Frammenti di Specchio

di Registe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Un nuovo viaggio ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Colpo furtivo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Cacciatori e prede ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Traccia di dati ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Questioni di famiglia ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Solitudine ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Nella notte e nel buio ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Mille volti ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - I bassifondi ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - The things we do for love ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Cavaliere Jedi ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Il diavolo è nei dettagli ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Lontano da te ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - I raminghi dei Bassifondi ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Ghiaccio sottile ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Accettazione ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Preparativi per la festa ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Nella tana del Sole Nero ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 - Lezione sul campo ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 - Danza con il diavolo ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 - Vent'anni dopo ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 - Dalle ceneri ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 - Proposta indecente ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - L'Alba Cremisi ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 - Io sono te e tu sei me ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 - The alchemist's apprentice ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 - Dimostrazione, ma di cosa? ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 - Qualcosa va lasciato indietro ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Un nuovo viaggio ***


Capitolo 1- Un nuovo viaggio







Le Case di Guarigione di Minas Tirith







Le tre del pomeriggio erano il suo momento preferito per usare la mensa. A quell’ora, nel vasto stanzone bianco, inondato di luce, le lunghe tavolate erano completamente vuote. Gli altri medici delle Case di Guarigione erano stati più che disponibili a rifilargli tutti i turni tra mezzogiorno e le due, orario in cui non si reggevano in piedi dalla fame e affollavano la mensa come un branco di cavallette inferocite. Mangiare più tardi non era un problema per lui. Vexen era sempre stato resiliente contro fame e sonno, e la tranquillità di un pranzo senza Ribelli vocianti di sottofondo non aveva prezzo.
Doveva ammettere che, sulla Terra II, la cucina non era affatto male. Forse le porzioni erano lievemente abbondanti se uno doveva rimettersi a lavorare subito dopo, ma le lasagne al sugo dal profumo caldo e invitante, che si scioglievano in bocca in un trionfo di mozzarella filante, erano una piacevolissima variazione dopo mesi di insipide sbobbe demoniache.
Quel giorno non erano previste lasagne nel menù, ma Rosy Cotton, la giovane hobbit che cucinava per le Case di Guarigione di Minas Tirith, gli aveva consegnato con un gran sorriso un vassoio colmo fino all’inverosimile delle sue leggendarie patate arrosto, accompagnate da una fetta di manzo sugoso talmente tenero che quasi non c’era bisogno di masticarlo. Prima di ritirarsi nelle cucine gli aveva chiesto se doveva lasciare acceso l’oloschermo appeso alla parete di fondo, al momento sintonizzato su un notiziario imperiale.
“Perché no? Darò un’occhiata.”
Vexen doveva ammettere di ammirare la grazia e la naturalezza con cui il popolo primitivo della Terra II aveva integrato la tecnologia ribelle nei propri palazzi più rappresentativi. Il sottile oloschermo sembrava appartenere da sempre a quella sala dall’architettura semplice e ariosa, con la sua leggera cornice dello stesso bianco delle pareti e delle colonne affusolate ai lati dell’arco d’ingresso. Nella città di Minas Tirith tutti gli edifici erano di pietra o marmo bianco. Gli ricordavano il Castello dell’Oblio.
 

“… conferenza stampa congiunta del Gran Moff Tarkin e dell’Ingegnere Capo Krennic. L’indomito governatore di Coruscant, brillante mente dietro le battaglie spaziali che hanno annientato le letali bestie volanti del Grande Satana, ha rallegrato i cittadini della capitale imperiale con eccellenti notizie riguardo la ricostruzione dei settori del pianeta devastati dall’attacco vile e spregiudicato dei demoni e dei loro mostruosi servitori non-morti. A tre mesi dai tragici eventi, il governatore e gli ingegneri, al lavoro giorno e notte per ripristinare il cuore pulsante del nostro amato Impero alla sua gloria suprema e imperitura, stimano che nel solo Quadrante Beta…”


 
“Come fa la gente a credere a questa spazzatura?”
Rosy Cotton gli aveva lasciato il telecomando, e Vexen si affrettò a sfiorare il pannello per selezionare un qualsiasi altro canale. Finì sull’emittente di una specie aliena sconosciuta che trasmetteva un qualche tipo di spettacolo musicale, molto popolare a giudicare dalle enormi masse di pubblico che affollavano l’anfiteatro in cui si svolgeva la rappresentazione. Non capiva una parola, ma come sottofondo era tutto sommato gradevole. Meglio della propaganda imperiale, senza dubbio.
Il notiziario gli aveva ricordato un’ulteriore circostanza spiacevole. Erano trascorsi tre mesi dalla distruzione del Baan Palace, e lui era ancora bloccato su quel maledetto pianeta, a scontare la sua “sentenza” lavorando come medico presso l’Alleanza Ribelle.
All’inizio aveva creduto di riuscire a liberarsi molto più in fretta. Quando i Ribelli avevano parlato di “cento giorni di festa” lo avevano inteso in senso letterale (danze, sagre e fuochi d’artificio si susseguivano ancora giorno dopo giorno, ogni volta in parti diverse della città), e Vexen aveva sperato di confondersi nel marasma di luci, suoni e colori per imbarcarsi clandestinamente sul primo trasporto in procinto di lasciare il pianeta.
Tuttavia, i Ribelli non erano sopravvissuti così a lungo contro un avversario tremendamente superiore per uomini, mezzi e tecnologia senza sviluppare almeno un briciolo di furbizia. Alla fine del processo la principessa Leona aveva affidato a Camus il compito di sorvegliarlo, ma evidentemente non si era fidata di lasciare un prigioniero così importante sotto la responsabilità di una sola persona. Non appena il tribunale si era sciolto, un paio di soldati nerboruti lo avevano costretto a indossare una di quelle cavigliere elettroniche che i mondi civilizzati utilizzano al posto della classica palla al piede, un dispositivo diabolico che monitorava in tempo reale i suoi parametri vitali e ogni suo minimo spostamento. Ovviamente qualsiasi tentativo di manomettere il congegno avrebbe inviato un segnale d’allarme, e Vexen non era sufficientemente esperto di quel tipo di tecnologia per disattivarlo senza che nessuno se ne accorgesse. Pertanto i suoi primi sforzi, tra un’ondata e l’altra di feriti di guerra da curare, si erano concentrati su come aggirare quel problema.
La soluzione si era presentata quasi per caso, sotto forma di un menestrello errante.
Il soggetto in questione diceva di chiamarsi Eldoth ed era arrivato alle Case di Guarigione per un periodo di riabilitazione dopo aver rischiato di perdere una gamba nel mondo del GSB, durante un bombardamento degli Star Destroyer, perché, a suo dire, voleva “vedere le astronavi da vicino”.
Le navi imperiali, tuttavia, non erano la sua unica fonte di interesse.
“Demoni, Impero, Ribelli… non mi importa un accidente di nessuno di loro. Io vado solo a caccia di buone storie. E tu, amico mio, a giudicare da quello che si dice qui in giro, potresti averne di molto interessanti.”
Si era sporto dal bordo del letto, abbassando la voce in tono da cospiratore. “Sai, sto lavorando a un poema sul famoso Castello dell’Oblio di cui si parla tanto su questo pianeta. Sarà l’opera del secolo. Qualche uccellino mi dice che tu potresti offrirmi testimonianze di prima mano. Sono disposto a pagare, ovviamente.”
Non gli piaceva affatto quel tipo. Dietro la voce melodiosa e i sorrisi troppo larghi nascondeva modi da serpente. Ma d’altronde, per ciò di cui aveva bisogno, non poteva contare sull’aiuto di persone oneste.
Si era costretto a ricambiare il sorriso al meglio delle sue abilità. “È il tuo giorno fortunato. Il mio prezzo è assolutamente accessibile. Ma non si tratta di denaro.”
Eldoth aveva ascoltato la sua richiesta senza battere ciglio. Una settimana dopo, quando il bardo era già stato dimesso dalle Case di Guarigione, se lo era ritrovato appoggiato a una colonna del cortile, avvolto in un mantello con cappuccio da viaggiatore e con un bastone nodoso stretto tra le mani nell’imitazione molto convincente di un mendicante. Avvicinandosi e scorgendo tra le pieghe del cappuccio aveva notato che il menestrello si era anche sporcato il viso con della cenere, e cantilenava disperate richieste di cibo e monete nel timbro flebile e spezzato di un ultracentenario.
Vexen aveva finto di impiegare molto tempo ad estrarre il borsellino dalla tunica per porgergli qualche spicciolo come offerta.
Ringraziando una lunga lista divinità con belati squillanti, Eldoth aveva afferrato le monete, facendogli allo stesso tempo scivolare nel palmo della mano un piccolo involto di tela grezza dentro al quale si intuiva un oggetto di forma rettangolare.
“Farà aprire la cavigliera senza disattivare il tracciatore” aveva sussurrato tutto d’un fiato.
“È sicuro?”
I denti bianchissimi del menestrello erano balenati nel ghigno ferale di un predatore. “Assolutamente. C’è una tipetta bruna niente male al reparto tecnico che ha decisamente perso la testa per me.”
Si erano dati appuntamento per la sera successiva in una locanda nella quinta cerchia di mura, dove davanti a un boccale di sidro e al bardo armato di carta e penna, Vexen aveva trascorso un paio d’ore raccontando tutto ciò che gli veniva in mente sul Castello dell’Oblio. Un onesto miscuglio di realtà e fantasia. Più realtà che fantasia, a dire il vero. Inventare era più impegnativo, e arrivato a quel punto Vexen non aveva ormai alcun interesse a proteggere i segreti del Castello.
Tanto più che il Castello dell’Oblio aveva da tempo cessato di esistere.
Rimosso l’ostacolo numero uno, ne rimanevano innumerevoli altri da superare. Procurarsi denaro per il viaggio. Ottenere documenti falsi abbastanza convincenti da superare i controlli imperiali. Trovare un mezzo per raggiungere Coruscant.
I soldi erano la parte più semplice. Innanzitutto aveva venduto al mercato della seconda cerchia un paio di oggettini di modesto valore che alcuni pazienti delle Case di Guarigione gli avevano donato in segno di gratitudine. Poi, utilizzando l’alchimia, aveva convertito quel pugno di monete d’oro della Terra II in altra chincaglieria soprammobile, che aveva a sua volta rivenduto in vari punti della città in cambio di crediti imperiali. Il risultato di queste operazioni era un piccolo capitale di partenza che gli avrebbe permesso almeno di lasciare il pianeta e procurarsi vitto e alloggio per alcuni giorni. Esaurito quello, avrebbe improvvisato.
In tre mesi aveva dedicato ogni istante libero dal lavoro nelle Case di Guarigione per pianificare la sua fuga. Una parte del suo cervello restava sintonizzata giorno e notte sul problema. Ci pensava persino in quel momento, mentre con una fetta di pane ripuliva meticolosamente il piatto dal sugo della carne e mandava giù l’ultimo boccone insieme a un lungo sorso d’acqua. Finalmente, dopo tanti sforzi, la partenza tanto agognata sembrava davvero a portata di mano.
Sazio e soddisfatto, Vexen spinse in avanti il vassoio, reclinò le spalle sullo schienale e socchiuse le palpebre, cullato suo malgrado dalla voce di velluto del tenore alieno nell’oloschermo.
 

“Sing once again with me
Our strange duet…


 
Probabilmente sarebbe scivolato nel sonno se un’altra voce, ugualmente squillante ma proveniente dal mondo reale, non lo avesse salutato con calore dall’ingresso della mensa.
“Padron Vexen! Oggi ho fatto persino più tardi di lei!”
Lo scienziato riaprì gli occhi di scatto, raddrizzando la schiena e salutando il sacerdote con un cenno. Camus, le braccia cariche di un altro vassoio fumante, venne a sedersi nel posto di fronte al suo. La sua faccia, già normalmente distesa e sorridente, irraggiava gioia con l’intensità di una piccola centrale nucleare.
“Qualcosa mi dice che l’operazione è andata bene. Girion sosteneva che il cuore sarebbe collassato in meno di un’ora. Gli ho detto di andare a buttarsi giù da un dirupo.”
Girion era il capo delle Case di Guarigione, un elfo pomposo molto bravo ad abbaiare ordini a destra e manca, ma che in tre mesi Vexen non aveva ancora mai visto mettere le mani su un paziente. Inutile dire che si erano cordialmente detestati sin dal primo momento di collaborazione forzata.
Camus era talmente emozionato che dimenticò persino di riprenderlo per l’insulto. Si protese sul tavolo con gli occhi azzurri che scintillavano, raggianti di orgoglio e commozione.
“Il ragazzo camminerà di nuovo, padron Vexen. La mia prima operazione senza nessun aiuto da parte sua. Io… non so davvero come dimostrarle quanto le sono riconoscente per tutto ciò che mi ha insegnato.”
“Potresti cominciare con metà delle tue patate arrosto.”
“Sono tutte sue!”
Vexen partì subito all’attacco della nuova porzione di patate appena sfornate. La fame era saziata da un pezzo, adesso rimaneva soltanto la gola a farla da padrone. A volte si domandava se i Ribelli drogassero il loro cibo con stimolanti o altre sostanze di natura magica, perché non aveva mai amato così tanto mangiare come da quando era sulla Terra II. Se continuava così, su Coruscant ci sarebbe arrivato rotolando.
“Accidenti” commentò tra un boccone e l’altro. “Mi sono perso la faccia dell’elfo di fronte alla tua performance.”
“Era un po’ simile alla sua quando finiscono le bustine di tè.”
Vexen sollevò lo sguardo per trafiggerlo con un’occhiataccia, ma l’effetto truce fu platealmente rovinato dalla risatina che gli sfuggì involontariamente tra le labbra. Camus non riuscì a trattenersi a sua volta, riempendo la mensa vuota della sua risata cristallina.
L’assistente impacciato che non sapeva distinguere un batterio da un parassita era cresciuto. Vexen provò un moto di orgoglio al pensiero di essere stato capace di trasformare un sacerdote, una creatura per sua natura ottenebrata dalla religione, in un medico vero.
Rimase per un attimo con la forchetta a mezz’aria, colpito dalla portata di quella riflessione. Da quando considerava Camus… non un suo pari, forse, ma uno scienziato degno di rispetto?
Non avrebbe saputo dirlo.
“Ho… un’altra notizia per lei, padron Vexen.”
Il sacerdote era tornato serio, e Vexen colse le sue occhiate furtive in direzione dell’ingresso e delle cucine. Capì subito cosa stava per dirgli. Si sorprese a stringere la forchetta in modo spasmodico, mentre cambiava posizione sulla sedia per dissimulare la tensione crescente. Improvvisamente nella mensa faceva molto caldo.
La voce di Camus si ridusse a un sussurro, nascondendosi dietro i gorgheggi cristallini della cantante che ora dominava l’oloschermo.
“I documenti saranno pronti in tre giorni.”
Vexen sentì il respiro che aveva involontariamente trattenuto liberarsi di colpo, i muscoli delle spalle rilassarsi lentamente sullo schienale.
Tre giorni.
Soltanto tre giorni lo separavano dalla libertà.
“Come… come hai fatto?”
Durante le prime settimane sulla Terra II, Vexen aveva dibattuto a lungo con se stesso se coinvolgere o meno Camus nel suo piano. Ormai conosceva abbastanza il sacerdote da essere certo che avrebbe smosso il cielo e la terra per venirgli in aiuto, ma allo stesso tempo non si faceva illusioni: sin dal primo momento in cui aveva messo piede a Minas Tirith, il suo giovane apprendista aveva abbracciato la causa della Ribellione in maniera totale e incondizionata.
Era uno di loro, ormai. Un membro dell’Alleanza in tutto e per tutto.
“Ho semplicemente chiesto” sorrise Camus.
“Mi prendi in giro?”
Alla fine, tuttavia, non c’era stato bisogno di dirgli nulla. Camus, semplicemente, sapeva. Probabilmente lo aveva saputo ancora prima che Vexen formulasse il primo abbozzo di piano nella sua mente. E una sera, nel piccolo alloggio che condividevano al terzo piano delle Case di Guarigione, dopo una giornata di lavoro massacrante, gli aveva semplicemente chiesto con il suo consueto candore a che punto fosse con i preparativi. Il resto era venuto da sé.
“L’Alleanza sta preparando una missione sotto copertura, di cui farò parte anch’io. Mi sono semplicemente limitato a chiedere un documento in più.”
“Con le mie specifiche.”
“Ho fatto presente che alla spedizione potrebbe fare comodo un secondo medico di supporto. E che il mio compito è sempre quello di sorvegliarla, padron Vexen.”
“E le loro altezze reali si sono bevute questa scusa?“
A quella domanda il sacerdote arrossì leggermente. Quasi non aveva toccato la porzione rimasta nel suo piatto dopo l’incursione dello scienziato.
“Diciamo… che non ho esattamente chiesto il permesso ai capi. Ho soltanto inoltrato la richiesta alla squadra che si occupa dei documenti. L’Alleanza… non ha le complicazioni burocratiche dell’Impero. Né la gerarchia rigida dei demoni.”
“Non posso crederci… “
Vexen bevve un altro sorso d’acqua e si rigirò distrattamente il bicchiere vuoto tra le dita. Era pronto a scommettere che la stessa richiesta avrebbe suscitato molte più domande se posta da una persona diversa, un tipo dall’aria truce come Auron, ad esempio. Ma Camus emanava luce ovunque andasse, e i suoi grandi occhi da bambino alla scoperta del mondo spalancavano davanti a lui qualsiasi porta.
“Posso farla salire sul nostro trasporto, padron Vexen. Nasconderla da qualche parte e farla scendere alla prima sosta in territorio imperiale. Da lì potrà prendere un qualsiasi volo civile diretto a Coruscant.”
Aveva pensato a tutto. Vexen si sorprese a gettare occhiate tutto intorno con la consapevolezza di chi sa di vedere un luogo per l’ultima volta, cercando di mandare a mente i piccoli particolari che lo rendevano unico. Le corsie ariose tra le tavolate, le macchie di luce tra le morbide geometrie azzurrine delle maioliche sul pavimento. Il bianco gentile delle pareti, diverso da quello alieno e asettico del Castello dell’Oblio, un bianco che rivelava amore per la cura e la meditazione. E, naturalmente, la scia di profumi paradisiaci che serpeggiava pigramente in direzione delle cucine.
Non poteva certo dire che gli sarebbe mancato quel posto… eppure, cavigliere elettroniche e sguardi assassini di Auron a parte, la vita sulla Terra II non era affatto spiacevole. La prima parentesi quieta della sua esistenza in non ricordava più quanti anni.
Si versò altra acqua dalla caraffa di ceramica sul tavolo.
“Spero soltanto che tutto questo non ti causi dei problemi.”
“Padron Vexen, è davvero gentile a preoccuparsi per me. Ma non deve avere timore. Saprò cavarmela.”
“Sai com’è, non vorrei vedere anni di sforzi per infilarti in testa un po’ di scienza e medicina finire davanti al plotone di esecuzione.”
A Camus sfuggì una risatina. “I Ribelli non sono quel tipo di persone, padron Vexen.”
“No?” Lo scienziato sollevò un sopracciglio con aria scettica, tamburellando sul tavolo con le dita. “A me pare di ricordare un certo processo in cui si è votato su dei fogliettini se fare fuori o meno una persona… c’era già chi si offriva per fare il boia, se non erro.”
“Ma ha vinto la parte moderata. E di molto.”
Il sacerdote finalmente si era deciso ad impugnare forchetta e coltello e iniziare a tagliare la sua carne. Vexen pensò che, se esisteva un crimine degno di essere processato, era lasciare quella prelibatezza raffreddarsi così tanto prima di mangiarla.
Nell’oloschermo, adesso, almeno cinque voci diverse si inseguivano e si sovrapponevano in un botta e risposta concitato, dando prova di notevole virtuosismo canoro. In particolare l’unica voce femminile raggiungeva altezze che sarebbero state impossibili per delle corde vocali umane, e Vexen quasi si aspettava di veder tremare e incrinarsi il suo bicchiere e quello di Camus.
“Non stia in pensiero per me” ripeté il sacerdote, più piano adesso. “Si concentri solo sulla sua ricerca. È la cosa più importante.”
Stavolta Vexen non controbatté, perché quello che Camus diceva era vero. E, per quanto potesse sembrare incredibile, non si stava riferendo alla ricerca nel senso scientifico del termine.
In realtà nemmeno Vexen aveva idea di cosa avrebbe fatto una volta raggiunto l’oggetto del suo cercare. Non era neanche troppo sicuro di come lui avrebbe reagito vedendoselo comparire all’improvviso davanti. C’era la possibilità concreta che non volesse nemmeno parlargli. Ma erano domande a cui non sapeva e non poteva rispondere in quel momento, perciò aveva deciso di concentrarsi sui problemi a portata di mano, di proseguire a piccoli passi. Un ostacolo alla volta.
Il sacerdote aveva di nuovo smesso di mangiare, e adesso lo fissava con un sorriso un po’ mesto.
“Però, padron Vexen… sono egoista se le dico che sentirò molto la sua mancanza?”
“No. Sei solo patetico.”
“Se ci pensa, sono più di quattro anni che viaggiamo insieme. Ne abbiamo passate così tante… “
Vexen ritenne prudente stroncare sul nascere quella malinconica passeggiata sul viale del ricordo. Tanto più che cominciava a sentire un certo peso all’altezza dello stomaco, e non era sicurissimo che si trattasse della doppia porzione di patate.
“Non sto andando in guerra, Camus. E abbiamo sempre gli olopad che i tuoi simpatici amici dell’Alleanza ci hanno gentilmente regalato, no? Basta che non usi il tuo per inviarmi chili di preghiere.” Emise un sospiro volutamente profondo e teatrale.
“Lo farò soltanto se lei eviterà di proposito di rispondermi, padron Vexen.”
Un secondo sospiro, ancora più enfatico, e Vexen si lasciò scivolare lungo lo schienale, appoggiando la nuca al bordo della sedia.
“Che ignobile ricatto. Adesso però fammi un favore e finisci quel cibo. Altrimenti mi toccherà mangiare anche quello.”






Dall’acqua si alzava un odore particolare. Per un attimo le ricordò lo zolfo della Terra I, ma era più profondo, più pesante. Forse somigliava al gas tibanna prima della raffinazione.
Abbandonò qualsiasi tentativo di paragone quando immerse i piedi nella pozza ed il calore dell’acqua la chiamò a sé; le gambe erano ancora intorpidite, ma la trascinarono in avanti senza alcuno sforzo finché non si immerse fino al petto, osservando con una pigrizia che non le era mai appartenuta le bolle che risalivano dal fondo e borbottavano lungo la superficie con un tenue rumore di sottofondo. Si accorse di avere difficoltà a mantenere l’equilibrio sulle rocce e si costrinse ad appoggiare almeno una mano sui sassi che affioravano lungo il bordo: quella debolezza era umiliante, ma non era nulla rispetto all’idea di svenire nell’acqua come una donnicciola e costringere il suo accompagnatore a soccorrerla.
E lei aveva davvero bisogno di un bagno.
“Tutto bene?”
Il fastidioso tempismo della figura che le dava le spalle, in piedi oltre la pozza di acqua calda, le rubò un suono di stizza che per fortuna venne coperto dal rumore delle bolle. Per riflesso si immerse fino alle spalle prima di mormorare un semplice “Tutto a posto. La ringrazio, Generale”.
Una precauzione inutile, ovviamente: Baran, il Generale del Drago Diabolico, non si sarebbe voltato se non fosse stato necessario. Avrebbe fatto volentieri a meno della sua presenza, ma il suo corpo ancora non si era ripreso come avrebbe voluto e le scale scavate nella pietra che conducevano alla pozza sarebbero state proibitive per il suo precario equilibrio ancora per diversi giorni. Sarebbe stato meno imbarazzante farsi accompagnare da qualcuno dei suoi rumorosi servitori, ma il Cavaliere del Drago era stato irremovibile.
Le mani trovarono uno sperone di roccia posto un po’ più in basso. Vi si appoggiò e, con cautela, si immerse fino alla testa. Strofinò i capelli abbastanza a lungo da sentire i grumi ed i nodi accumulati negli ultimi mesi sciogliersi sotto le dita e, quando riemerse per riprendere fiato, si accorse di sentirsi davvero molto meglio.
A conti fatti, l’ultima volta che Zam Wesell si era concessa un bagno era stato oltre tre mesi addietro, ed in quell’arco di tempo le erano accadute diverse cose. Tra cui, ad esempio, essere morta.
Chiuse gli occhi, assaporando il calore contro la pelle, ed immediatamente il ricordo del ghigno di Kaspar venne a farle visita. Un dolore acuto le partì dalla schiena proprio nel punto in cui l’incantesimo del mago l’aveva colpita e con fatica cercò di raggiungere il punto con le proprie dita; torcere il braccio in quella posizione le richiese uno sforzo superiore al previsto, ma si sforzò di non emettere nemmeno un suono che potesse allarmare il Generale. I polpastrelli esplorarono la pelle, spingendo contro le costole per silenziare il dolore, ma non trovarono nessun ispessimento, nessuna cicatrice. Ricordava solo l’immagine di Kaspar che si teleportava lontano da lei, le Pietre della Sapienza in mano, e la sensazione della pioggia di Kamino lungo tutto il viso. Era morta, e se non fosse stato per il Cavaliere del Drago e per i suoi compagni il suo corpo sarebbe probabilmente stato trascinato via dalle acque nere di quel dannato pianeta.
Era morta, ed il sangue dell’uomo che aspettava oltre la pozza, avvolto dai vapori densi di quel posto, le aveva restituito la vita. Lui non glielo aveva mai detto in maniera esplicita, ma i suoi attendenti parlavano molto, anche quando credevano che lei fosse svenuta o addormentata; e da quando si era risvegliata, nemmeno quattro giorni prima, tra il sonno e la veglia si alternava l’immagine della figura dagli enormi baffi scuri che si chinava su di lei per accertarsi della sua salute. Ricordava di essersi alzata e di aver visto la sua immensa schiera di draghi, ma doveva essere svenuta per lo sforzo e quell’acqua bollente, dal profumo acre, sembrò fissare ogni cosa nella sua testa. “Perché lo ha fatto?”
“Fatto cosa?”
Non c’era ironia in quella voce. Non un leggero acuto, un tremito, qualcosa che facesse pensare ad una velata forma di cortesia: Zam Wesell aveva appreso sin dalle prime battaglie contro la famiglia demoniaca che suoi avversari non fossero assolutamente in grado di fingere, e senza dubbio il Cavaliere del Drago non faceva eccezione. Parlare la affaticava, ma non poteva rimandare quella discussione un istante più del necessario. “Salvarmi la vita. Ridarmela, addirittura. Non so nemmeno bene come, se è per questo” sussurrò. Non aveva mai sentito la propria voce così fioca. “Siamo nemici, giusto?”
“Il mio nemico è l’Imperatore Palpatine”.
Anche il mio, pensò tra sé, ma impedì al pensiero di trasformarsi in un suono che l’altro potesse sentire. La figura era ancora immobile, le braccia incrociate contro il petto, ed anche in quel loro patetico scambio di battute non aveva mosso un solo muscolo, non aveva spostato il peso da una gamba all’altra, non aveva abbassato le braccia per recuperare la circolazione. Se non fosse stato per la voce avrebbe potuto scambiarlo per la statua di una divinità. L’elsa della Spada del Drago, che spuntava da sotto il mantello del Generale, sembrava più espressiva e viva del suo stesso padrone. Attese qualche istante, ma la figura non sembrava intenzionata ad offrirle spiegazioni; non che gliene dovesse, certo.
Quando uscì dall’acqua si accorse di non avere affatto freddo, ma sapeva che il beneficio del bagno rovente non sarebbe durato più di qualche minuto e si affrettò ad asciugarsi. Piegarsi era fuori discussione, dunque si costrinse a sedersi.
Una debolezza temporanea, mormorò tra sé. Una stupida debolezza temporanea.
Aprì una sacca che il Generale del Drago le aveva portato e vi trovò una tunica di tessuto bianco, piuttosto pesante al tocco. Aveva dormito tra la vita e la morte per mesi con lo stesso abito addosso, eppure adesso l’uomo a cui doveva il proprio ritorno le suggeriva in silenzio di indossare qualcosa di pulito. Probabilmente, pensò mentre osservava la tunica, nessuno dei membri della famiglia demoniaca avrebbe sfiorato il corpo di una donna inconscia nemmeno per errore; il pensiero la fece quasi sorridere.
“Cosa ci fa una come te al servizio dell’Imperatore? È da quando ci siamo scontrati per la prima volta che me lo sto domandando”.
Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata. Lo aveva immaginato sin da quando aveva capito che era sopravvissuta allo scontro su Kamino per un atto di pietà dei suoi nemici, non per la premura dei propri alleati. Osservò la figura che le dava le spalle, immaginando la sua espressione immobile sotto i baffi scuri ed il diadema che gli adornava metà del volto. Un viso che sembrava scolpito nella pietra anche durante lo scontro più infiammato. “Sei una donna d’onore. A Coruscant avresti potuto prendere la vita di Hadler, ed hai deciso di non farlo. Ci hai avvisati della trappola dell’Imperatore sulla nave in partenza da Canastra IV. Combatti contro di noi, ma saboti gli attacchi dei tuoi stessi alleati” disse “Qualcuno potrebbe pensare che tu sia più demone che umana”.
Qualcuno … chi, Generale?”
L’abito che le aveva portato era senza dubbio appartenuto a qualcun altro. Una tunica stretta come quelle che si portavano su pianeti come Jakku, con un paio di maniche corte che faticò più del previsto ad indossare ed una cintura che strinse a fatica fino all’ultimo buco. Nonostante questo la sentì larga e cadente, ben diversa dai suoi abiti pensati per sopportare tutte le trasformazioni del proprio corpo. I sandali enormi, con dei legacci di cuoio che estese quasi fino al ginocchio, le confermarono che quegli abiti dovevano essere appartenuti ad un uomo. O un demone. “E comunque non sono un’umana. Non lo sarò mai”.
“Questo è un bene”.
Si voltò con incredibile lentezza. “Ma ciò non risponde alla mia domanda”.
“È una storia lunga, Generale. E non credo che la maggior parte dei punti possano interessare ad una persona come lei”.
“Questo lo valuterò io”.
Un solo movimento, molto veloce. Abbassò il ginocchio destro e si chinò a terra, al suo fianco, e Zam sentì il braccio di lui, coperto da un pesante bracciale da guerra, appoggiarsi al di sotto della propria spalla. Si preparò ad essere strattonata di peso, ma il Cavaliere del Drago non fece nulla di simile; impiegò alcuni secondi a capire che il Generale le stava dando modo di sollevarsi da sola, senza alcuna spinta da parte sua.
Curioso.
Puntò i piedi a terra, appoggiandosi con una mano alla parete e con l’altro braccio a quello di lui. Si sentì la testa pesante, ma solo per qualche istante. Lui mosse il primo passo verso le scale “Negli ultimi giorni ho molto tempo a disposizione”.
Sarebbe stata la salita più lunga della sua vita. Ma, nonostante la situazione, Zam si ritrovò a sogghignare come non faceva da tempo. “Si pentirà di avermelo chiesto, Generale. Se ne pentirà”.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Colpo furtivo ***


Capitolo 2- Colpo furtivo







Una Twi'lek











Narratore: “No, Registe, ricominciamo? Sul serio?”
Registe: “Ci hai chiesto di tagliare sui flashback dei nostri personaggi preferiti. Abbiamo accettato la tua richiesta ed invece di scrivere dei flashback abbiamo fatto direttamente una puntata speciale a loro dedicata. Adesso non credi che sia il caso di rientrare nei ranghi con le tue richieste?”
Narratore: “Voi abusate della mia pazienza!”
Registe: “E tu della nostra. Suvvia, stavolta non si tratta di Vexen, non sei felice?”
Narratore: “Beh, è già un passo avanti dalla vostra monotematica senilità, ma c’è ampio spazio di miglioramento. So che avete nel cassetto la questione della genesi di Sephiroth, perché non narriamo quella?”
Registe: “Da quando in qua ha accesso ai nostri cassetti segreti?”
 
 
Tre.
Sì, non si era sbagliata. Un Tarc, due umani.
Il Tarc sarebbe stato il problema, ovviamente.
Zam si strinse contro una roccia, trattenendo il respiro. I suoi inseguitori dovevano conoscere bene quel posto, perché procedevano molto più spediti di quanto avesse fatto lei; non usavano distorsori acustici per celare i loro passi ed uno degli umani doveva portare più armi di un droide IG, almeno a giudicare dal fracasso che faceva ogni volta che saliva su un masso.
Rimase in ascolto.
Il clangore metallico dell’umano arrivava in anticipo rispetto agli altri suoni. Anche i grugniti del Tarc, che superavano i commenti dei suoi compagni di almeno una decina di toni, le giungevano con qualche secondo di ritardo. Poteva trattarsi un effetto acustico di quelle grotte, ma Zam aveva trascorso troppi anni nel sottosuolo di Zolan per non accorgersi di quel dettaglio ed in quel momento aveva bisogno di tutte le informazioni possibili.
Entrare lì dentro era stata la sua unica possibilità. Se non fosse stato per i suoi riflessi sarebbe rimasta coinvolta nell’esplosione dello speeder che aveva rubato nella fuga, e la scelta era stata tra vagare allo scoperto lungo la sabbia del deserto di Tatooine o buttarsi in quella caverna rocciosa nella speranza di non lasciare tracce e convincere i suoi inseguitori che fosse morta nella distruzione del veicolo. Speranza vana, senza dubbio. I bastardi non erano le guardie svogliate da due soldi che aveva atterrato per uscire dalla fortezza.
Erano cacciatori di taglie al servizio quasi esclusivo di Dreddon de Hutt. In poche parole, i migliori.
Si concentrò sui suoni, le mani strette contro calcio del blaster. Le parole del Tarc, biascicate in un Basic difficilmente comprensibile, le giunsero ovattate, come se il loro proprietario avesse cambiato percorso rispetto ai suoi compagni. Era rimasto indietro, ma l’eco la avvisò che si era spostato verso destra, forse in uno dei passaggi laterali che aveva ignorato quando era entrata lì dentro e le fessure nella roccia le avevano portato una zaffata di animali in decomposizione. Tatooine era famoso per le centinaia di creature senza nome che affollavano i suoi deserti e lei non era sicura di preferire la tana di uno di quei mostri alla canna del blaster dei suoi inseguitori; l’idea di inoltrarsi ancora un po’ tra quegli spazi angusti la sfiorò, ma se i tre mostravano tutta quella sicurezza voleva dire che quella grotta all’apparenza piuttosto estesa si sarebbe trasformata dopo pochi passi in un vicolo cieco. Le rocce krayt che componevano la caverna erano in grado di schermarla dai più semplici rilevatori termici, ma non aveva dubbi che quei tre possedessero scanner da migliaia di crediti ciascuno.
O forse non avevano alcun rilevatore attivo e stavano solo sentendo i battiti del suo cuore che pulsava all’impazzata; l’incavo in cui si era rannicchiata era ben nascosto, ma sapeva che sarebbe stata questione di minuti e doveva restare lucida se avesse voluto uscire di lì intera. Valutò l’ipotesi di trasformarsi in una razza diversa per guadagnare velocità -un Dug, ad esempio- ma aveva eseguito l’ultimo cambio di forma pochi minuti prima per salvarsi dall’esplosione e la pelle le bruciava ancora così tanto che sarebbe crollata a metà percorso per il dolore. Si sporse lentamente, gli occhi fissi sulla luce che filtrava dall’uscita: un paio di stalattiti avrebbero dovuto fornirle la copertura necessaria dalle armi dei due umani, ed in velocità avrebbe potuto battere il Tarc senza grossi problemi. Controllò ancora una volta le celle energetiche dell’arma, poi contrasse ogni singolo muscolo del corpo ed attese.
I due umani passarono a meno di un braccio da lei. Quello armato di tutto punto aveva persino un cannone laser portatile attaccato dietro la schiena, e non aveva bisogno del documento di identità per riconoscerlo come un fottuto corelliano. Abbaiava nel comlink senza preoccuparsi di passare inosservato, guadagnandosi sguardi furiosi dal suo compagno, un altro umano dai capelli chiari che gli arrivava alla spalla. Non aveva armi a vista, ma l’insegna nera e verde sul lato destro della cintura non necessitava di ulteriori introduzioni.
I cacciatori di taglie del Sindacato Salaktori spesso non avevano bisogno nemmeno di un’arma per staccare la testa alle loro prede.
Si accorse di aver smesso di respirare.
“Vieni fuori, puttana!” gridò il corelliano. Il blaster che impugnava nella mano sinistra emise il normale ronzio di attivazione; l’attimo successivo l’aria intorno al cacciatore di taglie vibrò del colore azzurrino di uno scudo deflettore portatile che distrusse la sua unica possibilità di emergere dal proprio nascondiglio e sparargli un colpo nella nuca prima di venire fermata dai suoi due compari. Il Tarc non era in vista, ed il corpo le implorava di uscire da lì il prima possibile, rubare lo speeder che i suoi inseguitori avevano parcheggiato fuori e cercare di raggiungere lo spazioporto di Mos Eisley. Cercò di concentrarsi sull’uscita e sul dimenticare quanto i corelliani fossero famosi per colpire un garsmelt a più di duecento passi senza un mirino.
Poi iniziò a correre.
Nelle sue orecchie non fece in tempo ad arrivare la bestemmia del cacciatore del Sindacato che la stalattite verso cui era diretta esplose in centinaia di pezzi. L’odore di aria ionizzata le salvò la vita, spingendola ad evitare l’area dell’esplosione, ma anche così il pulviscolo le andò negli occhi, accecandola. Alle sue spalle il blaster del corelliano vomitò altri cinque colpi nella sua direzione, e se non fosse stato per le rocce frammentate della stalattite distrutta uno di quelli le si sarebbe piantato nelle spalle trasformandola in carne carbonizzata. Si portò le mani alla faccia nel tentativo di vedere, ma un altro colpo esplose ad un palmo dalla sua testa e continuò a correre verso la luce dell’esterno. Senza rallentare né voltarsi sparò a caso alle proprie spalle per darsi copertura, ma a giudicare dalle voci capì che nessuno dei suoi colpi era andato vicino agli assalitori. Corse col cuore in gola, si accasciò contro una stalattite e sparò di nuovo. Si voltò nella speranza di scorgere il luccichio dell’artiglieria del cacciatore corelliano, ma l’aria era satura di polvere e sarebbe stata una follia rallentare la corsa. Riprese fiato una seconda volta e scattò in avanti.
Un dolore folle le partì all’altezza del ginocchio sinistro e l’attimo dopo si ritrovò a terra, la faccia immersa nella sabbia.
Senza nemmeno guardare tirò la gamba contro il proprio petto, ma al contrario venne trascinata indietro e un sasso le ferì il labbro. Sollevò il blaster e tentò un colpo alla cieca, poi qualcosa di acuminato le si strinse intorno al polso e fu costretta a mollare la presa; la mano libera scattò sul manico della vibrolama mabari che teneva al fianco e la fece saettare in avanti verso qualsiasi cosa la stesse inchiodando a terra. La lama luminosa mandò un ronzio quando impattò contro l’obiettivo, eppure non affondò come Zam aveva sperato. Quando la sabbia le si diradò davanti agli occhi, però, l’unica cosa che riuscì a vedere furono le ultime scintille della sua arma guizzare per poi svanire sul carapace del Tarc.
Mollò la presa sull’arma e tentò di divincolarsi. Il ginocchio ed il polso erano bloccati dalle enormi chele della creatura, e se non fosse stato per i propri bracciali probabilmente avrebbe perso anche la mano. Con la gamba libera tirò un calcio, ma per poco non si sfracellò il piede sul carapace nemico. Fece appello a tutte le proprie energie per trasformarsi in un Dug e scivolargli dalla presa, ma il dolore le corse contro tutta la spina dorsale e il Tarc le piegò il braccio oltre la schiena in modo così innaturale che le strappò un urlo.
“Ottimo lavoro, Fascyn”.
L’uomo del Sindacato Salaktori fece un cenno con la testa.  Il Tarc grugnì qualcosa nella sua lingua natale e la rivoltò con la schiena a terra senza nemmeno sentire i suoi calci di protesta. Zam provò a divincolarsi ed usare una delle rocce a portata di mano come arma contundente, ma la punta di un elettrobisento le mandò una scarica violenta all’altezza della gola e fu costretta ad abbandonare la stretta sul sasso. Cercò di afferrare con la mano libera l’estremità dell’elettrobisento, ma una seconda scossa partì dal manico e retrasse le dita in tempo. Dall’altra estremità il ghigno del cacciatore Salaktori fece capolino da sotto la pesante sciarpa. “Secondo me Dreddon ci darà anche un piccolo extra se gli riportiamo questo scherzo di natura prima del tramonto”.
“Uno scherzo di natura davvero singolare. Giuro sul culo del capo che questa è la prima cambiapelle che vedo così da vicino”.
Il corelliano si chinò su di lei incurante della punta sfrigolante del bisento. Puzzava di sudore e di keela. “Niente in contrario se l’extra me lo prendo adesso?”
“Dreddon non ha detto nulla al riguardo. Basta che non la ammazzi” disse il Salaktori. La punta dell’arma abbandonò il suo collo e Zam fece per divincolarsi, ma la fermò la canna del blaster del corelliano che le premette contro la guancia. “Tu adesso ti trasformi in una Twi’lek, puttana. Una blu, come piace a me. E se farai la brava giuro che ti faccio anche divertire!”
“Scordatelo”.
Se avesse potuto gli avrebbe sputato dritto in un occhio, ma al suo rifiuto la chela del Tarc le torse la gamba.
Zam non riconobbe la propria voce nel grido che ne seguì, ma esplose in tutta la caverna ed anche nella sua testa quando il dolore partì dal ginocchio divelto e dalla gamba piegata in modo del tutto innaturale. Pregò di svenire, ma il corelliano le afferrò la testa e tra le lacrime fu costretta a fissare di nuovo la sua faccia butterata. “Ripetilo, cambiapelle. Ma ti ricordo che Fascyn può ancora spaccarti un’altra gamba”.
Il dolore non si fermava più.  Provò a stringere i denti ed a smettere di gridare, ma in tutta risposta la chela strinse ancora.
Non l’avrebbero ammazzata in nessun caso.
Il pensiero la attraversò come un coltello gelido, più forte del dolore alla gamba. Il corelliano non avrebbe fatto partire un colpo dal blaster nemmeno per errore, neanche se lo avesse mandato su tutte le furie.
Lentamente, ignorando le proteste del suo corpo, iniziò a mutare.
“Te lo avevo detto, Nall” disse il corelliano. “Le donne per me fanno qualsiasi cosa”.
Cambiare forma richiedeva concentrazione.
La prima cosa che iniziava a bruciare era la pelle, indipendentemente dalla trasformazione. Mutare il colore, far crescere squame o peli, la pelle iniziava a tirare come se gliela volessero strappare di dosso, talvolta sembrava come se le avessero infilato a forza il viso nelle pozze acide di Mustafaar. Poi le ossa iniziavano a stridere, a torcersi, ed occorreva rimanere lucidi e avere il coraggio di mutare fino alla fine, perché interrompere la trasformazione a metà avrebbe bloccato il clawdita in una forma indefinita, spesso con una gabbia toracica informe o un cranio incompleto che avrebbero significato morte certa. Occorreva sentire il collo mandare rumori indescrivibili per reggere la trasformazione della testa, più di una volta Zam aveva avuto bisogno di antidolorifici per non perdere il controllo o svenire; ed in quel momento non poteva permettersi nessuna delle due alternative.
I maschi umani adoravano le femmine Twi’lek. Tutti, senza eccezione. Anche i benpensanti che si riunivano nei salotti di Coruscant per combattere la schiavitù ancora praticata nei barbari mondi dell’Orlo Esterno diventavano sempre meno accaniti sulla questione quando nei loro ricchi bordelli arrivavano ragazze Twi’lek chiaramente senza alcun permesso regolare. Impazzivano per i loro colori, per le loro gambe perfette, per quei corpi che sembravano soddisfare qualsiasi gioco lussurioso.
Impazzivano per l’odore afrodisiaco che mandavano i lekku, le loro protuberanze mobili che le strapparono un ultimo grido quando le fece crescere ai lati della testa. Il corelliano gliene afferrò subito uno e se lo strofinò contro la mano, ma il cervello di Zam era concentrato su un solo dettaglio, l’unico particolare che le importasse e che la travolse nel momento in cui lo replicò nel proprio corpo.
Le donne Twi’lek attraevano gli uomini per la loro natura remissiva unita ad un corpo perfetto. Natura che nella maggior parte dei casi ne limitava il potenziale e che impediva loro di usare nel modo corretto una parte letale del loro organismo. Zam si lasciò toccare entrambi i lekku mentre serrava le labbra, stordita dal dolore che le provocò la comparsa di ventotto denti acuminati come lame di coltelli che le tagliarono le gengive ed annegarono la sua bocca nel sangue. Focalizzò ogni suo sforzo solo su quelli, ignorando anche la fitta al ginocchio ed il disgusto del corpo del corelliano praticamente su di lei.
Poi scattò.
La gola dell’uomo si aprì in due ed esplose in uno schizzo di sangue. Zam sentì la presa del Tarc allentarsi per la sorpresa e si sollevò sull’unica gamba buona, il cuore che le martellava in testa; il natura equilibrio delle Twi’lek le venne in aiuto e rimase per qualche secondo in attesa con il corelliano agonizzante tra i denti, il pulsare del suo sangue schifoso ancora in gola e la mano che aveva abbandonato la presa sui suoi lekku. Con una mano gli sfilò un blaster dalla fondina ed iniziò a sparare alla rinfusa per allontanare gli altri, e sputò via il corpo del suo assalitore solo quando fu certa che il cuore avesse smesso di battere. Il cadavere perse sangue a schizzi anche quando lo scagliò lontano da sé, appoggiandosi ad una roccia per non cadere.
Non poteva correre né muoversi, ma aveva un’arma in mano e non avrebbe concesso a nessuno degli altri due bastardi di portarla da Dreddon de Hutt viva. Piuttosto avrebbe tenuto l’ultima cella energetica del blaster per sé.
Cercò goffamente riparo, e vide che sia il Tarc che l’umano avevano fatto altrettanto.
Evitò un paio di colpi per pura fortuna, e non appena si accorse di essere focalizzata sulla battaglia tutto il suo corpo tornò alla forma umana, alla ricerca di un sollievo per lo sforzo fatto; si mise di nuovo in ascolto, ma entrambi i cacciatori di taglie non davano cenno di muoversi o di accerchiarla, probabilmente ancora stupiti dalla sua reazione. La gamba sinistra non resse e si chinò sulle ginocchia, ma da quella posizione la visuale sui suoi nemici diventò limitata e nonostante la paura capì che tutti i suoi arti stavano lentamente perdendo le forze. Si morse il labbro, con il sangue del corelliano ancora in gola, estese il braccio e sparò ancora, diretta all’enorme forma del Tarc.
Fu in mezzo alle grida dei suoi nemici che sentì l’inequivocabile sensazione di freddo della punta di un blaster puntata dietro la nuca.
“Che ne direste di stare tutti un po’ più calmi?”
Dalle sue spalle venne una voce metallica forte, alta, come se si trovasse dietro un sintetizzatore vocale. Fece per girarsi, ma la canna puntata alla testa aumentò la spinta, facendola desistere.
L’unico elemento positivo fu che anche i suoi aggressori smisero immediatamente il fuoco. Il Tarc grugnì qualcosa che non riuscì a comprendere, ma si fermò lo stesso. L’arma della persona alle sue spalle la spinse ad abbassare ancora di più la testa e dunque non vide la reazione dell’uomo del Sindacato Salaktori. Sentì solo la sua voce gracchiante oltre il costone “Dacci un buon motivo per non ridurti in un ammasso fumante di ferraglia, mandaloriano!”
“Senza dubbio”.
Un meccanismo si mise ad emettere un fischio lungo e ritmico alle sue spalle, qualcosa che doveva emettere una luce intermittente blu e rossa. Zam si irrigidì, riconoscendo l’attivazione di un detonatore al plasma a meno di un braccio dal suo corpo. Ed i suoi assalitori dovevano chiaramente aver fatto altrettanto. “Il motivo principale per cui adesso tu ed il tuo compare butterete a terra tutte le vostre armi, Gradress Nall, è che la mia armatura è fatta di beskar. Le vostre no.” disse il nuovo arrivato “Dunque se mi dovesse accidentalmente cadere questo detonatore credo proprio che ne uscirei senza nemmeno un’ammaccatura, ma sarebbe seccante dover recuperare i vostri pezzi e portarli a Dreddon. Immagino sarete d’accordo con me”.
Il pavimento della grotta riflesse le luci del detonatore. I movimenti diventarono più veloci, ed il fischio di fece ogni secondo più alto.
Chiunque la stesse minacciando doveva essere un pazzo.
Il Tarc ringhiò di nuovo, stavolta più a lungo. Zam riuscì solo ad intuire un dialogo tra lui e l’umano, ma non riuscì a capire altro. Il blaster si spostò dalla sua nuca al lato del capo, come a farsi ben vedere. E con un lieve cenno del metallo capì che avrebbe dovuto buttare a terra l’arma che aveva sottratto al corelliano; esitò qualche istante, ma cedette e la buttò in avanti.
Sentì che anche i suoi avversari avevano fatto altrettanto, perché tutta la grotta tremò quando il grosso elettrobisento atterrò tra i massi insieme a quella che doveva essere una cintura a bandoliera. “Sei un bastardo, Fett” fu l’unico commento del Salaktori.
“Fa parte del nostro lavoro, Nall. Niente di personale”.
Poi Zam si sentì sollevata di scatto, ed un braccio coperto da larghe piastre di beskar le si strinse intorno al collo.
“Ovviamente la mutaforma viene con me”.
 
 
Erano passati tanti anni dall’ultima volta che era stata così debole. Sdraiata su del pagliericcio che gli attendenti del Cavaliere del Drago avevano cambiato per lei, Zam osservò nel buio le proprie mani.
Nel tempo aveva imparato a sopportare il dolore. Aveva appreso come mutare forma in ogni condizione, ad assumere l’aspetto di creature enormi o minuscole violentando qualsiasi sua cellula esistente. Aveva imparato a convivere con quel dolore, a non avere nemmeno più bisogno di aiutarsi con antidolorifici o stordenti per reggere il peso delle trasformazioni. Eppure in quel momento, alla ricerca di un modo per recuperare al più presto le energie perdute, anche alterare l’aspetto delle proprie dita le mandava delle fitte atroci. Si forzò, ma capì che non poteva abusare della vita che i suoi stessi nemici le avevano restituito.
Si morse le labbra fino a sentirne bene il sapore.
Non poteva permettersi di tornare la donna debole di un tempo. Mai più.
 
 
 




 
 
 
Il turno pomeridiano si era protratto due ore più del previsto.
Vexen si era già sfilato il camice e stava rapidamente guadagnando l’uscita delle Case di Guarigione, quando Girion lo aveva letteralmente placcato per affibbiargli un caso spinoso che lui non era evidentemente in grado di risolvere: un ragazzo con la mano destra prossima alla cancrena e la febbre talmente alta che lo scienziato aveva dovuto ricorrere al suo potere di elementale del ghiaccio per abbassarla almeno di un paio di gradi. Alla fine era riuscito a salvargli l’arto, amputando solo due dita invece che tutta la mano, ma quando finalmente si era richiuso alle spalle la porta del suo alloggio e aveva recuperato lo zaino già pronto per il viaggio e nascosto sotto il letto, il tramonto già incendiava i Campi del Pelennor a ovest di Minas Tirith.
La nave di Camus sarebbe partita in sole tre ore, dallo spazioporto oltre la settima cerchia di mura.
Il che non sarebbe stato un problema, se Vexen non avesse avuto un’altra formalità decisamente importante da sbrigare prima dell’imbarco.
Grazie al cielo, il congegno procurato dal bardo Eldoth funzionò. Vexen premette il pulsante e contò tre lunghissimi battiti del suo cuore prima che la cavigliera elettronica si sganciasse con un sonoro clack, rimbalzando sul pavimento con la luce rossa del rilevatore di posizione ancora perfettamente accesa e in funzione. Raccolse il dispositivo con cura e lo nascose sotto le coperte del letto. Adesso, se i Ribelli avessero controllato la sua posizione, lo avrebbero creduto placidamente addormentato nella sua stanza.
Prima di uscire, un ultimo controllo al suo stipatissimo bagaglio: la fedele tracolla di cuoio ormai consunto con gli strumenti da medico, accuratamente ripiegata sul fondo dello zaino; qualche boccetta di distillati e sonniferi e disinfettanti di vario tipo; una scatolina di latta con i gessetti da alchimista; abiti anonimi procurati di seconda mano al mercato della quinta cerchia (farsi vedere in territorio imperiale con una tunica dell’Organizzazione addosso era la via più breve verso il plotone d’esecuzione); taccuino e penne; e, per finire, una morbida sciarpa di lana grigio-azzurra che Camus gli aveva regalato il giorno prima, evidentemente ignorando che il clima su Coruscant era controllato in modo artificiale e dunque la probabilità di sbalzi termici assolutamente inesistente. Infine, raggomitolati tra le pieghe della sciarpa, il portafogli di pelle con il suo prezioso carico di crediti imperiali e il dispositivo olopad personale.
Manca solo un ultimo oggetto, e Vexen stava andando a procurarselo.
Le Case di Guarigione si trovavano nella prima cerchia di mura, la più piccola, in cima all’alta collina su cui era edificata la città di Minas Tirith. Il palazzo reale, cuore del governo del pianeta e quartier generale dell’Alleanza, distava appena pochi passi.
La lingua di fuoco disegnata dal sole morente lungo l’orizzonte si spegneva poco a poco, le ombre si allungavano tra gli alberi del vasto cortile del palazzo. Quel luogo aveva un valore storico e simbolico per gli abitanti della città, perciò le luci elettriche erano sapientemente celate tra la vegetazione e spandevano tutto intorno una luminosità lattiginosa, gentile, quasi ad imitazione della luce lunare. Tra una macchia illuminata e l’altra, Vexen si aggirava come uno spettro, sfruttando le zone d’ombra. Oltrepassò la sagoma sinuosa e imponente dell’Albero di Gondor, che la corteccia e le foglie candide facevano apparire come uno spirito che danzava sulla cima della collina, le fronde mosse dalla lieve brezza della sera. Ascoltando i discorsi dei ribelli aveva appreso che anche quell’arbusto millenario era un simbolo per la popolazione di Minas Tirith, ma cosa rappresentasse esattamente, o chi lo avesse piantato e quando, erano informazioni che ignorava. Né, per la verità, gli interessavano.
I pochi gruppetti di ribelli che incrociò lungo la sua strada non fecero caso a lui. Cavigliera elettronica a parte, non aveva mai ricevuto veri e propri divieti dai suoi carcerieri se non quello di lasciare la città; ma, all’interno delle sette cerchie di mura, era libero di muoversi come desiderava.
Per questo il giovane soldato di guardia a una delle porte di servizio, con lo stemma dell’Albero Bianco in campo nero cucito sul petto, non ebbe nulla da obiettare quando Vexen gli disse di essere venuto a cercare Camus per via di un’urgenza alle Case di Guarigione. Il sacerdote si trovava effettivamente all’interno del palazzo per l’ultimo briefing pre-missione e, in un periodo in cui le Case di Guarigione rigurgitavano profughi da territori imperiali messi a ferro e fuoco dai demoni e dai villaggi del mondo del GSB rasi al suolo dall’Impero, non era raro che i medici venissero richiamati a tutte le ore del giorno e della notte per svolgere il loro dovere.
Una volta dentro, Vexen non imboccò la rampa di scale che lo avrebbe condotto direttamente alla volta sigillata dove i Ribelli custodivano gli oggetti magici più preziosi in loro possesso. Si diresse invece a colpo sicuro verso una scaletta a chiocciola di servizio e percorse un paio di giravolte verso il basso, dove le pareti erano sbozzate nella roccia viva e l’aria odorava di umidità e di decine di botti di vino lasciate al buio a invecchiare. Si fece luce con una piccola torcia tascabile e raggiunse il magazzino dismesso che stava cercando, poco più che un rettangolo scavato nella roccia come una cripta, invaso dalla polvere e dalle ragnatele.
Sapeva che quel posto si trovava esattamente al di sotto della stanza degli oggetti magici. Sapeva che lì nessuno sarebbe mai venuto a cercarlo. Sapeva che i Ribelli non si erano presi la briga di proteggere quel buco perché la volta degli oggetti era sigillata magicamente e difesa da tutti i migliori dispositivi tecnologici che l’Alleanza potesse permettersi.
Per procurarsi quelle preziose informazioni aveva dovuto giocare d’astuzia. Era genuinamente fiero del suo piano. Se ne sarebbe vantato davanti a Camus con indiscusso piacere, ma quella parte del suo progetto di fuga era l’unica che non poteva assolutamente permettersi di condividere con il sacerdote.
Erano bastati tre millilitri di veleno di helior: insufficiente per uccidere un uomo adulto, ma abbastanza da spedirlo dritto alle Case di Guarigione in preda a fortissimi crampi allo stomaco. Aveva versato il veleno in una scodella casuale del cibo destinato alle guardie di palazzo e, quando lo sfortunato soldato gli era capitato tra le mani, aveva diligentemente guarito la sua intossicazione… accompagnando ai farmaci mezzo grammo di altair in polvere, nota tra gli erboristi del suo mondo per la sua incredibile capacità di sciogliere anche la lingua più reticente e indurre l’intorpidimento dei sensi. A quel punto, interrogarlo era stato un gioco da ragazzi.
Il soldato aveva descritto con dovizia di particolari le difese magiche e tecnologiche della volta, ma nessuna aveva impensierito più di tanto Vexen. Perché l’Alleanza poteva vantare tra le sue fila incantatori provetti e ingegneri di prim’ordine, ma neanche un solo alchimista.
Vexen non dovette bypassare nessun codice di sicurezza o scan retinico, non ebbe bisogno di traforare scudi magici, o di schivare le scariche di dardi incantati attivate dai globi arcani ai lati dell’ingresso principale. Entrò nel modo più stupido e semplice del mondo: bucando il pavimento con un cerchio alchemico. Disgregò gli atomi del soffitto di pietra del magazzino abbandonato, mutandoli in polvere; e aprì uno squarcio nella calotta di duracciaio che si trovava al di sopra con la stessa facilità con cui un grissino si insinua in una scatoletta di tonno. Il tutto senza far variare la temperatura nella stanza di neanche mezzo grado, cosa che avrebbe immediatamente fatto suonare gli allarmi collegati ai sensori termici posizionati lungo tutto il perimetro.
Meno di un quarto d’ora dopo, con il prezioso carico stretto al petto sotto la tunica, dove poteva sentirne la presenza rassicurante, Vexen correva giù per la collina di Minas Tirith da una cerchia di mura all’altra, assaporando il vento sulla faccia insieme a un senso di euforia che lo faceva sentire vivo come non credeva più possibile da mesi. Da anni, forse.
Allontanarsi dalla sommità della collina e dagli edifici governativi era come viaggiare indietro nel tempo: la tecnologia spariva poco a poco, l’illuminazione elettrica lasciava il posto a interi quartieri rischiarati da comunissime torce a olio, il ronzio degli speederbike e delle navette utilizzate dall’Alleanza per facilitare gli spostamenti all’interno del quartier generale veniva inghiottito dal nitrito dei cavalli, sempre più numerosi all’interno delle stalle che costeggiavano le strade del centro abitato. Oltre la quarta cerchia iniziò a diminuire anche la gente in giro: le botteghe avevano chiuso con il tramonto e dalle finestre di quasi tutte le case fuoriusciva la luce traballante di caminetti e candele insieme al profumo delizioso di tavole imbandite per la cena.
Vexen attraversò Minas Tirith come la brezza della sera, senza mai fermarsi né guardarsi attorno.
Giunto in prossimità dei cancelli della cerchia più esterna, si nascose nel retrobottega di un fabbro, estrasse l’olopad dallo zaino e lo accese. La luce azzurrina sfarfallò per qualche attimo prima di stabilizzarsi, facendo fluttuare sopra il palmo della sua mano le specifiche della sua nuova identità.
 
Arjen Summerwind
Data di nascita: 4.12.28BE
Pianeta di nascita: Riosa
Specie: umano
Altezza: 1.89 m
Peso: 79 kg
Capelli: biondi
Occhi: verdi
 
Insieme al documento falso, Camus gli aveva caricato sull’olopad il codice ribelle di autorizzazione a lasciare il pianeta. Gli bastò passare il dispositivo sotto lo scanner dei soldati a guardia del cancello per essere finalmente libero di lasciarsi alle spalle Minas Tirith e confondersi tra la folla che anche a quell’ora animava il principale spazioporto della Terra II.
Fu come mettere piede in un portale diretto verso un altro mondo. Abbarbicato a un lato delle mura esterne come una larva sullo stelo di una foglia, lo spazioporto era stato edificato in fretta e furia quando l’Alleanza aveva scelto il pianeta come base operativa, sfruttando l’ampia pianura che si estendeva a ovest di Minas Tirith e che i locali chiamavano Campi del Pelennor. In quel frangente, per ragioni di praticità ed efficienza, il beato connubio tra tecnologia e tradizione che regnava dentro Minas Tirith non era riuscito nel migliore dei modi: l’agglomerato di container e moduli in plastacciaio, su cui svettava la torre scheletrica del centro di controllo, era un pugno in un occhio accanto all’architettura aggraziata della città antica. Girion amava ripetere che era come mettere un nano accanto a un elfo.
L’appuntamento con Camus era sul retro del modulo 31F.
Vexen arrivò per primo, e ringraziò tutti gli dèi in cui non credeva che il sacerdote fosse vincolato alla sua missione con l’Alleanza e non avesse tempo per abbracci, piagnistei o altre forme di saluto che avrebbero reso il momento decisamente scomodo e imbarazzante. Camus lo condusse in fretta sul lato di quello che sembrava un trasporto mercantile e lo fece salire a bordo da un portello di scarico merci, accompagnandolo fino a un vano deposito su un lato della stiva.
“È un po’ stretto, ma nessuno verrà a disturbarla qui, padron Vexen. Me ne assicurerò io.”
I rumori dell’attività frenetica dello spazioporto arrivavano attutiti adesso, e nella calma improvvisa lo scienziato si rese conto di avere il fiato corto per la lunga corsa. Si sfilò lo zaino dalle spalle e si sedette una cassa di plastacciaio, lasciandosi sfuggire un lungo sospiro di sollievo.
“Vai ora, Camus. Noteranno la tua assenza.”
Il sacerdote annuì, ma le sue gambe esitarono, incollate sul posto.
“Muoviti.”
Da qualche parte nel ventre della nave risuonò una voce squillante che chiedeva che fine avesse fatto il medico della spedizione. Camus si riscosse di colpo, gli rivolse un ultimo sorriso e premette il pulsante per la chiusura del vano. Lo scienziato non aveva bisogno di guardarlo in faccia per sapere che aveva gli occhi umidi di lacrime mal trattenute.
“Buon viaggio, padron Vexen.”
“Anche a te. E… grazie.”
La porta a scorrimento si richiuse del tutto, lasciando Vexen con la sola illuminazione di una barra al neon a basso voltaggio incassata lungo un lato dello stretto soffitto. Sotto i suoi piedi, lo scafo della nave iniziò a vibrare leggermente, segnalando l’accensione dei motori e l’inizio dei preparativi per il decollo.
Solo molto tempo dopo, quando il trasporto era già in volo nella monotona tranquillità dell’iperspazio, Vexen osò gettare uno sguardo alla refurtiva trafugata dalla volta degli artefatti magici dell’Alleanza.
Due oggetti d’oro puro, una sfera a forma di occhio che stava nel palmo di una mano, e una sorta di chiave affusolata lunga metà del suo avambraccio. Gli stessi artefatti che erano arrivati al Castello dell’Oblio quando l’Organizzazione aveva rapito l’Intercessore Kaspar, e che il Grande Satana a sua volta aveva requisito ai membri dell’Organizzazione solo per poi farseli rubare durante l’incursione dei Ribelli sul Baan Palace. Per come la vedeva lo scienziato, “oggetti magici” era una definizione approssimativa e poco pertinente al caso in questione. Non poteva ancora dirlo con certezza, ma quei monili dorati avevano tutta l’aria di dispositivi di natura alchemica. Forse, stavolta, sarebbe riuscito a studiarli degnamente come si era sempre proposto.
Tuttavia, non avrebbe mai corso i rischi del furto se non fosse stato per il terzo oggetto. Uno scettro di legno nero, di fattura semplice, che aveva compiuto lo stesso viaggio della chiave e dell’occhio tra le mani di molteplici proprietari, ma di cui, al contrario di questi ultimi, il potere e le modalità di utilizzo erano già stati svelati.
Lo Scettro dell’Immortalità.
Il dono di riconciliazione che aveva intenzione di portare a Zexion.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Cacciatori e prede ***


Capitolo 3 - Cacciatori e prede







La Slave I








Anche il contadino più ignorante di Tatooine avrebbe saputo riconoscere un Mandaloriano se ne avesse incontrato uno. Dopo i Jedi erano praticamente l’ordine di guerrieri più famoso della Repubblica, e persino nelle arene mabari aveva visto proiettare ologrammi di questi soldati dalle armature inconfondibili in volo su degli zaini a razzo.
Dei guerrieri eccezionali, noti per il loro codice ma anche per la mentalità inflessibile. Per saper combattere da soli anche due o tre Jedi contemporaneamente e per il benessere e la ricchezza del loro pianeta, Mandalore, dovuti, alle miniere di beskal la cui lega non veniva ceduto a nessuno che non fosse un Mandaloriano, nemmeno davanti alle generose offerte della Federazione dei Mercanti di Nemoidia. Un Mandaloriano era pensato per essere invincibile, letale, incorruttibile.
Esattamente l’ultima persona di cui avrebbe voluto essere prigioniera.
Zam riprese a respirare regolarmente solo quando la nave era entrata nell’iperspazio da una discreta manciata di minuti. Il ronzio dei motori, molto lieve, la svegliò dal torpore. E parte di sé decise che forse sarebbe stato preferibile rimanere priva di coscienza ancora per un altro po’.
Era sospesa a un paio di palmi da terra: un piatto gravitazionale sul pavimento della nave ed uno sopra la sua testa emettevano delle leggere pulsazioni, e l’aria intorno a sé era pesante e ionizzata. Il magnete che attivava i piatti era chiaramente posizionato nelle manette elettrostatiche che le bloccavano i polsi a livello del petto. Il primo istinto fu quello di provare a rimuoverle o quantomeno a testarne la resistenza, ma la scarica che ne seguì fu abbastanza dolorosa da costringerla a desistere. La sensazione di pesantezza a livello delle braccia si sarebbe senza dubbio acuita nel corso del viaggio, dunque strinse i denti e cercò di conservare le poche forze che si sentiva in corpo. La gamba sinistra continuava a farle male, ma l’assenza di gravità diminuiva il carico sul ginocchio e le fitte erano molte meno di quando era stata catturata.
Il pensiero delle mani del corelliano su di sé le fece correre un brivido lungo la schiena.
La cella gravitazionale si trovava in quella che doveva essere la stiva della nave del Mandaloriano. Era immersa nell’oscurità, ma la luce azzurra delle manette elettrostatiche era in grado di fornirle un’idea dell’area, e le luci intermittenti di quello che doveva essere un quadro comandi rivelavano sostanzialmente l’intero piano. Doveva trattarsi di un’astronave di dimensioni ridotte, perché l’intera stiva non era più grande di un paio di nidi alveari geonoisiani; contò altre quattro celle gravitazionali oltre la propria, tutte vuote. Lungo la parete più lontana dalla sua vista vide una piccola vasca da congelamento carbonitico spenta, ma non le parve di vedere nessuna figura senziente bloccata in quella prigione metallica e fu contenta di non essere stata rinchiusa lì dentro, congelata come una statua in attesa di essere consegnata come un pacco a chiunque avesse desiderato la sua testa.
Perché, era pronta a scommetterci entrambe le gambe, il cacciatore di taglie non l’aveva sottratta ai suoi inseguitori per mera filantropia.
Nella Galassia le persone che avrebbero voluto esporre un clawdita come trofeo erano molte più di quelle che le avrebbero aperto la porta in caso di bisogno. E dei committenti che potevano permettersi i servigi di un Mandaloriano gliene venivano in mente davvero pochi.
Quasi avesse sentito del suo risveglio -o forse qualche maledetto sensore di quella cella si era attivato- dal soffitto si aprì uno spazio ed una scala metallica venne calata nella stiva occupando più della metà dello spazio disponibile. Il suo rapitore ne scese, armato di tutto punto esattamente come lo aveva incontrato.
Per quanto avesse paura, Zam decise che non gli avrebbe reso la vita facile. Mandaloriano o meno.
“Avanti, Mando. Spara. Ti paga qualcuno del Clan Bancario? Quelli di Kerkoidia?” serrò i denti “Qualche altro Hutt?”
L’altro non rispose. Nonostante il viso completamente coperto dall’elmo era sicura che l’avesse sentita. Le diede le spalle, armeggiò sul quadro comandi e l’istante dopo Zam sentì qualcosa saettarle nell’aria e pungerla all’altezza del collo. Mosse la testa d’istinto, ma qualunque cosa fosse le rimase incollata e quello che era chiaramente un ago le iniettò qualcosa che le iniziò a bruciare sotto la pelle. Capì cosa stava succedendo, e nonostante la situazione non riuscì a trattenere un piccolo ghigno.
La seconda iniezione arrivò dopo una decina di secondi. Stavolta nemmeno si mosse, immaginando la faccia del suo rapitore sotto il casco. Come prevedibile seguì un’altra serie di punture, ma la lunga serie di aghi non era nulla rispetto al dolore al ginocchio o alla soddisfazione di vedere le mani del Mandaloriano, prima lente e controllate, selezionare le droghe sempre con maggior stizza. L’ultimo ago, spesso quanto un suo dito e pensato per attraversare probabilmente la pelle coriacea di un Hutt, le si piantò nel braccio e le attraversò anche la tuta, ma a parte il dolore e la sensazione di gonfiore sotto la pelle non si sentiva né stanca né stordita. “Ti consiglio di rinunciarci, Mando. Sprechi il tuo tempo” mormorò “E un bel po’ di fiale”.
Quello rimase ancora qualche secondo fisso contro la plancia, poi la spense. “Errore mio. Mi avevano avvisato che voi clawditi siete coriacei. Ma valeva la pena fare un tentativo”.
“Ti dà fastidio avere la tua preda sveglia?”
“Una preda che nemmeno un’ora fa ha aperto la gola di un collega non esattamente alle prime armi nonostante una gamba sfracellata? Più che fastidio direi … motivata diffidenza”.
Da una fondina estrasse un blaster, si appoggiò ad una parete e lo strinse tra le mani. Non lo puntava in nessuna direzione, ma Zam era certa che se avesse tentato qualche movimento strano quell’uomo avrebbe impiegato meno di un battito di ciglia per aprirle un buco nella fronte. Era chiaro che la nave stesse viaggiando con l’iperguida automatica e che il cacciatore avesse tutte le intenzioni di tenerla sotto tiro per il resto del viaggio.
Lei si irrigidì, respirando l’aria ionizzata. Parte di sé avrebbe voluto chiudere gli occhi e recuperare le forze in attesa di cogliere l’occasione propizia per liberarsi; la testa ancora le martellava per l’inseguimento, ed anche una sola ora di riposo avrebbe permesso al suo corpo di riprendersi. Ma d’altra parte non sarebbe mai riuscita ad abbassare le palpebre con un uomo con lo sguardo fisso su di lei, soprattutto con un blaster in mano. Se quello avesse voluto farle quello che aveva tentato il corelliano, dopotutto, doveva essere pronta a difendersi.
Passarono diversi minuti, ma il Mandaloriano rimaneva immobile. Se non fosse stato che le aveva rivolto la parola avrebbe potuto pensare ad una statua: la mano che impugnava il blaster era appoggiata lungo il fianco, e da sotto il tessuto che emergeva tra le piastre della cotta poteva vederne i muscoli in tensione. L’armatura gli ricopriva il petto, le braccia e quasi tutte le gambe, rendendole impossibile capire anche solo se stesse respirando; puntava gli stivali contro una delle grate di aereazione sul pavimento della stiva senza nemmeno spostare di tanto in tanto il peso da una gamba all’altra. La mano libera era poggiata contro la cintura, ed a livello del polso Zam non poté non notare uno dei complessi sistemi di generazione di fiamme che avevano reso le armature mandaloriane celebri quasi quanto la loro durezza. L’acciaio dell’armatura, almeno da quello che riusciva a vedere dalla sua scomoda posizione, presentava ben pochi graffi o ammaccature.
Il viso, come da tradizione di quei guerrieri, era coperto da un elmo che consentiva la visuale al proprietario attraverso una fessura con un sensore plineale che gli consentiva di vedere tutto intorno a sé. Il sensore era puntato nella sua direzione, ed a giudicare dalle flebili luci che si potevano intravedere, stava cercando di scansionarla alla ricerca di chissà quale parametro.
“Il Vigo Antonin” disse lui, rompendo il silenzio. “È lui che paga”.
Zam si irrigidì.
Un Vigo. Uno dei capi del Sole Nero.
Aveva sempre evitato di incrociare la propria strada con quello che era uno dei più famosi cartelli criminali della Galassia, ma anche così era ovvio che non poteva sperare di nascondersi in eterno. “Suppongo che il fatto che il suo rivale Dreddon de Hutt avesse messo le mani su una rarissima cambiapelle lo abbia fatto diventare verde dall’invidia”.
“Punto numero uno, Mando. Chiamami cambiapelle ancora una volta e giuro che prima di crepare trovo un modo per strapparti le palle e fartele ingoiare” ringhiò. Per la stizza mosse le braccia, ma le manette elettrostatiche le ricordarono l’errore sfrigolandole i polsi. “Punto numero due … se questo Vigo pensa di mettermi le mani addosso come quella lumaca troppo cresciuta …”
Lui la interruppe con un gesto della mano libera, il primo movimento fatto da quando quella conversazione era iniziata. “Ha detto che gli andavi bene viva o morta. Suppongo che gli basti il poter esporre una clawdita in un cilindro di septoldeide. Non sarebbe la prima volta che paga per aggiungere un pezzo alla sua collezione”.
Il cuore di Zam riprese ad accelerare.
Erano più di dieci anni che i già pochi clawditi esistenti vivevano solo per nascondersi. Chi ne aveva avuto la possibilità, come lei, aveva abbandonato Zolan prima che gli altri abitanti del pianeta, quelli incapaci di mutare aspetto come loro, iniziassero la caccia. I più vecchi avevano avuto fiducia nella Repubblica ed avevano trascorso gli ultimi giorni della loro vita in attesa che il loro caso venisse sottoposto all’attenzione del Cancelliere e del suo stuolo di politici bavosi che non vedevano alcun ricavo nell’occuparsi di una crisi umanitaria di un pianeta vicino all’Orlo Esterno. Chi era riuscito a lasciarsi alle spalle il proprio mondo si era abituato a vivere nella Galassia, scegliendo un aspetto piuttosto che un altro per nascondersi ed eludere tutti quei cacciatori di taglie che venivano pagati per riportarli su Zolan o venderli al migliore offerente.
Lei, che aveva imparato a combattere da quando avesse memoria, aveva persino provato ad offrirsi come guardia del corpo, ma anche nei pianeti meno conosciuti la gente preferiva vedere una donna che cambiava aspetto più chiusa in una gabbia che nelle loro abitazioni. “Avresti potuto spararmi, allora, Mando” disse “Avresti avuto i tuoi soldi e ti saresti risparmiato tutte quelle fiale”.
“Non uccido se non è necessario”.
Zam lo osservò, stavolta con curiosità, attirata dal leggero cambio del suono. Nonostante venisse riprodotta mediante i sintetizzatori del casco era certa che avesse abbassato molto il tono della voce. “Il famoso codice d’onore dei Mandaloriani?”
“La cosa ti diverte, cambiapelle?”
“Un po’ …”
C’era un uomo sotto quella maschera di beskal. Un uomo che credeva in qualcosa, qualcosa di fin troppo evidente agli occhi di un altro guerriero. “… voi umani l’onore non sapete nemmeno cosa sia”.
“Non sei nella posizione di provocare nessuno”.
“Ma io non sto provocando. Sto solo dicendo la verità”.
E sì, adesso aveva davvero la sua attenzione. L’uomo aveva alzato la testa, seppur di poco, e le dita sul calcio dell’arma si erano serrate.  Forse, sorrise tra sé, avrebbe ottenuto ciò che sperava. “Un guerriero con un briciolo di dignità non consegnerebbe nessuno ad un riccone annoiato per essere esibito sotto vetro come un animale” disse “Avrebbe almeno la dignità di sparargli un colpo alla tempia”.
L’altro fece un passo in avanti. “Dove vuoi arrivare?”
“Vedi tu, Mando” rispose, stavolta senza nascondere la stanchezza che le aveva preso le tempie sin da quando la sua fuga dal palazzo dell’Hutt era iniziata. “Tu cosa preferiresti? Un’agonia di ore nella septoldeide che ti cristallizza gli organi interni o qualcosa un po’ più … indolore?”
“Io preferirei rimanere vivo, cambiapelle. Ed è ciò che intendo continuare a fare per molto tempo”.
Zam inghiottì l’insulto. “Ti sembra che io abbia questa possibilità?”
“No, non la hai”.
L’astronave ebbe un sussulto, come se fosse uscita dall’iperspazio. Tutto intorno a loro le pareti della stiva si mossero e vennero sbalzate, ma il cacciatore di taglie rimase in perfetto equilibrio; aspettò qualche secondo, poi assicurò il blaster alla cintura ed iniziò a salire le scale per riprendere il controllo del velivolo nelle fasi di atterraggio. Lei fece per dire qualcosa, ma prima che dalle sue labbra potesse uscire al altro suono la scala si richiuse contro il soffitto della stiva gettando ancora una volta l’ambiente nel buio mentre la nave iniziava a decelerare senza nemmeno uno scossone.
Zam si morse il labbro, fissando il punto in cui l’uomo era scomparso.
Non aveva mai implorato per la propria vita, e non avrebbe iniziato in quel momento. Non avrebbe strisciato davanti a nessuno e di certo il Mandaloriano non l’avrebbe sentita piangere per essere liberata.
Ma poteva chiedere una morte onorevole, quantomeno. Lei non l’avrebbe negata a nessuno.
La nave rallentò ancora, e le vibrazioni la avvertirono dell’ingresso in atmosfera. Ovunque questo Vigo Antonin avesse la propria residenza era senza dubbio un pianeta distante persino da Tatooine, perché lungo la plancia manovrata dal cacciatore di taglie era segnata una durata del viaggio in iperspazio di qualche ora. Attese, osservando i minuti, sentendo anche nello stomaco lo spegnersi dei propulsori ed il poggiarsi della nave al suolo.
Qualcosa scrosciava al di fuori, come il rumore di una pioggia intensa e martellante, ma forse era solo la sua stessa testa che ringhiava per l’impotenza di non poter nemmeno sperare in un colpo d’arma al petto.
Sentì il portello aprirsi, e nonostante le pareti di metallo poteva sentire i passi dell’uomo scendere. Senza dubbio, come avveniva in quel genere di navi, nell’arco di pochi minuti avrebbe sentito un portellone aprirsi e lui avrebbe sganciato l’intero vano della cella e l’avrebbe portata fuori.
Invece, contro ogni sua previsione, un rumore assordante esplose tutto intorno a lei e si ritrovò a terra con le manette elettrostatiche che, quasi impazzite, iniziarono rapidamente ad inviarle ripetute scariche alle braccia.
 

 
“Dunque di clawditi come te … ne sono rimasti pochi?”
Zam sorseggiò la bevanda che le era stata versata nella tazza. Calda, con un sapore che ricordava qualche frutto essiccato. Il Cavaliere del Drago, seduto davanti a lei, aspettò che avesse terminato per versargliene un altro po’.
Sapeva riconoscere un interrogatorio quando ne vedeva uno. Aveva trascorso le ultime due ore a raccontare, tra un sorso e l’altro, rispondendo alle domande della figura davanti a lei; era chiaro che, oltre al curioso interesse che il Generale mostrava nei suoi confronti, alcune osservazioni puntassero a sapere altro, piccoli e grandi dettagli del suo mondo che lo lasciavano diversi istanti in silenzio, come a ponderare qualcosa di importante. Aveva assistito ad alcuni interrogatori del Gran Moff Tarkin, ed era rimasta impressionata da come quell’omuncolo potesse ottenere informazioni dalle proprie vittime senza dare impressione che queste potessero avere per lui alcun valore.
Il Generale Baran, come tutti i membri della famiglia demoniaca, al contrario chiedeva e ponderava senza alcun bisogno di nascondere le proprie intenzioni. E lei, d’altra parte, non aveva alcun motivo di nascondere qualcosa alla persona che le aveva salvato la vita.
Specie se l’interrogatorio prevedeva qualcosa di caldo da bere. “Suppongo nessuno, a parte me. O, se ci sono, sono riusciti a nascondersi molto bene. Buon per loro” disse. “L’Impero ha completato l’opera. Una volta caduta la Repubblica lo stesso Imperatore Palpatine ha organizzato una caccia folle contro i pochi superstiti per piegarli a sé ed usarli come armi. Ma hanno tutti preferito la morte”.
“Non tu, a quanto sembra”.
Il sopracciglio scuro si corrucciò al di sotto dell’elaborato diadema a forma di testa di drago. Zam capì subito che stava per incamminarsi su un sentiero pericoloso, perché senza dubbio le premesse non erano delle più onorevoli. Ma aveva fatto delle scelte, anni prima.
Scelte che non sapeva dire se rimpiangesse o meno.
“E rovinarle così la fine del racconto, Generale?”
Sotto il suo labbro qualcosa si mosse. Sembrava un sorriso, ma tenuto molto sotto controllo.
Sì, senza dubbio quella chiacchierata si sarebbe protratta per diversi giorni a venire.
 
 
 
 
 


 
 
 
Zexion sprofondò nel sedile passeggeri. Era abbastanza grande da farci entrare persino un wookie di media taglia, dunque lui ci affondò ed impiegò qualche minuto a regolare l’altezza dei braccioli e del poggiatesta. Non aveva nemmeno terminato quell’operazione che una donna Bith si sedette accanto a lui senza smettere di sbraitare nel comlink.
Purtroppo per lui, il volo si riempì quasi del tutto. Per quanto nelle astronavi la mole degli odori fosse nettamente minore rispetto a quella che lo assaliva in qualsiasi punto del pianeta Coruscant, il ragazzo trovava comunque fastidiosa la presenza di tutti quegli esseri viventi stipati nello stesso velivolo a meno di un palmo, ciascuno con il proprio ronzio di pensieri che continuava a rodergli lungo le tempie e sul fondo dello stomaco. La ragazza due posti dietro di lei, ad esempio, aveva appena accertato con mano il tradimento di qualcuno che amava e stava tornando a casa in lacrime: Zexion assorbì le emozioni, ma alzò la mano per farsi portare dal droide inserviente un bicchiere d’acqua.
Doveva esserci abituato, certo. Dopo tanto tempo a Coruscant aveva imparato a convivere con quelle folle incontrollabili, instabili, a sentire la pressione col suo olfatto fin dentro le viscere. Alcuni farmaci, come l’antidolorifico che estrasse dalla borsa, aiutavano.
Ma non sempre.
Non in quel periodo.
La nave da trasporto decollò senza nemmeno un sobbalzo ed il ragazzo si concesse qualche momento per osservare la scena oltre il portellone visivo; la Bith doveva essere abituata ai viaggi spaziali, perché nemmeno si voltò verso l’esterno, ancora troppo presa dalla sua rumorosa conversazione che per fortuna sarebbe terminata non appena il velivolo sarebbe entrato nella modalità subluce. Lui, al contrario, continuava a trovare in quella scena maestosa una delle poche cose interessanti della Galassia in cui era stato trascinato.
Coruscant, inoltre, era uno spettacolo diverso da qualsiasi altro pianeta. I grattacieli si stagliavano a vista d’occhio, quasi come uno strano guscio metallico che ricopriva l’intero mondo: non c’erano fiumi, oceani, pianure, macchie di colore che invece tappezzavano la superficie di qualsiasi altro pianeta Zexion avesse mai visitato, e l’occhio di qualsiasi osservatore non riusciva a stare fermo, calamitato ora da una luce, ora dall’altra. I primi tempi della sua “permanenza forzata” nel pianeta capitale dell’Impero aveva sempre creduto che si trattasse di un mondo “grigio” fatto di palazzi di duracciaio e piccole, rumorose, fastidiose astronavi che ronzavano intorno agli edifici come insetti: il massimo del colore poteva venire dalle insegne luminose dei nightclub delle zone meno frequentate e dai cartelloni pubblicitari che abbagliavano anche i guidatori alle prime armi. Lui stesso, una delle prime volte che aveva dovuto prendere uno speeder, per poco non si era schiantato contro una parete per essere rimasto troppo a lungo ad osservare le indicazioni stradali olografiche che erano apparse con qualche minuto di ritardo.
L’unico modo per apprezzare quell’immenso alveare d’acciaio era, in realtà, osservandolo dal finestrino di una astronave.
Da lontano gli edifici non erano tutti uguali: l’area governativa -di cui Zexion conosceva soltanto i livelli intermedi- presentava un’architettura diversa rispetto agli altri settori, con gli edifici dalle guglie sottili e le forme arrotondate dello stile della Vecchia Repubblica. I pochi edifici che l’Imperatore Palpatine non aveva fatto radere al suolo avevano colori chiari ben diversi dalla sagoma scura del Palazzo Imperiale alle loro spalle, e risplendevano delle tinte arancioni che l’atmosfera artificiale satura di ossigeno rifletteva in alcuni momenti della giornata. Un po’ oltre, sporgendosi fino a toccare col naso il sottile strato di vetroacciaio, dei bagliori rossi uscivano dal settore R, una delle poche aree di Coruscant deputate ancora all’industria e satura di fabbriche e reattori che non chiudevano mai, sfornando leghe, lastre, componenti per la costante creazione, sostituzione e riammodernamento degli edifici della Città Che Non Dormiva Mai. Dal settore R uscivano carghi dalle dimensioni doppie della sua astronave, e negli spazi orbitanti centinaia di segnalatori luminosi destinavano i carichi alle restanti giurisdizioni.
La sensazione migliore era vedere questo lato di Coruscant, quel lato dell’ingegno umano e la sfida contro qualsiasi forma di natura che probabilmente aveva abbandonato quel pianeta agli albori della Vecchia repubblica.
Soprattutto se, come nel suo caso, si sapeva di non rivederlo per un po’. Qualsiasi altro pianeta, anche l’asteroide più abbandonato dell’Orlo Esterno, sarebbe stato preferibile alle sensazioni dolorose che quel pianeta gli causava.
Specie l’idea che suo zio avrebbe invece trovato Coruscant assolutamente affascinante.
Il suo pensiero, come sempre da quando la guerra era cessata, lo costrinse a spingere ancora di più il naso contro il finestrino. Avrebbe nascosto le lacrime, o almeno così tentò di fare.
Da quando si erano separati, dopo l’esplosione del Castello dell’Oblio e la sua cattura da parte degli agenti dell’Impero Galattico, aveva trascorso gli ultimi anni nell’odio più profondo per quell’uomo che lo aveva abbandonato ai suoi nemici per fuggire più velocemente. La sua “prigionia” a Coruscant era stata accompagnata solo dal pensiero della vendetta, al bisogno di restituire a quello scienziato arrogante la fialetta di veleno, l’unico ricordo fisico che avesse di lui, con tutti gli interessi. Sapeva che era lì fuori, in mezzo a quella moltitudine di pianeti, ed aveva logorato la sua vita al servizio dell’Impero con i migliori propositi di vendetta che un ragazzo di nemmeno vent’anni potesse provare. Per scoprire poi, tre anni dopo, che aveva costruito i propri sogni di rivalsa su delle sensazioni che non aveva mai nemmeno provato per davvero.
Lo aveva ritrovato, certo. Nel punto più impensabile della Galassia, nel cuore pulsante del più grande avversario che l’Impero avesse mai conosciuto dalla fondazione dell’Alleanza Ribelle. Aveva visto di nuovo lo sguardo verde di suo zio in un laboratorio nel Baan Palace, la fortezza personale del Grande Satana, signore della famiglia demoniaca che aveva messo in scacco persino la potenza bellica e tecnologica dell’Imperatore Palpatine e dei suoi Signori Oscuri. Aveva fatto appello alle ultime forze in suo possesso per dare forma e corpo alla vendetta che gli aveva sussurrato nella testa per tutto quel tempo, specie quando la sua esistenza si era trovata al capolinea.
E lui, lo scienziato, il traditore, era stato pronto a sacrificare la propria vita per proteggere la sua, stagliandosi davanti alla forza divina nel più potente guerrieri della famiglia demoniaca.
Al solo pensiero la mano gli andò nella tasca dove per anni aveva tenuto la fiala di veleno.
Non aveva saputo cosa dirgli. O forse lo sapeva, certo, ma non aveva avuto le parole. Avrebbe voluto raccontargli tutto, i suoi pensieri, i ricordi, i momenti di pura paura in quel mondo che era l’opposto del castello in cui era cresciuto.
Ma ogni suo tentativo di parlargli era terminato quando il Cavaliere del Drago lo aveva condotto fuori dal Baan Palace prima che questo esplodesse per colpa di un attacco dell’Alleanza Ribelle, e suo zio con esso.
Sì, lui avrebbe apprezzato quella scena. Avrebbe apprezzato quella città che tributava ogni onore alla scienza ed allo studio, dove gli uomini sfidavano la natura stessa della Galassia con il loro ingegno. E adesso che lui non c’era più …
L’ologramma, come da prassi, iniziò a vibrare.
Zexion impostò velocemente la modalità audio ed attivò il comlink a livello del padiglione auricolare; il dispositivo iniziò a mandare qualche flebile luce colorata, così che chiunque potesse stargli vicino avrebbe notato solo un ragazzo dal ciuffo argentato molto silenzioso, con lo sguardo triste e quello che era un programma per sentire un po’ di musica per combattere la monotonia del viaggio. In realtà ciò che arrivò nel suo orecchio non furono le voci sintetiche delle nuove band in voga su Ithor, ma la voce dell’agente 169, il suo superiore referente per quella missione.
L’Impero aveva costruito quel ruolo per lui, e la scelta era stata accettare o morire. Zexion aveva accettato per sopravvivere, immaginando che se fosse riuscito a ritrovare suo zio avrebbe forse trovato le forze per andarsene da lì, da quel mondo e quelle persone che odiava con tutte le proprie forze. Ma lui non c’era più, e forse quelle missioni per conto dei servizi segreti imperiali erano l’unica cosa che non gli permettesse di sprofondare troppo nei propri pensieri o negli psicofarmaci che ogni tanto si era ritrovato ad assumere per sbiadire i fantasmi nella sua testa.
La nave entrò nell’iperspazio. Prima tappa: Naboo, il pianeta natale dell’Imperatore Palpatine.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Traccia di dati ***


Capitolo 4 - Traccia di dati







Saruman







Vexen iniziava a capire come si sentisse un droide quando troppi input sensoriali sparati contemporaneamente finivano per sovraccaricare la sua memoria di elaborazione.
Nei suoi viaggi tramite i portali oscuri del Castello dell’Oblio aveva visitato decine di mondi tecnologici e città futuristiche, ma niente di ciò che conosceva, dalle guglie frastagliate di Ravnica, percorse da cariche di energia galvanica, alle città sospese tra le nuvole di Bespin, reggeva il confronto con Coruscant.
La capitale imperiale era strabiliante anche solo ad ammirarla dallo spazio. Il primo colpo d’occhio, catturato attraverso il finestrino subito dopo l’uscita dall’iperspazio, gli aveva dato l’idea di un diadema tempestato di brillanti appoggiato sul velluto nero del cosmo. Osservando con più attenzione, si rischiava di rimanere ipnotizzati dal formicolio dei puntini luminosi sulla superficie del pianeta, che non stavano mai fermi, disegnando un reticolo di forme sempre cangianti e diverse, ogni pennellata unica e irripetibile.
E questo era soltanto prima di scendere a terra.
In effetti il concetto di “terra”, su Coruscant, era molto relativo. La vita sull’immenso pianeta-città si sviluppava prevalentemente in verticale: piattaforme e camminamenti di duracciaio congiungevano un grattacielo all’altro in una ragnatela fittissima, e un traffico inesauribile di veicoli di ogni genere e foggia scorreva senza sosta sulle corsie aeree collocate su decine e decine di livelli diversi. Vexen era pronto a scommettere che ci fossero persone nate e cresciute sul pianeta che non avevano mai messo piede sul suo vero terreno.
Il suo volo di linea era atterrato nel cuore del settore S e, mentre si sorbiva una fila epocale per il disbrigo delle formalità burocratiche, Vexen bevve avidamente con ogni senso a sua disposizione il pulsare frenetico di quell’alveare di vetro e duracciaio, il trionfo completo dell’ingegno umano su ogni forza messa in campo dalla natura. Ripensava al suo mondo in cui i preti avevano paura persino a leggere una formula chimica, e il suo cuore traboccava di invidia e ammirazione nei confronti degli ingegneri e scienziati che avevano domato ogni centimetro quadrato di quel mondo, piegando il clima alla loro volontà, neutralizzando i fenomeni naturali catastrofici, prendendosi gioco della gravità e dello spazio con le loro costruzioni sempre più ardite ed elevate.
Il documento falsificato dagli ingegneri informatici dell’Alleanza superò i controlli. Sul mondo agricolo di Nakadia, il pianeta dell’Orlo Intermedio su cui Camus lo aveva fatto sbarcare clandestinamente, gli ufficiali dello spazioporto avevano gettato solo un’occhiata distratta alle sue credenziali, ma man mano che ci si avvicinava al nucleo della Galassia la severità dei controlli aumentava progressivamente. Stavolta Vexen dovette sottoporsi a uno scan corporeo completo, e riuscì a riprendere a respirare normalmente solo quando il droide della sicurezza gli restituì il bagaglio, appena risputato da un nastro trasportatore che doveva averlo fatto passare sotto chissà quanti tipi di sensori.
“Buona permanenza a Coruscant, signor Summerwind.”
Allontanandosi nell’atrio gremito di passeggeri, non poté trattenere un sorrisetto al pensiero di aver fatto passare tre artefatti alchemici sotto il naso delle guardie spazioportuali. Ma gli oggetti di natura alchemica sono masse inerti in assenza di una volontà che li attivi, e dunque il suo prezioso bottino doveva essere apparso come semplice paccottiglia da bigiotteria ai tecnici addetti alle scansioni termiche ed energetiche. Esattamente come i cerchi, che restano un banale insieme di linee tracciate con il gesso finché l’alchimista non vi canalizza la propria energia tramite i comandi impartiti attraverso la mente.
Fuori dallo spazioporto, Vexen rischiò di venire travolto dall’onda di marea dei passanti solo per essersi fermato con il naso all’insù ad ammirare le cime dei grattacieli illuminate dal sole di mezzogiorno. Si ritrasse, inciampando a momenti sulla valigia fluttuante di un grosso alieno dalla testa a martello, e appoggiò le spalle a una colonnina che segnalava una fermata del trasporto pubblico, prendendosi un attimo per ritrovare l’orientamento. Davanti ai suoi occhi, il traffico sulle corsie aeree scorreva come un fiume in piena, e velivoli di ogni tipo accostavano rapidamente alla piattaforma per far salire o scendere passeggeri diretti da e verso lo spazioporto. I vari mezzi di trasporto, presi singolarmente, non avevano sistemi di propulsione particolarmente rumorosi, ma il traffico ininterrotto di migliaia di essi produceva una sorta di ronzio metallico che finiva per pervadere ogni livello del pianeta-città come un’onnipresente vibrazione di fondo.
Lo schermo al neon sopra la sua testa indicava che si trovava al livello 147. Vexen sapeva che, per raggiungere gli archivi anagrafici del settore, doveva salire fino al livello 62.
Il volo da Nakadia era durato quasi ventiquattro ore, e Vexen aveva sfruttato quel lungo intervallo di tempo per prepararsi al meglio a ciò che lo aspettava. Camus gli aveva mostrato come utilizzare l’olopad per effettuare ricerche sulla rete olonet galattica, e lo scienziato ne aveva approfittato per scaricare sul dispositivo tutte le indicazioni per raggiungere i luoghi del pianeta che riteneva sarebbero stati utili nella sua ricerca.
E a proposito di Camus…
Estrasse l’olopad dalla tasca della giacca di tessuto sintetico blu scuro che aveva rimpiazzato la fedele tunica dell’Organizzazione e gettò uno sguardo allo schermo.
 

3 chiamate perse
9 messaggi non letti
2 messaggi audio da ascoltare


 
Si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Qualcosa gli diceva che Camus era venuto a sapere del suo piccolo… exploit furtivo al palazzo di Minas Tirith. Gli bastò riprodurre l’inizio del primo messaggio audio per accertarsene.
Padron Vexen, come ha potuto! Se l’avessero scoperta, come avrei potuto difenderla stavolta? I miei amici sono stati corretti con lei, non meritavano… “
Il timer sotto al messaggio segnalava ancora cinque minuti di sermone rimanenti. Vexen fermò la riproduzione con uno sbuffo di fastidio e cestinò gli altri messaggi senza leggerli. Stava per riporre l’olopad in tasca quando si fece prendere da un ultimo scrupolo, sbloccò nuovamente il dispositivo e digitò in fretta poche parole:
Inutile discuterne ora. Arrivato a Coruscant. Tutto bene.” Ci pensò un attimo, poi si decise ad aggiungere: “Tu?
Camus doveva essere attaccato al proprio dispositivo (probabilmente intento a registrare l’ennesimo messaggio piagnucolante), perché la risposta apparve immediatamente, lampeggiando minacciosa sullo schermo.
Lo saprebbe se avesse letto i miei messaggi.
Ecco, ora faceva l’offeso. Vexen resistette all’impulso di far compiere all’olopad un tuffo giù dal grattacielo, tanto per sperimentare quanti secondi ci volevano perché un corpo in caduta libera raggiungesse il suolo del pianeta. Invece ripose il dispositivo nella giacca e cercò di concentrarsi sul passo successivo da compiere.
Il volo Nakadia-Coruscant gli aveva prosciugato più crediti di quel che pensava, anche selezionando le opzioni di viaggio più economiche. Fortunatamente il pranzo era compreso anche nella tariffa più bassa, dunque al momento cercare qualcosa da mangiare non rientrava tra le priorità. In ogni caso, se i prezzi del servizio taxi erano quelli indicati nella pagina olonet che aveva consultato, poteva decisamente scordarsi quella modalità di viaggio per raggiungere il livello 62. La soluzione più accessibile per il suo portafogli disastrato era salire di livello con uno degli ascensori pubblici (fortunatamente gratuiti) e poi prendere lo speederbus S-35 per un paio di fermate fino agli archivi anagrafici. In questo modo se la sarebbe cavata con appena tre crediti.
Raggiunto l’ascensore più vicino, tuttavia, Vexen si rese conto che la parola “gratuito”, su Coruscant, era sinonimo di “fregatura colossale”. Il mezzo non trasportava più di venticinque persone alla volta, e la fila sulla piattaforma girava già oltre l’angolo del grattacielo, facendo prevedere tempi di attesa apocalittici. Senza molta scelta, lo scienziato si sfilò lo zaino dalle spalle, lo poggiò per terra ben stretto tra le gambe, si stiracchiò le braccia e la schiena e si preparò ad affrontare la lunga coda. Quasi si pentì di aver cancellato i messaggi di Camus.
La stragrande maggioranza delle persone in fila con lui appartenevano a specie a cui non avrebbe nemmeno saputo dare un nome. Alle sue spalle c’era un essere che sembrava a tutti gli effetti una grossa mosca che camminava su due zampe, con tanto di piccole chele agli angoli del muso che si agitavano producendo una serie frenetica di schiocchi e ticchettii. Collocato sul petto della creatura, un piccolo dispositivo dotato di altoparlante traduceva quel singolare linguaggio in un Basic metallico e monocorde, consentendo all’alieno di comunicare con il suo compagno di viaggio umano. Vexen si annotò mentalmente di fare qualche ricerca sulle specie più comuni della Galassia, per evitare gaffe imbarazzanti che avrebbero potuto attirare attenzioni non necessaria su di lui. Dopotutto, stava recitando il ruolo di un comunissimo cittadino imperiale, che avrebbe dovuto conoscere a menadito certe informazioni del luogo in cui era cresciuto.
E a proposito di Impero… lo scienziato non aveva potuto fare a meno di notare che, su tutti i manifesti di propaganda che aveva visto finora (metà del grattacielo alla sua destra era letteralmente occupata da uno schermo al neon che invitava ad arruolarsi nella Marina Imperiale per “proteggere la pace e la giustizia”) erano raffigurati solo e soltanto umani, malgrado Palpatine regnasse su mondi popolati da centinaia, se non migliaia, di specie diverse.
Due ore e molte bestemmie dopo, Vexen emerse a fatica dal groviglio di corpi sudati stipati sullo speederbus S-35 e mise piede sulla piattaforma di duracciaio di fronte agli archivi anagrafici del settore S. La facciata dell’edificio, tetra e dalle linee severe, emanava un’indiscutibile aria di rigore burocratico, ma Vexen sospirò di sollievo quando le porte scorrevoli di vetracciaio si richiusero alle sue spalle, isolandolo dai rumori del traffico e dalla calca del distretto amministrativo.
Dietro il bancone di accettazione nell’atrio, un droide argentato gli domandò le generalità e il motivo della visita.
“Dovrei compiere una ricerca. Su… un lontano parente” disse, dopo aver consegnato l’olopad per la scansione del documento di identità. “Ci siamo persi di vista da molti anni, ma so che risiede su Coruscant. Vorrei reperire il suo indirizzo, o almeno un contatto.”
La testa del droide si inclinò di qualche grado, facendogli assumere un’aria singolarmente umana. Gli occhi tondi, retroilluminati, e la piccola bocca a fessura, gli stampavano in faccia un’espressione perennemente perplessa che aveva un che di comico.
“Certamente, signor Summerwind. Per sette crediti può consultare uno dei nostri terminali per un’ora.”
Alla menzione del prezzo, il droide gli sembrò immediatamente meno simpatico. Anzi, avrebbe volentieri usato la sua bella corazza d’argento per una trasmutazione alchemica, ora che ci pensava. Ma dovette fare buon viso a cattivo gioco, e pagò la cifra a denti stretti, consapevole che la sua riserva di crediti andava evaporando a velocità esponenziale.
Un secondo droide, in tutto e per tutto identico al primo, lo scortò in una sala piena di terminali, alcuni dei quali già occupati, e gli indicò uno schermo davanti a cui era collocata una sedia priva di schienale, saldata al pavimento e rivestita da un cuscinetto di gommapiuma verde.
“Il timer al lato dello schermo le indicherà il tempo rimanente. Se desidera prolungare la ricerca potrà pagare il sovrapprezzo direttamente all’ingresso.”
Contaci, ferraglia argentata.
Non aveva molti elementi da cui partire. Non appena i passi del droide si furono allontanati, Vexen prese posto sul sedile e digitò nella barra di ricerca l’unico indizio a sua disposizione.
Il nome Zexion.
Gli sembrò che il sistema impiegasse una vita a caricare i dati. E in effetti, quando la risposta finalmente lampeggiò sullo schermo, gli strappò un sonoro gemito di disappunto.
 

974 corrispondenze trovate

 
Doveva restringere il campo. Una finestra si aprì sul lato destro dello schermo, chiedendo ulteriori specifiche. Vexen digitò umano nel campo “specie”, e un’ulteriore finestra apparve, invitandolo a inserire nuovi dati. Scrisse argento sotto la voce “capelli” e azzurri alla voce occhi. Aggiunse anche dei valori orientativi di altezza e peso. Poi selezionò il comando di conferma, stringendo le labbra fino quasi a trattenere il respiro.
Il sedile era leggermente alto, costringendolo a stare curvo davanti allo schermo, un gomito poggiato sul piano del terminale e il mento reclinato sul palmo della mano. L’altra mano tamburellava nervosamente sulla tastiera.
 

2 corrispondenze trovate


 
L’esultanza gli morì sulle labbra non appena selezionò i risultati per esaminarli. Uno dei due Zexion aveva cinquant’anni e gestiva una palestra di arti marziali. L’altro era un bambino di quindici mesi.
Imprecò sottovoce, sentendo la fronte imperlarsi di sudore freddo. Non poteva essere arrivato fin lì solo per fare un buco nell’acqua di quelle proporzioni. Semplicemente non poteva. Si trattenne a stento dallo sferrare un pugno sulla tastiera.
Zexion era lì, da qualche parte su quello stesso pianeta. Doveva esserci un modo per rintracciarlo, per arrivare fino a lui. Per un attimo, lo stress della fuga e la stanchezza del lungo viaggio ebbero la meglio. Incassò la testa tra le spalle, come se lo zaino fosse diventato di colpo troppo pesante, e il suo cervello fu attraversato da una scarica di idee folli a velocità vorticosa: cercare la sede dei Servizi Segreti e accamparvisi davanti, girare a caso per il pianeta nella speranza che Zexion lo rintracciasse con l’olfatto, chiedere a Camus di attivare le spie ribelli…
Poi si passò una mano sulla fronte, imponendosi di ragionare con calma. I numeri rossi sullo schermo segnalavano che aveva a disposizione ancora tre quarti d’ora. C’era tutto il tempo per venirne a capo.
Evidentemente, Zexion non era registrato con il suo vero nome. Aveva senso che, all’inizio della sua nuova vita come servitore dell’Impero, gli sgherri di Palpatine gli avessero fornito una nuova identità, anche per insabbiare legami scomodi con il Castello dell’Oblio e l’Organizzazione. Certo, se gli avevano affibbiato un nome casuale come i Ribelli avevano fatto con lui, rintracciarlo sarebbe stato impossibile. Ma se Zexion avesse avuto una minima facoltà di scelta…
Le dita di Vexen volarono sulla tastiera, guidate da un’ispirazione improvvisa. Mantenne inalterati tutti gli altri parametri di ricerca, cambiando solamente il nome.
Ienzo.
Premette invio. Attese. Nell’angolo, i numeri rossi scorrevano quietamente.
 

3 corrispondenze trovate


 
Aprì le finestre dei risultati con trepidazione.
Il primo Ienzo era una donna. Del secondo vi era addirittura un’oloproiezione, che mostrava un ragazzo muscoloso dalla mascella squadrata che non poteva essere suo nipote neanche in un universo parallelo. Del terzo l’archivio non aveva immagini disponibili, ma le poche righe apparse al centro dello schermo bastarono ad accelerare all’inverosimile il battito del cuore di Vexen.
 

Ienzo Whiteflame
Umano, maschio
Data di nascita: 2.3.0002
Luogo di nascita: Coruscant
Impiegato presso filiale Clan Bancario R-98Y6, Settore F.


 
Seguivano le coordinate di un domicilio privato.
Vexen stava quasi per abbandonarsi contro lo schienale dal sollievo, accorgendosi che la sua sedia non ne aveva uno giusto in tempo per impedirsi di capitombolare poco cerimoniosamente all’indietro. Non poteva avere la certezza matematica di aver trovato Zexion, ma la data di nascita coincideva (seppur convertita nel calendario imperiale), e “impiegato bancario” sembrava un tipo di mestiere abbastanza generico da fungere da copertura perfetta per un agente dei Servizi Segreti.
In ogni caso, era la sua sola possibilità.
Se necessario, avrebbe seguito quella traccia fin dentro un buco nero e oltre.
 
 
 




Il programma di Zexion non prevedeva di andare su Naboo. Il pianeta natale dell’Imperatore Palpatine scomparve dal finestrino dopo la sosta nello spazioporto di Theed, la capitale, dove era scesa più della metà dei passeggeri. Entrò nell’orbita di Onoam, una delle tre lune di Naboo, dopo nemmeno mezz’ora di viaggio senza l’ausilio della velocità subluce.
A dispetto di molti altri pianeti famosi per i loro giacimenti minerari, il panorama di Onoam non era dissimile da quello di Naboo, la gemma blu dell’Orlo Intermedio. Era un luogo bellissimo, tempestato di verde e di azzurro, avvolto da lievi veli di bruma che catturarono subito l’occhio del ragazzo sin dal momento in cui entrò nella sua orbita: anche da quell’altezza poteva osservare la bruma spostarsi grazie ad un vento delicato, ed abbassandosi di quota vide delle enormi praterie dall’erba alta che ricoprivano distese ondulate di altipiani protetti da montagne gentili.
Molte persone benestanti di Naboo avevano una seconda casa su Onoam, e tra questi anche Saruman, Signore Oscuro e attuale governatore del settore: la sua residenza, sebbene distante dal piccolo spazioporto, spiccava sin da lontano per le guglie bianche ed azzurre -realizzate nel più tipico stile di Naboo- che sembravano emergere da una vertiginosa cascata che attirava lo sguardo di chiunque atterrasse su quella luna la prima volta. Un esempio di bellezza mozzafiato che Zexion sapeva fin troppo bene quale prezzo avesse richiesto.
Avrebbe ben volentieri evitato di entrare a contatto con il governatore Saruman, ma nel sistema di Naboo non vi erano gli accurati sistemi di sicurezza presenti a Coruscant o nei principali pianeti del Nucleo. E di alcune cose era fondamentale parlarne di persona, anche quando il suo interlocutore non aveva alcuna reale voce in capitolo sulla missione affidatagli. Zexion purtroppo conosceva il protocollo: in quanto semplice agente avrebbe dovuto attendere un’ora o due prima di essere accolto dal governatore, specie quando il suo arrivo coincideva con una delle sue leggendarie abluzioni.
“Mi aspettavo qualcuno con un po’ di peli sul mento, ragazzo” disse l’uomo, scrutandolo da oltre una scrivania di legno massiccio. Sedeva su una sedia nera con lo schienale ben più alto della sua testa, che tagliava in due il panorama che si poteva ammirare da oltre la vetrata. Indossava una lunga tunica bianca che gli arrivava fino ai piedi, e bianchi erano anche i suoi capelli e la lunga barba. Rispetto a tutti i governatori regionali che Zexion aveva avuto la sfortuna di incontrare, il vestiario del suo ospite risaltava contro le uniformi impeccabili. Il governatore Saruman, infatti, non proveniva dai territori controllati dall’Impero.
Era un abitante della Terra II, dunque uno straniero per chiunque non fosse un contadino ignorante dell’Orlo Esterno. Ma era anche uno stregone, uno dei pochi depositari della magia tra i Signori Oscuri. Di conseguenza, qualcuno con cui era sempre problematico parlare. “Il governatore Tarkin valuta così poco il settore di mia competenza? Non che non lo sapessi, ma questa mancanza di rispetto la trovo davvero di cattivo gusto”.
“Con tutto il rispetto, governatore, i servizi segreti hanno mandato me proprio per le mie capacità” disse. Mosse leggermente la mano, e fece turbinare leggermente l’aria tra sé e lo stregone. La piccola folata voltò un paio di pagine di un tomo posto sulla scrivania, quanto bastò per abbassare leggermente il cipiglio della figura. “Capisco. Sei dell’Amn”.
“Non proprio. Ma la cosa non è importante. Sono qui per il convoglio ESPL6 che giungerà qui tra meno di due rotazioni del pianeta”.
“La cosa dovrebbe interessarmi?”
Zexion si trattenne, perché una sua sola espressione di insofferenza gli sarebbe bastata per venire rinchiuso in qualche cella mineraria senza vedere la luce del sole, immunità dei servizi segreti o meno. Aveva visto di sfuggita diverse volte il governatore Saruman nelle riunioni dei Signori Oscuri, ed era rimasto sempre spiacevolmente colpito dalla mole di profumi, unguenti ed altri prodotti che usava e che gli istillavano un forte senso di nausea, come uno spillo conficcato tra gli occhi. Odori che rendevano davvero spiacevole la lettura delle sue emozioni, per quanto elementari e prive di sostanziale interesse. Quando non si parlava di cose futili, lo stregone e la sua natura ottusa potevano diventare un noioso ostacolo.
Respirò e abbassò la testa. “Non sarebbe di norma un trasporto degno della sua attenzione, governatore, ma stavolta da Coruscant le chiedono di supervisionare il tutto. Il materiale trasportato da ESPL6 potrebbe essere di vitale importanza per portare allo scoperto una cellula ribelle su cui stiamo lavorando da qualche settimana”.
Gli occhi scuri dello stregone si fecero torvi. “Ribelli? Su Onoam? Tarkin deve essersi bevuto il cervello!”
Il ragazzo chinò ancora di più la testa, assorbendo l’odore stizzito e pungente. “Dopo la vittoria contro il Grande Satana i Ribelli si stanno facendo molto più arditi, governatore Saruman. Naboo e le sue lune sono da sempre un punto nevralgico dell’Impero, perché la fedeltà degli uomini e delle donne del sistema all’Imperatore è più forte che mai. Sarebbe per loro un vero trionfo il poter minare la sicurezza del nostro sovrano proprio nel sistema che gli ha dato i natali e che ha affidato a lei” mormorò, alzando di qualche tono la propria voce. Una piccola sfumatura, ma quanto bastava per smuovere quel complesso irrazionale di emozioni che gli sedeva davanti “Anche perché, si sa, l’efficienza ed il raziocinio di noi che dominiamo la magia servono proprio nei peggiori momenti di crisi”.
Noi?” disse lo stregone, tamburellando le dita lungo la scrivania. Anche col capo chino poteva intravedere le lunghissime unghie battere sul legno con tutta l’intenzione di farsi sentire. “Osa paragonarti ancora una volta a me, moccioso, e userò la tua lingua per quella pozione di mydir che non ho ancora terminato. Intesi?”
Zexion aveva già la lunga pletora di scuse -perfezionata da quando Mistobaan si era inserito nelle gerarchie dei servizi segreti- pronta sulla bocca, ma non ne ebbe bisogno. Sapeva cosa alcuni tasti ben toccati potevano innescare nella gente, ed il governatore Saruman aveva dei pensieri così elementari che avrebbe potuto percepirli anche in una gabbia piena di sterco di rancor. La figura anziana chiuse il volume ancora aperto, e con un rapido schiocco di dita gli fece cenno di alzarsi. “Ho capito l’antifona. Tarkin ed i suoi amici hanno un problema e vogliono che sia io a risolverlo perché quando i Ribelli richiamano i loro maghi quegli imbecilli su Coruscant non sanno mai come comportarsi e scatenano un vespaio. Tanto meglio” esclamò. “Avrò cura di stilare personalmente un rapporto all’Imperatore quando quei sediziosi verranno catturati qui su Onoam. È sottinteso a chi di noi Signori Oscuri spetterà il merito”.
Ovviamente” sussurrò il ragazzo, costringendosi a mantenere lo sguardo nascosto al di sotto del ciuffo di capelli. Da sotto la giacca da viaggio estrasse uno dei suoi pad da lettura in dotazione; sotto lo sguardo dello stregone estrasse una vibrolama a scatto ed incise la superficie laterale dell’oggetto come gli era stato comunicato. La placca di rivestimento dell’oggetto non si fuse, come avrebbe dovuto, ma i sensori delle giunture attivarono un piccolo meccanismo invisibile anche a qualcuno che fosse rimasto ad osservare il pad per ore. Ne estrasse un foglio di carta come ormai non se ne vedevano più a Coruscant, per di più con una grafia a mano in inchiostro di colo. Lo porse all’uomo, che fece un visibile sorriso di assenso.
Lo avevano avvisato che il vecchio stregone si rifiutava caparbiamente di usare qualsiasi supporto troppo … tecnologico. Era di vitale importanza che si attenesse alle istruzioni riportate su quel labile foglio.
“Eccellente” disse lui. Con un mano afferrò un lungo bastone in legno nero, decorato lungo la sommità da una pietra lattiginosa; si alzò in piedi con fare imperioso, e con quel gesto il ragazzo capì che, per sua fortuna, la conversazione era terminata.
Attraversò i lunghi saloni ad ampie falcate, felice di liberarsi di quella presenza volubile e fastidiosa, nonché dei suoi profumi impregnanti. A differenza di quanto accadeva nelle residenze degli altri Signori Oscuri, l’entourage del governatore Saruman comprendeva solo un numero ristretto di droidi, e dunque nell’enorme villa di Onoam si affastellavano gli odori dei servitori organici che Zexion cercò subito di lasciarsi alle spalle. Pensò che aveva ancora diverse ore prima che la missione avesse ufficialmente inizio, e avrebbe potuto trascorrerle prendendo uno speeder e visitando una area di laghi che poteva vedere sin da quella posizione e che i suoi sensi gli riportarono come assolutamente deserta. Aveva bisogno di rimanere solo e di annegare la mole di pensieri tristi nel profumo dell’erba e dei fiori.
Notò la comunicazione sul pad prima di accendere il velivolo. Decise di darle un’occhiata, e vide la richiesta di autorizzazione da parte dei locatori informatici automatizzati a disposizione dei servizi; si aprì una pagina net già impostata con le sue credenziali, e si aprì un modulo di controllo delle attività da confermare.
Lo aprì, incuriosito, visto che la segnalazione proveniva da Coruscant: il modulo riguardava una segnalazione emessa da un terminale degli archivi anagrafici del settore S. Qualcuno aveva digitato il nome Zexion ed aveva eseguito una ricerca dettagliata su tutti i soggetti con quel nome.
Chiunque fosse l’imbecille, era chiaro che non fosse a conoscenza delle segnalazioni automatiche che i programmi dei Servizi facevano partire ogniqualvolta qualcuno cercasse i nomi dei propri membri su qualsiasi dispositivo informatico. L’autore della ricerca, gli riportò il modulo, era un certo Arjen Summerwind di Riosa.
Il ragazzo scosse la testa.
I moduli venivano recapitati a chiunque fosse stato oggetto di ricerca. Molti dei suoi compagni, infatti, utilizzavano il sistema di ricerca telematica per comunicare con i propri contatti, soprattutto coloro che raccoglievano informazioni dai bassifondi o da altri quartieri di Coruscant. Dunque era fondamentale che fosse lui in persona a supervisionare il protocollo, ma Zexion non aveva nessun informatore, contatto o inviato che rispondesse a quel nome.
Men che mai qualcuno che potesse cercarlo sotto il nome Zexion, quando nel momento in cui era entrato ai Servizi i suoi documenti “ufficiali” presentavano ben altre generalità.
Le poche persone che si riferivano a lui con quel nome o erano Membri dell’Organizzazione che non aveva alcun desiderio di incontrare o esponenti della Ribellione che avrebbe desiderato vedere ancora meno volentieri -Auron, giusto per citarne uno. 
E l’unica persona che avrebbe voluto vedere, sospirò, ormai era morta con tutto il Baan Palace. Osservò il modulo ancora una volta, poi appose la sua firma. Il documento venne inviato, e per sicurezza accluse un messaggio vocale.
“Non conosco nessun Arjen Summerwind, non è uno dei miei contatti” disse, riscaldando i motori dello speeder. “Potrebbe essere un tentativo ribelle di arrivare al sottoscritto. Procedete con l’arresto come da prassi”.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Questioni di famiglia ***


Capitolo 5 - Questioni di famiglia







Boba Fett da bambino








Coruscant era famoso in tutta la Galassia per la confusione ed il traffico sregolato che si dipanava su decine di livelli, ed il ronzare delle macchine e degli schermi pubblicitari anche nei momenti di massima calma. Ma negli appartamenti del Governatore Tarkin, filtrati da aspiratori acustici, regnava un silenzio assoluto. Talvolta, pensò Boba Fett rimuovendosi il casco, non sembrava affatto di trovarsi nella capitale dell’Impero Galattico.
Shandra, la figlia di Tarkin, era poco meno di un ciclone a ciel sereno. Era chiaro che la notizia del suo “arrivo a sorpresa” fosse filtrata dalla bocca di qualcuna delle sue numerose balie, perché lo attendeva nella stanza in piedi sul letto con un cuscino più grande di lei che atterrò sul petto del cacciatore di taglie con tutta la violenza possibile fuoriuscita dalle braccia di una ragazzina di sette anni. Finse di indietreggiare per il colpo subito e per poco non travolse il droide protocollare alle sue spalle, AL-4YS. “Che modi, signorina Shandra. Che modi!”
Sul suo petto di metallo bianco erano state attaccate delle strisce di tessuto colorate che Boba riconobbe subito come tentativi di imitare delle mostrine da ammiraglio con tanto di medaglia legata al collo con un nastro per capelli. Tracce di colore lungo il petto facevano intuire anche un tentativo fallito di imitare i bottoni di una divisa. “Un giorno chiederò il licenziamento, sì. O andrò in ferie per dieci rotazioni. Su Eriadu ci sono complessi termali di olio per droidi che attendono solo me!”
“Ma tu non puoi licenziarti, AL!” disse Shandra, ben ferma sulle coperte.
“Lo so, la vita è ingiusta” disse il droide, imitando un sospiro teatrale alla maniera degli umani. Si scostò da lui con un piccolo inchino e tornò verso il letto, afferrando la bambina da sotto le braccia. Lei sbuffò, ma dopo un paio di calcetti di protesta si mise seduta sul bordo del letto e lasciò che la figura bianca le sistemasse le pieghe del suo vestito da notte. “Ma il governatore Fett è venuto a trovarla, signorina. Quindi deve presentarsi nel modo più consono possibile. Se vuole diventare un ammiraglio non può andare in giro con la divisa sciatta, giusto?”
“Ma io non voglio diventare un ammiraglio, AL! Io voglio diventare un grand’ammiraglio!”
“Giusto, giusto, perdoni i miei circuiti”.
Boba appoggiò con noncuranza il casco su una delle sedie della cameretta, godendosi la scena. Se fosse esistito un paradiso per droidi, AL ne sarebbe stata la protettrice e guardiana. Nonostante Tarkin pagasse eserciti di tate umane, alla fine quella che doveva sobbarcarsi il duro compito di intrattenere quel vulcano di Shandra era sempre la solerte AL. Boba non era mai stato un grande amante dei droidi, ma capiva che per alcune cose serviva soltanto la pazienza dei circuiti al platino-iridio delle macchine. Il suo casco non aveva ancora sfiorato l’imbottitura della sedia che AL glielo prese dalle mani con una notevole stizza e lo ripose lungo un armadio quasi vuoto in quella che il droide doveva aver destinato ad “area sporca”.
Boba sospirò, ma Tarkin avrebbe avuto da ridire se avesse sparato all’unico droide in grado di tenere a bada sua figlia.
“Vado a finire la vestizione del signorino Neos. Con permesso, governatore” disse la figura metallica prima di sparire dietro una porta scorrevole che portava all’appartamento attiguo con qualche medaglia di carta che si staccò nel processo.
Shandra gli rivolse il migliore dei suoi sorrisi. Sapeva essere gentile, in realtà, anche se Boba sapeva che le piaceva da morire dare centinaia di ordini alle sue balie per il semplice gusto di vederle correre come delle forsennate. Un lato che aveva preso da Tarkin, indubbiamente. I grandi occhi verdi, però, non tradivano la bellezza ultraterrena di sua madre. “Zio Boba, papà è ancora in riunione, vero?”
“E lo sarà per un bel po’, suppongo” disse lui. “Oltretutto so che deve parlare con Saruman di non so quale questione. Quindi stasera ti metto a letto io, va bene?”
“Va benissimo!” disse lei, con quel suo sorriso furbetto con cui si sarebbe comprata anche il più grigio burocrate del Clan Bancario. E che, come brontolava il suo amico Tarkin tutte le volte che era certo di non farsi udire dalla piccola, in capo a meno di dieci anni avrebbero attirato tutti i mosconi dell’alta società di Coruscant e dei vari pianeti del Nucleo. Boba non si era mai considerato un uomo pratico dei bambini né in grado di organizzare giochi più educativi del portarli al poligono di tiro, ma sapeva che un giorno o l’altro la parte del supervisore e della scelta delle guardie del corpo di Shandra sarebbe ricaduta su di lui. Nel frattempo, pensò mentre prendeva in braccio la piccola e le metteva tra le mani il suo Ewok di stoffa preferito, il suo compito sarebbe stato quello di starle vicino e raccontarle una storia o due prima che si addormentasse.
O prima che facesse quella domanda.
“Ma quando torna la zia Zam?”
Puntuale come un orologio chiss. Boba guardò il soffitto alla ricerca di una scusa magari scritta al margine del lampadario bianco e rosa, ma tutto ciò che gli venne in mente fu il rumore della pioggia, il vento ed il rapido guizzo di un ricordo.
 
 

Le giornate passavano lente a Kamino. Grigie, noiose, ma soprattutto lente.
Il suo programma di apprendimento era terminato da qualche ora, il che per Boba voleva dire avere tutto il pomeriggio per sé. Sarebbe potuto uscire per andare a pescare qualche rollerfish, ma non aveva molto senso esercitarsi sul famoso lancio ku’rl se non c’era nessuno vicino a vederlo; e gli ologiochi sportivi alla lunga lo annoiavano più delle visite di Taun We, che senza dubbio passava più nella speranza di trovare suo padre in casa che non per assicurarsi che lui stesse bene. Visite oltretutto inutili, perché lui stava sempre bene. Pensò pigramente che tra qualche minuto sarebbe iniziato uno speciale sui vincitori della corsa di speeder su Taris della settimana precedente; si avvicinò all’oloschermo per attivarlo e cercare la frequenza, quando una luce fuori dalla finestra attirò la sua attenzione.
Qualcosa stava atterrando lungo la pista C, ed era troppo piccolo per essere una nave da trasporto kaminoana. Dunque poteva trattarsi solo della Slave I.    
L’attimo dopo era già uscito dall’appartamento, con l’impermeabile addosso; si buttò sotto la pioggia a larghe falcate, facendosi trovare già sull’orlo del molo quando la nave si portò in orizzontale durante la manovra di atterraggio e accese gli stabilizzatori. La pioggia rimbalzava contro la superficie ancora calda del duracciaio dello scafo, trasformandosi in una sottile nuvola di vapore che si assottigliò non appena si aprì il portello e suo padre mise i piedi a terra. Nonostante la scarsa illuminazione, il beskal della sua armatura rifletteva le ultime luci del quadro comandi; quando si chiuse il portello alle spalle fu per Boba il segnale preferito, e gli fu al collo con un gridolino. “Pa’, sei tornato in anticipo! Li hai battuti sul tempo come sempre, vero?”
“Ci puoi scommettere, Boba. Ma sono qui per una sosta” disse da oltre il casco “La Slave mi ha segnalato un’anomalia sul caricamento dei cannoni di sinistra. Riparto non appena avrò dato loro una sistemata”.
Boba non trattenne una smorfia di delusione. Per qualche istante lo aveva sfiorato l’idea di poter vedere le interviste ai piloti di Taris sul divano con suo padre, magari con un bicchiere di succo di juri ed i suoi commenti che erano la cosa più bella del mondo. Tanto lo sapeva che nessuno di loro sarebbe mai riuscito a battere suo padre in una vera competizione tra gli asteroidi. Gli diede un pugnetto contro lo spallaccio, con un’idea in mente “Ma allora hai ancora il prigioniero nella stiva? Lo hai messo in carbonite o nella cella?”
“Nella cella, Boba. La carbonite mi servirà più avanti. E no, non puoi vederlo”.
Lo sollevò ancora per qualche secondo, poi lo mise a terra. “È un essere piuttosto pericoloso. Meglio starci lontani”.
“Ma tu lo hai catturato, giusto? Quindi comunque sei più forte tu!”
“Non se ne parla”.
Boba fece per obiettare, ma tutte le sue proteste si sciolsero quando suo padre gli passò una mano tra i capelli, scompigliandoglieli tutti. “Facciamo così. Tu la smetti di uccidermi di domande e io ti insegno come ricaricare i cannoni, va bene?”
Il ragazzo non trattenne un sorriso. Suo padre non faceva toccare la Slave I a nessuno, nemmeno ai droidi riparatori migliori della Galassia. Un vero Mandaloriano, diceva sempre, non possiede nulla che non sappia costruirsi o ripararsi da solo. E Boba non vedeva l’ora di essere abbastanza grande per imparare come far decollare quella nave. “Fai un salto a casa e portami tre accoppiatori a fusione. Ed anche qualcosa da mangiare, che ne avremo per un po’, intesi?”
Con un saltello schizzò via, dritto verso casa, inzaccherando anche l’ingresso nel timore che suo padre iniziasse a smontare anche un solo bullone senza di lui. Trovò gli accoppiatori senza difficoltà, prese una torcia per sé ed anche una visiera e nel dubbio anche il saldatore portatile che aveva in camera per riparare i droidi spazzini su cui si esercitava col tiro, poi si lanciò in dispensa e prese tutta la bottiglia di juri e tutto ciò che sarebbe servito per una merenda sotto l’astronave. Si tuffò di nuovo nei corridoi, stavolta spintonando un kaminoano, e si lanciò lungo la pista di atterraggio felice di vedere suo padre in piedi, probabilmente al comlink, che non aveva iniziato senza di lui.
Era a metà del percorso quando l’esplosione lo travolse.
Fu un muro di calore intenso che lo sbalzò a terra mentre il mondo intorno diventò tutto bianco. Un fragore assordante sovrastò ogni altro rumore finché le sue orecchie non riuscirono più ad udire nulla. Gli accoppiatori gli ruzzolarono dalle mani ed il quel bagliore accecante Boba riuscì a scorgere solo lingue di fuoco che si levavano altissime nonostante la pioggia torrenziale. Si ritrovò sbalzato a terra, faccia all’ingiù, con un dolore fortissimo lungo la schiena; strisciò di lato, accorgendosi di essere caduto contro uno dei piloni che sorreggevano le cisterne energetiche. Se non fosse stato per quel pilone probabilmente sarebbe stato sbalzato oltre il molo, dritto nelle acque nere dell’oceano di Kamino. Non riuscì a respirare per quello che gli parve un tempo infinito, ma il cuore riprese a battere nel momento in cui iniziarono gli spari.
Si mise a sedere, si guardò intorno sotto la pioggia e vide la familiare sagoma della Slave I con una parte della stiva mancante e del fumo nero che ne usciva. Un’altra nave era apparsa proprio sopra di loro, i deflettori alzati ed i cannoni carichi.
La sagoma di suo padre apparve da dietro la Slave I. Il cuore di Boba riprese a battere veloce per l’entusiasmo, vedendolo in piedi come sempre. Aveva estratto il lanciarazzi, e con un salto si portò dietro un altro pilone, preparandosi a caricarlo. Sparò un colpo di blaster con la mano sinistra oltre gli edifici, e ne partì un verso animalesco. Boba seguì la traiettoria del colpo di suo padre nella speranza di vedere qualcosa, ma la pioggia ed il fumo dell’esplosione non gli fecero vedere nulla.
Qualcuno rispose al fuoco.
Suo padre si riparò maggiormente, poi prese il lanciarazzi con entrambe le mani ed attivò lo zaino da battaglia: in pochi istanti si sollevò di diversi metri da terra, oltre il pilastro; i suoi avversari senza dubbio non immaginavano una mossa simile, perché continuarono ancora a sparare contro il punto in cui si era trovato i precedenti secondi. Prese la mira -Boba sapeva che il mirino plineale del suo casco non c’entrava nulla, era lui ad avere un occhio superiore a quello di un Jedi- e fece fuoco: la nave appena apparsa ebbe un sussulto, e nell’area anteriore partì un’esplosione. Boba sapeva che il lanciarazzi non sarebbe stato in grado di far saltare in aria un veicolo di quella dimensione, ma il pilota non era chiaramente all’altezza e fu costretta a scartare a destra, alla ricerca di un molo per atterrare.
E nessun pilota mediocre poteva atterrare su Kamino senza rischiare di sfracellarsi al suolo.
Gli spari continuarono, stavolta più vicini, e il ragazzo capì che la nave avrebbe potuto aspettare. Adesso dalla sua posizione vide cinque figure muoversi e spostarsi dietro uno degli edifici.
Il comlink nell’orecchio iniziò a vibrare; all’inizio Boba non ci aveva nemmeno fatto caso, paralizzato com’era dal fragore della battaglia, ma quando si riprese sentì il rumore della comunicazione accesa fin nel cervello e rispose. “Pa’?”
“Stai bene?”
“Sì” rispose, osservandolo mentre riprendeva a sparare nonostante stesse comunicando con lui.
“Quello è importante. Faccio partire un diversivo, tu cerca di rientrare. E avvisa Taun We”
“Ma pa’ …”
“Niente ma, Boba” per un attimo la comunicazione saltò, e la visuale del ragazzo fu sommersa da una raffica di laser. Ma ancora una volta la sagoma di suo padre emerse, anche se con lo spallaccio di beskal piuttosto annerito. “Sono Salaktori. Professionisti. Fai quello che ti dico e basta, va bene?”
Non finì di dire quella frase che Boba lo vide emergere da dietro il pilastro, allo scoperto. Intorno a lui l’area dei deflettori dell’armatura mandaloriana brillava di azzurro, resa ancora più evidente dalle gocce d’acqua che vi sfrigolavano al di sopra. Si mosse dapprima in direzione della Slave, che aveva anche i quadri di comando ausiliari spenti, poi si mosse verso il terminale del molo, esattamente nella direzione opposta in cui lui si trovava. I cacciatori uscirono uno alla volta, mandandosi dei segnali, e in quel momento anche Boba riuscì a riconoscerli dai colori lungo i loro stemmi, le sfere verdi e nere.
Suo padre gli aveva parlato più volte delle principali Gilde tra i cacciatori di taglie e dei motivi per i quali non apparteneva a nessuna di esse.
Boba li fissò da dietro, cercando di ricacciare le lacrime di paura. Sapeva abbastanza di combattimento per capire che erano davvero bene allenati. Non combattevano insieme, come i cloni o i droidi, ma sembravano avere uno schema preciso che differiva dalle tattiche standardizzate che venivano ripetute nei centri di addestramento kaminoani. Il capo era senza dubbio un umano con un elettrobisento che mulinava in aria, dando ordini ai suoi compagni: due umani, un wookie e quello che sembrava essere un cereano. Sparavano ai suoi ordini, dritti contro suo padre, ed il wookie stava caricando una balestra con quelli che sembravano esplosivi. Il cuore gli accelerò: per quanto suo padre fosse il combattente migliore della Galassia quei Salaktori erano cinque, bene armati, e forse …
Da oltre la cortina di pioggia il lazo di suo padre saettò, e si avviluppò al collo di uno degli umani. Fu un guizzo così improvviso che anche Boba si ritrovò a sussultare, osservando il Salaktori gridare e venire trascinato via lungo il camminamento metallico. Suo padre emerse allo scoperto e gli vide piantargli una vibrolama al centro del petto, freddandolo sul colpo.
La reazione dei Salaktori fu immediata: tutti, a parte il wookie, gli vennero addosso per circondarlo, armi alla mano, e Boba capì che era il momento giusto. Fece un respiro profondo, lasciò il pilastro e si lanciò verso la porta del complesso. Era certo che non ce ne sarebbe stato bisogno e che se avesse aspettato la porta si sarebbe aperta da sola, e ne sarebbero usciti Taun We con un manipolo di cloni soldato, ma non poteva deludere suo padre e prese a correre, dando per un istante le spalle alla battaglia.
Una figura enorme si parò tra lui e la porta. Uscì da dietro una cisterna ed il ragazzo non riuscì a fare nulla per evitarla, finendogli addosso. L’essere lo afferrò per le spalle, e quella che si accorse solo dopo essere una enorme chela verdastra sbucò dalla schiena del suo assalitore e lo strinse per il collo. Gli rifilò un calcio, ma i suoi piedi si scontrarono contro il durissimo carapace del Tarc. Gli accoppiatori che ancora stringeva tra le mani gli caddero a terra. Provò anche a rifilargli un pugno, ma capì che sarebbe stato inutile quando la chela iniziò a stringere. Il Tarc urlò qualcosa nel proprio comlink, una serie di versi in una lingua che Boba non capì ma che venne comunque sommersa da un boato di tuono fin troppo vicino. Fece diversi passi in avanti, superò il wookie con un cenno del capo ed andò nel punto in cui suo padre stava dando battaglia.
Quando capì cosa stava per succedere non trattenne le lacrime. “Sì, Fascyn, per una volta potresti averci visto giusto tu” disse l’uomo con l’elettrobisento, quello che si teneva a distanza di sicurezza mandando gli altri avanti. “Fett non sarebbe uscito allo scoperto per nulla. Lo sappiamo tutti che non è un idiota”.
Suo padre non rispose nulla. Aveva il blaster ancora carico e da entrambi gli avambracci aveva le vibrolame estratte. Teneva sotto tiro il cereano, ma stavolta la testa era rivolta verso di lui. Il Tarc emise un grugnito compiaciuto.
“Velocizziamo la questione, Fett. Già è tanto che ti abbiamo seguito su questo pianeta di merda, ma io e Fascyn avevamo un conto in sospeso e tu, fattelo dire di cuore, al Sindacato stai proprio sul cazzo. Fottuto indipendente” gridò il capo. “Se di questo ragazzino non te ne frega nulla vuol dire che Fascyn si è sbagliato, quindi gli stacca la testa e continuiamo come prima. Un moccioso di meno nella Galassia, niente di grave. Ma se per caso ti interessa che il piccoletto viva …”
A Boba non sfuggì il tremito nel braccio di suo padre, e capì che non era sfuggito a nessuno di loro.
Se avesse potuto, avrebbe preferito morire piuttosto che metterlo in quella situazione.
“… butta le armi e accompagnaci da Dreddon. Che, se ti fa piacere saperlo, ha messo su una bella taglia pure su di te”.
Il ragazzo cercò qualcosa da gridare. Qualcosa, qualsiasi cosa sarebbe andato bene.
Anche solo di dire a suo padre che gli dispiaceva, che aveva davvero provato a correre quando lui gli aveva dato il segnale, che però forse era stata anche colpa sua perché non era stato veloce abbastanza. E che aveva una paura maledetta, perché la chela del Tarc era enorme ed era davvero così forte e affilata da tagliargli la testa. Solo che non voleva che suo padre perdesse per colpa sua, perché avrebbe sicuramente vinto contro tutti e sei, se non fosse stato che … “Sei un bastardo, Nall”.
Con un tonfo, il blaster di suo padre atterrò sul pavimento. Le lame si spensero, e la cella energetica del lanciarazzi da polso rimbalzò lungo il metallo del molo e cadde in acqua. Anche da sotto la pioggia Boba riuscì a vedere il sorriso del capo Salaktori mentre faceva un passo avanti, controllando che suo padre fosse disarmato. Gli puntò l’arma contro la corazza di beskar, che sfrigolò al contatto. “Il Codice mi imporrebbe di risponderti nulla di personale, Fett. Ma suppongo che invece qui la situazione sia personale eccome. Fate scendere la carbonite”.
Boba tremò.
“E chi l’avrebbe mai detto che il mandaloriano avesse qualcosa di tenero sotto la corazza?” disse il cereano con la sua voce bassa. Continuava a tenere suo padre sotto tiro, ma con una mano stava chiaramente attivando i comandi della loro nave danneggiata. L’uomo che rispondeva al nome di Nall fece partire una risata contenuta che venne interrotta solo dai ringhi del wookie alle loro spalle. Il ragazzo non capì nulla, ma la leggera ilarità che era comparsa nei cacciatori scomparve come era arrivata e per tutta risposta il Tarc gli strinse la testa con più forza; si morse la lingua, cercando di coprire un grido che avrebbe allarmato suo padre ancora di più, ma il tutto si perse sotto l’acqua e la tensione che si era creata. Con la punta dell’elettrobisento il Salaktori costrinse il suo prigioniero contro un pilastro e gli avvicinò delle manette che lui si fece mettere senza alcuna lotta, continuando a tenere lo sguardo su Boba.
“Dove cazzo è andata, Snoova?” disse, rivolto al wookie. “Sappi che vale più quella lì di tutto il tuo culo peloso e di quello di tutta la tua tribù!”
L’altro ringhiò di nuovo, stavolta muovendo in aria le braccia lunghe e pelose. Boba non capì di cosa stessero parlando, lo sguardo fisso su suo padre ammanettato e bloccato. Avrebbe almeno voluto dirgli scusa, ma non riusciva nemmeno a smettere di piangere. “Sai-Ani, carica Fett in carbonite, poi dai un’occhiata alla nave e vedi se possiamo ripartire. Embo, controlla che il bastardo non tenti qualche suo trucchetto mandaloriano” disse prima al cereano e poi all’altro umano. Il wookie si avvicinò, balestra in pugno, ed il capo non gli risparmiò uno sguardo che avrebbe fulminato l’enorme creatura sul posto, se avesse potuto. “Snoova, tu tieni ancora il moccioso per un po’. Rompigli il collo se Fett muove un dito. Questo ancora potresti riuscire a farlo. Noi …” ringhiò, dando un colpo di spalla al Tarc che abbandonò di colpo la morsa “… andiamo a prendere quella puttana. Come al solito quando c’è un problema bisogna sbrigarsela da soli”.
Boba non provò nemmeno a provare a liberarsi quando il Tarc allentò la presa della chela e lo passò all’altro cacciatore. Non aveva il coraggio di fissare suo padre, e la pelliccia del wookie sembrò quasi preferibile; vide Nall ed il Tarc allontanarsi verso la Slave, le armi puntate dritte verso la stiva fumante. Doveva avere a che fare con il prigioniero che suo padre aveva catturato su Tatooine, anche se non aveva visto nessuno uscire da lì almeno fino a quando non era stato preso.
Il wookie sbraitò qualcosa agli altri due.
“Snoova, non si capisce un cazzo quando parli, quante volte te …”
La creatura lo spinse a terra, gli si parò davanti con le enormi gambe e sparò. Boba ruzzolò nel velo d’acqua del molo e riprese fiato nel tempo necessario di vedere l’umano di nome Embo esplodere in mille pezzi con la granata della balestra del wookie che ancora mandava le ultime luci verdastre. Il cereano mandò un grido di avvertimento, ma l’istante dopo Snoova gli fu addosso con tutta la sua considerevole stazza.
Boba vide suo padre riprendere il controllo e scattare nella sua direzione. Si mise davanti a lui, e vide che le elettromanette ai suoi polsi cambiarono colore non appena attivò qualcosa dagli avambracci dell’armatura. Con un gesto gli avvicinò il proprio blaster. “Ci vorrà un po’. Stai dietro di me e spara”.
“Ma pa’ …”
“La mia armatura reggerà i colpi. Mi fido di te” disse, mentre le manette iniziarono a sfrigolare. “Ti voglio bene”.
Non gli servì altro. Lui e suo padre si erano allenati a mirare ai rollerfish nell’oceano da quando riuscisse a ricordare; la pioggia di Kamino era il loro migliore alleato.
Sbucò da oltre la spalla e mirò al capo. Maledisse la Forza quando vide il suo colpo assorbito dallo scudo deflettore. “Gli scudi non sono eterni, Boba. Scaricaglielo”.
Boba riprese a sparare, osservando con ansia che le manette che bloccavano suo padre saltassero. Da quella distanza il capo Salaktori sparò contro di loro, ma il pettorale dell’armatura in beskal resse l’urto, anche se suo padre sembrò accusare il colpo.
Il wookie afferrò il cereano per la lunga testa; si muoveva in maniera poco precisa, con meno equilibrio di quello che avrebbe immaginato, ma la sua mole dominò quella dell’altro rapitore ed il loro scontro durò nel tempo di qualche scambio di colpi di fulminatore. Il cereano si divincolò e menò qualche calcio, ma Snoova iniziò a correre con lui aggrappato e con una sola mossa delle lunghissime braccia lo scagliò oltre il molo, nell’oceano che mulinava.
I due Salaktori rimasti furono loro addosso, ma ancora una volta il wookie fu sorprendentemente più veloce.
Prima che Fascyn il Tarc abbattesse entrambe le chele sul casco di suo padre la creatura si mise in mezzo e gli strattonò un arto, costringendolo a camminare all’indietro e ad allontanarsi dal bersaglio per non cadere riverso; il wookie aveva abbandonato la balestra per il combattimento ravvicinato, ma alla cintura aveva delle armi così nascoste nel pelo bagnato che Boba non riuscì a riconoscerle. I due erano della stessa stazza, ma il Tarc aveva un esoscheletro ed il ragazzo aveva ben presente quanto fosse duro. Snoova perse la presa sull’arto, e Fascyn gli saltò addosso. Entrambi urtarono contro la parete della Slave I, la cui intera struttura subì uno scossone all’impatto.
Le manette di suo padre si dissolsero in una fiammata l’esatto istante il cui Nall fece calare su di lui l’elettrobisento; Boba sparò ancora una volta, tre colpi di fila, osservando il deflettore sovraccaricarsi fino a svanire del tutto, liberando un grido di vittoria mentre suo padre si alzò di scatto e si frappose. L’asta dell’arma nemica si illuminò, ma gli otto uncini di platino-iridio scattarono dai guanti dell’armatura mandaloriana ed afferrarono il bisento al posto delle dita: vi fu un fragore che li mandò entrambi indietro, e due uncini erano così anneriti che sarebbero presto stati inservibili, ma Boba sapeva che il bastardo del Sindacato aveva già perso. Si allontanò, stavolta con più cautela di prima, in tempo per vedere Snoova e Fascyn rotolarsi a terra nel tentativo di staccarsi la testa a vicenda; il pensiero gli andò al prigioniero nella stiva che aveva paralizzato dal terrore i cacciatori di taglie, e per sicurezza premette la schiena contro un pilastro, cercando almeno stavolta di non farsi prendere alle spalle.
Suo padre entrò nella guardia del Salaktori con un pugno in pieno petto e accese il lanciafiamme; la pioggia sferzante cancellò quasi del tutto il suo attacco, ma l’avversario fu preso di sorpresa ed indietreggiò, dandogli un secondo spazio nella sua guardia che lui sfruttò dandogli un calcio all’altezza degli stinchi. Nall doveva ad ogni modo essere piuttosto abile, perché evitò un terzo calcio con una capriola e si allontanò dall’area, anche se la manovra chiaramente non gli riuscì come desiderava. Il lazo mandaloriano saettò di nuovo, piantandogli l’arpione nella spalla e trascinandolo verso di lui con un urlo; quello tentò una resistenza piantando a terra l’elettrobisento, cercando di deviarne la traiettoria, ma suo padre rispose tendendo il capo con maggiore forza, i piedi piantati a terra finché il lazo non si curvò intorno all’asta e strappò un secondo grido al loro assalitore.
Tirò ancora, e quando perse la presa sull’arma gli fu addosso con gli ultimi uncini rimasti; quello si dimenò e provò ad afferrare qualcosa dalla cintura, ma le lame gli entrarono nel torace e forarono la sua cotta. Gli uscì un fiotto di sangue prima di cadere a terra e Boba mandò un urlo di incoraggiamento, estasiato, per poi accorgersi che lo scontro non era ancora finito.
Fascyn si era portato sopra al wookie e lo aveva atterrato. Con le braccia era riuscito a tenere a bada quelle del nemico, ma le chele erano ancora libere di muoversi ed entrambe passarono a colpire le gambe di Snoova per immobilizzarlo. Quello evitò entrambi gli attacchi, ma era chiaro che avesse perso qualsiasi forma di vantaggio davanti alla posizione ed al peso del Tarc: gli venne in mente di usare le ultime celle del blaster per far distrarre Fascyn, ma suo padre non gli aveva detto nulla al riguardo e non poteva attirare di nuovo l’attenzione di quel mostro su di sé. Rimase impietrito quando una chela saettò tra il capo e il collo del wookie e d’istinto si retrasse all’idea del sangue che ne sarebbe schizzato.
E di sangue ne uscì, ma non come avrebbe immaginato.
La chela si chiuse sul vuoto. Gli arti del wookie sembrarono ritirarsi per tutta la loro lunghezza, come risucchiati, e la massa di peli scomparve alla sua vista; il Tarc, che vi era poggiato sopra con tutto l’esoscheletro, perse di colpo l’equilibrio quando il suo appoggio venne a mancare. O, come osservò il ragazzo, più che mancare diventò molto più piccolo e flessuoso, come la sagoma di una figura umana che gli sgusciò da sotto le gambe, le braccia e le chele e si rotolò sul suo fianco. L’attimo successivo una vibrolama si piantò nella gamba sinistra del Tarc, per poi tranciargliela di netto.
L’odore di icore gli arrivò anche a quella distanza, insieme all’urlo di Fascyn.
“Adesso siamo pari, crostaceo!” disse la voce, stavolta chiaramente umana. Snoova -chiunque fosse- si rimise in piedi, e del suo aspetto di wookie non era rimasto nemmeno un ciuffo di peli. Rimase in posizione di guardia davanti ai versi di Fascyn, che si puntellò sulle chele per riprendere equilibrio, i movimenti quasi impazziti mentre l’icore giallastro continuava ad uscire. Si avventò su Snoova con ferocia, ma quello evitò l’attacco spostandosi di lato e gli girò intorno, l’energia della vibrolama che sfrigolava davanti agli occhi del cacciatore ferito; raccolse un fulminatore caduto a terra e lo puntò verso Fascyn, che sembrava ancora più imbestialito di prima. “Mando, se per caso hai finito con la manicure potresti anche venire da questa parte!”.
Suo padre non se lo fece ripetere una seconda volta. Afferrò da terra il bisento di Nall e settò qualcosa sul pannello dei comandi: partì in avanti e l’asta dell’arma si caricò, ma con maggior intensità di quanta ne avesse vista nello scontro precedente. Era chiaro che un colpo del genere sarebbe stato mortale per un umano, ma il rivestimento del Tarc assorbì buona parte del danno, sebbene il grido di Fascyn risuonò per tutto il molo e quello si voltò per fronteggiare il nuovo aggressore, dando le spalle a Snoova. Boba per poco non saltò dalla sua posizione quando lo vide di nuovo crescere in maniera incontrollata e tornare di nuovo peloso come un wookie negli istanti in cui Fascyn aveva cambiato obiettivo. Gli andò di lato, evitando le chele, e con una spinta gli fece perdere l’equilibrio, sospingendolo verso l’estremità del molo. Suo padre fece il resto, afferrando il Tarc dall’altro lato e dandogli l’ultima spinta, finché quello non volò per diversi piani fino a cadere nei gorghi di Kamino.
Boba fece per scattare in avanti ed abbracciare suo padre, ma ancora una volta dovette trattenersi. Lui e Snoova, che aveva ancora una volta assunto sembianze umane, si stavano puntando i blaster a vicenda.
“Che si fa, Mando? Ce la vediamo tra guerrieri, uno contro uno? Sappi che per me va bene”.
Aveva la voce alta, musicale, simile a quella di Taun We. Cercò di vedere meglio quella figura; era almeno una testa più bassa di suo padre e molto sottile, ma oltre a quello non riusciva a dedurne molto altro. Si teneva in equilibrio con difficoltà, adesso che era immobile si vedeva che avesse problemi ad una gamba.
“Come ti sei liberata?” disse suo padre.
“Chiedilo al wookie” fece Snoova, indicando con un cenno della mano libera un punto oltre i piloni di caricamento. Boba seguì le dita con lo sguardo, e gli ci volle del tempo per capire che la massa scura ai piedi dei condensatori non era un ammasso di ciarpame informe ma un cumulo enorme di pelo bruciato. E se quello era il vero Snoova … “Le tue manette erano di qualità, Mando. Meno male che c’era un wookie grande e grosso su cui scaricarle. Ci sarei rimasta secca, altrimenti”.
Il ragazzo adesso avrebbe dato qualunque cosa per potersi avvicinare.
Se aveva capito bene, quella era una donna.
E non c’erano mai state donne umane su Kamino. “Ma ti avviso che in quella gabbia non mi ci rimetti. Costi quel che costi”.
“Se te ne volevi andare c’era abbastanza confusione. Per una come te …”
“… sarebbe stato facile. Lo so. Dite sempre le stesse cose”.
Si appoggiò alla fiancata della Slave I, portandosi una mano al ginocchio senza però abbassare la mira del blaster; doveva essere stanca, lo vedeva anche lui, ma sapeva benissimo che anche l’armatura di suo padre aveva bisogno di riparazioni e che buona parte delle celle energetiche era stata consumata quando aveva scaricato il lanciafiamme contro il Salaktori. “Ma noi clawditi non scappiamo. Non scappiamo mai”.
Suo padre si spostò, di poco, come a cercare un altro angolo.
Avrebbe vinto, pensò Boba. Sì, avrebbe vinto senza dubbio. Cioè, se quella donna non avesse fatto un’altra cosa strana.
Non aveva sconfitto a mani nude quei Salaktori solo perché avevano preso lui in ostaggio, altrimenti …
“Lasciamo perdere questa storia”.
Senza preavviso, suo padre sollevò al petto entrambe le mani. Poi, con lentezza, ripose il blaster nella fondina. “Hai salvato mio figlio, prima. Hai rischiato la vita per tutti e due. Non è una cosa che avrebbero fatto in molti” disse, scrollando le spalle “A ben pensare, non lo avrebbe fatto nessuno”.
“Nessun umano, esatto”.
Per la prima volta Boba si accorse che adesso la figura stava osservando lui. “Ma tu lo sei, Mando. Quindi quale garanzia ho che non mi sparerai nella schiena non appena avrò abbassato la guardia?”
“Il fatto che io sappia dove trovare una vasca di bacta in uno stabilimento kaminoano e tu no. E la tua gamba mi dà l’idea che di bacta ne avrebbe un gran bisogno. Ma se vuoi perderti e chiedere indicazioni ai padroni di casa … fai pure. Ma ti avviso: sono davvero tutti uguali”.
E niente, Boba non riuscì a trattenere una risata. Anche davanti a un blaster suo padre era … era sempre il migliore.
Sarebbe diventato come lui, un giorno.
“Fai sempre questo genere di proposte alle donne che ti minacciano?” fece lei, e fu con enorme sollievo del ragazzo che infilò di nuovo l’arma nella fondina. Si tirò meglio in piedi contro la parete della nave, e di colpo sembrò molto più stanca di quanto non lo fosse stata fino ad un istante prima. Notò solo in quel momento che entrambe le maniche erano carbonizzate all’altezza dei polsi, e la pelle ustionata si vedeva anche sotto il diluvio.
“Di solito le uccido” rispose, e con un cenno della mano gli fece cenno di uscire. Boba non se lo fece ripetere due volte, e stavolta non attese nemmeno l’autorizzazione per saltargli in braccio e fargli sentire quanto fosse felice che fosse ancora con lui. “Ma stasera direi che potremo fare tutti un’eccezione, non trovi?”.
“Adoro le proposte ragionevoli, Mando”.
“E potresti anche evitare quel soprannome, visto che ci sei”
Iniziarono ad incamminarsi con calma, ed anche in quel momento al ragazzo era chiaro che nessuno dei due stesse perdendo di vista l’altro. La donna incespicava ma, con la testa contro la sua spalla, Boba si accorse che anche sotto il casco suo padre aveva un respiro molto più affaticato del solito; la osservò, e da quella posizione si accorse che aveva degli insoliti occhi chiari. “Mi chiamo Jango. E questa fonte di guai deambulante si chiama Boba”.
“Jango, eh?”
Occhi così chiari che potevano tagliarti in due.
“Sì, Mando fa davvero schifo, a pensarci bene”.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Solitudine ***


Capitolo 6 - Solitudine







Una rodiana








Settore R, livello centoventidue.
Un’anonima facciata grigia. Poco più di ventiquattr’ore a Coruscant avevano insegnato a Vexen che fermarsi troppo a lungo a fissare qualcosa significava esporsi invariabilmente a spinte e pestoni da parte dei passanti frettolosi, perciò si affrettò a trovare rifugio nell’androne, lasciando cadere a terra lo zaino con un gemito di sollievo. Si concesse un paio di minuti per riprendere il respiro.
Aveva percorso gli ultimi dieci chilometri a piedi, arrancando tra ascensori e piattaforme sospese, perché la sua riserva di crediti si era prosciugata appena prima di poter prendere l’ultimo mezzo, la navetta R-9 che faceva il giro completo del settore e, per qualche ragione incomprensibile, aveva una tariffa più alta degli altri trasporti pubblici dello stesso tipo.
Esausto, si era lasciato andare su uno scalino, incurante degli sguardi stupefatti lanciati da qualche residente di passaggio. Si riscosse soltanto all’idea che Zexion avrebbe potuto trovarlo lì uscendo o rientrando a casa, e con uno sforzo sovrumano comandò alle gambe tremolanti di rimettersi in piedi. Non voleva che il loro primo incontro avvenisse in pubblico. Per la verità, non avrebbe voluto nemmeno presentarsi davanti a suo nipote sporco dopo due giorni di viaggio estenuante e ridotto peggio di un ramingo della Terra II, ma non aveva molta scelta a riguardo.
Il nucleo abitativo R-TY444 occupava il grattacielo su due interi livelli e, con le sue finestrelle tutte rigorosamente uguali, sembrava costruito da tanti piccoli mattoncini da gioco impilati dalla mano di un bambino. A colpo d’occhio, doveva ospitare almeno un migliaio di appartamenti.
All’interno si dipanava un autentico labirinto. Gli bastò un’occhiata alle rampe di scale che si inerpicavano a perdita d’occhio per capire che quella via era fuori questione, a meno che non avesse voluto farsi venire un infarto ancora prima di raggiungere casa di Zexion. Di ascensori, nell’atrio principale, ce n’erano ben quattro, e dopo qualche minuto passato a decifrare contorti pannelli esplicativi lo scienziato riuscì a identificare quello che faceva al caso suo. Le porte scorrevoli si aprirono con un ronzio appena percettibile, rivelando un abitacolo piuttosto largo, foderato di metallo lucido e con un largo specchio sulla parete di fondo. Oltre a lui, non c’erano altri passeggeri. Selezionò il trantaseiesimo piano e l’ascensore partì, rapido e silenzioso com’era arrivato.
Lo specchio gli restituì uno sguardo affilato, guardingo. Non si era minimamente preparato cosa dire. Si era ripromesso più volte di farlo nel corso del viaggio, certo, ma in ogni momento c’era un ostacolo o un problema che richiedeva la sua attenzione, e Vexen aveva sempre tenuto in pausa quel pensiero, crogiolandosi nell’idea di avere tempo. Le porte si spalancarono anche troppo in fretta per i suoi gusti, risputandolo su un pianerottolo asettico, lucido come uno specchio, con la sola compagnia del suo zaino logoro e del battito sempre più fuori controllo del suo cuore.
La verità era che non gli sarebbe bastato tutto il tempo del mondo per trovare le parole adatte.
Il rettangolo grigio della porta di Zexion sembrava farsi beffe della sua insicurezza, rigoroso e impeccabile come ogni singolo dettaglio in quell’edificio. Vexen si avvicinò in punta di piedi, evitando persino di respirare, e controllò il nome sulla targhetta.
Ienzo Whiteflame.
Prese un respiro profondo, soffocò una bestemmia tra i denti e premette il pannello con tutta la forza che aveva. Un trillo prolungato risuonò da dietro la lastra di duracciaio, spegnendosi lentamente nel silenzio.
Vexen spostò il peso da un piede all’altro. Forse aveva sbagliato a presentarsi così. A piombare all’improvviso con la delicatezza di una bomba a orologeria. L’esplosione del Baan Palace era stata largamente pubblicizzata dalla propaganda imperiale (che naturalmente se n’era presa tutto il merito), e il ragazzo sicuramente lo credeva morto, ridotto a un pugno di atomi polverizzati nei cieli del loro mondo natale. Gli sarebbe preso un colpo a vederselo spuntare davanti senza alcun preavviso.
Accostò un orecchio alla porta, cercando di cogliere qualche segno di movimento all’interno. Nessun rumore di passi, nulla. Esitò ancora qualche secondo, poi sfiorò nuovamente il pannello, producendo un secondo trillo all’interno dell’abitazione.
Si rese conto di non aver considerato un’altra possibilità. Magari Zexion non viveva da solo. Probabilmente, dopo tutti quegli anni, si era rifatto una vita, e ora la presenza di un vecchio zio precipitato tra capo e collo sarebbe stata più un fastidio che un piacere.
Al terzo trillo fu chiaro che dentro l’appartamento non c’era nessuno.
Suo malgrado, Vexen si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Mancavano ancora un paio d’ore al tramonto, perciò era verosimile che il ragazzo fosse ancora a lavoro. Avrebbe avuto tempo per imbastire un minimo di discorso, prepararsi uno straccio di scusa. Approfittò di una finestra quadrata al centro del pianerottolo, collocata a pochi centimetri dal pavimento, il cui davanzale era abbastanza largo da potercisi sedere sopra in modo abbastanza confortevole. Da lì poteva tenere d’occhio sia l’ascensore che la porta di Zexion.
Appoggiò la schiena alla lastra di vetracciaio e attese.
Le parole del discorso per Zexion si ingarbugliarono quasi subito nella sua mente, riducendosi ben presto a una fradicia massa di autocommiserazione. Ci rinunciò. Le sue dita, incapaci di rimanere oziose, volarono sullo schermo dell’olopad e richiamarono i file sulle specie senzienti della galassia che aveva salvato in precedenza, nel tentativo di distrarre il cervello con l’afflusso massiccio di nuove informazioni.
Su quel pianerottolo stretto e pulito si sentiva come in una capsula al di fuori dello spazio e del tempo. Solo i raggi del sole provenienti da fuori davano l’idea dello scorrere delle ore, ma il ronzio frenetico di Coruscant era lontano anni luce, tenuto a bada dai materiali isolanti di cui era rivestito il grattacielo. Anche gli abitanti sembravano essersi vaporizzati nel nulla, perché Vexen non udiva passi per le scale né qualsiasi altro segno di vita dietro le tre porte grigie che, insieme a quella di Zexion, si stagliavano lungo le pareti.
Dopo una ventina di minuti si decise persino a recuperare i messaggi di Camus. Il loro numero, contrassegnato da un minaccioso indicatore rosso in un angolo dello schermo, presentava una crescita esponenziale direttamente proporzionale alle ore trascorse senza una risposta. Vexen non era sicuro che la memoria del dispositivo potesse reggere ancora a lungo.
Se non altro, il sacerdote aveva rinunciato quasi subito a giocare al finto offeso per la storia degli oggetti rubati. I messaggi più recenti erano una stringa infinita di raccomandazioni digitate con frenesia, a pochi minuti l’una dall’altra.
12.07: Eviti i livelli inferiori, se può. Sono pericolosi, specialmente di notte.
12.16: Le allego un file sui trasporti pubblici nell’emisfero nord.
12. 20: Mi faccia sapere se le serve qualcos’altro.
12.21: Non si dimentichi di mangiare!
Lo stomaco di Vexen scelse proprio quel momento per manifestare il suo disappunto, ricordandogli che il suo ultimo pasto risaliva ormai al volo da Nakadia. Dopotutto, nutrirsi regolarmente costava troppi crediti. Si rimproverò per aver ceduto alle lusinghe dei manicaretti ribelli durante gli ultimi tre mesi. Si era abituato troppo male.
13.34: Io e i miei amici siamo atterrati su Ithor. Il tempo è bello e presto saremo al campeggio.
Prima della partenza, Vexen aveva concordato con il sacerdote di non menzionare mai direttamente l’Alleanza nelle loro comunicazioni, per paura di intercettazioni imperiali. Lo scienziato non aveva idea di dove si stesse svolgendo la missione di Camus, ma sicuramente non era su Ithor.
Digitò una breve risposta per cercare di ergere una diga contro quel profluvio di raccomandazioni.
Sto bene. Ho trovato casa di Zexion, ma lui è fuori. Sto aspettando che torni.
E concluse tutto con un bel: “Buon campeggio!
Fuori, le cime dei grattacieli si accendevano ormai di bagliori arancioni. Una serie improvvisa di passi lungo le scale accelerò nuovamente il battito del cuore di Vexen, ma era solo una signora che rientrava a casa con due grosse buste della spesa. Grandi occhi senza pupille sopra un muso stretto e allungato, pelle verde e due piccole antenne simili a ventose sulla sommità di una testa rotonda, priva di capelli. Una rodiana, se le sue fonti erano accurate. La signora gli gettò uno sguardo con la fronte corrugata, poi posò le buste davanti alla porta di casa e iniziò a frugarsi le tasche. Trovò la tessera magnetica che fungeva da chiave dell’abitazione e spinse la porta, ma all’ultimo momento sembrò cambiare idea e si voltò nuovamente a guardarlo.
“Cerca qualcuno? Posso aiutarla in qualche modo?”
“No, la ringrazio. Sto aspettando che mio nipote rientri a casa.”
Nei grandi occhi da insetto della rodiana affiorò un bagliore incerto. “Suo nipote… vuole dire il signor Whiteflame? Per forza, è l’unico umano del pianerottolo, ma… è partito un paio di giorni fa.”
Le parole della rodiana impiegarono qualche secondo a farsi strada nel cervello di Vexen. Lo scienziato deglutì e sbatté le palpebre un paio di volte, la gola improvvisamente secca: “Come, prego?”
“Ma sì, l’ho incrociato che scendeva con una valigia… lo mandano spesso in giro per lavoro, credo. Un ragazzo ammodo, molto riservato. Lei è lo zio, ha detto?”
“Sì, ma… abbiamo perso i contatti. Lunga storia” fece un gesto con la mano, scansando l’argomento. La signora aveva tutta l’aria della comare impicciona che non vede l’ora di rallegrare le proprie giornate con nuove indiscrezioni sulla vita privata dei propri vicini. Aveva spinto dentro casa le buste e si era appoggiata con la schiena contro lo stipite della porta socchiusa, pregustando gossip nuovi di zecca.
“Non saprebbe dirmi quando rientrerà? O dov’è andato?”
“Oh, non ne ho idea” la rodiana allargò le braccia e si strinse nelle spalle. “Come ho detto, è molto riservato. Educato sì, ma mai che scambiasse due parole con qualcuno… certo, qui su Coruscant ciascuno si fa gli fa gli affari propri, ma da dove vengo io… “
Vexen si alzò in piedi di scatto, rimettendosi lo zaino in spalla. “La ringrazio molto, signora.”
La rodiana piegò la piccola bocca all’ingiù, evidentemente delusa di essere stata interrotta nel bel mezzo della sua filippica. Vexen non le diede il tempo di replicare, precipitandosi giù per le scale prima che lei potesse pronunciare anche solo mezza parola per trattenerlo.
Le sue gambe si fermarono da sole tre pianerottoli più in basso. Si era ripreso a sufficienza dalla scarpinata di dieci chilometri, tuttavia le ginocchia cedettero quasi di schianto, costringendolo a sedersi sul primo scalino a disposizione. Era in un vicolo cieco. Tanto per dare il colpo di grazia, il suo stomaco protestò ancora, ricordandogli che non aveva il becco di un quattrino né un posto dove andare a dormire. I suoi piani non erano mai andati tanto avanti nel tempo. Aveva scommesso tutto sulla possibilità di ritrovare Zexion in pochi giorni dal suo arrivo su Coruscant.
Aveva perso.
Rimase seduto a lungo, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa incassata tra le spalle. Alle sue spalle, attraverso il vetracciaio dell’immancabile finestra, anche l’ultimo bagliore arancione si spense pian piano sopra i grattacieli, tingendosi prima di viola e infine svanendo inghiottito dal nero di un cielo senza stelle. La superficie del pianeta, per contrasto, iniziò a sfavillare di luci colorate. Su Coruscant era calata la notte.
Alla fine fu costretto ad alzarsi, se non altro per placare il dolore agli arti irrigiditi. Si massaggiò i muscoli del collo indolenziti e guardò in alto, verso le rampe di scale oltre le quali attendeva, inamovibile e silenziosa, la porta di Zexion.
E decise di giocarsi il tutto per tutto.
Disegnare con un gessetto sul duracciaio fu un’impresa eroica. Dovette ripassare ogni linea diverse volte, con precisione maniacale, voltandosi ogni manciata di secondi per controllare, con la coda dell’occhio, che non arrivasse nessuno dall’ascensore o dalle scale. Gli parve di impiegare un’eternità, ma alla fine il cerchio fu pronto. Sfiorò il bordo esterno con le dita e impartì agli atomi l’ordine di allentare i loro legami. Non a tutti gli atomi, però: solo a quelli collocati lungo la linea di demarcazione del cerchio. Come un bambino alle prese con i suoi primi esercizi di geometria, ritagliò un cerchio nel duracciaio della porta.
Il blocco circolare cadde verso l’interno con un tonfo assordante che fece sobbalzare Vexen sul posto. Si affrettò a raccogliere il gessetto e scavalcò l’apertura con una gamba, chinandosi per passare attraverso il buco appena creato. Una volta dentro si avventò sul blocco, ma era più pesante di quel che credesse. Non riusciva a sollevarlo.
Bestemmiò, tendendo l’orecchio verso l’esterno. Un flebile ronzio gli segnalò che l’ascensore era in funzione. Certo, le probabilità che si fermasse proprio a quel piano erano remote, ma Vexen non aveva voglia di restare a guardare se aveva ragione attraverso il buco che lo denunciava ai quattro venti come ladro d’appartamento. In fretta e furia tracciò due rune aggiuntive sul cerchio, e con rabbia ordinò agli atomi di cambiare una seconda volta. Il blocco tremò leggermente e in un istante ne sentì la superficie ammorbidirsi e diventare cedevole e flessibile sotto le sue dita. Sollevò il blocco di gommapiuma e lo collocò nel buco aperto. Non sapeva se fosse uno scherzo dei nervi a fior di pelle o meno, ma gli parve che il ronzio dell’ascensore aumentasse d’intensità.
Impartì l’ordine finale proprio mentre sentiva le porte scorrevoli spalancarsi sul pianerottolo del trentaseiesimo piano. Gli atomi tornarono a legarsi saldamente tra loro, la gommapiuma ridivenne fredda, liscia e impenetrabile. La luce del pianerottolo fu tagliata fuori, facendo piombare l’ambiente in una fitta penombra. La porta era tornata un’unica parete di duracciaio inossidabile.
Ancora seduto sul pavimento, Vexen appoggiò una spalla alla parete dell’ingresso e prese una serie di respiri profondi. Attese con pazienza che gli occhi si abituassero al buio. Da fuori si udirono rumori di passi attutiti, un’altra porta che si apriva. Poi più nulla.
L’odore di chiuso lo assalì prima ancora di qualsiasi sensazione visiva. Dovette avanzare a tentoni nella semioscurità e tastare le pareti per qualche minuto prima di imbattersi in un interruttore. L’illuminazione al neon balenò come una lama crudele, gettando il suo faro asettico su una casa tristemente vuota e fredda. Vexen strizzò gli occhi per il cambiamento improvviso e trattenne il respiro.
Come l’esterno, anche gli appartamenti del nucleo abitativo mostravano uno stile nettamente improntato alla praticità e all’efficienza: colori neutri, linee tondeggianti ed essenziali, arredamento minimalista. Tutto l’appartamento era costituito da un rettangolo compatto suddiviso in quattro ambienti essenziali: stanza da letto, cucina, bagno, stanza da giorno. Malgrado le dimensioni ridotte, non aveva l’aria di un ambiente povero o trascurato: la pelle sintetica del divano nel salottino profumava di nuovo, gli elettrodomestici in cucina scintillavano, il letto aveva un aspetto morbido e confortevole. In effetti, quelle stanze vuote e immacolate sembravano uscite direttamente dalle pagine di un catalogo immobiliare.
Una fitta di nostalgia lo sorprese al pensiero delle loro vecchie stanze al Castello dell’Oblio, accanto all’enorme laboratorio nei sotterranei. Il mosaico colorato dei disegni di Zexion sulle pareti, i cerchi delle tazze di tè sul legno della scrivania, libri e fogli di appunti sparsi su ogni superficie disponibile, l’angolo botanico dove Vexen aveva insegnato a suo nipote i rudimenti dell’erboristeria…
Niente di più diverso da quell’appartamento moderno e anonimo. Non c’era nulla che gli indicasse che Zexion avesse vissuto lì, nulla che lo aiutasse a capire dov’era andato. Persino gli abiti nell’armadio sarebbero potuti appartenere a uno qualsiasi dei miliardi di impiegati che ogni giorno dovevano riempire gli uffici pubblici di Coruscant. In cucina trovò soltanto un frigorifero vuoto e qualche barretta proteica nel ripiano di una credenza. Ne trangugiò un paio per placare i crampi allo stomaco, ma non sapevano di niente.
Quell’intero posto non sapeva di niente.
Alla fine, i suoi passi lo portarono in automatico verso la doccia. Si liberò dei vestiti, appallottolandoli con rabbia e calciandoli sul pavimento, e aprì al massimo il getto dell’acqua fredda, lasciando che lo scroscio gli inondasse il viso e assordasse le orecchie. Rimase a lungo nella piccola cabina, a osservare con la mente anestetizzata i getti d’acqua che gli sferzavano la pelle, portandosi via la sporcizia del viaggio e lasciandosi indietro scie di gelo che sembravano penetrare come lame fin dentro le vene. Si sentiva proprio così, in quel momento: come se tutto il sangue in circolo nel suo corpo fosse stato sostituito da aghi di ghiaccio.
Solo quando infine la sua pelle perse ogni sensibilità si decise a uscire. Si asciugò e si rivestì con gesti lenti e metodici. Rimosse con pazienza i nodi dai capelli e li fece asciugare sotto una pratica ventola che erogava aria calda.
Per la seconda volta nella giornata si guardò allo specchio e, malgrado adesso fosse pulito e in ordine, stentò a riconoscersi nell’individuo sgradevole, dalle spalle curve, che con la sua smorfia sghemba sembrava deriderlo dall’altro lato del vetro. Il suo riflesso gli ricordava con gioia maligna quello che in fondo aveva sempre saputo, da quando la sua strada e quella di Zexion si erano ritrovate per caso, quel giorno sul Baan Palace.
Suo nipote non si era rifatto una vita, su Coruscant. Non aveva trovato qualcuno con cui condividere le proprie giornate e le proprie passioni. Aveva smesso di collezionare libri, non disegnava più. In tre anni non aveva appeso nemmeno una banale decorazione alle sue pareti.
La vita di Zexion era vuota e solitaria come quelle quattro stanze, e la colpa era solo e soltanto sua.
Voltò le spalle all’uccello del malaugurio dentro lo specchio, soffocando l’ennesima imprecazione.
Il freddo, tuttavia, gli aveva fatto bene. Come usciti da una cella criogenica, gli ingranaggi del suo cervello ripresero a funzionare, iniziando a tracciare una rotta, un piano di azione.
Ogni angolo di quell’appartamento gli ricordava il suo fallimento epocale come genitore, ma era anche un rifugio. Un tetto sopra la testa. Il problema soldi e cibo si poteva risolvere rubando, o con le trasmutazioni alchemiche. I crediti imperiali, con il loro sistema interno di chip e filigrane metalliche, erano complessi da riprodurre alchemicamente, ma con abbastanza tempo, studio e tranquillità avrebbe potuto riuscirci.
Doveva solo armarsi di pazienza, e attendere che suo nipote tornasse.
Stava quasi per convincersi che le cose, in fondo, si sarebbero risolte per il meglio, quando una serie di fragorosi colpi metallici contro la porta lo strappò dai suoi sogni ad occhi aperti.
“Polizia di Coruscant! Aprite!” abbaiò una voce stentorea oltre la lastra di duracciaio.
“Arjen Summerwind, è in arresto per spionaggio e violazione della proprietà privata!”
 
 


 
 
Zam era abituata a non contare il tempo. Non aveva alcun senso, anche perché sarebbe andato avanti comunque, che a lei fosse piaciuto oppure no.
Non aveva tenuto il conto di quanti giorni fossero passati da quando aveva riaperto gli occhi nella Caverna del Drago, osservando la luce del giorno andare e venire come un semplice dato di fatto che non aveva nulla a che vedere con le numerose ore di sonno che il suo corpo continuava a richiedere. Per questo motivo rimase piuttosto sorpresa quando il Cavaliere del Drago le annunciò che avrebbe avuto ospiti. E, aggiunse, quegli ospiti avrebbero avuto piacere nel vedere anche lei.
Una novità, pensò Zam mentre era ancora costretta ad alzarsi in piedi con l’aiuto del Generale, visto che non le veniva in mente nessuno che avrebbe provato il benché minimo piacere nell’incontrarla, e questo avrebbe potuto dirlo anche di se stessa.
Fu per questo motivo che non trattenne un sorriso quando vide la figura del Generale Hadler, comandante in capo degli eserciti della famiglia demoniaca, in piedi davanti all’ingresso della caverna in cui dimorava il signore dei draghi. Un lungo mantello scuro gli copriva le spalle e le braccia, ma anche a quella distanza Zam riusciva a notare lo scorrere nervoso delle mani al di sotto della stoffa e l’espressione accigliata che mutò del tutto non appena si accorse della loro presenza; sentì gli occhi scuri del demone su di sé, ma non vi era traccia di quegli sguardi indagatori che era abituata a ricevere a Coruscant.
“Baran … ce l’hai fatta sul serio!”
“Così sembra”.
Le parve di sentire il braccio del Drago irrigidirsi, anche se solo per una manciata di secondi. “Ma credo che il merito sia più della nostra ospite”.
Il Generale Hadler smise di fissarla e sorrise, piegandosi leggermente in avanti. Sotto il mantello scuro indossava una lunga tunica bianca che riprendeva il tono dei suoi capelli: non doveva essere pratico nel portarla, perché a metà dell’inchino questa rimase incastrata sotto un piede e si tese fino a mozzargli a metà il movimento. Si rimise in piedi più in fretta che poté, stavolta con lo sguardo bloccato a terra chiaramente imbarazzato per la pessima entrata in scena. “Baran, tu sei il dio delle leggende della famiglia demoniaca. Se non puoi compiere tu un miracolo, nessuno può”.
L’Imperatore negli ultimi tempi le aveva chiesto numerose volte di performare delle trasformazioni che la rendessero uguale ai demoni; l’esecuzione era stata più lunga del previsto, perché lei stessa aveva bisogno di essere stata diverso tempo a contatto con una creatura per poterne carpire i migliori segreti e creare delle mutazioni accettabili, ma il maggior tempo che aveva trascorso con uno dei loro avversari era stato il duello che aveva sostenuto con il Generale Hadler sui grattacieli di Coruscant ed era stato appena sufficiente a conferirle informazioni utili per una trasformazione basilare.
I demoni, sotto alcuni punti di vista, non erano poi tanto diversi dagli umani. Durante la guerra ne aveva notati numerosi, dagli aspetti più disparati, alcuni alti quanto un wookie ed altri che non le sarebbero arrivati nemmeno alla spalla; avevano incarnati molto chiari, come accadeva a tante creature abituate a vivere lontane dalla luce del sole, ma la loro pelle assumeva toni rosa, azzurri, verdi, in altri casi bianca come la luna della Terra I. Ne aveva visti di robusti ma anche di eleganti e fragili, dunque trasformarsi in uno di loro le aveva richiesto molto più tempo del previsto.
L’unica certezza erano le lunghe orecchie appuntite che ogni membro della famiglia demoniaca ostentava con orgoglio.
Il Generale Hadler era più alto della maggior parte dei demoni che le fosse capitato di studiare. La superava di oltre una testa, e la pelle verde chiara contrastava con il panorama ingrigito delle lande dei draghi. Un segno nero, probabilmente dipinto, gli attraversava la parte sinistra del volto partendo dalla tempia e saettando fino all’altezza del collo, conferendo all’espressione del guerriero un aspetto più severo di quanto lei stessa ricordasse. I capelli chiarissimi gli ricadevano in disordine contro le spalle, ma a differenza degli umani Zam non era sicura che per i demoni il colore fosse un indice valido per stabilirne l’età. Pur sapendo che quelle creature potessero vivere a lungo -persino più di lei- avrebbe paragonato il Generale Hadler ad un umano nella prima metà della propria vita. “È un onore riaverti tra noi. Dico sul serio”.
“L’onore maggiore è mio. Il Generale Baran mi ha detto che la proposta del mio … ritorno …” disse, alla ricerca delle parole più adatte da usare “… viene soprattutto da lei. Non lo dimenticherò”.
“Mi hai salvato due volte. A Coruscant e su quella nave di Canastra. Credo che domandare un favore a Baran non possa essere nemmeno paragonabile a quello che hai fatto per me, per altro un tuo nemico”.
Dopo quel primo sguardo di stupore, notò Zam, il demone aveva difficoltà a fissarla negli occhi.
L’Imperatore aveva i propri mezzi per riportare in vita la gente; quello che per la famiglia demoniaca -e in generale per tutta la Galassia- il solo concetto di risurrezione era considerato qualcosa di oltre la comune comprensione. Non che l’Imperatore concedesse questo privilegio a chiunque, s’intende. Zam sapeva che il sovrano della Galassia aveva fatto sicuramente scandagliare tutti i fondali di Kamino per rinvenire il suo corpo, e non l’avrebbe mai riportata in vita per semplice apprezzamento delle sue capacità combattive.
L’Imperatore permetteva la resurrezione solo delle persone che gli servissero. Probabilmente quanto i normali abitanti dei pianeti del Nucleo decidessero se rottamare il loro droide guasto o portarlo ai centri di smaltimento per averne uno nuovo in cambio.
Le avrebbe restituito la vita solo per farla combattere ancora.
I demoni, al contrario, lo avevano fatto perché … non le era ben chiaro nemmeno a lei. Aveva il sospetto che fossero troppo orgogliosi per dirle che si fosse trattato soltanto di una questione d’onore. Aveva ucciso molti dei loro soldati, dopotutto. Quelle creature che avevano combattuto contro di lei senza quartiere avevano fatto qualcosa che nessun umano avrebbe mai osato anche solo pensare.
Nemmeno Boba, pensò tra sé. Probabilmente nemmeno lui. “A Coruscant ci siamo promessi un duello leale, Generale Hadler. Non vedo l’ora di poterlo onorare”.
“Con tutto il rispetto, signora, siamo un po’ a corto di guaritori. E le mie esperienze in fatto di puzzle non sono abbastanza per rimettere insieme i pezzi del nostro amico verde”.
La voce del nuovo arrivato la prese alla sprovvista.
Dall’interno della caverna uscì una figura coperta dal collo alle ginocchia con una tunica azzurra. Non si trattava di un abito elaborato come quello del demone, non aveva decorazioni a parte una semplice cintura di pelle; una massa di ciuffi disordinati copriva la fronte di quel viso, i capelli di una tonalità tra l’azzurro ed il grigio che Zam sapeva andasse di gran moda tra la nobiltà di Anaxes, anche se era pronta a scommettere che quel colore fosse del tutto naturale. Non era molto più alto di lei, ma l’enorme spada decorata che portava legata alle spalle e che sfiorava le pareti dell’ingresso lo faceva sembrare senza dubbio più imponente. E, sebbene la famiglia demoniaca manifestasse una netta avversione per tutte le altre razze, il giovane guerriero davanti a lei era indubbiamente umano.
Sebbene fosse la prima volta di persona, Zam Wesell aveva studiato in abbondanza i rapporti ed i filmati della battaglia di Coruscant per riconoscere in quella figura dagli occhi chiari il Generale Hyunkel, capo della divisione del Fushikidan del Grande Satana.
Il Cavaliere del Drago fece un lieve cenno con la testa. “Grazie per essere venuto, Hyunkel. So che non è stato facile per te liberarti”.
“E perdermi l’occasione di vedere con i miei occhi il motivo per cui Hadler ha messo l’unica tunica elegante che ha?”
I movimenti erano rigidi, formali, la schiena così dritta da sembrare sull’attenti, ma il fatto che si trattasse di un essere umano non le interessava e, ad essere onesti, non la riguardava. Sapeva che i Servizi avevano svolto delle indagini al riguardo, ma lei era l’ultima a potersi anche solo stupire di una cosa simile.
Ciò che la preoccupò, invece, fu il pendente che il ragazzo portava al collo.
La luce fioca della landa illuminava a malapena la forma piramidale dell’oggetto, la cui superficie era composta unicamente d’oro; anche alla loro distanza poteva intravedere le sottili venature che indicavano i numerosi pezzi che lo componevano, un ingegnoso puzzle che il ragazzo era riuscito a mettere insieme. Nonostante le dimensioni ed il materiale non doveva pesare eccessivamente, perché il Generale Hyunkel lo indossava con una sottile catena metallica che gli girava tutt’intorno al collo. Lungo la superficie esterna campeggiava l’unico pezzo leggermente in rilevo rispetto agli altri, la forma stilizzata di un occhio nero e dorato con delle sottili curve, quasi fossero lacrime, nella parte inferiore. Il guerriero si accorse che l’oggetto aveva attratto la sua attenzione, dunque ne coprì la superficie con la mano. “Sì. Sono stato io a ricomporlo”.
“Dunque … era lei quello su Kamino, Generale Hyunkel?”
“Non posso negarlo, signora” disse “Il Grande Satana mi ha concesso l’onore di usare questo potere per la sua causa”.
Ammirevole, si ritrovò a pensare. Il Grande Satana era morto, ed il suo palazzo ridotto in briciole siderali. Eppure sia il ragazzo che gli altri Generali sembravano parlare di lui come se fosse ancora da qualche parte, seduto sul suo trono a progettare un modo di riprendersi ciò che gli apparteneva dalle grinfie dell’Imperatore. O forse nel cuore dei suoi soldati era ancora vivo, come forse un vero sovrano sarebbe dovuto essere. Per quello che le importava, se l’Imperatore Palpatine fosse morto non avrebbe versato nemmeno una lacrima.
Forse fu per l’ammirazione che provò nell’entusiasmo del Generale Hyunkel che non riuscì a dare voce immediatamente ai propri pensieri, e quando il Cavaliere del Drago prese parola si accorse di avere ancora molte cose da dire. “Se i convenevoli sono terminati, riaccompagnerei la nostra ospite. Appena torno inizieremo la riunione”.
Zam capì di essere di troppo, ma per quanto avesse scambiato solo qualche frase con quelle figure ammise tra sé di sentirsi meglio, come un bicchiere d’acqua fresca dopo una lunga giornata su Tatooine; sempre aggrappata al braccio del Generale salutò le due figure, anche se il Generale Hadler sembrava aver assunto una tinta molto più rosea rispetto al suo normale color verdino.
Si voltò persino indietro per guardarli ancora, osservando il giovane umano rientrare con la stessa fluidità con cui era uscito e il demone che ancora fissava i loro movimenti.
Affondò ancora di più le dita nei bracciali del Cavaliere del Drago, respirando un’aria che odorava di fuoco e carbone.
Scrutando il cielo riuscì a scorgere una luce sottile che sparì tra le nuvole che dimostrava, senza ombra di dubbio, che uno dei draghi della valle fosse appena ripartito per chissà quale destinazione. Per quanto lei stessa potesse assumere le sembianze di quelle creature che per buona parte della Galassia appartenevano alle favole per spaventare i più piccoli, l’immagine della figura dalle squame luminose la emozionò. Adesso che la sua mente era meno intorpidita delle precedenti settimane assorbì dentro il suo intero sguardo le decine di grotte e caverne scavate nelle rocce scure delle montagne, alcune delle quali avevano ingressi così enormi da poter accogliere persino delle ville. Sapeva che alcune di esse si estendevano all’interno delle montagne per centinaia di chilometri, e le creature che le abitavano riempivano la vallata con i loro colori e le squame che ricordavano i metalli più preziosi del terreno. La maggior parte dei draghi preferiva riposare alla luce del sole, ma sapeva che le femmine proteggevano le uova dentro le caverne, e forse qualcuna stava riposando proprio sotto i suoi piedi.
Quella mattina lungo il terreno vulcanico si erano radunati più draghi di quanti lei ne avesse visti in tutti i suoi numerosi anni di vita. Alcuni più anziani, con le squame opache e cadute in più punti, trascorrevano il tempo fissandosi negli occhi, muovendo la coda in maniera sinuosa e schiudendo le ali per sgranchirle di tanto in tanto, mentre i più giovani si spostavano altrove, spesso in aria, mandando dei ruggiti che potevano scuotere il terreno. Vi erano anche draghi privi di ali che correvano come forsennati, e ne vide una decina rincorrere un essere che non riuscì ad identificare a quella distanza. Molto in lontananza, oltre la cortina di vapore arancione che copriva perennemente quel luogo, poteva scorgere la lunga linea del mare.
La maestà del Choryugudan, l’esercito draconico del Generale Baran, riuscì a strapparle un battito ancora più forte nel petto. Ma un pensiero freddo la riportò alla realtà, insieme a quelle parole che non era riuscita a formulare.
“Il Puzzle del Millennio … non è un oggetto da usare in modo sconsiderato”
Lui smise di camminare e la fissò negli occhi, con quello sguardo severo che lei stessa non riusciva a decifrare. “Se ti riferisci a quel pendente … sai meglio di che Hyunkel è riuscito a controllarne l’entità che vi dormiva all’interno. La nostra vittoria su Kamino la dobbiamo a lui”.
Si morse il labbro, cercando di trovare le parole. Era chiaro che il Cavaliere del Drago la credesse spaventata perché l’angelo richiamato dal potere del Puzzle l’aveva sconfitta nel corso del loro unico scontro, ma erano ben altri i pensieri che le mulinavano in testa come le acque scure del pianeta dei clonatori. “Con tutto il rispetto, Generale Baran, quell’artefatto è stato per anni nelle mani dell’Impero Galattico, e so di cosa sto parlando” disse, sapendo di star alzando la voce ad un livello che forse non le era consentito “Lo Spirito che dorme nel Puzzle non ha alcun padrone. E non cede i suoi poteri senza pretendere qualcosa in cambio”.
“Hyunkel è perfettamente in grado di …”
“Non lo è. Non lo è nessuno”
Nella vallata cadde il silenzio. Per un istante le sembrò che persino i giovani draghi che stavano provando le loro fiammate si fossero zittiti, forse in attesa di assalire la persona che aveva appena interrotto una frase del loro dio. Stava per darsi della stupida, ma ormai l’unica cosa che potesse fare era svuotare il sacco. “Quell’affare divorerà il Generale Hyunkel, mi creda. Se …” prese coraggio “…se tenete a lui vi imploro di fare attenzione”.
Il Drago la scrutò senza proferire parola. L’espressione sembrava scolpita nella pietra, e forse quegli occhi scurissimi stavano guardando oltre lei, quasi a cercare una traccia di menzogna nelle sue parole. Si costrinse a controllarsi, a non mostrare quale forma di timore le sorgesse al solo pensiero di quell’artefatto dorato nelle mani di qualsiasi essere vivente.
Specie dopo quello che aveva visto lei.
“Le do la mia parola, Generale”.
Lui si limitò ad annuire, ma percorsero gli ultimi passi verso la sua caverna nel più assoluto silenzio, con i piedi di entrambi che lasciavano cadere piccoli sassi grigi nel percorso. Nessun drago si sollevò nel cielo.
Arrivati all’ingresso lei chinò il capo in segno di congedo, ma sentì la mano dell’uomo poggiarsi sulla sua spalla; una stretta che non serviva soltanto a impedirle di lasciarlo senza permesso. “Dalle nostre parti rivelare informazioni su un’arma simile verrebbe considerato alto tradimento”.
“Anche dalle mie”.
C’era qualcosa sotto quelle dita. Un calore incredibile, una forza che vibrava come la lava di un vulcano. C’era del sangue in grado di restituire la vita, e c’era un essere le cui certezze millenarie avevano probabilmente cambiato quel mondo intero.
E, lo sentì quando la mano si schiuse leggermente per non farle male, c’era una Galassia di pensieri che soffiava sotto quell’elaborato diadema che le teneva a bada. “Ma non mi importa. Non se posso salvare qualcuno a cui lei tiene, Generale Baran”.
Lui abbandonò la presa, poi le diede le spalle prima di incamminarsi lungo la strada del ritorno. “Forse stasera potrei avere tempo per un altro pezzo della tua storia”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Nella notte e nel buio ***


Capitolo 7 - Nella notte e nel buio







Stormtrooper imperiali








Le gambe di Vexen erano incollate al pavimento.
“Polizia di Coruscant! Esci fuori con le mani in alto o sfondiamo la porta!”
La scarica di colpi contro la porta aumentò di intensità. Vexen non osava nemmeno respirare, chiedendosi quanto mancasse prima che i poliziotti si stancassero di usare i pugni e passassero al fuoco dei blaster. O a qualcosa di peggio.
Riuscì a recuperare quel poco di presenza di spirito necessaria a spegnere la luce in camera di Zexion e infilarsi nuovamente lo zaino sulle spalle. Forse, se fosse rimasto completamente immobile e in silenzio, avrebbero pensato che in casa non ci fosse nessuno e se ne sarebbero andati.
Dentro di sé sapeva già che era una speranza vana.
Ad un certo punto, senza preavviso, i colpi si interruppero.
Nella completa oscurità, Vexen osò muovere qualche passo verso la porta d’ingresso. Si chinò leggermente in avanti per ascoltare. Le voci provenienti dall’esterno erano attutite dallo strato di duracciaio, ma si riuscivano comunque a distinguere le parole.
“Joe, forse siamo arrivati troppo tardi. La segnalazione dal sistema di antifurto è arrivata in centrale un’ora fa.”
Vexen si morse l’interno del palato, soffocando una serie colorita di bestemmie. Sistema di antifurto. Ma certo. Come aveva potuto essere così incauto?
“Ma è stata rilevata solo un’entrata, non un’uscita. No Bill, te lo dico io, il bastardo è ancora là dentro. E stavolta giuro che lo prendiamo.”
“Ormai ha esaurito la sua fortuna, ragazzi” sogghignò una terza voce, dal timbro femminile. “Il malfunzionamento del droide sonda che lo seguiva fuori dall’ufficio anagrafico gli ha regalato qualche ora di libertà in più… ma prima o poi doveva commettere un errore. Questi Ribelli avranno anche armi e astronavi, ma restano sempre dei contadini pezzenti che hanno alzato un po’ troppo la testa.”
Fortuna. Era arrivato sano e salvo fin lì soltanto perché aveva avuto fortuna. L’intelligenza di cui andava tanto fiero e l’abilità con le trasmutazioni alchemiche non c’entravano nulla.
Camus direbbe che ho peccato di superbia.
Quella consapevolezza bruciava dritta nell’orgoglio, ma gli diede la forza di reagire, propagandosi in tutto il suo corpo come una miccia esplosiva che mise in moto allo stesso tempo gambe e cervello. Si guardò furiosamente attorno, valutando le proprie opzioni. Anche con l’elemento sorpresa della magia a disposizione, le sue possibilità di mettere al tappeto almeno tre soldati addestrati erano pressoché nulle. Il che significava che doveva trovare un’altra via d’uscita.
Gettò un’occhiata alla finestra nella stanza da letto. Nessun cornicione lungo la facciata del grattacielo, nessun appiglio. Altezze vertiginose rapirono per un attimo il suo sguardo, proiettandolo verso una caduta di chilometri e chilometri attraverso i nastri luminosi delle file di veicoli in perenne movimento, avvolti come le spire infinite di una catena di brillanti attorno ad ogni edificio del pianeta. Da quell’altezza il terreno non era neanche visibile.
Fuori la porta, le voci si fecero più concitate.
“Direi che il poliziotto buono non ha funzionato. Passiamo al poliziotto cattivo. Joe, passami le granate a impulsi!”
Vexen si impose di pensare più rapidamente. Porta e finestre erano fuori questione. I condotti di aerazione, spesso provvidenziali per tirare gli eroi fuori dai guai, esistevano solo negli olofilm proiettati talvolta alla mensa delle Case di Guarigione. Percorse le quattro stanze a larghi passi con la frenesia di un animale in gabbia.
Quattro stanze. Le finestrelle tutte uguali visibili dall’esterno. Quattro porte sul pianerottolo del trentaseiesimo piano. Ogni appartamento del nucleo abitativo doveva avere la stessa identica pianta, occupare lo stesso numero di metri quadrati, come tante cellette collocate ordinatamente una sopra l’altra.
Si fermò di colpo nel bel mezzo della cucina. Se le sue deduzioni erano corrette, oltre la parete di destra doveva trovarsi la cucina della signora rodiana che aveva incontrato quel pomeriggio.
Spostò il frigorifero di lato con una spallata e si infilò a forza nel pertugio tra quello e il mobile dell’angolo cottura, estraendo il gessetto dalla tasca e iniziando a tracciare segni sulla parete con gesti ampi e frettolosi.
Oltre la porta d’ingresso, una serie di penetranti bip lo informò che un qualche tipo di dispositivo diabolico era appena entrato in funzione.
La fretta gli fece tremare la mano, costringendolo a cancellare e rifare tre volte la seconda runa catalizzatrice. Stavolta bestemmiò ad alta voce, senza curarsi della segretezza.
I bip divennero più rapidi e ravvicinati.
Il cerchio iniziò a brillare di luce bianca proprio mentre all’esterno i circuiti del meccanismo di apertura della porta sfrigolavano surriscaldati da una scarica ad altissimo voltaggio. La puzza di plastica e metallo bruciati si infilò insieme a lui nel buco ora spalancato sulla parete, seguendolo fin dentro la cucina della rodiana.
Aveva un minuto scarso, massimo due, prima che le cariche si disperdessero e i poliziotti potessero toccare di nuovo la porta e aprirla.
Ancora una volta, ebbe fortuna. La padrona dell’appartamento in quel momento si trovava proprio in cucina e, vedendolo sbucare di colpo dalla parete dell’appartamento adiacente, aveva fatto cadere a terra la tazza della bevanda scura che stava sorseggiando ed era rimasta paralizzata al centro della stanza, gli occhi da insetto dilatati all’estremo come due buchi neri ricolmi di terrore. Vexen, però, era arrivato preparato.
Non aveva scelto a caso quella via di fuga. Dalle sue ricerche sapeva che la struttura ossea dei rodiani era più minuta e delicata di quella umana, e in effetti, quando afferrò le braccia della donna per bloccargliele dietro la schiena, riuscì a stringerle entrambi i polsi sottili con una sola mano. Con l’altra le tappò la bocca, evocando uno spesso strato di ghiaccio per avere la certezza matematica che non urlasse. Poi fece apparire tra le dita una sottile lama gelida e gliela accostò delicatamente contro il collo.
La testa della povera rodiana gli arrivava sì e no a metà del petto. Non provò nemmeno a scalciare o a liberarsi, completamente paralizzata dal terrore. La sentì tremare in modo incontrollabile contro di sé e vide i suoi grandi occhi neri ricoprirsi di una patina liquida, che infine si sciolse in due grosse lacrime che silenziosamente le solcarono le guance.
“Adesso ascoltami bene. Non voglio farti del male né rubarti nulla. Mi serve solo che tu mi apra la porta della tua casa.” Anche la sua voce tremava come il piccolo corpo della rodiana, ma lei era troppo spaventata per rendersene conto.
“Adesso ti porterò lì, ti libererò una mano, e tu mi aprirai. Dopodiché giuro che sparirò alla velocità della luce e non mi vedrai mai più. Tutto chiaro?”
La donna riuscì a compiere un esitante cenno di assenso con la testa, e Vexen la spinse leggermente in avanti, facendole cenno di iniziare a muoversi. Aveva calcolato che potessero esserci altri membri della famiglia in casa, ma un appartamento del genere non poteva ospitare più di tre, massimo quattro persone, e le sue possibilità sarebbero comunque state più alte contro un gruppo di civili rodiani piuttosto che contro gli agenti della polizia di Coruscant.
I pochi metri che lo separavano dalla porta gli sembrarono snodarsi in eterno. Non percepiva più rumori provenire dall’appartamento di Zexion, ma le sue orecchie erano invase da un rimbombo cupo e forsennato, il martellare del sangue che il cuore, spronato dall’adrenalina, pompava a ritmo frenetico nel cervello. Ad un certo punto non fu più sicuro che i tremiti che sentiva provenissero davvero dalla piccola rodiana stretta tra le sue braccia.
Infine la donna, con un braccio libero, sbloccò la serratura della porta d’ingresso. Vexen la spinse di lato, sussurrandole: “Il ghiaccio si scioglierà tra qualche minuto.” prima di imboccare la tromba delle scale alla velocità del vento.
Con la coda dell’occhio vide la porta di Zexion aperta, i cardini ancora fumanti. Sentì le urla confuse dei poliziotti provenire dall’interno, poi ci fu spazio solo per la corsa. Scese cinque o sei piani, si lanciò in un ascensore che stava per chiudersi e raggiunse la hall del nucleo abitativo in meno di un minuto. Scostò a forza di gomitate un paio di residenti che gli ostruivano la strada e finalmente si ritrovò all’aria aperta, respirando a pieni polmoni la notte di Coruscant.
Anche a quell’ora le piattaforme e le corsie aeree erano affollatissime, ma stavolta la confusione giocava a suo vantaggio, perché disperdersi tra la folla anonima e variopinta era la sua unica possibilità per scrollarsi di dosso gli inseguitori. Zigzagò tra i passanti, che non fecero assolutamente caso a lui, probabilmente convinti di trovarsi davanti l’ennesimo lavoratore pendolare che non voleva assolutamente perdere il prossimo speederbus diretto a casa. Voltato un angolo, una luce rossa attirò la sua attenzione verso l’alto: a pochi palmi dalla sua testa, una sfera metallica sospesa in aria puntava quello che sembrava un grosso obiettivo rotondo direttamente sulla sua faccia. Una voce metallica e gracchiante proruppe dal nucleo del piccolo droide.
Obiettivo rilevato. Ripeto, obiettivo rilevato.”
“Non stavolta, pezzo di ferraglia!”
Lo colpì in pieno con un getto di ghiaccio, facendolo precipitare oltre il bordo della piattaforma in un viaggio di sola andata verso il suolo del pianeta. Stavolta diversi passanti si voltarono allibiti, e sentì qualche voce rabbiosa inseguirlo mentre si gettava di nuovo a capofitto tra la folla, ma l’indifferenza della grande metropoli infine ebbe la meglio e nessuno se la sentì di sprecare tempo a corrergli dietro. La marea di gente si richiuse nuovamente alle sue spalle, facendogli da scudo.
Dopo qualche metro scorse uno speederbus non troppo pieno e ci saltò sopra al volo. Si accasciò letteralmente contro uno dei pali metallici di sostegno, cercando di riprendere fiato. Fuori dal finestrino le luci di Coruscant accelerarono, allontanandolo dal luogo dove Zexion era vissuto per tre lunghissimi anni per catapultarlo verso una direzione ignota.
Non riusciva a capire che tipo di errore avesse commesso all’ufficio anagrafico. Il suo documento falso aveva superato i controlli in due spazioporti diversi, dove la sicurezza era immensamente più elevata rispetto a un banale ufficio pubblico. Forse i suoi dati erano rimasti nei database imperiali e non avevano retto a controlli più approfonditi.
In ogni caso si trovava in un mare di guai. Le forze dell’ordine imperiali conoscevano sia il suo volto che il suo alias, perciò non poteva nemmeno più prendere una nave per lasciare il pianeta. E non aveva l’ombra di un credito in tasca per pagare qualcuno che lo portasse via da Coruscant clandestinamente. Camus avrebbe potuto aiutarlo, ma al momento era in missione per l’Alleanza e non prevedeva di rientrare presto sulla Terra II.
Ciononostante, le sue dita scivolarono istintivamente nella tasca della giacca e si chiusero intorno all’olopad. Non aveva altra scelta. Estrasse il dispositivo, lo avvicinò alle labbra e iniziò a registrare un messaggio.
“Camus, c’è stata una complicazione. Avrei bisogno che… “
La voce gli morì in gola. Lo speederbus stava rallentando in prossimità di una fermata, e attraverso il finestrino Vexen riconobbe le ormai familiari silhouette cilindriche dei droidi controllori stagliarsi contro il gigantesco pannello pubblicitario al neon sulla facciata del vicino grattacielo. Era salito senza biglietto, e se i pezzi di ferraglia gli avessero chiesto di mostrare i documenti lo aspettava un bel viaggio di sola andata verso un centro di detenzione imperiale.
Non appena le porte scorrevoli si aprirono si affrettò a saltare fuori dal mezzo dall’uscita posteriore. I droidi salirono fluttuando dalla parte del conducente, e nessuno dei due lo bloccò per chiedergli il biglietto. La testa del secondo, però, ruotò per un istante nella sua direzione. Vexen si vide avvolgere da una luce verde e d’istinto mise le mani davanti al viso per proteggersi, ma le ritirò un attimo dopo, accorgendosi che non stava provando dolore o altre sensazioni sgradevoli. La realizzazione di cosa era appena successo lo colpì un attimo prima che la voce metallica del droide annunciasse a volume spropositato: “Soggetto pericoloso individuato. Inizio trasmissione alle forze dell’ordine.
In quel momento lo schermo al neon sfarfallò, e l’istante successivo la pubblicità del villaggio vacanze su Ithor venne sostituita da una gigantografia della sua faccia con il nome Arjen Summerwind a caratteri cubitali, probabilmente leggibili da due o tre settori di distanza.
“Dèi ladri!”
Vexen ricominciò a correre. Travolse chiunque gli capitò a tiro senza voltarsi indietro, sparando per precauzione qualche raffica di aghi di ghiaccio dietro di sé per scoraggiare eventuali inseguitori. Sapeva che i droidi controllori non disponevano di armi da fuoco, ma in pochi secondi la piattaforma avrebbe iniziato a brulicare di forze di polizia e lui doveva allontanarsi il più possibile prima che gli tagliassero ogni via di fuga. Senza rallentare, estrasse a fatica la sciarpa dallo zaino e se la avvolse alla bene e meglio davanti al viso, sperando che bastasse almeno a confondere gli scanner più superficiali.
Ormai si muoveva completamente a caso, le gambe sospinte dall’adrenalina e dal terrore. Imboccò l’ingresso di un locale notturno da cui proveniva un’assordante musica sintetica, si fece strada tra i tavoli gremiti di avventori e uscì da un ingresso posteriore, ritrovandosi su una piattaforma più stretta e meno affollata. Poco lontano vide un ascensore pubblico con appena cinque persone in fila, e riuscì ad infilarsi dentro dietro di loro poco prima che le porte si chiudessero.
Appoggiò la schiena a una parete, respirando pesantemente. L’ascensore iniziò a scendere, rapidissimo e silenzioso.
Attraverso la cabina fatta interamente in vetracciaio, Vexen scandagliò l’ambiente circostante. I maledetti droidi sonda, minuscoli e con le loro subdole lucine rosse, erano incredibilmente difficili da distinguere nel caleidoscopio della notte di Coruscant. Colto da un’improvvisa paura, sollevò la testa e scrutò con attenzione il soffitto dell’ascensore, alla ricerca di eventuali telecamere. Non gli parve di notarne.
Chissà da quante si era già fatto inquadrare senza saperlo.
Strinse i pugni, cercando di concentrarsi. Doveva trovare un posto sicuro. Un rifugio dove nascondersi qualche giorno fino a che Camus non avesse trovato il modo di mandargli degli aiuti. Ma esisteva un posto del genere su un pianeta in cui ogni droide, ogni sensore, ogni schermo poteva individuare e trasmettere la sua posizione in qualsiasi momento? Si sentiva come una mosca imprigionata in una gigantesca ragnatela: poteva provare a muoversi, resistere giorni interi perfino, ma prima o poi il ragno sarebbe arrivato a divorarla. Forse la sua ombra gravava già sopra di lui, in quieta attesa.
Osservò la gente che lo circondava, chiedendosi quanti di loro fossero informatori imperiali o avessero visto la sua gigantografia segnaletica in giro per i grattacieli. La maggior parte aveva l’aria di lavoratori stanchi di ritorno a casa. Un giovane Twi’lek (almeno gli sembrava fosse un Twi’lek) muoveva la testa avanti e indietro al ritmo di qualsiasi musica le sue gigantesche cuffie gli stessero pompando nelle orecchie. Ad ogni livello, quando le porte si riaprivano, Vexen si irrigidiva, aspettandosi squadre di soldati pronte a fare irruzione. Dopo diversi minuti, però, si accorse che l’ascensore andava svuotandosi. Le persone che scendevano erano molte di più di quelle che salivano.
Al livello 22 rimasero soltanto lui e il Tw’lek con le cuffie.
Al livello 20 anche quest’ultimo scese, lanciandogli uno sguardo di puro stupore prima di stringersi nelle spalle e allontanarsi di corsa. Vexen seppellì ancora di più il viso nel tessuto morbido della sciarpa, coprendosi fin quasi sotto gli occhi. Il ragazzino lo aveva riconosciuto? Stava andando a denunciarlo?
Al livello 17, mentre Vexen si stava chiedendo se fosse il caso di scendere oppure o no, il pavimento tremò lievemente, facendogli perdere per un attimo l’equilibrio. L’ascensore si era arrestato di colpo. All’interno della cabina, le luci si spensero tutte insieme.
Diciassettesimo livello. Ultima fermata. I passeggeri sono pregati di scendere” annunciò una voce pre-registrata. “L’ascensore inizierà la risalita tra cinque minuti.”
Le luci, oltre le pareti di vetracciaio, apparivano ora più rade e fioche. Vexen impiegò qualche attimo a rendersi conto di quale altro elemento gli sembrasse terribilmente fuori posto: il silenzio.
Premette il pulsante di apertura delle porte con le dita che tremavano.
Il primo particolare che lo colpì fu che a quell’altezza non si vedevano corsie aeree, e il traffico di veicoli era pressoché inesistente. Il secondo fu la lattina schiacciata sulla quale rischiò di inciampare non appena mise piede sulla piattaforma del diciassettesimo livello.
Fino a quel momento, Vexen era sempre rimasto ammirato dalla pulizia eccezionale di tutti gli edifici e ambienti pubblici malgrado il traffico impressionante di mezzi e persone su ogni centimetro della superficie del pianeta; squadre di droidi netturbini erano al lavoro a tutte le ore, braccando ogni traccia di sporco e rifiuti con la stessa tenacia con cui le forze dell’ordine si accanivano adesso al suo inseguimento. A paragone, la piattaforma del livello 17 sembrava una discarica. La superficie aveva una colorazione anomala in diversi punti, come se liquami di vario tipo l’avessero ricoperta per lunghi periodi senza essere rimossi, mentre in un angolo erano ammassati alla rinfusa decine di sacchi di immondizia, alcuni dei quali semiaperti, che una pioggia recente aveva trasformato in una poltiglia disgustosa da cui si innalzava un odore che definire nauseabondo sarebbe stato un complimento.
In giro non si vedeva anima viva.
Non ebbe il tempo di formulare ipotesi in merito. Davanti al suo sguardo sbigottito, la lattina ai suoi piedi venne proiettata in aria da un improvviso colpo di blaster, andando ad impattare con la forza di un proiettile contro le porte dell’ascensore.
“Questo era un avvertimento! Alza le mani e tienile bene in vista, o con il prossimo ti faccio un buco in fronte!”
La voce sembrava provenire da qualche punto sopra di lui, ma Vexen non rimase fermo a vedere se il cecchino avrebbe veramente dato corpo alla sua minaccia. Scattò lungo la piattaforma ancora prima che quello finisse di parlare, aggrappandosi alla tenue speranza che la polizia di Coruscant non lo avrebbe fatto fuori prima di avere la possibilità di interrogarlo e accertarsi delle sue intenzioni. Alle sue spalle, un altro paio di colpi laser si infransero dove i suoi piedi si erano trovati fino a un attimo prima.
“Obiettivo in movimento! Probabili capacità magiche. Da considerarsi armato e pericoloso. Autorizzazione a usare forza letale confermata.”
Come non detto.
Una tempesta di colpi esplose da troppe direzioni diverse per poterle contare. Vexen incespicò, incassò la testa tra le spalle e alzò le mani, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo: “Mi arrendo!” mentre indietreggiava alla cieca verso il bordo della piattaforma. Il fuoco cessò immediatamente. L’aria fu attraversata da una serie di scie luminose accompagnate da quello che sembrava il rombo di diversi speeder messi in moto tutti insieme, e dall’oscurità tutto intorno presero forma sagome di soldati con i blaster spianati. Sulle loro spalle si intravedeva una massa ingombrante, da cui fuoriuscivano due getti di gas luminoso, come propulsori di un’astronave in miniatura.
“In ginocchio e mani sopra la testa! Niente movimenti bruschi!”
Tremando, lo scienziato obbedì. Quattro soldati avanzarono verso di lui, circondandolo da tutti i lati tranne che alle spalle, dove Vexen percepì il vuoto di diciassette livelli di caduta sotto forma di un brivido freddo che gli si infilò lungo la nuca, serpeggiando fin dentro le pieghe della sciarpa.
Adesso riusciva a distinguere la ruota dentata simbolo dell’Impero dipinta sulla placca pettorale del soldato più vicino. Il poliziotto estrasse un paio di manette elettromagnetiche e gli fece bruscamente cenno di porgere i polsi.
Persino in quel momento il suo cervello lavorava freneticamente alla ricerca di una via d’uscita. L’istinto gli gridava di fare il nome di Zexion, spacciarsi per un suo contatto e sperare che il giovane agente segreto lo tirasse fuori da quella situazione. Ma le parole gli morirono sulle labbra, strangolate dalla paura di mettere il nipote nei guai se avesse rivelato qualcosa di sbagliato.
Il poliziotto lo fece voltare e gli bloccò i polsi dietro la schiena come lui aveva fatto neanche un’ora prima con la vicina di Zexion. Ma le manette non scattarono mai, perché di colpo, come se un fuoco d’artificio gli si fosse acceso dietro gli occhi, la testa del soldato esplose in un tripudio di scintille.
Il suo corpo rimase immobile per qualche attimo, poi si inclinò di lato e si accasciò come un sacco vuoto sul bordo della piattaforma.
“Cecchino!”
“Ore nove! Una delle finestre!”
Ancora scosso dal colpo esploso a pochi centimetri da lui, Vexen osservò i poliziotti in posizione più arretrata puntare i blaster verso la facciata del grattacielo che ospitava l’ascensore, scambiandosi una serie concitata di avvertimenti e indicazioni in gergo militare. Ne vide cadere un secondo, abbattuto da un colpo che lo catapultò oltre il bordo della piattaforma con un grido lacerante, e subito dopo un terzo, il cui zaino a razzo andò in cortocircuito e deflagrò facendo sbocciare un piccolo fiore rosso nella notte.
I tre uomini rimasti intorno a lui si stavano riavendo dalla sorpresa, ma Vexen aveva ancora le mani libere. Uno fece per afferrarlo per un braccio, ma il palmo dello scienziato era già premuto con forza sul metallo incrostato della piattaforma, chiamando a sé la forza del suo elemento con ogni briciola di energia che gli rimaneva in corpo.
I tre urlarono all’unisono quando le punte di ghiaccio scaturite dal pavimento li infilzarono come spiedini in un buffet, infilandosi negli spazi tra le placche protettive della loro tenuta militare e trasformandoli in grotteschi fantocci con gli arti scomposti, piegati in posizioni innaturali. Uno di loro riuscì a mantenere la presa sul blaster e a sparare un colpo anche da quella posizione precaria, ma la sua mira fu imprecisa e Vexen scartò di lato in tempo per schivarlo.
Si guardò freneticamente intorno, valutando le sue opzioni per la fuga. Bestemmiò per l’ennesima volta nel corso di quella maledetta serata quando si rese conto che l’unica via praticabile passava nel bel mezzo della sparatoria ancora in corso.
Rimanevano in piedi sei poliziotti, che adesso avevano concentrato tutto il fuoco su un’unica finestra, poco più a sinistra del condotto lungo il quale passava l’ascensore. Il misterioso cecchino rispose con diverse raffiche di laser, poi, per una serie di secondi lunghissimi, non si sentì più nulla. Proprio quando Vexen iniziava a temere che lo avessero fatto fuori, gli sembrò di intravedere una figura scura che si muoveva da una finestra all’altra, spostandosi rapidamente nella sua direzione. Una scia di laser sparati da terra la seguì, facendo piovere schegge di vetro su tutta la piattaforma. Vexen si abbassò, coprendosi la testa con le braccia. Provò ad evocare di nuovo gli aghi di ghiaccio, ma tutto ciò che sgorgò dalla punta delle sue dita fu qualche modesto fiocco di neve che prese a vorticare pigramente nell’aria satura di radiazioni laser. Aveva messo troppa forza nell’incantesimo precedente.
Il cecchino adesso si trovava neanche tre metri sopra la sua testa, nascosto nello spazio tra una finestra e l’altra. Ora Vexen riusciva persino a distinguere la canna del lungo fucile con cui aveva ricominciato a rispondere colpo su colpo al fuoco imperiale. Ma quasi subito i suoi occhi furono attratti nuovamente verso terra da un particolare nuovo e agghiacciante. Due poliziotti si erano staccati dal gruppo. Un passo dopo l’altro, pur continuando a tenere sotto tiro l’aggressore misterioso, si avvicinavano lentamente alla sua posizione.
“Salta giù!”
Una voce chiara, femminile, si levò oltre le raffiche di spari. Il cecchino stava urlando nella sua direzione.
“Ti si è fritto il cervello?!”
“Fidati, salta e basta! Ora!”
Maledicendo tutti gli dèi e i santi che conosceva, Vexen mosse un passo oltre il bordo della piattaforma mentre i due poliziotti facevano esplodere una raffica di laser contro di lui. Chiuse gli occhi, sentendo il mondo capovolgersi e il fischio del vento lacerargli le orecchie insieme al crepitio dei colpi che lo mancavano per un soffio. Le falde della sciarpa volarono verso l’alto come le code di una cometa, frustandogli il viso. Precipitò all’indietro, gridando fino a squarciarsi i polmoni.
Sopra di lui rimbombò un’esplosione fragorosa. Ne percepì il calore fin da quella distanza, come dita lunghe e arroventate che si protendevano verso di lui per ghermirlo, e tossì nella sciarpa, credendo di soffocare. Qualcosa di duro e metallico gli colpì il braccio, facendogli fare una capriola in aria e voltandolo con il viso verso il basso.
Fu in quel preciso momento che si accorse di non stare più precipitando. Stupefatto, osò socchiudere gli occhi.
Fluttuava.
Galleggiava sospeso nel denso fumo nero che adesso si sprigionava dalla piattaforma del diciassettesimo livello. Muovendo braccia e gambe, come se stesse nuotando in uno specchio d’acqua, riuscì con fatica a rimettersi in posizione eretta. A quel punto però il suo intero corpo iniziò a muoversi da solo, come se un enorme magnete invisibile lo stesse attraendo verso una delle piattaforme più in basso. Vide la superficie di metallo avvicinarsi e si preparò all’impatto, ma atterrò in maniera sorprendentemente delicata, appoggiandosi al suolo con le braccia e le ginocchia. Esausto, rotolò sulla schiena e rimase immobile per lunghi istanti ad ascoltare il suono spezzato del suo respiro. In alto, la piattaforma del diciassettesimo livello andava a fuoco.
Da qualche parte, in lontananza, risuonò l’ululato penetrante di sirene antiincendio.
Sapeva che doveva rialzarsi e ricominciare a fuggire, ma non aveva più la forza neanche per mettersi seduto.
Un tonfo sul metallo e una serie di passi gli annunciarono che non era solo.
“Puoi camminare? Dobbiamo andarcene di qui.”
Riconobbe la voce della sua salvatrice misteriosa e cercò a fatica di sollevare la testa.
“Più facile a dirsi che a farsi… “
La donna era vestita completamente di scuro, con la parte inferiore del viso coperta da un passamontagna e un cappuccio calato sulla testa. Da dietro le spalle, assicurato a una cintura a tracolla, sbucava la canna del fucile di precisione con cui aveva decimato gli imperiali. Sotto il mantello nero, la tuta attillata lasciava intravedere le linee e i muscoli tesi di una corporatura agile ma molto atletica. Umana o umanoide, quasi sicuramente. Gli tese una mano guantata, aiutandolo a rimettersi in piedi.
“Come hai fatto a farmi… volare fino a qui?”
Sotto il cappuccio, la donna soffocò una risatina. Non sembrava avere neanche il fiatone dopo lo sforzo terribile compiuto. “Mai sentito parlare di campi gravitazionali portatili?”
“Adesso sì, suppongo. Ma… “
Lei si mise un dito davanti alle labbra coperte dal passamontagna, tranciando di netto ogni sua obiezione. “Le domande dopo. Adesso dobbiamo andare. Gli imperiali manderanno altre squadre.”
Vexen annuì, controllando che le fibbie dello zaino fossero ancora chiuse e in ordine. Aveva paura di scoprire in che stato fosse la sua attrezzatura medica all’interno.
“Ma dove possiamo nasconderci?”
“Giù in basso.” Per un attimo, sotto le pieghe del cappuccio, a Vexen parve di cogliere lo scintillio di un paio d’occhi color ambra.
“Dove persino gli sgherri di Palpatine non osano addentrarsi.”

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Mille volti ***


Capitolo 8 - Mille volti







Jango Fett








“Scommetto che non avevi mai visto una cosa simile!”
Boba, il figlio di Jango, sembrava un vulcano di Mustafaar in piena eruzione. Camminava avanti e indietro per il corridoio, fermandosi solo per girarsi e chiamarla.
Assumere l’aspetto di un kaminoano si era dimostrato più complesso del previsto; le gambe lunghissime e sottili sfidavano qualsiasi anatomia che conoscesse, e muovere un passo dopo l’altro senza sembrare ridicola richiedeva una pratica che non aveva avuto il tempo di padroneggiare. Sospettava che nell’edificio vi fosse una gravità leggermente aumentata, ma tenne le proprie lamentele per sé. La vasca di bacta aveva fatto miracoli, ed erano bastate poche ore di immersione per sentire il ginocchio sinistro tornare come nuovo; non appena era uscita dal settore medico si era ritrovata il ragazzo sulla porta con un sorriso strano e la richiesta di venire con lui intanto che suo padre finiva di parlare con nemmeno lei aveva ben capito chi.
La sopraelevata mozzava il fiato. I corridoi bianchi erano enormi ed avrebbero potuto ospitare almeno una decina di kaminoani uno vicino all’altro, anche se incontrarono solo un paio di questi nel corso del loro tragitto; la struttura si articolava su una decina di livelli connessi tra loro da ascensori che non mandavano il minimo rumore, e nonostante dalle vetrate si potesse ammirare la furia dell’oceano all’interno di quel luogo non si udiva nemmeno il più piccolo muggito. L’unico suono era quello dei loro passi ed il ronzio di qualche droide sonda che levitava lungo i corridoi.
I comandi delle pulsantiere non erano scritti in Basic, e si sarebbe persa mille ed una volta se non fosse stato per Boba, che si muoveva tra quei livelli con estrema naturalezza. Presero un ascensore che li fece scendere di un paio di livelli, ma gli ambienti le sembravano davvero tutti uguali; si chiese se alcune aree potessero essere interdette agli intrusi come lei, ma il ragazzo si spostava senza codici ID o tessere a scansione, dunque per gli abitanti del posto quella zona non era da considerarsi off-limits. Se vi erano delle olocamere, non riuscì a vederle.
Arrivarono in una zona dove una decina di kaminoani stavano osservando degli schermi; ancora una volta Zam rimase sorpresa dal mancato uso del Basic, ma la sua attenzione venne di nuovo risucchiata dal piccolo Boba, che le prese la mano e la condusse verso una piattaforma a repulsione. Sebbene il ragazzo fosse l’unico umano incontrato fino a quel momento, la donna notò che nessuno degli abitanti del posto rivolgeva a loro o agli altri presenti più di uno sguardo fugace. Molto riservati, pensò.
La scena che si presentò sotto di loro, però, le fece dimenticare immediatamente tutto quello a cui aveva assistito.
Più di trecento uomini erano radunati in file perfette, con indosso delle armature bianche. Si muovevano all’unisono, come una sola persona, più coordinati di qualsiasi soldato Zam avesse mai incontrato; su due file erano disposti degli schermi olografici con delle figure, tra cui riconobbe anche un muunyak di Jelucan, che apparivano in movimento, quasi fossero ripresi da una olocamera. Gli uomini erano disposti in file da dieci persone, armati di un modello di blaster leggero che da quella distanza non riconobbe, e presero a sparare. Iniziarono all’unisono, senza in apparenza alcuna luce o segnale acustico ad avvisarli: spararono precisamente tre colpi ciascuno, poi con un gesto fulmineo passarono il blaster ai compagni sulla fila posteriore e si chinarono, per far colpire agli altri i bersagli. Dove i colpi delle armi esplodevano gli schermi simulavano delle esplosioni o delle bruciature sulle bestie, ma non furono quei simulatori dettagliati ad attrarla.
Aveva combattuto anche lei per anni nelle scuole mabari, ma una tale sincronia era tanto perfetta da suonarle irreale. Sapeva che in alcune accademie militari erano richieste capacità di combattimento in squadra più elevate rispetto alla media, ma qualcosa in quegli uomini le ricordò i droidi.
Le file continuavano a sparare. Le ultime si trovavano ad una distanza considerevole dal bersaglio, ma facevano fuoco con gli stessi movimenti fluidi, senza fermarsi per prendere la mira; le parve di assistere ad un unico, fluido movimento sparso per tutta la lunghezza del plotone, quasi come un’onda di braccia ed armi. Girò lo sguardo, e vide che sopra l’olografia erano comparsi dei dati: pur non capendo con esattezza a cosa si riferissero, ne dedusse che si trattasse di qualche sorta di punteggio per l’esercitazione, eppure nessuno degli uomini degnò lo schermo neppure per un istante, limitandosi ad alzarsi in piedi e cedere il posto ad una seconda unità che uscì da un portone scorrevole.
Ma la cosa che le fece davvero correre un brivido lungo la schiena fu che, guardandoli ancora meglio, i volti di quegli uomini erano tutti uguali.
All’inizio pensò ad un’allucinazione, ma il sorriso estatico dipinto sulla faccia di Boba le fece capire che era proprio per quel motivo che il ragazzo l’aveva condotta lì. “Sono fantastici, vero?”
Zam li osservò ancora, mentre il secondo plotone prendeva il posto di quello precedente nella medesima posizione e iniziarono a sparare ai bersagli; avevano gli stessi visi, le stesse espressioni. Lo stesso sguardo scuro puntato sugli obiettivi.
“Impressionanti …” mormorò.
“Nulla che possa superare l’originale, a mio parere”.
Zam e Boba si voltarono all’unisono, e la figura di Jango apparve dalla direzione opposta da cui erano arrivati. Entrambi smontarono dalla piattaforma e si avvicinarono a lui. Era ancora coperto dalla testa ai piedi con la sua armatura anche all’interno della struttura; chinò leggermente la testa nella sua direzione per farle capire che aveva notato la sua trasformazione. “Ovvio che no, pa’. Assolutamente” fece Boba, perdendo qualsiasi interesse nello spettacolo sotto di loro.
La donna notò che alcuni kaminoani si erano voltati in direzione di Jango, pur senza proferire parola. Si scansò, dritta ed impettita come loro, per evitare di attirare ulteriormente l’attenzione e seguì l’uomo attraverso i lunghi corridoi, facendosi guidare verso una distesa di sopraelevate. Boba le prese ancora una volta la mano e deviò il loro percorso per indicarle tre intere pareti incastonate da capsule non più grandi di un suo braccio piene di un liquido verde-azzurro, dove dei droidi fluttuavano ed applicavano delle scansioni.
E, per quanto non fosse un’esperta in maniera, il contenuto di quelle capsule erano chiaramente dei feti umani.
“Qui è dove li producono!” disse il ragazzo, puntando il dito verso una delle pareti. Agli angoli di quella stanza noto delle gigantesche tubature trasparenti che salivano verso il soffitto e diramavano conduttori minori ad ogni fila di contenitori, pompandone all’interno un liquido grigiastro. Nella stanza un kaminoano fluttuava su una piattaforma, pad alla mano. Boba doveva aver seguito i suoi occhi, ed indicò il condotto principale. “Quello è il t’yau. Il nettare della crescita. Altrimenti ci metterebbero una vita a diventare adulti, no?”
“Suppongo che la nostra ospite non abbia mai visto uno stabilimento di clonazione, Boba”.
Zam si trovò a deglutire a secco. Vi era qualcosa di disturbante in ciò che aveva sotto gli occhi. “No … Ammetto di no”.
Sapeva che su diversi pianeti dell’Orlo Intermedio si praticava stabilmente la clonazione di piante ed animali per sopperire al fabbisogno della popolazione dei pianeti e di varie colonie orbitanti, ed anche che spesso i prodotti venissero manipolati geneticamente tanto da avere ben poco in comune con gli originali. Ma quelli … erano esseri umani. E se si stavano esercitando con i blaster con delle armature addosso era chiaro che il loro scopo fosse solo …
Fu grata quando un ascensore li portò all’esterno. L’aria ed il vento freddi furono come uno schiaffo in faccia, e dopo qualche passo di distanza si lasciò dietro quel corpo affusolato e riprese la sua forma; alzò il viso verso l’alto e trasse sollievo quando sentì la pioggia bagnarla con tutta la violenza possibile. Per un attimo chiuse le palpebre, ma vi erano ancora le immagini di quegli embrioni in batteria. Le nuvole di Kamino erano così dense e scure da impedirle di vedere il cielo, ma era un quadro ben migliore di quello stabilimento bianco.
“Boba, vai a prendere i kit da pesca. Ci vediamo tra mezz’ora sul molo 565”.
“Viene anche Zam?”
“Tu vai”.
Sentì la porta scorrevole chiudersi alle loro spalle, seguita dai passi del cacciatore di taglie diretti verso di lei. “Perdona la sua esuberanza. Sei la prima donna che vede. A parte le kaminoane, s’intende”.
Lei scrollò le spalle, ma rimase a contemplare il cielo. La pioggia spazzava via qualsiasi luce sopra l’oceano, eppure alcune creature che non aveva mai visto prima battevano le gigantesche ali incuranti della violenza degli elementi; si muovevano solitarie, ed alcune scendevano in picchiata tra i flutti e ne riemergevano con qualcosa nel becco, ogni singola piuma ed ala del corpo impegnate a resistere ai venti ed alle onde. Se ne avesse mai avuta l’occasione, le sarebbe piaciuto trasformarsi in uno di quegli esseri e buttare i ricordi degli ultimi giorni nei gorghi neri. Spiegare le ali e sparire.
Lui le venne vicino, muovendo i passi ancora in avanti fino a raggiungere l’estremità del piazzale. Era uno spazio grande abbastanza per ospitare due speederbike, forse solo un’area accessoria, ma come il molo dava a strapiombo sull’oceano senza alcuna ringhiera di protezione; Fett si portò lungo il bordo, incurante del metallo scivoloso sotto i suoi stivali o delle raffiche di vento che avrebbero potuto sbalzarlo al di sotto, armatura o meno. Gli si avvicinò, titubante ma allo stesso tempo rapita dal disegno che i fulmini tracciavano all’orizzonte. “La prima volta vedere le vasche di clonazione fa un certo effetto a tutti. Poi ci si abitua”.
“Non credo che potrei mai riuscirci”.
“Dipende solo da quanto ti pagano”.
Già, dimenticavo con chi sto parlando … pensò tra sé.
Sotto il casco, l’uomo non aveva una faccia, e in quel momento ne fu quasi felice. Le avrebbe evitato di vedere cose che non le sarebbero piaciute. “I cloni soldato sono molto più creativi e versatili delle macchine, anche se si fa prima a pensare a loro come dei droidi”.
“I crediti comprano la coscienza molto in fretta, Mando?”
Qualche luce dietro il sensore plineale del casco si accese. Lui non mosse il collo, ma sapeva che senza alcun dubbio i sensori di rotazione fossero puntati su di lei. “I crediti vanno e vengono. Ma i kaminoani possono offrire molto più dei soldi”.
“A parte la pioggia ed i cloni non mi pare abbiano altro. E non mi sembra che tu vada matto per la pioggia”.
“Appunto”.
La pioggia batteva sull’armatura, e gli schizzi le rimbalzarono addosso. “Voi clawditi dovreste pensarci su. Siete rimasti in pochi, e ti assicuro che davanti ai crediti non c’è nessuno più discreto dei kaminoani”.
Le occorsero diversi secondi per capire cosa davvero le stesse dicendo quell’uomo. E, quando ne prese coscienza, per la seconda volta un brivido freddo le prese la schiena.
Era chiaro che il cacciatore sapesse quanto fossero rare le loro nascite; pochissime, la maggior parte abortite o incapaci di sopravvivere ai primi anni di vita. Ricordava che al tempio mabari dicevano che fossero stati gli umani di Zolan ad aver cambiato l’aria del pianeta con le loro centrali ed i reattori, e quante storie venivano sibilate tra di loro con rabbia. Ognuno di loro sapeva di essere fortunato.
I clawditi nati morti erano da secoli superiori a quelli nati vivi, e la caccia aveva fatto il resto. Zam sapeva di rarissimi casi di ibridi con altre razze, ma per la maggior parte di loro si trattava di stupide fantasie senza un briciolo di raziocinio; tanti parlavano di danni nel loro codice genetico dovuto alla capacità di alterare il proprio aspetto, ma di quella parte non se ne era mai curata. Anche se l’idea di vedere il proprio viso replicato all’infinito su dei soldati poteva definirsi soltanto con un aggettivo: aberrante.
Scacciò il pensiero tornando al discorso precedente. “Dunque hai chiesto ai kaminoani un clone?”
“Certamente. Il migliore che avessero” disse “Mi pagano per fornire il DNA di quelle truppe. Uno solo me lo sarò guadagnato, no?”
Anche attraverso il casco sentì la sua voce cambiare. Un tono caldo, quasi … personale. Era certa che sotto quella maschera l’uomo stesse sorridendo.
Boba.
Il ragazzo.
Rivide come un guizzo il suo sorriso mentre osservava dall’alto l’esercito di cloni che si addestravano, o i feti nutriti dal nettare della crescita; ripensò ai soldati con i suoi stessi capelli scuri e la pelle color del bronzo, ed ancora una volta all’entusiasmo così strano in un ragazzo di quell’età.
Non disse nulla, e fu grata ad un tuono di interrompere il flusso della sua mente.
Poi Fett fece un gesto lento, e con la mano destra armeggiò sotto il casco. Sentì il rumore di qualcosa che si sganciava, e l’attimo successivo Zam si ritrovò a fissare il Mandaloriano dritto negli occhi.
Era più grande dei cloni nel cortile d’addestramento, ma più imponente. L’unica somiglianza con i soldati erano i corti capelli neri, ma sul suo viso una barba di qualche giorno e gli occhi segnati mostravano … vita. Una sottile cicatrice gli attraversava il viso all’altezza dell’occhio sinistro, e lo sguardo puntato su di lei non tradiva una certa curiosità. Gli avrebbe attribuito forse una quarantina d’anni, ma era negata ad assegnare l’età agli esseri umani. Non era senza dubbio un uomo che avrebbe potuto definire “bello”, ma le donne non gli sarebbero di certo mancate, specie con tutti i soldi fatti sulla pelle altrui. Eppure aveva scelto un clone come figlio, e in quel viso bagnato dalla pioggia vide il volto del giovane Boba tra qualche anno.
“Te l’ho detto, ci si abitua” disse lui, sollevando il labbro.
Zam non disse nulla.
In fondo, sorrise tra sé, non aveva molto altro da dire.
Jango Fett aveva un figlio, e lei no.
Discorso finito.
“Da quel che so, voi Mandaloriani non vi levate l’elmo solo per compiacere una donna” fece. Il  modo in cui l’altro contrasse la fronte le fece capire che le dicerie che giravano su quei guerrieri avevano più di un fondo di verità. “Che ti serve, Fett?”
“Ho contattato il Vigo Antonin. Ha preso questa storia meglio del previsto. O comunque, è disposto a chiudere un occhio … fece “… in cambio di qualcos’altro, ovviamente”.
“Vieni al punto. Hai detto che sono libera, giusto? Per quel che mi riguarda, il Vigo è affar tuo”.
“Non mi rimangio la parola. Ma pensavo che avresti potuto aiutarmi”.
Aveva uno sguardo serio, ma allo stesso tempo incuriosito.
“Fett, hai sbagliato persona. Non uccido per soldi”.
Non che avesse pensato a cosa fare una volta lontana da quel pianeta; ricominciare da un’altra parte, senza alcun dubbio, ma qualsiasi progetto futuro non avrebbe mai incluso ridursi ad un’arma a pagamento. Specie quando vi erano delle persone interessate nel migliore dei casi a vederla nella septoldeide.
Per il momento l’unica cosa cui riuscisse a pensare era lasciarsi dietro tutto ciò che aveva dovuto vedere nel corso delle ultime settimane, poi dei crediti li avrebbe comunque trovati. Lui si scrollò le spalle con fare noncurante, poi indossò di nuovo il casco. “Un vero peccato. Per entrare nel palazzo di Dreddon de Hutt dovrò comunque assoldare un partner. Per quella grossa larva credo che ci vorrà qualcosa di più consistente del mio armamentario”.
Lei lo fissò mentre una folata di vento più forte delle altre non ricoprì d’acqua l’armatura di Beskal. Nonostante fosse bagnata fino alle ossa, si ritrovò a sorridere sotto la tempesta, sicura che lui potesse vederla anche mentre le dava le spalle.
“Te lo concedo, Fett, sai come sedurre una donna”.
 
Narratore: “Registe … non per essere pesante ma … quanto dura questa storia?”
Registe: “Non chiedere. Potremmo risponderti”.
Narratore: “Voi sapete che avete già sforato il numero di flashback a disposizione? E perché ci sono quei fogli extra inseriti nel copione come sottilette dentro un hamburger?”
Registe: “…”
Narratore: “… fingerò di non aver visto …”
 
 
 




Secondo i file che Zexion si era studiato nel viaggio di andata, i rapporti tra Naboo e la sua colonia mineraria sulla luna di Onoam erano sempre stati difficili. Anche prima dell’ascesa dell’Impero i minatori erano entrati diverse volte in sciopero per rivendicare una quota maggiore dei guadagni, e alcune frange più radicali si erano persino spinte a commettere piccoli atti di violenza politica come rompere finestre e scudi di sicurezza di alcuni magazzini di proprietà dei membri del Consiglio Regale. I rapporti erano stati gestiti con discreta tranquillità per oltre dieci anni da Sio Bibble, uno dei più anziani esponenti del Consiglio e deputato alla gestione delle colonie, ma da quando il vecchio consigliere si era ritirato a vita privata la situazione era degenerata. L’Imperatore aveva destinato molti fondi al prestigio di Naboo, il suo pianeta d’origine, ma non aveva mostrato alcun interesse per i lavoratori e gli abitanti della sua stessa luna.
Se un tempo i minatori di Onoam rivendicavano un trattamento più equo e maggiori utili di profitto, adesso le loro proteste richiedevano soltanto un trattamento più umano.
Zexion si avvolse nella tunica scura che gli avevano fornito per la missione. Aveva cercato di spiegare all’agente 169 che non era l’uomo più adatto per svolgere quel compito, ma l’uomo era stato perentorio e non aveva voluto sentire spiegazioni in cui la parola magia fosse presente.
L’idea di scendere sottoterra gli stringeva il petto ancora prima di scendere dall’hovercraft: al Castello dell’Oblio Xaldin lo aveva addestrato da quando riusciva a ricordare a padroneggiare l’elemento dell’aria, a piegare il vento alle sue necessità. Il blocco elementale che il Superiore gli aveva apposto anni prima era ancora attivo, rendendolo capace di controllare soltanto quell’elemento seppure in maniera migliore rispetto ad altri incantatori dell’Amn; col piccolo problema, però, che tutti i luoghi dove non vi fosse un’areazione sufficiente avevano sul suo fisico effetti spiacevoli. Come se gli odori non fossero bastati.
Una volta giunto, il convoglio ESPL6 iniziò a scaricare il suo contenuto. Gli uomini si attenevano alle istruzioni, ed i pesanti macchinari imballati vennero fatti scendere in pochi minuti; Zexion sapeva di essere atteso, e decise di dare un taglio a quella missione avvicinandosi agli ingresso delle miniere.
I droidi di sorveglianza erano un modello molto vecchio, e mandarono un rumore metallico fastidioso durante la scansione dei suoi documenti.
Ienzo Whiteflame. Autentificazione confermata” fece la macchina, accendendo una luce verde sul petto “Lei è atteso. Da questa parte”.
Zexion sospirò. I documenti imperiali erano perfetti, e di certo quella sorveglianza antiquata non avrebbe mai potuto competere con i sistemi di sicurezza dei Servizi.
Salì con il droide sul montacarichi insieme alla prima parte dell’attrezzatura ed iniziò la discesa: dopo qualche livello la luce dell’ingresso scomparve, sostituita da quella di alcune lampade del tutto insufficienti, a suo giudizio, per lavorare. Sebbene la vista non fosse mai stato il senso su cui il ragazzo facesse più affidamento, la scarsa illuminazione unita alla poca ossigenazione ed alla presenza di polveri pesanti gli fece girare la testa. Tossì diverse volte.
Non era un ambiente salubre per nessuno, ma Zexion sapeva che in numerose attività si cercava di ridurre il numero di droidi rispetto al personale umano. Molte strutture dichiaravano che preferivano fornire un salario ai cittadini piuttosto che lasciarli senza lavoro, ma la verità era che in strutture come quelle di Onoam, dove si estraevano materiali industriali da raffinare molto richiesti, era facile manomettere dei droidi o riprogrammarli per contrabbandare quantità sufficienti per soddisfare altri acquirenti … meno legali. Le miniere di Kessel avevano subito diversi ammanchi di materiale dovuti ad azioni di sabotaggio ribelle dei loro droidi, ed avevano reagito aumentando a dismisura la sicurezza e lasciando le delicate attività di estrazione e di stoccaggio dei prodotti a personale umano.
Soltanto che a Kessel la schiavitù era considerata legale, e l’Impero aveva svuotato lì la maggior parte delle proprie carceri.
Su Onoam i minatori erano ancora liberi, ma Zexion si chiese quanto ancora la farsa dell’Imperatore sarebbe durata. Era ovvio che nel pianeta in cui godeva di maggior popolarità nessuno avrebbe mai calpestato pubblicamente i diritti umani di cui il pianeta si faceva da sempre portavoce, ma quella luna era lontana dalla capitale e molte cose sarebbero potute cambiare. Se i droidi potevano essere riprogrammati, dopotutto, gli esseri umani potevano provare sensazioni ben più pericolose di banali guasti. Potevano riunirsi, lamentarsi … pensare. Ed era per quel motivo che avevano inviato lui.
Quando finalmente toccarono il livello più profondo trovò un gruppetto di minatori ad aspettarlo. Un paio di assaltatori giravano di pattuglia, ma non appena lui uscì dal montacarichi parlarono con uno dei lavoratori e si allontanarono in un tunnel.
Una donna alta ed energica, dai capelli castani in disordine, uscì dal gruppo. “Sono Gea Oganae, rappresentate delegato dei minatori. Felice di incontrarla, signor Whiteflame. A dire la verità, non pensavo che qualcuno si sarebbe ricordato di noi”.
L’aria era tersa, ed il ragazzo si accorse di avere difficoltà a leggere gli odori. Poteva percepire un misto di astio, amarezza, delusione in quelle persone … ma anche un leggero sollievo per ciò che la sua presenza rappresentava. Ma erano caotici, frammentati, e gli sembrava che si muovessero dentro le sue narici. Gea Oganae gli venne vicino, prese una cassa metallica e gliela avvicinò. “Prima volta sottoterra?”
“Ammetto che … ammetto che mi manchi un po’ d’aria, sì”.
Grazie al cielo il suo malessere poteva essere interpretato in ben altri modi. Un uomo emerse dal gruppo e gli passò una borraccia d’acqua; Zexion si sarebbe evitato ben volentieri di bere da lì e prendersi chissà quali malattie, ma aveva un ruolo da ricoprire e quindi con un’espressione riconoscente la mandò giù tutta d’un sorso. Diede la mano alla delegata, e per poco quella non gliela stritolò. “Chiamatemi solo Ienzo, per favore. Niente formalità”.
“Così mi piaci, ragazzo. E come vedrai qui sotto si bada al sodo. Quindi la MinoTech ha deciso di ricordarsi delle nostre preghiere?”
“Non sarei qui, altrimenti”
Lei lo squadrò, per poi fissare un secondo montacarichi che scendeva con altro materiale imballato. “Dopo sette anni … pensavamo che avreste buttato le nostre richieste nel cesso!”
Zexion sospirò. Da quello che sapeva la MinoTech probabilmente trattava le richieste di aiuti umanitari e di beni di prima necessità a titolo gratuito con la stessa nonchalance con cui il governatore Tarkin faceva terminare chiunque osasse esprimere apertamente il proprio dissenso, ma era una cosa che quegli uomini non potevano sapere. Era una fortuna che i Servizi Segreti possedessero un archivio completo di tutte le richieste umanitarie o di soccorso fatte dai vari pianeti, ed era ancora più una fortuna che una di esse fosse venuta proprio dalle miniere di Onoam.
“Sono solo un inviato, signora. La politica aziendale non è di mia competenza, ma sono contento che i nostri prodotti possano esservi utili” disse. “Vi abbiamo inviato forniture per oltre mille minatori: cinture di sicurezza, maschere atmosferiche, filtratori d’aria, campi energetici portatili anticaduta e qualche altra cosa che potrebbe esservi utile. Forse non sono gli ultimi modelli sul mercato, ma giacevano nei nostri magazzini e la MinoTech ha ritenuto più opportuno regalarli a voi”.
Non occorrevano i suoi poteri per leggere la gioia sul viso dei lavoratori. Quando l’ultimo carico venne portato sottoterra un paio di loro si stacco dalla delegazione e si avvicinò titubante alle casse; Gea gli scoccò un’occhiata, e ad un cenno di assenso di Zexion gli uomini iniziarono a rimuovere gli imballaggi dalle casse con fare trepidante. Uno ad uno si avvicinarono tutti i membri del comitato di benvenuto, raggianti, e quando i droidi rimossero i sigilli ci furono delle grida di giubilo che si propagarono per tutto il settore quando le prime cinture di sicurezza, ancora avvolte negli imballaggi, vennero tirate fuori.
“Non avete idea di quanto possiamo esservi grati, Ienzo” fece Gea. “Non avete idea dell’inferno che c’è qua sotto”.
Il ragazzo capì che la parte più delicata della sua missione era appena iniziata. “La questione mi meraviglia, signora Gea. Queste miniere sono una delle principali fonti di reddito di Onoam, credevo che i rappresentanti dell’Impero tenessero in … considerazione la vostra attività” disse, scandendo bene le parole. Gli odori della sua interlocutrice gli giungevano confusi. “Non vengono stanziati dei fondi dalla capitale?”
“Gli unici fondi che arrivano da Theed, ragazzo, sono quelli che il governatore Saruman ha destinato alla creazione delle sue terme personali. Tre mesi fa una sua ordinanza ha sospeso la retribuzione di qualsiasi straordinario ed ha aumentato le ore di lavoro ed i turni notturni; abbiamo scavato persino il giorno dell’anniversario della Fondazione” fece, scoccando un’occhiata severa verso alcuni minatori che erano usciti dai tunnel per recarsi ad assistere all’arrivo dei materiali. Degli assaltatori li rimandarono indietro con i blaster puntati e quelli furono costretti ad arretrare, ma al ragazzo non sfuggì l’odore euforico che veniva dagli astanti. “Non avremmo mai chiesto l’elemosina alla MinoTech se non fossimo al limite”.
“Avete ricevuto altri aiuti?”
Si voltò mentre pronunciava quella domanda, osservando le casse come se si fosse trattato di un argomento di poca importanza. Nonostante le polveri gli bruciassero nei polmoni, gli giunse comunque il tocco dei pensieri della rappresentante.
“Non di questo genere”.
E capì che la missione non sarebbe stata invano.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - I bassifondi ***


Capitolo 9 - I bassifondi







Bassifondi di Coruscant








Dieci livelli più in basso, in mezzo a un dedalo di piattaforme buie, strette e corrose dalla ruggine, la sua salvatrice misteriosa iniziò a barcollare.
Vexen riconobbe subito i segni del crollo improvviso di adrenalina. Una volta lasciati alle spalle gli ululati rabbiosi delle sirene, la notte dei bassifondi di Coruscant si era richiusa su di loro come un mantello protettivo, celandoli alla vista degli inseguitori. Pian piano si erano potuti permettere di rallentare l’andatura e riprendere a respirare con calma. Avevano osato concedersi la speranza di essere al sicuro. Almeno per il momento.
A quel punto, però, la stanchezza della fuga e del combattimento era piombata tutta insieme sulle loro spalle, impietosa come un macigno. Vexen se l’era cavata con tutti i muscoli indolenziti e qualche livido che già sentiva affiorare in diversi punti sotto i vestiti. La donna misteriosa, invece, aveva iniziato a stringere la mano intorno alla spalla sinistra in modo preoccupante, e i suoi passi si erano fatti sempre più irregolari e sbilanciati su un lato. La flebile luce al neon nei vicoli non gli permetteva di determinarlo con chiarezza, ma poteva scommettere che almeno due colpi di blaster l’avessero raggiunta.
“Dovrei dare un’occhiata a quelle ferite” borbottò, gettando occhiate nervose a destra e a sinistra.
Non gli piaceva affatto l’idea che lei potesse svenire di colpo, nel bel mezzo della notte e di quei vicoli sconosciuti e chiaramente pericolosi. Era troppo esausto per portarla sulle spalle, e senza la sua guida non aveva la più pallida idea di dove trovare un luogo sicuro dove recuperare le forze e riorganizzarsi.
“Sei un medico? È il mio giorno fortunato.”
Non avrebbe saputo attribuire un’età o una specie a quella voce. Morbida, con qualche punta squillante, ma non la voce di una ragazzina, almeno secondo gli standard umani. Tirando a indovinare avrebbe detto una donna intorno alla quarantina, sempre ammesso che non appartenesse a qualche specie umanoide particolarmente longeva. Ciò che invece percepiva con preoccupante chiarezza era il dolore soffocato tra i denti, che il tono ironico non riusciva del tutto a camuffare.
“Puoi dirlo forte. Manca ancora molto?”
“Rilassati. Ci siamo quasi.”
Gli fece cenno di seguirlo lungo una serie di scalini in duracciaio che costeggiavano la facciata fatiscente di un grattacielo. Secondo la sua guida, che si muoveva con estrema sicurezza in quel labirinto spettrale, non c’erano ascensori più in basso del diciassettesimo livello, almeno nel settore in cui si trovavano. Passarono accanto a una serie di finestre immerse nel buio, alcune delle quali avevano gli infissi divelti o le vetrate sbarrate da assi di plastacciaio. Una era direttamente sfondata, come il foro di un grosso proiettile sul fianco scarno del grattacielo, e Vexen si sporse per dare un’occhiata tra le ombre fitte nell’interno. Aveva l’aria di un magazzino polveroso e abbandonato, ma prima che potesse indagare meglio un’improvvisa zaffata di puzza nauseabonda lo costrinse a ritirarsi e a seppellire il naso ancora più a fondo nella sciarpa. Cercò di non farsi suggestionare dal pensiero che gli ricordasse terribilmente l’odore di un cadavere lasciato troppo a lungo a decomporsi.
Coruscant aveva cambiato completamente volto nei suoi livelli più bassi. L’illuminazione al neon era nettamente più fioca se paragonata allo sfavillio trionfale dei piani alti, come se laggiù arrivassero solo i rimasugli di tutta l’energia prodotta dalle migliaia di centrali termoelettriche e termonucleari del pianeta. E le ombre, si sa, attirano ratti e spettri di ogni tipo. Per la prima volta dal suo arrivo sul pianeta, Vexen aveva visto senzatetto di ogni specie accasciati ai bordi delle piattaforme, riversi nella sporcizia a fissare le cime dei grattacieli con i loro occhi vitrei, arrossati da chissà quale mix di alcool e sostanze stupefacenti.
Quanto agli abitanti dei bassifondi in grado di intendere e di volere, non gli avevano fatto certo un’impressione migliore. All’altezza del decimo livello avevano superato rapidamente quello che sembrava un piccolo quartiere dei divertimenti, ovvero una serie di locali sgangherati e stipati l’uno sull’altro da cui proveniva una cacofonia di urla sguaiate e musica ad alto volume, il tutto sospeso in una nebbiolina dalla chiara origine sintetica che galleggiava pigramente in un mare di neon colorati. In un’ipotetica scala di pericolosità che andava da “sonni tranquilli” a “Saïx in berserk”, avrebbe collocato il livello medio degli avventori su un onesto “Nucleo Nero a rischio scongelamento”. La consapevolezza di essere l’unica creatura nel raggio di miglia priva di un’arma di qualsiasi tipo visibile sulla propria persona lo aveva fatto sentire notevolmente a disagio. Aveva attraversato il quartiere praticamente appiccicato al gomito della sua accompagnatrice, nella speranza che l’aspetto minaccioso del fucile di lei scoraggiasse eventuali malintenzionati.
Un ulteriore particolare aveva attirato la sua attenzione. Molti abitanti dei bassifondi sfoggiavano dei tatuaggi sui polsi o gli avambracci, ma anche su tentacoli e lekku, per le specie che li possedevano. Vexen avrebbe catalogato il fenomeno come semplice moda locale, se non fosse che continuava ad imbattersi nelle stesse combinazioni di motivi geometrici disegnate sulla pelle di gran parte delle creature che oltrepassavano. Aveva interrogato la sua guida in proposito. Lei aveva atteso di superare la calca e arrivare in una zona poco frequentata prima di rispondergli.
“Sono i simboli dei Sindacati” liquidò la faccenda con un’alzata di spalle, come se quelle poche parole si spiegassero da sé.
“Immagino che tu non ti riferisca a… sindacati dei lavoratori, suppongo.”
La donna si era voltata per un attimo e sotto al cappuccio Vexen aveva visto ancora una volta quei curiosi occhi color ambra spalancarsi in un chiaro moto di sorpresa.
“Mi riferisco a sindacati criminali” spiegò pazientemente, come si fa con un bambino. “Coruscant sarà anche la capitale dell’Impero, ma i bassifondi sono territorio dei Sindacati. Ecco perché qui la polizia non ci inseguirà.”
La donna aveva allungato il passo, e Vexen non aveva potuto fare altro che ingoiare le centinaia di obiezioni che gli erano affiorate sulle labbra e continuare a seguirla. Si chiese se anche lei facesse parte di un’organizzazione criminale. Aveva poca importanza: al momento aveva troppo bisogno di lei per farsi prendere da scrupoli o timori inutili.
Non sapeva dire che ora della notte fosse quando finalmente la donna si fermò davanti a quella che Vexen scambiò dapprima per un’officina di riparazioni. Solo dopo una seconda occhiata si rese conto che lo speeder arrugginito esposto accanto all’ingresso aveva semplicemente la funzione di decorazione: l’intera facciata dello stabile era ricoperta da un’accozzaglia di pezzi di carrozzeria, arti di droidi, fusibili, celle energetiche esaurite e ossidate e componenti di motori. C’era persino quello che sembrava un vecchio modello di blaster, montato in modo sorprendentemente creativo su un lato della porta, a guisa di maniglia. L’insegna al neon, sormontata dalla testa di un droide protocollare dallo sguardo spento, fisso nel vuoto della notte, riportava una scritta sghemba che riassumeva perfettamente il pensiero di Vexen riguardo quel posto:
La Discarica”.
La sua accompagnatrice, esausta, si aggrappò alla maniglia-blaster e spinse la porta crollandoci praticamente contro con il proprio peso. Vexen la seguì all’interno, richiudendosi la porta alle spalle.
Si ritrovarono in una saletta soffocante, le cui pareti facevano mostra di un collage di parti meccaniche del tutto analogo a quello esposto all’esterno, solo notevolmente più polveroso. Dietro un bancone ricavato dalla carrozzeria di uno speeder della polizia di Coruscant, una vecchia mirialan dall’aria sonnolenta sollevò appena lo sguardo da un datapad e li apostrofò in tono strascicato: “Spiacente, non abbiamo camere libere.”
“Sono io, zia Layla.”
Reggendosi con una mano sul bancone, la donna si sfilò il cappuccio e abbassò il passamontagna per farsi riconoscere dalla sua interlocutrice. Qualche passo dietro di lei, Vexen vide una cascata di capelli violetti ricaderle lungo la schiena e, nella luce soffusa che permeava l’ambiente, distinse con chiarezza il foro da colpo di blaster all’altezza della scapola sinistra.
“Garantisco io per il mio ospite. Metti pure sul conto.”
Anche la mirialan dovette accorgersi delle sue ferite, perché il suo viso passò in pochi istanti dalla gioia a un’espressione da chioccia preoccupata: “Freki, tesoro, ma come ti sei ridotta! In che guaio sei andata a cacciarti questa volta? Te lo dico sempre che dovresti essere più prudente… sei una donna forte ma a volte non riesco proprio a capire perché ti ostini a… “
“Non è niente zia Layla, solo qualche graffio!” Freki – finalmente la donna misteriosa aveva un nome – agitò la mano cercando di arginare il profluvio di parole della vecchia signora. Vexen pensò istintivamente alle raccomandazioni ansiogene di Camus e si sentì solidale con lei.
“Rimanda la ramanzina a domani, ti prego. Adesso ho davvero bisogno di riposare.”
“Ma certo, cara, ma certo… fammi sapere però se hai bisogno di qualcosa. Ho ancora dell’infuso di haloi in caldo se vuoi, e Due Code qualche ora fa ha portato degli ottimi… “
La voce chioccia di zia Layla li rincorse lungo tutta la rampa di scale che conduceva al piano superiore, evidentemente incurante di non avere più degli interlocutori. La vecchia mirialan lo aveva degnato a stento di uno sguardo, né gli aveva domandato documenti o anche solo le generalità. Non che a Vexen la cosa dispiacesse particolarmente.
Freki ebbe bisogno del suo aiuto per salire gli ultimi gradini. Ora poteva vederla bene in viso: aveva la pelle azzurra come quella di molti Twi’lek, ma a differenza di questi ultimi dalla sua testa non partiva una coppia di lekku, bensì normalissimi capelli, quasi rasati sul lato sinistro e lasciati crescere lunghi fino alle spalle sul destro. Sotto gli occhi e sul mento la pelle era solcata da sottili strisce di un giallo brillante, ma Vexen non riusciva a capire se si trattasse di tatuaggi o di una caratteristica peculiare della sua specie, che non riconosceva. I suoi tratti somatici, in ogni caso, non erano troppo diversi da quelli degli umani.
Viste le premesse aveva temuto che anche le stanze di quella peculiare locanda fossero invase da paccottiglia meccanica di ogni tipo, perciò rimase notevolmente sorpreso quando Freki aprì la porta in fondo al corridoio e gli fece strada in una comunissima e anonima camera rivestita di carta da parati a fiorellini, con due letti e un piccolo bagno incassato in un angolo. Era persino abbastanza pulita. L’unico tocco esotico era rappresentato dalle lampade sui comodini, ricavate da due teste di droidi da battaglia. Quando Freki ne accese una, gli occhi del droide sfarfallarono per qualche secondo e diffusero nella stanza una piacevole luce calda e delicata. Poi la donna slacciò la tracolla del pesante fucile che portava sulle spalle e si lasciò cadere sul letto più vicino, respirando pesantemente. Adesso non aveva neanche più la forza di mascherare il dolore o la stanchezza. Era pallidissima, con la pelle del viso imperlata da un velo di sudore. Vexen posò a terra lo zaino, lo aprì e si affrettò a recuperare la tracolla di cuoio con la sua attrezzatura medica.
Lasciò che lui si occupasse delle sue ferite senza un lamento o una protesta. Lo ammonì soltanto di non sedarla o somministrarle calmanti o antidolorifici che le avrebbero fatto perdere lucidità.
Malgrado la testa gli esplodesse per le mille domande ancora senza risposta, Vexen fu grato per quel momento di quiete e silenzio. Applicare i punti, suturare e disinfettare le ferite, srotolare le strisce di garza inspirando il loro buon profumo sterile di pulito: erano tutti gesti che ormai compieva con la certezza serena dell'automatismo, e che avevano il potere di calmarlo e di schiarirgli la mente. Lo aiutavano a ricordare che esistevano ancora situazioni su cui era in grado esercitare controllo e dominio assoluti. 
La donna di nome Freki si decise a rivolgergli di nuovo la parola solo quando ogni bruciatura di blaster fu stata accuratamente ripulita e fasciata. Ciò che disse, tuttavia, non contribuì assolutamente a dissipare la nube di dubbi e incertezze in cui lo scienziato navigava. Semmai la rese ancora più cupa e fitta.
"I tramonti di Coruscant sono meravigliosi."
C'era qualcosa nel tono estremamente distaccato in cui aveva pronunciato le parole - oltre all'ovvia constatazione che il tramonto era già passato da un pezzo, anzi, ormai non doveva mancare molto all'alba - che fece suonare una selva di campanelli d'allarme nel cervello di Vexen. Non poteva dire di avere familiarità con le procedure di riconoscimento dei Sindacati criminali, ma quella frase criptica e totalmente avulsa da ogni contesto aveva tutta l'aria di una password o di un codice segreto tra membri di una banda. 
Uno di cui ovviamente Vexen non conosceva la risposta. 
Contemplò quasi con indifferenza il pensiero della donna che gli scaricava il fucile laser nella testa dopo aver ascoltato la sua risposta sbagliata. La verità era che, arrivato a quel punto della nottata e della futile ricerca di Zexion, l'idea non gli incuteva neanche un decimo della paura che normalmente avrebbe provato. Aprì la bocca per rispondere e non si stupì nemmeno di udire la sua stessa risata, amara e traboccante di sarcasmo.
"Forse avresti dovuto chiedermelo prima di metterti a fare il cecchino con la polizia di Coruscant."
Lei si voltò di scatto, gli occhi che lampeggiavano come pugnali. Sarebbe apparsa minacciosa, se una fitta di dolore non le avesse improvvisamente stravolto i lineamenti percorsi da striature dorate. Vexen indietreggiò di un paio di passi, stringendo dietro la schiena la fiala di sonnifero che aveva estratto dallo zaino poco prima, mentre medicava la sua salvatrice.
Il cuore gli batteva forsennatamente e un'ultima scarica di adrenalina lo percorse dalla testa ai piedi. Una parte di lui sperava che lei lo costringesse a usare quel sonnifero, a frantumarle la fiala dritta in mezzo agli occhi. Una parte di lui sarebbe esplosa se non avesse sfogato contro qualcuno tutta la rabbia e la frustrazione di quella notte da incubo. 
Tuttavia, quando parlò di nuovo, si sforzò di far trasparire nella voce ogni oncia di ragionevolezza che ancora gli sembrava di possedere. 
"È evidente che non sono la persona che stavi cercando. Tuttavia… mi sembra altrettanto evidente che né io né te siamo grandi estimatori dell'Impero. Io per il trattamento che mi stavano riservando le autorità locali, e tu… beh, non mi sembra che abbia esitato troppo a irrompere sulla scena sparando a qualsiasi cosa si muovesse. Mi hai salvato dall'arresto e forse da qualcosa di peggio. Io ti ho salvata dal morire di infezione per quelle ferite. Direi che siamo pari. Le nostre strade possono separarsi senza rancori."
Sentiva la voce secca e il palato arido, ma proseguì il discorso fino alla fine. I bulbi oculari gli bruciavano come se qualcuno gli avesse appiccato un falò in mezzo al cranio.
"Da parte mia, puoi stare certa che non rivelerò a nessuno del nostro incontro. Sarà come se non ci fossimo mai visti."
Freki rimase in silenzio anche dopo che lui ebbe finito di parlare, e Vexen si rese conto che lo stava soppesando. Si era di nuovo seduta sul letto, e lo scrutava con la testa lievemente inclinata su un lato. Probabilmente stava decidendo quale livello di minaccia rappresentasse per lei e la sua missione, qualunque essa fosse.
Quando infine la donna sorrise, Vexen non ebbe la minima idea di come interpretare quel segnale. Rafforzò la presa sulla fiala di sonnifero, trattenendo il respiro.
"Sei più sveglio di quel che credessi, te lo concedo." Il suo tono era sorprendentemente conciliante e, se non fosse stato così esausto, Vexen avrebbe giurato di cogliervi persino una scintilla di ammirazione. La donna fece un gesto ampio con il braccio, indicando la stanza e il secondo letto: "Rimani qui per stanotte. Non sono così ingrata da sbattere fuori il medico che mi ha curata, e da come ti guardavi intorno mentre venivamo qui non credo che troveresti facilmente un altro rifugio nei Bassifondi."
Era chiaramente una trappola. Freki avrebbe chiaramente tentato di strangolarlo nel sonno non appena avesse chiuso gli occhi. 
Chiaramente. 
Ma Vexen era stremato e disperato e non aveva idea di dove andare, perciò le rispose di sì.



I suoi propositi di dormire con un occhio aperto fallirono miseramente di fronte alla stanchezza che soverchiava ogni fibra del suo essere.
Al risveglio impiegò qualche minuto solo per scollare le palpebre dagli occhi. Gli sembrava che fossero state saldate con il piombo fuso. Si tirò su dal letto con movimenti lenti e impastati, come un animale che riprende confidenza con i propri arti dopo lunghi mesi di letargo. Si passò una mano lungo il viso e cercò di mettere a fuoco l'ambiente intorno a sé.
La stanza era vuota. Il letto di Freki era disfatto, ma sia il fucile che le bisacce che la donna portava con sé non si vedevano da nessuna parte.
Non mi ha strangolato del sonno. Direi che è già un grande successo.
La stanza non aveva finestre, perciò non c'era modo di capire che ore fossero. Dall'esterno non giungeva alcun suono o indicazione di pericoli imminenti, e Vexen dovette combattere la tentazione di seppellire nuovamente la testa nel cuscino e dormire per altre venti ore filate.
 Emettendo un gemito incoerente allungò la mano verso lo zaino sul pavimento  - doveva essere davvero crollato se non aveva pensato neanche a metterselo sotto la testa o il braccio mentre dormiva - e frugò alla ricerca dell'olopad con l'intenzione di consultare l'orologio impostato automaticamente sul display.
Le tre righe che balenarono al centro dello schermo ebbero l'effetto di una secchiata d'acqua bollente in piena faccia.

53 chiamate senza risposta 
26 messaggi non letti
14 messaggi audio da ascoltare 

 
Gli eventi della sera precedente iniziarono a srotolarsi uno dopo l'altro davanti alla lente d'ingrandimento del suo cervello, e di colpo Vexen ricordò il messaggio per Camus che aveva iniziato a registrare poco prima che il suo volto e le sue false generalità venissero proiettati in mondovisione sulla facciata di ogni grattacielo del settore.
Adesso, a dodici ore di distanza dalla sua richiesta d'aiuto (aveva davvero dormito così tanto?), il sacerdote doveva come minimo crederlo morto con un foro di blaster in fronte o rinchiuso sul fondo di un carcere imperiale di massima sicurezza. 
Sempre se non si era imbarcato in fretta e furia alla volta di Coruscant con tutta l'intenzione di commettere qualche sciocchezza. 
Trattenendo il respiro, digitò in fretta un breve messaggio: "Sto bene. Scusa se ti ho fatto preoccupare. Ti contatto io più tardi."
Sbattè le palpebre ancora appesantite dal sonno e fissò lo schermo per qualche secondo. Cancellò la seconda frase, poi premette il comando d'invio aggredendo i cristalli liquidi dello schermo con la punta del dito.
Camus meritava una risposta più esauriente, ma per il momento non aveva la lucidità per fare meglio di così.
Si era appena costretto a scartare una delle insipide barrette proteiche trovate nell'appartamento di Zexion quando la porta si aprì di scatto e Freki fece il suo ingresso nella stanza.
"Il tempo di mangiare e vado via subito" borbottò Vexen, ma subito dopo si accorse che l'espressione di lei sembrava sollevata. Aveva il respiro leggermente affannato, come se avesse corso nel timore di non ritrovarlo più in camera al suo ritorno. 
"Ho una proposta da farti."
Dritta al punto, saltando qualsiasi tipo di convenevole. Malgrado tutto, Vexen apprezzò. Era evidente che a nessuno dei due importava realmente sapere come stesse l'altro. Erano sopravvissuti, avevano dormito bene ed erano chiaramente di nuovo in salute. Non c'era davvero bisogno di scambiarsi cortesie inutili. 
Freki si richiuse la porta alle spalle e si sedette sul proprio letto, allinenando una gamba lungo il bordo e lasciando penzolare l'altra a terra. Non indossava più il completo nero da giustiziere mascherato della sera precedente, ma dei pratici abiti da viaggio non troppo diversi dai suoi: pantaloni e stivali, una giacca di pelle imbottita con parecchie tasche e una cintura sul cui fianco spiccava la fondina di un blaster. Vexen era pronto a scommettere che portasse almeno altre due armi nascoste sulla sua persona.
"Come hai dedotto ieri sera, non sono esattamente una sostenitrice dell'Impero. Dovevo incontrare altri nemici dell'Impero in questo settore, e tu sei apparso vicinissimo alle coordinate dell'appuntamento, in fuga e circondato dalla polizia di Coruscant. Ecco perché ho pensato che fossi una delle persone che cercavo."
Spiegava in tono pragmatico, senza far affiorare alcun sentimento o giudizio nella voce. Eppure l’idea di aver quasi rischiato la vita per portare in salvo la persona sbagliata non doveva certo averla messa nel migliore degli umori. Vexen annuì brevemente alle sue parole, senza interromperla.
“Per farla breve: sto ancora cercando queste persone, e l’aiuto di qualcuno che non abbia simpatie imperiali potrebbe farmi molto comodo. Soprattutto se quel qualcuno è anche un medico ed è capace di evadere da un appartamento creando un buco nella parete in pochi secondi e senza armi pesanti.”
La vide sorridere divertita di fronte all’evidente stupore stampato nel suo sguardo. “Sta su tutti i notiziari della superficie” si strinse nelle spalle con noncuranza, gettando con una mano i capelli dietro le spalle. “Non è più esattamente un segreto. Così come il fatto che non ti chiami davvero Arjen Summerwind.”
Lo studiava di nuovo con quello sguardo indagatore della sera precedente, il collo lievemente inclinato da un lato. Si massaggiava la nuca, pensierosa, e Vexen intuì la domanda implicita nel suo atteggiamento.
Non le diede subito la soddisfazione di una risposta.
“E per quale motivo pensi che avrei interesse a collaborare con te?” domandò invece, con aria di sfida. La barretta proteica giaceva momentaneamente abbandonata al suo fianco, sul copriletto che odorava appena di stantio.
Freki si strinse nuovamente nelle spalle. “Per lo stesso motivo per cui hai accettato di dormire qui, o perché stamattina ti ho ritrovato esattamente dove ti avevo lasciato. Perché non sai dove andare. Perché, per quanto tu possa essere astuto e pieno di risorse, non hai idea di come muoverti nei Bassifondi senza farti piantare una vibrolama nella schiena alla prima parola fuori posto. E perché se provi a mettere il naso al di sopra del ventesimo livello gli imperiali ti saranno di nuovo addosso come un branco di gundark in calore.”
Avrebbe potuto infondere un velo di minaccia nelle sue parole, ma non ne aveva bisogno. Le bastava enunciare i fatti nel suo consueto tono pragmatico. Sapevano entrambi che aveva perfettamente ragione.
Vexen si lasciò sfuggire un sospiro, chiedendosi quali variabili fossero sfuggite al suo controllo e quando, e come avesse fatto a cadere così in basso. Letteralmente e metaforicamente.
Infine esalò una sorta di grugnito sofferente, come se qualcuno gli stesse estraendo le parole di bocca con un paio di tenaglie.
“Puoi chiamarmi Even.”

 
 




“Polizia mineraria di Onoam, allontanatevi da quelle casse!”
La voce scosse l’interno e sembrò far vibrare tutte le pareti. Dall’alto si sentì una lunga serie di sibili in veloce sequenza e nell’arco di pochi secondi la miniera si riempì di assaltatori che scesero con i loro jet pack a razzo. Erano almeno una decina, e tutti armati. Gea ed i suoi minatori si guardarono intorno, spaventati, e tutti fecero un passo indietro. Dai cunicoli emersero gli assaltatori che Zexion aveva visto poco prima e si misero sull’attenti.
Uno dei soldati si avvicinò alle casse e vi passò davanti un sensore. “Comandante, sono i materiali che cercavamo”.
“Eccellente” fece quello, riconoscibile dalle mostrine rosse contro la superficie dell’armatura bianca. “Fate scendere i droidi e riportate tutto in superficie”.
Non occorrevano i suoi poteri per percepire le sensazioni dei minatori. Si alzò quello che prima era un brusio, ma che subito dopo divenne un vociare chiassoso che prese a rimbombare quando dal ventre della miniera si affacciò un altro manipolo di lavoratori, ancora coperti di polvere e con i caschi luminosi accesi. Persino un paio di droidi da carico si fermarono per assistere.
Gea però si fece avanti, sputò per terra e si portò davanti al primo assaltatore a vista “Voi qui non portate via un bel niente. Sono materiali della miniera”.
“Questi materiali ed il loro velivolo sono sequestrati per decreto del Governatore Saruman per violazione dello spazio commerciale del sistema di Naboo. Abbiamo il compito di ritirare il contenuto di queste casse e …”
“Chiedo scusa, comandante”.
Zexion, nonostante la polvere ed il mal di testa causato dalla presenza di tutte quelle persone, prese un respiro profondo e si staccò dal resto della calca; la delegata dei minatori gli scoccò uno sguardo a metà tra il dubbioso ed il grato. Senza dubbio gli abiti formali che indossava lo rendevano ben riconoscibile rispetto ai lavoratori, e si recò dal comandante con i propri documenti bene in evidenza. L’assaltatore li passò sullo stesso scanner usato per valutare le casse ed il loro contenuto, e nell’aria comparve l’olografia con il volto di Zexion e la proiezione dei suoi dati. “Ienzo Whiteflame, MinoTech Inc. Sono il responsabile del convoglio ESPL6 e del suo contenuto. Siamo entrati nello spazio del sistema di Naboo con regolare autorizzazione, può controllarla a bordo della mia nave, se desidera”.
Il soldato, dubbioso, gli restituì i documenti. Nel suo odore era celato un sottile dispiacere.
Forse aspettava solo di cogliere con le mani nel sacco un qualche terrorista ribelle e non, al contrario, un privato cittadino con tutti i dati in regola.
“Abbiamo già ispezionato la sua nave, signor Whiteflame. E non ci sono tracce della sua registrazione all’ufficio dazi; la sua nave è entrata nel nostro settore dichiarando di non avere alcuna attività commerciale in corso, mentre questi materiali dichiarano il contrario”.
Il ragazzo roteò gli occhi al cielo. “Si tratta di una donazione spontanea della MinoTech Inc. allo stabilimento minerario di Onoam. Non è stato coinvolto l’ufficio dazi perché si tratta di una transazione libera, comandante. Ovviamente ho tutta la documentazione del passaggio dei beni con me”.
Si costrinse a rimanere immobile anche quando due assaltatori si avvicinarono per perquisirlo. Fece per dare loro il chip di autenticazione fornito dai Servizi, ma quelli preferirono bloccargli entrambe le mani e prenderglielo con la forza dall’olopad che teneva a tracolla. Da dietro sentì qualcuno dei lavoratori protestare e per tutta risposta i soldati sollevarono i blaster e li portarono ad altezza uomo; Zexion contò oltre una trentina di minatori, ma tutti male in arnese mentre le armature degli assaltatori risplendevano di azzurrino sotto le flebili luci della miniera, segno che avevano almeno due livelli di scudi deflettori alzati. Il Governatore Saruman, era chiaro, non badava a spese quando si trattava di sicurezza.
I secondi sembrarono interminabili mentre i dati caricati sul pad venivano scaricati nel lettore del comandante. Sul suo schermo comparve la copia digitale del documento con il logo della compagnia, così come la lunga serie di firme che attestavano il passaggio di proprietà dei beni; i Servizi, pensò, realizzavano dei documenti falsi così perfetti che avrebbero potuto far passare gli originali come imitazioni. L’uomo prese a scorrere il contenuto del documento, ma a metà della visione spense tutto con un gesto di stizza. “Signor Whiteflame, ci sono due cose a cui non credo. La prima è al Cavaliere del Drago” fece “La seconda è alle donazioni spontanee da parte di colossi dell’industria”.
“Quello a cui lei crede non è …”
“Io preferisco più pensare che questa merce sia stata rubata, signor Whiteflame. E che lei sia un volgare contrabbandiere con dei vestiti migliori della media!”
“Le sue insinuazioni sono …”
I due soldati che avevano appena terminato la perquisizione si avvicinarono e lo presero per le braccia. Provò a divincolarsi, e per tutta risposta quelli strinsero la presa e lo tirarono indietro; uno di loro estrasse un taser a impulsi e Zexion si fermò. Non aveva alcuna intenzione di dargli l’occasione di usarlo.
Il comandante gli fu quasi addosso. Lo superava di una testa intera, e sotto il visore dell’elmo non era nemmeno possibile vederne lo sguardo.
Cosa che per il ragazzo non era un problema. A quella distanza gli odori dell’uomo erano forti e chiari abbastanza da farsi sentire fin dentro il suo stomaco; i minatori, al contrario, si trasformarono in un vortice di sentimenti amari che anche in mezzo alle polveri dei metalli, al sudore ed ai liquidi di purificazione dell’aria gli scivolarono tra i polmoni pungenti come delle spine. Dava loro le spalle, ma avrebbe potuto descrivere l’espressione dei loro visi senza sbagliare. Con la coda dell’occhio vide un paio di soldati farsi avanti e respingere qualcuno dalla folla che stava cercando di venire nella sua direzione. “Quelle che lei chiama insinuazioni, signor Whiteflame, sono le decisioni prese da un comandante di pattuglia nel pieno esercizio delle sue funzioni. Pertanto è pregato di seguirci senza opporre resistenza nei blocchi di detenzioni minerari finché la sua posizione non sarà chiarita del tutto” aggiunse, spegnendo il pad. “E nel frattempo quelle merci contrabbandate verranno requisite fino a nuovo ordine”.
Il brusio che ne seguì rimbombò per tutte le miniere, e stavolta il ragazzo fu sicuro di sentire più di un blaster a cui veniva sganciata la sicura del grilletto. Gea tirò un’imprecazione in grado di polverizzare anche una classa d’acciaio e più di un paio di uomini si mossero verso di lei. Dall’alto scesero un paio di droidi sonda ed iniziarono a scansionare i presenti per registrarne i dati ed alcuni minatori si fecero indietro all’istante per timore di essere segnalati ai supervisori. Zexion non oppose alcuna resistenza e si fece trascinare dagli assaltatori verso uno dei cunicoli, guidato solo dalle loro spinte e da una luce che si faceva sempre più fioca ad ogni suo passo.
La prima parte del piano era stata un successo.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - The things we do for love ***


Capitolo 10 - "The things we do for love"







Cos Sheev Palpatine








“Sono ridicola”.
“Smettila” sussurrò Jango, dandole il braccio. “Sei bellissima”.
Zam si morse il labbro per evitare che la coppia di anzellan in marsina potesse sentire il suo sospiro. Sospiro che sarebbe uscito probabilmente più simile ad un fischio strozzato, perché l’abito che aveva indosso le stringeva all’altezza del petto e le avvolgeva entrambe le gambe fin sotto le ginocchia. Con quell’affare ogni passo si stava rivelando un’agonia, specie perché le decorazioni ingioiellate all’altezza delle caviglie erano connesse con tanta precisione ai suoi sandali che dubitava che sarebbe riuscita a scioglierle da sola senza bisogno di una vibrolama.
Il ristorante non era ancora pieno, ma i tavoli pieni del più sontuoso buffet che avesse mai visto erano già pronti. Se fino a quel momento aveva creduto che nel palazzo di un Hutt si potesse trovare qualsiasi tipo di leccornia della Galassia, lo spettacolo che si parò davanti ai suoi occhi era qualcosa di inimmaginabile: l’intero piano era stato diviso in tre settori, uno dedicato ai pianeti del Nucleo, uno all’Orlo Intermedio ed uno all’Orlo Esterno, separati tra loro da delle fontane con luci al neon che mutavano colore non appena un invitato metteva piede nell’area. Il personale non prevedeva droidi, e soltanto inservienti umani si muovevano con grazia tra un tavolo all’altro, con dei gesti così affettati che non facevano sentire affatto la mancanza dei loro colleghi meccanici. Un gruppo di almeno dieci rhodiani si alzò dal tavolo per avvicinarsi ad una vasca dove un inserviente prese con delle enormi pinze dei molluschi ancora bagnati, li sgusciò nei loro piatti e vi aggiunse sopra una strana salsa.
Jango aveva prenotato uno dei tavoli migliori, accostato all’immensa parete di vetracciaio.
Il loro committente non aveva badato a spese.
Si sedettero, entrambi con lo sguardo perso nel settore A di Coruscant.
A quell’altezza nemmeno gli speeder volavano quasi più. Più in basso si poteva scorgere il viavai di veicoli che sfrecciavano nel traffico serale, ma a quell’altezza soltanto alcuni droni diplomatici fluttuavano tra un piano all’altro con le luci spente per non disturbare il panorama mozzafiato che soltanto l’élite di Coruscant poteva gustarsi. I grattacieli erano studiati per illuminare le finestre ad intervalli regolari, e Zam sapeva che vi erano persino ingegneri pagati per organizzare per i livelli alti giochi di luce sempre diversi. Le facciate dei palazzi non erano più tappezzate da olografie pubblicitarie al neon, ed in alcune aree di ristoro si aprivano persino dei balconi con intere aree verdi. Alla loro destra, le indicò Jango, fluttuava a migliaia di chilometri dal terreno un intero parco costruito su una piattaforma ad impulsi senza emettere la minima oscillazione; oltre, riconoscibile per le alte guglie bianche, svettava il Tempio Jedi.
Ancora oltre, distante ma ben visibile in linea d’aria, la sagoma di uno dei palazzi senatoriali si stagliava nel tramonto artificiale. Zam si passò un dito all’altezza dello zigomo, quasi a simulare un gesto vezzoso, e la microcamera innestata nella lente a contatto che Jango le aveva detto di indossare si attivò. Per un attimo l’ingrandimento eccessivo la fece sobbalzare, ma quando guardò oltre la facciata di vetracciaio il palazzo senatoriale era diventato enorme, quasi vi si fosse trovata davanti con lo speeder.
Jango fece un gesto analogo, ed entrambi si ritrovarono a fissare l’edificio. Lui le prese la mano, accarezzandola come ormai faceva da anni.
Un gesto delicato che avrebbe scoraggiato qualsiasi cameriere dall’avvicinarsi ad una coppia teneramente intenta a fissare la magnificenza della capitale della Galassia da uno dei luoghi più costosi e panoramici esistenti.
“Gli alloggi della senatrice Amidala occupano tutto il piano 3012” fece lui. Lei tamburellò di nuovo le dita vicino all’occhio sinistro, adattando la visuale della microcamera fino ad avere una visione nitida del loro obiettivo. Lo strumento illuminò di un tenue colore arancione tutte le finestre, evidenziando la presenza di sudi deflettori a parete che ad occhio nudo sarebbero stati indistinguibili; oltre il vetracciaio di quelle finestre riuscì a scorgere quella che sembrava una stanza da letto. Qualcosa si mosse, e quello che aveva tutta l’aria di essere un piccolo droide astromeccanico -un R2 o un R3- scivolò sul pavimento sostando in alcuni punti.
“Cosa ci fa un droide astromeccanico nella stanza di un senatore?” chiese lei. Ancora faticava a pronunciare correttamente l’idioma kaminoano, ma anni al fianco di Jango le avevano insegnato che quella lingua era praticamente sconosciuta in qualunque angolo della Galassia, e giusto i droidi protocollari più aggiornati e costosi sarebbero riusciti ad interpretare quella lingua parlata da un pianeta lontano da qualsiasi rotta civile.
Ancora più utile in un locale dove nessun inserviente era un droide.
“Il mio contatto ha detto che quel droide è un vezzo della senatrice. Se lo porta dietro da oltre dieci anni e lo ha programmato come suo assistente. Ma, come tutti i droidi, è stupido” disse. “E ripete sempre lo stesso percorso”.
Si alzò, e qualche altra coppia era entrata nel ristorante. Zam rimase a fissare il palazzo della senatrice, memorizzando il percorso che il droide svolgeva. Era chiaro che lo avessero dotato di una scansione ad area di sicurezza, ma doveva avere un raggio piuttosto corto perché i suoi spostamenti erano brevi e misurati. Il ciclo di controllo della stanza durava esattamente trentasette secondi e due decimi, ed in quel lasso di tempo attraversava i quattro lati della stanza girando intorno al letto ed all’enorme specchiera. Al termine del giro usciva, e ne riemergeva dopo tre minuti e ventuno secondi: dalla sua postazione Zam non riusciva a capire dove andasse il droide durante quella pausa, ma era verosimile che controllasse il corridoio e lo studio annesso. Quando Jango tornò con due piatti colmi di un cibo che non aveva mai visto gli riportò quello che aveva visto, e lui annuì. “Tre minuti e ventuno secondi. Si può fare”.
“Cosa ti fa pensare che domani sera adatterà lo stesso schema? E se cambiasse?”
“Gli abitanti di Naboo non sono come quelli di Eriadu, Zam. Hanno un concetto di sicurezza piuttosto elementare” mormorò, impugnando la forchetta. “Non sono paranoici”.
Dietro a loro si sedettero tre donne molto eleganti, di mezza età. Una di loro, una signora con i capelli tinti di un verde acceso come imponeva la moda di Gatalenta, prese a commentare con fervore la dichiarazione che il Conte Dooku, il leader dei Separatisti, aveva lasciato proprio quel pomeriggio in olovisione.
La aveva vista anche lei a bordo della Slave I proprio quando erano entrati nell’atmosfera di Coruscant. Zam avrebbe ucciso volentieri qualunque di quei politici pagliacci che si erano lavati le mani durante i massacri di Zolan, ma Jango sosteneva che nessuno finanziasse i cacciatori di taglie tanto quanto facevano i politici ed i cartelli criminali -e a suo dire il Senato non era altro che un cartello criminale più alla luce del sole di altri.
Erano almeno dieci anni che il Senato della Repubblica stava vivendo uno dei suoi peggiori periodi di crisi. Era stata proprio la senatrice Padmé Amidala di Naboo a denunciare all’epoca uno dei più scandalosi casi di malfunzionamento e corruzione della macchina politica, con una mozione di sfiducia che causò la destituzione anticipata dell’allora Cancelliere Supremo Finis Valorum; un evento politico ancora piuttosto chiacchierato, perché da quegli eventi era stato nominato Cancelliere Supremo nient’altro che Cos Sheev Palpatine, portavoce proprio del pianeta Naboo e grande alleato politico della senatrice Amidala.
Jango prese a mangiare quello strano cibo, ma Zam era in grado di riconoscere quando il suo compagno stava in realtà facendo tutt’altro. I suoi occhi guardavano oltre la sua spalla, in quella che era proprio la direzione da cui veniva la discussione delle donne: stava ascoltando, ed anche lei fece altrettanto mentre cercò di capire come raccogliere sulla punta della forchetta quegli strani filamenti giallastri che aveva nel piatto.
“Credete che il Cancelliere Palpatine ratificherà la formazione di un esercito della Repubblica? Perché, siamo sincere, è chiaro che i Separatisti sono sul piede di guerra. Il settore Abrion ha abbandonato il Senato per unirsi a loro nemmeno tre giorni fa”.
“Figuriamoci” fece la voce della donna di Gatalenta. “La senatrice Amidala ha già espresso di essere contraria alla creazione di qualsiasi corpo militare. Pensa di risolvere la questione con la diplomazia, che ingenua …”
“E quando la bella senatrice solleva la gonna …”
Ne seguì una serie di risatine sciocche che diedero a Zam l’esaurimento nervoso, reso ancora più fastidioso dal fatto che quello strano cibo non riusciva a rimanerle fermo sulla forchetta. Nessuna clawdita avrebbe mai interrotto una conversazione seria per sparlare di simili stupidaggini, e Jango dovette notare la sua frustrazione perché le prese di nuovo la mano dal tavolo mentre con l’altra le versò del vino di Alderaan. Erano lì dentro ormai da più di un’ora, ed il loro obiettivo ancora non si era fatto vedere.
Jango era convinto che chiunque lo avesse ingaggiato per quel lavoro fosse uno dei Separatisti. Zam ancora non riusciva a capire come il suo uomo potesse accettare incarichi delicati da persone di cui non conosceva né il vero nome né la faccia, ma i soldi che arrivavano sul suo conto coperto erano reali. Non ne avevano mai discusso molto, ma il committente che aveva investito migliaia di crediti per farli mangiare in quel ristorante di lusso era lo stesso che aveva ingaggiato il suo compagno per fungere da matrici di cloni su Kamino. Un “qualcuno” che si era fatto sentire due settimane prima ed aveva offerto a Jango un lavoro a cui il cacciatore di taglie non avrebbe mai potuto rinunciare.
Sin dalla crisi del vecchio Cancelliere Valorum era chiaro che la Repubblica fosse a pezzi. Non ci voleva uno studioso di economia planetaria per capire che i sistemi del Nucleo avevano accentrato tutto il potere e che il Senato avallasse qualsiasi richiesta dei pianeti centrali a scapito di quelli dell’Orlo Esterno. I senatori avevano voltato le spalle al massacro della sua gente perché Zolan non aveva alcun valore ai loro occhi, e negli ultimi tempi Zam si era resa conto, viaggiando ogni tanto con Jango, che situazioni simili si moltiplicavano con l’allontanarsi dal cuore della galassia.
Ormai erano anni che i pianeti Separatisti chiedevano l’indipendenza dalla Repubblica per una gestione autonoma delle proprie risorse, e quello che all’inizio era sembrato l’ennesimo movimento di protesta si era trasformato in una crisi di proporzioni planetarie da quando il Conte Dooku, il volto pubblico dei Separatisti, aveva ricevuto finanziamenti dal Clan Bancario e dalla stessa Federazione Mercantile di Nemoidia.
Una crisi che era pronta a degenerare dopo che il Conte, quel pomeriggio, aveva dichiarato che i Separatisti sarebbero stati pronti a rivendicare la propria libertà con le armi, se necessario.
La senatrice Padmé Amidala, forte del supporto del Cancelliere, si era schierata con la Repubblica nel tentativo di trovare una soluzione pacifica, ma era evidente che i nuovi pianeti indipendenti considerassero le sue proposte quantomeno inconsistenti ed irrisorie.
Dunque quando a Jango era giunta la richiesta di assassinare la senatrice dai consueti canali con cui aveva sempre preso contatto per il lavoro dei cloni soldato avevano capito entrambi che i soldi che giungevano loro erano sempre stati di matrice separatista.
Non che questo cambiasse qualcosa.
Il denaro, come lui le diceva sempre, non aveva alcun colore.
“È una specialità della Terra I, Zam” disse lui, che si era alzato e si era servito un secondo piatto mentre origliava la conversazione delle loro vicine di tavolo. “Si chiama pasta. Davvero non la hai mai mangiata?”
“Non sono mai stata sulla Terra I”
“Nemmeno io” fece. Prese la sua forchetta e con uno strano movimento della mano afferrò quegli strani fili gialli e li avvolse lungo i rebbi. Le parve un modo inutile e marchingegnoso di prendere il cibo. “Ma ormai la fanno in un sacco di locali etnici. Anche se chi è stato lì dice che il cibo del posto sia tutt’altra faccenda. Magari potremmo andarci dopo questo ingaggio”.
Zam non ebbe il coraggio di dirgli che probabilmente in quel mondo sarebbe morta di fame. “Jango, forse dovremmo iniziare a preoccuparci. La senatrice non è ancora arrivata, e …”
“E siamo venuti qui con più di un’ora di anticipo perché volevo almeno godermi qualcosa di buono prima di lavorare. Inoltre oggi dobbiamo solo osservare”.
Mandò giù il primo boccone che lui le aveva messo sulla forchetta.
In effetti aveva un sapore delizioso.
Ormai era trascorso più di un anno da quando lei e Jango si erano conosciuti, e lui si era dimostrato molto più esperto negli usi e nei costumi dei vari pianeti di quanto la sua faccia truce da Mandaloriano consumato potesse dare a vedere. Indossava una tunica scura ed un mantello di Alderaan con la stessa fluidità con cui si muoveva in armatura, una sicurezza che non avrebbe mai pensato di trovare in un umano.  Incrociarono l’uno le dita nell’altra, senza dire altro, e fu con una certa stizza che lei si separò nel momento in cui il chiacchiericcio alle loro spalle riprese e capirono entrambi che il loro obiettivo era arrivato.
La senatrice Amidala era una donna davvero molto bella.
Si diceva che le donne di Naboo usassero dei trucchi molto elaborati per evidenziare il loro rango sociale, ma la figura che apparve lungo la soglia del ristorante sfoggiava soltanto dei belletti leggeri, forte soltanto della propria giovinezza e dei lineamenti marcati ma non eccessivi che l’avevano resa uno dei volti più noti della Galassia. Portava i capelli raccolti in due reti luminose che le ricadevano dietro le spalle quasi come i lekku di una Twi’lek, e da esse pendevano delle decorazioni preziose di cui alcune cadevano fino a terra, tintinnando un po’ ad ogni suo passo. L’abito color verde chiaro scintillava fiocamente alle luci del ristorante mentre la gonna lunghissima si divideva in numerosi veli come i petali di un fiore e ondeggiava come mossa da un vento invisibile. Le dava l’idea che stringesse il petto ancora più del proprio, ma la senatrice sembrava a suo agio, camminando con grazia senza mai precedere la figura che le si muoveva accanto, la cui andatura pacata non tradiva i numerosi anni.
Lontano dalle olocamere il Cancelliere Supremo Palpatine aveva un dedalo di rughe molto più accentuato del normale. Anche se i capelli erano già bianchi sia nelle immagini che nella realtà, all’ologiornale apparivano più folti ed arrivavano almeno all’inizio della fronte, e le labbra erano più sottili e chiare di quanto fosse pronta a ricordare.
Anche il naso, a guardare meglio, era leggermente più marcato di quanto non lo si vedesse nei comunicati ufficiali.
L’uomo anziano incedeva lentamente, discutendo con la senatrice con dei sorrisi affabili. Indossava un abito molto semplice, forse il più misero in quel locale dove anche il cameriere addetto alle bevande trasudava opulenza, ben lontano da quello che sapeva essere la moda maschile di Naboo, elaborata almeno quanto quella delle loro donne. Zam notò che spostava il peso più sulla gamba destra che sulla sinistra, e forse la tunica scura fino ai piedi serviva per nascondere questo piccolo difetto del Cancelliere. La senatrice non lo sopravanzava, e mentre metà dello staff si lanciò nella loro direzione per scortarli al tavolo, l’uomo anziano le porse con galanteria il braccio e si avvicinarono insieme nel luogo indicato.
Il tavolo subito alla loro sinistra.
“Il tuo contatto è stato ben informato” fece a Jango, continuando a discutere in kaminoano. Fece scorrere le dita sulla carta delle bevande, quasi come se stesse dissertando se scegliere un secondo giro di vino di Alderaan o provare il sapore dolce di quello di Iloh. “Sapeva persino che tavolo avrebbero prenotato”.
“Questo ci facilita il lavoro. Ma ti ricordo che siamo qui perché ci manca un’informazione. Chi mi ha ingaggiato ha detto che la senatrice ha effettuato all’ultimo istante una modifica nella sua scorta umana” mormorò “Il che è insolito negli standard di sicurezza di Naboo”.
“E la cosa ti preoccupa?”
“Non tutte le variabili delle mie cacce sono piacevoli come te”.
Zam vide il proprio riflesso nel calice vuoto e vide di essere arrossita fino alla punta dei capelli. Si presero per mano, volgendo alla coppia accanto a loro uno sguardo incuriosito, proprio come due normali civili che si fossero accorti proprio in quel momento che l’uomo più potente della Repubblica e la sua alleata si fossero appena seduti al loro fianco. Tutt’intorno a loro anche gli altri commensali facevano lo stesso, ed il commento della gatalentana sul pazzesco paio di scarpe della senatrice probabilmente lo avrebbero sentito anche nel settore adiacente. La donna fece per alzarsi ed avvicinarsi al buffet, ma il Cancelliere la fermò con un gesto gentile della mano e l’attimo dopo due camerieri si materializzarono al loro fianco, raccogliendo l’ordine con una rapidissima serie di inchini.
Gli ennesimi politici che giocano ad essere i padroni della Galassia, pensò tra sé.
“Cancelliere, io non ammetterò mai una linea politica che possa condurre la Repubblica ad una guerra. La dichiarazione del Conte Dooku …”
“Mia cara, ho tenuto una discussione di gabinetto con il Maestro Yoda giusto quattro ore fa. Ha conosciuto personalmente il Conte e concorda con me che non sia una persona che minacci una guerra a vuoto. È evidente che sia in possesso di una flotta che nemmeno i nostri informatori sono riusciti ad individuare, e se davvero la Federazione dei Mercanti si è unita a lui potrebbero averla celata in qualsiasi angolo dell’Orlo Esterno”.
L’uomo si rivolse alla senatrice con un tono pacato, sorridente, come se stesse parlando dell’ultima marachella dei suoi nipotini; al contrario la donna era affettata, ed il tono acuto della sua voce normale non nascondeva un discreto nervosismo.
I camerieri tornarono con due antipasti dall’origine a Zam sconosciuta, ma la senatrice Amidala aspettò che gli inservienti si fossero allontanati per riprendere la parola. “Io credo che il Conte ed i Separatisti vogliano proprio giungere ad uno scontro. Votando a favore di un esercito della Repubblica sono convinta che faremo solo il loro gioco”.
“Non posso che darti ragione su questo” disse lui. Ad un suo cenno del capo un altro cameriere giunse e versò un liquore color giallo acceso. “Ma, d’altro canto, i pianeti sono inquieti. La regina di Hapes ha reso noto che se concederemo l’indipendenza ai mondi separatisti anche il suo sistema farà domanda per uscire dalla Repubblica”.
“Cancelliere, con Hapes potrei mediare io stessa. Se mi aprisse un canale privato con la loro maestà potrei …”
Zam alzò gli occhi verso la distesa di grattacieli. Nemmeno due minuti di politica galattica e già le sarebbe venuta voglia di prendere sia il Cancelliere che la senatrice e lanciarli oltre il vetracciaio per il semplice gusto di scoprire quanti minuti ci avrebbero impiegato a toccare il suolo. Al contrario Jango sembrava molto interessato, e Zam si ritrovò ancora una volta meravigliata su come gli umani riuscissero così bene a fingere di fare qualcosa mentre ne stavano pensando un’altra. Aveva acceso il pad sul tavolo, e chiunque vi avesse dato un’occhiata avrebbe visto solo foto di lui e Boba a pesca.
Sospirò, stizzita, pensando alla misteriosa scorta della senatrice. Forse non si sarebbe presentata per quella cena, pensò, visto che persino le guardie del Cancelliere erano rimaste fuori dalla sala ristorante e non davano cenno di muoversi. I due politici si sentivano invulnerabili, e per un istante si chiese perché avrebbero dovuto attendere il giorno successivo per far fuori la donna quando avrebbero potuto ucciderla in quel preciso momento e scappare rompendo la vetrata. Fece per chiederlo a Jango, ma lui parlò per primo. “Settore Orlo Intermedio, vicino al tavolo dove servono la carne di Almak. È in piedi, sta vicino alla cameriera di Bothan, lo vedi?”
Zam aguzzò lo sguardo, ingrandendo di poco lo spazio della microcamera oculare, e cercò nella direzione indicata dal suo uomo.
“Un gran bel problema, Zam”.
Impiegò qualche secondo a metterlo a fuoco. Aveva trascorso una vita a nascondersi e ad osservare la gente che le stava intorno, eppure sarebbe stata pronta a giurare sul proprio onore che la persona che Jango le stava indicando non fosse mai stata lì. Guardò in quella direzione, e per un attimo sentì il forte bisogno di distogliere lo sguardo, come se uno strano mal di testa le scattasse dietro gli occhi non appena provava a dare una forma più concreta a quella figura vestita di scuro.
“Guardalo attraverso il vetracciaio …” sussurrò Jango.
Spostò la sedia e si mise a sedere accanto a lei. Si avvicinarono entrambi all’immensa vetrata che dava sulla città e lui le strinse un braccio intorno alle spalle, tirandola a sé. Fece scivolare la mano libera tra i suoi capelli, e gentilmente le ruotò il viso fino a fissare entrambi un punto in cui il vetracciaio rifletteva la scena proprio alle loro spalle, la senatrice ed il Cancelliere ancora presi nella loro discussione. Jango le mormorò di guardare meglio, e tra i tavoli del Settore Intermedio vide benissimo la figura che prima non era riuscita ad afferrare.
Un ragazzo umano, molto alto, vestito di scuro. Era immobile alle spalle di una cameriera che non sembrava nemmeno accorgersi della sua presenza, una mano immobile dietro la schiena ed una leggermente sollevata in aria; dal riflesso non riuscì a vederne il colore degli occhi, ma era chiaro che fossero puntati sul tavolo della senatrice e non lasciarono la figura di lei nemmeno quando la donna si chinò in avanti per sussurrare qualcosa al suo interlocutore. Intorno al ragazzo i camerieri andavano e venivano, lo evitavano nei movimenti ma nessuno gli rivolgeva nemmeno una parola.
“Sì. Lo vedono, non temere” mormorò Jango.
Con la testa poggiata contro la sua spalla, Zam riuscì a sentirne i muscoli in tensione. “Ma nella loro mente passa più o meno inosservato. Come un oggetto comune, un mobile, o una pianta. Lo vedono, ma non lo vedono davvero. Convincono i nostri occhi a guardare altrove, ma per fortuna il vecchio trucco del riflesso funziona sempre”.
“Chi può fare una cosa simile?”
“Il peggior problema che possa capitarti tra capo e collo” disse. “Uno Jedi”.
Zam si strinse contro di lui. Aveva preso a respirare più intensamente, ed aveva unito entrambe le mani davanti a sé stringendosi lentamente le dita.
“Credi che ci abbia letto nel pensiero? Che sappia che noi vogliamo …”
“No, non ti leggono la mente. Ma se ne accorgerà se ci sentirà innervositi per causa sua”.
Un brivido le corse lungo la schiena.
Non aveva mai avuto a che fare con i Jedi, ma sapeva benissimo quanto anche i mercenari migliori tremassero davanti a quegli strani guerrieri. Jango ogni tanto le aveva raccontato che i Mandaloriani più famosi avevano sconfitto dei Maestri Jedi in degli scontri che sembravano usciti da qualche cantastorie delle corti Hutt, ma vederne uno dal vivo … Si diceva che fossero bastati solo due cavalieri Jedi per concludere la crisi che aveva scosso la Repubblica all’epoca della Federazione dei Mercanti dieci anni addietro, e l’idea che un ragazzo così giovane riuscisse a distogliere lo sguardo di una sala ristornate piena di gente la diceva lunga sulle sue capacità.
Uccidere la senatrice sarebbe stato un suicidio.
Osservò di nuovo la figura attraverso il vetro, e stavolta vide che aveva lo sguardo puntato nella sua direzione.
“Pensa ad altro” le disse Jango.
“Se fosse facile!”
“È facile, in realtà. Se sai a cosa pensare …”
La avvicinò a sé, e l’attimo dopo ne sentì le labbra sulle sue. Si lasciò circondare dalle sue braccia, mandando al diavolo la senatrice, il Cancelliere e persino lo Jedi.
“Te l’ho già detto che sei bellissima?”
 
 
Quella notte Zam non riuscì a prendere sonno.
Appoggiò più volte la testa tra il torace e la spalla di Jango, cercando di farsi calmare dai battiti del suo cuore, ma nemmeno quel calore riuscì a placarla. Si tirò il lenzuolo fin sopra la testa per isolarsi, ma il problema non era né il leggero ronzio del condizionatore della stanza del loro albergo, né le luci che venivano dall’enorme vetrata che si affacciava sul quartiere governativo di Coruscant.
Si alzò senza far rumore e si coprì con la veste da camera.
Il palazzo che ospitava gli alloggi della senatrice Amidala svettava in lontananza. Appoggiò la fronte al vetro, cercando di scrutare qualche luce accesa nelle stanze del loro obiettivo, ma si accorse di fissare l’edifico senza davvero prestarci attenzione.
La sensazione dei poteri dello Jedi dentro la sua testa pizzicava come uno strumento musicale bloccato su una sola nota.
“Non dormi?”
Dal riflesso del vetracciaio osservò Jango allontanare con un calcio le lenzuola e mettersi seduto contro la spalliera del letto.
Era l’uomo più bello della Galassia.
“Nemmeno tu”.
Si alzò, sopprimendo uno sbadiglio, e venne verso di lei senza nemmeno preoccuparsi di mettersi qualcosa addosso. Solo qualche anno prima avrebbe ucciso all’idea di concedere ad un maschio umano di venirle alle spalle, ma l’abbraccio e il calore che le attraversarono le spalle chiusero quei pensieri in un cassetto. Aderì contro di lui, ascoltando il suo respiro vicino alle orecchie. La strinse a sé all’altezza del ventre, e Zam ancora una volta intrecciò quelle dita enormi tra le sue. Fissarono insieme il panorama mozzafiato del pianeta più importante della Galassia immerso in un traffico pigro, regolamentato, ben diverso da quello rumoroso e sregolato dei livelli inferiori. Sulle piattaforme a gravitazione dei giochi di luce invitavano ogni anima ad abbandonare il sonno e ad osservare estatica quello spettacolo silenzioso, ed i loro visi si specchiavano lungo quelle scintille.
Zam vide dei profondi segni neri sotto i propri occhi.
Prese la mano di Jango, la avvicinò alle labbra e prese a coprirla di baci. “Lasciami venire con te”.
“Non se ne parla”.
“È uno Jedi, Jango. Un dannatissimo Jedi”.
“Lo so”.
Liberò l’altra mano dalla sua stretta, e prese con calma a passarle le dita tra i capelli. “Ma posso gestirlo”.
Zam, deglutì, sentendosi però la gola asciutta. Sentì un gran bisogno di bere. “Abbiamo sempre combattuto insieme. Perché adesso non mi vuoi?”
Lui sospirò.
Lei si strinse ancora contro il suo torace, ma la risposta non arrivò.
Davanti a loro, oltre il vetro, un paio di speeder si lanciarono a tutta velocità tra gli spazi vuoti in un turbinio di luci.
Sarebbe stata pronta a giurare che quel silenzio fosse durato più di tutta la sua vita.
Quando Jango sciolse l’abbraccio sentì qualsiasi parola stesse cercando di formare morirle sulla punta della lingua, ma si lasciò prendere lo stesso per mano e tornarono sul letto.
Appoggiata sul comodino del suo compagno la fiala di estratto di mirodi riluceva leggermente di azzurro nella luce artificiale della stanza: un sonnifero abbastanza potente da stendere un gundark che Jango aveva acquistato per abbattere la scorta della senatrice, ma che probabilmente sarebbe stato inutile contro uno Jedi. E lo stesso poteva dire dei due kouhuns, i due artropodi velenosi che si erano fatti arrivare direttamente da Indoumodo e che si agitavano ferocemente dentro la capsula di vetracciaio.
I suoi occhi erano ancora fissi sulle minuscole creature quando si ritrovò qualcosa tra le mani: Jango le aveva appoggiato una confezione rotondeggiante, metallica, grande più o meno quanto entrambi i suoi palmi. Lo guardò, interrogativa, ma con un cenno lui la invitò ad aprirla.
Lo scintillio del beskal per poco non la fece sobbalzare.
Le due collane erano stupende.
Minuscoli anelli d’acciaio erano intrecciati l’uno all’altro, formando delle sottili catene che si sovrapponevano per tutta la lunghezza dei gioielli. Piccole sfere ne interrompevano la corsa, e le catene si ancoravano su di essere su degli anelli così sottili da essere invisibili ad occhio nudo. Ne prese una in mano, incantata, sentendo quelle catene leggerissime scivolarle lungo le dita senza emettere il benché minimo suono. Da entrambe ricadeva un pendente rotondo, anch’esso in beskal, con due cristalli kyber incastonati medianti sottili ramificazioni in acciaio.
Non avrebbe mai immaginato che l’acciaio sacro di Mandalore potesse venir lavorato in modi simili.
Jango prese la collana ancora riposta nella scatola, e con gentilezza gliela fissò intorno al collo. Zam trattenne il fiato sentendo lo strano calore di quel metallo sulla pelle.
“Finita questa missione …”
Il suo tono si fece basso, quasi un sussurro. Un tono diverso da quello che aveva imparato a conoscere. “… vorrei rivedere le Forge di Mandalore. Con te, intendo …”
Le prese le mani, e Zam notò che i suoi occhi saettavano da tutte le parti tranne che su di lei. Le loro dita unite si avvicinarono alla sua bocca, e lui le baciò lentamente. Un gesto delicato ma formale, che culminò quando sciolse il bacio e se le portò a livello del cuore. “Quel giorno … accetteresti di diventare la mia compagna … per il resto delle nostre brevi vite? Accetterai di forgiare i nostri nomi nel beskal del Primo Fuoco?”
Un secondo sospiro, più forte.
Quando riprese, stavolta le sue iridi scure erano dritte nelle sue. “Non posso completare questa missione senza una tua risposta, Zam. Qualunque essa sia” disse “E, in ogni caso, sappi che non ti esporrò al pericolo per nessun motivo al mondo”.
Quella volta fu Zam a dover abbassare lo sguardo.
Sul suo petto il gioiello d’acciaio adesso pulsava, quasi fosse dotato di vita propria; o forse era il suo cuore a pulsare, e il beskal rispondeva a quel ritmo forsennato con una luce tutta sua.
Non aveva mai amato nessuno come Jango, né credeva che sarebbe mai stato possibile per lei amare qualcun altro anche solo la metà di quello che provava per quell’uomo scuro, coperto di cicatrici, che in quel momento le stava offrendo la parte più importante della sua anima. Mille parole cercarono di formarsi sulla sua lingua, ma vide solo la propria espressione nel riflesso del vetracciaio della stanza.
Un viso così sorridente che non poteva essere il suo, e che non svanì nemmeno quando le luci degli spettacoli esterni per un attimo abbagliarono quel vetro e il corpo di Jango.
“È il più grande onore che potrei mai ricevere. E mi renderesti la donna più felice della Galassia”.
Fu un unico, repentino movimento.
Il braccio di Zam si tuffò all’indietro, afferrando la siringa di mirodi, e prima che Jango potesse dire altro lei gli affondò l’ago alla base del collo.
Fece effetto in meno di un paio di secondi, e l’uomo che amava crollò contro di lei in un sonno pesante, profondissimo, che non sarebbe durato meno di dieci ore in un umano della sua taglia.
Tutto il tempo di cui aveva bisogno.
“Ma sappi che nemmeno io ti esporrò al pericolo. Per nessun motivo al mondo”.
Lo appoggiò gentilmente contro il cuscino, e prima di rivestirsi prese la collana ancora libera e la avvolse intorno al collo dell’uomo.
Lo baciò un’ultima volta, afferrò i kouhuns, le proprie armi, ed uscì dalla stanza col cuore che strillava nella lingua più oscura che conoscesse.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Cavaliere Jedi ***


Capitolo 11 - Cavaliere Jedi







Anakin Skywalker








Il miglior modo per battere un droide era l’imprevedibilità.
Jango glielo aveva ripetuto decine di volte, specie quando si erano ritrovati contro dei modelli classe IG armati fino all’ultima giuntura. Le macchine ragionavano per algoritmi e ripetizioni: per quanto fossero programmati nella maniera più multifunzione possibile finivano sempre per inquadrare gli eventi in pattern replicabili dai loro circuiti cognitivi.
In poche parole, erano stupidi.
Zam aveva deciso di non affidarsi al pilota automatico dello speeder. Ne aveva rubato uno in un hangar di rimessa ben distante dall’albergo dove lei e Jango alloggiavano, ed aveva trascorso le ultime due ore ad eseguire giri di prova intorno al palazzo della senatrice Amidala. Si era fermata più volte durante quei percorsi, per poi accelerare di corsa e modificare il tragitto del velivolo in modo tale che il droide astromeccanico non riuscisse a tracciarla. Non aveva idea se quel barattolo di metallo fosse in grado di registrare i movimenti degli speeder al di fuori del palazzo, ma aveva preferito non rischiare.
Era al quarto giro quando decise di agire.
Uno sguardo attraverso i binocoli le bastò per vedere il droide astromeccanico R2 uscire dalla stanza.
Le finestre di vetracciaio erano dotate di un sistema di occultamento di buon livello, ma nulla che l’equipaggiamento di un Mandaloriano non potesse superare. Da oltre le lenti vide chiaramente la stanza della senatrice Amidala, i mobili, la postazione olografica e, distesa sul letto, la sagoma stessa della donna. Regolò gli strumenti con la visione infrarossi, ma questi le confermarono che, lì dentro, non vi era nessun altro essere vivente oltre al proprio bersaglio.
Era chiaro che lo Jedi fosse nelle vicinanze, forse appena fuori la porta o di ronda nel corridoio, ma non era lì dentro e dunque le probabilità di riuscita del piano aumentarono. Si morse il labbro per la tensione, sforzandosi di non pensare al fatto che era la primissima caccia che faceva senza il suo compagno.
Si accorse di tremare.
Dopo tre minuti e ventuno secondi il droide rientrò.
Zam non aveva idea del perché la senatrice si portasse un droide astromeccanico come assistente, ma rimase immobile mentre la figura dalla testa a cupola percorreva in maniera impeccabile il perimetro della stanza sui suoi stabilizzatori senza sfiorare nemmeno un mobile. Le sue spie luminose si accesero in tutti gli angoli, facendo partire quello che le sembrò un sistema di scansione a induzione elettromagnetica. Fece ruotare più volte la testa per poi portarsi al centro della stanza, ma nessun movimento indicava che si fosse accorto della sua presenza dall’altro capo della strada.
Quando uscì, Zam premette il bottone.
Dal suo speeder si staccò la sonda con la capsula dei kouhuns. I due artropodi si agitavano violentemente contro le pareti. Tracce biancastre lungo il vetracciaio mostravano come avessero già secreto buona parte del loro veleno nel tentativo di liberarsi, ma Jango le aveva già detto di non preoccuparsi per quello. La sonda attraversò lo spazio tra i due palazzi e si appoggiò al di sotto del piano 3012, proprio nel punto in cui la finestra della camera della senatrice si univa all’acciaio del palazzo.
Obbligò le proprie dita a risponderle e dalla sonda fece partire il contenuto di una fiala di acido ukbar lungo il margine del vetracciaio, e in meno di quindici secondi scavò dentro la parete un foro poco più largo di un dito. La capsula si accostò, si sollevò all’altezza del foro ed in meno di un attimo gli artropodi schizzarono fuori nell’unico percorso a disposizione. Con un gesto secco comandò alla sonda di allontanarsi e regolò ancora di più i binocoli, col cuore che le pulsava fin dentro la gola, cercando di ingrandire l’interno della stanza fino a vedere i kouhuns emergere da dietro un mobile, galvanizzati dal battito cardiaco nelle vicinanze.
“Muovetevi…” mormorò tra sé, contando i centimetri che separavano i due minuscoli predatori dalla donna.
Questi scattarono all’unisono, scivolando lungo il tappeto, e quando si arrampicarono sulle lenzuola del letto si lasciò sfuggire un sorriso.
Un fendente azzurro balenò al centro della stanza.
Zam sobbalzò per un attimo, quasi perdendo la presa sul volante dello speeder. Portò al massimo gli ingrandimenti, il cuore in gola, gli occhi di nuovo nell’appartamento della senatrice. 
I due kouhuns giacevano ai piedi del letto, tagliati a metà. Dai loro corpi quasi carbonizzati si sollevavano delle sottili strie di fumo. 
Alzò i binocoli e vide la senatrice Amidala alzarsi dal letto e gridare mentre una seconda figura si era materializzata al centro della stanza, una spada laser alla mano ed uno sguardo carico d’odio che, Zam comprese con terrore, era rivolto proprio nella sua direzione. Ripose gli ingrandimenti alla massima velocità possibile ed accese lo speeder, chiedendosi soltanto come lo Jedi fosse riuscito ad accorgersi dei kouhuns e di lei.
Non aveva ancora compiuto un paio di metri che il vetracciaio della stanza della senatrice esplose in migliaia di pezzi e, con un unico salto, lo Jedi attraversò l’aria ed atterrò proprio sul muso del suo velivolo.
“Chi ti manda?”
Gli occhi fissi sulla spada laser di lui, accesa di un fastidioso colore azzurro, Zam si morse il labbro senza rispondere. Lo Jedi la fissò con maggiore intensità, immobile nonostante fossero in equilibrio a decine di chilometri dal suolo. “Rispondimi, donna. Chi ti manda?”
Era un umano di forse una ventina d’anni, piuttosto alto per la sua specie. Sotto le spesse vesti dell’ordine jedi, Zam vide i muscoli delle gambe pronti a scattare e soffocò l’istinto di estrarre il blaster dalla fondina e sparargli a bruciapelo. Qualcosa, la stessa sensazione fastidiosa che le aveva pizzicato la testa al ristorante, iniziò a farsi strada dentro di lei; forte, allarmante, una sorta di brivido pungente che le partiva dal centro della schiena e le arrivava alla base del cranio. Lo Jedi le stava facendo qualcosa, era chiaro, e si obbligò a pensare velocemente a qualsiasi altra cosa. 
Chissà per quale buffo motivo le venne in mente il Cancelliere Palpatine e la sua curiosa zoppia.
Il trucco sembrò funzionare, perché sul volto dell’umano si dipinse una smorfia; sentì la sua presenza dentro la testa con maggior intensità di prima, ma ormai Jango le aveva insegnato il trucco ed impregnò tutti i suoi sforzi sui minuscoli dettagli della tunica del Cancelliere e su ciò che aveva ordinato quella sera lasciando che qualsiasi altra figura svanisse dalla propria mente.
“Bel tentativo …” fece lui, stavolta con un’espressione feroce. Zam sentì la pressione dentro di lei allentarsi, e capì che lo Jedi si era stancato dei suoi trucchi mentali.
Tanto meglio.
La lama laser calò nella sua direzione dall’alto verso il basso, diretta al suo braccio. Zam lasciò di colpo i comandi dello speeder e si scansò, uscendo con un’unica mossa dalla cabina di pilotaggio mentre il vetro, surriscaldato, esplose in un inferno di schegge. Si portò in equilibrio sul velivolo, a meno di un braccio di distanza dalla punta dell’arma, e sotto i suoi piedi lo speeder fluttuò in maniera disordinata guidato solo dagli stabilizzatori interni. Ancora una volta la testa le volò al blaster bloccato alla cintura, ma era chiaro che il ragazzo le avrebbe rimandato indietro il colpo deflettendolo con la spada. Gli occhi chiari di lui la scrutarono, senza dubbio alla ricerca di qualcosa che potesse identificarla. “Stai con quegli schifosi Separatisti, vero? Ti ha pagato quel venduto di Dooku?”
Zam inchiodò le proprie iridi alle sue, comandandogli attenzione. Non avrebbe fatto il nome del suo compagno nemmeno sotto tortura, ma nonostante il cuore le stesse gridando di paura capì che poteva portare lo Jedi al suo gioco.
“Vai a limonare con un Hutt, Jedi”
E, costringendosi a tenere gli occhi aperti, si buttò.



Non ebbe il coraggio di contare di quanti piani fosse scesa, forse aveva anche gridato per il terrore; non aveva ancora urtato nessuno speeder nella caduta, e di certo il deflettore portatile che aveva acceso non le sarebbe servito a nulla se si fosse schiantata sul muso di un velivolo, ma nel volo trovò quello che le serviva. 
Una rientranza, a meno di venti metri sotto di lei, probabilmente un’area aperta per dei ricevimenti. 
Qualcuno, da lì, gridò vedendola cadere in quella direzione.
Delle luci lì sotto la abbagliarono, e strinse i denti sapendo che sarebbe stata la sua unica opportunità. Ormai a dieci metri di distanza assunse la forma di un Dug, obbligando ogni singolo muscolo del suo corpo ad obbedirle, ed aprì le dita prensili delle mani e dei piedi; fece saettare i lunghissimi arti in direzione della balaustra, una distanza inarrivabile per le sue braccia normali, e si aggrappò ad essa sentendo tutto il dolore della caduta attraversarle le articolazioni come un colpo di blaster sparato nelle spalle. Una simile mossa avrebbe sgretolato le articolazioni ed i legamenti di una qualsiasi altra razza, ma la cartilagine Dug resse il colpo e per una frazione di secondi rimase in aria, appesa alla balaustra, sentendo l’aria tornare a riempirle i polmoni dopo l’impatto mentre un paio di creature in abito elegante corsero verso di lei, gridandole qualcosa che la sua testa non era chiaramente in grado di percepire.
Il pizzicare dentro la sua testa tornò a farsi sentire, e nonostante il volo capì che non poteva permettersi il lusso di tirare il fiato.
Si tirò in piedi con un unico salto, spingendo con due calci ben assestati i suoi eventuali soccorritori. Una Tabaxi miagolò di sorpresa e fece cadere il suo drink a terra, ma Zam scavalcò lei e gli altri commensali in un paio di mosse, diretta verso la porta a vetri che conduceva all’interno; due droidi fecero per bloccarla e stavolta estrasse l’arma dalla fondina, fulminandoli entrambi.
Quando uscì, ritrovandosi in un corridoio anonimo, notò che non vi erano olocamere di sicurezza e prese la forma di una Twi’lek.
Prese a muoversi a passo svelto dentro l’edificio, sentendo dentro di sé la presenza dei poteri mentali jedi accrescersi d’intensità, come se stesse provando a mettersi in contatto con lei. Chiese ad un droide protocollare l’uscita e si infilò dentro il primo ascensore a portata incurante che fosse già abbastanza pieno. Scese di oltre dieci piani, costringendosi a calmarsi ed a pensare ad uno spostamento di fuga: l’unico pensiero fisso fu quello di sportarsi diametralmente opposta all’hotel dove Jango stava ancora dormendo. Riconobbe dall’olografia interna dell’ascensore il settore B75 e tirò un respiro di sollievo riconoscendo il luogo; una donna umana le strizzò il didietro con fare ammiccante, ma Zam le diede una spallata e non appena le porte dell’ascensore si aprirono si buttò all’esterno, respirando l’aria sporca e nera a pieni polmoni. La presenza dello Jedi aleggiava dentro di sé, seppure con minore intensità, e decise di approfittare di quell’improvviso vantaggio.
Situato un centinaio di piani al di sotto degli alloggi governativi, il settore B75 anche nel cuore della notte scintillava di vita proprio come i settori governativi in pieno giorno, illuminato dai cartelloni al neon che sfoggiavano le nuove bevande analcoliche proposte da Twi’lek in costume di bagno. I camminamenti da un edificio all’altro erano illuminati di verde e azzurro, seguendo le olografie pubblicitarie, e lungo tutte le balconate si intrecciavano piedistalli a reazione che fluttuavano da un estremo all’altro popolati da mercanti di rottami e riparatori di droidi di ogni tipologia. Non era uno degli spacci preferiti di Jango -i venditori di Coruscant avevano l’odiosa tendenza ad aumentare i prezzi ad ogni rotazione, costringendoli a delle trattative estenuanti- ma senza dubbio uno dei più forniti, dove talvolta erano scesi per acquistare integratori delle armi della Slave I che non riusciva a reperire nemmeno su Concord Dawn. L’aria artificiale era satura di campi ad elettricità statica che le fecero tremolare i lekku; rendendosi conto di un paio di occhiate rapaci lanciate dai passanti si appoggiò nel sottile spazio tra un negozio e l’altro ed assunse i tratti meno attraenti di una Togruta.
Si guardò intorno, fissando le olocamere. 
Il centro scambi era il posto che chiaramente faceva al caso suo e si mosse in quella direzione, tuffandosi nelle piattaforme e negli ascensori più affollati a disposizione. Per quanto lo Jedi fosse potente non poteva certo percepire la sua presenza ad una distanza eccessiva, e senza dubbio la confusione del settore e le interferenze elettriche avrebbero fatto il resto. Cercò di non pensare al suo compagno nonostante il terrore le stringesse lo stomaco, e mentre i grattacieli sfrecciavano accanto a lei lungo l’ascensore panoramico si ispezionò rapidamente tutto il suo equipaggiamento, staccando la batteria al comlink ed a qualsiasi altro dispositivo che avrebbe potuto tracciarla. Se lo Jedi fosse tornato al Tempio, presso il suo ordine, avrebbero senza dubbio mandato un manipolo di loro alle sue calcagna, e non poteva nemmeno permettersi di prendere in considerazione quell’ipotesi. La presenza del nemico era ormai flebile, ridotta quasi ad un ronzare nell’orecchio, e si fece coraggio quando le porte scorrevoli si aprirono e si ritrovò catapultata nel centro scambi Dahnobi.
La calca che la accolse era impressionante.
Sembrava che qualsiasi razza della Galassia si fosse data appuntamento in quel punto, ed il suo piano di camminare velocemente tra la gente venne archiviato quando una coppia di Twi’lek maschi larghi ciascuno il doppio di lei si fermarono proprio al centro del corridoio per ammirare un nuovo modello di droide astromeccanico che si esibiva oltre una vetrina. Imprecando in zolano si fece strada tra i due pachidermi solo per ritrovarsi invischiata in uno sciame di Toydariani.
Un paio di droidi di sorveglianza controllava l’accesso al centro scambi, ma li superò senza alcun problema e si incamminò verso l’area principale, dove si aprivano i principali negozi e dove senza dubbio la calca sarebbe stata maggiore. Si fece strada in mezzo a gente in fila per un chiosco alimentare, lanciando un’occhiata speranzosa al rumore assurdo che fuoriusciva dagli strumenti musicali di un paio di intrattenitori vagabondi seduti lungo il margine di una fontana da cui usciva dell’acqua olografica. Un avviso le indicò che il parcheggio delle aeronavi e dei velivoli dei clienti era situato nel blocco ovest, due livelli sopra: eludere le olocamere non sarebbe stato complesso e si diresse verso gli elevatori a passo serrato.
Il dolore che le attraversò il cervello da parte a parte fu simile ad una coltellata.
Si portò di nuovo le mani alle tempie e per poco non venne travolta dalla massa di gente. Un umano gigantesco la spinse e per poco non cadde a terra, tenendosi a stento in equilibrio mentre gli avventori sembravano una mandria di gundark impazziti davanti ad un rancor. Fece per seguirli, ancora presa dal dolore, ma le parve che le gambe si muovessero a stento, come se qualcosa le stesse afferrando le caviglie e gliele stesse tirando all’indietro.
Lo Jedi era in piedi davanti alla fontana, la mano protesa verso di lei e la spada laser accesa. 
“Affari dei Jedi, signori” disse il giovane, con un sorriso che non presagiva nulla di buono “Il mio compito è recuperare una pericolosa criminale. Potrete tornare ai vostri affari una volta che avrò terminato”.
La folla non parve affatto tranquillizzata, ma per Zam la cosa non aveva più molta importanza. Pur immaginando l’esito, estrasse il blaster dalla fondina e sparò.
L’altro parò il colpo con la lama azzurra senza alcuna difficoltà e se lo vide tornare indietro a meno di due dita dalla faccia, ma bastò: lo Jedi perse per qualche secondo la concentrazione sull’immobilizzarla, e non appena la stretta mancò lei si sentì cadere all’indietro. Prima ancora di toccare terra il cervello le tornò alla festa sulla balconata e cambiò il corpo in quello di una Tabaxi, cadendo in perfetto equilibrio sulle gambe posteriori e pronta a rialzarsi. L’istinto le suggerì di girarsi verso lo Jedi e soffiargli di sfida, e quando mosse la testa vide che la mandria di clienti aveva realizzato un cerchio compatto intorno a lei ed il suo inseguitore, tutti compatti per la paura e le facce illuminate dalla luce della spada. Anche saltando con le gambe di un Tabaxi non sarebbe riuscita a oltrepassare quella massa di idioti, e con la gola secca per il terrore capì che lo Jedi le aveva tagliato le vie di fuga.
Non mi lascia molta scelta …
Non avrebbe svegliato Jango con un bacio, dicendogli che la missione era stata un successo.
Non sarebbero andati a festeggiare sulla Terra I insieme a Boba, come lui aveva sognato.
Le fiamme del Primo Fuoco non avrebbero inciso i loro nomi nel Beskal.
Quando si lanciò contro lo Jedi, gridando d’odio, i suoi arti mutarono ancora una volta, due chele di Tarc dirette verso il suo collo. Le aprì all’unisono ingaggiando battaglia, e scartò all’ultimo quando il nemico sollevò la spada per tagliargliele in due. Il corpo del Tarc era lento e poco maneggevole, ma seguì i suoi desideri: sentì il bruciore della lama sfiorarle la schiena e si tuffò contro le gambe di lui. 
Cercò di afferrargliene una e tranciargliela di netto. Lo Jedi saltò, più veloce di lei, abbastanza da salvarsi la gamba ma non da liberarsi del tutto dal suo gioco. Zam infilzò una chela dentro la tunica, bloccandogli il salto a metà: l’umano non rovinò a terra, ma perse l’equilibrio per quei pochi secondi che le bastarono per attuare il suo piano. 
Forte della propria mole, la abbatté di peso sullo Jedi, spingendolo verso la fontana. Lui non perse la presa sulla spada laser -sarebbe stata folle anche solo a sperarlo- ma premette tutto il suo corpo pieno di scaglie sulla sua spalla destra e rimase inchiodata lì sopra con tutto l’odio che aveva in corpo, premendo anche con l’arto sinistro finché il rumore delle ossa spezzate non le riempì le orecchie di gioia. Il suo assalitore gridò e provò a contorcersi, ma per tutta risposta lei gli rivolse il muso dalle zanne acuminate contro la faccia. Soppresse il desiderio di uccidere quel bastardo -non poteva attirare su di Jango l’occhio degli Jedi più di quanto non avesse fatto- e con la chela libera lo afferrò per la tunica, lo lanciò contro una vetrina e si tuffò nella direzione degli elevatori di nuovo riprendendo le lunghe gambe dei Dub senza nemmeno voltarsi quando sentì il corpo del nemico infrangersi sul vetracciaio.
Non aveva fatto nemmeno cinque passi che l’aria le mancò dalla gola.
Si portò le mani al collo, cercando l’ossigeno, e perse la presa sulla trasformazione non appena cercò di portarsi ancora avanti, fossero stati solo pochi metri.
“Hai cercato di assassinare Padmé, maledetta”
Le orecchie le fischiavano all’impazzata, eppure la voce dello Jedi le si piantò nella testa come se fosse l’unica cosa che il suo cervello potesse captare. Cercò di sparargli ancora una volta, ma non riuscì nemmeno a voltarsi.
La fame d’aria sembrò spremerle i polmoni fino a che il dolore si confuse col bisogno di sopravvivere. 
“È quasi un peccato che debba consegnarti viva”.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Il diavolo è nei dettagli ***


Capitolo 12 - Il diavolo è nei dettagli







Freki








I resti del piccolo convoglio da trasporto erano sparpagliati tra le piattaforme del quindicesimo e del quattordicesimo livello, ad appena qualche blocco di distanza dal punto in cui Vexen e Freki erano sfuggiti per un soffio alla polizia di Coruscant.
A Vexen ricordava la carcassa di un animale sventrato. Solo che in quel caso i cacciatori non si erano limitati ad abbattere la preda, ma avevano sfogato tutta la loro rabbia sulle sue spoglie, facendole a pezzi e spargendo ovunque arti e brandelli di interiora.
“Deve essere stata colpita in pieno dalle torrette orbitali.”
Si sporse con cautela dal bordo della piattaforma per osservare i livelli inferiori. Sotto di lui il cimitero di circuiti e frammenti di metallo si estendeva a perdita d’occhio sui camminamenti arrugginiti, ma i pochi passanti frettolosi non sembravano prestarvi particolare attenzione. A quell’ora della mattinata, a ridosso del pranzo, i Bassifondi erano più quieti del solito. Sarebbero progressivamente tornati a brulicare di attività con il calare delle tenebre.
“Non solo quello.”
Freki emerse dal relitto della cabina di comando strofinandosi le mani con un panno di tela. Portava la giacca di pelle legata intorno alla vita e le maniche della casacca arrotolate fino al gomito. Sui pantaloni esibiva diverse chiazze di un nero oleoso.
“Anche predoni e rivenditori di rottami hanno fatto la loro parte. Tutti i pezzi di valore o ancora utilizzabili sono stati portati via.”
Era stata zia Layla, la mirialan proprietaria della Discarica, ad indirizzarli sulla pista giusta. Un cliente affezionato le aveva regalato un set di giunti di potenziamento esausti da aggiungere alle decorazioni sulla facciata del locale, spiegando di averli trovati sul luogo d’impatto di un trasporto extra atmosferico abbattutosi nel settore soltanto il giorno prima. Le coordinate dell’incidente erano incredibilmente vicine al punto in cui Freki avrebbe dovuto incontrare i suoi misteriosi contatti.
“Ricapitoliamo.”
Un paio di passi e la donna gli fu accanto sul bordo della piattaforma, le braccia conserte e lo sguardo pensieroso.
Immettendo poche chiavi di ricerca nel fedele datapad, Vexen aveva scoperto che la misteriosa mercenaria apparteneva alla specie dei pantorani, umanoidi originari della luna Pantora, satellite di un pianeta ghiacciato dell’Orlo Esterno; tuttavia, erano relativamente diffusi in tutta la Galassia conosciuta. Le nuove informazioni acquisite non lo aiutavano a fare luce sul mistero della sua involontaria compagna di viaggio, ma ogni briciolo di conoscenza in più rappresentava pur sempre una piccola dose di potere che sarebbe potuta tornare utile in futuro.
Freki iniziò ad enumerare sulle dita i pochi dati in loro possesso. “Trasporto anonimo e senza insegne. Probabilmente i miei contatti si fingono una comune nave privata. Magari dei turisti in visita. Qualcosa però non funziona: forse gli scan della sicurezza planetaria rivelano il numero di serie di una nave rubata, oppure il trasporto non rispetta i protocolli di atterraggio, o ancora l’analisi del navicomputer identifica una provenienza sospetta. Se la procedura corretta è stata eseguita, avranno chiesto loro di identificarsi e di prepararsi a un abbordaggio da parte delle forze di polizia…”
Lo sguardo di Freki scandagliò i pochi quadrati di cielo appena visibili oltre le cime lontanissime dei grattacieli. Aggrottò le sopracciglia, forse rincorrendo con la mente gli ultimi attimi di vita della nave che giaceva a pezzi ai loro piedi. Vexen alzò gli occhi quasi di riflesso, imitandola, ma l’unica cosa che lo colpì fu un’improvvisa e soverchiante sensazione di soffocamento. Decine di chilometri sopra le loro teste, i tronchi dei grattacieli sembravano incurvarsi come enormi avvoltoi di cemento e duracciaio, fissandoli torvi da altezze vertiginose. Vexen si sentì minuscolo e in trappola, e la sensazione non gli piacque per niente.
“... e non ricevendo una risposta soddisfacente, avranno fatto fuoco.”
“Senza poi venire a sequestrare il relitto?” domandò Vexen con una sfumatura di dubbio.
Freki si limitò a fissarlo con un sorrisetto enigmatico. Due linee sottilissime balenarono per un attimo ai lati delle labbra, testimonianza di un’età più matura di quel che poteva apparire in un primo momento.
“Te l’ho detto. Gli imperiali non scendono nei Bassifondi. Questo è il regno dei Sindacati.”
Ancora quella parola, sospesa nell’aria tra di loro come una minaccia spettrale e sinistra. Sindacati. Vexen avrebbe puntato i suoi (inesistenti) crediti sul fatto che anche Freki facesse parte di uno di essi, ma un dettaglio non tornava. La sera prima, quando le aveva medicato le ferite, non aveva trovato tracce di tatuaggi sulle braccia o sul petto. Certo, avrebbe potuto portarlo in un punto più nascosto del corpo, tuttavia… non gli era sembrato che gli altri criminali facessero particolari sforzi per nascondere il marchio sulla propria pelle e, di conseguenza, la propria affiliazione. Tutt’altro. Lo sfoggiavano con l’ostentazione di bestie che spargono il proprio odore per marcare il territorio.
“Direi che non c’è più molto altro da fare, allora.” Vexen cercò di riportare la concentrazione sul problema del momento. ”Abbiamo trovato i tuoi contatti e scoperto perché non si sono presentati all’appuntamento. A questo punto credo che tu non abbia più bisogno di me.”
Freki si strinse nelle spalle. “Forse.”
Il suo volto restava inespressivo, il tono di voce neutro. Non sembrava minimamente turbata dal totale e catastrofico fallimento della sua missione. Doveva essere una professionista, abituata a gestire situazioni impreviste e maestra nel mascherare le proprie emozioni. Ciò rafforzava l’ipotesi che fosse un membro dei Sindacati… oppure un qualche genere di spia.
Ma per chi lavorava?
Lei si girò nuovamente a guardarlo: “I corpi dei membri dell’equipaggio potrebbero avere ancora dei segreti da rivelare… per chi sa come interrogarli.”
Di nuovo quel sorrisetto, stavolta condito da una punta di sfida e da uno scintillio negli occhi d’ambra. Di certo si stava domandando se aveva ingaggiato il medico giusto per l’incarico.
Vexen raccolse la sfida con un cenno silenzioso e le sopracciglia aggrottate, assottigliando appena le labbra.
Gliel’avrebbe fatta vedere.
“Io intanto cerco di scansionare ciò che resta del navicomputer” disse ancora Freki, ma Vexen già le aveva voltato le spalle.
Qualcuno dei precedenti “visitatori” del relitto gli aveva già fatto il favore di radunare i corpi in un unico punto, accanto al corpo principale del trasporto distrutto, dove si distingueva la carcassa contorta e annerita della cabina di pilotaggio. Cinque creature in tutto: tre umani, un twi-lek e una creaturina dalle larghe orecchie e il muso porcino di cui Vexen non riconosceva la specie.
Nessun mistero sulle cause della morte: le ossa fracassate e gli abiti carbonizzati raccontavano in maniera più che eloquente la violenza dello schianto.
Vexen si inginocchiò con cautela in mezzo ai detriti per osservare più da vicino. Il poco che rimaneva dei vestiti dei cinque era quanto di più anonimo si potesse trovare in quell’angolo della Galassia. Vexen non si lasciò scoraggiare: girò i corpi uno per uno, sollevò gli arti, esaminò i denti alla ricerca di capsule nascoste. Frugò in quel restava di tasche e cinture, controllò persino negli stivali.
Era sul punto di imprecare per la frustrazione quando la testa di uno degli umani si rovesciò su un lato a causa di un suo movimento brusco. E allora lo vide. La forma del padiglione auricolare, non arrotondata come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma leggermente appuntita nella parte superiore. Colpito da una rivelazione improvvisa, Vexen afferrò il volto del cadavere e lo girò delicatamente. Zigomi alti, viso triangolare dai tratti fini, quasi scolpiti; i capelli erano bruciacchiati e stopposi, ma di colore chiaro e incredibilmente folti e sottili.
Non c’erano dubbi. Quella vittima non apparteneva alla specie degli umani.
Era un elfo.
Gli elfi provenivano da un solo pianeta in tutta la Galassia conosciuta: la Terra II.
Ed erano tutti membri dell’Alleanza Ribelle.
Vexen lasciò andare il viso dell’uomo e represse un brivido, come se si fosse accorto solo in quel momento di aver messo le mani su un cadavere. La lingua, improvvisamente secca, gli si incollò al palato.
Freki era con la Ribellione. Una di loro, o una collaboratrice. Un contatto.
Sussultò accorgendosi che lei gli era arrivata alle spalle, e sperò di non essere impallidito troppo quando si girò guardingo per osservarla.
Quanto sapeva di lui? Era stata inviata dall’Alleanza per dargli la caccia e riportarlo legato e imbavagliato sulla Terra II?
“Forse ho trovato una pista.”
Freki non sembrava far caso alla sua agitazione. Si era seduta su un grosso pezzo di rottame e gli mostrava un oggetto di forma cilindrica, nero e con dei fori da cui si dipanavano dei cavi tranciati. L’unico cavo ancora integro collegava l’oggetto misterioso al datapad di Freki, il cui schermo illuminava di bagliori continui il viso della sua proprietaria. Vexen allungò il collo e scorse lunghe stringhe di lettere e cifre che scorrevano troppo rapidamente perché i suoi occhi riuscissero a dare loro un significato.
“Sono i resti della scatola nera. L’equipaggio ha cancellato i dati anche da qui, ma ci sono modi per recuperarli… con le giuste conoscenze informatiche.”
Vexen si tirò su, scuotendosi la polvere dalle ginocchia. Si sedette accanto alla donna ostentando un moderato disinteresse, ma gli ingranaggi della sua mente avevano cominciato a girare in modo frenetico.
Conoscenze informatiche. Una spia dell’Alleanza, dunque.
No, non era possibile che cercasse lui. Non doveva farsi prendere dalla paranoia. Se lo scopo di Freki fosse stato catturarlo avrebbe avuto mille occasioni per provarci. Avevano dormito nella stessa stanza, dopotutto.
Le fece un cenno di assenso, invitandola a proseguire.
“I dati che ho recuperato sono corrotti e incompleti. Sono riuscita però a individuare i nomi dei membri dell’equipaggio. Tutti falsi ovviamente, per aggirare i controlli imperiali. Il punto però è un altro: i nomi sono sette.”
Vexen sgranò gli occhi. “E noi abbiamo solo cinque cadaveri.”
D’istinto prese a guardarsi intorno, come se da un momento all’altro le due persone mancanti potessero sbucare da sotto le masse di rottami per gettarsi su di loro a blaster spianati.
“Nulla ci garantisce che siano sopravvissuti, ma… “
“... potremmo interrogare i rivenditori di rottami per scoprire qualcosa” completò lei, e per la prima volta Vexen colse una sfumatura di entusiasmo nella sua voce. “So dove trovarne alcuni.”
Era già in piedi e stava riponendo il datapad in una tasca dei pantaloni quando si bloccò improvvisamente, colta da un pensiero improvviso.
“E tu? Scoperto qualcosa di interessante sui corpi?”
Stavolta fu Vexen a sfoderare un sorrisetto ambiguo, sollevando appena un angolo della bocca.
“No. Nulla di nulla.”

 
 




La cella in cui lo avevano rinchiuso era un vecchio magazzino che puzzava di umidità e olio secco di macchinari non più in uso; l’aria giungeva a lui grazie ad un sistema di aereazione vecchio e rumoroso, che spargeva nell’aria un ronzio fastidioso insieme alla polvere che vi si era accumulata nei filtri e che nessuno aveva mai avuto voglia di pulire.
Zexion cercò di respirare il meno possibile.
I metalli pesanti non venivano estratti in quel settore, ma il pulviscolo sottile giungeva persino in quella cella, rendendogli la testa pesante. Cercò di chiamare a sé il poco controllo dell’aria che possedeva, ma oltre ad ottenere un lieve refolo di aria pulita per più di due minuti non riuscì a fare.
Erano trascorse quasi ventiquattro ore da quando i soldati di Saruman lo avevano rinchiuso lì dentro, ed a parte un vecchio droide che gli aveva passato del cibo -mentre una guardia lo teneva sotto tiro- sembrava che il resto della guarnigione si fosse dimenticato della sua esistenza. Aveva provato a dormire un po’, ma la difficoltà nel respirare e nel percepire gli odori si faceva sentire come un bruciore soffuso al centro del petto e nella gola che era certo sarebbe aumentato nel corso delle ore a venire. Aveva camminato su e giù lungo il perimetro della cella per riattivare la circolazione, ma ad ogni passo la guardia puntava il blaster contro la sua persona e questo lo innervosiva.
Una barriera laser spessa quanto il palmo della sua mano lo separava dall’ambiente esterno e si ritrovò leggermente a sobbalzare quando questa si abbassò poco dopo il terzo cambio della guardia e ne emerse una figura seguita da un manipolo composto da sei assaltatori.
L’odore del comandante che lo aveva fatto arrestare gli giunse prima ancora di vedere il riflesso della barriera lungo le sue mostrine rosse.
“Signor Whiteflame, sempre che ormai sia questo il suo vero nome …”
Zexion fece un passo in avanti, facilitando il proprio riconoscimento. Strizzò gli occhi per leggere il nome sulla targa dell’uomo, ma vi era soltanto una serie di cifre e numeri che non gli avrebbe mai permesso di rivolgersi a quella persona in maniera più pacata. Questo si fece portare un pad, lo stesso con cui aveva analizzato i suoi dati durante il loro primo incontro. “… abbiamo contattato la MinoTech Inc. E non ci risulta nessun convoglio diretto ad Onoam negli ultimi anni, men che mai una donazione …”
“Ci deve essere un errore, io …”
“Né tantomeno alcun dipendente che corrisponda al nome di Ienzo Whiteflame. O alla sua fotografia”.
Il ragazzo deglutì.
Sapeva che sarebbe arrivato quel momento.
Il calcio del blaster lo colpì alla tempia, facendolo cadere riverso tra le casse. Inarcò la schiena per provare a rimettersi in piedi, ma una guardia del drappello venne verso di lui, gli afferrò le braccia e gliele torse con violenza dietro la schiena. Gli altri si fecero avanti, e tutti gli puntarono l’arma al petto.
Il comandante si fece di nuovo avanti, e dalla sommità del suo blaster un puntatore luminoso si accese e venne portato dritto contro i suoi occhi, abbagliandolo. Cercò di scuotere la testa, ma l’assaltatore che lo teneva immobilizzato bloccò anche quel movimento. “Il che fa di lei un contrabbandiere. O, peggio ...”
Zexion sentì il rumore della sicura dell'arma che veniva sganciata.
“… un Ribelle”.
“Non sono un Ribelle!”
“Chiunque darebbe questa risposta” tagliò corto il comandante. “Ma i suoi documenti sono contraffatti, ed a meno che lei non abbia una scusa molto, molto convincente in serbo saremo costretti ad arrestarla. Prima lei, e poi qualcuno dei suoi amici minatori. Tanto per farvi capire che l’Impero non scende a patti con voi parassiti”
Il ragazzo maledì dentro la propria testa i Servizi Segreti e tutti quelli che avevano pianificato quella dannatissima operazione; le orecchie ancora fischiavano per il colpo ricevuto, e per quanto cercasse una risposta convincente il cervello sembrava bloccato in una prigione di cotone. Prese una boccata d’aria, ed il sapore della polvere si unì a quello della sua lingua già impastata. Cercò di dirgli ancora una volta di non avere nulla a che vedere con l’Alleanza Ribelle, ma quello che gli uscì fu un sonoro colpo di tosse e la sensazione che qualcosa gli stesse grattando fin sul fondo della trachea; quando fece per alzare la testa si ritrovò il blaster del capitano premuto alla base del collo. “Io dico che qualche ora con i nostri droidi inquisitori potrebbe risolvere la faccenda nel più rapido tempo possibile, signor Whiteflame” fece. Ad un suo cenno due assaltatori si staccarono dal gruppo. “Accompagnatelo nei blocchi di detenzione di superficie. Fate rapporto non appena si deciderà a parlare”.
Zexion non provò nemmeno a divincolarsi quando venne afferrato per un braccio e spinto in avanti. La canna dell’arma di uno dei soldati gli premette subito dietro la schiena, e non ci volevano anni ai Servizi per sapere che i soldati imperiali erano molto più propensi a sparare al primo movimento sospetto che non a chiedersi cosa stesse succedendo. La testa continuava a scoppiargli e seguì i due uomini un passo alla volta, cercando di non innervosirli ed allo stesso tempo di non inciampare nel pavimento accidentato della miniera.
L’ascensore verso cui lo trascinarono era diverso da quello che aveva usato per scendere, e nettamente più angusto. Vi entrarono a stento, ed al ragazzo non sfuggì il fastidioso dettaglio che adesso l’arma era realisticamente piantata tra due costole e che sarebbe bastato il benché minimo sobbalzo per ricevere una scarica mortale. Inspirò ancora quando le porte si chiusero e l’ascensore iniziò a salire nel silenzio più totale; gettò un’occhiata verso destra nel tentativo di contare almeno il numero di piani percorsi, ma la guardia che lo teneva sotto tiro premette ancora di più, costringendolo a fissare la parete metallica davanti a sé e la propria immagine riflessa che ricordava più un pupazzo abbandonato nel deserto di Tatooine da giorni che non una persona.
Poi, con un sobbalzo secco, l’ascensore si fermò.
Trascorsero circa dieci secondi (in cui Zexion sentì il proprio cuore martellargli nel cervello all’impazzata) quando il comlink di uno degli assaltatori emise un suono e l’uomo si portò la mano al casco per ricevere la chiamata. Ne seguirono dei suoni incomprensibili, ma quello chiuse la comunicazione con un cenno del capo.
“L’ennesima cella energetica scarica” disse al compagno. “Mandano un droide ad aprirci. Passiamo per i corridoi di manutenzione”
La scarsità d’aria prese a farsi sentire. Zexion annaspò, cercando di catturare il proprio elemento per recuperare un po’ di forze, ma le gambe iniziarono a tremargli.
Non era mai stato sottoterra per così tante ore in tutta la sua vita, e gli ritornò in mente l’espressione che aveva visto anni addietro sul viso di Xaldin quando, nel corso di una missione, era stato costretto ad accompagnare Lexaeus sotto terra per recuperare qualcosa per conto del Superiore. La faccia dell’elementale dell’aria era congestionata, ed era rimasto per ore in osservazione nel loro laboratorio mentre suo zio cercava di applicargli delle maschere per erogare ossigeno. All’epoca era solo un bambino, ma si era sempre ripromesso di non andare mai in una caverna o nel cuore di una montagna.
Quando lo avevano proposto per questa missione su Onoam non gli era stato ovviamente dato modo di rifiutare.
“Finalmente”
L’ascensore si mosse ancora per un paio di metri verso l’alto, poi dalle porte venne un fischio alto, come se qualche macchinario fosse stato acceso al massimo della potenza. Nell’intercapedine comparve una leggera esplosione di scintille che lasciò un segno scuro sull’armatura di uno degli assaltatori mentre dei dischi magnetici dall’esterno vennero inseriti nello spazio.
Quando le porte si aprirono il suo olfatto non fece in tempo a ringraziare per lo spiraglio d’aria che un segnale di pericolo gli esplose nel corpo. D’istinto si spinse ancora di più contro la parete dell’ascensore mentre qualcosa entrò violentemente nel suo campo visivo e si abbatté contro gli assaltatori.
La scarica di una picca ad energia mandò un’ondata di calore e scintille viola quando si conficcò alla base dell’elmo di uno dei soldati imperiali che mandò un grido assurdo. Il ragazzo trattenne a stento lo stomaco dal vomitare per l’odore di bruciato che partì dall’uomo mentre crollava a terra; l’altro soldato mandò un’imprecazione e fece partire un colpo, ma nonostante lo spazio angusto la picca roteò contro il suo blaster che sparò la scarica al plasma ad un palmo dal punto in cui si trovavano le gambe di Zexion. L’ascensore vibrò pericolosamente e d’istinto il ragazzo cercò con le mani qualcosa a cui aggrapparsi, ma la superficie era liscia e le sue dita si appiattirono convulsamente contro il metallo. La figura che manovrava la picca approfittò del vantaggio e con una sola mano saettò verso il collo del soldato, afferrandolo e spingendolo con violenza fuori dall’abitacolo; quello abbandonò la presa sulla propria arma e cercò di difendersi, spintonando a sua volta l’aggressore, ma qualcun altro dal fondo del corridoio di manutenzione gridò un ordine ed una seconda raffica di laser si abbatté sul soldato imperiale prima che potesse andare sul serio all’attacco.
Ne seguì prima un silenzio innaturale, poi la figura armata venne nella sua direzione. Gea, con ancora la picca in mano, usò il braccio ancora libero per sostenerlo prima che il suo corpo si facesse venire la malaugurata idea di svenire come un pivello. “Dì la verità, ragazzo, ti abbiamo fatto prendere un bello spavento!”
Annuì, cercando di sporgersi in avanti per fare sua la poca aria che filtrava nel corridoio. La donna se ne accorse, perché continuò a sorreggerlo anche quando superarono i corpi degli assaltatori; dal punto in cui era apparsa fecero capolino altri tre minatori, tutti armati, che ad un suo cenno si avvicinarono agli imperiali e levarono loro l’elmo, verosimilmente staccandone i comlink.
Per quanto Zexion avesse visto quella donna solo diverse ore prima non si era accorto di quanto fosse enorme, visto che tutti i suoi sottoposti le arrivavano con difficoltà al collo. “Vi ringrazio” sussurrò, rendendosi conto di quanto sembrasse debole la sua voce “State correndo un bel rischio. Gli Imperiali lo verranno a sapere”.
“A confondere loro le idee siamo piuttosto bravi, ma grazie per il pensiero” sogghignò lei. Si agganciò la picca contro un fianco e prese a muoversi lungo il percorso. Le luci d’emergenza erano fioche e Zexion a malapena riusciva a delineare le forme intorno a sé, ma la donna si muoveva con la sicurezza di chi conoscesse ogni singolo granello di polvere di quel condotto. “Dopotutto hai rischiato tu per primo portandoci quel carico”.
Il ragazzo deglutì.
Ogni parola, da quel momento in avanti, sarebbe stata vitale. “Ho semplicemente eseguito gli ordini della MinoTech. Non ho idea di cosa sia andato storto”.
“Suvvia ...”
Fu certo di vedere il sopracciglio di lei alzarsi “… su una cosa il comandante di quelle teste di latta ha ragione. Da quando in qua i colossi della finanza ascoltano le suppliche di qualche minatore su una luna sperduta dell’Orlo Intermedio?”
“Dunque da dove crede che vengano tutti quei macchinari?”
Si fermò.
Lasciò che il suo olfatto facesse il suo lavoro, ed anche nella polvere e nel sudore dei loro corpi riuscì ad ottenere ciò che stava cercando. Lei abbandonò la presa e si fermò davanti a lui, incrociando le braccia con fare di sfida. “Dalle uniche persone che aiutano senza chiedere nulla in cambio”.
Zexion sorrise.
“Certamente. Ma di certe cose è bene parlarne in privato, giusto?”
“Mi piace come ragioni, ragazzino” disse, assestandogli una pacca alla spalla così forte che per un attimo gli fece rimpiangere la canna del blaster tra le costole. “Benvenuto tra noi!”

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Lontano da te ***


Capitolo 13 - Lontano da te







Jango Fett








Boba conosceva a memoria i ronzii della Slave. Non come suo padre, ovviamente, ma più di una volta aveva strappato un suo sorriso di approvazione quando riusciva a percepire il fischio di una valvola da pressurizzazione allentata o il cedimento di una piastra prima ancora che venissero segnalati dal quadro comandi.
“Secondo me c’è qualcosa che non va al cannone destro, pa’ …”
Aguzzò l’orecchio, sforzandosi di dare il massimo. I cannoni della Slave I facevano un ripristino automatico del caricamento al plasma ogni otto minuti, ed era da quando avevano lasciato Kamino che il suono alla sua destra giungesse con un leggero ritardo rispetto a quello di sinistra. Affondò ancora di più nella poltrona da copilota, fissando suo padre alla propria destra con lo sguardo fisso nello spazio.
L’apprezzamento desiderato non arrivò.
“Pa’ …?”
Voltò lo sguardo oltre il finestrino, alla ricerca di cosa stesse occupando l’attenzione di suo padre. La sagoma di un pianeta si stagliava a diversi parsec di distanza, ma oltre quello non riusciva a vedere navi avversarie, asteroidi, qualunque cosa che potesse distrarre suo padre dal lodarlo come faceva sempre.
Non era la prima volta che lasciavano Kamino in fretta e furia, lasciandoselo alle spalle per qualche giorno quando suo padre si rendeva conto di avere dei cacciatori rivali alle calcagna; ma nelle altre volte lo sguardo di Jango era sempre nervoso, spesso a scatti, e le sue mani volavano freneticamente sulla consolle dell’aereonave per seminare questo o quell’inseguitore.
Lo chiamò di nuovo flebilmente, senza risultato.
Il computer della Slave lo avvisò che il pianeta in avvicinamento si chiamava Geonosis: Boba cercò di concentrarsi sul colore rossastro e sui cinque anelli che lo avvolgevano, ignorando di proposito la voce artificiale della nave che forniva dati non richiesti sulla gravità del posto e sulla percentuale di ossigeno ed anidride carbonica presenti nell’atmosfera. Non vi erano mai stati fino ad ora, né gli era parso di sentirlo nominare da suo padre negli ultimi tempi. Ma dopotutto Jango non gli aveva fornito alcuna spiegazione da quando era tornato da quella missione su Coruscant, ed aveva imparato negli anni che suo padre parlava soltanto quando era necessario.
La mano dell’uomo si strinse sulla sua.
Boba trattenne il fiato, sbirciando da sotto i capelli l’espressione immobile di suo padre, i denti serrati e gli occhi ancora fissi davanti a sé.
Lasciò lentamente che guidasse la propria mano, e con delicatezza si ritrovò a stringere la cloche centrale, quella che regolava l’atterraggio e l’abbassamento di quota. Ne sentì la forma leggermente troppo grande per il suo palmo, tiepida nonostante il metallo.
Guidato dal tocco di suo padre, invitò la Slave I ad atterrare, senza trattenere un sorriso di gioia.
Solo in quel momento notò che al polso di Jango era avvolta una strana collana: era fatta di sottili anelli di beskal, e da sotto vi ricadeva un unico pendente con dei cristalli kyber incastonati.
 
 
Era passata oltre un’ora da quando Jango era entrato in quella stanza. Ora in cui Boba aveva provato ad origliare alla porta, ma la spessa lastra di pietra che conduceva agli alloggi del Conte Dooku sembrava impedire anche ai suoni più violenti di uscire, facendolo desistere. Stava per frugare nella propria sacca da viaggio alla ricerca di una consolle portatile quando suo padre uscì, l’elmo che gli copriva il volto ed il passo senza dubbio più sicuro di quando erano scesi dalla Slave sulla superficie di Geonosis. Con un cenno della testa gli ordinò di seguirlo, ed i due si incamminarono lungo la sottilissima scala spiraleggiante che conduceva alla base della piramide alveare che il Conte Dooku, capo dei Separatisti, aveva scelto come quartier generale.
“Ti hanno detto qualcosa, pa’?”
“Non è mai piacevole ammettere di aver fallito una caccia, Boba” rispose, rallentando il passo per permettergli di venire vicino. “Ma, dopotutto, si trattava di uno Jedi. Il Conte ci ha permesso di rimanere qui finché le acque non si saranno calmate”.
Boba guardò fuori dall’edificio: per quanto il terriccio rossastro e sabbioso di Geonosis fosse una novità rispetto al turbinare del mare e dei venti di Kamino, aveva già il sospetto che in quel luogo non ci sarebbe stato molto da fare. Aveva adocchiato qualche fabbrica di droidi non lontano da dove avrebbero dato loro degli alloggi, ma le macchine erano molto meno divertenti dei cloni e lo annoiavano. Sull’olonet aveva sbirciato che nelle regioni meridionali del pianeta vi erano delle intere pianure adibite alla caccia dei nexu, ma aveva il sospetto che suo padre non lo avesse portato su quel pianeta per esercitarsi col blaster. Con uno sbuffo gli venne vicino, ripromettendosi di chiederglielo tra qualche giorno. “Zam ci raggiungerà qui?”
Jango si bloccò.
Boba si accorse di averlo sopravanzato di almeno cinque o sei passi prima di fermarsi e guardare nella sua direzione. Sotto il casco non poteva vederne l’espressione, ma c’era qualcosa nelle sue spalle che lo spaventò. Anche con l’intera armatura addosso vide che scattarono di colpo, come se qualcosa lo avesse disturbato.
E poche cose nella Galassia potevano disturbare suo padre.
“Non credo, Boba…” mormorò “… non credo”
Il ragazzo sapeva riconoscere quando un argomento era chiuso.
Ripresero a camminare qualche istante più tardi, e per evitare quello scomodo silenzio che si era creato Boba accese la piantina olografica che gli aveva dato un inserviente geonoisano e prese a cercare l’alveare in cui avrebbero trovato l’alloggio assegnato. Era certo che suo padre sapesse benissimo dove avrebbero dovuto dirigersi, ma camminò lo stesso davanti a lui, cercando di fargli vedere quanto fosse bravo con le mappe anche di luoghi che non aveva mai visto.
Gli alveari geonoisiani avevano una struttura molto simile agli stabilimenti di Kamino: tutti uguali, tutti perfettamente allineati, tutti con delle cellette delle stesse dimensioni.  Ma se i maestri clonatori si vantavano di poter replicare all’infinito ogni cosa, dalle loro stesse esistenze al più piccolo tubo di scarico, il ronzare dei geonoisiani aveva qualcosa di ipnotico che gli faceva pensare che si muovessero senza davvero sapere cosa stessero facendo. Le creature insettoidi volavano intorno a loro, affaccendandosi lungo le impalcature rocciose che mettevano in comunicazione i vari livelli degli edifici.
Sebbene suo padre non accendesse mai l’ologiornale, negli ultimi mesi Boba si era accorto che, quando lui era nell’altra stanza a giocare, talvolta lui e Zam ascoltavano dei notiziari commentandoli a voce più alta del solito. Era chiaro a tutti e tre che i committenti di suo padre per le numerose cacce fossero i Separatisti, ma Jango non era convinto che coincidessero con chi gli avesse commissionato anche il ruolo di matrice dei cloni. I primi cloni kaminoani erano infatti stati imbarcati su navi della Repubblica, dunque non potevano essere stati pagati dai loro nemici Separatisti.
Jango sosteneva sempre che per lui non aveva alcuna importanza, ma era chiaro che Zam non la pensasse allo stesso modo.
“Ci conviene passare per l’arena” disse, almeno per catturare l’attenzione di suo padre. Ingrandì il proiettore olografico, poi indicò il percorso segnato. La mappa consigliava un cunicolo sotterraneo, ma ad un rapido calcolo Boba capì che avrebbero potuto raggiungere i loro alloggi anche passando dall’esterno. Fece scorrere il dito nell’immagine sfrigolante nell’area, mostrando all’uomo il percorso alternativo. “Secondo me potremmo anche fare prima”
“E magari vedere se fanno qualche spettacolo con le belve acklay nell’arena, vero?”
Boba arrossì, un po’ punto sul vivo.
E nulla, suo padre riusciva sempre ad indovinare i suoi secondi fini. Sempre.
Con un gesto di sentì sollevare da terra, e l’attimo successivo si ritrovò al collo di Jango che lo stava abbracciando con tutta la forza che avesse in corpo. Boba si lasciò trascinare in quella stretta improvvisa, trattenendo il fiato.
Non seppe dire quanti secondi fossero passati, felice solo di sentire suo padre così vicino.
Quando si staccarono, però, gli parve che fosse trascorsa più di una eternità.
“Ormai sai leggere una mappa meglio di me, Boba” disse, sistemandosi il casco sul viso. “Immagino proprio che fare un salto all’arena sia la scelta più adatta. Fai strada!”
Il ragazzo sorrise, e lo prese per mano tirandolo un po’.
Raggiunsero l’arena della capitale in meno di dieci minuti. Il sole illuminava il terriccio rossastro, interrotto solo dalle lunghe ombre dei tre pali piantati al centro. Lungo le scalinate normalmente adibite all’accoglienza degli spettatori vi erano soltanto dei droidi di pattuglia ed alcuni nemoidiani che passeggiavano sotto dei baldacchini semoventi, e Boba non nascose il suo disappunto nel sapere che quel giorno non era prevista alcuna esibizione. Osservò le catene che pendevano dai pali, immaginando i prigionieri dibattersi davanti alle belve più forti e sanguinarie della galassia, e fece nota di cercare sull’olonet le date degli spettacoli successivi.
Scese un paio di gradini, saltando da un anello all’altro, e con una mano sugli occhi per proteggersi dal sole guardò verso l’alto, dove il podio d’onore destinato ai nobili ed agli ospiti d’eccezione si proiettava proprio dal lato opposto del cancello d’ingresso per permettere ai privilegiati di vedere l’arrivo delle belve ancora meglio che in un documentario. Anche se, ad essere sincero, forse gli sarebbe piaciuto un posto sugli anelli più bassi della tribuna per godersi meglio tutti i dettagli delle zanne e delle zampe dei mostri.
In assenza di spettacoli le barriere protettive erano abbassate, e Boba atterrò con un salto nel terriccio dell’arena, divertendosi a lasciare delle impronte.
Da oltre il cancello d’ingresso, un verso lungo e alto, simile ad un fischio, attrasse la sua attenzione.
“È una belva Nexu, pa’!” gridò, senza trattenere l’emozione. “Ne sono sicuro!”
“Hai l’udito di un vero cacciatore”.
Jango scendeva le scale lentamente, voltandosi ogni tanto verso qualche droide di servizio. Al suo richiamo si girò, e con un cenno del capo gli indicò l’area dedicata alle gabbie. “D’accordo … puoi andare a vederlo. Ma fai attenzione”
“Sarà fatto”.
Schizzò via verso l’ingresso, e fu ancora più felice quando vide che l’accesso alle gabbie non era interdetto al pubblico. Sentì un altro paio di versi, un altro fischio ripetuto ed un ruggito sommesso, e con un paio di salti superò il cancello con l’olopad acceso e pronto ad immortalare le bestie che aveva visto soltanto nei documentari.
Quello che gli impedì di proseguire, però, fu un silenzio innaturale alle sue spalle. Qualcosa di freddo, strisciante, sembrò lambirgli la mente come il tocco di uno spettro malevolo; perse la presa sul pad, che cadde a terra, e non ebbe idea di quanti secondi avesse trascorso fissando la sua stessa mano aperta a mezz’aria, incapace di riprendersi dallo stupore. Le belve nelle gabbie iniziarono ad emettere dei fischi ripetuti, come infastidite da quella presenza a cui il ragazzo non riusciva a dare una forma, ancora spaventato da quel freddo che gli stava entrando anche nelle mani. Poi, dal silenzio più profondo, sentì la voce di suo padre.
“Un bel trucco da circo, Jedi”.
Il suo blaster si attivò, sganciando la sicura con un click che arrivò fin da lui. “Ma con me dovrai fare di meglio”.
“Arrenditi senza fare storie, mandaloriano, e potrai venire a Coruscant con tutti gli arti al posto giusto” fece una voce che Boba non aveva mai sentito prima.
“E se dovessi declinare l’offerta?”
“In tal caso … in tal caso ammetto che non ne sarei affatto dispiaciuto. Abbiamo un conto in sospeso”.
Boba voltò la testa, cercando di guardare l’area; muovere ogni singolo centimetro del capo era un’agonia, come se il freddo spettrale lo bloccasse sul posto, sospingendolo con una mano a guardare oltre, a fissare le belve nelle gabbie, ma il ragazzo si oppose alla sfida e, lentamente, vide con la coda dell’occhio una figura umana in piedi al centro dell’arena con una tunica scura lunghissima che gli arrivava quasi fino alle caviglie. Era un umano di circa venti o trent’anni, e alla luce del sole la sua ombra sulla sabbia sembrava così lunga e nera da fendere in due l’arena; era come se lo strano freddo che era di colpo calato originasse dalla sua stessa figura ma, come notò con un sottile sorriso, suo padre non ne sembrava affatto scalfito. Jango era sceso dagli anelli, blaster in un pugno, e con dei passi leggeri si era portato proprio davanti ai cancelli, coprendolo all’aggressore. “Per una volta mi trovi d’accordo, Jedi. Che fine hai fatto fare a Zam?”
A quelle parole, Boba trattenne il fiato.
“L’unica che si meritava. E la stessa che farai anche tu, cacciatore” disse.
La morsa che lo attanagliava si allentò. Non del tutto, ma abbastanza da farlo voltare nella loro direzione. Anche dietro l’armatura di suo padre che gli faceva da scudo, Boba vide l’aria intorno allo Jedi saturarsi di energia nel momento in cui dalle sue mani si accese la sagoma luminosa di una spada laser azzurra. “Il vostro tentativo di assassinare la senatrice Padmé Amidala finisce qui”.
“Ancora una volta sono d’accordo. Uccidere la tua senatrice era solo un lavoro come un altro. Con te, Jedi …” mormorò, accendendo i motori dello zaino a razzo “… la questione è MOLTO più personale!”
Quando Jango scagliò il primo detonatore fu così rapido che nemmeno gli occhi di Boba ne seguirono il movimento.
Qualunque cosa stesse trattenendo il ragazzo si dissolse, e Boba si ritrovò a terra con la testa rintronata per l’esplosione; uno scintillio guizzò nella polvere e suo padre si sollevò in aria col jet pack acceso. Uno dei pali delle esecuzioni venne travolto dall’energia termica e l’arena si riempì di un nugolo di schegge tale che per qualche istante coprì persino la sabbia e l’aria tersa. Il ragazzo tossì nella manica, osservando lo schermo in frantumi del pad che gli era caduto a terra, ormai inservibile, e si portò d’istinto le mani alla testa per controllare se quella strana presenza fosse tornata. Dietro di lui gli animali feroci emettevano versi disperati, come impazziti, ma i suoi occhi erano soltanto per l’arena e per le raffiche rosse di blaster che suo padre sparava dall’alto, dirette verso il punto dove fino a qualche istante prima vi era lo Jedi.
La lama azzurra emerse dalla confusione ben distante dal punto in cui Boba la aveva visto l’ultima volta, ed il loro assalitore menava fendenti precisi che rispedivano gli attacchi di suo padre all’indietro. Per un istante Boba ebbe l’impressione che uno di quei colpi fosse riuscito a colpire Jango, ma l’armatura mandaloriana era pensata proprio per queste occasioni; l’uomo appariva e scompariva nell’aria approfittando della sabbia sollevata e del pochissimo vento lungo la superficie geonoisiana, raddoppiando l’incalzare dei colpi con un blaster per mano. Di norma Boba sapeva che suo padre non amava prendere iniziative nella fase offensiva per calcolare meglio le abilità dell’avversario, ma stavolta era chiaro che avesse scelto un altro approccio.
Il giovane si acquattò dietro il cancello, osservando lo scontro sapendo di non essere visibile. Cercò di guardare verso gli anelli dell’arena nella speranza che qualche soldato Separatista venisse ad aiutarli, ma intorno ai due guerrieri non vi era nessuno.
Boba sapeva che solo i migliori Mandaloriani potevano uccidere uno Jedi.
E suo padre era il miglior Mandaloriano esistente, ma …
Una seconda granata, stavolta priva di anticipazione.
Jango scagliò verso lo Jedi uno dei trucchi preferiti di Boba, un contenitore di gas tibanna. L’aria si colorò immediatamente di arancione, ed il ragazzo si coprì il naso e la bocca con la manica per non respirarlo. Sapeva che usarlo in zone ventilate avrebbe potuto trasformarsi in uno svantaggio, ma come al solito suo padre calcolava sempre tutto alla perfezione: il gas rimase in mezzo all’arena, fluttuando sopra la sabbia, ed il quella cortina vide suo padre atterrare e spegnere il jet pack, totalmente al sicuro nella propria armatura.
Senza dubbio lo Jedi non aveva previsto quella mossa, perché Boba vide la sua sagoma scura immergersi ancora di più nel gas con dei movimenti imprecisi, come a cercare di coprirsi a sua volta il naso per non respirarlo, ma suo padre passò immediatamente all’offensiva, liberando le lame a rilascio rapido che teneva fisse nell’avambraccio. Dal suo nascondiglio ne udì il sibilo, ma le vide perdersi nel tibanna arancione.
Non che suo padre potesse mancare un bersaglio.
La lama azzurra saettò nel gas, ma anche da lì sentì il loro assalitore grugnire per il dolore. Jango si spostò, di nuovo frapponendosi tra il suo nascondiglio ed il nemico, ma nello scivolare di lato scagliò una seconda ondata di lame. “Non dovevi avvicinarti a lei, Jedi”.
Ne seguì un altro verso, più basso e distante, che strappò a Boba un sorriso di soddisfazione. La spada laser si spense di colpo, ma anche così suo padre aveva entrambi i blaster puntati verso il centro, scivolando lungo il perimetro degli anelli con la schiena al riparo. Col cuore in gola il ragazzo tese le orecchie e trattenne il fiato, terrorizzato anche solo di spezzare la concentrazione di suo padre; si sporse di poco per cercare la forma vestita di scuro in mezzo al vapore che ancora stentava a ritardarsi, e quando la vide il suo urlo di avvertimento fu coperto dal grido di battaglia dello Jedi.
L’uomo uscì dal tibanna a meno di due metri dal nascondiglio di Boba eseguendo un salto assolutamente innaturale per un essere comune, una macchia nera che accese la spada laser a metà del salto.
Jango si spostò, ma non fu abbastanza rapido.
Quando lo Jedi atterrò davanti a lui retrasse il braccio con pochi attimi di ritardo, e la lama si abbatté tagliando in due il blaster.
Le celle energetiche esplosero ed entrambi finirono a terra, sbalzati dalla forza della reazione al plasma.
“Pa’!” gridò, vedendolo cadere all’indietro e svanire.
Lo Jedi atterrò poco distante dal cancello, ma si rimise in piedi in pochi attimi, con un’agilità simile a quella che aveva visto solo con Zam. Cercò d’istinto qualcosa da tirargli addosso per distrarlo, anche solo per dare pochi secondi di vantaggio a suo padre, ma nel tempo che impiegò a cercare qualcosa di utile nel suo zaino l’aggressore era di nuovo corso in avanti, saturando l’aria della sua luce azzurra. Il gas lentamente prese a diradarsi, e dopo quello che gli parve un infinito scambio di ronzii e colpi di arma da fuoco vide suo padre cercare di librarsi di nuovo in aria: il nemico deflesse qualche sparo con la propria spada, poi estese il braccio in aria, diretto contro Jango.
Per quanto Boba sapesse che gli Jedi avessero poteri “strani”, non riuscì a soffocare un urlo di spavento quando vide suo padre in aria divincolarsi, lo zaino a razzo che invece di allontanarlo dallo scontro sembrava rispondere alla volontà dell’avversario, facendolo tornare indietro. La traiettoria del jet pack portava dritta alla spada azzurra, ma quando fu quasi ad un metro da terra suo padre sganciò le cinghie del dispositivo e si lasciò cadere a terra con un tonfo.
Si rialzò, il lanciafiamme nel braccio destro pronto a partire, ma il ragazzo non poté non notare la sua stanchezza nel rialzarsi.
“Non sai proprio arrenderti, cacciatore di taglie …” fece lo Jedi, che al contrario sembrava ancora pieno di energie. “…speravo che fossi più ragionevole della tua compagna”.
“Non posso dire di essere dispiaciuto nel deludere le tue aspettative, Skywalker”.
La figura in nero si fermò, quasi divertita. Da sotto i capelli disordinati Boba fu quasi sicuro di vedere le sue labbra assottigliarsi. “Vedo che hai fatto ricerche su di me. Ne sono quasi contento”
“Ti ho riservato un posto d’onore nella lista dei miei obiettivi”.
Lo Jedi doveva conoscere l’arma di suo padre, perché si teneva ad una discreta distanza, la spada laser ancora accesa ma con la lama rivolta verso il basso; si scrutarono, scivolando l’uno al lato dell’altro, ma al ragazzo non sfuggì il dettaglio che suo padre si stesse avvicinando ai pali da esecuzione. “E ora fammi il piacere di crepare”.
Non fu il lanciafiamme a crepitare.
Con un movimento rapido del braccio sinistro Jango sparò col blaster a qualche metro dal nemico. Boba sobbalzò, chiedendosi come fosse possibile che suo padre potesse sparare in modo così impreciso, ma quando lo sguardo di Skywalker si voltò per seguirne la traiettoria vide suo padre gettare a terra l’arma e con un solo guizzo far saettare il cavo di beskal che teneva nello stesso braccio tra un palo e l’altro, collegandoli con un rapido movimento. La minuscola spia gialla lungo l’armatura segnalò l’attivazione delle microcariche piazzate nei rampini del cavo, e non appena suo padre fece qualche passo indietro, tirando con tutta la forza che aveva in corpo, la durezza del beskal e le microcariche fecero il resto, distruggendo i due pali alla base in un rombo che senza dubbio avrebbe lasciato anche lo Jedi senza fiato. E, mentre le due colonne in legno venivano giù, il lanciafiamme esplose alla massima potenza e trasformò il campo ormai libero dal tibanna in una prigione di fuoco, il legno ormai impregnato del gas.
Il ragazzo sorrise.
Suo padre aveva calcolato tutto.
Trovò il coraggio di far sporgere la testa dal cancello giusto per vedere i due giganti infuocati impattare contro lo Jedi e sfracellarlo a terra.
Ma i pali non toccarono la sabbia.
Skywalker aprì la mano verso di loro: si piegò su un ginocchio, come se l’intero gesto gli stesse costando una fatica incredibile, ma sotto lo sguardo del giovane le colonne infuocate rimasero a mezz’aria, le fiamme che ormai avevano avvolto tutto il legno crepitare con le lingue a poca distanza dal loro aggressore. Il freddo che aveva avvertito all’inizio del duello si fece sentire come un colpo di frusta dietro la nuca, e dopo qualche secondo Boba vide i pali fluttuare lontano dallo Jedi, diretti contro suo padre prendendo sempre più velocità.
Non trovò il coraggio di guardare, perdendosi solo nel rumore dello schianto e di un urlo di Jango.
Quando si fece coraggio, riprendendo a sbirciare con il gelo ancora strisciante lungo le tempie, vide suo padre bloccato al di sotto delle colonne, il beskal dell’armatura leggermente annerito dal fuoco ma ancora intatto. Stava cercando di sollevarsi e scrollarsi quella mole di dosso, ma lo Jedi gli era venuto accanto, torreggiandolo con tutta la sua statura; era chiaro che anche lui fosse provato dallo scontro, ma quando accese la spada il ragazzo cercò di strillare qualcosa, scoprendo di non sentire più le gambe dalla paura.
“Cercando di assassinare Padmé, maledetta feccia separatista, avete decretato la vostra fine” fece, spostando lentamente il peso da una gamba all’altra, piegato in avanti fino a gettare un’ombra nera sull’uomo bloccato ai suoi piedi. “Sarà un vero piacere cancellarvi tutti dalla faccia della Galassia. E tu … sei solo il primo”.
Boba implorò alle proprie gambe di correre, di alzarsi, di uscire dal nascondiglio e di correre verso Jango. Implorò fino alle lacrime, cercando di zittire quell’urlo senza forma che era uscito nell’istante in cui lo Jedi aveva di nuovo acceso la lama e l’aveva calata verso il basso, eppure si ritrovò ad ascoltare la propria voce inarticolata come all’infinito.
La testa di suo padre rotolò a terra, nel casco, ancora con un sottile filo di fumo.
 
 
 
 
“Ci mancava solo che tardassi. Quelle sanguisughe del Clan Bancario possono aspettare”
Tarkin fece un cenno ad AL-4YS di avvicinarsi.
Il droide si era allontanato per deferenza, lasciando che il governatore salutasse la piccola Shandra prima di andare a dormire, ma saettò sulle gambe bianche non appena l’uomo si sollevò dal bordo del letto. Tarkin si voltò verso sua figlia, sollevando il sopracciglio. “Ma adesso qualcuno deve fare la brava e dormire. Neos su questo è più diligente di te”.
“Ma io dovevo aspettarti”.
“Hai fatto bene. Saper attendere è una dote” fece, lanciando uno sguardo al bicchiere d’acqua che il droide stava portando sul comodino della bambina come a scandagliarne la più piccola goccia. Al suo gesto ne seguì un rapido scanner oculare del droide, i cui occhi si illuminarono di una sottile luce verdastra ad indicare che non vi fosse nulla di tossico o pericoloso nel bicchiere.
La sicurezza prima di ogni altra cosa.
In piedi fuori dalla porta, concluso il suo giro di visita, Boba osservò Shandra alzarsi in punta di piedi sul letto, scoccare un bacio sulla guancia di suo padre e poi ributtarsi sotto le coperte con un unico salto. Tarkin mormorò qualche altra istruzione al droide, poi uscì dalla stanza e richiuse la porta alle proprie spalle.
“Grazie per averla intrattenuta. La riunione con Saruman è durata più del previsto” fece Tarkin, digitando velocemente un paio di istruzioni sul pad per ritardare l’inizio dell’incontro successivo: come riuscisse ad organizzare un intero pianeta anche in orari così improbabili era per Boba un autentico mistero.
“Non c’è di che. Ma sai che sarebbe in grado di rimanere sveglia tutta la notte pur di aspettarti”.
“Sa quello che vuole e sa come ottenerlo”.
“È proprio tua figlia”.
Il vetracciaio che si affacciava nel cielo scuro di Coruscant rubò per un istante il rado sorriso soddisfatto del suo amico.
Stavano per incamminarsi verso il centro comunicazioni personali del suo amico quando l’olopad di Tarkin suonò nonostante il governatore lo avesse silenziato appena qualche istante prima. La sua espressione cambiò di colpo, specie quando entrambi osservarono il nome del mittente e la lunghezza del file allegato ad esso.
Maul non inviava comunicazioni urgenti se non strettamente necessario.
Gli occhi di Tarkin guizzarono rapidamente sul monitor, scivolando tra le parole e le fotografie con una velocità che il cacciatore di taglie riteneva spesso portentosa, certo che gli occhi rapaci dell’altro potessero afferrare il significato più recondito del messaggio anche solo ad una primissima lettura. I suoi lineamenti, se possibile, si fecero ancora più scavati. Boba rimase alle sue spalle, lo sguardo rapito dagli speeder che saettavano intorno all’edificio, e quando voltò la testa il suo amico aveva già riposto l’olopad in tasca, lanciandogli uno sguardo stizzito. “Maul ha ricevuto una comunicazione dall’agente 447. Potremmo essere incappati in qualcosa di più interessante del previsto” sussurrò, l’espressione tipica di quando la sua mente cercava di incastrare più tasselli di un mosaico che il cacciatore di taglie talvolta non riusciva nemmeno a vedere. “Posso contare su te e Maul per questa … variabile?”

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - I raminghi dei Bassifondi ***


Capitolo 14 - I raminghi dei Bassifondi







L'arena gladiatoria del Sindacato Crymorah








“Come hai detto?”
L’assolo di batteria pompato a tutta potenza dagli impianti acustici intorno all’arena soffocò completamente la risposta di Freki. Vexen sussultò, senza sforzarsi di nascondere una smorfia di fastidio. Chinò la testa verso la pantorana, in modo da accostare il più possibile l’orecchio alle sue labbra. Malgrado fossero seduti vicini nella quarta fila delle gradinate, praticamente schiacciati l’uno contro l’altra dall’entusiasmo di una folla sgomitante e molto ubriaca, gli ci volle ogni milligrammo di concentrazione in suo possesso per riuscire a distinguere le parole di lei.
“È un po’ tardi per ripensarci adesso!”
Vexen strizzò gli occhi e si schermò il viso con la mano, infastidito dal fascio di luci stroboscopiche sparato improvvisamente sulle file di spettatori con la delicatezza di una bomba a grappolo. Nel buio della sala, le macchie colorate danzavano sul viso di Freki trasformandolo in un ritratto da artista visionario.
“Non mi piace affatto questa situazione!” gridò, oltre il frastuono sintetico dell’accozzaglia di suoni che il presentatore dell’evento si ostinava a definire musica. “Dovrai offrirmi qualcosa di più se vuoi continuare ad avere il mio aiuto. Altrimenti me ne vado in questo istante!”
Lei inarcò un sopracciglio con aria divertita. Vexen lesse la risposta sulle sue labbra, più che sentirla.
“Oh, te ne vai? E dove?”
La musica scelse proprio quel momento per terminare in un fischio acuto e perforante. Vexen si portò le mani alle orecchie e bestemmiò silenziosamente.
“Signore e signori, senzienti di tutte le specie! Siamo lieti di avervi insieme a noi in questa fantastica serata!” Il presentatore, un rodiano dal ventre pronunciato e la camminata ondeggiante avvolto in un gilet di paillettes azzurre, aveva riguadagnato rapidamente il centro dell’arena. Il microfono fissato intorno all’orecchio amplificava in modo insopportabile la sua vocetta dal timbro nasale.
“Siamo giunti al culmine del nostro evento: ho il piacere e l’onore di annunciarvi… “ sotto i riflettori, le paillettes scintillarono in un’onda azzurra al gesto teatrale del suo braccio. “... L’INGRESSO DEI COMBATTENTI!”
Il rombo di un’ovazione proruppe dalla folla. Numerose paia di piedi e zampe iniziarono a battere ritmicamente sugli spalti e Vexen dovette sopportare stoicamente gli schizzi di una bibita dall’odore di verdure marce piovuta sulla sua spalla da un punto imprecisato delle file posteriori.
Freki aveva ragione, era troppo tardi per ripensarci. Andarsene ora avrebbe significato aprirsi la strada a forza in un mare di corpi sudati e sperare di non essere calpestati dalla calca urlante. Vexen serrò i denti fino a farli stridere e incurvò le spalle, sforzandosi di occupare meno spazio possibile.
Le luci di scena adesso rimbalzavano impazzite su una serie di figure che facevano il loro ingresso nell’arena. Il termine “arena” in realtà era improprio: Vexen sospettava che inizialmente l’edificio fosse stato pensato per ospitare competizioni sportive più tradizionali - ai bordi del campo in materiale sintetico si distinguevano ancora tracce di numeri e linee di demarcazione - ma Freki gli aveva spiegato che ormai la struttura era celebre in tutto il settore per i giochi gladiatori sponsorizzati e organizzati dal Sindacato Crymorah. I rivenditori di rottami con cui avevano parlato erano stati unanimi nel riferire loro la stessa informazione: i due superstiti del trasporto ribelle abbattuto erano stati reclamati come “trofeo” dai membri del Sindacato e spediti a rimpolpare le fila dei guerrieri che quella sera avrebbero combattuto fino all’ultimo sangue per la gioia e l’intrattenimento della criminalità locale.
E questo riportava Vexen all’annosa domanda: che cosa ci stava facendo ancora lì?
La totale mancanza di crediti e di punti di riferimento nei Bassifondi lo avevano spinto a seguire la missione di Freki come un pezzo di legno trascinato dalla corrente. Ma non poteva continuare così ancora a lungo. Doveva formulare un piano d’azione.
Una leggera gomitata nelle costole lo distolse dai suoi pensieri.
“Occhi aperti. Dobbiamo riuscire a individuare i nostri uomini prima che facciano una brutta fine.” gli occhi di Freki erano fissi sulla quindicina di creature ora schierate al centro dell’arena. Il rodiano sbrilluccicante le stava presentando una per una, inventando sul momento soprannomi fantasiosi basati sulle loro caratteristiche fisiche più evidenti.
“Probabilmente saranno ancora feriti o malconci a causa dello schianto. Aguzziamo lo sguardo e cerchiamo di…”
Vexen non la ascoltava più. Lei dovette accorgersi che stava fissando un punto preciso nell’arena e forse, nella danza tagliente delle luci di scena, lo aveva persino visto impallidire.
“Trovato qualcosa?”
Vexen mormorò qualcosa di inintelligibile e distolse lo sguardo dal punto che stava osservando. Faceva un caldo dannato in quella bolgia stracolma fino all’inverosimile della peggior feccia della galassia. Intrecciò le dita sulle ginocchia, tormentandole e sentendole sudate, appiccicose. Percepiva la vertigine di trovarsi in equilibrio su di un filo sottilissimo. Era il proverbiale giocatore d’azzardo che ha appena pescato la carta in grado di svoltare la partita. Qual era la mossa vincente? Rischiare il tutto per tutto o continuare con un gioco prudente e moderato?
“Qualcosa non va? Cosa hai visto?”
Non poteva sfuggire a lungo al tono incalzante di Freki. Inchiodato dallo sguardo della donna ebbe una sola certezza: non era capace di bluffare come uno scommettitore professionista.
“... il loro aspetto non sarà dei più terrificanti, ma non sottovalutate la disperazione di un padre e un figlio che devono proteggersi a vicenda! Fate sentire un applauso caloroso per i RAMINGHI DEI BASSIFONDI!”
I riflettori vomitarono la loro luce implacabile su due umani stretti l’uno all’altro al centro dell’arena: il più anziano teneva una gamba sollevata da terra e si appoggiava a una cruda stampella che sembrava ricavata dall’arto inferiore di un qualche tipo di droide. Il giovane gli cingeva un braccio intorno alle spalle con fare protettivo, ma persino da quella distanza le sue labbra contratte tradivano la fatica e la sofferenza che doveva provare.
“Ehi? Even? Ti sei incantato?”
Non li aveva più visti da quando erano evasi insieme dal Baan Palace insieme a Camus e al commando ribelle, e anche in quell’occasione aveva scambiato con entrambi sì e no mezza parola. Ma non fece nessuna fatica a identificarli. La pelle scura, i capelli del più giovane raccolti in treccine aderenti al cranio, l’innegabile somiglianza nei tratti marcati del viso e nella fronte spaziosa: i due uomini sembravano la fotocopia l’uno dell’altro con una ventina d’anni di differenza.
Ironico come su un pianeta di decine di miliardi di abitanti fosse riuscito ad imbattersi proprio in Valygar e Lavok Corthala. Ironico e oltremodo irritante, visto che invece Zexion sembrava volatilizzato nel nulla.
Aveva trovato lo zio e il nipote sbagliati.
Finita la presentazione dei combattenti, i due ribelli furono spinti senza troppe cerimonie lungo un lato dell’arena insieme a tutti coloro che non avrebbero disputato il primo incontro. Le grida del pubblico ormai si innalzavano in una cacofonia di versi degni dei primi stadi evolutivi dell’homo sapiens, accogliendo con bramosia sanguinaria la sfida tra un grosso wookie dal pelo grigio e un’umana dall’aria nervosa che due membri del Sindacato sospingevano incontro all’avversario brandendo lunghe picche cariche di elettricità.
“L’uomo con la pelle scura e la gamba rotta.”
Con un lungo sospiro, Vexen si arrese allo sguardo inquisitorio di Freki e indicò in direzione di Lavok. Il mago ribelle era appiattito contro le transenne dell’arena, uno sguardo di puro terrore dipinto sul volto.
“Potrebbe essere anche il wookie, però” ribatté la pantorana. “Guarda, fa fatica a sollevare il braccio destro.”
In effetti l’umana impegnata nel combattimento aveva appena schivato un manrovescio goffo e impreciso in mezzo agli “oooohh” del pubblico. Il suo rivale era certamente più grande e più forte di lei, ma i suoi movimenti erano affaticati e legnosi come quelli di un droide non oliato.
Lo scienziato percepì i muscoli di Freki tendersi, sentì la donna raccogliersi accanto a lui, pronta a scattare. Senza fermarsi a riflettere allungò una mano e gliela strinse attorno all’avambraccio.
“Non è il wookie.”
Lo sguardo di lei divenne tagliente nella penombra, trapassandolo da parte a parte. La maschera della professionista imperturbabile si era scomposta per un attimo e Vexen fu sul punto di lasciar andare la presa, intimorito per la prima volta dal ghigno ferino della sua misteriosa compagna di viaggio. Deglutì e le affondò le dita nell’avambraccio con maggior forza, sibilando attraverso le ovazioni della folla e l’improvviso ruggito di dolore del guerriero wookie.
“Te l’ho detto. Voglio qualcosa in cambio.”
Doveva parlare a pochi centimetri dal suo viso per riuscire a farsi sentire.
Freki non si mosse, né cercò di divincolare il braccio dalla sua stretta. Sembrava aver dimenticato l’arena e il combattimento in corso, tutta la sua attenzione rivolta completamente su di lui. La maschera era tornata al suo posto, e Vexen ebbe di nuovo l’impressione sgradevole di essere soppesato come un animale da condurre al macello.
Le striature sulle guance di lei rilucevano come scie dorate nella penombra.
Poi, inaspettatamente, la donna sorrise.
“È un po’ difficile se non conosco il tuo prezzo.”
“Hai detto di essere un’abile informatica. Forse potresti cercare una persona per me.”
“Andata. E ora dimmi tutto quello che sai.”
Lentamente, Vexen aprì le dita e ritirò la mano. Gli sembrò di essere tornato a respirare dopo svariati minuti di apnea.
“Lavok e Valygar Corthala. Zio e nipote. Membri dell’Alleanza Ribelle. Vengono da un pianeta poco avanzato, ma il più vecchio dovrebbe avere capacità magiche.”
“Vedo che non sono l’unica ad avere contatti tra la ribellione” fece lei, senza perdere l’enigmatico sorriso. Poi tornò ad osservare l’arena con sguardo pensieroso. I due tirapiedi dei Crymorah stavano trascinando via la sagoma immobile del povero wookie mentre il rodiano in pailettes annunciava la vittoria della sua avversaria tra grida selvagge e i fischi di indignazione di chi aveva scommesso per il lottatore più grosso.
“Ascoltami bene. Quando ti do il segnale tira qualche gomitata a caso tra la folla e seguimi da vicino. Copriti la faccia e non perdermi mai di vista.”
“Aspetta, questo non era negli accor…”
“ORA!”
Fece in tempo a vedere Freki alzarsi ed estrarre un oggetto rotondo da una tasca, poi una coltre di spesso fumo grigio inghiottì le gradinate.
Non ci fu bisogno di tirare nessuna gomitata: la folla attorno a loro impazzì all’istante e Vexen si ritrovò di colpo al centro di un vortice di grida, spintoni, pugni tirati alla cieca e creature che cercavano di scavalcare le file di sedili per precipitarsi neanche loro sapevano dove.
Aggiunse le proprie imprecazioni a quelle del marasma che lo sballottava senza pietà da una parte all’altra. Cercò di riguadagnare la posizione eretta mulinando le braccia come un nuotatore che cerca di non affondare nel fango, ma nel tentativo di schivare una mano palmata diretta contro il suo viso impattò con la schiena contro qualcosa di duro e si sentì spezzare il fiato nei polmoni.
“Non perdermi di vista un benemerito ca… “
Un’altra mano emerse dalla cortina di fumo, ma stavolta era seguita da un paio di occhi color ambra fin troppo conosciuti. Il resto del viso della donna era già avvolto nel passamontagna che indossava quando l’aveva incontrata la prima volta. Vexen si protese per afferrarla e Freki lo tirò verso di sé, ordinandogli di aggrapparsi al suo braccio con tutta la forza che aveva.
Lo squillo penetrante di una sirena d’allarme si era sovrapposto alla cacofonia di urla. In un attimo le volute di fumo si tinsero del rosso sanguigno e intermittente delle luci di emergenza che entravano in funzione.
“Questo piano fa schi… “
“Reggiti forte. E copriti la faccia!”
Vexen usò il braccio libero per sollevare un lembo della sciarpa fin sopra il naso mentre Freki iniziava a trascinarlo dietro di sé. La vide poggiare il piede sullo schienale di uno dei sedili della fila inferiore e darsi la spinta.
Il suo cuore mancò un paio di battiti.
Lanciò un grido acuto mentre spiccavano il volo l’uno aggrappato all’altra, librandosi oltre le gradinate ormai semivuote e precipitando a velocità folle verso il centro dell’arena. Non era un salto naturale, non per una creatura della taglia e della fisiologia di Freki. Vexen ricordò confusamente il modo in cui lei aveva rallentato la sua caduta dopo la sparatoria con la polizia di Coruscant e fu sul punto di realizzare qualcosa, ma la connessione si perse tra il caleidoscopio di neon rossi e fumo grigio, mentre le barrette proteiche che aveva mangiato a colazione si esibivano in una serie di capriole nel suo povero stomaco.
Già era tanto se riusciva a mantenere la concentrazione necessaria a non vomitare o farsela addosso, figuriamoci riflettere lucidamente.
Infine, dopo un tempo che gli parve lunghissimo, toccarono terra. Il fumogeno lanciato da Freki non era arrivato a lambire il centro dell’arena, perciò Vexen fece appena in tempo a staccarsi dal suo braccio e a muovere un paio di passi scoordinati che la punta di una vibropicca sfrigolò a due centimetri dal suo orecchio. D’istinto si lasciò cadere su un fianco contro il pavimento in materiale sintetico e rotolò lontano dalla portata dello sgherro dei Crymorah che imprecava contro di lui in una lingua sconosciuta.
Freki invece si lanciò in avanti con un grido, lo superò e si gettò sui due tirapiedi roteando due corte vibrolame che Vexen non le aveva assolutamente visto estrarre.
Si tirò su a fatica su un gomito, ignorando i gemiti di protesta di praticamente tutti i muscoli del suo corpo. Freki si muoveva come una furia, così rapida che gli occhi dello scienziato quasi non riuscivano a seguirla. Uno dei tirapiedi, un gamorreano dalle gambette ricurve, emise un grugnito di trionfo credendo di averla infilzata con la picca, ma il suo muso porcino si aprì in una smorfia di stupore quando si accorse che, attaccato alla punta dell’arma come una lugubre bandiera, sventolava solo un lembo strappato del suo mantello.
L’istante successivo il gamorreano spalancò gli occhi e rantolò a terra, una delle vibrolame di Freki conficcata in mezzo alle scapole. Alle sue spalle, la donna gli sfilò l’arma dal corpo con un movimento fluido e si voltò a fronteggiare l’avversario rimanente prima ancora che il corpo del gamorreano scivolasse a terra.
Vexen si riscosse, sbattendo le palpebre più volte e rimettendosi in piedi a fatica. Iniziava a sentirsi troppo vecchio per tutta quell’azione. Si guardò intorno e cercò di fare il punto della situazione.
Le gradinate, ancora parzialmente avvolte dal fumo, si erano ormai svuotate quasi completamente dal pubblico, che aveva lasciato dietro di sé un cimitero di lattine vuote, rifiuti e oggetti dimenticati. Da alcuni ingressi nella parte superiore, tuttavia, si avvicinavano a gran velocità altre creature armate che avevano tutta l’aria di essere sgherri dei Crymorah molto, molto arrabbiati.
“Freki! Abbiamo compagnia!”
“Sbrigati a liberare i prigionieri, idiota!”
La donna era ancora impegnata in un corpo a corpo serratissimo con la seconda guardia e non aveva nemmeno alzato la testa per gettare un’occhiata ai nuovi nemici in avvicinamento.
Vexen si rese conto che gli uomini in alto non avevano ancora aperto il fuoco solo per via della scarsa visibilità causata dal fumo. Questo gli concedeva qualche secondo preziosissimo.
Corse a perdifiato verso il bordo dell’arena dove i gladiatori erano ammassati l’uno contro l’altro, ad eccezione del wookie che ancora giaceva nel bel mezzo del campo dove il suo carceriere lo aveva abbandonato al momento dell’attacco di Freki. Nessuno di loro aveva potuto approfittare del caos per tentare la fuga: delle rozze catene metalliche li tenevano legati alla transenna per mezzo di un anello infilato intorno al polso di ciascuno.
Vexen imprecò, estrasse un gessetto dalla tasca e, ignorando la trafila di suppliche e domande dei prigionieri, afferrò il braccio di Lavok e iniziò a disegnare rune alchemiche lungo il bordo del bracciale metallico alla massima velocità di cui era capace.
Il giovane Valygar tentò di frapporsi tra lo zio e il nuovo arrivato, ma la sua catena si tese al massimo impedendogli di muoversi come avrebbe voluto.
“Stai fermo!” gridò Vexen senza distogliere gli occhi dal suo lavoro. “Siamo dalla vostra parte!”
Il mago aveva decisamente visto giorni migliori: la barba era sfatta, le occhiaie marcate. A distanza ravvicinata l’odore di sudore misto a qualcosa che sembrava olio di motori risultava a malapena sopportabile.
Il suo sguardo tuttavia non aveva perso acutezza, e corse rapidamente dal bracciale al viso coperto di Vexen per poi illuminarsi in un’improvvisa realizzazione.
“Questi cerchi… sei il membro dell’Organizzazione!”
“Ora non è il momento. Stanno per spararci addosso!”
Come in risposta alla sua esclamazione, una salva di proiettili di blaster saettò sopra le loro teste. Negli ultimi giorni Vexen aveva imparato a riconoscere e temere quel suono più di ogni altra cosa al mondo.
Ma né lui né nessuno dei prigionieri furono colpiti. Lavok aveva sollevato la mano appena liberata e uno scudo impalpabile si ergeva adesso come una cupola tra loro e i raggi al plasma, che si infrangevano contro la sua superficie disegnando una moltitudine di cerchietti come sassolini lanciati sull’acqua.
Non a caso aveva scelto di liberare il mago per primo.
I prigionieri, tuttavia, erano ancora parecchi.
“Mi serve ancora un po’ di tempo!”
“Ricevuto!”
Percepì con la coda dell’occhio la sagoma agile di Freki saettare verso le gradinate. Doveva essersi liberata anche del secondo avversario, ma persino una piena di risorse come lei non poteva resistere a lungo contro una schiera di nemici che andava ingrossandosi minuto per minuto. Vexen si dedicò per prima cosa a liberare i prigionieri più in salute o che gli sembravano capaci di combattere; l’umana che aveva abbattuto il wookie scattò in avanti non appena il bracciale attorno al suo polso si sciolse in una colata di burro, afferrando la picca appartenuta al gamorreano e lanciandosi all’attacco subito dietro Freki.
Una mano appoggiata alla sua cruda stampella, Lavok continuava a tenere l’altra sollevata con il palmo in aria per tenere attivo l’incantesimo di scudo, ma il suo respiro iniziava a farsi sempre più affannoso.
“C’è un’uscita per i combattenti?”
Dovette ridisegnare per due volte l’ultima runa sul bracciale di Valygar. Sia le sue mani che quelle del ranger erano sudate e scivolose di unto e sporcizia e il gessetto si era spuntato, causando delle sbavature dagli effetti potenzialmente distruttivi. Interruppe il lavoro per un attimo, si asciugò la fronte con una manica e si rimise all’opera mordendosi l’interno del palato. Valygar ebbe la geniale idea di restare immobile e non mettergli fretta.
Ma non fu abbastanza geniale da impedire ai suoi dubbi di affiorare fino alle labbra.
“Come sappiamo che possiamo fidarci?”
 Vexen lottò contro la tentazione di aggiungere un glifo per trasformare tutta la peluria sul corpo del ranger in zucchero filato e rispose in mezzo ai denti: “Non pensavo ti interessasse la carriera del gladiatore.”
Un ultimo segno con il gessetto e anche quell’ennesimo bracciale si sciolse in una poltiglia giallastra. Dall’alto continuavano ad arrivare rumori di spari e grida, su tutte l’urlo di una voce femminile resa acuta dal dolore. Vexen si voltò di scatto, temendo che si trattasse di Freki: ma era solo l’umana di prima che precipitava giù per le gradinate con un foro fumante in mezzo al petto. Il tizio che aveva fatto fuoco non le sopravvisse di molto in ogni caso: con un salto degno di un’acrobata Freki gli piantò una vibrolama tra il collo e la spalla, centrando il punto di giuntura tra una piastra e l’altra della sua armatura protettiva.
Vexen si sentì afferrare per una spalla e girandosi si ritrovò a pochi centimetri dalla faccia di Valygar. I polpastrelli del ranger gli affondarono nella carne come punte d’acciaio, stringendolo in una morsa che non ammetteva repliche.
“Seguici. E non fare scherzi strani. Ti tengo d’occhio, alchimista.”
“Bel modo di ringraziare” sbuffò lo scienziato quando il ranger lo lasciò andare. Si massaggiò la spalla dolorante bestemmiando sommessamente.
Valygar si caricò sulle spalle lo zio che non poteva camminare - ma che continuava a mantenere la concentrazione sullo scudo - e gridò a gran voce agli altri prigionieri di venirgli dietro.
Guidati dal ranger, lo scienziato e la quindicina di prigionieri corsero diretti verso una porticina annidata sotto le gradinate, ma a pochi metri dalla meta lo scudo di Lavok sfarfallò come una trasmissione olografica dal segnale debole e sparì in uno sbuffo impotente. Il mago aveva perso i sensi, la testa reclinata sulla spalla del nipote. Un twi’lek alla destra di Vexen venne centrato alla nuca da un proiettile vagante a si accartocciò sul pavimento dell’arena senza neanche accorgersi di essere stato colpito.
“Dèi ladri!”
Vexen mise nelle gambe tutta la forza che gli restava. La maledetta porticina sembrava allontanarsi invece che farsi più vicina, e per un attimo lo scienziato fu certo che il suo cuore non avrebbe retto e si vide spiaccicato sul suolo dell’arena, il corpo crivellato di buchi fumanti.
Il calore di un laser gli sfrecciò a un millimetro dalla guancia. L’odore di plasma ionizzato gli aggredì le narici penetrando fin dentro al cervello.
“Serve una mano?”
Di colpo, Freki si era materializzata al suo fianco. Aveva ancora il volto coperto, ma lo scintillio nei suoi occhi d’ambra tradiva il sorriso che doveva allargarsi a dismisura sotto il passamontagna. Vexen non capiva cosa ci trovasse di divertente in tutta quella situazione, ma se non fosse stato impegnato a correre per la sua vita si sarebbe gettato ai suoi piedi per supplicarla di fare qualcosa, qualsiasi cosa per salvarli.
Come se gli avesse letto nella mente, Freki si voltò con una piroetta e sollevò una mano in direzione dei membri del clan Crymorah alle loro calcagna. Vexen osò appena voltare la testa, credendo a stento ai dati che i suoi occhi gli comunicavano: i raggi al plasma diretti verso di loro si curvarono a mezz’aria, deflettendosi in direzione dei loro inseguitori.
Valygar raggiunse per primo la porticina di duracciaio e iniziò a tempestarla di spallate. Vexen arrivò un istante dopo di lui e si appoggiò allo stipite, boccheggiando per la fatica.
“Alchimista! Renditi utile!”
Lo scienziato cercò di estrarre di nuovo il gessetto dalla tasca, ma il mozzicone gli scivolò tra le dita e rotolò sotto la fessura della porta. Imprecò sonoramente e tirò un pugno sulla lastra di duracciaio che servì soltanto a lasciargli un dolore sordo alle nocche.
“Usate questo!”
Freki, ancora in retroguardia, aveva lanciato verso di loro un piccolo oggetto, una sorta di disco piatto con una serie di sensori luminosi sulla superficie. Vexen ringraziò mentalmente la prontezza di riflessi di Valygar, che lo afferrò al volo con la mano non impegnata a sorreggere il mago riverso sulle sue spalle.
“Attaccalo alla porta e premi il pulsante!” gridò la donna. “Poi allontanatevi tutti di due passi!”
Il ranger obbedì mentre Vexen e altri prigionieri si appiattivano contro la transenna proteggendo la testa con le braccia. Il congegno si agganciò alla porta con uno schiocco sonoro e iniziò ad emettere una serie di bip a distanza sempre più ravvicinata l’uno dall’altro.
Freki intanto era stata raggiunta da un paio di assalitori. Aveva strappato a uno di essi la vibropicca e ora roteava l’arma davanti al corpo in un mulinello di saette per tenere entrambi a distanza.
La porta detonò con una deflagrazione contenuta, come se fosse semplicemente implosa su se stessa. Valygar scostò gli ultimi resti con una spallata e gridò al gruppo di correre a più non posso.
Vexen seguì il flusso di prigionieri verso l’aria finalmente aperta e libera. Prese una boccata a pieni polmoni, assaporando la sensazione del vento fresco della sera sul viso madido di sudore. Alle sue spalle, Freki protese una mano e con un grido acuto aprì il palmo in direzione degli inseguitori: i due sgherri vennero sospinti all’indietro con la forza di un proiettile e impattarono contro gli uomini che li seguivano a una certa distanza a blaster spianati.
L’istante successivo furono tutti fuori. I prigionieri liberati si dispersero in varie direzioni, e presto rimasero soltanto lui, Freki e Valygar con Lavok sulle spalle a saettare tra le piattaforme e i vicoli nel tentativo di mettere più distanza possibile tra loro e l’arena dei Crymorah.
Ben presto i rumori di spari e le urla si attutirono alle loro spalle fino a sparire del tutto.
Si fermarono a riprendere fiato su una piattaforma invasa dalla spazzatura di non sapeva più neanche lui che livello. Vexen appoggiò la mano a una grondaia e si piegò in due, boccheggiando per la fatica.
“Non male… alchimista.” Al suo fianco, Freki non aveva nemmeno il fiatone. “Non sarai capace di combattere, ma sei pieno di risorse.”
Vexen sollevò la testa e le rivolse uno sguardo di fuoco.
“Potrei dire lo stesso di te… cavaliere Jedi.”

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Ghiaccio sottile ***


Capitolo 15 - Ghiaccio sottile







Valygar Corthala








“Ti ho detto di non avvicinarti a mio zio, alchimista.”
Vexen allargò le braccia in segno di resa e sbuffò con ostentazione. Voltò le spalle al letto di Freki, su cui Lavok giaceva privo di sensi con una pila di cuscini sotto la testa, e si lasciò cadere seduto sulla brandina adiacente. Iniziava a sentirsi in trappola tra quelle mura strette e asfittiche. Freki doveva essere davvero una cliente affezionata della Discarica, perché la zia Layla aveva tenuto libera per loro la solita camera e non aveva fatto alcuna domanda quando li aveva visti rientrare trafelati nel cuore della notte, in quattro anziché in due e con un ferito ballonzolante sulle spalle.
La stanza era troppo piccola per ospitare quattro persone. Soprattutto quattro persone che da qualche minuto non facevano che guardarsi in cagnesco. L’aria, già pesante e odorosa di chiuso, sembrava sfrigolare di elettricità statica.
Lo scienziato poggiò i gomiti sulle cosce e congiunse le mani, tormentandosi le dita con evidente nervosismo. In ginocchio accanto capezzale dello zio, Valygar scoccava sguardi affilati come pugnali nella sua direzione.
“Forse non sai di cosa è capace questo tizio, Freki.” La pantorana, appoggiata alla parete con le braccia conserte, non reagì in alcun modo alle parole del ranger. “Non so che balle ti abbia raccontato, ma è una specie di medico del demonio. Ti mette le mani addosso con un bisturi e come niente ti trasformi nel suo schiavetto personale.”
Vexen non riuscì a trattenere una risatina sprezzante. “Sono lusingato che tu mi ritenga un genio. Ma nemmeno io sarei in grado di manipolare una persona operandole la gamba.” Si alzò in piedi e scoccò al ranger un sorriso a mezza bocca colmo di derisione. “Ma d’altronde, chi sono io per dirti che più tempo passa e più la tibia di tuo zio rischia di risaldarsi completamente storta? Comprendo in effetti che accudire un parente invalido a vita possa rappresentare una via sicura verso l’eredità… “
“Adesso basta!”
Valygar era scattato in piedi come una molla e gli sarebbe saltato al collo se Freki non si fosse interposta tra loro, appoggiando una mano sul petto di ciascuno.
“Smettetela, tutti e due. La situazione è già abbastanza tragica senza che iniziamo ad azzannarci alla gola a vicenda. Il signor Even qui presente al momento è mio socio.”
La donna puntò l’indice contro il petto di Valygar e si protese nella sua direzione fino a mettere il viso a poche spanne dal suo. Lo inchiodò con uno sguardo di sfida, la voce gelida come un inverno nucleare. “Qui nei bassifondi rimarreste secchi in due secondi senza di me. Vi ho già salvato la vita una volta. Perciò mettiamo subito in chiaro una cosa: il comando dell’operazione lo assumo io. Mantengo sempre gli accordi presi e sono ancora a disposta ad aiutarvi nella vostra missione, ma” premette il dito sul petto di Valygar e il ranger, suo malgrado, si ritrovò ad indietreggiare di un paio di passi. “Alle mie condizioni. Se non vi sta bene potete tornare sulla Terra II con la coda tra le gambe in questo stesso istante.”
Lo stridio dei denti digrignati di Valygar dovette sentirsi fin sui livelli superiori del pianeta. Il ranger tuttavia non spiccicò parola. Si limitò ad emettere un secco sbuffo di assenso e tornò ad inginocchiarsi accanto allo zio ferito.
Poi Freki si voltò verso di lui.
“Medico del demonio, eh?” La sfumatura tagliente era completamente scomparsa dalla sua voce. Al contrario, sembrava sul punto di scoppiare a ridere. “L’avevo detto che eri un tipo pieno di risorse.”
Il palmo di lei indugiò sul suo petto ancora per un istante. Gli regalò un altro dei suoi sorrisetti enigmatici, poi tornò a rivolgersi all’intero gruppo in tono pratico: “Non possiamo lasciare Lavok così. Valygar, posso capire le tue riserve. Ma se tu ed io gli restiamo con gli occhi incollati addosso per tutta la durata dell’operazione non dovrebbero esserci problemi, giusto?”
Sotto la fronte corrugata di Valygar, imperlata da un velo di sudore, doveva essere in corso una battaglia silenziosa ma agguerrita. I suoi occhi si muovevano da una parte all’altra come animaletti braccati, alla ricerca di una via d’uscita che non esisteva.
“Fallo, membro dell’Organizzazione. Per favore. Inutile perdere tempo a discutere.”
Non era stato il ranger a parlare. La voce, debole e roca, proveniva dal letto pieno di cuscini. Lavok aveva ripreso i sensi.
“Zio! Cerca di non sforzarti troppo!”
“Valygar… mi è davvero di conforto constatare che ti trasformi in un nipote affettuoso soltanto quando mi trovo sull’orlo della fossa… “
“Ma quale orlo della fossa, zio!” Difficile a dirsi con l’illuminazione fioca prodotta dalle due lampade a forma di testa di droide, ma il ranger sembrava arrossito tutto d’un tratto. “Sempre il solito melodrammatico. La tua gamba non ha nulla che non si possa sistemare.”
“Hai ragione, nipote di poca fede” il mago cercò di puntellarsi su un gomito per sollevare la testa e incontrare lo sguardo di Vexen dalla parte opposta della stanza. “E qui abbiamo qualcuno che può farlo immediatamente. Da uno studioso ad un altro, signor Vexen… o Even, come preferisce farsi chiamare… le sarei davvero grato se facesse in modo che la mia tibia tornasse a posto.”
Vexen annuì senza parlare. Finalmente un ribelle che non aveva voglia di piantargli un proiettile in testa alla prima occasione buona.
Tutta la sua attrezzatura medica si trovava nello zaino, perciò fu costretto a rivelare il nascondiglio alchemico che aveva escogitato. Tuttavia, doveva ammettere tra sé e sé, il sussulto di stupore di Valygar quando un pezzo di parete si sciolse rivelando il vano segreto fu una gran bella soddisfazione.
Aprì lo zaino con cautela, stando ben attento a non far trapelare nemmeno uno scintillio degli Oggetti Millenari che aveva trafugato all’Alleanza Ribelle. Facendo un rapido calcolo, i due Corthala non dovevano aver lasciato la Terra II troppo dopo di lui: la probabilità che non sapessero nulla del furto era alta. Vexen era determinato ad assicurarsi che la situazione non cambiasse.
Lavorò in silenzio e con rapidità, com’era sua abitudine. Lavok era collaborativo e seguiva le sue istruzioni senza fiatare, ma il Corthala più giovane si era alzato in piedi e aveva incrociato le braccia, fissandolo dall’alto come un avvoltoio del malaugurio. Freki invece si era seduta a terra, in un angolo, impegnata in un controllo di armi ed equipaggiamento.
“Immagino che non si aspettasse di abbandonare la Terra II per ritrovarsi in mezzo ai ribelli nei Bassifondi di Coruscant” chiese all’improvviso il mago. La sua domanda però non aveva il sapore di una provocazione. Sembrava genuinamente curioso. Forse voleva solo distogliere l’attenzione dal fastidio della gamba tirata e costretta tra due stecche rigide e pesanti.
Vexen tuttavia si chiedeva quale fosse il suo gioco: lo trattava con i guanti di velluto, gli dava addirittura del lei. Voleva semplicemente ingraziarsi la persona in grado di offrirgli delle cure? O lui e il nipote pensavano di giocare al poliziotto buono e quello cattivo?
Passò un ultimo giro di bendaggi e rispose con uno sbuffo: “Tutta questa formalità mi sembra fuori luogo.”
La risposta del mago fu decisamente inaspettata.
“Camus è sempre molto formale con lei. Quel ragazzo la ammira enormemente, lo sa?”
“Camus è condizionato, zio” giunse inevitabile il brontolio dell’avvoltoio.
Vexen ignorò la provocazione. Per la prima volta si era reso conto di non aver mai saputo se il suo stupido apprendista avesse subito qualche conseguenza per aver agevolato la sua fuga. In tutte le sue vagonate di messaggi il sacerdote non aveva mai accennato alla questione. Un classico di Camus: evitare di fare in modo che gli altri si preoccupassero per lui.
Forse il mago chiacchierone poteva offrirgli il modo di scoprire qualcosa.
Atteggiò le labbra in quella che sperava passasse per una smorfia di derisione: “E così avete fatto la conoscenza del giovane sacerdote idealista. Immagino che ora si trovi in un mare di guai.”
“Bastardo” sibilò il ranger. “Sappiamo benissimo che è soltanto una vittima. Nessuno all’Alleanza si sognerebbe di incolparlo per le tue bassezze.”
Vexen si lasciò andare a una risatina sommessa. Aveva la sua risposta.
“Camus è un ragazzo sveglio” proseguì Lavok, incurante dell’interruzione del nipote. Lo scintillio divertito nei suoi occhi scuri fece sospettare a Vexen che dietro le sue parole si nascondesse altro, ma forse era soltanto la sua immaginazione. O la stanchezza dopo l’ennesima giornata di fughe rocambolesche. “E un buon ricercatore. Mi ha dato un paio di ottime dritte riguardo le fonti energetiche per la mia Sfera Planare.”
Vexen sorrise e si rialzò in piedi, iniziando a riporre bende e antidolorifici nello zaino: “Nel qual caso, suppongo che dovresti ringraziare il sottoscritto. Qui abbiamo finito.”
“Bene” fece il ranger in tono sbrigativo. Guardò in direzione di Freki, ostentando di ignorare completamente l’esistenza di Vexen. “Adesso suppongo che dovremmo discutere le prossime mosse. Purtroppo io e mio zio facevamo parte della missione solo in qualità di scorta, perciò non siamo a conoscenza di tutte le specifiche. Dobbiamo metterci in contatto con la Terra II e ridefinire…  “
“Ogni cosa a suo tempo” Freki si alzò lentamente in piedi, stiracchiandosi come un gatto assonnato. “Prima dobbiamo mettere qualcosa nello stomaco. Qualcosa di più decente di qualche barretta protetica.” I suoi piedi scalzi sfregarono la vecchia moquette mentre sul suo viso si dipingeva un sorriso di evidente soddisfazione.
“Non so voi, ma io non mangio da quasi dieci ore.”
 
 

Vexen ne aveva abbastanza di essere trascinato in posti chiusi, puzzolenti e invasi di folle rumorose e musica di dubbio gusto, perciò rimase piacevolmente sorpreso quando varcò la soglia del Castello Elettrico al seguito di una Freki molto entusiasta.
Il piccolo locale era stipato tra due palazzoni abbandonati su una piattaforma del decimo livello. A contorno della facciata svettavano due torrette che potevano ricordare i castelli della Terra II, ma interamente costruite di metallo e percorse da file di led luminosi. All’interno li accolse una luce calda e soffusa, mentre una musica bassa faceva da sottofondo al chiacchiericcio dei pochi avventori sparsi tra la ventina di tavoli di forme e materiali diversi.
Freki lo guidò verso un tavolo rotondo in un angolo. Ad un suo cenno il droide cameriere accorse a prendere il loro ordine, fluttuando su un paio di propulsori che emettevano qualche scintilla di troppo.
La pantorana non aprì nemmeno il menu di carta plastificata ripiegato sopra i coperti.
“Prendiamo due Giardini delle Emozioni. E quando abbiamo finito preparacene altri due da portare via. Belli caldi.”
Valygar aveva rifiutato l’invito di Freki a cenare con loro, preferendo rimanere al fianco dello zio che si era riaddormentato. Vexen non poteva certo dirsi dispiaciuto della cosa.
“Subito, signora. Gradite qualcosa da bere?”
Freki si mordicchiò un labbro, pensierosa. “Direi una Regina Acida per entrambi.”
“In arrivo, signori.”
“Cosa ne pensi?” la donna indicò l’ambiente con un gesto ampio mentre il ronzio dei propulsori del droide si allontanava in direzione delle cucine. “Ho indovinato i tuoi gusti? Tutto l’interno è in stile Terra I: persino la musica viene da una vera radio d’epoca. Qui su Coruscant fa molto vintage.”
Vexen inarcò un sopracciglio. Ci voleva ben altro per impressionarlo.
“Suppongo tu non mi abbia portato qui soltanto per godere dell’atmosfera.”
“Non ti si può proprio nascondere nulla” lo prese in giro lei con una scrollata di spalle. Il droide intanto era tornato con i loro drink, che risultarono avere l’aspetto di un fluido multicolore vagamente fluorescente. Vexen tirò su un primo, cauto sorso dalla cannuccia: la Regina Acida gli pizzicò piacevolmente sulla lingua, invadendo le narici dei profumi di frutti esotici a cui non avrebbe saputo dare un nome. Non era affatto male. Ma non si trattava certo di una bevanda leggera: si chiese se Freki stesse cercando di sciogliergli la lingua con l’alcol per qualche suo oscuro fine oppure se avesse semplicemente voglia di una bevuta in compagnia dopo una missione difficile.
In ogni caso decise di bere con moderazione.
“In effetti ti ho portato qui per rinegoziare il nostro accordo” proseguì Freki, che invece aveva già quasi svuotato il calice per metà. Gli fece l’occhiolino.  “Così magari non ti farai più venire ripensamenti un nanosecondo prima di passare all’azione.”
“Ci terrei a precisare che…”
Lei lo interruppe con un gesto: “Ma prima di tutto vorrei offrirti qualche rassicurazione.” Si chinò in avanti e ridusse il tono di voce a un sussurro appena distinguibile sopra il brusio della sala. “Non so che trascorsi tu abbia con l’Alleanza e non mi interessa. Sono stata pagata per aiutare i ribelli in questa missione, ma non sono una di loro. Perciò non ho assolutamente nessun interesse a consegnarti nelle loro mani. Non fa parte dei nostri patti.”
Vexen poggiò i gomiti sul tavolo e si protese a sua volta verso di lei. Continuava a stropicciare tra le dita la cannuccia del suo Regina Acida. “Sono solo parole. Un po’ poco come rassicurazione. Soprattutto da parte di una Jedi.”
Gli occhi di Freki si ridussero a due fessure: “Meglio non nominare quella parola a sproposito. Né qui né in territorio imperiale.”
La stessa reazione che aveva mostrato dopo la fuga dall’arena, quando l’aveva affrontata a bruciapelo di fronte a Valygar e Lavok. Vexen ebbe la conferma di aver toccato un nervo scoperto e si annotò mentalmente l’informazione per poterla sfruttare in futuro. Prese un altro sorso del drink e attese che lei continuasse.
“Non commettere l’errore di pensare che tutti i Jedi siano automaticamente ribelli. L’Alleanza avrà anche rifondato l’Ordine in tempi recenti, ma il Tempio originario si trovava qui su Coruscant, una ventina di anni fa. Prima che l’Impero lo spazzasse via. Ma non tutti gli apprendisti sono stati uccisi o si sono arresi. Alcuni hanno semplicemente… cambiato lavoro.”
Freki dovette interrompersi quando il droide tornò portando un vassoio ballonzolante e stracolmo di quelli che sembravano due giganteschi hamburger troneggianti al centro di una corolla di verdure di tutti i colori dell’arcobaleno. Il profumo paradisiaco scavò un abisso nello stomaco di Vexen. Si avventò sul piatto senza tanti complimenti.
“Una lavoratrice indipendente, dunque” fece, tra un boccone e l’altro.
“Come te, suppongo.”
Freki sollevò il bicchiere ormai mezzo vuoto e lo tese nella sua direzione, invitandolo ad un brindisi.
“Sì. Potremmo dire di sì” rispose Vexen dopo un attimo. Sollevò a sua volta il drink.
I due calici si incontrarono a mezz’aria, tintinnando delicatamente.
“Ecco perché mi farebbe comodo il tuo aiuto. Onoro sempre i contratti e lo farò anche stavolta, ma… diciamo che gli accordi iniziali prevedevano di lavorare con un commando di sette persone. E ho l’impressione che i due Corthala non fossero i membri più preparati del gruppo.” Il bicchiere di Freki era tornato sul tavolo, ormai completamente vuoto. Probabilmente nel vetro era nascosto un qualche tipo di microsensore, perché il droide cameriere ricomparve dal nulla un attimo dopo per portarlo via. Vexen notò che indossava un cravattino attorno all'asta metallica che fungeva da raccordo tra la testa oblunga e il corpo principale.
“Ma tu mi accennavi a una persona da cercare. Ti ascolto.”
Vexen dedicò qualche attimo a radunare con la forchetta le foglie di verdura rossa lungo un lato del piatto. Avevano un sapore aspro, gli lasciavano un retrogusto spiacevole nella bocca. Si schiarì un paio di volte la gola.
“È un ragazzo umano. Circa vent’anni. Si chiama Zexion, anche se all’Impero è noto con l’alias di Ienzo Whiteflame. Sulla carta è un impiegato del Clan Bancario, anche se… temo faccia parte dei Servizi Segreti.”
Nella sua smania di non lasciare le mani inoperose sfiorò la superficie del suo bicchiere ancora mezzo pieno, e i cubetti di ghiaccio in procinto di sciogliersi ritornarono solidi in un istante.
“Servizi Segreti… un bel rancor da pelare.”
La musica adesso quasi copriva le parole di Freki. Non era un sottofondo sgradevole. Suoni di natura sintetica si mescolavano a strumenti più tradizionali in un’armonia onirica che avvolgeva lui e Freki come una coperta morbida, piena di colori. Vexen sentiva la stanchezza farsi strada fin nel midollo delle ossa. Da quanti giorni non riusciva a ritagliarsi una notte di sonno decente?
“Deve essere piuttosto importante se sei disposto a sfidare gente di quel calibro.”
“Mi basterebbe trovare il modo per comunicare con lui. So che non si trova su Coruscant al momento, ma se avessi anche solo il contatto del suo olopad… “
“Un giovane amante? O un figlio?” Freki aveva di nuovo quello sguardo insopportabile di chi ti soppesa grammo per grammo, la testa reclinata su un lato e i capelli viola che le celavano parte del volto come una cortina.
“Se ho capito qualcosa di te, propenderei per la seconda.”
“Informazione irrilevante ai fini della ricerca, direi.”
“Forse” ridacchiò lei, ma ebbe la decenza di non pressare oltre. Si lasciò andare contro lo schienale, incrociando le braccia e allungando le gambe sotto al tavolo. “Non dico che non si possa fare”, riprese, di nuovo seria. “Ma potrebbe volerci un po’. Non è tanto l’accedere ai database dei Servizi Segreti, quanto il farlo senza essere rintracciati.”
Vexen spinse di lato il piatto ormai semivuoto. “In soldoni: lo farai o no?”
“Te l’ho detto” Freki si concesse un sorrisetto compiaciuto. “Onoro sempre i miei contratti.”







Cercò di torcere il polso, poi anche la spalla. Fece forza sul proprio corpo, puntando i piedi contro la superficie a cui era stata bloccata, ma l’unico risultato fu un dolore atroce alla base della schiena.
Chiunque l’avesse inchiodata in quel modo sapeva che i clawditi avevano bisogno di libertà di movimento per trasformarsi.
L’aria era densa di tibanna.
“Mi aspettavo qualcosa di meglio da una cambiapelle”.
Il gas non raffinato la attaccò agli occhi non appena cercò di riaprirli. Prese a lacrimare, e solo dopo una manciata di secondi riuscì a sollevare le palpebre abbastanza da identificare la macchia scura davanti a lei. La voce era maschile ma alta, ben diversa dal tono caldo e gentile di Jango.
I denti le scattarono non appena riuscì a mettere a fuoco la figura.
Lo Jedi che l’aveva catturata era in piedi a poche braccia da lei, con i capelli in disordine e la tunica che fluttuava lentamente davanti alle volute di gas; aveva le braccia incrociate davanti al petto, e i suoi occhi trovarono subito l’immancabile spada laser che pendeva al suo fianco. Sentire lo sguardo del nemico su di sé le diede abbastanza energia e rabbia da schiarirsi del tutto nonostante il torpore. “Felice di deluderti, Jedi”.
Sotto di lei vide sprizzare delle scintille. “Cosa vuoi da me?”
Aveva visto degli impianti per il trasporto spaziale del tibanna solo una volta, sul pianeta Taloraan. Non l’avevano impressionata più di tanto, ma quando si accorse della sua scomoda posizione e del supporto a cui era stata bloccata i ricordi tornarono immediatamente a galla.
Sotto di lei una pozza circolare del diametro di almeno cinque braccia sembrava aspettarla: il gas che ne fuoriusciva sembrava di colore più rosso andando in profondità, e pur con lo sguardo offuscato la clawdita si accorse del sinistro scintillio argentato del lago di carbonite sottostante. Il fluido denso si nascondeva alla sua vista, ma Zam sapeva quanto quei pozzi di conservazione del tibanna potessero essere profondi e per quali usi meno “legali” la carbonite fosse conosciuta.
La piattaforma su cui era bloccata mani e piedi volteggiava al di sopra del lago di tibanna e carbonite grazie ad un supporto magnetico, e solo gli strettissimi bracciali di acciaio rinforzato impedivano al suo corpo di precipitare.
Ma non era l’idea di un bagno nella carbonite a farle tremare la voce.
Lo Jedi la osservava, ma qualcosa nei suoi occhi sembrava assente, come se qualche strano pensiero gli stesse attraversando la testa. “Non farmelo ripetere un’altra volta, schifoso umano … COSA VUOI DA ME?”
Non appena alzò la voce l’altro sembrò riprendersi. Fece qualche passo verso il bordo della vasca, chiaramente incurante dei danni che il gas energetico avrebbe potuto apportare ai suoi striminziti polmoni umani. “Nulla”.
Zam si accorse di star trattenendo il fiato.
“Sì, in realtà non c’è nulla che io voglia da te. Non che tu abbia qualcosa da darmi, dopotutto” fece, allontanando un ciuffo di capelli dalla faccia. A quella distanza la cacciatrice di taglie si accorse della leggera cicatrice che gli tagliava il sopracciglio destro dall’alto verso il basso, una sottile linea scura che non aveva notato nel loro scontro tra i grattacieli di Coruscant. Maledisse la secchezza causata dal tibanna che le impediva di sputargli in un occhio.
“Sono venuto soltanto per comunicarti che il vostro tentativo di assassinare la senatrice Amidala si è concluso con la vostra sconfitta. Ho guidato personalmente l’esercito della Repubblica sul pianeta di Geonosis, ed abbiamo schiacciato la vostra feccia separatista”
“Che carino, adesso vuoi pure l’applauso? Credo però di avere qualche problema con le mani, sai com’è …”
Le parole le uscirono di bocca a stento, con molta meno energia di quanto avrebbe sperato. La testa le sembrava frammentata in mille pezzi, e ad ogni battito del proprio cuore anche la mente riusciva a riprendere a volare col proprio ritmo.
Sì, in fondo aveva sempre saputo che i misteriosi committenti di Jango fossero i Separatisti, e l’ultima missione che avevano affidato loro era stata una prova schiacciante. Ripensò alla senatrice ancora nella propria stanza, ed al goffo tentativo che aveva eseguito per privarle la vita al posto del suo compagno. Ovunque Jango e Boba fossero, non erano lì.
La sola idea le creò una scarica di adrenalina per tutto il corpo.
Tentò ancora di liberare il polso sinistro, carica di tutta la rabbia che aveva in corpo, ma l’altro alzò il palmo e di colpo si ritrovò la propria mano ancora adesa alla piattaforma come se un peso invisibile la stesse schiacciando contro il marmo. Lo Jedi sembrava impassibile, eppure a Zam sembrò di scorgere uno strano sorriso predatore lungo quelle labbra sottili e scure. Da quel poco che conosceva sul loro Ordine, gli Jedi venivano addestrati a sopprimere o mitigare i loro sentimenti per non usare i loro poteri in maniera sconsiderata, ma il giovane davanti a lei non smetteva di trasmetterle sensazioni contrastanti, come un rancor a cui avessero di colpo insegnato a non ringhiare.
“È un vero peccato che il Consiglio Jedi sia così a favore della vita, cambiapelle. Fosse dipeso da me la feccia della tua risma si troverebbe la testa staccata dal busto”.
“Da oggi il Consiglio Jedi mi sarà più simpatico…”
Sbuffò, sentendo la presa telepatica dell’altro allentarsi “… un pochino”
“Questo non vuol dire che verrai rilasciata. Hai ancora molte domande a cui rispondere”
“A giudicare dalla mia attuale posizione non lo avrei mai detto, Jedi” fece, sforzandosi di non rivolgere sguardi preoccupati al flusso di carbonite sottostante. L’odore denso del tibanna le bruciava leggermente nelle narici, ed avrebbe giurato di sentirselo fin nel cervello. “Anche se avrei preferito risvegliarmi a bordo di una nave con un biglietto di sola andata verso qualsiasi pianeta della Galassia lontano da te”.
“Il biglietto dovrà aspettare un po’. Anche se non sono sicuro della rotta che vorrai prendere”.
Si avvicinò ancora di più, quasi sul bordo della vasca, e la sensazione di freddo e disagio che l’umano emanava divennero ancora più pungenti, quasi come spilli affondati con forza. “Quell’altro cacciatore, il Mandaloriano …”
Non finì la frase.
Zam attese, sentendo il sangue alle braccia venirle meno di colpo.
L’aria della decompressione scivolò tra di loro, riempiendo il silenzio con un sibilo. “Cosa c’entra lui?”
Le rispose una veloce scrollata di spalle. “Immagino che tu conosca il congelamento da carbonite. Più sicuro che tenere una come te in una cella, poco ma sicuro. Tra qualche giorno verranno altri Jedi ad interrogarti su questo caso, spero che per allora sarai più collaborativa” disse, avvicinandosi ad una pulsantiera sopraelevata e digitando dei comandi con una lentezza così deliberata da farle accelerare il cuore. “Dovresti essere grata del trattamento che ti stiamo riservando. Al tuo compagno non è andata altrettanto bene”
“COSA GLI HAI FATTO?”
Al tocco dello Jedi un unico sibilo attraversò la piattaforma e le cinghie che la sorreggevano si strinsero ancora di più, ma Zam cercò di contorcersi, di gridare, di strapparsi di dosso tutto ciò che la inchiodava.
L’immagine di Jango il giorno in cui aveva rimosso l’elmo sotto il temporale di Kamino prese a sfrigolarle davanti agli occhi.
La piattaforma mandò un rumore metallico, una cacofonia di pompe e connettori arrugginiti che prendevano vita solo per avvicinarla al lago di carbonite, e la figura dello Jedi prese ad allontanarsi.
“Attentare alla vita della donna più pura della Galassia è un crimine indicibile. Ho avuto cura di eseguire la mia sentenza personale”.
In mezzo al tibanna, tra le volute di un’arancione più denso di qualsiasi sole, Jango cercò di convincerla a non avere paura, a gustarsi quella cena con quel piatto strano della Terra I dalle posate insopportabili.
“Far rotolare la sua testa sulla sabbia di Geonosis ha migliorato di molto il mio umore. Di quello gliene rendo atto”.
Al contatto della carbonite il suo corpo fu scosso da un brivido indescrivibile, un dolore di ghiaccio che le partì dalla punta dei piedi e le strinse tutti i muscoli come in una morsa; si propagò lungo la sua schiena, aderente come un vestito troppo stretto, scivolandole attraverso ogni nervo del suo corpo per schiacciarglieli nel successivo torpore. Il congelamento istantaneo le prese la bocca, la gola ed i polmoni, ma anche quando le sommerse la punta dei capelli Zam nemmeno se ne accorse.
La sua testa andò alla collana sacra di beskal, e alle mani dell’uomo che aveva amato che gliela chiudevano gentilmente lungo la pelle.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Accettazione ***


Capitolo 16 - Accettazione







Gea Oganae








Zexion provò a resistere per un quarto d’ora, ma quando Gea spalancò le porte dell’ascensore che conducevano al settimo livello delle miniere accettò con un sospiro l’erogatore d’ossigeno passatogli da uno dei minatori. Tutti gli uomini lì dentro li indossavano, ed un paio di loro mostrava lungo le guance i segni permanenti dell’ingresso dei minuscoli iniettori.
Le lunghe cave di teroa si snodavano nel sottosuolo di Onoam per centinaia di chilometri. Le mappe olografiche che i Servizi gli avevano fornito prima della partenza coprivano circa dodici livelli, ma qualcuno dei suoi colleghi del distaccamento di Naboo sospettava che ne esistessero almeno il doppio, e che alcuni dei quali corressero vicinissimi al nucleo della luna. Alcuni droidi estrattori passarono al suo fianco, e Zexion si appiattì contro la parete per evitare di finire travolto da quelle masse enormi e cigolanti, ben lontane dalle macchine di primo livello che aveva visto lungo la superficie di Geonosis o di Kessel. Gli uomini e le donne della miniera si muovevano con una strana eleganza intorno a quelle figure d’acciaio che occupavano quasi tutto il percorso, e non gli sfuggì il pugno affettuoso che Gea lanciò ad un droide fermo in un angolo.
L’illuminazione era fioca a causa dell’incredibile reattività del teroa alle radiazioni luminose della maggior parte degli spettri, e la visibilità attraverso quel dedalo di macchinari, uomini e roccia era rischiarato soltanto dal baluginio rossastro dei cristalli che facevano capolino dalle pareti.
La maggior parte delle gallerie era alta, e nei punti più alti alcuni uomini dovevano estrarre in bilico su dei carrelli ad espansione, mentre in alcuni passaggi la roccia curvava talmente tanto che lo stesso Zexion dovette camminare più volte a carponi. L’aria degli erogatori era così fetida da ricordargli le fogne dei livelli inferiori di Coruscant, e non era così sicuro che gli iniettori fossero stati sterilizzati nel passaggio tra lui ed il suo predecessore; in un paio di incavi Gea suggerì di indossare delle visiere, e quando Zexion vide la quantità di sabbia e pulviscolo depositate al di sopra del vetro capì del perché gli uomini di Onoam avessero gioito tanto all’arrivo del carico della MinoTech.
Più si addentravano sottoterra e più la sensazione di chiusura ai polmoni si faceva pressante, e la flebile aria mossa dagli erogatori nelle sue narici non riusciva certo a restituirgli la necessità di percepire il proprio elemento. Non aveva mai posseduto un eccellente senso dell’orientamento anche all’aria aperta, ma era chiaro che Gea Oganae avesse tutte le intenzioni di confondergli le idee.
“Che te ne pare, Ienzo? Senti già la mancanza delle alte vette di Coruscant?”
Il ragazzo emerse dall’ennesimo cunicolo con cuore il procinto di esplodergli per lo spazio angusto ed il caldo che gli si era appiccicato ai vestiti. La mano d’istinto sfiorò il dispositivo automatico di recupero in dotazione dei Servizi, l’unica certezza che almeno un droide medico sarebbe potuto riuscire a rintracciarlo in caso di emergenza.
Si appoggiò al costone di roccia, senza più nemmeno sforzarsi di nascondere il proprio disagio al capo dei minatori. “Mettiamola così, su Coruscant c’è un altro tipo di inquinamento” mormorò “Ma tutta la Galassia è così”.
“Allora non hai mai messo piede su Naboo, ragazzo”.
La nuova area dove avevano messo piede era piuttosto ampia rispetto agli altri livelli. Per qualche istante Zexion ebbe l’impressione di essere addirittura risalito di almeno un livello, e le orecchie richiesero del tempo per abituarsi alla nuova pressione.
Ogni passo, ogni movimento anche minimo dei lavoratori era accompagnato da un cigolio inquietante che l’eco della caverna amplificava a dismisura; uomini, donne e droidi scivolavano a numerosi metri sopra le sue teste, dove un dedalo di impalcature e tubi disegnava una rete a cui le figure erano appese mediante supporti che anche a quella distanza Zexion era sicuro che non fossero stabili. I cristalli di teroa brillavano in maniera flebile, incastonati contro il soffitto della caverna. Le ombre dei minatori erano delle macchie scure contro la fioca luce rossastra, e brandivano degli strumenti estrattivi che probabilmente erano antecedenti alla Guerra dei Cloni; in un angolo, accatastati e coperti da vecchi teli, un paio di invertitori gravitazionali di sicurezza giacevano spenti, senza dubbio guasti. Numerosi droidi scivolano a terra e raccoglievano i cristalli che i minatori lasciavano cadere a terra con il loro lavoro, alcuni così lenti da non riuscire ad evitare la roccia che cadeva contro le loro strutture.
Gli odori dei lavoratori erano ovunque, e la loro apprensione emergeva nonostante la puzza acre del sudore e l’aria stantia e non purificata da settimane.
Ad una donna cadde una trivella ad accoppiamento da oltre sette metri, e la sua imprecazione quando lo strumento esplose in una nuvola di scintille probabilmente la avrebbe sentita persino il governatore Saruman su Naboo. Un droide astromeccanico incredibilmente rumoroso accorse nel luogo dell’impatto, il faro ridotto ad una sottile lama di luce per non creare instabilità nella massa di teroa sovrastante, ma un suo cinguettio sconsolato ed una parziale rotazione della cupola fecero capire agli astanti che purtroppo per lo strumento non vi era più nulla da fare. La minatrice borbottò qualcosa a metà tra l’ennesima imprecazione ed una scusa, ma l’eco trasformò il tutto in un suono buio e non articolato.
“Incidenti di tutti i giorni” mormorò Gea, prendendolo per la manica ed indicandogli quello che sembrava un ibrido tra un ripostiglio di droidi ed un ufficio e che non avrebbe mai notato se non fosse stato per qualche leggera luce artificiale che traspariva dai pertugi. Il ragazzo la seguì senza fare storie, ascoltando le sensazioni degli uomini al loro passaggio, figure immerse nel buio che emanavano un odore di curiosità.
E, allo stesso tempo, una flebile nota di speranza.
Quello che doveva essere l’ufficio della capo minatrice Oganae aveva di intatto soltanto una postazione olografica appoggiata su una scrivania. L’intero mobile era costellato di proiettori, olografie luminose e quelle che a sua interpretazione dovevano essere rappresentazione di aree della miniera a cui aveva attribuito colori difficili da interpretare. L’odore della donna permeava tutta la stanza, e la causa probabilmente era l’enorme tuta buttata su una sedia che Gea rimosse per farlo accomodare: la sedia non cigolò sotto il suo peso, ma il giovane retrasse la mano non appena commise l’errore di appoggiare il palmo contro la seduta, rinvenendo polvere e sassolini.
Con un gesto secco la donna spense il proiettore, e trascorse qualche secondo al buio prima di accendere una lampada rotonda che ad una prima occhiata Zexion avrebbe scommesso che fosse rotta. “In un altro ufficio ti avrei offerto qualcosa da bere, Ienzo. Ma purtroppo qui sotto non possiamo permetterci certi lussi. Al massimo un po’ d’acqua”.
“L’acqua andrà benissimo” rispose.
Gea si voltò per aprire una tanica, ma al giovane non sfuggì il guizzare degli occhi della donna nella sua direzione.
Il droide astromeccanico che aveva visto qualche minuto prima entrò senza nemmeno farsi annunciare, e nonostante i sensori finì comunque per travolgere una serie di macchinari accatastati vicino alla scrivania. Gea lo guardò con aria di sfida, versando parte della tanica in una tazza e porgendola a Zexion con le sue enormi mani. “Fai come ti pare, CR. Non che tu mi abbia mai dato ascolto” brontolò, chiudendo con forza il contenitore. “Attieniti solo al protocollo”.
Il ragazzo osservò il droide brontolare qualcosa, uscire in retromarcia ed allontanarsi rumorosamente verso il fondo della maniera, il suo naso concentrato solo sulla quantità di persone che dovevano aver bevuto in quel bicchiere prima dell’ultimo lavaggio.
La setticemia sembrava un’opzione piacevole, e strinse di nuovo a sé il salvavita.
Ma rifiutare un bicchiere di preziosa acqua in un luogo simile avrebbe accorciato ancora di più la sua vita, almeno dallo sguardo fisso di Gea Oganae, dunque la mandò giù in un solo colpo.
Era calda e disgustosa.
La donna si sedette, gettandosi di peso su una sedia identica alla sua ma con un bracciolo sfondato. “Non sei un po’ giovane per questo tipo di lavoro, Ienzo?” domandò, spostando tutto il peso sulla sedia. “Ammetto che non mi sarei aspettata un visino ripulito come il tuo, qui sotto”.
“Appunto”.
Con la sala immersa nella penombra, Zexion inspirò con tutte le energie che gli occorrevano.
Era chiaro che la donna avesse scelto quel luogo proprio per la scarsa visibilità, ma era un dettaglio che lo avrebbe solo avvantaggiato. La sua interlocutrice aveva ancora numerosi dubbi, ed al giovane non era sfuggito il suo odore che di incuriosito aveva ben poco, così come aveva percepito l’arrivo di un paio di minatori bene armati proprio al di fuori dell’ufficio. Incrociò le mani sulla scrivania, accorgendosi di quanto fossero appiccicose. “Non se lo aspetterebbe nessuno. Di norma … un esponente del popolo nanico sarebbe stata la scelta più ovvia quando si tratta di miniere”
“Parli dei nani con una discreta facilità, Ienzo”.
Gea incrociò le braccia, piegando leggermente la testa verso di lui. “Un popolo famoso per la sua fedeltà alla causa della Ribellione. Non esattamente benvoluti in territorio imperiale, sai?”
“Un motivo in più per non mandarne uno su un’aeronave della MinoTech”.
La pressione intorno a lui iniziò a mutare insieme ai pensieri della minatrice.
Respirare lì sotto ormai stava diventando impossibile, ed il ragazzo puntò i piedi contro la sedia, costringendosi a rimanere vigile anche se tutti i muscoli del corpo gli stavano gridando di uscire di lì e correre a prendere una boccata di aria vera. Gli odori della donna, mescolati a quelli degli uomini al di fuori, sembravano un’onda su cui fosse costretto a rimanere in piedi
“Suppongo che tu abbia già avuto a che fare con dei nani …” mormorò, sperando che il tono colloquiale della frase riuscisse a spingere la minatrice ad un nuovo passo “… in tempi recenti, intendo dire”.
“E chi potrebbe dirlo, Ienzo?”
Poche parole, ma la vera risposta giunse alle sue narici, forte e chiara.
“Beh, sarebbe un vero peccato se non ne avessi visto nemmeno uno. Qui dentro è chiaro che siate tutti minatori capaci, ma mi sentirei sollevato nel sapere di aver consegnato il materiale nelle mani di gente che appartiene davvero al sottosuolo. È stato un viaggio pieno di rischi”.
“Non lo metto in dubbio, e per questo ti rinnovo i ringraziamenti di tutti noi. Solo che …”
Le sue dita picchiettarono su un pad. La luce si riflesse sulle sue unghie distrutte, scintillando con prepotenza nella penombra dell’ufficio; dei file si aprirono, ma lo schermo era saggiamente volto nella direzione opposta ai suoi occhi.
Dall’esterno giunse un brusio confuso, ma il giovane non poteva concedersi il lusso di una distrazione.
A giudicare dal rumore metallico e dal brusio, il droide CR doveva essere tornato.
Con secondo gesto più imperioso, Gea Oganae chiuse i file e si protese verso di lui. “… non ero stata avvisata della tua visita, Ienzo. E non sono un’amante delle sorprese, sai? Per quanto terribilmente gradite…”
“Credevo che una come te sapesse come funzionano queste cose” disse, sollevandosi dalla sedia.
L’altra si alzò di riflesso, seguendo il suo movimento per continuare a torreggiarlo.
Ma i suoi pensieri adesso gli invadevano le narici forte e chiaro, così come era chiaro che non avrebbe mai accettato alla leggera la parola di qualcuno più debole di lei. “Pensi sul serio che l’Alleanza metta tutti al corrente di tutto? Specie con i soldati di Saruman dentro questa miniera? Nemmeno io avevo idea di chi avrei incontrato quaggiù, né se altri siano stati avvisati …”
Sorrise, costringendosi a concentrarsi al massimo per mantenere un’espressione che risultasse quantomeno decisa. I suoi sensi come un guizzo sembrarono attirarlo fuori dall’edificio, ma gli occhi rimasero puntati contro quelli scuri di lei. “Ogni frase in più del necessario può arrivare alle orecchie degli imperiali. E nessuno di noi vuole trovarsi degli assaltatori in casa, dico bene?”
Lei si morse il labbro, come a soppesare le sue parole. Zexion si sentì scrutato fin nel profondo, ma resse lo sguardo inquisitore.
Il calore dell’intera miniera sembrò avvolgergli le spalle come un mantello, ritrovandosi a sudare copiosamente.
Ma, prima ancora che la stessa Gea potesse rivolgergli il suo solito ghigno provocatore, il giovane sentì di aver ottenuto ciò per cui era giunto.
“Punto a tuo favore, piccoletto. Mi sembri pure troppo sveglio per essere dell’Alleanza ma ehi, sono solo una scavarocce, certe cose non fanno per me” fece, rimettendosi di colpo seduta e allungando la mano per riempirsi di nuovo la tazza d’acqua. Un sospiro di sollievo scappò anche dalle labbra di Zexion quando vide gli enormi bicipiti della donna decontrarsi, ma ebbe cura di nascondere la propria espressione sotto al ciuffo. La minatrice controllo velocemente il pad, digitò un comando e poi sollevò lo sguardo per rivolgerlo alla porta. “CR si è attenuto alla prassi. Uno dei diplomatici dell’Alleanza sbarcati nei giorni scorsi verrà a riceverti”.
“Come ho già detto, è verosimile che non si tratti di qualcuno che io possa conoscere. Lo stesso trasporto di contrabbando dai depositi della MinoTech è stato organizzato con la minima dispersione di informazioni possibile” mormorò.
Il peggio era passato, ma si trattava soltanto del primo passo.
Non si era assunto i rischi senza motivo, e ad ogni minuto che passava era certo che l’aria gli sarebbe bruciata nei polmoni; il comunicatore salvavita sembrava esserglisi attaccato al guanto per il sudore, e l’attesa del responso finale sembrava un’agonia.
Poi, ad un tratto, complice un leggero spiffero al di sotto della porta, l’odore del delegato gli giunse come un colpo di frusta. Piacevole e profumato, non intenso, ma assolutamente l’unico odore che non avrebbe mai dovuto incrociare nel corso di quella missione.
Vi era una sola persona nell’intera Ribellione che avrebbe potuto scoprirlo, e tra tutte le migliaia di pianeti abitabili e non della Galassia doveva trovarsi proprio nel sottosuolo della luna di Onoam.
“Tutto a posto, Ienzo?”
La voce di Gea lo colse di soprassalto, e cinque dita si strinsero intorno alla sua spalla. Era chiara che lo stesse facendo solo per sorreggerlo, ma al giovane scricchiolarono come se un gigante gli avesse appena afferrato per stritolarlo ed incatenarlo alla sedia. “Hai una faccia …”
“Credo … credo solo che mi manchi l’aria …” sussurrò, cercando di alzarsi.
L’odore si avvicinò, accompagnato dal clangore del droide astromeccanico.
Zexion si voltò di colpo, facendo scivolare gli occhi per tutta la stanza, e si alzò nonostante la donna cercasse di trattenerlo seduto.
La porta si aprì, e due grandi occhi azzurri fin troppo familiari incrociarono i suoi.
“Padron Zexion? Cosa ci fa qui?”
Qualunque risposta intelligente fosse sul punto di uscirgli dalla bocca rimase gorgogliante a metà, scoppiando come una bolla dentro la sacca dell’erogatore.
La solita espressione odiosa da pesce lesso di Camus invase il suo campo visivo, seguita dall’unica frase possibile che il sacerdote potesse pronunciare “Ma lei non stava con i Servizi Segreti?”
“MA BRUTTO …”
L’ultimo atto cosciente di Zexion fu quello di premere con tutta la forza in corpo il segnale del comunicatore di emergenza prima che l’enorme mano di Gea Oganae lo ributtasse a terra per colpirlo in pieno viso con un pugno.







 
 
La pozza di magma ribolliva pigramente.
Zam non era mai stata una grande amante delle temperature estreme, ma in quel momento il vapore giallastro che fuoriusciva dalla bocca secondaria del vulcano giocava a suo favore.
Parlare di Jango non la metteva mai a suo agio.
A pochi passi da lei, il Generale Baran sembrava una statua scolpita nella roccia nera nel vulcano, seduto a terra in mezzo al vapore ed alle scintille. Il diadema dorato che gli incorniciava l’occhio sinistro risplendeva con venature simili al fuoco, l’unico elemento che avrebbe potuto definire “vivo” su quella figura immersa nella meditazione; nemmeno il mantello o la stoffa degli abiti sembrava scossa dal leggero soffio d’aria che proveniva da oltre il vulcano, e per tutta la durata del suo racconto l’uomo era rimasto nella medesima posizione senza emettere un suono o piegare il collo.
Se non si fosse trattato del Cavaliere del Drago in persona, Zam sarebbe stata pronta a scommettere che il suo interlocutore non avesse ascoltato una singola parola del suo racconto.
E, si ritrovò a pensare con amarezza, forse sarebbe stato preferibile.
Non si era mai considerata una donna romantica, ma anche dopo più di venti anni d’assenza sarebbe stata pronta a giurare di sentire le dita di Jango avvilupparsi tra i suoi capelli in mezzo a quelle volute di fumo acre e vapore. Parlando con il Generale si era resa conto di quanto negli ultimi tempi il proteggere e nascondere Neos avesse coperto la sensazione di mancanza del suo compagno, e questo l’aveva forse rattristata più del dovuto.
Ai lati del Cavaliere del Drago, poste su due bracieri, una fiamma rossa ed una azzurra guizzavano incuranti dell’ambiente in cui si trovavano, brillanti come se lo stesso magma sotto di loro cercasse di rispecchiarvisi. Zam aveva notato che durante il suo racconto le fiamme erano lentamente aumentate, passando da semplici braci a lingue di fuoco lunghe quanto un suo braccio.
“Ti ringrazio di avermi narrato della tua perdita”.
La figura parlò, anche se si mossero soltanto le sue labbra. “Avresti potuto ometterlo, eppure hai deciso di espormi una tua debolezza. Non me lo aspettavo”.
“Se è per questo nemmeno io. Ma è stato lei per primo, Generale, a chiedermi come mi fossi unita all’Impero Galattico”.
“Al momento non riesco a vedere il collegamento”.
Zam mosse con lentezza un passo in avanti. Il Cavaliere del Drago non mosse un muscolo, né parlò per allontanarla, dunque costrinse la gamba sinistra a continuare il movimento, portandosi ancora verso di lui. La debolezza dei primi giorni era andata ad affievolirsi, e le piante dei piedi sembravano ricordare in maniera ottimale come spostarsi priva di un sostegno. Sospirò tra sé rendendosi conto che avrebbe avuto bisogno ancora di qualche giorno per una riabilitazione quantomeno sufficiente. Il sangue del drago, come le aveva mormorato lo stesso Generale durante un dormiveglia, compiva miracoli eccezionali, ma era compito delle persone ritornare a muoversi nel mondo.
Da quella posizione riusciva a scorgere la punta dei baffi neri, anch’essi quasi immobili sul viso contratto.
“Dovrà pazientare ancora un po’, temo” disse “È un argomento …complicato”.
Di Jango ne aveva parlato ben poche volte anche con persone come Mara o Daala, figure con cui negli anni aveva instaurato un buon rapporto di confidenza. Talvolta ne aveva discusso anche con Boba, ma sapeva che con il cacciatore di taglie era spesso molto difficile esporre argomenti così personali. “Ma conto di avere abbastanza tempo da raccontarle tutto”.
La figura si alzò, scostando con un dito la cenere dallo spallaccio. Gettò uno sguardo sul fondo del crepaccio dove il magma sfrigolava in decine di enormi bolle che scoppiavano lungo la superficie per alimentare il vapore fastidioso.
“Ho una domanda da porti”.
Zam si immobilizzò, colpita dallo strano cambio di tono nella voce del Generale. “Mi dica …”
“La morte del tuo compagno … credi che avresti potuto evitarla, se fossi stata lì? Se fossi stata pronta alla battaglia, saresti riuscita ad uccidere quello Jedi?”
Sussultò, sentendo improvvisamente la presa dei piedi venirle meno. Allungò una mano, afferrando uno dei bracieri vicino a lei, accorgendosi solo in quell’istante che la fiamma azzurra emanava una strana frescura che contrastava il calore ed il fuoco del vulcano. Ebbe bisogno di qualche secondo per deglutire, sforzandosi di cercare un senso alla domanda dell’uomo; da quando si era risvegliata nel suo territorio il Cavaliere del Drago si era limitato ad ascoltare i fatti, senza perdersi in domande idiote come i se o i ma.
Eppure la domanda era lì, nell’aria e nel fuoco, e capì che il signore dei draghi non avrebbe nemmeno aperto gli occhi finché non avesse ricevuto una risposta soddisfacente. Respirò, non del tutto certa che quell’amaro che le invase i polmoni fosse causato dai fumi del vulcano. “Io … credo di sì. A Coruscant mi ha catturata, ma sono convinta che se lo avessi visto minacciare Jango e Boba … avrei potuto fare di più” sussurrò “Avrei potuto fare la differenza”.
“E questo non ti rende dunque colpevole? Si potrebbe pensare che sia stata la tua assenza a ucciderlo, almeno in parte”.
Zam tremò.
L’affermazione rimase nell’aria, sfrigolando.
Non era stata la prima volta che quel pensiero l’aveva attraversata, ma aveva cercato negli anni di addormentarlo. Ne aveva parlato qualche volta con Mara, una di quelle persone che di certo non si perdeva in frasi di cortesia soltanto per alleggerirle la coscienza, ma anche lei aveva cercato di alleggerire quel senso parziale di colpa che era nato lo stesso giorno che quello Jedi l’aveva bloccata nella carbonite. Se non avesse preso la decisione di assassinare la senatrice da sola probabilmente Jango non sarebbe morto. “Lei affronta sempre i problemi in modo così diretto, Generale?”
Lui abbandonò l’immobilità, muovendo leggermente la testa verso il centro della pozza come a cercare qualcosa nel vapore impenetrabile. “È l’unico modo che conosco, e sono convinto che tanti anni al fianco della famiglia demoniaca lo abbiano fortificato” disse “Ma non mi hai risposto”.
“Ho risposto ad una domanda con un’altra domanda. Un po’ troppo umano da parte mia, e mi scuso” disse, ascoltando il suono del proprio cuore.
Sì, aveva addormentato la domanda per tanto tempo, forse temendo il dolore.
Ma la sensazione di aver sbagliato ogni singolo passo e di aver causato la fine della persona che aveva amato più di ogni altra al mondo … non poteva semplicemente ucciderla.
Ed era incredibilmente strano e perfetto come una creatura a metà tra l’uomo, il demone ed il drago che aveva combattuto con tutte le proprie forze fosse stato in grado di sputarle dalla bocca una verità a cui aveva cercato di dare forma anche in presenza di persone amiche ed alleate.
La vera differenza tra un dio ed un mortale come lei. “Sì. E non è stata anche colpa mia. È stata soprattutto colpa mia. Ho creduto di poterlo salvare con le mie forze, e l’ho portato invece alla morte” disse. La mano destra le corse d’istinto alla guancia, come a sopprimere una lacrima, ma il fuoco, il vapore e qualcosa di doloroso al centro del suo petto non le fecero trovare altro che una pelle riarsa. “Non so cosa sarebbe accaduto se avessimo lavorato insieme, ma sono convinta che il risultato sarebbe stato … preferibile. E la ringrazio per avermi costretta ad ammetterlo”
A quelle parole, il signore del Choryugudan si voltò.
L’espressione al di sotto delle sopracciglia nere era immobile, ma non vi era quel sentimento duro che Zam si sarebbe immaginata.
Quello, probabilmente, era dipinto sul proprio viso.
Si avvicinò a lei, sollevando il gomito per fornirle un appoggio. “Un altro argomento su cui ci troviamo d’accordo. Non essere presenti è una colpa. Non agire è una colpa”
Chinò la testa, evitando i suoi occhi per la prima volta da quando si erano incontrati.
“Fallire è la più grave delle colpe”.
Uno strano silenzio cadde in mezzo a loro.
Zam accettò il braccio senza dire altro, sentendo al di sotto della tunica i muscoli indurirsi più del necessario, ma delle decine di parole che cercavano di uscirle dalla testa non ve ne era nessuna adatta a capire quali pensieri passassero dietro quel diadema dorato e quella pelle che nemmeno i lapilli del vulcano riuscivano a bruciare.
Presero lentamente a scendere.
Le sembrava che ogni passo fosse contemporaneamente più pesante e più leggero di quando fosse salita.
“Per oggi le storie possono aspettare”
Il Cavaliere ruppe il silenzio, bloccandosi a metà del percorso e voltando la testa verso un punto dell’orizzonte. Zam seguì lo sguardo, osservando uno stormo di draghi che non aveva mai visto muoversi in formazione verso la caverna del suo ospite, figure allungate e sinuose che sembravano addirittura salire e scendere tra le nuvole grigie. “Avrei il piacere di farti conoscere qualcuno”.
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Preparativi per la festa ***


Capitolo 17 - Preparativi per la festa







Baran








Zam si era sempre considerata piuttosto esperta di creature di ogni forma, soprattutto dopo l’addestramento forzato al seguito dell’Imperatore, ma nessuna delle due figure appena scese dai rispettivi draghi da combattimento rientrava tra le specie che avesse mai visto. I file sugli eserciti del Grande Satana avevano ogni tanto portato alla sua attenzione alcune creature animalesche con tendenza all’andatura bipede -un certo Crocodyne, sebbene non fosse sicura del nome- ma era stata costretta a seguire con maggior attenzione i ranghi demoniaci veri ed ovviamente tutti i dati riguardanti il pericoloso Ryumajin.
Il fatto che gli occhi di entrambi fossero puntati nella sua direzione non migliorava affatto la situazione.
Scese dal dislivello con la massima lentezza, ascoltando i propri piedi mentre sfioravano i ciottoli; era la prima discesa che affrontava senza aggrapparsi al braccio del Generale Baran, e non aveva alcuna intenzione di inciampare davanti alle due figure in attesa, sulle cui tuniche scintillavano degli stemmi dorati a forma di teste di drago.
Il signore del Choryugudan scese per primo, ed entrambi chinarono il ginocchio.
“È mio piacere farti conoscere due dei miei comandanti. Suppongo che tu li abbia sentiti fin troppo durante la tua guarigione, ma credo sia il momento di presentarvi di persona come si conviene” sussurrò.
Se Zam non fosse stata concentrata fino allo spasmo di non mostrarsi troppo debole sarebbe stata pronta a scommettere di aver sentito un tono … divertito … uscire dalla bocca dell’uomo.
Alle sue parole si alzò la prima delle due creature, compiendo un passo verso di lei. In piedi su entrambe le zampe superava di un paio di teste l’umano più alto che avesse mai visto, e l’ombra che proiettò la sua figura coprì sia il suo corpo che quello del generale Baran. L’intera forma era coperta di scaglie azzurre che non riuscivano a nascondere la muscolatura enorme, innaturale e lontana da qualsiasi essere umano; le mani ed i piedi sfoggiavano degli artigli corti che ne denotavano l’appartenenza al ramo animale della famiglia demoniaca. Il muso era allungato, e quando si chinò nella sua direzione fu l’essere stesso a indietreggiare per evitare che le due lunghe zanne che emergevano dalla forma della sua bocca le sfiorassero i capelli. Gli occhi, seppure molto più grandi dei suoi, a tratti sembravano addirittura sparire al di sotto degli spessi strati di pelle e squame che li circondavano, così come uno strano diadema che indossava a livello della fronte che catturò immediatamente la sua attenzione.
La voce era profonda, come se fosse pensata per risuonare al di sotto degli abissi del mare. “Generale Borahorn, divisione marina del Choryugudan. Al vostro servizio, mia signora”.
Quasi ad eco delle parole dell’enorme figura marina, il suo compagno scattò sulle zampe e si portò con un solo salto davanti a lui. Era di poco più alto di lei, ma nulla tradiva la stessa appartenenza al ramo animale della famiglia demoniaca di Borahorn; sebbene la postura e la presenza di arti potessero ricordare lontanamente un sembiante umano simile a quello degli s’kytri, l’enorme becco ed il piumaggio dorato che lo rivestiva dal capo alle zampe lo rendeva di fatto un appartenente al ramo dei volatili. Un robusto paio d’ali era chiuso alle sue spalle, ma quando Zam fece un passo avanti per immaginarne la possibile estensione quello accennò ad un secondo inchino, meno fluido di quello rivolto al suo signore ma allo stesso tempo più elegante di molti che avesse visto nelle corti di Coruscant e Naboo; il gesto rivelò una doppia fila di penne bianche e rosse che partivano dalla fronte e scendevano dietro al collo, in una foggia che poteva ricordare da vicino i capelli degli umani. A dispetto della sua figura, il tono che uscì dal becco non era affatto gracchiante o stridulo, bensì di numerosi toni più alto di quello del suo compagno. “Generale Gurdandy, divisione aerea del Choryugudan. È stato un piacere ed un onore vegliare sul vostro riposo, mia signora”.
“Il piacere è soprattutto mio. Ed il poter conoscere di persona coloro che guidano gli eserciti del Cavaliere del Drago è prima di ogni altra cosa un onore”.
“Visto, Gurdandy? Lo ha detto guardando nella mia direzione!”
“Un po’ difficile il contrario” borbottò il soldato dalle enormi ali “Occupi praticamente tutto il suo campo visivo”.
“Non dare a me la colpa della tua stazza infima”.
“Sei solo tutto grasso e niente …”
Un colpo di tosse del Cavaliere del Drago polverizzò il battibecco dei due Generali. “Credevo di essere stato chiaro su come rivolgersi ad un’ospite”.
I due si scambiarono delle occhiate rapide, ma immediatamente si rimisero in riga. Zam si limitò ad osservarli, curiosa di quell’improvviso scambio di battute. Il signore dei draghi aveva lo sguardo puntato sui suoi sottoposti, ma le sopracciglia non erano aggrottate come lo aveva spesso visto fare quando era rinchiuso nei suoi strani silenzi fatti di lava e cenere.
La figura dalle lunghe zanne si chinò ancora più verso di lei, finché le loro fronti non furono distanti un paio di palmi; nel parlare le sue zanne non ne sfioravano mai il collo, anche se la bocca era così larga che avrebbe potuto tranquillamente inghiottire tutta la sua testa. “Non c’è legione che non racconti della vostra vittoria sul Generale Hadler, mia signora. E di come abbiate duellato sui cieli del Baan Palace rivelando la forma del Ryumajin. Potervi vedere in carne e ossa in questo posto è un evento che tramanderò con onore alla mia discendenza”.
“Borahorn, tu non hai una discendenza. Nessuno ti vorrebbe a far uova, brutto come sei!”
Il volatile si piazzò con insistenza proprio davanti a lei, salendo di proposito sulla zampa azzurra del compagno. A quella distanza Zam si accorse di quanto il becco potesse essere tagliente, domandandosi se potesse riuscire ad imitare una figura simile nel corso di sue trasformazioni future. “E comunque la mia battaglia preferita è quella sul vostro pianeta Kamino. Ho visto una volta la trasformazione del signor Hyunkel in quell’angelo assolutamente poco adatto al volo, ma combattere contro lui, il Generale Baran ed il Generale Hadler …”
“Brutta palla di piume, la signora ci è morta in quella battaglia! Il Generale Baran ci ha detto di essere educati!”
“Non è niente, sul serio …” fece Zam, cercando di abbassare i toni.
I due ripresero a fissarsi con un’espressione battagliera in faccia, seguita da un paio di battute in una lingua che non riuscì ad afferrare.
Il Cavaliere del Drago scosse la testa, ma le venne vicino. “Cerca di scusarli. Le buone maniere non sono il punto di forza del ramo animale della famiglia demoniaca. Li ho tenuti lontani per un po’, ma da quando ti abbiamo portata qui non c’è giorno che non mi abbiano scritto per sapere se potessero venire a parlarti di persona”.
Rimase anche lui ad osservarli, stavolta senza nemmeno sforzarsi a richiamare la loro attenzione. Zam cercò di dire qualcosa di sensato, ma quei due esseri erano così fuori posto nella Caverna del Drago che qualunque affermazione intelligente o presunta tale sarebbe risultata irrispettosa verso quei due esseri che nonostante tutto sembravano godere del benestare del suo salvatore. Provò a sbirciare al di sotto del diadema, ma l’occhio del Generale Baran sembrava incredibilmente placido. “Preparati ad un assedio di domande. Ma fammi sapere se dovessero risultare invadenti”.
“Farò del mio meglio. Sono i vostri sottoposti” disse “Sarà un mio piacere assecondare la loro curiosità”.
“Sta bene, ma fai attenzione” mormorò l’altro, rivolgendo i propri passi verso un’area carica di pozze sulfuree. “Hadler potrebbe aver aggiunto un dettaglio o due”.
 





Per uno scienziato che aveva creato almeno sei nuovi elementi della tavola periodica e ambiva a realizzare una perfetta trasmutazione umana, ammettere di aver bisogno di aiuto per indossare un mantello da gala rappresentava un inconveniente alquanto imbarazzante.
L’infido parallelepipedo di stoffa non sembrava obbedire a nessun assioma della logica: continuava ad afflosciarsi sghembo e informe sulla spalla sinistra, finendo per ricadere in avanti e andarsi a cacciare tra le ginocchia in una promessa sicura di farlo inciampare alla prima occasione.
Inaspettatamente, fu Lavok a venirgli in aiuto.
“È un modello asimmetrico. Non combinerai nulla continuando a buttarlo all’indietro.”
“Ah.”
Il ribelle adesso si intendeva anche di moda. Fantastico.
Fosse stato altrettanto informato sugli scopi della sua stessa missione non si sarebbero trovati in quella situazione spiacevole. Vexen aveva dovuto esercitare un forte dominio su se stesso per non prorompere in una sequela di bestemmie quando i due Corthala avevano ammesso di non conoscere tutti i particolari del loro lavoro su Coruscant.
“Sappiamo che l’obiettivo è incontrare un leader della malavita locale che ha contattato l’Alleanza per proporre una… collaborazione” aveva rivelato Valygar dopo il loro ritorno dal Castello Elettrico. Seduto sul bordo del letto, il giovane Corthala aveva abbassato lo sguardo, stringendo le dita attorno alle ginocchia per tenere a bada la frustrazione. “Ma purtroppo l’identità del leader e del suo Sindacato erano noti solo a Glorfindel, l’elfo a capo della missione. Ragioni di sicurezza, presumo. Decisioni dei capi.”
“Siamo in un vicolo cieco, allora” era giunta acida la replica di Freki. “Avete idea di quanti Sindacati siano attivi soltanto in questo settore dei Bassifondi?”
“Abbiamo una password, però” Lavok si era sollevato puntellando un gomito sul cuscino. Non si era ancora rimesso completamente, ma il riposo e le cure mediche iniziavano a mostrare i loro frutti: non doveva più fermarsi ogni tre frasi per riprendere fiato e il suo colorito appariva decisamente più sano. “Una frase in codice che possiamo usare per farci riconoscere dai membri del Sindacato in questione. Non funzionerà con i pesci piccoli, tuttavia: solo gli esponenti di un certo livello sono a conoscenza della trattativa con l’Alleanza. Se ci fosse un modo per avvicinare qualcuno…”
Il modo a quanto pareva, esisteva. L’idea ovviamente era stata di Freki, che tramite la mediazione della zia Layla era riuscita a procurarsi quattro inviti per un ricevimento di gala indetto dal principe Xizor, capo del Sindacato del Sole Nero. Il pretesto della festa era celebrare il quarantottesimo compleanno del principe; il vero obiettivo, com’era prevedibile, era radunare membri potenti di diversi Sindacati per intavolare trattative, carpirsi informazioni a vicenda e pugnalarsi amabilmente alle spalle.
Da lì l’incresciosa necessità di indossare abiti eleganti.
Davanti allo specchio, Vexen scrutò con aria critica l’infame mantello asimmetrico. Abituato a vestirsi sempre di scuro si sentiva un faro nella notte con indosso tutti quei chiassosi toni del verde: non gli piaceva l’idea di attrarre troppa attenzione, specie dentro al covo di serpi in cui stavano per andarsi a cacciare. L’abito, oltretutto, era tremendamente stretto e si sarebbe trasformato in una spina nel fianco in caso di una fuga precipitosa o peggio di uno scontro. Gli sembrava che le cuciture fossero condannate a saltare via al primo movimento più ampio di una banale stretta di mano.
“Ti sta d’incanto.”
Il riflesso di Freki era comparso improvvisamente accanto al suo, la mano di lei sul suo braccio, poco al di sotto della spalla. Vexen sbuffò vistosamente.
“Ti prego. Risparmiami la tua pietà.”
“Sono serissima.”
Se c’era qualcosa dentro la cornice di quello specchio ossidato da due soldi che valesse la pena di essere definito con il termine “incanto”, di certo non era il suo patetico travestimento da albero della foresta. Al contrario, Freki aveva avuto la fortuna di riuscire a procurarsi un abito scuro, anche se Vexen non le invidiava affatto i tacchi alti e il tubino lungo che le fasciava strettamente il corpo per poi sfociare in uno scomodo strascico che prometteva di catturare tutta la polvere sui pavimenti del Sole Nero. Il vestito le lasciava le spalle scoperte, appena sfiorate dai pendenti dorati di orecchini dalla forma di una coppia di pianeti circondati da anelli.
“Mi rimarranno impigliati a qualche droide cameriere, ne sono certa” commentò lei con una risatina. Quando mosse la testa, gli orecchini le fecero eco tintinnando delicatamente. “Ma dove stiamo andando questa roba eccessiva fa furore. Vedrai che saremo i più sobri, là dentro.”
“Se prima non vedevo l’ora, adesso sto scalpitando.”
“Cerca di mettere su un’espressione meno truce” lo rimproverò lei bonariamente. “Ricorda la nostra copertura. Siamo membri del Sindacato Pyke in cerca di una sana serata di svago, alcol e gioco d’azzardo.”
Vexen annuì con scarsa convinzione. La scelta del Sindacato non era casuale: i Pyke non erano attivi in quel settore, dunque il rischio di venire riconosciuti come impostori e smascherati da qualcuno era notevolmente ridotto. Avrebbero recitato la parte degli “ospiti” in visita di piacere.
“Se avete finito sarebbe ora di muoversi” dalle loro spalle giunse il borbottio sofferente di Valygar.
“Arriviamo.”
L’unica buona notizia della serata era che il ranger sembrava ancora più a disagio di lui avvolto nel suo completo color vinaccia, con tanto di giacca a due code e foulard rosa chiaro annodato al collo come la coccarda di un pacco regalo. Vexen lo compatì, ma solo per un istante.
“La vostra principessa è pazza da legare” sibilò soltanto, mentre superava l’uomo più giovane.
Confessava di aver sperato che i due Corthala venissero richiamati sulla Terra II una volta fatto rapporto riguardo l’esito catastrofico della loro missione. E invece no. Avevano contattato l’Alleanza mentre lui e Freki erano al Castello Elettrico, e a quanto pareva la leader suprema dei ribelli era convinta che potessero ancora farcela, in due, con una conoscenza a dir poco sommaria delle più basilari nozioni tecnologiche e un’idea vagamente abbozzata delle specifiche della loro missione. Aveva dato loro l’autorizzazione a proseguire.
Nessuna meraviglia che i ribelli fossero noti in tutta la Galassia per le tattiche rocambolesche e l’assenza di un qualsivoglia istinto di conservazione.
Non lo stupiva che Camus avesse deciso di unirsi a loro.
Valygar replicò rapido e pungente, letale come l’arciere che era: “Probabile, visto che non ha ritenuto opportuno farti condannare a morte.”
Voltandogli le spalle, il ranger aprì la porta della piccola stanza al piano superiore della Discarica e si fece da parte per lasciarli uscire uno alla volta. Chiuse la fila porgendo premurosamente il braccio allo zio, che ancora zoppicava e a cui Freki aveva procurato un elegante bastone dall’impugnatura in avorio che gli dava un’aria da gentiluomo d’altri tempi.
Mentre si avviavano nella notte dei Bassifondi, Vexen lanciò un’ultima occhiata all’olopad annidato nella tasca interna del mantello e scosse la testa. Nessun messaggio, nessuna chiamata da parte di Camus. Erano già passate sei ore.
Sarà notte sul suo pianeta, pensò, poi richiuse l’olopad e si lasciò accarezzare il viso dall’aria frizzante della sera.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Nella tana del Sole Nero ***


Capitolo 18 - Nella tana del Sole Nero







Il Generale Borahorn








“Provi anche questo, mia signora”.
Una delle cose più complicate durante le trasformazioni bestiali, almeno secondo l’esperienza diretta di Zam, era l’uso corretto delle mani. La maggior parte delle creature che aveva imparato a padroneggiare avevano zampe ed artigli, e le poche che sfacevano sfoggio di qualcosa di simile ad un pollice opponibile –come i Balrog, ma anche alcune variabili di troll nell’Amn- le avevano dato non pochi problemi in fase adattativa. Provare a riproporre la versatilità delle proprie dita su esseri di taglia molto maggiore della sua aveva talvolta compromesso alcuni istanti durante dei combattimenti, e dunque la donna si accorse di star fissando fin troppo incantata gli artigli del massiccio Borahorn intenti a separare delle lische dal resto di un pesce con la precisione degna di un droide. “I pesci llan sono una delizia per il palato, ma stanarli non è semplice. Ho impiegato oltre un’ora nell’attesa che uscisse dal suo nascondiglio, ma non avrei mai pensato di presentarmi al suo cospetto con dei tristi semi e della frutta”.
“Permettimi di puntualizzare una cosa, ciccione che non sei altro!”
Gurdandy, il Generale dal becco appuntito, si mise in posa eretta. Ciononostante non riuscì a superare in altezza il suo compagno, che pure sedeva su uno dei massi con la coda appoggiata sulle ginocchia. “La signora come prima cosa ha assaggiato le mie bacche. Sarebbe evidente anche al tuo minuscolo cervello che ha preso la cosa che la attirava di più”.
“Il mio pesce andava cucinato. Ha solo assaggiato il cibo che le hai offerto per buona educazione”.
Zam guardò il Generale Baran in cerca di cerca di aiuto, ma il Cavaliere del Drago dava loro le spalle intento nella sua meditazione. La donna aveva seri dubbi su come anche il più potente Cavaliere del Drago potesse concentrarsi con quel rumoroso battibecco di sottofondo, ma dopo qualche istante in cui i capelli neri non si voltarono nella sua direzione per salvarla dalla scomoda situazione capì che stavolta nessun aiuto soprannaturale sarebbe giunto per lei.
“Era tutto buonissimo. Molto meglio di quello che si mangia dalle mie parti”.
Ad essere onesta lo stomaco le stava implorando di fermarsi già da una decina di bocconi, ma prese un’altra manciata dei semi che le aveva offerto il Generale Gurdandy e le appoggiò sul piatto di pesce in arrivo.
Il profumo era davvero molto invitante.
Mandò giù il tutto con bocconi lenti, lanciando sguardi all’una e all’altra creatura per mostrare apprezzamento.
Nella sua esistenza era stata imprigionata più di una volta, ed in nessuna di esse si era ritrovata con lo stomaco pieno.
“Iniziate a ripulire il tutto”
Il Drago mosse leggermente le spalle, facendo scintillare alla luce del fuoco le decorazioni degli spallacci. Chinò la schiena in avanti, segno che la sua meditazione fosse terminata, e bastò quel gesto per far scattare le due figure sull’attenti. “Io e la signora abbiamo ancora molte cose da dirci”.
“I suoi uomini possono restare, se lo desiderano”.
A quelle parole, Zam si accorse di averle pronunciate sorridendo.
“Ho compiuto diversi errori nella mia vita, Generale Baran. Sono finita perfino a servire e combattere per un umano per il quale provo soltanto disgusto. Ognuno dei miei passi mi ha condotta qui, e se non fosse stato per la sua generosità avrei concluso la mia esistenza sul fondo dell’oceano per mano di quel bastardo di Kaspar. Ma una cosa … una cosa posso affermarla senza timori”
I due nuovi arrivati fecero scorrere gli occhi da lei al loro signore, e per tutta risposta Zam fece loro cenno di accomodarsi vicino al fuoco. Dopo qualche secondo chinarono entrambi la testa, sedendosi, e sulle sue labbra si disegnò un sorriso che credeva di aver abbandonato ormai da tantissimi anni. “… non ho nulla da nascondere”.


Rosso.
La prima sensazione che le trasmisero i suoi occhi fu il rosso.
Un rosso intenso, da bruciare il fondo della retina, una sensazione imprecisa che dormiva dietro il peso delle sue palpebre unita alla sensazione di sentire contemporaneamente caldo e freddo lungo la pelle. La sua bocca provò a gridare qualcosa, ma a stento riuscì a rendersi conto di essere riuscita ad aprirla. Il rosso delineava contorni strani, margini di oggetti che i suoi occhi non riuscivano a registrare, movimenti impercettibili che cercavano di parlare alla sua testa ancora martellante di dolore.
Cadde a terra come se qualcuno le avesse tagliato dei fili.
L’impatto della testa contro il pavimento lo sentì a malapena, forse più una sensazione di freddo crescente contro la guancia destra, pungente quanto il dolore lungo il resto del corpo e la sensazione che i suoi piedi non fossero in grado di riprendere i normali movimenti.
C’era qualcuno accanto a lei.
Ovattata in quel rosso sempre più sfumato c’era una presenza a cui i suoi sensi cercarono di dare una forma senza alcun successo. Poteva percepirlo a qualche metro da lei, immobile, quasi come un predatore nell’ombra.
Lentamente nel rosso si scavarono l’immagine dello Jedi che l’aveva catturata, seguita dall’espressione rattristata di Jango che sembrava mormorarle qualcosa; cercò in tutti i modi di sentirne la voce, ma l’unico suono che riusciva ad entrare nelle sue orecchie era il sibilo di chissà qualche macchinario poco distante da lei. A fatica appoggiò un dito della mano destra sul pavimento, saggiando la propria resistenza, e subito dopo un palmo. Il freddo adesso la avvolgeva come un manto di sudore.
“Non fare movimenti. Sei appena uscita dalla crioconservazione in carbonite”.
Una voce bassa, ferma. Non per forza ostile, ma Zam si costrinse a volgere la testa nella sua direzione presa dalla necessità di dare una forma alla presenza che continuava a percepire nell’aria. Nel rosso ardente delineò una sagoma umanoide, vestita di scuro. “Il processo di recupero potrebbe richiedere più di un’ora”.
Non era la voce dello Jedi.
Quella l’avrebbe riconosciuta anche con i timpani distrutti.
Il pensiero di Jango la colpì di nuovo, stavolta al cuore.
Senza nemmeno rendersene conto le sue gambe schizzarono verso l’alto, costringendola in piedi, le mani che schizzarono ai fianchi alla ricerca di armi che non erano lì; scosse violentemente la testa, ricacciando il rosso, ricordando le ultime parole del suo nemico ed il pensiero che la persona più importante della sua vita non fosse più a Kamino ad aspettarla, a dirle che per gli appostamenti non era portata, a sommergerla di baci ed a prometterle di incidere i loro nomi sotto la benedizione del Primo Fuoco.
Si appoggiò contro una parete e l’urlo che lasciò la sua bocca era qualcosa che non era certa potesse appartenerle.
Gridò così forte che per poco non cadde di nuovo a terra, stavolta annichilita da un dolore a metà tra il cuore e lo stomaco. Fu solo l’idea di dare un simile spettacolo allo strano osservatore che si costrinse a chiudere la bocca e tornare eretta, anche se il petto le batteva forsennato come un rancor e gli occhi chiedevano solo qualche istante di solitudine per piangere.
“La tua capacità di ripresa è davvero fuori dal comune. Imprigionare nella carbonite non era usanza degli Jedi, ma pare che per te abbiano fatto un’eccezione” disse. Fece un passo verso di lei, e negli ultimi riverberi rossi dell’accecamento da carbonite Zam osservò un lungo abito nero, una tunica consumata che non nascondeva degli stivali e degli abiti della stessa tinta. “Sono davvero curioso di scoprirne il perché”.
“Parli degli Jedi al passato…”
Lo disse ricacciando indietro l’ultimo conato di vomito. Si costrinse di nuovo in piedi, osservando con odio di trovarsi di nuovo lì, di nuovo sul bordo della pozza carica di tibanna; non vi erano più gas o vapori, ma non avrebbe di certo potuto dimenticare quel luogo.
L’ultima nota rossa fu il viso del nuovo arrivato, che sfolgorò nel suo campo visivo.
Gli occhi dorati e le piccole corna sembravano sottili punti di luce in quella stanza, mentre i vistosi tatuaggi neri e rossi comandavano attenzione a chiunque avesse osato mettere lo sguardo sulla sua figura. L’iridoniano non era massiccio, alto forse quanto lei, ma anche in quello stato Zam sarebbe stata in grado di riconoscere la muscolatura guizzante di un soldato sotto i movimenti leggeri della tunica, un dettaglio che anche la convalescenza da carbonite non poteva ignorare. Era immobile, con le gambe leggermente divaricate, ma sarebbe stata pronta a scommettere tutto il proprio denaro che sarebbe stato pronto a scattarle contro al minimo movimento sbagliato.
I suoi occhi erano puntati su un display luminoso.
“L’Ordine degli Jedi è crollato ventidue anni fa” disse, stavolta dirigendo le iridi simili alla luce del tramonto proprio su di lei. “Stando ai dati della tua crioconservazione, è accaduto poche settimane dopo il tuo imprigionamento”.






La festa del capo del Sole Nero era esattamente come Vexen se l’era immaginata: accecante, chiassosa, sudata. Piena di gente in preda ai più folkloristici deliri da sostanze stupefacenti.
Poco importava che gli invitati sfoggiassero gioielli ingombranti come lampadari e il servizio fosse offerto da impeccabili camerieri droidi in livrea bianca: la differenza con l’atmosfera dell’arena dei Crymorah non era poi così grande.
Le risa sguaiate erano identiche, così come la noncuranza con cui cibo e bevande venivano sprecati, gettati a terra, calpestati. Ogni dettaglio dell’ambiente era accuratamente progettato per indurre gli ospiti al più puro stordimento dei sensi: gli specchi sulle pareti e le decorazioni a gocce di cristallo che riflettevano le luci cangianti, il volume alto della musica, il fumo sulla pista da ballo, i profumi afrodisiaci seminati dai vassoi portati in giro dai droidi.
Nemmeno il variopinto bancone del buffet gli era stato di conforto. Si era dovuto ritirare in tutta fretta abbandonando il suo piatto dopo che un Twi’Lek dagli occhi iniettati di sangue e l’alito pungente di una qualche spezia aveva iniziato a sussurrargli oscenità nell’orecchio.
Ci era mancato poco che rimettesse le poche tartine di cui era riuscito a riempirsi lo stomaco.
Il tavolino rotondo a cui si era rifugiato gli sembrava un’isola di salda roccia in mezzo al mare in tempesta. Non aveva intenzione di muoversi da lì fino alla fine di quel party da incubo.
Proprio mentre l’assolo della cantante mirialan al centro della pista raggiungeva il suo apice, una serie di vibrazioni insistenti dall’interno del mantello catturò la sua attenzione. Vexen sospirò, soffocando una serie di bestemmie tra i denti mentre la mano correva automaticamente alla tasca.
Per l’ennesima volta giurò che non si sarebbe mai più lamentato dell’assenza di messaggi sul suo olopad.
Camus non si era ancora fatto vivo. In compenso, il numero di notifiche lampeggianti in rosso sullo schermo ingigantiva a vista d’occhio come durante i migliori attacchi di apprensione del suo stupido assistente.
Lavok aveva disgraziatamente scoperto le gioie della chat di gruppo.

❇StregonePlanare❇
Non fatevi scappare i tramezzini di kwat! Sono squisiti!
❇StregonePlanare❇
Non ci credo, i bagni hanno i rubinetti D’ORO!
❇StregonePlanare❇
Assurdo!
⁓Valygar
Zio, CONCENTRATI SULLA MISSIONE!
L’utente ⁓Valygar è stato rinominato ⁓NipoteGuastafeste da ❇StregonePlanare❇
⁓NipoteGuastafeste
ZIO!!
❇StregonePlanare❇
Spiacente, l’amministratore del gruppo sono io!
⁓Freki
Bando alle ciance. Status?
❇StregonePlanare❇
Sono al secondo piano. Quello con i rubinetti d’oro. Ho provato a dire la password a un paio di tizi dall’aria facoltosa. Mi hanno chiesto se stessi cercando una “escort”, ma non è la password di risposta. Continuo a indagare.
⁓NipoteGuastafeste

⁓NipoteGuastafeste
Negativo anche al primo piano. Devo aspettare un po’ tra un tentativo e l’altro, o sarei decisamente sospetto.
⁓Freki
Piano terra, negativo. Aggiornamento tra venti minuti.

“Era davvero necessario?”
Freki era appena emersa dalla folla, schivando miracolosamente un principio di rissa tra un ithoriano dalla testa a martello e una strana creatura tutta tentacoli che inveiva in una lingua gorgogliante. La donna si lasciò cadere con eleganza sulla sedia di fronte alla sua, chinandosi leggermente per massaggiarsi le caviglie doloranti. Vexen serrò le labbra, astenendosi da qualsiasi commento sulla genialità di indossare tacchi a spillo durante una missione.
“Che cosa? Gli aggiornamenti ogni venti minuti?”
“La chat di gruppo.”
“È il modo più semplice per tenersi in contatto” replicò lei, facendo spallucce. “Ma non preoccuparti, il canale è criptato.”
“Fosse quello il problema.”
“Il problema è che ti lamenti troppo.”
Sarebbe esploso, lo sentiva. L’avrebbe mandata a quel paese, aveva voglia di tirarle addosso qualcosa. Di urlare. Ma Freki continuava a sorridere, lo prendeva in giro con quel suo tono leggero e divertito che in qualche modo riusciva a sgonfiare la sua rabbia come un palloncino abbandonato al termine di una festa. Si limitò a borbottare qualcosa di incoerente e ad incrociare le braccia.
“Hai bisogno di tenerti impegnato” continuò lei, nello stesso tono di prima. “Perciò smettila di stare lì appollaiato come un avvoltoio e seguimi.”
In un battito di ciglia gli aveva preso la mano e aveva iniziato a trascinarlo verso un corridoio laterale. Vexen protestò debolmente mentre una sfilza di porte chiuse si susseguiva alla loro destra e sinistra, finché non sbucarono in una specie di saloncino di passaggio, un piccolo ambiente di rappresentanza con dei dipinti a olio alle pareti e alcuni busti di marmo di personaggi la cui posa solenne non riusciva a mascherare l’aria poco raccomandabile.
Il rumore della festa giungeva attutito, adesso. Non si vedeva un’anima viva in giro, e Vexen assaporò la meravigliosa sensazione delle sue orecchie libere, finalmente sgravate da un peso. Inspirò a fondo, con gratitudine.
Freki gli aveva lasciato la mano e si era avvicinata a una porta seminascosta da un pesante tendaggio, scostando le pieghe per rivelare una specie di serratura a combinazione dotata di lettore ottico.
“Mi dispiace per il Sole Nero, ma la loro sicurezza non è davvero un granché. Prima l’ho crackata con una mano dietro la schiena. Tuttavia, credo che sia di gran lunga più prudente se entriamo in due.”
“E perché mai… “
Fu appena un cigolio, ma lo udirono entrambi. Una delle porte nel corridoio si era socchiusa, rivelando un rumore di passi in avvicinamento. Un lieve tintinnio di vetri. Calici in bilico su un vassoio? Non c’era tempo per riflettere.
Freki gli fu di fronte in un nanosecondo e Vexen, incredulo e senza fiato, si ritrovò spinto con la schiena contro una parete. La voce di lei ridotta a un sussurro, il respiro a un soffio dal suo viso.
Profumava di liquore fruttato.
“Baciami” disse soltanto, il mento sollevato verso di lui.
Vexen fu certo che i suoi occhi si fossero sgranati al punto da rotolare fuori dalle orbite.
“Fidati di me.”
Non c’era tempo, l’ombra di una sagoma si intravedeva già nell’arcata di ingresso al piccolo salone. Lo scienziato lesse l’urgenza nello sguardo di Freki, e capì.
Chinò leggermente la testa, piegandosi verso di lei. Freki pensò a colmare il resto della distanza.
Anche le sue labbra sapevano di liquore fruttato. Indugiarono morbidamente sulle sue, spingendole dolcemente a schiudersi, ma senza urgenza, senza avidità. Vexen sentì tutti i muscoli irrigidirsi e lottò contro la tentazione di scostarsi e distogliere il viso. Si concentrò sulla persona appena entrata, oltre la spalla di Freki. Uno dei pochi camerieri umani, molto giovane, vestito… beh, definirlo vestito era senza dubbio un’esagerazione. Sicuramente faceva parte degli “intrattenimenti” disponibili per gli ospiti della serata. Doveva essersi avvicinato perché insospettito dai rumori nel salone, ma Vexen lo vide sobbalzare leggermente e ritirarsi a gran velocità non appena si rese conto in quali faccende fossero impegnati lui e Freki.
Freki si staccò dalle sue labbra solo quando l’eco dei passi del giovane si fu spento lungo il corridoio. La mano di lei indugiò ancora per qualche momento lungo la curva del viso, accarezzandolo con la punta dei polpastrelli.
“Sei… freddo” disse soltanto, con una punta di stupore. Vexen ebbe l’impressione che non si riferisse soltanto alla sua natura di elementale del ghiaccio, ma si limitò ad alzare le spalle, senza fornire ulteriori spiegazioni.
“Era per questo che dovevamo essere in due?” domandò inarcando un sopracciglio, ma il tono gli uscì meno aspro di quel che si sarebbe aspettato. Probabilmente era l’adrenalina dovuta a tutta quella dannata situazione, ma gli veniva da sorridere.
“Esatto. È dimostrato che gli esseri di quasi tutte le specie tendono a distogliere lo sguardo quando si imbattono in qualcuno impegnato in effusioni. Ci sono meno possibilità che ricordi le nostre facce, e poi… ci dava una scusa credibile per essere appartati.”
“Plausibile, in effetti.”
Gli faceva uno strano effetto, rifletté mentre Freki digitava rapidamente il codice di apertura della porta dietro la tenda. Vexen odiava le situazioni incontrollabili, gli imprevisti e le sorprese. Allo stesso tempo, tuttavia, non poteva non apprezzare il pragmatismo estremo di quella donna. Solido, basato su dati reali. Efficiente.
“Conosci un bel repertorio di trucchi di spionaggio, non c’è che dire. Non esattamente quello che mi sarei aspettato da… “ abbassò volutamente il tono di voce “... un addestramento Jedi.”
Per un istante gli parve di vedere le spalle di Freki reprimere un tremito mentre lo precedeva all’interno della stanza segreta. In men che non si dica furono avvolti da penombra e odore di chiuso, che Vexen tuttavia preferiva di gran lunga al caos della festa.
“Libero di non crederci, ma la vita da fuggiasco per strada ti insegna parecchie cose. O quello, o muori.”
Freki tastò sulla parete fino a trovare un pannello che attivò l’illuminazione non appena vi passò sopra le dita. Gli dava ancora le spalle, ma ogni accenno di leggerezza era svanito dalla sua voce.
Forse fu l’atmosfera chiusa e soffocante che gli ricordò la vecchia grotta in cui aveva vissuto per qualche anno con Camus, ma nella sua mente le parole di Freki si mescolarono ad altre che il sacerdote gli aveva rivolto tanto tempo prima.
“Ha imparato tutto questo da solo?”
Le braci del falò morente accendevano di riflessi rossi la superficie di vetro della provetta e accentuavano lo stupore negli occhi sgranati del giovane Camus. Solo poche ore prima il ragazzo aveva visto il contenuto di quel recipiente guarire un caso terminale di febbre grigia e ora non osava sfiorare la boccetta nemmeno con un dito.
“Senza la guida di nessun maestro?”
“La vita del medico girovago insegna parecchie cose, se solo si è disposti a guardare un po’ più in là del proprio naso” aveva risposto Vexen, senza sforzarsi di nascondere una buona dose di autocompiacimento.

Scosse lentamente la testa, anche se lei non poteva vederlo.
“Sembrerà strano, ma… ti credo.”
La stanza in cui erano entrati sembrava un piccolo paradiso da collezionista di oggetti storici: quadri e arazzi lungo le pareti e teche di vetracciaio disseminate per tutto l’ambiente, contenenti artefatti dei tipi più disparati: da armi a mappe dall’aria antica, da gioielli a strumenti arzigogolati di cui era impossibile identificare la funzione.
“Non toccare nulla” ammonì Freki, l’espressione nuovamente concentrata. “Ci saranno allarmi ovunque.”
“Non mi hai ancora detto che cosa ci facciamo qui.”
“Cerchiamo informazioni. Indizi di qualsiasi tipo. Generalmente una porta chiusa contiene entrambe le cose. Aguzza la vista su qualsiasi cosa potrebbe rivelare un collegamento tra il Sole Nero e i…”
Vexen si era chinato per esaminare le rune sulla lama di quello che sembrava un coltello rituale, ma si voltò con tutti i sensi in allarme quando sentì la voce di lei spegnersi in un mormorio inarticolato.
Avevano inavvertitamente fatto scattare una trappola?
Ma Freki non appariva ferita. Stava immobile davanti a un’altra teca, gli occhi fissi sul suo contenuto, anche se il suo sguardo sembrava fuori fuoco, perso nella contemplazione di qualcosa che solo lei riusciva a vedere.
“Qualche problema?”
Lei si riscosse di colpo. Fece segno di no con la testa: “Solo un colpo basso dal passato.”
La sua voce però era sottile come cristallo incrinato.
Vexen gettò un’occhiata alla teca incriminata. L’oggetto al suo interno aveva un aspetto banale rispetto a tanti altri conservati nel piccolo museo, ma durante la sua permanenza forzata sulla Terra II aveva visto troppe volte quei cilindri metallici legati alle cinture di alcuni ribelli per farsi ingannare dall’apparenza. Alle cinture dei cavalieri Jedi come Luke Skywalker, per la precisione.
Questa in particolare aveva l'impugnatura leggermente ricurva e ricoperta di una sottile guaina di cuoio sintetico, ma non c’era alcun dubbio sulla sua natura.
“Una spada laser. Dubito che qualcuno del Sole Nero sia capace di usarla.”
“Questo è certo” ribatté Freki, sferzante come un colpo di frusta. “Non molti nella galassia possono vantare un’abilità simile al giorno d’oggi. Per questa feccia criminale non sono altro che reliquie del passato. Gingilli da collezione. Ma la persona che possedeva questa spada, che era davvero degna di chiamarla sua, invece…”
Strinse i pugni, lasciando morire la frase in un sussulto di rabbia. Abituato al suo atteggiamento leggero e giocoso persino nelle situazioni più pericolose, Vexen fu sul punto di indietreggiare di fronte alla nube tetra che aveva oscurato il suo sguardo. Tutto il suo corpo sottile era teso come la corda di un arco l’attimo prima di scoccare.
“Tu… hai ancora la tua?”
Non sapeva nemmeno lui perché aveva fatto una domanda del genere. Forse perché qualsiasi altro commento sarebbe apparso fuori luogo o peggio, inutile. Non era il tipo da vuote frasi di conforto.
Freki scosse la testa. I suoi occhi rimanevano fissi sulla teca. “Portarne una equivale a ritrovarsi un mirino puntato sulla fronte. Non ne esistono due uguali, sai? Ciascun apprendista assemblava la propria da sé, usando come nucleo un cristallo kyber. Fin da quando eri piccolo ti insegnavano a lasciar andare l’ego per dedicarti esclusivamente agli altri, ma… costruire la nostra spada forse era l’atto più personale ed individualista che ci veniva consentito. Un modo per esprimere noi stessi pur restando nella cornice delle regole dell’Ordine.”
Adesso lei si era voltata a guardarlo, e Vexen fu certo che il luccichio nei suoi occhi d’ambra non fosse soltanto uno scherzo dell’illuminazione soffusa nella stanza e del gioco di riflessi sulle teche.
Trattenne il fiato, colto da una realizzazione improvvisa. Come aveva fatto a non capirlo subito?
“Non era uno Jedi qualunque” mormorò, accennando appena con il capo verso la teca. “Lo conoscevi.”
“Quando l’Imperatore ha ordinato lo sterminio di tutti gli Jedi io ero soltanto una ragazzina che non aveva ancora completato l’addestramento. Non sarei qui oggi se non fosse stato per la mia maestra.”
Il silenzio calò spesso come una coperta bagnata, carico di fantasmi e di nostalgia.
“Dèi ladri” mormorò infine Vexen.
Il trillo improvviso di entrambi gli olopad rischiò di far perdere loro l’equilibrio per la sorpresa.
Vexen raggiunse meccanicamente la tasca interna del mantello. Una chiamata in corso da Valygar.
“Ragazzi?” esordì la voce del ranger dal ricevitore. Aveva il fiatone. Di sottofondo arrivava una cacofonia di urla e lo schianto di quelli che sembravano oggetti scagliati con forza o fatti a pezzi.
Freki tornò concentrata in un nanosecondo e gli strappò il comunicatore dalla mano.
“Valygar? Dove ti trovi?”
“Terzo piano! Credo che… come dire… sta succedendo un gran casino.”

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 - Lezione sul campo ***


Capitolo 19 - Lezione sul campo







Il principe Xizor








Il referto medico indicava una lunga serie di valori fuori dal livello accettabile. Guardando quelle cifre evidenziate in rosso sul pad, a Zexion tornò per un istante in mente la voce di suo zio che brontolava qualcosa su quanto i medici con i pezzi di carta guardassero solo i numeri ma non la radice del problema.
Che poi in verità in quei numeri qualcosa di reale ci fosse davvero, il ragazzo non ne aveva dubbi, almeno a giudicare quanto ancora il braccio gli dolesse e la testa fosse sull’orlo di vorticare in modo forsennato. Lasciò che il droide medico gli iniettasse la terza dose di antidolorifici della serata e liberò l’aria stantia che ancora gli premeva nei polmoni dentro l’erogatore d’ossigeno che l’infermeria mineraria aveva piazzato al centro della stanza. Ormai erano trascorse più di quarantotto ore da quando si trovava nel sottosuolo di Onoam, ed il capogiro che continuava a crescere ad ogni passo non era più dovuto soltanto al dolore che la sua stessa magia gli infliggeva; sentì la presenza del droide venirgli alle spalle con il pad ancora luminoso, quasi a volerlo convincere a riprendere un altro ciclo di bacta, ma il ragazzo digitò il codice di dimissione lungo lo schermo e la figura alta e meccanica si mosse verso l’altro lato della stanza, dove un assaltatore giaceva con entrambe le gambe spezzate.
Alle truppe in missione il governatore Saruman aveva appoggiato l’uso di respiratori portatili di ultima generazione, e con una certa gratitudine Zexion ne afferrò uno dalla dotazione e se lo strinse lungo il viso. L’aria rilasciata dalla macchina era ben lontana dal vento fresco della superficie, ma Zexion fu grato di sentire del vero ossigeno entrargli in circolo.
Ne avrebbe avuto bisogno.
Fuori dall’infermeria regnava la confusione più totale.
Almeno una decina di assaltatori passò davanti a lui, incapaci però di mantenere il solito rigore che contraddistingueva le truppe dell’Impero; gli spazi angusti ed i numerosi macchinari da estrazione rendevano gli spostamenti nel sottosuolo piuttosto difficoltosi a gruppi estesi di gente, e il ragazzo dovette aspettare diversi minuti prima che gli uomini in divisa riuscissero a sgomberare un passaggio bloccato da un crollo che essi stessi avevano accidentalmente causato. Vi era una nube di fischi e suoni che venivano dai loro comunicatori, resi poco efficienti dalla profondità e dalla scarsità di segnale, a cui i soldati rispondevano con sonore imprecazioni. Uno di loro dovette averlo riconosciuto, perché con un cenno convinse i suoi compagni a posizionarsi lungo le pareti ed a farlo passare.
Per quanto Zexion non nutrisse alcun rispetto verso le varie divisioni degli assaltatori imperiali, dovette ammettere tra sé e sé che se non fossero intervenuti in modo tempestivo al suo segnale probabilmente sarebbe morto sul colpo o comunque si sarebbe ritrovato con ben più di un braccio dolorante ed un livido in faccia. Il segnale che aveva lanciato nel momento in cui quell’imbecille di Camus aveva mandato a monte gli ultimi tre mesi di programma di infiltrazione era stato reso operativo in così poco tempo da stupirlo.
Inspirò meglio dentro l’erogatore, seguendo la mappa olografica che lo avrebbe condotto a destinazione.
Aveva trascorso gli ultimi tre mesi lavorando sul progetto di infiltrazione per scoprire se i minatori della luna di Onoam fossero davvero in combutta con l’Alleanza Ribelle, ed ai suoi superiori non sarebbe piaciuto affatto l’esito della missione. L’obiettivo sarebbe stato inserirsi in maniera effettiva dietro i loro traffici nella speranza di arrivare a qualche esponente di un minimo livello -a nessuno ovviamente importava di qualche Ribelle di basso rango- senza causare scompiglio nella luna del pianeta natale dell’Imperatore. Zexion non aveva mai avuto contatti in prima persona con i membri dell’Alleanza o della Resistenza, e questo aveva fatto di lui il miglior candidato, specie perché il governatore Tarkin cercava di sfruttare il suo potere per qualsiasi missione.
Zero contatti.
A parte uno.
L’unico essere umano a poterlo riconoscere tra le migliaia di esponenti della Ribellione, grandi o piccoli che fossero.
La stupida variabile dagli occhi azzurri che da anni lo perseguitava in buona parte dei suoi incubi.
La stessa variabile che lo accolse dieci minuti più avanti, bloccato dall’altra parte di una cella energetica. Una figura che aveva dato adito a numerosi pensieri da quando si era risvegliato, perché se il sacerdote era ancora vivo dopo l’esplosione del Baan Palace, allora forse …
“Padron Zexion, sono contento di sapere che sta bene!”
Un vero peccato che i blocchi di detenzione a carica energetica non riuscissero ad insonorizzare la voce dei prigionieri.
Zexion preferì non dare adito alla conversazione.
La cosa che lo faceva incazzare era che quel prete da strapazzo fosse assolutamente, incredibilmente … stupidamente sincero. Anche dietro un velo di energia arancione che avrebbe potuto friggerlo all’istante se solo l’avesse toccata, con l’armatura dorata coperta da uno strato di polvere mineraria e con un livido che gli copriva tutto l’occhio destro, Camus aveva ancora i sentimenti e l’espressione di qualcuno che fosse appena tornato da una gita fuori Coruscant ed avesse incontrato un vecchio amico. Il suo sorriso idiota non riusciva a scomparire nemmeno con un taglio sul labbro che doveva avergli fatto un assaltatore quando aveva proceduto all’arresto.
 
 
Narratore: “Registe?”
Registe: “Sì? Ci sembrava che fossero troppi capitoli che non ti sentivamo. Stavamo quasi per preoccuparci”.
Narratore: “E’ più plausibile che gli asini volino. Comunque … perché deve essere quell’essere privo di cuore che deve descrivere l’entrata in scena di Camus? Non potrei farlo io? Ne esalterei ancor meglio la purezza, la gentilezza, la nobiltà d’animo, la compassione, la …”
Registe: “Ignoriamolo”
 
 
“Il piacere non è reciproco, Camus. Hai mandato a monte un’operazione di infiltrazione a livello planetario, in caso il tuo minuscolo cervello non sia riuscito ad afferrarlo” mormorò il ragazzo, fissando senza alcun interesse la punta dei propri stivali. Si sentì fortunato a non aver perso una gamba quando la furia omicida di Gea Oganae gli era atterrata addosso con tutta la sua brutalità. “E sappi che il protocollo imperiale in questi casi prevede …”
“Lo so cosa prevede, padron Zexion, ma non mi importa!”
L’espressione del sacerdote era … radiosa?
“Padron Vexen deve sapere assolutamente che lei è qui!”
Il respiro del giovane si bloccò a metà.
Si scoprì senza saliva nel tempo di un battito di ciglia, osservando la figura oltre la barriera e il suo viso carico di tutte le emozioni del mondo.
Le ultime parole iniziarono ad occupare tutta la sua mente. “Mio zio è …”
Scosse la testa, raccogliendo le ultime immagini dell’uomo che iniziarono a riaffacciarsi alla memoria in un susseguirsi più rapido e vorticoso di quello che sarebbe mai stato in grado di contenere. La scena nel Baan Palace, con Vexen e Camus che cercavano disperatamente di proteggerlo.
Il Generale Baran che lo portava via, lontano da lì, e la promessa che si sarebbero rivisiti presto.
L’immagine del Baan Palace che esplodeva ripetuta giorni dopo giorni agli ologiornali, il segno di vittoria dell’Impero Galattico sulla barbarie demoniaca, il trionfo della gente, il pensiero che suo zio fosse lì dentro e che nessuno, nemmeno i Ribelli, avrebbero mai perso un istante del loro tempo per un uomo come lui.
“Vivo, padron Zexion. Uno come lui non potrebbe mai arrendersi alla morte” disse il prete, le guance praticamente purpuree mentre un enorme sorriso lo attraversava da un orecchio all’altro “Non quando si mette in testa di ritrovarla. Ci siamo separati pochi giorni fa”.
“E adesso dov’è?”
Di colpo il suo cervello prese a valutare le mille possibilità. La luna di Onoam era direttamente sotto il controllo imperiale, e nessuna revoca era stata emessa a carico della sua stessa ID; il fatto che la missione di infiltrazione fosse fallita sarebbe stata senza dubbio causa di indagine da parte delle alte sfere dei Servizi, ma era chiaro che non avrebbero bloccato la sua autonomia almeno fino al suo rientro ad una prima centrale operativa. Era comunque riuscito a portare alla luce una cellula ribelle presso i minatori, e dunque una sanzione disciplinare nei suoi confronti non aveva molte possibilità in essere. Avrebbe avuto abbastanza tempo da requisire una nave con la propria autorità, raggiungere suo zio, giustificare i propri spostamenti almeno per un raggio limitato nel territorio imperiale, aveva autonomia di movimento per …
“Avrei chiamato personalmente padron Vexen, ma purtroppo i nostri comlink sono stati requisiti. E credo che se tutto è andato come da protocollo …”
“Sì, lo so” fece il giovane con uno sbuffo “Persino voi Ribelli avete dei sistemi di cancellamento dati automatico in caso di cattura. Vi avremmo fatti più ingenui, sapete?”
Ma adesso la aveva.
Aveva una traccia per arrivare a suo zio, e non l’avrebbe mollata. Piuttosto avrebbe ribaltato Onoam, Naboo e tutte le lune della Galassia.
Fu un guizzo.
Lo percepirono i suoi poteri, prima ancora degli occhi.
Il sorriso ingenuo di Camus assunse una forma diversa, quasi complice. “Camus, perché ho come il sospetto che tu conosca a memoria l’ID del comlink di mio zio?”
“Perché sono sempre dalla vostra parte, padron Zexion” fece l’altro. Gioioso come un uomo che non stava pensando alla propria esecuzione imminente, ma come qualcuno che desiderasse la gioia degli altri oltre ogni cosa. La giovane spia cavalcò queste emozioni nelle proprie narici, e per un istante si convinse che quel patetico sacerdote forse qualcosa di utile la aveva.
Ma fu solo un istante, una sensazione di infima durata. Un pensiero che venne bruscamente interrotto da una terza voce, bassa e marcata, che emerse dalle spalle di Camus insieme ad una figura che fino a quel momento era rimasta in un angolo, così infima che i suoi sensi lo avevano a malapena registrato. Una figura bassa e dai lineamenti duri come la roccia, i cui sentimenti aggredirono Zexion proprio come il suo sguardo. “Camus, sei pregato di non fare cazzate. Qualunque cosa ti dirà questo marmocchio … non dargli assolutamente quello che vuole!”
  





Raggiungere il terzo piano fu un’impresa più complicata del previsto: gli ascensori rigurgitavano persone in preda al panico e le scalinate si erano trasformate in un teatro di isteria e parossismo che la diceva lunga riguardo la saggezza di radunare grandi quantità di persone nello stesso posto e fornirle di scorte pressoché illimitate di sostanze stupefacenti.
Da buon elementale del ghiaccio, Vexen nutriva un sano timore ancestrale per il suo elemento opposto, il fuoco; ma quando l’ennesimo falleen urlante per poco non lo travolse nella foga di rifugiarsi al piano di sotto, rimpianse di non avere tra le mani un lanciafiamme per poter vomitare morte e distruzione sulla folla impazzita.
“Non abbassare la guardia!” Qualche gradino più sopra, Freki aveva dovuto abbattere con un pugno una donna dagli occhi pesantemente truccati che le si era aggrappata al vestito e si era lasciata cadere a peso morto, minacciando di trascinarla con sé giù per le rampe di scale.
“C’è qualcosa di profondamente sbagliato qui!”
“Ma non mi dire!” Vexen si tolse la soddisfazione di sferrare un calcio assolutamente accidentale al twi’lek che mezz’ora prima aveva cercato di adescarlo davanti al buffet e divorò in due falcate la distanza che li separava, puntando dritto al pianerottolo del terzo piano.
“Pensavo che le loro feste fossero tutte così!”
A stento udiva la sua stessa voce sotto il delirio di gemiti e urla.
Man mano che si avvicinava alla meta, l’adrenalina accendeva le sue terminazioni nervose come una scarica di fuochi d’artificio. Lo strillo perforante di un damerino dai capelli dipinti di viola gli fece avvampare un’ondata di calore fino alla fronte, gettandogli un velo rosso davanti agli occhi.
Forse poteva togliersi più di una soddisfazione, dopotutto. Si avvicinò al ragazzo, che adesso piagnucolava piegato in due sul corrimano, e lo afferrò per il bavero della costosa camicia merlettata. Il trucco sul suo viso doveva essere la rappresentazione molto raffinata di una maschera elegante, ma adesso colava in rivoli dorati lungo le guance e il mento insieme a un misto di lacrime e saliva. Vexen sollevò una mano con il preciso intento di schiaffeggiarlo sonoramente.
Ciaff!
Lo schiaffo era stato sonoro proprio come nelle sue intenzioni, ma Vexen sgranò gli occhi e rimase confuso per qualche istante, perdendo la presa sulla sua vittima. I rumori intorno giungevano attutiti, adesso. E perché il dolore era esploso sulla sua guancia? La sfiorò con la punta delle dita, istupidito.
Poi un familiare paio di occhi color ambra occupò tutto il suo campo visivo.
“Coruscant chiama Vexen! Ritorna in te, maledizione!”
Freki lo stava scuotendo per le spalle.
“Non guardare tutto il resto, concentrati solo sulla mia voce!”
Fu come riemergere da uno di quei sogni dove cerchi di urlare ma la bocca non si apre e dalla gola non esce neppure l’ombra di un suono. Con uno sforzo sovrumano il suo sguardo rimise il mondo a fuoco, appena in tempo per intercettare il braccio di Freki che si alzava per rifilargli un secondo schiaffo. Riuscì a bloccarle il polso con un secondo di anticipo.
“Che… che cavolo succede?”
Un’ondata di sollievo percorse l’espressione tesa di Freki. “Porca puttana, temevo di essere arrivata tardi!
Vexen si accorse che la calca aveva finalmente cominciato a scemare. Percepiva ancora un rombo sordo dietro le tempie, come se qualcuno vi avesse acceso un calderone ribollente, ma i contorni dell’ambiente circostante erano di nuovo nitidi, ordinati. Sbatté un paio di volte le palpebre per scacciare la sensazione di stordimento.
“Mi hanno… mi hanno iniettato qualcosa? Oppure… “ guardò ai suoi piedi, dove il giovane con i capelli viola giaceva ancora rannicchiato con la testa contro il bordo di uno scalino, le mani premute sullo stomaco. I suoi occhi erano dilatati, lo sguardo lucido e distante.
Freki scosse la testa. “Temo sia qualcosa nell’aria. Un gas, forse. O qualcosa di magico. La Forza… ha una qualità strana. Un sapore sbagliato.”
Era la prima volta che Vexen la sentiva menzionare direttamente la mistica energia cosmica da cui i Jedi attingevano i loro poteri. Sospettò che fosse proprio la sua sensibilità alla Forza a renderla immune al delirio psichico che sembrava aver attanagliato ogni altro partecipante alla festa. Probabilmente stava estendendo un po’ di quella protezione mentale anche a lui. Il che significava…
“Lavok e Valygar” Freki terminò la frase per lui.
“Muoviamoci!”
Gli ultimi scalini ormai sgombri, i due si precipitarono lungo la moquette scarlatta del corridoio del terzo piano alla massima velocità possibile.
Fu l’odore ad assalirlo per primo, un forte sentore metallico e dolciastro che gli penetrò fin dentro le narici. Adesso non era più solo la moquette ad essere rossa. Le pareti di marmo bianco erano chiazzate di sangue. Sangue estremamente fresco.
Il rombo sordo dietro le sue orecchie aumentò d’intensità. Ebbe la sgradevole sensazione di sentire qualcosa di vivo all’interno della sua testa, un parassita che si scagliava con rabbia contro la fragile barriera mentale con cui Freki lo stava proteggendo. Sentì il respiro farsi più affannato e lottò per tenerlo sotto controllo.
Poi iniziarono ad incontrare i corpi.
Dovevano essere morti in modi molto creativi a giudicare dalle posizioni in cui erano caduti. Sembravano pupazzi di tutte le taglie e i colori, affastellati disordinatamente l’uno sull’altro, gli arti piegati in angoli innaturali. I giocattoli scartati di un bambino capriccioso.
Sfoggiavano ferite di ogni tipo: lacerazioni, contusioni, occasionali fori di arma da fuoco. Dovevano essersi saltati alla gola con ogni mezzo a loro disposizione, accecati dalla stessa follia che aveva minacciato di sopraffarlo sulle scale.
Vexen rabbrividì e cercò istintivamente la sciarpa di Camus per coprirsi il naso, solo per ricordarsi all’ultimo momento che indossava ancora quel ridicolo abito verde da festa assolutamente privo di protezioni. Bestemmiò tra i denti.
“Siamo in prossimità del centro dell’anomalia” avvertì Freki. Aveva smesso di correre e ora procedeva con cautela, impugnando un piccolo blaster che doveva aver nascosto chissà come al momento dei controlli all’ingresso della festa. Vexen si maledì per non aver pensato a fare lo stesso.
“Il disturbo… sta crescendo d’intensità. Restami vicino. Non so per quanto riuscirò a proteggerti altrimenti.”
Vexen annuì, cercando inutilmente di deglutire. Aveva il palato troppo secco.
Una serie di rumori poco rassicuranti giungeva adesso da una sala più in avanti, sulla destra del corridoio rosso. Qualcuno era ancora vivo, ed era alle prese con un combattimento serrato.
“Zio, l’incantesimo di protezione!”
La voce di Valygar. Concitata, affaticata, ma decisamente la voce di una persona ancora in possesso della propria sanità mentale. Per la prima volta da quando aveva messo piede su Coruscant, Vexen provò sollievo per il destino di uno dei suoi improvvisati compagni di avventura.
“Non ce la faccio!” Lavok. Anche Lavok era ancora tutto intero. “Già è tanto se riesco a proteggere me e te!”
Freki e Vexen fecero il loro ingresso nella sala - che si rivelò uno studio piuttosto ingombro di paccottiglia di rappresentanza dall’aria antica - proprio mentre il giovane Corthala parava l’affondo di un aggressore armato di fermacarte. Anche il ranger era armato alla buona: aveva divelto l’asta di legno che faceva da supporto a una tenda e la faceva roteare sulla testa come il bastone di un monaco. Il suo assalitore era una umanoide dal cranio allungato e la carnagione pallido-bluastra; al contrario di Valygar, si trovava evidentemente sotto l’effetto della follia collettiva. I suoi occhi erano sbarrati e una folta schiuma le gorgogliava dalla bocca. Vexen ringraziò mentalmente la prontezza di riflessi di Freki: mille volte meglio essere presi a schiaffi che ridursi in quello stato pietoso.
“Freki! Vexen! Datemi una mano con questo medaglione!”
Dall’altro lato dello studio, seminascosto da una pesante scrivania ricoperta di soprammobili, Lavok era a terra e stava lottando con una seconda persona, aggrappato con entrambe le mani alle sue vesti cariche di gioielli. Il falleen ingioiellato urlava e si contorceva, agitando le dita dalle lunghe unghie affilate nel tentativo di graffiare il viso del mago.
“Il… il mio bastone…!”
Vexen seguì con lo sguardo il dito di Lavok e i suoi occhi individuarono immediatamente l’elegante bastone d’avorio, abbandonato sul pavimento a qualche metro di distanza. Scattò in quella direzione senza esitare.
Sollevò l’arma improvvisata con entrambe le mani e sferrò un colpo deciso alla nuca del falleen, lasciandosi sfuggire un grido liberatorio. La sua vittima smise di lottare all’istante, afflosciandosi come un fantoccio sopra il petto di Lavok.
“Lo… lo hai ucciso?” Il mago aveva gli occhi fuori dalle orbite. Strisciò all’indietro sul pavimento, cercando di liberarsi del peso morto.
“Anche se fosse?” replicò acido Vexen.
Ora che aveva modo di osservarlo con più calma, appariva evidente che il criminale colpito doveva appartenere alle alte sfere. Sembrava ancora piuttosto giovane, con la pelle verde scuro, i capelli raccolti in una coda alta sul cranio rasato e i tratti da rettile tipici della sua specie. Ciò che risaltava in particolare erano i suoi abiti: i gioielli e le decorazioni, da soli, ad occhio valevano quanto il reddito di un sistema minore. Su tutta la sfavillante composizione troneggiava un grosso medaglione dalla forma di un sole dai raggi dorati, adagiato al centro del petto.
“Spero davvero di no” intervenne la voce di Freki alle sue spalle. “Quello è il principe Xizor. Se salta fuori che lo abbiamo ammazzato ci ritroveremo l’intero Sole Nero alle calcagna.”
Vexen si affrettò a sentirgli il polso. “Siamo fortunati. È ancora vivo.”
“Ma non è ancora al sicuro.” Lavok si era risollevato a fatica sulle ginocchia e ora si appoggiava al bastone, cercando di rimettersi in piedi. La smorfia sul suo viso indicò a Vexen che la sua gamba ancora non doveva essersi rimessa del tutto. “E nemmeno noi.”
Il mago allungò la mano verso il medaglione a forma di sole mentre Freki voltava il principe svenuto sulla schiena. “Qualsiasi incantesimo abbia causato tutto questo… viene da lì.”
“È di natura magica, quindi?”
Lavok annuì, ma non appena le sue dita sfiorarono il gioiello un lampo di pura sofferenza gli attraversò la faccia come una scia infuocata. Si ritrasse con un grido, afferrandosi le tempie con entrambe le mani. Freki lo sostenne prima che potesse nuovamente cadere a terra.
“È troppo… forte per me. Sono riuscito a proteggere me e Valygar con uno scudo mentale, ma… dobbiamo annullare l’incantesimo sul medaglione affinché il suo effetto cessi del tutto. E non solo. Probabilmente ci sono altri artefatti simili o cristalli nascosti nel palazzo, che ne amplificano e rinforzano l’effetto. Altrimenti sarebbe stato impossibile colpire così tante persone. Chiunque abbia architettato tutto questo… è un mago di potenza incredibile.”
Un tonfo sordo dal centro dello studio annunciò che Valygar si era appena liberato della sua assalitrice. Senza mollare la presa sulla sua arma improbabile, il ranger si precipitò al fianco dello zio con uno sguardo che a Vexen ricordò Camus durante i suoi migliori attacchi di apprensione.
“Possiamo distruggerlo?” il giovane Corthala indicò il medaglione con aria speranzosa, ma la sua voce perse convinzione ancora prima di terminare la frase. Lavok confermò i suoi timori con un mesto cenno del capo.
“Magari fosse così semplice.”
Colto da un’ispirazione improvvisa, Vexen agitò le dita e ricoprì la superficie del medaglione di uno spesso strato di ghiaccio, saldandolo al petto del principe Xizor. Lavok scosse la testa, ma subito dopo il suo sguardo si illuminò di un bagliore speranzoso.
“Non basterà… ma potrebbe darci un po’ di tempo.”
Lo percepì nettamente nell’attimo in cui il ghiaccio finì di sigillare il gioiello maledetto: come se fino a quel momento la sua fronte fosse stata stretta da una fascia di metallo e ora, di colpo, qualcuno avesse allentato le viti per dargli sollievo. Chiuse gli occhi per qualche istante e si godette la sensazione della sua mente silenziosa, di nuovo solo e soltanto sua.
Ma il ghiaccio già iniziava a sciogliersi lungo i bordi.
“Lavok, dimmi tutto quello che sai su questo incantesimo.”
Poteva aver dimenticato la sciarpa di Camus, ma un vero alchimista che si rispetti porta sempre i gessetti con sé. Li estrasse a fatica dalla stretta tasca interna al mantello e iniziò a tracciare un cerchio intorno alla sagoma immobile del principe Xizor.
“Non importa la potenza, posso fermarlo. L’alchimia può alterare anche un incantesimo, si tratta pur sempre di una combinazione di energia e materia” spiegava rapidamente, senza staccare gli occhi dalle linee che andava tracciando con il gesso. Sentiva ancora scariche di adrenalina inebriargli il sistema nervoso e affilare la lama della sua concentrazione, ma stavolta non si trattava dell’effetto di un incantesimo sconosciuto, bensì dell’euforia di trovarsi nuovamente in controllo della situazione.
“Io penso agli artefatti amplificatori” fece la voce di Freki da qualche parte sopra di lui. “Penso di riuscire ad individuarli con un po’ di concentrazione.”
“Saranno almeno quattro o cinque, probabilmente ben distanziati l’uno dall’altro.”
Lavok tornò a concentrarsi sul cerchio mentre i passi di Freki si allontavano rapidamente fuori dallo studio. Il mago si era inginocchiato dal lato opposto di quello di Vexen, poggiando i palmi a terra ma facendo attenzione a non cancellare nessuno dei segni tracciati con il gesso.
“Cosa ti serve sapere?”
“Tutto. Il funzionamento dell’incantesimo nei minimi dettagli.”
I loro sguardi si incontrarono per un momento al di sopra dell’intreccio di linee e simboli. Quello di Lavok era concentrato, vibrante di curiosità e interesse, cosa che Vexen interpretò come un segno positivo. Chiuse il cerchio interno con un tratto deciso, andando a disegnare una serie di rune di contenimento nella zona immediatamente adiacente al medaglione. Poi strinse con più forza il mozzicone di gesso e inspirò profondamente. I passi successivi erano di importanza cruciale.
“Ho detto che posso fermarlo, ma mi serve sapere cosa sto fermando. Con precisione estrema. La teoria magica non è esattamente il mio campo di specializzazione.”
“Abbiamo a che fare con un incantesimo della scuola di incantamento. Causa una stimolazione eccessiva del sistema adrenergico, portando chi lo subisce a percepire ogni elemento dell’ambiente circostante come minaccia incombente. La vittima si ritrova sopraffatta da livelli anormali di stress e regredisce a uno stadio di puro istinto, reagendo ad ogni stimolo esterno con la lotta o con la fuga.”
Vexen aveva iniziato a tracciare una nuova serie di rune nel momento in cui Lavok aveva pronunciato la parola “incantamento”, aggiungendo simboli e glifi lungo il bordo del cerchio principale man mano che il mago sciorinava la sua spiegazione. Un occhio per la mente. Una linea seghettata per la minaccia. Il triangolo del fuoco per la lotta, quello rovesciato dell’acqua per la fuga. Il tutto connesso dai corretti simboli logico-matematici per determinare i rapporti causa-effetto.
“Il fatto che sia stato immagazzinato in un artefatto piuttosto che lanciato direttamente sulle vittime implica che… “
Uno schianto alle sue spalle soffocò le ultime parole di Lavok. Preso in contropiede Vexen sobbalzò, perse la presa sul gesso tra le dita ormai sudate e per ritrovare l’equilibrio fu costretto a poggiare una mano a terra, cancellando parte dei simboli appena tracciati.
“Dèi ladri!”
“Maledizione! Ci hanno trovati!”
Il Corthala giovane, assolutamente inutile fino a quel momento, era già in piedi a fronteggiare la nuova minaccia. Un manipolo di invitati della festa sotto l’effetto dell’incantesimo doveva aver seguito la scia di sangue fino allo studio e ora si accalcava sull’ingresso in mezzo a un concerto di versi e grida gutturali. Cinque o sei creature che si spintonavano e si camminavano addosso nel tentativo di entrare per primi.
Valygar si posizionò tra il cerchio alchemico e i nuovi venuti. Roteò il bastone davanti a sé, ma quelli non si fecero intimorire. Un secondo falleen ringhiò, scoprendo incisivi aguzzi come quelli di un serpente velenoso.
“Cerco di tenerli a bada, ma fate presto!”
“Ti serve aiuto?” Vexen riportò lo sguardo sul cerchio e vide che Lavok aveva raccolto uno dei suoi gessetti caduti. Spalancò gli occhi per il terrore e l’oltraggio nell’immaginare uno dei suoi cerchi in mano a un neofita da strapazzo che fino a qualche giorno prima non aveva nemmeno mai sentito nominare la parola “alchimia”. Aprì la bocca per ringhiargli addosso tutto il suo disprezzo, ma si morse la lingua ripensando alla precisione e alla competenza con cui il mago gli aveva illustrato il funzionamento dell’incantesimo. Doveva ammetterlo, non lo aveva immaginato in possesso di simili nozioni scientifiche. Forse lo stava sottovalutando.
La sua esitazione durò ancora una manciata di secondi, il tempo che impiegò la statuetta di bronzo scagliata da uno dei combattenti a volare accanto al suo orecchio e ad infrangersi a tutta velocità contro una specchiera. Un tripudio di schegge di vetro piovve sul cerchio, sul principe Xizor e sulle loro teste. Si ripararono alla bene e meglio con le braccia, ma quando Vexen tornò a concentrarsi sul lavoro il cerchio ormai era compromesso dalla presenza di tutta quella materia estranea. Bestemmiò. Ci sarebbe voluta una vita per rimuovere ogni singola scheggia.
Poi, sotto il suo sguardo incredulo e ormai al limite della sopportazione, i pezzetti di vetro presero il volo. Uno dopo l’altro fino al frammento più microscopico, visibile solo grazie alla rifrazione delle luci al neon nello studio. La brezza fresca che li trasportava gli accarezzò la pelle per qualche piacevole attimo, ma non smosse nemmeno un granello di gesso dal pavimento.
Pochi secondi dopo il cerchio era di nuovo sgombro e Lavok sorrideva, abbassando la mano con cui aveva lanciato l’incantesimo. Vexen prese la sua decisione.
“Ricopia i simboli che disegno io dalla tua parte del cerchio, ruotati di esattamente centottanta gradi.”
“Ricevuto!”
Si rimisero al lavoro di buona lena, cercando di escludere dal loro campo uditivo le urla e i rumori del combattimento in corso a pochi metri da loro. Vexen vide Lavok sussultare quando a un tonfo sordo seguì un grugnito di dolore di Valygar, ma il mago strinse i denti e tenne duro, continuando a disegnare con le spalle chine e il naso a pochi centimetri dal cerchio.
Finalmente le due stringhe di simboli si incontrarono a metà della circonferenza. Vexen tracciò l’ultimo connettore con un gesto rabbioso che finì di mutilare il gessetto ormai consumato.
“Adesso allontanati!”
Posò i palmi a terra e visualizzò nella mente le linee energetiche dell’incantesimo che si interrompevano. Sapeva che se Freki non avesse portato a termine il suo compito nei piani inferiori del palazzo tutta la loro fatica non sarebbe servita a niente.
Infuse la sua volontà nei simboli e nelle rune, ma il cerchio rimase inerte.
Dèi ladri, Freki, datti una mossa!
Asciugò il sudore dalla fronte con il bordo di quell’inutile mantello verde e ci riprovò.
In quel momento successero due cose. Valygar afferrò un togruta armato di una bottiglia rotta in una presa da lottatore e facendo leva sulle gambe lo scagliò oltre le loro teste, facendolo atterrare con un tonfo proprio alle spalle di Lavok, che si lasciò sfuggire un grido di spavento. Il pavimento iniziò a vibrare e il cerchio si illuminò di bagliori violacei mentre le falde dei loro abiti eleganti si sollevavano e svolazzavano rapite da un vento innaturale, spiraleggiante.
“È normale che faccia così?” gridò Lavok, spiaccicato sul pavimento come un grosso scarafaggio capovolto.
“In teoria sì, ma… è più complicato del solito! Qualcosa oppone resistenza!”
Vexen si morse l’interno del palato, imponendosi di non staccare le mani dal pavimento, di non perdere il contatto con le rune. Il vento ora crepitava come se una tempesta in miniatura stesse scalpitando all’interno del cerchio, ruggendo nell’impeto di liberarsi e sparandogli in faccia raffiche pungenti di vento sempre più violente.
Non perderò il controllo come un pivellino alle prime armi davanti a quel mago ribelle!
L’orgoglio gli diede la forza di puntare le ginocchia a terra e concentrare ogni cellula del suo essere sul comando che intendeva trasmettere al cerchio. La magia del medaglione si ribellava come una belva ingabbiata, ma il suo cerchio non aveva sbavature. Era impeccabile, come sempre.
Ordinò alle rune di stringersi in una morsa, le impugnò come le redini di un cavallo imbizzarrito e tirò con tutte le sue forze. Gli parve che il vento diminuisse di intensità malgrado il rombo ancora potente, e socchiuse gli occhi quel tanto che bastava per distinguere il braccio sollevato di Lavok e uno scudo di energia traslucida che si frapponeva tra loro e la tempesta.
Poi la luce dilagò, accecante. La stanza esplose in una cacofonia di urla affastellate l’una sull’altra. Vexen lasciò la presa e si rannicchiò sul pavimento.
Lo schiocco fu netto, deciso. Una lastra di ghiaccio che si spezza a metà.
Quando la luce passò e poterono riaprire gli occhi il vento era cessato. Alcuni degli assalitori di Valygar si contorcevano doloranti sul pavimento e gemevano, ma non accennavano a rialzarsi per riprendere l’attacco. Vexen inspirò, grato per il silenzio che era calato tutto intorno e dentro la sua testa.
“Ce… ce l’abbiamo fatta?” domandò Lavok con un filo di voce.
Vexen spostò lo sguardo sul petto del principe Xizor, dove il medaglione giaceva spaccato in due metà perfette, e si concesse finalmente l’ombra di un sorriso.
 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 - Danza con il diavolo ***


Capitolo 20 - Danza con il diavolo







Darth Maul








Ventidue anni.
La cifra continuava a risuonare nella sua mente, scivolando contro il transparacciaio della navetta su cui l’iridoniano l’aveva fatta salire.
“Se tenti qualcosa di strano, io lo saprò”.
Darth Maul, questo era il suo nome, aveva fatto sibilare la minaccia da sotto il cappuccio, accompagnandola con uno strano tremito nella testa che Zam aveva riconosciuto immediatamente. Non era chiaramente un Jedi, ma qualcosa di affine.
Sprofondata nell’abitacolo della navetta da due posti, si sforzò di guardare oltre.
Coruscant non aveva assolutamente nulla di diverso dai suoi ultimi ricordi. I grattacieli continuavano a svettare, affamati di raggiungere l’atmosfera, e nemmeno una luce brillava dai bassifondi. Le aereonavi saettavano tra gli edifici con la medesima cadenza, anche se la maggior parte dei modelli avevano un disegno e delle forme che non le erano familiari. Creature di ogni razza si affacciavano di continuo dalle finestre della capitale dell’Impero, ed a parte un paio di droidi assolutamente sconosciuti che avevano preparato il loro velivolo sarebbe stata pronta a giurare che il tempo si fosse cristallizzato.
L’unica differenza era il Tempio Jedi: per quanto Jango avesse sempre cercato di tenersi ben lontano dalla giurisdizione degli Jedi, era sempre stato impossibile non notare le guglie altissime, bianche ed eleganti che da sempre risaltavano anche nel caleidoscopio di luci e colori di Coruscant. Ricordava benissimo le piattaforme di atterraggio di un materiale strano, simile all’oro, che cambiava colore non appena il tramonto artificiale della città vi poggiava le luci sopra, uno spettacolo incandescente che molte persone trovavano quasi romantico da ammirare, uno dei pochi luoghi a non essere immerso nel traffico quotidiano. Ma l’edificio dal quale Darth Maul la fece uscire, allontanando i curiosi con i suoi occhi gialli, non aveva assolutamente nulla di quel candore un po’ ipocrita che lei ricordava: dei cinque pinnacoli di cui aveva memoria soltanto un paio continuavano a svettare, e l’intero corpo centrale aveva assunto una nuova struttura, più squadrata, simile a molti altri palazzi che aveva incontrato sul pianeta. Una squadra di unità R2 saettava lungo delle impalcature, praticando degli ammodernamenti. Se l’iridoniano non le avesse rivelato di averla appena estratta dai livelli inferiori del vecchio Tempio lo avrebbe scambiato per un qualsivoglia edificio amministrativo, seppur di una foggia fin troppo elegante.
Salire sulla navetta ed andarsene non le diede l’effetto gradevole che desiderava.
“Hai detto che gli Jedi sono stati cancellati”.
La sua voce era secca, impastata, ma la vista le era tornata piuttosto rapidamente. Si sentiva le gambe ancora raggelate per la permanenza nella carbonite, ma l’altro non aveva mostrato cenni di impazienza.
Non che questo le rendesse meno chiari i ruoli. Lei era prigioniera, e lui dettava le regole. Non le aveva bloccato i polsi o piedi solo perché i suoi poteri gli conferivano sicurezza. E lei non era abbastanza stupida da aggredirlo e fuggire in un mondo che da ventidue anni era andato avanti senza di lei.
“L’Ordine dei Jedi era lo specchio del marcio che infestava la vecchia Repubblica. Durante la Guerra dei Cloni hanno mostrato il loro vero volto, e l’intera Galassia non ha trovato altro che benefici nel liberarsi della loro presenza una volta per tutte”.
“Gli Jedi erano dei figli di puttana”.
“L’esercito dei cloni del Senato ha avuto la meglio”.
Zam sussultò, voltandosi di nuovo verso il finestrino dell’abitacolo per non far trapelare la sua espressione.
I cloni, il retaggio di Jango.
Quegli esseri tutti uguali che le avevano messo sempre un’angoscia incredibile quando li fissava nelle vasche di crescita o seduti a mensa.
Lo Jedi che le aveva portato via l’uomo che amava e che l’aveva rinchiusa per tutto quel tempo.
Si concesse un sorriso amaro. Quelle creature che a malapena avrebbe considerato degli esseri viventi avevano ottenuto la vendetta al posto suo.
Darth Maul, non appena salito a bordo, si era liberato del cappuccio scuro che indossava. I suoi lineamenti erano marcati anche per un maschio di Iridonia, ed i tatuaggi rossi e neri che aveva intravisto soltanto lungo le guance in realtà lo ricoprivano per tutto il cranio -completamente rasato- ed era chiaro che scendessero anche lungo il collo. Le sei corna superiori superavano tutte le tre dita, mentre quelle inferiori, ai lati dell’orecchio, sarebbero state persino invisibili in quel dedalo di tatuaggi ad un occhio meno attento. Un iridoniano della genealogia zabrak, da quello che ricordava. Gente con cui era meglio avere a che fare il meno possibile, specie quando diventavano territoriali.
Guidava in maniera spigliata, con gesti naturali. Non si voltò per parlarle.
“Suppongo non fossi una simpatizzante dell’Ordine Jedi”.
“Credo che non sarei in grado di mentire su questo argomento nemmeno volendo”.
“Bene”.
Il silenzio che ne seguì fu sgradevole.
La costante sensazione che si trattasse in ogni caso di un manipolatore della Forza era sempre lì, nel retro del suo cervello, e si mescolava con i colori accesi dipinti sul viso dell’altro. Era chiaro che fosse in attesa, e sapeva bene di cosa. “Avevo una missione. Una di quelle poco … ufficiali”.
“Comprendo …”
“Come dire … gli Jedi non erano previsti. Credo che mi avessero rinchiusa lì dentro in attesa di qualche interrogatorio, ma non sono più tornati” mormorò “Ma adesso capisco il perché”.
“I Jedi avevano delle celle nei piani inferiori del loro Tempio. La conservazione in carbonite era una detenzione considerata immorale nei loro canoni. Ma per te hanno fatto un’eccezione”.
Di nuovo.
Il silenzio strano, rivestito da quella Forza che le galleggiava intorno, stavolta pronta a saltarle addosso al minimo errore.
Crede che io sia un’umana, realizzò.
Si sta chiedendo il perché della carbonite.
L’iridoniano aveva ancora lo sguardo fisso in avanti, verso la meta di Coruscant a lei ignota, ma l’interno della navetta era sempre più pregno di quella sensazione pressante, aggressiva. Si ricordò di quella sera con Jango, la cena in cui aveva incontrato quello Jedi per la prima volta, ed il bisogno impulsivo di voltare la testa in sua presenza, come se qualcuno toccasse la sua mente in punti in cui lei non potesse arrivare. Quel Darth Maul si sarebbe accorto che mentiva.
Ma, come Jango le aveva insegnato, nemmeno i migliori trucchi mentali erano infallibili. O meglio, occorreva sapere come gestirli. “Avevano ucciso il mio compagno” rispose, deglutendo.
Se l’iridoniano voleva sentire la sua rabbia … bene, l’avrebbe avuta. “Giuro che se mi avessero lasciata anche solo cosciente avrei trovato il modo di ammazzarli. Uno ad uno” ringhiò “Avrei preso le loro teste e quelle dei fottuti senatori nei loro palazzi. E, come avrai capito, io per lavoro mi sporcavo le mani”.
I sensi del suo interlocutore le si poggiarono addosso. Non vi era assolutamente nulla intorno a lei, ma la coltre di pericolo si disegnò addosso alle sue parole, ai suoi pensieri, cercando di entrare nella maglia della sua risposta. Lo lasciò fare, ricordandosi di come Jango si fosse limitato ad osservare lo Jedi attraverso il riflesso del vetro, quando la sua mente sembrava impossibilitata a guardare nella direzione del nemico; gli espose la propria rabbia, ed il dolore che la carbonite non era riuscita a congelare.
Bastò.
Riprese a respirare ed a pensare normalmente dopo pochi istanti, ed in modo seppur impercettibile anche la presa di quel Darth Maul sulla plancia controllo della navetta tornò più rilassata.
Zam osservò che il velivolo stava puntando ad un edificio uguale a molti altri, ma decisamente invaso dal nugolo di navi di ogni taglia che atterrava e sbarcava figure che anche a quella distanza riconobbe come soldati di una qualsivoglia tipologia. E, per quanto i modelli fossero diversi da quelli che ricordava, sapeva riconoscere dei droidi da battaglia quando li vedeva.
L’altro ruppe il silenzio che si era creato mentre si introdusse nel canale di ingresso della struttura con una sterzata rapida e netta. “Allora sarai contenta di sapere che la Galassia si è liberata definitivamente anche del Senato. La Repubblica è stata riorganizzata nel Primo Impero Galattico”.
“Tsk. Per una società più salda e più sicura?”
Se Darth Maul aveva colto la sua ironia non lo diede a vedere. “L’Imperatore ha portato pace e stabilità dove prima vi era soltanto corruzione e caos”.
Ripensò alla sua gente, massacrata soltanto perché i senatori non avevano nulla da guadagnare nel supportare quelli come lei.
Ripensò di nuovo a Jango, che ascoltava i dibattiti politici all’ologiornale e le ripeteva che il Senato era solo un cartello criminale alla luce del giorno.
Guardò le figure armate ed i droidi che si ingrandivano sempre di più mentre la piattaforma d’atterraggio dedicata a loro emergeva dal pavimento dell’area d’attracco, e si accorse che in fondo le divise dei soldati ad una certa distanza non erano nemmeno cambiate troppo da ventidue anni prima. “Contento lui di governare su questa merda” rispose, muovendo ancora le dita per sentirne l’energia. “Secondo me non ne vale poi tanto la pena …”
Fu un’impressione, ma da sotto le labbra scure i denti affilati dell’iridoniano si esposero nella prima espressione quantomeno divertita che gli avesse visto da quando era emersa dalla carbonite.
Atterrarono in pochi istanti, e per quanto odiasse quella città fu contenta di uscire dall’abitacolo e levarsi la scomoda presenza mentale dell’altro, anche solo per respirare l’aria inquinata di Coruscant.
“Maul, amico mio. Ma quanto ci hai messo?”
La nuova voce la distolse immediatamente da tutti i suoi pensieri.
Si voltò verso il nuovo arrivato, una figura che era comparsa scortata da un manipolo di assaltatori.
Qualunque espressione lei avesse avuto, era certa di poterla vedere riflessa sul viso dell’uomo.
L’iridoniano camminò in mezzo a loro, ma fece un rapido passo verso di lui. “Boba … hai la faccia di chi ha appena visto un fantasma”.






Vexen si era ripromesso di non mangiare nulla nella dimora di un signore del crimine, ma la terza volta che il droide cameriere gli sventolò sotto il naso il vassoio con le tartine fu troppo anche per il suo autocontrollo notoriamente inossidabile. Accavallò le gambe mentre si sforzava di consumare lo spuntino a piccoli morsi, senza apparire troppo vorace. Perché finiva sempre per ricordarsi di mangiare solo quando il suo stomaco si approssimava al collasso? Iniziava a sospettare che la cosa fosse collegata all’assenza di Camus. Di solito era il suo assistente ad occuparsi dei pasti.
Lo stesso assistente che ora non rispondeva alle sue chiamate da più di ventiquattro ore.
“Ma vi prego, non c’è necessità di continuare con la messinscena degli inviati del Sindacato Pyke.”
Il principe Xizor agitò una mano dalle unghie lunghissime, distogliendo Vexen dalle sue preoccupazioni per la sorte del sacerdote.
“Ho contattato il loro quartier generale nel settore A040 e mi assicurano di non aver mandato nessuno alla celebrazione per il mio compleanno. Il che, detto tra noi, è anche oltremodo maleducato.”
Vexen incrociò gli sguardi dei suoi tre compagni. I due Corthala gli sedevano di fronte su un divanetto basso foderato di viola, mentre Freki aveva ricevuto il discutibile onore di condividere una sorta di triclinio sontuoso con il principe Xizor in persona, che non perdeva l’occasione di scoccare occhiate lascive nella sua direzione. Era già la quarta volta che la donna doveva schivare i tentativi di lui di poggiarle una mano sul ginocchio o sfiorarle i capelli, il tutto cercando di far apparire i propri movimenti assolutamente spontanei e casuali. Ad ogni mossa caduta nel vuoto del principe, Freki gli rivolgeva un sorriso adorabile che celava appena il bianco dei denti, lampeggianti come la punta di un coltello d’osso.
Anche stavolta fu lei a rispondere per prima al capo del Sole Nero, la voce impastata di miele: “Suvvia, principe. Scommetto che non è la prima volta che ha a che fare con operatori indipendenti.”
“Naturalmente.” Il sorriso di Xizor era acuminato almeno quanto quello di Freki. Vexen si sorprese a stringere i braccioli della sua sedia in stile antico, trattenendo il fiato di fronte a quel sottile duello di sguardi e sottesi. Era certo che, al posto della ex Jedi, avrebbe perso le staffe e sarebbe finito per saltare alla gola del falleen arrogante.
La diplomazia non era mai stata il suo forte.
A giudicare dalle sopracciglia aggrottate e la mandibola contratta, anche Valygar doveva provare il suo stesso disagio. Il piede del ranger si muoveva nervosamente su e giù, picchiettando con il tacco dello stivale sulla gamba del divanetto. Solo quando Lavok gli posò una mano sull‘avambraccio e lo strinse con delicatezza il giovane sembrò rilassarsi leggermente.
Indossavano ancora tutti e quattro gli abiti della festa, sebbene fosse stata concessa loro una mezz'ora per rinfrescarsi prima dell’incontro. Il principe Xizor non aveva voluto perdere tempo, convocandoli nel suo salottino personale non appena rimessosi in piedi dalla brutta avventura del medaglione.
“In situazioni normali sarei, come dire… più insistente. Ma mi avete salvato la vita, e scoprirete che so mostrare la mia gratitudine in molti modi differenti. Presumo che da bravi ‘operatori indipendenti’ vi siate infiltrati alla mia festa alla ricerca di qualcosa. Beh, ora avete l’occasione per porre la vostra domanda in modo diretto. Chissà, potrei essere addirittura in grado di aiutarvi.”
Compiaciuto della sua stessa magnanimità, Xizor accavallò le gambe e prese un lungo sorso di succo di jurii dal suo calice cesellato. Non aveva affatto l’aria di un uomo appena scampato per un soffio a un tentativo di omicidio. I suoi servitori lo avevano abbigliato e truccato alla perfezione, e solo osservando con estrema attenzione si riusciva notare il livido violaceo che affiorava sullo zigomo destro sotto il pesante strato di fondotinta verde. Per il resto, era come se il principe fosse appena uscito da una giornata al centro benessere.
La sua offerta era interessante, non c’erano dubbi. La verità, tuttavia, era che i quattro avevano già reperito l’informazione per cui erano stati costretti a partecipare a quella maledetta festa. Al loro ingresso nel salottino Lavok aveva pronunciato il codice di riconoscimento ribelle ad alta voce, ottenendo soltanto un’occhiata interrogativa e una scrollata di spalle da parte di Xizor.
Il Sole Nero non era il Sindacato criminale che stavano cercando.
No, si corresse mentalmente Vexen. Che Lavok e Valygar stavano cercando.
Si chiese se non potesse approfittare della situazione per ottenere una ricompensa di tipo diverso.
“La nostra ricerca è di natura privata” si intromise, prima che Freki o uno dei Corthala potessero rubargli la battuta. “Stiamo cercando delle persone. Questioni di famiglia, per così dire.”
Sentì all’istante gli sguardi degli altri tre convergere su di lui come mirini infuocati.
Poveri ingenui. Cosa si aspettavano? Che abbracciasse la loro causa dall’alto della generosità del suo cuore? Freki gli aveva promesso indizi sull’ubicazione di Zexion, ma tutto ciò che aveva ottenuto seguendola erano stati una collezione di lividi e numerosi faccia a faccia con la morte. Era il momento di prendere la situazione nelle proprie mani.
“Ma certo. La famiglia è la base di una società ordinata ed efficiente, dopotutto” annuì Xizor, con un sorriso finto come la propaganda dell’Imperatore. “Se si tratta di una semplice ricerca di persone scomparse, i miei archivi informatici sono a vostra completa disposizione.”
A sorpresa, Freki rivolse lo sguardo nella sua direzione e annuì leggermente. La sua espressione, tuttavia, rimaneva indecifrabile.
“Le voci sulla generosità del capo del Sole Nero non sono solo leggende metropolitane, vedo” la donna sollevò a sua volta il proprio calice, intercettando quello del principe in un brindisi e sottraendosi allo stesso tempo al tentativo di lui di sfiorarle i capelli con le labbra. Quei gesti plateali da predatore non lasciavano adito a dubbi: Xizor marcava il territorio, rendendo noto a tutti a chi apparteneva il potere in quella stanza. Aveva deciso di concedere loro dei benefici, ma questo status poteva cambiare in qualsiasi momento a seconda del suo insindacabile capriccio.
Vexen ammirò Freki per lo stoicismo con il quale si destreggiava tra le viscide avances del principe; allo stesso tempo provava il desiderio irrefrenabile di trasformare tutti i liquidi corporei del boss criminale in un superacido che gli corrodesse ossa e vasi sanguigni dall’interno.
“Tuttavia, penso che sarebbe un peccato se la nostra collaborazione si esaurisse così presto” proseguì lei, scoccando un’occhiata maliziosa a Xizor da sopra il bordo del proprio calice. “Sbaglio o la consulenza di esperti di magia potrebbe farle comodo in un momento come questo?”
“Mia cara, vedo che ci troviamo perfettamente sulla stessa pagina.” Xizor regalò loro un altro di quei sorrisi che facevano apparire il suo viso sottile simile al muso di un serpente. “In effetti l’attacco diretto contro la mia persona ha presentato delle modalità decisamente… inusuali. Non è certo il primo attentato a cui sopravvivo, e la mia sicurezza è impenetrabile contro ordigni, veleni, cecchini e il solito, patetico arsenale di cui i miei nemici dispongono. L’uso di mezzi magici di tale potenza, tuttavia, non è qualcosa di comune tra i Sindacati dei Bassifondi. Qualcuno deve essere entrato in possesso di un nuovo tipo di risorsa. Ciò potrebbe cambiare i rapporti di potere in maniera repentina e totale. Pertanto è di vitale importanza capire da dove sia arrivato quel medaglione maledetto.”
“Immagino sia entrato nel palazzo spacciato per uno dei suoi regali di compleanno” ragionò Freki. Stavolta, quando il principe le sfiorò il mento con il pollice e l’indice, lei non mosse un muscolo.
“Da parte di chi era?”
“Di un luogotenente dei Crymorah convenientemente morto durante il ridente massacro di poco fa. Ma su questo i miei uomini stanno già indagando. Quanto a voi, la vostra competenza magica sarebbe invece utile per analizzare i resti di quel medaglione.”
“In cambio di cosa?” sbottò Valygar, sul punto di saltare in piedi come una molla impazzita. Era chiaro che l’idea di prolungare la collaborazione con il principe faceva a pugni con il suo senso morale. Durante l’intero colloquio aveva assistito all’assalto subito da Freki ribollendo come una pentola a pressione, e più volte le sue mani erano corse a stringere il vuoto dietro le sue spalle, alla vana ricerca di un’arma che al momento non portava con sé. Probabilmente il suo istinto di ribelle paladino della giustizia gli gridava di correre in aiuto della damigella in pericolo.
Vexen era sicuro che se il giovane Corthala avesse tentato una qualsiasi mossa contro il principe sarebbe stato freddato all’istante. Gli arazzi raffinati alle spalle dei loro sedili erano troppo ampi e voluminosi per non nascondere cecchini o guardie del corpo, senza contare i due muscolosi gamorreani dal muso porcino appostati davanti alla porta del salotto e armati di imponenti vibroasce.
“La mia protezione è una garanzia sufficiente, signor Corthala?” Xizor fissò i suoi occhi da rettile in quelli del ranger. “La vita indipendente ha i suoi vantaggi, certo, ma persino il lupo più solitario ogni tanto ha bisogno di una tana sicura a cui tornare. Medicinali, equipaggiamento, pezzi di ricambio, supporto informatico… tutte cose molto più semplici da procurare quando si fa parte di un branco.”
“E il piacere della reciproca compagnia” aggiunse Freki, in una voce che Vexen non le aveva mai sentito: una sorta di falsetto condito di risatine da adolescente alla prima cotta. Stavolta fu lei a protendersi verso il principe, solo per ritirarsi di scatto poco prima che le labbra di Xizor le sfiorassero la spalla nuda, nascondendosi di nuovo dietro il calice e l’ennesima risatina scomposta.
Stava fingendo di cedere all'ebbrezza dell’alcool? Era una strategia per attirare l’ignaro principe al centro della sua ragnatela? Comunque fosse, un altro minuto di quella scena disgustosa e a Vexen sarebbe venuto da vomitare.
“Abbiamo un accordo, dunque?” Xizor fece segno al droide cameriere di riempirgli ancora una volta il calice e lo sollevò nell’ampio gesto di un sacerdote benedicente, facendo correre lo sguardo tra i suoi ospiti.
Nessuno proferì parola, ma tutti levarono a loro volta i propri calici e inclinarono il capo in cenni più o meno entusiasti di assenso. Per un attimo Vexen temette che il giovane Corthala avrebbe scagliato a terra il proprio bicchiere come un guanto di sfida, ma il ranger si limitò a scoccare uno sguardo omicida prima di tracannare il suo succo di jurii in una serie di lunghi sorsi rabbiosi.
“A una duratura e proficua collaborazione, allora” proclamò Xizor. “E benvenuti tra gli amici del Sole Nero.”
 
 
Subito dopo la fine dell’incontro Freki si era ritirata insieme a Xizor nelle stanze personali del principe, lasciando a loro tre l’incombenza di recarsi alla Discarica per recuperare il resto dell’equipaggiamento e trasferirlo nei loro nuovi alloggi al palazzo del Sole Nero.
Il primo privilegio del loro nuovo status di “amici” del Sindacato li aspettava già sulla porta d’ingresso: un piccolo speeder coperto, dotato di droide pilota, che li condusse all’ostello della zia Layla in meno di cinque minuti.
Dopo più di ventiquattro ore di assenza, la loro piccola stanza sembrava ancora più soffocante e invasa di polvere.
“Non ci credo. Non posso crederci. Stiamo sbagliando, stiamo sbagliando tutto!”
Vexen aveva pregustato il momento in cui si sarebbe liberato del mantello verde per scivolare di nuovo nei suoi comodi abiti anonimi, ma le lamentele di Valygar gli impedirono di goderselo come avrebbe voluto. Il giovane Corthala e suo zio avevano battibeccato durante tutto il tragitto verso la Discarica.
“Collaboratori di un Sindacato, complici di criminali! Così in basso siamo caduti!”
“Nipote, ti ricordo che il motivo per cui siamo venuti su Coruscant è precisamente quello di allearci con un Sindacato…”
“Ma non con il Sole Nero! Non sono loro il contatto della Ribellione, ormai è accertato! E poi… come abbiamo potuto permettere a Freki di restare da sola con quel lucertolone maniaco? Che razza di uomini siamo?”
“Fossi in te mi preoccuperei di più per la salute del principe, Valygar. Freki è più che in grado di badare a se stessa. Sono certo che faccia tutto parte di un suo piano.” Lavok strinse con affetto la spalla del nipote. “Fidiamoci di lei. Anche perché non abbiamo molta scelta. Ammettiamolo, né io né te dureremmo a lungo nei Bassifondi senza il suo aiuto…”
Il ranger sbuffò, ma dopo qualche attimo posò a sua volta la mano sul braccio dello zio e chinò la testa, avvicinando la fronte a quella del Corthala più anziano.
Quando riprese a parlare la sua voce suonò incredibilmente sottile. Stanca.
“Scusami, zio. È che… è come hai detto tu, questa missione è… troppo per noi. Non abbiamo gli strumenti per affrontarla. Mi sento totalmente in balia degli eventi.”
Seduto su uno dei letti, Vexen diede le spalle alla scenetta edificante e si finse interessatissimo al contenuto del proprio zaino. Ci mancava solo il quadretto familiare piagnucoloso.
“Scusami, zio. C’era troppa gente. Mi dispiace, ti sono svenuto addosso come un sacco vuoto…”
“Non preoccuparti. Vedila dal punto di vista del ricercatore: abbiamo raccolto nuovi dati sul tuo potere e adesso sappiamo quali situazioni evitare la prossima volta.”
“Ti capisco, Valygar. Mi sento sopraffatto anche io. Ma abbiamo scelto noi di combattere l’Impero… prima o poi dobbiamo imparare a muoverci nel suo territorio, per quanto alieno possa sembrarci. Prendiamolo come un allenamento utile per il futuro.”
Impegnati nelle loro effusioni, i due Corthala non sentirono il suo lungo, rassegnato sospiro.
Una volta verificato che tutte le sue cose nello zaino fossero al proprio posto, l’attenzione di Vexen tornò per l'ennesima volta allo schermo dell’olopad.
Nessuna chiamata. Nemmeno l’ombra di un messaggio.
Il suo: “Sei ancora vivo?” di cinque ore prima risultava ancora non visualizzato dal ricevente.
Inutile nasconderselo: la situazione ormai era preoccupante.
Vexen sospirò di nuovo e si schiarì la voce. Non si curò di intromettersi a gamba tesa nel momento familiare dei due Corthala.
“Sapete su che pianeta doveva svolgersi la missione di Camus?”
Zio e nipote si voltarono all’unisono nella sua direzione, e Valygar impiegò meno di cinque secondi a riprendere l’espressione accigliata e il tono velenoso che riservava ad ogni scambio di parole con lui: “Perché ti interessa Camus, adesso?”
Vexen sbuffò, mostrando loro lo schermo neutro dell’olopad: “Perché non so che tipo di comunicazioni abbiate con la vostra preziosa Alleanza, ma Camus non risponde alle comunicazioni da più di un giorno. Il che vuol dire che probabilmente la vostra missione non è l’unica ad essere andata tremendamente storta.”
Valygar non si sforzò di trattenere una sonora risata: “L’ho imparato persino io che si possono bloccare i contatti per non ricevere più nessuna comunicazione da loro. Che c’è, ti secca di aver perso il tuo schiavetto? Probabilmente ha solo deciso di liberarsi di te. E alla buon’ora, dico io.”
Vexen e Lavok replicarono nello stesso, esatto momento: “Si vede che non conosci Camus.”
Valygar strabuzzò gli occhi, a corto di parole per qualche secondo. Poi sbuffò e scrollò le spalle: “Fantastico, zio. Adesso tu e il medico della morte vi completate le frasi a vicenda. E io che pensavo che il Sole Nero fosse il maggiore dei nostri problemi!”
Senza smettere di borbottare, Valygar afferrò il proprio blaster dal letto, si gettò lo zaino su una spalla e uscì dalla stanza strascicando i passi. Lo sentirono continuare a lamentarsi lungo tutte le scale e fino al banco della reception della zia Layla.
Lavok lo seguì per un tratto con lo sguardo per poi rivolgere a Vexen un timido sorriso di scuse.
“Mi dispiace. Non sappiamo dove si svolgeva la missione di Camus. Il motivo probabilmente è lo stesso per cui lui non lo aveva detto a te: sicurezza.”
“Valeva la pena provarci” sospirò Vexen, iniziando a sua volta a raccogliere le proprie cose.
“Ma hai ragione ad essere in pensiero. Lo sono anch’io, anche se immagino che la cosa non ti consoli molto.”
“Deduzione corretta.”
Si avviarono entrambi per le scale. Lavok non aveva più bisogno del bastone - l’ospitalità del principe aveva incluso anche un trattamento nel bacta - ma Vexen non poté fare a meno di notare che ancora doveva appoggiarsi alla ringhiera di tanto in tanto.
“Però Xizor ha menzionato degli archivi informatici” proseguì il mago. “Potrebbe valere la pena cercare se ci sono notizie recenti su ribelli catturati o cose del genere. Se me lo permetti, vorrei accompagnarti.”
Lavok gli sorrise e accennò con la testa alla figura di Valygar che li aspettava oltre le porte a vetri della Discarica: “C’è anche un’altra cosa di cui vorrei parlarti, in effetti. Possibilmente lontano da mio nipote.”

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 - Vent'anni dopo ***


Capitolo 21 - Vent'anni dopo







Lavok Corthala








Il droide protocollare servì loro il jurii in dei calici che Boba nemmeno ricordava di possedere. Per un attimo al cacciatore di taglie sembrò di notare uno strano scintillio sul fondo dei sensori ottici del vecchio R002N, quasi come se il droide stesse per chiedere cosa ci facesse quella donna negli appartamenti privati di uno dei Signori Oscuri dell’Impero. Specie quando -su consiglio di Tarkin- aveva adibito un appartamento specifico alla sporadica compagnia femminile ben lontano dai suoi alloggi personali.
Zam non aveva proferito alcuna parola da quando aveva chiesto a Maul di prenderla in custodia; il suo amico si era limitato ad una alzata di spalle ed una alzata di sopracciglio che avrebbe richiesto molte spiegazioni. Lei lo aveva seguito con cautela, e non gli erano sfuggiti i numerosi sguardi alla sua armatura; aveva quasi tirato un sospiro di sollievo quando avevano superato il blocco di sorveglianza che circondava il palazzo governativo. Sollievo che in quel momento, con gli occhi chiari di Zam puntati contro di lui come il mirino di un blaster di precisione, si era trasformato in un silenzio imbarazzante.
“Dei tanti futuri che avrei immaginato per te, la politica era all’ultimo posto. O al penultimo, se includiamo i banchieri”.
Secca, diretta.
Non aveva degnato la bevanda che le era stata servita nemmeno di uno sguardo.
“Non sono così importante come potrebbe sembrare. In realtà ho un ruolo soltanto …”
“Il droide ti ha chiamato governatore”.
“Sono attualmente il governatore di Kamino, il pianeta più umido, squallido e lontano dal centro di controllo dell’Impero. Ma sì, conto come governatore”.
Erano in piedi l’uno davanti all’altra, con R002N che teneva il vassoio con i calici di jurii in perfetto equilibrio nello spazio che li separava. Boba prese il proprio, sospirando tra sé, cercando con tutte le proprie forze di recuperare l’immagine della Zam Wesell che ricordava quando era bambino e di inserirla in quella figura dall’abito viola e consunto, quasi come una delle vecchie olografie su stampa che i collezionisti inserivano nelle cornici.
Quanti anni erano passati? Più di venti, quantomeno.
La donna davanti ai suoi occhi non era invecchiata di un giorno. Non sapeva se attribuire questo dettaglio disturbante alla longevità dei clawditi o alla conservazione in carbonite -il visore plineale dell’elmo gli aveva fornito i dati del recupero da parte di Maul che aveva letto durante il viaggio verso l’appartamento- ma gli occhi chiari che lo osservavano mentre cercava di catturare i rollerfish nelle acque di Kamino erano gli stessi che stavano osservando il rivestimento ausiliario in platino-iridio di R002N alla ricerca di armi non visibili proprio come lei stessa gli aveva insegnato, tantissimi anni prima.
Mandò giù il liquido color ambra e le fece cenno di accomodarsi sul divano. Ci si sedette lui stesso per primo, e ad un suo cenno il droide disabilitò la visione panoramica di Coruscant oltre il vetro, schermando le finestre in modo che le mille luci del Pianeta Che Non Dorme non disturbassero quello strano incontro.
Zam si sedette dal lato opposto, e R002N appoggiò il calice mancante su un tavolino davanti a lei per poi ritirarsi lontano dai loro occhi. “Io e mio padre ti credevamo morta”.
“Fidati, lo avrei preferito. Lo avrei preferito … con tutto il cuore”.
Per la prima volta da quando avevano messo piede nell’appartamento, gli occhi di lei smisero di fissarlo e si poggiarono su un punto indistinto del bracciolo del divano.
“Puoi … dirmi come è morto?”
Un mormorio, ben diverso col tono vibrante come un coltello con cui aveva aperto quella discussione “Per favore”.
Quei pochi discorsi sensati che il suo cervello stava preparando si infransero come le onde contro il loro vecchio alloggio su Kamino.
Negli anni aveva cercato di soffermarsi sui ricordi di quel duello su Geonosis il meno possibile, e aveva spesso il sospetto che i ricordi immediatamente successivi alla battaglia fossero annodati in un groviglio così oscuro e fastidioso che non aveva mai avuto desiderio di dipanare. Era rimasto lì, nella polvere rossa dell’arena di quel giorno, insieme al rumore secco del casco di suo padre che rotolava a terra davanti agli stivali scuri dello Jedi. Nei primi tempi in cui aveva conosciuto Tarkin e Darth Maul aveva mostrato molta insofferenza nel ronzio della spada laser del secondo, ed aveva avuto bisogno di diversi mesi prima di resistere all’impulso di portare la mano al blaster ogni volta che il suo amico accendeva la lama quando si trovava nei paraggi.
“Lo Jedi che lo ha ucciso si chiamava Anakin Skywalker. Ci ha inseguiti fino a Geonosis, e credo che fosse legato ad una vostra missione recente, ma Pa’ non mi disse mai nulla a riguardo”.
Al semplice nominare suo padre con quel vecchio tono da bambino si ritrovò a mandare giù uno strano sorriso. “Ho cercato a lungo negli archivi degli Jedi negli anni. Dopo l’Ordine 66 l’intera lista dei Jedi è stata passata al setaccio dall’Impero, ed ho aiutato Maul in più di un’occasione nell’incrociare dati e sistemare gli ultimi relitti di quel covo di serpi. Ma di lui i dati sono andati perduti” mormorò “L’idea che sia morto come un cane su qualche pianeta sperduto non mi dispiace, ma avrei voluto l’occasione di vendicarvi”.
R002N comparve alle sue spalle e Boba si ritrovò un altro calice, stavolta pieno di avo’o, e mandò giù la bevanda verdastra senza pensarci due volte.
Forse era una sua impressione, ma la posizione di Zam sul divano sembrava meno … artificiale. Gli parve di scorgere un lieve scintillio nello sguardo di lei, ma quando si protese per venirle accanto qualunque segno di ciò che stava provando sparì in un battito di ciglia.
“Sono felice che tu sia vivo. Almeno tu”.
Una frase detta in maniera secca, che molti avrebbero scambiato per una frase di circostanza. Ma Boba sapeva bene che la donna davanti a lui si sarebbe tagliata una mano piuttosto che parlare come un droide.
Cercò di inquadrarla meglio, quasi approfittando di quel barlume di intimità che Zam stava già cercando di ritirare dentro di sé.
Era molto più minuta di quanto ricordasse. Certo, all’epoca chiunque potesse arrivare al ripostiglio del casco di suo padre senza doversi arrampicare su una sedia gli appariva come un gigante, ma l’accorgersi di superarla di oltre un palmo gli fece un effetto curioso. Le iridi che saettavano all’impazzata lo riportarono indietro nel tempo, quando suo padre aveva concesso a quella sconosciuta che aveva salvato loro la vita di entrare nella loro casa. Il ricordo di quel salvataggio sotto la pioggia di Kamino era ancora indelebile nella sua testa, così come la figura della donna in grado di trasformarsi in un attimo in un wookie e di prendere alla sprovvista persino gli avversari di suo padre. Quella scena, però, chiamò a sé un altro pensiero. “So che potresti immaginarlo da sola, ma … è bene che non usi i tuoi poteri in pubblico. Da quello che so potresti davvero essere una degli ultimi clawditi rimasti”.
“Ed immagino che questo tuo nuovo Impero Galattico abbia messo delle taglie sulle nostre teste esattamente come la vecchia Repubblica”.
“Non sbagli”.
“Quanti ne hai uccisi?”
Boba impiegò qualche secondo a processare la domanda. Una manciata di istanti che vennero riempiti da un silenzio freddo, uno di quelli che negli anni spesso venivano seguiti dal bisogno istintivo di mettere una mano sul calcio del blaster. La donna dovette notare qualcosa, perché puntò i piedi contro il margine del divano come se volesse un metodo rapido per saltargli alla gola. “Quanti ne hai uccisi di quelli come me?”
“Nessuno”.
I sensori uditivi di R002N dovevano aver notato la variazione di timbro nella voce di entrambi ed il droide entrò nella stanza con la pulsantiera delle armi pronta a scattare.
Ma Boba non gliene diede modo.
“Quando ho iniziato a lavorare in proprio, erano stati già quasi tutti soppressi. Dopo le Guerre dei Cloni e la crisi galattica per i cacciatori di taglie è stato un periodo … fertile. Non ne ho mai incontrato uno vivo, a parte te”. Mosse le dita con un gesto concordato, ed il droide si ritirò. “Oltretutto … non ero mio padre. Non credo che sarei mai riuscito a tenere testa da solo contro uno di voi. Credo sia per questo motivo che in fondo sono ancora vivo. Questo, e perché ho dei buoni amici che mi guardano le spalle”.
“Uno di questi amici è il l’iridoniano che mi ha tirata fuori di lì?”
“Maul è uno dei miei pochissimi amici” fece, tirando tra sé un sospiro di sollievo mentre vide Zam tornare in posizione di riposo. “Uno su cui ho imparato a contare. E di poche parole, il che non guasta”.
Nonostante il loro primo incontro non fosse stato dei migliori, il cacciatore di taglie era abbastanza convinto che Maul e Zam sarebbero potuti andare molto d’accordo; un pensiero quasi infantile, ragionò subito dopo, considerando che la donna era ritornata nella sua vita dopo oltre vent’anni di assenza.
Aveva dato per scontato che sarebbe rimasta con lui.
Fissò di nuovo quei capelli rossi in totale disordine. Non aveva mai saputo nulla di lei, oltre al fatto che fosse una clawdita. Non ricordava di averle mai sentito nominare una famiglia o anche dei conoscenti lontani, e su certe cose Boba vantava una discreta memoria. Certo, lui e suo padre non avevano mai frequentato nessuno in maniera assidua, ma talvolta con alcuni mastri clonatori come Taun We avevano accettato degli inviti a cena lontani dalle questioni lavorative, e suo padre si vedeva talvolta con altri cacciatori mandaloriani, pur non invitandoli mai su Kamino.
Di Zam, invece …
“Se hai bisogno di un alloggio, di una identità … me ne occuperò io, non temere. Essere un governatore …” disse, ponendo un po’ di ilarità nella parola “… ha i suoi vantaggi. Non hai che da chiedere. Farò tutto il possibile per aiutarti”.
“Grazie”.
Si alzò, avvicinandosi alla finestra. Boba aveva disattivato la visione del panorama, ma sapeva benissimo che la donna non aveva alcuna necessità di osservare grattacieli, luci ed aereonavi. Faceva sempre così quando doveva ragionare su qualcosa, un dettaglio che suo padre gli faceva sempre notare quando lei non poteva sentirli. Un gesto così automatico che lo riportò di nuovo indietro di oltre vent’anni, con suo padre sprofondato sul divano, il pad acceso per fargli vedere le olografie del posto dove avrebbero compiuto le loro missioni per spiegargli come infiltrarsi senza farsi notare, e Zam che si alzava e perdeva lo sguardo nella pioggia, per poi elencare invariabilmente tutte le possibilità che qualcosa andasse storto. Solo che in quel momento Jango non c’era, e Boba non aveva alcuna idea di come rassicurare una clawdita che aveva perso qualunque punto di riferimento per tutti quegli anni. “Ci devo riflettere, Boba. Non … non ho in realtà un luogo ben preciso in mente. Il mio posto era al fianco di Jango. Senza di lui … credo che fosse come prima” mormorò “Un posto vale l’altro”.
L’uomo sospirò, immaginando che quella sarebbe in realtà stata la risposta.
Poi, in realtà, una minuscola soluzione gli balenò nella testa. Una piccola soluzione che lo avrebbe aiutato a risolvere un problema piuttosto spiacevole, uno di quelli che purtroppo erano collegati al suo ruolo dentro l’Impero. “Se un posto vale l’altro, potresti lavorare per me per un po’?”
Lei si voltò, stavolta curiosa.
I suoi occhi erano chiari, taglienti, e incredibilmente belli.
“Sto per partire per una missione di lavoro. Ed ho giusto bisogno di organizzare una scorta. Qualcuno di cui possa fidarmi” disse. “Ti andrebbe di venire con me?”
 
 
 
 
“Stai pensando a Zam, giusto?”
“No, tranquillo …”
“Guarda che ti si legge in faccia”.
Boba sospirò. Si era levato l’elmo per respirare meglio, ma lo sguardo del suo amico gli fece riconsiderare l’idea di metterlo su. Maul non aveva di certo bisogno dei suoi poteri di Sith per capire quando gli stava sparando una cazzata.
Faceva schifo persino quando bluffava a sabacc.
“Potrei …”
Un paio di ragazzette uscirono da un vicolo, le mani nelle tasche di cappotti molto più grandi di loro. Boba le vide guardare proprio nella loro direzione e scambiarsi cenni d’assenso, ma un lieve movimento della mano di Maul bastò. Mossero di scatto la testa, come spinte da chissà quale altro pensiero, e si ritirarono contro il muro da cui erano venute, lo sguardo un po’ assente e rivolto verso le punte dei loro stivaletti. “Ci manca solo che ci vendano degli spaccacervelli” disse l’iridoniano con un tono divertito.
Passarono avanti, praticamente indisturbati, e Boba si ricordò per quale motivo detestava muoversi nei bassifondi di Coruscant. Sebbene la battaglia contro la legione non morta fosse avvenuta in un settore molto lontano da quello in cui si trovavano al momento, l’eco del disastro si avvertiva anche tra quei palazzi anneriti. La luce dell’atmosfera artificiale della sommità dei grattacieli non scendeva tra quelle strade nemmeno per errore, e l’intera illuminazione era garantita da un sistema che probabilmente sfruttava sistemi arcaici a base di elettricità e cavi di rame, col risultato che interi quartieri sprofondavano nel buio non appena qualcuno di agganciava alla rete per ricaricare un droide o qualche rigattiere cercava del materiale conduttore per truccare uno speeder. Negli anni Boba aveva visitato numerosi pianeti conosciuti per i quartieri abbandonati e pericolosi, come Jabiim o Falleen, ma nulla riusciva a fargli torcere lo stomaco come la puzza dei bassifondi della capitale imperiale.
Quante taglie aveva riscosso cercando ricercati in quei settori? Più di quante sapesse contare, poco ma sicuro.
Se avesse voluto far perdere le proprie tracce, probabilmente anche lui avrebbe preso in considerazione l’idea di svanire lì sotto. Perché la gente, tra quelle strade, svaniva davvero.
I sistemi di geolocalizzazione lì sotto erano del tutto inutili, perché la gente costruiva baracche e chiudeva strade senza certo l’autorizzazione dei geometri imperiali; Maul si muoveva seguendo le indicazioni dettagliate che l’agente 447 gli aveva inviato, altrimenti sarebbe stato piuttosto complicato persino per loro muoversi in quei percorsi. Boba non aveva mai attraversato quel settore, e il suo sguardo andava nervosamente dal pad del suo amico agli incroci apparentemente tutti uguali, ignorando gli odori di strani fumi -di cui molti ben oltre il limite della legalità- che venivano emanati dalle figure appoggiate ai muri o abbattute tra i cumuli di immondizia. I poteri di Maul aiutavano a tenere i curiosi lontani, ma di certo un mandaloriano ed un iridoniano non erano la cosa più strana che si aggirava lì sotto, sebbene i tatuaggi di Maul fossero facilmente riconoscibili.
In lontananza sentì il rumore di un paio -o forse di più- speeder che acceleravano, poi una raffica di blaster, poi i velivoli allontanarsi.
“La Discarica dovrebbe essere da queste parti” fece Darth Maul, quasi per rassicurarlo. “Secondo l’agente 447, il membro dell’Organizzazione dovrebbe alloggiare qui”.
Settò un codice nel tracciatore, ed il puntino dell’olografia si spostò sulla loro destra. “Pare che abbia avuto qualche contatto col Sole Nero”.
“Credi che ci daranno grane?”
L’iridoniano scrollò le spalle, fissò torvo un toydariano che ronzava lungo la loro traiettoria e puntò il tracciatore sempre davanti a loro. “Siamo pur sempre l’Impero. E il vigo Xizor non è un imbecille”.
Boba non se la sentì di controbattere.
Talvolta aveva ancora il brutto vizio di ragionare come un cacciatore di taglie indipendente.
E forse fu quel brutto vizio a fargli suonare un campanello d’allarme nel momento in cui mossero un paio di passi in quella che doveva essere la strada che li avrebbe condotti alla Discarica.
“Maul … non ti muovere”.
Uno strano scintillio per terra.
Uno che avrebbe scambiato per una batteria di qwar buttata via perché mezza scarica, ma troppo intenso. Troppo veloce. Troppo vivo.
I sensori dell’armatura identificarono una reazione energetica di fonte ignota, il che voleva dire una sola cosa. “Magia…”
I deflettori automatici della cotta mandaloriana ressero l’urto.
La deflagrazione lo assordò per una manciata di secondi, il tempo necessario per riprendersi e mettere su l’elmo prima che una seconda, più intensa scarica di scintille gli portasse via mezzo volto. Gli scudi assorbirono l’energia in maniera disordinata ma efficace, e giusto perché all’epoca Tarkin aveva insistito nel fargli innestare addosso qualcosa che potesse quantomeno dissipare la magia di gente come Kaspar. La sagoma di Maul riapparve nel campo visivo non appena le scariche esplosive scomparvero, in piedi sulla carcassa di un vecchio droide da riparazione ormai arrugginito, la spada laser accesa e bene in vista. Usò il Lato Oscuro per staccare rapidamente parti del droide e farle fluttuare di fronte a lui, e quelle esplosero subito dopo quando altri glifi incantati si accesero a poca distanza dai piedi del cacciatore di taglie.
“Non credo fossero queste le persone che stavamo cercando” mormorò qualcuno, probabilmente verso la metà del vicolo.
Boba accese lo scan interno, e nel percorso che portava in direzione della Discarica notò quattro figure.
Maul si voltò alle loro spalle, e la luce rossa della sua arma individuò altre tre figure, avvolte in quelli che sembravano crepitanti barriere magiche.
“Non credo che siano questi gli incantatori che hanno mandato il fumo il piano del nostro capo” fece una voce alta, marcata, appartenente ad una delle figure di fronte a loro.
Il cacciatore di taglie individuò soltanto un blaster e delle granate termiche nei loro aggressori, ma anche a quella distanza, con le luci elettriche praticamente andate, era in grado di riconoscere degli scettri e delle verghe quando li vedeva. L’uomo che aveva parlato, chiaramente il capo, fece un passo avanti, puntando il suo bastone dalle estremità cariche di strane saette nella loro direzione: indossava una lunga tunica verde come usavano sui pianeti meno evoluti della Galassia, e Boba avrebbe volentieri imprecato contro chiunque avesse inviato dei maghi nei bassifondi di Coruscant quando i suoi occhi notarono un dettaglio.
Tutti i loro assalitori indossavano un pendente.
Un pendente luminoso anche nel buio più serrato, l’immagine stilizzata di un sole nascente intagliato in dei rubini.
Uno dei maghi aprì i palmi, ed i glifi sul terreno tornarono ad emettere dei sinistri bagliori. “Nobile Tolgerias, quali sono gli ordini?”
L’uomo dalla tunica verde schioccò le dita, e tutto intorno a loro una strana cupola energetica apparve fino ad oltre un metro oltre le loro teste, mandando in cortocircuito tutti i lettori energetici della cotta del cacciatore di taglie.
“Direi che il capo sarà comunque molto contento del ricedere due governatori imperiali nelle sue segrete”






L’esperto informatico del Sole Nero era una sullustana dal viso rugoso e i grandi occhi neri privi di pupille. Si era presentata sbrigativamente come Katjaa e aveva ascoltato le loro richieste senza fare commenti, appollaiata su uno sgabello girevole su cui si rifletteva la luce bluastra di una serie di schermi piatti alti come pareti.
La stanza - o piuttosto lo scantinato - odorava pesantemente di una qualche sostanza speziata e non sembrava dotata di finestre. Faceva troppo caldo per i gusti di Vexen.
Il mago e l’alchimista attesero in piedi mentre Katjaa lavorava, ciascuno immerso nei propri pensieri.
Le piccole mani della sullustana danzavano a velocità incredibile lungo tre tastiere olografiche contemporaneamente mentre gli schermi rigurgitavano stringhe su stringhe di dati a cui né Vexen né Lavok sapevano dare un significato.
“Sono dentro” disse Katjaa dopo qualche minuto, e Vexen attese invano ulteriori spiegazioni. Lui e Lavok si scambiarono uno sguardo silenzioso e decisamente confuso. Anche se olografici, i tasti premuti da Katjaa emettevano uno sgradevole ticchettio ogni volta che venivano toccati, e Vexen ben presto si ritrovò a muovere su e giù la gamba seguendo quel ritmo infernale.
A quanto pareva si era finalmente imbattuto in una scienza per cui non era affatto portato.
“Dentro cosa?” domandò Lavok, altrettanto impaziente. “I database imperiali?”
Con un grugnito, Katjaa premette un ultimo tasto e una serie di ritratti in riquadri rettangolari invase i tre schermi.
“Ecco a voi” la sullustana ruotò sul proprio sgabello, fissandoli dal basso verso l’alto con un’espressione da rapace. Vexen non avrebbe saputo darle un’età: quelli della sua specie non erano più alti di uno hobbit della Terra II, ma potevano vivere molto più a lungo degli umani. “Elenco di tutti i ribelli arrestati dalle forze imperiali nell’ultimo mese. Date pure un’occhiata.”
“E l’altra richiesta?” domandò Vexen, mentre Lavok prendeva il posto di Katjaa davanti agli schermi.
Impiegò una buona manciata di secondi a rendersi conto che quel suono simile al risucchio di un lavandino sturato all’improvviso era la risata della donna.
“Quella? Oh, quella ti costerà un bel po’ di più, bello mio!” Katjaa si era adagiata su una poltroncina reclinabile della sua taglia e aveva estratto un involto da una tasca della cintura multiuso, a cui adesso dedicava tutta la sua attenzione. Non appena lo aprì, le narici di Vexen furono invase da una nuova zaffata dello stesso odore che permeava la stanza.
“Una cosa è hackerare i database dell’esercito imperiale o delle forze dell’ordine, ma i Servizi Segreti… per quelli ci vogliono pazienza, e soprattutto tempo. Tu hai qualcosa per pagare il mio tempo, bellezza?”
“Ma il principe Xizor…”
“Vexen! Vieni qui! L’ho trovato!”
L’urgenza nella voce di Lavok fece squillare decine di campanelli d’allarme nella testa di Vexen. Si precipitò subito al fianco del mago mentre Katjaa alzava le spalle e reclinava la testa all’indietro, infilando in bocca la sostanza odorosa che aveva estratto poco prima.
Lavok stava puntando l’indice su uno dei ritratti. No, ritratto non era la parola corretta. I riquadri colorati che si susseguivano a decine lungo gli schermi erano foto segnaletiche.
“Dèi ladri.”
Persino con un livido intorno all’occhio e i polsi bloccati da un paio di manette magnetiche Camus era riuscito ad abbozzare un tenue sorriso davanti al droide che doveva aver catturato la sua immagine a beneficio degli archivi giudiziari imperiali.
“Dèi ladri! Cos’hai da sorridere, idiota?!”
Sullo sgabello, Lavok sussultò e si voltò a guardarlo con stupore.
Vexen non gli diede tempo di ribattere: “Dovete avvertire i vostri leader. La Ribellione può mandare una missione di salvataggio, no?”
Gli ingranaggi del suo cervello avevano già iniziato a ruotare in maniera frenetica. L’arresto era avvenuto su Onoam, una luna del sistema di Naboo, nell’Orlo Intermedio. Sicuramente qualcuno nel Sole Nero avrebbe potuto procurargli dei documenti nuovi e più sicuri. Inoltre poteva tingere i capelli, camuffarsi. Vendendo il ridicolo abito verde si sarebbe potuto pagare un blaster e qualche razione di emergenza. Avrebbe raggiunto lo spazioporto e si sarebbe imbarcato ingannando i controlli imperiali. Con un volo diretto non potevano volerci più di due o tre giorni. E poi, una volta su Onoam…
Già, e poi che cosa? Si sarebbe fatto strada tra orde di assaltatori imperiali con un blaster in una mano e un gessetto nell’altra?
“Vexen.”
Lavok comparve improvvisamente nel suo campo visivo e Vexen si bloccò prima di finirgli addosso. Non si era neanche accorto di aver iniziato a camminare.
“Devi contattare la tua principessa” lo incalzò nuovamente. “O Aragorn e Gandalf. Ci sarà pure qualcuno che…”
“Già fatto” sorrise il mago. “Ho inoltrato un messaggio sul canale di emergenza dell’Alleanza. Ma temo che per ora nessuno di noi possa fare più di questo.”
“Manderanno una missione di soccorso, giusto?”
Le spalle di Lavok si afflosciarono e il mago sembrò quasi rinsecchirsi dentro la tunica ormai consunta, che lo avvolgeva come il sacco di uno spaventapasseri. Le vicissitudini su Coruscant dovevano aver fatto sentire il loro peso sul suo fisico ormai non più giovane. Vexen si chiese se anche lui apparisse altrettanto logorato.
“Non posso garantirlo, purtroppo. Aragorn e Gandalf faranno tutto il possibile, ma… già non è facile infiltrare i nostri in territorio imperiale, ma due volte di seguito nello stesso posto? La sicurezza sarà in stato di allerta massima.”
“Ma il file dice che sono condannati a morte! Voi non siete quelli che ‘non lasciamo indietro nessuno’ e altre sciocchezze simili? O è soltanto l’ennesima ipocrisia buonista?”
Nel frattempo i loro passi li avevano portati fuori dallo scantinato soffocante, in uno dei giardini interni del palazzo di Xizor. Lavok si lasciò andare su una panchina di marmo, ma Vexen era troppo teso anche solo per prendere in considerazione l’idea di fermarsi. Continuò a camminare avanti e indietro, sfogando la frustrazione sui ciottoli del sentiero.
Le guardie del Sole Nero appostate agli ingressi gettarono loro un paio di occhiate sospettose, probabilmente allertate dai toni di voce elevati, ma rimasero ai propri posti. Xizor doveva averle istruite di lasciare campo libero ai suoi nuovi “ospiti”.
“Tu hai ragione, ma…” Lavok affondò la fronte tra le mani. Rimase così per qualche secondo, immobile come le statue di falleen in pose eroiche che costeggiavano i vialetti e troneggiavano lungo il bordo della fontana centrale. Poi sollevò la testa e cercò il suo sguardo: “Camus è un amico anche per me, sai?”
Vexen sbuffò, alzando gli occhi al cielo: “Camus è amico di tutti.”
“Ma è di te che parla in continuazione” il mago abbozzò un sorriso, i gomiti ancora poggiati sulle ginocchia. “L’ho conosciuto lavorando a un mio progetto. La Sfera Planare. Lo so, mio nipote dice che è un nome ambizioso. ‘Egocentrico’, credo sia questa la parola precisa che ha usato” rise. “Camus però ha creduto in me, e si è offerto di dare una mano con calcoli e progetti. È stato l’unico in tutta l’Alleanza. Diceva che nessun esperimento è troppo ambizioso, e che questo glielo ha insegnato lo scienziato più brillante della galassia.”
“Solo della galassia?” sbuffò Vexen. Ormai però stava sorridendo. “Riduttivo. Dovrò dirgliene quattro quando lo rivedrò.”
“Questo è lo spirito giusto. So che per te non è semplice, ma ti chiedo di avere fiducia nei miei amici ribelli. Ti assicuro che faranno tutto il possibile per tirarlo fuori di lì.”
Vexen sospirò, le braccia abbandonate lungo i fianchi. La sua andatura rallentò quasi automaticamente, facendolo fermare a pochi passi dalla fontana. Il gorgoglio sommesso dell’acqua sembrò in qualche modo cullare i suoi pensieri in uno stato di calma, e Vexen apprezzò gli spruzzi che gli rinfrescavano il viso. Dopo qualche attimo allungò una mano e si bagnò la fronte con un’abbondante manciata d’acqua.
“Credo che l’abbia menzionata qualche volta, ora che ci penso.” Si voltò verso Lavok, incrociando le braccia. “Questa Sfera Planare. Non ha avuto modo di raccontarmi i dettagli, però.”
Sulla Terra II Vexen era stato troppo preso dai suoi piani di fuga per occuparsi dei progetti del suo assistente, ma ora si rese conto di essere curioso. Lo sguardo di Lavok si era acceso di un bagliore inconfondibile quando aveva parlato del suo lavoro: una fiamma che Vexen conosceva meglio di ogni altra cosa, lo stesso motore che animava e dava senso ad ogni istante della sua vita.
Non poteva fare a meno di porre la domanda. “Di cosa si tratta?”
Il sorriso di Lavok gli dimostrò che parlavano la stessa lingua.
“Un mezzo in grado di trasportare istantaneamente un largo gruppo di persone da un lato all’altro dell’universo conosciuto. E perché no, anche per esplorare quello sconosciuto. Esistono artefatti in grado di teletrasportare chi li usa in punti a lui noti, giusto? Beh, perché non dovrebbe essere possibile applicare lo stesso principio a un mezzo di trasporto, magari dotandolo di un sistema di navigazione basato su coordinate?”
“In linea teorica non vedo perché no…” Vexen si accarezzò il mento, pensieroso. “Sarebbe indubbiamente molto utile. A che punto siete con lo sviluppo?”
Lavok allargò le braccia: “Ahimè, ancora alla fase progettuale. La vita del ribelle non lascia molto tempo per la ricerca, temo. Ma non mi dispero. Piuttosto… in realtà ci sarebbe un altro progetto per il quale invece avrei bisogno del tuo aiuto. E lo ammetto, non ho nessun altro a cui rivolgermi. Perciò spero davvero che potrai dirmi di sì.”
Vexen soffocò una risatina. Si accomodò sul bordo della fontana, sfruttando lo scudo sollevato di un falleen scolpito nel bronzo per farsi ombra dalla calura del primo pomeriggio. La luce del sole giungeva sempre molto debole nei Bassifondi, ma Vexen sospettava che i giardini di Xizor disponessero di qualche sistema interno per la regolazione del clima e dell’illuminazione.
“Ho capito. Vuoi imparare l’alchimia.”
Il magò esibì un sorrisetto imbarazzato che lo fece sembrare di colpo molto più giovane. Quasi un bambino colto sul fatto a rubare la marmellata.
“Colpevole. Sono stato così ovvio?”
“Quanti alchimisti conosci? Dubito tu possa chiedere a molti altri.”
Vexen inclinò il collo all’indietro, cercando lo spicchio di cielo che faceva capolino oltre le cime dei grattacieli, a chilometri e chilometri di distanza. Zexion, Camus, erano tutti lì da qualche parte, oltre le stelle, mentre lui aveva finito per imprigionarsi da solo sul fondo buio e sporco della galassia. Le sue dita trovarono il bordo morbido della sciarpa azzurra, e lo scienziato sospirò.
“A una condizione però. Dovrai aggiornarmi di qualsiasi notizia proveniente dall’Alleanza riguardo la missione di Camus.”

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 - Dalle ceneri ***


Capitolo 22 - Dalle ceneri







Il Generale Gurdandy








“L’hai sentita, brutto ciccione che non sei altro? Ha detto che le ali sono complesse! Questo fa della stirpe aerea il ramo superiore della famiglia animale!”
“La signora combatte benissimo anche senza ali, Gurdandy! E quindi anche un lombrico ne evince che le tue preziosi appendici piumate siano INUTILI!”
Il battibecco tra i due sottoposti del generale Baran durava da almeno due ore. Ad onor del vero non era stata proprio lei a scatenarlo -doveva essere tutto partito da del letame di drago non rimosso- ma Zam si pentì rapidamente di aver dato spago a quei due quando le avevano chiesto a che punto fosse con la guarigione e se potesse esibirsi in una delle sue trasformazioni.
Era da almeno tre giorni che riusciva a camminare senza doversi appoggiare a nessuno; certo, le pause erano necessarie e salire sugli speroni rocciosi che conducevano al cuore della caverna del Drago era ancora un sogno proibito, ma aveva trascorso gli ultimi pomeriggi nella sabbia rossa che circondava i domini di Baran facendo dei giri sempre più lunghi con grande sollazzo dei due comandanti. Il generale si allontanava sempre più spesso, ma nessuno dei suoi sottoposti mostrava insofferenza nel doverla assistere; in capo a poche ore le avevano riempito la testa di almeno cinquanta nomi di draghi, e non era ben certa di saper abbinare le dimensioni delle corna e delle squame con le sottospecie draconiche che le avevano enumerato.
Le mancava poter spiegare le ali.
Non per combattere o guardare gli altri dall’alto in basso -come ogni tanto millantava il governatore Tarkin- ma per la capacità di andarsene in ogni momento.
Fare ordine nella testa.
Neos aveva bisogno di lei.
Il pensiero si era fatto più martellante negli ultimi giorni, da quando aveva ripreso il controllo di molti dei suoi movimenti ed aveva iniziato a contare da sola lo scorrere dei tramonti e delle notti. Il generale Baran non le aveva fatto mistero che dalla morte del Grande Satana per mano dell’Alleanza Ribelle aveva ritirato le proprie truppe draconiche dai territori imperiali, ma aveva la netta sensazione che il Drago non le dicesse molte cose. Non che fosse tenuto a darle determinate informazioni, ma la sensazione che qualcosa di sbagliato potesse accadere a Coruscant ed a Neos durante la sua assenza era sempre lì, dentro lo stomaco.
E poi il ghigno di Kaspar.
Si appoggiò ad un costone ed osservò la propria mano. Cose piccole, mormorò tra sé.
Aveva pensato più a Jango in quei giorni che negli ultimi anni della sua vita, e cercare di mutare in una forma Twi’lek, quella con cui lo aveva conosciuto la prima volta, le venne quasi involontaria. Cercò di iniziare dalla punta delle dita, una falange alla volta.
La grossa ombra del generale Borahorn coprì di colpo tutta la sua figura. “Siete incredibile, mia signora!”
Il colore blu delle unghie e dei primi tratti di pelle contrastava col resto del suo pallore. Sentì l’intera area formicolare, come se vi avesse iniettato all’interno degli anestetici e che l’intera trasformazione fosse qualcosa di estraneo. La sensazione si trasformò in una prima fitta di dolore quando cercò di alterare l’articolazione delle falangi e d’istinto fermò il cambiamento; cercò di concentrarsi su come proseguire e mutare anche la mano senza contorcersi dal dolore, ma lo sguardo dei due guerrieri accanto a lei non le stava rendendo facile il percorso.
Il generale Gurdandy si era avvicinato così tanto che il suo becco era a pochi centimetri dalla pelle blu. “Benedette scaglie della Madre, non ho mai visto una cosa simile!”
“Non credo di essere pronta” rispose, mordendosi il labbro nel tentativo di far avanzare la trasformazione almeno fino al palmo. Il dolore iniziò a farsi più vivido, mentre la sensazione di torpore lungo la punta delle dita la avvisava che probabilmente la modifica dell’apparato vascolare non era avvenuta nel modo corretto.
In situazioni normali non avrebbe impiegato più di tre secondi a trasformarsi del tutto. “Mi dispiace deludere le vostre aspettative”.
“Ma quindi potreste trasformarvi anche in altre cose?”
“Una volta ripresa suppongo di sì. Ma potrebbe volerci …”
“Provate un’altra cosa!” fecero all’unisono.
Zam ritirò la trasformazione, constatando con un sospiro di sollievo che le proprie mani erano tornate normali. Il generale Borahorn si sganciò il mantello, invitandola a sedersi su un masso e stare più comoda; il gesto sembrò indispettire il suo compagno, che strappò di colpo un paio di manciate di muschio dalla medesima roccia e li appoggiò a bella posta proprio sotto di lei come a prepararle un cuscino. Si mise seduta praticamente per disperazione, evitando con difficoltà il braccio dell’uno e dell’altro che sembravano pronti a scattare per chi dovesse sorreggerla per primo. Lanciò uno sguardo disperato all’orizzonte, ma mancavano ancora diverse ore al tramonto e dunque la speranza che arrivasse il Cavaliere del Drago a placare quelle attenzioni esplose come una bolla di sapone.
“Credo che dovrò abituarmi di nuovo … più o meno a tutto” disse, almanaccando quale delle mille trasformazioni potesse essere abbastanza semplice da soddisfare la curiosità dei suoi ospiti. “Mutare forma è doloroso, specie le prime volte. Ho bisogno di conoscere l’anatomia delle creature in cui intendo trasformarmi, almeno nelle basi”.
“Potrebbe quindi cambiare anche in un ramo animale come il nostro?”
Zam annuì.
Quanti anni aveva trascorso sui file dell’Impero? Praticamente da quando era entrata.
La sua conoscenza delle varie specie della Galassia era sempre stata piuttosto ampia, ma quando l’Imperatore aveva deciso di mettere a buon uso le sue doti non aveva immaginato di cosa stesse parlando.
Molti pianeti, specie quelli periferici, erano abitati da creature che avevano dell’incredibile anche per i migliori zoologi dell’Impero e della Vecchia Repubblica. Saruman, uno dei Signori Oscuri, aveva con sé una quantità di bestiari risalenti al passato del minuscolo pianeta di sua provenienza che fino a qualche anno prima avrebbe creduto esistessero solo nelle fiabe dei bambini. Dal remoto pianeta dell’Amn le avevano portato beholder, giganti e persino draghi da studiare e copiare.
Il fatto che mutare in creature dalla taglia anche venti volte la sua fosse doloroso quanto sentire la propria pelle lacerarsi dall’interno e rivoltarsi come un guanto non era mai stato nemmeno preso in considerazione.
Alcune forme avevano richiesto mesi per essere portata alla perfezione, e Zam non aveva mai nascosto la propria irritazione nel sentirsi osservata dai ricercatori dell’Accademia Imperiale, ben difesi dai loro schermi di vetracciaio durante i suoi tentativi, le facce puntate contro i monitor che puntualmente evitavano i suoi occhi quando ringhiava nella loro direzione, le stesse persone che probabilmente avrebbero speso uno o due dei loro stipendi per poterla mettere su un tavolo settorio ed aprirla, se forse non lo avevano già fatto con altri clawditi prima di lei. C’erano dei giorni in qui avrebbe voluto strappare loro quegli occhi.
“Perché non imitate le mie zanne?” fece Borahorn.
Occhi strani, stavolta.
Occhi diversi.
Due paia, un po’ nascosti da strati di grasso azzurro o da piume un po’ arruffate.
“Vi faccio da modello, mia signora. Così sarà più facile per voi ricominciare”.
Qualcosa di quella sorpresa infantile che le ricordava i momenti in cui Neos le chiedeva di trasformarsi in qualche creatura colorata e soffice da abbracciare.
Il generale Gurdandy nemmeno protestò quando lei si ritrovò ad annuire.
Stavolta prese un bel respiro e si sedette ancora più comoda, preparandosi alla difficoltà che sarebbe arrivata e del fastidio che avrebbe sentito lungo tutta la bocca. Cercò di costringere i suoi denti a ritirarsi nell’osso per fare spazio a quelle zanne enormi che altrimenti le avrebbero distrutto il resto della bocca, osservando con pazienza il resto della bocca del generale Borahorn per assumere una disposizione simile alla sua. Le zanne presero forma con lentezza, e deglutì più volte per non far trasparire troppo il dolore. Pur non riuscendo a vedersi alla perfezione, le espressioni incoraggianti dei suoi spettatori la esortarono ad andare avanti, un centimetro alla volta.
“Cosa state facendo voi tre?”
Si ritrovarono a fare un salto di sorpresa all’unisono, per poi ritrovarsi faccia a faccia con l’espressione perplessa del Cavaliere del Drago.
E lei lo stava fissando con delle enormi, vistose ed assolutamente ridicole zanne da tricheco che le uscivano dalla bocca.
 
 

I pavimenti della Slave I.
Era incredibile come i suoi piedi ricordassero esattamente quali scomparti fossero cavi e quali no. Quando Boba aveva fatto per mettere in moto aveva innescato i propulsori d’istinto, anticipando la sua mano destra nell’esatto istante in cui si era accomodata nella sedia del copilota.
La sua sedia.
Più di vent’anni di carbonite non avevano cancellato la sensazione di sicurezza che la leva di stabilizzazione le offriva, aderente al suo palmo come se stesse aspettando soltanto il suo ritorno.
I cambiamenti che Boba aveva fatto erano davvero minimali: l’aspetto della plancia e delle tastiere era stato sostituito da una consolle più elegante e dai tasti leggermente più morbidi, anche l’assetto dei comandi era esattamente identico a come lo ricordava. Le imbottiture dei sedili erano state sostituite da un materiale sintetico dall’odore piacevole, e con un sorriso notò che l’impianto di aereazione non mandava più quello spiacevole sibilo tra un ciclo di depurazione e l’altro -non credeva che sarebbe stata in grado di ricordare quei minuscoli dettagli. Con l’occhio sfiorò l’ingresso dell’abitacolo destinato al loro vecchio letto, ma il portellone era chiuso e Boba non vi era entrato nemmeno durante il viaggio d’andata.
Oltre il vetro, la le strie luminose dell’iperspazio correvano una contro l’altra, disegnando un gioco ipnotico che le era sempre piaciuto.
“Come ti stai trovando?”
Boba emerse dal livello inferiore della nave, con l’oggetto chiave della loro spedizione tra le braccia.
Aveva scelto per sé un’armatura mandaloriana diversa da quella di Jango, dagli spallacci e dall’elmo molto più squadrati. Aveva eliminato i gambali dal set chiaramente per avere una maggiore mobilità a livello delle gambe, ma i numerosi graffi ed i segni di colpi di blaster le raccontavano di più di una battaglia che sarebbe potuta finire diversamente se quell’armatura non fosse stata presente. Alcune componenti avevano un riflesso della luce diverso dalle altre, segno che forse non era stata realizzata completamente in Beskar.
Le tornarono in mente le decine di progetti di armature che Jango teneva secretate nel suo pad, e che si ritrovavano a guardare la notte, prima di addormentarsi. Si preparava in anticipo, immaginando di aiutare suo figlio a realizzarla per il suo quindicesimo compleanno, discutendo con lei su quali armi consigliargli.
Ma Boba quella cotta se l’era realizzata da solo, senza l’uomo che avrebbe voluto aiutarlo a mettere il casco sulla testa per la prima volta.
“Una missione fin troppo tranquilla” rispose.
Alcune cose erano impossibili da dire ad alta voce. “L’ideale per sgranchirsi un po’ le gambe”.
Ruotò meglio il sedile, cercando di scrollarsi certi pensieri tristi dalla testa.
La cassa che avevano ricevuto era decorata con strani ornamenti di un materiale fin troppo prezioso per i suoi gusti, con raffigurazioni di insetti in rilevo color oro che sembravano darsi battaglia lungo tutto il margine del coperchio. I funzionari che l’avevano consegnata nelle loro mani si erano raccomandati di toccare soltanto determinati simboli lungo il margine, ripetendo nel loro Basic stentato di non sfiorare una serie di decorazioni laterali che invece -da quello che era riuscita ad intendere- erano pensate soltanto come misura precauzionale contro ladri o malintenzionati. Boba l’aveva appena fatta scansionare in via precauzionale dai sistemi di studio della Slave, ma i parametri sembravano del tutto inerti. Nagada, il pianeta di provenienza, a detta di Boba era famoso per la fedeltà all’Impero così come per la munificenza del suo sovrano e per la peculiarità dei suoi doni; non doveva essere la prima volta che il cacciatore di taglie si recava lì per ricevere oggetti da sottoporre all’Imperatore, e Zam si era ben guardata da fargli più domande di quante l’uomo non fosse libero di risponderle.
Se l’Imperatore in persona assegnava a lui un ritiro di questo genere piuttosto che avvalersi di qualsiasi astronave voleva dire soltanto una cosa: segretezza assoluta.
Gli insetti decorativi erano raffigurati in modo strano, e vi era qualcosa di ipnotico nelle loro ali di pura filigrana dorata che le impediva sul serio di distogliervi lo sguardo. “Chiamerò l’Imperatore non appena usciti dall’iperspazio” fece Boba, disponendo la cassa al centro del ponte della nave, applicandoci tutto intorno una serie di dispositivi di proiezione olografica.
“Immagino che per quel momento dovrò ritirarmi”.
“I proiettori olografici sono puntati solo sulla cassa” rispose lui, slacciandosi il casco solo in quel momento e prendendo una lunga boccata d’aria. “La sedia del copilota è fuori dalla vista degli spettatori. Puoi guardare, se ti fa piacere”.
“Suppongo che non sia legale…”
“Per te potrei fare un’eccezione”.
Le rivolse un sorriso un po’ strano, poi continuò ad armeggiare.
Zam cercò di scrollarsi di dosso quella fastidiosa sensazione di rivedere un altro sorriso, quello di cui sentiva la mancanza; fissò i dati della plancia, ed al segnale della Slave I digitò i comandi per uscire dalla velocità sub luce. Lo spazio tornò a salutarla ancora una volta, con il distante profilo di Kamino oltre il vetro e la flebile luce del labirinto di Rishi oltre esso.
Per pochi anni l’aveva persino chiamato casa.
Il cacciatore di taglie le lanciò un’ultima occhiata prima di portarsi al centro del ponte ed accendere i sistemi di comunicazione, quanto bastò per indurla a stringersi contro il proprio sedile, inalarne l’aroma della pelle sintetica ed osservare senza emettere un suono i proiettori olografici accendersi uno ad uno, rivelando una sequenza di figure ben nitide nonostante la ben nota difficoltà del settore di Kamino nel ricevere trasmissioni da altri pianeti. Contò rapidamente sei postazioni, ciascuna delle quali venne riempita dalle sagome di altrettante persone.
Non ebbe bisogno di osservare in volto ciascuno di loro per riconoscere chi fosse l’Imperatore; aveva visto abbastanza ologiornali in quella settimana da averne il volto rovinato ben presente nella sua memoria, così come il nome.
Cos Sheev Palpatine.
Lo ricordava ancora, quella sera a Coruscant.
L’uomo anziano, così insignificante accanto alla senatrice di Naboo ed al Jedi che le aveva rubato l’intera esistenza.
Eppure la figura che le dava le spalle, nell’immagine olografica che fluttuava nell’androne, apparteneva allo stesso umano che aveva visto zoppicare negli abiti da Cancelliere Supremo. Ventidue anni erano passati persino per lui, ma a parte le mani sottili che apparivano al di sotto della tunica mostrava una postura non troppo dissimile da quella che lei ricordava; qualcosa di primordiale, alla base della gola, la avvisò che uno sguardo di quell’uomo sarebbe bastato per condannarla a morte una seconda volta. La sensazione la lasciò un attimo senza fiato, l’istinto che spingeva a stringere le dita nel bracciolo della poltrona ed allo stesso tempo di non emettere alcun suono.
“Come al solito il sovrano di Nagada sa mostrare la sua devozione all’Impero. Molto più di voi, temo di dover dire”.
Vi era qualcosa di strano nella sua voce. Fredda, sarebbe stata tentata di definirla, ma non quel freddo delle persone distanti e inaccessibili, né il tono che il Cancelliere Supremo all’epoca usava nelle sue apparizioni pubbliche o in privato.
Qualcosa, in quella voce, sembrava avere una vita propria.
Lanciò uno sguardo velocissimo in direzione di Boba, cercando di interpretare nel suo viso la stessa sensazione che le stava attanagliando la testa, ma l’uomo continuava a fissare la scatola senza condividere con lei nemmeno un’occhiata. Si calò ancora di più nel proprio nascondiglio, quasi come se quella voce potesse vederla anche senza le iridi del suo padrone, trovandosi senza nemmeno accorgersene ad evitarne il contatto proprio come le aveva insegnato Jango quando si erano ritrovati a fronteggiare lo Jedi. Si sforzò di lanciare la propria testa altrove, tenendo le parole dell’Imperatore a distanza, mescolandole al suono delle onde di Kamino ed al ricordo della voce del suo compagno. Al saluto del sovrano della Galassia seguì il parlare delle altre figure apparse nei comunicatori, quelli che chiaramente erano i Signori Oscuri dell’Impero di cui anche Boba ne era a parte.
Fu proprio lui a parlare, una volta terminati i saluti. “I sacerdoti hanno confermato più volte di non conoscere il funzionamento degli oggetti che le hanno inviato, Imperatore, ma i sistemi di scansione non hanno riportato nulla di potenzialmente esplosivo o di forme di energia considerate instabili. Sono stati ritrovati in uno dei loro edifici più antichi, quello che chiamano …” si fermò, quasi cercando di recuperare la parola “… piramide minore. Hanno un rapporto piuttosto strano con il loro passato, e da quanto ho capito credo che siano stati più che felici di omaggiarla di questi artefatti”.
“Per fortuna che qualcuno si ricorda di me”.
La donna si sforzò di lasciarsi scivolare quella voce oltre la pelle, costringendo gli occhi a fissare le altre forme apparse nei comunicatori, nessuna delle quali manifestava anche solo una scintilla di quello che emanava il loro sovrano. Riconobbe subito Darth Maul, l’iridoniano, il Sith che l’aveva prelevata dalle profondità del Tempio e che aveva compreso essere un grande amico di Boba: era senza dubbio il membro meno loquace nella congregazione, e si limitava a far scorrere la testa dalla cassa al cacciatore di taglie. Cercò di individuare tra i rimanenti la figura di Tarkin, il governatore che Boba aveva menzionato almeno cento volte nel corso del loro viaggio, ma i maschi umani con l’avanzare degli anni finivano per sembrarle un po’ tutti uguali e tre dei Signori Oscuri potevano benissimo corrispondere alla descrizione fin troppo generica nell’aspetto esteriore data dal suo compagno. Se si fosse sporta dalla sua postazione forse sarebbe riuscita ad incrociare lo sguardo con quello con indosso una divisa militare, ma rimase inchiodata nel nascondiglio anche solo per non mettere Boba nel pericolo.
L’ultima figura comparsa nell’ologramma, un maschio giovane dai capelli chiari che le dava le spalle, si sporse in avanti. “Mio Imperatore, così ci colpisce. Io personalmente ho sempre …”
“Kaspar, arrotola la lingua ed usala quando sarà necessario. Adesso gradirei aprire quella scatola e vedere cosa ci ha inviato il faraone”.
Seguì un silenzio immediato nel momento in cui il sovrano diede l’ordine. I presenti si voltarono tutti in direzione di Boba e del misterioso contenitore, ed il cacciatore di taglie iniziò ad armeggiare lungo le superfici come i sacerdoti gli avevano illustrato. Ad ogni suo tocco alcuni simboli si illuminarono, collegandosi gli uni con gli altri medianti sottili strie color arancione, ma Zam non vide né scintille né emissioni di strani vapori mentre le dita di Boba tracciavano il corretto codice di innesco. Gli insetti decorati mossero le ali per via di qualche loro strana diavoleria, e con un click quasi impercettibile il coperchio si discostò dal resto della scatola. Uno degli spettatori più anziani, un umano dal lungo vestito bianco, si sporse dalla sua postazione olografica come per sbirciare per primo.
Gli oggetti vennero presi da Boba uno ad uno, con la massima lentezza, e ciascuno venne prima sottoposto allo sguardo dell’Imperatore per poi essere esposti lungo un supporto fluttuante che aveva recuperato dai magazzini della Slave I. Erano oggetti non molto grandi, dalle forme più disparate, ed a parte alcuni che dovevano per forza essere dei gioielli … di altri non avrebbe saputo dirne l’utilità. Jango aveva sempre avuto un debole per l’arte -molti dei suoi committenti lo avevano ingaggiato per recuperare manufatti, statue o dipinti, specie degli studiosi di arte esotica come i Chiss- e diversi oggetti erano passati per le loro mani, ma la donna non sarebbe stata in grado di ricondurli a nulla che conoscesse. Ne contò sette, di cui una sfera non più grande del pugno di un bambino. Molti manifestavano delle forme appuntite, e l’unico dettaglio che avessero in comune era che fossero tutti realizzati in oro -almeno in apparenza- e recassero il marchio di quello che sembrava un occhio stilizzato. Alcuni, quelli dalle forme più bizzarre, tintinnarono nel momento in cui Boba li appoggiò per esporli.
“I sacerdoti hanno usato delle espressioni particolari per questi ritrovamenti. Il droide protocollare ha optato per tradurli con il termine … Oggetti Millenari”.
“Lasciamo la semantica agli studiosi, governatore Fett. Tutto ciò che proviene da Nagada merita attenzione, come voi ben sapete. Se questi oggetti hanno una qualche utilità, desidero esserne a conoscenza nel minor tempo possibile. E con la massima discrezione, nei limiti delle vostre dubbie capacità”.
Fece un rapido movimento con la mano, ma dalla sua posizione a Zam sembrò quasi che stesse contando. “Che coincidenza, miei Signori Oscuri” fece, e anche la leggera distorsione del proiettore portò nelle sue orecchie un fastidioso senso di ironia. “Ci sono sette oggetti per sette di noi presenti. Direi che adesso ho solo l’imbarazzo dell’assegnazione!”
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 - Proposta indecente ***


Capitolo 23 - Proposta indecente







Gimli








Gli occhi che lo scrutavano con diffidenza da oltre la scarsa illuminazione della cella erano di quelli che Zexion avrebbe sempre preferito evitare di incontrare. Duri, fissi, a loro agio anche nell’oscurità più fitta. Se il suo olfatto gli permetteva di mantenere intatta qualsiasi percezione anche in totale assenza di luce, la figura dall’altro capo della cella poteva vantare la stessa sicurezza anche se tutte le luci della prigione fossero saltate all’improvviso.
I nani erano un popolo aggressivo, sprezzante, molto sicuro di sé. Da sempre legati all’Alleanza Ribelle, era il tipo di soldati che nessuno, nemmeno i migliori assaltatori di Carida, avrebbe voluto trovarsi di fronte in un combattimento ravvicinato. Il prigioniero che si avvicinò a Camus con passo marziale avrebbe potuto benissimo frantumargli una gamba con una sola stretta della mano; l’enorme barba tipica di quel popolo presentava segni di bruciatura e di sangue, ma il numero di trecce e decorazioni fece capire subito al ragazzo che il nano doveva essere qualcuno di importante e non un comune spaccapietre.
“Camus, trattieni la lingua per cinque minuti, per favore”.
Si portò di fronte alla barriera a passi lenti ma ben studiati per emettere quanto più rumore possibile. Si piazzò di fronte a lui, e sebbene gli arrivasse alla spalla il ragazzo sapeva benissimo che se le difese della cella non fossero state attive, la creatura davanti a lui avrebbe potuto atterrarlo in qualsiasi momento. Aveva una voce molto profonda, ma il suo Basic era perfettamente comprensibile. “Con questo moccioso adesso parlo io”.
“Gimli, non capisci, lui è …”
“L’ennesimo Membro dell’Organizzazione tuo amico, lo so”.
Gimli.
Zexion aveva letto abbastanza report dei Servizi Segreti per non sapere chi avessero tra le mani. Le facce del popolo dei nani gli erano sempre sembrate tutte uguali, ma il mandato di cattura per Gimli, figlio di Gloin, rientrava tra gli obiettivi di livello A.
Capì immediatamente perché l’Impero non lo avesse passato subito a colpi di blaster.
I nani erano legati all’Alleanza Ribelle grazie alla fedeltà che Gimli, uno dei loro principi, aveva posto nella figura del re Aragorn, l’unificatore.
Una figura del genere, se ben gestita, poteva cambiare molti assetti di battaglia e, capì subito Zexion, aveva appena mandato all’aria la sua immediata possibilità di ritrovare suo zio.
“Non stavo parlando con te, nano. Ritirati”.
“Poco male. Adesso sono io a parlare con te, principino”.
Camus provò ad interromperlo, ma Gimli mugghiò qualcosa di incomprensibile per poi voltarsi di nuovo verso di lui. “E te lo dico chiaro e tondo. Con quella tua lingua potrei pulirci la lama della mia ascia, se la avessi sotto mano! Perché potrai pure muovere a compassione Camus, ma con me la musica cambia”.
Il ragazzo non aveva bisogno dei suoi poteri per percepire tutta la collera del suo interlocutore. Non era violenta come gli scatti di tante persone con cui era entrato a contatto, piuttosto la sensazione di totale opposizione dell’altro, ancorato nella sua disposizione come un piccone nella roccia. Se i Ribelli avevano inviato un principe dei nani in una missione, era perché si sentivano più che certi che non vi sarebbero stati intoppi diplomatici durante i lavori; dunque era chiaro che la loro relazione con Onoam durava da molto più di quanto i Servizi avessero sospettato.
Non che la cosa gli importasse più di tanto.
“Camus, ascolta …” iniziò, cercando di aggirare l’ostacolo, ma il nano si piazzò in mezzo a loro, il grosso naso che sfiorava la punta della barriera elettromagnetica mandando scintille.
“Camus, non dare a questo moccioso quello che desidera. Figuriamoci, cerca di corromperti facendo gli occhi dolci … Bah, un Membro dell’Organizzazione rimane sempre un Membro dell’Organizzazione”
Gli odori del sacerdote si riflettevano nel suo sguardo sperduto e confuso. Zexion sapeva, sentiva il desiderio di Camus di rivelargli l’ID di suo zio, era così schifosamente zuccheroso da fargli venire il mal di stomaco, ma … la voce di quel Gimli aveva avuto l’effetto di una rozza grancassa dentro un’armonia ben costruita.
“Padron Zexion ha bisogno di rivedere suo zio, Gimli! Sarebbe ingiusto da parte mia non …”
“Senti, non ti sto dicendo di prendere quell’ID e buttarlo nella latrina, per la barba di Aulë! Ti dico solo di rifletterci” borbottò, poi sputò per bene a terra prima di fissare di nuovo Zexion negli occhi. “Ragazzino, tu ti presenti qui e pretendi qualcosa da noi. Così, solo perché ti sei venduto all’Impero e fai la voce grossa perché stai fuori da questa cella”.
“In caso non ve ne foste accorti …” fece il ragazzo, schiarendosi la voce “…siete prigionieri dell’Impero, non miei. E da Camus voglio solo …”
“Senti, sei stupido o sei sordo?”
Per un attimo al giovane venne in mente di chiamare gli assaltatori del piano di sopra, far spostare il nano in un’altra cella e continuare in separata sede col sacerdote. E lo avrebbe anche fatto, se non fosse stato per la rapida occhiata che scivolò tra Gimli e Camus nella frazione di un istante, quando il suo naso lo avvisò che il Cavaliere d’Oro aveva spostato la sua attenzione sulle parole del proprio compagno di cella.
Dèi ladri.
E, cosa purtroppo più importante, il nano aveva capito benissimo che Camus lo stava ascoltando. “Moccioso, stammi a sentire. Sai chi mi sembri? Uno di quelli che prima ti fanno franare la miniera, e poi vengono a venderti gli strumenti per scavare. In altre parole, mi puzzi più di un Sudrone”.
A braccia incrociate, nonostante la sua scarsa altezza, sembrava più lui a suo agio in quella cella sotto terra che tutti gli assaltatori ed i minatori di Onoam messi insieme “Camus, apri bene le orecchie perché se parli giuro sulle palle di Aulë che appena esco dico a Leia dei tuoi inghippi, che tanto li sappiamo tutti tranne lei. Il ragazzino vuole quell’ID, giusto? Bene, tu glielo darai. Se lui farà qualcosa per noi”.
La netta sensazione di essere appena stato messo nello sterco dal primo ribelle di passaggio si fece strada nella sua testa prima ancora che Gimli finisse il discorso. “Tu facci uscire di qua, bel faccino. Noi e tutti i minatori. E solo dopo Camus ti darà quello che vuoi. Ti piace come accordo?”
 





Quando Vexen provò a ordinare una tazza di tè al club privato dei membri del Sole Nero, il rodiano dietro il bancone lo guardò come se fosse uscito fuori di testa.
“Ehi amico, questo è un locale serio! Non vendiamo piscio riscaldato!”
Vexen bestemmiò tra i denti, ma alla fine dovette accontentarsi di uno dei pochi articoli non alcolici nel menù, ovvero un caffè ithoriano. Aveva un sapore simile alle miscele che aveva già provato all’Alleanza e su altri pianeti, ma con un vago retrogusto di cannella. Non male tutto sommato.
 
Narratore: "L’ avventura di Vexen ormai si sta trasformando in un tour enogastronomico. Ma sta sempre a bere o a mangiare questo qui?”
Registe: “Tu non hai un corpo, Narratore, ma guarda che gli umani normali mangiano anche tre volte al giorno.”
Narratore: “Ecco, sempre a rimarcare la mia mancanza di un corpo. Se non è discriminazione questa…”
 
Lavok avrebbe iniziato anche subito con le lezioni di alchimia, ma il principe Xizor lo aveva richiamato per esaminare i resti del medaglione maledetto e il mago non si era potuto sottrarre alla richiesta. Ciò aveva concesso a Vexen tempo e tranquillità per dedicarsi al suo progetto personale.
L’idea gli era venuta osservando Katjaa, la hacker sullustana. Era stata lei a dargli appuntamento in quel posto, una cantina a pochi isolati dal palazzo di Xizor dove erano ammessi solo gli affiliati al Sole Nero e gli ospiti personali del principe.
Nel locale si soffocava - Vexen iniziava a credere che l’aerazione fosse un concetto sconosciuto nei Bassifondi - ma per il resto l’atmosfera sembrava piuttosto tranquilla. Alcuni membri del Sindacato erano raccolti attorno a un tavolo dove due criminali si sfidavano in un gioco strategico con miniature olografiche che teneva tutti con il fiato sospeso e, grazie al cielo, relativamente in silenzio. L’unico accenno di rissa, scoppiato poco dopo l’arrivo di Vexen, era stato prontamente sedato da un colpo di blaster della twi’lek che gestiva il posto. Il corpo era stato rimosso ancora prima che la maggior parte degli astanti si fosse resa conto dell’accaduto.
“L’odore promette bene.”
Katjaa seppellì il muso nel sacchettino che Vexen le aveva appena consegnato, aspirando a pieni polmoni l’aroma di spezia.
“E se il sapore è buono anche solo la metà del campione che mi hai fatto provare un’ora fa… direi che ti sei guadagnato il mio tempo, tesoro!”
“Ti ho già detto tutto quello che so sul ragazzo. Scopri su che pianeta si trova e te ne darò il doppio. E niente scherzi strani.” Vexen era consapevole che il suo sguardo minaccioso necessitasse di considerevoli miglioramenti, ma sperò che il tono sicuro della voce e l’entusiasmo di Katjaa per il suo prodotto riuscissero lì dove il suo carisma personale non poteva arrivare. “Ricorda che nessun altro nei Bassifondi è capace di sintetizzare questa roba. Se dovesse succedermi qualcosa…” indicò il sacchetto tra le mani di Katjaa. “… quella sarà la tua prima e ultima dose.”
Katjaa gli regalò un’altra delle sue risate che la facevano somigliare a un mostro gorgogliante degli abissi: “Siamo nervosetti, vedo! Tranquillo, tranquillo, siamo tra amici qui. E a proposito, ho fatto come mi hai chiesto e sparso un po’ la voce. Aspettati presto nuovi clienti!”
Con un ultimo cenno di saluto, Katjaa ingurgitò una generosa manciata della sostanza nel sacchetto e iniziò a masticarla voluttuosamente. I suoi occhi, già grandi e liquidi, persero fuoco in men che non si dica e si dilatarono all’estremo. Fece appena pochi passi, lasciandosi cadere su una sedia qualche metro più in là, ma la sua mente e il suo sguardo erano già ad anni luce di distanza.
Vexen si mise comodo a sua volta sul divanetto di similpelle consumata che aveva scelto come propria roccaforte, in un angolo poco trafficato del locale. L’affare si era concluso in modo più semplice del previsto. Non si era nemmeno dovuto procurare nuove componenti: era bastata qualche modifica a livello molecolare su un piccolo campione della spezia prediletta da Katjaa - semplice alchimia di base -  e la dipendenza della sullustana aveva fatto il resto. Il nuovo prodotto dava effetti più intensi e duraturi, oltre a possedere caratteristiche organolettiche più gradevoli per la maggior parte delle specie umanoidi. Se si fosse giocato bene le sue carte, avrebbe potuto guadagnare un discreto gruzzolo di crediti. E i crediti erano il suo miglior lasciapassare per fuggire da quel maledetto pianeta.
“Mi hanno detto che qui posso trovare un mago dei Bassifondi che produce spezia di qualità.”
Vexen sbuffò ancora prima di alzare gli occhi. La persona che si era accomodata al suo tavolo senza invito non era il cliente che sperava, ma una Freki sorridente, vestita di una tunica morbida piena di drappeggi dall’aria sofisticata e profumata di un mix di essenze floreali che doveva risultare eccitante per gli organi sensoriali dei falleen ma pizzicava come alcool etilico le narici degli umani.
La squadrò, inarcando un sopracciglio. “Vedo che il principe non mentiva riguardo la sua generosità.”
Lei alzò le spalle e poggiò le mani sul tavolo. Aveva le unghie smaltate di viola.
“Bisogna anche saper cogliere i vantaggi del proprio lavoro” commentò, in tono enigmatico. Poi scosse impercettibilmente la testa e fece un cenno fugace con gli occhi, come a dire: “non adesso”.
Ma Vexen non aveva alcuna voglia di indagare. Né di giocare alla spia. Si limitò a prendere un sorso di caffè prima di schiarirsi la voce: “Sto aspettando potenziali clienti. Se non sei qui per comprare mi occupi il tavolo e basta.”
Lei sbatté le palpebre un paio di volte, come se una luce troppo forte l’avesse colpita. “Cosa ho fatto per meritare tutto questo astio?”
“Cosa non hai fatto, più che altro” Vexen fece una risatina vuota. “Com’era? Mantengo sempre la parola data. Se non puoi procurarmi ciò che mi serve, dovrò farlo da solo.”
“Ti avevo detto che sarebbe servito tempo. I database dei Servizi Segreti non sono uno scherzo.”
“Beh, io non ho tempo. Non più.”
Freki incrociò le braccia, ma non accennò a schiodarsi dal tavolo, anzi, sembrò sprofondare ancora di più nella poltroncina girevole. Vexen concentrò tutta la sua attenzione sul suo caffè, ma con la coda dell’occhio la vide mordicchiarsi il labbro per qualche secondo.
“È per via di quel tuo amico ribelle. Quel Camus.”
“Tra le altre cose.” Non gli piaceva il suo tono di sufficienza.
“E pensi di riuscire a salvarlo da solo? Da un centro di detenzione imperiale?”
“Quello che penso o non penso di fare non ti riguarda.”
Lavok poteva averlo convinto a non lasciare i Bassifondi all’istante e senza un piano, ma non lo avrebbe mai persuaso a riporre tutte le sue speranze nelle mani dei ribelli. Dèi ladri, i ribelli erano il motivo per cui Camus si trovava in pericolo di vita. Perciò Vexen aveva formulato una strategia alternativa. Più prudente, più sicura. Ma pur sempre una linea d’azione.
“E come conti di uscire dai Bassifondi? Metti un piede in superficie e la polizia ti impacchetta all’istante. Non dimenticartelo.”
“Posso procurarmi documenti migliori. Katjaa mi ha già indicato un paio di contatti nel Sole Nero. Devo solo mettere insieme la somma richiesta.”
Ancora prima che finisse la frase Freki stava già aprendo la bocca per ribattere, ma Vexen non la lasciò finire: alzò la voce e le parlò sopra a sua volta.
“E prima che tu mi dica che l’Impero conosce la mia faccia sì, ho pensato anche a questo. Ci sono tecnologie in grado di alterare i connotati in modo convincente ma non invasivo: protesi temporanee, maschere di nanochip… ancora una volta, tutto sta a procurarsi i soldi necessari. Cosa che stavo cercando di fare prima che tu mi interrompessi.”
Un paio di teste si erano girate a guardarli, incuriosite dal battibecco, ma presto l’attenzione generale tornò a concentrarsi sul gioco strategico: un nuovo sfidante si era seduto al tavolo del precedente vincitore, incoraggiato da applausi e schiamazzi. Vexen non si preoccupava che qualcuno potesse sentirlo: era pronto a scommettere che una buona maggioranza degli astanti fosse ricercata dall’Impero e avesse problemi simili ai suoi. Non aveva detto nulla di straordinario in un covo di criminali.
Freki non rispose subito ma affondò nuovamente le spalle nello schienale, scrutandolo dal basso verso l’alto. La mandibola contratta e le braccia strette contro il petto erano un segnale inequivocabile: era contrariata, sulla difensiva. Nessuno scintillio divertito negli occhi ambra, stavolta. Il suo sguardo era un muro di cemento, grigio e insondabile.
“E comunque non capisco a cosa ti serva io a questo punto. Hai i Corthala, hai tutte le risorse del Sole Nero, hai il favore del principe Xizor. Che cosa vuoi ancora da me?”
Dall’area di gioco esplose un tripudio di acclamazioni. Qualcuno doveva aver messo a segno una mossa decisiva.
“Forse… forse è soltanto che ti invidio.”
Con tutto quel clamore Vexen credette di aver afferrato male la risposta, ma Freki la ripeté, e a quel punto fu lui a rimanere senza parole.
“Perché hai qualcuno per cui lottare” adesso Freki parlava con gli occhi rivolti al tavolo da gioco festante. Anche la sua voce era monocorde, lontana. “Qualcuno per cui sei disposto a mettere in gioco tutto te stesso. È una sensazione che avevo dimenticato.”
“Non è una sensazione particolarmente piacevole quando entrambe le persone sono prigioniere dell’Impero e una rischia la vita nell’immediato futuro” sbuffò Vexen. “La tua invidia è decisamente mal riposta.”
Lo sguardo di Freki tornò a fissarsi nel suo: “Pensi che lavorare per cause in cui non credi solo per i soldi e la sopravvivenza sia meglio?”
Vexen aveva finito le risposte, perciò sbuffò di nuovo e afferrò la tazzina di caffè. La trovò tristemente vuota. Freki fece un cenno a un droide cameriere e un minuto dopo due tazze nuove, più tonde e capienti, fumavano quiete davanti a entrambi.
“Questo lo offro io. E…” Vexen la vide sfilarsi un bracciale, un cerchio argentato decorato di gemme viola grandi come capocchie di spillo che brillavano vivaci ad ogni movimento del polso. Non glielo aveva mai visto prima, perciò immaginò che fosse l’ennesimo regalo di Xizor. Lei lo poggiò sul tavolo e lo spinse nella sua direzione.
“… anche questo. Tanto il principe non se ne accorgerà nemmeno.”
Vexen fissò il gioiello senza toccarlo. “Perché?”
“Hai idea di quanto costi una maschera di nanochip?” Lo scintillio negli occhi di Freki era tornato. “Più di quanto uno spacciatore bravo riesca a fare in un mese di lavoro, te lo assicuro.”
Vexen scosse la testa. “Intendevo dire perché mi aiuti.”
Lei fece spallucce, soffocando una risatina. “Che dire? Non mi imbatto spesso in persone brillanti e determinate come te. Sei pieno di risorse, ma meriti anche un piccolo aiuto da parte della sorte.”
Solo allora Vexen si decise a raccogliere il bracciale. Lo sollevò sotto le luci soffuse del locale, osservandolo attraverso le spire di fumo di spezia e tabacco che aleggiavano nell’aria. Non si intendeva di gioielli, ma dubitava che il capo del Sole Nero regalasse oggetti di bigiotteria alle sue conquiste amorose.
“Grazie” fece con voce asciutta.
Freki sorrise.
“Raccontami di loro.”
“Loro?”
“I fantomatici Zexion e Camus per cui stai sfidando la galassia da solo. Zexion è tuo figlio, questo l’ho capito. Sua madre dov’è?”
“Non c’è nessuna madre.”
Freki fece una faccia talmente buffa da far passare in secondo piano la sua raffica di domande inopportune. Per un istante sembrò una bambina, protesa in avanti sul tavolo con gli occhi sgranati e le guance gonfie come un pesce palla.
“Wow! Lo hai clonato? O… creato con l’alchimia?”
Suo malgrado Vexen scoppiò a ridere: “La tua considerazione mi onora, ma temo che la creazione della vita dal nulla sia un traguardo mai raggiunto nemmeno da Hohenheim della Luce in persona. Il padre e fondatore dell’alchimia” aggiunse poi, notando lo sguardo interrogativo di lei.
“Adottato, quindi?”
“Esatto. Spiacente di deluderti.”
Si chiese se il nuovo caffè non fosse corretto con qualcosa di alcolico, perché sentiva la testa leggera e la lingua sciolta, la rabbia di poco prima un lontano ricordo. O forse era solo che parlare con Freki era incredibilmente… semplice? Non aveva bisogno di controllare le emozioni come con Zexion. Non doveva temere i giudizi e i sermoni religiosi di Camus.
Non c’erano sensi di colpa ingombranti come macigni con cui dover fare i conti.
“Camus invece è il mio assistente” proseguì, nella speranza di prevenire ulteriori speculazioni bizzarre.
“Con tutti i bravi ricercatori che ci sono nella galassia sei andato a cercarti proprio un ribelle come assistente?”
“È stato prima che entrasse nell’Alleanza. Diciamo che non condivido il suo spirito di sacrificio in nome dell’umanità.”
“Avendo visto come ragionano i Corthala posso dire che ti capisco. Come lo hai conosciuto, allora?” Agitò una mano nell’aria, protendendo il palmo davanti a lui. “Aspetta, aspetta, fammi indovinare…”
Mai come in quel momento Vexen fu grato al caffè alcolico o presunto tale. Prese un altro lungo, lunghissimo sorso.
“Era il tuo studente più promettente all’università?”
Non c’erano risposte semplici a quella domanda. Poteva optare per il silenzio, naturalmente. Non aveva nessun obbligo morale di dire la verità.
Poteva fuggire da quella conversazione in qualsiasi momento volesse.
Freki doveva aver notato la sua tensione. Sollevò i palmi davanti a sé, in segno di scusa.
“Forse sono stata troppo indiscreta.”
Vexen scosse la testa. “Magari il mio pianeta fosse così avanzato da avere università” commentò in tono amaro.
Le parole di Freki avevano aperto uno squarcio su una realtà alternativa, un mondo per cui Vexen provò un’inspiegabile nostalgia pur non avendolo mai vissuto al di fuori della propria immaginazione. Sarebbe stata una bella vita. Una carriera universitaria promettente, il rispetto dei suoi pari e della comunità scientifica. Laboratori immacolati pronti a sfornare scoperte rivoluzionarie al suo più minuscolo cenno. Qualche premio prestigioso anche, perché no. Viaggi per ricerca e conferenze, in prima classe con Zexion. Un Camus seduto al primo banco a ogni lezione, sempre pronto ad alzare la mano per porre le sue insopportabili domande sull’etica nella scienza.
In un altro universo, forse.
Un universo in cui, gli piaceva pensare, non avrebbe commesso gli stessi errori.
Nascosto dietro la tazza di caffè fumante, Vexen sorrise con malinconia.
“Diciamo che il mio incontro con Camus… non è avvenuto in circostanze di cui io vada particolarmente fiero” disse infine.
Un eufemismo bello e buono. Ma era la prima volta che si lasciava sfuggire una considerazione del genere ad alta voce.
“Valygar aveva accennato qualcosa, in effetti” Freki percorse con il dito la traccia circolare lasciata dalla sua tazza sul tavolo. “Pensavo che esagerasse.”
“Spiacente di deluderti ancora una volta.”
“Però… puoi andare fiero del modo in cui sono andate a finire le cose, penso. Voglio dire, avrai pur fatto qualcosa di buono se lui ti bombarda di messaggi apprensivi.”
“Forse è il suo modo di vendicarsi” sogghignò, maledicendo allo stesso tempo dentro di sé il caffè che era finito una seconda volta.
Era grato a Freki per il tentativo di vedere le cose da una prospettiva più ottimistica. Non cancellava il passato, ma il peso in qualche modo diventava più leggero. Non si era reso conto di quanto ne avesse bisogno.
“Se fossi in lui impazzirei di gioia nel vedere quello che stai facendo per aiutarlo. Non è una cosa comune, te lo assicuro. Non lo è affatto.”
Sul tavolo, le dita di Freki sfiorarono delicatamente le sue.
“Ti auguro davvero di ritrovare entrambi.”
L’ennesimo scoppio di acclamazioni dal tavolo da gioco annegò il lungo sospiro di Vexen.
“Lo spero tanto anche io” mormorò, abbandonandosi più comodamente sullo schienale. Reclinò il collo all’indietro e strizzò gli occhi contro il fumo che aleggiava placidamente contro il soffitto. La sua mano, sul tavolo, non si era spostata.
“Per il momento però mi accontenterei di qualcos’altro da bere.”
Freki alzò una mano per richiamare il cameriere, e sorrise.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 - L'Alba Cremisi ***


Capitolo 24 - L'Alba Cremisi







Tolgerias








“Suppongo che il dialogo non sia un’opzione”.
Boba puntò il mirino verso quel Tolgerias, chiaramente il capo. “Ma per vostra fortuna io ed il governatore Darth Maul abbiamo da fare. Potrebbe essere la vostra occasione per tornare a casa con la tunica ancora lavata e stirata, maghi”.
Si mosse leggermente verso il lato del vicolo, sforzandosi di vedere almeno la figura del suo compagno alle proprie spalle.
Qualunque cosa fosse quella diavolo di barriera magica, stava interferendo con i principali sensori della sua cotta. Il visore plineale mandava immagini intermittenti di ciò che avveniva di lato, così come tutti i sensori energetici che sembravano impazziti, sparando piccole luci rosse di sovraccarico nel sistema integrato del casco. Il reset dell’armatura avrebbe richiesto meno di un paio di minuti compreso l’aggancio alle cellule qwar ausiliarie, ma in due minuti quel vicolo sarebbe potuto benissimo diventare la loro tomba. Soffiò tre volte in successione dentro il microfono del casco, attivando la ricarica del sistema, e sperò che quella banda di maghi avesse voglia di far conversazione.
“Non sarò di Coruscant, governatori, ma una cosa io ed i miei colleghi di questo posto la abbiamo imparata …”
I rubini che adornavano i loro pendenti iniziarono ad emettere dei bagliori rossi più intensi.
Il che, trattandosi di incantatori, poteva voler dire una sola cosa.
“… è che la gente dovrebbe imparare a non girare da sola in posti come questo”.
I sette rubini emanarono sette raggi rossi, diretti verso di loro. D’istinto Boba si lanciò verso sinistra, dove i resti di un grosso droide da trasporto sarebbero potuti esplodere al posto suo, ma prima ancora di atterrare nei rifiuti vide Tolgerias fare un passo indietro, e le luci dirette verso di loro furono deviate verso l’alto, distruggendo qualunque cosa vi fosse di appeso.
Il visore divenne rosso nel tempo di un paio di respiri, ma quando le forme oltre il casco tornarono ad essere nitide il cacciatore di taglie notò i maghi in formazione disorganizzata, e Tolgerias praticamente sorretto da uno di loro prima che cadesse a terra.
Il suo gioiello, adesso, era nella mano destra di Maul.
“E niente, Boba. Qui davvero cercano grane” disse, la doppia spada laser bene in vista. “Tu prendi quelli davanti, io penso a quelli alle spalle. E diamoci una mossa”.
Il Sith non perse altro tempo.
Con un guizzo fece sparire il gioiello in una piega della sua tunica nera e roteò la spada di fronte a sé, deflettendo un dardo luminoso che saettò dai maghi all’imbocco della strada. Aspettò che l’energia si fosse dissipata per poi avanzare nella loro direzione con un unico, netto salto che concluse sferrando un calcio in pieno petto all’aggressore più vicino. Gli altri furono abbastanza rapidi ed eressero intorno a loro degli scudi magici simili a dei deflettori, ma Maul optò per andare direttamente in corpo a corpo.
Boba scrollò le spalle e si accorse che Tolgerias, aiutato dagli altri, stava tracciando dei glifi in aria con una verga.
I sistemi energetici della cotta mandaloriana si erano ricaricati del 65%, e capì che non sarebbe bastato per una difesa immediata, quindi agì per primo. I detonatori che aveva di riserva nei gambali non avevano subito danno alle celle, quindi ne estrasse uno, lo attivò e lo scagliò contro gli assalitori. Imitando il suo compagno si scagliò in avanti, pur accecato dalla stessa luce emessa dal suo piccolo esplosivo, calcolando di trovare uno degli assalitori nell’impatto.
Travolse in pieno uno dei maghi quando la granata luminosa fu all’apice della sua energia. L’avversario mandò un grido acuto e poi mormorò qualcosa, ma il cacciatore di taglie non gli diede tempo. Ancora con gli occhi incapaci di percepire mosse di scatto la testa in avanti, colpendo con il casco il cranio del mago e spedendolo a terra con tutto il proprio peso; qualcosa da parte dei suoi compagni scintillò nella sua direzione, mancandolo di netto. Prese un respiro profondo, fece scattare la vibrolama chiusa nell’avambraccio e la piantò nella gola del nemico mentre ancora cercava di rimettersi in piedi, poi sparò con la mano libera nel gruppo alle sue spalle, e qualcosa gli fece capire di aver colpito un secondo assalitore.
Si liberò del mago appena ucciso e si rimise in piedi, rendendosi conto che dei suoi avversari restavano solo Tolgerias ed un ultimo accolito.
Un altro grido, seguito dall’odore acre di carne bruciata, gli fece capire che anche Maul non aveva alcuna intenzione di rendere la vita facile agli incantatori.
“Non montatevi troppo la testa, governatori …”
La tunica di Tolgerias non mostrava segni di danno. Il mantello doveva aver preso fuoco su una delle estremità, ma a parte quello l’uomo era intero; lo stesso non si poteva dire del suo assistente, un ragazzo di almeno vent’anni più giovane, la cui barriera magica mostrava crepe giallastre come se stesse per frantumarsi da un momento all’altro. Il mago anziano aveva il proprio bastone in mano ed una nuova verga nell’aria, stavolta di un colore chiaro che prese ad illuminarsi in maniera incontrollata. “… sarete solo un altro pilastro per la gloria dell’Alba Cremisi”.
Boba aveva lo sguardo fisso su qualunque cosa potesse esplodere da quella bacchetta, e si accorse troppo tardi del ragazzo.
Il giovane mago si buttò nella sua direzione, disgregando la propria barriera di protezione, ed il suo rubino prese a illuminarsi come un piccolo sole seguendo la scia della magia di Tolgerias.
“Merda…”
Fece quanti più passi indietro possibile, ma l’esplosione lo colse in pieno. Il corpo del suo nemico si illuminò per pochi istanti, ed il momento dopo Boba si ritrovò a terra, col Beskal dell’armatura surriscaldato ed un dolore che lo attraversava da parte a parte. I sensori plineali del casco erano in panne e d’istinto se lo sganciò e lo buttò in un angolo, con l’odore della carne bruciata del suo avversario che gli fu attorno.
Con i sensi ancora frastornati per l’esplosione, si accorse all’ultimo della lama laser rossa piantata tra lui ed il prossimo incantesimo di Tolgerias. “Stai bene?” chiese Maul.
“Come appena uscito da una casa di piacere, amico mio” fece, armeggiando alla cintura nella speranza che i deflettori non fossero andati del tutto. “È rimasto solo il pezzo grosso”.
“E sono convinto che sarebbe meglio prenderlo vivo”.
Come a far eco alle parole del Sith, una spada si manifestò proprio davanti ai suoi occhi. Una spada di quelle primitive della Terra II, ma la sua superficie si irradiò di una fiamma verdastra che costrinse il Sith sulla difensiva. Lo stesso colore era riflesso lungo le dita del mago, e Boba aveva fatto fin troppi viaggi nell’Amn per non sapere di quanto fosse complesso un incantesimo simile e quanto dovesse essere abile un incantatore per mantenere la concentrazione in quel carnaio. L’arma puntò dritta verso il suo amico, e la lama laser ne parò il colpo senza però distruggerla. Maul brontolò qualcosa in iridoniano, allontanandola col peso del suo corpo senza però riuscire a disingaggiare sul serio; il cacciatore di taglie si rimise in piedi, osservando la scena, seguendo passo dopo passo il mago attualmente senza più seguaci. La tunica era ridotta ancora peggio di qualche istante prima, e stava camminando all’indietro diretto verso quella che doveva trattarsi della via per la Discarica.
“Dove pensi di andare?” mormorò.
Fece per prendere la mira e crivellarlo, ma entrambi i blaster mandarono suoni strani e poco confortanti dalle batterie energetiche quando li estrasse. L’incantesimo di autodistruzione del giovane apprendista aveva colto nel segno, e con un soffio di disapprovazione gettò a terra le armi, frustrato, osservando anche come il manico della vibrolama che gli aveva regalato Zam anni prima stesse risentendo della deflagrazione magica nel meccanismo di apertura.
L’immagine di lei tremolò un istante nella sua testa, poi la scacciò nell’esatto momento in cui Maul fu costretto a retrocedere a sua volta quando la spada svanì nel nulla proprio sotto un suo fendente per riapparirgli di fianco nella velocità di uno schiocco di dita.
Se Zam fosse stata lì, avrebbe spezzato la concentrazione di quel Tolgerias in un attimo.
Ma lei non era lì.
Anche se l’idea di fondo rimaneva valida.
Boba si avventò verso di lui, superando con un salto i cadaveri dei maghi e tutto ciò che si era accumulato ai suoi piedi. Sapeva che il mago avrebbe avuto addosso almeno uno scudo incantato a protezione, forse anche due, ma si gettò nella sua direzione con tutto il suo peso, lo spallaccio della cotta mandaloriana proiettato in avanti per prendere la maggiore fetta dell’impatto. Una prima ondata, simile ad una scossa, lo investì lungo tutto il corpo quando si trovò ad un braccio di distanza da lui: l’energia che aveva accumulato nel cristallo si accese, ma il cacciatore di taglie non fece assolutamente nulla per evitarlo. Nell’esatto momento in cui entrò nel campo il corpo iniziò a provare un dolore simile ad un caldo ed un freddo intenso in contemporanea, una fitta che esplose lungo la spalla e che in poco arrivò alla testa, scuotendogli il corpo come con una frusta. Senza elmo non aveva più il controllo dei parametri funzionali dell’armatura, quindi nel momento dell’impatto attivò manualmente il dosaggio di antidolorifici e bacta installati nel sistema.
L’intensità del dolore aumentò al passo successivo, facendolo indietreggiare di poco, ma il sistema riparativo del bacta entrò in azione: la testa fischiava e gli doleva, stava perdendo sangue almeno da un orecchio, ma gli antidolorifici istantanei iniziarono a compensare il tutto fino a scuoterlo per la nausea dalla bocca dello stomaco.
Se lo sarebbe fatto bastare.
Con la pressione della magia quasi alle stelle, attraversò il campo incantato e si buttò su Tolgerias.
Il suo peso, unito a quello della cotta, fecero il resto.
Il mago crollò sotto la sua spinta, chiaramente ancora spiazzato dalla sua mossa. La mano illuminata di verde perse il controllo sull’incantesimo e cercò di saettargli qualcosa per allontanarlo, ma Boba rimase attaccato a lui e qualunque incantesimo fosse stato lanciato si perse alle loro spalle. Gli piantò il ginocchio alla base della pancia e lo inchiodò a terra finché anche Maul non si avvicinò. “Bella idea, Boba”.
Il cacciatore di taglie annuì, continuando a immobilizzare il mago. Il bacta era ormai in circolo, ma parte del dolore alla spalla ed alle gambe continuava a persistere.
I prossimi giorni si sarebbero prospettati un inferno.
“Adesso vediamo cosa ha da raccontarci questo figlio di puttana. Se il nostro obiettivo è scappato per il trambusto fatto da lui e dai suoi amici …”
“Credete di farmi paura?”
Tolgerias cercò di opporsi e divincolarsi, ma l’occhio di Boba fu più rapido. Lo vide sfregare un anello nella mano sinistra e di scatto gli piantò la vibrolama dritta nel palmo, facendolo urlare. “Io non aggraverei la tua posizione, se fossi in te …”
Non aveva bisogno di parlare con il Sith per sapere che quel mago era più utile da vivo che da morto.
Da quando era diventato un Signore Oscuro effettivo Boba aveva perso molti contatti col mondo della criminalità organizzata della Galassia. Sapeva di essere un nome e non erano mancate le richieste da parte di giovani indipendenti, cacciatori che cercavano di costruirsi il loro giro e farsi un nome dietro a qualcuno di più famoso, proprio come era accaduto a Zam quando aveva accettato di lavorare con suo padre. Aveva rifiutato praticamente tutte le offerte, accettando pochissimi casi soltanto per clienti come gli Hutt e soprattutto quando l’Imperatore aveva bisogno di un orecchio affidabile in quelle realtà dove la divisa imperiale non era ben tollerata. I cartelli criminali sorgevano e si spegnevano come mosche, e di questa Alba Cremisi aveva sentito parlare al massimo da qualche mese, l’ennesimo gruppo organizzato che cercava di farsi strada su un terreno di caccia come Coruscant. A parte che avessero un nuovo leader giovane e un po’ spregiudicato non vi era stato nulla, in loro, che avesse sollevato l’attenzione dell’Impero o la sua.
Ma adesso le cose cambiavano.
Nessun sindacato, nemmeno il Sole Nero, avrebbe avuto il coraggio di ostacolare apertamente due Signori Oscuri in piena operazione.
E senza dubbio nessuno utilizzava dei maghi.
Maul si chinò verso Tolgerias, avvicinandogli una mano alla testa. “Mi auguro che tu sia un tipo collaborativo”.
Per tutta risposta, quello sollevò la testa e sputò.
“Lo prendo come un no”.
Il Sith appoggiò la mano sui capelli biondi, e per un attimo persino un non sensitivo come Boba percepì un brivido freddo lungo la schiena, l’ondata della Forza attraversata e poi piegata dal Lato Oscuro. Maul non ne faceva uso quanto l’Imperatore -richiedeva una concentrazione molto pesante- ma il cacciatore di tagli sentì intorno a lui i sensi disturbati, e la sensazione familiare di qualcosa che per pochi istanti unì il corpo di Maul a quello della sua vittima.
Lo aveva visto usare diverse volte e per un istante si concesse il lusso di allentare la presa sul mago, quando l’occhio gli cadde sul tenue bagliore rosso sul petto dell’altro che aumentò col crescere dell’intensità del Lato Oscuro.
“Maul …”
La gemma rossa dell’Alba Cremisi emanò all’improvviso una luce scarlatta, e né il cacciatore di taglie, né il Sith, furono in grado di tenere gli occhi aperti quando il rosso accecante si trasformò in una luce che inondò l’intero vicolo.
E poi videro.
Fu un guizzo, un tremolare di immagini. Si accentrarono intorno a Darth Maul, quasi attratte dalla vibrazione della Forza.
L’immagine di un palazzo forse in fiamme, forse crollato. Una aeronave che si allontanava tra gli spari, e figure di maghi che lanciavano incantesimi sugli assaltatori.
Una scena confusa, quasi frammentata in un caleidoscopio delle mille e più sfumature del rosso.
L’immagine di quel grattacielo più e più volte, come un pensiero fisso dentro la testa di quel mago. La magia accumulata nel cristallo si fece sempre più confusa, accerchiando le immagini intorno al Sith, per poi svanire di colpo, come se qualcuno avesse schioccato le dita e la realtà intorno a loro fosse tornata lo squallore di Coruscant, la puzza dei cadaveri e lo squittio dei ratti.
Sotto la mano di Maul, la testa del mago ciondolò all’indietro, senza vita.
Ma, in quel momento, entrambi si resero conto che non aveva più alcuna importanza. “Il palazzo di Tarkin …”





La nottata era stata gradevole, ma il getto d’acqua fredda sul viso la mattina appena sveglio lo fu ancora di più.
Niente di meglio che una doccia gelida per rimettere il cervello in movimento.
I bagni nelle suite per gli ospiti del palazzo di Xizor erano dotati di tutti i comfort più strampalati: solo nella cabina doccia erano inclusi diffusori di oli essenziali, altoparlanti, una consolle con schermo per la selezione di musica e audio, e una serie di led il cui pulsante di attivazione recitava la scritta “cromoterapia”. Quest’ultima si rivelò nient’altro che una deludente cascata di luci colorate, perciò Vexen la liquidò come l’ennesima pseudoscienza da ciarlatani senza arte né parte.
Prima di lavarsi giocherellò per qualche minuto con la consolle audio, meravigliandosi della vasta gamma di spazzatura con cui i ricchi ospiti del principe potevano scegliere di dilettarsi. Non resse nemmeno dieci secondi di meditazioni rituali di Gatalenta, mentre concesse a cori di guerra tribali di Pamarthe di risuonare per quasi un minuto intero prima di mettere a tacere il dispositivo con una manata infastidita. L’acqua fredda bastava e avanzava. Impostò la temperatura al minimo e vi gettò sotto la testa con gratitudine.
In qualche modo doveva aver perso tempo, tuttavia, perché quando riemerse dalla cabina, avvolto in un accappatoio liscio come seta che assorbiva l’acqua al minimo contatto con la pelle, si accorse che era trascorsa almeno mezz’ora. Non era da lui attardarsi in quel modo nelle semplici operazioni quotidiane.
Gettò un’occhiata nella camera da letto adiacente. Freki dormiva ancora, avvolta nella coperta come un in un bozzolo.
In effetti, rifletté mentre recuperava i suoi vestiti dallo schienale di una poltrona, non era da lui nemmeno ricercare compagnie notturne di qualsivoglia tipo. Non ne vedeva l’attrattiva. Le attività riproduttive, con il loro dispendio di energia cinetica, rilasciavano un quantitativo di calore poco tollerabile per un elementale del ghiaccio. E anche prima di diventarne uno, non aveva mai compreso fino in fondo la straordinaria ossessione delle specie umanoidi per le attività che includevano lo scambio di fluidi corporei. O meglio, la comprendeva su carta. In termini di ormoni, segnali chimici, esigenze di riproduzione della specie. Tutto perfettamente logico. Solo, molto lontano dalla sua esperienza.
Una volta vestito si ricordò che Freki gli aveva chiesto di svegliarla prima di andarsene, perciò si chinò sul letto per scuoterle una spalla. Metà del suo viso era sprofondata nel cuscino di piume, mentre sull’altra metà era stampata un’espressione così beata che per un attimo Vexen si sentì in colpa a disturbare il suo sonno.
Si chiese quante persone l’avessero vista in quel modo. Più leggera, meno affilata. Una cosa che Vexen non avrebbe mai immaginato quando aveva fatto la sua conoscenza era che fosse capace di ridere così spesso.
La scosse delicatamente, ma lei si limitò ad emettere un mugugno incoerente e a seppellirsi più a fondo nelle coperte.
Si chiese cosa le fosse passato per la testa la sera prima, quando lo aveva invitato nella sua stanza al ritorno dal club degli affiliati del Sole Nero. Perché proprio lui e non, ad esempio, un ranger giovane e prestante come Valygar. O il principe Xizor. O una qualsiasi delle Twi’lek in abiti discinti che sembravano proliferare in abbondanza ad ogni angolo di quel palazzo.
Le scosse la spalla con maggiore decisione. Questa volta la risposta proveniente dal mucchio di coperte fu persino intelligibile, anche se la voce era più impastata di quella di Katjaa dopo un viaggio tra le delizie della spezia.
“Sono morta. Non cercatemi. Anzi, buttate il mio corpo in mare.”
Vexen soffocò una risatina.
“Potrei prenderti in parola.”
No, la vera domanda era perché lui aveva accettato il suo invito. Nemmeno la chiarezza del mattino e l’acqua gelata sul viso lo avevano aiutato a elaborare una risposta soddisfacente.
Noia? Curiosità? Bisogno di mettere a tacere quei pensieri che lo tormentavano da quando aveva lasciato la Terra II?
Quell’ultima parte era riuscita piuttosto bene, a dire il vero.
“Con un cerchio alchemico trasformare i solidi in liquidi sarebbe uno scherzo, sai.”
La minaccia alchemica sortì il suo effetto, perché Freki emise qualche altro mugugno di protesta ma poi si decise ad emergere dalle coltri stropicciandosi gli occhi ancora gonfi di sonno.
Era già con un piede fuori dalla porta quando l’olopad di Freki, sul comodino, mandò un trillo acuto. Lei lo afferrò con uno sbuffo infastidito mentre la mano di Vexen corse in automatico al proprio dispositivo, ben chiuso nella tasca della giacca e rigorosamente in modalità silenziosa.
Tre nuovi messaggi di Lavok erano apparsi nella chat comune.
 
*StregonePlanare*: Novità dalle indagini sul medaglione: abbiamo identificato due possibili Sindacati che potrebbero essere responsabili dell’attentato durante la festa.
*StregonePlanare*: Potrebbe valere la pena indagare sul loro conto anche per la NOSTRA missione.
*StregonePlanare*: Incontriamoci appena potete.
 
“Dovresti venire con noi” disse Freki, che intanto era riuscita a districarsi dalle coperte e ora girava a piedi scalzi per la stanza recuperando le sue cose e passandosi una mano tra i capelli arruffati.
“Ne abbiamo già parlato.”
“Potrei aver trovato un compromesso.”
A queste parole Vexen diede le spalle alla porta e la richiuse poggiandovi la schiena. “Ti ascolto.”
“Diciamo che ci sarebbe un posto dove noi potremmo recuperare informazioni e tu fare un discreto quantitativo di crediti in breve tempo. Specialmente con piccolo aiuto da parte di qualcuno con i miei… talenti.”
Sorrise, lasciandosi cadere sul letto e sedendosi a gambe incrociate. Con un’occhiata lo squadrò dalla testa ai piedi, esaminando con sguardo critico la sua giacca di pelle consunta e gli abiti scuri e anonimi.
“Però temo che dovrai trovarti un outfit più elegante.”
Vexen alzò gli occhi al cielo. “Ti prego, non dirmi che è l’ennesima festa di ricchi senza freni inibitori.”
Per tutta risposta Freki scoppiò in una risata cristallina.
“No, molto meglio. Andiamo al casinò.”
 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 - Io sono te e tu sei me ***


Capitolo 25 - Io sono te e tu sei me







Il droide CR








Il rumore dei suoi stessi passi sembrava invadente come una parata di grancasse naniche.
Zexion attraversò i corridoi che portavano ai livelli 7 e 8 della miniera con la testa in subbuglio, cercando di aumentare il fracasso dell’erogatore d’ossigeno abbastanza da non sentire gli ingranaggi del suo stesso cervello. Gli assaltatori imperiali non gli prestarono più di un’occhiata sbrigativa, un paio nemmeno voltarono il casco.
Se riesci anche solo a incutere un po’ di timore, gli avevano nei primi tempi del suo arrivo all’ISB, la gente preferirà considerarti invisibile.
La proposta di Gimli aveva cambiato le carte in tavola. Conosceva abbastanza bene Camus da non aver nemmeno bisogno del suo olfatto da capire che appoggiava al massimo l’idea del nano, e nemmeno mettere il prete sotto tortura avrebbe ottenuto qualcosa. La sua testa dura era famosa almeno quanto la sua passione per il martirio.
Suo zio era vivo ed era partito alla sua ricerca, e nonostante il proprio olfatto non poteva certo sperare di attraversare tutti i pianeti della Galassia nella speranza di fiutare una sua traccia. Aveva bisogno di quell’ID, ed il solo pensiero che il nano avesse fermato il sacerdote gli faceva risalire la bile fino in gola per quanto fosse stato ad un passo dal riabbracciare l’unica persona in quella maledetta Galassia di cui gliene importasse davvero qualcosa. Lo sfiorò anche l’idea di dare un ordine qualsiasi e farlo fucilare con una scusa, ma avrebbe dato a Camus un motivo in più per rimanere saldo nella sua posizione.
Li detestava.
Li detestava tutti, imperiali e Ribelli.
Quella non era mai stata la sua battaglia, e non lo sarebbe diventata mai. Doveva solo cercare di ottenere ciò di cui aveva bisogno, ma non era così stupido da non conoscerne il prezzo ed il rischio.
Controllò il pad per la ventesima volta da quando si era deciso ad afferrare l’unica possibilità esistente, rilesse le informazioni fino al vomito e ricontrollò l’orario standard con tutte le minuzie possibili eseguendo anche un reset per essere certo che non vi fosse una perdita di sincronizzazione.
Ad ogni passo che lo avvicinava all’obiettivo Zexion era sempre più nervoso.
L’Impero nasceva dal controllo assoluto. Durante le Guerre dei Cloni era stato possibile sconfiggere l’Ordine Jedi e prenderlo di sorpresa perché tutti i soldati realizzati nei laboratori di Kamino erano stati settati con dei codici neurali ben precisi, prefissati per poter rendere operativi ed obbedienti milioni di unità nello stesso momento. Sebbene non fosse di dominio pubblico e l’argomento fosse stato ben presto cancellato dalla memoria comune era risaputo, nei Servizi, come l’impianto del codice Ordine 66 nei cloni aveva permesso all’Imperatore una manovra su scala galattica dando l’input ai suoi soldati di rivoltarsi contro gli Jedi.
E pensare che l’Imperatore non avesse un meccanismo di controllo sui propri soldati -molti cloni erano stati dimessi, ed ormai oltre l’ottanta per cento delle forze armate imperiali era composto da soldati di leva- era pura utopia.
Occorreva soltanto conoscere il come.
Arrivare nei blocchi di detenzione minori era sicuramente meno complesso che accedere ai generatori di energia. Zexion dovette passare soltanto un paio di ingressi blindati, e i soldati a guardia gli fecero cenno di andare avanti dando una occhiata sbrigativa al suo pass. I droidi gli passavano accanto senza emettere nemmeno un suono, e gli unici fischi strozzati che si sentivano lungo il percorso erano i droidi in via di riconversione, quelli i cui circuiti iridici dovevano essere modificati e forzati in maniera molto più cruenta.
La cella in cui era stata rinchiusa Gea Oganae non era diversa dalle altre. La porta poteva essere aperta con un singolo codice, e quando si spalancò al suo comando emise un clangore che sarebbe stato impensabile per i blocchi di detenzione sui pianeti più avanzati. Alcune scintille sprizzarono dalle manette elettriche con cui l’enorme donna era stata immobilizzata, e Zexion sentì un tanfo di carne bruciata e escrementi umani sprigionarsi dalla figura bloccata. Ad esso si unì il lezzo nauseabondo di un cadavere buttato in un angolo, chiaramente un minatore considerato più sacrificabile. Protocollo basilare.
La donna sollevò la testa. Un nuovo taglio le apriva la faccia da parte a parte, e metà dell’orecchio sinistro non c’era più. “Chissà perché ma mi aspettavo che saresti tornato, Ienzo” gli disse la figura, sofferente ma per nulla piegata. “Quelli come te tornano sempre”.
Si era documentato, e sapeva che Gea ed i suoi uomini erano stati interrogati secondo il livello 2 stilato dall’ISB. Alcuni minatori, i più sacrificabili, erano stati giustiziati immediatamente per fiaccare i compagni. L’assenza di droidi inquisitori in quella regione della luna di Onoam -nonché di specialisti in interrogatori- aveva fatto optare i Servizi per una gestione non eccessivamente capillare di quegli uomini. L’arresto di un membro dell’Alleanza Ribelle di classe A, ovvero il nano, aveva di colpo diminuito l’interesse per quei lavoratori.
Non programmavano di mantenerne in vita nessuno, considerato il termine della loro utilità.
“Una vera fortuna che io non abbia perso tempo, allora. L’ISB stima la vostra esecuzione tra non più di tre cicli”.
Lei lo fissò con un’espressione impenetrabile.
“Se si fosse trattato di una rivolta di minatori con te a capo, Gea, si sarebbero presi la briga di far venire un esecutore da Naboo o farti trasferire in qualche carcere serio. Ma con quel nano tra le vostre fila sei un pesce così insignificante da non valere le scorte di cibo. Tu ed i tuoi compagni, s’intende”.
Un movimento rapido del sopracciglio, unito al moto del suo odore. Sorpresa, sebbene poco.
Doveva pensare che fosse lui l’inquisitore.
“Il sapere di dovervi giustiziare a breve ed il numero limitato di assaltatori per l’operazione rende i livelli detentivi molto meno sorvegliati di quanto uno potrebbe aspettarsi” le disse, abbassando la voce. “E il grosso delle guardie è concentrata all’ingresso. Suppongo si aspettino una sortita dell’Alleanza, o qualcosa di simile”.
“Come se avessi intenzione di ascoltare qualunque frase uscita dalla tua bocca, Ienzo” rispose lei, ed uno sputo unito a sangue atterrò proprio ai piedi del ragazzo. La tenue barriera posta intorno alla figura della donna emanò un guizzo quando lo sputo la attraversò, facendo sussultare la prigioniera, ma gli enormi muscoli delle spalle si indurirono e rimase eretta e minacciosa. “Credi sul serio che intenda anche solo crederti? Se potessi ti butterei fuori da questa cella a calci in culo”.
Zexion non diede modo di mostrare nulla.
Aveva immaginato una risposta del genere, e spazientirsi non avrebbe portato a nulla. Sapeva che il rischio non sarebbe venuto soltanto dall’Impero.
“Non ho bisogno che tu mi creda. Né che mi stia a sentire. Ho solo enunciato un dato come un altro. Sei tu che ti stai scaldando”.
Gettò un’occhiata velocissima al pad: le comunicazioni all’interno delle celle erano ovviamente registrate, ma la sua autorizzazione in quanto unico membro operativo dei Servizi dell’ISB in quella miniera gli aveva consentito di deviare la riproduzione della loro conversazione direttamente sul proprio dispositivo. “Stavo solo ipotizzando che, se le vostre celle avessero un problema o se qualcuno dall’interno decidesse di aiutarvi, potreste persino prendere il controllo di diversi livelli, qui sotto. Specie con i droidi non ancora totalmente riconvertiti, dico bene?”
“Tu hai portato l’Impero qui. Ingannandoci”.
“Verissimo. Lavoro per i Servizi, non faccio la guida turistica nello spazioporto di Mos Eisley” disse, lasciando che il ringhio dell’altra rimbombasse a vuoto nella cella. “Ma, prima ancora che lavorare per l’Impero, lavoro per me”.
Come da programma, la porta alle loro spalle si aprì. Lungo le barre metalliche che sostenevano le pareti si riflessero le luci verdastre dei sensori oculari di CR, il droide astromeccanico.
Alla vista del suo compare Gea gli lanciò un’occhiata inquisitoria. “Se tu hai …”
“Come la sua padrona, è così vecchio ed inutile che riprogrammarlo non vale la pena. Smantellarlo e salvarne almeno i bulloni era il protocollo di base, ma grazie al cielo nessuno ha avuto da obiettare quando lo ho reso operativo. Gli assaltatori di questo posto non saprebbero distinguere un bullone da costrizione per droidi astromeccanici da uno per droidi da battaglia”.
L’espressione di lei cambiò, e uno spiraglio di sollievo si mosse dentro il ragazzo.
Sapeva che approcciare il capo dei minatori sarebbe stato uno dei passaggi più complicati del suo piano; quando era sceso per la prima volta nelle miniere, cercando di guadagnarne la fiducia, si era trattato di un lavoro come un altro, nulla di più di quanto avesse fatto decine di volte in quegli anni all’Impero. Una collaborazione tra la giurisdizione del governatore Saruman e l’ISB guidato da Tarkin.
Ma adesso le sue necessità erano cambiate.
Purtroppo era cambiata anche la disposizione di Gea nei suoi confronti, ma era un rischio che non avrebbe potuto annullare nemmeno col migliore piano del mondo. Il suo naso gli aveva insegnato che le emozioni umane non erano né controllabili, né programmabili: talvolta la soluzione era accettarle per come giungevano.
Si scansò di lato, lasciando al piccolo CR il compito di rimuovere le elettromanette. L’estremità prensile del droide si ricoprì di un device isolante che gli concesse di lavorare senza ulteriori danni, mentre Zexion armeggiava col proprio pad nel controllare la posizione di tutti i militari nei livelli. Le tute bianche dei soldati imperiali erano tutte codificate e localizzabili da chi aveva abbastanza autorità e posizione gerarchica, e se Zexion doveva mandare tutto al diavolo e rivedere suo zio … forse sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe potuto godere di un simile privilegio.
Non appena lo strato di energia che la bloccava cadde, la donna fece per cadere a terra. Atterrò su un ginocchio, ma fece il possibile per alzarsi in piedi. Zexion notò la difficoltà nei movimenti, il chiaro effetto della tortura imperiale in grado di fiaccare anche un’umana dalla corporatura simile. “Sai una cosa, Ienzo? Messa in questo modo mi fai forse anche più schifo” ringhiò, scambiando uno sguardo con il suo droide che, per tutta risposta, le fischiò qualcosa di incomprensibile. “Quasi quasi preferisco gli imperiali che ci credono davvero”.
“Le tue convinzioni non sono un mio problema”.
“Ah, no?”
Anche appoggiata alla parete e con il fiato corto, la minatrice lo superava di oltre una testa. Era debole, ma avrebbe potuto senza dubbio tentare di sopraffarlo, complice anche il suo CR e la piccola fiamma ossidrica che sapeva che si sarebbe attivata nell’esatto istante in cui la donna avrebbe dato un ordine.
Il tanfo del cadavere lì vicino e l’aria chiusa del sottosuolo non riuscirono a mascherare la furia della minatrice. “Sono sicura che tu abbia qualche trucchetto per proteggerti, moccioso” fece, spingendo il peso sull’altro piede, accorciando le distanze. “Ma per come sono messa adesso, un tentativo di cambiarti i connotati e farti fare la fine dei miei amici lo farei eccome”.
“Lo avevo messo nel conto” concluse, scostando leggermente la frangia che aveva sulla fronte per impedirle di guardarlo meglio negli occhi.
Lei aspettò, aspettandosi di sicuro qualche mossa o qualche minaccia, ma Zexion non le offrì né l’una né l’altra. “Ma confido nel fatto che tu ed i tuoi compagni siate a corto di tempo, e ci sono certe occasioni che non si ripresentano due volte”.
Gea si accorse della sua mano all’ultimo istante, ma non poté opporsi quando Zexion guardò per la millesima volta l’orologio del suo pad e, con un’espressione scura, premette un tasto.
Un urlo strozzato, poi il rumore di qualcosa di pesante che cadeva a terra poco lontano dalla loro cella.
La minatrice sobbalzò, presa alla sprovvista, mentre il piccolo CR abbandonò il suo fianco con una serie di suoni e passò davanti al ragazzo, diretto verso la porta. Il giovane agente lo lasciò fare, ben sapendo che la programmazione del piano di fuga dei minatori era stato ben accettato dal droide e costruito nei suoi dischi di memoria protetti. Lei lo seguì con lo sguardo, incuriosita dalla reazione del suo stesso droide, e quando l’ingresso della cella si spalancò, cigolando, ciò che apparve era un assaltatore imperiale a poca distanza da loro, a terra.
CR sferragliò contro l’uomo chiaramente senza vita, appoggiando il proprio sensore ottico alla fondina in cui era riposto il blaster.
“I caschi degli assaltatori hanno un dispositivo interno molto particolare. Sono bloccate due piccole fiale di gas tibanna modificato, in grado di uccidere anche un umano di grande corporatura in quindici secondi. Si trovano all’interno dei caschi, in una struttura così protetta da resistere anche agli insulti fisici più pesanti. Ma possono essere attivati a distanza, se l’Imperatore o i Signori Oscuri lo ritengono opportuno, ed i Servizi possono avere una certa libertà d’azione in questo senso” annunciò, percependo dentro di sé la moltitudine di sensazione che si stava liberando dalla donna. “Ovviamente i soldati non ne sono a conoscenza. O, se lo sono, è stata considerata come propaganda Ribelle”.
CR estrasse l’arma dalla fondina, ed aprì il settore dell’armatura dove spesso i soldati inserivano delle granate termiche. Fu fortunato, ed avvicinò alla sua padrona ancora contusa sia il blaster che un paio di esplosivi da lancio. Non tantissimo, ma senza dubbio la donna sapeva come usarli. Mise piede fuori dalla sua cella, portandosi d’istinto la mano davanti agli occhi per proteggersi dall’estrema luce artificiale del blocco di detenzione, ed in quell’istante tutte le porte del livello si aprirono. Ne seguirono diverse voci, insulti alla madre del governatore Saruman e ronzii di droidi attivati. Nell’arco di una decina di istanti il corridoio si riempì di figure emaciate, coperte di sangue e costretti ad appoggiarsi l’uno all’altro o alle pareti per non crollare dallo sfinimento. Zexion aumentò il livello d’aria del suo ossigenatore per impedire a quella massa informe di odori e pensieri di venirgli addosso, ma sapeva che in quel momento il suo lavoro, lì dentro, poteva definirsi concluso.
“Il mio rango nell’ISB mi consente di neutralizzare un massimo di venti soldati prima che una mia successiva richiesta venga convalidata da Coruscant. Ho rimosso tutti i soldati su questi livelli, quanto basta per procurarvi abbastanza armi da organizzare qualcosa” disse, sentendosi addosso gli occhi di tutti i minatori e anche di quelli che lo avevano riconosciuto. “Se volete organizzarvi, fate qualcosa. Non è affar mio. Se volete rimanere qui dentro ed aspettare che vi giustizino, siete liberi”.
“Posso chiederti quale è il tuo tornaconto, Ienzo?”
Considerato che la minatrice non aveva cercato di ucciderlo -ed il suo odore confermava che non lo avrebbe fatto, se lui non avesse tentato qualcosa di stupido- tirò un sospiro e si voltò verso gli ascensori.
“Certo che no. Dopotutto potrei mentirti di nuovo”.
“Non hai tutti i torti, nanerottolo”.
“Preferisco apporre una piccola postilla a tutta questa storia…” proseguì, controllando di nuovo che i livelli fossero sgombri.
Lo erano, ma da quel momento il rapporto di ogni suo utilizzo di codici sarebbe arrivato all’ISB e, se li conosceva bene, avrebbero provveduto a sospendergli ogni azione fino ad una spiegazione che il ragazzo non aveva alcuna intenzione di fornire.
Da quel momento in avanti, tutto il suo piano si sarebbe basato su quanto Gea Oganae ed i suoi uomini avrebbero avuto desiderio e forze di uscire da lì ed eliminare tutti gli imperiali da lì all’ingresso.
“ … il sacerdote venuto con l’Alleanza Ribelle deve uscire vivo ed illeso da qui. Siamo intesi?”






I pezzi erano disposti sul tavolo, e scintillavano persino sotto la luce artificiale della sua stanza.
Ne prese uno in mano, soppesandolo per la trentesima o quarantesima volta.
Oro massiccio, le scansioni dei droidi erano concordi. Chiunque avrebbe potuto vendere quei pezzi e la scatola che li racchiudeva e pagarcisi un paio di mesi su Ithor con la migliore compagnia Twi’lek sul mercato.
Che fosse un puzzle, quello era stato chiaro fin da subito. Non uno dei suoi passatempi preferiti, ma di certo era in grado di ricomporre una figura composta da nemmeno trenta tasselli, e ne aveva uniti un paio giusto per immaginare cosa potesse succedere una volta terminata la forma. Se la sua valutazione era corretta – e non c’era motivo che non lo fosse- si sarebbe trattato di comporre una forma piramidale; la cosa non lo perplimeva in realtà più di tanto, considerata la peculiare architettura di Nagada e l’ossessione di quel popolo per la geometria.
“Cosa pensi possa fare?”
La voce di Zam interruppe i suoi pensieri a metà. Era difficile vederla senza la sua tuta da battaglia e le sue complesse decorazioni mabari ai polsi o intorno all’elmo, ed impiegò qualche istante a mettere la donna a fuoco nella lunga veste in foggia kaminoana che le copriva persino i piedi, formando una sorta di strascico dietro i talloni. Senza l’elmo a nasconderle metà della testa aveva i capelli raccolti in maniera confusionaria su un lato del viso, e per un istante la mente tornò a oltre vent’anni prima, quando in un alloggio davvero molto, molto simile vi erano un uomo, una donna ed un ragazzino che passava le ore cercando di impressionarli sulle tecniche di pesca dei rollerfish. Il tempo non le aveva levato l’abitudine di camminare a piedi scalzi dentro qualunque posto potesse considerare vicino a una “casa”, e se questo da un lato gli diede un leggero senso di felicità, dall’altro si accorse di quanto impalpabile fosse il passo di quella donna cresciuta per uccidere.
Se non avesse interrotto il silenzio con quella frase probabilmente sarebbe potuta venirgli accanto senza nemmeno dargli modo di notare la sua presenza.
“Non lo so. Ed è proprio questo a preoccuparmi. Maul mi ha contattato prima, e sembra sia riuscito ad attivare l’oggetto di sua competenza, quella specie di Ascia dorata”.
“E …?”
“Deve fare altre prove, ma sembra sia riuscito a controllare i movimenti di un paio di membri dello staff verso cui la ha puntata. Un po’ come se fossero dei burattini, almeno per come la ha vista lui”.
“Quindi sospetti che siano delle armi?”
Osservò di nuovo quei pezzi.
Non era la prima volta che si ritrovava a ricercare, maneggiare o trovarsi a contatto con artefatti provenienti da tutta la Galassia. Già quando aveva intrapreso la sua carriera ufficiale di cacciatore di taglie gli era stato richiesto di impossessarsi -rigorosamente per vie illegali- di questo o quell’oggetto in grado di soddisfare i capricci o le ambizioni di chiunque potesse permettersi i suoi servizi, e le volte in cui era stato contattato da agenti imperiali si era sempre trattato di oggetti che poco lasciavano spazio all’immaginazione. La sua nomina a Signore Oscuro gli aveva dato accesso al reclutare altri cacciatori di taglie o semplici ladri da ingaggiare proprio per queste ricerche, e non vi era pianeta della Galassia che non nascondesse qualcosa di potenzialmente interessante per l’Imperatore ed i suoi scienziati. I doni di Nagada non sembravano affatto delle eccezioni.
“Se Ra ha ritenuto che potessero interessare l’Imperatore … dubito seriamente che si tratti di qualcosa in grado di risolvere carestie, siccità o pestilenze incurabili” disse, con una nota stridula nella voce.
“E la cosa ti spaventa?”
Boba la guardò, sforzandosi di capire perché lei gli avesse posto quella domanda. Lo stava giudicando in qualche modo?
 
Narratore: “Boba, nota a pié di pagina. Non pensare, perché se pensi sbagli”
 
Guardò di nuovo sia quegli occhi chiari che la scatola intarsiata, sforzandosi di notare qualche connessione che probabilmente gli sfuggì. Prese uno dei pezzi tra le dita che ancora non aveva apposto, soppesandolo, sforzandosi di fissare le sue connessioni per evitare che la donna potesse estrapolare altre informazioni dal suo viso.
Come mai la domanda lo stava inquietando?
Inserì il pezzo nella composizione, e senza nemmeno pensare portò la mano al successivo.
No, non era la domanda in sé. Ne aveva parlato sia con Maul che con Tarkin, ed in modo molto più aperto: tutti e tre erano abbastanza intelligenti da non prendere certi artefatti a cuor leggero, specie perché nessuno di loro possedeva un controllo sulla magia come quello spregiudicato di Kaspar. Avere paura di qualcosa di ignoto era da sempre la chiave di volta per non rischiare la vita.
Ma chiesto da lei …
Zam si avvicinò al tavolo. Un solo sguardo, come se fosse indecisa se chiedergli il permesso o meno. Lui annuì, lasciando che le sue mani scegliessero un altro pezzo e lo inserissero nella composizione.
Nel momento in cui la sagoma dorata si incastrò nel resto del puzzle si accorse che ciò che lo preoccupava sarebbe stata la reazione di Zam alla sua risposta.
Si morse la guancia, nella speranza di non darlo a vedere, fissando le dita sottili della donna afferrare un altro pezzo e stavolta portandoselo vicino agli occhi, come a cercare dentro il singolo frammento la chiave per scoprire quale enigma stavano per comporre. Con un sospiro si costrinse a ricomporsi, e diede la colpa al fatto che, seppure per un periodo molto breve della sua vita, aveva accarezzato l’idea che quella figura dallo sguardo freddo e dal sorriso invisibile potesse essere la madre che non aveva mai avuto.
“Sarei uno stupido se non lo fossi”.
Ma cercò di nuovo i suoi occhi, e a quell’increspare di labbra così familiare sentì il cuore farsi più leggero.
Il puzzle era quasi terminato, e l’ultimo pezzo scivolò dalla mano di Zam e apparve nel suo palmo. Un pezzo che aveva la forma di un occhio stilizzato, il tassello finale al centro della figura piramidale che aspettava solo di essere portato a compimento. Lo applicò con una leggera spinta, immaginando quasi che quell’occhio potesse animarsi all’improvviso e guardargli dentro, oppure creare dal nulla un raggio laser che gli avrebbe staccato la testa.
Non accadde assolutamente nulla di ciò, perché prima ancora che potesse commentare l’accaduto uno strano calore si propagò nel suo corpo ed una scarica di energia scaturì dalla punta delle dita e lo attraversò fino alla schiena ed alla testa. Delle strane immagini iniziarono a sovrapporsi, cancellando per un attimo il suo ufficio e la stessa Zam, finché qualunque cosa si trovasse legata all’artefatto non giunse dritta nel suo cuore.
Io sono te, e tu sei me.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 - The alchemist's apprentice ***


Capitolo 26 - The alchemist's apprentice







Un cerchio alchemico








Il generale Hyunkel sedeva davanti a lei, le gambe incrociate. Le spalle, le braccia, ogni muscolo del suo corpo non riusciva a tradire la tensione che provava.
Zam era sempre stata abituata ad interpretare questa diffidenza con una sfida, e senza dubbio non le era mai capitato di dover convincere nessuno ad abbassare le difese in sua presenza. Sarebbero stati tutti molto stupidi. La mano destra del ragazzo non lasciava il Puzzle, né aveva fatto alcun gesto per sganciare la catena dal collo per avvicinarglielo.
Non che lei ci tenesse.
“Suppongo che tu non abbia ricordi piacevoli collegati a questo oggetto” disse lui, chiaramente cercando qualcosa con cui riempire il vuoto che era calato nella Caverna del Drago nell’esatto momento in cui si erano seduti l’uno di fronte all’altra. Il generale Baran si era seduto in disparte, ma nonostante questo entrambi potevano avvertire lo sguardo di allarme sotto l’elaborato diadema dorato che non lasciava né loro, né il Puzzle. “La battaglia su Kamino è il motivo per cui ti trovi qui”.
Le ci erano volute diverse visite per convincere quel giovane umano a parlarle, e oltre il doppio per ottenere da lui un tono più … amichevole. Il tono naturale e disinvolto che assumeva in compagnia di Hadler e con i sottoposti del generale Baran si trasformava in un silenzio innaturale nel motivo in cui il ragazzo si ritrovava in sua presenza, un silenzio che finiva puntualmente sommerso dalle bisticciate senza fine di Borahorn e Gurdandy o dalla voce perentoria e calda del Cavaliere del Drago. Aveva sempre avuto l’impressione che i modi guardinghi del ragazzo fossero dovuti alla naturale attitudine di un guerriero di studiare ed ispezionare una potenziale minaccia e dunque aveva cercato di non darsene eccessiva preoccupazione, ma col passare dei giorni il suo intuito aveva iniziato a suggerirle qualcosa di diverso; forse era per quello che aveva accettato ben volentieri l’idea del Cavaliere del Drago di confrontarsi con lui sulla questione del Puzzle Millenario.
“Non posso dirmi un’appassionata di questi artefatti” mormorò, osservando ancora una volta come le mille battaglie non avessero scalfito nessuna decorazione, né alcun pezzo si fosse annerito. “Ma non per i motivi che credi. Le sconfitte sono un motivo di riflessione, così quanto le vittorie lo sono per l’orgoglio”.
“Baran mi ha detto che hai espresso preoccupazione per il potere del Puzzle”.
Subito al sodo.
“Nessuno può controllare l’Angelo”.
Un leggero sorriso attraversò il volto del generale. “Con tutto il rispetto, le nostre ultime vittorie hanno dimostrato il contrario. Ammetto che non sia stato facile gestire la sua presenza e che i primi momenti siano stati spiacevoli” sussurrò, abbassando di poco il tono della voce “Ma non avrei messo nulla di meno della mia intera volontà per ricompensare il dono fattomi dal Grande Satana”.
“Se il generale Mistobaan fosse ancora tra di voi sono convinta che esclamerebbe qualcosa simile a La fede per il Grande Satana Baan può questo e altro, ma credo che non si tratti di pura forza di volontà. Altrimenti non saremmo nemmeno qui a parlarne”.
Anni addietro, quando Boba mise per la prima volta al collo quella catena … chissà, forse aveva pensato persino che fosse un uomo dalla volontà forte. Forse – o certamente, chi poteva dirlo- aveva ancora troppo impresso il ricordo di Jango per poter dubitare della sua forza d’animo. Non conosceva affatto il ragazzo dai capelli chiarissimi che le sedeva di fronte, ma era abbastanza chiaro che avesse abbastanza tempra nelle dita di una mano da far vacillare quella di Boba e dei suoi amici, eppure stava mancando completamente il punto del problema. Per un istante il suo sguardo cercò quello del Drago, ma la figura non aveva dato alcun cenno di muoversi.
“Dimmi. Riesci a sentirlo?”
“Sentire cosa?”
“L’Angelo”.
Dovette aver colpito qualcosa, perché la sua espressione diffidente ma spavalda fu attraversata da un velo grigio.
“Sogna, non è vero?”
“Dunque hai provato anche tu il potere del Puzzle?”
“Non io” disse Zam, spostandosi nella sua posizione seduta per recuperare un po’ di equilibrio. “Ma qualcuno vicino a me è stato il precedente possessore di quell’artefatto. Mi ha raccontato di quei pensieri, se vogliamo chiamarli. Di quelle immagini che ogni tanto gli venivano alla mente, posti che non aveva mai visto in vita sua e uomini di cui non intuiva nemmeno il linguaggio”.
L’altro lasciò lentamente la presa sul Puzzle, gli occhi che abbandonarono i suoi per fissare un punto imprecisato tra le proprie mani: Zam Wesell sapeva di aver toccato il tasto giusto, e non poteva permettersi di sbagliare.
Sebbene il guerriero fosse un soldato leale solo e soltanto alla famiglia demoniaca, aveva contribuito a restituirle la vita.
Non gli avrebbe mai permesso di gettare la propria al vento.
La cambiatrice di forma si limitò ad attendere, lasciando che le iridi del suo interlocutore si muovessero in linea con i propri pensieri. Il giovane riprese a parlare dopo pochi secondi, ancora una volta con la voce oscillante tra la leggera riverenza ed il dubbio. “Non ho negato la sua presenza. Qualcosa di lui cerca di affacciarsi, ma non è nulla di insopportabile. Credo siano ricordi, per lo più: un deserto quasi senza fine, ed il cielo di un azzurro senza nuvole …” disse.
Alla loro destra, Baran mosse leggermente il capo.
“Sono cosciente di star prendendo in prestito i poteri di qualcun altro”.
“E nonostante questo non ti preoccupano le sue intenzioni? Qualunque creatura, potente o meno …” fece Zam, soffermandosi per essere sicura dell’attenzione di tutti “…non può tollerare che qualcosa di suo venga preso senza permesso. Il Puzzle ti sta concedendo di attingere al potere di una creatura più potente di te, generale Hyunkel. Più potente anche di me. Forse anche del Cavaliere del Drago stesso. L’Angelo è incatenato a questo artefatto e tu a lui. Non permettere che ti trascini sul fondo”.
“Hyunkel sa badare a se stesso”.
La donna non trattenne un movimento brusco nel sentire la voce del nuovo arrivato.
La figura che apparve sulla soglia della caverna era un giovane demone che non aveva mai visto fino a quel momento. Alto, con i muscoli delle braccia e delle gambe che non nascondevano il suo ruolo di guerriero: si muoveva nella Caverna del Drago in maniera naturale, istintiva, privo della leggera deferenza che aveva notato nei passi di Hyunkel e di Hadler. La pelle violacea giocava uno strano contrasto con i capelli biondi e scompigliati, un contrasto davvero particolare considerata l’armonia che spesso regnava nelle figure dei demoni.
Sulla tunica, reso ancora più evidente dal riflesso della fiamma della torcia lungo l’ingresso, scintillava un diadema dorato, modellato nella forma di testa di drago; lo stesso gioiello che anche Borahorn e Gurdandy sfoggiavano con orgoglio, e che ricordava il diadema di battaglia del Cavaliere del Drago.
Zam non poté fare a meno di voltarsi verso il Generale Baran.
Quanti giorni si trovava lì? Forse mesi.
Eppure in nessun momento lo aveva mai visto sorridere in quel modo.
“Bentornato, Larhalt”.
 




“... a questo punto puoi disegnare la quarta runa, ma attenzione: questa è singola, non in coppia come le precedenti, e va tracciata solo sul lato destro del cerchio. È il simbolo che dovrai toccare per attivare la reazione. Ecco, prova.”
Lavok aveva un modo buffo di concentrarsi: socchiudeva gli occhi come se fosse miope e incurvava le spalle fino a portare il naso a pochi centimetri dal foglio su cui si stavano esercitando a tracciare il cerchio. A Vexen ricordò le smorfie di Camus la prima volta che gli aveva insegnato a usare un microscopio.
Anche il livello di entusiasmo era molto simile.
“Li vedo! Li vedo! I batteri stanno attaccando la cellula proprio come lei aveva detto!”
“Incredibile! Si è liquefatto! Un pezzo di metallo, senza la minima fonte di calore… liquefatto!”
Per un soffio Lavok non lo aveva centrato con una gomitata mentre saltava in piedi con lo stesso slancio di un tifoso che esulta alla vittoria della propria squadra.
“Non staccare le mani dal cerchio finché non sei certo che la reazione sia completa” lo ammonì Vexen, indicando l’ultimo pezzo di rame che galleggiava placido nel metallo fuso. “In questo caso un pezzo del reagente è rimasto allo stato solido. Nulla di irrimediabile. Con trasmutazioni di tipo diverso gli effetti potrebbero essere più… rilevanti.”
“Incredibile” ripeté Lavok, la voce ora ridotta a un sussurro reverente.
Vexen si chinò a sua volta sul tavolo e posò il dito accanto alla runa di attivazione, senza toccarla. “Adesso prova ad invertire la trasmutazione. Esattamente lo stesso procedimento di prima, ma a ritroso. Ricorda, ogni cerchio è in grado di catalizzare una reazione e il suo esatto opposto, senza bisogno di apportare modifiche ai simboli. Ci sono delle eccezioni, ma sono casi avanzati di cui per il momento non abbiamo bisogno di preoccuparci.”
Lavok posò la mano sul cerchio e chiuse gli occhi. Vexen lo vide borbottare qualcosa tra sé e sé, e un attimo dopo le rune si illuminarono di un tenue bagliore viola e il pezzo di rame tornò a solidificarsi.
Riaperti gli occhi, il mago fece una smorfia delusa. “Si è deformato.”
Con attenzione Vexen rimosse il pezzetto di metallo dal cerchio e lo osservò sotto la lampada al neon che pendeva dal soffitto. Aveva l’aspetto di un pezzo di plastilina caduto vittima delle ditate di un bambino, ma la consistenza e il colore erano quelli del rame con cui avevano iniziato l’esperimento.
“Trasmutare delle forme precise richiede maggiore pratica. È lì che la tua concentrazione gioca un ruolo cruciale. Devi visualizzarlo nella mente nei minimi dettagli. Il passaggio di stato è avvenuto alla perfezione, comunque” sorrise, porgendo il pezzo di metallo a Lavok perché lo osservasse a sua volta. “Non male come primo tentativo.”
“Ci sai davvero fare.”
Vexen si lasciò sfuggire una risatina compiaciuta. “Studio alchimia da una vita.”
Il mago scosse la testa. Reggeva il pezzo di rame tra le mani a coppa, come una reliquia preziosa. “Intendo dire come insegnante. Dovresti trovarti degli allievi. Magari aprire una scuola di alchimia, o qualcosa del genere.”
Stavolta lo scienziato rise a pieni polmoni: “Ed essere circondato tutto il giorno da ragazzini che fanno domande idiote? No grazie!”
Lo sguardo di Lavok però era serio. “Pensaci. Sei uno dei pochi depositari di questa scienza. L’unico, per quanto ne sappia. Di certo non esistono corsi universitari di alchimia nei mondi principali della Galassia. E nemmeno sui pianeti più ‘magici’, come il mio o la Terra II, se ne è mai sentito parlare. In un certo senso è come se…”
Vexen stroncò il suo entusiasmo prima che potesse terminare. “Se stai per dire qualcosa come “dovere” o “responsabilità”, sappi che queste solfe da ribelle su di me non attaccano.”
“E allora perché lo fai?”
Semplice, diretto. Ancora una volta Vexen vide gli occhi azzurri di Camus brillare dietro quelli scuri del mago, come se lo stessero trafiggendo da una distanza siderale. Deglutì, senza dire nulla.
Probabilmente fiutando la sua esitazione, Lavok lo incalzò. “Il piacere della ricerca è una gran cosa, sono il primo a sostenerlo. Ma una conoscenza non condivisa con nessuno a cosa serve?”
Vexen pensò che la sorte aveva davvero un senso dell’umorismo perverso. Che Lavok gli ritorcesse contro la stessa argomentazione con cui lui stesso anni prima aveva cercato di convincere il Superiore ad aprire le Stanze della Memoria era un’ingiustizia di proporzioni capitali. Si accorse di aver stretto nel pugno il pezzo di carta del cerchio alchemico, fino a farlo diventare una pallina minuscola. Si sarebbe sentito meno offeso se il mago lo avesse schiaffeggiato.
“Sono sicuro che da scienziato capisci benissimo cosa voglio dire.”
Vexen continuò a tormentare il povero pezzo di carta tra le dita. O quello, o il collo di Lavok.
“Ho scritto più di un libro sull’alchimia” disse infine, sulla difensiva. “In più ci sono tutti quelli su cui ho imparato io. Non è una conoscenza che rischia di morire.”
Perché diavolo mi sto giustificando adesso?!
“I libri non sono alla portata di tutti” sospirò Lavok.
“Nemmeno l’alchimia, se è per questo.”
I ribelli come lui la facevano sempre facile. Per la seconda volta in una manciata di giorni lo scienziato si ritrovò ad accarezzare il ricordo di una vita mai vissuta, una carriera universitaria, laboratori di ultima generazione, orde di allievi adoranti che pendevano dalle sue labbra.
Da qualche parte in un altro universo doveva pur esserci un Vexen che si stava godendo ciò che a lui era stato negato.
“Per insegnare occorrono allievi con un minimo di capacità” proseguì dopo un attimo. “Difficile, in un mondo in cui ti prendono a sassate se solo osi recitare la tavola periodica.” Sputò quelle ultime parole insieme a tutto il disprezzo di cui era capace.
Lavok sollevò i palmi delle mani in un gesto conciliante. Aveva ancora il pezzetto di rame stretto tra pollice e indice.
“D’accordo, d’accordo. Ho esagerato. Mi sono lasciato trasportare dall’entusiasmo. Ti chiedo scusa. È solo che…”
Il mago si sedette, passandosi una mano tra i capelli per riordinare i pensieri. Era strano quel contrasto nella sua figura, gli occhi scintillanti di un bambino curioso incorniciati dalle linee che anni e stanchezza gli avevano inciso sulle tempie e gli zigomi, tra i capelli striati di bianco.
Per Vexen, in qualche modo, era come guardarsi allo specchio.
“È solo che penso a tutto quello che mi hai mostrato nell’ultima ora e mi rendo conto che… ho avuto una fortuna enorme a incontrarti. Mi sento quasi sprecato a beneficiare di questa conoscenza. L’alchimia meriterebbe di essere studiata da un capo all’altro della Galassia.”
“Su questo almeno siamo d’accordo.”
Vexen aveva appoggiato la schiena al bordo del tavolo, incrociando le braccia.
“Mi dispiace, comunque. Per quello che mi dici del tuo mondo. Non sembra un posto molto amico del progresso.”
Il tono del mago sembrava sinceramente addolorato. Probabilmente lo era. Ribelli.
“Per usare un eufemismo.”
Aveva capito cosa lo aveva fatto montare su tutte le furie. Non era il moralismo di Lavok, e nemmeno il ricordo della sua giovinezza sul suo stupido pianeta. Poteva nascondersi dietro quegli alibi, certo. Prendersela con i preti, o con il volgo che non capiva il suo genio. Recriminare che il mondo non gli avesse dato nessuna possibilità di brillare.
La verità era che aveva avuto il Castello dell’Oblio.
Avrebbe potuto cambiare il suo destino in un battito di ciglia, nello spazio del gesto casuale e inconscio che serviva ad aprire un portale di tenebra.
Invece aveva scelto di trascorrere quegli anni rintanato nel laboratorio o viaggiando tra i mondi impalpabile come un fantasma, senza lasciare traccia, ingrassando di saperi e conoscenze che al momento di compiere le sue scelte si erano rivelati…
… assolutamente inutili.
Con la scusa di riordinare i gessetti e le matite sul tavolo voltò discretamente le spalle a Lavok. Sarebbe potuto scoppiare a ridere da un momento all’altro. O a piangere.
Non ne aveva idea nemmeno lui.
Era quello il motivo per cui negli anni si era attaccato a Zexion, e poi a Camus? Loro erano, in piccolo, il pubblico adorante di cui il Vexen di un altro universo riceveva ogni giorno gli applausi?
Il sibilo della porta automatica che si apriva lo salvò dall’imbarazzo di quel silenzio lunghissimo.
Freki e Valygar erano tornati dal giro di approvvigionamento.
“Scusate, ci abbiamo messo una vita. Ma non potevamo non concordare il piano con il principe Xizor.”
Freki non si fece nessunissimo problema a posargli un rapido bacio sulle labbra mentre gli consegnava un voluminoso involto di plastica trasparente, che le sue braccia accettarono automaticamente. Se i Corthala ne rimasero stupiti, furono molto bravi a non darlo a vedere.
“I vestiti per il casinò. Giuro che sono molto più discreti di quelli della scorsa volta.”
Vexen annuì senza convinzione, ma la trattenne delicatamente per il braccio quando lei stava per allontanarsi. Il ricordo della notte trascorsa insieme sembrava risalire a secoli prima. Qualsiasi sollievo vi avesse ricavato si era dissolto come una bolla di sapone.
“Tutto bene?” domandò lei a voce più bassa. Adesso lo scrutava con una certa apprensione, e Vexen si chiese in che stato pietoso dovesse essere la sua faccia. Alle sue spalle, i Corthala erano impegnati a scartare le confezioni di plastica che contenevano i loro abiti per la missione.
“Non il mio momento migliore” ammise, e sotto l’involto di plastica sentì le mani di lei muoversi per stringere delicatamente le sue.
“Se ne hai bisogno, io ci sono.”
Vexen si concesse ancora un attimo per assaporare quel contatto, come una pianta che cerca di trarre attraverso le radici il massimo nutrimento possibile. Poi la lasciò andare e si schiarì un paio di volte la voce.
Basta crogiolarsi nell’autocommiserazione.
“Dunque” disse rivolto a tutti e a nessuno in particolare. “Prima di iniziare sarebbe il caso di fare un breve riepilogo degli obiettivi e delle informazioni in nostro possesso.”
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 - Dimostrazione, ma di cosa? ***


Capitolo 27 - Dimostrazione, ma di cosa?







Sephiroth






“Come … come ti senti?”
La voce di Zam gli arrivò come un rimbombo. Scosse la testa, distogliendo lo sguardo dalla propria immagine riflessa nel vetro di trasparacciaio dell’Hunting Dog; l’incrociatore stava completando le manovre di imbarco e non sarebbe ripartito prima di un paio d’ore, ma non era né il panorama di Coruscant all’imbrunire, né il leggero rollio dello Star Destroyer a catturare l’attenzione del cacciatore di taglie.
Guardò verso il basso, cogliendo i dettagli delle sue nuove mani. Belle, perfette, con delle dita più lunghe almeno di una falange; erano sue, s’intende, si muovevano al suo comando fino a picchiettare leggermente sul vetro, eppure il leggero formicolio all’altezza delle giunture non gli conferiva alcuna sicurezza.
Con la coda dell’occhio notò che il suo gesto aveva allarmato una coppia di assaltatori alle sue spalle. Riflesse nel trasparacciaio vide le loro figure muoversi di scatto e volgere gli sguardi coperti dagli elmi nella sua direzione senza rendersi conto di essere osservati a loro volta. Si accorse che si stavano scambiando alcuni commenti nei comlink interni, ma non si mosse finché entrambi non improvvisarono un saluto e lasciarono la stanza privi della normale efficienza e coordinazione dei soldati dell’Impero. Anche Zam doveva essersi accorta della cosa, perché con uno strano sorriso gli venne accanto “Credo che darai all’intero battaglione qualcosa di cui parlare per i prossimi tre anni”
“Tarkin li farebbe degradare. Dovrebbero essere addestrati a non stupirsi di nulla”.
“Beh, non sei esattamente … nulla
L’essere riflesso nello specchio gli restituì lo sguardo.
Erano passate forse due settimane da quando aveva completato il Puzzle del Millennio, ma all’Imperatore erano bastati pochi giorni per rendersi conto delle potenzialità dell’artefatto.
Il corpo di Boba era cambiato.
La prima sensazione che aveva avvertito era stata una leggerezza incredibile. I kaminoani lo avevano immediatamente sottoposto a qualunque analisi medica immaginabile, e gli avevano confermato che le sue ossa avevano subito una metamorfosi al limite del patologico; se lo strato esterno si era addirittura inspessito, l’interno aveva perso la propria componente midollare strutturandosi in compartimenti cavi. Era stata Zam a suggerire la somiglianza con l’ossatura dei volatili, e l’enorme, unica ala nera che gli era spuntata dal nulla al di sotto della scapola destra non aveva fatto altro che aumentare i suoi sospetti. Di riflesso provò ad estenderla guardandosi nel trasparacciaio, ma ancora il controllo di quell’escrescenza inguardabile era labile e se Zam non si fosse scansata in tempo la avrebbe colpita con una delle spesse piume scure. Le avevano ovviamente fatte scansionare e analizzare dal dipartimento di Biologia Galattica della capitale, ma dopo due settimane nessuno dei ricercatori aveva trovato alcuna somiglianza con le diverse migliaia di sequenze genetiche catalogate nei loro archivi. Il fatto che il Puzzle gli avesse impiantato soltanto un’ala aveva reso sia Zam che Boba piuttosto scettici, perché qualunque tentativo di sollevarsi da terra si era rivelato fallimentare.
La pelle stessa si era fatta diafana, stranamente fresca al tocco. Una peluria quasi impalpabile lo ricopriva ovunque, ed a tratti Boba aveva avuto l’impressione che su di essa scorresse qualche leggera forma di energia, energia che ricordava moltissimo le cariche di magia che talvolta aveva percepito in presenza di alcuni incantatori. E se i lineamenti del suo viso sembravano trasfigurati, i lunghi capelli tra il bianco e l’argento che avevano preso il posto della sua semplice chioma scura avevano qualcosa di effimero e contemporaneamente fuori posto su quello strano corpo. L’Imperatore gli aveva conferito l’ordine perentorio di non rimuovere il Puzzle dalla catena che portava intorno al collo, e nonostante fossero passati diversi giorni ancora non riusciva a capacitarsi che quella creatura fosse proprio lui.
“Quanto tempo credi che ti farà rimanere in questo stato?”
Zam gli tornò vicino, fissandolo con espressione critica. Era stata al suo fianco durante la sua primissima trasformazione quella sera a Kamino ed era stata la prima a chiamare i soccorsi, ma da quel momento in poi aveva continuato stare al suo fianco come se ci fosse ancora il vecchio Boba. “Ti preferivo come eri prima”.
“Suppongo che a fine missione potrò levarmi questo Puzzle dal collo”
“Chi lo sa …”
La voce di lei si fece seria. Boba si chiese se i suoi occhi fossero fissi sul riflesso della strana creatura, oppure se fossero persi da qualche altra parte. “Non ho idea in cosa tu ti sia trasformato, ma sei un’arma. E le armi esistono per essere usate”.
Un fischio lungo, ripetuto, troncò la conversazione. Le manovre di imbarco erano terminate, e la Hunting Dog si preparava a sganciarsi dal molo di atterraggio. Alle loro spalle comparvero di nuovo degli assaltatori, ma attraversarono il comparto stavolta senza degnarli di alcuna attenzione; alcuni droidi fluttuarono alle loro spalle, ed una decina di astromeccanici sfrecciò accanto a loro per attivare le manovre di volo.
Un droide protocollare -chiaramente non curante del suo nuovo aspetto- si avvicinò a loro e gli porse l’olomappa. “Il piano di volo fino a Onderon, governatore Fett” disse “Con le modifiche apportate dal professor Lemelisk al sistema di iperguida, il tempo stimato di viaggio è di due ore e quattordici minuti”.
Boba osservò la mappa distrattamente, lasciandola subito nelle mani di Zam mentre il droide si allontanava. La donna scrutò l’ologramma, ingrandendo l’immagine del pianeta finché l’immagine non divenne grande come la sua stessa testa. Duxun, la luna primaria di Onderon, orbitò nella ricostruzione: il cacciatore di taglie vi si era recato un paio di volte nella sua vita e si era trattenuto al massimo per pochi giorni, e non era mai riuscito ad apprezzare il Bacio, l’evento annuale in cui l’orbita di Duxun portava il satellite così vicino al pianeta madre da consentire uno scambio di atmosfere. Sapeva dai dati che probabilmente in quel periodo i volatili più robusti di Onderon compissero perfino una migrazione tra il pianeta e la sua luna, ma non erano chiaramente in viaggio per apprezzare la fauna locale. Anche dall’olografia, immerse nel verde delle foreste e nel bruno delle distese rocciose, le enormi mura di Iziz, la capitale-fortezza di Onderon, erano ben visibili. “Boba …” la voce di Zam si fece ancora più bassa. “… cosa esattamente l’Imperatore vuole che tu faccia?”
“Una dimostrazione. Testeremo le potenzialità di questo nuovo corpo e …”
“Una dimostrazione su cosa?”
“Suppongo …”
Lei gli venne davanti, frapponendosi tra lui ed il riflesso. Con questo nuovo corpo Boba si ritrovava a sovrastarla di oltre una testa e si ritrovò costretto ad abbassare il capo per incontrare i suoi occhi. Nascondere le proprie emozioni era mal visto nella tradizione Mabari, e non serviva la sua esperienza da combattente nel rendersi conto che la donna minuta stava facendo un grosso sforzo per non afferrargli l’abito con le mani ed attaccarlo. “Non supporre”
La sua voce si era trasformata in un sibilo.
“Dimmi che ordini hai ricevuto, Boba”.
Un portellone si aprì alla loro destra.
Un rumore forte, temibile, attirò l’attenzione del Governatore Fett anche più dello sguardo omicida che la donna gli stava lanciando e costrinse entrambi a voltarsi.
Il nuovo arrivato era scortato da una coppia di assaltatori che furono rapidi a fargli ala, lasciando che i passi forti, marcati e metallici rimbombassero lungo il duracciaio del ponte dello Star Destroyer. Il rumore proveniva dal respiratore artificiale di metallo nero che la figura indossava, avvolta da una tetra armatura dello stesso colore. Avvolto da un fluttuante mantello nero, Darth Vader, Signore Oscuro dei Sith e braccio operativo dell’Imperatore Palpatine, fece il suo ingresso con lo stesso passo di marcia con cui la sua semplice presenza poneva fine a molte battaglie.
L’Imperatore lo aveva avvisato che il comando operativo della missione su Onderon sarebbe stato affidato a qualcuno di sua espressa fiducia, ma delle tante persone che Boba avrebbe potuto elencare … “Lord Vader. Credevo si trovasse su Ord Mantell per la questione del …”
“L’opposizione è stata stroncata con successo, Governatore Fett. L’Imperatore mi ha affidato il comando della Hunting Dog e del suo nuovo corpo”.
Boba resistette al mordersi il labbro.
Non tutti i Sith erano disponibili come Darth Maul o flessibili come Dooku.
“Mi sono stati comunicati i risultati dei suoi test. Le proprietà che il Puzzle del Millennio le ha conferito hanno superato le migliori aspettative. Useremo questa sua evoluzione per gestire le trattative con la Regina Talia di Onderon nell’arco di massimo due giorni” disse Vader, avvicinandosi a lui. La sua maschera spaventosa era incredibilmente lucida, e per un attimo Boba vide i suoi nuovi occhi, verdi e lucenti, specchiarsi lungo la superficie del cranio del suo diretto superiore. “L’Imperatore si aspetta un successo senza precedenti”.
Boba non rispose, trattenendo il respiro.
Fu un movimento a malapena percettibile, ma nell’esatto istante in cui Lord Vader si era avvicinato a lui, chiaramente entrando nel suo spazio personale, Zam si era curvata in avanti. Non aveva sentito la necessità di comunicarle che sarebbero stati sottoposti all’autorità di qualcun altro -cosa che aveva dato per scontata- ma di certo non aveva avuto opportunità di avvisare la donna del ruolo rivestito dal Signore dei Sith, né quanto fosse inopportuno contrariarlo.
Anche Vader dovette accorgersi del movimento, perché la maschera nera ed il respiratore si spostarono verso di lei, ma la donna non fece alcun inchino né chinò il capo e al cuore di Boba mancarono almeno tre battiti.
Aveva visto ufficiali soffocati per molto meno.
E se Zam avesse anche solo per errore mostrato i propri poteri …
“Il decollo è previsto tra tre minuti” disse Vader, sollevando l’indice della mano destra “Porti all’Impero la gloria ed il rispetto, Governatore Fett. Potremmo considerare maggiormente la sua utilità tra i Signori Oscuri, dopotutto”.
Si voltò con fare imperioso, e i soldati deputati alla sua scorta si affrettarono a precederlo all’uscita, tesi come corde di uno strumento; il rumore del respiratore artificiale echeggiò sul ponte per qualche altro minuto, coperto solo dai motori accesi dello Star Destroyer, e solo quando l’incrociatore si sollevò dalla piattaforma Boba si sentì abbastanza libero da tirare un sospiro di sollievo.
Sospiro di sollievo che fu costretto a riacciuffare nel momento in cui tornò di nuovo ad osservare Zam, ancora ignara del rischio che aveva appena fronteggiato. “Cos’è quella creatura, Boba?”
 
 
 
“Signorina Shandra, signorino Neos, siete pregati di accelerare il passo e seguirmi” fece la voce di AL-4YS, alzandosi di tono fino a superare il rumore che invadeva tutto il livello superiore “Comportatevi come da protocollo e non portate cose inutili”
“Ma il mio incrociatore …”
“Niente giocattoli, signorino Neos. Adesso seguitemi”
Boba e Tarkin avanzavano a passo svelto dietro il droide ed i bambini. Il governatore parlava nel comlink mentre con la mano destra inviava ordini su un pad, ma aveva insistito per andare con Boba fino alla piattaforma dove la Guivre attendeva l’imbarco dei piccoli passeggeri. Il piccolo incrociatore era stato disegnato sin dall’origine per dare meno nell’occhio degli Star Destroyer che puntualmente atterravano e decollavano dagli hangar militari del palazzo personale di Tarkin, ma allo stesso tempo godeva dei migliori armamenti disponibili ed i sistemi di deflettori potevano assorbire i danni anche di corvette due volte la sua taglia. Boba si era proposto di imbarcare i bambini sulla Slave I in caso di emergenza, ma Tarkin aveva ribattuto più volte che la sua nave personale era troppo riconoscibile per essere ignorata.
Il cacciatore di taglie superò il gruppetto per ispezionare rapidamente le truppe di scorta e controllare il raggio traente che avrebbe imbarcato i bambini e la loro balia, ma non poté lanciare uno sguardo indietro quando la piccola Shandra deviò dal percorso impostole da AL per piantarsi davanti a suo padre.
“Io voglio stare con te!”
Tarkin con un gesto netto spense il pad e si fermò a sua volta.
“Da quando in qua si discutono gli ordini di un superiore, Shandra?”
“Se davvero ci sono delle persone cattive che attaccano la nostra casa, io non voglio scappare. Voglio stare con te e aiutarti!”
“Il tuo zelo è ammirevole, ma talvolta la sola buona volontà e l’impegno possono non essere tutto, Shandra”.
L’uomo scoccò uno sguardo imperioso alle proprie spalle, e la bambina seguì gli occhi del genitore. “Se l’Imperatore fosse qui, adesso, la maggior parte delle nostre forze operative sarebbe deputata a difendere la sua persona. Le truppe del settore sono abili e preparate, ma non conosciamo né la tipologia di attacco né come o quando i nostri avversari verranno ad attentare al nostro palazzo. In una situazione di incertezza o svantaggio, il proteggere l’Imperatore porterebbe via uomini e mezzi che potrebbero risultare vitali alla vittoria. Capisci?”
La bambina dai capelli rossi portò una mano sotto il mento, prendendosi qualche secondo. Boba vide AL puntare i propri sensori ottici nella sua direzione -per essere un droide, l’aggettivo che al cacciatore di taglie venne in mente sarebbe stato apprensiva – ma anche la balia metallica sapeva bene che le continue scariche agitate dei propri circuiti non avevano il permesso di frapporsi tra il governatore e sua figlia. Shandra dopo diversi secondi guardò il padre, e annuì. “Ho capito. Non sappiamo che cosa aspettarci dai nemici, e se mi proteggessi qui consumeresti troppe truppe. E lo zio Boba e lo zio Maul devono proteggere te, perché i cattivi vogliono attaccare te”.
“Esatto. Conto su di te per allontanarti da qui, e mi aspetto che tu segua il protocollo. Ne va sia di te, che di Neos e di AL. Occupati di supervisionare loro due e che l’equipaggio svolga le manovre alla perfezione”.
“Ho capito”.
La bambina si staccò dal genitore e fece per ritornare dal suo droide, ma all’improvviso si girò.
“Papà?”
“Sì?”
“Quando sarò un po’ più grande smetterai di proteggermi? Non posso diventare un vero grand’ammiraglio se mi proteggi”.
“Prima diventa un grand’ammiraglio. Poi ritratteremo i termini della questione”.
Col segno che la conversazione era terminata, Tarkin puntò il dito verso AL ed il droide e si sentì pienamente autorizzata a prendere la bambina per mano ed indirizzarla verso il raggio traente. Boba congedò la squadra di sicurezza -aveva supervisionato i loro profili talmente tante volte da poter riconoscere gli assaltatori nonostante la divisa bianca e gli elmi- e rimase ad osservare il droide ripetere alla bambina un numero indefinito di istruzioni.
Poi guardò Neos, e si accorse che il piccolo guardava proprio nella sua direzione.
Scrollò le spalle, come se qualcosa lo avesse punto, e si portò al fianco di Tarkin.
“Ci vorranno almeno vent’anni prima che diventi grand’ammiraglio” fece il suo amico. Nonostante fosse tornato ad occuparsi del pad e avesse acceso di nuovo il comunicatore acustico, gli era rimasta un’ombra di sorriso in volto “Per quel momento avrò trovato una nuova scusa”.
“Non saprei dire se assomigli più a te o a Daala”.
“Non so quale delle due ipotesi sia la peggiore” fece. Spense di nuovo il comlink con un gesto del pollice. “Ma sono contento che Neos non abbia nulla di sua madre”.
Boba tacque, senza aggiungere altro.
Di Zam, Neos sembrava non aver preso molto, a parte il colore chiaro degli occhi. Non si era ancora mai trasformato, e forse quel tratto del suo materiale genetico era andato perduto, cosa di cui l’intero Trio Destroyer era stato ben contento. Finora il bambino non si era posto domande, ma un domani sarebbero arrivate delle richieste che nessuno di loro tre sarebbe mai stato in grado di risolvere appieno.
Lo sapeva, e così anche i suoi amici.
Ma, come diceva spesso Darth Maul, i problemi si affrontano quando arrivano.
Come per qualche strano scherzo della Forza, Maul apparve dal corridoio. “Vi stavo cercando. Shandra e Neos sono a bordo della Guivre?”
Boba annuì, e il Sith proseguì “I droidi di segnalazione hanno avvistato due nuclei di figure chiaramente sospette. Sono arrivate ai primi livelli con dei sistemi di identificazione falsi. Li abbiamo fatti salire come da protocollo”.
“Abbiamo delle immagini dalle olocamere?”
Prima ancora che Tarkin finisse di parlare, Maul accese il proprio proiettore e espanse la visuale. Due olocamere diverse puntavano due drappelli di uomini apparentemente identici a chiunque, uno di essi vestiti in maniera formale ed altri con delle divise di manutenzione. I sistemi visivi ingrandirono su tutte le loro facce. Tutti umani, tutti uomini, nessuna fisionomia con i principali ricercati. Boba scansionò l’immagine davanti a lui e rapidamente fece un consulto con la banca dati che da anni i cacciatori di taglie usavano per i ricercati più ufficiali, ma non ci fu nessun confronto positivo. “Non mi sembrano membri dell’Alleanza”.
“Quel Tolgerias non lo era. Cosa sappiamo di questa Alba Cremisi?”
“Non sono stati catalogati membri di spicco. È un’organizzazione criminale piuttosto giovane, e a parte qualche scaramuccia confinata al suolo di Coruscant non hanno mai intralciato le nostre attività” rispose Boba “Ho sentito nel giro. L’unica notizia confermata pare che da pochi mesi sia subentrato un nuovo boss. Più giovane, più aggressivo. Non si sa molto di lui, ma pare che la sua intraprendenza gli abbia fatto guadagnare consensi. Si vocifera che ci possa essere la sua mano dietro l’attentato al Vigo Xizor di qualche giorno fa, anche se si tratta solo di supposizioni”.
“Sospetti che questi uomini siano maghi?”
“Verosimile”.
Guardò Maul, e l’altro annuì. La spalla ancora gli doleva da impazzire nonostante gli antidolorifici, lo scontro con Tolgerias ed i suoi sottoposti era fin troppo fresco. La magia era l’unica incognita vera in tutta quella vicenda, perché Coruscant ed in generale i pianeti dell’Orlo Interno non avevano mai riportato da tempo incantatori riconosciuti; alcuni antropologi di Naboo avevano sospettato una naturale perdita delle facoltà magiche della popolazione con l’avanzamento tecnologico con numerose tesi e dimostrazioni che coinvolgevano persino la genesi della Forza, ma il risultato tangibile era che la magia era praticamente inesistente nei principali sistemi imperiali. Le tracce più potenti si trovavano in molti sistemi periferici, come la Terra II o l’Amn, senza citare spazi dimensionali separati come la terra d’origine di Kaspar. Maul tamburellò le dita sul visore “Le scansioni non riportano tracce di esplosivi o armi. Dunque le ipotesi sono due: o possono nasconderle ai nostri rilevatori …”
“… o non ne hanno bisogno” continuò Boba, ricordandosi del giovane mago che si era letteralmente distrutto davanti ai suoi occhi.
Tarkin si portò la mano sotto il mento, mentre tutti e tre entrarono nell’ascensore che li avrebbe condotti ai livelli inferiori. “E nonostante abbiate estorto informazioni a quel Tolgerias, non hanno ritirato l’attacco. O sono stupidi, oppure incredibilmente sicuri di loro. E in questi casi è bene pensare che si tratti della seconda ipotesi”.
“Non so se si aspettano un comitato di ricevimento, ma procediamo da prassi” fece Maul. “Tarkin, tu come al solito supervisionaci a distanza. Senza dubbio puntano a te, quindi isolati nell’area blindata e tieni d’occhio i movimenti di tutti. Se la Guivre è decollata, possiamo anche convogliare uno di quei gruppi agli hangar. Io seguo quelli diretti ai livelli inferiori, Boba è bene che segua questi” fece, indicando il drappello di maghi vestiti con abiti eleganti, chiaramente diretti ai settori dove di norma la gente veniva a supplicare favori ai bureau governativi. “Catturiamone uno di ogni drappello. Gli altri possono essere terminati”.
I tre annuirono, ed il cacciatore di taglie prese l’ascensore per i livelli indicati. Fissò ancora una volta i visi degli assalitori nella speranza che i loro lineamenti potessero suggerirgli qualcosa, ma ancora una volta nulla gli venne in aiuto. Se davvero si trattava di un attacco a Tarkin -e la visione di Tolgerias era stata chiarissima- non aveva nulla a che vedere con lo stile dell’Alleanza Ribelle. E, per quanto il Grande Satana fosse stato sconfitto, eventuali demoni in cerca di vendetta sarebbero stati più che riconoscibili.
Il gruppo che doveva bloccare si stava dirigendo in una delle aree a maggior contenuto di civili degli alloggi del Governatore, e questo si distaccava ancora di più dalle tattiche dei Ribelli, più inclini a sollevare rivolte che lasciarsi esplodere davanti a gente potenzialmente innocente.
Un ufficiale gli venne incontro. “Governatore, la squadra è in posizione come da ordini. Dobbiamo far evacuare i visitatori?”
“Non ce ne sarà bisogno. Insospettiremo gli intrusi”.
Il percorso dei maghi sarebbe stato guidato. Come tutti i visitatori pubblici sarebbero dovuti passare per i corridoi 174 e 175, al termine dei quali il bureau di smistamento avrebbe dovuto porre i normali questionari sulle motivazioni dell’ingresso ed ovviamente sarebbe stata attuata dai droidi l’intera procedura per controllare la presenza di armi o di oggetti sospetti, e Boba era certo che al punto di controllo tutti loro sarebbero risultati puliti. Erano in quattro, vestiti con abiti che potevano ricordare l’aristocrazia di Naboo, e si muovevano a passo lento, chinando la testa alle indicazioni dei droidi protocollari, senza mostrare alcun cenno di voler compiere strane azioni nei corridoi.
I varchi si aprirono come da ordine, lasciandoli avanzare. L’ufficiale gli porse di nuovo l’olografia, indicando le truppe di supporto pronte a intervenire e mostrando i livelli di deflettori caricati al massimo da attivare nel momento in cui gli incantatori avrebbero senza dubbio cercato di opporre resistenza.
Quando imboccarono l’ascensore PZ-U15, il cacciatore di taglie diede cenno di procedere e si avviò con una decina di uomini e droidi al piano di uscita, dando ordine alla centrale operativa di rallentare la salita dell’ascensore per il tempo dovuto alla preparazione. Dall’altro lato del comlink, sentì Tarkin dare ordine di bloccare l’ascensore nell’esatto momento in cui si fossero aperte le porte per impedire agli assalitori di fuggire, e quando queste si aprirono si fece avanti, blaster alla mano “Vi consiglio di arrendervi. Ora”.
I quattro uomini mossero le mani quasi all’unisono. Nel farlo l’uomo vide quattro pendenti identici sui loro petti, le stesse gemme dei loro aggressori a Coruscant.
Il familiare sesto senso che lo avvertiva dell’utilizzo della magia in arrivo fece il resto “Come al solito buone maniere fallite. Me ne basta solo uno vivo” disse ai suoi uomini.
Questi aprirono il fuoco.
Uno dei maghi si mosse in avanti, ma un’unità astromeccanica si frappose e gli tagliò la strada. Quello sprigionò una fiammata rapida con le mani che fece indietreggiare di scatto gli assaltatori, ma il droide rimase in posizione e cercò di spingerlo con la sua semplice presenza. Gli altri incantatori dentro l’ascensore avevano eretto una barriera molto simile a quella che il cacciatore aveva visto nei bassifondi, ma tutto sembravano fuorché preoccupati o sorpresi: nessuno di essi cercò minimamente di far ripartire l’ascensore, e quello più lontano dai blaster mormorò qualcosa con una mano puntata al soffitto ed una alla base. Boba d’istinto rinfoderò il blaster e strappò ad uno dei suoi sottoposti una picca ad energia, con l’idea di scaricarla contro la barriera e forzarla a modo suo. Il mago che si era scontrato contro il droide era fuori dalla protezione, e prima ancora che la sua gemma rossa potesse illuminarsi e farlo esplodere uno dei suoi uomini gli fu addosso e gli abbatté il calcio di un fulminatore contro la testa per circa tre volte, finché quello non si accasciò immobile sul pavimento.
Uno dei maghi fece saettare qualcosa verso di lui, ma Boba si chinò, spostandosi verso destra e lasciando che il colpo si scaricasse contro una parete. Piantò la picca contro la barriera rossastra, lo sguardo fisso verso il mago con le mani impegnate, liberando di colpo tutte le celle di energia dell’arma che fischiò per l’aumento di potenza improvviso. Il cacciatore di taglie mollò la presa tutto d’un colpo, allontanandosi di pochi passi e osservando l’arma praticamente a mezz’aria riempire lo spazio circostante di scariche violacee. Al suo cenno gli uomini aumentarono il fuoco e lui steso riprese il blaster, riparandosi dai loro attacchi resi meno precisi dalla nube energetica creatasi.
“Tarkin, chiudiamola qui!” gridò, attaccandosi al comlink “Fai crollare l’ascens …”
La picca energetica esplose.
Per un attimo la visuale si fece bianca, ed i visori plineali captarono solo dei movimenti rapidissimi all’interno dello spazio ristretto dell’ascensore. I suoi uomini si rimisero in piedi velocemente, sparando una raffica violenta dove la barriera ormai non esisteva più, ma bastò un’occhiata generale per capire che i loro nemici non si trovavano più lì.
Il duracciaio dell’ascensore, pensato per resistere anche a delle granate di base, era stato divelto sulla sommità e sulla base proprio dove quel mago stava compiendo il suo rituale; il metallo sembrava liquefatto, e lungo i bordi vi era una traccia nera simile a quella che lanciava l’acido ukbar contro le superfici d’acciaio. Guardò in alto, e due degli incantatori stavano letteralmente levitando all’interno dello spazio degli ascensori, diretti ai piani superiori, mentre un altro stava discendendo a tutta velocità verso quelli inferiori.
“Fottuta levitazione!” gridò Boba, preparando lo zaino a razzo per l’inseguimento.
Il comlink di Tarkin trillò dentro l’elmo “Mando un drappello ad ogni maledetta uscita”
“Quanti piani sono?”
“Novecentosettantuno, dalla base nei bassifondi alla sommità”
“Inseguo quello che sta scendendo”
“Negativo, Boba”
Fu la voce di Maul a intromettersi nella conversazione “Non ho idea di cosa stia facendo, ma sta incantando l’ascensore. Si aspettano che tu li segua. E qui sotto le cose non vanno benissimo!”
Una sequenza di esplosioni rimbombò nella comunicazione.
Boba lanciò una bestemmia, rendendosi conto che alle loro spalle era scoppiato il caos. Gli allarmi avevano preso a suonare quasi come ai tempi degli attacchi di Kaspar, le luci di emergenza facevano da padrone alla visuale e il rimbombo delle truppe mobilitate si sentiva lungo tutto il perimetro. Per tentativo sparò un colpo di blaster verso l’alto, solo per vedere qualcosa di simile ad una rete rossastra apparire dal nulla e disperdere l’energia in un’esplosione di scintille.
Gli uomini ai suoi ordini si allontanarono dall’ascensore, mandandosi istruzioni e dividendosi insieme ai rispettivi droidi. Gli assalitori potevano sbucare realisticamente da qualunque piano, e se avessero causato delle esplosioni anche negli ascensori circostanti …
Nella sala suonò il comando dell’evacuazione generale, e dalla vetrata vide le prime corvette iniziare ad alzare i deflettori ed accendere i motori. Qualche vittima civile sul piano sarebbe stata più che accettabile, ma dei maghi esplosivi lungo l’intero palazzo governativo avevano la potenzialità di mietere qualche decina di migliaia di vittime nel giro di pochissimi minuti.
Ancora una volta, la chiamata di Tarkin bloccò qualsiasi sua operazione. “Boba. Maul. La Guivre non risponde!”
“Cosa?” gridarono all’unisono.
“Totale silenzio radio. Ho notato una leggera variazione della rotta ed ho chiesto spiegazioni, ma non ci sono comunicazioni”.
“Il comlink di Shandra?”
“Negativo” sbraitò Tarkin. “I sistemi dicono che stanno tentando un lancio nell’iperspazio dall’atmosfera stessa. Meno di tre minuti a partire da adesso!”
Il cacciatore di taglie guardò all’esterno. Il minuscolo incrociatore era praticamente invisibile nel traffico aereo superiore di Coruscant. “Chi puoi mandare?”
“L’Oni e il Manticore gli sono dietro, ma non possono attivare il raggio traente con la nave ancora in atmosfera, e in tre minuti non riusciranno ad impedire il salto. Gli sto mandando dietro dei cacciatori TIE, ma non passeranno le difese della Guivre”.
“Loro no …”
Boba scattò in avanti, spintonando con tutta la forza che aveva un paio di droidi tra i piedi. Digitò i codici di sblocco, preparando la sua nave al decollo. “Ma la Slave forse sì”

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 - Qualcosa va lasciato indietro ***


Capitolo 28 - Qualcosa va lasciato indietro







Neos








La temperatura della Slave I aumentò in pochi istanti quando si spinse contro gli scudi della Guivre. Boba forzò al massimo i motori, con gli schermi del sistema di comando che si illuminarono di tutte le spie disponibili. Nessuna nave di piccola o media taglia sarebbe potuta entrare nei sistemi di difesa di un incrociatore, men che mai di uno pensato per difendere la figlia del Governatore Tarkin, ma Boba non si era fatto un nome tra i cacciatori di taglie senza motivo. I sistemi di raffreddamento entrarono in azione, impedendo alla nave di bloccarsi e perdere quota; gli scudi stessi della Slave si attivarono per impedire alle scariche plasmatiche della Guivre di sovraccaricare il veicolo, ma Boba sapeva che sarebbero bastati pochi secondi di troppo dentro quel campo plasmatico per morire.
Iniziò a sudare copiosamente anche sotto l’armatura, con gli occhi puntati sia al quadro comandi che ai cannoni dell’incrociatore: dalla nave non era partita nemmeno una scarica di turbolaser, ed anche adesso che l’ingresso della Slave non poteva essere passato inosservato nessun fuoco di difesa era stato mosso contro di lui, né i caccia TIE di stanza erano stati sguinzagliati contro di lui.
Qualunque cosa stesse succedendo a bordo della nave, doveva arrivare in tempo.
L’ultimo tratto di difesa si trasformò in un’esplosione di scintille: gli allarmi presero a suonare da ogni parte e per un attimo la sua visuale si fece bianca. I sensori dell’elmo si oscurarono per impedirgli un danno alla retina, ma la pelle sembrò andargli a fuoco lo stesso.
Quando riaprì gli occhi, la scia dei vapori di raffreddamento stava già ricoprendo il visore anteriore, ma lo scafo della Guivre era ancora a soli pochi metri da lui e nessun cannone era stato attivato. Ringraziando la sorte, si levò l’elmo e riprese a governare la nave soltanto con la propria vista. La consolle rispose ai suoi comandi nonostante la scarica subita, e Boba impostò i codici di apertura dell’hangar dell’incrociatore forniti da Tarkin: in meno di una manciata di secondi il ventre della nave si aprì per farlo passare, e il cacciatore di taglie si intrufolò senza nemmeno aspettare l’apertura completa del portellone.
Dal casco una vibrazione lo avvisò della comunicazione in arrivo e lo infilò. “Sono dentro”
“Grazie, amico mio”.
La voce di Tarkin giunse distorta dalle scariche, ma anche così non riuscì a nascondere la preoccupazione dietro il tono glaciale.
Boba controllò la cotta, lo zaino e le armi prima di uscire. I suoi parametri vitali erano controllati dall’armatura mandaloriana e sarebbero giunti al pad di Tarkin in tempo reale. “Nessun comitato d’accoglienza, al momento. Cosa pensi sia successo?”
“Se lo sapessi, avrei trovato una soluzione diversa dal mandarti alla cieca lì dentro”.
L’hangar era deserto.
I vari cacciatori TIE erano tutti alle loro postazioni, perfettamente ancorati alle piattaforme di partenza e con i cavi di posizionamento ancora inseriti. Le luci laterali dell’hangar erano in stato ottimale, come se non vi fossero stati segnali di emergenza, cortocircuiti o tentativi di sabotaggio dei quadri principali della nave. Lungo lo scafo delle piccole navi da guerra erano disposti un paio di droidi astromeccanici, spenti come da protocollo. Il cacciatore di taglie osservò frettolosamente tutto l’ambiente, illuminando il soffitto, ma nessun segno di colluttazione o spari era presente: chiunque avesse preso il controllo della Guivre, o aveva agito di sorpresa, o non era passato nell’hangar. L’unico rumore che si sentiva era il motore dell’attivazione dell’iperguida ed i suoi passi sul pavimento.
“Boba …”
La voce di Tarkin lo riportò subito all’attenzione.
“I tuoi sensori. Non levare il casco per nessun motivo”.
L’uomo attivò subito il sistema di riconoscimento aereo. Nella luce debole dell’ambiente non si era nemmeno accorto del dettaglio, protetto come sempre dalla sua cotta, ma all’avvertimento del suo amico si accorse della strana densità dell’aria che aveva probabilmente imputato soltanto allo stress subito dall’armatura durante l’ingresso. “Hanno rilasciato il dioxis, Tarkin!”
“Come è potuto succedere?”
“Potrebbe essere stato un incidente?”
“Un incidente sulla nave di MIA figlia?”
Boba imprecò tra i denti. Uno dei sistemi di difesa più estremi delle navi principali dell’Impero era il rilascio del dioxis, una variante non incendiaria -ma non per questo meno letale- del gas tibanna. Era pensato per difendersi da invasioni improvvise, e tutti i membri dell’equipaggio erano sempre dotati di un casco isolante ed un respiratore autonomo proprio per combattere anche in questa situazione. Ma, almeno nell’hangar in questione, non vi era alcun segno di combattimento o attacco che potesse far pensare all’attivazione difensiva delle scorte di dioxis.
“Merda!”
I corpi degli assaltatori erano accasciati in un angolo. Due di loro si trovavano accanto al portellone che avrebbe condotto ai livelli superiori, un terzo era seminascosto dall’ombra di un TIE. Boba corse nella loro direzione, sfoderando entrambi i blaster, e quando furono a portata osservò un dettaglio inquietante: tutti e tre gli uomini avevano il visore dei caschi saltato, come se delle cariche di blaster avessero puntato solo e soltanto le loro facce. Si ritrovò a fissare tre volti congestionati, le bocche tutte semi aperte come in un ultimo tentativo di recuperare dell’aria; la sclera degli occhi aveva assunto il colore violastro tipico dell’inalazione mortale di dioxis, e gli angoli della bocca e le labbra erano attraversate da rivoli rossastri delle minuscole ferite che si erano espanse lungo la pelle. Lasciò andare i corpi con un gesto di stizza, aprendo il portellone e lanciandosi nel corridoio.
Le superfici bianche degli interni della nave lo accolsero nella loro imperiale perfezione, rivelando dopo qualche istante almeno una dozzina di corpi nelle medesime condizioni, alcuni soldati con l’elmo distrutto ed alcuni cadetti privi di protezioni respiratorie che forse erano semplicemente morti sul colpo.
“Tarkin …”
“SONO IO IL RESPONSABILE DELLA SICUREZZA DELLA NAVE DI SHANDRA!”
Non ebbe il coraggio di rispondergli. O controbattere.
Avrebbe voluto che Maul fosse lì con loro, ma l’iridoniano era senza dubbio a caccia dei maghi per tutto il palazzo e forse per mezzo distretto. Il pensiero lo colpì come un fulmine. “L’attacco al palazzo che Maul ha visto nella testa di quel Tolgerias … era vero. Ma era solo una distrazione. Non eri tu il bersaglio, Tarkin!”
“CHI È CHE OSA ATTACCARE MIA FIGLIA?”
Boba trattenne il fiato.
Che non fossero i Ribelli, quello era scontato. Persino gli attivisti più operativi come Mon Mothma non avrebbero mai, mai preso di mira una bambina. Ed i nemici di Tarkin erano praticamente innumerevoli, ma al cacciatore di taglie non venne in mente nessuno che avrebbe avuto anche solo l’idea -o l’ardire- di pensare ad una cosa del genere. E nonostante Saruman e Dooku avessero ogni tanto cercato di mettere loro i bastoni tra le ruote, avrebbero piuttosto intasato di dioxis le stanze di Tarkin. Per quanto quell’Alba Cremisi fosse stata intraprendente anche solo a pensare di assaltare l’edificio più protetto della capitale galattica, l’avvicinarsi a Shandra sembrava una mossa davvero insolita per un cartello criminale così giovane, specie quando Tarkin per questioni di sicurezza aveva limitato quasi del tutto le apparizioni della bambina in pubblico proprio per evitare che potesse diventare un bersaglio.
Il cuore di Boba prese a battere con insistenza.
Digitò ordini a distanza alla Slave I, rilasciando dei codici forniti da Tarkin per l’emergenza. Il salto nell’iperspazio non sarebbe stato intercettabile se non prendendo il controllo della sala operativa, ma le frequenze della sua nave sarebbero state sufficienti a guadagnare qualche minuto prima che la Guivre potesse tentare il salto. L’incrociatore era stato costruito e disegnato proprio per poter effettuare salti in breve tempo, ed i punti nevralgici per la gestione dell’iperguida erano sulla plancia principale, verso la quale Boba si diresse.
Ovunque si voltasse, i cadaveri riempivano i ponti. I tassi di concentrazione del gas riportati dalla sua armatura segnalavano livelli critici e non compatibili con la maggior parte delle forme di vita umanoidi. Si costrinse a svoltare ogni bivio con cura, con l’idea che chiunque avesse distrutto gli elmi dei soldati avrebbe puntato per prima cosa a rimuovere anche il suo.
Quando mise piede lungo la plancia di comando, la prima cosa che vide -e sentì- fu la figura di Shandra.
La bambina era stata bloccata ad una delle sedie degli operatori con delle cinghie di fortuna. Il cacciatore di taglie la riconobbe soprattutto dalla voce e dal modo energico con cui gridava di essere liberata immediatamente, perché il capo era coperta dall’elmo di un assaltatore chiaramente troppo grande per lei. L’aria artificiale era satura di gas, ma il respiratore incorporato e la visiera sana permettevano alla piccola di gridare a pieni polmoni e cercare di scivolare tra una stretta e l’altra delle cinghie. La figura in piedi davanti ai comandi dell’iperguida, al contrario, non mostrava alcun cenno di fretta.
Boba puntò il blaster nella sua direzione. “Esigo una spiegazione, AL”
Il metallo chiaro del droide aveva assunto una colorazione tendente al violaceo a causa dell’esposizione al gas, e in esso riusciva a riflettere lo schermo principale dell’incrociatore in cui si rifletteva la nuova tempistica del salto dell’iperguida. Gli occhi artificiali erano accesi, ed al suono della sua voce il droide ritirò immediatamente le connessioni con il computer principale.
“Le possibilità che lei potesse intervenire erano del 9,7 %, Governatore Fett. Potrebbe rimuovere l’interferenza al salto della Guivre?”
“No” ringhiò “Ma posso farti esplodere quella testa di latta e farti riprogrammare dal primo hacker dei bassifondi. Vedi tu”.
Fece qualche passo verso Shandra senza smettere di prendere di mira il bersaglio. “Anzi, facciamo che io prendo la bambina, me ne vado, e tu puoi accendere l’iperguida e andartene al diavolo, che ne dici?”
“Impossibile”.
L’essere artificiale lo anticipò, portandosi davanti alla sua prigioniera, e uno schermo azzurro intorno al suo corpo segnalò l’attivazione di uno scudo deflettore. Il vano del petto si aprì, rivelando due fulminatori di calibro pesante luminosi e carichi che impugnò con entrambe le mani. “La signorina Shandra appartiene all’Alba Cremisi”.
Boba fissò lo schermo alle loro spalle.
Sette minuti al lancio.
“Tarkin, dovevi proprio armare il droide balia di tua figlia?”
Un’imprecazione arrivò da dentro il comunicatore. “Ha un programma difensivo e offensivo di un droide classe IG-88”
“Il migliore. Finché non ti spara contro”.
La raffica di laser arrivò tutta insieme. Come prevedibile l’avversario mirò alla sua testa, ma Boba si spostò. Una seconda raffica lo inseguì, disegnando cerchi di metallo bruciato alle sue spalle, e l’uomo rispose all’attacco scaricando la propria arma contro il deflettore di AL nell’intenzione di scaricarlo. L’aria tra di loro si caricò di scintille, segno che il dioxis stava reagendo alle scariche plasmatiche.
AL si muoveva con precisione. Spostava continuamente il proprio corpo tra Boba e la bambina, talvolta coprendo anche la distanza che la separava dal pannello di controllo. La forma degli arti tipica dei droidi protocollari -più spesse e meno equilibrate dei droidi da battaglia o dei veri classe IG- rendevano gli spostamenti leggermente meno equilibrati e veloci della media, e l’uomo contemplò l’idea di usare il lazo da caccia per impacciarne i movimenti, liberare la bambina e scappare. Digitò i comandi lungo la cotta per preparare l’azione, ma nell’esatto istante in cui lo sportello laterale si aprì per liberare il cavo, una raffica laser sparata dal palmo del droide si trasformò in un mare di scintille lungo il suo braccio mettendo fuori uso il meccanismo.
“Possibilità di utilizzo dei sistemi primari mandaloriani, 75,9%” decretò AL, spostando la sedia su cui era legata la bambina direttamente contro la plancia. “I suoi sistemi operativi di combattimento sono stati controllati ed analizzati, governatore Fett”.
Il cacciatore di taglie si ritrasse giusto in tempo per evitare una seconda scarica. La traiettoria laser disegnò un semicerchio perfetto intorno al droide ed a Shandra, e l’assenza di punti strategici dove difendersi o nascondersi lo rendeva decisamente vulnerabile in caso non fosse stato in grado di dare un assalto decisivo.
Attivò il livello di deflettori della cotta giusto in tempo per attutire l’impatto di una mina elettroplasmica lanciata direttamente contro di lui, e il campo per un attimo si illuminò di verde alterando la sua intera visuale.
“Ehi, AL, che stai facendo a Shandra?”
Per poco Boba non cadde all’indietro per sporgersi verso la stessa porta da cui era entrato, e non si ritrovò la testa staccata di netto soltanto perché anche il droide si voltò verso la figura che era apparsa. Con ancora uno dei suoi pupazzi preferiti tra le braccia, Neos li fissava da davanti al portellone spalancato.
Assolutamente a suo agio tra i fumi del dioxis senza alcun respiratore.
“Shandra, perché AL ti ha legata?”
La bambina mandò un verso da sotto il casco, ma le sue parole si persero nel nulla.
“Signorino Neos, lei dovrebbe essere morto al 100%. La sua sopravvivenza non era considerata necessaria per l’Alba Cremisi”.
Sul volto del bambino comparve un’espressione indescrivibile. Uno sguardo che Boba aveva visto mille altre volte, ma delineato nella bellezza dei lineamenti di sua madre.
Lo stesso modo di imbronciarsi che di solito preannunciava l’arrivo di una tempesta e uno spargimento di sangue, ma che sul viso di un bambino così piccolo sembrava solo così incredibilmente fuori posto. Da dentro il casco la voce di Tarkin ringhiò, resa forse ancora più minacciosa dalle scariche statiche causate dall’interferenza del deflettore. “Ci vuole ben più di un gas per buttare giù un clawdita. Non pensavo che anche Neos lo avesse ereditato, non è neanche …”
AL reagì prima che il cacciatore di taglie potesse sentire la fine del discorso. Un set di luci rossastre si aprì dal compartimento anteriore all’altezza del torso, e riconobbe subito l’estremità cremisi al centro dei detonatori in fase di lancio. Il sistema di puntamento laser dell’avversaria tornò di nuovo lungo la sua figura, ovvio segno che il bambino non fosse una minaccia per lei.
“Brutto droide, tu non devi fare queste cose a mia sorella, sai?”
Le parole di Neos si persero nei click che precedettero in rapida sequenza lo sgancio dei detonatori incendiari.
L’uomo saltò all’indietro, disattivando lo scudo deflettore per dare energia ai dissipatori idrici impiantati all’altezza laterale dello zaino a razzo, ma quello che vide prima ancora di riuscire ad estinguere parte del danno dei siluri lo lasciò senza fiato. Le scintille degli esplosivi nel suo campo visivo furono interamente avvolte da una fiammata così intensa che mandò i rilevatori termici dell’armatura oltre il limite della sicurezza e lo costrinsero ad appiattirsi contro una parete. Una sensazione ardente gli attraversò la pelle, e se non avesse avuto la cotta mandaloriana sarebbe probabilmente bruciato vivo sul posto. Nel punto in cui poco fa la minuscola forma di Neos era entrata in scena, un volatile fiammeggiante dal piumaggio rosso sbatteva le ali in maniera agitata; una seconda ondata di fuoco, intensa quanto la precedente, si scaricò contro il pavimento della Guivre, annerendo il duracciaio senza però bersagliare alcun nemico.
Le ali della fenice si mossero in maniera nervosa, priva di qualunque gesto aggraziato, un turbine di fiamme che si irradiavano dalla sua figura potenzialmente in grado di ucciderli tutti.
“Tarkin, non si era mai trasformato prima … vero?”
“Credi che avrei omesso un dettaglio di questa portata, Boba? Non aveva mai mutato prima”
Per un istante lo sguardo di Zam gli balenò nella testa, il modo di sorridere che destinava solo e soltanto al suo bambino.
La fenice era poco più piccola di lui, ma le fiamme erano incredibilmente alte, ben più di quanto Zam le mantenesse durante i combattimenti. Scosse la testa in maniera nervosa, e con un frullare di piume si portò sul soffitto della Guivre, rendendolo incandescente col solo impatto. L’attimo dopo aveva abbassato la quota, muovendosi nella direzione di AL con uno strano giro.
Era chiaro persino a lui che il bambino non avesse il controllo.
Il che, considerato in cosa il suo istinto lo avesse trasformato, poteva portarli tutti, Shandra inclusa, a morte certissima.
Zam aveva impiegato secoli a dominare le sue trasformazioni, a muoversi con corpi che non le appartenevano. Quando era bambino le aveva chiesto migliaia di volte come avesse imparato a volare, e lei gli rispondeva sempre che non era mai stata forte con i numeri, e per questo aveva perso il conto delle volte che si era trovata in una tanica di bacta per essere rimessa in sesto.
Che un bambino di nemmeno sei anni potesse gestire un volo e calibrare le fiamme della fenice faceva sembrare più probabile il vedere l’Imperatore ed il Grande Satana seduti insieme a discutere di termini di pace.
AL diresse i suoi sistemi di puntamento verso il nuovo avversario, e per Boba fu l’istante di cui aveva bisogno. Premette sul comando di accelerazione, e la spinta magnetica dell’armatura lo fece scattare verso la sedia a cui Shandra era legata.
“Non levarti il casco per nessun motivo” disse, facendole sentire la propria voce e mettendole una mano sulla spalla. Con un solo colpo di vibrolama la liberò, per poi spingerla di corsa dietro di sé prima che il droide decidesse di voltarsi di nuovo.
Sotto il verso stridulo di battaglia emesso da Neos, la Guivre rollò su se stessa.
In qualunque stato fosse la plancia dei comandi, a breve l’iperguida si sarebbe riattivata.
Shandra, la cui testa era resa ancora più grande dal casco protettivo, lo prese per mano. “Che è successo a Neos? E perché AL fa così?”
“Credo che AL sia stata manomessa dai nemici di tuo padre” fece Boba, frapponendosi tra lei e una cascata di scintille del quadro di guida. “Ma dobbiamo approfittarne intanto che Neos distrae AL. Se la nave salta con noi dentro ci troveremo in una trappola”.
“Neos viene con noi?”
L’urlo della fenice diede forma a mille risposte possibili. La creatura, chiaramente innervosita dal droide e dai suoi colpi, stava cercando di portarsi più in alto possibile. I suoi movimenti assolutamente privi di coordinazione erano forse il suo unico punto forza, perché era chiaro che AL fosse programmata per sparare ad un obiettivo dai movimenti più prevedibili. Il metallo che ricopriva il droide era passato da bianco lucido ad un nero tetro, rendendo la sua figura ancora più sinistra. Si portò indietro per prendere meglio la mira ed abbattere la fenice, ma nel farlo i suoi sensori notarono l’assenza della bambina.
Si voltò verso di loro quando ancora tutto il tronco e le armi erano concentrate nel rispondere al fuoco di Neos, e il cacciatore di taglie fu costretto a prendere una decisione. “Neos la terrà occupata. Il salto avverrà tra pochi minuti”.
“Ma non possiamo portarlo con noi?”
Boba si morse il labbro. Lo sguardo di Zam sembrava il più reale dei fantasmi. “No … non facciamo in tempo a fermare AL tutti insieme e scappare. Devo portarti in salvo”.
E devo farlo ora.
Sott i suoi piedi, il ponte riprese violentemente a rollare. Fissò la fenice per un’ultima volta, sentendo su di sé lo sguardo di furia di lei.
Se Zam fosse stata lì …
Ma non era lì.
E Shandra aveva qualunque priorità.
Spinse la bambina oltre la porta della sala comandi, e quando l’ennesima raffica laser si abbatté su di loro le fece da scudo, sacrificando tutto ciò che rimaneva dell’energia dei deflettori per assorbire i colpi e correre verso l’hangar. Attraversò i corridoi prendendola in braccio, e per quanto temesse di sentire passi metallici e spari alle proprie spalle, tutto ciò che riuscì a sentire furono una serie di esplosioni e i versi striduli della fenice. Attraversò lo scafo con tutta la forza che aveva in corpo, osservando furi dalle vetrate la familiare luce che indicava l’avvento alla velocità subluce.
Quando arrivò alla Slave caricò la bambina e premette i pulsanti del decollo sentendo che, ovunque fosse il suo spirito, la donna che un tempo aveva amato stava gridando di dolore.

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