L'amore non muore mai

di Ikki_the_crow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 
Il fuoco avvolgeva la casa, illuminando la notte e i visi furiosi delle persone intorno. Di ritorno dal suo giro di visite, l’uomo se n’era accorto da parecchie centinaia di metri di distanza, aveva visto la luce e sentito le grida, e aveva girato sui tacchi. Gli piangeva il cuore al pensiero dei suoi appunti di ricerca, perduti per sempre, e ancora di più per le rose della moglie, che in quel momento stavano sicuramente bruciando assieme al resto dei loro averi.
Era arrivato a malapena a metà della collina, quando sentì una voce alle sue spalle.
“Eccolo! È qui!”
Sentendo il clamore della folla che si avvicinava, lasciò cadere la borsa e inziò a correre verso il bosco. Da qualche parte, dietro di lui, alcuni cani iniziarono ad abbaiare. Sembravano farsi più vicini ogni istante che passava...

 
Con un sussulto, l’uomo aprì gli occhi e inspirò a fondo. I polmoni iniziarono subito a bruciargli, e lui tossì con foga, cercando di riprendere fiato. Quando sentì che l’aria non gli scorreva più nella gola e nel petto come fuoco, si arrischiò a riaprire gli occhi e a darsi un’occhiata intorno.
Era sdraiato di schiena, in quella che sembrava una radura. Sopra di lui, poteva intravedere il cielo che si tingeva di violetto nella luce del tramonto, e le chiome di alcuni alberi che si muovevano piano nel vento leggero. Non faceva particolarmente freddo, ma probabilmente nel giro di poco tempo l’aria sarebbe passata da fresca a gelida.
E lui era nudo. Se ne rese conto quasi distrattamente. Poteva sentire gli steli d’erba che gli solleticavano le gambe e le braccia, e la terra fredda e umida sotto di sé.
Cercò di alzarsi, e capì che non ce l’avrebbe fatta. Il suo corpo non gli rispondeva.
Non sentiva dolore, ad eccezione del palmo della mano destra, il che era inaspettato. Per qualche motivo, si era aspettato dolore. Molto.
Riprovò ad alzarsi, con più calma questa volta. Ancora niente.
Allora si concentrò su un movimento più piccolo.
Braccio sinistro. Sollevalo.
Sentì i muscoli tremare, come se non fossero stati usati per molto, molto tempo. Con infinita lentezza, il braccio si sollevò fino ad entrare nel suo campo visivo. Illuminato dalla luce arancione del sole morente, la carne pallida sembrava in fiamme. Tremava leggermente, come se il sempice gesto di tendere un braccio verso il cielo stesse mettendo a dura prova quei pochi muscoli che lo avvolgevano. La pelle era solcata da linee irregolari, alcune sottili come fili di ragnatela, altre più spesse e leggermente in rilievo. L’uomo le fissò con curiosità.
Cosa...?
E poi, di colpo, una serie di immagini gli si affacciò alla mente. Troppo assurde, dolorose e impossibili perché fossero reali. Il braccio ricadde a terra, come quello di una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Riuscì a malapena a sentire un fruscio tra i cespugli prima di perdere di nuovo conoscenza.
 
Un lago di fuoco, impossibilmente grande, si apriva sotto di lui. All’interno della gabbia di ossidiana, il calore era insopportabile. Bruciava la pelle, i capelli, gli occhi. L’anima.
La gabbia era costellata di escrescenze affilate, che sembravano muoversi e spostarsi quando nessuno le guardava. Ogni volta che lui sfiorava una sbarra, si ritrovava con nuovi tagli e squarci nella carne. E non c’era altro punto dove appoggiarsi se non le sbarre.
Ogni minimo movimento gli provocava ferite, che il calore delle fiamme rendeva ancora più insopportabili. Sotto la pelle, la carne era rossa, lucida per qualche istante prima di seccarsi e brunirsi come una bistecca troppo cotta. Nel giro di pochi istanti, le ferite si richiudevano dolorosamente, intrappolando quel calore all’interno del suo corpo, solo perché le lame di ossidiana ne aprissero di nuove, ancora e ancora e ancora.
In quel vortice di calore, dolore e disperazione, c’era solo un barlume di speranza.
 
“Sta riprendendo conoscenza.”
“Lo vedo. Tutti fuori, meglio non agitarlo.”
“Chi è Elisa?”
“Come faccio a saperlo? Ho detto fuori!”
L’uomo rimase sdraiato per qualche secondo, ad occhi chiusi, cercando di capire dove si trovasse. Era ancora nudo, ma stavolta avvertiva qualcosa di morbido sotto di sé. Probabilmente un letto, o una branda. Aveva anche una coperta leggera stesa addosso, e da dietro le palpebre chiuse filtrava una luce tremolante. Una candela, forse?
Aprì lentamente gli occhi. Si trovava in quello che sembrava l’interno di un carro con un tetto di tessuto pesante, ammobiliato come una piccola casetta o forse un’infermeria. Era effettivamente sdraiato su un letto, e quando provò a muoversi si accorse che il suo corpo rispondeva leggermente meglio di quanto avesse fatto nella radura.
“Ehi, ehi, piano figliuolo.”
La voce, apparentemente di una persona anziana, proveniva esattamente da accanto al letto, sulla sua destra. Due mani callose afferrarono il torso dell’uomo e lo sostennero con sorprendente gentilezza, aiutandolo ad alzarsi e sistemandogli il cuscino dietro la schiena in modo che potesse stare seduto. Lui si voltò piano verso il suo soccorritore, ansimando per quel minuscolo sforzo come se avesse corso per chilometri, e si accorse di avere la vista sfocata. Stringendo le palpebre, poteva distinguere un viso barbuto ma poco di più.
“Un attimo solo, figliuolo.” La persona accanto al letto iniziò a frugare in una tasca. Una delle mani ricomparve, porgendogli qualcosa. Era un paio di occhiali senza montatura, con le stanghette innestate direttamente sulle lenti. Quando l’uomo tese lentamente la mano destra per raccoglierli, si accorse che non gli faceva più così male come prima. Qualcuno, probabilmente la persona lì accanto, gliel’aveva fasciata in uno strato di bende.
Gli occhiali non pesavano quasi niente: le stanghette erano di metallo sottile, e sembrava si potessero spezzare alla minima torsione. Le lenti erano leggermente scheggiate sul lato superiore, ma quando l’uomo inforcò con attenzione gli occhiali si accorse che funzionavano ancora alla perfezione. La vista gli andò immediatamente a fuoco, e lui poté guardarsi intorno con più attenzione.
Era effettivamente in quella che pareva una specie di infermeria mobile. C’era una vetrinetta chiusa con una serratura sui cui scaffali trovavano posto barattoli di quelle che sarebbero potuto essere medicine ed unguenti di vario tipo; poco più in là, una seconda branda vuota e uno scrittoio, con tanto di sgabello. La candela che illuminava la stanza era appoggiata in una lanterna montata su un lungo supporto di metallo, accanto allo scrittoio. Tutti i mobili ad eccezione dello sgabello erano inchiodati al pavimento. L’uomo si voltò di nuovo verso l’altra persona nella stanza, e questa volta poté vederlo bene.
Si trattava di un nano, dalla barba scura con strisce grigie che la solcavano secondo onde irregolari, acconciata in una selva di complicate treccine. Come tutti i membri della sua razza era basso e tarchiato, con un’espressione burbera sul viso. Era anche quasi completamente calvo, un altro segno della sua età non esattamente verde. Il nano lo osservò con aria bonaria.
“Meglio, vero?” borbottò. “Allora, facciamo le presentazioni. Io sono il dottor Glanderl Valzak, dei Monti delle Nuvole. E tu sei?”
Parlava un Comune dal forte accento, ma l’uomo riuscì a capirlo abbastanza bene. Alcuni termini però suonavano strani alle sue orecchie, come se non significassero esattamente quello che lui si aspettava.
“Dottore...” gracchiò, per poi tacere immediatamente. La gola gli raspava, e il suono che ne uscì lo spaventò Sembrava il grattare di unghie su una lavagna.
“Oh, aspetta.” Il nano si piegò e raccolse da terra una borraccia e un piccolo bicchiere di coccio. Versò dell’acqua nel bicchiere e lo tese all’uomo.
“Ecco – Piano!” esclamò, colto alla sprovvista.
Incurante del fatto che le sue mani non gli rispondevano ancora del tutto, l’uomo era scattato verso il bicchiere come se non bevesse da una vita. Prima che il nano potesse reagire, lo aveva afferrato con dita malferme e se n’era vuotato il contenuto in gola. Iniziò immediatamente a tossire, piegato in due dalle fitte, fino a che non si piegò di lato e rigettò tutto il liquido a lato del letto. Dopo qualche altro colpo di tosse, il suo stomaco finalmente si placò.
“Per questo avevo detto di fare piano.” Per nulla impensierito, il nano scosse la testa. “Sembra che il tuo corpo non veda cibo o acqua da settimane. Il che è impossibile, ovviamente, ma in ogni caso devi andarci a piccoli passi, o non ti resterà giù niente. Ecco, riprova.”
Con inaspettata delicatezza riprese in mano il bicchiere, ci versò dentro meno di mezzo dito d’acqua e poi lo ripassò all’uomo. Quest’ultimo lo afferrò di nuovo, ma questa volta si costrinse a bere a piccoli sorsi, tenendo in bocca l’acqua prima di inghiottirla. Anche la sola sensazione di quelle poche gocce sulla lingua asciutta era paradisiaca.
“Ecco.” Il dottor Valzak annuì di nuovo. “Ora, riproviamo. Vuoi dirmi come ti chiami, figliuolo?”
“Io...” iniziò l’uomo, per poi interrompersi di nuovo. Questa volta però il suono della sua voce non c’entrava per niente. “Io non lo so.”
“Non lo ricordi?” Il nano sollevò un sopracciglio.
L’uomo sollevò la mano sinistra, quella priva di bende, e se la passò sul viso. Poi i suoi occhi rividero il reticolo di cicatrici sul braccio, e il suo respiro ricominciò ad accelerare. Nelle orecchie gli pareva di sentire come un rombo lontano, grida disperate e risate malevole.
“D’accordo, non preoccuparti.” Il nano doveva essersi accorto dello stato di ansia in cui si trovava il suo paziente, perché gli poggiò una di quelle mani al tempo stesso dure e delicate sulla schiena. “Quando si hanno subito dei traumi, può capitare che la memoria faccia le bizze. E da quello che vedo, tu di traumi devi averne subiti parecchi. Ma ora è passata.”
“Dove sono?” gracchiò l’uomo.
“Nel mio carro. Viaggio con una carovana di mercanti. Ti abbiamo trovato in una radura, nei boschi di Neverwinter. Stavamo cercando un posto per passare la notte, e gli esploratori ti hanno trovato lì, privo di sensi. Non avevi nulla con te, solo gli occhiali sul naso. E questo.”
Tese all’uomo quello che pareva un medaglione di acciaio, di forma circolare e con alcune lievi incisioni tutto intorno che ricordavano rami di edera. Era opaco, come se fosse molto antico, ma sorprendentemente pulito.
“Te l’ho lucidato mentre aspettavo che ti svegliassi,” spiegò il nano. “Dovevi tenerci davvero tanto: lo tenevi talmente stretto in mano che ti era entrato nella carne.”
Indicò la mano destra bendata dell’uomo. Quest’ultimo lo stava ascoltando solo in parte: quando aveva visto il medaglione, qualcosa nella sua mente era scattato.
Come in un sogno, tese la mano e lo afferrò con deferenza. Muovendosi d’istinto, le sue dita trovarono un piccolo bottone sul lato e lo premettero: il medaglione si aprì con uno scatto in due metà identiche. La metà di sinistra conteneva quella che una volta era stata un’immagine in miniatura, probabilmente di un giovane uomo. Era bruciacchiata, annerita e quasi irriconoscibile: si potevano intuire solo i capelli, castani e scombinati, e parte del viso su cui si affacciava un sorriso allegro.
L’uomo non la degnò di uno sguardo: con dita tremanti, sfiorò l’immagine nella metà destra del ciondolo. Era una donna, di circa vent’anni, dai lunghi capelli castani e l’incarnato pallido. Indossava un abito semplice, ma elegante, orecchini di perla e quello che sembrava un’opale in un medaglione appeso al collo. Gli occhi azzurri e gentili sembravano fissare oltre il vetro che proteggeva l’immagine dritto in viso di chi guardava. Aveva le labbra increspate in un lieve sorriso, che la faceva sembrare sul punto di scoppiare a ridere per qualcosa di divertente che qualcuno fuori dal ritratto avesse appena detto.
L’uomo fissò l’immagine per quella che parve un’eternità.
“Elisa...” mormorò, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Iniziò a piangere, in silenzio, del tutto dimentico della presenza del nano che faceva tutto il possibile per guardare da un’altra parte e lasciargli un minimo di riservatezza. Quando al dottore parve che il suo paziente si fosse calmato, tornò ad apostrofarlo.
“Allora ricordi qualcosa,” disse con tono soddisfatto. “Il nome di quella donna.”
“Elisa.” L’uomo annuì. “Mia... Mia moglie.”
“Ricordi dove sia?”
“È morta, credo. Da molto tempo.” L’uomo tossicchiò e si portò la mano sinistra di fronte alla bocca, come se stesse cercando di non rimettersi a piangere.
“Oh. Mi dispiace.” Il nano indicò l’altra metà del medaglione. “Immagino che quello fossi tu. Che cos’è successo a quell’immagine?”
“Non... Non lo so. Non ricordo.”
Il nano annuì. “Senti, vorrei fare una prova se ti va.”
Prima che l’altro potesse rispondere, tirò fuori da chissà dove un oggetto piatto di metallo levigato. Quando lo voltò, l’uomo si accorse che dall’altra parte c’era un sottile strato di vetro.
“Forse guardandoti in faccia ti tornerà in mente qualcosa. Ma devo avvisarti: potrebbe non essere quello che vorresti.”
L’uomo esitò, poi annuì. Il medaglione stretto nella mano destra – adesso capisco come aveva fatto a infilarselo nelle carni, pensò Glanderl – allungò la sinistra per afferrare lo specchio. Quando lo rivolse verso di sé, incontrò lo sguardo di un uomo di circa trent’anni dai capelli castani e dal naso affilato. Era un viso che ricordava, in qualche modo, ma al tempo stesso c’era qualcosa che stonava. Ci mise qualche secondo a capire cosa fosse.
Gli occhi. Gli occhi sono sbagliati.
Nella sua mente, quella persona aveva gli occhi verdi. Il riflesso nello specchio li aveva di un colore simile al legno vecchio: castani scuri, quasi rossastri.
L’uomo inclinò lo specchio e si osservò da varie angolazioni. Sì, quello era lui. Se lo ricordava. E nel momento in cui lo realizzò, si accorse di conoscere anche il proprio nome. Come aveva potuto dimenticarlo?
“Mi chiamo Christopher Blackwood,” disse. Il nome rotolò sulla lingua con agio. Era quello giusto, ma mancava ancora qualcosa. “Dottor Christopher Blackwood.”
Meglio. Molto meglio.
Gli occhi del nano si allargarono. “Oh. Un collega?”
“A quanto pare,” rispose l’altro. Poi, una nuova fitta alla testa lo spinse a lasciar cadere lo specchio sul letto e a portarsi una mano alla fronte con un gemito.
Quando il dolore fu scemato un poco, chissà quanto tempo più tardi, provò a ricapitolare.
“Purtroppo non ricordo quasi nulla. Mi chiamo Christopher Blackwood. Sono... ero un dottore, ma al momento le mie nozioni di medicina sono quasi nulle. Mia moglie si chiama Elisa. Ho paura che sia morta.”
“Mi dispiace,” ripeté il nano. “Ricorda altro? Da dove viene, come è finito qui.” Esitò un attimo. “Come si è fatto quelle.”
Gesticolò in direzione di Christopher. Per la prima volta, l’altro abbassò lo sguardo sul proprio corpo smunto e vide che il reticolo di cicatrici che aveva sul braccio sinistro non si limitava a quello, ma si estendeva per tutto il busto fino al punto dove la coperta lo nascondeva alla vista. Ma Christopher era abbastanza sicuro che l’addome e le gambe non fossero in condizioni migliori.
Scosse la testa. “Non ricordo. Buio completo.”
“Non si preoccupi, dottore.” Solo a quel punto Christopher si accorse che Glanderl aveva iniziato a dargli del lei. Forse una forma di rispetto verso il titolo che aveva detto di possedere. “La perdita temporanea di memoria è un sintomo comune dopo –”
“Dopo un forte trauma. Mi ricordo.” Me lo ha detto pochi secondi fa.
“Esatto.” Il nano annuì. “Per il momento, cerchi di riposarsi. Vedrà che i ricordi torneranno da soli, con il tempo.”
“Lo spero.” Christopher fece scivolare le gambe e si rimise sdraiato. “Ho la sensazione che avessi qualcosa da fare. Qualcosa di importante. E di averla lasciata in sospeso.”
“Al momento, la cosa più importante è che si rimetta.” Il dottor Valzak andò alla propria dispensa dei farmaci, la aprì e ne estrasse alcune foglie secche.
“Vuole qualcosa per dormire?” domandò. “Mi pareva che avesse il sonno agitato, prima.”
Christopher osservò quello che il nano gli stava tendendo. Valeriana.
“No, grazie.” Tentò un sorriso. “Preferisco restare lucido.”
“Come vuole.” Glanderl si avvicinò alla lanterna, afferrò il sostegno e la trasportò vicino al letto, dove la poggiò con un tonfo sordo.
“Gliela metto qui, nel caso ne avesse bisogno,” disse. “C’è un acciarino giusto accanto, non può non trovarlo.”
Christopher ringraziò, e il nano aggiustò meglio la candela nella sua base prima di aprire la porta del carro. Dall’esterno, il vociare soffocato si quietò all’improvviso.
“Se ha bisogno, faccia una voce. C’è sempre qualcuno sveglio qui fuori.”
Per essere sicuri che non vi sgozzi tutti durante il sonno, pensò Christopher.
“La ringrazio, dottore,” disse invece. Si scambiarono ancora qualche cortesia, poi il nano chiuse la porta.
Christopher si sollevò su un braccio, spense la candela con un soffio e si ributtò sul letto, gli occhi spalancati nel buio. Il suo corpo si muoveva già molto meglio, notò.
Mi chiamo Christopher Blackwood, si disse.
Mia moglie è Elisa Maria Röckel-Blackwood. Il nome venne da sé, chiaro come il sole.
Sono un medico. Non ricordo dove sono nato, dove vivo o cosa mi piaccia mangiare. Ricordo però che il compleanno di mia moglie è il diciottesimo giorno di Marea d’Estate. Ricordo che adora i fiori e gli animali. Ricordo che ogni mattina lasciava sulla finestra un po’ di cibo per gli uccelli, e che i corvi avevano iniziato a portarle dei regali in cambio. Prima delle pietruzze. Poi, quando lei aveva dato una dose di cibo in più a uno che si era presentato con una camelia, avevano iniziato a tappezzarci il davanzale di fiori.
Non ricordava la casa, il luogo dove vivevano e neppure il giorno del proprio compleanno, ma l’immagine di Elisa che lasciava un po’ di pane secco sulla finestra con un sorriso era vivida come se l’avesse avuta davanti agli occhi in quel preciso momento. Ci mise qualche minuto ad accorgersi che, nonostante il buio completo all’interno dell’infermeria – non c’erano finestre, e la candela si era spenta da un pezzo – riusciva a vedere perfettamente intorno a sé. Sollevò la mano sinistra nel buio e spalancò le dita, osservando le cicatrici che si rincorrevano sulla sua carne.
Non so cosa mi sia successo. Ma lo scoprirò. E scoprirò cos’è successo a mia moglie.
Ogni volta che pensava a lei, sentiva un dolore sordo e profondo nel petto. Non era ancora riuscito a inquadrarlo, ma sapeva bene cosa significava.
Sei morta, amore mio. Cos’è successo? Chi ti ha fatto questo?
E, dal nulla, una nuova emozione gli esplose nel petto, come braci sotto la cenere che aspettassero solo un soffio di vento per riprendere ad ardere.
Rabbia. Di più. Odio.
Christopher Blackwood dovette farsi violenza per impedirsi di scattare in piedi e urlare con tutto il fiato che aveva in corpo. Rimase sdraiato nel letto, ad ansimare piano, digrignando i denti e stringendo il medaglione nella mano bendata. Un rivolo di sangue era sfuggito dalle bende e stava macchiando il lenzuolo, ma in quel momento non gli importava.
Scoprirò cosa ti è successo, amore. E i colpevoli pagheranno. Fosse l’ultima cosa che faccio.


[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel di NPC_stories e di Dira_]

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
21-12-1370
Come consigliato dal dottor Glanderl Valzak, ho acquistato un diario per annotare i miei pensieri. Il dottore pensa che possa aiutarmi a recuperare prima i miei ricordi. Io ho i miei dubbi, ma tanto vale provare.
Iniziamo da quello che so: mi chiamo Christopher Blackwood, e un tempo ero un dottore a mia volta. Abitavo in un piccolo villaggio, di cui al momento non ricordo ancora il nome, in compagnia di mia moglie. Elisa Maria Röckel-Blackwood.
Ricordo perfettamente Elisa. Il suo viso, la sua voce, le sue mani. Quello che amava, quello che detestava. Solo una cosa non ricordo. So che Elisa è morta. Ma non ricordo perché. Ci sono parti della mia vita che mancano completamente dalla mia memoria, enormi parti.
Ogni giorno ricordo qualche dettaglio in più. Ma non è abbastanza.
C’è qualcosa che devo fare, ma non ricordo cosa. So solo che è urgente, e qui sto perdendo tempo. Sono quasi sicuro che c’entri con Elisa.
È passata quasi una settimana da quando il dottor Valzak e il resto della compagnia mi ha trovato. Faccio progressi, ma è dolorosamente lento. Ho bisogno di accelerare i tempi.
Per fortuna, la carovana mercantile è arrivata a Luskan. Ho vaghi ricordi di una città portuale con un nome simile, anche se sono sicuro di non esserci mai stato. Devo averne sentito parlare, ma ero stranamente convinto che fosse un insediamento molto più piccolo.
Meglio che mi sia sbagliato. È tempo di fare qualche ricerca.
 
Seduto sui gradini di un carro, il dottor Blackwood soffiò delicatamente sulle pagine del diario per asciugare l’inchiostro prima di chiuderlo. Era un semplice libricino dalla copertina di cuoio marrone e sottile, niente di particolare. Ma aveva tante pagine bianche, e questo era l’importante. Ed era costato poco. Per una persona che non aveva nulla, questo aspetto era fondamentale.
Il dottore si guardò intorno alla luce del falò da campo e si alzò lentamente in piedi. Gettò le braccia sopra la testa e si stiracchiò, il corpo sottile inarcato all’indietro. Era giunto il momento di andare a riposare. La sua ultima notte in carovana.
Il giorno successivo a quello in cui era stato ritrovato dalla carovana, il dottor Valzak si era presentato con alcuni vestiti per lui. Una camicia bianca molto semplice, pantaloni di cuoio, stivaletti da viaggio.
“Non possiamo mica farla andare in giro nudo,” aveva detto con un mezzo sorriso. “Spaventerebbe un po’ tutti.”
Christopher aveva sorriso a sua volta e aveva accettato l’offerta.
Solo in seguito aveva scoperto che si trattava di un prestito. La carovana era composta da mercanti di ogni tipo, e il nano aveva domandato in giro se qualcuno avesse vestiti a poco prezzo di cui potesse fare a meno per qualche tempo. Il suo magro bottino aveva un valore di qualche moneta d’argento, ma si era impegnato a risarcire tutti fino all’ultimo pezzo di rame. E Christopher si era impegnato a risarcire lui.
Non voglio debiti con nessuno.
Per una settimana, nonostante le proteste del nano, Christopher si era impegnato a guadagnarsi il proprio posto nella carovana. Aveva svolto ogni mansione, dalla vedetta all’aiuto cuoco, dall’infermiere al contabile, dal conduttore allo stalliere. Anche se, per qualche motivo, i cavalli sembravano averlo preso in antipatia istintiva. Non appena si avvicinava, diventavano subito nervosi e irritabili, anche quando lui portava loro acqua e biada fresca. Probabilmente sentivano in lui qualcosa che li disturbava.
Una volta arrivati alle porte di Luskan, il capocarovana lo aveva chiamato per dargli la sua parte di stipendio, assieme ai mercenari che avevano scortato i mercanti per tutto il viaggio. Detratto il costo delle cibarie e dell’alloggio non era rimasto molto, ma era stato sufficiente per Christopher per ripagare i vestiti che aveva indosso, e gli era rimasto perfino qualcosa in tasca. Quando aveva provato a pagare il dottor Valzak, però, questo si era rifiutato di accettare un solo pezzo di rame.
“Non sono diventato un medico per denaro, dottor Blackwood. Proprio come lei, del resto.”
“Come può dirlo?” aveva ribattuto lui, sorpreso.
“Quando vivi a lungo come me, impari a riconoscere le persone. Lei non cerca il denaro o il potere, dottor Blackwood. Lei è una brava persona.”
Christopher era sicuro che il nano si sbagliasse, almeno in parte, ma non aveva fatto commenti. Non sapeva ancora bene chi fosse, ma di una cosa era sicuro.
Non era una brava persona. La rabbia che si sentiva dentro era troppo forte, troppo dirompente, perché lo fosse.
 
L’uomo era sdraiato su un tavolo, mani e piedi legati con delle cinghie e uno straccio ficcato in bocca perché non si mordesse la lingua. Era nudo, e con abbastanza sedativi in corpo da stordire un cavallo. Era un mercenario, un vagabondo e un mezzo ubriacone.
Nessuno di cui il mondo avrebbe sentito la mancanza.
La prima incisione, subito sotto la gabbia toracica, lo svegliò. Rivolse gli occhi annebbiati dai sedativi verso l’alto e bofonchiò qualcosa, la voce ovattata dal panno. Lui lo ignorò.
Quando infilò la mano nell’incisione per tastargli il fegato, quello gridò più forte e tentò di divincolarsi. Inutile: tra le corde e i narcotici, non ce l’avrebbe mai fatta. E tra poco la perdita di sangue avrebbe fatto il resto.
Il fegato era ingrossato, ma al tatto sembrava sano. Il che era bizzarro: con una vita come quella del mercenario, ci si sarebbe aspettati quanto minimo un po’ di cirrosi. Meglio controllare con più accortezza.
Il secondo taglio gli permise di osservare con più attenzione la cistifellea. Ah, ecco qualcosa di interessante: all’interno si potevano intravedere almeno tre corpi estranei, uno dei quali grande come una monetina. Una rapida incisione, e si ritrovò tra le dita quello che sembrava un ciottolo lucido e levigato, di un affascinante colorito verdastro. Lo osservò più da vicino: il motivo per cui quei sassolini si formavano era un mistero. Secondo alcuni era la dieta, secondo altri l’eccesso di alcol. A volte potevano restare nascosti per anni prima di dare qualche sintomo. Un vero enigma.
Ignorando i gemiti dell’uomo, si accinse a passare al punto successivo del suo esame. Il mercenario era alto quasi due metri, il che poneva interessanti quesiti su come le vene delle sue gambe gestissero il flusso di sangue di ritorno dagli arti verso il cuore. Ora che aveva creato un vuoto di volume nell’addome, era il momento di studiare i movimenti del sangue negli arti inferiori. Avvicinò la lama alla pelle del polpaccio, tastò un pochino per accertarsi di non recidere per errore la vena femorale, poi premette più a fondo. Con un po’ di attenzione, sarebbe riuscito ad estrarla tutta intera.
 
La mattina seguente, la carovana si disperse per i moli e le varie piazze del mercato di Luskan. Il dottor Blackwood si incamminò lungo le strade della città, guardandosi intorno con aria curiosa. A parte il suo diario, pochi spiccioli nella scarsella e i vestiti che aveva indosso, non possedeva un bel nulla. Quindi non doveva avere timore di essere borseggiato.
Gli ci volle all’incirca mezz’ora prima di accorgersi che le persone che incrociava lo guardavano in modo strano. Avrebbe potuto essere il suo incedere dinoccolato, i capelli scompigliati, gli occhiali rovinati o il modo con cui sembrava guardare ogni cosa come se si chiedesse come fosse fatta all’interno, ma Christopher era quasi certo che fosse colpa delle sue cicatrici. Nonostante i vestiti coprissero quasi del tutto il suo corpo, i segni intorno ai polsi e alle mani erano ancora più che evidenti. Sembrava che qualcuno si fosse divertito a staccargli e poi riattaccargli tutte le dita, come se fosse stato un pupazzo di panno.
Christopher sospirò. Altro denaro perso. Altro tempo. Ma non poteva essere evitato.
Pochi minuti e una lunga contrattazione con un mercante di vestiti più tardi, il dottore aveva aggiunto un paio di guanti di tessuto scuro, un panciotto pieno di tasche in cui infilare le proprie poche cose e un lungo mantello nero con cappuccio al suo guardaroba. Il mercante aveva perfino aggiunto un farfallino sottile, come omaggio. Christopher se l’era allacciato senza neppure guardarsi allo specchio, usando solo le dita come riferimento. Era un buon allenamento per la coordinazione tattile.
 Una volta sistemato quel piccolo problema, il dottor Blackwood decise che era giunto il momento di mettersi al lavoro. Aveva fatto abbastanza il turista.
La prima delusione della giornata arrivò quando chiese di essere ammesso ad una delle molte biblioteche della Torre dell’Arcano, quella contenente le cronache della contea.
“Mi dispiace, ma se non ha una tessera devo chiederle di pagare l’ingresso,” aveva detto il bibliotecario, con buona pace della libera conoscenza. Christopher non aveva abbastanza denaro per pagare – non aveva abbastanza denaro nemmeno per mangiare, in realtà – quindi fece l’unica cosa possibile.
Iniziò a cercarsi un lavoro.
 Dopo aver riflettuto per qualche minuto tra sé, seduto sui gradini al di fuori dell’alta torre che ricordava un albero, fermò un passante che aveva l’aria di essere del luogo.
“Mi perdoni, buon uomo,” disse. “Saprebbe indicarmi il sanatorio locale?”
Quello lo guardò stupito. “Se cerca l’ospedale, c’è una clinica vicino alla sede della Compagnia Commerciale Drago Rosso. I loro mercenari hanno spesso bisogno di cure.”
Dopo essersi fatto spiegare come raggiungerla, il dottor Blackwood si incamminò quindi verso la parte settentrionale della città. Trovare la clinica non fu difficile: i luoghi dove si concentrano i malati hanno una sorta di aura ben distinta. Le persone li evitano istintivamente, come se avessero paura di potersi prendere qualcosa solo passandovi di fronte, ma al tempo stesso vogliono abitarvi vicino, in caso di necessità. Solo non troppo vicino.
All’ingresso, Christopher fu apostrofato da una halfling di mezza età che indossava dei paramenti da guaritrice e brandiva una cartellina di legno con sopra un foglio di pergamena. Nonostante gli arrivasse a malapena allo sterno, gli si parò di fronte con l’autorità di chi è consapevole di avere potere assoluto nel luogo dove si trova.
“Nome e motivo della visita?” domandò sbrigativa.
“Christopher Blackwood. Io... sono un dottore. Appena arrivato in città. Cercavo lavoro.”
La donna lo squadrò dal basso in alto con aria critica.
“Dove ha studiato?”
“Io... Ah, ero un dottore di campagna. Ho studiato da autodidatta.” Non era sicuro che fosse la verità, ma suonava corretto. Probabilmente lo era.
Lo sguardo dell’halfling si fece critico.
“Da dove viene?”
“Whitechurch.”
La parola gli uscì dalle labbra prima ancora che lui se ne rendesse conto. Dovette fare un’espressione sorpresa, perché la halfling lo fissò in modo strano prima di continuare.
“Mai sentito. È uno di quei paeselli sulle colline intorno al Dessarin?”
“Esattamente,” inventò Christopher.
Lei gli rivolse un altro sguardo dubbioso.
“Qual è la sua specializzazione?” chiese poi. Quando l’altro la fissò perplesso senza rispondere, sbuffò spazientita.
“Farmacia, chirurgia, medicina generale, cosa?”
“Io... Ho sempre fatto un po’ di tutto.” Alcune immagini riaffiorarono alla mente del dottore. “Curavo le febbri infettive di inverno e suturavo i tagli che i mezzadri si facevano con le falci d’estate. Ho avuto casi di ipotermia da gente caduta nel fiume ghiacciato, e ubriachi mezzi soffocati nel loro stesso vomito. E poi –”
Si interruppe con un gemito, portandosi la mano alla testa.
 
“Tieni, amore. Non ti stancare troppo.”
Seduta nel letto, la schiena appoggiata contro il muro, Elisa stava sorridendo. Un sorriso stanco, ma sempre il più bello del mondo.
“Grazie, caro.” Con una mano pallida, raccolse una manciata di pillole e compresse da una coppetta e le inghiottì senza acqua, con una sicurezza dettata dalla lunga pratica.
“Oggi i dolori sono peggio del solito,” disse poi con tono quasi di scuse.
Lui si sedette sul bordo del letto e le prese una mano tra le sue. Dalle persiane chiuse della finestra entravano lame di luce dorata, che andavano a posarsi sul copriletto ricamato.
“Non scusarti. Non è colpa tua.” Poi: “Vuoi che vada a prenderti qualcosa da mangiare? Magari una focaccia al forno?”
“Se hai tempo. Non dovevi lavorare?”
Lui scosse la testa. “Può aspettare. Tu sei più importante.”
 
“Dottor Blackwood?”
La voce della halfling lo riscosse improvvisamente.
“Si sente bene?” domandò lei, sempre con quel tono inquisitorio.
“Sì. Mi scusi. Da qualche tempo soffro di cefalee.” Christopher scosse la testa come per schiarirsi le idee. “Cosa stavo dicendo?”
“Stava elencando casi che aveva affrontato.” La guaritrice sembrava annoiata.
“Ah, giusto. Sono anche esperto di... cure a lungo termine per malati cronici.”
Qualcosa nel tono di voce del dottore spinse l’altra a non chiedere oltre. Gettò uno sguardo oltre le proprie spalle, verso l’interno della struttura.
“Vediamo. Posso farla parlare con il dottor Wollstonecraft. Oggi è di turno lui. Le farà qualche domanda, magari la metterà alla prova. Venga con me.”
Si incamminò per le corsie, facendogli cenno di seguirla. L’odore di disinfettante riempì subito l’aria, riportando a galla altri ricordi e frammenti di essi.
Nella maggior parte di essi era mischiato con l’odore del sangue.
 
22-12-1370
Elisa era malata. Come ho potuto dimenticarlo? Era sempre stata malata. I primi sintomi si sono presentati quando aveva circa undici anni. All’epoca eravamo già amici. Lo siamo sempre stati, fin da quando eravamo molto piccoli. L’unica differenza era che io non ero ancora innamorato di lei. O forse lo sono sempre stato e non lo sapevo ancora.
All’inizio erano cose di poco conto. Giramenti di testa, nausee, cefalee. Poi è iniziato il vomito. Gli spasmi muscolari. I dolori, talmente forti da non farla dormire la notte.
Come ho potuto dimenticare? Lei è stato il motivo per cui ho iniziato a studiare medicina, tampinando quel vecchio rimbambito che faceva il cavadenti finché non mi ha permesso di leggere alcuni dei suoi libri. Non erano granché, ma sono stati un inizio. Poi, tutto quello che ho trovato sulle bancherelle al mercato o dai carovanieri che passavano in città. Perfino qualche rudimento di magia arcana, poca roba. Il dottor Wollstonecraft ha detto che ho l’aura di un mago novizio – anche lui è un incantatore, ma non saprei di che genere. Interessante, ma poco utile al momento. Non ricordo un singolo incantesimo ancora.
Elisa era malata. E ogni anno che passava peggiorava. Nonostante le mie cure, nonostante le cure di tutti i medici che sono riuscito a trovare. Peggiorava sempre.
I ricordi sono ancora confusi, la testa mi fa male. Devo stendermi.
 
Christopher Blackwood lasciò il proprio diario sul tavolino e raggiunse la branda. Non si preoccupò di spegnere la luce, perché l’intera stanza era nel buio più completo. E nonostante questo, lui ci vedeva perfettamente. Un altro mistero.
Non sapeva che ore fossero, ma probabilmente era tardi. Gli avevano permesso di stare in una delle camere destinate ai medici di turno la notte, per il momento. In futuro si sarebbe cercato una camera in una locanda, aveva assicurato. Quando fosse stato sicuro di potersela permettere. Ma la verità era che non era del tutto sicuro di volersene andare.
Non molto presto, quanto meno.
Il dottor Wollstonecraft, un omaccione che sembrava più un macellaio che un vero medico, era stato estremamente sbrigativo. Gli aveva fatto alcune domande molto pratiche per assicurarsi che non fosse un completo millantatore, poi lo aveva scortato verso il letto di un paziente, chiedendogli cosa ne pensasse. Era un ragazzo di circa quindici anni, con una febbre molto alta che non accennava a scendere e continui conati di vomito misto a sangue. Christopher lo aveva osservato con attenzione, aveva poggiato l’orecchio sulla sua schiena per sentirne il respiro e poi aveva iniziato a palpargli l’addome. Quando aveva premuto lo stomaco, il ragazzo aveva fatto un salto sul letto e aveva cacciato un urlo.
“Quest’uomo ha lo stomaco perforato,” aveva detto Christopher risollevandosi. “Non so se per via della dieta, o se abbia inghiottito un corpo estraneo. Comunque, le pareti del suo stomaco si sono rotte, e gli acidi hanno iniziato a creare lesioni. Da cui il dolore e il sangue. La febbre è probabilmente dovuta ad un’infezione sistemica.”
Si era quindi rivolto alla halfling, in piedi dietro di loro. “Consiglierei qualcosa per abbassare la febbre e combattere le infezioni, sia in loco che sistemiche. Corteccia di salice fatta a pezzi e disciolta in acqua calda, per esempio. Mischiata a qualcosa che abbassi l’acidità dello stomaco, come per esempio del bicarbonato. Non potrà mangiare per qualche giorno, quindi aggiungete abbondante miele alle miscele. Se lo stomaco non guarisce da solo entro una settimana, bisognerà operarlo. Mettere una pezza ricavata dallo stomaco di un maiale. Verrà digerita, ovviamente, ma si spera abbastanza lentamente da dare il tempo alle pareti al di sotto di guarire.”
La guaritrice lo aveva osservato, senza dare cenno di voler prendere appunti. Poi aveva rivolto uno sguardo al dottor Wollstonecraft.
“È praticamente quello che ho detto io. Anche se non avrei utilizzato il miele: costa, da queste parti lo zucchero di barbabietola è più economico.” L’omaccione aveva riso. “Ci sai fare, ragazzo!”
Christopher quasi non lo aveva sentito. Il suo sguardo era stato attirato da un altro letto, occupato da quello che era con tutta probabilità un mercenario. L’uomo, di circa quarant’anni, era stato colpito al petto da qualcosa di pesante, forse una mazza o un martello da guerra. Gli aveva frantumato le costole, e una doveva aver perforato un polmone. In quel momento respirava a malapena e con un suono sibilante che gli sfuggiva dalle labbra. Dall’ematoma che aveva sul fianco gli spuntava una cannula di legno, che serviva a permettere al polmone collassato di gonfiarsi. Andava operato, o non sarebbe sopravvissuto. E anche così le probabilità che ne uscisse sulle sue gambe erano piuttosto scarse.
“Stavo giusto per portarlo di là,” aveva detto il dottor Wollstonecraft. “Ma questo giro tu stai in panchina, novellino. Non bruciamo i tempi.”
L’uomo non era sopravvissuto, come temeva Christopher, ma non era stato questo che gli aveva dato da pensare. Ciò che lo lasciava perplesso era la fascinazione che sentiva di aver provato per quell’uomo, e in particolare per il suo corpo malridotto. Il desiderio di vedere con i propri occhi il polmone collassato, di studiare il movimento del diaframma, di osservare il liquido che dalla sacca intorno gocciolava fuori...
Questa non era semplice fascinazione dettata dalla passione per la medicina. C’era qualcosa di più, uno stimolo profondo che Christopher Blackwood non riusciva a spiegarsi.
Ancora.
Di una sola cosa era sicuro. C’entrava Elisa. Sua moglie.
Sdraiato al buio, Christopher tentò di rimettere ordine nei propri ricordi, inutilmente. Era come cercare di acchiappare un’anguilla viva: più stringeva la presa e più quella gli scivolava tra le dita. Doveva avere pazienza, lasciare che si cullasse in un falso senso di sicurezza. E poi acchiapparla con decisione.
Senza accorgersene, l’uomo scivolò nel sonno ed iniziò quasi immediatamente a gemere. Sembravano mormorii di dolore, intervallati dal nome della moglie. E da una frase, che gli usciva dalle labbra di tanto in tanto.
“Lo faccio per lei."


[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel di NPC_stories e di Dira_]

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
Il primo incontro tra padre Laetonius e il dottor Christopher Blackwood avvenne circa una settimana dopo l’arrivo di quest’ultimo alla clinica di Luskan.
 Era una giornata piena, perché un gruppetto di mercenari era appena tornato da una spedizione portando ferite bizzarre. Sembravano essere stati attaccati da una bestia di qualche tipo, che aveva squarciato loro le carni senza intaccare le armature. Le ferite erano orribili, sembrava che qualcosa avesse strappato brani di carne con una grattugia affilata, e piene di uno strano liquido nerastro che sarebbe potuta essere saliva. La bestia in questione era fuggita, lasciandosi dietro tre uomini morti e una mezza dozzina di feriti, che erano riusciti a malapena a trascinarsi in città.
Christopher era intento a ripulire uno di quegli squarci, osservando al tempo stesso con aria affascinata i minuscoli solchi scavati nella carne da – qualsiasi cosa avesse causato quelle ferite. Ad un tratto, sentì come una presenza accanto a sé, sufficiente a strapparlo dalla sua concentrazione e a spingerlo a voltarsi.
Si ritrovò di fianco un ometto dai capelli castani tagliati corti, che indossava una toga argentea con ricamati sopra due occhi femminili circondati da sette stelle. Il dottore riconobbe immediatamente quel simbolo come quello del culto di Selûne. L’ometto stava osservando con aria contrita il mercenario da sopra il suo naso adunco, e mormorava qualcosa tra sé e sé.
“Mi scusi, questa è un’area riservata. Non può stare qui,” gli disse Christopher, leggermente seccato. Come aveva fatto quel tipo ad eludere la sorveglianza di Ming? La guaritrice halfling si avventava come un falco su chiunque varcasse la soglia della clinica, era impossibile che non avesse notato un chierico in paramenti da cerimonia.
Il chierico non parve sentirlo. Sempre mormorando qualcosa, tese una mano avvolta da una lieve lucentezza argentata e la passò sopra una delle ferite ancora aperte dell’uomo. La carne si richiuse all’istante, come se non fosse mai stata disturbata. L’uomo sul lettino fece un sospiro di sollievo, mentre Christopher rabbrividì. Per qualche motivo, quell’immagine di una ferita che guariva in un attimo lo aveva turbato. Quella e il formicolio che aveva sentito nelle ossa quando la luce argentea gli aveva sfiorato il braccio.
Il chierico fece un lieve inchino e fece per superare il lettino e passare al successivo, quando Christopher lo fermò.
“Un momento, per favore.”
L’uomo si voltò verso di lui con aria sorpresa, come se fino a quel momento non si fosse neppure accorto della figura avvolta in un mantello nero che gli stava accanto.
“Che la luce di Selûne vegli sul suo cammino,” lo salutò. “Cosa posso fare per lei?”
“Per me nulla.” Il dottor Blackwood indicò l’uomo sul lettino, ancora in preda a dolori atroci e coperto di ferite da capo a piedi. Un paio di quelle non ancora pulite avevano iniziato a spurgare una sostanza biancastra dall’odore disgustoso. “Ma quest’uomo sta soffrendo. Non può usare il potere donatole dalla sua divinità per aiutarlo?”
“Ma l’ho appena fatto.” Il chierico parve confuso.
“Intendo, aiutarlo davvero. Farlo stare bene.”
Il chierico piegò la testa, poi indicò con un gesto il resto della sala.
“E loro?” domandò.
“Anche loro. Se può farlo, li aiuti tutti. Sicuramente Selûne ha questo potere.”
L’altro scosse la testa. “Per la somma Selûne, questo sarebbe indubbiamente un gioco da ragazzi, niente più di un pensiero e tutti questi uomini starebbero bene. Ma purtroppo io non sono lei, non ho che un briciolo del suo potere.”
Questa volta fu il turno di Christopher di non capire.
“Ma lei agisce in suo nome. Parlare con un Chierico non è come parlare con il suo dio?” Quasi senza accorgersene, aveva ricominciato a pulire le ferite dell’uomo sul lettino. La sua attenzione, però, era ancora rivolta verso il Chierico.
Quello scosse tristemente la testa. “Non è così semplice, purtroppo. Io non sono altro che un seplice inviato. Faccio ciò che posso per aiutare, come lei e gli altri dottori qui.”
“Noi però non abbiamo il favore degli Dei,” borbottò Christopher.
“Sciocchezze,” ribatté l’altro. “Tutti hanno il favore degli Dei!”
 
 
“Che significa che non può aiutarla? Lei è un sacerdote! Ha il potere di una dannata divinità dalla sua!”
L’uomo avvolto in paramenti sacri aveva fatto un gesto come di scongiuro.
“Capisco che lei sia sconvolto, dottore. Ma non è una buona ragione per mancare di rispetto agli Dei.”
“Avrò rispetto per gli Dei quando gli Dei se lo meriteranno! Non gli è bastato far ammalare Elisa? Cos’altro vogliono da lei?”
Aveva indicato la figura sdraiata nel letto, profondamente addormentata. Merito dei farmaci: ultimamente i dolori erano diventati così forti da non lasciarla neppure dormire, nonostante la stanchezza infinta che la attanagliava di continuo.
“Ha pensato che magari è per colpa di questo suo atteggiamento irrispettoso se gli Dei non l’hanno aiutata?”
Una risata. “Se gli Dei ce l’hanno con me possono venire a dirmelo di persona. Accetterò con gioia qualsiasi punizione, se servirà ad aiutare Elisa! Ma cosa c’entra mia moglie? Lei non ha mai fatto male ad una mosca!”
“Non sta a noi giudicare l’operato degli Dei, dottore.”
“Io non giudico –” Un gemito nell’altra stanza lo spinse ad abbassare la voce. “Io non giudico proprio niente. Dico solo ciò che vedo. E ciò che vedo è una persona dolce e gentile, che in tutta la sua vita non ha mai, dico mai, avuto un singolo pensiero malvagio, soffrire ogni giorno dolori indicibili per nessun motivo chiaro. E quando anche gli emissari di divinità a loro dire buone, giuste e amorevoli mi dicono che il loro Dio non sta dando loro il potere di fare nulla, mi perdoni se mi viene qualche dubbio su questi cosiddetti poteri divini!”
“Lei è sconvolto, e non sa quello che dice.”
“Io so benissimo quello che dico!”
“Allora lasci che le spieghi una cosa, dottor Blackwood. Gli Dei ci mettono alla prova per un motivo. Invece di prendersela con loro, cerchi di capire per qualche motivo hanno mandato questa prova a lei e a sua moglie. Cerchi di comprendere il loro disegno, e vedrà che la ricompensa sarà lì ad attenderla.”
“Ricompensa?” Il tono del dottore si era fatto talmente tagliente che il sacerdote aveva fatto istintivamente un passo indietro. “Cosa vogliono gli Dei da noi? Non me ne frega niente di cosa vogliono! Dopo quel che ci hanno fatto, possono infilarselo su per il culo, qualsiasi cosa sia, assieme alla ricompensa! Ed ora fuori da casa nostra!”
 
“Dottore?”
Per un attimo, lo sguardo del dottor Blackwood si era riempito di tanta rabbia che il Chierico aveva pensato che gli sarebbe saltato addosso in quel preciso momento. Ma poi il suono della sua voce parve riscuotere l’altro, e la furia scomparve.
“Mi perdoni. Un ricordo non molto piacevole. Ogni tanto mi capita,” si scusò l’altro.
“Non si preoccupi, dottore. Le auguro di venire a patti con il proprio passato.” Con un misto di sollievo e preoccupazione, padre Laetonius si accinse a continuare il proprio giro. Ma la voce del dottor Blackwood lo costrinse a fermarsi di nuovo.
“Un’ultima domanda, se mi è concesso.”
“Mi dica, dottore. Cosa desidera sapere?”
“Secondo lei, esiste un limite a ciò che un mortale può fare grazie al potere degli Dei?”
“Oh, assolutamente no.” Il Chierico aveva sorriso. “Se qualcuno dona il suo corpo e il suo spirito alla causa, senza riserve e senza rimpianti, non c’è nulla che il potere divino non possa fare. Ogni suo desiderio sarà esaudito, e la sorte gli arriderà.”
Christopher ricambiò il sorriso. “Sembra meraviglioso, padre.”
“Lo è, dottore. Lo è.”
Il Chierico gli voltò le spalle per continuare il suo giro tra i malati. Così facendo non si accorse del rapido movimento che Christopher Blackwood aveva compiuto con la mano destra. Mentre il sangue dall’arteria brachiale dell’uomo sulla branda, recisa da un preciso colpo di lama, iniziava a raccogliersi nella ferita e a mischiarsi con il liquido nero che già la riempiva, il dottor Blackwood raccolse con tutta calma una serie di piccoli contenitori di vetro ed iniziò a raccogliere campioni delle varie sostanze. Non aveva mai sentito parlare di una creatura come quella che aveva attaccato quei soldati, e non avrebbe perso l’occasione per saperne di più.
E poi, quell’uomo era già spacciato. L’infezione gli avrebbe mangiato i polmoni prima che Christopher o chiunque altro potesse fare qualcosa. E gli Dei gli avevano appena voltato letteralmente le spalle.
“Mi dispiace,” mormorò. “A quanto pare, non era volontà divina che tu sopravvivessi.”
 
31-12-1370
Di tutti i mercenari che hanno affrontato quella creatura misteriosa, solo due sono sopravvissuti. E uno di loro ha perduto entrambe le gambe: abbiamo dovuto amputarle, prima che l’infezione di quel veleno sconosciuto entrasse in circolo e arrivasse al cuore. Una volta lì, non ci sarebbe stato più scampo. Come altri poveri sventurati hanno potuto constatare di persona.
Quel Chierico di Selûne, padre Laetonius mi hanno detto che si chiamava, è stato poco più che inutile. Con la sua magia è riuscito a richiudere alcune ferite, ma a quel punto il veleno era già entrato in circolo. Quando gli abbiamo chiesto se non potesse rimuoverlo dal corpo dei malati con un incantesimo, ha risposto che la sua Dea non gli aveva donato quel potere con preghiere di quella mattina. Questo gli spezzava il cuore, ma chiaramente non spettava a lui intervenire al riguardo. Una comoda scusa, come sempre.
 
Il dottor Blackwood si interruppe per afferrare una fialetta di vetro tra le dita e tenerla sollevata contro la fiamma della lanterna che aveva acceso per non destare sospetti. Controluce, il veleno di quella creatura misteriosa sembrava semplice inchiostro: se non avesse visto di persona i suoi effetti, la cancrena che si spandeva con un fungo nella carne delle sue vittime, Christopher Blackwood non avrebbe mai creduto ai suoi effetti. Chissà come funzionava, e quali effetti una quantità così ridotta potesse avere su un corpo.
Sarebbe stato necessario indagare.
 
Quando aveva aperto gli occhi, come sempre per un attimo aveva creduto che fosse stato solo un orribile incubo. Ma era stato sufficiente un istante per disilluderlo.
Si era addormentato seduto al tavolo della cucina, la sera prima, e nessuno aveva disturbato il suo sonno. Doveva essere piena notte. La casa era buia e silenziosa.
Elisa era morta.
Per un attimo gli era sembrato ancora di vederla in piedi di fronte al forno, che canticchiava mentre preparava qualcosa. Elisa adorava cucinare, e nelle giornate buone – sempre meno, ogni anno che passava – spendeva ore impastando, mescolando, assaggiando e aggiungendo pizzichi di erbe secondo ricette che solo lei conosceva.
La disperazione l’aveva assalito di nuovo. Come poteva pensare di affrontare ogni giorno del resto della sua vita con quel dolore nel petto? Forse sarebbe stato meglio se fosse morto anche lui. Almeno avrebbe raggiunto la sua amata, dovunque ella fosse. Sapeva come fare, aveva a disposizione abbastanza medicinali per annebbiare la mente e cancellare il dolore da poter preparare un infuso implacabile. Si sarebbe addormentato in pace, sognando sua moglie, e non si sarebbe mai più svegliato. Una morte dolce. Attraente.
“No,” aveva ringhiato. Non l’avrebbe data vinta agli Dei in quel modo.
Loro avevano impedito a sua moglie di avere una vita felice su questa terra. Avevano trasformato ogni suo giorno da quando aveva compiuto undici anni in un inferno di dolore e sofferenza. Una persona così allegra, così dolce, così gentile, avrebbe potuto avere tutto quello che desiderava. Sotto lo sguardo impotente o disinteressato degli Dei, la malattia le aveva portato via tutto: il talento, la felicità, e alla fine anche la vita.
E allora sarebbe toccato a lui. Lui gliel’avrebbe donata.
L’avrebbe riportata indietro, le avrebbe dato un corpo che non dovesse temere le malattie, le ferite, neppure lo scorrere del tempo. La morte non l’avrebbe mai più toccata, ed Elisa avrebbe potuto finalmente godersi tutto ciò che le era stato sottratto. E lui sarebbe stato al suo fianco, come sempre.
Sarebbero stati felici. Per sempre.
 
Rigirandosi la fialetta piena di liquido nero tra le dita, il dottore ripensò alle parole di quel Chierico, padre Laetonus. Avvolto nel manto della sua fede incrollabile, aveva guardato quegli uomini morire sicuro che quella fosse la volontà degli Dei. Non era stato lui a dover dire alle famiglie che non avrebbero più rivisto loro figlio, loro marito, loro padre. Lui era convinto che le anime dei defunti ora fossero in pace, e per quanto addolorati i loro familiari avrebbero anche dovuto rallegrarsi al pensiero che i loro cari fossero in pace al cospetto delle divinità, dove avrebbero vegliato su di loro fino al momento in cui si sarebbero ricongiunti.
Che gran mucchio di sterco.
Il dottor Blackwood non sapeva cosa ci fosse dopo la morte – per quanto il pensiero gli desse una strana sensazione, come di bruciore e formicolio alla pelle – ma era sicuro che agli Dei non sarebbe importato un accidente di quelle anime, esattamente come non era importato loro un accidente quando erano in vita.
Ma il potere degli Dei era innegabile. Lui stesso aveva visto quell’uomo, padre Laetonius, mentre risanava una ferita con un gesto e senza la minima preparazione medica. Christopher aveva studiato per anni la medicina tradizionale, e a un certo punto si era anche avvicinato alla magia arcana – niente di che, era in grado di lanciare giusto qualche semplicissimo incantesimo. Se li era annotati sulle ultime pagine del diario – ma tutti i suoi studi non lo avevano reso in grado di fare ciò che quell’ometto aveva compiuto con un gesto e un briciolo di potere da qualche divinità.
Forse dovrei rivolgermi anch’io a qualche dio.
Rigettò quell’idea con sdegno. Non avrebbe pregato nessuna entità perché gli concedesse i suoi favori. Aveva finito di avere debiti con chicchessia. Ma forse, forse, sarebbe stato possibile utilizzare lo stesso quel potere. In fondo, esistevano chierici e paladini dediti ad un ideale, più che a una specifica divinità. Loro servivano uno scopo, e attraverso la loro fede ottenevano abilità soprannaturali.
E che scopo servo io?
La risposta arrivò da sola, immediatamente.
Io inseguo la vita oltre la vita. La sconfitta finale della morte.
Forse quella era la strada giusta. Una rigorosa mente scientifica, unita ad una fede incrollabile nel suo scopo, avrebbe piegato le leggi della natura al suo volere. Avrebbe sconfitto la morte e avrebbe strappato dalle sue grinfie coloro che erano stati ghermiti.
Prima Elisa, ovviamente.
Poi tutti gli altri.
Sorrise tra sé. L’idea gli piaceva. Lo ispirava.
Ovviamente non sarebbe stato un cammino facile. Nessuno fino a quel momento c’era mai riuscito. Ma questo non lo spaventava per niente.
C’è una prima volta per tutto.
Forse coloro che lo avevano preceduto erano stati poco accorti, o poco saggi. Forse la loro fede aveva vacillato, forse non avevano compreso appieno quello che stavano facendo.
A lui non sarebbe capitato. Lui non lo faceva per sé.
Con uno scatto, il medaglione si aprì tra le sue dita, e il viso di Elisa gli restituì pace e serenità. Non era già quello un miracolo? Un miracolo per cui valeva la pena mettere tutto in gioco, inclusa la propria vita?
Strinse il medaglione tra le dita e si alzò in piedi con solennità. I suoi occhi color del mogano ardevano, lanciando bagliori di un’eccitazione che rasentava la follia.
“Oggi, sul finire dell’anno, io lancio la mia sfida a te, Morte. Da oggi io, Christopher Blackwood, sono il tuo peggior nemico. E tu sei la mia.”
In quel momento, con tempismo perfetto, le campane della città batterono la mezzanotte.
La partita era iniziata. E la prima mossa era scontata.
Come dicono i saggi, conosci il tuo nemico.


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 
Erano passati più di due mesi da quando il dottor Blackwood aveva gettato il proprio guanto di sfida alla Morte. Due mesi di studio continuo, giorno e notte. Due mesi di sacrifici.
Il lavoro alla clinica era stata un’autentica benedizione. Grazie ad esso, non era necessario per lui cercare soggetti per esperimenti: ogni giorno, almeno tre persone entravano da quelle porte per non uscirne mai più. Giovani e anziani, uomini e donne, di qualsiasi razza concepibile: la compagnia mercenaria del Drago Rosso era variegata, e le missioni che accettava pericolose. Non era raro che qualcuno non tornasse. E molti di quelli che tornavano riportavano ferite terribili.
Nessuno si stupiva quando alcuni di essi non sopravvivevano.
 
Il sedativo aveva terminato il suo effetto mentre lui era ancora intento a prepararsi per l’operazione, e non avrebbe potuto dargliene ancora prima di dodici ore per timore di provocare un arresto cardiaco.
Doveva aver diluito troppo l’estratto; oppure il fegato di quel ragazzo era più rapido del previsto ad eliminare le sostanze nocive. Non l’avrebbe stupito per nulla.
Per fortuna, l’aveva già legato. Ma non imbavagliato.
“Che cosa sta succedendo? Mi liberi subito, dottore!”
Lui aveva sospirato. Aveva segnato un’ultima annotazione sul proprio quaderno e poi si era diretto verso il tavolo da lavoro.
“Temo di non poterlo fare, ragazzo,” aveva detto con aria rammaricata. “A meno che io non voglia dovermene andare da Whitechurch. E non potrei mai lasciare questa casa. Elisa la amava troppo.”
“Io… Io non dirò nulla. Lo giuro!”
“Come hai giurato a Saria che non avresti mai più bevuto?”
Un’espressione irata si era disegnata sul viso del ragazzo.
“Lei cosa ne sa?” aveva chiesto.
“Sono il suo medico curante. Vado a casa sua tre volte alla settimana, per controllare che la caviglia stia guarendo bene. Se dovesse rinsaldarsi storta, potrebbe non camminare mai più. Pensi davvero che non avrei notato i lividi? O non avrei capito l’origine di quelle fratture?”
Il dottor Blackwood aveva fissato il suo ospite con disgusto.
“Quando ho chiesto a Saria come si fosse fatta male, mi ha detto che era scivolata su una lastra di ghiaccio. Ma non aveva escoriazioni o abrasioni compatibili con una caduta. Ragazza ingenua. Ma innamorata. La capisco, anche se non approvo.”
“È stato un incidente!”
“No, non lo è stato. Non è la prima volta che noto ferite del genere durante un controllo periodico. Non trattarmi come un imbecille. Non ti aiuterà.”
“Io… Lei non può fare questo!” piagnucolò il ragazzo. “I miei genitori mi cercheranno!”
“Senz’altro. E non ti troveranno. Penseranno che tu sia fuggito con la carovana di mercanti che è partita stamattina. O credevi che nessuno ti avrebbe visto mentre facevi il filo a quella prostituta?”
Era andato alla carovana di mercanti per comprare alcuni ingredienti e chiedere se avessero libri di medicina, come sua abitudine. Quando aveva notato che il ragazzo aveva un debole per la giovane dai capelli biondi e dal seno formoso, il dottore aveva colto la palla al balzo. Una volta che lui si era allontanato, l’aveva avvicinata e le aveva dato un consiglio. Se quel tipo si fosse fatto troppo insistente, le aveva detto, fagli bere questo. Le aveva passato una piccola ampolla piena di un liquido trasparente. Questo lo metterà fuori gioco, e domattina non ricorderà nulla, aveva spiegato. Lei lo aveva ringraziato con aria seccata. Era chiaro che non ne poteva già più di quelle attenzioni.
A quel punto, Christopher non aveva dovuto far altro che aspettare. Come previsto, quella sera il ragazzo era tornato alla carica; lei gli aveva sorriso, lo aveva invitato nel suo carro e aveva chiuso la porta. Mezz’ora più tardi, l’aveva riaperta e scaricato il corpo esanime tra i cespugli con una risatina. Probabilmente si era anche presa anche il suo borsellino per il disturbo. Non era importante.
Ciò che era importante era che ora il ragazzo era qui.
“In realtà non avresti dovuto svegliarti per ancora un’altra ora. Ma già che sei sveglio,” stava ragionando ad alta voce il dottore, “forse puoi aiutarmi con un piccolo esperimento.”
Si era avvicinato al tavolo degli strumenti e aveva preso alcune lame, una grossa pinza ed una lucida sega da legno.
“Secondo alcuni, è possibile stimolare varie parti del cervello per ottenere sensazioni diverse, richiamare ricordi e perfino creare allucinazioni. Vediamo se riusciamo a creare una mappa più completa delle diverse zone, che ne dici?”
Aveva fatto il giro intorno al tavolo in modo da posizionarsi alle spalle del ragazzo, che nel frattempo aveva iniziato ad urlare e dimenarsi. Inutile: le cinghie di cuoio avrebbero trattenuto un cavallo, e le pareti di quel seminterrato erano state imbottite di lana proprio per evitare rumori molesti.
Il dottore aveva offerto un pezzetto di legno al ragazzo, tenendoglielo vicino alla bocca con una mano ma stando attento che lui non provasse a mordergli le dita.
“Ti consiglio di stringere questo tra i denti,” aveva detto. “Toccare il cervello non causa alcun dolore, ma prima di arrivarci dovrò tagliare il cuoio capelluto e segare l’osso. Non sarà piacevole.”
E non lo era stato. Per nulla.
 
Christopher osservò con aria frustrata il corpo sul tavolo di fronte a lui. Era uno gnomo dalla pelle dorata, di età compresa tra i cinquanta e i settant’anni. Poco più di un ragazzo, per quella razza. Il dottor Blackwood aveva appena terminato l’autopsia, confermando ciò che il dottor Wollstonecraft già sospettava: il giovane mercenario era morto a seguito di un’estesa emorragia interna provocata dal colpo di coda di una viverna che lo aveva spedito contro una roccia. Secondo i testimoni oculari, lo scricchiolio delle ossa si era sentito a tre metri di distanza. L’animale era stato abbattuto, alla fine, ma le perdite erano state ingenti: due soldati morti sul posto, e tre feriti gravemente. Uno dei quali, in quel momento, si trovava di fronte a lui sul tavolo operatorio all’ultimo piano della clinica, nell’attico riadattato ad obitorio. Gli altri due erano stati più fortunati: sarebbero sopravvissuti senza danni permanenti.
Almeno quella volta.
 Una volta terminata l’autopsia e scritto il proprio rapporto, il dottor Blackwood non aveva visto nessun problema a compiere qualche piccolo esperimento sul corpo prima di rivestirlo e riconsegnarlo alla famiglia. Non avrebbero neppure potuto accusarlo di vilipendio di cadavere: la prassi comune per le autopsie prevedeva di estrarre quasi ogni singolo organo dal corpo per esaminarlo, per poi rigettarli alla rinfusa nella cassa toracica prima che quest’ultima fosse ricucita con del filo da sutura. Peggio di così non avrebbe potuto ridurlo.
Ora, parecchie ore più tardi, Christopher passeggiava nervosamente intorno al tavolo rileggendo i propri appunti e cercando di capire quale fosse il problema.
Perché non riesco a rianimarlo?
La teoria era semplice. L’aveva studiata ampiamente nei mesi precedenti, sia su testi di magia arcana presi in prestito dalla biblioteca della Torre dell’Arcano, sia su trattati di magia divina recuperati nei vari templi della città. I primi erano stati illuminanti, circostanziati e ben scritti; per quanto riguardava i secondi, Christopher aveva dovuto ammettere che, una volta eliminata tutta la parte di fanatismo religioso e le lodi a questa o quella divinità, si erano rivelati ben più utili di quanto avesse inizialmente previsto. A quanto sembrava, l’idea di combinare magia arcana e divina avrebbe potuto davvero dare i suoi frutti.
Il condizionale era d’obbligo. Perché fino a quel momento, nulla aveva funzionato.
Che sia perché non mi appoggio a qualche divinità?
Era possibile. Un Chierico che avesse il favore di questo o quel dio non aveva scusanti: sarebbe bastata la volontà del suo signore per renderlo in grado di compiere qualsiasi miracolo. Ma per lui era diverso: la sua magia divina non arrivava da preghiere o rituali, quanto piuttosto da una incrollabile fede nella propria missione.
So per certo che non è la mia volontà, il problema, si disse.
 
Non sapeva da quanto tempo fosse lì sotto. Il tempo tende a perdere il suo significato quando ogni istante è uguale al precedente, e tutti sono pieni di dolore. Un dolore rovente, bianco, paragonabile solo al calore delle fiamme che riempivano il lago sopra cui era sospesa la sua gabbia. Aveva sentito dire uno dei custodi che quelle fiamme erano in grado di bruciare perfino i diavoli più resistenti, e che alcuni di essi si facessero rinchiudere per qualche tempo in quel pozzo con il solo scopo di dimostrare la loro resistenza.
A volte, per una distrazione, alcuni di loro venivano dimenticati lì sotto.
Dopotutto, quello era l’Inferno.
Christopher Blackwood ricordava a malapena come fossero andate le cose dopo la sua dipartita dal mondo dei vivi. Aveva in mente la vaga immagine di un luogo grigio, senza la minima luce, una città senza abitanti circondata da un muro infinito. Sapeva che ci sarebbero dovute essere altre anime intorno a lui, un’infinità, ma non ne aveva percepita nemmeno usa.
Non che gli interessasse. Nelle lunghe notti dopo la morte di Elisa, aveva avuto il tempo di pensare a fondo a cosa sarebbe successo una volta superata la soglia tra i mondi. Aveva immaginato una voce tonante che elencava i peccati da lui commessi, le persone che aveva ucciso. Ma il dottore non si sarebbe fatto intimidire.
“L’ho fatto per mia moglie!” avrebbe gridato. “Gli Dei le hanno voltato le spalle, ma io non lo farò mai!” E poi, sarebbe accaduto ciò che doveva accadere.
C’era stato un lampo, e poi si era sentito cadere. Gli era parso di precipitare per giorni nell’oscurità, finché una voce suadente non gli era risuonata all’orecchio.
“Vuoi evitare l’oblio eterno, Christopher Blackwood? Cerchi potere? Cerchi vendetta?”
Improvvisamente, nel buio era apparsa una sagoma. Sarebbe sembrata una donna di aspetto incantevole, o forse perfino un angelo dalle gigantesche ali piumate, se non fosse stato per il luccichio avido negli occhi. Aveva squadrato l’anima come fosse stata uno spuntino prelibato.
“Cerchi conoscenza?” aveva continuato la figura con voce vellutata. “Posso dartela. Posso darti tutto ciò che desideri.”
“Io cerco solo mia moglie,” aveva risposto lui.
La figura aveva scintillato per un attimo, e i tratti dell’Erinni si erano modificati. Ora ciocche castane le circondavano il viso, e gli occhi si erano fatti di un verde intenso.
Christopher Blackwood aveva battuto le palpebre. O quanto meno lo avrebbe fatto, se avesse avuto ancora delle palpebre da battere.
“Vuoi salvare Elisa? Allora vieni con me.” Aveva teso una mano, con aria invitante.
Lentamente, il dottore aveva allungato le dita.
“Chi sei tu?” aveva chiesto.
“Il mio nome è Damasze-alma. Sarò la tua padrona, la tua musa e la tua guida. E tu sarai il mio servo, Christopher Blackwood. Io ti donerò sapienza, acume e conoscenza.”
Sotto di loro si era aperto uno spettacolo mozzafiato. Un deserto di roccia e lava si stendeva a perdita d’occhio, costellato da torri di pietra sottili come stalagmiti e alte fino al cielo. Nei laghi di fuoco si agitavano ombre che gridavano senza posa, mentre diavoli di ogni forma si arrampicavano sulle rocce come insetti o tormentavano le anime dei supplicanti.
“Io ti donerò nuova vita,” stava dicendo intanto Damasze-alma. “E non come un patetico Lemure. Diverrai un Falxugon, un diavolo mietitore. E come tale tu mi donerai anime per la mia collezione. Sarai il mio servo, Christopher Blackwood?”
Lui aveva guardato dritto negli occhi bellissimi e terribili dell’Erinni.
“Mia moglie?” aveva ripetuto.
“Con la conoscenza che ti darò, potrai salvarla,” aveva mentito lei.
“Se è così, accetto.” Le aveva afferrato la mano.
Damasze-alma aveva riso. “Eccellente, Christopher Blackwood. Allora vieni. Abbiamo molto su cui lavorare.”
Da quel momento erano passati millenni. O forse solo un battito di ciglia. Il tempo era un’illusione, in quel luogo. Solo il dolore era reale.
Quello che Damasze-alma non aveva detto, quando aveva fatto la sua proposta, era che per rinascere sotto forma di Diavolo un’anima doveva prima essere riplasmata. E nel processo, perdeva ogni frammento della sua precedente identità.
L’Erinni aveva promesso che il dottore avrebbe potuto aiutare la moglie perché sapeva che, una volta terminata la trasformazione, il neonato Falxugon non avrebbe neppure ricordato di essere stato un tempo un umano di nome Christopher Blackwood. Men che meno che aveva avuto una moglie. Non importava quanto si fossero amati o le promesse che si erano fatti: il processo di trasformazione avrebbe cancellato tutto quanto.
O almeno, avrebbe dovuto. Una volta rimossi i primi strati dell’anima, i ricordi relativi al proprio aspetto fisico e alle proprie abilità e conoscenze in vita, l’Erinni si era imbattuta in un nucleo ostinato e coriaceo che nessuna tortura o lusinga era stata in grado di spezzare. Convinta che fosse solo questione di tempo, aveva sbattuto quell’anima mutilata in una gabbia di ossidiana sopra uno dei laghi di fuoco infernale.
Non ci vorrà molto, aveva pensato Damasze-alma. Il dolore lo farà cedere.
Ma Christopher Blackwood non aveva ceduto. Aggrappato a quell’unico pensiero come ad un pezzo di legno in mezzo ad un fortunale, era rimasto presente a sé stesso attraverso il dolore, l’umiliazione e le tentazioni. Lentamente, la sua stessa anima si era cristallizzata intorno a quel pensiero, rendendolo il centro stesso della sua esistenza nella morte come lo era stato in vita.
“Elisa…”
E i secoli erano passati.
 
“Non può essere un problema di volontà. E allora cos’è?”
Il dottor Blackwood osservò con astio il corpo immobile sul tavolo. Nonostante i suoi sforzi, non era riuscito a rianimarlo. Neppure a fargli muovere un muscolo. Perché?
Forse il problema non è l’anima, ma il corpo. Il mio corpo, pensò. Non avendo una divinità dalla propria parte, era il suo corpo – o meglio, ciò che passava per il suo corpo dopo che l’Inferno stesso lo aveva risputato, forse avvelenato dal suo amore immortale – a dover incanalare le energie arcane e divine necessarie a portare a termine il processo. Era un’attività spossante, fisicamente e mentalmente. Ma come tutte le attività stancanti, con l’esercizio sarebbe diventata sempre più facile. Il dottor Blackwood non aveva dubbi a riguardo.
Un sommesso picchiettare sul vetro della finestra lo riscosse. Al di là del vetro c’era un corvo che osservava all’interno con aria curiosa.
Christopher sorrise, alzandosi dalla sua sedia per andare ad aprire all’animale.
“Ciao, Wolfgang. Dove sei stato?” lo accolse.
Uno dei rituali arcani più semplici, il primo che era stato in grado di portare a termine, gli aveva consentito di evocare un famiglio, una sorta di spirito guida dalla forma di animale che gli avrebbe fatto da assistente, servitore e compagno. Un frammento di sé in un altro corpo.
Quando aveva dovuto scegliere la forma da donargli, la decisione era stata scontata. L’animale che era comparso al centro del cerchio magico era la copia esatta di uno di quei corvi che Elisa aveva ammaestrato con amore, pazienza e offerte di cibo. Uno dei più intelligenti che lei avesse mai avuto, lo stesso che aveva imparato per primo a portarle fiori in cambio di una dose maggiore di cibo.
Perfino il nome era lo stesso. Non sarebbe potuto essere diversamente.
Wolfgang svolazzò all’interno della stanza e si posò con grazia vicino alla testa dello gnomo defunto e ricucito, ancora immobile sul tavolo. Lo osservò con un occhietto nero, lo becchettò piano e poi emise un verso interrogativo.
“Non ha funzionato. Il mio corpo non è ancora in grado di convogliare abbastanza energia,” sospirò Christopher. Solo allora notò il pezzo di carta sul davanzale. Al posto di un fiore, Wolfgang gli aveva portato quello che sembrava un avviso di taglia, preso probabilmente dalla bacheca della Compagnia del Drago Rosso dall’altra parte della strada.
 Christopher lo afferrò, si aggiustò gli occhiali scheggiati sul naso ed iniziò a leggere.
“Wolfgang, sei un genio,” mormorò quando ebbe finito. “Prepara i bagagli. Si parte.”
Il corvo si lisciò le piume nere con il becco e gracchiò felice, saltellando sul petto del morto.
Luskan gli aveva insegnato tutto quello che poteva dargli al momento. Era stato molto, ma non era stato abbastanza.
Era tempo di rimettersi in viaggio.


[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel di NPC_stories e di Dira_]

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 Capitolo 5
 
28-03-1371
Dopo quasi un mese di viaggio, sono finalmente arrivato nella zona dove l’avviso di taglia diceva essere stata avvistata la Necromante. Purtroppo, le indicazioni da questo punto in poi diventano parziali. Si parla genericamente dei territori vicino a Gillian’s Hill, un paese tra Daggerford e Liam’s Hold. Nient’altro. Ma sono sicuro che i locali sapranno dirmi di più. Si tratta solo di raccogliere informazioni in maniera discreta.
 
Il dottor Blackwood chiuse il diario e si guardò intorno con curiosità. Si trovava seduto su un sasso vicino al fiume Delimbiyr, a poca distanza dalla strada carrabile su cui viaggiavano le carovane dei mercanti. Si era aggregato ad una di esse alcune settimane prima, e da Luskan avevano coperto in maniera dolorosamente lenta le miglia verso sud che li separavano da Daggerford, su carri talmente lenti che a volte facevano venire voglia di gridare.
Quanto meno, non c’erano stati imprevisti. O meglio, ce n’erano stati ma erano stati risolti senza troppi impicci. Un paio di assalti di banditi, una piccola tribù di goblin bellicosi e perfino un troll insediatosi vicino ad un ponte. Niente che i mercenari della compagnia del Drago Rosso non avesse già visto e affrontato. C’erano stati dei feriti, ovviamente, ma quello era il motivo per cui il dottor Blackwood era con loro. Molti dei soldati lo conoscevano, li aveva avuti in cura alla clinica, e avevano supportato la sua richiesta con il capo carovana quando lui aveva chiesto il permesso di unirsi alla squadra.
Christopher aveva sorriso con aria modesta. Aveva sempre prestato attenzione a scegliere i soggetti dei suoi esperimenti tra coloro che avevano riportato ferite quasi sicuramente mortali. Nessuno si insospettisce se un tipo con i polmoni spappolati tira le cuoia; è una questione di “quando” più che di “se”. E sprecare un’occasione sarebbe stato un vero peccato.
Alla fine, il dottore era riuscito a godersi un viaggio relativamente tranquillo senza dover fare più di quello che avrebbe comunque fatto se fosse rimasto a Luskan a lavorare per la clinica. Rappezzare mercenari e fare in modo che meno gente possibile morisse. E all’arrivo a Daggerford, la carovana non aveva riportato nessuna vittima. Praticamente un record.
Il dottor Blackwood non era un idiota: sapeva perfettamente che viaggiare da soli era pericoloso, anche lungo le strade più trafficate, e solo persone molto abili e preparate sarebbero state in grado di affrontare tutti i pericoli che il percorso aveva in serbo per loro.
Inoltre, c’era un altro problema.
 
07/02/1371
Ho notato una cosa estremamente bizzarra – e forse leggermente preoccupante. Niente di grave, ma devo tenerne conto nei miei piani. Potrebbe avere gravi conseguenze se ignorata.
Durante l’esperimento di una settimana fa, mi sono maldestramente tagliato un dito con una lama quando il soggetto ha avuto una convulsione imprevista. Niente di grave, solo un graffio poco profondo sul palmo della mano che ha spillato qualche goccia di sangue. Ma due giorni fa, quando ho rimosso il bendaggio per controllare la ferita, ho notato che era esattamente come quando l’avevo pulita. L’emorragia si era fermata, ma non c’era segno di guarigione.
Incuriosito, ho fatto qualche ricerca. Mi sono procurato qualche taglio minore sul retro dei polpacci, dove non mi avrebbero causato troppo disagio. Oggi li ho ricontrollati: sembra che non siano guariti per nulla, anche se ferite così superficiali si sarebbero dovute richiudere nel giro di qualche ora.
A quanto pare, l’uscita dall’Inferno ha modificato il mio corpo ad un livello ben più profondo dei miei occhi. Se da un lato non ho più bisogno di luce per vedere nella notte (almeno per una decina di metri), dall’altro sembra che le mie ferite non si richiudano più da sole. Non solo: mentre ragionavo, mi sono ricordato della sensazione sgradevole che ho provato quando padre Laetonius ha utilizzato l’Energia Positiva per guarire quel mercenario. Mettendo insieme le due cose, ho fatto un esperimento: ho incanalato una minuscola quantità di Energia Negativa in uno dei tagli. La ferita si è chiusa all’istante.
A questo punto, l’immagine è chiara: il mio corpo è diventato simile a quello di un non-morto. Le ferite non guariscono naturalmente, e mentre l’Energia Positiva ha effetti deleteri sul mio fisico, l’Energia Negativa lo sostiene e lo ripara.
Vista la superstizione che circola intorno a queste due forme di energia – a partire dal loro stesso nome – è fondamentale che questa nozione resti il più possibile segreta.
 
Dopo aver domandato ad una dozzina di persone tra paesani, guardie e semplici viaggiatori, Christopher Blackwood fu costretto a gettare la spugna. C’erano parecchie storie su una Necromante che avrebbe il suo laboratorio da quelle parti, ma purtroppo nessuno era stato in grado di essere più preciso. La taglia faceva riferimento ad un altro paese, Gillian’s Hill: poco più di un puntino sulle carte geografiche, era un insediamento di contadini da meno di duecento anime. A quanto aveva capito, non c’era neppure una locanda.
Era improbabile che un incantatore serio si stabilisse in un luogo così remoto, dove perfino procurarsi la materia prima sarebbe stata un’impresa. In ogni caso, era la pista migliore che aveva. Così, dopo una nottata a Daggerford, il dottore si caricò in spalla la sua sacca e si incamminò verso le colline. La giornata era luminosa, e con un po’ di fortuna sarebbe arrivato a destinazione prima che cadesse la notte. Wolfgang svolazzava sereno lì intorno, tenendo d’occhio la strada in caso di agguati o altri pericoli. Precauzione inutile: nessuno di importante andava mai a Gillian’s Hill.
Ma non si poteva mai sapere.
Con il ronzio dei primi insetti nelle orecchie, Christopher Blackwood continuò a camminare.
 
“Christopher! Qual è il tuo animale preferito?”
Il bambino ci aveva riflettuto un attimo, i piedi a mollo nell’acqua fresca del torrente. Quell’estate era particolarmente calda e afosa, ma le nevicate abbondanti avevano riempito le riserve sui monti, e non c’era alcun rischio di siccità. I contadini ne erano entusiasti. E anche i bambini, che avevano un torrente limpido e impetuoso in cui giocare.
“Direi le rane. E il tuo invece?”
Elisa aveva risposto con tutta la serietà di una bimba di otto anni a cui era stata rivolta una domanda di tale importanza.
“I cervi volanti,” aveva detto con orgoglio.
“E perché?”
“Perché sono belli,” era stata la risposta. E Christopher l’aveva accettata così com’era. Era inutile discutere con Elisa di queste cose. Tanto alla fine l’aveva sempre vinta lei.
“Sai che se spalmi del miele sul tronco di un albero, a volte dei cervi volanti ci restano appiccicati sopra mentre provano a mangiarlo?” aveva detto invece.
Gli occhi verdi della bambina si erano illuminati, e Christopher aveva sentito il cuore battergli leggermente più in fretta. Era da qualche tempo che ogni tanto gli capitava, quando loro due giocavano insieme, ma non riusciva bene a capire perché.
“Proviamoci!” La bambina era saltata giù dalla roccia su cui era appollaiata, spruzzando acqua dappertutto. “Sono sicura che la mamma ha del miele a casa!”
“Non si arrabbierà se lo prendiamo?”
“Non penso. È lì da un sacco di tempo! Non lo usiamo mai!”
“Va bene, allora!”
Si erano messi a correre per il sentiero, accompagnati dal suono delle cicale.
 
L’erba era alta, e intorno a loro la primavera stava dando il meglio di sé. Il prato era pieno di fiori di ogni colore, e un aroma di erba umida riempiva l’aria.
Elisa aveva finito di sistemare la tovaglia per terra e ci si era seduta sopra con un sospiro, il fiato leggermente corto. Una ragazza di nemmeno sedici anni non si sarebbe dovuta affaticare così tanto per poche decine di metri in salita lungo un pendio così dolce, ma Elisa non era una ragazza normale. Ogni giorno, diventava dolorosamente più chiaro a tutti.
“Sei stanca?” aveva domandato Christopher, passandole una borraccia piena d’acqua.
Lei aveva bevuto un sorso e aveva scosso la testa.
“Non preoccuparti.”
“Se non te la senti –”
“Me la sento,” lo aveva interrotto lei con un tono che non ammetteva repliche. “Abbiamo rimandato questa giornata così tante volte.”
Poi aveva sorriso. “Ma non mi spiacerebbe iniziare dal dolce. Ho bisogno di qualche zucchero.”
Prima che lui potesse fermarla, la ragazza aveva afferrato l’involto di stoffa in cui sapeva esserci la torta di ricotta che Christopher le aveva promesso e lo aveva spalancato.
La torta effettivamente c’era. E in mezzo alla crema c’era anche un anello dorato.
Lei lo aveva fissato senza fiato.
“Non era esattamente così che me l’ero immaginata,” aveva mormorato lui, le guance arrossate. “Ma ormai siamo qui.”
Si era piegato su un ginocchio, aveva afferrato l’intera torta e l’aveva porta alla ragazza.
Elisa Maria Röckel. Sei da sempre la mia migliore amica, il mio mondo, l’amore della mia vita. Vorresti diventare anche mia moglie?”
Gli occhi di Elisa si erano riempiti di lacrime.
“Anche con…” Aveva fatto un gesto verso il suo corpo, le mani tremanti.
Lui aveva annuito, fissandola in viso.
“Certo che voglio, stupido! Che bisogno avevi di chiederlo? E di spendere soldi per un anello? E di…” Gli si era gettata tra le braccia, singhiozzando. Colto alla sprovvista, lui aveva fatto cadere la torta sulla tovaglia e l’aveva abbracciata. I due erano rotolati all’indietro, sull’erba.
“Ti amo tanto, Christopher,” aveva mormorato.
“Ti amo tanto, Elisa.”
 
“Stai attento, amore.”
“Tranquilla, non – ahi!”
Con uno scatto, Christopher si era tirato indietro dal cespuglio di rose che stava potando. Si era portato il dito alla bocca, succhiando una goccia di sangue che gli usciva dal polpastrello.
Elisa era scoppiata a ridere. “Te l’avevo detto! Vuoi che lo faccia io?”
“Nemmeno per sogno!” Il dottore si era voltato verso la moglie, seduta su una sedia all’ombra del larice che cresceva nel cortile della loro casa. Aveva agitato un paio di grosse forbici come si fosse trattato di una spada. “Ora è una questione personale!”
“Almeno mettiti i guanti!”
“Giammai! Sono un chirurgo, con le mani ci lavoro, non sarò sconfitto da – ahi!”
Un’altra risata cristallina. Christopher si era alzato in piedi osservando il cespuglio con aria offesa e scuotendo la mano dolorante.
“Obbediscono solo alla loro padrona, temo,” aveva mormorato.
“Già. Sanno chi vuol loro bene e chi no.” Elisa aveva teso le mani verso di lui. “Aiutami ad alzarmi. Faccio io.”
A malincuore, lui si era avvicinato. “Non esagerare, mia,” aveva detto, sfiorandole le mani con due baci prima di afferrarle ed aiutarla a mettersi in piedi.
“Non preoccuparti. Tu stai pronto con il concime.”
 
Un sommesso vociare riscosse Christopher Blackwood dai suoi ricordi. Senza nemmeno accorgersene, era arrivato alle porte di Gillian’s Hill, con largo anticipo rispetto al previsto. Per fortuna che Wolfgang aveva controllato i dintorni: distratto com’era, sarebbe potuto camminare dritto dentro una tagliola per orsi senza neppure accorgersene.
La piazza del mercato era insolitamente affollata, e il dottore iniziò subito a guardarsi intorno. Individuò quello che sembrava il gruppetto degli anziani della città e si avvicinò.
“Buongiorno, miei cari signori,” iniziò, per poi presentarsi. Quelli lo fissarono stupiti.
“Sono un medico itinerante. Vorrei rubarvi alcuni minuti del vostro tempo per sapere qualcosa di questa cittadina. Che novità ci sono?”
“Oh, un dottore!” lo accolse uno di loro. “Forse potrebbe aiutarmi con la mia gamba allora…”
Christopher sorrise, preparandosi ad una raffica di commenti sui loro acciacchi e domande su disturbi e doloretti assortiti. Era il motivo per cui aveva scelto quel gruppetto: gli anziani avevano sempre desiderio di parlare, e in particolare con un dottore.
Alla fine, ottenne le informazioni che cercava. Uno degli uomini, tra una lamentela sul suo ginocchio e un’altra sul fatto di doversi sempre alzare in piena notte per andare a svuotare la vescica, gli disse che c’erano storie su una Necromante che si era stabilita da qualche parte nei boschi a nord del paese. Quando però il dottor Blackwood aveva chiesto se qualcuno fosse mai andato a controllare questa persona, quelli gli avevano rivolto degli sguardi sconcertati.
“Certo che no!”
“Non si traffica con i non morti!”
“Si tratta senz’altro di una persona pericolosa!”
Christopher aveva soppresso un sospiro – di nuovo, stupide superstizioni di gente dalla mentalità limitata – e si era guardato intorno per cercare qualcuno che potesse essere interessato a fargli da guida.
Il suo sguardo fu attratto da un gruppetto chiaramente fuori posto, che stonava con l’ambiente come un pugno in un occhio. Erano tre persone, chiaramente avventurieri, che stavano cercando di convincere un asino recalcitrante a trainare un carretto carico di merci attraverso la cittadina. Uno era un goliath alto più di due metri, dalla pelle rocciosa e con un’ascia bipenne sulla schiena, che in quel momento stava cercando di convincere l’asino a muoversi facendogli quelli che probabilmente nelle sue intenzioni dovevano essere gesti di incoraggiamento, ma che sembravano più promesse di violenza fisica. Forse erano entrambi.
Gli altri due erano umani, probabilmente imparentati tra di loro: un tipo dall’aria atletica e con un vestiario ridotto al minimo che parlava con voce stentorea, e una giovane avvolta in un’armatura con una mazza al fianco e i simboli di un dio della luce sul petto. Stavano battibeccando, ma il dottore non era sicuro di sapere a che proposito. Gli pareva di aver capito che lui avesse espresso l’intenzione di “mostrare a quei villici come si nuotava nella terra” e lei stesse cercando di dissuaderlo, ma quasi sicuramente aveva sentito male. Con un lieve gracchiare, Wolfgang gli si posò sulla spalla del mantello nero.
“Che ne dici, chiediamo a loro?” mormorò il dottore.
Il corvo non pareva convinto. Si arruffò le piume con aria dubbiosa.
“Lo so. Ma sono avventurieri. Nella migliore delle ipotesi ci accompagneranno dalla Necromante, moriranno male e noi avremo qualche corpo fresco su cui esercitarci. Nella peggiore, la uccideranno e noi ci prenderemo i suoi appunti.”
Indicò la ragazza in armatura con un cenno del capo. “Quella mi sembra l’unica lì con più di mezzo cervello, quindi probabilmente è la capa. Ed è una chierica di Lathander. Se le diciamo che c’è qualcuno che traffica con i non-morti in giro partirà in quarta. Lo sai quanto sono idioti. E gli altri due la seguiranno a ruota, da bravi cagnolini.”
Wolfgang emise un altro verso gutturale. Non era ancora convinto, e Christopher Blackwood non poteva che dargli ragione.
Questi tizi puzzano di guai. Una confezione formato famiglia di casini.
Oh, beh. Tanto non sarebbe rimasto con loro a lungo.


[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel di NPC_stories e di Dira_]

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