Tacco 12 o 12 tacchetti?

di flyerthanwind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il ragazzo delle scale ***
Capitolo 3: *** Una tribù di selvaggi ***
Capitolo 4: *** La domenica è sacra ***
Capitolo 5: *** Hey macarena ***
Capitolo 6: *** Pronte per un film di Stanley Kubrick ***
Capitolo 7: *** Questione di magliette ***
Capitolo 8: *** La prima amica in città ***
Capitolo 9: *** Di aggressioni verbali e amputazioni promesse ***
Capitolo 10: *** TAC total body ***
Capitolo 11: *** A penny for your thoughts ***
Capitolo 12: *** Patto con il diavolo ***
Capitolo 13: *** Arbitro cornuto ***
Capitolo 14: *** Occhi analgesici ***
Capitolo 15: *** Il terribile signor Foster ***
Capitolo 16: *** In pasto alla leonessa ***
Capitolo 17: *** Caso Kolman 1/2 ***
Capitolo 18: *** Caso Kolman 2/2 ***
Capitolo 19: *** Il codice morale delle azzuffate ***
Capitolo 20: *** Puzzo come uno scaricatore di porto ***
Capitolo 21: *** Terra bruciata ***
Capitolo 22: *** Bomba a orologeria ***
Capitolo 23: *** Un limone anche meglio! ***
Capitolo 24: *** Un rossetto fuori posto ***
Capitolo 25: *** Cose da gemelle ***
Capitolo 26: *** Notizie in anteprima ***
Capitolo 27: *** Vittoria a tavolino ***
Capitolo 28: *** Finale di campionato ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

In base a quale criterio si compie una scelta? Come si districa l’intreccio di dubbi radicato nel cervello che ti impedisce di ragionare lucidamente? Perché, quando si tratta di se stessi, risulta così complesso prendere una decisione? Ma, soprattutto, è davvero necessario farlo?

Qualcuno direbbe senz’altro di sì, ma scommetto che non si è mai trovato di fronte a un bivio le cui strade sono così diverse ma entrambe ugualmente confortevoli. 

Da un lato c’è una via asfaltata, con musica di sottofondo e un tappeto rosso che pare condurre verso un allegro chiacchiericcio e il tintinnio dei bicchieri. Va percorsa con eleganza e classe, senza mai alzare la voce, sorseggiando costosi champagne e dispensando sorrisi anche a chi non ci va particolarmente a genio.

Dall’altro lato c’è erbetta sintetica, tanfo di sudore e olezzo di feromoni. I cori da stadio attutiscono le imprecazioni nel campo, lo spirito di squadra rianima corpi esausti e l’adrenalina spinge a caricare ancora i muscoli, a scattare ancora verso la porta, a tirare con tutta la forza che si riesce a racimolare nelle gambe per mandare la palla in goal e conquistare i tre agognati punti.

È possibile desiderare di essere due persone tanto diverse?

Non lo so, io ho solo sedici anni… Qualcuno direbbe che non so nulla della vita.

E forse è vero, forse non so nulla, forse sono solo una piccola ingenua ragazzina che gioca a fare la donna ma non riesce a lasciar andare la bambina che è in sé. 

O magari sto diventando un’adulta e sto imparando a discernere vari aspetti della mia personalità, apparentemente agli antipodi ma uniti da un filo sottilissimo: la mia felicità.

Io sono felice in mezzo al campo, tra gli incitamenti della folla e le grida del mister, a collaborare con le mie compagne di squadra per un obiettivo comune. Io sono felice in abiti eleganti che mi fanno sentire bella e a mio agio, a conversare con persone dell’alta società nel tentativo di cambiare, nel nostro piccolo, il mondo.

E allora perché dovrei scegliere? Perché dovrei rinunciare ai miei sogni solo perché la società ha deciso che una ragazza non può praticare uno sport notoriamente da maschio? Perché dovrei privarmi della mia felicità solo perché la società ha deciso che un’atleta non può essere abbastanza femminile?

Quanto è giusto sopprimere la propria indole per accontentare gli altri? Quanto è giusto annullare se stessi per accontentare una società che ti consuma fino all’osso e, dopo averti spolpato, ti abbandona a te stesso?

Io lo trovo ingiusto, ma qualcuno dice che è necessario. Dunque, non mi resta che scegliere... Tacco 12 o 12 tacchetti?


N.d'A.

Salve! Sono felice di poter finalmente condividere questa storia con voi. Spero che possa rallegrare le vostre giornate come scriverla ha rallegrato le mie 🌸
Cosa ve ne pare di questo prologo? Spero non risulti troppo "pesante", non era mia intenzione! Tuttavia, siccome Sam tende a buttare tutto sull'ironia, ho dovuto concederle un piccolo spazietto in cui essere seria 🦋

Come avrete notato, inoltre, il linguaggio è pieno di espressioni e intercalari colloquiali, spesso in contrapposizione con locuzioni più auliche; ci tengo a specificare che questa dicotomia è voluta proprio per accentuare questa sorta di dualismo che vive la protagonista e che cerca di raccontare in prima persona. 
Per qualsiasi cosa mi trovate su instagram come flyerthanwind_, lascerò anche un box per raccogliere le vostre prime impressioni 🦋

Luna Freya Nives

 

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Capitolo 2
*** Il ragazzo delle scale ***


Il ragazzo delle scale

L'aria di fine agosto, alla sera, regalava alla città un lieve tepore in cui era piacevole trovarsi. L'ennesima giornata afosa volgeva a termine insieme a quell'estate mentre la luna splendeva rischiarando la notte, unico astro visibile nel cielo scuro a causa della grande illuminazione di quel giardino.

Era un peccato dato che amavo soffermarmi a osservare le stelle fino a farmi dolore tutti i muscoli del collo, in sostanza vivevo con il naso perennemente all’insù.

Ero stata trascinata a una serata di beneficenza dai miei genitori, i quali, in qualità di finanziatori di un’associazione benefica e del lavoro svolto da entrambi, erano stati invitati a presenziare. Stavo invidiando estremamente mia sorella Amelia, costretta in casa dall'influenza.

Se non l’avessi conosciuta abbastanza bene avrei scommesso che se l'era inventata pur di non partecipare, ma purtroppo sapevo fin troppo bene che lei adorava presenziare a quel genere di eventi.

«Questo posto è enorme» bisbigliai tra me e me mentre mi addentravo nella villa dei padroni di casa. Non mi era ben chiaro chi fossero i proprietari, anche se ero quasi del tutto certa che la mamma me li avesse presentati all'entrata, insieme a una mole di altre persone a cui avevo sorriso e annuito, senza degnarli di particolare attenzione.

Mi guardai un po' intorno, osservando meravigliata le pareti ricoperte da quadri arricchiti con cornici dorate mentre il mio cellulare vibrava nella pochette. Sorrisi leggendo il messaggio di mio fratello Lucas che annunciava di essere atterrato e che i suoi amici lo stavano portando a casa, poi mi domandava come procedesse la serata.

«Giuro che se papà non mi salva da questo strazio oggi mi mozzo le caviglie» risposi con una nota vocale mentre adocchiavo l'imponente scalinata in marmo bianco e mi ci gettavo come un naufrago che vede la terra natia dopo aver vagato anni.

E Ulisse può solo accompagnare.

L'unica cosa che non tolleravo del dover accompagnare i miei genitori era il dress code. Ovviamente agli eventi di quella portata si doveva essere eleganti, quasi fosse una gara a chi sfoggia l'abito più costoso e non a chi sgancia più quattrini per la giusta causa. I miei genitori non sono mai stati quel tipo di persone, eppure non mi risparmiavano di attenermi all'etichetta.

Non che mi dispiacesse indossare il lungo abito verde smeraldo che avevo ripescato dall'armadio: aveva sottili spalline che, partendo dalla scollatura a barca, si intrecciavano in una rete di sottili fili sulla schiena che, altrimenti, sarebbe stata completamente scoperta, scendeva attillato sul seno e poi si allargava leggermente, senza fasciarmi troppo il resto del corpo. Chiunque sarebbe stato carino con quell'abito magnifico.

Il vero problema erano quegli strumenti di tortura che mia madre si ostinava a chiamare tacchi a spillo e a cui, ovviamente, non ero riuscita a opporre resistenza. A nulla erano servite le mie lamentele e le probabili minacce che il mio allenatore le avrebbe rivolto se mi fossi infortunata.

Amelia aveva ridacchiato tutto il tempo, rannicchiata sotto le coperte, mentre la mamma alternava rimproveri a me che ero in ritardo e dovevo indossare quei cosi e occhiate cariche di preoccupazione a lei, che la rassicurava che se la sarebbe cavata per un paio d'ore e che poi sarebbe tornato Lucas ad accudirla.

«Non ti piacciono proprio i tacchi, eh?»

Una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare e sussultai, portandomi una mano sul cuore. Ero praticamente stravaccata su quelle scale, in una posa decisamente non elegante e che non si confaceva a una signorina – come avrebbe sicuramente sottolineato mia madre se fosse stata lì.

«Scusami, non volevo spaventarti, pensavo mi avessi visto» disse un ragazzo uscendo dalla penombra mentre si accomodava su un gradino alla mia stessa altezza, mantenendo comunque la distanza.

Se ne stava lì, immobile, con la schiena tesa e lo smoking nero – probabilmente cucito su misura – che gli fasciava le gambe e le braccia come una seconda pelle a causa della sua posa rannicchiata.

«Ero sovrappensiero» confessai con una smorfia mentre lui abbozzava una risatina. Avrà avuto circa la mia età, forse qualche anno in più, ma non l'avevo mai notato agli eventi.

«Non sei di queste parti?» gli domandai, dando voce ai miei pensieri. Ero certa che i suoi riccioli d’oro e i suoi occhioni blu, che nonostante la distanza e la penombra sembravano brillare, non potessero passare inosservati.

E poi io e Amelia ci divertivamo sempre a eleggere il nostro personale Mister evento a ogni cerimonia a cui ci costringevano a presenziare, per cui era impossibile che fosse sfuggito a entrambe. Insomma, io potevo anche essere un po’ svampita e distrarmi di tanto in tanto, ma lei era un dannatissimo falco quando si trattava di bei ragazzi.

«No, mi sono appena trasferito» rispose tranquillamente, passandosi una mano tra i capelli.

Non seppi interpretare quel gesto poiché non riuscivo a osservare bene le sue espressioni; poteva essere un’abitudine, come Lucas che ogni dieci secondi sentiva la necessità di lisciarsi il ciuffo con le dita, oppure un tentativo di smorzare la tensione che, con i miei sguardi curiosi, stavo contribuendo ad aumentare. O ancora avrebbe potuto essere un modo per stemperare il disagio che provava nel trovarsi in un ambiente nuovo e ignoto con una perfetta sconosciuta.

Prima che potessi anche solo pensare di fare un'altra domanda – giusto per avere qualche informazione in più da riportare ad Amy una volta a casa –, una voce dall'ingresso spezzò quell'equilibrato silenzio in cui ci eravamo rifugiati.

«Sam, sei qui?» la voce di mia madre mi raggiunse leggermente ovattata, probabilmente stava cercando di non urlare per non far comprendere ai padroni di casa che sua figlia si era intrufolata nella loro dimora.

«Ops, adesso mia madre mi uccide» sbiancai, alzandomi immediatamente in piedi e rischiando, per quel passo falso, di perdere l'equilibrio, «Ci si vede» aggiunsi con un cenno mentre sparivo lentamente dalla sua visuale per tornare dalla mamma.

Mi sarebbe piaciuto conversare un altro po’ con lui, chiedergli da dove si era trasferito e quanto avevano intenzione di restare, ma l’idea della strigliata che mia madre non mi avrebbe risparmiato una volta a casa mi fece desistere. In fondo ci sarebbe stato tempo per fare conoscenza.

Forse.

La mamma mi aveva cercata per presentarmi alcuni vecchi amici del college – quella serata più che un evento di beneficenza sembrava un raduno degli ex alunni – così misi su il miglior sorriso del mio repertorio e mi lasciai ricoprire di complimenti scontati e strette di mano.

Se avessero conosciuto mia sorella avrebbero smesso di dirmi quanto fossi elegante, chiunque lo sarebbe stato con un abito del genere; Amelia, invece, lo sarebbe stata anche con un sacco addosso: lei aveva l'anima elegante, e il fatto che fossimo gemelle omozigote, purtroppo, non aveva fatto sì che l’avessi anche io.

Una leggera spallata di mio padre mi riscosse dai miei pensieri, si era sporto con troppo vigore per placcare un uomo alle mie spalle e mi aveva inavvertitamente urtato, facendo traballare il liquido chiaro nel mio flûte.

«Ma guarda chi si vede, Klaus Rogers!» disse all'uomo brizzolato, poggiandogli una mano sulla spalla come si fa con gli amici di vecchia data.

L'altro dapprima lo osservò stupito, poi i suoi occhi si illuminarono, come se avesse appena riconosciuto mio padre.

 «Non ci credo, George Miller» replicò infine, tirando mio padre e salutandolo con amichevoli pacche sulla schiena dopo avermi abilmente dribblata.

Dal sorriso di circostanza di mia madre e dallo sguardo confuso di quella che presumevo essere la moglie di tale Klaus Rogers, dedussi che entrambe non avevano idea di chi fosse l'altro. I due si scambiarono alcuni convenevoli, poi decisero di dar retta anche a noi e ci introdussero nella conversazione.

A quanto pare erano andati al college insieme, ma poi l'uomo brizzolato si era trasferito in un altro Stato e col tempo avevano perso i contatti. Aveva quindi sposato Meredith, la donna che ora sorrideva tranquilla al suo fianco, e avevano avuto due figli.

Normalmente mi sarei defilata da una conversazione del genere subito dopo essermi presentata, tuttavia c'era qualcosa di magnetico in quella donna; anche mia madre doveva essersene accorta a giudicare dagli sguardi adoranti che le rivolgeva. 

Non aveva un aspetto particolare: i capelli biondi erano raccolti in una crocchia ordinata e indossava un lungo abito blu notte allacciato sul collo, ma erano i suoi occhi a essere magnetici, di un blu talmente intenso da brillare nonostante l'oscurità.

La mamma conversava amabilmente con lei, affascinata dai suoi modi composti ma gentili, evidentemente la reputava diversa dalla maggior parte delle persone presenti all'evento, per le quali il gala altro non era che un modo per sfoggiare abiti firmati e auto di lusso.

Avevo sempre mal tollerato quell’ambiente, ma per amore dei miei genitori – e, soprattutto, per le giuste cause che sostenevano – avevo sempre ingoiato il rospo, cucendomi addosso un sorriso di circostanza e sfoggiando tutta la buona educazione che mi era stata impartita fin dall’infanzia.

«Ma davvero? Sam adora il calcio» chiocciò amabilmente mia madre a un certo punto, distogliendomi dalle mie elucubrazioni e guadagnandosi un'occhiataccia da parte mia; papà, intanto, mandava giù champagne nel vano tentativo di reprimere una risatina.

Dire che adoravo il calcio era piuttosto riduttivo dal momento che mi allenavo tre volte a settimana e giocavo quasi tutti i weekend in un campionato piuttosto competitivo.

«Dovremmo proprio presentarvi Austin allora» disse a quel punto Klaus Rogers, dopo aver appreso che anche mio fratello giocava nella squadra della scuola e che detenevano il titolo di primi in classifica da ben tre anni consecutivi.

«Oh, che casualità, eccolo che arriva» chiocciò Meredith tirando su un sorriso soddisfatto e voltandosi verso il ragazzo che si stava avvicinando.

Era molto alto, da quella distanza sembrava persino più alto di Lucas che superava abbondantemente il metro e ottanta; lo smoking scuro che indossava lo fasciava alla perfezione, mettendo in risalto le spalle larghe, il petto ampio e le gambe muscolose, senza tuttavia tendersi troppo a livello delle giunture. Ma solo quando fu abbastanza vicino da notare che i suoi riccioli biondi contornavano due profondi occhi blu lo riconobbi.

Era il ragazzo delle scale.

N.d'A.

Salve! Grazie a chiunque abbia letto fin qui, mi fa davvero molto piacere! Sarei ancora più contenta di sapere cosa ne pensi... magari con una recensione :D
Che ve ne pare di Sam? Spero vi ispiri simpatia ahahaha
Uscirà un nuovo capitolo ogni martedì!
A presto

Luna Freya Nives

 

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Capitolo 3
*** Una tribù di selvaggi ***


Una tribù di selvaggi

Quando quell'inferno era finito e finalmente eravamo saliti in auto, la prima cosa che avevo fatto era stato sbuffare e togliermi le scarpe mentre mio padre continuava a ridacchiare. Sapevo che era dalla mia parte, come sempre del resto, ma conosceva Maeve Miller abbastanza da sapere che quando intraprendeva un flusso di coscienza era un fiume in piena che non andava interrotto.

E in quel momento era decisamente un fiume che stava straripando.

«Lucas è arrivato ma ovviamente ha dovuto scrivermi Amelia, penso che se non ci fosse lei la casa andrebbe a rotoli, tra te e tuo fratello sareste in grado di trasformarmi il soggiorno in un campo da calcio usando i miei vasi come pali e il bastone delle tende come traversa» stava farneticando parole a raffica quasi dimenticandosi di respirare mentre a quel punto anch'io avevo iniziato a ridacchiare, riuscendo però ad essere più discreta di mio padre, che infatti fu bellamente ripreso.

«Fossi in te mi toglierei quel sorrisetto dalla faccia, hai tirato su una tribù di selvaggi; Lucas e Sam beh loro sono fin troppo noti, ma Amelia... si nutre della sua stessa solitudine ed è così taciturna che a volte mi chiedo se non le abbiano tagliato la lingua al parto! Avremo sbagliato qualcosa nell’educazione? Ci è sfuggito qualcosa nella sua crescita? Almeno gli altri due fanno squadra, anche se è quasi sempre solo per fare casini o giocare a calcio, che poi cosa cavolo ci trovano non lo capirò mai» sciorinò ancora una volta; a quel punto le sue parole dovevano essere frutto del sonno mischiato all'ottimo champagne che servivano alla festa.

Quando mamma beveva tendeva a essere più sincera del solito, forse si era concentrata un po' troppo sugli aspetti negativi quella volta, ma in generale sapeva essere obiettiva. A me e Lucas divertiva molto in quei momenti perché non riusciva in alcun modo a tenere a freno la lingua, il che era davvero strano per la mamma, che solitamente era sempre composta e impeccabile e prima dar fiato alla bocca saggiava attentamente le parole.

Amelia le somigliava molto caratterialmente, anch'essa sempre pacata e attenta a ciò che mostrava – ma, soprattutto, che non mostrava – di sé. Io e Lucas, d’altra parte…

Beh, noi eravamo quelli amichevoli, compagnoni, a cui piaceva azzuffarsi in giardino mentre papà faceva da arbitro e poi fingeva di essere lì per dividerci quando mamma ci beccava. Noi lo coprivamo sempre e lui in cambio portava tutti e tre a mangiare quintali di gelato e di pizza quando la mamma faceva gli straordinari in pronto soccorso.

Ci voleva astuzia per sopravvivere alle grinfie di Maeve Miller, ma soprattutto serviva una tribù di complici da corrompere a proprio piacimento, promettendo loro mari e monti e impegnandosi affinché ogni loro desiderio divenisse realtà. Per fortuna c’era la mamma a riportarci coi piedi per terra, altrimenti sai che ragazzi viziati saremmo divenuti!

Quella notte, però, gli elogi per la sua tribù di selvaggi se li risparmiò, poiché arrivammo a casa e si precipitò a controllare la sua figlia prediletta. La prendevo sempre in giro per questa sua eccessiva protezione nei confronti di Amelia che, in tenera età, avevo scambiato per una sua evidente preferenza. 

D'altronde Amelia era sempre composta, non si arrampicava sugli alberi, non scappava di casa per correre sotto la pioggia, non si azzuffava con tutti i maschietti disposti a fare a botte con una bambina – illusi che credevano di potermi ferire! –, non saltava volutamente nelle pozzanghere.

Crescendo, poi, avevo capito che quello di mia madre altro non era che un innato senso di protezione verso quella che appariva come la più debole tra i suoi cuccioli, quella remissiva, che in realtà aveva una lingua tagliente e affilata. Amelia non era una debole, semplicemente non era una da corpo a corpo come Lucas o da attacchi diretti come me. Amelia incassava e, quando ti onorava finalmente della sua risposta, ti abbatteva completamente, ti riduceva a brandelli, ti tagliava l'anima in pezzi talmente piccoli che non sarebbe bastata una vita intera per ricomporli.

Ovviamente quello era il motivo per cui sul mio cellulare era registrata come Main Bitch e, anche se l'avevo vista fare davvero la stronza in occasioni rarissime, conoscevo bene il suo potenziale e sapevo che avrebbe fatto di tutto per proteggere noi.

Lucas ci accolse in casa con un sorriso radioso e un'abbronzatura da fare invidia a chi aveva passato l'intera estate in villeggiatura. Se ne stava seduto sul divano con un braccio mollemente poggiato sulla coscia e l’altro ad avvolgere Amelia, rannicchiata sotto le coperte contro il suo fianco. Non appena ci vide balzò in piedi.

«Ma com'è possibile, vai a fare volontariato per tre settimane e torni dall'Africa come se fossi stato tutto il tempo in spiaggia» lo schernii io immediatamente, consapevole che non fosse andato mica a Cape Town ma nell'entroterra, per una delle associazioni di cui si occupavano i nostri genitori; anche io e Amelia l'avevamo fatto quell'estate.

Mamma non l'avrebbe mai ammesso perché seguiva la politica del "fai del bene e dimenticalo", ma era estremamente orgogliosa della sua cucciolata e, se fosse stato nel suo stile, avrebbe sicuramente urlato ai quattro venti quanto fosse fiera di noi. Per fortuna sapeva farcelo capire in altri modi, spesso poco ortodossi… ma mica si poteva avere tutto dalla vita!

«Che ti posso dire, sorellina, il sole bacia i belli» rispose con un sorriso strafottente mentre avanzava verso di noi e mi avvolgeva in un abbraccio. Forse sarebbe meglio dire che mi placcò, perché quell’ammasso di bicipiti ci provava gusto a intrappolarmi contro il suo torace.

Io e Lucas ci assomigliavamo caratterialmente e in parte anche fisicamente: avevamo gli stessi capelli bruni e gli stessi occhi verdi, ma lui era più alto di una buona manciata di centimetri e aveva decisamente più muscoli, per cui il suo abbraccio mi avvolgeva completamente facendomi sparire al suo interno e rischiando persino di soffocarmi.

«Vedo che non hai dimenticato la tua irriverenza all'aeroporto» lo apostrofò mio padre, avvicinandosi per salvarmi dalle sue grinfie mentre Lucas mi scompigliava affettuosamente i capelli e per questo si beccava un po' di gomitate nello stomaco.

Eravamo piuttosto maneschi l’uno contro l’altra, anche se con l’età – e la massa muscolare che aveva messo su quando aveva iniziato seriamente a giocare a calcio – eravamo stati costretti a contenerci. Più che altro lui si conteneva, io non mi risparmiavo mai di colpirlo e riempirlo di lividi per vendicarmi di tutti i morsi che mi aveva dato quand’ero solo una bambina inerme e incapace di difendersi da suo fratello maggiore.

«Il suo ego smisurato è salvo, purtroppo per noi» s'intromise Amelia prima di essere aggredita dalla mamma per assicurarsi che stesse bene nonostante quelle poche ore lontane.

Aveva persuaso i nostri genitori ad andare al gala con motivazioni inappellabili – io sto bene, voi siete i responsabili del progetto sull’istruzione, dovete fare il punto della situazione e presentare i progressi scolastici –, ma non per questo non erano stati in pensiero tutta la sera; solo quando Lucas era rincasato avevano smesso di scriverle ogni mezz’ora.

«Come va?» domandò a quel punto la mamma, stringendolo in un abbraccio. E poco importava che lui fosse circa il doppio di lei, quando Maeve Miller entrava in modalità chioccia protettiva nemmeno il grande e grosso Lucas poteva resistere alla forza dell'amore racchiusa in quelle sue braccia esili.

In fondo non aveva bisogno di muscoli, quella donna poteva plasmare la realtà a proprio piacimento con tocchi eleganti e delicati, persuadendo solo con l’utilizzo della voce e mai della forza.

Contrariamente al suo aspetto da duro, Lucas era estremamente empatico e sensibile, nonché il più bravo a tenere nascosto quel suo lato emotivo, esattamente come papà. Non che ci volesse granché con me e Amelia come termini di paragone. Chiariamo, non eravamo due stronze patentate, ma diciamo che sapevamo come essere piuttosto distaccate. Però lei era davvero la main bitch.

Gli uomini Miller sembravano fatti d'acciaio, gente tutta d'un pezzo, in grado di fare qualsiasi cosa e mantenere sempre il sangue freddo, ma sotto quella corazza nascondevano un cuore enorme e accogliente, pronto a risplendere e illuminare il cammino altrui, indicando la retta via da seguire o rischiarando quella che si era imboccata per errore in attesa di rinsavire.

«Sto bene, sono felice di essere andato e sono contento di essere finalmente tornato» ammise senza problemi Lucas, un luccichio splendente a riflettersi nelle iridi chiare come unico ricordo di quel che viaggio che, lo sapevo bene, era in grado di dare tanto e prendersi molto di più.

La famiglia è il porto sicuro in cui è concesso tutto, soprattutto mostrare le proprie debolezze e lasciarsi aiutare da chi ci ama più al mondo a trasformarle in punti di forza. Nessuno giudica, nessuno addita, nessuno commenta; ci si fa forza a vicenda, sostenendosi quando si vacilla e lasciandosi andare quando è giunto il momento di volare per conto proprio.

«Ho conosciuto una donna fantastica stasera, Amelia, tu la adorerai» la mamma riprese il flusso di coscienza interrotto da Lucas facendo il resoconto della serata alla mia gemella. Le parlò anche di Austin, di quanto le fosse sembrato un caro ragazzo, e non potei fare a meno di approvare silenziosamente ripensando ai suoi occhioni blu.

Avevano qualcosa di magico, non riuscivo a spiegarmelo altrimenti. Per un attimo avevo persino ponderato l’idea di chiedergli se fossero finti – magari occhi di vetro o lenti a contatto – ma avevo desistito intuendo quale potesse essere la sua risposta.  Qualcosa tipo “Fatti gli affari tuoi” o “Ti ha dato di volta il cervello?!”, non lo conoscevo abbastanza per scegliere quale fosse più plausibile, ma non sarebbe stata di certo una risposta carina e gentile.

Io e papà ci lanciammo occhiatine di sbieco per tutto il tempo, prendendo in giro la mamma e la sua eccessiva euforia, ma da quel che avevo potuto notare anche Meredith Rogers era sembrata alquanto sorpresa ed entusiasta di aver conosciuto una donna come mia madre.

Di rado le aveva staccato gli occhi di dosso, fatta eccezione per i momenti in cui era stata presentata ad altri ospiti oppure quando Rogers Senior la apostrofava e, sebbene inizialmente avevo avuto l’impressione che la stesse testando, studiando le sue reazioni, infine avevo notato una sincera e disinteressata ammirazione nei suoi confronti.

D'altronde, come darle torto, mia madre era sempre stata l'uragano che è in grado di riportare l'ordine e, se avesse voluto, avrebbe persino potuto cambiare il colore del cielo.

N.d'A.

Capitolo di passaggio ma finalmente conosciamo per bene la famiglia Miller. Ne avevo bisogno per delineare bene il carattere dei personaggi principali nonché per presentarvi l'ambiente in cui i protagonisti sono cresciuti. Spero abbiate apprezzato, fatemelo sapere con una recensione!

Luna Freya Nives

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Capitolo 4
*** La domenica è sacra ***


La domenica è sacra

La domenica pomeriggio era un giorno sacro per gli sportivi di casa e, dato che eravamo in netta maggioranza – tre contro due –, la mamma e Amelia non si opponevano più di tanto alle nostre idee malsane, che fossero svegliarsi all'alba per allenarsi o stare fuori tutto il giorno per andare allo stadio. Magari a piedi, così, giusto per non perdere l’allenamento.

E perché eravamo fuori di testa, ovviamente.

Quella domenica, tuttavia, non stava per succedere nulla di così estremo. Lucas, che giocava nella squadra di calcio della nostra scuola, aveva la prima amichevole pre-campionato e, nonostante non fosse andato in ritiro né si fosse allenato poiché aveva passato le ultime tre settimane in Africa, il mister aveva comunque deciso di convocarlo. Lui era uscito di casa subito dopo pranzo per salutare i suoi compagni di squadra, con cui si sarebbe poi recato al campo, mentre io e papà lo stavamo raggiungendo poco prima del fischio di inizio.

Papà si faceva in quattro per presenziare alle nostre partite e, a meno che non fosse fuori città per lavoro, non ne perdeva una. Era stato lui a trasmetterci quella passione – quel vizio, come lo definiva la mamma quando io e Lucas la facevamo disperare palleggiando in salotto – per cui si sentiva quasi in dovere di controllare se i nostri mister stessero facendo un buon lavoro.

La mamma, invece, preferiva sostenerci a distanza, spesso direttamente dal soggiorno di casa: era piuttosto terrorizzata dall'idea che i suoi calciatori preferiti fossero messi ko durante una partita, per cui spesso e volentieri si teneva alla larga.

Non capiva nulla di calcio e lo sport in generale la repelleva, come qualsiasi cosa che presumesse sforzo fisico e sudore; tutto ciò, unito al suo animo belligerante di mamma chioccia, la spingeva a tenersi lontana dai nostri incontri. Quel giorno poi, con una figlia malata in casa, aveva avuto la scusa perfetta per evitarlo.

«Non posso credere che il vostro mister non vi abbia ancora convocate» disse mio padre mentre prendevamo posto sugli spalti. Mi stavo lamentando del fatto che il preside desse più credibilità alla squadra maschile che a quella femminile, indignandomi per quella disparità di trattamento, e sapere che avevo l'appoggio di mio padre mi rassicurava.

Certo, non poteva andare da quel vecchio bacucco a dirgliene quattro, ma il suo sostegno era sempre gradito, soprattutto quando mi lasciava invitare le mie compagne di squadra per allenamenti extra nel nostro giardino. Dovevamo pur arrangiarci quando quel misogino concedeva il campo per gli allenamenti a quei calciatori da strapazzo tutti quadricipiti e niente cervello…

Sì, parlavo anche di mio fratello! Solo perché aveva avuto la fortuna di nascere in una bellissima famiglia con una sorella fantastica, non era immune agli insulti verso la sua squadra di scimmioni, i quali spesso e volentieri avevano schernito me e le mie compagne. Ovviamente in sua assenza, perché insultare una delle sue sorelle davanti a Lucas equivaleva a morte certa.

Purtroppo nella scuola, nonostante il ventunesimo secolo e le lotte femministe, c'erano ancora dei balordi convinti che le ragazze non sapessero giocare a calcio e, siccome alcuni dei loro genitori erano tra i principali finanziatori della scuola, non era difficile capire perché la maggior parte dei fondi fossero destinati alla squadra maschile.

Noi ragazze eravamo più abbandonate a noi stesse, con il mister che era anche l'insegnante di educazione fisica e che non riceveva un lauto compenso per il suo lavoro, per cui spesso la sua condotta lasciava a desiderare. Nonostante ciò, lo adoravamo: era un grande motivatore e grazie a lui eravamo riuscite a classificarci abbastanza in alto nello scorso campionato, ma i nostri risultati erano stati oscurati dalla squadra maschile che invece aveva vinto il primo premio.

Ovviamente avevo festeggiato per mio fratello e per i nostri amici, ma avrei spaccato il naso di Martin Hurt molto volentieri quando era venuto a vantarsi con me delle loro gesta. Mi conosceva, sapeva perfettamente che ero la sorella di Lucas e quanto lo sostenevo, ma, nonostante ciò, aveva sminuito la mia squadra e le mie amiche.

Se non fosse stato per Amelia che l'aveva liquidato in due parole, probabilmente le avrei prese di santa ragione. Sì, perché io potevo anche essere arrabbiata, ma lui rimaneva un bestione di un metro e ottanta con più muscoli che cervello e mi avrebbe sicuramente disintegrata. Per fortuna c'era la mia gemellina a vegliare su di me.

⊰·⊱

Il tifo sfegatato di Kate mi aveva accompagnata per l'intera partita mentre papà si era limitato a stare in silenzio e applaudire per la nostra squadra, come suo solito. Ogni tanto si lasciava andare, ma preferiva rimanere pacato per non disturbare i giocatori: sosteneva che i genitori tifosi avessero una pessima influenza sui figli, per cui si limitava a cenni di assenso e occhiate orgogliose quando Lucas si rendeva partecipe di un'azione.

Kate, d'altro canto, era la mia migliore amica nonché compagna di squadra; tifare per lei era più che doveroso e farlo rumorosamente era il suo modo preferito. Dubitavo ne conoscesse un altro, in effetti. Se non fosse stata una calciatrice sarebbe stata capo cheerleader, proprio non riuscivo a immaginarmela in un ambiente diverso da un prato verde a consumare le corde vocali e perdere la dignità con cori discutibili.

A fine partita eravamo volate giù dagli spalti per intercettare i nostri prima che entrassero negli spogliatoi e complimentarci per la vittoria. Lucas fu ovviamente il primo a notarci – ci avrebbe individuato persino a chilometri di distanza con il suo family radar, come lo chiamava lui –, ci attese vicino agli spogliatoi insieme a Garret Jones, un suo compagno di squadra.

Volai tra le sue braccia lasciando che mi sollevasse da terra nonostante fosse sudato fradicio; il puzzo tipico del post partita era qualcosa che mi era mancato in quell’estate perché non aveva solo a che fare con il sudore: era più una miscela di adrenalina, endorfine e serotonina. Intanto, mentre venivo adagiata a terra, anche papà e un altro paio di persone ci raggiunsero.

Qualcuno mi si gettò direttamente ai piedi, afferrandomi le caviglie scoperte per sincerarsi della loro integrità, poi asserì ironico: «Oh, per fortuna le caviglie ci sono ancora, temevo che l'altra sera avresti usato i tacchi per mutilarti».

Gli tirai uno schiaffetto sulla testa, spettinando i ciuffi bruni che gli si erano incollati al collo mentre papà mi rivolgeva un'occhiataccia e poi soffocava malamente una risatina con Lucas. Si sentiva sempre in dovere di rimproverarmi quando dicevo qualcosa di inopportuno – tipo minacciare di mozzarmi le caviglie se non mi avesse portato via da quello stupido evento – ma lo faceva più che altro per sostenere la mamma, unica donna che non odiasse quegli strumenti di tortura meglio noti come tacchi a spillo. E Amelia, che ovviamente sarebbe apparsa leggiadra anche con un paio di scarponi antinfortunistici.

«Sono contenta che mio fratello ti faccia ascoltare le mie note vocali, Boot» lo apostrofai con un sorriso irriverente. Malcolm Boot era uno dei compagni di squadra più simpatici di mio fratello, nonché quello che riceveva più insulti e scappellotti sul collo a causa della sua condotta. Spesso appariva totalmente fuori controllo, ma era un buon amico e un bravo terzino.

«È un peccato che tu non abbia segnato oggi» Kate si rivolse direttamente a mio fratello, facendogli gli occhi dolci. Aveva una cotta per lui all'incirca dal primo momento in cui l'aveva visto, ma si rifiutava categoricamente di ammetterlo. 

Roteai gli occhi – un gesto che fece sorridere sia Garret che Malcolm, entrambi fin troppo consapevoli di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve – mentre Lucas si apprestava a spiegarle come quei difensori l'avessero puntato, pavoneggiandosi comunque per essere riuscito a eluderli e mandare in goal l’azione che li aveva portati in vantaggio.

Mio padre, intanto, si era allontanato per chiacchierare con l'uomo dell'evento, Klaus Rogers, e accanto a loro mi sembrò di vedere anche Austin. Non ci eravamo scambiati molte parole se non i soliti convenevoli: lui mi aveva detto di avere sedici anni e che avrebbe frequentato la nostra scuola perché aveva una buona squadra di calcio, anche se era un po' distante da casa sua; io gli avevo detto di avere sedici anni e che anch'io giocavo nella squadra, dopodiché avevamo lasciato che gli adulti prendessero le redini della conversazione ed eravamo semplicemente passati in secondo piano, ognuno impegnato a farsi gli affari propri.

Paradossalmente mi ero sentita intimorita da lui, come se i suoi modi eleganti e cortesi potessero stonare con la mia personalità ingombrante, facendomi risultare grottesca al suo cospetto. Sapevo di non esserlo, Maeve Miller aveva allevato una tribù ben educata, ma, nonostante ciò, non ero riuscita a interagire con lui.

Dunque, non eravamo abbastanza in confidenza perché lo invitassi ad unirsi a noi; non conosceva nessuno lì in mezzo, nemmeno mio fratello, per cui decisi di non intromettermi e continuare la chiacchierata con gli altri senza voltarmi a guardarlo.

Non che non avessi avuto una buona impressione di lui, anzi: nonostante non avessimo scambiato più di due parole era risultato distaccato ma gentile e, sebbene ci fosse qualcosa in lui che mi attirava – forse era masochismo il mio, mi piaceva non sentirmi all’altezza! –, non ritenevo che fossimo abbastanza in confidenza per coinvolgerlo.

Quando papà tornò accanto a noi, avvertendomi che a momenti saremmo andati a casa, disse anche che i Rogers ci avevano ufficialmente invitati a cena da loro per il giorno seguente. Sorrisi pensando al fatto che la mamma avrebbe dato di matto per il poco preavviso, perché non sapeva cosa portare, quale dolce preparare, quale bottiglia di vino regalare; quando lo feci presente a papà rise anche lui, contagiando anche Lucas e minacciandoci di non dire alla mamma che aveva segretamente riso di lei.

Sì, decisamente quella era la volta buona in cui la mamma ci avrebbe fatto fuori.

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Capitolo 5
*** Hey macarena ***


Hey macarena

Dire che la mamma aveva sbroccato quando papà le aveva detto dell'invito a cena sarebbe stato effimero. Sminuire la sua reazione in quel modo sarebbe stato come dire che nel Sahara c'era un po' di sabbia, che la fossa delle Marianne era un po' profonda, che Martin Hurt era un po' pallone gonfiato o che Leonardo Di Caprio in Titanic era un po' carino. Insomma, si capisce l'antifona.

Inizialmente si era mostrata estremamente entusiasta – forse fin troppo, avremmo dovuto interpretare meglio quel segnale, preambolo dello sclero che ci avrebbe investito di lì a poco –; poi aveva iniziato a ragionare come una donna adulta e non come una quattordicenne invitata al ballo dal tipo dell'ultimo anno più bello della scuola, per cui aveva iniziato a dare di matto.

Per fortuna ci aveva risparmiato il suo flusso di coscienza, troppo impegnata a tirannizzare la sua tribù per perdersi nei meandri della mente e abbandonarsi ai suoi pensieri, deliziandoci con le sue elucubrazioni.

Voleva far colpo sui Rogers, l'avevamo capito tutti: fin dalla festa era rimasta affascinata dai modi eleganti di Meredith, dalla sua risata cristallina e dal fatto che, contrariamente alla maggior parte degli ospiti, non sembrava essere lì solo per sfoggiare l'abito più costoso del suo guardaroba. Basti pensare al fatto che aveva usato la mia passione per il calcio per far colpo.

Certo, aveva omesso il fatto che anch'io giocavo, ma non la biasimavo per questo. Mia madre non era esattamente una sportiva ed era allergica a tutto ciò che concerne sudore e sforzo fisico. Se poi a ciò aggiungiamo che spesso finivo a terra, sporca di fango ed erba, capite perché non andava a spiattellare in giro cosa facevo nel tempo libero, anche se era la mia fan numero uno.

Purtroppo Amelia era ancora malaticcia, per cui non sarebbe venuta con noi; anche quella volta aveva dovuto minacciare i nostri genitori per convincerli ad andare, ma erano bastate le sue paroline magiche – «Andiamo, mammina, non ti fidi me?» – e i suoi occhioni dolci per far capitolare la signora Miller.

Io e Lucas gliel'avremmo rinfacciato a vita. Si fidava ciecamente di Amelia, a lei bastava fare il faccino da cucciolo e tutti le davano ascolto, mentre con noi avevano sempre qualche remora – e a ragione anche.  Diciamo che negli anni io e Lucas avevamo dato diversi motivi per dubitare di noi, o meglio ci eravamo fatti beccare, al contrario di Amelia che era sempre stata la più intelligente. Quando eravamo insieme a combinare danni, infatti, non ci beccavano mai.

«Sai, madre, non trovo affatto giusto che quella piccola arpia ottenga tutto ciò che vuole semplicemente sbattendo le ciglia» iniziò Lucas, appellandola in quel modo che tanto odiava. Sapevamo bene che lo faceva soltanto per provocarla, mandarla fuori di testa era la sua distrazione preferita fin da quando aveva iniziato a gattonare e si infilava sotto tutti i mobili più pericolosi della casa. Crescendo si era dato una calmata, ma di tanto in tanto amava stuzzicarla sapendo che anche lei era divertita dai suoi modi.

«Se stasera non tieni a freno la lingua, amore della mamma, ti squarcio tutti i palloni che hai a casa, anche quelli sgonfi e nascosti in fondo al tuo armadio» lo minacciò lei, cucendosi un sorrisino soddisfatto sul viso quando uno sguardo stupito fece capolino sul suo volto.

«Maeve-Lucas uno a zero, palla al centro» bofonchiò papà mentre rallentava nei pressi di un'alta cancellata scura e imboccava un vialetto brecciato che conduceva al piazzale antistante la villa. Era una casa isolata dall’altra parte della città, con la facciata in pietra e due scalinate in marmo che si congiungevano proprio all’ingresso.

Sulla porta socchiusa un uomo sorridente ci fece cenno di entrare mentre mio padre metteva tra le sue mani una pregiata bottiglia di vino. Lui e Lucas erano stati in giro tutto il pomeriggio pur di evitare la mamma, come minimo doveva essere il loro vino preferito o avrebbe seriamente attentato alla loro vita. 

O, più probabilmente, l'avrei fatto io in ogni caso dato che mi avevano abbandonato agli ordini della più grande dittatrice di tutti i tempi, la quale mi aveva costretto a preparare un dolce per l'intera giornata.

Si era accertata che seguissi meticolosamente la ricetta, impedendomi di sperimentare come mio solito, perché non era nei programmi portare un dolce che non fosse stratosferico. Sì, aveva detto proprio stratosferico, aggiungendo qualcosa circa la Macarena che avrebbero ballato le papille gustative…

Come potevo pretendere di essere normale se ero stata cresciuta da quella donna?

Austin ci aspettava in sala da pranzo insieme a sua sorella Kimberly. Era un ambiente classico: sulle pareti imbiancate erano addossati mobili in legno scuro dall’aria antica, al centro della stanza vi era la tavola, già imbandita di leccornie e apparecchiata con quella che supposi fosse la cristalleria buona, diversi candelabri ornavano i mobiletti bassi e un lampadario arzigogolato illuminava la stanza.

I ragazzi, vestiti di tutto punto, ci sorridevano accanto a una cassapanca in legno scuro su cui facevano bella mostra di sé alcune foto di famiglia; anche la sorella di Austin aveva i capelli ricci e biondi, ma i suoi occhi erano marroni come quelli di Klaus. Quando vide Lucas boccheggiò per un paio di istanti, poi arrossì e gli strinse la mano con estrema delicatezza, come se stesse sfiorando una statua, magari un adone o un bronzo di Riace.

Mio fratello faceva questo effetto agli interlocutori, principalmente alle ragazze, i suoi occhi verdi erano in grado di far capitolare quasi chiunque; il fatto che Kimberly avesse tredici anni e probabilmente non aveva mai baciato un ragazzo le faceva osservare Lucas come il suo sogno proibito.

La cena tutto sommato non fu così tragica, papà e Klaus non fecero altro che ricordare i vecchi tempi, coinvolgendo anche mamma e Meredith, che si stava rivelando sempre più affascinata dai modi eleganti e gentili di Maeve Miller. Lucas aveva scommesso dieci dollari che sarebbero diventate amiche per la pelle nel giro di un mese, per me bastavano solo due settimane.

Kimberly per tutta la cena aveva fissato di sottecchi mio fratello, tentando invano di non farsi beccare, ma noi ragazzi l'avevamo notato subito. Lui sembrava piuttosto imbarazzato, d'altronde lei era molto più piccola e avvampava ogni volta che i loro occhi si incrociavano, il che accadeva piuttosto spesso dal momento che erano seduti uno di fronte l'altra.

Io e Austin, d'altra parte, ce la ridevamo piuttosto apertamente, scoprendo una certa complicità nel prendere in giro i nostri fratelli. Sembrava diverso dal ragazzo del gala, sicuramente più a suo agio e incline alla conversazione. Probabilmente anche lui mal tollerava eventi di quel tipo e, così come io odiavo i tacchi a spillo, lui probabilmente trovava fastidioso lo smoking.

Da quel che potevo ricordare – mannaggia a me che non gli avevo fatto una radiografia come si deve, Amelia mi avrebbe volentieri ucciso quando non avevo saputo descriverle per filo e per segno quel ragazzo! –, l’abito gli fasciava perfettamente il corpo, risaltando il fisico tonico, ma non aveva l’aria di essere particolarmente comodo e di certo Austin si sentiva più a suo agio con la camicia elegante ma leggera che indossava quella sera.

Gli adulti badavano poco a noi, ma siccome Lucas continuava a colpirmi con velate ma dolorose gomitate nello stomaco, i miei continui sussulti avevano messo in guardia papà, che continuava a mandare occhiate di fuoco a me e a quell’essere ignobile che portava il mio stesso cognome. Mamma, d'altra parte, era troppo impegnata a chiacchierare con Meredith per curarsi di noi, per cui fu l'uomo di casa a immischiarsi, spostando l’attenzione su di sé per porre fine a quella lite fraterna.

«Allora, Austin, in che ruolo giochi?» domandò mio padre, mentre io mandavo giù un sorso di vino per soffocare l'ennesima risatina. Anche lui era piuttosto impegnato a mascherare un sorriso, affrettandosi a schiarirsi la voce per poi rispondere con nonchalance.

«Gioco sulla fascia» spiegò tranquillamente. Sua sorella, intanto, osservò di sottecchi lo sguardo di Lucas illuminarsi e di riflesso avvampò; probabilmente il solo pensiero che mio fratello fosse ancora più bello quando sorrideva – fastidiosamente più bello, accidenti a lui e alla sua dentatura perfetta! – dovette intimidirla e al contempo incitarla a venerarlo come un adone.

«Davvero? Anche io» biascicai a quel punto inserendomi nella conversazione, tentando di non macchiare con quel buonissimo vino rosso, che in teoria non avevo l’età per bere, la camicetta preferita di Amelia, la quale mi avrebbe sicuramente trucidata.

In quel lasso di tempo, in effetti, io e Austin non avevamo scambiato grandi parole, troppo impegnati a sbeffeggiare mio fratello e la sua sorellina, per cui il calcio era passato in secondo piano. D’altra parte, quando due occhi blu ti cercano per nascondere una risatina sotto i baffi, qualsiasi cosa passa di diritto in secondo piano.

«Destra o sinistra?» domandò Lucas, anch'egli interessato.

A quel punto la conversazione deviò su argomenti sportivi, coinvolgendo anche i due uomini adulti e trasformandosi in una lotta per la supremazia sportiva.

Klaus e suo figlio avevano idee totalmente opposte e quando anche mio padre, mio fratello ed io dicemmo la nostra si scatenò il caos. Sembrava una sorta di lotta alla demolizione delle convinzioni altrui in cui non vi erano regole se non l’unica che contasse davvero: negare, sempre.

Kimberly ci osservava indispettita, dando l'impressione di non aver capito almeno la metà delle cose che stavano succedendo e facendo rimbalzare la sua chioma riccia sulla schiena mentre muoveva il viso come stesse seguendo una partita di tennis particolarmente interessante e a velocità aumentata.

Solo l'intromissione delle due matrone ci riportò all'ordine. Mamma e Meredith avevano deciso di andare a prendere il dolce e servirlo per placare gli animi e contenere le nostre indoli sportive, così spiegarono quando le vedemmo tornare con i piattini con la mia torta. Non che ci fossimo accorti della loro assenza, comunque, impegnati com’eravamo a discutere.

Da piccola passavo tanto tempo con la mamma quando era ai fornelli, tempestandola di domande e costringendola per sfinimento ad affidarmi qualche compito, per cui ero diventata piuttosto brava. Crescendo, poi, avevo affinato sia le tecniche sia le papille gustative, facendo sperimentazioni che la maggior parte delle volte si rivelavano ottime.

Certo, questo se non si contava quella volta che avevo quasi mandato a fuoco la cucina a causa di una salsa altamente infiammabile che era colata sul fornello acceso…

«Questa torta è ottima, signora Miller» lodò Austin adulando la sua ospite. Nonostante la gentilezza quasi forzata, dettata probabilmente dalla volontà di compiacere qualcuno che appariva cortese e interessato a lui, si capiva dal modo in cui la gustava che gli stava piacendo davvero, masticando lentamente e socchiudendo di tanto in tanto gli occhi.

Potevo quasi sentire la musica in sottofondo.

Dale a tu cuerpo alegría Macarena
Que tu cuerpo es pa' darle alegría y cosa buena

«Oh, grazie, però l'ha preparata Sam» chiocciò mia madre adorabilmente, rivolgendomi un sorrisetto irriverente che di sicuro, con la complicità di quella strega di Amelia, si sarebbe tramutato in una cospirazione.

Austin a quel punto si rivolse a me, complimentandosi per l'ottimo dolce che modestamente avevo preparato e rivolgendomi un’occhiata ammirata. I suoi occhi blu, così profondi da sembrare oceano in cui annegare, si soffermarono sulla mia figura un istante di troppo, facendomi avvampare.

«Sei davvero brava» mi sorrise ancora, distogliendo lo sguardo probabilmente per non farmi notare che le mie gote arrossate erano piuttosto esplicative di ciò che stavo pensando. 

Per la cronaca, non era nulla di scandaloso, malfidati! Pensavo solo alle sue papille gustative… 

Dale a tu cuerpo alegría, Macarena
Hey Macarena

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Capitolo 6
*** Pronte per un film di Stanley Kubrick ***


Pronte per un film di Stanley Kubrick

Gli ultimi giorni prima dell'inizio della scuola, io e Amelia gironzolavamo indisturbate per la città, provvedendo ad acquistare le ultime cose di cui avremmo avuto bisogno. Passavamo abbastanza tempo insieme anche se i nostri interessi apparivano così distanti perché a tenerci unite era stato il primo battito sincrono dei nostri cuoricini appena formati, che ci aveva legate indissolubilmente.

Poteva sembrare una cosa da gemelle, ma noi due eravamo davvero in grado di capirci solo uno sguardo. Da piccole facevamo dei giochetti per depistare Lucas e ridevamo come matte quando lui impazziva tentando di capire cosa ci passasse per la testa.

Spesso eravamo in grado di capire le emozioni dell'altra prima ancora della diretta interessata. Ammetto che può sembrare inquietante, ma siamo sempre state tanto diverse quanto uguali e, si sa, osservare la propria vita dall'esterno con occhio critico, senza influenze personali, spesso può risultare una manna dal cielo.

Per questo eravamo due presenze costanti e ingombranti, non disposte a cedere terreno l’una con l’altra, due facce della stessa medaglia: perennemente in sintonia sebbene si ci trovassimo agli antipodi.

E in effetti io e Amelia eravamo molto più che agli antipodi: due poli opposti di un unico magnete che non fanno altro che attrarsi; satellite che orbita attorno al suo pianeta; veleno e antidoto assieme; acqua e olio che non si mischiano ma si stratificano, creando un fluido nuovo…

Eravamo uova e zucchero: ugualmente indispensabili e complete da sole, ma solo insieme potevamo creare le torte migliori.

«Allora, che ne pensi dei Rogers?» domandò a un certo punto mentre passeggiavamo nel centro commerciale.

La mamma non faceva che parlare di Meredith e di quanto fosse una donna adorabile, praticamente avevo già vinto la scommessa con Lucas se avesse continuato di quel passo, e ciò aveva destato una certa curiosità in Amelia, la quale sembrava impaziente di farsi una propria opinione in merito.

«Mi sembrano a posto, mamma stravede per Meredith, sembra che a Lucas stia simpatico Austin, anche papà li adora» spiegai prendendola sottobraccio e incamminandomi verso l'ingresso.

Avevo avuto davvero una buona impressione della famiglia e mi fidavo di papà e di quello che lui chiamava istinto di conservazione. Purtroppo per noi, solo Amelia l'aveva ereditato e infatti era l'unica che, con un solo sguardo e dopo poche parole, era in grado di stabilire quanto una persona fosse sincera e in che misura ci si potesse fidare.

Quando emetteva la sua sentenza nei confronti di qualcuno era davvero difficile che sbagliasse. Ciò era dovuto anche al fatto che, prima di sbilanciarsi, effettuava ricerche e raccoglieva tutti i pareri che riusciva a reperire.

Sarebbe stata un'ottima investigatrice privata, glielo dicevo sempre. Oppure un giudice, anche quel mestiere le si addiceva. E la CIA poteva solo imparare da lei.

«Che dici, potremmo combinare un appuntamento tra Lucas e la ragazzina?» chiocciò lei facendomi scoppiare a ridere.

La gente ci guardava di sottecchi mentre camminava a passo sicuro nell'androne, non capitava tutti i giorni di vederci doppio in un centro commerciale in pieno pomeriggio e senza aver bevuto.

Essendo gemelle omozigote, io e Amelia eravamo uguali praticamente per un occhio poco attento: stessi capelli bruni lunghi fin sotto il seno, stessi occhi verdi, stessa corporatura snella e slanciata, persino la stessa altezza. Tuttavia lei era esile, quasi minuta, mentre io avevo un discreto strato di muscolatura a coprirmi le ossa. Numerosi erano inoltre i piccoli dettagli che, a occhi familiari, ci rendevano molto diverse. Inoltre, lei di tanto in tanto indossava gli occhiali.

«Penso che se lo facessimo potrebbe seriamente ucciderci» berciai io, immaginando una timidissima Kimberly che prendeva la mano del grande e grosso Lucas.

Era davvero una ragazzina nei confronti di nostro fratello e pensare a loro due insieme – o pensare a mio fratello con una qualsiasi ragazza – mi faceva quasi ribrezzo. Insomma, Lucas era il bambino cicciottello con cui facevo il bagno nella piscina dietro casa, non riuscivo proprio a immaginarlo accanto a qualcuno.

In vista del nuovo anno scolastico avevamo bisogno giusto di qualche nuovo quaderno, alcune penne e molti evidenziatori – perché Lucas rubava sempre i nostri per sottolineare gli schemi da mettere in atto alle partite – per cui mezz'ora dopo avevamo già terminato le nostre compere.

«E di Austin, che mi dici?» domandò Amy mentre uscivamo dal centro commerciale con le buste alla mano per dirigerci alla nostra auto.

Avevamo scaricato Lucas a casa di Boot prima di uscire per fare in modo che non ci chiamasse a causa di quelli che lui chiamava imprevisti dell'ultimo minuto – e che solitamente erano cazzate immani che attiravano su di lui l'ira funesta della dea Amelia – pregandoci in aramaico antico di lasciargli la macchina.

«Non saprei, so solamente che anche lui gioca sulla fascia» spiegai mentre le portiere della nostra auto si chiudevano in contemporanea; facevamo le gemelle inquietanti anche quando non era nostra intenzione, eravamo sempre pronte per un film di Stanley Kubrick.

«Oh, certo, adesso sì che è chiaro, praticamente posso dire di conoscerlo da una vita» mi schernì la mia adorata sorellina con la sua placida ironia, tirandomi una pacca sulla spalla mentre io giravo le chiavi nel nottolino.

Le feci la linguaccia senza voltarmi, tenendo gli occhi incollati sul parabrezza mentre mi immettevo in strada e, notando il mio ostinato silenzio, fu lei a riprendere il discorso, dicendo: «Andiamo, dimmi qualcosa di lui... È carino?».

Avevo perfettamente capito il gioco che stava facendo e non avevo intenzione di darle corda. Amelia sosteneva che dovessi ampliare i miei interessi, non guardare solo i miei amati calciatori che, oltre che bellissimi, erano anche irraggiungibili.

Io, d'altra parte, non ero interessata a trovarmi un ragazzo, né tantomeno mi sentivo pronta ad abbandonare quei calciatori di cui lei apprezzava solo i muscoli, io principalmente le doti sportive. E ovviamente i quadricipiti perché, insomma, mica ero cieca.

«Beh sì, penso sia carino» biascicai senza prestarle troppa attenzione. Se aveva posto quella domanda era perché aveva intuito qualcosa – prima che lo intuissi io, tra l'altro, e la cosa mi indispettiva non poco – per cui non volli darle anche la soddisfazione di avere ragione.

In effetti Austin era più di quello che si poteva definire un ragazzo carino: alto, ben piazzato, angelici ricci biondi, magnetici occhi blu, bel sorriso...

«Carino? Tutto qui? Dal suo profilo instagram sembra un gran figo» interruppe le mie turbe mentali Amelia, sorridendo maliziosamente.

Ovviamente aveva messo in azione le sue abilità da stalker e sicuramente l'aveva cercato su tutti i social network esistenti. Se avevo ragione, era riuscita a rintracciare persino le foto degli annuari scolastici delle elementari.

Doveva trovarsi assolutamente un hobby, altrimenti la mia sanità mentale ne avrebbe risentito. Oppure dovevo trovarle un ragazzo, così avrebbe smesso di rompere le scatole a me affinché mi dessi una svegliata, come diceva sempre lei.

«Che me lo chiedi a fare se l'hai già cercato?» chiesi retorica svoltando in una strada principale.

Avevo intenzione di raggiungere una delle gelaterie migliori della città, quella in cui solitamente papà ci portava per farci sfuggire alle grinfie mamma, sperando che una buona dose di zuccheri placasse la sua curiosità.

«Volevo l'opinione di una che esce con più calciatori che amiche... anche se poi non se li porta a letto» chiocciò, sollevando le sopracciglia con aria saccente.

Amelia faceva continui riferimenti al fatto che la maggior parte dei miei amici erano in realtà compagni di squadra di Lucas e che, nonostante fossi circondata da quelli che lei definiva bellimbusti, non ne avessi ancora rimorchiato uno. Iniziavo a sospettare che fosse lei quella che voleva rimorchiare un calciatore, anche se in effetti non potevo escludere a priori che l'avesse già fatto e che poi l'avesse anche mollato.

«Secondo me dovresti provarci con lui, non mi pare abbia una ragazza» terminò, mentre io sbuffavo infilandomi nel parcheggio.

La scrutai di sottecchi mentre entrambe scendevamo dall'auto e ci dirigevano verso l'ingresso della gelateria e non potei non notare il sorrisino irriverente che si era cucito sul suo visetto angelico.

Dio, l'avrei volentieri presa a schiaffi quando faceva così!

«Sai, sorellina, dovresti tapparti la bocca con del gelato» ignorai le sue occhiate allusive avvicinandomi alla cassa.

Un ragazzo moro si ergeva dietro la sua postazione e sorrideva in attesa delle nostre ordinazioni. Feci la mia richiesta, dopodiché Amelia fece la sua e il ragazzo la osservò un po' indispettito. Probabilmente si sentiva confuso dal fatto che l'esatta fotocopia della sua cliente precedente aveva appena ordinato un gelato completamente diverso; quel pomeriggio avevamo anche avuto entrambe l'idea di indossare una canottiera bianca.

Solitamente cevitavamo di vestirci da gemelle poiché già i nostri comportamenti in sincro ci facevano apparire inquietanti, tuttavia non l’avevamo notato prima di specchiarci nella porta scorrevole di ingresso del centro commerciale, quindi non avevamo potuto porre rimedio.

Quando il ragazzo si accorse che eravamo due persone diverse si prese qualche istante per osservarci, arricciando le labbra in un sorriso sornione, poi disse con voce melliflua: «Wow, ci vedo doppio o queste due belle ragazze sono proprio davanti a me? Ho sempre sognato di avere un tête-à-tête con due gemelle».

«Il mio sogno è che nessuno dica più una cosa del genere» soffiò Amelia tirandogli via lo scontrino dalle dita, interrompendolo prima che potesse aggiungere qualsiasi altro commento non richiesto – e non gradito, ovviamente.

Dire che non tollerava le persone arroganti era un eufemismo, avrebbe di gran lunga preferito ingoiare un rospo che tenere a freno la lingua in un’occasione del genere, eppure spesso teneva per sé le sue risposte piccate.

«Chissà, magari con la sorella sarò più fortunato» chiosò lui, spostando lo sguardo sempre tronfio su di me. «Che dici, zuccherino, mi aspetti a fine turno?»

Amelia si accigliò, limando gli artigli e preparandosi alla difensiva mentre serrava la mascella, sforzandosi di contenere la rispostaccia che le era risalita da sola sulla punta della lingua; io, che d'altra parte sapevo difendermi da sola, ero già pronta all'attacco.

«Sarai fortunato se avrai ancora la lingua a fine turno» risposi con un'occhiataccia, caricandola di tutto il disappunto che fui in grado di reperire.

Con due identici sguardi irritati ci spostammo dalla sua vista, seguitando il silenzio per non far trapelare la nostra indisponenza, e ordinammo i nostri gelati.

Eravamo consapevoli di essere due belle ragazze, d'altronde essendo gemelle omozigote era impossibile fare apprezzamenti all'altra senza farli indirettamente anche a se stessa, tuttavia mal tolleravamo l'atteggiamento spavaldo con cui si era rivolto a noi quel ragazzo, con una tracotanza senza precedenti che trasudava prepotenza e alterigia.

«Quando capiranno che non basta essere mediamente carini per provarci così spudoratamente?» mi sussurrò Amelia con cipiglio corrucciato mentre una commessa, questa volta molto più gentile ed educata, ci passava i nostri gelati.

«La cosa più sconvolgente è che ci sono ragazze che abboccano» biascicai, indicando col capo una ragazzina che si scioglieva di fronte al sorriso caloroso del cassiere mentre noi ci dirigevano al tavolo.

Nulla contro di lei, però la reputavo alquanto ingenua se aveva ceduto con tanta facilità alle avances del ragazzo, il quale tra l'altro era sì carino, ma niente di eccezionale – non che l’aspetto potesse giustificare una tale tracotanza, a ogni modo.

Mia sorella e io non avevamo dei caratteri semplici, ne eravamo perfettamente consapevoli, e il fatto che negli anni erano state pochissime le persone in grado di scavarsi un posto al nostro fianco, sgomitando per entrare nella nostra cerchia ristretta, ne era la dimostrazione.

Eravamo due bombe a orologeria, instabili e insidiose, pronte a innescarsi reciprocamente e, si sa, quando esplode una bomba crea solamente terra bruciata intorno a sé.

«Spero che Austin non sia così supponente, altrimenti si è già bruciato la mia benedizione» sentenziò infine Amelia, con un'ultima occhiata schifata in direzione del cassiere, prima di dedicare la sua completa attenzione a ciò che davvero lo meritava: il gelato.

 

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Capitolo 7
*** Questione di magliette ***


Questione di magliette

Riprendere la routine scolastica era quasi una tortura per noi giovani e già stanchi Miller. Il primo mattino eravamo sgusciati dal letto uno più assonnato dell'altro, con la mamma in cucina che ci preparava i pancake e papà che cercava per tutta la dispensa lo sciroppo d'acero – spoiler: alla fine non l'aveva trovato ed era toccato alla magnifica Maeve Miller recuperarlo dal cassetto dimenticato dal mondo in cui l'aveva riposto.

Ma, dico io, in base a cosa si aspettava che papà lo trovasse se lei lo nascondeva proprio per evitare che noi lo mangiassimo di nascosto? Bah, quella donna ci avrebbe fatto impazzire!

I miei genitori si alzavano sempre intorno alle sette per andare al lavoro e rincasavano spesso a orari improponibili, per cui la colazione era uno dei pochi pasti che consumavamo insieme. Certo, di solito la mamma non si alzava abbastanza presto da preparare i pancake, ma ci accontentavamo del succo d'arancia e dei nostri biscotti preferiti.

L'unica cosa positiva di quel primo giorno – oltre ai pancake, ovviamente – era l'inizio degli allenamenti.

Le lezioni mattutine erano trascorse tranquillamente, con Kate che di tanto mi martellava nell'orecchio nuove tattiche da proporre al mister, salvo poi essere ripresa dai docenti. Non che stessero spiegando granché comunque, nelle prime lezioni veniva perlopiù illustrato il programma, le modalità e la frequenza dei test ed eventuali progetti da svolgere durante l'anno. Sinceramente non vi stavo prestando particolare attenzione, adoravo il brivido di scoprire con poco preavviso le scadenze e adoravo Amelia che mi insultava quando le dimenticavo e rischiavo di saltarle.

Beh, adoravo soprattutto il fatto che mi aiutava a ripassare prima dei test.

Una procrastinatrice seriale quale io sono si sarebbe comunque ridotta all'ultimo minuto per portare a termine i propri doveri, guadagnandomi una buona dose di rimbrotti dalla mia adorata gemella che fungeva anche da mia agenda personale.

Magari questo non facciamoglielo sapere, non credo che la prenderebbe particolarmente bene se sapesse che la sfruttavo per mantenere una buona media scolastica. D'altronde la sua era strepitosa, non aveva bisogno del mio aiuto, altrimenti gliel'avrei offerto senza remore. Dopo averle chiesto qualcosa in cambio, ovviamente.

A ogni modo, l'inizio degli allenamenti mi aveva spinta a trascinarmi fuori dal letto quella mattina e affrontare le lezioni fino al pranzo, quando avevo mangiucchiato un panino in compagnia di Kate all'aperto, all'ombra degli spalti che circondavano i campetti da calcio.

Eravamo talmente impazienti di iniziare che praticamente avevamo teso un'imboscata al mister. Lui non l'aveva presa particolarmente bene, aveva minacciato di cacciarci dalla squadra se non ci avessimo dato un taglio, poi aveva sorriso e si era defilato con un occhiolino. Potevamo essere piuttosto insistenti su questioni sportive, ma il nostro obiettivo per quell'anno era vincere il campionato e dovevamo farlo a tutti i costi.

Per fortuna il nostro capitano, una ragazza dell'ultimo anno che non arrivava al metro e sessanta ma aveva in sé la grinta di tutte le squadre di tutti i campionati messe insieme, era determinata a chiudere in bellezza il suo percorso accademico e sportivo ed era stata ben lieta di ascoltare le nuove tecniche che io e Kate avevamo studiato.

Ciò che io e la mia amica non avevamo calcolato era l'estenuante allenamento a cui lei e l’allenatore ci avrebbero sottoposto: a quanto pareva il mister aveva deciso di affidare parte dell'allenamento direttamente a Monica Jakobs che era una specie di macchina instancabile.

Se avessi saputo quanti giri di corsa ci avrebbe fatto fare, mi sarei risparmiata tutte le belle parole con cui l'avevo adulata pur di farmi dare ascolto. Kate, implacabile, continuava a sperticare lodi al capitano mentre io a malapena riuscivo a respirare. Sentivo i polmoni in fiamme e il sapore ferroso del sangue in bocca mentre i miei quadricipiti imploravano pietà.

Non mi allenavo così duramente dalla fine dello scorso campionato, poi tra le vacanze estive e le due settimane in Africa ero un po' scaduta nella corsa. Dopo quella seduta, tuttavia, ero certa di aver riacquistato tutte le mie capacità, se non di averle addirittura migliorate.

«Hey, Kate, hai esaurito le batterie?» le domandai esausta piegandomi sulle gambe. Ormai la coda era completamente sfatta, ero madida di sudore e respiravo con così tanta fatica che a momenti avrei sputato un polmone, e lei intanto parlava con estrema tranquillità.

«Ti prego, spegnila» mi sussurrò un'altra compagna spintonandola nella mia direzione. Ne approfittai per intercettare il suo braccio e trascinarla via prima che convincesse Jakobs a farci fare altri dieci giri di corsa e attirasse su di noi l'ira dell'intera squadra.

Anche i ragazzi avevano appena finito il loro allenamento e si dirigevano verso gli spogliatoi con aria flemmatica. Ne approfittai per mollare Kate nei paraggi di Lucas, il quale stava discutendo con Malcolm e Garret di qualche tattica da perfezionare, e sperai che la sua immensa bellezza –ovvero sudato, puzzolente e con l'aria bianchiccia di chi sta per collassare a momenti, ma non la giudicavo mica per i suoi pessimi gusti! – la distraesse quanto bastava da permettermi di defilarmi e fare una doccia.

Sentivo l'estrema necessità di lasciarmi ristorare dal getto d'acqua fredda, e non solo perché le mie condizioni non erano migliori di quelle Lucas – a eccezione dell'aria bianchiccia, io sembravo più un pomodoro sul punto di esplodere –, ma soprattutto perché non percepivo più i muscoli e temevo che le mie gambe avrebbero ceduto da un momento all'altro.

Per fortuna – o sfortuna, che dir si voglia – le caldaie degli spogliatoi funzionavano una volta sì e dieci no. L'unico inconveniente era che, a meno che non volessi una polmonite fulminante, dovevo fare la doccia in meno di due minuti. Ma anche in quel caso la sorte era dalla mia parte dato che, se ci avessi messo troppo, Amelia avrebbe lasciato a piedi anche me e non solo Lucas.

Mi sciacquai in fretta, cercando di mantenere il capo sotto al getto il minor tempo possibile, giovandomi invece del refrigerio che l'acqua fredda seppe donare al mio corpo. Sciolse i muscoli, ridonandomi la percezione di parti del corpo che temevo di aver lasciato in campo, dopodiché asciugai velocemente i capelli con il phon e mi rivestii in tutta fretta.

«Ciao, splendore» mi accolse il sopracitato fratello baciandomi la fronte mentre uscivo dagli spogliatoi, probabilmente dopo aver abbandonato Kate alle cure di Malcolm e Garret, i quali sembravano piuttosto interessati a ciò che la mia amica stava dicendo loro.

«Forse splendore non è il termine che userei in questo momento» biascicai, allontanandomi dai suoi capelli grondanti. Nonostante la doccia ghiacciata, avevo ancora le gote arrossate per lo sforzo e avevo raccolto i capelli ancora umidi in una crocchia disordinata.

Stavo giusto per suggerirgli un paio di termini che avrei trovato più adatti quando adocchiai Austin dirigersi verso gli spogliatoi maschili. Camminava da solo, sorseggiando dell'acqua da una borraccia metallizzata mentre con l'asciugamano si tamponava il collo dal sudore, e poiché non sembrava affatto intenzionato a integrarsi nella squadra reputai fosse una buona occasione per approcciare e dargli una spintarella nella giusta direzione.

Lo intercettai inizialmente con un «Ciao!» a cui tuttavia non rispose, continuando a dirigersi col capo chino verso gli spogliatoi. Era strano che mi stesse ignorando così bellamente, non mi sembrava esattamente nello stile dei Rogers, per cui tentai nuovamente con un più deciso «Hey! Dico a te» accompagnato da un movimento del braccio.

Solo a quel punto Austin si arrestò, raddrizzando il capo prima di voltarsi nella mia direzione, portandosi un dito a indicarsi il petto mentre domandava con tono stupito: «Dici proprio a me?».

«Beh, a chi altri» sorrisi, avvicinandomi di più e guardandomi intorno. Inizialmente pensai ci fosse qualcuno che non avevo notato, ma presto mi accorsi di essere la sola nelle sue vicinanze, per cui era ovvio che non potessi riferirmi che a lui. Mi parve strano che lui stesso non se ne fosse accorto subito.

«Ma... prima... Ti sei cambiata?» chiese, piuttosto confuso, scrutando con particolare interesse la maglietta scura che indossavo. Lui faceva domande sul mio abbigliamento e appariva pure confuso, quello sì che era un bel paradosso!

«No, indosso la stessa t-shirt di stamattina... perché?». A quel punto la situazione era diventata abbastanza strana e i miei buoni propositi stavano scemando. Insomma, dopo gli apprezzamenti al mio dolce potevo aver meditato di inserirlo nel nostro gruppo a scuola, ma se avesse continuato a comportarsi in quel modo bizzarro avrei cambiato ideato molto presto.

«No, stamattina indossavi la camicetta bianca, quella della cena a casa mia... e mi hai fulminato con lo sguardo quando ti ho salutato in mensa» chiosò ancora, aggrottando le sopracciglia e stringendo gli occhi, che apparivano due fari sottili blu notte tanto era concentrato nel tentativo di fare mente locale.

A me, invece, era tutto fin troppo chiaro.

«Credo tu abbia fatto la lieta conoscenza di mia sorella» tentai a quel punto di spiegarmi, voltandomi verso l'ingresso giusto in tempo per notare la mia copia esatta scendere le scale.

Austin seguì il mio sguardo, osservando la figura nitida ma lontana di Amelia e soffermandosi qualche attimo di troppo sulle sue movenze così simili alle mie, infine i suoi occhi sbigottiti si posarono nuovamente su di me. Ecco, a quel punto aveva un ottimo motivo per essere confuso.

«Tua... sorella?» il suo tono di voce si alzò di un paio di ottave mentre Amelia camminava a passo spedito nella nostra direzione con un sorriso tronfio sul viso.

A ogni metro che si lasciava alle spalle le somiglianze tra noi aumentavano esponenzialmente e con esse la marea di interrogativi che vedevo sguazzare nelle iridi blu di Austin, salvo poi essere scacciate in virtù della buona educazione che gli impediva di porgere domande indiscrete.

Non riuscivo in alcun modo a comprendere le motivazioni che avevano spinto quella scema a fingere di non sapere chi fosse quando conosceva benissimo l'aspetto di Austin, indi per cui avrebbe semplicemente potuto dirgli di aver sbagliato gemella senza fulminarlo con quelle occhiate gelide che, in tutta sincerità, facevano paura anche a me che potevo replicare in tutto e per tutto il suo sguardo.

Di sicuro era uno di quei suoi giochetti contorti sulla seduzione e sul modo di rapportarsi agli altri in cui mi avrebbe trascinato contro la mia volontà e che non mi sarebbe piaciuto affatto. Tra l'altro non erano nemmeno funzionali – e questo si poteva asserire con una certa sicurezza dato che entrambe avevamo una sola amica fidata cadauna e nessuno stuolo di ragazzi pronti a farci la corte.

«Beh, la mia adorabile gemellina.»

O meglio, la mia psicolabile gemellina.

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Capitolo 8
*** La prima amica in città ***


La prima amica in città

L'unica spiegazione plausibile che Amelia era riuscita a propinarmi per la scenetta in mensa era che stava mettendo in atto una tattica per me. Per me. Che poi chi le aveva chiesto aiuto?! Io no di certo.

Sosteneva che se gli avesse semplicemente detto di essere la Miller sbagliata in lui non sarebbe scoppiato l'interesse; tuttavia, ignorandolo e rifiutandolo così apertamente, nella sua mente si sarebbe innescato un meccanismo di protezione dell'orgoglio ferito.

Ovviamente era solo una sciocca dato che Austin aveva creduto che lo stessi semplicemente evitando e di conseguenza aveva iniziato a fare lo stesso con me. I suoi giochetti da psicopatica non attaccavano con lui e non potei che essere felice di rinfacciarle quell'atteggiamento, anche se ciò ci costò una plateale discussione fraterna.

«Perché le gemelle continuano a ignorarsi?» domandò papà a cena, incurante del fatto che le due dirette interessate erano sedute intorno alla tavola.

Quando si trattava dei nostri litigi, lui e la mamma tendevano a non volerne sapere mai nulla, timorosi di incappare nelle nostre vendette da gemelle psicopatiche, come le chiamava Lucas quando si schierava dalla parte di una e poi l'altra gliela faceva pagare.

«Non ho ben capito, penso che Amelia abbia fatto la scema con il ragazzo di Sam» spiegò Lucas mentre due identici sguardi assassini gli piombavano addosso.

Potevamo anche essere sul punto di aggredirci con le forchette, ma quando qualcuno si immischiava riuscivamo a deporre le armi giusto il tempo di annientarlo, e Lucas evidentemente non aveva imparato bene la lezione.

«Io non ho un ragazzo» ringhiai contro mio fratello, che ovviamente non aveva capito un tubo della nostra discussione e che ovviamente era giunto a conclusioni affrettate.

A volte avevo l'impressione che parlare a sproposito fosse la sua attività preferita e questo intervento non faceva che dimostrare la proporzionalità inversa tra il suo cervello e i suoi muscoli.

Dannatissimo scimmione, se non fosse stato così enorme gli sarei già saltata al collo per strozzarlo in via definitiva.

«E io non faccio la scema» lo fulminò Amelia con un’espressione sconvolta. In effetti lei non aveva bisogno di fare la scema affinché i ragazzi ci provassero, lo facevano anche se li ignorava, e il fatto che Lucas avesse anche solo potuto pensare che un ragazzo fosse la causa dei nostri litigi offendeva profondamente anche me.

Insomma, tecnicamente avevamo discusso per un ragazzo, ma la questione non era semplicistica come lui l'aveva descritta. E in più io e Amelia non avremmo mai permesso a qualcuno di mettersi tra noi, se dovevamo scannarci lo facevamo per questioni di maggiore rilievo.

Tipo chi aveva rotto l'ennesimo diffusore del phon o quale serie tv era la migliore dell'anno. Quelle erano le cose davvero importanti!

A quel punto mamma decise di intervenire, domandando chi volesse altra insalata prima che le sue figlie attentassero alla vita del suo primogenito; dopo il pessimo intervento di Lucas, l'alleanza tra me ed Amelia era praticamente stata sancita, bastava metterlo fuori gioco e poi pensare a quale bottiglia sbattere sulla testa della mia gemella per tramortirla.

Semplice, no?

«Siamo contenti se hai un ragazzo» s'intromise papà, rivolgendosi direttamente a me. Faceva continui riferimenti al fatto che passavo molto tempo con i compagni di Lucas e mi aveva chiesto diverse volte se avessi una relazione con uno di loro.

Mi rendevo conto che il mio atteggiamento poteva essere frainteso, ma Kate aveva una cotta per Lucas e io preferivo di gran lunga la sua compagnia rispetto a quella di altri studenti. Ciò non implicava che dovessi necessariamente avere una tresca con uno di loro.

«Io non ho un ragazzo» affermai ancora, questa volta rivolgendomi direttamente a lui e riservandogli il miglior sguardo persuasivo che avevo ereditato da Maeve Miller.

«O anche una ragazza» aggiunse immediatamente, sebbene gli apprezzamenti che avevo rivolto fin dalla tenera età a Zac Efron e non a Vanessa Hudgens fossero ben poco fraintendibili. D’altra parte, a lei ci pensava già Amelia.

«E non ce l'avrai se non mi dai ascolto» replicò lei, scoccandomi un'occhiata sapiente e ignorando del tutto nostro padre. Se non l'avesse fatta finita in quel momento esatto le avrei tirato un piatto in testa, risparmiando il vino che i nostri genitori stavano bevendo.

O magari le avrei versato direttamente il vino in testa, così ci saremmo risparmiati un giro al pronto soccorso e una denuncia per aggressione.

«Non lo voglio» digrignai i denti, guardandola negli occhi. Poteva esserci uno specchio in mezzo a noi dato che ci osservavamo con la stessa espressione: un misto di rabbia, stupore e rassegnazione.

«Mi erano mancate le faide familiari durante i pasti» ci interruppe di nuovo la mamma, con un sorriso gioviale che ebbe il potere di scacciare la tensione e riportare l'allegria con una sana risata.

***

A scuola avevo cercato in tutti i modi di intercettare Austin per scusarmi del comportamento di Amelia, invano; la sorte sembrò improvvisamente girare a mio favore quando me lo ritrovai nel laboratorio di scienze

Se ne stava seduto tutto solo su uno sgabello, col capo chino sul banco da lavoro e i riccioli a ricadergli intorno al viso come una cortina impenetrabile di spighe d'oro.

Presi posto accanto a lui con un sorriso, richiamando la sua attenzione con un casuale quanto studiato colpo di spalla che gli fece piegare il volto e arricciare le labbra con una spontaneità inaspettata.

Decisi di parlargli prima che il professore arrivasse. «Ti devo delle scuse per Amelia» iniziai, passandomi una mano tra i capelli senza sapere bene come continuare.

A scuola era risaputo che mia sorella non aveva un bel carattere: non era cattiva, semplicemente odiava perdere tempo e dunque si cercava di non infastidirla con quelle che lei reputava scemenze, per cui io non ero abituata a scusarmi per il suo comportamento... ordinario.

«Figurati... Penso di non esserle molto simpatico» azzardò, stirando il sorriso e trasformandolo in una smorfia a causa del naso arricciato.

«Oh no, quello è il suo modo di rapportarsi agli sconosciuti» tentai invano di giustificarla, sapendo che in realtà aveva esagerato per tentare di accendere in lui una scintilla. Aveva una mente decisamente contorta.

«Sei sicura? Aveva l'aria di una che voleva uccidermi con gli occhi» spiegò abbassando il tono mentre il docente faceva il suo ingresso in classe e iniziava le presentazioni di rito.

«Beh lei... è un po' particolare» risposi lasciandomi sfuggire una risatina. Particolare era decisamente un aggettivo che si addiceva ad Amelia. «Ma puoi stare tranquillo, non ha ancora imparato ad uccidere con lo sguardo!»

«Questo mi rassicura» rise anche lui, iniziando poi a prestare attenzione all'uomo col papillon che sedeva dietro alla cattedra e aveva iniziato a illustrare il programma di scienze.

Austin non era come me l'ero immaginato sulle scale: non era un riccone annoiato che tentava di nascondersi a una festa, ritenendo gli altri ospiti indegni della sua presenza.

Ci avevo avuto ben poco a che fare, per lo più in compagnia di altre persone e in ambienti neutrali quali un soggiorno con i nostri genitori e un campo da calcio, passione comune, ma non mi sarebbe dispiaciuto conoscerlo meglio dal momento che mi sembrava piuttosto simpatico.

E poi era bello, c'era da ammetterlo: i capelli biondi gli ricadevano in morbidi boccoli chiari fin sopra le spalle, sbeccando gli spigoli della mandibola squadrata e il naso pronunciato; le labbra, gonfie e rosee, contribuivano ad alleggerire i lineamenti duri, e gli zigomi definiti catalizzavano l'attenzione sui lapislazzuli cobalto che aveva al posto degli occhi.

«Come mai vi siete trasferiti qui?» domandai, mentre il professore si voltava per disegnare strutture alla lavagna. Volevo saperne qualcosa in più su quel ragazzo dato che, come aveva sottolineato Amelia al centro commerciale, conoscevo solamente il suo ruolo nel calcio.

«Bella domanda» rispose con una nota di risentimento nella voce. Supposi fosse un argomento di cui non aveva intenzione di parlare, per cui, nonostante la curiosità dilagante, mi limitai a tacere e lasciargli un sorriso di circostanza.

Il professore ormai parlava ininterrottamente da un po' quando Austin mi lanciò un'occhiatina di sbieco, assicurandosi di avere ancora la mia attenzione; probabilmente voleva anche accertarsi che la sua risposta brusca non mi avesse turbato.

Me ne accorsi solamente perché avevo il capo voltato nella sua direzione per recuperare una penna rotolata sul banco, così gli rivolsi un sorriso di circostanza e tornai a prestare attenzione al docente.

«La versione ufficiale è che papà ha ottenuto una promozione, un lavoro in uno studio molto importante a cui è impossibile rinunciare» sussurrò con voce leggera, lasciandomi intendere che quelle parole per lui contassero ben poco.

Fui costretta a drizzare le orecchie per evitare di perdermi qualche sillaba tanto il suo tono era flebile, ma data la delicatezza dell'argomento non me la sentii di fargli ripetere qualcosa che non avevo udito.

Ero indecisa se rispondere o meno quando fu lui a continuare. «Peccato che fosse un socio di maggioranza del suo vecchio studio e adesso è un semplice avvocato del Kolman Team» soffiò infine, serrando i denti.

Era chiaro che non si fidava minimamente delle parole gli erano state propinate, tuttavia io conoscevo lo studio, anche mio padre lavorava lì, e sapevo quanto fosse complicato anche solo ottenere un colloquio. Sapevo inoltre che il grande capo, il signor Kolman, aveva studiato nello stesso college di papà e del signor Rogers, dunque non faticavo a credere che avesse scelto un ex compagno di studi come nuovo dipendente.

«Anche mio padre lavora lì, è uno degli studi più importanti dello Stato» provai a convincerlo. Di sicuro molte erano le cose che non gli tornavano e che l'avevano portato a dubitare della veridicità delle parole dei suoi genitori, ma almeno su quello erano stati sinceri.

«Ho fatto le mie ricerche, so quanto è prestigioso, ma non per questo molli di punto in bianco i tuoi colleghi e non dai possibilità di metabolizzare alla tua famiglia» sputò velenoso, stringendo i pugni. La vena del braccio si gonfiò, pulsante, e il bicipite guizzò dalla stoffa della maglietta scura che indossava, mentre i suoi occhi si scurivano e la sua mascella si irrigidiva.

Non avevo la minima idea di cosa avrei dovuto fare per cercare di calmarlo – in effetti non comprendevo nemmeno se la sua fosse rabbia vivida o nervosa agitazione – per cui mi limitai ad allungare il braccio accanto al suo e stringergli la mano. La sua pelle era bollente a causa della temperatura settembrina piuttosto elevata, ma le dita che si avviticchiarono intorno alle mie erano appena tiepide e non sudate.

Gli sorrisi di sbieco mentre il professore prendeva di nuovo posto dietro la cattedra e per un po' tra noi aleggiò un silenzio tranquillo.

«Non so nemmeno perché te ne sto parlando» biascicò infine, sciogliendo la presa tra le nostre dita per grattarsi nervosamente la nuca.

«Ovviamente perché sono un'ottima confidente e tu vuoi far decollare il mio futuro da psicologa» spiegai risoluta, sollevando le sopracciglia con espressione eloquente e strappandogli una risatina.

Il professore rivolse un'occhiataccia nella nostra direzione, ma poiché non poteva presumere con esattezza chi stesse ridendo non ce ne preoccupammo molto.

«Sì, sono certo che alle serata di beneficenza tu abbia potuto studiare diversi esemplari di casi umani, sarai già a buon punto» rispose, tenendomi il gioco e sorridendo, questa volta più apertamente. «Poi io sono un ottimo caso clinico dato che sono mesi che non parlo con qualcuno.»

Non immaginavo nemmeno lontanamente come potesse sentirsi a essere catapultato in una città nuova, in una scuola nuova, senza il dovuto preavviso o le giuste spiegazioni. Non sapevo come ci si sentisse a ritrovarsi isolato e lontano dagli amici, dagli affetti che aveva costruito magari con fatica, per cui preferii tacere piuttosto che rivolgergli qualche frase di circostanza che sicuramente non sarebbe servita a nulla.

«Mio padre si è trasferito subito e ha iniziato a cercare casa, io e Kimberly abbiamo voluto terminare l'anno e nel mentre mia madre ha sistemato tutti i documenti; a luglio anche noi ci siamo trasferiti qui, in quella casa isolata fuori città da cui non abbiamo contatti con la civiltà.»

Ormai la sua era divenuta una confessione e in effetti Austin aveva l'aria di uno che non parlava apertamente con gli altri da un parecchio tempo. Probabilmente dopo il trasferimento improvviso aveva avuto delle discussioni con i suoi genitori e immaginavo che la sua sorellina non fosse esattamente la confidente adatta.

 «Mi stai dicendo che sono la persona più interessante con cui parli da luglio? Sei messo piuttosto male» gli dissi sarcastica, colpendogli la spalla con la mia e strappandogli così un'altra risatina.

Ero contenta di potergli essere utile in qualche modo, anche solo ascoltando la sua storia o facendo dell'ironia, e il fatto che lui reggesse il gioco rendeva interessanti le conversazioni.

«Beh, non ho molti vicini» continuò infatti storcendo il naso e confermando i miei pensieri pregressi.

Aggrottai la fronte con un finto cipiglio annoiato, nascosi l'occhiolino tra i capelli mossi e finsi di prestare attenzione alla lezione nel tentativo di non fargli percepire il sorrisetto che le parole che stavo per pronunciare mi avrebbero fatto spuntare a tradimento sul viso.

«Sei fortunato, hai appena trovato la tua prima amica in città.»

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Capitolo 9
*** Di aggressioni verbali e amputazioni promesse ***


Di aggressioni verbali e amputazioni promesse

La prima partita di campionato si giocava in casa contro una squadra che non temevamo affatto. Nei campionati precedenti si erano sempre classificate nelle ultime posizioni e, nonostante il mister ci avesse avvertito di non sottovalutare le avversarie, in quel caso non ci dovemmo preoccupare affatto. Non fu una partita particolarmente difficile, io ero titolare e giocai piuttosto discretamente, riuscendo a mandare in goal un paio di azioni.

Durante l'intervallo tra il primo e il secondo tempo adocchiai papà e Lucas sugli spalti: se la ridevano amabilmente discutendo sulle azioni salienti e papà mi fece l'occhiolino mentre gli passavo davanti con le mie compagne per andare negli spogliatoi; Lucas, d'altra parte, era troppo impegnato a gesticolare con Garret e Boot per accorgersi di me o di Kate, che lo osservava sognante.

Negli spogliatoi il mister ci incoraggiò mentre Monica sgambettava ovunque, felice di quella sua prima vittoria nell'ultimo anno da capitano. In realtà mancava ancora un tempo, ma la situazione era già chiara anche agli spettatori, che ci accolsero con un caloroso applauso e urla di giubilo.

Nel tumulto generale riconobbi Austin, seduto accanto a un paio di volti a me sconosciuti; poiché non era assieme ai suoi compagni di squadra dedussi che non aveva ancora molta confidenza con loro. Gli rivolsi una linguaccia irriverente che gli fece spuntare un sorriso radioso mentre entravo in campo con le mie compagne.

Anche il secondo tempo filò liscio come l'olio, riuscii persino a mandare a segno un goal io stessa e in quel momento percepii distintamente la voce di mio padre soffocare un ringhio. Checché ne dicesse riguardo ai genitori tifosi, quando i suoi figli centravano la porta non riusciva a trattenersi del tutto e io avevo imparato a riconoscere perfettamente la sua voce nonostante tutto quel caos.

A fine partita ovviamente fummo invasi dai tifosi mentre le nostre avversarie si dirigevano mestamente negli spogliatoi degli ospiti. Lucas mi era quasi saltato addosso rischiando di farmi stramazzare al suolo – il suo entusiasmo attentava sempre alla mia salute, sia fisica sia mentale; papà invece si era complimentato velocemente, dopodiché era sparito dalla nostra vista. Garret e Boot stavano osservando il mio capitano saltellare in mezzo al campo e, se le loro espressioni non mi ingannavano, erano sul punto di dire qualche baggianata delle loro.

«Scommetto venti dollari che Monica Jakobs è strafatta di crack» borbottò Malcolm a Garret, come avevo supposto, senza toglierle gli occhi di dosso.

Era vero che, per essere un individuo che non arrivava al metro e sessanta, il capitano sapeva essere davvero energica, ma da lì a proporre che fosse fatta ce ne voleva! Monica aveva un carattere esuberante, quasi spumeggiante direi – dove per spumeggiante intendevo che era schizzata come la schiuma della coca cola dopo aver agitato per bene la lattina –, ma chiunque la conosceva sapeva che non aveva bisogno di ubriacarsi o strafare per essere così, era semplicemente se stessa, nevrosi compresa.

«Bella partita, Miller» mi apostrofò Austin entrando nel mio campo visivo. Non l'avevo visto arrivare, mi aveva colto di sorpresa con un buffetto sulla spalla e me l'ero semplicemente ritrovato davanti, con la sua cortina di spighe d’oro a incorniciargli il viso e smussare i lineamenti spigolosi.

«Lo so, Rogers, un giorno ti insegno» lo schernii in risposta, rifilandogli un occhiolino volutamente ammiccante in maniera grottesca.

«Ah davvero? Se non ingoi troppa polvere a corrermi dietro» mi provocò con uno sguardo irriverente. Mi piaceva il nostro modo di scherzare e prenderci in giro a vicenda, Austin era sarcastico e sapeva stare al gioco, accettava la sconfitta e non sembrava permaloso come la maggior parte dei maschi. Inoltre, non aveva mai frainteso i miei tentativi di approccio, dunque non aveva mai osato andare oltre le semplici battutine pungenti che ci eravamo scambiati fino ad allora.

«Temo che ti stia confondendo, forse tu ne hai già presa fin troppa di polvere» risposi saccente, sollevando le sopracciglia e facendo scoccare la lingua sul palato, mentre con un sorrisetto mal trattenuto Austin si apprestava a controbattere.

Il nostro amichevole diverbio fu però interrotto dall'arrivo di quel pallone gonfiato di Martin Hurt, che in maniera baldanzosa si avvicinò a noi con un ghigno beffardo, senza riuscire a staccarmi gli occhi dosso. Era talmente egocentrico che persino le sue arie si davano delle arie.

«Complimenti Miller, bel tiro» soffiò con un sorriso falso, sbucando alle spalle di Austin. Ovviamente non mi fidavo di lui e avevo un brutto presentimento, non solo perché le nostre conversazioni erano sempre state quanto di meno amichevole potesse esserci. Avevo compreso, inoltre, che quando si avvicinava in quel modo a qualcuno, lasciando ciondolare le braccia lungo il corpo e dipingendosi in volto quel suo odioso ghigno beffardo, non prometteva nulla di buono.

«Per essere una coi piedi storti ti è andata piuttosto bene a centrare i pali» gli diede man forte il suo amico. Non era nella squadra di calcio ma era praticamente l'ombra di Hurt in tutto e per tutto, non solo perché si trovava ovunque fosse lui, ma anche perché era uno spilungone magrolino che vestiva sempre di nero e avevo il volto costantemente rabbuiato.

«Per fortuna non ti sei mai allenato con me, non sia mai che al posto della porta colpisca la tua faccia» attaccai immediatamente, rivolgendomi esclusivamente a Martin. Non mi interessava il suo amico, lo consideravo una sorta di insignificante soldatino votato alla causa.

«Sono sicuro che non ci riusciresti neanche volendo» mi provocò, sporgendosi verso di me. Stava allungando una mano viscida verso il mio viso, come a volermi carezzare una guancia con il dorso, ma non gli diedi modo di avvicinarsi spintonandogli il braccio lontano dalla mia faccia.

«Se ci provi di nuovo, te la taglio» sputai minacciosa, osservandolo con occhi furenti. Ci mancava solo che iniziassi a sputare scintille e poi Amelia avrebbe potuto chiedermi consigli su come intimidire le persone.

Ovviamente Hurt non si era spostato di un millimetro, immobile e temerario in una perfetta incarnazione del machismo, ma il suo sguardo spaesato l'aveva tradito quando, per un attimo, una scintilla di sincero terrore gli aveva attraversato gli occhi.

«Hey, dolcezza, non essere aggressiva con me» si riprese immediatamente, cancellando il timore e sostituendolo con sincera strafottenza. Sinceramente avrei preferito vederlo tremare, anche se combattere una battaglia ad armi pari era decisamente più stimolante che vincere in partenza senza doversi esporre più di tanto.

«Non chiamarmi dolcezza» attaccai di nuovo, senza togliergli gli occhi di dosso. Non si poteva mostrare cedimento davanti a una persona del genere o ne avrebbe approfittato per farti sprofondare, trascinandoti con sé sul fondale e abbandonandoti negli abissi oscuri e tenebrosi, non di certo quelli in cui si trova la magnifica Atlantide.

«Altrimenti?» chiese, ancora più borioso e strafottente.

«Ti rompo il naso» risposi amorevole con il sorriso più tranquillo che riuscii a fingere e l’aria pacifica nettamente in contrasto con le mie parole. Il trucco era sembrare seri: se ci credi tu in primis, agli altri verrà quantomeno il dubbio circa la veridicità delle tue affermazioni.

«Okay, forse è il caso di calmarci» s'intromise a quel punto Austin. Fino ad allora era stato zitto, osservando la scena come uno spettatore esterno, tant’è che avevo addirittura dimenticato la sua presenza a causa della concentrazione di tutte le mie energie su Martin Hurt; forse avrei dovuto dirgli di continuare a farlo e non prestare attenzione a noi, che di teatrini del genere ne avevamo fatti fin troppi e non avevamo alcuna intenzione di placarci.

«Forse è il caso che tu ti faccia gli affari tuoi» biascicò il compare di Hurt, intromettendosi anch'egli di nuovo nel nostro dibattito per ribadire la loro supremazia in quanto maschi alpha per antonomasia.

«Sa decidere da solo cosa fare» ribattei io, più per il mero gusto di contraddirlo che per vero interesse nel farlo, ma anche per risparmiare ad Austin uno scontro con il suo compagno di squadra nei primi giorni di scuola dato che ero certa che sarebbe subentrato nuovamente Hurt.

«Tu non stai mai zitta, vero?» domandò infatti retorico il biondo con un sorrisetto tirato. Non ci eravamo parlati molte volte e tutte erano finite con insulti e minacce di violenza fisica. Non sapevo nemmeno perché ce l'avesse tanto con me dal momento che sembrava andare d'amore e d'accordo con mio fratello.

Ovviamente nei limiti in cui si può andare d'amore e d'accordo con un bastardo che odia tua sorella e non perde occasione per screditarla ma che gioca nella tua stessa squadra ed è sempre amichevole con te.

«Direi che ti sei risposto da solo» asserii con sicurezza. A quel punto molta gente si era accorta della durata eccessiva nostra conversazione e, poiché tutti sapevano quanto fossimo ai ferri corti, nessuno ipotizzava che stessimo chiacchierando amichevolmente; sentivo fin troppi occhi addosso e l'unico che pareva non accorgersi della tensione palpabile era Austin, che si ergeva tra noi e cercava invano di capirci qualcosa.

«Allora, Rogers, cosa ci trovi in lei?» domandò a quel punto Martin, come se mi avesse letto nel pensiero l’ipotetico coinvolgimento del nuovo arrivato. La mia sicurezza vacillò per un istante: non volevo mettere Austin contro il suo compagno di squadra ma al contempo mi rifiutavo di darla vinta a Martin e sapevo che, se avessi ceduto la parola al mio amico, lui avrebbe interpretato il gesto come una dichiarazione di resa.

«Che ti importa, Hurt? Sei geloso?» azzardai la prima cosa che mi venne in mente. Chiaramente era una stronzata campata in aria all'ultimo secondo, ma dal suo sguardo sconvolto intuii che non si aspettava una risposta del genere. Di certo era consapevole che non gli avrei concesso l’ultima parola così facilmente, ma ciò che avevo detto era fin troppo azzardato.

«Volevo solo avvertirlo, sai... in giro si dice che tu non sia davvero una ragazza» disse pacato per poi allontanarsi da noi mentre gli altri finalmente si avvicinavano. Se l'avessero fatto appena due secondi prima ero certa che non avrei sentito i frammenti del mio orgoglio colpire l'asfalto, ma nel silenzio irreale e inquieto che Martin aveva lasciato dietro di sé era stato inevitabile lasciarmi scalfire da quelle ingiurie infamanti.

«Tutto bene?» domandò Lucas osservando il mio sguardo perso mentre Austin non mi toglieva gli occhi di dosso. Non si azzardava a pronunciare parola anche se aveva sentito bene le insinuazioni di Hurt e gli fui grata per non aver detto a mio fratello cosa mi faceva sembrare così turbata.

Era chiaro che le sue parole avevano il solo scopo di ferirmi, il problema era che c'era riuscito sul serio. Avevo passato la mia intera seppur breve esistenza barcamenandomi tra indossare scarpini da calcio e tacchi alti, cercando di raggiungere un precario equilibrio tra la mia passione e il mio genere, eppure stavo permettendo a un idiota qualsiasi di mettere in dubbio la mia femminilità solo per lo sport che praticavo.

Trovavo assurdo il modo in cui fosse riuscito a colpire proprio nel punto più doloroso, quello in cui mi sentivo più debole, quello che mi arrecava tante insicurezze, ed era inaccettabile che potesse passarla liscia senza darmi diritto di replica.

No, decisamente, non avrei potuto permetterlo… e avevo già un piano.

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Capitolo 10
*** TAC total body ***


TAC total body

Le insinuazioni di Martin Hurt mi avevano colpita molto più del dovuto, me ne rendevo conto, ma ero davvero al limite e non gli avrei permesso di avere l'ultima parola, non su un argomento del genere. Non ero mai stata una persona che teneva troppo all'apparenza, i miei genitori mi avevano insegnato fin dalla culla che non è sempre oro quello che luccica, anche se tutti vogliono spacciarlo per tale.

In quell’occasione, tuttavia, avevo scomodato Amelia per un'opera di restauro quasi totale. C'era la festa dei sedici anni di una delle cheerleader, Margot Evans, e ovviamente aveva invitato mezza scuola, comprese le due squadre di calcio al completo. Sarebbe venuta anche Amelia perché le due erano amiche da tempo; in effetti, Margot era probabilmente l’unica a potersi definire amica di Amelia.

Avevamo passato l'intero venerdì pomeriggio a prepararci per la festa sotto lo sguardo incuriosito di Lucas, che di tanto in tanto veniva a disturbare per domandare a cosa servisse questo o quel pennello. Io ero una truccatrice discreta, per i miei standard era più che sufficiente, ma Amelia era la vera make-up artist e aveva bacchettato nostro fratello ogni volta che si avvicinava troppo ai suoi strumenti.

Non aveva fatto nulla di troppo eccessivo o vistoso, semplicemente una linea di eyeliner sugli occhi, poi li aveva messi in risalto con quello che lei definiva uno smokey eye sui toni del bronzo – praticamente aveva usato dieci colori e altrettanti pennelli per far sembrare il trucco uniformemente sfumato.

Nonostante l’apparente semplicità, in realtà era molto elaborato e impegnativo, ed ecco perché avevo avuto bisogno di lei: non sarei mai stata in grado di realizzarlo da sola e l'effetto finale era davvero notevole. Infine, avevamo chiuso la questione make-up con un rossetto nude per evitare di appesantire troppo il viso.

Mentre anche Amelia provvedeva a truccarsi, io avevo svuotato il mio intero armadio alla ricerca di qualcosa di provocante ma comodo da indossare che puntualmente veniva bocciato dalla mia gemella. Stavo giusto per esaurire la pazienza e prenderla a schiaffi quando tirò fuori dal suo armadio un abito tortora e me lo passò con uno sguardo che non ammetteva repliche.

Arrivava a metà coscia e lasciava la schiena scoperta fino alla base, mentre davanti si apriva in un morbido ma profondo scollo a V coperto dal pizzo, il quale si estendeva anche in parte alle maniche.

«Non sarà un po' eccessivo?» domandai, osservandomi allo specchio. Il vestito era molto bello ma forse un po' troppo attillato per i miei standard: fasciava perfettamente ogni minima curva del corpo, delineando in particolare la vita stretta e la conca dell’ombelico, ponendoli in netto contrasto con il fondoschiena sodo e le cosce muscolose.

«Vuoi scherzare?! Sei uno schianto! Hurt cadrà ai tuoi piedi... e non solo lui» sorrise sorniona mentre indossava a sua volta il vestito blu notte che aveva scelto per l'occasione. Era un abito dal tessuto leggero, con le bretelline sottili che lo facevano aderire al petto e la gonna svolazzante che si gonfiava a ogni movimento.

«Non voglio che Hurt cada ai miei piedi, voglio che stramazzi al suolo e non riesca più ad alzarsi» dichiarai con sicurezza, un sorriso soddisfatto cucito sul volto, mentre entrambe scendevamo lentamente le scale a causa dei tacchi alti.

Lucas ci osservò un po' interdetto dal soggiorno, poi domandò con fare innocuo: «Sei sicura di essere Sam e non Amelia?» tirandomi un buffetto.

La risposta della mia gemella fu però interrotta dall'entrata della mamma che incitava papà a darsi una mossa per non perdersi quanto fossimo belle.

«Hai messo i tacchi a spillo di tua sponte?» domandò papà ridacchiando dopo essersi precipitato nella stanza e aver baciato entrambe sulla fronte.

Ero stata costretta, con un vestito così corto dovevo assolutamente sembrare ancora più slanciata di quanto non fossi e le gambe quasi del tutto scoperte dovevano sembrare più sode e toniche di lastre di cemento.

«Li userò per difenderle da tutti quelli che ci proveranno con le mie sorelline stasera» asserii Lucas con sicurezza facendo scoppiare tutti a ridere. Mamma ci trattenne ancora qualche minuto per le raccomandazioni di rito, dopodiché salimmo in auto alla volta di casa Evans, dove finalmente avrei messo in atto il mio piano.

***

La festa era iniziata da un po' e io mi sentivo leggermente a disagio col vestito di Amelia. Non era propriamente nel mio stile e, nonostante fosse bellissimo, iniziavo a pensare che fosse fin troppo appariscente per una festa di sedici anni.

A nulla erano valsi i complimenti di Lucas o le opere di convincimento di Amelia, almeno finché Martin Hurt non si era avvicinato a mio fratello e ai suoi amici. A quel punto Amelia mi aveva sussurrato di alzarmi, dopodiché aveva urlato a voce fin troppo alta: «Vado a cercare Margot, ci vediamo dopo, Sam!».

Nel sentire quel nome, Hurt si era voltato immediatamente nella mia direzione, osservandomi di sottecchi. I suoi occhi si erano posati su ogni centimetro del mio corpo scoperto, a partire dai piedi racchiusi nei sandali e risalendo sulle gambe e sulle cosce sode, sulla vita racchiusa nell'ambito attillato, sulla scollatura coperta dal pizzo. Quando finalmente era giunto al viso praticamente mi aveva fatto una TAC total body e, dal mio sguardo soddisfatto e irriverente, dovette accorgersi solo in quel momento che l'avevo notato anch'io ed era troppo tardi.

«Ti sei rifatto per bene gli occhi, Hurt?» domandai retorica scoccandogli un'occhiata beffarda. Era piacevole che fossi io quella impertinente e derisoria, che tiene le redini della conversazione. Di solito era in grado di farmi perdere la pazienza e passare alle minacce nel giro di un paio di parole, invece stavo scoprendo che mantenere la calma e lasciarlo cuocere nel suo brodo poteva essere più soddisfacente.

«Questo è uno scherzo, tu sei la gemella» tentò di giustificarsi. Sapeva che non potevo essere Amelia, lei mi aveva chiamato solo pochi istanti prima e ora ballava allegramente con le braccia attaccate al collo di Margot; io e la festeggiata, invece, non avevamo tutta quella confidenza.

«E quale sarebbe la differenza? Siamo praticamente identiche» lo sfidai ancora, sapendo di tenere il coltello dalla parte del manico.

Non avrebbe dovuto fare quell’insinuazione, non gliel’hanno mai detto che la vendetta è donna e si serve gelida su un piatto d’argento?

«Lei sarà più simpatica di te» biascicò, forse pensando di poter ribaltare la situazione. Peccato che tutti erano a conoscenza del carattere particolare di Amelia, di quanto fosse schiva, diffidente e controversa.

Io, invece, ero quella che risollevava il morale della squadra dopo una sconfitta schiacciante, ero quella che faceva baldoria con il fratello e i suoi amici nei corridoi, ero quella che salutava mezza scuola pur non ricordandone il nome perché, anche se ci eravamo parlati l’ultima volta in prima elementare, eravamo comunque amici.

«Sai bene che non è così» replicai, saccente, facendo un passo verso di lui. Per quanto odiassi i tacchi a spillo dovevo ammettere che, per una volta, essere alla sua altezza era davvero piacevole; nonostante le mie caviglie stessero chiedendo pietà, provavo una soddisfazione immane nel poterlo guardare dritto negli occhi e osservare perfettamente ogni sfumatura del suo sguardo limpido: era contrariato, indispettito, ostile e persino stupito.

«Magari piacerebbe più a te che a me» sussurrò a un palmo dal mio orecchio. Un sorriso sornione si stava aprendo sul suo volto quando percepì il mio corpo irrigidirsi per un istante.

Martin Hurt, nonostante fosse un bastardo, egocentrico, pallone gonfiato e tanti altri aggettivi negativi, era estremamente bello. Certo, rimaneva uno stronzo senza precedenti, ma era innegabile quanto fosse di bell'aspetto: alto, muscoloso, con la mascella leggermente pronunciata, due grandi occhi nocciola e un irriverente ciuffo biondo. Tuttavia, per quanto potesse essere attraente, mi irritava terminazioni nervose che prima di conoscerlo non pensavo di avere.

Mi lasciai andare a una risata profonda, di quelle che vengono dal cuore, sincera e derisoria fino al midollo, fragorosa tanto da attirare gli sguardi di coloro che ci stavano attorno, incuriositi dalle nostre sempre più frequenti conversazioni.

«Fossi in te non ne sarei così sicuro» risposi, battendogli una mano sulla spalla e passando oltre a testa alta. Lo lasciai così, immobile, a osservare il vuoto che avevo lasciato davanti a lui, mentre un sorriso trionfante mi illuminava il volto, il disagio mi abbandonava e persino quel vestito così corto e attillato finalmente acquistava un senso.

Amelia mi osservava dal centro della pista, con le braccia saldamente ancorate al collo di Margot e gli occhi puntati su di me. Mi fece un occhiolino complice, comunicandomi in quel modo che aveva assistito alla scena e che, nonostante le mie reticenze, me l’ero cavata egregiamente, lasciandolo di stucco.

Lei conosceva i miei dubbi e le mie intenzioni persino prima che fossi io a rivelargliele: noi lo chiamavamo superpotere da gemelle, in realtà non era altro che profonda complicità e viscerale somiglianza.

Le sorrisi di rimando prima di voltarle le spalle e dirigermi in giardino per prendere una boccata d'aria fresca. Tutte quelle emozioni mi avevano accaldata e necessitavo di qualche istante per me.

Percorsi solo pochi passi nella veranda che una voce alle mie spalle mi riscosse, facendo spuntare un sorriso spontaneo sul mio volto.

«Pensavo che odiassi i tacchi» insinuò con tono basso nonostante la musica assordante proveniente dall’interno della casa.

«Solo quelli a spillo» confessai, voltandomi verso di lui. Evidentemente non mi aveva ancora visto perché il suo volto fu attraversato da un lampo di sorpresa mentre gli occhi risalivano velocemente la mia figura dall’alto in basso, più volte.

«Wow sei così...» biascicò, colto impreparato, mentre mi osservava più attentamente.

«Femminile?» lo interruppi subito, ricordando le parole di Hurt alla partita.

«Stavo per dire bella.»

 

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Capitolo 11
*** A penny for your thoughts ***


A penny for your thoughts

«Wow sei così...» biascicò, colto impreparato, mentre mi osservava più attentamente.

«Femminile?» lo interruppi subito, ricordando le parole di Hurt alla partita.

«Stavo per dire bella».

Le sue parole mi lasciarono interdetta, non mi aspettavo di ricevere un complimento da lui nonostante fossi consapevole che l'opera di Amelia era notevole.

O meglio, di complimenti artefatti ne avevo ricevuti fin troppi: lodi all’abito, al trucco, al mio fisico, a quanto stessi bene, eppure nessuno aveva detto di trovarmi bella con la sincerità disarmante con cui era scivolato via dalle labbra di Austin, quasi l’avesse incastrato fra i denti finché non era più riuscito a trattenerlo.

Rimasi a osservarlo per un po', indispettita e forse troppo stupita, mentre lui si lasciava andare a una risata sincera. Quel suono mi arrivò alle orecchie in maniera cristallina e coinvolse anche me, portandomi ad appuntare gli angoli della bocca verso l’alto con gli spilli del suo gaudio, spazzando via ogni traccia di imbarazzo che poteva esserci tra noi.

Eravamo perfettamente a nostro agio nell’osservarci di sottecchi, il capo abbassato con una mano a coprirsi la bocca e gli occhi spalancati come due felini che si studiano a vicenda.

Fu lui a muoversi per primo, interrompendo il contatto visivo per oltrepassarmi e prendere posto sui gradini della veranda, dopodiché mi invitò con la mano ad accomodarmi accanto a lui e io lo imitai, per quanto il vestito attillato me lo permettesse.

«Dovresti rispondere “Grazie Austin, anche tu sei bello come sempre”» berciò, tirandomi una gomitata e facendomi ridere ancora dopo che, con qualche difficoltà, mi ero sistemata in modo tale da non far accorciare troppo la gonna.

«Bello? E chi te l'ha detta questa cazzata?» replicai ironica senza distogliere lo sguardo. Stavo provando a essere seria ma gli angoli della bocca mi tradirono, sollevandosi da soli in un sorriso come quello che già aveva fatto capolino sul suo volto.

«Touché» rispose semplicemente, ridacchiando a sua volta. Aveva i riccioli biondi che gli ricadevano morbidi ai lati del viso, mentre ancora una volta i suoi occhi blu sembravano magnetici, quasi ti incatenavano rendendo impossibile sottrarsi al suo sguardo.

Eppure, non era in grado di far provare disagio, anzi, aveva un potere calmante, quasi onirico.

«Però hai degli occhi bellissimi, lo devo ammettere» confessai. Contro ogni aspettativa avvampai sotto il suo sguardo e tutta la sicurezza con cui avevo pronunciato quelle parole nella mia testa svanì nell'istante in cui le mie orecchie mi udirono pronunciarle. Forse il mio cervello non si era collegato agli altri quattro sensi prima di dar fiato alle bocca.

Voltai lo sguardo, liberandomi dai suoi occhi e puntando i miei sulle scarpe. All'improvviso i laccetti che mi avvolgevano le caviglie sembravano estremamente interessanti, tutto pur di non scoprire l’espressione – di sdegno? Felice? Stranita? Stupita? – che gli animava i lineamenti del viso.

«Beh, grazie» biascicò, voltandosi anch'egli. Adesso entrambi ci guardavamo le scarpe in silenzio, ma nonostante tutto non c'era tensione o imbarazzo. Era semplicemente un tacito accordo di ascoltare la notte insieme e nessuno aveva l'intenzione di infrangerlo.

Non saprei dire con esattezza quanto tempo restammo così, potrebbero essere stati pochi minuti come anche delle ore, a osservare l'oscurità della campagna che si apriva dietro casa Evans e il cielo di stelle che incombeva sopra di noi.

Amavo osservare le stelle, erano state le compagne di tante notti insonni passate a pensare al tutto e al nulla, sul tetto di casa mia, nel giardino dei nonni o nei prefabbricati in cui alloggiavamo in Africa. Quando mi sentivo sola, dovunque io fossi, mi bastava aspettare che calasse la notte affinché quelle tenebre mi regalassero milioni di lucine, ricordandomi che quello era sempre lo stesso cielo, solo visto da diverse angolazioni.

E non importava da quale parte del mondo lo stessi guardando, le stelle erano sempre le stesse, puntini lontani in quella volta celeste che mi rincuoravano ogni volta che puntavo gli occhi all'insù. E se le luci della città si imponevano con prepotenza, scansando le tenebre e oscurando le stelle, c'era la luna a farmi compagnia, così incompleta e sola come spesso mi sentivo anch'io.

Nonostante la profondità e la tristezza di quei momenti, date dalla consapevolezza di essere circondata dall’amore incondizionato della mia famiglia eppure col pensiero costante di una solitudine da cui a volte sembrava impossibile sfuggire, mi ritrovai a sorridere nascosta tra i miei capelli. Il mio umore altalenante poteva cambiare nel giro di due battiti.

«Un penny per i tuoi pensieri» ruppe il silenzio Austin, cogliendomi di sorpresa. Ero stata travolta dalle elucubrazioni della mia mente al punto da dimenticarmi che non ero sola in quella veranda.

«So che non hai un penny, quindi non saprai i miei pensieri» lo presi in giro senza distogliere lo sguardo dalla volta celeste, ammirando il firmamento che puntellava le tenebre e rischiarava la notte.

«Oh... mi sottovaluti!» esclamò, estraendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans. Aprì un piccolo bottone laterale e ne estrasse davvero un penny, porgendomelo.

Lo osservai di sottecchi, chiedendomi cosa diamine ci facesse con una moneta inglese, poi chiesi: «Lo porti sempre con te per rubare i pensieri alle povere ragazze indifese?».

«Solo a quelle che sembrano fin troppo assorte» rispose, coinvolgendomi in un nuovo sorriso. Era come se non riuscissi a smettere di farlo in sua presenza, soprattutto se il suo sguardo si incastonava nel mio come un gioiello prezioso. «È un ricordo del primo viaggio fatto con i miei genitori, quando mi portarono a Londra per un incontro di lavoro urgente.»

«Hai... chiarito con loro?» domandai cauta, non volendo toccare argomenti nefasti ma sinceramente preoccupata per lui. Quel giorno nel laboratorio di scienze mi era sembrato davvero rancoroso nei loro confronti, anche se non l'avevo mai notato direttamente ostile, almeno non in presenza di ospiti.

«Continuano a propinarmi la versione ufficiale» disse solamente con un sospiro rassegnato. Avrei voluto fargli sapere che, anche se non volevano coinvolgerlo, di sicuro i suoi genitori avevano ottimo motivo per tenerlo all'oscuro, ma mi limitai a stare in silenzio con lui.

D'altronde era una situazione a me estranea e non riuscivo nemmeno a immaginare la frustrazione che aveva dovuto provare trovandosi in una nuova città in cui non conosceva nessuno, senza vecchi amici e senza persino la possibilità di scambiare due chiacchiere con i vicini.

Dall'interno della casa giungevano voci ovattate e un sottofondo musicale a volume un po' troppo elevato per essere solo un sottofondo. Dalle casse gli One Republic cantavano "Said, no more counting dollars, we'll be counting stars" e io pensai che avrei potuto passare la mia intera esistenza a contare le stelle senza mai stancarmi di fissare il cielo.

«Forse è meglio rientrare» dissi, prima che i miei pensieri potessero di nuovo farmi volare in alto e mi portassero a perdermi nei meandri della mia mente. Un brivido mi scosse quando una folata di vento fresco ci raggiunse.

«Hai ragione, inizia a fare freddo per te, hai tutta la schiena scoperta» rispose premuroso accorgendosi del mio sussulto. Avevo il volto nascosto dai capelli per cui non poteva notare il mio sguardo perso nel cielo, fonte di perdizione e vero motivo per cui preferivo rientrare prima che la malinconia mi assalisse.

Austin si alzò senza fatica, spazzolandosi le mani sui pantaloni color cammello e attendendo che anch'io lo seguissi. Peccato che avessi un piccolo, minuscolo, infimo problema tecnico, meglio noto come la combo abito corto e gradino basso.

«Se riuscissi ad alzarmi senza denudarmi» dissi a denti stretti mentre cercavo di piegare le ginocchia di lato e allo stesso tempo tentavo di evitare che il vestito si arrotolasse fino alla vita. La situazione era complicata maggiormente dai tacchi, che mi allungavano ancora di più le gambe e rimpicciolivano il mio raggio d’azione.

«Hey, per chi mi hai preso, non sono quel tipo di ragazzo» si finse indignato coprendosi gli occhi con un braccio, poi aggiunse sornione: «Aspetta almeno che troviamo una camera libera».

«Idiota» biascicai colpendogli le gambe, unica parte di lui che fosse ancora alla mia altezza, e facendolo ridere ancora di più dato la somiglianza a una foca in procinto di spiccare il volo.

Ah, le foche non volano? Ecco, immaginate le mie condizioni.

Con entrambe le mani stavo tenendo il vestito bloccato a una lunghezza decente mentre piegavo le gambe di lato per evitare che si vedessero pure le mutande. Forse sedersi su un gradino così basso con un vestito così corto non era stata proprio una saggia idea.

Puntai i tacchi a terra mentre mi sollevavo cercando di mantenere l'equilibrio e Austin mi evitò di stramazzare al suolo posando una mano sulla base della schiena, accompagnando così la mia risalita.

«Qualcosa mi dice che non sei un tipo da tacchi» azzardò, mentre mi aiutava a ritrovare il perduto equilibrio e le mie gambe acquistavano stabilità.

«Oh no, mi piacciono, sono questi strumenti di tortura che si ostinano a chiamare tacchi a spillo il problema» risposi, conscia di averli indossati praticamente di mia volontà e di non poter riversare la ira né sua mia madre né su mia sorella.

«E perché li hai messi?» domandò quindi Austin, confuso. C'erano delle logiche femminili che un maschio non sarebbe mai stato in grado di comprendere, l'arte di impressionare era una di quelle.

«Diciamo che dovevo far ingoiare la lingua a qualcuno» non mi dilungai in grandi spiegazioni, d'altronde Hurt era pur sempre un suo compagno di squadra e non volevo seminare zizzania.

«Secondo me ci sei riuscita» mi sorrise, tenendo aperta la porta e facendomi cenno di passare per prima, come un vero cavaliere.

«Grazie, Rogers» dissi sfilandogli davanti e ponendo un po' di distanza tra noi, quanto bastava affinché togliesse la mano dalla mia schiena nuda. L'aveva poggiata lì per non farmi cadere e non l'aveva più spostata, ma allora che mi ero allontanata sentivo quasi la mancanza di quel tocco leggero e caldo sulla pelle.

«Non serve ringraziarmi, adesso mi devi una cena, Miller» scherzò mentre mi seguiva in casa. Dall'interno la musica era alta per cui doveva poggiarsi direttamente sul mio orecchio per parlarmi, col respiro tiepido che si infrangeva contro il mio padiglione auricolare.

«Facciamo che ti preparo un'altra torta» patteggiai facendogli l'occhiolino mentre entrambi ci avvicinavamo alla pista da ballo improvvisata al centro del salotto con i volti quasi incollati per poterci comprendere.

«Andata» rispose sorridendomi giusto un attimo prima che venissimo raggiunti da Lucas e un altro paio di compagni di squadra, i quali ci coinvolsero nella loro improbabile e assolutamente scoordinata danza di gruppo.

Ma chi eravamo noi per farglielo notare e distruggere i loro sogni da aspiranti John Travolta?

 

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Capitolo 12
*** Patto con il diavolo ***


Patto con il diavolo

La festa di Margot Evans era stato l'argomento di gossip preferito delle due settimane successive. A quanto pareva erano successe tante di quelle cose – probabilmente per metà inventate di sana pianta e per metà ingigantite affinché potessero divenire pettegolezzi succulenti – che alcuni primini avevano dovuto prendere appunti per tenerle a mente.

Ecco, di sicuro quella era stata inventata.

Girava voce che la festeggiata a un certo punto fosse sparita dalla circolazione e che fosse riapparsa solo un'ora dopo, probabilmente in compagnia di qualche bel maschione. Questo dettaglio, tuttavia, era stato aggiunto a posteriori poiché nessuno dei presenti l’aveva vista allontanarsi in compagnia di un ragazzo.

Lei aveva negato tutto e nessuno se la sentiva di confermare o smentire la sua versione, specialmente a causa del caratterino tutto pepe che l’aveva portata a stringere amicizia con Amelia – e che non si risparmiava rispostacce e sguardi di fuoco a chiunque osasse inventare qualcosa sul suo conto. Avevo provato a chiedere anche a lei delucidazioni sull’accaduto, ma la mia gemella aveva negato la presenza di ragazzi appetibili per la cheerleader.

Si diceva inoltre che Martin Hurt, dopo essere arrivato alla festa nel pieno delle sue energie e pronto a “fare baldoria per tutta la notte”, avesse avuto una discussione accesa con qualcuno, dopodiché si era dileguato. Anche in quel caso i suoi compagni di squadra negarono di aver assistito a un litigio, per cui mi piaceva pensare che l'accesa discussione che aveva spento Martin Hurt fosse il breve scambio di battute avvenuto tra noi, dopo il quale l'avevo lasciato imbambolato a osservare il vuoto e rimuginare sulle mie parole.

Normalmente non mi sarei vantata di aver rovinato la serata a qualcuno, ma se quel qualcuno era un bastardo borioso che si divertiva a tormentarmi da anni senza alcun motivo preciso ma solo per il gusto di infastidirmi, allora ero più che contenta di aver ottenuto la mia piccola rivincita.

Se le cose a scuola andavano così bene, altrettanto non avrei potuto dire della mia situazione familiare. Nelle ultime settimane papà era sempre nervoso e stressato, non smetteva di lavorare nemmeno durante il weekend e neppure la mamma riusciva a capire cosa avesse. Un sottile velo di tensione si era annidato nella nostra casa, pronto ad essere squarciato al primo passo falso, che fosse masticare patatine troppo rumorosamente in salotto o provare a entrare nello studio di papà a chiamarlo per la cena.

La situazione era alquanto surreale: Lucas, Amelia e io eravamo spettatori non paganti di una sorta di teatrino che i nostri genitori mettevano in scena ogni volta che tentavano di rivolgersi civilmente la parola e che terminava sempre allo stesso modo, con la mamma che sbraitava chiedendo cosa non andasse e papà che sbuffava dicendo che erano solo cose di lavoro.

L'unico momento di pace lo vivemmo quando, un mercoledì sera di metà ottobre, Klaus Rogers si presentò a casa nostra. A giudicare dalla faccia stupefatta di papà quando mamma gli annunciò l'ospite inatteso, non immaginava nemmeno lui di ritrovarsi il vecchio compagno di college in salotto.

Passarono tre ore chiusi in ufficio, declinando anche l'invito di unirsi a noi per cenare, ma quando finalmente ne uscirono il volto di papà sembrava più rilassato, anche se ancora molto stanco. Il volto di Klaus era il suo esatto specchio, ma appariva un po' più teso e rigido.

Nei giorni seguenti l'umore di papà migliorò gradualmente, fin quando ci annunciò che aveva invitato i Rogers a pranzare da noi. Dal momento che sia io che Lucas – e di conseguenza Austin – avremmo giocato di sabato pomeriggio, mamma concordò con Meredith per la domenica.

Papà non venne alle nostre partite, né a quella di Lucas che giocava in casa né alla mia, che giocammo dall'altra parte della città; per fortuna fu un successo per entrambe le squadre, anche se i ragazzi soffrirono un po’ di stanchezza.

La fatidica domenica mattina, mamma svegliò tutti a un orario improponibile, costringendoci a darle una mano. Ormai erano due giorni che si dilettava in cucina, decisa a stupire Meredith con la sua arte culinaria, per cui a noi toccò sistemare la casa, pulire il giardino, apparecchiare il soggiorno e a me, ovviamente, preparare il dolce. Sapevo che ad Austin era piaciuta molto la torta che avevamo portato a casa sua, tuttavia non avevo avuto molto tempo a disposizione così avevo ripiegato su un più veloce tiramisù.

Quando i Rogers arrivarono da noi il giardino era perfettamente in ordine, la casa risplendeva e il dolce era ormai pronto. Meredith si lanciò in una serie di complimenti sullo stile di arredamento, una combo di moderno ed etnico, che mandò la mamma su di giri.

Io e Amelia eravamo state posizionate strategicamente in salotto, pronte ad accogliere gli ospiti e scortarli nella sala da pranzo, mentre Lucas riponeva i soprabiti in un'altra stanza.

«Benvenuta signora Rogers, io sono Amelia, è un vero piacere poterla finalmente conoscere» proferì educatamente mia sorella, che ancora non aveva mai incontrato i nostri ospiti. Il suo tono era cordiale ma vivace e il sorriso che regalò alla sua interlocutrice la fece sciogliere come gelato al sole.

«Piacere mio, Amelia, per favore dammi del tu e chiamami Meredith» rispose la donna gentilmente, stringendole la mano. C'era stato un attimo di smarrimento quando aveva visto due identiche figure ai lati della porta, ma l'aveva mascherato subito con un sorriso amabile.

Non si poteva dire lo stesso della piccola Kimberly, che ci aveva fissate per un po' prima che suo padre la richiamasse all'ordine. Austin, d'altra parte, aveva già fatto la lieta conoscenza di Amelia, per cui si limitò a salutarla con un sorriso; io, invece, venni accolta da una spintarella mentre mi chiedeva aggiornamenti circa la partita disputata il giorno precedente.

Durante il pranzo né papà né Klaus accennarono al lavoro, per la gioia delle consorti, le quali invece passarono tutto il tempo a chiacchierare: dall'arredamento si passò alla cucina, poi al giardinaggio, agli eventi di beneficenza e persino al nostro volontariato estivo in Africa. Nessuno di noi seguiva i loro discorsi, ci limitavamo a rispondere se interpellati e a parlare tra noi del più e del meno, principalmente di calcio e del pomeriggio precedente.

Quando mamma nominò il dolce vidi gli occhi di Austin illuminarsi e saettare su di me, ma lo bloccai immediatamente, conscia che non gli avrei proposto ciò che si sarebbe aspettato, ma ugualmente fiduciosa sul suo giudizio positivo.

«Non ho avuto tempo di fare la torta, dovrai accontentarti di una doppia razione di tiramisù» lo apostrofai, sotto le risate generali, passandogli il piatto con la fetta più grande.

«Se è buono almeno la metà ti puoi considerare perdonata per questa volta, ma devi comunque rifarmela» rispose per le rime mentre si apprestava ad addentare la sua fetta.

Mi presi alcuni istanti per osservarlo masticare il suo boccone e chiudere gli occhi, gustandosi a pieno ogni sapore con espressione estasiata. Muoveva la mandibola a rallentatore e gli zigomi si gonfiavano a ogni masticazione mentre la fronte si distendeva sempre più.

«Direi che sono perdonata» affermai sorridendo mentre anch'io iniziavo a mangiare. Sì, dovevo ammettere che quella volta avevo superato me stessa, mi era venuto addirittura più buono del solito.

«Se mi prometti che preparerai altri dolci ti posso offrire consulenza psicologica, penny, aiuti ad alzarti e tutto ciò che vuoi» biascicò continuando a mangiare il dolce con aria assorta, quasi volesse venerarlo prima di cibarsene.

«Fossi in te starei attento, il prossimo potrebbe avvelenarlo» mi schernì Lucas facendo ridere anche la piccola Kimberly, che avvampò dopo che lui le ebbe rivolto un sorriso complice. Amelia le riservò un occhiolino, poi si affrettò a dare man forte al fratello. «Pare che siano così buoni perché ha venduto l'anima al diavolo.»

«Oh, fatela finita, dite così solo perché non vi preparo i vostri preferiti» li zittii io sotto lo sguardo divertito di Austin. Ero contenta che i miei fratelli parlassero con lui, anche se ciò voleva dire sorbirsi i loro attacchi congiunti e, inevitabilmente, soccombere.

Lucas e Amelia erano normalmente pericolosi da soli, ma insieme potevano considerarsi invincibili. La loro complicità non aveva nulla a che fare col liquido amniotico– come per me e Amelia – o con le passioni comuni – come per me e Lucas –; prescindeva da ogni cosa, pareva insita nelle loro iridi e, sotto la loro pelle, sfrigolava per mettersi in mostra, essere notata e dimostrare quanto possono essere forti due cuori che pulsano all’unisono.

Quando poi mi aggregavo anch’io, come succedeva piuttosto spesso al di fuori delle amorevoli mura domestiche, era meglio per chiunque gettare la spugna e arrendersi prima ancora di provare a contrastarci.

«Penso che per una bontà del genere correrei il rischio» rispose Austin mentre terminava anche l'ultimo boccone del piatto di Kimberly, che si professava piena e per questo non l'aveva finito.

«Ottima risposta, Rogers» lo apostrofai, poi mi rivolsi direttamente ai miei consanguinei per proseguire quella sfida nata tra le varie portate. «Adesso possiamo combattere ad armi pari.»

«Sempre che Kimberly non decida di schierarsi dalla nostra parte» continuò Amelia, facendo l'occhiolino alla diretta interessata. Lei ci osservò alcuni istanti, restia a schierarsi in quell’ambiente che non conosceva, evitando accuratamente di guardare l'angolo in cui sedeva Lucas. Poi sorrise alla mia gemella e fece una linguaccia in direzione del fratello.

«Traditrice...» disse lui a denti stretti mentre noi iniziavamo una battaglia a chi sa fare meglio cosa che si concluse con un nulla di fatto e tante risate.

E, ovviamente, il bis di tiramisù per tutti.

 

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Capitolo 13
*** Arbitro cornuto ***


Arbitro cornuto

Checché ne dicesse la gente, io non mi ritenevo una persona aggressiva. Certo, la maggior parte delle mie discussioni terminavano in minacce di violenza, eppure non avevo mai aggredito nessuno. Non fisicamente almeno.

Le aggressioni verbali, invece, erano decisamente all'ordine del giorno, ma, nonostante ciò, il resto del mondo mi riteneva piuttosto tranquilla. Non ero irascibile, ma i miei fratelli erano capaci di farmi perdere la pazienza con la stessa velocità con cui si facevano perdonare subito dopo – e parliamo di cifre simili alla velocità della luce!

In campo, tuttavia, mi ero sempre comportata correttamente, consapevole che un mio colpo di testa si poteva ripercuotere sull'intera squadra e sulle sorti della partita. E, soprattutto, avevo sempre nutrito una malcelata stima per gli arbitri, bistrattati da ogni squadra che incontravano sul loro percorso a causa dell’infausto ruolo di giudici imparziali.

Eppure, quel giorno avevo una pessima sensazione.

Era una domenica pomeriggio di fine ottobre alquanto anonima, un tiepido sole risplendeva nel cielo, memore di quella calda estate ormai giunta al termine, mentre un venticello fresco scuoteva i rami più deboli degli alberi. La mia squadra avrebbe giocato in casa per cui io e le mie compagne ci eravamo trovate al campo ben presto.

Lì avevamo subito conosciuto l'arbitro designato, un ragazzo che avrà avuto giusto un paio di anni più di noi: era molto alto e sotto la maglietta della divisa i pettorali sembravano esplodergli; aveva una zazzera di capelli neri e disordinati e due profondi occhi marroni al centro di un viso perennemente corrucciato.

Avevo sentito alcune delle mie compagne fare degli apprezzamenti, ma sinceramente non li condividevo: per quanto la sua bellezza oggettiva fosse innegabile, lo ritenevo fin troppo muscoloso per i miei gusti e quell'aria da snob con la puzza sotto il naso non mi era mai andata a genio in nessuno.

Mi ricordava qualcuno di mia conoscenza, ma non avrei saputo dire chi fosse.

A ogni modo, Amelia doveva avermi contagiata con le sue prime impressioni infallibili perché, dopo appena un paio di minuti in campo, la tolleranza verso quell’individuo era già andata a farsi benedire fin troppo lontana da me. 

L'arbitro stava già dando del filo da torcere a tutte: sembrava avesse da ridire su ogni azione in atto, a prescindere dalla squadra che la stava portando avanti, e continuò così per gran parte della partita. Entrambi gli allenatori erano piuttosto alterati ma nemmeno loro avevano potere, quella era la sua giurisdizione e nessuno poteva intromettersi, pena l’ammonizione o, peggio, la squalifica.

Anche il pubblico dagli spalti faceva sentire le proprie grida e fui certa di udire la voce di Lucas pronunciare un paio di frasi poco consone al luogo; per fortuna il diretto interessato parve non accorgersene e soprattutto non poté ricondurre gli insulti ricevuti da quel ragazzo in tribuna a me, che correvo da una parte all’altra del campo senza rivolgergli mai lo sguardo.

Ero stata buona per l'intera partita, incassando ogni fischio e mordendomi la lingua ogni volta che mi veniva voglia di sputare qualche insulto, ma quando l’arbitro tirò fuori un cartellino giallo nella mia direzione, dove una delle avversarie era a terra dopo essere inciampata nei suoi stessi piedi, non riuscii più a trattenermi.

Lo raggiunsi a passo di marcia con lo sguardo furente mentre le mie compagne mi osservavano tenendosi a debita distanza, stupite per quella reazione che mai mi era appartenuta sul campo da gioco, animata da uno sguardo battagliero che solitamente celavo rivolgendomi agli arbitri.

«Hey, guarda che non l'ho nemmeno sfiorata» dissi, tentando di modulare la voce. Mi sorpresi di me stessa quando udii il mio tono relativamente calmo, sicuramente in contrapposizione al mio sguardo adirato.

«Dopo puoi venire a protestare nel mio spogliatoio, dolcezza» soffiò a denti stretti, così piano che per un momento pensai di essermelo immaginato, con gli occhi ridotti a due fessure.

E invece no, era assolutamente reale, il suo sorrisetto lo dimostrava.

L’espressione corrucciata aveva lasciato spazio a lineamenti più rilassati, un luccichio sinistro baluginò nelle sue iridi scure, donando loro un’ombra tetra che mi provocò un brivido lungo la colonna vertebrale.

«Figlio di...» biascicai appena, con il solo filo di voce che mi era rimasto, ma prima di poter terminare il mio insulto lui aveva già estratto il cartellino rosso e mi aveva espulsa.

Quel gesto mi lasciò talmente basita che per un paio di istanti rimasi immobile a fissarlo, attonita e perplessa, in attesa che mettesse via la scheda rosso vivo che aveva appena decretato la fine della mia partita e si scusasse per essersi comportato in quel modo, soprattutto per l’invito squallido che mi aveva rivolto.

Quando finalmente realizzai che mi aveva appena espulso perché era un coglione faticai a ritrovare la mia razionalità, mi limitai a guardarlo dritto negli occhi e proclamai, con tutto il veleno che avevo accumulato in quegli ottanta minuti di partita, il vaffanculo più sincero che le mie labbra avessero mai pronunciato.

Dopodiché praticamente marciai per tutto il campo col capo dignitosamente alto, così rigido da avvertire il magone alla gola posizionarsi proprio sotto la mandibola, ma ero troppo orgogliosa per concedergli la consapevolezza di avermi fatto vacillare.

La folla aveva accompagnato la mia uscita con urla di disapprovazione, avevo perfettamente riconosciuto la voce di Lucas gridare "Arbitro cornuto" e, nonostante in una situazione normale mi sarei indignata per quell'insulto così becero rivolto a qualcuno che stava semplicemente svolgendo il proprio lavoro e che, in quanto essere umano, poteva sbagliare, in quel momento non potevo che dargli ragione.

Persino Amelia, al suo fianco, non manteneva più la postura composta e intoccabile ma si sbracciava per attirare la mia attenzione, urlando improperi che avrebbero fatto impallidire chiunque l’avesse conosciuta solamente nella veste della bella ed elegante signorina Miller.

Li ignorai, se fosse stato lì avrei ignorato persino mio padre, che mi avrebbe sicuramente consigliato di ostentare un comportamento superiore a quello del cornuto e di non dargliela vinta fuggendo via.

La verità era che le sue parole mi avevano segnata, il ghigno malizioso che si era dipinto sul suo volto quando mi aveva suggerito di raggiungerlo nello spogliatoio mi aveva trafitto la bocca dello stomaco, una stilettata repentina e non profonda, che però aveva colto nel segno.

Mi sentivo così sporca che non volevo far altro che ficcarmi sotto la doccia e lavare via il suo sguardo languido dal mio corpo, volevo grattare via i lembi di pelle su cui i suoi occhi si erano posati.

Non mi era mai capitato di sentirmi così frustrata, arrabbiata, indignata e inerme insieme. Io non subivo, mai. Io attaccavo, tiravo fuori gli artigli e mi aggrappavo a ogni brandello di orgoglio che possedevo – e la mamma sosteneva che fosse fin troppo – per non soccombere.

Invece, quel pomeriggio non avevo saputo battermi, ero stata colta alla sprovvista, senza l'armatura e la lingua affilata, e l'unica cosa che ero riuscita a fare era stata scappare prima che tutta la scuola vedesse quanto i miei occhi fossero rossi.

Iniziai a piangere non appena notai la vicinanza con gli spogliatoi, porto sicuro in cui rifugiarsi e dove nessuno avrebbe osato mettere piede. O almeno così pensavo.

Ebbi appena il tempo di chiudermi la porta alle spalle e accasciarmi a terra, esalando un paio di singhiozzi, che la vidi aprirsi nuovamente. Sciolsi subito i capelli nel tentativo di coprirmi gli occhi e tirai su col naso sperando di farlo passare per un gesto casuale, ma quando l'intruso si abbassò alla mia altezza non potei far altro che ricominciare a piangere più forte.

Amelia mi stava fissando, occhi verdi spalancati in occhi verdi socchiusi e lucidi. Checché ne dicesse la gente, non erano uguali affatto: nei miei c'era una scintilla, un frammento di iride più luminoso degli altri, mentre dai suoi si poteva scorgere il fascino misterioso dell’oscurità.

La mia gemella aveva intuito il mio stato d'animo alterato, per lei non doveva essere stato difficile dato che mi conosceva meglio delle proprie tasche; non mi sarei sorpresa se fosse stata addirittura nella mia testa – filo diretto tra i miei pensieri e i suoi – e avesse capito anche perché avevo reagito in quel modo.

«Che cazzo ti ha detto quel coglione?!»

Ecco, appunto.

Mi venne da sorridere alla sua domanda, due parolacce in una sola frase me le sarei aspettate da Lucas – probabilmente anche più di due –, mai da Amelia. Eppure, lei da lontano, senza sentire né vedere nulla, aveva centrato perfettamente il problema.

Fui costretta a raccontarle tutto, i suoi occhi mi incatenavano al pavimento e la loro ombra ostinata mi costringeva a parlare. Non servì spiegarle come mi sentivo, ero sicura che stesse provando esattamente le stesse cose nonostante avesse solamente assistito alla scena, e questa volta non c’entrava nulla il fatto che fossimo gemelle.

Le potevo leggere la collera e lo sdegno nei lineamenti tesi, nelle spalle contratte e nel tono rude con cui mi ordinò di andare a fare una doccia.

Le mie compagne sarebbero rientrate a momenti e non avevo intenzione di farmi trovare in quelle condizioni, per cui obbedii senza troppe proteste. Quasi benedissi la caldaia mal funzionante e il getto freddo che mi ristorò, catartico e purificatore, lavando via il suo sguardo indesiderato dalla mia pelle, trascinando nello scarico la vergogna e l’umiliazione che mi aveva cucito addosso come una seconda pelle rivolgendomi solo poche parole.

Mi trattenni più del dovuto e uscii solo quando percepii i passi delle mie compagne avvicinarsi assieme al chiacchiericcio concitato che si portavano dietro; di Amelia non c'era più alcuna traccia.

Non mi chiesero spiegazioni, probabilmente non volevano farmi arrabbiare ancora di più, e quando il loro vociare caotico e confuso si fu spostato tutto nel lato delle docce sentii chiaramente una voce levarsi nel denso silenzio del post-partita.

«Che razza di uomo di merda sei?!»

 

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Capitolo 14
*** Occhi analgesici ***


Occhi analgesici

«Che razza di uomo di merda sei?!»

Le urla di Amelia giungevano ovattate alle mie orecchie a causa della porta dello spogliatoio chiusa, ma risultavano comunque perfettamente udibili; tuttavia nessuno, oltre me, parve riconoscere il tono alterato della mia gemella.

Mi vestii in fretta e furia, impigliandomi nella felpa della tuta per catapultarmi fuori e vedere cosa stesse succedendo. L’ultima cosa che volevo era che mia sorella desse spettacolo davanti a tutta la scuola e che, di conseguenza, sapessero il motivo per cui ero fuggita.

«Ti sei preparata in fretta, dolcezza, hai forse cambiato idea?»

La sua voce mi arrivò come un sussurro: lui non stava urlando, replicava con tranquillità, come se non gli importasse di nulla, e potevo scommettere che aveva di nuovo quel ghigno soddisfatto stampato in faccia. Gli avrei volentieri mollato un pugno dritto sul naso pur di farlo scomparire.

«Davvero, hai bisogno di espellere le ragazze pur di provarci con loro?» sputò ancora mia sorella, questa volta modulando i toni, evidentemente resasi conto che c’erano fin troppi potenziali ficcanaso.

Io la sentii solo perché ormai avevo aperto la porta dello spogliatoio e stavo marciando verso di loro dopo averli individuati.

«È un gesto così vile, meschino, persino per uno come te» continuò lei.

A quel punto potei vedere lo sguardo che gli stava riservando: aveva le sopracciglia leggermente corrugate, il naso sollevato e gli occhi ridotti a due fessure, la mascella rigida, i denti serrati ma le labbra aperte. Ogni muscolo del suo corpo urlava profondo sdegno e persino l'arbitro parve accorgersene, irrigidendosi sul posto.

«Fossi in te farei attenzione, potrei farti cacciare dalla squadra» proferì lui con ostentata sicurezza, ma i suoi occhi lo tradivano. Si sentiva intimorito da Amelia e ogni cellula del suo corpo vibrava nella sua statuaria immobilità. Da ciò che le aveva appena detto era chiaro che l'avesse scambiata per me, e sicuramente Amy non aveva la minima intenzione di fargli notare l'errore.

Non c'era nessuno nelle vicinanze, la squadra avversaria si trovava nello spogliatoio e i coach probabilmente a discutere in ufficio, gli spalti erano ormai semivuoti e le persone confluivano verso l'uscita principale, che per fortuna si trovava sul lato opposto.

I loro sguardi erano intrecciati, come se avessero davvero potuto incenerirsi con gli occhi. Non avevano notato nemmeno me che mi avvicinavo concitata.

Una risata profonda si librò dal petto di Amelia, facendo trapelare sarcasmo e ambiguità. Lasciò andare la testa indietro e, quando la sollevò di nuovo, la sua espressione era seria, imperturbabile. Quei suoi repentini cambi di comportamento dovevano star confondendo non poco l'arbitro.

«Credi davvero che sia il potere…» fece una pausa studiata, roteando il polso come a sminuire ciò che aveva appena detto, poi continuò con sguardo sdegnato. «…a renderti un vero uomo?»

A quel punto ero riuscita finalmente a raggiungerli, stabilendomi accanto alla mia gemella per spalleggiarla. Gli avevo puntato gli occhi addosso ed ero intenzionata a incenerirlo nonostante sentissi ancora le sue parole scivolarmi sul corpo come aveva fatto il suo sguardo viscido.

Lui mi osservò un momento sbigottito, ma si riprese in fretta. Osservò le mie guance arrossate, i capelli ancora bagnati e la tuta di rappresentanza della mia squadra, dunque comprese di essere caduto in un inganno. D'altronde non poteva aspettarsi una gemella rabbiosa e vendicativa.

«Chissà, magari con la sorella sarò più fortunato» chiosò senza togliermi gli occhi di dosso e ignorando completamente ciò che Amelia gli aveva detto un attimo prima. Ora la sua attenzione era completamente rivolta a me e, per quanto il suo sguardo mi procurasse ribrezzo, preferivo che guardasse me e non lei.

Come se potesse udire il suo nome tra i miei pensieri, Amelia mi afferrò guardinga il polso come a volermi trasmettere qualcosa. Non saprei come definire ciò che avvenne dopo: epifania, telepatia per contatto o cose da gemelle. Quando le sue unghie mi artigliarono la pelle immediatamente capii cosa voleva trasmettermi.

Il ragazzo davanti a noi aveva ripetuto esattamente la stessa frase che ci eravamo sentite dire alla gelateria prima dell'inizio della scuola, utilizzando persino lo stesso tono beffardo. Stessi capelli neri, stesso ghigno irriverente. Era indubbiamente lui.

Amelia stava giusto per replicare qualcosa di estremamente crudele e pungente quando io la precedetti, liberandomi dalla sua stretta e intrecciando le nostre dita.

«Andiamo via, non vale la pena perder tempo qui» e la tirai con me mentre davo le spalle al ragazzo e mi allontanavo. Il mio tono era stato pacifico, ma sentivo il sangue ribollirmi nelle vene. Se non altro, mi consolai, non mi veniva più da piangere.

«Avresti dovuto lasciarmi ribattere» protestò mia sorella quando ormai eravamo lontane, ma ero certa che avrebbe voluto dirmelo fin da subito. Era consapevole, però, di dover dimostrare di essere d'accordo con me, altrimenti quella patetica sceneggiata che lui aveva tirato su avrebbe sortito l'effetto sperato.

«Non ne valeva davvero la pena» soffiai a mezza voce mentre lei rompeva la nostra stretta di mano.

Stavo per domandarle perché l'avesse fatto, mi piaceva tenerle la mano e in più ne sentivo il bisogno – Amelia era sempre stata la mia forza – quando mi schioccò un bacio sulla guancia e si allontanò facendomi l'occhiolino. Rimasi a osservarla a qualche istante, sbigottita, poi la mia attenzione fu catturata da altro.

Una figura si stava dirigendo verso di me, i biondi ricci gli rimbalzavano morbidamente sul capo, sollevandosi per poi incorniciargli nuovamente il viso. Ciò che mi inchiodò sul posto, tuttavia, furono i suoi occhi blu, perfettamente visibili anche a quella distanza, sempre magnetici.

Austin si avvicinava con sguardo crucciato e aveva tutta l'aria di uno che ha assistito all'alterco da poco concluso. Sperai almeno che da quella distanza non avesse potuto udire ciò che avevamo detto, anche se sicuramente aveva notato i nostri modi ostili e belligeranti.

«Hey, tutto bene? Vi ho visto discutere con l'arbitro» andò dritto al punto. Mi scrutava con gli occhi socchiusi, quasi mi stesse studiando, e appariva sinceramente preoccupato.

«Niente di che, un piccolo diverbio» minimizzai. Ritenevo inutile raccontargli cosa fosse successo ed ero certa che, in quanto maschio, non potesse capire fino in fondo quanto attenzioni del genere fossero indesiderate.

Non che non lo ritenessi sensibile o empatico, affatto, tuttavia dubitavo che qualcuna si fosse mai azzardata a fare a lui una proposta tanto esplicita quanto sgradita, dunque diedi per assodato che non avrebbe potuto comprendere, per sua fortuna.

«Sei sicura? Sembravi piuttosto sconvolta quando sei uscita dal campo» domandò ancora con voce premurosa. Non era nelle sue intenzioni essere insistente, me ne ero resa conto e per questo avevo evitato di riservargli una rispostaccia; voleva solo accertarsi che andasse tutto bene.

In risposta gli sorrisi, riprendendo a camminare insieme a lui alla volta del parcheggio. Ormai i miei capelli si stavano asciugando al vento e non avevo intenzione di tornare a recuperare il borsone dallo spogliatoio, timorosa che qualche compagna acquistasse coraggio e mi domandasse cosa fosse successo. Anche se sorridevo e mi sentivo meglio, non potevo essere certa che catalizzare tutti i miei pensieri sul fatto non mi avesse fatto scoppiare di nuovo.

«Avresti dovuto vedere Lucas, se Boot e Jones non l'avessero trattenuto con la forza avrebbe fatto irruzione in campo» mi raccontò gli ultimi minuti della partita, mettendomi al corrente di quell'azione al novantaduesimo che aveva portato le avversarie in vantaggio e, dunque, a farci perdere la partita.

«Tipico di Lucas voler fare il cavaliere a tutti i costi» risposi ridendo e scuotendo il capo. Se mio fratello avesse saputo cos’era successo, non avrebbe esitato ad andare dall’arbitro per spaccargli quella sua faccia da culo.

Il suo istinto protettivo – incorporato con quello che lui chiamava family radar – lo portava spesso a comportarsi irrazionalmente, dunque io e Amy preferivamo tenerlo all’oscuro di alcuni aspetti delle nostre vite, tra cui la conversazione di quel giorno.

«Però aveva ragione, è stata un’espulsione illegittima» mi difese anche lui, concentrandosi sul calciare supposi per non guardarmi in viso.

«Sì, è stato uno stronzo…» confermai, ma preferii non sbilanciarmi troppo dato che la sensazione di rabbia e vergogna sembrava ancora ribollirmi nella pancia, rendendomi un ordigno pronto a esplodere.

Austin parve comprendere l’antifona e subito virò su un argomento che mi avrebbe fatto sentire meglio. «È stato fortunato che Lucas non sia riuscito a scavalcare la rete, altrimenti la partita sarebbe stata annullata.»

Per tutta risposta sorrisi, consapevole che mio fratello sarebbe stato capace di fare una cosa del genere. In effetti riuscivo quasi a immaginarlo con la tutina attillata e la maschera mentre sparava ragnatele in ogni direzione.

«Avrei pagato per vedere mio fratello arrampicarsi sulla rete in stile Spiderman» risi di gusto immaginando Kate in versione Mary Jane che si avvinghiava a lui. Probabilmente Austin dovette credermi folle, ma non disse nulla e si limitò a osservare la mia espressione alleggerirsi.

«Hai giocato una bella partita» si complimentò, avvicinandosi per colpirmi con una spallata leggera. Mi piaceva quel suo modo delicato di cercare un contatto in maniera scherzosa ma sempre accorta e rispettosa.

«Grazie, peccato che non sia bastato per vincere» soffiai a mezza voce. Ero sinceramente dispiaciuta per la sconfitta, stavamo giocando un buon campionato e perdere quei tre punti preziosi ci sarebbe costato sforzi immani più in là.

Tuttavia, dovevo concedermi il lusso della tranquillità per riuscire a ritrovare l’equilibrio e dimenticare quella brutta giornata.

«Sono certo che riuscirete a recuperare presto!» mi rassicurò, puntando quei suoi magnetici occhi blu nei miei. Io gli sorrisi di rimando, tentando in quel modo di trasmettere tutta la gratitudine che sentivo di provare nei suoi confronti in quel momento.

Chiacchierare con Austin mi aveva fatto calmare o, più probabilmente, erano stati i suoi occhi magnetici dal potere analgesico. Il sangue aveva smesso di ribollirmi nelle vene, i muscoli si erano rilassati e la linea dura della mascella si era distesa. Persino il dolore della stilettata allo stomaco si era dissipato, ormai rilegato a un fastidio superficiale che speravo sarebbe presto scomparso.

Sospirai tra me e me mentre continuavo a sorridere, ormai divertita, non potendo fare a meno di constatare che con lui riuscivo sempre a sentirmi bene.

 

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Capitolo 15
*** Il terribile signor Foster ***


Il terribile signor Foster

Il liceo che frequentavamo io e i miei fratelli era stato scelto non solo per le ottime squadre sportive – di calcio ma anche di basket e baseball – bensì principalmente perché vantava di essere uno dei migliori della città.

Il preside, un omino rotondetto e baffuto, era amichevole ma severo, sempre disponibile ad accogliere le proposte degli studenti ma intransigente quando vengono infrante le regole.

Il corpo docenti era molto valido, sia dal punto di vista educativo che dal punto di vista umano, a eccezione di qualche pecora nera che compensa una grande sapienza con altrettanta stronzaggine. Tra questi vi era ovviamente il signor Foster, insegnante di storia temuto dalle matricole e odiato dai senior, desiderosi di diplomarsi per toglierselo dalle palle – e lui sapeva davvero come frantumarle le gonadi maschili.

Il signor Foster era rinomato per la sua capacità mnemonica: gli si poteva infatti domandare quando fosse avvenuto un qualsiasi evento storico e lui avrebbe saputo indicarne la data precisa, di qualsiasi cosa si trattasse – dalle guerre puniche alla caduta di Saddam Hussein, passando per l’armistizio di Cassibile.

Tuttavia, era ricordato specialmente per le angherie che era solito riservare agli studenti. Tra i corridoi del liceo girava voce che fosse una sorta di sadico, uno spostato che si divertiva a vedere gli alunni boccheggiare di fronte alle sue domande improbabili: persino lo studente più meritevole, infatti, era in difficoltà quando egli domandava quale delle tre caravelle di Cristoforo Colombo fosse attraccata per prima negli Stati Uniti d'America, a che ora e in che ordine fossero arrivate le altre.

Eppure, ciò che lo divertiva maggiormente era assegnare le famose tesine. Quando se ne sentiva parlare per la prima volta si poteva cadere nell'errore di credere che fossero un modo per aiutare la povera media degli studenti, ma quando egli iniziava a sindacare sul numero effettivo di morti dello sbarco in Normandia ecco che tutto l'entusiasmo precipitava sul fondo di un burrone.

E il professor Foster adorava osservare con sguardo compiaciuto gli studenti capitolare, tentare di aggrapparsi agli arbusti con tutte le loro forze per poi sradicarli con quel sadico sorrisetto che lo faceva somigliare per davvero a uno spostato.

Bisognava ammettere che la montatura tonda e sottile degli occhiali, che faceva sembrare i suoi occhi molto più grandi, non contribuiva molto a migliorare la situazione.

Quel mattino, in realtà, la situazione era di gran lunga peggiorata dai suoi capelli biondi sparati in tutte le direzioni, come se avesse infilato due dita nella presa prima di recarsi a scuola, come mi aveva giustamente suggerito Amy.

Storia era uno dei pochi corsi che seguivamo insieme, più per un caso fortuito che per nostro volere, ma non mi dispiaceva affatto poter contare sulla testolina geniale della mia gemella nella materia dell'insegnante più stronzo della scuola.

Ovviamente Foster non ci aveva mai assegnato un compito da svolgere insieme, a lui piaceva fare accoppiamenti a casaccio per testare la psiche di noi studenti.

Fortuna volle che quel mattino si era affidato ai bigliettini per formare le coppie, per cui eravamo rimasti solamente in tre e non avrebbe potuto cambiare le carte in tavola a gioco iniziato, non era nel suo stile.

«Bene bene, le due Miller saranno in coppia insieme» pronunciò a denti stretti rifilando due identiche occhiatacce a me, che sedevo nel mezzo della classe, e ad Amelia, sempre in prima fila. Come se fosse colpa nostra, poi!

«Ovviamente prenderete con voi il novellino, spero che sappiate insegnargli come scrivere una tesina o inizierete l'anno con una bella F» terminò beffardo, rivolgendosi ad Austin. Lui, seduto in fondo all'aula con aria distratta, non parve intimorito dalle sue parole, indi per cui supposi che non lo aveva ancora compreso a pieno.

Al trillo della campanella, suono salvifico che finalmente ci concedeva di abbandonare la stanza del terrore per recarci nella mensa a consumare il tanto agognato pasto – sembravano passate ore da quando il mio stomaco aveva iniziato a brontolare – intercettai Austin per accordarci e ne approfittai per invitarlo a pranzare con me e gli altri.

Avevo avuto il sentore che non si sentisse perfettamente a suo agio con tutti i suoi compagni di squadra, per cui pensai fosse carino fargli conoscere meglio quelli che io ritenevo i giocatori più simpatici e meritevoli di attenzione: mio fratello e i suoi fedelissimi, Malcolm e Garret.

«Hey, splendore» mi accolse Lucas con un sorriso radioso quando scavalcai la panca per prendere posto di fronte a lui. «Ciao, Austin» continuò gentile, rivolgendosi al ragazzo che era con me.

«Ciao, principessa» mi salutò Hurt con una smorfia, trattenendo una risata tra i denti. Purtroppo mi ero accorta della sua presenza al tavolo solo quando ormai ero troppo vicina per cambiare rotta.

Dopo la sua uscita di scena da drama king alla festa di Margot Evans, avevo capito che le mie risposte pungenti erano in grado di infastidirlo tanto quanto le sue ferivano me.

Non avevo alcuna intenzione di farmi condizionare l'esistenza dalle sue becere insinuazioni, né tantomeno di cambiare me stessa o il mio aspetto per compiacere lui e quell'idiota che gli faceva da ombra. Dovevo solo imparare a lasciar correre senza sentirmi di fronte a un bivio, senza costringermi a scegliere tra ciò che la società si aspettava da me, e che mi faceva sentire una ragazza bella e desiderabile, e ciò che mi appassionava e mi faceva sentire felice.

«Lucas» sorrisi di rimando a mio fratello, ingoiando qualche insulto per aver fraternizzato col nemico, poi spostai l'attenzione su Martin. «Affogati con la zuppa.»

«Salve ragazzi» s'intromise a quel punto Austin, prendendo posto al mio fianco con l'aria di chi avrebbe voluto trovarsi dovunque tranne che lì. D'altronde, come biasimarlo: l'avevo trascinato lì con l'intento di fargli fare amicizia e ora si trovava tra due fuochi nemici.

«Sei dolce come il miele» replicò Hurt come se le mie parole non l'avessero minimamente toccato. Malcolm e Garret, seduti uno di fronte all'altro, non riuscirono a trattenere una risatina.

«Magari ti ci strozzassi col miele» masticai a denti stretti senza più degnarlo di uno sguardo. Martin Hurt aveva il potere di urtarmi terminazioni nervose che non credevo di avere, ma non gli avrei permesso di rovinarmi il pranzo con Austin. Fu a lui, infatti, che rivolsi tutta la mia attenzione, iniziando a raccontare leggende sul conto di Foster col supporto degli altri.

«Quando eravamo in primo si vociferava che avesse bruciato una tesina in classe, rischiando di dare fuoco all'aula» disse Garret tra un boccone e l'altro, parlottando con la bocca piena.

«Ma cos'è, un piromane?!» domandò retorico Austin, deglutendo svogliatamente l'ennesima cucchiaiata di zuppa. In effetti non era un granché, ma dubitavo che l’assenza di appetito fosse imputabile alla cucina della mensa.

Avevo il sentore che tutti quei racconti sul professore che, solo pochi minuti prima, l'aveva minacciato di affibbiargli una F, gli stessero facendo passare la fame, ma doveva essere pronto a ciò che lo aspettava.

«Pensa che una volta mi ha messo una C- perché in un test avevo deciso di cambiare una crocetta all'ultimo secondo! Diamine, era tutto corretto, persino quella, ma lui sosteneva che me l'avessero suggerita» ricordò Lucas con un pizzico di astio e molto rammarico.

Come dimenticarlo, aveva studiato davvero tanto e dopo i risultati aveva vagato per la casa come un esule per giorni e giorni! Era a tutti gli effetti un'anima in pena e per confortarlo ero stata costretta a preparargli il suo dolce preferito.

Il viso di Austin perdeva colore a ogni dettaglio che i miei amici aggiungevano, così mi sentii in dovere di tranquillizzarlo.

«Non è così spietato, è molto competente nella sua materia e quando vuole sa essere un bravo docente» tentai di rassicurarlo, rivolgendogli un sorrisetto di traverso.

«Il problema è che non vuole mai» aggiunse Boot, guadagnandosi un'occhiataccia da Lucas, che aveva capito il mio intento, uno sguardo disperato e implorante da Austin e un buffetto dietro il collo da me stessa medesima. Avrebbe persino voluto replicare a quella violenza gratuita, ma la mia occhiata gelida lo fece desistere.

«Andrà tutto bene» dissi infine, tornando a rivolgermi ad Austin. E lo pensavo davvero, in fondo Foster era solo un professore frustrato a cui non avremmo mai permesso di rovinarci l'anno.

«Certo che andrà tutto bene, se eseguirete esattamente alla lettera tutto ciò che vi dirò» la voce squillante di Amelia ci sorprese alle spalle, né io né Austin e Boot la vedemmo arrivare, e dal sussulto di Lucas nemmeno lui doveva essersene accorto.

Mi premurai di domandarle quando avesse imparato a muoversi come un ninja, ma l’occhiata assassina che mi rivolse mi convinse a non aggiungere altro né a estorcerle una risposta.

«Ti aspettiamo domani alle quattro per iniziare a raccogliere le idee, sii puntuale» disse perentoria guardando Austin negli occhi con uno sguardo alquanto tetro.

«Ma domani finisce di allenarsi alle tre e mezzo!» replicai, attirando l'attenzione su di me. Vidi Austin tirare un sospiro di sollievo quando lo sguardo gelido di Amelia slittò da me a lui. Doveva essere ancora terrorizzato da lei.

La mia gemella fece schioccare la lingua sul palato. «Sarà meglio si sbrighi a prepararsi, allora, oppure non metterò il suo nome sulla tesina.»

Il suo tono non ammetteva repliche – chiunque avesse un briciolo di amor proprio avrebbe taciuto di fronte a quegli occhi gelidi– per cui se ne andò in silenzio, esattamente come era arrivata, con Margot che la seguiva con aria annoiata e riprendeva a discutere con lei non appena si furono allontanate.

Ancora non riuscivo a spiegarmi i motivi per cui fosse così schiva nei confronti di Austin, in fondo aveva capito che era un bravo ragazzo e che non c'era motivo per avercela con lui.

Supponevo che il suo diabolico piano per farmi cadere tra le braccia del belloccio che mi sedeva accanto non fosse stato accantonato come io avevo sperato, ma data la risolutezza con cui aveva programmato tutto non mi restava che pregare andasse tutto bene.

E allora sì che c'era da preoccuparsi, perché con Amelia non sarebbe mai andato davvero tutto bene…

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Capitolo 16
*** In pasto alla leonessa ***


In pasto alla leonessa

Un pomeriggio di studio in compagnia era qualcosa a cui sono sempre stata abituata, specialmente se si trattava di scrivere una tesina di storia per il professor Foster. Normalmente sarei stata lieta di finire in coppia con mia sorella, consapevole che il suo rendimento scolastico fosse migliore del mio – di cui tuttavia non mi lamentavo affatto – e che quindi avrei potuto trarre beneficio dalle sue conoscenze.

In una situazione analoga non avrei avvertito la morsa dell'ansia stringermi lo stomaco mentre la lancetta dell'orologio avanzava, inesorabile, marcando il trascorrere del tempo. E più la lancetta avanzava più la morsa aumentava. La pressione crescente era risalita lungo l'esofago e mi lambiva la bocca, seccandola e lasciandomi boccheggiare.

Mi sarebbe piaciuto trovarmi in quel dipinto di Dalì con tutti gli orologi che si sciolgono per fare quella stessa fine.

Sentivo l’aria scivolare via dai polmoni lentamente, quasi a volermi solleticare per farsi beffe di me, sottolineando quanto una reazione del genere fosse assurda e, al contempo, così comprensibile trattandosi di Amelia e dei suoi folli piani da psicopatica.

L'unico motivo per cui stavo vivendo così male quella situazione era la presenza di Austin, che a momenti avrebbe suonato il citofono e sarebbe finito direttamente in pasto ai leoni. Alla leonessa, in realtà, la quale aveva già spalancato le fauci e affilato i denti per sbranarlo.

Avevo supplicato Amelia di non mettermi in imbarazzo, di non attuare piani contorti e di mostrarsi più gentile, o quanto meno di armarsi di quella falsa cortesia per cui avrebbe meritato un Golden Globe. Avevo a lungo sperato che mi desse ascolto, affidandosi a me per condurre quei giochi che stava di fatto perdendo, ma quella parola non era affatto compresa nel suo vocabolario.

Pur di non ammettere la disfatta, mia sorella avrebbe nascosto la sconfitta e non si sarebbe arresa finché l’avversario non gliel’avrebbe data vinta per sfinimento. La predatrice aveva affilato gli artigli e aveva tutta l'intenzione di sferrare l'attacco, mentre la sua vittima si sarebbe comportata da agnello sacrificale – forse più gazzella in questo caso – pur di compiacerla.

Per questo ero in preda all'ansia, perché non ero riuscita a prevedere di che attacco si trattasse e, manco a dirlo, non ero stata capace di estorcerle nemmeno un'informazione effimera.

Temevo inoltre la reazione di Austin, il quale – lo sapevo – era piuttosto intimorito dalla mia gemella, che d'altra parte non si era mai lasciata sfuggire un gesto di riguardo, un sorriso amichevole o anche solo un saluto nei suoi confronti.

A sentire Amelia, si stava comportando esattamente come avrebbe fatto con qualunque sconosciuto, ma la conoscevo così bene da sapere che mai avrebbe riservato un trattamento del genere al figlio di un amico di papà, men che meno se mamma stravedeva per sua madre e non faceva altro che parlare di lei.

Quando avevo provato a farglielo notare si era limitata a darmi della paranoica, insinuando che quell'eccessivo interesse nei confronti del ragazzo non fosse che preludio di un interesse diverso. Al che le avevo domandato se si fosse impasticcata e, nel caso, di cambiare spacciatore, perché le stava venendo roba scadente.

Quando il rumore vibrante del citofono interruppe il flusso di miei pensieri – dei miei tormenti – avrei voluto scattare con la stessa agilità di Amelia e andare ad accogliere l'ospite. Purtroppo, lei mi aveva anticipato e prima che potessi darmi una sistemata e correrle dietro aveva già fatto accomodare il nostro ospite in salotto.

Sembrava stranamente mansueta, molto più simile a una gattina addomesticata che a un felino selvaggio, tuttavia aver condiviso la stessa placenta per un tempo considerevolmente lungo mi aveva insegnato che della piccola arpia non ci si poteva proprio fidare.

Altro che Golden Globe, avrebbe meritato l’Oscar alla carriera. E io avrei dovuto strozzarla quando i medici ci infilarono nella stessa incubatrice perché dopo la nascita nessuna delle due sembrava intenzionata a sopravvivere senza l’altra.

«Ciao Austin» gli andai incontro salutandolo con un amichevole bacio sulla guancia. Dallo sguardo che mi rivolse intuii che vedere Amelia così docile gli aveva fatto presagire che qualcosa che non andasse, per cui non le risparmiai un'occhiata furente prima di sorridere al mio amico.

«Allora, vogliamo iniziare?» m'interruppe mia sorella mentre io facevo gli onori di casa e insistevo per offrirgli qualcosa. Stavo poggiando bicchieri e bottiglie sul tavolo del salotto, accanto alle vivande che avevo già sistemato in precedenza, quando Amelia lasciò cadere senza grazia alcuna i suoi libri proprio davanti a noi.

«Dunque, Austin...» forse era la prima volta che gli rivolgeva direttamente la parola, lo supposi dallo sguardo dubbioso che si dipinse sul viso del diretto interessato. «Che voto avevi in storia lo scorso anno?»

Conoscendo Amelia quella era la più innocua delle domande che avrebbe potuto rivolgergli, ma osservando la sua postura potevo dedurre che si stava preparando all'interrogatorio del secolo: aveva i palmi delle mani poggiati sul tavolo, le braccia tese a sostenerla, le spalle protese in avanti e il viso austero che non accennava a togliere gli occhi di dosso ad Austin – indagatori, provocatori, scettici.

«Uhm, avevo una B» confessò lui, evitando di guardarla negli occhi.

Una risatina sarcastica si levò dalle labbra di Amelia, poi disse: «Qui dovrai pregare per avere una B! Per fortuna siete assieme a me per la tesina, ho intenzione di distruggerlo» e mentre pronunciava quelle parole continuava a fissarlo, come se Foster non fosse il suo unico obiettivo.

Avrei dovuto procurarmi un frustino, indossare una giacca da circo e addestrarla come una leonessa che si esibisce nello spettacolo delle nove.

«Amelia, vuoi darci un taglio?» la apostrofai per tentare di placarla. A momenti avrei potuto vedere il cuore di Austin piombargli fuori dal petto ed era sbiancato pericolosamente; evidentemente non ero l'unica ad aver avuto l'impressione che si riferisse anche a lui.

«Lo sto solo informando, non voglio che arrivi impreparato al giorno dei giudizio» e ancora una volta le sue parole sembravano avere un duplice senso, questa volta in parte celato da uno sguardo disinteressato ma cristallino a noi che la udivamo parlare con tono lascivo e al contempo derisorio, quasi fosse una sfida.

Ormai Amelia era partita per la tangente e niente avrebbe potuto fermarla, né la mia scenata, né le mie occhiatacce, né le minacce di buttarla in pasto ai nostri genitori – per rimanere in tema di cibo. L'unico modo che Austin aveva per sfuggirle era scappare via a gambe levate e l'avrei aiutato io stessa se non avessi nutrito la convinzione che l'avrebbe rincorso fino in capo al mondo, fosse anche solo per distruggerlo.

Lo stavo giusto scrutando di sottecchi mentre teneva lo sguardo fisso sul libro aperto davanti a sé – i capelli a circondargli il viso come mura di cinta e la schiena ritta appena poggiata contro lo schienale, pronto a darsi alla fuga in ogni evenienza – quando Amelia tornò all’attacco.

«Come mai vi siete trasferiti?» domandò a bruciapelo, cogliendo entrambi di sorpresa. Austin mi rivolse uno sguardo di sottecchi, come se avesse voluto chiedermi quanto della sua confidenza avevo raccontato a mia sorella.

In realtà non le avevo raccontato proprio nulla e sperai che dal ringhio rabbioso con cui la apostrofai anche lui potesse rendersi conto della mia innocenza. In un’altra situazione avrebbe fatto bene a dubitare perché capitava spesso che io e la mia gemella condividessimo tutte le informazioni di cui entravamo in possesso, eppure in quel caso avevo preferito tenere per me le sue confessioni.

«Mio padre ha ottenuto un lavoro presso un prestigioso studio di questa città» si limitò a rispondere, improvvisamente schivo. Io conoscevo il motivo per cui si era rabbuiato e sperai con tutto il mio cuore che Amelia facesse cadere l'argomento.

«Avevi tanti amici nella tua vecchia città? Siete rimasti in contatto?» domandò di nuovo. Prima ancora che parlasse avevo compreso che le mie preghiere sarebbero state esaudite perché – attenta com’era – sicuramente aveva notato il repentino cambio d’umore di Austin.

«Sì, abbastanza... Alcuni non li sento dal trasferimento, con altri parlo quasi ogni giorno» riacquistò un po' di tranquillità mentre un sorriso spento faceva capolino sul suo volto. Era triste, malinconico oserei dire, il tono in cui parlava di loro, come una persona ormai rassegnata all’idea che li avrebbe persi tutti.

«Hai detto loro di aver conosciuto Sam? Gli hai mostrato una foto?» chiese a bruciapelo Amelia mentre io improvvisamente avvampavo e mi scagliavo contro di lei.

Quel frustino, più che per addestrarla, avrei dovuto utilizzarlo per scuoiarla viva! Un po’ splatter, forse, ma di sicuro molto gratificante…

«Che razza di problemi hai?» mi ritrovai a urlare a un palmo dal suo viso. Quel contatto così belligerante e ravvicinato per noi era cosa nota, ma a giudicare dallo scatto repentino che lo portò in piedi, accanto a noi, Austin non era abituato a un simile comportamento.

Di certo non aveva mai urlato in faccia alla sua sorellina, come io e i miei fratelli facevamo di continuo, salvo poi far pace in trenta secondi netti. Succede sovente quando la differenza d’età è talmente esigua da conferire armi quasi pari.

«Sam, non c'è bisogno di alzare la voce, va tutto bene» mi disse nel tentativo di calmarmi, posandomi entrambe le mani sulle spalle e allontanandomi da Amelia con un tocco gentile ma risoluto.

Mi sorrise con premura, ammonendomi con lo sguardo affinché lasciassi fluire via la rabbia – possibilmente senza sfogarmi su mia sorella – poi si voltò nella sua direzione senza tuttavia allontanarsi da me.

«Sì, ho detto loro di aver conosciuto un po' di persone, tra cui Sam» ammise senza grossi problemi il biondo rivolgendole un sorriso cordiale; poi riprese: «La foto se la sono cercata da soli, su Instagram».

«E che hanno detto?» chiese ancora Amelia, assottigliando lo sguardo. Era chiaro che lo stesse scrutando in quel modo così accurato per valutarne la sincerità e non escludevo a priori che avrebbe tirato fuori un poligrafo.

«Che è una bella ragazza e sembra una tipa tosta» a quel punto non potevo più guardarlo in viso, mi dava volutamente le spalle e non si sottrasse all'attenta analisi di mia sorella.

«Sicuro? Solo questo?»

Io, d’altro canto, avrei preferito sprofondare piuttosto che stare a sentire cosa avessero da dire i suoi amici sul mio conto. Entrare nel gruppo whatsapp di ragazzi in piena tempesta ormonale era decisamente peggio che entrare nelle loro teste.

«Di' un po', ti ha assunto la CIA?» le domandai per alleviare la tensione che si era creata e per distogliere l'attenzione da me, fornendo così anche ad Austin la possibilità di eludere le sue ulteriori domande.

«Hai una ragazza?» Amelia mi ignorò bellamente senza rinunciare al suo cipiglio annoiato ma abbassando, seppure di poco, le sue difese. Era qualcosa di impercettibile agli occhi degli altri, ma io lo notai dalle spalle rilassate e dagli occhi sereni.

Non lo aveva assolto – di qualsiasi cosa lo stesse accusando – tuttavia l’avergli permesso di svincolare dalla piega che aveva preso il percorso mi faceva ben sperare che l’interrogatorio fosse giunto alla conclusione.

«Austin, non sei obbligato a rispondere» lo anticipai, intromettendomi ancora una volta per prendere le difese della gazzella sacrificale.

Forse, se si fosse messo a saltellare per il salotto come una gazzella che fugge dal predatore, l’avrebbe definitivamente scampata. Tuttavia, in quel caso non avrei potuto garantire sulle sue facoltà mentali.

«No» rispose semplicemente, puntando gli occhi in quelli di Amelia. Entrambe sapevamo che stava rispondendo alla sua domanda, ma la risolutezza con cui pronunciò quella negazione sembrava implicare che non avrebbe risposto a null’altro.

Si fronteggiarono per un paio di istanti, occhi verdi e cupi contro occhi blu e magnetici, e insieme sembrarono portare avanti una conversazione a cui non mi era consentito partecipare. Io potevo limitarmi a scrutarli di sottecchi, studiando le reazioni di Austin e interpretando le espressioni della mia gemella, dopodiché Amelia mutò completamente espressione e cinguettò qualcosa a proposito di iniziare a studiare.

Se non altro, mi consolai in seguito, da quel momento iniziò a rivolgergli la parola.

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Capitolo 17
*** Caso Kolman 1/2 ***


Caso Kolman 1/2

Era passato circa un mese dal fatidico pomeriggio in cui Klaus Rogers era piombato in casa nostra e, quando a tarda sera era andato via, aveva portato con sé i musi lunghi e le espressioni cupe che per molti giorni avevano albergato sul viso di papà.

I pensieri che l'avevano attanagliato – si erano arrampicati sul suo viso e avevano adombrato i suoi occhi, solitamente allegri e disponibili – non li aveva mai condivisi con noi, nemmeno con la mamma. L'unica cosa che ci era dato sapere era che tutto sembrava essersi risolto.

Almeno fino al Ringraziamento.

Nel periodo in cui eravamo stati ospiti a casa dei nonni insieme a zia Jane e la sua famiglia, papà – a seguito di una telefonata di Klaus – era tornato di nuovo nevrotico e intrattabile. Aveva piluccato appena il tacchino ripieno con grande sdegno della nonna, che preparava quella specialità fin da quando lui e zia Jane erano piccini, e non c’era stato verso di cavargli un cecio di bocca.

Probabilmente una statua sarebbe stata più collaborativa di lui, che invece perseverava nel dire che non stava succedendo nulla e che dovevamo smetterla di stargli addosso. In realtà nessuno gli stava addosso, il che dimostrava che la sua sanità mentale era partita per le Cayman insieme alla sua capacità di giudizio.

Il culmine era stato raggiunto quando aveva anticipato il ritorno in città per costringere l’intera famiglia a partecipare alla festa organizzata dallo studio legale per cui lavorava. Solitamente le famiglie non presenziavano a eventi del genere, riservati ai soci e ai dipendenti dello studio quando si vincevano processi importanti o quando si ottenevano grandi finanziamenti.

Ci avevamo provato a protestare, chiedendo che almeno noi potessimo rimanere dai nonni un giorno in più mentre lui e la mamma sarebbero partiti immediatamente, ma era stato tutto vano. Lucas aveva persino azzardato un «Perché?» senza ottenere alcuna risposta, per cui ci eravamo limitati a metterci in tiro per recarci nella sede del Kolman Team.

Dall'espressione assorta e tesa che gli deturpava il viso, con gli occhi ormai perennemente segnati da profonde occhiaie e l’espressione serena sostituita da una smorfia contriva, avevamo compreso che non poteva essere l’evento a preoccupare in quel modo papà ma doveva esserci qualcos'altro sotto.

Quando poi, arrivati all'ingresso del palazzo, Klaus Rogers l'aveva praticamente braccato e portato via, avevo smesso di temere per la salute mentale di mio padre e avevo iniziato a preoccuparmi per la mia.

Sì, perché se Klaus Rogers era lì, doveva esserci anche Meredith e, con lei da qualche parte, Austin e Kimberly. Non parlavo con lui dal giorno in cui avevamo esposto la tesina di storia a Foster, un lavoro da A+ per cui avevamo ricevuto una immeritata B-, come Amelia aveva sottolineato a chiunque le capitasse a tiro.

In effetti, dopo l'interrogatorio nel salotto di casa, avevo fatto di tutto per evitarlo come la peste. Mi sentivo terribilmente in imbarazzo ricordando le domande che mia sorella gli aveva rivolto e, al solo pensiero di lui che parlava di me con i suoi amici – di loro, sconosciuti, che parlavano di me – mi sentivo avvampare.

Insomma, timida non lo ero mai stata, ma non mi sentivo a mio agio sapendo che altri discutevano di me, specialmente immaginando in quali termini potessero farlo. Quando io e Amy commentavamo i ragazzi, in genere, ci andavamo giù pesante, facendoci prendere la mano. Sperai che fossero meno espliciti della mia gemella, ma ne dubitavo fortemente.

Tutti i miei timori, le elucubrazioni che mi stavano paralizzando sul posto, vennero spazzati via quando notai Austin camminare nella mia direzione con un ampio sorriso a illuminargli il volto. I suoi magnetici occhi blu mi attirarono verso di lui, quasi costringendomi ad andargli incontro mentre anch’io sorridevo di rimando.

Bastarono pochi passi affinché fossimo faccia a faccia ma furono più che sufficienti ad alleggerirmi il cuore, dimostrandomi per l’ennesima volta come il mio benessere sembrava triplicarsi nelle sue vicinanze. Addirittura mi sentii una stupida per aver rimuginato così tanto su un evento che l’aveva scalfito a malapena.

«Ciao Sam» mi salutò con un bacio. Lo schiocco delle labbra sulla mia pelle fu accompagnato dai suoi riccioli biondi che, dispettosi, scivolarono via dal suo orecchio per solleticarmi la guancia e il collo, facendomi sorridere ancora.

Non seppi mai se avrebbe voluto dire qualcosa a proposito dell’ordine restrittivo che mi ero autoimposta per girargli alla larga perché non appena si fu staccato alle sue spalle comparvero Meredith e Kimberly e, quasi in contemporanea, fummo raggiunti dalla mamma e dai miei fratelli.

I convenevoli furono brevi, ci limitammo ai saluti di cortesia, dopodiché le due donne si incamminarono verso gli ascensori parlando in maniera concitata di qualcosa che non compresi mentre noi ci trattenemmo ancora qualche minuto a chiacchierare.

«Dov'è il cibo? Già mi sono rotto le palle» Lucas esordì comunicandoci il suo malcontento e beccandosi, per i suoi modi sgarbati due identiche occhiate ammonitrici.

«Smettetela di guardarmi così, siete inquietanti quando lo fate insieme» ci folgorò, indietreggiando di qualche passo come se davvero avessimo potuto colpirlo.

In effetti con gli occhi non avevamo ancora imparato a uccidere, ma nulla ci vietava di tirargli uno scappellotto. In effetti, la possibilità non era così remota.

«Siete particolarmente belle stasera» disse Austin mentre batteva una pacca sulla spalla di Lucas per sostenerlo in quella sfida persa in partenza contro noi due. Si soffermò appena a guardare i nostri abiti lunghi, differenti solo nel colore – l’uno blu e l’altro nero – dopodiché qualcosa parve attirare la sua attenzione alle nostre spalle.

«Grazie, Austin, ma è lei quella devi adulare» ringraziò Amelia beccandosi una gomitata. Stranamente, e dico stranamente perché stavo per farlo di persona, era stato Lucas a metterla a tacere. Purtroppo non l'aveva fatto per difendere me bensì per attirare l'attenzione di noialtre.

Papà e Klaus Rogers uscirono insieme da un ascensore mentre confabulavano tra loro in maniera fitta e accorata, prestando attenzione alle persone che gli ronzavano intorno. Erano talmente assorti nei loro problemi da non accorgersi della nostra presenza, che eravamo sì distanti ma non abbastanza da farci passare inosservati.

«Chissà cos'è che nascondono...» borbottò Lucas mentre cinque paia di occhi li seguivano, incuriositi e sospettosi circa quella situazioni che non ci quadrava affatto.

«Mio padre sta dando di matto in questi giorni» Austin rafforzò la nostra teoria del complotto, aggiungendo carne al fuoco e raccontandoci di quanto anche Klaus fosse stato particolarmente nevrotico e intrattabile in quei giorni.

«Secondo me ci sono problemi allo studio, ho visto una pratica nel suo ufficio con la scritta Caso Kolman a caratteri cubitali» soffiò Kim flebilmente, aprendo bocca per la prima volta da quando le nostre madri si erano allontanate e ricordandoci della sua presenza.

Era una ragazzina talmente docile e silenziosa che non mi sarei meravigliata troppo di me stessa se avessi dimenticato che fosse con noi e l’avessi involontariamente abbandonata all’ingresso da sola.

A quel punto, comunque, non avevamo motivi per trattenerci ancora all’ingresso, dunque ci incamminammo verso un ascensore per raggiungere l'attico dove si sarebbe svolta la festa.

Non appena le porte si aprirono, Lucas si fiondò sul buffet con l'ardore di un profugo che vede finalmente cibo dopo un lungo digiuno. Amelia lo seguì a ruota, bacchettandolo ogni volta che infrangeva una regola del galateo.

Erano piuttosto comici in effetti: somigliavano a una di quelle vecchie coppie sposate in cui la moglie rimprovera il marito ventiquattro ore su ventiquattro e lui non fa altro che brontolare, ma l’uno senza l’altra non potrebbero mai vivere.

«Fanno sempre così, bisticciano tutto il giorno...» ammisi senza remore mentre Kim si lasciava sfuggire una risatina e anche Austin sorrideva, intenerito dalla scena. Vedere Amelia così corrucciata, presa da qualcuno, era uno spettacolo a cui era concesso di assistere solamente a pochi eletti.

«... e poi succede questo» aggiunsi mentre i miei fratelli tornavano da noi con due espressioni soddisfatte sul viso, Lucas che avvolgeva le spalle di Amelia con un braccio mentre con l’altro reggeva il piatto per entrambi e lei che poggiava amorevolmente la testa sul suo petto.

«Andiamo Kimberly, vieni a fare un giro con noi» Amelia non le diede tempo di rispondere che le afferrò la mano e la trascinò delicatamente via. Ed ecco spiegate le espressioni beate.

C'era sempre da preoccuparsi quando quei due andavano d'amore e d'accordo perché solitamente erano in combutta contro qualcuno. E solitamente quel qualcuno ero io.

«Secondo te hanno bevuto? Faranno ubriacare anche mia sorella?» domandò Austin, un’espressione corrucciata sul viso a causa di quel repentino cambio d’umore, mentre guardavamo le loro schiene allontanarsi per raggiungere i tavoli in fondo alla sala.

«Mi duole ammetterlo, ma sono sobri… e nel pieno delle loro facoltà» biascicai mentre promettevo loro vendetta, meglio se condita di torture lente e dolorose.

In quel momento di sicuro stavano indottrinando la piccola Kim riguardo qualche piano malefico riguardante me e il fratello, magari qualcosa che comprendesse chiuderci a doppia mandata in qualche sgabuzzino della scuola.

Avrei dovuto ricordarmi di spifferare a mamma e papà che l’altra notte Amelia era sgattaiolata via dalla sua stanza senza permesso e che Lucas aveva preso una nota dal professor Foster per essersi fatto beccare a dormire a lezione. In realtà non stava dormendo davvero, ma a lui è bastato il sentore per accusarlo e marchiare il suo curriculum scolastico.

Io e Austin rimanemmo in silenzio per un po', prendendo un paio di stuzzichini dal buffet e intercettando un cameriere con due bicchieri di champagne. Se c'era un merito che dovevo riconoscere a quei ricconi era che, alle loro feste, c'era sempre dell'ottimo vino.

Poco importava che non avessimo l’età per bere, metà della gente in sala era molto più che brilla e nessuno sembrava far caso a due minorenni facevano un brindisi tra loro.

«Allora... che si fa a eventi del genere?» domandò a un certo punto, interrompendo il silenzio. Teneva lo sguardo basso mentre faceva oscillare il bicchiere tra le dita, osservando il liquido frizzantino roteare al suo interno da sotto la coltre di ricci che gli coprivano il viso.

«Beh...» iniziai, sorseggiando un po' del mio drink prima di avere la sua totale attenzione. «Ci si annoia parecchio, si mangia a sbafo, e si applaude a discorsi inutili.»

Come se mi avesse letto nel pensiero, mio padre fece tintinnare il suo bicchiere, proponendo un brindisi che attirò l’attenzione di Klaus e del signor Kolman. Entrambi recuperano i bicchieri e si avvicinarono a lui, facendoli tintinnare anch’essi affinché potessero catturare l’attenzione di più persone possibili.

Fu però un boato assordante e la porta che sbatteva contro il muro a interrompere l'attività degli ospiti, che sussultarono voltandosi verso l’ingresso.

Tutti si irrigidirono sul posto, incerti e spaventati, mentre degli agenti dell'FBI facevano irruzione con i giubbotti antiproiettile e le pistole puntate e si dirigevano al centro della sala, dove si trovavano mio padre, Klaus e il signor Kolman.

Il mio cuore perse un paio di battiti prima di cominciare a pulsare all'impazzata, la tachicardia era tale che lo sentivo rimbombare nella gola, nelle orecchie, nella testa. Senza accorgermene avevo artigliato il braccio di Austin, conficcando le unghie sulla sua camicia e sostenendomi a lui come se non avessi più forza.

Sembrava una situazione surreale, quasi da film dell’orrore. Nella sala era calato il silenzio, persino l'aria pareva immobile, e si udivano solamente le suole dei loro scarponi calpestare all’unisono il pavimento. Infine, uno degli agenti parlò.

«La dichiaro in arresto. Ha il diritto di rimanere in silenzio, tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei. Ha diritto a un avvocato, se non può permetterselo gliene sarà assegnato uno d'ufficio.»

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Capitolo 18
*** Caso Kolman 2/2 ***


Caso Kolman 2/2

L'irruzione dell'FBI aveva fatto calare il silenzio nella sala; nemmeno un’ecatombe avrebbe sortito un tale effetto. Le persone tremavano sul posto, stringendo tavoli e facendo vibrare il cristallo dei bicchieri tra le dita.

Se il tempo si fosse fermato, dandomi la possibilità di osservare tutti uno a uno, avrei potuto notare gli occhi di mamma e di Meredith, identici, prima strabuzzarsi stupiti in direzione dei loro mariti e poi vagare frenetici nella sala alla ricerca dei figli; Lucas, d'altra parte, aveva spinto Amelia dietro di sé, tenendola ancorata alla sua schiena senza scollare gli occhi di dosso a papà; Kimberly, invece, aveva gli occhi lucidi e la testa china sul petto di Amelia, che le carezzava la schiena nel vano tentativo di tranquillizzarla.

Lo sguardo di papà, invece, non avrei saputo definirlo nemmeno se l'avessi avuto sott'occhio tutto il giorno: era timoroso ma fiero, esitante e determinato, riflessivo e incauto, mille contraddizioni si annidavano tra le sue iridi scintillanti e cupe.

Quando l'agente dell'FBI aveva pronunciato l'ordinanza d'arresto avevo trattenuto il respiro, percependo il braccio di Austin irrigidirsi. Probabilmente non l'avrebbe mai ammesso, ma quando gli uomini in divisa si erano avvicinati ai tre in giacca e cravatta al centro della sala aveva temuto che l'uomo con le manette sarebbe stato suo padre. In effetti, non potevo biasimarlo dato che io avevo avuto il medesimo pensiero.

Tuttavia, mentre nel suo caso la storia del trasferimento non l'aveva ancora convinto e aveva temuto che suo padre potesse essere invischiato in qualche crimine – motivo per cui si era trasferito in tutta fretta –, io avevo solamente sperato che il mio, di padre, non si fosse lasciato coinvolgere in affari illeciti per aiutare un vecchio amico del collage.

Sorprendentemente, però, a finire ammanettato e scortato fuori era stato il signor Kolman, il capo supremo. Si era dimenato, aveva urlato che doveva esserci un errore opponendo resistenza all’arresto e per questo aveva costretto due agenti a immobilizzarlo mentre un terzo gli infilava le manette.

«Si tratta di un disguido, sarò di ritorno in men che non si dica! Voi continuate pure a festeggiare» cercò di tranquillizzare gli ospiti, invano.

A quel punto la mia attenzione era stata catalizzata da Austin: avvertii il suo petto sollevarsi e un sussulto stremato lasciare le sue labbra. Riuscivo a percepire i battiti accelerati del suo cuore anche a distanza, con la vena sporgente sul collo che pulsava incontrollata mentre tutti i muscoli iniziavano a sciogliersi.

Lo osservavo senza comprendere cosa gli stesse succedendo o come potessi aiutarlo, ma dallo sguardo che mi rivolse dopo essersi passato una mano sul viso compresi che io non dovevo trovarmi in condizioni migliori.

Mi avvolse il braccio intorno alla schiena, attirandomi a sé e poggiando il capo contro il mio, e solo in quel momento mi resi conto di star trattenendo il respiro. Presi un'ampia boccata d'aria, aspirandola quasi direttamente dalla sua bocca, rubandogli l'anelito di tranquillità che egli sembrava star riacquisendo.

In quell'istante il corteo del signor Kolman e degli agenti che lo scortavano passò davanti a noi. Austin si soffermò a osservare la sua figura rassegnata, terrorizzata, che ci guardava implorando aiuto; io non li degnai d'uno sguardo dal momento che i miei occhi erano stati catturati da iridi opache ma identiche alle mie.

Scorgere Amelia nella folla non era stato difficile, i nostri sguardi si cercavano e si attraevano come calamite dai poli opposti che non avrebbero avuto senso di esistere l’una senza l’altra. Non la persi di vista nemmeno quando papà mi raggiunse da dietro, chinandosi su di me per baciarmi la fronte – che fino ad allora era stata posata contro quella di Austin – mentre Klaus faceva lo stesso con lui, comparendo dietro gli agenti.

Mi lasciai carezzare i capelli da papà, rilassandomi nelle sue mani forti che mi facevano sentire al sicuro, e riprendendo a respirare normalmente col capo premuto sul suo petto, senza riuscire a realizzare cos'era appena accaduto.

«Che diavolo è successo?!» la voce di mamma mi riscosse, impaurita ma caparbia. Mi scansai per darle modo di accertarsi della salute di papà prima che potesse ucciderlo con le sue mani.

L'omicidio le fu risparmiato dai miei fratelli che giunsero da noi correndo insieme a Kimberly. Lucas mi lasciò un bacio tra i capelli prima di fiondarsi sulla mamma, che sembrava proprio sul punto di avere un attacco di panico. Io strinsi la mano di Amelia, cercando in lei la forza e lasciando che lei assorbisse la mia, sostenendoci a vicenda come avevamo fatto fin dall'utero materno.

«Mi dispiace io... non potevo assolutamente parlarne... non volevo spaventarvi» biascicò papà in preda al panico, guardando la gente che ci fissava, sospettosa e risentita. Subito dopo l'arresto di Kolman, infatti, un agente aveva stretto la mano a lui e Klaus, dunque si era compreso che i due dovevano avere qualcosa a che fare con quel blitz.

«Perdonalo, Maeve, è stata colpa mia, sono stato io a trascinarlo in questa storia» Klaus abbandonò il braccio di sua moglie per rivolgersi direttamente alla mamma, attirando la nostra attenzione.

«Volete, di grazia, spiegarci cos'è successo?» domandò Meredith affiancando la mamma. Kim era la sua ombra, ancora spaventata dalla situazione che si era creata, le stringeva il polso per non perderla mentre si rifugiava tra le braccia del fratello.

«Il nostro trasferimento non è stato casuale...» esordì, lanciando un’occhiata di sottecchi proprio ad Austin, accanto a lui, per confermargli le sue teorie.

«Il mio tutor del college mi ha contattato un paio di mesi fa chiedendomi aiuto, ho finto di aver inviato il curriculum al Kolman Team subito dopo la laurea e quindi che non me la sentivo adesso di rifiutare il posto, ma in realtà è stato l’ex socio ad assumermi prima di essere licenziato» Klaus iniziò il suo racconto catturando anche l'attenzione di tutti i presenti, ansiosi di comprendere con esattezza la scena di cui eravamo stati spettatori.

Poi riprese: «Quando ho visto Josh alla festa, a fine agosto, non potevo credere di aver trovato un volto amico, e scoprendo che lavora proprio nello studio di Kolman ho deciso di coinvolgerlo» poggiò la mano sulla spalla di papà che stava accarezzando i capelli di mamma per tranquillizzarla.

«Pare che Kolman sia implicato in questioni poco chiare... affari illeciti, falso in bilancio, riciclaggio. Il vecchio socio se ne accorse ma fu cacciato prima di ottenere delle prove, per sua fortuna il mio vecchio tutor è riuscito a farmi assumere tramite un altro collega» le parole di Klaus mi giungevano quasi ovattate alle orecchie, divenendo sempre più surreali, mentre all'improvviso gli atteggiamenti di papà acquisivano un senso.

I musi lunghi, le serate passate in ufficio, il nervosismo costante, le profonde occhiaie che negli ultimi tempi erano tornate a solcargli il viso... tutto perché doveva raccogliere prove contro il suo capo senza farsi beccare, rischiando non solo di perdere il lavoro bensì anche ritorsioni dalle persone con cui era invischiato Kolman.

«Quindi tu ci hai mentito» Austin prese la parola, rompendo il silenzio che era calato dopo la spiegazione del padre. C'erano molte cose da domandare, dettagli su cui soffermarsi, eppure lui scelse di soffermarsi sull'aspetto della storia che più l'aveva tormentato.

Immaginavo che stesse iniziando a scaricare la tensione accumulata in quei mesi, ma indubbiamente avrebbe avuto bisogno di più che qualche spiegazione per riallacciare i rapporti con suo padre.

«Ho dovuto, figliolo, questo è qualcosa di più grande di me, più grande di noi» gesticolò indicando le nostre famiglie, cercando l’appoggio di papà e tentando di scusarsi con tutti.

Non si era trovato in una posizione facile, abbandonare la vecchia vita per mettersi a raccogliere prove contro il suo nuovo capo sicuramente l’aveva segnato nel profondo, lasciando cicatrici invisibili. Tuttavia, essendo così legato a mio padre, potevo supporre fossero simili e dunque non avevo dubbi che, una volta saputa la verità su Kolman, la sua coscienza e l’etica lo avevano costretto ad agire.

«Papà ma... adesso è finito tutto?» Kimberly parlò per la prima volta dopo tanto tempo, la vocina sottile e spezzata dal pianto da cui trapelava ancora il terrore che l'aveva investita quando gli agenti avevano fatto irruzione.

«Sì, amore, adesso è finito tutto» Klaus le sorrise con dolcezza, carezzandole la guancia. «Niente più bugie, promesso» e nel dirlo posò la mano sulla spalla di Austin per cercare un conforto che lui non era ancora disposto a concedere.

Avrebbe avuto bisogno di tempo, ma non dubitavo che avrebbe perdonato suo padre e compreso cosa l’avesse spinto a compiere determinate scelte.

Al termine di quel discorso mi sentivo… scombussolata. Ero confusa dalla piega che avevano preso gli eventi e supposi che ci avrei impiegato un po’ per metabolizzare la questione, indi per cui preferii restare in silenzio a meditare sugli avvenimenti che avevano appena sconvolto le nostre famiglie e che avrebbero mutato per sempre il lavoro al Kolman Team.

Beh, a quel punto era arrivato il momento di cambiare nome allo studio.

Strinsi forte la mano di Amelia prima di allontanarmi da loro, gli occhi puntati su Austin che aveva preso le distanze dal padre scuotendo il capo. Aveva l'aria sconvolta e sul viso si poteva osservare il turbamento, dunque pensai che un po’ di compagnia gli avrebbe fatto bene.

«E così avevi ragione tu, stava mentendo» dissi per alleggerire la tensione e rompere quella parete di ghiaccio che stava ergendo per ritagliarsi il suo angolino lontano dal mondo.

Non gli avrei permesso di affrontare quella situazione da solo, a costo di armarmi di picchetto e fiamma ossidrica avrei fatto crollare quella maledetta barriera senza l’aiuto di Vyserion – al contrario del Re della Notte, che senza il drago non avrebbe mai oltrepassato il Forte Orientale.

«Forse avrei voluto sbagliarmi» confessò sconsolato, passandosi una mano tra i ricci in un gesto di puro nervosismo e facendo oscillare i boccoli in ogni direzione.

Aspettai che terminasse di autoinfliggersi punizioni ai capelli, osservandolo con un sopracciglio sollevato e l’aria saccente che avevo imparato da Amy. Fu proprio grazie al mio silenzio che smise di tormentarsi, sollevando il capo per controllare che fossi ancora lì.

«Austin Miller che sbaglia? Caspita, questa me la segno» ironizzai quando fui certa di avere il suo sguardo addosso, girandogli intorno per costringerlo a seguirmi con gli occhi.

Visti da dietro i suoi ricci erano davvero splendidi, boccoli color del grano perfettamente definiti che ricadevano leggeri fino al collo, incorniciandogli perfettamente il capo. Avrei tanto voluto passarci le mani in mezzo per constatarne la morbidezza.

«Che… fai?» biascicò esitante, guardandomi di sottecchi mentre gli spuntavo di nuovo sotto al naso, le dita saldamente intrecciate ai suoi capelli, avvolgendo i boccoli intorno alle falangi con aria assorta.

Ops, forse non l'avevo solo immaginata, tutta quella morbidezza.

«Io… uhm… ti distraggo! Sta funzionando?»

Dio, che tale idiota che ero! A dire cazzate ero sempre stata un asso, quella volta però mi superai, stupendo persino me stessa.

«Sei tutta matta, Miller» mi tirò un buffetto affettuoso sotto il mento, costringendomi ad alzare lo sguardo e incrociando i suoi occhi.

Ogni volta che li osservavo era come la prima, apparivano sempre più blu e sempre più magnetici, onirici. Esercitavano un potere attrattivo senza eguali e sembravano avere la facoltà di spronarti a fare qualsiasi cosa, facendoti sentire invincibile.

E, come ogni volta che li posava su di me, avvertii una sensazione di quiete trascendermi fin dentro le ossa, imprimendosi sotto la pelle come un velo di gaudio di cui nessuno vorrebbe privarsi e facendomi desiderare di passare più tempo con lui per potermi beare di quella serenità.

 

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Capitolo 19
*** Il codice morale delle azzuffate ***


Il codice morale delle azzuffate

Lo scandalo dello studio Kolman fece il giro dello Stato in un baleno. Quando una personalità così eminente viene smascherata, l’opinione pubblica solitamente si divide in coloro che ne sostengono l’innocenza a spada tratta e coloro che rincarano la dose, aggiungendo false accuse.

Tuttavia, in quel caso ci fu ben poco da difendere e anche la sua famiglia si guardò bene dal rilasciare dichiarazioni. Papà ci spiegò che sicuramente era una mossa consigliata dai loro avvocati, timorosi che l’apertura di nuove indagini potesse far sorgere nuovi capi d’accusa.

In effetti, per i media era praticamente colpevole anche del buco dell’ozono e del riscaldamento globale. Giusto a causa della data di nascita non era stato accusato anche dell’omicidio di Francesco Ferdinando – e Gavrilo Princip muto.

Le lezioni del signor Foster mi facevano più male di quanto ero pronta ad ammettere.

Ovviamente, dopo aver consegnato alla giustizia il capo e fatto il doppiogioco per mesi, mio padre e Klaus Rogers non erano ben visti dai colleghi più fidati di Kolman, la sacra triade come si divertivano a chiamarli in ufficio. Per fortuna la maggior parte dei soci aveva ben compreso le loro intenzioni, per cui entrambi erano stati promossi con buona grazia di Austin.

Aveva sperato di poter lasciare la città una volta terminate le indagini, ma la nomina a Senior di suo padre era sinonimo di stabilità.

Io, d’altra parte, cercavo di fare di tutto per non fargli pesare la situazione, per lo più coinvolgendolo nelle uscite con Lucas, Malcolm e Garret. Anche quella sera avevo assolto al mio ruolo di prima amica in città – che Amy continuava a suggerire di modificare in amici con benefici – e lo avevo convinto a partecipare alla festa che Lucas aveva organizzato in casa nostra.

In realtà non era una vera festa perché nessuno di noi tre aveva intenzione di pulire da cima a fondo la casa per colpa di una mandria di adolescenti che non avrebbero fatto altro che pomiciare, ubriacarsi e vomitare.

Amelia ci aveva scaricato in tre secondi netti, asserendo che non aveva intenzione di passare la serata in compagnia di un branco di scimmioni con il quadricipite più allenato del cervello; piuttosto, disse, avrebbe raggiunto mamma dall’altra parte dello Stato al convegno sulla traumatologia a costo di vedere corpi martoriati e ossa rotte tutto il weekend.

Non me l’ero sentita di darle torto, d’altronde i compagni di squadra di Lucas non brillavano certo per l’ingegno e gli uomini in camice bianco hanno sempre esercitato del fascino su di me.

Quando suonò il campanello annunciando che gli ultimi ospiti erano finalmente arrivati, mi precipitai ad aprire sperando che anche Austin fosse tra loro. Tirai un sospiro di sollievo quando lo notai insieme ad altri quattro compagni.

«Rogers, ci sei anche tu. Chi è che ti ha invitato?» domandai ironica, rivolgendogli una finta occhiata sprezzante.

«La padrona di casa, non so se la conosci» studiò l’ambiente in cui lo invitai a entrare con aria guardinga, come a volersi accertare che nessuno lo stesse ascoltando. «Ho dovuto subire i suoi tormenti per giorni... è una vera rompiballe!»

Spalancai gli occhi e lo colpii alla spalla, facendolo ridere di gusto. Mi piaceva di più quando le arcate di denti bianchissimi gli illuminavano il viso e gli occhi, facendoli risplendere di una nuova luce.

«Questa rompiballe te la farà pagare» minacciai mentre lui si sporgeva su di me per lasciarmi un bacio sulla guancia. Quando le sue labbra schioccarono sulla mia pelle ripensai a ogni volta che mi aveva salutato in quel modo, scoprendo che mai, prima d’allora, avevo avvertito il cuore pulsare così forte.

Ecco, stavo avendo un infarto.

Sono troppo giovane per morire, non ho ancora vinto il campionato! pensai, allontanandomi da lui solo per guardarlo negli occhi e scoprirli di un blu brillante.

«Impossibile, mi vuoi troppo bene! Ormai ti ho conquistato» ammiccò divertito osservando le mie sopracciglia arcuarsi per sottolineare l’assurdità di quelle parole.

«Ti piacerebbe» replicai solamente, spostandomi nella sua direzione per colpirlo con un movimento d’anca e spingerlo a raggiungere gli altri sul divano.

Ringraziai la congiunzione astrale che aveva fatto sì che Amy uscisse con Margot, lontana chilometri da quella casa e da quella conversazione, perché se io potevo asserire di star avendo un infarto nonostante i sedici anni e la perfetta salute, lei di certo non sarebbe stata così comprensiva.

Austin si accomodò sul divano accanto a Malcolm, troppo impegnato a scommettere su quando Lucas si sarebbe accorto che Kate stravedeva per lui per accorgersi del suo arrivo o del fatto che mio fratello aveva notato quello scambio di contanti tra lui e Garret e avrebbe chiesto spiegazioni.

Io li raggiunsi poggiandomi sul bracciolo per poterli osservare al meglio e, al contempo, non perdere di vista Austin il quale, sebbene faticasse ad ammetterlo, aveva ancora qualche difficoltà a sentirsi parte integrante di quel gruppo.

«Avrei segnato se non fosse stato per quel coglione entrato a gamba tesa sulla mia caviglia!» berciò mio fratello mentre chiacchieravano della loro ultima partita, terminata in un pareggio.

Kate, accanto a lui, si accese in un lampo. «È vero!» esclamò, attirando su di sé l’attenzione di Lucas, «Dalle gradinate si è visto benissimo che si è lanciato quando tu avevi già la palla tra i piedi».

Lui annuì con forza dando adito alle sue parole e a me venne da ridere. Come diavolo faceva a non accorgersi che la mia migliore amica gli sbavava dietro in quel modo? Avrebbe detto qualsiasi cosa per compiacerlo.

Malcolm sghignazzò, rendendo così noto ai compagni di squadra il motivo della sua ilarità e beccandosi per quello uno scappellotto da parte mia, che avevo il compito di preservare la mia amica da eventuali scherni.

Fui costretta a sporgermi dal bracciolo su cui ero seduta, allungandomi dietro Austin e costringendolo a spostarsi in avanti per lasciarmi spazio, ma ne valse la pena dal momento che Boot non mi aveva visto arrivare e scattò in piedi come un fulmine.

«Vaffanculo, Sam, mi hai fatto male» si lamentò, massaggiandosi la parte lesa. Era completamente rosso in viso e aveva trattenuto il respiro un paio di istanti prima di inveire contro di me.

Tutti gli occhi erano puntati su di lui, al centro del salotto, e nessuno prestava più attenzione agli occhioni di Kate che mandavano cuori a Lucas.

Missione compiuta.

«Misà che te la sei pure fatta sotto, amico» lo schernì Martin Hurt, suscitando l’ilarità dei compagni alla vista dei suoi abiti bagnati dall’acqua che stava bevendo.

Ci provai a non ridere per una questione d’orgoglio – fosse stato per me non sarebbe nemmeno stato invitato, ma Lucas ci teneva a non creare problemi interni alla squadra – tuttavia osservare Malcolm sfilarsi la felpa solo per tirargliela in faccia e poi piombargli addosso fu troppo esilarante per trattenersi.

Ero ancora allungata sul divano, con le gambe dietro la schiena di Austin e il busto ormai protratto in avanti dove prima era seduto Boot, quando Lucas decise che era il momento opportuno per vendicare il suo migliore amico.

Me lo ritrovai addosso senza poter fare nulla per difendermi da lui e dalla sua massa muscolare troppo più sviluppata della mia. Dannate differenze di genere! Gli bastava cogliermi di soprassalto, senza darmi il tempo di elaborare la mia resistenza, e riusciva a rigirarmi come un calzino.

Si chinò sulla mia pancia e mi avvolse con i suoi bicipiti da scimmione per sollevarmi, rischiando persino di farmi colpire Austin con un calcio mentre lui mi faceva roteare e infine mi adagiava senza alcuna delicatezza sulla sua spalla.

Sentii il respiro mozzarsi quando atterrai con l’addome sulle sue ossa, tuttavia riuscii a vendicarmi immediatamente scivolando all’indietro e avvolgendogli le gambe intorno al busto per mantenermi mentre gli morsicavo la pelle morbida del braccio.

In momenti come quelli riuscivo a comprendere i motivi che avevano spinto la mamma a chiamarci tribù di selvaggi.

 «Sam!» sbraitò, dimenandosi per farmi mollare la presa. «Avevamo detto niente morsi.»

I suoi compagni di squadra non erano troppo interessati a noi; ci osservavano di sottecchi per controllare che nessuno ci rimettesse le penne urtando contro qualche mobile appuntito mentre ci separavamo, ma erano abituati alle nostre faide.

Austin, al contrario, pareva indeciso se intromettersi per placare gli animi o farsi gli affari suoi e risparmiarsi una colluttazione con due uragani in azione. E sembrava decisamente più propenso per la seconda.

«Aspetta, avete davvero delle regole per quando vi azzuffate?» s’intromise un altro ragazzo, distraendoci definitivamente.

«Certo» rispose Lucas ovvio, come se fosse consuetudine redigere un accordo per decidere quali colpi fossero ammessi in un duello. «Io non posso tirarle i capelli e lei non colpisce i gioielli di famiglia» spiegò, suscitando l’ilarità generale.

«I morsi sono vietati perché mamma ci becca sempre notando i segni dei denti e poi ci punisce» aggiunsi io, chiarendo la situazione e avvicinandomi al suo braccio per controllare se ci fosse il segno.

Mamma e papà non sarebbero tornati prima di domenica sera, tuttavia Amy avrebbe potuto notarlo e usarlo per ricattarci, dunque non potevamo permetterci di essere scoperti.

«Vado a metterci una bottiglia d’acqua fresca sopra» disse, dirigendosi verso la cucina dopo avermi dato una debole spinta.

Di tutta risposta gli feci la linguaccia mentre sistemavo i capelli, completamente sparati in ogni direzione dopo la capriola con cui mi aveva sollevato. Sentivo le gote purpuree e una sensazione di calore attorno alla base del collo, lì dove la felpa si restringeva, così decisi di sfilarla e rimanere in canottiera.

Le temperature esterne stavano diventando severe, tuttavia il riscaldamento in casa era alto poiché Amelia era estremamente frettolosa – al contrario di me e Lucas, che eravamo perennemente accaldati e non solo perché ci azzuffavamo di continuo.

«Miller, nessuno ti ha detto che le canottiere non fanno per te?» mi apostrofò Hurt mentre riprendevo il mio posto tra Austin e Boot. «Hai le braccia grosse, non dovresti metterle.»

Mi infervorai. Avvertii distintamente un formicolio salire dalle piante dei piedi fino al cervello, scoppiando come una bomba a orologeria.

Ero consapevole che lo facesse solo per provocarmi e ne ebbi l’ennesima prova perché mio fratello era ancora in cucina e nessuno, a eccezione di Austin, l’aveva sentito. Lui si divertiva a farmi perdere le staffe recitando la parte dell’innocente che subisce l’ira dell’isterica.

«Lo dici solo perché i miei bicipiti sono più muscolosi dei tuoi» replicai velenosa, flettendo un braccio per mostrare il muscolo e fulminandolo con gli occhi.

Martin Hurt si rabbuiò notando che il mio tono di voce, decisamente più alto del suo, aveva suscitato l’attenzione e l’ilarità dei presenti, che non avevano mai compreso del tutto i nostri battibecchi ma si divertivano sempre un sacco a nostre spese.

Alla fine fui costretta ad alzarmi dato che avvertivo la rabbia sfrigolare sotto pelle e accendermi tutta, facendomi desiderare ardentemente di rompergli quel naso perfetto con un pugno.

Marciai verso la cucina da cui era appena uscito Lucas, che mi aveva dato un buffetto sulla spalla senza accorgersi di quanto fossi incazzata, e scolai due bicchieri d’acqua ghiacciati nel tentativo di calmarmi.

Sapevo di rischiare una congestione, ma non mi interessava finché fossi riuscita a spegnere quel fuoco rabbioso che mi ardeva sotto la pelle. Odiavo arrabbiarmi in quel modo, la furia cieca era un sentimento da cui cercavo di tenermi alla larga perché avevo l’impressione di perdere il controllo sulle mie azioni e compiere una pazzia.

Di solito era Amelia a calmarmi, il suo temperamento statuario e la quiete che riusciva a trasmettermi avevano la capacità di rasserenarmi come se un’onda gelida si fosse abbattuta sulla mia rabbia infuocata, spegnendola.

«Tutto bene?»

Quella sera, tuttavia, solo sentire la sua voce ebbe il potere di scuotermi, facendo passare in secondo piano qualsiasi idiozia di Martin Hurt.

«Sì, non ti preoccupare, ci sono abituata» lo rassicurai, voltandomi per guardarlo in viso.

Austin non sembrava convinto, aveva un’espressione corrucciata e sembrava sul punto di dire qualcosa. Sospirò rumorosamente, poi esalò piano: «Mi dispiace non essere intervenuto, mi ha spiazzato e non sapevo cosa dire».

Sorrisi per quella premura, facendo qualche passo nella sua direzione per accarezzargli il braccio nel tentativo di rassicurarlo.

«Non c’è bisogno di scusarti, so difendermi da Hurt» lo rimbeccai, sottolineando che il ruolo della damigella in pericolo, come aveva potuto appurare in diverse occasioni, non mi si addiceva. «E non ti chiederei mai di intrometterti, non lo chiedo nemmeno a Lucas perché non voglio che i nostri screzi turbino l’equilibrio della squadra.»

Ormai lasciavo correre per quieto vivere – e per non concedere a quel pallone gonfiato di sapere che mi aveva ferito – e stavo effettivamente migliorando nel lasciarmi scivolare addosso le sue cattiverie.

Tuttavia non era ancora abbastanza dato che di tanto in tanto – principalmente quando mi coglieva di sorpresa, come alla prima partita di campionato o quella sera stessa – i suoi fendenti andavano a segno in profondità, come lame di coltelli che penetrano facilmente nella pelle morbida del fianco.

«Ho notato che te la cavi abbastanza bene» sorrise in risposta, probabilmente rispolverando un paio di conversazioni a cui aveva assistito, poi mi avvolse un braccio intorno alle spalle e insieme ci incamminammo di nuovo verso il salotto.

«Allora, si parlava del codice morale delle azzuffate. Ci sono altre regole che dovrei conoscere?»

 

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Capitolo 20
*** Puzzo come uno scaricatore di porto ***


Puzzo come uno scaricatore di porto

Il lato positivo di fare allenamenti in contemporanea alla squadra maschile erano le assenze del loro coach. Quando il Mister non c’era, infatti, riuscivamo a trascorrere tre ore di esercizi necessari al miglioramento delle squadre – leggasi maltrattamenti legalizzati e sadismo da parte – in pacifica convivenza.

Il momento migliore rimaneva la partitella a fine allenamento, quando tutti eravamo stremati e avremmo voluto strapparci le fibre dei muscoli delle gambe per ficcarle sotto l’acqua gelata e rigenerarle e invece eravamo costretti a fare un ultimo sforzo per vincere l’amichevole.

Quello era l’evento decisivo e avrebbe distinto chi sarebbe crollato a bordo campo, sfinitoe privo di forze, da chi ce l’avrebbe messa tutta per continuare a correre anche a costo di strisciare sull’erbetta fino alla porta avversaria.

Okay, forse descriverci come dei vermi non era esattamente rappresentativo della realtà, ma i più deboli di noi avrebbero davvero preferito strisciare piuttosto che giocare quella partita. Io ovviamente non facevo parte della categoria e la mia milza che chiedeva pietà poteva benissimo tacere e smettere di farmi piegare sul lato.

«Jakobs! Paulson!» il nostro Mister richiamò l’attenzione dei due capitani, intimando loro di fare le squadre miste per la partitella.

Siccome vi era l’obbligo di chiamare insieme un ragazzo e una ragazza, Paulson – dopo un pari e dispari – si accaparrò immediatamente Joseph e Sabrina, i due vicecapitani, così Monica scelse me e Lucas come primi compagni; Austin finì con Paulson, così come Hurt, mentre Kate e Garret nella nostra squadra.

Ovviamente fu un disastro per tutti. Monica era l’unica ad avere ancora energie dopo quell’allenamento straziante, con grande sdegno di Boot che, da bordo campo, continuava a sostenere che fosse strafatta di crack. Kate riusciva un po’ a starle dietro, così come Paulson e Joseph, ma noi altri saremmo stati più utili come guardalinee.

Io sbagliai un paio di passaggi che mi valsero una serie di improperi dal mio capitano, Garret quasi fece crollare un’avversaria non riuscendo ad arrestarsi in tempo mentre Hurt, sebbene non perdesse occasione per darmi del filo da torcere quando avevo il pallone tra i piedi, aveva ormai rinunciato a correre.

Austin, al contrario, si ostinava a scivolare da una parte all’altra del campo con i capelli ormai grondanti di sudore che rimbalzavano sul capo bloccati dall’elastico e le goccioline che gli colavano dalla fronte.

Dopo soli trenta minuti il mister pose fine alle nostre sofferenze con il triplice fischio, facendo crollare metà di noi a terra per sfinimento.

Fu con orgoglio che crollai lunga stecchita sull’erba implorando mio fratello di chiamare mamma per una fiala di adrenalina altrimenti non sarei sopravvissuta. Lucas, di tutta risposta, si sdraiò accanto a me, asserendo che Amelia sarebbe diventata figlia unica.

Che non si dicesse che il melodramma non era di famiglia!

Kate, che anche se respirava a fatica pareva ancora capace di reggersi sulle sue gambe, ci punzecchiò i piedi come fossimo due animali inermi sul ciglio della strada e lei dovesse accertarsi che fossimo morti.

«Dove trovi la forza di rimanere in piedi?!» domandò Lucas, osservandola dal basso all’alto come fosse un alieno. Io tacqui anche se mi stavo chiedendo la stessa cosa.

«La Jakobs le passa il crack sottobanco» s’intromise Malcolm, arrivando da bordocampo per aiutare mio fratello a rialzarsi con l’aiuto di Kate.

Loro tre si avviarono alla volta degli spogliatoi nel momento in cui Austin, giunto ormai ai miei piedi, tese un braccio nella mia direzione per aiutarmi ad alzarmi. Grugnii di disapprovazione, ma quando si abbassò per prendermi la mano fui costretta ad accompagnare i suoi movimenti.

«Questa me la paghi, Rogers, volevo collassare ancora un po’» mi lamentai, aggrappandomi al suo braccio per mantenere una postura che fosse quanto più simile a quella di un Homo Sapiens dato che la mia milza urlava pietà e avrei preferito camminare come un primate.

«Andiamo, Miller, non ti facevo così pappamolle» mi provocò, premurandosi però di avvolgere il suo braccio intorno alla mia schiena per assicurarsi che non crollassi al suolo.

Mi accucciai contro il suo fianco incurante delle condizioni pietose in cui versavamo, entrambi completamente sudati, con i completini grondanti d’acqua e un profumo che non somigliava affatto a Chanel N°5.

La sua puzza di sudore in realtà non si avvertiva granché, quindi mi premurai di domandargli quale deodorante utilizzasse. «Incredibile, io puzzo come uno scaricatore di porto e tu a momenti profumi di rosa.»

Austin rise di gusto, rafforzando la presa sul mio fianco quando si accorse che anch’io gli avevo avvolto il braccio dietro alla schiena, improvvisamente rinvigorita.

Com’era possibile sentirsi già rigenerati solamente stando nelle sue vicinanze? Aveva l’adrenalina al posto della pelle e mi aveva appena fatto un’iniezione oppure stavo definitivamente per collassare e il mio corpo stava dissipando le ultime energie?

«Scaricatrice di porto, ce la fai ad arrivare allo spogliatoio da sola?» domandò quando le nostre strade avrebbero dovuto dividersi.

Mi strinsi ancora contro il suo fianco prima di prendere le distanze, mostrandogli che potevo farcela. In effetti la sua vicinanza mi aveva aiutato a riprendermi, anche se il mio cuore ormai era partito per tangente e nemmeno una doccia gelata avrebbe frenato i battiti.

«Ci vediamo dopo, Rogers» alzai il braccio dandogli le spalle e imboccai la via degli spogliatoi femminili, dove molte delle mie compagne erano già uscite dalla doccia a causa della caldaia che, di nuovo, funzionava a singhiozzi.

Mi affrettai a spogliarmi buttando tutti i vestiti in fondo al borsone, dove il loro tanfo sarebbe stato attenuato, e mi infilai nel primo box doccia che si liberò. Inizialmente fui costretta a rimanere sotto il getto dell’acqua ghiacciata, tremando come una foglia mentre insaponavo i capelli. Per fortuna dopo un paio di minuti la caldaia riprese a funzionare e riuscii a evitare una broncopolmonite fulminante.

Anche il cuore parve placarsi, decelerando le pulsazioni e concedendomi una tregua da quella corsa che aveva intrapreso in presenza di Austin. Ormai era usuale avvertire le palpitazioni quando lui era nelle vicinanze, tuttavia i miei battiti sembravano aumentare ogni volta, rischiando così di farmi venire davvero un infarto.

Non era possibile che un cuore pulsasse così forte, non era normale. Se mi fossi fatta auscultare il torace dalla mamma probabilmente mi avrebbe prescritto qualcosa per la tachicardia. O mi avrebbe dato dell’ipocondriaca intimandomi di smettere di googlare i miei sintomi e diagnosticarmi ogni patologia esistente.

Cercai di sciacquarmi più in fretta possibile così che anche le altre potessero godere di quel po’ di acqua calda che ci era stato concesso per miracolo. Tamponai i capelli con l’asciugamano e indossai i jeans e la t-shirt puliti, che avevo accuratamente tirato fuori dal borsone per non contaminarli con gli abiti dell’allenamento.

«Sam, mi presti lo shampoo?» Kate richiamò la mia attenzione mentre allacciavo le scarpe. «L’ho dimenticato di nuovo.»

«Tu non dimentichi la testa solo perché ce l’hai attaccata al collo» risposi, passandole la boccetta che in realtà aveva utilizzato più lei che io dato che faceva due passate ogni volta per districare i suoi ricci scuri.

«Giuro che te la ricompro!» promise mentre saltellava verso la doccia con l’accappatoio tra le mani.

«Sarebbe già tanto se ricordassi di doverlo comprare per te» le urlai dietro mentre finivo di preparami.

Dopo aver asciugato i capelli con il phon, chiusi il borsone e uscii dallo spogliatoio per prendere un po’ d’aria. In attesa che Kate e Lucas finissero di prepararsi avrei anche potuto inventare una nuova legge fisica e avere persino il tempo di dimostrarla tanto erano lenti, per cui preferivo aspettarli al fresco pur di evitare il tanfo degli spogliatoi.

«Allora non sei collassata nella doccia.»

Una voce fin troppo nota mi riscosse, attirando la mia attenzione. All’improvviso quel venticello fresco sembrava essere divenuto bollente, incapace di raffreddare il mio corpo e di placare la tachicardia.

«No, sto benissimo» trillai, certa di non aver mentito. In sua presenza riuscivo davvero a sentire il benessere di cui spesso mi ero riempita la bocca.

Austin mi osservò per alcuni istanti, soffermandosi sui miei occhi che lo scrutavano con attenzione, chiedendomi quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Lui sospirò, passandosi la mano tra i boccoli che gli ricadevano davanti al viso per appuntarli dietro l’orecchio, e distolse lo sguardo.

Quando tornò a voltarsi nella mia direzione io avevo ancora gli occhi su di lui e un’espressione perplessa si era dipinta sul mio viso. Sembrava tormentato, come se nel suo corpo si stesse combattendo una battaglia, e non avrei saputo indicare quale fazione stesse avendo la meglio. Di certo lui stava avendo la peggio.

«Usciamo insieme?» domandò a bruciapelo facendola passare per la richiesta del secolo.

«Sì, un attimo, vedo se Kate e Lucas hanno finito» risposi estraendo il cellulare dalla tasca per scrivere alla mia migliore amica che l’avremmo lasciata a piedi e a mio fratello che avrei preso la macchinata e l’avrei abbandonato lì.

«Kate e Lucas? Perché…?» Austin sembrava non aver compreso la richiesta che lui stesso aveva avanzato pochi istanti prima e mi chiesi se si sentisse bene.

«Per avvertirli che usciamo» spiegai, ovvia.

«Intendi adesso?» sgranò gli occhi deglutendo in maniera rumorosa. Proprio non riuscivo a capire cosa gli prendesse.

«Quando vuoi andare al parcheggio, tra un’ora?» chiesi retorica, osservando le sue guance tingersi di un lieve rossore mentre io mi avviavo verso l’ingresso.

«Perché al parcheggio?» sembrava perplesso ma anche preoccupato. «Vuoi passare il pomeriggio qui?»

Oh. Quindi non intendeva uscire dai campetti. E nemmeno uscire da scuola. Si può essere così idiote da non aver capito che mi stava chiedendo un appuntamento? E si può essere così sciocche da fargli notare di non aver capito nulla e rovinarsi definitivamente la reputazione?

«Oh, intendevi uscire… con me.»

A quel punto nemmeno io sarei uscita con me stessa.

Mi vantavo di avere più neuroni di Lucas e dei suoi compagni scimmioni, ma a quanto pare i miei erano lì solo a fare numero, quando c’era bisogno non funzionavano mica!

«Già… Scusa, lascia stare, dimentica ciò che ho detto» biascicò, superandomi a passo svelto per sfuggire al mio sguardo.

«No, aspetta! Io voglio uscire con te» quasi mi ritrovai a urlare mentre gli afferravo un braccio per bloccare la sua fuga. Aveva il muscolo contratto e quasi ebbi l’impressione di percepire il suo tremore quando affondai le unghie nella carne.

«Davvero?» sembrava sorpreso sul serio, come se non si aspettasse una risposta affermativa. Come se dopo tutto il tempo trascorso assieme io avessi potuto non notarlo. Come se qualcuno avrebbe davvero potuto rifiutare un invito da una persona con l’aspetto e l’animo di un angelo.

«Sì, anche adesso! Scrivo a Lucas di non aspettarmi» gli sorrisi, inviando un breve messaggio a mio fratello in cui gli ricordavo di dare un passaggio a Kate e annunciavo che non sarei tornata subito a casa.

Austin rise del mio entusiasmo e i suoi occhi blu parvero brillare a un’intensità maggiore. «Ho pensato che potremmo andare insieme alla festa di Fred venerdì sera…» buttò lì con nonchalance, ma il tono tradì tutte le sue aspettative

«Va bene, vieni a prendermi alle otto» acconsentii, contenta. «Adesso però possiamo andare a bere un caffè!»

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Capitolo 21
*** Terra bruciata ***


Terra bruciata

Quando avevo invitato Austin a prendere un caffè insieme, non ci avevo riflettuto troppo. Semplicemente avevo pensato che passare il resto del pomeriggio con lui sarebbe stato divertente e gliel’avevo proposto.

Il problema? Non avevo calcolato ciò che sarebbe successo. Cosa sarebbe successo? In realtà nulla, perché era tutto nella mia testa. Avrei dovuto darci un taglio con quei botta e risposta? Assolutamente sì. L’avrei fatto? Okay, basta.

All’improvviso l’idea di passare del tempo con lui, sola con lui, mi terrorizzava. Temevo di non sapere cosa dire in auto, di farmi prendere dal panico e iniziare a sparare parole a raffica che l’avrebbero fatto fuggire a gambe levate.

Per fortuna era bastato un «Allora, dove ti porto, milady?» per rompere il ghiaccio e intraprendere una fitta conversazione sui suoi finti modi da gentleman utilizzati per conquistare le ragazze.

Dacché ricordassi, non avevo mai incontrato una persona in grado di farmi sentire a mio agio come se mi trovassi in compagnia di Amy o Lucas, mai avevo riso così tanto con qualcuno che non fossero i miei fratelli.

Eppure, con Austin sentivo un feeling particolare, avvertivo una sorta di legame che mi spingeva ad avvicinarmi a lui, come un filo che ci univa e che io ero determinata a districare per scoprire ogni suo piccolo dettaglio.

Non avevamo smesso di parlare finché ci erano stati serviti i nostri frullati e anche in quel momento, quando era calato il silenzio, non era stato imbarazzante come mi ero immaginata nei miei incubi più reconditi.

Ci eravamo limitati a scrutarci di sottecchi, sorridendoci a vicenda e arrossendo di tanto in tanto come due scolaretti. Tecnicamente eravamo due scolaretti, ma ai sedicenni non si può dire la verità o terranno il muso per tutta la vita.

Austin di tanto in tanto giocherellava con i capelli attorcigliandoseli intorno alle dita e io rimanevo incantata a osservare i riccioli dorati avvolgergli la pelle. I miei pensieri oscillavano tra il desiderio di tastarne ancora la morbidezza, come alla festa del Kolman Team, e la volontà di lasciarmi ipnotizzare ancora e ancora.

Sostanzialmente, ero quasi cotta a puntino.

Il quasi è d’obbligo perché, anziché concentrarmi esclusivamente su quella visione celestiale con cui stavo condividendo un frullato, il mio cervello divagava con quesiti tipo: perché se lui fa la doccia negli spogliatoi ha comunque i capelli perfetti mentre i miei sembrano a malapena lavati?

Questione di priorità, e la priorità in quel caso era sembrare quantomeno accettabile accanto ad Austin. Già dovevo sperare di essermi liberata dell’olezzo da scaricatore di porto…

«La partita di sabato è contro l’ultima in classifica, giusto?» domandò a un tratto, rompendo il silenzio che ormai si protraeva da un po’.

«Sì, sono ultime dall’inizio del campionato, non dovrebbe essere una partita difficile» spiegai. Avevamo già iniziato a preparare quell’incontro e avevamo convenuto di non aver bisogno di sforzo eccessivo per batterle; tuttavia, come diceva sempre il Mister, le avversarie non andavano mai sottovalutate.

Austin rise, portandosi una mano sulla fronte con finto disappunto. «Ma no, non si dicono queste cose, dovresti saperlo!»

«Anche il nostro coach ci rimprovera quando lo diciamo» risi di quella buffa espressione. «Questa volta però è lecito, non hanno mai vinto una partita, nemmeno contro le altre squadre in coda alla classifica, quindi dubito che avranno la meglio contro di noi.»

Lui sogghignò scuotendo il capo. «Sei un po’ troppo sicura di te, non ti pare?»

«Sono consapevole delle mie capacità» ribattei piccata, facendolo ridere di gusto.

Austin si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi si sporse sul tavolo che stavamo dividendo e mi dedicò un sorriso malandrino.

Error 404: neuroni not found.

«Dato che sei così sicura di te, facciamo una scommessa.»

«Ci sto» risposi senza nemmeno ascoltare i termini. Scelta stupida? Probabilmente sì. Me ne sarei pentita? Assolutamente no.

«Se non riesci a segnare, mi devi una cena, ti concedo di scegliere il posto» sancì assottigliando gli occhi e fissandomi con un provocatorio sguardo inquisitore.

Annuii, sporgendomi a mia volta sul tavolino. Eravamo ormai faccia a faccia, praticamente a un palmo di distanza, e potevo distinguere perfettamente l’odore emanato dai suoi capelli.

Perché i suoi profumavano mentre i miei a malapena riuscivo a lavarli in quelle maledettissime docce con le caldaie sempre guaste?

«Ci sto» risposi serafica. «Però, se segno almeno un goal, sarai tu a offrirmi una cena» rilanciai. In fondo, sia che avessi segnato sia che non l’avessi fatto, avrei comunque guadagnato una cena con lui.

Amelia sarebbe stata così fiera di me!

«Allora è fatta» disse, ritraendosi contro lo schienale della sedia e ponendo nuovamente una certa distanza tra noi. Non potevo più sentire il profumo del suo shampoo, ma lo scintillio nelle sue iridi era perfettamente distinguibile.

«È fatta» risposi, tendendogli il braccio per sancire definitivamente il patto. Austin rise mentre stringeva animatamente la mia mano, come se non riuscisse a capacitarsi di ciò che avevamo appena fatto.

So che all’apparenza può non sembrare nulla di eclatante, ma in fondo eravamo due ragazzini e qualsiasi cosa sembra enorme a quell’età. Insomma, non eravamo ancora usciti per il nostro primo appuntamento che già avevamo fissato il secondo, sembrava… folle!

Quando decidemmo di uscire dal bar era ormai ora di tornare a casa. I nostri genitori non sarebbero rientrati prima di cena, ma sua sorella era ormai rincasata e Austin non se la sentiva di lasciarla sola per troppo tempo.

Sebbene fossero trascorsi ormai cinque mesi dal loro trasferimento – quasi tre dall’inizio della scuola – Kimberly ancora faticava a sentirsi completamente a suo agio in quel nuovo ambiente.

Percorremmo i metri che ci separavano dalla sua auto in completo silenzio, senza tuttavia avvertire la necessità di spezzarlo via per condividere parole di circostanza.  

Avevamo parlato abbastanza per quel pomeriggio, ma le presenze reciproche non ci avevano stancato. Entrambi sembravamo restii a raggiungere il parcheggio, preferendo ciondolare sul marciapiede piuttosto che accelerare il passo sapendo che avremmo dovuto separarci.

Fu in quel momento, tra una spallata leggera e una risata, che due ragazze appartate in un vicolo catturarono la mia attenzione. Scostai immediatamente lo sguardo, ma un piccolo particolare mi fece voltare ancora nella loro direzione.

Una delle due indossava una borsa stranamente simile alla mia. Bizzarro dato che zia Jane me l’aveva portata dal suo ultimo viaggio in Marocco e l’aveva definito un accessorio unico.

«Che strano, io ho la stessa borsa» mormorai, rallentando fin quasi a fermarmi. «E ho anche la stessa giacca.»

«Come dici?» domandò Austin, voltandosi per cercare di capire cosa stessi dicendo. Non poteva seguire gli ingranaggi del mio cervello, che ormai giravano a velocità disumane per seguire i fili dei miei ragionamenti.

La più intelligente di casa era sempre stata Amelia, ma in fondo eravamo gemelle e, si sa, le gemelle sono in grado di riconoscersi a occhi chiusi a chilometri di distanza.

«Dico che quella ragazza è tremendamente simile a mia sorella.» Assottigliai lo sguardo per cogliere qualche dettaglio in più nonostante la penombra. «Così simile che potrebbe essere la sua gemella.»

Austin rise pensando che fosse una battuta. Non aveva idea di quanto il sangue iniziasse a ribollirmi nelle vene e, quella volta, non era imputabile a lui. Non potevo ritenerlo colpevole di quel calore guizzante sottopelle che mi faceva fremere perché avvertivo solo un insidioso fastidio.

Cosa ci faceva Amelia lì? E chi era quella ragazza che le stava aggrappata al collo? Ma soprattutto, perché io non sapevo che mia sorella – la mia gemella – aveva una relazione con una ragazza?

«Ti starai confondendo, sai quante ragazze con quella giacca ci saranno in città» cercò di calmarmi, evidentemente intuendo che le cose non si mettevano affatto bene.

Nemmeno io riuscivo a spiegarmi quelle palpitazioni che avvertivo nel petto, come se il cuore volesse a tutti i costi schizzare fuori dalla gabbia toracica. E io gliel’avrei lasciato fare volentieri se avesse significato attenuare quell’angoscia che mi avvolgeva.

«Non potrei mai confondere la mia gemella con una qualsiasi altra persona» biascicai a denti stretti, marciando nella loro direzione.

Le due ragazze non ci avevano notato, troppo impegnate a baciarsi nella penombra per accorgersi di noi. Austin mi seguiva a passo svelto tentando di fermarmi, ma ero una furia e niente al mondo mi avrebbe frenato dal fare terra bruciata intorno a me.

«Sam, fermati, ti prego. Non sei in te.»

Ma io non sentivo. Non mi fermavo. Non mi curavo delle sue mani che mi afferravano le braccia per scuotermi. Non mi curavo della sua voce delicata che tentava di farmi ragionare.

Non volevo essere ragionevole, volevo solo avere delle spiegazioni e le avrei avute solo da Amelia.

Con l’ultima falcata fui proprio davanti alle ragazze, che si separarono di scatto e dallo stupore non riuscirono a proferire parola. Non mi ero sbagliata, avrei riconosciuto la mia gemella ovunque: la corporatura esile, il portamento fiero, le gambe sottili ma sempre decise, la chioma scura. E con lei c’era… Margot.

La cheerleader, Margot. La sua amica storica, Margot. La sua… ragazza?

«Che cazzo ci fai qui? Pensavo fossi a casa» sbraitai come se l’avessi beccata a spacciare pasticche nei peggiori sobborghi della città.

«Sam! Io…»

Era così strano saperla senza parole. Amelia aveva sempre la risposta pronta.

«Che fai con lei? Credevo foste amiche» incalzai, ignorando completamente la povera Margot, la quale, in un angolo, si mordeva le labbra per non intromettersi.

Saggia scelta, quello era uno scontro tra gemelle.

«Noi siamo amiche» replicò. Le bastava poco tempo per mettere su una scusa credibile e io non avevo intenzione di farmi intortare da lei, non in quel caso, non su una questione del genere. Non su un sentimento così importante.

«E dimmi, Amy, tu baci tutte le tue amiche nei vicoli bui?» domandai ironica. «Oh, aspetta, lei è la tua unica amica!»

A quel punto Austin si interpose tra noi, cercando di ristabilire la pace. Non sapeva che sarebbe stato lui ad avere la peggio perché nessuna delle due avrebbe ceduto di un millimetro.

«Sam, forse stai esagerando» mi pose una mano sulla spalla nel vano tentativo di rabbonirmi. «Non è il caso di parlarne con calma, altrove?»

Margot ci provò a invitarlo a tacere, ma non fu abbastanza svelta. Evidentemente lei sapeva che negli affari di famiglia è meglio non impicciarsi, specialmente se quella famiglia sono i Miller e se c’è uno scontro tra gemelle.

«Tu stanne fuori!» quasi urlammo in contemporanea io e Amelia, voltandoci giusto il tempo di farlo indietreggiare prima di tornare a ringhiarci contro.

«Per quanto tempo ancora me l’avresti nascosto? Scommetto che l’obiettivo era che non lo scoprissi mai» abbassai la voce perché le persone di passaggio rallentavano in corrispondenza del vicolo, evidentemente attirati dai toni coloriti.

«No, Sam, io te l’avrei dett-»

«Stronzate! Hai avuto una miriade di occasioni per dirmelo» e più parlavo più mi rendevo conto di quanto fosse vero.

Io e Amelia parlavamo. Parlavamo tantissimo. Parlavamo di tutto. E allora perché non mi aveva confidato qualcosa di così bello come una relazione? Perché aveva preferito tagliarmi fuori dalla sua vita anziché dirmi di stare con una ragazza? In quale occasione mi ero rivelata una sorella tanto spiacevole da non meritare di sapere quanto fosse felice?

«Se mi facessi parlare magari potrei spiegarti!» sbottò a sua volta. Non sopportava di non avere diritto di replica, ma non le avrei concesso di avere l’ultima parola, non in quel caso.

«Non me ne faccio un cazzo delle tue spiegazioni» mormorai, riprendendo a respirare con regolarità senza nemmeno sapere quando era arrivato il fiatone. Le lanciai un’ultima occhiata sdegnosa prima di voltarle le spalle. «Non voglio saperne nulla.»

«No, Sam, devi ascoltarmi, fermati» provò a seguirmi, strattonandomi per un braccio nel tentativo di arrestare la mia fuga.

Mi voltai con una lentezza esasperante e potei notare il colore fluire via dal suo viso in un solo istante.

«Levami le mani di dosso» esalai con lentezza, e lei le allontanò come fossi divenuta lava incandescente.

In effetti mi sentivo un vulcano in eruzione, con una miriade di energie distruttive pronte a fare terra bruciata intorno a me, a cominciare da mia sorella.

Nessuno avrebbe potuto capire come mi sentivo in quel momento, quanto il suo segreto mi avesse squarciato il petto in profondità, lacerando il cuore e tutto ciò che aveva trovato lungo il cammino.

E io sentivo di voler fare lo stesso, dovevo ferire gli altri – ferire lei, affinché potesse provare a sua volta quel dolore. Volevo che si rendesse conto di quanto quella decisione avrebbe fatto terra bruciata intorno a lei e di quanto io ero pronta a fare terra bruciata intorno a me stessa pur di tenerla lontana.

In fondo rimanevano sempre gemelle, non potevamo essere tanto diverse.

«Sam, aspettami, ti accompagno» Austin mi raggiunse correndo ma non degnai nemmeno lui di uno sguardo. Non ero pronta a spiegare cosa fosse successo né come mi sentissi al riguardo.

«No, vado a piedi» e così mi congedai.

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Capitolo 22
*** Bomba a orologeria ***


Bomba a orologeria

Evitare Amelia si stava rivelando più complicato del previsto.

Quando eravamo in casa non c’erano problemi: io mi chiudevo nella mia stanza a doppia mandata e sparavo la musica a tutto volume nelle cuffie così, anche se veniva a bussare alla mia porta, non l’avrei sentita; a cena, invece, ero salva perché lei non avrebbe mai scoperchiato il vaso di Pandora davanti al resto della famiglia.

Mi sarebbe tanto piaciuto sapere quale scusa si sarebbe inventata per giustificare le sue menzogne, per averci nascosto una relazione e, soprattutto, per aver nascosto a me che le piacevano anche le ragazze. Tuttavia, preferivo vivere nell’ignoto almeno finché non avrei sbollito la rabbia dato che mi sentivo una bomba a orologeria pronta a esplodere al minimo sollecito.

La situazione si complicava a scuola, dove riusciva a inseguirmi ovunque pur di scambiare due parole con me. Almeno lo faceva da sola, senza portarsi Margot sempre dietro. Non che ce l’avessi con lei, anzi, tutt’altro. Mi era sempre sembrata una ragazza simpatica e continuavo a mantenere con lei toni cordiali, anche se la prima volta che ci eravamo incontrate nei corridoi aveva tentato di infilarsi in un’aula vuota pur di evitarmi.

Probabilmente temeva che non la ritenessi all’altezza di mia sorella o, peggio, che non accettassi la loro relazione, ma la realtà era che non me ne importava assolutamente nulla. Io ce l’avevo con Amelia solo perché me l’aveva tenuto nascosto.

Non mi curavo affatto dei musi lunghi che sfoggiava da giorni, pensando che, intenerendo mamma e papà, loro mi avrebbero convinto a parlarle. Sapevano perfettamente di non doversi immischiare nelle nostre faccende da gemelle e si guardavano bene dallo schierarsi per l’una o per l’altra parte.

Lucas, invece, si trovava esattamente in mezzo al fuoco incrociato e tentava di fare da paciere senza rimetterci la pelle. Purtroppo per lui, io non ero affatto disposta a fare un passo indietro quella volta, per cui si limitava a consolare la triste Amelia bistrattata dalla gemella cattiva.

Pft, stronza.

Se avesse saputo il motivo del litigio, probabilmente ci avrebbe colpite entrambe con un corpo contundente per farci rinsavire; dubitavo si rendesse conto della gravità della situazione, di quanto quel tradimento fosse imperdonabile per me. Lo ritenevo una mancanza di fiducia bella e buona e non sarebbe stato grazie al suo bel visino che l’avrei perdonata.

«Sam, sei pronta? Lucas e Amy ti aspettano in soggiorno.» 

La mamma entrò nella mia stanza mentre allacciavo il cinturino dei décolleté intorno alla caviglia. «Tacchi a spillo? Di tua volontà?» chiuse la porta alle sue spalle con un sorriso malandrino. «C’è qualcosa che dovrei sapere?»

«No, in effetti, niente» per ora. Spero. «Solo che andrò con Austin alla festa, passerà a prendermi tra dieci minuti, quindi Lucas e Amelia possono andare.»

«Passate un sacco di tempo insieme, tu e Austin…» insinuò, accomodandosi sul letto mentre io, alla scrivania, spazzolavo per l’ennesima volta i capelli già liscissimi.

Ero nervosa – era palese – ma non solo perché sarei andata alla festa insieme a un ragazzo bellissimo di cui non mi sentivo affatto all’altezza. Ero nervosa perché non avevo potuto contare sull’aiuto di mia sorella, sulle sue rassicurazioni e sulle sue battute che avrebbero stemperato la tensione.

«Posso supporre che ci sia del tenero?» domandò mamma direttamente, notando come continuavo a stare in silenzio, evitando le sue insinuazioni.

Avvampai di colpo e sperai che il rossore non fosse percepibile sotto al fondotinta, ma dal ghigno saputo di Maeve Miller mi accorsi di essere stata colta con le mani nel barattolo della marmellata. 

O del miele, in questo caso, dato che i capelli di Austin ne ricordano il colore.

«Diciamo che potrebbe esserci… magari in futuro» rimasi sul vago. In effetti, sebbene io stessi acquistando consapevolezza riguardo la mia cotta, non potevo dire lo stesso del mio accompagnatore, al quale, per quanto ne sapevo, potevo essere totalmente indifferente.

Mamma si alzò dal tetto, sfilandomi la spazzola dalle mani per impedirmi di strappare tutti i capelli a furia di pettinarli. «Questo c’entra qualcosa col motivo per cui tu e Amelia siete in lite? Mi è sembrato di capire che a lei non andasse molto a genio…»

Mi irrigidii quando mise in mezzo i miei problemi con Amy, ma mi sforzai di mantenere la calma per non dare adito a supposizioni non veritiere.

«No, io e Amelia abbiamo discusso per qualcosa che riguarda lei» sentenziai, dura, e mia madre comprese che non avrei aggiunto altro.

Sospirò, probabilmente avrebbe voluto saperne di più, ma al contempo non voleva impicciarsi né forzarci a parlare. Lei e papà non si erano mai intromessi nei litigi fraterni, tranne quando eravamo piccoli e dovevano sedare le liti più violente, perché sostenevano che avremmo dovuto imparare a chiarire da soli.

In effetti avevamo appreso bene la lezione, tuttavia in quel caso non era applicabile. 

«Va bene, vado a dire a Lucas e Amy di non aspettarti» mi passò una mano sul capo, una carezza leggera che era sempre in grado di donarmi tranquillità. «E muoviti, sono quasi le otto!»

Non appena uscì dalla mia stanza, tirai un sospiro di sollievo. Mamma aveva la capacità di farti sputare il rospo solo guardandoti negli occhi, ma raccontare ciò che era accaduto non spettava a me; per quanto fossi arrabbiata con Amelia, non mi sarei mai permessa di fare outing per mia sorella.

La vibrazione del mio cellulare mi riscosse: si trattava di un messaggio da parte di Austin.

Non ho dimenticato di passare a prenderti, sono solo in ritardo di cinque minuti. Aspettami.

Sorrisi. Che bisogno c’era di specificare che avrei dovuto aspettarlo? Non mi sarei presentata alla festa senza lui, avevamo un appuntamento, e io non avevo intenzione di perdermelo.

Prima di scendere al piano di sotto, dove i miei genitori mi stavano aspettando, mi rimirai allo specchio l’ultima volta: indossavo un abito nero con lunghe maniche a sbuffo che arrivava fino al ginocchio e un paio di tacchi a spillo perfetti per slanciare la mia figura – iniziavo a rivalutare quegli strumenti di tortura medievale; ero stata costretta ad accontentarmi di un trucco copiato da un tutorial su youtube dato che mi rifiutavo di chiedere aiuto ad Amelia, ma nel complesso ero soddisfatta del risultato.

Scesi le scale con il solo tintinnio dei miei passi a rimbombare nell’ambiente, dunque i miei fratelli dovevano essere già usciti. Mamma e papà erano seduti sul divano, abbracciati come due giovani innamorati, e guardavano una serie tv.

«Ciao» li salutai, affacciandomi in salotto e sventolando la mano.

«Qui qualcuno vuole fare strage di cuori» mi prese in giro papà, che di certo era già stato messo al corrente della conversazione avuta con mamma pochi minuti prima.

Scrollai le spalle con finta espressione indifferente. «Che ci vuoi fare, quando sei bella è questo che ti tocca.»

Papà rise fragorosamente mentre mamma scuoteva il capo, ridacchiando anch’ella. Sapeva quanto io fossi autoironica e quanto mi piacesse scherzare sul mio aspetto, ma continuava a non capirne il motivo.

«State attenti e non tornate tardi» si raccomandò papà, terminato il momento di gaudio.

«E dici ad Austin di andare piano con la macchina!» aggiunse la mamma. Lavorare in pronto soccorso le aveva fatto sviluppare un timore eccessivo per le automobili a causa delle vittime di numerosi incidenti, spesso anche giovanissime, che si era vista arrivare in fin di vita.

«Ricevuto» alzai il pollice mentre il cellulare nell’altra mano vibrò ancora. Controllai al volo solo per accertarmi che fosse Austin, poi salutai con un bacio i miei genitori e mi incamminai verso il cancelletto.

A ogni passo percorso che accorciava la distanza tra di noi, sentivo il mio cuore rimbombare più forte nel petto. Ogni volta che i tacchi scricchiolavano lungo il viale, sentivo qualcosa scricchiolare nel mio corpo, come a volermi impedire di raggiungerlo. 

Una serie di quesiti che mai mi ero posta prima presero a bombardare il mio cervello: e se non dovessi piacergli? Se mi trovasse troppo alta con questi tacchi? Se mi preferisse in jeans e t-shirt? Se ritenesse i miei polpacci troppo muscolosi per una ragazza? Se non mi reputasse… femminile?

Più volte fui tentata di voltarmi e darmi alla fuga, ma mi costrinsi a resistere. Samantha Miller non si era mai fatta tutte quelle paranoie, figurarsi se avrebbe iniziato per un ragazzo. Per quanto bello, gentile, simpatico e intelligente lo considerassi, non avrei permesso a nessuno di intaccare il mio modo di essere.

Ero una contraddizione vivente e me ne rendevo conto: avevo indossato dodici tacchetti per ben 90 minuti quel pomeriggio e, una volta a casa, li avevo sostituiti con un tacco 12. Eppure ero sempre io, sempre la stessa Sam, quella che puzzava come uno scaricatore di porto dopo gli allenamenti e che si metteva in tiro per il primo appuntamento con un ragazzo da sogno.

È così strano sentirsi a proprio agio in due maniere all’apparenza così differenti? 

Bastò che Austin scendesse dalla macchina per aprirmi la portiera, da bravo gentleman, e il suo sorriso diradò i miei dubbi. I suoi magnetici occhi blu parevano brillare nonostante la penombra e la consapevolezza che quel luccichio fosse destinato a me, solamente a me, mi mandò in brodo di giuggiole.

«Sei bellissima» sussurrò a un passo da me, come se pronunciare quelle parole a voce alta le avrebbe rese meno veritiere. 

Arrossii, ma sperai che la penombra e il fondotinta fossero miei alleati. «Anche tu non sei male.»

Austin rise, carezzandomi delicatamente la spalla per invitarmi ad avvicinarmi all’auto. Prima di lasciarmi entrare, posò delicatamente le labbra sulla mia guancia in un bacio timido, poi mi aprì la portiera e attese che mi sistemassi per chiuderla.

Nel tempo che impiegò per fare il giro, tutte le belle sensazioni furono scacciate da pensieri oscuri, dubbi, quesiti che parevano infilzarmi come spini e punzecchiarmi la pelle. Continuavo a ripetermi che non ce n’era motivo, che non avrei avuto nulla di cui preoccuparmi, ma solo i suoi occhi luminosi riuscirono a diradare una volta per tutte i miei pensieri infausti.

Parlare con Austin era facile. Bastava incrociare gli sguardi e le parole scivolavano via dalla bocca come un fiume in piena che scende verso la valle a grande velocità.

Aveva esordito con un provocatorio: «Insomma, non hai segnato oggi. Direi proprio che mi devi una cena» e da lì la conversazione non si era mai interrotta. Persino alla festa, in mezzo a tanta gente, avevamo salutato i nostri amici insieme, senza mai separarci. 

Era stato strano andare da mio fratello Lucas. A parte qualche battuta – e qualche minaccia, sia mai che questo scimmione si smentisca – era stato indolore, almeno per me. La stretta di mano che aveva riservato ad Austin mi era parsa fin troppo vigorosa, ma chi ero io per privare mio fratello del divertimento derivante da un po’ di sana violenza psicologica?

Dopo aver attirato le occhiate curiose di qualche compagno di squadra e aver evitato per un soffio il placcaggio di Kate che, già ubriaca, ci aveva eletto coppia dell’anno dopo esserci quasi finita addosso, avevamo cercato un posto tranquillo e ci eravamo appartati sul ballatoio delle scale.

Austin aveva avuto l’accortezza di non domandare mai di Amelia, tuttavia gli potei leggere negli occhi la curiosità quando lei ci passò accanto insieme a Margot e io non la degnai di uno sguardo. Salutai la sua amica e poi voltai il capo, decisa a evitarla ancora per un bel po’.

«Deduco che tu non abbia chiarito con tua sorella.»

Sagace. Che considerazione degna di nota!

Sospirai rumorosamente per sottolineare il disappunto riguardo l’argomento. «In effetti no.»

Austin si mosse sul posto, come se all’improvviso una serie di spilli gli avessero reso scomoda la sua posizione. Si grattò il capo, forse indeciso sul da farsi, ma decise comunque di proseguire quella crociata che non gli apparteneva. Avrebbe fatto meglio a tacere.

«Secondo me dovresti parlarle, sono certa che ci sarà un motivo se te l’ha tenuto nascosto» tentò ancora, forse sperando di smuovere qualche reazione. In effetti ne stava smuovendo alcune, ma dubito fossero quelle sperate.

Feci un respiro profondo, chiudendo gli occhi per cercare di mantenere una calma apparente che in realtà non mi apparteneva. Piegai persino le labbra in un falso sorriso, ma dato che non trovai parole abbastanza gentili per rivolgermi a lui, preferii alzare i tacchi e andare a imprecare in un posto isolato.

Austin ebbe bisogno di un attimo per recepire che lo stavo lasciando lì, senza neppure degnarlo di risposta, e con un paio di falcate mi fu di nuovo dietro. «Sam, aspetta, dove vai?» domandò, afferrandomi il braccio per non perdermi tra la folla.

«Lontano» sentenziai celere. «Da sola.»

Ero consapevole di essere alquanto melodrammatica, ma non riuscivo proprio a farne a meno, non in quella situazione, non dopo quel tradimento che aveva innescato l’ordigno. Mi sentivo una bomba a orologeria e sarebbe bastato un nonnulla per farmi esplodere.

«Ah, ecco la nuova coppia dell’anno! Non mi dire, Miller, ti sei accorta che voleva solo controllare che fossi davvero… femmina?»

Persino quell’idiota di Martin Hurt.

 

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Capitolo 23
*** Un limone anche meglio! ***


Un limone anche meglio!

«Ah, ecco la nuova coppia dell’anno! Non mi dire, Miller, ti sei accorta che voleva solo controllare che fossi davvero… femmina?»

Non pensavo che ce l’avrei fatta. Combattere contro Amelia – contro la mia gemella, contro la mia perfetta metà – era sfiancante, non credevo di avere energie per combattere contro qualcun altro.

Mi sbagliavo. Di grosso.

Avevo atteso che finisse la frase perché non lo credevo capace di una meschinità del genere. Avevo sperato di aver frainteso. E invece Martin Hurt non si era smentito nemmeno quella volta.

Ci avevo messo un secondo a voltarmi e montare un gancio destro che aveva evitato per un soffio, e non di certo grazie ai suoi riflessi. Il suo naso era sano e salvo – e non inondato di sangue come avrei voluto vederlo io – solo grazie ad Austin che, accortosi di ciò che stavo per fare, si era infilato in mezzo e mi aveva sbilanciato.

Lo so, lo so, la violenza non è mai una soluzione… ma vedere il terrore puro nelle iridi di Hurt dava una certa soddisfazione. Quella sera non avrei potuto tollerare anche le sue idiozie.

«Che cazzo, Miller, sei fuori di testa? Potevi rompermi il naso!» sbraitò, indietreggiando di qualche passo e attirando l’attenzione della sua combriccola.

In effetti l’obiettivo era quello.

«Sam, non ascoltarlo, andiamo» intervenne Austin dando le spalle al suo compagno di squadra e posando le mani sulle mie spalle per tenermi a distanza.

«Non ascoltarlo» Hurt lo scimmiottò, inconsapevole che la sua presenza era l’unico motivo per cui non lo avevo ancora azzannato alla giugulare. «Non ti sai più difendere da sola?»

Chissà se i canini umani sono abbastanza affilati da recidere una vena.

«Non so se te ne sei accorto, Martin» mugugnò il riccio digrignando i denti, «ma si sa difendere piuttosto bene da sola. Io sono intervenuto per salvaguardare te».

Scacco matto, Hurt. Questo l’hanno sentito pure i tuoi amichetti.

Si passò le dita nel ciuffo biondo che gli ricadeva sulla fronte, ridacchiando nervosamente. «Non dire cazzate, l’hanno visto tutti che mi ha mancato.»

«Ti ho mancato solo perché Austin ha deviato il  mio pugno» replicai tranquilla. Non era mia intenzione dare spettacolo e ormai erano parecchie le persone che si erano radunate intorno a noi. 

L’avrei fatta pagare a Hurt in qualche altro modo, magari dimostrandogli per l’ennesima volta che potevo essere sia un’ottima calciatrice che una ragazza femminile, ma non era quello il momento.

Afferrai la mano di Austin, intrecciando le mie dita alle sue in una tacita richiesta di seguirmi, di allontanarci da lì prima che perdessi nuovamente il controllo e smettessi di rispondere delle mie azioni, di nuovo. Lui mi seguì senza fiatare e senza mai voltarsi indietro, fidandosi di me nonostante, solo pochi minuti prima, non l’avessi trattato affatto bene.

«Devo smetterla di rispondere alle provocazioni di Hurt, è solo un pallone gonfiato» mugugnai sconfitta quando fummo in giardino. Eravamo soli, non c’era nessuno nei paraggi, quindi potevo sfogarmi e sciogliere l’intreccio delle nostre mani. 

Però non volevo. E lui? Lui voleva che mi allontanassi?

«Già» rispose solamente Austin, carezzando con il pollice il dorso della mia mano. Feci per allentare la presa, dandogli la possibilità di sfilarsi, ma lui strinse più forte.

Allora nemmeno lui voleva.

Ingoiai l’orgoglio che aveva formato un groppo in gola e decisi di riaprire quel discorso che avevo voluto chiudere in malo modo. «Mi dispiace per prima, non avrei dovuto lasciarti così…»

«Non devi scusarti, non sono affari miei» alzò lo sguardo e mi sembrò sincero. «Non avrei dovuto immischiarmi.»

I suoi occhi, quella sera, continuavano a brillare di luce propria facendo concorrenza alle stelle. La profondità che li avvolgeva di solito pareva triplicata, aumentata solo per accogliere me e la mole di dubbi e di problemi che mi portavo appresso.

«Comunque mi sono comportata male e per questo ti devo delle scuse» quasi sussurrai, senza interrompere il contatto visivo. 

Lui fece un paio di passi verso di me, diminuendo ancora la distanza già esigua che era tra noi. «Scuse accettate» sussurrò a sua volta, chinandosi su di me per far scontrare le nostre fronti.

Eravamo a un soffio di distanza e da quella posizione potevo azzardarmi a contare le lunghe ciglia scure che gli contornavano gli occhi, rendendoli magnetici. E, come ogni volta che lui mi osservava, un senso di quiete mi inondò dall’esterno, scuotendomi le membra.

All’improvviso non mi importava delle insinuazioni di Martin Hurt né delle menzogne di Amelia perché il mio interesse venne catalizzato dal ragazzo che mi stava di fronte: mascella squadrata e riccioli biondi ad ammorbidirgli i lineamenti, Austin Rogers assumeva sempre più le sembianze di un angelo.

E io ci provai a spostare lo sguardo, a mettere le distanze, a non apparire come la ragazzina cotta a puntino che ero… ma non ci riuscii. Era impossibile. Interrompere il contatto tra le nostre mani intrecciate avrebbe significato porre fine alla magia che si era instaurata tra noi e io non ero disposta a rinunciarvi.

«Sam» sussurrò ancora, praticamente respirando nella mia bocca. Di tutta risposta sollevai ancora il capo, dischiudendo le labbra come a voler inalare il suo respiro.

Tuttavia, non riuscii a rispondere, sentivo che la mia voce non sarebbe stata ferma e temevo il momento in cui avrebbe capito quanto ero cotta, quindi mugugnai un Mh per incitarlo a continuare.

«Se ti avvicini ancora sarò costretto a baciarti.»

Il mio cervello andò in tilt, completamente. Non c’erano più neuroni funzionanti e in quel marasma di sinapsi e sostanza grigia, la mia facoltà di parola era andata a farsi benedire. Avevo perso la capacità di comunicare ma volevo fargli sapere che, beh, un bacio sarebbe stato ben accetto.

Un limone anche meglio!

Peccato che una mazza di scopa in quel momento aveva più mobilità di me, perlomeno sarebbe potuta cadere direttamente sulle sue labbra mentre io me ne restavo impalata come uno stoccafisso a fissarlo con gli occhi sgranati. 

Consiglio per il prossimo appuntamento – se mai ci fosse stato, avrebbe potuto decidere di scappare a gambe levate ed evitarmi fino alla prossima vita e io avrei compreso la sua scelta – : procurarmi un segnale di fumo e utilizzarlo in caso di ammutinamento delle mie facoltà intellettive.

Austin continuò a sorridere, sorrideva beatamente a un bacio di distanza mentre nel mio cervello si scatenava la terza guerra mondiale. Doveva essersi verificato un cortocircuito quando si era morso il labbro per trattenere una risata. Probabilmente le mie sinapsi avevano definitivamente ceduto in quel momento.

O magari erano state loro a scatenare quei fuochi d’artificio che stavano scoppiettando nel mio ventre, facendomi sentire leggera al punto che avrei potuto librarmi in cielo e trascinare Austin con me senza rendermene conto.

E quando finalmente mi baciò io… non capii più nulla. 

Non ero in grado di pensare lucidamente, non sapevo più dove iniziavano le mie mani e finivano i suoi capelli, mi domandavo se avesse mai smesso di aggrapparsi a me stringendomi come qualcosa di estremamente prezioso. 

E quando risposi al bacio, capii che per lui era lo stesso.

Le sue mani si muovevano lente a carezzarmi la schiena, il respiro si era fatto irregolare contro le mie labbra e, stretta in quell’abbraccio, potevo avvertire il pulsare del suo cuore a un ritmo incalzante.

E gli occhi… i suoi occhi blu avevano perso il potere calmante ma non quello attrattivo e sembravano catapultarmi in un universo in cui esistevamo solo io e lui, nessuno a disturbare la nostra quiete, nessuno a interrompere i nostri baci.

Era un peccato che, nella realtà, necessitavamo di farlo per respirare.

Quando ci staccammo avevamo entrambi il fiato corto e le gote purpuree. Le nostre labbra, rosse e gonfie, erano la prova tangibile di ciò che era accaduto. Non me l’ero immaginato, non era stato un sogno. C’era stato davvero un bacio.

Anzi, un limone… decisamente meglio!

Le nostre mani erano ancora intrecciate e le stringevamo come a voler tastare la realtà. Austin continuava a sorridere, non riusciva proprio a cancellare quella curva dal suo viso, nemmeno mordendosi l’interno delle guance.

«Un cent per i tuoi pensieri» sussurrai. Eravamo ancora soli in quel giardino, ma alzare la voce avrebbe significato stemperare l’atmosfera intima che si era creata e io non ne avevo intenzione.

«Non posso dirti cosa sto pensando o mi prenderai in giro» ridacchiò, memore di quando era stato lui a mostrarmi il penny che portava sempre così. 

«Mi sottovaluti, Austin Rogers» lo provocai con un leggero spintone sulla spalla che sciolse l’abbraccio in cui ci eravamo rifugiati. «Tu prova, potrei sorprenderti.»

Lui approfittò della distanza guadagnata per prendermi la mano e sollevarla, facendomi fare un mezzo giro su me stessa prima di attirarmi di nuovo a sé. Eravamo schiena contro petto e potevo sentire il suo respiro caldo solleticarmi l’orecchio.

«Sto pensando a quanto fossi arrabbiato quando ci siamo trasferiti qui» fece una pausa, lasciando un bacio delicato sul collo. «E a quanto ne sia felice adesso.»

Un ampio sorriso si cucì sul mio viso e fui grata di dargli le spalle perché probabilmente ero anche arrossita.

«Stai dicendo che sei felice grazie a me?» alzai il capo trasformando il sorriso in un ghigno sardonico. «Beh… di solito faccio quest’effetto alle persone!»

Austin mollò la presa all’istante e mi allontanò con uno spintone, ma l’attimo seguente ero di nuovo stretta nel suo abbraccio. Profumava di fresco e di pulito, un odore delicato che gli calzava a pennello.

Quando sospirò rumorosamente sapevo che stava per dire qualcosa che temeva mi avrebbe allontanato. «Sam, ascolta… so che prima ho detto che non avrei dovuto impicciarmi, ma proprio non ce la faccio a vedervi così.»

Annuii, comprendendo immediatamente dove voleva andare a parare.

«Devi chiarire con Amalia. Se non vuoi farlo per lei almeno fallo per me» sembrava una supplica più che una richiesta.

«Per te? Che c’entri tu?» domandai confusa, alzando il viso per guardarlo negli occhi.

«Io voglio che tu sia felice, e so che adesso non lo sei al massimo» rispose tranquillo, come se l’argomento non lo toccasse anche se il suo sguardo suggeriva tutt’altro. «So che non ti sei goduta la serata, magari adesso non hai pensato alla vostra lite, però il resto del tempo sei stata… spenta.»

Aveva ragione. Per quanto mi fossi impegnata a fingere che non fosse accaduto nulla, che la lite con la mia gemella non avesse impattato sulle mie giornate, mi rendevo conto che il mio stato d’animo ne aveva risentito parecchio. Avevo provato a nasconderlo, ma chi mi conosceva – o stava imparando a farlo – se n’era accorto lo stesso.

«Ho sempre voluto chiarire con lei, avevo solo bisogno di tempo per metabolizzare» tentai di spiegare, anche se non erano chiarimenti che Austin chiedeva. Lui non voleva immischiarsi, voleva solo che tornassi a essere spensierata come prima e aveva capito che tutto era dipeso da quella lite.

«E adesso hai metabolizzato?»

No, non esattamente, ma me lo sarei fatto bastare. Non per lui o per i miei genitori o per Lucas. L’avrei fatto per me e per Amelia. Perché lei meritava il diritto di spiegarsi e io meritavo di sapere perché me l’aveva tenuto nascosto.

Ma, soprattutto, perché entrambe meritavamo di ricucire il nostro legame.

Non risposi alla sua domanda, mi limitai ad avvolgergli un braccio intorno alla schiena e incamminarmi insieme a lui verso casa, dove la musica ormai era stata spenta e i ragazzi iniziavano a recuperare i propri averi per andare via.

«Ti dispiace se torno con loro? Vorrei parlarle subito» dissi mentre attraversavamo il salone, ormai non più gremito di gente, per raggiungere Lucas, Malcolm e Garret.

«No, tranquilla» mi strinse ancora a sé, sottolineando le sue parole. «Ci sentiamo domani.»

«A domani» posai un bacio delicato sulla sua guancia che lui ricambiò con uno all’angolo delle labbra prima di salutare anche gli altri e andare via.

Mi guardai intorno, notando come ormai eravamo davvero in pochi a essere rimasti, ma non riuscvo comunque a individuare mia sorella. 

«Dov’è Amelia?» domandai.

«Le è venuto un forte mal di testa ed è andata via presto, l’ha accompagnata Margot.»

Ero indecisa se sentirmi in colpa perché quel mal di testa era causato dal mio comportamento o irritarmi perché mi aveva usata come scusa per appartarsi con la sua ragazza.

A ogni modo, sfruttai il viaggio di ritorno per riflettere su ciò che avrei dovuto dirle, e ciò che avrei voluto sentirmi dire da lei, tentando di mantenere la calma. Ormai avevo deciso di parlarle non appena fossi rientrata, anche a costo di svegliarla, per cui necessitavo di incanalare energie positive per non urlarle addosso non appena me la fossi trovata davanti.

Mentre Lucas parcheggiava l’auto io mi precipitai in casa, fiondandomi su per le scale con un’urgenza tale che mi portò a sfilarmi i tacchi per essere più agile ed evitare di svegliare mamma e papà. Non mi chiesi da dove derivasse quella carica, ma supposi che la chiacchierata – e non solo – con Austin stesse sortendo i suoi frutti.

Spalancai la porta della sua camera e accesi la luce, certa di trovarla nel suo letto. Tuttavia, le coperte non erano state toccate e l’abatjour che solitamente utilizzava la notte era spenta. Tutto faceva pensare che non fosse mai entrata nella stanza, a eccezione di un rossetto posto al centro della scrivania.

Amelia non era lì.

E c’era qualcosa che non andava.

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Capitolo 24
*** Un rossetto fuori posto ***


Un rossetto fuori posto

Era bastato dare un’occhiata veloce in giro per rendermi conto che qualcosa non andava. 

Amelia era entrata in quella stanza e aveva posizionato un rossetto al centro della scrivania. Perché mai avrebbe dovuto farlo? E poi, una maniaca dell’ordine come lei, l’avrebbe infilato in un cassetto se avesse necessitato di tenerlo separato dagli altri, non l’avrebbe mai lasciato in bella vista.

Inoltre, l’abatjour non era riposta sul comodino ma accanto alla presa di corrente, pronta per essere utilizzata; le tende, invece, erano socchiuse.

Avvertivo un senso di oppressione avvolgermi la cassa toracica; i polmoni parevano schiacciati e respirare era impossibile mentre il cuore sembrava volesse schizzare fuori dal petto. Mi accasciai su me stessa alla ricerca d’aria, ma trovai solamente gli occhi verdi di mio fratello che mi scrutavano in un misto di confusione e apprensione.

«Sam, guardami. Guardami» ordinò in tono risoluto, costringendomi ad alzarmi di nuovo «Respira insieme a me, da brava, fai come me.»

Lucas inspirò e poi espirò lentamente, invitandomi a fare lo stesso. Teneva le braccia fisse sulle mie spalle in modo da sorreggermi e al contempo impedirmi di interrompere il contatto visivo. Respirammo insieme ancora un altro paio di boccate d’aria prima che il mio cuore riprendesse a pulsare a un ritmo consono.

«Eri bianca come un cencio… Che ti prende?» domandò quando il colore ricominciò a fluire sulle mie guance.

«Amelia non c’è, dev’esserle successo qualcosa» risposi, ancora scossa da quell’attacco di panico che mi aveva divorato dall’interno.

Lucas diede un’occhiata veloce alla camera ma non parve cogliere quei dettagli che mi avevano allarmata. «Sarà rimasta a dormire da Margot e avrà dimenticato di avvisare… Adesso la chiamo.»

Impossibile. Amelia non si dimenticava di avvertire.

«No, è stata in camera» tentai di spiegare con il cuore che riprendeva ad accelerare quei maledetti battiti. «L’abatjour è accanto alla presa, pronta per essere accesa, ma le tende sono chiuse e Amelia non dorme mai con le tende tirate, le apre prima di infilarsi nel letto.»

«Sam, io non credo che…» Lucas tentava di mantenere la calma per entrambi perché il mio autocontrollo era ufficialmente partito per la tangente. Non facevo che guardarmi intorno alla ricerca di un altro dettaglio del suo passaggio, qualcosa che mi facesse comprendere cosa diavolo fosse successo in quella stanza.

«Va bene, chiama Margot, ma fallo in fretta» cedetti. In fondo, avrebbe fatto piacere anche a me scoprire che le mie supposizioni erano frutto di una pazzia latente e che la mia gemella era al sicuro. 

Però l’istinto, un sentimento che mi sfrigolava sottopelle e mi spingeva a controllare ogni angolo della stanza alla ricerca di indizi, mi suggeriva di non arrendermi perché c’era davvero qualcosa che non andava.

Mentre Lucas attendeva la risposta di Margot, io mi avvicinai per controllare le tende. Amelia non le avrebbe mai lasciate socchiuse, le teneva chiuse di giorno per ripararsi dal sole e, alla sera, le apriva perché amava svegliarsi con la luce naturale. Non poteva averle lasciate socchiuse, non lei che vedeva solo bianco o nero, senza compromessi, senza mezze misure.

C’era uno spiffero di vento in quel punto, folate di aria fresca che si insinuavano nella stanza e mi corrodevano la pelle, ricordandomi che non avrebbero dovuto esserci. E più mi avvicinavo al balcone, più quell’aria sembrava gelida e pareva raffreddare anche il mio cuore.

Non lo sentivo più pulsare nel petto, aveva smesso di battere e credevo che a momenti sarei svenuta, collassata per arresto cardiaco. Invece…

Invece, quando posai la mano sull’anta del balcone e mi accorsi che non era chiusa, riprese a pulsare incessantemente, recuperando tutti battiti che aveva perduto.

Mi voltai verso Lucas, che al centro della stanza e con il telefono all’orecchio era pallido come un cencio. Mi bastò osservare i suoi occhi per comprendere il terrore che gli aveva appena mozzato il respiro, recidendolo di netto.

Margot non gli aveva dato buone notizie.

Temevo davvero che il cuore mi sarebbe schizzato fuori dal petto, se non mi avesse riferito immediatamente ciò che gli aveva detto Margot. Ma Lucas era immobile, incapace di proferire parola, continuava solamente a ingoiare a vuoto e rivoli di sudore freddo iniziavano a colargli dall’attaccatura dei capelli.

Era terrorizzato. Non l’avevo mai visto in quello stato e il primo istinto fu quello di piangere e urlare. Se mio fratello era così spaventato, come potevo io rimanere calma?

Tuttavia, l’ultimo briciolo di lucidità rimasto mi costrinse a darci un taglio. Piangere e urlare non avrebbero aiutato Amelia né tantomeno fatto rinsavire Lucas, dunque sarebbe stato un inutile spreco di energie, energie che avrei potuto utilizzare per uscire a cercare mia sorella.

Mi aggrappai alle spalle di Lucas, esattamente come lui aveva fatto pochi minuti prima con me, e lo costrinsi a guardami negli occhi. Sembravano vuoti, privati di ogni altro sentimento per lasciar spazio a un terrore puro. 

«Andrà tutto bene» sussurrai. Per un istante mi chiesi se cercavo di convincere più lui o me stessa. Probabilmente entrambi. «Cosa ha detto Margot?»

«D-dice» biascicò con voce spezzata. Persino parlare gli risultava complesso in quello stato quasi catatonico. «Dice che l’ha lasciata a casa ore fa» sembrò costargli uno sforzo disumano completare quella frase. «Le ha inviato anche la buonanotte.»

Quindi Amelia era rientrata a casa. E allora dov’era finita? Perché aveva scombinato la sua stanza se poi era andata chissà dove? Ma soprattutto, perché non aveva avvertito me e Lucas di coprirla?

Per evitare di lasciarmi divorare dai dubbi presi di nuovo la situazione in mano. Andai a recuperare dell’acqua sperando che Lucas si riprendesse perché in quello stato non era d’aiuto a nessuno e insieme andammo a svegliare i nostri genitori.

In effetti, dato il rumore che avevamo fatto da quando eravamo rientrati, mi chiesi come fosse possibile che non si fossero accorti di nulla.

La risposta fu lampante quando, all’ennesimo strattone, mamma aprì gli occhi: erano gonfi di sonno e lucidi, come se in realtà non avesse riposato affatto. Era confusa, non riusciva a comprendere perché l’avessimo svegliata in piena notte né il nostro allarmismo.

Papà non era da meno: scansò malamente Lucas che tentava di svegliarlo e grugnii di disappunto nel trovarci entrambi nella loro camera, anch’egli confuso e stordito.

Non ci fu bisogno di alcun test per comprendere che erano stati anestetizzati con qualche sostanza e, di conseguenza, non si erano accorti di qualunque cosa fosse accaduta ad Amelia.

A quel punto fu Lucas a riprendersi perché io stavo cedendo di nuovo. Mi costrinse a sdraiarmi sul letto mentre lui chiamava la polizia e spiegava la situazione ai nostri genitori.

Non mi sentivo più le gambe. Era iniziato tutto da un leggero formicolio quando avevo compreso che i miei ancora dormivano profondamente ed era divenuto più intenso alla consapevolezza che erano stati drogati. Infine, avevo avvertito i miei muscoli cedere, liquefarsi sulla stoffa chiara e spandersi su tutto il letto, ormai macchiato dal mio sudore e dalle mie lacrime.

Nonostante l’immobilità, il cuore pulsava a un ritmo incessantemente accelerato, facendo rimbombare i battiti nelle orecchie e nel capo, che risultava ormai appesantito. Almeno il respiro era tornato regolare.

Era l’alba quando arrivò la polizia.

Gli agenti avevano tutta l’intenzione di liquidare la questione con un allontanamento volontario, ma evidentemente non avevano mai affrontato Maeve Miller più impaurita che mai. Mamma, nonostante la scarsa lucidità, riuscì a demolire le loro obiezioni e li costrinse a prendere le nostre deposizioni.

Intanto erano giunti anche i paramedici per le analisi del sangue e, quando i risultati del tossicologico confermarono che erano stati drogati per renderli inoffensivi, nuovi agenti furono mobilitati per dare il via alle ricerche. Non c’erano segni di scasso all’ingresso, tuttavia alcuni graffi sul balcone di Amelia facevano presumere che era stata quella la via di accesso.

Il telefono prese a squillare proprio mentre un poliziotto chiedeva per l’ennesima volta a mia madre se qualcuno avrebbe potuto farle un torto. Il cuore mancò un battito quando lo sollevai per leggere il mittente della telefonata, ma un prepotente moto di delusione mi fece precipitare di nuovo nel terrore quando lessi il nome di Austin. 

Attaccai senza nemmeno rispondere; non era il momento, qualsiasi cosa volesse dirmi avrebbe potuto aspettare il ritrovamento di mia sorella, possibilmente nel minor tempo possibile.

Si cercava un movente, una motivazione che potesse spiegare quell’avvenimento nefasto. I miei genitori erano persone buone, ma svolgevano lavori in cui è quasi inevitabile farsi dei nemici: mamma era un medico e papà… beh, aveva da poco mandato in galera il suo capo!

Entrambi, tuttavia, faticavano a identificare una delle persone con cui erano entrati in contatto come criminale. Si tende sempre a giustificare determinati atteggiamenti in situazioni di forte stress, come possono essere un processo o un incidente che ti spedisce in ospedale. 

In questi casi, spesso, si fa fatica persino a riconoscere le persone che ci sono più vicine, quelle che pensiamo di conoscere come le nostre tasche. La verità è che non si sa mai come una persona possa reagire a un forte stress o a un lutto. 

Il cellulare squillò altre tre volte di fila. Non appena io mettevo giù, dall’altro capo del telefono Austin ricomponeva il mio numero e faceva partire di nuovo la telefonata, imperterrito. Speravo capisse che non potevo parlare, ma sembrava non importargli nulla.

«Lavoro in pronto soccorso, agente… Hai idea di quanti pazienti arrivino moribondi e io non posso fare nulla per salvarli?! Ci saranno centinaia di persone che ce l’avranno con me!» urlò mia madre a un certo punto, stufa di rispondere sempre alle stesse domande.

Lucas le fu accanto in un baleno, porgendole una tazza di camomilla e invitandola a non perdere le staffe, ricordandole che, quando era nervosa, non riusciva più a pensare lucidamente. Papà ci provò ad avvicinarsi per calmarla, ma era ancor più agitato di lei, sebbene riuscisse a nasconderlo molto meglio.

All’ennesimo squillo, prima di avere una crisi di nervi e crollare su una sedia insieme a mia madre, decisi di rispondere a quel maledetto telefono. Cercai di modulare la voce per non lasciar trasparire più emozioni del dovuto, non avevo alcuna voglia di sorbirmi un interrogatorio telefonico.

«Non è il momento, ti richiamo» feci per mettere giù, ma il respiro ansante della persona dall’altro capo del telefono mi immobilizzò sul posto, rubandomi alcuni battiti prima che il cuore riprendesse a pulsare forsennatamente.

«Ti prego, aspetta!» un singhiozzo spezzò la sua voce. «Non riattaccare! Sam, non riattaccare, ti prego…» 

Era il tono disperato di chi stava patendo una sofferenza immensa e non apparteneva ad Austin. Era adulto e… femminile, ma non riuscii a identificarlo. 

«È con te? Austin è con te? Dove siete?» si udii un grande trambusto di sottofondo, una voce più profonda, maschile, che intimava di chiedere altro e la vocetta sottile di una bambina che si spezzava in un pianto disperato.

Fu in quel momento che compresi di star parlando con Meredith Rogers e con lei dovevano esserci Klaus e Kimberly. Tuttavia, ero troppo presa dalla sparizione di Amelia per rendermi conto della stranezza di ricevere una telefonata da lei con il telefono del figlio.

«No, lui è tornato a casa ieri sera» biascicai, confusa. Lucas si avvicinò a me con aria preoccupata, probabilmente dovevo essere sbiancata di nuovo poiché mi seguiva come se potessi accasciarmi a terra da un momento all’altro.

Una nuova serie di singhiozzi si udì dall’altro capo del telefono, poi un fruscio e Klaus prese la parola: «La macchina è fuori al cancello e ci sono cellulare e portafogli, ma lui non è mai entrato in casa».

A quel punto fu Lucas a vacillare. Ci avvicinammo ai nostri genitori, che ancora parlavano con gli agenti, e cercammo di condividere con loro ciò che avevamo appena appreso. Non poteva essere un caso che Austin e Amy sparissero la stessa sera, c’erano fin troppo coincidenze.

Papà prese il telefono e comunicò al suo collega che Amelia era stata rapita e una pattuglia di poliziotti stava per raggiungerli a casa. Come fosse stato il suo capo, l’agente che era accanto a lui chiamò due uomini e li mandò a casa dei Rogers.

Seguì un minuto di silenzio in cui potei sentire le sinapsi del mio cervello scoppiettare a causa della furia con cui le stavo utilizzando. Una serie di teorie si facevano largo nella mia testa e la più accreditata continuava a scalpitare, demolendo le altre e rinforzandosi ogni volta che provavo a metterla da parte, finché il pensiero non divenne talmente insistente da costringermi a esplicarla a voce alta. 

«Credo di sapere chi ha rapito Amelia e Austin.»

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Capitolo 25
*** Cose da gemelle ***


Cose da gemelle

Quando avevo esposto la mia teoria agli agenti c’era mancato poco che mi ridessero in faccia.

Non ce n’era stato bisogno. Mi era bastato leggergli sul viso quelle espressioni di commiserazione mista a stupore per capire che mi stavano prendendo per pazza. Non che mi importasse, io ero convinta di ciò che avevo riferito e mi bastava il sostegno della mia famiglia.

«E avresti capito tutto questo da un rossetto?» domandò il capo alla fine, le sopracciglia che quasi gli arrivavano all’attaccatura dei capelli e il tono sorpreso di chi si chiede perché stia dando corda a una scellerata.

Annuii, consapevole che nessuno di loro mi stava prendendo sul serio. I miei genitori, tuttavia, sembravano aver riacquistato un barlume seppur minimo di speranza. Loro conoscevano il rapporto tra me e Amelia ed erano stati più volte testimoni del nostro legame indissolubile, quello che spesso ci portava a pensare come un’unica mente.

Io sapevo che quel rossetto non poteva trovarsi lì per caso, lo sapevo perché conoscevo la mania dell’ordine della mia gemella e perché conoscevo lei, soprattutto perché conoscevo lei.

«Come faceva la ragazza a conoscere il movente dei rapitori?» domandò una collega, scettica.

Ingoiai un insulto tra i denti, ma non riuscii a trattenere la rispostaccia. «Beh questo non è il mio lavoro, è il vostro.»

«Può fare qualche controllo? Da qualche parte dovrete partire» li spronò papà, il più ferrato in materia, prima che potessi continuare e non rispondere più di me stessa.

Gli agenti non sembravano del tutto convinti, ma poiché brancolavano nel buio il capo ordinò loro di indagare sui collaboratori di Kolman, il quale si trovava in carcere in attesa di processo proprio per merito di mio padre e del padre di Austin.

Non appena si furono allontanati, Lucas si avvicinò per darmi un bacio sulla testa. «Siano benedette le vostre cose da gemelle» disse prima di circondarmi in un abbraccio. Continuavo ad avere il respiro spezzato e il cuore che pulsava a ritmi disumani, ma perlomeno tra le sue braccia mi sembrò di trovare quel po’ di quiete di cui necessitavo per non collassare.

Avevo davvero capito tutta da un rossetto, ma non ci sarei mai arrivata se non avessi saputo della misteriosa sparizione di Austin; solo in quel momento, infatti, avevo avuto l’illuminazione.

Amelia non avrebbe mai lasciato il rossetto sulla scrivania, in primis perché era una maniaca dell’ordine e in secundis perché non avrebbe avuto senso dato che si truccava in bagno. Tuttavia aveva immaginato, a ragione, che entrando e non trovandola in camera io avrei notato immediatamente quell’oggetto fuori posto. 

Solo a una seconda occhiata avevo ricordato che quel rossetto era un regalo di papà, il primo in assoluto che avessimo ricevuto, per cui nonostante fosse terminato ormai da tempo lo conservavamo per ricordo. Dunque, Amelia, in qualche modo non del tutto chiaro, doveva aver capito che i suoi rapitori volevano farla pagare a papà.

La sparizione di Austin mi aveva convinto fosse coinvolto l’ex capo di papà e di Klaus perché, mentre gli agenti dell’FBI lo portavano via in manette, aveva lanciato una lunga occhiata a me e Austin, abbracciati vicino alla porta. Evidentemente i rapitori dovevano aver preso Amelia scambiandola per me.

Il timore di essere responsabile di qualsiasi cosa stesse accadendo a mia sorella mi investì come un treno in corsa. Le ginocchia cedettero ancora e caddi a terra. L’ultimo ricordo lucido che ho di quel momento è l’impatto con il pavimento freddo, poi solo urla confuse e visi sfocati.

Ripresi conoscenza dopo pochi istanti e i paramedici ordinarono a mio fratello di farmi stendere sul letto e portarmi un bicchiere d’acqua e zucchero. Sapevo che era un palliativo – era stata proprio Amelia a spiegarmi che in realtà lo zucchero è inutile in queste situazioni, servirebbe del sale per rialzare la pressione – ma bevvi senza lamentarmi perché la sensazione di stordimento era tornata a investirmi non appena avevo pensato a lei.

Mi sentivo in colpa, tremendamente in colpa. Se non avessimo litigato, Austin mi avrebbe riaccompagnata a casa e avrebbero preso me, anziché lei. Oppure saremmo tornate entrambe insieme a Lucas e i rapitori non sarebbero riusciti ad avere la meglio.

Il terrore folle che mi sfrigolava sottopelle non riguardava solo Amy – e in quel caso scorreva insieme al senso di colpa – ma anche il ragazzo di cui ero cotta. Il pensiero che potessero fare del male a entrambi, che potessi perderli entrambi, si annidava nei meandri del mio cervello e si ripeteva come una nenia tormentata.

È tutta colpa tua. È tutta colpa tua.  È tutta colpa tua.

Se non avessi stretto amicizia con Austin, non ci avrebbero mai visti insieme a quella festa e non avrebbero potuto usarci come capro espiatorio per vendicarsi dei nostri padri.

Se non avessi litigato con Amelia, non sarebbe rincasata presto dalla festa e non avrebbero preso lei scambiandola per me.

Era tutta colpa mia.

Un brusio concitato mi distrasse dall’autoflagellazione che avevo intenzione di infliggermi di lì a poco – avrei solo dovuto decidere se colpirmi con la lampada o tentare di soffocarmi con il cuscino. I miei genitori scattarono in piedi e drizzarono le orecchie per captare la voce metallica che si irradiava dalla radiolina di un agente.

Avevano una pista.

Durante le indagini era venuto fuori che Kolman avesse una società insieme a un tale, il quale risultava proprietario di un appartamento sfitto da anni. Quale luogo migliore per portare due ragazzini rapiti?

«Siamo all’indirizzo, entriamo a fare un rilievo e vi aggiorniamo» disse una voce femminile prima di restituire il silenzio radio.

Ogni suono in quel momento svanì. Non si sentivano più le chiacchiere degli agenti, i sospiri pesanti dei miei genitori, il calpestio delle scarpe sui pavimenti. Nemmeno una folata di vento arrivava dall’esterno per scuoterci.

Tutti eravamo immobili, tramutati in statuine in attesa di sapere cosa stesse succedendo dall’altra parte della città. Avevo l’impressione che persino i cuori dei miei genitori si fossero fermati, intrappolando i battiti al centro del petto.

I miei, di battiti, sembravano completamente impazziti. Non c’era più ritmo nel pulsare del mio cuore, erano solo contrazioni che si susseguivano scomposte e indefinite. Lo sentivo rombare direttamente nel cervello, tra le tempie, in gola, un suono opprimente che mi precludeva la capacità di distinguere cosa stesse accadendo intorno a me.

Internamente urlavo, sbraitavo, agitavo le braccia e scuotevo la testa, scalciavo. Ma all’esterno… all’esterno sembravo un cadavere con un rigor mortis piuttosto avanzato: bianca come uno straccio, immobile e rigida, le pupille abbassate e il respiro mozzato.

Lo scatto della radiolina dell’agente che tornava ad accendersi fu il defibrillatore che diede una scossa al mio cuore. I battiti ripresero accelerati e cadenzati e in un lampo fui giù dal letto, in piedi sulle mie gambe deboli e con gli occhi sgranati per non perdere nemmeno un dettaglio dei loro movimenti.

Quando l’agente in casa prese l’apparecchio per rispondere potei avvertire i respiri di tutti venire strappati via, come risucchiati dal movimento del braccio che avvicinò la radio alla sua bocca. 

«Agente Moore, ti ricevo, attendo aggiornamenti.»

«Negativo, i ragazzi non sono lì.»

Il fragore esplose in un lampo. Tutti i rumori ci piombarono addosso come cocci rotti di porcellana che continua a spezzarsi in infiniti pezzi. C’erano urla strozzate, singhiozzi conditi di lacrime, ordini perentori, scarpe che calpestavano il pavimento come macigni.

Ma io non ero in grado di distinguere alcun suono. Mi sentivo all’interno di una bolla, una custodia protettiva che in realtà non proteggeva me, bensì gli altri. Perché all’interno di quella bolla stava per consumarsi una tragedia di proporzioni epiche.

La battaglia di Maratona, a confronto, sarebbe apparsa come lo scontro tra qualche soldatino.

Sentivo il mio corpo contorcersi, le ossa spezzarsi e lacerare i muscoli, gli organi scoppiare fino a squarciare le membrane. Urlavo con tuto il fiato che avevo in gola ma non producevo suoni, piangevo ma avevo terminato le lacrime, strappavo ciocche di capelli e non le ritrovavo tra le dita. 

Mi sentivo irrequieta e immobile, assordante e silenziosa, in pace e in agonia.

Ero instabile, completamente.

Sospesa su un burrone senza protezione alcuna, correvo sul filo del rasoio e arrancavo per raggiungere l’altra cima, che si allontanava a ogni passo macinato, a ogni respiro spezzato, a ogni urlo squarciato.

E io scalpitavo, gridavo, combattevo.

Ma ero immobile, muta, indifesa.

Non avevo idea di cosa stesse succedendo al di fuori della mia bolla. Non riuscivo a capire gli sguardi illuminati delle persone che mi circondavano, il piede di Lucas che batteva cadenzato a terra, gli strepitii eccitati dei miei genitori, i loro occhi lucidi.

Nessuno si accorgeva di me, del mio sguardo vacuo, del viso spento, delle braccia molli lungo il corpo, delle gambe tremolanti che mi reggevano per miracolo. Avevo un vortice nella pancia che bilanciava il mio equilibrio e mi teneva in piedi, risucchiandomi dall’interno.

Ero al limite delle mie possibilità, sentivo ogni parte del mio corpo scricchiolare in modo sinistro, sul punto di rompersi in mille pezzi e scagliarsi contro ogni parete, su ogni persona presente in quella stanza, a intossicare ogni agente che si avvicinava con sorrisi di circostanza rifilandoci frasi fatte da filosofi zen.

In quel momento, più che una filosa zen, mi sentivo una bombarola in procinto di far brillare l’ordigno, devastando tutto ciò che c’era intorno a me per inglobarlo nella mia bolla, dove il dolore mi annientava e la disperazione mi consumava, ma riuscivo ancora ad aggrapparmi a piccoli brandelli di speranza per non perdere gli ultimi pezzi di me.

E infine la bolla si ruppe.

«Li abbiamo trovati, stanno bene.»

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Capitolo 26
*** Notizie in anteprima ***


Notizie in anteprima

Il momento in cui avevamo potuto riabbracciare Amelia sarà impresso per sempre nella mia memoria.

Era accasciata su una poltroncina scomoda della centrale di polizia con una coperta termica e lucida ad avvolgerle le spalle. Il suo aspetto impeccabile era stato intaccato dalla situazione: indossava il giubbotto della divisa sopra il suo pigiama nero e aveva i capelli spettinati a causa di ciò che era accaduto, il trucco che non aveva fatto in tempo a togliere le era colato sul viso macchiandole le guance.

Aveva un aspetto stravolto, ma rivederla fu come riprendere a respirare dopo una lunga apnea.

Fui la prima a individuarla, prima ancora che l’agente che ci stava scortando ci indicasse la saletta in cui si trovava. Mi bastò un’occhiata veloce all’ambiente e il mio sguardo fu calamitato da quella figura rannicchiata in una posa scomposta.

Si accorsero del mio scatto solo quando ormai l’avevo raggiunta. Mi chinai su di lei senza darle tempo di dire una parola, le buttai le braccia al collo e singhiozzai sulla sua spalla incurante di ciò che ci accadeva intorno.

«Scusa» biascicai, stringendola forte contro il mio corpo per avvertire il suo calore. Avevo bisogno di lei per tornare a vivere. «Scusami io… sono stata una stupida.»

Lucas ci piombò addosso l’istante successivo. Con le sue braccia grandi avvolse entrambe e fu il silenzio ad accompagnare la caduta delle sue lacrime, non parole di conforto né di gratitudine per il ritrovamento. Non era mai stato di molte parole, ma in quel caso non ci fu bisogno di parlare per condividere ciò che stavamo pensando.

Vi amo più della mia stessa vita.

«Amy!» le mani di mamma si insinuarono in quell’intreccio di corpi. Io e Lucas allentammo la presa per lasciare che anche lei potesse assicurarsi delle condizioni di nostra sorella e quando anche papà si chinò su noi ci scostammo per lasciarla nelle loro mani.

Tirai su col naso nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime e passai la manica della felpa sotto gli occhi gonfi e scuri. In tutto quel trambusto non avevo affatto pensato a cambiarmi, avevo solo indossato una felpa per ripararmi dal freddo e infilato un paio di scarpe senza calzini per arrivare in centrale il prima possibile.

In quel momento da uno degli uffici con le tapparelle abbassate comparve Austin. Anche lui indossava ancora il vestito della sera precedente, ma la camicia era fuori dai pantaloni e la giacca ormai era sgualcita come se qualcuno l’avesse strattonato.

Rabbrividii al pensiero di ciò che potesse essergli accaduto e gli corsi incontro, avvolgendogli il busto con le braccia. Non se l’aspettava e indietreggiò di qualche passo per mantenere l’equilibrio, poi mi strinse a sua volta e potei avvertire il suo torace espandersi per fare un respiro profondo.

Alzai il capo per guardarlo negli occhi. «Mi dispiace tanto…» non riuscivo a smettere di piangere né di sentirmi in colpa per ciò che era accaduto sebbene, dal profondo della mia razionalità, ero consapevole che non avrei potuto fare nulla per evitarlo.

«È finita…» disse solamente, la voce spezzata e più roca di quanto l’avessi mai sentita, forse provata dalle urla con cui aveva provato a difendersi.

Passò le sue mani sul mio viso per asciugarmi le lacrime. Anche lui aveva gli occhi lucidi e i riccioli biondi si erano appiccicati sulla nuca e intorno al viso, ma nonostante tutto continuava ad avere un aspetto angelico per me.

«Austin!» la voce di Meredith spezzò il nostro contatto visivo. Lui trattenne il respiro nel vedere i suoi genitori e sua sorella raggiungerlo e io mi allontanai per concedere loro gli spazi di cui avrebbero avuto bisogno.

Le prime lacrime abbandonarono i suoi occhi e la madre fu lesta ad asciugargli il viso, stringendolo a sé. Io mi voltai e tornai dalla mia famiglia, a pochi metri di distanza. Amy era ancora seduta sulla poltroncina: aveva la testa poggiata sulla spalla della mamma che la stringeva a sé e papà, dall’altro lato, le teneva le mani.

Mi avvicinai a Lucas e lasciai che le sue braccia mi circondassero, stringendomi contro il suo petto e asciugandomi le lacrime che continuavano a sgorgare inarrestabili dalle mie iridi.

«Sapevo che avresti capito del rossetto… gli agenti mi hanno detto tutto» disse Amelia. Anche la sua voce era spezzata e roca come quella di Austin, ma potei comunque percepire tutta la sua gratitudine.

«Come diavolo ti è venuto in mente di lasciarlo in bella vista?» riuscii a domandare tra un singhiozzo e l’altro.

La mia gemella sollevò le spalle e scosse la testa con aria spaurita. «Non lo so, io… ho solo pensato a te» e cominciò a piangere anche lei, singhiozzando tra le braccia dei nostri genitori mentre io la imitavo stretta da Lucas.

Anche da quella distanza potevo avvertire i nostri cuori pulsare all’unisono e non avevo bisogno di un conta-battiti per averne la certezza. Mi bastava guardare le sue iridi verdi e cupe, così simili e così diverse dalle mie, per sapere che ogni cellula dei nostri corpi era ormai in sincrono.

«Ha avuto sangue freddo e astuzia, due doti che sarebbero ottime in una poliziotta» un agente ci interruppe, sorridendo ad Amelia che ricambiò a sua volta e invitando i miei genitori a seguirlo per firmare dei rapporti.

«Sei sempre la solita, non ce la fai a startene buona un attimo» la punzecchiò Lucas, prendendo il posto della mamma mentre io mi accomodavo sulla poltroncina occupata da papà.

Le presi le mani e carezzai i dorsi con delicatezza, col timore di vederla sgretolarsi sotto ai miei occhi e dovermi ritrovare a raccogliere pezzi di lei sparsi per la centrale. Sebbene volessi proteggerla dal mondo, avevo bisogno di capire. «Come hai capito che c’entravano con papà?»

Amelia tirò sul col naso e si accoccolò contro il petto di Lucas. «Li ho sentiti quando hanno narcotizzato mamma e papà, uno di loro è stato così idiota da dire che Kolman sarebbe stato orgoglioso della pulizia del loro lavoro.» Sentii la presa delle sue mani farsi ferrea intorno alle mie al ricordo di quegli istanti terribili. «A quel punto urlare era inutile e così ho fatto ciò che mi riesce sempre: una cosa da gemelle.»

Ridacchiai al pensiero che ciò che persino i nostri familiari avevano sempre trovato inquietante probabilmente le aveva salvato la vita. «Ho aperto la cassettiera e ho afferrato la prima cosa che mi ha ricordato papà sperando che tu avresti capito, poi due uomini sono entrati e mi hanno infilato una benda in bocca per non farmi urlare.» Lucas la strinse più forte, carezzandole i capelli per scacciare via il ricordo delle sensazioni terribili provate in quei momenti.

«Ci siamo calati giù dal mio balcone, per questo la casa era chiusa dall’interno, e poi… mi sono risvegliata in un seminterrato legata a un palo insieme a Austin» alzò il capo alla ricerca di lui, individuandolo al centro della stanza insieme a sua sorella mentre i genitori seguivano un agente in uno degli uffici.

Lucas si asciugò le lacrime, poi scostò Amelia verso di me dicendo: «Voi due avete tanto da chiarire, io vado a vedere come sta Austin».

Entrambe ci soffermammo sulle figure corpulente che si abbracciavano impacciate al centro della stanza, sorrisi al pensiero che entrambi fossero grandi e grossi ma non sapevano ancora come dimostrarsi il nascente affetto.

«Non sei tu che devi scusarti» la voce di Amelia mi riscosse e mi voltai di nuovo verso di lei. «Hai tutto il diritto di essere arrabbiata con me, sono io che devo scusarmi.»

Scossi la testa per farla tacere, ma evidentemente non ne aveva alcuna intenzione.

«Ti prego, Sam, devi ascoltarmi… non posso più tenermelo dentro.»

Avrei dovuto darle subito modo di spiegarsi e non imputarmi, avevo lasciato che il mio orgoglio ferito prendesse il sopravvento e oscurasse tutti i suoi tentavi di farsi perdonare. Non risposi, temevo che avrei ricominciato a piangere per l’ennesima volta, ma con un cenno del capo la invitai a continuare.

Amelia fece un profondo respiro e strinse ancora le mie mani per trasmettermi il caleidoscopio di sentimenti che stava provando in quel momento, anche se non ce n’era bisogno perché, come fossimo uno specchio, li stavo provando anch’io.

«Avrei dovuto dirti subito di Margot, so che te la sei presa perché non ne sapevi nulla e non perché si tratta di lei…» centrò subito il punto, comprendendo la mia reazione spropositata. «Devi credermi se ti dico che avrei tanto voluto, ma… sai come sono fatta, ho sempre paura di rovinare tutto nei rapporti sociali.»

Sciolsi la presa delle nostre mani solo per asciugarle le lacrime che avevano iniziato a scivolarle sulle guance. Non sopportavo vederla così indifesa e ancora meno sapere di essere colpevole di quel malessere. «Ho esagerato, potevo evitarmi quella scenata.»

«No, tu avevi perfettamente ragione» mi riprese, ammonendomi con lo sguardo. «Sono felice con lei e lo sarei ancor di più sapendo di avere il tuo appoggio, ma temevo che dicendolo a qualcuno tutto sarebbe diventato reale e avrei finito col rovinare tutto.»

Continuai ad accarezzarle il viso concentrandomi sui movimenti meccanici perché altrimenti non sarei riuscita a trattenere le lacrime. Riuscivo a comprendere come si sentisse perché anch’io avevo spesso il terrore di mandare tutto a monte con Austin e avrei dovuto immaginare che per lei fosse ancora più difficile. Amelia era sempre stata la più schiva tra noi, aprire il cuore a qualcuno che non fosse di famiglia doveva esserle costato molto più di quanto fosse disposta ad ammettere e io, anziché sostenerla e comprenderla, non avevo fatto altro che aggravare che il suo senso di inadeguatezza.

Dovevo decisamente sdrammatizzare o sarei finita in ospedale per disidratazione dopo aver pianto tutti i miei liquidi corporei. «Mi stai dicendo che io sono la prima a sapere della vostra relazione?»

Amelia ridacchiò capendo il mio intento. «Sì» annuì, asciugandosi gli occhi con la giacca, «tecnicamente tu e Austin siete i primi ad averci viste insieme

Volsi lo sguardo in direzione del biondo, che stringeva la sorellina con fare protettivo e intanto chiacchierava con Lucas di qualcosa che non riuscivamo a comprendere da quella distanza. Le sue braccia muscolose sembravano ancora più grosse intorno alla figura esile di Kimberly, che osservava di sottecchi mio fratello con aria sognante.

«Mh, potrei pensare di perdonarti giusto perché in ogni caso ho avuto la notizia in anteprima» mugugnai in risposta alla spallata complice e malandrina che mi riservò dopo avermi beccata a fissarlo.

«E tu? Hai qualche notizia da darmi in anteprima?» mi stuzzicò, puntandomi quelle sue iridi indagatorie addosso e facendomi sentire in soggezione. Aveva la stessa abilità della mamma di farti confessare qualsiasi cosa solo guardandoti negli occhi.

Sorrisi al ricordo di ciò che era accaduto solo una manciata di ore prima. «Forse…» la lasciai sulle spine prima di confessare, in fondo si meritava un po’ d’attesa. «Potremmo esserci baciati alla festa.»

Amelia mi abbracciò forte avvolgendo anche me con la sua coperta termica. «Potreste? E poi?»

«Poi nulla… Mi ha convinto a chiarire con te, quindi sono venuta a cercarti ma Lucas mi ha detto che eri già a casa, così siamo tornati anche noi e Austin è andato via da solo» mi rabbuiai di nuovo al pensiero di ciò che avevano passato. «Sai, ho capito cosa volessi dirmi con il rossetto solo quando ho saputo che anche lui era sparito.»

«Immagino che dovrò ringraziare anche lui oltre al tuo cervellino.»

La colpii sulla spalla, indignandomi per il vezzeggiativo, ma non risposi poiché mi accorsi che stava per aggiungere altro. «È stato davvero bravo a mantenere i nervi saldi in quel seminterrato, senza di lui probabilmente avrei dato di matto e forse mi avrebbero stordita con qualche colpo ben assestato» lo disse ridacchiando ma non c’era divertimento nella sua voce, solo terrore puro travestito da nervosismo.

«Quando sono arrivati i poliziotti noi li abbiamo sentiti, ma eravamo legati e imbavagliati quindi non riuscivamo a fare rumore per farci sentire» continuò il suo racconto con voce tremante, ricominciando a singhiozzare. Io le strinsi le gambe e mi accoccolai su di lei, carezzandole le cosce nel tentativo di donarle un po’ della mia forza. «Austin si è quasi rotto un polso per liberarsi e farci trovare.»

«Credi che vi avrebbero fatto del male?» chiesi a bruciapelo e mentre lo domandavo sentii una scarica di terrore scivolarmi lungo la spina dorsale. Era un’eventualità che non ero disposta nemmeno a contemplare.

Amelia sospirò. «Non lo so.»

Restammo abbracciate a coccolarci su quelle poltroncine scomode finché non vedemmo i nostri genitori e i Rogersi uscire dall’ufficio. Lucas, Austin e Kimberly si avvicinarono a loro e anche noi ci alzammo per raggiungerli, ma fummo precedute da Meredith.

La donna marciò a passo spedito verso di noi e mi abbracciò, cogliendomi di sorpresa. «Gli agenti ci hanno detto che sei stata tu a indirizzarli sulla via giusta, grazie». Quando si staccò riservò lo stesso trattamento alla mia gemella. «E tu sei stata grandiosa, Amelia, complimenti per il sangue freddo.»

Aveva l’aria stanca e spossata, due profonde borse sotto gli occhi e le iridi lucide a causa del pianto, ma nonostante tutto risultava bellissima. Ci rivolse un’occhiata colma di orgoglio e gratitudine, dopodiché si voltò per raggiungere il gruppo.

«Beh» sussurrò Amy prima di imitarla, «hai già conquistato la suocera».

Risi e la spinsi verso i nostri genitori, che ci osservavano interagire di nuovo dopo giorni di guerra fredda. La mia gemella era ufficialmente tornata.

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Capitolo 27
*** Vittoria a tavolino ***


Vittoria a tavolino

Alla fine era stato Austin a vincere la scommessa.

Sembravano trascorsi secoli dal pomeriggio in cui eravamo finiti a bere un frullato insieme dopo gli allenamenti, uscita che si era conclusa con la mia ingloriosa perdita del senno e una lite furibonda con Amelia.

Ah, che bella la famiglia Miller… zero rancore e per niente drama queen!

Invece solo una manciata di giorni ci aveva permesso di lasciarci alle spalle l’incubo del rapimento di Amy e Austin. La faccenda non era affatto conclusa, doveva svolgersi il processo ed entrambi sarebbero stati chiamati a testimoniare; tuttavia, per il momento se ne occupavano papà e Klaus e noi potevamo goderci le vacanze natalizie in tranquillità.

Tranquillità… si fa per dire! Né Austin né Amelia erano il ritratto della serenità. La mia gemella aveva incubi che le impedivano di riposare per più di qualche ora consecutiva; solo con qualcuno accanto riusciva a dormire per almeno quattro ore senza svegliarsi.

Tuttavia, il suo sonno tormentato era in grado di disturbare anche chi le stava accanto, risvegliato dal suo continuo rigirarsi nel letto, dai lamenti e dalle prese ferree che le partivano come riflessi incondizionati per assicurarsi di non essere sola. Io e Lucas avevamo iniziato a fare a turno per dividere il letto con lei e nessuno si era opposto quando anche Margot si era proposta di aiutarci. I nostri genitori ancora non sapevano nulla di loro due, ma c’era tempo per parlargliene dopo che Amelia si sarebbe ripresa.

Naturalmente aveva iniziato a vedere una psicologa, ma il trauma di essere rapiti in casa propria, per quanto la faccenda si fosse risolta in fretta e senza gravi danni fisici, non poteva essere superato in un paio di sedute. La dottoressa era stata chiara: il percorso sarebbe stato lungo e non privo di ostacoli, anche a causa del carattere riottoso di Amelia, ma avrebbe aiutato la mia gemella a stare meglio.

Austin, invece… beh, intanto era diventato il mio ragazzo. Ufficialmente. Cioè, non c’erano stati anelli o proposte di matrimonio – grazie a Dio, quello sarebbe stato troppo – ma facevamo coppia fissa. I nostri genitori avevano accolto la notizia con una cena, ovviamente qualsiasi occasione era buona per Maeve Miller e Meredith Rogers di fare comunella.

Maledette, da quando Amelia e Kimberly parteggiavano per loro eravamo praticamente spacciati.

A ogni modo, nemmeno lui era uscito incolume da quel seminterrato. Oltre al polso quasi rotto, curato a suon di pomate lenitive e antinfiammatori, e ai numerosi lividi che si era procurato nel tentativo di liberarsi, quella faccenda aveva lasciato Austin in uno stato di allerta costante.

I suoi nervi erano perennemente tesi, il minimo rumore insolito lo faceva scattare come una molla e aveva quasi aggredito un suo compagno di squadra che gli era arrivato alle spalle per chiedergli come stesse. Beh, la risposta era palese: non bene.

Chiaramente anche lui aveva intrapreso un percorso psicologico e, quando non era a scuola, agli allenamenti o alle sedute, trascorreva il suo tempo con me. A quanto pareva ero la sua compagnia preferita, chi l’avrebbe mai detto?

Beh, a posteriori, i segnali erano chiari, ma a sedici anni ero piuttosto tonta e indossavo un bel paio di paraocchi che non mi permettevano di vedere oltre la traiettoria dritta di fronte a me. Dunque, finché Austin non mi si era piantato davanti, non avevo capito un tubo.

«A che pensi?» fu la sua voce a riscuotermi dalle mie riflessioni circa il bilancio dell’ultima settimana. Il tono vellutato era animato da una punta di curiosità che aveva cercato di nascondere, invano. A me piaceva la sua curiosità, specialmente quando aveva a che fare con ciò che mi ronzava nella testa.

Gli sorrisi, beandomi della tranquillità che emanavano i suoi magnetici occhi blu. Anche se non era grado di alleviare la sua stessa tensione, continuava a trasmettere serenità a chi gli stava intorno.

«A tutto quello che è successo» ammisi, perché ero certa che dal mio viso corrucciato avesse intuito la direzione dei miei pensieri. «Mi sembra assurdo adesso essere qui a cena, come se nulla fosse…»

Austin si passò una mano tra i boccoli biondi, spingendo forzatamente le ciocche dietro il capo. Si erano allungati ancora e sua madre lo tormentava affinché li tagliasse, ma a me piaceva l’ormai caschetto biondo che gli incorniciava il viso.

«Hai ragione, a volte mi sembra che sia passato un secolo, altre…» storse il naso cercando di nascondere la smorfia bevendo dalla lattina di light coke che aveva davanti. Notando però il mio sguardo su di sé che lo invitava a continuare, sospirò. «A volte ho l’impressione di trovarmi ancora in quel seminterrato.»

Allungai il braccio oltre il tavolo che ci divideva e gli afferrai la mano. Non potevo fare granché per lui, me ne rendevo conto, però potevo sostenerlo e mostrargli tutto il mio affetto. Austin sembrava apprezzare a giudicare dal sorriso sincero che gli illuminò il volto e fece sorridere anche me di rimando.

Non ci volle molto prima che si trasformasse in un ghigno, sdrammatizzare era il nostro modo preferito per allentare la tensione. «Non è vuoi accampare scuse per non offrirmi la cena? Ho vinto la scommessa.»

Gli tirai un calcio sotto al tavolo, perché ero sì vestita come una bambolina a causa di un attacco congiunto di mamma e Amelia, ma rimanevo un’orgogliosa scaricatrice di porto nell’animo.

«Per chi mi hai presa» gonfiai il petto, finta offesa, «una Miller paga sempre i propri debiti».

Alla citazione di Game of Thrones seguì una sua risata sommessa e, ovviamente, un altro calcio da parte mia. Insomma, non potevo permettere che si facesse beffe di me mentre mangiava indisturbato le sue patatine!

Ci trovavamo nella mia tavola calda preferita perché io avevo perso la scommessa. Naturalmente, come da me preventivato, avevamo vinto la partita – quella prima della festa al termine della quale Austin e Amelia erano stati rapiti, sì – tuttavia, non ero riuscita a segnare e dovevo offrirgli una cena.

La vibrazione del mio telefono interruppe il nostro battibecco. Lo afferrai quasi con foga per assicurarmi che non fosse la mia gemella – era lei l’unico motivo per cui giravo con la suoneria al cellulare da quel maledetto giorno. Ero terrorizzata dall’idea che avesse bisogno di me e io fossi irrintracciabile.

Il messaggio però era da parte di Kate, la quale mi invitava a raggiungere lei, Monica e altre ragazze della squadra per un caffè in centro. Ovviamente, sbadata com’era, si era scordata del mio appuntamento.

Austin, che aveva compreso i miei sensi di colpa nei confronti di Amelia e cercava di farmeli passare forse con più ardore di lei – in fondo la stronzetta ci godeva ad avermi al suo servizio – mi domandò come stesse. I rapporti tra loro erano civili, non c’erano più stati interrogatori imbarazzanti perlomeno, ma entrambi non erano propensi a fare amicizia e dunque si limitavano ai convenevoli.

Sospirai, perché io e Amelia eravamo due facce della stessa medaglia e, per quanto si impegnasse a fingere di stare bene, io sapevo che non era così. Me ne accorgevo dal ticchettio incontrollato delle penne mentre studiava, dalla foga con cui si spostava i capelli dal viso, dalle ombre violacee che ogni mattina copriva con fondotinta e correttore.

Avrebbe potuto fregare tutti, persino mamma e la psicologa, ma non avrebbe mai fregato me. Lo sapevo io e lo sapeva lei, per questo nemmeno tentava di nascondere il nervosismo quando eravamo sole.

«Ce la sta mettendo tutta, ma non è facile» mi limitai a dire perché qualsiasi altra parola sarebbe stata inutile. Lui lo sapeva, era con lei e aveva subìto lo stesso trattamento, non aveva bisogno di menzogne né che gli venisse spiegato perché stesse reagendo in quel modo.

Austin sospirò e strinse la mia mano ancora nella sua. «Già, non è facile…»

Per quanto tentassimo di non pensarci, di rivolgere la nostra attenzione altrove e goderci la cena, era inevitabile rimuginare su ciò che era accaduto. Pensai che l’unico modo per allentare la tensione fosse rigirare la frittata e portare la conversazione su lidi meno desolanti.

«Sai, credo di non averti ringraziato la sera della festa» iniziai, stampandomi in viso il sorriso migliore del mio repertorio. Non era luminoso come quello che mi dedicò Austin di rimando, ma si sarebbe accontentato.

Mi osservò incuriosito qualche istante cercando di capire dove volessi andare a parare, poi ghignò. «Per averti impedito di rompere il naso a Martin Hurt?»

Gli allungai un altro calcio. Se l’era meritato, non doveva ricordarmi dell’esistenza di quel pallone gonfiato! Feci una smorfia a cui seguì la sua risata sommessa. Per quanto provasse a trattenersi, proprio non riusciva a non farsi beffe di me. A quanto pare i miei calci non erano così ben piazzati.

«Sì, beh, anche per quello» mormorai scontenta. In fondo aveva ragione, se non fosse stato per lui, avrei rotto il naso all’idiota misogino e mi sarei pure beccata una denuncia. Papà mi avrebbe battuto il cinque prima di difendermi e infine uccidermi. Ero troppo giovane per morire.

«Però mi riferivo alla lite tra me e Amelia.»

Lo sguardo corrucciato che mi restituì mi fece sorridere. Non aveva idea di cosa stessi blaterando e non riusciva a seguire la deriva dei miei pensieri, quindi mi apprestai a spigare.

«Dopo il bacio alla festa» mi premurai di arrossire, perché ero comunque una sedicenne, «mi hai consigliato di chiarire subito con lei quando avremmo potuto impiegare il tempo in altro modo. Vuol dire che ci tieni e hai capito subito la portata del legame tra me e mia sorella».

Anche Austin arrossì, perché era un sedicenne pure lui, e mi sorrise. Quando lo faceva i suoi lineamenti spigolosi, che gli donavano un’aria perennemente seria, sembravano sbeccarsi. Quando sorrideva, il viso diventava tutta curva. Era bello.

Ed era bello anche quando il sorriso angelico si trasformava in un ghignetto. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa di scomodo che avrebbe potuto imbarazzare qualcuno, e sul fondo delle sue iridi blu scoccava una scintilla di divertimento.

«Ma, dimmi» abbassò il tono di voce, come se si trattasse di un segreto di Stato. «In che modo avremmo potuto impiegare il nostro tempo?»

Avvampai di colpo sentendo il calore sprigionarsi da ogni poro del mio corpo. Probabilmente avrei iniziato a sudare per evitare l’autocombustione. Fui costretta a tirargli l’ennesimo calcio. Non era colpa mia, se l’era meritato di nuovo.

Quello andò a segno, a giudicare dalla smorfia in cui si trasformò il suo ghigno compiaciuto. Così avrebbe imparato a mettere in imbarazzo Sam Miller. Ovviamente alla fine ero stata costretta a rispondere a tono, non potevo essere l’unica rosso pomodoro lì in mezzo.

Mi sporsi sul tavolo imitando la sua posa e lo vidi pendere dalle mie labbra. In realtà, supposi, teneva lo sguardo fisso per non sembrare cafone guardando nella scollatura. Bravo ragazzo, ma ci sei appena cascato con tutte le scarpe.

«Io avrei diverse idee in merito, tu no?»

A quel punto quasi cadde dalla sedia. La dinamica è tuttora ignota dato che non si mosse di un centimetro, ma ci mancò poco che finisse con la faccia nelle salse.

Ben ti sta.

Gli rubai un bacio a fior di labbra prima di tornare seduta comoda mentre la cameriera finalmente ci raggiungeva con le ordinazioni.

Sam 3 - 0 Austin. Vittoria a tavolino.

 

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Capitolo 28
*** Finale di campionato ***


Finale di campionato

La finale di campionato è l’evento più atteso dell’anno per gli sportivi. Dopo una stagione di sacrifici, sconfitte immeritate, vittorie fortunate, partite combattute fino all’ultimo secondo, nella finale spesso ci si gioca il titolo. Come nel nostro caso.

La lega femminile era combattuta fino al novantesimo minuto, solo il triplice fischio dell’arbitro stabiliva le vincitrici, non c’era mai stata una vittoria matematica prima dell’ultima di campionato.

Per questo si arrivava a quell’ultima giornata con un carico pesante di ansia da prestazione, stanchezza accumulata e timore di mandare alle ortiche quanto di buono fatto durante tutto l’anno. Alcuni, poi, la affrontavano peggio di altri.

«Miller, se ti fermi un’altra volta a respirare ti faccio correre a calci in culo!»

Appunto. 

Monica Jakobs era una di quelle che le affrontava nel modo peggiore di tutte. Vuoi perché era la capitana, vuoi perché era l’anno del suo diploma e quella sarebbe stata l’ultima partita disputata al liceo, vuoi perché c’erano gli osservatori del college… Sta di fatto che pretendeva il massimo.

O meglio, Monica pretendeva sempre il massimo, ma quel giorno chiedeva l’impossibile.

“Ho ancora bisogno di respirare per vivere” pensai, non avendo il coraggio di dirlo ad alta voce. Quella pazza avrebbe davvero potuto prendermi a calci durante la partita e no, al contrario di quanto sosteneva Malcolm, il crack non c’entrava proprio nulla.

E poi non potevo parlare, dovevo risparmiare il fiato per la corsa.

Le nostre avversarie ci stavano dando del filo da torcere. D’altronde le vincitrici della partita avrebbero vinto il campionato dato che eravamo in parità, quindi tutte eravamo estremamente agguerrite e affatto disposte a cedere terreno.

Erano trascorsi ottanta minuti senza reti, durante i quali avevo sentito il fiato mancarmi più volte a causa della corsa forsennata per impedire alle avversarie di recuperare un pallone o per aiutare le mie compagne a raggiungere l’area di rigore.

I muscoli delle gambe tremavano quando rallentavo, non abituati a quei ritmi; il cuore non pulsava più in funzione dei miei movimenti, ma lo sentivo accelerare i battiti ogni qualvolta le altre intraprendevano un’azione potenzialmente pericolosa.

La milza mi doleva incredibilmente, dolore condiviso con le mie compagne a giudicare da come tutte si tenevano il fianco sinistro, eppure nessuna rallentava la corsa, nessuna chiedeva il cambio, nessuna si avvicinava all’allenatore per avere dei sali minerali.

Il sudore che colava sul viso sembrava simile a pioggia tanto era abbondante, ma non avevo il tempo di asciugarlo con il braccio che già grondavo di nuovo. Probabilmente puzzavo anche.

Quando la bionda che ci aveva messo i bastoni tra le ruote per tutta la partita recuperò palla e scattò verso la nostra area di rigore, puntai i piedi e cominciai a correrle dietro. Era pericolosa e non potevamo permetterci di subire un goal a quel punto perché avrebbe devastato il nostro morale.

Kate era risalita dalla fascia opposta e le stava alle calcagna insieme ad altre tre ragazze. Per fortuna non ci mettemmo molto a contenerla: marcammo le sue compagne e lei si ritrovò faccia a faccia con la portiera, che intercettò il suo tipo senza grosse difficoltà. 

L’azione riprese in un attimo. Lanciò la palla con una forza tale da mandarla quasi a centrocampo, Monica si lanciò all’inseguimento con le avversarie alle costole e tentò il tutto per tutto. Calciò di destro, il suo piede prediletto, con potenza e verso la porta avversaria.

Le probabilità che segnasse erano bassissime, la distanza era notevole e da lì non poteva avere la stessa precisione che sfoggiava nell’uno contro uno. Il pallone roteò infinite volte durante la sua traiettoria. Tutte eravamo immobili a osservare la scena, persino dagli spalti era calato il silenzio.

Nessuno osava respirare.

Quando la palla raggiunse l’area avversaria, la portiera tentò di uscire e intercettarla. Era alta e provò a seguirla arretrando di diversi metri, senza mai perderla di vista. Tutto sembrava perduto quando colpì la traversa.

Invece… traversa e goal. 

Il pallone rimbalzò contro il palo alto, sbatté a terra e oltrepassò la linea di rete.

Un boato si levò dagli spalti, esplosi dopo che il quarto uomo ebbe alzato la bandierina per appurare la regolarità del goal. Si alzarono tutti in piedi, levando le mani al cielo e facendo partire un coro per celebrare la nostra capitana.

Monica crollò a terra, incredula. Eravamo stanche, distrutte, ma l’entusiasmo ci diede la forza di correre verso di lei. Le fummo addosso in un attimo una piramide di corpi sudati e code svolazzanti si erse al centro del campo. Persino il mister, che solitamente non si lasciava coinvolgere dalle nostre esultanze se non a fine partita, ci raggiunse, baciandoci le fronti a una a una.

A quel punto il gioco diventava pericoloso. La piccola compagine della fazione opposta, rimasta in silenzio fino alla ripresa della partita, prese a fomentare le calciatrici. Sembravano diventate più veloci del vento o, forse, eravamo noi che ci stavamo lasciando andare. 

Ma non potevamo permettercelo, come ci ricordò proprio Monica. «Se mandate in fumo il mio miracolo, giuro che vi uccido con le mie mani» urlò, sfrecciando tra noi con l’energia presa da chissà dove.

Durante l’ennesima azione, Kate entrò a gamba tesa su una delle avversarie in procinto di tirare in rete. Evitò il goal, ma rimediò un rigore che non potevamo permetterci di subire. E si beccò l’espulsione da doppio giallo, giusto per non farsi mancare niente.

Monica marciò verso di lei con aria assassina, borbottando qualcosa che somigliava terribilmente a «Tomson, sei una donna morta». Rabbrividii e la intercettai, dando così alla mia amica il tempo per sparire dalla vista della nostra capitana. Lei mi lanciò un’occhiata che mi fece rabbrividire e mi allontanai alla svelta – volevo sì salvare la mia amica, ma ci tenevo alla mia pelle – imitata dalle compagne. Nessuna avrebbe osato mettersi in mezzo in quel momento.

Per fortuna Kate sparì in un lampo e l’arbitro ci fece sistemare in barriera. La biondina odiosa – a fine partita le avrei stretto la mano e mi sarei complimentata, finché eravamo in campo era solo la mia terribile avversaria – si mise in posizione e, al fischio, calciò.

Al contrario del tiro di Monica fu istantaneo, ma lo vivemmo comunque al rallentatore. Il pallone entrò e fu il turno della nostra scuola di ammutolirsi. Nessuno osò fiatare mentre le avversarie esultavano assieme ai loro tifosi.

Non potevamo permetterci la parità perché, per scontri diretti, loro avrebbero vinto il campionato. Era la nostra occasione di dimostrare che la squadra femminile era valida tanto quanto la squadra maschile, che si era assicurata la vittoria con tre giornate d’anticipo e aveva disputato l’ultima di campionato il pomeriggio precedente.

«Ragazze, non possiamo arrenderci proprio adesso» mormorai al gruppetto che si riunito vicino al Mister. Monica teneva le distanze, passeggiando sconsolata per il campo. «Capitana, abbiamo bisogno di uno dei tuoi discorsi motivazionali travestiti da minacce» urlai, richiamando la sua attenzione.

Sapevo di correre un rischio dato che avrebbe potuto uccidermi con lo sguardo, invece sembrava ciò di cui aveva bisogno anche lei. «Allora, stronzette» ci raggiunse, invitandoci ad accerchiarla. «Questa partita mi serve per avere la mia cazzo di borsa di studio, quindi datevi da fare! Se non potrò andare al college, finirò in galera per omicidio, siete avvisate.»

Inquietante, me ne rendo conto, ma da Monica non ci si aspetta altro. 

Ci staccammo con un grido di incoraggiamento proprio mentre anche le avversarie stavano riprendendo posizione in campo. La nostra tifoseria si animò di nuovo, riprendendo a sostenerci a pieni polmoni.

Furono minuti interminabili durante i quali corremmo come forsennate da una parte all’altra. La milza non la sentivamo più, le gambe andavano da sole e la mancanza di fiato smise di essere un problema – alla fine Monica aveva ragione, respirare non era così indispensabile.

Il novantesimo era ormai passato e l’arbitro diede ben sei minuti di recupero per il tempo perso durante le esultanze. Credevo che non ne avrei retti nemmeno due, invece, contro ogni aspettativa, i muscoli continuavano a pompare e le gambe si muovevano per inerzia.

I battiti avevo addirittura smesso di sentirli, a meno che non fossi morta dovevano essere alle stelle. Per un istante sperai che mamma, negli spalti a fare il tiro insieme a papà e Amy mentre Lucas dirigeva gli ultras, avesse con sé un defibrillatore. Il pensiero mi sfiorò appena perché, quando il pallone mi volò davanti, spensi il cervello.

In certe occasioni è meglio non ragionare e lasciarsi guidare dagli istinti. 

Con uno stop di petto lo intercettai dalla mia avversaria e presi a correre verso la porta. Vedevo con la coda dell’occhio figure che mi inseguivano con divise diverse dalla mia, ma non me ne curai. Continuai a correre per tutta la metà campo avversaria, cercando le mie compagne con lo sguardo.

Quando una di loro mi placcò da sinistra virai a destra verso il centro campo e trovai Monica ferma davanti la porta. Si era appena smarcata e non aveva nemmeno notato che le ero vicino, ma non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione.

Le lanciai la palla in uno dei miei assist migliori, lei la calciò in volo e la spedì tra le maglie della porta. Poi l’arbitro fischiò tre volte.

A quel punto la situazione divenne confusa. I tifosi invasero il campo in una fiumana urlante, Monica scoppiò in lacrime e io fui placcata dalle mie compagne.

Le avversarie erano a terra, qualcuna in lacrime. Si consolavano a vicenda e il mister le abbracciò una per una. Mi avvicinai alla biondina e le strinsi la mano, facendole i complimenti, poi fui risucchiata dalla calca.

Un paio di mani mi afferrarono i fianchi e mi sentì scuotere con vigore; solo mio fratello poteva avere quella presa così salda mentre mi sollevava letteralmente da terra. «Sei stata grande!» mi urlò nelle orecchie prima di stringermi a sé. 

A Lucas non importava che ero completamente sudata – probabilmente puzzavo anche – mi avrebbe stretta sempre in un abbraccio trita-costole per festeggiare insieme a me. 

«Voi Miller avete qualche aiuto divino» disse Boot quando ci staccammo prima di abbracciarmi a sua volta, seguito poi da Garret. «Fate aiutare pure me e Malcolm» aggiunse lui, la capigliatura afro per metà appiccicata alla testa a causa del sudore. Anche tifare era faticoso.

Non ebbi modo di rispondere che mi sentii sollevare di nuovo. Delle braccia mi circondarono la pancia e mi fecero volteggiare mentre una cascata di boccoli biondi entrava nella mia visuale. Risi del suo entusiasmo e allungai le braccia per sfiorargli il collo sebbene fossimo schiena contro petto.

Un fischio mi distrasse e Austin mi mise giù. Di fronte a noi, Amelia ci squadrò da capo a piedi con un sorriso allegro. «Sei stata bravissima» disse e la sua voce rimbombò come una cannonata nel frastuono. La sua opinione per me avrebbe sempre contato più di chiunque altro. Margot, accanto a lei, le teneva la mano e si complimentò a sua volta. 

«Mi risparmio volentieri l’abbraccio, il mio può prenderlo riccioli d’oro» la mia gemella fece l’occhiolino ad Austin, ancora dietro di me. Lui mi strinse più forte e io mi voltai, finalmente circondandogli il collo con le braccia. 

Baciai le sue labbra carnose con impeto e, come sempre, mi sentii bene. La milza non doleva, il fiato corto era diventato piacevole e i muscoli parevano essersi ripresi tutto a un tratto; nemmeno le palpitazioni erano un problema, se provocate da lui.

Austin mi abbracciò, spalmandosi contro di me nonostante il sudore – e il puzzo… che vergogna! – e mi baciò la fronte prima di parlare. «Sei stata pazzesca» sussurrò, isolandoci dal resto del gruppo che intanto si era perso in commenti alla partita. 

«Grazie» ricambiai la stretta, posando la testa sul suo petto. Era l’adrenalina a tenermi in piedi insieme alla sua vicinanza. Senza di lui sarei stramazzata al suolo. «Credo di puzzare» aggiunsi, giusto perché se non se n’era accorto era giusto che glielo facessi notare, dato che non mi aveva svelato il suo segreto per profumare di rosa.

«Giusto un po’» rise, accarezzandomi la schiena, «ma sei bellissima anche se puzzi» posando il capo sul mio e tornando a stringermi ancora.

Amavo i nostri abbracci, erano saldi come il marmo e leggeri come la polvere di stelle.

Ci staccammo solo quando i miei genitori riuscirono a vincere la calca e a trovarci. Mamma mi strinse forte, sussurrandomi che era tanto orgogliosa di me con il tono sottile e instabile di chi sta trattenendo un pianto. 

Faceva tanto la dura, ma poi si emozionava ogni volta che io e Lucas vincevamo qualcosa; in quei momenti, poi, dimenticava persino di essere schizzinosa oltre i limiti dell’immaginabile e non le fregava più di tanto di impregnarsi col nostro sudore.

Papà, abituato a vedere le nostre partite, si lasciò andare a un commento più tecnico, evidenziando le mie azioni migliori e l’assist che ci aveva portate alla vittoria; non c’era tuttavia bisogno di leggere tra le righe per capire che anche lui era orgoglioso e contento per noi.

Nulla sarebbe riuscito a rovinare quel momento, nemmeno Martin Hurt e la sua ombra che si aggiravano nel campo con aria sconsolata, fulminando con lo sguardo le mie compagne di squadra che festeggiavano allegre.

Suo padre ero uno dei maggiori sostenitori economici della campagna sportiva scolastica e la nostra vittoria avrebbe determinato una redistribuzione dei fondi più equa. Evidentemente non era contento di dover condividere i suoi soldi con delle stupide ragazze che corrono dietro un pallone e con una in particolare che, a suo dire, non è nemmeno una ragazza.

Distolsi lo sguardo. Nulla sarebbe riuscito a rovinare quel momento.

Mamma tirò fuori dalla borsa un termos contenente acqua e Sali minerali e cominciò a distribuirlo in giro, placcando per prima Kate che continuava a girare in tondo come una trottola e aveva l’aria di una che sarebbe collassata a momenti; papà stava chiacchierando con Lucas, Malcolm e Boot a proposito del college, Austin li ascoltava in silenzio e, intanto, mi cingeva le spalle, stringendomi a sé; Amelia stava fulminando qualcuno con lo sguardo e Margot, sempre unita a lei con le mani intrecciate, la rimproverava bonariamente.

Inspirai il profumo di shampoo dei riccioli d’oro del mio ragazzo, posai la testa sul suo petto e socchiusi gli occhi, pensando che non sarei mai stata più felice di così.

Per fortuna mi sbagliavo.

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Capitolo 29
*** Epilogo ***


Epilogo 

Non ho ancora imparato come si compie una scelta. A questo punto, temo che non ne sarò mai in grado e mi va benissimo così. Scegliere è sopravvalutato – a meno che non si tratti del film da vedere dopo il lavoro, in quel caso bisogna combattere per far valere le proprie idee.

Ho deciso di voler essere indecisa. Così mi definiscono perché mi rifiuto di imboccare una delle due vie che la vita mi mette davanti. Non voglio o l’asfalto con il tappeto rosso o l’erbetta sintetica. Io li voglio entrambi e a qualcuno non sta bene.

Pare che essere un’atleta ed essere una donna femminile siano agli antipodi, qualcosa che il mondo non è ancora in grado comprendere. Fortuna che sono abbastanza paziente per insegnarglielo. 

Io posso essere Samantha Miller, laureata in scienze motorie, agli eventi di beneficenza in tailleur e tacco 12. 

Io posso essere Samantha Miller, terzina sinistra in prima divisione, maglia numero 12 come i tacchetti che ho agli scarpini.

Ero Sam con le treccine e la salopette alle feste di famiglia; ero Sam con il trucco impeccabile alla festa di promozione di Amelia; ero Sam con i segni rossi sulle guance a tifare la squadra di Lucas.

Sono Sam quando mi sveglio spettinata la mattina accanto ad Austin. Sono la moglie dell’avvocato alle feste in ufficio e lui è il marito della terzina alle mie partite.

Sono una figlia, una sorella, una gemella. Sono una donna. Sono una calciatrice. 

Sono indecisa e sono felice così.

E allora perché scegliere? Io voglio il tacco 12 e pure i 12 tacchetti.

Fine

·

Grazie Sam per il tuo coraggio e la tua determinazione, per avermi permesso di raccontare la tua storia e per non esserti arresa davanti a chi ha provato ad affondarti in ogni modo.

Grazie Austin per la tua dolcezza e la tua comprensione, per essere un grande sostenitore e per aver inseguito i tuoi sogni fino ad afferrarli.

Grazie Amy per essere così simile e così diversa da me, per il tuo istinto di protezione e per l'amore incondizionato che sai donare (anche se non dimostrare).

Grazie Lucas per essere il complice perfetto, il fan numero uno, il fratello pronto a guidare la macchina della fuga al tuo matrimonio o che ti spingerebbe sull'altare a calci.

Grazie Maeve e George per dare un grande esempio di famiglia.

Grazie Meredith e Klaus perché anche i genitori sbagliano, ma solo quelli davvero bravi sanno chiedere scusa.

Grazie Kate, Garret, Malcolm, Margot, Monica, Kimberly, perché senza di voi questa storia non sarebbe stata la stessa.

Grazie a chi ha letto questa storia un capitolo per volta e a chi l'ha divorata in poco tempo, a chi mi ha divertito con commenti e a chi ha scelto di rimanere nell'ombra, a chi mi sostiene da tanto e a chi è appena arrivato.

Per sempre vostra

Luna Freya Nives

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