Notti Insonni per i Bastardi di Pizzofalcone

di Cattive Stelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Se piovesse il tuo nome ***
Capitolo 2: *** II - Quando ***
Capitolo 3: *** III - Guerriero ***
Capitolo 4: *** IV - Voce ***
Capitolo 5: *** V - Spostato di un secondo ***
Capitolo 6: *** VI - Oronero ***
Capitolo 7: *** VII - Faccio un casino ***
Capitolo 8: *** VIII - Sempre e per sempre ***



Capitolo 1
*** I - Se piovesse il tuo nome ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 2 ~ episodio 2x04  - Tango

A qualche giorno dalla conclusione del caso di omicidio della maestra di tango, Roberta De Angelis, Ottavia - rimasta particolarmente colpita dal dolore di Sofia, sorella colpevole della vittima e madre di un bambino malato - si ritrova a ripensare a se stessa, a Riccardo e all'inizio della sua nuova storia d'amore, ponendosi delle domande a cui sembra sempre più difficile trovare risposta.

 

 

 

Ottavia


♫ Se piovesse il tuo nome (Elisa)

 

 


 


I

Se piovesse il tuo nome

 

 

Di pioggia sui vetri e domande malinconiche

 

 

 

 

 

 

 

Rivolgendo stancamente gli occhi al soffitto, con la testa sul cuscino, Ottavia pensò a quanto potesse essere bello il silenzio, soprattutto di notte, ancora di più se inizia a piovere, proprio come stava accadendo in quell'istante.
Di notte, d'altronde, tutto sembra contemporaneamente possibile ed impossibile, effimero o eterno, estremamente facile o insormontabile, in un battito di ciglia.
Tutto si dilata, perde ed assume contraddittoriamente senso, lasciando chi assiste vuoto ed insonne.

Quella notte, lei se ne stava lì a fissare il soffitto con l'attenzione di un turista in fila al Louvre anche se, in realtà, quello che aveva davanti era soltanto un muro bianco, un foglio di carta intonso.

In quel momento, con solo il tintinnio della pioggia sui vetri e i tuoni al di là della finestra, rifletté su quanto sarebbe stato bello sentirsi proprio come quel soffitto: una tela completamente da riscrivere.
Non avrebbe desiderato altro che essere una pagina bianca, in modo da potersene andare senza troppi problemi e ricominciare da capo, dimenticandosi di tutto: dei vincoli, delle privazioni, dei sensi di colpa e delle proprie mancanze per sentirsi finalmente libera dopo quello che pareva un secolo.
Allo stesso tempo, però, si sentiva tremendamente in colpa nell'avvertire in modo così chiaro e senza remore quell'accenno di tanto sospirata libertà, pur standosene lì, distesa sul letto di quella camera vuota e disordinata, mentre fuori pioveva.

Ottavia pensò che una buona madre avrebbe dovuto essere altrove: nella stanza di suo figlio a rimboccargli le coperte, per esempio, oppure in salotto a convincere il marito a staccare con il lavoro per concedersi un po' di riposo.
E invece no.
Ottavia non ne aveva voglia e se ne stava là, immobile, senza fare né l'una né l'altra cosa.
Cosa direbbe la gente di una donna così? – si chiedeva.
Che è una madre degenere, una pessima moglie, un'insensibile.
Forse sì, forse no.

Ma, in quell'istante, la domanda, secondo lei più giusta da porsi, sarebbe stata: quanto si pretende da una donna?
Sì, perché nell'immaginario comune è scontato, no?
La donna deve esserci sempre, dimostrandosi premurosa, attenta, preoccupata per tutti e, meglio ancora, se dotata di spiccato istinto materno e spirito di abnegazione sempre alla porta.
E da un uomo, invece?
Si pretenderebbe lo stesso?

Evitando di rispondersi e guardandosi attorno, Ottavia cercò di recuperare nella memoria il momento esatto in cui si era rotto qualcosa, ma non ci riuscì.
Forse non ci deve essere per forza un taglio netto, un punto di non ritorno fermo, glorioso ed indimenticabile. A volte semplicemente le cose iniziano e finiscono, senza colpe e senza fare rumore. O, almeno, lei avrebbe voluto che fosse veramente così per non sentirsi in difetto nel non aver avuto la forza di mettere a letto Riccardo quella sera, per non pentirsi della moglie scostante che era diventata.

In quell'istante, abbassò lo sguardo sull'uomo che si era addormentato poco prima sul suo seno e sentì una profonda fitta allo stomaco nel chiedersi se si sentisse in colpa anche per quello.
Ma la risposta purtroppo era "no".

Forse era inaccettabile, difficile da ammettere, ma Ottavia non rimpiangeva nulla: di non essere a casa, di dormire spesso fuori accampando una miriade di scuse e nemmeno la soddisfazione che le comportava quella leggera dolenzia alle gambe per aver passato buona parte della notte a fare l'amore con un uomo che - udite udite - non era suo marito.

Aveva provato a resistere.
In realtà, secondo lei, ci erano riusciti fin troppo a lungo.
D'altronde era innegabile che si fossero piaciuti da subito.
E poi, ogni volta che passavano la notte insieme tutto si confondeva a dismisura.
Non a caso, Ottavia aveva capito sin da subito che con lui sarebbe stato tutto diverso.
Non si conoscevano da molto, ma in fondo era come se si fossero ritrovati dopo un lungo viaggio in un'altra vita nella quale si erano già stretti, abbracciati e appartenuti legandosi indissolubilmente. Lo percepiva quando la sfiorava, ogni volta che facevano l'amore come quella sera, lei in braccio a lui, occhi negli occhi, persi uno nel respiro dell'altro.

A Ottavia non era mai successo di innamorarsi così.
Probabilmente perché in quel modo ci si può innamorare al massimo una volta nella vita e solo se si è fortunati.
A dirla tutta, faceva molta fatica ad ammettere che si trattasse realmente di un regalo della dea bendata, considerato lo scompiglio che aveva portato in una situazione già di per sé drammatica. Eppure, sebbene a tratti, quell'amore era riuscito nella difficile impresa di alleggerire e colorare tutto.

Ottavia rifletteva da un po' su quanto poteva essere beffarda la vita.
Ma non potevamo incontrarci a 20 anni? – pensava - Magari ci siamo pure incrociati al mare in estate, durante qualche esame all'università oppure alla fermata di un autobus quando eravamo ancora giovani, un po' cretini e svagati, sicuramente più leggeri. Forse eravamo distratti da altro o camminavamo mano nella mano con altre persone... Oppure, semplicemente, anche se ci fossimo conosciuti, ci saremmo stati tremendamente antipatici finendo poi a preferire altre compagnie.

Ma avrebbe potuto capitare, no? Di essere felici, di essere insieme…
Perché non era successo? Sarebbe stato tutto più facile.
E non così impossibile, perché chiudendo gli occhi, senza sforzo poteva vedere nitidamente davanti agli occhi cosa sarebbe potuto accadere.

Lei, con un vestitino leggero bianco in sangallo, i capelli in disordine finita lì per caso ad accompagnare la classica compagna di università un po' cazzara alla festa dove avrebbe incontrato il fidanzato che i genitori le impedivano di vedere. Di sicuro se ne sarebbe stata lí tutta sola, annoiata e seduta sulla spiaggia a guardare la luna, incurante della musica ottundente che riempiva fastidiosamente l'aria. D'altronde, aveva sempre preferito i lenti.

E poi lui, un ragazzo con la camicia di lino aperta e la testa per aria, a piedi nudi, una bottiglia di birra in mano, seduto pochi metri dietro di lei a seguire svogliatamente l'infrangersi delle onde sul bagnasciuga.

Ottavia, istintivamente, avrebbe fatto il gesto di guardare l'orologio, immancabilmente dimenticato a casa sulla pila di libri che stavano affollando quel finale di sessione estiva, e avrebbe sbuffato, lasciandosi cadere all'indietro sui gomiti.
«Mezzanotte meno un quarto» - avrebbe sentito alle sue spalle - «Troppo presto per andarsene e troppo tardi per divertirsi, comunque»
A quelle parole, Ottavia si sarebbe voltata, arrivando a guardare per la prima volta quel ragazzo con le maniche rimboccate e i piedi affondati nella sabbia a cui avrebbe sorriso timidamente.

Probabilmente, a quel punto, lui si sarebbe alzato per sedersi a pochi passi da lei.
Sarebbe rimasto rivolto verso il mare scuro di fine luglio e lei, invece, l'avrebbe guardato di sbieco con un misto di curiosità e sospetto finché, sempre senza staccare lo sguardo dalle onde, lui avrebbe esordito con un: «Non una gran serata, eh?»
«Non avrei dovuto essere qui» - avrebbe abbozzato lei.
«Poi il dj stasera 'n c'azzecca proprio, pensa che lo conosco pure» - avrebbe aggiunto lui, facendo scoppiare a ridere Ottavia e così, nonostante l'imbarazzo, avrebbero iniziato a parlare del più e del meno.

Lui avrebbe detto che non si divertiva, lei che aveva accompagnato un'amica, ma che avrebbe preferito rimanere a casa a studiare.
Allora, sarebbe uscito fuori che si era concesso una serata di svago a malavoglia, costretto dagli amici, perché stava preparando il concorso per entrare in polizia. Sul viso di Ottavia sarebbe, quindi, comparsa una smorfia di stupore e iniziando a ridere gli avrebbe confidato che era la stessa strada che voleva intraprendere lei, una volta finita l'università.
Vedi le coincidenze.

A quel punto, senza preavviso, il ragazzo si sarebbe alzato causando in Ottavia un'ombra di delusione che avrebbe tentato invano di mascherare, limitandosi a rivolgergli un'occhiata di inevitabile sorpresa.
«Vado a fare una passeggiata sulla riva, vieni anche tu?» - avrebbe aggiunto distrattamente, voltandosi verso di lei.
Ottavia, un po' confusa, si sarebbe alzata, con i sandali di corda in mano e, senza alcuna logica, l'avrebbe seguito.

«A proposito, è mezzora che parliamo e non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami» - avrebbe buttato lì il ragazzo.
«Ottavia» - avrebbe replicato lei - «Ma anche tu, comunque, non me lo hai detto...»
«Che scemo: Luigi. Gigi per mamma, Luì per tutti gli altri, insomma 'na tragedia» - avrebbe sdrammatizzato lui, guardandosi i piedi.
«Comunque è una bella serata, a parte tutto» - avrebbe ammesso Ottavia - «Mi sa che, alla fin dei conti, abbiamo fatto bene a non rimanere sui libri con questo caldo, no?»
«Di certo mi sarei annoiato. Anzi, conoscendomi, sarei crollato dal sonno. Sicuramente non avrei risolto granché. E poi, non mi sarei goduto questa bella luna, non avrei conosciuto te...» - avrebbe sussurrato lui, guardandola con un mezzo sorriso per poi abbassare subito gli occhi, rimanendo a qualche passo di distanza.
Manco a dirlo, Ottavia sarebbe arrossita e, sentendo un forte senso di vuoto nello specchiarsi per la prima volta negli occhi verdi di quel ragazzo stropicciatissimo, si sarebbe inconsciamente avvicinata, in modo da camminargli a fianco con gli schizzi d'acqua sui piedi.

Di sicuro avrebbero continuato a passeggiare fino agli scogli, parlando di sciocchezze e ridendo senza motivo. E, forse, a quel punto, Palma si sarebbe girato per tornare indietro, mentre Ottavia iniziava a chiudersi nelle spalle per l'aria pungente che iniziava a tirare.
Lui avrebbe timidamente fatto cenno di allungare un braccio sulle sue spalle, dove cadevano i ricci scuri e lei avrebbe acconsentito con un sorriso. In fondo era ciò che sperava.
Senza nemmeno una parola, avrebbero continuato a camminare finché la musica non fosse tornata prepotentemente nell'aria con la voce di Sting che cantava "Every breath you take".
«Finalmente, una buona l'ha messa» - avrebbe riso lui voltandosi maldestramente, senza pensarci troppo.
Lui verso lei, lei verso di lui.
Si sarebbero fissati per una frazione di secondo, Ottavia nei suoi occhi e Palma sulle sue labbra fino ad avvicinarsi irrimediabilmente.
Così, si sarebbero baciati, come fanno i ragazzi a quell'età, con i Police in sottofondo e l'aria che sapeva di salsedine, uno affianco all'altro con la mano di lui ancora sulla spalla di lei e il cuore nelle orecchie.
Avrebbero guardato uno il cielo e l'altra la sabbia, dopo essersi separati senza fiato, ridendo per l'imbarazzo.

«A te capita sempre così, quando ti annoi?» - gli avrebbe chiesto lei, sperando di essere smentita.
«Quasi mai» - avrebbe detto lui scuotendo la testa e, malgrado una disarmante timidezza, non avrebbe resistito a voltarsi verso di lei ancora una volta.
Le sue braccia sarebbero scivolate sulla schiena della ragazza fino a cingerle i fianchi, le avrebbe scostato un riccio da davanti al viso e guardandola sarebbe finito a baciarla di nuovo.
Ottavia, senza pensarci, si sarebbe stretta forte a lui, rimproverandosi un po'... perché no, non era da lei baciare uno sconosciuto, in una sera così, fidandosi ciecamente e facendosi portare via da un'emozione inaspettata.

Senza accorgersene, quella notte si sarebbe conclusa così, stando abbracciati ancora e ancora, seduti sulla spiaggia a guardare le stelle smezzandosi una sigaretta.
Giusto il tempo che gli amici tornassero a reclamarli e sarebbero tornati ognuno a casa propria, ognuno nel suo letto, a chiedersi cosa fosse realmente successo, se mai sarebbe continuata.

Di lì a qualche giorno, Ottavia avrebbe lasciato senza pensarci due volte il ragazzo che da poco aveva iniziato a frequentare e Palma avrebbe casualmente iniziato a passare tutte le sere sotto il portone di lei che si era miracolosamente rivelato di strada, pur essendo dall'altra parte della città. Sarebbero poi seguiti i lunghi pomeriggi caldissimi trascorsi in biblioteca a ripassare assieme e ancora i fine settimana al mare, i lenti sulla spiaggia la notte di Ferragosto e un milione di baci che li avrebbero portati a una maldestra prima volta nella cameretta di lui un'afosa sera di settembre. L'estate sarebbe quindi finita così, nell'immancabile angoscia di un ritardo, loro due insieme davanti a un test di gravidanza negativo con il viso quasi deluso di Palma e la soddisfazione di Ottavia nello scoprire che anche lui, in fondo, desiderasse una famiglia.
Dopo poco lei avrebbe festeggiato la laurea e, a breve, insieme sarebbero entrati in polizia. A quel punto, magari si sarebbero sposati, sarebbero arrivati i bambini e con loro le notti insonni, i ciucci, le ansie, i pianti, i sorrisi, decine e decine di giocattoli sparsi per casa.

Chissà se sarebbe nato lo stesso Riccardo?
Forse sì, forse no.
Magari avrebbe avuto gli occhi di un altro colore, i capelli più ricci, le fossette più accentuate, un altro nome.
Di sicuro sarebbero stati figli diversi, di due genitori diversi che magari si sarebbero amati o odiati di più, chissà.

Un tuono fece tornare Ottavia bruscamente alla realtà, distaccandola da quella fiaba innocente che infestava la sua testa. Capì presto che non era giusto chiedersi se, dall'incontro con un altro uomo, quel bambino sarebbe nato comunque oppure no, anche se non aveva mai smesso di sperare in un Riccardo che li avrebbe potuti riempire di chiacchiere, che avrebbe cantato a squarciagola mettendo la musica a tutto volume e che, magari, avrebbe anche litigato furiosamente con lei per una nota sul diario o la camera in disordine.
Ma non era così.
Non era mai stato così.
E lei non sarebbe mai riuscita a spezzare quelle catene che le appesantivano le caviglie, i polsi, il cuore.

Non poteva nemmeno escludere che sarebbe successo lo stesso anche con lui affianco.
Magari si sarebbe fisiologicamente allontanata da qualsiasi uomo con cui avesse condiviso una sofferenza del genere.
Da tempo, infatti, Ottavia si tormentava chiedendosi se con Palma sarebbe stato diverso.
Ma cosa avrebbe potuto tenere uniti loro due, che era mancato nel suo matrimonio?
La tenerezza, la passione?
La comprensione, la complicità?
Oppure semplicemente l'amore.
Quell'amore che, a quel punto della sua vita, dubitava di aver vissuto prima di allora.
Ma un sentimento, seppur forte come quello che avvertiva in quel momento sotto la pelle, sarebbe comunque bastato? - si chiedeva.

In quell'istante la mente le ripropose, a tradimento, l'immagine dello sguardo disperato di Sofia De Angelis qualche giorno prima, nel momento in cui era stata arrestata.
Non era stato un caso indolore per nessuno, di sicuro non per Ottavia comunque.
Aveva confessato davanti a lei e, di certo, non per uno strano scherzo del destino.
Lo aveva fatto perché l'aveva sentita vicina, forse si era addirittura fidata per le sue parole, riconoscendo in lei il suo stesso dolore e sperando così che potesse capirla.
E infatti la capiva, come nessun altro.
In quel frangente, chiunque avrebbe pensato che si trattasse di uno stratagemma, uno di quei trucchetti che i poliziotti usano nei telefilm per far crollare il sospettato di turno, spingendolo ad aprirsi, a dire tutto ciò che sa.
Ma in quel caso no.
Quello che aveva detto a quella donna completamente distrutta era, in realtà, soltanto ciò che avrebbe voluto sentire lei. In quei minuti interminabili, sperò disperatamente che quel discorso valesse anche per sé, né più né meno. Per concedersi il lusso di mancare ogni tanto, per non sentirsi in colpa nell'ammettere di essere fallibile.
Nell'osservare quella donna, Ottavia si era chiesta fin dove poteva condurre quel dolore straziante, quell'impotenza insopportabile nei confronti di un figlio malato, per cui non si può fare nulla se non esserci sempre.

Guardandosi attorno in quella stanza vuota, i suoi pensieri si scagliarono su quella vita tanto beffarda e dispettosa da portare una madre, la cui unica e grande paura è quella di perdere un figlio, a non riuscire più a mantenere il controllo, finendo così per lasciarlo solo sul serio.
Immaginò cosa volesse dire arrendersi a non poter proteggere un pezzo di sé così inconsapevole e indifeso, in un Mondo crudele che non prevede la fragilità e non ammette debolezze, senza poter fare nulla per cambiare il corso delle cose.
Con timore si chiese fin dove si sarebbe potuta spingere in lei quella sofferenza, dove l'avrebbe portata, cosa gli avrebbe impedito di fare, se l'avrebbe costretta a rinunciare a qualcos'altro oltre a tutto ciò a cui aveva sacrificato fino ad allora, che poi si riduceva alla sua vita per intero, a tutta se stessa. Qualcosa che di sicuro non avrebbe avuto indietro mai più, ma che forse non era più disposta a lasciar andare.

Ma, per fortuna, almeno per quella sera, quel flusso inesauribile e disperato di domande che non trovava risposte era destinato a interrompersi.
Bastò, infatti, solo il fruscio morbido delle lenzuola scure e con un sospiro, Ottavia chiuse gli occhi per abbassare ogni tipo di resistenza a quell'uomo, da poco sveglio e abbracciato a lei, che stava iniziando a baciare dolcemente il seno dove si era addormentato.
Così, mentre la sua testa si alleggeriva e il cuore si allargava battendo sempre più forte, stretta in quelle braccia si sentì improvvisamente protetta, a casa.

E quando ormai il Mondo fuori, per lei, sembrava non esistere più, lui risalì lentamente lungo il collo di lei fino a soffermarsi sull'angolo della bocca.
Incontrando finalmente il suo sguardo, Ottavia gli accarezzò i capelli per poi discendere piano sulla guancia.
Con la pioggia che batteva sui vetri e il lenzuolo che li avvolgeva a stento, si guardarono negli occhi per un istante che sembrò durare cent'anni.
Sospirando, l'uomo si avvicinò dolcemente fino ad annientare le distanze, sfiorando appena le labbra di lei con le sue.
Lui si allontanò subito quasi per accertarsi che quel momento fosse vero.

Come a pregarlo di non smettere, Ottavia schiuse gli occhi, fronte contro fronte mentre una lacrima le rigava irrimediabilmente il viso.
Palma, steso su di lei, fece scivolare teneramente una mano per sfiorarle la spalla con la punta delle dita e, percorrendo il braccio, arrivò a intrecciare le dita alle sue.
Istintivamente, lo strinse ulteriormente a sé, continuando ad accarezzargli la schiena con la mano libera.

Giunti fin lì, a quella tentazione senza ritorno, Palma, non riuscendo più a resistere a quell'incastro perfetto, consumò lentamente quei pochi centimetri che li separavano e iniziò a baciarla ancora.
E mentre il suo corpo si abbandonava completamente a lui, senza più né difese né riserve, Ottavia si rese conto, con una punta di amarezza, di avere tutte le risposte che cercava.

Chiudendo gli occhi, sperò che quel momento così effimero potesse bastare.
Bastarle, sì.
Durando per sempre.

 

 

 

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Capitolo 2
*** II - Quando ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 2 ~ episodio 2x05  - Souvenir

Dopo aver finalmente chiuso quel caso di aggressione, dal risvolto inaspettato, del turista americano Ethan Wood, in cui i Bastardi si sono imbattuti per caso, Palma si ritrova solo, in un turno di notte di un sabato particolarmente freddo. Quell'amore, nato sul set di un vecchio film a Sorrento, porta il commissario a riflettere sulla sua vita, su quanti danni può fare un matrimonio sbagliato e soprattutto sulla paura sempre più presente di non essere capace di trattenere lei, quella donna di cui si è innamorato e che non fa altro che andar via.

 

 

 

Palma


♫ Quando (Pino Daniele)

 

 


 


II

Quando

 

 

Di addii ricorrenti e divani sempre più scomodi 

 

 

 

 

 

Davanti alla finestra della sala agenti del commissariato di Pizzofalcone, Palma guardava con uno sguardo vacuo i giochi di luce che quel sabato notte d'inverno si divertiva ad offrirgli.
Non riusciva a prendere sonno e, sicuramente, la dubbia comodità del divano usato in comune dai Bastardi, mista alla malinconia di quel weekend solitario, contribuivano alla causa.

Quella appena trascorsa era stata una settimana pesante, arrivavano da un caso difficoltoso, quello dell'aggressione all'Americano, Ethan Wood, e di tutto ciò che ne era seguito, e, così, quella domenica era diventata l'oggetto del desiderio dell'intera squadra.
Tranne per lui, ovvio.

Infatti, si era offerto subito di sostituire Romano per consentirgli di stare un po' con la piccola Giorgia che era stata ricoverata in ospedale nei giorni precedenti.
Sapeva che sarebbe stato più tranquillo nel trascorrere la notte insieme alla bimba e, d'altro canto, lui non aveva niente di entusiasmante da fare.
Per questo aveva concesso l'ennesima chance al "comodissimo" divano che da mesi minacciava concretamente tutta la squadra della comparsa di un'imminente scogliosi e di un conclamato cattivo umore per tutta la mattinata successiva al pernottamento.

Sempre guardando al di là del vetro, Palma realizzò quanto era cambiato Romano da quando avevano ritrovato quella bambina.
I figli so' pezzi 'e core, d'altronde.
Anche se non sono figli di sangue.

Stanco di stare in piedi, il commissario decise di arrendersi al divano.
Si coprì con un plaid consumato e si rigirò per qualche minuto nell'inutile tentativo di trovare una posizione comoda.
Maledette notti.
C'è troppo silenzio di notte - constatò con un filo di rabbia.
Sì, perchè di notte i pensieri si ingarbugliano, arriva immancabilmente l'ora dei bilanci e i conti non tornano mai.
Palma era abituato a quegli ammanchi, da anni.
Se ripercorreva la sua vita vedeva piccoli e grandi errori, sfortune e decisioni prese di fretta che avevano prodotto l'uomo che era, le mancanze che aveva.

Per esempio: ma perché mai sposarsi?
Non nutriva rancori verso quel matrimonio finito, ma a guardarsi indietro, con la consapevolezza del momento, era chiaro che si trattasse di un errore che si poteva tranquillamente evitare.
Per non dire che era stata una solenne cazzata.

Quel caso appena risolto, in realtà, lo aveva fatto riflettere su quanti danni può fare un matrimonio sbagliato, una di quelle unioni portate avanti per convenzione, convenienza o semplicemente per non ammettere di aver scelto una persona non adatta.

Aveva sbagliato Charlotte Wood a trascinare un rapporto con un uomo potente, che le aveva aperto molte porte forse, ma che non amava.
Quell'errore aveva, poi, cambiato irrimediabilmente le sorti di Mimì Capasso che era rimasto dall'altra parte dell'oceano, rinunciando ad un figlio e finendo poi per accontentarsi di un matrimonio di ripiego, con una donna a cui voleva bene, ma che aveva confinato nell'ombra del fantasma del grande amore che gli era sfuggito dalle mani.
Forse, l'unica che, in quella storia, era davvero riuscita a riscattare tutte quelle mancanze di coraggio era stata proprio Angela che, per suo figlio, aveva avuto la forza di mettere fine a quel matrimonio malato, spezzando una volta per tutte quella lunga catena di sbagli che sembrava essere ormai una questione ereditaria, di famiglia.
Errori di cui si è coscienti, di cui si ha il presentimento sin da subito e che, a lungo termine, si fanno sentire.

Riportando la questione su di sé e pensando a lei, alla donna che aveva sposato lui anni addietro, Palma non poteva non ammettere quanto, anche nel suo caso, tutto fosse stato tremendamente sbagliato.
Era innegabile: non c'entravano niente, l'uno con l'altra.
In questi casi non è colpa di nessuno, concluse tra sé.
Semplicemente si arriva ai trenta e si realizza che sta diventando troppo tardi.
Troppo tardi per cosa, poi?
 E allora ci si impone di mettere la testa a posto, di farsi una famiglia, eccetera eccetera eccetera.
Così, ovviamente, come nella migliore delle tradizioni, quando si forzano le cose, si fanno grandi danni. È un attimo che si finisce per illudersi che quell'incontro casuale sia provvidenziale e poi arrivano la conoscenza, la frequentazione, il matrimonio.
Poi, una volta esaurito l'entusiasmo iniziale, ci si ritrova uno a destra e uno sinistra, entrambi insoddisfatti, annoiati e imbronciati nell'amara consapevolezza di essere due pianeti lontanissimi, su orbite diverse. Con nulla in comune.
Lei non era la donna che lui avrebbe voluto per sé e lo stesso era valso viceversa.

Fissando il soffitto, Palma ammise a sé stesso che la più grande crepa di quell'unione era stata il futuro. Alla fin fine quella è la chiave di tutto: guardare avanti nella stessa direzione, allo stesso modo.
Lui in fondo non desiderava altro che una famiglia, lei invece no.
Non c'era nulla di male in questo, ma si era illuso - sbagliando - che con il tempo avrebbe potuto cambiare idea.
Anche se, in realtà, a pensarci bene, anche sforzandosi, non riusciva proprio a immaginarsela una famiglia con lei.
Mancava qualcosa, o forse tutto.
Sono cose che si sentono da subito, non c'è niente da fare.

Con lei, invece, lo aveva avuto chiaro da sempre, fin dal primo istante in cui l'aveva vista.
Quel pensiero gli suscitò un sorriso.
Si sentiva melenso o addirittura un po' ridicolo nell'ammetterlo, ma aveva saputo sin da subito che Ottavia avrebbe potuto o, meglio dire, avrebbe dovuto, essere la donna della sua vita.
Il commissario era convinto che la persona giusta fosse quella con cui non si fa alcuna fatica ad immaginarsi insieme, gli unici due persi in una deserta e silenziosa distesa di poltrone rosse al cinema, o sdraiati a trovare una posizione in cui dormire abbracciati nonostante un pancione ingombrante. E insieme anche nel farsi i regali sbagliati a Natale, a bisticciare inutilmente per una parola di troppo che poi non conta niente, ad arredare case non essendo d'accordo su nulla o a fantasticare sulle somiglianze del bambino che arriverà, andando un po' in paranoia.
"Chissà se avrà gli occhi come i tuoi?"
"E il mio sorriso sotto al tuo naso"
"La mia forma del viso o le tue mani grandi"
E via così...

E, da subito, per lui era infatti risultato semplicissimo vedersi con lei, distrutti sul divano davanti a un film con la casa a soqquadro o immaginarsi a passare notti in bianco avvicendandosi per ore nel cullare un neonato di pochi mesi che avrebbero poi inseguito per casa quando, tempo dopo, avrebbe iniziato a gattonare. 
Se assieme a lei, lo divertiva persino l'idea di sopportare antipatiche festività comandate con i parenti o di firmare una clamorosa prima insufficienza su un diario pieno di adesivi colorati.
Di discutere per la cottura della pasta o su chi ricadesse la tortura della prossima riunione di condominio. Di ridere di nulla, di bagnarsi sotto un solo ombrello troppo piccolo durante un acquazzone, di litigare per ore e poi finire a consumarsi facendo l'amore notti intere.
Istantanee di una quotidianità desiderata da sempre, con la donna che aspettava da tutta la vita.
Una donna che, tra l'altro, non era la sua.

A quel pensiero, Palma finiva sempre a provare una grande rabbia.
E non era di certo qualcosa che faceva propriamente parte del suo carattere o, almeno, non in questo frangente.
Ma, quando la sua mente percorreva quei pensieri impervi, si sentiva ferito, preso in giro dal destino.

Come spesso capita ai romantici a cui è stata riservata una lunga solitudine, aveva combattuto a lungo per abbattere quella speranza quotidianamente delusa di trovare un po' di pace, di trovare lei.
Si era infine arreso, come è normale, per non soffrire più per l'assenza di qualcuno che non sapeva chi fosse, dove fosse e soprattutto se esistesse realmente.
Ovviamente, col tempo, era poi subentrata la rassegnazione come legittimo meccanismo di autodifesa. E, seppur con il sollievo di non avvertire più il bruciore insopportabile e continuo che quella coltellata gli provocava sul petto, Palma, a quel punto, aveva avuto paura di non sentire più niente.

Eppure c'era qualcosa che non tornava.
Lo ricordava perfettamente.
Si trattava di una mancanza che faceva un rumore sordo e che si ripresentava continuamente nel silenzio delle notti come quelle, quando la gente se ne andava.

Era come sentire un richiamo insidioso, un lamento ancestrale e lontanissimo che lo tormentava costringendolo alla dolorosa consapevolezza che ci fosse qualcuno.
Qualcuno che inconsciamente lo aspettava, che aveva bisogno di lui e che a sua volta lui stava cercando disperatamente, seppur senza volerlo.
Pensò a lungo di essere diventato pazzo.

Ma poi era arrivato in quella maniera così rocambolesca a Pizzofalcone e l'aveva conosciuta.
Un fulmine a ciel sereno.
Si era sentito strano, la prima volta che si erano incontrati.
All'inizio, pensava che fosse tutta colpa dell'eco della novità, del torpore dell'emozione che si stava sciogliendo lentamente come neve al sole.

D'altronde, erano secoli che non si emozionava nel conoscere qualcuno, che non provava attrazione per una donna. Temeva, e contemporaneamente lo rassicurava, l'idea che tutto fosse amplificato da quel ritorno improvviso della primavera nella sua vita e che, in quanto tale, dovesse trattarlo come qualcosa di passeggero, fugace, che viene e che va.
Man mano però divenne sempre più evidente che non era così.
Non si poteva ignorare.

Quando se ne era accorto, maledisse il destino che aveva agito proprio quando non ci sperava più.
Era lei, maledettamente lei.
Ne aveva avuto la certezza la prima volta che l'aveva tenuta stretta tra le braccia.
Era stato come sentire un click.
Due parti di un antico e lavorato orologio con un astruso ingranaggio all'interno che si erano ritrovate dopo secoli nel loro perfetto incastro iniziale.
Durante quell'abbraccio, aveva incontrato il suo profumo e lo aveva riconosciuto subito, come se lo avesse avuto nella testa da sempre.
Era buono, intenso, dolcissimo.
Sembrava l'odore più familiare del mondo, quello di casa.
E davvero non riusciva a spiegarselo.

Quella stessa sera, avevano fatto l'amore.
Maledetto lui, maledetta lei, maledetti loro.
Maledetto il destino.
Quando si era svegliato, guardandola nuda addormentata su di lui, aveva realizzato che nulla sarebbe stato più come prima.

Sei fottuto, Palma - aveva pensato.
Perché era bastata quell'ora a legarlo a lei in modo indissolubile, con una catena indistruttibile dagli anelli d'oro.
Aveva capito che non avrebbe mai più potuto farne a meno, come davanti ad una dipendenza, una magia, un sortilegio antichissimo impossibile da infrangere.
Aveva bisogno di lei.

Perché erano fatti su misura.
Con il tempo e con il consolidarsi del rapporto, gli fu chiaro che le sue braccia erano state disegnate con il preciso scopo di proteggere il corpo di quella donna, così come l'incavo del collo per consentirle di poggiarci la testa e le mani, le dita per intrecciarsi soltanto a quelle di lei.

Sempre sdraiato sul maledetto divano della sala agenti, Palma realizzò quanto amava illudersi che tutto ciò, che quell'incastro meraviglioso, fosse opera di un sapientissimo artigiano che con mano esperta, delicata e decisa aveva lavorato di fino, notte e giorno per anni, millimetro per millimetro.
Anche se, con lei, ovviamente, aveva dato il suo meglio.
Non a caso, in quegli occhi scuri ci si poteva specchiare, su quelle labbra morire.
E poi c'era la sua profondità, che sembrava creata appositamente per custodire la loro unione, per accoglierlo come se fosse il posto più sicuro e caldo del mondo.
Nei mesi aveva imparato a perdersi completamente dentro di lei, nel corpo, nei pensieri, nella mente e nell'anima di quella donna che era meravigliosa, sempre, in qualsiasi modo, ma che lo stupiva diventando ancora più bella, ogni volta, appena finito di fare l'amore.
Quando era solo sua.

La cosa che ricordava in modo più nitido, però, erano le sue spalle.
Quelle spalle che erano l'ultima cosa su cui si posavano i suoi occhi quando lei si alzava dal letto e si voltava per andarsene.
Lo viveva come un addio.
Era un dolore insopportabile, ogni volta come se potesse essere l'ultima.
I primi tempi era ingestibile.
Poi aveva trovato un modo per esorcizzare il momento e soffrire di meno.
Così, non appena intercettava il suo girarsi di schiena, la afferrava per i fianchi e la tirava a sé, abbracciandola da dietro.
A lei veniva da ridere, opponeva resistenza, facendo finta di volersene andare.
Però, dopo poco, puntualmente, seduta tra le sue gambe sul letto sfatto, si abbandonava a lui, alle sue braccia, facendo aderire completamente la schiena al suo petto e buttando la testa all'indietro, sulla sua spalla inducendolo a baciarle il collo, le clavicole.

Mentre il sonno lo conquistava, Palma, disteso su un fianco, pensò a quelle immagini un'ultima volta, rimanendo senza fiato per quanto gli mancasse.
Con quei fotogrammi impressi nella testa, si addormentò.

Dopo un tempo difficile da quantificare, il commissario si svegliò che ancora era buio e con la convinzione di averla sognata, perché gli era parso di sentire il suo profumo invadergli i sensi.

Aprendo faticosamente gli occhi, ancora appesantiti dal sonno, la trovò lì, stesa su un fianco verso di lui. Di colpo, il cuore di Palma si riempì di tenerezza.
Doveva essere arrivata da poco perché bastò una carezza per svegliarla.
«Amore mio» - le sussurrò istintivamente, continuando a toccarla, mentre Ottavia gli rivolgeva un sorriso.
L'uomo si sdraiò sulla schiena per stringerla a sé, in modo da farle poggiare la testa sul suo cuore. In quell'attimo, con lei tra le braccia, Palma si sentì finalmente in pace, leggero, nuovamente padrone del proprio respiro.
«Quanto tempo abbiamo?» - le chiese all'orecchio, dopo qualche minuto di silenzio.
«Un paio d'ore» - gli rispose, con la mano sul suo petto quasi a seguire e vegliare il respiro tranquillo dell'uomo.
«Fa freddo, è buio, potevi dormire ancora un po'...» - continuò lui sempre a bassa voce.
«Ho lasciato un biglietto dicendo che avevamo un'urgenza.» - disse.
«Ah sì?» - ribatté lui sottovoce.
«Avevo bisogno di un bacio» - gli sussurrò lei, sollevando lentamente il capo verso il viso di lui che si stava, a sua volta, avvicinando.
Strofinarono i nasi per qualche istante per consentire alle labbra di sfiorarsi. Si baciarono appena per poi guardarsi ancora.
Palma sollevò il mento di lei con la mano destra per condurla di nuovo verso di sé e baciarle l'angolo della bocca. Le labbra iniziarono un lungo gioco di andate e ritorni, finché il desiderio, vincendo su tutto, fece diventare il bacio più profondo e lento, intimo. E, stando abbracciati con il plaid blu e rosso che li copriva sul solito divano scomodo della sala agenti vuota, continuarono a baciarsi per un tempo dilatato a dismisura da quel buio e quel freddo.

Quando la timida luce del giorno iniziò a filtrare dalla finestra, la sveglia del cellulare del commissario suonò, portando lei a stringersi a lui un'ultima volta.
«Te ne vai già?» - le sussurrò all'orecchio.
«Vado di là, così non ci vede nessuno» - disse Ottavia che, mentre lui le accarezzava ancora la schiena, gli diede un ultimo bacio sull'incavo del collo per poi alzarsi.
Lei si voltò di schiena e Palma rimase fermo a guardarla, ripetendo nella sua testa il solito becero copione che conosceva a memoria.
Stava andando via, un'altra volta.
Come sempre.

Nel vedere quelle spalle, sentì un crampo allo stomaco e, d'impulso, si alzò per abbracciarla da dietro.
Lei sorrise, come se lo stesse aspettando.
Sospirando, si voltò verso di lui, sempre circondata dalle sue braccia, e iniziò ad infilare nelle asole vuote i primi tre bottoni aperti della stazzonata camicia celeste con cui aveva dormito.
«Devo andare» - disse lei, sfiorandogli la barba sulla guancia.
«Tu devi sempre andare» - ripeté lui, guardandola negli occhi, mentre a malavoglia le sue braccia la liberavano.
Rimase a fissarla, mentre si sedeva alla scrivania per accendere il computer e slegava i capelli, sentendosi di nuovo terribilmente solo.

In quel momento, maledisse quel destino crudele che anche quella notte lo aveva illuso che lei fosse sua, quando in realtà non lo era.
E forse non lo sarebbe mai stata.
Ma sei mia - disse tra sé con la morte nel cuore - Sempre, anche quando vai via.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** III - Guerriero ***


 

Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~ episodio 3x06  - Verità

Quando ormai l’indagine sulla bomba sembra essersi conclusa con l’omicidio di Manetti per mano di Mary Musella, compagna di Ciro Maiulo, l’esecutore materiale dell’esplosione, ingenuamente i Bastardi tornano alla normale amministrazione. In quella notte di inizio primavera, Romano si trova ad affrontare un turno di notte difficile con la rabbia di chi deve accettare la perdita della piccola Giorgia, di cui gli è stato revocato l’affido, e la fine, questa volta definitiva, del suo matrimonio.

 

 

 

Romano


♫ Guerriero (Marco Mengoni)

 

 


 


III

Guerriero

 

 

Di case ormai vuote e dolorose cadute

 

 

 

 

 

 

 

Romano guidava nel buio delle undici passate con gli occhi stretti, fissi sulla strada.
In quella giornata strana, in cui avevano finalmente arrestato la Musella, archiviando così in modo definitivo la storiaccia della bomba, erano tutti tornati all'ordinaria amministrazione e ai casi minori che erano rimasti in sospeso.
Nello specifico, a lui era toccata la scocciatura di scontare quel rognoso turno di notte in cui, niente di meno, era dovuto uscire per andare a vedere se fuori da un bingo schifoso sarebbe uscito quell'usuraio stronzo che tenevano sott'occhio da un po'. Lo avevano già torchiato un paio di volte negli ultimi mesi, si trattava del solito pesce piccolo e senza scrupoli, ma, da qualche domanda fatta in giro per il quartiere, era saltato fuori che sentirlo poteva essere utile ai fini di un'indagine minore che stavano seguendo in quel periodo. Purtroppo, era proprio il caso di dire: chi non muore si rivede.

Tanto sarà lì dentro a giocare a carte e a sbronzarsi come se non ci fosse un domani, quell'omm 'e merda - pensò Romano, fissando il semaforo che tardava a diventare verde, mentre nell'attesa, per noia, accendeva la radio sperando potesse alleggerire un po' l'atmosfera.

Era arrabbiato, Francesco.
Niente di nuovo sotto il sole, alla fine dei conti.
La verità era scomoda, ma - anche se l'avrebbe negato fino alla morte - si era sentito sollevato quando Aragona gli aveva chiesto di sostituirlo all'ultimo momento.
Davanti a lui, ovviamente, aveva fatto il diavolo a quattro, dandogli dell'inaffidabile e del "tira pacchi", minacciando persino un bel destro sulle lenti azzurrate del collega, ma anche se non poteva dirglielo, gli era stato profondamente riconoscente.
Non voleva tornare a casa.

Cosa ci avrebbe trovato, d'altronde?
Niente. Il vuoto siderale.
C'era riuscito di nuovo, l'iracondo Francesco Romano, assistente capo, a radere al suolo ciò che lo circondava, a distruggere tutto.
Varcare la porta di casa significava ammettere quell'ennesimo, colossale fallimento.
Era così da qualche giorno, da quando Giorgia se n'era andata.

Quale Giorgia?
La piccola o la grande?
Entrambe. Perché se si fallisce, bisogna farlo in grande stile.
Almeno, per lui era sempre stato così.
Le cadute della sua vita erano sempre state mastodontiche, con echi profondissimi e conseguenze quasi sicuramente spiacevoli.

Francesco non era più riuscito ad andare a trovare la piccola Giorgia da quel giorno.
Si sentiva in colpa e inadatto, si vergognava.
Era come se l'avesse tradita; non era riuscito a proteggerla, a tenerla con sé portandola via da quello schifo che era stato l'inizio della sua vita.
Di gente sbagliata, quel cucciolo indifeso ne aveva già incontrata a frotte, nonostante avesse solo pochi mesi, e lui cosa aveva ben pensato di fare?
Aveva avuto la supponenza di ergersi a salvatore della Patria, di credersi migliore di quei mostri da cui si era ripromesso di proteggerla, ovviamente senza riuscirci.
In quel momento, infatti, Romano pensava di essere come tutta quella feccia che l'aveva maltrattata e abbandonata, anzi forse era a pieno titolo il peggiore di loro.
Si era fatto portare via la persona che più amava al mondo.
Perchè sono il re dei coglioni - pensò Francesco mentre ripartiva allo scattare del verde.

Doveva metterlo in conto, ma si era lasciato prendere la mano, come sempre d'altronde, sia in senso lato che seguendo il significato letterale del termine.
Infatti, a pensarci bene, non si era mai sentito in grado.
Non che non lo fosse, ma lui non ci aveva mai veramente creduto.
Ogni notte, quando si metteva a letto, faceva i conti con un tribunale dell'inquisizione spietato, quello che la sua stessa mente allestiva in modo sadico per condannarlo inesorabilmente. La sentenza era sempre la stessa: un mostro, signore e signori della Corte, quest'uomo è un mostro. Magari con buone intenzioni, ma pur sempre un essere spregevole che all'occorrenza diventava verde di rabbia, uno di cui avere paura, da cui stare alla larga.
Nessuno sano di mente avrebbe mai affidato una creatura fragile ed indifesa a uno come lui. Dopo tutto quello che era costretto a vedere ogni giorno da anni nell'ambito del lavoro che si era scelto, come poteva ancora illudersi o credere alla favole?

Bisogna ascoltare sempre il destino: non sbaglia mai - pensò Romano parcheggiando la macchina davanti al vecchio bingo e spegnendo la radio che lo stava innervosendo più del dovuto - Se la vita non ti dà qualcosa è perché non è per te o, peggio, perché non te la meriti.
Forse non era stato un caso che non fossero mai riusciti ad avere il bambino che desideravano tanto.
Di sicuro non era colpa Giorgia.
Nonostante fosse finita in quel modo, non riusciva ad avercela con lei che, dopo tutto, era stata l'amore della sua vita. Si erano messi insieme da ragazzi ed erano arrivati, volenti o nolenti, fin lì. Aveva percorso con lei un pezzo importante di strada, era stata tutte le prime cose importanti.

Si sentiva in colpa anche con lei.
Aveva insistito tanto per riaverla, per cosa poi? Per darle quella delusione, per umiliarla così. Ma, purtroppo, ci sono ferite che non si rimarginano, fratture che non si possono superare e tra loro si era irrimediabilmente rotto qualcosa, in mille pezzi.
Era innegabile, da quello schiaffo nulla era più stato lo stesso.
Sì certo, la lontananza, la lunga pausa che c'era stata tra loro e tutti i ripensamenti non avevano aiutato, ma era stata la sua violenza e la mancanza di fiducia che ne era seguita a rovinare tutto, a dare il colpo di grazia a quel matrimonio già barcollante.
E' difficile, però, arrendersi alla fine di un amore come il loro.

In quei giorni, Francesco si era interrogato più volte sul vero motivo che lo aveva portato ad insistere così tanto per tornare con Giorgia.
Di una cosa era certo: aveva agito in buona fede.
Sì, aveva sempre creduto fermamente a loro, al fatto che si meritassero una seconda opportunità. Non a caso aveva dato il suo nome alla bambina; era stato come battezzare una speranza, esorcizzare il fatto che lei se ne fosse andata, realizzare per lei quello che non era riuscito a darle quando stavano insieme.
Intenti nobili con motivazioni sbagliate.

Lo dicono tutti, no? Non regge, se si sta insieme solo per i figli - rifletté Romano, guardando in tralice chi entrava e chi usciva dal malfamato locale - Che poi, non funziona nemmeno se sono tuoi, figuriamoci quando non lo sono.
Non era più innamorato di Giorgia e, finalmente, dopo mesi e mesi era riuscito dolorosamente ad ammetterlo a se stesso.
Lei lo aveva capito subito e prima di lui perché, non c'è niente da fare, le donne sono sempre un passo avanti, soprattutto sui sentimenti.
Aveva ragione ad essere gelosa.
D'altronde era palese: lui in fondo era tornato con lei per la sua ostinazione, perché voleva avere la bambina con sé a tutti i costi, per dimostrare che era forte, per riabilitarsi dopo tutte le cazzate fatte.

In quel momento, pensò che le convenzioni sono una fregatura: invece di rendere chiare e lineari le situazioni, ti costringono a complicarne a dismisura delle altre, a scendere a compromessi, a dire bugie.
Se avesse potuto adottare Giorgia da solo forse non avrebbe combinato tutti quei casini, ad esempio. Non avrebbe ferito la persona che gli era stata vicino nel corso di tutta la sua vita fino a quel momento, non avrebbe perso di nuovo tutto.

Francesco stava cercando di evitare accuratamente la solita conclusione derivante da quel groviglio di pensieri che però era lì dietro l'angolo, ad aspettarlo immancabilmente.
Chi voleva prendere in giro?
In fondo, non ci si lascia quasi mai se non c'è qualcun altro.

Era arrabbiato anche con lei, per quanto possibile.
Sì, perché era anche un po' colpa sua se era andato tutto storto, tutto in malora.
Il destino gli sembrava tutto una farsa: se, in momento di immotivata magnanimità, ti salva, di sicuro nello stesso istante cerca di rovinarti, regalandoti subdolamente la corda con cui finirai per impiccarti da solo. Ovviamente, non è facile accorgersi del tranello e, quando finalmente si aprono gli occhi, è troppo tardi.
Francesco, per esempio, era troppo preso da Giorgia per stare in guardia, per guardarsi le spalle e non farsi imbrogliare dal destino.
A guardarlo da fuori, sembrava soltanto uno scherzo di pessimo gusto, ma era la pura realtà: aveva perso la bambina proprio a causa della persona che lo aveva aiutato a salvarle la vita, la donna a cui era stato immensamente riconoscente e che condivideva con lui l'amore immenso per la piccola Giorgia.

L'aveva rivista il giorno prima, Susy.
Si erano tenuti a debita distanza come sempre, per proteggersi.
Anche se tra di loro non era successo nulla, avevano sempre saputo di essere legati.
Certe emozioni le prevedi, le percepisci anche se ancora non ci sono e fanno paura. Nonostante non siano ancora nate, le temi perché sai che saranno importanti, belle e imponenti, come quei monumenti che ti lasciano a bocca aperta facendoti sentire piccolo, insignificante, schiacciato dalla loro grandezza.

Eppure non si erano detti niente, perché era ferito Francesco.
Chissà come si era sentita lei, però - si domandava l'assistente capo, mentre teneva nel mirino due brutti ceffi con una birra in mano che si davano qualche strattone fuori dal bingo.
L'aveva messa da parte senza neanche accorgersene, mentre lei, considerata la sua sensibilità, probabilmente se ne era andata senza dire niente per tentare di non rovinare il suo sogno, per non ostacolare la sua felicità.
Una felicità che senza di lei, però, non ci sarebbe mai stata, non avrebbe mai retto.
In quel momento, realizzò che aveva allontanato anche la terza e ultima donna della sua vita. Tutte accomunate dalla sfortuna di averlo incontrato sulla propria strada.

Mentre continuava a tormentarsi, qualcosa al di là del parabrezza distolse l'attenzione dell'agente scelto dai suoi guai. Dalla porta di ingresso del fatiscente locale uscì, infatti, il tanto atteso usuraio che, fortunatamente, in quella schifosa notte, decise di rendergli il compito di acchiapparlo più semplice. Come da copione, infatti, dopo uno scambio di poche parole, il fesso aveva iniziato a menarsi con gli altri due uomini che Romano stava osservando da un po'.

Vedi te se pure sta sera mi devo sporcare le mani per st' omm' 'e nient- disse tra sé e sé Romano scendendo dalla macchina più scazzato che mai.

La nottata si concluse in bellezza con un glorioso fermo per lo stimatissimo usuraio. Anche se non centrava nulla con il caso su cui stavano lavorando, qualche scheletro nell'armadio, a furia di fare, in quei casi, grazie a Dio, esce sempre fuori.
Francesco aveva, infatti, provato una strisciante soddisfazione nel guardarlo mentre lo portavano via in manette con quella patetica espressione da cane bastonato, soprattutto perché aveva passato gran parte del tempo a sbeffeggiarlo prima e a piagnucolare poi, ripetendo come un disco rotto: «Dottò, ma davvero volete mettere al fresco un padre di famiglia di quattro figli piccoli?»

Dovrebbe essere illegale far fare i figli a certa gente - pensò carico di risentimento Romano, girando, suo malgrado, le chiavi nella toppa. Nonostante si fosse opposto con tutte le sue forze, Palma lo aveva, infatti, obbligato a tornare a casa senza se e senza ma, sostenendo che avesse bisogno di qualche ora di sonno e non aveva voluto sentire ragioni.

Quando si chiuse la porta alle spalle, l'alba era ormai vicina e Francesco si ritrovò solo, in quella casa triste e buia.
Accese la luce.
Si sentiva svuotato, senza un motivo per affrontare le prossime ore, investito da quel silenzio tanto assordante da risultare insopportabile.
E poi c'era quella maledetta porta, che, da quell'altrettanto maledetto giorno, era rimasta chiusa.
Francesco provava contraddittoriamente una forte repulsione e una altrettanto insistente attrazione verso quella stanza da cui si era prontamente tenuto alla larga, ma quella sera, complici la stanchezza e lo sconforto, decise di fronteggiare con stoica incoscienza quella paura, quel baratro.

Si diresse verso la prima porta alla sua sinistra e la aprì, cercò a tentoni l'interruttore per illuminare la stanza, per affrontare faccia e faccia la realtà, quel brutto mostro che aveva evitato per giorni.

Si trovò a fissare la culla vuota della piccola Giorgia, con le coperte rosa ancora rimboccate ad aspettarla, come se di lì a qualche minuto avessero dovuto adempiere al delicato compito di custodire il suo sonno tranquillo.
Francesco spostò lentamente gli occhi sulle farfalle gialle e celesti appese alla parete, sulle decine e decine di peluche sparsi per la cameretta, sulla cesta dei giocattoli stracolma e, infine, sui cubetti di legno e i libri di fiabe sparsi sul tappetone colorato che copriva il pavimento.
Lo sguardo con cui aveva percorso quella stanza era, in tutto e per tutto, simile a quello di un soldato sconfitto che contempla un desolato campo di battaglia al termine di una guerra dura e sofferta.

Non aveva trovato la forza di parlare a nessuno di quello strazio.
Non riusciva proprio a tirar fuori le parole necessarie in quelle occasioni, non ne era mai stato capace.
Alex però se n'era accorta, senza che lui dicesse nulla, e gli era stata vicina, noncurante del concreto pericolo di essere presa a cazzotti in un eventuale scatto della sua ira cieca e funesta.
Nonostante odiasse condividere le sue emozioni, non poteva negare che quell'abbraccio gli fosse servito ad alleggerire, anche se in minima parte, quell'enorme macigno che si ostinava a portare tutto solo sulle sue spalle larghe.
Non c'era bisogno di giri di parole inutili con Alex.
In fondo, si somigliavano più di quanto ci tenessero ad ammettere.
Erano due schivi, solitari, introversi, ma tra loro, sorprendentemente e soprattutto senza volerlo, si era instaurata una latente e discreta empatia. Così, era finalmente riuscito a dire, per la prima volta e ad alta voce, davanti a quell'esile collega con gli occhi grandi, che il suo sogno si era dissolto nel nulla, che quei due acidissimi assistenti sociali avevano sadicamente scoppiato quella candida bolla di sapone a mani nude: che le avrebbero portato via Giorgia.

Ripensando a quegli attimi trascorsi in commissariato con Alex sul tetto che si affacciava su quel beffardo mare di inizio aprile, Francesco si lasciò scivolare sul pavimento seguendo con la schiena lo stipite della porta di quella cameretta abbandonata e a soqquadro.

Così, con l'immagine, incisa a fuoco nei suoi pensieri, di quell'enorme paio di indifesi occhi azzurri che se ne andavano via sopra la spalla di quell'insensibile e stronzissima assistente sociale, seduto a terra in quell'alba di inizio aprile, l'assistente capo Francesco Romano, detto Hulk, scoppiò a piangere.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** IV - Voce ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~ episodio 3x04  - Nozze

Nell’ambito dell’indagine per l’omicidio di Francesca Valletta, la bella sposa il cui abito da sposa galleggiava in mare a riprova di una giovane vita interrotta, Alex è ancora sconvolta dalla morte della cameriera morta davanti ai suoi occhi nell’esplosione della bomba che ha colpito i Bastardi.
Quella sera, la morte dello sposo, Giovanni Pesacane, caduto accidentalmente dal casale di campagna di famiglia, davanti ai suoi occhi contribuisce all’inquietudine della giovane agente portandola a scontrarsi duramente con Rosaria. La rottura di un posacenere durante quella lite sembra però accendere in Alex un’intuizione sulla natura del fratello di Pesacane, Biagio, e della sua impenetrabile sofferenza. E’ così che vogliosa di risolvere quel caso complicato e di accantonare per un po’ i suoi tormenti, la Di Nardo decide di chiamare Lojacono per tentare di mettere ordine in quei suoi presentimenti terribilmente ingarbugliati.

 

 

 

Alex


♫ Voce (Madame)

 

 


 


IV

Voce

 

 

Di lune storte e strani presentimenti

 

 

 

 

 

 

 

Quella notte una luna bellissima, argentea e luminosa faceva da prima donna, persa in quel drappo nero che era il cielo di marzo su Napoli.
Alex contemplava la sua bellezza con il naso all'insù continuando a girare su se stessa senza sosta lungo il marciapiede della traversa vicino casa sua, dove aveva dato appuntamento a Lojacono.
Avrebbe potuto stare ad aspettarlo in casa ancora un po', ma il clima era mite, la serata tranquilla e prendere una boccata d'aria nell'attesa le era parsa una buona idea.
L'ispettore aveva risposto subito, erano bastati pochi squilli.
A dirla tutta, aveva avuto il timore di disturbarlo, ma non riusciva a darsi pace. Qualcosa non tornava e la tentazione di cercare di mettere ordine in quel caso che stava diventando un rompicapo aveva vinto sugli scrupoli, spingendola a fare un tentativo.
Aveva risposto con una voce pensierosa e triste, ma aveva accettato subito di vederla, probabilmente incuriosito da quello che la tormentava o semplicemente perché, come lei, anche lui cercava una buona scusa per starsene fuori di casa il più possibile.

Meglio rendersi utili e portarsi avanti con il lavoro, almeno ci togliamo il pensiero una volta per tutte - aveva concluso Alex tra sé e sé, quando qualche minuto prima aveva riattaccato la telefonata.
Tanto se rimango qua a casa che faccio?! - si era chiesta – Sto qua a rimuginare e a farmi il sangue amaro... Tanto fino a domani di sicuro non torna.
La conosceva troppo bene, Rosaria non sarebbe rincasata quella notte.
Figurarsi.
In quei casi era difficile che una delle due facesse subito un passo indietro, ammettendo di avere torto e chiedendo scusa.
Serviva un po' di tempo per sbollire, per far decantare la questione.
Ognuna per sé.

Alex era convinta che, a scanso della sua reazione aggressiva, quella serata fosse stata rovinata da quel solito, insopportabile vizio di Rosaria. Nonostante tutte le litigate fatte in passato, non aveva ancora capito che se c'era una cosa capace di farla arrabbiare era proprio il sentirsi dire cosa doveva o non doveva fare.
Voleva sentirsi libera di sbagliare da sola, l'agente assistente Alex di Nardo.
Soprattutto quando, come in quel periodo, si sentiva in difficoltà, fragile, scoperta.
Aveva agito per rabbia e per autodifesa, come un animale ferito che cerca in tutti i modi di nascondere le proprie vulnerabilità.

Rosaria aveva ragione.
Era stato terribile rivivere quell'incubo, nel pomeriggio, quando Giovanni Pesacane le era morto davanti agli occhi volando giù dal balcone di quel vecchio casale di Bacoli.
Per Alex era stato come riaprire con la lama infuocata di un coltello quella ferita ancora sanguinante, che non voleva saperne di guarire e che si portava dietro da un po'.
Cercava disperatamente di ignorarla: una fatica del tutto inutile.
Faceva finta di nulla, si mostrava forte, ma lo sentiva benissimo quel taglio, bruciava in modo insopportabile dal maledetto giorno in cui era esplosa quella dannatissima bomba.
Si era sentita morire un po' anche lei, quando la luce aveva abbandonato gli occhi di Alma mentre la teneva tra le sue braccia.
In quei momenti aveva urlato senza voce, Alex.
Ma non c'era stato nulla da fare, aveva vissuto quel momento da sola, senza qualcuno che potesse dividere con lei quell'enorme dolore.
Avrebbe preferito morire, piuttosto che vederla volare via, abbandonando la vita
e lasciandole, nel contempo, quell'opprimente impotenza e quel senso di colpa spaventoso che la stavano lacerando dentro.
E poche ore prima, era successo di nuovo.
Si convinse che la vita si stava divertendo a girare il coltello nella piaga con lei.
Magari voleva darle un segnale.

Rosaria faceva bene ad essere preoccupata, anche se non lo avrebbe mai ammesso davanti a lei, nemmeno sotto tortura.
Il suo carattere determinato e indipendente, la difesa della sua libertà, che per lei era la priorità assoluta, glielo impedivano.
In ogni caso, Alex era troppo intelligente per non capire che quell'ostinazione autodistruttiva non avrebbe portato a nulla, ma doveva e voleva salvarsi da sola, con i suoi tempi, i suoi spazi e i suoi modi.
Era imprescindibile.

Iniziando a camminare avanti e indietro per il marciapiede alla luce fioca di un lampione, scacciò via per un attimo i suoi crucci e tornò all'enigma che continuava ad ingombrare la sua testa.
C'era un tassello mancante, qualcosa di rotto.
Per rappresentare quel suo strano presentimento, non esisteva immagine migliore di quel posacenere in pezzi, frantumato poco prima, durante il litigio con Rosaria. La vista di quei cocci aveva infatti messo in luce nella sua mente alcuni aspetti di quella storia che erano rimasti in ombra, che non era stata in grado di vedere perché accecata dall'ansia e dal panico di quell'ultimo periodo.
Le fratture di quel posacenere le avevano ricordato gli squarci dei quadri che avevano trovato nell'atelier. Con ogni probabilità, quei tagli nelle tele si sarebbero rivelati in tutto e per tutto sovrapponibili a quelli che portava Biagio nel cuore, che poi erano un po’ anche quelli di Alex. Forse era proprio per quello che era stata così dura con quel ragazzo e, contemporaneamente, nutriva quella strana attrazione per il caso della sposa uccisa e gettata in mare.
Doveva essere colpa dell'istinto, quello che non sbaglia mai e che l'aveva condotta verso chi condivideva quelle che erano state le sue stesse sofferenze, la sua diversità.
Alex pensò a quanto potesse far schifo un mondo in cui si preferisce rischiare di andare in galera per omicidio piuttosto che ammettere di amare una persona dello stesso sesso.
La società non aiuta, ma anche i genitori che abbiamo avuto non scherzano – pensò lapidaria.

Quel flusso di coscienza non poté non farla riflettere sul fatto che non a tutti è concesso il lusso di essere sé stessi. E in quei casi non c'era differenza tra l'essere il figlio di un temibile boss o di uno stimato militare dell'esercito.
Alla fin fine, gli estremi si toccano sempre, si sa.
Gente tutta d'un pezzo, seppur agli antipodi, che non può subire lo smacco di un figlio diverso.
Altro che “movimento arcobaleno”! – rise tra sé amaramente la ragazza – Nero semmai: come il mio umore, come 'sto cielo scuro che tengo sopra la capa.

Alex si chiedeva spesso se essere etero – o nel vocabolario di suo padre, “normale” - avrebbe reso le cose più facili.
Oscillava tra il sì e il no, a momenti alterni.
Tra tutte le possibilità, pensava che, comunque, quella che prevedeva due donne insieme fosse sicuramente la combinazione più difficile da gestire. L'espressione algebrica alla base era grossomodo la seguente: considerando quanto può essere complicata una donna - che già singolarmente bastava e avanzava - andava moltiplicato tutto (almeno) per due aggiungendo poi una buona dose di lunaticità e una certa tendenza allo psicodramma elevata al quadrato.
In sintesi e matematicamente, un gran casino.

Alex si illudeva che un uomo potesse rendere più lineari e semplici certe dinamiche della relazione o, anche solo, smussare e bilanciare un po' la meravigliosa complessità dell'universo femminile.
Sì, sì, di sicuro è più facile essere tradizionali – concluse nuovamente Alex quella sera – Almeno non devi accampare tante scuse se ti chiedono del fidanzatino, giustificare perché non hai ancora dei figli, subire gli insulti di tutti i retrogradi deficienti che trovi in giro o, persino, sentirti discriminato dalla tua stessa famiglia.

Guardando distrattamente una macchina che passava sulla carreggiata davanti a lei, arrivò a ipotizzare che se, invece di Rosaria, ci fosse stato, che ne so, un Salvatore, un Antonio o un Gennaro probabilmente non si sarebbe nemmeno accorto del suo cattivo umore e non le avrebbe fatto quindi un'insopportabile paternale non richiesta, consentendo ad Alex una tranquilla serata sul divano a guardare un film.
Fu davanti a quella prospettiva che, con una fitta allo stomaco, la ragazza realizzò che non avrebbe rinunciato mai e poi mai ad un minuto della sua vita con Rosaria.
Per cosa, poi?
Per stare ad annoiarsi davanti a una patetica commedia romantica in salotto con un Salvatore, Antonio o Gennaro qualunque?
Neanche morta.
Anche perché quello era l'unico modo di amare che conosceva.

Di riflesso, per evadere da quel pensiero pesante, abbassò gli occhi sul cellulare che poco prima aveva vibrato nella tasca del suo chiodo di pelle, distraendola dai suoi pensieri.
Sulla chat dei Bastardi era comparsa la classica battuta idiota della buonanotte da parte di Aragona, un grande classico che recitava:
«Sono qui tutto solo a scontare il turno di notte che mi avete rifilato... Se conoscete qualche bella ragazza in cerca di compagnia, almeno mandatemela qua, ovviamente è la benvenuta»
Inutile dire che a quel messaggio era seguita un'infinita sequela di meritatissimi insulti.

Ecco, i colleghi Bastardi, al contrario suo, erano tutti normali.
Spesso e volentieri, Alex li invidiava un po', soffermandosi sul fatto che loro, al contrario suo, non dovessero vergognarsi dei loro sentimenti e tantomeno fossero costretti a nasconderli.
Una volta finito di elaborare quel pensiero, si rese, però, immediatamente conto che, in fondo, non ci fosse poi molto da invidiare.

Per esempio, nonostante si divertisse tanto a fare il buffone, per Aragona non doveva essere un gran momento.
Ascoltando di tanto in tanto i suoi commenti cretini e i suoi lamenti non richiesti, Alex aveva intuito che Irina l'avesse piantato in asso per tornarsene in Montenegro. Ovviamente lui aveva ostentato un qual certo distacco, tentando invano di dimostrarsi indifferente alla cosa, come a voler convincere i suoi sfortunati interlocutori che a perderci fosse stata solo e soltanto lei.
Non era un segreto che Marco si sentisse – e chissà con quale coraggio poi – un tombeur de femme dal quale non si poteva in alcun modo sfuggire. Motivo per cui si sentiva legittimato a fare il cascamorto con tutte, colleghe comprese, pretendendo che fossero quasi lusingate dalle sue "preziose" attenzioni.
La divertiva moltissimo constatare che il "perspicacissimo" collega non avesse capito assolutamente niente di lei e della sua natura. Ultimamente, infatti, ci aveva provato come se non ci fosse un domani nel disperato (e penoso) intento di dimostrare a se stesso e agli altri quanto fosse virile ed irresistibile.
Al pensiero di Aragona che si crucciava davanti all'evidenza dei suoi impietosi rifiuti, Alex non poté non sorridere.

Da quando era arrivata Elsa, però, poteva almeno dire di avere qualcuno con cui dividere quella scomoda croce.
Come dar torto al buon collega? La Martini era bellissima, dura, determinata, decisa e disinvolta: una bomba a orologeria con i capelli rossi, insomma.
Di lei però si sapeva poco o niente. Si era parlato diffusamente del fattaccio che le aveva macchiato il curriculum, ma nulla di più.
Poco dopo essere arrivata dal nord aveva presentato loro sua figlia, Vicky, che i Bastardi ovviamente adoravano per la sua spiccatissima intelligenza e l'innata simpatia, ma dal punto di vista sentimentale sembrava aver portato con sé un bagaglio leggero: insomma, niente ex mariti pesanti, niente fidanzanti molesti, compagni, conviventi o simili.
Eppure quella creatura di qualcuno deve pur essere, o no? - si domandò Alex con una scrollata di spalle.
Quel che era certo era che per una donna del genere – affermata sul lavoro, che aveva cresciuto una figlia da sola e che proseguiva dritta sulla sua strada senza chiedere nulla a nessuno - fosse tutt'altro che semplice trovare qualcuno, ancor meglio se incline al martirio, alla sua altezza e in grado di tenerle testa.

Romano ne sapeva qualcosa. All'inizio, tra lui ed Elsa, l'aria si poteva tagliare col coltello, come capita spesso e volentieri quando due caratteri così forti ed irruenti si incontrano. Alex stessa aveva avuto delle remore quando aveva iniziato a lavorare con lui durante i primi tempi a Pizzofalcone. Con il passare dei mesi avevano, però, stabilito una silenziosa vicinanza, una comprensione reciproca che non aveva bisogno di fronzoli e troppe parole inutili.
In quel momento, Francesco era sicuramente da ammirare: in lui vedeva la fatica e la dedizione di chi vuole far funzionare una famiglia tanto desiderata.
Tutti sapevano che lui e Giorgia avevano attraversato un profondo momento di crisi, dovuto alla sua rabbia, alla sua violenza. Ma da quando era arrivata la piccola Giorgia, aveva visto il collega subire una sconvolgente metamorfosi e, proprio per la bambina, aveva imparato a canalizzare la sua forza in modo diverso, per ricostruire il suo matrimonio, ad esempio.
Nonostante ciò, Alex nutriva per Francesco una sana e distaccata preoccupazione. E questo perché forse aveva l'impressione che, all'atto pratico, le cose si stessero dimostrando molto più difficili del previsto.
Ma era normale.

Frequentando i Bastardi, aveva imparato che i figli, alla fine dei conti, portano spesso più dolori che gioie. Ne sapeva qualcosa Lojacono che stava affrontando la tristezza derivante dal ritorno di Marinella in Sicilia.
Per lui la bomba era diventata una questione personale, soprattutto perché aveva coinvolto direttamente Letizia. Alex aveva capito subito che la ristoratrice fosse pazza del tenebroso ispettore.
E come biasimarla? - aveva pensato.
Era innegabile che Lojacono avesse un suo perché: nel suo genere era un tipo affascinante, il classico introverso e misterioso che fa impazzire le donne.
Ultimamente sembrava più tormentato del solito, tra due fuochi e conteso.
La mente di Alex non poté evitare una pericolosa associazione tra l'umore del collega, il tono con cui aveva risposto al telefono e la presenza sempre più rada della Piras a Pizzofalcone.

Regola numero uno: mai tra colleghi o simili, e io ne so qualcosa – concluse la giovane, guardandosi le scarpe.

Ma non erano gli unici a esserci cascati e questo consolò in parte Alex, mentre i suoi pensieri si posavano su Ottavia.
Seguendo i dettami di suo padre, lei sarebbe stata la figlia ideale: sensibile, intelligente e accondiscendente. Insomma, la classica donna perfetta tutta casa, lavoro e famiglia. Peccato, però, che spesso e volentieri – caro papà - non sia sinonimo di felicità, perché, magari, da quelle bellissime e convenzionali gabbie d'oro il cuore cerca di scappare per rifugiarsi da un'altra parte, dietro la porta dell'ufficio affianco, per dirne una.
Non c'era nulla da fare, tra donne certe cose si capiscono immediatamente.
Alex e Ottavia erano state a lungo l'esigua quota rosa di una squadra di uomini e questo, senza dubbio, le aveva unite. D'altra parte, non era possibile non affezionarsi a lei, alla sua forza e alla sua dolcezza, resiliente a tutto ciò che la vita le aveva riservato.
Era un cuore triste quello di Ottavia, Alex lo sapeva da sempre.
Non se lo erano mai dette, ma a volte le parole non servono. Erano consapevoli dei rispettivi dispiaceri, anche se per discrezione e circostanza non riuscivano (o non potevano) confidarseli apertamente.
Dopo la bomba, poi, era diventato, se possibile, ancora più evidente.
Certe assenze, certe sofferenze fanno rumore.
Lo aveva letto nel volto preoccupato di Ottavia, negli occhi tristemente innamorati del capo, abbandonato quando tutto stava miseramente crollando.
Alex pensò a quanto potesse essere doloroso fare, allo stesso tempo, da vittime e da carnefici al proprio amore, cercando di soffocarlo a mani nude e in tutti modi perché troppo scomodo, ingombrante e difficile da trattenere.

Quel velo di pesante tristezza la condusse, in ultimo, fino a Pisanelli e alla sua Carmen, di cui l'ex vice commissario parlava spesso.
Quello sì, che doveva essere un grande amore, di quelli in cui ci si accompagna per tutta la vita e finiscono per trascendere il tempo, sopravvivendo in chi rimane qua, da solo.

«Insomma, stamm nguaiat» – disse ad alta voce Alex, concludendo quel rovinoso bilancio.
In quel momento, nella sua mente ricomparvero in un'incalzante sequenza l'immagine di quel vestito bianco che galleggiava sull'acqua, dei cocci scomposti del posacenere rotto poco prima, del sorriso di Romano quando parlava della piccola Giorgia, della durezza di Elsa che si scioglieva portando via tra le braccia Vittoria e ancora della dolcezza con cui Palma qualche giorno prima aveva accarezzato la spalla di Ottavia, della disperazione di Biagio Pesacane davanti al corpo senza vita del fratello e, per ultimo, degli occhi di Rosaria che se ne andava via sbattendo la porta.

Prendendo atto sbuffando che l'amore non fosse altro che un gran casino condiviso per il quale non c'era normalità che reggesse, Alex alzò una mano in alto per fare un cenno a Lojacono che stava accostando a fari accessi.

Aprì la portiera: «Ciao Lojà» – lo salutò Alex con un mezzo sorriso.
Prima di salire in macchina, rivolse in alto un ultimo sguardo confuso.
Che bella questa luna: è maestosa, ambigua, forte e fragile insieme. È femmina, semplicemente. Custodisce in sé un'energia antica, di tutto ciò che è stato e di tutto quello che verrà – pensò Alex mentre guardava il cielo, augurando a se stessa e a tutti gli altri solo il meglio.

 

 

 

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Capitolo 5
*** V - Spostato di un secondo ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~ episodio 3x02 - Vuoto

Lojacono - di ritorno dal Portogallo, dove con l’aiuto di Elsa ha scoperto la verità sulla scomparsa della professoressa Chiara Fimiani - deve fare i conti con gli incubi che affollano le sue notti dopo l’esplosione della bomba al ristorante di Letizia. Oltre all’inquietudine di quei ricordi, l’ispettore rivede dall’alto quell’ultimo periodo così ambiguo della sua vita, perennemente in bilico tra un passato stretto e un futuro sempre più incerto.

 

 

 

Lojacono


♫ Spostato di un secondo (Marco Masini)

 

 


 


V

Spostato di un secondo

 

 

Di incubi bui e vite interrotte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era da poco passata la mezzanotte quando Lojacono si svegliò di scatto, sbarrando gli occhi.
La prima cosa che scorse, rinvenendo da quel sonno agitato, furono i capelli rossi e scompigliati di Elsa che si era addormentata sul sedile affianco al suo con un libro ancora aperto sulle gambe e il dito indice a tenere il segno.
Cercando di far ritrovare un ritmo tranquillo al suo respiro, diresse lo sguardo alla sua sinistra e finì a guardare attraverso l’oblò dell’aereo che li stava riportando a Napoli dopo quell’imprevista "toccata e fuga" in Portogallo.
Per pochi istanti, concesse alla sua attenzione di dedicarsi completamente alla distesa di luci di una bella città, chissà se già francese o ancora spagnola, che illuminava il cielo nero in cui erano immersi. La vista di quella notte immobile e la percezione del silenzio che lo circondava in quel sonnecchiante volo di ritorno lo rassicurarono, consentendo al suo cuore di riprendere un ritmo accettabile.

Era successo di nuovo: lo stesso incubo, un’altra volta.
Sempre lo stesso.
L’ispettore iniziava a chiedersi se quel sogno cupo e angoscioso che veniva a trovarlo insistentemente da qualche settimana si sarebbe mai dimenticato di lui.
Per esperienza sapeva che sarebbe stato complesso liberarsene perché non era semplicemente uno scherzo non gradito dell’inconscio, ma un ricordo reale ed invadente che si ripresentava per assicurarsi di non finire nel dimenticatoio troppo presto.
In quelle notti, Lojacono aveva sognato ripetutamente la polvere, il fumo, il suono fastidioso delle sirene, l’odore asfissiante di bruciato.
Rivedeva la confusione, il panico, il terrore negli occhi di chi cercava di farsi strada tra ciò che rimaneva del ristorante di Letizia.
Riviveva quello scoppio, quel giorno interminabile in cui, come avevano romanzato i telegiornali nelle ore successive al fatto, una bomba in tilt aveva mandato all’aria le vite sciagurate dei famosi Bastardi di Pizzofalcone.

Era diventata una persecuzione.
L’ispettore coltivava l’angosciosa certezza che quelle immagini non se ne sarebbero andate mai più. Nell’estenuazione aveva accettato sommessamente anche il fatto che, senza competizione alcuna, quel carosello di fotogrammi al rallenty fosse diventato il suo film più rivisto. Uno squallidissimo film di serie B, sia chiaro, le cui scene risultavano lente e indigeste.
Tra queste, per la mente dell’ispettore le più insopportabili e difficile da rimuovere erano quelle che ritraevano gli sguardi di chi era lì, in quel momento.
Gli occhi ti annientano, sono indelebili. Non vanno più via – concluse tra sé l’ispettore appoggiando la testa al finestrino.

Pur non definendosi propriamente credente, Lojacono aveva ringraziato Dio per aver fatto sì che gli occhi di Marinella fossero i primi ad aver incontrato i suoi in quell’inferno.
Il suo cuore non avrebbe mai sopportato l’incertezza e il dolore lancinante di non trovarla, di temere il peggio anche solo per qualche minuto; ne era certo.
Fortunatamente, dopo pochi istanti, aveva incrociato anche lo sguardo di Laura e, in quel momento, per lui il mondo aveva ufficialmente ricominciato a girare.

Quando uscirono tutti e tre insieme, trascinandosi indolenziti tra le macerie, con gli occhi che tentavano a fatica di abituarsi nuovamente alla luce del giorno, l’ispettore constatò che, a scanso di qualche stupido graffio, stavano tutti bene e ingenuamente si era sentito sollevato. Ma gli era bastato voltarsi indietro per una frazione di secondo per capire che si stava sbagliando di grosso.
Certo, l’istinto di sopravvivenza aveva svolto il suo compito, dandogli la forza di salvare se stesso e la sua famiglia, ma la coscienza, una volta fuori, lo aveva duramente riportato a contatto con la realtà, facendogli trovare dietro di sé solo desolazione.

Abbracciando Marinella, Lojacono era rimasto fisso sul marciapiede, a guardare i varchi che l’esplosione aveva aperto in quell’edificio stravolto, nella speranza di vedere uscire uno ad uno quantomeno i Bastardi e Letizia, mentre i suoi sensi venivano bombardati dai lamenti di chi scappava, dei lampeggianti dei soccorsi e dalla paura.

Era rientrato dentro a un certo punto, in maniera decisamente poco lucida, muovendosi come una marionetta manovrata da fili invisibili, da un’inerzia superiore, un motore che lo spingeva a fare qualcosa per non fermarsi a rimuginare e rendersi utile.
L’ispettore reputava che fosse un bene non pensare troppo in quei momenti: le domande, i dubbi, le congetture, avrebbero soltanto alimentato un’ansia non desiderata, che lo avrebbero frenato.
Ma, in fondo, Lojacono sperava solo di non ricevere brutte sorprese.

Poco prima di entrare in quello che una volta era il ristorante dove cenava quasi ogni sera, aveva visto zoppicare verso la luce Pisanelli sostenuto da Aragona che trascinava, a sua volta, Irina, la sua bella fidanzata bionda.
Non lo avrebbe mai confessato, ma mai come in quel momento vedere l’agente scelto venirgli incontro aveva provocato in lui un incommensurabile sollievo.
Nonostante un doloroso torcicollo che lo costringeva ad appoggiarsi alla spalla del più giovane, Pisanelli, da grande uomo che era, per mascherare il tremore dello spavento e tentare invano di normalizzare il momento drammatico, aveva trovato un po’ di forza per sgridare Aragona e rifilargli uno scappellotto. A corredo, per rendere credibile il rimprovero, il vice commissario gli aveva anche dato del cafone per la poca galanteria dimostrata quando in un primo momento tra le macerie si era dimenticato di soccorrere Irina.
Seppur senza successo, Marco aveva provato a stare al gioco, scimmiottando il sé stesso di sempre, per coprire un turbamento che aveva avuto come effetto collaterale quello di far sembrare il suo volto quasi serio. Nel patetico tentativo di giustificare quell’innocente svista, aveva iniziato, dunque, a lamentare la tragica perdita delle lenti azzurrate dei suoi inseparabili occhiali (sghembi e per miracolo ancora sul suo naso) che, durante l’esplosione, erano andate in mille pezzi.
Guardandoli, l’ispettore aveva capito subito che quello a cui stava assistendo non era altro che un gran teatro, allestito per l’occasione dai due al fine di nascondere la preoccupazione e l’immensa riconoscenza verso la vita per essere lì, nuovamente insieme, a litigare come cane e gatto.

Lojacono realizzò immediatamente che quella surreale parentesi era solo un anticipo di quanto sarebbe stato amaro il seguito: un insieme di scatti, uno più triste e desolante dell’altro.
Aveva passato minuti interminabili tra le macerie a cercare Letizia, che sembrava essere sparita in tutta quella polvere, mentre i suoi occhi si posavano sul sangue dei feriti a terra e sulle facce della gente, fino a poco prima giovialmente seduta ai tavoli, che ora cercava disperatamente di scappare. Come se non bastasse, a confonderlo ulteriormente, vi erano poi le voci strazianti di chi piangeva e chiedeva aiuto che continuavano ininterrottamente a riempirgli le orecchie, senza che lui potesse far nulla.

In quel caos aveva intravisto da lontano anche Palma, in piedi a guardare fisso un punto a terra. Sforzando la vista, Lojacono aveva intuito che si trattasse di un uomo, morto tra le fiamme davanti agli occhi increduli del capo.
Se non fosse stato per il buio, il rumore, la confusione e lo stordimento generale avrebbe giurato di aver intravisto Ottavia abbracciarlo da dietro, poggiando la testa sulla sua spalla, per distoglierlo da quella brutta visione e portarlo via da quel dolore.
Quando si era girato distrattamente una seconda volta, aveva visto le loro sagome avvicinarsi e incamminarsi insieme, uno affianco all’altro, mano nella mano nella penombra, per poi separarsi inevitabilmente a un passo dalla luce, interrompendo quel contatto e slacciando le dita, come a far finta che quella tenerezza non fosse mai esistita solo perché nessuno l’aveva vista.
Sul momento l’ispettore aveva risolto i suoi dubbi con una scrollata di spalle, ma, considerando gli accadimenti dell’ultimo periodo e la piega auto-distruttiva che aveva preso la vita di Palma, non era più così sicuro che il fotogramma sbiadito di quelle mani che si lasciavano controluce fosse innocuo o semplicemente frutto della sua fantasia.

Senza volerlo, guardandosi intorno aveva trovato anche Romano, inginocchiato a terra.
Per un attimo, Lojacono aveva temuto il peggio.
Con il cuore in gola, avvicinandosi aveva scorto accanto a lui Alex, ancora a terra con le lacrime agli occhi e lo sguardo sconvolto rivolto al corpo immobile della cameriera del locale, accasciato tra le sue braccia.
Dall’occhiata che gli rivolse Francesco capì subito che non c’era niente da fare.
Contro il volere della giovane agente che non voleva arrendersi a quella dura realtà, l’ispettore si era chinato ad aiutare l’assistente capo a spostare il corpo senza vita di Alma per liberare quello gracile ed indifeso della collega. Solo a quel punto, scoraggiata e senza speranze, Alex aveva smesso di opporre resistenza, consentendo a Romano di alzarla in piedi per allontanarla da quello scempio.
Lojacono aveva provato una pena enorme nel vederla andar via, camminando a malavoglia, voltata verso ciò che rimaneva di Alma, con Francesco che la accompagnava fuori cingendole le spalle.
Non ci si abitua mai a fare i conti con la morte – aveva pensato - soprattutto quando capita davanti ai tuoi occhi, anche se quel lavoro lo prevedeva come un’ineluttabile consuetudine.

No, non ci si abitua proprio mai – aveva ripetuto nuovamente la mente stanca dell’ispettore quando, dopo quello sembrava un secolo, aveva finalmente rinvenuto gli occhi grandi e svuotati di Letizia.
Dopo quell’affannosa ricerca che sembrava protrarsi all’infinito, non riservando nulla di buono, l’aveva trovata e lei lo aveva guardato qualche istante, prima di lasciarlo per cadere in quel sonno profondo e innaturale in cui viveva da quel giorno.

Con quell’immagine incisa nella mente, di colpo, Lojacono riemerse da quel buco nero senza fondo e aggrottò gli occhi.
Senza smettere di guardare fuori, si convinse del fatto che il trauma che avevano vissuto avrebbe disegnato nelle loro vite una linea di demarcazione netta, tra un prima e un dopo.
Un finale netto, in grado di stravolgere tutto.

Sì, i Bastardi erano cambiati dopo l’esplosione.
Alcuni più, altri meno; a seconda del vissuto di ognuno, delle paure e delle fragilità di partenza. Qualcuno era rimasto interrotto, spezzandosi a metà, qualcuno invece sembrava essere riuscito a saltare l’ostacolo con maggiore disinvoltura.
Ma era innegabile che tra loro si fosse rotto qualcosa, mandando in pezzi in un attimo il lavoro fatto fino ad allora per costruire una faticosa coesione.
Probabilmente si trattava solo di una sospensione temporanea di quel loro strampalato equilibrio interno o, almeno, questo era ciò che Lojacono si augurava.
Qualcun altro, più poeticamente, avrebbe preferito, invece, definire quel periodo di passaggio come un’ulteriore lesione che si aggiungeva a quelle a cui erano già abituati, un nuovo colpo per metterli alla prova ancora una volta.
Ciò che l’ispettore si chiedeva era, però, se e come sarebbero usciti da quella ritrovata diffidenza che stava creando tensioni, facendo riemergere i fantasmi del passato di ognuno.

E pensare che era tutto dovuto a un errore.
Uno stupido, fottutissimo errore.
Ovviamente, sarebbe stato più glorioso e lusinghiero per loro pensare che qualcuno li volesse morti. E, invece, oltre il danno la beffa.
Certo, un errorino da niente, eh - constatò Lojacono annuendo cinico tra sé - Che fra un po’ non provocava una strage.
Però questo, di fatto, non cambiava le cose: non erano loro il bersaglio dell’attentato, ma Letizia. Sembrava anti-intuitivo, quasi assurdo, ma era andata proprio così.
Lo aveva confermato una delle provvidenziali soffiate di Alex da parte della scientifica, dimostrando che il senso di onnipotenza dei Bastardi li aveva clamorosamente condotti in errore.
Subito dopo la bomba, infatti, non avevano esitato un attimo ad auto-fustigarsi, litigando per accaparrarsi quell’ambito premio, convinti di essersela cercata. Ognuno sembrava gareggiare per sé nella corsa alla conquista di quella colpa, abituati com’erano a considerarsi la pietra dello scandalo, gli sbagliati, il male del mondo.
Ma, nonostante la stanchezza e il dolore, la loro natura li obbligava a non arrendersi e ad usare tutta la rabbia che avevano in corpo per trovare chi avesse attaccati provocando quel disastro.
Peccato che presto tutto quel livore si era sgonfiato come un malriuscito soufflé siccome, alla prova dei fatti, era palese che si fossero semplicemente sopravvalutati, attribuendosi un’importanza che non avevano.

Indubbiamente, almeno in un primo momento, a tutti era sembrato ovvio che quell’esplosione fosse la meritata punizione per quel gruppo di poliziotti scomodi che aveva appena impedito la fuga di un famoso boss della Camorra e incastrato una buona parte della mafia agrigentina. Con quelle premesse nessuno avrebbe pensato che la presenza dei Bastardi fosse una sfortunata coincidenza e che si trattasse, in realtà, di un avvertimento, scappato di mano, per un’innocua ristoratrice, soprattutto se dolce e premurosa come Letizia.

Ma ciò che pare ovvio, spesso e volentieri non lo è.
Il motivo per cui, in quella fredda notte di febbraio, si trovava su quel volo, invece che al caldo nel suo letto, ne era una dimostrazione.

Maledicendosi perché non riusciva a prendere sonno, Lojacono ripensò alla strana sensazione che aveva provato la mattina precedente sulla terrazza del commissariato, guardando Elsa che osservava scettica il golfo setacciato dai sommozzatori. Quando aveva letto negli occhi profondi e malinconici della Martina la stessa verità che aveva intuito anche lui poco prima sulla Fimiani si era sentito sollevato, un po’ meno folle e sicuramente meno solo.
Partire era stato comunque un azzardo – ammise tra sé l’ispettore, consultando distrattamente l’orologio che aveva sul polso per capire che ora fosse.
Senza dubbi, chiunque li avesse ascoltati nell’esporre quella loro contorta teoria li avrebbe presi per due pazzi che si divertivano a crogiolarsi in una fantasiosa congettura.
La storia della professoressa che si era allontanata volontariamente con l’amante poeta, inscenando un omicidio, per puntare i riflettori sui loschi affari del marito, pur non facendo una piega, sarebbe risultata assurda per chiunque.
Ma l’implacabile sete di verità di Lojacono e Martini aveva prevalso su tutto.

Nonostante la determinazione che li aveva spinti fin lì, doveva ammettere che, una volta arrivati in Portogallo ad un passo dalla risoluzione del caso, la vista della Fimiani gli era parsa un vero e proprio miraggio.
Non l’avevano mai incontrata prima, ma era come se l’avessero conosciuta da sempre.
Nei giorni precedenti, avevano infatti provato a muoversi con tutta la delicatezza possibile nella sua vita apparentemente noiosa e patinata per cercare di intuire quali potessero essere i suoi turbamenti, le sue angosce, le sue ombre.
L’ispettore aveva provato sollievo nel realizzare che fosse viva, che le loro strampalate ipotesi fossero concrete. Anche se, nel guardare gli occhi di quella donna che passeggiava in quel cortile sostenendo Maggioni, aveva compreso sin da subito che chi stavano cercando non era lì.
O meglio che non era più lì, che non era più lei.
Lo aveva capito guardando quegli occhi che erano enigmatici e indecifrabili, di chi è limpido e puro, pur nascondendo qualcosa.

Chissà cosa gli avevano nascosto per tutto quel tempo gli occhi di Letizia, invece.
Aveva passato gli ultimi giorni a tormentarsi con quella domanda, chiedendosi come aveva fatto a non accorgersi di nulla.
Probabilmente perché era distratto da Laura, dal lavoro, da Marinella.
Oppure, più semplicemente, perché non è facile capire in che fase della vita ci si trova.
Lojacono pensò che, se lo avessero chiesto a lui, non avrebbe saputo rispondere.
E forse anche Letizia condivideva la sua stessa difficoltà, un’incertezza profonda per cui non era riuscita a confidarsi con lui, pur volendogli bene, pur fidandosi.
Si sforzò di riportare alla memoria qualche frammento delle loro conversazioni che aveva sottovalutato o un turbamento che non aveva colto, ma non ci riuscì.
La verità era che si sentiva in colpa per averla trascurata, per non aver capito che era infelice o che stava lottando per conquistare una vita migliore, libera da chi la minacciava.

In quel momento, rimbombarono forti nella sua mente le parole che la professoressa Fimiani aveva pronunciato con invidiabile risolutezza prima di andarsene, nel giardino della clinica durante quello strano pomeriggio: «E’ troppo chiedere la possibilità di essere felice?»
Una domanda mirata e deflagrante nella sua assoluta semplicità, capace di far intimidire chiunque, persino la Martini.

A quel punto, Lojacono si era chiesto chi fossero loro per mettersi di traverso?
Quale giustizia, quale avida voglia di dimostrare la verità, quale distintivo avrebbe potuto giustificare una loro opposizione?
In fin dei conti, avevano solo chiuso gli occhi.
Sarebbe stata un’angheria sterile opporsi, riportarla indietro per costringerla a raccontare la sua versione dei fatti.
Il Cinese era, infatti, perfettamente conscio che essere poliziotti non li autorizzava a sostituirsi ad una divinità, una di quelle che potevano esercitare il proprio potere sulle sorti degli altri, precludendo speranze o imponendo cambi di rotta in nome di un bene superiore.
Sì, avevano fatto finta di niente.
Era stato per una buona causa, per consentire a quella donna di ricominciare, di voltare pagina per iniziare una nuova vita, lontana dalle sofferenze e dagli errori del passato.

Una linea netta, tra un prima e un dopo – ripeté tra sé l’ispettore, iniziando a fissare il soffitto sopra la sua testa - Tra ieri e domani.
Guardandosi intorno distrattamente, i suoi occhi caddero su Elsa che dormiva ancora e sorrise. Non poteva negare che, quel pomeriggio, il giovane commissario capo lo avesse piacevolmente sorpreso.
In tutta sincerità, non credeva che si sarebbe arresa, che avrebbe mollato la presa.
Ma si sbagliava.
Una volta esaurito il racconto della professoressa, ai due poliziotti era infatti bastato scambiarsi un ultimo sguardo d’intesa per decretare di comune accordo l’archiviazione di quel caso, che avrebbero considerato per sempre una vittoria tanto amara quanto impagabile.

Considerata la reazione che le parole della professoressa avevano provocato in lei, Lojacono aveva intuito che anche la Martini, come lui e del resto tutti i Bastardi, si trovasse a un bivio.
Forse era stata proprio quella la chiave che li aveva portati alla risoluzione del caso: la voglia di ricominciare, quello straordinario e disperato attaccamento alla vita che li accomunava tutti e che li legava, a loro volta, a quella piccola donna che avevano a lungo cercato.

D’altronde non bisognava per forza essere vittime di un attentato per sentirsi persi, costretti a cercare una via d’uscita. Con ogni probabilità Elsa e i Bastardi condividevano molto più di quanto immaginassero. In fondo, anche se con battaglie diverse alle spalle, non erano altro che dei sopravvissuti che si trovavano davanti a un passo, apparentemente invalicabile, al di là del quale avevano riposto la loro più grande speranza: quella di una vita nuova, che ognuno di loro aveva il diritto di desiderare, anche se non era ancora arrivata e pareva tremendamente lontana.

«E’ la sua ricompensa per aver rimesso le cose a posto» – aveva detto impavida la professoressa, pur mantenendo quell’inconfondibile dolcezza negli occhi.

L’ispettore si chiese se non fosse proprio quello il punto, se avrebbe potuto ricominciare, liberandosi da quel peso, solo una volta sciolti tutti i nodi e riportata la luce dove non c’era.
Non sapeva se ce l’avrebbe fatta senza la verità di Letizia, l’appoggio di Laura e la presenza di Marinella. Tutte cose che, in quell’istante, gli mancavano terribilmente.

Pensando a quanto si potesse stare scomodi a metà tra un’amicizia e un amore, tra ciò che giusto e ciò che facile, tra menzogna e verità, tra una vecchia fine e un nuovo inizio, Lojacono si voltò un’ultima volta verso l’oblò e abbassò lentamente la tendina nel tentativo di tenere fuori quella notte crudele.
Così, in quel confine tra la notte e il giorno, chiuse gli occhi, sperando di non sognare mai più.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** VI - Oronero ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~  episodio 3x05  - Sangue

La sera successiva all’uccisione di Nina, la giovane commessa della farmacia d’Ottavio, Elsa si ritrova sola nel salotto di casa, dopo aver litigato con Vittoria, a cui non è riuscita a raccontare la verità sul caso di cronaca di cui parlano tutti i telegiornali. La giovane commissaria, in balia dei fantasmi di quel passato doloroso che sembrano legarla a doppio filo alla vittima di quel caso apparentemente semplice, sfida il disordine dei suoi pensieri e di quegli scatoloni, prove tangibili di un trasloco ancora a metà.

 

 

 

Elsa


♫ Oronero (Giorgia)

 

 


 


VI

Oronero

 

 

Di fantasmi del passato e traslochi a metà

 

 

 

 

 

 

 

In quella tiepida serata di fine marzo, in una casa stranamente silenziosa, un'indaffarata giovane commissaria dai capelli rossi si aggirava per il salotto come un'anima in pena, maledicendo vigorosamente se stessa e il suo disordine.

Ma finiranno mai questi scatoloni? - sbottò tra sé Elsa fermandosi davanti a un cumulo di cartone che contribuiva al caos del salotto. Scosse il capo e iniziò seppur con scarsa convinzione a tagliare il nastro da pacchi dell'ennesimo "fragile" mentre blandiva pericolosamente un taglierino. Da circa mezzora tentava, tra l'altro senza successo, di tenere occupata la testa disfando qualche scatola e cercando di intuirne il contenuto basandosi esclusivamente sull'informe sembianza dei pacchettini ricoperti di carta di giornale che stava tirando fuori man mano.
Proprio in quel momento, ricordò di aver letto su una rivista che il trasloco, con annesso trasferimento in un'altra città, era una delle principali fonti di stress nella vita moderna.
Dagli torto – sbuffò tra sé la Martini, ammettendo che nemmeno un inaspettato insediamento come presidente degli Stati Uniti d'America alla Casa Bianca avrebbe giustificato un'invasione di scatoloni di quella portata dopo più di due mesi.
Tra l'altro sarebbe stato del tutto inutile negare che, se non avesse litigato con Vicky durante la cena, sicuramente avrebbe rimandato ulteriormente quella gravosa incombenza.
Ma, sin da quando era piccola, Elsa si era sempre illusa che mettere in ordine fuori fosse fondamentale per fare chiarezza all'interno e, in quel preciso momento, dall'alto della sua onestà intellettuale, riconobbe di averne un estremo bisogno.

Frugando all'interno della scatola con la quale si stava ingiustamente accanendo, ammise finalmente a se stessa, per la prima volta in quelle ultime e faticose 24 ore, quanto si sentisse in difficoltà.
Dalla sera precedente e nello specifico da quando era ritornata nella farmacia d'Ottavio a causa di quella che era stata battezzata – a suo avviso ingiustamente - come una rapina finita male, infatti, non era più riuscita a fare mente locale.
L'immagine di quella giovane commessa senza vita, che fino a pochi minuti prima aveva riso e scherzato con sua figlia, continuava ad invadere la sua mente, lasciandola profondamente scossa.

Nonostante si sforzasse di mantenere la calma, sentiva chiaramente che la rabbia e il nervosismo le stavano togliendo la lucidità, senza che lei potesse farci nulla.
Ma l'instabilità era qualcosa che lei, Elsa Martini, brillante commissario capo della Polizia di Stato, non poteva proprio permettersi.
Si fermò un attimo, in piedi nel salotto di casa, e provò a respirare profondamente per stemperare la tensione.
In vita sua, non aveva mai accettato di non avere il controllo sulle cose e di sicuro non avrebbe iniziato in quell'occasione. Non era certo il tipo che accettava passivamente il corso degli avvenimenti subendoli senza opporre resistenza, senza farsi sentire.
Si trattava di un patto che aveva siglato con se stessa molti anni prima, quando si era ripromessa che non sarebbe mai stata indifferente alle ingiustizie e alle prevaricazioni soprattutto se nei confronti dei più deboli, di chi merita di essere protetto con cura.
In tutto ciò, la "rapina" in farmacia, almeno a suo parere, aveva tutta l'aria di rientrare nella categoria a pieno titolo, come uno squallido caso da manuale.

In modo del tutto istintivo, era convinta che Nina fosse, in realtà, una vittima che aveva provato invano e a lungo a chiedere aiuto, senza essere ascoltata.
Elsa conosceva benissimo la sensazione di gridare senza voce, non riuscendo a farsi prendere sul serio dagli altri.
Cercando di soffocare quei dolorosi ricordi che credeva la legassero a doppio filo a quella povera disgraziata, sentì un profonda fitta alla bocca dello stomaco. Ogni volta che quei cassetti della memoria si riaprivano, sentiva dolere forte quella ferita sapientemente celata dietro l'immagine dura e risolta che portava a spasso, consacrandosi agli occhi di tutti come la classica donna senza cuore e senza scrupoli. A farla breve, un carrarmato senza ripensamenti che non avrebbe risparmiato la sua intransigenza a chiunque se lo fosse meritato.

Riacquistando un respiro regolare, Elsa rifletté su quanto potessero essere infide certe cicatrici, soprattutto quelle che non si vedono, ma che non per questo smettono di farsi sentire, di pulsare per sempre.
Nessuno lo avrebbe detto guardando il suo viso angelico, dall'incarnato candido e dai lineamenti regolari, in cui erano stati sapientemente incastonati quei due pungenti occhi chiari, eppure anche lei era stata ferita, irrimediabilmente.
E con quelle lesioni non aveva ancora smesso di fare i conti.

Scacciando via per l'ennesima volta dai suoi pensieri l'immagine degli enormi occhi senza vita di Nina, Elsa ritornò alla sua missione casalinga prendendo atto che aveva inutilmente svuotato già quasi per metà uno scatolone di stupidi soprammobili. Tenendo in considerazione la sua scarsa volontà di trovar loro una giusta disposizione, ri-iniziò a riporre, da capo e questa volta senza particolare cura, all'interno dell'imballaggio, tutto ciò che aveva estratto fino ad allora.
Nel ricomporre la scatola, Elsa realizzò, accantonando per una attimo l'orgoglio, che, alla fine dei conti, ciò che la stava infastidendo maggiormente era il timore di non essere creduta.
Si trattava di una sensazione a cui era abituata da sempre e che spesso si era rivelata soddisfacente perché, in fondo, le era sempre piaciuto definirsi controcorrente, ma in quel frangente no. Si sentiva sola in quella battaglia e aveva paura di fallire perché sapeva di essere l'unica a dare un'ultima chance a quella ragazza, alla sua improbabile innocenza.

Tanto per dirne una, era lampante che Palma ritenesse le sue considerazioni sul caso poco più che delle fantasie o, peggio ancora, delle manie di persecuzione di una donna un po' troppo coinvolta a livello emotivo.
Ma, a dire il vero, ciò che aveva dolorosamente minato maggiormente le sue sicurezze erano state le perplessità di Lojacono. Nonostante le avesse dimostrato il massimo supporto durante le indagini, la sua espressione indecifrabile non era riuscita a mascherare per molto i suoi dubbi in merito. Elsa riconosceva e stimava l'intuito e la pragmaticità dell'ispettore e, non trovandolo dalla sua parte, aveva davvero iniziato a temere di aver preso un clamoroso abbaglio. Presentimento che aveva trovato ulteriore conferma quando quella sera si erano riuniti in sala agenti per fare il punto tutti insieme.
In quel momento, viste anche le facce degli altri Bastardi e la sommarietà con cui era stato liquidato il suo punto di vista, il commissario capo ebbe la triste certezza che le teorie che mettevano in dubbio la buona fede dei d'Ottavio e tentavano di vedere al di là delle apparenze fluttuavano miseramente in un clima ostile e carico di diffidenza.
Persino Aragona, in quell'occasione, sembrava essersi conquistato maggiore credibilità di lei e il ché era davvero tutto dire.

Perché? Perché nessuno oltre me capisce che qualcosa non torna? - continuava a domandarsi insistentemente la coscienza scossa della poliziotta, mentre passava a violentare un secondo scatolone.
Incidendo sadicamente lo scotch da imballaggio, aveva ipotizzato che forse, al contrario degli altri, lei capiva perché era una donna. Già solo per questo, sapeva sicuramente meglio di tutti loro cosa significasse doversi guardare le spalle da tutti ed avere paura anche delle cose più stupide.
Ma, non appena ebbe riposto per un attimo la vena polemica, con maggiore lucidità Elsa arrivò quasi a giustificare lo scetticismo dei colleghi. D'altronde per loro era facile essere obiettivi e distaccati, non lo avevano vissuto sulla loro pelle. Al contrario suo non avevano riconosciuto in quella ragazza la sé di qualche anno fa, con la stessa inquietudine e la stessa rassegnazione di chi, per approssimazione o eccesso di zelo, è stato fatto passare per visionario o per pazzo troppo presto.
La Martini sapeva benissimo che spesso e volentieri è molto comodo far finta di non vedere, chiudendo gli occhi, e forse era proprio quest'indifferenza, quest'ostentato menefreghismo a darle particolarmente sui nervi.

La logica e consequenzialità non dominino questo mondo – rifletté perchè lei, invece, lo sentiva. Il suo istinto urlava forte che i suoi presentimenti erano fondati e che era giusto continuare a fare luce in quella direzione, lo doveva a Nina:
e chissene frega di Palma, di Lojacono e di tutta Pizzofalcone.
In quell'ultimo sfogo stizzoso, Elsa sentì l'eco lontano di un pericolo che purtroppo conosceva bene: quello di non sapersi controllare, di non riuscire a gestire quella rabbia, la foga di riportare giustizia usando qualsiasi modalità, lecita o illecita che fosse.

Era già successo una volta, d'altronde.
Non se ne era pentita, ma se fosse stato possibile tornare indietro non era sicura che l'avrebbe rifatto. Non fosse altro che per gli incubi, quelli che continuavano a toglierle il sonno, avvelenandole la vita; qualcosa che non aveva messo in conto quando si era ritrovata con la pistola spianata davanti a quel verme schifoso.
Ancora una volta, la sua impulsività l'aveva punita duramente.

Nei mesi successivi, durante gli interminabili interrogatori, il processo e tutto il caos mediatico a contorno, a Elsa non era mai importato nulla delle conseguenze.
Almeno non per sé.
A logorarla era stato il futuro, quello di Vittoria ovviamente, e il pensiero che i suoi errori avrebbero potuto comprometterlo in maniera devastante .
Una volta arrivata davanti al baratro, a un passo dalla disfatta, aveva avuto terribilmente paura, una paura ingestibile, che le aveva tolto il fiato.
Temeva di essere costretta ad abbandonare sua figlia, di doverla lasciare sola in un mondo di lupi pronti ad additarla e a farle del male, senza nessuno a proteggerla.
Era stato quello il motore di tutto, ciò che l'aveva spinta ad andarsene, a mandare all'aria tutto, come una leonessa che si muove con il solo scopo di mettere al riparo i cuccioli.

Le comunicazioni ufficiali riportavano che il commissario capo Martini era stato spostato per motivi di opportunità (perché per punizione pareva brutto) il più lontano possibile dallo scandalo, ma nessuno sapeva che, in realtà la sede di destinazione dove espiare la pena era stato tutt'altro che arbitrario.
A Elsa piaceva definirlo, in modo eufemistico, un "facilitatore": una mossa in anticipo che, se mai un giorno avesse avuto la forza, le avrebbe consentito di chiudere un cerchio, di mettere al sicuro ciò che aveva di più caro al Mondo.

Ovvio, la scelta del commissariato era poi stato un destino ineluttabile.
D'altronde, nonostante fosse stata assolta, Elsa non poteva di certo pretendere una medaglia all'onore per ciò che era successo.
Alla fine, per chi stava in alto era stato alquanto semplice procedere per continuità, confinando tutti i pezzi fallati in un unico luogo.
In fondo, non si trattava altro che di un'ulteriore fardello che si aggiungeva a quelli degli altri già presenti, miserie di un gruppo disomogeneo e mal-assortito di uomini e donne rotti, macchiati e pieni di difetti.
Alla Martini aveva dato conforto pensare che, in quel marasma, il suo non sarebbe stato nient'altro che il carico da novanta, un ulteriore scatolone pesante, ingombrante e difficile da spostare, grossomodo come quelli con cui stava combattendo in quel momento.

Prima di insediarsi a Pizzofalcone, si era accuratamente informata sulla fauna che abitava quel bizzarro ecosistema ed era arrivata alla conclusione che si trattasse di un gruppo di (intriganti) disgraziati.
All'appello risultavano, nell'ordine: uno sparo partito "per sbaglio" verso un commissario molesto, un'aggressione a uno spacciatore durante un arresto, l'immancabile raccomandazione da parte di un gentiluomo di dubbia moralità, un bel marchio di infamia (anche se infondato e successivamente smentito) per collusione mafiosa e, dulcis in fundo, un consistente carico di droga sequestrata alla Camorra e poi rivenduta sotto il naso di due stimati alti in grado.
Insomma, un jackpot niente male in cui l'uccisione di un pediatra pedofilo per mano di una poliziotta in carriera non poteva che essere la ciliegina sulla torta.
Anche se, attenzione! In tutto ciò sembrava, infatti, esserci una nota stonata: l'unico fascicolo immacolato di quello scempio, che pareva essere quello di Palma.
Ma presto fatto e a scanso di equivoci, considerati gli ultimi avvenimenti e le verità che erano venute a galla grazie al caso della escort uccisa in un mare di petali di rose rosse, finalmente ora i Bastardi potevano orgogliosamente vantare anche un capo - ex alcolista - in linea con l'arredamento e di tutto rispetto.

Nonostante questo bel potpourri, in cui teoricamente lei avrebbe dovuto inserirsi benissimo, era stato difficile non percepire una certa diffidenza di benvenuto.
Elsa lo reputava più che comprensibile, in primo luogo perché, come prevedibile, la sua "fama" l'aveva degnamente preceduta e in secondo luogo perché aveva avuto l'ingrato compito di sostituire una vera e propria istituzione, non a caso soprannominato "il Presidente".
Sebbene l'avesse incrociato in poche occasioni, era stato chiaro anche a lei che prendere il posto di Pisanelli non sarebbe stato facile, soprattutto in un contesto particolare come quello. Ma per lei che, alla fin fine, mirava né più né meno a raggiungere una pacifica convivenza con la squadra, quel termine di paragone non era poi un dramma.

Quella riflessione sull'anziano vice-commissario la riportò per chissà quale malsana associazione ad Aragona.
Il mattino seguente sarebbe stato proprio lui a venire prendere sia lei che Lojacono per tentare di trovare quel Coppola, il benedetto spacciatore che sembrava essersi dissolto magicamente nel nulla.
Al solo pensiero di Aragona alla guida, la schiena della giovane commissaria fu percorsa da un brivido di freddo. Considerato, inoltre, lo stato in cui versavano i suoi nervi, Elsa sapeva che non avrebbe mai e poi mai potuto garantire la sopportazione del suddetto (molestissimo) collega anche per un solo minuto in più dello stretto necessario nell'arco di quella che si preannunciava una pesantissima giornata.

Senza accorgersene, mentre nella sua testa aveva luogo quell'ordinato flusso di coscienza, Elsa iniziò a svuotare distrattamente anche il secondo scatolone. Prestando finalmente attenzione a quel frenetico metti-togli che stava contribuendo ad innervosirla ancora di più, un ingombrante tomo che giaceva sul fondo della scatola attirò improvvisamente la sua attenzione in mezzo a tutte quelle cianfrusaglie. Così, afferrò prontamente quello che si rivelato un album di foto dalla copertina blu e si lasciò cadere sul divano, abbandonando gli scatoloni al loro misero destino.

Era passato molto tempo dall'ultima volta che lo aveva avuto tra le mani.
A dire il vero, non ricordava nemmeno di averlo portato con sé.
Questa è sicuro una svista della nonna – pensò tra sé la Martini che, conscia di quanto sua madre fosse affezionata all'analogico, dubitava seriamente che si fosse separata volontariamente dall'unico ricordo tangibile della sua amata nipote.
Iniziando a sfogliarlo, rivedeva Vittoria crescere davanti ai suoi occhi di pagina in pagina: il primo dentino, la prima parola, il giorno in cui aveva iniziato a gattonare, la prima vacanza al mare e anche il primo giorno di scuola con un grosso zaino verde sulle spalle. Momenti che si susseguivano con ordine in quella vita passata, che si erano da poco lasciate alle spalle.

Elsa si soffermò sorridendo su una foto che ritraeva la piccola streghetta che tiranneggiava abitualmente in casa sua alle prese con un abaco, oltretutto più grande di lei, dalle grandi palline colorate.
Osservando attentamente quell'espressione dispettosa, ai limiti dell'indisponenza, non poté evitare di pensare a quanto somigliasse a suo padre.
Eccolo qua, il cerchio si chiude – disse fra sé con un filo di rassegnazione.

In quel momento, nella sua testa il nastro si riavvolse, ricordandole le parole con cui era tuonata Vittoria durante la cena:
«Dici sempre che ci dobbiamo dire tutto, ma tu non lo fai mai» - e si sentì tutto a un tratto la madre più inadeguata sulla faccia della Terra.
Certo, in quel caso, le stava rinfacciando il fatto di non aver avuto il coraggio di raccontarle cosa era realmente successo a Nina, ma indubbiamente aveva centrato il punto, mettendola in difficoltà come sempre, come solo lei sapeva fare.
Spesso, tra sé Elsa giustificava quelle innocenti omissioni come un tentativo di proteggere Vittoria da qualsiasi cosa avesse potuto farla soffrire e per cui non era abbastanza grande, sufficientemente pronta: tutte scuse, attenuanti di bassa lega che si attribuiva da sola per non dover riconoscere la difficoltà di parlare con lei sinceramente delle questioni scomode, quelle che la rendevano fragile.
Argomenti taboo, esattamente come quando le chiedeva del padre.

Qualche giorno prima lo aveva rincontrato.
Era stato strano, anche se sapeva benissimo che sarebbe successo.
Era inevitabile.
Anzi, a dirla tutta se lo augurava.
Anche se, in modo del tutto contraddittorio al suo scopo, non aveva fatto assolutamente nulla per aiutare quello strano destino.
D'altro canto, la vita le aveva sempre insegnato a prendere in mano la situazione, a essere indipendente, forte e soprattutto a bastare a se stessa. Non aveva mai chiesto nulla a nessuno e, di certo, non avrebbe iniziato a farlo in quel momento.
Era ovvio che fosse stata proprio quella sua diffidenza ad impedirle di legarsi stabilmente a qualcuno, di affidarsi ad un'altra persona.
Ma, in quel frangente, suo malgrado si era sentita costretta a derogare, almeno in parte, a quel suo dogma.
Ovviamente, solo per il bene Vittoria.
Che poi era l'unica cosa di cui veramente le importasse.

A quel punto, tornando alla realtà, rivolse un'occhiata distratta all'orologio e, constatando che si fosse fatto sufficientemente tardi, abbatté le barriere dell'orgoglio e si avviò con l'album di foto sotto braccio verso la porta dell'ultima stanza in fondo al corridoio.
Rimanendo nel dubbio sull'atteggiamento da tenere che oscillava tra il battagliero e il pacifico con annessa apertura ad un eventuale armistizio, aprì la porta e attese qualche secondo sull'uscio per tastare il terreno.
Ma non ce ne fu bisogno.
A Elsa scappò un sorriso nel trovare Vicky che se ne stava lì, addormentata sulla scrivania con il volto schiacciato in una smorfia buffa su un foglio di carta colorato a metà, le guance e le mani immancabilmente sporche di pittura ed un enorme paio di cuffie sulla testa.

Cercando di fare meno rumore possibile ripose l'album di foto nella libreria e subito dopo si avvicinò alla scrivania. Nello stoppare il tablet che continuava a suonare da un po' senza pubblico, intravide la copertina di un album familiare dei R.E.M.:
"Everybody hurts": "Tutti soffrono", eh... Buono a sapersi, siamo coi piedi per terra, sempre allegri e consapevoli già a otto anni– pensò tra sé Elsa, mentre le sfilava quegli auricolari un po' troppo grandi per lei.

Nel prenderla in braccio si chiese cosa aveva fatto di male per meritare quel piccolo Einstein che le dava così tanto filo da torcere parlando come se avesse ingoiato una Treccani e preferendo l'alternative rock anni Ottanta allo Zecchino d'Oro.
Ma, forse, certe cose non si meritano, semplicemente si ereditano – concluse lei con le sue divagazioni, mentre senza svegliarla la stendeva sul letto.

La coprì con cura, rimboccando le coperte e si sedette sul letto, soffermandosi qualche minuto ad accarezzarle quell'indomabile chioma di capelli rossi che le accomunava da sempre.
Guardandola un'ultima volta mentre dormiva profondamente all'ombra dell'abatjour accesa, comprese che la domanda che si era posta poco prima era quella sbagliata.
E chiedendosi, questa volta, cosa avesse fatto in vita sua per meritare tutta quella fortuna, rivolse un pensiero al futuro e sperando con tutta se stessa di fare la cosa giusta, spense la luce.

 

 

 

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Capitolo 7
*** VII - Faccio un casino ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~ episodio 3x05 - Sangue

Dopo essere stato cacciato di casa da Pisanelli, con cui ha discusso a causa dell’ossessione dell’anziano commissario verso frate Leonardo e quegli strani suicidi, Aragona vaga solo per la città alla disperata ricerca di un posto in cui trascorrere la notte. È così che, in quelle ore tragicomiche, il giovane agente scelto alterna ammirevoli preoccupazioni a inopportune teorie sulla sue “sfortunate” vicissitudini. Tra queste spiccano inevitabilmente le difficoltà dovute al rapporto sempre più altalenante con Irina che sembra non avere alcuna intenzione di tornare dal Montenegro, dove abita la famiglia di origine che lui si è rifiutato di conoscere.

 

 

 

Aragona


♫ Faccio un casino (Coez)

 

 


 


VII

Faccio un casino

 

 

Di cene ignoranti e preoccupazioni mal riposte

 

 

 

 

 

 

 

Se quella frizzante serata di fine marzo fosse davvero stata, come gli piaceva illudersi, l’ambientazione di un avvincente poliziesco americano, a quel punto il protagonista scaltro e incredibilmente avvenente, si sarebbe voltato verso la telecamera e facendo l’occhiolino avrebbe aggiunto un convincente: «la notte è nostra e nuove mirabolanti avventure ci attendono».
Ma, purtroppo, in quello scadente remake, di americano c’erano soltanto il nome del fast food e un bicchierone di Coca Cola in mano a un idiota nostrano. Uno che si ostinava a tenere i Rayban anche al chiuso e che in quel momento non sarebbe mai stato in grado di articolare una frase di senso compiuto, limitandosi piuttosto a boccheggiare come un pesce rosso in una boccia troppo piccola.

Forse, se non fosse stato pensieroso (per quanto potesse esserlo l’agente scelto Marco Aragona, sia chiaro), si sarebbe buttato ad affrontare il gruppo di ragazzini brufolosi che continuava a fissarlo come un fenomeno da baraccone, iniziando a far loro le boccacce o addirittura sventolando il distintivo sbraitando da lontano per riportare rispetto ed ordine in quell’affollato Mc Donald’s del centro.
Ma la gestione di più di una preoccupazione alla volta in quella modestissima scatola cranica, si era rivelata una condizione invalidante per l’agente scelto che non si era nemmeno reso conto di essere diventato, nell’arco di 5 minuti netti, l’oggetto delle prese in giro di mezzo locale.
Così, straordinariamente assorto per i suoi standard, se ne stava là, stravaccato sul divanetto verde che avevo scelto a caso tra quelli rimasti liberi, con i gomiti scompostamente appoggiati sul tavolino di legno che aveva davanti e lo sguardo da pesce lesso annegato nella vaschetta del ketchup.

«Ma era il caso di incazzarsi così tanto, dico io?» – sbuffò Aragona, inzuppando un nugget per metà nella maionese e per metà nella salsa barbecue.
Poi dicono che uno non si deve preoccupare – pensò addentando rumorosamente la panatura dorata di quel surrogato di pollo che iniziava seriamente a dubitare fosse cartone.
Per una volta che faccio il bravo e mi impegno pure per dargli una mano, quello che fa? Mi caccia di casa, così su due piedi: questa è la riconoscenza! E comunque, se prima per caso qualcuno non se ne fosse accorto, adesso è ufficiale: Pisanelli stà fuori di testa. Se siamo fortunati, si è rincoglionito definitivamente e, se va male, invece, fa l’esca ad un pazzo furioso come frate Leonardo. Insomma, abbiamo l’imbarazzo della scelta: tra qualche giorno o ce lo ritroviamo al manicomio o all’obitorio morto ammazzato... - concluse tra sé l’agente scelto mentre si puliva inelegantemente con la mano il naso sporco di salsa.

Persino il criceto un po’ pigro, che di solito metteva in moto la sua fiacca materia grigia, quella sera sembrava collaborare più del solito e portò Marco a chiedersi se un poliziotto esperto come Pisanelli potesse davvero aver preso un granchio così grosso.
Nonostante la presunta arteriosclerosi avanzata che gli attribuiva da quando l’aveva conosciuto, pure Marco non riusciva a trascurare il fatto che il fiuto infallibile del vice commissario anziano di Pizzofalcone fosse leggenda in tutta Napoli.
Insomma, anche se la sua stramba ossessione - che prevedeva uno spietato frate serial killer andarsene a zonzo indisturbato per la città a far suicidare ogni vecchietto depresso che gli capitasse a tiro - nell’ultimo periodo aveva fatto dubitare tutti della sua sanità mentale, non era comunque abbastanza a cancellare di colpo 35 anni di onorato servizio.
Tra l’altro, l’ostinazione con cui Pisanelli, da un po’ di tempo, conduceva quell’assurda e serrata caccia al frate era diventata talmente ferma e cieca da far stare in pensiero addirittura Aragona e il ché era davvero grave perché – diciamolo - l’agente scelto, in vita sua, non si era mai rivelato un mostro di empatia.

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, però, era indubbiamente stata quell’ultimo confuso vaneggiamento sul caso che il suo anziano coinquilino aveva raccontato a più riprese parlando in modo alquanto sconnesso di foreste amazzoniche, conventi, frati morti sbranati da coccodrilli affamati e cadaveri misteriosamente spariti nel nulla.
In seguito a quell’impalcatura degna delle Cronache di Narnia (che non aveva né visto né letto, ma faceva figo citarlo), Aragona si era preso talmente male da correre ad elemosinare un consiglio da Palma che, però, si era dimostrato a sua volta assolutamente scettico, avallando così la credenza, ormai di dominio pubblico, che Pisanelli si fosse completamente bevuto il cervello.
E se lo pensa pure lui che sia un cosa da pazzi… Quello è capo, qualcosa vorrà dire, no?- cercò di convincersi infilandosi in bocca un anello di cipolla tutto intero.

Mentre continuava a masticare rumorosamente quel boccone esageratamente gommoso, pensò che, in fondo, doveva proprio essere un bel tipo, ‘sto famigerato famigerato frate Leonardo.
Sì, perché se i deliri di Pisanelli fossero stati sensati, si trattava di un inquietantissimo e temibile suicidatore professionista, che spendeva la sua intera giornata andando in giro a dispensare sorrisi ad anziani parrocchiani che avrebbe poi fatto sparire poco dopo a suon di goccette e valeriana.
Ma se così non fosse stato, secondo Aragona (e il che era tutto dire), gli psicopatici in quella storia sarebbero stati addirittura due: per primo, Pisanelli, che sarebbe finito alla neuro per manie di persecuzione ed allucinazioni, insomma le classica cartella clinica da vecchio rincoglionito, e subito a ruota, Frate Leonardo, pace all’anima sua, che in vita aveva avuto le priorità talmente sballate da preferire una fatale missione in Amazzonia alle sventole atomiche che girano in bikini tutte disinvolte sulle spiagge di quelle parti.

Ma scusa, se vai in vacanza in Brasile, che fai di solito? Ti balli una samba, ti scoli una caipirinha sulla spiaggia, al massimo vai al Carnevale di Rio vestendoti tutto di piume di struzzo… E invece no! Quello va a ficcarsi nella foresta amazzonica con il rischio di morire divorato dai coccodrilli, come infatti è successo – annuì compiaciuto continuando a ruminare - Ma d’altronde, i gusti son gusti... Quello poi è pure amico di Pisanelli e chi si somiglia...

Comunque, pur continuando a scherzarci su, anche lui, che aveva sempre sbeffeggiato tanto quella strampalata teoria quanto il suo fautore, dopo la litigata furiosa di quella sera cominciava ad essere seriamente preoccupato, oltre che molto confuso (ma questo, se applicato ad Aragona, di certo non faceva notizia).
D’altronde, Pisanelli, nonostante l’irresistibile tentazione di strangolarlo un giorno sì e l’altro pure, lo aveva suo malgrado adottato, diventando di fatto l’unica persona che si fosse mai realmente presa cura di lui in quasi 30 anni di vita.
Marco gli era affezionato e soprattutto, anche se non glielo avrebbe mai detto, apprezzava le sue spiccate doti culinarie (soprattutto perché da solo non avrebbe saputo cucinarsi nemmeno un uovo strapazzato).
Molto probabilmente, se avesse avuto anche solo un briciolo di intelligenza relazionale, gli sarebbe stato riconoscente a vita. Ma dato che ne possedeva il minimo indispensabile per non essere considerato un orango, compì uno sforzo già da considerarsi ragguardevole quando, nel rapportare il suo rispettabilissimo padre al decrepito vice commissario, riconobbe amaramente, roteando l’ennesimo nugget nel ketchup, che un bonifico alla fine del mese, per quanto sostanzioso sia, di certo non fa un buon genitore e non è sinonimo di affetto.
Anche se, indubbiamente, aiuta.

In tutto ciò, nel suo sconfinato altruismo, Marco non riusciva a smettere di pensare che un’eventuale e “prematura” dipartita di Pisanelli avrebbe messo a rischio l’unica opportunità che gli rimaneva di mantenere un tetto sopra la testa e (ma questo è meglio non dirlo ad alta voce perché fa brutto) di continuare allegramente a vivere a sbaffo.
Anche se, considerando l’esito di quella serata, forse era già successo.
Di fatto quindi, Pisanelli, in un modo o nell’altro, l’avrebbe lasciato in mezzo a una strada.

Ma me lo dite come posso io campare con 1.200 euro al mese? A casa mia, questo si chiama schiavismo, altro che “a servizio dello stato”, manco fossimo le colf del Ministro degli Interni. Ma lo sanno che io rischio la vita tutti i giorni in mezzo a tutta ‘sta feccia e a ‘sti delinquenti?! - sbuffò Aragona non sapendo assolutamente di cosa stesse parlando.

Che scarogna, eh! - continuò tra sé, tirando su dalla cannuccia – E’ un periodo che non ne va liscia una! E stavolta non me lo merito proprio, dopo tutti gli sforzi e le privazioni che sto patendo: la bomba, mio padre stronzo che mi toglie la paghetta solo perché sono un lavoratore onesto, Pisanelli fuori come un balcone e pure quella femmina ingrata che mi lascia qua come un fesso e se ne torna in Montenegro dall’oggi al domani...Tutto sulle mie spalle, ma chi sono io? Mandrake?! (sì, se ve lo state chiedendo non conosceva neanche lui ma ci stava bene lo stesso).

Sfinito da quel notevole flusso di coscienza fatto tutto di filato, si ricordò tutto a un tratto e con enorme sorpresa di avere una fidanzata, che con ogni probabilità nel frattempo si era già perfino auto-promossa ad “ex-” (e dalle torto!) senza che lui se ne fosse accorto a pieno. Inutile dire che il pensiero di Irina, misto a quel pesantissimo odore di fritto che impregnava tutto l’arredamento del locale, gli provocò un ingestibile e fastidiosissimo senso di nausea.

Pure quella valla a capire!
Ma che si fa così?
Al suo Paese probabilmente sì, perché so’ barbari.
Ah no, forse quelli stavano al nord... Va beh, poco importa: nord, est, sud, ovest...tutti uguali!
Se ne è andata così dalla sera alla mattina, iniziando a sbraitare che non la amo, che non la ascolto e che non voglio conoscere la sua famiglia e che il suo Paese mi fa schifo.
Su questo tiene perfettamente ragione però, con tutti i bei posti che ci sono al Mondo… Io manco lo sapevo dov’era il Montenegro prima di conoscerla!
Ma poi un uomo come me può davvero andare laggiù a farsi incastrare da lei, a conoscere lo zio Dragan e la nonna Jadranka (o come diavolo si chiama)?
Come se non avessi già abbastanza dei miei di parenti.
Ti pare che un poliziotto brillante come me possa stare tutto il giorno appresso a lei? - si domandò mentre iniziava ad addentare un hamburger untissimo che sventolava da mezzora come fosse un trofeo, disseminando foglie di insalata e fette di pomodoro a destra e a manca.

È proprio vero che le donne sono tutte uguali. All’inizio ti fregano perché fanno tutte le carine, le premurose e soprattutto perché dicono sempre di sì.
Non te lo dice nessuno che, appena pensano di averti messo sotto, diventano delle rompiscatole imperiali.
Ma lei non l’ha ancora capito che cosa si perde se non torna…
Ché qua andiamo avanti a messaggini: “e forse torno domani” e “o forse no”.
Eppure mi conosce, dovrebbe saperlo che, se non l’ho già sostituita, è solo perché in questo periodo sono troppo impegnato e soprattutto perché sono un signore.
Che si crede? Io tengo il cuore grande e mi dispiace per lei, per quello che si perde: mica sono un animale!
Ma, se solo volessi, sfodererei le mie armi di seduzione di massa, facendo cadere ai miei piedi tutte le femmine di questa città.

Annuì da solo a riprova del fatto che nemmeno la lunga sequela di pali clamorosi collezionata nell’ultimo periodo fosse riuscita a scalfire la sua infondata e megalomane convinzione di essere un irresistibile sciupafemmine.
E, così, per non farsi mancare mai niente, a corredo di quello sconsiderato delirio d’onnipotenza, si esercitò in una di quelle sue infallibili tecniche di seduzione da repertorio per cui tentò simultaneamente di schioccare le dita al vento, ostentare un sorriso storto a 32 denti e contorcersi in un occhiolino che ebbe come unico effetto quello di farlo sembrare strabico.
Il risultato finale sembrava, in tutto e per tutto, la caricatura di uno di quegli spot delle gomme da masticare che ti promettono denti più bianchi a cui un gruppo di vistose sedicenni, tutte rifatte e sedute due tavoli più in là, reagì con una risata sguaiata.
«Ecco vedi, queste rientrano nella categoria di quelle che di uomini non c’azzeccano proprio» – alzò la voce lui, guardandole di storto e ricominciando a trangugiare le poche patatine fritte che gli restavano nel cartoccio.

Ma torna, vedrai che torna e in ginocchio, pure. E dovrà insistere, eh. Non sarà per niente facile farmi cambiare idea - si ripeté Aragona, cercando invano di scacciare la paura che Irina decidesse davvero di restare in mezzo alle montagne a pascolare le vacche con lo zio Slavko.

Poco male – pensò cercando di darsi un contegno e convincendosi, su due piedi, che essere uno scapolo, anche se ahimé non più d’oro, non sarebbe stato poi così male.
Mentre rimuginava su quanto poco gli si confacesse essere povero, si accorse con una smorfia di disgusto di aver messo in bocca una patatina inzuppata per sbaglio nella Coca Cola anziché nella maionese.
Maledisse con tutte le sue forze la scelta di fiondarsi al fast-food, ma fino a prova contraria non che si possano fare miracoli quando ci si ritrova sul pianerottolo alle nove e mezza suonate e vuotando le tasche non escono più di 11 euro e mezzo in spicci.
Povero e piantato in asso: due condizioni che, se riferite a se stesso, era indeciso se considerare bestemmie o eresie.

Ma sul più bello, la radio, che fino a poco prima aveva riempito di musica fastidiosa l’enorme locale, gracchiò con la classica vocina suadente: «E anche a Desenzano del Garda, provincia di Brescia, sono le 22 e tre minuti».

Realizzando che iniziava a farsi terribilmente tardi, ricordò che la sua missione in quella mirabolante notte avrebbe dovuto essere quella di trovare una dimora provvisoria e che, in definitiva, tutte quelle insopportabili e smielate smancerie potevano essere archiviate in scioltezza, senza pensarci due volte.
Salute articolare batteva Irina almeno 3 a 0.

Così, infilando in bocca l’ultima patatina e rivolgendo lo sguardo perso al soffitto, con la verve di un consumato filosofo del Rinascimento, iniziò a stilare nella mente una lista dei colleghi che avrebbe potuto importunare, supplicandoli di non farlo dormire per strada.
Il criterio su cui quella fantomatica e risolutiva classifica si sarebbe basata era né più né meno il pronostico della reazione del collega in questione.
Sarebbe quindi partito dalle prime posizioni che prevedevano un semplice lamento più eventuale sbeffeggiamento (= neutro, meno peggio) al calcio in culo assicurato con rimbalzo sullo zerbino in allegato (= malissimo, da evitare assolutamente).
Fu così che nella sua testa iniziarono a vorticare le facce dei Bastardi in formato foto segnaletica, nel malriuscito tentativo di imitare le istituzionali grafiche a dissolvenza dei giochi a quiz della fascia preserale.

Il suo capoccione gli propose per primo la faccia rabbiosa di Romano. Inutile dire che, al solo pensiero, gli occhi di Aragona, si sgranarono attraverso le tamarrissime lenti azzurrate mentre il viso gli si contorceva in una brutta smorfia.
- No, ecco da lui magari no che questa è una pedata ben assestata, sicuro.
Poi quello tiene moglie, dinamiche matrimoniali difficoltose, la neonata che strilla e chi me lo fa fare?!
Quello starà già nervoso di suo, meglio non tirare la corda.
No no, non scherziamo, sia mai che poi mi mettano pure a cambiare pannolini…
Va già abbastanza di merda così.

Fu così che Hulk scivolò miseramente in fondo alla classifica (che poi essendo composta da un solo elemento voleva dire anche essere in testa, ma va beh) e la ruota della fortuna ricominciò a girare con annesso effetto sonoro integrato che andava via via scemando: tu-tu-ru-tu-tu-ru-tu-tu...tu e il candidato da analizzare questa volta fu Lojacono:
- Ecco vedi, già va meglio. Questo almeno se mi vede dallo spioncino, non apre solo per strangolarmi. Però sai che figura di merda mi faccio col Cinese?
Che poi, tra l’altro, l’ho sentito farneticare come fa lui, che non si capisce mai niente, che dopo la bomba ha pure cambiato indirizzo. Chissà perché poi, così all’improvviso?!
Pensa se è andato a vivere con una femmina - un’altra, non quella che penso io eh eh- che magari è pure un po’ cozza.
Se fosse così, di sicuro si vergogna ed è per quello che non ci ha più detto dove è andato ad abitare.
Ridendo come un’idiota a quella strampalata ipotesi che aveva ricamato nella sua vuotissima scatola cranica, lo mise temporaneamente al primo posto, pensando che, a mal parato, non poteva esserci nulla di peggio rispetto a quell’animale di Romano.

Fu a quel punto che, con Lojacono in pole position, gli si presentò in maniera del tutto illogica davanti agli occhi l’immagine severa della Martini.
- Oh oh, qua iniziamo a ragionare! Certo che figa è figa, ma questa non è una novità.
Che non mi sopporti proprio, anche... ma solo perché è alta in grado e si crede chissà chi. Fatto sta che se, per sbaglio, la trovo di luna storta quella mi polverizza.
E quella lo fa sul serio, la Rossa mica scherza: il suo curriculum parla chiaro.
È anche vero che tra tutti, è l’unica degna di avermi per casa.
Peccato che ci siano almeno due buoni motivi per non andare a suonarle il campanello: il primo è che stasera, un uccellino mi ha spifferato che non è aria perché dicono abbia scazzato di brutto con Palma e quindi pure lei starà parecchio nervosa, secondo punto, più importante, è che lo sanno tutti che non si deve mischiare lavoro e vita privata. Sai che casino se quella mi vede sul pianerottolo, non mi resiste e si innamora di me?!
No, no… i Bastardi queste cose non le fanno.
Sarebbe un errore da principianti e noi, invece, siamo dei professioni, duri e puri e le tresche tra colleghi non ci si confanno proprio.

Sempre più assorto nello stilare quell’improbabile hit parade di figure di merda, un improvviso slancio di dignità fece sì che Elsa finisse a sorpresa sotto Romano, come fanalino di coda.
Perciò, in quel momento, l’unico neurone sveglio che gli restava rimbalzò nel suo suo cranio in una scomposta sinapsi e arrivò a valutare se non fosse il caso di chiedere asilo politico a Palma.
- Ma la vera domanda è il grande capo lo posso scomodare?
Stasera non è cosa perché, la Martini deve avergliele fatte girare ad elica, mannaggia.
Quando si dice la collaborazione e la solidarietà tra colleghi, eh! Proprio oggi che mi serviva trovarlo allegro.
Ché poi quello è pure scapolo, pensa se lo trovo con un’amica sua, una tipo la escort ammazzata con i capelli blu, che magari ha pure un’amica bona da presentarmi... Ma figurati!
Quello starà in ufficio a sbronzarsi di birra.
Anzi conoscendolo, speriamo si scoli solo quella.
Ecco vedi, bisogna proprio trovargli una fidanzata a Palma, così si sfoga, si rilassa un po’ e magari la smette di prendersela con me.
Anche se, dovrei essere ad avercela con lui!
Se il vecchio mi ha cacciato in quel modo, è anche colpa sua. Se non andava a fare la spia sulla questione di frate Leonardo, adesso me ne stavo a casa, tranquillo sul divano a guardare la televisione con i piedi sul tavolino.
Deve solo ringraziare che sono generoso, misericordioso e che non me la prendo…
Ma un favore me lo deve, no?!

E autoconvincendosi che il vice questore fosse davvero l’artefice del suo obbligato vagabondaggio notturno, Palma balzò (secondo lui) a pieno titolo in cima alla lista dei Bastardi da importunare.

Ricapitolando velocemente chi mancasse all’appello, Marco finì per pensare, finalmente, ad un viso accogliente e familiare che poi era quello di Ottavia.
- Almeno lei avrebbe pena e riguardo per me, ché alla fine dei conti è l’unica con un po’ di umanità là dentro. Magari se le busso alla porta mi fa pure la camomilla (anche se a me, la camomilla fa schifo proprio).
Però mi dispiacerebbe disturbarla, poverina ja’… Ché è proprio vero che le sfighe e le disgrazie capitano sempre a chi meno se le merita (infatti guarda come sto messo pure io)!
Quella ha già un sacco di casini, uno su tutti, da cui non si può scappare.
Sì, perché diciamocelo chiaramente, quella croce di marito che tiene è davvero una chiavica. Poi è pure tutto precisino e scassa... (si è capito): ci manca ancora che quello si fa qualche film strano, tipo che ci provo con la moglie in quanto collega…
Che poi, per quanto è antipatico e per quanto è scorfano, se lo meriterebbe proprio che quella santa donna gli mettesse un sacco di corna. Peccato solo che non sia il tipo e poi, con un figlio così, vuoi pure avere il tempo di farti l’amante?
No! Ma sarebbe cosa buona e giusta.

E con quella perla di saggezza, incastonò Ottavia, come si fa con una pietra preziosa, tra Palma e Lojacono, in un giusto compromesso tra l’accoglienza di cui avrebbe voluto godere e la vergogna di gravare in un contesto già di per sé non serenissimo.

Scoraggiato, ma non per questo arreso, tracannò un lunghissimo sorso di Coca Cola che gli andò di traverso quando realizzò che il destino della sua notte si sarebbe giocato in un immaginario derby spietato tra Alex e Palma.
- Vedi, me la stavo quasi dimenticando Kalamity!
Ecco, lei sì che sa cosa vuol dire essere giovani in questa giungla crudele. Gli altri sono tutti derelitti, invece lei è andata a vivere da sola da poco e senza fidanzati gelosi, mariti rompipalle o marmocchi appiccicosi. Di sicuro capisce le difficoltà di chi lotta tutti i giorni con fatica per trovare l’indipendenza e un posto nel mondo, come me dopotutto.
E poi, con tutto rispetto, è mille volte meglio andare a bussare a lei che a Romano o a Palma, che magari me li ritrovo sullo zerbino con il pigiama, in ciabatte: Alex è un poco strana, ma pur sempre una femmina.
Anomala eh, perché non si spiega come mai mi schifi proprio… Ma quello è per darsi un tono perché è un po’ femminista e non mi vuole dare soddisfazione, te lo dico io!
Comunque meglio così: poche domande e niente complicazioni sentimentali.
Anche perché in questo periodo è l’unica a non essere troppo sclerata... Magari con la scusa di Pisanelli che è andato fuori di testa, le si scalda un poco il cuore, mi dà un consiglio su cosa fare e, se si sforza un po’, sono sicuro che un posticino sul divano me lo trova pure.

Così, mentre Alex vinceva inconsapevolmente quella bizzarra asta al ribasso, quell’impiastro di Aragona, soddisfatto di sé e dei suoi brillanti ragionamenti, si apprestò a terminare in fretta quella pietosa cena dando un ultimo morso schifato al doppio hamburger ormai freddo che si era dimenticato di aver ordinato.
Finendo di masticare e iniziando a formulare nella sua testa un discorso con cui convincere la Di Nardo a soccorrerlo in quella sventurata notte, raccattò velocemente sul vassoio tutte le cartacce e, quando la radio iniziò a suonare “Thriller” di Michael Jackson, si alzò di scatto con la certezza che quella sarebbe stata la colonna sonora perfetta di una mission impossible da incubo come quella che lo attendeva.
Fu così che che sottovalutando un crampo dovuto alla posizione scomposta tenuta fino a 10 secondi prima, iniziò a balzellare fino al cassonetto dei rifiuti e a ritmo svuotò le sue cartacce nel rullo girevole. Posseduto dalla musica a palla, si avvicinò poi alla porta a spinta con un vergognoso scimmiottamento di moonwalk, e dandole una spallata si ritrovò catapultato sul marciapiede in quella che, a suo avviso, sarebbe stata una trionfale uscita di scena in una serie Netflix di successo.

Percorrendo a piedi il quarto d’ora di strada che lo separava dall’indirizzo di Alex, ritornò sognante con la memoria ai bei tempi in cui la sua unica preoccupazione era non incartarsi nel dire tutto filato la frase “un caffè doppio ristretto in tazza grande” sorridendo in modo spastico ad Irina sulla terrazza dell’hotel Mediterraneo.
Pensare a lei gli fece avvertire uno strano senso di vuoto, sicuramente non dovuto alla fame considerato tutto quello che aveva trangugiato, che lo portò con un’inconsueta malinconia a tirare fuori il cellulare e a inviarle una serie di emoticons sconnesse che accostate una all’altra non avevano alcun senso logico.
Stette fermo a fissare la chat per un paio di minuti buoni, ma non ottenendo alcun tipo di risposta, reputò più redditizio riavviarsi a passo svelto verso la sua meta per non rischiare di trovare Alex già a letto.
Borbottando improperi e saltellando con le mani in tasca nel breve tragitto che gli restava, si chiese con un briciolo di terrore, se quella singola (e tristissima) spunta bianca sull’ultimo messaggio inviato rappresentasse la tragica fine della sua relazione, una lapide consacrata dall’ennesimo blocco su Whatsapp da parte della sua belligerante (forse ex?) fidanzata, o se semplicemente fosse il Wi-fi del Montenegro a fare particolarmente schifo.

Restando nel dubbio e con un motivo in più per chiedere un’intercessione, una volta arrivato sotto casa di Alex, rivolse gli occhi al cielo e riprese bisbigliando un discorso in sospeso con quello che si era rivelato il suo più caro interlocutore in quel periodo così sfortunato:
- «San Gennà, cia’! Forse ti sto sfruttando un po’ troppo ultimamente, ma tu che vedi tutto da lassù, capirai il momento… Ti prego fammi st’ultimo favore, ché tengo una predisposizione alla scogliosi e se dormo a terra poi mi vengono i reumatismi e la cervicale, mi sciupo tutto quanto... Stasera ho pure il giubbino di pelle nuovo: 475 euro, usarlo come cuscino pare brutto, no?»

Abbozzò un maldestro segno della croce per aria e sperando letteralmente che Dio gliela mandasse buona ancora una volta grazie all’ormai consueto - «Grazie San Gennà, grazie» - prese un bel respiro e con un’indecente faccia tosta suonò il citofono.

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** VIII - Sempre e per sempre ***


Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~ episodio 3x05  - Sangue

Dopo aver litigato furiosamente con Aragona a causa di frate Leonardo, Pisanelli si ritrova da solo a fare i conti con il fastidio di non essere creduto dagli altri Bastardi e l'angoscia dell'imminente resa dei conti, annunciata da un presentimento che rimbomba in lui in modo sempre più forte.

 

 

 

Pisanelli


♫ Sempre e per sempre (Francesco de Gregori)

 

 


 


VIII

Sempre e per sempre

 

 

Di camomille indigeste e faticose rese dei conti



 

 

 

 

Erano passate sì e no due ore da quando la porta di ingresso si era chiusa sbattendo fragorosamente, facendo sparire provvidenzialmente dalla sua vista Aragona.
Ma, nonostante l'assenza di quel fastidioso e ingombrante inquilino, in quella casa non sembrava comunque essersi ristabilita la pace.

Pisanelli sfidava da qualche minuto il tremore delle mani nel tentativo di farsi una camomilla. Un diversivo di poche pretese che, nella realtà, però si stava rivelando un'impresa a dir poco titanica.
Si maledisse tra sé quando, nel versare l'acqua calda in una tazza che ospitava al suo interno una bustina pronta a disperdere un gradevole profumo, si scottò.
Oltre il danno la beffa – si disse l'anziano vice commissario, ammettendo tra sé che quell'insipida e maledetta bevanda, alla fine dei conti, non sarebbe servita assolutamente a niente.

Giorgio aveva sempre pensato che quello di accompagnare una bevanda a una determinata sensazione o stato d'animo fosse, in fondo, null'altro che un pagliativo, un atto consuetudinario quasi scaramantico.
E così, devi civettare con qualcuno o spettegolare amabilmente?
Ti fai un the.
Vuoi trovare una scusa per perdere tempo facendo conversazione o ti serve un'informazione con una certa urgenza, ma sarebbe indelicato chiederla direttamente?
Offri il caffè a qualcuno.
Non riesci a dormire perché la vita è grama e hai bisogno di tranquillizzarti?
Prepari una camomilla.
Tutto inutile.
O, almeno, per la versione più disillusa di lui era così.

Pisanelli era, infatti, un uomo troppo pragmatico, saggio ed accorto per pensare che sarebbe bastata un po' di insipida acqua calda giallastra a togliergli di dosso quell'inquietudine.
Eppure, anche lui ci era cascato.
Ma è umano – pensò tra sé - nel tentativo di levarsi un peso si fa qualsiasi cosa.
Anche se ciò che lo aveva realmente spinto verso il malefico infuso era stato pensare che Carmen lo avrebbe fatto.
Proprio lei che, vedendolo in pensiero, si sarebbe diretta in cucina, avrebbe messo l'acqua sul fuoco, sforzandosi poi di raggiungere il ripiano della mensola in alto in punta di piedi, per recuperare un paio di bustine.
Conoscendola, avrebbe poi preparato la zuccheriera, due tazze e, infine, ci avrebbe versato l'acqua con cura, sorridendo mentre si colorava lentamente.
E poi sarebbe rimasta lì, con lui.
A pensarci, gli sembrava di vedere quella scena davanti agli occhi: lui, seduto a capotavola, e lei, sul lato, a guardarlo senza fare domande mentre aggiungeva di tanto in tanto un cucchiaino di zucchero alla tazza di lui.
«Almeno ti addolcisce un po', male non fa» – avrebbe detto, come faceva sempre in quelle occasioni.
Ma lei non c'era e la tazza ormai era una sola.

Così, Pisanelli aggiunse a sua volta un paio di cucchiaini di zucchero e afferrando la camomilla con entrambe le mani si incamminò verso la camera da letto, trascinando i piedi.
Poggiò il tazzone sul comodino, in attesa che si raffreddasse un po', e si lasciò cadere con un sospiro sulla poltrona, foderata in pandant al resto dell'arredamento.
«Hai visto?» - disse ad alta voce rivolgendo uno sguardo al portaritratto affianco all'abatjour, con riferimento a quel maledetto liquame giallognolo – «Così, almeno tu, non puoi dire che non ti ascolto»
Si fermò un attimo.
«Anche tu pensi che sono pazzo, eh?» - continuò.
«Non saresti l'unica, sai? Qua sono tutti convinti che Pisanelli si sia rincoglionito, che dopo la pensione abbia dovuto per forza trovarsi qualcosa da fare...» - sbuffò il vice commissario, forse alzando un po' troppo la voce.
«Non potevano continuare a fare come hanno sempre fatto, no!? Pensavano che fossi pazzo anche prima, ma almeno mi ignoravano... Invece no, ora improvvisamente si preoccupano e si mettono tutti in mezzo. Che poi, dico, non tengono nient'altro di meglio a cui pensare? Non ne hanno già abbastanza, dei loro di problemi?» - domandò tutto d'un fiato in innegabile tono di rimprovero.
«A dirla tutta, mi sembra che quelli da aiutare siano loro, prima ancora di me... O sbaglio, Carmen?»
Detto ciò, Pisanelli, già esausto, fece una smorfia delle sue e si abbandonò alla poltrona sospirando rassegnato, con lo sguardo al soffitto.
«Tanto, con loro o senza di loro, è uguale: me la devo vedere io da solo. La resa dei conti è tra me e lui, una questione personale...» - fece una smorfia.


Come prevedibile, quel riferimento gli materializzò davanti agli occhi l'immagine di frate Leonardo, che negli ultimi mesi era diventato a pieno titolo il protagonista principale dei suoi incubi ricorrenti.
Tra sé Pisanelli constatò come poteva essere strana la vita, quando affianca persone, che man mano diventano incredibilmente vicine, e che finiscono poi per temersi, o addirittura a disprezzarsi.
Innegabilmente, da tempo, il vice commissario viveva in maniera conflittuale quell'amicizia andata in pezzi in modo così violento e definitivo. Si era sentito ingannato, preso in giro per anni dal suo più caro confidente, l'unico affetto che gli era rimasto e a cui aveva affidato le sue sofferenze, i suoi pensieri più oscuri.
Da quando avevo scoperto la vera natura di quel frate apparentemente innocuo e rassicurante, Giorgio si era tormentato senza tregua cercando un perché. Si interrogava sulle convinzioni che avevano guidato Leonardo in quel percorso impervio, in quel piano diabolico.
Ma, soprattutto, voleva capire il motivo per cui, in tutto quel tempo, lui, che si era erto a Dio in Terra nel decidere chi doveva vivere e chi morire, lo avesse risparmiato.
Quel pensiero lo perseguitava.
D'altronde anche lui aveva manifestato a più riprese il desiderio di morire, di mettere fine a tutto, nella speranza di tornare da Carmen il prima possibile.
Perché gli altri sì e lui no?

Quelle domande ronzavano nella sua testa continuamente, non trovando risposte.
Anche perché l'unica risposta plausibile, a quel punto, sarebbe stato l'affetto.
Lo stesso affetto che, però, Pisanelli non riusciva proprio più a riconoscere verso chi, da anni, metteva in atto una pietà deviata che portava ad uccidere le stesse persone per cui si provava compassione.
Chissà quale meccanismo bacato si instaura in un cervello per arrivare a fare cose del genere? - si chiedeva Giorgio - Tra l'altro, con la convinzione di essere nel giusto, auto-lodandosi e credendo addirittura di fare del bene.

Per l'anziano vice commissario, quello era il tipo di domande che aveva, da sempre e a fasi alterne, rinvigorito e sfinito il suo impegno da poliziotto.
E se c'era una cosa a cui, in 40 anni mal contati di carriera, proprio non si era abituato era il confronto con il colpevole.
Il più delle volte si trattava di un insospettabile, uno che vedi tutti i giorni a comprare il giornale sotto casa o che incroci tutti i weekend al supermercato, con una faccia anonima: uno normale, con una vita apparentemente normale, o addirittura monotona... Uno come tanti.
E così, qualcosa sul più bello si inceppa.
Chissà cosa e chissà perché poi?
Ma Pisanelli non era mai riuscito a rispondersi.
Certo, con il mestiere che aveva scelto di fare e che, da qualche anno, era diventato anche il suo unico motivo di vita, non poteva permettersi di passare sopra certe cose, di cercare scusanti.
Nel contempo, però, era fortemente convinto che “giustizia" non significasse rimanere ciechi, non porsi domande... quello sì, che sarebbe stato da stupidi.
E, in fondo, era certo che esistesse sempre una ragione.
Aveva sempre pensato che fosse estremamente difficile trovarsi davanti a qualcuno che senza motivo, dalla sera alla mattina, ammazza un altro.

Il vice commissario credeva che nella stragrande maggioranza dei casi il movente fosse sempre (e in maniera del tutto contraddittoria) lo stesso: l'amore. Declinato in tutti i modi.
Invidie, gelosie, odi, mancanze: tutte forme e sfumature di un amore deviato, trascurato, appassito o scappato di mano.
E questo non faceva altro che confermare che, d'altronde, solo le passioni forti, quelle che smuovono tutto, l'anima, i pensieri, il sangue potessero portare a una frattura così profonda per la propria umanità, per la propria coscienza.
In cuor suo, spesso e volentieri, Pisanelli aveva addirittura provato pena per certi colpevoli che, alla fine dei conti, si rivelavano null'altro che persone comuni travolte dalle miserie della vita, incapaci di controllare sé stessi e le proprie sofferenze in un momento di debolezza.
Si era chiesto più volte se potesse capitare a tutti di vivere una deviazione tanto crudele, se esistesse qualcosa che avrebbe potuto abbattere quel limite e magari portare anche lui a macchiarsi irrimediabilmente, senza via di ritorno.
Ma aveva avuto paura della risposta.
Così, puntualmente, arrivato a quel punto della riflessione, anche quella volta, preferì interrompere il filo di quel pericoloso discorso con un colpo netto di forbici.
Non era il caso di infierire in serate delicate come quella.

Si giustificò tra sé, convincendosi che anche un uomo integro ed esperto come lui, in assenza della dovuta lucidità, poteva finire a pensare cose di cui poi ci si pente, alimentando paranoie e tarli fondamentalmente inutili.
Con un respiro profondo, cercò di scacciar via prepotentemente quelle congetture, fortemente condizionate da quell'inquietudine ormai impossibile da tenere a bada.

Fu così che, nel tentativo di distrarsi, i suoi pensieri ricaddero, in modo del tutto masochistico, su quello sciagurato di Aragona.
Fingeva da ore di non covare una latente preoccupazione, principalmente incentrata sul dove fosse finito a quell'ora, senza l'ombra di un quattrino in tasca.
«Non mi guardare così, Carmen» – si girò puntando l'indice contro la foto della moglie per interromperla, come se potesse rimproverarlo – «E non ti azzardare a dire che sono preoccupato: è grande, grosso, adulto e, per non farci mancare niente, si crede di essere chissà chi manco fosse in un film Western. A quest'ora, sarà di sicuro a dare fastidio a qualche altro povero cristiano.»
Gli pareva proprio di vederlo: stravaccato da qualche parte a guardare per aria con la bocca aperta e il rischio sempre più concreto di ingoiare una mosca, mentre pensava a quale dei disgraziatissimi colleghi rivolgersi per elemosinare un letto o, alla peggio, la cuccia del cane (che, senza dubbio alcuno, sarebbe stata la scelta più consona).
Conoscendo il suo pollo, Pisanelli era praticamente sicuro che, dopo un'ardua diatriba tra l'emisfero destro e sinistro della sua modestissima materia grigia, sarebbe finito a suonare il campanello di Alex strepitando come un'aquila e in modo confuso le sue discutibili ragioni.

Pur sforzandosi di trattenere una reazione, nell'immaginare quella scena, a Pisanelli scappò un ghigno divertito.
«Immagina se si ritrova davanti la Martone...» - tossicchiò Giorgio nel tentativo di mascherare la sottile ilarità che gli causava l'innata ignoranza di Aragona.
«Che poi sai che novità?! Ormai lo sanno tutti… Giusto lui che si crede Sherlock Holmes non ha ancora capito che sarebbe il momento di smetterla di fare il cascamorto con quella povera figlia» – continuò alzando il mento al soffitto.
«Peccato solo che, a quanto è pieno di sé, la riterrebbe un attenuante al suo insuccesso, continuando a credere di essere irresistibile... Pensa che fesso!» - scosse la testa rassegnato, per poi allungare una mano verso la tazza ancora fumante che giaceva sul comodino.
Stette per qualche secondo a guardare con diffidenza quella bevanda acquosa e giallognola tra le sue mani, ammettendo che Alex non fosse affatto da biasimare.
Premesso, infatti, che si trattava di aspetti intimi e personali che tali dovrebbero rimanere, se ti trovi davanti uno come Aragona, famoso per essere detentore di tutti i difetti del mondo e di ogni forma discriminatoria esistente: sessista, classista, razzista, retrogrado e chi più ne ha più ne metta… Puoi aspettarti qualunque cosa.
Aggiungici poi un padre generale, la cui ottusa inflessibilità era leggenda nell'ambiente: ci sta pure che non venga voglia di attaccare i manifesti. Tutto ad un tratto, gli venne in mente la faccia del generale Di Nardo, scostante come non mai ed impressa staticamente in quelle foto istituzionali affisse sui muri scrostati della caserma del circondario, e fu così che con espressione schifata si inflisse il primo sorso di camomilla.
Solo in quel momento, con un certo sconforto, arrivò a realizzare che, in termini di spiacevolezza, addirittura Aragona poteva essere battuto sul campo: prova provata che non esistesse limite al peggio.
E a questa constatazione, sempre meno convinto, bevve un altro po'.
Ma si arrese subito dopo
e, disgustato come non mai, abbandonò nuovamente la tazza sul comodino, questa volta, ripromettendo a se stesso che non l'avrebbe toccata mai più.

«Sì, ma è da lei, è da lei» – si ripeté ripensando alla faccia poco intelligente dell'agente scelto e riportandosi al filo iniziale del discorso – «Figurati se va da Romano, da Lojacono o dalla Martini... peggio che mai.»
«No, da Romano non ci va perché ha paura di essere preso a mazzate. E, forse, in questo momento tiene pure ragione. Da come ho capito, le cose a casa non stanno andando bene e poi con gli assistenti sociali alle costole si sa come va a finire...» - sospirò Giorgio.
«La dottoressa che aveva in cura la bambina dici tu?» - guardò il soffitto distrattamente.
«Mai più né vista né sentita... A te non sfugge mai niente, eh?» - domandò divertito con un sorriso alla foto sbiadita.
«Ma, d'altronde, com'è che si dice? Chi vivrà vedrà.» - disse mentre si sfilava una scarpa, facendo leva con l'altra ancora indosso.

«Per non parlare di Lojacono... Te l'ho detto, no?» - intervallò con un sospiro di sollievo dovuto alla ritrovata libertà del piede sinistro.
«Dicono che la Piras debba scegliere se restare qua o accettare un incarico in Corte di Cassazione a Roma... E, che te lo dico a fare?! Dalla faccia che tiene lui ultimamente, mi sembra che sia più propensa per il sì che per il no» – concluse sommariamente, mentre tentava invano di levare l'altra scarpa con la stessa modalità usata pochi minuti prima, facendo perno con il calzino bianco che continuava a scivolare sulla para di gomma.

«E, comunque, una ne finisce e un'altra ne comincia. La Martini, sai?» - chiese retorico a chissà chi.
«Dal palazzo di giustizia arrivano voci che abbia attirato l'attenzione di Buffardi o che addirittura si conoscessero già da prima: insomma, ri-inizia la tarantella...» – sbuffò mentre, più arreso che mai, si chinava per sfilare la
calzatura questa volta con l'ausilio delle mani.
«Ma quella è un tipo in gamba, dura, determinata, affilata come la lama di un coltello. Se l'ho inquadrata bene, darà del filo da torcere a Palma...» - decretò con un filo di soddisfazione.

A quel punto, finalmente scalzo, si alzò in piedi e, tirato fuori il pigiama azzurro a righine da sotto il cuscino, iniziò a svestirsi mentre continuava a farneticare:
«Che, tra l'altro, un poco se lo merita pure, dato che non si fida di nessuno. Questa volta si sono pure coalizzati, lui e quella mezza carogna che mi tengo in casa. Col risultato che mo' mi chiamano centocinquanta volte al giorno: hanno paura che mi sia completamente rincoglionito e che faccia una sciocchezza» - disse
rimasto in boxer, mentre poggiava con cura i pantaloni piegati sul bracciolo della poltrona.
«Hai capito? Io faccio sciocchezze, non loro...» - tuonò con una mezza smorfia, infilando i pantaloni del pigiama.
«A quello gli è pure venuto il disturbo da stress post traumatico» – continuò con un'espressione sempre più perplessa, sfilando prima il golf e poi la cravatta.
«Non lo sapevi, Carmen? Così lo chiamano il mal d'amore i giovani, al giorno d'oggi» – ridacchiò sotto i baffi prima di prendersi una breve pausa per sbottonare uno a uno i bottoni della camicia.
«E che sono fesso io? Gli altri forse... ché sembra non si siano accorti di niente, in mezzo a questi due che fanno il bello e il cattivo tempo. E si prendono e si lasciano e si tirano e si mollano» - si morse un labbro mentre sfilava prima una manica e poi l'altra.
«Sì, lo so... Non tutti hanno la fortuna che abbiamo avuto noi, di trovarci subito e di stare sempre insieme, anche se sempre è stato un po' meno del previsto...» – sorrise amaramente alla donna nella foto.
«
Hai ragione...» - disse quasi in risposta, abbottonando intanto la casacca del pigiama – «E' sempre un peccato sprecarlo, l'amore quando c'è»

Per un attimo si fermò a piegare con cura la camicia e finì per pensare ad Ottavia, che conosceva da chissà quanto, e fu travolto da una forte malinconia.
D'altronde era rimasta solo lei, l'unica presenza fissa tra il vecchio e il nuovo corso dei Bastardi in quel tempo, che pareva ormai lontanissimo, quando Carmen c'era ancora e anche in quello in cui lo aveva lasciato da solo.
Sì, pensò ad Ottavia e al sorriso che, da sempre, sembrava mancare sul suo volto... O, per lo meno, da quando era nato Riccardo.
Lo sguardo di Giorgio si venò di dispiacere.
«Va bene,
va bene! Se Leonardo mi fa il piacere di non suicidarmi prima, le parlo io a Ottavia...» - riprese con la voce leggermente incrinata.
«Vediamo se serve a qualcosa...» – aggiunse poi, mentre poggiava, questa volta senza troppa attenzione, la camicia appena tolta sullo scrittoio.
«Magari, è la volta buona che Palma si distrae un po' e la smette di pensare così tanto ai fatti miei, a quanto mi sono rincoglionito, a Frate Leonardo,
ai vecchietti e a tutto il resto...» – ci scherzò su lui nel tentativo di mascherare gli occhi lucidi, nascosti dietro le lenti spesse.
«A proposito, quasi dimenticavo...» – farneticò tra sé, mentre si alzava faticosamente dalla poltrona.

Con qualche passo scomposto si avvicinò al cassetto del comò, tirò velocemente fuori un fodero in pelle e si diresse senza fretta verso il soggiorno.
Girò lentamente attorno alla tavola rotonda in legno massiccio che riempiva la stanza, facendola diventare all'occorrenza una bella sala da pranzo.
Dinnanzi al posto dove sedeva di solito e si inginocchiò con una leggera smorfia, dovuta a quelle sue gambe indolenzite che avevano camminato tutto il giorno per il quartiere.
Allora estrasse la pistola dal fodero, la infilò con cura maniacale al gancio di spago che aveva fissato nei giorni precedenti alla base inferiore del tavolo.
Accertatosi che l'arma fosse ben salda e in equilibrio, si rialzò, prima una gamba e poi l'altra, reggendosi alla sedia e, una volta in piedi, si incamminò nuovamente verso la porta.
Arrivato all'uscio, si voltò un'ultima volta, chinandosi leggermente prima a destra e poi a sinistra per verificare che quell'artigianalissimo "treppiedi" sospeso non risultasse eccessivamente visibile dall'esterno.
Così, compiaciuto del suo lavoro e con sottobraccio un plaid blu a quadri, fino ad allora piegato sul divano, ciabattò nuovamente fino alla camera da letto.
Mentre percorreva il corridoio, Pisanelli ricordò con orrore i calzini zozzi che Aragona era solito poggiare su quella vecchia coperta quando assediava il divano per guardare la TV.
Inutile dire che ebbe la forte tentazione di buttare tutto in lavatrice, agente scelto compreso, se solo lo avesse avuto sotto tiro. Ma, nonostante ciò, non poté trattenere un mezzo sorriso divertito a cui seguì ben presto un'occhiata preoccupata all'orologio a pendolo che segnava ormai un'ora tarda.

«Ecco, anche questa è fatta!» - esclamò appena superata la porta - «L'ho sistemata al suo posto»
«Così, anche se finisce male, almeno non possono dire che sono uno sprovveduto e che mi sono dimenticato come si fa il poliziotto. Vero, Carmen?» – chiese nello sprofondare nuovamente sulla poltrona accanto al comodino, coprendosi poi le gambe con il plaid sgualcito.

Fu così, che cercando di scacciare quell'angoscia, rivolse un ultimo sorriso al volto imprigionato in quel portaritratto fermo e freddo, che niente aveva di lei, in cerca del suo irrinunciabile benestare. E malgrado si fosse illuso di averle addirittura strappato un sorriso, per tutta la notte, con il presentimento che la resa dei conti fosse ormai sempre più vicina, non riuscì a chiudere occhio.

 

 

 

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