DESIGNATED ALIEN SURVIVOR

di SamuelCostaRica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inizio ***
Capitolo 2: *** Problema ***
Capitolo 3: *** Designati ***
Capitolo 4: *** Elenco ***
Capitolo 5: *** Christofer ***
Capitolo 6: *** Progetti ***
Capitolo 7: *** Conoscere ***
Capitolo 8: *** Ingaggio ***
Capitolo 9: *** Da non credere ***
Capitolo 10: *** Sopravvissuto ***
Capitolo 11: *** Politica ***
Capitolo 12: *** Nave ***



Capitolo 1
*** Inizio ***


Inizio

(Inizio teatrale – Voci che sussurrano telepaticamente)

Prima voce femminile: Siamo soli.

Prima voce maschile: Non lo siamo.

Prima voce femminile: Lo siamo e non l’abbiamo ancora capito.

Seconda voce maschile (rivolto alla prima voce femminile): Non sai quello che dici. Non siamo soli.

Prima voce femminile: Ci siamo persi nel nulla e continuiamo ad essere in un posto sconosciuto.

Terza voce femminile: Dobbiamo rimanere calmi. Qualcuno verrà a salvarci.

Prima voce femminile: Se prima non ci trovano gli altri.

Terza voce maschile: Inutile. Siamo bloccati.

Quarta voce maschile: Non ci salverà nessuno. Siamo inutili. Siamo scappati dal nostro mondo per niente.

Prima voce maschile: Verranno. Il sistema ha inviato un segnale d’aiuto.

Prima voce femminile: Se ha inviato il codice segreto nessuno ci salverà. Ci lasceranno qui.

Coro: Se verranno le persone sbagliate, siamo morti.

Prima voce maschile: Ci salveranno.

Quarta voce maschile: E cosa abbiamo da scambiare per salvarci la vita?

Coro: Nulla.

Prima voce femminile: Appunto. Il nulla ci ha ingoiato, il nulla ci ha sputato e il nulla ci vedrà morire.

Coro: Siamo il nulla.

Prima voce maschile: Vi siete già arresi? E allora che il nulla sia.

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Capitolo 2
*** Problema ***


Inizio

Era una mattina fresca e il sole, lentamente, faceva capolino sull’orizzonte del Delaware.

La Joint Base Andrews era in fermento.

La riunione, classificata “For your eyes only”, era stata organizzata nel cargo di un C5 Galaxy, parcheggiato in un hangar dell’aeroporto.

Il muso dell’aereo fuoriusciva dall’hangar, mentre il portellone del cargo era nascosto all’interno dell’edificio.

Inoltre, per farlo entrare nell’hangar, tutti i carrelli dell’aereo erano stati posizionati nella parte più bassa a loro concessa.

I vari partecipanti alla riunione giungevano alla chetichella, su autovetture senza segni di riconoscimento, ognuno circondato dal suo entourage, mostrando i loro completi gessati, da migliaia di dollari, o le medaglie conquistate su dei campi militari virtuali.

Sulla rampa, prima di entrare nel cargo, donne e uomini si incontravano e si scambiavano i loro soliti ed inutili convenevoli.

«Buongiorno, senatore!» L’uomo, alto un metro e ottanta, impettito, con una drop militare color kaki, con tante mostrine e stelle il cui riflesso poteva, da solo, illuminare quel posto, atletico, si bloccò davanti ad un uomo di bassa statura, impedendogli il passo.

«Buongiorno, generale! Come sta?» Disse l’altro, alzando la faccia al cielo: era alto un metro e sessantacinque, grassoccio, vestito con un abito scuro di chiaro taglio americano, portava occhiali tondi e aveva uno strano taglio di capelli, quest’ultimi di color nero.

Tese la mano destra all’uomo davanti a lui, sfoggiando un anello d’oro su cui faceva bella mostra di sé una pietra rossa.

«Non male, grazie. Anche lei a questa riunione?» Il militare allungò anche lui la mano destra, impreziosita di un anello d’argento con una pietra blu.

L’onorevole non lo guardò neanche quell’anello. Ben sapeva che il tipo davanti a lui non era uno dei soliti generali o ammiragli e quell’anello era solo un altro modo per essere un palmo al di sopra di chi gli stava davanti, anche se quest’ultimo era più alto di lui.

«Più che una riunione sembra un conclave di carbonari! Luci soffuse, gente che gira senza meta… Ma cosa vogliono da noi?» Chiese il senatore.

«Non ne ho idea. Mi hanno semplicemente invitato a partecipare…» Rispose, con indifferenza, il generale.

I due uomini risero di gusto.

Il vociare era molto forte e rimbombava all’interno dell’aereo, ove le luci erano basse e parecchie sedie erano in fila, ben ordinate, in classico stile militare.

Sul fondo dell’aereo, su di un palco, anch’esso poco illuminato, un leggio e un tavolo, entrambi di metallo color grigio facevano bella mostra di sé.

Un improvviso bussare metallico sul tavolo attirò l’attenzione di tutti, tacitando il fastidioso brusio.

Le sedie si mossero velocemente, disordinatamente, formando capannelli di persone qua e là per il cargo, riunite intorno a vari capi o comandanti, a seconda che fossero civili o militari.

Sul palco apparve, in penombra, un uomo, in un magnifico Principe di Galles, ritto come un palo, alto almeno un metro e ottantacinque.

Diede un colpo di tosse, si versò, da una brocca di vetro, dell’acqua in un bicchiere alto, anch’esso di vetro, entrambi apparsi miracolosamente sul tavolo: ne bevve un po’, così, con nonchalance, e si guardò in giro, disinvoltamente, come se conoscesse tutti.

Non che la cosa fosse vera, ma a lui piacque così.

Appoggiò il bicchiere sul tavolo con un movimento calcolato, si avvicinò al leggio, provando il microfono, lì montatovi, con un colpo di tosse e, pacatamente, iniziò a parlare.

«Signore e signori, buongiorno! Siete stati riuniti per essere ragguagliati su alcune modifiche che riguardano il sopravvissuto designato!»

Mise molta enfasi nelle ultime parole e un borbottio, sommesso, si levò dalla improvvista sala delle riunioni.

Mosse la mano destra, mollemente, per far tacere le proteste che giungevano da ogni dove del cargo.

Con calma, appoggiò le mani sul grembo, la destra davanti alla sinistra, e riprese a parlare.

«Ben comprendo che, dopo tanti anni, tale designazione è diventata ormai una consuetudine, ben conosciuta tra di noi, e anche all’estero: ma tale visione del problema non è più sostenibile in questo momento! Ben avrete tutti visto i blockbuster di fantascienza e di disastri ambientali che imperversano nei siti di noleggi di film e in televisione, tanto che la questione merita di essere maggiormente discussa! La caduta di una meteora non prevista, un qualsiasi cataclisma terrestre improvviso o una improbabile invasione aliena lascerebbe gli Stati Uniti, e le nazioni democratiche e libere a noi collegate, con un vuoto di potere inaccettabile, anche solo in caso della perdita improvvisa di solo una metà del nostro governo! Inoltre, i vostri vari uffici sono stati minati, da anni, dall’invasione di donne e uomini non propriamente fedeli al nostro governo e ciò provoca una necessaria salvaguardia delle persone presenti nell’elenco dei designati!»

L’uomo aveva ottenuto l’attenzione di tutti, specialmente dopo aver fatto chiaramente capire che i ministeri e le forze militari erano pieni di spie a servizio di chiunque li pagasse: persone buone, certamente, patriottiche, ma che, se ben convinte, avrebbero volentieri passato segreti ad altri, anche solo per dimostrare che gli alleati, o similmente considerati, meritavano di veder condivise informazioni a cui non potevano o dovevano avere accesso.

L’uomo, con la massima calma, senza guardare, prese il bicchiere e, con molta enfasi, bevve ancora un po’ di acqua, poggiando il bicchiere sul tavolo, senza distogliere lo sguardo dai presenti.

«Ecco perché, dopo varie riflessioni, abbiamo deciso di sottoporvi una visione diversa del problema e una soluzione ancora… più folle e improbabile!»

La sua pausa corrispose con il silenzio che serpeggiò tra i presenti, calando, improvviso, come la lama della ghigliottina sulla testa del condannato.

«Verranno designati dieci donne e uomini, in modo paritario, ex militari, fisicamente preparati, con una visione della vita diversificata, non convenzionale, in grado di usare tutti i mezzi in dotazioni del nostro esercito e che possano, in momenti particolari, comandare, unitamente o individualmente, gruppi di persone, militari o civili, per difendere il nostro territorio!»

La voce dell’uomo era cresciuta di volume man mano che le voci di protesta dei presenti si erano alzate di tono, con molti donne e uomini, di secondaria importanza, che si erano alzati dalle sedie, alcune di queste cadute a terra, per la furia dei loro padroni, con quest’ultimi che urlavano e muovevano i pugni in modo bellicoso, mentre i loro capi sorridevano a tutto quel guazzabuglio che stava esplodendo all’interno dell’aereo.

«Bene! Vedo che, per una volta, siamo tutti d’accordo!»

La voce femminile, che improvvisamente coprì le voci che stavano sciamando come api verso l’alveare, lasciò tutti perplessi e silenziosi.

Aveva un miniabito nero, gambe lunghe, atletiche, avvolto da un collant nero, con scarpe nere dai tacchi vertiginosi, slanciata, alta come il suo collega, che affiancò immediatamente: una giacca di taglio maschile, anch’essa nera, completava il suo guardaroba.

Si mise davanti al microfono, aprì naturalmente le gambe, come se fosse abituata a mettersi in quella posa davanti agli altri, come una giocatrice di basket, e si guardò intorno nello stesso modo del suo collega.

Lasciò le braccia, a penzoloni, lungo il corpo e riprese a parlare.

«Da più di un anno un documento, sottopostovi dal nostro ufficio, per rispondere a questa incombenza, è rimasto inevaso sui vostri tavoli e, ovviamente, non ci sono risposte per poter, da parte del Presidente (sottolineò la parola alzando la voce), prendere una decisione in maniera idonea alle risposte fatte dai cittadini di questa nazione, preoccupati che voi nascondiate la verità sugli UFO! Oh, ben lo sappiamo, non esistono, (alzò il braccio sinistro, muovendo mollemente la mano, per far tacere il brusio che si era subito sollevato da una parte degli occupanti) ma la cosa, oramai, è obsoleta! I servizi segreti militari continuano, vergognosamente, a tenere il Presidente all’oscuro di fatti che, ben provati, vedono una continua presenza di esseri umanoidi sul nostro pianeta!»

Il borbottio salì, fermato, con decisioni, dai due sul palco, che mossero all’unisono le mani destre, fermamente, a bloccare qualsiasi protesta.

La donna continuò.

«Il Presidente ha più volte richiesto a voi, signore e signori, dati inconvertibili di questi fatti, ma avete sempre negato ciò! (la sua voce si era improvvisata alzata) Il Presidente, più di una volta, ha avuto la netta sensazione che una sua defenestrazione fosse imminente!»

La protesta, questa volta, giunse dalle donne e dagli uomini che erano rimasti seduti, i veri comandati delle truppe che prima si erano scagliati contro i due occupanti lo scranno.

«Se il Presidente pensa che non siamo fedeli agli Stato Uniti sbaglia di grosso!»

La frase, decisa, giunse dal fondo del cargo, da una figura posta sullo scivolo dell’aereo, con la luce che entrava dall’hangar alle sue spalle, disegnando una sagoma scura, di cui era impossibile delineare i lineamenti.

L’uomo sul palco intervenne.

«Sì, certo, fedeli agli Stati Uniti (la frase fu enunciata a voce alta), ma il Presidente, questo Presidente, è stato eletto con più del 70 per cento dei voti, per cui pretende una certa lealtà da parte vostra! E mettervi alla porta non servirebbe a nulla! Anche se mandasse via voi, i vostri successori potrebbero avere le vostre stesse idee e il problema rimarrebbe ancora in essere!»

Il clamore nell’aereo cessò, tutti si sedettero e rimasero in silenzio.

Il fatto che questo Presidente fosse stato eletto con così tanti voti, dovuto al fatto che tanti cittadini si erano presentati ai seggi elettorali, per esprimere il loro vigoroso parere indignato sui precedenti inquilini della Casa Bianca, costrinse i presenti a far buon viso a cattiva sorte! Anche se qualcuno, subito messo fuori gioco, aveva meditato di ucciderlo, quel Presidente era pericolosamente troppo ingombrante.

E questa cosa lo rendeva ancora più meno popolare tra i presenti.

I due aspettarono che tutti dirigessero la questione voto, per poi passare alla questione designato.

La donna si mise davanti al leggio, fronteggiando ben decisa il microfono e tutti i presenti.

«Per sicurezza dei designati, non saprete mai i loro nomi, ma solo i loro codici identificativi. Si alterneranno come designati in maniera casuale e non consecutiva! Non saprete mai chi essi siano, dove siano o cosa stiano facendo! Si presenteranno a voi, in caso di necessità, con un tesserino elettronico, il cui facsimile vi verrà inoltrato dopo questa riunione!  Non avranno alcuna scorta, perché sono e saranno in grado di proteggersi da soli, e qualsiasi vostra interferenza verrà vista come un attacco allo stato e sarete immediatamente rimossi dai vostri incarichi! Forse, per il bene del popolo, anche eliminati!»

Era la prima volta che si parlava apertamente di una probabilità che era stata a lungo, da parte dei precedenti occupanti la Sala Ovale, esclusa a priori: eliminare, per il bene comune, persone licenziate o dimessesi dagli uffici della Casa Bianca, durante la legislatura, senza più voce in capitolo, che conoscevano segreti indicibili, pericolosi, se il popolo ne fosse venuto a conoscenza, era stata vista come una decisione estrema, in uno stato tanto liberal!

Il silenzio, simile ad un soffio d’aria che corre tra la cenere ardente sotto ai legni presenti nel camino, pronta ad appiccare un fuoco tremendo, calò nel sito.

La discussione non era di certo finita, ma i due non diedero la possibilità agli altri di interagire con loro.

Voltarono le spalle ai presenti e, prima la donna e poi l’uomo, in fila indiana, scesero dal palco e sparirono nell’ombra.

Nel cargo, dopo qualche attimo, il brusio riprese, le sedie protestavano, mentre venivano malamente spostate, e i comprimari aprivano la strada ai loro capi, che si avvicinavano gli uni agli altri, parlando sommessamente, scuotendo la testa e guardando, ogni tanto, il palco vuoto, con quella brocca e il bicchiere di acqua lì, sotto la luce di un faro, abbandonati, a perenne memoria di un fatto storico, che aveva sconvolto buona parte dei più alti papaveri dell’establishment americana.

Nell’ombra di un corridoio dell’hangar, i due si fermarono a prendere fiato.

«Che te ne pare, Oliver?» Chiese la donna.

«Non ne ho idea, Sybil!» Rispose l’uomo.

«La verità è che le prove raccolte in tutti questi anni, dai nostri predecessori, sono vere e incontrovertibili! Dobbiamo porvi un freno!» Disse la donna.

«Sì, ma ci deve essere qualcosa di più! Hai visto come si sono ribellati gli onorevoli, i senatori e i generali alle nostre pseudo idee? Ho paura che la nostra idea di un movimento trasversale interno ai nostri più alti funzionari sia vero, ma a cosa serve chi può dirlo?» Disse l’uomo.

«Massoneria?» Domandò la donna.

«C’è sempre stata!» Disse l’uomo. «No, credo che sia qualcosa di più complicato. Una parte del mondo cosiddetto civilizzato vuole porre un freno ai rivoltosi…»

«Cinesi, russi…» Sollecitò la donna.

«Forse. Credo di più i paesi del terzo mondo, o meglio, chi li comanda, quel misto di religione e potere dal centro africa fino alle popolazioni arabe impoverite, che vedono nella nostra morte la loro possibilità di rivalsa su un mondo che, credono, li vuole sottomessi…» L’uomo scosse la testa sconsolato.

«Ma quello è colpa…» La frase della donna rimase lì, sospesa per aria.

«Nostra, Sibyl, nostra! E ne stiamo pagando le conseguenze. Ho paura che se la Corea del Nord dovesse cavalcare questa protesta con l’Iran non riusciremmo a fermare l’onda d’urto che ci travolgerà!» L’uomo abbassò il volto e scosse la testa. «Riferiamo al Presidente e poi vediamo il da farsi.»

Uscirono dal corridoio, sbucando dietro l’enorme hangar, non visti dai partecipanti della riunione, mentre il sole, alto, incominciava a scaldare quella tremenda mattinata, salirono su un’auto insignificante e nera, parcheggiata contro il muro dell’edificio.

L’uomo si mise al volante e la donna gli si sedette di fianco.

Il motore si accese al primo colpo.

L’uomo inserì la marcia e si diresse verso la Casa Bianca.

Dopo alcune ore, e dopo innumerevoli controlli, i due si presentarono davanti al Presidente.

A guardarlo non dava l’idea di essere un Presidente.

Aveva ottant’anni, magro, basso (forse arrivava al metro e sessantadue), curvo, ma, quando saliva su di un palco, aveva un piglio invidiabile!

Accolse i due con le maniche di camicia arrotolate, con il colletto sbottonato, la cravatta nera abbandonata sul petto, i pantaloni neri quasi cadenti, con la cintura slacciata, seduto su uno dei divani, mentre abbracciava un cuscino verde di seta.

«Come l’hanno presa?” Chiese, guardando i due dal basso verso l’alto, con gli occhiali cascanti sul suo naso adunco.

I due si guardarono e l’uomo parlò.

«Male, signore. La protesta, di quanto detto in riunione, vi arriverà in molti modi!»

«Fa niente! Non possiamo più tergiversare dopo quello che la NASA ci ha detto! E per fortuna loro, chiunque essi siano, non lo sanno!» Sbottò il Presidente

«I nostri no. Ma stavamo meditando su altre implicazioni, che consideriamo più gravi.» Continuò l’uomo

«Si, lo so! Ma dobbiamo correre il rischio!» Rispose risoluto il Presidente.

«Signor Presidente, per quanto riguarda i designati…» La donna aveva iniziato a parlare, balbettando.

«Mandateli a fare i corsi!» Disse il Presidente, stringendo ancora di più il cuscino. «Abbiamo ancor un po’ di tempo e sicuramente finiranno l’addestramento prima di ogni cosa.»

«Ma il tempo…» Si lamentò la donna.

«La NASA ha ricontrollato i dati. Non se ne farà niente per ancora due o tre anni.» Il Presidente si alzò dal divano e si diresse verso la sua cara scrivania vittoriana.

«Allora il suo successore…» Dissero, all’unisono, la donna e l’uomo.

«Non so se ci sarà un successore! Il colpo di stato è ormai già pronto! Posso scappare, sfuggire, nascondermi, ma loro sono pronti da tempo, e il vostro show è solo servito ad accelerare i tempi!» Il Presidente si sedette sulla poltrona della scrivania, con sempre in grembo il cuscino verde.

Si vedeva che era stanco, ma non si sarebbe arreso tanto facilmente.

I due si girarono e se ne andarono dalla stanza ovale: li aspettava un lungo e faticoso lavoro, e al Presidente ci avrebbe pensato qualcun altro.

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Capitolo 3
*** Designati ***


Designati

Fort Leavenworth

Nella fureria della caserma era arrivata una strana lettera, indirizzata al Caporale John M. Stafford.

Nessuno ci fece caso, con la confusione che c’era in quei giorni in caserma, a quella particolare lettera.

Fu data al comandante del caporale, il sergente maggiore Rudolf Green, che, insieme alle altre, costituivano un bel mucchio di carta in mano all’uomo, che non comprendeva, in un mondo così moderno con internet, le e-mail e i messaggini via smartphone, che qualcuno potesse ancora scrivere su carta le sue idee, i suoi bisogni e i suoi amori.

Il sergente fece a piedi la strada dalla fureria di comando alla fureria di battaglione, mollò le lettere in un cestino e se ne andò nel suo ufficio.

Il furiere prese le lettere e le portò nel circolo militare, distribuendole ai presenti e trattenendosi quelle non consegnate.

Il caporale Stafford aprì la busta, completamente anonima, il cui contenuto lo lasciò di stucco.

Non era la prima volta che riceveva un trasferimento in un'altra base: gli altri ordini gli erano stati consegnati formalmente da un ufficiale, ma quello non era il caso.

Prese la lettera, uscì dal circolo, si diresse alla fureria, salì le scale e chiese di vedere il sergente.

«Che c’è Stafford?» Sbottò il sergente, che lo aveva sentito chiedere di lui.

Stafford si avvicinò alla porta ed entrò nella stanza solo quando il sergente, guardandolo in tralice, lo invitò, con il dito indice della mano sinistra, ad entrare.

Il sergente tolse lo sguardo dal caporale, pensando che lui parlasse, ma il caporale rimase lì, fermo, sull’attenti.

Il sergente alzò la testa e guardò il caporale impettito davanti a lui.

«Caporale Stafford: o parli o te ne vai!»

Stafford allungò la mano sinistra e porse, al suo superiore, il foglio di carta verde.

Green guardò il foglio, lo prese dalle mani di Stafford, quasi strappandoglielo, e lo lesse.

Se il caporale era rimasto sbigottito, il sergente lo fu ancora di più.

Il foglio parlava di un trasferimento immediato del caporale ad una base militare mai sentita, con un codice identificativo mai visto, posta ai confini con il Canada.

Era una cosa irregolare, certo, ma i timbri e le firme parlavano chiaro.

Il trasferimento del caporale era immediato, con tutto il suo armamentario, su un aereo dedicato, dopo due giorni, in quella base persa ai confini del mondo.

Il sergente, ancora con il foglio in mano, si alzò di scatto, girò a destra, intorno alla scrivania, prese per il braccio sinistro il caporale, lo trascinò fuori dall’ufficio e, insieme, uscirono dall’edificio.

Il caporale non proferì parola e si lasciò trascinare dal sergente alla fureria del comando.

Chi li vedi passare, pensò ad una scenetta comica: il sergente, ben conosciuto in caserma, era senza il cappello di ordinanza e il caporale lo aveva nella mano sinistra, bloccata dal sergente.

Arrivato in fureria, il sergente non diede retta a nessuno e portò il caporale dritto dal capitano Kerry H. Precing.

Vi fu un po’ di parapiglia, tra il sergente che trascinava nell’ufficio del capitano il caporale, sbattendolo su un divano, e la polizia militare che interveniva per cercare di fermare quella furia di uomo.

Dopo un attenti, urlato dal capitano alla vista del generale di brigata Noah Trein, tutto tacque.

«Sergente Green, è impazzito!»

Il generale si era parato di fronte all’uomo, che gli porse, sull’attenti, senza parlare, la lettera.

Il generale la guardò, la prese in mano, la rigirò, visto che gli era posta al contrario, e la lesse.

Non conosceva tutti i suoi uomini, vi era sempre un tale andirivieni nella truppa, ma quel trasferimento lo interessò.

Pensieroso si diresse fuori dall’ufficio, fermandosi e, guardando il capitano, gli fece un cenno di seguirlo.

Il capitano, furioso con il sergente, passo davanti alla MP e seguì il generale.

Salirono le scale interne dell’edificio ed entrarono in ufficio già occupato da altri alti ufficiali.

Il generale buttò il foglio sul tavolo e tutti gli altri, dopo un attimo di sbigottimento, gli si gettarono sopra e si misero a leggere il suo contenuto.

Qualcuno tentò di parlare, ma il generale fece un cennò e tutti tacquero.

«Capitano Precing, cosa mi sa dire del Caporale Stafford? Quali sono le sue caratteristiche salienti?» La domanda del generale era ben precisa e il capitano richiamò alla memoria il cartiglio personale del suo sottoposto.

«Non molto da dire, signore. A male pena ha preso la patente per guidare gli automezzi pesanti, per i carri armati non è proprio portato. Usa sufficientemente bene le armi leggere, ma per le pesanti è un vero disastro. Si è arruolato perché è stato obbligato da un giudice di un paesino texano, che lo voleva salvare dalle brutte compagnie, ma è già stato traferito da altri due campi e non credo che qui durerà ancora per molto. Un suo trasferimento ad un battaglione di prima fila è escluso: non ubbidisce, se non dopo molte sollecitudini, agli ordini e fa sempre quello che vuole.»

Tutti staccarono gli occhi dal capitano e guardarono il generale.

«Ma se è un perfetto cretino, come si fa…» La voce era in fondo alla stanza, alle spalle del capitano.

Il generale zittì tutti con u movimento deciso della mano sinistra, alzò il volto e guardò, pensieroso, tutti i presenti.

Infine, guardò il sottoposto e gli ordinò, perentoriamente.

«Capitano, consegni immediatamente il fascicolo del caporale al mio aiutante di bandiera! Lei può andare e non se ne occupi più! Dica alla MP di prendere in consegna il caporale, portalo a preparare i suoi bagagli e tenerlo pronto per la data del suo trasferimento!» L’ordine del generale non ammetteva repliche.

Il capitano salutò, fece un dietro front perfetto e uscì dalla stanza.

Un brusio avvolse la stanza, con tutti i presenti che discutevano su quello strano avvenimento.

Il generale si posizionò davanti al tavolo e guardò i presenti.

«Ci hanno preso in giro o fanno sul serio?» Disse, mentre faceva passare la mano destra sul mento.

L’uomo in fondo al tavolo riprese a parlare.

«Forse ha delle doti a noi nascoste, non crede generale?»

Tutti scoppiarono a ridere, meno il generale, che, girandosi, si diresse verso la porta.

L’uomo in fondo alla stanza parlò di nuovo.

«Non penserà, generale, che una mezza tacca, un ladro di strada, ne sappia più di tutti noi messi insieme?»

«Vedi, Christofer, certe persone, nei momenti più impensabili, si risvegliano da un certo… torpore e diventano dei veri e propri eroi, arrivando a vittorie insperate, con azioni militari non convenzionali (dicendo così mosse la mano destra, con l’indice proteso verso i convenuti) e del tutto innovative! No, non mi fido! Quei due sono esperti in casi disperati: ricordati di quei quattro imbecilli mandati in avanscoperta in Afganistan e che hanno riportato una vittoria incredibile! No, non mi fido! Sanno il fatto loro e di loro nessuno ne sa niente! Stiamo sul chi vive. Da mesi non abbiamo notizie dallo spazio e la cosa preoccupa tutti. E quella loro uscita alla riunione: sembrava che sapessero più del necessario! Non può essere solo il Presidente a dirigere quell’orchestra. Forse quelli della NASA: solo loro possono aver tenuto nascoste informazioni dallo spazio profondo!» Disse risoluto il generale.

Christofer si alzò dalla sedia, mettendo ben in mostra i suoi cento novantacinque centimetri di altezza.

La sua divisa militare era impeccabile.

«Non ho paura di quei due, e nemmeno del Presidente. Lui verrà sostituito alle prossime elezioni, ammesso e non concesso che ci arrivi alle prossime elezioni!»

«Non mettevi in testa di fare un’altra Dallas: la gente non lo sopporterebbe e il vicepresidente sarebbe nei guai!»

L’ufficiale di alto grado che parlava era seduto di fronte al generale che gli stava di fronte, in piedi, e gli puntò minaccioso il dito indice della mano sinistra.

Christofer si sedette.

Si capì subito che la presa di posizione su quell’argomento era ancora molto fastidiosa per i presenti.

«Non siamo stati noi!» Sbottò il generale Trein.

«Ma al popolo, che ti paga la fattura del gasolio per scaldarti, non gliene frega niente! Un altro presidente morto e siamo tutti nei guai.»

L’ufficiale di altro grado parve risoluto contro il suo collega.

Il generale incominciò a passeggiare su e giù per la stanza, fermandosi di tanto in tanto per guardare i presenti.

No, non funzionava.

L’unico modo per cui le regole erano necessarie cambiarle era perché chi avrebbe sostituito il Presidente non aveva la stessa linea politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

E poi la storia del successore: non doveva nominarlo, già il vicepresidente lo avrebbe sostituito in caso di sua morte, e il Presidente non viaggiava mai con lui da parecchio tempo.

Il generale si fermò di colpo.

«Successore! Ecco la parola chiave! Il Presidente non vuole essere sostituito da uno qualsiasi, ma da uno che continui la sua linea… non politica, no. La sua linea di pensiero. E quale è la linea di pensiero dell’attuale presidente?»

Tutti rimasero lì a guardare il generale, appesi alle sue labbra.

«Vuole andare nello spazio, ma non vuole che lo invadiamo! Vuole che, non come i vecchi coloni inglesi, che invasero e distrussero, ma vuole condividere con gli altri le nostre tecnologie! Ma se non abbiamo tecnologie, quelle tecnologie che servono per superare gli anni luce che separano le stelle, anche se potremmo sempre usare la criogenia, come pensa di fare… Sono già qui! Sono già qui! Quei due idioti hanno detto che sapevano di una invasione di umanoidi! E se lo avessero detto per nascondere la verità? Loro sono in contatto con gli alieni!»

Il generale aveva strabuzzato gli occhi mentre diceva le ultime parole, e poi tacque.

Avevano parlato di invasione, di ministeri e comandi militari pieni di spie e di esseri umanoidi sul nostro pianeta.

Il generale scostò una sedia e si sedette, con una faccia spaventata: quei due avevano messo sul chi vive tutti e nessuno se ne era accorto!

Christofer si alzò dalla sedia per uscire definitivamente dalla stanza, ma sul viso del generale vide chiaramente l’immagine di qualcuno che non vedeva alcuna luce in fondo al tunnel.

Non andava bene: aveva capito troppo.

La riunione fu sciolta silenziosamente, con tutti i partecipanti che se ne andavano, lasciandolo lì il generale con il suo aiutante di bandiera.

«Generale?» Chiese l’aiutante.

Il generale voltò il viso verso l’altro.

«Fammi preparare l’aereo: vado a Washington!» Gli disse, anche se non aveva nessuna intenzione di usare quel pericoloso mezzo di trasporto.

L’aiutante uscì e il generale meditò lungamente sul da farsi.

Ma solo lui se ne era accorto o qualcuno d’altro aveva visto oltre quelle parole?

La notte non portò consiglio all’uomo.

Al mattino, il generale partì per Washington, in gran segreto, il caporale partì per la base militare, per quell’addestramento ancora più segreto, e Christofer sparì dalla base.

L’aereo del generale non giunse mai a destinazione, ma lui, in qualche modo, sì.

Cercò i due anacronistici amici e, non trovandogli, si nascose in una località conosciuta solo a lui.

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Capitolo 4
*** Elenco ***


Elenco

Al tenente Gabriel L. Clear non pareva vero di andare in un campo segreto per un corso di sopravvivenza.

Andarsene da quel posto era l’unica cosa che gli interessava.

Sapeva bene che quel corso era completamente inutile: era una nerd, una vera nerd.

Alta poco più di un metro e cinquantadue, grassottella, con gli occhi verdi, capelli castani scuri arruffati, era lo stereotipo di una che con il computer faceva quello che voleva, ma per cui gli uomini erano un sogno.

Il suo comandante, il Maggiore Rudolf Croinour, era infuriato: dovevano esserci le manovre tra pochi giorni e il genio, l’unico genio in fatto di computer, veniva inviata a fare un corso di sopravvivenza in mezzo al nulla.

Le telefonate al suo comando furono furenti, pestò i piedi con i colonelli e i generali, ma l’unico risultato fu di essere trattato come un cane, anzi peggio, e rischiò pure di essere cacciato dal corpo dei marines.

Il maggiore chinò la testa e, a malincuore, gli concesse il permesso, come se avesse potuto vietarglielo.

Gabriel, spaventata, partì come previsto, su un enorme aereo che la portò a nord, nel nulla del deserto bianco.

Alla base militare in cui giunse nessuno si prese cura di lei.

Nessuno perché nessuno era lì.

L’aereo arrivo in fondo alla pista e girò su sé stesso: il comandante fece scendere Gabriel e scaricò, in malo modo, il suo bagaglio, senza spegnere i motori del veicolo e senza guardarla neanche in faccia, ripartendo subito da lì.

Gabriel, trascinando i suoi averi, si diresse verso un edificio, posto sotto la torre di controllo dell’aeroporto, anch’esso completamente vuoto.

Gabriel, spaventata e infreddolita, non fece caso a quel particolare.

L’edificio accolse Gabriel calorosamente, nel senso che almeno lì, in quel posto perso da Dio e dagli uomini, il riscaldamento funzionava.

Incontrò anche un’altra donna, che sembrava, a prima vista, persa come lei.

Gabriel accennò ad un sorriso, ma l’altra fece una smorfia con la bocca e si rimise a cercare qualcosa lungo un muro tutto scrostato.

All’improvviso un click risuonò nel locale, il muro si mosse e dietro ad esso una donna, una di quelle che toglie il respiro agli uomini, fece capolino, come se li aspettasse.

«Salve. Sono Sybil. Benvenute.»

L’altra si mosse verso Sybil, mollandogli in mano un foglio di carta.

Gabriel prese il suo identico foglio e lo consegnò, passando davanti a Sybil.

Sybil prese i fogli, diede un’occhiata alle due e si incamminò verso una porta in legno.

Gabriel fu prontamente sorpassa dall’altra e, malinconicamente, le seguì.

Dietro la porta vi era un locale piccolo, poco illuminato.

Appena entrate una porta di acciaio blindò la porta in legno e il locale iniziò a perdere quota, mentre le luci aumentavano di intensità.

Sybil e l’altra donna parlavano tra di loro sottovoce e Gabriel non capì cosa si stessero dicendo.

La discesa fu rapida, provocando in Gabriel una leggera nausea, dovuta all’improvviso vuoto provocato dal locale che scendeva verso il nulla.

Arrivate al piano previsto, il locale ebbe uno scossone, la porta di acciaio sparì, ricomparve la porta id legno e Sybil e l’altra donna partirono decise per uscire dal locale.

Gabriel, impacciata con i vestiti polari e tutto il suo armamentario, seguì le due.

Entrarono in un locale luminoso, dove non c’era, come al solito, nessuno.

Camminarono per ben cinque minuti, fino a che non entrarono in uno stanzone, che dava l’idea di un dormitorio.

Sybil si rivolse alle nuove arrivate.

«Prendete una branda e sistematevi!»

Sybil si girò e si diresse verso un uomo, un bel tipo, che stava parlando con altri uomini, militarmente vestiti.

Nello stanzone vi erano cinque donne, comprese le ultime arrivate, e cinque uomini.

Sybil e Oliver si separarono da tutti e li guardavano, cercando di capire l’importanza di quel gruppo di donne e uomini.

Non è che il Presidente era impazzito?

E loro avevano realmente selezionato i migliori, quelli che in caso di crisi potevano porvi rimedi, utilizzando risorse e idee innovative?

Sybil guardò Oliver e poi si avviò in mezzo ai letti lì disposti.

Aveva in mano l’elenco degli intervenuti e incominciò a leggere.

«Bene, signore e signori, se volete darmi attenzione, vi presento. George Charleston?»

Un uomo, fisicamente atletico, si alzò da una branda e venne sotto la luce.

«Capitano George H. Charleston III, prego!» Disse l’uomo, con fare superiore.

Sybil fece una strana faccia al suo interlocutore e lo ammonì.

«Forse non ci siamo capiti! Qui siete tutti uguali! Tutti comandate e tutti ubbidite! Le vostre mostrine, fino a ordine diverso, non faranno più parte del vostro curriculum! Riprendiamo: Gabriel L. Clear?»

L’ultima arrivata mollo il suo armamentario su una branda e si mise sotto la luce, per farsi ben vedere.

«Presente!» Disse con la sua strana vocina.

Alcuni risero, per la maggior parte uomini: Gabriel sperava in un cameratismo tra le donne, ma due avevano riso di lei, facendola innervosire.

«John M. Stafford?»

«Presente!»

L’uomo e si alzò e anche lui si mise sotto la luce per farvi ben vedere.

«Ulma Frecing?»

Era la tipa che Gabriel aveva incontrata su di sopra.

Era muscolosa, con uno strano taglio di capelli, colorati di blu elettrico.

Non disse niente e, facendo un sorrisetto sarcastico, si mise sotto la luce.

Gabriel notò che, oltre ai muscoli, aveva anche dei tatuaggi colorati e alquanto misteriosi.

«Francisco L. Gonzales?»

L’uomo, un messicano dalla bassa statura, pieno di cicatrici in viso e sulle braccia, si mise sotto la luce e guardo in tralice i presenti, specialmente le donne.

Sybil lo guardò preoccupata, ma l’uomo si scostò subito, andandosi a sedere sulla branda che aveva occupato.

«Ronald D. Douglas?»

Un uomo muscoloso, alto almeno due metri e dieci, si mise sotto la luce, con un sorriso ebete.

Qualcuno, sottovoce, disse: «Tutto muscoli e niente cervello!»

Ronald si mosse come un fulmine e prese al collo una ragazza, minuta, piccola, afroamericana, con i codini laterali rispetto alla testa, fermati da due fiocchi rossi fuoco.

Sybil tossì e riprese.

«Bene. Vi presento Rebecca G. Jones junior. Se fossi in te, Ronald, la lascerei andare! Se ti tira un bel calcione sui tuoi gioielli, ti piegherai in due, molto dolorante!»

Ronald sorrise.

«Se ci arriva!» Disse guardandosi in giro.

Il calcio alle sue parti basse arrivò, doloroso, facendolo piegare in due e costringendolo a mollare il collo della ragazzina.

Lei si mise dritta davanti a lui, mentre i due metri e dieci di Ronald si afflosciavano a terra.

A Rebecca il collo doleva, mai come il dolore che Ronald stava provando in quel momento.

Sybil si avvicinò e si abbassò sull’uomo, con un sorriso che chiaramente voleva dire: «La prossima volta dammi retta!»

Oliver si avvicinò e prese, dalle mani di Sybil, l’elenco dei designati.

«Franck Grumman?»

Un tipo silenzioso, che si nascose nell’ombra, rispose positivamente.

«E per ultime Ludovica Thor e Filippa F. Joanson.»

Le due donne, lontane da tutti, sedute sulla stessa branda, alzarono una alla volta le mani (prima quella posta di sinistra, rossa di capelli, con taglio corto da uomo, e poi quella di destra, capelli lunghi, neri, viso olivastro).

«Bene, tutti presenti!» Sentenziò Oliver.

Ronald si alzò dal pavimento, ancora dolorante e Franck lo accompagnò ad una branda.

Sybil e Oliver si allontanarono, dirigendosi verso il fondo del dormitorio.

Aprirono una porta ed uscirono.

I dieci designati si sistemarono nelle brande e, silenziosamente, si misero a letto.

Non sapevano bene che ore erano, ma erano stanchi e tutti si addormentarono silenziosamente.

Sybil e Oliver guardarono la scena da uno specchio nascosto.

Nell’aria avevano immesso un aerosol per addormentarli: quarantotto ore di sonno sarebbero bastate a distendere i nervi ai nuovi arrivati e a loro di farsi una idea maggiore degli ospiti.

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Capitolo 5
*** Christofer ***


Christofer

Il Generale di Brigata Noah Trein si era rifugiato in un hangar di un vecchio aeroporto nei dintorni di New York.

Il Presidente era occupato con i soliti impegni istituzionale giornalieri.

Segretari di partito, onorevoli, senatori, presidenti di chissà quale associazione venivano e chiedere qualcosa per loro o per chissà chi.

Il Presidente rincuorava tutti, distribuendo sorrisi di occasioni o parole di speranza, senza sosta.

Ma una strana figura, ogni volta che la porta dello studio ovale si apriva, attirava la sua attenzione.

La terza volta la figura si soffermò un po’ di più, forse per attirare l’attenzione del Presidente, come se non fosse stato opportunamente osservato.

Le altre apparizioni, dopo, furono più fugaci, come se avesse capito che il suo futuro interlocutore lo avesse ben visto.

Il Presidente si fece portare, a pranzo, dell’insalata greca, dell’acqua e una fetta di torta cheesecake.

All’apertura della porta, che preannunciava l’ingresso di un cameriere con il cibo, l’uomo cercò di entrare, ma un uomo dei servizi di sicurezza lo bloccò, senza fargli domande.

L’uomo si girò verso la segretaria particolare del Presidente, che, dal sopra degli occhiali, guardò truce l’uomo.

«Non vuole esse disturbato quando mangia!» Disse all’uomo.

«Solo un attimo, la prego!» L’uomo, grosso come era, sembrava la pelliccia di un orso distesa davanti ad un camino del Vermont.

La donna si alzò, aprì la porta dello studio ovale e il Presidente rivide l’uomo, grosso come un armadio, rifare capolino alla porta.

La segretaria particolare del Presidente, che apriva cautamente la porta, fece un cenno al Presidente, come per invitarlo ad evitare quel disturbatore, ma, nel momento che stava per chiudere la porta, pronta ad allontanare il disturbatore, anche se un bel ragazzo, vide, con la coda dell’occhio, un cenno del Presidente che, con la mano sinistra, invitava l’uomo ad entrare, mentre con la destra si portava un pezzo di torta, con una forchetta dorata, alla bocca.

La donna, stupefatta, lasciò passare l’uomo che, molto ossequiosamente, la salutò.

La donna cercò dal Presidente un cenno della necessità che un uomo del servizio di sicurezza, o del servizio segreto, fosse presente, ma il Presidente fece un cenno secco e lei chiuse la porta.

L’uomo attese in piedi subito appena entrato nell’ufficio, sull’attenti, aspettando che il suo interlocutore gli facesse un cenno di accomodarsi.

Il Presidente finì la torta, bevve un bicchiere di acqua, si pulì la bocca con un tovagliolo di carta, posto il cabaret da una parte e alzò gli occhi verso l’uomo.

«Cristopher, giusto?» La domanda era retorica.

Conosceva l’uomo e cosa faceva per campare.

«Esatto, signore!» Rispose Cristopher, deciso.

I due rimasero lì a guardarsi un attimo, poi il Presidente si alzò, giro versò destra intorno alla scrivania, e si diresse verso il divano di sinistra.

Con un cenno invitò Cristopher a sedersi su quello di fronte.

L’uomo si avvicinò e si sedesse di fronte al Presidente, che si era messo il solito cuscino verde sulla pancia, con la mano destra sullo stomaco e la sinistra che comprimeva il cuscino contro il suo corpo.

«I soliti problemi di stomaco, signore?» Chiese Cristopher, ma uno strano rumore metallico e un ronzio sommesso gli fecero capire che il Presidente stava armeggiando con un’arma a disintegrazione, forse calibrata al massimo.

«Non le sono nemico!» Continuò Cristopher, alzando le mani in alto.

«Non sia sciocco, Cristopher! So chi è lei, ma non so ancora cosa lei voglia da me! E questa (movendo la mano destra dietro il cuscino) è solo per la mia personale protezione! Anche perché se urlassi i servizi di sicurezza e segreti non arriverebbero in tempo per salvarmi! Allora, cosa vuole?»

I due si stavano studiando, attentamente.

Cristopher abbassò le mani, le posò sul grembo e si distese, appoggiandosi allo schienale del divano.

«Sappiamo di quello che avete trovato!» Iniziò calmo, Cristopher, nel tentativo di porre il suo interlocutore a suo agio. «Non è buona cosa che voi entriate in contatto con quella cosa! È molto meglio se ve ne dimenticate!»

Cristopher aveva pronunciato le parole quasi sillabandole.

Il Presidente non distoglieva gli occhi dall’essere che gli stava davanti, perché si trattava di un essere, e non di un uomo.

Cristopher notò qualcosa di diverso nell’uomo e capì.

Chi gli stava di fronte era un impostore, un sostituto.

«Dov’è il Presidente?» Chiese, più incuriosito che spaventato o preoccupato della situazione.

«Al sicuro, lontano da lei e dai suoi amici! L’aereo di Noah è caduto e lei si presente così, spavaldamente, dopo quello che è successo!» La voce del sosia era ferma e non ammetteva repliche.

«Le ripeto che non siamo noi i vostri nemici! Se Noah è morto…» Cristopher, adesso, si trovava in una pessima posizione.

«Non si preoccupi! È vivo e vegeto, in un posto sicuro! Ma sul fatto che non siate stati voi, questo è tutto da dimostrare! Se non siete stati voi, chieda alla mia segretaria personale di Don Chisciotte: le dirà con chi mettersi in contato! Dopo di che sparisca e si tenga in contatto, giornalmente, alla stessa ora, con Oliver: in caso di necessità le darà indicazioni sul da farsi. E ora, se ne vada!» L’ultimo ordine del Presidente fu perentorio.

Cristopher si alzò e uscì.

Anche dopo che aveva chiuso la porta, il ronzio del disgregatore non si attenuò.

La segretaria gli diede, alla sua richiesta di sapere di Don Chisciotte, un biglietto, con due riferimenti.

Cristopher mise il biglietto nella tasca destra.

Percorse con tutta tranquillità i corridoi della Casa Bianca e si diresse verso il cancello di uscita.

Tutti lo salutarono, garbatamente, come sempre.

All’uscita, una vettura nera lo attendeva, con il motore acceso.

Cristopher salì e la vettura partì.

Lui e il conducente non si scambiarono una parola, e neppure uno sguardo.

Ammesso e non concesso che la “cosa”, posizionata al posto del conducente, si potesse chiamare conducente.

Cristopher non ci fece caso, guardando davanti a sé, mentre le strade, le case e i fiumi frecciavano, in senso contrario alla loro corsa, di fianco a loro.

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Capitolo 6
*** Progetti ***


Progetti

Sopra di loro la neve, che copriva gli edifici della base, e il freddo, la faceva da padrona.

I pochi animali che si muovevano, furtivamente, in quel deserto bianco, erano affamati, sia che fossero erbivori o carnivori.

Nel silenzio dello stanzone, la prima a svegliarsi, da quella bella dormita, fu Gabriel.

Il sapore in bocca era tremendo e metallico.

Ulma, carinamente, svegliandosi nella branda di fianco a lei, sbadigliando, gli alitò in faccia.

Gabriel ebbe un senso di vomito, di fronte a quel fetore: ma poi, ripensandoci, si alitò sulla mano e sentì che anche lei aveva il fiato che puzzava di carne morta che, per poco, non gli provocò il vomito.

Cercò subito lo spazzolino e il dentifricio e si predisporre a correre in bagno.

Ma, appena si fu alzata dalla branda, si accorse che qualcosa altro cercava di uscire da sé.

La corsa in bagno fu precipitosa, mentre metà dei presenti ridevano di lei gustosamente.

Risate che cessarono subito, con un fuggi fuggi generale al bagno.

I rumori nei bagni di pipì che uscivano, in pressione, dalle vesciche e i liquami che, rumorosamente, fuoriuscivano dalle viscere, durarono alcuni minuti, lasciando odori nauseabondi e pestilenziali nell’aeree.

Dopo che i gemiti e i lamenti delle donne e uomini, che venivano emessi durante tale periodo, cessarono, seguirono sospiri di sollievo.

Gli odori che riempivano il bagno sparirono velocemente e gli occupanti dei loculi dei wc uscirono, mostrandosi soddisfatti di quanto era successo prima.

Gabriel si mise subito a lavarsi i denti, usando parecchio dentifricio, sotto gli occhi sbalorditi di Ulma e Ludovica.

«Igienista, eh?» Disse Ulma.

Gabriel girò la testa a destra, con la bocca piena di dentifricio e lo spazzolino da denti nella mano sinistra.

Sbofonchiò qualcosa, in direzione di Ulma, rimise la testa sopra il lavandino e continuò a pulirsi i denti.

Ludovica la guardò, sbalordita, ma, quando si sentì la bocca amara, si annusò il fiato, come aveva fatto Gabriel, e corse a prendere anche lei lo spazzolino e il dentifricio.

Ulma sorrise a vedere Ludovica scappare chissà dove, ma dopo una attenta degustazione della saliva, capì che una buona lavata ai denti non era una cattiva idea.

Gabriel sorrise, con la bocca ancora piena di dentifricio, a quell’evento.

Dopo alcuni minuti, tutti stavano lavandosi i denti, usando parecchio dentifricio.

Sybil e Oliver, giunti del dormitorio, videro tutte le brande vuote: chiedendosi cosa stesse succedendo, sentirono una gran rumore di spazzolini che lavoravano febbrilmente.

«Vedo che il sonnifero lascia ancora quello strano retrogusto!» Disse Sybil.

Oliver annuì, ridendo.

I due indossavano tute da lavoro militari.

I designati tornarono dal bagno con un fiato meraviglioso.

Guardarono i due e, tutti in coro, infierirono su di loro.

«Urlare non serve a molto! Era necessario per farvi degli esami invasivi senza sentire i vostri lamenti!» Urlò, su tutto quel vociare, Oliver.

«Invasivi?» Urlò Douglas, tastandosi le chiappe.

«Sì, proprio lì!» Disse Sybil, sorridendo a tutti.

Lo spettacolo che seguì fu esilarante: tutti si toccavano le natiche in modo strano.

Dopo qualche minuto, tornò tutto nella regolarità e i dieci si sederono al tavolo, posto in fondo alla stanza, per fare colazione.

Alcuni addetti avevano posto sul tavolo, in bell’ordine, cabaret pieni di brioche, affettati vari, formaggi, patate arrosto, carote e piselli al burro, brocche di aranciate e bricchi con caffè e thè.

Incominciarono tutti a mangiare, alcuni tranquillamente, altri famelicamente, riempendosi i piatti e le tazze.

Dopo una buona ora, tutti avevano le pance piene e, con facce ebeti, si guardavano tra di loro.

Sybil si avvicinò al tavolo e vi sbatté sopra un fascicolo voluminoso.

«Forza, scansafatiche! C’è del lavoro da fare!» Urlò Sybil a tutti quelli seduti lì davanti a lei.

«Per prima cosa leggerete attentamente questo dossier! Si tratta di un sito iraniano segreto, in cui vengono nascoste armi di distruzione di massa. Dovete trovare il modo di entrare, di portare via le prove, sia fotografiche che documentali, di quello che fanno, distrugge il sito e tornare a casa, sani e salvi, se vi è possibile. Avrete un limite di tempo di tre mesi per organizzare l’assalto, tre mesi per l’esecuzione e poi parleremo del vostro successivo incarico, ammesso e non concesso che vi sarà un altro incarico!»

Le ultime parole, a Sybil morirono in bocca.

Tutti si alzarono, presero un fascicolo a testa da quell’enorme mucchio di carta e incominciarono a leggere.

Sybil si era girata, quasi singhiozzando: in realtà un ghigno malefico gli solcò il volto.

I dieci lavorarono freneticamente per giorni, scambiandosi idee, foglietti di carta, urli e litigando spesso e volentieri.

Douglas era partito con l’idea di una irruzione a mano armata, ma non sapevano quante guardie c’erano e l’idea di un attacco all’arma bianca, con il rischio di morire tutti, inutilmente, non piacque a nessuno.

La soluzione arrivò una sera, ammesso e non concesso che fuori fosse sera, da Gabriel.

Esperta come era di movimentazione di donne, uomini e mezzi nelle simulazioni di guerre, sottopose un’idea folle.

Tutti si erano seduti per mangiare e Gabriel, con fare innocente, presentò il suo piano.

«Sentite! (iniziò, mestamente, prendendo fiato, giocherellando con la forchetta) Del sito, sulle foto, vediamo solo la pianta: le foto tridimensionali sono ingannevoli. Secondo me dovremmo usare un altro gruppo, un gruppo di navy seal, che distragga i difensori e che ci conceda tempo per entrare. Si lo so, Sybil e Oliver, che non è quello che ci avete chiesto, ma i seal servirebbero solo a distrarre gli occupanti, poi se ne andrebbero via, non dovrebbero neanche coprirci la fuga! Sparirebbero nel nulla, come solo loro sono abituati a fare! A noi rimarrebbe solo l’incombenza di entrare e fare il nostro dovere. Oltre, però, ad un altro gruppo, servirebbe un altro aereo. Il nostro potrebbe essere un vecchio C-130, che volerebbe basso, mentre i navy seal userebbero un C-17…»

Gabriel non finì la frase.

Sybil si alzò dal tavolo urlando.

«Ma cosa ti credi di fare? Voi su un aereo a bassa quota, oltretutto su un vecchio C-130, e un C-17, dico un C-17 usato come allodola per i cacciatori? E poi, magari anche un supporto di droni?»

Oliver cercò di calmare Sybil, prendendola per una manica, ma lei gli scivolò via, dirigendosi contro Gabriel con il dito indice dalla mano sinistra puntato come una pistola.

La voce di Filippa, fievole, si fece strada tra le due contendenti.

«Ma una cosa del genere non è stato già fatto durante delle manovre militari di due anni fa, consentendo la cattura del centro comando della squadra blu? Come si chiamavano quelle manovre? (Filippa ci penso su, mentre abbassava la testa verso il piatto e roteava la forchetta, tenuta dalla mano destra, sulla sua testa) Non erano mica le SmokeConfuseEnemy 2030? Già. E qualcuno aveva detto che una cicciottella, senza offenderti Gabriel, aveva fregato i figoni del Comando Tattico di Difesa Nazionale? Mi ricordo che un generale, un tre stelle, pianse amaramente quella sconfitta. Sì, stessa tattica, stessa tecnica, stessi aerei, anche il posto era molto simile. Ma non era Gabriel! Non poteva essere lei! O sbaglio?»

Tutti distolsero lo sguardo da Filippa e Sybil e guardarono Gabriel.

Francisco rise di cuore.

«Ecco chi mi ha fregato!» Disse Francisco. «E io che pensavo di essere stato battuto da chissà chi! Sempre senza offesa, Gabriel!»

Il silenzio rimase lì, fermo, in aria, con Sybil mummificata in quella posizione di attacco e Gabriel pronta a difendersi.

Il silenzio fu rotto da Oliver.

«Lei (puntando il dito medio della mano destre verso Gabriel) è quella che ha messo in scacco il comando…»

Gabriel sorrise furbescamente.

Sybil ritornò sui suoi passi: ben sapeva cosa aveva combinato Gabriel, ma voleva che tutti gli altri fossero d’accordo su quel piano.

Quella sera i dieci parlarono del piano e della sua possibile riuscita.

Oliver e Sybil se ne andarono a parlottare tra di loro altrove.

«Cosa ne pensi?» chiese Oliver.

«Io ero là e ho visto cosa ha combinato Gabriel. Un generale silurato, due colonnelli nella polvere, maggiori, capitani e tenenti distrutti: non si sono più ripresi. È stata una cosa terribile. E lei è entrata, seguita dalla sua squadra di intelligence, trionfante, salutando compiaciuta il capitano che portò a termine quell’impresa! Penso proprio che il piano riuscirà!» Gli rispose Sybil, compiaciuta.

«Ma non è quello l’obiettivo che ci siamo prefissati!» La rimproverò Oliver.

Sybil gli fece spallucce e, dalla finta finestra, guardava quel gruppo di donne e uomini che avevano trovato un capo.

«Intanto i piani sono cambiati e anche questa operazione servirà solo come facciata al Presidente!» La risposta di Sybil fu secca.

«Come sarebbe a dire che i piani sono cambiati?» Oliver era stupefatto di quella rivelazione.

«Cristopher sta prelevando Noah e lo porterà qui, a nascondersi!» Sybil rispose senza guardare Oliver, troppo occupata a crogiolarsi nella sua vittoria.

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Capitolo 7
*** Conoscere ***


Conoscere

Osservatorio astrofisico speciale dell'Accademia russa delle scienze

Da giorni i rilievi astronomici, portati avanti dal professor Huio e dai suoi più stretti collaboratori, supportati anche dai rilievi radioastronomici dei radioastronomi russi, davano strani dati: un evento non ben comprensibile avveniva tra Saturno ed Urano.

Qualcosa faceva spola tra i due pianeti, ogni due giorni, in modo incomprensibile.

Qualcuno dei sottoposti aveva avvisato i militari, che si erano subito diretti all’osservatorio e stavano tenendo sotto pressione il professore e i suoi adepti.

«Allora, professore! Ha o non ha una risposta su questo strano evento?» Il Generale Romanov stava con il fiato sul collo, letteralmente con il fiato sul collo del povero professore, che stava seduto su di un tavolo, circondato da calcoli, foto e diagrammi e cercava di raccapezzarsi in tutto quel disordine.

«Cosa vuole che le dica?» Il professore si teneva la testa con le mani, mentre una sua assistente gli versava il thè.

«E cosa mi dice degli americani, professore? Li ha sentiti?» Lo incalzava il generale.

Il professore sbuffò.

«Sanno, sanno… ma cosa sanno? Non dicono niente, a loro non risulta… Balle! (il professore si alzò di colpo dalla sedia e fronteggiò il militare) Lo sanno! Lo sanno e non dicono niente! E la cosa, come già dettogli, mio caro generale, mi preoccupa! All’ultimo simposio di astronomia e astrofisica, alcuni uomini dei servizi segreti controllavano tutti noi! Sì, d’accordo, eravamo in America, a casa loro, ma la cosa era esagerata! L’idea che umanoidi, alieni o come li voglia chiamare, siano già tra noi può essere vera, e si stanno muovendo aiutati dagli americani! Non possiamo farci niente, niente! (il professore si mise a girare freneticamente nella stanza, muovendo le braccia a casaccio) E quell’oggetto è solo l’inizio! Se dovessero arrivare delle astronavi o altro, come faremo noi, senza un appoggio politico, e men che meno militare, a sopravvivere o, come qualcuno di noi pensa, verremo schiacciati e schiavizzati? Sì, lei vorrebbe fare un colpo, bombardando gli americani, mettendoli in difficoltà sull’Atlantico, invadendo l’Islanda, la Groenlandia e solleticare gli europei, ma se lo stanno aspettando! E se hanno quelli (il professore sottolineò “quelli”) che li aiutano, sa che fine fanno i suoi aerei, navi e soldati? Pfiu!»

L’ultima parola fu seguita dalle mani che si congiungevano e facevano aprire le dita come in una esplosione.

Il generale prima si mise in una posa militaresca, gambe aperte e braccia sui fianchi, poi portò la mano destra sul mento e il braccio sinistro finì sotto il braccio destro.

Richiuse le gambe e si avvicinò al professore.

«Pensa davvero che gli americani, aiutati da loro, potrebbero attaccarci?» Il militare non era molto convinto di quanto stava dicendo.

«No, generale. Non gliele frega niente di noi! Se loro sono dalla parte degli americani, potranno avere tutta la tecnologia che vogliono e la nostra tecnologia diventerebbe obsoleta! Forse lo è già!» Lo scienziato abbassò la testa, si mise le mani in tasca e si diresse verso gli altri scienziati, che facevano capannello intorno ad un tavolo pieno di fogli e altri diagrammi.

Il generale rimise le braccia lungo i fianchi e si diresse verso la porta, seguito da altri militari e civili, forse dei servizi segreti.

Il sommesso vociare degli scienziati non copriva completamente il rumore dei server che stavano lavorando alle loro massime capacità per costruire modelli matematici su quello strano corpo che faceva la spola tra un pianeta e l’altro.

Alcune ragazze e ragazzi, sicuramente dottorandi, con i loro camici bianchi, controllavano i monitor e seguivano le stampanti a nastro che scrivevano numeri uno in fila all’altro, ben incolonnati.

Dopo più di due ore quella “cosa” era sempre più misteriosa e non si riusciva a costruire un modello matematico che rendesse l’idea di come fosse fatta.

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Capitolo 8
*** Ingaggio ***


Ingaggio

«Sei di buon umore, oggi, Sybil?» Oliver glielo chiese, scherzando, vedendo il viso teso.

Erano là sotto da almeno un mese, il piano per entrare in quel buco si stava sempre più sviluppando, ma Sybil aveva pensieri lugubri ogni giorno di più.

«Non sono ancora arrivati i dati degli esami, e la cosa non mi piace. Dovevano solo controllare quel maledetto dato e non si fanno ancora vivi!» Disse duro Sybil.

«Tranquilla! Era solo un controllo!» La incalzò Oliver.

«Solo un controllo!» Disse Sybil a denti stretti. «E se qualcuno avesse saputo?»

«Erano già qui! L’unica cosa che adesso ci interessa è farli entrare in azione e vedere cosa succede! Le loro armi sono arrivate?» Oliver sibilò le ultime parole, come per cercare di non farsi sentire dagli altri.

«Stamane. Sono pronte per essere utilizzate. Ma solo in azione quelle maledette si metteranno in funzione! Speriamo di non aver sbagliato l’abbinamento!» Disse Sybil, guardando torvi gli altri e digrignando i denti.

Nel bunker il tempo era passato lento, scandito solo dall’unico orologio posto sulla parete, vicino alla porta dei bagni, che ogni tanto si fermava, di notte, per poi ripartire con il suo clanck clanck fastidioso, quando tutti si svegliavano.

In realtà, in quel bunker, tutti vi erano rimasti per ben quattro mesi e solo per lo sviluppo del piano ce ne erano voluti ben tre.

Sopra, nel mondo reale, tutto scorreva, più o meno, come al solito.

Il Presidente era sempre più nei guai, Christopher era sparito con il generale, i russi impazzivano per capire cos’era quell’oggetto tra Saturno e Plutone e Sybil e Oliver continuavano a sperare che il loro piano funzionasse.

La NASA continuava a controllare quell’oggetto e altri oggetti che si muovevano tra i pianeti più esterni del sistema solare, evitando di diffondere notizie al mondo esterno.

La neve aveva smesso di scendere e si stava lentamente sciogliendo, le giornate si erano allungate e il verde stava prevaricando sul bianco.

Gli animali, piccoli o grandi che fossero, erbivori o carnivori, tornavano alle loro normali attività, scappando gli uni e rincorrendo gli altri.

Il generale Noah Trein fece la sua apparizione in quel sito alle ore 15.14 del 15 gennaio 2030.

O almeno quello era l’ora e la data che l’orologio restituiva a chi lo guardava.

Non era accompagnato da nessuno e nessuno dei presenti gli fece molto caso.

Se i gradi non valevano per loro, di conseguenza non valevano per lui.

Noah ebbe un gesto di stizza per quella plateale indifferenza, ma alla vista di Sybil e Oliver si calmò.

«Salve, Noah. Ben venuto.» Gli disse cordialmente Sybil, mentre Oliver faceva un cenno con il capo.

Gli altri si alzarono in piedi e si avvicinarono a guardare quell’universo di stelle, galloni e mostrine da far paura.

«Salve.» Rispose Noah, decisamente contrariato.

«Non le hanno specificato le direttive di questo posto?» Chiese Oliver, irriverente, da dietro le spalle di Sybil.

«Lo so, Oliver. E che ci si deve ancora abituare, vero Noah?» Lo rimbotto Sybil, con un sorriso malizioso.

«Già!» Disse Noah, scocciato, squadrando tutti i presenti, che se la ridevano di lui.

«Bene. Condividiamo con Noah il piano. Tra tre giorni si parte e voi dovete ancora prendere confidenza con i nuovi armamenti che vi daremo in dotazione!» Disse Sybil, guardando tutti i presenti con il solito sorriso benevolo e ammagliante.

Le ore che trascorsero dopo servirono a condividere con Noah il progetto di assalto a quel bunker.

Poi Sybil e Oliver portarono nello stanzone delle casse, poste su dei carrelli, ognuna con il nome dei partecipanti alla missione.

Il nome di Noah era su una scatola lunga due metri, larga cinquanta centimetri e alta altrettanto.

Era di color nero, con delle strisce blu elettrico.

Le altre casse avevano dimensioni diverse, con strisce di vari colori, tutti elettrici o tipo evidenziatori.

La cassa di Noah non presentava alcun tipo di chiusura o lucchetto per aprirla.

Ma appena vi appoggiò sopra la mano, dalla cassa uscì un rumore di scatto e il coperchio si aprì.

Gli altri si accorsero di quanto aveva fatto Noah e fecero lo stesso.

Noah guardò quelle strani armi.

La prima era una spada dentro ad un fodero: sembrava una di quelle spade da videogiochi, lunga un metro e mezzo, con due punte, nera con le strisce blu elettrico, uguali a quelle della cassa.

 La seconda era una specie di cannone, non più lungo di settantacinque centimetri, con una bocca circolare di circa venti centimetri, con a fianco un bracciale che consentiva di tenere l’arma appesa al braccio.

Me come sparava era, per Noah, un mistero.

La terza era una pistola, o almeno aveva quella forma, delle dimensioni di un calibro 50, completa di cinturone con appesi strani parallelepipedi e di fondina, ma senza caricatori per le pallottole.

Sybil si avvicinò a Noah e lo invitò, con un cenno della mano, a saggiare quelle armi.

«E secondo te dovrei andare in guerra con questi giocattoli?» Gli disse Noah, schernendola.

Gli altri guardarono in direzione dei due, sperando in una lite furibonda, ma Sybil parlò con voce suadente.

«Prendile in mano, Noah, e vedrai che non te ne pentirai!» Sybil rifece il sorriso ammaliante e attese che l’uomo prendesse in mano la spada.

Fu come se un lampo di luce si fosse scaturito da lui e la spada, illuminando il locale con una luce stellare.

Tutti si coprirono gli occhi e rimasero affascinati e interdetti per quanto era successo.

«Visto, Noah!» Sybil girò poi la testa verso Oliver. «Oltre le nostre più rosee previsioni!» Punzecchiando la sua controparte, che gli sorrise.

Tutti gli altri presero in mano le loro spade, con le luci che illuminavano il locale come se una supernova fosse esplosa lì dentro.

«Ma sono vere?» A Gabriel gli era venuto il fiatone, mentre teneva in mano la sua spada e la ammirava, con quelle strisce viola evidenziatore che rumoreggiavano.

Tutti risero e presero in mano il resto delle armi.

Tutti avevano in dotazione quella che sembrava una pistola, accompagnate dallo strano cinturone e dalla fondina, ma l’altra arma era, per tutti, diversa.

Filippa, all’improvviso, fece una strana domanda.

«Non dovremo mica indossare quegli abiti da cosplay, vero?»

Tutti rimasero lì, stupefatti da quella domanda.

All’interno delle casse, infatti, degli strani abiti in latex, con le righe dello stesso colore delle armi, facevano bella mostra di sé.

Filippa aveva alzato la sua, levandola dalla cassa, facendo una faccia schifata.

«Non ti va di mettere quei bei vestiti sexy?» Chiese Ronald, divertito.

Gli uomini risero divertiti, ma le donne ebbero da dire.

La discussione stava per degenerare, se Sybil non avesse preso la situazione.

«Fatela finita! Siete militari e indosserete vestiti militari! Non mi sembra il caso di indossare quelle… cose, con il rischio che un colpo, fortunato, vi colpisca nel posto sbagliato e vi uccida! Il nostro interesse è portare al termine un lavoro, non fare “sfilate” di moda!» Sybil squadrò gli uomini presenti, facendo le virgolette, con le dita indice e medio della mano destra e sinistra, alla parola “sfilate”, ed essi si tacitarono subito.

Noah chiuse la cassa e si avvicinò al gruppo.

Nessuno si fece mettere soggezione dall’uomo, che comprese come la disparità di grado servisse poco, lì, con quei personaggi e quelle armi.

«Capisco, Sybil, tutta questa sicurezza, ma queste armi non mi sembrava che vengano dal nulla. Da quanto tempo li state sviluppando?» Chiese Noah, attirando l’attenzione di tutti. «E non erano solo dieci i designati?» Proseguì, pensieroso.

«Non mi sembra il caso di parlare di certe cose, qui, Noah! La segretezza prima di tutto! Le domande a dopo! Dovete tutti concentrarvi sul vostro primo intervento, poi vi diremo tutto! Noah non insistere!» Le ultime parole, secche, furono dette da Oliver con cattiveria.

Noah si guardò intorno e capì che era inutile parlare di certe cose, con quegli strani individui, usciti da qualche film horror.

Era un’accozzaglia di personaggi inutili, per un generale abituato a mandare a morte giovani forti, pronti a tutto, con l’unico ideale di salvare la patria dai nemici.

Ma adesso, chi era il nemico?

Noah emise un sospiro e si sedette sull’unica branda libera, con le mani tra i pochi capelli che gli coprivano il capo.

Tutti gli altri si avviarono al tavolo per mangiare, lasciando solo Noah.

Sybil gli si avvicinò e si sedette di fianco a lui.

«Non mi sembra il caso di prendersela! Sai che Oliver ha ragione! Ne sai troppo e so che Christopher è venuto a cercarti e a parlarti! Ne sai troppo… e loro nulla! Tranquillizzati e partecipa con entusiasmo al lavoro che vi attende: vedrai, tutto si sistemerà e si spiegherà!» Disse amorevolmente Sybil.

«Lo spero per te …» La risposta di Noah rimase lì, sospesa, quasi come un avvertimento alla sua interlocutrice.

Intanto, al tavolo, Douglas parlava a vanvera.

«Strani quegli aggeggi! Una volta, mio padre, mi fece vedere qualcosa del genere, ma così, distrattamente, senza darci troppo peso. Chissà perché!» Douglas, tra una frase e l’altra, stava addentando una coscia di pollo fritta, con la lingua che rumoreggiava tra un dente e l’altro, per togliere il pollo che gli si infilava dentro.

Gli altri lo guardavano, mentre Oliver sembrava più interessato, degli altri, all’argomento.

«Douglas! In che senso ti ha fatto vedere una cosa del genere?» Chiese Oliver, stupefatto.

«Oh, sai com’è! (Douglas prese la seconda coscia, rumoreggiando ancora con la lingua tra i denti, indifferente alla domanda di Oliver) Mi mostrò una strana arma, grossa. Ero piccolo, per cui quella cosa era enorme. Almeno, per me, ovviamente!» Finì Douglas.

Improvvisamente alzò la testa dalla coscia di pollo e guardò il viso degli altri, stupefatti.

«Che c’è?» Chiese, Douglas stranito. «Non ho mai creduto che fosse vera. Ma lui ci teneva tanto a farmela vedere!» Disse, alzando le spalle.

Poi Douglas riprese a mangiare il pollo, mettendo la mano destra nel contenitore delle patatine fritte e infilandosene almeno sei in bocca, rumoreggiando.

«Scusa!» Disse Ulma. «Tuo padre, non so quando, ti ha mostrato un’arma come quella e tu mi dici, scusate, ci dici che la cosa non ti ha interessato? Ci dici che la cosa non ti mai ha interessato? Ma in che mondo vivi!?» La frase finì con Ulma che alzava le braccia al cielo e gli altri che, chi con la coscia di pollo in bocca e chi se l’era riempita di patatine fritte, annuivano a quanto da lei detto.

Sybil si era seduto al tavolo con Noah, appoggiando il viso alla mano destra, con il gomito del braccio appoggiato al tavolo, sorridendo alla faccia ebete di Douglas, che girava la testa di qua e là sui volti dei suoi commilitoni.

«Sei sicuro di questo, Douglas? Cioè di aver visto una arma simile a quelle nelle casse?» Chiese Sybil, divertita.

«Esatto!» Rispose Douglas. «E mi raccontava, per farmi addormentare, sapete come le fiabe della sera, strane storie epiche, così le chiamava lui, su un gruppo di gente che facevano da centurioni, o guardie del corpo, a un tizio su uno strano pianeta! Ma papà era un tipo strano!» Douglas distolse gli occhi dagli altri e addentò la terza coscia di pollo, accompagnata da patatine fritte piene di ketchup.

Un fortissimo brusio salì dalla folla che guardava Douglas.

Tutti volevano dire la loro, sulle storie epiche, di cui forse qualcuno aveva sentito parlarne i propri padri, o altre strane storie.

Noah si alzò di scatto, sbattendo i pugni sul tavolo, facendo saltare piatti, bicchieri pieni e vuoti, contenitori di cibo e cibo in alto per ben dieci centimetri, attirando l’attenzione di tutti, Sybil e Oliver compresi.

«Idioti! Non ve ne rendete conto? State discutendo di cose così grandi che non ve ne rendete conto! Non siete, anzi, non siamo qui per caso, né per errore! Siamo l’unico futuro per l’umanità di questo pianeta! Quindi, mettiamoci al lavoro e poche chiacchiere!» Proseguì guardando Sybil e Oliver. «Voi due siete dei veri disastri! Non so come qualcuno abbia scelto voi per questo compito!» Le ultime parole furono emesse dalla bocca da Noah mentre il suo viso faceva la faccia schifata.

«Bravò!» Sybil applaudì in modo beffardo verso Noah. «Christopher non poteva più tenere la bocca chiusa, eh Noah?»

«Non è Christopher il problema! Pensi davvero che non ci sia arrivato da solo! I dieci sopravvissuti, il Presidente che non fa niente, nell’attesa di chissà chi! E perché non parlare dei russi, che sanno qualcosa e non si danno pace del perché non gli diamo notizie? Non sono un idiota, cara Sybil e Oliver! E so anche chi siete voi due: visitor!» Concluso il discorsetto, Noah si sedette, agguantò al volo una coscia di pollo e l’addentò, portando via più della metà della carne fritta.

Tutti risero a quella sfuriata, anche se non avevano ben capito la fine del discorso e, parlottando tra loro, continuarono a mangiare.

Sybil si avvicinò a Noah e, sottovoce gli disse: «Visitor?»

Noah, di rimando, sorrise, farsescamente, prendendo una manciata di patatine fritte e infilandosele in bocca.

Sybil fece una strana faccia e lasciò cadere il discorso.

Il giorno dell’attacco venne, tranquillo, senza troppi scossoni.

Un C-17 Globemaster III e un C-130J Super Ercoles erano pronti alla partenza.

Sul C-17 era stato imbarcato un gruppo di navy seal, che dovevano dare supporto agli undici designati.

I designati, come previsto, salirono sul C-130.

Sybil e Oliver si imbarcarono con loro: volevano vederli in azione.

Gli aerei partirono, prima quello dei navy seal, poi quello dei designati.

Volarono sopra il Canada, poi l’Alaska, piegando verso il Giappone, dove furono riforniti in volo.

In seguito, sorvolarono l’Indonesia, l’Oceano Indiano e infine atterrarono a Diego Garcia.

A nessuno fu permesso di scendere dagli aerei.

Ma Sybil, che aveva dato a tutti questo ordine perentorio, non lo osservò.

Scese di nascosto e si diresse verso il posto comando.

Era notte a Diego Garcia, ma da qualche parte, in un’altra parte del mondo, era giorno e qualcuno non dormiva.

Il tempo di rifornire gli aerei, un veloce controllo ai motori, e dopo quattro ore, all’alba, gli aerei ripartirono.

Gli aerei, con davanti il C-17, seguito dal C-130, si diressero verso il Golfo Persico, sorvolarono il gruppo da battaglia navale americano, preso come punto di riferimento per il loro viaggio e, virando a sinistra, si diressero verso il punto dell’attacco.

Salirono di quota, fino a quasi trentamila piedi di quota: tutti indossarono le speciali tute da alta quota, con caschi completi di maschere per l’ossigeno.

Sotto le tute avevano le mimetiche militari, complete di giubbotti antiproiettili, le loro armi, zaini contenenti l’indispensabile per la sopravvivenza di almeno cinque giorni (tanto era il tempo che aveva calcolato Gabriel per portare a termine l’operazione), oltra ad una pistola di ordinanza calibro nove mm parabellum, con dieci caricatori di scorta, nascosta sotto la mimetica.

Gabriel, però, continuava a pensare all’attacco, come se qualcosa non gli quadrasse.

All’improvviso, Gabriel incominciò ad urlare nell’interfonico.

«Fermi! Fermi! Abbiamo sbagliato tutto!»

Il portellone posteriore si stava già aprendo, gli inservienti erano pronti a dare il consenso al lancio, ma tutti si girarono e guardarono Gabriel.

«Cosa c’è adesso, Gabriel?» Urlò Sybil.

Il rumore dell’aria che entrava nell’aereo dal portellone posteriore costringeva i suoi occupanti ad urlare nell’interfono, anche se avevano in testa i caschi da alta quota.

«Non devono essere i navy seal i primi ad arrivare sul posto, ma noi! Se arrivano prima loro, ci taglieranno la strada verso il bunker! Dobbiamo cambiare i piani!» Finì urlando Gabriel, nel tentativo di coprire i rumori dell’aereo.

Tutti si guardarono in faccia: i navy seal dovevano andare verso il bunker correndo lungo il crinale, lasciando ai designati il fondo valle.

Ma in quel modo, durante la discesa con i paracaduti, i designati si sarebbero trovati tra il fuoco di copertura dei navy seal e quello delle vedette, che potrebbero essere state messe in allarme da qualsiasi movimento sospetto.

Sybil guardò Oliver e urlò nell’interfono.

«Ok! Prima noi poi i navy seal! Avvisateli!»

L’aereo dei designati fece una larga virata, oltrepassando l’altro aereo, e mettendosi in linea con il punto di lancio dei suoi passeggeri.

Arrivati sul punto di lancio, si misero tutti in fila indiana e saltarono giù dall’aereo, una alla volta, distanziati, mentre il cattivo, insperato, tempo fuori dall’aereo, copriva le loro tracce.

Nei caschi il rumore dell’aria era attutito dalle cuffie dell’interfono, ma la pressione dell’aria sui corpi era impressionante.

A circa cento metri i paracaduti si aprirono, neri come la pece, e strattonando i designati, gli fecero perdere velocità.

L’atterraggio non fu dei più morbidi: le pietre, di cui era ricoperto il crinale, fecero perdere l’equilibrio a più di uno, con Sybil che lanciò un urlo nell’interfono, che fece sussultare tutti.

Lei si alzò di scatto urlando: «Niente! Niente! Tutto a posto!» mentre girava su stesso, attorcigliando attorno a se i cavi del paracadute, con Oliver che gli correva incontro, per aiutarla a togliere il paracadute dalla schiena e dal ventre.

Dopo aver raccolti i paracaduti e nascosti sotto alcuni rovi, Noah aprì la fila e si diresse a ovest, verso il bunker, seguito da Oliver, Sybil e poi tutti gli altri: a chiudere la fila c’era Douglas.

I navy seal scesero dopo circa dieci minuti, invisibili, nei pressi del bunker.

L’urlo delle loro armi non si fece attendere molto, aprendo il fuoco sugli uomini posti a difese del sito.

I designati corsero vero l’ingresso del bunker, posto alla base di una montagna.

Usando le loro terribili armi, si fecero largo tra gli occupanti, riuscendo ad entrare nel bunker.

Oltrepassato il primo portone blindato, entrarono nell’atrio di accesso al bunker.

La porta davanti a loro era aperta e, sparando sui difensori, decisi, vi si diressero.

Ma, improvvisamente, successo l’imprevedibile.

Dietro al gruppo erano rimasti Sybil e Oliver che, all’improvviso, come i cacciatori uccidono le anatre durante le migrazioni, spararono alle spalle dei designati.

La prima a cadere fu Gabriel, che si era attardata.

Il colpo del terribile fucile di Sybil per poco non gli staccò completamente la testa.

Ulma, con la coda dell’occhio, vide un lampo dietro a sé: con stupore si girò e il colpo dell’arma di Oliver la prese in pieno petto, sollevandola da terra e mandandola a sbattere contro la parete ricurva del bunker.

Gli altri, troppo occupati a combattere contro i difensori, che continuavano a presentarsi davanti a quella porta, non si accorsero di quello che accadeva alle loro spalle.

Così caddero Rebecca, Franck, Ludovica e Filippa.

All’improvviso, dalla porta uscirono quattro figure, armate come loro, con il viso nascosto da caschi, che spararono e uccisero George, Francisco, John e Ronald.

Noah non capiva perché la sua arma non funzionava.

Estrasse la pistola di ordinanza e, nascosto dietro un fusto di metallo, sparo contro Oliver, che aveva visto uccidere Ludovica, colpendolo alla testa, alla spalla e alla gamba destra.

Ma Sybil non ebbe alcuna pietà nei confronti di Noah e gli sparo al capo.

Il casco, contenete la testa di Noah, volò a mezz’aria e poi cadde a terra.

Alle figure che erano uscite dalla porta se ne unirono altre sei.

«Presto! Togliete a tutti i loro effetti personali! E raccogliete tutte le armi!» Urlò Sybil.

Le dieci figure erano vestite come i dieci designati, e sembravano avere anche la stessa corporatura, e ognuno di essi si chinò su di essi, togliendo le mostrine, le piastrine di riconoscimento, rovistando dento i vestiti e negli zaini, raccogliendo tutto ciò che era personale.

Indossarono le piastrine e le mostrine, mettendo negli zaini e nelle tasche delle tute mimetiche il resto del materiale raccolto.

Uno di essi prese in mano l’arma di Noah, comprendendo perché l’uomo non aveva sparato: era un giocattolo.

L’essere guardò Sybil, che sorrise.

«Pensavi proprio che si sarebbe lasciato uccidere senza combattere?» Gli Disse Sybil.

La figura getto per terra la cosa, allontanandosi.

Qualcuno si era avvicinato a Oliver, per vedere se era sopravvissuto.

«Lascialo stare! Era solo un peso!» Disse secca Sybil.

«Ma come faremo a coprire le nostre tracce, dopo tutto questo…» Disse un’altra figura, indicando i morti.

Sybil estrasse dal suo zaino una scatola rossa.

Gli altri capirono e si diressero verso l’uscita.

Sybil posizionò la scatola in mezzo al locale, pose il suo dito indice della mano destra in mezzo al coperchio, e la scatola si illuminò.

Sybil diede un’ultima occhiata a quella mattanza, senza versare una lacrima per le persone che aveva conosciuto e con cui aveva convissuto per tanto tempo.

Non guardò neanche Oliver, con cui aveva condiviso buona parte della sua esistenza.

Corse verso l’uscita e guidò il gruppo sul crinale opposto da dove era giunta.

I navy seal li precedevano di alcuni minuti.

Uno degli esseri, quella che assomigliava a Gabriel, parlò nell’interfono.

«E se ci riconoscono?»

«Tranquilla!» Gli rispose Sybil. «Non li hanno mai visti: sono stati sempre stati sull’aereo! E poi gli assomigliate come gocce d’acqua. E a Noah ci ha pensato Christofer. Camminate senza farvi notare. Vedrete che ritorneremo al sito in Canada senza problemi.»

Il gruppo proseguì in silenzio.

All’improvviso un terremoto scosse la montagna su cui erano.

In lontananza, dove prima c’era il bunker, una lingua di fiamme si alzò verso il cielo.

La montagna, che conteneva il bunker, sparì nel nulla, provocando una voragine di un chilometro nel terreno.

Tutti erano caduti per terra: si rialzarono, scrollandosi la polvere di dosso e, senza voltarsi, ripresero il cammino.

Ma, all’improvviso, i seals furono attaccati da un gruppo numeroso di persone, armate fino ai denti.

«Aiutiamoli!» Urlò, nell’interfono Ulma, ma Sybil, che si era messa in testa al gruppo, li fermò con una mano.

«Lasciate stare! Questo viene solo a nostro vantaggio!» Disse Sybil.

Tutti capirono e si acquattarono sul terreno, in attesa di vedere il risultato di quell’attacco.

Tutti i navy sela, che si erano difesi con onore contro un gruppo superiore di armati, morirono.

Improvvisamente, nell’interfono una voce femminile ruppe il silenzio.

«Sopravvissuti da Bandito uno!»

«Avanti Bandito uno da Sopravvissuti!» Rispose Sybil.

«Sopravvissuti da Bandito uno! Dove vi preleviamo? Copy!»

«Bandito uno da Sopravvissuti! Punto uno compromesso! Ripeto Punto uno compromesso! Dirigersi al punto due! Ripeto dirigersi al punto due!» Disse Sybil.

«Sopravvissuto da Bandito uno! Dirigiamo su punto due! Ripeto dirigiamo su punto due! Copy!»

Il VTOL Augusta Westland AW609, pilotato dal sergente maggiore dei marines Laura Crofite, una afroamericana di venticinque anni, che pilotava il suo aereo come una bambina guida una bicicletta, guardò il suo secondo, il caporal maggiore Tino Grige, uno yankee, che gli fece un cenno di assenso e diresse l’aereo verso l’altro punto di prelievo.

Sybil fece un cenno e il gruppo scese il crinale e si diresse verso un altopiano, posto a circa tre chilometri di distanza.

L’aereo continuò a sorvolare la zona, finché un improvviso bagliore attirò l’attenzione del caporale, che tocco il braccio sinistro del sergente, indicando il bagliore.

«Qui è il comandante! Tutti ai posti di combattimento! Frouse pronto con il cannone!» Urlò il sergente nell’interfono, mentre si dirigeva verso il punto di lancio del bagliore.

L’aereo girò i motori verso l’alto e atterrò nello spiazzo sotto di lui.

L’addetto al carico aprì il portellone posteriore e Sybil, insieme alle donne e uomini del gruppo, salì sull’aereo.

L’addetto diede l’ok, chiuse il portellone e il veicolo si alzò dal terreno.

La terra alzata dai motori nascose il veicolo ai guerriglieri che, dopo aver ucciso i navy seals,  si erano lanciati all’inseguimento del gruppo di Sybil.

Gli spari degli AK-47 verso l’areo furono ricambiati dal Vulcan presente sull’aero, che sputò fuoco e fiamme su quegli irriducibili.

Francisco si affaccio dal portellone, che non era stato ancora completamente chiuso, e fece fuoco con la sua arma.

La fiammata blu rase al fuoco un pezzo di crinale, uccidendo i guerriglieri, facendo tacere le loro fastidiose armi.

«Non era il caso!» Lo sgridò Sybil.

Lui fece spallucce e si sedette sul pianale dell’aereo.

Il volo verso Diego Garcia fu tranquillo.

Sybil andò in cabina di pilotaggio, per verificare che il pilota non facesse inutili deviazioni.

Ma il sergente aveva qualcosa sul groppo che lo infastidiva.

«Senta! Non vorrei sembrarle troppo impiccione, signora! Ma, vede, gli aerei che stavano portando voi e i navy seal, ad un certo punto si sono scambiati di posto e, dopo che voi e i navy seal vi siete lanciati, sono virati per tornare indietro e si sono nascosti nelle nuvole! Noi vi seguivano alcune centinaia di chilometri indietro, ma ad un certo punto ci sono stati, come dire, due improvvisi bagliori, nelle nuvole, e i piloti degli aerei non hanno più risposto!» Disse il comandante, mentre pilotava il suo aereo a cinquemila piedi di quota, ad una velocità di duecentocinquanta nodi, mentre, in lontananza, l’alba faceva capolino dietro all’Himalaya.

«Scriva il suo rapporto, comandante, e non si preoccupi di altro! Quanto manca a Garcia?» Chiese, in modo autoritario, Sybil.

Il sergente fece schioccare la lingua, mentre masticava il chewing gum, che si era messa in bocca dalla partenza, in modo nervoso.

«Ancora quattro ore di volo!» Rispose secca Laura.

«Bene!» Disse Sybil, sbattendo la sua mano destra sulla spalla destra del pilota.

Se ne andò dalla cabina e andò nella parte posteriore dell’aereo.

Gli altri si erano addormentati, tenuti fermi dalle cinghie sui sedili dell’aereo.

Sybil si sedette e, strette le cinghie del sedile, si appisolò.

L’aereo atterrò, senza grosse difficoltà, alla base militare di Diego Garcia.

I passeggeri dovevano essere trasferiti su un C-17, ma era in ritardo, per dei problemi ad un motore, e loro dormirono ancora un po’.

Rebecca, all’improvviso, si svegliò, dando un colpo con il braccio sinistro al braccio destro di Sybil, che si sveglio di colpo, infastidita.

L’aereo arrivò e tutti presero i bagagli e si spostarono dal VTOL al C-17.

Quando salirono sull’aereo, Sybil fece un cenno ai suoi, che incominciarono a controllare l’aereo con strani strumenti.

Il personale dell’aeromobile era rimasto stupefatto da quel controllo, non comprendendo come quei tipi, tutti con indosso i caschi, controllassero un aereo che avevano utilizzato molte volte.

«Controllate i motori! I carrelli! Tutto l’esterno dell’aereo!» Urlò Sybil.

Un gruppo uscì dall’aereo e ne controllò l’esterno.

Rebecca si avvicinò al motore più esterno dell’ala destra: il suo apparecchio inizio a suonare.

Quel maledetto cicalino.

«Qui Rebecca! Il motore esterno ala destra presenta un’anomalia!»

Tutti quelli presenti sulla piazzola si diressero al motore, Sybil e gli altri scesero dall’aereo.

Sybil fece allontanare tutti e dal suo apparecchio uscì una forte vibrazione che gli fece tremare la mano destra.

All’interno del motore un apparecchio, nascosto in prossimità della bocca di uscita dei gas di scarico, sobbalzo e cadde a terra.

Divenne rosso come il fuoco, mentre tutti correvano lontano da quell’aggeggio infernale.

L’esplosione che seguì butto tutti a terra e distrusse l’ala dell’aereo e la parte ad esso collegata.

All’interno dell’aereo gli addetti al carico morirono sul colpo, mentre nella cabina di guida il colpo uccise il comandante, ferendo gravemente il secondo e il motorista.

Il carello destro cedette, facendo cadere l’aereo da quel dato.

L’ala sinistra, dal controllo della carlinga, si spezzò, staccando dall’attacco all’aereo e cadendo a terra, incendiandosi.

I sopravvissuti a quel colpo si alzarono in piedi e scapparono lontano.

Mentre l’incendio divampava sulla pista, il personale addetto allo spegnimento di quell’inferno sopraggiungevano con i mezzi antincendio e spargevano schiumogeni su quello che rimaneva dell’aeromobile.

I sopravvissuti designati e Sybil si diressero verso gli hangar, per mettersi al riparo e decidere sul da farsi.

«Lo sapevano!» L’urlo di Filippa esplose nei caschi dei suoi commilitoni.

«Fatela finita!» Sybil si tolse il casco e, con un gesto di stizza, lo gettò terra. «Nessuna sa niente di questa cosa! State mettendo solo i carri davanti ai buoi! Tranquilli! Adesso bisogna trovare un modo per andarcene senza che nessuno si accorga di noi!»

George, toltosi il casco, fece segno verso il mare.

«Se prendiamo una barca, possiamo allontanarci e andare dove vogliamo!» Fece notare George.

Tutti gli altri, nel frattempo, si erano tolti i caschi.

Tutti assomigliavano, in maniera incredibile, ai designati morti.

Sybil guardò tutti gli esseri davanti a lei.

Il progetto designati poteva continuare, comunque e a qualsiasi costo.

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Capitolo 9
*** Da non credere ***


Da non credere

Per gli iraniani fu un vero disastro.

La prima esplosione aveva distrutto l’ingresso del bunker, mandando in fumo la possibilità di sapere chi era entrato e chi era uscito.

La seconda esplosione, avvenuta quando ormai Sybil e gli altri erano sopra il Mar Arabico, aveva raso al suolo la montagna e distrutto tutte le tracce degli esseri.

Uno dei sostituti dei designati aveva, infatti, innescato, con una spoletta a tempo, prima di andar via da quell’inferno, una bomba atomica, una piccola, del tipo tattico, trovata nel bunker.

Gli esseri, scappati dal bunker, sostituendo i designati, erano stati catturati sulle sponde del Mar Caspio, vicino a Nushahr, dove era precipitata la loro navicella.

Per non farla catturare da chiunque fosse lì ad aspettarli, avevano innescato l’autodistruzione e lasciata che di inabissasse nel mare.

I naufraghi furono catturati, mentre galleggiavano sul pelo dell’acqua, da due guardacoste iraniani, arrivati sul posto in tutta fretta.

I viaggiatori furono portati, dalle motovedette, al porto di Nushahr, poi, con dei mezzi blindati, all’aeroporto, dove un aviotrasporto, di fabbricazione russo, li portò ad un aeroporto nelle immediate vicinanze del bunker.

Dall’aeroporto al bunker altri mezzi blindati portarono lì i naufraghi, che furono subito separati e chiusi all’interno di gabbie, dove vari scienziati iraniani e cinesi li volevano studiare.

Ma l’intervento di Sybil e del defunto Oliver aveva scombussolato i piani dei nemici del popolo americano.

I militari iraniani, e alcune personalità cinesi, arrivarono sul posto due giorni dopo, ritardati dalla nube radioattiva, che ricadeva in una ampia zona intorno al bunker, trasportata in giro dal cattivo tempo che si era abbattuto sulla zona.

Il sopralluogo dei cinesi e degli iraniani confermò che il loro tesoro aveva preso il volo.

Ai radar iraniani non erano sfuggiti i due aerei, che erano precipitati dopo aver lanciato i navy seals e i sopravvissuti.

Le guardie della rivoluzione avevano ricevuto comunicazioni della presenza di estranei nella zona e, trovati i corpi dei navy seals, gli iraniani fecero un gran cancan mediatico, accusando gli americani di quanto successo.

E, per meglio dare peso alle loro invettive contro il perenne nemico, mostrarono i corpi dei navy seals.

L’ambasciatore americano, su dirette direttive da parte del Presidente, non disse niente.

Il rappresentante americano aspettò che tutto si calmasse e chiese, agli iraniani, la consegna dei corpi dei loro militari.

Gli iraniani, supportati dai cinesi, negarono tale permesso, visto quello che era successo: cremarono i loro corpi, spargendo le ceneri dei militari in una discarica fuori Teheran.

Il crollo del Presidente nei sondaggi fu epico, ma lui non batté ciglio.

I cinesi cercavano di capire perché gli americani avevano dato tanta importanza alla necessità di liberare quegli esseri, sacrificando due aerei, un corpo speciale e chissà chi altro.

Anche la notizia dell’esplosione dell’aereo sulla pista di Diego Garcia non passò inosservata.

I cinesi speravano di poter recuperare gli extraterrestri, ma le loro spie nella base americana non poterono aiutarli.

Inoltre, i cinesi speravano, almeno, di avere notizia dall’osservatorio astronomico russo, dove gli scienziati russi continuavano a seguire lo strano veicolo, ma inutilmente.

I cinesi, per arrivare primi, avevano preso in considerazione un lancio della loro migliore capsula spaziale, che, facendo scalo sulla loro Tiangong 3, la stazione modulare spaziale, sarebbe stata collegata ad un razzo Lunga Marcia 8b e si sarebbe diretta verso lo strano veicolo.

Ma il non sapere a cosa andassero incontro, aveva suggerito ai cinesi moderazione.

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Capitolo 10
*** Sopravvissuto ***


Sopravvissuto

L’attacco e la distruzione del bunker non doveva aver lasciato dietro a sé nessuno vivo.

Così, almeno, sperava vivamente Sybil.

Ma il suo improvviso attacco ai designati sopravvissuti non era passato inosservato.

Uno si era salvato.

Douglas, giratosi improvvisamente per vedere dove gli altri si erano posizionati, durante quell’inferno di pallottole e bombe che piovevano da tutte le parti, anche se il casco copriva parecchio il rumore delle esplosioni e il sibilo dei proiettili, aveva visto Sybil uccidere Gabriel.

Si era nascosto dietro a dei fusti, vedendo cadere ad uno ad uno i suoi compagni d’armi.

Era rimasto lì, nel buio, fingendosi morto, mentre quegli strani esseri, dopo la mattanza, uscivano dal bunker, spogliando i designati morti e portandoli via i loro effetti personali.

Uno lo aveva perquisito e portatogli via i suoi averi.

Mentre uno di loro guardava l’inutile arma di Noah, richiamato improvvisamente da Sybil, Douglas colse l’attimo e si gettò nella porta aperta, da cui quelli esseri erano usciti, mettendosi al riparo.

Il piano non prevedeva l’esplosione di un ordigno, per coprire la loro fuga.

Douglas, nascosto, sentì l’esplosione provocata da Sybil.

L’esplosione distrusse tutto, carbonizzando i corpi degli attaccanti e dei difensori, che erano rimasti inermi nell’ingresso.

Douglas, mentre era al riparo, fuori dall’atrio, si tolse la mimetica e si sistemò una tuta, di color nero, che aveva indossato preventivamente, non visto da nessuno.

Nella tuta era incorporato un casco, anch’esso nero e con la visiera scura, e alcuni armi, simili a quelle consegnateli da Oliver e Sybil.

Sul polso sinistro della tuta vi era un display, di forma rettangolare, da 8 pollici.

Lo azionò e sul video apparvero varie diciture, in una scrittura sconosciuta.

Douglas aspettò che il gruppo di alieni con Sybil si fosse allontanato, e uscì dal bunker.

Il nero fumo dell’esplosione, che usciva dal bunker, lo coprì alla vista degli amici e dei nemici, compresi i satelliti nello spazio, permettendogli di pensare sul da farsi.

Rincorrere Sybil e gli altri era pericoloso: la sua apparizione, con quell’armamentario che si portava appresso, avrebbe subito favorito troppi sospetti.

Le comunicazioni tra gli iraniani e i cinesi, che Douglas riusciva a intercettare con le sue dotazioni speciali, gli permisero di capire che non sapevano ancora nulla dell’attacco al bunker e che la navicella degli alieni era sprofondata nel Mar Caspio, esplodendo, ma l’evento non era stato confermato.

Douglas decise di andare a cercarla, almeno per vedere se in effetti era ancora utilizzabile oppure no.

Di certo Sybil avrebbe pagato cara quanto aveva fatto.

Douglas si mise in viaggio vero il nord.

Spense il duo display e per la direzione si affidò ad una vecchia bussola, più malconcia di lui.

La tuta che indossava, oltre ad un sistema di difesa passiva consistente in uno scudo deflettore, che lo circondava completamente, nascondeva un esoscheletro che lo avrebbe aiutato nelle lunghe marce, consentendogli di non affaticarsi troppo.

All’interno della tuta vi era anche un sistema di recupero delle urine, delle feci e del sudore, trasformandole in acqua da bere, che gli avrebbe permesso di sopravvive nel deserto per parecchio tempo.

Douglas salì il crinale della montagna, opposta a quella presa dagli alieni, e si diresse verso nord.

L’esplosione nucleare lo sorprese mentre camminava tranquillamente in cima ad una duna nel deserto iraniano Dasht-e Kavir.

La terra sembrava essere diventato un mare tumultuoso: la terra si alzò e si abbassò alcune volte, provocando onde per chilometri.

Douglas cadde dalla duna e si sdraiò in terra sulla schiena.

Rimase lì per alcune ore, svenuto, alzandosi dolorante.

La tuta lo aveva ben protetto, e lo proteggeva anche dal fall-out atomico.

Riprese con maggior impeto il suo cammino verso nord.

Si dovette nascondere tre volte da gruppi di uomini, donne e bambini, in fuga verso la frontiera con la Turchia, e da due carovane.

Il meteo era migliorato, lasciando, però, giornate calde.

Mentre la notte scendeva, per il secondo giorno, illuminata da una luna piena, in lontananza, dietro ad una duna, vide un dromedario solo, perso, seduto per terra, forse per nascondersi da eventuali predatori.

Douglas si avvicinò lentamente.

Notò, purtroppo tropo tardi, che l’animale aveva il muso legato da una corda, attaccata ad un palo impiantato nel terreno.

Quando si accorse di ciò era a circa due metri dal dromedario ed una figura, fuoriuscita dal buio, lo attaccò.

L’attacco non andò a buon fine, perché l’arma affilata del malvivente cozzò contro lo scudo della tuta di Douglas, scappandogli di mano.

Il colpo fece reagire immediatamente il militare, che lanciò l’aggressore lontano da lui.

Il corpo dell’essere, svenuto, cadde per terra.

Douglas gli si lanciò contro, accorgendosi che l’avversario era fuori gioco.

Raccolse da terra l’arma e notò che era una takana.

Douglas si avvicinò all’essere, gli tolse il tagelmust e vide il volto di una ragazza asiatica.

Sotto la tunica, a maniche fluttuanti, vi era una tuta molto simile alla sua, ove facevano bella mostra di sé una fila di coltelli, circa sei, sia a destra che a sinistra, e una tsurugi sul fianco destra.

“Mancina!” Pensò Douglas.

All’improvviso, vicino a loro, il dromedario emise un suono rauco.

Douglas corse a prende il capo della corda, tirò il dromedario e sé e, sedendosi a cavalcioni sulla donna, per non farla scappare, nel caso fosse rinvenuta improvvisamente, e l’obbligò  a sdraiarsi per terra, cercando di farlo tacere.

La donna di svegliò di colpo e cercò di scappare.

Douglas, mentre con la destra cercava di calmare il dromedario, con la sinistra bloccò la bocca della donna e l’atterrò, bloccandola con il corpo e quasi soffocandola.

Il rumore vicino era di una carovana, che stranamente si muoveva di notte.

Ma Douglas capì subito il perché di quel movimento notturno.

I dromedari, uno in fila all’altro, alcuni cavalcati da uomini e alcuni carichi di casse, andavano da nord a sud, in quel maledetto e infido deserto.

Le casse, allo scuro, Douglas non capì cosa contenessero.

Ma la scritta di una cassa, al bagliore della luna, ne svelò il contenuto: armi pesanti.

Erano sicuramente dei cannoni ciclici, smontati, di fabbricazione ceca, e trasportati chissà dove.

La ragazza, che continuava ad agitarsi, si calmò immediatamente quando vide anche lei quel bagliore.

La carovana era lunga più di cinquanta dromedari che, stancamente e tranquillamente, passarono davanti ai due combattenti.

Alcuni carovanieri, che montavano i dromedari, erano pesantemente armati.

Quelli a piedi, che controllavano i dromedari, avevano armi molto più leggere.

Dopo una buona ora, il convoglio si era allontanata dai due, Douglas mollò la corda e il dromedario, lamentandosi, si alzò in piedi.

La ragazza, che aveva ripreso a dimenarsi, diede un colpo all’inguine di Douglas, che si scostò di colpo, scendendo dal corpo della ragazza.

Lei si alzò di colpo, estraendo la spada dal fodero, pronta ad uccidere Douglas, mettendosi in una posizione di attacco.

Si era tolta il copricapo e il vestito, con un casco, dello stesso colore della tuta con la visiera scura, uscitole dalla tuta e che gli aveva avvolto il capo, mostrando tutta la sua pericolosità.

Douglas si alzò, pronto ad attaccare pure lui, mostrando bellicosamente la takana presa alla ragazza.

I due si fronteggiarono per alcuni minuti.

Poi la ragazza, visto che il suo avversario gli assomigliava molto nell’abbigliamento, si alzò e fece un leggero inchino con il capo, infilando la spada nel fodero.

Douglas, visto che la ragazza si arrendeva, fece lo stesso, buttandogli ai piedi la takana.

Il casco della ragazza rientrò nella tuta, Douglas, che non lo sapeva fare, se lo tolse e i due si avvicinarono.

La ragazza prese la parola.

«Mi chiamo Kimiko!» Disse decisa.

«Io Douglas!» Rispose lui.

Kimiko gli sorrise.

Douglas, di rimando, fece lo stesso.

«Cosa fai da queste parti?» I due fecero la domanda all’altro insieme, e scoppiarono a ridere.

Era sicuramente, per Douglas, una risata liberatoria.

«Douglas, ti sei perso?» Chiese Kimiko.

«Forse. Stavo cercando di andare a nord, verso il Mar Caspio, da dove forse sono venuti una decina di esseri extraterrestri. Probabilmente i discendenti dei proprietari delle nostre tute. Ma non ho ancora capito cosa ci facciano qui. Spero che dalla loro navicella, anche se è affondata, sia possibile salvare qualcosa e capire cosa ci fanno qui! E tu?»

Douglas aveva parlato scrutando il cielo, che lì, completamente al buio, forse poteva rilevare la presenza di satelliti che cercavano chissà chi o chissà cosa.

Kimiko se n’era accorta, alzò il naso all’insù, ma non vide alcuna stella che si muoveva in modo anomalo.

Douglas, nell’abbassare la testa, notò il naso alla francese di Kimiko, pensando che fosse figlia di qualche francese stabilitosi in oriente.

Kimiko distolse lo sguardo dalle stelle e fissò Douglas.

Aveva un bel fisico, un tipo atletico, ma quanto valeva il suo cervello?

I due si fissarono negli occhi, mentre il dromedario cominciava ad avere fame e grugniva come un maiale, lamentandosi a modo suo.

Kimiko non parlò più, indosso il suo tagelmust e il vestito, dirigendosi verso il dromedario.

Lì vicino vi era un sacco.

Prese delle vesti e un tagelmust per Douglas, facendogli vedere come si indossava.

Così vestiti, con i volti nascosti, potevano passare per due beduini, anche se la sola pronuncia di una parola li avrebbe fatti scoprire.

Douglas prese la corda a cui era attaccato il dromedario, seguendo Kimiko, che lo procedeva, diretti a nord.

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Capitolo 11
*** Politica ***


Politica

Gli scienziati russi stavano ancora seguendo lo strano oggetto che faceva avanti e indietro tra i due pianeti esterni.

I cinesi erano disperati per aver perso gli alieni e il loro veicolo, inveendo contro gli iraniani, che fossero scienziati o militari.

Il governo iraniano aveva ritirato il suo ambasciatore dall’ONU, lanciando fatwa contro gli americani, i quali non vedevano l’ora di togliersi quell’inutile ambasciatore e il suo entourage, pieno di spie e assassini.

Gli americani, per sicurezza, avevano ritirato i propri ambasciatori dai paesi arabi: Iraq, Pakistan, Arabia Saudita, Kuwait e altri paesi prospicenti il Mar Arabico videro sparire donne, uomini e soldi americani così, nel nulla.

I russi e i cinesi cercarono di occupare i posti di potere politico e finanziario lasciato libero dagli americani, ma sapere l’arabo e pensare come loro era ben diverso.

Il fall-out atomico durò per parecchio tempo, lasciando la zona ove era esplosa la bomba vuota da esseri umani e lasciando che gli animali e le piante si impossessarono di quella zona.

Sybil e i suoi amici salirono su una nave militare a motore nucleare e partirono per San Francisco.

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Capitolo 12
*** Nave ***


Nave

Non che la cosa importasse molto.

Aveva fatto di tutto per essere lì, in quel posto, in quel porto.

Jack, nome troppo americano per un cinese, era un vero genio.

Aveva percorso la strada per lo spazio nel più breve tempo possibile.

Elementari, medie, superiori se le era mangiate come le ciliegie: una via l’altra.

A quattordici anni era il più giovane universitario, insieme ad altri duemila in tutta la Cina, ad avere accesso al corso di astrofisica base: il numero di studenti si ridusse, per il corso di astrofisica avanzato, a cinquecento, Jack compreso.

Tutti gli altri corsi gli servirono da coronamento alla sua carriera universitaria.

A diciotto anni era già pronto per fare l’astronauta, ma il suo fisico non si era ancora del tutto sviluppato, per cui poteva fare solo molta ginnastica e allenamenti in palestra.

Il suo fisico si sviluppò bene e, a ventidue anni, era pronto per la centrifuga e i voli in assenza di gravità.

Nel frattempo, aveva studiato di tutto e di più.

Geologia, biologia, metallurgia e altri studi di contorno, riuscendo sempre a superare gli esami con voti eccezionali.

E ora, dopo tutta quella fatica, era lì, a Nushahr.

Vi era arrivato dopo l’esplosione nucleare del bunker, al seguito dei diplomatici cinesi che, dopo un viaggio allucinante, erano atterrati nell’aeroporto di Nushahr.

Aveva visto il filmato della nave spaziale, che era esplosa e si era abissata nel Mar Caspio.

Ma lui, a quel video, non ci aveva creduto.

Da lì a svignarsela dall’ambasciata, a cercare delle risposte alle sue domande, la strada fu breve.

Ora lì vedeva quei due tipi, con un dromedario al seguito, bardati come beduini, con gli occhiali da sole che distorcevano, anche se non molto, il viso, coperto dal tagelmust.

I due, circospetti, presero in affitto un battello.

Non erano iraniani, poco ma sicuro.

Una era troppo alto per essere di quei posti.

Decise di abbandonare la sua postazione, lungo il pontile del porto, e si diresse verso qui tipi, che lasciarono la corda, che teneva il muso del dromedario, all’uomo della barca, che tutto felice se ne andò.

I due continuavano a guardarsi in giro e notarono lui, con il viso nascosto come loro, con enormi occhiali scuri.

Sulla manica lo strano marchingegno vibrò mentre si avvicinava a loro.

Jack si avvicinò e i due si presentarono.

«Kimiko!» Disse la ragazza.

«Douglas!» Gli fece eco l’altro.

«Jack!» Nome per nome, pensò.

I tre continuarono a guardarsi in giro in modo furtivo.

«Se continuiamo a stare qui sulla banchina attiriamo l’attenzione di troppo gente. Come non detto: arrivano due militari!» Disse Douglas.

Douglas si voltò e guardò i due militari, che stavano passeggiando sulla banchina, fumando sigarette, distratti improvvisamente da una ragazza che, senza veli e a piedi nudi, con un vestito bianco molto leggero, portava una cesta piena di pesci verso un bancone da pescivendolo lì vicino.

I due si girarono e la ragazza, divertita, sorrise a loro, mentre Douglas, cogliendo l’occasione, spinse leggermente Kimiko verso la barca, seguendola su di essa, con Jack alle calcagna.

«Scioglie le gomene di poppa!» Ordinò Douglas a Jack.

Kimiko prese in mano il timone e accese il motore.

Douglas continuò a controllare i due militari che, sentito il motore di una barca funzionare, si girarono di colpo, imbracciando i loro AK-47 e corsero verso la barca, che si allontana velocemente dalla banchina.

Le loro urla e i colpi del mitra, sparati per aria, non diedero il risultato da loro sperato.

Uno di loro prese la radio da campo e urlò a qualcuno, facendo cenni con la mano verso la barca che si dirigeva fuori dal porto.

Jack e Douglas li guardarono sorridendo.

Dopo aver passato la bocca del porto, la barca, con il motore che, a tutta velocità, sbofonchiava e sputava fumo dal fumaiolo e dalla carena, si diressero al largo verso il punto presunto dell’affondamento della nave spaziale.

All’improvviso, in lontananza, una sirena ululò contro di loro.

Un cacciatorpediniere militare stava arrivando a tutto vapore, vomitando fumo nero dal suo enorme fumaiolo.

Forse faceva i trenta o quaranta nodi, ma non li avrebbe presi.

Douglas tirò fuori la sua arma, la posizionò sulla poppa della nave e l’accese.

Il contraccolpo per poco non fece cadere Kimiko e Jack.

Kimoko spense il motore e la barca, velocemente, si allontanò dal loro inseguitore.

Il cacciatorpediniere, vista la presa sfuggirgli, fece fuoco con il cannoncino che era posizionato sulla prua, ma l’imprecisa mira degli occupanti rese la vita facile ai tre fuggitivi.

Il presunto punto in cui il veicolo spaziale era affondato fu raggiunto, dopo più di due ore di navigazione, con sempre il cacciatorpediniere alle calcagna.

Douglas spense la sua arma, tutti si tolsero i mantelli e il tagelmust, misero in funziona il casco e si buttarono nel mare, leggermente mosso per un temporale che stava arrivando da sud.

Nell’acqua, scendendo in profondità, i tre misero in funzione gli interfoni e si scambiarono le idee su cosa fare.

«Controllate i vostri bracciali! Forse qualche strumento acceso della nave ci consentirà di prendere contatto con lei!» Disse Douglas, mentre abilitava il suo bracciale.

Jack aveva qualche dubbio sull’uso della tuta in quel punto, dove il mare era molto profondo.

Kimiko gli si avvicinò e lo aiutò a regolare la tuta dal bracciale.

«Ma fino a che profondità possiamo spingerci?» Chiese Jack, molto preoccupato.

«Non ci sono limiti! La tuta compensa in automatico la pressione esterna con quella interna!» Disse Kimiko.

Douglas si avviò verso un punto imprecisato, seguendo un segnale che arriva da un punto davanti a lui e sotto di lui alcuni metri.

Gli altri due lo seguirono.

Il cacciatorpediniere si stava avvicinando velocemente, svuotando, velocemente, anche se capienti, i serbatoi di combustibile.

I tre videro una strana sagoma sotto di loro e, seguendo il segnale, si avvicinarono ad un boccaporto.

La nave spaziale, di forma indefinita, a prima vista, pareva non aver subito alcun danno.

Douglas armeggiò con il bracciale e il boccaporto si aprì.

Scivolarono dentro il locale e il boccaporto, automaticamente, come si era aperto, si richiuse e l’acqua fu subito espulsa.

Da dentro la nave pareva reclinata di parecchi gradi a babordo.

I tre si tolsero i caschi, che si nascosero nella tuta.

L’aria era pulita e fresca.

«Ottimo!» Disse Douglas, tentando di mettersi in piedi, con le parteti del locale ancora scivolose per la presenza dell’acqua.

«Se lo dici tu!» Disse Kimiko che, nel tentativo di alzarsi in piedi, scivolò e si rimise seduta.

«Già!» Disse Jack, che, seduto, si guardava intorno.

Il locale aveva pareti lisce e un boccaporto, speculare a quello in cui erano entrati.

Jack, camminando a carponi, gli si avvicinò, mentre anche Kimiko e Douglas, che si era rimesso seduto, lo seguivano a gattoni.

Il bracciale, che Jack portava, avvicinato ad un quadro di comando vicino al boccaporto, lo fece aprire, introducendoli in un locale ampio.

Entrati, le luci si accesero automaticamente, dando ancora di più l’idea dell’inclinazione del veicolo alieno.

«Dividiamoci e cerchiamo la cabina di comando!» Ordinò perentorio Douglas.

Douglas andò a sinistra, Kimiko diritta e Jack a sinistra.

Dopo dieci minuti, un urlò femminile nell’interfono fece trasalire Jack.

«Correte! Correte! Correte! Correte qui!» Urlò Kimiko.

Essendo qui un posto indefinito in quella enorme nave spaziale, come avevano potuto constatare Douglas e Jack, questi ultimi ritornarono sui loro passi e, incontratisi, si diressero dalla parte in cui era andata Kimiko.

La stanza in cui entrarono era enorme.

Era lunga più di dieci metri e larga cinque, di forma ovale, con console e video lungo le pareti, frammezzate da porte o pilastri portanti della struttura, che aveva la forma di un uovo.

In mezzo al locale altre console con video incassati, distanziate, coprivano l’intera area del locale.

Ma, alzando gli occhi, Jack si rese conto che il locale aveva una zona rialzata, proprio sopra l’ingresso, lunga circa due metri.

Kimiko stava guardando, in mezzo alla stanza, proprio sopra a quel soppalco.

Jack e Douglas gli si avvicinarono e seguirono lo sguardo di Kimiko.

Sul soppalco vi erano degli scranni, uno di essi era dorato.

I tre rimasero senza fiato: gli altri scranni erano di un bianco marmoreo impressionante.

All’improvviso un rumore sordo li fece trasalire.

Le luci, accese al minimo, improvvisamente aumentarono di intensità ed una voce parlò a loro.

« Tervetuloa intergalaktiseen tuntevien olentojen siirtojärjestelmään nimeltä Hujko III, Series Jourge, aurinkokunnan Kutrea, Ghitre-planeetalta.»
 

Dopo un loro momento di panico, Kimiko fu la prima a riprendersi.

«Parlasse almeno la nostra lingua!» Esclamò Kimiko all’invisibile interlocutore.

«Scusate!» Riprese la voce.

«Benvenuti nel sistema di trasferimento esseri senzienti intergalattico chiamato Hujko III, Series Jourge, del sistema solare Kutrea, proveniente dal pianeta Ghitre.»

«Così va bene!» Esclamò Douglas, ripresosi dalla choc iniziale.

«Sistema di trasferimento... cosa? E poi intendi per esseri senzienti?» Jack faceva troppo il pignolo per gli altri due, che lo guardarono stupefatti.

«I miei fabbricatori» Riprese la voce «mi hanno dato queste definizione di loro e di qualsiasi essere che potesse usarmi per spostarsi nello spazio infinito o, come meglio lo definite voi, galattico.»

«Ma hai un nome con cui possiamo chiamarti?» Chiese Kimiko.

La voce rimase un attimo in silenzio, forse cercando nei suoi chip una risposta ideale per quei nuovi occupanti dei suoi spazi vitali.

«Computer!» Disse la voce con un tono leggermente femminile.

«Mi sa che questo ha visto troppi film di fantascienza!» Affermò, deciso, Douglas, alzando gli occhi verso l’alto.

La nave risultava ancora inclinata e, a tutti, sembrò naturale chiedere alla macchina di livellarla, ma un rumore di motori passò sopra di loro.

«Era meglio affondarla quella dannata barca!» Esclamò Douglas.

«Se volete la posso…» Incominciò il Computer.

«No, zitta! Non fare niente!» Disse imperiosa Kimiko. «Dobbiamo prima evitare che la nave si riempi di acqua! Abbiamo visto delle perdite in giro! In che modo possiamo chiudere le paratie tra i vari comparti?»

Una console si illuminò, mostrando la pianta della enorme nave su di un video, con il veicolo evidenziato in color bianco su sfondo nero.

Le paratie vennero evidenziate in verde.

I numeri indicavano ogni singola paratia presente sulla nave.

Sul video, in basso a destra, veniva indicato, in verde, il livello dei ponti della nave spaziale.

Jack tocco quella zona del video, e apparve un livello più alto della nave.

Jack notò che a sinistra, in basso, vi era un simbolo in rosso.

Lo tocco e riapparve il ponte precedente.

Jack toccò una paratia, che da verde divenne rossa, mettendo la linea a chiudere il locale.

Incominciò a chiudere tutte le paratie esterne, facendo il giro tutto interno del veicolo.

Passò da un livello all’altro, finché tutte le paratie, che davano verso l’esterno, non furono tutte chiuse.

Jack guardò il suo lavoro soddisfatto, ma quel maledetto rumore di eliche ripassò sopra di loro.

«Ci vedranno?» Chiese Douglas.

«La nave è mimetizzata, genio! Chi vuoi che ci veda?» Ribatté Jack.

«Ma se urlate ci sentono! Abbassate il tono della voce!» Li rimproverò Kimiko, sottovoce.

«Non c’è problema!» Disse il Computer. «La nave è insonorizzata internamente ed esternamente! È praticamente impossibile che ci sentano. E l’occultamento è talmente fantastico, che difficilmente ci vedranno!»

La voce del Computer era più che soddisfatta.

«Sì. Ma le bolle dell’aria che fuoriescono dal veicolo possono essere viste! E per produrre energia devi far funzionare batterie o altro, che producono calore e possono essere rilevati! Per non parlare del fatto che siamo inclinati e che, se scivoliamo di lato, il rumore delle rocce smosse possono essere rilevate dai loro fonografi! Computer, intanto diminuisce la luce e cerca di mettere al minimo il supporto vitale. Anzi, lascialo acceso solo per questa zona del veicolo. Jack, chiudi le paratie di questo locale!»

Jack andò al monitor, chiuse le paratie della zona in cui erano, e il Computer diminuì la potenza dei motori e tolse il supporto vitale alle zone non occupate.

Il sommesso ronzio dei motori si attenuò di colpo, rendendo la cabina silenziosa.

Anche all’esterno sembrò che il rumore del veicolo non fosse più udibile.

Ma lo scivolamento dello scafo non si era fermato.

Erano vicino al punto più profondo e non sapevano se il veicolo avesse supportato tale profondità.

«Computer!» Disse Kimiko. «Fino a che profondità può resistere questa nave?»

Il Computer tacque: i suoi chip stavano calcolando cosa?

«Ho rilevato che se continuiamo a scivolare, finiremo nel punto più profondo del mare, a circa mille ottocento venticinque metri di profondità. Il veicolo, con gli scudi alzati, può tranquillamente giungere a quella profondità. Ma la messa in funzione di tale sistema di difesa richiede che il motore sia al cinque per cento di attività, che può far salire il tono del sistema di circa 40 decibel. Ci sentiranno.»

«E senza l’accensione del motore?» Chiese Jack.

«Cinquecento metri circa.» Rispose in modo flemmatico il Computer.

«Sì. Ma se scivolassero planando lontano dalla nave che continua a girarci sopra?» Chiese Kimiko.

Il Computer tacque.

Ci vollero circa dieci secondi prima che il Computer parlasse.

«Potremmo allontanarci di circa un chilometro, prima di arrivare a cinquecento metri, e poi accendere i motori e alzare gli scudi, finendo nelle profondità di questo mare. Non ci sentiranno!» Disse soddisfatto il Computer.

«Bene! Procedi!» Comandò Douglas.

Gli altri due lo guardarono con una faccia che voleva spiegazioni, ma lui fece spallucce.

Kimiko scosse la testa e Jack si avvicinò al vetro, in fondo al locale, che dava all’esterno.

Un improvviso scossone fece scivolare la nave verso il basso.

Il Computer fece planare il veicolo, nel mare nero come il petrolio, verso il fondo, allontanandosi dal cacciatorpediniere.

Arrivato ai cinquecento metri, il Computer accese il motore al minimo e alzò gli scudi.

Il rumore del motore si sentì subito, ma su un pannello, a cui Douglas si era avvicinato, intorno non vi era nessuno.

Un improvviso clinch attirò l’attenzione di Douglas.

«Cosa diavolo è?» Urlò ad alta voce Douglas.

«Un veicolo, lungo circa settanta metri, alto cica nove metri, di forma cilindrica. È ad una profondità di circa duecento metri. Dai miei dati può scendere ad un massimo di trecentocinquanta metri. Non può darci fastidio.» Disse il Computer, soddisfatto di sé stesso.

«Sì. Ma i loro sistemi di individuazione, anche se siamo mimetizzati, ci possono sentire. Meglio fermarsi sul fondo per un po’!» Disse Kimiko.

«E se potessimo mangiare e bere non sarebbe una brutta cosa!» Disse Douglas, con il suo stomaco che rumoreggiava.

Una console, verso l’ingresso della stanza, si illuminò e apparve del cibo e da bere.

L’acqua, nei bicchieri di plastica dura, o qualcosa di simile, era limpida e il cibo (una bistecca di carne alta un centimetro, con patatine fritte, insalata e altre verdure) avevano una faccia molto invitante.

Douglas prese un piatto, un bicchiere, delle posate bianche, anch’esse forse di plastica, e si diresse verso un tavolo circolare, vicino alla finestra che dava all’esterno, con intorno tre sedie.

Gli altri due fecero lo stesso e si sedettero al tavolo.

Il Computer continuò a far scendere il veicolo sul fondo del mare, con alle calcagna il sottomarino.

Raggiunto il fondo, i tre avevano letteralmente ripulito i piatti e stavano ancora guardandosi in giro in quella strana stanza.

Il sottomarino continuò a girare sopra a quel fondale.

Il livello del rumore del motore, a quella profondità, non consentiva il rilevamento da parte degli inseguitori, che continuavano, comunque, a cercarli.

«Computer! Quanto tempo possiamo stare qui sotto?» Chiese Jack, preoccupato.

«Con il motore a questa potenza, con solo voi tre, possiamo stare qui dai cinque ai sei mesi.» Rispose il Computer.

«Bene. A questo punto direi che un pisolino non ci farebbe male!» Decretò Douglas.

«Ma pensi solo ai tuoi bisogni fisiologici! Magari vorresti anche un cesso?» Lo rimbeccò Kimiko.

«Bhe, in effetti, se ci fosse…» Ma Douglas non finì la frase: gli altri due si misero a ridere e il Computer fece apparire dei letti, verso l’ingresso del locale, spostando alcune console, e da una porta usci il rumore di uno sciacquone.

Douglas di infilò nel locale, mentre gli altri due si diressero verso i letti.

Kimiko disse qualcosa al Computer, che Jack non capì.

Ma l’improvvisa apparizione di un armadio a muro, con vestiti più comodi della tuta, gli fece comprendere la richiesta della ragazza.

Si cambiarono, senza troppe formalità sul fatto che erano completamente nudi, senza la tuta, e si misero delle tute da ginnastica, molto più comode.

Quando Douglas, finalmente, uscì dal bagno, Kimiko vi andò, senza chiedere il permesso a Jack.

All’apertura della porta, Kimiko fu raggiunto da un odore sgradevole.

«Computer! Ricambio d’aria immediato nel locale bagno!» Urlò la ragazza.

La porta si richiuse e un improvviso vento rumoreggiò nel locale.

Quando la porta si riaprì, l’odore se ne era andato.

Douglas vide che Jack aveva un vestito diverso dalla tuta: non fece a tempo a chiedere che l’altro gli indicò l’armadio, con dentro i vestiti.

Jack si sdraiò sul letto, mentre il computer diminuiva la luminosità dal locale.

Anche Douglas, dopo essersi cambiato, si sdraiò sul letto.

Il sonno raggiunse i due velocemente.

Quando Kimiko uscì dal bagno, i due russavano tranquillamente.

Kimiko si avvicinò al vetro e guardò fuori.

Il sottomarino continuava a ruotare, ottocento metri su, cercando la nave spaziale sotto di lui.

Kimiko si allontanò dal vetro e si diresse verso il letto libero.

Vi si distese, stanca morta, addormentandosi tra il dolce rumore del russare dei suoi compagni di avventura e del ronzio del motore che li proteggeva dai nemici.

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