Gone

di blueheavenal
(/viewuser.php?uid=1096318)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sai, sei buffa ***
Capitolo 2: *** Margaret ***
Capitolo 3: *** Mi sei mancata, piccola peste ***
Capitolo 4: *** Di nuovo tu ***
Capitolo 5: *** Sfogati ***
Capitolo 6: *** La tradiva ***
Capitolo 7: *** Andrà tutto bene ***
Capitolo 8: *** Prenditi cura di lei ***
Capitolo 9: *** Dov'è tua madre? ***
Capitolo 10: *** Londra ***
Capitolo 11: *** Disastro ***
Capitolo 12: *** Piacere di conoscerti, Bree ***
Capitolo 13: *** Tre anni ***
Capitolo 14: *** Potrei piacergli? ***
Capitolo 15: *** Mi ha tradita ***
Capitolo 16: *** Prenditi cura di lei (2) ***
Capitolo 17: *** Sto bene ***
Capitolo 18: *** Puoi abbracciarmi? ***
Capitolo 19: *** Non parlare di lei ***
Capitolo 20: *** Che troia ***
Capitolo 21: *** Ho baciato una ragazza ***
Capitolo 22: *** Piccola pazzia ***
Capitolo 23: *** Due mesi fa ***
Capitolo 24: *** Il cugino di Charlie ***
Capitolo 25: *** È stata una cazzata ***
Capitolo 26: *** Tutto ciò che hai ***
Capitolo 27: *** In tempo ***
Capitolo 28: *** Vuoi ballare? ***
Capitolo 29: *** Messaggio ***
Capitolo 30: *** C'è speranza ***



Capitolo 1
*** Sai, sei buffa ***


Il sole stava tramontando. La giornata sembrava appena essere iniziata, invece eccola scappare sfacciata, lasciandomi in balia della notte con l'amaro in bocca. Era settembre. L'estate mi era appena scivolata dalle dita, e così sembrava fare tutto. Forse ero solo rimasta tanto delusa da trovare delusione in tutto il resto. Sapevo che tale prospettiva non mi agevolava di certo, ma non ero pronta a cambiarla. L'autocommiserazione era indispensabile per guarire. Darsi la colpa di tutto a volte aiutava; perché noi stessi siamo le uniche cose che siamo in grado di controllare in un mondo che ci sfugge.

L'ufficio di mio padre era diventato, da qualche tempo, il mio unico e solido rifugio. Non ero certa del perché amassi tanto stare lì. Forse per l'infinita libreria che minacciava di inghiottire l'edificio, o per il conseguente profumo di carta aleggiante nell'aria... oppure perché casa mia aveva stranamente iniziato a somigliare ad una grande valigia color caffè; la stessa valigia che mia madre aveva tenuto stretta, mesi prima, varcando la porta, e con la quale non tornò. Quella casa, tuttavia, era solo una goccia dell'immensa marea di cose che mi rammentavano la notte che ha spezzato la mia famiglia, irrimediabilmente.

L'edificio, dall'affascinante sfondo avorio e dettagli in miele, era diventato tanto familiare da risultare accogliente per me. Vi entrai tranquillamente, tenendo stretti al petto un libro- frettolosamente afferrato mentre correvo verso la porta- e un quaderno stropicciato che, in fondo, ne aveva viste tante. Non ero certa di come definirlo; bizzarro, ma comunque privo di un titolo. Mi piaceva scrivere, di tutto; qualsiasi cosa desideravo rimanesse. E non sapevo perché lo tenevo ancora tanto stretto dato che, qualsiasi cosa riguardasse quel periodo della mia vita, era da dimenticare.

Sorrisi allegra quando vidi Hilary seduta, come al solito, dietro la scrivania opposta all'entrata, posizionata contro una parete divisoria tra due corridoi.

-Ciao, Hilary! - la salutai sorridente. - Mio padre è in ufficio?

L'anziana segretaria rispose con un caloroso sorriso. Era una donna innegabilmente tenera; la nonna che tutti vorrebbero. Inoltre, era attiva e piuttosto sveglia per la sua età. Sedeva a quella scrivania da non so quanti anni. Quello era il suo regno. Sapeva qualsiasi cosa dell'intera casa editrice, di tutti gli impiegati e persino qualcosa sulle loro storie personali. Era una vera enciclopedia vivente. Non per altro, era lei a giostrare le cose lì dentro.

Inoltre, era persona più intelligente e perspicace che io conoscessi. Si vedeva che nella vita avesse vissuto sul serio. Aveva passato la sua intera vita immersa tra miriadi di libri. Era un tipo che adorava i classici e i romanzi e notare che ultimamente avesse sulla scrivania sempre un libro diverso di fantascienza mi aveva fatto uno strano effetto.

- Oh, ciao cara, - cantilenò col suo adorabile accento irlandese. - Sicuramente lo troverai lì. Da qui non è uscita anima viva, perciò... - rispose, alzando le gracili spalle e mettendo su una smorfia con tanto di profonde fossette.

- Va bene, grazie. Gentile come sempre! - la ringraziai, addentrandomi nel corridoio. Mentre camminavo, gettavo lo sguardo alle numerose porte di entrambi i lati. Il piano terra era totalmente dedicato alla libreria. Vi erano varie grandi sale, in cui erano smistati i libri per genere. Io mi perdevo nella sala dei romanzi, solitamente. Mi era capitato di esplorare altri generi, ma, alla fine, tornavo sempre al punto di partenza.

C'era particolarmente silenzio quella sera. Di solito, tra i corridoi, vi era sempre un tranquillo viavai di gente. Di solito, c'era sempre qualcuno che si recava lì per dare un'occhiata, a qualsiasi ora. Ma non quella sera. Mi soffermai, senza rendermene conto, davanti l'ingresso della sala romanzi. Mi venne voglia di entrare, ma era tardi e, per frugare lì in mezzo, avevo bisogno di calma. Forse solo un quarto d'ora più tardi, avrebbero chiuso le sale.

Lasciai perdere l'istinto di entrare comunque nel mio mondo perfetto e premetti il pulsante dell'ascensore, arrivata alla fine del corridoio. Le porte si aprirono immediatamente davanti a me, mostrando mio padre borbottare qualcosa in un angolo, immerso nei pensieri, intento a scrivere degli appunti a mano su un blocco di carta.

- Blue! - sbottò, alzando gli occhi verso di me, colto di sorpresa. La penna gli cadde dalle mani e si chinò con un lamento per raccoglierla. - Per l'amor del cielo. Come sei arrivata quassù...? - la sua voce si ammutolì gradualmente quando, guardando oltre la mia spalla, riconobbe il piano corrispondente al corridoio. - Ma che sbadato che sono... - esclamò, colpendosi la fronte con una mano. - Devo avere cliccato il pulsante sbagliato. Ho appena finito di correggere un testo, e proprio adesso ho un colloquio con l'autore. Ero al primo piano e, in teoria, dovevo farmi portare al terzo, - ridacchiò nervosamente, facendomi cenno di entrare. Mio padre è sempre stato un tipo un po' imbranato - caratteristiche ereditiere, a quanto pare -.

Ero consapevole che, obbiettivamente, mio padre poteva sembrare rigido come genitore; ma era un'apparenza che spesso ingannava anche me. Lui era molto tollerante e permissivo con me. Di lui, non apprezzavo solo la freddezza che inculcava nel nostro rapporto.

Come se non bastasse, quest'ultimo è peggiorato ulteriormente dopo la fuga di mia madre. Entrambi avevamo cercato di ignorare la faccenda, peggiorandone i postumi. Stare insieme nella stessa stanza era diventato un disagio, poiché entrambi dovevamo esprimere una spensieratezza che non provavamo. Ma, ingenuamente, ciò sembrava meglio di affrontare il dolore.

- Non preoccuparti, papà. Può succedere, - lo rassicurai, entrando nel cubicolo. Premetti poi il tasto che ci avrebbe condotto al secondo piano; dove si trovava il suo ufficio.

- Mi aspetti nell'ufficio di Harvie? Lui sta iniziando la traduzione di un testo appena approvato. Sai che a lui non dà fastidio la compagnia durante il lavoro, però non disturbarlo. È ancora alle prime armi e ha bisogno di concentrazione, - spiegò con espressione seria.

Harvie poteva essere definito il pupillo di mio padre. Lo ammirava per la sua capacità di finire lunghi lavori nel minor tempo possibile, o per i consigli che riusciva a dargli riguardo alle correzioni di alcuni testi, in momenti in cui mio padre giungeva bloccato. Eppure, Harvie, non era un incallito lettore. Anzi, lui non leggeva proprio; non era un suo hobby. Allora cosa cavolo ci fa in una casa editrice? potreste chiedervi come mi domandai io dopo avere saputo tutto questo. Ma, in fin dei conti, il suo ruolo era quello di tradurre; esclusivamente da inglese a italiano. Era molto bravo nella lingua. Lo parlava agevolmente, dovevo ammetterlo. Mentre, riguardo ai consigli che dava a mio padre, lui aveva solo una dote naturale. A lui non serviva allenamento; leggere tanto per cogliere i veri significati delle azioni umane o per prevedere come si sentirebbe o come agirebbe un individuo in una data situazione. Lui, semplicemente, si impersonava nell'interessato per scovare la risposta che mio padre cercava con disperazione. E la faceva tanto facile da fare sentire tutti degli idioti. Non si scervellava per creare schemi, complessi, di come scaturisse qualcosa e da dove. Lui sapeva, per certo, che la risposta è sempre la più semplice.

- Sono mai stata il tipo che crea disturbo? - chiesi, effettivamente cosciente di esserlo davvero.

- Certo che no, - rispose, divertito. - Ma non farlo comunque, - aggiunse, contraddicendosi. In quel momento, le porte si aprirono nuovamente.

Abbandonai mio padre nell'ascensore e mi diressi con decisione verso il distributore di bevande dietro l'angolo, invogliata ferocemente dal fluttuante aroma di tè al bergamotto. Quel piano era riservato ai traduttori di italiano, spagnolo e francese. Nonostante la modestia della cittadina, quell'azienda andava meglio del previsto. Non era raro che un buon numero di abitanti vi spedisse dei manoscritti, sperando di ricavarci qualcosa. Ed era molto raro che uno di questi venisse valutato positivamente, poiché la maggior parte conteneva, più o meno, lo stesso genere di trama.

- Mi raccomando papà; terzo piano! - gli suggerii, senza guardare indietro. Mi voltai un attimo, non ricevendo risposta. Le porte erano chiuse.

Speravo che avrebbe avuto successo con l'autore. Aveva talento in ciò che faceva, ma alcune persone non sopportavano il fatto di essere corrette.

Al distributore di bevande, richiesi con decisione un rasserenante tè. Quando fu pronto, lo presi e feci per andarmene, quando mi venne in mente di prenderne un altro. Mmh, perché no? Mi dissi mentalmente. Una volta pronto anche l'altro, entrai in ufficio. La prima cosa che vidi fu la scrivania incasinata. Era piena di fogli svolazzanti, ma Harvie non era lì. Solo spostando lo sguardo, lo vidi in un angolo della stanza, con un'espressione terribilmente concentrata in volto e una freccetta tra le dita. Questa volò nell'aria giungendo con successo in un punto molto vicino al centro del bersaglio. Con l'intento di distrarlo e interrompere la sua pausa, tossii. Quando si voltò verso di me, sorrise, ma non smise di sfidare se stesso nemmeno per cortesia. Io ricambiai con un sorriso forzato, salutandolo.

- Ehi, Blue. Tutto bene? - mi salutò cordialmente, tirando una seconda freccetta. Mi diressi verso la scrivania, posai i due bicchieri bollenti su di essa e mi abbandonai sulla comoda poltrona girevole in pelle nera. Girai su me stessa con le mani giunte sul ventre, dedicandomi del tempo per rispondere. Tanto, supponevo che fosse così concentrato sul bersaglio da essersi dimenticato di avermi posto una domanda, per quanto banale.

- Sì, sì... tutto a posto, - risposi con tono annoiato. Nell'attesa che smettesse, rivolsi la mia attenzione alle mie mani danneggiate. La pelle sulle nocche era particolarmente screpolata e arrossata, per non parlare delle unghie, la cui lunghezza variava dall'una all'altra. Inoltre, le pellicine sanguinanti erano un massacro per gli occhi.

- Mi fa piacere, - concluse, non interessandosene davvero. La sua attenzione sperduta iniziava ad innervosirmi. Ero in procinto di prendere le sue piccole freccette e di spuntarle una ad una. Ma se non volevo apparire un animale ringhioso, credevo fosse meglio lasciar correre.

- Ti ho portato un tè, - lo informai con tono calmo, rigirandomi tra le mani il mio, ancora fumante.

- Che tesoro che sei, - commentò con un sorriso sghembo, non fermandosi un attimo, non volgendomi lo sguardo nemmeno per constatare se io fossi davvero lì o la mia voce solo frutto della sua immaginazione. Senza aggiungere altro, a parte un rumoroso sbuffo di disappunto, mi alzai e camminai verso di lui con decisione. Stava giusto per lanciare un'altra freccia quando le mie mani bloccarono la sua. Harvie mi guardò, finalmente, confuso. - Ma che stai facendo? - chiese con la fronte corrucciata.

- A meno che tu non stia cercando di afferrare l'ispirazione incastratasi nel bersaglio, non credo tu stia facendo ciò che dovresti, - lo ammonii, consapevole di non essere irritata solo per quello. In fondo, cosa poteva importarmene del suo lavoro? Aveva già una certa fama lì dentro. Odiavo il semplice fatto di non essere guardata in faccia. Nessuno può parlare con una persona e guardare altrove. Lo trovo poco rispettoso.

- Da quando sei una moralista tu? - domandò, sorpreso e ancora leggermente scombussolato. Con un gesto secco, gli strappai la freccetta dalla mano e il resto del mucchio dall'altra. Ero particolarmente suscettibile quel pomeriggio; giusto un pochino. Il lato positivo era che il mio nervosismo non durasse chissà quanto.

- Mai stata. Voglio solo rovinarti la pausa, - improvvisai con un sogghigno, tornando a sedere. Ripresi il bicchiere di plastica tra le mani, iniziando a sorseggiare. Il calore ancora esagerato mi indolenzì la lingua, ma era uno di quei dolori che valeva la pena sopportare. Non ci volle molto prima che i miei sensi si rilassassero completamente.

- Molto gentile da parte tua, - commentò sarcasticamente, arrendendosi e raggiungendomi alla scrivania. Si sedette davanti a me, in una delle due sedie di legno in bianco, riservate a possibili ospiti o colleghi. Trascinò il suo bicchiere vicino a sé e lo osservò per qualche attimo.

-Grazie- disse dopo. Alzò gli occhi verso di me. La sua voce mi aveva scosso e riportato con i piedi per terra. Non ricordavo nemmeno più a cosa avessi pensato in quel breve attimo di silenzio. Di fronte a quel ringraziamento, mi trovai disorientata.

-Per cosa? Oh, il tè, certo. Di nulla- balbettai, agitandomi. Subito dopo il mio farfugliare, cercai di sprofondare nella comoda poltrona, sentendo le guance arrossire. Fui sorpresa quando sentii Harvie ridacchiare. Lo guardai storto, con un immaginario punto interrogativo sulla fronte.

- Sai, sei buffa, - constatò, divertito. Quell'osservazione mi lasciò perplessa; non avevo idea di come interpretarla.

- Ed è una brutta cosa? - domandai, incerta. Lui, in risposta, scosse la testa con convinzione.

- No, è... - iniziò, ma la frase rimase interrotta. Un leggero bussare alla porta lo bloccò. Ed io mi ritrovai realmente curiosa di sapere come avrebbe concluso la frase solo quando, probabilmente, non l'avrei più potuto sapere.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Margaret ***


-Avanti- accordammo all'unisono.

La porta si aprì esitante, accompagnata da un fastidioso cigolio che normalmente passava inosservato. L'adorabile viso di Margaret fuoriuscì con sguardo circospetto dal misero spiraglio che aveva lasciato. Dopo avere studiato velocemente la stanza, sorrise gentilmente. Ormai mi ero arresa al pensiero di non giungere alla conclusione della conversazione, e mi abbandonai alla sorte, ricambiando il sorriso alla ragazza.

-Ciao, ragazzi- salutò entrando. Il vassoio parzialmente incartato che teneva stretto tra le mani, attirò immediatamente i nostri sguardi e fece risvegliare il nostro appetito. Non era raro che un evento del genere si presentasse, ma era sempre e comunque una sorpresa. Margaret trascinò i piedi fino alla scrivania, prestando particolare attenzione al vassoio invitante, intenta a non fare cadere nulla. Avvicinandosi, fece inconsciamente una faccia buffa, stringendosi un quarto della lingua tra le labbra mentre gli occhiali grandi le scivolavano sul naso.

-Salve, Margaret. Ma quale buon vento...- esultò Harvie, osservandola con un sorriso compiaciuto.

Margaret era la figlia di Celine, l'Art director; si occupava della parte grafica dei manoscritti approvati. La figlia, nonostante l'aria da secchiona, non era una grande amante dei libri o dell'azienda in cui era impiegata Celine. Ma gironzolava comunque tra gli uffici e i corridoi abitualmente, come me.

-Ehi, Margy. Tua madre si è data di nuovo da fare?- Le domandai, non essendone sorpresa. Sarebbe stata un'ottima pasticcera. Non sapevo esattamente come se la cavasse con la grafica, ma con i dolci era imbattibile. Margaret fece una smorfia seccata. A quanto sembrava, non amava l'usanza della madre. Dovevo ammettere che se fossi stata nei suoi panni, non l'avrei pensata diversamente. Forse perché la mia indole egoistica e golosa sarebbe prevalsa, impedendomi di mettere in atto un'azione tanto generosa come la loro. Probabilmente, avrei offerto i miei dolcetti a un ottavo delle persone a cui li offrivano loro; giusto per non sentirmi tanto scadente come sennò mi sarei giudicata.

-Non può proprio farne a meno. Casa nostra, quasi ogni giovedì sera, ha tutta l'aria di essere una pasticceria- sbuffò con sdegno.

Finalmente, posò il bramato vassoio sulla scrivania, tra me e Harvie. Io non esitai a prendere un bocconcino grondante di cioccolato. Harvie mi succedette, prendendone uno identico, ma al gusto di pistacchio. Margaret non si curò della ferocia con cui avevamo già mandato giù quei due dolcetti e si andò a sedere accanto a Harvie, grattandosi la testa imbarazzata. Era una ragazza dolce, ma anche molto timida... e ciò faceva tenerezza. Avevo imparato a conoscerla e a capirla, per quanto potevo, nel mio periodo di permanenza ossessiva nell'edificio. Non la definivo un'amica; quelli sono piani alti. Ma una buona compagnia sì, decisamente.

-Eppure...- osservai gorgogliando, con la bocca ancora impastata di cioccolata. Deglutii frettolosamente per poi continuare.

Mi metteva sempre agitazione quando calava il silenzio nel momento in cui iniziavo a parlare. In effetti, era giusto che accadesse ma, stare al centro dell'attenzione, anche se in un banale contesto, mi portava a balbettare. Il che non era piacevole, dato che tale difetto rendeva ciò che dicevo sempre meno convincente. -con tutte queste tentazioni dovresti essere impresentabile. Invece, su di te, sembrano avere l'effetto contrario- conclusi, sorridente.

Il complimento non aveva alcun fondamento di sola gentilezza o falsa adulazione. Margaret era bellissima, e il suo carattere introverso non faceva che valorizzarla ulteriormente. Lei sorrise ampiamente; sembrava apprezzare i complimenti nonostante la sua modestia.

-Ma per favore...- sorrise imbarazzata, illuminandosi e allungando la mano per concedersi un bocconcino. Posai lo sguardo sul vassoio ancora mezzo pieno, interrogandomi sul da farsi. Mi ripromisi di servirmi solo un'ultima volta, sperando che a Margaret non dispiacesse.

-Vi sono piaciuti i dolci? Mia madre ci tiene a saperlo. Non ha senso chiederlo; nessuno risponderebbe negativamente, per educazione, ma...

-Sono squisiti!- Esclamai con convinzione, interrompendola. Harvie si limitò ad annuire in accordo con me, con gli occhi annoiati sul telefono, a scorrere sullo schermo. Lo guardai storto, intimorita che Margaret credesse di essere la causa del suo improvviso isolamento. E, effettivamente, notai il suo sguardo vagamente preoccupato ricadere di sfuggita su di lui varie volte.

-Come va il college? Questo è l'ultimo anno, giusto?- Le domandai per distrarla da Harvie. Lei si impegnò per risultarne disinteressata, ma era troppo tardi per lasciarmelo credere.

- Sì, esatto. Per ora, va tutto bene. Ma prevedo che sarà un anno molto difficile, - rispose, massaggiandosi le ginocchia. L'imbarazzo sembrava in agguato alle sue spalle. Ero pronta a portare avanti la conversazione quando il telefono di Harvie prese a squillare, scomponendo i miei pensieri. Guardò lo schermo per qualche secondo. Sembrava indeciso sul rispondere o meno, ma alla fine se lo portò all'orecchio.

-Ehi, Bree. Dimmi- rispose con voce monotona. Non capivo perché d'un tratto si fosse tirato fuori dalla conversazione e perché ora apparisse tanto seccato. Margaret approfittò di quel momento per ritirarsi. Ciò mi dispiacque parecchio. Era ovvio che se ne stesse andando perché credeva di essere diventata fonte di disturbo.

-Credo sia meglio che continui il mio giro- mormorò, alzandosi dalla sedia con un sorriso forzato. -È stato bello parlare con te, Blue. Ci vediamo in giro- mi salutò, avviandosi verso l'uscita. Si voltò verso Harvie, prima di aprire la porta. Probabilmente, le sembrava scortese non degnarlo nemmeno di un saluto nonostante si sentisse offesa. Ma lui era di spalle, perciò lasciò perdere. Calò la maniglia e se ne andò con gli occhi bassi. Quella scena fu talmente pietosa e ingiusta che non esitai a lasciare il mio posto e a lasciarmi guidare dalla disapprovazione.

-Più tardi ti passo a prendere- promise Harvie, ancora appassionatamente al telefono. Mi posizionai inflessibilmente davanti a lui, poggiando le mani sui miei fianchi, in attesa. Lo guardai con sguardo severo, mettendo su un sorrisetto che speravo non promettesse nulla di buono. Gli mimai un "ciao", aprendo e chiudendo la mano con fare esuberante, imitando il solito infantile saluto dei bambini, suggerendogli di riattaccare al più presto. Mi guardò incerto. Forse si stava chiedendo se fosse meglio disobbedirmi, ma non credo che gli convenisse che riattaccassi al suo posto.

-Bree, scusa. Devo andare. Ci vediamo più tardi- concluse, riponendo il cellulare nella tasca dei pantaloni.

-Mi spieghi che ti prende oggi?- Sbottò, esasperato e confuso, chiedendosi mentalmente quale pensiero mi fosse appena casualmente sorto in testa.

-No, tu spiegami che ti prende. Una ragazza entra, si mette a parlare amichevolmente e tu ti ritiri nel tuo telefono, non vergognandoti di rendere evidente la tua noia improvvisa davanti a lei? Se ne sarà sentita sicuramente la causa- risposi duramente, incrociando le braccia al petto, contrariata. Lo vidi roteare gli occhi, irritandomi ulteriormente. Non poteva trattare tutto con sfacciato disinteresse. Cosa gli importava nella vita? Della sua cara, elegante e posata Bree? Non volevo che tradisse Bree con Margaret, ma che almeno la trattasse come trattava me; decentemente.

-Perché fai di tutto una tragedia? Non mi piace quella ragazza. Perché dovrei fingere il contrario?- Ammise, alzando la voce di un grado; segno che avrei dovuto moderarmi e apprendere l'avvertimento. Effettivamente, quel pomeriggio, avevo seriamente preso a giocare col fuoco, ma, data la mia indole cocciuta, non esitai a riaprire bocca.

-Si chiama educazione. Ne dovresti sapere qualcosa, sai, uscendo con una reginetta...- risposi acidamente, gesticolando con apparente isteria. Notai i suoi occhi farsi più scuri. Forse era solo una mia impressione, creata dalla sensazione di avere iniziato a schiacciare, tra i suoi nervi, i bottoni giusti per innescare qualcosa. Fissai i suoi occhi, fino ad allora, nascondendo con successo il vago timore che lui scoppiasse da un momento all'altro. Non aveva senso che continuassi a parlare se non volevo che reagisse, ma ormai dovevo dire il dovuto. Magari poi, avrei evitato di infierire.

-No. Si chiama ipocrisia, ragazzina. E devi ringraziarmi per essere rimasto zitto, o sarebbe uscita da qui piangendo!- Scandì parola per parola con voce rabbiosa, avvicinandosi e protendendosi verso di me, intimidendomi. Nonostante paresse già abbastanza irritato, la sua voce aveva un qualcosa di contratto; come se, in confronto a ciò che il suo istinto lo invitava a fare, la sua effettiva reazione fosse la versione più pacata. Le mie mani toccarono le due estremità della scrivania alla quale mi ero addossata e, con mio sollievo, lui si fermò a pochi passi da me. I suoi occhi sembravano infuocati e mi costrinsero a distogliere lo sguardo. Mi guardai i piedi, impietrita. Forse era meglio lasciare perdere, ma questa era una constatazione che avrei dovuto elaborare prima di finire, nella preoccupazione, tra lui e la scrivania.

-Spero che tu abbia delle buone ragioni per odiare tanto una ragazza che ti guarda come se fossi l'unico essere sulla faccia della terra- sputai, rialzando lo sguardo. I suoi occhi si erano addolciti. Forse si era appena accorto del repentino crollo della mia tenacia, capendone, di conseguenza, anche il motivo. Vidi la sua mano spostarsi con esitazione dal suo fianco, rimanendo per un attimo sospesa nell'aria, senza accennare al suo scopo. Poi tremò, come se fosse combattuta da due forze invisibili di eguale intensità, per poi essere vinta da una delle due. Così tornò al suo posto.

-Dovrebbe distogliere lo sguardo se non vuole apparire più patetica del vero- sussurrò duramente, impassibile; la mascella serrata e i denti stretti dietro le labbra carnose. Sembrava impossibile, ma ero quasi certa che si fosse ulteriormente avvicinato. Sentivo il suo respiro accarezzarmi il naso e il suo petto possente si trovava esattamente all'altezza dei miei occhi; vogliosi di interrompere il contatto visivo ma impotenti nel farlo.

-Evidentemente, non ti conosce abbastanza da rendersi conto che è una fortuna che tu non la voglia- ipotizzai con voce sommessa. -Non si meriterebbe una simile tragedia.- conclusi con sguardo pungente. Prima che potesse aggiungere altro, presi la mia roba e sparii oltre la porta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mi sei mancata, piccola peste ***


Camminai a testa bassa per la maggior parte del tragitto. Non avevo idea di dove andare. Tornare in ufficio era fuori discussione, e ancora di più lo era tornare a casa. Un'alternativa migliore mi capitò esattamente affianco, quando la caffetteria Morrison attirò istantaneamente il mio sguardo. Mi fermai di scatto, rimanendo un attimo ferma lì davanti a valutare l'idea di cogliere il suggerimento. Non ci volle molto prima che decidessi definitivamente di entrare e sperare di non fare un buco nell'acqua. Quando aprii la porta vetrata, dei campanellini fastidiosi suonarono al di sopra. Mi guardai intorno, sorprendendomi di non trovare molta gente tra i tavoli. Il signor Morrison era seduto dietro al bancone con un viso annoiato. Il suo sguardo parve illuminarsi quando mi vide entrare. Sorrise ampiamente, salutandomi:

-Blue! Non ti vedo da settimane!- Esclamò, realizzandolo sul momento. Mi avvicinai, annuendo. Era vero. Ma questo solo perché, come meritato, i Morrison erano partiti per Madrid, poche settimane prima, e tornati solo da poco. Il periodo estivo, che per altri paesi era quello più fruttuoso, per gli impiegati di Staithes era il periodo migliore per le ferie. Quasi tutti i cittadini partivano, per assaporare il vero gusto della stagione. Staithes, in quei tre mesi mezzani, diveniva una cittadina fresca e desolata, dove nessuno trovava motivo di rimanere; a parte mio padre. Ogni anno, eravamo fra i pochi a non partire. In quella città c'era tutta la nostra famiglia, i soldi scarseggiavano e mio padre adorava guardarsi intorno e non vedere nessuno. Credevo che ciò lo facesse sentire onnipotente; ma era solo una mia supposizione.

-Salve, signor Morrison... Comunque sì, è da un bel po' di tempo- confermai, avvicinandomi al bancone per poi sedermi su uno sgabello. -Com'è andata in Spagna? Vi siete divertiti?- Domandai, fingendomi più interessata del vero. Oltre la spalla di Chris, notai, attraverso la porta aperta del magazzino, una chioma più voluminosa di quanto ricordassi passare velocemente da una stanza all'altra. Pensai di chiamare il suo nome, ma preferivo non interrompere la breve risposta di Chris, il quale aveva già iniziato a parlare.

-Entusiasmante, devo dire. Caroline ha adorato persino il cemento su cui camminavamo. Jace si è divertito. Ha fatto amicizia con qualche ragazzo e si è perso in giro per la Spagna, istantaneamente- concluse, scuotendo il capo con disappunto. Io ridacchiai, pensando che si sarebbero dovuti aspettare che sarebbe andata così.

-A proposito... lui dov'è?- Domandai, fingendo di non saperlo. Chris si ricompose e tossì allontanandosi.

-In magazzino. Vuoi che lo chiami?- Chiese, anche se essendone sicuro, protendendosi verso la porta. Io annuii con un sorriso gentile.

-Sì, grazie- risposi, accavallando le gambe, in attesa. Il signor Morrison mi sorrise amichevolmente prima di sparire oltre la porta. Mi voltai ancora una volta verso l'unico tavolo occupato dell'accogliente locale. Una donna sulla trentina vi sedeva con un passeggino accanto. La donna sorseggiava tranquillamente una tazza- probabilmente di caffè,- mentre con l'altra mano fissava il cellulare. D'un tratto, il bambino iniziò a piangere. Lei sbuffò pesantemente e iniziò, di malavoglia, a scuotere il passeggino per calmarlo. Ma funzionava davvero? A me sembrava che fosse solo un modo per fare agitare maggiormente il neonato. Dal disinteresse verso l'ininterrotto pianto del bambino, mi chiesi se la donna fosse effettivamente una madre orribile o una normale baby sitter.

-Chi mi cerca?- Una voce roca mi risuonò all'orecchio, irrompendo tra le mie critiche e osservazioni. Solo sentendo quella voce, mi resi conto di quanto mi fosse mancato. Un sorriso mi spuntò automaticamente sul volto, ma non mi voltai subito. Abbassai lo sguardo sulle mie ginocchia, intrecciando le dita freneticamente.

-Volevo solo assicurarmi che l'aria iberica non ti avesse fatto dimenticare di me- improvvisai, decidendomi ad incontrare il suo sguardo. Volevo mantenere un'aria seria e convincente, ma una tale missione non faceva per me. I sorrisi incornicianti entrambi i nostri volti si ampliarono contemporaneamente ed io non esitai a scendere dallo sgabello e a raggiungerlo dietro al bancone per dargli il dovuto "bentornato". Ridacchiò guardandomi saltellare, e allargò le braccia divertito, capendo quale fosse il mio intento. Quando fui abbastanza vicina, saltai e mi aggrappai al suo collo, sentendo le sue braccia da colosso avvolgermi calorosamente.

-Mi sei mancata, piccola peste- ammise, dondolandosi da un fianco all'altro. Poggiai il mento sulla sua spalla, beandomi di quella sensazione.

Jace era il mio migliore amico. Adoravo la nostra amicizia; aveva regole tutte sue. Non sapevo se molti altri al mondo si comportassero come noi, ma mi piaceva pensare che fossimo gli unici. Molte amicizie tra individui di sesso opposto, col tempo, finiscono o diventano altro. Ma ogni volta che guardavo Jace, le nostre foto, o ricordavo gli anni passati insieme, non riuscivo ad immaginare una vita senza di lui, e ancora di meno una vita con lui come protagonista. Lui era perfetto così; in quel determinato posto nel mio cuore e presente.

-Anche tu- sussurrai, abbandonandomi al buonumore crescente. Era raro che una giornata in decadenza mi si risollevasse di colpo ed ero grata a Jace per essere stato lì in quel momento per salvarla. Evidentemente, parlare con qualcuno con cui non mi dovessi scontrare per qualsiasi cosa era tutto ciò che mi serviva per calmarmi. Ma preferii non soffermarmi troppo su certi paragoni. Dopo pochi attimi, allentai la presa su di lui e così fece lo stesso.

-Ti va un tè? Un cappuccino?- Chiese, ricomponendosi e incrociando le braccia al petto. Ci pensai su un attimo. Il tè era fuori discussione. L'avevo già preso e non ne volevo di certo un altro. Perciò, optai per il secondo suggerimento.

-Un cappuccino andrebbe benissimo- risposi, soddisfatta della scelta. Jace annuì, avviandosi verso la macchinetta del caffè, seguito da me. Mi piaceva guardarlo mentre lavorava. Era agile; riusciva ad occuparsi di più cose contemporaneamente ed era veloce nel servire i clienti. Inoltre, la sua presenza, solitamente, bastava ad attrarre gran parte della clientela femminile. Obbiettivamente, Jace era un bel ragazzo; questo era più che evidente. Non mi meravigliavo più di quante ragazze gli morissero ai piedi, e nemmeno lui. A dirla tutta, era la persona più vanitosa che avessi mai conosciuto. Ma non possedeva quella vanità che tende a farti vedere il resto del mondo sotto una luce peggiore; ma una vanità che lo rendeva consapevole e libero nell'ammettere quanto lui stesso fosse speciale. Ho sempre classificato questo suo aspetto come un pregio. Faceva parte di lui; lo rendeva ciò che era... perciò non me ne lamentavo.

-La scuola è già iniziata?- Chiese, aspettando che il caffè finisse di scorrere. Io annuii tristemente, imbronciata. Lui sorrise, scuotendo la testa. Abbassò gli occhi al suolo, gettando un veloce sguardo allo stato del caffè nella tazza, di tanto in tanto.

-Tu hai ancora intenzione di non andare al college?- Domandai, sperando in un cambiamento nella risposta. Jace aveva introdotto spesso questo argomento. Aveva passato un lungo periodo nell'indecisione, per poi concludere che non c'era motivo di andare. Ma io non ero mai stata d'accordo. Ha sempre dimostrato di avere una mente eccezionale. Al college non avrebbe dovuto impegnarsi fino allo sfinimento per farcela. Inoltre, si trattava sempre di un titolo in più. Poteva solo fargli comodo. Lui scosse la testa, facendo una smorfia. Ciò bruciò le mie speranze.

-Ho già deciso. Rimarrò in città, ad aiutare i miei genitori con il locale. Hanno dei progetti in mente e, se li metteranno in atto, non voglio ritrovarmi dall'altra parte del paese con mille libri sulla scrivania- rispose con tono impassibile. -Sarebbero in grado di portare il locale al fallimento e non dirmi niente per non rovinare i miei piani. Non posso partire così- aggiunse, versando del latte nella tazza. Pose la tazza sotto un tubicino e immerse questo nel latte, girando una manovella. La schiuma si iniziò a formare, producendo uno strano rumore, simile a quello di un aspirapolvere. Io non seppi come replicare. Jace si preoccupava troppo, ma non gli si poteva dare torto. Ciò di cui aveva bisogno era sapere che tutto sarebbe andato per il meglio, anche senza di lui. Ma forse, la sua paura non era che le cose peggiorassero, ma non trovarsi lì quando sarebbe successo.

-Ma non sei l'unico, Jace! Moltissimi altri ragazzi potrebbero partire con le tue stesse paranoie. Non sono solo i ragazzi con i soldi a palate e i genitori dal lavoro stabile ad andare, lo sai? Non è detto che succeda qualcosa. Che faresti se non succedesse niente? Avresti per sempre il rimpianto di non avere rischiato quando avresti potuto- osservai, cercando di farlo ragionare. Non ero sicura che lui mi stesse ascoltando. Era intento a dare un'ultima spolverata artistica di cacao al mio cappuccino ormai completo. Glielo sfilai via da sotto gli occhi e lo tenni stretto vicino al petto, fissando Jace duramente. Volevo che mi ascoltasse; non che mi obbedisse, solo che mi ascoltasse. -Hai tutte le carte in regola per farlo- aggiunsi. Jace si poggiò al bancone, poggiandovi i gomiti. Guardava dinanzi a sé, non incontrando il mio sguardo, ma speravo ci stesse pensando.

-Non lo so... In ogni caso, salterò un anno. Ormai è tardi per provare ad entrare.

Sembrò titubante, ma era già un inizio. Speravo di riuscire a convincerlo definitivamente entro un anno o anche in meno tempo. Ma nel frattempo, avrei lasciato perdere per un po' la questione.

Sospirai, soddisfatta. Lasciai il cappuccino sul bancone e feci il giro nuovamente, riprendendomi il posto sullo sgabello. Mi protesi in avanti, poggiandomi sui gomiti. Jace rimase in piedi ad asciugare qualche bicchiere di vetro.

Non sapevo di cosa parlare. Eppure, dovevamo avere tante cose da dirci. Io ero consapevole delle probabili ragioni del mio silenzio, ma quelle di Jace erano a me ignote. Anche se, in realtà, sembrava che non stesse nemmeno provando ad introdurre qualcosa, perciò me ne caricai la responsabilità. Non ero il tipo a cui piaceva fare cadere le conversazioni nel silenzio. Ero una persona che sapeva apprezzarlo, quando necessario. Ma in casi come quelli, mi faceva solo innervosire. Mi sentivo sempre in dovere di salvare la conversazione. Mi chiedevo se, al mondo, fossi solo io a pensarla così, perché, evidentemente, Jace pensava a cose più importanti; cose che, a quanto pare, non mi riguardavano. Stavo per aprire bocca quando i campanellini assordanti della porta d'ingresso mi rimbombarono nelle orecchie. Mi voltai istintivamente, richiamata dalle noci dorate sulla porta, pentendomene subito quando riconobbi chi ne avesse provocato lo scotimento.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Di nuovo tu ***


Fantastico. Borbottai mentalmente quando ciò da cui ero da poco scappata varcò l'ingresso. Mi voltai il più velocemente possibile verso Jace, sperando che il nuovo arrivato non mi avesse notata. Ma se non l'avesse già fatto, data la scarsa quantità di gente nel locale, era solo questione di pochi secondi prima che lo facesse. Temporeggiare, comunque, non è mai stato un male tanto grave.

Tra me e lui non era successo nulla di irreparabile; non definivo ciò che era successo nemmeno un litigio. Ciò che mi indisponeva a parlare con lui, al momento, era solo il bisogno di scaricare il nervosismo; tasto che, nella mia mente, lui tendeva a stimolare ripetutamente ogni qualvolta mi rivolgeva la parola.

Jace notò il mio improvviso irrigidimento e inclinò la testa. Mi rivolse uno sguardo confuso, cercando una spiegazione nel mio, il quale non accennava ad essere trovato.

-Blue?- Chiese, incerto. Udendo il mio nome uscire dalle sue labbra, alzai svelta lo sguardo verso di lui, incitandolo a stare zitto. Jace fece una smorfia ancora più confusa della precedente per poi decidere di rimanere nel dubbio. -Io non ti capisco...- borbottò infine, rendendo la frase quasi inaudibile. Non mi misi contro la sua resa. In casi come quelli, era meglio che non pretendesse spiegazioni.

Non mi credevo un tipo molto discreto, perciò mi arrendevo al semplice fatto di non poterlo essere. Per parlare di una persona o di una questione di cui volevo nessun altro riuscisse a trarre nulla, dovevo ritrovarmi in una camera blindata e insonorizzata con l'unica persona a cui le mie notizie erano indirizzate. Non c'era modo che spiegassi in poche parole ciò che mi turbava a Jace senza che persino la donna col neonato piangente comprendesse l'intera discussione.

Affondai la mia attenzione nel cappuccino ancora intatto. Vi versai l'ennesima bustina di zucchero, mescolando il contenuto rumorosamente. Jace aveva ripreso ad asciugare i bicchieri in vetro. Solo qualche attimo dopo rialzò lo sguardo, sorridendo amichevolmente.

-Ehi, amico- salutò, posando il bicchiere che aveva appena finito di asciugare e lo straccio che aveva usato per farlo.

-Ciao, Morrison- ricambiò il cliente che speravo invano non si sarebbe avvicinato al bancone.

-Cosa prendi?- Gli chiese, poggiando i polsi sul bordo del bancone. Lo guardò in attesa, mordendosi il labbro inferiore. Harvie si sedette a distanza di uno sgabello da me. Ci pensò su un attimo. Percepii chiaramente il suo sguardo cadere prima su di me e poi sulla tazza che avevo di fronte, prima di rispondere.

-Credo... un caffè- decise.

-Va bene- Jace annuì, allontanandosi.

Continuavo a mescolare la mia bevanda con insistenza. Il rombo del cucchiaino contro la ceramica della tazza sembrava più assordante di prima. Fu come se tutti i riflettori si fossero uniti accentrandosi su di me. Anche il neonato aveva smesso di piangere, cedendomi il ruolo principale. Non avevo il coraggio di alzare lo sguardo dal ciclone che avevo creato nella tazza. Mi sentivo oppressa, ed ero certa che Harvie mi stesse guardando e deridendo per l'infantilità che stavo mostrando.

Quando le sue dita mi sfiorarono la gote, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, sussultai. Il gesto inaspettato mi scosse tanto da far sì che la mia mano scattasse, gettando una buona parte del cappuccino sui miei jeans.

-Cavolo!- Imprecai agitandomi, sia per la rabbia che per il dolore del contatto. Non mi ero ancora voltata quando sentii la risata divertita e compiaciuta di Harvie emergere.

-Scusa, bimba. Volevo solo accertarmi che fossi tu e non un manichino- continuò a ridere sommessamente.

Guardai il disastro che avevo combinato, posando lo sguardo sul piano accanto alla tazza, vedendo una grande macchia marrone a decorare il mio quaderno e parte del mio libro.

-No, no!- Mi lamentai, trattenendomi dall'imprecare. Mi affrettai a recuperare dei tovaglioli per salvare almeno la copertina del libro. Il quaderno, invece, per quanto la situazione non fosse esageratamente tragica, non era molto impermeabile.

-Non mi dire che quello era uno dei tuoi intoccabili libri- fece una smorfia, conoscendo già la risposta.

Gli rivolsi un sorriso rigido come conferma.

-Te ne comprerò un altro- cercò di scusarsi, a modo suo.

-Harvie, sai che posso permettermelo un libro?

Proprio in quel momento, tornò Jace. Puntò gli occhi sulla mia camicetta leggermente macchiata con un cipiglio. Il quale si allargò quando si avvicinò, notando che un po' tutto era macchiato.

-Che è successo?- Domandò, volgendo uno sguardo accusatorio verso Harvie. Cercai di non informarlo, davanti a Harvie, di quanto desiderassi che lo gettasse fuori da lì in quel preciso istante. Perciò, mi limitai a dire:- Jace, puoi darmi uno straccio bagnato, per favore? Mi sono sporcata col cappuccino.

Jace mi ispezionò velocemente, riluttante, per poi alzare gli occhi al cielo.

-Sempre la solita- commentò, strappando un ghigno a Harvie. Mandai un'occhiataccia ad entrambi. Jace aveva lo sguardo altrove, mentre Harvie fece il finto tonto. Jace prese uno straccio perfettamente piegato, poggiato su un blocco di tanti altri, ponendolo sotto il rubinetto e lasciando che si inzuppasse. Dopo un po', chiuse l'acqua e strizzò lo straccio con forza. Infine, me lo porse.

-Grazie- sussurrai, sfregando lo straccio su entrambe le cosce macchiate. Jace era tornato al suo caffè. Io e Harvie eravamo rimasti di nuovo soli, ma io non avevo più voglia di prima ad iniziare con lui una conversazione.

-Scusa se ti ho spaventata, prima- disse quando il suo sorriso era ormai svanito. Continuai a sfregare lo straccio sulla macchia più evidente, rivolgendogli uno sguardo neutro. Non ero sicura dell'evento al quale si riferisse, ma accettai le scuse comunque. Gran parte della discussione era nata per colpa mia e della mia irrefrenabile linguaccia. Non potevo biasimarlo per avere reagito. In fondo, volevo che lo facesse.

Ancora non riuscivo a capire perché il suo disprezzo verso Margaret mi avesse toccato tanto. Ma comunque sia, io non ero nessuno per lui; nessuno per giudicarlo e nessuno per pretendere che mi ascoltasse. Mi ero davvero comportata come la ragazzina che mi aveva definita.

-Non è colpa tua. So essere molto irritante quando voglio. Mi dispiace- mi scusai, accennando un sorriso pulito, innocente. Il sollievo mi colse inaspettatamente, come ricompensa per essermi addossata, giustamente, la colpa. Di solito, ero così testarda nell'ammettere una cosa del genere che aspettavo semplicemente che me ne dimenticassi e che il senso di colpa si depositasse nei meandri della mia mente. Ma non sempre tale metodo funziona. Quella volta, avevo semplicemente sentito che era uno di quei "non sempre".

Harvie mi guardò per un momento con la fronte corrucciata, restando interdetto. Anche per lui era inusuale che mi comportassi secondo giustizia. Poi sbuffò una risata, abbassando lo sguardo sul pacchetto di sigarette che stava maneggiando e sgualcendo, per poi tornare a guardarmi.

-Fai sempre il contrario di ciò che mi aspetto- osservò, studiando i miei occhi, come per cercare tracce di scherzo o sarcasmo che non avrebbe trovato.

-Sarebbe noioso se fosse il contrario, non credi?- Puntualizzai, sogghignando. Sorseggiai il cappuccino che, fino ad ora, non avevo nemmeno assaggiato e lo vidi sorridere. Il nostro sguardo rimase in contatto per un lasso di tempo che tuttora non riesco a definire. Era come se entrambi avessimo la sensazione che l'altro dovesse dire qualcosa, ma anche la sicurezza che non avremmo detto niente.

Jace, finalmente, tornò con una grande tazza di caffè fumante tra le mani, spronandoci al risveglio.

-Ecco a te- glielo poggiò davanti, gentilmente.

-Grazie. Quanto ti devo?- Domandò Harvie, estraendo il portafoglio dalla tasca dei pantaloni.

Jace stava per rispondere, ma cambiò idea prima che la ragione lo precedesse. Harvie aveva appena tirato una banconota di dieci sterline fuori dal portafogli, quando Jace lo bloccò di scatto.

-No- obbiettò con tono deciso ma quieto, accennando ad una leggera indecisione. -Per oggi, offre la casa.- lo informò, concludendo in un sorriso.

Jace era troppo buono con tutti. Tentava sempre di essere carino e di farsi apprezzare almeno dalla maggior parte dei clienti affezionati. E ciò funzionava. Credevo che alcuni di loro si recassero lì solo per parlare con lui; così da passare piacevolmente una piccola parte della propria giornata. O forse erano solo supposizioni che stavo elaborando per esperienza personale; poiché era esattamente il motivo per cui, attimi prima, avevo deciso di entrare lì dentro.

Harvie lo guardò contrariato, in risposta.

-Andiamo. Non finirò nella miseria per qualche soldo- insistette, poggiando con decisione la banconota sul bancone. Jace fece strisciare i soldi verso di lui, restituendoglieli, impassibile.

Non ho mai capito perché tutte queste offerte si prendino tanto seriamente. In fin dei conti, se qualcuno vuole offrirti qualcosa, dovresti esserne grato. Ma la gratitudine sembrava degenerare spesso in sdegno. Non ero convinta che bisognava approfittarsene, e tanto meno pretendere che tutti lo facessero per tutti. Credevo solo che non avesse senso ricompensare qualcuno per una tale azione con il fastidio.

-E io di certo non sguazzerò nella ricchezza- controbatté, provocando in Harvie uno sbuffo seccato. Quest'ultimo non continuò la discussione, concedendo l'ultima parola a Jace, il quale, dopodiché, si allontanò soddisfatto, addentrandosi nel magazzino.

Harvie sorseggiò il suo caffè, sembrando improvvisamente frettoloso di terminarlo. Gettò delle veloci occhiate, varie volte, all'orologio sul suo polso. Non domandai nulla fino a quando non prese il telefono. Sembrava assorto, con la mente altrove; e avevo una vaga idea di dove si trovasse.

-La reginetta ti sta aspettando?- Domandai, azzardandomi a nominarla ancora come fatto precedentemente. Harvie sollevò il capo di scatto, guardandomi senza espressione, disorientato dal mio improvviso intervento. Accennò un sorriso sghembo prima di rispondere.

-Già. E se non sarò da lei in tempo, mi farà decapitare- rispose a tono, facendomi sorridere. Da come la descriveva, immaginavo che Bree fosse un diavoletto dal viso angelico e dal carattere più isterico della sottoscritta. Ma non la conoscevo, e odiavo basarmi istintivamente sulle parole di Harvie per farmene un'idea. Inoltre, sembrava che non mi dicesse mai la vera verità su di lei. Se lei fosse stata davvero tanto terribile come avevo dedotto, e lui ne fosse stato realmente consapevole, quella sera, passarla a prendere sarebbe stato il suo ultimo pensiero. Perciò, alla luce dei fatti, tentavo di non prenderlo in parola per qualunque cosa dicesse.

-Tranquillo. Se mi somiglia, non sarà molto puntuale- lo consolai, dando l'ultimo sorso alla mia bevanda ora terminata. Harvie abbandonò il telefono e spostò la sua intera attenzione su di me, facendo una buffa smorfia perplessa.

-Ho fatto il conto anche con quello. Infatti, sarei dovuto già essere da lei mezz'ora fa- ammise divertito. Gli lanciai un'occhiata sorpresa e altrettanto divertita e lui scoppiò a ridere.

-Be'... non è esattamente ciò che intendevo- commentai, seguendolo. La sua risata risultava contagiosa e mi sorpresi di divertirmi di più ascoltandola, avendone già dimenticato il motivo.
 

D'un tratto, notai il signor Morrison affacciarsi dallo stipite della porta del magazzino, ispezionando il locale. Osservò i vari tavoli ancora vuoti con apparente delusione. Indietreggiò leggermente, ma prima di andare posò lo sguardo su me e Harvie; gli unici presenti. La donna e il neonato, a quanto pare, erano andati via. Non me ne ero accorta fino ad allora. Il signor Morrison mi sorrise dolcemente; come per scusarsi di avermi fatto intuire le sue preoccupazioni. Poi sparì.

Harvie non aveva notato nulla. Il riso precedente si era tramutato in un vago sorriso. Diede un ultimo, lungo sorso alla sua tazza di caffè, terminandolo. Poggiò la tazza sul bancone e riprese, sotto il mio sguardo perplesso, il portafogli e così le dieci sterline precedenti. Poggiò la tazza su un'estremità della banconota e scese dallo sgabello.

-Nel caso Morrison si lamenti, digli che vale come mancia- si raccomandò Harvie, dirigendosi verso l'uscita. Il suo gesto mi fece sorridere. Non sapevo se fosse solo il suo bisogno ossessivo di averla vinta oppure un effettivo gesto di gratitudine verso l'offerta di Jace. Ma chi lo sa. Harvie sembrava un libro aperto all'apparenza, ma, in realtà, viveva nella nuvola di mistero più opaca e incomprensibile esistente. Perciò, se davvero dovevo rimanere nel dubbio, preferivo scegliere di credere che avesse lasciato quei soldi, non per uscirne vittorioso, ma per pura gratitudine.

-Ciao, Harvie- mormorai quando oltrepassò la porta, sapendo che non mi avrebbe sentita.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sfogati ***


La notte stessa fu turbante; nulla di nuovo. Raramente riuscivo a riposare quando avrei dovuto. Ma 'sta volta avevo ragioni più serie per non riuscire a chiudere occhio. Zittire la mente era un'impresa impossibile. E se, grazie ad un pizzico di fortuna, la mia mente mi avesse concesso del meritato riposo, la notte si sarebbe tramutata in un susseguirsi di incubi famelici che non sarei stata in grado di cambiare o fermare.

Quella notte la passai proprio così; tra gli incubi; ad atterrirmi per poi svegliarmi con la fronte grondante di sudore, e a temere che le mie palpebre potessero chiudersi troppo presto, così da rigettarmi nello sconforto. Non so dire quante volte tale episodio si fosse ripetuto nella notte, ma se dovessi tirare a indovinare, direi "sette". La settima volta abbandonai il mio letto con collera, chiedendomi istericamente se il mio cervello funzionasse a dovere o se fosse stato solo creato per complicarmi l'esistenza.

Giunsi in cucina e guardai il grande orologio appeso al muro, non meravigliandomi dell'ora. Erano le cinque del mattino. La mia sveglia avrebbe preso a suonare un'ora e mezza più tardi, ed io non sarei stata in grado di darle retta. Perciò decisi di disattivarla una volta tornata in camera. Sarebbe stata la mia prima assenza dell'anno, e una singola assenza non mi avrebbe di certo scombussolato la carriera scolastica. Così sospirai. Dovevo tornare a letto, ma prima mi preparai una tisana per tranquillizzarmi.

Quando il microonde emise un bip, ne estrassi la tazza e mi recai in salone, sedendo sul divano. Era ancora troppo calda per me, perciò aspettai.

Mi guardai intorno, come se quella stanza non l'avessi mai vista davvero. Mi persi nel vuoto per un po'. Sembrava che il mio cervello mi avesse dato un attimo di tregua. Non sentivo niente, o forse lo stavo ignorando.

Lasciai che la tisana si raffreddasse un po' prima di berla a lunghi sorsi.

Quando ebbi svuotato la tazza, le mie gambe non si mossero. Dovevo tirarmi su e tornare a letto, ma il mio cervello sembrava mandare stimoli troppo deboli per permettermelo.

Arrendendomi, poggiai la testa sul braccio del divano, dicendomi che un attimo dopo mi sarei alzata.

___________________________

Come previsto, anche se nella confusione, mi risvegliai sul divano.

La nottataccia passata iniziò subito a mostrare i suoi effetti collaterali. Ero sola in casa. Mio padre era a lavoro ed io non avevo nulla da fare. Avevo pensato di andare in redazione, ma era quasi mezzogiorno e mio padre sarebbe tornato da un momento all'altro. Perciò, scartai l'idea.

Dopo un po', mi venne in mente di chiamare Robin; una cara amica che conoscevo ormai da qualche anno. Andavamo d'accordo; ci capivamo a volo. Le nostre madri sono diventate amiche quando Delilah, la madre di Robin, ha aperto un negozio di abbigliamento. Ogni volta che mia madre entrava lì, ne usciva ore dopo e non per colpa dei vestiti. Delilah veniva spesso a casa nostra e una volta ha portato la figlia. Così, anche per noi è scoccata la scintilla.

Robin era dell'ultimo anno. Le lezioni sarebbero dovute finire da un momento all'altro, così le mandai un messaggio, chiedendole se le andasse di pranzare insieme. La risposta arrivò in meno di un attimo: sarebbe passata appena possibile.

Un'ora dopo, il clacson irruente dell'auto di Robin segnalò il suo arrivo. Mi fiondai fuori di casa, sperando di risultare più presentabile di quanto dimostrasse lo specchio del mio bagno. Una volta percorso il breve vialetto, aprii la portiera del passeggero, scivolando sul sedile.

-Ma chi si rivede! Sei sparita per un po'- esclamò Robin sorridente, circondandomi le spalle con un braccio per poi stamparmi un bacio sulla guancia.

-Hai ragione. Ho avuto così tante cose a cui pensare che ho dimenticato gran parte del mondo esterno- ammisi, sorridendo allo stesso modo. Robin non sapeva molto di mia madre, almeno tramite me. Ma ero certa che le chiacchiere girovaganti su di lei non avessero lasciato vergini le sue orecchie. A confermare ciò, fu la forma delle labbra della mia amica, le quali si unirono in una rigida linea che esprimeva compassione.

Sembrava combattuta tra chiedere o tacere, ma se avesse deciso di chiedere, non le avrei mentito e omesso nulla. In fondo, era successo. Tacere non cambiava quello che aveva fatto; non cancellava il vuoto che ci aveva lasciato. Robin aprì la bocca e abbassò lo sguardo. Io distolsi il mio, facendo finta di cercare qualcosa nella borsa per non lasciarle intendere di avere già previsto la sua domanda. Mi sorpresi quando, dopo un attimo, tutto ciò che chiese fu:

-Dove andiamo?

Io alzai di scatto lo sguardo, pensandoci su. Balbettai qualcosa, mentre la mia mente formulava una veloce selezione dei locali possibili. Non avevamo un elenco molto vasto. Staithes era un paesino modesto, perciò non era difficile rendersi conto di quali locali precedessero gli altri.

-Hinderwell?- Proposi poi. Robin fu d'accordo, anche se il suo consenso parve perlopiù automatico. Mise in moto l'auto e partimmo, con la radio a riempire il silenzio.

Entrammo nel locale, notando un'inaspettata concentrazione di gente all'interno. Fortunatamente, non ce n'era abbastanza da occupare tutti i tavoli. Al bancone c'era Peter, il quale ci accolse con un ampio sorriso. Ho sempre pensato che avesse un debole per Robin. Ma a lei non importava; nonostante Peter fosse davvero carino, e anche uno degli studenti più stimati della nostra scuola.

In verità, a Robin non importava dei ragazzi. Non era una di quelle ragazze che, per sentirsi felice, aveva bisogno di sentirsi amata e desiderata. Lei si sentiva abbastanza di per sé, e fino a quando qualcuno non l'avesse fatta ricredere, facendole desiderare il suo pezzo mancante, sarebbe rimasta una singola metà per sempre, ignara di essere effettivamente solo una metà di un intero.

Tutte le donne avrebbero dovuto essere come lei. Anch'io avrei voluto essere come lei. Perché, per quanto ci proviamo, siamo inevitabilmente tutte condannate a desiderare l'amore e a soffrire per non averlo. E mi spaventa la debolezza che si prova quando qualcosa ti manca. Perché la debolezza ti porta a fare sciocchezze; cose che credi ti facciano stare meglio, ma che durano un attimo, mentre il pentimento dura in eterno. Poche persone, come Robin, trovano la convinzione necessaria per sottrarsi alla tortura.

Dopo avere salutato Peter con un sorriso, ci sedemmo al primo tavolo che ci capitò davanti, iniziando a studiare i menù depositati su di esso, nonostante li conoscessimo a memoria e la consapevolezza che leggerli non avrebbe cambiato la monotonia delle nostre scelte.

-Mia madre se n'è andata- annunciai con voce sommessa, i miei occhi fissi ancora sul menù. Quello di Robin le scivolò dalle mani dopo la mia rivelazione, anche se ero sicura che la sua reazione dipendesse esclusivamente dall'inaspettata premessa; non dalla sua inconsapevolezza verso l'argomento. Lei rimase zitta, in attesa, graffiando con le unghie impeccabili la pellicola ricoprente il menù sgualcito.

-Non so perché l'abbia fatto. Era da un po' che lei e mio padre litigavano... ma sai, succede sempre- continuai, sentendo la mia gola annodarsi. Non volevo piangere, ma non ne avevo ancora parlato; nemmeno con Jace. Lui non c'era quando è successo. Il giorno prima, quando l'ho visto, non mi andava di parlargliene. Volevo che tutto rimanesse tranquillo; che lui mi dicesse della Spagna, del cibo, delle ragazze... di tutto! Non volevo rovinare la giornata e andarlo a trovare col pretesto di piangergli addosso. -Poi, una notte, sentii le sue labbra baciarmi la guancia. Potevo sentirla tremare, rimanendo sul mio viso per qualche attimo; lo ricordo benissimo. Non mi svegliai subito- mi fermai, stringendo i denti. Robin, a quel punto, alzò lo sguardo di scatto, interrompendomi.

-Blue, non devi parlarne per forza- tentò di placare il mio ruscello di parole, probabilmente notando i miei occhi lucidi. In quell'istante, arrivò la cameriera. Non alzai il viso per guardarla, e quando ci domandò se avevamo deciso cosa prendere, Robin rispose per entrambe, affrettandosi ad allontanarla.

Quando questa ci lasciò, il silenzio calò nuovamente, fino a quando non lo squarciai, impaziente.

-Ho bisogno di parlarne- affermai, quasi rabbiosa. -O non realizzerò mai che è successo- mormorai, calmandomi. Presi un fazzoletto dalla borsa e asciugai le poche lacrime scivolate autonomamente.

Robin mi guardò titubante, non sapendo se darmi ascolto o insistere per bloccarmi. Dopo poco, annuì, incitandomi a continuare. Io sospirai ampiamente, tirando su di naso, prima di ricominciare.

-Se solo mi fossi svegliata sul momento, l'avrei potuta fermare- faticai ad ammetterlo, rivolgendomi maggiormente a me, piuttosto che a Robin. Ciò mi colpì nel profondo, come una lama affilata. Era stata solo colpa mia. Non me lo sarei mai perdonata. Forse, se avessi aperto gli occhi; se lei vi avesse letto la disperazione; se l'avessi scongiurata di cambiare idea... forse ora sarebbe tutto diverso. -Ma la cosa peggiore è stata svegliarmi, capire tutto e correre giù per le scale. La trovai sull'uscio, con il viso arrossato e irriconoscibile. Lei non mi guardò nemmeno- la mia voce si affievolì, verso la fine, in un sussurro inaudibile. Negli occhi di Robin vi era una compassione palpabile. Distolsi lo sguardo ed inspirai profondamente. Ce l'avevo quasi fatta. -Si voltò e si chiuse la porta alle spalle, senza ripensamenti- conclusi, giungendo al limite.

Gonfiai le guance e guardai il tetto. Le lacrime si erano fatte pesanti ed io speravo solo di riuscire a trovare la volontà di reprimere il loro flusso. Se mi fossi ostinata a continuare, raccontando ogni dettaglio, non sarei riuscita a contenere la mia sofferenza. Perciò mi arresi, abbandonando lo sguardo nel vuoto, a fissare scene dolenti che non riuscivo a fermare o scacciare. Robin mi riportò alla realtà, afferrandomi la mano quasi con disperazione. Aveva un'espressione triste e le labbra deformate da un'emozione che non riuscivo a definire con precisione.

-Mi dispiace, Blue- sussurrò, trasmettendomi la sua compassione attraverso la stretta calorosa della sua mano contratta attorno alla mia. Il suo tono sembrava quasi affievolito dalla vergogna; come se sapesse che dispiacersi non bastasse a ricucire il taglio. E aveva ragione. Se non riesci a fare qualcosa di impossibile, non è colpa tua, ma di chi te la impone. Ed io non volevo imporle di salvarmi, perciò...

-Basta parlarne, dai- decisi, accennando un sorriso e scuotendo la testa. -Ora sto meglio- mentii per non far sentire Robin in dovere di aggiungere altro. Mi sembrava improbabile che la giornata iniziasse a prendere una piega normale dopo quell'episodio, ma ci speravo comunque. Se preferivo non usare Jace come sfogo per le mie lacrime, non desideravo abusare dell'affetto di Robin. Quando lei aprì bocca per rispondere, la cameriera tornò, bloccandola. E forse, fu meglio così.

Grace posò i due panini identici di fronte a noi e si dileguò velocemente. Robin mi guardò per un attimo, incerta. Io tenevo lo sguardo fisso sul mio pranzo, sperando che non avrebbe avuto il coraggio di ritirare fuori un discorso tanto delicato. E, come previsto, decise di concedermi un po' di tranquillità; almeno fino a quando non fossi stata pronta ad abbandonarmi totalmente alle emozioni.

Perché sapevo che, fin quando, non mi fossi gettata nella disperazione totale, non avessi versato tutte le lacrime, e singhiozzato fino a non percepire più la gola... avrei continuato a vivere col cuore offuscato e un dolore represso, in continua lotta per essere liberato.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La tradiva ***


Robin era andata via, lasciandomi accovacciata nella veranda. Il sole stava tramontando, ed io lo guardavo sparire all'orizzonte. Stavo sorridendo; era così bello... L'acqua del fiume faceva da specchio alle sfumature rosee del cielo, rendendo il panorama ineguagliabile. Chissà se era così tutte le sere; non mi vi ero mai soffermata sul serio.

Ma poi tutto si spense, quando il sole scomparve. Improvvisamente, l'aria attorno a me sembrò inutile, velenosa. Mi ritrovai incapace di inspirare e con un mal di testa martellante. Delle lacrime mi rigarono le guance e una sola cosa finì per occupare la mia mente.

Io non potevo farcela; non potevo accettarlo. E come avrei potuto senza conoscerne nemmeno la ragione? Mi sarei accontentata anche di trovarle una giustificazione, per perdonarla e andare avanti -per quanto non fosse chissà quanto più facile-. Ma senza un "perché", la mia mente non avrebbe mai avuto pace. Quale madre scapperebbe volontariamente dalla propria famiglia? Quale razza di madre lo farebbe? Forse nessuna ragione esistente sarebbe stata in grado di indurmi a perdonarla. Non sapevo nemmeno se sarebbe tornata, ma ne dubitavo fortemente e a malincuore.

Avevo visto mio padre passare giornate intere accanto al telefono fisso, con un'agenda sulla coscia, sperando che il parente successivo sarebbe stato più d'aiuto. Tutto ciò poteva essere inutile. La mia angoscia fu per un attimo zittita dal rombo di un'auto. Non l'avevo nemmeno vista in lontananza, ma ora era ferma di fronte casa mia.

Mi sorpresi e sussultai quando vidi Jace scrutarmi perplesso e sporgersi dal finestrino. -Blue? Che succede?- Chiese allarmato, aprendo la portiera. Scese dalla macchina e venne verso di me, facendomi sentire come un topo in trappola. Non volevo che mi vedesse in quello stato. Non perché me ne vergognassi, ma perché non avrei saputo come giustificarlo. Non volevo dirgli di mia madre; solo non ancora. Mi ero sfogata fin troppo quella giornata e ne stavo già subendo gli effetti collaterali. Se ne avessi continuato a parlare, era impossibile che quella notte avrei recuperato la precedente. E poi, non sarei sopravvissuta allo shock di Jace.  In quel momento avevo solo bisogno di tapparmi gli occhi e fare finta di non averci capito nulla. Dovevo andare avanti, anche se tale volontà mi avrebbe portato ad una serie di momenti di debolezza frammentati senza fine; perché il dolore non si sarebbe mai dissolto, ed io ero troppo debole per permettergli di avvolgermi globalmente.

Mi alzai di scatto, come se avessi preso una scossa. Jace venne verso di me con un enorme cipiglio sulla fronte. Indietreggiai quando fu troppo vicino, come se gli bastasse toccarmi per farmi parlare. La sua confusione si moltiplicò al mio gesto, e notai un accenno di dispiacere nel suo sguardo, nonostante non sapesse ancora la ragione del mio sgomento.

-Blue, tranquilla... Dimmi che ti prende- addolcì i toni, poggiando una mano sulla mia spalla. Avevo voglia di abbracciarlo; di stringerlo forte per trovarvi conforto, ma non ero certa che fosse effettivamente ciò di cui avevo bisogno. Mi limitai ad accarezzare la sua mano. Chiusi gli occhi per un lasso di tempo che parve interminabile, e speravo che, obbiettivamente, non fosse stato troppo lungo.

-Mia madre...- farfugliai titubante, ancora in bilico tra il rivelargli tutto e mentire. Jace inclinò il capo, implorandomi con lo sguardo di andare avanti. Mi concentrai sulle mie scarpe, con la lingua tra i denti, indecisa se dire o meno la piccola bugia che mi avrebbe temporaneamente salvata. Jace si era avvicinato. Aveva un'espressione nervosa e sembrava iniziare a prevedere la conclusione della mia frase.

Non volevo altra compassione; non volevo che un'altra persona mi guardasse come mi aveva guardato Robin quel pomeriggio. Non volevo essere guardata con gli occhi di chi compatisce un cane morente. In quel momento, nonostante fosse folle, avevo semplicemente bisogno di qualcuno che mi dicesse: "la troveremo, insieme" e non "tornerà da te, vedrai" perché io non potevo andare avanti con la mia vita seguendo tale filosofia. Aspettare che tutto si rimetta a posto non è mai la soluzione.

- Credo che mio padre la tradisca, - improvvisai, pentendomene all'istante.

Da parte di Jace, ricevetti solo il silenzio. La sua mano era ancora bloccata sulla mia spalla, ma non trasmetteva più conforto. Sembrava sconvolto. Forse non riusciva a immaginare alcuna dimensione possibile in cui mio padre riuscisse a procurare alla donna della sua vita un dolore tanto grande. Non mi sarei sorpresa se mi avesse riso in faccia, ripetendomi quanto le mie paranoie fossero ridicole e scientificamente impossibili.

Non ho mai voluto dargli colpe, perché non sapevo cosa avesse scatenato tutto. Io non l'ho mai chiesto e lui non ha mai preso l'iniziativa di raccontarmelo. Entrambi conducevamo la solita vita, come se nulla fosse cambiato, e ciò mi spaventava. Entrambi stavamo morendo all'interno per le stesse ragioni. Entrambi speravamo che l'altro fosse meno sconvolto di se stesso, ma non era così; era solo più facile continuare a crederlo.

D'un tratto, la presa di Jace riacquistò vigore e le sue dita si spostarono per alzarmi il mento. Mi guardò con uno sguardo compassionevole e dispiaciuto che cercò di reprimere per non scoraggiarmi. Poi sospirò profondamente.

-Blue, conosci tuo padre... È molto improbabile che tu abbia ragione- tentò di tranquillizzarmi. Ma sembrava nervoso, come se non fosse così convinto dell'impossibilità della questione. -Ma perché lo pensi? Hai visto qualcosa di strano? Lui e tua madre litigano spesso?

Magari litigassero. Almeno l'avrei con me, pensai, sbattendo le palpebre più volte per scacciare le poche lacrime intente a scivolare ancora.

-No, non litigano molto. Ma lui è sempre all'Editorial, e quando vado a trovarlo, passo più tempo io nel suo ufficio che lui stesso- mi bloccai per un secondo, costringendomi a scacciare l'inquietudine di quella verità. -Poi non lo so... lui è diverso. Con la mamma è così distaccato- spiegai, balbettando. Feci una grossa fatica a pronunciare la parola "mamma" e mi dovetti concentrare sul pavimento per non fare riapparire la sua immagine nella mia testa.

-Vuoi che ne parliamo meglio dentro?- Suggerì Jace, probabilmente non sapendo bene come consolarmi. Neanche lui aveva la certezza della verità o la falsità delle mie ipotesi, e mi sentivo orribile come amica per averlo messo tanto in difficoltà. Lo stavo facendo preoccupare per sciocchezze a cui nemmeno credevo davvero. Ma per quella sera, non mi sarei potuta rimangiare niente.

La verità sarebbe saltata fuori prima o poi; era solo questione di tempo. Ma tutto ciò che riuscii a fare in quel momento, fu accennargli un debole sorriso e accoglierlo in casa.

Ci sedemmo sul divano e lui mi attirò a sé, avvolgendomi un braccio attorno alle spalle.

-Sei sempre stata paranoica, piccola- commentò, accarezzandomi la spalla. La mia testa era poggiata sul suo petto, e il suo battito regolare era un vero e proprio calmante per i miei sensi. -È giusto che tu abbia paura, però devi anche ricordare di chi stai parlando. Andiamo, piccola, sai com'è quello strampalato di tuo padre. Gli manca qualche rotella, ma non è cattivo.- mi sussurrò all'orecchio, facendomi sorridere.

-Spero proprio di sbagliarmi- sospirai. Jace mi strinse più forte e ridacchiò.

-Allora puoi stare tranquilla. Non c'è pericolo che ne azzecchi una- scherzò, guadagnandosi uno schiaffo. Mi misi a ridere ugualmente e mi allontanai per guardarlo.

-Strano, ma sei stato incoraggiante- ammisi divertita. Jace mise su un'espressione soddisfatta, passandosi una mano tra i capelli.

-Modestamente, sono il migliore amico che tutti vorrebbero- fece un sorriso sghembo.

-Se non te lo fossi detto da solo, lo avrei detto io. Ma vedo che basti tu a tenere in vita il tuo ego- osservai, tornando nella posizione precedente. Lui ridacchiò.

Rimase con me tutta la sera, tenendomi stretta tra le braccia. In ogni caso, ero felice che fosse lì con me. Parlammo fino a tardi, per quanto mi fosse possibile. La stanchezza mi rapì improvvisamente senza preavvisi. Così le parole di Jace si fecero più lontane, fino a svanire. Solo poche ore dopo, mi risvegliai sul mio letto, tra le lenzuola della solitudine.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Andrà tutto bene ***


Avevo passato la notte tra alti e bassi. I miei sogni sono peggiorati dopo che Jace è andato via. Ricordo vagamente di avere aperto gli occhi stancamente, vedendolo uscire e mio padre entrare. I miei occhi si sigillarono subito dopo lo scatto della serratura. Mio padre mi scosse parecchie volte qualche attimo dopo, incitandomi ad andare a letto, ma la mia mente non si rendeva conto di dovere reagire. Perciò rimasi sul divano tutta la notte. Accecata dal sonno del momento, il divano mi aveva dato l'idea di un accogliente batuffolo di cotone mentre, la mattina seguente, la scomodità dell'immobile divenne evidente e palpabile. Mentre riflettevo sulla notte trascorsa e sui sogni fatti durante questa, rivolsi lo sguardo al professore ancora intento a spiegare una nuova lezione. Non mi ero resa conto di essere stata tanto distratta fino a quando non riuscii più a trovare alcuna connessione logica tra l'argomento al quale ero rimasta e quello attuale. Charlie mi agitò scherzosamente la mano davanti agli occhi per riportarmi alla realtà. Trasalii istintivamente e le rivolsi lo sguardo, stordita.

-Altra nottataccia?- Chiese disinvolta, imbrattando distrattamente il banco con il pennarello. Io annuii, leccandomi le labbra secche.

-Oggi non sarei voluta venire- mi lamentai, strofinandomi gli occhi, lieta di non essermi truccata quella mattina.

-Fosse per te, non verresti mai- commentò sorridendo. Accennai un sorriso, tenendo gli occhi fissi sul quaderno, sapendo benissimo di non poterlo negare. Ero una delle persone meno mattiniere sulla faccia della terra. Il mio perfetto mondo utopico era prevalentemente notturno. Potrebbe sembrare macabro o deprimente, ma credo che per me sarebbe l'ideale.

-Sono solo stanca di essere perennemente stanca, okay?- Ammisi, strofinandomi le palpebre pesanti.

-Be', non che io sia energia allo stato puro tutti i giorni, però ti vedo così da un po' e... non so, sei strana- constatò, scrutandomi.

-Sono sempre la stessa- scossi la testa, forzando un sorriso per scacciare i suoi dubbi.

Prima che potesse aggiungere altro, la campanella suonò e tutti si alzarono; Charlie sembrò dimenticarsi tutto istantaneamente, sfrecciando fuori dalla classe per paura di perdere l'autobus. Avevo dimenticato che fosse l'ultima ora di lezione. Con estrema calma, riposi i miei libri nello zaino e mi alzai solo quando ormai l'ultimo ragazzo aveva varcato la porta. Il signor Rainer mi rivolse un veloce sguardo, accennando un sorriso cordiale. Poi mi guardò di nuovo, corrugando la fronte.

-Va tutto bene, Writon?

Alla domanda mi arrestai, confusa. Poi scossi la testa.

-Solo stanchezza. È tutto a posto, grazie- risposi ricomponendomi.

Sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma si limitò a sorridere e annuire, per poi mormorare un "arrivederci" quando ricominciai a camminare. Ricambiai il saluto, uscendo dalla classe.

Nei corridoi c'erano poche persone, ma fui lieta di non dover prestare attenzione ai piedi che avrei potuto pestare. Una volta sorpassato il cancello del carcere, tra le auto posteggiate, ne notai una azzurrognola vagamente familiare. Non sapevo se avvicinarmi, o fingere di non averla vista. Magari era un'auto comune in città. Feci qualche passo in avanti, giusto per inquadrarla meglio e magari scorgervi il proprietario. Non era di Jace, nemmeno di mio padre. Inoltre, era tutto meno che nuova.

Senza rendermene conto, mi ritrovai in mezzo alla strada, concentrata a capire chi fosse al volante dell'auto. Ora che ci penso, dovevo sembrare davvero un'anziana cieca. Quando l'auto sembrò venirmi incontro, trasalii. Ma non mi ci volle molto per riconoscere Harvie nell'autista. Perché era lì? Si fermò accanto a me, abbassando il finestrino.

-Molto comoda, vedo. Invece di fissare l'orizzonte a mo' di marinaio, potevi avvicinarti e salire.

-E perché mai doveva venirmi in mente che fossi qui per me?- Domandai, strillando.

-Infatti sono venuto per Margaret. Strano tu non mi abbia visto prima; la passo a prendere ogni giorno. Ma dato che ti ho vista sola e indifesa, ho deciso di fare un favore a tuo padre- disse sarcastico, con quel suo stupido sorriso sghembo.

-Gentile da parte tua- commentai, dirigendomi verso il lato del passeggero. Aprii la portiera e mi sedetti accanto a lui. Non l'avevo nemmeno chiusa quando partì, facendomi sussultare.

-Perché tanta fretta?- Chiesi nervosa. Lui fece spallucce, continuando in silenzio.

-Sul serio, perché sei venuto a prendermi?

Lui si voltò a guardarmi per un attimo, poi riportò l'attenzione sulla strada.

-Tuo padre- rispose. -Voleva che ti portassi da lui. A quanto pare, Hilary vuole parlarti o qualcosa del genere.

Feci una smorfia, perplessa. Hilary? Cosa poteva avere di tanto importante da dirmi?

-È tanto urgente?- Domandai alla ricerca di maggiori informazioni. Ma il broncio di Harvie mi fece intendere che ne sapeva anche meno di me.

-Hilary era tranquilla. Tuo padre ha dato di matto e mi ha mandato qui. Non so che dirti- sospirò, scuotendo la testa. Sembrava più confuso di me. Capii che fare altre domande non mi avrebbe portato a niente, perciò mi accantonai, con le mie paranoie, al finestrino. Mi chiedevo perché Hilary non lo avesse solo riferito a mio padre. Perché voleva vedermi di persona? Questa storia mi metteva in allarme. Non potevo nemmeno sperare che fosse una scemenza. La prospettiva della questione non accennava a sciocchezze.

-Blue- Harvie mi chiamò, quasi sussurrando. Trasalii, voltandomi.

-Che c'è?- Chiesi d'un fiato. Lui mi squadrò, rallentando.

-Stai tremando- osservò, imboccando una strada deserta per poi fermarsi al suo bordo. Non capii perché si fosse fermato, ma da una parte ne fui grata. Avevo bisogno che il mondo cessasse di scorrere per un secondo.

Tirò il freno a mano e mi guardò.

-Non so cosa ti aspetti che lei ti dica. Ma sarà certamente meno terribile di ciò che immagini- tentò di tranquillizzarmi, parlando dolcemente. Non avevo davvero notato di stare tremando, fino a quando feci fatica a mantenere la mano fissa sui miei jeans per più di un secondo.

-Ho paura. Anche se non so esattamente cosa aspettarmi. Prevedo solo che non sia nulla di buono- ammisi, sentendomi infuocare. Avevo troppa pressione addosso. Era più insopportabile l'attesa che l'evento stesso, probabilmente; è sempre così. Ed ero sincera quando dicevo che non avevo idea di cosa sarebbe successo. Ero solo certa che mia madre sarebbe stata oggetto principale della conversazione. E non avevo la forza di scoprirne i dettagli. Volevo solo implorare Harvie di riportarmi a casa e disobbedire a mio padre. Volevo fare finta di non saperne niente e continuare come se niente fosse. Ma allo stesso tempo, volevo scoprire ciò che Hilary mi avrebbe detto; solo a causa di una fievole speranza dentro di me, che mi spingeva a credere che mia madre fosse andata lì e chiesto di me, che mi avesse lasciato il suo numero, il suo indirizzo o qualsiasi cosa. Ma non volevo cullarmi troppo in quella speranza. Ho già pianto troppo per la realtà, non mi farò annientare anche dai sogni. Mentre sguazzavo tra i miei pensieri burrascosi, percepii le braccia di Harvie avvolgermi. Spalancai gli occhi, risvegliandomi e realizzando a fatica che fossimo a contatto. Osservai che non eravamo mai stati così vicini, e rabbrividii senza una ragione specifica.

-Andrà tutto bene. Fidati- sussurrò, accarezzandomi la schiena. Mi rilassai istantaneamente, abbandonandomi contro di lui. Respirai a fondo, cercando di scacciare i brutti pensieri e rasserenare la mente per quei cinque minuti di calma che mi erano stati concessi. Era inutile tormentarsi. Che lo avessi fatto o meno, nessuno avrebbe avuto pena per me e per le preoccupazioni patite, decidendo di evitare il peggio. Se qualcosa di brutto sarebbe successo, stavo solo incrementando il dolore complessivo.

Quando Harvie si staccò, soddisfatto di avermi tranquillizzata, mi sembrò fin troppo presto. Avevo bisogno di un altro abbraccio; lungo tanto quanto il turno di Hilary, così che sarebbe stato più difficile andare a trovarla per parlarle. Ma sarei sembrata infantile e sciocca a proporgli una cosa del genere. Inoltre, chiedere un altro abbraccio sarebbe stato più che sfacciato da parte mia. Non era nemmeno scontato che mi desse il primo.

-Sei pronta?- Chiese, rimettendosi la cintura. Io annuii, nonostante non lo fossi davvero. Ma apprezzavo il fatto che avesse provato a calmarmi. Non aveva spazzato via ogni traccia di nuvola nera da sopra la mia testa, ma per la maggior parte ce l'aveva fatta, e gli ero grata per questo.
Rimise in moto e partimmo, 'sta volta senza fretta. Mi appoggiai al finestrino, guardando il paesaggio tranquillo scorrermi accanto.
Iniziai a sentire nuovamente la stanchezza gravarmi sulle palpebre, costringendole a chiudersi pesanti. Quanto desideravo che deviasse, portandomi a casa... così sarei scappata da Hilary, e in più avrei potuto riposare meglio della notte passata. D'un tratto, senza rifletterci troppo, mormorai un "grazie" debole, che non credevo avesse sentito. Poi chiese:

-Per cosa?

Ma io ero troppo stanca per rispondere davvero e feci spallucce per convenzione, calandomi in un sonno superficiale, nel quale entrai con la stessa velocità con la quale, di malavoglia, ne fui poi costretta ad uscire.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Prenditi cura di lei ***


Una mano mi stringeva il braccio, scuotendomi appena. Mi sentivo talmente confusa quando i miei occhi si aprirono... e fui quasi sorpresa di ritrovarmi Harvie accanto. Feci fatica a collegare i miei pensieri sconnessi, nonostante non avessi dormito poi molto. Mi sentivo più frastornata di prima. Sembrava mi fossi appisolata per un attimo esatto, e forse era davvero così.

-Blue, mi dispiace svegliarti... ma credo che tuo padre non sarebbe felice di saperti dormiente nella mia auto- parlò piano, solleticandomi una guancia. Non avevo la forza di tenere gli occhi aperti per più di un secondo. Mi sentivo intrappolata nel mio stesso corpo. Ero troppo stanca per tenermi in piedi. Mi ritrovai a desiderare che mia madre non c'entrasse nulla e che Hilary avesse preferito parlarmi in seguito, quando ce ne sarebbe stata l'occasione. Mi sentivo in collera con tutti: con mia madre, Hilary e persino mio padre, per essersi allarmato e incuriosito tanto della faccenda a tal punto da mandare Harvie a prendermi di corsa. Probabilmente, Hilary non aveva voluto dire nulla a lui nemmeno per riferirmelo. Il pensiero mi fece rabbrividire un attimo, ma l'irritazione era incontenibile e accecante.

-Ti prego, lasciami qua...- piagnucolai, voltandomi verso il finestrino. Mi portai le ginocchia al petto, sentendo Harvie sospirare.

-Sai che vorrei accontentarti- disse, poggiando la mano sul mio braccio.

-Portami a casa- rantolai.

I suoi polpastrelli sfioravano a malapena la mia pelle, segnando invisibili scarabocchi. Sembrava che non fosse nemmeno cosciente di cosa stesse facendo, come d'altronde non me ne rendevo conto io. Ero semplicemente inebriata dalla delicatezza del suo tocco.

Sembrava starci pensando su e speravo solo che accettasse.

-Ti prego...- sussurrai, sentendo il mio corpo cedere più di quanto credevo fosse possibile. Stavo male, nel vero senso della parola. E a seconda di ciò che Hilary mi avrebbe detto, non sarei stata nelle condizioni di metabolizzare nulla. D'un tratto, fermò la mano, sembrando sul punto di dirmi di scendere e farla finita. Senza pensarci, liberai il braccio bloccato sotto di me, e portai la mano sulla sua, accarezzandone il dorso con le dita.

-Credimi se ti dico che non ce la posso fare- dissi infine, decidendo che, se dopo ciò avesse insistito ancora a farmi scendere, non avrei più opposto resistenza, e strisciato come un fantasma nell'edificio. Harvie si era irrigidito, ma ero troppo stanca per rendermi conto di avere esagerato. Nonostante ormai il danno fosse fatto, ritirai la mano, lasciandola cadere inerme sul mio busto. Harvie si allontanò di scatto da me. Rimase un attimo immobile e poi scese dall'auto. Non sapevo cosa stesse facendo o del perché fosse "scappato". Raccolsi le poche forze necessarie per alzare il capo, così da vederlo parlare con mio padre all'entrata. Quest'ultimo rivolse un'occhiata verso l'auto, grattandosi la nuca, spazientito. Sembrava nervoso. Lo vidi gesticolare con fin troppa enfasi, la fronte corrucciata dall'irritazione. Harvie era calmo, e dal suo modo di fare avevo capito cosa gli stesse dicendo. Sorrisi debolmente. Apprezzavo che stesse discutendo con mio padre per me; per soddisfare il mio bisogno di andare via. Nonostante Harvie gli stesse ancora parlando, mio padre gli voltò le spalle, tornando dentro. Egli, ancora impassibile, tornò verso l'auto, rincuorandomi. Io avevo appena chiuso gli occhi quando lui partì.

-Grazie- mormorai. Harvie mi guardò per un secondo, accennando un sorriso.

-Non mi devi ringraziare per qualunque cosa faccia, lo sai?

-Sì, se la fai per me.

Il mio umore migliorò; anche la stanchezza, forse prima incrementata dall'ansia, parve più sopportabile. La curiosità per ciò che Hilary aveva da dirmi era quasi inesistente, o meglio, non era tra i miei principali interessi del momento. Volevo solo arrivare a casa e buttarmi sul letto il più presto possibile.

-Scusa per prima- mi sforzai a dire.

Lui mi lanciò un'occhiata perplessa.

-Cos'hai fatto?- Chiese confuso.

-Per la mano, intendo...- sussurrai imbarazzata.

Sbuffò una risata per quelle che dovevano sembrargli delle inutili e insignificanti scuse.

-Nessuno si è mai scusato per una cosa del genere- osservò, divertito.

-Se fossi la tua ragazza non mi piacerebbe sapere che qualcuno ti tocchi le mani in quel modo.

-In che modo?- Domandò, lasciandomi immaginare chiaramente il cipiglio sicuramente ora presente sulla sua fronte.

La mia bocca rimase aperta senza emettere nulla. Già, in che modo? Mi rimproverai mentalmente per avere peggiorato la situazione. Non avevo la minima idea di come ribattere o di come reagire. Increspai le labbra nel tentativo di tirare fuori qualcosa, ma solo il vuoto aleggiava nella mia mente. L'unica alternativa- la più stupida mai pensata- rimase quella di chiudere gli occhi, fingendo di essermi addormentata. Era stupido anche sperare che non si accorgesse della mia geniale trovata. Tenni gli occhi serrati per qualche secondo, sentendo la mia temperatura corporea aumentare per l'ansia e la vergogna. Ma non ci volle molto prima che la finzione divenisse realtà.

Mi risvegliai solo nel letto della mia stanza, nell'oscurità della notte, chiedendomi cosa fosse accaduto e se ciò che ricordavo fosse reale o solo parte di un sogno. Mi sentivo male.

Harvie's pov

Aspettavo ancora una risposta; mi aspettavo anche che balbettasse per poi brontolare irritata, voltandomi le spalle come una bambina infuriata. Spostai lo sguardo su di lei, considerando l'idea che si fosse addormentata, e non mi sorpresi quando constatai di essere nel giusto. Aveva le labbra socchiuse e curvate in una specie di broncio. Era tenera, e innocua, più docile di quanto lo fosse con gli occhi aperti. Mi chiesi se qualcosa la turbasse, ultimamente. Sembrava particolarmente stanca; forse più mentalmente che fisicamente. Inoltre, Hilary aveva insospettito pure me quando ha informato Drew di avere ricevuto un messaggio per Blue. La cosa più strana era che Drew aveva insistito tanto per saperne qualcosa lui stesso, ma Hilary si è rifiutata fermamente. Non avevo mai visto un'espressione più seria e turbata sul suo viso sempre allegro. Speravo che Blue non arrivasse a comprendere subito la gravità della situazione quando le ho accennato qualcosa, ma forse lei aveva già una vaga idea di cosa Hilary le avrebbe detto. Il pensiero che lei fosse coinvolta in qualcosa di grave mi scombussolò. Non volevo intromettermi, a meno che non fosse stata Blue stessa a parlarmene o a chiedermi supporto. Credo che sapesse che sarei stato disposto ad aiutarla se ne avesse avuto bisogno. Quando arrivai dinanzi casa sua, fui sorpreso di vedere Jace seduto sugli scalini, probabilmente ad aspettarla. Sapevo che era un caro amico di Blue. La accompagnava spesso all'edificio. A volte, rimaneva anche lì con lei. Sembravano molto affiatati. Quando la scorse giacente accanto a me, si alzò di scatto. Io scesi dall'auto e lo aspettai mentre procedeva a grandi falcate verso di me.

-Che è successo? Si è sentita male?- Chiese preoccupato, rivolgendole qualche occhiata.

-Nulla di grave. Suo padre mi ha chiesto di portarla alla Staithes editorial. Hilary aveva qualcosa da dirle. Ma la ragazza era sfinita e ha deciso di disobbedire a papà e di andare a letto. Ma forse la mia auto è più comoda- sintetizzai, facendo spallucce.

Jace sembrava con la testa altrove. Sembrava preoccupato per lei, forse per motivi a me ignari.

-La porto dentro.

Jace si diresse verso la portiera opposta, la aprì e avvolse Blue tra le sue braccia, tornando poi da me.

-Sei stato gentile a portarla a casa- ringraziò.

-Se non l'avessi fatto, con la stanchezza che si portava addosso, non ci sarebbe mai arrivata- ironizzai, accendendomi una sigaretta.

Mi rimisi a sedere in auto, pronto a partire. Jace procedette con Blue in braccio verso la porta di ingresso, frugando nel suo zaino, in cerca delle chiavi di casa. Blue aprì gli occhi per un istante, puntandoli su di me. Le sorrisi come per confortarla, ma i suoi occhi si richiusero prima che potesse notarlo.

-Prenditi cura di lei- mi raccomandai, alzando la voce, mentre armeggiava con la serratura. Si voltò verso di me con la fronte corrucciata.

-Sembra che ne abbia bisogno- conclusi, sperando che capisse. Anche se forse, l'unico a saperne meno di tutti ero semplicemente io. Partii, lasciandomi i due alle spalle e girando per tornare alla mia postazione. La mia inquietudine cresceva progressivamente. Riuscivo solo a sperare che le ipotesi che stavo considerando fossero il più lontano possibile dalla realtà e che ciò che stava accadendo fosse mille volte meno grave dell'immaginato. In fin dei conti, volevo bene a quella ragazza. L'avrei voluta aiutare, ma forse il mio aiuto non le serviva. Non le mancava di certo qualcuno che si preoccupasse per lei. La mia presenza non avrebbe avuto senso; sarei potuto essere solo di troppo. Il pensiero incessante di saperne di più però mi assillava. Ero tanto immerso nei miei pensieri che non percepii subito il telefono vibrare nella tasca. Lo estrassi solo dopo qualche secondo, sperando che non fosse Drew. Vedere il nome di Bree illuminare lo schermo non mi provocò una sensazione molto differente da quella presagita. Lo lasciai vibrare con indifferenza, tornando ai miei pensieri.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Dov'è tua madre? ***


Era sabato, finalmente. Avevo tirato avanti a stento per tutta la settimana, e ora ero più che lieta di passare l'intero pomeriggio sul letto, magari poi avrei anche letto qualcosa. Avevo vari libri iniziati e mai finiti che mi imploravano per poche attenzioni. Jace mi aveva scritto la notte precedente, ricordandomi che sarebbe passato presto da casa mia per parlarmi. Non ero molto ansiosa per il suo avviso. I messaggi di Jace non lasciavano mai trapelare alcuna emozione, perciò non mi preoccupai quasi affatto. Non parlavo con mio padre da non so quanto. Credevo che fosse arrabbiato con me per avere costretto Harvie a riportarmi a casa, non curandomi dell'importanza della questione, ma mi sembrava una motivazione improbabile... più o meno. Inoltre, non mi ero ancora decisa ad andare da Hilary. Forse anche perché, qualsiasi cosa mi avrebbe detto, buona o cattiva, non sarebbe stata vera finché non l'avessi saputo. Perciò, ingenuamente, credevo che la mia vita potesse continuare tranquillamente se fingevo che nulla fosse successo.

Una volta entrata in casa, mi chiusi rumorosamente la porta alle spalle. Lasciai cadere con noncuranza lo zaino sul pavimento, catapultandomi sul divano. È solo settembre, mi dicevo. Non puoi essere così distrutta. Avevo bisogno di dormire, anche solo per mezz'ora.

Mentre mi abbandonavo sul divano, sentivo i nervi prima pulsanti trovare pace, come tutto il resto del mio corpo. Un groppo in gola accennò a formarsi all'improvviso, suggerendomi di dover piangere. Era stata un settimana così faticosa, e spenta. Non volevo che continuasse. Ma che potevo fare? Non mi sentivo più viva. Era come se vagassi in giro come un fantasma; senza uno scopo e senza emozioni. Era come se la mia vita fosse stata messa in pausa, e solo chi l'aveva fermata la poteva rimettere in moto.

I miei occhi si spalancarono e maledii chiunque avesse deciso di disturbarmi quando sentii bussare alla porta. Mi alzai dal divano, stordita. Grattandomi la nuca, procedetti seccata verso la porta. Credetti che potesse essere mio padre, ma lui aveva le chiavi ed era improbabile che bussasse. Quando aprii la porta vidi Jace. Mi costrinsi a sorridere per mascherare la stanchezza e il malumore. Tuttavia, la sua espressione più rigida del solito mi scosse.

-Ehi! Hai fatto presto- osservai, scostandomi per farlo entrare.

Non si sforzò nemmeno di accennare un sorriso, e le ragioni per cui sembrasse così freddo mi sfuggirono. Entrò, sorpassandomi senza fiatare.

-Che succede?- Domandai, inquieta.

Lui si bloccò sui suoi passi, voltandosi verso di me, sbalordito.

-E lo chiedi a me?- Mi guardò come se avessi raccontato una barzelletta durante un funerale. -Tu chiedi a me cosa succede?- Avanzò lentamente verso di me, intimidendomi. Indietreggiai d'istinto mentre la mia mente collegava filoni invisibili, nel tentativo di capire cosa avessi fatto di male. Solo quando le mie spalle toccarono la porta ormai chiusa, una lampadina si accese nella mia testa, facendomi sprofondare.

-Dov'è tua madre?- Domandò infine, scrutandomi rabbioso con le braccia incrociate al petto.

Quella domanda sembrò fare eco nella mia mente, lacerandomi dentro. Mi sentii piccola e indifesa davanti a lui. Era così arrabbiato che forse non capiva quanto quella domanda, a cui mi era impossibile fornire una risposta, mi avesse avvelenato l'anima. Mi rendevo conto che lui meritasse di sapere, ma non poteva darmi la colpa per il dolore che provavo quando ricordavo l'episodio. Ero riuscita parlarne solo da poco, con una persona che nella questione non c'entrava niente; che non condivideva il mio dolore; che ero sicura non avrebbe pianto con me facendomi percepire una tristezza maggiore. E non ero certa che Jace sarebbe stato una roccia a cui mi sarei potuta aggrappare in quelle circostanze. Anche se non dirgli niente per tale motivo, era da veri egoisti.

-Non lo so- sussurrai, abbassando lo sguardo. Volevo dire così tante cose; volevo dirgli che mi dispiaceva, che stavo male; volevo parlargli di tutte le ragioni- anche se per niente valide- per cui l'avevo tenuto all'oscuro di tutto. Ma non mi uscì altro.

Il silenzio calò tra di noi e ciò mi fece soffrire ancora di più. Avevo immaginato molte volte quel momento, ma non mi aspettavo di ritrovarmi davanti un pezzo di ghiaccio. Tutto ciò di cui avevo bisogno era che lui mi abbracciasse e che mi confortasse, ma era così amareggiato lui stesso da non rendersi conto che io stavo mille volte peggio.

Solo quando una lacrima mi scivolò sulla guancia il suo sguardo su di me mutò. Portò le mani sulle mie braccia incrociate, accarezzandomi fino ad avvolgermi le spalle. Mi attirò a sé con forza, stringendomi, e così feci anch'io. Mi liberai in un pianto d'angoscia, non avendo idea di quando avrei smesso. Ormai era un pianto continuo, spezzato da piccole pause. Ma sono solo pause.

-È tutto una merda- gridai. -Perché? Perché Jace? Perché ha lasciato me? Una vita passata a reggermi, ad amarmi, a ripetermi quanto fossi importante per lei per poi andarsene così?!- Lo colpii ripetutamente sul petto. Lui mi guardava, senza emettere un suono, né bloccarmi un braccio. -Cosa le ho fatto?- Strinsi i denti, cessando i colpi. Poggiai la testa sul suo petto, imponendomi di calmarmi. Tirai su di naso, ripetutamente. Non fu facile tornare a respirare regolarmente.

-Non è stata colpa tua- disse Jace con decisione. Era evidente che gli venisse difficile trovare qualcosa da dire; qualcosa di giusto da dire. Era come tastare una lastra di ghiaccio in mezzo all'oceano, non sapendo se il punto che toccherai sarà quello che la farà spezzare. -Andrà tutto bene. Lei tornerà, per te.

***

-Come l'hai saputo?

Era tardo pomeriggio. La situazione si era calmata da un bel po' e noi ci eravamo accoccolati sul divano a contemplare la televisione accesa senza però guardare nulla. Jace mi osservò un attimo, pensandoci prima di rispondere.

-Robin- rispose.

Ghignai con amarezza.

-Sapevo che non ce l'avrebbe fatta a tenerlo per sé.

-Ha fatto bene a dirmelo. Chissà altrimenti quanto altro tempo avresti lasciato passare- mi rimproverò con sordo rancore.

-Non volevo darti una notizia tanto brutta- tentai di giustificarmi. -Forse speravo solo che lei tornasse prima che io fossi costretta a dirtelo- giocai con i piccoli fili sporgenti dalla coperta che avevamo addosso. -Volevo essere la sola a combattere contro questo.

-Non devi affrontarlo da sola. È la scelta peggiore che potessi fare per un momento come questo- avvolse un braccio attorno alle mie spalle, portandomi più vicina. - Quella donna mi ha cresciuto come se fossi suo figlio; meritavo di saperlo e di patire tutto questo con te.

-Scusa- mormorai, poggiando la testa sul suo petto.

Mi accarezzò una spalla per poi baciarmi la fronte.

-Non scusarti. Voglio solo che ti lasci aiutare- disse, osservandomi. Prima che finisse di parlare, alzai lo sguardo su di lui. Gli ero grata per essere rimasto, nonostante fosse ferito dal mio comportamento. Non era da tutti. Ci continuammo a guardare. E forse ci avvicinammo senza volerlo. E forse ci saremmo baciati se il suo telefono non avesse preso a squillare, facendoci allontanare di scatto; entrambi sbigottiti per ciò che altrimenti sarebbe successo. Lui nemmeno rispose. Rifiutò la chiamata, alzandosi lesto dall'immobile.

-Io devo andare- balbettò nervoso e confuso, procedendo a grandi falcate verso la porta. Faceva fatica a guardarmi in viso. Io, al contrario, ero imbambolata.

Lo guardavo impietrita e con sguardo quasi assente, mentre nella mia testa c'era un chiasso tremendo.

-Sì- riuscii a sibilare a stento, attendendo che sparisse dietro la porta prima di abbandonarmi all'indietro, affondando tra i cuscini scomodi, a chiedermi cosa fosse successo e cosa sarebbe successo. E non sapevo se mi andasse bene così, o se una parte di me, in fondo, fosse attratta da un possibile mondo parallelo dove nessun telefono aveva preso a squillare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Londra ***


-Non lo so, Rob... L'idea non mi attira molto.

Ero distesa sul letto. Ciò che era successo con Jace mi aveva lasciato sbigottita. Ero rimasta a pensarci su per interi minuti, cercando di capire cosa provassi in proposito. Nonostante l'impegno, sembrava che la mia mente fosse bloccata, inceppata. Così avevo deciso di ignorare i miei dilemmi e di distrarmi leggendo un libro. Proprio qualche attimo prima che Robin mi chiamasse, avevo deciso di abbandonare la mia lettura e di schiacciare un pisolino. Sembrava che quel giorno nessuno volesse lasciarmi riposare.

-Andiamo! Lo sai che alla fine ti diverti sempre- insistette, fremendo dalla voglia di andare. Alzai gli occhi al cielo, riflettendoci su. -Fallo per me- piagnucolò. Immaginai che avesse messo il broncio, anche se non potevo verificarlo. Robin era una vera festaiola. Anch'io lo ero, a volte. A seconda della disposizione delle stelle. Ma quello non era un buon momento per unirmi alla sua follia, credo... o sì?

-Okay- sbuffai, sorbendomi un ululo assordante da parte sua.

-Inizia a prepararti. Alle dieci sono lì- strillò euforica, riattaccando senza volere sentire altro.

Che fuori di testa pensai divertita. Con un sospiro, poggiai il libro sul comodino accanto a me e mi recai in bagno. Percorsi il corto corridoio del piano superiore, sussultando quando la serratura scattò. Abbassai lo sguardo verso la porta, scorgendo mio padre chiudersela alle spalle.

-Ciao papà. Com'è andata?- Domandai dondolandomi sui piedi. Lui trasalì per un attimo, alzando poi lo sguardo verso la ringhiera.

-Oh, ciao tesoro... mmh, come al solito- sospirò stancamente, recandosi in cucina.

-Hai mangiato?- Domandò strillando, per farsi udire dallo stanzino.

-Sì, qualcosa... Non preoccuparti.

Una volta in bagno, mi feci una lunga doccia. L'acqua era tiepida, come la volevo io. Era solo settembre e non ero ancora pronta a dire completamente addio alle mie docce fredde; perciò optavo per una via di mezzo. Ero tranquilla mentre l'acqua mi scorreva addosso. Ma sembra che un po' di pace non mi fosse garantita nemmeno da me stessa. Come se la mia calma fosse eccessiva, iniziai a guardarmi intorno. Il mio sguardo cadde sull'accappatoio di mia madre; una delle poche cose rimaste. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo e a respirare profondamente mentre l'acqua ora sembrava graffiarmi. Potevo farcela. Potevo ancora vivere. Mi sarei divertita.

Quando il vapore nell'aria divenne insopportabile, mi decisi ad uscire. Mi avvolsi in un asciugamano e aprii la finestra. Mi trattenni senza volerlo a contemplare la strada deserta e gli alberi di pino affiancanti una delle sue estremità. A mia madre non è mai piaciuta la quiete di quel quartiere e tanto meno quella della cittadina.  Era nata e cresciuta a Londra;  caotica, frenetica e ammaliante, come la definiva sempre. Mio padre invece ha passato la sua intera vita qui. Se non fosse stato per lui, mia madre non avrebbe mai lasciato Londra, e mai nient'altro l'avrebbe condotta in questo mortorio sperduto.

Londra..

Quella città mi rimbombò nella mente per quelli che sembravano minuti mentre anche la strada sembrava iniziare a tremare come le mie mani. Poteva essere un punto da dove iniziare.

Presa dalla frenesia, uscii dal bagno di corsa, rischiando di scivolare più di una volta. Ma quando arrivai nel mezzo della grande scala, mi fermai, sentendo l'adrenalina scorrere via dalle mie vene. E se mi stessi sbagliando? Per quanto mio padre sembrasse addolorato per lei, spingerlo fino a Londra per delle stupide supposizioni sarebbe stato da idioti. Ero certa che se avesse anche solo coltivato la speranza di trovarla lì, non avrebbe esitato ad andarla a cercare di persona. Ed io non avevo niente per provarlo. Non ne avevo la certezza nemmeno io. Non posso fargli questo...

Mi aggrappai alla ringhiera mentre lasciavo che il mio corpo si accasciasse sulle scale.

Il mio cuore si restrinse. Lei non vuole essere trovata, riflettei. Niente le impedisce di tornare, eccetto se stessa.

***

Il suono di un clacson mi fece agitare. Ero pronta, più o meno. Mi mancavano giusto gli ultimi dettagli e sarei scesa. Perciò mi misi a correre; dal bagno per il deodorante alla mia stanza per il profumo, poi di nuovo in bagno per dare una ricontrollata al trucco, e infine nella mia stanza per scegliere la giacca. Robin prese a suonare il clacson con più insistenza, non curandosi del vicinato o di mio padre.

-Puoi dire alla tua amichetta che, se continua così, qualcuno chiamerà la polizia?- Mi avvertì mio padre dal piano inferiore, irritato.

Mi affacciai dalla finestra della mia stanza, notando anche che la radio della sua auto era regolata ad un volume piuttosto alto.

-Puoi aspettare un attimo senza disturbare nessuno?- Gridai per farmi sentire da lei.

Sembrava che non mi ascoltasse. Credevo addirittura che fosse già ubriaca per come ondeggiava le spalle e la testa a ritmo del rumore assordante.

-Tu pensa a fare in fretta!- Gridò di rimando, sovrastando la musica con la sua voce squillante.

Sbuffai, sapendo che non mi avrebbe dato retta. Chiusi la finestra e mi diressi verso il piano inferiore. Quando fui dinanzi la porta, sentii Robin sottolineare nuovamente la sua presenza. Scossi la testa, avendo il presentimento che uno dei miei vicini se la sarebbe presa con me.

-Quando torni?- Chiese mio padre prima che aprissi la porta. Era appena uscito dalla cucina. Aveva un tramezzino tra le mani. Osservai che fosse giusto che iniziassi a preparare io la cena, che non comprendesse stupidaggini come panini o cibo in scatola. Quel pensiero possedeva un'innegabile nota malinconica, ma mi costrinsi a ignorarla.

-Non lo so... ma non troppo tardi- risposi, uscendo solo dopo averlo visto annuire incerto.

Mi chiusi la porta alle spalle, vedendo Robin fingere di dormire contro il finestrino ora chiuso. Sorrisi vedendo il suo naso deformato dalla pressione contro il vetro. Accelerai il passo verso l'auto, sperando che non aprisse gli occhi. Avvicinatami abbastanza, le aprii lo sportello. I suoi occhi si aprirono di scatto mentre rischiava di sbattere il muso sul marciapiede. Ma sfortunatamente, si aggrappò al manubrio prima che fosse troppo tardi.

-Bastarda!- Gridò rabbiosa, ma scoppiando a ridere. -Davvero bastarda- ripeté mentre entravo in auto. -Però, bella mossa. Devo ammetterlo- commentò, facendomi ridere.

-Me l'hai servita su un piatto d'argento- feci spallucce.

Era impressionante come quel sorriso sembrasse permanente sul suo viso. Forse però, quella sera, qualcosa la animava un po' di più.

-Sembri troppo su di giri per 'sta sera. Io, invece, sento già che finirò in un angolino a guardarti ballare, mentre bevo l'ennesima birra, sentendomi solo peggio dopo ogni sorso- presagii, arrotolandomi una ciocca di capelli tra le dita.

Robin mi lanciò un'occhiata più che contrariata.

-No, mia cara- mise in moto. -Questa sarà la serata migliore della tua vita.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Disastro ***


Il locale pullulava di gente; più del solito. Il Beast on era il più gettonato tra i ragazzi della cittadina, se non l'unico che funzionasse a dovere. Il suo nome, ben visibile mediante i faretti led di cui era composto, sovrastava l'ingresso. Il locale aveva un'aria vintage, e... accattivante, potremmo dire. Per il sabato sera, non c'era mai bisogno di programmare nulla. L'itinerario era sempre uguale: mangiare a casa o in un fast food con gli amici; ridere e scherzare un po' per le strade per poi cacciarsi lì. Perciò non saprei dire se andassimo tutti lì per spontanea volontà o per mancanza di alternative migliori. Ma comunque sia, eccoci qua.

Il locale era aperto. Non c'erano buttafuori o altro, come sempre. Anche se quel sabato, per la quantità di gente nei dintorni, sarebbero stati utili. Robin fece fatica a trovare posteggio. Girammo per un po', fin quando la pilota al mio fianco non rallentò, vedendo Jace farsi strada tra i ragazzi ancora fuori.

-Se vuoi andare da lui mentre cerco un parcheggio, puoi aspettarmi qui- propose, non aspettandosi la mia titubanza.

-Non mi costa niente perdere altri cinque minuti- mi rifiutai con discrezione.

Lei mi guardò di malocchio, chiedendosi cosa potesse essere successo tra noi. Ma stranamente, non mi chiese nulla e ne intuì anche un'ipotetica ragione. Probabilmente, aveva già un'idea- seppure sbagliata- di ciò che fosse accaduto. La sentii deglutire mentre si mordeva il labbro inferiore in agitazione. Ovviamente, si aspettava che avessimo discusso per colpa di quello che lei gli aveva rivelato. Ma non avevo voglia di litigare, perciò non mi scagliai contro di lei, né proferii parola sull'argomento.

Dopo pochi minuti, trovammo un posto libero e scendemmo dall'auto.

-Be', non è troppo lontano dal locale- osservò Robin.

Iniziammo a camminare e notai che, nonostante Robin portasse i tacchi e io delle sneakers, eravamo più o meno della stessa altezza. La cosa non mi dispiaceva. Almeno così non mi sentivo tanto ingombrante come al solito. Inoltre, ero convinta che le sneakers stessero con qualsiasi stile di abito o completo. Perciò, non era solo per la mia altezza già soddisfacente che non li indossavo. Magari mi sbagliavo, ma mi piacevo nel complesso. Oltre alle inseparabili sneakers totalmente bianche, indossavo una tutina senape con le maniche a tre quarti. L'aria era fresca, e leggermente pungente. Ma nel locale era difficile che quella temperatura persistesse.

-Stai bene- disse Robin, squadrandomi.

-Grazie.- sorrisi, passandomi istintivamente le mani sul tessuto. -Nemmeno tu scherzi.- mi complimentai.

Con un sorriso ammiccante, fece una piroetta, facendo svolazzare la gonna del suo abito blu elettrico.

-Ci ho messo ore a scegliere cosa indossare, perciò sono felice che lo apprezzi- sorrise ancora, riferendosi al vestito.

Eravamo di fronte al locale. All'esterno, c'erano ancora tante persone. Mi chiedevo se all'interno si potesse ancora respirare. Entrammo senza problemi. La musica sembrava martellarmi già le orecchie per il volume esagerato, mentre tre baristi dietro al bancone in fondo impazzivano per tutti i drink che gli venivano ininterrottamente richiesti.

-Che vuoi fare ora?- Le domandai.

Lei ci pensò un attimo, puntando al bancone.

-Io direi di ubriacarci- annuì infine, compiaciuta. -Poi andiamo a ballare lì, in mezzo alla massa.

Senza lasciarmi esprimere alcuna opinione, mi prese la mano, dirigendosi lesta verso il bancone affollato. Ci volle un po' prima che Robin riuscisse a ordinare il suo drink e ancora di più perché ne ordinassi uno per me. Robin mi aveva lasciato passare e ora stava dietro di me. Io mi guardavo in giro, ogni tanto, quando mi perdevo dal fissare la barista in attesa che mi notasse. D'un tratto, una mano si poggiò sulla mia testa, grattandomi giocosamente la cute. Ritirai istintivamente il collo e strizzai gli occhi per la strana sensazione, bloccando con la mano quella ancora sospesa sulla mia testa. Mi voltai con un cipiglio, non potendo fare a meno di sorridere quando scoprii l'espressione falsamente innocente di Harvie.

-Ma che cavolo fai?- Domandai, divertita.

-Volevo attirare la tua attenzione in modo simpatico- spiegò. -Così avrei potuto renderti tanto gentile da farmi passare- concluse, tentando di avanzare.

-No, bello. Te lo scordi- lo bloccai, non riuscendo a spazzare completamente via il sorriso dal mio viso.

-Andiamo, Blue. Ordinerò anche il tuo drink e te lo pagherò.

-Non voglio che mi paghi niente- affermai, incrociando le braccia al petto. Poi esitai un attimo, ripensandoci.- Ma ti permetto di prenderlo per me. Sembro invisibile qua sotto.

-Un paio di tacchi sarebbero utili ogni tanto.- commentò, alludendo alle mie scarpe sempliciotte.

-La mia terapista crede che non sia prudente girare con delle asticelle ai piedi per evitare che le penetri nel collo di chi fa certe battute.- sogghignai con sdegno, scostandomi per cedergli il mio posto.

L'espressione di Harvie mi scrutava curiosa, non riuscendo tuttavia a mascherare il divertimento che la mia battuta aveva suscitato. Mi sorpassò soddisfatto, voltandosi poi verso di me.

-Cosa prendi?

-Un margarita.

-Ma che sorpresa.- esclamò sarcastico, voltandosi. Poggiò i gomiti sul bancone, non mettendoci molto ad attirare la barista di quella porzione di spazio; la stessa che avevo puntato per ore. Questa, se avevo visto bene, aveva persino lasciato incompleto il cocktail da poco iniziato per dedicarsi totalmente a Harvie e alle sue richieste. La guardai con la fronte corrucciata per tutto il tempo. Credevo che mi desse fastidio lei in sé per sé; per il suo fare da gatta morta, e per l'ingenuità con cui credeva che bastasse pendere dalle sue labbra per accaparrarselo. Harvie sembrava concentrato solo sul miscuglio che lei stava creando. Sapevo che lui era molto bravo a maneggiare l'alcol, perciò ero sicura che stesse correggendo mentalmente gli errori che la barista- con la testa fra le nuvole più elevate- stava commettendo.

Mi voltai verso Robin, la quale aveva quasi svuotato il bicchiere. -Ne voglio altri due.- mimò, sembrando già elettrizzata. Ma era normale, dato che l'alcol serviva solo ad ampliare i suoi attributi.

-La fila la fai tu.- risposi, sottraendomi da quella responsabilità.

Lei fece spallucce, terminando la sua vodka. La vidi alzare il bicchiere vuoto, portandoselo davanti agli occhi. Lo esaminava come un gatto che punta ad un gomitolo di lana. I suoi occhi si sgranarono quando la assalì un conato di vomito per lo sgradevole liquido che aveva ingoiato troppo facilmente. Mi avvicinai a lei, preoccupata.

-Tutto a posto.- affermò, alzando una mano, come se fosse un giuramento. -Sono una professionista.- mi informò. -È troppo presto per vomitare.- sorrise come un'ebete, finendo inconsciamente per muovere le spalle a ritmo di musica. Si allontanò leggermente da me, lasciandosi andare sempre di più. Scossi la testa guardandola, sapendo che presto mi avrebbe abbandonata.

Quando mi voltai, Harvie mi porse il bicchiere di plastica rigida- decisamente mal decorato-. Scombussolata, alzai lo sguardo.

-Uhm... aspetta. I soldi. Quanto è costato?- balbettai, prendendo dieci sterline dalla tasca della tutina.

Per tutta risposta, increspò le labbra e mi sfilò i soldi dalle dita, rimettendoli lui stesso nella mia tasca.

-Ti ricordo di doverti un libro- sussurrò al mio orecchio. -E ora siamo quasi pari.

Un sorriso apparve involontariamente sul mio viso per il fatto che non se ne fosse dimenticato, nonostante io non pretendessi che mi ripagasse letteralmente il libro che aveva macchiato. Fu un gesto carino; lo apprezzai molto.

Mi scompigliò i capelli come se fossi un cucciolo, per salutarmi, prima di prendere i due drink pronti per lui sul bancone e allontanarsi. Intuii che l'altro doveva essere per Breanne. Non avevo mai visto quella ragazza; almeno non da vicino, e tanto meno ci avevo parlato. Chissà che tipo era... Chissà come stavano insieme...

Lasciai perdere quei pensieri, e iniziai a sorseggiare il miscuglio nel mio bicchiere, i cui bordi erano decorati dal sale. Cercai Robin con lo sguardo, e trovarla non fu molto difficile. Era la più esaltata del locale. Quando incontrò il mio sguardo, venne verso di me, salterellando.

-Okay, buttatelo in bocca e andiamo a ballare- comandò.

Abbassò lo sguardo sul mio bicchiere, leccandosi le labbra. -Ma prima posso assaggiare?- Chiese, sfilandomelo dalle mani.

-Non capirò mai che senso hanno le tue domande- borbottai quando ne bevve un sorso piuttosto lungo.

Quando buttò giù metà del mio drink, fece una smorfia disgustata.

-Mi piace- affermò, scoppiando a ridere. -Dai, Blue. Andiamo a ballare!- Piagnucolò, tirandomi per la mano.

-Appena finisco andiamo- promisi, come se avessi a che fare con una bambina. Ma lei non mi lasciò e continuò a tirare. Era forte quella stronza. Eravamo sicuri che avesse bevuto solo un bicchiere?

-Rob, lasciami! Sta cadendo tutto!- La avvertii, e in effetti qualcosa era caduto davvero. Quel contenitore non conteneva chissà che. -La smetti di fare la scema? Lasciami, cazzo!- Mi divincolai, avendone abbastanza. Ero così irritata dal suo comportamento che non ci vidi più, perdendo la percezione del bicchiere pieno che tenevo ancora in mano. Rendendomi conto troppo tardi del liquido che avevo accidentalmente versato a chi, sfortunatamente, si trovava dietro di me. Solo quando il danno fu fatto, Robin sembrò tornare a ragionare. Guardò me e poi oltre la mia spalla con occhi sgranati. E quando, inevitabilmente mi voltai, sperando che fosse finito tutto sul pavimento, mi sentii morire internamente. Harvie mi guardava sbigottito, mentre la ragazza fradicia che aveva affianco minacciava di sputarmi in faccia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Piacere di conoscerti, Bree ***


Avevo voglia di sprofondare in un pavimento che non sembrava volermi salvare. La faccia di Breanne era ben leggibile, e alquanto mortificante. Speravo che non avrebbe detto nulla, magari andandosene via con tutte le offese pronte per me rinchiuse dietro le labbra... ma quella speranza morì prima del previsto. Vidi una parte dei suoi capelli ricci, ora carenti di volume, attaccati al vestito, e alla spalla scoperta, dal liquido sgradevole, facendo fatica a realizzare che tra tutti i presenti avessi colpito proprio lei.

-Ma allora sei un'emerita scema!- constatò furiosa, fulminandomi con lo sguardo dopo essersi esaminata. Potevo quasi giurare di avere visto del fumo uscirle dal naso. Rimasi paralizzata per un momento, credendo che qualsiasi cosa avessi detto avrebbe solo peggiorato la situazione. Robin se ne stava alle mie spalle, come una codarda. Era stata colpa sua ed io mi stavo sorbendo tutta l'umiliazione.

-Ti rendi conto di cosa mi hai fatto? Hai la minima idea di quanto costi il mio vestito, o di quanto tempo abbia sprecato per farmi i capelli? Avrei potuto tollerare uno schizzo d'acqua, ma questo... fa una puzza tremenda- si lamentò, storcendo il naso. -Ti prenderei a pugni in faccia- sbottò, procedendo minacciosa verso di me. Harvie l'aggrappò lesto per i fianchi, faticando a riportarla al suo posto. Quella reazione però risveglio qualcosa in me; qualcosa che mi liberò dal dispiacere.

-Ehi, non fare la schizzata e ascoltami- intervenni, puntandole un dito contro.- Non era mia intenzione, nel caso tu non ci sia arrivata. Sono inciampata e ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non c'è bisogno di picchiarmi per un vestito del cazzo.

-Che non è nemmeno tanto bello- aggiunse Robin, peggiorando la situazione. Voltai il capo verso di lei con sguardo contrariato, cogliendola a sogghignare soddisfatta. Poi si voltò verso di me, perdendo il sorriso. -Che c'è? Tu l'hai chiamata "schizzata"- si giustificò. In effetti, non era stata un'idea grandiosa.

Harvie non osava guardarmi. Cercava di restare fuori dalla situazione il più possibile, e ciò gli fu concesso fino a quando la dolce e misericordiosa Bree non rigettò la sua rabbia anche su di lui.

-E tu?! Non dici niente?

In quel momento, Harvie guardava altrove. Sembrava che si aspettasse una tale reazione da parte della ragazza al suo fianco, dato che non parve sorpreso. La cosa non sembrava nemmeno toccarlo chissà quanto.

-Penso solo che sia stato un errore- rispose, schietto. -È inutile fare sceneggiate. Non l'ha fatto apposta- mi difese, guardandola senza espressione.

-Che cavaliere! Non gliene fotte niente di chi manca di rispetto alla sua ragazza- sorrise amaramente, rivolgendosi a chiunque tranne che a lui, sperando di scatenare in lui qualcosa; forse qualsiasi cosa. Harvie la guardò con espressione più che sdegnata.

-Puoi evitare di dare spettacolo davanti a tutti?- La invitò, non perdendo le staffe.

-Perché, Harvie? Non vuoi che qualcuno sappia quanto tu sia spregevole?

-Veramente, volevo evitare che ti rendessi ridicola in pubblico. Ma ormai, fai pure.

Iniziai a provare un certo livello di disprezzo verso Breanne; per il modo in cui stava trattando Harvie di fronte a noi. Cosa si aspettava che facesse? Lui, a mio parere, si stava comportando nel migliore dei modi possibili; era lei quella che credeva di non essere rispettata mentre gettava merda su tutti i presenti senza valide ragioni.

-Breanne... scusa per quello che ho fatto. Non volevo, sul serio, che finisse così. Ma comunque sia, la questione riguardava noi, non...

-Non provare a schierarti dalla parte del mio ragazzo. Non difenderlo e non metterti in mezzo!- Strillò, interrompendomi bruscamente. Avevo la vaga sensazione che la mia interlocutrice provasse un certo rancore nei miei confronti; un rancore che non proveniva dal cocktail che avevo versato su di lei, ma forse preesistente. Roteò gli occhi per l'ennesima volta e fece cenno a Harvie di andare via. Ma, a quanto pare, per Robin, la discussione non era stata soddisfacente.

-Andiamo bella, non è successo niente! Inoltre, Harvie è un uomo; non può mettersi contro delle ragazzine. Cosa pretendevi? Che ci picchiasse lui? Se non ti sai difendere da sola, saranno cazzi tuoi- la provocò, da vera stronza qual è.

-Ma vuoi stare zitta?!- La rimproverai, non potendo fare a meno di farmi scappare un sorriso per le sue provocazioni random.

-Io ne ho abbastanza- concluse la ragazza. Senza guardare né Harvie né nessun altro, se ne andò.

Harvie esitò un attimo. La guardò andare via, forse non avendo idea di cosa fosse meglio fare. Mi rivolse un veloce sguardo, durante il quale ebbi il tempo di mimargli un pietoso "mi dispiace". Lui non disse nulla, abbassò lo sguardo e poi se ne andò, sui passi della ragazza in fuga.

Non so perché, ma speravo che decidesse diversamente.

 

Harvie's pov

 

-Bree, vuoi fermarti un attimo?- Gridai alle sue spalle.

-Perché dovrei? Ormai non ti interesso più, giusto?- Potei percepire la sua gola stretta mentre parlava.

-Dobbiamo parlare- affermai, e lei si voltò di scatto.

-Credi che ce ne sia bisogno?- Avanzò verso di me a passo svelto. -So cosa mi vuoi dire. Forse lo so anche meglio di te. E la cosa peggiore sai qual è? Che ho sempre saputo che sarebbe andata così, e te lo dicevo sempre. E tu mi ripetevi che era impossibile; che ero paranoica; che avevo torto. E ora, dopo mesi, vuoi semplicemente dirmi che avevo ragione.

-Bree, per l'amor del cielo, non si tratta di questo.

-Magari non "solo" di questo. Ma non venire a raccontarmi cazzate; non più- incrociò le braccia al petto, tentando di scavare tra i miei pensieri con lo sguardo.

-Ti attrae, e anche tanto.

-È solo una ragazzina, Bree. Non essere sciocca.

-Appunto!- Sbottò, strillando. -Questo è ciò che mi sono ripetuta per settimane! "È una ragazzina. Lui può avere di più. Perché dovrebbe volere lei?" Eppure, mentre eravamo lì dentro, non sapevi chi difendere tra le due.-una lacrima le rigò la guancia ed io me ne sentii tremendamente in colpa. -Una volta, che io avessi avuto torto o ragione, non avresti esitato a schierarti dalla mia parte.

-Lei non c'entra- la contraddissi. -Tra noi non c'è più niente, e lo sai anche tu.

Lei abbassò lo sguardo, torturandosi le dita e il labbro inferiore. Sapevo che neanche lei mi amava più. La fiamma si era spenta, e non c'era più nulla da fare. Bisognava solo lasciarsi, e abbandonare l'illusione che tra noi ci fosse un amore ancora ardente. Mentre c'era solo affetto, per una persona che è stato tanto ma che ora non è più niente; affetto forse per quello che eravamo insieme, ma che ora non siamo più. E magari è stato bello, ma adesso non lo è più.

-È inutile ingannarci Bree. Stiamo peggio insieme che separati. Perché ti ostini a negarlo?- Tentai di farla ragionare. Doveva capire, prima di gettare la spugna, che il nostro rapporto era decaduto già da tempo, e che non la stavo abbandonando per nessuno.

-No, Harvie- Controbatté. -Sei tu che hai smesso di amarmi. Io sono sempre stata la stessa, ma mi hai accettata. Ora non ti sforzi più di scavarmi dentro per trovare del buono. Perché hai iniziato a scavare dentro qualcun altro- terminò in un sussurro, quasi faticando a dirlo.

Corrugai la fronte, irritandomi dannatamente. Ne avevo abbastanza di sentirla parlare ancora di Blue, e della sua gelosia nei suoi confronti. Tra me e lei c'era solo amicizia; niente di più.

-Guarda caso, è da quando hai iniziato a lavorare con suo padre che per me non ci sei più- osservò, lasciando invariate le sue idee.

-Comunque sia, vedo che entrambi sappiamo che qualcosa si sia rotto già da un po'- sintetizzai, senza troppi giri di parole.

Lei tirò su di naso, non riuscendo a guardarmi per più di un momento. -Rimpiango solo di avere ignorato tutto per così tanto- ammise, lasciando che una lacrima le rigasse una guancia. Alzò lo sguardo verso di me, nel quale riuscii a leggere la delusione. -Puoi abbracciarmi prima di sparire?- Chiese speranzosa, protendendosi verso di me. Ma inaspettatamente, la bloccai.

-No- risposi, impassibile. -Ti ricordo che se non ci fossimo lasciati andare in un abbraccio alla fine di discussioni come queste, ci saremmo divisi già da un po'- ragionai, ora totalmente deciso sul da farsi. -E io non voglio più ricascarci.

Bree non poté più trattenere le lacrime che le sgorgarono automaticamente dagli occhi. Forse solo ora aveva realizzato ciò che inevitabilmente sarebbe successo.

-Addio, Bree.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Tre anni ***


Blue's pov

Io e Robin uscimmo dal locale soffocante, meravigliandoci del freddo che ci avvolse. Non avevo ancora aperto bocca dopo ciò che era successo. Ero arrabbiata con lei per non essersi presa nemmeno parte della colpa quando avrebbe potuto farlo, per il mio bene. Tremolante al mio fianco, cercava di fingere che andasse tutto bene, ma ero sicura che si sentisse in colpa, almeno un po'. E faceva bene.

-Uh! Che freddo...- rabbrividì, sfregandosi le mani sulle braccia scoperte.

-Già- tirai su di naso, non rivolgendole uno sguardo. Il freddo non mi disturbava neanche; non quanto la presenza di Robin. Non riuscivo a giustificarla.

Sentii i suoi occhi da cerbiatto su di me per qualche attimo, prima che si decidesse a sciogliersi in un paio di scuse.

-Va bene, Blue. Ho sbagliato. So che è stata colpa mia e mi dispiace di non averlo ammesso.

'Sta volta rimasi zitta, scalciando qualche sassolino sulla strada. Il mio viso era senza espressione. Non riuscivo a liberarmi dalla vergogna provata e, a mio parere, pienamente immeritata. Le avevo coperto le spalle volontariamente, certo. Ma non accettavo che lei se ne fosse rimasta dietro le quinte, a guardare, mentre io mi sorbivo tutta la merda che mi veniva sputata in faccia.

-Non puoi fare così per questa scemenza- aggiunse, cercando di sminuire la situazione.

-Non è una scemenza- replicai, impassibile. -Non ti rendi conto di come possa essere stato umiliante per me?

Lei iniziò a guardarmi storto. Magari non aveva commesso un peccato capitale ma, per come la vedevo io, era stato come gettarmi in pasto ai lupi per salvarsi. E le amiche non fanno questo; ti guardano le spalle. Dal suo viso traspariva la confusione e il disorientamento dovuto all'alcol. Il suo sguardo immobile traballò per un attimo. Si risolse in un sospiro.

-Blue, ho bevuto. Non molto, ma abbastanza da scambiare tutto per un gioco- si passò una mano sulla fronte, guardando in basso. -Se fossi stata lucida, ti avrei difesa.

Alzai gli occhi al cielo, dubitando delle sue parole. La faccenda mi aveva resa nervosa. Robin sembrava davvero dispiaciuta, ma non riuscivo a perdonarla, non quella sera.

-Scusa ma... io vado a cercare Jace. Se vuoi andare a casa, vai. Troverò un modo per tornare- feci per andarmene, quando mi bloccai ricordando: -Ah, e grazie per avere tenuto la bocca chiusa- sorrisi acida.

-Di che parli?- Scattò lei, scossa da un brivido consapevole.

-Lo sai- sputai, rimettendomi sui miei passi.

Mentre tornavo nella sala oscurata, pensai che uscire quella sera fosse stato un errore. C'erano troppe cose storte nella mia vita per ridere, divertirmi e fingere che tutto andasse bene. Non mi capivo più. Non sapevo di cosa avessi bisogno, cosa dovessi evitare... Tutto sembrava sconveniente e fastidioso. Tutta la mia vita aveva preso questa piega e io non potevo farci niente.

Non ci volle molto prima di trovare Jace. Era poggiato al muro della sala; nel posto giusto per avere una visione perfetta dei corpi femminili che ondeggiavano in pista. Vidi un'ochetta, poco discreta, seduta ad un tavolo nelle sue vicinanze. I suoi amici sembravano impegnati in conversazioni coinvolgenti mentre lei risultava impegnata a fissare il mio amico, nella speranza che- anche per sbaglio- lui la notasse. Non so perché, ma tutte quelle disperate mi facevano schifo.

Approfittai del fatto che nessuno gli girasse direttamente intorno per andargli a parlare. Notai perfettamente il modo in cui la sua postura si irrigidì quando mi vide arrivare. Il disagio era percettibile lungo tutta la traiettoria che ci congiungeva, ma speravo di mascherarlo bene, almeno io. Respirai profondamente un attimo prima di giungergli di fronte.

-Ehi.

-Possiamo parlare?- Domandai incerta. Quella domanda uscì così, senza che mi facessi troppi complessi. Lo decisi sul momento. Non sapevo se fosse la cosa giusta ma, se l'esperienza è maestra, avevo capito che era meglio affrontare i problemi piuttosto che sotterrarli.

Notai i suoi occhi sbarrarsi per la sorpresa, ma si ricompose subito. Annuì semplicemente, e mi convinsi a fare strada verso un posto più appartato. Decisi di condurlo fuori dal locale per sfuggire alla musica martellante, così da discutere in tranquillità. Lui mi seguì in silenzio, sedendosi accanto a me quando mi accovacciai sugli scalini di una casa vicina.

-Siamo imbarazzati- osservai, come se non lo sapesse.

Jace poggiò gli avambracci sulle ginocchia, tastando le dita tra loro nervosamente.

-Non capisco cosa sia successo- ammise con sguardo basso.

-Nemmeno io, ma non mi piace evitarti.

-A chi lo dici... È come rinnegare una sorella- Accennò un sorriso pigro. -Ma non mi capacito di essere stato sul punto di baciare quella sorella- concluse aspro, spazzando via il sorriso appena germogliato.

Quelle parole mi punsero la superficie del cuore. Era la prima volta che quei pensieri... quelle supposizioni su cosa sarebbe accaduto, se il caso non l'avesse evitato, prendevano vita sul serio. Sembrava così rabbioso verso se stesso per ciò che stava per fare quel pomeriggio, ma io non lo capivo. È stata solo una trappola in cui stavamo cadendo entrambi. Dovevamo aspettarci che un giorno del genere sarebbe arrivato; il problema è che non ci è mai passato di mente. Sembrava impossibile.

-Jace, è stato solo un attimo di debolezza. Lo sai. Noi ci vogliamo bene... è sempre stato così; niente di più, niente di meno.

-No, tu non capisci. Non basta mettere le parole giuste insieme per sistemare le cose- ribatté, rivolgendomi uno sguardo tanto impassibile quanto implorante.

-Ma non è successo niente!- Puntualizzai, alzando la voce. -Non puoi evitarmi come se ci fossimo baciati davvero.

Jace si strinse la testa tra le mani, colpendo ritmicamente lo scalino con un piede per il nervosismo.

-Io davvero non ti capisco- borbottai, irritandomi a mia volta. Nell'esatto istante in cui terminai la frase, lui sbottò, inchiodandomi con occhi rabbiosi.

-Vuoi capire? Va bene, Blue, ascoltami- mi incitò, voltandosi totalmente verso di me. Solo a quel punto, notai i suoi occhi lucidi e rossi. Mi chiesi se avesse bevuto e il suo alito lo confermava.

-Jace, ma sei ubriaco... - osservai, strisciando un po' più lontano da lui, invano, poiché subito dopo mi imitò, tornando all'analoga distanza precedente. Non avevo paura di lui, ma qualcosa mi implorava di stargli lontana.

-Invece di diffidare di me, approfitta di un uomo ubriaco, perché domani non ti direi ciò che sto per dirti- mi consigliò. Si avvicinò ulteriormente e il suo alito divenne difficilmente ignorabile.

Non riuscivo a prevedere la spiegazione che mi avrebbe dato. Ho sempre avuto una fervida immaginazione che, a volte, ci azzeccava pure. Ma in quel momento la mia testa sembrava seguire il ritmo della musica insensata e rumorosa, proveniente dal locale. Sembrava che fosse carta bianca priva di bozze.

-Ti ho amata per tre anni- ammise, non interrompendo il contatto visivo. Pensavo che scherzasse, ma il fatto che non avesse riso o abbassato lo sguardo per evitare almeno di sorridere mi mise in allarme. Non credo che un ubriaco avrebbe potuto mantenere tanta serietà su una sciocchezza.

-Cosa?- Fu l'unica banalità che mi uscì dalla bocca.

-Credo di avere iniziato a provare qualcosa per te a quindici anni.

-Fino ai diciotto?- Chiesi conferma, ancora sotto shock. Lui annuì con un sorriso amaro.

-Dopo i diciotto, ho iniziato a farmene una dopo l'altra- sbuffò un risolino, scuotendo la testa. -Pensando ingenuamente che così avrei smesso di volerti.

Posai lo sguardo sulle sue mani, racchiuse in rigidi pugni tremanti. Nella mia mente aleggiava ancora il vuoto totale. Mi sentivo come se mi stesse raccontando una vicenda che non mi riguardava, e per la quale non dovessi provare niente. Invece era proprio di me che stava parlando. Era di me che era stato innamorato. Ed io non riuscivo a capire come se lo fosse tenuto dentro per così tanto tempo.

-E un po' mi ha aiutato, sul serio. Ma, mentre ero in Spagna, mi mancavi dannatamente, e lì ho capito che in questi anni non fosse cambiato niente; che in questi anni non ho mai smesso di amarti. Mi distraevo, ed è molto diverso.

Rimasi in silenzio, intrecciando le dita tra loro e rabbrividendo continuamente per il freddo vento che tirava. Jace fece per levarsi la giacca di jeans che indossava ma lo fermai.

-Sto bene- affermai, prevedendo che volesse prestarmela.

-Ma stai congelando- protestò, sfilandosela. Mi coprì le spalle e il calore che emanava mi fece sprofondare in essa.

Il silenzio calò totalmente, e il fischiettio del vento divenne quasi ipnotico, ma anche fastidioso. Volevo dire qualcosa, ma non sapevo nemmeno che pensare di tutto ciò che mi aveva detto. Aveva appena rivelato di avermi amata e di amarmi tuttora; di avermi amata per anni senza farmene rendere conto. Era qualcosa di troppo grande da inglobare all'impatto.

-Poi quando mi hai abbracciato al bar...- ricordò con aria sognante. -non puoi immaginare come mi sia sentito.

-Jace, io... non so che dire- balbettai.

Mentre mi guardava, qualcosa si accese nel suo sguardo; desiderio, forse. Si protese verso di me, afferrandomi un fianco, mentre portava l'altra mano sulla mia nuca per spingermi verso di lui. Ero rigida e indecisa. Sei ancora in tempo, mi ripetevo. Ma c'era una piccola lanterna di curiosità dentro di me, che mi spingeva a rimanere immobile per scoprire cosa avrei provato; una lanterna rimasta accesa quel pomeriggio e che presto avrebbe potuto ottenere una risposta. Così, mi lasciai andare nell'esatto momento in cui la sua bocca toccò la mia. Un senso di soddisfazione mi rapì, spingendomi a continuare. Jace, incoraggiato dal mio consenso, sembrava ardere sempre di più. Sentii la sua mano, prima sul mio fianco, scivolare sulle mie cosce, stringendole. Anche il suo respiro si fece più affannato. Il contatto non era fastidioso, ma ero cosciente che fosse il momento di fermarsi. Tentai di allontanarmi, ma lui me lo impediva. Ci volle un po' prima che mollasse la presa con uno sbuffo. Liberatami, notai di avere anch'io il respiro pesante.

La magia si spezzò quando tornai alla realtà. Aprii gli occhi mentre le mie labbra rimasero socchiuse e incredule. Mi voltai subito verso la strada, restando interdetta quando lo vidi. Harvie. Era fermo davanti il portabagagli della sua auto e mi fissava. Solo allora distolse lo sguardo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Potrei piacergli? ***


Lunedì. Le lezioni erano terminate da un po', ed io camminavo distratta verso casa. Guardai in alto, e notai le nuvole grigie incombenti sopra la mia testa, in procinto di piangermi addosso. Ma non mi curai nemmeno della prima goccia che mi colpì la fronte. Il frastuono dei miei pensieri non mi permetteva di focalizzarmi su altro. Solo un nome mi risuonava dentro: Jace. E non riuscivo a capire che effetto mi facesse quel nome. La domenica era passata inosservata. L'avevo sprecata sul mio letto, in cerca di risposte tra le travi di legno del tetto della mia stanza. Non avevo risolto niente. Jace mi aveva chiamata e scritto innumerevoli volte, con vari pretesti di approccio, ma senza ottenere risposta. Mi ero messa in un bel casino...

Senza rendermene conto, giunsi nel vialetto di casa mia, proprio quando la pioggia aveva preso a precipitare con più insistenza. Recuperai le chiavi dal taschino ed entrai, non sorprendendomi quando non vi trovai nessuno.

Gettai lo zaino accanto alla porta e mi recai in cucina. Frugai nel frigo, non avendo, tuttavia, molto appetito, ma mi sforzai per trovare qualcosa che potessi mandare giù senza troppe storie. I miei occhi caddero subito su della carne accartocciata, e fui abbastanza lieta di riconoscervi del pollo. Arrostii la fetta più piccola per poi prendere posto nel tavolo al centro della piccola stanza. Mangiai lentamente, sempre con la testa fra le nuvole.

La mia coscienza mi intimava di dire a Jace che avevamo sbagliato. Ma se lo avessi fatto, lui sarebbe scomparso dalla mia vita per sempre. Chi avrebbe agito diversamente in tali circostanze? Tuttavia, non potevo affermare con certezza che per lui non provassi niente. Forse l'amore fraterno che gli voglio potrebbe trasformarsi in qualcosa di più grande... E se allontanandolo commettessi uno sbaglio? Se me ne pentissi? Io non voglio perdere Jace, in nessun caso. Ma sembra che qualsiasi strada possibile da percorrere sia quella sbagliata. Forse, avevo davvero bisogno di tempo. Ma io non volevo aspettare o fare aspettare Jace per i miei capricci. Non volevo continuare a farmi così tante domande, aspettando solo che la testa mi scoppiasse.

La carne finì troppo presto, e mi pentii di essermi accontentata di così poco. Ma buttai comunque il piatto di plastica nella spazzatura e andai nella mia stanza a riposare. Ero inerme sul letto quando ricordai di avere dei compiti per l'indomani. Mi dedicai ancora qualche minuto di quiete prima di svolgerli; e ci volle anche meno del previsto. Dopodiché, intimorita dall'idea di essere risucchiata nuovamente dai pensieri, valutai l'idea di andare alla Staithes editorial. Magari avrei potuto gironzolare tra gli scaffali delle librerie per distrarmi.

Cambiai la maglietta di quella mattina con una leggera felpa di mezza stagione. In bagno, mi lavai i denti e il viso, non avendo la minima voglia di truccarmi. Perciò, decisi di uscire al naturale, con solo un po' di abituale crema idratante. Quello era il segnale che l'autunno fosse decisamente arrivato: il trucco abbandonava il mio viso come l'estate quella terra. Molto poetico, ma triste.

Quando arrivai davanti alla porta, pronta e convinta di andare da mio padre, tante cose mi balenarono nella mente contemporaneamente: Hilary, ad esempio; e, in secondo piano, ma pur sempre di rilievo, l'assenza di un modo veloce per arrivare lì senza giungervi fradicia.

Il primo problema non ammetteva più sotterfugi; non mi restava che fronteggiare Hilary e ascoltarla, in bene o in male. Il secondo, invece, poteva essere facilmente risolto.

Mi allontanai dalla porta, girovagando per il salotto con il cellulare già fra le mani. Mi sfiorò la mente che magari una mia chiamata potesse creare disturbo, ma scacciai quell'idea prima che mi decidessi a lasciare perdere. Cercai il suo nome nella rubrica e, quando lo trovai, premetti esitante il pulsante per effettuare la chiamata.

Il telefono squillò poche volte prima che Margaret rispondesse:

-Blue?- Domandò incerta dall'altro capo.

-Sì, sono io. Sei in giro, per caso?

-In realtà, sì. Dovevo comprare delle cosucce per mia madre e ora gliele sto portando. Perché?- Grazie al cielo.

-Oh, bene! Ti dispiacerebbe passarmi a prendere? Vorrei andare all'editorial, ma non so come fare.

-Certo! Se sei pronta, vengo subito.

-Puoi venire allora. Ti ringrazio- sospirai soddisfatta.

-Di niente. A tra poco!- Esclamò, riattaccando.

Rimisi il telefono al suo posto e mi sedetti sul divano nell'attesa. Il libro che attualmente stavo leggendo era proprio lì sopra, accanto a me: Nicholas Sparks- The longest ride. Avevo già visto il film, e credevo che sarebbe stato noioso leggerne la forma scritta. Sapevo che qualcosa cambiasse comunque, ma credevo che l'essenza della storia rimanesse. Invece, grazie alla mia testardaggine, mi ero resa conto che non ci fosse quasi nessun filo conduttore tra il libro e il film in questione. Ma, nonostante questo, non potevo rinnegare l'amore provato per entrambi.

Solo nel momento esatto in cui protesi la mano per riprendere la lettura lasciata in sospeso, mi arrivò un messaggio da Margaret: "Sono qui fuori". Mi affrettai ad alzarmi e a tornare alla porta. Quando la aprii, vidi Margaret, avvinghiata allo sterzo come una normale neo patentata intimorita dalla strada. Infatti, lei, solo pochi mesi prima, aveva ottenuto il permesso dalla madre di frequentare la scuola guida per iniziare a guidare davvero. Anni prima, la riteneva troppo giovane e incosciente per accaparrarsi una tale responsabilità. Mi sorse un sorriso involontario nel pensare ad una Margaret incosciente.

Mi diressi verso l'auto, mentre lei parve non accorgersi subito di me. Quando aprii lo sportello, sussultò, rilassandosi in un sorriso raggiante.

-Ehi! Come va?- Chiese mentre prendevo posto accanto a lei.

-Bene- mentii per farla breve. -Tu che mi dici?

-Va tutto bene- Rispose, mettendo in moto.

Quando partì, fui sorpresa di constatare che non mantenesse una velocità troppo bassa.

-Come mai vuoi andare all'editorial?- Domandò, dimostrandosi curiosa.

Era normale che ci andassi. Ormai era da mesi che passavo lì le mie giornate. Era strano che ultimamente non ci fossi andata e non il contrario.

-Volevo dare un'occhiata in libreria- mi giustificai.

Margaret annuì, tenendo gli occhi fissi sulla strada. Sembrava pensierosa, ma non ci misi tanto a capirne il motivo.

-Il tuo amico è venuto a cercarti qualche ora fa- mi informò come se non fosse rilevante, mentre il mio stomaco fece un balzo.

-Jace?- Cercai conferma.

Lei aggrottò leggermente la fronte. -Sì. Perché è così sconcertante?- Chiese perplessa.

Cercai di ricompormi. -No, io... non sono sconcertata. Mi sembra solo strano che non mi abbia semplicemente chiamata- mentii ancora.

Lei annuì con una smorfia. -Già, è sembrato strano anche a me. Sembrava agitato- rifletté per poi fare spallucce.

-Avrà solo gettato il caffè addosso a qualcuno. Si agita per tutto- risi nervosamente, rendendomi subito conto che la mia evidente agitazione avesse insospettito Margaret, la quale però non chiese altre spiegazioni, e gliene fui grata.

Accennò un sorriso, alzando gli occhi al cielo. Guidò in silenzio per qualche attimo e riuscii a percepire il suo disagio. Ero quasi certa che nella sua testa fosse alla ricerca di qualcosa di veloce e appropriato da dire; qualcosa per avviare una conversazione che spazzasse via quel silenzio imbarazzante.

-Harvie era lì?- Chiesi così, senza una ragione.

Inizialmente, quando si voltò verso di me, sembrava non avesse capito la mia domanda, forse perché troppo immersa tra i pensieri. Stavo per ripetere quando sembrò intuirla da sola.

-Oh, sì. Stava lavorando... tra le varie pause- aggiunse infine, e non potei evitare di scoppiare a ridere. -Ho sentito che il direttore vuole dargli un aumento- mi informò.

Non ne fui sorpresa; anche mio padre me ne aveva parlato e non potevo dire che non se lo meritasse. Forse persino Harvie lo era venuto a sapere, nonostante non fosse una notizia ufficiale.

-Ci sa fare- commentai. -Ha una dote naturale.

-Già- confermò in un sospiro. Il suo sguardo si perse nel vuoto, o forse si focalizzò solo sulla strada per distrarsi da qualcosa. Non mi venne difficile intuire a cosa stesse pensando, ma per ricambiare la discrezione mostrata nei miei confronti, mi impegnai a tenere la bocca chiusa.

-Credi che io non gli piaccia?- Domandò all'improvviso.

Mi ritrovai interdetta. Non mi aspettavo di certo tanta schiettezza. Voltai il capo verso di lei con uno scatto e gli occhi sgranati mentre, nella mia testa, tanti omini immaginari erano intenti a correre per mettere insieme una risposta per lo meno soddisfacente. Non dovevo dirle la verità; assolutamente no. Ci sarebbe rimasta malissimo e non volevo che si demoralizzasse per lui. Le lanciai un'occhiata, credendo che non disponessi di una scelta migliore dell'altra. Perciò, scelsi solo la più facile.

-Cosa? No!- Risposi esitante, continuando a chiedermi se fosse meglio inserire nel mio discorso almeno una piccola parte di verità. -È fatto così. Il fatto è che non vi conoscete abbastanza. Anche io credevo di non piacergli i primi mesi.- mentii (anche se non totalmente), strofinandomi nervosamente le cosce coperte con il palmo delle mani.

-Davvero?- Cercò conferma, sembrando rincuorata. Un sorriso minacciò di spuntare sul suo viso per la consolazione, ma si impegnò a reprimerlo, nonostante non ingannasse nessuno. Persino i passanti le vedevano brillare gli occhi.

-Già, forse sono solo troppo insicura- ipotizzò, annuendo poco convinta.

-Non ne hai motivo- la rassicurai, poggiandole istintivamente una mano sulla spalla.

Lei trasalì al mio tocco; come se si aspettasse più uno schiaffo che una carezza. Io corrugai la fronte, chiedendomi del perché di certe reazioni. Aveva l'aria di un coniglio spaventato; di un essere innocente e ingenuo che molti avevano calpestato. E ora, sembrava faticare a rendersi conto che qualcuno non lo stesse facendo.

Si rilassò quasi immediatamente, accennando un sorriso di gratitudine. Solo a quel punto mi accorsi di averla fissata per più tempo del dovuto; troppo intenta a studiarla e a tentare di comprenderla.

-Ecco qua, siamo arrivate- annunciò, parcheggiando.

Una volta scese, ci addentrammo nell'edificio e, ad ogni passo verso l'ingresso, sentivo crescere l'angoscia. Hilary doveva essere proprio lì, seduta di fronte all'entrata, ad aspettarci. Avremmo parlato, inevitabilmente, ed io ero cosciente che fosse giusto così. Ma ero solo impaurita che un altro pezzo del mio mondo distrutto precipitasse, 'sta volta portandomi con sé.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Mi ha tradita ***


Non appena varcai la porta, affiancata da Margaret, Hilary alzò lo sguardo tranquillamente, indossando un sorriso automatico che si spense subito. Ebbe una specie di sussulto, ma si ricompose quando Margaret la salutò allegra.

-Ciao, Hilary. Ti trovo in forma!- Osservò sorridente.

-Immagino- sorrise in risposta, con una nota di sarcasmo.

Margaret non si trattenne, incamminandosi lesta lungo il corridoio di sinistra. Si voltò poi di scatto come se si fosse improvvisamente ricordata di me.

-Vado da mia madre. Tu rimani qua?

Esitai, sentendomi a disagio. Hilary aveva lo sguardo fisso su di me; uno sguardo vago ma implorante. Sperava che non scappassi ancora, probabilmente. Anche se ero certa che, anche se ci avessi provato, 'sta volta mi avrebbe fermata.

-Sì, vai tranquilla.- Così si dileguò.

Io e Hilary restammo in silenzio. Lei aveva distolto lo sguardo da me, fingendo di compilare qualche carta. Io la osservavo, cercando invano di leggerle il pensiero. Non capivo cosa stesse aspettando. Solo quando udimmo il rumore sordo, segno della chiusura delle porte dell'ascensore, la donna si alzò dalla poltrona.

-Vieni con me- mi invitò (o meglio, mi impose), facendo strada. Non proferii parola, limitandomi a seguirla.

La stanza in cui mi condusse si trovava nel corridoio di destra. Era un ufficio vecchio rispetto agli altri e inutilizzato. Sembrava avere la funzione di un archivio improvvisato. C'erano vari scaffali e armadietti dalle ante aperte che lasciavano intravedere grosse pile di documenti dimenticati. Una scrivania ammaccata si trovava in un angolo, ed è proprio lì che Hilary si sedette. Presi posto di fronte a lei, poggiando i gomiti sulla plastica rinforzata ma pentendomene subito quando una parte di polvere si trasferì su di me, lasciando parte della superficie pulita, esattamente dove ora vi erano le mie impronte. Spazzai via la polvere dai miei gomiti grigi con dei leggeri colpetti, decidendo di non toccare più niente.

Hilary aveva un'aria meditabonda e alquanto frustata. Mi chiedevo cosa fosse successo e del perché ciò influisse tanto su di lei. Nemmeno io ero più tanto amareggiata, nonostante ancora non sapessi di cosa si trattava. Era stata taciturna fino ad allora, e non era da lei. Ciò avrebbe dovuto suggerirmi di prepararmi psicologicamente; ma la mia psiche era troppo stanca anche per quello.

-Mi spieghi che succede?- la implorai, confusa.

I suoi occhi si posarono su di me per un secondo, tornando a contemplare la scrivania quasi immediatamente. Sospirò varie volte prima di iniziare, ticchettando le unghie sottili sulla plastica impolverata.

-So che tua madre è scappata- disse secca.

Il mio cuore perse un battito. La mia bocca si schiuse, non emettendo un suono. La mia espressione credevo rappresentasse a pieno la confusione creatasi nella mia testa. Avevo troppe domande da fare, e forse proprio per questo non sapevo che dire.

-Come... tu come fai a saperlo?- Rantolai con una strana sensazione di leggerezza; mi sentivo fluttuante nel vuoto. Tutto aveva iniziato a girare e non avevo idea di come fermarlo.

Hilary sembrava tremare impercettibilmente con aria persa, come se si ritrovasse a frugare tra i ricordi. Tenne gli occhi bassi ed un sorriso malinconico le si formò sul viso. Solo quando raccolse il coraggio di fissare i suoi occhi nei miei, mi accorsi che i suoi fossero lucidi. La imploravo silenziosamente di dirmi di più, e mi trattenni dall'urlare per il nervosismo e la brama di sapere.

-Ne ha parlato con me prima di andarsene- rispose con voce gelida, nel tentativo di non lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

-E tu non l'hai fermata?- La aggredii d'istinto. -Hai lasciato che mi abbandonasse?!- Le mie gambe scattarono, facendomi alzare dalla sedia, furente.

-Non le ho di certo suggerito questo- si difese, non scomponendosi, celando l'inquietudine verso il mio sbalzo.

-Allora dimmi cosa le hai detto. Dimmi cos'è successo! Dimmi perché lei non è qui con me adesso, perché non me ne capacito- la mia voce si affievolì. I muscoli delle mie gambe parvero perdere vigore, costringendomi a sedermi nuovamente. Appoggiai nuovamente i gomiti sulla scrivania, incurante della polvere, per così reggermi la fronte con un palmo.

Un groppo in gola mi si stava creando, spronando le lacrime a fare strada. Respirare era difficile e fastidioso. Sembrava che il mio cuore non reggesse più niente. Batteva così forte, e il peggio era ancora da scoprire. Avevo voglia di uscire da lì e ignorare ciò che non mi conveniva affrontare; la mia specialità. Ma qualcosa mi incollava a quella sedia, impedendomi di scappare. Era di mia madre che stavamo parlando; quella madre di cui non avevo notizie concrete; quella madre che desideravo tanto ritrovare per capire cosa fosse andato storto; quella madre con cui Hilary aveva parlato prima della fuga.

-Ti dirò tutto, piccola mia...- mormorò, ammorbidendosi. -Anche se avrei dovuto farlo subito- sbatté le palpebre, lasciando che una lacrima le rigasse la gote.

Flashback

Hilary era appena uscita dal supermercato. Era troppo anziana per guidare; di solito, si spostava tramite i mezzi pubblici, ma quel giorno non ne aveva voglia. Voleva camminare tranquillamente verso casa. Voleva starsene con la testa fra le nuvole per un po', perché, una volta lì, avrebbe potuto vagare solo tra le fiamme dell'inferno.

Il marito stava male; un ictus. Una bella sfortuna. Ormai si aspettava semplicemente che lui andasse via. E Hilary, a malincuore, sperava solo che trovasse un po' di pace, nonostante fosse certa di non poter reggere una tale perdita. Ma sarebbe stato egoista bloccarlo; imporgli di rimanere anche se solo come vegetale. Sarebbe stata una tortura, non un gesto d'amore. Inoltre, anche volendo, lei non aveva nemmeno questo potere.

L'altra alternativa era tornare indietro nel tempo, e vivere all'infinito con lui tutti gli eventi precedenti la malattia. Quella prospettiva risultava tanto bella quanto impossibile. Hilary avrebbe venduto l'anima al diavolo per realizzare quel desiderio. Ma lei non aveva abbastanza potere per sistemare niente. Perciò, nessuno doveva considerarla cattiva o insensibile se non pregava che lui restasse lì per lei. Era solo talmente innamorata di lui da desiderare il troncamento delle sue sofferenze; qualunque fosse il prezzo.

Immersa tra i suoi pensieri, venne risvegliata da una pioggia incessante. Si chiese se avesse iniziato a piovere in quel momento o se se ne fosse solo accorta troppo tardi, ma lasciò perdere tali enigmi. Si mise alla ricerca del piccolo ombrello viola tra le cianfrusaglie della grande borsa, irritandosi quando si rese conto di non averlo con sé.

Fu a quel punto che una Miley dagli occhi arrossati accostò al suo fianco.

-Hilary?- Tentò di richiamare la sua attenzione per assicurarsi di non sbagliare. Quando l'anziana donna dalle spalle ricurve si voltò spaesata, un calore compassionevole colmò il grembo di Miley, compensando il dolore nauseante da poco represso. -Cosa fai in giro da sola sotto la pioggia? Sali su, coraggio. Ti accompagno io- si offrì gentilmente, dimostrandosi preoccupata per l'esile anziana.

-Se non ti crea disturbo, cara, mi faresti un grande favore!- Accettò con gratitudine, procedendo a piccoli passi, con cautela, verso la jeep.

Faticò a prendere posto accanto alla donna, rischiando pure di scivolare lungo la scalata. Miley tentò di aiutarla, ma Hilary non sembrò apprezzare il gesto, sforzandosi ancora di più per farcela da sola. Con un gemito dolorante, Hilary riuscì a salire e a sedersi, sentendo il cuore martellare. Non aveva fatto niente di che, ma la vecchiaia non sembrava supportare più nemmeno quei minimi sforzi, e se ne dispiacque silenziosamente.

-Grazie Miley. Sei arrivata proprio al momento giusto- la ringraziò, sorridente.

Miley ricambiò calorosamente il sorriso sincero della donna, decidendo di mettere da parte le sue preoccupazioni per un po'. Aveva bisogno di parlare di qualcosa. Aveva bisogno di non rigettarsi nello sconforto. Aveva bisogno di distrarsi. Inoltre, immaginava che Hilary avesse un carico sulle spalle abbastanza consistente; non voleva amareggiarla ulteriormente con le sue sciocchezze. Se le sarebbe tenute per sé, come aveva sempre fatto.

-Come sta Gregg?

Quella domanda, che turbava Hilary così tanto mesi prima, ora suscitava solo emozioni ignorabili. Ormai era abituata a rispondere a tutti allo stesso modo.

-Be', tira avanti.

Miley pensò fosse meglio non approfondire l'argomento, perciò si limitò ad annuire. Passarono molto tempo in silenzio e ciò insospettì Hilary. Miley era sempre stata solare e loquace. Quella figura grigia che la affiancava, invece, non le apparteneva affatto; o almeno, non le era mai appartenuta, fino ad allora.

-Sembri così spenta oggi...- osservò l'anziana donna.

Il cuore di Miley fece un balzo. Solo la consapevolezza che la sua angoscia fosse evidente bastò a scheggiare la corazza che aveva frettolosamente indossato.

-Ho solo avuto una giornata faticosa- improvvisò, balbettando.

Hilary lasciò passare qualche attimo, preoccupandosi di scrutarla bene. Non era per mera curiosità che cercava di scavarle dentro. Era solo che Hilary conosceva Miley da molto tempo, mediante Drew. E chi la conosceva, sapeva bene che non fosse difficile amarla. Hilary voleva solo assicurarsi che lei stesse bene per davvero.

Aveva appena deciso di lasciare perdere quando, una volta giunte dinanzi casa sua, voltandosi verso Miley, si accorse del suo viso rosso bagnato dalle lacrime. Hilary non seppe come reagire; si limitò a seguire l'istinto, avvolgendo Miley in un abbraccio quasi disperato.

-Figlia mia, come puoi essere così distrutta?- Le sussurrò all'orecchio, mentre la giovane donna si liberava in tutti i singhiozzi repressi.

-Io non ce la faccio... non posso farcela...- gorgogliava sconnessamente.

-Raccontami tutto, cara. Mi puoi dire qualsiasi cosa; ti puoi fidare- Hilary la cullò tra le sue braccia, percependo il suo dolore palpabile.

Miley si era arresa completamente; aveva fallito; non riusciva più a contenere il dolore. La sua testa riproduceva un rombo assordante. Si sentiva persa; in balia del suo cuore annientato.

-Mi ha tradita- riuscì a dire tra i vari affanni.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Prenditi cura di lei (2) ***


-Ne sei certa?

Hilary, interiormente sconvolta, tentava a stento di non lasciare trapelare altro che conforto. Miley era la personificazione di un dolore traboccante. Dalla sua rivelazione non era riuscita più a dire niente di sensato. Piangeva senza tregua, stringendo Hilary come per trarne anche solo un briciolo di forza, anche se nemmeno l'esile anziana ne disponeva in abbondanza.

-Io... li ho sentiti- riuscì a dire, tentando di calmarsi. Il suo volto interamente contratto non sembrava volersi sciogliere e ci volle un po' prima che tornasse a respirare regolarmente anche se pur sempre con agitazione. Hilary rimase in silenzio, decidendo di darle del tempo per ricomporsi. Nel frattempo, la sua mente divagò. Si chiese come fosse possibile che Drew lo avesse fatto. Lo conosceva da anni; lo aveva visto con sua moglie, aveva visto l'armonia tra di loro, e mai avrebbe immaginato che una cosa del genere sarebbe successa. Drew si era sempre dimostrato un brav'uomo; ottimo lavoratore e, presumibilmente, anche un buon marito. Tuttavia, Hilary non poteva negare di avere notato una certa ostilità tra lui e sua figlia. Ma dubitava che Blue fosse in qualche modo colpevole di quel disastro.

-Lei era nel suo ufficio. Provava a baciarlo- sussurrò con sguardo basso, tirando su di naso. -Lui la respingeva debolmente, come se gli mancasse solo la voglia del momento.- ricordò rabbiosa con voce increspata.

-Perdonami Hilary- si scusò, scuotendo il capo. -Non dovrei parlarti di tutto questo; sono problemi miei. È solo che non so cosa fare. Non riesco a pensare lucidamente e ho bisogno di parlarne. I miei genitori sono a Londra e anche Lizzie. E non lo direi a Blue per nulla al mondo. Ne uscirebbe distrutta, soprattutto nel vedere la mia faccia mentre le spiego tutto- disse con una velocità isterica.

-Sfogati con me, Miley- quasi glielo impose. -Devi farlo per non impazzire.

Hilary era rigida, la guardava con una fermezza confortante. Una fermezza che spinse Miley a credere di potersi fidare, di potersi aprire con lei, di avere trovato un appoggio. Era così disperata e bisognosa di sostegno che ignorava la possibilità che potesse non essere giusto coinvolgere Hilary in quella storia, perciò accolse il suo invito.

-Poi lui le ha detto che io sarei arrivata a momenti e che quindi doveva andarsene.

Lo sguardo di Miley si perse immediatamente nel vuoto, divenendo inespressivo. Sembrava che avesse inspiegabilmente bloccato le emozioni perché esprimerle tutte sarebbe stato letale.

-Giuro che non volevo restare a guardare. Il mio cuore batteva così forte che sembrava perso in un unico lungo ed incessante battito che speravo mi avrebbe portato alla morte in quell'esatto istante- ammise, non vergognandosi di quel desiderio.

-Miley...- la ammonì l'anziana.

-Hilary, è così. Non immagini quanto sperassi che accadesse. E doveva succedere proprio lì, davanti a quella porta. Così che lui mi avrebbe avuto sulla coscienza per l'eternità; così che si sarebbe sentito un lurido verme che ha causato la morte della madre di sua figlia; così che Blue lo avrebbe odiato per sempre; così che lui sarebbe rimasto solo- sputò con odio profondo.

Hilary sapeva che dirle quanto tali pensieri non fossero sani fosse la cosa meno adeguata da sottolineare, perciò non intervenne. Comunque sia, anche se non avesse detto tutto ciò ad alta voce, lo avrebbe comunque pensato. Ed era inutile discutere. Miley era giustificata. Era la rabbia e la delusione del tradimento a parlare per lei.

-Piccola mia... come ha potuto farti questo?- si chiese Hilary, avvolgendo Miley. La cullò tra le braccia come una bambina e, in quel momento, era proprio questo che sembrava; fragile, innocente, debole. La rabbia verso quell'uomo crebbe anche in Hilary, infinitamente amareggiata per le condizioni della giovane donna, i cui raggi erano stati da lui repressi.

-Voglio solo andare via...- mormorò col mento poggiato sulla spalla di Hilary.

-E Blue? Vuoi abbandonarla con quel deficiente?- fece Hilary, allarmata.

-La porterò con me.

-Miley, non è così semplice. Non puoi semplicemente portarla via. Lui ha il diritto di tutelarla, tanto quanto te.

Non ribatté, ma Hilary era certa che non avesse abbandonato tale idea.

-Prima dovresti parlarne con lui; dirgli cosa sai e magari pensare al divorzio. Blue il prossimo anno avrà diciotto anni e sarà indipendente. Sceglierà lei poi dove andare.

Miley rimase di nuovo zitta. Quel silenzio mise Hilary in allerta; sperava solo che, per lo meno, la stesse ascoltando.

-Hai ragione- disse poi, rincuorando Hilary. -È la cosa migliore.

Fine flashback

-Una settimana dopo ricevetti questa- aggiunse Hilary, tornando al presente.

Fece scivolare una lettera stropicciata sulla scrivania. Io ero sconvolta, paralizzata. Nella mia mente aleggiava il nulla totale. Mi sforzai di levare il braccio e di afferrare la lettera ferma, in attesa, sul ripiano di plastica. Non diedi importanza alle mie mani tremanti e la figura di Hilary divenne sfocata, quasi come se fosse un sogno sul punto di svanire. La testa sembrava che mi girasse come una trottola, neanche la vista mi accompagnò. Mi affrettai, per quanto potevo, a leggere ciò che c'era scritto all'interno prima che non mi fosse più possibile. Respirare divenne pesante e sentivo la necessità di crollare, ma non me lo permisi.

"Prenditi cura di lei" lessi con un filo di voce, allibita. Ogni mio muscolo mi abbandonò. Tentai stupidamente di alzarmi per uscire a prendere aria, ma non rimasi in piedi nemmeno per un secondo, ritrovandomi immediatamente inerme sul pavimento freddo. E lì tutto si spense.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Sto bene ***


-Si sta svegliando- sentii sussurrare. Avvertivo varie presenze attorno a me, raccolte in un mormorio uniforme.

Ancora parzialmente incosciente, tastai debolmente le dita sulla superficie su cui ero distesa. Sembrava una sdraio, ma leggermente meno rigida. Cercavo di aprire gli occhi, ma era difficile. Una mano familiare sfiorò la mia, provocandomi una scossa. Esattamente in quel momento, i miei occhi si spalancarono con uno scatto secco. Ritirai la mano lesta ancor prima che il viso di mio padre divenisse vivido vicino al mio.

Quasi impaurita, arretrai fino a premere le spalle contro il muro affiancato al lettino sul quale giacevo. Il racconto di Hilary riprese a ripetersi nella mia testa ininterrottamente e con una velocità assurda. Avrei dubitato di avere sognato tutto se lo sguardo di Hilary, in fondo alla stanza, non mi avesse supplicato di reagire con più discrezione.

-Tesoro, che ti prende?- Domandò allarmato e perplesso, avvicinandosi ulteriormente.

La mia bocca rimase aperta senza emettere nulla per un lasso di tempo che parve infinito; ma forse era solo il mio mondo a girare lentamente.

-Niente... è che non ricordavo cosa fosse successo. Mi ha spaventata vedervi tutti qui- balbettai, strofinandomi gli occhi. Chissà per quanto tempo sono stata incosciente...

Le altre figure, fino ad allora, erano rimaste delle ombre indistinte. Il mio sguardo sfilò su tutte con superficialità, bloccandosi quando sfiorò un viso confortante; l'unica persona che avevo voglia di vedere in quel momento: Harvie, lo sguardo preoccupato e attento. Si stava mordicchiando le unghie con nervosismo. Potei notare la sua mano ricadere sulla tasca anteriore dei pantaloni, dove riponeva sempre il suo pacco di sigarette, per poi ritirarla con titubanza. Mi guardava con gentilezza. Approfittando della mia attenzione, mi offrì un sorriso rincuorante che riuscii, con mia sorpresa, a ricambiare sinceramente.

La piccola bolla di armonia in cui Harvie mi aveva avvolta scoppiò quando mio padre mi avvolse in un abbraccio.

-Mi hai fatto prendere un colpo...- sussurrò al mio orecchio, cullandomi avanti e indietro.

Lottai con tutte le mie forze per non allontanarlo, per non lasciare trapelare nulla dal mio viso, per non lasciare intendere agli altri del mio disagio e, soprattutto, per non apparire un pezzo di ghiaccio sotto di lui.

Sembrava avessi davanti un'altra persona. Sembrava che quell'essere non avesse nulla a che vedere con un marito, con un padre, con mio padre. Quel contatto iniziava a bruciare. Desideravo urlargli in faccia, umiliarlo davanti a tutti quei colleghi che lo stimavano e sopravvalutavano. Volevo che sapesse che per una cazzo di scopata ci aveva perse entrambe.

E non feci tutto ciò solo per Hilary; per non deluderla.

Finalmente, mio padre si staccò indietreggiando. Io sospirai, sperando che il mio sollievo non fosse troppo evidente.

-L'infermiera ha detto che hai avuto un calo di pressione- mi informò.

-Avrò solo mangiato poco- mi giustificai, non mentendo troppo.

Celine e Margaret mi scrutavano incuriosite, poco più lontano da mio padre. C'erano davvero molte persone lì dentro. Potevo giurare che a molte di loro non fregasse niente delle mie condizioni; che fossero lì solo per assistere ad un po' di dinamismo. Hilary rimase appartata, come se temesse che il suo avvicinamento potesse scaturire qualcosa in me. Harvie mi fissava ancora, immobile al centro della stanza. Una parte di me sperava che si avvicinasse.

-Vuoi che faccia uscire un po' di gente?- Chiese mio padre con disgustosa premura.

-No, non c'è bisogno.

Volevo che gli altri uscissero. Volevo che uscissero tutti, tranne Harvie. Ma dato che non potevo intimare tale desiderio a mio padre, l'unica maniera per farlo restare in quella stanza era non mandare via nessuno.

-Okay, ma dovresti riposare- insistette.

-Ho riposato abbastanza- sottolineai acidamente, alzandomi troppo in fretta dal lettino dell'infermeria.

La mia testa riprese a girare irruenta e rischiai di sbattere nuovamente la testa sul marmo del pavimento se Harvie non mi avesse afferrata per il busto, giusto in tempo.

-Non riesci proprio a stargli lontana- scosse la testa con disappunto. -È davvero così comodo?

Le nostre espressioni mutarono contemporaneamente e ci ritrovammo a sorridere come idioti per la sua battuta.

-Devo ammettere che è piacevole. Ti consiglio di provare- ammiccai divertita.

Lanciai un veloce e casuale sguardo a mio padre, notando che ci fissava furtivamente. Solo in quel momento, Harvie parve rendersi conto di tenermi ancora stretta e mi lasciò imbarazzato. Ma c'era qualcos'altro. Harvie sembrò in qualche modo tornare alla realtà, rammentare qualcosa che lo allontanò da me ancora di più, ma 'sta volta moralmente. Qualcosa tra di noi si scheggiò.

-Sono felice che ora tu stia bene- accennò un sorriso per poi dileguarsi senza lasciarmi rispondere.

Il mio sorriso si spense gradualmente mentre lo guardavo andare verso la porta, lasciando spazio alla delusione, alla paranoia. Perché era andato via? Non mi aveva mai liquidata così e il motivo mi sfuggiva. Quando spalancò la porta socchiusa, un'immagine sfocata, giunta a metà del corridoio, mi balzò all'occhio lasciandomi perplessa. Dovetti strizzare gli occhi per mettere a fuoco, e rimasi sbalordita quando lo vidi.

Jace si dirigeva verso l'infermeria con un piccolo mazzo di margherite tra le mani. Il mio cuore iniziò a battere all'impazzata per il nervosismo e la sorpresa. Vedere Jace sarebbe stato rassicurante se tra noi non fosse accaduto nulla di compromettente. Mi chiedevo chi lo avesse informato su ciò che mi era successo.

Jace varcò la porta con un sorriso raggiante, puntando gli occhi dritti nei miei. Tutti si girarono verso di lui. Vari bisbigli si levarono nella stanza. Pochi erano coloro i quali non si interessavano della sua entrata principesca. A Jace non era mai dispiaciuto stare al centro dell'attenzione; anzi, ci finiva ugualmente anche senza volerlo. Io, invece, odiavo ritrovarmi come protagonista di qualcosa; mi faceva sentire responsabile delle mie azioni e spesso fallivo nell'esibirmi. Perciò, preferivo rimanere nel mio angolino confortevole e tranquillo dove, se sei fortunata, la gente non si accorge di quello che fai. Questo modello di vita era impresso nella mia mente da sempre anche se, col tempo, ero riuscita a distaccarmi a piccoli passi dal mio angolino. Non sarei mai arrivata al centro della mia stanza immaginaria, ma la mia attuale postazione non mi dispiaceva affatto.

-Questo dovrebbe spiegare perché mi hai ignorato per due giorni- osservò una volta avvicinatosi abbastanza. -ma ne dubito- concluse non demoralizzandosi troppo.

Mi stampò un bacio sulla guancia, continuando a sorridere mentre tornava a guardarmi.

-Li ho strappati da un giardino di corsa, mentre venivo- mi informò divertito, porgendomi i fiori.

Li strinsi tra le mani, notando delle zolle di terra alla base dei gambi. Ciò mi fece sorridere.

-Grazie, è carino- tentai di mascherare la tensione. -Ma chi ti ha detto di me?

Puntò gli occhi sulla parete al di sopra della mia testa, inspirando e pensandoci un attimo come se non lo ricordasse. Dopodiché, riportò lo sguardo su di me e prese posto anche lui sul lettino, le nostre gambe a contatto. Tale vicinanza mi provocava un formicolio indecifrabile.

-Harvie- rispose, sorprendendomi.

-Ah sì?

Nell'esatto momento in cui collegai l'immagine di Harvie a quella di Jace, mi sorse un dubbio. Ma una simile supposizione era tanto sciocca che decisi di reprimerla sul nascere. Così la mia idea si spense.

-Sì, credeva che ti potesse fare piacere che io ci fossi al tuo risveglio- annuì, sembrandone anche lui meravigliato. -Avevo qualche dubbio in proposito, ma volevo esserci comunque, per starti vicino- mi avvolse una mano con la sua.

Gli sorrisi debolmente, apprezzando che lui fosse lì per me.

-Riguardo a ciò che è successo...- iniziai, non sapendo nemmeno lontanamente come continuare.

Lui posò un dito sulla mia bocca, zittendomi.

-Non ne dobbiamo parlare per forza.

-Come?- Chiesi confusa.

-Non è il momento. A me importa solo che tu ora stia bene- mi accarezzò una spalla.

Il mio sguardo saettò su Hilary, ora intenta a conversare con Harvie, in fondo al corridoio. Ripensai a tutto quanto, torturandomi anima e corpo per l'ennesima volta. Rivissi l'intero racconto un'altra volta, chiedendomi se l'odio puro nei confronti del verme di fianco all'uscita sarebbe mai svanito. Poi i nostri sguardi si incontrarono, e la risposta arrivò secca.

-Sto bene- fu la mia menzogna.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Puoi abbracciarmi? ***


-Vuoi che andiamo via?

-Ho già detto che non voglio riposare- ribadii con fin troppa enfasi.

-Non volevo portarti a casa- spiegò, accennando un sorriso. -Sarebbe più ragionevole, ma potremmo andare a mangiare qualcosa. Credo che tu ne abbia bisogno.

Abbassai lo sguardo; mi sentivo assente. Ad essere sincera, non avevo voglia di fare niente. Volevo solo sedere nel nulla e rimuginare sull'intera storia, da sola. Alzai lo sguardo nuovamente verso il corridoio, deludendomi nel ritrovarlo vuoto.

-Onestamente, non sarei di buona compagnia- tentai di dissuaderlo, sapendo già in principio di fallire.

-Fa niente; sarò solo costretto ad interagire per due- fece spallucce, prendendomi le mani tra le sue.

Con un movimento spontaneo, le ritrassi. Ciò colse di sorpresa entrambi. Jace sembrò ferito, nonostante l'impegno per non darlo a vedere. Io non riuscii nemmeno a dispiacermi. Sentivo solo la necessità di stare sola, di non essere spinta da nessuno a fingere che andasse tutto bene, perché proprio in quel momento tutto stava cadendo a pezzi.

-Scusa- riuscii a mormorare mentre uscivo dalla stanza a grandi falcate.

Mio padre si protese verso l'uscio dell'infermeria, chiamandomi allarmato. Non riuscivo a sopportare nemmeno la sua voce e, in automatico, accelerai il passo; sperando che non tentasse di seguirmi. Volevo andare via; lontano da lì. La fuga di mia madre, in fondo, non era stata una cattiva idea. Il suo unico errore era stato lasciarmi lì, con lui, con quel mostro.

-Fa tutto schifo- sussurrai tra me e me, non curandomi di possibili ascoltatori.

Sentivo le lacrime in agguato e speravo che uscissero presto. Magari sarei potuta morire prosciugata. Non sapevo come andare avanti, senza di lei. Non sopportavo il fatto che lui l'avesse mandata via; che fosse colpa sua, e che solo io ne stessi pagando le conseguenze perché lui adesso ha semplicemente ottenuto la libertà. Ora se la poteva spassare, non si doveva più nascondere. Sua figlia poteva andarsene a quel paese, tanto durante la sua vita, di lei, sempre poco gli è importato. Il lavoro è sempre stato al centro del suo mondo. Noi siamo sempre state figurine che si è tenuto accanto per vantarsene con clienti e parenti, giusto? È davvero questo il nostro senso nel suo mondo? Bene, allora io mi ritiro, perché mia madre non ha sbagliato. La invidio, perché è riuscita a lavarsene le mani... però cazzo! Poteva portarmi con sé! Perché lasciarmi qua? Perché abbandonarmi così? Credeva che con lui sarei stata più felice? Certo, mamma, guarda quanto sono raggiante. È da quando sei scomparsa che ho mille incubi fissi dietro le palpebre. Non riesco a dormire senza riaprire gli occhi tra le lacrime. Inizialmente, dubitavo di avere sognato tutto, immaginavo che tu ci fossi ancora, ma era un sollievo che durava poco. Adesso, invece, non riesco a bearmi nemmeno più di questo e sai perché? Perché la tua assenza è una costante e a chi voglio prendere in giro ancora? La mia anima sta marcendo ed è colpa vostra!

Immersa tra quei pensieri di fuoco, camminavo alla cieca, addentrandomi tra i corridoi. Quando alzai lo sguardo, mi stupii di essere arrivata dinanzi allo studio di Harvie. La luce era accesa e la mia mano si protese verso la maniglia e rimase in aria esitante. Non sapevo perché, ma provavo un desiderio ardente di entrare e intendevo farlo. Ma la mia mano restava immobile.

Poi, stanca di aspettare chissà quale altra spinta, aprii la porta con decisione. Mi stupii quando vidi Margaret lì dentro. Erano in piedi e sembrava avessi interrotto qualcosa.

-Scusate- mi affrettai a dire, balbettando. -Pensavo di avere dimenticato il mio libro qui, ma sbagliavo.

Con profondo imbarazzo, mi richiusi la porta alle spalle. Sentii Harvie chiamare il mio nome, ma mi allontanai ugualmente. Mi iniziai a domandare cosa esattamente avessi interrotto e mi scorse un brivido lungo la schiena nel valutare le varie ipotesi. Ma non importava, sarei andata chissà dove; in un posto dove nessuno mi avrebbe turbata. Ma forse non esisteva un tale posto.

Avevo appena premuto il tasto che avrebbe aperto le porte dell'ascensore quando un'altra porta si aprì in lontananza. Mi voltai istintivamente, vedendo Margaret uscire, seguita da Harvie. Lei proseguì lungo il corridoio adiacente e non mi importava nemmeno sapere se lui l'avesse seguita. La voglia di parlare con lui si era affievolita. Vederli insieme mi aveva scombussolato lo stomaco, irragionevolmente.

-Perché sei venuta nel mio studio?

Harvie era giunto al mio fianco senza che io me ne accorgessi. Le porte dell'ascensore si aprirono proprio in quel momento.

-Te l'ho detto- risposi inespressiva, guardando immobile l'interno dell'ascensore.

Feci un passo verso il cubicolo accogliente, venendo presto bloccata da una stretta sul polso.

-Come se non ti conoscessi- borbottò, indietreggiando e incitandomi a seguirlo.

Le porte dell'ascensore si richiusero e Harvie si mise a camminare verso il suo ufficio, portandomi con sé.

-Volevi parlare con me?

-Non era importante- mormorai, non avendo nemmeno voglia di portare avanti la mia bugia.

-Fallo constatare a me- mi consigliò, incitandomi ad entrare.

Non feci tante storie e lo assecondai in silenzio. Un profumo femminile aleggiava nell'aria e ciò mi provocò il volta stomaco.

-Strano che tu e Margaret foste qui da soli- osservai, vagando per la stanza. -Credevo non ti piacesse- commentai con falso disinteresse.

-Voleva solo un parere su un possibile libro- la giustificò con prontezza.

-Vuole scrivere un libro?- Tentai di approfondire.

-A quanto pare, le piacerebbe.

-Capisco... di che argomento?

-Un romanzo- disse, scrutandomi curioso. Probabilmente, si chiedeva del perché di tanto interesse.

-E ne avete anche recitato una scena?- ghignai aspra, prendendo posto sulla sua poltrona.

-Non essere ridicola. Continua a non piacermi- affermò con frustrazione. -E comunque, non credo che tu mi volessi parlare di lei.

-Hai ragione- ammisi, tornando alla mia realtà.

Mi dondolai sulla poltrona girevole, strappandomi le pellicine con le unghie per il nervosismo. Harvie sembrò percepire l'atmosfera cupa che mi avvolgeva, così si avvicinò, sedendo accanto a me.

-Ha a che fare con ciò che ti è successo?- Tentò di strapparmi delle informazioni.

Io annuii con sguardo basso. Una lacrima mi rigò il viso e lui sembrò preoccuparsi ulteriormente. Altre lacrime scivolarono autonomamente ed io sembravo non percepirle nemmeno.

-Mio padre ha tradito mia madre- sputai col viso ormai fradicio.

I miei occhi si focalizzarono su un punto fisso del pavimento. Lo avevo detto; era vero, era tutto vero. Sentii le spalle ricurve tremolare per il respiro affannato unito ai singhiozzi repressi. Mi ritrovai sul punto di scoppiare.

-Come?- Balbettò, ritrovandosi disorientato. Probabilmente, si aspettava che dicessi di tutto tranne che questo e si aspettava, certamente, che ne parlassi con chiunque altro, meno che con lui. Invece, era solo con lui che desideravo parlarne. -Ne sei sicura?

-Secondo te piangerei per averlo sognato la notte scorsa?- Domandai con tutto il veleno in corpo, stringendo i denti quasi fino a spezzarli. -Mia madre è scappata tre mesi fa, per colpa sua- lo informai, torturando la pelle delle mie mani screpolate. Si formò una piccola crepa rosea sulla superficie. -Sto impazzendo- sussurrai con voce spezzata. Respiravo a fatica.

I miei piedi iniziarono a sbattere ritmicamente sul pavimento. Iniziava a fare caldo e desideravo che Harvie parlasse, che mi dicesse qualcosa; una piccola frase magica che avrebbe sistemato tutto. Ma come biasimarlo per essere rimasto interdetto...

-Mi stai dicendo che tua madre è scappata tre mesi fa e nessuno ne sa tuttora niente?- Chiese sbalordito, protendendosi verso di me. -O per lo meno, io non ne sapevo niente.

-Pochi lo sanno- mi limitai a dire, asciugandomi le guance con le maniche.

-Tu come sai di tuo padre?- Chiese ancora con cautela, guardandomi dolcemente. Nemmeno lui sapeva come fosse meglio comportarsi in quel contesto ed ero grata perché stesse provando a fare del suo meglio. Nel suo sguardo riuscii a ritrovare il sostegno tanto bramato, forse lo stesso che mia madre aveva ritrovato in Hilary quella sera tempestosa.

-Mia madre si è confidata con Hilary prima di scappare. L'ho saputo ore fa; ecco perché devo essere svenuta- spiegai.

Mi morsi violentemente il labbro inferiore, abbassando lo sguardo. Harvie mi osservava, cercando le parole giuste e, fino ad allora, ero stata convinta che non ce ne fossero.

-Non so come tu abbia fatto ad andare avanti così a lungo senza di lei, senza sapere del perché se ne fosse andata...- aggrottò la fronte, incredulo delle mie parole. In effetti, anche a me sembrava surreale. -Non capisco come questo sia possibile- osservò, accarezzandomi una guancia umida. -Sapevo che c'era qualcosa che non andava, che qualcosa ti turbava, ma non credevo che...- si interruppe.

-Puoi abbracciarmi, Harvie?- Chiesi speranzosa, incatenando lo sguardo col suo. -Non devi per forza. Voglio dire, Bree...- lasciai tale pensiero in sospeso. -Lo capisco se preferisci mantenere le distanze- farfugliai, rendendomi ancora conto della mia sfacciataggine.

Notai solo dopo di essermi protesa verso di lui, così mi allontanai goffa e delusa. Cosa volevo ottenere parlandone con lui? Compassione? Ne avevo già abbastanza proveniente da varie parti; perché ne necessitavo ancora? Mi alzai frettolosa, dirigendomi verso la porta. Vidi di sfuggita la sua espressione confusa nel vedermi andare via. Doveva pensare che fossi una schizzata e non gli avrei dato torto. Probabilmente, ero sulla buona strada.

-Blue, fermati- si alzò dalla sedia, procedendo verso di me. -Nessuno può negarti un abbraccio adesso.

Quelle parole estasianti mi fecero bloccare sui miei passi. Non ero arrivata nemmeno alla porta quando la sua mano si posò sulla mia spalla, costringendomi a voltarmi. I nostri corpi si attirarono come spinti da qualcosa, incastrandosi, senza alcuna esitazione. Non mi sono mai sentita tanto al sicuro.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Non parlare di lei ***


Singhiozzavo senza tregua. Gli stringevo la camicia ormai fradicia, sentendomi, per la prima volta, protetta; come se mi potessi concedere un attimo di debolezza. Le sue dita vagavano fra i miei capelli, massaggiandomi la cute con una delicatezza che non riuscivo ad apprezzare pienamente.

Restammo in quell'ufficio per un lasso di tempo infinito. Gli raccontai tutto; ogni singolo dettaglio. Perché proprio a lui? Sapevo solo di non sentire la necessità di dirlo a nessun altro. Jace e Robin sarebbero stati pronti ad ascoltarmi e a compatirmi, anche se il mio rapporto con Robin era ancora teso e annebbiato; non avevamo più parlato dal nostro battibecco. Jace, d'altra parte, mi metteva a disagio; non avevo la più pallida idea di come comportarmi con lui. Aveva detto di non volere parlare subito dell'accaduto, ma questo non significava che l'argomento fosse chiuso.

Ero riuscita a calmarmi. Gli occhi mi bruciavano per le troppe lacrime, ma il mio respiro era di nuovo regolare, alternato solo da qualche sbalzo.

-Non avrei mai immaginato che Drew fosse capace di fare una cosa del genere- ammise Harvie, sbalordito. -Quando li vedevo insieme, sembravano andare d'accordo- rifletté.

-Anche Hilary me l'ha detto- annuii con una smorfia. -Ma non è vero. O per lo meno, non negli ultimi tempi. Litigavano quasi ogni giorno, anche per stupidaggini; anche quando mia madre credo non sapesse ancora ciò che le aveva fatto. Credo che ora lui sia felice; non ci sono più ostacoli per lui.

-Hai ragione ad essere arrabbiata. Deve essere terribile sapere che tutte le sue colpe le stia pagando tu- mi strinse istintivamente una mano, facendomi rabbrividire. -Ma perché non portarti con sé?- Si chiese con rammarico.

-Voleva farlo... Non so cosa l'abbia spinta ad andarsene così- risposi imbronciata, tirando dei fili di stoffa dai miei jeans strappati.- Ho un bisogno tremendo di sapere- confessai, portandomi la mano libera sulla fronte aggrottata, volgendo lo sguardo alla mia mano ancora avvolta nella sua, chiedendomi che effetto gli facesse.

-Potrebbe avere saputo qualcosa che l'ha spiazzata, non lasciandole scelta- ipotizzò, riflettendoci su. -Non risponde alle chiamate?

-Credo abbia un nuovo numero. Mi sono arresa solo da poco a comporre sempre lo stesso-  lo informai, tirando su di naso.

-Non ti ha nemmeno spedito una lettera?- Chiese ancora.

-A meno che mio padre non le abbia bruciate tutte, no.

Harvie sembrò perplesso. Rimase in silenzio a lungo, mentre io dondolavo sovrappensiero sulla sedia girevole.

-Questa cosa non mi convince- affermò con aria indagatrice. -Ovviamente, suppongo che non ti abbia scritto alcuna lettera perché avrebbe dovuto spedirla a casa vostra, dove è più probabile che la ricevesse tuo padre. Ma, dato che Hilary è venuta a conoscenza di tutto,  poteva anche scrivere a lei per farti recapitare un messaggio- ragionò. Sembrava essere vicino a scoprire qualcosa. Stava esaminando i fatti per capire cosa mia madre avesse avuto in mente di fare. Personalmente, non avevo mai pensato seriamente alla ragione per cui non avesse cercato di contattarmi nei mesi passati. Mi ero sempre demoralizzata e convinta che, semplicemente, non volesse avere più niente a che fare con me. Ma Harvie iniziava a farmi credere di avere la risposta ad un soffio dal naso. -A meno che...- il suo sguardo si accese, mettendomi in allerta. Cosa aveva in mente? Quasi riuscivo a percepire il rumore metallico delle rotelle nella sua testa. -A meno che lei non ti abbia già lasciato un messaggio.

*******

Mi chiusi la porta di casa alle spalle. Harvie era stato tanto gentile da offrirsi di accompagnarmi a casa. Pioveva ancora e voleva evitare che tornassi con mio padre. Le sue parole mi rimbombavano nella testa.

Secondo lui, mia madre mi aveva già lasciato un messaggio. La sua teoria era credibile, ma dubitavo che da qualche parte in quella casa lei avesse lasciato qualcosa per ricondurmi da lei. Inoltre, perché non raccontarmi tutto prima di andarsene così da portarmi con sé invece che scappare per poi farsi ritrovare? Non riuscivo a capire.

Ero convinta che se mi avesse nascosto un messaggio da qualche parte, sarebbe stato un nascondiglio accessibile solo a me e che avrei potuto trovare facilmente. Ma se così fosse, avrei già dovuto trovare tale messaggio. Cominciai a credere davvero nelle parole di Harvie; nel ragionamento da lui condotto. In fondo, la sua teoria era davvero plausibile.

Sempre più convinta dopo ogni passo, mi misi a correre verso la mia stanza. Lì c'era tutto ciò che era mio e che mio padre non aveva mai sfiorato. Frugai tra i cassetti, nell'armadio, sotto il letto, nello zaino, persino nelle scatole di tutte le mie scarpe... Niente. Non c'era niente, da nessuna parte. Mi accasciai sul pavimento, con le spalle poggiate al letto. Il mio cuore batteva all'impazzata, ancora avvolto nell'illusione che mia madre avesse davvero voluto dirmi qualcosa. Anche il mio respiro usciva a sbuffi. Nonostante la delusione, continuai a scrutare la stanza, chiedendomi se, magari, avessi trascurato qualcosa. Dopo pochi attimi, mi convinsi quasi totalmente di avere preteso troppo. Forse Harvie aveva torto. Forse mia madre, per qualche ragione, voleva davvero cancellarmi dalla sua vita; non voleva davvero essere trovata.

Lo scatto della serratura mi creò un vortice nello stomaco: mio padre era tornato. Il pensiero di ritrovarmi sola con lui, ora, mi turbava. Non avevo idea di cosa l'istinto mi avrebbe suggerito di fare se solo mi avesse nominato la mamma anche solo per sbaglio. Ricominciai a pensare alla disgustosa sofferenza che aveva mostrato fino ad ora riguardo alla sua fuga. Tutti i pomeriggi trascorsi a comporre numeri infiniti; tutte le sere passate tra rumorosi singhiozzi che mi hanno fatto tremare il cuore per un doppio dispiacere; il modo in cui mi aveva abbracciata con tutte le sue forze per impedirmi di seguirla oltre la porta ormai chiusa; il modo in cui, sussurrando, mi prometté che sarebbe tornata presto come se cercasse di convincere anche se stesso.

Come poteva mostrare tanto dolore per una disgrazia che si era meritato pienamente? Perché sì, mia madre ha fatto il dovuto necessario. Non le darei alcuna colpa se non la codardia. Perché sì, è stata una codarda. Non mi ha parlato dei suoi piani perché temeva la mia reazione; temeva che non l'avrei seguita volontariamente o che avrei fatto la spia, facendo sì che mio padre impedisse ad entrambe di abbandonarlo. Mio padre merita la sua assenza. Io l'ho sempre amata... Perché devo conviverci anch'io?

-Voglio andarmene da qui- sussurrai debolmente, abbandonando la testa sul materasso. Sentii gli occhi inumidirsi, ma fui costretta a ricompormi quando la porta della mia camera cigolò.

-Papà?- Mi irrigidii.

-Come stai?- Domandò, sporgendosi dallo spiraglio che aveva lasciato.

-Bene- tagliai corto, distogliendo lo sguardo.

-Hai mangiato?

-Sì- mentii. L'ultima cosa che volevo era cenare con lui. Solo allora mi resi conto che poteva sembrargli strano ritrovarmi accovacciata sul pavimento, così mi alzai con fare meccanico. Gli diedi le spalle, cercando di mostrarmi indaffarata nell'attesa che sparisse. Presi a sistemare lo zaino per l'indomani, innervosendomi gradualmente nel percepire il suo continuo sguardo addosso. Era ancora dietro di me, e non sapevo cosa stesse aspettando.

In un lampo, mi voltai, inchiodandolo con lo sguardo aspro.

-Be'?- Feci impaziente.

-C'è qualcosa che non va, Blue?

La preoccupazione che inalavano le sue parole mi invogliava a strapparmi i capelli. Avevo una voglia matta di scoppiare, di umiliarlo per ciò che sapevo... Ma dovevo agire con astuzia o tutto sarebbe andato perso. Come poteva chiedermi una cosa del genere? Dimmi papà; secondo te, nella mia vita c'è qualcosa che va bene?

-No.

Lui sospirò frustrato mentre avanzava a piccoli passi verso l'uscita.

-So che la situazione è difficile- tentò di compatirmi, in un ultimo tentativo prima di mollare, mandandomi in bestia. Dovetti richiedere la collaborazione di tutte le mie forze per rimanere impassibile. -La mamma... lei è stata un'incosciente ad abbandonarci così- disse con disappunto, scuotendo la testa, le mani sui fianchi, le labbra imbronciate e lo sguardo basso, addolorato.

I miei occhi bassi, prima focalizzati sul pavimento per mantenere la compostezza, saettarono su di lui con uno scatto che, se avesse avuto un peso, lo avrebbe scaraventato chissà dove. Speravo che i miei occhi fossero lo specchio di tutto il disprezzo che provavo, perché lui doveva vederlo. Doveva bruciare nella lava del mio odio.

-NON PARLARE DI LEI!- Sbottai, urlando furibonda. -Non ti azzardare nemmeno a nominarla- gli puntai un dito contro, come se fosse una minaccia. L'incredulità di mio padre era evidente.

- Blue sai che...

-Lasciami sola- lo interruppi con voce forzatamente bassa, voltandomi. Poggiai le mani sulla scrivania per sorreggermi. Mi sentivo debole e tremolante. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. L'adrenalina iniziò a scivolarmi via dalle vene, lasciando spazio alla totale angoscia. La porta si chiuse con esitazione; come se mio padre sperasse in un imminente pentimento; una qualcosa che non sarebbe mai arrivato.

Ciò che più di tutto mi distruggeva era il fatto di amarlo comunque. Io non volevo odiarlo; non volevo perdere anche lui; non volevo ritrovarmi sola in un mondo di rabbia verso gente che si tradisce a vicenda; verso gente che per fare soffrire l'altro deve necessariamente fare soffrire anche me! Era mio padre; gli volevo bene, era innegabile. Nonostante ciò che sapevo e l'infinita delusione a riguardo, era impossibile che io lo odiassi incondizionatamente, come se fino ad allora, per me, non fosse stato nient'altro che quest'uomo orrendo che ora si era dimostrato. E odiavo immensamente il fatto che, per colpa sua, fossi stata costretta a negargli per sempre un amore tanto grande.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Che troia ***


-Ricordate di studiare bene per il compito!- Ribadì il signor Lionel mentre l'intera classe si svuotava.

Io rimasi impassibile, ad osservare ammaliata i movimenti ipnotici delle mie dita bisticcianti, non curandomi molto delle difficoltà che avrei avuto a riguardo. Era passato quasi un mese dall'inizio dell'anno scolastico e, inaspettatamente, Blue Writon non aveva sfiorato nemmeno un libro didattico.

-Credo proprio di affondare- Charlie sospirò, alzandosi dalla sedia. -Usciamo da qui? Sto soffocando- tossì disgustata, riferendosi al pesante tanfo aleggiante nella classe.

-D'accordo- acconsentii senza troppa enfasi, seguendola verso l'uscita. Girovagammo nel corridoio, parlando del più e del meno; delle solite cose.

Parlammo del sabato trascorso, dell'imminente compito di chimica e molto altro. Sostammo alla macchinetta per rifornirci di un paio di merendine e proseguimmo verso il cortile. Avevo la vaga sensazione che dovesse dirmi qualcosa. Sembrava che ogni volta che introduceva un argomento temporeggiasse solamente, in attesa del momento giusto per discutere di quello principale, ma feci finta di nulla.

Il cortile della scuola era accogliente. Si trovava sul retro dell'edificio imponente, ed era delimitato dal cancello arrugginito. Era grande e relativamente dispersivo. Delle aiuole non troppo curate erano sparse nei dintorni insieme a pochi modesti alberi; sembrava un piccolo parco cittadino.
L'improvvisa eruzione di Charlie mi fece sobbalzare.

- Oh, Blue! Non vorrei essere troppo impicciona, - esclamò come se avesse appena ricordato qualcosa. - Ma credevo fosse meglio parlartene e non assecondare queste voci nel caso siano false.

Corrugai la fronte, non potendo parlare per la bocca piena. Le feci cenno di continuare.

- Gira voce... che... insomma, - balbettò con riluttanza. Tre ragazze si erano appena alzate da una panchina non troppo lontana e Charlie ne approfittò, prendendo il loro posto. Si scosse i capelli, stringendosi nelle spalle. Cercai di prevedere cosa mi avrebbe detto, ma non ci arrivai.

- Non capisco cosa tu voglia dirmi, - mi sedetti accanto a lei. - Charlie, - la incitai supplicante.

- Dicono che tu e Jace vi siate baciati, - sputò fin troppo velocemente. La mia bocca quasi toccò il suolo. L'idea che altre persone potessero venirlo a sapere non mi aveva mai nemmeno sfiorata; eppure, era un gran problema. - Da una parte credo che sia una cazzata. Tu e lui siete amici da una vita... sarebbe strano, - osservò con nonchalance.

Rimasi in silenzio per qualche attimo, chiedendomi se valesse la pena negarlo. Potevo fidarmi di Charlie? Non era una delle mie migliori amiche; eravamo compagne di classe e andavamo d'accordo. Ma qualunque fosse stata la mia scelta, il silenzio mi aveva anticipata, rendendo a Charlie tutto chiaro. La sua espressione sbalordita mi urtò lievemente, ricordandomi la gravità dell'accaduto. Un senso di nausea mi rapì, ricordandomi dell'irrimediabile sbaglio commesso.

-Dimmi che non è vero- assunse un'espressione più che allibita. Non avrei saputo dire se le sembrasse disgustoso o fantastico. -Io lo sapevo- annunciò riprendendosi. -Lo sapevo- ribadì soddisfatta. -Tutte le storie più belle iniziano con un'amicizia- commentò, su di giri.

-Forse nei film- aggiunsi amaramente, passandomi una mano tra i capelli in un sospiro frustrato.

Il sorriso di Charlie si spense per la delusione.

-Qual è il problema?

Voltò il busto verso di me, dedicandomi tutta la sua attenzione. Le mie ginocchia sbattevano tra loro in un frenetico tic nervoso. Volevo solo che non fosse successo affatto e che perciò non ci fosse nulla da spiegare.

-Lui è solo un amico. Non so cosa mi sia preso quella sera, ma... non è lui che voglio- cercai di spiegare, sforzandomi di trovare le parole giuste.

Charlie fece una smorfia compassionevole, mormorando un "oh..."

-E chi vorresti se non lui?- Domandò poi, disorientandomi.

La risposta non arrivò immediatamente. Mi ritrovai a rifletterci sopra, anche se poi la risposta parve ovvia.

-Be', nessuno.

-E tu sei davvero sicura di non potere mai provare niente di più per lui?- Indagò, mettendomi pressione.

Erano domande come quella che mi rendevano difficile agire e farla finita. Magari quello era solo il momento sbagliato perché tra noi si realizzasse qualcosa, ed io non potevo saperlo.

-Non lo so, non lo posso sapere- gesticolai snervata. -So solo che adesso non riesco a stare in una stanza con lui senza sentire la necessità di andarmi a nascondere.

Charlie rise, alzandosi automaticamente dopo avere sentito lo squillo della campana di fine intervallo.

-Io ti consiglio solo di non respingerlo subito; potresti pentirtene. Non vuoi dargli nemmeno una possibilità?- Insistette, scombussolandomi ulteriormente.

Le mie idee erano già deboli e confuse; sentirne delle altre non mi aiutava affatto.

-Non lo so- ripetei. -Vedrò come cavarmela- tagliai corto.

Ripetemmo il precedente percorso, non entrando però subito in classe. Rimanemmo poggiate al muro del corridoio ad osservare i passanti. Nonostante avessimo dovuto già essere tutti nelle rispettive classi, il corridoio era ancora un formicaio. Ci scambiammo qualche parola tra un morso e l'altro. Non c'era da meravigliarsi se tra tutte quelle chiacchiere non avessimo avuto il tempo di finire i nostri snack.
D'un tratto passò Margaret, casualmente. Cercavo il suo sguardo per salutarla ma non mi vide. Quella mattina era molto carina. Indossava dei jeans a vita alta e una felpa di mezza stagione. I capelli solitamente gonfi e poco manipolati erano 'sta volta perfettamente lisci. Teneva le braccia incrociate al petto mentre tentava di destreggiarsi nel traffico, stando ben attenta a non pestare i piedi a nessuno.

- Che troia... - sputò Charlie con la bocca piena, fulminandola con lo sguardo.

Quel commento le lasciò le labbra come se fosse riferito a qualcosa di risaputo, ma io non vi trovavo alcun collegamento, nemmeno usando la fantasia. Mi chiesi se avevo capito bene o se si stava effettivamente riferendo a lei, perché qualcosa non quadrava.

- Chi? Margaret? - Domandai basita, voltandomi con uno scatto.

- Sì, - Charlie mi rivolse uno sguardo ovvio. - Non sai quello che ha fatto? - chiese, sgranocchiando.

Scossi la testa, in attesa che continuasse.

-Be', è una lunga storia. Se entriamo, te la racconto.

Una volta in classe, riprendemmo i nostri posti. Charlie non iniziò subito a raccontare e ciò fece viaggiare la mia fantasia, portandomi a ipotizzare le più grandi assurdità. Cosa poteva rendere Margaret una "troia"? Era la ragazza più riservata e buona che io avessi mai conosciuto. Più che una verità, sembrava una barzelletta. Il signor Rainer aveva appena iniziato a blaterare quando Charlie richiamò la mia attenzione e non dovette pregare tanto per ottenerla.

-Allora, mio cugino (non credo che tu lo conosca) stava con lei. Sono stati insieme per un sacco di tempo. A lui piaceva molto Margaret e si vedeva. Era iniziata come una specie di amicizia, ma poi sono finiti insieme. Comunque, una sera lo ha tradito. Non ha fatto niente di che; ha solo baciato un altro ragazzo, però per lui è stato intollerabile- concluse contrariata. -Considera che lui era perso per lei... È stata una delusione immensa. Non è nemmeno riuscito a perdonarla, nonostante lo desiderasse sul serio- spiegò amareggiata, cercando di tenere la voce bassa.

-Li ha visti lui?- Domandai sconcertata. Non potevo credere alle mie orecchie.

Lei annuì con le narici larghe per lo sdegno del ricordo.

-Quando me lo ha raccontato era devastato. Siamo sempre stati molto legati. Quindi puoi anche capire perché io stessa la disprezzi tanto. Si confidava sempre con me. Ora un po' di meno, ma è normale: un adulto non può dipendere dalla cugina- lo giustificò con un accenno di amarezza. -Non ci scambiamo più di due parole da un sacco di tempo- disse persa nel vuoto, quasi ricordandolo a se stessa.

-Prima lei non era così- mi informò con un broncio pensieroso. -Perfettina, educata, riservata, introversa... Lei era normale; una ragazza come tutte le altre. Forse pensava che cambiando radicalmente, lui avrebbe dimenticato cosa aveva fatto. Ma come dimenticare una cosa tanto dolorosa? E più gente di quanta credi la odia per questo.

Dopodiché la conversazione precipitò nell'oblio. Io ero rimasta completamente senza parole. Cercavo di collegare dei fili invisibili nella mia testa per rendere coerente quella notizia con la mia realtà. Ma era troppo surreale per accettarlo all'impatto. Margaret era l'ultima persona che credevo capace di fare una cosa del genere. Ed ecco spiegato perché Harvie sembrava disprezzarla tanto. Ora era tutto più chiaro ma anche incredibile. La nostra attenzione si spostò temporaneamente sul professore, ma la distogliemmo quasi immediatamente.

-Non l'avrei mai detto- commentai imbronciata.

-È strano che tu non lo sapessi.

Forse se non vivessi in una tragedia, potrei dedicarmi di più ai pettegolezzi, mi presi in giro con amarezza.

Tentai di pensare ad una Margaret estroversa e traditrice. L'immagine che a stento affiorava nella mia mente raffigurava una persona che non aveva nulla a che fare con la Margaret che avevo personalmente imparato a conoscere. E faceva paura che della vecchia Margaret non fosse rimasto proprio niente.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Ho baciato una ragazza ***


Ero appena uscita da scuola. Charlie si era persa nel cumulo di gente, perciò proseguivo da sola, affrettandomi a raggiungere il cancello senza spingere troppo. Ero quasi uscita dalle sbarre quando sentii qualcuno chiamare il mio nome. Non ne ero certa; poteva essere stata una mia impressione. Anche se la possibilità che stessero chiamando qualcun altro era da scartare, dato che il mio nome era alquanto raro al mondo. Non potevo girarmi e bloccare il flusso di gente; mi avrebbero calpestata tutti senza pietà e senza guardarmi in faccia. Una volta fuori dal perimetro della scuola, mi guardai intorno, non notando nessuno. Così feci spallucce, rimettendomi in marcia.

Avevo appena fatto pochi passi quando una mano si posò sulla mia spalla. Voltandomi, vidi Robin. Un senso di disagio mi sfiorò, scivolandomi in fretta di dosso.

-Ti chiamavo- mi informò con un cenno di insicurezza.

-Ah sì?- Feci come se non avessi sentito.

-Già- si grattò la testa, spostando col piede delle foglie secche sulla strada. -Ti dispiace se andiamo insieme?- Domandò speranzosa, nell'imbarazzo.

Robin era un tipo orgoglioso. Sapevo quanto impegno ci stesse mettendo per venirmi incontro, perciò fui costretta ad annuire. Lei accennò un sorriso, affiancandomi. Camminammo in silenzio per un po'. Forse si aspettava che io dicessi qualcosa, ma non avevo nulla da dire. E lei sapeva che non ero il tipo che riempiva il silenzio con delle sciocchezze anche se non ne aveva voglia; soprattutto se provavo ancora del rancore nei suoi confronti. Con la coda dell'occhio, la colsi ad alternare lo sguardo tra me e la strada varie volte, con delle precise parole sulla punta della lingua che esitavano a pronunciarsi.

-Mi dispiace per sabato- disse all'improvviso, concentrata sui suoi passi. -Sei stata un tesoro a non darmi la colpa ed io me ne sono approfittata- ammise in un sospiro. -Ho dato la colpa all'alcol, ma sono stata solo codarda; non ne avevo nemmeno bevuto molto e non sono più tanto sicura che fosse proprio quello il problema.

La ascoltai senza interromperla, apprezzando davvero le sue scuse.

-Sono stata una pessima amica- aggiunse rammaricata. Poche volte l'avevo vista vulnerabile. Quell'immagine era a dir poco contrastante con la Robin dura e ironica che tutti conoscevano alla superficie. Avevo imparato che Robin sembrasse una grandissima strafottente solo per nascondere il peso che dava ad ogni minima cosa. Avevo imparato a riconoscere le sue bugie e a credere alle sue più assurde verità, e mi rendeva felice sapere che il suo pentimento fosse una verità.

-No, non lo sei- la contraddissi, sorprendendola, nonostante sapesse molto bene che mi era impossibile reggere la rabbia a lungo. A quel punto, alzò lo sguardo per guardarmi. -Una pessima amica non si sarebbe scusata in un modo così convincente- evidenziai, sorridendole.

Un sorriso nacque anche sul suo viso, ma in una forma più raggiante. Mi afferrò, stringendomi in un abbraccio soffocante. Mi venne da ridere, ma il respiro quasi mi mancava. I suoi strilli infantili minacciavano di rompermi i timpani, ma io cercavo di non lamentarmi e apprezzare quel piccolo attimo di affetto che chissà quando si sarebbe ripresentato.

Dopodiché, tutto tornò normale. Ricominciammo a camminare, riempiendo di chiacchiere e risate i quartieri silenziosi. Tra un argomento e l'altro, Robin mi raccontò di come la sua serata si era trasformata dopo il nostro battibecco, lasciandomi a dir poco interdetta.

-Ti giuro, non so come sia successo- piagnucolò, sbattendosi una mano sulla fronte.

Non riuscivo a crederci.

-Prova a spiegarlo!- Le imposi, rapita dall'assoluta incredulità.

-Be', in poche parole, c'era Peter, no? Mi guardava in una maniera disgustosa. Io stavo ballando a caso in mezzo alla folla, con nessuno in particolare. Non mi giudicare per questo, ma so bene di piacergli. So anche che è un bravo ragazzo, ma il modo i cui mi guardava quella sera era disgustoso. Volevo solo togliermelo dai piedi. Così ho afferrato una ragazza abbastanza ubriaca da non respingermi e l'ho baciata- spiegò in un soffio, quasi dimenticando di respirare tra una parola e l'altra. Mi parve buffo come concluse l'intero discorso con un sorriso fasullo e forzato.

Mi lasciai scappare un risolino.

- Da quando sei così spavalda? Poteva avere un fidanzato!

- Be', sì. Me ne sono preoccupata, ma...- fece una pausa, agitandosi. -Poi mi ha detto di essere single, - si riprese, insospettendomi.

- Allora avete parlato, - constatai, nuovamente stupita. -Non è stato solo un bacio.

Una ventata d'aria fredda mi colpì, facendomi rabbrividire. Evidentemente, il clima si stava adeguando alla stagione. La giacca di jeans che indossavo non andava più tanto bene.

- Non ingigantirla tanto, Blue, - borbottò frustrata, passandosi una mano tra i capelli scompigliati dal vento. -Be', siamo rimaste lì e abbiamo continuato a ballare. Poi si è sentita male e l'ho portata fuori. Ci siamo scambiate qualche parola e siamo andate a casa- spiegò con più calma, misurando bene ogni parola.

- E i suoi amici?

- A quanto pare era da sola, - rispose, tenendoci a tagliare corto.

Capii che Robin preferisse abbandonare l'argomento, così evitai di insistere. Era una notizia insolita e avrei voluto domandarle ancora una miriade di cose per soddisfare la mia curiosità, ma non volevo imbarazzarla ulteriormente. Poteva anche essersi pentita di quel bacio ed io, non sapendolo, non volevo farglielo pesare. Eravamo appena entrate nel mio quartiere quando Robin mi chiese di mia madre.

-Hai sue notizie?- Domandò cauta, infilando le mani nelle tasche della felpa. Probabilmente il vento freddo infastidiva anche lei.

-In realtà no...- mormorai con riluttanza. Ero sul punto di intimarle ciò che avevo scoperto, ma mi bloccai, decidendo di pensarci bene prima di spifferarlo a qualcun altro.

-Sai, le persone si stanno insospettendo- mi informò, abbassando la voce. L'atmosfera si fece cupa. L'unico rumore udibile erano i nostri passi sordi sull'asfalto del marciapiede e il vento fischiante. -Chiedono spesso a mia madre di lei, al negozio.

-Prima o poi sarebbe successo- sospirai con sguardo basso. -Staithes non è poi così grande.

-Tu non hai idea di dove potrebbe essere? Magari dai tuoi nonni, a Londra- ipotizzò, tentando di aiutarmi.

-Sono sicura che si sarebbero fatti sentire- scartai l'ipotesi; ormai mi ero arresa.

Robin mi lasciò davanti casa mia, proseguendo per la sua strada. Nonostante avessi liquidato l'ipotesi di Robin, misi da parte la stanchezza dell'intera mattinata, ritrovandomi a correre su per le scale. Mi chiusi la porta della camera alle spalle, componendo il numero di mia nonna con il cuore in gola. Lei rispose e ciò che mi disse fu spiazzante.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Piccola pazzia ***


Robin's pov

on Saturday night

Bene, ero rimasta sola. La serata non poteva peggiorare ulteriormente. L'ombra di una vaga coscienza mi spronava a tornare da Blue e ad insistere con le scuse; non solo per liberarmi dalla  solitudine imbarazzante, ma per zittire i sensi di colpa sempre più assordanti.
L'orgoglio però parlava più forte, così finii per adattarmi.

In quell'ammasso di gente mi sorpresi lietamente nello scorgere Peter, osservando che la sua presenza non poteva che significare qualcosa di buono per il mio portafoglio.

Forse sopprimere i sensi di colpa con altri sensi di colpa non era un'idea grandiosa, ma feci finta di non udire le lamentele del mio grillo parlante. Quando lo vidi al bancone era con il suo solito amico del cuore, un certo Oliver. Ero davvero in vena di giocarci un po'.

-Ciao Peter!- Sorrisi ampiamente, giuntagli dinanzi.

Lui si voltò sorpreso; non doveva avermi vista arrivare.
-Ciao, Robin! Che bello vederti- esclamò, ricambiando il sorriso.

-Già. Ti stai divertendo?- Mi leccai le labbra, oscillando a ritmo di musica.

-Diciamo di sì. Siamo arrivati da poco. Tu che mi dici?- Domandò, prendendo un lungo sorso dal suo cocktail verdastro.

-Potrebbe andare meglio. Ero venuta con Blue, ma abbiamo litigato ed è sparita- spiegai, cercando di celare la maggior parte del reale dispiacere.

-Oh, mi dispiace. Perciò sei da sola?- Chiese speranzoso.

-Purtroppo sì- annuii, guardandomi intorno. -Stavo giusto per prendere qualcosa da bere. Può essere che basti questo per risollevare la serata- ammiccai, sorpassandolo per poi poggiarmi al bancone, pronta ad ordinare qualcosa. Non dovetti attendere molto prima che la sua mano si poggiasse sulla mia spalla.

-Potrei offrirti qualcosa?

Un piccolo sorriso vittorioso si formò sul mio viso; un sorriso che perse malizia quando riuscì a guardarmi bene.

-Sarebbe carino da parte tua- risposi senza pregarlo troppo di evitare.

Quando la bar tender ci dedicò la sua attenzione, ordinai un Long Island. La mia richiesta venne soddisfatta dopo pochi attimi, così afferrai il bicchiere stracolmo. Senza molte cerimonie, schioccai un bacio sulla guancia di Peter e sparii nuovamente tra la gente. Non mi andava di stare tra quei due per l'intera serata. Preferivo esplorare nuovi territori.

Notai che la musica che stava risuonando nel locale era particolarmente bella. Sorseggiai il mio drink senza sosta, sperando che, mandandolo subito giù, mi avrebbe dato prima alla testa. Presi ad ondeggiare i fianchi, incurante di tutti gli osservatori. Sì, ero sola e ballavo da sola. E non me ne fregava un bel niente. Meglio di ritirarsi in un angolino a rimuginare su tutto.

Una volta svuotato il bicchiere, il DJ aveva cambiato canzone, ma neanche quella mi dispiaceva. Mi infilai nell'ammasso di gente, iniziando a ballare sul serio. L'alcol era riuscito ad attutire i sensi di colpa, anche se non totalmente, ma comunque facevo finta di non avvertirli. Un ragazzo si avvicinò con poca discrezione, poggiando sfacciatamente le mani sui miei fianchi. Io lo lasciai fare, non avendo alcuna voglia di fare la moralista. Volevo solo divertirmi.

E, in fondo, non ci fu nulla di troppo spinto in tutto ciò. Ci avvicinammo l'un l'altro, continuando a muoverci a ritmo di musica, dileguandomi con una rigida smorfia solo quando le sue labbra premettero sul mio collo. Mi lasciò andare senza obbiettare ed io mi feci strada tra i corpi accaldati. Giunta in un punto diverso, tornai a ballare tranquillamente. Quel senso di spensieratezza mi abbandonò quando rividi Peter. Era ancora al bancone e forse aveva bevuto qualcosa di troppo a giudicare dallo sguardo maniacale che aveva nel guardarmi. Stonava un po' col suo viso da bravo ragazzo.

Tentai di ignorarlo, ma ogni volta che gli lanciavo uno sguardo, il suo era sempre fisso su di me. Non mi ero mai sentita così sotto pressione. Non temevo Peter; sembrava fin troppo ingenuo. Eppure c'era qualcosa dentro di me che voleva impedire a tutti i costi che si avvicinasse. La paranoia poteva essere un sintomo dell'alcol, ma decisi di non scoprirlo. Dovevo tenermi occupata con qualcosa; con qualcuno.

La prima cosa che notai fu una chioma bruna agitarsi poco lontano da me. Apparentemente, sembrava che non ballasse con nessuno; un po' come me. Qualcosa mi balenò in testa; qualcosa che non si espresse apertamente; che non ne ebbe il tempo ma che, all'atto pratico, era perfettamente chiaro. Peter si era appena alzato.

Presi il polso della ragazza. Non la vidi nemmeno bene in faccia mentre il suo corpo si scontrava contro il mio. Lei strillò qualcosa di confuso, colta di sorpresa.

Tuttavia, esitai, continuando ad oscillare lievemente da una parte all'altra. Lei sembrava starci anche se nella confusione. La mia mente era così annebbiata che mi abbandonai completamente al momento, dimenticando perché lo stessi facendo. La ragazza non parlò, né oppose resistenza mentre mi avvicinavo alla sua bocca con la testa inclinata.

-Non preoccuparti- mormorai, sperando che bastasse a non impaurirla. -Voglio solo vedere che si prova- mi giustificai banalmente.

Le nostre labbra umide si toccarono e ci baciammo lentamente. Fu spaventosamente strano ma affascinante, e coinvolgente. Lei fece scivolare la mano lungo il mio fondo schiena, anche troppo oltre. Eravamo letteralmente avvolte nell'elettricità. Mi ritrovai a mordermi il labbro mentre le sue mani vagavano su e giù per la mia schiena, sostando sui miei fianchi ogni tanto. Non mi aspettavo che si sarebbe dimostrata più propensa di me a continuare, ma mi sorpresi nel constatarlo. Io al contrario, mi sentivo bloccata. Non sapevo che fine avesse fatto Peter e nemmeno mi interessava. Mi sentivo in una specie di inferno ammaliante, ma tutto precipitò quando nell'oscurità del locale mi resi conto di chi avessi davanti.

-Bree?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Due mesi fa ***


Blue's pov

Il cellulare giaceva sul tavolo. Io ero pietrificata, sovrappensiero; sembravo inceppata. Mi chiedevo se la chiamata fosse stata reale, se io avessi davvero parlato con mia nonna o se lo avessi solo immaginato. Era più facile dubitare della mia sanità mentale piuttosto che fronteggiare la realtà disordinata con serietà. Ricordai a fatica ciò che ci dicemmo in ordine cronologico.

"Hai visto la mamma recentemente?" Le avevo domandato.

L'aveva vista due mesi fa l'ultima volta, aveva detto.

Due mesi fa... quelle parole mi rimbombavano ancora in testa.

"Ma non capisco. Perché me lo stai chiedendo?" Potevo immaginare la sua fronte corrucciata e la bocca socchiusa.

"Nulla di importante. È partita per Londra proprio l'altro giorno per andare a trovare Lizzie. Pensavo che avrebbe fatto un salto anche da voi" mentii, sorprendendomi di non avere balbettato e di non avere impiegato troppo tempo ad elaborare una scusa credibile.

"Ah, sì? Strano che non sia ancora passata. Spero di vederla presto allora."

"Non ricordo che lei sia venuta due mesi fa" ammisi all'improvviso, lasciando trapelare una falsa perplessità, sperando che approfondisse l'argomento. Potei palpare la sua confusione attraverso il telefono.

La confusione scaturiva dal fatto che io avrei dovuto trovarmi proprio a Londra con loro.

A quanto pare, io ero rimasta in albergo con mio padre. Eravamo molto stanchi dopo il viaggio ed io mi ero presa una bella influenza che probabilmente avevo trasmesso a mamma.

"In effetti, non aveva una bella cera. L'ho rimproverata per essere passata comunque. Avrebbe dovuto riposare. Ci sarebbero state altre occasioni."

Quindi mentre papà mi faceva compagnia, mia madre ne ha approfittato per andare a salutare i nonni, scusandosi che la nipote e il genero non fossero stati in grado di fare lo stesso.

"L'influenza ti avrà confuso le idee, cara. Non ti sarai goduta nemmeno un attimo del tempo passato qui" rise nervosamente. Ero sicura che le fosse sorto qualche dubbio, ma tentava di ignorarlo.

Ero sul punto di rivelarle tutto. Dirle ciò che stava succedendo non sarebbe stato che positivo per me. Loro mi avrebbero aiutata; mi avrebbero tirato fuori da quella situazione. L'avremmo ritrovata insieme. In fondo, per andare da loro dopo la fuga, credo che lei abbia valutato l'idea di farsi aiutare. Ma ha preferito bearsi di qualche ora di pace per poi sparire nuovamente.

Quella scintilla di follia si spense subito ed io non avrei più rischiato. Almeno ora sapevo a chi appartenesse il gene bugiardo che avevo solo recentemente imparato ad utilizzare.

"Sarà questo, sì" sospirai, grattandomi la nuca. "Fammi sapere allora se ti viene a trovare" mi raccomandai.

"Certo, tesoro. Ricorda di venirmi a trovare anche tu ogni tanto!"

Un tremolio nervoso mi pervase le gambe, le quali divennero deboli e fragili. I nervi mi pulsavano con furia, rendendo vano ogni tentativo di risolvere l'enigma.

Avevo fatto tante ricerche su internet, trovando varie community di ragazzi abbandonati dalla madre; una madre in fuga; una madre che spesso non torna, senza rimorsi. Ed io non volevo che lei fosse una di loro. Io volevo che lei avesse me tra i suoi rimorsi, che attraversasse mari e monti per riavermi. D'improvviso, ricordai Harvie e ciò che mi aveva detto; le speranze che aveva inculcato in me: "Magari lei ti ha già lasciato un messaggio." E se il messaggio fosse quello? Fare sapere ai nonni dove si trovava così che potessero dirmelo?

Riflettei che tale informazione non sarebbe potuta giungere fino a mio padre, a causa di una taciturna ostilità reciproca. Perciò mia madre sarebbe stata sicura che solo io avrei potuto scoprirlo. Non c'erano dubbi.

Ma sapere di dovere cercare a Londra non mi bastava. Era una città troppo grande e dispersiva. Nemmeno una vita intera mi sarebbe bastata.

Forse, c'era qualcos'altro che dovevo sapere. Forse non era tutto. Poteva avermi scritto qualcosa, da qualche parte... dove solo io potessi arrivare. Oppure mi stavo prendendo in giro. L'abbandono fa sempre troppo male e forse non lo si accetta mai completamente. Ma io avevo una voglia matta di giustificare mia madre; volevo assolutamente trovare quell'indizio che l'avrebbe dimostrata innocente. Da sola, però, non ce l'avrei fatta. Quindi, mi ritrovai a ricercare l'aiuto di una persona che già una volta era riuscita a risollevarmi; di una persona che mi avrebbe ascoltata.

Recuperai il telefono dalla scrivania e composi il numero prima che me ne pentissi.

- Ciao Harvie, - iniziai con voce fievole quando rispose. - Ho bisogno di parlarti, se non sei impegnato ovviamente, - ci tenni a precisare.

- Uhm.. certo! Credo di potere scappare per un po'. Qualcosa non va? - Domandò preoccupato.

- Non lo so, veramente, - mi massaggiai la fronte, sentendo lo stress avanzare. - Devo parlarne con te. Non ci capisco niente, - biascicai.

- Sta' tranquilla. Vengo il prima possibile, - promise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Il cugino di Charlie ***


Eravamo da Hendrick's. Non frequentavo molto quel posto, perché ovviamente se volevo un frullato o un caffè andavo dai Morrison. Ma l'idea che Jace mi vedesse con Harvie non mi faceva impazzire. Ancora dovevamo chiarire la situazione e non volevo peggiorarla.

-Scusa se ti ho chiesto di vederci. Chissà cosa potrebbe pensare Bree... Non eri obbligato a venire- sottolineai tesa, sistemandomi sulla sedia.

Avevo già avuto problemi con quella ragazza ed ero cosciente che, vedendoci lì, era facile fraintendere la situazione.

Lui scosse la testa, liquidando la questione. -Non porti nessun problema. Sono felice che tu ne voglia parlare con me- sorrise.

Annuì, concentrandomi sul frullato alla fragola davanti a me. -Già, forse perché sei l'unico che mi dà speranza. E fa comodo in questo momento.

-Non è tanto carino da dire, ma fingo di non avere colto la parte amara della frase- alzò gli occhi al cielo con disinvoltura, riguardandomi pochi secondi dopo in attesa che capissi.

La confusione mi scivolò di dosso e sussultai per la vergogna. -Scusa, ti prego. Non intendevo dire che mi fai davvero solo... comodo- mi schiaffeggiai la fronte con una smorfia nervosa mentre con la mano libera cercai di prendere la sua. L'avevo appena sfiorata quando la coscienza mi urlò di non provarci nemmeno.

-Scusa- sbottai, sentendomi un'idiota. Le fragole del mio frullato dovevano sembrare malaticce in confronto alle mie guance.

-Non hai fatto niente di male- mi assicurò. Sembrava che lo intendesse sul serio. Provai uno strano deja-vu. Ricordai quel simile episodio sulla sua auto, e mi domandai perché io dessi tanta importanza ad un gesto che per lui era tanto normale.

-Non capisco perché toccarmi la mano ti sembri proibito- sembrò leggere i miei pensieri. Avevo voglia di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscivo. Borbottai poche sillabe sconnesse, non sapendo come replicare.

-Non lo so- mormorai poi con voce sommessa.

-Di cosa volevi parlarmi?- Grazie al cielo, cambiò argomento. Il suo sguardo si addolcì ed io risorsi dalla mia bolla di nervosismo.

-Be', oggi ho chiamato mia nonna. Robin ha pensato che fosse un'idea mentre tornavamo a casa. Io l'ho liquidata, credendo che non ne avrei ricavato nulla. Invece poi ho deciso di provarci. Che avevo da perdere? E non potrai immaginare cos'ho scoperto...

Gli dissi tutto. Non parlai di come mi sentivo perché nella mia testa era tutto confuso. Harvie mi ascoltò in silenzio, rapito dalla storia come se fosse un film; e in effetti lo sembrava sul serio.

-Io voglio crederti. Voglio davvero pensare che mia madre voglia essere trovata, ma non so da dove iniziare adesso.

Mentre tentavo di fare ordine tra i pensieri, qualcuno si era avvicinato senza che me ne accorgessi e ora era proprio dietro Harvie. Ero tanto immersa nei pensieri che ciò che mi balzò all'occhio fu una mano delicata poggiarsi sulla sua spalla. Non avevo nemmeno inquadrato la persona e quando la riconobbi ne rimasi sorpresa.

-Ma sei davvero tu?- Charlie fece un'ampio sorriso quando Harvie si voltò. - Non ti vedo da un secolo!

Harvie si alzò, lietamente sorpreso. -Ciao, piccola peste- sorrise, avvolgendo Charlie in un caldo abbraccio. Oltre la spalla di Harvie, Charlie mi guardò meglio, sgranando gli occhi quando mi riconobbe. Neanche lei mi aveva subito inquadrata. Le rivolsi un sorriso imbarazzato, salutandola con la mano.

-Blue! Che ci fai qui?- Si rivolse a me sbalordita, sciogliendo l'abbraccio. Quando si avvicinò mi alzai.

-Ehi! Be', nulla di che... uhm...- non sapevo che dirle per non farle fraintendere la situazione. -Voi due come vi conoscete?- Cambiai direttamente discorso.

-Oh, ti ho parlato di lui. È mio cugino- annuì ancora sorridente, chiedendosi sicuramente cosa ci facessimo insieme.

Il mio mondo si bloccò per un'istante. Margaret. Suo cugino stava con Margaret. Harvie stava con Margaret. Era di lui che Charlie mi parlava a scuola! Rimasi sbigottita. Avrei potuto pensarci, ma giuro che non mi fosse mai passato per la testa.

-Oh, ora capisco- risi nervosamente, continuando a pensare alle conseguenze di tale scoperta.

-Andiamo a scuola insieme- spiegò Charlie a suo cugino, pregandomi con lo sguardo di non lasciarmi scappare nulla delle cose che mi aveva detto.

Io annuii impercettibilmente, sentendomi tuttavia scombussolata. Harvie odiava Margaret. E forse ora ne conoscevo il motivo. Ecco spiegato tutto quel disprezzo.

Mi sentii una stupida per averla difesa tante volte, senza avere la minima idea di cosa aveva fatto a Harvie.

Lei lo amava ancora, me lo aveva detto. Un lume di curiosità si accese nella mia mente quando li ricordai nell'ufficio di Harvie, a parlare di non so cosa. Il mio stomaco iniziò a intrecciarsi su se stesso.

-Ora vi lascio alle vostre questioni- cantilenò. Poi dilungò lo sguardo su di me, ammiccando con lussuria mentre andava via.

-Non farti strane idee, stupida- rise Harvie, facendosi sentire. -Mi dispiace che ci abbia interrotti- si scusò, passandosi una mano tra i capelli. -Continua- mi incitò, sistemandosi sulla sedia.

-Stavo dicendo che...- balbettai, non ricordando sul serio cosa stavo dicendo. Cercai di frugare nella mia testa per non fare la parte della rintronata, ma riuscii a riprendere il filo del discorso. -Oh sì!- sussultai sollevata. -Nel caso lei mi avesse davvero lasciato un messaggio, un indizio per rintracciarla, dove potrei trovarlo secondo te?

Assunse un'espressione pensierosa, strizzando gli occhi. Infine, mi squadrò.

-Da qualche parte accessibile solo a te; qualcosa che tuo padre non toccherebbe mai; qualcosa che sarebbe arrivato velocemente a te- ipotizzò, forse facendosi qualche idea più specifica. Tentai di farmene qualcuna anch'io, ma l'illuminazione non fu immediata.

Il fastidioso ronzio dei clienti del locale iniziò ad irritarmi; sembrava che mi impedisse di pensare e non riuscivo a sopportarlo. Avevo persino smesso di bere il frullato per non sentire quell'odioso suono di risucchio. Desideravo così tanto trovare la risposta che non riuscivo a concentrarmi. Non mi veniva in mente niente, eppure Harvie sembrava perfettamente concentrato. Speravo così tanto che trovasse la risposta per me che non osavo nemmeno fiatare per evitare di distrarlo.

Dopo poco, quando anche l'ultimo briciolo di concentrazione rimastomi si volatilizzò, mi arresi, riprendendo a bere il frullato. I tavoli erano quasi tutti vuoti; c'erano solo un sacco di persone accalcate al bancone in legno, illuminato da luci al neon. Io e Charlie ci ritrovammo con lo sguardo. Lei era seduta poco più lontana da noi in compagnia di Elena; una ragazza italiana. Si era ritrovata a vivere nell'appartamento accanto a quello di Charlie e così si erano conosciute. Sembrava una ragazza a posto; il tipo di Charlie.

Charlie approfittò del contatto visivo per mostrarmi un ampio sorriso su di giri e un paio di incoraggianti pollici in su. Ridacchiai internamente, scuotendo la testa per poi riportare l'attenzione su Harvie. Inaspettatamente, i suoi occhi sbarrati e quasi increduli erano già fissi su di me.

-Cosa?

-Cos'è che solitamente ti porti sempre dietro?

Ci pensai un attimo. Il mio cervello sembrava completamente scollegato.

-Il telefono, ogni tanto i compiti, qualche libro, il quaderno- mi bloccai. -Credi che sia nel libro, vero?- Mi sorpresi di non averci pensato subito. -È un classico, certo- affermai stupita. -Harvie sei un genio!- Quasi urlai.

-Strano che ci sia arrivato prima di te- ridacchiò, fiero di sé.

-Chissà quanto tempo ci avrei messo prima di arrivarci io- mi schiaffeggiai la fronte, non potendo fare a meno di sorridere speranzosa. -Devi venire con me- gli imposi, alzandomi. Restava ancora un po' di frullato e decisi di prenderlo.

-Dove?- Chiese disorientato.

-A casa mia. Andiamo a cercare questa cosa- il mio entusiasmo decadde lentamente. Anche se non significava niente, non potevo portarlo a casa mia così. Dovevo comunque capire che non sarebbe stato rispettoso per Bree. -Anzi, accompagnami solamente... Voglio solo vedere se hai ragione- mi corressi, sorseggiando il frullato.

Harvie ci pensò per un attimo, poi si alzò.

-Okay, paghiamo e andiamo via- mi offrì un sorriso rassicurante, poggiando una mano sulla mia spalla. Ero imbambolata; troppo eccitata per placare le emozioni e mi era impossibile dire quanto apprezzavo il suo aiuto. Così lo abbracciai, senza pensare a ciò che gli altri avrebbero pensato. Perché io ero semplicemente grata e felice che qualcuno mi avesse dimostrato che non era vero che io non potessi farci niente.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** È stata una cazzata ***


Robin's pov

Aspettavo all'entrata di Staithes Park. Non sapevo se stessi facendo la cosa giusta e a che scopo stessi facendo ciò, ma ormai ero lì. Ero nervosa; non sapevo di che avremmo parlato o cosa, effettivamente, avevamo da dirci.

Avevo appena finito la sigaretta, gettando il mozzicone sull'asfalto quando la vidi arrivare.

-Chi si rivede!- sorrise con inaspettata disinvoltura. Io mi sentivo un tronco d'albero.

-Ciao Bree- sospirai, ricambiando un sorriso più insicuro del suo.

-Facciamo due passi?- Propose, ed io annuii senza pensarci.

Ero sorpresa che mi avesse contattata e chiesto di vederci quel pomeriggio. Non ho voluto chiedere subito spiegazioni, ho solo detto sì. Del resto, supponevo ne avremmo parlato in seguito.

Attraversammo il cancello in silenzio. Era evidente che la mia testa si trovasse altrove. Di solito non ero tanto taciturna, ma nemmeno lontanamente. Tuttavia, non mi si poteva biasimare, no? Dopo ciò che è successo sabato, era strano che lei fosse tanto tranquilla. Le circostanze in cui ci trovavamo erano tutto fuorché normali. E i miei pensieri, mi riconducevano sempre a Blue. Che cosa avrebbe potuto pensare se avesse saputo che la ragazza che ho baciato era Bree?

-Non sentirti a disagio- tentò di incoraggiarmi, scalciando dei sassolini.

C'era tanto silenzio. Non si vedevano neanche bambini sghignazzanti in giro quel pomeriggio. Lo Staithes Park era grande e accogliente. C'erano tante aiuole e aree-giochi per i bambini. Molti andavano lì nel pomeriggio anche solo per studiare o leggere un libro; come spesso faceva Blue. Anche se ultimamente non si vedeva più in giro. Mi aggiravo spesso nel parco, soprattutto per fumare in santa pace. Amavo fare due passi da sola tra i viottoli; non era per niente triste o noioso, come pensano alcuni.

Soffro di epilessia; è molto lieve. Ho una specie di cicatrice nel cervello, fin dalla nascita, e questo disturbo ne è la conseguenza. Ma ne sono grata, potevo uscirne conciata molto peggio. Mi piaceva stare da sola con i miei problemi, soprattutto in posti rasserenanti come questo; dove tutto sembrava essere perfetto per un po'.

-Chi ha detto che mi sento a disagio? Perché dovrei?- Sbottai istericamente. -In fondo, ho solo baciato una ragazza che attimi prima stava con un ragazzo e che si è scagliata contro la mia migliore amica mentre avrebbe dovuto prendersela con me- la mia voce si affievolì.

Cercai di affondare nella felpa gigante, sentendo riaffiorare i sensi di colpa, nonostante Blue mi avesse già perdonato. Continuavo comunque a pensare a quella serata, non riuscendo a capacitarmi dei tanti casini combinati.

-Per la cronaca, non mi scuserò ugualmente con lei. Le spaccherei la faccia- digrignò i denti e strinse i pugni, fissando lo sguardo furibondo dinanzi a sé. -Hai una sigaretta?- Domandò inespressiva.

Rimasi interdetta per qualche secondo, guardandola. Anche sabato sera mi aveva detto una cosa del genere, ma non riuscivo a capire il motivo di tanto odio incondizionato. L'avrei associato alla gelosia, ma Blue non aveva niente a che fare con Harvie. Sono sempre stati conoscenti, o diciamo quasi-amici. L'avrei saputo se tra loro fosse successo qualcosa.

-Perché ce l'hai tanto con lei?- Chiesi, recuperando il pacchetto dalla tasca.

-Non credo sia molto furbo parlarne con la sua migliore amica- osservò, facendo spallucce e prendendosi la sigaretta.

Le porsi subito dopo l'accendino, precedendola.

-Grazie- mormorò.

Ero tentata di convincerla a parlarmene. L'interesse era tanto, ma mi costrinsi a non approfondire l'argomento. Aveva ragione; non era furbo parlarne con me. L'avrei riferito a Blue senza farmi troppi problemi. Era inutile discutere su chi fosse più importante per me. Così cambiai argomento.

-Perché hai voluto vedermi?

Il suo viso si ammorbidì e il suo cipiglio scomparve. Mi rivolse un'occhiata, continuando a camminare. Mi faceva ridere come fumava. Era evidente che non lo facesse spesso.

-Mi sembrava giusto parlarne- tagliò corto, lasciando che metà della sigaretta si perdesse nel vento. Che spreco, pensai.

-Non c'era bisogno. È stata una cazzata- mi lasciai scappare un risolino nervoso, scuotendo la testa.

-Non ti è piaciuto?- Si bloccò sui suoi passi, volgendosi completamente verso di me. Mi guardava come se fosse convinta che io fossi impazzita per lei. La guardai storto, odiando quando le persone credevano di sapermi leggere dentro.

-Perché, a te sì? Perché secondo me sei solo depressa per essere stata lasciata e ora vuoi un ripiego, anche uno qualsiasi magari- alludetti a me stessa.

Lei scosse la testa, negando il tutto. -Pensa pure quello che vuoi. Io mi sono divertita, lo ammetto. E vuoi sapere cosa penso io? Che a te sia piaciuto anche più di quanto sia piaciuto a me. È che ora ti sembra una cosa sporca, che non si doveva fare; mi sbaglio?- Si avvicinò pericolosamente, guardandomi dall'alto in basso; come se avesse capito tutto. La sua sicurezza iniziava a farmi dubitare di me stessa. Ma non dovevo lasciarmi condizionare; non dovevo farmi influenzare. Sapevo chi ero e cosa avevo provato; ero curiosa, nient'altro.

-Se sei venuta perché volevi concludere qualcosa con me, mi dispiace ma non ci sto. Non mi conosci nemmeno- ribattei infastidita. Non sarei rimasta lì un attimo di più; non le avrei permesso di riempirmi la testa di sciocchezze. -Ci vediamo in giro, Bree- girai i tacchi, tornando indietro. Lei rimase lì, esattamente dov'era. E poi pensai a Blue. Cosa avrebbe pensato se avesse saputo che avevo baciato proprio lei? In realtà non lo volevo sapere. Dopo non essermi presa la colpa davanti a Bree, era spregevole che ci fossimo persino baciate. Blue non mi avrebbe mai guardato allo stesso modo. Quella parentesi non era solo da chiudere, ma da dimenticare.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Tutto ciò che hai ***


- Sei pronta?

Harvie aveva ancora le mani sul volante, nonostante fossimo fermi davanti casa mia già da un po'. L'idea di scendere ed entrare da sola non mi attirava affatto.

- E se ci stessimo sbagliando? - domandai, presa dal panico.

- Continueremo a cercare, - rispose prontamente, senza esitazioni. Il cuore mi si strinse un po'.

Sorrisi involontariamente. Quanto avevo sperato che qualcuno me lo dicesse...

Inspirai a fondo e mi feci coraggio. Aprii la portiera e scesi dall'auto. L'aria era fredda quella sera. I raggi deboli del sole mi sbattevano contro la schiena mentre raggiungevo la porta. Harvie mi seguì con lo sguardo. Ma proprio con le chiavi tra le mani, mi bloccai. L'idea di entrare e scoprire che non c'era niente mi atterriva. Inserii la chiave a stento, ma non la girai. Non ci riuscivo.

Esitai, fronteggiando la porta. Ciò che stavo per fare era sbagliato e immorale. Ma avevo tanto bisogno di lui.

Voltai lentamente il capo verso l'auto. Harvie mi guardava ancora. Dal suo sguardo, sembrava aspettarsi che non ce l'avrei fatta.

- Ti prego, - mi ritrovai a implorare. La voce mi uscì tanto sommessa che non riuscì a sentirmi, ma il labiale era stato chiaro.

Distolse lo sguardo, forse sapendo già dal principio che sarebbe finita così. Indugiò sul posto prima di decidersi a scendere. Mi venne incontro, guardandosi intorno; forse cercando l'auto di mio padre per assicurarsi di non trovare qualche sorpresa.

- Non c'è pericolo che arrivi tuo padre, giusto? - tentò di accertarsi. Riuscivo a percepire l'agitazione che lo avvolse al pensiero che ci trovasse insieme. Perché non credo avrebbe immaginato che fossimo lì per frugare in casa sua. Inoltre non si aspettava di certo che proprio Harvie potesse aiutarmi.

- Penso di no, - risposi disinvolta, ma lui parve non apprezzare la mia incertezza. - Grazie per essere qui, - gli sorrisi, grata. Nessuno avrebbe perso tanto tempo per le mie sciocchezze e non capivo perché proprio lui mi assecondasse.

- È il minimo, Blue, - mi mise una mano sulla spalla. - Se hai la possibilità di ritrovarla, è importante che tu lo faccia. Ora che so perché se ne sia andata, dubito che volesse fuggire anche da te.

Mi venne da piangere. Era tutto ciò che volevo sentire, e lui lo aveva appena detto. Io... non sapevo se sorridere, essere felice o commossa. Troppe emozioni mi scuotevano da dentro e io non sapevo nemmeno come esprimere tutto. Ciò che riuscii a fare, ciò che il cuore mi suggerì di fare, fu scagliarmi contro il suo petto e stringere il suo torace tra le mie braccia. Scoppiai in lacrime.

Lui ricambiò l'abbraccio con titubanza, stupendosi quando mi sentì singhiozzare.

- Blue, ehi. Va tutto bene, - mi accarezzò la schiena. - Forse ci siamo davvero! - mi incoraggiò, nel tentativo di farmi smettere.

- Nessuno ha voluto aiutarmi, Harvie; non così, - singhiozzai. - Perché tu sì? Perché fai tutto questo? - alzai il capo per guardarlo negli occhi. Smisi di singhiozzare. Il mio respiro rimase irregolare nell'attesa.

Harvie si irrigidì. Fissò lo sguardo nel vuoto prima di riportarne su di me uno traballante.

- Intanto entriamo, - asciugò una lacrima dalla mia guancia. - Poi te lo dirò, - si sforzò di promettere.

Io annuii, perplessa, non più tanto sicura che saperlo fosse un mio diritto. Portai la mano sulla chiave ancora appesa, maneggiandola con più convinzione. La porta si aprì con uno scatto, quindi entrammo. La casa era silenziosa.

Svoltai subito a destra. Harvie si guardava intorno, seguendomi senza starmi troppo sul collo, mentre io frugavo tra i mobili del salone.

- Carino, - commentò imbarazzato.

- Già, - dissi con la testa altrove. - Dove l'ho lasciato? - tentai di ricordare nell'agitazione.

Harvie mi raggiunse, non sapendo come aiutarmi. - Che libro stiamo cercando?

- The longest ride. Me l'ha regalato lei. Dopo che se n'è andata non l'ho più letto. Solo da poco ho ripreso a farlo, - spiegai, innervosendomi. Ricordavo che l'ultima volta si trovava proprio lì in giro, ma non c'era. - Sono sicura che, se hai ragione, la risposta sia lì.

Senza dire niente, uscii di fretta dal salone, correndo su per le scale. Speravo che Harvie mi stesse dietro, ma ero tanto elettrizzata da non curarmene. Lo sentii solo borbottare qualcosa dal fondo della scala.

Varcai la porta della mia stanza, aggrappandomi allo stipite quando vidi il libro aperto sul letto. Proprio in quel momento, Harvie giunse al mio fianco. Potevo immaginare il suo sguardo confuso alternarsi tra me e il libro proprio pronto per essere setacciato.

- È quello, no? - domandò Harvie, incerto.

- Sì, - sussurrai, sentendomi male. - Ma io non l'ho lasciato lì, - mi ammutolii, prevedendo ciò che avremmo scoperto.

- Pensi che... - Harvie mi rivolse uno sguardo allarmato ed eloquente. Anche lui aveva capito.

- Vedremo, - mi sedetti sul materasso, portando il libro sulle cosce. Harvie mi affiancò, sedendo accanto a me. Mi guardò con dispiacere, sapendo che non sarebbe andata bene.

- Vuoi che guardi io? - si offrì, prendendomi una mano.

L'istinto mi consigliò di rompere il contatto, ma resistetti. Ero troppo vulnerabile per fare la dura. Con lo sguardo vuoto e amareggiato, gli passai il libro. Non volevo guardare; non volevo sapere. Sentivo il rumore delle pagine che venivano velocemente sfogliate, fino a fermarsi, troppo a lungo.

- Che c'è? - domandai, aprendo gli occhi che fino ad allora avevo strizzato. Li fissai sulla pagina mancante.

- È stata strappata una pagina, - mormorò con una smorfia sconfitta, sperando che non dessi di matto.

Tenevo le mani chiuse a pugno con forza; tremavo ovunque; le unghie affondavano fastidiosamente nei miei palmi. L'istinto di piangere riaffiorò, ma la rabbia era più grande. Non potevo credere che quel verme mi avesse soffiato ogni speranza da sotto il naso.

- Non posso crederci, - mormorai. - Quello stronzo! - ringhiai, sbattendo un pugno sul materasso. Harvie avvolse le mie spalle, cercando di avvicinarmi a lui forse per abbracciarmi; come se questo bastasse.

- Shh, Blue, - mi cullò dolcemente. - Magari lì non c'era niente, - ipotizzò senza crederci lui stesso.

- È tutto perduto, - conclusi rassegnata. - E sai qual è la cosa peggiore? - lo vidi annuire con la coda dell'occhio, ma non disse niente per lasciarmi parlare. - Che io ce la potevo fare. Il modo per riaverla era proprio... qui, - indicai il libro con banalità. - E ora chissà che ci farà quel deficiente, - finii per urlare rabbiosa, alzandomi dal letto. Mi misi a camminare freneticamente su e giù per la stanza, mordicchiando le pellicine da poco ricresciute. Ero sicura che, se mio padre avesse varcato la porta in quel momento, gli avrei conficcato una penna nel collo senza ripensamenti.

- Blue... - Harvie mi richiamò con tono ammonitore. - È tuo padre, - mi rammentò pacato. - So che è per colpa sua che tua madre è scappata, ma non pensi che parte della colpa sia anche di tua madre? - azzardò.

Mi bloccai sui miei passi, guardandolo di sottecchi. -  Che vorresti dire? - chiesi dura, alzando la guardia e sapendo che la spiegazione non mi sarebbe piaciuta. Non rispose subito. Si mise alla ricerca delle parole giuste, prima di parlare. Ma stava attraversando un campo minato.

- Penso solo che... molti mariti tradiscono le mogli o viceversa. Chi viene tradito ci sta male, certo. Ma scappare non è una soluzione e credo che pochi scappino per questo, soprattutto per così tanto tempo. Potevano semplicemente parlarne e divorziare. Tutto così sarebbe andato meglio. Lei avrebbe avuto te e... -

- ... e vissero tutti felici e contenti, bravo! Quando verrò tradita da mio marito verrò a consultare te prima di fare una cazzata! - finii per urlargli in faccia, sentendomi ferita. Forse perché certi ragionamenti avevano già sfiorato i miei pensieri, e odiare mio padre era decisamente più facile.

- Blue, non fare così, - mi venne incontro, fermandosi a un metro da me. - Voglio solo che tu non odi tuo padre più del dovuto, - tentò di farmi ragionare.

- Lui l'ha tradita. E il tradimento è meschino, crudele! E mia madre era solo disperatamente ferita. Non lo ha sopportato e se n'è andata! Non era lucida; non poteva pensare a tutte le conseguenze delle sue azioni. Sono sicura che lei non volesse stare via così tanto, - scossi la testa, nel tentativo di convincere anche me stessa.

- Blue, tu non sai tutta la storia. Non sai se, tra l'incontro con Hilary e la fuga di tua madre, sia successo qualcos'altro - si avvicinò cauto, guardandomi dritto negli occhi, sperando che capissi senza fraintendere più. - E che ti piaccia o no, tuo padre ti ama. Ed è tutto ciò che hai ora.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** In tempo ***


La serratura scattò all'improvviso. Il viso di Harvie perse colore. Mi rivolse uno sguardo implorante, come se avessi potuto salvarlo. Ma non riuscivo a pensare.

- Che cazzo facciamo? - sibilò in preda al panico.

- Non sospetterà nulla, - gli assicurai, ma nessuno dei due si preoccupava per quello.

- Se mi trova qui, mi odierà in eterno, - si lamentò a denti stretti, torturandosi i capelli.

- Nell'armadio, subito! - lo spinsi quando sentii i passi di mio padre sulle scale. Harvie stava per nascondersi quando si bloccò inespressivo.

- Blue, - mi fermò con rassegnazione.

- Che c'è? - sibilai continuando a spingerlo dentro, non capendo che gli prendesse. Mio padre sarebbe entrato da un momento all'altro e lui sembrava essersi attaccato alla moquette.

- La mia auto è qua fuori, -mi ricordò, e non sapevo se ridere o piangere.

Sbarrai gli occhi, interdetta. Come avevo fatto a non pensarci? Mio padre si sarebbe convinto che tra noi ci fosse qualcosa. A me non importava, ma Harvie ci teneva alla sua fiducia. E presto se la sarebbe giocata, per colpa mia.

Inevitabilmente, la porta della mia camera si aprì, mostrando mio padre con un grosso cipiglio in fronte. Rimase anche lui senza parole per cinque secondi, forse avendo inizialmente sperato che l'auto di Harvie fosse parcheggiata lì di fronte per qualche altro strano motivo che non aveva a che fare con me. Invece, ci trovò insieme. Harvie voleva sprofondare, rimpiangendo interiormente di non essersi nascosto ugualmente; percepivo il suo imbarazzo come se avesse un profumo proprio.

- Ragazzi, che fate qui? - balbettò, tradendosi.

Preferii non guardarlo in faccia o avrebbe letto il disgusto nel mio sguardo. Mi dispiaceva tanto di avere trascinato Harvie in quella situazione. Ciò che Drew potesse pensare di me, invece, non mi importava affatto.

- Avevo bisogno del PC per un lavoro. Il mio si è bruciato, - improvvisò Harvie, sorprendendomi. Sperai che Drew non si fosse accorto del leggero tremolio della sua voce.

- Bruciato? - chiese lui scettico.

Harvie strizzò gli occhi, pressandosi il setto nasale con due dita. Immaginavo che si stesse chiedendo "come può bruciarsi accidentalmente un computer?".

- L'altro giorno, ero stanco a lavoro. Ho preso una tazza di caffè e mi è scivolata dalle mani, rovesciandosi sul PC, - gesticolò, quasi sillabando ogni parola. - Blue si è offerta di prestarmi il suo, - concluse annuendo.

Drew era perplesso. Si guardava intorno con una specie di broncio. Osava guardarci solo di sfuggita e immaginavo cosa esattamente gli passasse per la testa.

- E per quale motivo siete saliti entrambi?

- Avevo solo paura di entrare da sola, - intervenni con noncuranza. Non lo avevo ancora convinto. - Io e Robin abbiamo visto un horror ieri, - aggiunsi.

Dopodiché sembrò abbassare la guardia.

- Non credevo che un film la potesse traumatizzare tanto, Drew, sul serio, - commentò Harvie, accennando un sorriso.

A quel punto, Drew si sciolse.

- Pensa che, per un periodo, Miley dormiva sempre con lei, sennò la nostra piccola non chiudeva occhio, - raccontò con sorriso amaro. Gli avrei sputato in faccia. All'apparenza, sembrava davvero un marito e un padre perfetto. Invece era solo una farsa.

- Ora dobbiamo andare, - tagliai corto, oltrepassandolo.

- Il PC, Blue, - mi ricordò Harvie per non rovinare la sceneggiata.

- È sulla scrivania, - uscii dalla stanza, scendendo le scale frettolosamente fino alla porta d'ingresso. Non aveva diritto di nominare mia madre; soprattutto con con quel tono affranto.

- Blue, aspetta! - Harvie mi chiamò da in cima alle scale, raggiungendomi di corsa col PC sottobraccio.

- Non puoi scappare così, - mi intimò raggiuntami. - se non vuoi che lui capisca che sai.

Uscimmo di casa e lui si chiuse la porta alle spalle.

- Dove vuoi andare ora?

- Non devi seguirmi per forza, - sottolineai, proseguendo da sola.

- Non posso lasciarti sola per strada. Si è fatta sera...

- Harvie, vai a casa, - mi voltai. Dicevo sul serio. Gli avevo fatto perdere abbastanza tempo. - Non ho bisogno che qualcuno mi stia dietro. Voglio solo andare via, - mi rimisi in marcia.

Non si tirò indietro. Continuava a seguirmi. Inspirai rumorosamente, innervosita, per poi voltarmi di scatto.

- Harvie, ti ho chiesto già troppo. Già mio padre chissà che starà pensando. Vogliamo che anche Bree mi inizi ad odiare ancora di più? Le persone fraintendono e io non ti voglio creare problemi.

- Bree non è un problema e tuo padre se l'è bevuta. Nessuno mi obbliga ad aiutarti. Lo voglio fare e basta, - mi raggiunse determinato.

- Perché?! Tanto è una battaglia persa. Mio padre mi ha tolto l'unica speranza che avevo di ritrovarla. Ed io non so se vuole tenere mia madre lontana da me o se la vuole ritrovare da solo come mi ha fatto credere per mesi. Io non so niente! - combattei contro me stessa per non piangere. Avevo pianto abbastanza.

Restammo in silenzio. Harvie mi scrutava titubante.

- Vuoi sapere perché ti voglio aiutare? - domandò, attirando la mia attenzione.

Io annuii, spaventata che la mia voce potesse tremolare. Harvie accennò un sorriso, protendendo la mano verso di me.

- Allora vieni con me, - esordì in un sospiro. Senza riflettere, afferrai la sua mano, non facendo quasi caso nemmeno alla strada percorsa mentre fantasticavo sulla spiegazione che mi avrebbe dato. Ero convinta che per non dirmelo su due piedi, non fosse una sciocchezza.

L'aria fredda mi graffiava il viso. Gli ultimi cenni di caldo estivo stavano sbiadendo come le mie speranze; lentamente ma inevitabilmente. Harvie mi portò non troppo lontano dal mio quartiere, in uno spiazzale poco frequentato che nemmeno conoscevo. Sembrava carino, accogliente, appartato. C'erano quattro panche perpendicolari l'una all'altra che ospitavano una modesta fontana nello spazio al centro. Non c'era nessuno.

Ci sedemmo su una panchina. Io mi guardavo intorno mentre lui rifletteva su cosa dire.

- Anche mia madre è scappata, - disse di botto, lasciandomi allibita. Cosa? - tanti anni fa, - aggiunse. - Io ero ancora piccolo; non abbastanza da non capire, ma abbastanza da non poterci fare niente.

Gli occhi sbarrati. Non riuscivo a crederci. Non mi ero mai chiesta nulla sui suoi genitori, ma non credevo che mi potesse capire così tanto.

- È una storia brutta, non so se hai voglia di sentirla, - premise con voce sommessa.

- Solo se tu ne vuoi parlare, - gli strinsi la mano per confortarlo. Tremava leggermente. Doveva essere davvero pesante da raccontare.

- Mio padre è nato in una ricca famiglia italiana, te lo dico in modo schietto. Mia madre era solo una donna inglese che viaggiava continuamente. Si sono incontrati a Firenze. Mia madre ha passato anni da sola a viaggiare. Quel poco che guadagnava lo usava per biglietti aerei e cose varie. Era un tipo a cui piaceva cogliere l'attimo, sai? - immaginò con occhi felici, facendomi sorridere. - Loro due si sono innamorati subito. Lei usciva con mio padre e i suoi amici, e per una donna era davvero una trasgressione. Ma gli amici di mio padre la adoravano. Si faceva amare da tutti, - gli strinsi più forte la mano.

- Come l'ha ritrovata tuo padre? Quando lei è tornata in Inghilterra, intendo.

- Lei viveva proprio qui. Mio padre conosceva solo il nome della città. Così ha mostrato la sua foto in un paio di locali.

- Come in The Lucky One, - citai il libro con aria sognante.

- Esatto, - confermò. Stavo per chiedergli se l'avesse letto, ma preferii non interromperlo. - Poi qualcuno la riconobbe e lui riuscì a ritrovarla... Comunque sia, - decise di non dilungarsi. - I genitori di mio padre non hanno mai accettato la loro unione. Volevano che mio padre scegliesse qualcuno che potesse solo dare più valore alla famiglia e non una specie di cane randagio da mantenere, - sputò disgustato, stringendosi il setto nasale con due dita.

- Ma è terribile! Se tuo padre era felice, perché non potevano semplicemente accettare la cosa?

- Per i miei nonni non funzionava così. I miei genitori, tuttavia, combatterono perché loro si arrendessero e li accettassero come coppia. E apparentemente lo fecero.

- Apparentemente? - chiesi esitante. Il peggio doveva ancora arrivare.

- Sembrava che loro fossero cambiati totalmente. Anche quando io sono nato. Mio padre tutt'ora mi racconta che loro erano dolcissimi con me e che durante la gravidanza si prendevano tanta cura di mia madre.

- Era tutta una farsa? - lui non rispose e continuò a raccontare.

- Un giorno mi svegliai tardi. Dovevo andare a scuola e nessuno mi ha svegliato. Credevo che lei si fosse addormentata; ogni tanto capitava, - gli si spezzò la voce. Cercai di trattenere le lacrime, ma lo capivo fin troppo bene. Nell'immaginare la scena, mi avvolsero le stesse emozioni provate quando successe a me. Dovevamo esserci sentiti allo stesso modo. Il viso mi si riempì di lacrime. - Invece di lei non era rimasto più niente. Mio padre, inizialmente, sperava che tutto si sarebbe sistemato; che l'avremmo riportata a casa. La settimana dopo... - fece una pausa, cercando di non crollare. Mi aspettavo come sarebbe finita la storia, e il cuore mi si spezzò quasi. - ci arrivò la notizia che avevano trovato il suo corpo in un B&B di un paese vicino, - si asciugò le lacrime, lasciandomi spiazzata. Non riuscivo a dire niente. - Già, si è suicidata, - disse in un sussurro, scuotendo la testa. Mi lasciò la mano bruscamente, alzandosi dalla panchina, allontanandosi da me.

- Harvie, vieni. Siediti, - lo pregai, andandogli dietro.

- Vuoi sapere perché si è suicidata? - si voltò con gli occhi rossi, i pugni chiusi. - La minacciavano, - scandì bene. - Volevano far credere a mio padre che andasse tutto bene, prendendosi del tempo per levarsela dai coglioni! - sbraitò infuriato. - E lei non ce la faceva più...

Le sue parole mi spezzarono il cuore. - Harvie, ti prego, abbassa la voce. Vieni qua, - cercai di abbracciarlo, ma non me lo permise.

- Ti giuro che, se non fossero già morti, li avrei uccisi io, - ammise con voce bassa, chinandosi alla mia altezza. Lo sguardo fisso nei miei occhi, come a sfidarmi. - E non m'importa se ora mi credi un mostro...

- Non lo sei, - gli accarezzai una guancia, cogliendolo alla sprovvista. - È una storia orribile, - sussurrai, sperando che si calmasse.

Finalmente, si lasciò andare, permettendomi di abbracciarlo. Il tempo sembrò fermarsi per un po'; solo il fischio del vento testimoniava che il mondo stesse ancora girando.

- Capisci perché voglio aiutarti ora? - si staccò da me per guardarmi bene. - Perché se mio padre l'avesse trovata in tempo, lei sarebbe ancora qui.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Vuoi ballare? ***


Io e Harvie andammo via da quel posto; quel posto in cui abbiamo abbandonato tanta tristezza. Ora camminavamo sovrappensiero tra le strade di Staithes; entrambi con poca voglia di tornare a casa. Per tutto il tragitto avevo riflettuto su quanto le nostre storie fossero simili, e su quanto lui riuscisse a capirmi... e io a capire lui. Ora capivo perché si sentisse tanto coinvolto nella mia; nonostante sembrasse senza speranza. Evidentemente, Harvie sapeva cosa significasse perdere, sul serio, la madre.

- Perdonami per come ho reagito prima, - si scusò, fissando l'asfalto.

- Non ti scusare. Io non l'ho mai fatto, - gli sorrisi, stringendomi nella giacca.

- Dovresti farlo invece, - suggerì, palesemente ironizzando. - Sai, non è molto gentile.

Stavo per dire qualcosa, ma preferii tenerlo per me.

- Perciò... - riprese a parlare qualche attimo dopo. - Tu e Jace state cercando di uscire dalla friend zone? - la buttò lì, scombussolandomi lo stomaco.

Mi strozzai con la mia stessa saliva. - Be', non so che dire, - mi grattai la nuca come una stupida. - È tanto evidente?

- Direi che presentarsi con un mazzo di fiori non è stato molto discreto.

Non potei fare a meno di ridere per l'imbarazzo, abbassando lo sguardo. - Ha proprio esagerato, - ammisi, scuotendo la testa. Poi mi ricordai. - Mi ha detto che lo hai chiamato tu. Perché? - domandai con rinnovata curiosità.

Harvie sembrò irrigidirsi.

- Pensavo che gli interessasse sapere cosa ti era successo, - fece spallucce, speranzoso di cambiare presto argomento.

- Premettendo che non era nulla di grave... lo hai fatto perché ci hai visti sabato, al locale, vero? - realizzai.

- Sì, be'... te l'ho detto, credevo che vederlo ti facesse piacere. Dopo quel bacio... pensavo che tra voi fosse nato qualcosa, tutto qui.

- Non è così, - ci tenni a precisare.

- Forse per te, ma per lui mi sembra diverso, - sottolineò.

- Lo so. E ora lui si aspetta una risposta.

- Be', dagliela, - fece con ovvietà. - Mi hai detto un attimo fa che per te non è nato nulla, - mi ricordò.

- Non è così semplice, - protestai. - Voglio dire, Jace non mi fa ribrezzo, è il mio migliore amico, gli voglio bene. E se Jace fosse davvero fatto per me e magari dovrei solo abituarmi a vederlo diversamente?

- Blue, credo che...

- Se gli dicessi di no ora, e tra un mese realizzassi che al contrario è l'unica persona che mi renderebbe davvero felice?

Harvie stava per dire qualcosa, ma richiuse la bocca quando finii di parlare.

- Blue le relazioni non si fondano sui dubbi, - puntualizzò. - Non dico che lo scenario che ti sei immaginata non sia possibile. Ma che intendi fare? Chiedergli un mese di prova per accertarti dei tuoi sentimenti? - ironizzò.

- Bene. Allora dovrei scaricarlo alla cieca?

- Blue, lo scaricheresti per un motivo. È metterti con lui che faresti alla cieca.

La sua voce suonava un tantino aspra, ma non sembrava un qualcosa rivolto, in qualche modo, nei miei confronti.

Camminammo in silenzio per un po'. Avevo tanta voglia di dargli torto, ma aveva terribilmente ragione. Volevo dare una chance a Jace adesso solo per avere un salvagente, un ancora stabile, su cui potevo contare, comunque fosse andata. Ma a me sarebbe andata bene comunque. Dentro di me, sapevo che Jace avrebbe trovato una scusa per non abbandonarmi. Ma dentro di sé, sarebbe stato spezzato.

- Ti posso offrire un caffè?

La mia domanda lo fece ridere.

- Te lo dovrei offrire io, - puntualizzò.

- Forse nel Medioevo, - gli passai avanti con un sogghigno, dando un'occhiata ai locali ai lati della strada.

- Come darti torto... - lo sentii mormorare e il mio sorriso crebbe.

Mi diressi verso il bar più vicino, aspettandolo all'entrata. Proprio davanti ad esso, c'era la caffetteria Morrison. Si vedeva il sorriso cortese di Jace splendere attraverso la vetrina mentre serviva un cliente. Se non fossi stata con Harvie sarei entrata... ma una parte di me sapeva che non sarei entrata in ogni caso. La paura che Jace si voltasse di scatto mi avvolse, così mi costrinsi ad entrare senza aspettare Harvie. Anche se, mentre entravo, sentivo la schiena bruciare.

- Perché tutta questa fretta? - Harvie era dietro di me. - Potevamo andare qua di fronte. Non è bello andare dalla concorrenza.

 

- Perché il tuo lavoro è darmi sui nervi?

- Ti rispondo appena ci sediamo.

Il locale era leggermente affollato. Le luci, se così potevano essere definite, erano ridotte a dei semplici fili fluorescenti; le pareti verde pastello, il pavimento a scacchi. Forse non ci ero mai entrata. Ci sedemmo ad un tavolo, guardandoci intorno. Iniziai a sentire caldo. Perché? Mi sentivo inspiegabilmente rigida e forse l'ambiente fin troppo disinvolto non aiutava.

- Ottima scelta, Blue.

- Non è colpa mia. Sono entrata senza pensarci, - mi guardai intorno, torturandomi le dita coi denti. - Possiamo sempre andare via.

- Nah, probabilmente andrò a cercare l'ombra di Peter con la Trilly lì in fondo, - mi fece cenno con la testa, e non fui troppo sorpresa di vedere una ragazza fare cose strane sul tavolino.

- Ciao dolcezza, - arriva una ragazza sulla ventina, rivolgendosi a Harvie. - Cosa vi posso portare? - stavolta si rivolse anche a me.

La mia bocca si aprì senza rispondere. Harvie mi guardò a lungo, pensandoci su per entrambi.

- Un margarita e un negroni, grazie.

La cameriera dalla maglia delle elementari scrisse sul taccuino per poi andare via, ma non prima di ammaliare Harvie con un occhiolino.

- Non avevo molta voglia di bere stasera, - commentai. - Domani ho lezione, - sbuffai, gettando la testa all'indietro.

 

- Be', che ti devo dire tesoro. Dobbiamo mimetizzarci, no? - sorrise lievemente e non so perché ma mi sciolsi un po'.

- Oh, ma io aspetto ancora una risposta.

Harvie aggrottò la fronte. - Su cosa? Ah giusto. Sì, perché è importante ragionare su questo argomento, - la sua faccia divenne seria. Si massaggiò i lati del viso con l'indice e il pollice.

- È molto semplice, in realtà... Ecco, tu mi hai mai visto scherzare o giocare sul posto di lavoro?

- Praticamente tutti i giorni, - non ebbi il tempo di finire quando iniziò a parlarmi sopra.

- Esattamente: mai. Non faccio altro che lavorare, mi sento proprio spento. Quindi quando ti vedo venire lì per non fare nulla, penso: "perché non romperle le palle?". Tutto qui.

- Maturo da parte di un adulto.

- Piano con le parole, - mi minacciò, puntandomi il dito. - Non ci sono adulti qui, - puntalizzò. - A parte quel tizio, - accennò ad un uomo robusto e con una barba notevolmente lunga che era appena entrato. Ridacchiai. Era divertente come riuscisse ad alludere a qualcuno per ogni cosa che dicesse.

In quel momento arrivarono i nostri cocktail. Io mi affrettai a prendere i soldi dalla borsa, ma Harvie aveva già fatto tutto.

- Prima che tu mi condanni, sappi che non l'ho fatto per cavalleria, - si sporse verso di me per sopraffare la musica assordante.

- Sarà per il prossimo giro, - sorrisi, alzando il bicchiere. Harvie sorrise di rimando, brindando.

Fummo veloci a bere il primo drink. Harvie continuò a scherzare a modo suo. Mi prese nuovamente in giro per Jace e ci ritrovammo a ridere animatamente entrambi ricordando lui entrare con quel mazzo di fiori come in un film. Mi sarei dovuta sentire in colpa, ma in quel momento mi sentivo inspiegabilmente leggera.

- Chiama la tua amica così ne ordiniamo altri due, - tamburellai i palmi sul tavolo, muovendo leggermente la testa a tempo di musica.

Potrei giurare di averlo visto sorridere, ma senza dire nulla. Quando di nuovo la ragazza ci passò affianco, Harvie la fermò, ordinando le stesse cose. Quando questa tornò, avevo già il portafogli in mano. Harvie mi fissò divertito mentre davo i soldi alla ragazza con aria vincente, e non provò nemmeno a fermarmi. Ammirevole.

Prese a sorseggiare il suo secondo drink, volgendomi un veloce sguardo ogni tanto. Me ne accorgevo, ma senza dargli molto significato.

Ero solo a metà del drink quando lo vidi svincolarsi dalla propria sedia. Lo guardai confusa.

- Vuoi ballare?

Mi guardai intorno, notando la folla che si era formata dinanzi al bancone. Non ci pensai troppo; se l'avvessi fatto, non mi sarei alzata come invece stavo facendo.

- E perché no, - lo seguii mentre si addentrava nell'ammasso di gente.

Quando fu soddisfatto della posizione, si fermò, voltandosi verso di me. Mi prese le mani, delicatamente. Sentivo come un campanello d'allarme nella mia testa, ma decisi spudoratamente di ignorarlo. Come un'incosciente, decisi che avrei fatto i conti con la mia coscienza l'indomani.

Presi a muovermi, lasciandomi andare. Harvie mi afferrò per i fianchi quando roteai la testa. Le mie mani attorno al suo collo. Era piacevole, ed era sbagliato che lo fosse. Stavo pensando a tutto ciò che Harvie rappresentasse nella mia mente. Ma in quel momento ero troppo pigra per elaborare bene il pensiero. Facevo fatica a credere che quello che avevo davanti fosse solo il fastidioso collaboratore di mio padre; che lui mi stesse stringendo e che dopo una mezza giravolta mi ritrovassi con la schiena contro il suo petto. Dopo un breve periodo di lucidità e lievi ripensamenti, tornai a muovermi davanti a lui. Mi voltai, volendolo guardare in faccia. Aveva i capelli scompigliati e non ero sicura del rossore sulle sue guance. L'espressione corrucciata, enigmatica. Non ero sicura di sapere cosa stesse pensando. Ed egoisticamente, speravo di sbagliarmi.

Nonostante il caldo, rabbrividii quando il suo viso si fece più vicino. Il respiro entrava e usciva a sbuffi mentre io rimanevo immobile. La testa mi stava scoppiando e c'era solo una cosa nella mia testa: Bree.

- Harvie, ma... - si fermò a un centimetro da me, guardandomi tanto intensamente che sembrò scavarmi dentro.

- L'ho lasciata, - mi precedette. Mi scoppiò lo stomaco. Le mani mi formicolavano; inziai a sudare. Strinsi inavvertitamente la nuca di Harvie e lui lo interpretò come un incoraggiamento per annullare totalmente il poco spazio rimasto tra noi.

Le nostre labbra si toccarono. Le sue dita arricciate sui miei vestiti, le mie a vagare tra la sua nuca e le spalle. La mia mente era in uno stato di trance. Sapevo solo che fosse pazzesco. La sua mano strisciò sul mio collo. Le sue labbra ancora sulle mie. I nostri sospiri un tutt'uno. Sussultai quando percepii una piacevole fitta al labbro inferiore, che venne giocosamente strattonato. Mi svincolai un attimo; i pensieri iniziavano a pesare.

- Harvie non so se...

- Sta' zitta, - mi interruppe con un sospiro, riattirandomi a sé. E con quel gesto, sembrò zittire anche i pensieri.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Messaggio ***


Ci guardavamo negli occhi, senza parole. Ed io avevo paura di cosa ora sarebbe successo. Perché mentre le cose accadono sembra che il dopo non debba mai arrivare. Ma in realtà arriva, ferocemente in fretta.

- Andiamo via da qui, - Harvie prese l'iniziativa, tenendomi per il polso. Uscimmo dal locale, entrambi scombussolati e con le guance rosse. L'aria gelata non esitò ad avvolgerci quando diventammo suo ostacolo.

Harvie si strofinò le braccia in cerca di calore. Il giaccone di pelle proteggeva poco per quella temperatura; la mia felpa ancora di meno.

- Blue, gelerai qua fuori, - Harvie sbottò, ossevandomi.

- S..sto bene, - assicurai in modo molto poco convincente. Stava per togliersi la giacca quando lo fermai.

- Sei pazzo? Qua sei tu il più soggetto a diventare un ghiacciolo se ti togli quella giacca, - protestai, aiutandolo a rimetterla. Lui assecondò i miei gesti con uno sbuffo.

- Ti accompagno a casa, andiamo, - iniziò a camminare, aspettandosi che lo seguissi. E, dopo due secondi di esitazione, lo feci.

- Perché mi hai baciata?

Harvie sembrò bloccarsi sui suoi passi, ma si ricompose all'istante.

- Anche tu mi hai baciato.

- Okay, ma la domanda era un'altra.

- Siamo quasi arrivati, - sviò l'argomento.

- Molto maturo da parte tua, sul serio, - mi complimentai, fermandomi a qualche metro da lui, che si fermò a sua volta voltandosi. - Se ora credi sia stato uno sbaglio, prima avresti potuto ascoltarmi invece di zittirmi! - strillai serrando i pugni.

- Non credi che il problema sia proprio questo Blue? So perfettamente che mi sarei dovuto fermare, - sbottò, passandosi una mano tra i capelli umidi.

- Be' perché non l'hai fatto?

- Non ci sono riuscito, - si ammutolì, leccandosi le labbra mentre fissava il suolo. Disse qualcosa sottovoce che non riuscii a sentire, ma non credo che volesse farmelo sentire. - E ora non è così semplice. Lavoro con tuo padre, tu non hai nemmeno diciotto anni.

- Oh bene, scusa. Non volevo incasinarti la vita, - gesticolai nervosamente, sorpassandolo.

- Blue, Blue, perché devi trovare il significato peggiore in tutto quello che dico? - irritazione pungente nella sua voce. Accelerò il passo per starmi dietro.

- Per la cronaca, neanche a me sembrava un'idea fantastica, - sputai con l'intento di smuovere qualcosa in lui.

La sua mano mi afferrò il polso e mi costrinse a voltarmi. La distanza tra di noi era quasi inesistente, e fui costretta ad abbassare lo sguardo, non riuscendo a sostenere il suo ad una tale vicinanza.

- È stato stupendo, Blue, - il tono dolce. Sussultai impercettibilmente.

- Hai ragione, lo è stato, - tremavo mentre lo dicevo. - Ma è vero che non è così semplice. Perciò meglio lasciare perdere, - gettai la spugna. In realtà, neanch'io sapevo cosa volevo sentirmi dire. Anche la mia vita era troppo incasinata in quel momento. Era successo tutto troppo in fretta. Solo quel pomeriggio mi chiedevo se dare o meno un'opportunità a Jace per poi, la sera, finire tra le braccia di Harvie. In tutto ciò, dovevo trovare mia madre, e me ne stavo lì a vagare tra i drammi adolescenziali.

- È davvero quello che vuoi? - non riuscivo a capire che tipo di nota colorasse la sua voce. Direi quasi delusione.

- Credo di sì, - affermai con più convinzione.

- Bene. Allora... ci vediamo domani.

Mi voltai, rendendomi conto di essere arrivata.

- Certo, - annuii vedendolo andare verso la sua auto.

Quella notte, non feci altro che sognare strade alternative che avrebbe potuto intraprendere la serata. E mi resi conto che tutte fossero migliore di questa.

Il giorno dopo, stavo tornando a casa da scuola. La giornata era passata con estrema lentezza ed io riuscivo solo a strascicare i piedi sull'asfalto. Per di più il poco alcol della sera prima non aiutava di certo. Il cellulare mi vibrò in tasca. Allungai la mano per recuperarlo, portandolo al viso per leggere il messaggio. Non avevo idea di chi fosse il mittente. Aprii il messaggio non troppo lungo per trarne chiarezza. Conteneva un indirizzo, seguito dal nome di una città: Londra. Non c'era scritto altro, a parte Lizzie. Il mondo smise di girare, le mie mani iniziarono a tremare. Lizzie, la migliore amica di mia madre. Lizzie, la dolce zia che vive a Londra. Lizzie che mi aveva appena scritto dove si trovasse mia madre. Le mie dita vagarono nella rubrica. Volevo solo chiamare Harvie; dirgli che forse c'eravamo vicini. Ma quando trovai il suo nome mi bloccai. Non sapevo cosa pensasse di me dopo la sera prima. Avevo messo la nostra questione in pausa, anche se ero certa che anche lui fosse sul punto di farlo.

Decisi che nel pomeriggio sarei andata in editoria e lì gli avrei raccontato tutto. Tornai al messaggio, lo fissai per tutto il tragitto, incredula. Avrei voluto chiamare Lizzie, ma qualcosa me lo impediva.

Dopo pranzo, durante il quale mi sforzai ad ingurgitare pochi bocconi, rimisi la giacca e uscii di corsa. Diedi un'occhiata all'orario: 3:30 p.m. Era molto presto ma avrei trovato Harvie ugualmente. Di solito, rimaneva lì anche per la pausa pranzo. Non vedevo l'ora di fargli vedere il messaggio. Ero un cumulo di eccitazione.

Arrivai in editoria prima del previsto, ma ciò era plausibile dato il mio passo sovrumano. Stranamente, non trovai Hilary ad accogliermi alla scrivania. Ma in parte ne fui lieta. Non l'avevo più rivista dal suo racconto. Continuai spedita. Presi l'ascensore e arrivai al secondo piano. Giunsi davanti l'ufficio di Harvie, non curandomi di bussare.

- Ciao Blue, - sospirò dalla scrivania, non alzando subito lo sguardo dalle pagine su cui stava lavorando.

- Perché eri tanto sicuro che fossi io? - chiesi sorpresa.

- Perché il resto delle gente bussa, - tamburellò la penna sulla scrivania, scrutandomi. -  Cosa ti porta qui? - domandò anche se con la testa da un'altra parte.

- Devo mostrarti una cosa, - saltellai verso di lui, poggiando il cellulare sulla scrivania. Harvie si sporse in avanti per leggere.

- Chi è Lizzie? - fu la sua domanda.

- La migliore amica di mia madre, - feci una pausa, prendendo fiato. Gli effetti della corsa iniziavano solo ora a farsi sentire. - E credo che si trovi proprio lì, a Londra.

Harvie rimase in silenzio per qualche minuto, la fronte corrucciata.

- Londra... - constatò ad alta voce. - Immagino che tu stia cercando un modo per andare lì, - alzò lo sguardo verso di me, sforzandosi di non ridere quando vide la mia espressione.

- Ecco, se tu avessi qualche idea, sarei felice di ascoltarti. Tutto qua, - feci spallucce, prendendo posto davanti a lui. Harvie ridacchiò, tornando a leggere il messaggio, anche se non c'era molto da leggere.

- Sai, ci sarebbe qualcuno che dovrebbe essere lì tra qualche giorno, - allontanò il cellulare, ritornando sulle sue carte.

- Harvie, ti prego, non scherzare.

- Anche se pensavo di non andare.

- Perché mai non dovresti? Andiamo, sarà sicuramente qualcosa di importante, - lo incoraggiai anche se non sapevo di cosa si trattasse. Ma in quel momento, mi importava solo arrivare a Londra.

- Ammettendo che io ti permetta di venire con me, che diresti a tuo padre?

- Mi inventerei qualcosa, senza metterti in mezzo, ovviamente.

Harvie non sembrava molto convinto. Si passò una mano sul viso, pensandoci attentamente.

- Io dovrei rimanere lì per tre giorni. Che mi dici della scuola?

- Nessuno mi espellerà per tre giorni di assenza, - risposi imperturbabile.

- Tanto tu hai già deciso, giusto?

Sorrisi in risposta. Harvie sospirò, aspettandosi che sarebbe finita così.

- Bene. Quando partiamo?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** C'è speranza ***


"Ne parliamo meglio domani" aveva detto Harvie. E dai blocchi sulla scrivania, potei capire che avesse molto lavoro da fare. Ma andava bene comunque. C'era speranza.

Ero in corridoio. Stavo andando verso l'ascensore, ma non volevo tornare a casa.

- Blue! - qualcuno mi chiamò dall'altra parte del corridoio.

- Margy! - risposi riconoscendo la voce. Mi voltai con un sorriso. - È da un sacco che non ti vedo, - la abbracciai quando me la ritrovai davanti. Anche lei sembrava felice.

- Ma dimmi un po', come stai? Dopo ciò che è successo non ho più avuto tue notizie - mi scrutò amareggiata, riferendosi al mio mancamento di pochi giorni prima.

- Ora sto meglio. È stato solo un calo di pressione. In questi giorni, mangio davvero poco. Credo sia per lo studio. Quest'anno non ci danno tregua, - rimasi fedele alla giustificazione che associavo all'accaduto.

- Ti prego, non me ne parlare. Ti capisco perfettamente, - annuì comprensiva. - A proposito, credo che nell'ufficio di mia madre sia rimasto qualche dolcetto. Vuoi venire con me? - propose con un sorriso luccicante, come per assicurarsi che non ricapitasse qualcosa del genere, quel pomeriggio.

- Come dirti di no, - acconsentii seguendola.

Margaret aprì la porta dello studio. Celine era proprio lì, con una matita tra i denti e lo sguardo perso sul foglio.

- Che ti serve amore? - domandò senza alzare lo sguardo.

Margaret entrò seguita da me. Un sorriso illuminò il viso di Celine quando mi vide.

- Blue! Piccola, come stai? Ti trovo in forma! - strillò entusiasta, squadrandomi dalla testa ai piedi.

- Grazie Celine. Anch'io ti trovo bene! Io e Marge siamo venute a rubare dei dolcetti.

- Siete fortunate che siano rimasti. Qui la gente uccide per averli, - ridacchiò, tratteggiando incuratamente qualcosa sul foglio quando sembrò strapparsi violentemente una pellicina. Ritrasse il dito con uno scatto. Probabilmente, non intendeva torturarlo tanto.

- Li hai trovati? - mi rivolsi a Margaret, che teneva la testa dentro il mobile già da un po'.

- Un attimo... aspetta... ah sì! Saranno questi.

Mi guardai intorno, sentendomi a disagio. Ero al centro dell'ufficio, in attesa che Margaret recuperasse i dolci. Avevamo interrotto sua madre e ciò mi mise ancora di più in soggezione. Il mio sguardo cadde per caso su di lei, ma mi meravigliai nel ritrovare il suo già su di me. Lei si affrettò a guardare altrove. Qualcosa nella mia testa si mosse. Perché mi guardava in quel modo? Non mi stava guardando male, anzi tutto a contrario. In un modo quasi... inquietante.

- Bene, andiamo? - Margaret risorse alle mie spalle.

- Certo. Scusa se ti abbiamo interrotta, - mi rivolsi a Celine.

- Stai scherzando? È sempre un piacere vederti, - ci salutò sorridente mentre uscivamo.

- Non ti creare problemi. Stava solo scarabocchiando, - mi intimò Margaret sull'uscio.

- Ti ho sentita tesoro, - Celine scosse la testa, tornando al suo lavoro, mentre Margaret sussurava un "ops".

In fondo al corridoio c'erano tre divanetti ed è lì che ci andammo a sedere per mangiare.

- Non ne sono rimasti molti, in realtà, - riflettè Margaret una volta seduta.

- Meglio. Mi sarei sentita costretta a finirli, - ironizzai e lei rise.

- Harvie sta lavorando? - chiese, fingendosi impegnata a masticare un dolcetto.

- Sì, sembrava molto impegnato, - forse la mia voce suonò leggermente arida.

- Oh, strano, - osservò, sorridendo debolmente.

La guardai per pochi secondi. Tentai di immaginare lei e Harvie insieme; una coppia. Ciò mi venne molto difficile. E l'unica immagine sbiadita che riuscii ad elaborare, mi diede il voltastomaco.

- Ho visto che eri nel suo ufficio, dopo il mio risveglio, - mi ritrovai ad indagare sulla faccenda. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa. - È successo qualcosa? - domandai ammiccante. Mi sentivo terribilmente falsa.

Margaret sorrise timidamente.

- Ad essere sincera, non sono andata da lui per i motivi che credi tu. So che lui è bravo con i consigli. Avevo in mente di scrivere un libro. E non ho ancora ben chiara la trama. Vorrei evitare di scrivere qualcosa di banale, capisci? È molto vaga come cosa, infatti mi rendo conto di averlo messo in difficoltà. Poi si è messo ragionare sulle possibili opzioni, integrandomi nel discorso come non aveva mai fatto. Mi mancava essere inclusa da lui, - abbassò lo sguardo, cercando di celare gli occhi lucidi. - Lui cercava solo di aiutarmi, ma io ho frainteso, - tirò su di naso, scuotendo la testa per ricomporsi. Mangiò un altro dolcetto. - È fottutamente frustrante, essere invisibile. Invisibile per lui, - masticava con violenza. Mi misi nei suoi panni, e non fu difficile comprendere davvero la sua frustrazione. Tuttavia, quel giorno non ero nelle condizioni di consolarla a dovere. - Ma basta parlare di lui. Non se lo merita, giusto? - si strofinò gli occhi.

Ero tentata di dirle tutto; che sapevo cosa gli avesse fatto; che Harvie non se lo meritava e che ora la stesse ripagando con una moneta peggiore: l'indifferenza. Ma mi limitai a sospirare un:  "Già".

Margaret, per come l'avevo conosciuta, era davvero una brava ragazza. Ed è ingiusto che, per quanto una persona si impegni per rimediare, gli errori del passato rimangano appesi nel presente, come deboli foglie sugli alberi ai lati della strada. Purtroppo, per me il tradimento non è nella lista degli errori perdonabili. E proprio questo non riuscivo a stare dalla sua parte.

Continuavo a sentirmi una stupida per come avevo parlato a Harvie, quel giorno, nell'ufficio di mio padre; come avevo difeso Margaret con tutte le mie forze, credendola un angioletto. Se solo avessi saputo...

- Sai, - mi schiarii la voce. - mi spiace ma Jace mi aspetta in caffetteria e sono in ritardo, - improvvisai alzandomi.

- Ma non hai neanche preso un dolcetto, - osservò dispiaciuta.

- Hai ragione, ma sono a posto. Ci vediamo domani, okay? - mi affrettai ad andare. - Mi dispiace, - sussurrai poi, sentendomi in colpa per la mia fuga improvvisa.

- A domani, - alzò la mano, guardandomi con confusione mentre andavo via.

Nel tragitto verso casa, dimenticai la breve chiacchierata con Margaret. Avevo bisogno di pensieri positivi. Pensai al messaggio, a Lizzie; pensai a Harvie, Harvie che sembrava essere la soluzione ad ogni mio problema... Harvie che mi voleva aiutare davvero; Harvie che mi avrebbe portata a Londra! E mia madre...  che non vedevo l'ora di rivedere. Ed io... non volevo parlare troppo presto ma... era fatta!

Varcando l'ingresso, inspirai profondamente. Sembrava passata un'eternità da quando era mia madre ad accogliermi, e non il silenzio. Mi chiamava dalla cucina. Stava lì anche quando non aveva nulla da fare. E io mi chiedevo sempre perché non si riposasse sul divano, anche per qualche minuto, dato che, quando le ponevo la domanda, rispondeva sempre: "tanto ora devo fare altre cose".

Spesso rispondevo nervosamente quando mi chiamava. Magari era solo una brutta giornata. Lei non si offendeva mai. Le faceva male, ma ci passava sopra. E provava di nuovo ad amarmi. Fin quando non riusciva ad estrapolarmi quel poco che dava senso a tutto il resto. Si impegnava sempre così tanto per ricevere così poco. Ora avrei pagato per sentire la sua voce.

Ma mi costrinsi a pensare che, se tutto fosse andato bene, l'avrei potuta sentire. Solo l'indomani Harvie mi avrebbe parlato del viaggio. Noi saremmo andati lì, da Lizzie, e l'avremmo trovata. Magari non sarebbe voluta tornare a casa, da papà, ma avremmo trovato una soluzione. In fin dei conti, entrambe volevamo la stessa cosa.

Andai in camera mia e non indugiai a gettarmi sul letto. Mi stiracchiai, venendo avvolta da tutto il sonno arretrato. Quell'attimo di serenità mi abbandonò quando gettai un'occhiata al calendario. La settimana successiva mi aspettavano due verifiche per cui non avevo studiato. Inoltre, non sapevo nemmeno se sarei stata presente. Le cose sembravano lentamente sfuggirmi di mano, e non sapevo come impedirlo. A scuola non facevo altro che dormire. Di notte, mi ritrovavo a fissare il vuoto per ore, e per quelle poche volte che riuscivo a chiudere occhio mi risvegliavo di soprassalto poco dopo. Fino all'anno precedente, i professori mi definivano come una ragazza diligente. "Una delle migliori" dicevano. Quell'anno non avrebbero potuto dire lo stesso. Inizialmente, mi cullavo sul fatto che fosse solo la prima settimana. In realtà, era da un po' che non lo fosse più.

Ma... dopo che avessi ritrovato mia madre, sarebbe tornato tutto alla normalità. Avrei recuperato tutto il necessario. Cercai di convincermi che una volta sistemato quel pezzo della mia vita, avrei davvero potuto sistemare tutto il resto. E mi addormentai serena, tenendo fisso quel pensiero.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4013579