proposta: non sapeva se sarebbe riuscita a sopravvivere con quell’odore così penetrante sotto il naso per tutta la notte.
Soppesando l’offerta del fratello, Alberta si guardava le manine.
Alla fine, decise che la presenza del fratello maggiore era sufficiente a scacciare il pericolo degli animaletti ad otto zampe.
-Bene- disse Federico. –Ma prima sistemiamo un po’ la stanza, che dici?
La sorellina sembrava un soldatino mentre lo seguiva per la cameretta, aiutandolo a mettere a posto i suoi giochi. Non avevano mai fatto niente insieme, tanto meno sistemare una camera o passare la notte nello stesso letto.
Alberta, in un primo momento restia a stendersi accanto al fratello, lo abbracciò nel sonno, un sorriso dolce e tranquillo stampato nel visino innocente.
Federico ripensò a Simona, a quello che aveva detto prima su Alberta, e, per esteso, a Emma. Lo aveva irritato con quei suoi discorsi sulla fiducia. Di solito, era quello l’effetto che gli faceva chi aveva ragione.
Chiuse gli occhi, ripensando al modo in cui le labbra di lei si muovevano, accarezzando le parole come se fossero petali di fiore. Il profumo di lavanda in cui era immerso diveniva meno intenso, fino a scomparire mentre sprofondava in un sonno senza sogni.
 
-Federico.
Un bisbiglio, e un mugugno infastidito in risposta. Tentò di rigirarsi sul letto, ma lo spazio a sua disposizione era inferiore rispetto al solito.
-Federico, alzati.
Pesanti come macigni, le palpebre si schiusero contro voglia. La stanza era buia, un respiro costante a farle da colonna sonora. L’odore di lavanda, prima così insistente, sparito.
Simona guardò il figlio con un sorriso e gli fece cenno di uscire.
Il ragazzo si alzò controvoglia, sfuggendo ad una presa che fino a quel momento non si era sentito addosso. Albertina mosse la manina, alla ricerca di un corpo che aveva appena abbandonato il suo letto. Rassegnata, si raggomitolò tra le lenzuola, e con il sorriso sulle labbra fragola continuò a dormire serena.
-Va a dormire in camera tua tesoro, sei stato bravo- disse Simona, accarezzando il viso stanco del figlio.
-Sì- sbadigliò Federico. La notte in un letto che non era il suo non era stata per niente riposante, eppure si sentiva soddisfatto.
-Buonanotte tesoro.
-Mamma- la chiamò il ragazzo, prima di entrare in camera sua. –Cambia bagnoschiuma ad Alberta, quell’odore di lavanda è soffocante.
Simona, confusa, scosse la testa. –Alberta non ha un bagnoschiuma alla lavanda.
Ma Federico aveva già chiuso la porta.
 
Il fiore di Lavanda assume diversi significati. La tradizione narra che questa pianta avesse effetti miracolosi contro i morsi dei serpenti: strofinata sulle ferite, dopo essere stata lasciata macerare in acqua, aveva proprietà antiveleno. Nonostante ciò, all’interno dei cespugli di Lavanda si pensava facessero i nidi proprio i serpenti. Per questo motivo, alla Lavanda si è attribuito il significato di diffidenza. Infatti, curare una ferita provocata dal morso del serpente bisognava avvicinarsi con molta cautela proprio alla pianta che fungeva da antidoto. Inoltre, intorno ai cespugli di Lavanda ci sono sempre molte api e calabroni attirati dal profumo intenso, ai quali bisogna prestare attenzione quando ci si avvicina.
[www.ilgiardinodegliilluminati.it]
 
*Fontewww.nelsen.it


Buona sera a tutt*. Anni fa pubblicai questa storia con un profilo diverso - ormai cancellato - insieme ad altre che ormai conservo solo nel mio computer. Ho deciso di riesumare il mio lavoro nella speranza di non farlo finire totalmente dimenticato. 
Sto cercando di rimaneggiare il testo che avevo scritto in passato, ma l'idea di base è rimasta e spero vi piaccia. 
Cercherò di essere il più costante possibile nella pubblicazione, nella speranza che qualcuno dia uno sguardo e si incuriosisca. 

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Capitolo 3
*** III Girasole ***


III Girasole
 
Clizia era una giovane ninfa, innamorata persa del Sole; pertanto, lo seguiva tutto il giorno mentre lui guidava il suo carro di fuoco per tutto l'arco del cielo. Il sole dapprima fu lusingato e un pochino intenerito da quella devozione… credette di esserne a sua volta innamorato e decise di sedurla, cosa non difficile per lui.
Ma ben presto il Sole si stancò dell'amore di Clizia e le diede, come suol dirsi, il benservito rivolgendo altrove le sue attenzioni.
La povera ninfa pianse ininterrottamente per nove giorni interi. Immobile in mezzo a un campo, osservava il suo amore attraversare il cielo sul suo carro di fuoco.
Così, pian piano, il suo corpo si irrigidì, trasformandosi in uno stelo sottile ma resistente, i suoi piedi si conficcarono nella terra mentre i suoi capelli diventarono una gialla corolla; si era trasformata in un fiore bellissimo color dell'oro.
Ma anche nella sua nuova forma la piccola ninfa innamorata continua tuttora a seguire il suo amore durante il giro nel cielo. *
 
-Ma non così! – lo rimproverò la sorellina, con una serietà inaspettata da una bambina di sei anni.
Federico agitò confuso la piccola modella dai capelli biondo oro, senza sapere come farle indossare lo sgargiante vestito verde smeraldo.
-E come allora? – chiese lui, confuso.
Di solito non giocava con la sorellina piccola, ma nel tentativo di migliorare un po’ nei rapporti umani, si stava cimentando anche in quella nuova attività. Si sentiva come catapultato in una dimensione parallela in cui ogni piccola cosa della sua vita doveva essere riscoperta nuovamente, per poterla apprezzare nuovamente.
L’universo lo spingeva verso il suo prossimo e lui, con titubanza, gli stava andando incontro, senza però avere troppa fretta. Poteva iniziare con la sorellina, era la partenza più facile.
Albertina, esperta di turno, gli strappò la bambola dalle mani. –Devi infilarglielo dalla testa, altrimenti strappi il vestito.
Con inaspettata destrezza, la bimba completò il compito in cui il fratello si era dimostrato particolarmente goffo, agitandogli poi la bambola sotto il naso, vittoriosa.
-Hai visto? – si pavoneggiò, soddisfatta.
Vestire una Barbie doveva per forza essere un’arte, si disse Federico, altrimenti non c’erano spiegazioni. –Ho visto, tesoro.
-Devi farlo così, altrimenti mi strappi gli abiti- spiegò la bimba, improvvisandosi maestrina della situazione.
Federico le sorrise bonariamente. - Non penso di essere bravo in queste cose, piccola.
Albertina era raggiante, il viso luminoso di felicità. Era la prima volta che giocava con il fratello maggiore, ed era estremamente felice di poter condividere con lui le gioie dei suoi piccoli passatempi, anche se agli occhi di un ragazzo di diciannove anni erano assolutamente sciocchi.
-Forse devo dire alla mamma di comprare un Ken, così possiamo giocare insieme- rifletté ad alta voce la bimba, grattandosi la nuca.
Federico rise. –Non dirle niente, te lo compro io, così la prossima volta giochiamo.
-Davvero? - I grandi occhi cioccolato le brillavano.
-Certo. – annuì lui, felice di poterla rendere tanto felice con un gesto così piccolo.
Un gridolino, e in un attimo la sorellina gli fu addosso, per stampargli centinaia di baci sulle guance ruvide di barba. Estasiato da una tale dimostrazione di affetto, Federico rideva.
-Che cazzo stai facendo?
La voce di Marco, profonda e vagamente disgustata da ciò che stavano osservando. L’amico, annoiato, era poggiato sullo stipite della porta.
Federico lo guardò a testa in giù, la bambina ancora addosso a strapazzarlo. Per fortuna, la sorellina non aveva sentito la parolaccia detta dall’amico, troppo presa dalle sue moine. Del resto, Alberta, che non nutriva particolare interesse né considerazione per quell’elemento di disturbo costante in casa sua.
Fece cenno all’amico di uscire, e si congedò dalla sorella, dicendole che avrebbero passato del tempo insieme dopo.
-Ti ho detto un milione di volte di non dire parolacce quando c’è lei – disse all’amico quando furono soli, in camera sua.
Marco si stravaccò sgraziatamente sul suo letto, con tutte le scarpe, perfettamente a suo agio e consapevole che Federico non lo avrebbe rimproverato. Sbuffò, scostandosi l’irresistibile ciuffo biondo dalla fronte.
-Ma che stavi facendo, piuttosto? – gli chiese con uno sbadiglio, ignorando che Federico lo avesse rimproverato per il comportamento inopportuno che spesso assumeva davanti ad una bambina così piccola.
-Giocavo con Alberta, ovviamente. – spiegò candidamente, mentre con nonchalance raccolse dalla scrivania i fogli in cui aveva disegnato spighe di lavanda viola acceso. Tolse anche i disegni della sorellina, che aveva tentato di imitare il modo in cui muoveva la matita sul foglio, come se stessero facendo una danza.
Marco non sembrava essere soddisfatto della risposta fornitagli dall’amico. –Ma dai, tu odi tua sorella. – disse, cercando tra i videogiochi della playstation qualcosa di soddisfacente.
-Perché? Tu odi i tuoi fratelli? – lo incalzò.
-Certo che no.
-Ed io non odio Albertina, semplice.
-Sì, però è una rottura stare con lei- borbottò insistente. –Stavi giocando con delle bambole, cazzo!
L’universo lo stava certamente spingendo verso il suo prossimo, ma Marco era piuttosto ostico.
-Le ho chiesto io di giocare, non mi ha costretto lei, quindi non darti pena per me- tagliò corto, annoiato dalla piega che quella conversazione stava prendendo.
Il biondo fece spallucce, affrontare discussioni familiari non era tra i suoi passatempi preferiti.
-Giochiamo? - chiese, estraendo allungandogli uno dei joy-stick.
Federico lo assecondò, e in un attimo il suono di spari e urla di donzelle in pericolo iniziò a rimbombare per la stanza.
-Tesoro?
Simona entrò timidamente nella stanza, come se le dispiacesse interrompere qualsiasi cosa i due ragazzi stessero facendo, anche se aveva tutta l’aria di non essere nulla di che.
-Dimmi- disse Federico, senza scollare gli occhi dalle immagini virtuali ma realistiche sul televisore. Marco gli aveva sempre dato filo da torcere, in quel gioco.
-Sono stata invitata a cena dallo zio Antonio, e porto con me Alberta…
Federico mugugnò. –Non mi va di venire.
-Lo so, ma non torniamo a dormire, quindi ti raccomando: chiudi bene la porta, e non tornare troppo tardi se esci. Ti lascio la cena in…
Smise di ascoltare a metà del discorso. Sarebbe stato solo fino alla mattina seguente, non c’erano altre informazioni utili da immagazzinare. Se la sarebbe cavata, come al solito.
-Va bene, va bene, ho capito- tagliò corto.
Simona non insistette oltre, le sue preoccupazioni da madre erano inutili davanti a uno come Federico. Leggermente delusa dalle solite risposte robotiche che il figlio le riservava, si congedò dalla stanza, ignorata dai due ragazzi.
-Quindi… Stasera niente sorveglianza? - chiese Marco, qualche minuto dopo, quando la loro sparatoria virtuale fu conclusa.
Federico maledì mentalmente sua madre per essersi sbilanciata a elargire quel genere di informazioni davanti ad uno come Marco. Casa libera, per lui, significava festa, ragazze.
Cercò di minimizzare, per evitare che Marco avanzasse qualsiasi tipo di proposta. – Così pare.
-E che hai in mente di fare?
-Niente, mangiare, guardare un film, uscire a prendere una birra. Le stesse cose che faccio sempre. – sentenziò, ma dallo sguardo dell’amico era chiara la sua disapprovazione ed era ancor più chiaro che avrebbe insistito affinché la sua serata assumesse una piega diversa.
-Le stesse cose che fai sempre? -Marco sembrava leggermente disgustato.
Federico voltò finalmente le spalle al videogioco, così come aveva fatto Marco da quando la madre era uscita.
-Sì- disse convinto. –Non ho in mente di fare niente.
-E se te la dessi io qualche idea? – propose l’amico, tutto in fibrillazione.
Sapeva che non sarebbe riuscito a sedarlo con niente, a quel punto.
-Accordato – sbuffò alla fine, arrendendosi. -Ma, per favore, niente di eccessivo.
Marco si mise una mano sul cuore, come se stesse facendo una promessa solenne. -Ridimensionerò i miei progetti. Vedrai, ci divertiremo.
Federico non sapeva se metterci la mano sul fuoco, ma ormai quel che era fatto era fatto. Si era arreso da tempo all’idea di resistere alle impetuose iniziative del suo amico, quindi tanto valeva assecondarlo.
Fu in quel momento che il suo cellulare di illuminò vistosamente, segnalando la notifica di un messaggio di Annamaria, che gli proponeva di vedersi. Marco, occhio di falco, lo adocchiò subito, lo lesse e soppesò con una velocità disarmante.
-Vedo che ancora non ti sei stufato dei miei scarti. – ridacchiò, sbruffone.
-La puoi considerare tale solo se te la porti a letto, cosa che non hai fatto. – lo ammonì Federico, riponendo il telefono in tasca. Si raccomandò di non lasciarlo più alla portata degli occhi di Marco.
L’amico, intanto, si lasciò andare ad una risata. -Ma certo, te la porti a letto tu! – sbuffò. – E poi se mi porto a letto quella, stai certo che inizia a fare progetti di matrimonio.
Eccola là, la vera natura di Marco, ben lontana da quella che Annamaria, tanto presa da lui, aveva idealizzato. Non se l’era mai meritate le attenzioni di quella ragazza, il cui unico errore era quello di essere, forse, troppo ingenua per vedere la realtà.
Certamente, non si poteva dare nessuna colpa a Marco, lui era sé stesso nella maniera più sincera possibile, non illudeva nessuno, chiunque lo conoscesse lo sapeva; però, certo, questo non migliorava il suo essere un gran stronzo.
Stare tra quei due fuochi poteva apparire scomodo ad un occhio esterno, ma a Federico non importava di conciliare le due parti: lui tirava avanti solo la sua carrozza, si faceva i suoi comodi. Se quei due avevano delle riserve l’uno sull’altra, non era affar suo. Non avrebbe aiutato Annamaria con Marco, né aiutato Marco a liberarsi di Annamaria.
-Ma poi, almeno è decente? – indagò l’amico, curioso.
Ecco un’altra informazione che non avrebbe dispensato, sempre per mantenere la sua neutralità sulla situazione.
-Che ti importa? – fece, stizzito.
Marco sbuffò per la riservatezza dell’amico e prese a trafficare con il suo telefono.
Del resto, si disse Federico, non sapeva valutare neanche come fosse Annamaria. Il poco trasporto che sentiva per lei gli impediva di valutare i loro rapporti; solo quello della sera precedente era stato davvero bello, ma per motivazione che prescindevano dalla ragazza.
Prese il suo telefono e rispose al messaggio della bionda in maniera affermativa.
 
Quando raggiunse Annamaria, tutto si aspettava fuorché di trovarla davanti al vivaio.
-Ma perché mi hai dato appuntamento qui? – sbuffò Federico, squadrando la ragazza.
Era stranamente raggiante, quel giorno, come se un raggio di sole le avesse risvegliato l’anima. Indossava un vestito arancione, che faceva a pugni con i suoi capelli biondissimi, ma che le stava comunque un incanto.
-Devo prendere delle piante per mia madre. – fece lei, facendo segno a lui di seguirla all’interno.
-Ed io che c’entro? – borbottò, seguendola, confuso e annoiato. Quando lei lo aveva cercato, pensava a qualcosa di diverso, alle loro solite cose.
Anna si fece strada tra le piante verdi e rigogliose. L’aria era buona, ma Federico non poté non constatare quanto quello spazio fosse pieno di insetti fastidiosi.
-Non mi andava di venire qui da sola. – ribatté lei candidamente, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Ancora scocciato, Federico sbuffò. -Non potevi chiedere a qualcuna delle tue amiche?
Annamaria, alla quale le amiche di certo non mancavano, lo guardò torva. -Volevo venissi tu. Siamo amici, no?
Si sentì confuso davanti a quella domanda. Non l’aveva mai considerata tale, ma non aveva mai fatto nulla per non farglielo pensare: parlavano, si cercavano, si incontravano, anche al di là del sesso. Sicuramente il fatto che lei tirasse fuori quella storia in quel momento aveva qualcosa di strano, ma negli ultimi giorni gli stavano succedendo un mucchio di cose strane e non aveva motivo di categorizzare come anomala anche questa.
Annamaria era una sua amica, decise alla fine, ma quella nuova consapevolezza non smosse nulla nel suo animo, era solo un fatto da realizzare una volta per tutte.
Con sospetto, si chiese se non avesse ancora una volta a che fare con l’interesse che la ragazza nutriva per Marco. Magari, doveva sciorinargli qualcuno dei suoi machiavellici ragionamenti relativi alla linea comportamentale del biondo. Mentre le squadrava il viso, cercò in lei anche solo un piccolo tentennamento che potessero confermargli questa sua ultima ipotesi, senza però trovarlo. Annamaria era sincera, forse come poche altre persone nella sua vita, e quel pomeriggio voleva semplicemente passare del tempo con lui, inspiegabilmente.
-Sì, lo siamo. – fece spallucce, senza troppo entusiasmo.
La seguì dentro il vivaio, inoltrandosi tra fiori e piante di ogni genere.
 
Mezz’ora dopo, erano ancora lì a cercare qualcosa che potesse soddisfare il bisogno della madre della ragazza di avere un orto in giardino. Annamaria non aveva fatto altro che ciarlare di bulbi e innesti, ma la cosa non aveva creato in lui alcun disappunto, anzi: se l’avesse sentita parlare di Marco, allora sì che le ultime convinzioni maturate sarebbero crollate.
Federico osservava enormi mazzi di girasoli, così gialli e luminosi che guardarli quasi gli feriva gli occhi. Annamaria era sparita con uno dei responsabili per farsi illustrare come coltivare correttamente una pianta di pomodoro.
-Bella la tua ragazza. – si sentì prendere in giro, da una voce che ormai sapeva distinguere perfettamente. Il tono era giocoso.
Si voltò a destra e a sinistra, ma di Emma non c’era traccia.
-Sono qui. – fece lei, venendo fuori da dietro l’angolo dei mazzi di girasoli.
Era anche lei vestita di giallo e teneva in mano uno dei fiori, così grande che se avesse voluto nascondervisi dietro avrebbe potuto tranquillamente farlo. Federico pensò che potesse tranquillamente mimetizzarsi tra quelle piante, luminosa com’era in quel momento; era anche lei un girasole allegro.
Aveva il viso bello e raggiante, le labbra incurvate in un sorriso divertito, i capelli corti dietro le orecchie elfiche. Parte dell’attrazione che Federico sentiva per lei era proprio incontrarla in quel modo, come se le loro strade fossero costantemente destinate ad incrociarsi e i loro percorsi ad intrecciarsi.
-Magari sei tu che segui me- convenne lui, osservandola.
Era la prima volta che la vedeva alla luce del sole, le lentiggini sul suo viso risaltavano ancora di più, a contrasto con la pelle chiara color porcellana.
Emma strinse gli occhi con disappunto, ma non smise di sorridere. -Quanto spesso metti piede in questo vivaio?
Touchè, pensò lui.
-Mi ci hanno trascinato con l’inganno- fece lui, giustificandosi.
-Ho visto- annuì Emma, con una risatina. Sistemò il fiore che aveva in mano in mezzo agli altri, accarezzando i petali gialli. -Molto bella, come dicevo.
Il tono con cui lo aveva detto era indecifrabile per lui. Arrovellarsi sul peso che le persone davano alle parole e al tono, non era qualcosa che gli apparteneva; anzi, preferiva tagliar corto e non interrogarsi troppo su niente. Molto più comodo, più semplice, più conveniente.
Nel mondo di Federico non c’era mai stato spazio per nessuno se non per i suoi, di drammi, non aveva senso interrogarsi su quegli degli altri.
Ma Emma, misteriosa e intrigante com’era, una perfetta sconosciuta che però sentiva così vicina a sé, non era come tutti gli altri. Aveva qualcosa di così luminoso dentro che doveva per forza diradare quelle nebbie; così, della sua luce, si sarebbe beato anche lui.
-Non è la mia ragazza – sorrise, inclinando il capo per scorgere l’espressione sul viso di lei, chino sui fiori.
Uno sbuffo. -Mica ti devi giustificare con me.
-No, infatti – convenne lui, divertito. -Ma Annamaria non è comunque la mia ragazza… È piuttosto… un’amica?
Si scoprì confuso a riguardo. Anche se la realizzazione di quella verità era avvenuta poco prima, dirlo ad alta voce suonava così strano.
Emma aggrottò le sopracciglia chiare. -Lo stai chiedendo a me se è amica tua?
-No, certo che no – si scoprì a gesticolare confusamente. -È mia amica, dicevo, tutto qui.
Gli occhi verdi di lei lo guardarono dapprima curiosi, poi più penetranti. Lo squadrò totalmente, forse realizzando anche lei di non averlo visto ancora alla luce del sole. La vide indugiare sulla sua mascella, sugli avambracci lasciati scoperti dalla camicia a quadri, sulle spalle larghe.
-Ti porti a letto tutte le tue amiche? – gli chiese, questa volta con un po’ di severità nella voce. Gli occhi di lei lo sfidavano come avevano già fatto, il suo tono di voce era meno cristallino e giocoso, più roco.
Federico sapeva che lei lo aveva visto, la sera precedente. Era consapevole che sgattaiolare fuori da una macchina parcheggiata nel bel mezzo del nulla era strano, ma non si aspettava che lei fosse così perspicace da inquadrare la situazione da subito. Evidentemente, non doveva sottovalutare quel folletto.
-Beh, se consideri che Annamaria è la mia unica amica, allora sì, me le porto a letto tutte.
Suonò disinvolto nel fare quella battuta, ma Emma non rise.
-Cosa fai, mi giudichi? Non credi di sapere troppo poco per saltare alle conclusioni?
Lei fece spallucce, annoiata, poi sorrise. -Ti importa a tal punto di quello che penso?
Suonò come un congedo da quella stramba conversazione. Emma lasciò andare i suoi fratelli fiori e fece per andarsene.
-Sì- disse Federico, afferrandole delicatamente il polso, per non farla andare via.
Lo aveva fatto senza pensarci, ma si sentiva così attratto da lei che non era riuscito a trattenersi. Quel tocco aveva qualcosa di elettrico, erotico quasi, e a giudicare da come gli occhi verdi di Emma brillarono, anche lei pensava la stessa cosa.
La vide deglutire, mentre lui di malediceva mentalmente per essere così limpido con lei, per aver abbassato le difese che ergeva con tutti quanti. Non gli importava che lei sapesse quanto a lui importava, voleva solo che lei non andasse via. Voleva parlare con lei.
-Federico! – la voce di Annamaria lo chiamò, da poco vicino.
Lui si voltò, alla ricerca della bionda, e quando la vide aveva tra le mani buste di terriccio e un sacchetto di bulbi. Era tutta sorridente e allegra.
-Andiamo? – fece lei, con un leggero fiatone dato dallo sforzo.
Ma lui non poteva ancora andare via, c’era Emma lì e doveva assolutamente rivederla.
Quando si voltò per cercarla, tuttavia, lei era sparita. Lui non si era accorto che lei era sfuggita alla sua presa, agile come un gatto. Non l’aveva neanche vista allontanarsi, non sapeva in che direzione cercarla. L’unica cosa che poteva amaramente constatare era che lei non fosse più lì.
Svanita, come se non fosse mai stata lì, come se l’avesse sognata ad occhi aperti.
Federico si ritrovò a dubitare perfino di averla veramente incontrata.
-Sì, andiamo- mugugnò confuso e deluso, sfilando dalle mani di Annamaria i pesanti acquisti, così da rendersi utile.
 
Sapendo di avere la casa a sua completa disposizione, Federico aveva deciso di invitare Annamaria, la quale aveva accettato senza troppe riserve.
Dopo averla aiutata a lasciare i suoi acquisti a sua madre, i due si erano incamminati verso casa Visconti. Quando giunsero a destinazione erano da poco passate le otto di sera e Federico tutto si aspettava fuorché di trovare intrusi in casa sua.
-Ma ci sono i ladri? – chiese Anna, agitata, quando furono sull’uscio.
Federico aveva già accantonato questa ipotesi dal momento che i ladri non avevano come abitudine di mettere la musica a tutto volume e che, i suddetti ladri, non avevano né rotto finestre né scassinato la porta; al contrario, i ladri in questione sapevano che la chiave di riserva della casa si trovava nel doppiofondo della cassetta delle lettere, e probabilmente erano entrati senza problemi.
Quando Federico aprì la porta di casa, capì che il responsabile del misfatto era solo uno, Marco Poletti.  L’ingresso di casa sua, il salotto, la cucina, e chissà quale altra stanza, brulicavano di gente. Non sapeva neanche come avesse fatto, il suo amico, ad invitare così tante persone con così poco preavviso.
Tutti parevano divertirsi, tra birre e alcolici in bicchieri rosso fuoco. L’unico che non si divertiva era proprio Federico. Cercò Marco tra la gente, seguito da una Annamaria a metà tra il confuso e il festaiolo. Probabilmente anche lei voleva unirsi al divertimento, ma non voleva fare uno sgarbo a Federico.
L’indiziato responsabile di quel casino era al centro del salotto, proprio nel bel mezzo della calca, a ballare con una birra in mano.
-Che significa? – Federico fu costretto a urlare per farsi sentire. Il suo tono era incolore, nascondeva irritazione e fastidio.
Marco avanzò verso di lui a braccia spalancate, elegante nella sua camicia bianca, i capelli biondi pettinati all’indietro e fissati con del gel.
-Che ti faccio tornare dal mondo dei morti, amico- disse, dandogli due pacche sulle spalle.
Poletti adocchiò la ragazza alle spalle di Federico, senza però né salutarla né sorriderle. Annamaria non disse nulla, lo guardava incantata, ma si sentiva la sua delusione per le poche attenzioni che lui le riservava.
-Ti devo presentare delle amiche! – gli urlò Marco alle orecchie, dal momento che qualsiasi conversazione normale non era concessa.
Federico fece roteare il dito, indicò la confusione attorno a loro, e poi l’amico. -Quand’è che lo abbiamo deciso? Mi sfugge.
Il biondo lo liquidò con un gesto della mano, poi indicò qualcuno che veniva verso di loro dalle spalle di Annamaria.
–Queste sono Andrea e Amelia. – presentò le due ragazze urlando, ancora una volta. Erano alte, con gambe lunghissime, praticamente identiche l’una all’altra: capelli neri riccissimi, occhi neri, rossetto rosso sulle labbra carnose. Le due sorridevano come due automi, con la stessa identica inflessione della bocca.
-Ma che bella casa che hai- urlò una delle due, con un marcato accento straniero che Federico non seppe riconoscere.
 Marco, che non aveva mai smesso di ballare sul posto al ritmo di musica, era raggiante. – Le ragazze sono russe, sono da queste parti per un servizio fotografico.
–Viaggiamo parecchio. – urlò la seconda delle due ragazze.
Federico, sconsolato, si arrese alla situazione, quel che era fatto era fatto. Non poteva certamente cacciare via tutta quella gente. Certamente, si disse che non era neanche obbligato a stare al gioco di Marco, non doveva farsi piacere per forza qualcuno che gli stava propinando l’amico. Poteva restare neutrale rispetto alla situazione, farsi gli affari suoi.
Avrebbe fatto i conti con Marco dopo.
Liquidò quella scenetta patetica con un gesto della mano e si allontanò verso la veranda, così da poter uscire sul giardino che c’era sul retro della casa. Quando fu sulla soglia della porta, una mano sulla spalla lo riportò alla realtà da quello stato di trans solitaria in cui si era rifuggiato.
Annamaria lo aveva seguito per tutto il tempo, leggermente risentita per la situazione e, probabilmente, anche per Marco Poletti, il suo amore impossibile. Non se la meritava la tristezza che le si leggeva sul viso, ma forse era il prezzo da pagare per essere tanto ingenua.
-Senti – fece lei. -Io andrei a casa.
Federico annuì. -Ciao Anna, buona serata.
Non si preoccupò di rassicurarla perché non ne aveva voglia, né si scusò per il comportamento di Marco perché non ne era responsabile.
La ragazza se ne andò senza proferire altra parola e lui poté stravaccarsi sul dondolo che c’era in giardino, fortunatamente lasciato in pace dagli sciacalli che gli stavano demolendo la casa.
Avrebbe affrontato un problema per volta, prima c’erano i suoi nervi a pezzi.
-Non c’è niente da bere? - civettò una voce fastidiosa, dirigendosi verso di lui. Federico identificò subito la scocciatrice che Marco gli aveva presentato poco prima.
-Eh? – borbottò, più per dimostrarsi ostile.
Lei rise, anche se non era stata fatta alcuna battuta. – Vodka, ce l’hai?
-La cerchi nel posto sbagliato, credo che tutti gli alcolici siano dentro. – sbuffò lui, questa volta sperando davvero che lei capisse e se ne andasse.
Al contrario, la ragazza si sedette in maniera aggraziata nel dondolo, proprio accanto a lui.
-Hai degli occhi bellissimi, sai?
 Il suo tono era seducente, tentava di essere irresistibile. Il vestito che indossava, già sufficientemente corto, era risalito ad arte su per le cosce.
-Ah sì?
-Sì – confermò lei.
Peccato che a Federico non importasse nulla. Era più che convinto che dietro quell’insistenza fastidiosa si celasse Marco. Già lo immaginava ad istigare quella ragazza a provarci con tutti i mezzi che aveva a disposizione dal momento che il suo amico era un ragazzo difficile.
–Mi piaci sai? – fece lei, avvicinandosi. Le loro cosce accostate. Nessun effetto.
Federico ne aveva decisamente abbastanza di quel teatrino. Voleva solo starsene in pace, non era chiedere troppo.
-Tu invece non sei il mio tipo – la liquidò, alzandosi di botto e percorrendo il giardino a grandi falcate.
Decise che doveva trovarsi un altro rifugio in cui rintanarsi, quello non andava più bene. Mentre si faceva largo tra i corpi sudati che gli infestavano il salotto, pensò che almeno la sua camera doveva essere illesa da tutto quel casino, altrimenti l’amicizia con Marco poteva considerarsi conclusa.
Un barlume di speranza lo colse quando notò che le scale che conducevano al piano di sopra erano sgombre dalla gente. Le salì velocemente, urtando però i bicchieri che i suoi invitati avevano avuto la premura di poggiarci.
Uno dei calici rossi era ancora pieno di liquido ambrato e, dopo essere stato urtato, si rovesciò tutto sul pavimento. Federico si sporse per osservare la chiazza allargarsi sul tappeto persiano e fu in quel momento che qualcosa attirò la sua attenzione.
Emma ballava in maniera totalmente scoordinata rispetto al ritmo pompato dalle casse. Sembrava che nella sua testa ci fosse tutt’altra musica, qualcosa che sentiva solo lei. Ondeggiava la testa a destra e a sinistra, ad occhi chiusi, reggendo in mano una birra ghiacciata da cui beveva qualche sorso di tanto in tanto.
Portava lo stesso abitino giallo che le aveva visto indossare quel pomeriggio, ma le aderiva maggiormente al corpo minuto, probabilmente a causa del sudore – lo stesso che le aveva incollato i capelli al collo e alla fronte.
Federico la trovava bellissima e non riusciva a capire come fosse possibile che tutti gli occhi dei presenti non fossero puntati su di lei.
Gli rimbombava qualcosa nella testa, nel petto, in ogni fibra del suo corpo. I muscoli li sentiva tutti rigidi, la bocca asciutta.
Scese le scale con la stessa fretta con cui le aveva salite e spintonò chiunque gli si parasse davanti. Non potevano impedirgli di raggiungerla.
Quando le fu davanti lei neanche se ne accorse, presa com’era a ballare la sua danza mistica. Aveva tutte le gote arrossate, il mascara leggermente colato sotto gli occhi.
Federico le afferrò il polso con la stessa delicatezza che aveva usato quel pomeriggio al vivaio, quando aveva tentato invano di trattenerla. Emma, che fino a quel momento aveva tenuto gli occhi chiusi, lo guardò tutta sorridente. Aveva, negli occhi verdi, la tipica euforia che solo l’alcool sapeva donare alla gente.
-Ciao – biascicò lei, senza smettere di danzare.
Lui non seppe più resisterle: le mise le mani sulle spalle e con uno slancio disperato la baciò. Ne sentiva il bisogno da quando l’aveva incontrata per la prima volta, doveva soddisfare quel desiderio, e lei era lì, così vulnerabile rispetto al solito, sembrava offrirsi spontaneamente a lui.
Una parte di Federico voleva anche scoprire come fosse, baciarla. Se l’elettricità che sentiva parlando con lei si sarebbe amplificata, o spenta.
Le labbra di lei erano più morbide di quel che si aspettava, il suo profumo buonissimo anche se mischiato al sudore. Rimasero a fior di labbra, un bacio tra bambini impacciati, la bocca di Federico che premeva con decisione su quella di lei.
L’urgenza di quel bacio colpì più Federico che la stessa Emma, la quale rimase impietrita, sul posto, gli occhi spalancati. Non ricambiò, rimase solo ferma a fissarlo, il viso umido di sudore, le guance ancora arrossate dal caldo.
Federico, dal canto suo, sapeva che quel bacio non era sufficiente per soddisfare il suo desiderio di lei: i corpi erano rigidi, troppo distanti, Emma troppo confusa, il chiassò eccessivamente assordante per avere l’intimità che gli serviva. Sapeva che dopo quel piccolo contatto, avrebbe voluto di più.
Fece per afferrarle il viso, pronto per convincerla che lasciarsi andare a lui era la cosa migliore da fare, ma Emma sgattaiolò via dalla sua presa e dalla sua bocca… E iniziò a vomitare.
 
In antichità i girasoli erano i fiori che rappresentavano proprio il Dio Sole presso le popolazioni indigene. Impossibile, infatti, non pensare al sole con i suoi petali gialli!
Proprio questa affinità del fiore con il sole, fa sì che il girasole venga associato un significato allegro e spensierato, in grado di infondere gioia.
[www.leitv.it]
 
Il Girasole simboleggia l'allegria, la solarità e la vivacità. Regalare un fiore di Girasole equivale a rimarcare il carattere gioioso e allegro con cui, la persona che lo riceve, affronta la vita.
[www.ilgiardinodegliilluminati.it]
 
*Fonte:  www.pensieriparole.it

 
Sono davvero contenta che qualcuno abbia già messo la storia tra le seguite e recensito, credevo che la partenza sarebbe stata più lenta dal momento che  non uso EFP da diversi anni. Sapere che qualcuno sta leggendo e apprezzando mi fa moltissimo piacere e mi sprona a proseguire, per cui non smettete di dare feed-back. 
A presto! 

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Capitolo 4
*** IV Azalea ***


IV Azalea
 
C’era una volta, nel Cashemire, un principe indiano, differente dal suo popolo perché dotato di una pelle chiarissima. Quest’uomo prese in sposa una donna dagli occhi azzurri e dai capelli biondi: una vera rarità in India. Ogni anno, per dieci anni, nacque alla coppia una figlia aventi in tutto e per tutto le stesse caratteristiche dei genitori.
Il padre era molto legato alle figlie e loro allo stesso modo, a tal punto che lui avrebbe rinunciato alla corona piuttosto che a loro. Questo però non era giusto e le ragazze quindi, acconsentendo ai voleri del padre presero tutte marito ed ebbero una vita felice. La tradizione indiana vuole che le anime abbiano la possibilità di rinascere tre volte. Fu così che da sempre unite, le sorelle decisero che sarebbero rinate come colombe.
Pian piano morirono, e Dio assecondò il loro desiderio, facendole ritrovare tutte insieme in cielo. Le sorelle passarono la prima notte a parlare della loro passata vita, dei loro genitori e della loro felicità. Ma anche le colombe, essendo animali erano destinate a moltiplicarsi. Le dieci sorelle ottennero dai propri compagni di costruire nidi vicini su un albero di rododendro, per vivere una insieme all’altra come mai fatto in vita. Anche in questo caso il tempo passò e le sorelle si trovarono vicino alla necessità di scegliere la loro trasmigrazione definitiva.
Videro che ai piedi del rododendro vi era un cespuglio che non era mai fiorito: chiesero a Dio di poter rinascere al suo interno: fu così che alla morte delle colombe il cespuglio si ricoprì di dieci bellissimi fiori: le azalee. *
 
 
Emma sembrava piccolissima al centro del suo letto, accovacciata in posizione fetale. Aveva i capelli corti e sottili sparpagliati attorno al viso, come una specie di aureola, e dormiva con le labbra schiuse e le sopracciglia aggrottate. Le gambe candide erano in bella mostra, lasciate scoperte dalla maglietta che Federico le aveva prestato per dormire, dal momento che i suoi vestiti erano imbrattati di vomito.
Federico si disse che era particolarmente buffa, in quel momento, illuminata dalle luci della prima mattina. Adorabile e seducente in un modo tutto suo, unico e particolare.
Vederla vomitare, la sera precedente, non lo aveva dissuaso dal trovarla attraente, anzi: vederla così vulnerabile l’aveva resa più umana ai suoi occhi, meno fiabesca e irraggiungibile.
Minuta com’era, una volta che aveva smesso di vomitare nel suo salotto, l’aveva presa in braccio e condotta nel bagno al piano di sopra. L’aveva aiutata a rinfrescarsi, le aveva prestato uno spazzolino per lavarsi i denti e una maglietta.
Emma non aveva protestato a nessuna delle attenzioni che lui le aveva fornito, al contrario si era dimostrata collaborativa e gli aveva lasciato carta bianca, senza proferire alcuna parola. Si era addormentata subito, di sasso, dopo essersi stesa sul letto di lui.
Federico, dal canto suo, era ancora leggermente frastornato per il bacio della sera prima. Non sapeva che cosa avesse provato lei, se le fosse piaciuto o meno. Certamente non si era sentito respinto, ma neanche assecondato. Era come se Emma si fosse limitata a subirlo, dopotutto.
Si chiese chi l’avesse invitata a quella festa, se fosse stato Marco, o se magari lei fosse andata fino a casa sua per cercare lui, trovando però una festa epica al suo posto.
L’unica cosa che sapeva per certo era che voleva sapere di più su di lei. E che voleva baciarla ancora, più volte possibile.
E mentre quei pensieri lo accarezzavano, si appisolò nuovamente, sulla poltrona di fronte al suo letto.
 
Qualche ora dopo, aprire la porta di camera sua e scendere al piano di sotto fu come scoperchiare il vaso di pandora.
Emma continuava a dormire profondamente e si disse che era fin troppo strano restare al suo capezzale nell’attesa che si svegliasse.
Quando raggiunse la cucina, Federico fu immediatamente investito dalla puzza inconfondibile di alcool, così vivida grazie a un’enorme pozza di vodka che si estendeva sul tappeto dell’ingresso. La ricordava perfettamente, quella macchia.
La cucina era occupata da immondizia, bottiglie vuote e piene, carte di patatine, bicchieri dal contenuto sospetto. Non aveva mai visto la sua casa così distrutta.
-Bentornato!
Mamma Simona era alle sue spalle, un sacchetto pieno di immondizia tra le mani, la faccia livida. La voce vibrava di sarcasmo, era satura di rabbia.
Federico non ebbe il tempo di dirle niente – non che ci fossero giustificazioni, per quel pasticcio - era già partita come un treno in corsa: -Spero che tu abbia una spiegazione valida per tutto questo, Federico! - passò subito ai toni duri, agitandogli con fare minaccioso il sacchetto sotto il naso.
Lui alzò le spalle mogio, perché del resto sua mamma aveva ragione, almeno per una volta. Se non si fosse fidato di Marco non sarebbe successo niente. E, magari, se si fosse impuntato maggiormente e avesse cacciato via tutta quella gente che si era trovato in casa, il disastro sarebbe stato più contenuto.
-Non ce l’ho.
-Non l’avrei voluta sentire comunque! – sbraitò sua madre, fuori di sé. In quegli anni era come se Simona avesse sempre temuto di rimproverare il figlio in quel modo: lo sentiva già lontano per il divorzio e l’allontanamento del padre, non voleva fornirgli ulteriori motivi per odiarla.
Tuttavia, in quella circostanza, Federico aveva sbagliato e quell’errore era davvero imperdonabile, agli occhi della donna.
Come se un vulcano stesse esplodendo nel cuore della donna, vomitava fiumi di lava di rabbia. Tutti gli arretrati degli anni precedenti, i rimproveri che si era risparmiata di fargli, si stavano scagliando su Federico in una sola volta.
–Non c’è nessuna spiegazione valida del perché ho trovato Marco Poletti praticamente nudo nel mio letto con altre due ragazze! Niente può giustificare una serie di adolescenti ubriachi nel mio salotto, nella mia cucina, in giro per casa mia mentre mio figlio non c’è! Dov’eri?
Un guizzo di sorpresa negli occhi di Federico. Marco aveva esagerato, era uscito decisamente fuori dagli schemi e Simona, sua madre, aveva tutte le ragioni per essere furiosa.
Sapeva che la madre pretendeva delle scuse, che si offrisse di sistemare la casa, ma non disse niente del genere perché non era bravo a fare ammenda, a scusarsi. Non si premurò neanche di sottolinearle che lui, in realtà, era in casa, aveva solo deciso di assumere un atteggiamento passivo davanti alla situazione, per poi dedicarsi ai suoi comodi, a Emma.
-Dov’è Alberta? – glissò, perché non aveva voglia di approfondire ulteriormente dove fosse mentre il disastro si abbatteva sulla loro casa. Incavolata com’era, sua madre avrebbe senz’altro finito per scoprire che c’era una ragazza addormentata in camera sua.
-E dove pensi che sia? - Simona si indignò ancora di più. –L’ho spedita dalla signora Averna dopo che ha visto quel porco del tuo amico con le gemelle Kessler.
-Va bene- borbottò. Aveva la gola secca, ma il frigo spalancato e vuoto gli fece intuire che non c’era acqua fredda che potesse bere.
-Allora? - lo incalzò. –Non hai niente da dire?
-Che vuoi che ti dica? Non è colpa mia. – e sapeva che era solo una mezza verità, quella, ma una giustificazione doveva pur accamparla davanti a quell’inquisitore furente.
-Certo che è colpa tua Federico! Ti ho affidato la casa e un tuo amico chissà come ci ha organizzato un festino mentre tu… Dove cavolo eri, tu?! Sto provando a chiamarti da ore, dove sei stato?! Con chi eri?!
Ormai sua madre aveva perso il lume della ragione: non si era neanche accorta che era venuto esattamente dal piano di sopra e che indossava la tuta con cui dormiva sempre. Quanto al suo telefono lo aveva spento la notte prima e non sapeva neanche dove fosse.
Federico iniziò ad infastidirsi. –Questi sono affari miei. – sbuffò.
Simona perse la pazienza: -Diventano anche affari miei se in tua assenza la mia casa viene assalita da un branco di animali!
-Si può sistemare tutto, non è un problema- minimizzò lui, nel tentativo di concludere quello scambio di battute il più velocemente possibile, era stufo.
Vide con la coda dell’occhio cocci di lume sul pavimento del salotto. Forse non tutto poteva tornare al proprio posto, ma con un pomeriggio di pulizie la casa poteva tornare lucida come uno specchio.
-Non è il disordine il problema, è il tuo comportamento! - si infuriò ancora la madre. –Non posso fidarmi di te nemmeno per la minima sciocchezza, te ne freghi di tutto e di tutti, non hai senso della responsabilità! Sei tu il problema!
Erano parole taglienti, ma non avevano effetto sulla corazza di Federico.
-Mi ripeti sempre le stesse cose.
-Eppure, continui a non capire! – insisté lei, non voleva mollare la presa, quella volta.
-Capisco, invece- annuì Federico, calmo e pacato come sempre. –È che non accetto che la persona che andava a letto con un altro uomo mentre aveva in casa un marito amorevole e due figli mi parli di responsabilità. Non sono il figlio perfetto che desideravi, ovviamente, ma la nostra cara famiglia felice l’hai rovinata tu, non io.
La guancia prese a bruciargli.
Non si aspettava che Simona lo schiaffeggiasse: era stato un attimo, non era nemmeno riuscito ad anticipare la mossa per scansarla. Aveva incassato, e basta.
Vide il senso di colpa nei suoi occhi, affiancato dalla rabbia, dalla collera, dall’esasperazione. Sentire la verità, fredda e pungente come una doccia gelida, dritta sulla faccia, doveva fare male.
-Pulisci questo porcile.
Non gridava più, la voce tremava, gli occhi lucidi in attesa delle lacrime. –Vado dalla signora Averna anche io, quando torno voglio che tutto sia pulito, Federico.
E ci fu silenzio.
Né il suono del suo respiro accelerato, dei suoi passi in corridoio, delle lacrime sulle guance. Solo il tonfo della porta quando la sbatté.
 
Quando tornò in camera sua gli sembrò quasi ovvio trovare Emma sveglia, sempre al centro del suo letto, mentre si massaggiava le tempie. Sembrava che stesse cercando di riaccendere il cervello dopo il blackout della sera prima.
-Ciao – le disse lui, chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandosi ad essa. Aveva la sensazione che in quel modo potesse chiudere i suoi problemi fuori da quel momento.
Emma lo guardò inclinando la testa, gli occhi ancora assonnati.
-Se non fosse stato per quelle urla avrei dormito ancora per delle ore – gli sorrise, stiracchiandosi come se fosse un gatto.
Federico si sedette ai piedi del letto, mantenendo una debita distanza da lei per non farla sentire a disagio. Fosse stato per lui, avrebbe annullato qualsiasi tipo di distanza dal corpo di lei, ma qualcosa gli diceva di non essere precipitoso.
-Scusa, non credevo che sarebbe esplosa in quel modo.
Emma liquidò quelle scuse con un gesto della mano. -Io ti ho vomitato in salotto, non te lo dimenticare. – ridacchiò, ma la sua voce non celava alcun tipo di imbarazzo.
Non si sentiva per nulla a disagio per essersi mostrata vulnerabile. Non le interessava di essersi approfittata dell’ospitalità di Federico e del suo letto, era piuttosto come se fosse nel posto giusto al momento giusto. A lei andava bene stare lì, andava bene che lui si fosse preso cura di lei, le andava bene indossare i suoi vestiti e aver dormito nel suo letto.
Emma si sgranchì le gambe, allungandole sul letto e muovendo le dita dei piedi, smaltate di rosa.
Fu in quel momento che Federico si accorse con imbarazzo che la maglietta che le aveva prestato gli lasciava intravedere tutto quello che c’era sotto e le sue mutandine rosa. Qualcosa gli fece intuire che anche lei lo sapesse, ma che non le importasse.
Federico sentì caldo all’improvviso e, nel tentativo di dissimulare, scattò in piedi, afferrò il telefono sul comodino e glielo porse.
-Hai dormito fuori senza avvisare, dovresti chiamare tuo nonno- le disse. – Sarà preoccupato.
Gli occhi verdi di Emma si ridussero a due fessure, ma il sorriso che aveva in viso non scomparve. Aveva capito a che cosa stava pensando lui.
-Sono grande abbastanza da saper badare a me stessa, e lui lo sa – spiegò candidamente, continuando a sgranchirsi le spalle. -Sono le mamme ad essere apprensive, non i nonni.
I suoi occhi verdi brillarono, curiosi, mentre lei si sporgeva verso di lui. Probabilmente, si disse Federico, aveva sentito tutta la conversazione avvenuta al piano di sotto.
Non aveva mai sopportato i ficcanaso, la gente che si impicciava dei fatti altrui e in quel momento Emma aveva tutta l’aria di star ficcanasando. Tuttavia, il legame misterioso che sentiva di avere con lei lo spinsero ad aprirsi, anche se solo di poco. Quel tanto che bastava per farle sapere quanto la volesse vicina a sé, ma non troppo da risultare vulnerabile.
-Non sai quanto hai ragione- si sedette nuovamente accanto a lei, questa volta più vicino. Non stava più pensando a quanto lei fosse attraente, era come se gli si fosse spento un interruttore. Pensava solo a parlare con lei, perché sapeva di poterlo fare.
-Se dovessi trovare un aggettivo per descrivere mia madre sarebbe proprio questo, apprensiva. Ossessiva, petulante, per le cose più sciocche poi.
Emma gli sgattaiolò così vicino da sfiorargli le cosce con i piedi, mentre le ginocchia le teneva al petto. Non sembrava sentirsi affatto a disagio nell’averlo vicino.
-Ti vuole bene, si preoccupa per te – gli disse dolce, inclinando il capo per potergli osservare il viso.
Quella frase suonava troppo confidenziale per una ragazza che conosceva appena da tre giorni e di cui sapeva poco o quasi nulla. Eppure, non era una cosa di circostanza, detta per tappare i silenzi imbarazzati tra estranei, ma una cosa sincera che le veniva dal cuore. Emma lo pensava sul serio.
Federico, che ormai non si interrogava su come fosse possibile che a lei venisse così naturale insinuarsi nella sua vita, ridacchiò. -Ha… un modo bizzarro di manifestarmi il suo affetto.
-Tu come le manifesti il tuo? – Emma lo sfidò, ridacchiando, ed era come se già sapesse la risposta.
-Non lo faccio- borbottò lui annoiato.
-Ecco! – cinguettò vittoriosa, pungolandogli il braccio giocosamente. -Probabilmente non sa come prenderti perché tu non gliene dai la possibilità.
Il viso di lei si fece così vicino che riusciva a contarle le lentiggini sul naso.
-Sono suo figlio, dovrebbe conoscermi, sapere come sono fatto – brontolò.
-Forse pretendi troppo, è pur sempre una persona- Emma parlava come se conoscesse benissimo anche Simona e non solo Federico. -E tuo padre?
Il sorriso che fece lui era amaro. –Non lo vedo da mesi.
-No? - Emma era curiosa e Federico ebbe ulteriormente conferma che la curiosità che lui sentiva per lei era ricambiata.
-No- confermò lui. –I miei sono divorziati da un paio di anni, mia madre ha tradito mio padre con un suo amico, Pasquale. Mio padre non gliel’ha mai perdonato, e con Pasquale è finita presto. Lo sento spesso, quasi tutti i giorni, ma non lo vedo quasi mai.
-Mi dispiace.
Emma era scura in volto, sembrava davvero dispiaciuta, rattristata da una storia che non le apparteneva.
-Non dispiacerti, non lo sono nemmeno io – le sorrise.
Fu in quel momento che si rese conto che la meno di lei era sul suo collo, in una carezza delicata e sincera, intima.
-Davvero? - lo interrogò lei, severa, senza però scostarsi.
-Mio padre adesso sta benissimo- scosse la testa lui. –È in Finlandia, lavora come dirigente in una banca importante.
Nel suo tono c’era un’impronta di rancore, di rabbia, tutte indirizzate verso una persona: la madre. Emma, che aveva già preso atto di come stessero le cose, non indagò oltre.
-Forse dovresti fare quello che ha detto tua madre e iniziare a pulire – Federico aggrottò le sopracciglia. – Sventola bandiera bianca, insomma – lo canzonò lei, questa volta accarezzandogli un braccio.
Lui rimase impassibile. -Perché dovrei fare qualcosa per far pace?
-Questo atteggiamento bellicoso non ti porta da nessuna parte – fece spallucce lei, lo sguardo ad indugiare sulla mascella di Federico. -Vivresti più sereno se facessi pace con tua madre.
Quelle parole suonarono stonate alle orecchie di lui, forse si era sbilanciata troppo.
Ma Emma, furba e perspicace com’era, se n’era accorta e fece di tutto per recuperare la situazione.
-Magari ti basta regalarle un’azalea! – fece lei, giocosamente, così da alleggerire un po’ il tutto.
Federico rise per l’espressione buffa sul viso della ragazza. -E che cosa sarebbe?
-Un fiore! – lo rimbeccò lei, saputella. -Informati un po’, suvvia! È il fiore dell’amore materno, cosa c’è di meglio per una situazione come questa?
Lui sbuffò divertito. - Non so neanche come sia fatto.
Emma si avvicinò pericolosamente al suo viso, gli sfiorava la guancia con il naso, sempre mantenendo il contatto visivo. -Ti aiuterò io – soffiò allegra, con un bellissimo sorriso stampato in volto. Quella promessa aveva tutta l’aria di essere un congedo.
Quando lei fece per allontanarsi, lui non poté fare a meno di trattenerla: le posò una mano sulla guancia mentre con l’altra le afferrò delicatamente il polso.
-Potresti aiutarmi restando qui – le disse lui, rapito da come i suoi occhi verdi lo fissavano curiosi.
Lei ridacchiò. – A pulire quello schifo che c’è di sotto? No, grazie.
Ma non si allontanò, perché anche a lei piaceva lui, anche lei lo trovava curioso, anche lei lo voleva.
-Perché eri qui ieri sera? – la interrogò, roco. Aveva il respiro corto.
-C’era una festa, volevo divertirmi – sussurrò di rimando. Anche lei era senza fiato.
-Sapevi che era casa mia.
Emma inclinò leggermente la testa, inumidendosi le labbra. -Certo che lo sapevo. Allora?
Federico si sentiva eccitato e al tempo stesso esasperato da quella conversazione. Cavarle le parole di bocca era difficilissimo. - Eri venuta a cercarmi?
Lei si limitò a fissarlo senza rispondere.
-Eri venuta a cercarmi, quindi – le sorrise vittorioso. -Eri venuta a cercarmi e guarda caso c’era una festa, quindi sei rimasta, ma sapevi che ti avrei vista.
Silenzio, lei continuò a non proferire parole.
Federico rise, piano. -Emma, così mi fai impazzire.
Ed era sincero. Il fatto che lei lo avesse cercato così come lui cercava lei era bellissimo ed eccitante.
Federico pensò al bacio della sera precedente, di cui Emma pareva non ricordarsi. Si disse che quello era il momento più opportuno per replicare il suo esperimento.
I loro visi erano vicinissimi, bastava poco per colmare quella distanza.
Si avvicinò alle labbra di lei lentamente, ma con decisione. Tuttavia, la cautela con cui lo fece non bastò a preservare quel momento: quando le loro bocche si sfiorarono Emma scattò in piedi come un soldato, facendolo sentire respinto.
-Devo andare – biascicò senza fiato. Poteva sentire il battito del cuore di lei anche da lontano.
Federico cercò di nascondere il suo disappunto, senza successo. Si scoprì, tuttavia, anche divertito dal modo in cui lei zampettò in giro per la sua stanza, alla ricerca dei suoi vestiti. Lei lo aveva respinto, ma voleva baciarlo tanto quanto lui voleva baciare lei, ne era consapevole.
Emma afferrò una scarpa e se la mise saltellando sul posto, afferrò confusamente tutta la sua roba e si diresse verso la finestra.
-Sul serio? – le chiese, confuso come non mai dal fatto che lei volesse uscire di lì.
-Sul serio – sorrise lei, un po’ più rilassata, mettendosi a cavalcioni sul davanzale.
Federico la afferrò per mano. – Quando ci vediamo?
Suonò come una richiesta fin troppo disperata, si disse, ma voleva davvero avere la certezza di poterla rivedere.
-Presto – gli sorrise lei. Esitò un attimo e Federico sperò che lo salutasse con un bacio, ma lei non lo fece. Si riscosse quasi subito da quel torpore e si arrampicò sull’albero accanto alla finestra, scendendo fino al giardino con una grazia inaspettata.
Federico la osservò correre via, con ancora addosso la sua maglietta.
 
-Sempre con quella lingua pungente, tu.
Fu il saluto di suo padre al telefono, poco dopo. Federico puliva da mezz’ora, ormai la cucina era sgombera dai rifiuti. Avrebbe potuto cantar vittoria, ma ancora c’era l’intero salotto e l’ingresso da ispezionare.
-Come lo sai? - chiese al padre, tenendo il cellulare incastrato tra l’orecchio e la spalla.
Giancarlo Visconti riusciva a capire il figlio come nessun altro sapeva fare, e a farsi capire da lui. Non c’era bisogno di troppi giri di parole nelle loro conversazioni, non ne avevano tempo nelle brevi telefonate.
-E come vuoi che lo sappia? - Il tono del padre trasudava sarcasmo, ma c’era anche una punta di divertimento. –Tua madre mi ha tenuto al telefono mezz’ora e con dovizia di dettagli mi ha raccontato che cosa hai combinato stanotte, che la casa è sottosopra, e che sei sempre di più un muro di mattoni.
Federico sorrise, immaginando il viso del padre mentre Simona parlava a raffica, la voce leggermente stridula per il fastidio e la rabbia. –Deve essere stata una tortura.
Giancarlo sbuffò, annoiato. - Mi ha distratto dal lavoro, ma mi importa più di voi, lo sai.
E con voi intendeva lui ed Alberta. L’unico motivo per cui si teneva ancora in contatto con l’ex-moglie erano i figli, da quel che sapeva. Non che non rispettasse Simona come donna e come madre, ma Giancarlo aveva rimosso l’affetto che nutriva per lei dopo il divorzio. Una costrizione necessaria a non star male per quel tradimento inaspettato.
-Lo so.
Federico iniziò a passare il mocio bagnato sul pavimento della cucina, rilasciando un fresco aroma di fiori al suo passaggio. Se doveva fare una cosa, tanto valeva farla per bene.
-E allora che combini? Perché fai disperare tua madre? – lo incalzò il padre.
-Penso che abbia un po’ esagerato nel raccontarti com’è andata.
Un altro sbuffo ironico. –Ti conosco: Simona sarà anche esagerata, ma tu sei impossibile. Lei fa del suo meglio ma non le rendi la vita facile.
Federico roteò gli occhi, consapevole che il padre non potesse vederlo e quindi riprenderlo. –Questa storia l’ho già sentita.
-Se mi dici perché hai lasciato che Marco radesse al suolo la casa te la risparmio- rise. Aveva una risata grassa, piacevole, calda. -Sono convinto che l’idea della festa non fosse tua, ti conosco troppo bene.
Rise anche lui. -Sicuramente meglio della mamma.
-Allora? – lo incalzò. – Perché senti il bisogno di festini? Sei diventato alcolista? Vuoi fumarti qualche canna?
Federico posò lo stracciò. Osservò la cucina trionfante: era pulita, ci si poteva specchiare. Non gli restava che sistemare il soggiorno.
Iniziò a mettere via i tappeti sporchi, nel pomeriggio li avrebbe portati in lavanderia per smacchiarli dall’alcol e dal vomito di Emma.
-Hai una ragazza? – insistè Giancarlo quando sembrò che il figlio lo avesse liquidato malamente.
Lui, distratto com’era dalle faccende, non riuscì a preservare il segreto. -Non è la mia ragazza.
Giancarlo borbottò trionfante dall’altra parte della cornetta. -Lo sapevo che c’era qualcuna!
-Non dirlo alla mamma – borbottò.
-Scherzi? Per chi mi hai preso? – sembrò offendersi. -È bella?
Federico pensò un attimo a Emma: orecchie a punta, naso a patata, labbra sottili, un mare di lentiggini. Non poteva certamente dire che a primo impatto fosse bella, ma il suo modo di fare, di guardarlo, la sua intelligenza e perspicacia la rendevano più attraente di molte altre ragazze che aveva frequentato in passato. Il fatto che fosse così sfuggente e misteriosa lo faceva sentire ogni volta più sedotto. – Bizzarra, ma carina.
-Allora devo decisamente bocciare l’idea di tua madre di farti prendere un volo la prossima settimana per venire qui.
Tipico di Simona: quando Federico la faceva disperare più del solito organizzava quella sorta di spedizione punitiva, con la speranza che Giancarlo facesse una bella lavata di capo al figlio. Quello che non sapeva, però, era che la lavata di capo non avveniva mai. Perché Giancarlo avrebbe dovuto passare il poco tempo che aveva a disposizione del figlio a tenergli il muso? In realtà, si divertivano: mangiavano schifezze, giocavano ai videogiochi, uscivano, bevevano, esattamente come farebbero due amici di vecchia data. E al ritorno a casa Federico era più mansueto, il cuore leggero per l’allegria che passare del tempo con il padre gli portava.
-Te ne sarei grato – gli disse, perché per quanto avesse voglia di vedere il padre, con Emma era tutto così fresco da non poter rinunciare.
-Però tu vienimi incontro.
–In che senso? - borbottò confuso, iniziando a raccogliere i bicchieri sparpagliati sui mobili per poi riporli dentro un sacchetto di plastica nero.
-Prova a farti perdonare da tua madre, fa qualcosa di carino per lei.
Era la seconda volta nello stesso giorno che si sentiva fare quella medesima richiesta. Fare qualcosa per sua madre quando non voleva gli costava, ma in fin dei conti si era comportato molto peggio del solito.
-Ci posso pensare – concluse, pensando a Emma che prometteva di aiutarlo.
-È un inizio! - esultò Giancarlo. –Ma in fin dei conti stavolta l’hai fatta grossa, non ti senti mai in colpa?
-Non potevo prevedere che cosa sarebbe accaduto – si giustificò. Dopotutto Marco gli aveva detto che avrebbe ridimensionato i progetti, come poteva sapere che mentiva?
La risposta servì a glissare la domanda, perché sì. La verità era che non si sentiva mai in colpa nei confronti della madre per ciò che faceva. E perché avrebbe dovuto? Lei doveva sentirsi in colpa per avergli rovinato la vita, per aver costretto il padre a trasferirsi dall’altra parte del mondo, per non essere una buona madre.
-Ti prenderei a schiaffi- disse il padre, ma sapeva che non lo pensava sul serio. Percepiva la punta di ironia in quella frase.
-Inizia a fare il check-in.
-Mi hai scocciato- brontolò, soffocando una risata. –Torno a guadagnarmi il pane. Stammi bene, e dì a Marco di rinfilarsi gli occhiali da nerd e di tornare a giocare ai videogiochi.
-Ciao pà- rise lui prima che Giancarlo riattaccasse.
 
Il piano di sopra era messo meglio di come si aspettava.
-Per fortuna – si disse. Era stanco di pulire, andava avanti da ore.
Stava sistemando la camera da letto della madre, lasciata a soqquadro dal suo presunto amico e dalle ragazze che ci aveva portato, quando sentì la voce di Marco dal piano di sotto: -Stronzo, ci sei?
-Sono sopra, sali! - gridò di rimando.
Un attimo dopo Marco era alla porta, fresco come una rosa. –Che stai combinando?
Il biondo era la figura della rilassatezza. Non si premurò neanche di scusarsi per il pasticcio che aveva combinato, né si offrì di aiutarlo vedendolo indaffarato là dove era stato proprio lui a mettere disordine, inopportunamente.
-Mi improvviso Cenerentola per ordine di mia madre- borbottò Federico, sarcastico. –Qualcuno dovrà pur ripulire il disastro che hai provocato.
–Un disastro fantastico, se me lo concedi- rise Marco. –Una festa da sballo.
Festa che non avevano mai concordato di organizzare, pensò Federico.
Non si sentiva arrabbiato con Marco, lui alla fine era solo sé stesso. In fin dei conti, l’unico problema era essersi fidato. Non lo avrebbe più fatto, in futuro.
-Peccato, già.
-Peccato davvero, stupido idiota! Amelia era pronta a saltarti tra le braccia, cosa ti è saltato in mente?
Federico tolse le lenzuola dal letto e le ammucchiò in un angolo. Dovevano essere lavate e disinfettate dopo quella nottata.
–Avevo qualcosa di meglio da fare.
Marco era scandalizzato. Era inconcepibile per lui pensare che l’amico non fosse stato attratto da quella ragazza. –Sei un idiota- borbottò. –Ma, se non altro, grazie al tuo forfè ho potuto realizzare il mio sogno di fare un ménage à trois!
Sul letto della madre.
-Sei disgustoso.
-E tu hai preferito… - si bloccò confuso. -Aspetta, dove sei finito ieri sera?
Federico non voleva certo sbilanciarsi a raccontargli di Emma, già era tanto se Marco era al corrente di Annamaria. Quell’informazione non gli sarebbe sfuggita, non con lui.
Ringraziò mentalmente il suo santo protettore per aver fatto sì che Marco non lo avesse visto baciare Emma nel bel mezzo del salotto, né portarla al piano di sopra, in camera sua.
-Quindi? – insistette il biondo, curioso di sapere la verità solo per rinfacciargli le sue scelte. Uno come Marco non avrebbe mai neanche guardato una come Emma, era troppo superficiale per una come lei.
-Mi facevo gli affari miei, ma forse non avrei dovuto visto che ti sei sentito autorizzato a fare il cazzo che ti pare in casa mia.
Mantenne un tono freddo, incolore, distaccato. E questo intimidì Marco, ma non lo fece tornare sui suoi passi. –Casa tua è casa mia, amico! Tra l’altro dovrei essere io a lamentarmi: tua madre è stata una stronza stamattina.
Non riusciva a credere che si stesse rigirando le carte in tavola.  
-Sì?
-Sì, cazzo! È piombata qui dentro tutta inorridita e ha iniziato a gridare con voce stridula ‘Fuori porci!’- Accompagnò il tutto con un’imitazione di Simona.
Federico sollevò le sopracciglia. –Forse perché occupavi il suo letto, nudo e con due troie.
Marco tentennò un attimo, ma non avrebbe mai ammesso che aveva ragione. –Che esagerazione! - brontolò. –Vedi piuttosto di tenere a bada questa cazzo di esaurita, sta regredendo!
Non era un mistero che Federico non avesse un amore smodato per sua madre, ma sentirne parlare in quel modo ed in una situazione in cui sapeva che Marco aveva torto marcio… Proprio non lo poteva sopportare.
-Come scusa? – bisbigliò retoricamente.
-Con la brutta figura che mi ha fatto fare deve ringraziare se non le ho sputato addosso- proseguì Marco imperterrito.
Federico non manifestava mai la sua rabbia, ma non voleva dire che fosse incapace di provarla. –Stai parlando di mia madre.
Il tono di voce fermo e sicuro, senza tentennamenti o esitazioni.
-Oh, andiamo- rise Marco. –Non ti incazzare.
-E che motivo avrei? - Federico rise. Una risata tanto grossa quanto falsa. –Hai solo sfruttato la possibilità di fare un festino a casa mia, hai lasciato immondizia ovunque e ti sei sbattuto due sconosciute nella camera di mia madre…
-Sentendolo sembra ancora più figo! - rise Marco, imbarazzato. Tentava di alleggerire la situazione, ma ormai il danno era fatto.
Il suo viso divenne di nuovo di pietra. -…Sulla quale ti permetti di sparare giudizi come se dovessi applaudirti per quello che dici.
Marco era visibilmente confuso, impacciato. –Eh?
-Dovresti pulire tu questo schifo, invece lo sto facendo io- continuò, il tono così freddo da risultare minaccioso. –Invece stai lì, e può andare anche bene, ma non prendere per il culo mia madre.
-Federico…
Federico lo fermò, sollevando una mano. Marco fece un passo indietro, il timore di ricevere un pugno negli occhi. –Vattene, la tua faccia di culo mi ha rotto il cazzo.
 
I passi di Simona erano inconfondibili al piano di sotto, così come il susseguirsi di rumori: la porta accostata delicatamente, le chiavi appoggiate sul tavolinetto nell’ingresso, un sospiro per annunciare che era in casa.
Alberta non era con lei, non si sentiva la sua vocetta pimpante, il saltellare sul parquet.
Federico scese le scale. –Mamma?
La trovò in cucina, un sacchetto sul tavolo e un vaso con una pianta dallo sgargiante color rosa.
-So a che cosa stai pensando- disse la donna senza guardare il figlio, posizionando sugli scaffali barattoli di noodles precotti.
Federico era più che convinto che la madre non lo conoscesse abbastanza da potersi sbilanciare a dire una cosa del genere. In altre circostanze le avrebbe risposto sarcasticamente, o l’avrebbe ignorata e se ne sarebbe andato. Quello, tuttavia, non era il momento giusto per mettere in atto il suo solito copione.
-Mi sembra difficile – le rispose con un tono che aveva tutta l’aria di essere diplomatico.
Soprattutto perché non lo sapeva neanche lui a cosa stava pensando, si disse. Le parole di Marco avevano risvegliato qualcosa: si sentiva in dovere di dire qualcosa alla madre.
Scusarsi era difficile: l’orgoglio e la corazza di ferro glielo impedivano. Non lo aveva mai fatto con Simona e non era sicuro di voler iniziare in quel momento.
Voleva comunque fare qualcosa - Emma e suo padre lo avevano convinto – ma non sapeva cosa.
-Una pianta di azalee non è sufficiente per farti perdonare- disse Simona, buttando il sacchetto di plastica nella spazzatura ed indicando la piantina che aveva notato poco prima.
Federico era confuso. -Cosa?
Per qualche strano motivo, Simona era convinta che fosse stato lui a regalargliela.
La confusione lasciò spazio allo stupore: Emma aveva mantenuto la sua promessa e lo aveva aiutato. La immaginò sgattaiolare dentro casa sua con quei fiori rosa e posizionarli là dove sua madre avrebbe potuto trovarli.
Era magnifica.
-Però ho apprezzato il gesto, e vedo che hai pulito casa- proseguì Simona, adocchiando il salotto in ordine. –Quindi sei sulla buona strada.
Non sapendo cosa dire, rimase zitto, lasciò parlare sua madre: -Ti ho portato da mangiare, io devo fare il turno notturno alla casa di riposo. Alberta è dalla signora Averna.
-Può venire qui.
-No, non può- disse brusca. Tossicchiò, pentita del tono usato. –Meglio che stia dalla signora Averna, per ora- si corresse.
Federico annuì, arreso. –Va bene.
-Bene. Io vado, buonanotte.
Fu fuori in un attimo, veloce come una saetta.
Federico passò sopra a quella conversazione insignificante e guardò la pianta sul tavolo. Simona diceva di aver apprezzato il suo gesto, ma non era stato lui a mandargliele: non sapeva nemmeno che esistessero le azalee fino a quella mattina.
Spiegarlo alla madre, tuttavia, non sarebbe servito: poteva credere che fossero un suo regalo, se voleva.
Osservò i fiori rosa, intensi nel colore e delicati nella forma. Pensò ad Emma, a quanto era stato vicino a baciarla di nuovo, al fatto che volesse disperatamente rivederla il prima possibile. Tuttavia, pensò pure che non sapeva come contattarla, che non sapeva nulla di lei e delle sue abitudini. Era tutto così strano.
Decise che a quella pianta serviva un po’ d’acqua, e mentre la innaffiava si disse che sarebbe stato bello disegnare quei fiori sul suo blocco.
 
L'Azalea può assumere diversi significati. Soprattutto nei paesi orientali, rappresenta la figura della donna più importante per ogni essere umano, cioè la propria madre. Da questo punto di vista l'Azalea simboleggia, quindi, l'amore più puro che esista. A questa simbologia, si affiancano altri due termini strettamente legati alla figura della donna-madre: la femminilità e la temperanza. La madre, quindi, viene universalmente considerata portatrice di entrambe queste virtù. La temperanza è la dote che viene tramandata da ciascuna madre ai propri figli per aiutarli a vivere con serenità le prove che in futuro la vita gli presenterà.
[www.ilgiardinodegliilluminati.it]
 
*Fonte: www.pollicegreen.com

Buongiorno a tutt*. Ho deciso da ora in poi di pubblicare il lunedì ed il giovedì, così che chi segue sappia di preciso quando venire a leggere il capitolo. Sono contenta dei piccoli feedback che sto ricevendo: anche solo che mettiate la storia tra le seguite per me è molto importante, una gratificazione per il mio lavoro. 
Sto pubblicando parallelamente anche su Wattpad, con il quale purtroppo non ho molta dimestichezza perchè non mi ci sono mai approcciata. Se qualcuno avesse qualche dritta da darmi per aumentare la copertura della storia anche lì, ne sarei molto grata! 
Spero che la storia vi stia piacendo. 
Un bacio, a presto! 

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Capitolo 5
*** V Fiordaliso ***


V Fiordaliso
 
In un castello dell’Alto Adige, viveva Drusilla, una principessa molto buona e bella, che aveva dei grandi occhi color del cielo.
Un giorno, un cavaliere si smarrì nei boschi e chiese ospitalità alla principessa che nel vederlo se ne innamorò. Il suo amore fu subito ricambiato e presto il cavaliere la chiese in moglie.
Per qualche tempo i due sposi vissero felici, ma con l’arrivo dell’inverno, il cavaliere si fece triste ed irrequieto. Stare sempre rinchiuso nel castello lo annoiava, perciò decise di partire, promettendo a Drusilla di ritornare nella bella stagione. Lei, che desiderava vederlo felice, lo lasciò andare e, allo sbocciare della primavera, cominciò ad aspettarlo. Ma arrivò anche l’estate e lui non tornò.
La delusione fu così grande che Drusilla si ammalò e disse alle fide ancelle che avrebbe voluto morire per porre fine al suo dolore, ma anche vivere per vedere tornare il suo amore. Le ancelle piansero, dicendo che se lei fosse morta, sarebbero morte anche loro. Quei discorsi furono ascoltati dalla Fata dei Fiori che, mossa a pietà per tanta devozione, sia da parte della sposa per il marito, sia da parte delle ancelle per la principessa, fece morire ed insieme vivere Drusilla e le sue ancelle. Trasformò le ancelle in fiori di cicoria e la principessa in Fiordaliso che da allora, ad ogni bella stagione, sbocciano insieme sul ciglio delle strade o nei campi, sempre sperando di veder comparire la lontananza il cavaliere. *
 
 
Federico premette il pulsante del citofono. Una, due, tre volte. Niente, nessuna risposta.
La casa era più nitida sotto la luce del sole, cosa che permetteva di notare una serie di particolari che, la prima volta al buio, non era riuscito a scorgere: il cancello arrugginito, il giardino disastrato, la totale mancanza di arredi per esterno che tanto piacevano alla gente in quelle zone. Stranamente silenziosa, la casa in quel momento aveva le finestre sigillate. Era ovvio che non ci fosse nessuno all’interno.
Se avesse dovuto basarsi soltanto su quell’immagine avrebbe di certo ipotizzato che non ci aveva mai vissuto nessuno, in quella casa. Eppure, era certo di aver visto Emma entrare in quel cancello arrugginito.
Si trovava lì da quindici minuti buoni, ma del suo folletto non c’era traccia.
Dopo la discussione con la madre e Marco aveva bisogno di vederla, parlarle. L’aveva aspettata, un paio di giorni, nella speranza che lei si facesse viva o che le loro strade si incrociassero nuovamente – provvidenzialmente – come era già di fatto successo.
L’aveva pensata costantemente, realizzando che non solo la desiderava fisicamente, ma anche platonicamente. Era come se il confronto con lei lo arricchisse, come se averla incontrata gli avesse regalato qualcosa di nuovo e lo stimolasse ad essere migliore.
Emma era così luminosa dentro che voleva stare anche lui sotto la sua luce. 
Lei, consapevole della luce che possedeva dentro, era come se lo avesse mutualmente scelto, per illuminarlo. 
Federico era ormai convinto che, essendosi scelti, era impossibile che ci fosse un allontanamento così brusco. Emma non se ne sarebbe mai andata senza dirglielo e se non lo aveva cercato c’era di certo un motivo dietro, più che valido.
Pur consapevole del fatto che Emma aveva le sue buone ragioni per non essere lì, con lui, Federico sentiva forte e prepotente il bisogno di vederla.
Per questo aveva raggiunto casa sua e la attendeva.
Processare il fatto di aver bisogno del confronto con una sconosciuta era difficile per uno come lui. Aveva tirato sempre avanti da solo, con le sue forze, la sua indifferenza. Stava bene prima di conoscere lei, ma di recente aveva la sensazione che non sarebbe più stato bene con se stesso senza di lei.
-Che cerchi?
Una voce infantile, dispettosa, che celava una risata.
Federico si riscosse dai suoi pensieri, catapultato nuovamente alla realtà che lo circondava.
Quando si voltò, una bambina, che poteva essere di poco più grande di Alberta, era appesa al cancello della sua villetta, confinante con la proprietà di Emma.
La bambina ricordava vagamente una scimmia allo zoo: le gambe a penzoloni, i codini biondi che dondolavano a destra e a sinistra, il desiderio negli occhi azzurri di uscire ed esplorare il mondo.
-Nessuno – sorrise alla bambina. Si disse divertito che di solito ai bambini veniva insegnato a diffidare dagli sconosciuti, a tenerli lontani. Invece, quella bambina sembrava volerlo avvicinare.
-Non è vero- canticchiò lei, il bagliore della curiosità negli occhi. Gli fece una smorfia, uscendo la lingua, come per punirlo per la bugia che le aveva rifilato lui.
Federico si avvicinò alla bimba, divertito. -E come fai a saperlo?
-Perché guardi lì da tanto! - rise lei, curiosa, allungando la ‘o’ eccessivamente, quasi intonando un piccolo canto.
Per Federico era incredibile come i bambini riuscissero ad essere tanto perspicaci.
Si disse che non aveva senso liquidare la curiosità di una nanerottola. - E tu puoi aiutarmi?
La bimba saltò giù dal cancello. Era così bassa che si vedeva appena la faccina dietro il cancello di ferro battuto. Gonfiò le guance rosa, lo sguardo da monella. –Certo! - gracchiò felice, saltellando sul posto. –Ma mi devi dare qualcosa in cambio.
-Furba – borbottò Federico, sinceramente colpito dall’astuzia della bimba.
–Ci stai? – lo incalzò lei, sempre più impaziente di riscuotere una regalo, in cambio del suo aiuto.
Non c’era niente di male a stare al gioco. –Cosa vuoi, piccoletta?
-Un gelato! – esplose lei urlando di gioia.
-Dimmi se hai visto una ragazza e sarà tuo- annuì Federico. –Ha i capelli corti, castani, tantissime lentiggini, un naso a patata.
La descrizione era molto vaga, ma una bambina con quello spirito d’osservazione e quella scaltrezza non poteva non aver notato una come Emma, così buffa e fiabesca.
La bimbetta fece una smorfia. –Non ho visto nessuna ragazza.
Federico si sentì leggermente deluso da quella rivelazione. Emma non poteva essere diventata invisibile, qualche volta doveva essere passata di lì. - No? Porta dei vestiti molto colorati.
Disperato, cercò di fornire qualche indizio che potesse accendere la memoria della bambina. -No, ma il gelato me lo compri lo stesso?
Federico sbuffò e le indicò la casa. –Abita qui, sicura di non averla mai vista?
-No, no- insistè lei. –Non c’è mai nessuno lì.
-Sei sicura?
La bimba divenne impaziente. –Sì, ora me lo dai questo gelato?
 
Dare credito a una fonte così poco attendibile non era molto saggio, si disse Federico qualche ora dopo. Alla bambina non importava quali fossero le domande né conoscere le risposte, voleva solo la ricompensa, il gelato. E alla fine era riuscita a spuntarla.
Probabilmente non era così perspicace come Federico aveva pensato inizialmente, né tanto osservatrice. Una come Emma saltava all’occhio, a chiunque.
Mentre formulava quei pensieri, ricordò Emma nel suo salotto, durante la festa, mentre ballava ignorata da tutti. Federico si era chiesto come fosse possibile che tutti non la fissassero se non per il suo essere ipnotica, quanto meno per il suo essere stramba.
Non era possibile che catturasse solo la sua attenzione.
Ancora una volta solo in casa, si arrovellava in questi pensieri steso sul suo letto.
Da giorni si sentiva vessato da un’incapacità totale di essere produttivo e attivo. Lasciava che il tempo scorresse inesorabile senza concludere nulla, nelle sue ventiquattro ore.
L’unico momento in cui si sentiva in colpa era a fine giornata, quando realizzava di non aver combinato un bel niente di utile; tuttavia, il giorno successivo, non faceva nulla per cambiare le carte in tavola. O meglio, non aveva fatto nulla all’infuori di cercare Emma: quello era stato un sincero tentativo di riscuotersi da quel torpore in cui era precipitato languidamente.
Si scoprì infastidito all’idea che solo il pensiero di lei potesse essere in grado di tirarlo un po’ su da lui non sapeva neanche cosa.
Afferrò il suo blocco da disegno e il suo carboncino: prese a scarabocchiare nervosamente linee su linee.
Fu in quel momento che il campanello suonò.
Inizialmente annoiato dalla prospettiva di dover dialogare con un essere umano in carne ed ossa, il torpore che sentiva si diradò man man che si avvicinava alla porta di casa, scacciato dall’idea che potesse essere Emma ad averlo cercato. Vederla in quel momento sarebbe stata la provvidenziale e ulteriore conferma del loro legame.
Gli inconfondibili capelli biondissimi di Annamaria lo delusero amaramente.
Federico si trattenne dallo sbuffare una volta aperta la porta, consapevole che la ragazza poteva restarci male. Rimase inespressivo per non tradire la sua delusione: non che non volesse vedere Anna, ma avrebbe preferito una compagnia diversa.
-Ciao – sorrise la ragazza, scuotendo timidamente la mano. Non sembrò cogliere la delusione di Federico neanche lontanamente, e di questo lui fu felice.
-Entra – le disse lui, incamminandosi verso camera sua, certo che lei lo avrebbe seguito.
Annamaria, che con quella casa aveva una discreta familiarità, si chiuse la porta alle spalle e posò la borsa nell’attaccapanni, per nulla ferita dal fatto che Federico non fosse esattamente accogliente con lei, né un gentiluomo. Ormai lo conosceva, quelle cose da lui non se le aspettava.
-Ti ho scritto dei messaggi, non li hai visti?
Federico li aveva letti, ma non aveva avuto voglia di rispondere. Voleva starsene un po’ per i fatti suoi. -Mia madre mi ha messo in punizione, sai com’è – mentì spudoratamente. Sapeva che Annamaria non si sarebbe impuntata su quella menzogna: lui non era mai sottostato alle punizioni della madre, anche solo pensarlo era follia; ma Anna, dolce e ingenua com’era, non aveva motivo di non credergli.
Federico pensò divertito che Emma non gli avrebbe mai creduto.
-Per via della festa? – borbottò comprensiva lei.
Erano giunti nella camera di lui: Anna chiuse la porta mentre Federico tornò a stravaccarsi sul letto con il suo blocco da disegno.
-Già.
-Ma l’avevi organizzata tu? – fece scioccamente.
Federico la guardò da sopra il suo blocco. -Come avrei dovuto organizzarla se sono stato con te tutto il pomeriggio, quella giornata?
La bionda si pungolò il labbro inferiore con l’indice, pensierosa. Stava appoggiata alla porta della stanza, come a prendere confidenza con la stanza. -Quindi era tutta colpa di Marco?
-Siediti – le disse lui, indicandogli la sedia accanto alla scrivania, poi tornò a scarabocchiare. -Comunque, sì, figurati, non avrei mai organizzato niente di così caotico, non è da me.
-Perché non lo hai detto a tua madre? Non dovevi prenderti la colpa al posto di Marco.
Annamaria si sedette con eleganza, accavallando le gambe lunghe. Diede un’occhiata alle scartoffie che Federico teneva disordinatamente sulla scrivania: tutti disegni incompleti che non aveva voglia di mettere in ordine.
-E cosa dovevo dirle? Che subisco passivamente le decisioni del mio amico testa di cazzo? – brontolò lui, seccato.
Il carboncino gli si spezzò tra le mani, creando una linea involontaria sul disegno a cui stava lavorando. Sbuffò nuovamente e lo strappò via, gettandolo per terra. Chiuse il blocco rabbiosamente e lo lasciò sul comodino.
-Non avrebbe dovuto farlo, hai ragione, ma tu potevi reagire quando lo abbiamo visto- tentò lei, timidamente. -Potevi dirgli di fare andare via tutti o che ne so io, almeno ti risparmiavi una punizione che non ti meritavi.
Annamaria, pragmatica e sincera in quello che aveva detto, celava, tuttavia, negli occhi una delusione che Federico non potè che attribuire a Marco. Il modo in cui l’amico si era comportato – non tanto diverso comunque dal suo solito – probabilmente l’aveva riscossa dall’immagine idilliaca che lei aveva di lui, riportandola all’amara realtà: Marco era giovane e voleva divertirsi, mentre lei cercava una relazione profonda con una persona che potesse amarla veramente.
Federico si chiese se finalmente lei non fosse arrivata a realizzare che Marco non faceva per lei.
-Comunque forse hai ragione, non fa per me.
-Cosa?
-Marco – sorrise lei, tristemente. – Non fa per me, è troppo preso da sé stesso, avrei dovuto capirlo quando me lo dicevi tu. Forse mi serviva questa mazzata finale per potermene convincere anche io.
Anna sembrava serena in viso, nonostante la tristezza. Era come se avesse raggiunto un nuovo stadio di maturità che lui non si aspettava di poter scorgere in lei.
-Ce ne hai messo di tempo- borbottò sarcastico.
La bionda gli tirò una gomma afferrata dal disordine della scrivania. -Meglio tardi che mai.
A quel punto, con una nuova consapevolezza negli occhi, Annamaria si alzò dalla sedia e lo raggiunse. Si sedette sul letto, accanto a lui, e si sfilò rapidamente la camicetta blu che indossava.
Federico indugiò sulla pelle candida di lei e sui suoi seni, ben messi in mostra dal reggiseno a balconcino rosa pallido. Anna si sporse verso di lui, gattonandogli più vicina, e iniziò a trafficare con i suoi jeans.
Lui la lasciò fare, come spesso accadeva in quelle situazioni, ed in un attimo si ritrovò in mutande con lei che gli accarezzava dolcemente il petto, indugiando sulle spalle larghe, sul collo, sulla clavicola. Quando si rese conto di essere troppo passivo, allungò una mano per stringersela al petto, slacciandogli con un gesto rapido e deciso il gancetto del reggiseno e lanciandolo via.
Annamaria iniziò ad ansimare mentre lui gli accarezzava le cosce, i corpi seminudi premuti l’uno sull’altro. Le baciò il collo per stuzzicarla, sfiorandole il seno con il dorso della mano e scoprendola desiderosa di un contatto un po’ più spinto e intimo.
Federico ripensò a Emma addormentata sul suo letto, così bella e irraggiungibile, così attraente da farlo stare male. Voleva averlo con lei un momento come quello: voleva scoprire come darle piacere, sentirsi più vicino a lei, stringerla.
A differenza della volta precedente, il pensiero di Emma non lo spinse maggiormente tra le braccia di Annamaria, ma lo allontanò bruscamente.
La bionda, leggermente confusa, si riscosse dal suo abbraccio. -Che ti prende?
Ormai Federico sentiva qualsiasi fuoco libidinoso spento, dentro di sé. -Non ci riesco – disse alla bionda, con leggero imbarazzo.
Anna lo guardò per un attimo curiosa. -Questo lo vedo anche io – gli sorrise lei, indossando la sua camicetta come se quel gesto fosse necessario per proiettarsi nuovamente verso una conversazione. -A che pensi?
Ancora in mutande, Federico incrociò le braccia pensieroso. -Penso ad altro.
-Pensi ad un’altra, se mai- rise Anna, cogliendolo di sorpresa. Certamente non l’aveva mai creduta stupida, ma non sufficientemente perspicacie sì. Evidentemente, la cosa era diventata così palese da essere chiaro anche a lei.
-Ad un’altra, sì- le confermò senza vergogna.
-Chi è?
-Non la conosci – fece lui, sbrigativo, per poi scoprire che parlare di Emma con qualcuno la rendeva stranamente più reale del solito, nella sua testa. Gli diede quasi sollievo avere l’occasione di togliersi quel macigno dalla testa e dallo stomaco, così proseguì: -In realtà non la conosco neanche io, non ho idea da dove venga. So solo che mi piace.
Annamaria rise. -E lei c’era l’altra sera alla festa vero?
-Come lo sai? – scosse la testa, confuso.
-Ti ho visto, prima di andare via: eri in cima alle scale tutto imbronciato e poi i tuoi occhi si sono illuminati, come se avessi davanti una visione celestiale – ridacchiò, prendendolo un po’ in giro
-Quindi l’hai vista.
Scosse la testa. -No, quando ti sei precipitato in mezzo alla folla non ho visto da chi sei andato, però avevo capito che cercavi qualcuno. Eri così strano.
Federico si sentì quasi deluso, aveva sperato che Annamaria avesse visto Emma, non seppe dirsi il perché. -Strano dici?
-Sì – annuì vigorosamente, i capelli biondi dondolanti a destra e a sinistra. – In questi giorni è come se ti vedessi sognare ad occhi aperti una cosa bellissima e poi, quando ti accorgi che non è la realtà, ti vedo cercarla attorno a te.
Annamaria si alzò dal letto, sistemandosi le pieghe della camicetta e legando i capelli in un’altissima coda di cavallo.
-Allora sembrò folle- ironizzò Federico.
-Sai una cosa? – lo incalzò lei. – Forse è meglio finirla con il sesso.
-Oggi non abbiamo proprio iniziato a dire la verità – scherzò lui, ma quando si accorse che lei era seria non poté fare a meno di incuriosirsi sul perché di quella decisione. Da sempre si dicevano “Questa è l’ultima volta” senza però mai concretizzare veramente. In quel momento, tuttavia, negli occhi di Annamaria c’era una convinzione che non aveva mai visto prima.
-Perché? – le chiese.
Lei indugiava nuovamente sui fogli della scrivania.
-Perché penso che ti meriti la felicità che ti ho visto negli occhi, quando la guardavi – gli sorrise, poi prese uno dei disegni. -Posso avere il fiordaliso? È veramente bello.
La bionda scuoteva uno dei suoi disegni: un fiore fatto con il carboncino che neanche sapeva si chiamasse fiordaliso.
Federico annuì.
 
-Disegniamo la mia bambola! - rise Alberta, agitandogli sotto il naso la Barbie bionda.
-Che bella! - sorrise Federico. –Ma mettile un vestito prima.
Alberta sparpagliò gli sgargianti abitini della bambola sul tavolo in legno, alla ricerca di quello che meritava di essere immortalato nel disegno del fratello. 
Federico aveva fatto fatica a guadagnarsi il consenso della madre a tenere Alberta, ma alla fine ce l’aveva fatta. Dopo giorni di silenzio e di apatia, del tempo con la sua sorellina allegra era ciò che ci voleva per riscuoterlo dal suo torpore.
Di Emma non c’era traccia e ormai era passata più di una settimana. Si chiedeva se l’avrebbe mai vista, se fosse normale che una persona potesse sparire in quel modo, senza lasciare tracce.
Si rispose da solo: non c’era niente di normale quando si trattava di Emma.
-Ecco qua! - esultò la bambina.
Il vestitino blu frusciava, sospinto dalla brezza leggera. Era una bella giornata, l’ideale da trascorrere in giardino, sul dondolo, a rilassarsi.
-Mi piace- le sorrise lui.
Alberta lanciava gridolini. –E allora disegna, disegna!
Gli occhi scuri luccicavano di entusiasmo mentre, attenti, seguivano i movimenti della matita sul foglio. Il risultato fu abbastanza scadente: riprodurre i tratti della bambola fu più difficile del previsto. L’immagine sul foglio era storta, gli occhi sproporzionati, i capelli una serie di linee senza capo né coda. Di solito era abile a disegnare le persone, ma con quella bambola proprio non ci riuscì.
La bambina sembrò triste nel dargli la notizia: -È proprio brutta, Fede.
-Lo so, mi dispiace – rise lui. Sua sorella era così dolce che gli dispiaceva anche dirgli la verità.
-Ma non importa! - cinguettò Alberta, cercando di consolarlo. –Lo appendo lo stesso in camera mia, è il disegno del mio fratellone!
Federico rise. La bontà della sorellina era incredibile.
Le stava giocosamente scompigliando i capelli scuri quando una voce disse: -Disturbo?
Emma era raggiante. Un paio di pantaloni blu le avvolgevano morbidamente le gambe, svolazzando al vento come fossero acqua. I capelli corti erano scompigliati attorno al viso, le guance rosa, gli occhi luminosi e sorridenti.
-Ciao- disse, facendo un cenno con la mano ed inclinando la testa.
Quando si avvicinò, Federico potè notare gli altri dettagli del suo volto: le labbra erano lucide, color fragola, e aveva una piccola treccina tra i capelli alla cui base c’era incastrato un piccolo fiore blu identico a quello del disegno preso da Annamaria, un paio di giorni prima.
-Ciao- le disse lui, incantato.
Alberta la osservava come se fosse un’aliena sbarcata con la sua astronave nel giardino di casa sua. Si agganciò al braccio del fratello, intimidita dalla nuova presenza che aveva disturbato il loro pomeriggio.
-Chi è? - bisbigliò verso Federico, ma il tono di voce era troppo alto per non essere sentita.
Il piccolo folletto si rivolse direttamente a lei, accovacciandosi vicino alla bambina. - Sono Emma.
-Ciao- borbottò la sorellina, stringendosi più vicina al fratello maggiore. Un sorriso le increspò le guance, forse la lusinga per la considerazione che Emma le aveva dato.
Federico la spinse dolcemente in avanti. –È un’amica, tutto ok- la rassicurò. –Che ci fai qui?
Avrebbe voluto chiederle dove fosse stata, perché ci aveva messo tanto a tornare da lui, perché non gli aveva lasciato modo di contattarla, ma non fu abbastanza coraggioso da rovesciarle tutti quei dubbi addosso. Probabilmente, gli era sufficiente che lei fosse lì, per lui.
-Passavo- rispose vaga. –Ti ho disturbato?
Sollevò le sopracciglia folte, interrogative.
Federico scosse la testa. - No, vieni.
Emma lasciava scivolare gli occhi verdi in giro per il giardino, curiosi e attenti, affamati di tutti i dettagli che riuscivano a scorgere. Lì, in mezzo al verde, i capelli corti spettinati dalla brezza, sembrava uscita da un film sulle fate.
Si chinò nuovamente davanti ad Alberta, con un grande sorriso sul volto tondo. –Tu come ti chiami?
La piccola strinse la mano che le stava tendendo. –Alberta, ma Fede mi chiama Albertina, quindi puoi farlo anche tu.
-Albertina- ripetè Emma, accarezzando con le labbra sottili il suono di quel nome da bimba. Guardò Federico di sottecchi. – Grazioso, come te.
Le guance della bimba si fecero rosse rosse per l’imbarazzo che quel complimento inaspettato le aveva provocato. –Grazie- bisbigliò. –Vuoi giocare con le bambole?
-Sì.
 
Saper trattare con i bambini è un dono. Un dono che, di certo, Emma possedeva.
Alberta le ronzava attorno come se fosse un’ape attorno a un fiore. Ne era abbagliata: ascoltava tutto ciò che le diceva come se fosse oro colato, la seguiva con attenzione e sorrideva felice.
Il ritratto della bambola fu sostituito dall’immagine di Alberta ed Emma che giocavano insieme, le bambole in mano e i vestiti in miniatura sparpagliati sul prato.
-Ti piace disegnare?
Emma gli era a fianco. Federico era così preso da ciò che stava rappresentando che non se n’era neanche reso conto.
Alberta era distratta dalle sue bambole, con le quali conversava come se fossero persone.
Dopo aver chiuso di scatto il blocco per far sì che lei non vedesse rispose vago: -Di tanto in tanto.
Emma piegò le labbra in una smorfia, curiosa. Si sedette accanto a lui, così vicina che Federico poteva sentire il calore del suo respiro e il suo buon profumo floreale.
-Me li mostri? – gli chiese, sfilandogli dalle mani il blocco da disegno. Aveva le dita gelide.
Federico la lasciò fare, leggermente in imbarazzo. - Sono solo scarabocchi.
Emma sorrise, iniziando a sfogliare le pagine. –Mi piace l’arte astratta – scherzò, poi vide il suo sguardo colpito davanti ai disegni. -Odio la falsa modestia – sentenziò alla fine, severa ma scherzosa, mostrandogli uno dei disegni che rappresentavano Alberta.
Federico sapeva di essere discreto ma era da sempre stato severo con sé stesso. Non si riteneva all’altezza neanche di quel talento, che conservava solo per sé stesso e riservava a quei pochi tanto coraggiosi da impuntarsi.
-Dovresti lasciare giudicare agli altri se sei bravo o no, non ti pare? - lo incalzò lei, studiando uno dei suoi ultimi disegni: una pianta di gelsomino. Lo aveva fatto il giorno dopo averla conosciuta.
-Sono in grado di dare un giudizio obiettivo a ciò che disegno.
Emma scosse la testa, il sorriso sereno ancora in volto. –Ti sbagli.
-Sì? - fece lui, osservando il modo in cui lei accarezzava le pagine del suo blocco. Aveva delle mani delicatissime, con le dita sottili.
Mise una delle sue mani sulle sue, moriva dalla voglia di toccarla. Erano davvero gli opposti: la mano di Federico era bollente su quella gelida di lei, le dita forti, callose, con qualche polpastrello ancora macchiato dai carboncini che aveva usato per tutta la mattina.
Emma lo guardò dritto negli occhi, come ipnotizzata.
-Sì- annuì, deglutendo. Il fatto che Federico l’avesse toccata non l’aveva lasciata indifferente, e di questo Federico era contento. –Con noi stessi o siamo distruttivi o eccessivamente esaltati, mai obiettivi.
Lui le sorrise, intrecciando le dita alle sue. - Ed io cosa sarei?
-Distruttivo, è evidente – scoppiò a ridere lei, una risata bella e dolce, melodiosa.
Il tono di Emma era tranquillo, allegro, come se stessero parlando della bella giornata di sole o delle bambole di Alberta. Aveva un modo di spiegare le cose semplice, diretto, senza troppi giri di parole o sotterfugi.
Federico rise. -E dov’è la tua laurea in psicologia?
-So quel che dico.
Ormai distratti l’uno dall’altra, Federico avvicinò il viso a quello di lei.
-Ti ho cercata- le bisbigliò, guardandola dritta negli occhi.
Emma non si ritrasse. - Lo so.
- Dov’eri?
Emma inclinò la testa di lato e fece una cosa che Federico non si aspettava: gli baciò una guancia. Poggiò le labbra sottili poco al di sopra della sua barba, per pochi secondi. Quel gesto semplice, quasi infantile, destò lo sconvolgimento di lui, che si sentì bruciare la guancia e lo stomaco di piacere.
- Più vicina di quanto pensi- Emma incurvò le labbra. –Ti piace disegnare fiori? - disse, indicando il blocco da disegno.
Federico, ancora intontito, annuì. –Solo ultimamente.
Aveva iniziato con i fiori da quando aveva visto per la prima volta. Era come se tramite i fiori riuscisse a rappresentare le sfumature di lei.
-Sono belli, realistici- si complimentò lei. Gli scoccò un’occhiata. –A mio nonno piacerebbero.
-Puoi prenderne uno, se vuoi – si riscosse dal torpore che lo aveva colto dopo quel bacio di lei, così infantile eppure così intenso.
Emma annuì, felice, lasciando la mano di lui. –Grazie- disse, continuando a sfogliare le pagine. –Comunque, tua sorella è adorabile.
Scoccarono entrambi un’occhiata verso la bambina, ancora intenta a giocare con le sue bambole.
-Lo so.
Emma rise, pizzicandogli un braccio giocosamente. - Non ti somiglia.
-Mi stai velatamente dicendo che non sono adorabile come lei? - rise lui, stando al gioco.
Emma fece spallucce. Sorrideva ancora. –Userei un altro aggettivo per descriverti.
-Sarebbe?
Lei lo guardò dritto negli occhi. Aveva gli occhi di una sfumatura più chiara rispetto al solito, le lentiggini brillavano come stelle su quelle guance pallide. –Non te lo dirò mai- sibilò, scoppiando a ridere un attimo dopo.
-Quanto mistero- la punzecchiò lei, dandole delle gomitate delicate.
-I misteri mi divertono- ridacchiò. Staccò un foglio dall’album. –Prendo il gelsomino- sentenziò, sventolandoglielo sotto il naso.
Federico le sorrise. –È il più bello.
-Sicuramente.
Emma era raggiante più che mai e quell’aura di mistero che si portava addosso era così affascinante che Federico non riusciva a smettere di guardarla.
Quando lei se ne accorse lo fissò interrogativa, senza smettere di sorridergli.
Dopo il bacio che gli aveva dato, Federico decise di potersi sbilanciare anche lui e le accarezzò una guancia. Emma non si ritrasse, anzi pareva essere felice di quel gesto.
–Sai che fiori sono? – chiese, curioso, indugiando sul fiore che Emma teneva alla base della treccia che aveva tra i capelli.
–Tu lo sai? – fece lei, afferrando la mano di lui. Federico scosse la testa. -Fiordalisi. – Lui la guardò interrogativo. -A mio nonno piace il giardinaggio – rispose lei alla domanda che lui ancora non gli aveva posto, come se gli avesse letto nel pensiero.  
-Emma vieni a giocare!
Albertina strillava, scuotendo la mano in direzione di Emma come se lei non l’avesse vista.
La ragazza si scostò dalla bolla di intimità che avevano creato, si alzò e riprese a giocare con la piccola, in un susseguirsi di grosse risate e inseguimenti.
Federico le osservò all’ombra del suo dondolo, mentre la luce del sole si faceva via via più fioca. Si disse che Emma probabilmente non aveva fratelli o sorelle, si vedeva dal modo in cui giocava con la sorella. Si disse anche che era buffo che al nonno di lei piacesse il giardinaggio, dato che la loro proprietà aveva il prato più spoglio della zona.
 
Quella sera, nel suo lettino, l’ultima cosa che Alberta gli disse prima di chiudere gli occhi fu: -Fai venire Emma di nuovo, un’altra volta?
Le aveva risposto con un sorriso prima di uscire dalla cameretta, e questo le era bastato per potersi addormentare serenamente.
La ragazza lo aspettava in giardino, stesa sul dondolo con le braccia mollemente appoggiate sul ventre. Osservava il cielo punteggiato di stelle, le palpebre pesanti sugli occhi verdi.
-Dov’è tua madre? - gli chiese lei, quando si accorse che lui le era vicino.
Federico aveva visto il dubbio lampeggiare nei suoi occhi quando, dopo averla invitata a cena, le aveva chiesto di apparecchiare solo per tre. Alberta non le aveva dato il tempo di chiedere nulla: l’aveva trascinata in cucina per recuperare piatti e bicchieri.
-Fa l’infermiera, oggi aveva il turno notturno. Tornerà domani mattina- spiegò lui, sedendosi sull’erba vicino al dondolo. Non le avrebbe mai chiesto di spostarsi per fargli posto, preferiva osservarla in quella posizione, beata e rilassata.
-È un lavoro nobile- fece lei, mettendosi su un fianco per poterlo guardare in viso mentre parlavano.
Federico non amava parlare della madre. Sentiva la voglia di tagliar corto per poter approfondire altro che riguardasse Emma. - Era quello che voleva fare nella vita, la passione l’ha ripagata.
-Devi essere fiero di lei – disse lei, sorridendogli. -Ci litighi spesso? – chiese poi, alludendo a ciò che aveva sentito la mattina dopo la festa. 
Federico scrollò le spalle. –È difficile comunicare con lei.
Emma gli sorrise. Allungò una mano verso il viso di lui e gli fece una carezza. -Se subisci il mondo passivamente diventa difficile comunicare con tutti.
-È nella mia natura – deglutì lui, sentendo brividi corrergli su per la schiena. Tutto quello che lei faceva e diceva su di lui suonava come se lei lo conoscesse da sempre. Lo aveva letto così bene che lui si sentiva quasi in imbarazzo all’idea di non sapere nulla di lei.
–Non è vero – fece lei, continuando a toccargli il viso.
-No?
-No – annuì lei, inumidendosi le labbra con la lingua. – Sei diventato così per tua scelta, quindi puoi decidere di smettere quando vuoi e se lo vuoi.
-Quindi questa laurea in psicologia ce l’hai- ironizzò lui.
Federico mise la sua mano sopra quella di lei, ancora sul suo viso. – Mi parli come se fossi un libro aperto, ma non mi conosci nemmeno.
Emma a quel punto si mise seduta, la schiena curva verso di lui per poterlo guardare dritto negli occhi, per potergli stare vicino. –Forse ti comprendo meglio di quanto tu comprenda te stesso.
-Cosa devo fare per evitare che tu sparisca di nuovo? – le chiese a quel punto, un po’ per cambiare discorso, un po’ perché voleva avere la garanzia che lei non gli facesse più uno scherzo del genere. Voleva vederla, stare con lei, e sapeva che anche per lei era lo stesso.
Emma si alzò in piedi, stiracchiandosi mollemente le braccia. Federico si alzò in piedi a sua volta, per poterla avere sempre di fronte mentre parlavano.
-Ma allora sono davvero la tua ossessione- rise lei sarcastica.
Lui le prese il viso tra le mani. -Lo sai.
-So cosa? – fece lei con sguardo furbo.
-C’è qualcosa tra noi, lo sai anche tu- spiegò lui senza l’ombra del fastidio. Non aveva paura di dirlo davanti a lei perché sapeva che anche lei era dello stesso avviso.
Qualsiasi cosa fosse in procinto di dire lei, fu interrotta bruscamente.
-Cosa è questa musica? – borbottò al posto di rispondere a Federico, voltandosi verso la direzione da cui la musica assordante proveniva.
Emma sfuggì alla carezza di Federico e si arrampicò sul muretto, sbirciando curiosa tra le altre villette del vicinato. –Sai chi abita lì? - chiese, indicando una casa poco distante.
Federico la imitò con minor agilità di quella dimostrata da lei. –È casa di Marco.
-L’amico idiota? - rise lei.
-L’amico idiota- confermò con uno sbuffo. –Starà dando una festa, niente di nuovo, evidentemente quella fatta a casa mia non è stata sufficientemente epica.
Emma fece un salto, tornando con i piedi sull’erba fresca. –Bene, se non altro qualcuno si lamenterà- disse soddisfatta.
-Se la maggior parte dei vicini è tra gli invitati, ne dubito - la raggiunse lui.
Lo pungolò con un dito. - Magari puoi lamentarti tu.
–Magari può farlo Alberta.
-Sicuramente! Con questo rumore la vedremo spuntare infastidita a minuti.
- Figurati, quella dorme come un sasso.
Emma fece spallucce. –Beh, allora il problema è solo nostro.
-Immagina che sia una musica di sottofondo- rise lui.
-Devo usare parecchia immaginazione per farmi piacere questa musica.
Quelle parole furono profetiche: la fastidiosa musica pulsante fu sostituita da una canzone completamente diversa.
-Ora sì che si ragiona! - sospirò di sollievo Emma.
Federico osservò come si stirava la schiena, allungandosi come un gatto. -Questa è di tuo gradimento?
-Vuoi scherzare? Sono i Beatles, ‘Strawberry Fields Forever’!
-Non li ho mai amati molto- disse lui, più preso da lei e dall’idea di poterla baciare.
Emma, dal canto suo, era scandalizzata, gli occhi sgranati. –Ma dai, non ci credo.
-Credici, è così- le sorrise lui.
Iniziò ad ondeggiare la testa avanti e indietro, a destra e a sinistra, seguendo il ritmo di una canzone che aveva del malinconico in sé. Le ciglia sfioravano le guance piene, dandole un’aria sognante e beata.
Muoveva le labbra senza però pronunciare una parola, accarezzando ogni strofa della canzone come se stesse gustando il dolce più buono del mondo.
Federico era, come sempre, rapito.
-Non senti com’è magica? - sussurrò lei.
No, non lo sentiva. –Sei bellissima.
Emma spalancò gli occhi a quella frase, e la magia svanì, soffiata via dal vento marino e dalla fine della canzone.
L’istinto aveva detto a Federico cosa dire, come dirlo, e anche il perché dirlo. Non c’era niente di male a rivelare la verità, anche se significava rovinare tutto. -Ti voglio baciare – proseguì serio e deciso.
Gli occhi verdi di lei erano luminosi nella notte.
Colmò in pochi passi la distanza che li separava e la strinse, mettendole una mano alla base della schiena e l’altra sul viso.
Le labbra di Emma erano bollenti e morbide. A differenza della sera della festa, chiuse gli occhi mentre la baciava, lasciandosi andare a quel momento come non aveva fatto prima.
Federico si sentì elettrico in ogni singola parte del suo corpo, a conferma di quello che aveva sempre saputo fin dall’inizio: tra loro c’era chimica, una chimica che doveva essere per forza approfondita.
Le leccò il labbro inferiore lentamente ed Emma mugolò qualcosa di incomprensibile, deliziata da quel gesto. Fu un attimo e le loro lingue si intrecciarono, rivelando un intimo desiderio reciproco.
Federico la strinse ancora, il petto di lei che premeva su quello di lui, quasi a toglierle quel poco di fiato che le restava.
Si sentiva girare la testa per il piacere, non aveva mai provato una cosa del genere per nessuna. Proprio per questo motivo, quando Emma sciolse quell’abbraccio in cui erano imprigionati, per lui la delusione fu quasi fisicamente dolorosa.
Lo guardò, leggermente ansante, con gli occhi verdi spalancati. Si sfiorò le labbra con le dita sottili e deglutì, poi corse via, facendo sentire Federico ancora una volta respinto.
La guardò correre via ma non la inseguì, il suo orgoglio non poteva sopportarlo.
 
Il fiordaliso è un fiore che ha dato prova della sua esistenza lontana nei secoli. Sono stati infatti ritrovati in campo archeologico dei resti che risalgono al periodo neolitico, quando ancora l’uomo viveva una sorta di vita primitiva.  La sua bellezza ha vissuto intoccata per secoli e secoli, passando per la civiltà greca e romana, e lungo tutta l’età moderna.
Si tratta infatti di un fiore delicato ma al contempo molto vivo. I suoi petali talvolta posseggono delle venature argentee e color porpora, rendendolo interessante come un quadro appena dipinto da un grande artista.
[www.pollicegreen.com]
 
In oriente si usa regalare il Fiordaliso alla persona amata nella speranza di un legame; è il simbolo della felicità e della leggerezza.
[www.ilgiardinodegliilluminati.it]
 
*Fonte: www.favolefantasia.com

Buongiorno! Come preannunciato, ecco il capitolo del giovedì. Cercherò sempre di essere il più puntuale possibile con la pubblicazione, anche se la storia ha poco seguito: mi piace essere precisa e rispettare il mio lettore. 
Spero che il racconto vi stia piacendo, fatemi sapere che cosa ne pensate. 
Ci aggiorniamo lunedì, questa volta in serata, per il capitolo sei. 
Buona giornata! 

 

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Capitolo 6
*** VI Margherita ***


VI Margherita
 
Bellis, figlia del dio Belus, un giorno, mentre danzava con il suo fidanzato, attirò l’attenzione del dio della primavera, il quale invaghitosi della fanciulla tentò di strapparla al fidanzato, che spaventato di perdere l’amata reagì in modo molto violento scagliandosi contro la divinità. La Fanciulla per non
guardare quel cruento massacro, chiuse gli occhi e si trasformò in una margheritina. *

-M’ama o non m’ama? Non m’ama o m’ama?
Canticchiava questo Alberta, quella mattina. Agitava Barbie e Ken in una danza che scatenava la sua ilarità, al ritmo di quel motivetto inventato da lei.
Federico entrò in cucina sbadigliando: -Buongiorno. 
Era ancora intontito dopo la sera precedente. Aveva passato la notte a ripensare a quello che era successo con Emma, senza tuttavia riuscire a darsi una spiegazione razionale sul perché lei fosse scappata via in quel modo. 
Lo vedeva quando la accarezzava, quando le parlava, che c’era qualcosa tra loro. Sapeva che qualunque cosa sentisse per lei, era ricambiata, perché anche lei lo cercava come faceva lui. 
Alla luce di quelle consapevolezze che aveva, non sapeva spiegarsi il perché di quello che era successo. 
-Buongiorno, tesoro- sorrise Simona al figlio. –Vuoi del caffè?
Sua madre era più calma rispetto ai giorni precedenti. Essersi preso cura di Alberta per tutto il giorno precedente aveva senza dubbio contribuito a fortificare quella rinnovata fiducia. 
In più, erano giorni che Marco non si vedeva zampettare in giro per casa, e sicuramente essersi sbarazzata di una presenza tanto rozza che aleggiava in casa sua, rendeva Simona più accomodante nei confronti del figlio. 
Non attese una risposta da parte di Federico: era già indaffarata con la caffettiera.
-Alberta si è svegliata molto presto stamattina- disse la donna, armeggiando con i fornelli. 
Buffo, si disse Federico. Buffo come la sorellina fosse riuscita a dormire con il frastuono della festa di Marco, protrattosi fino alle due. 
L’aroma di caffè riempì la stanza, risvegliando quella parte del suo cervello che era ancora assopita.
-Dice che si è molto divertita con te – proseguì lei. 
Federico si strofinò il viso. La barba gli punzecchiò le dita, spinosa più che mai, segno che avrebbe dovuto radersi. Si chiese come aveva fatto Emma ad accarezzarlo senza pungersi le dita. – Non abbiamo fatto niente di speciale. 
In salotto, intanto, Alberta continuava con la sua pantomima. -M’ama o non m’ama? Non m’ama o m’ama? – si sentiva in sottofondo. 
Federico si massaggiò le tempie mentre Simona gli riempiva la tazza di caffè. –Mi ha detto che avete disegnato, giocato con le bambole, cenato in giardino… 
Fu in quel momento che capì il motivo di tanta socialità da parte della madre. Certamente lei era sempre stata curiosa, ma negli ultimi giorni aveva sedato le sue solite domande come punizione per il comportamento che Federico aveva assunto, per la festa. 
Soltanto un pettegolezzo venuto fuori dall’innocente bocca della sorellina poteva aver riacceso il fuoco della mamma ficcanaso in Simona. 
-Le sue attività preferite- borbottò, sorseggiando dalla tazzina fumante, speranzoso che la madre non si spingesse a chiedere nulla relativamente a Emma. 
Quella speranza si rivelò essere vana pochi istanti dopo. - E mi ha detto anche che c’era una tua amica… 
Eccolo, il punto del discorso. 
L’idea di Emma, in quel momento, non gli dava le sensazioni solite: attrazione, mistero, bellezza… In quel momento l’unica cosa che sentiva vivida in lui al pensiero di lei era il fastidio. Si era sentito respinto, per la terza volta, senza una spiegazione valida. 
Non aveva voglia di pensare ad Emma, anche se lo faceva, e non aveva voglia di parlare di lei. 
-Hai qualcosa da chiedermi? 
La frase gli uscì quasi come un ringhio, come se volesse scacciare qualsiasi cosa gli si volesse avvicinare. 
Simona, che quasi non si accorse del fastidio negli occhi del figlio, pareva compiaciuta: era riuscita ad arrivare dove voleva. La sua fame di informazioni infiammava gli occhi scuri. –La conosco?
Federico constatò amaramente che sua madre non aveva un minimo di empatia, nei suoi confronti. Le interessava solo sapere i fatti suoi, a qualunque costo. - No.
-State insieme? – continuò, affondando un metaforico coltello nella piaga dell’insofferenza del figlio. 
-No- gli uscì di nuovo come un ringhio. -È un’amica. 
Simona sembrò finalmente capire che qualsiasi approfondimento sulla questione, sarebbe stato fuori luogo, dal momento che il figlio non desiderava esporsi sull’argomento.
-È la prima amica che porti a casa- commentò lei, flebilmente. 
Sapeva di aver mentito per il semplice fatto che conosceva Annamaria e sapeva che frequentava la loro casa. Quello che, tuttavia, Simona intendeva non era del tutto sbagliato: era la prima volta che presentava qualcuna ad Alberta, la prima volta che si interessava sinceramente ad una ragazza. Certo, quest’ultima cosa la madre non poteva saperla, ma Federico era consapevole dell’anomalia che costituiva Emma nella sua vita e in qualche modo sentiva di poter giustificare sua madre e la sua petulanza. 
Tuttavia, avere le idee così poco chiare su tutta la situazione, gli generava fastidio. 
-È venuta a trovarmi, non l’ho invitata. 
-Non l’hai mandata via. 
A quel punto sospirò esasperato, non ne poteva più. Ostentava così tanto fastidio, che anche Simona fece un passo indietro in quella corsa sfrenata per soddisfare le sue curiosità. –Cosa vuoi che ti dica?
-Tesoro, non so. Vorrei che mi raccontassi- E sembrò quasi una supplica, una preghiera affinchè il figlio la rendesse più partecipe della sua vita. 
Rimase neutrale davanti a quell’ammissione. Dopotutto, per la storia di Marco l’aveva ignorato per giorni senza pensarci troppo su. 
Inoltre, a lui non interessava essere accomodante nei confronti della madre, ce l’aveva ancora con lei. -Da quando vuoi che condivida con te la mia vita privata? 
Sembrò sfoderare la sua arma segreta del rancore, in quel momento. Severo come al solito, imperturbabile nel condannare la donna che lo aveva messo al mondo. 
-M’ama o non m’ama? Non m’ama o m’ama? – Alberta continuava a cantare a squarciagola. 
-Dio, Federico! - Simona si passò una mano sul viso, forse stanca di sentirsi giudicata dopo tanto tempo dal figlio. –Sono tua madre: è ovvio che mi interesso alla tua vita. So che vorresti ci fosse tuo padre in questo momento…
Si era sbilanciata troppo nel nominarlo. 
-Sì, lo vorrei- la fermò lui. 
-Ma lui non c’è…- E la voce le si inclinò, fino a tremare, sull’orlo delle lacrime. –Non è qui… Ci sono io, qui con te. 
Osservò la madre, ma non si sentì per niente in colpa. -Sai che non è qui per colpa tua… Per questo fai così, vero?
Simona cercò di ignorarlo, per preservare la sua dignità genitoriale. –Vorrei solo aiutarti.
-Ma io non ho bisogno del tuo aiuto- rise, senza nemmeno accorgersene. –Sei molto più brava a distruggere le cose piuttosto che ad aggiustarle. Me la cavo meglio da solo. 
Vomitò quelle parole velenose senza neanche esitare un secondo. Abitualmente c’era un filtro tra la sua testa e la sua bocca, così da evitare di guadagnarsi il rancore della gente. A lui piaceva stare nel limbo di chi veniva ignorato piuttosto che farsi ricordare per essere uno stronzo. 
Lui fece per alzarsi, aveva bisogno di starsene per i fatti suoi. 
-Federico! – strillò sua madre, contrariata. 
-Che c’è? Cosa vuoi? 
-Smettila! – strillò ancora. Sembrava una bambina capricciosa in quel momento: le guance arrossate, gli occhi lucidi di lacrime. La somiglianza con Alberta era sconvolgente. –Sei crudele!
Federico sorrise sarcasticamente davanti a quelle parole. - Me la cavo, anche con la mia crudeltà. 
Ed uscì dalla stanza, senza soddisfazione, senza sapere se fosse più arrabbiato o ferito, o triste. Quelle emozioni erano sempre così nascoste che quando si presentavano non sapeva distinguerle nemmeno lui. 
-M’ama o non m’ama? Non m’ama o m’ama? – continuava Alberta, ignorando la lite nell’altra stanza. 
-Alberta, smettila! - disse gelido alla sorella, salendo le scale che lo avrebbero condotto in camera sua, nel suo rifugio. –Non ti ama!
La bambina lo guardò, confusa e triste al tempo stesso. 

Parlare con il padre era l’esatto opposto: semplice, senza bisogno di troppi giri di parole o filtri. 
Seduto ad uno dei tavoli del Bangladesh, quella sera raccontò a Giancarlo tutto quello che era successo, dall’arrivo di Emma fino all’ennesima lite con la madre. 
-Sai cosa è tutta questa rabbia repressa che hai? – borbottò il padre dall’altra parte della cornetta, masticando qualcosa di indistinto. 
Federico prese a girare il dito sul bordo del bicchiere pieno di birra. Anche se erano le sei, farsi stordire dall’alcol era sempre un piacere. 
Aveva sentito un bisogno così forte di allontanarsi da casa che poco dopo la discussione con Simona era andato via, portandosi a seguito il suo blocco e le sue matite. Aveva disegnato per ore sulla spiaggia, per poi rintanarsi in un posto decisamente meno solitario. 
-Non ho rabbia repressa – brontolò e bevve un sorso dal boccale. 
-Per questo si chiama repressa, non sai di averla- rise Giancarlo, con quel vocione che lo contraddistingueva. 
Sospirò, con un mezzo sorriso che il padre non poteva vedere. –Illuminami. 
-Il tuo culo orgoglioso non accetta i rifiuti e punisce il mondo al posto di chiedersi ‘perché?’. 
Aveva capito, ma non riusciva a dargliela vinta con così tanta facilità. Ammettere di aver torto gli era da sempre troppo difficile. 
-La lampadina non si accende. 
Giancarlo ridacchiò in uno sbuffo. - Ma sì che si accende, non sei deficiente- lo incalzò. –Stavolta non è colpa né di tua madre né di tua sorella, e tu lo sai. 
-E di chi sarebbe? - borbottò. 
-Se la risposta te la do io, che gusto c’è?
-Stronzo.
Giancarlo rise. –Sono tuo padre, no? Fatti della stessa pasta. 
-Pasta di merda. 
-Al posto di fare il coglione, va a scusarti con Simona. Non mettere a soqquadro la tua vita perché le cose non vanno come vuoi tu. 
Federico scuoteva la testa già da minuti. –Come se le avessi dato tanta importanza! - commentò infastidito. 
Emma era il centro dei suoi pensieri da giorni, come se nell’esatto momento in cui l’aveva conosciuta tutto il resto del mondo fosse andato in blackout. La desiderava, la ammirava, si chiedeva cosa pensasse o cosa facesse quando non era con lui. 
Federico sapeva che in realtà l’importanza gliel’aveva data eccome, ma si sentiva troppo ferito per poter mettere le mani avanti, anche con il padre. Lui, che non si era mai sbilanciato per nessuno in vita sua, l’unica volta in cui aveva osato farlo si era visto sbattere la porta in faccia, anche se solo metaforicamente. Uno schiaffo gli avrebbe fatto meno male di vedere Emma scappare dopo quel bacio che si erano dati, si disse. 
-Ah! - gridò Giancarlo, un bambino entusiasta per aver scoperto chi metteva le mani nella marmellata. –Visto che sapevi di che cosa stavo parlando! 
-Ti sbagli – brontolò Federico, sorseggiando un altro po’ di birra. -E poi su cosa dovrei interrogarmi? Sul fatto che mi ha dato un due di picche? 
-Ma ne capisci di donne? – lo prese in giro il padre. – Sono complicate, fanno le sostenute, mica puoi avere quello che vuoi subito. 
Lui non aveva mai preteso che Emma cadesse tra le sue braccia alla prima avance, ma non era possibile che lo respingesse dopo avergli dato il via libera tutte le volte. Sembrava volerlo tentare per gioco, per poi ritrarsi all’ultimo minuto. 
Non aveva neanche preteso di avere da subito quello che voleva, era anche disposto a faticare per ottenerlo… Ma non sapeva se Emma lo meritasse, quello sforzo. 
-Io mica ho detto questo, è che… non so dove cavolo ho sbagliato con lei. 
Giancarlo, che con le donne non ci aveva mai saputo fare dal momento che era stato sposato per vent’anni con la stessa donna, la sua prima fidanzata, non aveva certamente consigli da latin-lover da dispensargli. 
-Smettila di fare il frignone, Federico –lo riprese bonariamente. 
-Dimmi cosa fare, mio maestro. 
-Innanzitutto, non sputare veleno su chi non ha colpe, scusati con tua madre e tua sorella – disse Giancarlo. – Se la tua lampadina non si accende e non riesci a spiegarti perché lei se ne sia andata, passa all’atto pratico e vaglielo a chiedere. Rimuginare sulle cose a lungo non pone rimedio, ci sono già passato. Muovi il culo, piuttosto. Ti saluto!
E la telefonata si interruppe così, bruscamente, senza che Federico avesse il tempo di salutarlo e di aggiungere qualcos’altro per difendersi.  
In due sorsi finì la birra. Di nuovo si sentì deliziosamente stordito. 
-Te ne offro un’altra. 
Federico fece una sincera fatica a riconoscere il suo interlocutore: i capelli riccissimi e il sorriso malizioso spiccavano all’interno del locale, guadagnandosi l’attenzione di tutti, ma inizialmente non collegò quella ragazza a nessuna delle sue conoscenze.  
Lei si sedette al suo fianco, accavallando le gambe lunghe. A quel punto Federico fu colto da un’illuminazione e capì che si trattava dell’amica di Marco che ci aveva spudoratamente provato durante la festa. 
Non ne ricordava il nome, ma qualcosa gli disse che non era necessario sforzarsi. 
Marco, biondissimo e spavaldo come al solito, si stava facendo strada tra i tavoli per raggiungerli, un braccio sulle spalle della gemella della ragazza che aveva lui al fianco. 
-Sbaglio o ti avevo dato il ben servito? – borbottò seccato. 
La riccia arricciò le labbra, rigorosamente tinte di rosso. –Non sbagli.
-E allora non ti disturbare ad offrirmi un bel niente – la liquidò. 
-Fede! – lo salutò Marco, stravaccandosi nel posto di fronte a lui. Pareva ignorare la discussione che c’era stata tra di loro, come se non fosse mai avvenuta. 
-Marco – lo salutò di rimando, senza ricambiare con altrettanto entusiasmo. 
-Che facevi da solo? – chiese, ma non gli diede il tempo di rispondere. – Per fortuna ci siamo noi ad allietarti la serata, no?
Federico lo trovò più irritante e superficiale del solito, proprio non poteva sopportare di condividere il suo spazio vitale con Marco, quella sera. 
Fece per andarsene, ma una mano lo trattenne. 
La ragazza accanto a lui – di cui non si sforzò neanche di ricordare il nome – gli sorrideva, furba. -Non mi hai dato la possibilità di giocare tutti gli assi nella manica. 
-Non mi interessi – la liquidò nuovamente, sperando che questa volta il messaggio attecchisse.  
Lei ebbe un guizzo al labbro, quasi come se quel rinnovato rifiuto l’avesse eccitata. - È che di solito non ho neanche bisogno di sforzarmi – spiegò senza che lui le avesse chiesto un bel niente. -Tu invece fai il difficile, mi piace. 
-Non faccio il difficile per piacerti. 
Lei fece l’occhiolino, facendo svolazzare le sue ciglia lunghissime. -Sì, certo. 
Non poteva riuscire a sopportare niente di più, quella sera. 
Scoccò un’occhiata a Marco, che si faceva i suoi comodi tutto preso dalla ragazza al suo fianco. Federico non gli aveva mai chiesto di rimediargli un appuntamento, eppure lui aveva insistito per presentargli quella ragazza, e probabilmente aveva detto a lei di insistere per farsi portare a letto, lo sapeva. 
L’amico sembrava incurante del fatto che Federico fosse ancora arrabbiato con lui, cosa che lo faceva ancora più arrabbiare. La superficialità che aveva rispetto al loro rapporto non lo aveva mai ferito, ma in questo caso lo aveva fatto infuriare. 
Ripensò al padre che gli diceva di non prendersela con il mondo a causa del suo orgoglio ferito da Emma. Certamente, prendersela con sua madre e sua sorella era stato ingiusto, lo sapeva, ma con Marco era solo l’apoteosi di anni di fastidi che non aveva mai esternato. La rabbia che sentiva in sé per tutt’altra ragione poteva infuriare su Marco, non se ne sarebbe pentito. 
Si alzò in piedi di botto, urtando rumorosamente il tavolo e attirandosi così tutte le attenzioni addosso. 
-Me ne vado – sentenziò, duro. 
-Ma dai stronzo, resta – ridacchiò Marco, facendogli stancamente cenno di sedersi. 
-No, Marco, sono stanco di queste serate da cazzoni che mi imponi, io non sono così, non sono come te. A me non frega niente di scopare con la prima facile che incontri in giro per la strada, non mi interessa organizzare festini, non mi interessa questa amicizia fatta di nulla. Ti saluto. 
Si voltò senza vedere come il biondo avesse reagito alla sua sfuriata, non gli importava. 
Mentre percorreva il locale verso l’uscita, si rese conto che la discussione non era passata inosservata neanche agli sconosciuti presenti. Aveva dato spettacolo, senza neanche volerlo. 
Arrivato all’uscita scorse sulla porta Annamaria, gli occhi sgranati e la bocca spalancata per lo stupore. Probabilmente anche lei aveva sentito tutto. 
-Federico – lo chiamò. 
Ma lui rigò dritto e andò via, aveva voglia di stare da solo. 

Mentre percorreva la strada per arrivare a casa tutto si aspettava fuorché di incontrare Emma. 
Si aspettava che la ragazza sparisse per giorni, come aveva già fatto, per poi ricomparire quando la situazione si fosse distesa. Federico sapeva che lei sapesse di averlo ferito, in qualche modo; quindi, gli sembrava ovvio che lei fuggisse, non volesse affrontarlo, o almeno non subito. 
Invece, quella sera, nel rifare il percorso verso casa, se la ritrovò davanti, come se lo avesse aspettato per ore nel punto in cui sapeva sarebbe passato. 
Stava seduta su di un muretto, le gambe incrociate, i capelli corti legati in cima alla testa in maniera disordinata. 
Federico si fermò a guardarla per qualche istante, rapito come sempre dalla bellezza di lei, ma la rabbia che sentiva dentro di sé, forse troppo esplosiva per un’incomprensione così piccola, gli impediva di affrontarla. Si mise le mani intasca e tirò dritto. 
-Non mi saluti neanche? – fece lei, andandogli dietro. Aveva un tono falsamente leggero, cercava di apparire disinvolta per smorzare la situazione. 
-Oggi non sono in vena – le rispose borbottando, lusingato che per una volta fosse lei ad inseguirlo e non il contrario. 
Emma gli afferrò il polso con una decisione che non si aspettava. -Ti fermi un secondo? 
Federico lo fece, si fermò e la guardò. Aveva di nuovo le labbra rosso fragola, le ciglia lunghe le sfioravano le guance piene. 
Se l’amica di Marco toglieva il piacere della conquista, per Emma era necessario così tanto impegno che forse veniva meno la voglia di tentare. Se da una parte c’era qualcuno che andava dritta al sodo, consapevole di ciò che voleva, Emma era così complicata da essere un mistero persino per sé stessa, probabilmente. Lo dimostrava il fatto che lo stava cercando in quel momento, dopo averlo respinto la sera prima. Emma non sapeva che cosa voleva. 
-Sei arrabbiato- constatò lei guardandogli il viso. Vide gli occhi di lei indugiare sulla mascella, sul naso, sulla bocca, ma non lo guardò dritto negli occhi. 
-Non ci voleva molto a capirlo- bisbigliò lui, seccato. 
-No infatti – fece lei, facendo scivolare la mano in quella di lui. Federico non si ritrasse, deliziato come sempre dal modo in cui lei lo toccava, ma non prese iniziative, non se la sentiva. -Beh, io… 
Lui attese, riacquistando per un attimo la speranza. Gli sarebbe piaciuto sentire delle scuse, che lei aveva sbagliato a comportarsi in quel modo, che non era affatto pentita di averlo baciato come aveva dimostrato con le sue azioni. 
-Tu? – la incoraggiò, perdendo quel ringhio nella voce che aveva usato per tutto il giorno, con tutti i suoi interlocutori. 
Emma continuava a non guardarlo negli occhi. -Io… 
Si stancò presto di quella esitazione nella voce di lei e nel suo comportamento. Emma era una persona decisa, nella sua testa, e quelle frasi sospese nel vuoto non le si addicevano per nulla. 
Federico sbuffò, sfuggendo alla presa di lei. -Ho capito. 
-Che hai capito? – scosse la testa lei, confusa. 
-È stato un errore, hai ragione, non succederà più – fece lui. – Solo un bacio accidentale. 
Lo disse più per provocarla, non lo pensava davvero. Federico non l’aveva baciata per sbaglio, né voleva che non succedesse più, era solo stanco di quel limbo in cui lei lo teneva. L’unico modo per poter porre fine a quella situazione era sfidarla: se lei voleva, sarebbe venuta allo scoperto, avrebbe fatto pace con le sue indecisioni e sarebbe stata chiara con sé stessa e con lui. Era l’unico modo per smettere di inseguire un miraggio, un sogno ad occhi aperti ed iniziare qualcosa di concreto con una persona in carne ed ossa, che non spariva quando le faceva più comodo. 
Lei pareva perplessa per le parole di lui. -Ma che s… -
-Ora scusami – la interruppe – devo andare. 
Lei non lo seguì. 

Il tuo culo orgoglioso punisce il mondo al posto di chiedersi il perché, aveva detto il padre. Ma, al posto di riflettere sul perché che Giancarlo aveva posto, Federico pensava a quanto fossero scurrili gli insegnamenti che gli venivano impartiti dal padre. Insegnamenti più che giusti, si disse. Doveva fare qualcosa per sua madre e Alberta, ingiustamente travolte dal disappunto che Emma aveva generato in lui. 
Si disse che per un po’ non avrebbe più pensato a lei, come una sorta di periodo di disintossicazione da qualcuno che aveva totalmente assuefatto il suo cervello, per giorni. 
Tornato a casa, trovò la madre addormentata sul divano, il Buio oltre la siepe aperto a pagina novantadue. 
Deciso ad andare a letto senza nemmeno perder tempo a togliersi i vestiti, Federico salì le scale. 
-M’ama o non m’ama? Non m’ama o m’ama?
Sentì la stessa cantilena della mattina, ma priva di entusiasmo, di allegria. 
La camera di Alberta era ancora illuminata, la porta socchiusa. La bambina era sul pavimento: accarezzava i capelli alla Barbie, vestita di tutto punto per il suo matrimonio, ma senza il suo Ken ad attenderla. 
-M’ama o non m’ama? - ripeté ancora una volta la bimba.
-Tesoro? - la chiamò Federico, chinandosi accanto a lei. 
Albertina gli sorrise forzatamente e lui capì: punire la sorella per qualcosa che non era stata lei a generare non era giusto. Sfogarsi con il mondo non era la risposta, soprattutto perché non c’era niente per cui arrabbiarsi con il mondo. 
Probabilmente neanche Emma si meritava la sua rabbia, lei era libera di respingerlo, se non lo voleva. 
-Barbie non sa se vuole sposare Ken e quindi consulta le margherite per risolvere il problema. 
Federico rise. –Barbie non ha nessuna margherita. 
-Un po’ di fantasia, Fede- sbuffò la bimba, senza severità. 
-Va bene! - sollevò le mani in segno di resa. –Facciamo finta che Barbie abbia una margherita. Deve essere un fiorellino a stabilire se vuole sposare Ken o no? 
Albertina fece spallucce. –Se non può stabilirlo con la margherita, allora come? 
-Non so… Ma solo Barbie può decidere per sé. 
-E come fa a decidere se non con la margherita? - borbottò, aggrottando le sopracciglia scure. Federico rise. –Deve sapere se le piace Ken, se vuole stare con lui… Questo può stabilirlo facilmente, le basta un bacio per capirlo.
Pensò di nuovo a come si era sentito nel baciare Emma e per un attimo gli mancò il respiro. 
-Fede lo sai che sono solo bambole, vero? - mormorò Albertina, con il tono apprensivo di una piccola mammina.  Era come se la bambina avesse capito che non stavano più parlando di bambole, o che forse non lo avevano mai fatto davvero. 
-Ma certo- sorrise lui, ma non era vero. Lui non parlava delle bambole. -Vai a letto, domani ti aiuto io a celebrare le nozze.
Magari Emma dopo averlo baciato non si era sentita come lui, per questo era fuggita via. Forse per questo il padre gli aveva detto di riflettere sul perché era successo quel che era successo. 
-Non sei più arrabbiato? - chiese la bimba, sorpresa.
-Arrabbiato? - la scimmiottò lui, divertito. –E perché dovrei essere arrabbiato? – fece il vago, così che la sorellina potesse rilassarsi un attimo all’idea che c’era stata solo una piccola incomprensione tra loro. 
-Oggi mi hai detto tu che Barbie non ama Ken. Ed eri arrabbiato.
Federico si diede dello stupido per essersela presa con la sorellina. 
-Ma sì che lo ama, io non parlavo di loro. 
Albertina piegò la testa di lato. –E di che cosa parlavi? 
Di Emma. 
-Di nessuno. Non dovevo arrabbiarmi, è stato solo un bacio accidentale – disse ad alta voce, così come lo aveva detto ad Emma poco prima. Tentò di convincersene pure lui, così che l’indomani, dopo una bella notte di sonno, sentisse il suo cuore con un po’ di pace in più. 
-Un bacio? - ripetè la bambina confusa.
Federico si passò una mano in viso. –Ti aiuto a mettere il pigiama.

Mentre si rigirava sul letto nel tentativo di prendere sonno, si ripeteva più e più volte che quel bacio era stato un incidente. Se se ne fosse convinto pure lui, il suo umore si sarebbe conseguentemente alleggerito. 
Federico non era più arrabbiato: non serviva ingigantire una cosa che di per sé era così semplice. Non c’era stato nessun rifiuto da parte di Emma perché non c’era stato nessun bacio, solo un incidente di percorso. E comunque non si sarebbe mai lasciato turbare da una reazione negativa di lei, non le aveva dato così tanta importanza. Era tutto a posto. 
Proprio mentre ci pensava, sentì un cigolio sospetto, come di qualcosa che si apriva. Non era la porta: era perfettamente chiusa quando sollevò di poco la testa per controllare. Era la finestra, dalla quale era entrata una figura che adesso si nascondeva nell’ombra.
Non pensò neanche per un secondo che si trattasse di un ladro: la figura nell’ombra era troppo minuta, troppo leggiadra. E nessun ladro si sarebbe intrufolato in quel modo, con il palese intento di farsi sentire. 
Federico non si lasciò tradire da nessuna emozione mentre Emma gli si avvicinava. Era identica a poco prima, stessa buffa acconciatura, stesso vestito bianco. Aveva qualche foglia appiccicata alle braccia. 
-Non mi chiedi che ci faccio qui? - gli sussurrò, guardandolo dritto negli occhi. Sorrideva. 
Si sedette accanto a lui sul letto, mentre Federico si sollevava puntellandosi sui gomiti. 

-Aspetto che sia tu a dirmelo- bisbigliò, più calmo rispetto a quando si erano visti poco prima. 
Alla luce della luna sembrava così eterea, quasi uno spettro. 
-Poco fa ci siamo fraintesi – spiegò lei. 
Federico si massaggiò le palpebre. -Non c’è stato alcun fraintendimento, non ci siamo detti proprio un bel nulla. 
Emma annuì, pensierosa. -Tu hai detto che è stato un bacio accidentale, quello mi è suonato come un fraintendimento. 
-Me lo hai fatto pensare tu e quel modo titubante di reagire. 
Lei fece una pausa che sembrò essere lunghissima. 
- Non volevo scappare via in quel modo, l’altra sera. 
Suonava come un discorso che si faceva ad un bambino per spiegargli che no, non può avere il suo gioco preferito. A Federico questo non piacque. –Lo hai fatto- sibilò incolore. 
Era più facile, più giusto, mantenersi incolore piuttosto che farle presente ciò che realmente pensava. 
-Ero confusa, avevo bisogno di mettere un po’ di chiarezza nella mia testa. 
Emma indugiò sulle mani di lui con lo sguardo, per poi osservargli le braccia, il petto lasciato nudo dalla mancanza di maglietta, la mascella quadrata, la barba ancora incolta. 
Federico si sentì quasi a disagio per il modo spudorato con cui lo guardava. 
-Non potevi aspettare domani per dirmi la conclusione della tua lunga riflessione? - commentò scocciato. 
-No, dovevo vederti subito- sorrise lei, ma senza allegria. 
A quel puntò gattonò sul letto, più vicina a lui. Federico si rese conto che arrampicandosi sull’albero si era graffiata le gambe candide e il mento. 
Emma gli accarezzò i capelli scuri, facendo scivolare la mano sul retro del suo collo. –Dai, non è stato forte vedermi entrare dalla finestra?
Federico si sciolse, sia per la battuta sia per la carezza, e rise. – In realtà averti nel mio letto mi preoccupa: non hai un coltello sotto la gonna, vero?
-Niente del genere- scosse la testa lei, scostando le pieghe del vestito bianco per mostrargli la sua innocenza. 
A quel punto Federico scostò le lenzuola, incurante che lei fosse sporca di terriccio e di foglie. Emma si tolse le converse sporche e si rifugiò sotto le coperte. 
Il corpo di lei era gelido vicino a lui, ma Federico non aveva voglia di ritrarsi. 
Le mise un braccio sulle spalle per scaldarla e la sentì inspirare il suo profumo, le labbra di lei vicinissime al suo collo. 
–Senti… Quello che tentavo di dirti, poco fa… Beh, è che mi dispiace essere corsa via, l’altra sera… 
Le uscì una leggera balbuzie mentre formulava quel pensiero, come se si sentisse vulnerabile per la prima volta da quando lo conosceva e se ne vergognasse terribilmente. 
Federico la trovò tenera nel suo essere impacciata: come era già successo, vedere dell’umanità in lei la rendeva più vera, meno favolistica. 
-Non sono brava con queste cose… -borbottò più a sé stessa che a lui, strofinandosi la fronte. 
-Non ti scusare: è stato un incidente – la sedò lui, esternando ad alta voce ciò di cui aveva cercato di convincersi per tutta la serata. -Prometto che non succederà più, è tutto ok. 
Emma fece un’espressione buffissima, come se le fosse stato dato un pizzicotto. -Che cosa non succederà più? 
-Che ti bacio – spiegò candidamente Federico – Come ho detto è stato un incidente. 
Lei lo fissò per qualche istante, indispettita, dopo essersi scostata dall’abbraccio in cui lui l’aveva incastrata. –Un incidente? - ripeté, scettica.
-Emma forse è meglio che vai a casa, è tardi – disse lui, perché se l’avesse ripetuto ancora una volta, avrebbe smesso di crederci a quella bugia che si era raccontato. Lei lo metteva troppo a dura prova. 
La spinse leggermente, per farle capire che era arrivato il momento di andare. Emma non si mosse dal suo letto: continuò a guardarlo truce, ostinata come non mai.
-Non mi sono arrampicata sul muro di casa tua nel cuore della notte per sentirmi dire questo! – bisbigliò lei contrariata, avendo cura di non alzare il tono della voce. 
Sebbene lui l’avesse scacciata, lei non ne voleva sapere di andarsene. 
In un impeto inaspettato, si mise a cavalcioni su di lui, bloccandolo. Federico spalancò gli occhi per la sorpresa di quel gesto, che a lui parve la cosa più eccitante che avesse mai visto. Ed era ancora più eccitante perché lei lo aveva fatto con ingenuità, senza pensare al contatto intimo che avrebbe imposto ai loro corpi. 
-Emma – gli uscì come una supplica, mentre sentiva un calore diffondersi all’interno del suo corpo. 
Lei rimase con il viso corrucciato. -Non me ne vado a mani vuote. 
-Sentiti libera di portare via quello che vuoi: un souvenir per la tua arrampicata – le disse con il fiato corto, indicandole la stanza. Le mise le mani sui fianchi, pronto a sollevarle il corpicino esile per tirarla via da quell’incastro. 
-No- protestò lei, schiaffeggiandogli una mano. 
Si chinò in avanti così da avvicinare il viso a quello di lui, le gambe di lei ad avvolgergli i fianchi in una trappola deliziosamente sensuale. 
-Voglio ciò per cui sono venuta – gli sussurrò seria, pungolandogli la guancia con il naso, in una carezza più infantile. 
Federico non aveva la voce per chiederle nulla, era ipnotizzato, colpito. 
-Devo baciarti – disse lei, inumidendosi le labbra con la lingua, mentre accarezzava con un pollice le labbra di lui. 
Federico la guardò ad occhi spalancati per tutto il tempo. 
Conscia che lui non l’avrebbe respinta e che non sarebbe stato in grado di proferire parola, Emma lo baciò, stringendolo a sé. Bypassò subito lo step del bacio innocente, insinuando la lingua nella bocca di lui. 
Federico parve riscuotersi dall’incantesimo che lei gli aveva fatto: le mise una mano alla base della schiena, portandola ad inarcarla maggiormente, così che il contatto tra i loro corpi fosse totale. Emma, come era già successo la sera precedente, mugolò qualcosa di incomprensibile, forse presa dall’eccitazione, e questo risvegliò in lui un trasporto maggiore. 
Con un gesto, la portò sotto di sé, interrompendo per un attimo il loro bacio. Lei aveva la faccia paonazza e il fiatone, il petto le si alzava e sollevava velocemente. Il vestito bianco che indossava era tutto stropicciato ed era risalito su per le sue gambe, fino a rivelare la base della pancia e l’ombelico. 
Federico la guardò, accaldato come non mai. Emma gli accarezzò il petto ed il collo, come a richiamare nuovamente l’attenzione di lui. -Questa volta ti giuro che scappo se smetti di baciarmi. 
Risero entrambi per pochi istanti, poi si intrecciarono nuovamente, intimi anche se era la prima volta che si toccavano in quel modo. 
Federico si disse che no, quello della sera prima non era stato un incidente, e che sì, baciarla gli piaceva forse più del dovuto. 

 
Nel linguaggio dei fiori la Margherita assume diversi significati tutti volti alla positività e collegati al concetto di ‘verità’. Tra i significati più frequenti troviamo quello di semplicità, innocenza, spontaneità, bontà, freschezza e purezza, amore fedele. Grazie ad un'usanza comune nel Medio Evo ha assunto il significato di: "ci devo pensare", da cui derivò il significato di "abbi pazienza". Nella religione cattolica tradizionale significa "bontà d'animo". 
[www.ilgiardinodegliilluminati.it]

Nel Medio Evo le Dame usavano cingersi il capo con delle margherite ogni volta che non erano decise sulla scelta dello spasimante: di qui il significato "ci devo pensare". 
[www.dilloconunfiore.com]


*Fonte: www.pollicegreen.com 

Buongiorno! A dispetto di quello che avevo comunicato sono riuscita a pubblicare il capitolo prima.
Spero vi piaccia e attendo sempre qualche feed-back, anche piccolo. 
Ci sentiamo giovedì per la parte sette. 
Buona giornata! 

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Capitolo 7
*** VII Tulipano ***


VII Tulipano
 
C’era una volta un paese dove gli uomini innamorati coglievano un fiore di campo carnoso e sensuale per darlo in omaggio alle loro compagne come pegno di amore eterno.
Questo fiore incantato era nato in una notte triste ed eterna culla dell’amore tra il giovane Shirin e la bella Ferhad. Un giorno Shirin si allontanò, il suo amore lo aspettava, ma i giorni passavano e lui non tornava, così una sera Ferhad si avventurò nel deserto nella speranza di trovarlo, ma l’unica cosa che trovò furono la stanchezza e la fatica che la fecero cadere su delle pietre aguzze. Distrutta dal dolore e dalle ferite Ferhad incominciò a piangere e le sue lacrime si mischiarono al sangue delle sue ferite e bagnarono il terreno da cui nacquero i primi tulipani. Da allora tutte le primavere questi fiori tornano a fiorire nelle terre di Persia in ricordo di questo amore infelice.*
 
 
Quella mattina venne svegliato dal suono di un fastidioso uccello, appollaiato sulla finestra.
Nel timore di aver sognato tutto, Federico tastò assonnato il suo letto, prima da una parte e poi dall’altra, fino a quando la sua mano non si scontrò su un corpo caldo.
Emma, coperta solo dal reggiseno e dagli slip color smeraldo, respirava regolarmente, la bocca schiusa, le sopracciglia aggrottate come se in sogno stesse litigando con qualcuno che le aveva dato fastidio. Le face una carezza sulla schiena nuda e lei mugolò nel sonno, rigirandosi prima a destra e poi a sinistra.
Federico ripensò per un attimo alla notte precedente, a quanto lei avesse insistito affinché il loro bacio diventasse qualcosa di più. Era stata lei a spogliarsi, lei a tentare di spogliare lui nonostante lui le avesse fatto una leggera resistenza.
Non voleva bruciare le tappe subito, a lui piaceva fare le cose con calma, gustarsele. Ecco perché, anche se con una leggera insofferenza, non aveva fatto altro che baciarla la notte prima, nonostante lei gli avesse offerto qualcosa di più.
Non gli importava avere tutto e subito, gli importava avere Emma.
-Volevo svegliarmi prima di te – borbottò lei ancora con gli occhi chiusi, la faccia appiccicata al cuscino.
Federico rise, accarezzandole la guancia. -Perché? Volevi fuggire come una ladra dalla finestra?
Lei aprì gli occhi verdi, ancora assonnati e lo guardò con un sorriso. -Sì, così mi sarei evitata di dirti che non voglio che mi baci per l’alitosi mattutina.
-Ma va – ridacchiò lui, facendo correre la mano giù per il corpo di lei fino ad esitare sull’ombelico – Sicuro che non ti bacio, l’alito mattutino non ha esattamente l’aroma di rose. Magari se ti lavi i denti…
Emma era tutta un brivido per le carezze che lui le stava riservando. – Andrò a lavarli, ma a casa mia. Usare il tuo spazzolino non mi alletta.
-Ti fai problemi per il mio spazzolino? - ironizzò lui, divertito dalla sua espressione sdegnata: il nasone storto e le labbra arricciate. –Ieri sera abbiamo scambiato tutti i fluidi possibili, mi sembra.
-Non me ne fare pentire, ti prego – gli fece una smorfia, mettendo la mano su quella di lui e intrecciando le dita.
-Se vuoi fingo di non averti vista e ti lascio alla tua fuga – le fece l’occhiolino, alzandosi dal letto. -Dispererò per la tua assenza.
Federico raccattò i suoi vestiti dal pavimento: indossò la tuta grigia e la maglietta bianca a maniche corte, sotto lo sguardo curioso della ragazza ancora avvolta tra le lenzuola del suo letto.  
-Come in un film sdolcinato- sorrise Emma, sollevandosi sui gomiti.
Aveva una sicurezza di solito inaspettata nelle ragazze: non si vergognava di essere seminuda con un ragazzo che conosceva da poco. Come era accaduto altre volte, Federico aveva la sensazione che lei fosse nel posto giusto al momento giusto.
Emma si alzò, stiracchiando la schiena. – Inizi a piacermi, sai?
 
Lui rise: -Era ora!
La guardò raccattare il vestito bianco che indossava la sera prima dal pavimento ed indossarlo. Era più corto di quanto ricordasse, lasciava totalmente esposte le gambe corte di lei, segnate da graffi e lividi violacei – probabilmente i segni delle sue frequenti arrampicate.
Quando si accorse che lui la stava osservando, gli fece la linguaccia.
–Ci vediamo più tardi? – lo spiazzò, mettendosi a cavalcioni sulla finestra. Proprio non ne voleva sapere di passare dalle porte e lui segretamente gliene era grato: se non altro non avrebbe incontrato sua madre. Simona curiosa com’era l’avrebbe tempestato di domande.
Desiderava avere un appuntamento con lei da quando l’aveva incontrata per la prima volta, se non altro il loro incontro non sarebbe stato più qualcosa di fortuito ma una cosa concordata.
-Alle nove- annuì lui. Credette per un attimo che lei gli avrebbe lasciato un modo per contattarla, un numero di telefono, ma non lo fece.
Emma si arrampicò sull’albero accanto alla sua finestra e scese in un attimo fino a giù.
A differenza delle altre volte, Federico non si preoccupò di seguirla con lo sguardo mentre si avviava verso casa. Era in gamba, non aveva bisogno che il principe azzurro la tenesse d’occhio.
Dopo essersi tastato il mento pungente, Federico decise che per quella sera si sarebbe rasato.
In quel momento invece, aveva qualcosa di più importante da fare: si mise alla scrivania e aprì il blocco. Il carboncino gli sporcò subito le dita di nero, mentre con movimenti abili e sicuri tracciava il profilo sottile di Emma, che avanzava nel buio verso di lui, esattamente come la sera precedente.
 
Quando scese le scale, alle dieci passate, sentì la madre giocare con Alberta.
-E il volo delle colombe quando? - chiedeva la piccola, evidentemente entusiasta della messa in scena che avevano imbastito.
Simona rise, accarezzando la testa della piccola. –Le colombe le lasciano volare dopo il ‘Sì, lo voglio’.
Alberta pareva confusa dalla risposta della madre. -Ma sì cosa?
-Gli sposi dicono sì al matrimonio, e così stanno insieme per sempre- le spiegò la madre, paziente.
-Ma non è vero, è una bugia!
Federico capì subito a cosa si riferisse la sorellina. Il fatto che una bambina così piccola riuscisse a processare quel genere di ragionamenti era notevole, anche se in cuor suo avrebbe preferito che per l’età che aveva continuasse a credere nell’idilliaca bugia del “per sempre felici e contenti”.
Era colpa di Simona se Alberta non poteva avere la famiglia unita che si meritava, l’amore anche del padre nella sua quotidianità.
-Perché una bugia?
La severità che aveva sempre riservato a questo genere di discussioni fu per un attimo spazzata via dal tono di voce che Simona aveva assunto nel rispondere alla bimba: sembrava triste, affranta dai sensi di colpa.
Certamente Federico sapeva che la madre non prendeva a cuor leggero tutta la loro situazione familiare, ma non aveva mai colto in lei tanto dispiacere come in quel momento. Era come se per la prima volta la vedesse sotto una luce diversa e non riusciva a capire se quei dettagli fossero sempre stati sotto i suoi occhi e lui troppo cieco per accorgersene, troppo preso da sé stesso.
La scarsa empatia che aveva riservato a quella donna – così come a tutte le persone che orbitavano attorno a lui – lo colpì nello stomaco, come un pugno. Si sentì in colpa, anche se solo per qualche istante. Dopotutto Simona era responsabile dei suoi mali, era giusto piangesse sé stessa.
-Perché anche tu e papà vi siete sposati, ho visto le foto dove avevi il grande vestito bianco! - spiegò la bambina, indicando un oggetto che anni prima troneggiava nel tavolino al centro del salotto. –Ma papà non è qua.
Un silenzio imbarazzato regnò nella stanza per diversi secondi. Era impossibile dare ad Alberta una spiegazione valida senza ferirla. Aveva solo sei anni, era intelligente, ma non poteva sopportare ciò che il mondo degli adulti celava. Era troppo piccola e troppo ingenua.
-Hai ragione tesoro, non è qua- gliela diede vinta Simona, delusa.
Ma la piccola non mollava, saltellava attorno alla madre, pressante e curiosa. -E allora dov’è?
Fu in quel momento che si sentì in dovere di intervenire, sia per togliere di impiccio la madre sia per evitare che Alberta ricevesse delle risposte che non era pronta a sentire, ancora.
Dopo quello che era successo il giorno precedente, doveva qualcosa a Simona. Un gesto, per farle capire che si scusava senza scusarsi veramente. Era il massimo che il suo orgoglio gli consentiva di fare.
-Albertina! - intervenne Federico, facendo il suo ingresso in cucina. –Fuori c’è una bella giornata, andiamo a giocare a palla?
La bambina scattò in piedi come un soldatino ubbidiente, distratta dall’idea di poter giocare con il fratello maggiore. –Certo! - E corse via, per recuperare la sua palla rosa brillante.
Federico guardò la madre, ma entrambi non dissero niente. Negli occhi scuri della donna c’era una silenziosa gratitudine per ciò che il figlio aveva fatto, il rimorso e il rimpianto per qualcosa che a Federico non interessava indagare oltre.
Mentre raggiungeva la bambina in giardino, si accorse di non avere il cellulare.
Salì le scale a due a due, trovando poi il telefonino spento sul comodino della sua camera. Lo accese, scorgendo dalla finestra che dava sul giardino Alberta pronta per la loro sessione di gioco: tirava già la palla in aria, più in alto che poteva, per poi scappare per evitare di farsi colpire.
Era buffissima, si disse Federico.
Si ritrovò perplesso davanti a dieci chiamate perse da parte del suo amico Marco, che nella sua vita non aveva mai neanche provato ad imbastire una conversazione telefonica con lui. Abitualmente, si limitava a messaggi diretti del tipo “Ci vediamo?” e pretendeva che la risposta fosse altrettanto monosillabica.
Avrebbe potuto pensare che si fosse trattato di un errore del biondo, ma le telefonate erano distribuite ad intervalli orari così precisi che non si poteva trattare di uno sbaglio: mezz’ora tra una chiamata e l’altra, tutte la sera precedente. Doveva essere successo qualcosa.
Federico, sempre più stranito, si disse che non aveva voglia di parlare con Marco e stabilì che non lo avrebbe richiamato. Sebbene un po’ di curiosità aleggiasse in lui, non era sufficiente da spingerlo nella direzione del suo rozzo amico.
Stava per infilare il cellulare nella tasca dei pantaloni quando lo udì suonare, la foto di Annamaria a lampeggiare sullo schermo.
-Ehi – borbottò, mogio, incamminandosi verso il piano di sopra.
-Ehi!
La voce di Anna suonava come quella di una mamma apprensiva. In quel saluto sembrava esserci una strana cautela, come se si stesse avvicinando ad un animale selvaggio da addomesticare e non volesse spaventarlo.
-Come stai? – gli domandò, sempre la stessa inflessione della voce.
Federico pensò che potesse esserci una correlazione tra le chiamate combinate di Anna e Marco, ma si serbò il diritto di non saltare a conclusioni prima di sentire che cosa la ragazza avesse da dirgli.
-Come dovrei stare? – borbottò con una risatina. -Come al solito.
Annamaria rimase in silenzio per alcuni istanti prima di riprovarci. -Ieri sera ti ho visto seccato.
Sapeva che seccato era un eufemismo per dire imbestialito, furibondo. Lei, probabilmente nel timore di incutere in lui di nuovo gli stessi sentimenti, stava pesando con cautela le cose; la delicatezza di Annamaria gli era sempre piaciuta.
-Puoi dire tranquillamente che ero incazzato nero – rise senza allegria, nel tentativo di alleggerire il tutto.
-Ecco sì! – C’era del sollievo nella voce dell’amica. -Eri incazzatissimo!
Federico aveva raggiunto il giardino. Alberta continuava a giocare felice, ignorando il fatto che il fratello non fosse partecipe: il fatto che lui fosse uscito all’aperto con lei significava che aveva mantenuto la promessa di passare del tempo insieme, e questo le bastava.
-Già – confermò, incastrando la cornetta tra spalla e orecchio, mentre si stravaccava sul dondolo in giardino.
Di nuovo cautela da parte di Anna: -Hai litigato con Marco?
-Ma va – rise, questa volta di gusto. -Pensi davvero che possa farmi imbestialire così tanto?
-Ma se ti ho visto urlargli contro! – insistette la ragazza.
Federico in quel momento pensò a quanto gli venisse naturale parlare con lei. L’idea di raccontarle delle cose, di Emma, non gli pesava. Anzi, al contrario, era convinto che avere qualcuno con cui confrontarsi gli avrebbe solo giovato.
Per una volta nella vita, non voleva più stare solo con sé stesso, ma dialogare, raccontare, condividere. Sentiva la voglia di aprirsi al mondo, alle persone; non la sentiva da anni.
Era come se Emma avesse avuto la chiave per aprire la serratura della prigione in cui aveva imprigionato sé stesso.
-Non ce l’avevo con lui, almeno non precisamente – spiegò, tranquillo. – Mi ha fatto incazzare, sì, però ero già arrabbiato, con lui sono solo esploso.
-E perché eri arrabbiato? Tua madre?
Mugugnò in segno di dissenso. -No Emma.
-Chi?! – cinguettò in maniera stridula.
-Emma, la ragazza di cui ti parlavo – rise Federico.
-Oddio che è successo? – borbottò curiosa la ragazza dall’altra parte del telefono. Sentì distintamente il suo materasso cigolare, segno che si era anche lei messa comoda per prepararsi al racconto. -Ma ti sento tranquillo, avete già risolto?
Federico ripensò alla notte precedente. -Sì, abbiamo risolto.
 
La casa era buia, esattamente come il giardino circostante. Federico era più che certo che non ci fosse nessuno, anche se il cancello in ferro arrugginito poneva una significativa distanza tra lui e la proprietà. Non era certo di trovare Emma quando aveva deciso di andare a casa sua, ma dava per scontato di vedere il nonno, che magari poteva reindirizzarlo. Quello che si trovava davanti, invece, era il vuoto più totale, come se non ci fosse stato mai nessuno.
Era la seconda volta che si azzardava ad avvicinarsi da solo a quella proprietà e si sentì nuovamente la medesima sensazione addosso: non sapeva determinare se si trattasse di sospetto, confusione o curiosità. Probabilmente un mix delle tre cose.
Quello che era chiaro per Federico era che Emma non aveva motivo di mentire su dove abitava. Inoltre, era certo che, durante il loro primo incontro, lei fosse entrata con un mazzo di chiavi all’interno della malandata proprietà.
-Ragazzo, non stare lì a curiosare, non troverai nulla- disse un uomo sulla cinquantina.
Aveva i capelli sale e pepe e stringeva tra le mani un grosso mazzo di fiori rossi. Il portabagagli della sua Audi ne conteneva altrettanti, pronti ad essere scaricati.
-Cercavo una persona – spiegò lui, sollevando le mani in segno di resa, come a discolparsi da qualcosa che non aveva in realtà commesso.
L’uomo, che inizialmente lo guardava con sospetto, si convinse di aver davanti un bravo ragazzo.
-E cerchi a vuoto: io non ho mai visto nessuno in quella casa- rispose, la voce strozzata per lo sforzo. Abbandonò il mazzo di fiori accanto la porta di casa e iniziò a cercare le chiavi nei pantaloni kaki, asciugandosi il sudore sulla camicia a quadri rossi. Una volta ristoratosi, l’uomo trasportò il primo dei mazzi di fiori verso l’interno di casa.
Federico si sentiva confuso davanti a quella risposta. Provò ad ipotizzare che l’abitudine di Emma di entrare dalle finestre piuttosto che dalle porte l’avesse resa invisibile anche agli occhi dei vicini.
-È disabitata? – insistette a chiedere, dopo che l’uomo affaccendato venne fuori per caricarsi i restanti mazzi di fiori. Era decisamente fuori forma per quell’operazione.
-Sto qui da due settimane, non ne ho idea- borbottò, stanco. –Comunque, non ci ho mai visto nessuno.
Federico sedò i dubbi che gli erano sorti: probabilmente quell’estraneo stava lì da troppo poco tempo per aver scorto la sua Emma.
Provò a convincersi che quella spiegazione fosse più che sufficiente, anche se una piccola parte di sé non era del tutto convinta e scalpitava per sapere di più.
-Vuole che le dia una mano? - si offrì alla fine, impietosito dalla fatica di quell’uomo.
Il cinquantenne si illuminò e gli indicò il carico: -Mi faresti un grande favore! Sono per mia moglie: oggi è il suo compleanno.
Federico, che di gesti romantici proprio non ne sapeva niente, si sentì comunque intenerito da quella spiegazione. - Tanti mazzi di fiori quanti sono gli anni?
-Quarantacinque mazzi di tulipani, esatto. Sono una sorpresa per quando arriva, e se mi aiuti te ne sarò eternamente grato – annuì l’uomo.
Federico scrollò le spalle. –Volentieri- disse, afferrando il primo carico di fiori.
 
Mezz’ora dopo, Federico si avviava verso casa con un tulipano rosso in mano: la sua ricompensa per aver aiutato il signor Pietro ad organizzare la sorpresa per la moglie Roberta.
Gli venne in mente quando, circa quattro anni prima, il padre voleva organizzare una cosa del genere per Simona.
-Credevo che non fossi il tipo da questo genere di gesto romantico.
Emma era di fronte casa sua, appoggiata al muro, in un paio di pantaloncini neri e una camicetta rossa. Aveva i capelli dietro le orecchie, le guance spruzzate di lentiggini di un bel rosa pesca.
Il sorriso che le animava il viso era ampissimo, gli occhi furbi e giocosi mentre lo prendeva in giro.
-Dici questo? - chiese Federico, agitando il tulipano rosso mentre si avvicinava a lei. –Ma che, non è per te.
Si fermò esattamente di fronte a lei.
-Oh- commentò Emma, facendo una smorfia. –Prima mi sentivo in imbarazzo, adesso quasi delusa che non sia per me.
Federico sbuffò divertito. –Chi vi capisce è bravo.
Le allungò il fiore ed Emma parve felice di prenderlo. Se lo portò vicino al viso, affondando il naso tra i petali non per annusarlo, come avrebbe fatto chiunque altro, ma per saggiarne la morbidezza.
Si limitò ad osservarla, per poi farle una carezza sul viso che lei parve gradire.
-Se non era per me, allora perché lo avevi in mano? – lo sfidò, sollevando le sopracciglia folte.
Emma fece scivolare la mano in quella di lui e le loro dita si intrecciarono; quelle di lei erano come al solito freddissime, si disse Federico. Si incamminò, trascinandolo con sé.
-Ho aiutato un uomo ad organizzare una sorpresa per la moglie- spiegò lui, così preso da lei da non chiedersi neanche dove lo stesse portando. –Ti cercavo – aggiunse poi, con un velo di sospetto che avrebbe preferito nasconderle e che sperava lei non avesse percepito.
-Mi cercavi? – borbottò lei, confusa. Scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli corti a destra e a sinistra.
-Sì, pensavo di trovarti in casa – spiegò lui, anche se il suo tono suonava più come una domanda a cui lui desiderava che lei rispondesse.
Emma rise, per nulla a disagio. –Ero davanti casa tua, ad aspettare te.
-Non c’era nessuno in casa? - indagò ancora.
-Sì, ma probabilmente il nonno dormiva- fu sbrigativa lei, di nuovo disinvolta.
Sebbene il mistero non fosse totalmente svelato, Federico si sentì più sicuro di sé stesso: lei era troppo a suo agio, non stava mentendo.
Non era mai stato bravo a capire le persone, ma Emma non era una persona qualunque. Si sentiva così in profonda sintonia con lei da captare ogni singolo dettaglio nell’inflessione della sua voce, nel suo sguardo, nelle sue espressioni. Registrare tutti quei piccoli dettagli che la riguardavano gli consentivano di tenerla vivida nella sua mente, sentiva di aver bisogno dell’immagine di lei nei suoi pensieri.
-Cosa c’entra l’uomo dei tulipani con questo? – saltellò curiosa, pizzicandogli delicatamente un braccio per attirare nuovamente l’attenzione di lui.
Arrivarono sulle soglie della spiaggia. Federico la aiutò a scendere l’alto scalino che conduceva verso la sabbia fresca.
Emma non protestò davanti quella gentilezza di lui, anzi parve accettarla volentieri. Una volta raggiunta la riva si tolse le scarpe, senza però lasciare che l’acqua del mare le bagnasse i piedi.
-Mentre ti cercavo l’ho incontrato e vederlo tanto affaccendato mi ha impietosito, così gli ho offerto il mio aiuto.
-Che cuore nobile- rise lei, continuando a punzecchiarlo giocosamente. –Vedere qualcuno che si dà tanto da fare per la moglie non dovrebbe impietosirti, anzi. Se riesce ad essere romantico con la moglie dopo anni di matrimonio vuol dire che la ama davvero – lo riprese bonariamente.
Federico si sedette sulla sabbia ghiacciata, ed Emma lo seguì a ruota, incrociando le gambe lasciate scoperte dal pantaloncino corto.
–Sono stufo di sentir parlare di matrimonio e di amore, oggi – brontolò.
Emma si stese sulla sabbia, i capelli aperti a ventaglio e ormai invasi da piccoli granelli. Pareva non importarle se si sporcava. – E chi te ne parla oltre me?
Federico la guardò, mentre lei gli faceva una carezza sull’avambraccio con il fiore che teneva tra le mani. Sembrava non riuscire a smettere di toccarlo.
-Alberta, mia madre… Oggi le ho sorprese a fare un discorso sull’eternità del matrimonio e Alberta si è messa a protestare che non era vero, perché i miei sono divorziati.
Emma a quel punto rise. –Perspicace la pupa.
-Come darle torto? - fece spallucce. Si stese anche lui e la sabbia gelida gli invase ogni centimetro di pelle lasciata scoperta.
-A tua madre sarà dispiaciuto sentirle dire una cosa del genere – gli disse. Si sporse verso di lui, per stargli più vicino. Allungò la mano piccola e delicata verso il suo viso e gli fece una carezza.
Annuì. - Forse più di quanto mi aspettassi – realizzò, lasciandosi andare alla coccola di lei.
–Che intendi dire?
Federico la osservò con un sorriso. Aveva la sabbia ovunque: tra i capelli, sulle sopracciglia chiare, a tratti i granelli si confondevano con le lentiggini sulle sue guance.
Si scosse. –Che di solito glissa e il discorso si chiude in un imbarazzante silenzio, questa volta sembrava dispiacerle invece.
Emma mugugnò. –Hai mai pensato che a tua madre potrebbe mancare? Tuo padre intendo.
-Ma dai- rise Federico, forse più ilare del dovuto.
-No, sul serio- insisté lei. –Magari è per questo che era dispiaciuta: sotto sotto le manca e non può ammetterlo davanti una bambina di sei anni.
E in un attimo l’ipotesi non gli sembrò più così aliena: era possibile che Simona sentisse la mancanza di qualcuno, di Giancarlo nello specifico. Dopotutto non aveva mai smesso di chiamarlo, di cercarlo, e non aveva tolto le foto del matrimonio o della famiglia.
Il padre era quasi uno spettro in quella casa in cui mancava da tempo, solo che lui non se n’era mai accorto prima.
Ad Emma non la diede vinta: -Possiamo non parlare dei miei?
-Va bene- borbottò lei, ma non sembrava troppo delusa dal cambio di argomento. –Posso baciarti? – chiese buffamente, continuando ad accarezzargli il viso.
Federico rise. –Ti ha impietosito la mia situazione familiare?
Emma si sollevò su un gomito così da poter accostare il viso a quello di lui. Probabilmente era convinta che lui avrebbe ceduto alla sua richiesta e avrebbe fatto quello che desiderava. - Affatto. Volevo baciarti quando ti ho visto arrivare, ma mi sembrava fuori luogo- spiegò lei, sfiorando con il naso quello di lui. –Volevo baciarti anche quando ci siamo seduti, al posto di ciarlare.
-Potevi fermarmi – le bisbigliò lui sulle labbra, con un sorriso.
-Voglio baciarti anche adesso- insisté lei. -Non te lo ha fatto intuire il mio tendere verso di te?
Federico la guardò e poi scoppiò a ridere, cosa che costrinse Emma ad allontanarsi bruscamente. –Non le guardo queste cose, non sperare di mandarmi messaggi criptati in futuro.
Emma sbuffò esasperata. –Mi baci o no?
Federico la osservò: aveva le guance tinte di rosso, anche se la cosa poteva passare inosservata dato il buio. La trovò irresistibile, quell’insistenza quasi infantile che aveva nel volerlo baciare era deliziosa e inaspettata. - No.
-E perché? - domandò indispettita, sfoggiando la sua migliore espressione contrariata: le labbra arricciate, gli occhi verdi taglienti.
-Perché il tuo chiederlo mi ha fatto passare la voglia – la prese in giro.
Non voleva correre con lei e sperava che giocando le avrebbe fatto capire che non era sua intenzione bruciare le tappe. Non voleva consumare da subito tutte le prime volte che poteva avere con lei perché si augurava di poter condividere più tempo possibile insieme.
-Ah, quindi volevi anche tu- brontolò lei, tirandosi su. Incrociò le braccia al petto. –Cosa stavi aspettando?
-Il momento giusto.
-Che stronzate. Non possiamo farlo e basta?
Federico rise ancora. –Avremmo potuto, ma tu me lo hai chiesto.
Emma gli tirò della sabbia sui capelli. –Coglione.
-Quante storie, possiamo sempre baciarci domani.
 
-Dimmi tutto- rispose il padre, dopo il secondo squillo.
Federico si stese a testa in giù sul letto. Erano le undici passate, ma non era stanco. Avrebbe trascorso con Emma almeno un’altra ora, ma aveva deciso di rientrare prima appositamente per quella telefonata. Doveva sentire il padre.
-Quanto tempo hai a disposizione?
Giancarlo rise. –Quanto ne vuoi, ma se è per una stronzata ti attacco il telefono in faccia.
-Definisci stronzata.
-Problemi sentimentali, quelle sì che sono stronzate di dimensioni elefantiache – berciò il padre. Lo udì mentre si stravaccava sul letto, il cigolio del materasso era inconfondibile.
-Ma quando mai- borbottò Federico, fintamente offeso. –Ti ho parlato di donne un migliaio di volte.
-Di donne, non di problemi sentimentali- lo corresse il padre. –I tuoi dubbi sul fatto che lei ti ami o no non mi interessano, esattamente come non mi interessa sapere che cosa le regalerai a San Valentino. Per queste cose, chiedi a tua madre.
-Sei un falso - ridacchiò lui di rimando, perfettamente consapevole che in realtà qualsiasi problema lui avesse era esaminabile dal padre. Lui c’era sempre stato, anche per i presunti problemi sentimentali che ora negava di volergli risolvere: giorni prima, quando Emma lo teneva sulle spine, non aveva esitato a dargli uno dei suoi buoni consigli. Federico, come sempre, gli aveva dato retta, senza pentirsene. Giancarlo sapeva il fatto suo.
-Anche tu che mi dici ‘Fanculo’ e mi chiudi il telefono mi stai dando una risposta più soddisfacente di quelle che potrebbe darmi la mamma- ironizzò, restando sulla falsa riga dello scherzo che il padre aveva imbastito. –Se mai ti parlerò di problemi sentimentali, vieni qui e sparami.
-Sarà una delizia- mugugnò dall’altra parte della cornetta, soddisfatto nel vedere quanto lui e il figlio s’intendessero, per certe cose. –Allora, che vuoi?
-Hai anticipato il discorso: la mamma.
Federico attese un qualsiasi tipo di reazione dell’altra parte. Provò ad immaginare il volto del padre in quel momento, era di sicuro corrucciato e confuso, ma non infastidito. Non si infastidiva per nulla, lui.
Dopo quella giornata a rimuginarci sopra, Federico aveva deciso di essere diretto e chiederglielo. Dopotutto, il modo in cui la madre aveva reagito quella mattina lasciava intendere del malessere… Voleva scoprire se anche suo padre la sentiva, quella tristezza.
Ci fu un silenzio imbarazzato dall’altra parte. –Simona? - chiese Giancarlo interrogativo. –Ce l’ha ancora con te? Dove sta la novità? È sempre incazzata con te.
Il padre sembrò sciorinare parole a raffica a casaccio, forse per togliersi di mano la patata bollente.
Federico si sentì comprensivo nei suoi confronti: lui non si era mai immischiato nei loro discorsi, si era sempre fatto gli affari suoi. Non sapeva che cosa fosse cambiato, ma la curiosità la sentiva in corpo come un bisogno così impellente da non potersi tirare indietro in nessun caso.
Lo pungolò: –Voglio sapere che pensi della mamma.
Giancarlo fece nuovamente silenzio, segno che la domanda destava il suo imbarazzo, ma non si tirò più indietro. -Una bella donna forse troppo chiacchierona e petulante, ma lo è sempre stata del resto. All’infuori di questo ha altri lati positivi: è gentile, comprensiva… Ma perché ne stiamo parlando?
Federico arrivò al dunque, i giri di parole non facevano né per lui né per il padre, che senz’altro aveva intuito che c’era qualcosa sotto le sue domande. -Ti manca?
-Federico- lo riprese con un tono severo che non gli si addiceva. –Perché me lo stai chiedendo.
-Perché non ne abbiamo mai parlato – Ed era vero, non avevano mai affrontato quel discorso. Federico aveva emesso giudizi, aveva covato rabbia, aveva eretto muri, ma non si era mai confrontato con nessuno dei due genitori, sull’argomento.
-Ma certo che mi manca: se ti ricordi è stata lei a lasciarmi, non io- borbottò. –E, diciamocelo, non avere qualcuno che ti lava le mutande è un gran disagio, no? – ironizzò per alleggerire la tensione, ma Federico non rise.
In quel momento, si rese conto che fino a quel momento aveva dato per scontato che il padre fosse felice, e forse lo era, ma non totalmente. La mancanza di Simona lo aveva sempre toccato, ma per Federico pensare che l’avesse superata era più facile che chiederglielo.
-Certo, se non le lavasse a me entrerei nel panico- disse in risposta, per evitare di prendere altre cantonate.
La conversazione scivolò nell’ironico, ma Federico non smise di pensare a quello che gli aveva detto il padre.
E, la mattina seguente, quando trovò la madre in camera da letto intenta a pulire e sistemare il comodino di Giancarlo come se lui fosse ancora in casa, si disse che Emma aveva ragione, ma che lui non aveva intenzione di fare nulla, non erano questioni che doveva affrontare lui.
 
Forse pochi sanno che in realtà il fiore che rappresenta il vero amore è proprio il Tulipano; è il fiore perfetto per esprimere un’autentica dichiarazione d'amore. Una leggenda popolare, infatti, racconta che questo fiore sia nato dal sangue di un giovane che si suicidò per una delusione d’amore. Ai nostri giorni il suo significato fa riferimento a relazioni sfortunate perfette ed equilibrate.
Anche nella celebre raccolta di fiabe "Le mille e una notte" il tulipano viene associato all'amore: secondo i racconti infatti il sultano lasciava cadere un tulipano rosso ai piedi di una delle donne dell'harem per indicare loro quale fosse la prescelta
[www.giardinaggio.it]
 
*Fonte: www.eticamente.net

Buongiorno a tutt*! Come al solito, ecco il capitolo della storia, puntuale. 
Ho poche parole da spendere oggi, se non semplicemente dei ringraziamenti per l'interesse che state dimostrando per la storia: è una cosa per nulla scontata e che mi dà molta soddisfazione. Ogni volta che leggo una nuova recensione inizio a scrivere con rinnovato ardore e con una passione che credevo di aver perso negli anni. Invece, eccola ancora qui la mia passione, che riesce ancora a sfornare capitoli in poco tempo preservando lo spirito originario della storia. 
Per questo, vi ringrazio moltissimo. 
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto, ci sentiamo lunedì per il proseguimento! 

 

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Capitolo 8
*** VIII Orchidea ***


VIII Orchidea
 
Viveva un tempo assai lontano un giovane bello, aitante e focoso, Orchis, figlio di una ninfa e di un satiro.
Dalla madre aveva ereditato l'eterea bellezza, dal padre una libido irresistibile.
Durante una festa in onore di Dioniso, il giovine tentò di amare una sacerdotessa, certo che i suoi natali lo avrebbero reso impunibile anche agli occhi delle divinità.
Ma così non fu e Dioniso lo condannò, facendolo sbranare dalle sue belve.
Gli dèi impietositisi per la terribile fine di quel giovane bellissimo, vollero perpetuare la memoria di Orchis.
Dai suoi resti mortali fecero nascere una pianta di raro splendore che nelle radici conserva ancora il simbolo della virilità che fu fatale al giovinetto. Nacque così l'orchidea*
 
 
Le cinque di pomeriggio non erano l’ora più indicata per farsi una birra al Bangladesh, ma quella sera Simona aveva il turno serale e toccava a lui badare ad Alberta. Bere una birra con una bambina di sei anni non lo allettava per niente.
Quando spinse la porta del locale, si pentì persino di aver solo pensato ‘Ho voglia di una birra’. Era sabato, il che voleva dire serata a tema: Hawaii, quella sera. Le cameriere indossavano lunghi gonnellini di paglia mentre appendevano decorazioni floreali tra i tavoli e donavano a chi beveva collane di orchidee colorate.
Federico schivò abilmente qualsiasi tentativo di coinvolgimento. Voleva la sua birra: l’avrebbe bevuta e sarebbe tornato a casa con la stessa rapidità di un fulmine pur di evitare quella pagliacciata.
-Mi dai una birra? - chiese alla cameriera al bancone, dopo essersi seduto in uno degli sgabelli.
La ragazza fece ondeggiare i lunghi capelli neri come la pece, intrecciati tra boccioli di fiori delicati. Gli allungò la birra in un attimo e Federico prese a sorseggiarla.
-Federico!
Marco era al tavolo proprio accanto al bancone, fin troppo in tema per la serata con la sua camicia a fiori colorati.
Non lo vedeva da quella sera in cui gli aveva fatto la sfuriata, arrabbiato com’era per la storia con Emma. Marco lo aveva chiamato nei giorni successivi, ma Federico era più che certo che la motivazione non fosse quello che gli aveva detto; conoscendo il biondo, era più che sicuro che si era dimenticato qualsiasi tipo di diverbio, noncurante com’era della sensibilità altrui non si sarebbe mai speso in scuse, spiegazioni, introspezioni. No, a Marco piaceva lasciare il mondo così come lo trovava e affrontarlo con il massimo della superficialità.
Federico non lo aveva mai giudicato per quel suo modo di fare, anzi per un periodo gli aveva fatto persino comodo avere a che fare con qualcuno così poco attento ai sentimenti altrui e così proiettato su sé stesso. Tuttavia, qualcosa era cambiato, e ormai la compagnia di Marco non gli era più gradita: sentiva il bisogno di ricercare una maggiore profondità nelle persone che lo circondavano; profondità che in Marco non vedeva, che sicuramente Emma aveva, che Annamaria stava rivelando di possedere.
Nonostante la sua scarsa voglia di interloquire con il biondo, Federico si dimostrò accomodante nei suoi confronti, per quanto gli fosse possibile. Non era mai stato uno da moine con la gente, e di certo non poteva snaturarsi per far contento quel pallone gonfiato del suo amico.
-Ciao – ricambiò il saluto raggiungendolo al tavolo, dopo aver preso e pagato la birra che aveva ordinato.
-Fratello! – fece allegramente Marco. -In questi giorni sei sparito!
Gli mise un braccio sulle spalle affettuosamente, ma Federico rimase impassibile al gesto. Non gli andava di ricambiare.
-Ho avuto da fare.
Era vero solo in parte, e Marco pur sapendolo pareva non importargli che gli avesse rifilato una menzogna.
-Piuttosto – ribatté, abbassando il tono della voce. -Da quando il tuo onore lo fai difendere alle donne?
-Che? – borbottò Federico riscuotendosi dall’apatia in cui era sprofondato, come se avesse preso la scossa. -Di che diavolo parli?
Marco aveva un’espressione fintamente severa in viso: lo stava davvero rimproverando, senza però far leva sulla faccenda con la giusta serietà. -Lo sai.
Scosse la testa, spazientito. -No che non lo so, di che parli?
-Parlo di quella tipa – iniziò a schioccare le dita, come se con quel gesto potesse richiamare alla memoria il nome della ragazza. Federico temette per un attimo nominasse Emma. -Anna! Quella che ti porti a letto, lei!
Tirò un sospiro di sollievo nel non sentirsi fare il nome della sua Emma. Era come se volesse preservare il segreto di lei a Marco, così rozzo e pragmatico, così poco sentimentale: Emma era una favola che camminava sulla terra, solo il pensiero che due mondi così diversi potessero anche solo idealmente scontrarsi lo faceva rabbrividire. Voleva tenere il suo folletto spensierato e puro più lontano possibile da uno come Marco.
Tuttavia, il sollievo provato per pochi secondi si trasformò rapidamente in confusione. -Cosa c’entra Annamaria?
Il biondo rise. -Ma va – gli spintonò bruscamente una spalla. Anche se il gesto doveva apparire giocoso per Federico fu tutt’altro che gradito. -Quella sera in cui eri tutto incazzato…
Si sentì quasi preso in giro dall’amico.
Tipico di Marco sminuire le emozioni altrui a suo favore, non voleva dargli troppo peso, era più concentrato sul capire di che cosa stesse parlando. Annamaria e Marco non parlavano, non si salutavano quasi. Per quanto ne sapeva Federico, il biondo aveva così poca considerazione per la ragazza da non ricordare neanche il suo nome.
Tuttavia, in quel momento, colse una nuova consapevolezza negli occhi di Marco, un bagliore lussurioso, ma anche dello sdegno giocoso.
Quando si accorse che Federico non lo avrebbe incalzato ulteriormente, proseguì. -È venuta da me tutta seria, dicendomi che ero un pessimo amico e che mi sarei dovuto assolutamente scusare con te perché mi ero comportato di merda – spiegò, strofinandosi il mento al ricordo. Prese un sorso dal suo drink prima di andare avanti. -Insomma, mi ha fatto una ramanzina con i fiocchi, arrivando a concludere che sei il mio unico amico sincero e che forse non ti merito.
Sorpreso, Federico pensò ad Annamaria, così timida e delicata, eppure così coraggiosa da affrontare la sua cotta di sempre per difenderlo. Non che lui si fosse mai sentito bisognoso di difese, tutt’altro, ma il gesto così spontaneo di lei era comunque gradito. Dopotutto, lui era finito nei guai a causa del caos provocato da Marco e l’unica che si era interessata alle conseguenze era proprio Annamaria.
Se la figurò mentre faceva la predica al suo amico non-curante, al quale non importava di nessuno se non di sé stesso. Era stata carina, gentile, coinvolta, una vera amica come Federico non si aspettava di trovarne.
Lo scherno negli occhi di Marco gli fece intuire che il discorso di Anna aveva sortito, tuttavia, solo l’effetto di renderlo debole.
Tuttavia, a Federico non era mai importato della sua opinione.
-Mica me lo aspettavo che fosse così agguerrita, quella – proseguì Marco, giocando con la cannuccia nel suo bicchiere. -Se avessi saputo che era così, non ci avrei pensato due volte a farmela invece di…
Venne interrotto nel bel mezzo del discorso. -Marco!
Due ragazze si avvicinarono con fare malizioso al tavolo. Erano le stesse che gli erano state presentate durante la festa, a casa sua, entrambe con un finto reggiseno di noci di cocco che lasciava scoperto il ventre piatto e il bacino stretto, i lunghi capelli ricci sciolti sulle spalle, una collana di orchidee al collo. Erano identiche, quasi indistinguibili.
Federico si rese conto di non ricordare neanche come si chiamassero, né aveva idea di quale delle due ci avesse spudoratamente provato con lui.
-Ragazze, che piacere- fece Marco, esternando un entusiasmo senza fine. I suoi occhi maliziosi correvano prima su una e poi sull’altra ragazza, sulle loro gambe lunghe, sui loro seni esibiti con eccessiva ostentazione.
-Venite qui con noi! – le invitò, poi.
Federico si disse di non avere nessuna voglia di stare al tavolo con loro. Non aveva idea di che genere di conversazione ci potesse essere con due come quelle, e non aveva la curiosità di scoprirlo. Ne aveva già subite a sufficienza, di avance.
Il biondo si scostò dal divanetto per poter permettere alle due ragazze di accomodarsi.
-Marco non ci avevi detto che c’era anche il tenebroso…- disse una delle due, scoccandosi un’occhiata piena di sottintesi. Dallo sguardo con cui lo squadrò, Federico intuì che si trattava della ragazza che ci aveva provato con lui: aveva un’aria disinvolta e confidenziale.
-Sono qui per una birretta rapida, ho da fare stasera – allungò una mano verso la sua birra e ne bevve dei gran sorsi, sperando che finisse il prima possibile così da potersene andare.
Con uno schiocco di dita che aveva tutta l’aria di una cafoneria, Marco fece cenno al barista di portare da bere alle due ragazze insieme a loro. Ci vollero pochi minuti e due drink colorati fecero subito capolino.
-Ma quale tenebroso, è un coglione – rise Marco, rifilando una gomitata all’amico. Federico non si scompose minimamente davanti a quel gesto.
La ragazza che si era accomodata accanto a lui rise sguaiatamente, mettendogli la mano sul petto in una carezza sensuale.
-Da fare? – sorrise l’altra. Le labbra, come sempre tinte di rosso, erano arricciate in un’espressione divertita. -E cosa devi fare?
-Avanti Amelia, convincilo – insisté il biondo. -Se ti metti di impegno, puoi convincerlo.
Ancora una volta, Marco lo conosceva davvero poco se credeva davvero possibile che Amelia potesse convincerlo a restare con loro. Non si sarebbe divertito, avrebbe passato una serata terribile dietro a conversazioni frivole e vuote.
Non che lui fosse chissà quale grande interlocutore, ma di recente si stava sciogliendo, era diventato più esigente.
La ragazza al suo fianco gli mise una mano sulla coscia, accennando una carezza che aveva tutta l’aria di voler terminare sul cavallo dei suoi pantaloni. Federico si ritrasse, non per imbarazzo, quanto più per lo sdegno.
-Hai da fare davvero? – fece Amelia, seducente, probabilmente convinta che il motivo per cui si era tirato indietro fosse la timidezza e non il disprezzo.
-Come ho detto, sì- concluse lui, annoiato.
-Te l’ho detto, Marco! - cinguettò Amelia, sguaiatamente. –Ha una ragazza da cui andare.
Il biondo parve annoiato a quella affermazione, come se non potesse essere in alcun modo possibile.
Entrambi avevano tutta l’aria di aver parlato di Federico alle sue spalle.
Ripesò a quando da piccolo i compagni di scuola lo prendevano in giro per la sua maglietta di Cars bucata e sgualcita. Giancarlo, in quell’occasione, con il figlio in lacrime per le troppe cattiverie, gli disse che la gente parla degli altri quando non ha niente da dire di sé stesso.
Allora, quella frase gli sembrò una stupidaggine, aveva solo otto anni dopotutto. Quando però riuscì a comprenderne il significato, divenne una filosofia di vita.
Quello che diceva la gente, a Federico, non importava. Amelia poteva aver detto qualunque cosa a Marco sulla loro chiacchierata di qualche giorno prima, era irrilevante.
-Ma quale ragazza – fece il biondo, prendendolo in giro – è un’ameba!
Federico sorrise, diplomatico, annuendo come se l’amico avesse appena detto una grande verità.
Le apparenze lo salvavano sempre, perché in quel momento, dietro quel sorriso controllato, c’era il dubbio. Emma non era la sua ragazza, e comunque non aveva parlato di lei con nessuno se non con Annamaria e suo padre. Certamente, nessuno da cui Marco poteva acquisire informazioni.
-Ma sì! Sono sicura che hai qualcuna – insisté Amelia, come se questa potesse essere l’unica spiegazione per cui Federico la stesse rifiutando.
Anche in altre circostanze, anche senza Emma, tuttavia, il rifiuto sarebbe stato analogo.
Federico la osservò: il viso truccato accuratamente, l’espressione sicura, il corpo teso verso Marco, come a venerarlo.
Scelse di rispondere con l’ironia: -Beccato, dai, hai ragione tu.
Amelia aveva gli occhi che brillavano di una compiaciuta malizia.
-Allora non sei gay come pensavo, amico! Perché non la porti? - lo invitò esultando Marco, bevendo un sorso alla sua salute. Si asciugò le labbra con il dorso della mano. –Un’uscita a cinque, che dite? - propose, mettendo il braccio sulle spalle della sorella di Amelia.
-Oh sì, certo, porterò Alberta con noi molto volentieri – annuì Federico.
Amelia rise, alzandosi dal divanetto. –È così che si chiama? Alberta?
A quel punto Marco si lasciò andare ad un sonoro sbuffo, più plateale ed esagerato di quel che era necessario. -No, tesoro. Alberta è sua sorella. Ha sei anni.
-Ovviamente niente alcolici- ammiccò Federico.
-Allora l’uscita la facciamo a quattro! – cinguettò la sorella di Amelia, che probabilmente non aveva capito un bel nulla della loro conversazione.
Marco le mise un braccio sulle spalle, lasciandosi venerare dalla ragazza. Pareva non importargli che lei non fosse minimamente in grado di seguire i loro discorsi, o che fosse troppo stupida per farlo. -Potremmo fare quello che volete, se questo represso del mio amico ci stesse.  
-Represso? - ripeté Amelia scioccamente. –Sciocchezze, l’altro giorno c’era un tale feeling.
La ragazza gli mise le mani sulle spalle larghe, così vicina che i boccioli di orchidea blu erano a contatto con la sua maglia nera. Gli occhi scuri lo osservavano maliziosa.
-Sono questi i tuoi assi nella manica? - le sussurrò annoiato Federico, osservando i centimetri di pelle nuda lasciati scoperti dall’abbigliamento inadeguato.
Amelia arricciò le labbra. Federico glielo aveva visto fare così tante volte che quel gesto, che doveva essere sensuale, iniziava ad infastidirlo.
-Non hai visto niente.
Con uno slancio inaspettato lo baciò, la bocca aperta e la lingua prepotente. Aveva un odore nauseabondo, misto tra l’alcol e la sigaretta.
L’audacia che stava dimostrando nell’orchestrare la situazione sarebbe stata apprezzata da tantissimi altri ragazzi, Marco compreso, ma non da Federico. Non c’era niente di eccitante, di accattivante, niente che gliene ne facesse desiderare ancora, niente che lo spronasse a spingersi oltre.
Viscido, ecco l’aggettivo più adeguato a descrivere quel momento, si disse Federico.
Rimase passivo davanti a quel gesto, lo subì - come molte altre cose nella sua vita – avendo la forza di tollerarlo solo per una manciata di secondi prima che il suo corpo gli mandasse segnali di allarme, desideroso di scostarsi.
L’allontanò bruscamente, a tal punto che la collana di orchidee che aveva al collo perdette qualche fiore. Non voleva essere più scortese di quanto non fosse abitualmente, ma l’insistenza, il contesto, le prese in giro, erano davvero troppo.
Non si sentiva arrabbiato, solo stanco, seccato, desideroso di andarsene il prima possibile. E di non vederli più, per almeno una settimana.
Si pulì la bocca con il dorso della mano e finì la birra che gli restava in due sorsi. Bere non gli fu sufficiente a cancellare il sapore nauseabondo dalla bocca di lei.
Aver bevuto velocemente gli scombussolò il cervello, ma non esitò un attimo: si alzò dignitosamente e senza spendere spiegazioni ulteriori si congedò.
-Ci si vede- disse, inespressivo, mentre alle sue spalle si lanciavano nei commenti. Non fu abbastanza abile da decifrarli, e neanche gli importava.
Calpestò i fiorellini azzurri sul pavimento, nel tragitto verso l’uscita.
 
-Cantano di continuo- constatò Federico. –Perché?
Alberta era ipnotizzata dal cartone che stavano guardando a tal punto che rinunciò a rispondere al fratello. D’altronde, una risposta non sapeva dargliela nemmeno lei che quei cartoni li aveva visti un centinaio di volte, o forse di più.
-Guarda che bel vestito! - Alberta indicò entusiasta lo sgargiante vestito rosa che sfoggiava la protagonista. –Me lo compri?
Gli occhi della bambina brillavano di sogni, saltellava sul posto tutta emozionata.
-Certo tesoro- rise Federico. –E se non lo trovo nei migliori negozi di abbigliamento, lo faccio cucire ad una sarta.
Si lasciò sfuggire quel commento ironico quasi senza pensarci, ma senza malizia. La sorellina, che probabilmente non avrebbe colto il suo sarcasmo in ogni caso, pareva non averlo neanche ascoltato. La sua attenzione, piuttosto, fu attirata dal suono del campanello.
Quando Federico aprì la porta si aspettava qualsiasi cosa: da Marco con le sue due sgualdrine, venuto per mettere i puntini sulle i dopo il discorso di qualche ora prima, alla madre, tornata prima da lavoro, passando per la vicina, la signora Averna, mandata da Simona per supervisionare l’operato di Federico come babysitter dopo i disastri delle settimane prima.
Di certo, tra tutte quelle opzioni plausibili, non si aspettava di vedere Emma.
Era addirittura più bella del solito: i capelli corti totalmente spettinati, le guance arrossate, la camicetta blu sgualcita che le dava quasi un aspetto selvatico, stranamente sensuale. Le sue labbra erano tinte di color fragola, ancora una volta, come se avesse preso l’abitudine di indossare quel dettaglio appositamente per conquistarsi l’attenzione di Federico.
-Disturbo? - chiese discreta.
-No – le sorrise lui, facendole segno di entrare. In nessun caso la presenza di Emma lo avrebbe mai disturbato.
-Un bacio posso averlo? – sorrise lei, una volta chiusasi la porta alle spalle. Quella richiesta suonò così dolce e infantile, ma al contempo così sincera, che Federico si lasciò andare ad una risata.
Poi, in un attimo, ripensò a quel pomeriggio e al fatto che avesse baciato Amelia; o meglio, aveva subito un bacio di Amelia, ma non aveva comunque fatto nulla per fermarla.
Emma non gli aveva mai parlato di un’esclusività del loro rapporto ma guardandola in quel momento si rese conto che probabilmente lei non aveva interesse per nessun altro se non per lui.
Non conosceva abbastanza di lei, non sapeva come poteva prenderla se solo gli avesse raccontato di quello che era successo. Eppure, si convinse che era la cosa più giusta da fare, perché a lei non aveva niente da nascondere. C’era solo Emma, per lui, dopotutto.
Alberta, tuttavia, aveva deciso che non era il momento giusto per lasciarsi andare. -Emma! – gridò felice, raggiungendoli alla porta d’ingresso.  
La bambina iniziò a fare un balletto entusiasta, prendendo la ragazza per mano e cercando di condurla in salotto, dove i cartoni erano ancora a tutto volume.
-Ero con Alberta – spiegò lui quando Emma gli scoccò un’occhiata divertita, trascinata dalla forza di quel tornado di sei anni.
Lei agitò il sacchetto che aveva tra le mani. –Ho portato il gelato.
-Gelato! – esultò ancora la bambina, saltellando affinchè Emma si sentisse accolta con le migliori feste. –A me piace al cioccolato e alla fragola!
-Li ho entrambi! - sorrise Emma e la piccola riprese a trascinarla, questa volta verso la cucina.
Federico si appoggiò con la spalla allo stipite della porta e osservò la scena: Alberta che si leccava le labbra, pregustando già il sapore del suo gelato preferito, ed Emma, che si muoveva in quella cucina come se fosse quella di casa sua, che sorrideva dolce alla piccola, riempiendole in abbondanza la coppetta con panna e cioccolatini.
-Ma tu hai un cellulare?
-Certo che ce l’ho- rispose sbrigativa lei, leccandosi l’indice sporco di gelato. –Che domande mi fai?
-Già, che domande le fai? – ripeté Alberta, con il tipico atteggiamento da soldatino ubbidiente che di solito sfoderava solo per sostenere Simona.
Ridacchiò da sola e si incamminò di nuovo verso il salotto, la coppa gelato stracolma.
-Magari potresti usarlo per farmi sapere quando hai voglia di vedermi.
Emma rise. –Perché hai questa smania di concordare i nostri appuntamenti?
Federico fece spallucce, ancora appoggiato alla porta della cucina, a braccia conserte. -Forse perché è così che le persone normali fanno, abitualmente?
-Così viene meno l’effetto sorpresa, non trovi? – rispose lei, mettendosi in bocca un bel cucchiaio di gelato al cioccolato. Si impiastricciò tutto il viso nel farlo ed iniziò a dimenare la lingua nel tentativo di pulirsi.
-E chi è che ti ha chiesto l’effetto sorpresa?
Emma gli fece l’occhiolino, con un fare seducente che di solito non le vedeva addosso ma che in quel momento gli fece sentire improvvisamente caldo. -Ti piaccio proprio perché ti sorprendo.
Federico fece roteare gli occhi al cielo e la prese in giro: -Sciocchezze.
-Ti senti attratto da me perché non sai che cosa aspettarti – proseguì lei, continuando a mangiare il suo gelato innocentemente.  
-Anche queste sono sciocchezze – mentì lui.
-Sarà- mugugnò lei, il gelato ancora tra le labbra. –Cioccolato?
-Preferisco la fragola.
 
Mezz’ora dopo, Alberta dormiva come un sasso sulla poltrona: la coppetta ormai vuota abbandonata sul tavolino da caffè e la bocca ancora sporca di panna e cioccolato. Russava fin troppo forte per essere una bambina di sei anni.
-Forse dovresti pulirla e metterla a letto- suggerì Emma, spegnendo il televisore.
Federico raschiò i residui di gelato dal fondo della coppetta. –Magari dopo.
-E perché stai procrastinando? – fece Emma, maliziosa.
Strisciò più vicino a lui sul divano, pronta a prendersi quello che gli aveva chiesto poco prima, facendo il suo ingresso nella casa, ma anche il giorno prima, in spiaggia, quando lui per prenderla in giro si era rifiutato di baciarla.
Federico la trovò così spontanea e bella che si sentì lusingato e deliziato che lei desiderasse a tal punto un contatto intimo con lui. Poggiò anche lui la sua coppetta sul tavolino da caffè e le accarezzò il viso, la guancia fresca e morbida punteggiata di lentiggini nocciola.
Fu in quel momento, mentre la guardava dritto negli occhi verdi, che si rese conto che non poteva permettersi di procrastinare tutto, doveva dirle la verità subito. Se c’era una cosa che aveva imparato era che rimandare i discorsi li ingigantiva e lui non voleva discutere con Emma, voleva solo viverla.
-Ho baciato una ragazza- le disse, di punto in bianco, quando lei stava per accostare la bocca a quella di lui.
Emma ebbe un tremolio agli occhi, una vibrazione impercettibile di pochi secondi che non lasciò trapelare fino in fondo che cosa realmente pensasse. Rimase zitta qualche istante e lo osservò, dritto negli occhi nocciola, senza proferire parola.
–Figo – disse infine, con un leggero imbarazzo nella voce - Come è stato? – aggiunse poi, con una disinvoltura che sapeva di falso. Non voleva farsi vedere dispiaciuta da lui evidentemente.
Federico, che non ci aveva mai capito nulla delle emozioni altrui, riusciva a leggerla come se fosse un libro aperto. Non era stata una cosa immediata, ma più tempo passava con lei più le pieghe della sua anima diventavano chiare, nitide, ai suoi occhi. Sapeva che ci era rimasta male.
–Viscido, disgustoso in un certo senso – le sorrise, leggero, nel tentativo di farle capire che per lui non aveva significato niente. In un certo senso avrebbe potuto dirglielo, ma lo metteva in imbarazzo esporsi in quel modo. -Era un’amica di Marco.
Lei si grattava il mento, pensierosa. - Buffo, credevo che Marco sapesse scegliere bene.
-Bene secondo quale standard? – rise lui.
Emma rise a sua volta, ma era evidente che dietro la risata celasse una certa delusione. Coraggiosamente e dignitosamente, cercava di mascherarla, poiché in fin dei conti non c’era nulla di ufficiale tra di loro, si stavano semplicemente conoscendo.
-Non so – fece lei, confusa. -Mi ero fatta quest’idea.
Emma tacque ancora e a quel punto Federico si chiese perché glielo avesse detto: forse celando quella piccolezza avrebbe preservato il loro momento perfetto.
E lei non aveva ragione di tacere imbarazzata eppure, contro ogni aspettativa, lo stava facendo.
-Perché me lo stai dicendo? – sbuffò alla fine. Lo guardò negli occhi di nuovo, questa volta agguerrita, come se dopo il suo attimo di alienazione avesse deciso di affrontare il fatto senza troppe cerimonie.
Federico fece spallucce. –Mi andava di dirtelo- se ne uscì, semplicemente perché non sapeva neanche lui perché lo avesse fatto. Sentiva di doverle la verità, semplicemente.
La purezza del loro rapporto doveva essere preservata e desiderava che non ci fossero bugie, era questa la ragione.
Emma incrociò le braccia al petto. - Lo sai che puoi baciare chi vuoi, vero? – fece, agguerrita, ma agli occhi di Federico suonò come una bugia.
-E lo stesso vale per te, certo- annuì lui, mentendo a sua volta. Il pensiero di lei con qualcun altro gli dava fastidio, ma non lo avrebbe mai dichiarato apertamente.
-Dico, non è che siamo vincolati- Emma iniziò a gesticolare e l’imbarazzo che aveva nascosto per pochi istanti ritornò ad emergere prepotente. Non l’aveva mai vista così in difficoltà come in quel momento. –Puoi ficcare la lingua in bocca a chi vuoi, non m’importa.
-Certo- proseguì titubante per l’espressione che aveva usato lei. –Possiamo limonare con chi ci pare.
Emma storse il nasone. –Puoi risparmiarti queste espressioni.
-Sei tu che hai detto ‘ficcare la lingua in bocca’ o sbaglio? - rise lui.
-Comunque, sì! - e lo squittì, come un topolino in trappola. –Contro il romanticismo e contro le convenzioni, puoi limonare e portarti a letto chi ti pare e quando ti pare.
Ancora una volta non era vero e, comunque, Federico non voleva nessun altro. Se Annamaria non avesse chiuso con lui, sarebbe stato lui a smettere di fare sesso con lei, perché il pensiero di Emma sovrastava qualsiasi altra ragazza avesse intorno.
Lui annuì, divertito. –Sei sicura?
-Ma certo! – continuò a squittire lei.
-Figo.  
-Figo, sì- lo imitò lei, fissando il vuoto pensierosa.
A quel punto Federico la baciò, certo che quello fosse il momento in cui lei meno se lo aspettava, al punto che prima di abbandonarsi spalancò gli occhi per la sorpresa, come la prima volta che l’aveva baciata.
Non fu come il bacio che Amelia gli aveva rubato quel pomeriggio: quello era lontano anni luce dall’essere eccitante come, in quel momento, baciare Emma, che, affamata ma lenta, si gustava il suo frutto proibito, dopo averlo desiderato e richiesto per giorni.
Ecco, se avesse dovuto descriverlo, Federico avrebbe risposto che Emma baciava allo stesso modo in cui si mangia una mela, assaporando ogni boccone mentre il succo dolce ti scivola tra le labbra.
E se non c’era stato niente di inebriante nel baciare Amelia, sentire Emma sedersi a cavalcioni su di lui mentre gli stringeva i capelli lo stordì a sufficienza, eccitandolo in ogni fibra del suo corpo.
Sentirla sospirare dentro la sua bocca lo fece sorridere e lo spinse a stringerla ancora di più a sé.
Non avevano più bisogno di discutere di quello che era successo perché quel gesto spiegava tutto con grande chiarezza: si desideravano reciprocamente, sia mentalmente sia fisicamente, e non sarebbe stato un bacio rubato da un’altra a dissuadere Emma da quello che stavano intraprendendo.
-Federico…- cinguettò Albertina, quando lui era dedito a baciare il collo di lei.
E in un attimo Emma era stesa sul divano, da sola, senza fiato e con gli occhi verdi sbarrati, mentre Federico, già in piedi, controllava che la sorellina dormisse ancora e che non avesse visto niente.
-La metto a letto- disse, prendendo in braccio la sorellina, senza aspettare che lei gli rispondesse.
Emma sembrava aver preso una scossa: aveva i capelli più spettinati di quando era arrivata, gli occhi ancora spalancati, le guance rosse per l’eccitazione.
Lo osservò senza fiato, ansimante, mentre lui saliva le scale con la bambina tra le braccia.
 
Quando aprì la porta della sua camera la luce era accesa. Emma era sul suo letto, con una delle sue magliette addosso, le gambe nude accavallate, mentre osservava il suo blocco da disegno. I suoi vestiti erano ammucchiati per terra, nell’angolo accanto alla porta.
Quando dieci minuti prima era sceso al piano di sotto, dopo aver provveduto ad Alberta, aveva pensato che fosse andata via. Non si aspettava di certo di trovarla nel suo letto, ma probabilmente da lei doveva aspettarselo.
Emma lo guardò con un sorriso allegro ma malizioso, probabilmente ripensando a poco prima, sul divano. Sembrava desiderosa di proseguire qualsiasi cosa avessero iniziato.
-Quella è la mia maglietta- le disse divertito, indicando la T-shirt verde militare che indossava la ragazza.
E lei smise di sorridere. –Sul serio? È la prima cosa che hai pensato, entrando?
Federico, noncurante, si sfilò i jeans scuri e li sostituì con una tuta grigia. Mentre si sfilava la maglietta a maniche corte, si accorse che Emma lo osservava: gli occhi verdi di una tonalità più scura rispetto al solito, le labbra sottili schiuse e le guance più rosse del solito, sembravano due pomodori.
-E che cosa dovrei pensare? – ridacchiò lui, mentre riponeva ordinatamente i suoi vestiti nell’armadio.
-Ho la sensazione che tu mi prenda in giro – fece lei, sbuffando. Federico la guardò, un sopracciglio aggrottato: Emma indicò il suo abbigliamento e poi i suoi vestiti, riposti disordinatamente sul pavimento.
-Oh, certo - Federico mugugnò con finta sorpresa, dandogliela vinta. –Ho pensato anche che i tuoi vestiti sono per terra- aggiunse, raccogliendo da terra un paio di pantaloncini a jeans, una camicetta blu, un paio di sandali e… un reggiseno bianco.
-Cacchio che perspicace.
-E questo? - sorrise lui, agitandole il reggiseno sotto il naso.
Emma sollevò gli occhi al cielo, esasperata. –Avanti, dì che è un reggiseno e completiamo il festival dell’ovvio.
-È un reggiseno- disse, riponendo le sue cose sulla sedia accanto la scrivania, in maniera ordinata. –Vedo che non ti sei fatta troppi problemi a metterti comoda.
Lei non gli rispose, ma non gli importò.
Se voleva restare, gli andava più che bene: avevano già dormito insieme. Anche se, a giudicare dall’espressione di Emma, lei non voleva solo dormire insieme a lui.
Si riscosse con un colpetto di tosse. –Sono io- disse, indicando il disegno che le aveva fatto l’altra mattina, dopo che se n’era andata.
-Ora anche tu dici cose ovvie- le sorrise. Gattonò sul letto e le sfilò il blocco di mano, per poi infilarsi sotto le coperte. –Sì, sei tu. Spegni la luce.
-Che vuol dire? – lo incalzò lei, di nuovo esasperata.
Federico rise, voltandosi di spalle. - Vuol dire che l’interruttore è dalla tua parte del letto e che se non spegni non possiamo dormire.
Emma, come una bambina insoddisfatta lo prese per un braccio ed iniziò a scuoterlo. –E non mi baci?
Ancora una volta rise, girandosi verso di lei. Aveva le cosce candide, con qualche neo scuro a punteggiarle, le ginocchia macchiate da qualche sbiadito livido violaceo. –Perché me lo chiedi sempre?
-Perché tu mi costringi a chiedertelo- soffiò lei, facendo sollevare qualche ciuffo di capelli. –Sono sul tuo letto, ho la tua maglia, e il mio reggiseno è dall’altra parte della stanza, che stai aspettando?
Gli toccò il viso barbuto, intrecciando prepotentemente le gambe a quelle di lui, per avere un contatto più intimo. La sicurezza che aveva lei in quel momento la rendeva attraente come non mai agli occhi di lui.
-È che così mi sembra troppo facile: ti bacio, ti tolgo la maglietta… - la prese in giro.
-È facile, fallo! - lo fermò lei, ancora con quell’aria da bambina, mentre con una mano gli toccava il petto nudo. -Si può sapere perché non vuoi fare sesso con me?
Lui rabbrividì per l’eccitazione al solo pensiero di averla, ma prenderla in giro era troppo divertente, così proseguì: -Mi togli il piacere della conquista.
Emma sollevò gli occhi al cielo. –Credevo che avessimo superato questa sciocchezza mezz’ora fa, sul tuo divano.
Lui le sorrise. –Nel divano è stato diverso.
-Se vuoi torniamo sul divano.
-È stato diverso perché tu non te lo aspettavi, ti ho baciata e basta- Si fermò e scrutò il viso di lei, scettico per quel discorso. Non importava quanto fosse convincente il discorso che voleva farle, lei non lo avrebbe ascoltato. -Buonanotte Emma.
Si girò in modo da darle le spalle, ed Emma gettò la spugna.
Venti minuti dopo la luce era spenta e lei dormiva tranquillamente: aveva la bocca aperta, i seni piccoli e sodi si alzavano e abbassavano al ritmo del suo respiro, la mano abbandonata sul ventre, i capelli castani una matassa che le avvolgeva il viso tondo.
Federico pensò che in quella posizione fosse un ottimo soggetto da ritrarre, ma non aveva voglia di prendere il suo blocco. Gli piaceva solo guardarla.
Le accarezzò il braccio con le nocche e si sporse verso di lei, baciandole le labbra mentre dormiva.
In quel momento Emma schiuse un occhio, incurvando la bocca in un sorriso dispettoso. -Sei un coglione- gli sussurrò, mettendogli entrambe le braccia attorno al collo e attirandolo a sé.
Federico rise piano e la baciò con più ardore, giocando con la lingua di lei e sfilandole la maglietta così come lei aveva desiderato fin dall’inizio. Emma a quel gesto mugolò di piacere, soddisfatta per aver ottenuto ciò che bramava. Si lasciò scrutare da lui i seni ed il corpo candido e minuto, coperto soltanto da un paio di slip azzurro mare.
Emma, intraprendente e sensuale, prese una mano di lui e se la posò sul seno, mentre con l’altra lo incoraggiava a sfilarsi la tuta grigia.
-Sei frettolosa – le bisbigliò lui roco, mentre le stringeva la pelle morbida e le baciava il collo.
-Sei lento – ribatté lei eccitata, circondandogli con le gambe il bacino per cercare un contatto più intimo con il corpo di lui. Quando il centro di lei si scontrò con la sua erezione entrambi gemettero.
-Mi piaci – bisbigliò lei, come a giustificare la fretta che aveva, la sua voglia di bruciare le tappe. In un gesto inaspettato afferrò i lembi dei boxer di lui con le dita dei piedi e li tirò giù.
Iniziò a trafficare febbrilmente con i suoi slip, pronta a tirarseli giù, ma Federico la fermò, riservandosi il piacere di spogliarla definitivamente: fu lui a toglierle l’ultimo strato di tessuto che le impediva di avvinghiarsi nuda a lui.
-E tu piaci a me – rispose lui, baciandole le labbra l’ultima volta e chinandosi verso il centro di lei per darle piacere.
Emma soffocò un piccolo urletto quando la lingua di lui la esplorò, languida, e non protestò più per il suo essere lento, anzi sembrò quasi piacerle.
 
Nel linguaggio dei fiori, il significato del fiore di Orchidea equivale ad eleganza e sensualità ma, grazie alla sua bellezza, non sarebbe possibile non regalarla ad una donna bellissima ed affascinante, tale da suscitare un’autentica ammirazione e una conseguente totale dedizione. L'Orchidea non vuole semplicemente indicare la sensualità ma anche lusso, fascino e passione.
[www.ilgiardinodegliilluminati.it]
 
Il fiore dell’orchidea ha un fascino particolare ed una bellezza unica, esteticamente perfetto tanto che ha simboleggiato da secoli la raffinatezza, l’eleganza, l’armonia, la bellezza ma anche e soprattutto la passione, la sensualità e l’amore.
[www.giardinaggio.it]
 
*Fonte: www.treviambiente.it

 
Buongiorno a tutt* i lettori che si sono spinti fino a qui. Vi ringrazio molto per il sostegno, per le belle recensioni e per aver messo la storia tra le seguite. 
Questo è uno dei capitoli che ho preferito maggiormente scrivere, spero che per voi sia stato altrettanto bello leggerlo. 
A giovedì! 

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Capitolo 9
*** IX Rododendro ***


IX Rododendro
 
Una giovane coppia decise di fare una passeggiata lungo uno dei tanti sentieri che disegnano le montagne.
I due si fermavano sovente ad ammirare i fiori che sorgevano numerosi nei pressi della stradina.
Ad un tratto la ragazza vide un bel fiore che spuntava nei pressi di un cespuglio costituito solo da foglie.
L'innamorato per donarglielo, si sporse troppo e scivolò in un burrone nascosto dalla vegetazione.
In seguito alla caduta, alcune gocce di sangue si riversarono su quello strano cespuglio ed improvvisamente spuntarono dal nulla tante corolle di color porpora, i rododendri.*
 
 
Quella mattina avvennero una serie di cose assolutamente prevedibili e scontate, a testimonianza del fatto che la routine di Federico era statica, composta sempre dalle stesse persone che, attorno a lui, facevano sempre le stesse cose.
Si alzò dal letto, stiracchiandosi alla luce del sole. Emma dormiva ancora, nuda, con la coperta scalciata fino alla base del letto. Rannicchiata su sé stessa, tendeva la mano verso il punto che prima occupava Federico. Aveva dormito con lui tutte le sere, durante quella settimana. Come un gatto randagio, la sera si arrampicava sull’albero accanto alla finestra e si infilava tra le sue lenzuola, trovando in lui riparo e conforto. Non cercava in lui soltanto sesso, ma anche tenerezza e conforto, una coccola, un abbraccio durante la notte.
Federico le mise le lenzuola addosso e le fece una carezza tra i capelli spettinati, avendo cura di non svegliarla.
Andò in bagno a lavarsi e una volta tornato, un quarto d’ora dopo, già Emma non c’era più. Era probabilmente andata via dalla finestra, dalla stessa da cui era entrata, senza avergli dato l’occasione di salutarla prima di dileguarsi.
Sulla sua scrivania troneggiava un biglietto con piccoli scarabocchi arzigogolati: “A dopo” recitava, una promessa ormai ricorrente tra di loro.
-Prevedibile- si disse Federico con un sorriso.
Era nell’indole di Emma essere sfuggente, lo aveva capito. La sua sparizione non gli arrecò alcuna sorpresa. Quella, invece, arrivò quando constatò che la ragazza aveva portato via tutti i suoi vestiti. Tutto ad eccezione del suo reggiseno e dei suoi slip: glieli aveva lasciati sul letto, come una sorta di cimelio, e lui immaginò il suo sorriso giocoso nel fare quel gesto.
Mentre si incamminava verso il piano di sotto, la sua attenzione venne richiamata.
-Fede! - cinguettò Alberta dal suo lettino rosa sgargiante, in camera sua.
Federico la raggiunse in prossimità del suo lettino. - Tesoro! Dimmi tutto.
La piccola si stropicciò gli occhietti stanchi e si alzò dal letto, sfoggiando il suo pigiamino fucsia. –Giochiamo con le bambole con Emma?
Anche Alberta si era ormai abituata alla presenza di Emma: nei pomeriggi in cui la madre era a lavoro, avevano giocato insieme, con grande gioia della piccola, la quale era stata abbastanza furba da non fare il nome di Emma davanti a Simona, come se la sua presenza fosse un segreto da conservare insieme a Federico.
-Non c’è oggi – le spiegò Federico, carezzandole i capelli scompigliati,
-È andata via? Ma viene dopo? - chiese la bambina, sconsolata. –Giochiamo lo stesso, io e te?
-Certo che giochiamo lo stesso – le sorrise, guadagnandosi un abbraccio e un bacio dallo schiocco esagerato.
Albertina prese a saltellare, afferrando le sue bambole con una velocità sovrumana. Federico pensò che non fosse la prima volta che le vedeva fare quel balletto divertente: era un rito, il festeggiamento perché il fratello maggiore voleva partecipare ai suoi giochi. Era una cosa che faceva sempre. Quindi, ancora una volta, prevedibile.
Non che gli dispiacesse giocare con la sorellina, certo, anzi era più che felice di aver finalmente instaurato con lei un rapporto.
-Che ne dici se prima facciamo colazione? - propose, quando la bambina gli riempì entrambe le mani di bambole e vestiti colorati.
Albertina soppesò le parole di lui più a lungo del necessario. Lanciò le bambole sul suo letto, tra le centinaia di pupazzi colorati. –Certo!
I fratelli scesero entrambi in cucina, dove Simona trafficava con pentole e caffettiera. –Buongiorno tesoro- disse felice, stampando un bacione sulle guanciotte piene della figlia.
Federico le fece un cenno con la mano ed allungò la mano verso il caffè. L’aroma bastò a risvegliargli i sensi.
-Cosa avete fatto ieri? - chiese la donna, allungando fette biscottate spalmate di marmellata alla fragola ad Alberta.
La bambina prese a rosicchiare la prima, lasciando briciole ovunque.
-Niente di che: abbiamo giocato insieme con le bambole- glissò Federico.
-Federico ha promesso di comprarmi una bambola nuova! - esultò Alberta, mimando con le manine la silhouette della Barbie che desiderava.
Simona non parve soddisfatta: -E non è venuto nessuno? – rintuzzò, come se sapesse che a quel racconto mancavano dei dettagli.
Ecco un’altra cosa prevedibile della sua quotidianità, si disse Federico: gli interrogatori della madre, alla ricerca di risposte a domande che conosceva solo lei. Certo, questa volta il suo naso da cane da tartufo poteva fiutare il tesoro, il segreto che entrambi i suoi figli gli celavano, complici, ma non l’avrebbe mai trovato. L’ultima persona a cui avrebbe detto di Emma era lei.
Certamente la sua esistenza non era più un segreto, né per il padre né per Annamaria, ma non si fidava abbastanza della madre da lasciarsi andare alla verità.
Federico scosse la testa. –Solo io ed Alberta.
La cosa incredibile fu vedersi assecondato dalla sorellina minore, che continuò a divorare indisturbata la sua colazione. Perché tacesse ancora non lo sapeva - di certo lui non glielo aveva chiesto - ma domandarsi il motivo per cui una bambina di sei anni agisse in un certo modo era inutile. Era pur sempre troppo piccola per avere una coscienza decisionale sulle cose.
Simona guardò la figlia scettica: il suo piccolo soldatino ubbidiente ormai complice del figlio orso.
-Ieri sera ti ho sentito parlare con qualcuno, in camera tua.
Federico restò impassibile, Alberta continuò a mangiare come se non avesse sentito nulla.
Emma aveva dormito in camera sua e, prima di addormentarsi, avevano bisbigliato scherzosamente, complici. Certamente la madre non era una sciocca, era assolutamente plausibile che li avesse sentiti, che fosse curiosa di sapere chi ci fosse e anche un po’ infastidita perché non lo aveva mai autorizzato a portare a dormire ragazze, sotto il loro tetto.
In quel momento, a disincastrarlo da quella situazione, fu il suono del campanello.
-Era il computer- disse sbrigativo, prima di alzarsi per andare a aprire.
La madre stava per protestare, poiché la risposta che le era stata fornita era lontana anni luce dalla verità, e lo sapeva, ma Federico era ormai davanti alla porta di ingresso. E, quando la aprì, lo schema ripetitivo delle sue giornate venne alterato.
Giancarlo Visconti guardò il figlio con un sorriso smagliante, in attesa di una qualche reazione da parte sua.
Fu Albertina, corsa dietro al fratello, forse speranzosa di vedere Emma, a dare il via alle danze: -Papà! - gridò a pieni polmoni, correndo a piedi nudi verso il padre, che abbandonò qualsiasi cosa avesse in mano per poter abbracciare la figlia piccola.
-Visto che non hai avvisato, dormirai sotto un ponte- sorrise Federico, il cuore che gli batteva a mille per la gioia di vedere il padre, ma il viso di chi voleva rimanere impassibilmente sarcastico anche davanti a una cosa come quella.
Giancarlo rise, ravvivandosi il ciuffo di capelli castani, identici a quelli del figlio. - Me lo aspettavo, quindi sono passato a fare la conoscenza del barbone che ci vive prima di venire- ammiccò al figlio. -Ha detto che vuole cento euro per farmi restare.
-Che bello papà! - saltellò Alberta, stampando baci sulle guance di Giancarlo.
-Forse sarebbe stato più economico un bed-and-breakfast – proseguì Federico, restando sempre fedele al gioco che avevano appena intrapreso.
-Giancarlo.
Simona era stata incolore nel pronunciare il nome dell’ex marito. Se ne stava in fondo al corridoio, a guardarlo come se fosse una visione, come se non fosse realmente lì.
Federico notò subito come si torturava le mani, una tipica dimostrazione del suo nervosismo.
-Simona! - Il padre fu cordiale, sorridente, disinvolto, nel salutarla. Affrontò la situazione di petto. –Come stai?
La donna annuì, vaga. –Bene, grazie.
La sorpresa di vederlo doveva essere stata troppa, soprattutto perché erano passati due anni dall’ultima volta che aveva suonato il campanello di quella casa.
-Ce l’hai un regalino per me? - saltellò la bambina, privando il padre della sua stretta.
Giancarlo ammiccò alla piccola. –Ma certo che ho un regalo per la mia pulce.
Tirò fuori da uno zaino un pacco incartato di fucsia con un bel nastro colorato. Alberta si liberò della carta in un attimo e lanciò gridolini entusiastici alla vista del camper di Barbie. Corse su per le scale. –Devo mostrarlo alle mie bambole!
-Non dovevi portarle niente- disse Simona, rigida come una statua di gesso in fondo al corridoio.
Giancarlo raccattò le sue borse da terra e Federico lo lasciò entrare in casa. –Non le facevo un regalo da secoli.
-Puoi lasciare le cose in camera mia- fece un cenno al padre.
Quest’ultimo annuì ma, prima di salire su per le scale con il figlio, allungò a Simona un mazzo di fiori arancioni. –Sono rododendri, spero ti piacciano- le sorrise.
Federico si sentì quasi in imbarazzo a ritrovarsi in mezzo a quella conversazione. C’erano evidentemente delle cose irrisolte tra i suoi genitori e lui, a fare da perno in mezzo a loro, sentiva l’imbarazzo e la confusione provenire da entrambe le parti, anche se Simona era più limpida mentre Giancarlo più misurato.
La donna accettò il dono senza guardarlo negli occhi, osservando i fiori dal colore acceso, i petali che si incastravano in un disegno perfetto.
-Grazie- disse solamente, senza muoversi di un centimetro dalla sua posizione.
Federico notò come osservava Giancarlo mentre saliva le scale, ma non se ne curò, e seguì il padre al piano di sopra.
 
-Non mi hai ancora spiegato perché sei qui- chiese Federico al padre, mentre la cameriera del Bangladesh gli serviva due birre ghiacciate.
Dopo il pranzo imbarazzante, Simona si era dileguata con la figlia Alberta per fare delle presunte urgenti spese, e non erano più tornate. Alla fine, Federico aveva preferito chiedere al padre di uscire, consapevole che Simona volesse una pausa da quel tornado che gli aveva stravolto la giornata.
-Ci deve essere per forza una ragione? - rise Giancarlo, sorseggiando la birra ghiacciata. –Volevo vedere i miei figli, tutto qua.
Federico notò lo sguardo curioso della cameriera, mentre si allontanava. Lui e il padre erano identici, come due gocce d’acqua. Se non avessero avuto una significativa differenza d’età, potevano essere scambiati per gemelli. Stessi capelli castani, occhi nocciola, barba piccola e pungente, stessi tratti mediterranei. Era come guardarsi in uno specchio.
-Stronzate: erano due anni che non ti facevi vivo a casa, se avessi voluto vedere solo me ed Alberta ti bastava fare uno squillo per darci appuntamento – borbottò Federico, che di sentirsi dire bugie dal padre proprio non aveva voglia.
Giancarlo fece una smorfia annoiata. –Mamma mia che ragionamento di ferro. Da quando sei così intelligente?
Alzò gli occhi al cielo, dedicandogli un’espressione fintamente scocciata. - Ho preso tutto da te.
-Cazzo, questo non mi consente di fare battute- sbuffò il padre.
-Provi a glissare le mie domande? Credevo che fosse la mamma quella che ha sempre qualcosa da nascondere- concluse, sorseggiando la birra fredda.
Giancarlo rise. –In realtà non mi hai fatto nessuna domanda.
-Perché hai interrotto il mio ragionamento- borbottò. –Stavo per arrivare alla conclusione.
-E quale sarebbe, Sherlock? - indagò incuriosito.
-Aspetto una tua confessione.
Giancarlo sollevò gli occhi al cielo, scocciato. –Che palle, se avessi saputo che mi avresti fatto il terzo grado sarei rimasto dov’ero.
Federico rise. –Sei venuto per la mamma, vero?
Quella idea aveva serpeggiato nella testa di Federico dal momento in cui aveva visto il padre tenderle il mazzo di rododendri arancioni. L’espressione del padre, sorriso impassibile e rilassato, ne fu la conferma. Avevano lo stesso modo di reagire nei momenti di difficoltà: non si sbilanciavano troppo, così che gli altri non scoprissero i loro punti deboli.
-E a questa brillante conclusione come sei arrivato? - rise Giancarlo.
Federico fece spallucce. –Non saresti venuto a casa se non per vedere lei.
-Bah, non lo so neanche io- rispose il padre, muovendo la mano come per scacciare una mosca fastidiosa. –Ci ho pensato, dopo che me lo hai chiesto.
-Che hai pensato?
-Non so neanche questo- rise. –Più che un ragionamento logico erano una serie di immagini sconnesse di tua madre… Così l’ho chiamata.
 
-Federico è sempre più sfuggente: esce, probabilmente beve più di quanto dovrebbe, e sospetto che mi nasconda una ragazza.
Simona chiacchierava da un’ora. Il modo in cui riusciva a spararti addosso tutto quello che pensava, come una mitragliatrice di parole, era sorprendente, aveva sempre pensato Giancarlo.
-Ti nasconde una ragazza?
-Sicuro! - cinguettò la donna. –Ma me lo dirà, ne sono sicura. Farò in modo che me lo dica.
-Come fai ad esserne sicura? - rise Giancarlo.
E lei riprese, senza prendere fiato prima di parlare: -Sono una madre e le madri se le sentono queste cose: è come se i figli ti mandassero delle vibrazioni, e i padri non possono sentirle, solo le madri. A te per caso ha detto niente? A volte mi sembra assurdo che parli più con te che con me, mi ha qui a due passi. Senza nulla toglierti, figurati, ma parlare con me dovrebbe essere più facile. Fosse solo parlare, poi: mi tratta quasi come una perfetta estranea. Se non altro ha ripreso i rapporti con Alberta: giocano sempre insieme, sai? Sarebbe paradossale se si confidasse più con lei che con me…
Lei proseguì, ma Giancarlo smise di ascoltarla: quel discorso lei glielo aveva già fatto e non aveva voglia di risentirlo. Parlare così tanto e a quella velocità era solo un modo per non lasciar trapelare null’altro che li riguardasse.
-Simona senti…
Lei tacque, probabilmente sorpresa dal sentirsi interrompere dall’ex marito, che di solito la lasciava libera di ciarlare. –Eh?
-Tu come stai?
-Come sto io?
-Sì, come stai tu.
La donna non disse nulla per qualche istante. –Sto bene… grazie?
-E cosa hai fatto in questi giorni?
Ancora una volta il silenzio poi il suono di qualcosa che, dall’altra parte della cornetta, cadeva. –Devo andare, ci sentiamo!
E, mentre lei attaccava, Giancarlo premette invio per prenotare un biglietto aereo.
 
-Continuo a non capire- disse Federico, grattandosi la nuca. Si sentì più confuso che persuaso da quella storia.
-È che ho sempre avuto la sensazione che il suo straparlare di voi durante le nostre telefonate fosse un modo per evitare di affrontarmi- spiegò l’uomo, pensieroso. -La sua difficoltà alla mia domanda ne è stata alla conferma.
Federico scosse la testa. –La conferma di cosa?
Giancarlo fece un’espressione annoiata. –Sei sicuro di aver preso la tua intelligenza da me? Io mi vanto di essere una persona perspicace.
-Illuminami – lo rintuzzò il figlio. Non aveva voglia di indagare le complesse paturnie celate dal rapporto dei suoi genitori, voleva solo sentirsele raccontare e trarne le sue conclusioni.
-Si sente in colpa, quindi cerca di evitare di parlare di noi o di qualsiasi altra cosa la riguardi, coprendo il tutto con una serie di chiacchere su di voi.
Federico pensò che il ragionamento filasse alla grande. –E con ciò? Perché venire qui?
-Voglio costringerla ad affrontarmi, così per una volta nella sua vita si esporrà come si deve su quello che vuole e quello che pensa- fece spallucce l’uomo, e bevve ciò che restava della sua birra.
-E tu che cosa vuoi?
Giancarlo tacque, cosa strana dal momento che aveva sempre la risposta pronta, per tutto: era sempre stato in grado di dissimulare, sfuggire a conversazioni compromettenti con una battuta brillante. Forse, in quell’occasione, non aveva voglia di scherzare, voleva solo avere il tempo di riflettere.
–Chiudiamo questo discorso: non voglio parlare dei miei problemi con mio figlio, se mai dovrebbe essere il contrario.
Capì che, se Giancarlo era tornato, era per sapere se Simona voleva tornare con lui, perché probabilmente lui, dal canto suo, lo voleva. Del resto, non era stato lui a tradirla, a mandare in malora il loro matrimonio.
Federico decise che non erano affari suoi ciò che avveniva tra il padre e la madre, e, comunque, non gli importava.
-Io non ho nessun problema- scrollò le spalle, poi tentò di alleggerire la situazione scherzando: –Sei tu che sembri essere in piena crisi adolescenziale.
-Stronzetto- sibilò il padre, ordinando un’altra birra alla cameriera con un cenno. –Ricordami di non parlarti mai più di cose che mi riguardano, nemmeno se mi implori pur di saperle.
-Non mi abbasserei mai a tanto- ghignò.
Giancarlo sbuffò annoiato. –Piuttosto, conoscerò mai la tua donzella?
Federico alzò gli occhi al cielo. -Non è né mia né una donzella.
-Cazzo quanto sei scontroso, guarda che non insisto come tua madre: se non vuoi parlarne non lo faremo – rise il padre, bevendo un altro sorso di birra.
-È che la definizione che hai usato mi fa salire la bile, lei è tutto fuorché una donzella e tutto fuorché mia- borbottò. –È solo Emma, e basta.
Giancarlo lo guardò scettico, le sopracciglia aggrottate. –Bene, dov’è Emma?
Sicuramente, la loro non era una relazione per la quale sapessero in ogni istante che cosa facesse l’altro. Non si sentì in imbarazzo nel non sapere dove fosse, né che cosa stesse facendo, così come lei non lo sapeva di lui.
-Non lo so – fece spallucce, noncurante, senza lanciarsi in giustificazioni di alcun genere.
Il padre ridusse gli occhi a due fessure, con un fare quasi inquisitorio che non gli si addiceva. -Immagino che tua madre non lo sappia.
-Immagini bene – confermò Federico. -Non ho intenzione di dirle niente a riguardo, sai com’è fatta.
-Già – ridacchiò Giancarlo, concorde con il figlio. -E lei cosa fa, studia?
Federico mugugnò, sfregandosi il mento ruvido a causa della barba. - Forse.
-Fa sport?
Fece ancora spallucce. –Non lo so.
Il padre scosse la testa più volte, contrariato. –Mettiamola così: che cosa sai di lei?
Si sentì messo alle strette da quella domanda, come se Giancarlo avesse captato qualcosa che non andava, in quella storia. Probabilmente agli occhi del padre sembrava inconsistente l’immagine di Emma, quasi come se non fosse neanche una persona vera, con interessi, passioni, obiettivi.
Semplicemente, Federico non la conosceva abbastanza a fondo da sapere quelle cose che la gente banale condivideva da subito, ma non erano mai state cose essenziali per lui. Emma non era meno vera ai suoi occhi perché non sapeva se nella vita volesse fare il medico o l’avvocato.
-Abbastanza – disse quasi sulla difensiva, consapevole di come quella storia apparisse ad occhi esterni.
-Non è vero- lo riprese il padre, come era prevedibile. –Non sai niente. Non la conosci proprio.
Forse, per i tipici standard di conoscenza reciproca, quell’affermazione era vera, ma Emma era una persona fuori dal comune, da qualsiasi canone sociale comprensibile, e lui si era ritrovato coinvolto da lei senza neanche accorgersene.
Federico rispettava i ritmi di lei, perché in qualche modo erano stati quelli a conquistarlo.
-Conosco il suo modo di essere – si difese nuovamente, sentendosi messo alle strette. Non riusciva a spiegare come stessero le cose.
Giancarlo lo provocò: -E ti basta?
-Ma chi sei, la mamma? – lo prese in giro, per discostare un attimo la conversazione da quelle domande pressanti a cui non sapeva rispondere.
Il padre sollevò entrambe le sopracciglia, eloquente e furbo. -Ti dà fastidio non saper rispondere, vero? - Federico non rispose, allora il padre proseguì: -Ti sto chiedendo cose banali, eh.
A quel punto si sentì scocciato, perché in fondo il padre aveva ragione: forse non sapeva davvero nulla di lei, non perché non gli importasse ma perché lei non gliele aveva dette.
-Non hai mai la curiosità di sapere come passa le sue giornate, le sue aspirazioni per il futuro, cosa ha passato prima che vi conosceste? – proseguì Giancarlo.
Federico, ormai nel pallone, pensava alle cose che aveva colto di lei, non che sapeva come certe. Anche in quel caso, erano poche, anche se sufficienti a fargli determinare che Emma gli piaceva.
-Possiamo non parlarne? - se ne uscì alla fine, evasivo.
-Certo- fece spallucce Giancarlo, poi tacque. Sorseggiavano entrambi la birra, quando il padre riprese la parola: -In questo assomigli a tua madre, sai?
Federico storse il naso: quel paragone lo infastidiva. -In cosa?
-Quando sei in difficoltà, non affronti le discussioni.
 
Poco dopo, il padre si era avviato verso casa e lui, seccato com’era, si era congedato dicendogli che voleva starsene un po’ per i fatti suoi a disegnare. Giancarlo non aveva protestato, discreto com’era, e non aveva aggiunto nient’altro, per evitare di infastidire ulteriormente il figlio.
Mentre scavalcava gli scogli per scendere sulla sabbia gelida, Federico scorse una figura nell’oscurità. Emma si abbracciava le ginocchia, lo sguardo rivolto verso il mare schiumoso, il cellulare incastrato nell’incavo del collo.
Quando si avvicinò, sentì l’interlocutore di Emma gridare cose che non riuscì a comprendere, la voce agitata e febbrile.
-Non mi importa, ormai manca poco - sibilò Emma, la voce cattiva come non gliel’aveva mai sentita.  Sembrava quasi che stesse sfidando chiunque ci fosse dall’altra parte, a far cosa non era dato saperlo.
Attaccò la telefonata, lanciando un sospiro esasperato, e si passò le mani sul viso. Fu in quel momento che si rese conto di non essere sola: si voltò verso Federico, sentendo il suo sguardo addosso, e gli sorrise con un’allegria che non aveva nulla a che vedere con la rabbia che covava poco prima. Era sinceramente felice di vederlo, quasi come se lo avesse aspettato, certa che lui l’avrebbe raggiunta da un momento all’altro.
-Tutto bene? – chiese lui, sedendosi al fianco di lei.
Annuì, tranquilla. -Sì – confermò, strisciando accanto a lui.
Federico le mostro il blocco che stringeva tra le mani. –Volevo disegnare.
In realtà sperava anche lui di incontrarla, se non durante il tragitto, almeno a destinazione. E così era stato, come se i loro destini fossero intrecciati.
-Volevi disegnare il mare? Credevo preferissi le persone – commentò lei, guardando di fronte a sé e appoggiando la testa sulla spalla di lui. Era come se trovasse in lui conforto dopo la discussione che aveva avuto al telefono, anche se non glielo aveva rivelato.
-Occasionalmente disegno persone, non sono il mio soggetto preferito- spiegò lui, aprendo il blocco in una pagina bianca. Le accarezzò i capelli. -Con chi parlavi al telefono? Sembravi arrabbiata.
-Avevano sbagliato numero- sorrise innocente, anche se aveva detto una bugia. Il tono che aveva assunto era troppo confidenziale.
Deluso da quelle risposte incomplete prese a disegnare il modo in cui la schiuma s’infrangeva nell’acqua scura. Il carboncino gli sporcò subito tutte le dita di nero.
-Sei bravo- sussurrò Emma.
-Se mi stai così addosso diventerà presto arte astratta- disse lui, quando lei poggiò il mento sulla sua spalla.
Ridacchiò ma non si scostò, come se avesse bisogno del contatto di lui e non potesse scostarsi. - Mi sono piaciuti anche i miei ritratti – aggiunse.
Federico la guardò con la coda dell’occhio. - Se vuoi te li regalo.
Nessuno dei due scostò per un secondo lo sguardo dal foglio bianco, trafitto da linee scure: lui perché doveva concentrarsi, lei perché si sentiva ipnotizzata dal modo in cui le mani di lui si muovevano.
-No, tienili- sussurrò lei, fin troppo vicina al suo orecchio. –Mi sento un po’ la tua Musa ispiratrice.
-Questo mi sembra eccessivo da dire – rise.
-Perché non mi inserisci anche in questo? Proprio qui- fece lei, indicandogli un punto del foglio ancora bianco.
-E in che posizione dovrei disegnarti?
Lei mugugnò. –Sei tu l’artista.
-Sei tu che vuoi essere inserita- sorrise lui, allungandole il carboncino. –Fallo tu.
Emma afferrò il bastoncino scuro, stringendolo tra le dita sottili in modo errato, constatò Federico. Iniziò a muoverlo sul foglio, tracciando linee a casaccio nel tentativo di dare forma a una figura umana. Ad ogni mossa, corrispondevano almeno cinque errori.
-Ma se cerchi di fare una linea te ne vengono fuori due- protestò lei, agitandogli sotto il naso ciò che la indispettiva tanto. Aveva le dita sottili tutte sporche di scuro.
Federico rise, scoccandole un bacio sulla tempia. - Questo perché sei completamente sgraziata nell’utilizzarlo – la prese in giro, sentendo come la necessità di doversi ridimensionare dopo la dolce attenzione che le aveva riservato.
Emma soffiò come un gatto arrabbiato. –Sei tu l’esperto, manine di fata.
–Manine di fata?
Si voltò a fissarla, il viso di lei a pochi passi dal suo. Aveva gli occhi così grandi che sembrava scrutare oltre tutto, le labbra schiuse in una frase incompleta, o in attesa di qualcosa che aveva imparato a non richiedere.
Le sfiorò le labbra con le sue, ed Emma sembrò già pregustare la vittoria, ma l’attenzione di Federico venne catturata da altro: ad un passo dal vivere con lei un altro momento di intimità, ripensò alle provocazioni del padre di quel pomeriggio, così saggie e veritiere. Non riusciva a togliersi quel fastidioso ronzio dalla testa, l’idea che Emma fosse una perfetta estranea con la quale però viveva momenti perfetti.
-Cos’hai? - gli chiese lei, una volta accortasi di quanto lui fosse distante.
Lui le sorrise. -Pensavo.
-Ma dai? – scherzò lei. -Devo prenderti davvero poco se ti distrai subito prima di baciarmi.
Federico le fece una carezza sul viso, come a richiamare la sua attenzione. -Pensavo a te, sciocca.
-Eh? – borbottò, in un muto incoraggiamento a chiarirle a cosa stesse pensando di specifico.
-Emma, non so quasi niente di te.
Lei lo guardò seria, ma il suo sguardo era indecifrabile: Federico non riusciva a capire cosa stesse frullando esattamente nella sua testa. Sospirò rumorosamente, come ad esternare del disappunto, o una consapevolezza, come se si aspettasse che prima o poi lui iniziasse ad indagare visto quanto si stavano avvicinando.
-È questo il problema? - chiese lei retoricamente. 
-Non ho mai detto che è un problema – fece lui, calmo. Voleva incoraggiarla ad aprirsi, non spaventarla o fare pressione su di lei, quindi doveva approcciarla nel modo giusto.  
Lei parve infastidirsi. -Allora perché ne parliamo?
-Perché vorrei sapere di più.
-Cosa ti importa? – sbuffò lei, iniziando a torturarsi le mani. Cercò di nascondere il nervosismo, ma Federico fu abile a riconoscerlo. Non sapeva niente di lei, ma la conosceva: non c’era dettaglio di Emma che riuscisse a sfuggirgli.
-Mi importa di te.
Quella frase, detta da lui, valeva più di una dichiarazione d’amore, più di qualsiasi attenzione qualunque altra persona potesse riservarle. Emma, consapevole di questo, si lasciò andare un po’ di più, scaricando il fastidio che aveva accumulato negli ultimi minuti con un sorriso.
-Anche a me importa di te – gli disse. Suonava come una confessione, una promessa: era evidentemente consapevole di quanto poco si fosse esposta con lui relativamente alla sua vita, ma era anche speranzosa che lui la lasciasse in pace, almeno in quel momento. Non era pronta a scoprirsi più di quanto non avesse fatto, questo a Federico divenne subito chiaro.
Si sentiva in bocca un sapore amaro di sospetto, ma lasciò correre, perché di rinunciare a Emma proprio non aveva voglia.
 
 
Il rododendro, considerato il re degli arbusti tra le piante da fiore sempreverdi dei paesaggi temperati, è un simbolo di eleganza, di bellezza e di temperanza in virtù della moderazione. Nel linguaggio dei fiori, è anche il fiore per suggerire cautela in vista di insidie, dettata dalla tossicità
di alcune specie di rododendro.  
[www.giardinaggio.net]
 
*Fonte: https://www.inalto.org/it/schede/leggende/la_nascita_del_rododendro
 
Buongiorno! Spero che stiate bene e rinnovo i miei ringraziamenti per le letture e i feedback che sta ricevendo la storia. 
In questo momento sono indecisa se proseguire con la pubblicazione il lunedì o il giovedì, perchè una delle due giornate volevo dedicarla alla ripubblicazione di un'altra storia che ho scritto in passato e che mi piacerebbe condividere. Fatemi sapere anche voi che giornate preferite per leggere il capitolo! 
Buona giornata! 

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Capitolo 10
*** X Papavero ***


Cari lettori, vi annuncio anticipatamente che questo capitolo contiene una scena di violenza, seppur soltanto narrata e non descritta. Fino all'ultimo sono stata indecisa se cambiare il raiting della storia da arancione a rosso, ma rileggendo la guida di EFP mi sono resa conto che l'arancione era più appropriato. Ad ogni modo, ho preferito inserire l'annuncio prima del capitolo, di modo che voi siate preparati prima della lettura. 
L'intento di descrivere questo atto non è finalizzato ad acchiappare like e consensi, ma a sensibilizzare ragazzi e ragazze rispetto ad un problema che magari non conoscono approfonditamente. 
Detto questo, spero che il capitolo vi piaccia!

X Papavero
 
Si narra che un giorno, nel mese di giugno Proserpina, la bellissima figlia di Giove e della dea della Terra, mentre coglieva fiori in un prato di Sicilia fu rapita da Plutone, dio degli inferi, che volle farla sua sposa.
Quando la madre Demetra venne a sapere che la figlia avrebbe trascorso il resto dell’esistenza nel mondo sotterraneo si disperò e corse a chiedere aiuto a Giove che però non fece nulla, cercando addirittura di incoraggiare l’unione della figlia che sarebbe diventata regina.
Demetra in preda al dolore decise di non occuparsi più per la Terra. A quel punto Giove, preoccupato della morte delle creature, convinse Plutone a lasciar tornare Proserpina per almeno sei mesi ogni anno.
Così fu e leggenda vuole che quando la regina ritorna sulla terra sbocciano i papaveri che con il loro colore rosso, ricordano alla dea la passione dello sposo che l’aspetta negli inferi. *
 
Emma stava stesa sul dondolo, concentrata su ‘Orgoglio e Pregiudizio’. Indossava un prendisole di un rosa a dir poco sgargiante, i piedi scalzi, i capelli legati in una matassa disordinata in cima alla testa.
Federico ormai adorava riempirsi gli occhi dell’immagine di lei in diverse circostanze e situazioni, così non poté fare a meno di iniziare a scarabocchiare i tratti di lei sul suo blocco da disegno. Le linee astratte iniziarono presto a prendere la forma di una donna, di Emma, che di recente era diventata il suo soggetto preferito.
-E quindi tuo padre quanto si ferma? – mugugnò pensierosa lei, senza discostare la sua attenzione dal libro che stava leggendo.
Come facesse a stare attenta sia al libro sia ai discorsi, era un mistero.
-Non ne ho idea – fece lui, dopo attimi di silenzio: era troppo impegnato a concentrarsi sul disegno per essere celere nelle risposte. -Ha dormito in camera mia negli ultimi due giorni, però lo vedo chiacchierare con Simona… Probabilmente sta aspettando che lei si rilassi per parlarle più esplicitamente.
Quel pomeriggio, Albertina e i suoi erano usciti, convinti dalle feste della piccola. L’idea di poter trascorrere del tempo con entrambi i genitori per la sorellina era troppo allettante quindi aveva insistito molto affinchè la facessero svagare tra giostre e leccornie di vario genere. Giancarlo e Simona in qualche modo le dovevano questo e molto altro, quindi non avevano potuto rifiutare.
Emma sbuffò, sollevando gli occhi dal libro per poterlo guardare. -So che ho dormito con te, ti pare?
C’era della seccatura giocosa nella sua voce. Dopotutto, visto che Giancarlo aveva l’alloggio proprio nella camera del figlio, lei nelle ultime notti non aveva avuto occasione di intrufolarsi nel suo letto.
Federico rise. -Guardati, sei una bambina capricciosa! – la prese in giro per la sua espressione buffa. Anche lui aveva gli stessi desideri di lei, anche lui voleva dormire insieme a lei come ormai era abituato a fare, ma non poteva sfrattare il padre dalla sua camera.
-Preferisci abbracciare tuo padre nel sonno o me? – lo sfidò lei, facendogli una smorfia.
Finse di pensarci su. -Beh, mio padre scalda il letto in un batter d’occhio data la stazza.
Emma in risposta gli lanciò uno dei suoi sandali, senza però prendere correttamente la mira. -Guarda che non la dimentico questa cosa che hai detto.
-Tu che pro hai? – proseguì lui, senza smettere di disegnare. Aveva ormai reso nel dettaglio i tratti di lei e lo sfondo. -Prova a farmi cambiare idea, avanti.
Lei chiuse il libro ed incrociò le braccia al petto. -Come se avessi intenzione di svendermi per farti divertire – disse, fiera e spavalda. Le gambe a penzoloni erano più piene di lividi del solito, i ciuffi di capelli sfuggivano selvaggi dall’acconciatura buffissima, il vestito rosa la faceva apparire come una sorta di principessa delle fate.
-E poi mica ho bisogno di farti cambiare idea – proseguì, sempre più spavalda. – Lo vedo come mi guardi.
Federico rise, senza però sbilanciarsi. Un momento giocoso come quello non era certo l’occasione giusta per confermarle quanto fosse sinceramente rapito da lei e dal suo modo di fare. -E come ti guardo?
Emma gli fece un sorriso vivace e scese scalza sull’erba. -Incantato.
Lui non smentì quella che aveva tutta l’aria di essere una provocazione, ma non la confermò neanche. Federico era sempre più convinto che loro si capissero, anche senza parlare; quindi, non aveva bisogno di dirle null’altro per farle sapere quanto aveva profondamente ragione.
Lei si sedette sull’erba esattamente dietro di lui e mise la testa nell’incavo del collo di lui, così da potersi sporgere a guardare che cosa stesse disegnando con tanta concentrazione.
-Sono proprio la tua musa ispiratrice – fece, con tono sorpreso, senza premurarsi di nascondere l’ammirazione che sentiva per il talento di lui nel disegno. Anche lei era incantata da lui, in modo diverso e per cose diverse.
Federico rise e lei in risposta gli scoccò un bacio sul collo, risalendo lentamente lungo la sua mascella squadrata fino alla sua guancia.
-Barba spinosa – mugugnò, il naso premuto sulla fossetta di lui, le labbra bollenti.
-Però ti piaccio – rise lui, a sua volta.
-Stronzo, ci sei? – la voce di Marco Poletti risuonò prepotente, sguaiata e vicina. Udirlo fu più che sufficiente per rompere il loro pomeriggio perfetto, riportandoli bruscamente ad una realtà fatta di persone sgradevoli delle quali sembrava impossibile liberarsi.
Emma scattò in piedi come un soldato sull’attenti. Fu così brusca che il blocco da disegno cadde in avanti e i disegni all’interno si sparpagliarono sull’erba, uno dopo l’altro.
Federico prese a raccogliere i suoi disegni, i quali ritraevano per lo più fiori ed Emma, in diversi momenti ed in diversi scenari da lui immaginati.
-Non mi avevi sentito? – borbottò Marco, sprezzante, una volta che fu alle spalle di Federico.
Si voltò a guardarlo, biondissimo e impeccabile con la sua camicia azzurra, poi perlustrò con lo sguardo il resto del giardino alla ricerca di Emma: sembrava essersi volatilizzata in un istante, lasciando soltanto il libro a cui si stava dedicando come promemoria della sua presenza. Federico non era neanche riuscito a vedere da che parte era scappata per quanto era stata rapida, né l’aveva sentita.
Certamente fare in modo che Emma e Marco non si incontrassero era tra gli obiettivi principali che Federico si era prefissato, ma non vedeva ragione in una fuga da parte di lei; questa considerazione lo lasciò stizzito.
-Ciao Marco – salutò senza trasporto, proseguendo a raccogliere i disegni che si erano sparpagliati in giro con più rapidità di poco prima.
-Chi cazzo è questa gnocca?!- sbraitò Marco, compiaciuto, raccogliendo uno dei ritratti.
Nell’immagine, Emma era stesa sul suo letto, un braccio piegato a sostenere la testa, l’altro sul ventre scoperto, la maglia era leggermente stropicciata e così aderente sul corpo minuto da lasciar intravedere il profilo dei seni piccoli e sodi. Sulle labbra aveva un sorriso sghembo, dispettoso, di chi è allerta anche quando tiene gli occhi chiusi.
Federico, una volta recuperati tutti i suoi lavori, tolse dalle mani di Marco anche quello che stava ammirando con tanto trasporto.
-È la tua ragazza? – chiese il biondo, privato dell’oggetto che aveva attratto la sua attenzione.
Il suo tono era chiaro, incolore: -No.
-La conosco? – insisté l’altro. Evidentemente la bellezza del ritratto doveva averlo colpito più di quanto Federico si aspettasse: Emma non era il tipo di Marco, eppure quell’immagine era fedele a lei in tutto e per tutto.
-No.
-Me la fai conoscere? - insisté ancora.
Federico si tirò su, scocciato. –No.
Marco sollevò gli occhi al cielo. Si sedette sull’erba, incrociando le gambe. –Quindi questa ragazza esiste? - sorrise, eloquente. La sua intelligenza evidentemente si accendeva solo all’idea di avere a che fare con una bella ragazza, mentre per tutto il resto del tempo restava in uno stato di quiescenza.
-Che vuoi, Marco?
Il biondo fece spallucce, ma non si dispiacque per la freddezza dell’amico, che voleva palesemente non avere a che fare con lui, in quel momento. -Volevo sapere se hai il numero di Annamaria.
Federico rimase per qualche istante stupito dalla richiesta dell’amico, ma non lo diede a vedere.
-Il numero di Annamaria? – ripeté, come a volersi accertare di aver sentito la cosa giusta.
Non trovava, neanche sforzandosi di cercare nei meandri della sua testa, nessuna ragione valida perché Marco dovesse interloquire con Annamaria. Non aveva mai avuto il ben che minimo interesse per lei, il fatto che volesse improvvisamente contattarla aveva del sospetto.
-Lo so che ce l’hai – rise Marco, rifilandogli una sberla sul cozzo. -Andate a letto insieme, per forza ce l’hai.
Federico non si sarebbe mai sbilanciato a dargli ciò che richiedeva senza che lui gli chiarisse il motivo. - A cosa ti serve?
Il biondo fece spallucce. – Ho lasciato il Rolex di mio padre a casa sua, volevo chiederle di restituirmelo.
-A casa di Anna? – Federico, nonostante la confusione che sentiva abbattersi su di sé, riusciva comunque ad apparire calmo e misurato. -Com’è finito il tuo Rolex a casa di Annamaria?
-Credevo di avertelo detto! – disse il biondo, già pronto ad iniziare a pavoneggiarsi per una delle sue vittorie. Federico non tardò a collegare i fatti, ma non riusciva a capacitarsene; o, forse, non voleva farlo. Era assolutamente repellente per lui l’idea di Annamaria e Marco, soprattutto dopo quello che lei aveva realizzato su di lui.
Tutte le riflessioni e le considerazioni che lei aveva fatto negli ultimi tempi, arrivando a confermare che Marco era tutt’altro che il suo tipo, svanirono in un istante, quello prima di sentire la storia di come erano finiti a letto insieme dal suo biondo amico.
Federico si sentì un po’ sdegnato, un po’ deluso da Anna, un po’ rassegnato all’idea che le persone non cambiavano mai, anche quando dicevano il contrario. Aveva avuto solo un ulteriore conferma di una verità a cui era arrivato da tempo.
-Quella sera in cui hai fatto la paladina della giustizia per difendermi mi ha attizzato un sacco! – iniziò a raccontare Marco, già vittorioso per l’ennesima conquista di cui poteva vantarsi. -Sapevo che lei mi voleva. Si portava a letto te perché non poteva avere me, lo sappiamo.
 -Quindi? – lo incalzò, un po’ incerto: non era del tutto sicuro di voler sentire tutta la storia.
Marco, prima che Federico potesse decidersi su che cosa volesse veramente, era nuovamente lanciato nel racconto: -Insomma, lei ha fatto un po’ la difficile, te lo devo dire, però insistendo un pochino, ha ceduto. Mi sono dovuto un po’ reinventare, rispetto al solito: le ho detto che era bella, che l’avevo sempre notata, che non l’avevo mai approcciata perché pensavo meritasse di più e blabla…
Frastornato dal racconto di Marco, Federico decise che avrebbe scagionato dalle accuse Annamaria: in fondo, Marco l’aveva presa in giro, e lei, dolce ed ingenua com’era, ci era cascata in pieno. Probabilmente, la sua unica colpa era non essere in grado di distinguere un bugiardo quando lo vedeva.
-Insomma, l’hai presa in giro – concluse Federico, severo ma pacato, come al suo solito.
-Amico – fece Marco, sollevando le mani come in segno di resa – mica ti arrabbi? Te la scopi mica l’hai sposata.
-Perché, in quel caso ti saresti forse fermato? – commentò, sarcastico. Sapeva che il biondo non conosceva amici davanti al sesso: non si sarebbe mai fatto davvero scrupoli a rubare la ragazza di un suo amico solo per divertirsi una notte; per fortuna, Federico ne era consapevole.
La stima che nutriva nei confronti di Marco era così infinitesimale che anche l’idea di avere davanti una persona che poteva tranquillamente pugnalarlo alle spalle in qualsiasi momento, non lo scalfì. Non doveva niente ad uno come lui e non si aspettava alcun tipo di lealtà.
Il biondo fece uno sbadiglio. -Insomma, me lo dai o no questo numero?
-Sì – annuì, pescando dalla tasca dei jeans il telefono. -Potevi anche andare direttamente a casa di lei, a questo punto.
-Già – ridacchiò l’altro. -Però preferisco scriverle un messaggio, così quando si riprende ed ha voglia di rispondermi, lo fa.
A quelle parole, fermò la ricerca tra i contatti della sua rubrica. -Che vuoi dire?
Marco rise, ma parve una risata nervosa. -Niente.
-Che vuoi dire? – ripeté Federico, questa volta con un po’ di convinzione in più.
Dalla faccia che fece Marco, capì che era successo qualcosa con Annamaria, ma lui si stava astenendo da raccontarlo.
-Ma niente, sai come sono le donne – minimizzò.
-Perché dovrebbe avercela con te, allora? – lo incalzò Federico. -Che cosa le hai fatto?
Non c’era alcun tipo di accusa né insinuazione nella sua voce, voleva solo che Marco gli dicesse la verità. Del resto, lui si vantava sempre, di qualunque cosa; quindi, qualsiasi cosa gli stesse nascondendo aveva del marcio.
-C’è stata un incomprensione – spiegò imbarazzato, strofinandosi la nuca.
-Che genere?
Marco parve spazientirsi. -Ma da quando sei il suo avvocato difensore?
-C’è qualcosa da cui devo difenderla, quindi? – ribatté Federico, furbamente.
Il biondo iniziò a sudare visibilmente. -Non so neanche perché sto qua a raccontartelo, è una cazzata, lei si è solo scaldata eccessivamente – si spazientì. -A me piace farlo senza preservativo e lei proprio non ne voleva sapere di non usarlo. Ho cercato di spiegarle che indossandolo non sentivo nulla, ma voleva farmelo mettere a qualunque costo, così l’ho messo per farla stare zitta… E quando era distratta l’ho sfilato via.
-Tu cosa? – chiese, incolore.
-L’ho tolto – confermò Marco.
A quel punto, Federico sentì esplodersi qualcosa dentro, un vulcano di rabbia al di sotto della sua solita espressione cerea.
Pensò ad Annamaria, presa in giro dall’amico che voleva solo portarsela a letto una sera, troppo debole davanti alla sua cotta di una vita. Pensò a Marco che le diceva bugie, frasette da quattro soldi per sedurla, consapevole di quanto lei fosse sempre stata presa da lui. Fin lì, era tutto normale, una cosa da ragazzi. Quando, tuttavia, i suoi pensieri indugiarono sul racconto dell’accaduto, per un attimo sentì la sua razionalità disconnettersi, spazzata via da una sola e unica consapevolezza: Marco le aveva fatto una violenza.
La cosa peggiore di tutta quella storia era che lui, ignaro della gravità del gesto fatto, della portata che esso aveva, quasi la biasimava, la prendeva in giro.
-Capirai, neanche si era accorta che stavamo facendo senza, la campanellina le si è accesa quando sono venuto– aggiunse il biondo.
A quel punto Federico, perso ogni freno inibitorio, fece l’unica cosa che mai si sarebbe aspettato da sé stesso: scaricò con tutta la sua forza un pugno dritto sulla faccia di Marco.
Il biondo cadde per terra, intontito, senza neanche il tempo di metabolizzare il fatto che un suo amico lo avesse appena colpito. Federico gli si scaraventò addosso ancora prima che lui potesse realizzare ciò che stava accadendo e gli diede un altro pugno, dritto sul naso.
Marco era sempre stato ripugnante, viscido, meschino, doppiogiochista, ma nel marasma dei difetti che aveva Federico non aveva mai considerato che la sua stupidità potesse spingersi fino a ferire in quel modo.
-Che cazzo fai? – urlò, dopo aver incassato altri cazzotti. Un rivolo di sangue gli colava giù dal naso e da una piccola ferita che gli si era aperta al di sotto del sopracciglio.
Federico lo afferrò per il colletto della camicia e lo scosse con violenza. -Pezzo di merda, che cazzo le hai fatto?! – urlò, come non faceva ormai da troppo tempo, nero di rabbia. Gli mollò un altro pugno sul viso.
A quel punto il biondo, che aveva fino a quel momento soltanto incassato i colpi, decise di reagire: anche lui privo di qualsiasi freno inibitorio, si scaraventò su Federico con la sua forza, rifilandogli un paio di pugni sul viso.
La vita gli scorreva sempre davanti come un treno in corsa su cui non voleva salire, ma, in quel momento, era saltato dentro il vagone di prepotenza. Non poteva restare impassibile, non poteva infischiarsene, non poteva lasciare le cose come stavano. Così, fece l’unica cosa che gli sembrava giusta: colpire Marco.
-Federico! – tuonò la voce di Giancarlo, in affanno.
L’uomo corse rumorosamente verso i due ragazzi e afferrò il figlio per il colletto della maglia, allontanandolo bruscamente dall’ormai pesto Marco Poletti.
Il biondo, accovacciato per terra in posizione fetale, si lamentava pietosamente. -È impazzito!
-Sei un pezzo di merda, Marco! – ringhiò Federico, il volto rosso di rabbia, agitandosi in direzione di Marco per assestargli un bel calcio.
La presa salda del padre, tuttavia, gli impedì di inferire ulteriormente su Marco. -Che cazzo vi prende a tutti e due? – scosse il figlio violentemente. – Che cosa cazzo prende a te? – sibilò in modo che solo Federico potesse sentirlo.
Giancarlo, che non aveva mai visto il figlio così fumante di rabbia, sembrava sconvolto e preoccupato.
Il padre lo conosceva, sapeva che non sarebbe mai andato in escandescenza per una cosa da nulla. Consapevole di questo, Federico non si premurò di spiegarsi o di placarsi, perché la sua rabbia era lecita e lui aveva tutto il diritto di voler pestare Marco.
-Mi hai rotto il naso! – sbraitò il ragazzo per terra, toccandosi il viso tumefatto e sanguinante.
-Sparisci o sarà l’ultimo dei tuoi problemi! – abbaiò Federico, alzando ancor più la voce. Il suo tono era così forte da raschiargli la gola.
-Basta! – sbraitò il padre, continuando a scuoterlo.
Marco a quel punto si alzò e con il briciolo di dignità che gli era rimasta corse via, senza voltarsi indietro. Federico era pronto a liberarsi dalla presa di Giancarlo per terminare la sua discussione, ma il padre lo scosse ancora, voltandolo nella direzione opposta.
Simona, occhi e bocca spalancati per lo stupore, teneva in braccio Alberta, che nascondeva il viso sulla spalla della madre. Probabilmente non aveva visto nulla, ma sentirlo gridare in quel modo doveva essere stato sufficiente a farla spaventare. Del resto, non lo sentiva mai alzare la voce.
-Ora ti calmi? – bisbigliò sempre severamente il padre, lasciandolo finalmente andare. Sperava che la visione della sorellina terrorizzata fosse sufficiente a riportarlo alla realtà.
Tuttavia, quando il cervello di Federico parve riaccendere nuovamente la razionalità, un solo pensiero lo assillava, martellante: Annamaria.
Conscio che i genitori lo avrebbero strigliato, punito, accusato, e consapevole di tutte le potenziali conseguenze di quello che aveva fatto, se ne infischiò ed iniziò a correre.
 
La signora Mariella Saccone, madre di Annamaria, aprì la porta dopo il primo squillo di campanello. Apparve sorridente, anche se i suoi occhi cerchiati nascondevano stanchezza. Aveva gli stessi capelli biondo della figlia e lo stesso corpo esile ma sviluppato.
-Federico – lo salutò gentilmente, poiché ormai erano anni che lo vedeva fare avanti e indietro da casa sua. -Che hai fatto alla faccia? – aggiunse poi la donna, alludendo all’aspetto del suo viso.
Federico bypassò poco educatamente tutti i convenevoli dei saluti, ignorando anche la richiesta di spiegazioni per il suo volto tumefatto: -Anna?
L’urgenza di vederla gli attanagliava il cuore e le membra, la preoccupazione gli soffocava il raziocinio. Non si era mai sentito così sinceramente preso da una situazione, così intimamente coinvolto e premuroso per la persona coinvolta.
La signora fece un sorriso mesto, preoccupato, indicandogli il piano di sopra. -Sta in camera sua. Mi pare seccata, da giorni. – gli rivelò in confidenza. -È successo qualcosa?
Federico decise di calmare quanto meno la madre, mostrandosi sicuro e fiducioso. -Non si preoccupi, ci parlo io – disse, con l’intento che la situazione fosse minimizzata, almeno agli occhi della signora Mariella. Voleva che la signora liquidasse la faccenda come “una cosa da ragazzi” così che, in caso, Annamaria potesse arrogarsi la possibilità di decidere se raccontarlo ai suoi genitori o meno.
Fede le scale a due a due e percorse il corridoio con passo veloce e deciso.
Quando si trovò davanti alla camera di Anna, bussò con decisione un paio di volte, senza però ricevere alcun tipo di risposta. Al quarto colpo, una voce si levò timidamente dal silenzio: -Mamma, lasciami stare.
Federico aprì la porta, trovandosi davanti una stanza completamente immersa nell’oscurità, le tapparelle totalmente abbassate.
-Non credevo che mi considerassi una figura materna – esordì, chiudendosi la porta alle spalle. La frase non gli uscì con il solito tono strafottente che usava di solito, ma si sentì comunque di essere sé stesso, per non aggravare sull’umore già nero di Anna.
La luce dell’abat-jour illuminò fiocamente la stanza. Le lenzuola con grandi papaveri rossi stampati iniziarono a muoversi, finché non fece capolino la testa di Anna. -Che ci fai qui? – chiese sorpresa, il volto stanco, gli occhi arrossati e lucidi.
Federico percorse la stanza fino a raggiungere il letto di lei: non si sedette, così da lasciarle il suo spazio. -Sono qui per te.
Un bagliore di stupore colse gli occhi lucidi di Annamaria, mentre le lacrime iniziavano a rigarle il viso. In quel silente gioco di sguardi, lui le rivelò che sapeva tutto, che era preoccupato e che voleva esserci per lei; Anna, dal canto suo, gli disse che era sinceramente grata che lui ci fosse, che non si sentiva molto bene con sé stessa, triste.
-Mi vergogno a morte di dirlo a qualcuno – singhiozzò lei. -E poi non ho fatto altro che pensare a quanto mi avresti giudicata per essere stata così stupida.
Lui si sedette sul letto dopo aver percepito una muta richiesta di calore e affetto. -Non devi dirlo a nessuno se non vuoi… Ma voglio che tu sappia che non sei stupida, che non ti giudico e che mi dispiace che tu stia così, non te lo meriti.
Annamaria singhiozzò di nuovo, mettendosi seduta. Si torturava le mani tra una lacrima e l’altra, indugiando anche sulle coperte che la avvolgevano: tirava lembi di tessuto deformando l’immagine degli enormi fiori rossi stampati. -Mi sento un po’ sporca…
-Ma che vai dicendo – la rimproverò lui bonariamente, usando un tono di voce che dedicava solo a sua sorella minore. -Se mai è lui che è un porco schifoso.
Come una bambina, Anna si stropicciò entrambi gli occhi arrossati, il viso ancora umido. Non tutto quello che pensava veramente lo stava buttando fuori, ma vedere Federico l’aveva palesemente rassicurata, tirata su: sapere che lui non la giudicava e la voleva aiutare era di conforto.
Quelle supposizioni furono ulteriormente confermate quando Annamaria sollevò lo sguardo per sostenere il suo, cosa che fino a quel momento non aveva osato fare probabilmente per la vergogna.
Le uscì una timida risata. -Ma che hai fatto alla faccia? – Poi si ammutolì, una volta compreso il motivo per cui i lividi troneggiavano sul viso dell’amico.
Con l’adrenalina in corpo, Federico non aveva neanche sentito dolore a causa dei colpi di Marco, quindi non si era preoccupato di mettere ghiaccio o di valutare l’entità del danno; era semplicemente corso a casa di Anna, senza curarsi di che razza di aspetto avesse.
-Ma che questo? – borbottò, per sdrammatizzare. -Sto facendo un corso da truccatore horror, così ad Halloween sarò attrezzato.
-Attrezzato per cosa? – ridacchiò lei, grata che lui avesse sdrammatizzato di nuovo con una battuta. -Per spaventare i bambini?
Un velo di leggerezza calò nella stanza, a rincuorare non solo la tristezza di Annamaria ma anche la rabbia che aveva imperversato in Federico, durante quell’ultima ora.
Non era sua abitudine essere così coinvolto in fatti che non lo riguardavano. Piuttosto, cercava di mantenere il disinteresse anche per le cose che riguardavano sé stesso, ma di recente si sentiva pregno di un nuovo ardore nei confronti della vita. Forse non sarebbe stato più soltanto spettatore di ciò che gli accadeva attorno, forse avrebbe fatto qualcosa per cambiare ciò che non gli andava bene.
 
Il Papavero è un fiore abbastanza semplice ed è stato da sempre oggetto di leggende e credenze popolari. Nella mitologia si narra che il Papavero fosse il fiore della consolazione. Questo significato deriva da un episodio legato alla figura di Demetra, la Dea dei campi e dei raccolti. Si racconta, infatti, che la dea abbia riacquistato la sua serenità, dopo la scomparsa della figlia, solo dopo aver sorseggiato infusi prodotti con i fiori di Papavero. Durante la Prima guerra mondiale, in Gran Bretagna, si producevano ghirlande di papaveri che venivano usate per celebrare e ricordare i soldati caduti per la patria. Oltre al significato di consolazione al Papavero viene attribuito anche quello di semplicità. In altri casi e in altri luoghi il Papavero assume altri significati minori, tra cui lentezza, dubbiosità, sorpresa, storditezza, sonno eterno, oblio e immaginazione.
 
*Fonte: www.greenme.it
 
Buongiorno nuovamente! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, spendo poche parole perchè ho già parlato all'inizio... Ci vediamo giovedì per il successivo aggiornamento. Buona giornata! 

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Capitolo 11
*** XI Ortensia ***


XI Ortensia
 
In lingua cinese le ortensie sono chiamate "Fiori degli otto immortali" ed erano coltivate già in epoca Ming, nei giardini della regione di Jangnan, ad Ovest di Shangai. Quanto all’origine del nome "ortensia", le notizie non sono certe, poiché esistono diverse versioni. La più accreditata riferisce che l’esploratore e naturalista francese Philibert Commerson, nel Settecento, chiamò questo fiore ortensia ispirandosi alla sua amante, Hortense Barrè, che l’aveva accompagnato, vestita da uomo, nella spedizione guidata da Bouganville.*
 
Quando quella sera era rientrato in casa, Federico si aspettava che i suoi genitori si fiondassero su di lui, tempestandolo di domanda sul perché aveva fatto ciò che aveva fatto. Non era mai stato un ragazzo violento, loro lo sapevano, e averlo visto fuori controllo in quel modo doveva senza alcun’ombra di dubbio scioccati.
Certamente, il fatto che Giancarlo fosse in circolazione aveva consentito a Simona di sentire meno forte il peso dell’anomalo comportamento del figlio grande: di solito era costretta a scontrarsi da sola con lui, cercando di scavare in un ragazzo che sembrava essere blindato dietro un muro di cemento armato. Il padre era sempre stato più bravo a cavargli le cose di bocca - forse perché non si era mai chiuso nei suoi confronti – e Simona, consapevole di questo, probabilmente si sarebbe fatta forte e avrebbe aizzato Giancarlo contro di lui, per farlo aprire davanti a quel fatto.
In realtà, una volta aperta la porta di casa, Federico si rese conto che i genitori già dormivano e che certamente non stavano aspettando che lui rincasasse per assalirlo di domande. Giancarlo, a differenza delle altre notti, aveva trovato ristoro sul divano: dormiva placidamente, il respiro che gli sollevava la pancia ritmicamente. Di Alberta e Simona, invece, non c’era traccia in giro; probabilmente entrambe erano nelle rispettive stanze.
Rifugiatosi in camera sua, Federico fu grato di potersi godere un momento di solitudine: non dormiva da solo da troppo tempo e quella notte ne aveva proprio bisogno.
Mentre scivolava tra le braccia di Morfeo, Federico si ritrovò ad indugiare con i pensieri ad Emma. Quel pomeriggio era sparita improvvisamente, senza dargli il tempo di salutarla… Come un fantasma, come una specie di miraggio, riusciva sempre a sgattaiolare via dalle situazioni in un attimo, e a piombare nuovamente nei momenti più inaspettati, quelli in cui lui aveva – senza saperlo – bisogno di lei.
Si chiese che cosa avrebbe pensato di quello che era successo con Marco: Federico sapeva di aver fatto quello che era giusto, punire un ragazzo che aveva sbagliato, ma non era certo che quel modo di farsi giustizia fosse gradito ad una come Emma, così pacifica ed eterea.
Dell’opinione di lei a lui importava molto più di qualunque altra cosa.
 
Federico aprì gli occhi di botto, come colto da una scossa elettrica improvvisa.
Era già mattina e non ricordava neanche quando si fosse addormentato, l’unica cosa che sapeva era che quel sonno non era stato affatto riposante, per nulla.
Una volta aperta la porta della sua camera si rese conto dell’armonia che avvolgeva la sua casa: c’era profumo di caffè, risate provenienti dalla cucina, una deliziosa sensazione di casa come non l’aveva mai sentita.
-Amore, quindi la mamma non te li cucina mai? – disse la voce di Giancarlo, dalla cucina, rivolgendosi certamente alla piccola Alberta.
-No no- disse la piccola, con un tono di voce risentito, probabilmente dispiaciuta di rivelare una delle carenze di Simona. -Però puoi farmele tu da ora!
Quell’ultima frase, invece, aveva un tono speranzoso, infantile ma sicuro, la richiesta di una bambina che non aveva mai la possibilità di godersi il padre.
Alberta era sempre stata un passo avanti rispetto agli altri bambini, era cresciuta troppo in fretta a causa di tutte le cose successe tra i suoi genitori. Nonostante avesse le fattezze e i modi di una bambina, i ragionamenti che riusciva a propinare al suo interlocutore sembravano tutt’altro che infantili; come in quel caso.
A differenza di quello che Federico si aspettava, Giancarlo non fu titubante nel risponderle. -Ma certo, ora ci penso io, amore! – disse con entusiasmo e sicurezza.
Sicuramente il padre aveva fatto delle riflessioni per arrivare a quella consapevolezza, altrimenti non si sarebbe mai sbilanciato nel dire ad Albertina una cosa che non era vera. Non era mai stato un bugiardo e non aveva mai illuso i suoi figli, aveva sempre e solo detto le cose come stavano.
-Che bello papà, stiamo sempre insieme! – si augurò con entusiasmo la bambina, già festosa. La immaginò danzare nel centro della cucina.
Fu a quel punto che Federico fece il suo ingresso nella stanza. Nessuno parve sorprendersi di vederlo entrare, come se tutti sapessero che era lì ad ascoltare la conversazione.
Come aveva immaginato, Alberta era al c’entro della cucina, presa da una delle sue solite danze di gioia, mentre il padre era intento a smanettare con una padella di crepes dalla quale saliva un odore delizioso.
La cosa sorprendente era anche la presenza di Simona, che fino a quel momento non aveva detto nulla sulla conversazione tra il padre e la figlia, intenta a mangiare il suo dolce con soddisfazione. Probabilmente non era più abituata ad avere in giro per casa qualcuno che si prendesse cura di lei, anche solo cucinandole qualcosa da mangiare di sfizioso; sembrava felice.
A quel punto Federico realizzò che la sicurezza con cui Giancarlo aveva affermato che ci sarebbe stato per la figlia piccola era dovuta a qualche discussione avuta con l’ex-moglie, che non sembrava affatto turbata dal pensiero che Giancarlo restasse con loro. Anzi, era tranquilla al pensiero, serena.
Probabilmente i due coniugi avevano intrapreso un percorso di riconciliazione.
-Buongiorno raggio di sole! – scherzò Giancarlo, indicandogli con il mento un piatto a tavola. -Le ho fatte anche per te, mica sei escluso.
-Fede sono buonissime! – urlò entusiasta la sorella piccola, tirandolo per una mano fino al tavolo.
Si sedette già consapevole del sapore della sua colazione: erano anni che non mangiava le crepes del padre, ma la bontà non l’aveva dimenticata.
-Sono sicuro di sì, piccola – sorrise alla sorellina.
Alberta gli fece un enorme sorriso e fu proprio quella dolcezza a ricordargli quanto aveva pianto il giorno prima, mentre litigava con Marco. Sembrava sconvolta dall’aver visto un gesto violento da parte del fratello maggiore.
Federico realizzò che la bambina era più che serena, come se avesse dimenticato l’accaduto, e anche i suoi genitori dal canto loro sembravano perfettamente a loro agio in quella situazione, senza neanche un accenno di voglia di indagare maggiormente. Eppure, conoscendo Simona, era certo che lei volesse sapere che cosa fosse successo.
-Allora? – domandò spazientito, spostando lo sguardo prima su Giancarlo e poi su Simona.
-Allora cosa? – fece suo padre, stranito. Scoccò un’occhiata a Simona, ancora intenta a mangiare la sua colazione, e anche lei sollevò le spalle, come se non avesse la minima idea di che cosa il figlio volesse sapere.
Sembrava una scena surreale: i suoi genitori complici davanti ad una faccenda che lo riguardava; per giunta, Simona non sembrava affatto colpita da alcun tipo di febbrile curiosità.
-Non mi chiedete nulla? – li punzecchiò Federico, imperterrito. -Non volete sapere cosa è successo ieri con Marco?
Giancarlo, impassibile, studiò il volto del figlio senza lasciar trasparire alcun tipo di emozione. -Tu ce lo vuoi dire? – fece, quasi con tono annoiato, come se in fondo non gli importasse.
Mentre sosteneva lo sguardo del padre, Federico si sentiva addosso lo sguardo di Simona, mentre in sottofondo la vocina di Alberta si allontanava canticchiando su per le scale, verso il piano superiore.
-Pare che non ve ne freghi nulla – borbottò in direzione dei genitori, incrociando le braccia al petto. Si sentiva un po’ incoerente, in fondo: non aveva mai sopportato le domande incessanti della madre, ma non riceverle su quella situazione, su quello che era successo, gli aveva creato così tanto disagio da volergli vomitare tutta la verità addosso. Dopotutto, Federico aveva agito nel giusto, aveva difeso Annamaria da un gesto brutto, villano, scorretto, gravemente sbagliato da parte di una persona che, se non rimessa a posto, magari avrebbe sbagliato con qualche altra ragazza.
-Marco ha fatto stealthing ad Annamaria – spiegò, con la bocca un po’ amara e la voce un po’ roca e vibrante, covava ancora rabbia.
Giancarlo rimase imperturbabile davanti a questa rivelazione. -Sarebbe? – lo interrogò, senza vergognarsi di ignorare di cosa si trattasse. Non era mai stato un genitore presuntuoso, sapeva di poter imparare qualcosa di nuovo dai figli e dalla modernità.
Prima ancora che Federico potesse lanciarsi in ulteriori spiegazioni, Simona lo interruppe: -Si dice così quando viene rimosso il profilattico senza il consenso del partner – spiegò, un po’ titubante, ma consapevole. -Annamaria non lo sapeva?
Scosse la testa e Simona annuì, realizzando finalmente quello che era successo tra il figlio e l’amico.
-Volevi difenderla, per questo lo hai colpito – disse con stupore, parlando più a sé stessa che ai presenti.
-Anche se la ragione è giusta – si intromise di nuovo il padre. -Non dovresti farti giustizia da solo, in queste situazioni.
-Ma va – fece Federico, ironico. -E come avrei dovuto fare, di grazia? Dirlo ai suoi, così al massimo lo ammonivano con qualche vuoto rimprovero per poi lasciargli fare il cazzo che gli pareva? Oppure magari dirlo a voi, che al massimo potevate prenderne atto e realizzare quanto fosse stronzo il mio amico per poi infischiarvene di una ragazza fragile, ferita nel modo più vile e schifoso possibile. Ieri l’ho vista, sai? Per ricostruire l’autostima di quella ragazza ce ne vorrà, di tempo, e quel coglione neanche era consapevole del danno che aveva fatto! Io, in queste situazioni, non conosco altra giustizia se non quella che posso farmi da solo – ringhiò rabbioso, senza prender fiato. Sentiva il cuore battergli fortissimo, accorato dal discorso e dalla situazione.
Giancarlo, che conosceva il figlio e aveva sempre comunicato con lui apertamente, non rimase affatto sorpreso che Federico avesse delle idee, una posizione riguardo a quello che era successo. Al contrario, Simona era sempre stata tagliata fuori da qualsiasi cosa che lo riguardasse per cui, in quel momento, vederlo così emotivamente coinvolto da qualcosa la colpì: nascose dignitosamente gli occhi lucidi, stropicciandosi le palpebre come se fossero i postumi di una brutta dormita.
Federico era sempre stato un muro con le emozioni, ma non significava che non le possedeva: semplicemente, si sentiva più aperto nel tirarle fuori, usarle per affrontare il mondo e le persone, di recente. E quelle stesse emozioni lo avevano guidato in quella situazione.
-Gli hai rotto il naso – proseguì il padre, senza però celare alcun tipo di accusa in quelle parole. Era solo una constatazione della realtà dei fatti.
-Come ho detto, se lo meritava – insisté Federico, riacquisendo la pacatezza che lo aveva sempre contraddistinto. Si sentì stranamente più leggero dopo aver condiviso quello che pensava con i genitori, come se avesse trasportato un macigno per tutto quel tempo. In quel momento, Giancarlo e Simona lo stavano aiutando a trasportare il peso di quella storia, di conseguenza il suo cuore era più libero.
Con quel nuovo stato d’animo, si sentì in vena di avventarsi sulla colazione che gli era stata preparata.
-Direi anche io che se lo meritava – annuì Simona, guardando l’ex-marito, l’unico che sembrava non essere ancora convinto della piega che quella situazione aveva preso.
Giancarlo, fece spallucce, alzando poi le braccia al cielo. -Ho cresciuto un barbaro – scherzò, probabilmente al fine di alleggerire la situazione. Indicò Simona, che aveva preso a ridere: -E tu lo sostieni, per giunta!
Anche Federico, con il boccone in bocca, prese a ridere. Non gli capitava spesso di lasciarsi andare in quei contesti familiari, ma il clima che si era creato con i genitori era così piacevole da non riuscire a resistere all’idea di lasciarsi andare ad una risata.
Guardò entrambi i suoi genitori e colse in loro una leggerezza piacevole, a presagire che avessero parlato privatamente durante gli ultimi giorni: se avessero chiarito Federico non sapeva dirlo – di certo non erano affari suoi – ma era bello vederli felici. Non aveva più l’età di Alberta, non confidava nell’idea che tornassero insieme a fare la coppia di genitori, ma senza dubbio vederli andare d’accordo lo lasciava contento.
In qualche modo, Federico si convinse che si fossero addirittura messi d’accordo nell’approcciarlo, quella mattina.
La conferma di quella ipotesi arrivò presto: Simona guardò Giancarlo soddisfatta, gli occhi leggermente lucidi. -Avevi ragione, non serviva chiedergli nulla! – bisbigliò con stupore, forse parlando più con sé stessa, come se si fosse resa conto solo in quel momento di aver sempre sbagliato nei confronti del figlio. Al posto di tirarlo fuori dal guscio, faceva sì che lui vi si rifugiasse ancora di più con la sua curiosità spasmodica e le sue domande insistenti.
Giancarlo fece una risata vittoriosa. -Ma non lo vedi che è un pollo? – disse, rifilando un buffetto sul viso del figlio. -A questo non gli devi chiedere niente, devi lasciarlo sbagliare, e alla fine quando si sente ignorato viene a chiedere aiuto.
Simona a quel punto fece una carezza sul viso di Federico.
Lui, per una volta, non si ritrasse, abbassando un paio dei muri che le aveva eretto contro.
 
Emma era in mezzo ai cespugli di ortensie bianche, il viso sui fiori candidi e gli occhi chiusi mentre si inebriava del loro odore. Indossava un vestito anch’esso bianco, svolazzante per la leggera brezza.
-Cavolo, ma quanto sei bravo? – bisbigliò Annamaria, curiosando in direzione di Federico.
Era seduto in camera di lei, proprio di fianco al suo letto, intento a dilettarsi in uno dei suoi disegni. Occasionalmente, aveva portato con sé anche i colori a matita, per far vivere meglio i disegni in cui Emma ormai era protagonista fissa.
Annamaria, dopo due giorni, ancora non si era motivata abbastanza da sfuggire alla sicurezza del suo letto: indossava ancora il pigiama e i capelli biondi erano disordinatamente legati in cima alla sua testa, in una scialba coda di cavallo. Se non altro, quel pomeriggio aveva deciso di prendere in mano un libro e dedicarsi alla lettura, come timido passo avanti.
Non avevano più parlato dell’accaduto, ma Federico sapeva che le pesava ancora molto tutto quello che era successo con Marco.
Non era mai stato un bravo motivatore o una spalla eccellente nei momenti di sconforto, ma voleva esserci, ecco perché aveva deciso di trascorrere i pomeriggi insieme a lei, tenendole compagnia. Sapeva che se Anna fosse rimasta sola sarebbe sprofondata in uno strano sconforto, e voleva evitare in qualsiasi modo che questa cosa accadesse.
Fare conversazione non era di certo il forte di Federico, ecco perché quel pomeriggio aveva deciso di portare il blocco da disegno, certo che Annamaria avrebbe apprezzato la sua compagnia anche senza che lui le dicesse un bel nulla.
-Ma lei è davvero come la disegni? – chiese Anna, allungando ancora il collo per scorgere meglio gli altri particolari del ritratto. Evidentemente quel pomeriggio, a differenza degli altri, si sentiva più pronta a chiacchierare in maniera frivola.
Sentì un po’ di nostalgia, ma non sapeva a cosa fosse dovuta. -Anche più bella – rispose, pensando a quanto Emma fosse bella e spontanea in ogni cosa che faceva e diceva.
Non l’aveva vista da quando aveva litigato con Marco, né aveva avuto occasione di sentirla, ma i suoi pensieri indugiavano su di lei sempre, in ogni momento della giornata.
-Cavolo – borbottò Annamaria, mettendosi seduta e scostando le coperte candide. -Ti piace proprio tantissimo!
Federico le sorrise un po’ imbarazzato, ma non rispose. Ammettere quanto fosse sinceramente coinvolto in quella storia con Emma avrebbe fatto vacillare il suo orgoglio di ferro.
Certamente, non avrebbe mai negato l’evidenza ormai sotto gli occhi di tutti: stravedeva per lei, ne era ammaliato, rapito, conquistato, stregato.
-Diventi pure rosso! – lo rimbeccò la bionda, con fare giocoso.
-Non è vero, che ti inventi? – borbottò lui, continuando a dedicarsi al ritratto.
-Vorrei tanto che qualcuno fosse preso da me tanto quanto tu lo sei da lei.
Anna sorrideva, ma nel dire quella frase rivelò quanto fosse sinceramente triste. Come Federico si era aspettato, la sua autostima era sinceramente vacillata per ciò che era successo. Quell’aspetto, unito al fatto che non avesse voglia di parlarne con altri all’infuori di lui, era ciò che lo preoccupava di più; non voleva che lei si allontanasse dal mondo.
-Tu ti meriti tutto quello che desideri – le disse lui, nel tentativo di tirarla un po’ su di morale. -Non dubitare mai di questa cosa.
Trattare con una persona in un momento di fragilità così acuto era difficile, complesso: non voleva dire la cosa sbagliata, perché farlo avrebbe significato peggiorare la situazione. Federico non era mai stato bravo nelle situazioni di carattere sociale, ma in quella circostanza stava prendendo Annamaria nel modo giusto; non le metteva pressione, non la forzava a tirarsi su anche se non era pronta, semplicemente la assecondava nella sua fragilità nell’attesa che lei fosse pronta a tirarsi su, con le sue sole forze.
Gli occhi di lei si fecero lucidi per le lacrime, che poco dopo le rigarono il viso pallido. Fece un sorriso all’amico, ma non si sporse a cercare alcun tipo di contatto fisico.
-Che bello che ti importa di me – disse lei, con un tono di voce che suonò estremamente infantile.
Federico le sorrise dolcemente e lei singhiozzò, stropicciandosi gli occhi umidi. Sembrava avere molti meno anni di quelli che aveva in realtà, in quel momento.
-Non potrebbe essere altrimenti.
Annamaria cercò di ricomporsi, soffiandosi il naso e asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. Fece un sorriso un po’ più composto, cercando di raccattare i cocci di sé stessa.
-Sei diverso, ultimamente – concluse poi, studiando il volto di Federico in maniera quasi chirurgica, come a voler cogliere qualche dettaglio nuovo che prima le era sfuggito.
-Un po’ di cose sono cambiate – ribatté lui, consapevole che ci fosse qualcosa di diverso attorno a lui e nella sua quotidianità, non poteva negalo.
-Io non credo che siano cambiate le cose – borbottò la bionda. – Penso piuttosto che sei tu ad essere diverso: è come se avessi trovato un modo nuovo di leggere il mondo intorno a te, e questo ti ha reso migliore, più aperto.
Federico tentò, come al suo solito, di sdrammatizzare: -Ah, quindi prima ero un impiastro.
Anna rimase imperturbabile anche di fronte a quella battuta. -Qualsiasi cosa vedo in te ora, c’è sempre stata, semplicemente non sapevi come tirarla fuori. Ora, forse, lo hai capito… Sei la versione migliore di te stesso.
Non si sentì nella posizione di contraddirla perché in fondo sapeva che aveva ragione. Era difficile da ammettere - a sé stessi prima ancora che agli altri – che si sentiva bloccato, in qualche modo prigioniero. Da quando conosceva Emma, qualcosa si era smosso in Federico, e aveva iniziato ad affacciarli al mondo in maniera differente. Si sentiva più aperto, più empatico, più pronto ad affrontare le cose che prima preferiva ignorare o bistrattare.
Non era come diceva Annamaria, non era ancora la versione migliore di sé stesso, ma lo sarebbe diventato. Per troppo tempo si era segregato in una prigione fittizia credendo di poter stare meglio, quando solo l’approccio agli altri poteva essere la chiave per crescere e cambiare.
Poiché aveva finalmente realizzato quella verità, le cose sarebbero migliorate, ne era certo.
 
Quando rientrò in camera sua, esausto più mentalmente che fisicamente, fu grato di vedere Emma. Era seduta sul suo letto, con le gambe incrociate, la gonna bianca si apriva attorno a lei facendola sembrare un fiore. Aveva i capelli corti legati in una delle sue buffe acconciature confuse.
Le labbra sottili, come al solito rosso fragola, si piegarono in una smorfia una volta esaminato il volto di Federico. Smise di legger il suo libro e lo abbandonò sul letto.
Percorse a grandi passi la stanza e gli prese il viso tra le mani.
-Che è successo? – borbottò rivelando un’inaspettata preoccupazione mentre esaminava i lividi ancora violacei sul volto di lui.
Federico le sorrise, sentendosi il cuore un tamburo. Mise le mani sopra quelle di lei, nel tentativo di rassicurarla. -Guardati, sei preoccupata per me? – la prese in giro.
Emma sorrise, ma senza allegria. -Beh, se ti sfigurano la faccia mi preoccupo di non aver più nulla di gradevole da guardare.
Gli ravvivò i capelli con un gesto della mano, indugiando poi nuovamente sul suo viso.
-Ah, ma quindi mi trovi bello – ghignò, abbracciandola. Le stampò un bacio sulla tempia.
Lei respirò a pieni polmoni l’odore di lui, chiudendo gli occhi mentre si accovacciava sul suo petto. -Sta zitto, va’.
Federico rise, stringendola un po’ a sé. Voleva condividere tutto con lei, non gli piaceva l’idea di escluderla da qualcosa che lo riguardava, sebbene lei mantenesse un misterioso distacco riguardo a ciò che la riguardava. - Ho litigato con Marco.
A quella rivelazione, lei si scostò quel poco che le serviva per poter studiare il viso di lui. -E lui ti ha fatto un occhio nero? – domandò, di nuovo con l’aria preoccupata che aveva sfoggiato prima.
-Beh, io gli ho rotto il naso – fece lui, senza vergognarsi di nulla.
Emma si limitò a osservarlo, senza proferire alcun tipo di giudizio su quella rivelazione. A differenza dei suoi genitori, lei aveva fiducia in lui e nella sua capacità di giudizio, Federico ne era consapevole: non gli avrebbe chiesto perché lo avesse fatto perché sapeva che era stata la cosa giusta, dal canto suo.
In quello scambio silente di sguardi, Emma gli dimostrò sostegno, comprensione, e Federico gliene fu grato.
La abbracciò di nuovo, con maggiore trasporto rispetto a poco prima, e lei si lasciò stringere. Fu in quel momento che ripensò alle parole di Annamaria di quel pomeriggio, a come lui avesse tirato fuori qualcosa da sé stesso, senza neanche sapere di averla. Pensò che lo stimolo a progredire che aveva sentito così prepotente provenisse da lei, dall’averla conosciuta: fin dal primo momento in cui si erano parlati, lei gli aveva acceso qualcosa dentro, un fuoco, una luce.
Emma, così vivace e allo stesso tempo così misteriosa, lo leggeva e comprendeva come nessun altro, anche se lo conosceva da poco.
La scostò leggermente, per poterle osservare il viso punteggiato di lentiggini e gli occhi verdi.
-Che c’è? – sorrise lei, mentre lui le accarezzava una guancia.
-Emma, io ti amo.
 
L'Ortensia viene regalata per rivelare l'amore o un ritorno di fiamma, ma il suo significato varia in base al suo colore: l'Ortensia bianca indica la nascita dell'amore e sta a significare che tutti i pensieri sono rivolti alla persona amata. Nel linguaggio dei fiori ogni fiore invia un messaggio preciso rivolto a chi viene omaggiato. In linea generale l’ortensia viene regalata per rivelare la nascita di un primo amore o comunque di un amore che sta nascendo o anche il ritorno di un amore passato.
[www.giardinaggio.it]
 
*Fonte: www.giardinaggio.it

 
Buonasera a tutt*! Vi annuncio ufficialmente che da questo capitolo in poi la frequenza di pubblicazione cambierà: potrete trovare il capitolo ogni giovedì. 
La scelta è dettata da molte ragioni, sia relative alla resa qualitativa del capitolo, sia per voi lettori, così che possiate immergervi maggiormente nel clima della storia e assaporare la suspence in attesa del finale. 
Vi ringrazio moltissimo per il sostegno che mi state dimostrando in queste settimane, con i commenti o mettendo anche semplicemente la storia tra le seguite/ricordate. Per me ciascuno di questi piccoli gesti conta moltissimo.
Vi abbraccio forte, a giovedì! 

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Capitolo 12
*** XII Violetta ***


 
XII Violetta
 
Nella mitologia greca si narra di una ninfa di nome Io, che era amata segretamente da Zeus. Per nasconderla da sua moglie Era, Zeus la trasformò in una bellissima mucca bianca. Tuttavia, Io era abituata a mangiare cibo umano, e non poteva sopportare di nutrirsi con le comuni erbe di cui si nutre una mucca. Fu così che Zeus trasformò le lacrime della sua amata in profumate e bellissime violette, che solo a lei fu permesso di mangiare. *
 
A Federico non era mai capitato di essere così profondamente sincero con qualcuno, non era mai arrivato a mettersi così a nudo.
Non gli erano mai piaciute le dimostrazioni verbali di affetto, i discorsi sulla profondità dei sentimenti. A dispetto di ciò che ci si poteva aspettare da qualcuno così emotivamente riservato come lui, tuttavia, non provò alcun tipo di vergogna o tentennamento nel dire ad Emma che la amava così esplicitamente. In cuor suo, lo aveva sempre saputo, ma non si aspettava di essere in grado di dirlo con una tale leggerezza e semplicità.
Era stato istintivo, lo aveva pensato e detto, senza curarsi di come lei avrebbe potuto reagire. Voleva solo che lei lo sapesse.
-Mi ami? – fece lei, scostandosi dal suo abbraccio.
Emma mise una distanza tra i loro corpi che Federico voleva fare sparire.
Certamente non si aspettava che lei ricambiasse, non lo pretendeva neanche, ma non voleva che lei si ritraesse spaventata a quella rivelazione, come invece stava facendo.
Federico inclinò la testa di lato, studiandole il viso. -Sì, ti amo – ripeté candidamente. Anche rinnovare quella rivelazione non gli costò alcun tipo di sforzo.
-E me lo dici così? – borbottò Emma confusa, afferrandosi il viso.
Scoppiò a ridere di gusto davanti alla smorfia buffa di lei: -E come te lo dovrei dire scusa?
-Non lo so – gesticolò confusamente lei. -Non così! – disse, indicando prima sé stessa e poi lui.
Federico si rese conto di quanto lei fosse spiazzata da ciò che le aveva detto. -Perché fai così? 
Emma lo guardò, mantenendo sempre una distanza imbarazzata tra i loro corpi. Si toccò il viso, i capelli, le pieghe della gonna, in evidente difficoltà. -Perché tu… Non dovevi dirlo così… - balbettò confusamente, confermandogli ulteriormente quanto lei fosse nel pallone. -Ma poi, cosa significa che mi ami?
A quel punto, Federico sentì nascere in sé un leggero fastidio, lo stesso che aveva sentito quando lei lo aveva respinto, poco tempo prima. Si sentiva nuovamente allo stesso modo, rifiutato.
Non puntava a sentirsi ricambiato, non cercava alcun tipo di risposta, voleva solo che lei lo sapesse.
Emma avrebbe potuto anche stare zitta, prendere atto della cosa, e andare avanti, senza dirgli un bel niente; lui lo avrebbe accettato di buon grado.
-Ma che stai dicendo? – se ne uscì, spazientito, incrociando le braccia al petto.
-Dico che ti sbagli, non mi ami – borbottò lei di rimando, riacquisendo una strana sicurezza. Era come se nella confusione dei pensieri che le avevano attanagliato la testa avesse trovato una chiave di lettura appropriata.
Federico rise, ma senza divertimento. -Tra tutte le risposte possibili, questa era sicuramente la meno plausibile.
-Ma cosa ti dovrei dire? – insisté lei. -Non è possibile questa cosa.
-Lo sai che non puoi sindacare sui sentimenti altrui?
Emma a quel punto si sedette sul letto: si torturava le mani in maniera nervosa, esprimendo un palese disagio per tutta quella situazione.
-Perché stai facendo così? – la punzecchiò lui, riacquisendo un po’ di dolcezza. Aveva capito che lei fosse in difficoltà e anche se non aveva chiari i motivi, voleva essere accomodante, per lei.
-Federico tu non sai un bel niente di me – disse lei, rimarcando una verità che in fondo sapevano entrambi. Si passò una mano sul viso prima di proseguire: - Insomma, come puoi dire di amare una persona che non conosci affatto, ti rendi conto di quanto sia difficile per me crederti? Tu non mi ami, ami l’idea che ti sei fatto di me, ami il modo in cui ti faccio sentire.
In fondo, anche il punto di vista di Emma era più che ragionevole: era vero che Federico amava quelle cose, anche se non era tutto limitato a quello. Perché lei fosse così intimamente sconvolta dalla situazione, invece, restava davvero un mistero per lui.
-Amo quello che sei – spiegò lui, calmo.
Emma ancor prima che lui completasse la frase, già aveva preso a scuotere la testa. -Non sai niente Federico – ripeté ancora, come un mantra confuso da cui non riusciva a venire a capo. -Non doveva andare così.
-Ma cosa stai dicendo? – sbottò, ormai infastidito.
-Forse mi sono spinta troppo oltre, con te – disse lei, parlando più con sé stessa che con lui.
A quel punto lui si sentì punto nell’orgoglio. -Non ti sei spinta in nessuna direzione, se proprio devo dirla tutta. Hai lasciato che le cose andassero avanti senza condividere un bel niente di te – fece lui, sempre con la sua solita calma, nonostante si sentisse in agitazione. -L’unica cosa che posso fare io è prendere atto dei miei sentimenti, dirteli, ma se tu ritieni che non sia il caso di continuare allora è un problema tuo, perché io i passi avanti li ho fatti mentre tu sei rimasta sulle tue.
Emma, gli occhi verdi spalancati, riacquisì un po’ di calma. Probabilmente vedere lui così pacato l’aveva incoraggiata verso lo stesso approccio. -Io non so come dirtele, certe cose.
-Allora non ti senti spontanea con me se hai difficoltà di comunicazione, però va bene così a questo punto… La sola cosa che non posso accettare in tutto questo è che tu mi dica che i miei sentimenti sono falsi, questo non te lo posso permettere.
Federico aveva sempre avuto difficoltà nel processare ed esprimere le emozioni. Il fatto di essersi sentito così a suo agio con esse da condividerle apertamente con lei era davvero un gran passo avanti per lui. Emma lo conosceva, sapeva quanto fosse anaffettivo, e Federico pensò fosse ingiusto che lei biasimasse i sentimenti di lui, non credeva di meritarselo dopotutto.
Non aveva mai preteso che lei gli dicesse che lo amasse a sua volta, ma non pensava che lei lo prendesse moralmente a schiaffi in quel modo.
Lei lo guardò seria, ma non si sbilanciò a chiedergli scusa. Probabilmente, lei era davvero convinta dell’inconsistenza dei sentimenti di lui e non voleva ritrattare la sua posizione.
Si avvicinò e gli fece una carezza sul braccio. -Forse è il caso di prenderci un po’ di spazio.
-Credo proprio di sì- confermò lui, tranquillo. Aveva bisogno di starsene un po’ per i fatti suoi.
Dal fare di lei, dal modo malinconico in cui gli carezzò il viso, sembrava trasparire che non si sarebbe fatta più vedere.
Federico non si scostò dal tocco di lei. -Allora ciao- le disse, suonando più freddo di quanto non volesse, in fin dei conti.
-Posso averlo un bacio? – chiese lei, con quell’aria infantile che a lui piaceva tanto.
Non glielo negò, ma fu evidente la mancanza di trasporto da parte sua: aveva già iniziato a porre del distacco, così che nei giorni successivi potesse sentire meno la sua mancanza.
Emma, mentre lo baciava, chiuse gli occhi e gli carezzò il collo, respirando a pieni polmoni l’odore di lui, come a volerne fare scorta. Al contrario di lui, era evidente che voleva ricordare quel loro ultimo incontro in ogni piccola parte.
Quando si scostò gli sorrise tristemente, riservandogli un’altra carezza sul viso dalla quale lui non si ritrasse. -Ciao – bisbigliò lei un po’ affranta.
Federico la guardò in silenzio mentre lei scendeva giù dalla finestra e si allontanava tra le luci della sera, forse per l’ultima volta.
 
Preso dalla creatività, Federico si sistemò comodamente sul dondolo in giardino e, quasi per esorcizzare il suo malessere, prese a disegnare Emma sul suo letto, ad attenderlo, con lo stesso vestito bianco che le aveva visto indossare poco prima.
Il viso di lei era sempre impresso nella sua mente e rappresentarla era la sola cosa che gli consentiva di sfogarsi da quel pensiero fisso.
Si sentiva un po’ spezzato, ma non triste: salutare Emma gli aveva fatto male, ma in cuor suo sapeva che forse era la cosa giusta se lei non si sentiva tanto a suo agio da aprirsi. Troppe cose della vita di lei erano taciute per chissà quale ragione e si era sempre sentito come se stesse con uno spettro più che con una persona. Probabilmente, lasciarla andare era la cosa giusta.
-Sembra che ti sia passato sopra un treno – rise suo padre, arrivando di sottecchi. Si accomodò al suo fianco sgraziatamente e rumorosamente, facendogli tremare la mano con cui stringeva il carboncino.
-Ma va’, il livido sta già sbiadendo – scherzò lui, alludendo al segno incontrovertibile del pugno di Marco sul suo viso.
-Ma io mica parlavo di quello – sbadigliò il padre. -T’ho visto poco fa tutto mogio mogio mentre scendevi le scale con i tuoi attrezzi da disegnatore.
Federico sapeva di non essere mai stato trasparente sulle sue emozioni: aveva sempre sentito il dovere di mostrarsi controllato, forte, di cemento. Di recente, tuttavia, aveva iniziato a lasciarsi un po’ più andare, al punto da dire ad Emma ciò che provava. Probabilmente, aver scoperchiato quella parte sentimentale di sé gli aveva fatto perdere i freni inibitori, così che diventasse palese anche la sua tristezza, come in quel momento.
Giancarlo indicò con il mento il ritratto su cui stava lavorando, già pregno di dettagli: -È lei?
-Già- sospirò lui, un po’ amaro. -Credo che mi abbia lasciato.
Il padre non disse niente, prese il disegno dalle mani del figlio e lo esaminò con un fare quasi chirurgico. -Che vuol dire ‘credi’?
-Che ha detto di volere spazio, ma da sempre non è che un eufemismo per scaricare qualcuno – ridacchiò.
-Madonna, e che ci voleva a dirti “Ti lascio” - disse Giancarlo con fare un po’ critico. -Queste donne pur di essere delicate finiscono per non esporsi mai.
Federico sapeva che i commenti del padre avevano l’intento di fargli sentire un po’ di solidarietà maschile, ma neanche quella era sufficiente a tirargli su il morale.
Giancarlo, non contento, proseguì: -Ma poi che le hai fatto, di grazia, per farti scaricare?
-Sbaglio o avevi detto che questioni sentimentali non ne volevi sapere?
-Ah, l’ho detto? – rise il padre, dandogli un buffetto sul viso. -Mentivo, scemo, puoi dirmi quel che ti pare.
Federico sollevò le braccia come in segno di resa. -No, perché ti avviso che è una cosa super sentimentale.
Il padre lo guardò con un sopracciglio sollevato, in attesa.
-Le ho detto che la amo.
-Ammazza, mi ci vorrà tutto l’aiuto del mondo per questa conversazione – sbuffò il padre.
-Io ti avevo avvertito.
-Che faccio, chiamo tua madre?
Federico fece spallucce. -Non che cambi qualcosa, sono stato comunque scaricato.
-E allora? – lo incalzò il padre. -Per quale motivo dirle che la ami l’ha portata a scaricarti?
A quello domanda, però, Federico non sapeva rispondere.
Era come se Emma avesse sempre tenuto il freno a mano messo nel relazionarsi con lui, come se in nessuno dei momenti trascorsi insieme fosse stata davvero spontanea in tutto, a differenza di quello che Federico aveva pensato; era arrivato a realizzare quel pensiero proprio in quel momento, con il padre. Probabilmente era quello il motivo per cui lei non riteneva ammissibile che lui potesse essersi innamorato di lei, anche se comunque era la realtà dei fatti. Emma lo aveva letto e compreso, gli aveva alleggerito l’anima, e Federico non solo le era grato per aver tirato fuori da lui qualcosa che neppure sapeva di possedere, ma anche per averlo beneficiato della sua presenza. Emma era eterea, bellissima, nessuna ragazza mai incontrata era come lei; Federico era curioso di ogni cosa di lei e allo stesso tempo in totale ammirazione.
-Ma che ne so- se ne uscì alla fine. -Ha dato di matto e mi ha detto che non so niente di lei.
-Beh, questo te lo avevo detto anche io – intervenne Giancarlo, cercando di non apparire troppo saccente nel far notare al figlio quel dettaglio.
Federico gli fece una smorfia annoiata. -Mica non ne sono consapevole.
-E allora perché ti sei accontentato?
-Boh- borbottò confusamente. -Forse volevo che lei avesse il suo spazio, che si prendesse il suo tempo per esporsi. Non volevo farla scappare tempestandola di domande, a me andava bene stare con lei e basta.
Giancarlo si massaggiò le tempie. -L’hai fatta scappare comunque dicendole che la ami, però.
-A questo c’ero arrivato – sbuffò di rimando. -Però l’ho pensato e gliel’ho detto, ho disattivato il filtro bocca-cervello.
Ci fu un attimo di silenzio tra i due. Giancarlo lasciò andare il ritratto di Emma sul dondolo, come se lo avesse esaminato abbastanza da comprendere delle cose a cui Federico non era ancora arrivato.
-Comunque, sono sicuro di una cosa.
-Sarebbe? – chiese Federico, curioso.
-Probabilmente hai accettato passivamente di essere scaricato senza cercare di far nulla a riguardo.
Federico non rispose a quel sospetto, confermando a Giancarlo che avesse ragione.
In fin dei conti, non aveva provato in nessun modo a dissuadere Emma dalla sua decisione: l’aveva lasciata libera e basta, come se quello che lei avesse deciso fosse più importante anche della sua stessa volontà.
Si pentì di non aver speso una parola in più e imputò il tutto al suo orgoglio, che ancora una volta aveva parlato al suo posto. Non sapeva dire se le cose potevano andare diversamente, ma lui si era comportato come il vecchio sé stesso, quello che non era mai riuscito ad avere ciò che voleva.
Giancarlo diede una pacca sulle spalle del figlio, probabilmente dopo aver compreso che era nato in lui del senso di colpa. -In fin dei conti, si dice che le cose che amiamo vanno lasciate andare. Se torna dopo che l’hai lasciata libera di fare ciò che vuole, puoi essere certo di essere corrisposto.
Federico sorrise, grato di quella pseudo-consolazione che il padre gli stava riservando. -Ma questa frase l’hai pescata dai Baci Perugina? – ironizzò.
-Ho un libricino in cui mi sono appuntato delle frasi melense da rifilare a te ed Alberta quando avete problemi di cuore.
-Consiglierò ad Alberta di chiedere alla mamma, allora.
-Furbo – ridacchiò Giancarlo. -Così i consigli buoni li tieni tutti per te.
-Diciamo che questa conversazione non mi ha svoltato la giornata – lo scimmiottò.
-Allora vedi se la ragazzetta che è alla porta te la svolta!
Federico si sentì un tuffo al cuore. -Emma?
Giancarlo aggrottò le sopracciglia, scuotendo la testa. -Cavolo, sei proprio fissato con questa ragazza – constatò. -No, comunque, è Annamaria, chiedeva di salutarti anche se è tardi. È in salotto con Alberta e tua madre da quando sono qui, quindi, faresti meglio ad andare a salvarla.
Balzò in piedi. -Sarà fatto.
Si incamminò a grandi passi verso l’interno di casa, rimuginando sulle parole di Giancarlo e sulle cento cose che avrebbe potuto dire ad Emma e che invece aveva taciuto. Il fatto che forse non avrebbe più avuto occasione di dirgliele gli fece contorcere lo stomaco di dispiacere.
Quando raggiunse il salotto, Annamaria stava subendo le richieste della sorella piccola con un enorme sorriso sul viso.
-A Fede piace moltissimo fare sposare le Barbie – stava dicendo la piccola alla bionda.
Federico fu sorpreso di vederla in ottima forma: giusto quel pomeriggio l’aveva vista ancora spenta, triste, leggermente apatica. In quel momento, invece, sembrava diversa, con i capelli biondi profumati e il viso struccato ma sereno.
-Ciao – le disse, interrompendo la conversazione dei presenti.
Si sentì addosso lo sguardo inquisitorio e curioso di Simona. Del resto, lo aveva visto difendere a spada tratta la dignità di Annamaria contro Marco e da giorni si comportava come se stesse nascondendo una ragazza, era logico che la madre pensasse che si trattasse proprio della ragazza bionda che aveva davanti.
-Ciao – ricambiò Annamaria, riservandogli un bellissimo sorriso.
-Vieni – le disse Federico, indicandole il piano di sopra.
Annamaria non se lo fece ripetere una seconda volta e si incamminò.
Albertina continuò a giocare con le bambole. -Ma poi Anna viene? – disse distrattamente, senza neanche guardare il fratello.
-Penso che poi andrà a casa sua – le disse, carezzandole i capelli scuri per poi incamminarsi anche lui verso il piano superiore.
Giancarlo raggiunse il salotto proprio mentre Federico stava salendo gli ultimi quattro gradini delle scale, appena in tempo per sentire Simona mormorare curiosa se Annamaria fosse la ragazza di Federico.
La bionda, intanto, si era accomodata alla scrivania della camera.
-Che succede? – le chiese, chiudendosi la porta alle spalle. Ripensò a Emma e al fatto che poco prima erano soli anche loro, in quella stessa stanza.
-Stai bene? – domandò di rimando Anna, studiandogli da lontano il viso.
Scacciò via il pensiero di Emma, certo che fosse quello a farlo apparire malinconico e fiacco agli occhi degli altri, come era successo poco prima con il padre.
-Sì – la liquidò. Non voleva raccontarle quello che era successo visti i problemi che già aveva lei. -Tu piuttosto?
-Marco si è venuto a scusare a casa mia, mi ha portato un mazzo di fiori – rispose Anna, atona.
Federico si accomodò sul suo letto, sfilandosi via le scarpe.
-Che dovrebbe significare? – borbottò severamente. Non riusciva a mandare giù l’idea che Annamaria lo potesse perdonare per un gesto così mediocre e banale come quello di regalarle dei fiori.
La bionda si alzò dalla sedia e raggiunse Federico sul letto. Non si stese, nel timore di apparire troppo sfacciata, ma si posizionò abbastanza vicino da studiare il viso dell’amico.
-Guardati, mica ti facevo così protettivo – gli sorrise, inclinando la testa di lato.
Federico non disse nulla. Quella giornata si era già esposto a sufficienza sotto il punto di vista sentimentale, aveva bisogno di una pausa.
-Ad ogni modo – proseguì lei con un sorriso malinconico. -Vedere le sue scuse false mi ha dato il coraggio di andarlo a denunciare, sono andata giusto poco fa, prima di venire qui. Volevo solo dirti grazie, per quello che hai fatto per me, ti sei dimostrato un vero amico come non ne ho mai avuti in vita mia.
Non voleva dare a Emma il merito di ciò che aveva fatto per Annamaria, ma in fondo sapeva che se lei non lo avesse spronato a cambiare lui non sarebbe stato così aperto da empatizzare la situazione della bionda, per poi aiutarla. Emma gli aveva tirato fuori una sensibilità che non sapeva neanche di possedere, e per questo non se la sarebbe mai tolta dalla testa. Avrebbe avuto sempre il pensiero di lei ad accompagnarlo, giorno dopo giorno, e il rimpianto di non aver trascorso con lei più tempo.
Annamaria si accomodò meglio sul letto e fu in quel momento che tra i cuscini scorse un oggetto anomalo: tirò fuori un fiore dallo stelo piccolo e dallo sgargiante colore viola.
-E questo? – domandò, studiandolo incuriosita. Dopo aver constatato che anche Federico fosse confuso a riguardo glielo porse: -La violetta significa “Ricordami”.
Federico non poté fare a meno di pensare che fosse stata Emma a metterlo lì, e si sentì nuovamente triste.
 
La violetta indica timidezza, pudore e profondità di sentimenti. Regalare un mazzo di violette significa quindi dichiararsi apertamente ad una persona, tant’è che nell’Ottocento gli uomini più giovani usavano portare all’occhiello della giacca una violetta proprio per indicare che erano ancora in cerca di una moglie. Nel corso degli anni il significato più diffuso della violetta nel mondo è un invito a pensare alla persona da cui il fiore è stato ricevuto, pertanto donare una violetta significa, senza troppi giri di parole, “pensami”.
 
*Fonte: www.ilcalendariodellorto.com

 
 
Buongiorno a tutt*! 
Nell'ultima settimana ho notato una crescita nei numeri delle letture e di questo vi voglio ringraziare tantissimo: ogni volta che ricevo una nuova recensione mi sento molto ispirata dalla scrittura ed inizio a buttarmi sui capitoli successivi. Il sostegno che mi date è per me molto importante!
Fatemi sapere che cosa ne pensate del capitolo. 
Il prossimo appuntamento è per giovedì prossimo!
Vi mando un forte abbraccio.

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Capitolo 13
*** XIII Fresia ***


XIII Fresia
 
Esiste una leggenda che parla di Antinea, nata dall’unione di esseri umani e creature del bosco e del suo compagno di giochi, il fauno Yhorus e di un viaggio alla scoperta del meraviglioso mondo delle foreste dei Fuochi di Giada.
Prima di partire in questo viaggio, Yhorus le regala una ghirlanda di fresie bianche, come simbolo della sua purezza d’animo e della forza della passione, augurandole di dissolvere, con la sua danza incantata, la tristezza e la malinconia di chi soffre.
Antinea partì, addentrandosi nella foresta del padre elfo, alla scoperta dei suoi poteri e le fresie rimasero per sempre un modo per ricordargli da dove veniva e rievocare sua madre. *
 
-Hai idea di quando vada via tuo padre? – chiese Annamaria, curiosando tra i fiori freschi e profumatissimi.
Ancora una volta, Federico era finito a fare da accompagnatore alla sua amica bionda in una delle sue gite al vivaio. Non che si lamentasse, al contrario: trascorrere del tempo con lei era diventato ancor più piacevole di prima da quando la loro fiducia reciproca si era rafforzata. Erano più complici, più confidenti.
Anna, a dispetto di quello che lui aveva immaginato, aveva dimostrato forza e reattività rispetto alla sua condizione, spogliandosi nel giro di poco tempo della tristezza che l’aveva attanagliata. La vedeva diversa, nonostante fosse passata solo una settimana dall’accaduto.
-Secondo me non lo ha neanche fatto il biglietto del ritorno – borbottò con aria fintamente annoiata, osservando i colori vivaci dei fiori. Riusciva a distinguerne diversi ormai, tulipani, ortensie, azalee.
La ragazza rise e nel farlo i lunghi capelli biondi presero ad ondeggiare, rilasciando un fresco profumo di albicocca.
-Meglio no? – rise, aggiustandosi le pieghe del vestito lilla. -Puoi passare più tempo con lui.
Federico annuì pensoso. -Di quello sono felice, quello che mi lascia perplesso è la storia con mia madre.
Anna si sistemò i capelli dietro le orecchie, facendo tintinnare i braccialetti colorati che portava sui polsi sottili. -Di che ti preoccupi?
Federico si scoprì ad indugiare su dettagli di lei che non aveva mai notato, ad esempio le clavicole sporgenti che risaltavano il collo sottile, sul quale indossava una collana d’argento. Annamaria era sempre stata bella, lo sapeva, ma lui non l’aveva mai osservata davvero con attenzione. Probabilmente, gli ultimi eventi lo avevano portato a rivalutarla a tal punto da iniziare a scorgere di lei qualcosa di luminoso, puro.
-Hanno cose irrisolte e non credo che mia madre sia nella posizione di discuterne con chiarezza – borbottò, spingendo il carrello con i futuri acquisti dell’amica. Era stracolmo di sacchi di terriccio, attrezzi da giardinaggio, piante in vaso.
-Ma che ne sai – rise lei, leggendo le istruzioni di utilizzo di alcuni bulbi. -Sono adulti, dopotutto, se vogliono tornare insieme possono farlo senza che tu stia qui a giudicarli, no?
Federico rise a sua volta. -Non lo sai che tutto quello che accade in casa mia passa sotto il mio insindacabile giudizio?
-Pensavo che il tuo insindacabile giudizio si estendesse su tutto l’universo, non solo su casa tua – rispose lei, piccata.
-Da quando mi rifili queste risposte sarcastiche? – fece lui, fintamente sorpreso.
Annamaria gli fece una smorfia. -Da quando ho capito che hai bisogno di qualcuno che ti tenga testa per rimetterti in riga.
Federico sapeva che in qualche modo era vero, che aveva bisogno di qualcuno che lo fronteggiasse come aveva sempre fatto Emma. Annamaria, dolce e delicata, non aveva lo stesso fare malizioso e giocoso, ma accettava di buon grado quei timidi tentativi di presa in giro.
Neanche provandoci avrebbe potuto mai rimpiazzare Emma: il modo in cui lo faceva sentire era unico e speciale, così come lo era lei.
-Comunque credo si siano già parlati – riprese il discorso, aiutando Annamaria a mettere nel loro carrello altre piante in vaso. -Sono convinto che mio padre voglia tornare con lei ma che lei abbia delle riserve.
-Non puoi darlo per assodato, magari è una tua idea – fece spallucce lei, alzando un vaso contenente della menta profumatissima. Federico la aiutò ma lei si sporcò comunque le dita e il vestito di terra.
-Difficilmente mi sbaglio.
Annamaria tirò fuori dalla borsetta marrone delle salviette imbevute con le quali ripulirsi. -Dovresti essere solo contento, se tornano insieme.
Federico non riusciva però a lasciarsi andare come voleva su quella situazione. Era rimasto troppo scottato da tutta la storia dei suoi e, anche se stava allentando le redini della sua rabbia nei confronti della madre, ancora non era riuscito del tutto. Probabilmente ci voleva solo tempo, in quel caso.
Dopotutto, per lui era già un notevole passo in avanti avere la possibilità di confrontarsi quotidianamente con Giancarlo, vedere Alberta felice nello stare con il papà, vedere Simona meno apprensiva perché poteva smezzare le responsabilità genitoriali con l’ex-marito.
Nello spostare i restanti vasi, Federico sentì improvvisamente un odore fortissimo di gelsomino, anche se nelle vicinanze non ce n’era traccia. Quell’odore – così familiare, così casalingo per lui – ormai lo riportava all’immagine di Emma che raccoglieva fiorellini dal cespuglio di casa sua.
Quasi scioccamente si girò di scatto, immaginando di vedere Emma proprio lì, come era accaduto l’ultima volta. La vide fasciata da uno svolazzante vestitino rosa, i capelli in una delle sue buffe acconciature, le orecchie a sventola in mostra, le lentiggini esibite con orgoglio.
L’immagine nella sua testa fu così vivida che la vide quasi avvicinarsi a lui mentre stringeva in mano una violetta – lo stesso fiore che gli aveva lasciato sul letto – per poi porgergliela.
-Ti amo anche io – gli diceva nella sua fantasia, piegando le labbra color fragola in un sorriso ampissimo.
-Federico? – lo chiamò la voce di Annamaria, che gli stava schioccando le dita sotto il naso. -Tutto bene? – gli chiese, preoccupata, guardando nella stessa direzione in cui Federico si era distratto immaginando Emma. In realtà, davanti ai ragazzi c’era solo una parete di attrezzi da giardinaggio.
Federico si riscosse, massaggiandosi le palpebre. -Sì, stavo pensando.
-Stavi sognando, direi – lo corresse lei bonariamente.
Gli era già capitato di indugiare con i pensieri su di Emma, nei giorni precedenti. Non era la prima volta che lei non si facesse viva per un lasso di tempo lungo, ma l’idea che lei potesse non tornare lo faceva stare male. Si sentiva speranzoso di vederla in ogni singolo momento della sua giornata, nelle situazioni più improbabili. Inutile dire che, ad ogni modo, lei non si fosse palesata, disilludendo le sue speranze.
Sognarla ad occhi aperti, dopotutto, era la sola cosa che gli restava, per quanto malsano.
-Perché non provi a chiamarla? – propose alla fine Annamaria. Il desiderio di lui era così evidente che lei aveva avuto il tempo di processarlo senza che lui glielo comunicasse.
-Ci ho provato – mentì. Il suo orgoglio non gli consentiva di cercarla dopo che l’aveva scaricato, per quanto il desiderio di lei fosse forte.
-Bugiardo – lo pungolò la bionda.
Federico fece spallucce, come a difendersi: -Non mi risponderebbe anche se lo facessi – si giustificò. Sapeva per certo che, se Emma voleva sparire, non c’era niente che potesse fare per stanarla.
-Sai dove abita? – chiese Anna. -Vai a trovarla.
-Sono convinto che mi abbia mentito su dove abita realmente – rispose lui, pensoso. Tutte le volte in cui aveva provato ad andare a casa di Emma, si era trovato davanti un edificio fatiscente e dismesso, palesemente disabitato.
Vero era che la prima sera in cui si erano visti lei era entrata dal cancello della proprietà usando delle chiavi, ma da quella volta non l’aveva mai trovata in casa le volte in cui l’aveva cercata. Al contrario, si era trovato davanti estranei che avrebbero giurato che lì non ci abitava proprio nessuno.
Annamaria sembrava confusa. -Perché mentire su dove vive?
-Non ne ho idea, sinceramente.
La sua bionda amica sembrava essere motivatissima a fornire una spiegazione plausibile a quella situazione anomala. -Magari è povera!
Federico ridacchiò. -E quale sarebbe il problema?
-Magari lei non sapeva che per te non c’erano problemi se è una senzatetto! – insisté Anna. -Oppure, vive in una roulotte.
-Non credo plausibile nessuna di queste ipotesi – continuò a ridere lui, sinceramente divertito.
-Una spiegazione dovrai pur dartela.
Annamaria aveva già perso interesse per le sue spese da appassionata del giardinaggio. Trascinò il carrellino riempito fino alla cassa, pronta a pagare i suoi acquisti.
-Sai una cosa? Secondo me non ti dovresti arrendere così – riprese imperterrita, allungando i contanti al cassiere, curioso della conversazione dei due.
Federico non voleva arrendersi, ma si sentiva le mani legate. Emma aveva preso la decisione di lasciarlo, Emma non lo amava, Emma era sparita: aveva deciso tutto lei in quella faccenda, lasciando lui impotente, a subire le sue scelte. - Tu cosa faresti?
 
Un’ora dopo, i due amici erano in camera di Annamaria, davanti al computer.
La bionda sgranocchiava patatine pescandole da una ciotola stracolma, mentre pensosa si affaccendava a setacciare tutti i social network di cui disponeva: Facebook, Twitter, Instagram…
-Cosa speri di trovare? – rise Federico, allungando la mano verso una delle patatine.
-Ci sarà pure qualche traccia di lei, da qualche parte, non è mica un fantasma – sospirò, parlando con sé stessa più che con Federico.
-Non ci giurerei – ribatté lui. Emma era sicuramente una ragazza inusuale, fuori dal comune, le probabilità che si avvalesse dell’utilizzo dei social network erano molto più che remote. Inoltre, non era il tipo che metterebbe fotografie online per spiattellare la sua vita agli altri, al contrario era estremamente riservata a tal punto da non raccontare nulla neppure a lui, nonostante fossero intimi.
-Io cerco comunque – insisté Annamaria, continuando a seminare briciole tra i tasti del suo computer portatile. -Come hai detto che si chiama di cognome?
-Non l’ho detto.
-Quindi?
-Non lo so – disse divertito, strofinandosi la nuca.
La bionda a quel punto gli scoccò un’occhiataccia. -Non commento – borbottò, riprendendo la sua ricerca.
La vide setacciare tutti i profili di amici in comune utilizzando il nome “Emma” come filtro. Guardò tutti i profili taggati nelle vicinanze, nei locali della zona, nei posti che loro stessi frequentavano.
-Ti vedo molto motivata – scherzò Federico, dopo un po’, annoiato dall’impresa che l’amica aveva deciso di intraprendere.
-Dovresti esserlo anche tu.
-Anna, io non credo che tu abbia possibilità di trovarla in questo modo.
Ma Annamaria pareva aver già realizzato quella verità e aveva l’aria di chi si stava già organizzando mentalmente con un piano B.
-Ti voglio aiutare a trovarla – disse lei, strofinandosi il mento. -Ti meriti di avere un’altra chance, con lei.
-Ma che ne sai? – rise lui, lusingato.
-Ho visto quanto ci tieni e lei deve saperlo.
-Credo che lo sappia.
Annamaria gli diede un buffetto sulla spalla. -Non credo proprio, se così fosse non ti avrebbe scaricato.
Federico non se la sentì di contraddirla, anche se avrebbe avuto più di una puntualizzazione da fare. La sua bionda amica non poteva di certo sapere come stessero davvero le cose tra di loro, né aveva idea di che tipo di persona fosse Emma.
-Sai una cosa? – si motivò alla fine. -Andiamo a casa sua – propose, alzandosi dalla sedia di botto.
Gli sembrava l’unica pista plausibile da cui partire: se lei l’aveva indicata come sua dimora, un motivo doveva esserci per forza. A dispetto di quel che credeva lui, magari era davvero casa sua, o comunque poteva esserci una pista su Emma.
Annamaria lo guardò inizialmente con un’aria confusa, per poi animarsi anche lei.
-Prendo la borsa – disse, con frizzante allegria.

Quindici minuti dopo erano esattamente davanti al cancello arrugginito che circoscriveva la casa di Emma.
Federico era stato più volte in prossimità di quella proprietà, trovandola sempre apparentemente disabitata. Proprio per questo motivo, fu sorpreso di vedere il cancello spalancato, quasi ad accogliere chiunque volesse entrare, ed un gruppetto di operai che trafficava all’interno, spostando mobili e chissà cos’altro.
-Sembra tutt’altro che disabitata – commentò Annamaria, incuriosita.
Federico non le rispose e si addentrò all’interno del giardino, seguito a ruota dall’amica. Nessuno degli indaffarati presenti sembrò in disaccordo al loro ingresso, probabilmente erano troppo occupati per curarsene.
Come aveva sempre visto anche dall’esterno, c’era un’aria di disuso e abbandono ovunque: il prato era spoglio, moltissime piante ormai secche, nessun mobile a decorare. Gli unici fiori che avevano preservato un po’ del loro colore in quell’arido scenario erano proprio di fianco alla porta di ingresso.
-Sono fresie – fece Annamaria dopo aver intuito che l’attenzione dell’amico era proprio proiettata su quel dettaglio.
Neanche a quella frase si sentì di rispondere, era troppo preda della confusione circostante e troppo vittima della smaniosa curiosità di chiedere di Emma. Sembrava quasi provvidenziale il fatto che, dopo averla cercata già altre volte in casa, proprio quel giorno ci fosse qualcuno a cui rivolgersi.
Non appena un operaio brontolone gli passò di fianco, colse subito l’occasione di fargli una domanda: -Dove posso trovare il proprietario della casa? – domandò, volendo preservare un po’ di discrezione nella sua ricerca.
L’uomo, grassottello e sulla quarantina, gli indicò annoiato l’interno della casa, asciugandosi un rivolo di sudore dalla fronte. Non si sentì neanche in dovere di rispondere: andò via subito, trascinandosi dietro uno scatolone.
Federico, per nulla colpito dalla mancanza di garbo, si addentrò all’interno della casa.
-Ragazzino, questa è proprietà privata! – si sentì rimproverare una volta nell’ingresso da un’imperiosa voce femminile.
Non riuscì ad inquadrare subito la proprietaria della voce, distratto com’era dall’ampio salone pieno di mobili antichi, tappeti polverosi e cianfrusaglie di ogni epoca.
-Credo parli con te – bisbigliò Annamaria, sempre al suo fianco, afferrandogli un braccio.
Fu a quel punto che Federico posò il suo sguardo sulla donna ostile in cima alle scale che lo stava fulminando con lo sguardo: aveva un austero completo nero, capelli sale e pepe, un viso giovane ma così truccato da farla apparire più vecchia.
-Dico a te, ragazzino- lo riprese nuovamente, infastidita, percorrendo i gradini. Aveva un modo sgradevole di enfatizzare ogni singola parola, scandendo in maniera esagerata le lettere.
-Ho sentito- rispose Federico, impassibile ma pacifico. -Mi scusi, ero curioso.
-La curiosità non ti autorizza ad introdurti in case altrui senza permesso – rispose la donna. Una volta che gli fu di fronte lo squadrò da capo a piedi con aria severa, per poi fare lo stesso anche con Annamaria.
Dal modo in cui la donna si atteggiava, Federico fu certo si trattasse della proprietaria di casa. Come si aspettava, Emma aveva mentito: né il nonno né lei abitavano lì.
-Certo, ha ragione – proseguì, diplomatico ma freddo. Tentò di elaborare in fretta una strategia con la quale sgusciare via da quella situazione: se Emma non abitava lì, non aveva tempo da perdere.
-Sbaglio o ti conosco, ragazzino? – proseguì la donna, intanto, studiandolo con maggiore severità. Teneva le sopracciglia perennemente aggrottate, mettendo in evidenza profonde rughe sulla fronte e ai lati degli occhi.
-Ma sì – borbottò la donna, arricciando le labbra tinte di rosso. -Sei il figlio dei Visconti.
Federico annuì con distacco. In qualunque direzione stava andando quella direzione, non era di suo interesse. -Sì.
La donna schioccò le dita smaltate di rosso. -Mio padre era molto amico di tuo nonno Enea, vennero ad abitare in questa zona nello stesso periodo, ed io e tuo padre giocavamo sempre insieme da piccoli – dichiarò la donna senza sorridere. Nonostante il sapore nostalgico di quei ricordi, non sembrava affatto avere trasporto per essi. -Vive ancora da queste parti Giancarlo?
-Sempre nella stessa casa – la liquidò Federico, un po’ seccato. Non gli interessava nessuna di quelle informazioni, ma visto che era entrato in ballo suo padre non voleva essere scortese con quella donna insopportabile.
La donna schioccò nuovamente le dita con fare drammatico. -Che sciocca, è vero, me lo aveva detto qualche mese fa, quando è venuto al funerale di mio padre – borbottò. -È stato molto gentile con lui quando si è ammalato.
-Ammalato di cosa? – intervenne Annamaria con fare apprensivo.
-Alzheimer – sibilò la donna per nulla toccata. Squadrò Anna con fare critico, come a farle capire che non avesse gradito la sua intrusione nella conversazione.
A quel punto, un dubbio stuzzicò la testa di Federico: pensò che l’anziano padre di quella donna poteva essere il nonno che Emma citava sempre. Lei non gli aveva mai detto che fosse defunto, ma a quel punto era ragionevole pensarlo: Emma aveva sempre avuto un fare solitario, come se non avesse nessuno a cui affidarsi se non sé stessa.
E, dopotutto, la prima sera che si erano conosciuti, lei aveva blaterato anche di una zia insopportabile e ingrata, la cui identità poteva corrispondere alla donna fastidiosa che aveva davanti.
Se la sua ipotesi si fosse dimostrata corretta, Emma non aveva affatto mentito su dove abitava e magari era lì, da qualche parte, intenta anche lei a spostare qualche scatolone.
Non volendosi esporre con quell’estranea da cui diffidava, tuttavia, Federico non si sbilanciò a chiedere direttamente di Emma, ma incalzò la conversazione.
-Sì, mio padre mi ha raccontato – mentì. -Mi dispiace molto per la vostra perdita.
-Già – annuì la donna, sempre fredda e distaccata. -È il ciclo della vita però, si nasce e si muore.
Un tonfo sordo spostò l’attenzione della signora verso il piano superiore.
-Che incompetenti – iniziò a borbottare tra sé e sé, per poi rivolgersi a Federico e Annamaria. -Scusate ragazzi, ma devo occuparmi di alcune cose – disse, già pronta ad incamminarsi per le scale.
-Certamente – disse Annamaria gentilmente, già pronta a congedarsi.
Federico, tuttavia, tentò il tutto per tutto per ottenere le risposte che desiderava: -Sua nipote non la sta aiutando con il trasloco?
Vide la donna irrigidire le spalle immediatamente a quella frase. -Chi? – sibilò, riducendo a due fessure gli occhi già piccoli.
-Sua nipote – rintuzzò, con aria fintamente distratta. -Mi pare che mio padre mi abbia detto che si chiama Emma, o sbaglio?
Sentì Annamaria, al suo fianco, trattenere il respiro. Probabilmente lei non aveva minimante fatto nessuno dei collegamenti a cui era arrivato lui durante quel breve lasso di tempo, per cui la domanda doveva averla sorpresa.
La donna, leggermente contrariata, arricciò le labbra. -Mia nipote? – ripeté, scuotendo la testa. -Tuo padre non ti ha detto che è morta? – sibilò nuovamente. Esattamente come quando aveva parlato del defunto padre, non dimostrò nessuna tristezza nella voce.
-Eh? – riuscì a grugnire Federico, senza fiato.
Ma la donna scacciò qualsiasi altra curiosità con un gesto della mano e sparì al piano di sopra, ponendo fine alla conversazione.
Nei minuti che seguirono Federico non ebbe più percezione della realtà che lo circondava. Disconnesso dal mondo, gli occhi ancora spalancati, si lasciò guidare da Annamaria fino all’esterno della casa. Lei lo teneva per mano, come un bambino che aveva perduto i genitori, in cerca di una guida a cui affidarsi.
Una volta fuori dalla proprietà guardò Anna in viso e colse il dispiacere dell’amica.
-Federico – sussurrò lei, stringendogli la presa delle mani.
Lui si voltò nuovamente verso la casa, ancora confuso, frastornato, ed ebbe la visione di Emma proprio sulla porta, con i corti capelli sospinti dal vento ed uno svolazzante vestito giallo. Lo salutava con un bel sorriso stampato in volto.
Federico la salutò di rimando con un imbarazzato gesto della mano mentre tutto attorno a lui si faceva improvvisamente sfocato.
Svenne.
 
La Fresia, nel corso dei secoli, è sempre stato un fiore abbastanza trascurato, probabilmente per questo motivo è diventato il simbolo del mistero e dell'arcano.
[www.ohga.it]
 
*Fonte: www.creativesinasce.forumcommunity.net
 
Buonagiorno a tutt*! Questa settimana sono stata parecchio lontana da EFP, purtroppo indaffarata come non mai. Ci tengo sempre a rispettare il mio impegno con la pubblicazione quindi ecco qui il capitolo; anche giovedì prossimo uscirà, come sempre. 
Se avete congetture/teorie/ipotesi sulla successiva evoluzione, non esitate a condividerle con me, mi fanno molto piacere! 
La storia dovrebbe essere composta complessivamente da 20 capitoli: il finale è già stato designato da molto, ma credo che azzarderò anche la stesura di un finale alternativo da pubblicare come What-if... Ci penserò su!
Nel frattempo, vi auguro una buona giornata! 

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Capitolo 14
*** XIV Anemone ***


XIV Anemone
 
Adone, nato dalla corteccia della madre Mirra trasformata in arbusto, diventa un giovane di rara bellezza, appassionato di caccia. Per errore, Amore ferisce la dea Venere con una freccia ed ella s'innamora teneramente e appassionatamente del bell'Adone.
Per il giovane la passione della caccia rimane sempre più forte di quella per la dea: nonostante gli abbracci, le carezze e gli avvertimenti di Venere, egli parte per una battuta di caccia al cinghiale, che infuriato per una ferita, azzanna Adone provocandogli una ferita mortale all'inguine.
Venere accorre in soccorso del suo amato, ma è troppo tardi, così non le resta che trasformare il sangue dell'amato esanime dei fiori rossi dell'anemone, una delle frequenti metamorfosi botaniche della mitologia. *
 
 
Federico si rigirò sul letto un paio di volte prima di realizzare di non avere la minima idea di come ci fosse arrivato.
Si sentiva la testa pesante come un macigno, la faccia bollente, la vista offuscata.
Il suo cervello aveva smesso di funzionare e, in quel momento, si sentiva lo spettro di sé stesso.
-Grazie per averlo riportato – sentì il bisbiglio di sua madre dal corridoio. Simona aveva un tono preoccupato e anche se non poteva vederla riuscì a figurarsela benissimo: le sopracciglia piegate all’ingiù, gli occhi spenti.
Si sorprese nel sentire il sussurro di Annamaria di rimando: -Non l’ho mai visto così, credo stia male. Aveva la fronte che scottava – disse lei con il medesimo tono preoccupato.
Quel pomeriggio, con Anna, stava più che bene. Erano gli ultimi eventi ad averlo sconvolto a tal punto da fargli innalzare la temperatura corporea, in un anomalo stato febbricitante.
Si sentiva ancora confuso riguardo a quello che aveva scoperto, non aveva avuto il tempo di processare correttamente le ultime informazioni che aveva carpito.
Certamente, come aveva sospettato, la donna sgradevole incontrata quel pomeriggio era davvero la zia di Emma, così come la casa visitata era davvero casa di Emma. Il problema era che, a quanto detto, la ragazza che negli ultimi mesi aveva frequentato, baciato, abbracciato, con la quale si era scambiato intime confidenze, era morta.
Al solo pensiero, sentì un fischio sordo alla testa così debilitante da fargli perdere il raziocinio.
-Sarà un malanno stagionale, sta tranquilla – disse la voce di Giancarlo da dietro la porta. Sembrava più calmo, pacato, rispetto a Simona e Annamaria, come se qualunque cosa Federico avesse si potesse spiegare con la ragione.
Il problema era che se le ultime informazioni apprese erano vere, la situazione era ben al di fuori del razionale.
Federico continuò a rigirarsi tra le lenzuola, sempre più confuso e annichilito. Evidentemente, c’era una ragione se nessuno oltre lui aveva mai visto Emma in quella zona, se lei era così lesta a sparire e così brava a riapparire, se nessuno delle sue conoscenze aveva mai avuto occasione di vederla.
Emma era uno spettro, una sua fantasia, una proiezione vivida della sua immaginazione venuta fuori per chissà quale anomala ragione. Dopotutto era così bella e favolistica da risultare spesso irreale, ma mai si sarebbe aspettato che la ragione fosse che in realtà non esisteva affatto.
Non riusciva a spiegarsi neanche per quale motivo la sua fantasia avesse preso le sembianze e il nome di una ragazza realmente esistita, ma morta.
-Allora io vado – fece Annamaria, dall’altra parte.
Aveva ancora il tono preoccupato di prima nonostante le rassicurazioni di Giancarlo. Probabilmente, anche lei aveva chiaro che qualunque cosa fosse successa a Federico era ben al di fuori del semplice malanno stagionale: anche lei aveva sentito che Emma, la ragazza di cui avevano tanto parlato quel pomeriggio, era morta, e anche lei era confusa a riguardo.
L’amica si stava sicuramente riservando il diritto di aspettare prima di saltare a conclusioni avventate su quella situazione: sarebbe andata a casa e ci avrebbe dormito sopra, tentando anche lei di risolvere razionalmente l’enigma che le si era posto davanti.
Ma Federico sapeva che c’era un’unica spiegazione plausibile a tutto: era impazzito. Qualcosa in lui non funzionava più come doveva, al punto da portarlo a immaginare conversazioni sentimentali con uno spettro.
Al solo pensiero si sentì di nuovo male e si addormentò nuovamente, di botto.
 
Emma portava un anemone viola tra i capelli raccolti e correva nel prato verde, facendo ondeggiare al vento uno dei suoi ampi vestiti colorati.
-Avanti, pigrone, corri! – urlava in direzione di Federico.
Senza avere contezza di come fosse arrivato in quel posto insieme alla sua Emma, la assecondò, correndo nella sua stessa direzione. Come un bambino, si lasciò andare all’idea di poter giocare insieme a lei, per una volta, abbandonando i freni inibitori e le preoccupazioni che spesso gli impedivano di sentirsi davvero spontaneo.
-Ma quale pigrone! – bofonchiò ridendo, una volta raggiunta la ragazza.
Emma si sedette sul bordo di un piccolo laghetto limpido. Ancora ansante per la corsa, immerse i piedi nell’acqua fredda, rabbrividendo al contatto. Federico si sedette proprio di fianco a lei.
-Ma poi per quale motivo sei venuto anche tu? – domandò lei, senza guardarlo. Gli occhi verdi erano puntati in un punto indefinito davanti a sé, a scrutare l’ignoto.
Federico le carezzò un braccio candido. -Che intendi?
-Non ti ricordi? – proseguì lei, piegando un angolo della bocca. Il viso tondo e punteggiato di lentiggini sfuggente allo sguardo di lui. -Ti ho lasciato.
Fino a quel momento, Federico non aveva pensato a quel piccolo particolare e, il fatto che lei glielo schiaffasse in faccia in quel modo, lo rattristò ed inibì. Smise di toccarla, anche se il suo desiderio era avere tutto il contatto possibile con il corpo di lei, come un bisogno fisiologico.
-Ricordo – commentò, amaro.
Gli dispiaceva veramente che lei fosse così poco delicata da ricordarglielo.
A quel punto Emma si voltò nella sua direzione e, nel farlo, gli scivolò il fiore dai capelli, cadendo giusto nelle mani di Federico.
-Ma che ti aspettavi – proseguì, osservando come lui accarezzava i petali colorati. -Siamo troppo diversi, io e te.
Federico fece spallucce, un po’ contrariato. -Credevo non fosse importante.
-Ti sbagli! – lo punzecchiò lei, con un’aria saccente che non le aveva mai visto addosso e che, certamente, non le si addiceva. -Come credi che io possa amarti o stare con te, se sono morta?
Fu a quel punto che Federico sentì nuovamente piombargli addosso il peso di quella verità, schiacciandolo nuovamente sotto ad uno stato di confusione, tristezza.
Si svegliò di colpo sul suo letto, emettendo un piccolo verso lamentoso.
Era ancora spossato e malaticcio, i vestiti incollati addosso per il sudore.
-Tesoro, come stai? – disse sua madre entrando nella camera pochi secondi dopo, quasi come se fosse stata in allerta per un suo eventuale risveglio tutto il tempo.
Federico si strofinò il viso ancora bollente. -Mi sento una pezza – ebbe la forza di dire.
Non sapeva dire quanto avesse dormito, ma ciò di cui era certo era che quel sonno non era affatto stato riposante, per nulla. Sognare Emma in maniera così vivida e sentirla ripetergli la verità che stava ancora realizzando con fatica gli aveva stancato le membra, rendendogli pesante anche il sonno.
Era ancora confuso sul motivo per il quale la sua mente gli stesse giocando quel brutto scherzo.
Simona si sedette al capezzale del figlio.
-Hai avuto la febbre stranamente alta – gli disse, ravvivandogli i capelli con un gesto della mano. -E dire che ieri mattina scoppiavi di salute.
Non se la sentì di rispondere; semplicemente, non aveva niente da dirle. Il suo malessere psicologico era stato tale da farlo ammalare anche fisicamente, ma la madre non poteva saperlo. Simona, dopotutto, non sapeva di Emma, non gliene aveva mai parlato.
-Annamaria è stata molto dolce, ti ha praticamente trascinato fin qui da sola – proseguì la donna, carezzando il viso del figlio. Fece una risatina: -Tranquillo, tuo padre mi ha detto che non è la tua ragazza, non ti chiederò nulla.
-Ciao fratellone – fece ingresso nella stanza la piccola Alberta, saltellando allegramente verso il capezzale del fratello.
-Ciao piccola – le sorrise, sforzandosi di apparire sereno.
La bambina lo studiò attenta. -Stai proprio male Fede! – sentenziò la bambina, per poi allungare una manina paffuta verso di lui: -Ecco, ti ho portato questa.
Alberta svelò che il piccolo regalino non era altro che una delle sue caramelle alla frutta.
Federico la accettò di buon grado, cercando di dimostrarsi il più entusiasta possibile per non far preoccupare la sorellina piccola.
Fu in quel momento che realizzò che la sola altra persona ad aver visto veramente Emma, oltre lui, era proprio Albertina: avevano trascorso qualche pomeriggio insieme, avevano giocato insieme.
Con uno slancio quasi disperato afferrò la bimba per le spalle, facendola trasalire per lo spavento.
-Alberta, ti ricordi di Emma? – chiese con disperazione, scuotendola leggermente.
La bambina, colta di sorpresa, aveva gli occhi spalancati. -Chi? – soffiò confusa.
-Federico! – intervenne Simona, anche lei sorpresa dallo slancio del figlio nei confronti della sorella. -Le fai male, lasciala!
-Emma! – proseguì Federico. -Ti ricordi? Avete giocato insieme qui, con le bambole!
-Non mi ricordo – borbottò dispiaciuta la bambina, sporgendo il labbro inferiore.
A quel punto Simona intervenne, strappando la piccola dalla presa di Federico. -Va’ a giocare, tesoro.
Albertina, come sempre, ubbidì e saltellò via. Non sembrava per nulla sconvolta dalle domande del fratello, anche se lo stesso Federico si era reso conto dell’ingiustificata aggressività usata nei confronti della sorellina piccola. Non voleva certamente spaventarla, era semplicemente disperato.
L’ultima speranza di essersi sbagliato, di aver frainteso, era proprio in Albertina, la quale, tuttavia, pareva confusissima dopo aver sentito il nome di Emma, come se non avesse la più pallida idea della persona a cui si riferiva il fratello.
La reazione della piccola tarpò definitivamente le ali a Federico.
-Ma che ti è preso? – chiese Simona bonariamente, una volta che la figlia piccola fu abbastanza lontana da non sentire.
Federico, a quel punto, scoppiò in lacrime.
In un attimo il suo viso fu rigato di lacrime mentre le sue spalle venivano scosse da singhiozzi. Sentiva di avere molti meno anni di quelli che aveva in realtà, come se in un attimo fosse tornato ad essere un bambino.
-Mamma – chiamò disperato. -Sto diventando pazzo.
Simona guardò il figlio sconvolta e incredula.
Pur non sapendo quale fosse il motivo di un simile dolore, lo abbracciò e non chiese nulla, cullandolo tra le sue braccia fino a quando lui non si addormentò nuovamente.
 
Sognò Emma, questa volta mentre danzava a casa sua durante la festa data da Marco. Nessuno dei presenti pareva notarla e lei, dal canto suo, sembrava non volersi fare notare, presa com’era da sé stessa.
Solo agli occhi di Federico era luminosa.
Emma lo guardò con gli occhi verdi lucidi e allungò una mano nella sua direzione. -Balla con me – sussurrò con un sorriso allegro.
Tuttavia, ancor prima che Federico potesse accettare l’invito, venne strappato da quel sogno e sprofondò nuovamente nel silenzioso buio.
 
Vide di nuovo Emma, in camera sua, stesa sul suo letto a leggere un libro.
Federico si sentiva ormai una pezza, come se ogni volta che il suo inconscio gli proponeva l’immagine di lei, lui perdesse un po’ della sua energia vitale. Ogni volta che la vedeva si sentiva sempre più nostalgico, poiché la sua consapevolezza che lei non fosse reale era ormai diventata una dolorosa certezza.
-Sei stanco- disse lei, sorridendogli. Aggiustò con una mano le pieghe del suo vestito bianco mentre con lo sguardo lo invitava a raggiungerla.
Federico, invece, voleva tenerla lontana, perché qualunque fosse la ragione di un simile scherzo della sua testa, stare con lei era meraviglioso e non voleva torturarsi ulteriormente.
Era meglio porre distanza tra sé stesso e quella vivida fantasia.
 
Continuava ad agitarsi inquieto nel letto, preda della febbre e di quelle immagini così belle e reali di Emma.
Federico spalancò gli occhi di scatto, come colto da una scossa elettrica, quando il tocco familiare di una mano delicata gli si posò sulla fronte.
Ancora una volta, si ritrovò davanti Emma, lo sguardo preoccupato, le mani gelide, il suo profumo di gelsomino. Nel buio della camera riuscì perfino a distinguere il rosso delle sue labbra e la costellazione di lentiggini sulle sue guance piene.
-Sei bollente – sussurrò lei, continuando a toccargli il viso sudato, come a volergli dare ristoro.
Federico era ormai esausto, non aveva la forza di scacciarla. -Ti prego, basta – implorò la sua testa, affinché facesse sparire Emma una volta per tutte.
-Basta cosa? – bisbigliò lei, confusa. -Che ti prende?
Con un sospiro, Emma si alzò e afferrò il bicchiere d’acqua sulla scrivania, per poi farglielo bere. Gli sostenne amorevolmente la testa, carezzandogli il collo e lui bevve avidamente.
Aveva la gola arida e non se n’era neanche accorto fino a quando lei non lo aveva incentivato a bere.
-Ti lascio stare per qualche giorno e guarda come ti ritrovo – scherzò lei, alla fine, spostandogli i capelli incollati alla fronte.
Federico non rispose, si limitò a guardarla, serio.
Emma, dal canto suo, continuò a sorridergli serenamente. -Cos’hai, si può sapere?
-Perché mi torturi così? – le chiese, con un nodo in gola. Sapeva di non riferirsi espressamente a lei ma al suo inconscio, ma stanco com’era non poteva fare a meno di chiedere una tregua da quel trambusto.
-Torturarti? – Emma inclinò la testa, interrogativa. -Volevo solo parlare con te.
Federico sospirò, chiudendo nuovamente gli occhi. - E di cosa vuoi parlare?
-Di quello che è successo l’altra sera – Emma continuò ad accarezzargli il viso. -Però forse non è il momento giusto, non sapevo stessi male.
-Preferisco non parlare più di nulla, con te – disse lui. Se non avesse tenuto gli occhi chiusi altre lacrime gli avrebbero rigato il viso. -Vorrei solo che mi lasciassi in pace.
Emma si irrigidì di colpo, ma non scostò la mano dalla sua guancia. -Sei ingiusto.
-Ingiusto?
-Sì – confermò lei. -Non ho mai detto di non tenere a te, avevo solo bisogno di spazio e di tempo per pensare.
Federico rise, sopraffatto e triste. Quella conversazione era così reale che se non avesse saputo la verità, probabilmente ci sarebbe cascato di nuovo.
-Vorrei che tu sparissi – la pregò, questa volta guardandola negli occhi.
Emma lo guardò con un viso di pietra, senza esternare alcun tipo di sconvolgimento o esitazione per quelle parole dure celate dietro un tono disperato. Si chinò verso il suo viso e posò le labbra sulla sua fronte, in un lungo bacio silenzioso.
Federico chiuse gli occhi a quel contatto. Anche se sapeva che lei fosse irreale, il fatto non cancellava cosa provasse davvero. Amava una ragazza morta che aveva sempre immaginato.
-Va bene – sussurrò lei, vicinissima al suo viso. -Voglio solo che tu stia bene.
Emma si alzò dal letto con un po’ di esitazione, come se a dispetto di ciò che aveva dichiarato non volesse davvero andarsene via.
Neanche Federico voleva lasciare andare un così bel sogno in quel modo, ma non aveva altra scelta per raggiungere un po’ di pace mentale.
Chiuse gli occhi, arreso, e quando pochi secondi dopo li riaprì Emma era già sparita, forse calandosi giù dalla finestra, o forse definitivamente dalla sua testa.
 
L’Anemone rappresenta l'effimero e l'abbandono, un amore tradito una speranza mal riposta, viene regalato quando si vuole far notare a qualcuno di essere trascurati; soprattutto in amore, ma non solo, anche un amico può usare questo fiore per dimostrare il proprio sentirsi abbandonato.
 
*Fonte: www.grechigiardini.it

Buongiorno carissimi lettori! Ormai sto quasi finendo di scrivere la storia, mentre per quanto riguarda la pubblicazione dei capitoli credo che proseguiremo per tutto il mese di Maggio. Spero che la storia continui a piacervi: non esitate a darmi feedback di qualsiasi genere, ci tengo molto a sapere che cosa ne pensiate. 
A presto! 

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Capitolo 15
*** XV Magnolia ***


XV Magnolia
 
Una leggenda narra che una volta esisteva una sola magnolia. All'esterno era alta, forte e con pochi fiori; all'interno del tronco invece c'era la magnolia stellata, con tantissimi fiori bianchi profumati. La prima era il corpo, l'altra l'anima e fiorivano insieme, l'una nell'altra, dando serenità all'intero giardino. In un giorno di pioggia un'azalea gialla sfiorò l'albero, la magnolia non si accorse che era causa del vento, credette che quel tocco fosse legato ad un interesse che decise di contraccambiare e spinse sempre di più i fiori a sbocciare dal suo cuore stellato verso l'azalea.
La leggenda delle due Magnolie. La leggenda delle due Magnolie. La leggenda delle due Magnolie.
Ma l'azalea non nutriva nessun sentimento e con il passare del tempo l'albero di magnolia comincio a sentirsi sempre più triste finché il suo cuore si spezzò, separandosi dal corpo: così nacquero due alberi, la magnolia alta che tende i suoi rari fiori sui rami ricoperti di foglie verdi per mostrare la sua forza; e la magnolia stellata senza foglie, con i suoi fiori bianchi fragili some il suo cuore senza speranza. *
 
Quando quella mattina aprì gli occhi, Federico si sentiva una persona nuova. La febbre era definitivamente scesa e aveva ripreso le forze.
Con un nuovo vigore, decise di concedersi una doccia, così da lavare via il sudore e i pensieri che lo avevano attanagliato nel dormi-veglia costante dei due giorni precedenti.
Mentre l’acqua gli scorreva giù per il corpo, Federico decise di affrontare la sua giornata – o meglio, la vita da quel giorno in poi – rivestendosi nuovamente dell’apatia che aveva sempre usato come scudo. Si era sentito debole, fragile, aveva pianto come non faceva da troppo tempo, si era sentito spezzato: sapere che Emma fosse solo un’immagine proiettata dalla sua fervida immaginazione lo aveva ferito, distrutto quasi; tuttavia, lui non voleva più sentirsi debole di fronte alla verità, ai fatti, voleva reagire.
Incerto sul motivo per il quale fosse successo quel che era successo, decise che da quel momento in poi non gli sarebbe più importato. Tutto ciò che davvero desiderava era serenità, che niente lo turbasse più. Non avrebbe più consentito alla sua testa di fargli simili scherzi, non sarebbe stato più tanto fragile da pensare a Emma, da desiderarla. Semplicemente, lei non esisteva, lo aveva capito.
D’altronde, una parte di lui era persino convinta che Emma non si sarebbe più ripresentata: la notte prima l’aveva scacciata definitivamente.
Aveva messo un punto a quella storia, era il momento di andare avanti.
Con quelle nuove certezze nel cuore, scese al piano di sotto per concedersi una colazione abbondante.
-Tesoro, buongiorno! – disse Simona, vedendo il figlio fare il suo ingresso in cucina. Aveva ancora il tono apprensivo che le aveva sentito utilizzare il giorno prima.
-Ciao – disse lui, sbrigativo, versandosi una tazza di caffè.
-Come ti senti oggi? – proseguì sua madre, studiandogli con attenzione il volto.
Federico sapeva che era preoccupata. Del resto, neanche lui si immaginava di reagire così male.
Non si vergognava di quel che era successo, era pur sempre un essere umano con le sue debolezze, ma non voleva sentirsi sotto interrogatorio, o compatito.
-Bene, ti ringrazio – la liquidò.
Sapeva che quella risposta data con convinzione non fosse sufficiente a sedare definitivamente i dubbi della madre.
Simona, infatti, dopo averlo osservato mangiare il suo yogurt in silenzio, incalzò nuovamente la conversazione: -Ieri non facevi che ripetere di essere pazzo.
Federico guardò la madre per la prima volta da quando aveva fatto il suo ingresso nella stanza: aveva gli occhi cerchiati da occhiaie scure, un sorriso tirato, i capelli disordinati. Realizzò che probabilmente la donna aveva amorevolmente vegliato su di lui mentre stava male e quella consapevolezza gli impedì di darle una risposta lapidaria. Non voleva essere brusco o scortese.
Erano anni ormai che Federico tagliava fuori dalla sua vita la madre, punendola ripetutamente per le sue colpe. Non si era mai pentito, lo sdegno che le aveva sempre dimostrato riteneva che lei se lo fosse meritato, così come la sua indifferenza. L’aveva tagliata fuori dalla sua vita per ripagarla con la stessa moneta.
In quel momento, tuttavia, pensò che il senso di una fantasia come Emma ci fosse: lei gli aveva dato una piccola scossa per cambiare, per guardare gli occhi in modo nuovo, differente, come gli aveva detto Annamaria tempo prima.
Federico realizzò di essere pronto ad aprire la porta alla madre, dopo averla tenuta fuori dalla sua vita a lungo. Almeno Emma, dopotutto, gli aveva insegnato qualcosa.
Si alzò dalla sedia e la abbracciò.
Simona fu inizialmente rigida a quel gesto, più per la sorpresa che per altro. -Ma che ti prende – bisbigliò.
-Sto bene – fece lui con un tono dolce che non le aveva mai dedicato. -Grazie per esserti presa cura di me, mamma, ora sto bene.
La madre a quel punto ricambiò l’abbraccio con vigore, grata di ricevere un simile slancio fisico di affetto dopo anni di atteggiamento distaccato.
Federico sentiva che sua madre non fosse convinta di quel che le aveva detto, ma non insisté più. -Grazie – si limitò a dire.
Fu in quel momento che Giancarlo fece il suo ingresso nella stanza.
-Oddio ma che mi sono perso! – gracchiò con il suo vocione.
Simona e Federico risero all’unisono, sciogliendo l’abbraccio amorevole in cui si erano intrecciati.
-Ma va’, immagino siano segreti vostri – proseguì diplomaticamente l’uomo, come a voler preservare un momento di complicità tra madre e figlio. -Simona le posso piantare le Magnolie? Le metto vicino alla pianta di Gelsomino.
Giancarlo sventolò il grosso vaso marrone che teneva in mano senza sforzo sotto gli occhi attenti dell’ex-moglie.
-Ma certo – lo assecondò Simona con un sorriso, bevendo un sorso dalla sua tazza di caffè.
Federico, dal canto suo, prese il telefono in mano e si premurò di rispondere al messaggio che aveva ricevuto da parte di Annamaria.
-Quando stai bene fammelo sapere – recitava.
Mentre si apprestava a digitare una risposta, una vigorosa pacca si infranse tra le sue scapole, facendolo trasalire.
-Ti vedo in forma – scherzò Giancarlo, complice.
-Altroché, son pronto per aiutarti con quel cespuglio che vuoi piantare – confermò lui con un sorrisetto, poi digitò la risposta all’amica: -Sto benissimo.
-Nel pomeriggio sono da te – fu la celere risposta della bionda.
 
Annamaria iniziò a studiarlo indagatrice fin dal momento in cui le aprì la porta di casa.
-Come stai? – gli chiese subito, mentre percorrevano le scale verso il piano di sopra.
Aveva i capelli biondi spettinati ed era vestita a casaccio, segno che aveva avuto da fare prima di raggiungerlo.
-Una meraviglia – borbottò lui con una risatina. Sapeva che avere un atteggiamento scanzonato sicuramente contribuiva a fornire maggiore rassicurazione all’amica.
Tuttavia, la bionda non sembrava per nulla convinta. Una volta raggiunta la camera di Federico, scaraventò la pesante borsa in pelle sul suo letto ed iniziò a rovistare dentro.
-Ma che combini? – le chiese lui, chiudendosi la porta alle spalle.
Anna, in risposta, si voltò a guardarlo, a metà tra il curioso e il confuso. -Non mi venire a dire che non è successo niente, mica sono scema sai?
Aveva il viso candido stanco, un paio di occhiaie violacee sotto gli occhi.
Federico fece spallucce e si stravaccò sul letto, di fronte a lei. -Cosa ti vuoi sentire dire?
-Voglio che ti apri un po’- lo incoraggiò bonariamente, mettendosi comoda, in modo da poter avere un contatto visivo con lui. -Ho capito quello che è successo, sai?
Uno sbuffo seccato. - E allora perché vuoi sentirtelo ripetere?
Annamaria sembrava più che motivata a eviscerare la questione e ad esorcizzare la tristezza che gli vedeva addosso. Si era rivestita da sola di un compito che lui avrebbe voluto non avesse affatto; voleva solo starsene in pace.
-Perché so che stai soffrendo, non c’è bisogno che fai il gradasso con me.
-Non sto facendo proprio niente.
La bionda, stufa, lo zittì con un gesto perentorio della mano, come a voler scacciar via una mosca fastidiosa. Riprese a rovistare nella sua borsa color panna, tirando fuori un pesante libro di pelle marrone.
-Allora, io ci ho riflettuto un po’ su e ho fatto le mie ricerche.
Federico la studiò. Voleva stroncare subito quel discorso, ma Anna sembrava così motivata da non averne la forza. -Ricerche su cosa?
La bionda parve inizialmente timorosa all’idea di parlare, ma si fece coraggio: -Tu Emma l’hai vista, no? In carne ed ossa, intendo.
-Ma certo – borbottò lui con un groppo in gola. -Così credevo.
-Mica sei pazzo – lo rincuorò lei, facendogli una carezza sul braccio. Era come se Annamaria volesse fornire una spiegazione razionale a tutto quello che era successo, di modo che potesse usare la verità dei fatti per poter rincuorare l’amico.
-Che ne sai? – biascicò lui. -Magari lo sto diventando.
Anna insisté: -E ti sei immaginato una relazione con una persona che non esiste o, peggio, con un fantasma? Ti senti in un libro di Nicholas Sparks?
L’irrazionalità della cosa era evidente, non c’erano dubbi, ma lui era convinto di ciò che aveva visto e vissuto, così come era conscio di quanto Emma fosse estremamente sfuggente e vaga sulla sua vita, quasi come se non ce l’avesse affatto. Era difficile convincersi che lei non esistesse per una persona esterna ai fatti, ma più Federico ci pensava più lo riteneva plausibile. Più si sentiva confuso sul perché di tutto.
Emise un altro sbuffo, incerto su dove lei volesse arrivare con quella premessa. -Quindi?
In risposta, la ragazza gli sventolò sotto il naso il libro di pelle marrone, che aveva l’aria di essere piuttosto vecchio. -L’ho preso tra le cose del trasloco di quella casa – spiegò con timidezza.
Per la prima volta in quella giornata si sentì in vena di scoppiare in una fragorosa risata: -Vuoi dirmi che sei tornata da quella megera e hai rovistato senza farti vedere nella loro roba per prendere un libro?
Annamaria non lo guardò in viso nel rispondere, le guance tinte di rosso per l’evidente imbarazzo: aveva rubato e non voleva ammetterlo. La cosa più dolce era che lo aveva fatto per lui, aveva perseverato per farlo stare meglio.
-Innanzitutto, è un album – lo corresse con un bisbiglio. -E poi mica potevo lasciare le cose come stavano.
Federico perse un battito a quelle parole. Si sentì per la prima volta sopraffatto dall’affetto di Anna, ben voluto. Nessuno aveva mai fatto una cosa tanto tenera per lui e si sentì lusingato che lei ci tenesse a tal punto da spingersi a rubare.
Certamente anche lui aveva fatto molto per lei nelle settimane precedenti, ma vedeva nello sguardo di lei che non si trattava solo di riconoscenza, di un ricambio, ma che c’era del sincero interesse. Lei voleva farlo stare davvero meglio: anche solo il gesto dell’amica, lo riportava alla realtà con una maggiore serenità.
Le fece una carezza sul viso arrossato, spingendola dolcemente a guardarlo. -Grazie – le bisbigliò con un sorriso.
Annamaria, ancora imbarazzata, si fece ancor più rossa di prima, ma si sforzò di sorridere. -Di nulla – disse con la voce roca. A quel punto sfuggì al suo tocco e si rischiarò la voce, così da poter riprendere il loro discorso: -Insomma, mi sono detta che le possibilità che la Emma morta nipote della megera e la tua Emma fossero la stessa persona fossero infinitesimali, così ho preso questo per vedere qualche foto. Sono convinta che tra gli scatti di famiglia non c’è traccia della tua Emma. Così vedrai che non sono la stessa persona!
La bionda iniziò a sfogliare le pagine dell’album, pieno di foto di sconosciuti scattate nel giardino della casa ormai fatiscente. Un tempo, era stata bella, con un giardino verde e rigoglioso stracolmo di fiori, come era quello di casa Visconti.
Mentre studiavano insieme le vecchie fotografie, Federico si sentì nuovamente un groppo in gola. Certamente Annamaria aveva ragione a voler razionalizzare tutta quella faccenda, era normale volersi dare una spiegazione con la logica. Tuttavia, lui sapeva che quell’ennesima ricerca di spiegazioni lo avrebbe portato a realizzare quanto lui stesso si fosse spinto oltre i confini della razionalità.
-Questo dovrebbe essere il padre della megera – disse Anna, indicando la foto con un uomo anziano dagli enormi occhi verdi. Lo stesso verde che aveva già visto moltissime altre volte.
Man mano che andavano avanti a sfogliare le pagine, Federico si sentì sempre più sopraffatto dalla situazione. Stava vacillando, ma non voleva cedere nuovamente.
-Ecco! – si illuminò Annamaria, indicando una foto di gruppo piena di gente. -Può essere una di loro?
Federico studiò con attenzione i volti ritratti nell’immagine, ma nessuno era Emma. -No- scosse la testa, sempre con l’ansia addosso.
La bionda annuì soddisfatta, convinta di aver fogato i dubbi del suo amico. -Neanche questa immagino, vero? – disse, indicando un’altra foto.
Un tuffo al cuore. Stretta in un abbraccio all’anziano nonno, dietro ad uno sfondo di verde rigoglioso, c’era proprio lei. Emma.
Avrebbe riconosciuto le lentiggini e gli occhi verdi ovunque, tra milioni. Era lei, a conferma delle sue più intime paure: la ragazza morta di cui si era innamorato, con uno dei suoi abiti svolazzanti, i capelli acconciati in modo buffo, le labbra di fragola.
Federico si sforzò di apparire imperturbabile anche se dentro si sentiva esplodere come un vulcano. -No – scosse la testa. -Non è neanche lei.
Annamaria a quel punto rise vittoriosa, prendendogli entrambe le mani. -Allora non era lei, visto? C’era stato un malinteso!
Deglutì, ma si sforzò di stirare i lati della bocca in un sorriso. -Avevi ragione – confermò, cercando di non esitare ulteriormente sull’immagine davanti a loro.
-Non c’era più nessuno da esaminare – disse la bionda, sfogliando ancora l’album di fotografie: da quella pagina in poi c’erano una miriade di fotografie che ritraevano Emma con il nonno nelle situazioni più disparate. In giardino a piantare fiori sporchi di terra, in cucina a sorseggiare un caffè, un semplice selfie. Alla fine, Anna chiuse l’album con un tonfo: -L’ho rivisto diverse volte, a parte quelli che ti ho mostrato non c’è più nessuno – gli sorrise.
-Ottimo – commentò lui, neutro.
Annamaria gli prese di nuovo una mano. -Tu non sei pazzo e hai frequentato una persona perfettamente normale con la quale puoi avere una relazione altrettanto normale.
-Mi ha comunque lasciato – disse lui istintivamente. Sperava che rimarcando quell’aspetto, Annamaria smettesse di parlare di lei.
La verità era che lui era impazzito, eccome, ma non sapeva spiegarsi perché.
-Oh – disse la bionda, triste. -Vero.
-Ed io non credo di volerla rivedere.
-No? – fece lei, confusa. -Ma se eri così preso!
Federico scosse la testa e cercò di fare in modo di apparire convincente: -No, tutta questa storia credo che mi abbia fatto capire quanto lei mi abbia scombussolato. Non è un’influenza positiva nella mia vita se mi ha fatto stare così male.
Annamaria lo fissò intensamente, pungolandosi il mento con un dito. Lei stessa, qualche settimana prima, gli aveva detto che frequentare Emma lo aveva maggiormente aperto nei confronti del mondo, motivo per il quale lei non era d’accordo con ciò che affermava lui.
Federico sapeva, però, che lei non avrebbe ulteriormente insistito di fronte ad una bugia detta con quella convinzione.
-Come vuoi – fece lei, riponendo l’oggetto rubato nella sua borsa. -Sono contenta solo di aver chiarito la faccenda.
-Ti offro una birra come ricompensa? – disse lui con un sorriso, sentendo il bisogno di fare qualcosa di normale dopo quel continuo trambusto emotivo che aveva subito. Non voleva più pensare a quella faccenda, voleva dimenticarla. Sperava che stare con Annamaria sortisse proprio quell’effetto.
-Sì! – annuì lei, afferrando la borsa, pronta ad andare.
 
Alla fine, una semplice birra si era trasformata in una bevuta di tutto rispetto: erano rimasti seduti al Bangladesh per ore, scherzando sugli argomenti più diversi, leggeri come non lo erano mai stati.
L’obiettivo di Federico era infatti scacciare via la pesantezza che si era sentito addosso, anche solo per una sera, approfittando della compagnia di Annamaria. Quest’ultima, dal canto suo, pareva assecondare in tutto e per tutto le intenzioni dell’amico, ignara della bugia che lui le aveva raccontato per rassicurarla.
-Oddio, guarda – bisbigliò Annamaria, indicando un punto alle spalle di lui che lei aveva perfettamente sott’occhio.
Quando Federico si voltò, notò che il locale si stava riempiendo sempre di più di persone e, tra queste, c’era anche Marco. Il biondo era in compagnia di un gruppo di ragazzi con cui non lo aveva mai visto e di altrettante ragazze. Delle gemelle non c’era più traccia, probabilmente lo avevano stancato.
-Ignoralo – disse Federico, voltandosi nuovamente verso l’amica. -Non si merita un briciolo della tua attenzione.
Annamaria annuì, un po’ turbata. -Presumo di sì.
Sapeva che l’amica era troppo sensibile per restare impassibile davanti a Marco e alla sua faccia da schiaffi, ma non era in suo potere entrare nella sua testa. L’unica cosa che poteva fare era esserle di supporto.
-Se vuoi andiamo via – le disse, dopo aver notato che la musica del locale si era fatta più alta, al punto da essere costretto a urlare per farsi sentire.
Alcuni ragazzi avevano preso a ballare nello spazio centrale, sgomberato da sedie e tavoli dallo stesso staff del bar.
La bionda scosse la testa, ma senza troppa motivazione. -Se ce ne andassimo avrebbe vinto lui – disse, anche lei aumentando il volume della voce per potersi fare sentire. -Marco ha sbagliato, io non ho vergogna a mostrarmi in giro, lui dovrebbe!
Federico annuì soddisfatto. -Hai ragione!
-Lo so – sorrise lei, riacquistando un po’ di calma. Bevve d’un fiato l’ultimo sorso di birra che le era rimasto e si alzò in piedi, tendendogli la mano: -Balliamo anche noi!
Di solito, Federico non era il tipo di persona che si gettava nella mischia per divertirsi. Tuttavia, in quel momento, sapeva che accettare l’invito di Annamaria significava darle supporto in una situazione che la metteva in difficoltà e, allo stesso tempo, dimostrare qualcosa a Marco, così le prese la mano.
La bionda lo guidò in mezzo alla calca e iniziarono anche loro a ballare sul ritmo della musica ormai assordante. Federico le sorrise complice, perlustrando la stanza con la coda dell’occhio alla ricerca di Marco.
Lo adocchiò alla sua sinistra: il biondo li guardava con un certo imbarazzo, a testimonianza del fatto che la loro azione aveva sortito esattamente l’effetto desiderato. Del resto, era come diceva Annamaria, lui doveva sentirsi in difficoltà nell’incontrarla, non viceversa.
Soddisfatto, Federico si lasciò andare maggiormente al ritmo della musica, ridendo insieme all’amica. I capelli biondi di lei ondeggiavano, rilasciando un fresco aroma di albicocca, mentre gli occhi le si illuminavano nuovamente per l’allegria e la leggerezza del momento.
Annamaria gli mise le braccia attorno al collo giocosamente e lui rise di rimando, osservando il modo in cui la fronte le si imperlava di sudore. Si rese conto con un certo stupore di trovarla bella: lo aveva sempre pensato, anche quando andavano a letto insieme, ma non si era mai trovato ad indugiare sul suo viso. Probabilmente, la complicità di quel momento, unita agli eventi che avevano rafforzato la loro fiducia reciproca, lo avevano portato a guardarla in modo diverso.
Federico pensò che, con il senno di poi, tutta la storia di Emma gli era servita a qualcosa: con sua madre, i suoi genitori, con la sorella… e con Annamaria.
Mentre realizzava quel pensiero, scorse alle spalle della bionda un’acconciatura sbarazzina e un paio di enormi occhi verdi su un viso punteggiato di lentiggini. Emma, sopracciglia folte aggrottate e nasone storto, lo guardava con sospetto, totalmente estranea all’atmosfera festaiola della folla.
Federico perse un battito nel vederla: pensava che l’immagine di lei non si sarebbe più palesata. Invece, a contraddire le sue convinzioni, il suo spettro era proprio lì a fissarlo corrucciata mentre lui si divertiva con Annamaria.
Il cuore prese a battergli fortissimo al punto che la sua bionda amica se ne accorse.
-Che succede? – gli disse, vicinissima all’orecchio.
Federico se la ritrovò ad un palmo dal naso, lo sguardo di lei confuso e preoccupato.
Nella confusione dei pensieri che lo attanagliavano e della situazione stessa, lui fece l’unica cosa che gli pareva sensata tra un mare di molte altre: baciò Annamaria.
 
Si racconta nelle cronache botaniche dell’epoca che per diversi anni dopo la sua importazione in Europa essa venne coltivata in serra perché considerata una pianta molto delicata. Solo dopo qualche tempo un intrepido botanico decise di piantarlo all’esterno: la sua pianta non solo crebbe forte e maestosa, ma visse per oltre 100 anni. Nel linguaggio dei fiori, la magnolia è simbolo di dignità e perseveranza.
 
*Fonte: www.cosamimetto.net

Buongiorno miei cari lettori! In questi giorni sto finendo di scrivere questa storia con molta nostalgia: non mi aspettavo potesse farmi così male finirla dopo tanti anni che era in cantiere. Credo che ogni storia che scriviamo lasci qualcosa, nel bene o nel male, e questa in particolare mi ha arricchita molto e resa molto fiera di chi sono e di cosa ho fatto nella vita. 
Ringrazio chiunque si sia spinto fino alla lettura di questo capitolo, mi auguro che il mio impegno sia da voi apprezzato. Aspetto come sempre vostri feedback: vedere ipotesi sulla storia mi riempe di orgoglio. A presto! 

 

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Capitolo 16
*** XVI Bocca di Leone ***


XVI Bocca di Leone
 
La forma dei fiori estremamente particolare ricorda una bocca leonina. Anche il suo nome scientifico, infatti, fa riferimento a questa caratteristica, letteralmente dal greco” simile ad un muso”.
È una pianta che appartiene al vissuto di tutti noi, soprattutto perché cresce spontanea abbarbicata ai muri, ai tetti delle case ed alle scarpate rocciose. Tra Maggio e Giugno può capitare di scorgere il fiore, ergersi fiero nei posti più impensati, quasi volesse insegnarci che proprio nulla è impossibile.
Possiede diverse proprietà terapeutiche. Gli antichi romani estraevano un olio dai semi, utilizzato per nutrire la pelle delle signore; oppure la pianta si applicava sul corpo per un effetto emolliente.
Nel Medioevo le fanciulle usavano ornarsi i capelli con questi fiori per comunicare ad ogni corteggiatore di aver scelto il proprio sposo. *
 
Annamaria rimase rigida per i primi secondi di contatto tra le loro labbra, poi si sciolse, e ricambiò timidamente. Chiuse gli occhi e lo strinse, così da annullare la distanza tra i loro corpi.
Sebbene fossero stati a letto insieme molte volte, non si erano mai baciati. Tra di loro c’era sempre stato un tacito accordo per il quale quel gesto così sentimentale dovesse essere escluso dai loro incontri.
Federico voleva bene ad Annamaria, ma si rese conto di non provare nulla durante quel contatto. Per un attimo, poco prima di tuffarsi su di lei, era stato convinto che la risoluzione di quell’enigma fosse proprio nella bionda. Pensava che Emma, dopotutto, fosse stata una guida che lo aveva condotto dalla vera persona a cui i suoi sentimenti dovevano essere dedicati, ovvero Annamaria. Niente di più sbagliato.
I fuochi d’artificio allo stomaco che aveva sempre provato nel baciare Emma non c’erano, non c’era trasporto. Al contrario, solo imbarazzo.
Scrutò nuovamente alle spalle della bionda e notò che l’immagina di Emma era nuovamente sparita, forse scacciata proprio dalla decisione che aveva preso. Se non altro, la sua iniziativa gli era stata utile a sbarazzarsi di quella nuova visione.
Annamaria si rese conto di quanto Federico fosse poco preso dal loro timido bacio e si scostò, sciogliendo l’abbraccio in cui lo aveva stretto.
Lei scosse la testa in maniera interrogativa, il viso lucido per il sudore.
Tuttavia, al posto di attendere una risposta, lo prese per mano e lo iniziò a guidare tra la matassa di corpi in cui erano incastrati, verso l’uscita del locale.
Appena varcarono la porta, l’aria fredda punse il viso di entrambi in maniera rigida ma deliziosa, un ristoro perfetto dal calore che c’era all’interno.
Federico respirò a pieni polmoni l’aria della sera e si sentì subito meglio.
-Perché? – chiese timidamente Annamaria, una volta raggiunto uno spazio un po’ più appartato, lontano dai fumatori e dalle coppiette intente alle effusioni. Gli lasciò andare la mano, come colta da un’improvvisa scossa.
Avrebbe potuto accampare delle scuse, mentire per giustificare quel gesto stupido. Tuttavia, non voleva dire una bugia all’amica, non pensava se lo meritasse. Allo stesso tempo, però, non era neanche in grado di dirle la verità. Non poteva certo dirle di aver provato a scacciare via Emma baciandola, o che gli fosse balenata in testa l’idea che Annamaria fosse la persona a cui era destinato proprio alla luce degli eventi che si erano snodati dalla conoscenza di Emma in poi.
Niente sembrava adeguato, come risposta.
-Non lo so – disse alla fine, maledicendosi per quel gesto impulsivo e sconsiderato a cui si era lasciato andare.
La bionda, tuttavia, non pareva essere ferita o sconvolta, ma solo sinceramente curiosa di quello che era appena successo tra loro, e allo stesso tempo comprensiva per la confusione di lui.
Gli fece una carezza sul braccio. -Io credo di saperlo.
-Ah sì? – biascicò confusamente lui, asciugandosi la fronte sudata.
Annamaria annuì. -Io non sono la persona giusta per rimpiazzarla.
Federico si sentì punto in pieno viso da quella affermazione, ma non poté in alcun modo dissentire. -Non volevo farlo… - cercò di giustificarsi.
-Non importa questo – proseguì lei con lo stesso tono materno e comprensivo. -Anche se volevi farlo, io non credo sia il momento giusto. Tu sei cotto di Emma, lo sai anche tu.
Lo sapeva, ma aveva accantonato la questione, conscio di quanto fosse irrealistico qualunque cosa avesse vissuto con lei. Annamaria, tuttavia, si era convinta di tutt’altro e non poteva contraddirla.
-Mi ha lasciato – si difese Federico, non sapendo in quale altro modo sedare la questione.
-Sì, ma c’è qualcosa di irrisolto tra di voi – insisté la ragazza. -Dovresti parlarle.
Anche in quel caso, non poteva ammettere che quell’idea fosse fuori questione, dal momento che Emma non esisteva in nessun altro posto che non fossero i suoi pensieri. Parlare con lei non era qualcosa di risolutivo, al contrario non avrebbe fatto altro che alimentare sentimenti che voleva smettere di provare.
Non era più disposto ad andare dietro ad un sogno.
-Anche se non vuoi farlo – riprese l’amica. -Non voglio che mi tiri in mezzo alla questione: non sono la persona da usare per dimenticarti di lei, Federico.
Non c’era alcun tipo di severità nella voce di lei. Era il discorso di una persona matura che sapeva perfettamente che cosa desiderava e che cosa non voleva. La faccenda con Marco, probabilmente, aveva innescato in Annamaria un processo di crescita repentina; in poco, era diventata una persona nuova, più sicura di sé.
Federico non poté fare altro che darle ragione, in tutto e per tutto: -Scusa.
Annamaria rise. -Non ti scusare, non c’è bisogno. So che mi vuoi bene, me lo hai dimostrato, quello che è successo non cambierà nulla.
Lui annuì, la bocca dal sapore amaro. Non sapeva cos’altro aggiungere.
-Ora vado a casa – disse Anna con un sorriso sereno. -Ci vediamo domani?
-Sì – ebbe la forza di dire. -A domani!
Incapace di dire altro, la lasciò andare. Rimase imbambolato a fissare il nulla, incapace persino di riservarle la cortesia di offrirsi di riaccompagnarla.
-Quindi che fate, ora, coppia fissa? – sentì la voce di Marco alle sue spalle, poco dopo.
Annamaria ormai era abbastanza lontana da non sentirlo e Federico desiderava di essere altrettanto distante, pur di non vederlo o sentirlo parlare.
Il biondo, alle sue spalle, indossava sempre la sua maschera da mascalzone scanzonato, un sorrisetto ad incurvargli le labbra, il setto nasale deviato dal pugno che gli aveva mollato sulla faccia lui stesso.
Sebbene l’atteggiamento fosse spavaldo, tuttavia, il tono di voce utilizzato riservava dell’astio.
Federico lo squadrò brevemente, ma non aveva voglia di dirgli nulla, quindi fece per andarsene.
-Che fai, non mi saluti? – insisté il biondo, richiamando la sua attenzione.
-Direi proprio di no – lo liquidò.
-Per difendere la tua ragazza hai deciso di scaricarmi?
Non sentì alcun impulso violento, anche se la frase era volutamente provocatrice. Aveva già dato a Marco quello che si meritava e non aveva intenzione di perdere tempo con lui, non voleva riservargli un briciolo della sua attenzione.
-Ho deciso di scaricarti perché sei uno stronzo – commentò, gelido.
Marco non demorse. -Ma lo sai che quella puttana mi ha denunciato? I miei genitori mi stavano per fare a pezzi per questa cosa!
Il fatto che l’ex-amico continuasse a riferirsi ad Annamaria usando simili appellativi fece intendere a Federico che non aveva imparato un bel nulla da quella storia, nessuna lezione.
-Peccato che tu sia ancora qui.
Marco non si scompose. -Quindi la difendi. Credevo non ti piacesse neanche.
Federico finse di ponderarci su, picchiettandosi il mento con un dito. -Credo che fossi tu quello a non piacermi.
-Che stronzo.
-Dico la verità – proseguì. -Sei spregevole, una persona orrenda, non voglio più avere niente a che fare con uno come te. Sono meglio di così.
Anche dopo averlo attaccato verbalmente con tanta severità, Marco non reagì, soppesando con attenzione quanto affermato dall’amico. Federico non sperava di aver innescato un processo di autocritica o di redenzione, ma per una volta era fiero di essere stato in grado di dire quello che veramente pensava sul biondo.
Se ne andò con fierezza, lasciandosi alle spalle l’amicizia più malsana che la vita gli aveva riservato, senza alcun tipo di pentimento neanche per essere stato violento con lui, verbalmente e fisicamente.
Nella strada verso casa, non si sentiva neanche sé stesso. Era come osservare la sua vita vissuta da qualcun altro mentre lui stava lì, spettatore di scelte che non gli appartenevano. Le cose erano così diverse di recente, la famiglia, l’amicizia, l’amore… Tutto aveva assunto un significato nuovo e differente. La situazione non era peggio di prima, anzi, ma non si sentiva per nulla felice.
Quasi come se avesse evocato il motivo della sua infelicità, Emma gli si parò di fianco improvvisamente, come se fino a quel momento lo avesse seguito.
Federico trasalì e si sentì di nuovo il cuore perdere un battito. Emma era sempre dolorosamente bella ai suoi occhi, con le sue lentiggini e i suoi occhi verdi, buffa nelle sue acconciature strampalate e con i suoi vestiti ampi. Bella e irreale.
Si fermarono entrambi sul posto, l’uno di fronte all’altra.
-Hai niente da dirmi? – borbottò lei, spostando nuovamente l’attenzione su di sé. Aveva un’espressione che non le aveva mai visto e che non le si addiceva, con le folte sopracciglia aggrottate e le labbra rosse arricciate. Sembrava infastidita. 
Federico si passò le mani sul viso stancamente. -Credevo di averti detto che volevo mi lasciassi in pace.  
Emma inclinò la testa di lato per cercare il suo sguardo e sorrise, ma senza allegria. -Me lo hai detto con la fronte che scottava per la febbre, credevi che la cosa finisse lì?
-Credevo che per una volta mi ascoltassi.
-Ma davvero ti va bene lasciare la situazione così com’è? – insisté lei, gli occhi enormi e scintillanti sotto le luci della sera. Fece qualche passo verso di lui.
-Ma che situazione? – rise tra sé e sé, sopraffatto e amareggiato. Non c’era niente di concreto tra di loro, niente di cui discutere, semplicemente perché lei non era reale come lui.
-Fai pure il sarcastico? – borbottò lei affranta. -Mi punisci perché ho dato di matto?
Lui capì che si riferiva a quello che era successo tra di loro quando le aveva detto di amarla. Sembravano passati secoli da quel momento così intimo, nel quale si era sentito pronto ad aprirsi in maniera limpida con lei.
Emma non vedendolo reagire proseguì: -Te l’ho detto, avevo bisogno di spazio per pensare. È che… non pensavo di arrivare fino a questo punto con te.
Lo prese per mano e Federico si sentì di nuovo morire dentro a quel contatto.
-Io provo qualcosa per te – disse lei, carezzandogli la guancia spinosa per la barba.
Per un attimo si dimenticò di avere a che fare con uno spettro. -Ed io ti amo – le ripeté come l’ultima volta, in un bisbiglio. Non aveva la stessa convinzione, la stessa sicurezza. Tutto era crollato come un fragile castello di carte.
-Allora perché hai baciato Annamaria, poco fa? – sussurrò lei di rimando, dopo avergli studiato il volto per qualche istante.
Emma non covava alcun tipo di rabbia o risentimento, voleva semplicemente capire il motivo che lo avesse spinto a farlo.
-Non so perché l’ho fatto – disse sinceramente. Emma non pareva soddisfatta della risposta, allora proseguì: -Io non voglio giustificarmi di questo con te.
Lei smise di accarezzargli il viso, ma non gli lasciò andare la mano. -Non voglio che ti giustifichi, voglio capire perché dici di amarmi e poi ti butti tra le braccia di un’altra al primo problema che affrontiamo.
A quel punto fu lui ad interrompere il contatto. Non voleva affrontare discorsi da coppia con una persona irreale.
La rabbia iniziò a ribollirgli dentro, mista alla confusione, all’esasperazione. Aveva sopportato troppo e per troppi giorni, senza la possibilità di sfogarsi con nessuno. A chi avrebbe mai potuto dire che era innamorato di un fantasma?
-Emma perché mi tormenti?
Lei parve sorpresa di sentirselo dire: -Ti tormento? Perché continui a dirlo?
-Sì, mi tormenti! Ti sei infilata nella mia testa, appari quando ti fa più comodo per poi sparire per giorni, mi fai innamorare di te senza rendere chiaro chi sei veramente! Lasciami in pace, ti prego, torna da dove sei venuta, smettila di tormentarmi! – gli uscì rabbiosamente. -Sto diventando pazzo!
Si accorse di stare piangendo solo quando lei, coraggiosamente, gli sfiorò di nuovo il viso per raccogliere le lacrime ai lati delle guance, mentre con l’altro braccio gli cingeva i fianchi in un timido abbraccio.
-Mi fai paura Federico, che ti prende? – gli sussurrò dolcemente, baciandogli una guancia. Aveva un tono rassicurante, voleva solo calmarlo.
-Sto diventando pazzo – ripeté lui, sconsolato.
-Perché dici questo?
-Perché io ti amo… ma tu sei morta.
A quel punto Emma si irrigidì. -Io sono cosa?
Lei si scostò da lui per potergli studiare il viso con maggiore attenzione. Federico era sconvolto, si sentiva il corpo pesante, ma anche Emma non sembrava essere in sé: aveva di nuovo le sopracciglia aggrottate e lo sguardo torvo carico di confusione.
-Credi che io sia morta?
Federico si sentiva stupido, ma rispose: -Lo so per certo.
-Come sei arrivato a questa conclusione? – lo incalzò lei. Sembrava curiosa. -Con chi stai parlando se sono morta, con un fantasma?
Lui non rispose, amareggiato come non mai dalla situazione creatasi.
Emma, a quel punto, fece l’ultima cosa che si aspettava: gli buttò le braccia al collo e lo baciò. Fu da subito un contatto intimo, la lingua di lei ad insinuarsi nella bocca di lui, mentre Federico la stringeva a sé beandosi del calore che emanava.
Gli prese il viso tra le mani, poi gli carezzò il collo, le spalle, le braccia, affondando le dita nella pelle di lui con più bramosia del solito. Gli morse il labbro inferiore con così tanta foga che Federico si sentì il sapore ferroso del sangue in bocca, ma questo non bastò a farlo staccare da lei.
-Se non fossi vera, un fantasma, potrei mai baciarti così? – ansimò Emma sulla bocca di lui, le guance rosse per il bacio. Si scostò quel tanto che bastava per dirglielo e lo baciò ancora, più dolcemente, più lentamente.
Federico la abbracciò con maggiore tenerezza, come se non volesse più lasciarla andare.
Nuovamente non si accorse quando le lacrime iniziarono a sgorgare, ma in un attimo si ritrovò con le guance umide e il sapore salato del suo pianto nella bocca di lei.
Emma gli prese il viso tra le mani e lo guardò.
-Guardami bene – gli disse dolcemente, come se stesse parlando ad un bambino spaventato. -Sono reale, Federico. Chi ti ha messo in testa un’idea simile?
Lui la baciò un’ultima volta sulle labbra bollenti, per poi scostarsi quel tanto che gli bastava per guardarle il viso, ma non troppo da non sentire il calore della sua pelle.
-Siamo sempre soli quando ci vediamo…- borbottò lui titubante, mettendo davanti tutti gli indizi che avevano alimentato quella sua ipotesi.
-È una coincidenza – rispose Emma, carezzandogli il viso.
-Nessuno a parte me ti ha mai vista.
-Tua sorella?
-Non si ricorda.
Emma sorrise. -È piccola, Federico, magari le sarò sfuggita dalla mente.
Federico continuava a non essere convinto, nonostante tutto: -Appari e sparisci in un soffio.
-L’abitudine – ridacchiò lei, vaga.
-L’abitudine a cosa?
-È complicato.
Trovò le spiegazioni alle sue domande del tutto insoddisfacenti. Emma sembrava volerlo rassicurare, ma allo stesso tempo non voleva esporsi più di quanto non avesse già fatto, ovvero molto poco, dopotutto.
Federico si sentì sciocco ad aver fatto quella scenata, quasi si vergognò, ma prima ancora di lasciarsi andare a quelle emozioni si aggrappò all’unica evidenza che lo aveva portato a realizzare che lei fosse morta, ipotesi poi alimentata da tutti gli altri indizi.
-Tua zia ha detto che sei morta.
-Chi? – borbottò Emma, come se non avesse registrato correttamente l’informazione.
-Tua zia – ripeté lui. -Sono stato a casa tua.
A quel punto l’umore, il tono e l’espressione di Emma subirono un brusco cambiamento: -Cosa hai fatto? – chiese retoricamente, quasi in un ringhio. Non l’aveva mai vista arrabbiata.
Federico, più volenteroso di risposte che di giustificarsi, la incalzò: -Perché dice che sei morta?
-Perché sei stato a casa mia? Perché hai parlato con lei? – borbottò lei di rimando. Le guance le si tinsero nuovamente di rosso, ma per il fastidio e non per l’ardore di qualche attimo prima, quando lo aveva baciato.
-Sparisci sempre! Che cosa avrei dovuto fare?!
-Lasciarmi il mio spazio! – alzò la voce, risultando quasi stridula alle orecchie di lui. -Non dovevi ficcanasare, dovevi lasciarmi il mio tempo!
-Se lo avessi fatto non ci saremmo più visti! – insisté lui. Non riteneva di essere nel torto, tutto quello che aveva fatto era cercarla, desiderarla, mentre lei sembrava fatta di fumo, difficilmente afferrabile, sfuggente.
Emma strinse i pugni ai lati dei fianchi. -Sono io che ti ho cercato adesso! Cosa credi, che non mi importi nulla?
Federico non lo pensava, in realtà, ma nel bel mezzo della discussione non riuscì a processare i fatti e i sentimenti con la giusta oggettività. Era arrabbiato anche lui, così come lo era lei.
-Mi hai sempre tagliato fuori da tutto quello che ti riguarda, perché dovrei pensare che ti importi?
Lei gli scoccò un’occhiataccia. -Me ne vado!
-Te ne vai? – ripeté lui, scontrosamente. -Ma certo, che cosa mi aspettavo, che per una volta potessi dire le cose con chiarezza?
-Non dovevi ficcanasare! – urlò lei di nuovo, già a qualche passo di distanza.
Federico la guardò allontanarsi furente. -Ma certo, scappa pure dalle conversazioni che ritieni sconvenienti!
Emma non fece neanche un passo indietro e non gli rispose: marciò orgogliosamente verso una meta non definita, sparendo nel buio della sera.
Ancora incendiato dalla rabbia, Federico decise di rincasare, ricominciando a percorrere il vialetto contornato da bocche di leone che lo avrebbe riportato fino a casa sua.
Passò davanti ad una villetta ben illuminata dove un anziano con il bastone sembrava infastidito ed in attesa proprio del suo passaggio.
-La prossima volta che tu e la tua ragazza litigate, fatelo lontano da casa mia! – sbraitò l’uomo, anche lui furente. Agitò all’aria il suo bastone di legno, come il direttore di un’immaginaria orchestra, per poi chiudere la porta di casa con un tonfo esageratamente forte.
Federico rimase impietrito per qualche istante.
Se non altro da quella serata aveva appreso una verità non trascurabile: Emma era tutt’altro che morta.
 
Il nome scientifico della Bocca di Leone, Antirrhinum deriva dalle due parole greche anti, traducibile con “simile” e rhin la cui traduzione è “muso”. Il significato di questo fiore è quindi “Simile a un muso”. Questo forse in relazione al fatto che il fiore, specialmente se pressato alla base, ricorda la bocca di un leone o, come vogliono gli anglofoni, di un drago. La Bocca di Leone simboleggia il disinteresse, l’indifferenza e il capriccio, per via del fatto che le ragazze nel medioevo usavano adornarsene il capo per rifiutare corteggiatori insistenti.
La tradizione lo considera da sempre il fiore del capriccio; nel medioevo, infatti, le ragazze erano solite ornarsi i capelli con questi fiori per rifiutare i corteggiatori non desiderati. Per questo la valenza generalmente riconosciuta alla bocca di leone è l'indifferenza ed il disinteresse.
[www.giardinaggio.it]
 
*Fonte: www.amicofiore.it

Buonasera a tutt*! Oggi ho poche parole da spendere se non quelle per rinnovare i ringraziamenti. 
La storia l'ho conclusa circa una settimana fa e ora mi sto dedicando alla revisione dei capitoli non ancora pubblicati. 
Spero che restiate fino alla fine!
A giovedì! 

 

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Capitolo 17
*** XVII Gardenia ***


XVII Gardenia
 
I cinesi la chiamavano zhi-zi e la coltivavano da secoli. Con viaggi complicati, che comprendono una tappa nella colonia del Capo in Sud Africa, nel 1754 la varietà a fiori doppi arrivò in Inghilterra e nel 1758 fiorì per la prima volta nella serra del botanico Richard Warner (ca. 1711-1775). Con le lussureggianti foglie verde scuro e i candidi fiori stradoppi dal pervasivo profumo, divenne l'idolo del momento e attorno alla sua classificazione e denominazione scoppiò una disputa botanica.
Philip Miller, il cocciuto capo giardiniere del Chelsea Physic Garden, pensò si trattasse di un gelsomino, e la battezzò Jasminum capense, ovvero "gelsomino del Capo di Buona Speranza". *
 
-Dovresti dormire di più – disse Simona, continuando a dedicare la sua attenzione al ricamo che aveva iniziato.
Lo aveva pensato fin dal primo momento in cui gli aveva osservato il viso, indugiando sui cerchi scuri sotto i suoi occhi, ma aveva atteso prima di dirglielo. Federico aveva sbadigliato vistosamente per tre volte prima di innescare la raccomandazione tipicamente materna.
-Di solito lo faccio – rispose lui con un sorriso, continuando a dedicarsi al suo disegno. Non si sentì per nulla infastidito dall’opinione della madre, ormai aveva adottato tutt’altro atteggiamento rispetto alla donna: aveva deciso di essere più aperto, accomodante.
Era un pomeriggio tranquillo, con un clima fresco e il sole a illuminare il cielo limpido; l’ideale da passare in giardino, sul dondolo.
Quella notte Federico non era riuscito a chiudere occhio neanche per un istante. Una volta rincasato dopo la litigata con Emma, aveva svegliato il padre per potergli porre domande circa la zia megera di Emma, guadagnandosi come risposta che la donna si chiamasse Patrizia Vitale.
Giancarlo conosceva la famiglia: sapeva dell’anziano nonno morto, aveva conosciuto Patrizia da ragazza, ma di Emma non sapeva niente.
-Patrizia da piccola era molto timida, la prendevano tutti in giro per quanto fosse riservata, credo che con gli anni si sia incattivita proprio per questo – aveva detto Giancarlo in proposito, intontito ancora dal sonno. -Aveva un fratello, ma credo sia morto in un incidente stradale, almeno quindici anni fa. La vita a volte è parecchio ingiusta.
Federico captò quella manciata di informazioni senza però riuscire a darsi un quadro preciso della situazione, senza riuscirsi a spiegare per quale motivo Emma fosse così vaga, o perché la zia la considerasse morta quando invece lei era viva e vegeta.
-Ma perché ti interessa tanto? – aveva borbottato Giancarlo con uno sbadiglio all’ennesima carrellata di domande del figlio. Il padre era stato abbastanza collaborativo da non sbottargli contro, quando lo aveva svegliato, ma quando aveva visto che l’interrogatorio pareva essere senza fine, si era indispettito.
Non volendo sbilanciarsi a fare il nome di Emma, Federico aveva desistito, bollando la sua indagine come infruttuosa. Non c’era modo di sapere le cose senza interpellare la diretta interessata, a quanto pareva.
Aveva passato le prime ore della notte ad arrovellarsi su dove fosse lei, su dove dormisse, se fosse al sicuro, sul perché non volesse aprirsi con lui, sul perché fosse tutto così complicato per una volta che si era innamorato.
Non trovava pace né risposta a nessuna delle sue domande.
-È reale? – chiese Simona, strappandolo da quei pensieri.
Si era sporta in direzione del suo blocco da disegno, nel quale c’era l’ennesima rappresentazione realistica di Emma su uno sfondo di fiori pallidi, gardenie.
Federico sorrise, sicuro per una volta sulla risposta: -Sì.
-È la tua ragazza? – proseguì Simona, studiando sempre il disegno con curiosità.
A quella domanda Federico non sapeva rispondere con esattezza, ma avrebbe tanto voluto poter dire di sì, si rese conto. -Più o meno sì.
-Più o meno?
-Le donne sono complicate – borbottò.
Non aveva mai parlato di nulla di così intimo con Simona, era la prima volta. Era come se le stesse fornendo una chance per comportarsi da madre.
Lei, dal canto suo, sembrava felice di poter intrattenere una conversazione un po’ più profonda e personale con il figlio. Si dimostrò all’altezza della situazione come Federico non pensava potesse essere.
-Cosa è successo? – gli domandò, carezzandogli la nuca con fare materno e affettuoso, come a volerlo incoraggiare ad aprirsi.
Federico, tuttavia, aveva già stabilito di volerlo fare, a prescindere da tutto: -Non credo che lei sia disposta a raccontarmi tutto.
-Nel senso che ti mente? – Simona pareva presa dalla conversazione.
-Nel senso che omette delle cose della sua vita – spiegò lui con un’alzata di spalle rassegnata.
Simona, meditabonda, prese a battersi l’indice sul labbro inferiore, ormai del tutto disinteressata al ricamo su cui prima stava lavorando. Evidentemente, aspettava di poter intavolare una conversazione con il figlio come si aspetta l’occasione di una vita.
-E ti sei chiesto perché? – fece la madre, dopo averci pensato su.
Federico in effetti non si era mai domandato veramente il motivo di tanto mistero. Scosse la testa, un po’ a disagio per la sua disattenzione.
-Magari non ci tiene abbastanza a me – ipotizzò, svilito.
Simona proseguì, come se stesse ragionando ad alta voce: - O magari lei è davvero in difficoltà a dirti certe cose, non puoi saperlo…
La madre si era messa totalmente nei panni di Emma, evidentemente, come se ci fosse uno strano sostegno femminile di cui lui era all’oscuro.
Federico aveva effettivamente trascurato le ragioni per le quali Emma si comportasse in quel modo, ma lui era sempre stato accomodante nei suoi confronti e avrebbe accettato qualunque verità lei gli avesse proposto.
-La amo, non la giudicherei mai – rispose nuovamente con un’alzata di spalle. Non c’era alcuna titubanza in lui.
Simona rise, facendogli un’altra carezza materna. -Che tesoro che sei – gli disse dolcemente. -Ed io che credevo fossi preso da Annamaria!
-Lei è soltanto un’ottima amica – spiegò, lasciandosi coccolare dalla carezza di Simona.
-Però siete usciti insieme, non è vero? – insisté Simona, sfoggiando la sua solita curiosità.
Federico si rese conto, per una volta, di non essere affatto infastidito dalle domande della madre, e rispose senza esitazioni: -Non nel modo in cui pensi tu.
Simona divenne dubbiosa di fronte la risata del figlio. -Oddio, ed in che modo?
A quel punto un terzo interlocutore si introdusse nello scambio.
-Fidati, Simona, non vuoi saperlo! – intervenne Giancarlo, dalla porta di casa. Se lui aveva sentito l’intero scambio, probabilmente stavano parlando a voce fin troppo alta. -Alberta vuol prendere un gelato, venite?
-Sì, un gelato! – strillò allegra la bambina, alle spalle del padre, intavolando una delle sue solite danze.
-Falla cambiare prima di uscire! – ribatté Simona immediatamente, dopo aver intravisto la capigliatura scarmigliata e le ciabattine ai piedi della figlia. -Vengo anche io!
Padre e figlia sparirono subito, accompagnati dall’allegra risata della piccola.
-Tu vieni? – fece Simona, quasi in un bisbiglio. Aveva abbassato il tono di voce per non farsi più sentire, come se volesse mantenere un certo livello di intimità nella conversazione con il figlio.
Federico scosse la testa. -Non credo – disse, studiando per un attimo il viso della madre e la sua espressione distesa. -Va tutto bene tra di voi?
Simona si irrigidì per un’istante. -Intendi tra me e tuo padre?
In passato aveva giudicato duramente la madre e quello che era successo con Giancarlo, motivo per il quale era più che comprensibile che lei fosse tesa a quella domanda.
Nell’intento di Federico, tuttavia, non c’era alcun rimprovero né giudizio: voleva solo informarsi. Simona si rilassò dopo aver scorto nel figlio un sincero interesse. -Vorrei tornare con lui – ammise.
-Ma? – la incalzò, intuendo dell’esitazione.
-Lui è così buono, mi ha perdonata, è stato sincero – rispose la madre. -Non voglio deluderlo di nuovo.
Federico sorrise incoraggiante. -Allora non farlo.
L’approvazione del figlio parve essere l’ultimo trofeo che serviva a Simona per lasciarsi andare. Gli occhi le divennero lucidi e lo abbracciò con immenso trasporto, stringendolo fino a fargli quasi male. Federico non protestò, convinto che per una volta avesse fatto la cosa giusta nei confronti della donna.
-Vado a prepararmi anche io – disse Simona, ricomponendosi. Aveva in viso di nuovo una certa compostezza, come se essersi lasciata andata andare ad un momento di debolezza come quello non avesse scalfito l’autorevolezza della sua figura genitoriale: voleva mostrarsi di ferro davanti a Federico.
Lui annuì e la osservò allontanarsi verso l’interno della porta, mentre tornava a dedicarsi al suo disegno.
Emma era sulla carta a fissarlo, in un silente invito a baciarla.
 
Poco dopo, Giancarlo, Simona e Alberta erano pronti ad uscire.
-Fede vieni anche tu! – canticchiò la bambina, entusiasta.
-Sì, dai, così ti svaghi – rincarò la dose anche Simona, vedendolo riporre blocco da disegno e matite nella sua valigetta.
Federico era quasi tentato di acconsentire a quell’idea, dopotutto non aveva niente di meglio da fare per quel pomeriggio, ma Giancarlo intervenne, scombinando le carte in tavola.
-Credo che abbia di meglio da fare – borbottò il padre, strizzandogli l’occhio.
L’aria complice del suo sguardo, tuttavia, colse Federico impreparato. Non comprese affatto a che cosa stesse alludendo.
Simona annuì. -Va bene, a più tardi! – liquidò alla fine la situazione, prendendo per mano la figlia piccola e incamminandosi verso l’esterno.
-Ma di che parli? – bisbigliò Federico confuso in direzione del padre quando Simona e Alberta furono fuori la portata d’orecchio.
Giancarlo ridacchiò, ispezionando con fare annoiato i contanti all’interno del portafogli. -Avrei giurato di aver visto una signorina arrampicarsi dentro la tua stanza – sorrise, raccattando le chiavi della macchina.
Federico si sentì come se gli avessero dato un pugno sul cuore per l’emozione. -Sì? – chiese, quasi senza fiato.
-Sì – annuì il padre. -Credo anche che abbia distrutto tutto quello che avevi sulla scrivania per il botto che c’è stato, ma sono convinto che la perdonerai.
Detto questo, Giancarlo si chiuse la porta di casa alle spalle, la risata possente iniziò a farsi sempre più lontana.
Si sentì preso in giro ma allo stesso tempo compreso dal padre, che aveva fatto in modo di lasciarlo da solo in casa con la ragazza tanto coraggiosa da non usare la porta di casa per entrare.
Federico percorse le scale a due a due e, quando aprì la porta della sua camera, trovò Emma effettivamente intenta a raccattare la sua roba per terra, caduta dalla scrivania.
Si sentì immediatamente un tuffo al cuore nel vederla così serena: la solita acconciatura buffa, le guance rosse, uno dei suoi ampi vestiti a celare il corpo minuto e pallido.
Gli occhi verdi di lei si tinsero di colpevolezza, mentre si affrettava a raccattare altri fogli sparsi sul pavimento, per poi riporli al loro posto.
-Sono stata sbadata questa volta- si giustificò.
Ma lui non si sentiva per nulla arrabbiato per quel disastro, al contrario era felice di vederla. Era come se si fosse aspettato che la lite della sera precedente avesse sancito un altro periodo in cui lei sarebbe sparita, condannandolo ad attenderla. Invece, lei non aveva aspettato neanche ventiquattro ore e, certamente, pareva tutto fuorché arrabbiata con lui.
Si guardarono per qualche istante silenziosamente, attendendo forse che uno dei due prendesse la parola. Al posto di parlare, tuttavia, Emma balzò in piedi con uno scatto quasi felino, mentre lui percorse la stanza con passi lunghi e svelti per poterla abbracciare.
Quando la strinse a sé, Federico lo fece così forte da sollevarla dal pavimento, zampettando qualche passo all’indietro nel tentativo di ritrovare l’equilibrio. Premette le labbra contro quelle di lei, ubriacandosi del suo odore delizioso di fiori, di natura.
Intrappolata in quell’abbraccio, Emma ricambiò con entusiasmo le attenzioni di lui, lasciandosi stringere fino a quando non si sentì mancare il respiro.
-Dovremmo salutarci sempre così! – disse lei entusiasta, quando finalmente lui la rimise giù.
Federico era d’accordo: si sentiva accaldato ed eccitato, ma voleva essere razionale in quella situazione; dopotutto, c’era una lite in sospeso tra di loro, per quanto quel saluto rappresentasse il loro desiderio reciproco di voler stare insieme.
Fu Emma a rompere il silenzio.
-Sei ancora arrabbiato? – chiese con un sorriso timoroso.
Lui dovette pensarci su prima di stabilire che no, non lo era, ma forse lei gli doveva qualche spiegazione in più sull’accaduto.
-Sì – mentì in un sussurro, così che lei cogliesse la sua presunta rabbia come incoraggiamento per poter risolvere la discussione in cui si erano imbarcati.
-Mamma mia, che bugiardo – ridacchiò lei, carezzandogli il viso spinoso. -Non mi puoi nascondere niente.
Federico si sentì un po’ punzecchiato da quell’affermazione: -Sei tu che nascondi le cose a me, no?
Emma non si sentì affatto offesa dal sarcasmo che lui le aveva utilizzato contro. Per nulla destabilizzata, proseguì: -Mi hai fatta arrabbiare anche tu.
-Ficcanasando?
-Dovevi aspettare che fossi io a venire da te.
-Io ti aspetto sempre, Emma – le bisbigliò lui, carezzandole il viso. -Anche quando tu sparisci, sono qui ad aspettarti come uno scemo, speranzoso che tu ti faccia viva il più presto possibile. Ti penso tutto il giorno, ogni cosa che faccio. Quando ho creduto che fossi uno scherzo della mia testa sono stato da cani, perché per una volta che saggio il sapore dell’amore la persona di cui mi ero innamorato non poteva essere una specie di spettro! Ho provato a darmi pace, senza riuscirci. Ho provato a non pensarti, ma eri sempre lì nella mia testa. Ho provato a darti un senso nei miei pensieri, ma quando ti penso la mia razionalità si spegne perché sono così perdutamente innamorato di te e di quello che sei che neanche volendo potrei accantonare il tutto. Perciò, non dirmi che devo aspettarti, perché ti giuro che io ti stavo già aspettando, forse da una vita, e resterò ad aspettare anche dopo perché se anche tu volessi finirla io starei ancora qui a sperare che torni, ad aspettarti, perché non so più fare altro.
Emma aveva quasi il fiatone nell’udire quelle parole, le guance rigate di lacrime, il viso arrossato dall’emozione. C’era quasi una colpevolezza nei suoi occhi, un certo grado di sopraffazione.
-Come hai fatto a convincerti che fossi morta? – bisbigliò parecchi istanti dopo, distanziando ogni parola con un respiro affannoso. Scossa ed emozionata, non si prese la briga neanche di asciugarsi il viso bagnato.
-Tua zia mi ha detto che lo eri – spiegò Federico, cingendole i fianchi in un timido abbraccio. Si sentiva stupido ad essersene convinto, ma gli era sembrata una spiegazione plausibile, giorni prima.
Emma scosse la testa, tirando su con il naso. -Lei mi considera morta.
-Perché?
-Io non volevo affezionarmi a te – sentenziò lei, schivando la domanda.
Federico colse un’ammissione in quelle parole, il suo modo di dirgli che tutto quello che lui le aveva detto era corrisposto al cento per cento.
-Non importa – le disse, carezzandole il viso ancora umido. -Non è così male alla fine, no?
-È tutto così complicato per me – proseguì lei, esibendo la sua fragilità senza vergogna.
Federico se la strinse al petto. -Non importa – le ripeté -Ti aiuto io.
A quel punto Emma gli sorrise, lasciandosi sfuggire un singhiozzo infantile. Quella gioia mista alla tristezza delle lacrime, spinse Federico a darle un altro bacio, a fior di labbra, come una carezza al suo cuore.
-È solo questione di tempo, risolverò tutto – bisbigliò lei, più a sé stessa che a lui, come a volersi dare coraggio.
-Non devi risolvere niente da sola – la riprese lui, dandole un altro bacio, questa volta sulla fronte.
Emma chiuse gli occhi a quel contatto, desiderosa delle attenzioni che lui le stava riservando. In quel momento, lei gli parve come un randagio, abbandonato a sé stesso e solo, restio a fidarsi degli altri ma bisognoso di amore, di cure.
La baciò ancora, sempre delicatamente, asciugandole con un dito le lacrime sulle guance.
Lei aveva fatto la stessa cosa con lui, la sera precedente, cullandolo con le sue attenzioni mentre lo riportava alla realtà, ma non era la volontà di sdebitarsi a muovere le sue azioni: Federico sapeva e vedeva che lei aveva bisogno di qualcosa, di qualcuno, a cui aggrapparsi, e voleva essere lui.
Federico non l’amava perché aveva bisogno di lei, ma aveva bisogno di lei proprio perché l’amava, e voleva – sperava – che per lei potesse essere lo stesso.
-Vuoi parlarne? – le chiese, carezzandole i capelli, il collo, le tempie, baciandole ancora la fronte.
Emma tirò di nuovo su con il naso, ma annuì.
 
Il fiore della Gardenia assume il significato di sincerità e viene regalato in special modo a chi non crede che il donatore abbia questo nobile modo d'essere.
 
*Fonte: www.inomidellepiante.org

Buongiorno a tutt*! Anche oggi ecco a voi il capitolo, puntuale... Ci avviciniamo sempre di più alla conclusione della storia e spero che vi siate affezionati come me ai personaggi. Credo che in questi ultimi capitoli più che mai emerga il mio animo profondamente romantico e malinconico, rispecchiato tanto da Federico quanto dalla stessa Emma, la cui identità verrà presto chiarita. 
Ho iniziato a scrivere questa storia quando avevo 17 anni, ora che ne ho 24 ho avuto modo di concluderla come desideravo che si concludesse... Grazie a sempre per avermi dato modo di raccontarvi di Federico ed Emma. 
Alla prossima settimana! 

 

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Capitolo 18
*** XVIII Bucaneve ***


XVIII Bucaneve
 
Quando Adamo non sapeva più come rincuorare apparve un angelo che per darle speranza in nuove stagioni. Per infondere coraggio e speranza prese dei fiocchi di neve e ci soffiò sopra ordinandogli di diventare boccioli. Come questi toccarono il suolo bucarono la coltra di neve e da lì sbocciarono i primi bucaneve. *
 
 
 
Il primo ricordo di vita che Emma possedeva risaliva ai suoi sei anni.
Era una bambina piuttosto introversa, silenziosa, ma non per questo meno intelligente: faceva da silente ascoltatrice ai discorsi degli adulti che la circondavano, di modo che potesse acquisire informazioni e nuove nozioni. La curiosità le era sempre appartenuta, supportata dal suo innato spirito d’osservazione.
Quella piovosa giornata di Marzo, mentre lisciava le gonne della sua bambola preferita, Emma udì il telefono di nonno Enzo squillare con insistenza, mentre l’uomo era intento a preparare le lasagne che tanto le piacevano.
-Arrivo arrivo – borbottò l’uomo facendo l’occhiolino alla piccola.
Si asciugò le mani frettolosamente, per poi rispondere alla cornetta.
Emma non aveva un udito così sviluppato da percepire le parole dell’interlocutore, ma notò il modo in cui il nonno si era rabbuiato nell’ascoltarne le parole. In un attimo la sua solita allegria si era spenta, sostituita da un sorriso tirato che l’uomo si sforzava palesemente di rivolgerle.
-Chi è? – fece lei, incuriosita.
Ma lui non le rispose, incredulo e confuso si limitò a fissare il vuoto, mentre l’interlocutore alla cornetta continuava a borbottare parole indistinguibili a cui Enzo rispondeva mugugnando confusamente.
Emma, in quel momento, decise che la sua investigazione sarebbe stata più discreta: si sarebbe limitata ad osservare l’evoluzione naturale degli eventi nei giorni successivi per poi tirare le somme dell’accaduto.
Quello che constatò, tuttavia, nei giorni successivi fu che i suoi genitori erano misteriosamente spariti, inghiottiti dalla pioggia, e che lei avrebbe trascorso con il nonno molto più di una domenica pomeriggio a settimana; forse, la vita intera.
 
Nel sentirsi dire che il padre e la madre erano morti, Emma non era riuscita a processare correttamente la tristezza, il dolore. Probabilmente, era troppo piccola per disperare come avevano fatto tutti gli altri attorno a lei.
Del resto, nonno Enzo non le aveva dato modo di sentirsi effettivamente triste: l’aveva trattata come sempre, cucinandole i suoi piatti squisiti e facendola giocare fino a perdere del tutto le energie, facendola ridere.
Emma sentiva che lui era triste, la sua empatia non le consentiva di ignorarlo, ma si lasciò andare alla spensieratezza che lui le stava regalando.
L’aveva sentito diverse volte piangere nella sua camera, nel silenzio della notte, quando il vento fuori non le faceva chiudere occhio, ma aveva deciso di restare integra.
Non voleva sentirsi triste anche lei così tanto, anche se le dispiaceva non vedere più i suoi genitori e non farsi più coccolare da loro. Nonno Enzo si sarebbe preso cura di lei.
Negli anni della crescita, lui si comportò in maniera egregia, rivestendo alla perfezione il ruolo di padre e di madre, insieme. La accompagnava a scuola, le rimboccava le coperte la sera, la calmava quando qualcuno la faceva arrabbiare e la consolava quando qualcun altro la faceva piangere.
Enzo fu perfetto, in tutto e per tutto, e con il tempo anche lui riacquisì la felicità che aveva perduto dopo la morte dei genitori di Emma.
Il tempo guariva a poco a poco tutte le ferite e l’adolescenza di Emma fu felice.
 
-Credo che la dovresti ereditare tu l’attività di famiglia – disse Enzo quel pomeriggio, mentre entrambi erano intenti a sistemare il giardino.
Emma, nella freschezza dei suoi sedici anni, aveva le mani guantate ed era intenta a mettere bulbi nel terriccio che circoscriveva il giardino di villa Vitale.
L’attività di famiglia di cui il nonno le parlava era un negozio di fiori, in piedi da tre generazioni e di cui il suo povero padre si era occupato per poco, prima di morire.
Emma aveva ereditato la passione di famiglia per i fiori e spesso con il nonno si dedicava alla cura del giardino: era il loro momento di relax quotidiano.
-Davvero? – fece lei, allegra per la notizia. Voleva approfondire i suoi studi, andare all’università, conseguire una laurea in botanica, ma sapere che il nonno aveva così tanta fiducia in lei da affidarle l’attività di famiglia la rendeva contenta. Dopotutto, aveva solo sedici anni.
-Ma certo, tesoro – sorrise Enzo, potando qualche ramo dell’ulivo che troneggiava in giardino. -Non credo che tua zia Patrizia sia interessata.
Aveva utilizzato un tono neutro per sentenziare quella verità, ma Emma sapeva che il nonno era davvero dispiaciuto che la sua sola altra figlia non avesse mai avuto il ben che minimo amore per l’eredità di famiglia.
Giorni prima, li aveva sentiti discutere in salotto sulla faccenda e Patrizia era stata piuttosto sgarbata a riguardo. -Ma cosa vuoi che me ne freghi di quelle quattro piantine che vendi? – aveva sbraitato contro Enzo.
L’uomo era rimasto ferito da una simile accusa – Emma ne era certa -, ma era stato abbastanza coraggioso da non darlo a vedere. Era stato una roccia, come al suo solito.
A Patrizia, dopotutto, erano sempre interessati solo i soldi di famiglia; o meglio, i soldi in generale. Per anni si era guardata intorno alla ricerca di un partito adeguato da poter spennare per bene, senza successo: quando la gente scopriva quanto potesse essere sgradevole, si dileguava, lasciandola con un pugno di mosche tra le mani.
Se la meritava, dopotutto, la solitudine, considerato come si comportava. Emma lo aveva sempre pensato: sua zia era una vipera fuori controllo.
Vedendo la malinconia del nonno al pensiero di Patrizia, Emma cercò di consolarlo: -A me interessa molto!
Enzo rise per quell’entusiasmo quasi infantile che lei gli aveva dimostrato nel dirlo. -Non ho dubbi vedendo la tua faccia sporca di terriccio.
-Succede sempre – sbuffò lei, toccandosi il viso con le mani sporche. -Mannaggia – brontolò, dopo essersi resa conto di aver appena aggravato la situazione.
-Allora – richiamò la sua attenzione il nonno. -Lo sai come si cura un Bucaneve?
 
Emma era in procinto di compiere diciotto anni quando scoprì della malattia del nonno.
All’inizio aveva solo delle piccole dimenticanze, normali per un uomo che stava invecchiando, ma con il passare del tempo le smemoratezze si aggravarono diventando delle vere e proprie amnesie. Enzo non ricordava parti delle sue giornate, o cose accadute nell’arco del giorno prima.
La situazione per Emma divenne preoccupante quando si ritrovò a dover insistere per ricordargli che lei abitava con lui dall’età di sei anni e che suo padre era morto da molto tempo.
Il nonno, con lo sguardo nel vuoto, era parso confuso e triste, e lei sentì il suo cuore incrinarsi un po’ vedendolo in quello stato.
Il medico, giorni dopo, aveva rivelato che si trattava di Alzheimer e che la situazione non sarebbe certo migliorata, al contrario.
Emma aveva cercato di essere forte a quella rivelazione, come lui lo era sempre stato per lei nelle diverse fasi della sua vita, ma qualcosa in lei aveva iniziato a vacillare pericolosamente.
Enzo accettò la situazione con rassegnazione, con uno strano misto di filosofia e pace.
-Tesoro, magari è meglio che vada in un centro – le disse davanti al medico, mettendole una mano sulla spalla con fare rassicurante.
-Non se ne parla, mi prendo cura io di te – sentenziò lei, invece.
Emma sapeva che mandare il nonno in un centro significava lasciarlo abbandonato a sé stesso, in un posto che non lo faceva felice. Si motivò all’idea di poter pensare a tutto lei, dopotutto era quasi maggiorenne, era perfettamente in grado di assumersi quella responsabilità.
Non aveva pianto in quei giorni, neanche una lacrima, non poteva essere debole davanti una cosa così grande. Al contrario, doveva essere anche lei una roccia.
 
Mesi dopo, il nonno aveva smesso di identificarla persino come sua nipote.
Emma aveva provato a spiegargli le cose almeno cento volte in cento giorni differenti: inizialmente, Enzo se ne convinceva con facilità, grazie ai suoi piccoli bagliori di lucidità, ma con il tempo non fu più possibile convincerlo con la razionalità.
-Mia nipote Emma vive con mio figlio Emanuele e sua moglie, mica con me – ridacchiava lui, come se la verità che lei gli propinava fosse una barzelletta.
Era sempre più difficile raccontargli il dolore delle morti che aveva dimenticato, la tristezza di Patrizia che, pur sapendo della malattia, non voleva saperne di aiutarlo. Così, con il tempo, Emma smise di dedicarsi alle spiegazioni dettagliate sulla vita che lui puntualmente non ricordava, lasciando lo spazio all’invenzione di una vita tutta nuova.
-Sei mica la giardiniera che ho chiamato l’altro giorno? – le disse una mattina, durante la colazione, studiandola con la diffidenza che si dedica agli estranei. -Ho il giardino un disastro!
Emma, arresa, aveva annuito, con un’altra crepa sul cuore. -Sì, sono io, mi ha chiamato giusto ieri!
-Perfetto! – batté le mani l’anziano, vittorioso. -Mettiti a lavoro, ti prego, a mia nipote Emma piace tanto trovare i fiori curati quando viene a trovarmi.
Si era messa al lavoro come lui voleva, ogni giorno, da quel momento, preservando la farsa della giardiniera. Enzo aveva persino creato un’identità fittizia nella sua testa, per lei, il cui nome era Jasmin – gelsomino – e le cui referenze erano eccellenti in tutta la zona: aveva anni di esperienza sulle spalle, pur apparendo molto giovane.
C’erano giornate in cui doveva assumere l’identità di qualcun altro, ma il ruolo di Jasmin le si presentava davanti molto più spesso.
Emma ormai era a pezzi. Aveva lasciato stare il diploma, i pochi amici che aveva non la cercavano neanche più e l’unica persona che l’aveva sempre amata non si ricordava neanche chi fosse con precisione. Aveva smesso di esistere sulla terra così come nelle mente dell’anziano nonno.
Non potendo più dichiarare apertamente di abitare con lui, nel tardo pomeriggio fingeva di andare via.
-Ciao Jasmin, ci vediamo domani! – la salutava Enzo dalla poltrona, reggendo un libro spesso al contrario, o guardando in tv dei programmi in bianco e nero.
-Arrivederci signor Vitale! – lo salutava lei allegramente, una perfetta attrice.
Chiuso il portoncino del cancello, Emma faceva il giro dell’isolato, per poi scavalcare l’inferriata alle spalle della proprietà. Si arrampicava sugli alberi per raggiungere la finestra della sua camera, all’interno della quale con il tempo aveva imparato a stare in religioso silenzio: non voleva che l’anziano si spaventasse all’idea che ci fosse un ladro in casa, ma voleva vegliare comunque su di lui. Arrampicarsi sugli alberi all’inizio fu difficoltoso, ma con il tempo si impratichì a sufficienza da non sbucciarsi neanche le ginocchia, e divenne abbastanza silenziosa da apparire quasi un fantasma.
Si nascondeva nella casa dove lei stessa era cresciuta, camminando in punta di piedi, cenando nella notte, da sola.
 
Quando Enzo morì non fu una sorpresa per Emma.
Giorni prima, era parso stanco, senza energia, depresso. Aveva spiccicato due parole in croce durante tutta la giornata, al punto che il sesto senso di Emma l’aveva portata a pensare che fosse stanco di vivere in quel modo.
La mattina di quel giovedì lo aveva trovato a letto, senza battito. Con una lucidità che non si aspettava di avere, Emma aveva fatto tutte le telefonate di rito e organizzato in poco la sepoltura che lei riteneva lui meritasse. Al funerale, tuttavia, non era andata, lasciando che Patrizia potesse recitare la parte della figlia triste senza doverla vedere; Emma non avrebbe potuto sopportarlo.
Aveva roboticamente posto un mazzo di fiori in prossimità della lapide di lui tutti i giorni, per tre settimane, senza versare neanche una lacrima. Si sentiva vuota, un guscio senza contenuto. Non aveva più neanche uno scopo, nella vita, dal momento che gli ultimi anni li aveva dedicati a prendersi cura di lui, pur sapendo che qualsiasi cosa faceva fosse inconcludente.
 
Emma seppe che il nonno aveva lasciato un testamento da Patrizia, circa un mese dopo la sua dipartita.
La sgradevole zia si presentò alla porta di casa con il suo solito fare sprezzante e reggendo in mano un pezzo di carta la cui natura per Emma era del tutto misteriosa.
-Mi spieghi perché ha lasciato tutto a te? – blaterò la donna, inviperita.
-Come? – aveva borbottato lei confusamente, lasciandola entrare in casa.
Tutto era in disordine all’interno, abbandonato e impolverato, così come lo stesso giardino era in condizioni fatiscenti. Non aveva più voglia di prendersi cura delle cose.
-Ha lasciato scritto che quando compi ventuno anni, sia il negozio che la casa saranno tuoi, così come una cospicua somma di denaro… A me ha lasciato briciole! Sono la sua unica figlia! – blaterò la donna sguaiatamente.
-Non te n’è mai importato niente di lui, lo sapeva bene – aveva sussurrato Emma in tono monocorde, ma non successivamente piano da non farsi sentire.
La riposta di Patrizia fu uno schiaffo dritto nel viso della ragazza. -Sta zitta, ragazzina.
Emma rimase spiazzata da quel gesto. Prese a massaggiarsi la guancia, là dove la pelle pizzicava.
Non era mai stata colpita da nessuno, prima di quel momento, e certamente non si aspettava che un simile gesto potesse provenire da Patrizia: per quanto la odiasse, non pensava potesse diventare violenta.
Leggermente intontita dalla situazione, si lasciò sfuggire in un borbottio l’ultima cosa che sua zia avrebbe dovuto sapere. -Li faccio tra due mesi, ventun anni.
Patrizia soppesò con un mugugno quella verità, studiando il testamento tra le sue mani. -Allora, fino a quel momento, diciamo che la casa e il negozio… Sicuramente ci si può lavorare su… - disse più a sé stessa.
Emma, che di certo non era stupida, intervenne energicamente: -Ha lasciato le cose a me!
La donna scacciò quelle parole con un gesto sprezzante della mano. -Io posso fare quello che voglio.
 
Una settimana dopo, Emma scoprì che Patrizia aveva trovato una scappatoia legale che la legittimava ad amministrare le proprietà di famiglia in attesa che passassero a Emma. Vendette il negozio della famiglia Vitale per una buona somma di denaro e nei giorni successivi si presentò con un paio di uomini in casa, svegliando Emma di soprassalto.
-Credi che possa valere qualcosa? – blaterava Patrizia, indicando un grande quadro raffigurante un paesaggio in salotto.
L’uomo dai capelli sale e pepe in elegante completo parve pensarci su. -Forse il quadro no, ma la cornice sono certo di sì.
Con un cenno della mano, Patrizia ordinò all’altro uomo, più atletico e vestito in maniera sportiva, di prendere il quadro.
Emma, ancora in pigiama, a quel punto era intervenuta con disperazione: -Sono le cose del nonno, non puoi vendere niente!
La zia si era voltata a guardarla con aria di sufficienza. -Ragazzina, te l’ho già detto l’altra volta, posso fare quello che voglio!
-Sono cose che ha lasciato a me! – aveva insistito Emma, il viso di un rosso paonazzo.
-Bene, allora chiamati un avvocato per rivendicare la tua roba – aveva detto la donna, inviperita. -Peccato che i soldi con cui potresti pagarlo sono ancora sotto la mia custodia…
Emma non voleva piangere, voleva continuare a rimanere di roccia anche davanti a quella situazione, ma non riuscì a trattenersi a sufficienza e un paio di lacrime le rigarono il viso.
Davanti alla giovane nipote in lacrime, Patrizia non si scompose per nulla. -Sui soldi non metterò mani ragazzina, ma fino a quando potrò cercherò di vendere qualsiasi cosa possa fruttarmi. Se fai la brava avrai abbastanza risparmi per un appartamento tuo e per andare all’università.
Anche davanti a quella proposta, si sentì comunque sconfitta: quella casa era piena di ricordi di Enzo, ci era cresciuta insieme a lui, non voleva rinunciare a nulla.
-Se però la prossima volta che vengo ti trovo qui a ficcanasare, giuro che quei soldi in banca li spendo tutti prima che tu possa metterci le tue luride mani.
Poco dopo, Patrizia se n’era andata insieme ai due uomini, con la promessa di ripassare nei giorni successivi.
Emma, sola ed impotente, aveva fatto l’unica cosa che si era ripromessa di non fare: si lasciò andare ad un pianto disperato. Singhiozzò così forte che le presero a bruciare i polmoni, versando tutte le lacrime che aveva trattenuto negli anni, da quelle per i suoi genitori, a quelle per il nonno.
 
Nel linguaggio dei fiori, oltre al significato di vita e speranza, i Bucaneve assumono anche quello di virtù e ottimismo. Per questo motivo i Bucaneve vengono usati anche durante le celebrazioni nuziali. In tempi passati il Bucaneve è stato considerato un fiore portatore di sventure. La sua forma a campana che si inarca verso il basso, l'insolito periodo di fioritura e la vicinanza al suolo hanno fatto sì che in tempi non lontani questo fiore venisse considerato, secondo la tradizione popolare, foriero di sfortuna e disastri.
 
*Fonte: www.verdiecontenti.it

Ciao a tutt*! Come al solito, ecco il capitolo! 
Spero che avere un primo assaggio della prospettiva di Emma possa essere di chiarimento... 
Ringrazio come sempre chi investe il proprio tempo a recensire per darmi un feedback sul lavoro: siete la mia energia!
La prossima settimana posterò il penultimo capitolo della storia. 
Un abbraccio a tutti! 

 

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Capitolo 19
*** XIX Garofano ***


XIX Garofano
 
Secondo la leggenda si narra che un giovane pastore si innamorò follemente di Diana, che aveva, però, fatto il voto della verginità, questa dopo avergli dato delle false speranze d’amore lo abbandonò. Il giovane morì dalla disperazione poco tempo dopo e, dalle lacrime che aveva versato per il suo amore nacquero i garofani bianchi. *
 
Quella sera, per poter smaltire la tristezza, Emma aveva deciso di fare una passeggiata: se ne stava rintanata in casa, in solitudine, da un tempo che ormai le pareva infinito, e voleva lasciarsi andare ad un po’ di spensieratezza. La feriva l’idea di perdere la casa dove c’erano tanti ricordi, ma Patrizia le aveva promesso di farle avere i soldi che Enzo le aveva lasciato… Probabilmente sarebbero stati sufficienti per ricominciare.
Nel vialetto alberato, scorse una casa il cui giardino le parve curato come un tempo lo era stato anche quello di casa sua. In prossimità del cancelletto di ingresso, troneggiava una profumatissima pianta di gelsomino dalla quale si era sempre sentita attratta: fin da bambina, aveva sempre chiesto al nonno di coglierle un paio di fiorellini. Enzo aveva sempre acconsentito, dicendo che probabilmente non se ne sarebbero accorti e che, del resto, lo facevano tutti.
Si chinò in prossimità della base della pianta, iniziando a raccattare qualcuno dei fiorellini.
-Che stai facendo? – bisbigliò una voce alle sue spalle.
-Oddio! – aveva ribattuto lei in un gridolino spaventato.
Senza smettere di cogliere i fiori, studiò il suo interlocutore con la coda dell’occhio: folti capelli castani, occhi così scuri da sembrare pozzi profondissimi, un velo di barba spinosa a dargli un’aria deliziosamente trasandata.
-Mi hai spaventata.
 
Federico la accompagnò fino al fatiscente portone di casa.
Quasi si vergognò di mostrargli dove abitava, ma del resto non lo avrebbe mai più visto in vita sua. Gli aveva sciorinato bugie perché non si era resa conto quanto le mancasse chiacchierare con qualcuno del più e del meno, e di certo non poteva raccontargli la verità: la gente tendeva a fuggire dalle questioni complicate. Non era necessario intavolare una conoscenza con un passante incontrato per caso, nonostante comunque lui fosse indubbiamente curioso.
Non era solo bello, con i suoi zigomi spigolosi e il naso pronunciato, quel modo scanzonato di parlarle, sfidandola con le parole e con lo sguardo, le rivelò la scorza dura, mentre la dolcezza del suo cuore era dietro i modi gentili, seppur freddi e distaccati.
Federico era una conoscenza invitante, e non solo perché era la prima persona con cui si relazionava da anni, ma Emma non aveva tempo di dedicarsi alle relazioni interpersonali. Le complicazioni della sua vita erano troppe e lei aveva solo bisogno di ricominciare. Entro poco tempo avrebbe compiuto ventuno anni e se ne sarebbe andata via, il più lontano possibile.
 
La sera successiva, mossa nuovamente dalla volontà di fare una passeggiata, uscì di nuovo: era come se Federico avesse risvegliato in lei i suoi desideri più adolescenziali, come quello di concedersi una serata fuori, anche se non aveva compagnia.
Emma aveva indugiato davanti casa di lui nonostante l’obiettivo che si era prefissata, ma era passata oltre poco dopo: non voleva farsi trovare lì appostata e dargli l’idea di essere una specie di stalker. Indubbiamente pensava a lui, ma le cose dovevano restare così com’erano.
Rimase sorpresa quando scorse Federico in spiaggia, bello come la sera precedente, a interloquire animatamente con una ragazza dai capelli biondi. Incuriosita, Emma li aveva seguiti quando si erano allontanati, rintanandosi in una macchina per fare sesso.
Appollaiata sopra un albero, Emma si sentì delusa che Federico avesse una ragazza, anche se dal modo con il quale si approcciava a lei non aveva visto alcun tipo di delicatezza e amorevolezza.
Nonostante fosse motivata a sedare quella piccola ossessione per lui, non riuscì a resistere all’idea di scendere dall’albero appena in tempo perché Federico la vedesse, così da potergli parlare.
-Che stavi facendo lassù? – le chiese lui, avvicinandosi.
Il modo in cui gli occhi del ragazzo si illuminarono nel vederla le fece capire che l’interesse che sentiva lei era tutt’altro che non corrisposto, ma Federico aveva una fidanzata e non c’era da fidarsi di uno che faceva il cascamorto con la prima che passava.
Così, Emma decise di ergere un muro tra lei e lui.
 
Giorni dopo, fu paradossale per Emma svegliarsi in camera di Federico, proprio sul suo letto.
Aveva deciso di non avere nulla a che fare con lui, ma non poteva fare a meno di cercarlo, di volerlo. E, dopotutto, lui era meno biasimabile di quanto non avesse pensato inizialmente: Annamaria non era la sua ragazza, sebbene quello che facesse con lei fosse discutibile, e lui non riservava le stesse attenzioni che dava a lei a tutti.
Al contrario, Emma si sentiva quasi una privilegiata per il modo amorevole con il quale lui si era preso cura di lei; nessuno lo faceva da anni.
Dopo essere stata svegliata bruscamente da delle urla al piano di sotto, Emma prese a massaggiarsi le tempie, pensando vergognosamente al fatto di aver vomitato dopo che lui l’aveva baciata. Voleva baciarlo bene, non in quel modo.
Il disagio che sentiva venne però annullato definitivamente dall’apparizione di Federico, poco dopo, i capelli più spettinati del solito e gli occhi cerchiati da occhiaie. Sebbene fosse più stanco e trasandato di come lo aveva incontrato abitualmente, riusciva sempre ad essere bello in una maniera così spudorata che Emma sentì quasi caldo a guardarlo.
-Ciao – le disse, chiudendosi la porta alle spalle.
 
Quando Federico l’aveva baciata, nel buio del suo giardino, Emma aveva sentito i fuochi d’artificio dentro lo stomaco, la magia nell’aria. Il modo in cui le aveva accarezzato il viso, esplorando la sua bocca con la lingua, l’aveva fatta sentire desiderata come non si era mai sentita.
Aveva chiuso gli occhi, la barba di lui a pungerle deliziosamente il viso, ma prima ancora di potersi abbandonare alla realtà di quel momento un pensiero la riportò bruscamente sui suoi passi.
Il coinvolgimento che sentiva per lui era molto più di quello che si aspettava e non poteva concedersi il lusso di un innamoramento, non perché non lo volesse, ma perché la sua vita era troppo complessa da concederglielo. La precarietà della sua situazione non le consentiva di coltivare qualunque cosa ci fosse con Federico.
Così, con grosso rammarico, aveva interrotto quel bacio ed era corsa via, verso casa, consapevole della delusione di lui dopo essersi sentito respinto per un’altra volta.
Si era arrampicata nella sua stanza dagli alberi sul retro, come era ormai sua abitudine, e silenziosa come un gatto era scesa al piano di sotto, trovando la luce accesa e sua zia Patrizia a studiare un portagioie zeppo di gioielli appartenuti a sua nonna.
-Ragazzina, credevo di averti detto che non volevo trovarti qui – brontolò la donna, sorseggiando un bicchiere di vino.
Emma si sentì più motivata e coraggiosa del solito: -E dove credi che possa andare? Abito qui!
Patrizia la studiò con la stessa attenzione che si riservava ad un insetto. -Non è mica un problema mio se sei un’orfana senza casa.
Quelle parole non la ferirono anche se riservavano una grande cattiveria. -Non è mica un problema mio se il nonno non ti ha lasciato nulla.
-Cosa fai, mi sfidi? – rispose sua zia, riducendo gli occhi a due fessure.
-Stai già facendo tutto quello che è in tuo potere per rovinarmi la vita, non credo che la situazione possa peggiorare sfidandoti – rispose lei, piccata.
-Non ne hai idea – rise la donna, lasciando che la conversazione cadesse nel vuoto.
 
Il bisogno di vedere Federico la fece sentire sopraffatta.
Emma non faceva altro che pensare al modo in cui lui l’aveva baciata, scombussolandole lo stomaco deliziosamente.
Divisa tra ciò che davvero voleva e la sua prossima fuga dopo il compleanno, Emma aveva deciso di affrontare Federico, di dirgli che non potevano stare insieme, per quanto le dispiacesse.
Conscia delle abitudini che aveva, quella sera lo attese poco distante dalla sua casa e lui non si fece attendere molto.
Le scoccò un’occhiata silente, esibendo della rabbia e il suo essere ferito come uno stendardo.
Emma, in quell’occasione, scelse di usare un tono falsamente leggero, cercando di apparire disinvolta per smorzare la situazione: - Non mi saluti neanche?
-Oggi non sono in vena – aveva borbottato lui in risposta e dietro quella frase lei capì che c’era molto di più.
-Sei arrabbiato.
-Non ci voleva molto a capirlo.
A quel punto lei gli prese la mano, incapace di resistere all’impulso di toccarlo. -No infatti – constatò, prendendo un bel respiro. -Beh, io…
Nonostante fosse pronta a scaricarlo, le parole le morirono in gola nel vedere l’espressione di lui cambiare, gli occhi illuminati da un infantile speranza.
-Tu? – la incoraggiò, forse pensando che lei ritrattasse il suo comportamento.
Emma si sentì sconfitta nel guardarlo in quel momento, incapace di comunicargli ciò che aveva deciso con tanta fatica: voleva stare con lui, non fuggire via; voleva aprirsi, non ergere un muro.
Dopo qualche mugugno confuso, Federico mise nuovamente la maschera dell’indifferenza. -Ho capito.
-Che hai capito?
-È stato un errore, hai ragione, non succederà più. Solo un bacio accidentale.
Lei sapeva che una simile affermazione proveniva dal suo cuore ferito, ma questo non bastò a farla apparire meno confusa. -Ma che s…
Lui non la lasciò finire: -Ora scusami, devo andare.
Nel vederlo allontanarsi, Emma si sentì un’altra piccola crepa sul cuore. Teneva a quel ragazzo molto di più di quello che aveva pensato fino a quel momento.
Decise che forse una chance con Federico se la poteva dare, non doveva mettere un punto per forza.
 
-Potevate tenerla un po’ meglio quella dannata casa – aveva ruggito Patrizia al telefono quella sera.
Emma, seduta sulla spiaggia, non aveva esitato troppo a rispondere, curiosa di sapere quale nuova minaccia la zia fosse pronta a riservarle. - Avevo altro a cui pensare.
Dall’altra parte, la donna parve non cogliere l’allusione alla salute dell’anziano Enzo. -Mi hanno detto che la potrei vendere soltanto ristrutturando massicciamente tutto, cosa che mi porterebbe via tempo e soldi – aveva brontolato la donna. -Soldi che non mi va di spendere e che non ho, per altro.
-Non li hai perché già li hai sprecati come al tuo solito.
Patrizia emise quasi un sibilo. -Vedo che non ti importa nulla del fatto che io abbia il coltello dalla parte del manico.
Emma digrignò i denti rumorosamente. -Tutto ciò di cui veramente mi importava l’ho perso, ormai.
Pensò ai momenti con l’anziano nonno trascorsi in giardino con i loro fiori, pensò a quando le aveva regalato un mazzo di gardenie – il fiore preferito di Enzo – e pensò alla tristezza di averlo perso.
-Se la metti così non vedo il motivo di rinnovare il nostro accordo – aveva sibilato la zia. -Se non ti importa più di nulla, non avrai problemi se spendo i soldi che tuo nonno ha messo da parte per sistemare quella catapecchia e renderla vendibile.
Emma sentì un tuffo al cuore al pensiero di perdere anche i soldi con i quali poteva costruirsi un futuro dignitoso. -Non ci riusciresti mai in così poco tempo. Tra poco sarà tutto mio.
-Volere è potere, bambina.
-Sono tua nipote! – proseguì Emma, sperando di accendere qualcosa in Patrizia.
-Ma quale nipote, per me sei morta nel momento stesso in cui quel vecchio suonato ti ha lasciato tutto quello che doveva essere mio.
A dispetto del fatto che si sentisse estremamente fragile, Emma riuscì a mantenere i nervi saldi ed un atteggiamento coraggioso nel fronteggiare telefonicamente la zia. -Fai quello che credi meglio, ma ti assicuro che tra qualche settimana, quando compirò ventuno anni, verrò a reclamare ciò che è mio e sono convinta di trovare un modo per dimostrare che tutto quello che stai facendo è assolutamente illecito. – bisbigliò con la voce agitata, ma senza esitazioni.
-Ragazzina, se credi…
-Qualsiasi cosa tu stia dicendo – la fermò. -Non mi importa, ormai manca poco.
Chiuse la telefonata con il cuore a mille e un sospiro liberatorio.
La mente tornò subito ad essere lucida abbastanza da sentire gli occhi di qualcuno addosso. Quando si voltò Federico la stava osservando impassibile. Emma sentì un sollievo immenso e sincero nel vederlo, gli sorrise.
-Tutto bene? – le chiese lui, sedendosi al suo fianco.
Emma era consapevole del fatto che lui stesse tacendo fin troppe domande che chiunque sano di mente le avrebbe posto. I misteri che orbitavano attorno alla sua vita erano troppi agli occhi di lui, ma era felice che Federico non le facesse pressioni a riguardo; Emma, in questo modo, aveva la possibilità di essere più spensierata, con lui.
Quella sera, tuttavia, a dispetto di come si era sempre comportato, Federico aveva sollevato la questione: -Emma non so quasi niente di te - le aveva detto e in un attimo le fu chiaro che qualunque cosa ci fosse tra di loro, aveva vita breve.
Emma non era disposta a scoprirsi, voleva tenere il dolore per sé e scappare via da quella vita che l’aveva fatta soffrire.
Federico, tuttavia, tra le cose che si sarebbe lasciata alle spalle, sarebbe stato il suo più grande rimpianto.
 
 

-E allora cosa ci fai qui? – chiese Federico con dolcezza.
L’aveva ascoltata in silenzio fino a quel momento, lasciando che lei si aprisse come non aveva fatto fino a quel momento. Sapeva che il fatto che Emma gli stesse raccontando quelle cose era più che un semplice privilegio: era la dimostrazione che lei lo corrispondeva in tutto e per tutto.
Emma fino a quel momento era rimasta seduta al centro del suo letto, asciugandosi dignitosamente le lacrime che aveva versato di tanto in tanto. Aveva cercato il suo sguardo diverse volte, ma mai il suo contatto fisico; immergersi nei suoi ricordi e tirarli fuori l’aveva estraniata dal contesto.
-Io ero così confusa su quello che volevo – spiegò lei, stropicciandosi gli occhi gonfi. -All’inizio volevo stare con te per dimenticarmi di essere triste, quasi per gioco, ecco perché quando hai detto di amarmi sono scappata di nuovo: io non cercavo l’amore, volevo solo sentirmi leggera per una volta. Non mi meritavo che tu mi amassi, dopotutto.
-Dovresti lasciarlo decidere a me, questo – precisò lui, sedendosi al suo fianco.
Emma lo ignorò. -Quando ti ho detto che volevo che ci prendessimo una pausa, lo pensavo davvero. Volevo lasciarti definitivamente quando sono venuta quella notte in cui stavi male, per quanto la cosa mi facesse male e mi ci fossi arrovellata fino allo stremo delle mie forze – prese un bel respiro prima di proseguire. -Ma poi…
Federico completò la frase al posto suo: -Ci hai ripensato.
Emma annuì con un sorriso, raccogliendosi alcune ribelli ciocche di capelli dietro le orecchie. -Quando ti ho visto con Annamaria ho sentito un fuoco dentro… E poi eri così fragile, vulnerabile, non avevi paura di farmelo vedere, eri così vero e umano, perché non posso esserlo anche io? Vorrei condividere tutto con te, anche questa parte un po’ più oscura.
Federico, a quella affermazione, la vide sotto una luce nuova. Emma gli era sempre apparsa etera e leggera, spensierata, perché lui, fin dal primo momento in cui si erano incontrati, l’aveva fatta sentire così.
Tuttavia, sotto quell’immagine favolistica, c’era una ragazza che aveva delle fragilità e delle cose irrisolte. Era imperfetta e umana, come lo era lui, come lo era chiunque.
A Federico scappò una risatina al pensiero che, così come lei lo aveva aiutato ad uscire dal guscio, lui l’avesse aiutata a sfogare le sue tristezze, a tirarle fuori ed esorcizzarle. Si erano trovati in un momento in cui entrambi erano smarriti, generando un incastro perfetto.
-Perché ridi? – disse Emma, confusa, sporgendosi curiosamente verso di lui.
In risposta, lui le fece una carezza sul viso. - Emma, puoi essere fragile e umana quanto vuoi. Puoi essere tutto quello che vuoi.
Lei gli sorrise, assecondando la carezza di lui come un gatto che fa le fusa. -Sdolcinato questo momento, non trovi?
-Trovo che ci hai messo troppo a venire da me – fece lui, baciandole la fronte. -Trovo che tu ti sia fatta desiderare troppo e mi abbia desiderato fin troppo inutilmente: io ero qui, per te, in qualsiasi momento.
Emma sorrise, baciandogli a sua volta una guancia. -Ma mi perdonerai tutto.
-E perché mai ne sei così convinta?
-Oggi è il mio compleanno.
 
Nel linguaggio dei fiori vittoriano, il significato del garofano è paragonabile al ‘fiore dell’amore’ e dell’affetto, dei forti sentimenti e delle emozioni, dell’energia e della salute. Simbolo delle nascite in gennaio, del matrimonio in Cina, è folcloristico in Corea che i garofani rossi o rosa siano portati addosso nel giorno della ‘Festa dei Genitori’ e nella ‘Festa degli Insegnanti’. Per tradizione, gli studenti dell’Università inglese di Oxford, portano un garofano bianco addosso in occasione del primo esame, rosa negli esami intermedi e rosso al conclusivo.
[https://www.giardinaggio.net/fiori/significato-dei-fiori/garofano.asp]
 
*Fonte: ilgiardinodeltempo.altervista.org

Carissimi lettori, la prossima settimana posterò l'ultimo capitolo... Ho molta nostalgia nel postare in queste ultime settimane, è come se stesse giungendo a conclusione una parte importante della mia crescita. 
I miei molti impegni mi stanno impedendo di essere presente anche solo nelle risposte alle vostre belle recensioni, per questo motivo uso questo spazio per rinnovarvi i miei ringraziamenti ancora una volta. 
Alla prossima settimana! 

 

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Capitolo 20
*** XX Peonia ***


XX Peonia
 
Secondo la leggenda, Peone utilizzò il fiore per guarire una ferita di Plutone; per ringraziarlo il dio gli fece dono dell'immortalità trasformandolo nel fiore della peonia. Un grande privilegio, poiché per i greci la peonia era l'unico fiore che meritava l'ammirazione degli dèi e per questo ospitato nell'Olimpo. *
 
Quella mattina, Federico fece il suo ingresso in cucina con un sonoro sbadiglio, trovandosi davanti Simona e Giancarlo intenti a scambiarsi timide effusioni: carezze sulle mani, baci rubati, bisbigli dolcissimi. Lo facevano sempre da quando erano tornati insieme, un anno prima.
Ad un certo punto, vinta la sua burrascosa indecisione e il suo senso di colpa, Simona aveva deciso di tornare con il marito; la decisione pareva essere stata la migliore che avesse preso negli ultimi anni, secondo Federico: sua madre sembrava più rilassata, più felice, più serena con sé stessa e con il mondo.
-Eh, ma in questa casa non si può avere un po’ di privacy – brontolò giocosamente in direzione del figlio.
Anche Giancarlo sembrava essere felice come non lo era mai stato: il suo lavoro in banca poteva essere tranquillamente gestito in smart-working, quindi non aveva bisogno di tornare in Finlandia così spesso. Probabilmente, in passato si rifugiava lontano dalla sua famiglia per vincere la nostalgia.
-Privacy per cosa? – ghignò Federico, addentando una fetta biscottata spalmata di marmellata di ciliegie. -Non l’hai passata da un pezzo l’adolescenza, o sbaglio?
-Non sbaglia, non sbaglia – canticchiò Alberta entrando in cucina. -Fede non sbaglia mai! – sentenziò la piccola, rubando qualche biscotto dalla tavola e correndo nuovamente verso il salotto, dove aveva imbastito un condominio di Barbie.
-Ma la corrompi per farti dare sempre ragione? – sbuffò Giancarlo, sorseggiando la sua tazza di caffè.
Simona rise a quel commento. -Sono sicura che la rifornisce segretamente di pupazzi e caramelle.
-Ma va – rintuzzò il padre. -Credo che sia Emma, piuttosto!
Federico sollevò le mani in segno di resa, il boccone ancora da deglutire. -Ci hai preso!
Era passato più di un anno da quando aveva presentato Emma ai suoi genitori, introducendola definitivamente alla sua routine familiare, ma ancora Federico non era abituato a sentirla nominare così spesso e con così tanta disinvoltura.
 
Bella come un fiore, con il suo vestito turchese, Emma aveva le guance rosse per l’imbarazzo ed un sorriso felice stampato in volto.
-Io sono Emma – si presentò, tendendo la mano in direzione di suo padre.
Giancarlo gliela strinse con vigore, scoccando un’occhiata eloquente in direzione del figlio, esattamente di fianco alla ragazza.
-Io sono Simona! – era intervenuta con esplosivo entusiasmo sua madre, felice come non mai che Federico le avesse finalmente portato a casa una fidanzata.
-Ma non ti chiamavi Anna? – borbottò Albertina, confusa, strofinandosi il mento.
Emma si chinò davanti la bambina. -No, tesoro, sono Emma.
-Vieni cara, ti faccio vedere che abbiamo cucinato – incalzò Simona, gli occhi scintillanti di curiosità. Prese Emma per mano e la trascinò verso la cucina, seguita da una piccola Alberta festosa.
Giancarlo diede una pacca sulle spalle al figlio, una volta che il resto della combriccola fu fuori dalla portata d’orecchio.
-Non esageravi quando dicevi che era un tipo particolare.
Federico rise. -È splendida, non è vero?
-Mamma mia quanto sei innamorato – ridacchiò di rimando Giancarlo. -A parte il fatto che sembra uscita da uno dei cartoni animati di tua sorella sì, è splendida.
 
Pochi giorni dopo il primo incontro, Federico aveva spinto Emma a rivolgersi a Giancarlo per la disputa con Patrizia. Dopo il suo ventunesimo compleanno, l’avara zia non aveva ancora concluso alcun tipo di trattativa per la vendita della casa, ma aveva congelato i conti, di modo che Emma non potesse attingere ai soldi che in realtà le erano sempre appartenuti.
L’intervento di Giancarlo fu provvidenziale per la risoluzione della questione: Patrizia si era lasciata convincere a lasciare a Emma ciò che era sua di diritto, a patto che la ragazza le lasciasse una generosa liquidazione.
Emma, aveva accettato quell’ultima condizione di buon grado, di modo che le cose potessero concludersi per il meglio e lei potesse godersi finalmente un po’ di pace.
-A proposito, dov’è? – riprese la conversazione Giancarlo, riportando Federico al presente.
-Si ricorda che stasera c’è la cerimonia, vero? – completò sua madre.
I genitori di Federico non avevano mai divorziato sulla carta, ma per celebrare la loro unione dopo anni di separazione avevano deciso di tenere una piccola cerimonia in giardino con pochi intimi, così da consacrare nuovamente il loro matrimonio.
Quando gli era stato detto, Federico non aveva fatto altro che borbottare che era una perdita di tempo inutile, ma sotto sotto era felice che avessero il tempo di pensare a quel tipo di frivolezze, significava che qualsiasi cosa si fosse rotto tra loro in passato era ormai risanato.
Emma era apparsa da subito entusiasta all’idea di una cerimonia, annunciando che avrebbe fatto lei il bouquet di peonie per Simona.
-Non potrebbe mai dimenticarselo – rise Federico, dopo aver svuotato il suo bicchiere di succo. -Mi aveva detto che voleva ritinteggiare il salotto, oggi.
Da quando la casa dell’anziano nonno era tornata ad essere sua sotto ogni punto di vista, Emma si era dedicata amorevolmente a rimetterla in sesto, ristrutturando gli spazi più trascurati con le sue trovate fai-da-te. Aveva costretto Federico a dipingere un paesaggio per l’intera parete della sala da pranzo, certa che gli ospiti avrebbero gradito una bella vista durante il loro pasto, e lo aveva spronato ad aiutarla a costruire un divano da esterni con i bancali gettati dai supermercati.
Vittima delle sue trovate, Federico era sempre pronto ad assecondarla in quei suoi picchi di creatività.
Simona gli tirò uno strofinaccio con disapprovazione. -Vai subito ad aiutarla! – lo rimproverò. -Non vorrai mica che cada dalla scala!
-Ti assicuro che è più pericoloso per me che per lei, arrampicarsi su qualcosa! – brontolò Federico, che in realtà aveva già deciso di raggiungere Emma per aiutarla.
-Stasera alle nove puntuali! – lo rimproverò ulteriormente la donna, mezz’ora più tardi, quando aveva annunciato che stava uscendo.
 
Federico spinse il pesante cancello in ferro battuto che Emma si ostinava a voler lasciare socchiuso e percorse il giardino fino alla porta di ingresso. Le aiuole, un tempo piene di erbacce e trascurate, erano di nuovo rigogliose di fiori grazie alle cure di Emma, così come il prato era perfettamente verde e meticolosamente curato.
 
Annamaria rimase leggermente titubante di fronte alla presentazione piena di gioia esplosiva che Emma le aveva riservato.
-Quando vi ho visti insieme la prima volta, pensavo fossi la sua ragazza! – dichiarò Emma candidamente, tra i fiumi di parole con cui aveva investito bruscamente Anna.
La bionda, dal canto suo, rimase sorridente per tutto il tempo, il viso leggermente arrossato per l’imbarazzo.
-Mica glielo hai detto tu che andavamo a letto insieme, vero? – aveva sussurrato Annamaria a Federico, dopo che Emma si era allontanata in cucina per prendere qualcosa da bere.
Erano nel giardino di casa Vitale. Federico si era offerto di aiutare Emma a iniziare a sistemare il giardino, quel pomeriggio, e aveva proposto ad Annamaria di unirsi a loro, così che potesse ufficializzare la conoscenza tra le due parti. Dopotutto, Anna era la sua migliore amica.
-Ti pare? A quella non sfugge niente – ridacchiò Federico di rimando, dandole una gomitata giocosa.
-Che imbarazzo!
-Ma va – la riprese. -Guarda che non ce l’ha con te.
Annamaria aveva annuito. -Lo so, ma mi imbarazzo lo stesso!
-Credo che lei non veda l’ora di essere tua amica.
-Lo spero – aveva mugugnato la bionda di rimando. -Capisco perché ti piace: sprizza vita da tutti i pori.
-È fantastica.
 
Federico non si sorprese nel trovare anche la porta di casa aperta e, quando fece il suo ingresso, venne subito investito dal pesante odore di pittura fresca.
-Se siete qui per rubare garantisco che non ho niente! – gridò Emma dal salotto, senza preoccuparsi di verificare chi si fosse introdotto in casa.
Le finestre erano spalancate e facevano entrare sprazzi di luce accecanti, mentre un leggero sottofondo musicale rendeva l’ambiente accogliente e festoso.
-Mi interessa rubare te, allora, in mancanza di qualcosa di meglio – esordì lui entrando in salotto.
Emma si voltò a guardarlo dalla cima di una scala in legno, la cui stabilità era assolutamente discutibile. -Sei tu! – cinguettò con un sorriso, calandosi giù con la sua solita leggiadria.
Indossava una salopette a pantaloncino che lasciava scoperte le gambe candide, vittime di schizzi di colori così come il suo viso pieno, il suo collo, le sue braccia.
-Ma ti sei fatta il bagno nella vernice o cosa? – la sfotté lui, schivando il tentativo di lei di abbracciarlo.
Emma sporse il labbro inferiore, rimirando il suo aspetto trasandato. -Che ci posso fare, non so dipingere! – si giustificò.
Provò a sistemare qualche ciuffo ribelle sfuggito dalla sua buffa acconciatura, sporcandosi di vernice perfino i capelli.
-Non sai neanche tenere in mano un pennello se è per questo!
Federico le sfilò di mano l’oggetto del misfatto, mettendolo in sicurezza dentro un secchio di plastica vuoto.
 
-Federico!
Sentendo il suo nome, si voltò verso la direzione dell’inconfondibile voce di Marco: era sempre impeccabile in una delle sue camicie, i capelli biondi perfettamente tirati indietro con del gel.
-Ehi! – aveva bisbigliato di rimando Federico, senza preoccuparsi di dimostrare troppo entusiasmo. Non aveva ancora digerito quello che era successo con Annamaria, né aveva dimenticato come fosse pessimo da amico: in passato si era accontentato della sua amicizia, ma non erano più compatibili come persone.
-Ciao a te! – aveva detto Emma, sorridente. Federico si era quasi dimenticato che lei fosse presente, preso com’era dal tornado dei suoi pensieri.
Marco squadrò Emma con una curiosità sincera, probabilmente indeciso se etichettarla come bella o semplicemente buffa. Federico, tuttavia, non voleva dargli l’occasione di capirlo.
-Scusami, siamo di fretta – borbottò evasivo, prendendo Emma per mano e trascinandola via.
Quando furono fuori dalla portata d’orecchio di Marco, Emma prese di nuovo la parola: -Potevi essere meno sgarbato.
-Non si merita che io non lo sia – se ne uscì. Pur essendo conscio che Marco era stato ampiamento punito dai suoi per ciò che aveva fatto ad Anna, pur sapendo che Annamaria stessa lo aveva perdonato, pur sapendo che lui stava cercando di migliorarsi, Federico non aveva mandato giù nulla di quello che avevano condiviso. Serbava rancore.
-Tu ti meriti di essere sereno, però – aveva proseguito Emma. -E quando lo guardi, ribolli dentro per l’astio. Devi perdonarlo per te stesso.
Federico la guardò con un misto di orgoglio e di amore. Emma, dopotutto, aveva perdonato Patrizia, la quale le aveva fatto ben di peggio.
Forse anche lui poteva fare lo stesso con Marco.
 
-Allora finisci tu? – rise Emma, indicando il muro dipinto per metà.
Non attese neanche la risposta da parte di Federico: si avviò subito verso il piano di sopra a grandi passi.
-Ma non è che fai le cose male perché sai che poi ci penso io? – borbottò lui quando lei fu a metà del tragitto.
Emma fece spallucce, sfoggiando la sua migliore espressione da bimba indifesa. -Credo che non lo sapremo mai con esattezza.
-Credo che questa risposta valga più di un sì – ghignò lui. -Almeno un bacio me lo dai?
-Perché me lo chiedi sempre? – lo prese in giro lei, a quel punto. Più di un anno prima, era lei a chiederglielo costantemente.
-Perché mi costringi a farlo – brontolò, consapevole anche lui del riferimento a un momento che avevano condiviso in passato. -Inizi a darmi per scontato o sbaglio?
Emma fece il percorso a ritroso e lo raggiunse in fretta, scoccandogli un bacio sulle labbra. -Ti amo. 
 
Il fiore della peonia è tra i più venerati in Oriente da migliaia di anni come portatore di fortuna e di un matrimonio felice. Appariscente, lussureggiante, elegante incarna amore e affetto, prosperità, onore, valore, nobiltà d’animo e, in piena fioritura, pace. Dolcemente profumata e di lunga durata, definita 'rosa senza spine' dagli europei, simbolo delle romantiche storie d’amore.
[http://www.giardinaggio.net/fiori/significato-dei-fiori/peonia.asp#ixzz3w5T86EiY]
 
*Fonte: www.trafioriepiante.it

Carissimi lettor*, mi scuso immensamente per aver tardato così tanto il caricamento dell'ultimo capitolo: del resto era finito da tempo, dovevo solo mettermi al computer e postarlo. Complice il nuovo lavoro e le vicissitudini della vita, in queste settimane non ho mai trovato il tempo di dedicarmi a postarlo, anche se sospetto che parte della responsabilità sia da attribuire alla nostalgia che provo nell'aver concluso questa storia. Ho iniziato a scriverla a sedici anni e adesso che ne ho ventiquattro mi sembra strano averla finita: sono cambiate tante cose nel corso del tempo, così come sono cambiata io, ma negli anni Federico ed Emma sono rimasti cristallizzati nella mia memoria... 
Spero che questo piccolo viaggio vi sia piaciuto. 
Buona giornata! 

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