Star Trek Keter Vol. X: Lotta per la Terra

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La Forgia ***
Capitolo 3: *** Altamid ***
Capitolo 4: *** Lo Sciame ***
Capitolo 5: *** Nemici dell'Unione ***
Capitolo 6: *** L'ultima speranza ***
Capitolo 7: *** Oltre la Galassia ***
Capitolo 8: *** Vendetta ***
Capitolo 9: *** Cambio di marea ***
Capitolo 10: *** Arbitri della contesa ***
Capitolo 11: *** La resistenza è inutile ***
Capitolo 12: *** Chi va a Roma... ***
Capitolo 13: *** Scacco matto ***
Capitolo 14: *** Incontro a Samarra ***
Capitolo 15: *** La prossima frontiera ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. X:

Lotta per la Terra

 

QUESTI SONO TEMPI BUI,

LA PRIMA GUERRA CIVILE

DELLA STORIA FEDERALE.

INVECE DI ESPLORARE NUOVI MONDI,

LA KETER DEVE RICONQUISTARE

QUELLI CADUTI SOTTO LA DITTATURA

DELL’UNIONE GALATTICA.

CHIUNQUE LE SBARRI LA STRADA,

ANCHE IN BUONAFEDE,

NE CONOSCERÁ L’IRA.

 

 

-Prologo:

65,95 milioni di anni fa

Luogo: Terra (Sol III)

 

   Dopo oltre 160 milioni di anni d’incontrastato dominio, l’era dei dinosauri si avviava alla fine. Tutto era cominciato con la caduta del meteorite in quello che, molto tempo dopo, sarebbe stato chiamato Golfo del Messico. L’asteroide in ferro e iridio, del diametro di 10 km, era precipitato alla velocità di 30 km al secondo, rilasciando un’energia di un miliardo di megatoni. L’onda termica del primo impatto aveva incenerito le foreste e ucciso gli animali in un raggio di migliaia di km. Il terremoto aveva fatto più volte il giro del mondo, mentre l’onda d’urto marina aveva generato uno tsunami che in meno di un’ora aveva varcato il nascente oceano Atlantico, abbattendosi sulle coste africane ed europee. Ma questo era solo l’inizio; il peggio doveva ancora venire.
   Mentre l’oceano ribollente si richiudeva sul cratere appena formato, le foreste ardevano e l’onda anomala devastava le coste, si era verificato un altro fenomeno, ben più insidioso. Le ceneri e le polveri rilasciate dall’impatto si erano sollevate fino alla stratosfera. Qui i venti d’alta quota le avevano diffuse, finché tutto il pianeta ne era stato avvolto. Con quella cappa nera a bloccare la luce solare, la Terra era sprofondata nella notte perpetua. Le temperature erano crollate in tutto il globo e le piante, private della fotosintesi, erano avvizzite. Così gli animali erbivori avevano iniziato a morire; e con la loro scomparsa si appressava la fine anche dei carnivori. Ora i branchi di dinosauri vagavano nell’oscurità, alla vana ricerca di un pascolo. Per i grandi rettili era difficile trovare abbastanza cibo da sostentarsi. Andava meglio a quelli più piccoli come le lucertole, i serpenti, i coccodrilli e le tartarughe. E meglio ancora per i mammiferi e gli uccelli, che si erano evoluti dai rettili milioni di anni prima, rimanendo però confinati in piccole nicchie ecologiche.
   In una pianura innevata dell’America Settentrionale, un branco di Hadrosauri arrancava nella neve alta. I grandi animali erano sferzati dal vento gelido, che trascinava con sé il nevischio. Ogni tanto ficcavano il muso nella neve, cercando qualche pianticella al di sotto, ma ottenevano ben poco. Quando trovavano degli alberi, i sauri si alzavano sulle zampe posteriori e allungavano i colli più che potevano, per brucarne le foglie; ma la maggior parte dei rami era già spoglia. Allora non restava che riprendere la marcia. Qua e là giacevano le carcasse di altre povere bestie, morte di stenti. Alcuni piccoli mammiferi, simili a topi, vi zampettavano attorno, riempiendosi le pance. Al passaggio della mandria correvano a nascondersi negli anfratti del terreno, squittendo spaventati, ma non appena i dinosauri erano passati oltre si avventuravano di nuovo all’aperto.
   Come per tutti i dinosauri, anche per gli Hadrosauri stava per giungere la fine. Rispetto a poche settimane prima, il branco era falcidiato. I primi a morire erano stati i cuccioli, oltre agli esemplari anziani o malati, ma ormai anche gli adulti erano allo stremo. Erano così smagriti che le loro costole spiccavano sugli ampi fianchi. I loro richiami, simili a barriti prolungati, si affievolivano e si perdevano nella tormenta.
   D’un tratto la capobranco alzò il muso ed emise un richiamo di pericolo. La mandria si arrestò, disponendosi in formazione difensiva a cerchio. Sebbene il cielo fosse oscurato, così che tutto era in penombra, i sauri avvertivano l’odore del pericolo. Ben presto udirono un suono di passi ovattati dalla neve, accompagnati da un ringhio sommesso. Infine intravidero la sagoma in avvicinamento. Era un tirannosauro, una delle più perfette macchine per uccidere mai affinate dall’evoluzione; e puntava contro di loro. A dispetto della sua mole, corse con grande rapidità contro il branco. Gli Hadrosauri emisero tutti assieme un verso di sfida, così forte da sovrastare il vento; ma non bastò a spaventare il predatore affamato, che anzi accelerò la corsa nell’ultimo tratto. Le sue fauci formidabili si spalancarono, pronte a colpire. I denti lunghi e affilati come pugnali stavano per piantarsi nella gola della matriarca, quando l’intero branco svanì in un lampo bianco.
   Il tirannosauro lanciato alla carica continuò a correre per parecchi metri, prima di accorgersi che le sue prede erano svanite. Allora ruggì e si guardò attorno, cercando di ritrovarle, ma vide solo la pianura innevata, punteggiata di alberi secchi. Nemmeno il fine olfatto gli fu d’aiuto, perché non c’erano tracce da seguire; la mandria si era semplicemente dissolta. Era un problema che oltrepassava l’intelligenza del predatore, il quale si rassegnò a riprendere la sua marcia solitaria, nella speranza di trovare qualche altra preda, o magari una carcassa. Di quei tempi ce n’erano parecchie in giro; ma col procedere dell’estinzione sarebbero divenute sempre meno, finché anche per lui sarebbe scoccata l’ultima ora. Nel frattempo i piccoli mammiferi restavano acquattati nelle loro tane; la pelliccia li proteggeva dal freddo e le femmine allattavano i propri cuccioli, garantendone la sopravvivenza.
 
   Centinaia di chilometri sopra la cappa di polveri, l’astronave giaceva in orbita stazionaria, scintillando argentea alla luce solare. Era un vascello a forma di disco e per ironia della sorte aveva lo stesso diametro dell’asteroide responsabile di quel cataclisma. Al centro del disco vi era una grande cupola, entro la quale era stato ricreato l’habitat degli Hadrosauri, com’era prima della catastrofe. Le piante già vi crescevano, illuminate da potenti lampade, e quando le bestie vi furono teletrasportate presero subito a mangiarle avidamente. Era la prima scorpacciata che facevano da settimane. La scomparsa del tirannosauro e l’improvvisa trasformazione del paesaggio non sembravano averli scossi; del resto non erano abbastanza intelligenti da porsi domande. Il branco si aprì a ventaglio per meglio brucare, sotto lo sguardo vigile dei custodi del parco.
   Costoro erano umanoidi nelle linee generali e indossavano uniformi bianche o argentee. Avevano il cranio glabro, sormontato da un lieve affossamento e con le vene in evidenza. Gli occhi erano infossati, naso e orecchie appena abbozzati; la carnagione aveva una tonalità beige. Un tempo erano i soli umanoidi della Galassia, tanto che chiamavano se stessi il Popolo, senza bisogno di ulteriori definizioni. Ora che, grazie ai loro lunghi sforzi, altre specie umanoidi cominciavano a evolversi, c’era chi li chiamava i Progenitori.
   «Rapporto» disse il Capitano Turut, avvicinandosi alla finestra panoramica per osservare gli Hadrosauri.
   «Abbiamo preso tutto il branco» riferì il Custode Iesei. «È uno dei pochi che restano. Ma ci vorranno altre navi, e molti altri viaggi, per evitare il collo di bottiglia genetico».
   «Certo, certo» fece il superiore, sovrappensiero. «Senza un’adeguata varietà genetica, questi magnifici animali non vivranno a lungo nel nuovo ambiente. Ma non si preoccupi: il Consiglio Evolutivo mi ha appena confermato che arriveranno le navi richieste».
   «Davvero? Cominciavo a temere che se ne lavassero le mani!» si lasciò sfuggire un altro custode.
   «Ci hanno provato, ma io ho insistito e beh... ho ancora qualche amico al Comando» disse il Capitano, con un mezzo sorriso.
   Tutti i presenti sapevano quanto fosse difficile allestire un’operazione del genere. Salvare una specie dall’estinzione sembrava facile a parole, ma all’atto pratico diventava un’impresa titanica. In primo luogo bisognava trovare un pianeta simile a quello d’origine, e già questo non era facile, sebbene la Galassia ospitasse miliardi di mondi. I parametri da considerare, infatti, erano innumerevoli: composizione e pressione atmosferica, forza di gravità, irraggiamento solare, campo elettromagnetico, durata del giorno, ciclo stagionale, stabilità climatica e tettonica, solo per citare i principali. Dopo di che la specie prescelta doveva essere inserita in un ambiente adatto. Le specie, infatti, non si evolvono da sole; sono sempre inserite in un ecosistema, nel quale interagiscono con le altre secondo schemi complessi e mutevoli. Trapiantare una singola specie su un mondo alieno significava quasi sempre condannarla all’estinzione. Perciò bisognava inserire dapprima le piante, poi gli animali inferiori e solo da ultimo la specie oggetto d’interesse. E non era finita: nel caso di specie non ancora senzienti, come i sauri, bisognava inserire anche i predatori naturali, perché tenessero sotto controllo la popolazione, evitando l’esplosione demografica. Infine l’intero ecosistema andava monitorato a lungo, per rilevare e correggere i problemi che immancabilmente si presentavano.
   Era davvero un grosso sforzo, in termini di risorse e personale impiegato; e non era ripagato da alcun guadagno. Ma i Progenitori non facevano queste cose per profitto. Le facevano semplicemente perché davano valore alla biodiversità, e in special modo all’intelligenza, che cercavano di far sviluppare. Non volevano restare per sempre soli nella Galassia, no! Volevano un futuro in cui la Via Lattea pullulasse di specie simili a loro, ma non identiche, così che ognuno potesse imparare qualcosa dagli altri. Era un sogno che li aveva animati per lunghissimo tempo, anche se i primi approcci con i “figli” non erano stati lieti come speravano, tanto che col tempo si erano fatti sempre più cauti e schivi.
   «Però è triste che il Consiglio abbia deciso di non intervenire sul clima del pianeta» commentò Iesei. «Questo è uno dei mondi con più biodiversità che esistano. Anche se ci siamo accorti troppo tardi del meteorite, potremmo fare molto per migliorare la situazione».
   «Ad esempio?» chiese l’altro Custode, di nome Sotatos.
   «Beh, non sono un climatologo, ma so che si possono ionizzare le particelle elettrostatiche dell’atmosfera con un impulso del deflettore» rispose Iesei. «Questo le trasforma in plasma la cui energia può essere scaricata, usando l’astronave come parafulmine».
   «Vuole arrostire la mia povera nave?» fece il Capitano, ironico.
   «Ehm, nossignore, gli scudi ci proteggerebbero...» corse ai ripari il Custode, ma vedendo il sorriso bonario del superiore si tranquillizzò.
   «Io credo che il Consiglio abbia ragione» disse a sorpresa Sotatos. «L’estinzione è parte naturale del processo evolutivo. È solo attraverso di essa che si liberano le nicchie ecologiche rimaste a lungo occupate, permettendo la diversificazione delle specie superstiti».
   «Sì, ma per riempire quei vuoti occorrono milioni di anni!» si lamentò Iesei. «Nessuno di noi sarà più al mondo, per allora. Dal nostro punto di vista è un impoverimento e basta».
   «Dobbiamo guardare oltre la nostra limitata prospettiva individuale» disse il Capitano, sebbene anche lui fosse dispiaciuto. «Comunque ditemi: quante specie si estingueranno?».
   «Secondo gli ultimi calcoli, potremmo perdere il 70% di tutte le specie del pianeta» rispose il Custode, con un groppo in gola.
   «Addirittura?!» si sgomentò Turut. «Aspetti... questa percentuale include le specie marine?».
   «Sì, purtroppo» confermò Iesei. «La mancanza di luce e l’acidificazione dei mari sta uccidendo il plancton, con ricadute su tutta la catena alimentare. Spariranno i grandi rettili marini, ma anche buona parte dei molluschi e dei coralli».
   «Vedrò se si può fare qualcosa» mormorò il Capitano, ma non ci sperava molto. Preservare le specie marine era ancora più difficile che farlo con quelle terrestri.
   «Comunque non sarà l’estinzione peggiore che questo mondo abbia visto» rivelò Sotatos. «Ho studiato la sua storia evolutiva e ho scoperto che 185 milioni di anni fa vi fu una catastrofe ancora peggiore, che spazzò via il 90% delle specie marine e il 70% di quelle terrestri. In quel caso, la moria spianò la strada all’evoluzione dei sauri. Stavolta potrebbe spianarla ai mammiferi e agli uccelli».
   «Io scommetto sui mammiferi» disse Iesei. «Sono omeotermi, hanno il cervello più sviluppato e forniscono più cure parentali. Se l’intelligenza si evolverà mai su questo pianeta, verrà da loro» predisse.
   «O dagli Hadrosauri» corresse il Capitano. «È per questo che li stiamo salvando».
   «Già, gli Hadrosauri...» mormorò il Custode, osservandoli meditabondo. «I loro branchi hanno una struttura sociale abbastanza complessa, ma ne devono fare di strada! Se mai diverranno senzienti sul loro nuovo pianeta, sarà in un futuro lontanissimo».
   «Se ciò dovesse accadere, e se faranno ricerche sulla loro evoluzione, si accorgeranno di non essere imparentati con la maggior parte delle specie locali» notò il collega. «Perciò dedurranno che il loro mondo d’origine è un altro. Mi chiedo se avranno il desiderio di rintracciarlo» mormorò, sfiorandosi il mento.
   «Perché no? Tutti desiderano sapere da dove vengono» disse Iesei.
   «Ma se nel frattempo questo mondo avesse sviluppato un’altra specie senziente... magari dai mammiferi, come dici tu... non pensi che si scatenerebbe un conflitto?» chiese Sotatos.
   Iesei rimase così interdetto che non riuscì a rispondere; per parecchi secondi vi fu il silenzio. «Suppongo che il pericolo esista, ma... suvvia! Stiamo parlando di specie che non esistono ancora» disse infine. «Non sappiamo se questi sauri diverranno senzienti, né se lo faranno i mammiferi. Se anche fosse, accadrà quasi certamente in epoche diverse, per cui non s’incontreranno mai» concluse.
   «E anche se fossero contemporanei, difficilmente si troveranno» intervenne il Capitano. «Vede, è proprio per evitare qualunque conflitto che stiamo trasferendo gli Hadrosauri dall’altra parte della Galassia. Se anche i loro remoti discendenti cercassero il proprio mondo d’origine, non lo troveranno mai, tra le miriadi di pianeti simili».
   «Mah, non so...» fece Sotatos, poco convinto. «Ho l’impressione che se un popolo tecnologicamente progredito vuol trovare il suo luogo d’origine, allora ci riuscirà, a costo di setacciare la Galassia».
   «Chissà!» fece il Capitano. «Comunque non sono problemi che ci riguardano. Abbiamo una tabella di marcia da rispettare, quindi smettiamola di perdere tempo! Se il carico è pronto, possiamo lasciare l’orbita».
   «Affermativo, l’habitat è al completo» confermò Iesei.
   «E i sensori medici dicono che non ci sono patogeni in grado di sterminare il branco» aggiunse Sotatos, consultando i dati che scorrevano su un oloschermo.
   «Ottimo. Turut a plancia, facciamo rotta per la Riserva 474» ordinò il Capitano, premendosi il comunicatore agganciato al colletto.
   «Agli ordini, signore» rispose il Primo Ufficiale.
   La grande astronave discoidale fece manovra, uscendo gradualmente dall’orbita terrestre. Nell’habitat centrale gli Hadrosauri continuarono a brucare, inconsapevoli sia d’essere stati salvati, sia del grande destino che li attendeva. L’equipaggio invece tornò alle proprie incombenze, inclusi il Capitano e i due Custodi. Erano tutti fieri di stare salvando un’altra specie promettente; ma se ne avessero sapute le conseguenze, il loro orgoglio sarebbe svanito, lasciandoli nell’angoscia e nell’incertezza.
 
   All’insaputa dei Progenitori, un’altra nave stellare si trovava nell’orbita terrestre in quelle ore. Il suo sofisticato occultamento la rendeva invisibile, persino per i sensori di quell’antica specie; e non era nemmeno la sua caratteristica più notevole. L’USS Keter, infatti, era l’unica nave temporale al servizio della Flotta Stellare nel tardo XXVI secolo. In verità c’erano anche delle navette temporali, ma nessuna aveva abbastanza energia da tornare indietro di milioni di anni; solo la Keter poteva visitare un passato così remoto. Se era lì, dopo molti tentativi andati a vuoto, era nella speranza di garantirsi un futuro.
   Sulla plancia vi era silenzio, rotto solo dal ronzio dei sensori. Gli ufficiali, appartenenti a varie specie secondo l’usanza della Flotta, fissavano il vascello dei Proto-Umanoidi con sentimenti ambivalenti. Questo valeva anche per il Capitano Hod. Nativa di Elaysia, aveva corti capelli biondi e grandi occhi violetti che le davano un’aria angelica; ma ora quegli occhi erano corrucciati e l’espressione era indurita. «Dunque la nostra teoria era esatta» commentò con distacco. «I Voth non lasciarono la Terra con le loro forze e per loro scelta. Furono trasferiti dai Progenitori quand’erano ancora delle bestie».
   «Se lo sapessero, sarebbe un bel colpo al loro orgoglio» commentò il Comandante Norrin, l’unico Hirogeno al servizio della Flotta.
   «È logico che sia così» disse Terry, l’Intelligenza Artificiale della nave, che svolgeva anche il ruolo di Ufficiale Tattico. «I Voth ci hanno detto che la loro storia scritta copre 20 milioni di anni. Dunque c’era un gap di quasi 46 milioni di anni da colmare. Tanto c’è voluto, perché gli Hadrosauri si evolvessero nei nostri nemici». La proiezione isomorfa, che aveva l’aspetto di una giovane Umana dagli occhi a mandorla, stava analizzando il vascello dei Proto-Umanoidi.
   «Hai detto bene: i nostri nemici» disse Vrel, il timoniere. «Nella nostra epoca sono troppo potenti per sconfiggerli, ma qui nel passato sono ancora degli animali. Se vogliamo colpirli dobbiamo farlo adesso, prima che i Proto-Umanoidi li trasferiscano nel Quadrante Delta». Il mezzo Xindi, in passato uno dei membri più gioviali dell’equipaggio, aveva un’aria truce. Da quando sua sorella Lyra lo aveva quasi ucciso perché militava nel campo avverso, era uno degli ufficiali più determinati a vincere, a costo di violare le regole della Flotta Stellare.
   «Sarebbe un buon modo per risolvere i nostri guai» convenne Zafreen. L’Orioniana, addetta a sensori e comunicazioni, condivideva l’opinione del suo fidanzato sulla necessità di prevalere a ogni costo.
   «La nave dei Proto-Umanoidi ha lo scafo in tetraburnio, ma la cupola centrale è in semplice trasparacciaio» disse Terry, che aveva completato l’analisi tattica. «I suoi scudi sono abbassati. Se la cogliamo di sorpresa, possiamo infrangere la cupola e disarmarli prima che abbiano il tempo di reagire».
   «Volete davvero assalire una nave che non ci ha fatto nulla di male?» chiese Ladya Mol. La Vidiiana veniva raramente in plancia, essendo il Medico Capo, ma il Capitano l’aveva convocata per sentire il suo parere.
   «Già, non è proprio nello stile della Flotta Stellare» mugugnò Norrin.
   «Le abbiamo provate tutte per fermare i Voth, e abbiamo fallito!» protestò Vrel. «Questo è l’unico modo che ci resta. Se torniamo al presente con un nulla di fatto, tanto vale arrenderci».
   «Non dobbiamo necessariamente usare le armi» insisté Ladya. «I maggiori successi della Flotta Stellare sono derivati dal dialogo. E sappiamo che i Proto-Umanoidi hanno un’indole pacifica. Se ci mostriamo a loro e spieghiamo la situazione, è probabile che acconsentano a non salvare gli Hadrosauri».
   «Questo non possiamo saperlo con certezza» disse Vrel, cupo. «Se scoprono che quei lucertoloni diventeranno una delle maggiori potenze galattiche, potrebbero essere ancora più determinati a salvarli. Il che ci costringerà ugualmente allo scontro, con la differenza che avremo perso il fattore sorpresa».
   «Che usiamo le buone o le cattive, non abbiamo modo di sapere se i Proto-Umanoidi manterranno la parola» ragionò Norrin. «Potrebbero prometterci di lasciar estinguere i sauri e poi, quando ce ne saremo andati, continuare a trasferirli. Vedete, quella è una sola nave e possiamo anche batterla» disse indicando il vascello sullo schermo «ma ricordate che alle spalle ha la civiltà più popolosa mai esistita nella Via Lattea. Se ingaggiamo lo scontro, arriveranno i rinforzi e ci sommergeranno col numero».
   «E allora dobbiamo arrenderci senza nemmeno provare?! A che serve questa missione, se non possiamo fare nulla?» insorse Zafreen.
   «La decisione spetta al Capitano» disse il Comandante nel suo tono pacato.
   L’Elaysiana, che stava ancora fissando il vascello dei Proto-Umanoidi, lo udì appena. Era da quando aveva deciso di fare quel tuffo nel passato che si chiedeva come ne avrebbe approfittato. Gli Accordi Temporali imponevano alla Flotta Stellare di non alterare la Storia per alcun motivo, nemmeno per salvare milioni di vite. Gli unici interventi leciti, anzi doverosi, consistevano nel correggere le modifiche apportate da altri. E certo non c’era infrazione più grave che cancellare un’intera specie senziente. Dunque la loro ricerca era stata vana? Non restava che un mesto ritorno al presente, dove li attendevano la sconfitta e la schiavitù? E se invece violavano gli Accordi, cancellando i Voth, come sarebbero sfuggiti ai paradossi temporali? Era una trappola senza via d’uscita, comprese il Capitano. «Scacco matto» mormorò, così piano che nessuno la udì.
 
   Tutto era cominciato tre anni prima, dal loro punto di vista, ovvero nel 2590. In quell’anno i Voth avevano raggiunto lo spazio federale, contattando la Keter. Inizialmente amichevoli, avevano spiegato d’essere in cerca del Mondo Perduto, ovvero il pianeta d’origine della loro specie. Il precedente incontro con l’USS Voyager, la nave federale dispersa, li aveva convinti che quel mondo fosse la Terra, data la loro affinità genetica con gli Umani. Ma per esserne certi dovevano fare delle analisi sul posto, confrontando il loro DNA con le altre specie terrestri, così da ricostruire l’albero filogenetico. Sperando che ciò permettesse di stabilire buone relazioni, il Capitano Hod li aveva accompagnati fino alla Terra. Qui i Voth erano stati accolti in pompa magna dalle autorità federali, ottenendo il permesso di compiere le loro ricerche. Entro la fine dell’anno, la teoria dell’Origine Lontana era stata confermata; così erano iniziati i guai.
   I Voth, infatti, avevano lanciato un ultimatum alla Terra, esigendo l’immediata restituzione del pianeta. Essendosi evoluti per primi non volevano spartirlo né con gli Umani, né con le altre specie federali che ormai costituivano una buona metà della popolazione. Di conseguenza avevano circondato la Terra con la loro potentissima flotta, impedendo i trasporti e le comunicazioni, e avevano dato al governo dieci giorni per arrendersi. Se i Terrestri non se ne andavano di propria volontà, avrebbero pensato loro stessi a deportarli sugli altri mondi federali.
   La crisi era scoppiata nel momento peggiore, perché l’Unione Galattica – nata dalla fusione di Federazione, Impero Klingon e Repubblica Romulana – era già nel caos. Ciò si doveva alle politiche della Presidente Rangda, leader del Partito Abolizionista. Nei suoi cinque anni di mandato la Presidente, supportata dai mass media, aveva in gran parte smantellato la Flotta Stellare, delegandone le funzioni a vari uffici governativi sotto il suo diretto controllo. Privata di astronavi e personale, la Flotta era stata incolpata di non riuscire più a mantenere l’ordine alle frontiere, dove cresceva l’attrito con i vicini e si moltiplicavano le bande di pirati. A quel punto Rangda aveva mantenuto la promessa elettorale di abolire la Prima Direttiva, “per motivi umanitari”. Vere o no che fossero le motivazioni, il risultato era stato catastrofico. A popoli primitivi erano state fornite tecnologie che essi non comprendevano e che subito avevano rivolto a scopi bellici, massacrandosi tra loro o attaccando i vicini. Ancora una volta la Flotta Stellare, sempre più dissanguata, aveva dovuto intervenire, prendendosi tutto il biasimo dei fallimenti.
   Così, quando i Voth avevano assediato la Terra, la Flotta sparpagliata non aveva fatto in tempo a radunarsi. Scaduto l’ultimatum senza che Rangda avesse risposto, i Voth avevano iniziato a sequestrare i Terrestri. Ai federali non era rimasto che attaccare, scatenando una sanguinosa battaglia attorno alla Terra. E quando, malgrado le circostanze sfavorevoli, la Flotta era stata sul punto di prevalere e i Voth già iniziavano a ritirarsi, la situazione era precipitata. Rangda aveva ordinato alla Flotta di arrendersi e collaborare con i Voth al trasferimento forzato dei Terrestri. La Terra infatti sarebbe stata ceduta a loro, salvo l’isola artificiale di Atlantide in cui si trovavano i palazzi del governo; in cambio i sauri avrebbero firmato un trattato di pace e collaborazione.
   Davanti a quell’ordine che sapeva di tradimento, molti equipaggi si erano ribellati. Su ogni nave della Flotta era scoppiata la lotta tra lealisti e ribelli, mentre le Intelligenze Artificiali di bordo obbedivano in gran parte all’ordine presidenziale, prendendo il controllo dei vascelli. La gloriosa ammiraglia Enterprise-J, ribellatasi all’ordine, era stata spietatamente distrutta da un vascello lealista. Le altre navi ribelli, tra cui la Keter, erano fuggite dal sistema solare, mentre i Voth sbarcavano in forze sulla Terra, venendo accolti come liberatori.
   Era solo l’inizio della persecuzione. Accusati di alto tradimento e terrorismo, i ribelli erano stati braccati dai loro ex colleghi lealisti, riformati nella nuova Forza di Pace dell’Unione. Questi Pacificatori, com’erano detti, avevano pieni poteri militari e rispondevano solo a Rangda. Avevano interrogato amici e parenti dei ribelli, cercandone la complicità per tendere trappole che si erano concluse con l’arresto o persino l’uccisione dei fuggitivi. Ai superstiti non era rimasto che radunarsi su Kronos, formando un Consiglio Federale e un Comando di Flotta in esilio. Riesumando il vecchio nome di Federazione, avevano giurato di detronizzare Rangda e riconquistare la Terra; ma la strada era tutta in salita. Così era iniziata la Guerra Civile federale.
   Nel frattempo i Voth deportavano milioni di Terrestri, sia Umani che alieni, rimpiazzandoli con i loro coloni. Nella loro “magnanimità” si erano offerti di preservare il patrimonio culturale, così che gli abitanti potessero tornare a visitarlo da turisti. Ma la Presidente Rangda aveva altri piani. Accusando la cultura umana d’essere arretrata e intollerante, ne aveva decretato la totale cancellazione. I monumenti, i musei e le aree archeologiche erano stati bombardati dalla nuova ammiraglia dei Pacificatori, il Moloch, e i database culturali erano stati cancellati con un click. I cittadini stessi erano stati invitati a consegnare i beni culturali in loro possesso, così che fossero distrutti. E lo avevano fatto: alcuni per paura, altri perché indotti dalla propaganda. Infine la Terra stessa aveva ricevuto un nuovo nome: Vothan, la patria dei Voth.
   Giorno dopo giorno, la condizione degli Umani era peggiorata. I programmi scolastici erano stati riscritti, eliminando l’insegnamento della loro cultura e presentandoli come i responsabili di tutti i mali dell’Unione. I mass media li accusavano d’essere i responsabili della Guerra Civile: ogni Umano era visto come una potenziale spia e favoreggiatore dei ribelli. Gli altri cittadini erano esortati a diffidare degli Umani, a non condividere gli spazi pubblici, a tenere lontani i propri figli dai loro. Le organizzazioni statali, come anche le aziende private, non assumevano più Umani e licenziavano quelli già in servizio con dei pretesti.
   Ben presto gli Umani erano stati ammassati nei cosiddetti Centri di Rieducazione, costruiti in luoghi isolati e sorvegliati da Pacificatori armati. Lo scopo ufficiale dei Centri era accertarsi che gli Umani fossero fedeli all’Unione, prima di rimetterli in libertà. In pratica si trattava di campi di concentramento, come avevano scoperto gli agenti della Flotta. Gli ospiti erano sottoposti a pesanti umiliazioni, per spezzarne l’amor proprio, e a tecniche di propaganda che sconfinavano sempre più nel lavaggio del cervello. I più riottosi finivano sulle Lobo-Sedie, da cui si rialzavano con danni neurologici permanenti. Esaminando i reduci di quei Centri, i medici della Flotta avevano fatto un’altra orribile scoperta: tutti, sia uomini che donne, erano stati sterilizzati a loro insaputa. Se gli specialisti non trovavano la cura – e dopo un anno d’affannose ricerche brancolavano ancora nel buio – la specie umana era condannata all’estinzione.
   Davanti a questi orrori di cui non si vedeva la fine, gli oppositori di Rangda avevano passato al setaccio la sua biografia, cercando almeno di capire da dove le venisse quest’odio viscerale e implacabile contro gli Umani. Tutte le ricerche erano state vane, nel senso che non era stato possibile rintracciare un solo episodio in cui la futura dittatrice avesse subito qualche torto da parte loro. L’unica conclusione a cui erano giunti gli psicologi era che probabilmente Rangda si era imbattuta nella propaganda anti-umana in giovane età e aveva finito per crederci, o comunque l’aveva adottata per avere successo. Questa propaganda, infatti, aveva attraversato come un fiume carsico tutto il XXVI secolo, dimostrando una straordinaria capacità di adattarsi alle mutevoli situazioni politiche e di far presa su popoli diversissimi. Ma con la salita al potere di Rangda era diventata ancor più pervasiva e martellante; e i ribelli tremavano al pensiero di doverne ancora vedere le estreme conseguenze.
 
   «Norrin, a lei la plancia. Mi avverta se i Proto-Umanoidi accennano a lasciare l’orbita» raccomandò il Capitano. Dopo di che si ritirò nel suo ufficio, per riflettere. Non aveva ancora raggiunto la scrivania che udì una voce alle sue spalle. Qualcuno l’aveva seguita, malgrado il suo evidente desiderio di restare sola.
   «So cosa pensi». A parlare era stato Juri Smirnov, il consulente storico di bordo. Era uno dei pochi Umani presenti sulla Keter, nonché l’unico passeggero civile. Tra i consiglieri di Hod era quello che detestava maggiormente i Voth, per ciò che avevano fatto alla Terra; ma non lasciava che ciò offuscasse il suo giudizio.
   Riconoscendo la sua voce, il Capitano si girò di scatto. «Vorrei che il viaggio nel tempo non fosse mai stato inventato» disse, fissandolo con occhi colmi d’angoscia. «Così non dovrei prendere questa decisione!». Ciò detto raggiunse la scrivania e si lasciò cadere stancamente sulla poltroncina. Con il perfezionamento del viaggio temporale si era molto discusso se impedire la nascita di una persona equivalesse all’omicidio, e di conseguenza se cancellare un intero popolo si configurasse come genocidio. Alcune specie, come i Krenim e i Na’kuhl, sostenevano che non fosse così, perché nella nuova linea temporale quelle persone non erano mai esistite; gli unici a ricordarle erano i responsabili dell’alterazione. Ma l’Unione Galattica aveva stabilito che cancellare le persone dalla Storia era l’equivalente morale di ucciderle.
   «Su questo siamo d’accordo» disse Juri, accostandosi. «Ma ricorda che quando i Na’kuhl cercarono di alterare la Storia, noi lottammo strenuamente per fermarli. E ora vorresti fare la stessa cosa?!». Posò le mani sulla scrivania e si curvò in avanti, accostando il viso a quello del Capitano.
   «Senti chi parla... tu eri in combutta con loro!» rinfacciò Hod, alzando su di lui uno sguardo tagliente, anche se poi se ne pentì.
   «Sì, per salvare mia sorella; e alla fine ho dovuto sacrificarla per fermarli» le ricordò l’Umano, raddrizzandosi. «Ma le controindicazioni non sono solo d’ordine morale. Ci sono anche problemi pratici. Nella loro lunghissima storia, i Voth hanno interagito con molti altri popoli. Cancellali e stravolgerai anche le altre civiltà».
   «Magari in meglio» borbottò l’Elaysiana, con l’aria di chi ha una gran voglia d’ubriacarsi.
   «Sai bene che non è così. I Voth furono decisivi per sconfiggere i Vaadwaur un millennio fa e oggigiorno tengono a bada i Borg. Senza di loro, gran parte della Galassia sarebbe spacciata. E te lo dice uno che odia i Voth per quello che ci hanno fatto» disse Juri.
   «Potremmo alterare la Storia senza cancellarli» propose il Capitano. «Basta fare in modo che non incontrino mai la Voyager, o meglio ancora, che non formulino la teoria dell’Origine Lontana».
   «Prima o poi ci avrebbero scovati comunque» ribatté lo storico. «E non devo essere io a ricordarti i rischi di una qualunque alterazione. Gli Agenti Temporali del futuro potrebbero piombarci addosso per fermarci. Oppure incapperemo in qualche paradosso che ci annienterà».
   «Insomma, abbiamo le mani legate» concluse Hod.
   «Qui nel passato, sì» confermò Juri. «Ma la conoscenza di come sono andate le cose può tornarci utile nel presente».
   «I Voth non cambieranno politica alla luce delle nostre scoperte» disse l’Elaysiana, pessimista. «Non ci renderanno la Terra, ora che l’hanno colonizzata. E probabilmente non ammetteranno nemmeno il loro debito nei confronti dei Progenitori, orgogliosi come sono».
   «No, ma sappiamo che i Proto-Umanoidi esistono ancora nel presente» ricordò l’Umano. «Ora che abbiamo le prove del loro intervento, potremmo inchiodarli alle loro responsabilità».
   «È da molto che ci rifletto» annuì il Capitano. «I Proto-Umanoidi non s’immischiano mai nelle nostre faccende, ma stavolta chissà...» disse, con sguardo remoto.
 
   Quando Hod rientrò in plancia, seguita da Juri, gli ufficiali capirono dal suo cipiglio che aveva preso una decisione inappellabile.
   «Capitano, i Progenitori stanno lasciando l’orbita» avvertì Zafreen.
   «Registri tutto coi sensori, ma restiamo occultati» ordinò l’Elaysiana, accomodandosi sulla poltrona di comando.
   «Non li fermiamo?!» insorse Vrel, girandosi con tutta la sedia.
   «No» confermò il Capitano. «In questa guerra, l’unico tabù che ancora regge sono gli Accordi Temporali. Non saremo noi a infrangerli. Non ci metteremo al livello dei Na’kuhl, che volevano cancellare intere specie per il loro tornaconto».
   «E allora siamo spacciati!» inveì il timoniere. «Se Jaylah fosse qui, glielo direbbe anche lei» aggiunse, per compensare il fatto che lui e Zafreen erano in minoranza.
   Norrin si alzò a mezzo, sul punto di redarguire il timoniere per la sua insubordinazione, ma poi lasciò perdere e si risedette. Anche lui era combattuto sull’argomento. Non intendeva contestare l’ordine del Capitano, tuttavia vedeva avvicinarsi il giorno in cui la Flotta si sarebbe sbandata e tutti loro avrebbero dovuto fuggire su mondi lontani per sopravvivere. Nel suo caso, ciò significava riunirsi al clan di Cacciatori; e non sapeva se la sua amata Ladya avrebbe accettato di seguirlo.
   «L’Agente Chase non è qui, e comunque il suo parere non cambierebbe la mia decisione» chiarì il Capitano. In realtà era lieta che la mezza Andoriana, un tempo capo della Squadra Temporale, avesse lasciato la Keter per unirsi ai corsari. Se avesse dissentito su una questione così cruciale sarebbe stata capace di ammutinarsi, trascinando altri con sé.
   «Capitano...!» esclamò Zafreen, con una nota di disperazione. In quella il vascello dei Proto-Umanoidi schizzò a transcurvatura, scomparendo in un lampo bianco. Ora non lo avrebbero più ripreso, neanche volendo. La loro grande occasione era sfumata.
   Un senso di sconforto serpeggiò nella plancia, mentre tutti tornavano alle loro occupazioni. La tensione accumulata negli ultimi giorni si era spezzata, lasciando gli ufficiali stanchi e delusi. Non restava che tornare nel loro tempo, a incassare nuove sconfitte. Hod si rese conto che alcuni di loro avrebbero lasciato la Flotta. Il regolamento non lo consentiva, in tempo di guerra, ma i disertori trovavano spesso il modo di svignarsela. Quell’equipaggio, rimasto saldo per otto anni attraverso le sfide più micidiali, era sul punto di sfaldarsi. E il peggio era che il Capitano lo capiva. Lei stessa era tentata d’arrendersi alle forze soverchianti dei Pacificatori e alla loro ancor più soverchiante ideologia, che in pochi anni aveva riplasmato le coscienze dei cittadini, facendogli accettare ciò che un tempo era impensabile.
   «Plancia a sala macchine» disse l’Elaysiana, aprendo un canale. «Signor Dib, ci riporti nella nostra epoca. Qui abbiamo finito».
   «Già» mugugnò Vrel, rigirandosi in avanti con la sedia. «Stavolta è proprio la fine». 
 

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Capitolo 2
*** La Forgia ***


-Capitolo 1: La Forgia
Data Stellare 2593.195
Luogo: Nebulosa Necro Cloud
 
   Là dove le propaggini sfilacciate della nebulosa svaporavano nello spazio interstellare, la struttura si librava come una bolla perfettamente liscia e sferica. Un tempo, la stazione Yorktown era stata il fiore all’occhiello della Federazione Unita dei Pianeti. Era il progetto più avveniristico del XXIII secolo: una città utopica nello spazio, in cui tutte le specie federali coesistevano in pace, scambiandosi conoscenze e tecnologie. Entro la bolla di trasparacciaio, si dipanavano gli anelli urbani concentrici e variamente inclinati, fitti di grattacieli, ma anche abbelliti da parchi e aree pubbliche. C’era persino un settore industriale, con un cantiere spaziale in cui si potevano costruire intere astronavi. Tutto era supervisionato nel centro di comando, posto nel cuore della stazione. C’era chi diceva che, finché la Yorktown fosse esistita, gli ideali della Federazione non sarebbero mai morti. E infatti...
   Alla metà del XXVI secolo, la Guerra delle Anomalie aveva squassato la Federazione, costringendola a evacuare interi mondi prima che le distorsioni spaziali li rendessero inabitabili. La Yorktown non aveva fatto eccezione. La stazione era stata evacuata frettolosamente, per salvarne gli abitanti; le anomalie l’avevano alquanto danneggiata, pur senza distruggerla del tutto. In seguito, cessato il pericolo, il relitto era rimasto abbandonato per decenni. Invece di restaurarla e ripopolarla, la nuova Unione Galattica si era concentrata su altri progetti. La vecchia stazione era così diventata una cava da cui estrarre materiali già lavorati; un malinconico memoriale a ciò che era stato, e che poteva essere di nuovo. Ma le cose erano cambiate quando, al culmine della Guerra Civile, i Pacificatori ne avevano intravisto le potenzialità. Così la stazione era di nuovo occupata e in piena attività; solo il suo scopo era diverso.
   «Stazione nemica sullo schermo» disse Siall, l’addetto ai sensori della Stella del Polo. La nave corsara si stava avvicinando a basso impulso, rimanendo occultata per prudenza. «Sembra che l’abbiano pesantemente alterata. Ora la Yorktown...».
   «Quella non è più la Yorktown» corresse il Capitano. «Ora è la Forgia: una fabbrica di armi pesanti, un cantiere di navi da guerra. E se le nostre soffiate sono esatte, un campo di prigionia». Jack Wolff – in arte lo Spettro – si alzò dalla poltrona di comando e si fece avanti, per osservare la stazione che s’ingrandiva sullo schermo. La bolla di trasparacciaio era stata ricoperta da una corazza ablativa grigia, che ne celava l’interno. Tuttavia l’ingresso principale era aperto: c’era un fitto viavai di navette, che trasportavano asteroidi dalla vicina nebulosa, trascinandoli con i raggi traenti.
   «Guarda, guarda...» mormorò lo Spettro, aguzzando la vista. «È coerente con le indiscrezioni. I Pacificatori estraggono minerali dagli asteroidi, per rifornire i cantieri. E i lavoratori coatti dovrebbero essere i prigionieri che cerchiamo... sempre che siano ancora vivi».
   Era da mesi che i corsari cercavano di rintracciare svariate centinaia di ostaggi dei Pacificatori, che parevano volatilizzati. Tutto era cominciato quando alcuni trasporti carichi di Umani deportati dalla Terra erano svaniti nel nulla. L’Unione aveva accusato lo Spettro, per guastarne la leggenda di eroe romantico al servizio del popolo; ma Jack sapeva bene di non essere responsabile di quelle sparizioni. Così aveva indagato, scoprendo che erano i Pacificatori stessi – nella persona dell’Esecutore, uno spietato sicario – ad avere orchestrato il tutto, per attirarlo in trappola. La strategia aveva in parte funzionato, perché l’Esecutore era riuscito a sorprenderlo più volte, decimando la sua banda. Della flottiglia che lo Spettro aveva radunato a inizio guerra, ormai non gli restava che la Stella del Polo, la sua nave ammiraglia. E l’Esecutore continuava a braccarlo senza tregua. Ma intanto le sparizioni continuavano e Jack non aveva rinunciato a indagare. La lunga ricerca lo aveva condotto alla Forgia; e ormai era chiaro a cos’erano destinati i desaparecidos.
   «Analizzo la stazione?» chiese Siall, le mani già sui comandi.
   «No, potrebbero rilevarci» lo fermò lo Spettro. «Finché siamo senza appoggio, la segretezza è l’arma migliore».
   «Ma se non sappiamo nemmeno quanti prigionieri ci sono, e quali sono le misure di sicurezza, come potremo liberarli?» obiettò Graush, il secondo in comando. Era un Letheano grande e grosso, dalla dura pelle cornea e gli inquietanti occhi rossi.
   «Andrò io a ispezionare la Forgia» si offrì Jaylah Chase – in arte la Banshee – alzandosi dalla sua poltrona. «Esaminerò i sistemi difensivi, così potremo decidere se un attacco è praticabile» aggiunse. La mezza Andoriana era abituata ai pericoli, essendo stata per anni un Agente Temporale. E da quando aveva lasciato la Keter per unirsi ai corsari, si era sobbarcata missioni ad altissimo rischio. In un modo o nell’altro se l’era sempre cavata; ma avvertiva distintamente che non poteva continuare così all’infinito. Un giorno o l’altro, la fortuna l’avrebbe abbandonata. Ma che poteva farci? La guerra andava sempre peggio e non voleva abbandonare Jack e gli altri, finché lottavano. Così si offrì anche quella volta. Accanto a lei, Goldie – la femmina di falcone cestiano che era la mascotte di bordo – stridette come per disapprovare. Jaylah dovette lisciarle le penne per calmarla.
   Jack scrutò preoccupato la compagna, ma non volle contestare la sua scelta davanti all’equipaggio. Tutti loro rischiavano costantemente la vita, e lui non poteva tenere Jaylah al sicuro, solo perché era la sua amante. Così, ancora una volta, doveva mandarla nella tana del drago. «Vuoi sfruttare il viavai di asteroidi per intrufolarti» indovinò.
   «E per uscire, certo» confermò Jaylah. «Ci accorderemo su luogo e ora per riunirci, così da restare in silenzio subspaziale finché sarò via. Andiamo... l’ho fatto altre volte» disse, notando la preoccupazione del corsaro.
   «Già, ma questa potrebbe essere una trappola dell’Esecutore» borbottò Jack. «Mi raccomando, fa’ attenzione. Qualunque cosa accada, non uscire dall’occultamento, neanche per un istante. E non tardare a tornare, nemmeno se la tua esplorazione fosse incompleta. Se qualcosa va storto, devo saperlo subito, per tirarti fuori da lì» raccomandò.
   «Intesi» annuì Jaylah, carezzando ancora il falcone.
   «Certo che è strano» commentò Graush, osservando attentamente la stazione. «Non ci sono astronavi, né piattaforme orbitali a difenderla».
   «Ci sono banchi phaser e lanciasiluri sul guscio esterno» obiettò Siall. «Sono evidenti anche senza un’analisi sensoriale. Così a occhio, direi che sono decine».
   «Mi sembra comunque poco, per una stazione così importante» insisté il Letheano. «Di solito l’Unione difende meglio i suoi cantieri».
   «Può darsi che le navi siano appostate all’interno» ipotizzò Jaylah. «Cercherò di appurarlo. Dopotutto la Forgia ha molto volume vuoto; potrebbe accogliere una piccola flotta. E vedrò di capire quanti sono i prigionieri».
   «Dobbiamo avere ben chiaro il nostro obiettivo» puntualizzò Graush. «Siamo qui per liberare gli ostaggi, ma se ciò non fosse possibile... allora dovremo distruggere la Forgia, per indebolire l’Unione».
   «L’ideale sarebbe fare ambo le cose, ma chissà...» sospirò Jack, tornando a osservare la stazione. Man mano che le difficoltà aumentavano, gli era sempre più chiaro che non potevano permettersi il lusso di soddisfare tutti i loro obiettivi.
 
   Infiltrarsi sulla Forgia fu relativamente semplice per Jaylah. Per prima cosa indossò la tuta a Occultamente Sfasato che le aveva valso il nome da battaglia di Banshee. Era una meraviglia tecnologica, realizzata in nano-polimeri che garantivano leggerezza e allo stesso tempo flessibilità. Solo il casco era interamente metallico. Sotto al visore azzurro spiccava la griglia fonica che le consentiva di far udire la sua voce e, all’occorrenza, il famigerato grido ultrasonico capace di stordire gli avversari. Per il resto, casco e tuta erano bianchi, all’opposto della corazza nera dello Spettro. Una volta che la tuta era sigillata, Jaylah poteva occultarsi e persino sfasarsi rispetto al continuum spazio-temporale, divenendo intangibile: nessuna barriera poteva fermarla e persino i raggi phaser l’attraversavano. Certo che per attaccare a sua volta, o per intervenire in qualunque modo sull’ambiente circostante, doveva tornare tangibile; e in quei momenti era vulnerabile. Ma la mezza Andoriana sperava che stavolta non ci fosse da combattere.
   La parte più difficile del lavoro fu individuare un asteroide che stesse per essere prelevato dai Pacificatori, tra la miriade di rocce che affollavano la Necro Cloud. A risolvere il problema fu Virrikek, l’ingegnere della Stella, grazie a un algoritmo che ricostruì la griglia di lavoro dei Pacificatori, prevedendo quali asteroidi stavano per accalappiare. Così la Banshee si fece teletrasportare sul prossimo e restò in attesa. Era una roccia piccola, simile a una patata tutta bozzi, lunga trecento metri. Tutt’attorno, le volute della nebulosa tingevano lo spazio di mille colori, mentre la Forgia era un puntino lontano, appena distinguibile dalle stelle. La mezza Andoriana contemplò quella bellezza, finché poteva.
   L’attesa non fu lunga. Due navette dei Pacificatori sbucarono dai gas nebulari, agganciarono l’asteroide con i raggi traenti e se lo trascinarono dietro. La Banshee occultata dovette aggrapparsi alle rocce circostanti, per non essere sbalzata nello spazio. Uscite dalla Necro Cloud, le navette si diressero verso la Forgia. La sfera crebbe rapidamente, coprendo le stelle, finché Jaylah ebbe l’impressione di trovarsi davanti a un interminabile muro grigio. E in quel muro si apriva l’ingresso della Forgia, contornato da minacciosi banchi phaser. Le navette-rimorchiatori proseguirono, tirandosi dietro l’asteroide. Superato un campo di forza che tratteneva l’atmosfera, percorsero un lungo tunnel. Ad un certo punto svoltarono in un passaggio laterale; subito dopo spensero i raggi traenti e fecero dietrofront, mentre l’asteroide proseguiva per inerzia.
   Questo lasciò interdetta Jaylah. Si aspettava che l’asteroide fosse adagiato su un piano di lavoro, o attraccato in qualche modo, per poi essere scavato. Invece lo avevano lasciato libero. Spinse lo sguardo in fondo al tunnel, e con un tuffo al cuore vide attivarsi una griglia laser azzurrina. Era così che i Pacificatori sminuzzavano rapidamente gli asteroidi!
   «Cominciamo bene».
   Senza perdere tempo, la Banshee lasciò il suo rifugio. In assenza di gravità, bastò spiccare un salto per abbandonare l’asteroide condannato. Per parecchi secondi la corsara fluttuò nel vuoto. Fortunatamente non era alla deriva: la spinta iniziale la trascinava verso il pavimento del tunnel. Pochi attimi prima di colpirlo, Jaylah fletté le gambe per attutire l’impatto e magnetizzò le suole degli stivali. Gli accorgimenti funzionarono: la mezza Andoriana si trovò acquattata sul fondo del condotto. Spinse lo sguardo in avanti e vide l’asteroide che attraversava la griglia laser, venendo tagliuzzato in centinaia di blocchi. L’attimo dopo i laser si spensero e la gravità artificiale fu ripristinata: non tutta in un colpo, ma poco alla volta. I frammenti rocciosi persero quota e infine si ammucchiarono sul pavimento di duranio, rotolando uno sull’altro, con enorme fracasso. Polvere di regolite si sollevò, formando una nebbia di minuscoli granelli taglienti come schegge di vetro. Era una nebbia pericolosa da respirare, e ancor più pericolosa se finiva negli occhi; fortunatamente Jaylah aveva la tuta a proteggerla. Si aspettava che arrivassero minatori debitamente equipaggiati, o magari androidi, per estrarre i minerali dai blocchi rocciosi; ma si sbagliava.
 
   Uno squillo di sirena annunciò l’arrivo dei minatori. Erano palesemente organici e il loro equipaggiamento lasciava a desiderare; le generiche tute da lavoro non erano omologate per quell’incarico. Peggio ancora, non avevano caschi per proteggersi dalla regolite; sopperivano con dei ridicoli occhialini e delle specie di turbanti improvvisati, fatti di stracci.
   «Squadra 1 al lavoro» gracchiò una voce dall’altoparlante.
   A capo chino, gli operai si misero all’opera. Circondarono i blocchi rocciosi, sebbene non si fossero del tutto assestati e a tratti continuassero a franare. Li esaminarono con tricorder, in cerca delle vene minerali, e presero a scavare con strumenti incredibilmente primitivi. Al posto dei micro-laser e degli emettitori ultrasonici, omologati per questo lavoro, avevano pale e picconi. Jaylah non credeva ai suoi occhi; in quelle condizioni disumane, gli incidenti dovevano essere all’ordine del giorno. Poi vide le guardie e capì.
   I lavoratori erano circondati da Pacificatori armati, che intimavano loro di sbrigarsi. Quando un minatore ignorò l’ammonimento, il sorvegliante più vicino impugnò la sua arma: una frusta neurale, simile a quelle usate dai Ferengi. Premuto un comando sull’impugnatura, la frusta s’illuminò di azzurro. Il secondino la fece schioccare in aria e poi frustò il lavoratore sulla schiena. Il poveretto lanciò un grido agonizzante e crollò a terra, scosso dai sussulti. Jaylah sapeva che le fruste neurali, pur non provocando veri e propri danni all’organismo, stimolavano i recettori del dolore, provocando sofferenze indicibili. Come parte del suo addestramento nella Sicurezza, una volta era stata sottoposta a una singola sferzata, al minimo della potenza, giusto per darle un’idea di com’era; se lo ricordava ancora. E la frusta del secondino aveva un settaggio ben più alto, a giudicare da come brillava. I lamenti strazianti del lavoratore lo confermarono.
   «In piedi, Umano, o assaggerai altri colpi!» berciò la guardia, minacciando una seconda sferzata.
   Il disgraziato si rialzò a fatica e tornò al lavoro, affrettandosi più che poteva. Nessuno dei colleghi intervenne in sua difesa; non volevano assaggiare anche loro la frusta neurale.
   «Così sono questi i prigionieri» si disse Jaylah. Avrebbe dovuto indignarsi, ma ormai non si stupiva più delle nefandezze dei Pacificatori. «Hanno rapito centinaia d’innocenti solo per tenderci imboscate, e ora che si ritrovano con tutti questi prigionieri, li costringono ai lavori forzati. Li hanno ridotti in schiavitù, né più né meno». E c’era ancora di peggio: tutti costoro erano testimoni scomodi. L’Unione non poteva rimetterli in libertà, o avrebbe sofferto un irreparabile danno d’immagine. «Quando non avranno più bisogno di loro, li massacreranno». Il pericolo non era immediato, perché i Pacificatori dovevano prima vincere la guerra; ma era una ragione in più per tirar fuori quei disgraziati.
   Osservandoli più attentamente, la mezza Andoriana ebbe l’impressione che non fossero tutti Umani. Era difficile dirlo, imbacuccati com’erano; ma alcuni sembravano proprio alieni. Ne ebbe conferma quando proseguì l’esame della stazione, sfruttando lo sfasamento per attraversare le paratie e accedere ai settori adiacenti. Lì i prigionieri erano adibiti ad altri compiti, sempre vigilati da guardie e droni di sorveglianza. Sì, c’erano indubbiamente degli alieni frammisti agli Umani: Jaylah riconobbe Bajoriani, Trill e altre specie. Dovevano essere prigionieri politici, o anche ribelli catturati. Ricorrendo alle sue facoltà telepatiche, percepì alcuni loro pensieri. Quei poveretti erano disperati; lavoravano per sfuggire alle fruste neurali, ma non speravano di riavere la libertà. Molti avevano intuito che i Pacificatori li avrebbero eliminati al termine della guerra e vivevano nel terrore perenne.
   Queste scoperte inquietarono Jaylah. Se oltre agli Umani c’erano così tanti altri prigionieri, sarebbe stato difficile liberarli tutti. C’era persino il rischio che la Stella non avesse spazio sufficiente ad accoglierli. Più proseguiva l’esplorazione, più la corsara si rendeva conto che quell’impresa era superiore alle loro forze. «Se chiedessimo aiuto alla Flotta...» ragionò, ma respinse subito l’ipotesi. Dopo tre anni di continue sconfitte, la Flotta Stellare era in procinto di sfaldarsi. Le poche navi rimanenti dovevano proteggere Kronos e gli altri pianeti ribelli; non ne restavano per allestire un’operazione di salvataggio. «No, siamo soli» si disse la mezza Andoriana, con un groppo in gola. Ciò che più la colpiva era la rassegnazione generale. Nessun prigioniero, nemmeno quelli appartenenti a specie guerriere e orgogliose, aveva la minima intenzione di ribellarsi. Tutti erano convinti che la loro sorte fosse segnata; alcuni pensavano addirittura di meritarselo.
   Proseguendo l’infiltrazione, la corsara vide un gruppo di Umani che uscivano dalle celle per cominciare il turno di lavoro. Una fredda voce all’altoparlante risuonò nelle loro orecchie: «Lavoratori, preparatevi a prendere servizio. Siate grati all’Unione, che vi permette di partecipare allo sforzo bellico necessario a salvaguardare le vostre libertà. Grazie al vostro contributo, la fine della guerra si avvicina; e con essa la fine del servizio sulla Forgia. Siate grati, inoltre, che quest’esperienza formativa vi permetta d’espiare il Privilegio Umano di cui finora avete ingiustamente goduto. Alla fine di tutto, sarete persone migliori. Lunga vita e prosperità!».
   Jaylah si chiese se era stato un Vulcaniano a parlare. Era possibile: molti Vulcaniani militavano tra i Pacificatori. «Chissà se lo fanno perché condividono la loro ideologia, o solo perché Vulcano si trova nel cuore dell’Unione e non può ribellarsi senza rischiare l’annientamento» pensò; ma era irrilevante. In entrambi i casi, i Vulcaniani avrebbero seguito la logica, fino alle sue estreme conseguenze.
   Giunta in uno degli anelli abitativi affacciati sull’interno della stazione, la Banshee vide qualcosa che la sconcertò più di tutto il resto. In quell’ampio spazio aperto, centinaia di prigionieri erano al lavoro su piccole navicelle di foggia aliena. Sembravano caccia stellari, di un modello che Jaylah non riconobbe. Lo scafo era grigio... anzi, era verniciato di un rosso quasi del tutto stinto. In effetti quelle navicelle sembravano stranamente antiche. I prigionieri le stavano forse riparando? La mezza Andoriana si accostò per osservare meglio. Sì, in parte le revisionavano; ma oltre a questo le imbottivano di siluri quantici. Non c’erano lanciasiluri; le testate erano semplicemente inserite nell’abitacolo, così che detonassero all’impatto. Dunque i Pacificatori prevedevano di lanciare quei caccia in attacchi kamikaze, presumibilmente con qualche genere di pilota automatico.
   «Devo trovare la sala controllo» si disse Jaylah, camminando tra le file interminabili di caccia. Ciò significava addentrarsi nella sezione centrale, aumentando considerevolmente il rischio d’essere scoperta. Ma non c’erano alternative; e in ogni caso una visita al centro di comando era d’obbligo, per verificare il numero dei prigionieri e le effettive difese della stazione. Ciò che più la inquietava, comunque, era il design alieno di quei caccia. I Pacificatori non possedevano nulla di simile; significava forse che avevano trovato nuovi alleati? E chi, dal momento che nessuna potenza conosciuta usava quei modelli?
   Un clangore metallico destò la corsara dalle sue riflessioni. Uno degli operai era caduto a terra, sfinito dalla fatica; le pesanti attrezzature che trasportava si erano rovesciate attorno a lui. Osservandolo, Jaylah si accorse con orrore che era un ragazzino; dunque i Pacificatori sfruttavano anche il lavoro minorile.
   «Ancora tu!» berciò un sorvegliante Talariano, balzandogli accanto. «Allora lo fai apposta a sabotarci! Alzati e raccogli tutto... se qualcosa s’è rotto, la pagherai cara!».
   «Ho sete... datemi dell’acqua, vi prego!» singhiozzò il ragazzo, mordendosi le labbra screpolate.
   «Hai le tue porzioni, come tutti, quindi non battere la fiacca!» ammonì il Talariano. «C’è gente molto più vecchia di te che non si lamenta. Non vedi? Qui tutti sono felici di lavorare per la pace. Perciò smettila di poltrire e fa’ la tua parte. In piedi, ho detto!». Ciò detto lo sferzò sulla schiena con la frusta neurale, strappandogli un grido.
   «Basta! Lasciatelo riposare, non vedete che sta male? Terminerò io il suo turno!» si offrì un’altra prigioniera, lasciando il suo posto per correre accanto al sofferente. La nuova arrivata attirò subito l’attenzione di Jaylah. Era un’Hirogena, e già questo era strano, perché quei fieri Cacciatori raramente si lasciavano prendere vivi. Ma in più, questa aveva un’aria familiare.
   «Nessuna sostituzione! Nessun privilegio! Siamo tutti uguali davanti alla legge, non lo sai?!» gridò il sorvegliante, spostando la sua collera sull’Hirogena. Prese a frustarla selvaggiamente, più e più volte, per punirla d’essersi impietosita del compagno di sventura. Sotto i colpi implacabili, l’Hirogena stramazzò a sua volta. Cercò di rialzarsi, ma ad ogni sferzata si accasciava di nuovo, mentre il Talariano rideva di gusto.
   Assistere alla scena senza intervenire fu una delle cose più difficili che Jaylah avesse mai fatto. Come se la vista non fosse abbastanza, percepiva anche le emozioni delle persone coinvolte: il dolore straziante dell’Hirogena, il piacere dell’aguzzino, l’allegria dei colleghi che osservavano senza intervenire, il terrore degli altri prigionieri. Ma non poteva farci niente: uscire allo scoperto in quel momento significava morte certa.
   «Tornate al lavoro, ora!» abbaiò il Talariano, quando fu stanco di frustare. Dopo tutti quei colpi, l’Hirogena era così malridotta che stentò a rialzarsi. Fu il ragazzino da lei difeso a porgerle la mano, per aiutarla a tornare in piedi. Non le disse nulla, ma si scusò con lo sguardo per averla involontariamente messa in quella situazione. L’aliena sorrise fiaccamente e scosse la testa, come a dire che non era colpa sua.
   Fu allora che Jaylah la riconobbe. L’Hirogena non era altri che Vitani, la cugina di Norrin! L’aveva incontrata in occasione della Battaglia di Cestus III, quando il clan di Norrin si era battuto valorosamente per salvarli. In seguito la corsara non aveva più avuto notizie di loro; ma scoprire Vitani tra i forzati le fece temere il peggio. Desiderò contattarla, per farle sapere che non doveva disperare, perché presto l’avrebbero salvata; ma come farlo senza essere rilevata? «Non posso nemmeno aspettare che la riportino in cella, per mostrarmi lì» ragionò la mezza Andoriana. «Non posso perdere così tante ore, né rischiare che i sensori delle prigioni captino i miei segni vitali».
   Vedendo che l’Hirogena entrava in un caccia per riparare i sistemi di guida, tuttavia, le venne un’idea. Disattivò lo sfasamento, pur restando occultata, ed entrò con lei. A quel punto cercò di contattarla telepaticamente. Era difficilissimo entrare in sintonia con una mente non telepatica, ma Jaylah aveva un livello ESP elevato, e non aveva mai smesso di coltivare le sue capacità. Dopo qualche minuto d’intensa concentrazione, riuscì a farle pervenire un pensiero.
   «Sono qui».
   «Chi c’è?!» esclamò Vitani, girandosi di scatto nell’abitacolo.
   «Sssshhh, non parlare!» le trasmise la corsara. «Sono la Banshee e mi trovo con te, occultata. Posso comunicare tramite il pensiero e posso anche percepire le tue risposte, se le formuli con chiarezza nella tua mente. Ma non devo farmi scoprire dai Pacificatori, o sarà la fine».
   «Capisco» trasmise l’Hirogena, adattandosi prontamente alle istruzioni. «Avevo quasi perso la speranza. Norrin è con te? C’è la Keter là fuori?» chiese speranzosa.
   «Mi dispiace, ci siamo solo noi corsari» rivelò Jaylah. Le spiaceva infrangere le sue aspettative, ma mentirle sarebbe stato peggio. «Non vedo la Keter da mesi, non so nemmeno dove sia. Vedi, la guerra va sempre peggio; ma non abbiamo rinunciato a cercare i passeggeri scomparsi. Gli indizi ci hanno condotti alla Forgia. Però non mi aspettavo di trovarti qui! Che ti è successo? Che ne è del tuo clan?».
   Vitani non rispose subito. Tornò al lavoro, per non attirare i sospetti dei carcerieri, e quando si sentì pronta riprese a trasmettere i suoi pensieri. «Dopo Cestus III siamo finiti sulla lista nera dei Pacificatori» spiegò. «Sei mesi fa hanno fatto una retata su Amar, la nostra colonia. In quel momento mi trovavo sulla superficie, così sono stata catturata con altri. I Pacificatori hanno incendiato il nostro insediamento e ci hanno portati via».
   «Mi dispiace. Che ne è del Dorvic?» chiese Jaylah, riferendosi all’astronave dei Cacciatori.
   «Ci hanno detto di averlo distrutto» rispose l’Hirogena, e la corsara ne percepì la sofferenza. «Io però non ci ho creduto. Sai, mio marito Garid era a bordo. Non crederò alla sua morte finché non ne avrò le prove!». Il suo volto color salmone s’indurì, mentre continuava a trafficare col sistema di guida.
   La mezza Andoriana non si azzardò a confortarla su questo punto, nel caso che il peggio si fosse avverato. Cercò invece di distrarla, cambiando argomento. «Ascolta, siamo qui per salvarvi. Mi sono infiltrata sulla Forgia per capire come stanno le cose, così potremo elaborare un piano. Però non mi aspettavo che i prigionieri fossero così tanti. Hai un’idea di quanti siate in totale?».
   «Le guardie non vengono certo a dircelo!» ribatté Vitani, con l’equivalente mentale di uno sbuffo. «Nella mia sezione siamo in seicento, divisi in tre turni da duecento persone. Però credo ci siano altre sezioni che usano i forzati. Di sicuro ce n’è una che li usa come minatori, per estrarre i minerali dagli asteroidi...».
   «Sì, li ho visti».
   «E credo ce ne sia una terza, forse la più grande, nei cantieri veri e propri» concluse l’Hirogena.
   «Quelli ancora non li ho osservati» trasmise Jaylah, meditabonda. «Dovrò raggiungere il centro di comando per avere una stima, ma se foste entro i tremila, potremo imbarcarvi sulla Stella. Però ci vorrà del tempo per teletrasportarvi tutti. Quando scoppierà la battaglia, ci servirà la vostra collaborazione. Credi che i tuoi compagni di prigionia siano disposti a rivoltarsi contro i carcerieri?».
   «Direi proprio di no» rispose Vitani, insolitamente arcigna.
   «Perché? Come mai siete così rassegnati?!».
   «Perché ciascuno di noi, appena giunto sulla Forgia, ha subìto una piccola operazione chirurgica» rivelò l’Hirogena. Si allargò il colletto della tuta, mostrando un minuscolo bozzo sul lato del collo. «Ci hanno impiantato una micro-carica esplosiva. Se qualcuno prova a ribellarsi o a fuggire, lo fanno saltare in aria».
   Per qualche secondo, Jaylah rimase così scioccata da interrompere la conversazione telepatica. Poi, a fatica, tornò a concentrarsi. «Parli per sentito dire o l’hai visto tu stessa?» chiese.
   «L’ho visto e udito. Ecco, prendi le mie memorie» fece Vitani, aprendo del tutto la mente.
   Jaylah si sentì sprofondare nei ricordi dell’Hirogena. Il caccia alieno svanì attorno a lei: ora si trovava in una sezione urbana della Forgia. I prigionieri marciavano in fila tra i grattacieli diroccati, vigilati dalle guardie.
   «E adesso dove ci state portando?» chiese un Umano, massaggiandosi il collo indolenzito dopo l’operazione.
   «Ai vostri nuovi alloggi» rispose una guardia, riferendosi alle prigioni. «Riposate, perché da domani comincerete a svolgere servizi socialmente utili».
   «No, non voglio! Esigo di parlare con un avvocato... ho i miei diritti!» gridò il prigioniero, dando in escandescenze.
   «Essere qui è un diritto» ribatté il secondino. «Ora torni nei ranghi. Non dobbiamo tardare».
   «No, basta! Mi avete strappato i miei figli, dove sono adesso? Voglio rivederli!» gridò l’uomo, sempre più esagitato. Quando la guardia fece per mettergli le mani addosso, la gettò a terra con una spallata. Poi lasciò il gruppo dei prigionieri e corse a perdifiato verso una piazzola, in cui si trovava una navetta. Gli altri lo guardarono con un misto di speranza e timore; alcuni erano in procinto di seguirlo.
   Fu allora che la micro-carica nel collo del prigioniero fu azionata, detonando con la potenza di una granata. Schizzi di sangue e brandelli di carne furono proiettati in aria, ricadendo nel raggio di svariati metri. Un filo di fumo si levò dai resti maciullati.
   «Signori, avete constatato il prezzo della disobbedienza» disse una voce cavernosa che proveniva dall’alto. Jaylah – ovvero Vitani nel suo ricordo – alzò gli occhi, verso un passaggio soprelevato. Vide una figura imponente stagliarsi contro i riflettori che illuminavano quella zona della Forgia. Non era umano: a giudicare dalla testa bulbosa era un Osnullus, una delle specie fisicamente più inquietanti dell’Unione. «Sono il Commodoro Ghul, dei Pacificatori. V’informo che siete qui per espiare il vostro debito nei confronti della società. Lavorate con solerzia e beneficerete del reinserimento sociale. Fallite e non potremo più salvarvi» spiegò, accennando ai brandelli del fuggitivo. «La scelta è solo vostra. Sappiate inoltre che le micro-cariche sono programmate per detonare se usciste da questa stazione, e anche se qualcuno cercasse d’estrarle senza prima averle disattivate. Quindi non fatevi del male inutilmente» concluse, e si ritirò.
   Terminato il ricordo, Jaylah si trovò di nuovo nell’abitacolo del caccia. Le ci volle qualche momento per raccapezzarsi. «Ghul... ho sentito parlare di lui, ma non sapevo che comandasse la Forgia» trasmise. «È uno dei Pacificatori più pericolosi. Dobbiamo stare ancora più attenti».
   «Pensi di poterlo eliminare?» chiese Vitani.
   «Forse» rispose la corsara. «L’importante è disattivare le vostre cariche esplosive, così potremo imbarcarvi. Dovrò consultarmi coi miei ingegneri per trovare il modo. Ma prima ancora devo comprendere il piano di Ghul, il che ci porta al vostro lavoro. Che navicelle sono queste?» chiese, accennando al caccia in cui si trovavano.
   «È una faccenda strana... quel poco che so ce lo dissero quando cominciammo i lavori» spiegò l’Hirogena. «Devi sapere che, nel mezzo della Necro Cloud, c’è un pianeta chiamato Altamid. E lì si trovano i resti di un’antica civiltà. Da quel che ho capito, non era nativa del pianeta; aveva solo cercato di colonizzarlo. Ma per qualche motivo si estinse, lasciandosi dietro molte attrezzature. Queste navicelle, dette lo Sciame, vengono da lì. I Pacificatori le hanno trovate e rimesse in funzione. Ci costringono a ripararle e a imbottirle di siluri, così potranno usarle in battaglia».
   «Ma quante sono?» volle sapere Jaylah.
   «Migliaia... tante migliaia» rivelò Vitani. «Sono sei mesi che ci lavoriamo, e altri forzati lo fanno da ancora più tempo. Se i Pacificatori le useranno tutte assieme, lanceranno un assalto devastante».
   Devastante a dir poco, si disse la mezza Andoriana. Con quello Sciame di caccia esplosivi, i Pacificatori potevano distruggere Kronos e vincere la guerra. Se fino ad allora quella missione le era parsa importante, ora era assolutamente cruciale. Ma come si poteva fermare uno sciame composto da migliaia di caccia? Le armi convenzionali ne avrebbero abbattuti solo un’infima percentuale. «Io, uhm... suppongo che i Pacificatori non intendano immolare migliaia dei loro piloti» trasmise la corsara. «Questi affari avranno il pilota automatico, giusto?».
   «Più o meno» rispose Vitani. «Hanno dei piloti robot, che all’occorrenza possono essere sostituiti da Organici. Ma è chiaro che, per l’attacco su grande scala, i Pacificatori useranno gli automi. Infatti ci stanno facendo revisionare anche quelli. Ma i robot obbediscono comunque a un segnale d’onda subspaziale, vedi?» fece l’Hirogena, indicando il complesso apparato di comunicazione del caccia.
   Jaylah lo studiò per qualche minuto. La radio subspaziale riceveva il segnale, visualizzando l’obiettivo e il percorso da seguire. Senza quell’accorgimento, persino un pilota robot avrebbe avuto difficoltà a volare a distanza ravvicinata con migliaia di “api” simili.
   «Se disturbaste il segnale, potreste impedire ai Pacificatori di controllare lo Sciame» suggerì Vitani. «Magari riuscirete persino a far collidere le Api l’una con l’altra».
   «Potremmo fare ancora di meglio» propose Jaylah, ragionando da vera corsara. «Potremmo impadronirci dello Sciame e usarlo per i nostri scopi! Sarebbe una svolta nella guerra».
   «Attenta a non osare troppo» ammonì l’Hirogena. «Per controllare lo Sciame, dovreste avere i codici di sicurezza. Mi sa che il Commodoro è l’unico a possederli, e non li cederà facilmente».
   «Allora è tempo di visitare il centro di comando» decise la mezza Andoriana, alzando la testa dai controlli. «Devo andare... ma tornerò presto coi corsari e ti libererò. Libereremo più prigionieri che possiamo. Nel frattempo stringi i denti e resisti!» raccomandò.
   «Farò del mio meglio» promise Vitani, non così ottimista. «Se non dovessimo rivederci, di’ a Norrin che non è colpa sua se i Pacificatori ci hanno attaccati».
   «Glielo dirai tu stessa!» ribatté la Banshee, allontanandosi. Il loro legame telepatico svanì mentre lasciava la carlinga. La mezza Andoriana era di nuovo sola, in mezzo ai nemici; ma aveva un’idea più chiara della situazione. Sgusciò fra una navicella e l’altra, passò tra i forzati e i loro carcerieri, invisibile e inafferrabile come l’entità leggendaria di cui portava il nome. La sua strada portava al centro di comando, profondamente sepolto nel cuore della Forgia.
 
   «Controlli pre-volo ultimati, signore. Tutte le Api rispondono ai comandi» riferì l’addetto.
   «Bene, diamo inizio al test» ordinò Ghul. Il Commodoro attraversò a grandi passi il centro di comando, diviso da pannelli semitrasparenti su cui scorrevano i dati, fino a un’alcova ricavata nella parete posteriore. Qui era stato allestito un sedile ultratecnologico, simile alle sedie dei propulsori cronografici. L’Osnullus vi si accomodò, ponendo gli avambracci ben distesi sui braccioli e allargando le mani sugli appositi pannelli luminosi.
   «Codice genetico confermato. Benvenuto, Commodoro; i controlli sono operativi» disse il computer. La sedia si animò: gli apparecchi ronzarono e alcuni oloschermi si accesero in modo da contornarla.
   «Comincerò con un giro di prova» disse Ghul, concentrandosi mentre inseriva i comandi.
   «Il segnale subspaziale è stabile. Lo Sciame sta decollando» riferì il primo ufficiale, un Vulcaniano dalle orecchie più appuntite del normale. Molti ufficiali alzarono gli occhi dalle postazioni, per godersi lo spettacolo. Dopo mesi d’incessante lavoro, lo Sciame era finalmente pronto a lasciare la Forgia. Le Api, allineate a migliaia lungo gli anelli urbani e persino appollaiate sui vecchi grattacieli, si alzarono in volo con strabiliante coordinamento. Erano così numerose, e piccole per la distanza, da sembrare una tempesta di sabbia che oscurasse l’illuminazione interna della Forgia. Sfrecciarono davanti all’ampio schermo parietale della plancia e s’incanalarono nel condotto che portava allo spazio. Nello stesso momento, il portellone esterno si apriva.
   Migliaia di Api sciamarono nello spazio, allargandosi un poco, ma restando in formazione. Il Commodoro eseguì diverse manovre: rapide accelerate seguite da brusche frenate, repentini cambi di direzione. In certi momenti lo Sciame si divideva in gruppi più piccoli, in altri tornava a riunirsi.
   «Provo ad attaccare le boe» disse l’Osnullus. A distanza di sicurezza dalla stazione vi erano infatti alcune boe spaziali, sistemate in precedenza. Diretto da Ghul, lo Sciame vi si diresse contro ad alta velocità. Quasi tutte le Api passarono oltre, ma una mezza dozzina impattò contro le boe, distruggendole.
   «Tutti i bersagli sono stati colpiti e neutralizzati. Complimenti, signore» commentò il Vulcaniano.
   «È fin troppo facile» disse il Commodoro. «Ora entro nella Necro Cloud. Vediamo se il segnale è abbastanza forte da superare le interferenze».
   Lo Sciame si gettò a capofitto nella nebulosa, zigzagando tra gli asteroidi e aggirando le zone di gas più denso. Ad un certo punto s’infilò persino in un canyon, lungo la superficie di uno dei corpi più grandi. Lo percorse nella sua interezza, sbucando all’estremità opposta, e riprese a sfrecciare tra le volute di gas.
   «Segnale all’80% in diminuzione» avvertì un addetto.
   «Compensare» ordinò l’Osnullus.
   «Fatto. Segnale al 95%, stabile».
   «Può bastare. È il momento di tornare a casa» decise Ghul. Impresse una brusca inversione di rotta allo Sciame, richiamandolo verso la Forgia. Sarà stata la fretta di rientrare, o la maggior stanchezza, ma stavolta la sua guida fu meno precisa: due Api impattarono contro dei frammenti rocciosi ed esplosero. Il resto dello Sciame emerse incolume dalla Necro Cloud e rientrò nella stazione. Le Api si posarono ciascuna al suo posto, quasi non se ne fossero mai andate.
   «Rapporto efficienza» richiese l’Osnullus.
   «Il 2% delle Api hanno agito al di sotto degli standard prefissati di velocità e maneggevolezza» disse il Vulcaniano, consultando uno dei grandi pannelli.
   «Rimettete gli operai al lavoro, devono sistemarle entro dieci giorni. E punite chi si è occupato dei veicoli scadenti» ordinò il Commodoro. Dopo di che lasciò la sedia di controllo.
   Mentre l’equipaggio continuava a sciorinare dati e statistiche sull’efficienza del collaudo, la Banshee si accostò al sedile. Era giunta fin lì evitando d’essere rilevata e aveva assistito al volo. L’abilità di Ghul nel dirigere lo Sciame l’aveva allarmata; ora voleva capire quante ce c’erano, di quelle dannate Api. Consultò gli oloschermi, finché trovò quello che cercava.
 
Api operative: 245.702
 
   Per un attimo la mezza Andoriana restò impietrita. Era una cifra spropositata, di due ordini di grandezza superiore al previsto. Ora capiva come mai la Forgia non era difesa da astronavi, né piattaforme; lo Sciame era più che sufficiente a proteggerla. Una volta che lo avessero lanciato all’assalto, i Pacificatori potevano facilmente dare il colpo di grazia alla Federazione, prendendo Kronos e gli ultimi capisaldi. «Perché non le abbiamo trovate durante la Guerra delle Anomalie?! Allora sì che sarebbero servite a qualcosa di buono!» pensò la corsara, ma era inutile recriminare. Adesso era fondamentale sottrarre ai Pacificatori il comando dello Sciame, prima che lo spedissero al fronte. Il che la riportava al sedile di controllo. Osservando i braccioli, Jaylah si convinse che funzionavano in base a un semplice riconoscimento genetico. Probabilmente sarebbe bastato stordire Ghul e mettergli le mani sui lettori per attivare il sistema di guida. Tendeva a escludere l’ipotesi che il Commodoro si fosse fatto impiantare un’interfaccia di guida nel cervello; né lo aveva sentito inserire dei codici di comando. «Deve sentirsi invincibile, qui nel suo quartier generale, lontano dal fronte. Beh, si sbaglia».
   «Commodoro, dall’infermeria comunicano che sono pronti a un altro esperimento col trasferitore bio-energetico» disse un ufficiale.
   «Sembra che oggi sia il giorno dei test» commentò Ghul. «Va bene, scendo a vedere. Signor Vulok, a lei il comando».
   «Sì, signore» disse il Vulcaniano dalle orecchie oltraggiosamente appuntite.
   «Trasferitore bio-energetico? Non suona bene». Sempre occultata, Jaylah si affrettò a seguire l’Osnullus. Aveva la sgradevole sensazione che il peggio dovesse ancora arrivare.
 
   Le luci erano basse, nell’infermeria della Forgia. Al centro del salone principale spiccava una stranissima struttura, di cui Jaylah non aveva mai visto l’eguale. C’erano due sedili, sinistramente simili a sedie da tortura; e infatti i loro occupanti erano bloccati mani e piedi. Uno era l’aguzzino Talariano che la corsara aveva già visto accanirsi sui forzati; ora però su un lato della sua testa c’erano vistose escoriazioni. L’altro era un prigioniero Trill, ancora più malridotto.
   «Cos’è successo?» chiese Ghul.
   «Questo lavoratore ha osato aggredire il suo sorvegliante» spiegò il Medico Capo, accennando al Trill.
   «Mi stava uccidendo, a forza di frustate!» si difese il poveretto.
   «Taci!» gridò il Talariano. «Signore, è stata un’aggressione ingiustificata a mio danno. Ma pur nella sofferenza delle mie ferite, voglio rendermi utile alla collettività. Perciò ho firmato il consenso per sottopormi all’esperimento».
   «Congratulazioni; lei è un fulgido esempio di dedizione» approvò il Commodoro. Poi si rivolse al Medico Capo: «È la prima volta che tentate il travaso fra individui di specie diverse, vero?».
   «Sì, signore. È un esperimento necessario, se vogliamo capire il funzionamento di questo dispositivo. La tecnologia di Altamid è ancora... difficile da comprendere» ammise lo scienziato, un po’ nervoso.
   «Sarà meglio che la comprendiate» ammonì l’Osnullus. «Ho già informato la Presidente Rangda della nostra scoperta, e lei è molto interessata a questo dispositivo. A breve lo farà trasferire ad Atlantide, per analisi più approfondite».
   «La Presidente crede di aver scoperto la fonte della giovinezza, ma è indispensabile proseguire gli esperimenti prima di definirla una procedura sicura» si accigliò il medico.
   «Allora procedete» ordinò il Commodoro, accompagnandosi con un gesto sbrigativo.
   Poiché il Trill continuava a protestare, gli infermieri gli misero una sorta di mordacchia per farlo tacere. Poi calarono dall’alto un complesso sistema di cavi terminanti in aghi, che collegarono ai corpi d’entrambi i soggetti, inserendoli in vari punti del corpo. Era una scena così impressionante che Jaylah ebbe un senso di nausea, anche perché i soggetti non avevano ricevuto alcun sedativo e sembravano soffrire parecchio. Ben presto si trovarono avvolti e sormontati da un grottesco intreccio di cavi, che confluivano in un dispositivo centrale, come serpenti dalla testa di una Gorgone. Dopo aver collegato in questo modo i pazienti, i medici si ritirarono. Subentrarono degli ingegneri, che attivarono una serie di controlli sulle consolle adiacenti.
   «Trasferitore bio-energetico attivo» disse uno di loro, mentre la macchina si animava. I cavi pulsarono di una luce ritmica, che andava dal Trill al dispositivo centrale, come se gli stesse risucchiando qualcosa; e da questo procedeva verso il Talariano. Entrambi i soggetti presero ad agitarsi e gemere come se li stessero scannando; ma erano bloccati sui sedili.
   «Il trasferimento procede regolarmente» disse l’Ingegnere Capo, controllando i valori. Jaylah si accorse che i segni vitali del Trill erano in picchiata, mentre quelli del Talariano si rafforzavano di pari passo; ma nessuno sembrava preoccuparsene. Alzò gli occhi ai pazienti e vide qualcosa di sconvolgente: le ferite alla testa del Talariano guarivano a vista d’occhio, mentre escoriazioni simili apparivano sul Trill. Ben presto il primo fu in perfetta salute, mentre l’altro pareva in agonia: i suoi lineamenti erano sempre più scavati, come se qualcosa lo prosciugasse di tutte le forze vitali. La pelle si seccò, gli occhi sprofondarono nelle orbite, le guance s’incavarono.
   «Dieci secondi al termine del test» disse il Medico Capo, che affiancava l’Ingegnere. «Tutto regola... un momento, sta accadendo qualcosa di strano. I segni vitali fluttuano...».
   Il Talariano prese a gridare ancora più forte, mentre strane macchie violacee comparivano sulla sua epidermide, ai lati del volto. Guarda caso, le stesse macchie caratteristiche dei Trill. Il Medico stava per interrompere l’esperimento, ma il Commodoro lo bloccò con un gesto. In ogni caso, di lì a pochi secondi il test ebbe termine. I soggetti ricaddero sui sedili, privi di sensi, mentre le pulsazioni luminose dei cavi cessavano. Gli infermieri si affrettarono ad estrarre gli aghi, mentre i medici esaminavano entrambi i pazienti.
   «Ebbene?» chiese Ghul.
   «È successo qualcosa di... singolare» constatò il Medico Capo. «Finora non ce n’eravamo accorti, perché tutti i test si erano svolti fra individui della stessa specie. Ma ora che abbiamo operato un trasferimento interspecie, il fenomeno si è palesato. A quanto pare, il trasferimento bio-energetico ha alterato il DNA del destinatario, dandogli alcune caratteristiche del donatore. In questo caso, caratteristiche Trill» disse, accennando alle macchie.
   «E sarà un cambiamento permanente?» volle sapere il Commodoro.
   «È presto per dirlo, dovremo tenere il paziente sotto osservazione» rispose prudentemente il dottore. «Comunque se le alterazioni al DNA si riveleranno stabili, allora sì, il cambiamento sarà definitivo» si corresse.
   «Uhm, questo è un grosso limite dell’apparecchio» commentò l’Ingegnere.
   «Non direi» corresse il Commodoro. «Basterà assicurarci che i trasferimenti avvengano sempre tra individui della stessa specie, onde evitare spiacevoli effetti collaterali».
   «Non è detto che sia sempre un male» obiettò il Medico Capo, sovrappensiero. «Il trasferitore potrebbe avere un valore inestimabile nel curare gli Umani dalla loro umanità...».
   «Prosciugando le altre specie? È un prezzo troppo alto, per nobile che sia lo scopo» dichiarò Ghul. «Da questo momento, i trasferimenti interspecie sono severamente vietati».
   Nel suo cantuccio, da dove osservava tutto, Jaylah ragionò sulle implicazioni di quei discorsi. Era chiaro che quel congegno infernale veniva da Altamid, come le Api, e i Pacificatori volevano comprenderne il funzionamento. In pratica il trasferitore permetteva a qualcuno di guarirsi – forse persino di ringiovanire – prosciugando le energie vitali altrui, come un vampiro. Se la vittima era di un’altra specie, inoltre, il fruitore ne acquisiva anche alcune caratteristiche. La mezza Andoriana provò a figurarsi cosa sarebbe successo, se una tecnologia del genere si fosse diffusa nell’Unione. Scenari da incubo le si spalancarono davanti: chi aveva più potere si sarebbe prolungato la vita, spremendo i meno fortunati. Rangda, in particolare, avrebbe governato pressoché in eterno. «La Presidente crede di aver scoperto la fonte della giovinezza...» aveva detto il Medico Capo, e conoscendo quel demonio non c’era da dubitarne.
   In quella ci fu agitazione tra i medici che esaminavano il Trill; i loro tricorder davano segnali di allarme. «Collasso sistemico, serve un’immediata rianimazione!» avvertì uno di loro. I colleghi corsero a prendere gli strumenti.
   «No, perché lo studio abbia valore dovete permettere il decorso» li fermò l’Osnullus. «Raccogliete i dati, ma senza intervenire».
   Detto fatto, i Pacificatori esaminarono il poveretto nei brevi minuti d’agonia che gli restavano, senza dargli nemmeno un antidolorifico. Il Trill si scosse e gemette debolmente, sveglio solo a metà; infine ricadde senza vita.
   «Registrate l’ora del decesso» disse il Medico Capo con distacco. «Procederemo al più presto con l’autopsia, per raccogliere altri dati».
   Jaylah aveva visto abbastanza, per cui lasciò l’infermeria. Se i Pacificatori avessero compreso quella tecnologia, imparando a replicarla, sarebbe stata davvero la fine. Tutti gli “indesiderabili” del regime sarebbero diventati bestiame da spremere e poi da buttar via. Ora la mezza Andoriana sapeva qual era la sua missione, più ancora che liberare i prigionieri o impadronirsi dello Sciame. Doveva distruggere quel congegno infernale, e possibilmente tutta la Forgia, prima che Rangda ci mettesse sopra le mani.
 
   La corsara trascorse ancora qualche ora sulla stazione, sempre col terrore d’essere scoperta. Visitò il blocco detentivo, riuscendo finalmente a scoprire il numero totale dei prigionieri: erano cinquemila. Questo era un grosso problema, perché avrebbero dovuto riempire la Stella come un uovo per accoglierli tutti. Jaylah non volle pensarci, per il momento; doveva restare concentrata sul presente, se voleva uscire viva da lì.
   Da ultimo la mezza Andoriana cercò di visitare i cantieri, dove altri forzati lavoravano alla costruzione di navi da guerra; ma in questo ebbe meno fortuna. Dopo aver vagato a lungo in zone semi-abbandonate della stazione, riuscì a intravedere solo una classe Horus, la Rukh. La riconobbe: era il vascello che aveva trasferito lì i prigionieri. Stranamente pareva l’unica nave scorta assegnata alla stazione. La corsara avrebbe voluto proseguire l’indagine, ma in quella il casco le diede un segnale d’allarme. Restavano solo due ore d’autonomia, prima che l’occultamento venisse meno. Dopo di che sarebbe stata indifesa.
   Trafelata, la Banshee corse in cerca dell’hangar da cui partivano le navette dirette alla Necro Cloud. Con una stazione così vasta, ci voleva del tempo ad arrivare. E sebbene avesse cercato di familiarizzare con la struttura, studiandone i progetti originali, i Pacificatori avevano apportato modifiche che la rallentarono. Quando raggiunse l’hangar, le restava meno di un’ora e mezza. Ma poiché le navette non partivano in continuazione, perse un’altra mezz’ora buona.
   Finalmente la mezza Andoriana si trovò nello spazio, su un rimorchiatore in rotta per la Necro Cloud. Attese in fondo alla cabina, ascoltando a mezzo le chiacchiere dei piloti, che parlavano allegramente di come la flotta allestita nella Forgia avrebbe posto fine alla guerra. Venne il momento in cui la navetta, assieme alla sua gregaria, raggiunse il prossimo asteroide da accalappiare. Jaylah consultò il quadrante dell’autonomia: le restava un quarto d’ora. Era il momento di giocarsi il tutto per tutto. Volendo avrebbe potuto sorprendere i piloti alle spalle, metterli fuori combattimento e fuggire con la navetta; ma così facendo avrebbe messo la Forgia in allarme. Invece voleva che nessuno, su quella stazione, sospettasse d’essere stato osservato. Così respirò a fondo e attraversò lo scafo della navetta, uscendo nello spazio esterno.
   Quando il pavimento le mancò sotto i piedi, ebbe le vertigini. L’attimo dopo fluttuava nello spazio, alla deriva nella Necro Cloud. Non avendo sistemi di propulsione integrati nella tuta, non poteva dirigere il suo volo, né voltarsi per guardare cosa accadeva alle sue spalle. Poteva solo sperare che le navette agganciassero l’asteroide con i raggi traenti e se lo portassero via, secondo la procedura. Infine non le rimase che attendere.
   Di lì a un quarto d’ora, la tuta esaurì l’energia per l’occultamento. La Banshee divenne visibile, posto che ci fosse qualcuno nei paraggi. Secondo il piano, doveva esserci la Stella pronta a imbarcarla. Ma se qualcuno o qualcosa avesse trattenuto i corsari, le cose si sarebbero messe molto male per lei. Sarebbe stata costretta a chiamarli col trasmettitore della tuta, che peraltro aveva un raggio limitato. E se anche il segnale fosse riuscito a farsi strada nella nebulosa, c’era il rischio che i Pacificatori lo rilevassero, vanificando l’intera missione.
   «Avanti, ragazzi. So che siete qui intorno...».
   Avendo speso quasi tutta l’energia della tuta per l’occultamento, le restavano pochi minuti d’autonomia per l’ossigeno e il calore. Senza quelli, sarebbe morta in uno dei modi più spiacevoli. Ma si era affidata allo Spettro, come altre volte in passato; e lui non l’aveva mai delusa. Continuò a sperare anche quando l’aria divenne viziata e la temperatura scese tanto da farla rabbrividire. Sul visore della tuta scorrevano messaggi sempre più allarmanti sui suoi segni vitali. Eppure era ancora cosciente quando le stelle svanirono attorno a lei, cancellate dal bagliore del teletrasporto. Riconobbe la pedana di plancia della Stella e le voci familiari dei corsari, primo fra tutti Jack, che si chinava su di lei. Riuscì a sorridergli debolmente, facendo il gesto della vittoria, prima di perdere i sensi.
 
   La mattina dopo, Jaylah era di nuovo in piedi. Si recò in sala tattica, dove riferì ai corsari le sue scoperte nella Forgia. Le notizie sullo Sciame e sul trasferitore bio-energetico li misero comprensibilmente in agitazione.
   «Perché i popoli estinti devono sempre lasciarsi dietro della robaccia pericolosa?!» inveì Jack, dando un pugno sul tavolo tattico.
   «Adesso che dovremmo fare, distruggere completamente la Forgia? E come?!» gli fece eco Graush.
   «Per come la vedo io, l’unica speranza è impadronirci dello Sciame» disse Jaylah, cercando di mantenere la calma. «Sono 250.000 caccia, tutti imbottiti di siluri quantici. Possiamo usarne una parte per distruggere la stazione e tenerci il resto».
   «Giusto! Abbiamo sacrificato tanto per la causa; è il momento di pensare al nostro tornaconto!» approvò Skal’nak, l’Ufficiale Tattico.
   «Sempre che riusciamo a prenderne il controllo» ragionò Virrikek, l’Ingegnere Capo, rivolto a Jaylah. «Esaminerò a fondo le registrazioni del tuo casco, per farmi un’idea di come funziona quella sedia di controllo. Ma in ogni caso, stando al tuo racconto, ci serve Ghul».
   «Di lui posso occuparmi» disse la mezza Andoriana. «Ciò che più mi preoccupa sono quelle migliaia di forzati. Come vi dicevo, hanno delle micro-cariche che li uccideranno, se solo li imbarchiamo».
   «Beh, forse si possono disattivare» disse Virrikek, incerto. «Però dovrei accedere al computer della Forgia. Avremo molte cose da fare, e poco tempo».
   «Ci sono altri problemi» sbuffò Skal’nak. «Per teletrasportare così tanta gente serviranno parecchi minuti. Nel frattempo dovremo tenere gli scudi abbassati, risultando vulnerabili. Sarebbe un suicidio, considerando che saremo in piena battaglia».
   «Sono d’accordo» disse Graush. Dopo di che si rivolse allo Spettro. «Mi spiace, capo, ma credo che dobbiamo rinunciare a salvare gli ostaggi. Concentriamoci sull’essenziale, cioè impadronirci dello Sciame, e allora avremo una possibilità. Se invece cerchiamo di fare troppe cose assieme, andrà a finire che falliremo in tutto».
   Ci fu un breve silenzio, mentre tutti ponderavano le parole del Letheano. Infine Jack si riscosse.
«Vitani e il suo clan ci hanno salvato la vita, a Cestus III. Voglio liberare almeno loro, se appena è possibile» dichiarò.
   «Capo, non...».
   «Non andremo allo sbaraglio; ci serve un piano dettagliato» precisò l’Umano, ragionando in fretta. «Quanto tempo credi che abbiamo?» chiese a Jaylah.
   «Quand’ero in plancia, ho sentito Ghul accennare al fatto che entro dieci giorni faranno altri test» rispose l’interpellata. «Non so che accadrà poi. Certo che, se spostassero lo Sciame più vicino al fronte, le cose si faranno insostenibili».
   «Allora facciamo conto di avere solo dieci giorni» rimuginò Jack, scuro in volto. «Ma prima di dare l’assalto alla Forgia, voglio dare un’occhiata a quel pianeta, Altamid» decise.
   «Perché?» chiese Skal’nak.
   «Non spetta a te questionare le mie decisioni!» rispose seccamente lo Spettro. «Comunque, visto che ci scontriamo con una tecnologia aliena, spero di scoprirne di più. Magari troveremo qualche altro resto, che ci farà capire meglio cosa dobbiamo affrontare».
   «Dobbiamo stare attenti, capo. Considerando che lo Sciame e il trasferitore vengono da Altamid, può darsi che i Pacificatori abbiano ancora delle squadre sul pianeta. Forse un’intera guarnigione» avvertì Graush.
   «Motivo in più per controllare. Non possiamo attaccare la Forgia senza sapere se su Altamid ci sono rinforzi pronti a intervenire» ribatté Jack. «Naturalmente resteremo occultati. Su, non c’è tempo da perdere!» disse, alzandosi.
   Un po’ imbronciati, i corsari lasciarono la sala tattica e seguirono il loro Capitano in plancia. «Addentriamoci nella Necro Cloud, un quarto d’impulso» ordinò lo Spettro, sedendo in poltrona. «Siall, cerca un pianeta di classe M».
   «Secondo le mappe, non ce ne sono in questa nebulosa...» obiettò l’addetto ai sensori.
   «Beh, evidentemente è un pianeta non segnato sulle mappe!» si accigliò Jack. «Quello Sciame deve pur venire da qualche parte. Cerca un mondo abitabile, ti dico; non può essere che Altamid».
   «Sì, signore» disse il Boliano, cominciando a sondare le profondità della nebulosa.
   La Stella del Polo si addentrò nella Necro Cloud, schivando gli asteroidi e gli addensamenti gassosi. Alcuni piccoli detriti picchettarono lo scafo, senza danneggiarlo. Tutti a bordo avevano i nervi tesi per quella che si annunciava come la missione più pericolosa; tuttavia nessuno osava ancora opporsi allo Spettro. E così l’astronave andò sempre più in profondità, in cerca di quel pianeta dove pochi erano giunti prima. 
 

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Capitolo 3
*** Altamid ***


-Capitolo 2: Altamid
 
   Il globo verde-azzurro di Altamid sfavillava sotto i raggi della sua stella, celato nelle profondità della Necro Cloud, come una perla in uno scrigno. Lo Spettro lo ammirò: nella sua vita errabonda aveva visto molti bei pianeti, ma quello era il più incantevole di tutti. «Analisi sensoriale» ordinò.
   Sullo schermo corsero rapide panoramiche della superficie. Altamid era un mondo incontaminato, dalla bellezza aspra e selvaggia. C’erano numerose montagne, dalle vette frastagliate e scintillanti di neve. A quote più basse predominavano foreste rigogliose, mentre le aree desertiche erano limitate. Quanto agli oceani, anch’essi pullulavano di vita.
   «È il pianeta con più biodiversità che abbiamo mai visitato» commentò Siall, mentre proseguiva le analisi. «Gli insetti, in particolare, sono estremamente diffusi. Rilevo alveari e termitai giganti un po’ dappertutto».
   «Ci sono tracce di tecnologia?» chiese Jack, ricordando che lo Sciame veniva da lì.
   «Rilevo tracce d’insediamenti, perlopiù sotterranei» confermò il Boliano. «Comunque sembrano abbandonati. Non rilevo segni vitali».
   «È coerente con quel che mi ha detto Vitani» commentò Jaylah. «I Pacificatori hanno preso quel che gli serviva e poi se ne sono andati».
   «Siamo certi che non abbiano lasciato un presidio? Qualche squadra in esplorazione?» incalzò lo Spettro, non volendo uscire dall’occultamento prima di sentirsi al sicuro.
   «Negativo, non... ehi, un momento!» si corresse l’addetto ai sensori. «Rilevo un’astronave atterrata sulla superficie, non lontano da una delle miniere. Che strano, è scesa tra le montagne!».
   «Sullo schermo» ordinò subito Jack. Davanti a lui comparve una strana scena. Un vascello federale giaceva tra le grigie rocce frastagliate, in precario equilibrio davanti a un pauroso strapiombo. Ma non era un vascello come quelli a cui era abituato. In primo luogo era assai piccolo: c’era una sola fila d’oblò nello spessore della sezione a disco. Lo scafo era di un insolito color bronzo, con le saldature a vista. Le gondole di curvatura, di tipo antidiluviano, erano agganciate direttamente al disco, senza traccia di una sezione motori.
   «Ma... è un vecchio modello» mormorò Jaylah.
   «Molto vecchio» riconobbe Jack. «È una classe Freedom, del tipo varato subito dopo la nascita della Federazione, negli anni Sessanta del XXII secolo. Furono ritirate dal servizio più di trecento anni fa. Mi sa che stiamo osservando un relitto».
   «Confermo» disse Siall, che stava proseguendo le analisi. «Il nucleo di curvatura è disattivato e lo scafo presenta danni. Niente segni vitali».
   «Cerca il numero di registro, così potremo identificarla» ordinò lo Spettro.
   «Eccolo» disse il Boliano, zoomando su una porzione dello scafo. «USS Franklin NX-326. Cerco un riscontro nel database... trovato. Avevi ragione capo, è proprio una classe Freedom del XXII secolo. È armata con cannoni a fase e siluri spaziali con testate atomiche. Niente scudi, al massimo può polarizzare le corazze dello scafo. Il teletrasporto è omologato solo per la materia inanimata. E non ci sono replicatori, infatti è piena di stive contenenti provviste e parti di ricambio. Ma non credo che potremo recuperare niente di utile, considerando il gap tecnologico».
   «Uhm... strano che sia ancora qui» commentò Jack. «Che dice il database sulla sua sorte?».
   «La Franklin era al comando del Capitano Balthazar Edison, ex ufficiale dei Militari d’Assalto e Combattimento, quando scomparve misteriosamente nel 2164» riferì il Boliano. Mentre parlava mostrò una foto d’archivio di Edison, un afro-americano sulla cinquantina, dall’aria severa. «La nave stava esplorando la Cintura di Gagarin, nel sistema Loracus, quando svanì senza lasciare traccia. S’incolparono i Romulani, con cui la Federazione era stata recentemente in guerra, ma loro negarono ogni coinvolgimento. Fu anche teorizzato che l’astronave fosse stata risucchiata da un tunnel spaziale instabile, poi scomparso. In ogni caso, la Franklin non fu più ritrovata... fino a oggi».
   «Così è rimasta qui per tutto questo tempo» commentò Jaylah. «Non possono essere atterrati di proposito. La classe Freedom non era fatta per atterrare, e poi solo un pazzo sarebbe sceso tra le montagne. Devono essere precipitati in una sorta di caduta controllata, e solo per miracolo non sono esplosi all’impatto. Sarebbe una grande scoperta, se vivessimo in tempi più felici. Ma nella nostra situazione, temo che non possiamo perderci tempo».
   Lo Spettro, tuttavia, non sembrava altrettanto disposto a lasciar cadere la faccenda. «Se la Franklin è qui, devono averla trovata anche i Pacificatori» ragionò.
   «Considerata la sua antichità, devono averla giudicata irrilevante» ipotizzò Siall. «Anche se...».
   «Se cosa?» chiese l’Umano, girandosi verso di lui.
   «Ecco, è molto strano» fece il Boliano, proseguendo le analisi. «Sebbene l’energia primaria sia inattiva, ho rilevato lievi emissioni energetiche nella stiva principale. Quella nave non è del tutto morta. Ma così a distanza, è difficile dire di che si tratti».
   «Allora andò a sincerarmene di persona» decise lo Spettro.
   «Attento, potrebbe essere un’altra trappola dell’Esecutore» avvertì Jaylah, in apprensione.
   «Terrò gli occhi aperti» promise Jack. «Graush, a te il comando».
   Di lì a poco, l’Umano aveva indossato la sua famigerata corazza a Occultamento Sfasato. Si recò sulla pedana di plancia, per farsi teletrasportare a terra. «Non trasferitemi direttamente sulla Franklin» ordinò. «Mandatemi fuori, a qualche centinaio di metri, così potrò tastare il terreno. E tenetevi pronti a riprendermi, se ci fossero problemi» raccomandò.
   «Terrò i sensori sempre su di te, capo» garantì Siall.
   Pur avendo il volto già celato dal casco, il corsaro fece un cenno d’intesa a Jaylah. «Energia» ordinò, e si dissolse nel raggio trasferitore.
 
   Il primo impatto con Altamid fu interessante. Lo Spettro si era materializzato tra degli alberi d’alta quota, simili a conifere, più radi rispetto alla giungla che si stendeva a valle. Come annunciato c’erano molti insetti nell’aria, che si muovevano a sciami. Il corsaro si occultò subito, dopo di che avanzò cautamente verso la sagoma dell’astronave, che intravedeva tra gli alberi. I sensori della sua tuta non captavano umanoidi, ma del resto non erano infallibili. Così procedette lentamente e un po’ a zig-zag, fermandosi spesso per guardarsi attorno. Sempre per motivi di sicurezza, mantenne il silenzio subspaziale con la Stella.
   Quando infine raggiunse lo scafo della Franklin, l’Umano sfiorò per un attimo la superficie macchiata dal tempo, con le saldature e i bulloni a vista. Era incredibile come i suoi antenati sfidassero i pericoli dello spazio su quelle navi primitive, che perdevano radiazioni e rischiavano d’esplodere a ogni attivazione. Eppure una parte di lui rimpiangeva di non essere vissuto in quei tempi eroici. «Se le lamiere potessero parlare, chissà che mi direbbero queste...» pensò. L’attimo dopo azionò anche lo Sfasamento, divenendo intangibile. Attraversò lo scafo della Franklin, sbucando in un corridoio semibuio, e si mise in cerca della stiva.
 
   Sulla plancia della Stella, Jaylah camminava nervosamente avanti e indietro. Aveva un senso d’ansia che cresceva a ogni momento. Dopo tutti gli agguati che avevano subito nell’ultimo anno, ormai era abituata ad aspettarsi il peggio. «Siall, continua ad analizzare il pianeta in cerca di segni dei Pacificatori» disse a un certo punto. «E analizza anche lo spazio circostante, fin dov’è possibile».
   «Lo sto facendo, ma le radiazioni della nebulosa interferiscono» spiegò il Boliano. «Comunque ho tutto sotto controllo entro un raggio di... un momento, un vascello ci è apparso a poppa! Doveva avere qualche genere d’occultamento. Sta attivando le armi!».
   «Allarme Rosso, pronti allo scontro!» ordinò Graush. Gli scudi si alzarono all’istante, per proteggere la nave. Questo comportava però l’impossibilità di richiamare lo Spettro a bordo. «Ci sono altre navi?» chiese il Letheano, temendo il peggio.
   «Negativo, solo quella» rispose il Boliano. «Però non è dei Pacificatori».
 
   Mantenendo il silenzio subspaziale, lo Spettro si addentrò sempre più nel relitto della Franklin. Nel procedere osservava tutto con attenzione, cercando di capire cosa fosse accaduto alla nave e all’equipaggio. I danni erano gravi, ma non catastrofici. E non c’erano corpi, segno che i superstiti dovevano aver seppellito le vittime. Ma cosa gli era accaduto in seguito? Di certo non erano riusciti a tornare alla Federazione, o il database ne avrebbe parlato. Né avevano costruito una colonia, o la Stella ne avrebbe trovato tracce... sempre che non si celassero nei centri sotterranei degli alieni.
   «Questa piccola nave aveva meno di cento persone a bordo» rifletté Jack. «Forse i superstiti erano così pochi e le difficoltà così soverchianti che sono morti tutti, senza riuscire a creare un insediamento. Magari se trovassi il diario di bordo del Capitano Edison ne saprei di più...». Per il momento, però, non voleva deviare in plancia. Il suo primo obiettivo era identificare quelle strane letture energetiche provenienti dalla stiva.
   Trattandosi di una nave piccola, non ci volle molto per arrivare. Una targhetta all’ingresso informò lo Spettro che aveva raggiunto la stiva principale. Il portone era stato sfondato, all’apparenza di recente. Il corsaro lo varcò, trovandosi in un ambiente debolmente illuminato. E spalancò gli occhi.
   La stiva era stata svuotata dai container, per fare posto a lunghe file di capsule criogeniche. Jack ne contò 47 in tutto; probabilmente era il numero dei sopravvissuti allo schianto. Evidentemente avevano esaurito i viveri e, non trovando di che sostentarsi sul pianeta, si erano ibernati in attesa dei soccorsi... che però non erano mai arrivati. Le capsule erano alimentate da cavi connessi alla griglia EPS, con un collegamento di fortuna che aveva richiesto di sventrare una parete. Ma non appena si avvicinò, il visitatore si accorse che erano rimaste quasi tutte senza energia. All’interno dei tubi criogenici oscurati s’intravedevano appena le sagome degli sfortunati occupanti, morti durante la stasi. Quei poveretti confidavano che qualcuno li avrebbe salvati... si erano addormentati con quella speranza... e invece...
   Passando tra le capsule, lo Spettro andò in cerca delle poche ancora illuminate. Ne trovò tre in tutto. Una era quella del Capitano Edison: lo riconobbe dalla foto dell’archivio. Gli altri due superstiti erano ufficiali superiori, un uomo asiatico e una donna occidentale, che al momento non riconobbe.
   «Sono ancora vivi, dopo tutto questo tempo» pensò Jack, sfiorando la capsula di Edison. «Scommetto che i Pacificatori li hanno trovati prima di me, quando hanno setacciato il pianeta. Devono essere stati loro a sfondare l’ingresso della stiva. Però hanno deciso di non svegliarli. Dovrei farlo io... altrimenti passeranno anni prima che arrivi qualcun altro. E nel frattempo queste vecchie capsule cederanno» ragionò, osservando i tubi criogenici che funzionavano al minimo della potenza.
   «Ma se li sveglio, poi che gli racconterò? Che sono gli unici superstiti della Franklin, e tutto il loro equipaggio è morto?» si chiese l’Umano. Ibernarsi in attesa dei soccorsi non doveva essere stata una scelta facile; di certo ne era responsabile il Capitano Edison. Se avesse scoperto che in tal modo aveva condannato quasi tutto il suo equipaggio, sarebbe potuto uscire di senno. «E poi che altro gli dirò? Che sono passati quattrocento anni, così che tutti i loro cari sono morti e la Terra è occupata dai Voth? Che la Federazione, da loro costruita coi migliori intenti, è diventata l’Unione Galattica e perseguita gli Umani? Ce n’è da far ammattire chiunque. D’altra parte non posso nemmeno andarmene come se niente fosse... questi poveri diavoli hanno bisogno d’aiuto».
   Guardando Edison, decise che non avrebbe condannato quell’uomo all’oblio. Lo avrebbe svegliato e gli avrebbe detto la verità, per quanto dolorosa. Presa la decisione, lo Spettro uscì dall’occultamento. Passò cautamente la mano sul pannello di controllo della capsula, per levare lo strato di polvere, e lesse i dati. Quel poveretto era ridotto male, dopo la stasi secolare: serviva l’infermeria della Stella per rianimarlo. E gli altri due non erano certo in condizioni migliori. Bisognava portarli a bordo con tutte le capsule, e poi...
   «Fermo lì!» tuonò un’aspra voce alle sue spalle, seguita dal rumore di passi.
   Lo Spettro s’irrigidì. C’erano più persone dietro di lui; dovevano aver nascosto i loro segni vitali, o la Stella li avrebbe rilevati. Era fortunato che gli avessero intimato la resa, anziché sparargli all’istante. Questo escludeva che si trattasse dell’Esecutore, o anche dei comuni Pacificatori; ma allora chi lo aveva sorpreso?
   «Mani in alto, e voltati lentamente!».
   Il corsaro decise di obbedire, se non altro per vedere chi lo minacciava. Ma era pronto a sfasarsi e passare al contrattacco. «Signori, forse non mi conoscete...» disse, girandosi adagio. Trovò gli aggressori a pochi metri da lui, con le armi spianate. Malgrado la scarsa luce, li riconobbe: erano quattro Cacciatori Hirogeni, per la verità alquanto malmessi.
   «No, e non ci teniamo!» berciò il caposquadra. «Ma i pirati come te hanno sempre una taglia sulla testa, e a noi serve grana per rimetterci in pista. Quindi non fare strane mosse. Togliti il casco, lentamente».
   «Così mi ucciderete?».
   «Così ti porteremo dal nostro Beta, e deciderà lui la tua sorte».
   «Dal Beta? E perché non dall’Alfa?» s’interessò Jack, sempre pronto a sfasarsi per fuggire.
   «Lei... non è disponibile, al momento» si lasciò sfuggire l’Hirogeno, che era piuttosto giovane e inesperto.
   «Lei?» s’interessò lo Spettro. Le ataviche leggi degli Hirogeni impedivano alle donne di diventare Cacciatrici; figurarsi scalare la gerarchia fino al rango di Alfa. Per quanto ne sapeva, c’era un solo clan che si era modernizzato, rigettando l’antica tradizione...
 
   «Pronti a fare fuoco» disse Graush, squadrando il vascello che li aveva sorpresi. Era una nave piccola e dalle forme aggressive, con lo scafo giallognolo irto di armi.
   «Fermi!» intervenne Jaylah. «Non la riconoscete? Quello è il Dorvic, la nave del clan di Norrin!».
   «Sempre che non sia l’Esecutore» avvertì il Letheano. «Ricorda che la sua nave ha un sistema di mascheramento olografico».
   «Analizzatela. Cercate la traccia di curvatura, calcolate la sua massa» ordinò la mezza Andoriana.
   «Non rilevo alcuna traccia, devono essere qui da un po’» disse Siall. «Comunque la massa è inferiore a quella dell’Hydra».
   «Bene, allora chiamali» disse Jaylah, tornando a sedersi in poltrona. Attivò il casco della sua tuta, tornando a essere la Banshee. Non si accorse che dietro di lei Graush la fissava con astio, per il modo in cui lo aveva messo da parte.
   Sullo schermo apparve il viso familiare di Garid, Ingegnere Capo del Dorvic e Beta del clan. «Siete voi... non ne ero sicuro» disse nervosamente. «Di questi tempi, non ci si può fidare neanche dei propri sensori».
   «Fidatevi della memoria, allora. Avete ancora il pugnale del vostro clan, che io vi ho restituito dopo la Battaglia di Cestus III?» chiese la Banshee, per dimostrare la sua conoscenza dettagliata di quegli eventi.
   «Ce lo abbiamo» disse Garid, impugnando l’arma in modo che fosse inquadrata. «Quel che ci manca è la nostra Alfa» disse con un groppo in gola.
   «Lo so... ma non disperate. Vitani è viva, si trova prigioniera sulla Forgia» rivelò la corsara. «Se uniamo le forze, potremo liberarla».
 
   «Figliolo, mi sembri inesperto, quindi perdonerò la tua scarsa educazione» disse lo Spettro, abbassando le mani. «Ora portami da Garid, così potrò dargli notizie aggiornate su Vitani».
   «Conosci le nostre faccende?» si stupì l’Hirogeno. «Beh, non importa, riferirai al Beta. Prima però levati il casco, come ti ho ordinato!».
   «Altrimenti?» fece il corsaro, sardonico.
   «Altrimenti ti aspetta una sorte spiacevole» minacciò il Cacciatore, tenendolo sotto tiro col fucile tetrionico. «E non solo a te, ma anche ai tuoi simili!» aggiunse. Al suo cenno, i gregari presero di mira le tre capsule ancora attive.
   Jack sbuffò, incerto sul da farsi. Se non ci fossero stati gli ibernati in pericolo, avrebbe fatto ingoiare le minacce agli Hirogeni. Stando così le cose, tuttavia, aveva le mani legate. Non osava nemmeno ritirarsi, per timore che i Cacciatori si vendicassero comunque sui tre della Franklin.
   In quella la stiva si riempì dei bagliori del teletrasporto. Erano due gruppi distinti, come rivelavano i diversi colori. Dai bagliori arancioni apparvero alcuni Hirogeni. «Fermi tutti! Questo è lo Spettro, il nostro più fedele alleato!» annunciò Garid, in tono perentorio. I quattro Cacciatori non poterono far altro che abbassare i fucili tetrionici.
   «E questo è il clan di Norrin» disse la Banshee, apparsa con altri corsari dai bagliori verdastri.
   «L’avevo intuito» puntualizzò Jack, salutandola con un gesto. «Questi ragazzi hanno i nervi a fior di pelle, ma li capisco. Nessun rancore». Porse la mano al caposquadra, che la strinse riluttante.
   «Bene. Assodato che stiamo tutti dalla stessa parte, dobbiamo decidere il da farsi» disse Garid, guardandosi attorno con interesse. Esaminò le capsule criogeniche, concentrandosi sulle poche ancora attive.
   Jaylah riferì le sue scoperte sulla Forgia, chiarendo che aveva parlato con Vitani appena il giorno prima. «Stavamo cercando di mettere a punto un piano di salvataggio, ma come potete immaginare, le nostre speranze erano esigue. È una fortuna avervi incontrati» concluse.
   «Immagino che siate qui per lo stesso motivo» notò lo Spettro.
   «Sì, dopo l’attacco ad Amar seguimmo i Pacificatori, nella speranza di salvare Vitani e gli altri prigionieri» confermò Garid. «Così abbiamo scoperto la Forgia; ma non siamo riusciti a infiltrarci. Le vostre informazioni ci saranno preziose per elaborare un piano. Comunque nel frattempo non siamo rimasti in ozio. Esplorando la Necro Cloud abbiamo trovato questo pianeta, con le sue miniere abbandonate e relitti. Li stavamo setacciando, in cerca – ehm – di ricambi e qualunque cosa utile» disse, vergognandosi nell’ammettere la loro situazione di bisogno. «Ma nelle miniere non è rimasto granché, e questo relitto è troppo antiquato per esserci utile. È una nave federale, vero?».
   «Sì, una delle prime» confermò Jack. «Come vedi, l’equipaggio s’è ibernato in attesa dei soccorsi; ma sono rimasti solo in tre. E anche loro moriranno presto, se non li tiriamo fuori da lì».
   «Dovremmo perdere tempo prezioso per tre Umani del passato?» chiese il caposquadra dei Cacciatori.
   «Non abbiamo ancora una strategia. Ma quando l’avremo, questa nave potrebbe farne parte, almeno come diversivo» ragionò Jack. «In tal caso, ci servirà qualcuno che la conosca. E gli unici sono loro» disse, accennando agli ufficiali ibernati.
   «Va bene, rianimateli» convenne Garid. «Posso darvi solo un giorno per rimetterli in piedi. Poi c’incontreremo di nuovo, per elaborare un piano d’attacco».
 
   Lo Spettro osservò attentamente, ma senza intervenire, il salvataggio dei tre superstiti della Franklin. Le capsule criogeniche furono collegate a moderni generatori portatili e teletrasportate con essi sulla Stella. Una volta in infermeria, i corsari procedettero ad aprirle e rianimare gli occupanti. Anche con la sofisticata tecnologia medica del tardo XXVI secolo, non fu facile tenere in vita i tre Umani. Secoli di stasi avevano debilitato i loro organismi, fin quasi al punto di non ritorno. Tutti e tre necessitarono di supporto cardiaco e respiratorio nelle prime, cruciali ore. I medici gli somministrarono dei preparati rinvigorenti, dagli acceleratori metabolici all’inaprovalina per rafforzare le pareti cellulari. Infine il Medico Capo andò a fare rapporto da Jack. «Sono fuori pericolo, tutti e tre» disse. «Si sveglieranno tra poche ore».
   «Bene, informami quando accadrà» disse Jack, e lasciò l’infermeria. Prima di confrontarsi coi tre ufficiali del passato, voleva saperne di più sul loro conto. Così tornò rapidamente sulla Franklin, dove aveva lasciato alcuni ingegneri al lavoro. Stavolta si recò in plancia, per consultare i diari del Capitano. Ancor più degli altri ambienti, il ponte di comando gli sembrò primitivo: non c’erano oloschermi, solo interfacce vecchio stile con monitor incassati nelle pareti. «I diari?» chiese.
   «Li abbiamo, capo» rispose Virrikek, al lavoro sul computer. «Suppongo t’interesserà vedere le registrazioni fatte subito dopo lo schianto».
   Jack venne al terminale e prese a visionarle. Come si aspettava, l’equipaggio della Franklin era ridotto male dopo lo schianto. Lo stesso Edison dava segni di cedimento mentale, man mano che le difficoltà aumentavano e il senso di solitudine si faceva più opprimente.
   «Diario del Capitano... non ricordo la data stellare. Nessuna risposta alle richieste di soccorso. Dell’equipaggio siamo rimasti in 47. Questo pianeta potrà sembrare bello dallo spazio, ma a viverci è un inferno. Le punture degli insetti sono pericolose e ci sono pochissime piante commestibili. I miei uomini sono sempre più stanchi e sfiduciati, dicono che la Flotta ci ha abbandonati. Temono che questo mondo ci ucciderà tutti, uno dopo l’altro... ma non lo permetterò!». Il Capitano si prese la testa fra le mani, uscendo dall’inquadratura.
   Jack aggrottò la fronte e passò alle registrazioni successive. Erano sempre più brevi e spezzate, infarcite di recriminazioni contro la Flotta e tutta quanta la Federazione. Notò inoltre che erano sempre più distanziate nel tempo. «La razza indigena abbandonò il pianeta molto tempo fa. Si sono lasciati dietro sofisticate attrezzature minerarie e una forza lavoro di droni. Hanno strane tecnologie, che stiamo ancora cercando di comprendere. Farò il possibile per me e per il mio equipaggio».
   Un altro salto in avanti, stavolta di settimane. «Per la Federazione, noi non contiamo niente. Ma piuttosto che fare... cose di cui mi pentirei, ho preso una decisione drastica. Io e l’equipaggio andremo in stasi criogenica, mentre la nave continuerà a inviare una richiesta automatica di soccorso. Posso solo sperare che qualcuno la rilevi, prima che l’energia si esaurisca del tutto. Non sappiamo se ci risveglieremo; né cosa troveremo in quel caso. Perché lo spazio è molto buio, e freddo, e solitario. Questa è la realtà che scopri, quando s’infrangono i sogni».
   Era l’ultima registrazione, prima del lungo sonno. Jack si chiese se le “strane tecnologie” alle quali Edison accennava comprendessero anche il trasferitore bio-energetico. E quali erano le “cose di cui mi pentirei” alle quali aveva rinunciato? Solo un confronto diretto col Capitano avrebbe dissipato i dubbi.
 
   Risalito sulla Stella, lo Spettro tornò in infermeria. «Novità?» chiese.
   «I pazienti sono stabili e in ripresa. Il Capitano Edison è in procinto di risvegliarsi» rispose il dottore.
   «Bene, gli parlerò io» disse il corsaro. Si fece avanti, fino al capezzale del paziente, e attese che si destasse. Per l’occasione aveva rinunciato alla tuta da Spettro: voleva che Edison lo riconoscesse subito come un essere umano.
   Il Capitano del passato cominciò a muoversi sul lettino e si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Aprì gli occhi e li sbatté più volte, cercando di mettere a fuoco la vista. «Quanto... tempo?» sussurrò, con un filo di voce.
   «Più di quanto si aspettava, Capitano Edison» rispose prudentemente lo Spettro.
   «Mi conosce?».
   «Solo come un eroe del passato, temo. Si calmi... qui è tra amici. Sono Jacob Wolff, Capitano della Stella del Polo, e sono Umano come lei» disse il corsaro, notando che Edison si stava agitando e cercava di alzarsi.
   «Umano... mi fa piacere. Temevo di svegliarmi in qualche carretta aliena» disse Edison, riuscendo a metterlo a fuoco. Per il momento rinunciò ad alzarsi. «Che ne è del mio equipaggio? Eravamo rimasti in 47...» si preoccupò.
   «Questa, Capitano, è la prima brutta notizia che ho per lei» sospirò lo Spettro. «Non c’è un modo per addolcire la pillola, quindi glielo dirò e basta: siete rimasti in tre». Ciò detto lo osservò attentamente, per valutare la sua reazione.
   «In tre?!» gemette Edison, oppresso dal dolore e dai rimorsi. Sollevò le mani tremanti e se le passò sul volto, trattenendo a stento le lacrime. «Solo in tre...».
   «Non è colpa sua» disse subito Jack. «Ha fatto tutto ciò che era umanamente possibile per il suo equipaggio. Esaminando la Franklin, abbiamo notato che prima d’ibernarvi avevate attivato un segnale automatico di soccorso. Purtroppo ci troviamo al centro della Necro Cloud, una densa nebulosa ad assorbimento, che lo ha bloccato E dopo qualche anno l’antenna subspaziale ha perso energia, così che avete anche smesso di trasmettere. Ecco perché la Federazione non è mai riuscita a trovarvi».
   «Mai riuscita?» mormorò Edison, confuso. Osservò gli abiti del suo anfitrione, notando che non erano una vera e propria uniforme; piuttosto avevano un’aria paramilitare. Allora si guardò attorno, accorgendosi d’essere in un’infermeria; ma assai più fantascientifica di quelle che conosceva. «Non riconosco queste tecnologie» disse con voce roca. «Diavolo, non so nemmeno a quali specie appartengano i dottori! Quanto tempo ho dormito?».
   «Glielo dirò, Capitano, ma... sia forte» avvertì Jack.
   «Sono pronto» disse Edison. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, preparandosi al peggio.
   «Dal vostro incidente sono trascorsi 429 anni» rivelò il corsaro. «La Terra, e tutta quanta la Galassia, sono profondamente cambiate...».
   A Edison servì parecchio per riprendersi. Rimase a lungo in silenzio, cercando di venire a patti con la tremenda realtà: era condannato a vivere in un’epoca non sua. Era ancora sotto shock quando Jaylah entrò in infermeria. «Salve, Capitano Edison» salutò la nuova arrivata, accostandosi al lettino. «Ho letto di lei quand’ero in Accademia. Le mie condoglianze per tutto ciò che ha subìto».
   Edison sgranò gli occhi nel vedere le antenne andoriane che spuntavano dai capelli biondo platino della corsara. «Lei... che cos’è?» le chiese, poco diplomatico.
   «Mio padre, l’Ammiraglio Chase, è Umano proprio come lei» rispose l’interpellata. «Invece mia madre, la dottoressa Neelah, è Andoriana d’etnia Aenar. Vede, noi meticci siamo piuttosto diffusi nel XXVI secolo» disse, un poco guardinga. Temeva che l’Umano del passato reagisse negativamente a questa notizia.
   «Aveva ragione, Capitano Wolff: la Galassia è molto cambiata» convenne Edison, rivolgendosi allo Spettro. «Ai miei tempi, una cosa del genere era impensabile. Temo d’essere... sorpassato» si avvilì.
   «Non è detto» obiettò Jack. «Lei può ancora esserci di consiglio e d’aiuto, Capitano Edison. Avrà notato che questa non è esattamente una nave della Flotta Stellare...».
 
   In quel primo incontro i corsari non vollero sovraccaricare Edison con le rivelazioni, per cui si limitarono a dire che la Federazione era dilaniata dalla Guerra Civile e che la loro nave era in prima linea. Ma il giorno dopo, quando le condizioni di Edison migliorarono tanto da permettergli di lasciare l’infermeria, entrarono assai più nel dettaglio. A questo punto anche gli altri due superstiti avevano ripreso conoscenza, per cui furono aggiornati a loro volta. Si trattava del Comandante Anderson Le e del Tenente Jessica Wolff, i più alti ufficiali di Edison.
   «Wolff? Ha il mio stesso cognome» notò lo Spettro.
   «È molto diffuso» rispose la donna. Non aggiunse altro, essendo ancora sotto shock; ma non poteva escludere che il corsaro fosse un suo lontano parente.
   Riuniti in sala tattica, i tre superstiti della Franklin furono aggiornati dai corsari sulla Guerra Civile. Come previsto, ciò che più li indignò fu il resoconto sulle politiche anti-umane di Rangda e sull’occupazione Voth della Terra.
   «Questa è un’infamia!» insorse Edison, quando seppe che gli Umani venivano deportati su altri mondi per fare spazio ai sauri. «Ai miei tempi non avremmo mai permesso una cosa simile!».
   «Ai vostri tempi, una sola nave Voth avrebbe spazzato via tutte le difese terrestri» corresse Jaylah.
   «Ma davvero? Mi dica: a che giova tutta la vostra tecnologia, se la usate contro di noi?!» insisté Edison, alzandosi incollerito. «La Federazione era nata per difenderci, non per opprimerci! Ma suppongo che il voltafaccia fosse inevitabile. Già ai miei tempi avevo delle riserve sull’intera faccenda. Dopo aver perso milioni di uomini contro gli Xindi e i Romulani, ora dovevamo spezzare il pane coi nostri nemici! E guardate dove ci ha portato la nostra cieca fiducia: a diventare un popolo di deportati! Avevano ragione quelli che ai miei tempi dicevano: humanity first! Prima gli Umani!».
   «Al tempo!» lo fermò lo Spettro. «Come Umano, condivido il suo dolore e la sua rabbia per la sorte della nostra gente. Ma humanity first non è la risposta. Vede, la realtà è sempre più complessa di come appare. In passato la collaborazione con gli alieni ci ha salvati più volte. E anche ora, la maggior parte di coloro che si oppongono in armi alla dittatura di Rangda sono proprio alieni. O mezzi alieni» aggiunse, accennando a Jaylah. «Senza di loro, saremmo già stati completamente annientati».
   «Io... non volevo offendere i suoi ufficiali» disse Edison, riacquistando l’autocontrollo. Tornò a sedersi, più calmo. «Ma è un dato di fatto che questa Unione Galattica ci ha ridotti in schiavitù. Ora cosa contate di fare?».
   Jack non era sicuro di volergli rispondere subito; ma il tempo stringeva e dovette rischiare. «Siamo qui per colpire una stazione, la Forgia, ubicata appena oltre la Necro Cloud» rivelò. «Un tempo era una città nello spazio in cui convivevano tutti i popoli federali. Ora è un cantiere spaziale e una fabbrica d’armi, in cui lavorano come schiavi molti prigionieri dell’Unione. Il nostro primo obiettivo è liberarli».
   «Ma quando mi sono infiltrata a bordo, ho scoperto un’altra cosa» intervenne Jaylah. «I Pacificatori hanno rinvenuto un’incredibile quantità di caccia alieni su Altamid. Li chiamano lo Sciame e li stanno imbottendo di siluri per renderli ancora più distruttivi. Se li lanciano contro le nostre ultime roccheforti, sarà la fine».
   «Quanto tempo resta?» si allarmò Edison.
   «Solo una settimana, temo» sospirò la mezza Andoriana.
   «Dai vostri diari di bordo risulta che avete trascorso parecchi mesi su Altamid, prima d’ibernarvi» intervenne Jack. «In tutto quel tempo, avete capito qualcosa dei suoi antichi abitanti e della loro tecnologia? Avete visto lo Sciame?».
   I tre Umani si scambiarono occhiate nervose; infine fu il Comandante Le a rispondere. «Abbiamo scoperto degli insediamenti sotterranei, che a dire il vero erano più che altro miniere. E sì, abbiamo trovato lo Sciame. Ma non siamo riusciti a riattivare i caccia, o li avremmo usati per andarcene».
   «Vi risulta che abbiano qualche punto debole?» insisté lo Spettro.
   «Le analisi dovrebbero essere ancora nel computer della Franklin; posso aiutarvi a scaricare i dati» si offrì il Tenente Wolff, che era l’Ufficiale Scientifico.
   «Bene, lo faccia» approvò Jack.
   «C’è anche un’altra cosa» disse Edison, cupo. «Nelle nostre esplorazioni del pianeta, trovammo una strana tecnologia aliena. Io credo che... possa essere usata per prolungare la vita di un individuo, prosciugando però la forza vitale di un altro. Di tutto l’equipaggio, noi tre eravamo i soli ad averla scoperta; e ordinai di nasconderla agli altri. Non ne parlo nemmeno nei miei diari. Vedete, dopo il naufragio la nostra sopravvivenza era a serio rischio e gli animi erano esasperati. Temevo che qualcuno della ciurma usasse il congegno per prolungarsi la vita, ai danni degli altri. Così rinunciai a costruire un insediamento e presi la decisione d’ibernarmi con tutto l’equipaggio. Speravo che, se la Flotta Stellare ci avesse salvati, avrei potuto distruggere quella macchina infernale. Ma se i Pacificatori sono stati qui prima di voi...».
   «Hanno trovato anche il congegno, purtroppo» confermò Jaylah. «Stanno già facendo degli orribili esperimenti sui prigionieri. Se quella tecnologia diventasse di dominio pubblico...» lasciò in sospeso.
   «Insomma, che possiamo farci?!» esplose il Comandante Le. «Il nemico s’è preso tutto e a noi non resta niente! Ci conviene andarcene, prima che i Pacificatori ci scovino!».
   «Andare dove?! Li avete sentiti, ormai non ci sono posti sicuri!» sbottò Edison. «Non ci resta che stare qui e aiutare questi... corsari. Sempre che abbiano un piano» disse, scrutandoli dubbioso.
   «La mia idea era impadronirci dello Sciame, sfruttando il collegamento subspaziale tra le Api» rivelò Jaylah. «A quel punto potremmo usarne una parte per colpire la Forgia, abbassandone le difese. Questo ci permetterà di teletrasportare i forzati, anche se dovremo trovare un modo per neutralizzare le cariche esplosive che gli hanno ficcato in corpo. Infine potremo fuggire col resto dello Sciame. Certo, fare tutto questo con la sola Stella è impossibile. Ma fortunatamente abbiamo incontrato dei vecchi alleati, i Cacciatori Hirogeni. Ci daranno una mano, visto che la loro Alfa è tra i prigionieri. E con la Franklin, avremo una terza nave da usare come diversivo».
   «La Franklin?!» si stupì Le. «Scordatevela, ormai è un rottame. Non siamo riusciti a rimetterla in volo neanche noi. E dopo quattrocento anni, sarà ancora più scassata».
   «La tecnologia moderna ci dà un vantaggio» insisté la mezza Andoriana. «Grazie ai replicatori, possiamo procurarci tutti i pezzi di ricambio necessari. Io dico che la vostra nave può tornare a volare... non vi piacerebbe?».
   «Beh, certo» ammise Edison. «In fondo, che ci perdiamo a tentare? Signori, siamo con voi!» disse, ritrovando una scintilla dell’antico orgoglio. Si alzò, imitato dai suoi ufficiali. «Per aspera ad astra!» proclamò in latino. Era il motto dell’antica Flotta Astrale terrestre, che aveva preceduto la Flotta Stellare: «Attraverso le asperità si giunge alle stelle».
 
   Quel giorno stesso, Edison e i suoi scesero su Altamid. Prima di tornare alla Franklin, tuttavia, vollero fare un po’ di chiarezza sui misteri di quel pianeta. Così guidarono i corsari a una delle miniere, la più vicina al relitto. «È qui che ci accampammo, nei mesi successivi al naufragio» spiegò Edison, che faceva da cicerone. «Queste caverne ci hanno accolti, anche se devo dire che non le ricordavo così. È tutto sottosopra» aggiunse, incespicando fra il ciarpame.
   «Saranno stati i Pacificatori, quando hanno preso lo Sciame» indovinò lo Spettro.
   «Beh, spero che non abbiano preso tutto. C’è una cosa che voglio mostrarvi... la nostra ultima scoperta, prima d’ibernarci» disse Edison. Giunto a un terminale alieno, lo attivò e prese a usarlo con disinvoltura.
   «Come fanno queste attrezzature ad avere ancora energia?» chiese Garid, che si era unito al gruppo.
   «A quanto ho capito, la prendono dal sottosuolo. Energia geotermica... dopo millenni, è ancora sufficiente ad alimentare gli impianti» rispose Edison distrattamente. Mentre parlava, continuava ad armeggiare coi controlli alieni. «Ah, ecco. Signori, vi presento una degli antichi abitanti di Altamid» disse infine.
   In una nicchia della parete si attivarono dei proiettori e comparve un’immagine olografica. Dapprima sfarfallò, sgranandosi; poi si precisò in una figura umanoide. Era una donna ammantata d’arancione, con lunghi capelli neri che scendevano ai lati del viso e la carnagione bronzo-dorata. Alcuni caratteri cuneiformi erano dipinti, o forse tatuati, sul viso e sulle mani. Il suo atteggiamento era improntato a una solenne compostezza.
   «Sono Annahir, della Repubblica Kalandan» si presentò l’aliena. «Non so se voi, che osservate questo messaggio, siate miei compatrioti; in ogni caso vi spiegherò le circostanze che ci hanno condotti alla rovina. Abbiamo colonizzato questo pianeta dieci anni fa, dopo averlo raggiunto col nostro Sciame. Speravamo che la nebulosa ci tenesse al riparo dai malintenzionati. In questo tempo abbiamo realizzato le prime colonie minerarie, come quella in cui ci troviamo. I nostri insediamenti erano fiorenti e nulla pareva in grado di ostacolarci. Ma il Fato, ahinoi, aveva in serbo altri piani.
   Un morbo sconosciuto ci sta decimando e i nostri medici non riescono a trovare la cura. Per non diffondere il contagio su altri mondi, abbiamo deciso di metterci in quarantena, vietando a chiunque di lasciare il pianeta. Stiamo anche cercando di contattare la Repubblica via subspazio, per chiedere consulenza medica, ma la nebulosa interferisce con le comunicazioni, così che non abbiamo ottenuto risposta. Ormai siamo rimasti in pochi e ci stiamo rassegnando all’inevitabile. Se la nostra ultima ricerca non darà frutto, questo pianeta sarà la nostra tomba. In tal caso, lo Sciame e tutte le nostre attrezzature rimarranno incustoditi.
   Dopo lunghi dibattiti, abbiamo deciso di non sabotare la nostra tecnologia. Speriamo che i primi a rimettere piede su questo pianeta siano Kalandani come noi, e che una volta sconfitto il morbo possano riprendere da dove ci eravamo interrotti. Ma se così non fosse... se voi che mi ascoltate siete alieni... posso solo pregarvi di non fare cattivo uso delle nostre risorse. Contattate la Repubblica Kalandan, se possibile, e fatele pervenire questo messaggio, così che almeno la nostra gente sappia cos’è accaduto».
   Dopo una breve pausa, l’antica aliena riprese in tono più dolente e intimistico: «Speravamo di aprire un nuovo capitolo nella nostra storia, ma è come se avessimo sbattuto contro un muro, e ci sentiamo più a terra che mai. Stiamo facendo tutto il possibile per risollevarci da quest’abisso, ma se falliremo... spero almeno che altri possano continuare la nostra opera. Siamo venuti in pace; fate altrettanto!». L’ologramma svanì, lasciando la nicchia vuota. Per parecchi secondi vi fu silenzio.
   «Sapete nulla di questi Kalandani? Perché ai miei tempi erano ignoti» disse infine Edison.
   «Ho letto qualcosa, sì» disse Jaylah. «Erano una grande potenza, diecimila anni fa. Poi scomparvero a causa di un’epidemia... forse proprio quella di cui parla la registrazione. La Flotta Stellare conosce pochi avamposti di questa civiltà, tutti abbandonati. Questo è certamente il più grande mai ritrovato e il meglio conservato. Peccato che non ci sia più nessuno a cui consegnare il loro ultimo messaggio!» rimpianse, osservando la nicchia vuota. «Da quanto ne sappiamo, i Kalandani erano pacifici... e in effetti sono stati i Pacificatori ad armare lo Sciame» ragionò.
   «E il trasferitore bio-energetico? Quello non sembra tanto innocuo!» commentò lo Spettro.
   «Forse gli ultimi Kalandani lo misero a punto nel disperato tentativo di sconfiggere il morbo» ipotizzò Garid. «Forse era un modo per assorbire il DNA di qualche altra specie, non necessariamente senziente, nel tentativo d’acquisire l’immunità». Era un’ipotesi azzardata, ma nessuno seppe suggerire di meglio.
   «Comunque è chiaro che hanno fallito» concluse Edison, scrollando le spalle. «Erano partiti in grande stile, ma... lo spazio ti riserva le sorprese peggiori. Se anche non ti ammazza, rischi di perdere te stesso» borbottò fra sé. Accortosi che gli altri lo guardavano, si riscosse: «Non c’è più nulla d’interessante qui. Torniamo alla Franklin, c’è molto lavoro da fare!».
   Il gruppo si mise in cammino per uscire dalla miniera. Una volta all’aperto, la Stella li avrebbe teletrasportati direttamente nel relitto, dove gli ingegneri erano già all’opera. Approfittando di quegli ultimi minuti, Jaylah si accostò a Edison e gli parlò sommessamente. «Si sente in grado di farcela?» gli chiese.
   «È il mio dovere» rispose lui con durezza, ma poi la guardò e si addolcì un poco. «Sai, la prima volta che andai nello spazio, ebbi le vertigini» confessò. «Niente alto e basso, nessun punto fermo. È più facile di quanto si creda, perdere la direzione... il proprio scopo... perdere se stessi. T’è mai capitato?».
   «A volte» ammise la mezza Andoriana. «Specie ora che la guerra va così male».
   «Beh, ora abbiamo di nuovo uno scopo» disse Edison, ritrovando la determinazione. «Sconfiggere i Pacificatori e restituire la Terra agli Umani. È la cosa giusta da fare, non dubitarne neanche un attimo. E ce la faremo, costi quel che costi!».
 
   I giorni successivi videro un susseguirsi di lavori frenetici sul relitto della Franklin. I corsari e gli Hirogeni lavoravano fianco a fianco coi tre superstiti dell’equipaggio originale, nel tentativo di rimetterla in funzione. Come previsto, i sofisticati replicatori del XXVI secolo furono essenziali per procurarsi i necessari pezzi di ricambio. Ma nessuno avrebbe saputo come far funzionare quella tecnologia d’altri tempi, senza la consulenza dei tre Umani del XXII secolo. Loro conoscevano la Franklin come le loro tasche, il che permise di risparmiare tempo prezioso. Gli ingegneri furono all’opera giorno e notte, dandosi il cambio in modo che ci fosse sempre qualcuno al lavoro. Il più instancabile fu Garid, che era l’Ingegnere Capo della sua nave e se la cavava anche con la tecnologia federale. Il pensiero di sua moglie costretta ai lavori forzati e frustata dai Pacificatori gli faceva ribollire il sangue e lo spingeva a lavorare senza sosta per rimettere in sesto la Franklin.
   In tal modo, i lavori procedettero a una velocità incredibile. Le brecce sullo scafo furono riparate con materiali più resistenti, le scorte di plasma vennero ripristinate, mentre il processore del computer fu sostituito con uno moderno, migliaia di volte più potente. Il vecchio computer fu portato sulla Stella, dove gli ingegneri scaricarono tutti i dati riguardanti Altamid. Riservarono particolare attenzione alle scansioni dello Sciame, nella speranza di trovare qualche punto debole, specialmente a livello del sistema di guida.
   In parallelo ai lavori, i corsari e gli Hirogeni fecero piani di battaglia. Ogni sera si riunivano per aggiornare la loro strategia, alla luce dei progressi compiuti in giornata. Furono vagliate tutte le possibilità, scartando man mano i piani che si rivelavano inattuabili. Alcune idee furono ridiscusse più volte, modificandosi fino a diventare irriconoscibili. Infine si giunse a una strategia condivisa dai tre Capitani, ovvero lo Spettro, Garid ed Edison. In quella stessa serata, i lavori sulla Franklin terminarono: la nave era pronta a decollare.
   A tarda ora, terminata l’ultima riunione, Jack si ritrovò con Edison nella vecchia mensa della Franklin. Quella saletta non era stata toccata dai restauri, così che era praticamente immutata. «Domani è il gran giorno, dobbiamo brindare» disse Edison, frugando dietro al bancone. «Ah, eccolo qui: un bourbon del Kentucky. Chissà com’è, dopo essere invecchiato per 430 anni!».
   I due decisero di scoprirlo subito. Dopo tutto quel tempo il liquore si era parecchio inacidito, ma se ne scolarono comunque un paio di bicchieri. «Ah... chissà, forse questo è l’ultimo vero bourbon che esiste!» disse Edison, contemplando malinconico la bottiglia mezza vuota. «Adesso bevete tutti sintalcool replicato, da quanto ho capito».
   «Non proprio. C’è ancora chi, come me, apprezza le cose naturali» corresse Jack.
   «Intende le cose vecchie... come questa nave» disse Edison, guardandolo di sottecchi. «Non prendiamoci in giro: se anche riusciremo a farla volare, non vi sarà di grande aiuto. È antidiluviana, in confronto a ciò che i Pacificatori possono scagliarci contro».
   «Mi basta che funga da diversivo» ribatté Jack. «E perché la cosa funzioni, lei e i suoi dovrete essere a bordo. Siete gli unici che sappiano davvero pilotarla. Ma questo significa anche assegnarvi il ruolo più pericoloso» chiarì. «Se i Pacificatori hanno la luna storta, potrebbero distruggervi senza nemmeno chiedervi chi siete».
   «Lo immaginavo» sospirò Edison. «Beh, preferisco rischiare il tutto per tutto, piuttosto che restare nascosto in qualche buco, sperando in un miracolo. Questo vale anche per Le e Wolff. Non so se posso ancora considerarmi il loro Capitano, dopo tutto quel che è successo. Ma ne abbiamo parlato e si sono detti pronti ad andare sino in fondo».
   «Facciamolo, allora» disse il corsaro, riempiendo un’ultima volta i bicchierini. «Per la nostra gente, o ciò che ne resta. Comunque vada domani... è stato un onore conoscerla, Capitano Edison».
   I due Umani levarono i bicchieri in un muto brindisi, prima di sorbire il liquore. Dopo di che lasciarono la mensa. Lo Spettro tornava sulla Stella, mentre Edison avrebbe trascorso l’ultima notte nel suo vecchio alloggio sulla Franklin.
 
   Era un mattino terso, sui monti di Altamid; qualche residuo di nebbia indugiava solo nei crepacci e a fondovalle. Il relitto della Franklin giaceva sull’orlo del dirupo, come aveva fatto negli ultimi quattro secoli; ma ancora per poco. Edison era in plancia, assieme a Le e Wolff; il resto dell’equipaggio era composto da corsari.
   «Controlli pre-volo ultimati; tutto regolare» riferì il Comandante Le.
   «Allora procediamo» disse Edison, accomodandosi sulla sua vecchia poltrona. «Plancia a sala macchine, attivate l’energia principale».
   «Ricevuto» disse Garid, che dirigeva il reparto ingegneristico, alcuni ponti più sotto.
   Dopo oltre quattrocento anni, il nucleo di curvatura si riattivò e l’energia tornò a scorrere in tutta la nave. In plancia le consolle si riaccesero, mentre la Franklin tremava come una creatura che si desta da un lungo sonno.
   «La griglia EPS tiene, energia stabile!» si emozionò Le. «Anche le armi stanno tornando in linea».
   «Integrità strutturale buona, motori a impulso operativi» riferì il Tenente Wolff.
   «Allora procediamo» disse Edison, tamburellando sul bracciolo della poltroncina. «Dite alla Stella d’emettere quel suo raggio traente».
   Di lì a un minuto, la nave corsara agganciò la Franklin col fascio di gravitoni. Ma non poteva innalzarla fino all’orbita, senza una certa collaborazione. La vecchia astronave tremò e cigolò, improvvisamente alleggerita.
   «Avanti a minimo impulso e pronti a cabrare» ordinò il Capitano. Una piccola goccia di sudore gli scese lungo la tempia, mentre osservava sullo schermo il precipizio che si spalancava innanzi alla sua nave. Sembrava senza fondo... ma il fondo c’era, e fin troppo vicino per i suoi gusti. Se i propulsori avessero fallito, la Franklin si sarebbe accartocciata come una lattina contro le rocce affilate e durissime. Ma non era tempo per i ripensamenti.
   Spinta dai motori a impulso, la vecchia nave scivolò in avanti, inclinandosi sempre più. L’equipaggio di plancia si tenne ai sedili, mentre l’angolo di visuale sullo schermo cambiava, mostrando il fondo del burrone. «Ci muoviamo!» avvertì il timoniere, ma era superfluo.
   Con uno stridio sgradevolissimo, la Franklin scivolò oltre il ciglio del burrone, provocando una piccola frana. E precipitò in caduta libera. Il raggio traente della Stella la rallentò, ma solo i suoi propulsori l’avrebbero salvata dalla distruzione.
   «Cabra ora!» ordinò Edison. Davanti ai suoi occhi, il fondo del crepaccio era sempre più vicino. La nave stava cabrando, ma avrebbe fatto in tempo? Ancora pochi attimi...
   I motori a impulso ruggirono mentre la Franklin volava raso terra, stroncando le cime degli alberi. All’ultimo istante s’innalzò, sfuggendo alle rocce affilate all’estremità del crepaccio. Prese rapidamente quota, salendo oltre il suo precedente giaciglio, oltre le vette più alte. E fu inondata dalla luce del sole nascente. In plancia, il Capitano si schermò gli occhi da quel bagliore, quasi incredulo di avercela fatta. Dopo il secolare oblio, la sua nave era finalmente sfuggita ad Altamid, ed era pronta ad affrontare l’ultima battaglia. Il cielo azzurro trascolorava già al nero dello spazio, venato dalle tinte della Necro Cloud.
   «Signori, ce l’abbiamo fatta, la Franklin è di nuovo in volo. Congratulazioni a tutti» disse Edison. «Ora però comincia la parte difficile: abbiamo una battaglia da combattere». 
 

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Capitolo 4
*** Lo Sciame ***


-Capitolo 3: Lo Sciame
 
   «Attenzione, un vascello non identificato sta uscendo dalla Necro Cloud».
   «Sullo schermo» ordinò Ghul, distraendosi dal rapporto sulle attività dei cantieri. Fissò la Franklin che emergeva dai gas nebulari, per dirigersi a mezzo impulso verso la Forgia.
   «È quel relitto di Altamid, l’USS Franklin» riconobbe Vulok, affiancandosi al superiore. «Il suo arrivo è oltremodo illogico... mi chiedo come sia potuta tornare in volo».
   «Non importa il come, ma il perché» disse il Commodoro, tagliente. «Segni vitali?».
   «Solo tre... tutti Umani» rispose l’addetto ai sensori.
   «Come i superstiti dell’equipaggio» notò Vulok. «Ma non possono essersi risvegliati da soli. La logica dice che questa è opera del nemico».
   «Sarà un’opera inutile» borbottò Ghul. «Allarme Rosso, pronti a colpire». Le batterie phaser si attivarono e i tubi lanciasiluri si aprirono sul guscio esterno della Forgia.
   «La Franklin ci chiama, signore» riferì un addetto.
   L’Osnullus si fermò a metà del gesto con cui stava per ordinare il fuoco. Da ufficiale meticoloso qual era, ritenne avventato distruggere la nave senza indagare sulle circostanze che l’avevano riportata in volo. «Rispondiamo» ordinò, lasciando ricadere la mano.
   Balthazar Edison apparve sullo schermo, attorniato dai suoi due ufficiali. «Sono il Capitano Edison dell’USS Franklin, al servizio della Federazione Unita dei Pianeti» annunciò. «Vi ordino d’identificarvi».
   «Lei non è nella posizione d’ordinare alcunché, Capitano Edison» ribatté il Commodoro. «Tuttavia, affinché comprenda la situazione, la informo che dopo il naufragio su Altamid siete rimasti ibernati per 429 anni terrestri. Intanto la Federazione ha accolto nuovi membri e si è espansa fino a inglobare questa regione di spazio. La stazione che vede, detta la Forgia, è sotto il mio comando: sono il Commodoro Ghul».
   «Siete della Flotta Stellare?» chiese Edison, fingendo completa ignoranza.
   «No. Deve sapere che negli ultimi decenni la Federazione si è evoluta nell’Unione Galattica e anche la Flotta è stata riformata» spiegò l’Osnullus. «Pertanto noi apparteniamo alla Forza di Pace dell’Unione. L’avverto inoltre che siamo in guerra contro alcuni sistemi ribelli, che si definiscono Federazione, ma non sono altro che terroristi xenofobi. E ora vengo al punto, Capitano Edison. Voi tre eravate ibernati e non potevate risvegliarvi senza un intervento esterno. Dunque chi è stato?».
   «No, aspetti un attimo» farfugliò Edison, fingendosi confuso. «Sta dicendo che sapevate già di noi, ma non ci avete svegliati? Perché diavolo non l’avete fatto?!».
   «Il vostro risveglio non ci avrebbe apportato alcun beneficio» rispose gelidamente il Commodoro. «Ora risponda alla domanda: chi vi ha rianimati dalla stasi criogenica?».
   «Noi... non lo sappiamo» mentì Edison, seguendo il piano concordato coi corsari. «Ci siamo risvegliati nei nostri alloggi sulla Franklin, dopo aver subito procedure salvavita. Chiunque sia stato, non ha voluto mostrarsi».
   «La vostra nave era gravemente danneggiata. Chi l’ha riparata?» incalzò Ghul.
   «Non sappiamo nemmeno questo. Al risveglio la Franklin era già a posto» sostenne l’Umano.
   «Le sue risposte sono illogiche e inattendibili. Capitano Edison, la informo che lei e i suoi ufficiali sarete presi in custodia e interrogati a fondo» disse l’Osnullus. «Consegnerete altresì la vostra nave; non perché ci sia di qualche utilità, ma per permetterci di capire chi l’ha riparata. Non opponete resistenza, o useremo la forza» avvertì.
   «Come Capitano al servizio della Flotta Stellare, non posso consegnare questa nave a chicchessia. E ogni azione ostile intrapresa contro di noi è un’ostilità contro la Federazione» disse Edison, sempre fingendosi indietro coi tempi.
   «Non mi ha ascoltato? La sua Flotta, la sua Federazione non esistono più» ribadì Ghul. «Ora siamo noi Pacificatori a far rispettare la legge. E lei obbedirà, o il suo antiquato vascello sarà distrutto». Al suo cenno, i Pacificatori immobilizzarono la Franklin con un raggio traente, impedendole di fuggire. Le armi la tenevano sempre sotto tiro; bastava una parola del Commodoro e l’avrebbero annientata.
   Edison fissò a lungo il pavimento; infine parlò in tono cupo. «Quando nacque la Federazione... pochi anni fa, dal mio punto di vista... ci dissero che si apriva un’era di pace e progresso. Ci promisero che i partecipanti si sarebbero aiutati a vicenda e nessuno avrebbe usato la violenza contro gli altri. A quanto pare era pubblicità ingannevole» disse caustico. «Se ci minacciate di distruzione, devo cedere. Venite pure a bordo, non opporremo resistenza. Del resto siamo appena in tre. Spero solo che saremo trattati in modo... umano» ironizzò.
   «Questo ve lo posso garantire» disse l’Osnullus, più inquietante che mai. «Sarete alloggiati con altri Umani che si trovano a bordo e potrete rendervi ancora utili alla collettività. Ghul, chiudo».
   Terminata la comunicazione, il Commodoro si rivolse ai suoi ufficiali: «Voglio una squadra d’assalto sulla plancia della Franklin. Accertatevi di avere il controllo completo dell’astronave. Poi portatela nella Forgia e attraccatela al molo 21. Fatela a pezzi, se necessario, ma scoprite chi l’ha rimessa in volo. Tanto alla fine la smantelleremo in ogni caso».
   «Subito, signore» disse Vulok in tono servile.
   «Per quanto riguarda i tre Umani, interrogateli con le Lobo-Sedie. E se alla fine saranno ancora capaci d’intendere, aggregateli alla nostra forza lavoro» ordinò Ghul. Dopo di che riprese a leggere il rapporto sull’attività dei cantieri.
 
   Quando la squadra d’assalto si materializzò sulla plancia della Franklin, i tre federali alzarono prontamente le mani. «La nave è vostra» disse Edison, lasciando la poltrona di comando. «Trattatela bene».
   «Certo, la tratteremo come una regina!» scherzò il caposquadra, sedendo al suo posto in una posa arrogante. Gli altri agenti, intanto, occupavano le postazioni. Nello stesso momento una seconda squadra prendeva possesso della sala macchine.
   Appena si furono accertati che la nave non era in procinto d’esplodere, i Pacificatori la diressero verso la Forgia. Per la verità ebbero difficoltà a usare quei comandi antiquati, tanto che dovettero chiedere aiuto ai tre Umani. Questi, dal canto loro, collaborarono senza creare difficoltà.
   La Franklin raggiunse l’ingresso principale della Forgia, che si spalancò per farla entrare. Osservando il portone blindato aprirsi in due, come delle fauci, Edison ebbe la sgradevole sensazione che non ne sarebbe uscito. Tuttavia non lasciò trapelare i suoi timori. Passato l’ingresso, l’astronave imboccò un lungo tunnel che portava verso il centro della stazione, dove si trovavano i cantieri. I tre Umani spalancarono gli occhi, osservando le estensioni urbane della Forgia che s’intravedevano attraverso il condotto di trasparacciaio. «Ci sono civili?» chiese Edison. I corsari gli avevano detto di no, ma gradiva averne conferma.
   «Negativo, gli abitanti furono evacuati decenni orsono, quando la stazione era minacciata» rispose un agente. «Ora ci sono solo addetti ai lavori».
   «Bene» si disse Edison, augurandosi che il piano funzionasse.
 
   Nell’attimo in cui il portone della Forgia si apriva, la Stella occultata si mosse. «Adagio... restiamo in coda alla Franklin» disse lo Spettro. Era la parte più pericolosa del piano, introdursi nella stazione con tutta la nave, approfittando dell’apertura del portello. Ora che erano al dunque, gli sembrò una follia il solo averlo pensato. Ma non c’era altro modo per entrare; così dovevano incrociare le dita e procedere.
   La Stella occultata tallonò la Franklin, introducendosi nel condotto finché l’ingresso era aperto. A complicare le cose, la nave corsara era assai più massiccia dell’altra, tanto che passava a stento nel tunnel.
   «Trecento metri dalla Franklin, mantengo la distanza» disse il timoniere, pallidissimo.
   «Ingresso varcato... abbiamo meno di cento metri di margine, su ambo i lati» aggiunse Siall dalla postazione sensori.
   «Bene così, continuiamo» disse Jack.
   «Attenzione, richiudono il portello!» avvertì il Boliano. «Venti secondi alla chiusura totale».
   «Più veloci, ma occhio a non tamponare la Franklin!» raccomandò lo Spettro, pur sapendo che erano ordini contradditori. Una piccola accelerazione e avrebbero colpito la nave davanti a loro; e così facendo si sarebbero scoperti. Ai Pacificatori non sarebbe certo sfuggito il sussulto della Franklin. Ma l’alternativa era peggiore: oltre ad essere rilevati, sarebbero stati bloccati dal portone, divenendo un facile bersaglio per il nemico.
   Il timoniere impresse un’accelerazione lievissima alla Stella, portandola a un soffio dalla Franklin. Intanto il portone si richiudeva, celando le stelle. Era questione d’attimi; tutti in plancia trattennero il fiato.
   La poppa della nave corsara scivolò tra le ante mentre queste si serravano. Un ultimo istante di terrore... e fu fatta. Leggendo i dati sull’oloschermo della poltrona, Jack si avvide che se l’erano cavata per un margine di pochi metri. «Eccellente; ora torniamo a distanza di sicurezza» disse.
   La Stella rimise un po’ di spazio fra sé e la Franklin. Seguì la vecchia nave nel tunnel, addentrandosi nei meandri della Forgia. Invece di prendere qualche diramazione, i due vascelli tirarono dritto, raggiungendo la parte più riposta della stazione. Solo allora sbucarono nell’immenso spazio vuoto che costituiva gran parte della sfera; al che i corsari ammutolirono.
   Gli anelli abitativi più interni della vecchia Yorktown erano stati smantellati quando la stazione era divenuta un cantiere. Al loro posto c’erano le astronavi in costruzione, assiepate attorno al nucleo centrale della Forgia. Lunghi bracci meccanici saldavano gli scafi, mentre le Work Bee erano al lavoro ovunque. Nella sua precedente esplorazione, la Banshee non era riuscita a vederlo. Se lo avesse fatto, avrebbe riferito il dettaglio cruciale: i vascelli erano di classe Moloch.
   Nata come evoluzione della Keter, quella classe contava finora un unico prototipo, il Moloch appunto. Dall’inizio della guerra si era distinto come la nave più armata, più resistente e in generale più pericolosa dell’Unione. Aveva braccato la Keter per ogni dove, costringendola ripetutamente alla fuga. Aveva partecipato alle maggiori battaglie, distruggendo parecchi vascelli della Flotta Stellare. E grazie allo scafo in neutronio, aveva resistito a colpi che avrebbero annientato ogni altra nave. Se un solo Moloch era risultato così devastante, che effetto avrebbe avuto un’intera flottiglia? A peggiorare le cose, i lavori erano prossimi alla fine: gli scafi squadrati erano quasi interamente ricoperti dalle corazze di neutronio. Ancora poco e sarebbero diventati invulnerabili.
   «Eh, no... questo non è giusto...» mormorò Graush, passando lo sguardo da un vascello all’altro. «Ma quante risorse hanno i Pacificatori?!».
   «Tutte quelle di un’Unione militarizzata e rifornita dai Voth» rispose cupamente lo Spettro. «Ciascuna di quelle navi è una minaccia esistenziale per la Federazione».
   «Beh, noi non possiamo occuparcene! Sarà già tanto uscire vivi da qui, con lo Sciame!» sbottò Skal’nak.
   «Dobbiamo almeno capire quanti sono i Moloch e quanto manca al loro completamento» insisté Jack. «Signori, cominciamo a contare».
 
   «La Franklin è attraccata, le squadre ingegneristiche sono a bordo. Stiamo trasferendo i tre Umani nella sala degli interrogatori» riferì un addetto.
   «Restiamo in Allarme Giallo. Analizzate i paraggi in cerca di altre navi» decise Ghul. «Voglio anche una squadra su Altamid, per determinare se ci siano intrusi. Inviate la Rukh».
   Il vascello di classe Horus lasciò la Forgia, tramite un secondo condotto che sbucava sul lato opposto. Si addentrò nella Necro Cloud con gli scudi alzati, zigzagando tra i pericolosi asteroidi.
   «Proprio come speravamo» sorrise Garid, dalla plancia del Dorvic occultato. «Finché saranno impegnati in inutili ricerche all’interno della nebulosa, saranno tagliati fuori dalle comunicazioni. Quindi non riceveranno nemmeno le richieste di soccorso della Forgia, quando l’attaccheremo».
   «Speriamo che ci restino abbastanza a lungo» commentò un Cacciatore. «Non possiamo reggere il confronto con una classe Horus».
   «Ora che la Forgia è relativamente indifesa, i corsari dovrebbero entrare in azione» disse Garid, osservandola con apprensione. «Se avranno successo, lo sapremo presto».
 
   La Rukh si era addentrata da poco nella nebulosa, e nel centro di comando della Forgia sembrava tornata la normalità, quando i sensori dettero un allarme. «Che succede?» chiese Ghul.
   «Signore, è molto strano. Rilevo teletrasporti multipli in tutta la stazione, ma non sono opera nostra» avvertì un addetto. «Coinvolgono i lavoratori».
   «Qualcuno li sta portando via?!» si allarmò il Commodoro.
   «Negativo, i segni vitali sono sempre lì» rispose l’ufficiale. «Non capisco cos’è che viene teletrasportato...».
   In quella si udì un ronzio, accompagnato da un piccolo bagliore. Qualcosa si era materializzato sul pavimento al centro della plancia. A vederlo da lontano, pareva un minuscolo mucchietto metallico. «Allarme bomba!» gridò l’Ufficiale Tattico. Tutti indietreggiarono precipitosamente, salvo il Comandante Vulok, che invece si avvicinò.
   «Non è una bomba» disse il Vulcaniano, osservando il mucchietto di frammenti. «Sono piccoli congegni metallici, di forma quadrata. A prima vista, paiono...». Il suo sopracciglio destro s’inarcò vistosamente. «No, sono le micro-cariche dei prigionieri» si corresse. Si girò fulmineo, proteggendosi la testa con le braccia.
   L’attimo dopo le decine di micro-cariche esplosero, ciascuna con la potenza di una granata. Erano programmate per detonare se qualcuno avesse cercato d’estrarle, e ora che i corsari le avevano rimosse col teletrasporto, ciò si ritorse contro i Pacificatori. Il centro di comando fu devastato: i pannelli che lo dividevano in sotto-sezioni andarono in frantumi e molte consolle furono distrutte. Vulok fu scagliato attraverso il salone, urtò la parete di fondo e si accasciò al suolo, privo di sensi. Gli altri ufficiali, sebbene più lontani, furono anch’essi gettati a terra; quasi tutti rimasero ustionati dalla fiammata e feriti dalle schegge. Il fumo invase la plancia, mentre l’illuminazione sfarfallava.
   «Allarme Rosso! Siamo sotto attacco!» gridò Ghul, rialzandosi per primo. Aveva il volto coperto di sangue, ma non era ferito gravemente. Nel frattempo si udivano altre esplosioni in lontananza.
   «Qualcuno usa le micro-cariche come arma» disse un ufficiale scientifico, trascinatosi fino a una consolle ancora operativa. «Le teletrasportano via dai prigionieri e le usano per colpire i nostri punti nevralgici. Le caserme, le camerate, le armerie... sono tutte sotto attacco!».
   Il Commodoro alzò gli occhi allo schermo e vide gli anelli abitativi punteggiati d’esplosioni. Non erano tali da compromettere l’integrità della stazione, ma stavano comunque decimando i Pacificatori. E c’era una conseguenza ancora più grave. «I prigionieri hanno compreso d’essere liberi dalle cariche?» chiese.
   «Temo di sì» rispose l’ufficiale con voce rauca. «Ci sono già rapporti di tafferugli e anche aperte rivolte. Cosa facciamo?».
   «Isolate le sezioni compromesse. Uccidete i rivoltosi. Confinate gli altri nelle celle e negli spazi comuni» ordinò l’Osnullus, con la massima calma. «Ma soprattutto, trovate il vero nemico. Voglio sapere chi ci sta attaccando». Un’esplosione più vicina delle altre fece tremare la plancia, tanto che il Commodoro dovette reggersi alla poltroncina.
   «A questo posso rispondere subito» disse l’Ufficiale Tattico, indicando lo schermo. La Stella del Polo era appena comparsa all’interno della Forgia. Sparava a tutto spiano contro le caserme dei Pacificatori e le loro navicelle, accrescendo il caos. Tuttavia si asteneva dal colpire i cantieri, per non massacrare i forzati che vi lavoravano in gran quantità.
   «Lo Spettro!» riconobbe Ghul. «Dovevo immaginarlo; solo lui poteva sferrare un attacco del genere. Di certo è entrato seguendo la Franklin... erano tutti d’accordo. Ora cercheranno d’imbarcare i prigionieri, per poi aprirsi un varco all’esterno. Ma hanno commesso un errore. Anche se non possiamo contattare la Rukh, siamo tutt’altro che indifesi. È tempo di usare lo Sciame».
   Mentre i suoi ufficiali diramavano gli ordini per stroncare la rivolta, l’Osnullus si diresse a grandi passi verso la sedia di controllo, ancora integra nella sua nicchia. Vi si accomodò, posando i palmi sui lettori di DNA. Subito il sedile si attivò attorno a lui: gli oloschermi si accesero, dandogli il pieno controllo dello Sciame. Migliaia di Api, quasi tutte imbottite di siluri, erano pronte all’attacco; e il loro obiettivo era la nave corsara.
 
   Sembrava un giorno come tanti altri, nella vita da forzata di Vitani. Svegliata da uno sgradevole squillo dopo poche ore di sonno, si era messa in fila con gli altri prigionieri, aveva ingurgitato la solita sbobba disgustosa in mensa e si era diretta al luogo di lavoro, sotto la costante vigilanza dei carcerieri. Giunta tra le Api, aveva cominciato a revisionare i sistemi di guida, come faceva da mesi. L’unica differenza, rispetto alla deprimente monotonia di prima, era il pensiero che i corsari sapevano di lei e avevano promesso di salvarla; ma ci sarebbero riusciti? Erano già passati dieci giorni e ancora non si erano fatti rivedere.
   «Un’operazione del genere non si pianifica in pochi giorni» si disse l’Hirogena, per farsi coraggio. «Gli serve tempo per organizzarsi. Ma un giorno o l’altro verranno... me l’hanno promesso...» pensò, lottando contro la disperazione che l’attanagliava. E se i corsari non ci fossero riusciti? E se i Pacificatori li avevano già trovati e distrutti? E se...
   «Muoviti, fannullona! Non stare lì impalata!» strepitò una guardia, accortasi che Vitani era sovrappensiero. Era il Talariano che l’aveva frustata dieci giorni prima. Sebbene avesse ancora il viso maculato, dopo l’esperimento costato la vita al prigioniero Trill, era già tornato in servizio. E non aveva perso il gusto per la violenza, come dimostrò prontamente. «Questo lavoro è tutto sbagliato!» sbraitò, dopo aver dato un’occhiata superficiale al sistema di guida dell’Ape. «Che hai in testa? Sono mesi che fai lo stesso lavoro, e non riesci ancora a farlo bene?! Ma sei ritardata?!».
   «Chiedo scusa, sistemo subito...» disse Vitani, volendo mantenere un basso profilo.
   «Mentre tu perdi tempo, la catena di montaggio si ferma per colpa tua!» ringhiò il sorvegliante, accennando ai forzati che dovevano subentrarle per revisionare gli altri sistemi dell’Ape. «Ti rendi conto che in questo modo stai danneggiando gli sforzi di tutti? Eh, lo capisci? Lo capisci che sei una buona a nulla, che non merita di stare qui fra noi?!».
   Così dicendo il Talariano impugnò la frusta neurale e dette una sferzata alla prigioniera, che cadde al suolo, contorcendosi per il dolore. «Avanti, di’ che sei una nullità! Dillo!» ordinò l’aguzzino, frustandola ancora sotto lo sguardo compiaciuto dei colleghi.
   Vitani stava per cedere, ma in quella avvertì una strana sensazione al collo. Se lo tastò e si accorse che il bozzo provocato dalla micro-carica era scomparso. Osservando gli altri forzati, si accorse che anche loro si tastavano il collo meravigliati. Che fosse il segno tanto atteso?
   In quella si udirono dei boati. I forzati alzarono gli occhi e videro che gli altri anelli abitativi della Forgia erano punteggiati da esplosioni. Erano ancora con gli occhi al cielo quando dal nulla apparve la Stella del Polo, che aprì il fuoco contro alcuni punti della stazione. Allora ci fu un nuovo boato: le grida d’entusiasmo dei prigionieri. Per la prima volta da mesi, o anche anni, avevano una speranza di libertà.
   «Frell!» imprecò il Talariano, facendosi pallidissimo. «Cosa guardate, idioti?! Bisogna subito evacuare questa zona. Non temete, vi proteggeremo dai terroristi. Ma dovete fare tutto quello che vi diciamo! Muovetevi, svelti!» ordinò, frustando un forzato che se ne stava ancora col naso all’aria.
   Vitani comprese che era il momento d’agire. Si rialzò, pur essendo ancora dolorante. Mentre il Pacificatore alzava il braccio, per assestare un’altra sferzata, si gettò a testa bassa contro di lui. Lo colpì duramente al plesso solare, mentre al tempo stesso gli afferrava il polso, impedendogli di frustare.
   Passato il primo attimo di sbigottimento, il Talariano si dimenò e scalciò come un ossesso, cercando di liberarsi. Dette una testata in faccia a Vitani e arrivò persino a morderle la mano, nel tentativo di farle mollare la presa. Ma l’Hirogena non cedette. Lo tenne fermo e continuò a torcergli il polso, fino a spezzarglielo brutalmente. Con un grido strozzato, il Talariano dovette mollare la presa. La frusta neurale cadde... e Vitani l’afferrò al volo con l’altra mano. Senza perdere un istante, colpì l’avversario all’addome con una sferzata. Questi si piegò in due, strillando ancora più forte. Alzò uno sguardo assassino sulla prigioniera. «Ti ammazzo!» promise, impugnando il phaser con la mano sana. Prima di sparare, perse un secondo per regolarlo su uccisione.
   Quel secondo gli fu fatale, perché Vitani sferrò una seconda frustata, colpendolo in pieno viso. Il Talariano fu scagliato all’indietro, accecato e semi-stordito. Colpì il parapetto che recintava l’anello abitativo, si arrovesciò e cadde dall’altra parte... nel vuoto. Il suo ultimo strillo si affievolì, perdendosi in lontananza.
   L’Hirogena non stette a compiangerlo. Attaccò un altro sorvegliante, riuscendo a stordirlo con una frustata alla massima potenza. Rapidamente gli prese il phaser; solo a quel punto si guardò attorno. Tra guardie e carcerati era scoppiata una feroce lotta. I prigionieri si ribellavano con la forza della disperazione, cercando di strappare le armi agli aguzzini; ma pochi ci erano riusciti. Quando i Pacificatori presero a sparare, Vitani e gli altri si nascosero dietro alle Api. Nello stesso momento, la rivolta divampava anche in altre zone della Forgia.
   «Okay, vi ci siete messi d’impegno» pensò l’Hirogena, osservando la Stella che sparava sopra la sua testa. «Ma come contate di salvarci?».
   In quella i Pacificatori ricevettero ordini dal centro di comando, tramite i comunicatori. Vitani non riuscì a udirli, ma vide il risultato: i sorveglianti si ritirarono dalla zona, in modo ordinato. «E adesso che succede?» si chiese l’Hirogena, con un nodo allo stomaco.
   Non dovette attendere molto per scoprirlo. Le Api che stavano revisionando si attivarono con un ronzio sincronizzato. I portelli si chiusero, mentre i sistemi di guida entravano in funzione. Le navicelle decollarono, non solo da lì, ma da tutti gli anelli abitativi su cui erano assiepate. Erano migliaia e migliaia, l’intero Sciame. Con la perfetta coordinazione garantita dal segnale-guida subspaziale, si diressero contro la Stella del Polo, in serrata formazione d’attacco. L’avrebbero sventrata, distrutta a forza d’impatti.
   Allora Vitani capì la strategia dei Pacificatori. Si erano ritirati per consentire ai rivoltosi di assistere alla distruzione della nave corsara – la loro speranza – così da spezzarne il morale. Poi avrebbero attaccato in forze, uccidendo i pochi che facevano ancora resistenza e rimettendo in catene tutti gli altri. «Ma è possibile che i corsari non l’abbiano previsto?» si chiese l’Hirogena, fissando la Stella con apprensione. No: se li conosceva, dovevano aver elaborato una contromossa. «Avanti, ragazzi... non deludetemi ora!».
 
   Assiso sulla poltrona di guida, il Commodoro Ghul si apprestò a distruggere i corsari che avevano osato invadere la sua stazione. Stava per inserire la sequenza finale d’attacco, quando fu circondato dai bagliori del teletrasporto.
   «Scendi da lì, cocco bello!» intimò la Banshee, apparendogli davanti.
   L’Osnullus si guardò attorno. I corsari avevano invaso in gran numero il centro di comando: lo avevano circondato e tenevano sotto tiro i suoi ufficiali. Oltre alla Banshee c’era lo Spettro, sempre minaccioso nella corazza nera. L’Ufficiale Tattico impugnò il phaser, cercando di sparargli, ma il corsaro fu più veloce: lo freddò a distanza ravvicinata. A quel punto gli altri Pacificatori si arresero. Apparvero anche i tre Umani della Franklin, trasferiti dal blocco detentivo, che presero a disarmarli.
   «Complimenti per la vostra strategia» riconobbe Ghul. «Ma se volevate evitare il bagno di sangue tra i detenuti, avete già fallito».
   «Ho detto levati!» ringhiò la Banshee. Lo afferrò per un braccio, strappandolo brutalmente dal sedile. Il Commodoro ruzzolò a terra e lì rimase, tenuto sotto tiro dai corsari. La mezza Andoriana sedette al suo posto, cercando d’assumere il controllo dello Sciame. Ma la sedia di guida le negò l’accesso: sugli oloschermi comparvero messaggi d’allerta.
   «Ah ah, vorresti impadronirti dello Sciame? Povera illusa!» la canzonò Ghul.
   «Questa sedia usa un lettore di DNA. Se non collabori, posso sempre tagliarti le mani e apporle sui sensori» minacciò la Banshee.
   «Fa’ pure! Non ti servirà a niente!» rimbeccò l’Osnullus. «La sedia è in grado di riconoscere questi trucchetti. Se mi tagli le mani, o me le premi di forza sui sensori, l’interfaccia neurale si accorge che non sono quelle del pilota. No, io solo posso dirigere lo Sciame. E devo essere del tutto consenziente, o l’interfaccia mi taglia fuori dai comandi. Rassegnatevi... stavolta avete fallito!» disse, rivolgendosi allo Spettro.
   «Posso sempre ucciderti, così lo Sciame non sarà di nessuno!» ringhiò Jack, puntandogli il phaser in faccia.
   «Ma presto dovrete fuggire, mentre lo Sciame resterà qui» puntualizzò il Commodoro. «Alla fine tornerà sotto il nostro controllo».
   Ci fu un breve silenzio, mentre i corsari pensavano a come superare l’ostacolo. Inaspettatamente fu il Capitano Edison a prendere la parola. «Forse c’è un modo per ingannare la sedia di guida» disse con voce rauca. «Ma comporterà un grosso sacrificio per uno di noi».
   «Si spieghi» disse lo Spettro.
   «Questo mostro è l’unico che può controllare lo Sciame» disse Edison, accennando all’Osnullus. «E noi sappiamo che, proprio su questa stazione, c’è una tecnologia capace di trasferire il genoma da una specie all’altra. Mi offro volontario per tentare».
   A queste parole cadde il gelo. I Pacificatori fissavano l’Umano con orrore, i corsari con speranza; Jack con un misto d’entrambi. «Non posso chiederle un tale sacrificio; non sappiamo nemmeno se funzionerà» disse.
   «Non deve chiedermelo; sono io che mi offro. E quanto al successo, non ci resta che tentare» dichiarò Edison.
   «Pazzo, ci ucciderai entrambi per nulla...» rantolò Ghul, ma per la prima volta i corsari avvertirono in lui la paura.
   «Lei temeva di perdere se stesso... in questo modo, accadrà di certo» avvertì la Banshee, temendo che l’Umano uscisse di senno.
   «Ho già perso tutto ciò che amavo» disse Edison con amarezza. «Perdere me stesso non farà una gran differenza. Avanti, c’è poco tempo!» incalzò.
   Lo Spettro esitò. Stavano per varcare una linea rossa: avrebbero compiuto un’azione crudele e innaturale, senza nemmeno la certezza che servisse a qualcosa. Forse era meglio rinunciare allo Sciame e fuggire, finché potevano. Ma con la forza combinata dello Sciame e dei nuovi Moloch, i Pacificatori sarebbero divenuti inarrestabili. Così anche quella era una scelta obbligata. «Allora procediamo» disse ai tre Umani del passato. «La Banshee vi accompagnerà in infermeria con metà della squadra, dato che è l’unica ad aver visto il trasferitore in azione. Noi resteremo a presidiare la plancia». Dopo di che contattò la Stella del Polo, per richiedere il teletrasporto diretto.
 
   Nella Forgia infuriava la battaglia tra i Pacificatori e i prigionieri. I primi erano stati duramente colpiti dagli attacchi della Stella, ma erano ancora numerosi e bene armati. Passati i primi attimi di sgomento, stavano riguadagnando terreno. Quanto ai rivoltosi, avevano messo le mani su alcune armi, ma erano disorganizzati; inoltre la maggior parte di loro non aveva esperienza di combattimento. Ma i corsari avevano previsto anche questo, e infatti non intendevano lasciarli così. Non appena li ebbero liberati dalle micro-cariche, presero a imbarcarli sulla Stella.
   Così i prigionieri furono prelevati dalla stazione, ovunque si trovassero, e trasferiti nelle ampie stive della nave corsara. Apparivano a piccoli gruppi, con il teletrasporto che operava alla massima velocità. Ma considerato il loro numero elevato – erano cinquemila – serviva parecchio per trasferirli tutti. Nel frattempo la Stella doveva tenere gli scudi abbassati, esponendosi agli attacchi dei Pacificatori. Per fortuna i Moloch nei cantieri non erano ancora operativi e lo Sciame era inerte, ora che i corsari occupavano la plancia. C’erano solo alcune navette che spararono alla Stella, senza provocare gravi danni; e il contrattacco le distrusse quasi tutte. Paradossalmente, finché i corsari rimanevano dentro la stazione erano relativamente al sicuro. Ma quello stallo non poteva protrarsi a lungo, perché i Pacificatori avrebbero cercato di riconquistare la loro plancia, e c’era sempre la possibilità che ricevessero aiuto dall’esterno. Per la riuscita del piano, il tempo era essenziale. Quindi era con crescente inquietudine che Graush, ora al comando della Stella, osservava lo Sciame, chiedendosi se sarebbero riusciti a impadronirsene.
   «Localizzate gli Hirogeni e trasferiteli nella sala teletrasporto 1» ordinò il Letheano, sapendo che la loro salvezza era indispensabile per rimanere in buoni rapporti coi Cacciatori. «Appena avremo Vitani, portatela subito qui».
   In quel momento l’Alfa si trovava ancora sull’anello abitativo della Forgia. Si era nascosta in un palazzo diroccato, assieme agli altri rivoltosi, per resistere a oltranza; ma i Pacificatori avanzavano implacabili. L’Hirogena si sporse da una finestra, sparando un paio di colpi, dopo di che tornò a nascondersi per sfuggire alla rappresaglia. Udì delle esplosioni e sentì il palazzo tremare. I Pacificatori stavano colpendo le fondamenta con armi di grosso calibro, per abbatterlo. Il crollo era imminente... ma in quella fu prelevata dalla Stella. Si ritrovò in sala teletrasporto, assieme agli altri membri del clan che erano stati rapiti dai Pacificatori. Molti di loro non li vedeva da mesi, perché li avevano smistati in gruppi di lavoro diversi, affinché non facessero fronte comune contro i carcerieri. Li abbracciò, lieta di vederli vivi.
   «Lei è Vitani? Venga in plancia, svelta... non è ancora finita» la avvertì un corsaro.
   L’Hirogena lo seguì di corsa, sentendo l’astronave che tremava per la battaglia. Giunta in plancia, si aspettava di trovarvi lo Spettro e la Banshee. Rimase leggermente delusa nel vedere che invece c’era Graush al comando.
   «Ah bene, è qui!» l’accolse il Letheano. «La informo che Garid ci sta aspettando col Dorvic, fuori dalla stazione. Prima di raggiungerlo imbarcheremo tutti i prigionieri. Inoltre stiamo cercando d’impadronirci dello Sciame».
   «Vi ringrazio per tutto» disse Vitani. «Lo Spettro e la Banshee sono sulla Forgia?».
   «Sì... e mi chiedo che stiano combinando» mugugnò Graush, osservando i meandri della stazione.
 
   L’attacco all’infermeria fu una delle azioni più difficili che Jaylah avesse mai compiuto, non tanto per i problemi pratici – i Pacificatori furono colti di sorpresa – ma per le implicazioni etiche. Il personale medico fu messo in fuga, assieme ai feriti ancora in grado di camminare; gli altri rimasero sui lettini, sorvegliati dai corsari. La mezza Andoriana sapeva che alcuni di quei pazienti sarebbero morti, senza cure tempestive; ma che ci poteva fare? La guerra era fatta di crudeltà e ingiustizie. Almeno il trasferitore bio-energetico era come lo ricordava: due sedie interconnesse da un complesso sistema di cavi, tutto gestibile dalle consolle. Vedendo il sedile della vittima, Ghul fremette e cercò di sfuggire ai corsari.
   «Mettetelo su quella sedia e tenetelo fermo!» ordinò la Banshee.
   «Maledetti ipocriti! Dite di combattere per la libertà, e guardate ora che fate!» gridò il Commodoro, opponendo una fiera resistenza. Ci vollero quattro corsari per costringerlo a sedersi, e avvincerlo mani e piedi al sedile.
   «Perché, voi che avete fatto dieci giorni fa con quel Trill?» ritorse Jaylah. «E cosa crede che voglia farne Rangda? Ringrazi che questa macchina infernale sarà distrutta tra poco». Ciò detto, procedette a ficcargli in corpo gli aghi, cercando di ricordare come avevano fatto i medici. Non era certa di ricordare tutti i punti, ma non c’era tempo per i tentennamenti. Quando ebbe finito, si rivolse a Edison.
   Il Capitano si era già seduto sull’altra sedia, di sua spontanea volontà. «Mi leghi, così non rischierò di strapparmi accidentalmente gli aghi, durante... il processo» disse.
   «È certo di volerlo fare? Ricordi che non si torna indietro... a meno di non consumare qualche altro Umano...» lo avvertì la Banshee.
   «Lo faccia e basta!» esclamò Edison, scuotendo la testa come per scacciare dubbi e paure.
   Con l’impressione di guardarsi agire da fuori, Jaylah immobilizzò Edison sulla sedia, bloccandogli mani e piedi coi ceppi metallici. Poi inserì gli aghi nel corpo dell’Umano, mentre questi rimaneva stoicamente fermo. Infine si recò alla consolle. Stava per attivare il trasferitore, quando il Comandante Le la bloccò. «Lo faccio io» disse, sollevandola da quella dolorosa responsabilità. Scambiato un cenno d’intesa col suo Capitano, inserì la sequenza d’avvio.
   Il trasferitore bio-energetico prese subito vita. I cavi fremettero e sibilarono come serpenti, mentre una luce ritmica risaliva quelli del Commodoro Ghul, per ridiscendere in quelli del Capitano Edison. Qualcosa stava indubbiamente filtrando, anche se era impossibile dire in che forma. Entrambi i soggetti gridarono e si agitarono come se fossero sul rogo, ma i ceppi li tennero bloccati sulle sedie. Jaylah percepì la loro sofferenza: era qualcosa che travalicava ogni descrizione. Ogni singola cellula dei loro corpi bruciava di dolore; avevano l’impressione che la carne si sciogliesse come cera calda. La mezza Andoriana dovette chiudere del tutto la propria mente, per non essere sopraffatta; ma assistette comunque all’orribile trasformazione.
   Il Commodoro si rinsecchì a vista d’occhio, come prosciugato dei fluidi vitali. Pareva di vedere un filmato accelerato, che mostrasse la mummificazione di un corpo in ambiente desertico. Gli occhietti giallognoli sprofondarono nelle orbite, divenendo bianchi e ciechi. La pelle si fece sempre più tesa e raggrinzita sulle ossa. In alcuni punti si lacerò, ma non ne uscì sangue. Vedendo gli effetti del congegno da lui azionato, Anderson Le distolse lo sguardo.
   «Forse dovremmo interrompere...» mormorò Jessica Wolff, l’altra superstite del vecchio equipaggio.
   «Se lo facciamo adesso, sarà stato tutto inutile» obiettò Jaylah. Bisognava andare fino in fondo, ovvero fino alla morte di Ghul.
   «Maledetti... potete vincere una battaglia... ma perderete la guerra...» rantolò questi. Furono le sue ultime parole, perché di lì a un attimo i suoi segni vitali si azzerarono. L’Osnullus era morto, ma il suo cadavere rimase dov’era, disfacendosi sotto gli occhi inorriditi dei presenti.
   Qualcosa di diverso, ma altrettanto impressionante, accadde a Edison. La sua testa si gonfiò in modo grottesco, mentre i lineamenti si deformavano come cera calda. A un certo punto non riuscì nemmeno a urlare, tanto era profonda la trasformazione. Svanite le sembianze umane, rimasero le orride fattezze di un alieno. Il Capitano non era più un uomo, ma non era neanche un Osnullus; piuttosto brancolava nel limbo fra le due specie.
   Ora che Ghul era morto, il trasferitore bio-energetico perse potenza, fino a spegnersi del tutto. Edison non si agitava più come prima, né urlava, ma il suo corpo deformato era scosso da brividi involontari. I presenti esitarono a rivolgergli la parola, non sapendo in che stato mentale si trovasse, dopo quella devastante trasformazione. Infine il Tenente Wolff gli si avvicinò cauta. «Capitano Edison? Riesce a sentirmi?» sussurrò, mentre gli liberava i polsi.
   Per un attimo l’essere rimase immobile. Poi i suoi occhi gialli si spalancarono e la mano segaligna scattò, afferrando il polso della donna. «Jessica...» sussurrò una voce che non era quella di Balthazar Edison; ma in fondo agli occhi alieni balenò una scintilla di riconoscimento.
 
   Rimasto in plancia con metà squadra, lo Spettro stordì i Pacificatori prigionieri, non volendo che gli causassero guai. Poi cercò di disattivare le difese perimetrali della Forgia, secondo il piano originale, ma si accorse che i comandi erano stati bloccati con codici di sicurezza. Probabilmente i Pacificatori avevano una plancia ausiliaria, da cui mantenevano il controllo delle difese. Quando capì che non ne sarebbe venuto a capo, il corsaro decise d’impiegare l’attesa in un altro modo. La Forgia era una delle maggiori fortezze dell’Unione; come tale svolgeva anche un ruolo di coordinamento degli sforzi bellici. Dunque riceveva gli ordini dal Comando dei Pacificatori e li ritrasmetteva alle navi del settore. Nel suo computer potevano esserci informazioni strategiche che valevano oro; forse persino i piani della prossima offensiva dell’Unione.
   «Vale la pena d’indagare, finché siamo qui» si disse Jack. Una rapida ispezione della plancia lo condusse alla postazione sensori e comunicazioni. Fortunatamente le consolle erano ancora operative. Il corsaro esaminò la lista delle trasmissioni ricevute nell’ultimo mese. Come si aspettava ce n’erano alcune criptate, giunte dalla Terra. Erano quelle che cercava.
   «Bingo» mormorò lo Spettro, sorridendo sotto l’elmo impenetrabile. Non perse tempo a decodificare le trasmissioni; di quello si sarebbero occupati i tecnici della Stella. L’importante era scaricare i dati, e il corsaro sapeva come. Un minuscolo sportellino si aprì sul polso della sua tuta, rilasciando il cavetto di collegamento. Jack lo inserì nell’interfaccia della consolle e scaricò i dati nel computer della tuta. Un apposito programma crawler, fornito dai tecnici della Keter nel loro ultimo incontro, selezionava le trasmissioni interessanti e le scaricava. Bastarono pochi attimi per completare l’hackeraggio, dopo di che il cavetto rientrò nell’alloggiamento, che tornò a sigillarsi. La breve vulnerabilità era finita: il corsaro poteva di nuovo sfasarsi.
   «Banshee a Spettro, stiamo tornando».
   Il resto della squadra tornò dall’infermeria, sempre mediante un teletrasporto diretto della Stella. Jack cercò immediatamente Edison. Era preparato al peggio, ma ciò che vide lo scosse ugualmente. Lo sventurato Capitano era irriconoscibile, nel suo aspetto mutato. La testa era enorme, grottesca, con due occhietti gialli a stento distinguibili dai numerosi fori delle narici. Cosa poteva passare per la testa di un uomo sottoposto a un’alterazione così traumatica?
   «Capitano Edison» disse lo Spettro, per verificare la sua reazione.
   «A malapena» rispose l’interessato con voce gutturale. «Mi sento strano... mi sento diverso...» mormorò, tastandosi il testone gonfio.
   «Ma la sua missione è invariata» lo richiamò al dovere Jack. «Deve assumere il controllo dello Sciame, ricorda?». Nel parlare indicò la sedia di guida.
   «Sì... lo Sciame...» borbottò Edison, trasognato. Andò verso la sedia, accompagnato e quasi sorretto da Le e Wolff. Una volta lì, sedette pesantemente con le mani sui braccioli. Subito gli strumenti del sedile si attivarono, dai lettori di DNA all’interfaccia neurale.
   «L’ora della verità» si disse lo Spettro. Se avevano rovinato la vita di quel pover’uomo per niente...
   «Identità confermata. Bentornato, Commodoro Ghul; i comandi sono operativi» disse il computer, mentre gli oloschermi si attivavano tutt’intorno al seggio. Dai corsari salì un sospiro di sollievo.
   «Bene, voglio il controllo diretto dello Sciame» ordinò Edison. Fu prontamente accontentato: i comandi erano davanti a lui, così intuitivi che poteva usarli senza difficoltà. «Dunque... il piano era portar via lo Sciame...» borbottò.
   «Quello era prima che vedessimo le navi in costruzione» avvertì lo Spettro. «Sono classe Moloch, la più potente che ci sia. Io credo che dovremmo distruggerle, finché possiamo».
   «Questo non distruggerà anche la Forgia?» si allarmò il Comandante Le.
   «Sì, ma possiamo teletrasportarci sulla Stella all’ultimo momento» disse Jack.
   «Assurdo, il Capitano non può...» cominciò Le, accennando al superiore.
   «... non può astenersi dall’andare fino in fondo» lo interruppe Edison. «Ho cominciato questa cosa e devo portarla a termine. Voi però potete già risalire».
   «Ma non vogliamo abbandonarla!» esclamò Wolff, commossa.
   «Allora ve lo ordino. Tornate sulla Stella, mentre io penso ai cantieri» comandò Edison.
   «Potremmo andare invece sulla Franklin, per riconquistarla» propose Le, notandola sullo schermo. I Pacificatori l’avevano attraccata a un molo, ma ora che infuriava la battaglia la stavano sganciando, presumibilmente per usarla contro la Stella. In condizioni normali, la vecchia nave federale non avrebbe avuto scampo contro la moderna nave corsara. Ma finché la Stella doveva tenere gli scudi abbassati, anche gli antiquati siluri spaziali potevano nuocerle seriamente.
   «D’accordo, fatelo» cedette Edison. «Intanto io metto a frutto lo Sciame. Ah!». Guidate dal segnale subspaziale, le Api si diressero compatte contro i cantieri. Qui gli allarmi erano suonati da un pezzo, tanto che i tecnici avevano completato l’evacuazione. I grossi scafi squadrati dei Moloch erano inerti. Decine di Api s’infilarono nell’apertura di uno scafo, non ancora completato, impattando contro la struttura interna. Essendo imbottite di siluri quantici, esplosero con una potenza formidabile. Il colossale vascello cominciò a disintegrarsi dall’interno.
   «Fuori uno, ne restano... diciannove» sogghignò Edison, contando i Moloch superstiti. Mentre il primo era ancora squassato dalle esplosioni, diresse un’altra porzione dello Sciame contro il successivo.
   «Stella a Spettro, che state facendo? Siete impazziti?!» chiese Graush al comunicatore. «Il piano era portarci via lo Sciame, non consumarlo qui dentro!».
   «Ci sono troppe complicazioni, ho dovuto cambiare il piano» rispose sbrigativamente Jack. Nella situazione concitata, non gli andava di affrontare un dibattito col sottoposto.
   «Ma capo, quelle Api ci servono per tornare in pista! Erano il nostro tornaconto, ce l’avevi promesso!» insisté il Letheano.
   «Senza questa sedia di guida è impossibile mantenere il controllo dello Sciame. E poi dobbiamo distruggere quei Moloch» si giustificò lo Spettro.
   «Al diavolo i Moloch! I Pacificatori non smetteranno mai di costruirne! Sii realista, capo...».
   «Stammi a sentire, Graush!» si spazientì Jack. «Sai quanto me che in battaglia le cose cambiano in un lampo. Portarci via lo Sciame purtroppo s’è rivelato impossibile, quindi lo useremo per assestare un duro colpo ai Pacificatori, proprio qui. Sono stato chiaro?!».
   «Sì, capo» brontolò il Letheano, contrariato. «Ordini?».
   «Trasferiteci sulla Franklin, così cercheremo di tenerci almeno quella. Tutti tranne Edison e me» ordinò lo Spettro. In tal modo si sobbarcava il rischio maggiore: sarebbe rimasto a difendere il Capitano fino all’ultimo, mentre la stazione gli esplodeva intorno.
   «Tranne Edison e me» obiettò la Banshee. «Con la mia arma sonica posso tenere alla larga gli intrusi. E poi tu devi tornare sulla Stella quanto prima».
   Jack esitò, sia perché non voleva farla rischiare tanto, sia perché aveva appena contrariato il suo equipaggio e non voleva acuire i malumori, cedendo invece alle richieste della sua compagna. Tuttavia le necessità tattiche, in quel momento, sopravanzavano ogni altra considerazione. «E va bene, resta qui» decise. «Spettro a Stella, energia».
 
   Il Dorvic stazionava ancora a poca distanza dalla Forgia, aspettando il momento d’entrare in azione. L’attesa terminò quando i sensori captarono picchi energetici dall’interno, compatibili con fuoco di disgregatori ed esplosioni.
   «È confermato, la battaglia è in corso» disse l’addetto ai sensori.
   «Allora entriamo in azione» ordinò Garid. «Usciamo dall’occultamento e attacchiamo il guscio, per facilitare l’uscita dei corsari».
   Il Dorvic si rese visibile e attaccò la Forgia, eseguendo rapidi sorvoli. Ad ogni passaggio colpiva un punto del guscio, per poi ritirarsi prima di subire il contrattacco. Ben presto, però, fu chiaro che la strategia non funzionava. Sebbene i corsari presidiassero il centro di comando, gli scudi esterni della Forgia erano ancora attivi, così come le difese. Phaser e siluri bersagliarono il Dorvic, che per quanto agile e veloce non riuscì sempre a schivarli. Ben presto gli Hirogeni furono costretti ad allontanarsi, prima che la loro nave fosse compromessa.
   «Qualcosa è andato storto» commentò Garid.
   «Allora che facciamo?» chiese un Cacciatore.
   «Manteniamo la posizione» decise il Beta a malincuore. «Nella nostra situazione possiamo solo aspettare e sperare che là dentro qualcosa si sblocchi».
 
   All’interno della Forgia divampavano esplosioni sempre più catastrofiche. Dal centro di comando, Edison – o ciò che ne restava – scagliava lo Sciame contro i Moloch. Le piccole Api s’infilavano negli interstizi degli scafi incompiuti, detonando all’impatto con il loro carico di siluri. Esplosioni a catena divoravano i vascelli dall’interno, lasciando solo le porzioni di scafo già ricoperte dal neutronio. I cantieri stessi erano presi di mira, così che non tornassero mai più in funzione. Le esplosioni si propagavano lungo gli anelli abitativi, da cui ormai i prigionieri erano stati tratti in salvo. E arrivavano a lambire il settore centrale, in cui si trovava la plancia stessa. Naturalmente Edison cercava di non autodistruggersi prima di aver terminato il suo compito; ma nel caos generale era sempre più difficile prevedere quale sarebbe stata la prossima sezione ad andare in pezzi.
   In quel marasma, la Stella del Polo era costretta a muoversi in uno spazio ristretto, bersagliata dai detriti. E lo stesso accadeva alla Franklin, da quando aveva lasciato l’attracco. I Pacificatori volevano usarla per attaccare i corsari, ma non avevano dimestichezza con i suoi comandi. E non avevano realizzato quant’erano vulnerabili, dato che la vecchia astronave non possedeva scudi. Lo Spettro e la sua squadra si materializzarono in plancia, attaccando all’istante. Dopo una breve sparatoria, ne ripresero il controllo. Tutti i Pacificatori erano a terra, uccisi o storditi; ma anche di corsari ne restavano pochi in piedi. Fra loro, oltre allo Spettro, c’erano Le e Wolff, i veterani della Franklin.
   «Dannazione, gli ingegneri hanno disattivato la propulsione a curvatura!» imprecò Le, non appena ebbe verificato lo status della nave. «Non riusciremo a portarla via da qui».
   «E ci sono ancora quarantasette Pacificatori a bordo; possono contrattaccare in ogni momento» aggiunse Wolff, consultando i sensori interni.
   «Se la situazione qui è insostenibile, torniamo sulla Stella» disse lo Spettro, ansioso di riprendere il comando della sua nave. Non voleva che la ciurma si facesse venire strane idee, in sua assenza.
   «E abbandonare la Franklin in mano al nemico?!» protestò Le.
   «Hai appena detto che non riusciremo a portarla via» notò Jack. «Del resto, non credo resisterà all’esplosione della Forgia».
   «Se la nostra nave è condannata, allora usiamola per liberare la tua» propose il Tenente Wolff, accennando al guscio della stazione, che gli Hirogeni non erano riusciti a perforare. Scambiò un’occhiata d’intesa con Le, poi si rivolse di nuovo ai corsari. «Tornate sulla Stella; vi raggiungiamo appena pronti» aggiunse.
   «Ne siete sicuri?» chiese lo Spettro, intuendo che probabilmente era un addio.
   «Ormai siamo fuori tempo» confermò Le. «Così almeno faremo qualcosa di buono, come il nostro Capitano».
   «Spero ancora di rivedervi sulla Stella. Terremo i sensori su di voi; chiamate quando sarà il momento» raccomandò Jack. Ciò detto si fece riportare a bordo, assieme ai suoi corsari.
   «Allora, pronta all’ultimo viaggio?» sospirò Le, rivolto alla collega.
   «Pronta» disse lei, andando al timone. «Rotta impostata, attivo i motori a impulso». L’accensione improvvisa fece tremare la Franklin. Ignorando gli allarmi di prossimità, Wolff diresse l’astronave dritta contro il guscio della Forgia. La corazza ablativa era così resistente che nemmeno i siluri spaziali l’avrebbero perforata; ma l’esplosione di un nucleo di curvatura l’avrebbe fatto eccome.
 
   Il centro di comando della Forgia tremava costantemente, man mano che le esplosioni divoravano la stazione. Il salone era in gran parte immerso nelle tenebre. Solo qua e là qualche faretto dell’Allarme Rosso lampeggiava ancora, gettando una luce sanguigna sulle consolle sventrate e i corpi riversi a terra. Sulla sedia di guida, Edison era tutto concentrato nella sua opera distruttrice. Il Capitano dirigeva lo Sciame contro i bersagli, secondo schemi complessi che solo il suo cervello alterato dal trasferitore riusciva a calcolare.
   Intanto la Banshee sorvegliava la plancia, accertandosi che i Pacificatori non tentassero di riconquistarla in extremis. La corsara percorreva il salone, talvolta rivoltando col piede i corpi dei Pacificatori per accertarsi che fossero fuori combattimento. Ogni tanto dava una fugace occhiata allo schermo, la sua finestra sulla battaglia. A un tratto la postazione sensori e comunicazioni si attivò. C’era una chiamata in corso, nientemeno che dagli uffici presidenziali sulla Terra. Che fosse Rangda in persona, ansiosa di conoscere i progressi dei lavori? L’occasione era troppo ghiotta: Jaylah andò alla consolle e aprì il canale.
   Lo schermo principale sfrigolò, mentre i sistemi automatici ripulivano il segnale subspaziale, disturbato dalla battaglia. Infine l’immagine si stabilizzò. Era proprio Rangda, la dittatrice che aveva gettato l’Unione nel baratro della Guerra Civile. Sebbene la combattesse da anni, da prima ancora della guerra, era la prima volta che la mezza Andoriana aveva l’occasione di parlarle direttamente. Si era chiesta tante volte cosa le avrebbe detto, se mai si fosse presentata l’occasione; ma ora che il momento era arrivato, fu la contingenza a dettare le parole. «La sua macchina da guerra s’è inceppata, dittatrice. Questa installazione non le appartiene più. Ne abbiamo preso possesso in nome della Federazione e la distruggeremo con l’arsenale che contiene» annunciò.
   Il viso grinzoso della Zakdorn si contrasse in una smorfia d’assoluto disprezzo. «È esattamente quello che mi aspettavo da te, cara Jaylah... posso chiamarti così? Tanto ormai la tua identità non è più un segreto. L’Esecutore me la confidò dopo averti catturata» disse, ricordandole la sua peggior sconfitta. «Quindi puoi anche levarti quel casco ridicolo; tanto non spaventi nessuno» aggiunse.
   A quelle parole, la corsara passò dietro uno dei pannelli divisori del centro di comando. Il pannello era trasparente, ma proprio al centro c’era una raggiera di crepe simile a una ragnatela, là dove l’esplosione iniziale lo aveva danneggiato. La mezza Andoriana si fermò lì dietro e solo allora fece rientrare il casco nella tuta, rivelando il proprio volto. Le crepe frantumarono la sua immagine in decine di riflessi, tutti che fissavano Rangda con sguardo glaciale. «La Banshee può essere molte persone diverse. E io ho avuto molte identità, oltre a quella di Banshee. Una o l’altra arriverà fino a lei; e allora sarà la sua fine» minacciò.
   «Non ci credi nemmeno tu» rispose la Presidente, per nulla intimorita. «Sei solo una sciocca ragazzotta che gioca a travestirsi. I ribelli ti hanno dato delle armi, ti hanno indottrinata con la loro ideologia, e così ci hai preso gusto a uccidere. Non sei la prima, né l’ultima. Quando ti farai ammazzare, ti rimpiazzeranno con un’altra. Ma il loro tempo verrà presto. Non credere che la perdita della Forgia sia un grosso inciampo, per me. Presto porrò fine alla vostra capacità di delinquere».
   Mentre Rangda parlava, il Comandante Vulok – stordito dalla prima esplosione – cominciò a riaversi. Il Vulcaniano era imbrattato del suo sangue verde e provava dolori atroci in più punti. A un primo auto-esame giudicò di avere parecchie ossa rotte, forse anche la spina dorsale lesionata. Ma non emise un solo lamento. Socchiuse le palpebre, scorgendo la Banshee che gli dava le spalle ed era distratta dal confronto. Era un’occasione da non perdere: se avesse ucciso la Ricercata Numero 1 sotto gli occhi della Presidente, la sua carriera ne avrebbe notevolmente beneficiato. Per sua sfortuna il Comandante non era armato, perché l’attacco dei corsari era stato improvviso e inaspettato; ma a pochi metri da lui giaceva l’Ufficiale Tattico, con il phaser ancora stretto nel pugno. Obbedendo alla logica, Vulok prese a strisciare verso di lui, il più silenziosamente possibile. Al tempo stesso usò una tecnica di meditazione per escludere il dolore delle sue ferite. Rangda lo notò, ma stette bene attenta a non tradire la sua mossa, sperando che avesse successo. Giunto abbastanza vicino, il Vulcaniano protese il braccio, arrivando a sfiorare il phaser...
   «Ci ha sempre sottovalutati, e continua a farlo» ribatté Jaylah. «Quel che non capisce è che, per ogni schiavo che striscia ai suoi piedi...» così dicendo si voltò di scatto e freddò Vulok «c’è una persona libera che si oppone al suo regime» concluse, tornando a fronteggiare la dittatrice. Per quanto i pensieri del Vulcaniano fossero scevri d’emotività, la telepate li aveva percepiti; e ancora una volta aveva dimostrato chi era la più veloce.
   La Zakdorn serrò la mascella, delusa, ma non commentò nemmeno l’accaduto. Preferì invece continuare la discussione, come se niente fosse. «Per ogni psicopatico che vi segue ci sono cento, mille persone sane di mente che credono in me» ritorse. «Sai qual era la mia percentuale di consensi, prima che scoppiasse la guerra? Il 72%. Adesso, dopo due anni e mezzo di carneficine, è salita al 97%. Quindi voglio ringraziare te e tutti i ribelli, per l’enorme favore che mi avete fatto. Senza i vostri sforzi, non avrei mai ottenuto così tanto amore e fiducia da parte degli elettori!».
   Ciò detto, Rangda rise di gusto e chiuse la comunicazione. Jaylah, invece, rimase a rodersi tra le ombre della plancia. La dittatrice aveva ragione: più la combattevano, più la rafforzavano nei consensi; e non c’era nulla che potesse fermare questo circolo vizioso.
 
   Quando i Pacificatori irruppero sulla plancia della Franklin, coi fucili phaser spianati, i due Umani non opposero resistenza. Tuttavia non lasciarono neanche la postazione del timone. Si limitarono a guardare i nuovi arrivati con distacco.
   «Arrendetevi, la nave è di nuovo nostra!» gridò il caposquadra.
   «La Franklin non è più di nessuno» ribatté il Comandante Le. «Questo è il suo ultimo volo, e voi non potete fermarla».
   I Pacificatori guardarono oltre gli Umani, scorgendo la tremenda realtà sullo schermo. La Franklin era lanciata contro il guscio della Forgia: l’impatto era imminente.
   «È finita anche per voi... abbiamo attivato gli inibitori di teletrasporto!» esclamò il caposquadra. Ciò comportava l’impossibilità, per i due Umani, di farsi trarre in salvo dalla Stella. Con quell’avvertimento, il Pacificatore sperava d’indurli a fermarsi prima dell’impatto; ma aveva sottovalutato la loro determinazione.
   «Cosa non si fa per la propria gente» disse il Tenente Wolff, manifestando la volontà di andare fino in fondo. I due Umani si abbracciarono stretti, senza guardare la muraglia sempre più vicina sullo schermo. I Pacificatori li fissarono allibiti, consapevoli che non c’era tempo per cambiare rotta, né per disattivare gli inibitori e teletrasportarsi via da lì.
   L’attimo dopo, la Franklin impattò come un ariete contro la corazza ablativa che rivestiva la Forgia. Dapprima il suo scafo si accartocciò contro le durissime leghe del XXVI secolo. Ma quando il nucleo di curvatura esplose, vaporizzando la nave con tutto il suo contenuto, anche il guscio fu squarciato. Le fiamme eruppero sulla superficie esterna, venendo rapidamente risucchiate nel vuoto. E non era finita. La Forgia, infatti, era tutta piena d’aria; non appena il guscio fu infranto questa fuoriuscì dalla falla, come l’acqua da una boccia per pesci. In tal modo si creò una corrente d’aria violentissima, che trascinava con sé gli innumerevoli detriti delle esplosioni interne, disperdendoli nello spazio.
   Dalla loro posizione discosta, gli Hirogeni videro tutto: prima l’esplosione, poi il flusso di rottami trascinati via dall’aria in fuga. «Non erano siluri. Solo l’esplosione di un’astronave può avere quell’effetto» commentò l’addetto ai sensori.
   «Già, ma quale è stata distrutta: la Franklin o la Stella?» chiese l’Ufficiale Tattico.
   «Lo scopriremo subito. Timoniere, avanti tutta!» ordinò Garid, più in ansia che mai per la sorte di sua moglie. La nave dei Cacciatori si accostò di nuovo alla Forgia, schivando i colpi ormai erratici e intermittenti delle difese automatiche. Tutto era pronto per l’ultimo atto di quella feroce battaglia.
 
   «Sei ancora con me?» chiese Edison, distraendosi momentaneamente dal suo compito.
   «Sì» mormorò la Banshee, accostandosi a lui. Dopo il confronto con Rangda aveva ancora il viso scoperto. «Hai distrutto i Moloch?» volle sapere.
   «Dal primo all’ultimo» confermò il Capitano. «Ma se mi fermo ora, i Pacificatori ricostruiranno i cantieri. Devo distruggere completamente la Forgia. Così eliminerò anche quell’infernale trasferitore bio-energetico. Nessun altro deve subire... questo» disse, passandosi la mano sul volto deturpato.
   «Ti restano abbastanza Api?» chiese Jaylah.
   «Sì, gran parte dello Sciame è ancora integra» confermò Edison, accennando a uno degli oloschermi, che riportava il numero delle Api. Delle 245.000 che componevano inizialmente lo Sciame, ne restavano ben 200.000. «Sto impostando lo schema d’attacco. Le Api continueranno a colpire anche dopo che questa plancia sarà distrutta, finché della Forgia non resterà nulla. Ma tu devi andartene ora!» esortò.
   «Sì, con te» precisò la mezza Andoriana.
   «No, io resto qui» rispose inaspettatamente il Capitano, continuando a istruire lo Sciame.
   «Sei impazzito?! Lo sai che non c’è scampo!».
   «Sono esiliato in un’epoca non mia, che non riuscirei nemmeno a capire. Il mio mondo, tutto ciò che amavo... non ci sono più. Preferisco andarmene facendo la differenza, piuttosto che spegnermi lentamente» rispose Edison. «E poi, preferisco morire da uomo piuttosto che vivere da alieno».
   Quell’affermazione urtò la mezza Andoriana, che era sempre vissuta a cavallo fra due mondi. Ma considerando cos’era successo allo sventurato Capitano, decise di non entrare nel merito. «Forse possiamo restituirti il tuo aspetto...» tentò, non volendo abbandonarlo.
   «L’unico modo sarebbe farmi prosciugare a morte qualche essere umano. Niente da fare!» rifiutò Edison, restando testardamente seduto. «Vattene, finché sei in tempo!».
   «Ma puoi ancora...».
   «Sparisci, maledetta cocciuta, o ti uccido con le mie mani!» minacciò il Capitano, impugnando il phaser. Nel suo stato mentale alterato, c’era il rischio che gli sfuggisse davvero un colpo.
   Davanti a quella determinazione, Jaylah capì che era inutile insistere. Avrebbe rispettato la sua scelta, anche se non la condivideva. «Addio, Capitano Edison, e grazie per quanto ha fatto. Non la dimenticheremo» promise.
   In quella la Forgia prese a scuotersi con inusitata violenza: lo Sciame aveva iniziato l’attacco finale alle strutture portanti. Uno sguardo alle consolle confermò che i Pacificatori superstiti stavano fuggendo con navette e capsule di salvataggio. Era proprio tempo di andare. «Banshee a Stella, riprendetemi a bordo».
   Il bagliore del teletrasporto la avvolse... e svanì, lasciandola dov’era, sulla stazione condannata. «Beh, che succede?!» chiese Jaylah, pur intuendo la spiegazione.
   «Abbiamo dei problemi ad agganciarti» rispose lo Spettro, con voce tesa. «Tutte queste esplosioni e radiazioni interferiscono col teletrasporto. Resta immobile, ci stiamo accostando».
   La mezza Andoriana non poté far altro che seguire la raccomandazione. Restò ferma in mezzo alla plancia, osservando l’agonia della Forgia dallo schermo principale. I mille tentacoli dello Sciame trapassavano gli anelli abitativi ormai deserti, spezzandoli, e colpivano la sezione centrale. Le esplosioni erano ovunque, mentre l’aria continuava a uscire dalla falla nel guscio, trascinandosi dietro un’incalcolabile quantità di detriti. Finalmente la Stella del Polo entrò nel campo visivo. Lo scafo era un poco graffiato dalle collisioni, ma nel complesso sembrava operativa.
   Jaylah diede un’ultima occhiata a Edison, ancora assiso sulla sedia di guida, malgrado gli scossoni violentissimi.
   «Fatemi un favore, vincete questa dannata guerra e restituiteci la Terra» pregò l’Umano.
   «Lo faremo» promise la mezza Andoriana, sebbene non potesse in alcun modo garantire il successo. L’attimo dopo il raggio del teletrasporto tornò ad avvolgerla e il centro di comando si dissolse attorno a lei.
 
   La plancia della Stella era in fermento, ma il ritorno della Banshee fu comunque salutato da molti. «Stai bene?» chiese Jack appena la vide.
   «Io sì... ma Edison ha scelto di rimanere» rispose Jaylah, guardando con rimpianto la sezione centrale della Forgia, ormai avvolta da fiamme ed esplosioni.
   «Lo temevo» si adombrò l’Umano. «E va bene; i prigionieri sono a bordo, non ci resta nulla da fare qui. Usciamo da questa trappola, prima che salti in aria!».
   «Dovevamo andarcene con lo Sciame, invece di sprecarlo così!» borbottò Skal’nak. Parecchi altri corsari manifestarono il loro assenso.
   «Sfortunatamente non è stato possibile» ribatté lo Spettro, fulminandoli con lo sguardo. «Sono gli incerti del mestiere. Svelti, leviamoci di torno, ho detto!».
   La Stella manovrò per girarsi, in mezzo alle esplosioni sempre più grandi. Almeno i corsari poterono finalmente alzare gli scudi, proteggendosi da ulteriori danni. L’astronave tremò mentre i detriti rimbalzavano sugli schermi protettivi. In plancia, Vitani si accostò a Jaylah. «Sapevo che sareste tornati a salvarci! Grazie di cuore... siamo in debito con voi» riconobbe.
   «Aspetta a ringraziarci» disse la mezza Andoriana, ancora tesa. «Prima bisogna vedere se usciremo da qui».
   Compiuta la manovra, la nave corsara si diresse verso lo squarcio nel guscio. Le sue dimensioni erano appena sufficienti a farla passare. Le stelle brillavano attraverso la fenditura, come una promessa di libertà.
   «L’esplosione della Forgia è imminente!» gridò Siall, sovrastando le voci dei colleghi.
   «Entriamo in curvatura, adesso!» ordinò lo Spettro, consapevole che la sua nave non avrebbe resistito.
 
   L’esplosione della Forgia fu l’evento più distruttivo che avesse mai turbato quell’angolo della Galassia. Quando il nucleo primario cedette, materia e antimateria si scontrarono, annichilendosi con inusitata violenza. L’immensa stazione lampeggiò ed esplose come una supernova, diffondendo radiazioni letali. Quei pochi detriti che non furono disintegrati vennero scagliati in tutte le direzioni, disperdendosi nello spazio. L’onda d’urto subspaziale travolse il Dorvic, scagliandolo a grande distanza. Ancora peggio andò alle navicelle e capsule dei Pacificatori: molte furono distrutte o messe fuori uso.
   «Rapporto danni!» ordinò Garid. Il Beta era ruzzolato giù dalla poltrona di comando e si stava rialzando, un po’ dolorante.
   «Abbiamo perso gli scudi, ma l’integrità strutturale è nei limiti di sicurezza» rispose l’Ufficiale Tattico.
   «Motori operativi, stiamo tornando in assetto» aggiunse il timoniere, recuperando il controllo della nave.
   «Che ne è della Forgia?» chiese ancora il Beta.
   «Completamente distrutta».
   «E... la Stella del Polo?» domandò Garid con un fremito.
   «Non ce n’è traccia» rispose mestamente l’addetto ai sensori. «Con tutte quelle interferenze, non so dire se siano riusciti a balzare in curvatura».
   «Lo sapremo presto. Rotta per il punto di rendez-vous» ordinò Garid, tornando a sedersi sulla poltroncina.
   «Prima potremmo vendicarci dei Pacificatori!» ringhiò l’Ufficiale Tattico, accennando alle navette e capsule in fuga.
   «Sarebbe inutile» sospirò il Beta. «E poi, guardate là».
   La Rukh, il vascello di scorta che i corsari avevano indotto a lasciare la stazione per ispezionare Altamid, era già di ritorno. Forse i suoi sensori avevano captato l’esplosione della Forgia, malgrado le forti interferenze della nebulosa, inducendolo a tornare precipitosamente. Comunque fosse, l’astronave emerse dalle volute della Necro Cloud, accostandosi al punto dell’esplosione. Le navette e capsule dei Pacificatori vi si accostarono, così che i superstiti potessero salire a bordo.
   «Non accennano a inseguirci. Stanno soccorrendo i sopravvissuti» confermò l’addetto ai sensori.
   «Allora è il momento di andarcene» comprese Garid. «Ripristinate l’occultamento. Rotta verso il punto d’incontro, e badate a mascherare la traccia di curvatura!» raccomandò.
   Resosi invisibile, il Dorvic fece manovra e balzò a curvatura. Nessuno, a bordo, sapeva se all’arrivo avrebbero trovato la Stella del Polo. Forse la nave corsara sarebbe stata lì ad attenderli, col suo carico di prigionieri liberati, tra cui Vitani. Ma c’era anche la possibilità che il vascello non fosse sfuggito in tempo alla morsa devastatrice dell’esplosione. In tal caso, solo i Cacciatori erano testimoni della sua ultima, disperata battaglia. E ne avrebbero diffuso la leggenda, affinché il ricordo di quel pugno d’eroi brillasse come un faro di speranza in una Galassia sempre più buia...
 

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Capitolo 5
*** Nemici dell'Unione ***


-Capitolo 4: Nemici dell’Unione
Data Stellare 2593.292
Luogo: Stratos, capitale di Ardana
 
   La Guerra Civile imperversava ormai da tre anni, esigendo un tributo di sangue sempre maggiore nei mondi che toccava. Ormai non c’era più spazio per la neutralità: chiunque non appoggiasse il regime di Rangda era considerato suo nemico. Dunque i pianeti federali che inizialmente si erano dichiarati neutrali erano costretti a schierarsi con i Pacificatori, man mano che questi avanzavano. Ovunque ciò accadeva, la vita degli abitanti ne era stravolta. Le denunce anonime e la Polizia del Pensiero facevano sì che nessuno potesse fidarsi, né del prossimo, né di se stesso. La punizione poteva colpire chiunque, in qualunque momento e per i motivi più futili. Eppure in certi angoli di spazio c’erano ancora dei mondi che, a prima vista, sembravano immuni al conflitto. Uno di questi era Ardana, sede di una delle meraviglie federali: la città volante di Stratos.
   Era un trionfo della tecnica risalente a ben quattro secoli prima, ma costantemente aggiornata per accrescerne la sicurezza e ampliata per ospitare nuovi residenti. La base quadrata conteneva un potente generatore antigravitazionale che la teneva sospesa a oltre mille metri di quota. I giroscopi la mantenevano in assetto, impedendo al vento di farla oscillare. Questo basamento era spesso avvolto da nubi di condensa, dando l’impressione che la città galleggiasse su una nuvola. Sopra di esso si levavano avveniristici grattacieli. Le loro vetrate scintillavano alla luce del sole che, essendo di tipo K, era arancione. Tutta l’atmosfera del pianeta in effetti aveva una spiccata tonalità arancio, che tingeva anche la superficie brulla, percorsa da rari fiumi. In contrasto, i grattacieli di Stratos ospitavano giardini verdeggianti sui tetti e sulle balconate. Mai l’appellativo di “giardini pensili” era stato più appropriato, poiché questi fluttuavano con tutta la città al di sopra delle nubi.
   Tra un edificio e l’altro Stratos era vasta e ariosa, con grandi terrazze e vie pedonali che permettevano ai visitatori di osservare il panorama mozzafiato. Poiché la città prosperava con il turismo, le attrattive erano numerose: gallerie d’arte, esposizioni d’alta moda, centri benessere e sale ologrammi all’ultimo grido. L’arte in particolare era assai rinomata dagli Ardaniani: anche quelli che non la praticavano di mestiere spesso vi si dedicavano per svago. Come risultato, Stratos era divenuta nel tempo una grande esposizione all’aperto, con statue – solitamente astratte – che adornavano gli spazi pubblici. L’altra grande passione degli abitanti, la moda, era anch’essa sotto gli occhi di tutti. Gli uomini indossavano abiti lunghi in tinte pastello, mentre le donne avevano completi appariscenti e, se l’età e l’avvenenza lo consentivano, alquanto succinti. Le più aristocratiche portavano enormi ed elaborati orecchini, oltre a uno strascico che aleggiava dietro di loro ad ogni passo. Va detto però che Stratos era poco più di una vetrina: la grande maggioranza degli Ardaniani viveva a terra, in città assai meno eleganti e con un tenore di vita più basso.
   Era ormai il tramonto e il cielo si era fatto ancor più arancione. A quell’ora, complice l’altitudine, l’aria si rinfrescava; tuttavia non diventava mai gelida, poiché Stratos si trovava all’equatore. I turisti tornavano agli alberghi, salvo quelli che volevano godersi i divertimenti notturni. Tra questi il più apprezzato era certamente il Club Droxine, la principale discoteca. Già ora la musica promanava dall’edificio, attirando i visitatori. Gli Ardaniani facevano di tutto per far scordare il conflitto in corso; solo il detector e le guardie all’entrata testimoniavano come anche lì bisognasse rispettare alcune essenziali norme di sicurezza.
 
    Le luci stroboscopiche della discoteca disegnavano i contorni delle spogliarelliste che si dimenavano sulle pedane levitanti. Qua e là grosse bolle d’acqua erano tenute sospese in assenza di gravità, per rifrangere le luci in modi sempre mutevoli. A terra si agitava la masnada degli avventori, appartenenti a molte specie dell’Unione e anche ad alcune estere.
   «Non mi piace questa musica. Cambiatela» ordinò C’Rerr. Il grasso Caitiano era il leader di una cellula della Catena Cremisi, l’organizzazione nata per liberare la Terra e altri mondi occupati, ma rapidamente degenerata in banda criminale. Il suo ordine fu eseguito all’istante. Non poteva andare diversamente: il locale era suo. L’aveva comprato – tramite un prestanome – dopo averlo visitato una serata, perché gli era piaciuto. Adesso ci andava spesso, per combinare affari o semplicemente per svagarsi. Il malavitoso sedeva al solito tavolo appartato, da cui poteva osservare gran parte del locale, ed era circondato dai suoi scagnozzi. Teneva a portata di mano alcune gabbiette piene di uccellini, nel caso volesse farsi uno spuntino. Osservò pigramente le ballerine, chiedendosi se chiamarne qualcuna presso di sé. Ormai conosceva la maggior parte di loro. Decise di no; quella sera era lì per affari e non voleva distrazioni.
   «Salve, bel micione. Mi stavi aspettando... che galante!» disse una calda voce femminile. Un’Orioniana scarsamente vestita si adagiò sulla sedia davanti a lui, accavallando le gambe. Già questo sarebbe bastato per attirare l’attenzione di C’Rerr. Ma quella davanti a lui non era un’Orioniana qualunque: si trattava di una potenziale socia in affari.
   Era uno schianto, inutile negarlo. I capelli neri, lunghi e fluenti, erano striati di meches bionde che contrastavano con la pelle verde smeraldo. Le labbra piene erano di un rosso scuro, quasi nero, al pari delle unghie ad artiglio. Quanto all’abito color acquamarina, era nello stile dell’aristocrazia di Ardana: due fasce incrociate sul seno e una gonna lunga fino a terra, con tanto di strascico semitrasparente. Le scarpette dal tacco a spillo sembravano di cristallo; l’Orioniana ne fece dondolare una dal piede, mentre scrutava l’interlocutore da sotto le lunghe ciglia. Completavano il quadro una gran quantità di gioielli, tra cui spiccavano gli orecchini monumentali.
   «Lady Zafreen... dal vivo sei ancora più incantevole che in olo-presenza!» gongolò C’Rerr, sentendosi arruffare il pelo sul collo.
   «Non c’è nessuna Zafreen. Era uno pseudonimo che mi sono lasciata alle spalle quando ha smesso d’essermi utile» corresse l’Orioniana. «Io sono Zafira, unica esponente libera del Clan di Goutric. Il che mi rende, a tutti gli effetti, la leader del mio Clan» rivendicò con alterigia.
   «Certo, bellezza... non intendevo offendere!» si scusò il malavitoso, intrigato da quella reazione.
   «La mia padrona Zafira è uno dei membri più influenti del Sindacato di Orione» aggiunse uno scagnozzo dell’Orioniana, in tono servile. Le si affiancò restando in piedi, sebbene vi fossero altre sedie disponibili. C’Rerr gli dette una rapida occhiata. Era un Halanano, come indicavano le orecchie biforcute, e aveva i capelli castani pettinati all’indietro, senza scriminatura. All’opposto della moda sgargiante di Ardana, era vestito come per un funerale. Tutta la sua persona trasudava un’aura viscida e meschina, tanto che il Caitiano fu lieto di non dovergli stringere la mano.
   «Conosco il Sindacato» garantì C’Rerr, in tono rispettoso. «Abbiamo già fatto affari, anche se devo dire che non ti hanno mai nominata».
   «La mia padrona Zafira si è riappropriata solo di recente della sua eredità» rispose l’Halanano, che evidentemente fungeva da portavoce. «Tuttavia le è già stato accordato il posto che fu di suo padre».
   «Sono curioso: in che modo un ex ufficiale di Flotta fa una carriera così fulminante nel Sindacato?» indagò il malavitoso.
   «La mia padrona Zafira non intendere perdere tempo in inutili...» cominciò il servitore, ma l’Orioniana lo zittì con un gesto secco.
   «Taci, Elmer. Il mio nuovo amico ha tutto il diritto di sapere come sono andate le cose» disse Zafira. «Intanto vammi a prendere un drink. Voglio un mai-tai risiano, con una scorza di limone. Agitato, non mescolato!» raccomandò.
   «Sì, padrona» disse Elmer, con un inchino.
   «Ottima scelta, ne prendo uno anch’io» intervenne C’Rerr. «Naturalmente le consumazioni sono gratis per la mia gradita ospite».
   «Sentito? Portane due» fece Zafira.
   «Subito, mia signora» disse Elmer, sempre più servile, e si affrettò al bancone.
   Il Caitiano aveva seguito con divertimento i loro scambi di battute. Si chiese se quell’esagerata sottomissione del tirapiedi si limitasse alle normali mansioni, o si estendesse anche ai momenti più... informali. Ma non osò chiederlo.
   «Allora, in poche parole... non sono mai stata disconosciuta dal mio Clan» spiegò Zafira, rivolgendosi di nuovo all’anfitrione. «Avevo appena diciott’anni quando scappai da casa ed ebbi la malaugurata idea d’arruolarmi nella Flotta Stellare. Papà non si rassegnò al disonore e mi cercò per i dieci anni successivi. Alla fine mi riacciuffò... più o meno».
   «Più o meno?» s’incuriosì C’Rerr.
   «Recuperò il mio corpo, che però al momento ospitava un’altra personalità... un increscioso scambio dovuto a una tecnologia aliena» spiegò l’Orioniana. «Alla fine tornai in me, ma ormai avevamo attirato l’attenzione della Flotta, che fece una retata alla nostra villa... una lunga storia» tagliò corto. «Il succo del discorso è che papy e quasi tutti gli altri furono arrestati e il Clan restò senza una valida guida. Per giunta la nostra bella astronave, la Gemma di Orione, fu rubata da quel pirata buzzurro che si fa chiamare lo Spettro. Io però m’ero stancata di fare la brava ragazza e quindi aspettavo il momento buono per riprendere ciò che mi apparteneva, ora che la concorrenza s’era sfoltita».
   «Perché non l’hai fatto allo scoppio della Guerra Civile?» indagò il Caitiano.
   «C’erano ancora dei dettagli da sistemare» rispose Zafira. «Pensavo di portarmi dietro il mio compagno, dopo essermelo lavorato un po’, ma mi sbagliavo. Quando ho visto che la guerra era persa e che il mio Capitano si faceva sfuggire l’ultima occasione di rimediare, ho capito che era l’ora di svignarmela. Che c’è?!» chiese, notando lo sguardo divertito dell’altro. «Ogni creatura ragionevole abbandona la nave che affonda: è l’istinto di sopravvivenza» si difese.
   «Non ho detto niente. Prego, continua» la invitò C’Rerr.
   «A quel punto sono tornata su Orione e beh... non starò a dirti come ho preso la guida del Clan. Ti basti sapere che noi Orioniani siamo sbrigativi in queste faccende, e ormai non erano rimasti in molti a contendermi il titolo». Per un attimo Zafira ebbe uno sguardo così sinistro che il Caitiano si sentì nuovamente rizzare il pelo.
   «Sì... è decisamente la figlia di Goutric» si disse il malavitoso, pregustando una trattativa interessante.
 
   Recatosi al bancone, Elmer ordinò i due mai-tai alla barista, un’attraente Ellora, e restò in attesa. Quei cocktail richiedevano una lunga preparazione. Nel frattempo tenne d’occhio Zafira, che discuteva con C’Rerr al suo tavolo appartato.
   A un tratto si fece avanti un uomo dall’aria un po’ esitante. «Scusi, vorrei una birra andoriana» disse alla barista, senza guardarla in volto. Teneva il braccio sinistro curiosamente ripiegato contro la spalla, come a nascondere qualcosa.
   «Subito... ehi, aspetti un momento! Che ha lì?!» chiese l’Ellora, facendosi d’un tratto ostile e sospettosa. Il suo braccio guizzò verso quello dell’uomo: lo afferrò e lo costrinse ad abbassarlo. Tutti video allora la H gialla cucita sull’abito. Era il simbolo che, secondo una delle ultime leggi volute da Rangda, tutti gli Umani dovevano esibire sull’abito, onde rivelare la loro “pericolosità sociale” agli alieni che li incrociavano. Senza di quello, infatti, gli Umani erano così simili a tante altre specie che non ci sarebbe stato modo di distinguerli.
   «Human! Lei è un essere umano!» si scandalizzò la barista. Parecchie teste si volsero a quell’esclamazione.
   «Sì, e allora?» fece l’uomo, guardandosi attorno con crescente nervosismo.
   «Questo locale è interdetto a quelli come lei, non sa leggere?» fece l’Ellora, indicando un vistoso avviso olografico che scintillava all’entrata. Diceva: VIETATO L’ACCESSO AGLI ANIMALI E AGLI UMANI.
   «Senta, voglio solo una birra andoriana» mormorò l’uomo, facendosi paonazzo. «Se vuole la consumerò fuori da qui».
   «No senta, lei se ne deve andare subito» insisté la barista, serissima.
   «Ma cosa vuole che sia una birretta... faccia conto di non avermi visto...» mormorò il poveretto.
   «Okay, adesso lei mi sta molestando» disse l’Ellora, con un crescente isterismo nella voce. «Se ne vada subito, o chiamo la polizia».
   «Ha ragione, amico: lasciala stare!» intervenne un grosso Tarlac appoggiato al bancone. Altri avventori manifestarono il loro sostegno alla barista. Trovandosi circondato da individui ostili, molti dei quali più grossi di lui, l’Umano non poté far altro che svicolare, balbettando scuse. Infilò svelto l’uscita e non si fece più vedere.
   «Povera me... stavolta me la sono vista brutta!» mormorò la barista, esalando un sospiro di sollievo. Accortasi che l’Halanano le era vicino e la osservava, proseguì in tono complice: «Questi Umani si fanno sempre più prepotenti. Sarebbe bello se sparissero dalla circolazione, vero?».
   «Come no» rispose Elmer. Eppure c’era qualcosa, nel suo sguardo, che faceva accapponare la pelle. Per un attimo non fu più uno scagnozzo servile, ma un individuo deciso e pericoloso. «I miei cocktail?» chiese.
   «Eccoli... scusi se l’ho fatta aspettare» disse la barista, consegnandogli i due sottili bicchieri con i due strati di bevanda, arancione e verde. C’erano anche gli ombrellini e le scorze di limone, come richiesto.
   «Grazie» disse l’Halanano, e lasciò il bancone.
 
   A pochi passi da lì, seduto – o per meglio dire accasciato – presso un tavolino, Vrel Shil aveva osservato la scena senza intervenire. Il mezzo Xindi aveva la barba incolta e gli occhi cerchiati; da tutta la sua persona emanava un lezzo di alcolici. Sul suo tavolino c’erano parecchie bottiglie mezzo vuote, una persino rovesciata. A vederlo pareva che fosse ubriaco da un mese e che non intendesse smettere. Del resto non c’era nulla di piacevole nel restare sobri, in quei tempi.
   Scenate come quella della barista erano sempre più frequenti sui mondi dell’Unione. Erano la prova lampante del potere che la propaganda aveva sui cittadini. Persone normali, che fino a pochi anni prima trattavano gli Umani alla pari, ora li disprezzavano. Peggio ancora, li maltrattavano e li umiliavano pur avendo l’impressione genuina d’essere loro le vittime. C’era stato un tempo in cui Vrel aveva pensato che questa tendenza perversa potesse essere invertita; che l’Unione sarebbe tornata quella di prima. Ma non era più così ingenuo.
   «Posso portar via?» chiese una cameriera, venendo accanto a lui. Accennò alle bottiglie sul tavolino.
   «Solo quella vuota... non ho ancora finito col resto» biascicò il mezzo Xindi, guardandola con occhi appannati.
   «Come vuole. Chiami, se desidera qualcosa di solido» raccomandò la cameriera. Raccolse la bottiglia rovesciata e la portò via, lasciando quelle che avevano ancora del liquore.
   Vrel ne afferrò una, riuscendoci al secondo tentativo, e prese a tracannarla. Ogni tanto s’interrompeva per guardare con rimpianto Zafreen. La riconosceva bene, grazie al suo abito vistoso; lei invece gli dava le spalle. Vedendola trattare con quel criminale, Vrel si sentì in pena per lei ed ebbe l’impulso di trascinarla via, prima che si mettesse nei guai. Ma non lo fece. Erano finiti i tempi in cui potevano affrontare la Galassia secondo le regole della Flotta Stellare. Ormai dovevano mirare alla sopravvivenza, secondo le loro possibilità. Così il mezzo Xindi rimase al suo tavolino, scolandosi un whisky skagarano di pessima qualità.
 
   «A voi, mia signora» disse Elmer, inchinandosi mentre offriva il mai-tai a Zafira. Dopo di che porse l’altro a C’Rerr, ma stavolta tenne la schiena ben dritta. Infine tornò al fianco della padrona, vigile come un cane da guardia.
   «Ahhh... delizioso» fece il Caitiano, sorbendo il cocktail. Intanto però continuava a mangiarsi Zafira con lo sguardo. «E ora veniamo agli affari. Quando abbiamo parlato in olo-presenza, dicevi d’essere interessata all’acquisto di armi».
   «Sì, dopo la perdita della Gemma e il raid alla villa, il mio Clan deve rinnovare l’arsenale» confermò l’Orioniana. «Parlo di armi da guerra vere e proprie, per astronavi: ho qui un elenco» disse, posando un d-pad sul tavolo.
   C’Rerr allungò una mano a prenderlo e dette una rapida scorsa alla lista. «Siluri quantici e al tricobalto, mine subspaziali, cariche nucleoniche... frell, è roba forte!» commentò, soffiando alla maniera dei felini. «Devi gestire lo spaccio o combattere una guerra?».
   «Suvvia, non ti sto chiedendo nulla che tu non possa procurarmi» lo blandì Zafira, intrecciando le dita e posandovi sopra il mento. «Mi risulta che la Catena Cremisi sia ben fornita d’armi. Avete razziato parecchi depositi della Flotta, a inizio guerra».
   «Sono armi che ci servono per la nostra lotta di liberazione» disse C’Rerr, sebbene non avesse l’aria di un partigiano. «Tu che mi offri in cambio?».
   «La specialità del mio Clan: Rosso altamente raffinato» disse Zafira. Al suo cenno, Elmer trasse di tasca una boccettina colma di liquido scarlatto e la posò sul tavolo.
   Il malavitoso si chinò in avanti a osservarla. Il ketracel rosso, comunemente detto Rosso, era la droga più diffusa nell’Unione. Dava euforia e aggressività, permettendo di sopportare le fatiche e i dolori più tremendi, oltre che di stare a lungo senza dormire. Ma come tutti gli stupefacenti creava assuefazione; e le crisi d’astinenza si traducevano in scoppi di violenza incontenibile. «Cosa ti fa credere che m’interessi?» chiese prudentemente il Caitiano.
   «Ah ah, suvvia, non c’è bisogno di bluffare!» rise Zafira, giocherellando con un lembo dello strascico. «So benissimo che voi della Catena drogate i vostri miliziani, per renderli più ardimentosi. È una delle cose che vi hanno inimicato la Flotta Stellare».
   «Sembri bene informata sulle nostre faccende» ammise C’Rerr, raccogliendo la boccetta per esaminarla.
   «Fino a poco tempo fa ero nella Flotta, quindi sì, conosco molte cose» confermò l’Orioniana. «Questo Rosso può essere somministrato sia per endovena, sia come un collutorio attraverso le mucose degli occhi. Nel secondo caso ovviamente l’effetto è minore. Si conserva per un tempo indefinito a qualunque temperatura sotto i 150º C. Ed è puro al 100%, garantito dal mio Clan. Posso fornirvene diecimila dosi in cambio delle armi che ho chiesto».
   «Sembra... accettabile, come offerta» disse il Caitiano. «Tempi della consegna?».
   «Una settimana, se c’incontriamo ai margini di questo sistema stellare» rispose prontamente Zafira. «Nel frattempo potete analizzare il campione, per verificarne la qualità».
   «Ottimo» disse C’Rerr, continuando a fissarla bramoso mentre giocherellava con la boccetta. «Mi chiedo però se potresti aggiungere un piccolo extra di un’altra merce... sono pronto a rinunciare a qualche centinaio di dosi per averla...».
   «Che genere di merce?» chiese l’Orioniana, irrigidendosi un poco.
   «Qualche schiava di Orione. Possibilmente... che ti somigli!» ghignò il farabutto, mostrando i denti da felino.
   Per qualche secondo nessuno parlò, sebbene non vi fosse certo silenzio, dato che si trovavano nella discoteca. Ma il tavolo dei malavitosi era come isolato dal resto: solo loro erano immobili e concentrati sugli affari, mentre gli altri avventori pensavano a ballare, ridere e ubriacarsi.
   «Il mio Clan è meno dedito di altri alla tratta delle schiave» disse infine Zafira. «Tuttavia penso di poterti procurare un paio di ragazze carine ed esperte. Diciamo che per ciascuna di loro sottrarrò... quattrocento dosi?».
   «Duecento» contrattò C’Rerr.
   «Trecentocinquanta» ribatté Zafira.
   «Duecentocinquanta».
   «Trecento».
   «E trecento sia!» esclamò il Caitiano. «Ma bada che le ragazze siano brave» raccomandò.
   «Contaci, micione» disse l’Orioniana, con un sorriso artefatto dietro a cui poteva celarsi di tutto. «Vedrai che ti piacerà fare affari con me».
   «Oh oh, ci conto!» gongolò il malavitoso. «Certo che sei partita in grande. Voi Orioniani siete incorreggibili, non conoscete le mezze misure. La prossima volta che mi proporrai, una sponsorizzazione? Vorresti che la Catena Cremisi divenisse la Catena Smeraldo?!» ridacchiò, riferendosi al colorito dell’ospite.
   «Non cerco visibilità; mi basta sapere che abbiamo un accordo» rispose diplomaticamente Zafira.
   «Allora brindiamo!» propose il Caitiano. Fece per prendere il suo cocktail, ma notò che lo aveva già finito. Invece di ordinarne un altro, decise di brindare alla maniera della sua gente. Al suo cenno, uno scagnozzo gli avvicinò una gabbietta piena di uccellini, aprendone lo sportello.
   Leccandosi le labbra, C’Rerr ficcò la manona nella gabbia e ci rovistò un poco, finché riuscì ad acchiappare uno dei volatili. Sembrava un canarino, a giudicare dal piumaggio giallo. Appena l’ebbe estratto, il suo tirapiedi richiuse la gabbietta, per impedire agli altri di volar via.
   «Ai buoni affari!» disse solennemente il Caitiano, sollevando la preda stretta nel pugno. Il povero pennuto era strizzato così brutalmente che pigolava di dolore. Solo il suo capino usciva dalle dita grasse del felino, girandosi qua e là come per chiedere aiuto.
   «Agli affari» gli fece eco Zafira, sollevando il suo bicchiere, ancora mezzo pieno.
   C’Rerr fece tintinnare il becco dell’uccellino contro il calice e poi lo ingurgitò in un sol boccone. Si udì un ultimo pigolio disperato, dopo di che il Caitiano si pulì le labbra dalle piume gialle che vi erano rimaste appiccicate. Un piccolo burp soddisfatto salì dal suo ventre grasso.
 
   Seduto al suo posto solitario, Vrel alzava il capo di tanto in tanto, osservando Zafreen che trattava con quel manigoldo. Non osava però guardarli più di un attimo, per timore che il Caitiano se ne accorgesse e mandasse i suoi scagnozzi a mettergli le mani addosso.
   D’un tratto un balenio d’uniformi bianche attirò il suo sguardo. Il mezzo Xindi abbassò la testa sul tavolo, per non farsi riconoscere, e guardò i nuovi arrivati di sottecchi. Erano Pacificatori, non c’era dubbio. Ufficialmente Ardana era ancora neutrale, ma in pratica si comportava come se fosse già stato riannesso dall’Unione, ad esempio implementando le nuove leggi anti-Umane. Quindi non era strano che i Pacificatori passassero di lì. Gli Ardaniani li trattavano con i guanti di velluto, in previsione del giorno – ormai prossimo – in cui la riannessione sarebbe stata formalizzata.
   I Pacificatori, tre in tutto, andarono al bancone. Avevano i phaser agganciati in cintura, come da regolamento, ma non sembravano lì per lavoro. Due erano semplici guardiamarina, mentre il terzo aveva i gradi di Comandante. «Tre birre andoriane!» ordinò quest’ultimo, e fu prontamente servito. Il nervosismo che in un primo momento era serpeggiato tra gli avventori s’attenuò: quei tre erano in licenza, non ce l’avevano con nessuno.
   «Salute alla Forza di Pace!» disse il Tarlac, levando il bicchiere al loro indirizzo. Altri sostenitori si unirono al brindisi.
   «Grazie, grazie» sorrise il graduato. «Sono il Comandante Raymond e vi ringrazio di cuore per il vostro appoggio. Sapete, non è lontano il giorno in cui Ardana tornerà nella grande famiglia dell’Unione. Allora sì che potremo festeggiare!» promise. Lui e i colleghi brindarono, prima di vuotare i bicchieri.
   Dagli avventori salirono versi d’approvazione. I pochi che non erano entusiasti della prospettiva si defilarono silenziosamente. Vrel tuttavia rimase al suo posto. Voleva ascoltare la conversazione, posto che la musica spaccatimpani glielo permettesse.
   «Fate un altro giro, offre la casa!» disse la barista, tornando a riempire i bicchieri. «Sapete, ho tanto desiderato incontrare dei veri Pacificatori! Siete così coraggiosi, così... nobili!» disse, fissando rapita il Comandante.
   «Facciamo solo il nostro lavoro, signorina» disse il Pacificatore, gonfiando il petto d’orgoglio. Vrel lo osservò attentamente, sempre di sottecchi. Il suo cognome, il suo volto... era un Umano. E militava nell’organizzazione che, più di tutte, perseguitava gli Umani. Simili paradossi non erano rari, di quei tempi. Bastava certificare che si era alieni almeno per un quarto ed ecco, anziché stare nel fango si poteva saltare sul carrozzone dei vincitori.
   «Avete partecipato a battaglie importanti?» chiese il Tarlac.
   «I miei colleghi qui hanno appena preso servizio, ma io in effetti ne ho, di storie da raccontare» si vantò Raymond, lieto di avere un uditorio. «Il mio primo scontro importante fu a Memory Alpha, dove insegnammo ai ribelli che significa mettersi contro la democrazia».
   Vrel si morse la lingua e serrò i pugni. Memory Alpha era stato un macello: i Pacificatori avevano teso un agguato alla flotta ribelle – grazie al tradimento di sua sorella Lyra – e l’avevano distrutta. Solo la Keter si era salvata a stento, grazie all’aiuto dei corsari. Era andata meglio nello scontro a terra, dove i ribelli avevano sbaragliato Raymond e la sua squadra. Pur potendo ucciderli, si erano limitati a stordirli. Ma il Pacificatore aveva tralasciato questo dettaglio poco lusinghiero.
   «... ero a Bajor, naturalmente» stava dicendo l’Umano. «Che grande battaglia fu quella! Perdemmo molte navi, ma alla fine liberammo il pianeta. I ribelli fuggirono come ratti, portandosi dietro tutto quel che erano riusciti a rubare. In seguito passai al Fronte Orientale, divenendo Primo Ufficiale della Rukh. Le cose furono in stallo per un po’, ma dopo la Battaglia di Nuovo Romulus abbiamo ripreso l’iniziativa. Poche settimane fa sono stato a Boreth».
   «Wow, e com’è andata?» chiese la barista, sempre più affascinata.
   «Beh, i Klingon sono ostinati, ma alla fine li abbiamo sbaragliati con la nostra superiore strategia» si vantò Raymond. «Per ultimo cadde il monastero. Offrimmo ai monaci la possibilità d’arrendersi, ma sai come sono fatti i Klingon... meglio la morte del disonore!» disse, scimmiottandoli. Un coro di risate accompagnò la sua pantomima.
   «Quando ci siamo teletrasportati – io ero tra i primi – erano tutti morti» concluse il Comandante.
«Avevano compiuto l’hegh’bat, il suicidio rituale».
   «Tutti quanti?» chiese l’Ellora, impressionata.
   «Fino all’ultimo» confermò il Pacificatore. «A quel punto abbiamo deciso di non presidiare il monastero, che non è strategicamente rilevante. Sapete che abbiamo fatto, invece? Lo abbiamo raso al suolo con un bombardamento orbitale. Bum! Quelle vecchie torri sono venute subito giù!» disse, accompagnandosi con un gesto enfatico. «Così abbiamo anche seppellito degnamente i monaci!» aggiunse con un risolino divertito.
   «Non temete la reazione dei Klingon?» chiese il Tarlac, un poco turbato. «In fondo quello era il loro santuario più sacro...».
   «E quindi? Non possiamo tollerare le vecchie superstizioni» ribatté Raymond, facendo spallucce. «Se i Klingon si arrabbiano, tanto meglio! La collera li indurrà a gettarsi allo sbaraglio, facendo ancora più errori, e di questo ci avvantaggeremo noi. Sapete, la presa di Kronos non è lontana, e allora...». A questo punto il Pacificatore si bloccò. Non gli era lecito discutere dei piani di guerra con i civili, tantomeno con dei perfetti sconosciuti.
   «Urrà per i nostri eroi!» esclamò l’Ellora, imitata dagli altri.
   Nel suo cantuccio, Vrel chinò il capo, muovendo appena le labbra in una muta preghiera per i Klingon che si erano tolti la vita. Anche se non condivideva la loro fede nello Sto-vo-kor, il paradiso dei guerrieri, pensò che era sempre meglio dell’implacabile ideologia dei Pacificatori, che compivano un massacro dopo l’altro con il sorriso sulle labbra, illudendosi di creare il paradiso in terra.
   «E tu chi sei?» chiese Raymond. La sua voce si era fatta molto più vicina, assumendo un tono inquisitorio.
   Vrel alzò il capo, trovandosi a fissare il Comandante. Questi si era avvicinato al suo tavolino e ora lo osservava dall’alto in basso, con aria sospettosa. «Io, uhm... sono un ex pilota che è rimasto a terra per via del conflitto» biascicò il mezzo Xindi, cercando di suonare completamente ubriaco. Si chiese se il Pacificatore lo aveva riconosciuto, malgrado il suo aspetto derelitto e gli abiti civili.
   «Ma davvero?» fece Raymond, increspando le labbra sottili. «Molti che non lo meritano sono nelle tue condizioni. E molti altri, che meritano ben di peggio, non sono stati ancora puniti. Vedremo qual è il tuo caso» avvertì, portando la mano al phaser.
 
   Riavutasi dal disgusto per il peculiare “brindisi” del Caitiano, Zafira terminò di sorbire il suo mai-tai e posò il bicchiere, pulendosi educatamente le labbra. Nel frattempo uno degli scagnozzi di C’Rerr si chinò su di lui, mostrandogli un d-pad e mormorandogli qualcosa all’orecchio. Il malavitoso gli strappò di mano il dispositivo e lesse con attenzione. Le sue pupille feline si contrassero, le orecchie si sollevarono e un mugolio irritato gli salì dalla gola.
   «Qualcosa non va, carissimo?» chiese l’Orioniana, con una stretta allo stomaco.
   «Temo che il nostro affare dovrà subire una piccola modifica» confermò il Caitiano. Al suo cenno, quattro scagnozzi circondarono Zafira ed Elmer. Avevano le mani in tasca, pronti a estrarre i piccoli phaser di tipo 1.
   «Indietro, voi!» ammonì l’Halanano. «La mia padrona Zafira...».
   «... è un’abile truffatrice, certo! Ma non controlla affatto il Clan di Goutric» lo gelò C’Rerr. Poi si rivolse all’interessata: «Credevi che non avrei fatto qualche ricerca sul tuo conto, bellezza? La Catena Cremisi ha occhi e orecchie ovunque. Così ho saputo che negli ultimi mesi una sedicente Zafira Goutric ha preso accordi con svariate bande, sempre comprando armi in cambio di ketracel rosso. Ma ogni volta gli hai tirato un bidone, rifilandogli soluzione fisiologica senza proprietà narcotiche. E te la sei filata con le armi».
   Per un attimo l’Orioniana rimase di sasso, ma subito dopo riprese l’atteggiamento disinvolto. «Queste accuse sono assurde. Devi essere incappato nella disinformazione di qualche banda rivale che vuole ostacolarmi» sostenne.
   «Nessun errore, bambolina. C’era la possibilità che quella Zafira fosse un’avventuriera che si spacciava per te, ma il Sindacato stesso mi ha appena informato che i beni rimanenti del tuo Clan sono stati divisi tra le altre famiglie!» ringhiò il Caitiano, alzandosi e sbattendo il d-pad sul tavolo.
   L’Orioniana lo prese e lo lesse rapidamente. Sotto l’emblema giallo-verde del Sindacato c’era un messaggio dei capi-clan, che indicavano come il Clan di Goutric fosse sostanzialmente defunto, essendo i suoi membri morti o in prigione. E poiché l’unica erede – cioè lei – non si era fatta avanti a reclamarne la guida, le sue sostanze erano state spartite tra gli altri, secondo le regole del Sindacato. «Oh, beh... non c’era molto che mi stesse a cuore, nella vecchia villa» si disse, anche se un po’ le dispiaceva: era pur sempre il luogo in cui era cresciuta.
   «Ora, posso solo immaginare cosa ti abbia spinta a imbastire questa messinscena» disse C’Rerr, in tono basso e ringhioso. «Forse ti sei pentita di aver rinunciato all’eredità, e stai cercando di procurarti risorse con cui rientrare nel Sindacato. Ma la tua ossessione per gli armamenti mi suggerisce un’altra spiegazione. Tu, povera sciocca, sei ancora fedele alla Flotta Stellare! Ed è lì che finiscono le armi che ti procuri!» esclamò, additandola. I suoi artigli retrattili erano pericolosamente estroflessi.
   Per lunghi secondi l’Orioniana non reagì, limitandosi a fissarlo freddamente. Infine parlò, con voce irriconoscibile. Sparito il tono mieloso di Zafira, ora le sue parole erano pezzi di ghiaccio. «Se c’è ancora un barlume di speranza, viene dalla Flotta; non certo da voi tagliagole!» sibilò Zafreen.
   «Oh oh, ho fatto centro!» gongolò il Caitiano. Le si avvicinò e si chinò su di lei, bisbigliandole all’orecchio, mentre le passava minacciosamente l’artiglio sulla guancia. «Voi federali siete così malmessi che avete bisogno di questi sotterfugi per rifornirvi. Patetici! Presto busserete alla nostra porta, implorandoci di arruolarvi. Ma noi ci ricordiamo del trattamento ricevuto. Siete stati voi a condurre i Pacificatori al nostro principale rifugio...».
   «Non sapevamo che lo fosse!» si giustificò l’Orioniana.
   «... quindi è giusto che ora siamo noi a consegnarvi ai Pacificatori» concluse il malavitoso, con un sorrisetto perfido. «Ce ne sono giusto tre, lì al bancone. La mia faccia non la conoscono, ma farò in modo di recapitargli te».
   «Vuoi darmi via così? Guadagneresti di più lasciando che la Keter mi riscattasse» obiettò Zafreen.
   «I soldi non sono tutto, nella vita» ghignò il Caitiano. Dopo di che si risedette pesantemente e si rivolse ai suoi tirapiedi. «Avvertite i Pacificatori che c’è una super-ricercata pronta per loro. Gliela faremo trovare legata in uno dei livelli inferiori, senza bisogno d’esporci». Ciò detto aprì un’altra gabbietta, estraendone un uccello canterino simile a un fringuello. Si mangiò anche quello, stavolta masticandolo con gusto.
   «E riguardo a lui?» chiese il caporione, accennando a Elmer, che se n’era rimasto zitto e immobile per tutta la conversazione.
   «Toh, m’ero quasi scordato di te!» fece il Caitiano, con la bocca ancora piena. «Tu chi saresti? Un’altra carogna della Keter?».
   «Diciamo così» rispose l’Halanano, fulminandolo con lo sguardo. In lui non c’era più traccia del servitore viscido di poco prima. Adesso teneva la schiena ben dritta e parlava in tono minaccioso. «Ti consiglio di lasciarci andare, o le cose si metteranno male per te» avvertì.
   «Oh, sto tremando di paura!» fece C’Rerr, ingollato l’ultimo boccone. «Su, portateli via!» ordinò, battendo le mani. «Ho già perso fin troppo tempo con loro».
   Poiché i prigionieri non si muovevano, i tirapiedi gli misero le mani addosso per trascinarli via. Nell’attimo in cui uno di loro cercò di afferrare Elmer, questi si divincolò, facendogli lo sgambetto. Il malvivente incespicò, sul punto di cadere, ma si riebbe e reagì colpendolo con un manrovescio. L’Halanano piombò sul tavolo, facendo cadere i bicchieri, che andarono in frantumi. Questo attirò l’attenzione dei clienti nelle immediate vicinanze, cosa che C’Rerr avrebbe voluto evitare.
   Fu allora che tutti si avvidero di un particolare sconcertante. Una delle lunghe orecchie bifide dell’Halanano si era staccata ed era caduta a terra, rivelandosi nient’altro che un trucco prostetico. Ora il padiglione auricolare di Elmer era liscio e ovale, come quello di un...
   «Umano!» strillò una cameriera che si era avvicinata per raccogliere i cocci.
   «Umano!» le fecero eco gli avventori, allontanandosi da lui come se fosse un appestato.
   E «Umano!» fu il grido che si allargò sempre più, fino a sovrastare la musica. A quel punto l’incriminato si rialzò dal tavolo, massaggiandosi la mascella dolorante. Si guardò attorno con un sorrisetto compiaciuto, godendo dell’isteria generale. «Sì, e me ne vanto!» disse strappandosi l’altro orecchio finto, per provocare ancor più gli astanti. Dopo di che si rivolse a Zafreen: «Incredibile che si può fare con un po’ di make-up, nevvero? Ci si può imboscare ai party Human-free!».
   «E adesso?» chiese l’Orioniana, incerta sulla prossima mossa.
   «Adesso si balla» rispose Juri Smirnov, uno dei pochi Umani fieri di esserlo.
 
   Il Comandante Raymond stava per costringere Vrel ad alzarsi, quando il clamore crescente attirò la sua attenzione. Dimenticando il sospettato che gli era accanto, il Pacificatore spinse avanti lo sguardo, finché vide Juri e Zafreen. Non gli ci volle molto per riconoscere due dei maggiori ricercati dell’Unione.
   «Ma guarda... serviti su un piatto d’argento!» gongolò, estraendo il phaser.
   Fu in quell’attimo che Vrel scattò. Il mezzo Xindi, tutt’altro che brillo, afferrò una bottiglia di whisky e gliela spaccò in testa. Nello stesso attimo, con l’altra mano, gli strappò il phaser. Il Comandante cadde a terra tramortito, mentre il timoniere della Keter sparava ai due guardiamarina, stordendoli prima che capissero cosa stava accadendo. Vedendo balenare i raggi phaser, gli avventori gridarono e indietreggiarono spaventati. Ormai tutti, nella discoteca, si erano accorti che qualcosa non andava. Le ballerine smisero di ancheggiare sulle pedane levitanti e anche la musica cessò, lasciando un silenzio teso.
   «Ohi, ohi... ma che diavolo...» gemette Raymond, cercando di rialzarsi.
   «A cuccia» gli disse Vrel, e lo stordì del tutto con un tremendo pugno. Avrebbe potuto usare il phaser, ma preferì quel modo per metterlo KO. Dopo di che corse in aiuto dei colleghi. Era un bene che lo avessero piazzato lì, pronto a intervenire se qualcosa fosse andato storto. Vedendolo correre con un phaser in pugno, la gente gli fece ancora più il vuoto attorno.
   «Beh, cos’è questo mortorio? Sdrammatizziamo!» esclamò il mezzo Xindi. «Voi lassù, mettete qualcosa d’allegro!» ordinò, puntando l’arma contro i DJ che si trovavano su una balconata interna al salone. Questi si scambiarono un’occhiata e obbedirono. In un attimo la discoteca fu nuovamente scossa da una musica a tutto volume, dal ritmo incalzante. Alcune delle cubiste e degli avventori ripresero a ballare, come se nulla fosse.
   Nel frattempo C’Rerr era saltato indietro, rovesciando la sedia e incespicando nelle gabbiette che l’attorniavano. Nel vedere che i suoi tirapiedi mettevano mano ai phaser, li trattenne: «Fermi! Non attirate l’attenzione, ci sono troppi testimoni».
   «E allora come...».
   «Rompetegli le ossa alla vecchia maniera» ordinò il malvivente. Dopo di che si mise fuori portata, per godersi la scena.
   Scoppiò il finimondo. Grida e botte da orbi dilagarono nella discoteca, senza che la musica e le danze s’interrompessero. Tutti quelli che avevano voglia di menare le mani si gettarono nella mischia, da una parte e dall’altra. Dopo tre anni di guerra c’era molta rabbia repressa da sfogare, e quello sembrava un buon modo. Bicchieri e bottiglie presero a volare intorno al bancone, seguiti addirittura dalle sedie, mentre la barista e le cameriere vi si nascondevano dietro, strillando isteriche.
   Vrel irruppe accanto agli amici proprio nel momento in cui scoppiava la rissa e prese subito a picchiare duro. I loro avversari diretti erano gli scagnozzi di C’Rerr. Il caporione s’infilò un tirapugni d’acciaio e cercò di colpire nuovamente Juri, ma questi si scansò con sorprendente agilità. Levò dalla manica un sottile strumento metallico, simile a una matita argentea, e gli sparò a bruciapelo. Era un fulminatore elettrico: l’avversario cadde a terra, contorcendosi brevemente prima di giacere tramortito.
   Nello stesso momento altri due delinquenti si avventarono su Zafreen. L’Orioniana era addestrata all’autodifesa, come tutto il personale di Flotta, ma non era certo vestita nel modo adatto a lottare. Tuttavia non si perse d’animo. Calciò via le scarpe, strappò lo strascico perché non l’intralciasse e si rotolò sul tavolo, sfuggendo alle loro grinfie per atterrare sull’altro lato. Qui afferrò le gabbiette degli uccelli, una per mano, e le usò come armi improvvisate, sbattendole in faccia agli avversari per tenerli a distanza. Dopo i primi colpi andati a segno, gli sportellini si ruppero. I volatili, agitati dagli sballottamenti, uscirono in un turbinio d’ali, strillando come polli spennati e unendosi alla caciara generale.
   Non era ancora finita. Vrel agguantò il Tarlac, che si era schierato con i malviventi, e lo scaraventò sul bancone, dandogli un tale impulso da farlo scivolare per tutta la sua lunghezza, spazzando via bottiglie e bicchieri. Giunto in fondo, il malcapitato finì dritto contro una delle grandi bolle che erano tenute sospese a scopo estetico. La massa d’acqua si frantumò in decine di bollicine più piccole, che ne colpirono altre, scindendole a loro volta in un effetto a cascata. Adesso i globi fluttuavano sopra gli avventori intenti a ballare o a malmenarsi, rifrangendo le luci stroboscopiche in modi sempre nuovi e inattesi, così che molti ne erano abbagliati nei momenti meno opportuni. Tra la rissa furibonda, le ballerine invasate, i luminosi globi fluttuanti e i pennuti che strillavano come se fossero sulla graticola, la discoteca si era trasformata in una bolgia.
   «Ah ah, più forte, ragazzi!» rise Vrel, aizzando tutti quelli che si erano schierati dalla sua. Quando l’uppercut di un malvivente lo spedì su un tavolo, afferrò la bottiglia che vi si trovava e la vuotò d’un sorso, per ritemprarsi. Poi la ruppe in testa all’avversario, liberandosene, e tornò in piedi con un salto, ridendo ancora più forte. Fra i presenti era certamente quello che se la godeva di più.
   Poco lontano, Juri si affidava più alla strategia. Il suo fulminatore elettrico era seminascosto dalla mano ed emetteva una scarica brevissima; l’Umano inoltre colpiva i nemici a bruciapelo, così che molti non capivano nemmeno che era armato. Dopo ogni attacco sgusciava via, celandosi tra le ombre lungo le pareti, e cercava un nuovo avversario da colpire subdolamente alle spalle.
   Zafreen infine, stanca di usare le gabbiette come armi improprie, le gettò in faccia ai nemici e fuggì verso la zona delle danze. Raggiunto un palo di pole-dance, lo afferrò e vi girò attorno, dandosi lo slancio. Così assestò un doppio calcio allo stomaco al suo inseguitore, mandandolo al tappeto.
   «Tieni!» le disse Vrel, lanciandole il phaser.
   L’Orioniana lo afferrò al volo e stordì l’avversario che si stava già rialzando. «Era da tanto che non andavamo a ballare» ansimò, non appena il compagno le fu vicino.
   «Bel posto, eh? Mi piace anche la musica» convenne il mezzo Xindi, strappandole un sorriso.
   Sebbene qualcuno la trovasse appagante, la mega-rissa non poteva durare a lungo. Alcuni avventori fuggirono dal salone, chiamando aiuto, e altri contattarono direttamente le forze dell’ordine. Riferirono che tutto era iniziato con l’aggressione a tre Pacificatori, che ora giacevano a terra. La risposta non tardò a farsi sentire. E non fu la polizia locale a intervenire, ma il corpo dei Pacificatori, a indicare che ormai controllavano Stratos, e con essa Ardana.
   Una ventina d’agenti in tenuta anti-sommossa irruppe nella discoteca, accompagnati da altrettanti droni accalappiatori, del tipo usato per sedare i tumulti. Per un attimo esitarono davanti a quel bailamme, ma poi si gettarono nella mischia, stordendo tutti quelli che non si sdraiavano a terra.
   «Tempo di andare!» disse Vrel. Afferrò Zafreen per il polso, per non perderla nella calca. Immaginando che tutte le uscite fossero ormai presidiate, i due corsero verso il finestrone.
   «Dov’è Juri?» si preoccupò l’Orioniana, che da un pezzo lo aveva perso di vista.
   «Eccolo!» fece il mezzo Xindi.
   L’Umano li aveva preceduti e li aspettava accanto alla finestra. «Su, prendiamo un po’ d’aria!» li esortò.
   Zafreen si tolse uno dei grossi orecchini e lo appoggiò al vetro, facendolo aderire. Girò un componente, attivando il generatore ultrasonico nascosto all’interno. Ci fu un fischio acutissimo e l’enorme vetrata divenne bianca di crepe; l’attimo dopo andò in pezzi. I tre federali si protessero gli occhi con le mani e saltarono fuori, scivolando lungo la parete inclinata che sapevano esserci all’esterno. I Pacificatori li videro, ma erano ancora lontani e non poterono raggiungerli prima che si buttassero. Riuscirono solo a sparare qualche colpo, che andò a vuoto per via della distanza e del trambusto. Tuttavia avvertirono i loro colleghi che circondavano l’edificio.
   Ora che la vetrata era in frantumi, l’aria fredda entrò nel salone, contribuendo a calmare gli animi. I pochi che ancora non l’avevano fatto si sdraiarono al suolo e la musica tacque definitivamente, mentre i Pacificatori prendevano il controllo della situazione. I droni svolazzarono sopra gli astanti, intimando loro di restare immobili mentre li sondavano.
   Visto come si mettevano le cose, C’Rerr decise che era il momento di defilarsi. Sgattaiolò verso un’uscita di servizio che portava ai livelli inferiori, da cui contava di sottrarsi all’accerchiamento dei Pacificatori. Gli mancavano pochi metri quando un drone accalappiatore lo adocchiò e gli venne contro, squillando una sirena. «Allarme, ricercato di classe B-1!» gracchiò l’infernale congegno. A quelle parole diversi Pacificatori interruppero la perlustrazione e gli vennero contro con le armi spianate.
   «Frell!». Il Caitiano non capì come avesse fatto il drone a riconoscerlo. Era convinto che i Pacificatori non avessero i suoi dati fisiognomici, ma evidentemente si sbagliava. Rinunciando alla discrezione corse verso la porta, sperando ancora di mettersi in salvo. Ma aveva sottovalutato la rapidità dell’ordigno.
   «Fermo! Sei un nemico della collettività, arrenditi e accetta la giusta punizione!» disse il drone, ricorrendo a uno dei suoi messaggi registrati. L’attimo dopo gli fu addosso e gli abbrancò la schiena. Subito si aprì come un meccano, trasformandosi in una gabbia metallica che lo avvolse completamente. Ogni arto fu immobilizzato; persino le singole dita furono ingabbiate. Ridotto a una grottesca marionetta, di cui i Pacificatori tenevano i fili, il malvivente fu costretto a rialzarsi. Con movimenti rigidi e meccanici venne incontro agli agenti, che lo circondarono.
   «Dunque, chi abbiamo qui?» chiese il caposquadra, guardandolo fisso.
   «C’è un errore, sono un onesto cittadino...» cominciò il Caitiano, ma il drone gli coprì la voce, facendo rapporto.
   «Il soggetto è C’Rerr, capo-cellula della Catena Cremisi, ricercato per l’organizzazione di quarantasette attentati terroristici contro i coloni Voth, nonché per il contrabbando d’armi» riferì il congegno, con voce metallica.
   «Non è vero! È tutto un equivoco! Io non c’entro niente!» si disperò il malvivente. Le sue scuse suonarono patetiche persino a lui.
   «Questo lo stabilirà il processo» disse il caposquadra, senza sbilanciarsi.
   «Io... esigo di avere un avvocato!».
   «Lo avrà. E adesso mettetelo in gabbia».
   C’Rerr marciò verso la navetta dei Pacificatori, sempre a scatti per via dell’esoscheletro che lo muoveva contro la sua volontà. Due agenti armati lo accompagnarono, per accertarsi che non si liberasse. Gli altri restarono per tenere sotto controllo la situazione. Il Caitiano continuava a chiedersi come avessero fatto a riconoscerlo. Anche se non poteva esserne certo, era divorato dal sospetto che c’entrassero i federali.
 
   La Keter occultata indugiava nell’orbita di Ardana, seguendo passo passo l’evolversi della situazione. Tutti gli sforzi erano tesi a recuperare gli agenti a terra.
   «Ho intercettato una trasmissione dei Pacificatori» disse Smig, la sostituta di Zafreen alla postazione sensori e comunicazioni. «Hanno arrestato C’Rerr!».
   «Ben fatto» disse il Capitano Hod, rivolta sia a lei che a Terry, che l’affiancava.
   «Intromettersi nella loro banca dati è stato semplice» disse la proiezione isomorfa. «Il difficile era procurarsi un’olografia, ma a quello ha provveduto Juri». L’Umano aveva una microcamera nascosta nel comunicatore. Quando si era affiancato a Zafreen, durante le trattative, aveva scattato delle olografie di C’Rerr, trasmettendole ai colleghi. A quel punto era stato semplice per Terry completare il profilo del Caitiano, così da farlo arrestare. Ma quello era solo il premio di consolazione, perché l’obiettivo primario della missione era fallito.
   «Ora potete agganciarli?» chiese Hod.
   «Le interferenze sono forti anche fuori dall’edificio» disse Terry, che aveva preso i controlli del teletrasporto. «Cercherò di portarli su uno per volta».
   «Faccia presto; non credo che gli resti molto tempo» raccomandò il Capitano, osservando apprensiva il pianeta arancione.
 
   «Uh, la testa...» si lamentò il Comandante Raymond, riprendendosi dallo stordimento. Si tastò il cuoio capelluto, dove gli era arrivata la bottigliata, e sentì un grosso bernoccolo. Anche la mascella gli doleva, per il pugno di Vrel, e sentiva in bocca il sapore del sangue. «Che è successo?!» boccheggiò, vedendo i colleghi raccolti attorno a lui.
   «È stato stordito da uno dei ricercati» riferì il caposquadra. «Li stiamo cercando, non andranno lontano. Venga, l’accompagno in infermeria».
   «Non se ne parla! Sono ancora al comando!» esclamò Raymond, balzando in piedi. «Guiderò io stesso la squadra di ricerca».
   «Ne è sicuro? Non mi sembra nelle condizioni migliori...» azzardò il sottoposto.
   «Sicurissimo. Nessuno si prende gioco dei Pacificatori!» disse il Comandante. Essendo per tre quarti Umano, aveva il costante bisogno di provare la sua fedeltà all’Unione. «E poi i ricercati sono della Keter. È dall’inizio della guerra che ho un conto aperto con loro» rivelò.
 
   I tre federali scivolarono per parecchi metri lungo la parete inclinata, finché raggiunsero il piano di calpestio. Era una delle tante strade della città volante, incassata tra gli alti palazzi. I passanti che se li videro piombare davanti si scostarono, interdetti.
   «Ehm... era un party privato, e noi non eravamo invitati» disse Vrel, come se questo giustificasse il fatto che erano piombati giù dalla finestra. L’attimo dopo i federali ripresero la fuga, lasciandosi dietro i passanti ancora più sconcertati.
   «Attenzione, allerta per tutti i cittadini!» tuonarono gli altoparlanti pubblici. «Ci sono tre spie della Flotta Stellare in circolazione: Vrel Shil, Zafreen e l’Umano Juri Smirnov». Tutti gli oloschermi pubblicitari mostrarono le loro foto segnaletiche, prese dall’archivio ricercati dei Pacificatori. «Dopo aver attaccato il Club Droxine si sono dati alla fuga, ma non possono aver lasciato la città. Sono armati e pericolosi. Finché non saranno assicurati alla giustizia, tutti i cittadini devono rientrare nelle loro abitazioni. Se siete turisti, tornate subito all’albergo. E se vedete i fuggitivi, avvertite le forze dell’ordine. Ogni informazione utile alla cattura sarà ricompensata, mentre ogni favoreggiamento sarà severamente punito».
   «Sei venuta bene nella tua segnaletica» commentò Vrel, rivolto alla compagna. «Io invece faccio schifo».
   «Che ne dite di toglierci dalla strada, eh?» li pressò Juri. Aveva notato che i passanti li fissavano spaventati e alcuni estraevano i comunicatori.
   I federali svoltarono in uno stretto vicolo tra due palazzoni e da lì cercarono di far perdere le loro tracce. Ma non era facile nascondersi in una città volante, pattugliata da droni anch’essi volanti. Un paio di quegli arnesi sorvolarono il vicolo, individuandoli dall’alto, e piombarono su di loro. «Lassù!» gridò Zafreen, vedendoli scendere in picchiata. Vrel ne disintegrò uno con il phaser e Juri cortocircuitò l’altro col suo fulminatore elettrico, mentre già si apriva per ghermirlo.
   «Droni accalappiatori» disse l’Umano, osservando con disgusto i resti sfrigolanti. «Avranno avvertito i Pacificatori. Dobbiamo muoverci».
   «Shil a Keter, questo è un buon momento per farci risalire!» disse il mezzo Xindi, mentre tutti e tre si allontanavano di corsa.
   «Qui Terry, le interferenze termoioniche ci costringono a prendervi uno per volta» rispose l’Intelligenza Artificiale.
   «Cominciate da Zafreen» raccomandò il timoniere, volendo proteggerla.
   «Vrel, no...» fece l’Orioniana, ma stava già svanendo nel bagliore del teletrasporto.
   I due federali rimanenti proseguirono, sbucando in uno dei viali bordati di statue. La strada si stava svuotando, perché i passanti obbedivano al coprifuoco.
   «Non mi piace, dobbiamo cercare un luogo più riparato...» borbottò Juri, guardandosi nervosamente attorno. Non si avvide però che il pericolo era già alle sue spalle.
   «Giù!» avvertì Vrel, strattonandolo.
   L’Umano si abbassò appena in tempo. Il raggio phaser ronzò pochi centimetri sopra la sua testa, colpendo una delle statue e mandandola in pezzi. I frammenti roventi piovvero addosso a Juri, che si protesse il volto con le braccia. Dunque i Pacificatori sparavano per uccidere.
   Vrel stava già rispondendo al fuoco. C’era un’intera squadra che li inseguiva, e Raymond era il capo.
   «Raymond! Stavolta lo faccio secco!» ringhiò il mezzo Xindi, prendendolo di mira. Ma in quell’attimo anche lui fu trasferito sulla Keter.
   «Ti pareva!» mugugnò Juri, maledicendo la sua solita scalogna. Rimasto solo, l’Umano fuggì a rotta di collo, con i raggi phaser che gli balenavano attorno. Ogni tanto si voltava per rispondere al fuoco. Riuscì a centrare un Pacificatore, che cadde a terra stordito; gli altri tirarono dritto, calpestandolo. Davanti a tutti c’era Raymond, che sparava per uccidere, senza badare al rischio di colpire qualche passante attardatosi per strada.
   Lo storico confidava nel teletrasporto della Keter, ma i secondi passarono senza che i suoi compagni lo traessero in salvo. I Pacificatori, d’altro canto, erano sempre più vicini. Allora l’Umano si premette il comunicatore. «Smirnov a Keter, che diavolo state aspettando?!» protestò.
   «Qui Keter, c’è un problema» rispose Terry. «Stratos ha attivato lo scudo. Non possiamo più agganciarti».
   Juri imprecò in russo. Alzò lo sguardo e vide che in effetti il cielo aveva assunto una luminescenza perlacea, segno che lo scudo a bolla avvolgeva la città. Era in trappola.
   «Juri, ascolta» intervenne Hod, la voce distorta dalle interferenze. «Non ti abbandoniamo. Sto per portare la Keter nell’atmosfera. Attaccheremo la città, se necessario, e abbatteremo lo scudo».
   «No, non fatelo!» gridò l’Umano, sempre correndo a perdifiato. Aveva lasciato la strada, dov’era troppo esposto, e stava attraversando uno dei parchi cittadini, cercando di nascondersi tra gli alberi. «Se una nave federale bombarda una città dell’Unione, perderemo l’ultimo briciolo di consenso. E poi questa non è una città come le altre. Un colpo di troppo e potreste farla precipitare».
   «Non ce ne andremo senza di te!» insisté il Capitano.
   «Non vi ho chiesto questo» precisò Juri. «Se lo scudo avvolge la città, allora io devo uscire».
   «Vuoi rubare una navetta?! Sei molto lontano dall’hangar...» fece Hod, incerta, mentre osservava un prospetto della città volante.
   «Negativo, non posso assaltare l’hangar da solo» disse l’Umano. Accortosi che gli inseguitori non erano più in vista, si azzardò a sostare un attimo per riprendere fiato. Si piegò in avanti, con le mani sulle ginocchia, prendendo grandi boccate d’aria. «Intendo uscire per la via più breve» rivelò, guardando avanti a sé. Al limitare del parco c’era una balconata, e oltre la balconata... il vuoto. Una caduta libera di mille metri. Considerando che con la gravità di Ardana si precipitava a otto metri al secondo, significava una caduta di due minuti e cinque secondi. «Voi trasferitemi appena sarò fuori dalla bolla» raccomandò, scattando di nuovo in avanti.
   «Juri, no!» gridò il Capitano, intuendo le sue intenzioni. Ma non poteva fermarlo.
   L’Umano era quasi alla balaustra, oltre la quale c’era solo il cielo arancione, striato di cirri bianchi. Fu allora che il Comandante Raymond gli si parò davanti, sbucando da una macchia di vegetazione. «Fine della corsa, carogna!» ghignò, puntandogli il phaser in faccia.
   Juri dovette fermarsi, per non essere abbattuto sul posto. In un attimo i Pacificatori al seguito di Raymond lo circondarono; l’Umano fu disarmato e costretto a stendersi a terra. «Che attrezzo bislacco» disse il Comandante, rigirandosi il fulminatore elettrico tra le dita. «Beh, non ti servirà più» concluse, gettandoselo alle spalle, nel vuoto. «Stai per finire in un carcere di massima sicurezza, dove ti spremeranno quel poco di cervello che hai».
   In quella il comunicatore di Juri trillò. «Keter a Smirnov, mi ricevi?!» chiese la voce preoccupata di Hod.
   «Ma senti, l’Angelo della Morte in persona!» ridacchiò Raymond, usando il nomignolo con cui l’Elaysiana era conosciuta tra i Pacificatori. Strappò il comunicatore dalla giacca di Juri e lo attivò.
   «Salve, Capitano Hod. Sono il Comandante Raymond e ho arrestato la sua spia» esordì. «Ve la restituirò solo in cambio di un altro ostaggio: lei. Decida subito!».
   «Sta scherzando col fuoco» ribatté l’Elaysiana. «Ho espugnato obiettivi più difesi di Stratos».
   «Se ci attacca, il primo a morire sarà proprio la sua spia» minacciò Raymond, voltando le spalle al prigioniero mentre discuteva.
   Mentre i due battibeccavano, Juri analizzò la situazione. I Pacificatori attorno a lui non erano molti e dopo averlo bloccato sembravano aver abbassato la guardia. Se si fosse mosso in fretta, avrebbe avuto un secondo o due prima che reagissero. La balaustra era vicina... e anche Raymond lo era. D’un tratto capì cosa doveva fare.
   «DiDiP, colpisci!» ordinò l’Umano. Il Dispositivo per la Difesa Personale incorporato nel comunicatore emise un getto nebulizzato che colpì Raymond al viso, accecandolo temporaneamente. Con un grido di dolore e sorpresa, il Comandante lasciò cadere il congegno e si portò le mani agli occhi arrossati.
   I Pacificatori rialzarono subito le armi, ma Juri aveva approfittato dell’attimo di sconcerto per balzare in piedi. Afferrò Raymond da dietro, usandolo come scudo umano, e indietreggiò fino alla balaustra. Qui il Comandante, ancora accecato, si divincolò furiosamente. Al tempo stesso i Pacificatori si aprirono a ventaglio, cercando di avere il tiro pulito per neutralizzare Juri. Ma l’Umano aveva già deciso il da farsi. Ancora avvinghiato a Raymond, si rovesciò all’indietro, facendogli perdere l’equilibrio. Caddero entrambi oltre il parapetto, nel vuoto che circondava Stratos.
 
   «S’è buttato!» avvertì Terry. Sul quadro comandi squillò un allarme, a indicare che il soggetto si muoveva rapidamente e questo rendeva difficile agganciarlo.
   «Prendilo, prendilo!» la pressò Vrel, che le stava accanto. Lui e Zafreen l’aiutarono a regolare i comandi. Agganciare un soggetto in caduta libera era sempre stato difficile, e lo era ancora, malgrado i progressi del teletrasporto.
   «Ci sono due segni vitali; sono avvinghiati» notò Zafreen.
   «Prendeteli entrambi» ordinò il Capitano, pallida ma controllata. Al suo fianco, Norrin estrasse il phaser, pronto ad accogliere qualunque Pacificatore fosse caduto assieme allo storico.
 
   Mentre precipitava, Juri sentì il vento fischiargli nelle orecchie ed ebbe difficoltà a respirare. La liscia parete color salmone di Stratos passò accanto a lui; la minima sporgenza avrebbe comportato un impatto fatale. Fortunatamente in quel punto non c’erano cornicioni, né strutture aggettanti: solo una parete verticale che finiva nel vuoto. Per un attimo l’Umano attraversò la nuvola di condensa, che lo avvolse come una nebbia. Oltrepassata quella, vide sopra di sé la nube grigia che nascondeva il basamento della città, con i suoi repulsori gravitazionali. In basso, molto più lontano – ma in rapido avvicinamento – c’era la pianura brulla, percorsa da un fiume simile a un lucente nastro arancione.
   Juri non aveva paracadute, né stivali a razzo; nulla che gli impedisse di sfracellarsi al suolo. Poteva contare solo sull’abilità dei suoi colleghi. Almeno non era solo: Raymond stava cadendo con lui. Erano ancora avvinghiati nella lotta. Il Comandante aveva estratto il phaser, sebbene fosse ancora accecato, e il federale lo bloccava da dietro. Raymond cercò di rigirarsi per sparargli, ma nel far questo la sua presa s’indebolì e il phaser gli sfuggì di mano, perdendosi nel vuoto. «Lasciami, maledetto!» ringhiò il Pacificatore.
   «Ah, no! Tu verrai con me, sulla Keter... o all’Inferno!» gli sibilò Juri all’orecchio.
   «Ho detto lasciami, Umano!» gridò Raymond, dimenandosi come un ossesso. Stavano entrambi precipitando verso una probabile morte, ma questo non lo preoccupava quanto il fatto d’essere toccato dalle dita “impure” di un Umano. Mordendo e schiumando come un cane rabbioso riuscì a divincolarsi, dopo di che dette un calcio nello stomaco a Juri, allontanandolo da sé. Erano ormai a metà della caduta ed era chiaro che non sarebbero precipitati nel fiume, troppo a oriente. Ad attenderli c’era solo il duro suolo di sasso.
   «Raymond a Rukh, energia!» gridò il Comandante, invocando la sua nave affinché lo salvasse. Ma le sue dita toccarono solo il tessuto dell’uniforme. In preda al panico, Raymond si accorse che nella colluttazione aveva perso il comunicatore e con esso la speranza di salvarsi. Il suo grido rabbioso si perse nel vento.
   A qualche metro di distanza, Juri precipitava con la schiena verso il basso e le mani intrecciate sul petto. Sapeva che l’impatto era imminente e voleva morire guardando il cielo. Sempre che la Keter non riuscisse a teletrasportarlo... ma le speranze erano ormai al lumicino. Curiosamente non provava terrore, né rabbia, e non aveva nemmeno grossi rimpianti. Una calma surreale si era impossessata di lui. Sapeva che il suo fato dipendeva da altri e che lui poteva solo aspettare. Ormai doveva essere a poche centinaia, se non addirittura poche decine di metri da terra.
   «Fin qui, tutto bene» mormorò l’Umano. Era l’ultima battuta, anche se non c’era nessuno ad ascoltarla. In quella però avvertì la familiare sensazione del teletrasporto. L’aria fredda smise di frustarlo e il cielo arancione svanì alla sua vista.
   A pochi metri da lì, Raymond vide l’avversario dissolversi nel bagliore azzurro. Se fossero stati ancora avvinghiati, comprese, si sarebbe salvato anche lui. Ma siccome lo aveva allontanato, ora era escluso dal raggio. «NOOO!» gridò il Comandante, vedendo il suolo sempre più vicino. Il suo ultimo pensiero, prima di sfracellarsi sui sassi, fu l’augurio che i Pacificatori estirpassero la specie umana dalla Galassia.
 
   Una delle caratteristiche più interessanti del teletrasporto era che durante il trasferimento l’eventuale energia cinetica del soggetto si annullava. Dunque se anche al momento di smaterializzarsi si muoveva a grandissima velocità, l’individuo si ricomponeva immobile. Così fu anche per Juri, che tuttavia stava cadendo in posizione orizzontale, leggermente inclinato con la testa in alto. Riapparso in quella posizione sulla pedana di plancia, l’Umano cadde di schiena per mezzo metro. «Ouch!» si lamentò.
   «Ah ah, ce l’hai fatta! Complimenti, amico!» gli fece festa Vrel. Gli si accucciò di fianco e gli dette un cinque, gesto che lo storico indolenzito ricambiò svogliatamente.
   «Groan... sto diventando troppo vecchio per queste cose» borbottò l’Umano, massaggiandosi la schiena dolorante. Tese la mano a Vrel, che lo aiutò a rialzarsi. La prima persona che cercò con lo sguardo fu il Capitano Hod; tra loro corse un sorriso di sollievo.
   «Ehm, scusate se interrompo, ma abbiamo compagnia!» avvertì Smig, con la sua vocetta stridula. Inquadrò sullo schermo due navi dei Pacificatori in rapido avvicinamento, tra cui la Rukh di Raymond. La Keter era ancora occultata, ma questa non era più una garanzia. «Sanno che ci siamo, e se hanno captato i teletrasporti ci avranno più o meno localizzati» avvertì la Ferengi.
   A confermare le sue parole, i Pacificatori lanciarono dei missili che, pur non colpendo direttamente la Keter, le esplosero tutt’intorno, facendola tremare. «Fanno detonare cariche subspaziali per localizzarci» disse Terry.
   «Non importa, qui abbiamo finito. Ritiriamoci» ordinò Hod, risedendosi in poltrona. Aveva il tono stanco e sfiduciato di chi, ancora una volta, deve fuggire dopo una sconfitta.
   La Keter lasciò in tutta fretta l’orbita di Ardana ed entrò in cavitazione quantica, dirigendosi verso quel poco che restava dello spazio federale.
   «Permesso di lasciare la plancia?» chiese Zafreen, che indossava ancora i resti sbrindellati dell’abito da sera ed era scalza, avendo gettato le scarpe per lottare.
   «Accordato. Se vi occorre, passate dall’infermeria a farvi dare un’occhiata» rispose distrattamente il Capitano.
   L’Orioniana entrò nel turboascensore, seguita da Juri, mentre Vrel restò a scambiare qualche parola con Ennil, la sua sostituta al timone. Dovevano accertarsi che i Pacificatori non li inseguissero.
   «Un altro buco nell’acqua» commentò Zafreen, delusa dalla missione.
   «Non dipende da noi. Almeno abbiamo fatto arrestare quella carogna di C’Rerr e ci siamo sbarazzati di Raymond» la consolò Juri. Per un poco tacquero, mentre l’ascensore scendeva.
   «Mi sa che questa è l’ultima volta che faccio Zafira Goutric» commentò l’Orioniana, quando furono usciti. «Ormai la messinscena è troppo conosciuta, non ci casca più nessuno».
   «Beh, non saprei. La prossima volta potremmo scambiarci i ruoli. Io sarò il boss della malavita e tu la mia schiavetta, che ne dici?» ironizzò l’Umano, che era stufo d’interpretare Elmer.
   «Meglio di no. Ricorda che ho un fidanzato geloso!» ridacchiò Zafreen, pensando a come avrebbe reagito Vrel.
   «Ehi, anch’io ho una compagna che non perdona» le rammentò Juri.
 
   Dopo la necessaria visita in infermeria, per farsi curare le escoriazioni dovute alla rissa, Vrel si ritirò nel suo alloggio. Era uno di quelli più grandi, dato che il timoniere ci conviveva con Zafreen. La coabitazione durava ormai da tre anni e, pur con gli alti e bassi dovuti al carattere vivace dell’Orioniana, potevano dirsi entrambi soddisfatti. Se non avessero potuto contare l’uno sull’altra nei momenti più neri del conflitto, non sarebbero arrivati sani di mente fino a quel punto.
   Ora Vrel sedeva alla scrivania, compilando il rapporto missione. C’era stato un tempo in cui era scrupoloso nel farlo, ma ormai si accontentava di buttar giù poche righe in cui riferiva l’essenziale. Avrebbe completamente smesso di farlo, se solo Norrin e Terry non fossero stati così puntigliosi nel richiederlo. In fondo era un modo per dare l’impressione di essere ancora una milizia regolare, evitando che l’equipaggio si sbandasse. Certo che, se le cose continuavano a precipitare come avevano fatto nell’ultimo anno, anche le ultime vestigia di disciplina si sarebbero dissolte.
   «Che giornata!» sbuffò Zafreen, passandogli dietro. L’Orioniana si stava liberando dell’appariscente abito stratosiano. Anche i gioielli finivano nel replicatore, per essere riconvertiti in energia utile alla nave. In quei tempi di magra, bisognava riciclare tutto.
   «Se non altro ci siamo fatti un giro in discoteca. Era da un pezzo che non ci andavamo» ironizzò il mezzo Xindi. «Quelle musiche di Ardana non sono male, potrei scaricarmi la hit parade di quest’anno».
   «Buona idea. Senti, io mi faccio una doccia sonica. Ti unisci a me?» chiese Zafreen, attraversando l’alloggio con nonchalance dopo essersi sbarazzata dell’ultimo capo d’abbigliamento.
   A quelle parole, Vrel smise di scrivere. Si girò verso la compagna color giada e la osservò da capo a piedi. «Mia cara, nel cassetto più basso del mio comodino c’è un phaser» rivelò. «Il giorno in cui risponderò “no” a un’offerta del genere, sei autorizzata a usarlo su di me».
   L’Orioniana sorrise divertita ed entrò nel bagno, invitando con l’indice il partner a seguirla. E questi non si fece pregare. Il Comandante Norrin avrebbe dovuto pazientare un po’, prima di leggere il suo rapporto missione.
 
   In quel momento anche Juri si era ritirato nel suo alloggio, dopo la visita di controllo in infermeria. L’Umano era ancora dolorante per la colluttazione, oltre a sentirsi stanco morto. Voleva andare a letto presto e farsi una buona dormita, se gli riusciva. Ma stava ancora cenando quando il cicalino lo avvertì di una visita.
   «Avanti» disse Juri, lasciando il tavolo per accogliere l’ospite. Era il Capitano Hod.
   «Come stai?» chiese l’Elaysiana, che in plancia non poteva abbandonarsi ai sentimenti.
   «Bene, per uno che è sopravvissuto a una caduta da mille metri» rispose l’Umano.
   «Mi spiace, non avrei dovuto spedirvi laggiù, con così poca copertura» si scusò Hod. «E per cosa, poi! Una fornitura d’armi che dovrebbe darci la Flotta, se fosse ancora in piedi». Si lasciò cadere sul divano. Aveva l’aria tormentata; fissò il fuoco nel caminetto olografico, senza realmente vederlo. Juri le sedette accanto e restò in silenzio, dandole tempo di sbrogliare i suoi pensieri.
   «Come siamo caduti in basso» mormorò infine il Capitano. «Un tempo questa era una nave della Flotta Stellare e noi eravamo i custodi della pace. Adesso cosa siamo? Ribelli, corsari, terroristi...?» chiese, fissando lo storico con aria smarrita.
   «Agli occhi dell’Unione siamo questo» disse Juri. «Ai nostri, invece, siamo le ultime scintille della Federazione e dei suoi ideali» disse, fissando la fiamma languente nel caminetto.
   «Stiamo morendo per degli ideali in cui non crede più nessuno» mormorò Hod, assalita dalla disperazione. «Poco fa è giunta una chiamata da Kronos. Il Comando di Flotta sta radunando le ultime navi per difendere il pianeta. Dobbiamo andare anche noi. Se perdessimo la capitale, sarebbe davvero finita. La Flotta Stellare si sbanderà del tutto. Allora dove andremo? Che faremo?» si chiese. Aveva gli occhi lucidi, anche se si sforzava di ricacciare indietro le lacrime. Pensò ai suoi parenti che vivevano su Elaysia, un mondo dell’Unione, saldamente occupato dai Pacificatori. Ormai aveva perso la speranza di rivederli.
   «Abbiamo degli alleati, nelle lontane regioni della Galassia, che potrebbero offrirci asilo» ricordò Juri. «Il Dominio, i Krenim...».
   «Già, tutte specie autoritarie che potrebbero ritirare la protezione, se il mutevole vento della politica lo richiedesse!» sbuffò l’Elaysiana. «E comunque significherebbe accettare la sconfitta. Non detronizzeremo Rangda, non libereremo i mondi federali... e non rivedremo mai più le nostre famiglie» disse, soffocando un singhiozzo.
   Sulle prime Juri non rispose. Si limitò ad abbracciare la compagna, carezzandole lentamente i capelli, e osservò con lei il fuoco morente. Si conoscevano ormai da otto anni, ma solo nell’ultimo avevano intrecciato una relazione; e l’Umano non ricordava di averla mai vista così avvilita. «C’è un’altra possibilità» le disse infine. «Ma risiede oltre i confini della Via Lattea, dove solo l’Enterprise osò avventurarsi».
   «Sì...» mormorò Hod, riprendendosi. «Ne parlerò alla riunione del Comando. Ormai non ci rimane altra strada. Se dovessimo andare, sarai ancora con me?».
   «Sempre» annuì Juri. Si baciarono e rimasero abbracciati sul divano, osservando le fiamme nel caminetto, finché la simulazione terminò e rimasero solo le ceneri. 
 

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Capitolo 6
*** L'ultima speranza ***


-Capitolo 5: L’ultima speranza
 
   Superati i controlli ai margini del sistema, la Keter poté immettersi nell’orbita di Kronos. In quella zona, all’ombra della luna frantumata Praxis, erano convenute parecchie navi della Flotta Stellare. Hod riconobbe la Defiant dell’Ammiraglio Ilia Tarn, la Constellation del Commodoro Lantora e la Sha Ka Ree del Capitano T’Vala Shil. C’era anche la Khitomer dell’Ammiraglio Chase e persino la vecchia Voyager, scampata alla Caduta della Terra. Vi erano inoltre molte navi Klingon, costrette a ritirarsi dal fronte, oltre a vascelli Romulani, Cardassiani e Ferengi.
   Quasi tutte le astronavi avevano l’aria logora, con gli scafi butterati di colpi e segnati da riparazioni di fortuna. In quegli anni avevano partecipato a troppe battaglie, oltre a scontare una cronica carenza di personale. Si stavano radunando per proteggere Kronos dall’assalto dei Pacificatori, che gli analisti militari davano ormai per imminente. Vedendo quell’accozzaglia malridotta, Hod si sentì piangere il cuore al pensiero che era tutto ciò che rimaneva della Flotta Stellare. Qual era il senso di quegli anni di guerra, se avevano portato a questo?
   «Analisi sensoriale. C’è la Stella del Polo?» chiese Norrin, non riuscendo a scorgerla.
   «Negativo» rispose Zafreen, che pur avendo ripreso l’uniforme aveva conservato le meches bionde. «Ci sono alcune navi corsare di altre bande, ma della Stella non c’è traccia».
   «Tre mesi» mormorò Vrel, incupito. «Sono tre mesi che non danno segno di vita».
   «Chiederò al Comando se c’è notizia di loro» promise Hod.
   Il prolungato silenzio dei corsari angustiava profondamente gli ufficiali della Keter. Soprattutto Vrel, che teneva a Jaylah come a una sorella, e Norrin, che la considerava alla stregua di una figlia adottiva. Dopo la Battaglia della Forgia, le cui notizie erano frammentarie, la Stella del Polo non era più stata avvistata, tanto che molti ormai la davano per distrutta.
   «Il Comando di Flotta l’autorizza allo sbarco, Capitano» disse Zafreen. «La riunione sta per cominciare. Sembra che aspettassero proprio lei».
   La notizia sorprese un poco Hod, che tuttavia non lo dette a vedere. Si chiese se era segno che il progetto di cui lei e l’Ammiraglio discutevano da un anno era finalmente avviato. «Norrin, a lei la nave» disse, recandosi sulla pedana di teletrasporto. Dopo di che si rivolse a tutti gli ufficiali di plancia. «Approfittate della sosta per rimettere in sesto la Keter, perché dobbiamo essere al massimo per... ciò che verrà» raccomandò. L’attimo dopo fu trasferita in superficie.
 
   Il cielo della capitale era oscurato da nubi temporalesche. Una pioggia fitta e greve scrosciava sui tetti degli antichi edifici e s’incanalava nei vicoli ormai deserti. I fulmini incorniciavano il palazzo dell’Alto Consiglio, ora sede del Comando di Flotta in esilio, come un’avvisaglia di quell’altra, peggiore tempesta in arrivo: l’attacco dei Pacificatori. Tra un tuono e l’altro si udiva il tetro rintocco della Campana di Kahless, che suonava a morto per commemorare gli innumerevoli caduti.
   Anche nella sala tattica giungeva il sordo rimbombo dei tuoni, misto ai luttuosi rintocchi. La luce dei bracieri riverberava sulle pareti verdastre e sui volti cupi dei convenuti. Molti di loro avevano partecipato alla prima riunione tenutasi dopo lo scoppio della guerra, quando ancora c’era qualche speranza di vittoria. Ora non erano più così ottimisti.
   «Benvenuta, Capitano Hod; la stavamo aspettando» disse l’Ammiraglio Chase, comandante in capo della Flotta Stellare. Il vecchio Umano aveva il viso stanco. I capelli e la corta barba, grigi a inizio guerra, si erano fatti bianchi. Con lui c’erano Ilia, Lantora e T’Vala, che erano stati suoi ufficiali sull’Enterprise-J ed erano ancora tra i suoi collaboratori più fidati. Ma vi erano anche Mogh’Lar di Kronos, Presidente della Federazione, e Irek di Nuovo Romulus, Ministro della Difesa. Fissarono Hod con una strana solennità, senza proferir parola.
   «I miei rispetti» disse l’Elaysiana, che non si aspettava la presenza delle massime autorità. Con loro c’erano parecchi rappresentanti dei popoli che ancora si riconoscevano nella Federazione. Hod sedette all’unico posto libero lungo il tavolo triangolare, sentendo crescere l’ansia. Qualunque cosa fosse emerso da quella riunione, sarebbe stato decisivo per le sorti del conflitto.
   «Possiamo cominciare» disse l’Ammiraglio. Attivò un ologramma tattico che galleggiò sul tavolo, ruotando lentamente, così che tutti potessero prendere atto della situazione bellica.
   Era catastrofica. In tre anni i Pacificatori erano dilagati dai sistemi centrali dell’Unione verso quelli “ribelli” della periferia, conquistandoli con sanguinose battaglie. Poiché i Pacificatori erano sempre all’attacco, mentre la Flotta Stellare si trincerava nelle sue roccheforti, ecco che ai primi erano toccate perdite ben maggiori. Eppure la loro macchina bellica continuava a rimpiazzarle, mentre non si poteva dire lo stesso della Flotta, ormai allo stremo.
   Le ragioni erano molteplici. Rangda controllava i sistemi centrali dell’Unione, dove si concentravano la popolazione e le industrie. Era lì che si arruolavano i Pacificatori e si costruivano le loro navi. I Voth li sostenevano con un fiume inesauribile di aiuti economici e armamenti, anche se di rado si scomodavano a combattere in prima persona. E nella frenesia di prevalere, la dittatrice si era alleata persino con i Breen, che l’avevano molto aiutata nel primo anno di guerra, salvo ritirarsi dopo le gravi perdite subite nel sistema bajoriano.
   Per contro i ribelli controllavano i sistemi periferici, divisi in due tronconi che faticavano a tenersi in contatto e a prestarsi aiuto. Il Fronte Occidentale, piccolo e circondato dal nemico, era quasi del tutto crollato dopo la Caduta di Bajor. Ormai non restavano che poche roccheforti isolate, come Cardassia e Ferenginar, più qualche sacca di resistenza nelle Badlands. Il Fronte Orientale era inizialmente più vasto e saldo, poiché comprendeva lo spazio dei Klingon e della Repubblica Romulana, dove si trovavano molti cantieri spaziali e fabbriche d’armi. Ma alla fine del secondo anno di guerra anch’esso era andato in crisi, quando lo Stato Imperiale Romulano aveva sferrato un attacco-lampo per riconquistare i mondi della Repubblica. Gli Imperiali erano stati fermati nella Battaglia di Nuovo Romulus, a prezzo d’enormi sacrifici; ma gran parte dello spazio romulano restava in mano loro. Così non rimanevano che i Klingon a opporsi all’Unione; e ormai anche loro stavano cedendo, come uno scoglio consumato dalle onde.
   E non era tutto. Quando un pianeta veniva conquistato dall’Unione, era interamente posto al servizio dello sforzo bellico. La popolazione subiva coscrizioni obbligatorie per rimpinguare le fila dei Pacificatori. Le industrie venivano nazionalizzate e convertite alla produzione di armi e astronavi. Le risorse naturali erano depredate, senza alcun rispetto per l’ambiente. Dunque più l’Unione guadagnava terreno, più si rafforzava, a discapito della Federazione in continua ritirata. Il nuovo regime si era distinto fin da subito per l’estrema brutalità: la popolazione era indottrinata con una propaganda capillare, la libertà d’espressione era stroncata, gli Umani subivano discriminazioni sempre più ignobili. Inoltre il patrimonio culturale – arte, letteratura, spettacoli – era sottoposto a un severo scrutinio: tutto ciò che non rispettava i dogmi sempre più rigidi dell’Unione veniva spietatamente cancellato. Nella nuova utopia di Rangda non c’era posto per il dissenso, né per la memoria dei tempi in cui le cose andavano diversamente.
   «Come vedete, la situazione sul fronte Klingon è drammatica» disse l’Ammiraglio Chase. «Ora che i mondi di frontiera sono caduti, l’attacco a Kronos è imminente. E una volta persa la capitale, sarà la fine. Le nostre Intelligenze Artificiali hanno analizzato milioni di scenari tattici, prevedendo ogni possibile mossa e contromossa. In tutti questi scenari, senza nessuna eccezione, la guerra è persa. Possiamo resistere sei mesi al massimo, ritirandoci sempre più nello spazio Klingon; poi dovremo accettare la resa incondizionata».
   «Giammai!» ringhiò Mogh’Lar. «Noi Klingon non cederemo la nostra patria, né accetteremo la resa! Piuttosto lotteremo fino all’ultimo guerriero!».
   «Voi Klingon!» lo motteggiò Irek. «E delle altre specie, che mi dite? Anche noi dobbiamo sacrificarci fino all’ultimo?».
   «Se aveste il nostro senso dell’onore... sì!» rispose fieramente Mogh’Lar.
   «Beh, non ce l’abbiamo!» rimbeccò il rappresentante Ferengi. «A questo punto è meglio accordarci per la resa. Se lo facciamo ora, potremmo strappare condizioni favorevoli».
   «Rangda non offre mai condizioni favorevoli!» obiettò il Legato Azel, rappresentante dei Cardassiani. «Abbiamo visto tutti cosa fa ai pianeti conquistati. Li depreda e li tiranneggia come...».
   «... come faceste voi con noi» concluse il rappresentante dei Bajoriani in esilio.
   «Se trovassimo dei nuovi alleati, le cose potrebbero cambiare» suggerì il delegato dei Remani, una delle specie più impegnate nello sforzo bellico.
   «Ma quali alleati!» berciò il Ferengi. «Non vedete che i Pacificatori ci hanno messi in ginocchio? Nessuno vuole più unirsi a noi! I nostri membri si sfilano uno dopo l’altro. Anche i mondi che all’inizio si erano dichiarati neutrali ora vengono riassorbiti dall’Unione!».
   «Già, non mi stupirei se alcuni che siedono tra noi avessero già avviato trattative segrete per passare al nemico» disse il Bajoriano, guardandolo storto.
   «Basta così! Non è col disfattismo e i litigi che risolleveremo le nostre sorti!» disse Chase, riprendendo il controllo della situazione. «Davanti a noi si pone un bivio. È chiaro ormai che presto non saremo più in grado di affrontare grandi battaglie. Dovremo ricorrere ad attacchi “mordi e fuggi” e a tecniche di guerriglia. Così facendo, però, ci trasformeremmo in un movimento terroristico, com’è accaduto alla Catena Cremisi. Questo ci priverebbe della nostra anima, dei nostri ideali, e in ultima analisi vanificherebbe i nostri sforzi. Perché se dobbiamo diventare spietati come i Pacificatori, tanto vale che vincano loro!».
   Un opprimente silenzio cadde sulla tavola, rotto solo dai lontani brontolii dei tuoni e dai rintocchi della campana. Quella era la scelta che tutti temevano e della quale, in fondo, erano sempre stati dolorosamente consapevoli. Sapevano di trovarsi in una situazione senza sbocco: o si arrendevano a Rangda, o entravano in clandestinità. In ambo i casi, gli ideali della Federazione sarebbero morti.
   «Ha detto che ci troviamo a un bivio, ma è chiaro che rigetta entrambe le strade» disse infine Irek. «Dunque che cosa propone?».
   «Dobbiamo percorrere una terza via» rispose l’Ammiraglio. «L’onorevole delegato remano ha visto giusto, quando ha detto che ci servono nuovi alleati».
   «E quali? Ormai tutti ci abbandonano!» si disperò il Ferengi.
   Hod ricordò ciò che Juri le aveva riferito della sua visione ottenuta tramite il Cristallo del Destino, due anni prima. In quell’occasione i Profeti, gli esseri incorporei che vegliavano su Bajor, avevano detto chiaramente che la Federazione non poteva vincere la guerra. «Nessun potere di questa Galassia può salvarvi», avevano affermato. La notizia era così tragica che i vertici della Flotta avevano deciso di tenerla segreta, per evitare che il panico e la disperazione inducessero i leader politici ad arrendersi.
   «È vero, i popoli di questa galassia ci hanno voltato le spalle» ammise l’Ammiraglio, riecheggiando in parte la spaventosa profezia. «Ma come sapete, la Via Lattea non è l’unica galassia; ce ne sono innumerevoli altre. Io sono stato in una di queste, e vi ho trovato degli alleati».
   «Andromeda!» esclamò Lantora. «Sembra passato un secolo da quando la esplorammo».
   «Quando tornammo indietro, eravamo in buoni rapporti con molti dei suoi abitanti» aggiunse T’Vala. «I Kelvani, i Nacene...».
   «... e i Proto-Umanoidi» concluse l’Ammiraglio. «È un progetto che carezzo da tempo. Nell’ultimo anno ne ho discusso col Capitano Hod, perciò vorrei che fosse lei a esporlo».
   Bruscamente chiamata in causa, l’Elaysiana vide tutti i volti che si giravano verso di lei. Allora si alzò, respirò a fondo e prese la parola. «Signor Presidente, onorevoli delegati... anche se ormai stentiamo a ricordarlo, la Guerra Civile ha avuto origine da un preciso casus belli. I Voth si sono presentati a noi reclamando la restituzione della Terra, su cui ebbero origine milioni di anni fa. Questo ha scatenato il dilemma: a chi spetta il pianeta? Ai Voth che si sono evoluti per primi ma poi l’hanno abbandonato? O agli Umani che si sono evoluti in seguito e mai l’hanno lasciato spontaneamente? Finché non risolveremo la questione, il conflitto continuerà, che sia guerra aperta o lotta clandestina.
   A complicare le cose, fino a poco tempo fa nessuno – nemmeno i Voth! – sapeva come fossero andate le cose. Non sapevamo, cioè, se i sauri avessero abbandonato la Terra di loro spontanea volontà, e per quale motivo. La nostra ultima esplorazione temporale, tuttavia, ha finalmente risolto il mistero. Furono i Proto-Umanoidi a trasferire gli Hadrosauri, ben prima che divenissero senzienti, per impedirne l’estinzione».
   «E questo ha importanza?» chiese il Ferengi.
   «Penso proprio di sì» annuì Hod. «Vedete, ciò che ci serve è un arbitro: una specie imparziale, che possa osservare la contesa da fuori ed esprimere un verdetto spassionato. Purtroppo i Voth, vecchi di milioni d’anni e con un ego più grosso delle loro astronavi, non accettano d’essere giudicati dai popoli più giovani. Lo troverebbero umiliante. Ed è qui che entrano in gioco i Proto-Umanoidi!». Sul volto dell’Elaysiana brillò una feroce soddisfazione. «Loro sono i più antichi e prestigiosi di tutti. Hanno favorito l’evoluzione delle specie successive... inclusi i Voth! Al loro confronto, quelle lucertole arroganti non sono che mocciosi. Sì, ci penseranno i Progenitori a rimetterli al loro posto. Dopotutto furono loro a salvarli dall’estinzione; questo li rende responsabili delle conseguenze».
   «Ne è certa? Non mi pare che i Proto-Umanoidi si siano mai assunti la responsabilità dei loro interventi» brontolò Azel. Parecchi rappresentanti mormorarono il loro assenso.
   «Di regola no, perché anche loro hanno una direttiva di non interferenza con le specie più giovani» convenne l’Ammiraglio Chase. «Ma quando visitammo Andromeda con l’Enterprise-J, li aiutammo a sconfiggere la Scourge. A battaglia conclusa dissero che erano in debito con noi. Non possono averlo scordato».
   «D’accordo, mettiamo che accettino di fare da arbitri» disse Irek. «Ammettiamo pure che, in segno di riconoscenza, il loro giudizio vada in nostro favore. Chi ci dice che non resterà lettera morta?».
   «I Proto-Umanoidi sanno far rispettare il loro volere, quando vogliono» rispose l’Umano. «Malgrado i danni della Scourge, sono ancora più numerosi e più potenti di qualunque specie della Via Lattea».
   «Un anno fa ho visitato la loro antica dimora nella nostra Galassia, la Sfera di Dyson. Sebbene sia abbandonata da millenni, rimane la più formidabile megastruttura della Via Lattea» rincarò Hod. «Era disarmata, ma i suoi raggi traenti avevano una tale potenza da distruggere le Narada dei Romulani Imperiali. Immaginate che può fare una flotta da guerra dei Progenitori!».
   «Indubbiamente sarebbero dei potenti alleati» convenne Mogh’Lar. «Ma il mio dubbio è un altro. Poniamo che i Progenitori assegnino la Terra agli Umani. Poniamo inoltre che i Voth accettino il verdetto, o che siano costretti ad accettarlo con la forza. Perché mai questo dovrebbe porre fine alla Guerra Civile? La contesa sulla Terra sarà anche stata la scintilla del conflitto, ma ormai questo è divampato ben oltre tale questione. È una guerra tra noi e Rangda; tra Federazione e Unione».
   «Peggio ancora» disse Irek. «È una guerra tra ideologie. L’Unione non cambierà la propria solo perché la Terra è passata di mano. Rangda non sarà deposta e i Pacificatori non cederanno il controllo degli altri mondi. Credo anzi che il loro attacco si farà ancora più rabbioso».
   L’Ammiraglio Chase e il Capitano Hod si scambiarono un’occhiata, infine fu l’Umano a prendere la parola. «Il pericolo certamente esiste» riconobbe. «Ma se dimostriamo che il nemico si sbagliava sul casus belli, sarà comunque una grande vittoria d’immagine. Potrebbe scatenare una rivolta sui mondi dell’Unione che, ricordiamolo, vengono spremuti per le loro risorse. E non è da escludere che i Proto-Umanoidi ci aiutino fattivamente anche per quanto riguarda lo scenario bellico più ampio. In fondo, l’armonia che c’era un tempo tra i popoli federali era ciò che essi auspicavano per tutti i loro “figli”. Possiamo sperare che non vogliano far naufragare questo sogno».
   «Detto così, sembra fin troppo facile» intervenne Azel. «Se è da tempo che ci ragionate, perché non avete già inviato una nave ad Andromeda? Perché aspettare l’ultimo momento?».
   «Perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare... o in questo caso, la Grande Barriera Galattica!» rispose Chase, mostrando un’altra immagine olografica. La Via Lattea galleggiò sopra il tavolo tattico, in tutta la sua maestosità. Una sottile barriera la circondava, seguendone grosso modo le forme: avvolgeva il bulbo centrale e i bracci a spirale, comprendendo anche gran parte degli ammassi globulari.
   «La Barriera è una regione d’interferenze subspaziali che per millenni hanno impedito alle astronavi d’entrare o uscire dalla Via Lattea, isolando a tutti gli effetti la nostra galassia dal resto dell’Universo» proseguì l’Ammiraglio. «Credevamo che fosse un fenomeno naturale, ma quando finalmente la varcammo e raggiungemmo Andromeda, scoprimmo che erano stati i Proto-Umanoidi a erigerla, per difenderci dai pericoli extra-galattici. Questa Barriera è tutt’ora un grosso ostacolo: può distruggere le astronavi e in certi casi ha avuto strani effetti sugli equipaggi. Alcuni individui hanno subito un aumento esponenziale delle facoltà ESP, acquisendo poteri formidabili, ma divenendo anche squilibrati e aggressivi».
   Chase non aggiunse che c’era una sola persona la quale, avendo subito questa metamorfosi, era tornata alla normalità; né che quella persona sedeva tra loro. Ma Lantora afferrò la mano di sua moglie e la strinse sotto il tavolo, ricordando i giorni terribili in cui aveva temuto di perderla. T’Vala era tornata normale solo grazie all’aiuto di un’entità aliena che in seguito si era dileguata; non c’era da aspettarsi un secondo miracolo, se qualcuno si fosse trasformato.
   «E allora? Non vedo dove sia il problema» insisté il Legato cardassiano. «Se avete varcato la Barriera una volta – anzi due, contando il ritorno – vuol dire che abbiamo la tecnologia per farlo».
   «Così credevamo» sospirò l’Ammiraglio. «Infatti una volta tornato contavo d’inviare altre navi ad Andromeda, per mantenere i contatti con gli alleati e proseguire l’esplorazione. Ma c’è stato un imprevisto che nessuno aveva considerato. Negli anni seguenti le interferenze subspaziali sono aumentate, rendendo la Barriera di nuovo invalicabile».
   Un mormorio preoccupato percorse il tavolo. «Credete che sia un tentativo deliberato di tenerci in gabbia?» chiese Irek.
   «L’opinione prevalente tra gli scienziati è che si tratti di una fluttuazione naturale» rispose Chase. «L’intensità della Barriera ha sempre oscillato da una zona all’altra e da un periodo all’altro. Nel XXIII secolo una sua porzione s’indebolì a tal punto che alcune navi federali poterono uscire, per quanto fossero meno avanzate delle attuali. In seguito la Barriera tornò a rafforzarsi. Non eravamo ben consapevoli del fenomeno, finché l’aumento degli ultimi anni l’ha reso evidente».
   «Quindi siamo come targ in gabbia... e tutto il suo parlare dei Proto-Umanoidi è stato inutile?!» domandò Mogh’Lar, incredulo.
   «No, o non avrei perso tempo a discuterne» corresse l’Umano. «È da un anno che invio sonde a esaminare la Barriera, cercando un punto abbastanza permeabile da permetterci d’oltrepassarlo. Ora finalmente l’abbiamo trovato. E non è nemmeno molto lontano da qui: si trova nel settore di Canopus».
   «Quel settore è in mano all’Unione» notò Irek. «Non potete trovare un’altra zona adatta, all’interno del nostro spazio?».
   «Se facessimo una ricerca a maglie più strette, probabilmente ne troveremmo qualcuna» disse l’Ammiraglio. «Ma ormai ce ne manca il tempo. Come dicevo, l’attacco a Kronos è imminente. Se vogliamo resistere fino al giorno in cui i nostri inviati torneranno coi Proto-Umanoidi, dobbiamo farli partire adesso».
   «Dobbiamo aspettarci che i Pacificatori ci sbarrino il passo?» volle sapere Mogh’Lar.
   «Abbiamo mantenuto il massimo riserbo su questo piano» rispose Chase. «Ma per esaminare la Barriera abbiamo dovuto impiegare molte sonde. È possibile che i Pacificatori ne abbiano rilevate alcune, e da lì abbiano dedotto le nostre intenzioni» ammise. «In tal caso potrebbero cercare di fermarci, o persino di precederci. Ma questa è una ragione in più per affrettarci, ora che abbiamo trovato un varco. Per questo mi rivolgo a lei, signor Presidente. Questa missione avrà conseguenze cruciali per le sorti della guerra, quindi occorre la sua autorizzazione. Possiamo procedere?».
   Mogh’Lar rimase a lungo in silenzio, rimuginando su quanto detto. L’Ammiraglio e gli altri ufficiali temettero che l’orgoglio o il senso dell’onore gli vietassero di chiedere aiuto ai Proto-Umanoidi, anche in un frangente così disperato. Ma il Klingon ascoltò gli ultimi rintocchi funebri della Campana di Kahless e sospirò rattristato. «Faccia la sua spedizione, Ammiraglio. Ma posso autorizzare la partenza di una sola nave, perché tutte le altre ci occorrono qui, a difendere Kronos e gli altri mondi».
   «Come desidera, Presidente» disse l’Umano, senza insistere. «Avevo già messo in conto che non possiamo privarci di una flottiglia».
   «Se tutto deve ricadere sulle spalle di un solo Capitano... chi pensa d’inviare?» domandò Irek.
   «Ci ho pensato a lungo» rispose Chase. «Io personalmente devo restare per dirigere la difesa, ma qui ci sono altri tre veterani di Andromeda». Così dicendo passò lo sguardo da Ilia a Lantora e infine a T’Vala. «Tutti loro sono oggi degli affermati esponenti della Flotta; potrei designare uno qualunque di loro con piena fiducia. Tuttavia non devo pensare solo al comandante, ma anche alla nave. E a mio avviso, la Keter è il vascello che ha più probabilità di farcela. È il più corazzato della Flotta e uno dei più veloci a subluce, qualità utili per varcare la Barriera. Dunque l’incarico è suo, Capitano Hod. In fondo anche lei fu con noi ad Andromeda» si rivolse all’interessata.
   Sentendo gli sguardi su di sé, l’Elaysiana si sentì a disagio. «All’epoca ero solo una passeggera civile... una ragazzina» si schermì. Non disse ciò che più la opprimeva: che in quella missione aveva perso suo padre, ingegnere di seconda classe dell’Enterprise, e che aveva sperato di non mettere mai più piede ad Andromeda.
   «Avrete con voi anche Terry, che ricorda quella missione in ogni dettaglio» ribatté l’Umano. «Andrete dapprima a Kelva Primo, dove si trovano i nostri alleati Kelvani, e da lì cercherete di localizzare i Proto-Umanoidi. Dobbiamo tener conto che dai tempi della Scourge essi vivono in un’enorme flotta, lo Sciame, in perenne movimento da un sistema all’altro». L’Ammiraglio tacque brevemente, poi riprese in tono più confidenziale: «In circostanze normali non glielo chiederei, considerando il suo esemplare stato di servizio. Ma considerando che da questa missione dipendono interamente le nostre sorti, devo saperlo: accetta l’incarico? In caso contrario, nominerò un sostituto».
   Ancora una volta Hod si sentì osservata da tutti. I capi della Federazione e della Flotta Stellare confidavano in lei; come poteva tirarsi indietro? D’un tratto i suoi dubbi svanirono. Non che le fosse passato il timore, ma era giunta alla conclusione che la Keter sarebbe stata meno efficiente, se lei fosse stata sostituita alla vigilia della missione decisiva. C’erano voluti anni per arrivare a quel punto, ma ormai l’equipaggio era un meccanismo ben oliato. Lei conosceva i suoi ufficiali, loro conoscevano lei e tra tutti c’era piena fiducia. L’arrivo di un nuovo Capitano, per quanto meritevole, avrebbe scombussolato questa delicata alchimia.
   «Accetto la missione, Ammiraglio, e le responsabilità che questa comporta» dichiarò l’Elaysiana. «Troverò i Proto-Umanoidi e otterrò la loro collaborazione. Questo è il mio solenne impegno, da ora fino al giorno del successo, o della morte».
 
   Quella sera il Capitano Hod fu invitata dall’Ammiraglio nel suo ufficio per discutere i dettagli della missione. L’Elaysiana ne approfittò per porre la domanda che da un pezzo la rodeva. «Signore, io e il mio equipaggio ci chiedevamo se ci sono notizie della Stella del Polo» disse.
   «Nessuna, negli ultimi tre mesi» s’incupì l’Ammiraglio. «Dopo la Battaglia della Forgia quella nave è scomparsa nel nulla. Tra i corsari gira voce che sia stata distrutta, ma non ci sono prove. Comunque ho fatto esaminare la zona: non ci sono resti della Stella. E i Pacificatori non ne hanno rivendicato la distruzione, come certo avrebbero fatto in caso di successo. Posso solo supporre che sia ancora là fuori... da qualche parte».
   Hod sapeva quanto costasse all’Ammiraglio parlare così, dato che su quell’astronave c’era la sua unica figlia. «Sono certa che Jaylah sta bene» disse, più per confortarlo che per effettiva sicurezza. «È in gamba, e così pure lo Spettro. Si saranno nascosti da qualche parte per riorganizzarsi».
   Chase non rispose a quest’affermazione, ma tornò a parlare del viaggio ad Andromeda. Per tutto il resto dell’incontro la questione dei corsari non fu più toccata.
 
   Era tardi quando Hod rientrò sulla Keter, annunciando all’equipaggio la nuova missione. Subito la frenesia corse da un ponte all’altro. Per una ciurma demoralizzata dalle continue sconfitte e consapevole dell’imminente rovina, il viaggio ad Andromeda costituiva l’ultima speranza. Il Capitano e gli ufficiali superiori presero subito a dirigere i preparativi. Bisognava accertarsi che la nave fosse nelle migliori condizioni, per varcare la Barriera e superare l’immane vuoto intergalattico. E anche dopo essere giunti ad Andromeda, non era detto che fosse facile scovare i Proto-Umanoidi. L’Enterprise-J ci aveva impiegato ben tre anni; e c’era riuscita solo perché loro avevano deciso di farsi trovare. Ora però non si poteva attendere così tanto, o al ritorno avrebbero trovato solo rovine.
   I preparativi investirono tutti i ponti e tutte le sezioni, compresa l’infermeria. I medici infatti dovevano informarsi sulle patologie di Andromeda, affinché l’interazione con gli abitanti di quella galassia non comportasse rischi. Tuttavia, il giorno dopo l’annuncio, la dottoressa Ladya Mol trovò il tempo di scendere su Kronos. Si recò al Comando Medico della Flotta Stellare, che era stato allestito a inizio guerra in un’area dismessa, in quanto i Klingon non erano famosi per l’abilità medica. Qui Ladya ottenne un incontro con la direttrice, la dottoressa Neelah. Nel vedere l’Aenar, non poté fare a meno di pensare che quella era la madre di Jaylah, e certo si preoccupava più di chiunque altro per la sua sorte. Ma per tutta la durata del colloquio, la figlia scomparsa non fu mai nominata.
   «Benvenuta, dottoressa Mol» l’accolse Neelah, venendole incontro a passo svelto. «So che siete in procinto di partire per Andromeda. Vuole verificare che il vostro database medico sia completo?» chiese nel solito tono sbrigativo.
   «Anche quello, sì» confermò Ladya. «Ma inoltre volevo sapere se ci sono novità nella lotta contro la sterilità degli Umani». Era la grande sfida che aveva assorbito i medici della Flotta nell’ultimo anno. Da quando la Vidiiana aveva scoperto che i reduci dei Centri di Rieducazione erano stati sterilizzati, lei e i colleghi avevano cercato di riparare al danno. Il fallimento avrebbe comportato il declino della specie umana e forse persino la sua estinzione. Ladya aveva preso a cuore la faccenda, tanto da farne un’ossessione; ma i suoi progressi erano scarsi.
   Nell’udire la richiesta, Neelah corrugò la fronte. «Ho convocato tutti gli specialisti disponibili, ma molti non hanno potuto raggiungerci, ora che le rotte sono così pericolose. E le attrezzature mediche di cui dispongo qui su Kronos sono del tutto inadeguate, frell! I Klingon non hanno la minima idea di cosa significhi fare ricerca medica» si lamentò.
   «Ma avrete fatto pure qualche progresso!» esalò Ladya. «Stamane vi ho trasmesso i miei aggiornamenti; se voi m’inviate i vostri...».
   «Già fatto. Li ho trasmessi alla Keter pochi minuti fa» assicurò Neelah. «Ma c’è davvero poco di nuovo. La terapia genica è stata un fallimento e così gli esperimenti con le nanosonde. Al momento l’unico modo in cui gli Umani sterilizzati possono procreare è trasformando le cellule somatiche in gameti e fecondandole in vitro, per poi impiantarle. Non proprio un modo sano di riprodursi!» sbuffò. «Ma sono soprattutto le statistiche ad allarmarmi».
   «Quali statistiche?» chiese la Vidiiana.
   «Quelle sulla fertilità umana nei mondi dell’Unione» spiegò l’Aenar, attivando un oloschermo fitto di dati e grafici. «Da quando è scoppiata la guerra, le nascite sono colate a picco. Molto dipende dal fatto che gli Umani sono così discriminati e pessimisti sull’avvenire che non osano avere figli. Addirittura l’80% delle giovani coppie dichiara che non intende averne nel prossimo futuro. Ma il problema non è tutto qui. Io credo che molti Umani siano sterilizzati anche senza passare dai Centri di Rieducazione, durante le visite di routine».
   «Sarebbe... un’atrocità» mormorò Ladya.
   «E non è tutto!» proseguì Neelah, richiamando altri dati. «La natalità sta crollando presso la maggior parte delle specie, anche se non in modo così repentino. Qui non c’è traccia di sterilizzazioni, ma pesa l’incertezza sul futuro. La gente è angosciata, depressa... e sempre più disturbata. Pensi che le patologie mentali sono decuplicate negli ultimi tre anni. Gli abitanti dell’Unione stanno letteralmente impazzendo!».
   Ciò detto, l’Aenar si avvicinò alla Vidiiana, parlandole in tono quasi supplicante. «Trovate i Proto-Umanoidi, a ogni costo» la esortò. «Perché se loro non ci aiutano, l’Unione non sarà solo una dittatura: sarà anche una gabbia piena di squilibrati. E infine sarà la tomba dell’Umanità, e forse di parecchie altre specie».
 
   Tornata sulla Keter, Ladya si trattenne fino a tardi nel suo ufficio, leggendo gli aggiornamenti trasmessi dal Comando Medico. Neelah non aveva esagerato: la situazione era davvero sconfortante. La Vidiiana era così immersa nella lettura che non udì il cicalino della porta. Solo quando sentì bussare si riebbe un poco. «Avanti» disse, senza nemmeno distogliere gli occhi dall’oloschermo.
   «Ah, eccoti. Cominciavo a preoccuparmi» disse Norrin, entrando nell’ufficio. «Sai che ore sono?».
   «Eh? Saranno le undici...» fece Ladya, assente.
   «Sono le due di notte».
   «Cosa?!» si riscosse la dottoressa. Controllò l’ora nell’angolo dello schermo, certa che il compagno si sbagliasse; ma constatò che aveva ragione. «Ho perso la cognizione del tempo... capita, quando si è indaffarati» si giustificò.
   «Ne so qualcosa» convenne l’Hirogeno. «Anch’io sono appena smontato dal turno. Vado a riposare... e vorrei che lo facessi anche tu, o tanto vale che resti qui fino al mattino».
   «Arrivo tra un minuto, caro» disse Ladya, continuando a leggere.
   «No, tu vieni adesso» insisté Norrin. Si accostò alla scrivania e con gesto repentino disattivò l’oloschermo.
   «Ehi, che fai?!» protestò la Vidiiana.
   «Mi assicuro che tu non vada in esaurimento» rispose l’Hirogeno. «Alla Keter non serve un Medico Capo che dorme in piedi per la stanchezza. E come tuo compagno sono preoccupato per te» aggiunse.
   «Conosco i miei limiti...» cominciò Ladya.
   «Allora saprai di averli superati» disse Norrin, posandole una mano sulla spalla. «Suvvia, sei un medico. Non devo dirtelo io che succede quando non si riposa abbastanza. Ci sono confusione, vuoti di memoria... e irritabilità» aggiunse, proprio mentre Ladya scacciava la sua mano con aria infastidita.
   La Vidiiana si bloccò a metà del gesto, rispecchiandosi nella diagnosi. «Hai ragione» ammise, addolcita. «Ma è frustrante vedere che i miei sforzi per curare gli Umani sono inutili. Quel che gli hanno fatto i Pacificatori è diabolico: ogni volta che sistemiamo un problema se ne apre un altro. Speravo che al Comando Medico avessero fatto qualche progresso... invece niente! Anche loro brancolano nel buio».
   «Prima o poi ce la farete» la incoraggiò l’Hirogeno. «L’importante è che tu non ti distrugga prima. Ci sono già abbastanza autolesionisti nella Galassia».
   «Puoi dirlo forte» sbadigliò Ladya, alzandosi finalmente dalla poltroncina.
   I due si presero a braccetto e lasciarono l’infermeria, diretti al loro alloggio. Nel frattempo continuavano a parlottare. «Nessuna notizia di Jaylah?» chiese la dottoressa.
   «Macché. Il Capitano ha chiesto all’Ammiraglio Chase, ma anche lui non ne sa nulla» rispose Norrin, rabbuiato. «Mi sarebbe piaciuto riaverla a bordo per questa missione. Sarebbe stato come tornare ai vecchi tempi, prima che tutto andasse in malora» ammise. «Certo che, se falliamo...» lasciò in sospeso.
   Ladya si fermò, costringendolo a fare altrettanto. «Se falliamo? Continua» lo esortò.
   «Se la Flotta si sbanda, anche noi della Keter saremo costretti a prendere strade diverse» spiegò l’Hirogeno. «Se così fosse, verresti con me presso il mio clan?» chiese, scrutandola con ansia.
   «Seguirti dagli Hirogeni?! Io... devo pensarci» disse Ladya, con il cuore in tumulto. Sebbene amasse molto Norrin, non era sicura che sarebbe riuscita a vivere in mezzo ai suoi selvaggi parenti, che seguivano l’antico stile di vita dei Cacciatori. Come avrebbe potuto proseguire le sue ricerche mediche, in quelle condizioni?
   Norrin capì di aver commesso un errore. «Scusa, non avrei dovuto parlartene così di botto, a quest’ora» disse, scuotendo la testa. «Temo d’essere intontito anch’io. Fa’ conto che non abbia detto niente».
   «Sì... non ha senso fasciarci la testa prima d’essercela rotta» convenne Ladya. Proseguirono in silenzio fino all’alloggio e una volta lì andarono subito a riposare. Nei giorni successivi non toccarono più l’argomento, nemmeno a orari più civili. Norrin sperava che Ladya se ne fosse dimenticata, ma lei ce l’aveva ben presente. E poiché non riusciva a decidersi, poté solo sperare che la missione riuscisse.
 
   I preparativi erano quasi ultimati quando Lantora e T’Vala salirono sulla Keter per salutare loro figlio Vrel. I tre si ritirarono nell’alloggio del timoniere, per parlare in tranquillità; e lo fecero fino a notte fonda. Lo Xindi e la mezza Vulcaniana narrarono al figlio di quando avevano esplorato Andromeda con l’Enterprise; viaggio tanto più importante se si considera che Vrel era nato proprio in quel periodo. Il primo anno della sua vita lo aveva passato ad Andromeda, anche se ovviamente non poteva ricordarlo. Vrel era cresciuto ascoltando quei racconti e da grande aveva letto attentamente i rapporti dei suoi genitori e degli altri ufficiali. Ora però Lantora e T’Vala vollero descrivergli le loro impressioni sui vari popoli, onde facilitare l’approccio e ridurre i rischi di scontro. Gli dissero quali erano, a parer loro, i pericoli maggiori e le possibili strategie per evitarli.
   Vrel ascoltò con attenzione, imprimendosi tutto nella memoria. Contrariamente al suo atteggiamento spavaldo di un tempo, non cercò di sdrammatizzare. Sapeva che era una missione rischiosa e voleva trarre vantaggio dall’esperienza dei genitori. Le volte in cui li interruppe, fu solo per chiedere chiarimenti; mai per fare battute.
   Quando tutto fu detto, Lantora fece udire un sospiro. «Ciò che ti abbiamo raccontato risale a oltre trent’anni fa» disse. «Da allora non abbiamo più avuto contatti coi Proto-Umanoidi e gli altri popoli. Dunque non sappiamo come sia proceduta la ricostruzione post-bellica. Forse la Coalizione di Andromeda è ancora in piedi, o forse i suoi membri sono di nuovo nemici. In ogni caso cercate di non attardarvi con le altre specie, perché ogni giorno perso affretta la caduta della Federazione. Puntate direttamente ai Proto-Umanoidi e ricordategli che se hanno un briciolo d’affetto e di riconoscenza per noi, questo è il momento di dimostrarlo».
   «Lo faremo» promise Vrel. «Vorrei solo che Jaylah fosse con noi... o che almeno sapessimo come sta. Ma nessuno conosce le sorti della Stella del Polo».
   «Cerca di non pensarci, resta concentrato sulla missione» lo esortò T’Vala. «E sta’ attento agli effetti della Barriera Galattica! Colpiscono soprattutto chi ha un alto livello ESP. La trasformazione può essere graduale. All’inizio è esaltante: ti senti più intelligente, hai la sensazione di superare ogni limite. Ma il potere corrompe, figlio mio, quali che siano le intenzioni. Ricorda: dalla Barriera non è mai venuto niente di buono».
   «Lo terrò a mente» promise il timoniere. «Ma state attenti anche voi, quando difenderete Kronos. Non voglio tornare da Andromeda con gli aiuti, solo per scoprire che nel frattempo vi è successo qualcosa».
   «Ci rivedremo, lo sento» disse T’Vala. Nemmeno lei sapeva da dove le venisse quella certezza. Forse era una pia speranza, o forse l’ultima eco dei poteri che, per un certo tempo, la Barriera le aveva concesso. «Ci rivedremo tutti e tre» mormorò. Non disse “tutti e quattro”, perché da quando Lyra li aveva traditi non la consideravano più di famiglia. Anche stavolta il nome della secondogenita non fu mai pronunciato, sebbene la sua assenza pesasse a tutti.
   Infine Lantora e T’Vala si alzarono, imitati dal figlio. Dopo un ultimo commosso abbraccio si ritirarono, per tornare alle loro navi. La partenza della Keter era fissata per l’indomani.
 
   Quando la nave corazzata lasciò l’orbita di Kronos, non vi furono cerimonie. La popolazione non era stata informata della missione, per evitare fughe di notizie che avrebbero avvantaggiato l’Unione. Nemmeno gli equipaggi delle altre navi sapevano dove stesse andando la Keter. Per quanto si dispiacessero d’essere privati della sua potenza di fuoco, tuttavia, non se ne stupirono granché. Per tutta la guerra, la Keter era sempre stata un jolly che appariva e spariva nei momenti più impensati, spesso oltrepassando le linee nemiche per compiere missioni ad alto rischio. Di conseguenza pochi videro la sua partenza come un tradimento e molti sperarono che sarebbe tornata nell’ora del bisogno, magari con dei rinforzi. Nessuno però immaginava quanto lontana fosse la sua destinazione e quanto cruciale l’incarico.
   Il Capitano Hod contemplò un’ultima volta Kronos, chiedendosi se l’avrebbe rivisto, e in tal caso se sarebbe stato ancora in mano alla Federazione. Ma quando le stelle riempirono del tutto lo schermo, i suoi pensieri si rivolsero interamente alla missione.
   «Capitano a equipaggio» disse l’Elaysiana, aprendo un canale con tutti i ponti. «Conoscete il nostro incarico. Non credo d’esagerare, se dico che è il più importante che ci sia mai stato affidato. So che questi tre anni sono stati duri e che a molti di voi sembra di aver lottato invano, ma non è così. Nei mondi conquistati dall’Unione, sotto le ceneri della repressione cova ancora la scintilla della rivolta. Se avremo successo e restituiremo la Terra agli Umani, ecco che quel fuoco dilagherà anche sugli altri pianeti. È l’ultima occasione per restituire la libertà alle nostre famiglie. Tutte le nostre fatiche, i nostri sacrifici giungono ora alla prova finale. Partiamo dunque con questo augurio, anzi, con questo solenne impegno: alla fine di tutto, Rangda sarà detronizzata e la corona della vittoria spetterà a noi!».
   Così dicendo, il Capitano fissò la targa commemorativa su cui spiccava il nome dell’astronave: Keter, la Corona. Come le aveva spiegato Juri, quel termine indicava il sommo sephirot, ovvero l’emanazione più alta e pura dell’Intelletto divino, secondo la Cabala ebraica. Lo prese come un buon auspicio. «Vrel, ci porti alla Barriera Galattica» ordinò.
   «Saremo lì prima che se ne accorga» promise il mezzo Xindi, manovrando i comandi. La Keter entrò nel tunnel di cavitazione, diretta alla sua missione finale: quella che l’avrebbe incoronata oppure distrutta.
 
   Il pianeta Zakdorn era un globo verde-marrone, punteggiato di nubi. Mentre lo osservava dalla finestra panoramica della sala ricevimenti, sulla nave presidenziale, Rangda si sentì afferrare da un’intensa nostalgia. Erano anni che non vi rimetteva piede. Del resto, come avrebbe potuto? Gli impegni politici l’avevano tenuta lontana, costringendola a spendere i suoi giorni in quella fogna chiamata Terra. Ma le cose stavano per cambiare.
   «Plancia a sala ricevimenti. Siamo in orbita di parcheggio, signora Presidente» risuonò la voce del Capitano. «Desidera scendere subito?».
   «No, le dirò io quando. Voglio ammirare il palazzo da qui» rispose la Zakdorn. Dopo di che si rivolse a un ufficiale che l’affiancava. «Mi dia un ingrandimento» ordinò.
   «Certo, Eccellenza». L’ufficiale si recò a una consolle e inserì alcuni comandi. La finestra panoramica divenne un oloschermo su cui erano proiettate le telemetrie dei sensori. L’effetto era quello di un telescopio. Una porzione del pianeta fu progressivamente ingrandita, finché apparve la capitale. Era una grande città, attraversata da uno dei maggiori fiumi del continente. Ed era al centro di un immane progetto edilizio.
   Uno dei quartieri più vecchi e fatiscenti era stato raso al suolo, obbligando i residenti a ricollocarsi. Al suo posto c’era un vasto cantiere in cui stavano sorgendo enormi edifici. Il maggiore, nonché il più vicino al completamento, era il nuovo palazzo presidenziale. A poca distanza prendevano forma il Quartier Generale dei Pacificatori, la loro Accademia, il Centro Medico e tutte le infrastrutture annesse. Erano il segno tangibile di ciò che Rangda aveva annunciato già da tempo: il trasferimento della capitale su Zakdorn.
   «Ah, magnifico!» disse la Presidente, beandosi di quella vista. «Vieni, mia cara... osserva anche tu! Non è uno splendore?» chiese, facendo segno di avvicinarsi a una dei suoi Ministri, che fino a quel momento era rimasta in disparte.
   Lyra Shil si staccò dalla parete e si avvicinò a Rangda, fermandosi un passo più indietro, come un cagnolino ammaestrato. Osservò il palazzo, ancora ingabbiato dai ponteggi e fitto di operai all’opera. Doveva esserci un gran frastuono di voci e macchinari laggiù, anche se naturalmente nessun rumore poteva salire fino all’astronave in orbita. L’inquadratura dall’alto rendeva difficile farsi un’idea precisa dell’aspetto del palazzo, ma la mezza Xindi aveva già osservato delle olografie del progetto che lo mostravano da varie angolazioni.
   Era un’architettura massiccia e imponente, quasi barocca per l’abbondanza di ornamenti. Un’immensa cupola centrale, quasi completa, era circondata da un anello di torri affusolate. Da questo corpo centrale si dipanavano le ali dell’edificio, una verso ogni punto cardinale. Tra un’ala e l’altra vi erano spazi vuoti che, a lavori ultimati, sarebbero divenuti giardini. E invisibili nel sottosuolo si espandevano i sotterranei, i cui progetti erano secretati, ma che probabilmente erano ancora più estesi della parte in alzato. All’opposto del grigio-argento del suo omologo sulla Terra, questo nuovo palazzo aveva colori forti, quasi pacchiani, accostati in un modo che soddisfaceva l’occhio degli Zakdorn, ma che agli altri pareva stridente. Lyra pensò che somigliava molto agli antichi palazzi imperiali di Zakdorn, di cui aveva visto qualche immagine. La principale differenza erano le dimensioni, che in questo caso erano molto maggiori. Non proprio un buon auspicio, per un governo che si professava democratico...
   «Allora, che ne dici?» la esortò Rangda, che non riusciva a staccare gli occhi dal suo palazzo. Sembrava una bambina che sbircia dentro un enorme pacco-regalo.
   «È impressionante» disse Lyra. «L’indotto del cantiere ha creato molti posti di lavoro. Tutta l’area è stata riqualificata. Per la capitale significa un boom economico...».
   «Già, già... ma ti piace?!» insisté Rangda, come se fosse quella la cosa più importante.
   «Beh, è uno spettacolo indimenticabile. Credo che sia degno di lei, signora Presidente» rispose la Ministra.
   La Zakdorn non percepì l’ambiguità del discorso. «Mi hanno comunicato che i lavori saranno ultimati nei tempi stabiliti, vale a dire tra sei mesi» disse, più a se stessa che ad altri. «Erano in ritardo, sai... ho dovuto rimuovere l’architetto e trovare in fretta un sostituto. Roba da pazzi! Ma ce la faranno, anche se forse i giardini non saranno allestiti. Per allora la guerra sarà finita. E potremo traslocare con tutti i Senatori, i funzionari e il personale amministrativo. Poveri noi, che confusione ci aspetta!» ridacchiò, tremando in tutto il corpo segaligno. «Ma ne vale la pena, mia cara. La cerimonia d’inaugurazione sarà qualcosa di mai visto prima! Celebrerà sia la fine del conflitto che il mio ritorno a casa».
   «Serviranno imponenti misure di sicurezza, Eccellenza» mormorò Lyra. «L’Unione è ancora piena di malintenzionati».
   «Sei così cara, a preoccuparti per me!» disse Rangda, sfiorandole la guancia con una parvenza d’affetto. «Naturalmente prenderò tutte le precauzioni. Ma mi sento più al sicuro qui, tra la mia gente, che in ogni altro luogo della Galassia. Questo mondo, già faro di civiltà, sta per diventare il centro dell’Unione!» disse con enfasi.
   Dopo di che la Presidente lasciò la finestra e andò a parlottare con alcuni responsabili della sicurezza, per definire gli ultimi dettagli del suo tour nella madrepatria. C’erano molti luoghi da visitare, oltre al cantiere. In alcune tappe erano previsti dei bagni di folla, uno sfizio che Rangda non si concedeva da anni. I capi della Sicurezza avevano cercato in ogni modo di dissuaderla, ma la Zakdorn era stata irremovibile.
   «Forse anche lei è stanca di vivere murata nel suo ufficio» si disse Lyra. Lei certo lo era. All’inizio del suo incarico le cose erano diverse: la mezza Xindi era sempre in movimento da un sistema all’altro. Ma da quando era scampata a un attentato su Peliar Zel, aveva drasticamente ridotto i suoi spostamenti. L’ultimo anno, in particolare, lo aveva passato rinchiusa nel vecchio palazzo presidenziale terrestre. Le avevano detto che era per la sua sicurezza, visto che i sicari della Catena Cremisi erano ovunque, e lei ci credeva. Ma passando più tempo nella capitale, aveva cominciato a notare molte cose che prima le sfuggivano. Come il clima di terrore e repressione in cui vivevano i cittadini, o le continue lotte di palazzo dei funzionari che cercavano d’ingraziarsi Rangda a spese dei concorrenti. Peggio di tutto, aveva scoperto che chi contrariava la Presidente tendeva a “sparire” non solo fisicamente, ma anche dai documenti. Cancellato come se non fosse mai esistito.
   Lyra aveva cercato di razionalizzare, dicendosi che questi mali erano i frutti avvelenati della guerra e che, finita quella, tutto sarebbe tornato alla normalità. Ma le continue riforme autoritarie di Rangda indicavano che la Zakdorn non aveva la minima intenzione di ripristinare la “normalità”. Al contrario, tirava dritta per la sua strada... quella che, a sentir lei, portava alla società perfetta. E in quanto Ministra dell’Informazione, Lyra doveva fare la sua parte, che consisteva nel dirigere l’imponente macchina propagandistica dell’Unione. La mezza Xindi non ricordava quand’era stata l’ultima volta che aveva detto la verità in un discorso pubblico, ma certo ne era passato di tempo. Le informazioni erano la principale arma di quella guerra, quindi dovevano essere di un certo tenore. Se la realtà non collaborava con i presupposti ideologici dell’Unione, ebbene... era la realtà a sciogliersi come neve al sole.
   «Eccellenza, che accadrà ai vecchi palazzi su Vothan?» chiese Lyra, quando Rangda le si riaccostò per osservare il cantiere. Come sempre si era premurata d’usare il nuovo nome della Terra, quello scelto dai Voth.
   «Eh? Saranno rasi al suolo, naturalmente» si riscosse la Zakdorn. «Nessuno deve ricordare che quel pianeta ha avuto a che fare con l’Unione».
 
   La folla di giovani circondava l’Università di Sijn, eccezion fatta per la via d’accesso, tenuta sgombra da un cordone di guardie. Quello era l’istituto in cui Rangda si era laureata con lode in scienze politiche, molti decenni prima. Dunque era una delle sue tappe. Ed era il luogo in cui la Gioventù Rangdiana si era radunata per festeggiarla.
   La Gioventù Rangdiana era un’organizzazione giovanile formatasi già quando Rangda era Senatrice, ma che con la sua elezione a Presidente aveva conosciuto una diffusione capillare sui mondi dell’Unione. Ciononostante il suo principale centro di reclutamento restava pur sempre Zakdorn. Era quest’organizzazione che ancorava Rangda al popolo, facendo sì che le sue idee si diffondessero tra i giovani. Chi non vi aderiva poteva aspettarsi d’essere marginalizzato, nella scuola come nello sport, e persino nell’avviamento al lavoro. Era grazie alla Gioventù Rangdiana che la Presidente poteva sempre disporre d’attivisti che celebrassero le sue vittorie, l’accogliessero nelle sue visite e compissero spedizioni punitive contro i suoi oppositori.
   Ora la marea festante attutì gli schiamazzi, perché lungo la strada procedeva la levi-car della Presidente. Era circondata da due colonne di overbike della polizia e seguita da altri veicoli su cui viaggiava parte dello staff presidenziale. Tuttavia la levi-car di Rangda si distingueva per le dimensioni maggiori, la carrozzeria viola e il tettuccio aperto, che le permetteva di vedere e farsi vedere meglio. Era anche circondata da un campo di forza, come protezione nel caso di attentati.
   Il veicolo procedette lungo il viale con lentezza, così che Rangda potesse guardarsi attorno, salutare leziosamente e ricevere gli applausi del pubblico. Infine si arrestò davanti all’ingresso dell’Università. Era previsto che la Presidente entrasse per tenere un discorso agli studenti; discorso che sarebbe stato diffuso via Olonet in tutta l’Unione. Quando la levi-car fu ferma, la portiera si aprì e un inserviente accorse per aiutare Rangda a scendere. La Presidente si guardò attorno, con un sorriso soddisfatto, e rivolse un gesto benedicente alla folla. Poi si avviò su per la scalinata in marmo che portava all’ingresso dell’ateneo.
   Fu allora che il cecchino appostato su un edificio attiguo aprì il fuoco, disintegrandola.
 
   Per Lyra, che faceva parte del corteo, fu uno shock. Un attimo prima era dietro Rangda, a pochi passi di distanza, circondata come lei dall’affetto dei manifestanti. L’attimo dopo un agente della Sicurezza l’aveva buttata a terra e le faceva scudo, raccomandandole di non muoversi fino al ristabilimento della calma. Tutt’intorno la folla rumoreggiava, lanciando grida di stupore, dolore e rabbia. Molti cercarono di sfondare il cordone delle guardie, per avvicinarsi al luogo dell’assassinio, ma furono respinti. Le immagini trasmesse via Olonet destarono un’ondata di costernazione su centinaia di mondi. I cittadini dell’Unione si fissarono l’un l’altro, chiedendosi che ne sarebbe stato di loro. Sembrava assurdo che la leader carismatica che li aveva guidati attraverso la Guerra Civile morisse così, vittima di un sicario qualunque. Eppure non era certo la prima volta, nella Storia, che simili eventi si verificavano.
   Il cecchino fu catturato entro pochi minuti. Non aveva potuto fuggire con il teletrasporto perché tutta l’area era interdetta dagli inibitori, proprio per ragioni di sicurezza. Così non gli era rimasto che tentare la fuga a piedi, dopo aver abbandonato l’arma ed essersi disfatto del soprabito per essere meno riconoscibile. Ma con il cielo pattugliato dai droni accalappiatori, nessuno poteva sfuggire alle forze dell’ordine. Una volta preso, il sicario fu trascinato davanti all’Università, non lontano dal punto in cui Rangda era stata disintegrata. Rialzatasi, Lyra poté vederlo da vicino: era un Bajoriano. «Perché lo hai fatto?» gli chiese.
   «Sono della Catena Cremisi!» proclamò il killer. «Libertà per Bajor e per tutti i mondi occupati! A morte gli oppressori!» gridò, per farsi udire dagli astanti. Ma la folla rispose con insulti e minacce di morte.
   «Povero sciocco» mormorò Lyra. «Le cose non sono mai come appaiono». Ciò detto si ritrasse, unendosi al resto dello staff presidenziale che era sceso dai veicoli.
   Il sicario guardò la folla con aria di sfida, quand’ecco che accanto a lui comparve un ologramma, alto quanto una casa. Era Rangda, che alzò le mani per riportare la calma. «Niente panico!» disse con voce stentorea. «Come vedete, sono incolume. Mi spiace molto di aver dovuto ricorrere a un androide-sosia, anziché venire tra voi di persona, come vi aspettavate. Ma purtroppo la nostra società è ancora inquinata da pericolosi estremisti, come avete constatato coi vostri occhi. Questo vile attentato però non mi spaventa, anzi accresce la mia fermezza a estirpare il cancro della ribellione!».
   Dalla Gioventù Rangdiana salì un’ovazione che rasentava l’adorazione: i ragazzi si abbracciavano, saltavano di gioia o addirittura piangevano per il sollievo di vedere il loro idolo ancora in vita. Il sicario, invece, era sbiancato dall’orrore. Aveva perso la sua occasione... no, peggio ancora, non l’aveva mai avuta. Perché Rangda era sempre rimasta sull’astronave, fuori dalla sua portata. Almeno l’aveva smascherata, si disse: ora tutti sapevano che non osava esporsi alla folla e al suo posto mandava delle controfigure sacrificabili.
   «Dentro, canaglia!» disse il capo degli agenti, trascinandolo verso la navicella della polizia che era atterrata più indietro. «Ci dirai tutto sui tuoi mandanti e i complici».
   «Ti sbagli» rantolò il killer, e cadde riverso al suolo. Un filo di saliva schiumosa gli usciva dalla bocca.
   «Neurotossina» riconobbe un agente, chinatosi su di lui. «Doveva avere la capsula in bocca. Dubito che i medici potranno rianimarlo».
   «La scientifica esaminerà il cadavere e il suo equipaggiamento» disse il caposquadra. «Si possono dedurre molte cose anche da quelli».
   Il corpo del sicario fu trascinato sulla navetta, che decollò subito. Intanto l’ologramma di Rangda rivolgeva ancora qualche parola ai suoi sostenitori, per calmarli: «Tornate alle vostre case, ora. Il discorso che aspettavate lo pronuncerò stasera dalla mia nave e tutti voi potrete ascoltarlo via Olonet. Andate... e ricordate: è contro questa barbarie che ci battiamo».
   L’ologramma svanì e la folla cominciò a disperdersi, ancora rumoreggiante per l’emozione. Molti inveivano contro la Catena Cremisi e molti altri contro la Flotta Stellare, che non c’entrava niente; ma i cittadini stentavano a distinguere tra le due organizzazioni. Intanto Lyra e gli altri funzionari ricevettero l’ordine di tornare sull’astronave. La mezza Xindi era d’animo cupo, mentre risaliva sulla sua navetta. Quell’attentato aveva scombinato i piani di Rangda e con ogni probabilità l’avrebbe resa ancor più paranoica.
 
   «Un attentato contro di me, sul mio pianeta! È inaudito, semplicemente inaudito!» inveì Rangda, camminando avanti e indietro nella sala riunioni. Tutti gli altri erano seduti al loro posto, immobili e silenziosi.
   «Un margine di rischio c’è sempre, per ogni uscita pubblica» disse il capo della Sicurezza. «Il fatto che ci troviamo a Zakdorn non cambia le cose».
   «E che dovrei fare, vivere rinchiusa per il resto dei miei giorni?!» ribatté Rangda.
   «Col dovuto rispetto, ma il suo problema è quello di tutti i Presidenti in carica» disse il Comandante in Capo dei Pacificatori, uno Zakdorn come lei, che partecipava in olo-presenza. C’era una sottile critica in queste parole: Rangda si era lamentata di doversi rinchiudere “a vita”, mentre il Pacificatore aveva sottolineato che il suo mandato aveva una scadenza.
   «Il mio problema?! No, Ammiraglio: mantenere la sicurezza è affar vostro!» sbottò la Zakdorn. «Oggi avete fallito e a causa di questo la mia androide-sosia è stata distrutta. Me ne serve un’altra, al più presto».
   «Gliene faremo avere quante ne vuole. I nostri agenti su Coppelius ne hanno già fabbricate molte» assicurò il Comandante in Capo. «Tuttavia l’unica vera soluzione è evitare i bagni di folla, almeno fino al termine della guerra. E a proposito della sicurezza, c’è un’altra questione che dobbiamo affrontare».
   «Sì?» fece Rangda, smettendo finalmente d’aggirarsi.
   «Lei ha annunciato l’imminente trasferimento della capitale su Zakdorn» disse il Pacificatore. «Ma a differenza di Vothan, che si trova nel cuore dell’Unione, il nostro mondo è posto all’estrema periferia, presso il confine con lo Stato Imperiale Romulano. Orbene, è passato meno di un anno da quando gli Imperiali hanno sferrato l’attacco-lampo contro la vicina Repubblica...».
   «I Romulani Imperiali sono stati fermati» obiettò Rangda. «Lei stesso mi ha confermato che si stanno fortificando nei nuovi confini, senza dar segno di voler riprendere l’avanzata. E in ogni caso, Zakdorn non è mai stato assoggettato dai Romulani, quindi siamo esclusi dalle loro mire».
   «Gli imperi tendono a espandersi anche oltre i loro vecchi confini» insisté il Comandante in Capo. «Se i Romulani attaccassero Zakdorn, lo raggiungerebbero in poche ore. Non avremmo tempo per reagire».
   «La sicurezza della capitale è affar suo!» s’incaponì Rangda. «Faccia in modo che il nostro mondo sia ben difeso. Dovrebbe farlo comunque, anche se non divenisse la capitale!».
   «È da quando gli Imperiali hanno sferrato il blitzkrieg che stiamo rinsaldando le difese» assicurò il Pacificatore. «Ma vede, qui c’è di mezzo qualcosa di peggio dei Romulani. Nel loro assalto di un anno fa, essi usarono incrociatori di classe Narada potenziati con tecnologia Borg. Così facendo attirarono l’attenzione dei veri Borg, che attaccarono la flotta dell’Imperatrice Sela. Le registrazioni del Moloch ci dicono che con ogni probabilità la sovrana è stata assimilata. Quest’ipotesi è corroborata dal fatto che Sela non si è più vista e lo Stato Imperiale è governato dal Pretore Oren. È per questo che gli Imperiali non hanno più osato servirsi delle Narada: temono di attirare ancora i Borg. Ma ormai il danno è fatto! I Borg sono tornati nel nostro spazio e hanno acquisito informazioni aggiornate su di noi. È da credere che presto attaccheranno in forze. Se ciò accadrà, è probabile che puntino alla capitale, come fecero in passato».
   Cadde il silenzio. Tutti i presenti conoscevano i Borg, ma solo per averli studiati a scuola. Erano passati quasi due secoli dall’ultima volta che la Collettività aveva attaccato la Federazione. Solo tra le specie più longeve – oltre che tra i synth – c’era chi ricordava il terrore di quei giorni. Per tutti gli altri, compresa la classe dirigente, il termine “Borg” era solo uno spauracchio.
   «Dunque che vorrebbe fare?» chiese Rangda in tono controllato.
   «Quello che le dissi un anno fa, con la differenza che non essendoci ancora mossi, ora è molto più urgente» rispose il Comandante in Capo. «Dobbiamo concentrare le energie sulla fortificazione dei confini, non solo quello con lo Stato Imperiale. Dobbiamo aggiornare le strategie e le tecnologie anti-Borg. Ad esempio, la Flotta Stellare ci ha informati che i siluri transfasici non sono più efficaci come un tempo e credo che dovremmo crederle. Infine dobbiamo tenere le nostre navi a difesa dei sistemi chiave, in primis la capitale... che è meglio resti ben dentro ai confini...».
   Rangda fissò il Pacificatore come se fosse completamente pazzo, poi scoppiò in una risata stridula. «Già che ci siamo, perché non firmare la pace con la Federazione?!» chiese.
   «Non sarebbe una cattiva idea» rispose l’altro, serissimo.
   Tutti i presenti fissarono Rangda, che s’irrigidì. «Questa è pura follia» disse gelidamente la Zakdorn. «Dopo tre anni di guerra, abbiamo la vittoria a portata di mano. Dobbiamo stringere i denti per altri sei mesi e tutto finirà. L’Unione sarà di nuovo un corpo unico. Allora sì che potremo fortificarci e fare... beh... tutto quel che ha detto».
   «E se i Borg attaccassero prima di allora?» chiese il Comandante in Capo.
   La Presidente ci pensò un po’ su. «Mi dica, quanti avvistamenti di Borg ci sono stati, dopo l’incidente di un anno fa?» chiese infine.
   «Nessuno».
   «Quante trasmissioni subspaziali riconducibili ai Borg abbiamo captato?».
   «Nessuna».
   «Quanti avvistamenti e quante trasmissioni ci sono stati riferiti dai nostri vicini?».
   «Nessuno, ma...».
   «E allora di che si preoccupa? È chiaro che i Borg, se mai sono venuti, sono tornati nel Quadrante Delta dopo essersi sbarazzati delle Narada» disse la Zakdorn, con disarmante semplicità. «Se evitiamo di disturbarli, come stupidamente hanno fatto gli Imperiali, non li attireremo».
   «Questa è una pura congettura. Non conosciamo le loro intenzioni!» si scaldò il Comandante in Capo. «Per quanto ne sappiamo, può esserci una flotta di Cubi in rotta verso il nostro spazio...».
   «Non lo dica nemmeno!» gridò Rangda, facendosi paonazza. «Non permetterò che una minaccia ipotetica ci distragga da quella vera, tangibile che abbiamo davanti a noi! Oggi sono stata vittima di un attentato. Se al mio posto non avessi mandato la synth, sarei stata uccisa. È questo il nemico che dobbiamo sconfiggere!» sbraitò, sbattendo il palmo sul tavolo. «E la vittoria è a portata di mano. La Flotta Stellare è una bestia ferita e la nostra campagna finale nello spazio klingon l’abbatterà una volta per tutte. Ma se ora interrompiamo l’avanzata, le daremo modo di riprendersi e ricostituire le sue forze. Perderemo tutto ciò che abbiamo conquistato in questi anni. I nostri caduti saranno stati invano. E la perversa ideologia ribelle continuerà a esistere!».
   La Presidente contrasse il volto, come cercando di scacciare quel pensiero immondo. Poi riprese a parlare, in tono più calmo, ma anche più ispirato. «No, amo troppo quei pianeti per lasciarli in mano ai ribelli. Li devo salvare! È il mio dovere come Presidente e il vostro come Pacificatori. Un dovere che dobbiamo portare a termine, o sarà la fine del sogno federale. Volete che restiamo per sempre divisi? O volete cogliere l’occasione di andare fino in fondo e restituire la pace ai nostri mondi? Io scelgo la pace! E voi?».
   Un silenzio imbarazzato gravò sulla sala tattica. Poi, con voce raschiante, il Comandante in Capo mormorò: «La pace».
   Tutti i presenti ripeterono: «La pace». Anche Lyra lo disse, sebbene la parte più razionale di lei pensasse che nessuna pace era possibile, in caso d’attacco Borg.
   «Bene» disse Rangda, soddisfatta. «Ora possiamo discutere dell’attacco a Kronos. Dato che purtroppo non possiamo più contare sullo Sciame di Altamid, né sui nuovi Moloch, voglio che siano radunate tutte le navi disponibili, anche richiamandole dagli altri fronti. I Klingon sono capaci di ricorrere a tattiche kamikaze, nella loro ostinazione, quindi dovremo travolgerli con una forza schiacciante. Non tollererò che il nemico ci costringa alla ritirata, come accadde a inizio guerra». La Presidente s’illividì nel ricordare quello smacco, il peggiore della sua carriera.
   «Possiamo radunare novecento astronavi per questo attacco» disse il Comandante in Capo. «Naturalmente se prima di allora ci fossero segni d’attività Borg, dovremo posticiparlo».
   «Ancora con questa storia?!» fece Rangda, fulminandolo con lo sguardo. «Le ricordo che i Voth si sono offerti di proteggerci, finché saremo alleati. Erano pronti a respingere i Romulani Imperiali l’anno scorso e respingeranno i Borg se sarà necessario».
   «Sempre che ci riescano» mugugnò il Pacificatore.
   «Ne dubita? Sono la maggiore potenza galattica! Niente è impossibile per loro» disse la Presidente, fiduciosa. «Finché li abbiamo dalla nostra, siamo invincibili».
   I presenti stavano rimuginando su quest’ultima affermazione quando ci fu un avviso. «Eccellenza, l’Ammiraglio Hadron chiede d’intervenire nella riunione».
   «Certo, passatemelo qui» ordinò Rangda. Hadron era l’Ammiraglio dei Voth che aveva riconquistato la Terra per il suo popolo e che negli ultimi tre anni aveva rifornito l’Unione, dandole un grosso vantaggio. Era il maggior alleato di Rangda, nonché l’unico individuo che riuscisse a farle cambiare idea.
   L’ologramma si materializzò seduto al tavolo, così verosimile da dare l’impressione che il Voth sedesse tra loro. «I miei ossequi, signora Presidente» disse, chinando appena la grossa testa scagliosa. «Ho sentito dell’attentato. Che cosa orribile! Voglio manifestarle il mio sollievo nel sapere che è rimasta illesa».
   «La ringrazio» disse Rangda. «Il mio Stato Maggiore, qui, sembra più preoccupato dalla remota eventualità che i Borg c’invadano, piuttosto che dai nemici che insanguinano le nostre strade. Può rassicurarli sul fatto che, in caso d’attacco Borg, godremo del vostro pieno appoggio?».
   «Ma sicuro!» confermò Hadron. «Contro una minaccia del genere interverremmo prontamente e in forze. Non avete nulla da temere. Del resto, la nostra presenza militare nel vostro spazio sta per essere notevolmente incrementata».
   «Davvero? E per quale motivo?» chiese la Presidente, presa in contropiede.
   «Questioni di sicurezza. Vede, ora che la colonizzazione di Vothan è bene avviata, il nostro Cancelliere ha espresso la volontà di visitare il pianeta. Sarà la sua prima visita al Mondo Perduto, nonché la prima volta da secoli che un Cancelliere in carica lascia il nostro spazio, quindi le misure di sicurezza saranno imponenti» rivelò l’Ammiraglio. «Confido che lo accoglierete all’arrivo» aggiunse. Era un invito che sapeva di ordine.
   «Naturalmente!» disse Rangda in tono lezioso. «Riferisca al Cancelliere che sarò onorata di accoglierlo su Vothan. Io stessa vi tornerò subito, per preparare la cerimonia di benvenuto. Sarà l’occasione per cementare l’alleanza che ci ha già vicendevolmente arricchiti». 
 

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Capitolo 7
*** Oltre la Galassia ***


-Capitolo 6: Oltre la Galassia
 
   La Barriera Galattica sfavillava sullo schermo della Keter come un dipinto astratto in cui predominavano i toni del rosa e del viola. In realtà quella era l’immagine fornita dai sensori subspaziali, perché le distorsioni erano invisibili a occhio nudo. In caso contrario, la notte sarebbe stata bandita da ogni mondo della Via Lattea, rivelando a tutti i popoli l’esistenza della Barriera. Invece solo quelli che si erano avventurati ai confini della Galassia avevano fatto questa scoperta sconvolgente, le estreme Colonne d’Ercole della conoscenza. Le distorsioni subspaziali si addensavano più in certi punti che in altri, tuttavia la Barriera in sé avvolgeva completamente la Via Lattea, rendendo oltremodo difficile uscire, e persino comunicare con l’esterno. Solo le navi più schermate potevano passare, approfittando delle regioni di minor turbolenza; e il minimo cedimento degli scudi esponeva l’equipaggio al pericolo.
   «Ci siamo» disse Zafreen. «L’area permeabile ha forma irregolare, ma si estende per circa un mese luce in tutte le direzioni».
   «Mandi le telemetrie al timone. Vrel, avanti tutta» ordinò il Capitano. Vedendo la Barriera sempre più vicina, provò una certa emozione al pensiero che erano i primi dai tempi dell’Enterprise-J a osare quella traversata.
   «Rotta tracciata. Entreremo nella Barriera tra dieci minuti e l’attraverseremo in sette» riferì Vrel.
   «Plancia a stiva 3, il vostro status?» volle sapere Hod.
   «Siamo pronti» disse Ladya, che in quel momento si aggirava tra file e file di capsule, contenenti i telepati dell’equipaggio. Ogni capsula generava un campo di forza cronofasico, così che i telepati fossero protetti dalla Barriera, se gli scudi della nave avessero ceduto per qualsivoglia motivo. «Sono tutti al loro posto... tranne il Tenente Shil» aggiunse con una sfumatura di rimprovero.
   «La prego, ne abbiamo già parlato!» sbottò il timoniere. «La plancia dispone di schermi supplementari, quindi non corro rischi».
   «Ciononostante preferirei saperla al sicuro con gli altri...» insisté Ladya.
   «Mi spiace, dottoressa» intervenne il Capitano. «In altre circostanze le spedirei Vrel, ma non stavolta. Alla Keter serve il suo miglior timoniere. E questa missione conta più della sicurezza di chiunque a bordo, me inclusa. Quindi procediamo!» ordinò. Detestava parlare in questi termini, ma era vero: per il successo era pronta a tutto.
   «Avvertitemi subito, se Vrel o altri avessero problemi» brontolò la dottoressa. «Stiva 3, chiudo».
   Hod attese qualche attimo, dopo di che aprì un altro canale, stavolta con tutti i ponti. «Capitano a equipaggio, stiamo per attraversare la Barriera. Attenetevi alle istruzioni e segnalate prontamente all’infermeria qualunque malessere. Ma non abbiate timore: ciò che ha fatto l’Enterprise, possiamo farlo anche noi. Ci risentiremo dall’altra parte. Hod, chiudo».
   «Ingresso tra cinque minuti» avvertì Vrel, concentrato sui comandi.
   «Scudi al massimo, energia stabile» aggiunse Terry. «Vorrei ricordare che all’interno della Barriera non potremo occultarci, in caso di attacco. Anche i sensori saranno in gran parte accecati dalle distorsioni subspaziali».
   «Procediamo a velocità costante. Quando saremo dentro, mi avverta se gli scudi fluttuano» raccomandò il Capitano.
   «Fermi un attimo!» proruppe Zafreen. «C’è un’altra nave, 45º a dritta di prua. È ferma, come se ci aspettasse».
   La notizia creò immediata agitazione. La missione della Keter era segreta e non prevedeva incontri con altre navi della Flotta. Quindi chiunque fosse lì ad attenderli andava considerato un nemico.
   «Arresto totale, Allarme Rosso» ordinò il Capitano. «E metta quella nave sullo schermo».
   All’Orioniana bastarono pochi secondi per correggere l’inquadratura. Dapprima il vascello sconosciuto apparve come una macchiolina scura, che spiccava contro le tinte brillanti della Barriera. Con i progressivi ingrandimenti, l’astronave si delineò. Era compatta, con lo scafo verde scuro dalle fiancate alte e i disgregatori concentrati a prua. Si trattava di un vascello unico nel suo genere e inconfondibile per l’equipaggio della Keter.
   «La Stella del Polo!» gioì Vrel. «Ah ah! Lo sapevo che i corsari non si sarebbero persi questa missione!».
   «E come ne sono stati informati?  Era top secret» disse Norrin. Nei suoi occhi attenti aleggiava il sospetto.
   «Penso che ce lo diranno loro stessi» disse Zafreen. «Ci stanno chiamando».
   «Sullo schermo» ordinò Hod, alzandosi. Davanti a lei apparve la plancia della nave corsara. E lì in piedi vi erano Jack Wolff, in arte lo Spettro, e Jaylah Chase, ovvero la Banshee. Indossavano le uniformi paramilitari da corsari, senza le tute a Occultamento Sfasato che li avevano resi famosi. Sebbene i loro volti fossero induriti da anni di battaglie, su di essi aleggiava un caldo sorriso.
   «Felici di rivedervi!» esordì Jack. «Temevamo d’essere arrivati troppo tardi».
   «È un piacere anche per noi» disse Hod. «Dopo tre mesi di silenzio, cominciavamo a temere il peggio. Ma ditemi, come avete appreso la nostra missione?».
   «Mio padre ha deciso d’informarci» rispose Jaylah. «Del resto era una mossa che aspettavo da tempo. Ci spiace avervi spaventati, sparendo così a lungo, ma dopo la Battaglia della Forgia eravamo malmessi. Abbiamo dovuto tenerci in disparte mentre riparavamo i danni. Ora però siamo di nuovo in forze».
   «Lieta di sentirlo» disse Hod. «Mi chiedo tuttavia come abbiate fatto a precederci, se siete passati da Kronos dopo di noi. Non per vantarmi, ma siamo più veloci».
   «Siamo passati da Kronos prima di voi» corresse Jack.
   «E perché l’Ammiraglio non mi ha informata?» volle sapere l’Elaysiana.
   «Questo non glielo so dire» fece il corsaro, meditabondo. «Forse non si fida completamente nemmeno del suo Stato Maggiore e ha voluto tenerci come jolly. O forse temeva che non arrivassimo in tempo e non voleva che vi attardaste ad aspettarci. Comunque sia, l’importante è che ci siamo trovati».
   «Ma la vostra nave non dispone di propulsore cronografico, quindi non potete seguirci ad Andromeda» intervenne Terry. «Dunque a che pro incontrarci?».
   «È presto detto. Chiedo il permesso di riprendere servizio sulla Keter» disse Jaylah. «Mi rendo conto che sono passati anni da quando lavoravo con voi, ma converrete che mi sono tenuta in esercizio. Ora che vi apprestate alla missione più importante, non vorrei mancare. Naturalmente porterò la tuta da Banshee, nel caso trovassimo ostacoli imprevisti ad Andromeda».
   «Il suo ritorno ci farebbe molto piacere, Tenente Chase» disse il Capitano, fissandola con gli imperscrutabili occhi violetti. «Intende salire subito?».
   «Direi di sì. Ogni secondo è prezioso» confermò la mezza Andoriana. Prese la tuta occultante, che un corsaro le porgeva. «Sono pronta al teletrasporto» disse.
   «La Stella ha abbassato gli scudi» confermò Zafreen.
   «Capitano?» chiese Terry, ma Hod le fece segno di tenere alzati i loro. «Sa, Tenente Chase, il suo ritorno è proprio ciò che speravo» disse l’Elaysiana. «Ma l’esperienza mi ha insegnato che quando qualcosa è troppo bella per essere vera... generalmente non lo è».
   «Capitano, che cosa...» cominciò Jaylah, aggrottando la fronte, ma Norrin la interruppe.  «Che ti ho raccontato, quella volta che restammo intrappolati sul Melange?» le chiese.
   «Come sarebbe a dire? Sono passati anni, non ricordo ogni dettaglio!» si giustificò la corsara.
   «Davvero? Che strano... la Jaylah che conosco ha una memoria di ferro» disse l’Hirogeno, con un sorriso sardonico. «In quell’occasione ti feci anche un dono, qualcosa di grande importanza per me. Di che si trattava?». Era l’antico pugnale del suo clan, che in seguito Jaylah aveva usato in missione; non poteva averlo dimenticato.
   «Insomma, cos’è questo interrogatorio? Siamo qui per una nuova missione, non per rivangare quelle vecchie!» protestò la mezza Andoriana.
   «Se vuol salire a bordo, risponda alla domanda!» intimò il Capitano. Non c’era più traccia di simpatia sul suo volto.
   «Io... non ricordo» mormorò Jaylah. «La prego, mi faccia salire. Il nemico potrebbe sorprenderci in ogni momento».
   «Se non l’ha già fatto!» disse Hod con asprezza. «Terry, fuoco contro quella nave».
   «Capitano!» protestò Vrel, ma la proiezione isomorfa aveva già premuto i comandi.
   Una raffica di siluri quantici partì contro la Stella del Polo, sotto gli occhi inorriditi del timoniere. D’un tratto la nave corsara svanì. Al suo posto c’era uno scafo grigio, più piccolo e affusolato. I federali lo riconobbero: era l’Hydra, la nave dell’Esecutore. Quel vascello poteva proiettare attorno a sé un’immagine olografica così realistica da ingannare anche i sensori più evoluti. Ne aveva approfittato per tendere agguati ai corsari, demolendo la loro flottiglia. E non era il suo unico punto di forza.
   Quando i siluri della Keter stavano per colpirla, l’Hydra si aprì per il lungo, dividendosi in tre moduli identici. Ciascuno era provvisto di armi, scudi e propulsione autonomi; ma non c’era modo di sapere in quale si nascondesse l’Esecutore. I tre moduli schizzarono in direzioni diverse, con tale agilità che i siluri si persero nello spazio. Dopo di che puntarono contro la Keter, bombardandola dalle tre direzioni con i cannoni a impulso.
   «Attacco multi-vettore!» avvertì Terry. «Non posso eluderlo, concentro l’energia sugli scudi».
   I tre moduli sfrecciarono ai lati della Keter, colpendola lungo le fiancate. La nave più potente della Flotta Stellare tremò sotto quell’assalto. Terry tuttavia aprì il fuoco con il lanciasiluri di poppa, riuscendo a centrare uno degli scafi con un’intera salva. Il modulo dell’Hydra si allontanò, senza danni apparenti.
   «L’Hydra ci chiama» disse Zafreen.
   «Quale modulo?» chiese il Capitano, sperando di localizzare l’Esecutore.
   «Non saprei, il segnale rimbalza fra tutti e tre».
   «Astuto» riconobbe Hod. Cominciava a capire come aveva fatto l’Esecutore a decimare la banda dello Spettro. «Terry, analisi tattica. Zafreen, apra un canale» ordinò, sperando di guadagnare tempo per elaborare il contrattacco.
   Abbandonati gli inganni olografici, l’Esecutore si mostrò per quello che era. Si trattava di un possente cyborg, la cui corazza ricordava quella dello Spettro, se non per le dimensioni maggiori e la tinta cremisi. «Salve, Capitano Hod. Sono lieto che non sia caduta nel mio tranello, perché sarebbe stato troppo facile eliminarvi così» disse il sicario.
   «Allora perché si è preso il disturbo?» chiese l’Elaysiana.
   «Per rammentarvi chi avete perso. Non illudetevi di rivedere la Stella: è stata distrutta mesi fa, nell’esplosione della Forgia» annunciò l’Esecutore. «Naturalmente la vostra amica Jaylah è morta. Così come lo Spettro e la sua pittoresca banda di fuorilegge».
   «Tu menti!» ringhiò Vrel, fuori di sé.
   «Pensate ciò che preferite; le vostre opinioni non vi salveranno» ribatté il sicario, implacabile. «Perché io sono l’Esecutore, e non ho mai fallito. Se farete resistenza, prolungherete solo la vostra agonia».
   «Sappiamo chi sei, Nicrek» disse Norrin, che ormai conosceva la sua vera identità. «I corsari ci hanno detto tutto di te. Sei il bugiardo che fece condannare Jack Wolff con false accuse, costringendolo a diventare un pirata. Sei il traditore che distrusse l’Enterprise-J, assassinando tremila tuoi colleghi. E ora sei lo schiavo di Rangda. Quando ti hanno trasformato in cyborg, penso che ti abbiano fatto qualcosa al cervello per costringerti a obbedirle. Altrimenti perché staresti ancora agli ordini di quella psicopatica? Tanto non può più offrirti niente, ora che sei un pezzo di metallo senz’anima» lo provocò.
   «Mi offre la vendetta» ribatté l’Esecutore. «Non c’è delizia maggiore, per i vivi come per i morti». Ciò detto troncò la comunicazione e ripartì all’attacco, con tutti i moduli.
   «Inutile, non capisco su quale scafo sia» ammise Zafreen, vedendo che il Capitano le rivolgeva un’occhiata interrogativa.
   «Allora li distruggeremo tutti» disse Norrin. «I loro scudi non sono poi così potenti. Terry, concentra il fuoco su uno scafo alla volta».
   «Negativo» disse Hod con voce atona.
   «Come?!» s’irrigidì il Comandante.
   «È il piano dell’Esecutore. Ci ha provocati perché vuole trattenerci fino all’arrivo dei rinforzi» intuì il Capitano. «Ma la nostra missione è andare ad Andromeda senza deviare per alcun motivo. Ecco perché ora attraverseremo la Barriera» si rivolse a Vrel. «I moduli dell’Hydra hanno scudi inferiori ai nostri, quindi sono svantaggiati. Probabilmente non riusciranno a seguirci là dentro».
   «Ma...» fece il timoniere, angosciato al pensiero che l’Esecutore avesse detto il vero riguardo ai corsari.
   «Le ho dato un ordine, Tenente. Obbedisca o la farò rimuovere» disse Hod. Non aveva nemmeno alzato la voce, ma c’era una tale autorità in lei che il timoniere si rigirò verso i comandi.
   «Rotta reimpostata. Attraverseremo la Barriera fra tre minuti» disse Vrel, tutto smorto.
   La Keter puntò verso le distorsioni subspaziali, tallonata dai tre moduli dell’Hydra, che erano più veloci e la colpivano da tutte le parti. Ma la nave corazzata tirò dritto, rispondendo al fuoco solo con i siluri, per non sottrarre energia agli scudi.
   «Due minuti» contò il timoniere. La Barriera Galattica era sempre più vicina. Le sue propaggini violette stavano per avvolgere la nave.
   «Un minuto...».
   In quella un terzo vascello uscì dall’occultamento, sbarrando il passo alla Keter. Le somigliava molto, se non per il fatto che era più grosso e squadrato, oltre che di colore nero. Il Capitano impallidì, riconoscendolo. Era la loro nemesi, il vascello che li aveva braccati per tutta la guerra: il Moloch. Solo un paio di volte erano riusciti a danneggiarlo, con l’aiuto di altre forze: prima presso Bajor, poi nella Sfera di Dyson. I segni di quelle tremende battaglie spiccavano come lunghi graffi sullo scafo in neutronio, dando al Moloch un aspetto ancora più selvaggio. Al suo comando c’era Radek, ex Primo Ufficiale di Hod e ora suo peggior nemico.
 
   Prima che la Keter potesse disimpegnarsi, il Moloch l’agganciò con il raggio traente. Pochi attimi dopo anche i tre moduli dell’Hydra attivarono i loro raggi, serrando la Keter da varie angolazioni. Presa tra i quattro flussi di particelle, la nave della Flotta si scosse e beccheggiò, ma non riuscì a liberarsi. Era immobilizzata ed esposta al tiro incrociato dei vascelli nemici. In quelle condizioni non aveva alcuna speranza di resistere; tuttavia i Pacificatori si astennero dall’aprire il fuoco.
   «Il Moloch ci chiama» disse Zafreen.
   «Sullo schermo» ordinò Hod, alzandosi mentre meditava su come uscire da quella trappola.
   Radek era come lo aveva visto negli ultimi tre anni: impettito nell’uniforme bianca dei Pacificatori, tutto compreso nel suo ruolo di “ufficiale e gentiluomo”. Tuttavia negli occhi del Rigeliano c’era un’acredine che era lievitata con l’inasprirsi della Guerra Civile, nonché della loro sfida personale. «Eccoci di nuovo qui» esordì. «Vedo che non ha imparato nulla dai suoi continui fallimenti. Dopo aver fatto dilagare la guerra nella Via Lattea, ora vuole coinvolgere altre galassie. Vuole l’aiuto dei Proto-Umanoidi, nientemeno! Che squallore» disse, scuotendo il capo.
   «Di che ha paura? Se crede nella sua causa, allora può benissimo lasciarci andare» lo provocò l’Elaysiana. «Se noi siamo nel torto, i Progenitori ci negheranno l’aiuto e non cambierà nulla» ragionò.
   «Voi ribelli siete notoriamente esperti nel distorcere la realtà. Non posso rischiare che i Proto-Umanoidi credano alle vostre menzogne» ribatté il Rigeliano.
   «Non mi parli di menzogne!» esclamò Hod, fulminandolo con gli occhi violetti. «L’anno scorso lei si offrì di aiutarci contro i Romulani Imperiali, ma poi ci assalì a tradimento, rimangiandosi la parola data. Ora non faccia l’offeso, se prendiamo questa strada».
   «Avete fallito ancor prima di partire» corresse Radek. «Da tempo l’Unione ha rilevato le vostre sonde che perlustrano la Barriera. Non è stato difficile intuire il vostro piano. Ora che si è aperto un varco, sapevamo che avreste cercato di passare. E poiché sospettavo che la missione sarebbe toccata a voi, ho ottenuto di gestire io la faccenda. Come vede, è stato facile mettervi il guinzaglio. Qualunque altro Capitano vi avrebbe già distrutti, ma io vi offro – per l’ultima volta! – la possibilità di resa. Consegnate la Keter e vivrete».
   «Se potesse distruggerci facilmente, lo avrebbe già fatto» ribatté Hod a muso duro.
   «A meno che non voglia impadronirsi della nostra nave per facilitare l’attacco a Kronos» intervenne Norrin, la cui rivalità personale con Radek era ancor più rovente. «Qual è il tuo piano, eh?» chiese, rivolgendosi direttamente all’avversario. «Prima c’induci a consegnare la Keter, poi ci uccidi. Dopo di che ti trasferisci con parte dell’equipaggio sulla nostra nave e torni a Kronos, affermando che non siamo riusciti ad attraversare la Barriera. Infine attacchi a tradimento, distruggendo la capitale e decapitando la nostra leadership. Sì, è un piano degno di te».
   «Stupidi paranoici!» sbottò Radek. «Mi sembrate delle persone che affogano e che rifiutano il salvagente. Beh, se volete andare a fondo con la vostra nave e il vostro orgoglio, non sarò io a impedirvelo. E la Galassia non vi rimpiangerà, anzi! Saranno tutti felici di sapere che c’è una banda di terroristi in meno. Com’è accaduto con lo Spettro e la Banshee!» aggiunse perfidamente, fissando Norrin. Sapeva quanto l’Hirogeno tenesse a Jaylah.
   A queste parole, seguite da un silenzio teso, Norrin si fece avanti. Aggirò persino la postazione del timoniere, finché fu vicinissimo allo schermo. Allora fissò Radek negli occhi e parlò con voce bassa, ma spaventosamente minacciosa. «Io ti ammazzo» promise.
   «E come?!» ridacchiò l’altro, per nulla intimorito. «Ormai è finita, voi ribelli avete perso. Siete troppo stupidi per capirlo, ma lo capiranno gli altri, vedendo i rottami della vostra nave. Addio!».
   Chiuso il canale, il Moloch riapparve sullo schermo e aprì immediatamente il fuoco. Altrettanto fecero i tre moduli dell’Hydra. In mezzo a quella gragnola stava la Keter, bloccata dai raggi traenti. A poca distanza scintillava la Barriera Galattica: così vicina, eppure fuori portata.
 
   «Terry, concentra tutto il fuoco su un modulo dell’Hydra» ordinò il Capitano. «Quando sarà distrutto, dovremmo riuscire a liberarci. Altrimenti ripeti l’operazione con gli altri».
   «Eseguo, ma potremmo perdere gli scudi prima di sganciarci, e in tal caso non attraverseremo la Barriera» avvertì l’IA.
   La Keter tremava sotto il fuoco serrato dei quattro vascelli nemici. Come da istruzioni, Terry concentrò il fuoco su uno dei tre scafi dell’Hydra, ma i secondi passarono senza che riuscisse a perforarne gli scudi. A ogni colpo subito, le possibilità della Keter di attraversare indenne la Barriera diminuivano.
   Fu in quell’ora disperata che due astronavi uscirono dalla curvatura e si avventarono sui Pacificatori, sparando a tutto spiano. Vedendole, Vrel lanciò uno «Yu-uuuh!» d’entusiasmo. Perché la maggiore delle due navi era la Stella del Polo, ormai data per spacciata. E la minore era il Dorvic, la nave del clan di Norrin. I due vascelli individuarono il modulo dell’Hydra già indebolito dai colpi della Keter e lo crivellarono. Gli passarono ai lati, prendendolo nel fuoco incrociato, e finalmente lo distrussero. La ragnatela di raggi traenti che imprigionava la Keter s’indebolì. Prima che i Pacificatori potessero riposizionare i loro vascelli, per compensare la perdita, Vrel virò a babordo, dando massima energia ai propulsori. Nello stesso attimo Terry rimodulava le armoniche degli scudi. Così facendo i federali riuscirono a sganciarsi.
   «Avanti!» ordinò il Capitano.
   La Keter partì a massimo impulso verso la Barriera, sfiorando il Moloch. Lo superò, scaricandogli una salva di siluri sul dorso, e scomparve tra le distorsioni.
   «Stiamogli alle costole! Non devono passare!» ordinò Radek, furioso per come la situazione era precipitata. Il Moloch virò di 180º e inseguì la Keter nella Barriera, sparando con il cannone a impulso. La vecchia battaglia era ripresa: federali e Pacificatori si colpirono tra le distorsioni subspaziali, ignorando il pericolo che il minimo cedimento degli scudi avrebbe comportato per loro. Ormai non pensavano ai terribili effetti della Barriera: erano concentrati unicamente sulla loro sfida. E non erano i soli.
 
   Appena fuori dalle distorsioni si consumava un’altra feroce battaglia. I due moduli rimanenti dell’Hydra si erano divisi i compiti: uno affrontava la Stella del Polo, l’altro il Dorvic. Per il momento gli scontri erano equilibrati, ma l’Esecutore restava un osso duro.
   Sulla loro plancia, lo Spettro e la Banshee indossavano già le corazze, pronti a teletrasportarsi sul vascello nemico per sabotarlo dall’interno, se ne avessero avuta l’occasione. Jack passeggiava avanti e indietro, incitando i suoi ufficiali. In contrasto, Jaylah sedeva sulla sua poltrona, pressoché immobile. Solo il suo avambraccio carezzava ritmicamente Goldie, il falcone cestiano. La mezza Andoriana tuttavia non si perdeva un solo dettaglio dello scontro.
   «Gli scudi nemici s’indeboliscono, fra poco colpiremo lo scafo!» esultò Skal’nak. «Certo che, se avessimo lo Sciame...» borbottò a voce più bassa. Come molti colleghi, non aveva mai perdonato del tutto lo Spettro per la sua scelta di sacrificare lo Sciame di Altamid, pur di distruggere la Forgia.
   «Speriamo che l’Esecutore sia lì dentro» disse Graush. I corsari infatti non sapevano in quale dei moduli si trovasse l’avversario. Non potevano nemmeno escludere che fosse in quello già distrutto.
   «È lì» disse lo Spettro con decisione. «Non ci avrebbe mai spedito i suoi scagnozzi, potendo affrontarci di persona». La Stella del Polo tremò sotto i colpi nemici e gli ufficiali segnalarono alcuni danni. Poco lontano il terzo e ultimo scafo dell’Hydra scambiava colpi con la nave dei Cacciatori, nuovamente comandata da Vitani.
   «Ci siamo, i loro scudi cedono» disse Skal’nak.
   «Fuoco a volontà!» ordinò Jack, serrando il pugno.
   I disgregatori della Stella intaccarono lo scafo dell’Hydra, ma prima che i siluri giungessero a bersaglio, infliggendo il colpo di grazia, il vascello nemico schizzò via a tale velocità che la nave corsara non lo avrebbe mai raggiunto. Per un attimo lo Spettro rimase ammutolito dalla delusione. Ancora una volta la vendetta gli sfuggiva di mano.
   «Colpite l’altro modulo!» sibilò la Banshee alle sue spalle. Erano le prime parole che pronunciava dall’inizio della battaglia. E siccome erano un buon consiglio, i corsari lo seguirono.
   Invece d’inseguire il nemico in ritirata, la Stella del Polo virò e andò a dare manforte ai Cacciatori. Questi erano in difficoltà contro l’ultimo scafo dell’Hydra; ma le cose cambiarono con l’arrivo dei corsari. Il vascello dell’Esecutore continuò a battersi con ostinazione; infine fu colpito simultaneamente da due raffiche di siluri, una per lato. Si disintegrò in una girandola di fuoco.
   «Ben fatto» si congratulò lo Spettro. «Ora cerchiamo l’ultimo modulo».
   «Lo vedo, ci viene addosso!» avvertì Siall. «Schema d’attacco... insomma, tira dritto e non si ferma!».
   Mentre la Stella tremava sotto i colpi, Jack si girò verso lo schermo e vide l’ultimo pezzo dell’Hydra che gli veniva contro. L’Esecutore era là dentro, ne era certo. Ma perché quell’attacco? Con un solo modulo a disposizione, doveva rendersi conto che non poteva sconfiggere sia la Stella che il Dorvic. Si sarebbe dovuto ritirare, come aveva fatto le altre volte che era in svantaggio. A meno che non fosse davvero deciso a chiudere la partita.
   «Tutto a babordo, presto!» ordinò lo Spettro. Il modulo dell’Hydra era sempre più vicino e non accennava a rallentare, né a cambiare traiettoria. Puntava dritto contro l’ampia fiancata della Stella, come una freccia diretta al bersaglio. Vedendolo ingrandirsi, tutti capirono l’intento dell’Esecutore.
   Gli allarmi squillarono, avvertendo l’equipaggio dell’impatto imminente. La Stella manovrò nel tentativo di schivare, ma i propulsori danneggiati non risposero con l’abituale prontezza. Il vascello si era girato di pochi gradi quando l’Hydra lo colpì. La nave dell’Esecutore, dalla prua affusolata, si conficcò nell’altra come un pugnale nella carne viva. Sfondò il fasciame di duranio, accartocciando un ponte dopo l’altro. Apertasi un varco nello scafo, vi entrò per un terzo della sua lunghezza e lì rimase incastrata.
   La nave corsara ebbe un sussulto d’agonia. Tutti coloro che si trovavano a bordo furono scaraventati contro le pareti; molti restarono feriti. Decine di corsari perirono inceneriti dalle esplosioni o schiacciati tra le paratie deformate. Altri, sopravvissuti all’urto, furono trascinati nello spazio dall’aria in fuga e vissero tanto da vedere la loro nave trafitta. Intanto le crepe si allungavano da prua a poppa, compromettendo ancor più l’integrità strutturale. La Stella del Polo andò alla deriva, spargendo detriti tutt’intorno.
   In plancia lo Spettro si rialzò a fatica. L’impatto lo aveva scagliato contro la parete; solo l’armatura gli aveva salvato la vita. Venuta meno l’illuminazione standard, non restavano che i faretti rossi d’emergenza. In quella luce sanguigna l’Umano vide le consolle schiantate, i cavi sfrigolanti che pendevano dal soffitto, i feriti a terra, e seppe che la Stella era perduta. Almeno Jaylah stava bene: la vide rialzarsi, mentre il falcone cestiano le volava sopra, lanciando strida d’allarme. «Rapporto danni» ordinò Jack.
   «Tutti i sistemi chiave sono compromessi» gemette Siall, consultando uno dei pochi schermi ancora attivi. «Non abbiamo armi, né scudi, né propulsione. Il supporto vitale è in avaria. Ci sono falle sui ponti da 4 a 20, l’integrità strutturale è critica. Non so quanti siano i morti, ma saranno decine, per non parlare dei feriti...».
   «E l’Hydra?» chiese lo Spettro, aggirandosi in quella devastazione. Vedendo che Graush era ancora a terra, un po’ intontito, lo afferrò e lo rimise in piedi.
   «L’Hydra?» si stupì il Boliano, che l’aveva data per distrutta. «Vediamo... frell, è ancora conficcata nel nostro scafo!» imprecò.
   «Lo sospettavo. Se fosse esplosa, saremmo tutti morti» disse Jack con freddezza.
   «Ma potrebbe esplodere, se è conciata come noi!» commentò Skal’nak, rialzandosi a sua volta. Il Nausicaano aveva una brutta ustione su metà del volto.
   «Potrebbe» convenne lo Spettro. «O magari sarà l’Esecutore a farla saltare in aria di proposito, per darci il colpo di grazia. Siall, contatta gli Hirogeni e chiedi che ci prendano a bordo».
   «Lo sto già facendo, solo che... oh, no!» si disperò il Boliano.
   «Che c’è?».
   «Comunicano che anche la loro nave è danneggiata. Il teletrasporto è guasto... non possono salvarci» mormorò Siall.
   Tutti tacquero, anche se non si può dire che vi fu silenzio, visti gli allarmi e lo sfrigolio di cavi e consolle. Jack osservò i suoi ufficiali e passò la mano su una balaustra, consapevole che quelli erano i loro ultimi momenti a bordo. «Sei stata una bella nave... la migliore che abbia mai avuto» pensò malinconico. Poi si rivolse all’equipaggio. «Abbandonare la nave» ordinò. «Andate alle capsule... anche tu, Jaylah».
   «Tu non vieni?» chiese la mezza Andoriana.
   «No. Se il vecchio Nick non ha fatto ancora esplodere la sua nave, è perché vuole eliminarmi di persona» disse lo Spettro. «Quindi sta venendo qui, e io intendo aspettarlo. Andate!» ripeté, mentre si risedeva sulla sua poltrona.
 
   Lontano da lì, nelle profondità della Barriera, si consumava un’altra lotta mortale. La Keter e il Moloch si battevano tra le distorsioni subspaziali, con gli equipaggi più che mai decisi a chiudere i conti. Le distorsioni però ostacolavano i sensori di puntamento, tanto che gran parte dei colpi andava a vuoto. Più che al fuoco nemico, i vascelli erano soggetti alla Barriera stessa. Le distorsioni, infatti, non erano uniformi: formavano un intricato reticolo nel quale si muovevano i vascelli. Per acquisire un vantaggio, le astronavi dovevano restare nelle zone a bassa intensità, cercando di spingere gli avversari in quelle più dense. Era un po’ come giocare a scacchi: bisognava avere in mente le prossime mosse e prevedere quelle del nemico. Hod e Radek si conoscevano bene, tanto che ciascuno dei due riuscì più volte ad anticipare l’avversario. Tra attacchi, ritirate e inseguimenti rocamboleschi, lo scontro si trascinò. Naturalmente avere una nave piccola e agile aiutava a percorrere le rotte più sicure, il che era un vantaggio per la Keter. Ma il Moloch aveva scudi più potenti, che gli permettevano di tirare dritto anche nelle zone turbolente.
   «Scudi al 40% in diminuzione» avvertì Terry. «Di questo passo non ce la faremo a superare la Barriera».
   «Se ce la fece l’Enterprise di Kirk...» commentò Vrel.
   «Quella non aveva il Moloch che le sparava addosso!» obiettò la proiezione isomorfa, mentre rimodulava gli scudi.
   «Posso disimpegnarmi e uscire per la via più breve» suggerì il timoniere.
   «No, il Moloch ci seguirebbe fuori dalla Galassia e saremmo al punto di prima» disse il Capitano. «Dobbiamo sigillare questo varco dietro di noi. Plancia a sala macchine. Signor Dib, si tenga pronto con la Bomba Omega» ordinò.
   A quelle parole gli ufficiali drizzarono le orecchie. La Bomba Omega, così detta perché sfruttava la pericolosissima Molecola Omega, era un’arma bandita dalle leggi federali, in quanto distruggeva il subspazio. Il suo uso indiscriminato avrebbe reso impossibili i viaggi interstellari. Per questo motivo, sia la Flotta Stellare che i Pacificatori si erano sempre astenuti scrupolosamente dall’usarla. Assieme agli Accordi Temporali, era uno dei pochissimi tabù rispettati da ambo le parti. Violare questa regola rischiava d’indurre il nemico a fare altrettanto, con conseguenze apocalittiche.
   «Ne è certa, Capitano?» chiese l’Ingegnere Capo. Aveva già espresso la sua perplessità quando, durante il viaggio, Hod gli aveva ordinato di sintetizzare alcune Molecole Omega, conservandole in una camera di risonanza armonica. Usarle durante uno scontro gli pareva ancora più discutibile. «La Direttiva Omega proibisce di...».
   «Lo so!» tagliò corto Hod. «Ma non ci lasceremo distruggere, né permetteremo al Moloch di seguirci fino ad Andromeda».
   «Il nemico è troppo vicino per permetterci di usare la Bomba Omega» avvertì Terry.
   «E se dobbiamo sigillare l’unico varco conosciuto nella Barriera, non sarebbe male se prima verificassimo come se la cavano i corsari... e i miei parenti» aggiunse Norrin, lanciando al Capitano un’occhiata penetrante.
   Hod esitò, chiedendosi se il Comandante si sarebbe ribellato all’ordine di tirare dritto. Decise che non voleva scoprirlo. Del resto era inutile incaponirsi, se non potevano usare l’arma. «Vrel, ci riporti dentro» si arrese.
   Il timoniere eseguì un’inversione a U e diresse la Keter di nuovo verso l’interno della Barriera. Continuò a zigzagare, sia per schivare le zone di maggior distorsione, sia per sfuggire al fuoco del Moloch che gli restava alle costole. Terry intanto faceva fuoco con le armi di poppa, senza riuscire a perforare gli scudi nemici.
   Finalmente la Keter sbucò nello spazio normale. E qui si trovò davanti una scena agghiacciante: l’ultimo modulo dell’Hydra era conficcato nello scafo della Stella, che andava alla deriva, perdendo atmosfera. In qualunque momento uno dei due vascelli poteva esplodere, distruggendo anche l’altro. Vedendo la nave corsara così malridotta, i federali compresero che era irrecuperabile.
   «Jaylah!» ansimò Vrel.
   «Presto, ci distanzi dal Moloch» ordinò il Capitano, mantenendo il sangue freddo. «Terry, abbassi gli scudi e teletrasporti l’equipaggio, a cominciare dalla plancia».
 
   Sul ponte di comando della Stella, Jaylah cercava ancora di convincere Jack a venir via con lei quando Goldie lanciò un grido d’allarme. Tutti si girarono verso il muro di fiamme che ardeva su un lato della plancia. Dal fuoco emerse un’imponente figura umanoide, rivestita di una corazza cremisi. L’Esecutore era arrivato. Al suo apparire i corsari si ritrassero verso l’altra estremità della sala, intimoriti, salvo Jack che rimase seduto sulla poltrona di comando e Jaylah che lo affiancava.
   «Eccoti qui, vecchio mio» disse il sicario, in tono compiaciuto. «Vedi come le tue illusioni si dissolvono una ad una? Credevi che non avrei distrutto la tua adorata nave, ma l’ho fatto. Credevi che non avrei massacrato la tua ciurma, ma l’ho fatto. Ora continui a ripeterti che non riuscirò a uccidere te e Jaylah; ma ti libererò anche da quest’ultimo abbaglio».
   «Anche tu hai perso l’equipaggio» notò Jaylah.
   «Erano androidi» disse l’Esecutore con noncuranza. «Al ritorno i Pacificatori me ne daranno altri, più moderni ed efficienti. Ma voi non radunerete più un equipaggio come questo. La vostra leggenda muore oggi».
   «Io dico che la nostra leggenda comincia a vivere oggi!» corresse lo Spettro. Si alzò e gli venne contro, per l’ultima lotta. Ma in quella fu teletrasportato assieme agli altri corsari. Svanì anche Jaylah, con Goldie che le si era posata sulla spalla.
   «NO!» gridò l’Esecutore, estraendo il phaser incorporato nel braccio. Aprì il fuoco, ma il raggio attraversò gli ultimi bagliori del teletrasporto e colpì il seggio retrostante, mandandolo in pezzi. Il sicario si guardò attorno: era rimasto solo nella plancia semidistrutta. «Alla prossima» mormorò, dopo di che si fece teletrasportare sul Moloch.
   «Ebbene?» chiese Radek, vedendolo apparire sulla pedana di plancia.
   «La Stella è andata, la mia missione è compiuta» rispose l’Esecutore. «Ora tocca a voi».
 
   Azionando il teletrasporto, Terry si premurò di trasferire Jack e Jaylah sulla pedana di plancia. Con loro c’erano anche Graush e Skal’nak. Gli altri corsari apparvero nelle sale di teletrasporto o nell’hangar. Ma erano troppo numerosi per prenderli tutti assieme; servivano più giri di teletrasporto.
   «Bentornati» li accolse Hod.
   «Il mio equipaggio?» chiese subito lo Spettro, scendendo dalla pedana.
   «Il trasferimento è in corso» assicurò Terry.
   Jack volse gli occhi allo schermo e ciò che vide quasi gli spezzò il cuore. La sua bella nave era in fiamme, trafitta dall’Hydra. Ora più che mai fu certo che non l’avrebbero recuperata. E il peggio doveva ancora venire; perché in quell’attimo l’Hydra esplose. Non fu un propagarsi di deflagrazioni, come accade quando un vascello ha subìto troppi danni. Si trattò invece di un’unica massiccia esplosione, a indicare che era stato l’Esecutore a innescare l’autodistruzione. E in quel lampo la Stella del Polo fu vaporizzata, da prua a poppa. La nave corsara che per sei anni era stata la sua casa, e con cui aveva compiuto le imprese più memorabili, svanì in una fiammata. Con essa se ne andarono grandi quantità d’armamenti, sottratti ai Pacificatori, nonché i favolosi bottini ammassati nelle stive. Sei anni di fatiche... cancellati. L’onda d’urto provocata dall’esplosione di quella santabarbara così eterogenea scosse sia la Keter che il Moloch. Allora Goldie si levò in volo, lanciando un lungo grido luttuoso, come a piangere la nave.
   Jack disattivò il casco della tuta, mostrando il volto. I suoi occhi erano fissi allo schermo, dove le ultime fiammate dell’esplosione si dissolvevano nello spazio. «Quanti ne avete presi?» mormorò.
   «Duecentocinque in tutto» rispose Terry.
   «Meno della metà dei nostri!» ringhiò Skal’nak, affrontando il suo Capitano. «Ecco dove ci hai condotti, Jack! Al macello! E tutto per salvare i tuoi amici della Flotta. Dovevamo restare pirati e badare ai nostri affari, invece di gettarci in questa guerra senza speranza!».
   «Taci!» gridò Graush, sebbene anche lui avesse il cuore a pezzi.
   Ma Skal’nak non aveva la minima intenzione di calmarsi, anzi estrasse il phaser. Prima che potesse sparare, tuttavia, fu stordito da Norrin.
   «Chiudetelo in cella e state attenti che altri non ci si rivoltino contro» ordinò il Capitano Hod, un po’ scossa. Dopo di che si rivolse a Jack: «Le sono grata per l’aiuto e mi addolora la perdita di tanti dei vostri. Ma devo chiederle di vigilare sulla sua ciurma, finché viaggeremo assieme». L’idea di andare ad Andromeda con i corsari a bordo la inquietava, ma non vedeva alternative.
   «Lo farò» promise lo Spettro.
   «Capitano, anche il Moloch ha effettuato un teletrasporto» avvertì Zafreen.
   «Certo, ha imbarcato l’Esecutore!» commentò Jack, d’umor nero. Ancora una volta la loro resa dei conti era rimandata; ma come poteva tenergli testa, senza la sua nave e con l’equipaggio dimezzato? Almeno aveva ancora la tuta da Spettro, e Jaylah quella da Banshee, dato che le indossavano al momento del teletrasporto. E con le attrezzature della Keter potevano costruirne altre.
   «Il nemico ha rialzato gli scudi e ci viene contro» avvertì l’Orioniana. «Gli Hirogeni si affiancano a noi, ma hanno gli scudi al minimo».
   Hod scambiò una breve occhiata con Norrin. «Gli dica di andarsene; hanno già fatto abbastanza. Quanto a noi, torniamo nella Barriera» ordinò. «Stavolta non ci fermeremo finché non saremo dall’altra parte. E dite a Dib di tenersi pronto con l’ordigno».
   Il Moloch era sempre più vicino. Avendo rilevato che la nave dei Cacciatori aveva gli scudi indeboliti, le indirizzò contro una salva di siluri, per finirla. Ma gli Hirogeni entrarono a curvatura prima che i missili giungessero a bersaglio, mettendosi in salvo. I Pacificatori non li inseguirono: il loro obiettivo era ancora e sempre la Keter.
   La nave federale tuttavia approfittò di quella brevissima distrazione per schizzare a pieno impulso verso la Barriera. Entrò nelle distorsioni subspaziali, inseguita dal Moloch. Stavolta non ci furono giravolte e contrattacchi: la Keter tirò dritto alla massima velocità, facendo appena qualche correzione di rotta per evitare le zone più turbolente. E il Moloch le tenne dietro, sparando a tutto spiano. Anche stavolta le distorsioni interferirono con i sistemi di puntamento, così che molti colpi andarono a vuoto. Tuttavia con il passare dei minuti il vascello dei Pacificatori riuscì ad accorciare le distanze. Sempre più colpi andarono a segno, indebolendo gli scudi posteriori della Keter.
 
   Sulla sua plancia, Radek osservava cupamente la nave in fuga che perdeva terreno. Aveva fatto tutto il possibile per salvare i suoi ex colleghi dalla rovina. Gli aveva offerto la mano e loro in cambio gliela avevano morsa. E non una sola volta, ma tante! Ormai si era rassegnato: non poteva più salvarli dalla loro stupidità. Li avrebbe distrutti, com’era suo dovere, per poi unirsi all’assalto a Kronos. Con un po’ di fortuna, dì lì a sei mesi la guerra sarebbe finita.
   Accanto a lui, l’Esecutore se ne stava immobile come una statua, fissando a sua volta la Keter. Nessuno poteva intuire quali emozioni si celassero sotto il casco dalla visiera dorata. Certo non rimpianto per la sua nave e l’equipaggio androide; il Comando dei Pacificatori gliene avrebbe forniti altri. Forse insoddisfazione per non aver ucciso personalmente i suoi avversari. O il piacere sadico di vederli comunque soccombere, dopo aver perso tutto ciò che possedevano. O uno strano misto di entrambi. Una sola cosa era certa: la sua carriera di sicario non era ancora conclusa.
   «Due minuti all’uscita dalla Barriera» riferì l’addetto ai sensori.
   «Cerchiamo di fermare la Keter prima di allora» disse Radek, temendo che una volta uscita l’astronave si occultasse, riuscendo a sfuggirgli.
   D’un tratto la Keter sparò con il lanciasiluri posteriore, scagliando un singolo missile, che però non era luminoso come le solite testate della Flotta. Radek non ne riconobbe il modello, ma si aspettò di vederlo estinguersi contro i loro scudi senza fare danni, come tutti gli altri. Si sbagliava di grosso.
   «Allarme, è una Bomba Omega!» gridò l’addetto ai sensori.
   Per alcuni surreali momenti il tempo parve rallentare. Tutti in plancia sapevano cosa fosse una Bomba Omega e quali orribili effetti avesse sul subspazio. Nessuno però poteva prevederne gli effetti lì nella Barriera, dove il subspazio era già instabile. Forse non avrebbe fatto molta differenza... o al contrario i suoi effetti si sarebbero amplificati. «Distruggetela!» ordinò Radek, ma era tardi. Mentre ancora le sue labbra si muovevano, l’ordigno impattò contro gli scudi del Moloch.
   Per un attimo lo schermo divenne bianco-azzurro. Tutti dovettero distogliere lo sguardo, per non restare accecati. Nello stesso momento un’onda d’urto subspaziale come mai se n’erano viste travolse il vascello dei Pacificatori, ributtandolo all’indietro. Il Moloch fu trascinato come una foglia in un uragano. Gli allarmi squillarono e tutte le sezioni segnalarono danni. L’equipaggio fu gettato a terra, con forza più che sufficiente a rompere le ossa. Radek stesso fu scaraventato all’indietro e forse si sarebbe rotto il collo, se l’Esecutore non l’avesse afferrato al volo. Il cyborg era l’unico ben saldo sui piedi, grazie agli stivali magnetici della corazza. Ma non poteva salvare l’astronave, che fu trascinata dall’onda d’urto subspaziale per milioni di chilometri. Mentre il sangue gli andava alla testa, annebbiando i pensieri, Radek udì confusamente le voci concitate dei suoi ufficiali.
   «Abbiamo perso gli scudi!».
   «Integrità strutturale critica!».
   «Le letture subspaziali sono fuori scala, mai visto nulla del genere!».
   Il Rigeliano si affrancò dalla stretta dell’Esecutore, riuscendo a stare in piedi. «Smorzatori inerziali al massimo, energia d’emergenza agli scudi» ordinò.
   In quella ci fu un secondo lampo, che tuttavia sembrò venire dall’interno della plancia. La nave non vibrò più di quanto già non facesse, ma Radek si sentì stordito come da una scossa elettrica. Per altri gli effetti furono più pesanti. Molti che si stavano rimettendo in piedi barcollarono e caddero; tra questi vi fu il Primo Ufficiale.
   «Quella era la Barriera. Ora però l’energia d’emergenza sta ripristinando gli scudi» riferì l’Ufficiale Tattico.
   «Assicuratevi che non succeda di nuovo» mormorò il Rigeliano, conoscendo la pericolosità del fenomeno.
 
   Di lì a poco il Moloch fu scaraventato fuori dalla Barriera, vale a dire nuovamente all’interno della Via Lattea. Solo allora il timoniere riuscì a riprendere il controllo, fermando il vascello. «Siamo stabili» disse.
   «Che ne è della Keter?» volle sapere Radek.
   «Impossibile dirlo, i sensori erano accecati dall’onda d’urto» rispose l’addetto.
   «I suoi scudi posteriori erano indeboliti. Se è stata travolta come noi, sarà stata distrutta» ragionò l’Ufficiale Tattico.
   «Non è detto» obiettò il timoniere. «Se sono riusciti a tenersi davanti all’onda, potrebbero averla cavalcata fino a uscire dalla Galassia».
   «Assurdo! Chi riuscirebbe mai a...».
   «Loro, ci riuscirebbero» disse Radek, silenziando gli ufficiali. «Mi gioco il collo che ce l’hanno fatta. Ora sono dall’altra parte, come volevano. Dobbiamo riprenderli prima che facciano l’irreparabile. Tutti in piedi, svelti! Abbiamo una nave da rimettere in sesto» ordinò, esortando quelli che erano ancora a terra per le ferite. Notò che fra loro c’era il Primo Ufficiale. Il Napeano era riverso a faccia in giù e si lamentava debolmente, sfregandosi le tempie.
   «Su, Comandante, anche lei!» disse Radek, accostandosi per prestargli soccorso. Lo rigirò sulla schiena, per controllare che non avesse una commozione cerebrale.
   «Uhhh... la mia povera testa...» mugugnò il Napeano, sempre stropicciandosi le tempie. Finalmente aprì gli occhi.
   Radek balzò all’indietro, come se al posto del collega ci fosse un serpente velenoso. Aveva notato un orribile dettaglio: gli occhi del Comandante erano perlacei, senza iride né pupilla.
   «Che succede, Capitano? Perché arretra, cos’è quella faccia?» si stupì il Napeano. Guardandosi attorno, si accorse che tutti i colleghi lo fissavano con lo stesso misto di paura e ostilità. Quelli della Sicurezza avevano impugnato i phaser. «Insomma, che vi prende a tutti?! Non mi riconoscete?» esclamò il disgraziato, rialzandosi a fatica.
   «Non si muova» ordinò Radek. «Lei risente gli effetti della Barriera Galattica».
   «Intende... oh!» fece il Primo Ufficiale, passandosi una mano sul volto. «Ora capisco. Sì... riesco a percepire i vostri pensieri. Sono... ostili» mormorò, passando lo sguardo da un collega all’altro.
«Ma non avete nulla da temere, sono sempre io. Con queste nuove facoltà, sarò un valore aggiunto per la nave».
   «Non spetta a lei decidere» lo frenò il Capitano. «Se ricorda l’ultimo briefing, il Comando dei Pacificatori mi ha dato pieni poteri per gestire le emergenze come questa. Posso decidere la linea d’azione più sicura per la nave. E francamente, trovo che avere un Potenziato a bordo sia un rischio inaccettabile».
   «E allora che vuol fare? Abbandonarmi sul più vicino mondo abitabile con un kit di sopravvivenza?!» chiese il Comandante, oltraggiato. D’un tratto però colse i pensieri dell’altro e ne fu spaventato. «No... lei vuole uccidermi» mormorò, in preda all’orrore.
   «Come ha detto Rangda: “Non possiamo tollerare l’esistenza di poteri che sfuggono al nostro controllo”» citò Radek. «Voi Potenziati siete sempre stati incontrollabili. Adesso s’è scoperto telepate e pensa d’aiutarci, ma domani, quando svilupperà la telecinesi, vorrà comandare la nave. E tra una settimana, quando avrà poteri semidivini, chissà che si metterà in testa! Magari andrà su Vothan, a ordire un colpo di Stato. No, abbiamo già fin troppi problemi: non possiamo gestire anche lei».
   «Ma sono sempre io, il vostro collega... il vostro amico!» protestò il poveretto. «Dite che non mi considerate un mostro... aiutatemi!» implorò, tendendo le mani ai compagni. Ma i Pacificatori restarono immobili, con la diffidenza negli occhi e i phaser in pugno. Ciò che non dicevano a voce, il Napeano lo percepiva dai loro pensieri: non lo consideravano più uno di loro.
   «Frell!» imprecò il Comandante, cercando una via di fuga. Ma in quella l’Esecutore gli apparve alle spalle e lo afferrò, bloccandogli le braccia lungo i fianchi. Il Napeano si dibatté con tutte le sue forze, ma non poteva sfuggire alla presa spietata del cyborg.
   «Vuole che ci pensi io, Capitano?» si offrì l’Esecutore.
   «No, basta che lo tieni fermo» sospirò Radek. «Mia è la decisione... e mia anche la responsabilità». Così dicendo estrasse il phaser. Lo regolò su uccisione e mirò al cuore del sottoposto. «Mi dispiace infinitamente» disse. «Ha la mia parola che non avrò pace, finché i colpevoli di questo non pagheranno con la vita».
   «Ma anche dopo continuerà a uccidere prontamente, ogni volta che incontrerà qualcosa che sfugge al suo controllo» ribatté il Comandante. «Sa, spero tanto che siano quelli della Keter a farle la pelle».
   «Non ci conti» ribatté il Rigeliano. E senza la minima esitazione gli sparò al cuore. L’Esecutore lasciò cadere il corpo esanime. Il bagliore perlaceo svanì dagli occhi ancora aperti della vittima, che tornarono normali.
   «Cremate il corpo e annotate che il Comandante è morto in servizio» disse Radek.
   «Signore, stanno giungendo rapporti da tutta la nave» avvertì un ufficiale. «Il Comandante non era solo: ci sono altri casi di potenziamento dovuti alla Barriera».
   «Quanti?!» chiese il Capitano, assalito dallo sconforto.
   «Almeno cinque. E abbiamo altri venti ufficiali che sono morti per lo shock neurale indotto dalla Barriera» fu la tremenda risposta.
   Per qualche secondo gravò il silenzio. Tutti fissavano il Capitano, che da parte sua sapeva cosa fare; stava solo cercando la forza di farlo. «Pensaci tu» disse infine all’Esecutore.
   «Sarà fatto» promise il sicario. Dopo di che si rese invisibile, per sorprendere i Potenziati e non dargli il tempo di reagire. Così occultato abbandonò la plancia, iniziando la caccia in giro per la nave.
   «Pagherete anche per questo... pagherete tutti!» si disse Radek, fissando la Barriera oltre la quale si trovavano quelli della Keter. Erano loro i responsabili di quelle morti. Al prossimo scontro li avrebbe distrutti a ogni costo. Niente più pietà, niente offerte di resa. Se anche lo avessero implorato in ginocchio, lui non si sarebbe commosso: avrebbe liberato la Galassia dalla loro malvagità.
   «Stilate una lista dei danni e cominciate dai sistemi essenziali: armamenti, propulsione, sensori» ordinò il Rigeliano.
   «Signore, i sensori sono di nuovo operativi» riferì l’addetto. «Stavo esaminando il subspazio e...» la voce gli mancò.
   «Ebbene?» chiese Radek. Tutti quei disastri gli avevano quasi fatto dimenticare le implicazioni dell’esplosione di una Bomba Omega, ma il tono del sottoposto gliele riportò bruscamente all’attenzione. Senza aspettare la risposta, gli venne accanto e controllò lui stesso i dati. «Il varco nella Barriera... non c’è più!» gemette.
   «È stata la Bomba Omega» confermò l’ufficiale. «Ha lacerato il subspazio, chiudendo il passaggio».
   «Vuol dire che non possiamo inseguire la Keter?!» gridò il Capitano, sentendosi crollare il mondo addosso. Non c’erano altri varchi conosciuti e con ogni probabilità sarebbero occorsi mesi per trovarne un altro.
   «No, e c’è di peggio» mormorò l’addetto ai sensori. «In quell’ordigno c’erano abbastanza Molecole Omega da distruggere il subspazio nel raggio di un mese luce. Significa che serviranno quaranta giorni a massimo impulso per uscire dalla zona danneggiata. In tutto questo tempo non potremo nemmeno comunicare col Comando per far sapere le nostre condizioni».
   Per Radek, quello era il punto di rottura. La sua “battaglia già vinta” si era trasformata in una cocente sconfitta. Tra i quaranta giorni d’impantanamento e la necessità di trovare un’altra zona permeabile nella Barriera, sarebbero trascorsi mesi prima di poter riprendere l’inseguimento della Keter. Nel frattempo i ribelli avrebbero raggiunto Andromeda, con tutto ciò che ne conseguiva. A quel punto non restava che uscire dal pantano e fare rapporto al Comando, che probabilmente avrebbe inviato un’intera flotta ad Andromeda. Ma il Rigeliano temeva che nella nuova strategia dei Pacificatori non ci fosse posto per lui, dopo un tale fallimento. Con ogni probabilità gli avrebbero tolto il comando del Moloch. E allora addio alla rivincita contro la Keter!
   «I miei ordini restano validi» disse Radek, riuscendo a dominarsi. «Fate la lista dei danni e cominciate le riparazioni dai sistemi chiave. Se occorre, sono nel mio ufficio».
 
   Di lì a poco il Rigeliano sedeva alla sua scrivania, in penombra. Si era trincerato nell’ufficio, quasi nascondendosi dall’equipaggio, e rimuginava sui torti subiti. Già che c’era aveva tirato fuori una bottiglia di whisky d’Aldebaran dallo scomparto segreto nella parete retrostante e se la stava scolando. Essendo in servizio, non avrebbe dovuto; ma era l’unico vizietto che il Rigeliano si concedesse, per sfogare la tensione. E di tensione distruttiva ne aveva accumulata fin troppa, in quegli anni di conflitto in cui aveva inseguito la Keter senza mai riuscire a debellarla. Dopo quell’ultima debacle, il suo futuro nei Pacificatori era incerto. Ma una cosa almeno gli era chiara come il sole: d’ora in poi lo scopo della sua vita sarebbe stato la vendetta contro gli ex colleghi.
   «Non avrò pace finché non li avrò eliminati» si disse, ingollando un’altra sorsata. Non era solo una ripicca personale, no: era un atto di beneficienza nei confronti della Galassia. Ma da dove cominciare? Posò la bottiglia mezza vuota sulla scrivania, mentre ci rimuginava.
   «Colpiscili al cuore» disse una vocina dentro di lui. Ma certo, molti ribelli avevano dei parenti che vivevano sui mondi dell’Unione. A partire dal Capitano Hod: la sua famiglia viveva su Elaysia. Finora Radek l’aveva lasciata in pace, ma adesso ne avrebbe fatto lo strumento della sua vendetta. A quel pensiero, un sorriso sadico si disegnò sul viso avvinazzato del Rigeliano. Ora sapeva quale sarebbe stata la prima tappa del Moloch, una volta uscito dal pantano. Sarebbe andato su Elaysia, a prelevare i parenti di Hod... inclusi i nipotini. Li avrebbe presi in ostaggio, usandoli per attirare in trappola il Capitano e possibilmente tutta la nave. E se avesse dovuto giustiziarne qualcuno, per far capire a Hod che non scherzava... ebbene, lo avrebbe fatto. Così l’Elaysiana avrebbe finalmente capito come si sentiva lui, dopo tanti lutti nel suo equipaggio.
 
   La Keter stazionava poco oltre la Barriera, là dove le stelle si diradavano, sfumando impercettibilmente nel vuoto intergalattico. Cavalcare l’onda d’urto subspaziale non era stata un’impresa da poco, tanto che si rendeva necessario un completo check-up dei sistemi prima di affrontare la traversata per Andromeda; ma ne era valsa la pena. I sensori indicavano che il varco nella Barriera era richiuso e Terry riteneva che il Moloch fosse impantanato nel subspazio danneggiato. Quindi c’era il tempo di prepararsi al grande balzo.
   Al momento la maggior preoccupazione degli ufficiali consisteva nell’integrare i corsari nell’equipaggio. Non si poteva lasciarli su qualche mondo federale, ora che avevano superato la Barriera, quindi non restava che portarseli dietro per tutto il viaggio. I rischi per la sicurezza erano evidenti. Di questo si parlò alla prima riunione tenutasi dopo la battaglia, alla quale parteciparono anche lo Spettro e Jaylah.
   «Abbiamo duecentocinque corsari a bordo» disse Terry, che li aveva teletrasportati. «In pratica sono un quarto dell’equipaggio. Abbiamo ricoverato i feriti e stiamo cercando di alloggiare gli altri, ma è chiaro che molti dovranno dormire in camerata. I corsari però non hanno familiarità col nostro protocollo... e non pochi manifestano insofferenza per la situazione. Rimpiangono la loro nave e pensano che sia stato un errore aiutarci. Inoltre temono che a missione compiuta saranno arrestati».
   «Può assicurarli che non sarà così. La Federazione ha già annunciato che concederà l’amnistia ai corsari che si sono battuti per noi» disse Hod.
   «Ricevuto, ma chiedo il permesso di piazzare delle sentinelle nei punti nevralgici della nave» disse la proiezione isomorfa.
   «Questo farebbe salire la tensione» disse lo Spettro. «Se si sentono prigionieri, potrebbero rivoltarsi».
   «Spetta a lei fare in modo che non accada!» mise in chiaro Hod. «È ancora il loro Capitano, quindi la riterrò responsabile della loro condotta».
   «Lo sono; ma gradirei un po’ di considerazione, dato che siamo stati noi a soccorrervi, in più occasioni. E ora questa buona volontà ci è costata la nave, il bottino e gran parte dei nostri compagni» sottolineò Jack.
   «Che cosa vorrebbe?» chiese Norrin.
   «In primo luogo voglio partecipare alle vostre riunioni ed essere sempre informato delle novità» rispose l’Umano. «Inoltre dobbiamo integrare i due equipaggi. È dall’inizio della guerra che siete sotto organico, dato che molti se ne sono andati. Noi possiamo riempire i vuoti. Abbiamo ingegneri, piloti e tanti combattenti che possono unirsi alla Sicurezza».
   Un senso di disagio aleggiò tra gli ufficiali della Keter, che si scambiarono occhiate nervose. «Per integrare gli equipaggi, occorre che tutti accettino di vestire l’uniforme della Flotta e di rispettare la catena di comando» disse infine Hod. «A partire da lei. È pronto a riprendere il suo vecchio grado di Tenente?».
   Jack si agitò sulla sedia, a disagio. «Per la durata di questa missione, sono disposto a inserirmi nella gerarchia. Ma non mi cucirete di nuovo addosso quell’uniforme» rispose, temendo che la sua ciurma perdesse il rispetto per lui.
   «Così non va; non potete inserirvi a metà» obiettò il Capitano, scuotendo la testa.
   «Abbiamo il nostro orgoglio» insisté lo Spettro.
   «È proprio questo il problema. Se i suoi uomini si considerano ancora pirati, chi ci assicura che non tenteranno d’impadronirsi della nave?».
   «Io, ve lo assicuro!».
   «Credo alla sua buona volontà, ma non posso accordare la stessa fiducia a tutti i suoi uomini, alcuni dei quali si sono già mostrati aggressivi» disse l’Elaysiana. «Sono disposta a integrare il personale non combattente, come medici e ingegneri; ma non affiderò la Sicurezza ai suoi filibustieri».
   «Se si sentono discriminati, questo accrescerà la distanza tra i due equipaggi» avvertì Jaylah. «E poi che dovrebbero fare, nei mesi che ci aspettano? Stare chiusi negli alloggi a girarsi i pollici? Penseranno d’essere in arresto».
   «Diamogli accesso alla mensa, alla sala ricreativa, ai ponti ologrammi e cerchiamo di socializzare con loro» suggerì Vrel. «Così vedranno che siamo tutti dalla stessa parte».
   «Uhm, sì» convenne Norrin. «Potremmo anche organizzare delle gare amichevoli sul ponte ologrammi, per scaricare la tensione».
   «Ottima idea; fatelo» disse il Capitano. «Inoltre, signor Wolff, deve dire ai suoi uomini che al ritorno ci aspetta la resa dei conti col Moloch e l’Esecutore. Questo gli darà un obiettivo più concreto, nonché una motivazione per pazientare fino ad allora».
   «Ed è la verità? Al ritorno intende affrontarli?» chiese Jack, che in effetti non vedeva l’ora di regolare i conti.
   «Ci può scommettere!» promise l’Elaysiana, con uno spirito vendicativo per nulla inferiore a quello dei corsari. «Al ritorno li ritroveremo, che sia a Kronos o presso la Terra».
   «O a Samarra» mormorò Juri sottovoce. L’Umano era ammesso regolarmente alle riunioni tattiche, sebbene prendesse di rado la parola.
   «Samarra? Non conosco quel pianeta» disse il Capitano, confusa dall’intervento.
   «Non è un pianeta, ma una città» spiegò lo storico. «Si trova sulla Terra e precisamente in Medio Oriente, presso il fiume Tigri. Se l’ho nominata, è solo perché è la sede di una vecchia storia che i vostri discorsi mi hanno fatto tornare in mente».
   In passato gli ufficiali della Keter non avrebbero perso tempo dietro la faccenda, ma nel corso degli anni si erano accorti che quelle antiche parabole conosciute da Juri avevano una sorprendente attualità e spesso li aiutavano a comprendere le conseguenze di certe azioni. «Allora, ce lo dica: che è successo a Samarra?» s’incuriosì Norrin.
   L’Umano non rispose subito. Si abbandonò con la schiena contro la sedia e le dita intrecciate sul petto; per qualche attimo fissò il vuoto, come a raccogliere le idee. Quando finalmente parlò, la sua voce era profonda e remota, quasi da liturgia: «Molti secoli fa, prima che la tecnologia dominasse la vita umana, un ricco mercante viveva nella città di Baghdad. Un giorno egli apprestò la sua carovana per un lungo viaggio e inviò un servitore al mercato, perché gli procurasse alcune cose mancanti. Il servo si fece strada nella calca tra le bancarelle, sotto il sole già alto e cocente. D’un tratto notò, tra la folla indaffarata, uno strano individuo che se ne stava immobile a fissarlo. Era alto, nerovestito e con un’espressione assorta, che all’uomo parve ostile. E l’uomo seppe, con subitanea certezza, che quella era la Morte».
   «La Morte?» si stupì Hod.
   «Sì, proprio lei. La Morte incarnata, personificata... fate voi» confermò Juri. «Il poveretto ne fu agghiacciato fino al midollo. Pensò che, se la Morte lo fissava a quel modo, evidentemente intendeva acciuffarlo da un momento all’altro. Così decise di allontanarsi il più possibile, per sfuggire al pericolo. Tornò dal suo padrone e riferì l’accaduto, implorandolo di concedergli il suo cavallo più veloce, così che potesse mettersi in salvo in un’altra città. Nell’udire questo resoconto, il mercante fu a sua volta pervaso dall’inesplicabile certezza che era tutto vero. Così dette licenza di partire al suo servitore, e in uno slancio di generosità gli donò persino il destriero più veloce».
   Lo storico si fermò un attimo, per dare modo agli altri di figurarsi la scena, e poi riprese. «L’uomo lasciò Baghdad a spron battuto. Tale era il suo terrore che cavalcò per tutta la giornata, senza concedersi soste, sempre incitando l’animale. Quando ormai il sole calava, raggiunse finalmente le porte di Samarra, a cento chilometri da Baghdad. Il cavallo era esausto e non poteva portarlo oltre, ma l’uomo pensò di aver messo sufficiente distanza fra sé e il pericolo. Così scese a terra e tenendo l’animale per le briglie entrò in città, in cerca di una locanda che potesse alloggiarlo. E fu lì che trovò la Morte ad attenderlo, identica a come gli era apparsa quella mattina.
   “Vieni con me, è la tua ora” gli disse la Morte.
   “Ma come?!” si disperò il poveretto. “Ti ho vista stamane a Baghdad, che mi fissavi minacciosa, e credevo d’essermi allontanato abbastanza dalle tue grinfie...”.
   “Minacciosa?” ripeté la Morte, un poco perplessa. “Macché, non era la minaccia che hai visto nei miei occhi. Era semplicemente la sorpresa. Sapevo di doverti incontrare qui, al tramonto, e data la distanza mi stupivo che non ti fossi ancora messo in viaggio!”. Fu così che la Morte ghermì la sua preda, com’era destino che fosse».
   Concluso il racconto, ci furono lunghi momenti di silenzio.
   «Ci sarà una morale... nelle tue storie c’è sempre...» commentò infine Vrel, grattandosi il capo.
   «La morale è il Fato ineluttabile» rispose Juri con gravità. «Non importa quanto andiamo lontano, quanto ci arrabattiamo... il destino ci troverà sempre. Anzi, proprio il tentativo di sfuggire a un male rischia di provocarlo! Ora che la resa dei conti è vicina, noi andiamo ad Andromeda, sperando di trovarvi la salvezza per la nostra gente. Può darsi che la troveremo e può darsi di no. Ma anche se tornassimo coi Proto-Umanoidi al nostro fianco, non illudiamoci di sopravvivere tutti alla resa dei conti. Samarra è sempre là che ci aspetta, signori».
 
   L’infermeria era sommersa dai feriti, molti dei quali gravi. C’erano vittime di esplosioni, schiacciamenti, decompressioni. Malgrado ciò, molti corsari avevano reagito con rabbia all’annuncio che la loro nave era distrutta e che quindi erano bloccati sulla Keter. Si erano avuti tafferugli, tanto che Terry aveva dovuto inviare un robusto contingente della Sicurezza per calmare gli animi e garantire l’incolumità dei medici.
   Per la dottoressa Mol, tuttavia, questo non era il primo tour de force. Le era già capitato di dover gestire pazienti riottosi e ormai ci aveva fatto il callo. Perciò fece somministrare grandi quantità di sedativi e dimise i pazienti che non erano più in pericolo, concentrandosi sui casi gravi. I corsari sciamarono fuori dall’infermeria, diretti agli alloggi provvisori nelle stive di carico.
   Fu così che Jaylah, che si faceva strada nella calca in cerca di un amico, quasi gli sbatté contro. «Ehi, quanta fretta!» l’accolse il Gorn.
   «Raav!» esclamò la mezza Andoriana, sollevata. «Ero in pensiero per te, non sapevo se ti eri salvato. Poi Terry mi ha detto che eri in infermeria. Come stai?».
   «Una roccia, come sempre!» ridacchiò il rettile, che aveva un braccio al collo e le scaglie un poco bruciacchiate. «Non temere, tra pochi giorni sarò come nuovo. Noi Gorn guariamo in fretta». Mentre parlavano si allontanarono dalla ressa, così da poter discorrere più liberamente. «Però mi mancherà la Stella; era una buona nave» aggiunse malinconicamente Raav.
   «Non dirlo a me!» sospirò Jaylah, ancora più demoralizzata. Per tre anni aveva vissuto da “regina corsara”, godendosi lo sfarzo barbarico della nave orioniana, i bottini delle scorrerie e l’autorità sull’equipaggio. Ora tutto questo era finito e non aveva idea di cosa le riservasse il futuro. Sarebbe rientrata nei ranghi della Flotta Stellare? E in tal caso che ne sarebbe stato della sua relazione con Jack? Oppure avrebbero ripreso la vita da corsari... ma con quale nave? Era come svegliarsi da un sogno, per fare i conti con la dura realtà.
   «Ehi, non è ancora finita!» la confortò Raav, intuendo molto di ciò che le si agitava in cuore. «Io sono solo un cuoco; ben che vada mi daranno da gestire la mensa. Ma tu sei un Agente Temporale, e sei anche la Banshee. Questo non è cambiato. Ora che siamo alle battute finali della guerra, sei più importante che mai. Potresti essere proprio tu a portare il nostro messaggio ai Proto-Umanoidi».
   Quelle parole risvegliarono un ricordo a lungo sopito nella memoria della mezza Andoriana. «Forse so come farmi riconoscere» disse.
 
   Di lì a poco Jaylah era nel suo vecchio alloggio, assieme a Jack e Terry. «Da quando te ne andasti, qui non c’è più stato nessuno» disse la proiezione isomorfa. A confermare le sue parole, alcuni effetti personali della mezza Andoriana erano ancora lì. In tre anni, nessuno li aveva toccati. Ciò era senz’altro dovuto alla cronica carenza d’organico che aveva afflitto la Keter, come ogni altra nave federale, per tutta la durata del conflitto.
   «Bene» disse Jaylah. «Mi occorre qualcosa che avevo lasciato in cassaforte». Come tutti gli Agenti Temporali, infatti, godeva del privilegio di un armadietto blindato. Ricordava perfettamente dov’era, tanto che vi si diresse a passo sicuro. Passò la mano sul lettore di DNA e poi, come ulteriore garanzia, digitò un codice che lei sola conosceva.
   La porta blindata si aprì di scatto, rivelando il vano incassato nella parete. C’erano diversi oggetti e documenti, retaggio della carriera di Agente Temporale, ma a Jaylah interessava una cosa sola. Ed eccolo lì: un grande medaglione argenteo, con impresso il simbolo dei Proto-Umanoidi. Si trattava dell’uroboro, il serpente che si morde la coda formando un cerchio, a simboleggiare l’eterno rinnovarsi del cosmo. Il serpente inoltre aveva il dorso nero e il ventre bianco, a indicare la natura dualistica della realtà e la conciliazione degli opposti. Jaylah prese il medaglione con reverenza, passando una mano sulla sua superficie polita.
   «Magnifico» commentò Jack, che aveva l’occhio per i tesori.
   «Questo un tempo stava al collo di Talat, leader dei Proto-Umanoidi» disse Terry. «Ricordo perfettamente quando lei lo donò a tuo padre, in segno di stima. Gli chiese di trasmetterlo ai suoi eredi... cioè a te. Disse che in ogni inizio c’è il germe della fine e ogni fine è un nuovo inizio. Tutto cambia, tutto scorre in un eterno rinnovamento che ci lega agli avi e ai posteri. Ed è custodendo la memoria che possiamo comunicare con loro. Questa è la filosofia dei Progenitori».
   «La memoria...» mormorò Jaylah, osservando assorta il medaglione. «Il regime di Rangda sta cancellando la memoria del passato. Distrugge tutto ciò che ci legava. È una fine senza più inizio... la fine della storia». D’un tratto rialzò gli occhi, che erano di ghiaccio. «No, la nostra storia non finirà così. Quando i Proto-Umanoidi saranno informati, verranno in nostro soccorso. Non lasceranno sfumare il frutto delle loro fatiche».
   «E se ti sbagliassi?» chiese Jack, al quale non pareva che quegli antichi esseri si fossero mai curati delle loro creature.
   «Rifiuto di crederlo» rispose Jaylah. Era una risposta irrazionale e lo sapeva; ma era l’unica in grado di dargli.
 
   Quella sera Jaylah cenò con i suoi amici della Keter: Vrel, Zafreen, Norrin, Ladya. Era la prima volta da un anno che aveva l’opportunità di farlo. Con lei c’era anche Jack, reduce da un discorso ai corsari, in cui li aveva ammoniti a mantenere la calma e rispettare le regole finché fossero rimasti a bordo. Fu l’occasione per raccontarsi tutto ciò che era accaduto nell’ultimo anno. Il narrare però fu amaro: quelli della Keter avevano da riferire solo sconfitte e ritirate, mentre per i corsari la perdita della Stella era ancora vicina e bruciante. La cosa che più interessò Jaylah fu la descrizione del viaggio temporale che aveva risolto, una volta per tutte, il mistero sulla migrazione dei Voth.
   «Avrei voluto esserci» commentò la mezza Andoriana.
   «Potevate impedire ai Proto-Umanoidi di salvare quei lucertoloni» disse però Jack.
   «Ci abbiamo pensato» riconobbe Norrin, lanciando una breve occhiata a Vrel e Zafreen. «Ma il Capitano ha ritenuto che non potessimo cancellare un’intera specie, né stravolgere la storia di tutte quelle che ne sono state influenzate. Sarebbe un’azione degna di Vosk e avrebbe effetti imprevedibili. Jaylah è un’Agente Temporale e te lo può confermare».
   «Uhm, sì» fece l’interessata, con aria insoddisfatta. Appena quattro anni prima aveva lottato strenuamente per impedire a Vosk, dittatore dei Na’kuhl, di fare una cosa del genere. Ma ora persino la sua fede negli Accordi Temporali vacillava. Se la missione ad Andromeda fosse fallita, il viaggio nel tempo sarebbe stato la loro ultima risorsa. Ecco perché non dovevano fallire.
   «Prima della battaglia i Pacificatori ci avevano detto che eravate morti» disse Vrel, per cambiare argomento. «Era una menzogna per demoralizzarci o lo credevano davvero?».
   «Chissà!» fece lo Spettro. «L’ultima volta che li abbiamo affrontati, prima d’oggi, è stato nella Forgia. Fu una strana battaglia...» disse pensoso.
   «Ne ho sentito parlare, ma in termini confusi. Come andarono esattamente le cose?» volle sapere il timoniere.
   Jack e Jaylah glielo dissero, alternandosi nel narrare le parti della vicenda che li riguardavano più direttamente. Raccontarono di come avevano rintracciato i prigionieri dei Pacificatori, scoprendo la Forgia, e di come la Banshee si era infiltrata a bordo per un sopralluogo. Quando la mezza Andoriana rivelò che tra i condannati ai lavori forzati aveva trovato anche Vitani, Norrin sobbalzò.
   «Mia cugina?!» esclamò il Comandante. «Non avevo idea che l’avessero catturata!». Per un attimo la sua proverbiale calma si dissolse e l’Hirogeno apparve spaventoso nella sua collera.
   «Sì, proprio lei» confermò Jaylah. «Avrei voluto liberarla subito, ma dovetti aspettare, finché non avessimo elaborato un piano per salvare tutti. Quindi tornai sulla Stella senza farmi scoprire, sempre approfittando del viavai di carichi tra la Forgia e la nebulosa».
   A quel punto fu Jack a proseguire la narrazione, spiegando come avevano esplorato Altamid, trovando l’USS Franklin e i tre Umani ibernati. Disse altresì come si erano imbattuti nei Cacciatori, comandati da Garid, e come avevano collaborato con loro per salvare i prigionieri. Fu un lungo racconto, anche perché i federali incuriositi fecero molte domande. I corsari continuarono ad alternarsi nel raccontare la battaglia, mettendo in luce l’eroismo del Capitano Edison, sacrificatosi per distruggere la Forgia, e quello di Le e Wolff, che a loro volta si erano immolati per aprire la via di fuga.
   «Alla fine balzammo a curvatura all’ultimo istante, mentre la Forgia ci esplodeva attorno» concluse Jack. «Non so se i Pacificatori ci abbiano dati per spacciati... comunque ora sanno come stanno le cose» borbottò.
   «Beh, è stata una grande vittoria!» disse Zafreen, cercando di consolarlo dalla perdita della sua amata astronave. «Ma che ne è di tutti i prigionieri che avete liberato? Non li avevate a bordo, quando ci siamo riuniti» notò.
   «No, per fortuna» confermò lo Spettro. «Vedete, prima della battaglia avevamo concordato con gli Hirogeni un punto d’incontro presso cui ritrovarci. Quel luogo è il pianeta Halkan, che ufficialmente è neutrale, ma in pratica accoglie i rifugiati che gli portiamo e li nasconde dai Pacificatori. Così anche stavolta gli Halkani hanno dato asilo a quei poveri disgraziati. Quando poi sono arrivati gli Hirogeni, gli abbiamo restituito Vitani e gli altri del loro clan. Siamo ripartiti subito, chiedendo agli Halkani di mantenere il massimo riserbo sulla nostra sorte. Sapete, la Stella era danneggiata e non volevamo rischiare di trovarci coi Pacificatori alle calcagna» concluse.
   «Molto astuto» riconobbe Vrel. «Ma ho ancora un dubbio: come avete fatto a trovarci presso la Barriera? Voglio dire, come sapevate che saremmo stati qui?».
   «Oh, quello fu un colpo di fortuna» rispose Jack. «Quand’ero nella sala comando della Forgia, ho scaricato le trasmissioni subspaziali che ricevevano dal Comando dei Pacificatori per ritrasmetterle alle loro navi. Così ho scoperto che il Moloch aveva ricevuto ordine di venire a queste coordinate. Immaginavo che fosse per tendervi un’imboscata, così ci siamo precipitati qui».
   «Gli Hirogeni ci erano grati per aver salvato la loro Alfa, quindi ci hanno accompagnati» aggiunse Jaylah. «Peccato che non possano seguirci fino ad Andromeda... i tuoi parenti spaccano!» ridacchiò, rivolta a Norrin.
   Il Comandante accettò il complimento con un lieve cenno del capo. «Grazie a entrambi per avere salvato mia cugina» disse. Per il resto della serata, tuttavia, non fu molto loquace. Aveva notato che Jaylah era cambiata, rispetto a quand’era Agente Temporale. Era come se la sua disciplina della Flotta Stellare si fosse erosa, rendendola più simile ai corsari tra cui aveva vissuto. Ora si scolava un liquore dopo l’altro e manifestava i suoi pensieri senza peli sulla lingua. Il cambiamento era percepibile anche nell’aspetto: pur essendo passata dal suo alloggio, non aveva ripreso l’uniforme di Agente Temporale. Vestiva ancora da fuorilegge, con gli occhi cerchiati di trucco pesante e le unghie tinte di nero. Norrin pensò che forse non sarebbe rientrata nei ranghi, nemmeno al termine della missione; ma per il momento non volle pressarla. «Lasciamo che aiuti Jack a tenere sotto controllo i corsari» si disse. «Poi si vedrà».
 
   Dopo tre giorni di controlli e riparazioni, tutto era pronto. La Keter stava per varcare d’un sol balzo il tenebroso vuoto intergalattico che la separava da Andromeda. Questo miracolo era possibile solo grazie al propulsore cronografico, la sofisticata tecnologia che la Flotta Stellare aveva ottenuto dai Cythereani, i misteriosi abitatori del nucleo galattico. Poche astronavi ne erano provviste e ancor meno potevano effettivamente usarlo, perché il propulsore richiedeva un pilota che s’interfacciasse telepaticamente con i suoi sistemi. Solo gli individui dotati d’eccezionali facoltà mentali potevano farlo senza pericoli; gli altri sarebbero andati in shock neurale. A conti fatti, pochissime specie federali avevano i requisiti. E anche ai candidati serviva un corso lungo e rigoroso, che minimizzava i rischi per il pilota... e per la nave. Il minimo errore, infatti, avrebbe provocato la totale distruzione del vascello. Nel corso degli anni gli incidenti c’erano stati, anche se pochi. Così non vi era equipaggio che non provasse un brivido, ogni volta che si rendeva necessario eseguire il Balzo.
   Accompagnato da una squadra d’ingegneri, Dib entrò nella saletta del propulsore, attigua alla sala macchine. L’Ingegnere Capo della Keter era un Penumbrano, come indicava il suo aspetto peculiare: la tuta termica argentea dava forma umanoide a quello che altrimenti sarebbe stato un ammasso informe d’idrocarburi a temperature superfredde. Solo la visiera del casco lasciava trasparire quel protoplasma bianco-azzurro, sempre vorticante, che costituiva il suo corpo. In quanto Penumbrano, Dib poteva usare il propulsore cronografico senza pericolo; in effetti era l’unico pilota abilitato della nave. Questo lo rendeva l’elemento più insostituibile a bordo, ancor più del Capitano.
   «Procediamo» disse l’Ingegnere Capo, accomodandosi sulla sedia del pilota. Non c’era particolare enfasi nella sua voce, poiché la sua emotività era come la sua temperatura: prossima allo zero assoluto. Eppure Dib non era come gli altri Penumbrani, che allo scoppio della guerra si erano dichiarati neutrali, ritirandosi sul loro mondo natale. Lui aveva scelto di rimanere sulla Keter perché lì si riteneva più utile. Non era stata una decisione facile: oltre che esporlo ai rischi del conflitto, lo aveva condannato all’esilio perpetuo. Dunque non sarebbe potuto tornare su Penumbra, nemmeno al termine della guerra. E questo gl’impediva di generare il suo erede, distillandolo dagli idrocarburi di quel mondo uranico. L’Ingegnere Capo si era chiesto se poteva farlo ugualmente, sintetizzando in laboratorio gli elementi necessari: ma finora non aveva studiato a fondo l’argomento. Generare un erede lo avrebbe distratto dai suoi incarichi sulla Keter. Eppure, ora che lasciavano la Via Lattea, Dib avrebbe preferito avere un successore da lasciare al sicuro, se qualcosa fosse andato storto.
   Scacciando questi pensieri, il Penumbrano si concentrò sull’operazione. I suoi ingegneri attivarono il propulsore, confermandogli uno dopo l’altro che tutti i parametri erano regolari. Il grosso dispositivo conico, sospeso sopra la testa del pilota, prese a ronzare, mentre alcuni raggi gli colpivano il cranio, instaurando il collegamento neurale.
   «Legame stabile» disse Terry, che già altre volte aveva diretto simili balzi, sia sull’Enterprise che sulla Keter. Dalla plancia arrivarono le coordinate di destinazione, mentre l’IA si accertava che non ci fossero picchi d’energia. «Quando vuoi» disse.
   «Dib a plancia, sono pronto a eseguire il Balzo» avvertì l’Ingegnere Capo. «Meno tre... due... uno...».
   Non ci furono scossoni, né lampi di luce o altri fenomeni eclatanti. Il vascello si era semplicemente dissolto, traslandosi da un punto a un altro dello spazio. Due milioni e mezzo di anni luce erano una distanza spaventosa, per gli umanoidi; ma non erano poi una gran cosa, se confrontati con l’inconcepibile vastità dell’Universo. Lo spazio nei pressi della Barriera Galattica rimase vuoto. Qua è là brillavano gli ammassi globulari di stelle, mentre in lontananza, appena visibile come una macchiolina chiara sul nero vuoto intergalattico, scintillava Andromeda. 
 

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Capitolo 8
*** Vendetta ***


-Capitolo 7: Vendetta
 
   La Nave Città uscì dalla transcurvatura a poca distanza dalla Terra, scortata da una flottiglia di sei Navi Bastione. Era un dispiegamento di forze necessario, dal momento che su quella nave viaggiava il Cancelliere Shantu, massima autorità del suo popolo. Accadeva raramente che un Cancelliere in carica lasciasse lo spazio Voth, ed era ancor più raro che si spingesse così lontano; ma dopo tre anni di colonizzazione e d’intervento nella Guerra Civile una visita era d’obbligo. Là nel Quadrante Delta, l’opinione pubblica Voth era sempre più spaccata sull’argomento. La visita del Cancelliere serviva a dimostrare che i sauri erano andati sul Mondo Perduto per restarci e che, nella loro generosità, non avrebbero voltato le spalle agli amici dell’Unione Galattica.
   La flotta del Cancelliere fu accolta da quella dell’Ammiraglio Hadron, che da tre anni pattugliava il sistema solare. Le astronavi lanciarono spettacolari fuori d’artificio che riverberarono sui loro scafi cromati. Su tutte giganteggiava la Nave Fortezza di Hadron, in realtà un colossale guscio vuoto, che poteva accogliere al suo interno un’intera flotta e trasportarla in fretta dove occorreva.
   Al confronto dei chilometrici scafi Voth, le navi dei Pacificatori sembravano piccole e insignificanti. Eppure erano una forza notevole e continuavano ad aumentare, man mano che affluivano dai vari fronti. Quello era infatti il punto di raccolta per la flotta che avrebbe conquistato Kronos, dando il colpo di grazia alla stremata Federazione. Superato quell’ultimo ostacolo, la vittoria era a portata di mano. Tutti i Pacificatori lo sapevano e quindi sulle loro navi regnava una suprema sicurezza. Persino il vago timore dei Borg, instillato dall’incidente di un anno prima, si era dissolto con l’arrivo dei rinforzi Voth. Guardando quelle navi lucenti, dall’insuperata tecnologia, i Pacificatori si sentivano invincibili. Pareva loro di avere davanti a sé un esempio di perfezione: l’immagine di ciò che anche l’Unione sarebbe divenuta un giorno.
   La Nave Città entrò nell’orbita terrestre, affiancandosi all’ammiraglia di Hadron. Tra i due titanici vascelli furono scambiati saluti formali, nonché codici di sicurezza. Dopo di che i saluti furono trasmessi ad Atlantide, l’isola artificiale che ospitava – ancora per poco – la sede del governo e dei Pacificatori. L’Unione Galattica rispose con messaggi di benvenuto e l’invito a sbarcare per il Cancelliere. L’evento storico fu immortalato dalle olocamere del Federal News, che lo trasmisero via subspazio ai mondi dell’Unione. Le riprese giunsero anche oltrecortina, ai popoli della Federazione che ancora resistevano, e che vi lessero la fine incombente. Se il Cancelliere dei Voth giungeva di persona, portando rinforzi, a che serviva lottare? Erano come bambini che cercavano di difendere i loro castelli di sabbia dalla marea inesorabile.
   Per ordine di Rangda, lo Scudo Planetario fu abbassato. Il Cancelliere e il suo folto seguito poterono così teletrasportarsi a terra, nel punto prescelto. Non si trattava di Atlantide, né di alcun altro luogo di valore per l’Unione. Quello ormai era Vothan, il mondo dei sauri, ed erano loro a stabilire le regole.
 
   Sebbene si fosse sul finire dell’anno, il sole era alto lì ai tropici e la temperatura era ancora piacevole. Dal mare giungeva una brezza che agitava le ampie chiome delle palme. Quello era lo Yucatán, la penisola affacciata sul Golfo del Messico: uno dei luoghi più assolati al mondo. Lì, 65,95 milioni di anni prima, era caduto il meteorite che aveva sancito il destino della Terra e dei suoi abitanti. Lì era sorta la civiltà Maya e in seguito gli europei avevano costruito la città di Mérida. Lì, infine, i Voth tornati dal Quadrante Delta avevano edificato il primo insediamento sul Mondo Perduto: Sauropoli, la Città dei Sauri. Per far ciò si era reso necessario deportare gli abitanti di Mérida e raderla completamente al suolo. Dopo di che erano iniziati i lavori per costruire una città più grande, più lussuosa... più degna dei nuovi padroni. Per progettarla i Voth si erano ispirati alle grandi metropoli dei loro mondi. Ecco quindi sorgere torreggianti grattacieli dalle forme avveniristiche, incoronati di vegetazione. Altre piante crescevano sulle ampie balconate e sui ponti simili a viali che univano un edificio all’altro, permettendo ai coloni di farsi uno spuntino mentre passeggiavano.
   Di tutto questo, i Voth erano gli architetti; ma pochi avevano dovuto sporcarsi le mani, dato che gran parte del lavoro era automatizzato. La costruzione era proceduta con sorprendente rapidità, grazie a un altro segreto dei sauri: la Materia Programmabile. Composta di naniti, questa materia aveva la capacità di riconfigurarsi in forme precedentemente impostate via computer. Altre forme potevano essere aggiunte in qualsiasi momento, anche se solo le autorità potevano compiere interventi urbani. Oltre a questo, la Materia Programmabile imparava. Le interfacce si personalizzavano in base all’utente e gli arredi si rimodellavano per venire incontro alle esigenze degli abitanti.
   In tal modo interi palazzi erano sorti dal giorno alla notte. Non restava che riempirli: i Voth avevano trasferito milioni di loro coloni dal Quadrante Delta alle nuove dimore. A migrare erano intere famiglie, attirate dalla prospettiva di rioccupare il Mondo Perduto e di conoscere i popoli dell’Unione. Le autorità la presentavano come una grande avventura, smussando però qualunque accenno ai rischi. In fondo non si trattava che di passare da una dimora confortevole a un’altra; e anche il viaggio era extra-lusso. Ciò che i Voth cercavano di nascondere era che i rischi c’erano, e venivano dai Terrestri, umani o alieni che fossero. Molti deportati infatti si erano uniti alla Catena Cremisi, giurando di riconquistare la Terra. Ma siccome non avevano alcuna speranza di sconfiggere Pacificatori e Voth, tutto ciò che riuscivano a fare era piazzare bombe che facevano strage di civili innocenti. La Flotta Stellare si era completamente dissociata da queste crudeltà, il cui unico effetto era d’inasprire il conflitto; ma i Voth stentavano a distinguere tra le due organizzazioni. Finora avevano evitato rappresaglie sproporzionate, ma la loro pazienza stava per esaurirsi; e l’arrivo del Cancelliere li rendeva più tesi.
   Shantu e il suo entourage si materializzarono in un’area verde davanti ai palazzi governativi. Il Cancelliere si guardò intorno, ammirando la città assolata e scintillante, del tutto simile a quelle che conosceva. Inalò i profumi della vegetazione e sorrise. Poi, sotto l’occhio delle olocamere, si chinò e raccolse una manciata di terriccio che era stato smosso per facilitargli l’operazione. Si rialzò stringendolo nella mano tridattila e proclamò ad alta voce: «Ahhh... finalmente sono a casa!». Le sue scaglie assunsero una tonalità giallastra, il colore della felicità e della soddisfazione.
   A queste parole la delegazione dell’Unione fece udire i suoi applausi. Rangda era in prima fila, vestita nel suo stile inconfondibile: un abito da sera fucsia con lo strascico. La attorniavano altre importanti figure di Stato, tra cui Lyra, che osservò con curiosità il Cancelliere. Era uno degli individui più potenti della Galassia, eppure non le parve particolarmente carismatico. Ciò che la colpì fu invece l’atteggiamento di Rangda. La Presidente dell’Unione venne incontro al Cancelliere e non appena gli fu davanti s’inchinò profondamente. A Lyra parve un satrapo che riceve la visita del suo re e cerca d’ingraziarselo, più che il capo di Stato di una nazione sovrana. E non era finita. Vedendo la Presidente che s’inchinava, tutto il suo entourage si affrettò a imitarla. E così anche a Lyra toccò piegare la schiena. D’un tratto comprese perché agli Umani, cui da qualche anno era imposto d’inchinarsi e persino inginocchiarsi davanti agli alieni, riusciva tanto sgradito quel gesto. Quando si raddrizzò, i Voth non le parvero più amichevoli come prima.
   «Benvenuto, Cancelliere!» trillò Rangda, con un sorriso lezioso che approfondiva le rughe anziché spianarle. «È un immenso onore, nonché una gioia, accogliervi su Vothan. Tutto il pianeta è in festa per il vostro arrivo. Spero che vi tratterrete a lungo!».
   «È la mia intenzione, sebbene nel Quadrante Delta vi siano molti impegni ad attendermi» rispose Shantu. «Confido di poter restare per almeno sei mesi».
   «Ma è splendido! Sei mesi sono proprio il tempo che ci occorre per concludere le operazioni anti-terrorismo» disse la Presidente. «E sono anche il tempo che manca al mio trasferimento su Zakdorn. Dunque potrà assistere alla cerimonia d’insediamento».
   «Con grande piacere» accettò il Cancelliere. «Nel frattempo vorrei visitare da cima a fondo questo stupendo pianeta».
   I due s’incamminarono fianco a fianco verso il palazzo, scortati da un cordone di guardie Voth. Sopra di loro i droni pattugliavano il cielo, per garantire la sicurezza. Dietro ai due capi di Stato vennero i rispettivi entourage, anch’essi affiancati. L’atmosfera era festosa da ambo le parti, anche perché tutti avevano l’ordine di sorridere, a beneficio della stampa. Ma Lyra si accorse che i suoi sorrisi e le strette di mano erano una patetica recita. Quella cerimonia le aveva reso chiaro ciò che ormai intuiva da tempo: l’Unione Galattica, un tempo superpotenza, era divenuta a tutti gli effetti uno Stato fantoccio, vassallo dei Voth. Dunque sarebbero stati i sauri a deciderne le sorti, assicurandosi che non potesse mai scavalcarli.
 
   Nelle settimane successive il Cancelliere Shantu mantenne il suo proposito di visitare i principali luoghi d’interesse del pianeta. In gran parte di queste visite fu accompagnato da Rangda, con la quale sembrava esserci perfetta sintonia. Dopo i primi giorni a Sauropoli visitarono altre colonie Voth nel continente americano, che sorgevano sui resti delle principali metropoli umane. I due leader si fecero immortalare davanti al Monte Rushmore, dove le effigi dei Presidenti americani erano state rimodellate in quelle di Cancellieri Voth del passato. Visitarono Bozeman nel Montana, dove «i Vulcaniani vennero a donare la civiltà ai barbari Umani», come disse Rangda. Poi trasvolarono sull’oceano, recandosi ad Atlantide. Qui Shantu fu accolto dal Senato dell’Unione, al quale rivolse uno storico discorso. Tra le altre cose confermò l’impegno dei Voth a difendere il pianeta da qualunque pericolo.
   «Sono pienamente consapevole, e addolorato, delle terribili sofferenze che l’Unione ha patito e continua a patire a causa della Guerra Civile» disse il Cancelliere. «Per questo vi garantisco il mio pieno appoggio per una rapida ed efficace risoluzione del conflitto. La mia flotta, al comando dell’Ammiraglio Hadron, supporterà i Pacificatori nell’attacco a Kronos e nelle successive operazioni di peacekeeping. Ma al di là di questo, voglio promettervi una cosa: noi siamo vostri amici e saremo sempre pronti a proteggervi. E poiché nessun mondo ci è più caro di questo, sappiate che se mai fosse in pericolo, noi lo soccorreremo fino al limite delle nostre forze!».
   Questa dichiarazione fu accolta da applausi scroscianti. Per i politici dell’Unione era una manna sapere che i Voth li avrebbero assistiti nelle fasi finali del conflitto. Ora nessuno poteva più dubitare della vittoria. Il discorso di Shantu fu riproposto dal Federal News per le settimane a seguire, man mano che i Pacificatori si radunavano. Fu anche trasmesso alla Federazione, per fiaccarne il morale. Gli effetti si fecero sentire: su quasi tutti i mondi federali ci furono sollevazioni popolari, sobillate dagli agenti dei Pacificatori, in cui si chiedeva di arrendersi e rientrare pacificamente nell’Unione. Le richieste popolari furono ignorate, ma ora la Flotta Stellare si trovava ancor più isolata; e persino tra i suoi ranghi si verificarono diserzioni.
   Intanto Shantu proseguiva il grand tour, con Rangda a fargli da cicerone. I due capi di Stato percorsero il continente eurasiatico, dov’erano sorte altre colonie Voth. I sauri infatti avevano iniziato la colonizzazione dall’emisfero boreale, dov’erano vissuti i loro antenati, anche se progettavano di occupare tutti i continenti e le isole maggiori, con la sola eccezione di Atlantide. I luoghi storici attinenti la cultura umana, o anche la Federazione, furono bellamente ignorati. Nemmeno i memoriali che commemoravano i caduti delle guerre federali furono reputati degni di visita. In compenso Shantu prese un gran gusto a farsi olografare accanto ad alcuni dei più grandi rettili terrestri, come le testuggini giganti e i varani.
   Infine il Cancelliere tornò soddisfatto sulla Nave Città, dove intendeva restare fino alla presa di Kronos, organizzando gli ultimi aspetti della colonizzazione. Fece sapere che aveva apprezzato moltissimo il giro e che certamente avrebbe presenziato alla cerimonia d’insediamento su Zakdorn.
   Ma nei momenti in cui aveva parlato a quattr’occhi con la Presidente, lontano da olocamere e testimoni, non era stato così allegro. «Mi spiace non averla potuta sostenere di più in questi anni, ma deve capire la mia posizione» le disse durante il primo colloquio a porte chiuse. «La nostra società è profondamente divisa, come lo è l’Assemblea degli Anziani. Da un lato ci sono gli Interventisti, disponibili a darvi pieno appoggio militare. Dall’altro abbiamo i Conciliatori, che invece vorrebbero il disimpegno. A me tocca il delicato compito di mediare tra le due posizioni, impedendo un’escalation di violenza politica».
   «Ah, come la capisco!» simpatizzò la Zakdorn. «Anch’io devo sempre combattere con chi crede che il disimpegno, la deresponsabilizzazione, risolvano magicamente tutti i problemi. Ma mi dica, chi c’è dietro ai Conciliatori?».
   «Il loro volto pubblico è certamente il Senatore Towt» rispose il Cancelliere. «Ma negli ultimi tempi è emerso che l’eminenza grigia del movimento è il dottor Lambeos».
   «Sarebbe a dire lo scienziato che ha confermato l’Origine Lontana?» s’interessò Rangda.
   «Proprio lui» sospirò il Cancelliere. «Pare che si senta in colpa per le conseguenze della sua scoperta e che voglia fare ammenda in questo modo. Che miopia! Purtroppo non posso incriminarlo, perché formalmente non ha violato alcuna legge».
   «Non potete sbarazzarvi di lui?» chiese la Presidente, senza specificare cosa intendesse con quel termine.
   «Fosse facile! Ormai ha molti seguaci, soprattutto tra i giovani. Se dovesse – ehm – capitargli una disgrazia, ne farebbero un martire, come hanno già fatto con Frola Gegen» spiegò il Voth. Frola era la figlia di Forra, colui che per primo aveva teorizzato l’Origine Lontana. Per molto tempo si era battuta per dimostrare la correttezza della teoria paterna, ma in seguito aveva aspramente criticato l’occupazione della Terra, arrivando persino a sabotare una Nave Bastione per favorire la Keter. Le sue azioni le erano valse la condanna a morte, che però non aveva impedito a Lambeos di continuare la sua opera, con più discrezione.
   «È come immaginavo. Questo viaggio le serve per dimostrare alla sua opinione pubblica che il vostro intervento militare è necessario e apprezzato» indovinò la Zakdorn.
   «Ci può scommettere» confermò Shantu. «Ma la mia vittoria nell’Assemblea degli Anziani è la sua vittoria sul campo di battaglia. Quindi faccia la brava e mostri ai nostri scettici che l’Unione ha solo gratitudine per noi».
   Ed è quanto Rangda fece nelle settimane seguenti, con tanta più tenacia quanto più si avvicinava l’assalto a Kronos. Tale era la sua concentrazione su questo obiettivo che non si preoccupò di sapere che il Moloch, inviato a trattenere il nemico da un improbabile sconfinamento galattico, non aveva più dato notizie. La cosa più urgente, per lei, era abbattere l’odiata Federazione. Se riusciva in questo, non avrebbe più avuto importanza a chi si rivolgeva la Flotta per avere soccorso.
 
   Chiusa nel suo ufficio, dove ormai trascorreva le giornate, Lyra scorreva svogliatamente una serie di messaggi propagandistici da propinare alla popolazione. Come Ministro dell’Informazione le capitava spesso di dover avallare quelle porcherie, magari scegliendo tra più varianti. C’era stato un tempo in cui condivideva quegli slogan e credeva che il suo lavoro migliorasse la società. Ma quell’illusione si era ormai infranta.
   Lyra non avrebbe saputo dire il momento esatto in cui aveva cominciato a vedere oltre la propaganda. Forse era quando aveva scoperto cosa accadeva realmente nei Centri di Rieducazione, o quando alcuni trasporti carichi di Terrestri erano spariti nel nulla, o ancora quando certi stretti collaboratori di Rangda erano rimasti vittime delle purghe interne al regime. Ma forse era solo quando aveva visto la Presidente inchinarsi davanti a Shantu che aveva compreso appieno la gravità della situazione. Le pareva di svegliarsi da un sogno, nel quale la sua capacità di raziocinio era stata anestetizzata. Man mano che il suo pensiero logico, arrugginito dal disuso, tornava a funzionare, si rendeva conto degli orrori che l’attorniavano da ogni parte. Orrori ai quali lei stessa aveva partecipato, con un entusiasmo e uno zelo che ora la disgustavano.
   Quel documento che aveva davanti, per esempio, era la slide iniziale di un corso di formazione che i lavoratori dovevano obbligatoriamente seguire. Solo gli Umani, beninteso; le altre specie ne erano esentate. Lo lesse con occhio spassionato, come se fosse la prima volta:
   “Questo corso è rivolto a tutti i dipendenti Umani che non hanno ancora raggiunto la consapevolezza dei privilegi di cui beneficiano illecitamente. È un dato di fatto che, nella nostra società, gli Umani sono allevati in modo tale da considerarsi superiori a causa della loro razza. Le ricerche indicano che già all’età di 3-4 anni i bambini comprendono che è meglio essere Umani, piuttosto che appartenere a un’altra specie. Di conseguenza s’impone la necessità d’insegnare agli adulti a essere meno Umani possibile”.
   Lyra dubitava seriamente che bambini di tre o quattro anni potessero essere razzisti, dato che a quell’età la personalità sta appena iniziando a formarsi. Notò inoltre che il termine “Umani” era usato per indicare la cultura e la forma mentis, più che l’effettiva appartenenza genetica alla specie umana. Altrimenti l’espressione “essere meno Umani” sarebbe stata priva di significato: anche con la tecnologia moderna non si poteva cambiare la propria specie d’appartenenza. Dunque le iniziative di quel genere si proponevano di cancellare la mentalità umana, vista in un’ottica totalmente negativa. Ma il passo più agghiacciante era il seguente.
 
Essere meno Umani significa:
 
- essere meno oppressivi
- essere meno arroganti
- essere meno ignoranti
- avere meno certezze
- stare meno sulla difensiva
- essere più umili
- ascoltare il prossimo
- non essere apatici contro le ingiustizie
- rinunciare alla complicità tra Umani 

   Lyra provò a figurarsi come sarebbe suonato quello slogan, se anziché agli Umani fosse stato rivolto a una qualunque altra specie. In tal caso sarebbe stato evidente che era frutto di una pericolosa generalizzazione, tesa a incriminare un’intera specie per il solo fatto d’esistere. Nessuno avrebbe dubitato che, anziché combattere il razzismo, questa logica lo alimentava. Ma siccome i destinatari erano gli Umani, e non altri, ecco che veniva spacciata come “progresso”.
   E c’era un paradosso ancora più grande. Agli Umani veniva imposto di rinunciare alla loro cultura, ma quando lo facevano, adottando le usanze di altre specie, erano immediatamente accusati di “appropriazione culturale”. Dunque non esisteva per loro un modo corretto di comportarsi. Non potevano seguire la propria cultura d’origine, ma non potevano nemmeno adottare quelle altrui. Erano prigionieri di un limbo in cui qualunque linea d’azione veniva condannata a prescindere.
   Sempre più depressa, Lyra autorizzò la pubblicazione del documento e passò a un argomento che in quei giorni la inquietava ancora di più: la riforma scolastica voluta da Rangda. Era sempre stata uno dei suoi cavalli di battaglia e finalmente la Zakdorn era riuscita a farla passare. La riforma nasceva da una necessità tutto sommato condivisibile, quella di parificare l’istruzione sui vari pianeti. Nel corso della sua storia, infatti, la Federazione – e poi l’Unione che le era subentrata – aveva sempre lasciato ampia libertà ai suoi aderenti su questa materia. E questi, solitamente, non apportavano grandi cambiamenti al loro sistema educativo quando confluivano nel governo federale. Il risultato era che l’istruzione su Vulcano era completamente diversa da quella sulla Terra, che a sua volta differiva da quella su Bajor, e così via. Molti intellettuali sostenevano che questo fosse uno dei maggiori scogli all’integrazione.
   Così Rangda aveva varato la sua riforma, che finalmente uniformava il sistema scolastico su tutti i mondi dell’Unione. La si sarebbe detta una buona notizia; ma i dettagli del nuovo ordinamento erano inquietanti. D’ora in poi anche le scuole primarie sarebbero somigliate ai campus universitari, con dormitori in cui i bambini avrebbero pernottato. Il risultato era che i piccoli avrebbero visto raramente le loro famiglie, che quindi avrebbero perso il ruolo formativo, a tutto vantaggio dello Stato. Lyra lesse con crescente apprensione le linee guida riguardanti il trattamento dei bambini Umani:
  • gli Umani devono essere smistati il più possibile tra le classi, per evitare l’instaurarsi di pericolose logiche di branco. L’ideale è che in ogni classe vi sia un solo Umano, riconoscibile grazie al segno distintivo sull’uniforme scolastica.
  • gli Umani devono essere esortati a non vedere i loro genitori – e in generale i loro congiunti – come punti di riferimento valoriali, per stroncare la trasmissione generazionale dell’Umanità. Ai bambini va spiegato che i loro adulti non sono fonti attendibili d’informazioni e non sono modelli da imitare.
  • gli Umani devono essere edotti sugli innumerevoli crimini di cui si sono macchiati i loro avi, sia con i loro simili, sia nei confronti di altre specie. Devono comprendere che, in quanto Umani, sono portatori di una colpa ereditaria che non deve essere occultata e non può in alcun modo essere cancellata.
  • gli Umani devono essere informati delle ragioni scientifiche della loro inferiorità fisica, intellettuale e morale nei confronti delle altre specie.
  • gli Umani devono comprendere che la loro natura umana può parzialmente essere tenuta a bada con l’istruzione e il rispetto delle regole; ma non potrà mai essere davvero redenta. Essi rimarranno in ogni caso un pericolo costante per se stessi e gli altri.
 
   C’erano pagine e pagine di linee guida che continuavano su questo tono, ma questi erano i punti salienti. Rileggendoli più volte, Lyra comprese la logica che li sottendeva; e la trovò aberrante.
   Il primo concetto che saltava all’occhio era l’idea secondo cui “le colpe dei padri ricadono sui figli”, anzi in questo caso i discendenti che vivevano molti secoli dopo i fatti contestati. Quasi tutte le specie umanoidi erano passate attraverso questa mentalità. Ma uno dei pilastri della modernità stava appunto nel rigettarla in favore della responsabilità personale, per cui ogni individuo è responsabile solo e unicamente delle proprie azioni. Non lo si può incriminare per ciò che hanno fatto altri della sua specie; tantomeno persone morte e sepolte da secoli. Ora però questo principio era stato abbandonato, in favore di un ritorno alla vendetta. Perché di questo si trattava, pensò Lyra: una pura e semplice vendetta, tanto più insensata in quanto giungeva con secoli di ritardo.
   Un altro elemento disturbante era la volontà d’isolare gli individui... no, i bambini, dovette ripetersi Lyra. Le linee guida prevedevano che i piccoli Umani fossero separati sia dai loro coetanei, quasi che la socializzazione fosse un patto criminale ai danni delle altre specie, sia dai genitori, dai quali erano persino esortati a diffidare. In tal modo non avrebbero potuto “fare branco”, come diceva il documento; ma non avrebbero nemmeno imparato cosa significa essere Umani. Privati di altri modelli, sarebbero stati totalmente in balia di un indottrinamento colpevolizzante. Se lo scopo di chi aveva scritto quelle regole era migliorare la specie umana, si poteva stare certi che avrebbe fallito in pieno. Lungi dal perfezionare gli Umani, li avrebbe trasformati in completi psicopatici; e allora sì che sarebbero stati un pericolo per se stessi e gli altri.
   Questo portava inesorabilmente all’ultima, terribile affermazione: gli Umani “non potevano essere redenti”. Dunque non solo nascevano con il marchio dell’Umanità, quasi fosse una malattia ereditaria; erano anche condannati a portarlo per tutta la vita e a trasmetterlo ai loro discendenti. Per loro non era previsto alcun perdono, alcuna redenzione. Sarebbero sempre rimasti degli esseri inferiori da compatire, e al tempo stesso dei pericoli da temere. Lyra era molto curiosa di leggere le “ragioni scientifiche della loro inferiorità fisica, intellettuale e morale” rispetto alle altre specie. Ma ormai sapeva che la scienza non c’entrava un bel nulla in quell’accozzaglia d’ignoranza, pregiudizi e fobie che costituiva l’ideologia dell’Unione.
   Ancora una volta la sua logica si risvegliò e le fece vedere il paradosso. Gli Umani erano considerati inferiori alle altre specie sotto ogni possibile aspetto, ma al tempo stesso li si accusava d’avere esercitato per secoli un’egemonia culturale. Come potevano essere vere entrambe le cose? Se gli Umani erano davvero più deboli e stupidi degli altri, come avevano fatto a influenzarli così tanto e così a lungo? Non era più corretto credere che tutte le specie si fossero influenzate a vicenda, magari con periodi di predominio dell’una o dell’altra, senza che gli Umani facessero eccezione? E poi, se gli Umani erano creature infime come sosteneva l’Unione, cosa si doveva pensare delle specie che si erano fatte pesantemente influenzare da loro? Non significava forse che erano ancora più fragili? Questa logica era insultante non solo per gli Umani, ma anche per gli altri popoli, che venivano considerati incapaci di governarsi.
   «È così che ci vuole Rangda. Vuole trasformarci in eterni bambini... anzi, in burattini» pensò Lyra. «Così, ogni volta che c’è un problema, lei è pronta ad additare i colpevoli. Che guarda caso sono sempre gli stessi». Era questo il punto nodale, si disse la mezza Xindi. Tutti questi ragionamenti colpevolizzanti erano applicati sempre e solo agli Umani, mai alle altre specie, che pure avevano una storia egualmente violenta. Nessuna specie umanoide – proprio nessuna – aveva un passato libero da guerre, persecuzioni e schiavitù. Talvolta le ingiustizie erano meno note, ma se si scavava un po’ a fondo si trovavano sempre gli scheletri nell’armadio. Persino i compassati Vulcaniani erano stati dei barbari, fino a quando la logica e il controllo delle emozioni li avevano salvati dall’auto-annientamento. Se gli Umani portavano una colpa ereditaria, allora a rigor di logica la portavano anche tutti gli altri. E se tutti erano colpevoli, allora bisognava punire tutti... o nessuno. Anche perché ormai l’Unione era piena di meticci, parte Umani e parte alieni. Loro erano colpevoli o innocenti? Dovevano essere puniti o risarciti? Dipendeva forse dall’esatta percentuale di DNA umano che avevano? O dal luogo in cui erano nati e cresciuti? Questi assurdi interrogativi facevano crollare tutto il castello di carte ideologico.
   E fu così che Lyra pervenne all’ultima deduzione. Tutti gli orrori che aveva riconosciuto erano il frutto avvelenato di un’ideologia collettivista. Le persone non erano mai viste come singoli individui, con pregi e difetti, responsabili delle loro azioni. Piuttosto erano viste come incarnazioni di un determinato gruppo sociale. Se si supponeva che un gruppo fosse (o fosse stato) discriminato, ecco che tutti i suoi membri avevano un credito da riscuotere. E se si supponeva che un altro gruppo fosse (o fosse stato) privilegiato, ecco che tutti suoi membri dovevano essere puniti per l’eternità. Dunque l’ossessione per gli Umani non era altro che la moderna caccia alle streghe; il bisogno atavico d’individuare un capro espiatorio su cui riversare tutti i malesseri della società. Chi ragionava così aveva sempre bisogno di qualcuno da perseguitare, nell’illusione di purificarsi dal proprio male.
   «Oggi le vittime sacrificali sono gli Umani, ma domani chissà...» si disse Lyra, con un brivido che la scosse da capo a piedi.
 
   Quella sera Rangda rivolse un discorso alla cittadinanza, per pubblicizzare la riforma scolastica. Che fosse la Presidente a parlare, anziché lasciare l’incombenza al Ministro dell’Istruzione, era indicativo dell’importanza che la Zakdorn attribuiva alla riforma. Il nuovo ordinamento sarebbe divenuto effettivo a partire dal successivo anno scolastico, ma Lyra sapeva che molta della propaganda sarebbe stata implementata fin da subito.
   Rangda si rivolse direttamente ai genitori, che certo esitavano a separarsi dai loro figli in così tenera età. Anziché ricorrere agli eufemismi, stavolta la Presidente prese di petto la questione. «Per molti di voi sarà un sacrificio rinunciare al contatto quotidiano con i vostri figli. Ma non lasciatevi dominare da un egoistico desiderio di possesso. Solo perché li avete messi al mondo, credete che quei bambini vi appartengano; ma non è così» spiegò. «Non sono figli vostri; appartengono allo Stato. E lo Stato se ne prenderà cura affinché diventino cittadini virtuosi, nonché membri produttivi della collettività». Come sempre accadeva, il suo discorso fu accompagnato da uno scroscio di applausi, che risuonarono attraverso gli apparecchi olovisivi.
   «Lo Stato se ne prenderà cura... dalla culla alla tomba» tradusse Lyra fra sé. La mezza Xindi non aveva figli e non prevedeva di averne a breve termine, dato che non aveva neppure un compagno fisso. Tuttavia provò a figurare se stessa più avanti nel tempo e si chiese se sarebbe stata disposta a consegnare un figlio o una figlia a un sistema educativo del genere. La risposta poteva essere solo un deciso no. Ed ecco che anche il crollo delle nascite degli ultimi tempi divenne più comprensibile. In un’Unione che si faceva sempre più dittatoriale, la gente aveva paura a mettere al mondo dei figli. Temeva di consegnarli a una società che li avrebbe spezzati... e aveva ragione. Il regime di Rangda stava avvelenando ogni cosa, prosciugando la vita da tutto ciò che la rendeva degna d’essere vissuta. Non c’era da stupirsi che la percentuale di suicidi e di malattie mentali fosse la più elevata da quand’era nata la Federazione, e su certi mondi da ancor prima di allora. I cittadini si uccidevano o impazzivano dalla disperazione, e non c’era alcun segno che la tendenza potesse invertirsi.
   «Ma io cosa posso fare?!» si chiese Lyra con angoscia crescente. Sebbene ricoprisse un’importante carica politica, il suo raggio d’azione era limitato. Al primo segno di slealtà sarebbe sparita, com’era già accaduto a certi collaboratori di Rangda. Il suo posto sarebbe stato preso da qualche arrivista senza scrupoli e tutto sarebbe andato avanti come prima. Non c’era niente che un singolo individuo potesse fare, per cambiare le cose. E neanche un gruppo d’individui. Persino la Federazione era prossima alla disfatta. Caduta quella, non sarebbe rimasto più nessuno capace di opporsi validamente al regime.
   L’unica speranza, forse, era che Rangda restasse vittima di un attentato. Ma questo avrebbe davvero cambiato le cose? Lyra temeva di no. La Zakdorn aveva ottenuto il potere assoluto sfruttando la propaganda, nonché il sostegno militare dei Voth, ma di per sé non era poi così scaltra. Se al suo posto ci fosse stato qualcun altro, avrebbe facilmente ottenuto lo stesso risultato, perché le circostanze erano propizie. Dunque, se anche Rangda fosse morta, il suo posto sarebbe stato preso da qualche pezzo grosso del regime e tutto sarebbe andato avanti allo stesso modo. Anzi, molti dei possibili successori di Rangda erano ancora più astuti e pericolosi di lei. Quindi che fare?
   Dopo una lunga riflessione, quando ormai era notte fonda, Lyra prese una decisione. In quanto Ministro aveva accesso a informazioni riservate, tra cui le prove di molti dei peggiori crimini commessi dal regime e poi insabbiati. Le avrebbe radunate in un unico documento di facile lettura, che poi avrebbe pubblicato sull’Olonet. Era una mossa rischiosissima, perché poteva essere scoperta già mentre radunava il materiale. E di certo sarebbero risaliti a lei dopo la pubblicazione. A quel punto era sicura che l’avrebbero eliminata: Rangda uccideva per molto meno. Ma era l’unico contributo che poteva dare alla resistenza. E doveva affrettarsi, perché quel materiale compromettente andava reso noto prima che Kronos cadesse, o sarebbe stato inutile.
   «Sempre che conti qualcosa, anche in quel caso» si disse la mezza Xindi. Tre anni prima, all’inizio della guerra, il Capitano Hod aveva fatto una cosa simile. E non era cambiato niente. Non c’erano state grandi proteste o sollevazioni popolari. Anzi, le accuse di Hod le erano state ritorte contro ed erano diventate motivo di dileggio. Ma se fosse stato un Ministro dell’Unione a pubblicare del materiale compromettente, allegando le prove, forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse. Se proprio doveva sacrificarsi, Lyra avrebbe almeno voluto essere certa di non farlo invano.
 
   Dopo settimane di meticolosa preparazione, tutto era pronto per l’assalto a Kronos. La flotta dei Pacificatori si dispiegò, lasciando l’orbita terrestre. Erano in gran parte vascelli di recente costruzione, varati dopo lo scoppio della guerra ed equipaggiati con armamenti supplementari. Da Marte giunsero centinaia di altre navi, molte delle quali erano state appena riparate nei cantieri spaziali. In tutto erano novecento: la più grande flotta mai raccolta dai tempi di Procyon V. E non era finita.
   I Voth risposero all’adunata affiancando la propria flotta a quella dell’Unione. I loro vascelli grigio-verdi, dalle forme sinuose, fecero ombra a quelli dei Pacificatori. Erano meno numerosi, appena un centinaio: ma il più piccolo di essi superava il maggiore dell’Unione per dimensioni, resistenza e potenza di fuoco. Su tutte troneggiava la Nave Fortezza di Hadron, che con i suoi 134,5 km di lunghezza era il più grande vascello mai entrato nel sistema solare.
   Il Cancelliere Shantu e la Presidente Rangda osservarono lo spiegamento di forze da una sala d’osservazione della Nave Città. Quest’ultima era una nave civile, pur essendo armata in via precauzionale, quindi sarebbe rimasta al sicuro nel sistema solare. E lì sarebbero rimasti i due grandi leader, finché da Kronos non fosse giunta notizia della vittoria. In realtà Rangda era tentata di partecipare alla spedizione, ma non voleva rischiare una figuraccia come quella di tre anni prima, quando lo spiegamento di forze nemico l’aveva costretta a ritirarsi precipitosamente. Non che la storia rischiasse di ripetersi: stavolta la flotta d’assalto era assai più potente, mentre i difensori erano più deboli. Ma da allora la Presidente si teneva lontana dai campi di battaglia, dove le fortune possono mutare rapidamente.
   «Notevole, vero?» chiese Shantu. Come tutti i Voth, non perdeva occasione per vantare la loro superiorità tecnologica.
   «Potete ben dirlo, Cancelliere!» confermò Rangda. «Quelle navi affiancate sono la cosa più bella che abbia mai visto... il segno tangibile della nostra amicizia. Ah, questi anni di sacrifici stanno per dare frutto! Presto le forze oscurantiste che volevano dividerci saranno sconfitte e niente potrà più turbare la nostra pace». Mentre parlava, lacrime di commozione le scintillarono agli angoli degli occhi.
   «Allora brindiamo!» propose il Voth. «Alla vittoria e alle benedizioni che ne seguiranno». Un inserviente si affrettò a versare un brandy sauriano in due bicchieri, che porse ai leader.
   «Alla vittoria e alle sue benedizioni!» ripeté la Zakdorn.
   I due brindarono lì dov’erano, davanti alla finestra panoramica, mentre le potenti astronavi sfrecciavano sotto i loro occhi. Dopo aver vuotato i bicchieri se li gettarono alle spalle, lasciando agli inservienti il compito di raccogliere i cocci. E tornarono a osservare il formidabile dispiegamento di forze.
   Come da accordi, la Nave Fortezza si aprì sul davanti, rivelando lo sterminato hangar che occupava gran parte del suo volume. I vascelli dell’Unione vi entrarono, così da poter essere trasportati a velocità di transcurvatura fino a Kronos. Date le sue dimensioni, l’hangar poté accoglierne centinaia. Solo le navi più veloci rimasero all’esterno. Infine la Nave Fortezza si richiuse; l’immenso portone si sigillò con tale precisione che nessuno ne avrebbe indovinato l’esistenza, se non l’avesse visto aperto. Sulla plancia, l’Ammiraglio Hadron trasmise il segnale di partenza alla flotta congiunta.
   «Signori, tre anni fa abbiamo preso un impegno nei confronti dell’Unione Galattica» disse il Voth. «In cambio della restituzione del Mondo Perduto, l’avremmo protetta da ogni male. Ora è il momento di tener fede alla promessa. Porremo fine a quest’insensata guerra civile e restituiremo la pace ai popoli dell’Unione. Avanti tutta per Kronos, e che lo spirito dei nostri avi ci guidi in questa missione benefica!».
   All’ordine dell’Ammiraglio, la Nave Fortezza entrò in transcurvatura, scomparendo in un lampo verde-azzurro. Gli altri vascelli Voth la seguirono prontamente, in uno schema coordinato che le avrebbe portate a Kronos in quella stessa formazione. Infine anche la vasta flotta dei Pacificatori partì in cavitazione quantica. Centinaia di lampi punteggiarono lo spazio, segnando l’inizio dell’ultima grande operazione militare della Guerra Civile.
 
   Chiusa nel suo ufficio, Lyra assistette alla partenza della flotta congiunta con le labbra serrate e il viso esangue. Sapeva che la Flotta Stellare non aveva la minima speranza contro un’armata del genere e ciò l’angosciava, perché i suoi genitori partecipavano alla difesa di Kronos. Di questo era certa: le sonde spia avevano rilevato le loro astronavi nello schieramento difensivo. Mancava invece la Keter, dove prestava servizio Vrel; ma non era da escludere che fosse occultata e che si rendesse visibile solo a battaglia inoltrata. La mezza Xindi non poteva immaginare dove si trovasse invece quella nave, né quale fosse la sua missione. Per quanto ne sapeva, i suoi familiari più stretti erano tutti a Kronos, ed erano spacciati. Se anche non fossero caduti nella battaglia vera e propria, sarebbero stati braccati e finiti senza pietà. No, per quanto fossero veterani della Flotta Stellare e conoscessero mille trucchi, stavolta neanche loro potevano cavarsela.
   Al pensiero che stava per diventare orfana, e che per giunta avrebbe dovuto simulare gioia davanti a tutti, Lyra fu attanagliata da una sofferenza indicibile. Tutto il dolore che le covava dentro da anni si sfogò in un pianto dirotto. Le lacrime le rigarono il volto, cadendo copiose sulla scrivania, e le sue spalle tremarono per i singhiozzi. Era certa che non avrebbe mai rivisto i suoi cari, che non avrebbe mai potuto scusarsi con loro. Sarebbero morti odiandola per il suo tradimento, e avrebbero avuto ragione. Tutto a causa di quell’ideologia che si era insinuata tra loro come un veleno.
   C’era un solo modo in cui poteva fare ammenda: divulgando sul sito Olonet del suo Ministero le prove dei crimini commessi dal regime. In tal modo forse anche i suoi parenti avrebbero capito che si era pentita. Con questo pensiero, la mezza Xindi inserì i suoi codici di sicurezza e confermò l’identità con un rapido esame genetico, accedendo al suo sito. Ma a quel punto esitò, con le mani sui comandi. Bastavano pochi attimi per caricare i file compromettenti là dove tutti li avrebbero letti. Sarebbe stato un brutto colpo per il regime... e la condanna a morte per lei. Rangda non l’avrebbe neanche fatta processare; le avrebbe mandato direttamente i sicari. A quel pensiero, le mani di Lyra tremarono e si allontanarono dall’interfaccia. Non ce la faceva. Non riusciva a tollerare l’idea che l’avrebbero uccisa, giovane com’era, e che di lei non sarebbe rimasto niente, salvo la nomea di traditrice presso entrambe le fazioni.
   Scossa da un tremito sempre più violento, Lyra spense l’oloschermo. Era inutile, non riusciva a firmare la propria condanna a morte. Non era come i suoi parenti, che invece l’avevano già accettata da tempo. Si curvò sulla scrivania, nascondendo il viso tra le braccia incrociate. In quella posa singhiozzò a lungo, odiandosi per la propria codardia e desiderando vanamente di avere un’occasione migliore per riparare ai suoi errori.
 
   Il globo verdastro di Kronos brillava nello spazio, con la sua sottile cintura di navi e piattaforme difensive. A poca distanza vi era Praxis, dalla bruna superficie percorsa da crepe. Il satellite si era in parte disgregato alla fine del XXIII secolo, per l’eccessivo sfruttamento minerario. La pioggia di meteoriti aveva rischiato di devastare Kronos, segnando il tracollo dell’Impero. La catastrofe era stata scongiurata solo grazie all’aiuto della Federazione, evento che aveva segnato il disgelo tra le due potenze. Per mesi e anni i vascelli della Flotta Stellare avevano aiutato quelli Klingon ad allontanare i frammenti rocciosi, così che non precipitassero sul pianeta. Tuttavia il grosso della luna era ancora aggregato: a vederla sembrava una mela che ha ricevuto pochi morsi. La sua orbita si era stabilizzata e da allora Praxis era off-limits, tranne che per le squadre scientifiche impegnate in controlli periodici.
   Le astronavi Voth uscirono dalla transcurvatura a poca distanza da Kronos, conservando la formazione di partenza con precisione millimetrica. Subito scansionarono lo spazio circostante, individuando i difensori. Come previsto, questi erano molto più vicini al pianeta, così che alla potenza di fuoco delle astronavi si sommasse quella delle piattaforme orbitali. Per il momento gli assedianti erano fuori tiro. Appena ebbero questa certezza, i Voth comunicarono il via libera alla flotta dei Pacificatori, che li seguiva dappresso.
   Le astronavi dell’Unione uscirono dalla cavitazione e si disposero ai lati dei Voth, formando le ali di un immenso schieramento a mezzaluna. Appena si furono assestate, la Nave Fortezza si aprì, rilasciando altre centinaia di vascelli. Questi si divisero subito in due gruppi, che andarono a rafforzare le ali dello schieramento. Appena l’ultima nave fu uscita dalle sue profondità, l’ammiraglia di Hadron si richiuse. L’intera operazione fu condotta nell’arco di pochi minuti, con un perfetto coordinamento tra Voth e Pacificatori.
   Sulla sua plancia, Hadron tirò un sospiro di sollievo non appena un ufficiale gli notificò che lo schieramento era completato. Quella era l’unica fase critica, perché il nemico avrebbe potuto attaccarli mentre stavano disponendo le navi, creando scompiglio. Ma come previsto la Flotta Stellare non aveva osato spingersi così avanti, per non perdere il vantaggio delle piattaforme orbitali. I difensori preferivano starsene appostati nell’orbita, aspettando che fossero gli assedianti ad attaccare: così li avrebbero bersagliati con tutta la loro potenza di fuoco.
   «Una buona tattica... peccato che non funzionerà» pensò il Voth, ritrovando l’abituale sicurezza. Ora che avevano completato lo schieramento, la loro vittoria era certa. E il bello era che non avrebbero dovuto sparare un colpo. Dopo tre anni di conflitto, i federali non avevano ancora idea di cosa potessero fare i sauri con la loro tecnologia.
 
   «Il nemico si è completamente schierato, signore» riferì l’Ufficiale Tattico dell’USS Khitomer. Il vascello di classe Juggernaut, dal massiccio scafo squadrato, era l’ammiraglia della Flotta Stellare da quando l’Enterprise-J era stata distrutta.
   «Mantenere la posizione» ordinò Chase, augurandosi che fosse la scelta giusta. Molti strateghi della Flotta, tra cui il Commodoro Lantora, avevano premuto per un attacco immediato, che non desse al nemico il tempo di disporsi. Ma l’Ammiraglio non se l’era sentita di lanciare la flotta in un assalto così avventato. Allontanarsi dal pianeta significava uscire dal raggio di tiro delle piattaforme orbitali, dimezzando la loro potenza di fuoco. E chi li assicurava che, mentre loro erano impegnati lontano, un secondo distaccamento nemico non attaccasse Kronos? Non conoscendo l’entità della flotta assalitrice, la strategia più prudente consisteva nel mantenere la posizione. «Entità delle forze nemiche?» volle sapere l’Ammiraglio.
   «Novecento navi dei Pacificatori e cento dei Voth» fu l’agghiacciante risposta.
   Era la flotta più formidabile che si fosse vista in tutta la guerra. All’Ammiraglio piangeva il cuore se pensava che le loro forze si limitavano a trecento astronavi, per giunta in cattivo stato. Quasi tutte, infatti, portavano i segni delle precedenti battaglie ed erano a corto di equipaggio.
   Trecento navi! Ecco cosa rimaneva della Flotta Stellare, l’organizzazione che per secoli si era prodigata a garantire la pace tra i popoli. In realtà c’erano altri vascelli, ma erano molto lontani da lì, sparpagliati a macchia di leopardo in uno spazio ormai dominato dai Pacificatori. Alcuni erano rimasti a difendere gli ultimi mondi federali, altri si nascondevano nelle nebulose per sfuggire alle pattuglie nemiche. Se Kronos cadeva, quasi certamente si sarebbero sbandati, dandosi alla pirateria, finché i Pacificatori non li avessero stanati uno a uno.
   Così le sorti della battaglia erano segnate, a meno che gli attaccanti non commettessero clamorosi errori tattici. Se si fossero spinti troppo avanti, esponendosi al fuoco delle piattaforme orbitali, avrebbero perso molti vascelli. Questo forse li avrebbe spaventati, inducendoli a ritirarsi. Era la sola speranza che rimaneva.
 
   I federali restarono schierati, aspettando che il nemico attaccasse. Ma così non fu: Pacificatori e Voth mantennero a loro volta la posizione, fuori portata dalle loro armi. Passarono i minuti, carichi di una tensione snervante. D’un tratto accadde una cosa inaspettata. Anziché avanzare contro i difensori, la Nave Fortezza e gli altri vascelli Voth indirizzarono dei raggi luminosi contro la luna Praxis. Non erano armi, perché non ci furono esplosioni quando colpirono la superficie craterizzata. I raggi stessi erano diffusi, tanto da coprire un’ampia porzione del satellite, spesso sovrapponendosi. Sotto quell’irraggiamento la luna tremò e le crepe che ne percorrevano la superficie si allungarono.
   «Analisi» ordinò l’Ammiraglio, con un orribile presentimento.
   «Sono raggi traenti» confermò l’addetto ai sensori. «Stanno esercitando una fortissima trazione su Praxis. Non tanto da frantumarlo del tutto, ma... stanno alterando la sua orbita» mormorò, facendosi pallido.
   L’operazione durò pochi minuti, dopo di che i Voth spensero i raggi traenti. All’apparenza nulla era cambiato; ma i federali intuivano di avere assistito alla loro rovina. «Analisi dei parametri orbitali» ordinò l’Ammiraglio.
   «È confermato, l’orbita di Praxis è stata alterata» disse di lì a poco l’addetto. «Si sta degradando rapidamente. Se non interveniamo al più presto...».
   «Messaggio dalla Nave Fortezza!» avvertì l’addetto alle comunicazioni. «È una trasmissione a banda larga».
   «Sentiamo» ordinò Chase, pur indovinando di che si trattava.
   L’Ammiraglio Hadron campeggiò sullo schermo, comodamente assiso sulla sua poltrona di comando. Tutto in lui esprimeva una pacata sicurezza, dalla posa rilassata allo sguardo tranquillo, fino alla voce lenta e chiara.
   «Salve, sono l’Ammiraglio Hadron e mi rivolgo a voi come rappresentante dell’Autorità Voth, nonché dell’Unione Galattica» esordì. «Pochi minuti fa i nostri strumenti hanno rilevato che l’orbita della vostra luna sta degradando, portandola sempre più vicina al pianeta primario. A questa velocità, mancano trenta giorni alla collisione. Spero siate consapevoli delle conseguenze: ogni forma di vita su Kronos sarà cancellata, assieme a tutte le vestigia della civiltà Klingon. Il pianeta diventerà un globo di magma incandescente, com’era all’epoca della sua formazione, sempre che l’impatto non lo frantumi.
   Noi Voth siamo inorriditi a questa prospettiva e ardiamo dal desiderio di salvarvi. Ma perché ciò sia possibile, occorre la vostra collaborazione. Le vostre forze armate devono arrendersi, permettendoci di abbordare navi e piattaforme, nonché di occupare le basi militari. Il vostro governo deve firmare la resa incondizionata all’Unione Galattica. Dovete altresì ordinare a ciò che resta delle vostre forze, sparpagliate nei vari fronti, di accettare la resa. Se farete diligentemente tutto questo, Kronos sarà salvo e il conflitto avrà termine. In caso contrario il pianeta sarà distrutto, miliardi di civili moriranno e la guerra terminerà lo stesso. A voi la scelta.
   Molti Klingon potrebbero essere tentati di preferire la morte al disonore. È una scelta coerente con la loro cultura e noi la rispettiamo. Ma consentitemi una riflessione al riguardo. Perire nella collisione planetaria non equivale alla morte in battaglia cui anelano i guerrieri Klingon. Non ci saranno canti per onorarvi, né si spalancheranno le porte dello Sto-vo-kor. Sarà una fine misera e ingloriosa, sia per voi che per le vostre famiglie. Ad essa si sommerà la distruzione di tutti i vostri luoghi storici e sacri. Noi Voth crediamo che il vostro popolo meriti di meglio; vogliamo che sopravviva e continui a camminare a testa alta. Questo sarà possibile accettando una resa onorevole e tornando a far parte dell’Unione, dove sarete rispettati».
   L’Ammiraglio tacque brevemente, per dar tempo agli ascoltatori di riflettere sulle sue parole. Poi riprese, sempre in tono calmo. «Se la Flotta Stellare fosse tentata di fuggire prima della collisione e in assenza di una resa formale, le ricordo che tra noi vige ancora lo stato di guerra; pertanto distruggeremo qualunque nave provi a lasciare l’orbita. E ho un altro avvertimento. Come ho detto, manca un mese all’impatto; ma tra soli venti giorni Praxis sarà così vicino a Kronos che neppure noi potremo invertire il processo. Se scegliete la resa, quindi, fatelo prima di quel momento, o tutto sarà perduto. Fate ciò che vi detta la vostra coscienza. Per parte nostra, speriamo con tutto il cuore che sceglierete la vita».
   Sembrò che Hadron avesse finito e dovesse chiudere la comunicazione, ma d’un tratto tornò a rivolgersi agli spettatori. «Un’ultima cosa» aggiunse. «Su richiesta della Presidente Rangda, la resa dovrà esserci notificata dall’Ammiraglio Chase, il quale si consegnerà a noi. In seguito sarà arrestato e condotto su Vothan, per essere giudicato da un tribunale dell’Unione. Nessun’altra modalità di resa sarà considerata valida. Questo è tutto».
   Terminato il messaggio, la Nave Fortezza tornò a campeggiare sullo schermo, al centro dell’invincibile flotta assediante. Sulla plancia della Juggernaut regnava il silenzio assoluto. Chase si guardò attorno e vide che tutti lo fissavano con la stessa espressione: una muta preghiera.
   «Mettetemi in comunicazione col Presidente Mogh’Lar» ordinò l’Umano, con voce secca. «No, anzi, andrò a parlare con lui di persona. Comandante, a lei la plancia. Non intraprenda azioni di alcun tipo fino a nuovo ordine, a meno che il nemico attacchi per primo. Solo in quel caso siete autorizzati a difendervi».
   Si trattava di una precisazione inutile, perché era chiaro che gli assedianti non avrebbero attaccato. Non ne avevano alcun bisogno: la vittoria era già loro.
 
   «In questi anni ho fatto tutto il possibile per la nostra causa, lei lo sa» disse Mogh’Lar, camminando avanti e indietro nel suo ufficio semivuoto. L’unico altro occupante era Chase, accomodato su una sedia degli ospiti.
   «Ne sono consapevole, signor Presidente» rispose il vecchio Umano. Lo stava seguendo con lo sguardo, ma solo i suoi occhi si muovevano; il resto del corpo era immobile.
   «Fino all’ultimo ho sperato che il valore delle truppe e la giustizia della causa ci dessero la vittoria» proseguì il Klingon, animato. «Ma tutto ciò che abbiamo ottenuto sono state sconfitte e massacri; e ora quest’abominevole ricatto. Il nemico, invece, è sempre più forte». Mogh’Lar si arrestò e finalmente riuscì a guardare Chase. «Io credo che il mio popolo sarebbe capace di accettare la morte, piuttosto che il disonore, ma...!».
   «Non lo dica nemmeno» disse l’Ammiraglio, sollevandolo dall’imbarazzo. «Avete fatto tutto ciò che vi si poteva chiedere. Ora basta. Non lascerò che miliardi d’innocenti perdano la vita. Mi consegnerò ai Voth, portando il messaggio di resa».
   «Sa cosa l’attende» disse Mogh’Lar con voce roca. «Sarà umiliato. Costretto a inginocchiarsi davanti a Rangda. E infine giustiziato».
   «Non sarò il primo a cui capita» sospirò Chase. «E nemmeno l’ultimo» aggiunse fra sé.
   Vi fu un lungo silenzio. Infine il Presidente scrollò le spalle. «Beh... chi l’avrebbe detto che la nostra lotta sarebbe finita così. Probabilmente io e i Ministri subiremo la stessa sorte. E il popolo... il popolo...» ripeté, con voce rotta.
   «Il popolo sfuggirà allo sterminio, anche se morirà un poco ogni giorno» concluse l’Umano. «Possiamo solo sperare che il regime dell’Unione non duri in eterno. Noi almeno ce ne andremo con la coscienza a posto. Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo, e anche se non è bastato, chissà che non ispiri altri a continuare la resistenza...» mormorò, pur credendoci poco.
   Tornò il silenzio, ancor più lungo del precedente. Anche stavolta fu Mogh’Lar a riprendere la parola. «Lei è un vero guerriero, Alexander Chase» disse, con voce intrisa di rispetto. «Se più persone fossero come lei, la Galassia sarebbe migliore».
   «È stata migliore in passato, quindi può esserlo di nuovo in futuro» disse Chase, alzandosi con un piccolo sforzo delle sue vecchie giunture. «Addio, signor Presidente. È stato un onore conoscerla e battersi al suo fianco». Si strinsero la mano, a lungo e con calore.
   «È meglio che io vada il prima possibile» disse poi l’Ammiraglio. «Non ha senso aspettare dei giorni, perché questo aumenterebbe il rischio per la popolazione».
   «Il governo si riunirà stasera, per firmare la... la resa» mormorò il Klingon. «La contatteremo appena sarà fatto».
   «Bene, nel frattempo sarò nel mio appartamento» disse l’Umano, avviandosi alla porta. «Devo dire addio a mia moglie. Spero solo che il regime la lasci stare, quando io non ci sarò più» concluse, e se ne andò.
 

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Capitolo 9
*** Cambio di marea ***


-Capitolo 8: Cambio di marea
 
   Compiuto il grande balzo attraverso il vuoto intergalattico, la Keter s’inoltrò nella spirale di Andromeda, facilitata dall’assenza di una Barriera come quella che avvolgeva la Via Lattea. Era il primo vascello federale dai tempi dell’Enterprise-J a visitare quella galassia e tutti a bordo si chiedevano cosa ne fosse stato dei suoi abitanti. Erano riusciti a rioccupare i propri pianeti, dopo la sconfitta della Scourge? La loro Coalizione era ancora unita nello sforzo ricostruttivo, oppure si era disgregata per gli interessi particolaristici, riportando Andromeda a uno stato di belligeranza? La risposta tardava a giungere. Come l’Enterprise, la Keter si addentrava in una galassia ben più vasta della Via Lattea, ma assai meno popolosa. Dunque non era insolito superare centinaia di sistemi stellari senza rilevare tracce di vita, né trasmissioni subspaziali.
   Ma la Keter non stava girando a vuoto. L’obiettivo dei federali era Kelva Primo, capitale dell’Impero Kelvano, il loro principale alleato ad Andromeda. Una volta riallacciati i contatti, la speranza era che i Kelvani sapessero indirizzarli dai Proto-Umanoidi, che con la loro immensa flotta-sciame si spostavano di frequente da un sistema all’altro. Tuttavia il Capitano Hod non voleva piombare a Kelva senza avvertimenti, sapendo che i suoi abitanti erano bellicosi e che probabilmente non avrebbero riconosciuto la Keter come una nave federale. Così l’astronave si avvicinava a cavitazione quantica, inviando segnali di riconoscimento. Se i Kelvani non avessero spedito qualche nave a intercettarla, avrebbe raggiunto il loro mondo di lì a pochi giorni. Allora tutti gli interrogativi avrebbero avuto risposta.
 
   Sull’USS Keter si batteva la fiacca. Non era un problema degli ufficiali, quanto piuttosto una caratteristica ineludibile del turno di notte. Tutte le decisioni e le operazioni importanti spettavano al Capitano e agli ufficiali superiori, in servizio nel turno Alfa. Dei lavori di routine, come la cartografia stellare e le riparazioni, si occupava soprattutto il turno Beta nel pomeriggio. Così, quando scendeva la notte – una pura convenzione d’orologio sulle navi stellari – non restava molto da fare per quelli del turno Gamma. Le loro principali incombenze consistevano nel mantenere i sistemi entro i normali parametri e controllare che non ci fossero alieni o anomalie in avvicinamento. Ne conseguiva che al turno di notte erano assegnati gli ufficiali meno qualificati, che per giunta a causa dell’orario incontravano raramente i superiori e quindi avevano meno occasioni di mettersi in mostra. Così i rimpasti di personale erano rari e gli ufficiali restavano inchiodati agli stessi incarichi per anni, osservando i colleghi degli altri turni che facevano carriera.
   «Però non è così male» si disse il Tenente Comandante Ki’Lau, a cui spettava il dubbio onore di comandare la Keter nel turno di notte. Lo Xaheano, smilzo e dai capelli dritti, si stava dirigendo in plancia per prendere servizio, ma come al solito se la prendeva comoda, per osservare la nave. In quelle ore l’equipaggio era ridotto all’osso, tanto che i laboratori si svuotavano e persino certi corridoi avevano le luci spente, soprattutto nei ponti inferiori. I pochi marinai ancora in circolazione finivano per parlare sottovoce, come se temessero di svegliare i colleghi, anche se gli alloggi erano isolati acusticamente. Tutto ciò creava un’atmosfera particolare, quasi di raccoglimento. Era poetico, si disse Ki’Lau, prendersi cura della nave mentre gli ufficiali superiori riposavano, affidandosi a loro. «Sì, siamo noi gli angeli custodi della Keter» pensò mentre saliva in plancia con il turboascensore. «Umili, solerti, silenziosi...».
   Il suo ingresso sul ponte di comando fu salutato dalla risata sghignazzante di Smig, l’addetta a sensori e comunicazioni. «Ehilà, capo!» lo salutò la Ferengi. «In ritardo come al solito, eh? Vieni avanti! Ci stiamo raccontando i nostri olo-romanzi preferiti!».
   Gli ufficiali erano stravaccati sulle loro sedie: Mo’rek al tattico, Ennil al timone, Smig ai sensori. Orlon invece era accovacciato sul sedile del Comandante, ma non poteva fare altrimenti, essendo un Teenaxi non più grande di un cagnolino. C’era anche Xandrix, il responsabile della sala macchine, che ogni tanto faceva di quelle capatine in plancia, senz’altro scopo che scambiare due chiacchiere.
   «Mi compiaccio di vedervi così su di morale, anche se dovreste ripassare il regolamento alla voce “disciplina di bordo”» li richiamò Ki’Lau.
   «Perché, esiste quella voce?» chiese Orlon, grattandosi senza ritegno dietro l’orecchio.
   «Sì, e mi dà facoltà di punirvi, se continuate con questo atteggiamento» avvertì Ki’Lau. «Ad esempio potrei vietarvi il ponte ologrammi». A quella minaccia gli ufficiali si ricomposero un poco.
   Lo Xaheano marciò verso la poltrona del Capitano e vi sedette con il solito, impagabile brivido di soddisfazione. Un giorno sarebbe stato promosso, si disse, e quella poltrona gli sarebbe spettata nel turno Alfa. Sempre che vincessero la guerra, cosa quanto mai improbabile, ricordò con una fitta dolorosa. «Rapporto sezioni» ordinò, per distrarsi dalle preoccupazioni.
   «Condizioni della nave regolari, Capitano» disse Orlon, che spesso lo sfotteva chiamandolo a quel modo.
   «Rotta regolare, siamo sempre in viaggio per Kelva Primo» disse Ennil, più rispettosa. La Barzana era un buon ufficiale, quando si applicava. Negli ultimi tempi era persino riuscita a dimagrire, rientrando finalmente nel peso-forma regolamentare. Doveva ancora portare il mini-respiratore per sopravvivere nell’atmosfera standard, ma quella era una necessità di tutta la sua specie.
   «Armi e scudi in piena efficienza» garantì Mo’rek. Il Klingon era il più truce fra gli ufficiali del turno di notte, ma ciò era comprensibile, se si pensava alle condizioni in cui aveva lasciato il suo pianeta. A quell’ora probabilmente Kronos era assediato, posto che non fosse già caduto. L’Ufficiale Tattico reagiva chiudendosi nell’efficienza militare, ma i colleghi sapevano quanto soffrisse, e quanto gli sarebbe piaciuto sfogarsi. Non che gli altri stessero meglio: il pianeta di Smig era sotto embargo commerciale, mentre quelli di Ki’Lau, Ennil e Xandrix erano da tempo sotto il controllo dell’Unione.
   «Letture dei sensori regolari» disse Smig. Vedendo che il superiore la fissava, aggiunse qualche dettaglio: «Continuiamo a trasmettere i saluti ai Kelvani, ma non abbiamo ottenuto risposta. Non ci sono astronavi nel raggio dei sensori. Però ho individuato un possibile pianeta di classe M».
   «Possibile?» s’incuriosì Ki’Lau.
   «Siamo lontani per esserne certi» precisò la Ferengi.
   Lo Xaheano tamburellò sul bracciolo della poltroncina, riflettendo. La Keter doveva raggiungere Kelva al più presto, ma poteva essere opportuno fare una piccola deviazione, se non altro per accertarsi che quel mondo, così vicino alla capitale dei Kelvani, non ospitasse un loro avamposto. In tal caso poteva essere l’occasione per prendere contatto. «Ennil, ci porti a dare un’occhiata» decise. «Io annoto la deviazione nel diario di bordo».
   «Come vuole» disse la Barzana. Non la trovava una scelta opportuna, ma si astenne dal farlo notare. La nave rispose prontamente ai suoi comandi, deviando verso la nuova destinazione. «Arriveremo tra un’ora» riferì.
   «Bene, intanto finiamo col rapporto sezioni» disse Ki’Lau. «Ingegneria?».
   A quel richiamo, Xandrix non rispose. Il Rhaandarite era spesso perso nel suo mondo, al punto da non rispondere alle domande, se non erano fatte a voce alta.
   «Dice a te, sveglia!» lo richiamò Orlon.
   «Eh?» fece Xandrix, riscuotendosi dalle fantasticherie. «È tutto in regola, signore. Il signor Dib si è trattenuto in sala macchine per ricalibrare il propulsore cronografico, dato che l’ultimo controllo aveva evidenziato una lieve anomalia nelle bobine di fase. Così io sono qui».
   «Speriamo non sia niente di serio» mormorò Ki’Lau. Quel propulsore era la loro unica garanzia di rivedere la Via Lattea. Se si fosse guastato, sarebbe stato un disastro. Lo Xaheano terminò il controllo sezioni e poi attese che la Keter raggiungesse la destinazione: il primo mondo abitabile che incontravano ad Andromeda.
 
   «Tocca a te, Ennil» disse Orlon. Per passare il tempo, gli ufficiali avevano ripreso a parlare dei loro olo-romanzi preferiti, davanti a Ki’Lau che fingeva di non sentire queste chiacchiere.
   «Beh, di recente ho giocato a Crisis Point: The Rise of Vindicta» rivelò la Barzana.
   «Ah, un classico intramontabile!» riconobbe il Teenaxi. «Qual è il tuo personaggio preferito?». La domanda equivaleva a chiedere chi aveva interpretato, dato che gli olo-romanzi erano interattivi.
   «Ovviamente Vindicta, la Vendetta Fatta Persona!» rispose Ennil, con occhi sognanti. «La sua sete di riscatto e la battaglia col Capitano Freeman della Cerritos mi resteranno sempre nel cuore!».
   «Eh già, abbiamo tutti il nostro beniamino» convenne Orlon. «Il vostro qual è?» chiese ai presenti.
   «Tendi, la Principessa Pirata!» rispose subito Smig, per quanto non avesse decisamente il fisico per interpretarla.
   «Bionic 5» disse Mo’rek a mezza voce.
   «Ah, il cyborg!» approvò Orlon. «Com’era il suo profilo? Mezzo uomo, mezzo robot, 100% sofferenza!» citò a memoria. «E tu, Xandrix?».
   «A me piace Shempo» rispose l’ingegnere, sempre un po’ perso nel suo mondo.
   «Ma dai, nessuno vuol fare Shempo! Viene disintegrato alla sua prima scena!» protestò Ennil.
   «Meglio, così il resto della storia posso godermela da spettatore» disse Xandrix, suscitando un coro di disapprovazione.
   In quella la consolle di Ennil emise un segnale che richiamò la sua attenzione. «Stiamo per raggiungere il pianeta, esco dalla cavitazione» avvertì.
   «Su gli scudi, non voglio sorprese» ordinò Ki’Lau. Ora che ci pensava, non era detto vi fossero per forza i Kelvani su quel pianeta. Magari apparteneva a qualcun altro, meno amichevole. D’un tratto si pentì di aver ordinato quella deviazione.
   Uscita dal tunnel quantico, la Keter si trovò davanti un gigante gassoso di tipo gioviano,  striato di colori caldi. Tutt’intorno orbitavano numerosi satelliti, tra cui uno abbastanza grande da mantenere un’atmosfera e un oceano d’acqua liquida. Era quello il pianeta di classe M captato dai sensori.
   «È un mondo pelagico» rilevò Smig. «C’è un solo oceano globale, che copre il 95% della superficie. Niente calotte polari, fa troppo caldo. C’è vita negli oceani e anche sulle isole... ma nulla di particolarmente evoluto. Nessun segno di tecnologia».
   Mentre parlava, la Ferengi aumentò la risoluzione dei sensori. I federali videro un arcipelago di piccole isole d’origine vulcanica, che maculavano la distesa altrimenti sconfinata del mare. Erano tutte basse e coperte da una vegetazione arancione, che al massimo ingrandimento si rivelò una sorta di muschio o di sottobosco, non più alto di una spanna. Non c’era traccia di vita animale. Tutto sommato era un luogo esotico, e appariva piacevole agli occhi di chi aveva visto troppe battaglie; ma non erano lì per quello.
   «Scansione anti-occultamento» ordinò Ki’Lau, ricordando che molti popoli di Andromeda avevano sviluppato quel tipo di tecnologia, per sfuggire alla Scourge.
   Passarono alcuni minuti, mentre Smig analizzava accuratamente il pianeta oceanico. Per scrupolo esaminò anche gli altri satelliti del gigante gassoso e tutta la regione di spazio circostante. «Negativo, non rilevo nulla» disse infine.
   «Uhm... speravo di trovar traccia dei Kelvani. Comunque la presenza di vita, per quanto semplice, esclude il ritorno della Scourge» ragionò Ki’Lau. «Va bene, ci siamo levati il dubbio e possiamo ripartire. Ennil, riportaci sulla rotta per Kelva Primo e accelera per compensare il tempo perso».
   «Eseguo» disse la Barzana, destreggiandosi con i comandi. La Keter puntò nuovamente la prua verso lo spazio aperto. «Un momento... il nucleo sta perdendo energia!» si allarmò. «Le bobine quantiche sono inattive».
   A queste parole lo Xaheano s’irrigidì sulla poltrona. «Siamo sotto attacco?» chiese. Sapeva che ad Andromeda c’erano specie capaci di proiettare campi di smorzamento così intensi da sortire quell’effetto.
   «Non credo... ci stanno togliendo l’energia dalla sala macchine» rispose la timoniera.
   «Plancia a sala macchine, subiamo un calo di potenza. Che succede?» chiese subito Ki’Lau.
   La risposta giunse sotto forma di trasmissione indirizzata allo schermo visore. Gli ufficiali del turno di notte videro la sala macchine, in gran parte vuota. I pochi ingegneri in servizio, tra cui Dib, erano allineati lungo le pareti. Ed erano tenuti sotto tiro da un plotone armato. I federali si sgomentarono nel riconoscere i corsari della Stella.
   «Succede che abbiamo perso la nostra nave per aiutarvi, quindi ora ci prendiamo la vostra come risarcimento» disse il capobanda, entrando nell’inquadratura. Non era lo Spettro, bensì il suo braccio destro Graush. Gli occhi rossi del Letheano erano ostili.
   «Se lo scordi!» rispose seccamente lo Xaheano. La sua mano si mosse verso il bracciolo, per attivare l’Allarme Rosso e svegliare l’equipaggio principale.
   «Ah-ah, fossi in lei non lo farei!» ammonì Graush. «Ho sotto tiro il vostro unico pilota capace di riportarci nella Via Lattea. Se dà l’allarme, lo ucciderò. E poi distruggerò il sedile cronografico».
   Ki’Lau scambiò un’occhiata con Xandrix. Una volta, durante un’emergenza, il Rhaandarite era riuscito a usare il propulsore; ma il medico gli aveva sconsigliato di provarci di nuovo. E comunque se i corsari avessero distrutto l’apparecchio sarebbe stato difficile ricostruirlo. Oltre a questo, al Tenente Comandante ripugnava di sacrificare Dib. Il suo dito si allontanò dal tasto d’allarme. Doveva trovare un altro modo per riprendere il controllo della situazione. «Si rende conto che se interferisce con la nostra missione, la Federazione cadrà?» chiese, provando a far ragionare l’interlocutore.
   «Sveglia, soldatino! La Federazione è già caduta!» sbottò il Letheano. «Sarà l’occasione per ridiventare pirati e smetterla di fare i boy-scout».
   «Ma se restiamo bloccati ad Andromeda non potrete tornare nemmeno voi» insisté Ki’Lau.
   «Almeno ci avremo provato, anziché essere sempre in balia delle vostre decisioni. E chissà che non ci siano delle opportunità anche qui, in questa galassia dove nessuno ci conosce!» ribatté Graush.
   «È una follia» disse lo Xaheano. «In ogni caso non le cederò il controllo della nave».
   «Per questo mi sono assicurato che non abbia scelta» ribatté il Letheano.
   In quella il turboascensore si aprì, riversando in plancia uno stuolo di pirati armati fino ai denti. Mo’rek estrasse il phaser e ne stordì uno, ma fu colpito da Skal’nak che lo seguiva e cadde al suolo ferito. Gli altri ufficiali si trovarono circondati in pochi attimi. Orlon ringhiò contro gli avversari, che però risero di lui. Ennil, Smig e Xandrix furono allontanati a forza dalle loro consolle e spinti al centro della plancia, dov’erano più facili da sorvegliare.
   «Dov’è Terry?!» si chiese Ki’Lau. Essendo integrata nella nave, la proiezione isomorfa era il principale baluardo contro i tentativi d’intrusione. Avrebbe dovuto rilevare l’attacco e reagire teletrasportando in cella i corsari, al tempo stesso disarmandoli.
   «Se sperate nell’intervento della vostra IA, sappiate che l’ho disattivata» sogghignò Graush. «Non è difficile, sapete. Non servono sofisticati attacchi informatici, quando basta tagliare i cavi dell’alimentazione». Così dicendo accennò ad alcuni dei suoi pirati, appena usciti dalla sala del processore. C’era Virrikek, un Roylano dalla corporatura minuscola e la pelle verdastra dura e legnosa, noto per l’abilità d’intrufolarsi ovunque. E c’era Siall, un Boliano con la benda sull’occhio, che sulla Stella era l’addetto a sensori e comunicazioni. Erano loro gli artefici del sabotaggio.
   Nel sentir questo, Ki’Lau vacillò. Senza Terry sarebbe stata dura riconquistare la nave. «Siete pochi per dirigere la Keter, tanto più in questo spazio inesplorato» tentò ancora. «Potrà anche illudersi di avere il controllo; ma quelli che la seguono cambieranno idea, dopo qualche settimana di doppi turni».
   «Per questo le offro un accordo» disse il pirata. «Sbarcheremo l’equipaggio principale su questo pianeta e poi avvertiremo i Kelvani della sua posizione. Così ci penseranno loro a salvarli e portare avanti la missione. Voi ci aiuterete ad automatizzare i sistemi di bordo, dopo di che vi lasceremo andare con qualche navetta».
   «Che farà dello Spettro e dei suoi fedeli?» volle sapere Ki’Lau.
   «Sbarcherò anche loro. Non m’interessa la vendetta; voglio solo questa nave» dichiarò Graush.
   «E dovrei crederle sulla parola!» sbottò lo Xaheano, sapendo che una volta sbarcati gli ufficiali nulla avrebbe impedito ai pirati di disintegrare l’isola con un siluro.
   «Sì, e in fretta, perché la mia pazienza si sta esaurendo!» avvertì il Letheano, prendendo di mira Dib.
   Ki’Lau scambiò un’occhiata con Ennil, che gli fece segno di no. Poi il Tenente Comandante abbassò lo sguardo sulla poltroncina del Capitano, rimpiangendo di aver fallito il suo compito. Lo sguardo gli cadde brevemente sul piccolo oloschermo di cui era munito il bracciolo. Quando rialzò gli occhi, lo Xaheano aveva l’aria di chi ha preso una decisione sofferta. «Accetto il suo accordo» disse a denti stretti.
   «Bene, è più sveglio di quel che pensavo!» ghignò il pirata, e abbassò l’arma. «Ora mettiamoci al lavoro. Dopo tante fatiche, i vostri colleghi saranno lieti di risvegliarsi su un’isola tropicale...».
 
   Fu un brusco risveglio per gli ufficiali della Keter, e ancora peggiore per il Capitano. Un attimo prima l’Elaysiana dormiva saporitamente fra morbide coperte, nel suo alloggio; quello dopo si trovò sdraiata su una specie di muschio. Faceva caldo e c’era un sole intenso, che le ferì gli occhi attraverso le palpebre. Attorno a lei si udivano voci confuse e il frangersi di onde sul bagnasciuga. A quegli stimoli il Capitano si alzò di scatto, sorpresa e spaventata. Ciò che vide la sconvolse oltre ogni limite.
   Lei e il suo equipaggio si trovavano ammassati sulla spiaggia di una piccola isola tropicale, in gran parte coperta da quello strano muschio arancione. Tutt’intorno, a perdita d’occhio, c’era il mare. Il sole era alto e spirava un vento caldo, carico di salsedine. All’orizzonte si levava il globo enorme di un pianeta gassoso, dall’atmosfera a bande. «Frell!» imprecò il Capitano, consapevole che erano nei guai fino al collo.
   «Brutta sorpresa, eh?» convenne Norrin, venendole incontro attraverso la folla.
   «Ma che...» cominciò Hod, bloccandosi dopo quelle poche parole. Aveva notato che il suo Comandante era in pigiama. E così quelli che la circondavano. Lei stessa, abbassando lo sguardo, si avvide d’essere scalza e in camicia da notte. Sulle prime non se n’era accorta, un po’ per lo shock del risveglio e un po’ perché faceva caldo; ma ora fu dolorosamente consapevole del suo aspetto poco professionale. Si accertò che la vestaglia fosse ben chiusa e poi si guardò attorno, constatando che erano quasi tutti nelle sue condizioni. Allo stupore e all’imbarazzo dei primi momenti stava già subentrando il panico, poiché non avevano nemmeno i comunicatori per chiamare la Keter.
   Poco alla volta gli ufficiali superiori si radunarono attorno al Capitano, per discutere della situazione. Tutti tranne Zafreen, che soleva dormire al naturale. Vedendosi circondata dai colleghi strillò e si guardò attorno, alla frenetica ricerca di un riparo. Ma poiché non c’erano rocce nelle vicinanze, né vegetazione più alta di una spanna, non le rimase che tuffarsi in acqua, dove rimase finché Vrel non riuscì a procurarle una vestaglia. Solo allora lo accompagnò dagli altri ufficiali, tutta fradicia e imbronciata.
   «Capitano, dove crede che siamo?» chiese Ladya, che aveva una vestaglia a tinte vivaci e la testa piena di bigodini.
   «Se non è il ponte ologrammi, vuol dire che ci hanno sbarcati su un pianeta sconosciuto» disse Hod, con un groppo in gola. «In ogni caso, qualcosa è andato storto».
   «Ah, il turno di notte!» inveì Vrel, alzando il pugno al cielo. «Se li rivedo...!».
   «Saremo molto fortunati a rivederli» disse però Norrin. «Non ci avrebbero abbandonati qui, senza un motivo gravissimo».
   «Per prima cosa verifichiamo che non sia una simulazione» decise il Capitano. «Computer, fine programma!» ordinò a voce alta, senza risultato. Allora inviò alcuni marinai verso le estremità opposte dell’isoletta, in cerca delle pareti. I due gruppi si allontanarono di alcuni chilometri, fino a raggiungere il mare da una parte e dall’altra; dopodiché tornarono abbattuti. Certamente non era il ponte ologrammi della Keter, e ormai i federali dubitavano che fosse un suo equivalente alieno. Il realismo era troppo grande; c’era persino l’odore di salsedine dell’oceano.
   «D’accordo, assumiamo che tutto questo sia vero» sospirò il Capitano. «Dobbiamo capire chi ci ha sbarcati, e perché. Avete terminato la conta dei presenti?».
   «Sì, Capitano. Oltre a quelli del turno di notte, mancano Dib e Terry» riferì il Comandante.
   «Manca anche il mio equipaggio» mugugnò lo Spettro, che si era unito al gruppo degli ufficiali. Con lui c’era Jaylah, un po’ imbarazzata, dato che indossava solo un corto babydoll.
   «Allora è fin troppo chiaro come sono andate le cose» disse Norrin. «La sua ciurma ha sopraffatto il nostro equipaggio. Avranno disattivato Terry e si sono tenuti Dib per servirsi del propulsore cronografico».
   In quella apparvero un paio di corsari, teletrasportati dalla Keter. Gli ufficiali corsero a interrogarli e in tal modo ebbero la conferma dell’accaduto. Seppero che era stato Graush a organizzare l’ammutinamento e che quasi tutti i pirati erano dalla sua. I pochi all’oscuro stavano venendo interrogati e, se non parevano abbastanza fedeli al nuovo capo, erano spediti a condividere il destino dei federali.
   «Graush!» ringhiò Jack, alzando al cielo uno sguardo omicida. «Da lui non me l’aspettavo!».
   «Credo che abbia cominciato a perdere fiducia già dalla Battaglia della Forgia, quando abbiamo deciso di sacrificare lo Sciame per distruggere la stazione, anziché tenercelo» ricordò Jaylah. «La perdita della Stella lo avrà esasperato ancora di più. Avremmo dovuto prevederlo» disse afflitta.
   «Avete detto che Graush s’è impegnato a informare i Kelvani della nostra posizione?» chiese Hod ai corsari lealisti. Era da questo che dipendevano le loro vite, perché su quel lembo di terra non c’era nulla che potesse sostentarli. Non vi erano animali e l’unica vegetazione era quel muschio che nessuno si azzardava ad assaggiare. Forse il mare offriva di più, ma non avevano strumenti da pesca. In effetti non avevano niente, salvo i pochi abiti che indossavano. I pirati non si erano curati di lasciar loro alcuno strumento che facilitasse la sopravvivenza.
   «Così ha promesso» confermò uno degli interpellati. «Ma a questo punto non scommetterei sulla sua sincerità».
   «Nemmeno io» disse il Capitano, lanciando un’occhiataccia a Jack.
   «Beh, m’incolpa dell’accaduto?!» si risentì l’Umano. «Ho fatto il possibile per integrare la mia ciurma, ma non posso sorvegliarla ventiquattr’ore al giorno. Spettava al suo equipaggio mantenere il controllo della nave!».
   «Inutile recriminare» intervenne Jaylah, che essendo stata sia corsara che ufficiale di Flotta si trovò a far da paciere tra i due. «Dobbiamo sperare che quelli del turno di notte riprendano il controllo della nave. Possono farcela, sono più in gamba di quanto sembra» assicurò a Jack.
   «Nel frattempo dobbiamo attrezzarci per sopravvivere» disse il Capitano, anche se il compito appariva disperato, privi com’erano di strumenti. «Abbiamo qualche comunicatore?».
   «Solo questo» disse Juri, dandole il proprio. L’Umano era uno dei pochi naufraghi completamente vestiti, poiché si era trattenuto a lavorare fino a tardi nel suo laboratorio. Hod provò a contattare la Keter, ma non ebbe risposta. In compenso nell’ora successiva apparvero alcuni altri corsari scacciati dalla banda. Jack parlò con tutti loro, cercando di rincuorarli. Infine l’afflusso cessò, segno che lo smistamento era finito e la nave, con ogni probabilità, aveva lasciato l’orbita.
   «È strano, manca Raav» notò lo Spettro, tornato a conferire con gli ufficiali.
   «Crede che possa...» cominciò Hod.
   «Tradirci? Non credo» rispose l’Umano. «Se è rimasto, dev’essere perché ha qualcosa in mente. Aspetterà l’occasione per aiutarci... anche se forse non capiterà tanto presto».
   «Il che ci riporta al problema della sopravvivenza» intervenne Ladya. «Non conosciamo le proprietà di questo pianeta... anzi, satellite» disse, accennando al gigante gassoso che saliva lentamente all’orizzonte. «Non sappiamo, ad esempio, se le radiazioni solari siano nocive. Né quale sia l’escursione termica dal giorno alla notte. Come medico, non vi nascondo che sono molto preoccupata. Purtroppo non abbiamo niente per costruire un riparo».
   «E nulla da mettere sotto i denti» mugugnò Vrel, guardandosi attorno desolato. «Forse nel mare... ma non abbiamo di che pescare».
   Per un po’ cadde il silenzio, dato che a nessuno veniva in mente come migliorare la situazione. Però, guardando le onde che si frangevano sul bagnasciuga, Norrin ebbe una folgorazione. Osservò la bassa vegetazione, simile a muschio... o ad alghe. Poi fissò il gigante gassoso all’orizzonte. «Oh, no» mormorò a bassa voce.
   «Che c’è?» chiese Hod.
   Fu Jaylah a rispondere, dopo aver seguito lo sguardo del suo mentore. «La marea» mormorò. «L’attrazione di quel gigante gassoso dev’essere immane. Siamo in pieno oceano, quindi la marea sarà fortissima. Io credo... che quest’isola sia periodicamente sommersa».
   A queste parole tornò il silenzio, ma adesso l’orrore era ancor più vicino e palpabile. «Dobbiamo calcolare quanto tempo ci resta» disse infine il Capitano.
   «Vediamo... il gigante gassoso è basso all’orizzonte, quindi la marea ha appena cominciato a levarsi» ragionò Jack. «Raggiungerà l’apice quando il pianeta sarà allo zenit, ma per sapere quanto manca dovremmo conoscere i tempi di rotazione di questo satellite».
   «Posso osservare la velocità con cui la spiaggia si riduce e fare una stima» si offrì Jaylah, che aveva ottime capacità di calcolo.
   «Ti servirà questo» disse il Capitano, consegnandole l’unico comunicatore disponibile, che aveva anche la funzione di orologio.
   La mezza Andoriana si avvicinò al bagnasciuga e rimase lì ferma, a osservare il monotono frangersi delle onde. Nel frattempo gli altri continuavano a confabulare.
   «Non ci sono volatili» commentò Jack, dopo aver scrutato a lungo il cielo. «O siamo molto lontani dalla costa... o questo pianeta ospita solo forme di vita semplici».
   «Buona la seconda, temo» disse Ladya, che si era chinata a osservare le alghe. Non aveva strumenti per analizzarle, ma ne aveva strappato un ciuffo e ora le osservava, cercando di spremere le sottili foglioline. «Queste sono alghe di tipo primitivo, con una minima differenziazione dei tessuti. E non vedo resti di fauna marina in mezzo a loro. Se l’isola è periodicamente sommersa, dovrebbero esserci dei resti animali: conchiglie, creature spiaggiate...».
   «Forse non sono alghe, ma vegetazione terrestre, e l’isola non si sommerge del tutto» suggerì Vrel, speranzoso.
   «Lo sono eccome» insisté la dottoressa. «E ciò che mi spaventa è che sono alghe rosso-brune. La loro pigmentazione indica che passano del tempo a notevole profondità sott’acqua, anche due o trecento metri. La luce solare gli arriva debole in quanto le lunghezze d’onda più lunghe sono bloccate dai flutti, quindi devono assorbirne il più possibile».
   «Beh, anche se l’isola sarà completamente sommersa, potremmo tenerci a galla» suggerì Zafreen. «In fondo siamo addestrati a nuotare, e i pochi che hanno difficoltà possono essere sostenuti dagli altri».
   «Non se la marea dura troppo a lungo, anche perché senza punti di riferimento rischiamo di andare alla deriva, allontanandoci dall’isola» avvertì Jack.
   Questo riportò l’attenzione a Jaylah, che continuava a fissare la linea di costa, immobile come una statua, a eccezione dei capelli agitati dal vento. Il tempo passò e il gigante gassoso continuò a levarsi nel cielo... molto lentamente. Infine la mezza Andoriana tornò dai compagni.
   «Giudicando dalla velocità d’avanzamento della costa, credo che l’isola sarà completamente sommersa fra sei ore» disse. «Inoltre, dalla velocità con cui s’innalza il gigante gassoso, direi che una rotazione completa del satellite richiede almeno due giorni terrestri. Dunque un ciclo di marea dura ventiquattr’ore. Fra sei saremo sommersi, per dodici dovremo galleggiare e nelle ultime sei avremo di nuovo appoggio».
   «È troppo» mormorò Hod. «Anche se non esauriremo le forze, le onde ci trascineranno così lontano che perderemo l’isola».
   Il silenzio piombò di nuovo sulla congrega, sempre più prostrata. «Cosa diciamo all’equipaggio?» chiese infine Norrin.
   «La verità, tanto molti di loro ci saranno arrivati per proprio conto, e comunque tra poche ore sarà chiaro a tutti» rispose Hod con decisione. «Dobbiamo prepararci a resistere, magari intrecciando queste alghe per fare delle corde che ci aiutino a restare assieme. Certo che...».
   «Se quelli del turno di notte non riprendono il controllo della situazione, siamo spacciati» concluse il Comandante.
 
   «Non posso credere che ti sia arreso!» sibilò Ennil all’indirizzo di Ki’Lau. I pirati li avevano rinchiusi in una stiva di carico con il resto dell’equipaggio notturno – un’ottantina di persone – mentre si assicuravano il pieno controllo della nave e smistavano i loro compagni. «Ti rendi conto che i nostri colleghi moriranno e la missione fallirà?!» chiese la timoniera, invelenita. Poco lontano gli altri stavano curando Mo’rek con un rigeneratore dermico che erano riusciti a ottenere dai pirati.
   «Opporsi in quel momento, coi phaser puntati, significava morire» obiettò lo Xaheano. «Così invece abbiamo una possibilità di riguadagnare la nave».
   «Ma come? Ci tengono sotto tiro...».
   «Abbiamo un alleato, o anche due. Chiama i capi sezione, compreso Mo’rek, se ce la fa» ordinò il Tenente Comandante. In pochi minuti furono raccolti attorno a lui, nell’angolo della stiva più lontano dall’ingresso vigilato.
   «Ebbene?» chiese il Klingon, ancora dolorante.
   «Terry è attiva» rivelò subito Ki’Lau. «Quand’eravamo in plancia mi ha scritto un messaggio sul bracciolo della poltrona, dicendomi di temporeggiare».
   «Certo, quando ha capito che stavano scollegando il mainframe dev’essersi nascosta da qualche parte con l’Emettitore Autonomo» comprese Xandrix.
   «E l’altro alleato di cui parlavi?» domandò Ennil.
   «Raav. Prima che ci sbattessero dentro, ho sentito i pirati dire che era rimasto con loro. Ma so qualcosa sul suo conto e credo che faccia il doppio gioco» spiegò Ki’Lau.
   «Quindi che facciamo?» chiese Orlon.
   «I pirati hanno bisogno di noi per automatizzare la Keter, quindi dobbiamo tenerli impegnati mentre Terry riattiva il suo processore centrale. Fatto quello, riavrà il controllo della nave e potrà sistemare tutto» rispose lo Xaheano. «Credo sia anche l’unica tra noi ad avere la visione d’insieme della situazione, visto che i pirati non sanno di lei. Quindi se ci contatterà, dicendoci di scattare, dobbiamo fare come dice. Non occorre che vi rammenti la posta in gioco».
   «Siamo con te... Capitano» disse Ennil. Uno dopo l’altro i capi-sezione mormorarono il loro assenso. La partita per la riconquista della Keter era cominciata.
 
   I pirati rumoreggiavano in sala mensa. Dopo aver conquistato la Keter, molti di loro si erano riuniti lì, per brindare e gozzovigliare.
   «Niente paura, ce n’è per tutti!» disse Raav, portando i beveraggi. Dopo la perdita della Stella, il vecchio Gorn aveva assunto l’incarico di cuoco lì sulla Keter. La mensa della nave federale era in gran parte automatizzata grazie ai replicatori, ma vi era comunque annessa una piccola cucina, per la preparazione di pasti più tradizionali.
   «Al tempo!» esclamò Graush, zittendo per un poco la marmaglia. «Tu eri amico di Jaylah e del capo. Ora dici d’essere dalla nostra e voglio metterti alla prova, ma non tanto da affidarti le nostre vite. Non sarai tu a servirci da bere e da mangiare».
   «Servitevi da soli, allora» propose il Gorn. «Io brinderò con voi» aggiunse con un sorriso sornione.
   «Uhm... tenetelo d’occhio» raccomandò Graush ai suoi, prima di lasciare la mensa. Quella era manovalanza generica, che in quel momento non gli serviva. Poteva lasciarli fare bisboccia. I pirati che se ne intendevano d’ingegneria e informatica erano già al lavoro per automatizzare i sistemi. Con loro c’erano, ben sorvegliati, gli ufficiali del turno di notte. Se questi avessero fatto una mossa falsa, o avessero destato anche solo il sospetto, sarebbero stati eliminati.
 
   «Come sarebbe a dire che non puoi?!» s’inalberò Graush, quando Dib gli manifestò l’impossibilità di usare il propulsore cronografico.
   «Stavo facendo una revisione quando ci avete attaccati» spiegò l’Ingegnere Capo, accennando al congegno mezzo smontato. «Devo completarla e poi riassemblare il tutto».
   «Quanto ti ci vuole?» chiese il Letheano, ansioso di disporre il prima possibile di quella via di fuga.
   «Da solo almeno ventiquattro ore, ma con il personale ad aiutarmi ne basteranno sei» rispose il Penumbrano.
   «E va bene, avrai i tuoi ingegneri» cedette Graush. «Ma sarete sorvegliati. Al primo segno di tradimento, siete morti!» minacciò. In realtà era inquieto, perché c’erano già fin troppe squadre sparpagliate per la nave. Ma il propulsore cronografico era uno dei sistemi che più gli premeva avere in linea, quindi aveva dovuto acconsentire.
   Lasciata la saletta del propulsore, il Letheano fece un giro d’ispezione. In sala macchine c’era Xandrix, che in teoria doveva spiegare alcune procedure ai pirati, ma in pratica li stava confondendo con discorsi sempre più astrusi. Orlon, Mo’rek e gli agenti della Sicurezza erano chiusi nella stiva di carico. Ennil e Smig erano in una sala controllo ausiliaria, da cui dovevano deviare certi comandi alla plancia. Ki’Lau infine era in plancia, per cedere i suoi codici di comando. Tutti quanti erano sotto vigilanza armata, così da non potersi rivoltare; ma si aveva l’impressione che stessero tergiversando per prendere tempo. Più volte i federali si rimpallarono il lavoro, sostenendo che l’uno non poteva sbrigarlo se l’altro non terminava prima il suo.
   «Insomma, è la vostra nave o no?!» sbottò Graush, davanti all’ennesimo ritardo. «Dovrete pur conoscerla!».
   «Che pretende da noi? Siamo solo il turno di notte» rispose Ki’Lau, con la massima faccia tosta.
«Metà delle cose che stiamo facendo esulano dalle nostre competenze. Se vuole un lavoro ben fatto, riprenda a bordo quelli del turno Alfa».
   «Oppure potrei buttare fuori bordo uno di voi per ogni quarto d’ora di ritardo» ribatté Graush, puntandogli il phaser al petto. La sua pazienza stava per esaurirsi.
 
   C’erano delle volte in cui Jaylah detestava avere ragione. Questa era una di quelle occasioni. La marea era salita con la velocità da lei calcolata, spingendo i federali a ritirarsi nella parte centrale e più elevata dell’isoletta. Poco alla volta il suolo era sparito intorno a loro, reclamato dal mare, finché si erano trovati su uno scoglio battuto dalle onde. Per ore intere erano stati frustati dall’acqua salata, che a volte si gonfiava in cavalloni capaci di gettarli al suolo o uno contro l’altro. Molti avevano rischiato di perdersi tra le onde.
   Fortunatamente i federali erano stati previdenti e prima di arrivare a quel punto avevano intrecciato le alghe, formando delle corde sorprendentemente resistenti che ora li aiutavano a tenersi stretti. Ma anche questo non era che un prendere tempo. Poco alla volta il mare gli aveva lambito i piedi e poi, inesorabile, era salito ancora, finché erano stati costretti a nuotare per tenersi a galla. Adesso le onde erano meno pericolose, perché non si frangevano più contro il fondale; ma tendevano comunque a separarli. E dopo ore di quella tortura, i muscoli esausti cedevano. Sempre più persone non riuscivano a restare a galla e dovevano essere sostenute dai compagni. Alcuni non riuscivano nemmeno a tenersi aggrappati alle corde, tanto erano stremati; altri erano persino svenuti. Più le ore passavano, più la percentuale di bisognosi aumentava. Ormai anche i più ottimisti temevano che al calare della marea pochi avrebbero rimesso piede sulla terraferma. Sempre che le onde non li avessero trascinati lontano; in quel caso nessuno sarebbe sopravvissuto alla lunga notte.
   «Sei ancora con me?» le chiese Jack, temendo che fosse sul punto di cedere alla stanchezza e alla disperazione.
   «Sì... per ora» mormorò Jaylah. Erano vicini e si tenevano a una delle corde che avevano intrecciato, per evitare che le mareggiate li separassero. Più avanti c’erano altri colleghi aggrappati alla stessa corda, intersecata con le altre, quasi a formare una zattera umanoide. Alcuni erano prossimi a cedere. Ladya era mezza svenuta e Norrin la sosteneva con un braccio, restando aggrappato con l’altro. Anche il Capitano Hod era conciata male, sebbene avesse Juri ad aiutarla. Jaylah si trovò a pensare che, per quante ne avessero già passate, quello era il punto più basso in cui si fossero mai trovati. Le possibilità di salvarsi con le loro forze erano pari a zero: tutto dipendeva dai colleghi rimasti sulla Keter.
   «Resisti... pensa che potrebbe andar peggio» la consolò Jack.
   «Ah, sì? Sentiamo».
   «Se l’acqua fosse gelida saremmo già morti, invece è bella calda» disse l’Umano, cercando di non farla disperare. «Potrebbe esserci una tempesta, invece il tempo è sereno. Ed è improbabile che ci siano grossi predatori marini, su un pianeta così indietro nell’evoluzione».
   «Mi hai convinta, resto qui» disse la mezza Andoriana, con un sorriso di comica disperazione. «E poi, e poi...».
   «Sì?» fece Jack, cercando lui stesso di non arrendersi all’ineluttabile.
   «La marea cambierà. Deve cambiare, prima o poi» disse Jaylah, e non si riferiva solo all’acqua circostante.
 
   Nella sala controllo sensori, Smig stava istruendo il suo corrispettivo Siall su come deviare i comandi in plancia. Poco più indietro, Ennil discuteva con un altro pirata riguardo all’interfaccia timone-sensori. A un tratto il suo interlocutore fu richiamato in plancia. La Barzana rimase sola con gli altri due, ma sapeva di non poter uscire, perché l’ingresso era piantonato. Occhieggiò il portello di un tubo di Jefferies, ma ricordò che i pirati li avevano sigillati tutti per precauzione. In quella però le cadde lo sguardo su un messaggio che scorreva su molte delle interfacce attorno a lei. Diceva: «Sono Terry, è tempo di agire. Sbarazzatevi del pirata ed entrate nel tubo di Jefferies».
   Ennil si accertò che il Boliano non si fosse accorto di nulla. Stava ancora parlando fitto con Smig, e sulla loro consolle il messaggio non appariva. Allora la timoniera raggiunse un pannello e lo usò per rispondere. «I portelli sono bloccati» scrisse.
   «Li ho appena sbloccati, ma dovete sbrigarvi prima che i pirati se ne accorgano» fu la risposta.
   Era davvero il momento, si disse Ennil. Ovviamente non era armata, ma come tutti gli ufficiali di Flotta era addestrata all’uso di armi improprie. Con il cuore in gola si sfilò una scarpa, sperando che il pirata non si voltasse proprio in quel momento. Sapeva che le scarpe d’ordinanza della Flotta avevano la suola piuttosto spessa e rigida, per adattarsi ai terreni impervi che spesso s’incontravano negli sbarchi. Stringendo quell’arma improvvisata si avvicinò di soppiatto alle spalle del Boliano. Era certa che Smig l’avrebbe sentita, grazie al suo udito fino di Ferengi. Si sarebbe forse girata, tradendola involontariamente?
   I secondi passarono e Smig, anziché voltarsi, prese a parlare ancora più fitto, inducendo il “collega” a chinarsi sulla consolle per esaminare una stringa di codici. Fu allora che Ennil attaccò. Un colpo secco alla nuca e il Boliano cadde in avanti, stordito.
   «Spero che tu sappia ciò che fai» disse Smig. L’assenza di sorpresa confermava che l’aveva udita avvicinarsi.
   «Seguo le istruzioni di Terry» spiegò la Barzana, rimettendosi la scarpa. «Sta riprendendo il controllo dei sistemi. Mi sa che è stata lei a chiamar fuori l’altro pirata, per darmi campo libero».
   Presero il phaser di Siall e il suo comunicatore, poi corsero al tubo di Jefferies. Il portello era sbloccato, come promesso. Entrarono nel condotto e presero a scendere, seguendo le indicazioni che Terry gli impartiva tramite il comunicatore. Giunsero così alla stiva in cui erano rinchiusi Mo’rek e gli altri della Sicurezza. Vedendo aprirsi il portello, i federali si rianimarono. «Dentro, svelti! Non abbiamo molto tempo» li richiamò Ennil, affacciandosi.
   «Ma le telecamere di sicurezza?» chiese il Klingon, temendo che la loro fuga fosse già scoperta.
   «Terry sta proiettando false immagini, ma c’è sempre il rischio che le guardie là fuori entrino a controllare. Per questo vi ho detto di sbrigarvi!» spiegò la timoniera.
   «Da’ qua» disse Mo’rek, prendendole il phaser. Restò di guardia mentre tutti s’infilavano nel condotto ed entrò lui stesso per ultimo. Stava per richiuderlo quando il portone della stiva si aprì e Skal’nak entrò per un controllo. La fuga di Ennil e Smig era stata scoperta e i pirati erano in allarme. Il Nausicaano aprì il fuoco, ma il Klingon chiuse in tempo il portello, proteggendosi dal colpo. Aveva guadagnato pochi secondi, perché i pirati di certo li avrebbero inseguiti.
   «Andate su allo snodo, c’è un armadietto delle armi!» gridò Mo’rek. «Io li trattengo».
   «Ma...» protestò Ennil, molto più avanti.
   «Fate come dice, io cercherò di aiutarvi» giunse la voce di Terry. Il portello si sigillò prima che Skal’nak potesse aprirlo, così al Nausicaano non restò che tagliarlo con il phaser, mentre i federali ne approfittavano per allontanarsi.
 
   «Sei certo che l’iniettore si ricalibri così? A me sembra che tu stia cercando di smontarlo!» protestò Virrikek, dopo che Xandrix aveva sparpagliato attorno a sé i pezzi del congegno. Il piccolo Roylano stava appollaiato su una consolle, come suo solito, e guardava dall’alto quello scempio.
   «I nostri iniettori sono diversi dai vostri» si giustificò l’ingegnere. «Vediamo se mi hai seguito... cosa dice la direttiva Boimler?».
   «Io... ehm... ce l’ho sulla punta della lingua...» fece il pirata, in difficoltà nel ricordare tutte le regole contraddittorie che l’altro gli aveva sciorinato.
   D’un tratto risuonò un allarme, seguito da un avviso. «Attenzione, i prigionieri sono evasi dalla stiva usando i tubi di Jefferies. Tutti i combattenti hanno l’ordine di convergere su di loro per fermarli. I tecnici invece devono interrompere le attività. Chiudete in cella i federali e se fanno resistenza uccideteli!» tuonò la voce di Graush.
   «Ah, ma guarda! Lo sentivo che c’era puzza di bruciato!» squittì Virrikek. «Forza ragazzi, portate via queste canaglie, mentre io rimedio ai loro danni!» esortò le guardie.
   I pirati stavano per agguantare i tecnici federali, quando Terry apparve su una passerella soprelevata e li colpì dall’alto, stordendone due prima che gli altri potessero reagire. Allora Xandrix premette un comando e si tuffò sul pavimento. Attorno al nucleo quantico si alzò un campo di forza che lo protesse dai colpi vaganti. E all’interno di quella barriera protettiva c’erano anche i federali, che altrimenti sarebbero vissuti poco, disarmati com’erano.
   In quel momento Dib uscì dalla sala del propulsore, impugnando un’arma rudimentale che aveva fabbricato con i pezzi del congegno. Somigliava a un fulminatore elettrico e gli permise di stordire i due pirati che lo piantonavano, e che si erano distratti per la sparatoria. Gettata la sua rozza arma, che aveva energia solo per pochi colpi, raccolse il phaser di una sentinella e si unì allo scontro. Ancora una volta il Penumbrano si rivelò un combattente formidabile, per riflessi e precisione. Le sue eccezionali facoltà di calcolo gli permettevano di elaborare l’esatta sequenza di movimenti necessaria a stordire gli avversari, evitando al contempo i loro colpi.
   Vedendo che i suoi erano in difficoltà, Virrikek scese dalla consolle e s’infilò in un tubo di Jefferies con la rapidità di un sorcio. Di lì a poco Dib e Terry ebbero ragione dei pirati, tanto che i pochi ancora in piedi dovettero abbandonare la sala macchine. Allora l’Ingegnere Capo liberò i colleghi dal campo di forza del nucleo e li mandò nella sala del processore, per riallacciare il mainframe di Terry all’alimentazione e ridarle il controllo totale dei sistemi.
 
   «Su, ancora un brindisi!» propose Raav, facendo l’ennesimo giro tra i commensali per riempire i bicchieri. «Alla Battaglia di Altamid!» aggiunse, suscitando alti schiamazzi. Era da un pezzo che proponeva brindisi per ogni vittoria messa a segno dai corsari, nella speranza di farli ubriacare. In effetti erano quasi tutti sbronzi, tranne i pochi che avevano una resistenza innata. Il Gorn aveva avuto cura di somministrare veri alcolici, anziché il sintalcool federale. Lui stesso aveva dovuto bere con gli altri, per non destare sospetti. Ma tra la sua robusta fisiologia rettile e l’esperienza di bevitore, era ancora in sé. Anche stavolta vuotò il bicchiere con gli altri, sperando che i federali si sbrigassero a lanciare il contrattacco.
   In quella si udì l’allarme, seguito dagli ordini di Graush. Subito i pirati ubriachi e mezzo addormentati si riscossero. «In piedi, il capo ha bisogno di noi!» gridò il caposquadra. Contattato Graush, seppe che il loro gruppo doveva recarsi in sala macchine per riprenderne il controllo.
   «Raav come si comporta?» volle sapere il Letheano, pronto a farlo uccidere al primo sgarro.
   «Bene, non ha fatto nulla di sospetto».
   «Uhm... okay, andate».
   La turba si precipitò fuori, appesantita e barcollante dopo i bagordi. In mensa rimase un solo pirata, che doveva il suo ritardo al fatto d’essere così ubriaco da non reggersi in piedi. Fu contro di lui che Raav si scagliò, cogliendolo alle spalle mentre cercava di alzarsi. Il Gorn lo mise al tappeto con un solo pugno e gli prese il phaser. Poi lo legò strettamente, chiudendolo nella piccola cucina. Infine lasciò la sala mensa con l’arma in pugno, pronto a fare la sua parte.
 
   Dalla plancia, Graush seguiva sempre più infuriato la lotta per la nave. Era alle prese con un attacco coordinato, perché tutti i punti chiave erano stati colpiti nell’arco di pochi minuti. E i suoi pirati erano in difficoltà, sebbene fossero più numerosi dei federali. Questi infatti conoscevano la Keter come le loro tasche e avevano mille trucchi per sviarli, confonderli o intrappolarli. La nave stessa era dalla loro. La squadra proveniente dalla mensa fu bloccata in un corridoio tra due campi di forza, poco prima di raggiungere la sala macchine. Altri pirati rimasero intrappolati nei turboascensori. Altri ancora furono bloccati dalle piastre di gravità che d’un tratto si attivavano al massimo. Il Letheano digrignò i denti, leggendo i rapporti. Una buona metà della sua ciurma era intrappolata con questi trucchi e non poteva partecipare allo scontro. Invece i federali si erano armati e grazie ai tubi di Jefferies stavano sbucando ovunque nella nave, cogliendo alle spalle i pirati. La situazione si aggravava di minuto in minuto.
   «Signore, non riusciamo a riprendere la sala macchine».
   «Il nemico ostacola le comunicazioni, abbiamo difficoltà a trasmettere gli ordini alle squadre».
   «Beh, trovate il modo!» berciò Graush. «Dite a Skal’nak di uscire da quei tubi e venire a proteggere la plancia!». Guardandosi attorno, il Letheano vide la paura. I suoi uomini avevano obbedito per anni allo Spettro, abituandosi al suo stile di comando severo ma cavalleresco. Ora che era lui a dare gli ordini, pareva che eseguissero con meno prontezza. Forse molti di loro si erano già pentiti d’essersi ammutinati. Era il momento di riaffermare la sua autorità. Estrasse il phaser, deciso a uccidere seduta stante Ki’Lau; ma lo cercò invano. Lo Xaheano si era volatilizzato. «Dov’è finito? Dov’è il federale?!» gridò, richiamando l’attenzione dei suoi.
   Lo cercarono in sala tattica e nell’ufficio del Capitano, cosa che li distrasse dai loro compiti, in quei momenti cruciali; ma non lo trovarono. «Signore... gli Xaheani hanno un mimetismo naturale che rasenta l’occultamento» disse infine uno dei pirati. «Evidentemente la Flotta gli ha fornito un’uniforme con la stessa proprietà».
   «Invisibile!» pensò Graush, guardandosi attorno con ansia crescente. Forse l’avversario era ancora lì con loro, pronto a premere comandi per ostacolarli. O forse se n’era già andato, grazie al tubo di Jefferies della sala tattica. In ogni caso non avevano tempo per una ricerca a tappeto.
   Il Letheano pensò al da farsi. I federali avevano certamente in programma di recuperare i colleghi esiliati. Bene, avrebbe tolto loro questa speranza. «Timoniere, inverti la rotta» ordinò.
   «Ma, signore...» fece l’interpellato, timoroso di tornare là dove avevano lasciato lo Spettro.
   «Ho detto di tornare alla luna oceanica» insisté Graush. «Una volta lì, disintegreremo l’isola con un siluro. Quando sapranno che i loro colleghi sono morti, i federali capiranno che è finita. Questa nave sarà nostra a ogni costo».
 
   Attardatosi nei tubi di Jefferies per coprire la fuga dei compagni, Mo’rek si accorse che Skal’nak lo inseguiva ancora. Allora si voltò per affrontarlo. Sempre acquattati nei condotti, gli avversari si scambiarono colpi di phaser da dietro gli angoli, finché un raggio disarmò il Klingon. Allora questi dovette ritirarsi, mentre il Nausicaano lo inseguiva, deciso a chiudere la partita.
   Il pirata seguì il condotto fino a sbucare presso un iniettore di plasma. Lì il soffitto era alto e c’era un pozzo nel quale fluiva il plasma ad alta energia, diffondendo un odore d’ozono. La sua luce bianco-azzurra si riverberava sulle paratie, per il resto in penombra. Altri tre condotti si aprivano lungo le pareti. In quale si era infilato il Klingon? Il Nausicaano aprì subito il più vicino, sperando d’intravedere il nemico o almeno di sentire i suoi passi. Poiché non vide e non udì nulla, stava per passare al prossimo; ma in quella Mo’rek, appostatosi su un cornicione celato nell’oscurità sopra di lui, gli balzò addosso. Il suo peso schiacciò a terra il Nausicaano, facendogli battere la testa. Subito il federale cercò di strappargli l’arma; ma il pirata era coriaceo e ben lungi dall’essere stordito. Cercò di rigirarsi per colpire l’avversario.
   Fu uno scontro selvaggio. I due si litigarono l’arma, rotolandosi sul pavimento finché furono sull’orlo del pozzo. Qui rimasero avvinghiati, con il phaser tra loro. Skal’nak era in alto e schiacciava l’avversario contro il pavimento, cercando di rivolgere l’arma contro di lui. Gli dette una gomitata al braccio, dove sapeva che gli avrebbe fatto male, per via della ferita infertagli poche ore prima e curata sommariamente. Mo’rek gridò di dolore, ma tenne duro. Vedendo che l’altro stava riuscendo a puntargli l’arma al petto, allungò le dita e riuscì a innestare la sicura. Appena in tempo: il Nausicaano premette a vuoto il grilletto.
   Beffato, Skal’nak dovette distrarsi per disinserire la sicura. In quei brevi attimi Mo’rek riuscì a puntagli i piedi contro lo stomaco e a rovesciarlo all’indietro. Il pirata gridò, sparando un colpo che andò a vuoto, e cadde nel pozzo del plasma incandescente. Il suo ultimo grido fu troncato dallo sfrigolio della carne disintegrata. Ci fu un lampo dovuto al sovraccarico, poi il flusso di plasma tornò a stabilizzarsi.
   «Per Kronos» mormorò Mo’rek. Non aveva scordato che vincere quella battaglia era indispensabile per portare a termine la missione e salvare il suo pianeta. Grazie alla tempra Klingon, fu subito in grado di rialzarsi. Riprese a muoversi nei condotti, diretto al più vicino armadietto delle armi. Una volta equipaggiato si sarebbe di nuovo gettato nella mischia.
 
   In quello stesso momento, pochi ponti più in alto, anche Virrikek si aggirava nei condotti. La sua piccola statura gli permetteva di camminare in piedi, il che gli dava il vantaggio della velocità. Graush gli aveva ordinato di compiere un sabotaggio che avrebbe facilitato la lotta contro i federali. Il Roylano intendeva eseguire, anche se malvolentieri. Si stava già pentendo di aver aderito alla rivolta, ma pensava che ormai fosse tardi per tornare indietro. Se solo avesse avuto un’arma! Ma fuggendo dalla sala macchine non era riuscito a prenderne una.
   Vedendo uno slargo davanti a sé, Virrikek sorrise. Era la postazione di controllo energetico che stava cercando. Da lì poteva togliere energia a parecchi ponti, liberando i colleghi che erano trattenuti dai campi di forza. Questo avrebbe ridato il vantaggio ai pirati.
   Un ringhio alle sue spalle indusse il Roylano a voltarsi. Due occhi giallo-verdi scintillarono nell’ombra, appuntandosi su di lui. Qualunque cosa fosse, la creatura sembrava quadrupede. «E tu cosa sei?!» squittì Virrikek.
   «Tenente Orlon» rispose l’interessato, emergendo in una zona illuminata del condotto. Come tutti i Teenaxi aveva le dimensioni di un cagnolino. La sua pelle era marrone e dura, le zampe anteriori erano più grosse delle posteriori e il cranio si allungava all’indietro in una sorta di collare osseo. Per la maggior parte degli umanoidi non costituiva una minaccia, date le modeste dimensioni. Ma al piccolo Roylano apparve come una belva terrificante. «Sai, la mia specie è carnivora, quindi... comincia a correre» disse Orlon. Lanciò un ululato spaventoso, ulteriormente amplificato dall’eco del corridoio. Dopo di che si appallottolò come un armadillo e gli venne contro rotolando.
   In preda al terrore, Virrikek se la diede a gambe. Ma per quanto fosse veloce non poteva seminare il Teenaxi, che in certi momenti lo rincorreva sulle quattro zampe e in altri gli rotolava dietro. L’inseguimento li portò da un capo all’altro della nave, ma in ogni caso ben lontani dalla postazione che il Roylano avrebbe dovuto manomettere. Naturalmente Orlon, essendo pur sempre un ufficiale della Flotta, non aveva la minima intenzione di sbranare il pirata. Ma qualche morsetto nel fondoschiena glielo avrebbe dato, prima di trascinarlo fuori di lì.
 
   In plancia, Graush si sentiva sempre più con l’acqua alla gola. Skal’nak non gli rispondeva più e nemmeno Virrikek. Gli atti di sabotaggio che aveva ordinato non erano stati compiuti e il nemico continuava a guadagnare terreno. Si consolò pensando che di lì a poco avrebbero raggiunto la luna oceanica, eliminando il grosso dei federali. Ciò avrebbe demoralizzato quelli del turno di notte. Però c’era anche il rischio che questi ultimi riprendessero a bordo i loro colleghi... perché non ci aveva pensato? Il Letheano si portò una mano alla testa. Gli stava venendo l’emicrania, era sempre più difficile concentrarsi...
   Fu allora che gli cadde lo sguardo su una griglia d’aerazione e vide promanarne una lieve nebbiolina. Nello stesso momento divenne consapevole dello strano odore dolciastro che si diffondeva. «Idioti, ci attaccano col gas!» gridò.
   Richiamati dal suo grido, i pirati si riebbero dall’intontimento che li stava contagiando. Alcuni cercarono di bloccare la ventola, altri analizzarono il gas in circolazione. «Frell, è tetracloruro di carbonio!» imprecò uno di loro. Si trattava di un composto molto tossico, capace d’innescare reazioni a catena che degradavano le membrane cellulari. Colpiva il sistema nervoso centrale provocando confusione, nausea e sonnolenza; l’esposizione prolungata portava al coma e alla morte. Che i federali fossero ricorsi a un’arma così letale indicava quanto fossero ormai disperati e pronti a tutto. Guardandosi attorno, Graush vide i suoi seguaci che barcollavano e tossivano. Mancavano pochi minuti alla destinazione, ma non ci sarebbero arrivati vivi. Allora capì d’essere sconfitto.
   «Evacuare la plancia» ordinò. Non fidandosi del turboascensore, i pirati se ne andarono con il teletrasporto. Mentre dava l’ultima occhiata alla plancia che gli era appartenuta per così breve tempo, il Letheano vide ingrandirsi una falce luminosa sullo schermo. Era il gigante gassoso attorno a cui orbitava la luna oceanica. Ringhiando di collera si scagliò in avanti, per attivare le armi; ma in quella fu trasferito con i suoi fedeli. Riapparvero alcuni ponti più sotto, dove ancora infuriava la battaglia.
   La plancia rimase vuota, ma non per molto. Nell’adiacente sala tattica si aprì il portello del tubo di Jefferies e ne uscì Ennil. La Barzana, che non indossava alcuna tuta ambientale, si appostò dietro la porta con il phaser in pugno e sbirciò in plancia. Appurato che non c’era più nessuno, entrò senza timore. Disattivò il suo mini-respiratore e inspirò a pieni polmoni l’aria impregnata di tetracloruro, così simile a quella di Barzan II, il suo mondo nativo. Gli occhi le si schiarirono per una reazione chimica dell’organismo, più a suo agio in quell’atmosfera. Poi Ennil sedette al timone e diresse la Keter verso la luna oceanica, parcheggiandola in orbita.
 
   In testa a un manipolo di fedelissimi, Graush si faceva strada nei corridoi. Ormai non sapeva più dove andare; a ogni cantone li aspettava qualche trappola. Intravide Virrikek che correva inseguito da Orlon, finché non fu agguantato da Mo’rek, che lo sollevò per il collo, ponendo fine sia alla sua fuga che alla sua libertà.
   Dopo aver scambiato qualche colpo con il Klingon, il capo dei pirati decise di cambiar strada. Adesso puntava al laboratorio cibernetico dove, lo sapeva, si trovavano le tute a Occultamento Sfasato dello Spettro e della Banshee. Anche se nessuno di loro poteva indossarle, dato che erano codificate con il DNA dei proprietari, restavano pur sempre il bottino più importante della nave. Analizzandole si poteva replicarne la tecnologia e questo, forse, avrebbe risollevato le loro sorti.
   Svoltato l’angolo, il Letheano vide che le due guardie da lui piazzate a vigilare il laboratorio erano stordite. Con un groppo in gola, affrettò il passo e le scavalcò. Una volta dentro frugò in ogni comparto e armadietto in cerca delle tute, ma invano. Allora sollevò dal pavimento l’unità di assemblaggio in cui talvolta si conservavano gli esperimenti. Il cilindro metallico si aprì con uno scatto; era vuoto. Graush dovette frugarvi dentro con la mano per convincersi che lo era davvero. Alla fine dovette arrendersi alla realtà: i federali lo avevano anticipato ancora una volta. Quel che non seppe mai era che Ki’Lau lo aveva preceduto di pochi minuti e che le tute erano nascoste in un tubo di Jefferies lì vicino.
   «E adesso che facciamo?!» chiese un pirata. Era Siall, che si era ripreso dalla botta in testa e si era unito al gruppo poco prima.
   Graush avrebbe voluto lanciarsi alla riconquista della nave, ma comprese che ormai i federali stavano teletrasportando i loro colleghi dal pianeta. L’idea di dover affrontare lo Spettro, rendendo conto del proprio tradimento, gli fece tremare le gambe. «Andiamo all’hangar, prendiamo le navette» rispose.
   «E poi? Ci gettiamo nello spazio con quelle, in una galassia sconosciuta?!» protestò il Boliano.
   «Sempre meglio che essere uccisi» rispose il Letheano.
   «I federali non ci uccideranno, se ci arrendiamo» insisté Siall. «Non hai visto che sparano per stordire?».
   «E cosa pensi che ci farà lo Spettro?» chiese Graush, rivelando il suo timore.
   Siall esitò, ma alla fine si riprese. «Non l’ho mai visto accanirsi per il gusto di farlo, e comunque ora che è tra i federali dovrà fare a modo loro» argomentò. «Voi fate quel che vi pare, ma io ho chiuso!». Voltò le spalle ai colleghi e si allontanò a passo svelto, con l’idea di consegnarsi ai federali. Morì dopo cinque passi, colpito alla schiena da Graush.
   «Qualcun altro ha voglia di arrendersi?» chiese il Letheano, guardandosi attorno con sguardo truce. Nessuno rispose. «Lo sospettavo. Seguitemi, l’hangar non è lontano».
 
   Con gli occhi annebbiati dalla stanchezza, Jaylah alzò gli occhi al cielo e vide il gigante gassoso a picco. Era trascorso solo metà del tempo. Prima che qualcuno di loro potesse rimettere piede sulla terraferma sarebbero passate altre sei ore. Ma chi voleva prendere in giro? Ormai le onde li avevano portati alla deriva chissà dove. Nessuno si sarebbe salvato. Eppure...
   «La marea sta cambiando» mormorò, più a se stessa che a Jack. Fu allora che udì un ronzio familiare, accompagnato dalle esclamazioni dei presenti. Si guardò attorno e vide i compagni naufraghi che svanivano uno dopo l’altro nel bagliore del teletrasporto. Allora rise dal profondo del cuore. Lei e Jack si abbracciarono. L’attimo dopo il teletrasporto della Keter li prelevò dal mare, depositandoli nel loro alloggio.
 
   Dopo la corsa affannosa per i corridoi, Graush e il suo manipolo sbucarono finalmente nell’hangar. Non erano stati attaccati strada facendo, perché i federali stavano disputando ai pirati altre zone della nave. Ormai la battaglia volgeva a favore delle divise, ma il Letheano si disse che almeno questo era servito a facilitare la sua fuga. Riguardo a ciò che lo aspettava dopo, non voleva pensarci.
   «Prendiamo quello» disse accennando allo yacht del Capitano, una bella navicella spaziosa. Uno dei pirati corse alla consolle di controllo per aprire il portone dell’hangar; gli altri seguirono il capo verso la navicella. Erano appena a metà strada quando l’Ascension – così si chiamava – si attivò. Rapida come le migliori navette del tardo XXVI secolo, si alzò in volo di qualche metro e rivolse i phaser anteriori contro i fuorilegge.
   «Giù le armi e arrendetevi!» ordinò una voce da dentro. Sebbene fosse un po’ deformata dall’altoparlante, Graush la riconobbe. Era Raav.
   «Schifoso rettile! Dovevo sbatterti su quel pianeta con gli altri!» ringhiò il Letheano.
   «Eh già, ma non l’hai fatto. Ora sbrigati a fare come ti ho detto. Sbrigatevi tutti, o giuro che farò un bel buco in quella parete che avete alle spalle!» minacciò il Gorn.
   Mugugnando insulti, i pirati gettarono a terra le armi. Anche quello che era andato alla consolle si riunì al gruppo, per timore di una rappresaglia. Nel frattempo però il portone esterno dell’hangar si era sollevato, lasciando filtrare la luce intensa della stella. A trattenere l’atmosfera restava il campo di forza.
   «Senti, magari possiamo accordarci» disse Graush, nell’estremo tentativo di sfuggire ai federali... e ancor più allo Spettro. Era così determinato a non farsi catturare che, di tutto il suo gruppo, era l’unico a non aver gettato l’arma. «Dimmi quel che vuoi!» propose.
   «Ritrovare i Proto-Umanoidi, ecco quel che voglio» rispose Raav. «E sarà più facile coi federali al comando, piuttosto che con te».
   «I federali! Ormai saranno morti» sbuffò il Letheano, augurandosi che fosse vero.
   «Ti sbagli ancora» disse una voce alle sue spalle. «Li stiamo reimbarcando in questo momento. Stanno quasi tutti bene – non certo grazie a voi – e ci aiuteranno a domare le ultime sacche di resistenza».
   Graush riconobbe la voce e si girò lentamente, trovandosi davanti Ki’Lau. Lo Xaheano impugnava un disgregatore Breen, strappato a uno dei pirati nel corso della battaglia. Armi di quel genere erano fatte solo per uccidere, essendo sprovviste della modalità stordimento. Lui però era sempre riuscito a colpire i pirati in punti non letali, fino a quel momento.
   «Ma sentilo, il grand’uomo! Ti sei fatto soffiare la nave e poi ti sei nascosto mentre i tuoi sottoposti la riconquistavano» lo accusò il Letheano, stringendo ancora il phaser. «Chissà quanti sono morti, a causa della tua incompetenza!».
   Un tempo queste accuse avrebbero incrinato l’autostima di Ki’Lau. Ma dopo otto anni di servizio sulla Keter, di cui tre di Guerra Civile, lo Xaheano non era più così fragile. «Mi sono fatto strada in mezzo alla battaglia per te, Graush» rivendicò, avvicinandosi mentre lo teneva sotto tiro. «Sei stato un pazzo a organizzare questa rivolta. E ancora più pazzo a tentare la fuga in una galassia semisconosciuta. Io ho i miei limiti, ma almeno c’è una cosa che non rimpiangerò. Non ti lascerò andare in giro a fare altri danni».
   «Sveglia, tonto! La guerra è finita e l’abbiamo persa!» ringhiò Graush, chiedendosi perché nessuno accettasse l’evidenza. «Nessun miracolo ci ridarà ciò che abbiamo perduto. A questo punto non resta che pensare a noi stessi».
   «Questo è ciò che l’Unione vuol farci credere. È così che funzionano le dittature... ti fanno credere di aver già perso» disse Ki’Lau. «Mi spiace che tu ti sia arreso. Ma io continuerò a combattere, finché esisterà una sola nave della Flotta Stellare!».
   Erano uno di fronte all’altro, a cinque o sei metri di distanza. Entrambi impugnavano ancora la propria arma, pur tenendola bassa. Avevano preso le loro decisioni, di segno opposto, e sarebbero morti prima di abbandonarle. La luce solare che filtrava dal campo di forza riverberava su di loro, illuminando un fianco e lasciando l’altro in ombra. Per lunghi secondi rimasero immobili, nel silenzio più completo. Si fissarono come in una gara di volontà, occhi rossi contro occhi blu. Infine si mossero, nel medesimo istante. Levarono le armi e fecero fuoco, mirando al cuore.
   Ki’Lau fu di una frazione di secondo più rapido: il suo raggio colpì l’avversario in pieno petto e lo disintegrò. Mentre si dissolveva con un urlo lacerante, Graush sparò a sua volta. Poiché il suo phaser non era ancora ben puntato, il raggio letale ronzò a pochi centimetri dal federale e colpì la paratia alle sue spalle. Gli altri pirati assistettero in silenzio a quella resa dei conti e ne accettarono il verdetto. Del resto erano ancora sotto tiro della navetta di Raav e avevano visto che gli avversari non minacciavano a vuoto.
   «Mi spiace per il vostro capo e anche per voi» disse Ki’Lau, leggermente ansante per l’emozione. «Eravate parte di qualcosa di più grande e potevate farcela assieme a noi, ma ora non più. In nome della Flotta Stellare, vi dichiaro in arresto».
 
   Un’ora dopo i combattimenti erano finiti e tutti i pirati ancora in vita erano sotto custodia. L’equipaggio dei turni Alfa e Beta era di nuovo a bordo. Molti erano in infermeria o riposavano nei loro alloggi, stremati dalle lunghe ore trascorse a lottare contro gli elementi. Altri, che pure abbisognavano di riposo, avevano ripreso servizio per l’urgenza della situazione. La nave infatti aveva subito danni, anche se fortunatamente non c’era nulla d’irreparabile. Gli ingegneri avevano restituito il pieno controllo a Terry, che ora li aiutava nelle riparazioni. Le tute a Occultamento Sfasato erano di nuovo vigilate nel laboratorio cibernetico. La plancia infine era stata ripulita dal tetracloruro di carbonio e stava riprendendo la normale attività.
   «Mi assumo tutte le responsabilità dell’accaduto, Capitano» disse Ki’Lau, a rapporto da Hod. «Ci tengo solo a dire che i miei ufficiali hanno reagito con grande professionalità all’emergenza. Per non parlare di Terry, che ha diretto i nostri sforzi da dietro le quinte».
   «Non lascerò che lei si prenda la colpa, Tenente Comandante» disse però il Capitano. «Quella la condividiamo tutti, me compresa, per non aver tenuto i pirati sotto più stretta sorveglianza. Per quanto mi riguarda lei ha agito in modo consono alla situazione. E ora la nostra missione può riprendere!» si rianimò. «Dica a quelli del suo turno che potete andare a riposare. Ci pensiamo noi a sistemare la nave. Quando ripartiremo, tra poche ore, andremo dritti a Kelva. Stavolta niente ci fermerà!».
   L’Elaysiana aveva appena pronunciato queste parole che la Keter sussultò. «Allarme Rosso, capitano sul ponte!» la chiamò Norrin.
   Hod lasciò subito il suo ufficio, seguita da Ki’Lau. Trovarono una plancia in piena emergenza.
   «Abbiamo visite, quello era un colpo d’avvertimento a prua» riferì il Comandante. «Ho alzato gli scudi, ma non sono al massimo».
   «Sono sbucati dal nulla, credo che abbiano mascherato la traccia di curvatura» aggiunse Zafreen, che aveva appena ripreso la postazione sensori.
   «Insomma, di chi state parlando?» chiese Hod, preparandosi al peggio. Dai rapporti dell’Enterprise sapeva che ad Andromeda non mancavano le specie bellicose.
   «Eccoli» disse l’Orioniana, inquadrando gli aggressori. Erano due grandi astronavi a forma di chiodo, con i motori posizionati sulla testa a mezzaluna. «Ci chiamano, solo audio».
   «Sentiamoli».
   La plancia fu invasa da suoni stridenti, così sgradevoli e inquietanti da far accapponare la pelle. Fortunatamente era una lingua conosciuta. Il traduttore simultaneo si attivò, rendendola comprensibile: «Alieni, avete invaso il nostro spazio. Preparatevi all’abbordaggio. Non opponete resistenza o subirete dure conseguenze».
   «Non abbiamo intenzioni ostili» disse subito Hod. «Ci spiace aver violato i vostri confini, ma era necessario. Stiamo cercando i Kelvani».
   «Li avete trovati» rispose la fredda voce del traduttore, coprendo lo stridio alieno. «Questa è la Luce di Kelva, nave ammiraglia dell’Impero Kelvano. E voi siete nostri prigionieri»
 

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Capitolo 10
*** Arbitri della contesa ***


-Capitolo 9: Arbitri della contesa
 
   All’affermazione del Kelvano seguì un silenzio teso. La Keter non era nelle condizioni ottimali per combattere, e d’altro canto Hod non voleva affatto ingaggiare uno scontro con le uniche guide capaci di condurli dai Proto-Umanoidi. «No... questa situazione si risolverà con la diplomazia, o non si risolverà affatto» pensò il Capitano. Dopo di che si schiarì la voce.
   «Scusi, non ci siamo ancora presentati» disse l’Elaysiana. «Sono il Capitano Hod dell’USS Keter, al servizio della Flotta Stellare. Siamo la prima nave federale a raggiungere Andromeda dai tempi dell’Enterprise del Capitano Chase. Speravamo che non aveste dimenticato questi nomi, né l’alleanza che ci permise di sconfiggere la Scourge».
   A queste parole seguì un lungo silenzio. Finalmente la voce del Kelvano si fece di nuovo sentire. «Commutate la trasmissione su un canale audio-video» ordinò.
   Detto fatto, i Kelvani apparvero sullo schermo. Come tutti i popoli nativi di Andromeda, non erano umanoidi. Somigliavano piuttosto a calamari, alti quattro o cinque metri, con la pelle viscida color grigio scuro. Avevano quattro enormi occhi bulbosi, posti in modo equidistante attorno al corpo, che gli davano una visione a 360º. Ogni Kelvano aveva dieci tentacoli, ciascuno dei quali si divideva a sua volta in dieci nella parte terminale, per un totale di cento appendici. E i loro cervelli avevano una tale coordinazione motoria da permettere a ciascun arto di compiere simultaneamente un’operazione diversa.
   «Sono il Capitano Eshmun» si presentò uno degli alieni, facendosi avanti. «Non abbiamo dimenticato l’Enterprise, né il Capitano Chase. Ma è passato molto tempo da quando lasciarono la nostra galassia. Avevano promesso di tornare presto; una promessa non mantenuta».
   «Non per nostra volontà!» intervenne Terry, facendosi avanti. «Il lungo silenzio dipende dal fatto che la barriera d’interferenze subspaziali che avvolge la nostra galassia si è rafforzata negli ultimi tempi. Crediamo che sia una fluttuazione naturale, ma purtroppo ci ha impedito di tornare da voi... finora».
   «E lei sarebbe?» fece il Kelvano, sospettoso.
   «Sono Terry, l’Intelligenza Artificiale dell’Enterprise. Se consultate il vostro database, mi riconoscerete. Con noi ci sono altri testimoni di quel viaggio memorabile» disse la proiezione isomorfa, che intanto li stava convocando in plancia.
   «Terry... sì, il suo nome non mi è nuovo» confermò Eshmun. «Ma mi risulta che lei sia integrata nei sistemi dell’Enterprise. Che ci fa su un’altra nave? Una nave che, per giunta, è così diversa da farci pensare che non appartenga alla Flotta Stellare» insinuò.
   «La Keter è un prototipo sperimentale, dallo scafo in neutronio che la differenzia dalle altre navi della Flotta» rispose prontamente l’IA. «Quanto a me, sono stata disconnessa dall’Enterprise anni fa. Non pensavo che avrei ripreso servizio su una nave stellare... ma le circostanze l’hanno imposto».
   «Tutto ciò è difficile da credere. Le probabilità di un inganno superano, a mio avviso, quelle che la vostra testimonianza sia veritiera» avvertì il Kelvano.
   «Allora vi dimostreremo la nostra sincerità» promise Hod. «Tanto per cominciare abbiamo messaggi da parte dell’Ammiraglio Chase. Ve li inviamo» disse, accennando a Zafreen di trasmettere. «Oltre ai saluti dell’Ammiraglio, troverete anche molti dati raccolti dall’Enterprise nella sua visita precedente. Questo dimostra che siamo della Flotta Stellare».
   «Esamineremo accuratamente quei dati» promise Eshmun. Si poteva essere certi che lo avrebbero fatto, perché i Kelvani erano noti per mantenere la parola, oltre che per la precisione quasi maniacale con cui s’informavano. «Tuttavia trovo strano che Chase non sia venuto di persona, e più strano ancora che non abbia designato l’Enterprise per questo viaggio» aggiunse il Kelvano.
   «L’Ammiraglio è stato trattenuto da gravi questioni» spiegò Hod. «Quanto all’Enterprise... mi duole informarvi che è stata distrutta». Era incredibile quanto le facesse ancora male pensarci.
   Il Kelvano indietreggiò e parve confabulare con i suoi ufficiali. Di lì a poco si fece di nuovo in avanti e riprese la parola. «Qual è il motivo della vostra visita?» chiese.
   «Lo scopo è duplice» rispose l’Elaysiana. «In primo luogo vogliamo riallacciare i contatti con voi. A questo proposito speravamo di poter incontrare il Consigliere Fanior, se è ancora in vita». Sperò che lo fosse, perché Fanior era il loro principale amico fra i Kelvani. Era nato nell’unica colonia kelvana nella Via Lattea, aveva viaggiato sull’Enterprise alla ricerca del suo popolo e infine aveva deciso di rimanere con esso.
   «Egli è ancora tra noi» confermò Eshmun. «Ma ora ha il titolo di Cancelliere di Kelva, la nostra somma autorità. Non è facile avere un’udienza con lui».
   «Vi prego di farcela avere, perché la nostra missione ha anche un altro scopo, di grande urgenza» disse Hod.
   «Quale?».
   Il Capitano esitò, perché non le andava di rivelare ai Kelvani la Guerra Civile; non prima di avere la garanzia di un colloquio con Fanior. Ma la loro missione era davvero urgente e non poteva nasconderlo. «Dobbiamo ritrovare i Proto-Umanoidi, affinché facciano da arbitri di una nostra contesa» rispose eufemisticamente.
   «I Proto-Umanoidi non s’immischiano nelle contese dei loro figli; dovreste saperlo» fu la temuta risposta.
   «Questa contesa non è come le altre. E in ogni caso, spetta a loro opporci un rifiuto, non a voi» rivendicò l’Elaysiana. «Tutto ciò che vi chiediamo è d’indirizzarci da loro. Se lo farete, abbandoneremo il vostro spazio senza infastidirvi più» propose.
   «Credevo che voleste parlare con Fanior».
   «Se può essere fatto in tempi ragionevoli sì, altrimenti...».
   «Non siete voi a decidere» disse bruscamente il Kelvano. «La vostra nave ha invaso il nostro spazio e poiché la vostra identità deve ancora essere provata, vi ordino di arrendervi».
   Hod scambiò un’occhiata con Terry e Norrin, che le fecero segno di no. Il Capitano stesso non voleva cedere, perché non c’erano garanzie che avrebbero riavuto la nave. Ma le circostanze erano contro di loro e l’unico modo per uscirne sembrava correre l’enorme rischio di fidarsi. Ah, la fiducia! Dopo tanti tradimenti, il Capitano aveva quasi scordato che cosa fosse. Ma i Kelvani avevano il senso dell’onore, certo più dei Pacificatori e dei Voth. Quindi non restava che fare quel salto nel vuoto.
   «Mi arrenderò a tre sole condizioni» disse Hod. «Primo: io e il mio equipaggio dobbiamo essere trattati dignitosamente. Secondo: lei e i suoi ufficiali esaminerete con occhio obiettivo i nostri dati. Terzo: mi procurerete in ogni caso un incontro con Fanior in tempi ragionevoli, e con ciò intendo dire pochi giorni».
   «Non è nostra abitudine piegarci alle condizioni degli stranieri» avvertì Eshmun.
   «Allora preparatevi a combattere!» ribatté Hod, esaurita la pazienza. «Ma sappiate che questa nave è abbastanza potente da distruggere almeno una delle vostre navi... la sua, magari» aggiunse in tono di sfida.
   «Mi sta minacciando?».
   «No, la richiamo a osservare le vostre stesse leggi e a onorare l’alleanza che ci univa!» ribatté Hod.
   In quel momento Jaylah e Raav entrarono in plancia. Terry li aveva richiamati in quanto anche loro erano stati ad Andromeda, sebbene la mezza Andoriana fosse troppo piccola per ricordarlo. «Benvenuti» li accolse il Capitano. «Eshmun, le presento Jaylah Chase, figlia dell’Ammiraglio, e Raav, un altro veterano dell’Enterprise. Dovrebbero essere nel vostro database».
   «Vi porto i saluti di mio padre» esordì la mezza Andoriana. «Un tempo lui vi aiutò a sconfiggere la Scourge, mettendo a repentaglio la sua nave. Oggi io non vi chiedo altro che un colloquio con Fanior e un’indicazione per ritrovare i Proto-Umanoidi. Poiché siete un popolo giusto, sono certa che non ce li negherete». Mentre parlava esibì un grande medaglione argenteo.
   «Quello cos’è?» chiese Eshmun.
   «Il medaglione che Talat, leader dei Proto-Umanoidi, donò a mio padre come segno di riconoscimento» rispose Jaylah.
   A quel punto un altro Kelvano si fece avanti e prese la parola. A giudicare da come fremettero i tentacoli degli altri, il suo intervento era inatteso. «Sono il Tenente Tashu, figlio di Fanior, e credo che questi alieni dicano il vero» esordì. «Chiedo rispettosamente al Capitano Eshmun di accettare le loro richieste. Mi faccio garante della loro onestà con la mia vita. Se essi mentono, che io riceva la loro stessa punizione!» proclamò.
   I Kelvani erano una specie priva d’emozioni, a meno che non usassero le loro facoltà metamorfiche per assumere forma umanoide. Eppure l’affermazione di Tashu dovette colpire i suoi simili, perché i movimenti dei loro tentacoli si arrestarono. Per qualche secondo rimasero immobili, in attesa che il loro Capitano reagisse.
   «Molto bene» cedette Eshmun. «Tashu, lei andrà sulla Keter con una squadra e terrà gli alieni sotto sorveglianza. Quanto a voi» disse rivolgendosi ai federali «ci seguirete fino a Kelva, dove avrete l’incontro richiesto. Adeguate rotta e velocità alle nostre e non tentate in alcun modo di cambiarle, o lo considereremo un atto ostile» avvertì.
   «Siamo nel bel mezzo di alcuni interventi, dopo il lungo viaggio dalla Via Lattea. Ci occorrono sei ore prima di poter partire» disse Hod. Non accennò alla ribellione dei pirati che era quasi costata la vita a lei e all’equipaggio.
   «Dunque avrete sei ore; non un minuto di più» concesse Eshmun.
 
   Di lì a poco la Keter accolse Tashu e la sua squadra. Ci fu un attimo di tensione quando la nave federale dovette abbassare gli scudi per consentire il teletrasporto. Ma i Kelvani furono di parola e non ne approfittarono per attaccare. Le loro squadre si teletrasportarono in plancia, in sala macchine e nell’hangar. Dato che gli interni della nave erano angusti per la loro stazza, i Kelvani ricorsero anche stavolta alle loro capacità metamorfiche. Quando apparvero sulla Keter erano già in forma umanoide.
   «Ben arrivati» li accolse Hod. «Il Tenente Tashu...?».
   «Sono io» si fece riconoscere l’interessato. Parlava in perfetto standard, senza bisogno di traduttore. Aveva preso infatti l’aspetto di un giovane Umano, alto e dai capelli scuri. Indossava una tuta arancione, stretta in vita da una cintura nera a cui era fissato un congegno metallico. I suoi soldati avevano abiti ed equipaggiamento simile; l’unica differenza era che le donne vestivano di azzurro.
   «Ah, il vostro Trasmutatore» riconobbe Terry, accennando alla cintura. «L’ho visto in azione, l’altra volta».
   «Spero che non le capiti di nuovo» disse Tashu. Il Trasmutatore Kelvano era una delle più stupefacenti – e pericolose – invenzioni di quel popolo ingegnoso. Le sue specifiche erano top secret, ma con ogni probabilità era un misto di replicatore e teletrasporto. Poteva prosciugare una persona di tutti i liquidi e scindere le sostanze chimiche del suo corpo, compattandole in un dodecaedro spugnoso, tanto piccolo da stare in una mano. Una persona così trasformata poteva essere riportata alla normalità, a patto che il poliedro non fosse schiacciato o sfarinato; in quel caso la vittima era perduta. Poiché tutti i Kelvani erano equipaggiati con quei dispositivi, ecco che nessuno avrebbe osato attaccarli.
   «Non ce ne sarà bisogno» promise Hod. «Qui abbiamo tutti interesse a evitare incidenti. Siete liberi di visitare la nave e parlare con l’equipaggio, così constaterete che abbiamo detto il vero» disse, rivolta a tutti i visitatori.
   «Ne sono già convinto, ma grazie comunque» disse Tashu. «Ho l’ordine di tenervi sotto controllo, ragion per cui i miei soldati presidieranno certe zone della nave. Tuttavia non voglio dare ordini al posto suo, né forzare i tempi dei vostri lavori» assicurò.
   «Lo apprezzo molto» disse il Capitano, un po’ rassicurata.
   Il Kelvano fece qualche passo, osservando la plancia. Si poteva star certi che la sua mente analitica la stava esaminando con la precisione di un sensore. «Che equipaggio eterogeneo. Riconosco alcune delle vostre specie, ma non tutte» commentò. I suoi occhi si fermarono su Terry e Raav. «Ecco due visi familiari. Vi riconosco dai nostri archivi storici e dai racconti di mio padre. Lui ha sempre creduto che un giorno sareste tornati» rivelò. Il suo sguardo passò poi a Jaylah, indugiando sul medaglione che portava al collo. «Lei invece era appena nata, quando l’Enterprise se ne andò» commentò.
   «E lei non era nato affatto» disse Jaylah, porgendogli la mano.
   Tashu esitò, ma poi riconobbe il gesto di saluto e gliela strinse. «Molto onorato» disse, con la fredda educazione che caratterizzava i Kelvani.
   «I miei genitori mi hanno parlato di suo padre» disse la mezza Andoriana. «Lo consideravano un amico e sarebbero venuti di persona, se avessero potuto. Sua madre, invece?».
   «Si chiama Berith ed è di qui. Io sono nato tre anni dopo la partenza dell’Enterprise» spiegò Tashu. «A proposito... mi dolgo che quella nave sia stata distrutta. Posso sapere le circostanze in cui ciò è avvenuto?».
   «Venga, ne parleremo in sala tattica» disse il Capitano, un po’ adombrata. Prima di lasciare la plancia si rivolse agli ufficiali: «Continuate i lavori, è essenziale che siano finiti in tempo. Avvertitemi quando potremo muoverci».
 
   Tashu sedette al tavolo tattico assieme a Hod, Terry e Jaylah. Il Capitano lo squadrò per qualche attimo, finché decise che doveva fidarsi appieno di lui. «Soddisferemo la sua curiosità, ma prima le chiedo di dirci qualcosa riguardo Andromeda. Siete i primi che incontriamo da quando siamo entrati in questa galassia. Cos’è successo in questi anni?» volle sapere.
   «Abbiamo dedicato i nostri sforzi alla ricostruzione, naturalmente» rispose il Kelvano. «Sono stati anni d’intenso lavoro, ma appena sufficienti a porre le basi per la rinascita della nostra civiltà».
   «La Coalizione esiste ancora?».
   «Sì, anche se più di nome che di fatto» disse Tashu. «Nei primi tempi è stata essenziale per prestare soccorso ai popoli più colpiti. Man mano che la situazione migliorava, i rapporti si sono diradati. Alcune specie l’hanno abbandonata formalmente, ritenendo di non averne più bisogno. In ogni caso non ci sono state guerre con gli ex membri. In questo siamo favoriti dal fatto che Andromeda sia più grande, e al tempo stesso meno popolosa, della vostra galassia. Per adesso ci sono spazio e risorse per tutti. In futuro... chissà. Personalmente spero che la pace duri; c’è ancora molto da fare».
   «E i Proto-Umanoidi?» chiese il Capitano.
   Il Kelvano la fissò brevemente, mentre una ruga si disegnava sulla sua fronte. «È chiaro che siete interessati più a loro che a noi, ma vi risponderò ugualmente» disse. «Sappiate innanzi tutto che i Proto-Umanoidi sono ancora governati da Talat, la vostra alleata ai tempi dell’Enterprise, il che dovrebbe essere un vantaggio. Tuttavia non hanno abbandonato il loro atteggiamento schivo. Dopo averci aiutati per qualche anno sono tornati a radunarsi in uno sciame d’astronavi, che si sposta da una stella all’altra. Non so se abbiano intenzione di sceglierne una per costruirci un’altra megastruttura. Se lo faranno, è probabile che agiscano con la ponderatezza che gli è propria. E ora, Capitano, le chiedo d’essere franca come lo sono stato io. Cosa vi sta succedendo, e cosa volete da loro?».
   Hod capì che era il momento di vuotare il sacco. Alternandosi con Terry e Jaylah rivelò le sciagure che avevano travolto l’Unione Galattica, anche se cercò di minimizzare l’effettiva portata delle distruzioni, per evitare che i Kelvani fossero tentati di approfittarne. Mise bene in chiaro che l’Unione era spalleggiata dai Voth e che fino ad allora era invincibile per chiunque, salvo i Proto-Umanoidi.
   Al termine del racconto Tashu era corrucciato, segno che la forma umana lo rendeva vulnerabile alle emozioni. Lasciò la sua sedia e passeggiò avanti e indietro, riflettendo. Infine si rivolse ai federali: «Per adesso terrò per me queste informazioni. Non vorrei che tipi come Eshmun si facessero venire strane idee. Quando incontrerete mio padre, però, ditegli tutto. Sono certo che lui vi aiuterà».
   «Sapete dove si trovano in questo momento i Proto-Umanoidi?» chiese Jaylah, giocherellando con il medaglione.
   «È un’informazione riservata, ma mio padre la conosce» rispose Tashu. «Abbiamo deciso di tenerci in contatto nel caso che la Scourge dovesse tornare. Calma, non è un’eventualità all’orizzonte» disse, prevenendo le domande. «Nondimeno siamo pronti all’evenienza. Tutte le specie della Coalizione sanno dove si trovano i Proto-Umanoidi, così da poterli avvertire subito in caso di necessità. Quindi mio padre potrà indirizzarvi facilmente da loro». Ciò detto, rimuginò per qualche secondo. «Naturalmente ciò non garantisce che loro accetteranno di aiutarvi» aggiunse.
 
   Le riparazioni della Keter furono completate nei tempi stabiliti. La nave federale si diresse quindi verso Kelva Primo, scortata dai due vascelli kelvani che l’affiancavano, pronti a colpire se avesse cercato di fuggire. Ma la fuga era ben lontana dai pensieri dei federali, che anzi non vedevano l’ora di giungere a destinazione. Tashu e i suoi soldati rimasero a bordo per tutto il viaggio, ronzando attorno agli ufficiali e facendo sporadiche domande; ma nel complesso furono abbastanza discreti. Hod era convinta che le cose sarebbero state ben peggiori, se al posto del figlio di Fanior ci fosse stato qualcun altro.
   Il terzo giorno raggiunsero Kelva Primo. Era un pianeta roccioso più grande della Terra, ma privo di satelliti naturali. Per la maggior parte era desertico; solo qua e là spiccavano piccoli mari dall’elevata salinità. Le terre ocra e brune erano screziate di blu.
   «Bentornati a Kelva» disse Tashu, quando il pianeta giganteggiò sullo schermo.
   «È come lo ricordavo, tranne quel blu» disse Terry.
   «Sono le foreste di Sashira, un fiore cristallino a base di silice» spiegò il Kelvano. «La Scourge le aveva distrutte, ma noi abbiamo conservato degli esemplari e li abbiamo reintrodotti. Lo stesso vale per molte altre specie, sia vegetali che animali. Purtroppo siamo riusciti a preservarne solo una piccola parte, tanto da farci dubitare che si possa ricostituire un ecosistema capace di sorreggersi senza i nostri continui interventi» aggiunse malinconico.
   «I Kelvani c’inviano le coordinate orbitali» disse Zafreen.
   «Ricevute, mi porto in posizione» confermò Vrel. «Certo che i Kelvani continuano a marcarci stretti» commentò. Le due astronavi avevano affiancato la Keter per tutto il viaggio e anche ora le stavano appresso.
   «È il regolamento, ma non temete» disse Tashu. «I miei superiori hanno esaminato le vostre prove e le hanno considerate sufficienti. Incontrerete mio padre quanto prima».
   La Keter si pose in orbita geostazionaria sopra la capitale, che sorgeva nei pressi di un lago, al centro di una zona rimboschita. Osservandola sullo schermo, Terry notò che la città si era molto ampliata rispetto ai pochi edifici che ricordava; ma certo era ben lontana dai fasti dell’antico Impero Kelvano. Come aveva detto Tashu, quegli anni di duro lavoro erano appena bastati a porre le fondamenta della rinascita. Nello spazio però orbitava già un cantiere, dal quale erano uscite le due navi che li scortavano; e un terzo scafo era in costruzione.
   «Ci chiamano dalla capitale» riferì Zafreen. «Il Cancelliere Fanior è onorato di ricevere i rappresentanti dell’Unione Galattica».
   Hod fece un’espressione sofferta nel sentir questo. Naturalmente Fanior non era al corrente di ciò che avevano detto al figlio, ovvero che l’Unione era diventata loro nemica. Ma stava per scoprirlo. Di lì a un minuto il Capitano si teletrasportò alle coordinate indicate, assieme a Terry e Jaylah. Norrin rimase al comando della Keter, con Tashu che faceva un po’ da ospite e un po’ da sorvegliante.
   «Pensa che ci vorrà molto?» chiese l’Hirogeno, sapendo che ogni ora persa affrettava la caduta della Federazione.
   «Credo di no» rispose il Kelvano, che ormai conosceva tutti gli ufficiali superiori. «La mia gente decide in fretta, e poi le nostre navi hanno già inviato un rapporto preliminare. Pazientate ancora un po’ e avrete ciò per cui siete venuti».
 
   Le tre federali si ritrovarono in una sala molto spaziosa, come c’era da aspettarsi, date le dimensioni dei Kelvani nel loro aspetto naturale. La parete di fronte era in gran parte occupata da una finestra panoramica, da cui la vista spaziava sui cantieri: la capitale era infatti in piena espansione. Più lontano vi era il lago un tempo colmato dalla Scourge, una grigia melma di naniti che consumavano ogni materia organica; adesso era colmo d’acqua cristallina. Davanti al finestrone c’erano un tavolo con delle sedie d’aspetto così ordinario che stonavano in quel contesto alieno. Terry riconobbe che venivano dall’Enterprise: erano parte dell’arredo che avevano sbarcato quando la capitale kelvana faceva loro da base. La tavola era imbandita per un pasto leggero. E seduto a capotavola, intento ad aspettarli, c’era un viso familiare.
   «Benvenute a Kelva, mie gentili ospiti. O dovrei dire bentornate» esordì Fanior, alzandosi cortesemente a riceverle. Il Kelvano aveva assunto forma umana per facilitare il dialogo. Il suo aspetto rifletteva l’età più avanzata, ma era lui, senza dubbio. La prima a stringergli la mano fu Terry, l’unica che l’aveva effettivamente conosciuto.
   «Salute a lei, Cancelliere. La trovo bene» disse la proiezione isomorfa.
   «Lei mi trova bene? E che dovrei dire io? Non è invecchiata di un giorno» disse Fanior, osservando con una punta d’invidia il suo viso sempre giovane. «Sapevo che sareste tornati, anche se speravo di non dover attendere tanto» disse.
   «Siamo molto spiacenti, ma la Barriera Galattica...» cominciò Terry.
   «Lo so, ho letto il rapporto di mio figlio» l’arrestò Fanior. «Non dovete scusarvi, sono state le circostanze avverse a separarci». Così dicendo passò a ricevere il Capitano. «Capitano Hod... lei era sull’Enterprise, se ho ben capito».
   «All’epoca ero un’adolescente, la figlia di un ingegnere» confermò l’Elaysiana, stringendogli la mano. «Ma non ho dimenticato quei giorni».
   «Le mie congratulazioni. Se l’Ammiraglio Chase l’ha designata per guidare questa missione, vuol dire che la tiene in grande stima. Dunque io farò lo stesso» promise il Kelvano. Ciò detto venne alla terza e ultima ospite.
   «Jaylah... ti ho vista quand’eri appena nata» disse con una punta d’emozione, certo dovuta alla forma umana che aveva assunto. «E anche...».
   «... da adulta, sì, durante la mia breve incursione temporale» confermò la mezza Andoriana. «Mi spiace d’essermene dovuta andare così di fretta. Ora però le circostanze sono diverse. Abbiamo molto di cui parlare».
   «Sì, molto» annuì Fanior. Il suo sguardo indugiò sul medaglione che Jaylah portava al collo. «Vi prego di scusare i modi bruschi del Capitano Eshmun, ma stava solo seguendo il regolamento. Non potevamo rischiare che qualche imbroglione si spacciasse per voi».
   «Nessun problema, Cancelliere» assicurò Hod, lieta che i toni fossero così distesi. «Congratulazioni per la vostra città; è incredibile quanto sia cresciuta».
   «È solo una pallida ombra della vecchia capitale, ma sì, ne siamo fieri» confermò il Kelvano. «Ma sedetevi, prego. Ho fatto preparare un pasto nel vostro stile. Potremo mangiare in tranquillità e poi discutere».
   Malgrado l’urgenza, il Capitano non volle rifiutare. Così sedette, imitata dalle altre due. Il pranzo fu breve, ma gradevole. A parlare fu soprattutto Fanior, che riferì come procedeva la ricostruzione non solo a Kelva, ma anche sugli altri mondi con cui era in contatto.
   «Ah... era da tanto che non mangiavo così» disse il Kelvano a fine pasto. «Sapete, nella nostra forma naturale siamo praticamente privi di gusto. In effetti era da tempo che non assumevo questo aspetto» disse, guardandosi le mani. «È un’esperienza strana, ma piacevole».
   «Era tutto squisito, ma ora dobbiamo davvero parlarle. La situazione nella Via Lattea è molto cambiata in questi anni, e non per il meglio» disse Hod.
   «Sì, l’avevo immaginato» annuì il Kelvano. «Il rapporto di Eshmun, e anche quello di mio figlio, indicano che siete giunti con urgenza, ma avete rivelato poco sul vostro conto». Queste parole indicavano che Tashu aveva taciuto le notizie più gravi, certo per evitare che giungessero ad altre autorità oltre a suo padre. «Inoltre la vostra nave è colma di prigionieri; una situazione insolita. Quali che siano le vostre difficoltà, vi prego di parlarmene... com’è quell’espressione... “a cuore aperto”. Ciò che direte non uscirà da questa stanza, avete la mia parola».
   L’invito fu prontamente raccolto. Stavolta fu Terry a narrare, essendo quella che conosceva meglio Fanior e che quindi poteva prevedere le sue domande. Dovendo riferire la situazione, osò fornire più dettagli di quelli che avevano rivelato a Tashu. In particolare descrisse con dovizia di dettagli come gli Umani erano stati scacciati dalla Terra e le sempre maggiori persecuzioni che subivano. Fu una scelta deliberata, perché sapeva che i Kelvani erano molto territoriali. Perdere il loro pianeta d’origine a causa della Scourge era stato un colpo terribile, e appena era parso che la minaccia fosse sconfitta si erano affrettati a rioccuparlo. Dunque potevano simpatizzare con gli Umani, cacciati dal loro mondo natio.
   La strategia funzionò. Con il procedere della narrazione Fanior assunse un’aria sempre più indignata, finché al termine sprizzava sdegno da ogni poro. «Ciò che avete subito è intollerabile!» disse. «Sarebbe stato un trattamento crudele da parte di nemici; ma il fatto che ve lo abbia inflitto l’Unione è un abominio che grida vendetta!».
   «E non è tutto» rincarò Terry. «I Pacificatori hanno cominciato a sottomettere anche i mondi che non appartenevano all’Unione, ma che hanno la sfortuna di trovarsi entro i suoi confini o nelle immediate vicinanze. Compresa Kelva II» rivelò.
   Questo era il suo asso nella manica e sortì l’effetto voluto. Kelva II era l’unica colonia kelvana nella Via Lattea, fondata tre secoli prima. Pur avendo perso i contatti con la madrepatria, i coloni si consideravano ancora cittadini dell’Impero Kelvano. Fanior era nato lì e si era unito alla missione dell’Enterprise proprio nella speranza di riallacciare i contatti. Sebbene avesse infine deciso di non tornare in patria, ritenendosi più utile ad Andromeda, non aveva scordato il suo mondo natio. «Questo è un atto di guerra contro il popolo kelvano!» insorse, scattando in piedi. «I Pacificatori si rendono conto di cosa significa?!».
   «Credo di sì, ma non gli importa» disse Hod. «Finché hanno l’appoggio dei Voth, si credono invincibili. E mi duole ammettere che lo sono davvero. Li abbiamo combattuti con tutte le nostre forze e abbiamo perso. Ora i Progenitori sono la nostra ultima speranza».
   «Allora vi porterò da loro, senza perdere un solo minuto!» promise Fanior. La sua mano correva già al comunicatore quando Hod lo arrestò.
   «Solo un momento, Cancelliere. Come le è stato riferito, abbiamo dei prigionieri a bordo» disse il Capitano. «Si tratta dell’equipaggio di una nave corsara che ci ha aiutati a sfuggire ai Pacificatori e traversare la Barriera Galattica, ma è stata distrutta nella battaglia. Noi li abbiamo imbarcati, cercando d’integrarli nell’equipaggio. Purtroppo il risentimento per la perdita della loro nave era troppo forte, così hanno cercato d’impadronirsi della nostra. Se non fosse stato per pochi ufficiali coraggiosi, che hanno ribaltato la situazione, ci avrebbero abbandonati su quella luna oceanica presso cui ci avete trovati. Ora che ci apprestiamo a completare la missione, la loro presenza a bordo è per me fonte d’inquietudine. Se non chiedo troppo, vorrei che li tratteneste qui fino al termine del conflitto».
   «È una richiesta ragionevole. Posso senz’altro accontentarla» disse il Kelvano.
   «Però la prego di non sottoporli a una prigionia troppo dura» intervenne Jaylah. «È stata la disperazione a spingerli a tanto, dopo che per anni avevano dato il sangue in nostro favore. Io lo so; ho vissuto a lungo sulla loro nave».
   «Hai la stessa lealtà che contraddistingue i tuoi genitori» riconobbe Fanior, con un lieve accenno di sorriso. «E sia. I crimini di quei pirati m’indurrebbero a una maggiore asprezza, ma se è ciò che volete, prometto che la loro prigionia sarà dignitosa».
   Il Cancelliere contattò le sue forze di sicurezza e dette istruzioni per il trasferimento dei detenuti. La capitale kelvana aveva una prigione, non molto grande in verità; ma le sue celle erano adatte ai giganteschi calamari e quindi potevano contenere una grande quantità di umanoidi. Il trasferimento avvenne mediante il teletrasporto, senza che vi fossero incidenti. Quando Norrin la contattò per informarla che tutto era concluso, Hod si sentì sollevata. Un altro problema era stato risolto.
   Nel frattempo Jaylah contattò Jack, per informarlo della sorte del loro equipaggio. «Immaginavo qualcosa del genere» commentò l’Umano. «Hod non poteva rischiare di tenerli a bordo e anch’io non facevo i salti di gioia. Beh, almeno sopravvivranno. Torna presto, ti aspetto» la salutò. Oltre a lui e Raav, gli unici corsari rimasti a bordo erano quei pochi che gli erano rimasti fedeli durante l’ammutinamento, tanto da venire esiliati assieme ai federali. Si trattava di una decina di persone in tutto. Un misero resto, per un equipaggio che nei momenti migliori aveva superato le quattrocento unità. Ma era colpa dell’Esecutore, si disse lo Spettro; e la loro sfida era ancora aperta.
   Sistemata questa faccenda, il Cancelliere contattò la Luce di Kelva, capostipite della nuova flotta kelvana. «Fanior a Eshmun, si rende necessario scortare immediatamente la Keter dai Proto-Umanoidi. Sì, garantisco l’assoluta urgenza della missione. Verrò io stesso a bordo».
 
   Da quel momento, Fanior si mosse come un treno inarrestabile. Dati alcuni consigli a Hod, permise alle tre ospiti di tornare sulla Keter. Subito dopo si teletrasportò lui stesso sulla Luce di Kelva, assumendone il comando. Lasciata la nave gemella a difesa del pianeta, il vascello scortò la Keter fuori dall’orbita.
   «Trasmettete ai federali le coordinate dello Sciame e poi contattateli» ordinò Fanior, che una volta a bordo aveva ripreso il suo vero aspetto. «Bene, Capitano» disse quando la vide sullo schermo. «Avete le coordinate?».
   «Affermativo» rispose Hod.
   «Uhm... sono all’estremità opposta di Andromeda» notò Vrel dal timone.
   «Sì, i Proto-Umanoidi si tengono in quella zona, casomai i loro avversari Distruttori provassero a rientrare nella galassia» confermò il Kelvano.
   «È una distanza enorme, sono più di 200.000 anni luce» avvertì Vrel. «Dobbiamo usare il propulsore cronografico».
   «Avvertite Dib, inviategli le coordinate» ordinò il Capitano. Dopo di che si rivolse a Fanior: «Noi possiamo giungere rapidamente a destinazione, ma voi?».
   «La Luce di Kelva è equipaggiata con un innovativo sistema che ha le stesse proprietà del vostro propulsore» rivelò Fanior. «È frutto della nostra collaborazione coi Nacene. Come ricorderete, loro viaggiano attraverso un’altra dimensione, che chiamano Exosia».
   «La rete miceliare, già» ricordò Terry. «Non abbiamo più avuto occasione d’esplorarla».
   «E fate bene, perché è molto delicata. Un traffico intenso la deteriorerebbe» avvertì Fanior. «Ma per una volta la percorreremo. A presto; ci vediamo dall’altra parte della galassia».
   Mentre i federali si preparavano al balzo, altrettanto fecero i Kelvani. Furono questi ultimi a terminare per primi. «Guardate!» avvertì Zafreen, indicando lo schermo.
   La Luce di Kelva fu avvolta da fulmini azzurri che quasi ne nascosero lo scafo. Pochi attimi dopo la nave prese a girare come una trottola lungo il suo asse longitudinale; infine svanì in un lampo.
   «Wow, lo voglio anch’io il motore a spore!» commentò Vrel, con l’entusiasmo di un bambino che ha scoperto un nuovo, sorprendente giocattolo.
   «Per adesso accontentiamoci di quello che abbiamo» sorrise Hod. «Plancia a Dib, quando vuole».
   «Sono pronto» disse il Penumbrano, in posizione sul sedile cronografico rimesso a nuovo. «Balzo fra tre... due... uno...».
 
   Una singola stella gialla brillava nello spazio. Era un sole come tanti; simile a quello della Terra, o anche a quello che un tempo illuminava il mondo dei Proto-Umanoidi, prima che l’idrogeno si esaurisse facendolo diventare un’instabile gigante rossa. Era verso quel sole che le due navi si dirigevano affiancate.
   «Non rilevo alcuna presenza aliena» riferì Zafreen, incerta.
   «Questo non significa nulla. I Proto-Umanoidi possiedono un occultamento perfetto» disse Terry, che ricordava bene il loro immenso Sciame. La stella gialla s’ingrandì sullo schermo, man mano che le due navi si avvicinavano.
   «I Kelvani trasmettono un segnale di riconoscimento» avvertì l’Orioniana. «Lo ripetono ogni pochi secondi».
   «Avanti, so che ci siete...» mormorò Jaylah, fissando la stella sempre più grande. Lo schermo stava già filtrando la luce, che altrimenti sarebbe stata così intensa da accecarli.
   D’un tratto la visuale cambiò. Attorno alla stella c’erano ora tre sottili anelli, diversamente inclinati, che s’intersecavano. Era il genere di megastruttura che ci si poteva aspettare dai Proto-Umanoidi. In aggiunta vi era come una nube di polvere che avvolgeva la stella, diminuendone la luminosità.
   «Cosa stiamo osservando?» chiese Hod, pur avendone un’idea ben precisa.
   «Sono strutture artificiali, senza dubbio» disse Zafreen. «Gli anelli hanno l’ampiezza di un’Unità Astronomica».
   «La distanza che separa la Terra dal Sole» commentò Jack, anche lui in plancia. «I Progenitori sono proprio simili a noi».
   «Diciamo piuttosto che ci hanno fatti simili a loro» corresse Jaylah. La sua mano tornò a sfiorare il medaglione.
   «Quella nebbia...» fece Vrel.
   «Sono astronavi» confermò Zafreen. «Ogni puntino è un vascello chilometrico».
   «Ma quante sono?!» si sgomentò il timoniere.
   «Direi... circa settecento milioni» rispose l’addetta ai sensori, incredula. «Anche gli anelli sono composti di astronavi, collegate per restare in posizione. Ogni anello sono cento milioni di navi, quindi trecento milioni in tutto; sommate a quelle libere fanno un miliardo. Le giunzioni sono molto sottili... credo che volendo possano dividere in fretta le navi, per fuggire in caso di pericolo».
   «Hanno imparato dai loro errori» commentò Terry, ricordando come si erano rivelate vulnerabili le megastrutture rigide e inamovibili, come la Sfera di Dyson e il Cervello Matrioska.
   «Alcune navi convergono su di noi» proseguì Zafreen. «Quella di testa è in comunicazione coi Kelvani. Forse dovremmo intervenire» suggerì.
   «No, lasciamo che Fanior faccia le presentazioni» decise Hod. «I Progenitori sono abituati a parlare con lui. Quando saranno pronti, ci chiameranno».
   «Ci stanno anche sondando» aggiunse l’Orioniana.
   «Bene; non abbiamo nulla da nascondere».
   Passò circa mezz’ora, la più tesa e insopportabile delle loro vite. I vascelli dei Proto-Umanoidi avevano circondato i federali e i Kelvani. Erano grandi navi dalle forme ovoidali o a sigaro, ma alcune avevano forme più appiattite, quasi a disco volante. Al Capitano ricordarono l’astronave che aveva salvato gli Hadrosauri dall’estinzione, provocando tutto quel macello.
   «La nave di testa ci chiama» disse infine Zafreen.
   «Sullo schermo» ordinò Hod, con una strana calma. L’attimo dopo era a tu per tu con un Proto-Umanoide.
 
   L’alieno – ma si poteva chiamarlo così? – era di statura media, con la pelle beige e gli occhi nocciola; vestiva un’uniforme bianca. La testa calva era allungata all’indietro e presentava un lieve infossamento sulla sommità, dove le vene erano in evidenza. Gli occhi privi di sopracciglia erano infossati e tuttavia intelligenti; naso e orecchie parevano appena abbozzati. «Sono l’Ambasciatore Feref e vi porgo i saluti del Popolo» esordì, con voce lenta e profonda.
   Hod ricordò che era abitudine dei Proto-Umanoidi scegliere nomi palindromi, a esprimere la loro fede nella ciclicità delle cose. «E io sono il Capitano Hod della nave stellare Keter, della Federazione» rispose. «È bello rivedervi e constatare che la vostra civiltà rifiorisce. Tuttavia siamo qui per un grave motivo. La nostra società è dilaniata da un conflitto che ha rovinato tutti i nostri sforzi di coesistenza...».
   «Di questo non deve parlare a me. Il Cancelliere Fanior mi ha già informato che desiderate un’udienza presso l’Assemblea» la prevenne il Progenitore. «È un privilegio che non concediamo spesso. Ed è ancora più raro concederlo senza un adeguato periodo d’attesa e riflessione. Ma Fanior ha affermato che interi popoli saranno distrutti, se non si agisce in fretta. È così?».
   «Purtroppo sì. Siamo alle prese con una minaccia che non ha eguali nella nostra storia» disse l’Elaysiana.
   Queste parole colpirono Feref, che per qualche secondo rimase a capo chino, riflettendo. Ma ben presto rialzò la testa e parlò con decisione. «Vi abbiamo esaminati, verificando che siete federali, malgrado l’insolita configurazione della vostra nave. E non mi serve la parola di Fanior per riconoscerla, Terry» si rivolse all’IA. «Tutto ciò mi persuade della vostra sincerità. C’è un’ultima cosa che vorrei, come garanzia. Il medaglione che la Prima Delegata Talat vi diede quando lasciaste Andromeda».
   «Eccolo» disse Jaylah, sfilandoselo dal collo. «Come vuole che glielo... ahi!». Un sottile ago era uscito dal monile, perforandole il palmo della mano. Si trattava di una minuscola siringa, che prelevò un campione di sangue.
   «Abbiamo il campione genetico» disse una voce fuori campo sulla nave dei Progenitori.
   «Bene, imbarcatelo» ordinò Feref. L’attimo dopo il medaglione scomparve nel teletrasporto bianco e istantaneo dei Progenitori.
   «Scusate per il prelievo, ma era necessario. Restate in attesa» disse l’Ambasciatore, e chiuse il canale.
   «Tutto a posto?» si preoccupò Jack, prendendo la mano di Jaylah fra le sue.
   «Sì, è stata solo una piccola puntura. Già non la sento più» assicurò la mezza Andoriana. Tuttavia era contenta di aver rinunciato alle nanosonde che un tempo potenziavano il suo organismo. Non sapeva come avrebbero reagito i Proto-Umanoidi nel rilevarle.
   Trascorsero ancora dei minuti, infine i Progenitori richiamarono. «La prova è incontestabile. Il medaglione è quello appartenuto alla Prima Delegata e l’analisi genetica conferma che appartiene alla figlia di Chase e Neelah» disse l’Ambasciatore. «Con questa garanzia avrete la vostra udienza domani stesso. Seguiteci, adesso, e prendete posto nello Sciame. Vi daremo ulteriori istruzioni quando sarà il momento».
 
   La Keter seguì i vascelli dei Proto-Umanoidi e così fece anche la Luce di Kelva. I visitatori seguirono la rotta indicata, per non disturbare lo Sciame, rischiando pericolose collisioni. Le coordinate li portarono in profondità nella nube d’astronavi, il che poteva essere considerato un segno d’onore, ma era anche un modo per rendere difficile la fuga. Giunti in posizione, cominciò l’ultima attesa.
   Allora Fanior riprese forma umana e si teletrasportò sulla Keter, visitandola per la prima volta. Il Capitano gli presentò rapidamente gli ufficiali superiori. Dopo di che si riunirono in sala tattica, per pianificare l’indomani. A quella riunione parteciparono anche Juri, Jaylah e Jack, poiché erano fortemente coinvolti nella missione e al Capitano interessava il loro parere. Per prima cosa, Hod riferì a Fanior le parole dell’Ambasciatore.
   «Domani, eh? Bene, significa che hanno preso seriamente la faccenda» commentò il Kelvano. «Ora però dovete scegliere un rappresentante che si rivolga all’Assemblea per perorare la vostra causa. Lo avete già designato, vero?» indagò. Solo allora gli venne in mente che forse la scelta non era così ovvia.
   «Quando lasciammo Kronos, era scontato che mi sarei incaricata del compito» disse Hod. «Tuttavia, dopo attenta riflessione, credo che qui ci siano persone che potrebbero risultare più persuasive». Il suo sguardo indugiò su Terry e Juri, due tra gli elementi dalla parlantina più sciolta della nave.
   «Ne sono onorata, ma credo che debba essere un Organico a parlare a nome dei suoi simili che soffrono» disse l’IA, guardando l’Umano.
   «Io... non nego d’essere tentato e al tempo stesso terrorizzato» ammise Juri, fissandosi le dita intrecciate. «È una missione che deciderà la sorte dei nostri popoli. Voglio dire, è qualcosa di più grande di tutti noi. Nessuno, qui, può prevederne tutte le ramificazioni».
   «Tuttavia una scelta va fatta» lo pressò lo Spettro. «E dev’essere qualcuno che si trova in questa stanza».
   «Già; e ho un’idea al riguardo» disse Juri. I suoi occhi inquieti si appuntarono su Jaylah, presto imitati dagli altri. La mezza Andoriana si trovò al centro di una ragnatela di sguardi.
   «Non intendo ordinartelo» disse Hod a bassa voce. «Non lo ordinerò a nessuno; dev’essere una scelta volontaria. Voglio solo farti sapere che ti considero all’altezza del compito».
   Jaylah tacque a lungo, con la gola secca e la mente che vorticava per l’enormità dell’incarico. Possibile che fosse nata per quello... che fosse destinata a parlare in nome di tutte le specie angariate dall’Unione? Il terrore di fallire l’afferrò, spingendola quasi a rifiutare. Poi però Jack le prese la mano sotto il tavolo e gliela strinse. «Lo farò, se sarete con me» mormorò la mezza Andoriana, quasi stupendosi di udire la propria voce.
   «Sempre» confermò Jack, stringendole la mano con più forza.
   «Allora sì, parlerò all’Assemblea» disse Jaylah con più decisione. E così fu.
 
   Il giorno dopo, come promesso, i Proto-Umanoidi convocarono la delegazione federale a bordo della loro nave ammiraglia. Era un immenso vascello quasi perfettamente sferico, incastonato in uno degli anelli che circondavano la stella, come una gemma in una collana. Oltre a Jaylah, tra i federali vennero Hod, Terry, Juri e lo Spettro. Anche Fanior si aggregò alla delegazione, sempre in forma umana per praticità. Come in precedenza, la Keter restò sotto il comando di Norrin. Ma tutti coloro che erano vicini a Jaylah e dovevano rimanere l’abbracciarono prima che partisse, augurandole il meglio. Ormai la disciplina contava poco, dopo quello che avevano passato. Non era una squadra che partiva per una missione, ma una famiglia che sperava di riunirsi presto.
   Teletrasportati alle coordinate indicate, i federali e il Kelvano si trovarono in una sala di un bianco immacolato, con un tavolo e alcune sedie della stessa sostanza liscia e bianca. Capirono subito che si trattava di una sala d’aspetto. Un Proto-Umanoide era lì ad attenderli.
   «Benvenuti, graditi ospiti» li accolse. «L’Assemblea è già in seduta plenaria. La Delegata Talat sta annunciando l’ordine del giorno. Da un momento all’altro sarete chiamati a esporre la vostra richiesta» disse accennando a una porta monumentale, ancora chiusa. «Vi prego di seguire le istruzioni. Parlate quando sarete esortati a farlo e in modo chiaro, non interrompete i Delegati, siate pronti a rispondere alle domande... insomma, credo che il protocollo sia lo stesso in tutte le galassie» disse con un lieve sorriso. Dopo di che prese nota dei nomi e dei gradi di ciascuno degli ospiti, così da poterli presentare all’Assemblea. Infine restituì a Jaylah il medaglione di Talat. «La Prima Delegata ha detto che era un dono e quindi deve restare a lei» riferì.
   «Grazie» disse meccanicamente la mezza Andoriana. Lo prese per la catenella e se lo rimise al collo, accertandosi che il simbolo dell’uroboro fosse visibile. Infine si apprestò all’ultima, breve attesa. «Ci siamo» mormorò, accostandosi a Jack. «Ancora non mi sembra vero».
   «Credici» la esortò l’Umano. «Ma non lasciarti suggestionare da questi omini pelati. Dì le cose come stanno, con semplicità. E che la Forza sia con te!» disse, riprendendo un proverbio della Vecchia Terra.
   Finalmente il portone si aprì, lasciando entrare il clamore di molte voci, misto ad applausi. «È il momento» disse l’inserviente in tono sommesso.
   Jaylah respirò a fondo e si fece avanti, seguita dai compagni. Per l’occasione vestiva di nuovo l’uniforme nera e sobria da Agente Temporale, dato che quello era il suo grado presso la Flotta Stellare. Su di essa spiccava, argenteo, il medaglione di Talat. La mezza Andoriana si trovò su un’ampia balconata semicircolare, fatta dello stesso materiale bianco e tiepido che componeva tutte le superfici. Davanti a lei si apriva, nella sua echeggiante vastità, l’Alta Assemblea. E tutti gli sguardi erano fissi su di lei.
 
   Il salone era sferico, con la metà inferiore divisa in terrazzamenti su cui si assiepavano i Delegati. Erano mille in tutto: ognuno rappresentava un milione di astronavi. La luce pioveva dall’alto, riflettendosi su uno specchio d’acqua cristallina posto in fondo. La presenza di così tante persone faceva sì che il vapore acqueo emesso con il fiato si condensasse in nuvolette nella parte alta della sala. Se il sistema di controllo ambientale non avesse depurato l’aria, quelle nuvole si sarebbero addensate, trasformandosi in pioggia. Su un podio a metà altezza, là dove la circonferenza era massima, sedevano i tre Alti Delegati, le supreme autorità dei Proto-Umanoidi. E come avevano detto i Kelvani, la Prima Delegata era ancora Talat, colei che aveva collaborato con l’Enterprise contro la Scourge.
   «L’Alta Assemblea riconosce il Capitano Hod della nave federale Keter e i suoi ufficiali, nonché il Cancelliere Fanior di Kelva» echeggiò la voce dello speaker.
   Ci fu un lungo applauso, dopo di che Talat si alzò e prese la parola, rivolgendosi agli ospiti. «Il vostro ritorno è oltremodo gradito» esordì. Parlava a voce normale, senza microfoni in vista, ma qualche tecnologia inserita nelle balconate faceva sì che fosse udita chiaramente da tutti.
   «Tuttavia mi è stato riferito che nella Via Lattea si stanno verificando tragici eventi, e che siete qui per rivolgerci un appello» proseguì la Prima Delegata. «Come sapete, per antica tradizione noi non c’immischiamo nei contrasti tra i nostri figli. Tuttavia, dopo la sconfitta della Scourge, questa legge è stata rivista. Tocca all’Assemblea, ora, pronunciarsi democraticamente su questo argomento. Dunque chiedo che il vostro rappresentante designato si faccia avanti, per riferire quanto sta accadendo ed esporre le vostre richieste. Per venirvi incontro, i tempi della votazione saranno ridotti al minimo. Ma sarà la maggioranza a decidere, fosse anche per il disavanzo di un solo voto» avvertì. Dopo di che si fece indietro, risedendosi sul suo scranno.
   «Il rappresentante federale può prendere la parola» disse lo speaker.
   Un silenzio surreale calò sulla folta assemblea. Tutti fissavano la balconata con i federali, in attesa. «Coraggio!» sussurrò Jack all’orecchio di Jaylah.
   Con il cuore che le batteva forte, la mezza Andoriana si fece avanti, fino ad appoggiarsi con le mani sulla ringhiera. «I miei rispetti all’Assemblea e ai suoi delegati» esordì. «Sono Jaylah Chase, Agente Temporale della Flotta Stellare. Oggi però non parlo solo a nome della Flotta, ma di tutti i cittadini federali. Sono qui per testimoniare che il pianeta natale della specie umana, la Terra, è stato brutalmente occupato da un altro popolo, i Voth. Anche costoro rivendicano un’origine terrestre; ma sappiamo per certo che furono trasferiti al capo opposto della Via Lattea assai prima che divenissero senzienti, per salvarli dall’estinzione. E i responsabili di quest’atto, certo pietoso ma trasformatosi nella nostra condanna, siete voi».
   Un mormorio agitato percorse l’Assemblea e parve che alcuni Delegati volessero prendere la parola, ma Jaylah intendeva battere il ferro finché era caldo. «Gli Umani e le altre specie federali che convivevano sulla Terra sono stati deportati a forza su altri mondi. Gli oppositori sono stati rinchiusi in campi di concentramento. E il nostro patrimonio culturale è stato barbaramente distrutto» incalzò. «Ecco perché ora v’imploriamo d’intervenire come arbitri della contesa. Nella loro arroganza, i Voth si considerano la specie più antica e illustre, dunque rifiutano di sottoporsi al giudizio di quelle più giovani. Ma voi, che li avete creati, potete far valere la vostra autorità. Seguiteci nella Via Lattea, esigete di fare da arbitri... e poi decidete in base alla vostra coscienza. Se il verdetto fosse in nostro favore e i Voth rifiutassero di ottemperare, costringeteli a farlo! Dopotutto vi devono doppiamente la loro esistenza, perché foste voi a salvarli dall’estinzione, trapiantandoli nel Quadrante Delta».
   Poiché la mezza Andoriana aveva fatto una pausa, Talat prese la parola. «È una richiesta insolita, ma la prenderemo in considerazione» promise. «C’è altro che desidera sottoporre alla nostra attenzione?».
   «Oh, sì!» disse Jaylah, che era solo all’inizio. «La sorte della Terra sarebbe già abbastanza grave da giustificare il nostro appello. Ma la verità è che questo dramma impallidisce in confronto a una sciagura ben maggiore, che ha colpito tutta l’Unione. Mi riferisco, signori delegati, alla fine della nostra democrazia e all’instaurazione di un regime totalitario che perseguita molte specie, primi fra tutti gli Umani. La forza inesauribile del regime deriva dalla sua ideologia, inculcata ai cittadini con tecniche di propaganda che sfociano sempre più nel controllo mentale. E tale ideologia si basa su un presupposto razzista: la necessità di cancellare l’Umanità come specie, come cultura e come forma mentis».
   Jaylah non seppe mai quanto a lungo parlò, ma certo fu molto. Ai Proto-Umanoidi dovette riconoscere quantomeno la pazienza, visto che la stettero ad ascoltare senza interromperla. L’unica a intervenire fu Talat, che in più occasioni chiese dei chiarimenti. La mezza Andoriana riferì gli eventi degli ultimi anni, descrivendo l’inarrestabile scalata al potere di Rangda e l’instaurazione del suo regime. Mise bene in chiaro le responsabilità personali della Zakdorn, ma al tempo stesso spiegò che il vero avversario era l’ideologia dell’Unione.
   «In un certo senso, è peggio del Fronte Temporale e della Scourge» disse Jaylah. «Quelli ci avrebbero riservato una fine orribile; ma l’Unione ci riserva un orrore senza fine. La sua ideologia trasforma le persone normali in implacabili persecutori, perché consente loro di sfogare i propri istinti più perversi, pur mantenendo l’illusione di avere la superiorità morale. Noi ribelli siamo stati costantemente traditi dagli amici, dai parenti, dalle persone che amiamo. Nessun legame, nessuna promessa è abbastanza forte da resistere a quest’ideologia che si accanisce sugli Umani e su chiunque li difenda. E c’è ancora di peggio. Un anno fa abbiamo scoperto che gli Umani usciti dai Centri di Rieducazione sono stati sterilizzati a loro insaputa. Proprio così, signori delegati: il regime gli ha tolto la possibilità di procreare. E dopo un anno di affannose ricerche mediche, non siamo ancora riusciti a porvi rimedio. Temiamo che, nei prossimi anni, questa sterilizzazione forzata sia imposta anche al resto della popolazione. Se ciò accadrà, e se non troveremo in tempo la cura, la specie umana è condannata all’estinzione».
   Questa notizia sconvolse i Proto-Umanoidi più di ogni altra cosa. Certo dipendeva dal fatto che avevano creato innumerevoli specie e si erano affannati a preservarle. L’idea che ora una di queste fosse sterilizzata dalle altre andava contro tutto il loro credo, indignandoli nel profondo. Era come un affronto personale, una sfida alle loro fatiche. Udendo i commenti sdegnati, Jaylah sentì di aver fatto centro.
   Fu davvero un lungo discorso, il più appassionato che la mezza Andoriana avesse mai fatto. Vi riversò tutto il dolore accumulato in quegli anni, tanto che alla fine si sentì svuotata. Terminò con un ultimo, accorato appello. «Voi siete i nostri Progenitori; ci avete creati liberi, così che fossimo i vostri figli anziché vostri servi. Siamo consapevoli che l’incertezza del nostro destino è vostra volontà. Ma se siamo davvero apparentati, allora non potete restare indifferenti alla nostra sorte. C’è qualcosa di vostro in noi, e di conseguenza qualcosa di nostro in voi. Se ci lasciate perire, perderete anche una parte di voi stessi.
   Quando ci creaste, eoni fa, speravate che un giorno saremmo convissuti in pace. Purtroppo non è stato così: le specie umanoidi si sono spesso combattute all’ultimo sangue. La Federazione e poi l’Unione sono stati dei tentativi di superare le ostilità, realizzando il vostro antico sogno: una società in cui tutti avessero pari dignità. Per un po’ ha funzionato, ma poi tutto è stato avvelenato da quest’ideologia anti-Umana, fondata sul rancore e sulla vendetta tardiva. Ora ciò che resta del nostro sogno è una scintilla che, senza il vostro aiuto, si spegnerà sicuramente. Aiutateci a tenerla viva, perché se dovesse estinguersi, è probabile che non si riaccenda mai più. E allora sarebbe stato meglio se non ci aveste mai creati».
   Ciò detto Jaylah si ritirò, seguita dai suoi compagni. Tornarono nella sala d’attesa, dove l’inserviente li aveva aspettati. Dietro di loro le voci dei Delegati si stavano già levando, quando la porta si richiuse, insonorizzando la saletta. Allora Jack abbracciò la compagna, che gli posò la testa sulla spalla, sfinita dalla tensione nervosa. «Sei stata brava» le sussurrò l’Umano, carezzandole i capelli biondo platino. «Gliele hai cantate chiare. Ora sta a loro darsi una svegliata».
   «Potete tornare sulle vostre navi» disse l’inserviente. «Vi contatteremo non appena l’Assemblea avrà votato».
   «Quanto ci vorrà?» chiese Hod.
   «Difficile dirlo» ammise il Proto-Umanoide, grattandosi la testa calva. «Le vostre richieste sono state cospicue. L’Assemblea non deve decidere semplicemente se intervenire o meno, ma anche come farlo. Normalmente questo richiederebbe tempi lunghi, ma la Prima Delegata si è impegnata a snellire le procedure, data l’urgenza della crisi. Io credo... ma non posso garantirlo... che avrete la risposta entro qualche giorno».
   «Aspetteremo» disse il Capitano. «Hod a Keter, sei da teletrasportare».
 
   Passò un’intera settimana d’angoscia e tormento prima che i Proto-Umanoidi contattassero la Keter, invitando gli stessi ospiti dell’altra volta a presentarsi per udire il verdetto. Così avvenne, e una volta teletrasportati nella sala d’attesa i federali ritrovarono anche Fanior.
   «Bentornati» li accolse l’inserviente. «L’Assemblea vi riceverà a momenti».
   «Ma lei può anticiparci il verdetto?» chiese il Capitano.
   «Non ne sono informato» rivelò il Proto-Umanoide. «Pazientate ancora qualche minuto e lo saprete».
   «Sono stanco di aspettare!» protestò Jack. «Mentre voi discutete, la nostra gente muore!».
   «Non è certo lui a decidere» lo raffrenò Juri. «E comunque la decisione è già presa, devono solo comunicarcela».
   Di lì a poco il portone si aprì, e ancora una volta i federali e il Kelvano si trovarono sulla balconata, al cospetto dell’Assemblea. Il vasto anfiteatro era immerso nel silenzio, che fu rotto solo dalla voce dello speaker, quando annunciò gli ospiti.
   «Bentornati, signori» li accolse Talat. «Sono spiacente di avervi fatti attendere, ma dovete capire che la vostra richiesta ha scarsi precedenti nella nostra lunga storia. E per noi è più gravosa di quanto forse immaginiate. Significa tornare nella Via Lattea per la prima volta dopo millenni e combattere i nostri figli, cosa che ci siamo sempre sforzati d’evitare. D’altra parte è chiaro che le conseguenze dell’inazione sarebbero catastrofiche».
   Dopo una breve pausa, la Prima Delegata riprese con più energia. «Quest’Assemblea ha discusso il vostro appello ed è giunta a un accordo, ratificato per una manciata di voti. Raramente è capitato che un nostro giudizio fosse così polarizzato; ma sembra che il morbo della divisione rischi di contagiare anche noi. In ogni caso la decisione è presa e ad essa ci atterremo».
   I federali si sporsero dalla balaustra, pronti a udire le parole che li avrebbero salvati oppure annientati. Jaylah pensò che in caso di rifiuto potevano anche fare a meno di tornare nella Via Lattea, perché non avevano più niente laggiù.
   «La vostra richiesta è stata accolta... e respinta» proclamò Talat, enigmatica. 

 

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Capitolo 11
*** La resistenza è inutile ***


-Capitolo 10: La resistenza è inutile
 
   La luna frantumata Praxis incombeva sempre più grande nel cielo di Kronos, gettando gli abitanti nel panico e nella disperazione. Sul pianeta infatti si erano radunati esponenti di tutte le specie federali ancora libere e di molte altre i cui pianeti erano occupati. Ma anche i padroni di casa Klingon non riuscivano a tollerare quella morte, che appariva inutile e ingloriosa. A ogni secondo la luna si avvicinava nella sua orbita discendente e solo i Voth potevano rimetterla a posto. Se i federali ci avessero provato, le loro navi avrebbero dovuto allontanarsi dall’orbita e quindi dalla protezione delle piattaforme. Poi avrebbero dovuto posizionarsi attorno a Praxis e restare immobili mentre azionavano i raggi traenti, esponendosi al fuoco nemico. Sarebbe stato un massacro, tutti se ne rendevano conto. Così non restava che arrendersi incondizionatamente, come volevano i Voth. E toccava all’Ammiraglio Chase consegnare personalmente la dichiarazione di resa, per poi subire umiliazione e morte... di nuovo, come volevano i Voth.
   Dopo aver detto addio a Neelah, lasciandola in lacrime, Chase salì su una piccola navetta e decollò dall’hangar del Quartier Generale di Flotta. Sorvolò la capitale Klingon, che appariva grigia e smorta in quel mattino d’inverno, e gradualmente prese quota. Giunto in orbita, superò le astronavi e le piattaforme, ma senza fretta: voleva osservarle per l’ultima volta. Per tutta la vita aveva amato i vascelli. Più erano moderni e veloci, più lo affascinavano. A bordo delle astronavi aveva trascorso gli anni migliori, vissuto le esperienze più straordinarie, fatto gli incontri più importanti. Ora tutto questo era finito a causa di una persona da nulla come Rangda e delle innumerevoli altre persone da nulla che la sostenevano. Tra tutte le amarezze che gli ultimi anni gli avevano riservato, c’era una sola cosa che lo confortava: sua figlia Jaylah era lontana con la Keter. Si augurò che tornasse con gli alleati di Andromeda, anche se lui non sarebbe vissuto per vederli. In alternativa, se i Proto-Umanoidi non si fossero smossi, si augurò che la Keter non tornasse mai più nella Via Lattea. Solo così sarebbe stata ragionevolmente al sicuro.
   Poco alla volta le navi della Flotta, segnate dalle battaglie, rimasero indietro. L’Ammiraglio le aveva superate e ora si dirigeva verso i titanici vascelli dei Voth, dagli scafi lucenti. Si chiese cosa lo aspettasse di preciso, una volta recapitata la dichiarazione di resa. Certo i Voth lo avrebbero consegnato ai Pacificatori; ma a quel punto? I precedenti non erano incoraggianti. Quando i Pacificatori mettevano le mani su un pezzo grosso della Flotta Stellare, di solito lo umiliavano pubblicamente, costringendolo a inginocchiarsi e chiedere scusa davanti alle olocamere. La successiva esecuzione, invece, avveniva a porte chiuse, così che nessuno ne conosceva le esatte modalità. Forse Rangda si sarebbe divertita a farlo torturare, pensò l’Umano con un fremito. Da quella vecchia megera si aspettava di tutto.
   Fu allora che si verificò la cosa più inaspettata che potesse accadere. Nel momento del trionfo, la flotta congiunta dei Voth e dei Pacificatori fece dietro-front e abbandonò l’orbita di Kronos. Le potenti astronavi si ritirarono in ordine, ma con evidente fretta, senza nessun motivo apparente. Allora l’Ammiraglio arrestò la navetta e restò a osservare, meravigliato. Nel giro di pochi minuti l’intera flotta era scomparsa. Il secondo assedio di Kronos era finito come il primo, senza sparare un colpo; ma stavolta non c’era nulla che motivasse la ritirata nemica.
   «Chase a Comando di Flotta. Mi confermate che il nemico ha lasciato il sistema?» chiese l’Umano, che ormai dubitava persino dei suoi sensi.
   «Affermativo» rispose Ilia Tarn, che aveva preso il comando in sua vece.
   «Perché? Stanno arrivando i Proto-Umanoidi?» chiese l’Ammiraglio. I sensori della navetta dicevano di no, ma quelli della Flotta erano molto più potenti. E lui non riusciva a immaginare un altro motivo che potesse indurre il nemico alla ritirata.
   «Negativo... a meno che siano occultati. Ma in tal caso nemmeno il nemico dovrebbe rilevarli» fu la risposta.
   «Ma Praxis sta ancora precipitando, non è così?» chiese l’Ammiraglio, tuttora in ansia per le sorti del pianeta.
   «Sì, purtroppo. La sua orbita discendente è immutata» confermò la Trill.
   L’Ammiraglio rifletté sulle implicazioni. I Voth e i Pacificatori avevano forse deciso di distruggere Kronos, dopo averli illusi con la richiesta di resa? Ma perché fare una cosa del genere, senza trarne alcun vantaggio? Quel che volevano era la resa della Federazione, e stavano per ottenerla. «No... ci manca un tassello del puzzle» si disse Chase. Poi si rivolse all’amica: «Beh, visto che le lucertole hanno sloggiato, tanto vale che io rientri».
   «Certo, Alexander, non vediamo l’ora di rivederti» disse Ilia, commossa. «Ma per quanto riguarda Praxis...».
   «Adesso possiamo inviare la flotta a stabilizzarla. Badando che non sia un’imboscata» ammonì Chase.
   «Uhm, sì, stiamo facendo i calcoli» rispose la Trill, inquieta. «Non è chiaro se riusciremo a fermarla su un’orbita più interna. Forse il meglio che possiamo fare è rallentare il decadimento, guadagnando del tempo. Nel frattempo potremo chiamare altre navi, per unire i loro raggi traenti ai nostri».
   «Fatelo. Sei la miglior scienziata dello Stato Maggiore, quindi t’incarico dell’operazione» disse l’Ammiraglio. Nel frattempo aveva invertito la rotta e stava tornando rapidamente verso Kronos.
   «Come vuoi, Alexander» disse la Trill. «Tu intanto di che ti occuperai?».
   «La più potente flotta di questa guerra se n’è andata e non sappiamo perché. Vedrò di rintracciarla e di capire che diavolo succede» promise l’Umano.
 
   Fuori dal Quartier Generale di Flotta il popolo festeggiava la ritirata degli assedianti, illudendosi che anche la caduta di Praxis fosse sventata. Ma nel vasto complesso militare i nervi erano tutt’altro che distesi. I sensori subspaziali cercavano tracce della flotta nemica, mentre le spie infiltrate nell’Unione erano incaricate d’indagare. Ma furono gli esperti d’informatica i primi a trovare qualcosa.
   «Ebbene?» chiese l’Ammiraglio, entrando nella sala degli hacker.
   «È molto strano» rispose il caposquadra, un vecchio Bynario che un tempo aveva servito sull’Enterprise. «Nello stesso momento in cui il nemico si è ritirato, i principali siti d’informazione Olonet sono stati oscurati. Anche le piattaforme social sono offline. L’Unione sostiene che sia colpa nostra, accusandoci di attacco informatico, ma sappiamo che non è vero. Io credo che il regime stia disperatamente cercando d’impedire una fuga di notizie».
   «Potrebbe essere il segno che la Keter è tornata coi rinforzi?» domandò Irek, il Ministro della Difesa, che aveva accompagnato l’Ammiraglio.
   «Può darsi, ma a quest’ora dovrebbero averci contattati. Invece niente» rispose il Bynario.
   «Uhm... ero stato chiaro con loro. La prima cosa che dovevano fare, in caso di successo, era venire qui o almeno chiamarci» disse l’Umano, carezzandosi la corta barba. «Così, sapendoli in arrivo, avremmo resistito a oltranza. Ma questo silenzio è preoccupante. Ho idea che non si tratti di loro».
   «Ma allora chi è?!» fece il Ministro, esasperato. «Chi può indurre i Voth a fuggire a quel modo?».
   «Nessuno di questo Quadrante» mormorò Chase, sempre più inquieto.
   In quella si udì un cicalino d’avvertimento, che segnalava l’arrivo di una trasmissione. Il Bynario la prese subito sulla sua consolle. «Signore, riceviamo un segnale criptato da Nuovo Romulus» avvertì. «È per lei, Priorità 1».
   «Chi lo manda?».
   «Il codice è quello della task-force 144» rispose l’addetto. «È il gruppo assemblato un anno fa dal Commodoro Lantora per aggiornare il piano difensivo, nel caso di... invasione Borg» aggiunse con un filo di voce.
   «Sullo schermo» ordinò subito l’Ammiraglio. Non voleva perdere neppure il tempo di andare nel suo ufficio, e poi riteneva che le novità interessassero anche il Ministro.
   Man mano che il Bynario decrittava il segnale, un’immagine sgranata prese forma, acquisendo sempre più dettaglio. Infine divenne riconoscibile, pur essendo ancora disturbata dalle interferenze. All’apparenza era una giovane Umana sul principio della ventina, dai capelli neri che arrivavano al mento e gli occhi grigio-azzurri dal taglio lievemente obliquo. Ma l’Ammiraglio sapeva che dietro quelle fattezze giovanili si celava uno dei più vecchi androidi in servizio presso la Flotta Stellare.
   «Tenente Asha a Comando di Flotta, mi ricevete? Qui Soji Asha, rispondete per favore!» disse l’androide, visibilmente in ansia.
   «Qui è l’Ammiraglio Chase, la riceviamo» rispose l’Umano.
   «Finalmente! Temevo per voi» si rincuorò Soji.
   «Tenente, ci dica che succede» ordinò Chase. «Prima il nemico si è ritirato da Kronos pur avendo la vittoria in pugno e ora scopriamo che mezzo Olonet è oscurato».
   «Il black-out informatico è opera dell’Unione» confermò l’androide. «Non vuole che scoppi il panico, ma così non fa che peggiorare le cose».
   «Insomma, ci aggiorni!» incalzò il Ministro Irek, sebbene l’incarico di Soji fosse già una prova eloquente.
   «Il momento che aspettavamo è giunto» disse l’androide. «Guardate, queste immagini arrivano da Zakdorn».
   L’Ammiraglio rammentò che Zakdorn era il mondo natale di Rangda, nonché la prossima capitale dell’Unione. Si trovava in profondità nel Quadrante Beta, presso il confine con lo Stato Imperiale Romulano. Una posizione vulnerabile, per una capitale. E infatti...
   Il pianeta era circondato da vascelli alieni. Centinaia e centinaia di vascelli, intenti a demolire le sue difese. Ma non appartenevano allo Stato Imperiale. Avevano forme geometriche pure: cubi, sfere, parallelepipedi. Per la maggior parte avevano lo scafo liscio, ma alcuni presentavano ancora il tradizionale reticolato di travi e tubi. Le loro armi erano verdi e così i raggi traenti con cui immobilizzavano le astronavi prima di abbordarle. Chase poteva quasi sentire il messaggio che, ne era certo, stavano diffondendo: «NOI SIAMO I BORG... ASSIMILEREMO LE VOSTRE PECULIARITÁ BIOLOGICHE E TECNOLOGICHE... LA RESISTENZA È INUTILE».
 
   Per lunghi secondi nella sala informatica vi fu silenzio. Era troppo... dopo tutte le sciagure di quegli anni, un’invasione Borg su larga scala era troppo da reggere. Chase si chiese se sarebbe impazzito. Eppure si schiarì la voce e riuscì a parlare in tono quasi normale. «Di quanti vascelli si tratta?» chiese.
   «Abbiamo contato duecento Cubi e quattrocento tra Sfere e vascelli scout» fu l’agghiacciante risposta. «Ma non è tutto. Altre centinaia di vascelli Borg stanno attaccando lo Stato Imperiale. Un assalto di queste proporzioni può avere un solo scopo... la conquista totale. Non si accontenteranno di prendere una manciata di pianeti. Sono qui per assimilarci tutti. Hanno atteso che la Guerra Civile ci logorasse e ora ci travolgono». Soji riapparve sullo schermo, in un piccolo riquadro, per non togliere la vista della battaglia in corso.
   Le navi dei Pacificatori erano già state distrutte o assimilate, ma c’erano anche una decina di Navi Bastione dei Voth poste a vigilanza del pianeta. Finora erano rimaste a ridosso dello Scudo Planetario, ma ora si fecero avanti, distruggendo le Sfere e i vascelli scout. Superata l’avanguardia nemica, però, si trovarono alle prese con i massicci Cubi.
   Un singolo Cubo aveva una potenza di fuoco paragonabile a una Nave Bastione; ma i vascelli Borg erano assai più numerosi. Accerchiarono i Voth e li subissarono di colpi. Quando un Cubo subiva danni si ritirava, rigenerandosi a velocità prodigiosa, mentre un altro prendeva il suo posto. Fecero lo stesso anche con le piattaforme orbitali poste a difesa del pianeta. Con questa strategia i Borg avanzavano rapidamente e con perdite limitate ai vascelli minori.
   «I Borg sembrano ben informati sulla nostra tecnologia» notò Irek.
   «I nostri timori erano fondati. Ormai sono certa che hanno assimilato l’Imperatrice Sela» confermò Soji. «Da lei avranno appreso molti dati tattici sul nostro conto, e ancor più sullo Stato Imperiale. Ecco perché questo duplice attacco. Conoscono le nostre difese e sanno come superarle col minimo delle perdite». L’androide diceva noi, sebbene i Borg avessero attaccato un mondo dell’Unione. Alla luce di questa minaccia, infatti, la Guerra Civile sembrava priva d’importanza.
   «Contattiamo l’Unione, presto!» ordinò Irek. «E anche lo Stato Imperiale. Se uniamo le forze, magari...».
   «Signor Ministro, i vascelli Borg sono centinaia. Se anche radunassimo tutte le forze che dice, non basterebbe» lo gelò Soji.
   «La sua squadra era incaricata di mettere a punto un piano contro questa evenienza!» protestò il Romulano.
   «Ne abbiamo messi a punto parecchi, teorizzando attacchi di varia entità» ribatté l’androide. «Ma sopra i cinquanta Cubi, una flotta Borg diventa impossibile da fermare con le nostre forze. Impossibile. Abbiamo elaborato milioni di scenari tattici e non ce n’è uno vincente».
   Di nuovo silenzio. Che si poteva fare contro una forza del genere? Nulla... era il game over della vita. Nessuna strategia, nessuna astuzia potevano compensare una disparità di forze così abissale. Osservando la battaglia in corso, Chase vide i Voth ritirarsi prima che i loro scudi fossero sopraffatti. I Borg non li inseguirono, concentrandosi invece nell’abbattere le piattaforme orbitali. Il pianeta era condannato. Chi mai potrebbe dire il terrore che in quel momento attanagliava gli Zakdorn, consapevoli che stavano per essere assimilati?
   «Tenente Asha, come crede che si comporteranno i Borg, dopo aver... assimilato Zakdorn?» chiese infine l’Ammiraglio.
   «Difficile dirlo; questi non sono i Borg di una volta, si sono evoluti» sospirò Soji. «La mia ipotesi è che, disponendo di una forza così soverchiante, la frazioneranno per assalire simultaneamente numerosi sistemi. Ma è probabile che mantengano un nucleo di almeno un centinaio di vascelli per attaccare la capitale dell’Unione... che formalmente è ancora la Terra».
   La Terra! Ancora e sempre la Terra! Mai come ora Chase avrebbe voluto che il suo pianeta non fosse mai diventato la capitale federale. A breve termine ci aveva guadagnato in investimenti, divenendo un polo tecnologico e industriale; ma si era anche trasformato nel bersaglio numero uno di tutti i nemici. Quante volte era stato attaccato, e quante persone erano morte? Troppe, per ricordarle. Ma ciò che le attendeva ora era peggio della morte.
   «I Voth potrebbero intervenire» suggerì Irek. «Sono anni che ripetono quant’è importante la Terra per loro e in effetti ci hanno stabilito milioni di coloni. Dubito che possano evacuarli in tempo. Quindi non gli resta che affrontare la Collettività».
   «È probabile» convenne Soji. «Ma i Voth sono più bravi a pavoneggiarsi che a combattere».
   «Sono sempre riusciti a respingere i Borg, nel Quadrante Delta» insisté il Ministro.
   «Vero, ma avevano a disposizione più forze. E poi sono stagnanti, mentre i Borg sono in continua evoluzione» insisté l’androide. «Comunque ne sappiamo ancora troppo poco per fare pronostici».
   «Che ironia... tre anni a combattere Voth e Pacificatori, e ora dobbiamo sperare che vincano!» commentò Irek, scuotendo il capo. Dopo aver rimuginato per qualche secondo, riprese la parola. «Ha detto che probabilmente i Borg divideranno le forze. Significa che potrebbero inviare un contingente contro Nuovo Romulus e un altro qui a Kronos».
   «Sì, è probabile» annuì Soji, facendosi ancora più cupa.
   «Allora non possiamo prestare aiuto all’Unione» ragionò il Ministro. «Dobbiamo tenere le navi a protezione dei nostri mondi».
   «L’Unione farà lo stesso. I Romulani Imperiali pure. E così saremo tutti sopraffatti» disse però Chase. L’Ammiraglio stava studiando la battaglia, prestando particolare attenzione alle tipologie di navi. D’un tratto qualcosa attirò la sua attenzione. «Tenente, cos’è quello?» chiese, indicando un vascello molto più grande degli altri. «Grigia 6-C, il vascello oblungo» chiarì, dato che Soji non era accanto a lui e quindi non poteva seguire il suo gesto.
   L’androide ingrandì la griglia richiesta, mettendo in primo piano il vascello. Era qualcosa di titanico, inimmaginabile. Al suo confronto i Cubi e le Sfere sembravano dei giocattoli insignificanti. La struttura base era cilindrica, ma si trattava di un cilindro percorso da profondi solchi. A metà lunghezza si allargavano degli elementi raggiati, sei in tutto, equidistanti fra loro. Lo scafo era nerastro, tranne che in corrispondenza dei raggi, dove brillavano dei componenti verdi, forse parte del sistema propulsivo. L’insieme era davvero alieno, ma la cosa più disturbante era che a Chase pareva di averlo già visto. L’Umano frugò nella memoria, cercando di capire da dove venisse quell’inquietante déjà vu.
   «Questo vascello è unico in tutta la flotta Borg» disse Soji. «Lo stiamo analizzando, ma le immagini ci giungono da lontano e la risoluzione dei sensori è bassa. Date le sue dimensioni, tuttavia, posso congetturare che sia la nave comando. È lungo 78 chilometri».
   «Un momento, i Borg non hanno navi comando» obiettò Irek. «La loro coscienza collettiva non necessita di leader da proteggere».
   «Questo non è del tutto esatto» disse Soji. «In realtà i Borg hanno avuto una Regina per gran parte della loro storia. E questa Regina si è spesso aggirata in vascelli dal design peculiare. Il cosiddetto Diamante Borg era a forma di ottaedro, più piccolo di un Cubo. Stavolta hanno fatto le cose più in grande».
   «Sta dicendo che c’è la Regina, la dentro?» chiese il Ministro.
   «È probabile. Possiamo aspettarci che anche lei si sia evoluta, rispetto alle precedenti incarnazioni». Mentre Soji parlava, la Nave Comando crivellò di colpi le piattaforme orbitali, distruggendo le poche rimanenti. Dopo di che prese a martellare lo Scudo Planetario.
   «Ci sono!» esclamò Chase, schioccando le dita. «Quell’affare somiglia a V’Ger, la sonda che attaccò la Terra tre secoli fa. Ho visto le registrazioni storiche. La differenza più vistosa è il colore, dato che V’Ger era blu, ma per il resto...».
   «Le somiglianze sono innegabili» riconobbe Soji. «Anche le dimensioni corrispondono. Ma V’Ger non era parte della Collettività... sebbene la sua Intelligenza Artificiale avesse dei punti di contatto coi Borg. In fondo anche lui cercava il perfezionamento e diceva di provenire da un mondo-macchina. Ci sono molte teorie al riguardo e l’aspetto di questa Nave Comando sembra confermare l’esistenza di un legame. Sarebbe una questione da approfondire, se solo potessimo».
   «Signori, siamo certi che sia impossibile dialogare coi Borg?» chiese il Ministro. «Ormai è chiaro che si sono evoluti. Le loro strategie sembrano più elastiche; forse anche la loro coscienza collettiva lo è».
   «Non ci scommetterei le nostre vite» mugugnò l’Ammiraglio. «Certe cose saranno anche cambiate, ma altre... non cambiano mai».
   Come a dargli ragione, in quella i Borg perforarono lo Scudo Planetario. Anziché bombardare città e fabbriche come avrebbero fatto dei comuni conquistatori, cessarono il fuoco e tennero i loro vascelli in orbita. A prima vista sembrava che non stessero facendo nulla. Ma i federali sapevano che in quel preciso momento i Borg stavano teletrasportando a terra milioni dei loro droni, avviando l’assimilazione del popolo Zakdorn. Uomini, donne e bambini venivano brutalmente privati dell’individualità; e nessuno poteva farci nulla. Gli spettatori si chiesero se quello era il destino di tutti gli altri mondi. Solo una cosa era certa: il fastoso palazzo di Rangda sarebbe rimasto incompiuto...
   «Devo andare» si riscosse Chase. «Convoco una riunione d’emergenza della Flotta Stellare».
   «E io devo parlare col Presidente e i Ministri» disse Irek.
   «Quanto a lei, Tenente Asha, tenga d’occhio le mosse dei Borg e ci comunichi ogni novità» raccomandò l’Ammiraglio. «Ma si tenga pronta a lasciare Nuovo Romulus, se dovessero avvicinarsi».
 
   La riunione dello Stato Maggiore era cominciata da poco e già prometteva di sprofondare nel caos, perché gli animi erano sovreccitati e ognuno aveva la sua idea su come affrontare la nuova crisi. Chase dovette persino cacciare un alto ufficiale Vulcaniano che, in nome della logica, proponeva di arrendersi semplicemente ai Borg. L’Ammiraglio ammise però con se stesso d’essere a corto d’idee. Se stavano per arrendersi ai Voth e ai Pacificatori, come potevano sperare di resistere ai Borg? Forse era solo l’orrore dell’assimilazione che li spronava a esaminare una strategia dopo l’altra, rifiutando di accettare la cruda realtà, ovvero che erano spacciati.
   A interrompere la riunione fu un nuovo avviso dalla sala informatica. «Scusate il disturbo, signori ufficiali, ma sta accadendo un fatto della massima rilevanza» disse il Bynario. «I principali notiziari dell’Unione trasmettono un messaggio d’origine Borg. Riteniamo che i droni siano penetrati nell’Hub informatico di Zakdorn e da lì abbiano sabotato la rete».
   «Tanti saluti alla segretezza» commentò Chase. In quel preciso momento stava scoppiando il panico su ogni mondo dell’Unione... e anche della Federazione, perché l’Olonet era in gran parte accessibile sui mondi ribelli. «D’accordo, ci mostri il messaggio» ordinò l’Ammiraglio, preparandosi al peggio.
   Su miliardi di schermi e oloschermi, a bordo di navi e basi stellari così come sulla superficie dei pianeti, apparve un volto. Non era una persona e nemmeno una macchina, bensì un perverso misto d’entrambe. Non era un individuo, ma nemmeno un drone come gli altri. Era piuttosto la quintessenza della Collettività: la Regina Borg.
   La sua pelle era verdastra, anche se ciò dipendeva in buona misura dall’illuminazione della camera. In condizioni di luce normale sarebbe apparsa grigia e cadaverica, con le vene scurite dal flusso di nanosonde. Il corpo era coperto da un aderente esoscheletro, più flessibile della tipica corazza dei Borg. Piccole griffe metalliche artigliavano la pelle del collo. Il viso era libero da impianti, ma si aveva l’impressione che il metallo corresse sottopelle. Sul collo vi era infatti una zigrinatura come quella di un tubo e gli occhi avevano riflessi metallici. La creatura non aveva capelli né sopracciglia, eppure non era inespressiva: appariva sicura di sé e un poco beffarda. Dei cavi le uscivano da dietro la testa, solo per piegarsi e re-innestarsi alla base del cranio. Era simile alle passate incarnazioni della Regina, ma non identica. Sulla sua fronte, infatti, compariva il rilievo a V tipico dei Romulani.
   Allora l’Ammiraglio capì. Quella era l’Imperatrice Sela, assimilata l’anno prima dai Borg. Il suo interesse per la loro tecnologia le era costato davvero caro. Invece di rifondare l’antico Impero Stellare, aveva ottenuto solo di attirare la Collettività, fornendole le informazioni necessarie per lanciare quell’invasione su larga scala. In cambio i Borg l’avevano designata come nuova Regina. Ma Chase era certo che dietro quegli occhi dai riflessi metallici restasse ben poco di Sela. La sua memoria, e forse le abilità tattiche, c’erano ancora; ma erano poste al servizio della Collettività. Quando le sue labbra si mossero, l’Umano presagì quali sarebbero state le prime parole. E si sbagliò. Perché la Regina non disse: «Noi siamo i Borg».
   «Voi siete i Borg» annunciò invece.
 
   Dopo quell’esordio vi fu un attimo di pausa. La Regina sorrise, indovinando la confusione che le sue prime parole avevano generato nel pubblico. Perciò si sentì in dovere di precisarle. «Avete sentito bene, cittadini dell’Unione» disse. «Il vostro scopo, che ne siate consapevoli o meno, è sempre stato uguale al nostro. In primo luogo il perfezionamento, da ottenersi mediante il progresso scientifico, la creazione d’Intelligenze Artificiali e la loro progressiva integrazione con gli elementi organici. Poi la ricerca dell’uguaglianza, con l’abolizione del denaro e delle disparità sociali. Infine la soppressione degli ego personali, in favore di una coscienza collettiva capace d’ottimizzare l’impiego delle risorse».
   La Regina Borg fece una breve pausa e scrutò ancor più a fondo negli occhi del pubblico. «Naturalmente il perfezionamento genera resistenza da parte di chi è incapace di adattarsi. Da qui la necessità di applicare una forza coercitiva contro gli oppositori». Un sorriso freddo e fugace increspò le sue labbra.
   «Noi Borg lo abbiamo compreso molto tempo fa e da allora ci siamo impegnati a perseguire questo obiettivo nel modo più logico ed efficiente. Altre società l’hanno capito solo in parte, quindi procedono in modo più lento e confuso. Tra queste ci siete voi. In passato abbiamo cercato di elevarvi al nostro livello di perfezione, incontrando tuttavia un’accanita resistenza, dovuta alla vostra irrazionale paura dell’ignoto. Di conseguenza abbiamo deciso di sospendere le interazioni, tenendovi però sotto osservazione.
   In tal modo abbiamo constatato che negli ultimi tempi avete fatto encomiabili passi avanti nella ricerca della perfezione. Il vostro progresso tecnologico è già notevole e così la lotta alle disparità sociali. Ciò che ancora vi mancava era il terzo fattore, la soppressione dell’individualità. Ma il vostro nuovo governo si è notevolmente impegnato in questo. Nel giro di pochi anni ha soppresso l’iniziativa personale, imbrigliato le emozioni e vi ha condizionati all’osservanza delle sue direttive. Siete già mezzi Borg, senza rendervene conto. Unirvi a noi è l’inevitabile passo successivo. Non meravigliatevi della nostra presenza: siete stati voi ad attirarci qui, voi a invocare il nostro intervento».
   La Regina Borg fece di nuovo il suo sorrisetto ironico, mentre l’illuminazione attorno a lei virava dal verdognolo al giallastro. «Il nostro invito è aperto a tutti. Chi vuole unirsi spontaneamente alla Collettività è libero di venirci incontro» riprese. «La fusione dell’Io individuale con la Collettività arricchirà quest’ultima e garantirà il perdurare delle vostre memorie ben oltre la morte del corpo. Agli altri, a coloro che si oppongono, dico questo: la vostra resistenza nasce dall’ignoranza ed è un fenomeno transitorio. Una volta entrati a far parte della Collettività, l’ignoranza si trasformerà in conoscenza. La paura, l’odio e le altre irrilevanti emozioni non avranno più motivo di esistere. E di conseguenza non ci saranno nemmeno conflitti. La vostra insignificante vita di esseri isolati e condannati all’oblio lascerà il posto a un’esistenza superiore: finalmente avrete uno scopo e sarete armoniosamente inseriti nel tutto. Non è forse ciò che avete sempre desiderato?».
 
   Se il messaggio della Regina Borg atterrì i capi della Federazione, l’impatto non fu diverso su quelli dell’Unione. La Presidente Rangda rimase a fissare lo schermo come uno stoccafisso, anche dopo che si fu oscurato. I Ministri attorno a lei non osavano prendere la parola, sebbene gli argomenti di discussione non mancassero. Avevano visto le trasmissioni da Zakdorn: se la capitale designata era caduta così rapidamente, che ci si poteva aspettare dagli altri pianeti? A peggiorare le cose, Zakdorn era anche il mondo natale di Rangda; forse l’unico luogo a cui tenesse veramente.
   Lyra la fissò di sottecchi, temendo il peggio. Che sarebbe successo se la dittatrice fosse impazzita dal dolore per la perdita del suo pianeta? La giovane ricorse alle sue facoltà telepatiche per sondarla cautamente. Di solito la Zakdorn era impenetrabile, ma ora il suo autocontrollo era a pezzi. Lyra percepì un dolore sconfinato, che però già trascolorava in una collera micidiale. Una persona sana di mente si sarebbe sentita in colpa, perché le parole della Regina Borg indicavano in modo inequivocabile che erano state proprio le politiche della Presidente ad attirare la Collettività. Ma Rangda no, non avrebbe mai ammesso d’essersi sbagliata. Avrebbe sempre e comunque rovesciato la colpa su quanti l’attorniavano.
   «Perché non c’era un maggior numero di navi a proteggere Zakdorn?» chiese la Presidente, con una calma pericolosa. Solo le sue mani tremavano.
   «Fino a poche settimane fa ce n’erano molte di più, ma poi lei ha voluto che radunassimo le forze per l’attacco a Kronos» rispose il Comandante in Capo dei Pacificatori. «Io le ho detto che era pericoloso sguarnire i confini, ma lei...».
   «Sta forse insinuando che la rovina del nostro mondo sia colpa mia?!» gridò Rangda, alzandosi di scatto col viso arrossato.
   «Dico le cose come stanno».
   «Se ne vada, incapace, prima che la faccia mettere agli arresti!» sbraitò la dittatrice, non sapendo con chi prendersela. «E chiamate subito Shantu. Lo riceverò qui!» ordinò.
   Detto fatto, il Cancelliere apparve in olo-presenza. Le sue scaglie avevano assunto una sfumatura bluastra, il colore della paura, eppure fece ancora un discorso di circostanza. «Signora Presidente, onorevoli Ministri... a nome dell’Autorità Voth, vi porgo le mie sentite condoglianze per l’inaspettata calamità. I Voth si stringono fraternamente a voi in questo momento difficile, con la certezza che un giorno...».
   «Oh, chiuda il becco!» sbottò Rangda, dando un pugno sul tavolo. «Per tre anni vi abbiamo favoriti in ogni modo, e in cambio ci avete fatto promesse su promesse. Ma quando finalmente dovevate agire, vi siete ritirati! Ci avete traditi!».
   «Dieci Navi Bastione erano troppo poche contro una flotta come quella» obiettò Shantu. «Rischiavano di farsi assimilare, nel qual caso i Borg si sarebbero impadroniti della nostra tecnologia. Non potevamo permetterlo».
   «A che servono le vostre navi luccicanti, se poi temete di usarle?!» insisté la Presidente.
   «Come le ho detto, in quel frangente erano troppo poche. Sarebbero state di più, se non avessimo dirottato gran parte delle forze verso Kronos, su sua esplicita richiesta» sottolineò il Cancelliere. «Comunque le ho richiamate, assieme ai vascelli dislocati in altri sistemi. Stiamo radunando la nostra forza militare qui presso Vothan».
   «Perché non fa venire rinforzi dal Quadrante Delta?» chiese il Ministro della Difesa.
   «Li ho chiamati, ma ricordate che anche a transcurvatura occorrono settimane per compiere il viaggio» spiegò il Voth. «Comunque non temete: abbiamo abbastanza navi per dare battaglia ai Borg. Finché voi rimarrete qui a Vothan, sarete al sicuro. Certo non posso garantire lo stesso per ogni altro pianeta...» si cautelò.
   «Dunque qual è la vostra strategia?» chiese Rangda, leggermente più calma.
   «Beh, questo dipende da cosa faranno i Borg» disse il Cancelliere. «Ma è meglio che sia l’Ammiraglio Hadron a risponderle».
   L’interessato gli comparve a fianco. «I miei rispetti» si presentò. «Come dice il Cancelliere, tutto dipende dalla strategia della Collettività. Se quell’enorme flotta si frazionerà, inviando uno o due vascelli in ogni sistema dell’Unione, sarà molto difficile farvi fronte. Dovremo dividere le forze a nostra volta, il che significherà lasciare alcuni sistemi scoperti. In quel caso dovremo privilegiare i mondi più popolosi e dalle maggiori capacità industriali».
   «E gli altri?!» chiese Lyra, angosciata.
   «Purtroppo non possiamo proteggere tutti, finché non arriveranno i rinforzi» disse tristemente il Voth. «Noi però speriamo che i Borg seguano la loro strategia consolidata, ovvero tengano unita la flotta per l’attacco alla capitale. Se faranno così, potremo intercettarli lungo la rotta e distruggerli con una sola grande battaglia. Alcuni vascelli la scamperanno senz’altro, ma a quel punto sarà molto più facile inseguirli e finirli».
   «Avete esperienza coi Borg?» chiese il capo dei Pacificatori, inquieto.
   «Ma certo, li abbiamo respinti per secoli» garantì Hadron. «Non fatevi ingannare dalla sceneggiata della Regina: le loro strategie sono ripetitive. Non hanno la nostra creatività. E per quanta tecnologia abbiano assimilato, non sono al nostro livello».
   «Quindi ho la vostra parola che darete battaglia ai Borg prima che siano qui?» insisté Rangda, nuovamente rivolta al Cancelliere.
   «Certo» promise Shantu. «Non dimenticate che abbiamo milioni di coloni su Vothan. C’è la nostra gente in pericolo, oltre alla vostra. Difenderemo gli uni e gli altri fino all’ultimo respiro».
   «Nondimeno la flotta Borg è imponente» disse però Hadron. «Dunque è consigliabile unire le forze. Se combattiamo per la nostra patria comune, è giusto farlo assieme».
   A queste parole Rangda si ritrasse. «Abbiamo perso migliaia di navi e milioni di effettivi nella Guerra Civile» si lamentò. «E poiché avete ammesso di non poter presidiare tutti i nostri mondi, dovremo farlo noi. Saremo l’ultima linea di difesa, se... » lasciò in sospeso.
   «Il vostro timore è comprensibile, ma avete appena richiamato una flotta di novecento navi da Kronos» insisté Hadron. «Ve ne chiedo almeno cinquecento, perché facciano da ali al nostro schieramento. In tal modo eviteremo alla maggior parte dei vascelli Borg di sfuggirci».
   La Presidente camminò avanti e indietro, torcendosi le mani, combattuta. Mai prima d’allora si era sentita così in pericolo. Era una situazione inedita e non sapeva come farvi fronte. La perdita di Zakdorn, poi, era una ferita che annebbiava il suo giudizio. «Promettetemi che vinceremo» disse trasognata.
   «Se mi concederà le navi che le ho chiesto, ebbene sì, vinceremo» garantì Hadron.
   «E va bene» cedette Rangda. «Avrete cinquecento navi. Le altre resteranno a difesa del sistema solare. Il resto delle nostre forze armate resterà sparpagliato, per proteggere gli altri sistemi chiave». Ciò detto si lasciò cadere sulla poltroncina, come svuotata di ogni energia.
   «Un buon compromesso» concluse Shantu. «Partite appena possibile. Ammiraglio Hadron, l’operazione è sua».
   «Agli ordini, Cancelliere» fece questi con un accenno d’inchino. «Guiderò personalmente l’attacco dalla mia Nave Fortezza».
   Lyra fu tentata di chiedere al Cancelliere dove sarebbe stato lui, ma si trattenne. Era chiaro che Shantu sarebbe rimasto al sicuro sulla Nave Città, nell’orbita terrestre, pronto a fuggire se la situazione fosse precipitata. E Rangda non si sarebbe comportata diversamente. Aveva tenuto presso di sé quattrocento navi e certo sarebbe fuggita sulla più robusta al primo accenno di pericolo. La mezza Xindi si augurò che in quel caso la prendesse con lei. «Perché non dovrebbe? Le sono sempre stata fedele» si disse, quasi scordando che era stata vicina a tradirla.
 
   I giorni successivi si accavallarono come scene di un racconto dell’orrore. Lyra dormiva pochissimo, sia perché aveva molto da fare, sia perché quando finalmente crollava sul letto restava sveglia per l’ansia. Nemmeno i blandi sedativi bastavano a farla riposare, e non si azzardava a prendere qualcosa di più pesante per timore di perdere lucidità durante la veglia.
   Il suo lavoro consisteva essenzialmente nel mentire alla cittadinanza, minimizzando la gravità della situazione. Lei e Rangda avevano discusso a lungo sulla versione ufficiale da propinare. Se i Borg non avessero assimilato un pianeta, avrebbero negato in toto la loro presenza. Ma un intero mondo assimilato era qualcosa di troppo grosso da nascondere, anche perché tutte le astronavi dirette a Zakdorn erano state necessariamente dirottate verso altre destinazioni. Così, a denti stretti, Lyra aveva ammesso che l’invasione Borg era autentica. Ma aveva anche assicurato la popolazione che i Voth stavano per risolvere il problema e che nessun altro pianeta avrebbe subito il fato di Zakdorn. La mezza Xindi tenne molti discorsi pubblici, magnificando i “piani anti-Borg” che nella realtà erano vecchi di decenni e inadatti a contrastare un’invasione così massiccia.
   Nel frattempo, però, Lyra seguiva assiduamente le riunioni tattiche in cui si discuteva l’effettiva situazione. Seppe così che, dopo aver assimilato Zakdorn, i Borg puntavano dritti verso la Terra. Avevano già superato parecchi sistemi stellari di grande importanza, senza suddividere la loro flotta. Solo qualche vascello scout se n’era discostato, ma sempre per rientrare in formazione dopo brevi esplorazioni dei dintorni.
   «È come avevo detto» annunciò Hadron, che trasmetteva dalla sua Nave Fortezza. «I Borg non vogliono frammentarsi prima di aver preso la capitale, ma questa sarà la loro rovina. Siamo in procinto d’intercettarli».
   «Dove li affronterete?» chiese Rangda. Anche lei aveva l’aria di aver dormito poco, in quei giorni. I suoi occhi erano cerchiati e l’umore era peggiore del solito.
   «Presso la cosiddetta Stella di Barnard, o Stella Fuggiasca» rispose il sauro. «Vista da Vothan si trova nella costellazione del Serpentario... lo prenderemo come un buon augurio» aggiunse, ma era ironico, perché i Voth non credevano negli auspici o nella fortuna. Confidavano unicamente in se stessi e nella loro raffinata tecnologia. Era un buon modo di procedere... finché vincevano.
   Mentre i due leader discutevano, Lyra consultò discretamente il suo d-pad. Scoprì che la Stella di Barnard si trovava a meno di sei anni luce dal sistema solare. In termini astronomici, era dietro l’angolo. La preoccupava che i Voth non fossero riusciti a organizzarsi per affrontare il nemico più lontano. Se qualche vascello Borg fosse riuscito a passare, sarebbe piombato sulla Terra in poche ore. Tutto sommato Rangda era stata saggia a trattenere presso di sé una flotta così cospicua. Le quattrocento navi dei Pacificatori, sommate alle piattaforme orbitali, potevano affrontare un contingente nemico, sempre che non ci fosse anche la Nave Comando. Ma di quella dovevano occuparsi i Voth.
   Lyra però continuava a pensare alla Regina Borg e alla sicurezza con cui si era rivolta loro. Era possibile che si facesse distruggere così facilmente? Una stratega del suo calibro non aveva altro piano che tirare dritto con tutta la flotta, permettendo al nemico d’ingaggiarla nel luogo prescelto? Era molto strano; ma Lyra non era una militare e pur partecipando alle riunioni non poteva interferire nelle decisioni che vi si prendevano.
   «Eccellenza, c’è un’altra questione di cui dobbiamo discutere» intervenne il capo dei Pacificatori, dopo che Hadron ebbe chiuso il collegamento. «I federali ci hanno inviato un’offerta d’armistizio e collaborazione. Nelle attuali circostanze, sarebbe saggio accettare».
   «Scherza?!» inorridì Rangda.
   «Niente affatto. Se potessimo unire le loro forze alle nostre...» cominciò il Pacificatore.
   «Unirle come? Nello schieramento dei Voth? I ribelli non accetterebbero i nostri ordini. Farebbero a modo loro, magari ritirandosi alla prima difficoltà, e in tal modo comprometterebbero l’intera formazione» obiettò la Zakdorn. «O forse vorrebbe che fossero loro a presidiare Vothan, mentre noi andiamo a combattere? Così, dopo aver versato il sangue anche per loro, troveremo la capitale fortificata contro di noi. Ci ringrazieranno a colpi di siluri, quei tagliagole! Tsk, tanto varrebbe arrenderci!» fece sprezzante.
   «Se non ha fiducia in una collaborazione militare, possiamo comunque accordarci per un cessate il fuoco. Sarebbe già qualcosa sapere che i federali non ci attaccheranno, approfittando delle nostre difficoltà» insisté il Comandante in Capo.
   «I ribelli non oseranno sguarnire i pochi mondi che gli restano, finché ci sono i Borg in circolazione» affermò Rangda. «E quando i Voth ci avranno liberati dai Borg, tutto tornerà come prima. Abbiamo ancora la vittoria in pugno. Se ce la lasciamo sfuggire ora, tutti i nostri sacrifici e i nostri caduti saranno stati invano».
   «Come vuole» si arrese il Pacificatore. «Risponderò che rifiuta l’offerta».
   «Non risponda affatto. A inganni come questo è superfluo replicare» disse però la Presidente. «E poi, tra pochi giorni sarà tutto finito».
   «Si fida ancora molto dei Voth» osò commentare Lyra.
   «Eh?» fece Rangda, sorpresa da quell’intervento. «Certo che mi fido, cara; ma non del loro altruismo! Proteggere Vothan è nel loro interesse. Ci hanno sbarcato i coloni, non possono abbandonarli. E sono troppo orgogliosi per rinunciare al Mondo Perduto. Così non hanno altra scelta che combattere» disse con una smorfia compiaciuta.
   Il ragionamento filava, ma i timori di Lyra erano d’altro genere. Assodato che i sauri si sarebbero battuti, era così certo che avrebbero vinto? «I Borg hanno ammassato una potente flotta...» mormorò la mezza Xindi.
   «I Voth sono più forti!» strepitò Rangda, aggrappandosi a una cieca fede nei suoi protettori. «E coi Pacificatori a supportarli, vedrai che nessun nemico arriverà qui. Sì, sì... tutto questo sta per finire. Anzi, sai che ti dico? Ne usciremo più forti di prima!» esclamò, e lasciò la sala tattica barcollando.
   Da quando i Borg avevano assimilato Zakdorn, qualcosa in Rangda si era spezzato. Il futuro di gloria e predominio per il suo popolo, che aveva accuratamente intessuto nell’arco di decenni, si era sfaldato. Certo, le restavano gli altri mondi dell’Unione; ma Lyra dubitava che la Presidente tenesse a loro. E chissà che, messa alle strette, non preferisse lasciarli andare in malora piuttosto che cedere il potere. Più la osservava, più la mezza Xindi si convinceva che la Zakdorn stesse uscendo di senno. Cosa che la rendeva ancora più imprevedibile e pericolosa. Una cosa era certa: anche se i Borg fossero stati annientati, i guai erano solo all’inizio.
 
   La Stella di Barnard sfolgorava nello spazio. Sebbene fosse solo una nana rossa, era soggetta a brillamenti che ne accrescevano notevolmente la luminosità; ed era ciò che stava accadendo. Un poderoso getto di plasma usciva dalla fotosfera, accompagnato da un intenso flusso radioattivo. Ma i vascelli Voth, schierati a mezza Unità Astronomica, erano ben schermati.
   Si trattava della più vasta flotta che i sauri avessero radunato da molto tempo a quella parte. Vi erano confluite quasi tutte le navi da guerra che, nel corso degli anni, avevano trasferito nel Quadrante Alfa. Oltre alla Nave Fortezza di Hadron c’erano duecento vascelli, in gran parte Navi Bastione e fregate. Tutte insieme componevano solo il nucleo dello schieramento, perché le ali erano costituite dalle cinquecento navi dei Pacificatori, assai più piccole. Il comando dell’intera flotta, comunque, spettava ad Hadron. I Pacificatori avrebbero obbedito ai suoi ordini, che li comprendessero o meno.
   Sulla plancia della sua Nave Fortezza, l’Ammiraglio contemplò cupamente le stelle, mentre i suoi ufficiali lo aggiornavano sulla situazione. Era giunto nel Quadrante Alfa da meno di quattro anni... possibile che fossero così pochi? Con tutti i guai capitati, gli sembravano molti di più. Non erano mancate le soddisfazioni: aveva reclamato il Mondo Perduto ed era giunto a esercitare grande influenza sull’Unione. Ma nel far questo aveva provocato un’inarrestabile serie di sciagure, ben oltre le più fosche previsioni. La società dell’Unione era fragile, attraversata da profonde crepe, che il suo arrivo aveva allargato sino a frantumarla. Così ecco la Guerra Civile, sempre più aspra; e i Centri di Rieducazione e la Polizia del Pensiero. Poi anche i vecchi nemici dell’Unione si erano imbaldanziti, vedendola così in agonia, e si erano lanciati alla conquista: prima i Romulani Imperiali, ora i Borg.
   Hadron non aveva desiderato niente di tutto questo e ora si sentiva addolorato per le sofferenze della popolazione. Ma tutto ciò che poteva fare era respingere i Borg e poi aiutare i Pacificatori a sconfiggere la Flotta Stellare, ripristinando l’integrità dell’Unione. Non vedeva altra via per porre fine alla violenza dilagante. Si disse che, una volta fatto questo, avrebbe chiesto d’essere sostituito. Che fosse pure qualcun altro a raccogliere i frutti del suo lavoro; a lui non importava. Voleva solo tornarsene nello spazio Voth, dove la gente non si saltava alla gola al minimo pretesto.
   «Signore, sta arrivando un altro di quei trasporti» avvertì l’addetto ai sensori.
   «Ancora?! Digli di tornare indietro» ordinò l’Ammiraglio, esasperato.
   «Già fatto, ma sta accelerando».
   «Quante persone ci sono a bordo?».
   «Rilevo duecentocinquanta segni vitali».
   Hadron si lasciò sfuggire un’imprecazione. «Mandate una fregata a salvarli» ordinò. Scosse la testa, mentre osservava l’agile vascello che lasciava la formazione per recuperare quei disgraziati. Una delle cose che più lo scioccavano, nei suoi rapporti con l’Unione, era constatare l’alta percentuale di squilibrati. C’erano milioni d’individui che avevano completato la scuola dell’obbligo, lavoravano (magari erano pure affermati nel loro campo), votavano alle elezioni; ed erano dei completi psicopatici. I sauri si stavano ancora interrogando sulle cause di questo inquietante fenomeno. Forse era l’insanabile polarizzazione politica, il peggioramento delle condizioni di vita e la mancanza di prospettive migliori. Fatto stava che gli abitanti dell’Unione erano sempre più folli. E così si avevano fenomeni come quello.
   Pochi giorni prima, la Regina Borg aveva invitato chi lo volesse a unirsi spontaneamente alla Collettività. E sebbene l’assimilazione fosse considerata dai più come una sorte peggiore della morte, c’era chi aveva raccolto l’invito. Mitomani, transumanisti, seguaci di strane sette: queste erano le persone disposte a rinunciare all’individualità. Molti di loro pensavano che l’assimilazione li avrebbe resi immortali, dato che il loro bagaglio d’esperienze sarebbe confluito nella memoria collettiva; non comprendevano che la loro personalità sarebbe stata annullata. Altri credevano addirittura che diventare droni garantisse l’immortalità del corpo. Su certi pianeti questi psicopatici erano così numerosi e organizzati da riuscire a impadronirsi di navette o persino di navi trasporto, con cui ora andavano incontro ai Borg. I Voth li avrebbero anche lasciati andare, nella speranza di depurare la società dai suoi elementi peggiori. Il problema era che le persone abbastanza folli da farsi assimilare volontariamente avevano la tendenza a portare con sé i propri figli piccoli. Da qui la necessità d’intervenire, per salvare almeno questi ultimi.
   Quello che transitava ora era un vecchio trasporto di classe Restoration, dalla forma oblunga. Quando rilevò la fregata in avvicinamento cercò di sfuggirle, ma la nave Voth era molto più veloce e lo raggiunse in pochi minuti. Come sempre accadeva in quei casi, i sauri bloccarono i fuggitivi con il raggio traente e intimarono loro di fermarsi. Per tutta risposta, il trasporto aprì il fuoco.
   «Sigh... perché ci prodighiamo per questa gente?» si chiese Hadron, osservando la sua fregata che gestiva il problema. Pochi colpi bastarono a neutralizzare armi e scudi del trasporto. A quel punto i Voth teletrasportarono i passeggeri recalcitranti e li sbatterono in cella, dove questi rimasero a urlare e compiere atti di autolesionismo, nel futile tentativo di farsi rilasciare. I sauri gli sottrassero però i bambini, che furono rimandati a casa sul trasporto, con dei sorveglianti che pilotavano la nave e si prendevano cura di loro. Una volta rimpatriati, sarebbero stati affidati ai servizi sociali.
   La fregata si affrettò a riprendere posto nello schieramento, perché ormai l’arrivo dei Borg era imminente. «È da un po’ che non affrontiamo la Collettività in una grande battaglia» si disse l’Ammiraglio. «Chissà quant’è progredita dall’ultima volta». Questo lo preoccupava, ma continuò a ostentare sicurezza. In fondo erano Voth, la specie corporea più antica e illustre della Via Lattea; nessuno poteva surclassarli.
 
   Su Kronos, i leader della Federazione attendevano col fiato sospeso l’inizio della battaglia. L’offerta d’armistizio che avevano fatto all’Unione era stata spregiata, così che non avevano potuto inviare aiuti. E poi le loro navi erano impegnate altrove: stavano ancora cercando di spingere Praxis su un’orbita stabile. L’operazione era molto delicata, perché bisognava evitare che la luna, già compromessa geologicamente, si disgregasse del tutto. Dunque i raggi traenti andavano diretti solo in certe zone e con una certa potenza, in base ai calcoli matematici. Per il momento il degrado dell’orbita era rallentato, dando a Kronos qualche giorno in più; ma era presto per annunciare il cessato pericolo.
   «Ebbene, quante navi sono?» chiese l’Ammiraglio Chase.
   «Duecento vascelli Voth, cinquecento dei Pacificatori» rispose l’addetto ai sensori. Le telemetrie venivano da una sonda ad alta velocità che la Flotta aveva inviato a spiare i difensori.
   «E l’armata Borg è ancora unita?».
   «Affermativo».
   «Uhm... non mi convince» mormorò l’Ammiraglio, osservando il vasto schieramento. «Mettete la nostra flotta in preallarme».
   A quelle parole, Ilia si accigliò e gli venne accanto. «Alexander, non possiamo andare a difendere la Terra» sussurrò. «Ci serve ogni nave qui, per impedire la caduta di Praxis. E poi siamo ancora in guerra con l’Unione. Se anche raggiungessimo il sistema solare, i Pacificatori ci attaccherebbero».
   «Lo so, maledizione» disse Chase, sempre sottovoce. «Ma se non riusciamo a collaborare nemmeno contro i Borg...» lasciò in sospeso.
   «Già» convenne la Trill. «Ma ci restano poche navi e la Federazione si aspetta che le usiamo per proteggere i suoi mondi, non quelli nemici. La Terra ormai è...».
   «Irrecuperabile» concluse l’Ammiraglio. Il suo pianeta sarebbe stato assimilato, oppure sarebbe rimasto in mano ai sauri; in ogni caso non sarebbe mai tornato agli Umani. Si rivolse ai suoi ufficiali, di nuovo ad alta voce: «Ordine annullato. Che le navi restino concentrate sull’operazione Praxis». Dopo di che tornò a osservare lo schermo, con un senso di rovina incombente. «Chiunque vinca, noi perdiamo...».
 
   In quello stesso momento anche Rangda e i suoi ministri sedevano in una sala tattica, nel palazzo presidenziale. I loro occhi erano fissi alle telemetrie trasmesse dai sauri.
   «I Borg sono arrivati» annunciò un ufficiale di collegamento Voth che era con loro. Sullo schermo comparve la loro flotta, illuminata dalla luce cruda del brillamento solare. La Nave Comando era al centro, contornata dai Cubi. Sulle ali vi erano, a decrescere, le Sfere e i vascelli scout.
   «Entità delle forze?» chiese Rangda.
   «Dopo le perdite subite a Zakdorn hanno 190 Cubi e 355 tra Sfere e navi scout» rispose il Voth. «Però hanno anche 39 delle vostre navi assimilate».
   L’annuncio fece borbottare i presenti. Lyra dette un’occhiata a Rangda, che sedeva rigida come una statua di marmo.
   «L’Ammiraglio Hadron si rincresce d’informarvi che gli equipaggi assimilati non possono essere salvati. Dovremo distruggere i vascelli al più presto, per indebolire lo schieramento nemico» aggiunse il sauro.
   «È quanto mi aspettavo» disse Rangda, con voce atona. «Che la loro fine sia rapida».
   «I Borg si avvicinano a impulso, le due flotte stanno per scontrarsi» proseguì l’ufficiale di collegamento. «Apriranno il fuoco a momenti».
   Lyra trattenne il respiro. Da quella battaglia non dipendevano solo le loro vite, ma il futuro stesso della civiltà. Era lieta che i Voth fossero dalla loro, ma si chiese cosa sarebbe successo se l’Unione fosse stata coesa. Forse non avrebbe avuto bisogno dei sauri per respingere il nemico. Anzi, in mancanza della Guerra Civile era probabile che i Borg non si sarebbero nemmeno presentati! Per un attimo la mezza Xindi ripensò a Vrel e agli altri della Keter. Chissà dov’erano, che stavano facendo in quel momento. «Più stanno lontani, meglio è per loro» si disse. L’attimo dopo le due flotte si scambiarono i primi colpi. La Battaglia della Stella Fuggiasca era cominciata.
 
   Nei tempi a seguire non vi fu accordo su ciò che accadde quel giorno presso la Stella di Barnard. Pochi di coloro che ne avevano cognizione sopravvissero per raccontarlo, e quei pochi spesso non ebbero interesse a far trapelare la verità. Tuttavia sono note a tutti le conseguenze, da cui molto può essere dedotto. Ciò che segue è la versione più accreditata dagli storici che si occupano di quest’oscuro e sventurato periodo.
   L’armata dei Voth e dei Pacificatori mantenne la posizione, lasciando che i Borg si facessero avanti. Presto lo spazio fu attraversato da una moltitudine di raggi e siluri scagliati dalle due flotte. Fu subito chiaro che, dopo l’attacco a Zakdorn, i Borg si erano adattati alle armi nemiche. Nemmeno i siluri transfasici e quelli cronotonici penetravano i loro scudi, né bastava variare le armoniche delle armi a raggio. Solo un fuoco massiccio e continuato poteva sovraccaricare le difese Borg. Se ciò era fattibile con le Sfere e i vascelli scout, diveniva arduo con i massicci Cubi e impossibile con la titanica Nave Comando. In questa prima fase della battaglia i Pacificatori persero molte navi, mentre i vascelli Voth – assai più potenti – resistettero. Quanto ai Borg, le loro perdite furono limitate ai vascelli minori e a quelli assimilati.
   Dopo la prima ora di scontri le sorti della battaglia volsero a favore dei difensori, perché il loro schieramento cominciò, con molti sacrifici, la manovra di accerchiamento. I vascelli Borg si trovarono sempre più pressati, il che riduceva la loro capacità di fuoco e impediva a quelli più danneggiati di allontanarsi per rigenerare gli scudi. Poiché la Nave Comando dei Borg si era fatta avanti e stava recando gravi danni, l’Ammiraglio Hadron fece avanzare la sua Nave Fortezza, l’unica in grado di tenergli testa. I due titanici vascelli si scambiarono tremende bordate a distanza ravvicinata, distruggendo le navi minori che ebbero la sventura di trovarsi nel fuoco incrociato. C’è chi dice che fu il più formidabile scontro nella storia del Quadrante Alfa, anche se la nostra conoscenza è troppo limitata per poterlo affermare con certezza. Fatto sta che i vascelli si colpirono per ore, mentre attorno a loro si consumava la carneficina.
   Nei tempi a venire ci fu chi disse che i Pacificatori dimostrarono coraggio e spirito di sacrificio, perché quando i loro scudi cedevano e le loro navi erano abbordate, essi preferivano distruggerle piuttosto che consegnarle alla Collettività. Ciò in realtà non è esatto, perché furono le Intelligenze Artificiali di bordo ad applicare questo protocollo, finalizzato a impedire che le navi in fuga spargessero il contagio dei Borg su altri mondi. Quando le IA ritenevano che la loro nave fosse soverchiata, la scagliavano contro i vascelli Borg, così da infliggere loro ulteriori danni. In tal modo riuscirono a distruggere alcuni Cubi. Molti ufficiali tuttavia furono assimilati, a volte teletrasportandoli via dalle navi condannate. E in alcuni casi i droni riuscirono ad acquisire così rapidamente il controllo dei computer da impedire che le astronavi si distruggessero. In tal modo la Collettività acquisì una conoscenza ancor più dettagliata delle tecnologie e dei piani dell’Unione.
   Venne il momento in cui la vittoria era a portata di mano, perché i Borg avevano subito ingenti perdite, riuscendo ad assimilare solo poche navi dei Pacificatori. Ma non era una rozza macchina a guidare i droni, bensì l’intelligenza collettiva più potente della Via Lattea. Le sue cognizioni erano sterminate e la sua capacità d’elaborazione superava di molti ordini di grandezza quella dei rivali. Fu così che la trappola finalmente scattò.
   Alle spalle dei difensori apparve una seconda flotta Borg, grande quasi quanto la prima. Nessuno l’aveva vista avvicinarsi. Risultò che i vascelli si erano occultati, una strategia che i Voth non avevano previsto, perché solitamente i Borg non ricorrevano all’occultamento. Ma come molti avevano già notato, la Collettività si era evoluta. Le sue strategie si erano fatte più complesse. E avendo acquisito le conoscenze di migliaia di specie, tra cui i Romulani, non era così strano che padroneggiasse l’occultamento. Con ogni probabilità la seconda flotta Borg aveva sempre seguito la prima, aspettando il momento più opportuno per entrare in azione. Ora quel momento era giunto.
   Vedendosi d’un tratto soverchiati, i sauri si spaventarono. Cercarono disperatamente di liberarsi, facendo manovre azzardate e sparando all’impazzata. Nella confusione alcuni loro vascelli furono colpiti dal fuoco amico. Ma la Collettività aveva manovrato con grande accortezza: in pochi minuti i difensori si trovarono accerchiati. Sempre più navi dell’Unione perdevano gli scudi, venendo distrutte o assimilate. Infine anche i potenti schermi Voth cedettero. I loro grandi vascelli furono abbordati da milioni di droni, tutti con lo stesso scopo: assimilare i sauri e la loro tecnologia. Molti droni furono falciati dalle squadre difensive nei primi momenti, ma ne subentrarono altri, con gli scudi individuali già adattati. Circondarono i Voth, tagliando loro le vie di fuga, e li sopraffecero. Trovarono i terminali dei computer e li violarono. In tal modo acquisirono il controllo dei vascelli e rivolsero le loro armi contro quelli ancora in mano ai sauri. A quel punto le sorti della battaglia erano segnate.
   Fu così che, dopo milioni di anni d’incontrastato predominio, la supremazia militare dei Voth fu spazzata via e il loro orgoglio fu spezzato. Infranta l’illusione di superiorità, i sauri si scoprirono d’un tratto fragili e indifesi. Non erano più i signori della Galassia: un’altra potenza li aveva spodestati. La tecnologia di cui andavano tanto fieri non poteva più proteggerli, ora che i Borg l’avevano assimilata; anzi era impiegata contro di loro. Questa scoperta gettò i Voth nel panico e nella disperazione. Non temevano solo per se stessi e per i coloni del Mondo Perduto, ma anche per il grosso del loro popolo, che viveva nel Quadrante Delta. Nessuno era più al sicuro, ora che la Collettività conosceva la loro tecnologia e sapeva come farvi fronte.
   Il panico divenne ben presto frenesia. Nel tentativo di sfuggire all’accerchiamento, molti vascelli Voth speronarono le più piccole navi dei Pacificatori o entrarono in collisione fra loro. Questo li indebolì ulteriormente, affrettandone la fine. A bordo delle loro navi ormai alla deriva, i sauri si nascondevano gemendo o tentavano la fuga sui gusci di salvataggio. Alcuni, vedendosi accerchiati dai droni, preferirono togliersi la vita piuttosto che farsi assimilare. E tuttavia fu questo il destino della maggior parte di loro.
   Sulla sua Nave Comando, la Regina Borg dirigeva la battaglia con la fredda e spietata efficienza della Collettività, accertandosi che anche i fuggitivi fossero intercettati, per rimpinguare i suoi ranghi. Intanto, sulla Nave Fortezza, l’Ammiraglio Hadron si avvide che tutto era perduto. Allora inviò un messaggio alla Terra, informando le autorità della catastrofe ed esortandole a evacuare il pianeta prima che i Borg fossero su di loro. Poi si dedicò al suo ultimo dovere.
   La Nave Fortezza era ormai invasa da migliaia di droni, che ne disputavano il controllo ai Voth. Il nemico non era ancora giunto in plancia, protetta da schermature supplementari, ma si avvicinava rapidamente, perché ormai le armi dei sauri erano inefficaci. La nave era condannata, questo era chiaro; ma Hadron non intendeva consegnarla ai Borg. Così, dopo aver ordinato l’evacuazione, ne prese personalmente il comando.
   L’immenso vascello puntò dritto contro la Nave Comando dei Borg, che da un po’ aveva smesso di sparare, in quanto la Collettività voleva assimilare l’ammiraglia Voth anziché distruggerla. La prua della Nave Fortezza si aprì, rivelando lo sterminato hangar che poteva accogliere un’intera flotta. O in quel caso, un singolo vascello gargantuesco. Con una lentezza dovuta alle enormi dimensioni, la Nave Fortezza fagocitò la Nave Comando. Questa reagì teletrasportando altri droni a bordo, ma non aprì il fuoco, sempre nella speranza d’assimilare l’altro vascello e unirlo alla propria flotta. Tuttavia, prima che le fauci della Nave Fortezza si richiudessero, un vascello ottagonale lasciò la Nave Comando e si mise in salvo. La Regina Borg intendeva cautelarsi.
   Con gran parte della nave invasa e il computer di bordo infettato dai Borg, gli ultimi sauri abbandonarono la plancia per mettersi in salvo. Tuttavia l’Ammiraglio non venne con loro. I pochi superstiti affermarono che era rimasto per sua libera scelta.
   «Dite agli Umani che mi dispiace per tutto. Non avrei mai voluto metterli in un tale pericolo. Ho fatto il possibile per rimediare, ma ora il destino della nostra casa comune dipende da loro». Queste furono le ultime parole di Hadron, prima che lo lasciassero.
   La Nave Fortezza riattivò i propulsori e si spinse avanti, nel cuore dello schieramento Borg, travolgendo alcuni vascelli con la sua mole. Le esplosioni ne costellarono la superficie. Molte venivano da dentro, perché ora la Nave Comando intrappolata aveva aperto il fuoco per liberarsi. Ma era troppo tardi: Hadron aveva già attivato l’autodistruzione. L’ammiraglia Voth svanì in un lampo più accecante della vicina stella, distruggendo parecchie navi Borg che l’attorniavano. L’immane esplosione d’antimateria travolse anche la Nave Comando al suo interno, colpendola su ogni lato. Per un attimo lo scafo sventrato apparve tra le fiammate e i vapori, poi il vascello Borg si disintegrò a sua volta.
   Questo fu l’apice della battaglia, che tuttavia si protrasse per un’altra ora, finché quasi tutti i vascelli difensori furono distrutti o assimilati. La grande armata posta a difesa del sistema solare non c’era più. L’orgoglio dei Voth era spezzato, il loro Ammiraglio perito in battaglia, la loro tecnologia caduta in mano al nemico. Mezzo milione di sauri erano stati assimilati, con il loro bagaglio di conoscenze ed esperienze. Ai Pacificatori, se possibile, era andata ancora peggio. Solo un decimo delle loro astronavi riuscì a fuggire e nessuna era in condizioni di affrontare un’altra battaglia. Si ritenne che il Comandante in Capo dei Pacificatori fosse stato assimilato, posto che non fosse riuscito a togliersi la vita prima che i droni gli fossero addosso; in ogni caso non fu mai ritrovato.
   Quanto ai Borg, anche la loro flotta era stata falcidiata dalla tremenda battaglia. Eppure i loro danni erano moderati, se paragonati a quelli dei difensori. L’unica perdita insostituibile era la Nave Comando, ma la Regina Borg era sopravvissuta a bordo del suo vascello a forma di diamante. Questo lo dimostrò subito, trasmettendo un nuovo messaggio in cui esortava l’Unione ad arrendersi. E non minacciava a vuoto, perché a fronte di molti vascelli perduti, i Borg ne avevano assimilati ancora di più. Accadde così che essi uscirono dalla battaglia più forti di quando vi erano entrati. Le loro navi si erano definitivamente adattate a ogni arma dei difensori e le loro conoscenze dell’Unione erano così dettagliate da vanificare qualunque strategia per fermarli. Avrebbero raggiunto la Terra di lì a poche ore. Il brillamento solare scintillò sugli scafi butterati, ma che già si stavano riparando, come un sinistro presagio degli orrori imminenti.
 
   Nella sala tattica di Rangda regnava un silenzio di tomba. Ministri e alti funzionari del governo si guardavano l’un l’altro, increduli, come a trovare conferma di ciò che avevano appena visto e sentito. Alcuni fissavano ancora lo schermo, come istupiditi, incapaci di accettare la realtà. La Presidente, dal canto suo, sembrava essersi pietrificata. I suoi grandi protettori erano sconfitti e in fuga; da loro non sarebbe più giunto alcun aiuto. E i Borg stavano arrivando.
   Lyra si guardò intorno, così scioccata che si sentiva sul punto di svenire. Si trovava tra coloro che governavano l’Unione e avrebbero dovuto decidere come salvarla, ma era evidente che nessuno aveva la minima idea di cosa fare. Si erano affidati interamente ai Voth e, dopo il loro fallimento, non avevano un piano di riserva. Ora sembravano dei bambini che hanno fatto un danno e non sanno come rimediare. «E io non sono meglio di loro» si disse la mezza Xindi. Anche lei brancolava nel buio ed era così spaventata da non riuscire a pensare con chiarezza. Si accorse però che l’ufficiale di collegamento Voth parlottava al comunicatore. D’un tratto fu teletrasportato via, richiamato dalla sua gente.
   «Ehi, ma dove va?! Torni subito qui!» gridò Rangda, rianimandosi. «Presto, mettetemi in contatto con Shantu!» ordinò poi ai Pacificatori presenti in sala.
   La linea fu prontamente stabilita. Il Cancelliere era irriconoscibile, tanto le sue scaglie erano blu di paura. «Beh, che vuole?!» chiese sgarbatamente.
   «Come, che voglio? La vostra flotta...».
   «Non c’è più, vecchia stupida!» berciò il sauro. «È tutto finito, capisce? FI-NI-TO! Quindi ce ne andiamo!».
   «Come sarebbe, ve ne...».
   «Ha ragione, i Voth stanno abbandonando il pianeta!» avvertì un Pacificatore, chino su una consolle. «Le loro navi teletrasportano i coloni. Li imbarcano a milioni, ovunque siano, senza dargli modo di raccogliere i loro averi».
   «Già, saremo fortunati a prendere tutti in tempo» borbottò Shantu. «Dopo di che ce ne andremo».
   «Cioè tornate nel Quadrante Delta? Abbandonandoci ai Borg?!» esclamò il Ministro della Difesa.
   «Abbiamo fatto quello che potevamo. Ora basta. Non intendo sacrificare altri Voth per difendere questo sporco pianeta, che vada in malora!» inveì il Cancelliere. «Non avremmo mai dovuto reclamarlo... non ha rappresentato altro che sventura per noi».
   «Per voi?!» proruppe Lyra, scattando in piedi. «Il vostro arrivo è stata la nostra sventura! Eravamo in pace; voi ci avete rubato la capitale e gettati nella Guerra Civile! Ci avete ridotti a vassalli e al primo serio pericolo scappate! Noi vi abbiamo dato tutto e in cambio ci abbandonate a morte certa!».
   «Sveglia, ragazzina! Questa è la vita vera, non uno dei vostri olo-romanzi dove vincono sempre i buoni!» ringhiò il sauro. «D’ora in poi ognuno pensa a sé. Noi ce ne andiamo. Se vi resta un po’ di buonsenso, farete altrettanto».
   «Ci sono ancora miliardi di cittadini dell’Unione su Vothan... sulla Terra» si corresse Lyra. «Non possiamo imbarcarli tutti. Non in poche ore!».
   «È un problema vostro. Pensateci voi. Addio e a mai più rivederci!». Ciò detto il Cancelliere troncò la comunicazione.
   Tornò il silenzio, ma ora gli sguardi allucinati dei presenti convergevano su Rangda. La Presidente se ne accorse e si riscosse, schiarendosi la voce con un piccolo «ehm». «Beh, che fate lì impalati?» chiese, passando lo sguardo sui sottoposti. «Chiamate la mia nave, così c’imbarchiamo».
   «Destinazione?» chiese l’ufficiale dei Pacificatori.
   «Il pianeta dell’Unione più lontano da qui, che domande!».
   «E la Terra?» chiese Lyra, dato che nessun altro lo faceva. «Che ne sarà della Terra?».
   «Hai sentito i Voth. La Terra è perduta» rispose la Presidente, glaciale.
   «I Voth hanno detto che loro se ne infischiano, ma noi...».
   «Abbiamo affrontato i Borg al loro fianco e abbiamo perso. Pensi che andrà meglio, se li affrontiamo da soli?».
   «No, ma...» esitò Lyra. «Insomma, non abbiamo piani per quest’evenienza?».
   «La ritirata è il piano» spiegò Rangda. «Ci raduneremo a debita distanza per riorganizzarci».
   «Ma la Terra...» insisté la mezza Xindi, con le lacrime agli occhi.
   «Non voglio più sentir nominare questo miserabile, squallido, odioso pianeta!». Il sibilo di Rangda fu più perentorio di un grido.
   Lyra ammutolì, sapendo che era inutile ostinarsi: avrebbe solo compromesso la sua posizione. Così restò in silenzio, mentre la Presidente e i suoi accoliti si assicuravano la via di fuga. Di lì a pochi minuti il vascello presidenziale li teletrasportò a bordo. In quanto Ministro, anche Lyra fu imbarcata. Una volta lì scoprì che anche i Senatori e i capi del partito venivano prelevati. E non c’era dubbio che i leader superstiti dei Pacificatori stessero salendo sulle loro astronavi. Dopotutto ce n’erano ancora quattrocento nel sistema solare. Ma presto non ne sarebbe rimasta nessuna, perché intendevano ritirarsi con Rangda.
   Nell’ora seguente Lyra si affannò da un capo all’altro della nave, facendosi largo a spintoni nei corridoi sovraffollati, alla ricerca di qualcuno con cui discutere l’evacuazione dei Terrestri. Ma non trovò nessuno che ne sapesse qualcosa o fosse interessato a parlarne. Tutti erano concentrati unicamente sulla propria sicurezza. C’era chi si lamentava di non aver potuto passare da casa a prendere le sue cose, chi pensava alla ristretta cerchia dei suoi amici e parenti. I più illuminati si chiedevano cosa sarebbe accaduto ai loro pianeti d’origine, anch’essi esposti all’invasione Borg. Ma neanche uno s’interessava alla sorte dei Terrestri. Era chiaro che tutti li davano per spacciati e quindi non volevano perdere tempo a discuterne.
   Alla fine Lyra si chiuse nell’alloggio assegnatole e consultò il Federal News. Scoprì che il notiziario Olonet non parlava minimamente della disfatta e fuga dei Voth, e nemmeno della ritirata di Rangda e dei Pacificatori. Gli abitanti della Terra, e di tutta l’Unione, erano ignari della rovina incombente. Lyra comprese che la congiura del silenzio serviva a impedire che la gente terrorizzata prendesse d’assalto gli spazioporti, in cerca di mezzi con cui lasciare il pianeta. Questi c’erano, ma erano riservati a chi era abbastanza altolocato o ammanicato da ottenere un posticino per sé. E a giudicare dalla rapidità con cui le navi si riempivano, pareva che molti si fossero prenotati un posto a bordo fin da prima della battaglia. A Lyra venne in mente un vecchio detto che aveva sentito lì sulla Terra: «Quando la nave affonda, i topi scappano». Il fatto che anche lei fosse a bordo non deponeva a suo favore.
 
   I primi ad andarsene furono i Voth, con i vascelli sovraccarichi di coloni isterici, strappati alle loro case senza una spiegazione. La Nave Città e le sei Navi Bastione di scorta abbandonarono l’orbita in tutta fretta, sotto gli occhi truci dei Pacificatori, che tuttavia non osarono fermarli. Lasciavano Sauropoli e le altre colonie come città fantasma, costruite in fretta e ancor più in fretta abbandonate.
   Fu poi la volta delle autorità civili dell’Unione, scortate dai Pacificatori. La prima a lasciare l’orbita fu la nave presidenziale. Osservando dalla finestra del suo alloggio, Lyra si avvide che la Terra era circondata da un alone azzurrino. Dunque i Pacificatori avevano attivato lo Scudo Planetario come estrema protezione. Anche le piattaforme orbitali si erano dispiegate. Erano numerose e potenti; sarebbero state efficaci contro una flotta tradizionale. Ma Lyra sapeva che mai e poi mai avrebbero arrestato l’armata Borg. Potevano distruggere qualche sfera e vascello scout, magari alcune navi dei Pacificatori assimilate; ma alla fine sarebbero state sopraffatte dai Cubi. Quanto allo Scudo Planetario, non avrebbe resistito a lungo sotto il bombardamento dei Borg. Dunque i Pacificatori avevano preso quelle misure semplicemente per poter dire che “avevano fatto il possibile”, non perché costituissero una valida difesa del pianeta.
   La Terra rimpicciolì rapidamente per la distanza, finché divenne un minuscolo puntino azzurro, smarrito nell’immensità dello spazio. Lyra fu certa che non l’avrebbe mai più vista dal vivo. Attorno alla nave presidenziale vide altri vascelli, alcuni governativi, altri precettati per l’emergenza. Erano stipati di coloro che, avendo lo status o i giusti agganci, si erano potuti comprare la salvezza. Più tardi la mezza Xindi scoprì che in realtà molti di quei vascelli erano mezzi vuoti e altri erano rimasti addirittura a terra, perché nella fretta e nella confusione non si erano individuate le persone “meritevoli di salvezza”.
   Il convoglio era scortato dalle navi dei Pacificatori, ben quattrocento. Complessivamente avrebbero potuto accogliere un milione di passeggeri. Ma era mancato il tempo, e forse la voglia, di farlo. La presenza di tanti civili furiosi e traumatizzati a bordo avrebbe comportato seri problemi d’ordine. Così i Pacificatori avevano deciso di lasciarli a terra.
   «Oh, poveri noi» si disse Lyra, accasciandosi presso la finestra. Ora comprendeva appieno l’inadeguatezza della classe dirigente e il tradimento nei confronti della popolazione che in essa confidava. Avrebbe voluto tagliarsi le vene, piuttosto che vivere per vedere la completa rovina dell’Unione. Ma non ne ebbe la forza, così si buttò sul letto e vi restò a singhiozzare. Intanto il convoglio entrò in cavitazione quantica, abbandonando la Terra al suo destino.
 
   Dopo le ore d’attesa e ansia, in cui i Terrestri aspettavano di conoscere l’esito della battaglia contro i Borg, l’agitazione cresceva sempre più. Le notizie tardavano ad arrivare; il Federal News continuava ad ammonire tutti a restare in casa. Ma chi era in contatto con i Voth, o con le autorità civili e militari dell’Unione, ebbe sentore dell’evacuazione in corso. E chi possedeva un telescopio lo rivolse al cielo, scoprendo la fuga delle astronavi. Il passaparola corse sull’Olonet, suscitando le teorie più disparate su quanto stava accadendo. Molti si aggrapparono alla speranza che Voth e Pacificatori si stessero ancora schierando per difenderli a poca distanza dalla Terra. Ma quando lo Scudo Planetario fu attivato, tutti compresero che la situazione era grave.
   Il silenzio delle autorità divenne sempre più spaventoso, finché i cittadini esasperati scesero in strada a protestare. Le proteste divennero tumulti; i tumulti degenerarono in guerriglie urbane. La polizia stessa non aveva ricevuto ordini chiari su come comportarsi, tanto che in alcune zone le manifestazioni furono represse duramente e in altre si lasciò che le città fossero messe a ferro e fuoco. Nessuna delle due cose giovò ai Terrestri. Poco alla volta, comunque, le notizie si rincorsero sull’Olonet. Voci non confermate sostenevano che Voth e Pacificatori erano stati sbaragliati e i Borg stavano arrivando per assimilare tutti.
   «No, è solo sporca propaganda della Federazione!».
   «Sì invece, me l’ha detto mio cugino che lavora per il governo!».
   «I Voth ci salveranno!».
   «I Voth sono scappati per primi!».
   «Dove sono i Pacificatori?».
   «Sono schierati ai margini del sistema solare».
   «No, scortano la Presidente in fuga».
   «Ti sbagli, la Presidente è stata assimilata dai Borg».
   «Sbagliate tutti, la Presidente è la Regina Borg. Me l’ha detto Q, in sogno!».
   Si sa come vanno queste cose. Nell’era dell’informazione le notizie corrono, ma è difficile distinguere la verità dalle bufale. E gli umanoidi tendono a selezionare le notizie che confermano i propri pregiudizi, ignorando le altre. Così sulla Terra c’erano quasi altrettante opinioni che teste. Con il passare delle ore, tuttavia, almeno una cosa fu palese: l’opacità – anzi l’assenza – di comunicazione da parte del governo. E già questo dimostrava che la situazione era grave. Sempre più persone inoltre rivolgevano telescopi e altri sensori al cielo, constatando che non c’erano più navi a difesa della Terra.
   Il panico si diffuse tra la popolazione, che assaltò spazioporti e caserme per conquistare le navicelle. In risposta i sorveglianti – guardie, poliziotti – aprirono il fuoco con i raggi stordenti. Ma non c’era modo di fermare la marea umana. Le folle disperate usarono i corpi di quanti erano stati storditi per formare cumuli con cui scalare le recinzioni dei campi d’atterraggio e buttarsi dall’altra parte. Alcuni usarono le vetture o i camion levitanti come arieti per sfondare i recinti. I rivoltosi sopraffecero i custodi, strappando loro le armi, e raggiunsero le navette. Dopo di che cominciarono a litigarsele: chi si era impadronito di un’arma la usò, gli altri si batterono a mani nude. Quelli che arrivarono a mettere le mani sui comandi si affrettarono a chiudere i portelli e decollare. Notando che c’erano altri disperati ancora aggrappati allo scafo esterno, che picchiavano i pugni per farsi aprire, fecero rollare le navicelle per liberarsene. Poi puntarono il muso verso l’alto, con l’idea di lasciare la Terra.
   Solo allora i fuggiaschi si avvidero che lo Scudo Planetario avvolgeva completamente il pianeta. Non c’erano aperture, da nessuna parte. Se ciò impediva agli invasori di entrare, impediva anche ai residenti di fuggire. I Terrestri erano prigionieri di un mondo che stava per essere assimilato. Alcuni non si rassegnarono e rimasero in volo, alla ricerca di un varco o nell’attesa che i Pacificatori si decidessero a levare lo Scudo. Altri atterrarono, rassegnati alla loro sorte. Altri ancora persero l’ultimo briciolo di ragione e si gettarono a capofitto contro lo Scudo, distruggendo se stessi e le navette. Queste tragiche azioni furono registrate e trasmesse via Olonet. Allora i popoli dell’Unione cominciarono a capire cosa accadeva ai Terrestri, con il risultato che panico e violenza dilagarono anche sugli altri mondi. E dalle autorità non giungevano ancora spiegazioni.
 
   Quando si era giunti ormai al parossismo, i Borg raggiunsero il sistema solare. La loro immensa flotta superò le colonie senza attardarsi e puntò dritta sulla Terra. A bordo del suo vascello ottaedrico, la Regina Borg osservò il pianeta, avvolto dal sottile Scudo Planetario. Per lei non era un ostacolo difficile da oltrepassare. Ma per i Terrestri stipati là sotto, era una barriera che impediva la fuga.
   «Che carini... li hanno tenuti al fresco per noi» commentò la sovrana. I sensori le confermarono che Voth e Pacificatori avevano abbandonato il sistema solare. La Terra era difesa solo dallo Scudo e dalle piattaforme orbitali, che in mancanza d’una flotta di supporto erano un ostacolo da poco per l’agguerrita flotta Borg.
   «Straordinario» mormorò la Regina. «Hanno commesso tutti gli errori tattici e strategici possibili. Se si fossero sforzati di perdere, non avrebbero potuto fare di meglio». Era un’ulteriore prova di quanto fosse indispensabile, per i popoli dell’Unione, essere accolti nella Collettività e condividerne la perfezione. Solo questo poteva salvarli dalla frenesia autolesionista che si era impossessata di loro.
   In quel momento anche i Terrestri scrutarono il cielo, avvedendosi che l’armata Borg era sopra di loro. Videro altresì che il pianeta poteva contare solo sulle difese automatiche e su nessuna astronave. Allora compresero che Rangda li aveva abbandonati a una sorte peggiore della morte. 
 

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Capitolo 12
*** Chi va a Roma... ***


-Capitolo 11: Chi va a Roma...
 
   La Regina Borg osservò la sua flotta che apriva il fuoco contro lo Scudo Planetario e le piattaforme orbitali terrestri. Queste ultime risposero al fuoco, distruggendo alcuni piccoli vascelli scout. Poco male... ne aveva in abbondanza. E dall’assimilazione della Terra, la Collettività avrebbe tratto molti più droni e materiali di quelli che aveva sacrificato nella conquista. Era così che si espandeva, e la strategia funzionava piuttosto bene. Ogni tanto c’era una battuta d’arresto, davanti a una resistenza particolarmente ostinata; ma alla fine i Borg trovavano sempre il modo di superare l’ostacolo e tornare all’attacco. Un giorno avrebbero assimilato tutta la Via Lattea, e allora sarebbero partiti alla volta delle altre galassie, in un’espansione illimitata.
   A questo pensiero, la Regina provava... non gioia, essendo al di sopra delle emozioni, ma un senso di pienezza e realizzazione ugualmente appagante. Stava portando avanti le direttive della Collettività; che poteva esserci di meglio? Ne aveva fatta di strada da quand’era Sela II, sovrana dello Stato Imperiale Romulano. All’epoca la sua visione era ristretta: voleva la supremazia di un popolo e una cultura su tutti gli altri. Ora invece mirava alla perfetta eguaglianza. Meglio ancora, mirava all’annullamento di ogni barriera tra l’individuo e la società. Tutti i droni erano la Collettività e la Collettività era in ogni drone. Che c’era di più perfetto di questo? Quale altra società poteva vantarsi di aver raggiunto una tale armonia?
   In quella i sensori l’avvertirono di una flotta in avvicinamento. Una flotta che si muoveva a velocità di transcurvatura. Il fronte d’onda subspaziale era così poderoso che la Regina sentì tremare il suo vascello. Piegò di scatto la testa, concentrandosi su questo problema imprevisto. Che fossero altri Voth? Negativo... la traccia di transcurvatura era diversa. E non potevano essere nemmeno i Pacificatori, le cui navi avevano un diverso sistema propulsivo. Ma allora di chi si trattava? La Regina cercò un riscontro nella sterminata banca dati della Collettività. Non trovandolo, decise di correre ai ripari.
   L’armata Borg interruppe il fuoco contro lo Scudo Planetario, indebolito ma ancora attivo. I vascelli uscirono rapidamente dal raggio di tiro delle piattaforme e si disposero a fronteggiare un assalto dall’esterno. Ed ecco i misteriosi vascelli uscire dalla transcurvatura, più numerosi delle api in uno sciame. Erano di varia misura, ma tendenzialmente massicci. Alcuni erano ovoidali, altri oblunghi, altri ancora a disco. In ogni caso avevano forme semplici, con pochi dettagli sulla superficie. Erano in assetto di guerra, con gli scudi alzati e le armi innescate. Tutti quanti proiettavano un campo di smorzamento che, dato il loro numero, copriva gran parte del sistema solare. In quel campo il teletrasporto era impossibile e persino la transcurvatura diventava instabile, impedendo la fuga. Con la perfetta coordinazione di uno sciame, le astronavi si dispiegarono a circondare l’armata Borg.
   Finalmente la Regina ebbe un riscontro nel suo database. Alcuni ufficiali dei Pacificatori assimilati negli ultimi giorni conoscevano quel tipo di navi. Le informazioni venivano dalla missione esplorativa condotta dall’Enterprise-J nella galassia di Andromeda. Quei vascelli appartenevano ai Proto-Umanoidi, la più antica di tutte le stirpi, il ceppo da cui erano derivate le specie successive. Da lungo tempo avevano abbandonato la Via Lattea, tanto che il loro ricordo era svanito, e anche i pochi informati su di loro pensavano che ormai si disinteressassero dei propri “figli”. Ma si sbagliavano.
   Gli antichi dèi erano tornati.
 
   Quando il suo vascello ricevette una chiamata dai Proto-Umanoidi, la Regina Borg l’accettò subito. La conversazione si tenne in olo-presenza. Davanti alla Regina comparve un’umanoide di media statura e carnagione beige, dal cranio calvo e i lineamenti abbozzati. Indossava un abito lungo dalle linee semplici, di un bianco purissimo; l’unico ornamento era un medaglione argenteo sul petto, con impresso l’uroboro. «Sono Talat, Prima Delegata del Popolo» si presentò con voce armoniosa.
   «E io sono i Borg» rispose la Regina, più roca. «Conosco la vostra gente. Che ci fate qui?».
   «Siamo giunti in risposta alla chiamata della Federazione» rispose Talat. «Intendiamo fare da giudici per la contesa sulla Terra. Eravamo pronti ad affrontare i Voth, qualora avessero rifiutato di sottoporsi al nostro arbitrato. Ma a quanto vedo, i sauri non sono più un problema. Voi lo siete» avvertì.
   «E perché mai? Non siamo vostri nemici... al contrario, siamo il coronamento dei vostri desideri!» proclamò la Regina Borg. «Conosco il messaggio che avete nascosto nel DNA delle specie umanoidi. “La nostra speranza era che arrivaste tutti insieme, in amicizia e fratellanza, a sentire questo messaggio. Voi siete un monumento... non alla nostra grandezza, ma alla nostra esistenza. Questo desideravamo: che anche voi conosceste la vita, e che teneste viva la nostra memoria. C’è una piccola parte di noi in ognuno di voi... e di conseguenza, qualcosa di voi in tutti gli altri”» recitò, mentre girava intorno a Talat.
   «Ebbene, questo è esattamente l’intento della Collettività!» proseguì la Regina. «Noi non dimentichiamo niente, quindi certo non ci dimenticheremo di voi. Abbiamo raccolto popoli un tempo nemici, realizzando quell’unione d’intenti da voi auspicata. Le vostre caratteristiche, che si erano frammentate in una miriade di specie, noi le abbiamo finalmente riunite. Siamo come voi... siamo meglio di voi. Siamo ciò che voi, da soli, non siete riusciti a diventare» insinuò, fermandosi a fronteggiare la Progenitrice.
   «Stammi a sentire, ragazzina!» la ridimensionò Talat. «Quando immaginavamo la nostra progenie, non pensavamo certo a qualcosa come te. Tu sei l’esatto opposto della nostra antica speranza. Poiché eravamo soli, decidemmo di creare nuova vita, ma poi le lasciammo campo libero, così che questa si evolvesse da sé in modi che non potevamo neanche immaginare. Così fiorì la ricchezza di forme, di colori, di voci! Così crebbe la diversità di usanze, di pensiero, di cultura! Ecco perché la Via Lattea è più ricca di ogni altra galassia del cosmo. Ci sono più conflitti, è vero; ma ci sono anche più incontri, più scoperte, più fertili scambi d’idee! I Vulcaniani lo hanno ben compreso, con la filosofia dell’IDIC: infinite diversità in infinite combinazioni!
   E ora voi volete riportare tutto al grigiore indistinto dell’uniformità. Peggio ancora, volete privare i nostri figli del dono più grande che gli abbiamo fatto: il libero arbitrio! Non lo permetteremo!» disse la Proto-Umanoide con risolutezza.
   «E chi siete voi per impedircelo?» ribatté la Regina Borg. «Ci avete dato la libertà, e questa è la strada che abbiamo scelto. Se non vi piace, peggio per voi. Dovevate farci diversi».
   «Noi vi abbiamo fatti diversi» obiettò Talat. «Tu stessa non sei sempre stata così. Un tempo eri Sela II, dello Stato Imperiale Romulano».
   «Quell’identità non esiste più. Sela era una creatura irrilevante, con una mente irrilevante. Io sono molto di più. Sono i Borg!» rivendicò la Regina.
   «Ancora per poco» ammonì la Progenitrice. «Non consentiremo a una singola idea, la peggiore, di soffocare tutte le altre. Non cancellerete la molteplicità della Galassia».
   «Potete prevalere oggi, ma alla fine anche voi sarete assimilati. La resistenza è inutile» minacciò la Regina.
   «No, è il dissenso che è inevitabile» ribatté Talat, e chiuse la comunicazione. L’attimo dopo i Proto-Umanoidi aprirono il fuoco contro i Borg.
 
   Se le fonti storiche sono vaghe riguardo alla Battaglia della Stella Fuggiasca, l’incertezza è ancora maggiore per quanto riguarda la successiva Liberazione della Terra. Ciò può stupire, dato l’enorme numero di navi coinvolte, superiore a ogni altra battaglia conosciuta della Via Lattea. Il paradosso si risolve considerando che, delle due flotte, una fu completamente distrutta, mentre l’altra tenne per sé le registrazioni degli eventi.
   Si sa per certo che i Proto-Umanoidi attaccarono in forze i Borg. Il numero delle loro navi è ignoto; possiamo supporre che superassero la Collettività in rapporto di almeno 10 a 1. La battaglia si tenne nelle immediate vicinanze del sistema Terra-Luna. Sappiamo che non durò a lungo, appena un’ora: tanto durò il black-out provocato dal campo di dispersione.
   Dopo i primi momenti, i Borg cercarono di fuggire, ma i loro vascelli non riuscivano a creare un campo di transcurvatura stabile. Anche il teletrasporto era ostacolato, impedendo ai droni di trovare scampo sulla Terra o sulla Luna. Allora i Borg provarono ad aprirsi un varco nello schieramento nemico. Non si ha notizia di alcun vascello che sia riuscito nell’impresa. Le navi scout e le Sfere furono distrutte per prime dal fittissimo fuoco incrociato. I massicci Cubi resistettero più a lungo, ma infine dovettero cedere alla soverchiante potenza di fuoco dei Progenitori. La titanica Nave Comando sarebbe forse riuscita a rompere l’accerchiamento, ma era stata distrutta nella precedente battaglia contro i Voth e i Borg non ne avevano altre nella loro flotta. La Regina si trovava ora a bordo del vascello a forma di diamante, di stazza assai più ridotta. Ancora oggi si dice che sia stata la nave ammiraglia di Talat a distruggerlo, ma ciò non può essere provato. In ogni caso è opinione condivisa che quell’incarnazione della Regina Borg, nel corpo assimilato di Sela, fu distrutta.
   Una delle questioni più dibattute riguarda l’entità delle perdite subite dai Proto-Umanoidi. Malgrado il loro vantaggio numerico, era inevitabile che un certo numero di vascelli fosse distrutto. Sembra altresì logico supporre che i Borg cercassero di assimilare i Progenitori e la loro tecnologia, similmente a quanto avevano fatto con i Voth. Eppure, nei successivi incontri con la Collettività, risultò che ciò non si era verificato. Secondo una corrente di pensiero i Proto-Umanoidi mandarono avanti vascelli completamente automatizzati, programmati per autodistruggersi non appena gli scudi cedevano, così che i Borg non avessero nulla da assimilare. Un’altra teoria afferma che alcuni vascelli dei Progenitori furono invasi, e poi distrutti dagli altri, ma il campo di dispersione impedì ai Borg di trasmettere quanto appreso al resto della Collettività. E poiché nessun vascello Borg sfuggi all’accerchiamento, queste conoscenze perirono con loro. In ogni caso è lecito credere che le perdite subite dai Proto-Umanoidi siano state lievi, in rapporto alla loro enorme flotta.
   Un ultimo enigma riguarda gli innumerevoli detriti che certo dovettero affollare lo spazio a battaglia conclusa. È noto che i sistemi stellari teatro di grandi battaglie, come Procyon, sono divenuti pericolosi cimiteri spaziali. La gran quantità di frammenti d’ogni misura, lanciati a velocità altissime, rendono pericolosa la navigazione, tanto che questi sistemi sono spesso dichiarati off-limits. Inoltre la presenza di residuati bellici e altre tecnologie attrae immancabilmente delle attenzioni. Mercanti di rottami, pirati, spie sono tra i più attivi frequentatori e saccheggiatori di questi cimiteri. E la tecnologia Borg è nota per l’inquietante capacità di auto-ripararsi.
   Eppure quando le prime navi giunsero nel sistema solare dopo la battaglia, non trovarono detriti di sorta. Estese ricerche condotte negli anni seguenti hanno dato lo stesso risultato. Si ritiene che siano stati i Proto-Umanoidi a eliminare tutti i resti, sia Borg che propri. Per far questo avrebbero usato una versione più “addomesticata” e controllabile della Scourge, l’agglomerato di naniti che aveva quasi cancellato la vita da Andromeda. Questa cosiddetta “Melma Grigia” può scomporsi in un’infinità di minuscole sferule, capaci di setacciare enormi volumi di spazio. Quando incontrano il bersaglio designato cominciano subito a scomporlo, usandone la massa per auto-replicarsi. In tal modo un singolo nanite può sciogliere un grande relitto, creando miliardi di repliche che continuino a eseguire la direttiva. C’è da credere che, dopo i disastri provocati dalla Scourge fuori controllo, i Proto-Umanoidi ne abbiamo riscritto la programmazione, rendendola più sicura. Di certo non una goccia di Melma Grigia è mai stata ritrovata nel sistema solare, segno che se essa fu usata, i Progenitori ne mantennero il controllo. Dunque a lavoro ultimato la richiamarono a bordo dei propri vascelli, o forse la mandarono a disintegrarsi nel Sole.
   Molti hanno commentato questa battaglia, ma forse nessuno è stato più pregnante del dottor Juri Smirnov, che ebbe a dire: «È incredibile ciò che si riesce a fare, se solo si decide di farlo...».
 
   La prima flotta a raggiungere il sistema solare, dopo la sua liberazione, fu quella dell’Ammiraglio Chase da Kronos. La scoperta che i Proto-Umanoidi erano tornati, sconfiggendo i Borg, aveva galvanizzato la Federazione, che si era scrollata di dosso il senso di fallimento e rovina incombente. Così l’Ammiraglio Chase poté condurre i resti della Flotta Stellare nel cuore del territorio nemico. A Kronos rimase l’Ammiraglio Ilia Tarn con una manciata di navi klingon, ancora impegnate nella stabilizzazione di Praxis. Dovevano anche proteggere Kronos in caso di attacco, sebbene questa fosse ormai un’eventualità remota.
   La Khitomer, l’ammiraglia di Chase, si accostò alla Terra per la prima volta in tre anni, seguita dalle trecento navi della Flotta Stellare. Fra queste vi erano la Constellation e la Sha Ka Ree, le navi di Lantora e T’Vala. Trovarono la Terra ancora circondata dalla flotta dei Proto-Umanoidi, che tuttavia si andava riducendo: sempre più navi se ne dipartivano per setacciare il Quadrante in cerca delle rimanenti forze Borg. La principale flotta Borg ancora invitta aveva attaccato lo Stato Imperiale Romulano e i Progenitori intendevano eliminare anche quella. Inoltre c’era il pianeta Zakdorn da ripulire.
   «Quanto tempo...» mormorò Chase, riconoscendo i vascelli dei Proto-Umanoidi. Era dalla fine della missione ad Andromeda, quasi trentaquattro anni prima, che non li vedeva. «Analisi sensoriale, cercate la Keter» ordinò.
   «Eccola, signore» rispose l’addetto, inquadrandola sullo schermo.
   La nave corazzata orbitava a fianco dell’ammiraglia di Talat. Sull’altro lato del mastodontico vascello vi era la Luce di Kelva, la nave di Fanior, che aveva seguito gli alleati in quell’impresa. Chase non l’aveva mai vista, ma ne riconobbe il modello, poiché era simile alle navi kelvane che aveva incontrato ad Andromeda. «Fanior» capì subito. «Alla fine sei tornato, vecchio mio». Avrebbe voluto parlare subito con lui e con Hod, ma un Ammiraglio anteponeva il dovere al piacere delle rimpatriate. «Chiamate la nave madre dei Proto-Umanoidi» ordinò.
   Apparve Talat, identica a come la ricordava: le vite dei Progenitori scorrevano lente, a paragone di quelle umane. «Ammiraglio Chase, sono lieta di rivederla» lo accolse la Prima Delegata.
   «È un sollievo anche per me» mormorò l’Ammiraglio, commosso. «A nome della Federazione... grazie. Ci avete dato la vita per la seconda volta».
   «Troppo a lungo ci siamo disinteressati della Via Lattea» affermò Talat. «Da oggi le cose cambieranno».
   «A tal proposito... suppongo che il Capitano Hod e gli altri l’abbiano aggiornata sulla nostra situazione».
   «Sì, e siamo qui per rispondere all’appello» confermò la Prima Delegata. «Ma c’è una cosa che deve sapere. La nostra Assemblea ha votato sulla questione. Siamo disposti a fare da arbitri tra voi e i Voth, e anche a imporre la nostra decisione ai sauri, qualora fossero recalcitranti. Per questo ho portato con me una flotta così vasta».
   «Scelta provvidenziale, dato che ci avete salvati dai Borg» notò l’Ammiraglio.
   «Questo non lo immaginavano neanche noi, venendo qui» ammise Talat. «Gli eventi si sono rincorsi più di quanto chiunque prevedesse. Ora vi aiuteremo a eliminare le ultime forze d’invasione Borg. E come dicevo, ci pronunceremo sul destino della Terra. Ma c’è una cosa che, per delibera dell’Assemblea, non possiamo fare» avvertì.
   «Sarebbe?».
   «Fornirvi supporto militare contro l’Unione» rivelò la Progenitrice. «Questo significherebbe violare la nostra legge più antica e sacra, quella che c’impedisce di schierarci nei conflitti tra i nostri figli e spargere il loro sangue. Solo nel caso dei Voth possiamo fare un’eccezione, perché il conflitto scaturisce dalla nostra antica decisione di preservarli dall’estinzione. Dunque siamo già coinvolti, nostro malgrado. Ma la Guerra Civile che vi oppone all’Unione è d’altra natura: nasce dai vostri problemi sociali e politici. Dunque, anche se distruggessimo ogni nave dei Pacificatori, essa non si risolverebbe. Siete voi gli unici che possono porvi rimedio. Siamo disposti anche in questo caso a fare da pacieri, ma non combatteremo».
   «Capisco» disse l’Ammiraglio. Non provò a insistere, perché sapeva che se l’Assemblea aveva deliberato nemmeno Talat poteva fare altrimenti. «Mi permetto tuttavia di sottoporvi un ultimo problema, di cui la Keter non era informata all’atto della partenza» disse. «Qualche settimana fa, i Voth hanno alterato l’orbita della luna Praxis, che ora minaccia di precipitare su Kronos. Se ciò accadesse, morirebbero miliardi d’innocenti. Stiamo cercando in ogni modo di stabilizzare l’orbita, ma finora siamo riusciti solo a guadagnare tempo. Anche se non potete combattere i vostri figli, io vi prego di salvare quelli che sono in pericolo».
   Talat esitò davanti a quella richiesta che comportava pur sempre un’interferenza nella Guerra Civile. «Dato che sono stati i Voth ad alterare l’orbita lunare per questo infame scopo... ebbene sì, interverremo» disse infine. «Manderò alcune navi a Kronos, per occuparsene» promise. La sua decisione era ai limiti della legalità, considerato il verdetto dell’Assemblea; ma non intendeva lasciar perire un intero mondo.
   «Grazie di nuovo» disse Chase, con il cuore più leggero. «Se vorrà salire sulla mia nave, o magari scendere a terra, sarà la benvenuta».
   «Perché no? Dopo aver sentito tanto parlare del vostro mondo, mi piacerebbe visitarlo» ammise Talat. «Sa, somiglia molto alla nostra antichissima patria» aggiunse con una punta di rimpianto.
   «Allora c’incontreremo ad Atlantide, appena sarà resa sicura» propose l’Ammiraglio. «Prima però vorrei che mi togliesse una curiosità. I nostri sensori indicano che il varco nella Barriera Galattica sfruttato dalla Keter per uscire si è richiuso...».
   «Sì, il Capitano Hod mi ha detto che hanno dovuto sigillarlo, per impedire ai Pacificatori d’inseguirli» annuì la Progenitrice.
   «Allora come avete fatto a rientrare nella Via Lattea? Ne avete individuato un altro?» chiese l’Umano. «Immagino che i vostri vascelli possano passare ugualmente, ma la Keter e la nave kelvana non possono averlo fatto».
   A quelle parole Talat rimase interdetta per qualche istante, dopo di che scoppiò in una risata di genuino divertimento. «Non se la prenda se rido!» disse, ricomponendosi a fatica. «È solo che, vede... voi federali non pensate abbastanza in grande. Siamo stati noi a creare la Barriera, eoni fa, per proteggere i nostri figli dalle invasioni extra-galattiche. E come l’abbiamo creata, così siamo capaci di eliminarla».
   «Vuol dire che...» boccheggiò Chase.
   «Eh sì, amico mio. Venendo qui abbiamo tolto la Barriera, visto che fuori non ci sono pericoli incombenti. Adesso si può entrare e uscire liberamente».
 
   Il giorno dopo i Voth si ripresentarono nel sistema solare. Erano in rotta per il Quadrante Delta quando dall’Olonet avevano appreso la disfatta dei Borg e subito avevano fatto dietro-front. La Nave Città e la sua scorta uscirono dalla transcurvatura a poca distanza dalla Terra. Qui si trovarono la rotta sbarrata da un numero ancora consistente di vascelli dei Proto-Umanoidi.
   «Dunque è tutto vero... i federali hanno trovato dei potenti alleati» commentò il Capitano della Nave Città.
   «Silenzio!» ordinò Shantu, in preda a sensazioni contrastanti. La sconfitta dei Borg era un bene, ma la presenza di quei nuovi alieni lo inquietava. «Aprite un canale con l’ammiraglia» ordinò.
   Anche stavolta Talat apparve in olo-presenza. «Siete tornati» disse, con aria sdegnosa. «Mi chiedevo se avreste avuto la faccia tosta».
   «Come si permette?! Io sono il Cancelliere Shantu, dell’Autorità Voth!» rivendicò il sauro con orgoglio.
   «E io sono Talat, Prima Delegata del Popolo!» ribatté la Progenitrice. «Sapete chi siamo?».
   «Conosciamo le teorie federali sull’origine comune degli umanoidi, ma non vi abbiamo mai dato peso» rispose il Voth. «Ci consideriamo i soli artefici della nostra grandezza».
   «Grandezza!» fece Talat, sprezzante. «Dal nostro punto di vista, siete solo dei bambini viziati».
   «Come osa!» s’inalberò Shantu, le scaglie imporporate d’ira. «Noi siamo la civiltà più antica della Via Lattea. La nostra storia comincia venti milioni d’anni orsono!» rivendicò.
   «La nostra storia, ragazzino, comincia quattro miliardi d’anni fa!» lo gelò Talat. «Fummo noi a inseminare gli oceani primordiali della Via Lattea con la vita. E fummo sempre noi a favorire l’evoluzione delle specie umanoidi, pur senza imporvi il nostro dominio. Tutto ciò che siete stati, che siete e che sarete, lo dovete a noi».
   «Il mio popolo non accetta facilmente simili teorie» avvertì il Cancelliere.
   «No, infatti. Ci avete messo due secoli ad accettare l’Origine Lontana!» sbuffò la Prima Delegata. «Forse ci metterete altrettanto ad accettare questa realtà. Ma ciò che dovete capire subito, pena gravi conseguenze, è che non potete reclamare di nuovo la Terra».
   «Perché no? È nostra per diritto di nascita!» s’intestardì il Voth. Pensava soprattutto a quanto si sarebbe indebolita la sua posizione in patria, se l’avesse ceduta.
   «Il vostro diritto di nascita era estinguervi dopo la caduta del meteorite!» tuonò Talat, andando in collera. Per quanto fosse minuta a paragone dei sauri, c’era qualcosa in lei che li fece arretrare spaventati.
   «All’epoca eravate delle bestie, prive d’abilità cognitive» proseguì la Progenitrice, più calma. «Tuttavia noi riconoscemmo un potenziale evolutivo nella vostra specie e decidemmo di salvarvi. Imbarcammo migliaia d’esemplari su grandi navi, insieme ad altri animali e piante del vostro ambiente. Vi preparammo un habitat accogliente su un pianeta-riserva e vi ci portammo attraverso le vastità dello spazio. Per evitare che un giorno reclamaste il vostro mondo d’origine, creando conflitti, vi scegliemmo una patria all’altro capo della Galassia. Purtroppo quest’accorgimento si è rivelato insufficiente, dato che la vostra ricerca vi ha condotti qui. E invece di collaborare in pace coi vostri cugini Umani, li avete scacciati!».
   «Noi non abbiamo scacciato nessuno. È stata l’Unione a concederci questo pianeta, nell’ambito del trattato di pace» rivendicò astutamente Shantu. «Tutto ciò che abbiamo fatto è perfettamente legale».
   «Gli Umani non la pensano così» disse Talat. «Di conseguenza ci hanno chiesto di fare da arbitri e noi abbiamo accettato».
   «Non riconosco la vostra autorità!» esclamò Shantu, pestando letteralmente i piedi.
   «Sarà meglio che lo faccia» avvertì Talat, di nuovo minacciosa. «Ricordi che abbiamo appena sconfitto i Borg. Dopo l’ultima battaglia credevo che aveste imparato la lezione, ma siamo pronti a darvene un’altra».
   «Spero che non si giunga a questi estremi» disse l’Ammiraglio Chase, comparendo in olo-presenza accanto a Talat.
   «Lei!» sibilò il Cancelliere, le scaglie rosseggianti d’ira.
   «Certo, l’Ammiraglio è un mio vecchio amico» confermò Talat. «Mi stava giusto dando qualche dettaglio in più sulle umiliazioni che avete inflitto alla sua gente».
   «Sono state infami, ma noi non cerchiamo vendetta» disse l’Umano, facendosi avanti sino a fronteggiare il Voth. «Lei è un politico, quindi la invito a esaminare la situazione con occhio spassionato. Voi sauri avete perso la faccia, perché dopo averci sottratto la Terra vi siete rivelati incapaci di difenderla. Peggio ancora, nella fuga avete abbandonato non solo gli Umani, ma anche gli alieni che da tempo risiedono sulla Terra. Ormai sono quasi metà della popolazione. Ciò vuol dire che vi siete inimicati tutti i popoli dell’Unione».
   Gli occhietti del Voth si riempirono di sgomento. Le sue scaglie trascolorarono verso il rosa, il colore della vergogna, ma in parte anche verso il blu della fifa.
   «Sì, Cancelliere... parlo di tutti quei popoli che hanno combattuto negli ultimi tre anni. Hanno dato il sangue per voi, e in cambio li avete abbandonati nell’ora del bisogno» incalzò l’Ammiraglio. «A questo punto credo proprio che l’Unione straccerà il vostro prezioso trattato. Rimarrete senza copertura legale, voi che date tanto peso alla legge» concluse.
   «Io... noi...» farfugliò Shantu, sopraffatto dalle rivelazioni. Cercò disperatamente una scappatoia per non sottomettersi al verdetto. «Che prove abbiamo che siate davvero i Progenitori?» chiese a Talat.
   «Vi forniremo le nostre testimonianze storiche sul salvataggio dei vostri avi» rispose l’interpellata.
   «Anche noi abbiamo delle testimonianze su quell’evento, raccolte dalla Keter nel corso di un’indagine temporale» rivelò Chase. Vedendo lo stupore del Voth, annuì sardonico. «In quell’occasione la Keter poteva contattare i Proto-Umanoidi, esigendo che vi lasciassero estinguere. Ma non l’ha fatto, perché malgrado tutto riteniamo che anche voi abbiate il diritto d’esistere. Ma non di scacciarci ed essere nostri padroni; questo mai!».
   «Noi... volevamo solo...» mormorò il Voth, rosa dalla vergogna, «... tornare a casa».
   «Anche noi vogliamo lo stesso» dichiarò l’Umano. «Sa, qui sulla Terra abbiamo un detto: “Chi va a Roma, perde la poltrona”. Significa che chi abbandona un posto, o rinuncia a un’opportunità, non può reclamarla in un secondo momento. Quando lasciaste la Terra per la prima volta, non eravate ancora senzienti e forse vi si può perdonare. Ma ora che l’avete lasciata in pasto ai Borg, non avete scuse. I Proto-Umanoidi l’hanno salvata e decideranno a chi assegnarla».
   «A nome dell’Umanità, accetta il nostro giudizio?» chiese Talat solennemente.
   «Lo accetto» confermò l’Ammiraglio.
   «E lei, a nome dei Voth, lo accetta?» chiese ancora la Progenitrice, rivolgendosi al Cancelliere che si era fatto piccolo per la vergogna. I suoi ufficiali erano immobili e muti.
   Shantu intuì che gli interlocutori stavano registrando la conversazione e l’avrebbero addotta come prova, se in seguito si fosse rimangiato la parola. Pensò ancora a come salvarsi, ma comprese d’essere in un vicolo cieco. Aveva già perso una grande flotta per mano dei Borg; ora non poteva inimicarsi sia i Proto-Umanoidi che l’Unione. «Io... accetto il verdetto dei Progenitori riguardo l’assegnazione del Mondo Perduto» si arrese.
   «Molto bene» disse Talat. «Poiché il Quadrante versa ancora in una grave instabilità, il verdetto emesso dalla nostra Corte di Giustizia sarà reso noto seduta stante». La Prima Delegata parlò in tono formale, perché quelle parole sarebbero state divulgate in tutta l’Unione, come anche sui mondi Voth.
   «Sappiate dunque che il nostro proposito, quando trasferiamo una specie da un mondo in cui è minacciata a un altro, è che il luogo di destinazione ne divenga a tutti gli effetti la patria. Qualora la suddetta specie riesca a rintracciare il suo pianeta d’origine, può reclamarlo solo a patto che nel frattempo non si sia sviluppato un altro popolo senziente; com’è per gli Umani. In tal caso, il pianeta spetta ai nuovi abitanti. E poiché i Voth hanno occupato decine di mondi nel Quadrante Delta, assai più di quanti ne abbiano colonizzati gli Umani in questo, la loro richiesta è ancora più ingiustificabile e dev’essere respinta.
   I Voth, inoltre, hanno dimostrato prepotenza nell’aggredire l’Unione, intimando la restituzione della Terra. Si sono rivelati avidi e spietati nello scacciare gli Umani dalle loro case, distruggendo città e monumenti per farsi spazio. E soprattutto sono stati pusillanimi quando, all’approssimarsi dei Borg, sono fuggiti portando in salvo solo la loro gente e abbandonando gli altri a una sorte peggiore della morte. In questo frangente hanno dimostrato che la Terra non è altro che un capriccio per loro; non qualcosa che siano pronti a difendere fino all’ultimo.
   A causa di queste numerose malefatte, noi proclamiamo che qualunque diritto dei Voth sul pianeta Terra è irrimediabilmente decaduto. Essi potranno avere un’ambasciata sul pianeta, se le autorità locali lo vorranno. Potranno altresì visitarlo come privati cittadini... sempre se le autorità locali lo vorranno. Ma qualunque pretesa di possesso sul pianeta, o sugli altri corpi del sistema solare, è da considerarsi illegittima, ora e per sempre. Noi del Popolo ci facciamo garanti del verdetto, riservandoci il diritto d’intervenire con la forza qualora i Voth lo violassero. Ammoniamo i sauri a non tentare azioni del genere, esortandoli invece a coltivare un sano rapporto paritario con gli Umani, che sia di reciproco beneficio. Ho detto».
   A quelle parole il Cancelliere Shantu, uno degli individui più potenti della Via Lattea, chinò il capo sconfitto. Non gli restava che tornare a casa con i rimasugli della sua flotta. Le navi erano stracariche di coloni furibondi, che si sentivano ingannati e avrebbero raccontato a tutti cos’era successo. Di tutte le risorse investite per colonizzare la Terra e sostenere militarmente l’Unione, niente gli sarebbe tornato indietro. E c’era la sconfitta militare, la più cocente nella lunga storia dei Voth. Tutto ciò segnava il suo tracollo politico: l’Assemblea degli Anziani avrebbe preteso le sue dimissioni. Con la Terra irrecuperabile, il partito Interventista si sarebbe dissolto, a tutto vantaggio dei Conciliatori. Il loro leader, il Senatore Towt, sarebbe indubbiamente divenuto il nuovo Cancelliere. E il peggio era che Shantu poteva rimproverare solo se stesso.
   «Chi va a Roma...» si ripeté, mentre gli ologrammi di Talat e Chase si dissolvevano innanzi a lui.
 
   In quei giorni il personale della Flotta Stellare si adoperò alacremente per riportare una parvenza d’ordine e stabilità sulla Terra. Il compito si dimostrò fin da subito immane. Sebbene il pericolo fosse cessato, c’erano ancora miliardi di Terrestri in preda all’isteria collettiva. Molti temevano che i Borg tornassero da un momento all’altro. Appena lo Scudo Planetario fu abbassato si ebbe un fuggi-fuggi generale, da parte di coloro che ancora non si sentivano al sicuro. L’Ammiraglio Chase non volle impedirlo, per non dare alla gente la sensazione d’essere ancora in trappola; ma si sforzò d’impedire i furti di navette e le violenze. Il personale di Flotta fu inviato a occupare i punti nevralgici del pianeta, in particolare le strutture di Atlantide, che dovettero essere bonificate prima che i superiori potessero accedervi in sicurezza.
   Sulla Terra, infatti, c’era ancora un cospicuo numero di Pacificatori che era stato lasciato indietro durante la ritirata, e ciononostante rifiutava di arrendersi alla Flotta Stellare. L’Ammiraglio si accorse che, se non si fosse trovato un accordo, la guerriglia sarebbe durata anni. Ancora peggio andavano le cose sulla Luna, su Marte e sulle altre colonie del sistema solare: queste erano ancora tutte in mano ai Pacificatori. Rispetto alla Terra, lì la situazione era assai più grave, perché i Pacificatori controllavano i sistemi ambientali e le fabbriche d’aria. Se spinti all’estremo potevano chiudere i condotti o persino spegnere gli impianti, condannando la popolazione alla morte per asfissia. Chase non voleva inviare le sue navi all’assalto, perché ciò le avrebbe costrette a bombardare le città, provocando un’incalcolabile quantità di vittime; e i Pacificatori contavano su questo per screditare la Flotta.
   Nella prima riunione tattica dopo la ritirata dei Voth si decise pertanto di riconquistare le strutture chiave con operazioni di commando. Ciò si doveva fare dapprima sulla Terra e poi, una volta migliorata la situazione, sugli altri corpi celesti. «Ma temo che stabilizzare il sistema solare sarà impossibile, finché continua la Guerra Civile» disse l’Ammiraglio.
   «E deve continuare?» chiese Lantora. «È scoppiata a causa della diatriba sulla Terra, e questa è una faccenda risolta».
   «Amico mio, la diatriba sulla Terra sarà anche risolta, ma la Guerra Civile ha radici assai più profonde» obiettò Chase. «Tutta la faccenda dei Voth non è stata altro che un pretesto. Questo conflitto è sempre stato di natura ideologica. Il vero oggetto del contendere è l’ordinamento legislativo dell’Unione. Questioni come la Prima Direttiva, i diritti degli Umani, i poteri del Presidente sono ancora tutte da affrontare».
   «E allora affrontiamole!» esclamò lo Xindi. «I Proto-Umanoidi sono disponibili a fare da pacieri».
   «Ma stavolta non applicheranno una forza coercitiva» ricordò l’Umano. «L’Unione deve accettare di sedere al tavolo dei negoziati. Chi di voi pensa che lo farà, con Rangda ancora al potere?».
   Nessuno rispose.
   «Come vedete, abbiamo un problema» concluse l’Ammiraglio. «Ordino a tutte le navi di mantenere la posizione attorno alla Terra. Ora che l’abbiamo riavuta, dobbiamo essere pronti a difenderla, quando i Pacificatori torneranno».
 
   L’attesa non fu lunga. Tre giorni dopo la partenza dei Voth, quattrocento navi dei Pacificatori in assetto di guerra entrarono nel sistema solare. Puntarono dritte contro la Terra, fermandosi appena fuori dal raggio di tiro dei difensori.
   «Eccoli lì» commentò il Capitano Hod. «L’Ammiraglio aveva ragione, non demordono. Allarme Rosso!».
   «Frell, non finirà mai quest’incubo?!» imprecò Vrel, mentre risuonava l’allarme e l’illuminazione di plancia s’incupiva.
   «Analisi tattica, individuare l’ammiraglia nemica» ordinò il Capitano, sapendo che i Pacificatori avevano perso molte navi nella Battaglia della Stella Fuggiasca.
   «Eccola» disse Terry, inquadrando il vascello al centro dello schieramento e in posizione più avanzata.
   Sulla plancia scese il gelo. Scafo scuro e costellato di lunghi graffi, forma compatta e squadrata, deflettore di navigazione scarlatto... quel vascello era inconfondibile. Si trattava della loro nemesi, la nave che li aveva perseguitati per tre anni e che avevano lasciato in prossimità della Barriera Galattica. Il Moloch era tornato per esigere vendetta.
 
   Sulla plancia del Moloch regnava un analogo silenzio, carico tuttavia di livore. Dopo lo scontro presso la Barriera Galattica, il vascello era rimasto impantanato per settimane nella regione di subspazio danneggiato. I Pacificatori avevano dedicato quel tempo a riparare la nave e piangere i compagni da loro stessi uccisi, per timore che divenissero incontrollabili. L’unica cosa che li aveva sorretti, in tutto quel tempo, era la sete di vendetta. Ma non appena si erano liberati, avevano saputo dell’invasione Borg. Poiché la Battaglia della Stella Fuggiasca aveva già avuto luogo, Radek non aveva potuto fare altro che mettersi in cerca del convoglio di Rangda, per unirsi alla scorta.
   L’incontro non era stato lieto. La Presidente aveva accusato il Capitano d’inettitudine, sia perché si era fatto sfuggire un’altra volta la Keter, sia perché era lontano quando c’era da combattere i Borg. Radek aveva ingoiato gli insulti, senza nemmeno argomentare che una nave in più non avrebbe certo cambiato le sorti della battaglia. Aveva solo fatto notare a Rangda che il Moloch era la nave più potente che le rimanesse e quindi il rifugio più sicuro.
   Così la Presidente si era trasferita sulla nave corazzata assieme ai suoi ministri e funzionari. Anche Lyra faceva parte del corteo, ma in quei giorni aveva avuto ben poche occasioni di parlare con lei. E quando la Flotta Stellare aveva annunciato che la Terra era salva e sotto il suo controllo, Rangda aveva immediatamente ordinato al convoglio di fare dietro-front. Sperava di arrivare prima dei Voth; invece strada facendo venne a sapere che i sauri avevano definitivamente rinunciato alla Terra. Questo indeboliva la sua posizione, ma al tempo stesso le permetteva di agire in piena autonomia, senza rendere conto agli ex alleati.
   «I Proto-Umanoidi sono davvero qui» commentò Radek, riconoscendo le loro navi dal database della Flotta Stellare. «Dobbiamo stare molto attenti. Se ci attaccassero, ci distruggerebbero più facilmente dei Borg».
   «Allora eviteremo lo scontro» disse Rangda, che sedeva sulla poltrona del Capitano, obbligando Radek a starle accanto in piedi. «Dopotutto è noto che i Progenitori non spargono mai il sangue dei loro figli».
   «Hanno distrutto i Borg e poi hanno costretto i Voth alla ritirata» ricordò il Rigeliano. «Mi sa che stavolta si sono schierati».
   «No, non è detto che ce l’abbiano anche con noi» insisté la Zakdorn. «Aprire un canale con... col mio ufficio» ordinò, dando per scontato che i federali ne avessero preso possesso.
   Le cose non stavano esattamente così. Erano passati pochi giorni dalla Liberazione della Terra e il personale di Flotta stava ancora setacciando i palazzi del governo, in cerca di trappole. Proprio in quel momento Jaylah, che indossava la tuta da Banshee per precauzione, ispezionava l’ufficio della Presidente. Quando ricevette la chiamata, non resistette alla tentazione di approfittarne.
   «Nessuna risposta» disse l’addetto alle comunicazioni del Moloch. «Forse dovremmo chiamare la Khitomer».
   «Cos’ha intenzione di fare?» chiese Radek alla Presidente, ma lei lo ignorò. Passò ancora qualche istante.
   «Correzione, ci rispondono dal suo ufficio» disse l’addetto, stabilendo il contatto.
   Rangda si alzò, aspettandosi di trovare l’Ammiraglio Chase e forse la leader dei Progenitori. Ciò che vide la lasciò invece senza parole.
   La Banshee sedeva stravaccata sulla sua poltrona, con i piedi oltraggiosamente posati sulla scrivania. Data la posizione della telecamera, le suole erano in primissimo piano. La corsara aveva vandalizzato il ritratto di Leen-Kat, antica legislatrice di Zakdorn, che Rangda teneva dietro la poltrona, aggiungendole barba e baffi. E come affronto finale stava nutrendo Goldie, il suo falcone cestiano, con i Mu-mu, gli animaletti da compagnia di Rangda. Quelle bestioline simili a criceti grassi, totalmente privi d’intelletto, si trovavano in una gabbia trasparente dietro la scrivania; al momento di fuggire erano stati dimenticati. In tempi migliori Rangda li nutriva otto volte al giorno e li coccolava per rilassarsi. Li teneva con sé da generazioni, facendoli riprodurre sempre tra loro, così che erano divenuti albini e ciechi. Li amava più di qualunque essere senziente. E con sommo orrore vide la Banshee che li agguantava uno dopo l’altro, per poi gettarli in pasto a Goldie. Il falcone cestiano li mandava giù in un solo boccone, facendo seguire ogni volta un gorgheggio di soddisfazione.
   «Ehilà, vecchia cornacchia!» salutò allegramente la Banshee, all’indirizzo di Rangda. «Come ti butta? Noi qui stiamo benissimo. La Terra è fantastica, senza di voi. Penso proprio che ce la terremo. In fondo siamo stati noi a salvarla, mentre voi fuggivate chissà dove. Chi va a Roma, perde la poltrona!».
   Il viso incartapecorito di Rangda, solitamente pallido, divenne di un’impressionante tonalità rossa. Per qualche attimo la Presidente schiumò di rabbia, incapace d’emettere suoni intellegibili. Poi, con uno sforzo sovrumano, riuscì a dominarsi. «Esigo di parlare con le autorità federali, non con una patetica tagliagole!» sibilò.
   «Mai stata patetica» si difese Jaylah. «Tu piuttosto... hai puntato tutto sui Voth e loro ti hanno piantata in asso. Se ancora non lo sai, per verdetto dei Progenitori la Terra spetta agli Umani. I Voth lo hanno accettato e stanno tornando a casa loro. Ti consiglio d’imitarli e non darci più fastidi, o stavolta non ne esci viva» minacciò.
   «La Terra è parte integrante dell’Unione!» gridò Rangda.
   «L’avete regalata ai Voth, te lo sei scordato? Dev’essere l’Alzheimer galoppante» rispose cinicamente Jaylah. «E le lucertole ce l’hanno restituita».
   «Se i Voth si ritirano unilateralmente dal trattato, questo decade e il pianeta torna a noi. È nostra proprietà inalienabile!» insisté la Presidente.
   «Ci avete rinunciato quando l’avete abbandonata».
   «Ci siamo ritirati per causa di forza maggiore, ma ora i Borg sono distrutti e noi siamo qui. Non rinunceremo né alla Terra, né agli altri mondi sotto il vostro controllo. Finché non ci saranno restituiti, la Guerra Civile continuerà!» promise la Zakdorn.
   A queste parole la Banshee tirò giù i piedi dalla scrivania e sedette più composta. «I vostri alleati vi hanno abbandonato. Noi invece abbiamo i Progenitori dalla nostra» ricordò. «Volete davvero combattere a queste condizioni?».
   «Dovrete distruggere tutti i mondi dell’Unione, prima che ci diamo per vinti. E non credo che i Progenitori vorranno macchiarsi le mani col sangue dei loro figli» sogghignò Rangda. «Vuoi sapere la verità? Questa guerra è appena cominciata! E non avete ancora visto niente. Finora sono stata misericordiosa, ma ora basta. Vi darò la punizione che meritate!» sibilò.
   La Banshee si curvò in avanti, fissando la Presidente attraverso il visore del casco. Una corrente di puro odio corse tra loro. Ma quando Jaylah parlò, si rivolse al Capitano. «Radek, vecchio manichino, non ti sei ancora stancato di farti bacchettare da questa psicopatica? È meglio che te ne vada, prima che sia lei a rimpiazzarti con una pedina più utile».
   «Le pedine non mi mancano» ribatté il Rigeliano, in un tono che non prometteva nulla di buono. «Dì a Hod di chiamarmi, perché intendo mostrargliene qualcuna». Ciò detto troncò la comunicazione.
   Jaylah si lasciò ricadere stancamente sulla poltrona di Rangda. Aveva rischiato grosso, con quel giochetto di psicologia inversa, ma sperava di aver raggiunto lo scopo. Esortando Rangda a ritirarsi, l’aveva indotta invece ad attaccare. Ed era proprio questo che voleva. Perché se la Presidente si fosse ritirata in qualche roccaforte dell’Unione, ricostruendo le proprie forze, allora sì che la guerra si sarebbe trascinata chissà quanto. Ma se riuscivano ad affrontarla lì, e ad eliminarla, allora c’era uno spiraglio.
 
   «Non si faccia trascinare dalle provocazioni, signora Presidente» disse Radek, alla successiva riunione tattica. «Se combattiamo adesso, sarà in condizioni sfavorevoli. Dobbiamo ritirarci, radunare le forze e tornare con una flotta più consistente».
   «E nel frattempo tutta l’Unione vedrà che la Terra è in mano al nemico» intervenne Lyra. «Sarà un grave danno d’immagine. Già adesso giungono notizie di sedizioni su molti pianeti. Dobbiamo riprendere la Terra al più presto». La mezza Xindi recitava ancora la parte della Ministra devota, ma in cuor suo aveva dato quel consiglio nella speranza che si ritorcesse contro quanti l’attorniavano.
   «Certo, per lei conta sempre e solo l’immagine!» protestò il Rigeliano. «Non sa che significa trovarsi in prima linea!».
   «In realtà c’è una ragione pratica per affrettarsi» intervenne però l’Esecutore, che partecipava alla riunione. «Parte della Terra, e quasi tutte le colonie nel sistema solare, sono ancora in mano ai nostri. Il nemico non ha fatto in tempo a espugnarle. Se attacchiamo subito, godremo dell’appoggio di queste forze. Ma se ci ritiriamo per attaccare più avanti, la Flotta prenderà il controllo del territorio; e allora sarà più difficile riconquistarlo».
   «Ammettilo, vuoi solo un’occasione per regolare i conti coi corsari!» accusò Radek.
   «Io almeno ho ottenuto dei risultati. Non mi pare che tu possa vantare lo stesso, col tuo incarico» rimbeccò il sicario.
   «Tacete!» ordinò Rangda. «La prima cosa da fare è appurare il ruolo dei Progenitori. Se fossero del tutto schierati con la Flotta Stellare, dovremo ritirarci. Ma io credo che, sconfitti i Borg, torneranno a fare da spettatori. In quel caso attaccheremo prima che il nemico possa capitalizzare la vittoria».
 
   Di lì a poco Rangda ottenne un colloquio in olo-presenza con Talat. Per esplicita richiesta della Zakdorn non erano ammessi altri testimoni. In tal modo sperava di portare i Proto-Umanoidi dalla sua. Lei stessa si ritirò nell’ufficio di Radek, senza permettere neppure al Capitano di partecipare all’incontro. All’ora stabilita, Talat apparve in forma olografica.
   «I miei omaggi, Prima Delegata, e i miei sentiti ringraziamenti» disse Rangda, inchinandosi cerimoniosamente. «Il vostro intervento ci ha salvati dai Borg. Saremo sempre in debito per questo».
   «Se vuole ringraziarmi, sieda al tavolo dei negoziati coi rappresentanti della Federazione e ponga fine a quest’assurda Guerra Civile» rispose prontamente Talat.
   «Temo che sia impossibile» rispose la Presidente con aria contrita. «La guerra nasce da un’insanabile diversità di valori. La nostra Unione Galattica si fonda sulla democrazia, sulla libertà e sull’eguaglianza dei diritti. I ribelli, invece, vogliono imporre il Suprematismo Umano su tutte le altre specie».
   «Ma davvero? E mi dica, come mai i suoi “suprematisti Umani” sono quasi tutti alieni?» chiese Talat, sardonica.
   «Dipende dal fatto che sono stati condizionati dalla propaganda federale» rispose Rangda, serissima. «Sono vittime del razzismo sistemico che li rende i peggiori nemici di se stessi».
   «A me sono parsi perfettamente in grado d’intendere e volere» obiettò la Prima Delegata.
   «Suvvia... quanto li conosce, in realtà? Certo non bene quanto me!» argomentò la Presidente. «Io posso dirle cose che loro le hanno volutamente nascosto» aggiunse con aria complice.
   «Ad esempio?» fece Talat.
   «Ad esempio che, dal punto di vista militare, questa guerra è praticamente conclusa!» disse la Presidente, scorgendo uno spiraglio. «Quelli della Flotta Stellare sono stati dei codardi dall’inizio alla fine: sempre in fuga, sempre nascosti, facendosi barbaramente scudo dei civili. E ciononostante hanno perso. L’unica cosa che li rende ancora pericolosi è la loro propaganda. Sono molto abili nel manipolare le notizie, facendosi passare come le vittime. Poiché non hanno più la forza di combatterci, ora le loro armi sono le menzogne, gli inganni, la disinformazione!».
   «Buffo... l’attitudine alla menzogna è proprio ciò che mi hanno detto di lei» commentò la Proto-Umanoide con distacco.
   «Non gli creda solo perché l’hanno trovata per primi!» esortò Rangda. «Ragioni con la sua testa, guardi ai fatti. Gli Umani ci hanno imposto per secoli la loro supremazia culturale, monopolizzando i ruoli di potere. Noi abbiamo finalmente posto fine a quest’ingiustizia. Nella nostra Unione, tutte le specie hanno pari diritti. È il coronamento del vostro antico sogno: per la prima volta abbiamo creato una società perfetta, una società senza discriminazioni! Dovete aiutarci a proteggerla contro chi, come la Federazione, vuole rovinare tutto!» disse in tono ispirato.
   «Tutte le specie hanno pari diritti, eh?» fece Talat, scettica. Attivò un oloschermo accanto a sé e prese a scorrere un elenco di documenti. «Sa, prima che mi chiamasse stavo scorrendo alcune delle vostre riforme. Vediamo, dov’era... ah, eccolo qui!» esclamò, aprendo un file. «Dunque, questa è l’introduzione al corso di formazione per i vostri dipendenti Umani. “Essere meno Umani significa essere meno oppressivi, meno arroganti, meno ignoranti”» lesse ad alta voce. «E queste sono le linee guida della vostra riforma scolastica: “Gli Umani devono essere informati delle ragioni scientifiche della loro inferiorità fisica, intellettuale e morale nei confronti delle altre specie”». La Progenitrice alzò uno sguardo critico su Rangda. «Queste non sono le regole di chi crede nell’eguaglianza» disse.
   «Suvvia, non può prendere poche frasi e decontestualizzarle!» obiettò la Presidente. «Queste riforme servono a de-radicalizzare gli Umani dalle loro peggiori abitudini. Sono per il loro bene. Dimostrano che ci preoccupiamo di loro».
   «Vi preoccupate così tanto da chiuderli nei Centri di Rieducazione e sterilizzarli in massa!» accusò Talat. «È una cosa turpe, ed è ancora più aberrante che la spacciate per progresso!».
   «Tutti questi correttivi sono necessari a causa dell’intolleranza umana! Se fossero come le altre specie, non ci costringerebbero a difenderci!» si giustificò Rangda. Le sue belle maniere però erano svanite, rimpiazzate da una gelida collera nel momento in cui aveva capito che non avrebbe persuaso la Prima Delegata.
   «E allora perché non gli permettete di abbandonare l’Unione?» incalzò Talat.
   Per un attimo la Zakdorn rimase in silenzio, smarrita. Ma ben presto ritrovò la foga oratoria. «Perché i loro mondi sono roba nostra!» gridò, al colmo della rabbia. «Ormai ci vivono milioni di alieni. Sono nostra proprietà, gli Umani non hanno più voce in capitolo. Devono solo stare zitti e imparare da noi! E se non ci riescono... se si estinguono... meglio così! Nessuno li rimpiangerà».
   «Lei mi disgusta» disse Talat, fissandola con sommo sdegno. «Negli ultimi giorni ne ho incontrati, di esseri spregevoli: la Regina Borg, il Cancelliere Shantu. Ma lei è la peggiore di tutti! Lei tortura interi popoli per il gusto di farlo. E non si accorge nemmeno che si sta scavando la fossa».
   Ci fu un breve silenzio, nel quale le due leader si fissarono come nemiche giurate. Poi Rangda fece un orribile sorriso e si avvicinò a Talat, fin quasi a bisbigliarle all’orecchio. «Intende fornire supporto militare alla Federazione? Perché in tal caso il conflitto sarà molto più lungo e sanguinoso» promise.
   «La nostra Assemblea ha deciso che ci saremmo occupati dei Voth, ma non interverremo nella Guerra Civile» ammise la Prima Delegata a malincuore.
   Negli occhi della Presidente ci fu un lampo di trionfo. «Grazie, era tutto ciò che mi premeva sapere! Abbiamo finito» disse, scostandosi. Ora non si sarebbe più fermata davanti a nulla. Tornò alla scrivania, per chiudere la conversazione.
   «Pazza irresponsabile! Chi l’ha incaricata di tormentare così gli Umani, eh?!» la sfidò Talat.
   «I miei elettori, col loro voto democratico. E io sono una convinta sostenitrice della democrazia» rispose Rangda, totalmente sincera e in pace con se stessa. Ciò detto chiuse il canale, persuasa di aver vinto il confronto.
 
   Poco dopo la Zakdorn trasmise il suo ultimatum ai difensori della Terra. Parlò dall’ufficio, seduta alla scrivania, con le mani intrecciate e l’espressione pacata. «Sono la Presidente Rangda e mi rivolgo alle forze terroriste della Flotta Stellare» esordì. «Avete preso in ostaggio un pianeta dell’Unione Galattica, sequestrandone gli abitanti. Noi, legittimi rappresentanti dell’Unione, siamo fermamente decisi a liberarlo. Ma poiché aborriamo la violenza, vi offriamo la salvezza.
   Avete un’intera rotazione terrestre a disposizione per restituirci la Terra. Se lo farete, vi permetteremo di lasciare incolumi il nostro spazio. Ma se vi ostinerete a occupare la nostra capitale, vi garantisco che non uno di voi lascerà vivo il sistema. Il conto alla rovescia comincia in questo preciso istante. Pensate bene a ciò che fate. E non illudetevi di aver conquistato chissà quale vantaggio. Stavamo vincendo la guerra prima dell’invasione Borg e la stiamo vincendo ancora. Nulla è cambiato, salvo la nostra determinazione, che è molto superiore a prima».
 
   I difensori della Terra si prepararono, perché non avevano riconquistato il pianeta – contro ogni previsione – solo per abbandonarlo di nuovo. La Flotta Stellare si radunò nell’orbita terrestre, mentre i Pacificatori stazionavano presso la Luna. Quanto ai Proto-Umanoidi, si ritirarono ai margini del sistema solare: ma fino all’ultimo invitarono le due parti a cessare le ostilità.
   Il Capitano Hod camminava nervosamente nel suo studio. Jaylah l’aveva informata che Radek le voleva parlare, ma lei esitava. Alla fine sedette alla scrivania e attivò l’oloschermo. «Zafreen, mi metta in contatto col Moloch. Canale protetto» ordinò, premendosi il comunicatore. Voleva che nessuno, nemmeno l’Ammiraglio Chase, sapesse di quel colloquio.
   «Bene, eccoci di nuovo qui» disse Radek, appena fu comparso sullo schermo. «Per quanto ami le nostre conversazioni a distanza, temo che questa sia l’ultima».
   «Io me lo auguro» ribatté l’Elaysiana. Notò che il Rigeliano si trovava in una sala spoglia, forse una prigione, pur avendo ancora l’uniforme da Capitano e apparendo sicuro di sé. Questo la inquietò nel profondo. «Non ho molto tempo da dedicarle. Che vuole?» chiese.
   «In primo luogo, ci tenevo a informarla che il nostro ultimo scontro presso la Barriera mi ha procurato ventisei morti nell’equipaggio. Sei di loro abbiamo dovuto ucciderli noi stessi, perché stavano sviluppando poteri incontrollabili» disse Radek. C’era una profonda collera repressa in lui, mista a un’inquietante aria di trionfo. Era chiaro che non aveva chiamato solo per lamentarsi.
   «Mi spiace per le venti vittime della Barriera, e anche per le sei vittime vostre» disse Hod, dura come il marmo. «Comunque la informo che la Barriera non c’è più: i Progenitori l’hanno tolta».
   «Sì, l’ho saputo» disse Radek, sempre con quell’aria pericolosamente soddisfatta. «Bella, l’idea della Bomba Omega. D’ora in poi anche noi non avremo remore a usare armi illegali. Siamo rimasti impantanati proprio quando l’Unione aveva più bisogno di noi. Tuttavia il viaggio di ritorno ci ha riservato qualche soddisfazione. Vede, abbiamo fatto una piccola deviazione a Elaysia, il suo pianeta».
   A quelle parole, Hod si sentì precipitare. Il suo peggiore incubo aveva preso corpo. «E quindi?» chiese gelidamente.
   «Ah, niente. Abbiamo imbarcato i suoi parenti, giusto per fare quattro chiacchiere. Sono simpaticissimi, specie i due bambini. Sapesse quanto mi piace averli intorno!» disse il Rigeliano. Vedendo l’orrore negli occhi dell’Elaysiana, si leccò le labbra dalla soddisfazione.
   «Adesso dove sono?» chiese Hod, pallida come un cadavere.
   «Qui con me, naturalmente. Ho radunato tutta l’allegra famigliola!» rispose Radek, scostandosi.
   Davanti all’Elaysiana apparve una scena che le straziò il cuore. La sua intera famiglia giaceva bocconi sul pavimento della prigione. C’erano sua madre Riva, suo fratello Yesod e la moglie di lui Shekina. E vi erano i figli della coppia: Nizak di undici anni ed Hesed di nove. Tutti quanti erano schiacciati dalla gravità standard, micidiale per qualunque Elaysiano, salvo i pochi che si erano sottoposti all’adattamento neuro-muscolare. Il Capitano Hod lo aveva fatto da anni; ma loro non avevano seguito l’esempio. Vedendo i suoi cari che faticavano a respirare per via dell’eccessiva gravità, Hod sentì il sangue alla testa. «Carogna!» rantolò. «Misurati con me, non con loro, che non c’entrano niente!».
   «Nessuno può dirsi estraneo a questo conflitto» obiettò Radek. «A tutti noi è chiesto di scegliere. E i tuoi parenti l’hanno già fatto. La polizia ha scoperto che nel seminterrato del loro condominio nascondevano un TOE, Testimone Olografico d’Emergenza. Si trattava di un ologramma con le memorie del Simbionte Dax, che quasi ogni sera faceva lezione ai ragazzi, dando insegnamenti in contrasto col programma scolastico. Questa è sedizione, un crimine molto grave!» disse, levando l’indice. Nel parlare stava camminando tra gli Elaysiani prostrati. Calpestò volutamente la mano di Yesod, strappandogli un urlo.
   «Il TOE è stato deprogrammato, mentre tutte le famiglie coinvolte sono state arrestate. Io ho prelevato la tua, sapendo che mi avrebbe dato una forza contrattuale» proseguì il Rigeliano. «Così eccoci qui. Cosa sei disposta a fare, per salvare i tuoi cari?».
   «Chiediti piuttosto cosa sarò capace di fare, se gli farai del male!» sibilò il Capitano.
   «Sentito, bambini? La vostra zietta non tiene granché a voi. È pronta a immolarvi sull’altare della sua fede politica» infierì Radek, rivolgendosi ai nipoti di Hod. «Che ne pensate? Si sta forse sbagliando? Se è così, fateglielo sapere!».
   I due bambini rimasero in silenzio, ma si vedeva che erano spaventati a morte. Forse era il terrore, più che altro, a serrargli le labbra. Fu Shekina a prendere la parola. «Ti prego, Bina... fa’ come dice... non posso perderli!» gemette con voce rotta dal pianto.
   Il Capitano guardò i suoi cari: avevano tutti lo stesso sguardo supplicante. Infine tornò a fissare Radek. «Cosa vuoi, verme?» chiese, aspettandosi di doversi consegnare. Era disposta a farlo, se fosse stata certa che gli ostaggi sarebbero stati liberati. Ma riteneva più probabile che i Pacificatori si rimangiassero la parola.
   Radek sorrise, certo di averla in pugno. «Dopo aver occupato la Terra, avrete certamente cambiato le frequenze del suo scudo. Ebbene, prima che cominci il carnaio devi trasmettermi quelle nuove» ordinò.
   Hod restò ammutolita. Rivelare le frequenze dello Scudo Terrestre avrebbe permesso ai Pacificatori di bombardare il pianeta e di rioccuparlo con le loro truppe. La Flotta Stellare non sarebbe riuscita a proteggerlo, anzi, il suo schieramento si sarebbe sbandato nel tentativo. «Non posso sacrificare i molti per i pochi» disse l’Elaysiana con voce tremante.
   «Caspita, che lealtà!» la derise Radek. «Avete sentito, bambini? Vostra zia preferisce farvi morire, piuttosto che cedere la Terra. Evidentemente ama gli Umani più di voi!».
   «Bina, ti prego!» gridò sua madre con le lacrime agli occhi.
   «Va bene, facciamo così» propose il Rigeliano, estraendo il phaser. «Ti do tempo per decidere. Sappi che una volta cominciata la battaglia giustizierò i tuoi parenti, uno ogni quarto d’ora. Prima tua madre, poi tuo fratello, poi tua cognata» disse, prendendoli di mira man mano che parlava. «Terrò i bambini per ultimi, nel caso cambiassi idea. Anche se a quel punto non credo che saranno tanto felici di rivederti».
   A quelle parole, Hod si accostò all’oloschermo e fissò il suo ex Primo Ufficiale con sguardo omicida. «Giuro che morirai, per questo» promise.
   «Non m’importa» rispose schiettamente Radek, con un’alzata di spalle. «Basta che domani obbedisci agli ordini. Addio». E chiuse il canale.
 
   Di lì a poco il Comandante Norrin fu convocato nell’ufficio del Capitano. Vedendola così a pezzi, capì subito che era accaduto qualcosa di grave. Ma quando Hod gli ebbe detto tutto, si accorse che la realtà era peggiore di qualunque ipotesi. «Allora, che vuoi fare?» le chiese. «Dato che me ne hai parlato, suppongo che non ti piegherai al ricatto».
   «No» confermò l’Elaysiana. «Non posso vanificare la nostra lotta. Ma non posso nemmeno lasciar morire i miei cari».
   «E quindi?». Norrin aveva già la sua idea, ma volle che fosse lei a esprimersi.
   «Chiederò all’Ammiraglio Chase un fuoco massiccio contro il Moloch. Appena i suoi scudi cederanno, useremo il teletrasporto» disse il Capitano.
   «Radek avrà certamente preso contromisure. La tua famiglia sarà in una zona schermata» obiettò Norrin.
   «Lo so... per questo devo chiederti un favore» proseguì Hod, tendendosi in avanti. «Sei il mio più vecchio amico su questa nave; lo farai?».
   «Lo farò» promise l’Hirogeno, laconico come sempre.
   «Appena ci sarà uno spiraglio negli scudi del Moloch, voglio che tu lo abbordi con una squadra» rivelò il Capitano. «Trova i miei cari e salvali. E se t’imbatti in Radek...».
   «Lo ucciderò» promise Norrin. «Ero già intenzionato a farlo. Ma per quanto riguarda i tuoi parenti, devi capire una cosa: potrei arrivare tardi per salvarli tutti».
   «Salva chi puoi. Se non saranno tutti, non te ne farò una colpa» disse Hod, girando il volto nel tentativo di celare le lacrime. Per un po’ vi fu silenzio.
   «Sai, il regolamento t’imporrebbe di cedermi il comando, ora che sei coinvolta emotivamente» disse di punto in bianco Norrin.
   «Al diavolo il regolamento!» gridò Hod, dando un pugno sulla scrivania.
   Il viso dell’Hirogeno si storse in un ghigno poco da federale e molto da Cacciatore. «Erano nove anni che aspettavo di sentirtelo dire» ridacchiò. «Molto bene, sarà il nostro segreto. Ma come giustificherai l’abbordaggio del Moloch?».
   «Con la necessità di catturare Rangda».
   «Pensi sempre a tutto, ma se noi avremo un altro obiettivo, chi...».
   «Di lei si occuperanno la Banshee e lo Spettro».
   Norrin rifletté brevemente sul piano. «È facile che vada tutto storto» commentò.
   «Hai un’idea migliore?».
   Il Comandante ci pensò un momento. «Direi di no. Ma se dobbiamo fare un abbordaggio in grande stile, voglio con me Vrel. È uno dei nostri elementi migliori e anche lui ha un conto in sospeso che lo attende su quella nave».
   «Lyra» riconobbe Hod. «Tutti i nodi vengono al pettine. E va bene, prendi Vrel. Uccidete Lyra, o catturatela... non m’importa. Basta che non vi rallenti». Accorgendosi della crudezza di quegli ordini, il Capitano s’intristì. «Come ci siamo ridotti» commentò.
   «Siamo ciò che richiedono i tempi» la confortò Norrin.
   «Mi chiedo se torneremo mai come prima».
   «Noi no, ma la Flotta Stellare forse sì» auspicò l’Hirogeno. «Per parte mia, ti prometto che non lascerò nulla d’intentato per salvare i tuoi cari». Con questo impegno si congedò dal Capitano.
 
   La giornata aveva in serbo ancora qualche sorpresa. Mancavano diciotto ore allo scadere dell’ultimatum quando un piccolo vascello irto d’armi uscì dalla curvatura e puntò verso la Keter, trasmettendo un codice di riconoscimento.
   «Sono Cacciatori Hirogeni... è il suo clan, Comandante!» avvertì Zafreen.
   «Li riceverò subito» disse Norrin, lieto di quell’arrivo insperato. «Terry, a lei la plancia».
   L’incontro avvenne in sala teletrasporto. Era la prima volta da un anno che Norrin rivedeva sua cugina Vitani e il marito di lei, Garid.
   «Ah ah, siete tornati in grande stile!» gli fece festa Vitani. Si strinsero gli avambracci nel saluto tradizionale dei Cacciatori.
   «Grazie a voi. Il vostro aiuto presso la Barriera è stato decisivo» disse Norrin. «Avete avuto dei problemi a tornare?».
   «Macché. Avevamo qualche danno, ma l’abbiamo riparato strada facendo» disse l’Alfa. «E poi le rotte erano sgombre, niente pattuglie dei Pacificatori. Mi sa che avevano altri problemi» ironizzò.
   «Allora siete arrivati davvero ad Andromeda? E quelli là fuori sono i Proto-Umanoidi?» chiese Garid, quando fu il suo turno di stringere gli avambracci. Garid era l’Ingegnere Capo, ma Norrin gli riservava sempre il saluto di un guerriero.
   «Sì, e sì... ma temo che dopo averci liberati dai Borg e dalle lucertole abbiano esaurito l’incarico» rivelò il Comandante. «Non si schiereranno nella Guerra Civile».
   «Lo immaginavo... poco fa abbiamo captato l’ultimatum di Rangda» annuì Vitani. «Adesso che contate di fare?».
   Norrin glielo disse. E poiché voleva essere del tutto franco con i parenti, nel caso che non li rivedesse, gli rivelò anche l’intenzione di abbordare il Moloch.
   «Uhm... non mi piace» commentò la cugina. «Noi che possiamo fare?».
   «Avete fatto anche troppo» rispose il Comandante. «Questa non è la vostra battaglia. Mi sentirei più sicuro se ve ne andaste, finché c’è tempo».
   «È da Cestus III che siamo coinvolti» obiettò Vitani. «Se, come dici, in questa battaglia c’è la possibilità d’inchiodare Rangda, allora siamo con te».
   «Non è detto che questo ponga fine alla guerra...» avvertì Norrin.
   «Inutile, vecchio mio!» rise Garid. «Quando la nostra Alfa decide di scendere in battaglia, non c’è forza nella Galassia che le faccia cambiare idea!» disse scherzosamente, ma non troppo.
   «D’accordo, allora. Siete i benvenuti nel nostro schieramento» si arrese Norrin. «Però cercate di non esporvi troppo, e ritiratevi se subite danni».
   «Ehi, sappiamo badare a noi stessi!» rivendicò Vitani.
   «Lo so, ma promettimelo ugualmente. Siete i miei soli parenti e non vorrei trascinarvi in una sconfitta» insisté il Comandante.
   «D’accordo» cedette l’Alfa. «Ma siccome stai andando in caccia, voglio darti questo». Estrasse dalla cintura un pugnale dalla lama serpentina e glielo porse.
   «Che mi venga...» mormorò Norrin, riconoscendolo. Quello era l’antico pugnale del loro clan, trasmesso di padre in figlio da tempi immemorabili. Dopo averlo ritrovato sul relitto della loro vecchia nave, lui stesso lo aveva donato a Jaylah, per ringraziarla di avergli salvato la vita. In seguito però la mezza Andoriana – nei panni della Banshee – lo aveva ceduto a Vitani, per ragioni simili. Così, dopo aver forgiato alleanze, l’antica lama gli veniva restituita. «Grazie, ma non posso accettare. Ora sei tu l’Alfa» disse il Comandante. Cercò d’indurre la cugina a riprendere il pugnale, ma lei ritrasse le mani.
   «È un prestito, d’accordo? Me lo renderai a missione compiuta» disse Vitani. «Così sono certa che tornerai!» aggiunse. Sebbene gli Hirogeni fossero poco espansivi, Norrin avvertì la sua ansia. Dietro quel “prestito” c’era l’esortazione a stare attento, una volta abbordato il Moloch.
   «Certo, te lo restituirò» promise Norrin, sperando di poter mantenere. «Dopotutto, questa lama trova sempre la via di casa».
 
   A sera tardi, l’equipaggio era ancora affaccendato nei preparativi per la battaglia. Hod cercava di concentrarsi esclusivamente sul lavoro, ma non poteva cancellare l’immagine dei suoi parenti buttati a terra sul Moloch, la loro vita appena a un filo. Si chiese se in quel momento la stessero maledicendo per le sue scelte.
   Fu al termine dell’ultima riunione tattica, quando il Capitano pensava di poter finalmente ritirarsi per strappare qualche ora di sonno alla notte ingrata, che fu trattenuta per una ragione inaspettata. Jaylah le si accostò, in compagnia di Jack Wolff.
   «Capitano, ha un momento da dedicarci?» chiese la mezza Andoriana.
   «Certo» disse Hod, celando la stanchezza e le preoccupazioni. Si aspettava che volessero discutere della missione che li aspettava l’indomani. Ma con sorpresa li vide guardarsi negli occhi e prendersi per mano. Fu Jack a spiegare.
   «Lei è il Capitano della nave e i Capitani, per antica tradizione, hanno uno speciale privilegio» esordì l’Umano. «Speravo di fare questa cosa in circostanze più serene e più degne della mia compagna, ma il domani è incerto, e qualunque cosa accada, io e Jaylah vogliamo formalizzare il nostro legame. Perciò, Capitano Hod, le chiedo di amministrare il nostro matrimonio».
   A confermare il suo discorso, Jaylah annuì vigorosamente, spalancando gli occhioni. Anche gli ufficiali sorrisero, segno che erano già avvisati delle loro intenzioni. Solo Hod era stata informata all’ultimo minuto, per non distrarla dalle altre occupazioni.
   «Ma... ma domani andremo in battaglia! Volete sposarvi proprio adesso?!» si meravigliò l’Elaysiana.
   «Non riesco a immaginare un momento migliore per impegnarci nella buona e nella cattiva sorte» confermò Jaylah.
   «È un vostro diritto e non voglio negarvelo» disse il Capitano, raccapezzandosi. «Ma comprenderete che non ci saranno i preparativi, né i festeggiamenti, che di solito accompagnano questi lieti eventi».
   «Non sono necessari» insisté Jack. «Quando tutto sarà finito, allora faremo un matrimonio come si deve, con musica e invitati» promise, cingendo Jaylah con il braccio.
   «Capisco» disse Hod. Dietro a quella richiesta improvvisa c’era il timore per l’imminente battaglia. Ecco perché avevano deciso di sposarsi praticamente in segreto, senza nemmeno chiamare l’Ammiraglio Chase. Era bene assecondarli, non solo per il loro morale, ma per quello di tutti gli amici della Keter. «Molto bene» disse l’Elaysiana, riuscendo a sorridere. «Spero che abbiate gli anelli».
   «Eccoli qui!» disse Juri, levandoseli di tasca. L’Umano aveva la strana capacità d’avvicinarsi di soppiatto, tanto che sembrò apparire dal nulla, persino in quella stanza affollata. Trasformatosi per l’occasione in sensale, consegnò un anello a Jaylah e l’altro a Jack, augurandogli ogni bene.
   «Non verranno da qualche tomba aliena?» gli bisbigliò Hod all’orecchio, sapendo che Juri conservava ancora una gran quantità di reperti strani e pericolosi, raccattati da mezza Galassia.
   «Macché, me li hanno dati da custodire un anno fa» rivelò lo storico, il che spiegava come li avessero salvati dalla distruzione della loro nave. Erano due semplici fedi nuziali d’oro, senza tanti ornamenti. Solo quella di Jaylah recava incastonato un piccolo diamante nero, proveniente dalle miniere di Sokar, la loro vecchia base segreta.
   «Bene allora, procediamo... con l’augurio di poterci riunire a breve per una seconda cerimonia» disse Hod. Gli ufficiali si disposero ai lati della sala tattica, mentre il Capitano prese posto in fondo al corridoio così creatosi.
   Jack venne avanti per primo, accompagnato da Vrel che gli faceva da testimone. Allora Terry fece udire dagli altoparlanti la tradizionale marcia nuziale, strappando molti sorrisi.
   Toccò a Jaylah farsi avanti, accompagnata da Norrin in qualità di testimone. Dietro a loro c’era anche Zafreen, auto-proclamatasi damigella d’onore. L’Orioniana sembrava più emozionata della sposa, sebbene fosse anche irritata, perché era stata informata all’ultimo minuto e non aveva potuto fare i preparativi che le passavano per la testa.
   Riuniti davanti al Capitano, gli sposi si scambiarono le promesse, infilandosi a vicenda le fedi nuziali. Infine toccò a Hod: «Jacob Wolff, Jaylah Chase, per i poteri conferitimi dal Comando della Flotta Stellare e dalla Federazione Unita dei Pianeti, io vi dichiaro marito e moglie!».
   I due si abbracciarono e si scambiarono un lungo bacio, sotto gli applausi degli amici. Solo Dib rimase interdetto davanti a quell’usanza, ma quando Terry gli assestò una gomitata nel fianco si unì educatamente agli applausi. Zafreen era la più commossa di tutti, tanto da sciogliersi in lacrime. Quando Vrel cercò di calmarla, gli gettò le braccia al collo.
   Finito il bacio, Jaylah ricevette da Ladya il bouquet. Si dette una rapida occhiata alle spalle, calcolando posizioni e distanze. Poi gettò il mazzo di fiori, che finì “casualmente” in mano a Zafreen. L’Orioniana fece i salti di gioia, mentre occhieggiava Vrel come se volesse mangiarselo. E tutto finì in risata, una risata che ebbe il potere di lenire gli animi, facendo scordare per un poco la battaglia imminente.
   Come tutti i bei momenti, anche quello finì troppo presto. I novelli sposi lasciarono la sala tattica, per ritirarsi nel loro alloggio, e anche gli altri ufficiali smontarono dal turno. Dovevano sforzarsi di dormire, visto ciò che li aspettava l’indomani. Fecero eccezione Terry e Dib: la prima non abbisognava di sonno e il secondo poteva rinunciarvi per lunghi periodi senza inficiare il suo rendimento. Sotto la loro efficientissima guida, l’equipaggio del turno di notte lavorò alacremente, ultimando i preparativi. Sebbene venisse da tre anni di Guerra Civile, la Keter era in buone condizioni. I danni degli ultimi scontri erano stati riparati: nave ed equipaggio attendevano la resa dei conti con il Moloch.
 
   In quelle stesse ore, sul Moloch, i Pacificatori si dedicavano ad analoghi preparativi. Malgrado le avversità delle ultime settimane, a bordo della nave si respirava un’aria di sicurezza, quasi di euforia. L’intervento dei Proto-Umanoidi contro i Borg sembrava provvidenziale e anche la ritirata dei Voth non preoccupava affatto l’equipaggio. Predominava l’idea che, andati i sauri, l’Unione avesse ancora la vittoria in pugno e per giunta non avrebbe dovuto spartire le conquiste con nessuno. Anche tra i Ministri correvano discorsi speranzosi, a eccezione di Lyra, che lasciava di rado il suo alloggio e pure in quelle occasioni era taciturna.
   A tarda ora Radek entrò nell’ufficio della Presidente per fare rapporto. Beninteso, si trattava del suo ufficio requisito. «Nave ed equipaggio sono pronti, Eccellenza» disse. Si arrestò, notando alcuni ingegneri che trafficavano con un drone della sicurezza. Era il modello più recente: grosso come un’anguria e pressoché sferico, con un phaser al centro. Ora però l’arma era stata rimossa e al suo posto i tecnici ne stavano installando un’altra. «Che state facendo?» volle sapere il Rigeliano.
   «Gliel’ho ordinato io» spiegò Rangda. «Stanno sostituendo il phaser con un disgregatore Varon-T. Saprà di che si tratta».
   «L’arma più dolorosa che esista» annuì il Rigeliano. «La disgregazione è così lenta che la vittima la percepisce in ogni terminazione nervosa. Che ci vuol fare?».
   «Uccidere la Banshee e lo Spettro, quando verranno da me» rispose la Presidente. «Il drone sarà appostato sopra la porta e li colpirà alle spalle. Questa è la fine che meritano». Ricordava quanto Vulok fosse stato vicino a colpire Jaylah alle spalle, durante la Battaglia della Forgia. Se non c’era riuscito, era solo perché la mezza Andoriana aveva percepito i suoi pensieri. Ma con un drone, si disse Rangda, questo inconveniente non c’era.
   «Lei presuppone che i nemici riescano ad abbordarci» notò Radek.
   «Ci proveranno di sicuro, sapendo che io sono qui» disse Rangda. «Tanto vale lasciarli fare. Io sarò l’esca, ma la trappola si chiuderà su di loro».
   «Così facendo si espone a un grosso rischio» notò il Rigeliano, che non se lo aspettava.
   «Sono pronta a correrlo» disse la Zakdorn, inflessibile. «Badi solo che non riescano a sabotare la nave».
   «Non sarebbe meglio se tenesse l’Esecutore presso di sé, come guardia del corpo?» suggerì il Capitano. «A proposito, dov’è?».
   «L’ho mandato a sorvegliare qualcosa di assai più prezioso della mia persona» disse la Presidente, increspando le labbra sottili. «Mi riferisco all’arma che ci farà vincere questa battaglia e con essa la guerra». Dopo di che lo informò del suo piano.
   «Ottima strategia» riconobbe Radek al termine dell’esposizione.
   «Noi Zakdorn siamo i migliori strateghi della Galassia» rivendicò la Presidente. «O lo eravamo» si rabbuiò, ricordando la rovina toccata al suo popolo. «Ormai siamo rimasti in pochi».
   «Le rinnovo le mie condoglianze, signora Presidente» disse il Rigeliano.
   «Grazie, Capitano. Alcuni lo chiamano destino, altri sciagura. A me piace pensare che nessun sacrificio sia troppo grande, se alla fine di tutto avremo estirpato la ribellione» dichiarò Rangda, riavendosi.
   Nel sentir questo, Radek fece un sorriso amaro. «Sa, Eccellenza, finora mi ero sempre illuso che prima o poi avremmo trovato un accordo coi ribelli. Gli ultimi eventi hanno dimostrato che è impossibile. Non possiamo trattare con loro... possiamo solo eliminarli. Lei lo aveva capito fin dal primo momento. Io, purtroppo, l’ho compreso solo di recente. Spero che non sia troppo tardi, per rimediare al mio errore» confessò.
   «Non è mai troppo tardi per correggersi» dichiarò la dittatrice. «I suoi sbagli saranno tutti perdonati, se domani farà il suo dovere sino in fondo».
   «Lo farò a costo della vita, signora Presidente» promise Radek.
   Mentre il Rigeliano terminava di fare rapporto, i tecnici completarono il lavoro sul drone, che si alzò in volo con un lieve ronzio. Una volta assunta la sua posizione stazionaria sopra la porta, era del tutto silenzioso. La trappola perfetta. Sebbene provvisti delle tute a Occultamento Sfasato, i corsari avrebbero dovuto rendersi tangibili per sparare. In quell’attimo il drone li avrebbe colpiti col disgregatore Varon-T, la più dolorosa di tutte le armi. E Rangda sarebbe stata lì a godersi la vendetta.
   «Può andare, Capitano» disse la Presidente al termine del colloquio.
   «A domani, Eccellenza» salutò Radek, ma esitò sulla soglia. «Ammiro il suo coraggio. Lei è la miglior Presidente che l’Unione abbia mai avuto» dichiarò in tutta onestà.
   «Lo so» disse Rangda. «E se distruggerà la Keter, lei sarà il Capitano più ricompensato di sempre. La farò Comandante in Capo dei Pacificatori, ha la mia parola».
   «La Keter ha le ore contate» promise il Rigeliano, e lasciò l’ufficio. Mai in tutta la sua vita aveva avuto un desiderio così ardente di completare una missione.
 

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Capitolo 13
*** Scacco matto ***


-Capitolo 12: Scacco matto
 
   La mattina del 21 dicembre giunse fredda e ventosa sui cieli di Atlantide. Dopo le proteste e i disordini dei giorni precedenti, la popolazione era tornata a barricarsi in casa, in attesa che quel nuovo assedio avesse termine. Ormai la gente era stremata e avrebbe accettato volentieri qualunque vincitore, purché l’incertezza avesse termine. Molti si erano procurati due bandiere, quella della Federazione e quella dell’Unione, e aspettavano la fine delle ostilità per sapere con quale scendere in piazza a festeggiare.
   Nel resto del mondo, però, si respirava un’aria diversa. Durante i tre anni d’occupazione Voth, molti residenti erano stati cacciati dalle loro case e radunati in vere e proprie riserve, nell’attesa d’essere trasferiti su altri mondi. Ora che i sauri se n’erano andati, le loro colonie erano abbandonate. E la fuga era stata così precipitosa che i Voth si erano lasciati dietro molte tecnologie, assai superiori a quelle federali. Così i Terrestri avevano invaso le colonie deserte, ufficialmente per riappropriarsi del territorio, ma con la velata speranza d’impadronirsi di quei segreti. I più rapaci erano i Pacificatori ancora presenti sulla Terra; ma c’era anche la Catena Cremisi, oltre a una gran quantità di criminali comuni. Questo creava seri problemi d’ordine alla Flotta Stellare, che non aveva abbastanza personale per tenere i malintenzionati fuori dalle città Voth.
   Data l’impossibilità di controllare il territorio, ci furono alcuni gesti clamorosi che la Flotta non riuscì a sventare. Se fossero legittimi o meno, ne avrebbero dibattuto gli storici. Le grandi sculture del Monte Rushmore, che i Voth avevano rimodellato a propria immagine, furono distrutte con l’esplosivo, abbassando il monte di parecchie decine di metri. Le effigi dei sauri furono abbattute un po’ ovunque, i loro edifici vandalizzati. E al culmine del saccheggio, Sauropoli fu data alle fiamme. I responsabili non vennero mai identificati. Secondo alcuni fu la Catena Cremisi, in segno di spregio contro i Voth. Altri additarono la Flotta Stellare, che lo avrebbe fatto per impedire ai nemici d’impadronirsi della loro tecnologia. Ma più probabilmente fu opera di comuni vandali, come suggeriva il fatto che i focolai erano apparsi in vari punti della città, senza un particolare criterio. In ogni caso la distruzione fu estesa, in mancanza dei pompieri. Le fiamme avvolsero i bei palazzi, consumando i giardini rigogliosi che crescevano sulle terrazze e le vie soprelevate. La Flotta Stellare non poté intervenire, perché proprio in quelle ore il destino della Terra era più che mai appeso a un filo.
 
   «Buongiorno, signora Wolff» disse Jack, dopo aver svegliato Jaylah con un bacio.
   «Buongiorno, signor Chase» ridacchiò lei, stiracchiandosi. Le antenne si sollevarono lentamente dalla massa dei capelli arruffati.
   «Facciamo che ciascuno di noi terrà il suo cognome» propose l’Umano, e in effetti era quella l’usanza del XXVI secolo. Si alzò e prese a vestirsi.
   «Sì, meglio» convenne la mezza Andoriana, sollevandosi sugli avambracci. «Certo che se avremo dei...» cominciò, ma tacque. Non voleva entrare in argomento “figli” proprio adesso.
   «Eh?» fece Jack, che si era un po’ distratto, pensando alla battaglia imminente.
   «Nulla» disse Jaylah. «Promettimi solo che starai attento, va bene? Non ti ho sposato ieri solo per perderti oggi». In realtà quelle nozze-lampo non cambiavano proprio niente, dato che convivevano già da tre anni. Però l’avevano indotta a ripensare certe cose, o per meglio dire, a guardare la loro vita da un’angolazione diversa.
   «Potrei dirti lo stesso» fece Jack. Sedette accanto a lei e la fissò serissimo. «Fai molta attenzione, specie se la battaglia ci separasse. Questa sarà la missione più pericolosa: sul Moloch sono tutti killer con l’ordine di ammazzarci. Non pensare neanche per un istante che qualcuno possa avere altre intenzioni».
   «Già» annuì Jaylah, chiedendosi se la loro vita sarebbe sempre stata così. Avrebbero vissuto con quell’angoscia, fino al giorno in cui qualche avversario più forte degli altri – o semplicemente più fortunato – li avrebbe accoppati? Non c’era una via d’uscita da quella situazione che nessuno dei due aveva realmente voluto?
   Si vestirono e fecero colazione, scambiando poche altre parole. Fu solo quando presero le tute a Occultamento Sfasato che Jaylah, fissando la propria, ebbe come un presentimento. Qualcosa, in lei, le diceva che quella era l’ultima volta che vestiva i panni della Banshee. «Jack?» mormorò.
   «Sì?» fece lui, accorgendosi che qualcosa non andava.
   «Ho paura» disse lei, schiettamente.
   «Anch’io» ammise l’Umano. Lasciò cadere la propria tuta e abbracciò la novella sposa.
   «Jack?» fece ancora Jaylah.
   «Sì, amore?».
   «E se dopo oggi... la finissimo? Niente più missioni?» mormorò la mezza Andoriana.
   «La guerra potrebbe continuare...».
   «Rispondi alla domanda, frell!» imprecò Jaylah, scostandosi quel tanto da guardarlo negli occhi.
   «Beh... non mi dispiacerebbe appendere la tuta al chiodo» rivelò Jack. «Ma abbiamo molti nemici. Continueremo ad averne anche se vincessimo. Quindi dovremo nasconderci in un posto lontano, magari cambiare nome...».
   «Sono pronta a farlo».
   «E diresti addio alla Terra? Perché quello è il primo posto in cui ci cercheranno» avvertì l’Umano.
   «Sì, lo farei» rispose la mezza Andoriana, con sguardo duro. «È il nostro mondo e oggi lotteremo per salvarlo, ma guarda: laggiù è pieno di profittatori pronti a schierarsi col vincitore. Ieri stavano coi Pacificatori, oggi con noi, e domani se saremo sconfitti torneranno coi Pacificatori. Molti che non hanno mosso un dito contro il regime ora distruggono le colonie Voth per vendetta, come loro hanno fatto con le nostre città. A volte mi chiedo se valga la pena soffrire tanto per questa gente».
   «Ci fosse anche una sola anima buona, ne varrebbe la pena» disse Jack, meravigliandosi lui stesso di quelle parole. «Ma per rispondere alla tua domanda: sì, sono pronto a lasciarmi tutto alle spalle e cominciare una nuova vita, che abbia una parvenza di normalità. Di vite pericolose ne ho già vissute  abbastanza».
   «Allora è una promessa?» s’illuminò Jaylah.
   «Diavolo, sì!» confermò Jack, e la baciò un’ultima volta, prima che indossassero le corazze e attivassero i caschi.
 
   Sopra lo Scudo Planetario e le piattaforme orbitali, le trecento navi della Flotta si apprestavano all’ultima difesa. Davanti a loro erano schierati i vascelli dei Pacificatori, più numerosi e mediamente più moderni. Ma entrambe le flotte restavano in attesa, perché l’ultimatum di Rangda non era ancora scaduto. Tutti tenevano d’occhio l’ora: meno trenta minuti... meno quindici... dieci... cinque...
   A meno cinque minuti giunse la risposta, sotto forma inaspettata. Una sonda recapitò ai Pacificatori una scatoletta che conteneva due oggetti, destinati a Rangda. Questi furono accuratamente esaminati, nel caso si trattasse di uno stratagemma per ucciderla; ma non c’erano inganni. Così la scatola fu posata sulla scrivania della Presidente.
   Meravigliata, Rangda ne trasse un modellino del globo terrestre, abbastanza piccolo da stare nel palmo della mano. Era piuttosto vecchio e consunto, poiché si trattava del globo donato a Forra Gegen, il teorico dell’Origine Lontana, e appartenuto per due secoli alla sua famiglia. Lo accompagnava un breve messaggio, vergato su carta dall’Ammiraglio Chase in persona.
 
Questa è l’unica Terra sulla quale potrai mettere le mani.
Accontentati e vattene, o sarà la tua fine.
Alexander Chase, Ammiraglio di Flotta
 
   La provocazione era giunta a segno. Con mani tremanti, Rangda depose il globo e il foglio sulla scrivania, in attesa del momento in cui li avrebbe fatti ingoiare all’Ammiraglio. Poi si recò in plancia, dove l’attendevano Radek e i suoi ufficiali. «Signori, sarò breve» esordì. «Guardate là fuori: che cosa vedete?» chiese, indicando la flotta nemica inquadrata sullo schermo.
   «La Flotta Stellare?» chiese Radek, sentendosi alquanto stupido.
   «No. Quello è un gigantesco tumore, un cancro che ci divorerà, se non lo asportiamo subito» dichiarò Rangda. «Guardate quelle navi! Sono uno strumento di potere degli Umani. Il loro equipaggio è composto da alieni asserviti agli interessi umani, il cui scopo è asservire anche noi. Glielo permetteremo?».
   «No!» gridarono i Pacificatori a una sola voce.
   «Nella sua arroganza, l’Ammiraglio Chase ci ha intimato di arrenderci, pena la distruzione» incalzò la Presidente. «Ma io vi dico che la resa è la vera distruzione. Quindi dobbiamo vincere a ogni costo. Non importa quanti di noi periranno, non imporra quanti danni subirà la Terra. Quel pianeta deve-tornare-nostro!» disse, calcando la voce su ogni parola. «Questa è la battaglia più importante di tutti i tempi. È la lotta della democrazia contro la tirannia, dei diritti contro l’oppressione, dell’amore contro l’odio. Non posso promettervi che ci salveremo tutti, e infatti io stessa sono pronta a sacrificarmi, ma questo vi giuro: mai più torneremo schiavi degli Umani!».
   Questo breve discorso accese l’entusiasmo dei Pacificatori, che segnalarono all’armata di attaccare e si concentrarono sui loro compiti. Intanto Rangda rientrò nell’ufficio, sorridendo tra sé per la facilità con cui spingeva le sue pedine a battersi fino alla morte: bastava dire che era per una giusta causa. Poi si assicurò che la sua navicella presidenziale, custodita nell’hangar, fosse pronta a partire. Per quanto il Moloch fosse resistente, era buona precauzione tenersi pronta la via di fuga.
 
   Tra gli ufficiali del Moloch, l’unico a non gioire dell’attacco fu Radek, memore dell’ultimatum che aveva imposto a Hod. Aveva promesso di uccidere i suoi parenti, uno ogni quarto d’ora, se lei non gli avesse trasmesso le frequenze dello Scudo Terrestre. Ora la battaglia era cominciata e l’Elaysiana non aveva ceduto. In quel momento gli ostaggi si trovavano nell’hangar principale, allineati lungo una parete. E davanti a loro era schierato il plotone d’esecuzione, pronto a far fuoco.
   «Ah, Bina... sei ancora più crudele di quanto pensavo. Non rinunci alla tua ideologia nemmeno per salvare i tuoi cari» si disse il Rigeliano, fissando la Keter con disprezzo misto a nausea. Non importava quanta malvagità si aspettasse dai suoi ex colleghi: loro superavano sempre le peggiori aspettative. Ora più che mai, sentì che la Presidente Rangda era l’ultimo raggio di luce nella Galassia. Giurò a se stesso che non l’avrebbe fatto estinguere.
 
   Fissando il Moloch sempre più vicino, il Capitano Hod si promise che questa era davvero la resa dei conti. Stavolta non sarebbe fuggita, né avrebbe lasciato andare gli avversari. Quella sfida che aveva avvelenato i suoi pensieri per tre anni doveva assolutamente finire. Se solo non ci fosse stata di mezzo la sua famiglia! Il pensiero che i suoi cari erano in mano al nemico la stava uccidendo. Ma Radek li avrebbe davvero giustiziati o era solo un bluff? Dopo aver sperimentato tanti orrori e tradimenti, il Capitano non volle aggrapparsi a vane speranze. Dette per scontato che i Pacificatori avrebbero effettivamente assassinato i suoi cari.
   «Appena sarà nel raggio di tiro, fuoco a volontà sul Moloch» ordinò. Poi si premette il comunicatore. «Hod a squadra 1, tenetevi pronti».
   «Ricevuto» disse Norrin, che era già in sala teletrasporto con i suoi agenti. «Tenga duro, Capitano» raccomandò, sapendo quant’era dilaniata. Salì sulla pedana, seguito dai commando. Erano tutti pesantemente armati e indossavano le tute semi-corazzate da battaglia.
   «Lo farò» mormorò l’Elaysiana. «Buona fortuna a tutti voi. Hod, chiudo».
   Un Capitano deve sempre mostrarsi forte davanti al suo equipaggio. Un Capitano non deve anteporre le questioni personali alla missione, specialmente quando si trova in guerra. Ma in quel momento, il Capitano Hod maledisse il giorno in cui si era arruolata. Poi maledisse il giorno in cui era stata fondata la Flotta Stellare. Se uno solo dei suoi parenti fosse stato assassinato, non sarebbe mai più riuscita a guardare in faccia gli altri, né avrebbe chiesto loro di perdonarla.
 
   Sotto lo sguardo affranto dei Proto-Umanoidi, che ancora imploravano le due parti di fermarsi, i Pacificatori si fecero avanti. La Flotta Stellare mantenne invece la posizione, così da avere il supporto delle piattaforme orbitali. Le due armate aprirono il fuoco, puntando non a disabilitare i vascelli nemici, ma a distruggerli. Nessuno, infatti, era nelle condizioni di fare prigionieri. Tutti sapevano che solo una vittoria decisiva avrebbe dato una svolta alla guerra e così erano determinati a lottare fino all’ultimo. Gli scudi balenarono nell’assorbire il fuoco nemico, le navi più piccole guizzarono attorno alle maggiori. Tutte e due le parti erano fermamente convinte di costituire l’ultimo baluardo della libertà; ma non potevano avere entrambe ragione.
   Al centro dello schieramento federale vi era la Khitomer, la nave dell’Ammiraglio Chase, fiancheggiata dalla Constellation e dalla Sha Ka Ree. Appena sotto vi era la Keter, al cui fianco si trovavano gli unici due vascelli alieni dello schieramento: la Luce di Kelva comandata da Fanior e il Dorvic, la nave dei Cacciatori Hirogeni. Tutte queste navi, più altre ancora, concentrarono il fuoco esclusivamente sul Moloch, nel tentativo di abbatterne gli scudi. La nave di Radek rispose con un fuoco serrato, che si concentrò sulla Keter. Allora le altre navi estesero a turno la bolla degli scudi, per proteggere il loro vascello di punta.
   «Astuto» riconobbe Radek. «Ma insufficiente. Passate alla fase 2».
   Pochi attimi dopo un segnale giunse alle piattaforme orbitali, ancora numerose e bene armate. A quell’ordine, le piattaforme cambiarono bersaglio: ora martellavano la Flotta Stellare. E poiché i federali non si aspettavano d’essere colpiti alle spalle, le loro navi avevano concentrato le difese a prua, mentre gli scudi di poppa erano al minimo. Molte navi furono danneggiate e alcune distrutte, prima che potessero ridistribuire l’energia. Altre si spostarono nel disperato tentativo di sottrarsi al fuoco e così facendo scombinarono lo schieramento federale. I Pacificatori ne approfittarono per farsi avanti, così che la Flotta si trovò schiacciata tra il martello e l’incudine.
   «Come hanno fatto a impadronirsi delle piattaforme?!» chiese l’Ammiraglio Chase, mentre la sua nave vibrava sotto i colpi.
   «Hanno usato una specie di... codice segreto, che ha sovrascritto i nostri ordini» rispose l’addetto alle comunicazioni.
   «Fermateli. Spegnete tutto, se necessario!» ordinò l’Ammiraglio, sapendo che quel trucco poteva sancire la definitiva caduta della Flotta.
   «Impossibile, ci hanno tagliati fuori!» avvertì l’ufficiale. «Dev’essere stata Rangda, ha usato i codici presidenziali per prendere il controllo».
   «Avevo ordinato di cambiarli, perché ciò non accadesse!» protestò Chase.
   «Credevamo d’averlo fatto, ma... le procedure sono cambiate, in questi anni d’occupazione. I programmi delle piattaforme sono diversi. In qualche modo le direttive dei Pacificatori hanno ripreso il sopravvento».
   L’Ammiraglio sentì la sua nave tremare sempre più e vide la Flotta nel caos. Non c’era tempo di affrontare la battaglia informatica, quando quella fisica stava per essere persa. «Chase a flotta, entriamo nello schieramento nemico. Schema d’attacco Omicron-9» ordinò.
   «Signore, ne è certo?!» chiese il Commodoro Lantora, attraverso il canale condiviso.
   «Affermativo. L’unico modo di rendere inutili le piattaforme è mischiarci così tanto alle navi nemiche da far sì che colpiscano indistintamente noi e loro» disse l’Ammiraglio.
   «Saremo comunque in svantaggio» avvertì T’Vala. «I vascelli dei Pacificatori sono più numerosi dei nostri».
   «Resisteremo più a lungo che nel fuoco incrociato, e chissà che non sia l’abilità a fare la differenza» disse Chase, pur credendoci poco, perché la professionalità dei Pacificatori non era affatto inferiore alla loro. «Ordine confermato, avanti tutta!».
 
   Con il coraggio della disperazione, la Flotta Stellare si avventò sui Pacificatori, mischiando le proprie navi alle loro. La battaglia divenne un marasma in cui era difficile distinguere tra amici e nemici, anche perché le classi di navi erano sostanzialmente le stesse. Solo la Keter e il Moloch si distinguevano per il loro design atipico e ciò le rendeva bersagli privilegiati. Il Moloch in particolare era ancora oggetto di un attacco combinato, nel tentativo di abbatterne gli scudi.
   La strategia dell’Ammiraglio in parte funzionò, perché le piattaforme sbagliavano spesso bersaglio. Ma alla richiesta di disattivarle, Rangda oppose un netto rifiuto. Gli ordigni continuarono a sparare nel mucchio, infliggendo quasi gli stessi danni ai Pacificatori che alla Flotta. Questo creò un certo risentimento tra gli equipaggi dell’Unione, che nondimeno continuarono a combattere.
   Sulla Keter, Terry aggiornava in tempo reale le sue proiezioni tattiche. «Nell’attuale situazione la Flotta può resistere tre ore al massimo, poi la battaglia sarà persa» avvertì.
   «Allora inventiamoci qualcosa» disse il Capitano. «Qualche progresso sulle piattaforme?».
   «Il codice veniva dal Moloch, ma è stato ritrasmesso dalla Luna» disse Zafreen, che stava studiando il problema. «Ecco, l’origine è il bunker di Nuova Berlino. I Pacificatori devono averci ricavato un centro di comando ausiliario. Forse da lì si possono disattivare le piattaforme».
   «È un lavoro per i nostri migliori agenti» notò Terry. Accennò allo Spettro e alla Banshee, che erano già in posizione sulla pedana di plancia.
   «Ma dobbiamo andare sul Moloch!» obiettò Jack. «E anche supponendo di raggiungere i comandi, non sappiamo se le piattaforme si possano disattivare, senza i codici».
   «Faremo un tentativo, ma non possiamo distogliere troppe forze» decise il Capitano. «Signor Wolff, se la sente di andare?».
   «E chi penserà a Rangda?» chiese lui.
   «Jaylah».
   «Vuole separarci?!» protestò l’Umano, vedendo concretizzarsi il suo peggior timore. «Era stabilito che saremmo andati insieme».
   «Va bene così, Jack» disse però la mezza Andoriana. «Ci ritroveremo come sempre».
   «Vorrei crederlo, ma...».
   «Gli scudi del Moloch vacillano!» avvertì Terry. «Se vogliamo inviare le squadre, dobbiamo farlo ora». In quel momento la nave avversaria era al centro di una gragnola pesantissima. I federali la colpivano da ogni lato, facendo sfarfallare gli scudi. Anche una delle piattaforme orbitali colpì accidentalmente il Moloch, quando la Keter schivò i suoi colpi.
   «Energia!» ordinò il Capitano. «Trattenga solo lo Spettro».
   «No!» gridò il corsaro, tendendo le braccia verso la moglie, ma non strinse altro che aria. Nello stesso momento anche la squadra di Norrin fu trasferita, dalla sala teletrasporto 1. Un ulteriore distaccamento, al comando di Vrel, partì dalla sala 2. L’assalto al Moloch era iniziato.
   Le braccia dello Spettro ricaddero. Il corsaro scese dalla pedana e si accostò al Capitano. «Se Jaylah muore, la riterrò responsabile» avvertì.
   «I miei parenti sono in ostaggio sul Moloch. I Pacificatori li stanno giustiziando uno alla volta» disse l’Elaysiana, senza nemmeno guardarlo. «Stiamo facendo tutti dei sacrifici, signor Wolff».
   Lo Spettro non rispose, ma tornò sulla pedana, in attesa che venisse il suo turno. La sua collera era al calor bianco e a farne le spese sarebbe stata la guarnigione di Nuova Berlino.
 
   La Banshee si materializzò in un corridoio del Moloch. Notò subito che era molto più ampio di quelli della Keter, mentre le luci erano più basse. La nave si scuoteva leggermente, ma in breve tornò a stabilizzarsi.
   Sapendo che quella era la sua unica occasione di stanare Rangda, la mezza Andoriana si occultò e corse avanti, fino a trovare un’interfaccia parietale da cui orientarsi. Scoprì che i colleghi l’avevano teletrasportata a poppa del Moloch, perché evidentemente solo lì gli scudi avevano ceduto per qualche istante. Dunque l’aspettava una lunga scarpinata per arrivare in plancia. Decise di seguire un approccio stealth, evitando il più possibile gli scontri. Dopo aver memorizzato il percorso più breve attivò anche lo Sfasamento e prese a correre attraverso le paratie. Farsi avanti in quel modo era facile, ma per salire ai ponti superiori avrebbe perso molto più tempo. Non osando prendere i turboascensori, per timore che la rilevassero, doveva salire con le scalette dei tubi di Jefferies.
   A poca distanza, la squadra di Norrin e quella di Vrel proseguivano per la loro missione. Anche loro erano occultati, pur non possedendo lo Sfasamento, il che li rallentava notevolmente; ma erano assai più vicini all’obiettivo. E ancora sul Moloch non erano squillati gli allarmi.
 
   «Gli scudi sfarfallano!» avvertì l’Ufficiale Tattico.
   «Leviamoci dalla battaglia, finché non saranno rigenerati» ordinò Radek.
   Il Moloch si districò dallo scontro e fece rotta verso l’interno del sistema solare, inseguito dalla Constellation e dalla Sha Ka Ree. Anche la Keter sulle prime parve seguirlo, invece si fermò nei pressi della Luna. Il satellite non aveva uno Scudo Planetario paragonabile a quello terrestre: c’erano solo alcuni schermi a difesa degli insediamenti. La Keter bombardò quello di Nuova Berlino, da dov’era partito l’ordine alle piattaforme. Poiché il tempismo era essenziale, l’Ammiraglio Chase spedì in aiuto le poche Dreadnought di cui disponeva.
   I potenti missili teleguidati esplosero all’impatto, abbattendo lo scudo. Le esplosioni tuttavia danneggiarono le cupole della colonia lunare, alcune delle quali s’infransero. Ci furono massicce perdite d’aria, anche se le vittime furono poche, poiché la popolazione si era già rifugiata nei livelli sotterranei. Anche così, il bombardamento di Nuova Berlino passò alla storia come una delle azioni più efferate compiute dalla Flotta Stellare nella Guerra Civile e uno degli ordini più controversi dell’Ammiraglio Chase. Ma la guerra è guerra, e giudicarla è assai più facile – e sicuro – che farla.
   «Adesso» disse Hod. Lo Spettro fu trasferito nel bunker, il più vicino possibile al luogo d’origine del segnale. Poi la Keter dovette allontanarsi a pieno impulso, per sfuggire alla rappresaglia delle batterie di terra.
   «Torniamo dal Moloch» ordinò il Capitano. «È tempo di chiudere i conti».
 
   Chiusa nel suo ufficio vigilato dalle Guardie Presidenziali, Rangda si crogiolava nel seguire la battaglia sull’oloschermo della scrivania. Finora le cose procedevano come aveva previsto. Presto la Flotta Stellare sarebbe stata solo un brutto ricordo e la Terra sarebbe tornata ai suoi legittimi proprietari. In quella la Zakdorn ricevette un avviso dalla plancia.
   «Eccellenza, un messaggio non autorizzato è stato appena diffuso sull’Olonet a partire da questa nave».
   «E allora?» fece Rangda, senza afferrare subito la gravità della cosa.
   «Si tratta di una trasmissione a reti unificate che ha oscurato i notiziari, Eccellenza. Ed è scaricabile dal sito del Ministero dell’Informazione» avvertì l’ufficiale.
   «Lyra!» comprese la Presidente. «Che le frulla per il cervello? Io non l’ho autorizzata a fare alcuna trasmissione!».
   «Credo che questa dovrebbe vederla, Eccellenza».
   Rangda esitò, perché le sembrava di avere cose più importanti da fare. Ma dal tono dell’ufficiale capì che era una faccenda grave. «D’accordo, me la passi» cedette.
   I dati tattici scomparvero dall’oloschermo, rimpiazzati da un primo piano di Lyra, che trasmetteva dal suo alloggio sul Moloch. La mezza Xindi aveva un’aria diversa dal solito, più matura e solenne. «Salve, cittadini dell’Unione» esordì. «Vi parlo nell’ora più buia della nostra storia, affinché siate consapevoli di ciò che sta accadendo. In questo momento la Flotta Stellare e i Pacificatori si danno battaglia nell’orbita terrestre, contendendosi ancora una volta il pianeta. Ma se vi aspettate da me un altro panegirico del regime di Rangda, siete fuori strada».
   La Presidente aggrottò la fronte, chiedendosi se avesse sentito male. Quelle parole l’avevano colpita come uno schiaffo. E il peggio doveva ancora venire.
   «Sono tre anni che questo regime totalitario vi mente sistematicamente, aizzandovi gli uni contro gli altri per impedirvi di riconquistare i diritti che vi ha strappato» proseguì Lyra in tono incalzante. «I suoi crimini sono troppi perché io stia qui a elencarli, perciò v’invito a scaricare i documenti governativi che ho pubblicato sul sito del mio Ministero, prima che siano rimossi. Scoprirete che in questi pochi anni il regime ha fatto arrestare, torturare e spesso uccidere milioni di oppositori politici. Che ha cancellato le libertà costituzionali – le vostre libertà – a partire dalla più sacrosanta, quella d’espressione. E che ha condotto un deliberato, sistematico genocidio ai danni della specie umana, sterilizzando milioni di persone in quei lager che sono i Centri di Rieducazione.
   Ma niente è emblematico quanto la sorte della Terra. Quando gli arroganti Voth hanno invaso la nostra capitale, la Flotta Stellare li stava respingendo con successo. È stata Rangda a ordinare la resa che ha portato al massacro della nostra flotta, alla deportazione dei Terrestri e alla distruzione delle loro città. Quando poi la Terra è stata minacciata dai Borg, i sauri hanno salvato solo i propri coloni, lasciando indietro tutti gli altri. Allora spettava ai Pacificatori difenderla a oltranza, o almeno evacuare quanti più abitanti possibile. Nulla di tutto ciò è stato fatto. Rangda e i suoi sono fuggiti senza preoccuparsi minimamente dei miliardi di persone che vivono ancora qui. È stata la Flotta Stellare a chiamare in aiuto i Proto-Umanoidi, che hanno sconfitto i Borg. Poi i Proto-Umanoidi hanno sancito che la Terra è proprietà inalienabile della specie umana: un verdetto che i Voth hanno accettato. Questo era il momento di porre fine alla Guerra Civile; invece Rangda e i Pacificatori hanno sferrato un feroce assalto alla Terra. Lo stesso pianeta che hanno regalato ai sauri, e poi lasciato in pasto ai Borg, ora d’un tratto è così importante che stanno versando il sangue per riaverlo.
   Tutto ciò può avere una sola spiegazione: non è la Terra ad essere importante. Ciò che conta è la politica di Rangda, una politica tesa a spezzare la specie umana, privandola della patria, della cultura, dell’orgoglio, dell’identità stessa. Tutto per dare a noialtri l’impressione d’essere migliori e di aver distrutto il male. Beh, lasciate che ve lo dica: gli Umani non sono “il male”. Quello è in ognuno di noi e cresce ogni volta che perseguitiamo un innocente. Quindi non lasciatevi usare da Rangda... anche perché potreste essere i prossimi sulla sua lista nera. I dittatori come lei non sanno unirci nella tolleranza, quindi ci fanno compiere delle atrocità, affinché sia la colpa a unirci. Allora sì che saremo tutti mostruosi come lei!».
   Lyra tacque brevemente, sul punto di singhiozzare per la vergogna e il rimorso, ma anche per la consapevolezza di ciò che l’aspettava. Poi si dominò e riprese: «Io stessa non faccio eccezione. Per tre anni ho creduto in quest’ideologia perversa, aiutando il regime a imporsi. Vi ho mentito ogni giorno, per nascondere i crimini dell’Unione e per demonizzare gli oppositori. Per tutto ciò vi chiedo scusa, dal profondo del cuore. Ma se questa confessione vi sembra un’ammenda insufficiente, sappiate che sto per pagare con la vita. Ora che ho detto la verità, infatti, sono certa che Rangda mi farà assassinare, come sempre fa con gli oppositori. Dunque la mia opera finisce oggi; spetta a voi continuare. Ribellatevi al regime! Fatelo oggi, fatelo adesso, altrimenti diverrà così forte che non potrete farlo più. Riconquistate la vostra libertà, perché se aspettate che qualcun altro ve la renda, non la rivedrete mai. Fatelo per i vostri figli, finché sono ancora vostri, e non dello Stato. Addio... spero che un giorno potrete di nuovo dirvi liberi».
   Il messaggio era finito. Rangda non aveva cercato di fermarlo perché sapeva che era già stato trasmesso nella sua interezza e ascoltato in tutta l’Unione. Per qualche attimo la Presidente rimase immobile come una statua, cercando di valutare l’entità del danno. Poi vi rinunciò ed esplose.
   «INGRATA E MALVAGIA!» gridò, facendosi paonazza. Chiuse l’oloschermo con un gesto violento, lasciò la scrivania e corse in plancia. «Dov’è Lyra in questo momento?» chiese trafelata.
   «L’abbiamo catturata, Eccellenza» riferì Radek. «Era ancora nel suo alloggio. Non ha cercato di fuggire, né ha opposto resistenza... del resto sarebbe stato inutile».
   «Bene. Uccidetela» ordinò la Zakdorn.
   «Così, senza processo?» esitò il Rigeliano.
   «È colpevole di alto tradimento, incitazione alla rivolta e divulgazione di atti riservati!» rispose la Presidente, sempre affannosa. «Con quel discorso ci ha danneggiati più di quanto abbia fatto la Flotta Stellare in tre anni di massacri. Il suo tradimento potrebbe far crollare l’Unione, gettandoci nella sofferenza eterna. Quindi sì, dobbiamo giustiziarla all’istante, come si conviene a una criminale di guerra. Portatela nell’hangar e fucilatela con gli altri».
   «Come desidera, Eccellenza» acconsentì il Capitano. Contattò la squadra che l’aveva in custodia e impartì gli ordini.
   «Ah, un’altra cosa» disse Rangda, prima di rientrare nell’ufficio. «Datemi un canale video con l’hangar. Voglio guardare la traditrice negli occhi, mentre muore». Sapeva che questo non avrebbe riparato al danno, ma avrebbe certo lenito la sua anima ferita.
 
   Sorvegliata da un plotone armato, Lyra fu condotta nell’hangar principale. Si trattava dell’ambiente più vasto del Moloch: era di forma rettangolare e alto due piani, con una passerella che lo contornava a metà altezza, eccezion fatta per il lato del portone esterno. Sul pavimento scuro erano allineate navette di vari modelli. Alcune avevano i piloti lì accanto, pronti a mettersi ai comandi se il Capitano Radek lo avesse ordinato. Altre navicelle si trovavano a un livello inferiore e potevano essere innalzate su piattaforme: fino ad allora parevano adagiate in fondo a pozzi quadrangolari.
   «Muoviti, traditrice!» intimò una delle guardie, spintonando Lyra in avanti. In realtà non era lei a decidere la velocità del suo passo: al momento dell’arresto i Pacificatori le avevano scagliato contro un drone accalappiatore, che l’aveva intrappolata in un esoscheletro di listelli metallici. Ogni arto e persino le singole dita erano ingabbiate e costrette a muoversi contro la loro volontà: l’immagine perfetta del regime di Rangda.
   Lo spintone della guardia fece vacillare Lyra, ma il drone la raddrizzò prontamente e la costrinse ad accelerare il passo. La mezza Xindi restò in silenzio, fissando il pavimento lucido. Sapeva che stavano per giustiziarla, ma non voleva dare ai Pacificatori la soddisfazione di vederla tremare e implorare pietà. Ciò che aveva fatto era dettato dalla sua coscienza e non ne era pentita, pur sapendo che le sarebbe costata la vita. Richiamò alla memoria quel po’ d’insegnamenti vulcaniani che aveva ricevuto, per scacciare la paura della morte; ma essendo Vulcaniana solo per un quarto il beneficio fu limitato.
   «Beh, un’altra prigioniera?».
   «Della peggior specie; ha inneggiato alla rivolta. Mettetela con gli altri».
   Questo breve scambio di parole tra carcerieri indusse Lyra ad alzare lo sguardo. Allineati davanti alla parete c’erano altri cinque prigionieri, tutti ingabbiati in esoscheletri come il suo. Vestivano abiti civili: erano una donna anziana, un uomo e una donna adulti e – cosa peggiore – due bambini. Doveva trattarsi di una famiglia. Osservando la loro fisionomia, Lyra ne riconobbe la specie: erano Elaysiani.
   «Ma guarda, abbiamo un’ospite VIP!» commentò l’uomo in tono sardonico. «Ministra Lyra, dico bene? L’ho vista spesso all’olovisione».
   «Sono io» mormorò la giovane, vergognosa, mentre l’esoscheletro la obbligava ad allinearsi con loro.
   «E cos’ha fatto per finire qui?».
   «Ho detto la verità».
   «Grosso errore, di questi tempi» commentò l’Elaysiano, cupo. Il suo sguardo corse alla moglie e ai figli che non poteva proteggere.
   «Ma voi chi siete?» s’incuriosì Lyra, per quanto ciò potesse apparire ininfluente, ora che stavano per essere giustiziati.
   «Yesod Hod» borbottò l’altro. «Io e la mia famiglia siamo qui per il solo fatto che Bina è mia sorella».
   «Il Capitano Hod?!» fece Lyra, sentendo le vertigini. «Io la conosco! Una volta naufragai con lei su Pyris VII. Io e mio fratello la salvammo dai Devidiani». Era stato prima che la Guerra Civile li dividesse; erano passati solo quattro anni, ma sembrava un’altra vita.
   «Vorrei che non l’aveste fatto» disse Yesod, sempre più aggrondato. «Così ora la mia famiglia vivrebbe».
   «Silenzio! Ascoltate la vostra sentenza!» intimò il caposquadra. Il drone accanto a lui proiettò l’immagine olografica di Rangda, in diretta dal suo ufficio.
   «Lyra Shil, lei è condannata a morte per alto tradimento, incitazione alla rivolta e divulgazione di atti riservati» disse la Presidente, con voce intrisa di disprezzo. Poi, sopraffatta dall’emozione, le si avvicinò. «Come hai potuto? Io ti ho dato tutto, e tu mi pugnali alle spalle!» sibilò.
   «Tu mi hai manipolata e usata!» gridò Lyra, con le lacrime agli occhi. «E ora che mi sono scrollata di dosso le tue menzogne, mi fai uccidere! Ma lo so che te la fai sotto per la paura di perdere il potere! E sarà così! Perderai tutto!» inveì.
   «C’è una cosa che non hai ancora capito di me: io vinco sempre, perché sono nel giusto» ribatté la Zakdorn, con un sorriso che esprimeva completa fiducia in sé. Poi si rivolse ai Pacificatori: «Uccidete questa traditrice».
   «E gli altri?» chiese il caposquadra, un Capellano.
   «Credevo che fossero già stati giustiziati» disse Rangda. «Non dovevate eliminarne uno ogni quarto d’ora?».
   «Uhm, sì» fece il Capellano, spostando il peso da un piede all’altro. «Il Capitano Radek sperava che Hod crollasse sotto minaccia, ma non è stato così. Perciò ci ha ordinato di fermarci. In fondo è inutile accanirci su dei civili...».
   «Dei pericolosi cospiratori» corresse la Presidente. «Ha dimenticato che avevano del materiale propagandistico nemico? È ora di dare un chiaro messaggio a quelli come loro. Giustiziateli!» ordinò.
   «Ma i bambini...» esitò il Capellano.
   «Anche loro. È la vostra Presidente eletta che ve lo ordina» rivendicò Rangda.
   «No!» gridò Lyra. «Uccidi me, brutta strega, ma non loro!».
   «Ah, adesso m’implori?» fece la Zakdorn, riempiendosi di gioia maligna. «Bene... allora fallo come si deve. In ginocchio! E voialtri, toglietele l’esoscheletro. Toglietelo a tutti!» ordinò.
   Richiamati dai Pacificatori, gli esoscheletri si aprirono e si sfilarono dai prigionieri. Poi si ripiegarono più volte su se stessi, compattandosi per riformare i droni accalappiatori. Questo ebbe gravi conseguenze sugli Elaysiani, abituati alla bassa gravità. Nel momento in cui le gabbie metalliche si aprivano, essi crollarono al suolo come se li avessero disossati. Solo Yesod, il più robusto dei cinque, riuscì a reggersi su un ginocchio per qualche secondo; ma infine anche lui crollò con un lamento. Lyra invece era ancora in piedi e ne approfittò per frapporsi tra il plotone d’esecuzione e i due bambini.
   «Bene» disse Rangda. «Sei pronta a ritrattare il tuo ultimo discorso, spiegando che si è trattato di un sabotaggio dei ribelli? Vedendoti ancora al mio fianco, tutti si convinceranno che è così».
   «Io...». La mezza Xindi sentì qualcosa spezzarsi dentro di sé. Non importava quanto provasse a ribellarsi: quel demonio trovava sempre un punto debole da sfruttare. In quel momento, Lyra pensò davvero che nessuno sarebbe mai riuscito a sconfiggere Rangda.
   «Hai cinque secondi per rispondere, dopo di che i bambini morranno per colpa tua» disse la Zakdorn, con voce soave.
   «Quattro...». I Pacificatori puntarono i fucili phaser, pronti a disintegrare Lyra e poi gli Elaysiani dietro di lei.
   «Tre...». Lyra sentì i lamenti dei bambini e il rantolo dei genitori che strisciavano verso di loro, per abbracciarli e fare da scudo.
   «Due...».
   Lyra crollò in ginocchio e stava per implorare pietà, quando l’hangar fu attraversato dai raggi phaser. La prima sventagliata abbatté l’intero plotone d’esecuzione. Il caposquadra e le altre guardie si abbassarono e corsero a nascondersi dietro le navette. Lo stesso fecero i piloti disseminati nell’hangar.
   «NO!» gridò Rangda, torcendosi le mani per la stizza.
   Rinata, Lyra alzò gli occhi e vide i federali appostati sulla passerella che correva intorno al salone. Tra loro c’era suo fratello, che correva per sfuggire ai colpi dei Pacificatori e al tempo stesso li centrava con l’abilità di un cecchino. «Vrel!» gridò, felice come non mai.
   «Lyra!» rispose lui, che l’aveva adocchiata ancor prima di aprire il fuoco. Per sfuggire a un raggio polaronico saltò giù dalla passerella, atterrando sul tetto di una navetta. Da lì colpì un avversario a destra e uno a sinistra, dopo di che balzò a terra.
   Intanto una seconda squadra, capeggiata da Norrin, era già al suolo e correva verso gli ostaggi. I droni accalappiatori gli sfrecciarono contro, ronzando come calabroni inferociti, ma i federali li abbatterono tutti prima di farsi agguantare. L’Hirogeno combatteva con l’abilità di un veterano: ogni suo colpo andava a segno. Aveva giurato a Hod di salvare i suoi cari e niente poteva distoglierlo dal proposito.
 
   Dalla sua posizione accovacciata, Lyra si guardò attorno e si accorse d’essere nel bel mezzo della gragnola. Lo stesso valeva per gli Elaysiani, che non potevano nemmeno mettersi al riparo. I federali cercarono di raggiungerli, ma il loro assalto iniziale si smorzò: c’erano troppi Pacificatori appostati dietro le navette, che li prendevano di mira. Alcuni commando caddero e gli altri, compresi Norrin e Vrel, dovettero ripararsi a loro volta. Lo scontro rischiava di trascinarsi fino all’arrivo dei rinforzi nemici, e quella sarebbe stata la fine.
   «Tenente, uccida gli ostaggi!» ululò Rangda, il cui ologramma si ergeva in mezzo al marasma, come una dea oltraggiata. Un raggio phaser, forse di un federale che si era ingannato sulla sua presenza, l’attraversò senza nuocerle.
   A quell’ordine il Capellano, che si era nascosto dietro una navetta, rinunciò a scambiare colpi con Norrin e si volse ai prigionieri. Prima che potesse far fuoco, Lyra gli fu addosso. Con un rapido calcio, la mezza Xindi gli fece sfuggire di mano il phaser. Poi lo attaccò di nuovo allo stesso modo, con l’idea di stordirlo, ma fu un errore: il robusto avversario riuscì ad afferrarle la gamba. Sollevò Lyra di peso e la sbatté contro la fiancata della navetta. La giovane cadde a terra, mezza stordita. Prima che potesse rialzarsi, il Capellano fu sopra di lei, con la vibro-lama in pugno.
   «Crepa!» gridò, sferrando una pugnalata alla gola.
   Lyra riuscì ad afferrargli il polso, tenendolo bloccato, ma a sua volta era costretta a terra. L’avversario la schiacciava con il suo peso e poco alla volta le accostava la lama alla gola. La mezza Xindi si oppose strenuamente, ma senza esito: il Capellano era troppo forte. Allora si guardò attorno, ma vide che i federali erano ancora lontani. Un paio di torrette difensive interne all’hangar si erano attivate e con il loro fuoco serrato li costringevano a restare nascosti dietro le navette. Non c’erano aiuti in arrivo... tranne forse i più inaspettati.
   Prostrati al suolo dalla gravità insostenibile, gli Elaysiani videro Lyra gettarsi contro il Pacificatore, in loro difesa. La videro mettere a segno il primo colpo e poi soccombere lentamente alla maggior forza dell’altro. Sapevano che, morta lei, nessun altro sarebbe giunto in tempo a salvarli.
   A quel pensiero, Yesod Hod sentì rinascere in lui una forza inaspettata. Era il suo momento: lui solo si frapponeva tra la sua famiglia e i fanatici che li volevano morti. Con uno sforzo doloroso si alzò in ginocchio. Riuscì ad alzare una gamba, poi l’altra, infine drizzò la schiena. Pur non avendo mai fatto l’adattamento neuro-muscolare come sua sorella, riuscì a muovere un passo dopo l’altro, sorretto unicamente dalla forza di volontà. Gli sembrava di avere una navetta sulla schiena, ogni respiro era una fitta dolorosa, ma andò avanti. Il suo obiettivo era il phaser che Lyra aveva fatto schizzar via di mano al Pacificatore e che era scivolato in un angolo. Lo raggiunse, si curvò con un tremendo sforzo della schiena e lo raccolse. Accortosi che non riusciva a raddrizzarsi, si lasciò cadere a terra in modo controllato. Il phaser era nelle sue mani ed egli mirò al cuore del Pacificatore.
   In quel momento il Capellano stava per piantare la vibro-lama nella gola di Lyra. Mancava appena un centimetro. Sogghignò, facendo ancora più forza.
   «Attento!» lo avvertì Rangda.
   Il sorriso svanì dal viso del Capellano, che alzò gli occhi e si accorse del pericolo. Cercò di alzarsi, ma fu Lyra a trattenerlo, sebbene la lama le dardeggiasse a un soffio dalla gola. In quella Yesod sparò, colpendolo al cuore.
   Per un attimo il Capellano s’irrigidì, come rifiutando di accettare l’accaduto. Poi cadde addosso a Lyra, morto stecchito. La giovane scostò a fatica il suo cadavere e si rimise in piedi, con la vibro-lama in pugno. Era esausta, ma nei suoi occhi brillava una feroce soddisfazione.
   «Poveri sciocchi, avete solo ritardato l’inevitabile!» minacciò Rangda.
   «Lascia stare... la mia... famiglia!» grugnì Yesod, ancora oppresso dalla gravità. Prese di mira il drone olo-proiettore e lo centrò, facendolo esplodere. L’immagine della dittatrice si dissolse, come un incubo al risveglio; ma lei era ancora al sicuro nel suo ufficio.
 
   Minacciati dalle torrette, i federali si erano nascosti dietro alle navicelle, ma sapevano di non avere molto tempo prima che arrivassero i rinforzi nemici. «Dobbiamo sbloccare la situazione!» gridò Norrin, per sovrastare il frastuono dei colpi.
   «Ci penso io, coprimi!» gli disse Vrel di rimando. Aveva adocchiato la navicella di Rangda, più grande e corazzata delle comuni navette, e gli era venuta un’idea. Sotto il fuoco di copertura dei colleghi, il timoniere si gettò coraggiosamente in avanti. Oltrepassò il fuoco incrociato, raggiungendo la navicella presidenziale, e si tuffò all’interno subito prima che il portello si richiudesse. Rotolò a terra, sfuggendo al phaser di una guardia, e sparò a sua volta, mettendola fuori combattimento. Rialzatosi con agilità, attraversò i comparti della navicella, stordendo tutti gli avversari, fino a giungere in cabina. Vi trovò il pilota che era entrato al momento dell’attacco e stava attivando i sistemi.
   «Dren!» imprecò questi, impugnando il phaser, ma Vrel fu più rapido e lo stordì. Rovesciò il corpo a terra e sedette al suo posto. La navicella era ormai attiva; il timoniere sollevò gli scudi. Poi decollò, mantenendola a pochi metri da terra, e la fece girare di lato.
   Avendo rilevato la manovra, le torrette difensive ruotarono verso lo yacht presidenziale e lo colpirono, ma i robusti scudi della navicella resistettero. Servivano parecchi colpi per abbatterli e Vrel non gliene diede il tempo. Colpì prima una e poi l’altra torretta, facendole esplodere. Dopo di che bersagliò le altre navette, in modo che i Pacificatori non potessero usarle. L’hangar del Moloch divenne un campo di battaglia pieno d’urla e d’esplosioni. Parecchi Pacificatori, che si erano appostati dietro le navette o vi erano entrati per attivarle, perirono così. I pochi superstiti fuggirono dall’hangar, sbarrando i portelli interni.
   Quando fu certo che non c’era più pericolo, Vrel atterrò accanto agli Elaysiani. Disattivò lo scudo e aprì il portello, per consentirgli di salire. Allora i federali si fecero avanti, raccolsero gli ostaggi e li caricarono sullo yacht presidenziale, deponendoli nel comparto posteriore. Norrin si caricò di uno dei figli di Yesod, il più piccolo, poi tornò a prendere l’altro. La famiglia riunita si abbracciò tra i singhiozzi. Erano ancora costretti a terra da una gravità insostenibile, ma per il momento erano salvi.
   «Grazie» disse Yesod, alzando gli occhi su Norrin.
   «Ringrazi sua sorella» rispose l’Hirogeno. «È stata lei a mandarci, con l’ordine di salvarvi a ogni costo. Non sia duro con lei, quando la rivedrà. Non può immaginare quanto abbia sofferto in questi anni, pensando a voi».
   «Lo terrò a mente» promise l’Elaysiano.
 
   Mentre Norrin si rivolgeva a Yesod, Vrel scese dalla navicella e si guardò attorno, in cerca di Lyra. Ovunque guardasse c’era solo distruzione: l’hangar era cosparso dai resti fiammeggianti delle navette e dai corpi dei Pacificatori. I vapori tossici sprigionati dai relitti appestavano l’aria, tanto che il mezzo Xindi ebbe un attacco di tosse. Quando riaprì gli occhi, Lyra era davanti a lui.
   «Sono stata una stupida» mormorò la sorella. Aveva gli occhi arrossati e lacrimanti, e non solo per le esalazioni. «Non ti chiedo di perdonarmi, né lo chiederò a mamma e papà. Accetterò qualsiasi condanna la giustizia federale vorrà infliggermi. Sappi solo che mi dispia...».
   Non poté finire, perché Vrel l’abbracciò. Il timoniere aveva sentito i capi d’accusa che Rangda le rivolgeva e aveva visto il plotone d’esecuzione prenderla di mira: era abbastanza per credere al suo pentimento. Allora anche Lyra lo strinse, con tutte le sue forze, e si sciolse in lacrime. «Mi dispiace, mi dispiace tanto!» singhiozzò, piangendo a dirotto.
   «Sssshhhh... basta ora, è finita» disse Vrel. «Torniamo a casa».
   «Ma... Rangda è qui a bordo!» obiettò Lyra. «Non possiamo lasciarla scappare, o questa guerra non avrà mai fine».
   «A lei penserà Jaylah» disse Vrel, cercando d’indurla a salire sulla navicella.
   «Non si tratta solo di Rangda, ma del Moloch» insisté Lyra. «Questa nave ha un cannone thalaronico. Se Rangda si vedrà sconfitta, potrebbe usarlo contro la Terra. Dobbiamo fermarla!».
   «Hai in mente come?» chiese Norrin, accostandosi.
   «Io... credo che dovremmo andare in sala macchine per fare un sabotaggio» disse Lyra.
   «Non ha tutti i torti» ammise Vrel, rivolgendosi al superiore. «Qui dovevano esserci lo Spettro e la Banshee, invece c’è solo Jaylah. Potrebbe aver bisogno di noi».
   Il Comandante avrebbe preferito andarsene, ora che avevano gli ostaggi e una navetta. Ma pensò a Radek, che certo in quel momento lo stava osservando dalla plancia. «No... anch’io ho la mia caccia. E dopo tre anni devo portarla a termine» si disse. La sua mano sfiorò l’antico pugnale del clan, che portava in cintura.
   «E va bene» disse Norrin. Dette ordini alla squadra, affinché alcuni agenti portassero in salvo gli Elaysiani, assieme ai colleghi feriti nello scontro. Gli altri si raccolsero attorno a lui. «Avete fatto molto, ma devo chiedervi di più. È il momento di andare fino in fondo e manomettere il Moloch. In fondo sarebbe stata questa la nostra missione, se non ci fossero stati gli ostaggi da liberare» ricordò l’Hirogeno, muovendo verso uno dei portoni interni.
   «Aspettate, prendiamo i tubi di Jefferies» propose Lyra. «In questi giorni me li sono studiati, mentre facevo piani contro Rangda. Credo di potervi guidare fino alla sala macchine».
   Norrin guardò incerto Vrel, che annuì. «Okay, vada per i tubi» disse il Comandante. Fortunatamente quelli del Moloch erano più ampi della media, così che poteva percorrerli senza difficoltà, malgrado la sua imponente corporatura.
   Localizzato l’accesso, i federali vi entrarono alla svelta. Lyra guidava il gruppo, impugnando il phaser strappato al Capellano. Subito a seguire vi era Norrin, pronto ad aiutarla se si fossero imbattuti in una pattuglia nemica. Seguivano una decina di agenti e infine Vrel alla retroguardia. Per quanto avessero la ragionevole speranza di arrivare in sala macchine, non erano certi di cosa fare a quel punto. Forse l’unico “sabotaggio” in grado di fermare il Moloch consisteva nel colpire il nucleo, nel qual caso si trattava di una missione suicida. Ma dopo tre anni di Guerra Civile, erano pronti anche a questo.
 
   Appena gli agenti si furono richiusi il portello alle spalle, lo yacht presidenziale decollò di nuovo, sorvolando i rottami delle altre navette. Attivò gli scudi e aprì il fuoco contro il portone esterno dell’hangar. La massiccia lastra di yiterium resistette ai phaser, perciò i federali dovettero lanciare un siluro. Ci fu un’esplosione e la navicella rinculò fin quasi alla parete opposta. L’aria fuggì dal portone sfondato, trascinandosi dietro navette semidistrutte e detriti sparsi. Allora anche lo yacht dette piena energia ai motori e schizzò in avanti, abbandonando il Moloch.
   Nella sua fuga dalla battaglia, il vascello corazzato si era molto avvicinato al Sole. La stella brillava intensa, inondando lo spazio circostante di calore e radiazioni. Contro quello sfondo luminoso, il Moloch era ancora impegnato in una lotta senza quartiere contro la Constellation e la Sha Ka Ree. Quando lo yacht presidenziale lo lasciò, sfondando l’hangar, il vascello gli lanciò dietro una salva di siluri quantici. Se l’avessero colpito, l’avrebbero certamente distrutto. Ma in quella giunse la Keter, che estese la bolla degli scudi per proteggerlo. In pochi attimi la nave federale teletrasportò tutti i passeggeri della navicella, dopo di che restrinse gli scudi e si unì alla battaglia. Furiosi, i Pacificatori centrarono lo yacht presidenziale con il cannone a impulso, distruggendolo; ma era ormai vuoto.
   Danneggiate dal Moloch e ormai prive di scudi, la Constellation e la Sha Ka Ree furono costrette a ritirarsi. Al loro posto rimase la Keter, cui si unirono la Luce di Kelva e il Dorvic. Le tre navi strinsero il cerchio attorno al Moloch, colpendolo senza requie, ma il vascello corazzato restituì colpo su colpo. I Pacificatori confidavano ancora che il resto della flotta vincesse la battaglia, per poi venire in loro aiuto. Lo scontro portò le astronavi sempre più vicine al Sole, che in quel momento levava una grande eruzione ad arco, come a invitarle nel suo abbraccio infuocato.
 
   «Capitano Radek, è inconcepibile! Inammissibile!» stridette Rangda, entrando in plancia come una furia. «Il nemico ci ha abbordati e ha liberato gli ostaggi! Spadroneggiano sulla mia nave!».
   «Lo so» disse il Rigeliano, già informato dello scontro. In quel momento stava osservando le riprese dell’hangar, inviate da un’olocamera di sicurezza. Vide lo yacht presidenziale distruggere le altre navette e poi posarsi, imbarcando gli ostaggi. Il suo sguardo si soffermò su Norrin. Allora rammentò le ultime parole rivoltegli dall’Hirogeno: «Io ti ammazzo». Conosceva Norrin abbastanza bene da sapere che minacciava assai di rado e mai a vuoto. «È qui per me» mormorò.
   «Sono qui per ucciderci tutti!» rincarò la Presidente. «Non crede sia il caso di fermarli, Capitano?!».
   A quella strigliata, il Rigeliano si riscosse e qualcosa scattò in lui. Era stanco d’agire per interposta persona, stanco di vedere i suoi ufficiali che venivano uccisi. Avrebbe affrontato il nemico di persona, come faceva ai tempi della Keter. «Lei stia nell’ufficio!» ordinò alla Zakdorn, riscuotendosi. «Sicurezza, convergere sugli intrusi».
   «Hanno tute occultanti, signore. Se tornano a schermarsi, avremo difficoltà a localizzarli» avvertì l’Ufficiale Tattico.
   «Beh, ci siamo preparati all’evenienza. Plancia a sala macchine, inondate la nave di anioni non coordinanti» ordinò il Rigeliano. «Questo dovrebbe interferire con l’occultamento nemico» spiegò a Rangda. Dopo di che impugnò il phaser. «Comandante, a lei la plancia».
   «Vuole andare anche lei?!» si stupì il Primo Ufficiale.
   «Il dovere lo esige» disse il Capitano, entrando nel turboascensore.
   «Ma il regolamento...» ansimò l’altro, inseguendolo.
   «... se lo può ingoiare!» disse Radek, mentre la porta si chiudeva tra loro.
   Il Comandante si fermò, ricordando com’era finito il suo predecessore. Si girò verso Rangda, in cerca d’approvazione, ma la Presidente stava già rientrando nell’ufficio. Allora sedette sulla poltrona del Capitano e prese le redini della battaglia, come gli era stato ordinato. Di lì a poco l’impulso anionico generato dalla sala macchine s’irradiò in tutto il Moloch.
 
   La Banshee era ormai prossima alla plancia quando il mini-computer della tuta l’avvertì della presenza di un campo anionico. La mezza Andoriana sapeva che particelle di quel tipo potevano compromettere l’occultamento; restava da vedere se il campo era abbastanza intenso. Stava leggendo i dati proiettati all’interno del casco quando si accorse di non essere sola. Il corridoio era sbarrato da quattro Guardie Presidenziali, che guardavano dritto verso di lei.
   «Mi vedono?» si chiese la corsara. Quello sarebbe stato un grosso problema. L’equipaggiamento delle Guardie Presidenziali era divenuto sempre più pesante, dopo lo scoppio della Guerra Civile. Adesso indossavano tute corazzate rosse simili a quella dell’Esecutore, a parte il fatto che non potevano occultarsi. I loro Visori permettevano di superare certi tipi d’occultamento e in combinazione col campo di anioni c’erano buone probabilità che la smascherassero.
   Volendo levarsi di torno, la Banshee tentò d’attraversare la parete, ma si scontrò con una resistenza viscosa. «Frell, gli anioni!» comprese. Il campo era abbastanza intenso da compromettere persino lo Sfasamento. Allora si abbassò di scatto, in tempo per schivare a un raggio phaser. Rotolò a terra, sfuggendo a una raffica, e si riparò dietro un angolo.
   «Okay, lo farò alla vecchia maniera» si disse, estraendo il phaser dal bracciale. Rimpianse solo che Jack non fosse lì a darle manforte. Mentre si sporgeva per sparare, coi raggi nemici che le balenavano attorno, si augurò che il suo caro briccone stesse bene. Non aveva ancora rinunciato al sogno di una vita normale.
 
   Con l’attenzione e la scaltrezza apprese in diciotto anni di vita da pirata, lo Spettro si addentrò nel bunker di Nuova Belino. Superò gli allarmi e le sentinelle, facendo ampi giri ogni volta che qualcosa gli faceva temere che potessero vedere attraverso il suo occultamento. I Pacificatori tuttavia erano distratti, perché il bombardamento federale aveva indebolito i sostegni del sotterraneo, provocando il rischio di crollo. Dagli altoparlanti giunsero degli allarmi e certe aree furono evacuate a scopo precauzionale.
   «E io sono l’unico scemo che continua a scendere» si disse Jack. Ma non c’era altro modo per fermare quelle dannate piattaforme. C’erano in ballo le sorti della battaglia, forse dell’intera guerra. Era la missione più importante della sua vita e non doveva fallire. Così scese sempre più, mentre le pareti e i soffitti di permacemento scricchiolavano in modo preoccupante sopra la sua testa.
   Superato l’ultimo portone, giunse nel centro di comando delle piattaforme. Era un vasto salone costruito su due livelli, uno al centro soprelevato e uno più basso che lo circondava ad anello. Lo Spettro si trovava al livello superiore; un camminamento portava alla zona dei comandi, mentre ai lati vi erano le scale a chiocciola che conducevano al piano inferiore.
   I tecnici dei Pacificatori erano sparsi a terra, tutti assassinati in modi brutali. E il responsabile sedeva sulla poltrona di comando, regale come un dio degli Inferi. «Ci si rivede, vecchio mio» disse l’Esecutore. «Non potevi accettare il tuo fallimento... la perdita della Stella, dell’equipaggio, dei tesori. Così, invece di nasconderti in qualche angolo del cosmo, hai continuato a lottare. E dove ti ha portato questo? Di nuovo da me!».
   «Sono venuto per le piattaforme, tu stai solo nel mezzo... vecchio Nick» ribatté l’Umano. Sapeva che chiamarlo col diminutivo del suo vero nome, Nicrek, lo mandava su tutte le furie. «Dovresti smetterla di darti tanta importanza. Ma perché hai eliminato i tecnici?» chiese.
   «Il bombardamento li ha spaventati» spiegò il cyborg, facendo spallucce. «Alcuni volevano scappare, altri erano pronti ad arrendersi pur di salvarsi. Perciò mi sono assicurato che nessuno di loro vi desse informazioni». Guardò dietro allo Spettro, come aspettandosi di vedere qualcun altro. «Non c’è la Banshee? Peccato... speravo di seppellirvi assieme».
   «Se avessi un credito per tutte le volte che hai millantato di uccidermi, sarei milionario» commentò il corsaro.
   «Te lo concedo, sei sempre stato bravo a scappare, dopo ogni sconfitta» disse l’Esecutore. «Ma stavolta non puoi andare, finché quelle piattaforme saranno sotto il nostro controllo. Il tuo senso del dovere sarà la tua rovina... buffo, per un pirata» disse, alzandosi.
   «Un corsaro» corresse Jack. «Tu invece sei solo un pezzo di latta, ed è ora di rottamarti». Sapeva che, sotto quella corazza cremisi, non restava molto del suo ex commilitone. Da quando era rimasto orribilmente mutilato nella Battaglia di Elba II, solo il cervello di Nicrek sopravviveva in un corpo meccanico. Volendo, i Pacificatori avrebbero potuto dargli un aspetto più normale; invece lo avevano reso una macchina per uccidere. Così nemmeno lui aveva scelta.
   Lo Spettro e l’Esecutore si fronteggiarono nella sala ingombra di cadaveri, come in attesa di un segnale d’attacco. Sebbene nessuno potesse vedere l’espressione dell’altro – il cyborg non aveva nemmeno un volto sotto al casco – indovinavano molto dei reciproci pensieri. D’un tratto ci fu una nuova vibrazione del sotterraneo; una crepa si disegnò sul soffitto. Jack alzò per un attimo lo sguardo e Nicrek ne approfittò per attaccare, ma l’Umano schivò e passò al contrattacco. L’ultima lotta tra le due leggende si consumò lì, nelle profondità della Luna e senza testimoni, mentre sopra le loro teste si decidevano le sorti dell’Unione.
 
   Ma non era solo il sistema solare ad essere nella morsa del conflitto. Tutti i mondi dell’Unione erano in fibrillazione da quando circolavano le immagini dei Terrestri che abbattevano i simboli del potere Voth e attaccavano persino le guarnigioni dei Pacificatori. In questo clima rovente s’inserì il discorso di Lyra, che incitava all’aperta ribellione. Sui pianeti e le colonie, sulle basi stellari e le astronavi in viaggio, il messaggio fu ascoltato e i documenti compromettenti scaricati prima che il sito del Ministero fosse oscurato.
   L’effetto fu dirompente. Tutte le energie che covavano da tre anni sotto la cappa della dittatura si liberarono con la rapidità e la violenza di un’esplosione atomica. Ci furono tumulti nelle scuole e nelle università, dove fino a quel momento aveva spadroneggiato la Gioventù Rangdiana e i dissidenti – sia insegnanti che studenti – erano costretti al silenzio. Gli Umani si strapparono dagli abiti la H che li marchiava. Molti meticci, che fino a quel momento avevano dovuto nascondere la loro “ignominia”, rivendicarono finalmente la propria ascendenza Umana. Ed era solo l’inizio.
   Da un capo all’altro dell’Unione, la gente esasperata scese a protestare per strade e piazze, chiedendo la fine della guerra e nuove elezioni. Qui i manifestanti si trovarono di fronte i sostenitori di Rangda, che si erano mobilitati con la stessa prontezza. Fu come mischiare materia e antimateria: gli scontri dilagarono, diventando guerriglia urbana. Si combatté nelle carceri e nei Centri di Rieducazione, assaltati dai rivoltosi per liberare i prigionieri. Si combatté attorno ai tribunali, alle caserme di polizia e alle basi dei Pacificatori. Tutti coloro che avevano un conto in sospeso col regime, che fosse per ragioni valide o meno, si buttarono nella mischia. Anche la Catena Cremisi partecipò agli scontri, compiendo azioni efferate che la Flotta Stellare non approvò; ma il regime di Rangda era di tal fatta che non sarebbe mai caduto con le sole parole.
   Tra i primi mondi a ribellarsi vi fu Bajor, uno dei più refrattari all’occupazione. I Pacificatori lo avevano conquistato due anni prima con un’immane battaglia, ma non erano mai riusciti ad assicurarsi il pieno controllo del territorio. Tra i Bajoriani circolava voce che nel giorno della liberazione il Tunnel Spaziale si sarebbe riaperto e i Cristalli sacri sarebbero tornati a brillare. Fu così che, inneggiando alla liberazione dai Cardassiani di due secoli prima, la Resistenza Bajoriana svuotò i propri depositi di armi e attaccò le basi dei Pacificatori. Grandi folle invasero le piazze, invocando il nome di Benjamin Sisko, l’Emissario dei Profeti. Da molte case furono sventagliate bandiere e striscioni con la sua immagine.
   A queste rivolte seguì ben presto la repressione. Sui mondi dell’Unione, poliziotti e Pacificatori ricevettero lo stesso ordine: sparare sui ribelli. Alcuni lo fecero prontamente, altri con riluttanza, talvolta sbagliando volutamente il tiro. Altri ancora gettarono le mostrine e si unirono ai rivoltosi. Furono questi disertori a informare i detenuti dei Centri di Rieducazione su ciò che stava accadendo. Così anche loro si ribellarono, facilitando i tentativi esterni di liberarli. Il fuoco della rivolta bruciò sempre più violento: raggiunse le centrali energetiche, così che su molti pianeti cadde il black-out. Ma là dov’era notte, le città oscurate furono ben presto rischiarate dalla rossa luce degli incendi e delle esplosioni. Un calcolo completo delle vittime non fu mai redatto, ma è opinione di molti storici che in pochi giorni ve ne furono più che nei tre anni di guerra precedente. E per la stragrande maggioranza furono vittime civili. Non c’erano nemici esterni da incolpare per questo: era l’Unione che faceva guerra a se stessa.
   La notizia delle rivolte e delle repressioni giunse ben presto alla flotta dei Pacificatori che si batteva presso la Terra. Gli ufficiali videro le loro città messe a ferro e fuoco dai rivoltosi, ma videro anche i colleghi che sparavano sulle folle. Per molti, quello fu il punto di non ritorno. Già si sentivano traditi dalla scelta di Rangda d’usare le piattaforme orbitali per sparare nel mucchio, colpendo anche le loro navi. Ma la repressione contro la loro gente era troppo. Molti Pacificatori si rivoltarono contro i superiori e presero il controllo delle navi, cambiando schieramento. Sulle trecento navi dell’Unione che restavano, un centinaio passò dalla parte della Flotta Stellare, anche se non nello stesso momento. La maggior parte di questi vascelli giacque inerte mentre si combatteva a bordo e alcuni cambiarono più volte fazione, in base all’evolversi della lotta interna. Anche così fu un duro colpo per i Pacificatori, che non sapevano più se fidarsi delle proprie navi. Il Moloch era lontano e non dava ordini alla flotta, che sprofondò nel caos.
   Fu così che la Flotta Stellare, ormai prossima alla sconfitta, si trovò d’un tratto in vantaggio. L’Ammiraglio Chase ne approfittò subito: spinse a fondo l’attacco, tracciando una scia di distruzione nello schieramento nemico. Alcuni equipaggi dei Pacificatori caddero nel panico e fuggirono. Altri compresero che la marea era cambiata e si unirono anch’essi ai rivoltosi. Solo gli irriducibili rimasero a combattere.
 
   Asserragliata nel suo ufficio sul Moloch, Rangda seguiva gli aggiornamenti con crescente collera. Osservò le proteste che dilagavano sui mondi dell’Unione, devastando le città che da secoli non conoscevano una simile violenza. Poi rivolse di nuovo la sua attenzione alla battaglia presso la Terra e si avvide che era perduta. Le navi dei Pacificatori fuggivano o cambiavano lealtà, permettendo alla Flotta Stellare di prendere il sopravvento.
   «Traditori! Sono contro di me... tutti sono contro di me!» ringhiò la Zakdorn. Poteva quasi vedere l’Ammiraglio Chase che si avvicinava. Osservando il piccolo globo che le aveva spedito, ricordò la sua minaccia: «Vattene, o sarà la tua fine». Ma anche la fuga era complicata, ora che i nemici avevano circondato il Moloch e si erano perfino infiltrati a bordo, rubando il suo yacht e distruggendo le altre navette.
   Con crescente preoccupazione, Rangda s’informò sugli sviluppi interni. Sebbene gli invasori non potessero più contare sull’occultamento, continuavano ad avanzare. La squadra di Norrin era prossima alla sala macchine, mentre la Banshee puntava dritta alla plancia... dritta a lei. Nemmeno le Guardie Presidenziali riuscivano a fermarla. La corsara conquistava terreno, implacabile, lasciandosi dietro una scia di nemici morti o moribondi. Anche ora che gli anioni la rendevano tangibile, riusciva a evitare i colpi nemici con incredibili acrobazie e con scatti fulminei, al limite della premonizione. Poi attaccava col phaser o col suo famigerato grido.
   Rangda smise di osservarla, avendo già visto abbastanza. Era chiaro che quella furia sarebbe presto giunta da lei. Bene... era pronta ad affrontarla. Quasi ci sperava, perché voleva vedere il disgregatore Varon-T colpirla alle spalle, infliggendole la più dolorosa delle morti. Ma prima c’era un’altra cosa da fare, ancora più importante. Doveva punire i Terrestri per i loro misfatti, accertandosi che non riacquistassero più l’antico potere; e al tempo stesso doveva ammonire gli altri pianeti sulle conseguenze della rivolta. C’era un modo assai semplice per ottenere ambo gli scopi.
   Ricorrendo ancora una volta ai codici presidenziali, Rangda prese il controllo delle piattaforme orbitali e le rivolse contro la superficie terrestre. Le istruì affinché bombardassero per prime le città più popolose e poi, man mano, i centri minori. Infine, senza alcuna esitazione, dette l’ultima conferma.
   Obbedendo agli ordini, le piattaforme automatiche si girarono verso la Terra e aprirono il fuoco. I raggi phaser e i siluri furono bloccati dallo Scudo Planetario, ancora attivo. I Pacificatori infatti non erano riusciti a riprenderne il controllo. Poco male: lo Scudo era già indebolito dai colpi vaganti della battaglia. Le piattaforme ci avrebbero messo poco ad abbatterlo, dopo di che sarebbero bastati pochi minuti per ridurre la Terra a un globo di roccia fusa. La minaccia umana sarebbe tramontata per sempre e anche i rivoltosi sugli altri mondi avrebbero capito che non era il caso d’insistere.
   «Colpiscine uno, educane cento» si disse Rangda. Dopo aver inquadrato la Terra sull’oloschermo inserì il formato panoramico, che lo estendeva da un lato all’altro della scrivania. Infine si adagiò comodamente contro lo schienale della poltrona, per godersi il frutto delle sue fatiche. Sorrise tra sé, pensando che ancora una volta aveva dimostrato il suo intelletto superiore. Aveva trasformato una sconfitta sicura in un’altrettanto sicura vittoria. La lunga partita contro i ribelli era finita, ed era lei a infliggere lo scacco matto. 
 

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Capitolo 14
*** Incontro a Samarra ***


-Capitolo 13: Incontro a Samarra
 
   «Ora o mai più!».
   Guidati da Lyra, gli agenti della Keter sbucarono nella sala macchine del Moloch. Ciò che si trovarono davanti era radicalmente diverso dai comparti ingegneria che conoscevano. Invece di una sala contenente solo il nucleo quantico e i sistemi direttamente annessi, si trovarono in un ambiente molto più vasto. Somigliava a una grande fabbrica costruita su più livelli e ingombra di macchinari che ronzavano e pulsavano. Imponenti tubature portavano a cisterne contenenti plasma, elio liquido, refrigerante e quant’altro servisse a far funzionare la nave. Cavi ad alta tensione erano riuniti in fasci lungo le pareti. Il nucleo quantico c’era, anche se era costruito con una logica aliena, come tutto in quel luogo. I vari livelli dell’impianto erano uniti da scalette e montacarichi; alcune passerelle si affacciavano su strapiombi di parecchi metri. All’arrivo dei federali, gli ingegneri si lanciarono grida d’avvertimento che echeggiarono nel salone e si affrettarono a completare l’evacuazione.
   «Beh, dove siamo capitati? In una fabbrica di vernici?» commentò Vrel.
   «Il Moloch doveva essere il prototipo delle navi del futuro. È stato costruito con una logica diversa dal solito, accentrando i sistemi in un solo ambiente» spiegò Lyra.
   «Pessima idea» disse il timoniere. «Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. Allora, direi di sabotare le bobine di...». Prima che potesse finire, la sorella lo gettò di lato, salvandolo da un raggio phaser.
   «Imboscata! Trovate un riparo!» gridò Norrin. L’Hirogeno rispose subito al fuoco, prendendo di mira un manipolo di Pacificatori appostato su un camminamento più alto. Intanto altri avversari sbucavano dai loro nascondigli, un po’ ovunque nella sala.
   Al grido di Norrin i federali, assai inferiori di numero, si affrettarono a nascondersi. In un attimo si trovarono isolati o al massimo a coppie, circondati dai nemici. La sparatoria dilagò, ancor più serrata della precedente. I colpi andati a vuoto danneggiavano i delicati apparecchi della sala macchine, rischiando di far esplodere il vascello. Solo il nucleo quantico era stato circondato da un campo di contenimento protettivo, che s’illuminò quando un raggio lo colse di striscio. Non volendo perdersi di nuovo, Lyra e Vrel restarono vicini, nascondendosi dietro gli stessi ripari o mettendosi schiena contro schiena quando gli attacchi provenivano da opposte direzioni. In quel modo riuscirono a eliminare molti avversari, ma la battaglia restava disperata.
 
   Dopo la confusione dei primi attimi, Norrin si trovò isolato dai colleghi, ai quali tuttavia continuò a impartire ordini tramite i comunicatori. Si avvide subito che le forze nemiche erano soverchianti. Non poteva essere diversamente: il Moloch aveva un equipaggio numeroso, con centinaia d’agenti della Sicurezza. Vedendo che molti di loro si erano raccolti nel livello più basso dell’impianto, ebbe un’idea. Esaminò rapidamente le tubature finché trovò quella che gli interessava, un condotto dell’impianto di riciclaggio dell’acqua. Lo colpì con un raggio a piena potenza, lacerandolo per un lungo tratto. Una cascata d’acqua piovve sulla testa dei Pacificatori che si trovavano al di sotto.
   Ma l’acqua non era abbastanza per trattenerli, Norrin lo sapeva. Perciò colpì dei cavi ad alta tensione che correvano lungo la parete. I cavi elettrici tranciati si piegarono verso il basso e alcuni toccarono il pavimento bagnato. Ci fu un lampo azzurrognolo e parecchi Pacificatori caddero folgorati, mentre i federali appostati sulle passerelle furono protetti dai materiali isolanti di queste ultime.
   Fatto questo, Norrin si sporse di nuovo dalla balaustra per sparare. C’erano molti altri Pacificatori appostati sulle passerelle attorno a lui. Ne colpì uno, poi un altro; non si avvide di quello che si nascondeva all’ombra di un serbatoio.
   «Sei mio» si disse Radek, prendendo la mira col phaser. Sparò al cuore, ma un rapido movimento di Norrin fece sì che il raggio gli colpisse il fucile phaser. La massiccia arma si spezzò in due, con un’esplosione che investì il petto e il viso di Norrin. La tuta semicorazzata e il casco lo protessero, ma il Comandante fu gettato all’indietro e ruzzolò giù dalla scala a chiocciola. Atterrato duramente sul livello inferiore, vi restò inerte.
   Volendo accertarsi che l’arcinemico fosse morto, Radek lasciò il suo riparo e si recò da lui. Il Comandante era a terra, con il casco sbrecciato e persino rotto su un lato. Aveva gli occhi aperti, che tuttavia non si mossero quando Radek si avvicinò.
   Deciso a non correre rischi, il Rigeliano lo mirò a distanza ravvicinata. In quella però Norrin si riebbe, o per meglio dire, smise di fare il morto. Alzò di scatto le gambe e dette un calcio a Radek, facendogli schizzar via il phaser di mano. L’arma cadde oltre la balaustra, perdendosi nell’oscurità tra i macchinari sottostanti.
   In un lampo Norrin fu di nuovo in piedi. Si levò il casco danneggiato e lo lasciò cadere. Poi, senza fretta, si passò due dita sulla fronte. Era il gesto dei Cacciatori pronti allo scontro, derivato dall’antica usanza di tracciarsi due segni di pittura sull’elmo. «Tre anni sono una lunga caccia» commentò. Non c’era rabbia, né compiacimento in lui. Aveva il tono di chi prende semplicemente atto della realtà.
   «Ma sentiti! Ancora con questa solfa dei Cacciatori!» lo derise Radek. «Puoi anche vestire un’uniforme, ma sotto sotto resti un barbaro. Non hai mai saputo rinunciare ai vecchi, stupidi rituali della tua gentaglia».
   «Cerco di combinare il meglio dei due mondi» si difese Norrin. «Ma anche voi “gente civilizzata” non scherzate. Dopo la Liberazione della Terra potevamo fare la pace, invece ci attaccate per... che cosa, esattamente? Mantenere Rangda al potere?».
   «Siete voi che avete invaso la mia nave, ucciso i miei uomini!» ringhiò Radek. «Ora ve la faccio pagare». In mancanza del phaser, estrasse la vibro-lama che aveva portato con sé. Premette il comando sull’impugnatura, srotolando la lama acuminata.
   Norrin fece lo stesso con la sua, rinunciando per il momento a brandire il pugnale del clan. Si girarono attorno come lupi, studiandosi in cerca di uno spiraglio per attaccare.
   «Ti ha mandato Hod a uccidermi, vero?» chiese a un tratto il Rigeliano.
   «Sì, dopo che hai minacciato la sua famiglia» ammise l’Hirogeno. «Ma ci stavo già pensando per conto mio. Ne hai fatte troppe, devi essere fermato».
   «Sai, un tempo avrei dato la vita per salvarvi. Ora la darei volentieri pur di uccidervi» disse Radek, e attaccò.
 
   Fu una lotta accanita, perché erano entrambi combattenti provetti e si battevano al massimo delle loro capacità. In circostanze normali un Rigeliano non avrebbe avuto speranze contro un Hirogeno, essendo questi ultimi tra i più robusti e coriacei degli umanoidi, selezionati da centomila anni di cacce spietate. Ma il Capitano del Moloch non era un Rigeliano come gli altri: aveva una rara mutazione genetica che lo rendeva assai più forte del normale. Grazie a ciò, Radek era alto e muscoloso quanto Norrin. In realtà per lungo tempo se n’era vergognato, dato il pregiudizio – del tutto infondato – secondo cui quelli come lui erano più soggetti ad andare in collera e commettere crimini violenti. Di conseguenza il Rigeliano si era imposto, fin dall’infanzia, un ferreo autocontrollo. Da allora gli era capitato pochissime volte di perdere le staffe. Ma stavolta accadde, perché era esasperato dall’ostinata resistenza dell’avversario. Lo attaccò con sempre maggior furia, incalzandolo lungo le passerelle e su per le scale. Cercò più volte di bloccarlo in un angolo, ma Norrin riusciva sempre a liberarsi con qualche scatto repentino o addirittura balzando su un livello inferiore.
   Trascinati dallo scontro i due lottarono ovunque, persino sopra una cisterna di plasma, il cui tetto era pericolosamente inclinato a mo’ di capanna. Così facendo si esposero al fuoco nemico, perché la sala macchine era ancora un campo di battaglia tra federali e Pacificatori. Ma gli uni e gli altri esitavano a sparare, temendo di colpire il proprio superiore anziché l’avversario: così il duello continuò. Radek era tendenzialmente all’attacco e Norrin in difesa, ma non mancavano i momenti in cui era l’Hirogeno a contrattaccare.
   In realtà i due si somigliavano molto. Erano entrambi ufficiali attenti e scrupolosi, di poche parole salvo che con pochi intimi. Le principali differenze erano che Norrin si prendeva meno sul serio ed era più individualista. Al pari di Radek era ligio al dovere; ma quale fosse il dovere lo decideva lui. Se gli ordini dei superiori gli parevano ingiusti, Norrin non esitava a contestarli. Era questo, più di ogni altra cosa, che lo aveva portato allo scontro con Radek.
   Al culmine di un attacco serrato, il Rigeliano riuscì a sbalzare la lama di mano all’Hirogeno. Cercò di colpirlo alla gola, sopra il collo della tuta, ma Norrin schivò agilmente e gli afferrò il polso. Per brevi momenti restarono avvinghiati, contendendosi la vibro-lama. Norrin dette una spallata all’avversario, cercando di buttarlo giù dalla cisterna, ma Radek piantò i piedi a terra e resse l’urto, pur indietreggiando. Il Rigeliano rispose colpendo l’avversario con una violenta testata, dopo di che gli fece lo sgambetto, facendolo cadere a terra; così si liberò dalla sua presa. Subito cercò d’inchiodarlo al suolo, ma Norrin si lasciò rotolare lungo il tetto inclinato della cisterna, finché cadde di sotto. Fu un volo di almeno tre metri, che lo portò ad atterrare di schiena su uno dei ponteggi.
   «Urgh!» fece Norrin, accusando il colpo. Si rimise subito in piedi, ma si avvide d’essere in un vicolo cieco: la passerella terminava davanti a un serbatoio più alto e stretto. E prima che potesse percorrerla nell’altra direzione, Radek balzò giù, bloccandogli il passo. Il Rigeliano atterrò in piedi, con la vibro-lama in pugno e l’espressione divertita.
   «E tu eri il nostro Ufficiale Tattico? Tsk-tsk... stai perdendo colpi!» lo derise Radek. «O forse i tuoi sporchi trucchi da Cacciatore non sono all’altezza di un Capitano dei Pacificatori». Così dicendo si fece avanti, pronto a sferrare il colpo mortale.
   Norrin indietreggiò fino a urtare contro la parete del serbatoio. Era in trappola, perché se fosse saltato giù dal ponteggio sarebbe caduto per cinque o sei metri. Troppi, per atterrare tutto intero. Ma non si dette per vinto, perché non era ancora disarmato. Si portò la mano alla cintura e finalmente brandì l’antico pugnale di famiglia. Mentre con quel gesto calamitava l’attenzione dell’avversario, con la sinistra staccò una minuscola sferetta dalla cintura. La tenne dietro la schiena e, andando a tentoni, la fece aderire alla parete del serbatoio. Infine la premette.
   «Commovente» disse Radek, fermandosi a pochi passi da lui. «Ma quel pezzo da museo non ti servirà a molto».
   «Hai ragione, sai» lo trattenne Norrin, ansimando volutamente, per sembrare ancor più stanco di quel che era. «Ho sempre tenuto i piedi in due staffe. Ho fatto carriera nella Flotta, ma senza mai decidermi ad abbandonare certe tradizioni. Ma sai qual è il vantaggio d’essere un po’ Cacciatore?».
   «Sentiamo!».
   «L’attitudine a preparare trappole» rivelò l’Hirogeno, chinandosi di scatto.
   La granata stordente che aveva attaccato alla paratia dietro di sé esplose, accecando temporaneamente Radek. L’attimo dopo Norrin scagliò il pugnale in avanti con tutte le sue forze. L’antica lama balenò nell’aria e si conficcò nel petto dell’avversario.
   Il Rigeliano gridò per la sorpresa non meno che per il dolore. Sferrò un colpo alla cieca, ma l’Hirogeno schivò e poi gli balzò addosso, rovesciandolo all’indietro. Stavolta Radek non poté reggere l’assalto e cadde di schiena, lasciandosi sfuggire un lamento.
   Il Cacciatore tenne la sua preda schiacciata a terra, vincendone i sussulti. Con una mano gli serrò il polso, impedendogli di usare la vibro-lama. Con l’altra afferrò l’elsa del pugnale, che gli sporgeva ancora dal petto. Sebbene Radek cercasse d’estrarsi la lama serpentina, Norrin fece forza, spingendola sempre più a fondo, fino a spaccargli il cuore. Allora il Capitano del Moloch smise di dibattersi e lo fissò con occhi sbarrati, mentre attorno a lui si allargava la pozza di sangue.
   «Mi dispiace» ansimò Norrin.
   «A me dispiace solo di non avervi uccisi tutti quando potevo» mormorò Radek, amareggiato. Ciò detto, il Rigeliano chiuse gli occhi e morì.
   Affranto, l’Hirogeno estrasse il suo pugnale e si rialzò. Per qualche attimo contemplò tristemente il pezzo di carne morta che era stato un caro amico e un grande ufficiale della Flotta Stellare. Poi, richiamato dal frastuono della battaglia, lo scavalcò e andò via.
 
   Dal suo ufficio, dove sorvegliava tutto ciò che accadeva a bordo grazie alle onnipresenti olocamere, la Presidente seguì la lotta all’ultimo sangue, sperando ardentemente che il Capitano vincesse. Quando però fu Norrin a prevalere, Rangda sbatté i pugni sulla scrivania.
   «Che essere inutile!» sbottò, riferendosi a Radek. «Perché, perché sono sempre circondata da incapaci?!».
   La morte del Capitano era un grosso inciampo, perché rendeva ancor più precaria la situazione a bordo. E ora che Nuova Berlino era stata attaccata, anche la distruzione della Terra tramite le piattaforme non era più così certa. In caso di fallimento non restava che un’ultima soluzione, ancora più drastica.
   Stavolta Rangda esitò, perché si trattava davvero di un piano disperato. Lo avrebbe messo in atto solo se tutto il resto avesse fallito. Tuttavia doveva mettere le mani avanti, in previsione di quella sfortunata evenienza. Accedette al computer di bordo e inserì le istruzioni. Era una sequenza assai complessa, che di regola avrebbe necessitato di un’attenta sorveglianza da parte degli ufficiali. Ma Rangda voleva che il Moloch la eseguisse in automatico, se l’equipaggio fosse stato sopraffatto. Per fortuna era una nave di nuova generazione e poteva essere istruita a fare quasi tutto. Forse sarebbe stato un viaggio senza ritorno... ma la Presidente era disposta anche a questo.
 
   Disarmato com’era, Norrin si nascose tra i macchinari finché non trovò un avversario che era stato ucciso nella sparatoria. Allora frugò il corpo e recuperò il phaser. Con quell’arma in pugno si buttò di nuovo nella mischia. Ben presto trovò Vrel e Lyra, miracolosamente illesi. Altri superstiti della squadra erano nelle vicinanze.
   I federali si batterono ancora per qualche minuto, mentre tra i Pacificatori si diffondeva la notizia della morte di Radek. La fine dello stimato Capitano li gettò nello sconforto, a tal punto che si ritirarono dalla sala macchine per riorganizzarsi.
   «Torneranno» disse Norrin, ormai esausto. I superstiti si raccolsero attorno a lui: oltre a Lyra e Vrel c’erano solo altri due.
   «Questo salone ha molti ingressi, non possiamo sorvegliarli tutti» avvertì Lyra.
   «Allora sfruttiamo il tempo che abbiamo!» disse Vrel.
   Scesero fino a uno dei livelli più bassi, anche se non al piano terra inondato, dove c’era il rischio di rimanere folgorati. Lì dov’erano avevano comunque accesso a buona parte dei comandi.
   «Cosa cerchi?» chiese Lyra, vedendo che il fratello passava rapidamente da una consolle all’altra.
   «L’impulso di anioni che ci ha messo fuori uso l’occultamento viene reiterato ogni quarto d’ora» spiegò lui, leggendo da un’interfaccia. «Manca poco al prossimo. Se riuscissi a fermarli, riavremmo l’occultamento».
   «Non che ci serva a molto» commentò Lyra. Lei non aveva la tuta occultante e quella di Norrin era danneggiata.
   «Jaylah sta andando da Rangda» spiegò Vrel. «Le servirà l’occultamento per farcela».
   A quelle parole Lyra si unì agli sforzi del fratello. Finalmente trovarono il giusto pannello di controllo e disattivarono le emissioni anioniche, pochi attimi prima del nuovo impulso.
   «Sì!» esultò il timoniere. «Vrel a Jaylah, mi ricevi?».
   «Affermativo» rispose la mezza Andoriana, all’altro capo della nave. «Il vostro status?».
   «Abbiamo conquistato la sala macchine, ma non potremo tenerla a lungo» disse il mezzo Xindi. «Senti, abbiamo disattivato gli impulsi di anioni, così riavrai l’occultamento».
   «Grazie!» fece la corsara, che in quel momento stava disputando l’ennesimo corridoio alle Guardie Presidenziali. «Cercate di togliere energia agli scudi, così la Keter ci manderà rinforzi!».
   «Okay» annuì Vrel, dando un’occhiata ai colleghi intenti. «Ma tu dove sei?».
   «Ci sono quasi... le guardie mi hanno rallentata, purtroppo» spiegò Jaylah, sporgendosi dall’angolo per colpirne un’altra.
   «Sta’ attenta, avvertici se sei nei guai» raccomandò Vrel, pur sapendo che difficilmente l’avrebbe raggiunta in tempo. Forse se avesse trovato i controlli del teletrasporto... ma non erano in vista.
   «Siate prudenti anche voi» disse la mezza Andoriana. «Andatevene appena potrete. Mi sa che questa bagnarola non durerà a lungo».
 
   Immerse nella rovente corona solare, le astronavi continuavano lo strenuo combattimento. La Keter e i suoi alleati cercavano di abbattere gli scudi del Moloch per inviare rinforzi alle squadre, ma il vascello nemico aveva ancora energia da vendere. Concentrò il fuoco sulla nave dei Cacciatori, fino a tranciarle una gondola con una raffica di siluri.
   «Abbiamo perso la gondola di dritta! Gli scudi hanno ceduto e lo scafo si surriscalda!» avvertì Garid, mentre la nave sussultava.
   Vitani avrebbe voluto continuare a lottare, ma ricordò la promessa fatta al cugino. «Ritirata» ordinò a malincuore.
   Il Dorvic schivò a stento una seconda raffica, che certo lo avrebbe distrutto se fosse giunta a bersaglio, e si allontanò a massimo impulso. Lasciò la corona solare, tornando nello spazio aperto, dove lo scafo arroventato poté raffreddarsi. «Buona fortuna, Norrin» mormorò Vitani, osservando le altre navi che continuavano a lottare.
   I Pacificatori esultarono per quel risultato, che però non gli garantiva ancora la vittoria. Di lì a poco, infatti, il Moloch si trovò preso nel fuoco incrociato tra la Keter e la Luce di Kelva. Le due navi lo tempestarono sulle fiancate con una gragnola pesantissima di raggi e siluri. Qualunque altra nave dell’Unione sarebbe stata distrutta, ma il Moloch resistette e anzi si gettò volontariamente contro i Kelvani, speronandoli.
   L’impatto fu durissimo per ambo le navi, ma la corazza in neutronio del Moloch prevalse sullo scafo in tetraburnio del vascello alieno, tracciando un lungo squarcio sulla fiancata. La Luce di Kelva sbandò, perdendo atmosfera. Il plasma solare incandescente si riversò all’interno, uccidendo molti Kelvani, finché i campi di forza sigillarono i settori compromessi. La grande astronave dovette ritirarsi prima di subire altri danni, lasciando solo la Keter ad affrontare il nemico.
   Le due navi entrarono e uscirono dall’arco di plasma dell’eruzione solare, scambiandosi colpi micidiali. Nei loro passaggi giunsero a distanza ravvicinata, rischiando più volte la collisione. I federali si battevano al massimo delle loro capacità, ma ancora una volta si scontrarono con la dura realtà: il Moloch era troppo forte. Sotto i suoi attacchi implacabili gli scudi della Keter si consumarono e la nave federale cominciò a riportare danni. Ancora poco e sarebbe stata distrutta. E a differenza degli alleati, la fuga non era un’opzione, perché il Moloch l’avrebbe inseguita ovunque. In plancia, Hod si disse che era una crudele ironia aver salvato i suoi parenti solo per perderli con tutta la nave. Se c’era speranza, risiedeva solo in coloro che aveva inviato sul vascello nemico.
 
   «Allarme, sta arrivando!».
   «Bloccate il turboascensore!».
   Gli ufficiali di plancia del Moloch furono distratti dalla battaglia quando seppero che la Banshee era pochi ponti sotto di loro. All’ordine del Comandante bloccarono l’ascensore con dei codici di sicurezza, per impedirle di salire. Ma in quella il segnale della corsara svanì, segno che si era nuovamente occultata.
   «L’abbiamo persa, signore».
   «Lanciate un altro impulso anionico».
   «Impossibile, ci bloccano dalla sala macchine».
   «Beh, aggirate i controlli! E sferrate un nuovo attacco, dobbiamo riprenderci l’ingegneria!» ordinò il Comandante. Nei minuti seguenti la sua attenzione fu nuovamente dedicata alla battaglia, perché la Keter stava incassando colpi. Ancora poco e l’avrebbero sopraffatta.
   «Ci siamo, signore... il nemico è senza scudi» disse infine l’Ufficiale Tattico.
   «Fuoco a volontà!» ordinò il Comandante, sentendo la vittoria in pugno. Era lieto che Radek fosse stato ucciso, perché così la distruzione della Keter sarebbe stata merito suo. Col sorriso sulle labbra, osservò la nave nemica ormai sconfitta, certo che a fine battaglia il suo ruolo di Capitano sarebbe stato confermato. Ma il sorriso gli morì in volto quando dallo schermo principale sbucò la Banshee, più spaventosa che mai.
   «DATEMI RANGDAAA!» tuonò la corsara. Il nome dell’avversaria si trasformò in un grido ultrasonico che mise fuori combattimento il Comandante e altri ufficiali. I rimanenti, sconvolti e mezzi storditi, estrassero i phaser e fecero fuoco. Ma la Banshee era tra loro, rapida e impalpabile come un alito di vento. Entrava e usciva dalle pareti, ripetendo ogni volta il suo grido: «Datemi Rangda!». I Pacificatori non lo fecero e così la corsara li neutralizzò tutti. Infine affrontò le ultime due Guardie Presidenziali che sorvegliavano l’ufficio. Nell’impossibilità di stordirle dovette ucciderle, come aveva fatto con tutte le altre.
   Quando finalmente ci fu silenzio, la mezza Andoriana poté dedicare la sua attenzione allo schermo. La Keter spiccava contro l’eruzione solare. Era praticamente alla deriva, ma pareva ancora tutta d’un pezzo. E con gli ufficiali di plancia fuori gioco, sarebbe servito un po’ prima che l’equipaggio del Moloch si riorganizzasse abbastanza da riprendere le ostilità.
   La Banshee andò alla postazione tattica, con l’idea di disattivare armi e scudi, ma scoprì che l’Ufficiale Tattico aveva cifrato i comandi prima d’essere eliminato. Poco male... la Keter aveva già ripreso a far fuoco. Ora che il Moloch era inerte e non si sottraeva più ai colpi, ci avrebbe messo poco ad abbatterne gli scudi.
   A quel punto la corsara scrutò la porta dell’ufficio. La Presidente era lì dentro... a meno che non si fosse nascosta da qualche altra parte, attrezzando la stanza per tenderle un’imboscata. Decisa a sincerarsene prima d’entrare, la Banshee andò ai sensori e cercò segni vitali Zakdorn. C’era un solo segnale su tutta la nave e veniva dall’ufficio del Capitano. Sì, Rangda era proprio lì... e stava osservando le telemetrie dei sensori a lungo raggio, per godersi la distruzione della Terra. Ormai mancava poco, lo Scudo Planetario era allo stremo. E ancora Jaylah non sapeva se Jack potesse fermare le piattaforme, senza i codici presidenziali. Dunque spettava a lei scoprirli... ma probabilmente Rangda si sarebbe suicidata piuttosto che rivelarli. Serviva un’idea, e subito.
 
   Nei sotterranei di Nuova Berlino, il centro di controllo delle piattaforme era cosparso di cadaveri. Si trattava dei tecnici, ed era stato l’Esecutore a ucciderli, per evitare che rivelassero allo Spettro come disattivare gli ordigni. Ora tra i due infuriava una lotta senza quartiere, che sembrava trascinarsi all’infinito; ma Jack sapeva che non poteva essere così. Lui era pur sempre un essere umano. La tuta corazzata moltiplicava le sue forze e ancor più la sua resistenza ai colpi, ma non poteva proteggerlo dalla stanchezza. Già i muscoli gli dolevano per lo sforzo prolungato; presto le energie lo avrebbero abbandonato del tutto.
   L’Esecutore – un tempo chiamato Nicrek – non aveva queste limitazioni. L’unico elemento organico in lui era il cervello, tutto il resto era artificiale. Dunque poteva andare avanti per ore, forse persino giorni, senza indebolirsi né avvertire alcuna stanchezza fisica. Solo il suo cervello organico prima o poi avrebbe necessitato di sonno. Ma l’Umano non poteva certo resistere così a lungo.
   La prima parte dello scontro si era tenuta nel livello soprelevato del salone, uno spazio circoscritto che non offriva nascondigli o possibilità di fuga. Questo dava all’Esecutore un grosso vantaggio, che lo Spettro cercava di compensare occultandosi spesso. Ma anche così otteneva ben poco, salvo stancarsi. Decise quindi di scendere al livello inferiore, contenente le postazioni ausiliarie, che correva come un anello attorno al ripiano centrale. Da lì almeno poteva mettersi in salvo, attraversando le pareti, se lo scontro fosse volto al peggio. Presa la decisione il corsaro si occultò, sfuggendo all’ennesimo attacco, e scese con una scala a chiocciola. Una volta giù rimase occultato ancora un poco, per riprendere fiato. Più in alto l’Esecutore si guardava attorno, girandosi spesso di scatto per non farsi prendere alle spalle. D’un tratto squillò un allarme automatico.
   «Lo senti?» chiese Nicrek ad alta voce. «Lo Scudo terrestre è debole... presto cederà del tutto. Peccato che tu non possa fermare le piattaforme! Prima dovresti sconfiggermi... sempre che tu non sia già fuggito!».
   «Non vado da nessuna parte, vecchio Nick» disse Jack, rendendosi visibile.
   «No, certo! Non hai un posto dove andare, ora che ho distrutto la tua nave e macellato i tuoi uomini» disse l’Esecutore, girandosi svelto verso di lui. Raggiunse la balaustra e saltò giù, atterrando in piedi. «Né d’altro canto ti adatteresti a tornare nella Flotta Stellare, o quel che ne rimane. Rassegnati... hai fallito sia come pirata, sia come ufficiale, e ora non ci sono più angoli dell’Universo che possano accettarti».
   Il sicario tornò all’attacco, scambiando qualche rapido colpo con lo Spettro. Si sfasarono, poi tornarono tangibili e lottarono ancora. Infine l’Esecutore colpì l’avversario con un calcio in pieno petto, scagliandolo all’indietro contro la paratia. Qui il corsaro si accasciò, dolorante.
   «Posso ucciderti quando voglio!» si gloriò il cyborg. «Ma sono tentato di lasciarti in vita quel tanto che basta da farti assistere alla distruzione della Terra» aggiunse.
   «Tutta questa morte... per cosa, eh?! Che ci guadagnerete, uccidendo tutti quegli innocenti?!» ringhiò Jack, mentre si rialzava a fatica.
   «Noi? Niente!» rispose il sicario. «È un servigio che rendiamo alla Galassia. Come un chirurgo che asporta un tumore dal suo paziente, senza pretendere nulla in cambio».
   «Voi siete il tumore, non il chirurgo» ansimò l’Umano.
   «Proprio ciò che direbbe il tumore!» rise l’Esecutore. «Beh, vecchio mio, ti vedo esausto. Mi sa che ti spaccerò subito, risparmiandoti ulteriori dispiaceri. Poi non dire che non tengo a te!».
   Jack era con le spalle al muro. Poteva sfasarsi e poi attraversarlo, ma ciò significava ammettere la sconfitta. Con la Terra in gioco, non voleva neanche pensare alla ritirata. Quindi che fare? Ancora una volta estrasse il phaser dal bracciale e sparò, ma come al solito l’avversario si sfasò in tempo. Jack ritirò l’arma, per sfasarsi a sua volta, ma in quella l’Esecutore riapparve proprio davanti a lui. Lo afferrò per la gola, sollevandolo senza il minimo sforzo, e lo sbatté contro la paratia.
   «Avresti dovuto rassegnarti all’arresto, tanti anni fa. Saresti vissuto più a lungo» lo canzonò Nicrek. Vedendo che il corsaro cercava di liberarsi, serrò ancor più la stretta. «Invece sei ancora qui a dimenarti, come se servisse a qualcosa. Jack, vecchio mio, quando capirai che il coraggio senza strategia non è una virtù?».
   Ma il corsaro aveva un piano, per quanto disperato. Era dall’inizio dello scontro che analizzava l’Esecutore con i sensori della tuta, cercando la frequenza del suo occultamento. Ogni volta che l’avversario si sfasava o tornava tangibile, i sensori raccoglievano dati, che poi il mini-computer elaborava. E finalmente Jack ebbe la risposta. «Varianza di fase a 3,47» gli bisbigliò il computer all’orecchio.
   «Adegua la mia» ordinò lo Spettro, mentre l’Esecutore lo schiacciava contro il muro, minacciando di squarciargli l’armatura con la sola forza dei suoi arti meccanici.
   «Cosa?!» fece il sicario.
   In quella Jack si sfasò, sfuggendogli dalle mani, e gli passò attraverso, sbucando alle sue spalle. Istintivamente Nicrek si sfasò a sua volta, per non trovarsi vulnerabile. Fu un errore, perché ora che avevano la stessa varianza era proprio lo Sfasamento a metterlo in pericolo. Prima che l’Esecutore potesse voltarsi, Jack estrasse il phaser e fece fuoco. Dall’arma sfasata scaturì un raggio sfasato, che colse il bersaglio ugualmente sfasato. Il sicario fu colpito alla schiena e quasi trapassato. Il fatto in sé non era grave, perché non aveva organi vitali e il suo cervello poteva sopravvivere a danni ben peggiori arrecati al corpo meccanico. Ma il raggio phaser distrusse le apparecchiature che lo tenevano sfasato. E mentre lo colpiva, Jack lo spinse anche in avanti.
   Il risultato fu che Nicrek tornò tangibile proprio mentre la sua testa affondava nel muro di duritanio. Il suo cervello si trovò dunque conglomerato nel metallo: la morte fu istantanea. Il Flagello dei Corsari giacque inerte come un manichino, impossibilitato persino a cadere, in quanto la sua testa era fusa alla parete.
   Esausto, Jack Wolff tornò tangibile e osservò la tetra spoglia del suo nemico. Stentava a credere di avercela fatta, ma era vero: l’artefice delle sue disgrazie era finalmente morto. «Questo è per la Stella del Polo» ansimò l’Umano. «E per l’Enterprise-J» aggiunse, ricordando che era stato sempre Nicrek a distruggerla a inizio guerra. Ora che il conto era saldato, Jack si sentì più leggero.
   Il sollievo fu di breve durata, perché gli allarmi lo richiamarono al presente. Era lì per un motivo che prescindeva dalla vendetta contro l’Esecutore: doveva fermare le piattaforme orbitali. Ma come fare, ora che il sicario aveva sterminato i tecnici? Con il cuore in gola, Jack si recò ai comandi. Sebbene avesse una notevole esperienza di sistemi tattici, si scontrò con interfacce insolite e terribilmente complicate. Gli servirono parecchi minuti per accedere ai controlli delle piattaforme, e quando ci riuscì, i suoi timori ebbero conferma: senza i codici presidenziali non si potevano fermare. Forse i tecnici conoscevano una procedura di arresto d’emergenza, ma non potevano più rivelarla a nessuno.
   Che crudele ironia! Lo Scudo Planetario stava per cedere e lui era nella sala controllo, ma gli mancavano i codici. Chi li conosceva? Rangda... solo lei. E in quel momento la Presidente era sul Moloch. Ma anche Jaylah era lassù e forse l’aveva già raggiunta.
   Non restava che un’ultima possibilità. Sfruttando i ripetitori della Luna, Jack cercò di contattare il Moloch, nella speranza che Jaylah gli rispondesse e sapesse dargli i codici. Intanto le crepe si ramificavano sul soffitto del salone: l’intera volta era sempre più instabile e rischiava di crollare.
 
   «L’ora della verità».
   Erano nove anni che Jaylah attendeva il confronto con Rangda. A lungo aveva temuto che non si sarebbe mai presentata l’occasione. Eppure eccola lì... solo una porta la separava dalla dittatrice. Era servita una guerra da milioni di morti perché lei arrivasse innanzi a quella soglia. Ma ora che finalmente era lì, far giustizia di Rangda appariva secondario rispetto all’urgenza di salvare la Terra. Raccolta tutta la determinazione, la mezza Andoriana si sfasò ed entrò nell’ufficio.
   Rangda sedeva alla scrivania e aveva tutta l’aria di aspettarla. Indossava uno dei suoi caratteristici abiti da sera, color pervinca, che sarebbe stato tollerabile se avesse avuto quarant’anni di meno. Aveva anche un elaborato copricapo formato da sottili cerchietti metallici che le fasciavano la fronte e la gran massa dei capelli, come una coroncina. Sembrava perfettamente a suo agio.
   «Salve, vecchia dittatrice» la salutò Jaylah.
   «Salve a te, piccola cellula cancerosa» l’accolse Rangda, con un sorriso lezioso. «Arrivi proprio al momento giusto. Guarda! Tutto il male che hai fatto è stato inutile. Ho vinto, come chiunque sano di mente poteva prevedere».
   Sul grande oloschermo, che la Banshee vedeva in trasparenza, erano inquadrate le piattaforme orbitali che martoriavano la superficie terrestre. Lo Scudo Planetario aveva appena ceduto. Le grandi città svanirono in immani esplosioni a forma di fungo, lasciando crateri colmi di magma ribollente. Ogni esplosione rilasciava enormi quantità di polveri, che il vento disperdeva nella stratosfera. Presto il mondo sarebbe stato avvolto da quell’opprimente cappa nera. E a differenza di quanto accaduto milioni di anni prima con l’estinzione dei dinosauri, stavolta non ci sarebbe stata alcuna rinascita. La distruzione era troppo grande; non sarebbe rimasta alcuna forma di vita.
   «Lei ha appena commesso un genocidio» mormorò Jaylah.
   «È il male minore» si giustificò Rangda. «Meglio sacrificare un pianeta per il bene degli altri, piuttosto che opprimere gli altri per il vantaggio di uno solo».
   «Il male è il male» insisté la mezza Andoriana. «Maggiore, minore... chi è lei per decidere?».
   «La rappresentante democraticamente eletta dei popoli dell’Unione» rispose la Zakdorn, pienamente soddisfatta. «Ma di questo discuteranno gli storici, non trovi? Io ho fatto il mio dovere, ora fa’ il tuo. Arrestami, o uccidimi... come ti pare. Tanto la mia vittoria non cambierà» disse Rangda, sempre con quel sorrisetto compiaciuto. Intanto però osservava il drone killer, ancora appollaiato sopra la porta. Lo aveva programmato per riconoscere la Banshee e ucciderla. Se non l’aveva fatto, significava che la corsara – pur essendo visibile – era ancora sfasata. Doveva indurla a rendersi tangibile, per quanto ciò fosse rischioso.
   In quella comparve sulla scrivania un secondo oloschermo, più piccolo, che indicava una chiamata in arrivo per la Presidente.
   «Risponda» ordinò Jaylah. «Risponda!» ripeté ad alta voce, dato che la Zakdorn se la prendeva comoda.
   «Va bene, non è il caso di strillare» fece la Presidente, e accettò la chiamata.
   Sullo schermo apparve lo Spettro, ancora nel centro di comando delle piattaforme. «Ehilà, vecchia baldracca!» si rivolse a Rangda. Dalla sua allegria era chiaro che non sapeva della catastrofe. «Ci si rivede, finalmente. Ho apprezzato che tu mi abbia mandato il vecchio Nick, ma devo dire che è rimasto un po’... impietrito» disse accennando al cadavere dell’avversario, ancora attaccato al muro dietro di lui.
   «Non importa, è servito egregiamente al suo scopo» disse Rangda, serafica. «Ti ha fatto perdere tempo. Ora puoi contemplare il tuo fallimento» disse, muovendo l’oloschermo in modo che inquadrasse quello maggiore, su cui la Terra era sempre più rossa.
   A quella vista fu il corsaro a rimanere di sasso. Il suo volto era sempre celato dal casco, ma il silenzio tradiva lo shock.
   «Ah ah, ma guardatevi!» rise la Presidente. «Siete arrivati qui, gonfi d’orgoglio... solo per accorgervi che è già tutto finito. Credevate di fare la differenza, invece siete due complete nullità!». La sua risata crebbe, fino a diventare maniacale.
   Fu allora, quando le difese mentali di Rangda erano abbassate dall’ilarità, che Jaylah entrò in azione. Ricorrendo ai poteri telepatici ereditati dalla madre Neelah, lesse la mente dell’avversaria. Si addentrò nella sua sudicia memoria fino al momento, poche ore prima, in cui la Presidente aveva inserito i suoi codici per prendere il controllo delle piattaforme. Li vide davanti a sé, vividi nella memoria, e li lesse ad alta voce. Man mano che lo faceva, lo Spettro li inserì nei comandi. Ci vollero pochi secondi e Rangda fu così stupita che non ebbe la prontezza di chiudere il canale.
   «Beh, che significa questo?!» s’indignò la Zakdorn.
   «Significa che sei un libro aperto per me... un libro contenente pochi orrendi scarabocchi» spiegò la Banshee, in tono sadico.
   «Fatto!» disse Jack dai sotterranei di Nuova Berlino. «Le piattaforme sono disattivate. I miei sentiti ringraziamenti, “eccellenza”» ironizzò.
   «Vedo che la fine della Terra vi ha rimbambiti... che tristezza» commentò Rangda.
   «Mai stati così in forma, brutta strega» contestò Jaylah.
   «E allora perché non capite che è tutto inutile?!» strepitò la Presidente. «A chi importa se le piattaforme sono disattivate! Ormai la Terra è distrutta e non risorgerà più! Ho vinto, riuscite a capirlo?!».
   «Computer, termina la simulazione tattica» ordinò la mezza Andoriana. A quelle parole la Terra arrossata dalle esplosioni lasciò il posto a uno splendido globo bianco-azzurro, ancora protetto dallo Scudo. Nella sua orbita le piattaforme si stavano richiudendo. Quanto alla battaglia, i Pacificatori si davano ormai alla fuga. Erano state le diserzioni a sancire la loro disfatta.
   «Ma che...» fece Rangda, smarrita.
   «Poco fa, quand’ero in plancia, ho lanciato una simulazione computerizzata per mostrare quale sarebbe l’effetto di un bombardamento sulla Terra» spiegò Jaylah. «L’ho spedita alla tua scrivania subito prima d’entrare e tu non ti sei accorta della sostituzione. In realtà le piattaforme non hanno mai colpito la Terra. Ci mancava poco, ma le abbiamo fermate in tempo. Era essenziale che tu credessi di aver vinto, così da abbassare le difese mentali e permettermi d’entrare».
   «Chi è la fallita, adesso?» infierì lo Spettro, che era sempre stato al corrente dell’inganno. «Te lo avevo detto, tanti anni fa, che saresti perita nell’incendio da tu stessa appiccato. Non mi hai voluto credere e sei andata dritta per la tua strada... che ti ha portata qui. È il momento di pagare!».
   A quelle parole Rangda chiuse il canale con un gesto stizzito. Poi si accertò di ciò che aveva appena visto. Scoprì che la Banshee aveva detto il vero. La distruzione della Terra non era altro che una simulazione in tempo reale, mentre in realtà il pianeta era intatto sotto il suo Scudo. E la Flotta Stellare aveva ormai il controllo della situazione. La nave dell’Ammiraglio Chase aveva danni allo scafo, ma era ancora tutta d’un pezzo, segno che il suo più grande nemico era ancora vivo.
   Per un attimo vi fu silenzio, poi Rangda si ricompose. «L’esito di questa battaglia è irrilevante; la guerra è appena iniziata» affermò. «Se mi arrestate, i miei lealisti mi libereranno. Se mi uccidete, farete di me una martire e spronerete i miei fedeli a combattervi con più accanimento. Capisci che, qualunque cosa facciate, io vinco comunque?».
   «Sui mondi dell’Unione è esplosa la rivolta. Il tuo regime non è solido come pensi... anzi, direi che si sta già squagliando» obiettò Jaylah.
   «E se anche fosse? I governi vanno e vengono» ribatté la Zakdorn, facendo spallucce. «Ciò che conta è il progresso sociale. Viviamo in un’epoca meravigliosa, mia cara: l’epoca di un grande risveglio delle coscienze. Sempre più persone diventano consapevoli di quanto sia nociva la razza umana e di quanto staremmo meglio senza. Questo non cesserà con la fine della guerra o con la caduta del mio governo. Uccidimi, avanti!» la sfidò. «Non ucciderai le mie idee: i mass media le propagano, le scuole le insegnano. Sai che ti dico? Se mai avrai dei figli, loro ameranno me e odieranno te!» sghignazzò.
   «Magari li istruirò a casa» disse Jaylah, ironica ma non troppo. «Credi ancora di prevedere il futuro, eppure finora ti sei sbagliata su tutto. Forse ti sbagli anche su questo».
   «Chi vivrà, vedrà» disse Rangda. Nel frattempo però armeggiava con il comando del drone killer, tenendolo nascosto dietro la scrivania. Seguendo le sue istruzioni, il drone si abbassò finché fu dietro la Banshee. La Presidente intendeva far fuoco non appena si fosse sincerata che la corsara era tangibile. E quando lo sguardo le cadde sul modellino della Terra posato sulla scrivania, capì come fare.
   «Sì, vedremo. Nel frattempo sei in arresto» stava dicendo Jaylah. «Ora o ti alzi da quella dannata poltrona, o vengo io a staccarti il culo da lì».
   «Che maniere... arrivo tra un attimo» disse Rangda, in tono mellifluo. Afferrò il piccolo globo e ci giocherellò con la mano libera, come un prestigiatore. «Ma guardala, la causa di tanti tormenti! Una biglia insignificante. Goditela, finché puoi!» disse, e gliela gettò contro.
   La Banshee tese istintivamente la mano ad afferrare il globo verde-azzurro. Le dita guantate fecero presa! Era il segno che la corsara si era resa tangibile. E fu con immensa soddisfazione che Rangda premette il grilletto.
   Il drone killer rispose al comando, sparando con il disgregatore Varon-T. Ma anziché colpire alle spalle la Banshee, il raggio verde-azzurro le passò attraverso e centrò Rangda. Per un attimo la Presidente restò allibita, poi sentì il dolore atroce diffondersi in tutto il corpo. Seppe che le restavano pochi secondi, prima della morte.
   Nello stesso istante Jaylah lasciò cadere il globo e si voltò con riflessi fulminei, estraendo il phaser. Sparò contro il drone, prima che potesse reiterare l’attacco, e lo disintegrò. Poi si girò di nuovo verso Rangda, per assistere alla sua fine. Non aveva tempo di spiegarle la grande invenzione a cui aveva lavorato con Dib fino a pochi giorni prima, il geniale meccanismo che permetteva alla sua tuta di rendere tangibile un solo arto, mentre il resto del corpo restava sfasato e quindi protetto. Non ne aveva il tempo, ma era certa che Rangda lo indovinasse.
   L’energia rossastra si diffuse nel corpo della Zakdorn, divorando le cellule una a una, torturando ogni terminazione nervosa. Il suo volto sembrava un vecchio dipinto a olio che bruci senza fiamma, accartocciandosi gradualmente. Anche se, per ovvie ragioni, era impossibile fare un confronto, molti scienziati ritenevano che quella fosse la più dolorosa delle morti. Eppure la Presidente non strillò nell’agonia. Le sue ultime parole furono un ordine impartito al computer, con voce alta e chiara: «Computer, esegui Direttiva Rangda!». L’attimo dopo la sua carne si sciolse come cera calda. Sulla poltrona rimase lo scheletro calcinato e sfrigolante, da cui promanava un lezzo di bruciato. Il copricapo a coroncina cadde sul pavimento, mezzo liquefatto.
   «Alla fine hai preferito morire, piuttosto che schiodare il culo dalla poltrona» si disse Jaylah, osservando i resti fumiganti della dittatrice. Malgrado il sollievo d’essere sopravvissuta al confronto, non era affatto tranquilla. L’ultima emozione che aveva percepito nell’avversaria, prima della dissoluzione, era la gioia intensa della vendetta. Doveva scoprirne al più presto il motivo.
 
   Ora che la Terra era salva, Jack si disse che era il momento di svignarsela. Le crepe sul soffitto si allargavano sempre più e da qualche parte nelle vicinanze giungeva già il boato di crolli. Il corsaro si sfasò, uscendo dal centro di comando, e prese la via più breve per risalire. Non fidandosi dei turboascensori, dovette usare le scale di sicurezza: una rampa incredibilmente lunga, soprattutto per chi era già spossato da una lunga lotta. Ma non aveva scelta, perché la struttura portante del bunker poteva cedere da un momento all’altro. Perciò corse più in fretta che poteva, aggrappandosi alla speranza di rivedere Jaylah, mentre sotto di lui i livelli inferiori franavano e tutto precipitava nell’oscurità.
 
   Tornata in plancia, la Banshee vide che i Pacificatori non l’avevano ancora rioccupata. Alcuni di quelli che aveva stordito nell’attacco iniziale cominciavano a riprendersi e così li mise di nuovo fuori combattimento con un grido ultrasonico. A quel punto si avvide che il Moloch aveva perso gli scudi sotto il fuoco costante della Keter. I federali stavano inviando rinforzi in sala macchine, ma non in plancia. Capì che quel luogo era ancora troppo schermato, anche in considerazione della vicinanza del Sole, le cui radiazioni disturbavano il teletrasporto. Ciò che la preoccupava, però, era la fantomatica “Direttiva Rangda”. Doveva essere qualcosa d’importante e quasi certamente distruttivo, se la dittatrice l’aveva ordinata con l’ultimo respiro.
   La mezza Andoriana passò rapidamente da una consolle all’altra, cercando di capire cosa stava succedendo. Poco alla volta avvertì un ronzio, che divenne una vibrazione crescente, come se il Moloch stesse radunando l’energia. La sua inquietudine crebbe: qualunque cosa fosse, stava per scattare. Finalmente trovò quello che cercava.
   «Nucleo temporale attivo, sequenza innescata. Tredici minuti alla soglia critica» lesse incredula. Certo, il Moloch era un’evoluzione della Keter, quindi era una nave temporale, oltre che spaziale. Ma pur avendo viaggiato lei stessa nel tempo, Jaylah non pensava che un’astronave potesse compiere quella procedura incredibilmente complessa (e sempre un po’ rischiosa) in automatico. Qual era l’epoca di destinazione? Scorrendo i protocolli di volo, scoprì che il Moloch stava andando mille anni nel passato, quindi alla fine del XVI secolo.
   «Che diavolo ci vanno a fare?!» si chiese Jaylah, ma poi quella cifra tonda la insospettì. Mille anni erano semplicemente un modo per andare nell’epoca pre-curvatura della Terra, quando non esistevano colonie e tutta l’Umanità viveva radunata su un solo pianeta. A quel pensiero si sentì stringere la gola. Corse al timone e constatò che c’era una rotta impostata per la Terra. Allora si precipitò alla postazione tattica e il suo sospetto divenne un’orrenda certezza. Il cannone thalaronico del Moloch era anch’esso impostato per attivarsi, non appena il vascello fosse giunto in prossimità della Terra. Jaylah conosceva quell’arma: con le sue radiazioni poteva sterilizzare un intero pianeta, distruggendo ogni forma di vita.
   «Guerra Temporale... ci sono arrivati, alla fine» si disse. Se l’Unione non poteva vincere nel presente, l’avrebbe fatto nel passato, infrangendo gli Accordi Temporali che essa stessa aveva promulgato. Avrebbe sterminato l’umanità quando era indifesa e concentrata su un solo mondo. Naturalmente era pura follia, perché senza la specie umana la Federazione e poi l’Unione stessa non sarebbero mai sorte. Jaylah e i colleghi avevano visto le conseguenze di una simile incursione temporale anni prima, durante lo scontro con Vosk. Eliminare l’umanità portava a una Galassia devastata, in cui metà dei popoli venivano assimilati dai Borg e l’altra metà era sterminata dagli invasori extra-dimensionali detti Tuteriani. Ma non era stata certo la Commissione per l’Integrità Temporale ad avallare quella mostruosità. Doveva essere opera di Rangda; solo lei poteva essere così irresponsabile.
   «Dieci minuti alla soglia critica» lesse Jaylah sull’interfaccia. Era poco per fermare la sequenza. Pasticciò con i comandi, ma si accorse che erano criptati con ulteriori codici, che la defunta Presidente non poteva più fornirle. E questo non valeva solo per la sequenza temporale, ma anche per il timone e le armi. Forse nemmeno l’equipaggio del Moloch sarebbe riuscito a sbloccarli. Anzi, era certamente così: Rangda non avrebbe mai rischiato che qualche sottoposto fermasse il suo piano. Ma ciò che non si poteva fare in plancia tramite i comandi, forse era possibile dalla sala macchine, sabotando le apparecchiature. Notando che anche il Moloch, al pari della Keter, aveva una pedana di teletrasporto sul ponte di comando, Jaylah la usò per trasferirsi.
 
   La sala macchine era ancora un campo di battaglia tra federali e Pacificatori. Da quando gli scudi del Moloch avevano ceduto, i primi avevano ottenuto rinforzi; ma i padroni di casa continuavano a sbucare dai numerosi ingressi. Così ogni pochi minuti si accendeva una nuova sparatoria. I federali cercavano di mantenere il controllo della sala macchine e al tempo stesso di togliere l’energia principale, per mettere il Moloch definitivamente fuori combattimento. Indovinando le loro intenzioni, i Pacificatori tentavano in ogni modo di fermarli, anche se la morte di Radek e la mancanza di ordini dalla plancia li rendevano disorganizzati.
   D’un tratto risuonarono gli allarmi. I condotti energetici pulsarono a un ritmo indiavolato e il nucleo temporale si attivò con un rimbombo. Dopo un primo attimo di stupore da ambo le parti, il combattimento riprese. Ma Lyra e Vrel si precipitarono ai pannelli di controllo per capire cosa stava succedendo.
   «Ci hanno esclusi dai comandi!» disse Lyra, vedendo che la sua consolle era inservibile.
   «Credo che sia partita una procedura automatica» comprese Vrel. «Non mi piace... sta attivando il nucleo temporale».
   I due stavano ancora cercando di venirne a capo quando la Banshee apparve davanti al nucleo. Vedendo lo scintillio del teletrasporto la presero di mira, temendo un attacco nemico, ma si trattennero nel riconoscerla. La corsara però sfoderò il phaser contro Lyra.
   «Ferma!» gridò Vrel, frapponendosi. «È di nuovo con noi!».
   «Hai dimenticato ciò che ha fatto?!» chiese Jaylah, ancora inasprita.
   «No, ma è stata lei a scatenare la ribellione contro Rangda» spiegò il timoniere. «I Pacificatori stavano per giustiziarla. Possiamo fidarci, credimi».
   «Tu fidati, io la tengo d’occhio» disse la Banshee in tono tutt’altro che amichevole, ma l’urgenza della situazione le impedì d’insistere sull’argomento.
   Lyra si ritrasse in preda alla vergogna. Si rese conto che, se anche Vrel l’aveva perdonata, non era scontato che gli altri lo facessero. «Forse nemmeno i nostri genitori» si disse. «E in ogni caso non riavrò mai una vita normale». Malgrado i suoi sforzi per redimersi, l’aspettava senz’altro una lunga condanna; forse l’ergastolo. Valeva la pena di vivere in quel modo?
   Mentre l’ex Ministra si dibatteva in quei pensieri tormentosi, Vrel si accostò a Jaylah. «Che ne è di Rangda?» le chiese.
   «Ha trovato la sua Samarra» rispose la mezza Andoriana, ricordando la parabola di Juri. «Ma in un certo senso ha ingannato anche la morte. Questa è la sua vendetta» rivelò, accennando al nucleo temporale. Le pulsazioni stavano accelerando, segno che l’energia era in aumento. «Tra pochi minuti il Moloch andrà nell’epoca pre-curvatura e poi distruggerà la Terra. Dobbiamo fermarlo».
   «Dren!» imprecò il mezzo Xindi. Corse ai comandi, cercando la sequenza d’attivazione del nucleo per capire quanto mancava. «Cinque minuti, non ce la faremo!» gemette.
   «Cerco di togliergli l’energia» disse Jaylah, anche lei ai comandi. «Voi tornate sulla Keter» aggiunse.
   «Dovremmo abbandonarti?!» protestò Vrel.
   «Ero un’Agente Temporale, me la caverò».
   «Non da sola su una nave piena di nemici!».
   Mentre i due erano concentrati un po’ sui comandi e un po’ a contendersi l’ingrato compito di restare, Lyra si allontanò senza farsi notare. Accertatasi di avere con sé un phaser, si recò a una consolle inserita nella balaustra che circondava il nucleo temporale. Come sperava, era la postazione d’emergenza da cui si poteva innalzare il campo di contenimento. In realtà questo campo non bastava a proteggere la nave dall’eventuale esplosione del nucleo. La sua funzione era inversa, proteggere il nucleo da eventuali pericoli. Lyra lo attivò, rimanendo volutamente entro la linea rossa tracciata sul pavimento.
   Il bagliore e il crepitio dell’attivazione richiamarono Jaylah e Vrel. «Che hai fatto?!» esclamò il mezzo Xindi, correndo verso la sorella.
   «Quello che voi due avevate già in mente di fare» rispose Lyra, con aria tirata. «Non c’è tempo di violare i codici di Rangda, quindi dobbiamo distruggere tutto. Lo faccio io, voi andate».
   «Non se ne parla, esci da lì!» gridò Vrel come un forsennato. Sparò al campo di forza, che però poteva resistere a ben altro che a un phaser manuale.
   «Lyra...» fece Jaylah, accostandosi. Aveva una mezza idea di sfasarsi per oltrepassare il campo di forza e spegnerlo da dentro.
   «Non ti avvicinare o sparo!» disse però la mezza Xindi, prendendo di mira il nucleo. Aveva regolato il phaser sulla massima potenza: colpendo un punto vulnerabile come il collettore primario, l’esplosione sarebbe stata immediata.
   «Perché?!» si disperò Vrel.
   «Perché è così che deve andare» disse Lyra, affranta. «Voi siete delle brave persone, io no. Voi avete una vita che vi aspetta, per me ci sarebbero solo la vergogna e il carcere. Preferisco così. Almeno i nostri genitori sapranno che sono davvero pentita. Glielo dirai, vero Vrel?». Il suo volto era rigato dalle lacrime, ma la sua voce non ebbe cedimenti.
   «Maledizione, diglielo tu stessa!» urlò il timoniere, picchiando sul campo di forza.
   Ma Lyra non era arrivata a quel punto per tirarsi indietro. Sotto questo aspetto, era la testarda di sempre. «Addio, fratellone. Lunga vita e prosperità» disse, levando la mano libera nell’antico saluto vulcaniano. «Addio anche a te» si rivolse a Jaylah. «Perdonami... e ricordami!» si emozionò.
   In quella giunse Norrin, richiamato dalla strana attività del nucleo. Vide la scena e capì all’istante. «Norrin a Keter, serve un rientro immediato per tutta la squadra!» ordinò, sapendo che il campo di contenimento avrebbe trattenuto Lyra. Restò qualche passo dietro a Vrel e Jaylah, per non interferire in quel momento tragico.
   La mezza Andoriana ritrasse il casco da Banshee, rivelando finalmente il proprio volto. «Ti ricorderò... amica mia» promise.
   «Lyra!» gridò un’ultima volta Vrel. L’attimo dopo lui, Jaylah e Norrin svanirono nel bagliore azzurro del teletrasporto. Anche gli agenti che contendevano la sala macchine ai Pacificatori furono richiamati sulla Keter. Restò solo Lyra, dentro il campo di contenimento.
   «Il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata. Balzo tra dieci... nove... otto...» avvertì il computer. Tra i Pacificatori ci fu grande agitazione, perché non erano informati della Direttiva Rangda. Ma anche se l’avessero conosciuta, non avevano i codici per disinserirla.
   Approfittando di quegli ultimi secondi, Lyra mirò il collettore primario del nucleo temporale, sebbene la luce fosse ormai accecante. Aveva paura: paura dell’ignoto, della morte. E temeva che malgrado tutto i suoi cari non l’avrebbero capita né assolta.
   «Sette... sei... cinque...».
   «Mi dispiace tanto, perdonatemi!» singhiozzò la giovane, pur essendo sola, e aprì il fuoco. L’immane esplosione la liberò dal suo tormento.
 
   Sulla plancia della Keter, il Capitano e gli ufficiali assistettero alla fine del Moloch. L’esplosione di un nucleo temporale è incredibilmente distruttiva: l’interno del vascello fu disintegrato a livello subatomico e persino lo scafo in neutronio si fratturò in più punti, disegnando una ragnatela di crepe. Fasci d’energia scaturirono dalle poche aperture, come i tubi lanciasiluri e gli ugelli dei motori a impulso. Fortunatamente nessuno colpì la Keter, provata dalla lunga battaglia. La successiva onda d’urto subspaziale tuttavia investì la nave, scagliandola lontano dal Sole.
   Hod si aggrappò ai braccioli mentre la Keter sussultava, finché il timoniere la rimise in assetto. Allora tornò a guardare il Moloch. La nave infernale che li aveva perseguitati per tre anni non esisteva più. Era stata vaporizzata con tutto il suo arsenale d’armi illegali, nonché con il numeroso equipaggio. Anche i ministri di Rangda e tutto il suo codazzo di funzionari erano periti nell’esplosione. Non restavano che i pezzi dello scafo in neutronio, già catturati dal campo gravitazionale del Sole e destinati a precipitarvi. Lì sarebbero rimasti sepolti per sempre, anche dopo che la stella fosse divenuta una nana bianca.
   «Addio, Radek» si disse il Capitano. Per quanto lo avesse odiato negli ultimi anni, e ancor più nell’ultima giornata, soffrì per la sua morte. Chissà se, agendo diversamente, avrebbe potuto salvarlo... ma il pensiero fu spazzato via da una preoccupazione più urgente. «I nostri agenti?!» chiese, girandosi di scatto.
   Norrin, Vrel e Jaylah erano sulla pedana di teletrasporto, con gli occhi fissi ai resti del Moloch. Dalla loro espressione, tutti compresero che qualcuno era rimasto indietro. Per qualche secondo vi fu silenzio, perché nessuno osava chiedere chi fosse.
   «Oh, Lyra...» mormorò infine Vrel, con le lacrime agli occhi. Vedendolo così affranto, Norrin e Jaylah scesero dalla pedana e si allontanarono, per dargli spazio. Zafreen invece lasciò la sua postazione e corse ad abbracciarlo. Vrel la strinse con forza, seppellendo il volto e le lacrime tra i suoi lunghi capelli neri.
   «Il resto della squadra?» chiese Norrin, accostandosi a Terry.
   «Ho preso tutti i nostri» rispose la proiezione isomorfa. «Ma non c’è stato tempo per salvare i Pacificatori».
   «Permesso di lasciare la plancia, Capitano» chiese Zafreen, parlando chiaramente anche a nome di Vrel.
   «Accordato» disse Hod.
   I due scesero col turboascensore, mentre Norrin tornò al suo posto. Quando fu accanto al Capitano le rivolse uno sguardo d’intesa, a indicare che oltre a salvare i suoi cari aveva portato a termine anche l’altro incarico. Hod fremette nel notare che il suo pugnale era ancora macchiato di sangue, ma non disse nulla. Si rivolse invece a Jaylah: «Bentornata. Devo presumere che Rangda sia...».
   «Morta» confermò la mezza Andoriana. «Ma temo che le sue azioni le sopravvivranno a lungo. Che ne è di Jack?».
   «Lo scopriremo al più presto» promise il Capitano. «La battaglia è finita, i Pacificatori si sono ritirati. Timoniere, rotta verso la Terra».
 
   Mentre la Keter rientrava, a un quarto d’impulso per via dei danni subiti, il Capitano Hod affrontò la sua ultima prova. Lasciata la plancia a Norrin, scese in infermeria, dov’era stata ricoverata la sua famiglia dopo il rocambolesco salvataggio. Si trovò in un ambiente caotico, perché la Keter era piena di feriti. Alcuni erano stati persino sistemati a terra in assenza di lettini. I medici si affaccendavano dall’uno all’altro, dando la precedenza ai più gravi. I lamenti dei pazienti, le voci concitate dei dottori e i suoni delle apparecchiature si confondevano in un frastuono degno di quella bolgia.
   «Loro dove sono?» chiese il Capitano, intercettando la dottoressa Mol.
   «Sala dodici» rispose Ladya, senza nemmeno fermarsi, tanto era indaffarata.
   Hod lasciò la sala principale dell’infermeria e imboccò il corridoio con le salette di lunga degenza, ora tutte occupate dai feriti. Raggiunse la numero dodici ed entrò senza annunciarsi. Sua madre giaceva sul lettino, mentre il resto della famiglia le era raccolto intorno. Non c’erano medici né infermieri, perché erano tutti occupati. Al suo ingresso i parenti alzarono gli occhi su di lei e la fissarono in silenzio.
   Sentendosi quasi un’intrusa, Hod si fece avanti, finché la porta si richiuse alle sue spalle. Erano oltre quattro anni che non li incontrava, cioè da quando aveva fatto l’adattamento neuro-muscolare per reggere la gravità standard. Nel camminare infatti si sentì stranamente leggera. Capì che i medici avevano ridotto la gravità nella saletta, per mettere gli Elaysiani a loro agio. Lei che si era irrobustita però dovette fare dei passettini lenti per non ritrovarsi a saltare in modo ridicolo. «Come state?» mormorò.
   «Io ho una caviglia slogata... niente di grave» rispose sua madre Riva. «Gli altri stanno bene».
   Hod non riuscì a guardare negli occhi né lei, né suo fratello Yesod, perciò si rivolse ai nipoti, che la fissavano un po’ intimoriti. Erano cresciuti tantissimo in quegli anni... e lei non li conosceva per niente. Immaginò che anche loro la considerassero un’estranea. «Mi siete mancati, tesori» riuscì a dire.
   «Ci sei mancata anche tu» disse Yesod, rompendo finalmente il ghiaccio. «Ma sapevamo che vegliavi su di noi, anche a distanza, e infatti ci hai salvati nel momento del bisogno. Non incolparti per ciò che è accaduto». Così dicendo le venne incontro e l’abbracciò.
   Hod ricambiò l’abbraccio, singhiozzando per il sollievo di sapere che i suoi cari stavano bene e non la odiavano.
   «Ehi, attenta, così mi stritoli!» ridacchiò Yesod, non avvezzo alla super-forza della sorella. Allora lei lo strinse più delicatamente e infine si sciolse dall’abbraccio. «Su ragazzi, venite anche voi a salutare la zia Bina» esortò l’Elaysiano.
   Nizak ed Hesed si fecero avanti, dapprima esitanti, ma poi anche loro l’abbracciarono con entusiasmo. Hod si chinò per stringerli a sé. «Oh, nipotini miei!» esalò, stringendone uno per braccio. «Quanto vi voglio bene! E quanto sono stata in pensiero! Siete cresciuti, sapete?» aggiunse, passando lo sguardo dall’uno all’altro.
   «Sì, lo dice anche la mamma» convenne Hesed, il più piccolo, di nove anni. «Prima ho avuto paura, ma ora è tutto finito, vero?» chiese.
   «Sì tesoro, è tutto finito» rispose il Capitano. In realtà non ne era affatto certa; ma sperava di poter tenere almeno la sua famiglia lontana dal pericolo.
   «Quell’ologramma con la memoria di Dax che ci hai mandato era forte» disse Nizak, di undici anni. «Ci ha raccontato un sacco di cose. Ma mi sa che i Pacificatori l’hanno rottamato quando ci hanno arrestati. Possiamo averne un altro?».
   «Certo, quando volete!» assicurò Hod, continuando a stritolare entrambi i nipoti. Finalmente l’emozione si placò e riuscì a staccarsene. Andò da sua cognata Shekina, con cui scambiò un saluto più composto, e finalmente fu accanto a sua madre.
   «Tuo padre mi faceva venire i capelli grigi dalla preoccupazione, ma tu me li hai fatti diventare bianchi» disse Riva, che non aveva mai fatto mistero di disapprovare le loro carriere nella Flotta.
   «Mi spiace, non era mia intenzione» disse Hod.
   «Però ci hai salvati dai Pacificatori, e prima ancora dai Borg» riconobbe l’anziana. «Quindi era provvidenziale che fossi al posto giusto, dopo tutto. Sono orgogliosa di te, come lo ero di tuo padre» dichiarò, alzandosi un poco dal lettino per abbracciarla a sua volta. Con quelle poche parole e con quel gesto, un altro peso fu levato dalla coscienza del Capitano.
 
   Giunta nell’orbita terrestre, la Keter si accostò alla Khitomer, trasmettendo un sommario rapporto missione. Al tempo stesso fu aggiornata sulla situazione. La Terra era salva, sebbene vaste aree del pianeta fossero ancora in tumulto. C’erano le ultime sacche di Pacificatori da domare, per non parlare delle colonie Voth incendiate e saccheggiate. Almeno ad Atlantide c’erano festeggiamenti, anche se con ogni probabilità ci sarebbero stati anche in caso di vittoria dell’Unione, con la sola differenza delle bandiere.
   Ancora peggio andavano le cose sulla Luna, in particolare a Nuova Berlino, dove in seguito al bombardamento si erano verificati dei crolli nei livelli sotterranei. I Pacificatori si erano ritirati in seguito alla sconfitta della loro flotta e alle rivolte popolari, ma per impedire alla Flotta Stellare d’inseguirli avevano manomesso le fabbriche d’ossigeno, mettendo a repentaglio la vita dei coloni. Così le navi superstiti della Flotta si erano radunate attorno alla Luna, inviando i propri ingegneri a riparare gli impianti. Quando lo seppe, anche Dib vi si recò con una squadra tecnica della Keter.
   La battaglia era stata durissima. Su trecento navi che avevano partecipato allo scontro, la Flotta ne aveva perse un centinaio; le rimanenti erano tutte danneggiate. I Pacificatori avevano pagato un prezzo ancora più alto: centocinquanta navi distrutte e altrettante che avevano disertato, unendosi alla Flotta. Dunque la Federazione poteva rivendicare la vittoria; ma la situazione era tutt’altro che rosea. Marte e le altre colonie del sistema solare erano ancora in mano ai Pacificatori. Lo stesso valeva per gli altri mondi dell’Unione: per quanto agitati dalla ribellione, ben pochi sarebbero riusciti a liberarsi da soli. E la Flotta Stellare non aveva abbastanza navi per andare ad aiutarli. Si profilava un futuro inquietante, in cui il regime dell’Unione poteva resistere e persino lanciare nuovi assalti alla Terra. Ma tutto dipendeva dalle conseguenze della morte di Rangda: qualcuno avrebbe riempito il vuoto? Solo il tempo poteva rispondere a questa domanda.
 
   Nelle ore successive la Keter fu molto trafficata, essendoci un andirivieni d’ingegneri intenti alle riparazioni, pazienti appena dimessi o imbarcati da altre navi, nonché agenti della Sicurezza ancora chiamati a intervenire nei peggiori focolai di scontro sulla Terra e sulla Luna. Sembrava quasi che la battaglia fosse ancora in corso, tanta era l’agitazione.
   Fu allora che Lantora e T’Vala, informati della sorte di Lyra, salirono sulla Keter per incontrare il figlio superstite. Vrel li ricevette nella sala teletrasporto 4, l’unica a non essere trafficata. Li trasferì lui stesso dalle loro navi, dopo aver congedato l’addetto per avere un po’ di privacy.
   I tre si accostarono in silenzio, senza la forza di parlare. T’Vala in particolare era in uno stato pietoso. Cercava di appellarsi alla sua metà vulcaniana per non scoppiare in lacrime, ma il suo dolore di madre era troppo grande. «Tu come stai?» riuscì a mugolare.
   «Non sono ferito» disse Vrel, lo sguardo basso. «Ho provato a salvarla, ma...».
   «Ha sofferto?» sussurrò la mezza Vulcaniana.
   «Non credo, sai... l’esplosione del nucleo... questione di un attimo» mormorò il timoniere.
   T’Vala annuì, piangendo silenziosamente, e Lantora la cinse col braccio. Avevano detto più volte di aver perso Lyra tre anni prima, quando si era schierata con l’Unione; ma in fondo al cuore non avevano mai smesso di sperare che un giorno l’avrebbero ritrovata. Ora quel sogno era definitivamente tramontato e persino la vittoria su Rangda aveva il sapore del fiele.
   «Se almeno avessimo qualcosa da... seppellire...» singhiozzò T’Vala. «Ma non è rimasto niente... non avrà nemmeno una tomba...».
   «Negli ultimi momenti mi ha chiesto di dirvi che le dispiaceva per i suoi errori. Sperava che la perdonaste» rivelò Vrel. «Io l’ho fatto, quindi...». Non riuscì a finire, perché anche lui stava piangendo.
   «Oh, sì!» fece T’Vala, con voce rotta. Lasciò il marito e strinse a sé il figlio. Dopo un abbraccio pieno di lacrime alzarono gli occhi a Lantora.
   «Certo che la perdono, la mia bambina» sussurrò lui. «Se solo lo sapesse... se solo fossimo riusciti a proteggerla...». Anche lui fu travolto dal dolore e pianse lacrime amare, abbracciando la moglie e il figlio.
   Quando si furono in parte sfogati, i tre si separarono e cercarono di ricomporsi. Una parte di loro sarebbe sempre rimasta in lutto; eppure dovevano andare avanti. Scambiarono qualche parola sui doveri che li attendevano nei prossimi giorni e si promisero di restare in contatto, circostanze permettendo.
   Al momento di separarsi, T’Vala trattenne il marito e il figlio. «Tutti noi ricorderemo Lyra finché avremo vita» disse, tremando ancora per la pena. «Ma la sua vita è stata troppo breve e dolorosa, quindi vorrei offrirle questa preghiera vulcaniana». Levò una mano, anche se non c’era alcun corpo su cui posarla. Pronunciò la breve formula in Antico Vulcaniano e poi in moderno Standard: «Possa la tua morte condurti alla pace che non hai mai trovato nella vita».
 
   Per il resto della giornata Jaylah se ne stette chiusa nel suo alloggio, in attesa di notizie su Jack. Stava distesa sul letto, fissandosi la fede nuziale e rigirandosela intorno al dito. Sapeva che suo marito era sopravvissuto all’Esecutore, avendolo visto durante il confronto con Rangda; ma il timore che fosse stato travolto dal successivo crollo le rodeva la mente. Non aveva nemmeno il conforto degli amici, dato che Vrel era in lutto e gli altri erano troppo indaffarati per farle visita. Solo suo padre la contattò per sincerarsi che stesse bene e in seguito Juri venne da lei a scambiare qualche parola.
   Quando infine, a tarda ora, Raav la invitò alla cena che aveva allestito per gli ufficiali, la mezza Andoriana fu tentata di rifiutare. Il timore di aver perso Jack le toglieva l’appetito. Ma pensò a Vrel e si disse che doveva stargli vicina. Così si presentò in sala mensa, dove i tavolini erano stati accostati in modo da formare una lunga tavolata comune. I suoi colleghi erano tutti lì, già seduti ai loro posti. C’era il Capitano Hod, la cui famiglia era stata appena trasferita in un paio d’alloggi a bassa gravità. E vi erano Norrin, Terry, Juri. Anche Dib era tornato dalla Luna, dove la situazione era sotto controllo, e Ladya era emersa dall’infermeria. Ma soprattutto c’era Vrel, con Zafreen; era stata l’Orioniana a convincerlo a venire.
   «Ben arrivata, mancavi solo tu» l’accolse il Capitano.
   Jaylah sedette accanto a Vrel, ma si accorse che c’era ancora un posto libero, a contraddire le parole di Hod. «Aspettiamo qualcun altro?» chiese svogliatamente.
   «Solo il signor Chase» disse Raav, cominciando a servire i pasti.
   «Pensavo che mio padre avesse altro da fare» borbottò Jaylah, sempre distratta dalle sue angosce.
   «Infatti è così, signora Wolff!» disse una voce familiare alle sue spalle.
   La mezza Andoriana si alzò di scatto e si girò, trovandosi faccia a faccia con Jack. Il corsaro era vestito elegantemente per la cena e aveva quel sorriso furbetto che accompagnava le sue entrate in scena più teatrali.
   «Dannato briccone!» gridò Jaylah. Per un attimo fu tentata di schiaffeggiarlo, lì davanti a tutti, perché non l’aveva avvisata subito del suo ritorno; ma non se la sentì. E poi avrebbe dovuto schiaffeggiare anche gli altri, che gli avevano retto il gioco. Così si gettò tra le sue braccia, giurando a se stessa che sarebbe rimasta con quel furfante per il resto della vita.
 
   La cena durò fino a notte fonda, perché tutti avevano qualcosa da raccontare. Jaylah seppe così che sebbene la nave dei Cacciatori fosse stata danneggiata, i parenti di Norrin stavano bene. L’Hirogeno aveva già riconsegnato alla cugina Vitani il pugnale del clan, a definitiva conferma che la riconosceva come l’Alfa. Grata per l’aiuto, la Flotta Stellare si era offerta di aiutare gli Hirogeni a rimettere in sesto la loro nave. Anche Fanior e suo figlio stavano bene, sebbene il loro vascello necessitasse di riparazioni più impegnative.
   Infine fu Jack a raccontare come si era salvato dal crollo del bunker, ricorrendo ancora una volta all’Occultamento Sfasato. Dopo di che aveva vagato per ore sperduto nei sotterranei della colonia lunare, finché una vecchia scala di servizio l’aveva riportato in una zona abitata. Da lì aveva contattato la Flotta Stellare, rientrando sulla Keter assieme a Dib, in tempo per la cena. «Non ero mai stato sulla Luna, prima. Non sembra malaccio» ebbe a dire.
   «Io ci sono nato» mormorò Juri, immerso in ricordi per nulla piacevoli. «I miei genitori ci vivevano ancora a inizio guerra, ma poi chissà che ne è stato...».
   «Mi sono informato, prima di partire. Sono ancora a Nuova Berlino» rivelò Jack. «Sono stati detenuti a lungo, in quanto parenti di una pericolosissima spia» ironizzò, «ma con le rivolte li hanno rilasciati. Penso che li potrai vedere a breve».
   A quelle parole, Juri emise un lungo sospiro di sollievo. Era stato appena liberato da un cruccio per nulla inferiore a quello di Hod, che gli strinse la mano sotto il tavolo.
   Quando tutte le portate furono consumate e tutte le storie raccontate, giunse il momento dell’ultimo brindisi. Allora gli sguardi indugiarono su Vrel, perché sebbene ci fossero state molte liete notizie, a lui la battaglia aveva arrecato sventura. Sembrava anzi che la fortuna toccata agli altri potesse esacerbare il suo dolore.
   «Vuoi che andiamo?» chiese Zafreen, prima ancora che gli altri brindassero.
   «No, restiamo pure» rispose lui. Si lasciò riempire il bicchiere e poi fu il primo a levarlo. Gli altri lo osservarono, in attesa delle sue parole.
   «Oggi ho ritrovato mia sorella e poi l’ho persa per sempre» disse Vrel, il dolore scolpito nel volto. «Ma voglio dirvi una cosa: lei non è morta invano. Si è sacrificata per noi, per la Terra, per ciò che è giusto. E l’ha fatto dopo essersi liberata dalle menzogne che Rangda le aveva tessuto attorno. Pochi sono riusciti a farlo» disse, e qui il pensiero di tutti corse a Radek. «Perciò, quali che siano stati i suoi sbagli, io credo che dobbiamo assolverla. E allora forse potremo assolvere anche noi stessi, per ciò che abbiamo dovuto fare in quest’orrenda guerra. A te, Lyra!» esclamò, alzando il bicchiere.
   I colleghi lo imitarono, tenendo alzati a lungo i calici, nel silenzio assoluto. Infine bevvero alla memoria di colei che, a lungo avversata, li aveva salvati tutti.
 
   Tre giorni dopo Jaylah e Jack furono convocati sulla Khitomer per conferire con l’Ammiraglio Chase. Era la prima volta che lo incontravano di persona dopo la battaglia. Al loro ingresso nell’ufficio, l’Ammiraglio gli venne incontro e abbracciò sua figlia, poi scambiò una salda stretta di mano con il corsaro. «Sono contento di vedervi sani e salvi» disse. «Le vostre azioni nell’ultima battaglia sono state superlative. Ma dobbiamo pensare al futuro, per cui volevo parlarvi delle vostre prospettive, anche alla luce della perdita della Stella». Così dicendo si rivolse dapprima alla figlia.
   «Jaylah, malgrado la lunga permanenza tra i corsari, sei ancora un ufficiale della Flotta Stellare» le ricordò. «Dopo tutte le tue eroiche imprese, sarai ovviamente promossa. Sarai Capitano, vale a dire che ti assegneremo una nave. So che ti dispiacerà lasciare gli amici, proprio ora che li hai ritrovati, ma queste cose fanno parte della nostra vita».
   Ciò detto, l’Ammiraglio si rivolse allo Spettro. «E tu, Jack, avrai la completa amnistia. Te la sei meritata dopo tutto ciò che hai fatto per noi, non ultimo il salvataggio della Terra. E siccome immagino che non vorrai separarti da Jaylah, ti offro la possibilità di tornare nella Flotta Stellare. Sarai Comandante sulla sua stessa nave» promise, ma si avvide che il corsaro non era entusiasta. «Sempreché tu lo voglia» aggiunse quindi.
   Jack e Jaylah si scambiarono un’occhiata d’intesa, dopo di che l’Umano prese la parola: «Ammiraglio, apprezzo le sue intenzioni, ma mi spiace dirle che questa per noi non sarebbe una ricompensa. Io in particolare non desidero rientrare nella Flotta. Ho collaborato con voi in questi anni perché ce n’era bisogno, ma come ho già detto agli ufficiali della Keter, non mi cucirete di nuovo quell’uniforme addosso».
   «Uhm... lo sospettavo» borbottò Chase, carezzandosi la barbetta bianca. «È difficile rientrare nei ranghi, dopo aver assaporato la libertà per tanto tempo. Capisco il tuo stato d’animo e non ti farò pressioni. Se c’è qualcuno che merita di vivere a modo proprio, sei tu. Questo però potrebbe allontanarvi» aggiunse, passando lo sguardo da lui a Jaylah.
   «Non accadrà» disse però la mezza Andoriana. «Papà, c’è una cosa che devi dirti. Io e Jack ci siamo sposati sulla Keter, la vigilia dell’ultima battaglia, alla presenza degli amici».
   A queste parole l’Umano si accigliò. «Le mie congratulazioni, figlioli. Sono felice per voi, dico davvero. Ma speravo che io e Neelah avremmo presenziato al vostro matrimonio».
   «Faremo una seconda cerimonia, più degna e con più invitati» promise Jack. «Ma, Ammiraglio... c’è un’altra decisione che abbiamo preso di comune accordo».
   A quelle parole Jaylah si fece un poco avanti e fissò il padre. «Papà, io ho dedicato tutta la mia vita adulta alla Flotta Stellare. Prima l’Accademia, poi la Keter, infine questi anni da corsara ma sempre al servizio della nostra causa. Non sono pentita, perché credo di aver fatto il necessario per salvarci. Ma sono arrivata a un punto della mia vita in cui desidero la serenità e la stabilità che finora non ho mai avuto. Scusa, ma... non vorrei, alla prossima missione, trovarmi costretta a una scelta come quella di Lyra» confessò.
   «Oh, figliola!» sospirò Chase, e la strinse forte a sé. «Non hai nulla di cui scusarti. Sono io che ti chiedo scusa, se ti ho indotta a una vita del genere. Se quando mi dicesti di voler fare l’Accademia io avessi immaginato cosa ti aspettava, ti avrei implorato di non farla. Perdonami se ti ho esposta a tanti pericoli... nessun padre dovrebbe fare questo alla propria figlia!» si commosse.
   «Non mi hai indotta tu» assicurò Jaylah. «Fu una mia scelta, anche se dettata in gran parte da ragioni superficiali. Idolatravo te e la mamma, volevo somigliarvi e se possibile addirittura superarvi. In parte mi sentivo anche in colpa per ciò che fece la zia Helen a Khitomer e pensavo di dover in qualche modo espiare».
   «Luce dei miei occhi, tu non hai alcuna colpa per quell’attentato! Non eri ancora nata!» esclamò l’Ammiraglio, stringendola per le spalle e quasi scuotendola per la foga.
   «Adesso lo so» assicurò la figlia. «Non desidero più competere coi tuoi successi, né caricarmi delle colpe altrui. Voglio solo vivere la mia vita, traendone il meglio che si può. Questi anni nella Flotta Stellare sono stati straordinari e non li rinnego. Ma credo che sia arrivato il momento di dire basta alle battaglie e alle missioni. Voglio lasciare la Flotta» disse chiaro e tondo.
   «Se è ciò che vuoi, allora fallo subito» la esortò Chase. «Così potrete rimanere assieme, com’è auspicabile ora che siete sposati» aggiunse, rivolgendosi anche a Jack. «Naturalmente, uhm... suppongo che abbandonerete anche la vita da corsari» aggiunse, con un filo di apprensione.
   «Ha la mia parola» s’impegnò Jack. «Non scelsi io di diventare pirata, furono gli eventi a gettarmi in quella situazione. Ora che mi si offre la possibilità di una vita normale, con colei che amo, l’accolgo volentieri. Del resto anche l’Esecutore è morto e non può più tormentarci».
   «Già, tuttavia i nemici non vi mancano» avvertì l’Ammiraglio, ancora turbato. «I resti dei Pacificatori, la Catena Cremisi, il Sindacato di Orione... avete pestato i piedi a molti. E quella è gente che non dimentica né perdona. Confesso che mi preoccupa l’idea di sapervi indifesi, sulla Terra o su qualunque altro mondo».
    La coppia si scambiò un’altra occhiata d’intesa. «Abbiamo pensato anche a questo» disse Jaylah. «C’è un solo modo per impedire ai nemici di perseguitarci. Devono credere che siamo già morti».
   Per un attimo calò il silenzio, poi l’Ammiraglio fece udire un sospiro. «È una decisione drastica, figlioli. Vi priverà degli onori e delle soddisfazioni che meritereste» disse. «Ma ahimè, temo sia l’unica che potrebbe funzionare. Volete approfittare di quest’ultima battaglia, vero?».
   «Finora solo pochi amici e colleghi sanno che siamo sopravvissuti» confermò Jaylah. «Chiederemo loro di mantenere il segreto. La verità ufficiale sarà che io non sono uscita viva dal Moloch, mentre Jack non è riemerso dal bunker crollato».
   «Circoleranno senz’altro voci. Teorie del complotto» avvertì Chase. «Sapete come vanno queste cose... specie quando ci sono di mezzo due leggende come voi».
   «Già, le leggende non muoiono mai» commentò Jack, malinconico. «Ma quando annuncerete la nostra morte, vorrei che non parlaste solo dello Spettro e della Banshee. Citate espressamente i nostri nomi... tanto ormai non sono più un segreto per il nemico. Dite che Jack Wolff e Jaylah Chase sono passati a miglior vita. Così, se in futuro aveste nuovamente bisogno dello Spettro e della Banshee, sarà chiaro che sono interpretati da altri».
   «Faremo a meno dei vostri personaggi. Se anche ci servissero agenti sfasati, cambieremo le tute e i nomi» promise l’Ammiraglio. «Ma ora pensiamo a voi, figlioli. Come sapete, la Flotta ha un apposito programma di protezione per gli ex agenti che devono scomparire. Innanzi tutto dovete cambiare identità, quindi avrete nomi e documenti falsi. Poi vi troveremo un posto in cui vivere. Sarebbe meglio che fosse un luogo appartato, come una piccola colonia, dove c’è meno gente che può riconoscervi. In effetti, temo che la Terra sarà off-limits per voi. È troppo turbolenta ed è il primo luogo in cui verrà a cercarvi chi non crederà alla vostra scomparsa».
   «Già» s’incupì Jack. «Che ironia: abbiamo salvato la Terra, ma non ci possiamo vivere».
   «Capita di salvare qualcosa non per se stessi, ma per gli altri» convenne Chase con tristezza. «Per parte mia, sarà un dolore non vedervi spesso quanto vorrei. Mi conforterà solo sapere che in tal modo sarete più al sicuro. Allora è deciso... facciamo così?» chiese, volendo un’ultima conferma dalla figlia.
   «Sì, papà» annuì lei. «Non è la soluzione più lieta, ma è la più sicura per tutti. Se vogliamo vivere tranquilli, la Galassia deve crederci morti». 

 

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Capitolo 15
*** La prossima frontiera ***


-Capitolo 14: La prossima frontiera
o Le leggende non muoiono mai
 
   Per tre mesi dopo la Battaglia della Terra, gli scontri proseguirono. La flotta federale stanziata nel sistema solare si rafforzò con l’arrivo dei rinforzi di Ilia, che con l’aiuto dei Progenitori aveva messo in sicurezza Kronos, riportando la luna Praxis su un’orbita stabile. Le forze federali riunite liberarono quindi le colonie del sistema solare, da Marte a Plutone. Seguirono varie scaramucce per liberare mondi chiave dell’Unione come Memory Alpha, protettorati come Coppelius e anche mondi indipendenti come Kelva II.
   Tuttavia le battaglie maggiori non videro contrapposti i Pacificatori e la Flotta Stellare, bensì diverse fazioni di Pacificatori, in lotta per il predominio. La grande Invasione Borg e la successiva Battaglia della Terra, infatti, avevano decapitato la leadership civile e militare dell’Unione. In quel contesto caotico, con i pianeti in preda a incendi e saccheggi per le insurrezioni, una ventina di mondi si proclamarono “capitale ad interim dell’Unione”. Ammiragli e senatori sopravvissuti alle calamità rivendicarono il titolo di Presidente, senza riuscire tuttavia a dargli sostanza; molti furono assassinati o deposti nel giro di poche settimane. Le lotte intestine dissanguarono ancor più la flotta dei Pacificatori, già decimata dagli ultimi eventi. Una sorprendente quantità di navi furono sabotate o persino distrutte dal loro stesso equipaggio, per impedire che cadessero in mano alle fazioni rivali. La conseguenza fu un grave indebolimento della presenza militare, specialmente sui mondi di confine. Alcuni pianeti, come Ardana, furono completamente abbandonati dai Pacificatori in ritirata. Dopo aver constatato da che parte tirava il vento, questi mondi si schierarono con la Federazione, incrementandone le risorse.
   Fu il periodo più caotico, nonché il più pericoloso, dato il rischio di un completo sgretolamento politico. Ma se l’Unione si dibatteva nelle lotte intestine, la Federazione si riprendeva rapidamente e riuscì persino a inviare aiuti umanitari sui mondi nemici più compromessi. Squadre tecniche ripristinarono i generatori e i sistemi di distribuzione dell’energia, permettendo di usare nuovamente i replicatori e salvando quindi la popolazione dall’inedia. Questo, più di qualunque proclama politico, rese la Federazione di nuovo ben vista a discapito dell’Unione.
   Un’altra grande vittoria d’immagine fu messa a segno già all’indomani della Battaglia della Terra, quando Talat trasmise un proclama in tutti i mondi dell’Unione. Pur ammettendo che i Progenitori, per antichissima legge, non potevano schierarsi nel conflitto, la Prima Delegata disse chiaramente che la Federazione e non l’Unione incarnava quella coesistenza pacifica che essi auspicavano per i loro figli. Quest’affermazione, fatta dalla leader dei Proto-Umanoidi, tolse all’Unione gran parte della sua forza ideologica. I Pacificatori cercarono infatti di censurare il discorso o di negarne l’autenticità, ma senza troppa fortuna. E quando anche il planetoide Memory Alpha fu rioccupato dalla Flotta Stellare, i mass media smisero d’essere una grancassa del regime.
   La progressione di titoli del Federal News che annunciavano l’avvicinarsi dell’Ammiraglio Chase fu un esempio da manuale di riposizionamento politico:
  • 14 dicembre 2593: il mostro è evaso dall’accerchiamento su Kronos.
  • 17 dicembre 2593: la belva umana ha raggiunto la Terra e se n’è vilmente impossessata dopo la sconfitta dei Borg. L’arrivo delle truppe d’occupazione federali ha gettato gli abitanti nel terrore.
  • 19 dicembre 2593: il dittatore è asserragliato presso la Terra, ma i Pacificatori avanzano in forze per scacciarlo. Ancora una volta la Flotta Stellare è condannata a una miserabile fuga.
  • 20 dicembre 2593: l’oppressore ha ricevuto dalla Presidente Rangda una generosa offerta che gli consentirebbe di ritirarsi incolume dal nostro spazio.
  • 21 dicembre 2593: l’Umano ha rifiutato l’offerta di pace. Lo scontro è inevitabile.
  • 22 dicembre 2593: Chase ha riportato un’inaspettata vittoria nell’orbita terrestre, ma è impossibile che arrivi a conquistare le colonie del sistema solare.
  • 30 dicembre 2593: l’Ammiraglio Chase ha completato la riconquista del sistema solare ed è in rotta verso Memory Alpha, ma questo prematuro attacco potrebbe segnare la sua fine.
  • 31 dicembre 2593: l’Ammiraglio di Flotta è giunto ai margini del nostro sistema.
  • 1º gennaio 2594: dopo una breve scaramuccia con le forze d’occupazione dell’Unione, l’illustre Ammiraglio Chase ha liberato Memory Alpha. Grandi festeggiamenti hanno accompagnato il suo arrivo.
 
   Il 25 marzo 2594, dopo tre mesi di lotte intestine e insurrezioni popolari, i rappresentanti di ciò che restava dell’Unione incontrarono gli ambasciatori federali presso Bajor per firmare un cessate il fuoco. La Tregua di Bajor, come fu detta, comportava l’avvio di trattative per la ricomposizione politica. I Proto-Umanoidi si fecero garanti dei negoziati, che avvennero sulla loro nave ammiraglia.
   Nel momento in cui i rappresentanti della Federazione e dell’Unione si stringevano la mano dopo aver firmato la tregua, al cospetto di Talat, accadde ciò che i Bajoriani avevano atteso con trepidazione. Il Tunnel Spaziale, che si era sigillato dopo la rovinosa Caduta di Bajor, d’un tratto si spalancò in una girandola di luce azzurra e gialla. Nessuno aveva tentato di riaprirlo: si trattava di un fenomeno spontaneo. Da allora in poi il Tunnel fu stabile come in passato.
   La conseguenza più immediata fu il ripristino dei collegamenti con il Quadrante Gamma, compresa la colonia di New Bajor. Ma ancora più importanti furono le ricadute spirituali sul popolo bajoriano, che riveriva il Tunnel come la sede degli dèi: «Il Tempio Celeste, dimora dei Profeti che vegliano su di noi». Se la chiusura del Tunnel aveva gettato i Bajoriani nello sconforto, dando l’impressione che i Profeti li avessero abbandonati, la sua riapertura portò un’ondata d’entusiasmo. Gli ultimi Pacificatori furono espulsi e la leader spirituale Kai Nashir fu liberata dal carcere di Elemspur, dove aveva trascorso due anni e mezzo in isolamento. Quando tornò alla capitale Ashalla, di nuovo ammantata nella veste bianca e oro della Kai, ci furono grandi festeggiamenti. E il meglio doveva ancora venire.
   La prima nave a emergere dal Tunnel Spaziale fu un trasporto proveniente da New Bajor. Il vascello entrò nell’orbita della madrepatria, contattando il governo provvisorio su un canale protetto. Di lì a poco Kai Nashir fu teletrasportata d’urgenza a bordo. Seguì un grande annuncio pubblico, trasmesso via subspazio in tutta l’Unione. La leader spirituale bajoriana apparve accanto all’Ambasciatore Odo, rappresentante del Dominio, e all’Ammiraglio Ilia Tarn, che era lì con la Defiant per vigilare sulla Tregua. Accanto a loro c’erano i Cristalli dei Profeti che, oscuratisi dopo la Caduta di Bajor, avevano finalmente riacquistato luce e poteri. Kai Nashir li invocò uno a uno, dal più antico al più recente: il Cristallo dell’Anima, del Destino, della Profezia e del Cambiamento, del Tempo, della Verità, della Memoria, della Saggezza, dell’Unità, della Contemplazione e infine quello dell’Emissario, rinvenuto da Benjamin Sisko. Proprio il Cristallo dell’Emissario era stato l’unico a non spegnersi mai del tutto; in esso aveva sempre indugiato un tenue bagliore. E ora che le armi tacevano si era riacceso per primo, seguito dagli altri.
   In una grandiosa cerimonia, durata dieci giorni, Kai Nashir fece il giro dei principali santuari bajoriani, ricollocando ogni Cristallo al suo posto. Ben presto i fedeli tornarono a consultarli, e anche chi non poteva recarsi in pellegrinaggio si sentì spronato a collaborare al processo di pace. Anche gli scettici, che consideravano i Profeti niente più che alieni, convennero che la riapertura del Tunnel e la rigenerazione dei Cristalli erano chiari segni di favore nei confronti della Tregua.
   L’unica delusione, in mezzo a tanta gioia, fu l’assenza di Benjamin Sisko. Il leggendario Capitano, riverito come Emissario dei Profeti, era infatti riapparso durante la Guerra Civile per guidare la difesa di Bajor, salvo essere ferito e svanire a contatto col suo Cristallo. Molti speravano che, essendosi rigenerati i Cristalli, anche Sisko sarebbe tornato; ma non fu così. Per confortare i fedeli su questo punto, Kai Nashir affermò che «l’Emissario ha compiuto la sua missione, ma tornerà fra noi se il male dovesse ridestarsi».
   Ilia e Odo, che lo avevano conosciuto bene, ne parlarono tra loro. «Forse Benjamin tornerà un’altra volta» disse l’anziana Trill, «ma temo che per allora non saremo più al mondo».
   «Sai come la penso sui Profeti» disse il Mutaforma, che era sempre stato scettico sulla loro divinità. «Ma conoscendo Benjamin, non mi stupirei se tornasse davvero quando ci sarà bisogno di lui».
   «Allora dobbiamo sperare che non accada mai più?» fece Ilia, ironica. Nessuno poteva augurarsi il ritorno della Guerra Civile o di un altro conflitto del genere.
   «In un certo senso» ammise Odo. «Com’è quel vecchio detto? “Beati i popoli che non hanno bisogno d’eroi...”».
 
   Le trattative furono insidiose, perché l’Unione cercava di presentarsi come eguale della Federazione anziché come sconfitta. Molti temettero anzi che usasse la diplomazia per ottenere ciò che non aveva ricavato con le armi, sottomettendo di fatto la Federazione alle proprie leggi. Questo però fu evitato grazie alla continua vigilanza dei Proto-Umanoidi, che sovrintendevano ai negoziati.
   Il 22 luglio, quattro mesi dopo il cessate il fuoco, furono firmati gli Accordi di Pace definitivi. La cerimonia si tenne sulla Terra, ad Atlantide, nello stesso palazzo presidenziale da cui Rangda aveva governato con pugno di ferro. La compagine dei mondi si ricompose, riprendendo l’antico nome di Federazione Unita dei Pianeti. Le sue leggi furono, in massima parte, quelle mantenute dalla Federazione durante gli anni di guerra. Laddove fu integrato il codice dell’Unione, si provvide a ripulirlo dalle riforme razziste e anti-Umane di Rangda. Fu così che la Polizia del Pensiero fu abolita, mentre i Centri di Rieducazione furono chiusi e smantellati. Allo stesso modo, il corpo dei Pacificatori fu sciolto e la Flotta Stellare riprese le precedenti mansioni di esplorazione, ricerca scientifica e difesa. Anche la paventata riforma dell’istruzione, che avrebbe trasformato le scuole in centri d’indottrinamento e segregazione razziale, fu totalmente abolita. I programmi scolastici tornarono com’erano prima che Rangda salisse al potere, vale a dire che la storia e la cultura umana non furono più considerate tabù. Anche così, tuttavia, fu chiaro a tutti che i veleni della guerra sarebbero durati a lungo.
   Tra le conseguenze più nefaste del conflitto vi fu la peggiore ondata di suicidi collettivi della storia federale. Il fenomeno ebbe in realtà tre fasi. La prima e peggiore ondata fu immediatamente successiva all’annuncio della morte di Rangda. A togliersi la vita furono i suoi sostenitori più irriducibili, che non si rassegnavano alla sconfitta del loro idolo. Alcuni erano Pacificatori, ma la maggior parte erano civili, principalmente attivisti politici ed esponenti della Gioventù Rangdiana. Quando lasciavano dei messaggi, la spiegazione del loro gesto era sempre la stessa: «Non ha senso vivere in una Galassia senza Rangda». I commentatori più cinici dissero che era la spazzatura che si buttava da sola. Ma come tutti i fanatici, anche i sostenitori di Rangda difficilmente se ne andavano soli. Quando potevano, infatti, trascinavano con sé i propri parenti, in particolare i figli piccoli, nella malsana volontà di “proteggerli” da fantomatici nemici. Intere famiglie furono ritrovate morte in casa per questa ragione. Una seconda ondata di suicidi fece seguito alla Tregua di Bajor e una terza agli Accordi di Pace. Il bilancio finale di questa follia collettiva non fu mai divulgato, ma correva voce che fossero cifre da capogiro.
   Il culto della personalità sorto intorno a Rangda pesò anche in altri modi. Sugli stessi pianeti, a volte persino nelle stesse città, c’era chi ne distruggeva le effigi e chi al contrario le custodiva come preziose reliquie. Fecero molto scalpore le riprese che giungevano dai mondi più superstiziosi, dove folle immense si prostravano innanzi alle statue di Rangda, invocandola come «l’Eletta che tornerà a salvarci dai demoni Umani». La Federazione mise fuorilegge queste sette e allora esse prosperarono in clandestinità, sviluppando rituali elaborati e spesso cruenti.
   Nel frattempo il resto della società percorreva il cammino accidentato della pace. Subito dopo la firma degli Accordi si tennero le elezioni presidenziali, le prime dalla caduta di Rangda. Il clima politico, inutile dirlo, era ancora incandescente. Gli estimatori dell’Ammiraglio Chase vedevano di buon occhio la sua candidatura, pensando che sarebbe stato un Presidente di polso. Ma l’ormai ottantacinquenne Umano stupì tutti, rifiutando la candidatura e anzi annunciando le sue dimissioni dalla Flotta Stellare.
   «Per sessant’anni ho servito la Flotta, al meglio delle mie possibilità» disse Chase nel discorso d’addio. «Sono stato Capitano dell’Enterprise durante la Guerra delle Anomalie, poi Ammiraglio di Flotta in questa Guerra Civile. Le circostanze mi hanno sovente costretto a prendere decisioni difficili e controverse, col risultato che ora la mia figura è polarizzante. Non è ciò di cui la Federazione ha bisogno, in questa delicata fase di ricomposizione politica. Per questo motivo, e anche per l’età che avanza, credo sia giunta l’ora di farmi da parte.
   Spero solo che quanti mi ascoltano capiscano questo: non ho mai mirato al potere personale, come affermano i miei detrattori. Se le mie azioni finora non vi hanno convinti di questo, allora vi convincerà la mia rinuncia a qualunque ulteriore incarico. D’ora in poi intendo ritirarmi a vita privata. Addio, e mi raccomando: ora tocca a voi conservare in pace ciò che abbiamo difeso in guerra. Non deludete chi guarda a voi con speranza!».
   Anche se Chase non ne aveva fatto parola, molti interpretarono il suo gesto come una conseguenza della morte di Jaylah, annunciata all’indomani dell’ultima Battaglia della Terra. In fondo era comprensibile che il vecchio Ammiraglio fosse stanco di stare al centro dell’attenzione e non volesse più occuparsi delle conseguenze di quel conflitto che lo aveva privato dell’unica figlia. Passato il primo attimo di sorpresa, quindi, la sua scelta di ritiro fu accettata senza che destasse sospetti. Sua moglie Neelah continuò invece a dirigere il Comando Medico della Flotta Stellare, anche se forse non l’avrebbe fatto per molti anni ancora. Anche l’Aenar fu sempre riservata per quanto concerneva la figlia: sul lavoro non ne parlava e non volle mai concedere interviste. Si supponeva che il dolore fosse troppo lancinante per rivangarlo. Ma la realtà era ben diversa, perché Neelah era informata della vera sorte di Jaylah e Jack, e col suo silenzio contribuiva a proteggerli.
   Il discorso d’addio dell’Ammiraglio circolò sull’Olonet anche quando la campagna elettorale fu in corso e contribuì a stemperare gli animi. I candidati infatti dovevano ammettere di aver beneficiato della rinuncia di Chase e impegnarsi, almeno a parole, a rispettare la sua esortazione. Anche così, il clima elettorale fu teso. In conseguenza degli Accordi di Pace, il Partito Abolizionista di Rangda era stato dichiarato fuorilegge. I suoi affiliati allora gli cambiarono nome e si presentarono alle elezioni con un programma pressoché identico al precedente. Dopo una lotta all’ultimo voto vinse l’altro schieramento, capeggiato dal romulano Irek, che era stato Ministro della Difesa federale durante il conflitto. Il suo discorso inaugurale fu, ancora una volta, un invito all’unità e al superamento delle contese.
   «Non vi chiedo di dimenticare, perché non sarebbe giusto nei confronti delle vittime. Nessuno potrà mai scordare ciò che ci ha contrapposti in questi anni» disse il nuovo Presidente. «Vi chiedo però di guardare al futuro. Dobbiamo ripartire dalle basi per riedificare una coscienza civica. Dobbiamo imparare daccapo che tutte le specie hanno pari dignità e che nessuna dev’essere colpevolizzata per sfogare i malesseri della società. È questa la frontiera che conoscevamo, che abbiamo dimenticato e che ora dobbiamo riscoprire insieme. Che la Guerra Civile ci faccia da monito: quando il dialogo e la comprensione falliscono, allora comincia l’orrore. Abbiamo il dovere di non fallire ancora». Chi era in grado di capire, capì; gli altri non l’avrebbero compreso mai.
 
   Nello sforzo di ricomposizione politica, molti burocrati e funzionari dell’Unione furono reintegrati nella Federazione. Allo stesso modo, quei Pacificatori che avevano cambiato schieramento nelle ultime battaglie poterono rientrare nella Flotta Stellare. Questo creò malcontenti, poiché si aveva l’impressione che i nemici l’avessero fatta franca. A chi aveva sempre servito nella Flotta, in particolare, riusciva difficile prendere ordini da ex Pacificatori di grado più elevato, quasi che fossero stati loro a vincere.
   Per impedire che i criminali di guerra sfuggissero effettivamente alla giustizia, le autorità federali aprirono il Tribunale di Narendra, in cui si giudicavano i crimini compiuti dai Pacificatori. Questo tribunale permanente restò attivo per oltre un secolo. Molti colpevoli si dettero alla macchia su mondi lontani e furono quindi condannati in contumacia. Per stanarli, la Flotta Stellare creò l’Hunter Squadron, un corpo di agenti scelti. Il primo direttore fu Norrin, che aveva una notevole esperienza di segugio. Negli anni successivi, i suoi agenti percorsero in lungo e in largo la Galassia, assicurando i criminali di guerra alla giustizia.
   Una volta che i Pacificatori giungevano nell’aula del tribunale e ascoltavano i capi d’accusa, i loro atteggiamenti erano assai variegati. Alcuni non riconobbero nemmeno l’autorità del tribunale, accusandolo d’essere uno «strumento di persecuzione politica al servizio degli Umani». Altri, pur sottostando al processo, rifiutarono di ammettere le proprie colpe, o negando in toto che i crimini fossero mai avvenuti, o addossandoli ad altri. Costoro accusavano solitamente la Catena Cremisi, che in effetti non era certo innocente, tanto che parecchi dei suoi affiliati furono processati dallo stesso tribunale. Tra i Pacificatori ci fu naturalmente chi si giustificò asserendo di aver «solo obbedito agli ordini», senza farsi domande né avendo un quadro completo di ciò che accadeva. Più inquietanti furono coloro che, appartenendo a specie razionali come i Vulcaniani, affermarono che era stata la logica a guidarli. Fortunatamente il Tribunale di Narendra fu abbastanza irrazionale da condannarli lo stesso. Ancora più sconfortanti furono coloro che asserirono di aver «seguito la coscienza», in quanto accanirsi contro gli Umani e/o gli oppositori politici era «la cosa giusta da fare». Questi paladini dell’etica rivendicavano con orgoglio le loro azioni, pur sapendo che per esse sarebbero stati condannati. Alcuni in effetti si presentarono deliberatamente come dei martiri del progresso. Il direttore di uno dei maggiori Centri di Rieducazione, quello di Peliar Zel, affermò che «oggi ci condannate, ma un domani ammetterete che avevamo ragione a proteggere l’Unione dalle forze eversive».
   Tali comportamenti dettero molta materia di studio agli psicologi e ai sociologi federali, nei decenni a seguire. La conclusione alla quale pervennero fu che la disponibilità a infliggere dolore gratuito – un tempo nota come “cattiveria” – è completamente indipendente da qualunque altro fattore psicologico, incluse l’intelligenza, l’istruzione e la razionalità. E di conseguenza, non può essere prevista da alcun modello matematico. Solo la prova dei fatti rivela la natura degli individui, al di là dei loro proclami e dell’idea che hanno di se stessi.
   Grazie agli archivi militari dei Pacificatori e alle testimonianze delle vittime superstiti, la maggior parte degli indagati fu riconosciuta colpevole e condannata. Il Tribunale di Narendra non poteva comminare la pena capitale, nuovamente abolita dalla Federazione; ma fioccarono gli ergastoli. Come al solito infuriarono i dibattiti tra chi lo riteneva troppo severo e chi troppo indulgente. Quale che fosse la verità, la Federazione ne fece un simbolo del nuovo corso legale.
 
   Il nuovo assetto della Flotta Stellare si riverberò persino sullo stile delle uniformi. Queste infatti furono ridisegnate: adesso avevano una banda obliqua sulle spalle, come a rappresentare un compromesso tra quella orizzontale della Flotta e quella verticale dei Pacificatori. Anche i comunicatori-mostrine furono modificati. Se quelli della Flotta avevano la tradizionale forma a delta (o come dicevano alcuni a “punta di freccia”), mentre quelli dei Pacificatori erano simili ma rovesciati, i comunicatori della Flotta riunificata erano inclinati di lato. Al delta di colore dorato fu inoltre saldato un secondo elemento quadrangolare color argento, così che il comunicatore nel suo insieme aveva la forma di un rombo. Nello spazio aggiuntivo così ottenuto furono inserite nuove funzionalità.
   Nel frattempo i cantieri spaziali lavoravano a pieno ritmo alla costruzione di nuovi vascelli, che rimpiazzassero quelli distrutti in guerra. Molti di essi appartenevano alle classi Horus e Juggernaut, che avevano dato buona prova di sé in battaglia. Furono anche commissionate alcune astronavi dell’ormai affermata classe Universe. Allo stesso modo, l’Accademia varò una nuova campagna d’arruolamento per compensare la carenza d’organico. Fu così che la gente cominciò a chiedersi se la Flotta intendeva costruire una nuova ammiraglia, che prendesse il posto della Khitomer; e se come da tradizione l’avrebbe chiamata Enterprise. L’ultima nave a portare quel glorioso nome era stata l’Enterprise-J, distrutta all’inizio della Guerra Civile. La prossima Enterprise sarebbe stata quindi la K: la dodicesima del lignaggio.
   Fu il Presidente Irek in persona a fare chiarezza su questo punto: «La Flotta Stellare mi ha notificato che intende procedere al più presto alla costruzione di una nuova nave ammiraglia. Si tratterà di un vascello di classe Universe, come la precedente Enterprise-J. Desideriamo infatti che l’ammiraglia di Flotta non sia una nave da guerra, bensì un vascello diplomatico e scientifico capace d’accogliere confortevolmente i civili. Naturalmente la prossima ammiraglia sarà più sofisticata della precedente, poiché disporrà di tutte le innovazioni offerte dagli ultimi cinquant’anni di ricerca scientifica».
   Il Romulano fece una breve pausa e poi riprese con più gravità: «V’informo tuttavia che, per comune volontà della Flotta e del governo, la nuova ammiraglia non si chiamerà Enterprise. Questo nome è ancora troppo divisivo e potrebbe creare risentimenti. La nuova astronave si chiamerà pertanto USS Harmony, a esprimere la volontà di riconciliazione».
   «Il nome Enterprise... divisivo!» borbottò Chase nell’udire questa dichiarazione. «Sigh... ora ho la certezza che non vivrò abbastanza da vedere l’Enterprise-K» s’intristì.
   «Eppure ci sarà, prima o poi» lo confortò sua moglie Neelah. «Certe cose non si dimenticano. Il nome Enterprise è sempre lì che aspetta d’essere usato, e ci sono ancora tante lettere sull’alfabeto!» scherzò.
   «Sia quando sia!» sospirò l’Umano. «Noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca ad altri».
 
   Sul piano politico-militare, la fine della guerra fu accompagnata da notevoli cambiamenti nello scacchiere interstellare. La Federazione era risorta come organismo unico che, malgrado tutto, rimaneva più forte delle potenze confinanti, prese singolarmente. Fu così che i Breen e lo Stato Imperiale Romulano furono ricacciati entro i loro vecchi confini.
   I Romulani Imperiali in particolare avevano subito immani distruzioni ad opera dei Borg, prima che i Proto-Umanoidi li salvassero. Tuttavia i Progenitori non approvavano la loro politica espansionista e quindi si ritirarono immediatamente, senza offrire alcun ulteriore aiuto. Seguirono rivolte sui mondi impoveriti dello Stato Imperiale, specialmente quelli strappati alla Repubblica Romulana nella guerra-lampo del 2592. La Repubblica ne approfittò per lanciare una riconquista, sostenuta dal resto della Federazione. Con la loro flotta allo sfascio e le ribellioni interne da domare, gli Imperiali non ebbero la forza di resistere. Dapprima persero Galorndon Core, poi a cascata gli altri mondi che avevano sottratto alla Repubblica. Altri pianeti, che appartenevano allo Stato Imperiale fin dalla Guerra Civile Romulana di due secoli prima, si resero indipendenti con le loro forze e passarono alla Repubblica. Erano mondi importanti, che ospitavano le industrie e i cantieri spaziali vitali alla flotta imperiale. Il Pretore Oren promise vendetta, ma quando le ceneri delle rivolte si posarono, fu chiaro che non sarebbe riuscito a metterla in pratica. Anzi, sarebbe stato fortunato a restare in carica fino al termine del suo mandato.
   Dunque lo Stato Imperiale uscì dal conflitto assai ridotto e indebolito. Se in precedenza aveva ancora potuto condurre una politica interstellare di potenza, da quel momento in poi fu irrimediabilmente confinato in una posizione di nicchia. Chase ne parlò con Neelah e Terry, che tanti anni prima lo avevano accompagnato in una spericolata missione nel futuro, precisamente nel XXVIII secolo. In quell’occasione si erano imbattuti nei Romulani Imperiali, trovandoli sull’orlo del collasso.
   «Sembra che la Storia farà il suo corso, dopotutto» disse Chase. «Lo Stato Imperiale continuerà a ridursi nei prossimi due secoli, fino a diventare quel rimasuglio che incontrammo».
   «Già... e in quell’occasione riuscimmo a distruggere la Cripta» ricordò Neelah. «Era la sua ultima roccaforte, l’ultimo centro di ricerca. Probabilmente la sua distruzione fu... voglio dire, sarà... la spallata finale che lo farà crollare».
   «Peccato non poter vivere fino ad allora, per sincerarcene» commentò l’Umano, sfiorandosi pensoso la corta barba. Il suo sguardo indugiò su Terry.
   «Non so se vivrò così a lungo» avvertì la proiezione isomorfa. «Ci sono molte cose che possono distruggermi. Guerre, sabotaggi, incidenti, virus informatici...».
   «Beh, io ti auguro ogni bene» disse Chase. «Mi raccomando, prenditi cura di te stessa. Con un po’ di fortuna sarai lì, alla fine del XXVIII secolo, a testimoniare la definitiva caduta dello Stato Imperiale e la riunificazione dei Romulani. Sarà un evento memorabile».
   «Forse sarà un peso vivere tanto a lungo» mormorò Terry. «Come farò, quando voi...» sussurrò, ma non poté finire.
   «Non ci saremo più?» fece dolcemente Neelah. «Non addolorarti. Noi siamo soddisfatti della nostra vita. Permetti a te stessa d’esserlo della tua. E... ricordaci, cara amica».
 
   Nel processo di ricomposizione federale, uno degli scogli più difficili da superare riguardò la famigerata Prima Direttiva, ovvero la legge che vietava d’influenzare in qualunque modo lo sviluppo delle civiltà pre-curvatura. Secondo i suoi sostenitori, la Prima Direttiva era nata per scopi altruistici. In primo luogo doveva impedire gli abusi e la colonizzazione ai danni dei popoli più indifesi, come spesso avveniva nell’epoca pre-federale. Inoltre evitava che popolazioni ancora “barbare” e guerrafondaie s’impadronissero di armi assai più potenti di quelle che conoscevano, usandole con effetti devastanti sui loro simili (o per lanciarsi all’attacco di altre specie). Più sottilmente, la Prima Direttiva serviva a impedire che i popoli più antichi esercitassero una schiacciante influenza culturale sui più giovani, cancellando la loro unicità.
   A ciò i detrattori rispondevano che la Prima Direttiva era una legge opportunista che aveva trasformato la Federazione in un club per ricchi, che rifiutavano di condividere il benessere e le risorse con i meno fortunati. Tutt’attorno alla Federazione, e persino entro i suoi confini, c’erano mondi abitati da popoli pre-curvatura che ne ignoravano l’esistenza. Queste popolazioni erano costantemente piagate da calamità che la Federazione, con la sua tecnologia superiore, avrebbe potuto facilmente debellare. Invece si limitava a mandare i suoi osservatori, senza intervenire. Non era forse una colpevole omissione di soccorso? La Federazione non aveva il dovere morale d’intervenire, quando poteva?
   La risposta dei conservatori era che, almeno nel caso delle guerre tra popoli pre-curvatura, gli interventi federali avevano spesso peggiorato la situazione, dato che aiutare una fazione significava rafforzarla e quindi metterla in condizione di spazzar vie le altre. Tuttavia era molto più difficile giustificare l’inerzia contro le carestie, le epidemie e i disastri naturali. I tentativi d’invocare le “inevitabili ramificazioni della Prima Direttiva” a propria discolpa suonavano ipocriti sulla bocca di chiunque. Per la verità la Flotta Stellare aveva soccorso parecchie volte i popoli pre-curvatura, quando poteva farlo senza rivelarsi: per esempio deviando gli asteroidi in rotta di collisione con i loro pianeti. Ma quando avrebbe dovuto rivelare la propria esistenza, allora la Flotta latitava.
   Era stata l’indignazione contro questo stato di cose che aveva portato al governo il Partito Abolizionista di Rangda. La Zakdorn infatti si era subito accorta di poter usare l’entusiasmo degli attivisti a proprio vantaggio, cavalcando una nobile causa per impadronirsi del potere e demonizzare chiunque la ostacolasse. Così dalla preoccupazione per il prossimo era derivato paradossalmente il peggiore dei mali; ma ciò non inficiava le intenzioni originali degli Abolizionisti.
   Se il regime di Rangda aveva fatto qualcosa di utile, era stato proprio abolire la Prima Direttiva, così da mettere alla prova le previsioni ottimiste degli uni e pessimiste degli altri. La Direttiva era stata abolita sul finire del 2589, appena un anno prima che scoppiasse la Guerra Civile. Quasi tutti i contatti erano stati compiuti nel corso di quell’anno, perché in seguito il conflitto aveva assorbito le energie dell’Unione e la tabella di marcia era stata congelata in attesa di tempi migliori. Dunque c’era un anno di Primi Contatti da analizzare e altri quattro anni di conseguenze da studiare, per stabilire se ne era valsa la pena. Alcuni lo definirono «il più grande esperimento sociale della storia federale».
   In realtà era un esperimento che si sarebbe potuto fare assai meglio, dando alla Flotta Stellare la responsabilità dei contatti. Rangda invece aveva creato l’Ufficio di Primo Contatto, un’organizzazione parallela che rispondeva a lei sola. Allestito in fretta e furia, reclutando burocrati da altri uffici nonché volontari pieni d’entusiasmo ma non adeguatamente formati, l’UPC aveva spesso provocato disastri che la Flotta si era affannata a riparare. Anche con questi difetti strutturali, tuttavia, l’esperimento meritava un’attenta analisi.
   I risultati erano ambivalenti, perché in alcuni casi l’intervento dell’Unione aveva migliorato le condizioni di vita dei nativi, mentre in altri aveva acuito i problemi. Su Veridiano IV i federali avevano scongiurato una carestia e posto fine a un’annosa guerra tra regni. Su Nibiru tuttavia gli indigeni avevano cominciato ad adorare i “visitatori del cielo”, sacrificando giovani vergini nella speranza di affrettarne il ritorno. E su Taurus II i nativi avevano lasciato che i loro bambini fossero vaccinati, ma poi li avevano orrendamente mutilati del braccio su cui avevano ricevuto l’iniezione, per “cancellare il marchio dei demoni”.
   Studiando queste esperienze, gli antropologi federali conclusero che i popoli molto primitivi rischiavano d’essere danneggiati, più che aiutati, dalle ingerenze esterne. Per quelli più sviluppati, le cose potevano andare meglio; ma non era detto che fosse sempre così. Molto dipendeva dalla loro cultura, dai leader del momento, dagli equilibri di potere interni e da un’infinità di altri fattori, difficili da quantificare. A volte erano proprio le società industrializzate quelle più a rischio di scivolare nella paranoia, nella xenofobia e nel militarismo esasperato, non appena scoprivano d’essere circondate da potenti civiltà aliene. Emblematico era il caso degli Akaali, una civiltà in piena rivoluzione industriale: una delle loro nazioni si era impossessata di un vascello dell’Unione e lo aveva usato per bombardare dall’orbita i rivali, sterminando milioni di persone e danneggiando l’ecosistema planetario. La Keter aveva dovuto distruggere il vascello, con tutti i suoi occupanti, per impedire che continuasse il bombardamento.
   Tragedie come queste non potevano essere ignorate. Né, d’altro canto, si potevano ignorare le tragedie che il mancato intervento comportava, prime fra tutte carestie ed epidemie. Dunque l’eterna diatriba tra conservatori e Abolizionisti si riaccese. I primi argomentarono che anche i Proto-Umanoidi si astenevano dall’interferire nell’evoluzione dei loro “figli”, persino quando era a rischio la loro sopravvivenza. Gli Abolizionisti obiettarono che in certi casi i Progenitori erano intervenuti, ad esempio salvando gli antenati dei Voth dall’estinzione. E che dire dell’intervento contro i Borg, del giudizio sulla Terra e del ruolo di mediatori nei negoziati di pace? Non erano forse delle clamorose intromissioni? Se i Proto-Umanoidi facevano delle eccezioni, almeno nei casi più gravi, perché la Federazione non poteva fare altrettanto? E in ultima analisi, non era ipocrita chiedere aiuto ai più forti, ma poi negarlo ai più deboli?
   Fu così che la Federazione, che su tanti altri aspetti si era imposta all’Unione, dovette fare una concessione storica. La riforma di Rangda fu revocata, per evitare tragedie come quella di Akaali; ma la Prima Direttiva fu resa più flessibile. D’ora in poi la Federazione avrebbe contattato le specie che studiavano lo spazio (con sonde, telescopi e segnali radio) in cerca di vita extraterrestre, senza aspettare che mettessero a punto il motore a curvatura. Tuttavia il Primo Contatto doveva essere ugualmente preceduto da una fase di studio, per stabilire se le conseguenze potevano essere più deleterie che benefiche. Una società militarista, ad esempio, ben difficilmente sarebbe stata contattata e men che meno avrebbe ricevuto tecnologie pericolose. Dunque la Federazione avrebbe condotto interventi personalizzati in base alle esigenze e alle peculiarità di ciascun popolo. Al tempo stesso si sarebbe impegnata a proteggere le società pre-curvatura dalle aggressioni di potenze conquistatrici come i Breen e i Romulani Imperiali.
   Restava da decidere quale organizzazione si sarebbe occupata di tutto ciò. Dopo roventi discussioni si stabilì che il compito spettava alla Flotta Stellare, il cui personale era maggiormente qualificato. Di conseguenza l’Ufficio di Primo Contatto fu sciolto, al pari dell’Ufficio di Salute Pubblica e degli altri dipartimenti creati da Rangda. I loro addetti furono sottoposti a un severo scrutinio: quelli adeguatamente preparati furono integrati nella Flotta, gli altri dovettero lasciare il posto. La Flotta stessa ricevette di nuovo risorse e finanziamenti adeguati agli ardui compiti che le erano affidati.
   Questa decisione storica fu accolta in modo contrastante. Gli estremisti la avversarono per ragioni opposte: gli Abolizionisti la consideravano un passo indietro rispetto alla riforma di Rangda, i conservatori la ritenevano ancora troppo permissiva. Solo i moderati d’ambo gli schieramenti furono soddisfatti. Fece scalpore il fatto che l’ex Ammiraglio Chase, finora considerato un rigorista della Prima Direttiva, esprimesse un cauto ottimismo sull’intesa.
   Anche gli ufficiali della Keter, parlandone tra loro, conclusero che valeva la pena tentare questa via di mezzo. Vrel in particolare l’aveva auspicata fin dai tempi dell’Accademia, per cui ne fu soddisfatto. La discussione fu tuttavia agrodolce, perché gli ricordava i lunghi e infuocati bisticci avuti con Lyra, che era sempre stata fautrice della completa liberalizzazione dei contatti. «Magari, se fosse vissuta più a lungo, si sarebbe moderata anche su questo» si disse il mezzo Xindi; ma era impossibile da verificare.
 
   A partire dalla Tregua, e ancor più dopo gli Accordi di Pace, la Federazione intervenne sulla Terra. C’erano voluti mesi perché la Flotta Stellare riportasse una parvenza di normalità sul pianeta. Ora finalmente i Terrestri che erano stati deportati potevano fare ritorno, anche se non sarebbe stata una faccenda breve. I Voth avevano trasferito miliardi di persone sulle loro immense navi, nell’arco di tre anni. Alla Flotta occorreva molto più tempo per riportarle indietro. Secondo le prime stime, sarebbero serviti almeno dieci anni. Accelerare i tempi non era consigliabile. Tutte quelle persone infatti dovevano essere alloggiate, ma nella maggior parte dei casi le loro abitazioni erano state distrutte dai Voth. Bisognava pertanto ricostruirle, dopo aver smantellato le colonie dei sauri; e questo avrebbe richiesto molto tempo.
   Vi era tuttavia un problema ancora più urgente dei rimpatri: la sterilità che colpiva gli Umani usciti dai Centri di Rieducazione. Ora che il conflitto era finito, anche le sterilizzazioni erano cessate; ma il danno era immenso. Se non si fosse trovato il rimedio, le stime prevedevano un crollo demografico del 50% della specie umana nell’arco della prossima generazione.
   Ancora una volta furono i Proto-Umanoidi a venire in aiuto, forti delle loro sterminate conoscenze genetiche, che nell’arco degli eoni gli avevano permesso d’indirizzare l’evoluzione verso forme simili alla loro. A causa di questa consolidata tradizione, i Progenitori trovavano particolarmente abietto il trattamento riservato agli Umani; così collaborarono con i medici federali. Un’equipe congiunta, comprendente la dottoressa Mol della Keter, si costituì all’indomani della Battaglia della Terra. La squadra lavorò per altri sei mesi al problema, che era di una complessità inaudita: persino i Proto-Umanoidi lo ammisero. Dovettero richiamare i loro migliori esperti da Andromeda, ma finalmente misero a punto una cura, peraltro facile da somministrare. Nella sua forma finale era un’iniezione ipodermica che rilasciava naniti i quali, una volta riparato il danno genetico, si autodistruggevano senza lasciare traccia.
   In tal modo il tracollo demografico degli Umani fu ridotto, anche se non annullato, poiché molti avevano sviluppato una tale sfiducia nella scienza medica da rifiutare scioccamente la cura, una volta che questa fu disponibile. Le esortazioni dei Proto-Umanoidi a curarsi convinsero gli indecisi, non certo quelli che avevano deciso in partenza di non fidarsi. Fu così che chi si fidava della medicina guarì, mentre gli altri si auto-eliminarono dall’evoluzione; ma dovettero passare decenni prima che la cosa divenisse evidente. La direzione del programma di cure fu affidata a Ladya, che era stata la prima a diagnosticare il problema e aveva collaborato coi Progenitori per risolverlo.
   Dopo aver reso quest’ultimo servigio, i Proto-Umanoidi esortarono ancora una volta i loro “figli” a coesistere in pace; infine tornarono ad Andromeda. Lasciarono tuttavia un’ambasciata presso la Federazione e alcune navi di pattuglia, per essere avvertiti nel caso che i Voth venissero meno alla parola data. Decisero inoltre di non ricreare la Barriera Galattica, che a conti fatti si era rivelata più deleteria che altro, poiché impediva il passaggio proprio a coloro che più necessitavano d’aiuto. I suoi effetti sulle facoltà ESP degli umanoidi, inoltre, superavano ampiamente le originali intenzioni dei Progenitori. Anziché favorire l’evoluzione, la Barriera provocava divisioni e conflitti; dunque non fu risollevata. D’ora in poi i popoli della Via Lattea avrebbero potuto uscire liberamente, avviando una nuova era d’esplorazione dell’Universo.
 
   Con i Proto-Umanoidi se ne andarono anche i Kelvani. Quegli alieni tenaci avevano riparato la propria nave in breve tempo e poi, con l’aiuto della Keter, avevano liberato Kelva II, la loro colonia nella Via Lattea. Fanior poté così rivedere la sua città natale e incontrare coloro che lo ricordavano, aggiornandoli sui progressi del loro popolo. Dopo aver preso accordi per mantenere i contatti, tuttavia, lui e i suoi dovettero tornare ad Andromeda.
   L’appena promosso Ammiraglio Hod li accompagnò con la Keter fino a Kelva Primo, dove prese in custodia ciò che restava dell’equipaggio dello Spettro. Se i corsari non si fossero ammutinati contro i federali avrebbero senz’altro goduto dell’amnistia, ma stando così le cose, li attendeva una pena detentiva. Quando i prigionieri le chiesero che ne era stato dello Spettro, Hod fornì la versione ufficiale: lui e l’Esecutore si erano uccisi a vicenda nei sotterranei di Nuova Berlino. Allo stesso modo, interrogata sulla Banshee, affermò che era perita nell’esplosione del Moloch. Dopo un ultimo saluto ai Kelvani, l’Elaysiana risalì sulla Keter e con essa tornò alla Federazione.
 
   La lotta contro la sterilità non fu l’ultimo strascico della Guerra Civile. Un altro danno, ancor più irreversibile, erano le spaventose distruzioni toccate al patrimonio culturale, non solo sulla Terra, ma anche sugli altri mondi. Rangda infatti aveva ordinato la sistematica distruzione di tutta l’arte, la letteratura e la musica giudicate politicamente scorrette. I database informatici, cancellati nell’Unione, si erano fortunatamente conservati nei mondi “ribelli” della Federazione; ma per i reperti materiali non c’era nulla da fare. Gran parte del patrimonio antecedente la nascita dell’originale Federazione – metà XXII secolo – era perso per sempre. Nel caso dei monumenti più famosi si propose di ricostruirli, basandosi sulle scansioni degli originali; ma sarebbero state pur sempre delle copie, per quanto ben eseguite.
   Con il passare del tempo, tuttavia, la Flotta Stellare e le forze dell’ordine locali scoprirono che una considerevole percentuale delle opere date per distrutte non lo erano affatto. Alcune erano state nascoste dai loro possessori, che adesso osavano esporle di nuovo. Altre erano state requisite dai Pacificatori, nell’attesa di un giudizio, e si trovavano ancora ammucchiate nei depositi governativi. Queste furono rapidamente identificate e ricollocate al loro posto, o restituite ai legittimi proprietari. Ma un’enorme quantità di beni culturali, che si credevano già distrutti, erano stati in realtà nascosti in depositi segreti o venduti al mercato nero. Erano questi che dovevano essere rintracciati, prima che finissero in mano a collezionisti privati o che si deteriorassero per l’incuria.
   Si trattava di un compito immane, per il quale fu creato un ufficio governativo apposito, facente capo al Ministero dei Beni Culturali. Si discusse molto su chi dovesse dirigerlo. Tutti i mondi che avevano subito danni al patrimonio culturale presentarono un candidato, sebbene fosse evidente che nessuno aveva sofferto quanto la Terra. A detta di molti, la scelta finale fu dovuta a indebite pressioni della Flotta Stellare, in particolare dell’Ammiraglio Hod. E la scelta ricadde su Juri Smirnov, uno dei personaggi più controversi del conflitto, accusato di spionaggio e persino di pirateria temporale; ma lui rifiutò sempre di discutere questi aspetti del suo passato.
   Sotto la direzione del dottor Smirnov, l’Ufficio Ripristino Beni Culturali registrò notevoli successi nel recupero del materiale trafugato. Molti musei e aree archeologiche poterono così riaprire al pubblico. In altri casi, i monumenti distrutti furono sostituiti da copie olografiche, mentre si valutava la possibilità di ricostruirli con materiali simili agli originali. In collaborazione con altri ministeri, inoltre, Smirnov favorì la libera circolazione e la conoscenza di altri aspetti della cultura umana – letteratura, musica, moda, gastronomia – che erano stati banditi dal precedente regime. Cadde così l’insulsa idea che gli Umani “non avessero una propria cultura” e si limitassero ad appropriarsi indebitamente di quelle altrui.
 
   Un altro mondo che necessitò di forti interventi riparatori fu Trill, dato che i Pacificatori avevano cacciato i Simbionti fin quasi all’estinzione, nel tentativo di cancellare la memoria storica. Le Caverne di Mak’ala, il loro habitat naturale, erano state prosciugate per far estinguere gli esemplari che vivevano in libertà. Quanto ai Simbionti già uniti ai Trill, erano stati asportati chirurgicamente e poi uccisi, con gravissime ripercussioni sulla salute degli Ospiti. I Pacificatori si erano accaniti in particolare sui Simbionti più anziani, quelli cioè che custodivano le memorie più antiche e più variegate. Questo, purtroppo, era un danno senza rimedio.
   Fortunatamente una considerevole quantità di Simbionti giovani era stata contrabbandata da Trill, prima di cadere nelle grinfie dei Pacificatori. I ribelli li avevano custoditi nei loro rifugi, in attesa di tempi migliori, e in tal modo avevano preservato la specie dall’estinzione. Ora la Commissione Simbiosi, abolita da Rangda, fu ricostituita e le creature vennero rimpatriate. Il loro habitat nelle Caverne di Mak’ala fu rapidamente ripristinato e i giovani Simbionti furono riversati nelle pozze lattiginose. La Commissione stabilì che vi rimassero, senza essere uniti ad alcun Ospite, per una quindicina d’anni, allo scopo di favorirne la riproduzione e il ripopolamento. Solo quando il loro numero fosse risalito oltre una certa soglia di sicurezza sarebbe stato possibile riprendere le simbiosi. Nel frattempo, comunque, la loro fisiologia e la loro storia sarebbero state materie di studio fra i Trill, così che allo scadere del tempo ci fosse una generazione adeguatamente preparata alla simbiosi.
 
   Ora che molto era stato fatto, restava un ultimo nodo da sciogliere; e riguardava ancora una volta lo status della Terra. Parecchi pianeti, in particolare quelli appartenuti all’Unione, erano ancora insoddisfatti della sua prerogativa di capitale. Fu ben presto chiaro che, se non si fosse affrontato il problema, la Federazione non si sarebbe mai veramente riappacificata. Peraltro i sondaggi indicavano che i Terrestri stessi non desideravano più che il loro mondo fosse la capitale, poiché ritenevano che questo li avesse esposti ad assalti e contese. Troppe volte i nemici della Federazione o dell’Unione avevano puntato alla Terra, nel tentativo di colpire l’intera compagine di mondi. Il più delle volte il pianeta l’aveva scampata per un soffio, ma in certi casi i danni erano stati devastanti. Così ormai prevaleva l’opinione che i rischi sopravanzassero i benefici.
   Nel ritrovato spirito democratico, la questione fu risolta con un referendum a cui parteciparono tutti i cittadini federali. La votazione si tenne sul finire del 2594 e il risultato non dette adito a dubbi. Uno schiacciante 87,5% dei votanti chiedeva che la capitale fosse spostata.
   Questo naturalmente aprì un vaso di Pandora, perché si doveva decidere la nuova collocazione. Sulle prime le autorità temettero che troppi mondi si candidassero al ruolo; ma dovettero ben presto ricredersi. I ripetuti attacchi subiti dai Terrestri avevano insegnato la lezione anche agli altri popoli. Nessuno voleva rischiare d’essere distrutto, occupato o assimilato. Di conseguenza i mondi federali cercavano di sottrarsi alla nomination, più che di ottenerla.
   Fu quindi proposto Memory Alpha, il planetoide dove già si trovavano le strutture chiave dell’Olonet, del Federal News e dell’Enciclopedia federale. I fautori sostenevano che fosse perfetto, perché pur ospitando queste infrastrutture aveva una popolazione civile assai ridotta, che poteva essere evacuata rapidamente in caso d’emergenza. I detrattori obiettarono che Memory Alpha era comunque assai vicino al sistema solare. Piuttosto che andare su quel planetoide, tanto valeva che i leader della Federazione restassero sulla Terra, che almeno era attrezzata a sopportare un assedio.
   Al culmine delle discussioni, l’ambasciatore vulcaniano fece una proposta che lasciò i senatori di stucco, ma che una volta meditata incontrò un crescente favore, anche da parte dei cittadini. Se ogni pianeta designato a capitale si sarebbe attirato l’invidia degli altri, ma anche il rancore dei nemici, tanto da rischiare la distruzione, allora la soluzione più logica era che la capitale non si trovasse su un pianeta, bensì su una stazione spaziale. Così avrebbe ospitato solo il personale essenziale e in caso d’emergenza sarebbe stata prontamente evacuata. Una flottiglia d’astronavi avrebbe vigilato sulla sua sicurezza.
   La proposta era seducente e risolveva molti dei problemi che fino ad allora avevano avvelenato il dibattito. Porre la capitale su una stazione significava evitare i favoritismi e le conseguenti ripicche. Nessuna specie sarebbe stata più accusata di avere benefici immeritati e di condizionare la politica federale, com’era successo finora agli Umani. E la stazione poteva essere collocata in una zona di spazio relativamente lontana da mondi abitati, o persino in un luogo segreto. Questa prospettiva piacque così tanto che i tempi della votazione al Senato furono accelerati.
   Nel novembre 2594, con un eccezionale voto bipartisan, fu sancito che Federazione e Flotta Stellare avrebbero avuto un nuovo Quartier Generale, fluttuante nello spazio. Questioni fondamentali come le sue dimensioni, la conformazione, le difese e la collocazione erano ancora tutte da decidere. Alcune idee comunque si fecero strada, come quella di occultare il Quartier Generale e persino d’equipaggiarlo con nucleo e gondole quantiche per permettergli di spostarsi in caso di necessità. Questo lo avrebbe reso più simile a un grande vascello che a una stazione spaziale. Anche se pochi lo ammisero, l’esempio a cui tutti pensavano era la Nave Città dei Voth, che in effetti costituiva un’ammirevole sintesi di funzionalità.
   Il progetto era ambizioso, le sfide tecnologiche enormi; per affrontarle servivano i migliori cervelli federali. Così gli ufficiali della Keter non furono sorpresi di sapere che il loro Ingegnere Capo, la 76ª Distillazione di Blu – Dib per gli amici – era stato designato per dirigere la squadra. Il lavoro esigeva il suo trasferimento nel centro di ricerca di Utopia Planitia, su Marte. Sarebbero indubbiamente serviti anni per progettare l’innovativo Quartier Generale e decenni per costruirlo. Nel frattempo la capitale sarebbe rimasta sulla Terra, dove c’erano già le strutture necessarie, anche se l’ipotesi di un trasferimento temporaneo a Memory Alpha non fu scartata. Fu così che la Keter perse un altro dei suoi storici ufficiali, che se ne andò con la stessa discrezione con cui era arrivato.
 
   Ora che la situazione era ragionevolmente tranquilla, la Keter fu inviata ai cantieri di Plutone, dov’era stata costruita, per essere sottoposta a un ciclo di riparazioni e aggiornamenti. Gran parte del vecchio equipaggio se n’era già andato per godersi una lunga e meritata licenza, dopo la quale sarebbe passato ai nuovi incarichi. Ora anche gli ultimi ufficiali lasciarono la nave su cui avevano trascorso dieci memorabili anni. Al termine dei lavori, un nuovo equipaggio avrebbe ereditato il vascello.
   Fu in quest’occasione che Terry si dimise per la seconda volta dalla Flotta Stellare, cosa che comportava la sua disconnessione dall’astronave. Lo aveva già fatto anni prima con l’Enterprise-J, pensando che fosse una scelta definitiva; ma l’inaspettato scoppio della Guerra Civile l’aveva costretta a riprendere servizio. Ora che l’emergenza era finita, la proiezione isomorfa poteva nuovamente sperare in un’esistenza tranquilla. L’Istituto Daystrom era sempre lì che l’aspettava, con le sue ricerche nei campi dell’informatica, della robotica e dell’olografia. E c’erano parecchi altri progetti a cui un’Intelligenza Artificiale poteva dedicarsi, ora che era padrona di se stessa. Ma prima di tuffarsi nel lavoro, Terry volle sperimentare un’altra geniale invenzione degli Organici: anche lei, per una buona volta, se ne andò in vacanza.
 
   L’anno stava ormai finendo, sotto auspici assai migliori di quand’era cominciato. La Federazione era di nuovo unita, grandi riforme erano avviate e la ricostruzione procedeva ovunque. Ma un’ultima sorpresa attendeva la Terra.
   Tutto cominciò con un preallarme: i sensori alla periferia del sistema solare avevano rilevato tracce di transcurvatura in avvicinamento. Non erano i Borg, ma erano quasi altrettanto sgraditi. Ancora una volta le difese furono mobilitate: lo Scudo Planetario avvolse la Terra, le piattaforme orbitali si attivarono e i vascelli si posero a difesa. Di lì a poco i visitatori uscirono dalla transcurvatura: erano i Voth. Si trattava della Nave Città e di sei Navi Bastione di scorta, forse le stesse che l’avevano accompagnata durante la fuga. I sette colossali vascelli si accostarono alla Terra con gli scudi alzati, ma senza attivare le armi.
   A dirigere la difesa fu l’Ammiraglio Hod. Lo fece dalla Khitomer, perché la Keter era mezza smontata a Plutone. Sulle prime l’Elaysiana temette il peggio, ricordando la Caduta della Terra; ma si fece coraggio pensando che le circostanze erano assai mutate, a vantaggio della Flotta Stellare. Dispose al meglio le sue forze, sperando che bastassero in caso di scontro, e ordinò di chiamare i sauri.
   «Non credevo di rivedervi» disse sdegnosa, non appena fu aperto il canale. «Se pensate ancora di accampare diritti sulla Terra, v’illudete. Siamo pronti a difenderla come non mai, e stavolta non c’è Rangda a tradirci. Peraltro i Progenitori si sono impegnati a garantire che il pianeta resti a noi. Se oserete attaccarci di nuovo, stavolta la guerra vi raggiungerà a casa vostra!» minacciò. Era un discorso insolitamente aggressivo per la Flotta Stellare, ma giustificato dai trascorsi.
   «Non sparate, per carità!» gemette uno dei sauri, facendosi avanti. Aveva un viso stranamente familiare. L’Ammiraglio Hod lo osservò per qualche secondo, frugando nella memoria.
   «Dottor Lambeos!» esclamò quando lo riconobbe. Era il biologo molecolare che quattro anni prima aveva confermato l’origine terrestre dei Voth, innescando il conflitto.
   «Proprio io!» confermò lo scienziato. «Se ricorda, avevo promesso che avrei cercato di fare ammenda per le sciagurate conseguenze della mia scoperta».
   «Lo ricordo eccome» confermò l’Elaysiana. «Ma non pensavo che avrei atteso tanto per rivederla».
   «Il mio popolo non cambia facilmente idea» sospirò Lambeos. «In questi anni ho cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vostra causa, il che mi ha attirato non pochi nemici. Noi Conciliatori eravamo marginalizzati... ma un anno fa è cambiato tutto!». Le sue scaglie trascolorarono per l’agitazione. «Il Cancelliere Shantu è tornato con la coda fra le gambe e la flotta a pezzi. Lui e gli altri superstiti hanno dovuto ammettere cos’era successo coi Borg e i Proto-Umanoidi. Ah, se sapesse... mai prima d’ora ci eravamo sentiti così fragili!» gemette il sauro. «È stato come se d’un tratto la corazza del nostro orgoglio ci fosse strappata. Abbiamo perso il primato... no, peggio: abbiamo capito di averlo già perso da un pezzo».
   «Riconoscere il problema è un inizio» disse Hod. «Che conseguenze ci sono state, a livello politico?».
   «Un terremoto! L’Assemblea degli Anziani ha preteso le immediate dimissioni di Shantu. Sa da quant’era che un Cancelliere in carica non si dimetteva prima dello scadere del suo mandato? Tremila anni!» rivelò Lambeos, sempre agitato. «Per gli Interventisti è stato un colpo durissimo. Ora siamo noi Conciliatori ad avere la maggioranza all’Assemblea. Capitano Hod... mi correggo, Ammiraglio... le presento il Cancelliere Towt!». Con queste parole Lambeos si fece da parte, permettendo al nuovo leader di entrare nell’inquadratura.
   «I miei rispetti, Ammiraglio» esordì Towt. «Anche se non ci siamo mai incontrati, è un po’ come se la conoscessi. Il dottor Lambeos mi ha parlato assiduamente di lei, in questi anni. Diceva che sarebbe stata la sua nave a fare la differenza... e aveva ragione! Purtroppo il conflitto è stato peggiore di quanto chiunque prevedesse» si adombrò.
   «Una ragione in più per riscoprire il valore della diplomazia» convenne Hod. «Cancelliere, mi congratulo per la sua elezione, ma devo chiederle la ragione della sua visita».
   «Non sono qui per reclamare il Mondo Perduto!» assicurò Towt, levando la mano in un gesto enfatico. «È solo che, all’atto della sua frettolosa partenza, il mio predecessore lasciò molte cose incompiute. Sul pianeta ci sono le nostre colonie abbandonate, che vorremmo smantellare. Inoltre è indispensabile ratificare la fine delle ostilità con un trattato di pace. Pertanto chiedo di sedere al tavolo dei negoziati con le vostre autorità. Come dicevo, sono pronto a mettere per iscritto la nostra rinuncia a Vothan. In effetti, le dico in via confidenziale che non vedo l’ora di sistemare questa faccenda, per tornare nel nostro spazio. Abbiamo dei problemi interni da risolvere».
   «In tal caso la metteremo immediatamente in collegamento con le nostre autorità» promise Hod. «Le sono riconoscente per quest’iniziativa e spero che le nostre relazioni siano normalizzate al più presto. Così finalmente vedremo realizzarsi il sogno della compianta Frola Gegen: federali e Voth che vivono in pace e con pari dignità. Però, Cancelliere, mi permetto di darle un consiglio per quando sarà ai negoziati. Quando parla del Mondo Perduto, non lo chiami Vothan, bensì Terra, perché è così che lo chiamano i suoi abitanti».
   A quelle parole le scaglie di Towt arrossirono un poco, ma il sauro si dominò. «Naturalmente, Ammiraglio» disse in tono diplomatico.
 
   Fu così che Towt scese ad Atlantide, per il momento ancora sede della Federazione e della Flotta Stellare. Le trattative furono rapide, perché entrambe le parti avevano interesse a sbrigare in fretta la faccenda. Su richiesta della Flotta, le Navi Bastione si allontanarono in via precauzionale e solo la Nave Città rimase, peraltro a una certa distanza dalla Terra. Ma i Voth erano sinceri nella loro rinuncia al pianeta e non tentarono alcun colpo di mano.
   Il 25 gennaio 2595 la Federazione e l’Autorità Voth firmarono il trattato di pace a Chicxulub, in Messico, dove milioni di anni prima era caduto il meteorite che aveva segnato il destino della Terra. La cerimonia avvenne all’aperto, davanti alle palme e a poca distanza dalla spiaggia. Per molti fu questa la vera fine del conflitto, anche perché negli stessi giorni la Federazione stava finalmente stabilizzando i propri confini, espellendo gli ultimi Breen e Romulani Imperiali.
   Il Trattato di Chicxulub sancì che i Voth riconoscevano la Terra come proprietà inalienabile dell’Umanità, rinunciando a ogni pretesa su di essa. I sauri conservarono una presenza simbolica sul pianeta, ovvero l’ambasciata ad Atlantide e un centro culturale a Chicxulub. S’impegnarono inoltre a smantellare le loro colonie, sotto la supervisione della Flotta Stellare, così che la loro tecnologia non andasse dispersa e i Terrestri potessero rientrare al più presto. In cambio ebbero il permesso di visitare la Terra come turisti, a patto di non soffermarvisi più di un mese e di non sforare un tetto massimo di centomila visitatori per volta. Queste visite però sarebbero cominciate solo dieci anni dopo, per dare il tempo ai Terrestri di rioccupare il loro pianeta, nonché per smaltire in parte i veleni della guerra. Il Trattato non prevedeva una collaborazione scientifico-militare contro i Borg, ma non la vietava nemmeno, lasciando campo aperto a futuri negoziati. Come ebbe a dire Hod, era un buon compromesso, o almeno il migliore che si potesse raggiungere al momento.
   Quando tutto fu compiuto, il Cancelliere Towt e i suoi collaboratori tornarono sulla loro nave, lasciando solo i propri ambasciatori ad Atlantide. Anche il dottor Lambeos, che aveva approfittato dell’occasione per visitare un’ultima volta la Terra, risalì con loro. La Nave Città rilasciò alcuni piccoli vascelli demolitori che aveva trasportato al suo interno, affinché provvedessero a smantellare le colonie secondo le clausole del Trattato. Dopo di che lasciò il sistema solare, riunendosi con la sua scorta, sempre sotto l’occhio vigile della Flotta Stellare. Infine le sette astronavi balzarono a transcurvatura, tornando nello spazio Voth, all’estremità più lontana del Quadrante Delta. Così, senza particolari fanfare, terminò la contesa per la Terra.
 
   Nella quiete del suo ufficio sulla Khitomer, l’Ammiraglio Hod scorreva i rapporti tattici della settimana. Le cose andavano piuttosto bene. La Defiant, di pattuglia presso il confine Breen, confermava che i freddi alieni si erano ritirati nel loro spazio. Ora che il Tunnel Spaziale si era riaperto, inoltre, era in costruzione una nuova stazione che ne avrebbe vigilato l’ingresso. Si sarebbe chiamata Deep Space Nine, in onore della sua antesignana, distrutta nella Guerra Civile. I traffici commerciali con il Quadrante Gamma erano già ricominciati, con gran beneficio di tutta la regione. I Bajoriani e gli altri rifugiati che avevano trovato scampo a New Bajor durante la guerra erano tornati a casa, tranne coloro che si erano trovati così bene da voler restare. Parecchi ardimentosi inoltre stavano attraversando il Tunnel, per sostituire coloro che avevano lasciato New Bajor, così che la colonia non si spopolasse.
   Sull’altro fronte, la Constellation e la Sha Ka Ree stavano liberando gli ultimi mondi occupati dallo Stato Imperiale Romulano, per restituirli alla Repubblica. Nella loro offensiva incontravano pochissima resistenza, data la situazione catastrofica in cui versavano gli Imperiali. Mol’Rihan, la capitale della Repubblica, era ormai al sicuro, come la maggior parte delle colonie. Anche i rapporti con i Remani, loro alleati nell’ultima parte del conflitto, restavano buoni. I Klingon, infine, confermavano che Praxis rimaneva stabile nella sua orbita.
   Un cicalino automatico segnalò che era l’ora dell’incontro. Hod interruppe subito la lettura, emozionata, e si recò in sala tattica. Gli ex colleghi della Keter erano già lì ad aspettarla. Erano tutti in olo-presenza, perché i loro incarichi li avevano portati lontano e non potevano venire di persona; ma l’Elaysiana fu soddisfatta nel vedere che non mancava nessuno.
   «Benvenuta, Ammiraglio!» salutò Norrin. Si alzò in piedi in segno di rispetto, imitato dagli altri.
   «Benvenuti a voi!» sorrise Hod. «Sono lieta di rivedervi tutti. Esattamente dieci anni fa, in questa data, c’incontrammo per la prima volta sulla Keter».
   «Sembra passato molto di più!» ammise Juri, scuotendo la testa. In effetti per lui erano undici, dato che ne aveva trascorso uno nel passato. Adesso aveva cinquantun anni e i capelli cominciavano a ingrigirsi.
   «È vero, sono stati gli anni più duri per noi e per tutta la Federazione» convenne l’Elaysiana, sedendo assieme ai colleghi. «Abbiamo faticato, abbiamo sofferto... e abbiamo perso delle persone care. Ma non è stato invano, e ora le cose sono decisamente migliorate. I rapporti che mi vengono dal fronte Breen e da quello romulano sono ottimi, la situazione si sta stabilizzando. E ho riunito nuovamente la task-force anti Borg per aggiornare i piani di difesa, alla luce degli ultimi eventi. Il Tenente Soji Asha ha convinto gli scienziati di Coppelius a collaborare con noi allo studio delle tecniche di de-assimilazione. Le loro ricerche sono promettenti. Ma non è di questo che vorrei parlare... quel che mi preme sapere è come state voi. Vi trovate bene coi nuovi incarichi?».
   Il primo a rispondere fu Norrin. «Beh, è un po’ presto per dirlo. Stiamo ancora organizzando l’Hunter Squadron per dare la caccia ai Pacificatori in fuga. È una faccenda complessa sotto il profilo giuridico. Sapete, molti di loro si sono rifugiati su mondi lontani sui quali non abbiamo giurisdizione».
   «Spero che non dovrai esporti come in passato» si preoccupò Hod.
   «Macché, è un incarico da scrivania» sospirò l’Hirogeno. «Ma cercherò di andare sul campo ogni tanto, giusto per non annoiarmi» ridacchiò. Così dicendo passò un braccio attorno alla vita di Ladya, che gli sedeva accanto. I due infatti erano realmente assieme ad Atlantide, da cui trasmettevano.
   «E lei, dottoressa?» chiese Hod. «Non passa giorno senza che senta il suo nome associato alla campagna medica. Come vanno realmente le cose?».
   «Così così» sospirò la Vidiiana. «Lavoriamo come dei matti per curare gli Umani, ma molti sono così traumatizzati che non si fidano più dei medici e non vogliono il nostro aiuto. Stiamo lanciando delle campagne di sensibilizzazione, per convincere almeno gli indecisi». Accortasi che i colleghi erano dispiaciuti, Ladya cercò di mostrarsi più ottimista. «Comunque rispetto a sei mesi fa abbiamo fatto passi da gigante e i benefici si vedono. Il tracollo demografico si è fermato e nei prossimi anni ci aspettiamo una ripresa della natalità» assicurò.
   «Mi fa piacere saperlo» disse l’Elaysiana. «E lei, Dib?».
   «Mi sono trasferito a Utopia Planitia da soli tre mesi, Ammiraglio. La mia squadra è ancora nella prima fase di progettazione del nuovo Quartier Generale» rispose il Penumbrano, come a scusarsi.
   «Ah ah, tranquillo, non le stavo chiedendo un rapporto!» rise Hod. «Volevo solo sapere se sta bene».
   «Col progetto più avveniristico della Flotta tra le mani? Certo che il nostro ingegnere sta bene!» commentò Juri, che in passato battibeccava spesso con lui, ma Hod gli fece segno di trattenersi.
   «Come il dottor Smirnov ha dedotto, trovo questo nuovo progetto intellettualmente stimolante» disse Dib. «Tradotto nei vostri termini, suppongo di poter dire che “sono felice”».
   «Wow, questa me la segno sul calendario! Trentun gennaio 2595: il signor Dib è felice!» ridacchiò Juri.
   «Ma che mi dice del suo esilio?» si preoccupò l’Ammiraglio. Ricordava che allo scoppio della Guerra Civile i Penumbrani, dichiaratisi neutrali, avevano richiamato in patria i loro simili. Dib era stato l’unico a trasgredire, restando sulla Keter, e quindi lo avevano bandito per sempre dal loro pianeta. La cosa era tanto più amara in quanto lo privava della possibilità di generare – ma il termine corretto era distillare – un erede a partire dagli idrocarburi del suo mondo natale.
   «Il problema non sussiste più, Ammiraglio. Sono stato contattato dalle autorità di Penumbra, che mi hanno comunicato la revoca dell’esilio» rispose Dib, con la tranquillità di sempre.
   «E lo dice così?! Eravamo tutti in pena per lei!» esclamò Ladya.
   «Mi spiace di avervi arrecato pena» disse il Penumbrano, che malgrado tutto restava un pesce fuor d’acqua quando si parlava d’emozioni. «Il fatto è che i miei simili sono logici, quindi hanno riconosciuto che la mia presenza sulla Keter – pur se contraria agli ordini – ha facilitato lo scioglimento del conflitto. Questo si è tradotto in un vantaggio anche per Penumbra, che è potuta uscire dall’isolamento. Da qui la revoca del bando. Ho già fatto una breve visita al mio pianeta, prima di assumere il nuovo incarico. Quando sarà il momento vi tornerò per distillare il mio erede, la 77ª Distillazione di Blu».
   «Mandaci le foto, mi raccomando!» trillò Zafreen.
   «Già, sarà la più bella massa di protoplasma che si sia mai vista» ironizzò Vrel, che le sedeva accanto. Anche loro trasmettevano dallo stesso luogo, come rivelò il fatto che l’Orioniana gli pestò il piede e lui accusò il colpo.
   «Bene, veniamo a voi» disse Hod, rivolgendosi alla coppia. «Come state?». C’era una certa apprensione nella sua voce, perché ricordava quanto la morte di Lyra avesse addolorato il mezzo Xindi. Lui e Zafreen erano stati i primi a lasciare la Keter, quando la situazione era migliorata, prendendosi una lunga licenza. L’Elaysiana aveva temuto che fossero così scossi da lasciare la Flotta Stellare.
   «Meglio» rispose però Vrel. «Abbiamo accettato le promozioni e preso servizio sulla nuova USS Providence. La nostra nave è incaricata di studiare i popoli candidati al Primo Contatto, quindi non ci annoieremo».
   «E siccome per non far fallire i Primi Contatti bisogna intendersi bene, avrò una grossa responsabilità» mormorò Zafreen, che era ancora addetta alle comunicazioni.
   «Su, su, avrai le più moderne matrici di traduzione e i migliori esperti nel tuo reparto» la confortò Vrel, prendendole le mani tra le sue. «Te la caverai a meraviglia».
   «Bene, mi congratulo con entrambi!» disse Hod. «Ora veniamo a lei, Terry. So che ha lasciato di nuovo la Flotta Stellare. È una scelta definitiva?».
   «Beh, sa... definitiva è una parola grossa per me» rispose l’IA, con un lieve sorriso. «Comunque non penso di tornare a breve. Mi ero dimessa già nove anni fa e non avrei ripreso servizio, se non fosse scoppiata la guerra. Ora che le cose si sono sistemate, sento il bisogno di riprendere da quel punto. Naturalmente questa non è una critica nei vostri confronti» disse, temendo d’essere stata troppo categorica.
   «Nessuno qui potrebbe pensar male della sua scelta» la tranquillizzò l’Ammiraglio. «Tutti dobbiamo cercare la nostra vocazione, anche quando significa esplorare nuove strade. E lei, che ha servito la Flotta per tutta la vita, merita il congedo più d’ogni altro. Ma quindi è tornata all’Istituto Daystrom?».
   «Sì» confermò la proiezione isomorfa. «Il mio mainframe è stato scollegato dalla Keter e trasferito nella sede dell’Istituto, a Okinawa. Penso che starò qui, o al limite nella succursale su Memory Alpha. Ma preferirei qui... mi piace il Giappone, e in generale la Terra».
   «Le auguro il meglio» disse Hod. «E ora tocca a te, Juri. Sei la nostra garanzia... se mai qualcuno di noi finisse nei guai con la legge, verremo da te!» scherzò.
   «Caschereste male» sospirò l’Umano. «Per adesso l’Ufficio Ripristino Beni Culturali ha a malapena il potere di rovistarvi nello scantinato. Magari se troviamo un bottone in terra ve lo possiamo riattaccare, se ci controfirmate un ordine scritto» ironizzò. «Ma col tempo spero di combinare qualcosa di utile per la povera, vecchia Terra. Ad esempio vorrei far ricostruire la Statua della Libertà a New York e quella di Cochrane a Bozeman. Per il Monte Rushmore sarà più difficile, visto che i vandali l’hanno fatto esplodere. Chissà!».
   «Il solito pessimista!» disse Hod, guardandolo con affetto. «A me risulta che stiate facendo progressi. Siete sulle tracce di molti capolavori rubati, no?».
   «Abbiamo acquisito una lista di depositi dagli archivi dell’Unione, quindi speriamo di recuperare a breve molte opere che temevamo distrutte» confermò Juri. «Ma i Pacificatori in fuga potrebbero essersene portate via parecchie, con la speranza di rivenderle. Credo che collaboreremo spesso col tuo dipartimento» si rivolse a Norrin.
   «Volentieri» annuì l’Hirogeno. «Quando si acciuffano i ladri, è un piacere recuperare anche la refurtiva».
   «Bene, bene... resti solo tu, Raav» disse l’Ammiraglio. «Finora sei stato così silenzioso! Devo preoccuparmi?».
   «No, va tutto bene» assicurò il vecchio Gorn. «Sono tornato a gestire il mio ristorante su Cestus III. Per fortuna era tutto in ordine. E mi tengo in contatto con Chase e Neelah, ora che l’Ammiraglio è andato in pensione. Stanno bene, nei limiti del possibile».
   «E che mi dici di... loro?» chiese Hod. Non osava nemmeno nominare Jaylah e Jack, perché la loro sorte doveva restare top secret e il rischio d’essere intercettati in olo-riunione era troppo alto.
   «Oh, io li conoscevo bene» disse Raav, soppesando a sua volta le parole. «Si sono battuti per ciò in cui credevano e ora sono... come dicono gli Umani... in un posto migliore. Sono certo che hanno trovato la pace».
 
   Per un po’ cadde il silenzio, perché a tutti dispiaceva di non poterli vedere nemmeno in olo-presenza. Magari gli avrebbero fatto visita di persona, quando possibile; ma sarebbe stato difficile riunirsi tutti come un tempo.
   Finalmente Vrel prese la parola: «Sapete, mi stavo chiedendo che ne sarà della Keter. Tornerà a viaggiare, vero? È troppo presto per farla diventare una nave-scuola o un museo».
   «Certo, sarà nuovamente varata a breve» garantì Hod. «Mi sono assicurata che avesse una revisione completa».
   «Ah, sono contento, anche se... un po’ mi dispiace che la nostra bella nave finisca in mano a degli sconosciuti» ammise il mezzo Xindi.
   «Quali sconosciuti? Io l’ho affidata a chi la conosce bene quanto noi!» lo sorprese l’Ammiraglio. «Se lo sono meritati, dopo tutti questi anni...».
 
   Dopo sei mesi di riparazioni, revisioni e potenziamenti, la Keter era pronta a lasciare il cantiere di Plutone. Questo nuovo varo, come il primo, avvenne lontano dalle olocamere, perché dopo l’involontaria notorietà acquisita in guerra la nave tornava a occuparsi di missioni riservate. Molte cose però erano cambiate. Il processore di Terry era stato rimosso per permetterle di lasciare la nave e al suo posto era stato installato un computer ultimo modello, ma privo d’autocoscienza. La sala macchine, l’infermeria e i laboratori erano stati aggiornati, basandosi anche sull’esperienza dell’ultimo conflitto. E l’equipaggio era stato rinnovato, al punto che non rimaneva nessuno dei vecchi ufficiali... o per meglio dire, nessuno di quelli del turno principale.
   «Capitano sul ponte!» disse il Comandante Orlon, senza l’ironia del passato, perché non era più un gioco.
   «Comodi, signori» disse Ki’Lau, facendosi avanti. La sua uniforme era quella del nuovo modello, con la banda obliqua sulla spalla; sul colletto luccicavano i gradi da Capitano. Lo Xaheano si guardò attorno, passando in rassegna gli ufficiali superiori che si erano radunati per accoglierlo. Oltre a Orlon c’era Mo’rek, l’Ufficiale Tattico; Ennil, la timoniera; Smig, l’addetta a sensori e comunicazioni; e Xandrix, l’Ingegnere Capo. Naturalmente vi era anche una serie di capi-sezione e ufficiali ausiliari, ma quei cinque lo avevano accompagnato negli anni terribili della Guerra Civile. Erano stati i suoi ufficiali superiori durante il turno di notte, spesso noioso, ma talvolta scandito da imprevedibili emergenze. Ora lo avrebbero accompagnato nel turno principale, perché erano stati tutti promossi, a riconoscimento dei loro meriti.
   «Ai colleghi degli anni passati, dico: bentornati!» salutò Ki’Lau. Passò un’occhiata commossa su di loro, soffermandosi su Ennil, che gli stava particolarmente a cuore. «A tutti gli altri do il benvenuto» aggiunse, proseguendo la rassegna. Rivolse un cenno di saluto al Medico Capo, ovvero il dottor Joe, il celebre MOE della Voyager, che già in passato aveva prestato servizio sulla Keter, durante la spericolata missione nel Quadrante Delta.
   «Siamo appena usciti da un periodo doloroso, il peggiore della storia federale, ma non ci lasceremo abbattere. Siamo qui per affermare una volta di più i valori della Federazione, per rinsaldarli giorno per giorno. La nostra nave non è come le altre e spesso si terrà in disparte, svolgendo missioni riservate; ma siamo e rimarremo sempre ufficiali della Flotta Stellare» proclamò lo Xaheano. «E ora, signori, tutti ai propri posti: si parte!».
   Gli ufficiali andarono alle loro postazioni e molti lasciarono la plancia per tornare ai propri reparti. Anche Xandrix avrebbe dovuto recarsi in sala macchine, ma si trattenne per ascoltare dal Capitano la loro prima consegna.
   «Allora, dove si va?» chiese Orlon, nel tono diretto che gli era proprio.
   «Faremo tappa a Bajor, consegnando personale tecnico e materiali per la nuova Deep Space Nine» spiegò Ki’Lau. «Dopo di che attraverseremo il Tunnel Spaziale. Andremo alla colonia New Bajor, accertandoci che tutto proceda bene. Infine ci addentreremo nel Quadrante Gamma».
   «Verso quale destinazione?» chiese Ennil.
   «È proprio questo il bello: non lo sappiamo! Sarà la prima esplorazione lanciata dalla Flotta dopo la fine della guerra» sorrise il Capitano. «Se tutto andrà bene, durerà sei mesi».
   «Ma il Dominio...» s’inquietò Smig.
   «Ci ha dato il beneplacito. Finché restiamo fuori dai suoi confini, non s’intrometterà» spiegò lo Xaheano.
   «Una missione audace!» approvò Mo’rek.
   «Sembra fantastico!» gongolò Xandrix.
   «Lo è» annuì Ki’Lau. «Naturalmente ci sono dei rischi, ma... siamo ufficiali della Flotta Stellare! L’esplorazione è il nostro mestiere». Così dicendo ammirò con trepidazione le stelle che affollavano lo schermo. «Seguiremo l’esempio di coloro che ci hanno preceduti. Esploreremo nuovi mondi... scopriremo nuove forme di vita e civiltà... arriveremo là dove nessuno è mai giunto prima. Che l’avventura abbia inizio!».
   Imbarcati i rifornimenti, la Keter lasciò il cantiere spaziale e si allontanò da Plutone a velocità impulso. Diresse la prua verso lo spazio profondo, ancora pieno di meraviglie e misteri inesplorati. Il suo deflettore brillò, proiettando il tunnel di cavitazione, e l’astronave vi balzò dentro, scomparendo in un lampo. Diretta verso la prossima frontiera. 
 

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data Stellare 2595.85
Luogo: Pollux IV
 
   La colonia su Pollux IV era piccola, ma proprio per questo era una delle più ridenti e pacifiche della Federazione. Vi erano alcuni centri abitati, poco più che villaggi, separati da campagne verdeggianti in cui sorgevano fattorie e villette sparse. Il clima era mite tutto l’anno, non c’erano predatori né popoli indigeni; solo alcune rovine classicheggianti testimoniavano il passaggio dell’entità aliena denominata Apollo. Non c’era da stupirsi che negli ultimi tempi molti cittadini federali si fossero trasferiti in quel piccolo Eden, sfuggendo ai tormenti della Galassia. Così nessuno aveva fatto particolarmente caso ai coniugi Vance.
   Erano una bella coppia, gentile con tutti anche se non particolarmente loquace. Si erano trasferiti lì poco dopo l’armistizio, acquistando una piccola fattoria immersa nel verde, a pochi passi da un placido ruscello. Lui era Umano e lei, a giudicare dall’aspetto, mezza Andoriana, ma non parlavano molto delle loro origini. Ad ogni modo erano in buoni rapporti con i proprietari delle fattorie vicine. Inoltre si recavano spesso ai villaggi, per fare acquisti o partecipare alla vita sociale, perlopiù feste paesane. Questo era più che comprensibile. Fare gli agricoltori, nella Federazione del tardo XXVI secolo, era uno dei mestieri più comodi che ci fossero. Era persino noioso, dato che il lavoro era meccanizzato e richiedeva una minima supervisione. Ma i Vance non se ne lamentavano, anzi, sembravano trarre grande piacere dalla loro vita semplice e tranquilla.
   Dopo un anno di permanenza, i vicini erano riusciti a scoprire solo due piccoli vezzi della coppia. Una era l’overbike ultimo modello, con la quale i due a volte sfrecciavano per la campagna in cerca di viste panoramiche o angolini romantici per i loro pic-nic. L’altro era lo strano rapace dal piumaggio rosso e dorato che accorreva al richiamo della signora Vance. Dopo qualche domanda, la mezza Andoriana aveva ammesso che si trattava di un falcone cestiano, specie assai difficile da addomesticare. Nei primi tempi il volatile era solo, ma poi i coniugi si erano procurati un esemplare dell’altro sesso e ora c’era un’intera nidiata sul tetto della loro fattoria. I richiami acuti risuonavano nel pergolato di rose e oltre la siepe di biancospino, fino alle sponde del vicino ruscello. A parte queste due piccole eccentricità, la coppia era tra le più ordinarie e stimate del circondario.
 
   Era una limpida e tiepida mattinata nel podere. Jack Wolff – ma ora si chiamava James Vance – si svegliò al canto dei falconi cestiani. Come talvolta accadeva, si accorse che sua moglie si era già alzata. L’Umano si vestì senza fretta e ascoltò il notiziario mentre si radeva, prima ancora di fare colazione. Si trattava dello Star Dispatch, il quotidiano Olonet che aveva sostituito il Federal News, troppo compromesso con il vecchio regime.
   «Ultime notizie dallo Star Dispatch!» disse lo speaker. «L’Ammiraglio Hod è appena rientrata dalla missione diplomatica nel Quadrante Delta con cui ha rinsaldato i legami con l’Autorità Voth. Il principale risultato dell’intesa consiste nella partnership militare per la costruzione dei Borg Killer, una nuova generazione di vascelli specializzati nel combattere la Collettività. Voci non confermate affermano che anche i Proto-Umanoidi sono coinvolti nella progettazione di questi poderosi strumenti di difesa».
   «Senti, senti...» mormorò Jack, interessato. Se fosse vissuto ancora sulla breccia, come un tempo, non avrebbe appreso questa notizia così importante dal telegiornale. Ma la sua vita era cambiata e andava bene così. Gli spiaceva solo che lui e Jaylah vedessero raramente gli amici e i parenti; ma era il prezzo da pagare per la nuova identità. Solo così potevano sfuggire alle bande di nostalgici di Rangda, ancora numerosi e agguerriti, che davano la caccia agli ex ufficiali di Flotta per ucciderli. Ma se anche qualche malintenzionato li avesse rintracciati, non erano del tutto indifesi. La Flotta Stellare aveva trasformato quella fattoria in una piccola fortezza, con sensori anti-intrusi, uno scudo che si alzava in caso di necessità e un piccolo arsenale nascosto nel seminterrato. E doveva passarne di tempo, prima che loro dimenticassero come si usavano quegli strumenti.
   Quando fu pronto, Jack imboccò fischiettando la scala e scese nella sala da pranzo. Era una camera accogliente, ben aerata e illuminata dalle grandi finestre. Jaylah Chase – ma ora si chiamava Jana Cory – era anche lei vestita e stava preparando la colazione. «Buongiorno, dormiglione!» lo accolse sorridente. C’era una particolare allegria in lei, che le illuminava il volto e la rendeva ancora più adorabile del solito.
   «Buongiorno, tesoro» rispose lui. Le si accostò, cingendole la vita, e la baciò. «Sai, mentre mi alzavo ho sentito il notiziario. C’è una grossa novità» disse.
   «Davvero? Io ne ho una più grossa» disse Jaylah, con uno strano sorriso che lui non seppe interpretare.
   «Scommettiamo?» propose Jack, intrigato.
   «Sì, scommettiamo» accettò la mezza Andoriana. «Chi perde porterà la colazione a letto all’altro per un mese».
   «Un mese intero?!» si stupì l’Umano, ma non volle tirarsi indietro. «Va bene, ci sto. Comincia tu... dimmi la tua novità».
   Jaylah lo abbracciò più stretto e lo fissò intensamente negli occhi. «Sono incinta!» rivelò, raggiante di felicità.
   Jack si prese qualche secondo per assorbire la notizia, poi fece un respiro profondo. «Okay, hai vinto» ammise.
 
 
FINE

 
La saga continua nella Fase III: Star Trek Destiny

 

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