Omnia vincit amor

di pierres
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Era/Zeus - Piume di pavone ***
Capitolo 2: *** Dioniso/Atena - Dita di fantasma ***
Capitolo 3: *** Apollo/Cassandra - Promesse ***
Capitolo 4: *** Dioniso, Persefone - Persefone fiorita ***



Capitolo 1
*** Era/Zeus - Piume di pavone ***







1.





Era ha un vestito fatto di piume di pavone che sussurrano laide ai suoi seni e alle sue ginocchia, e cambiano colore ad ogni impercettibile movimento - ogni caviglia ruotata, ogni pugno serrato, ogni sospiro trattenuto e soffocato in fondo allo stomaco.

Quando corre sui pavimenti di marmo - quando cammina, senza perdere il contengo - frusciano plumbee e violacee dietro di lei - non sa cosa le dicano, quali bisbigli irosi, se siano suoi o delle piume o delle Erinni, ma non importa.

Zeus ha la barba curata. Nera, come le nuvole cariche di pioggia, come un frutto marcescente, il putridume - pazienza, virtù incrollabile, lui sorride freddamente quando la guarda e sa che pensa: pazienza, quale donna e di quale pazienza!, racimolata nei secoli da ogni poro della sua pelle di marmo. Siede accanto a lei, così vicino che potrebbe semplicemente allungare una mano e graffiargli il collo e il volto, fargli male - ma non abbastanza.

Le strisce rosa lasciate dalle sue unghie sono solo nella sua testa (si guarda il grembo per non urlare, e conta le piume di pavone che le strusciano sulle cosce come le mani di un amante).

Ogni cosa ha il suo tempo, ogni vendetta aspetta nel suo stomaco, buttata a fondo come i sospiri ma mai dimenticata, mai. E questa volta - pazienza!, sacra virtù, Zeus ha pensieri così cacofonici e volgari che riesce quasi a sentirli anche se non apre bocca - questa volta la punizione di Eco non è stata abbastanza. Pensa che i provvedimenti da prendere debbano essere più drastici (le piume frusciano e bisbigliano la loro approvazione). 
E ripensa a quella sgualdrina con cui si è intrattenuto, quella volgare sguattera - non vale una virgola di lei, Era lo sa perfettamente, lei è la regina, ma sente la bocca ricolma di fiele quando pensa alle mani si suo marito sotto le sottane di un'altra.

Tiene lo sguardo puntato sulla gonna. Zeus parla e sbocconcella ambrosia da un vassoio dorato - ma lei quella stessa voce la distorce e la rigira, la sente sussurrare all’orecchio dell’altra, dirle quello che sicuramente ripete ad ogni povera cagna, paragonarla a lei e spergiurarle che non c'è confronto, che la sua bocca è cento volte più morbida e la sua pelle mille volte più profumata di quella della moglie.

Era non è impulsiva - sacra pazienza di una brava moglie - e si guarda le ginocchia: tra le piume cangianti vede volti che ghignano e il fuoco che divora qualsiasi cosa, gli occhi verdi di Poseidone, i baci del tradimento, le dita della congiura sul collo - nessun tocco è mai stato così dolce.

Non sa come fa, le viene da vomitare, ma sorride - appoggia la sua mano su quella di Zeus, e spera non si accorga di quanto è gelida.















































Note: la storia è in revisione :DD
I capitoli sono stati leggermente modificati, alcuni ripubblicati. Immagino che nessuno si aspettasse un aggiornamento dopo così tanto tempo, ma le sparizioni e le apparizioni ormai sono il mio forte!
Baci a tutti voi che ancora seguite, e a chi arriva ora ora <3
















 

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Capitolo 2
*** Dioniso/Atena - Dita di fantasma ***







2.





Quando è buio e le fiaccole muoiono nel nero della notte, si sentono in lontananza le risate di satiri e ninfe - sembrano vicini, giusto un passo nell'ombra, ma si potrebbe passare notti intere ad inseguirli senza trovarli mai.

E quando è buio, quando è davvero buio, nonostante l'acropoli sotto all’Olimpo si accenda di fuochi stentati, nel nero sa che da qualche parte lei lo sta pensando - Dioniso non è il dio dell'amore, figuriamoci delle profezie, ma sa che lo sta pensando perché tutti i giorni vede il suo volto e come distoglie lo sguardo continuando nonostante tutto ad osservarlo ombrosa, con la coda dell’occhio azzurrino.

Atena siede sul trono del consiglio con la testa alta e il busto dritto, il sorriso affilato e gli occhi di una civetta - indossa l'armatura e Dioniso non riesce a vedere sotto, ma gli piace credere di saper immaginare, forse anche troppo bene. Forse anche lei se ne accorge, e non che sia a disagio, perché Atena non è mai a disagio, ma gli rivolge delle vaghe occhiate tra il nauseato e l'irritato - chiaramente non può spaventarlo, con la sua logica ferrea e la frigida disciplina: sono doti ridicole, sarebbe come cercare di catturare l’acqua in una rete. Sente tuttavia - intuisce, ma l’irrazionale d’altronde è il suo campo - che qualcosa la attrae, può essere l’ignoto, o forse solo il riflesso violaceo dei suoi capelli.

Si volta imbarazzata quando lui morde un acino rosso come le sue guance rubizze, fissandole il collo.

Quando è buio, se tende le mani in avanti, nell'ombra assoluta che nemmeno le fiaccole o le stelle riescono a districare, riesce quasi a sentire i suoi sospiri scocciati che gli solleticano le dita - sa che basterebbe allungarsi ancora un po' di più e prenderla, ma poi non lo fa mai. Si immagina le costellazioni di lacrime sulle sue ciglia bionde, le sue guance rosa per l'ubriachezza e le labbra rosse del vino e dei suoi baci - ma si immagina e basta, perché Atena siede con la testa alta e il busto dritto e ha gli occhi di una civetta, e gli artigli di un fiera – Dioniso ride.

 

Quando beve, beve in suo onore. Alza il calice e lo porta alle labbra, la guarda - la fissa, fino all'ultima goccia, con quegli occhi fatti di fuoco viola e morbi di insania e pelliccia di tigre. Atena alza ancora il mento - come se stesse sfidando sé stessa a raggiungere un livello superiore di alterigia - e rivolge le sopracciglia arcuate da un'altra parte, mentre la presa sulla lancia ha uno spasmo sdegnoso. Punta gli occhi su qualsiasi altra cosa - qualsiasi - e li tiene lì finché Dioniso non ha prosciugato il calice della sua ultima goccia e, dopo aver indugiato dalla mandibola alla clavicola e alla coscia, la lascia andare.

Un secondo appena, il tempo di un ghigno, e sa che la dea sta espirando tutta l'aria che aveva ingoiato fino a quel momento - sa che basterebbe allungarsi un po' di più, oh dei, solo un po' di più e potrebbe stringerla così tanto da farle male e lasciarle addosso l'odore del vino per eoni.

Ma non lo fa, non lo fa mai.

Di notte, sempre irrequieto, passeggia tre volte sul vialetto che porta alla fontana, e sa che lei – perfetta, impeccabile stratega che studia il proprio nemico - ne è consapevole e per questo non esce mai di casa. Non guarda nemmeno la finestra dei suoi alloggi, perché Atena in ogni caso è troppo furba per farsi cogliere in fallo.

Ma lo diverte il pensiero di penetrare la sua camera virginale anche solo sotto forma di fantasma, l’idea che lei lo pensi, che magari sopprima l’impulso di immaginarlo mentre la sfiora, mentre la tocca - e sorride e si chiede: chissà se le sue dita evanescenti sono abili e discrete come quelle vere.




















































 

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Capitolo 3
*** Apollo/Cassandra - Promesse ***






3.





I capelli di Apollo sono fatti di oro fuso, metallo luminoso che scende in riccioli liquidi lungo le sue tempie e gli sfiora il collo bianco. La prima volta che Cassandra lo vede, nel tempio in suo nome, la luce del sole entra dal portone aperto e passa attraverso quei fili d'oro rendendoli bianchi, scivola come una carezza sulle sue spalle e la pelle diafana, e non c'è un solo millimetro di lui che non si bei di quei raggi come farebbe un morto di sete col nettare divino.

Inclina solo un secondo la testa, vedendola - i riccioli molleggiano lascivi alla luce dell'alba. Cassandra non ha più respiro perché l'ha perso, forse da molto prima di quando se ne accorge, f- rubato, è chiaro, forse solo incastrato in quella chioma del colore dei girasoli. Ancora prima che lui possa dire qualsiasi cosa, ancora prima che lo chieda, sa già che è pronta a promettere tutto purché non la lasci senza renderle il fiato che ha perso - purché non lasci e basta.

E anche Apollo lo sa, lo sa perché sorride solamente, ed è freddo, perfetto e razionale. Con l'odore dell'infanzia ancora tra i capelli, con le dita macchiate di pomeriggi di sole, Cassandra non sa quanto si è spinta in basso - Apollo sì, invece, e la lascia cadere.

 

 

Non c'è un secondo preciso in cui Cassandra capisce cosa ha realmente promesso - se ci fosse stato, la disperazione e l'angoscia sarebbero apparse così profonde da non poterle semplicemente sopportare.

Piano piano, invece, cresce e si rende conto che le parole hanno un sacco di significati - che ha promesso il suo amore, e adesso la notte non dorme perché sa cosa significava per lei, per quell'ingenua bambina persa tra l'oro dei capelli dell'altro, ma non per Apollo.

Ogni tanto lui passa a trovarla - quasi tutte le sere - e lei si pugnala a fondo con un coltello fatto di bugie e suppliche, scaccia qualsiasi ombra dal fondo delle proprie pupille e tutto per convincersi che l'unico amore che le chiede è la sacra devozione che gli dedica ogni minuto, ogni secondo, ogni respiro (anche quando le carezza sovrappensiero la mandibola, anche quando le bacia le palpebre chiuse, anche quando indugia con i suoi occhi gialli, da fiera, sulle ciocche scomposte di capelli che le ricadono sul collo).

Cassandra chiude gli occhi e prega, anche se non ha nessun altro dio da pregare - chiude gli occhi e finge che tutto vada bene, anche se non è così - anche se Apollo continua a guardarla come se fosse il suo regalo di compleanno e, nelle sue visioni, i fiori bianchi ricamati sul suo vestito e sulle coperte e ovunque nelle sue stanze si tingono di un rosso che non riesce a lavar via.

 

 

«Hai promesso, Cassandra»

La voce del dio è un sibilo così irato e roco che sembra provenire dall'Ade - Cassandra singhiozza, ricordando le sue risate quando la teneva in braccio da bambina, la voce calda e giovane di quando le raccontava storie di mostri e di eroi per farla addormentare, quel sogni d'oro dolce come il miele che esclamava prima di lasciarla, la sera, e sfocarsi in raggi d’oro che si confondevano con le fiamme delle candele.

Cerca compassione nei suoi occhi e non la trova, i ceri sono quasi spenti e tutta la loro luce sembra essere catturata dai fili dei capelli di Apollo.

«Ho mantenuto la promessa, lo sapete - vi amo come il primo giorno che vi ho visto, ma non così - non così! Mio signore, vi prego…»

Qualcosa negli occhi del dio cambia, repentino - scompaiono i lampi cupi, si smorza la fiamma. Si inginocchia davanti al lato del letto dove è seduta e le afferra il volto tra le mani lunghe - a terra, ai vaghi guizzi dei ceri, c'è la tunica azzurra che le ha strappato brutalmente di dosso, la stoffa lacerata che sembra un po' gridare e un po' sanguinare.

«Cassandra...» bisbiglia, in un sospiro.

Arriva così prossimo da respirarle sulle labbra - ha il fiato gelido e inodore come il vento che spira dalle tombe. Solo un bacio, pensa lei: forse vuole solo un bacio e poi finirà tutto (Cassandra lo ama, lo ama davvero, ma non così) e ignora le visioni, ancora una volta, soltanto una, perché si fida, si fida, si fida, ma lo sputo ha un sapore talmente amaro che le viene da vomitare. Quando alza gli occhi, sconvolta, Apollo ha nello sguardo un piacere così profondo, una tale delizia che anche i suoi riccioli sembrano ondeggiare ridenti.

«Ti maledico» ringhia sul suo volto, e poi sorride - i suoi denti bianchi, al guizzare delle fiammelle, sembrano appuntiti come quelli di una belva.

Il suo urlo nero riempie la stanza, i singhiozzi la soffocano e la squassano di sobbalzi, eppure lui se ne va, disfacendosi in luce che non riscalda, orgoglioso - la lascia cadere.

Le candele si sono spente al primo soffio di vento entrato dalla finestra aperta. Se Apollo ancora fosse lì, solo i suoi occhi gialli baluginerebbero nella notte, come quelli di un gatto.

 

 

Infine, tutto il suo gridare di fiamme e di eredi e di tradimenti non ha fatto altro che far avverare ciò che più di tutti voleva sventare - adesso il fuoco è reale e scotta e divora qualsiasi cosa, anche le lacrime che non riesce più a versare (forse ne ha già  piante troppe).

Inginocchiata davanti alla statua di Atena ripete la solita preghiera in un farfuglio confuso e supplicante che sa di vesti strappate e spade lorde di sangue e gridi disperati - quando Aiace la afferra da dietro, quando la stupra sugli stessi gradini dove ha poggiato le ginocchia sanguinanti, lei non fa niente perché non riesce nemmeno più a supplicare ( e in realtà pensa ad Apollo e a quanto sarebbe stato meglio dargli quello che voleva, e quanto, nonostante tutto, non riesca a pentirsi di non averlo fatto).

Si aggrappa con le unghie al busto di marmo della dea, ogni fibra del suo essere spezzata e sanguinante alla pari della sua purezza, e quando l'altro la strattona via la statua cade a terra in un fragore di tuono - nei miliardi di schegge, le pare di scorgere una regina e una congiura e la sua stessa morte, ma poi chiude gli occhi e si rifiuta anche di pregare.

Fuori dal tempio, scorge in lontananza il santuario di Apollo - lo stesso santuario nel quale l'ha visto per la prima volta, nella quale ha perso il respiro e promesso ed è caduta giù, miseramente giù. Se lui fosse lì, Cassandra lo sa, non farebbe niente – ma non lo biasima, non può: ancora lo ama, ha giurato, e tutto è cambiato e non è cambiato niente.





































Note: qui un ringraziamento è necessario alla splendida storia di _Pulse_, Painful Triumph (Forgive Me), da sempre mia modello per ogni Apollo/Cassandra. Mi si perdoni l'aemulatio.
















 

 

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Capitolo 4
*** Dioniso, Persefone - Persefone fiorita ***







4.





Persefone fiorita,
così la chiamano le ninfe quando a gara corrono tra i tronchi radi degli alberi, o intrecciano ghirlande con foglie d’ortica, senza pungersi mai - gliele posano tra i capelli, Persefone fiorita, e sorridono di come il verde le incornici gli occhi.

Lei non ha mai conosciuto l’amore o la morte: solo i prati, le ninfe e il chiocciolare dell’acqua sui sassi. Vive in un mondo ricamato da sua madre, e i ricami sono tutti motivi di fiori, sui toni del rosa e del giallo, a volte del blu - rosso, mai.

Ma una sera lo vede: Dioniso perso tra i campi dall’erba che non diventa incolta, con l’ortica che non punge mai, si staglia sanguigno contro un tramonto che sembra una strage, gli occhi di folle lupo persi tra le pieghe delle sue gambe. 

Sente le compagne irrigidirsi accanto a lei, già pronte a scappare, e lentamente, con impaccio, allunga la veste scomposta a coprirle i ginocchi.

Lui sorride, incurante - ondeggia su una linea sottile senza cadere mai, trapezista perfetto, e se l’orizzonte è purpureo riesce a confondersi col cielo.



























































 

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