fireflies

di moganoix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** primo ***
Capitolo 2: *** secondo ***
Capitolo 3: *** terzo ***
Capitolo 4: *** quarto ***
Capitolo 5: *** quinto ***
Capitolo 6: *** sesto ***
Capitolo 7: *** settimo ***
Capitolo 8: *** ottavo ***
Capitolo 9: *** nono ***
Capitolo 10: *** decimo ***
Capitolo 11: *** undicesimo ***
Capitolo 12: *** dodicesimo ***
Capitolo 13: *** tredicesimo ***
Capitolo 14: *** quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** quindicesimo ***
Capitolo 16: *** sedicesimo ***
Capitolo 17: *** diciassettesimo ***
Capitolo 18: *** diciottesimo ***
Capitolo 19: *** diciannovesimo ***
Capitolo 20: *** ventesimo ***
Capitolo 21: *** ventunesimo ***
Capitolo 22: *** ventiduesimo ***
Capitolo 23: *** BONUS + sequel ***



Capitolo 1
*** primo ***


“… e narrasi che di letitia promessa
Lo scarno mondo così nutrirsi debba
Uomini saldaron col ciel tal scommessa:
Affinché nostra Madre Terra fiorisca
Felicità, ogni cent’anni, appassisca.”
 
Yongbok chiuse gli occhi, inspirò l’acre odore del fumo e delle scintille che zampillavano allegre nella tiepida aria notturna di metà settembre, lasciando che ogni stilla di eccitazione scivolasse via in un brivido di misteriosa spensieratezza. Era sempre così, quella storia lo metteva ogni volta di ottimo umore, specialmente se veniva dopo ad una grassoccia cena di compleanno, il ventesimo per l’esattezza, e se era solennemente declamata da quell’abile lingua lunga di suo cugino Jisung, il cantastorie più scapestrato, e coinvolgente (anche se Yongbok non l’avrebbe mai davvero ammesso), del villaggio. Falò, carne arrostita al fuoco, sidro ed un tantino di birra e Jisung riusciva magicamente a trasportare tutti i suoi ascoltatori in un articolatissimo sogno di musica, feste, banchetti, duelli all’ultimo sangue, intrighi amorosi e tradimenti. Memoria alla mano, il trovatore apprendeva e cantava le gesta di migliaia di eroi, ma ogni anno, a metà settembre, Yongbok lo pregava di narrargli per l’ennesima volta la sua favola preferita, quella che, in lunghe rime di scarso valore poetico, abbozzava rudemente, con criptica fantasia, la storia della loro Nazione. Jisung, come al solito, ogni volta che Yongbok avanzava con occhi dolci la sua richiesta, storceva il naso. Conosceva la potenza delle parole, il potere persuasivo dei versi e la diafana musicalità di quelle rime tanto grezze, ma annuiva sempre alle richieste del cugino, scacciando il senso di inquietudine che le tonanti frasi del poema gli incutevano ogni volta che gli si incastravano in gola. Sorrideva a Yongbok mentre intonava perfettamente ogni nota, ogni accento, recitava per il coetaneo nel modo in cui questo desiderava. Vent’anni erano lo sbocciare della giovinezza e Yongbok lavorava sempre sodo con i suoi genitori, gli doveva un piccolo regalo di compleanno, così quella sera, sotto gli occhi giganteschi ed adoranti del festeggiato, mise ancora più passione nei lunghi recitativi. Yongbok lo guardava affascinato, totalmente perso nelle liriche dell’altro, fino a quelle ultime, ambigue, sillabe: “Affinché nostra Madre Terra fiorisca/Felicità, ogni cent’anni, appassisca”.
Ecco, quello era il momento in cui Yongbok più si emozionava. Il pathos racchiuso nei tristi versi conclusivi lo mandava letteralmente in estasi, quel morboso appassisca, che Jisung soleva sussurrare dopo aver pomposamente declamato il precedente fiorisca, lo trafiggeva in pieno petto e provocava in lui una lenta catarsi dell’anima. Chiudeva gli occhi, li riapriva, sbatteva le lunghe ciglia e pettinava indietro con la mano diafana il ciuffo di lunghi capelli corvini. Solo alla fine, dopo aver preso un profondo respiro, volgeva lo sguardo a Jisung e, appena quest’ultimo posava a terra il suo amato liuto, scattava verso di lui per abbracciarlo stretto. Condividevano infine una fetta di crostata di albipesche e terminavano la serata chiacchierando e festeggiando con la loro famiglia.
Tutti gli anni Yongbok viveva la stessa festa di compleanno, tutti gli anni l’epopea della Nazione gli veniva personalmente narrata solo per suo capriccio personale (sua madre e suo padre preferivano le liriche d’amore, gli zii e gli altri cugini i racconti di guerra, e ognuno sarebbe stato più contento nell’ascoltare storie di grandi eroi vissuti al di là del tempo), tutti gli anni la crostata era la medesima, dolce frolla ricoperta della succosa polpa dei frutti del loro giardino. Tutti gli anni Yongbok poteva definirsi felice, soprattutto da quando, due anni prima, suo padre gli aveva dato il permesso di ubriacarsi (non che prima non lo avesse mai fatto con Jisung ed i suoi amici). Ma i vent’anni erano speciali, era l’età a cui la gente del suo paese era solita sposarsi, quella in cui si iniziava davvero a lasciare il nido per affacciarsi, soli, alla crudele visione del mondo, ed il giovane sentiva già che a lui sarebbe stato riservato un destino particolare. Tutta la regione (tutta la Nazione stessa, a quanto dicevano quei pochi mercanti e viaggiatori che facevano tappa al villaggio) era relegata da secoli ad una condizione di povertà perenne. La terra bastava a stento a far sopravvivere i pochi individui che la abitavano, la ricchezza dei contadini e degli allevatori stava tutta nelle fiabe che Jisung recitava e nella loro umile, spontanea, fresca, innocente felicità.
Yongbok era convinto che la felicità fosse l’apprendere la gratitudine, e non poté affatto essere grato ai genitori quando, molto più tardi, dopo che ormai tutti gli zii ed i loro figli si erano ritirati nelle loro abitazioni a festeggiamenti terminati, lo presero entrambi per mano e lo scortarono, gli occhi vacui e colmi di timore recondito, su retro della casa, verso la stalla dei cavalli, dove, ritti, impalati, si ergevano come statue due alte figure incappucciate. La fiaccola che una delle due magre silhouette stringeva tra le mani era appena sufficiente per permettere al giovane festeggiato, ancora brillo a causa del forte sidro che Jisung si era premurato di fargli assaggiare, di distinguere il ricco porpora delle tuniche e lo stemma reale finemente ricamato sul petto e sulla bisaccia che entrambi portavano a tracolla. Yongbok aggrottò le sopracciglia, borbottò un lamento, ma prima che potesse effettivamente provare a domandare che cosa stesse succedendo e a chi appartenessero quelle lunghe sagome dall’aura gelida, una voce profonda, dal timbro seghettato, scalfì, ovattata, le sue orecchie.
“È lui?”
Percepì i suoi genitori annuire, per poi sentire la stessa voce puntualizzare indispettita: “È ubriaco.”
“Era la sua ultima serata con noi, meritava di divertirsi un po’…” mentre la voce del padre, solitamente possente e cavernosa come la propria, si faceva timida come lo squittio di un topolino in gabbia nel misero tentativo di difenderlo (difenderlo da chi, esattamente? Da che cosa?), Yongbok concentrò quel poco di lucidità che gli rimaneva sui movimenti freddi e misurati dei due sinistri individui. Non erano soldati, troppo magri per esserlo, e da sotto i leggeri mantelli non traspariva alcun strano bozzo riconducibile ad un’eventuale armatura. Non erano armati, al massimo potevano nascondere un coltello legato alla cintola, le loro mani, che si spostavano abili e sottili, con movimenti frettolosi, nell’aria tiepida di settembre, non avrebbero potuto reggere nient’altro.
Le loro mani. Yongbok notò che le mani di entrambi erano adombrate da un motivo scuro, linee dalla trama studiata che si accavallavano dal polso fino alla punta delle dita, lasciando il palmo immacolato. Ci mise un momento a comprendere che non erano semplici giochi di luce, ma tatuaggi scavati con il fuoco nella loro pelle. Comprese allora che quelle figure non erano soldati, ma adepti dell’Ordine regale dei Filosofi, studiosi semileggendari che il ragazzo aveva solo visto in un paio di occasioni durante le ricorrenze nazionali più importanti. Certo non ne aveva mai visti due da così vicino, ma di sicuro aveva sentito narrare le loro gesta migliaia di volte, proprio quella sera Jisung aveva intonato di fronte a lui e a tutta la famiglia l’epopea mistica di cui gli antichi predecessori e fondatori dell’Ordine erano protagonisti indiscussi.
“Siete davvero certi che la profezia riconduca a lui?” la madre di Yongbok, incerta, si era fatta avanti con occhi già ricolmi di lacrime.
“Cento anni fa i miei antenati hanno fallito nella loro missione, ma questa volta siamo convinti di essere giunti alla soluzione dell’enigma. Le carte, le stelle, tutti i calcoli ci portano a pensare che sia Lee Yongbok il nuovo erede della profezia.”
Parlavano come se Yongbok non fosse lì ad ascoltarli, come se non potesse, in alcun caso, dire la sua, e così, il cervello in pappa per il sidro di Jisung ed il cuore a mille a causa della situazione orrendamente straniante, finì per starsene zitto davvero, tutte le domande, i perché e le lamentele penosamente conficcate in gola. Senza che se ne rendesse conto, il padre lo aiutò a montare su un cavallo già perfettamente sellato e preparato per quello che pareva sarebbe stato un lungo viaggio. Yongbok tremava di terrore, salì sul cavallo e questo, immediatamente, cercò di scrollarselo di dosso, impaurito dal modo febbrile in cui le sue membra, completamente fuori controllo, si agitavano. Senza essersene reso conto, aveva spalancato gli occhi e cominciato a fissare i genitori con sguardo sbigottito, la pupilla fuori dalle orbite, i capelli sciatti e tremuli mentre le mani tentavano in tutti i modi di mettere ordine in quel groviglio di sudore e nodi, la bocca appena spalancata in un sordo lamento disperato. Il ragazzo si chiese che cosa esattamente dovesse fare, forse avrebbe dovuto seguire i due Filosofi, forse non sarebbe più tornato, forse i suoi genitori lo stavano vendendo come schiavo, forse avrebbe dovuto dire loro addio. Avrebbe dovuto ringraziarli, non a tutti capitava di fare da schiavo ad un egregio e sicuramente rinomato Filosofo e la paga sarebbe stata migliore di quella che si poteva aspettare.
Sua madre gli prese una mano e gliela spostò tremolando sulle briglie, raccolse poi il suo viso con le proprie mani e lo guardò negli occhi: “Io e papà siamo fieri di te, Yongbokie… Segui questi signori e ci farai tutti felici…”
Yongbok voleva urlare e, appena i due incappucciati cominciarono a fare pressione affinché si muovesse e li seguisse senza fare storie, scoppiò in un pianto amaro. Il cavallo scalciava, senza alcuna torcia o lanterna era difficile seguire il sentiero che li avrebbe portati (o, almeno, il ragazzo così credeva) fino al palazzo reale. Cavalcava a capo basso, la schiena curva sulla sella sgualcita che minacciava di slacciarsi ad ogni capriccio del cavallo, domandandosi in quale guaio i genitori lo avessero davvero cacciato. Erano pur sempre sua madre e suo padre, volevano il suo bene, ma quell’ultimo addio pronunciato dalla donna più importante della sua vita lo aveva scosso. Forse anche su di lei il sidro aveva avuto strani effetti, forse avrebbe davvero dovuto ringraziarla per quello sguardo carico di religiosa, estranea, venerazione con cui aveva lentamente snocciolato le ultime sillabe.
Il giovane ebbe l’accortezza di rimanere in silenzio per tutto il resto del viaggio, che, a differenza di quanto potesse aspettarsi, durò meno del previsto. Yongbok temette il peggio quando vide le due figure infilarsi con viscida sicurezza nei meandri della foresta che circondava la parte nord del villaggio. Aveva sempre posseduto un pessimo orientamento e, nonostante le lamentele dei genitori, non aveva mai avuto abbastanza tempo (o voglia) di esplorare quei magici boschi. Si diceva che fossero abitati da creature particolari, driadi, elfi, piccoli e dispettosi troll, ma Yongbok, stretto al proprio cavallo, non riusciva che ad udire il greve pulsare del proprio cuore battere a ritmo con gli ululati dei lupi e gli agghiaccianti ringhi degli orsi e dei cinghiali. Pietrificato dalla paura, quasi mandò il proprio animale a sbattere contro gli stalloni dei due Filosofi, i quali, nel mentre, si erano fermati nel bel mezzo di una piccola radura di forma circolare. Lo fecero scivolare giù dal suo destriero e con solenne calma, entrambe le mani di uno di essi sulle spalle del ragazzo, lo accompagnarono al centro dello spiazzo erboso. Gli concessero di sedersi, le gambe di Yongbok non lo avrebbero retto un minuto di più. Tutta la mitezza della brezza notturna del leggero settembre pareva essersi dileguata per lasciare spazio alle sghignazzanti raffiche di vento tipiche di novembre inoltrato. Il giovane non sapeva se stesse tremando per il freddo o lo sgomento.
“Tra poco arriveranno gli altri, Lee Yongbok.”
La voce che poche ore prima aveva conversato con sua madre tornò a graffiare, pungente, le orecchie dell’interpellato, e solo a quel punto, allora, quest’ultimo riuscì timorosamente a farsi avanti: “I miei genitori mi hanno venduto? Volete uccidermi?”
“C’era davvero il caso di portarlo via da casa così?” la voce del secondo Filosofo, che fino a quel momento era rimasto chiuso in religioso silenzio, si intromise con impertinenza.
Il primo, che dal tono con cui parlava sembrava più anziano, rispose solo al confratello, ignorando completamente i dubbi di Yongbok: “Gli ordini sono ordini. Tra poco il saggio arriverà e potremo cominciare il rito.”
Il solo tono con cui il vecchio sillabò quell’ultima parola fece rabbrividire Yongbok, il quale, completamente inerme, non poté fare altro che raccogliere le ginocchia al petto indifeso e fissare con occhi giganteschi le due ampie figure che incombevano su di lui. Prese il viso tra le mani, per poi nasconderlo tra le ginocchia e tirare indietro i capelli; si chiese se fosse meglio credere ai suoi genitori e prestarsi a quel fantomatico “rito” (iniziava a sospettare che non fossero davvero Filosofi reali, ma folli ciarlatani appartenenti ad un qualche tipo di setta demoniaca) o scappare, correre il più possibile e finire inevitabilmente massacrato da un branco di lupi. Prima che però potesse anche solamente provare ad allontanarsi, avvertì un frettoloso scalpitare di zoccoli farsi sempre più vicino. In una manciata di secondi, altri due Filosofi raggiunsero la radura. Uno di essi, notò Yongbok, portava un mantello più finemente decorato rispetto agli altri e sulle sue mani aveva inciso un tatuaggio decisamente più particolareggiato, segno del fatto che, probabilmente, apparteneva ad un rango più alto dei suoi compagni. Yongbok lo squadrò da capo a piedi, si strinse nel proprio consunto mantello e tentò di nascondersi sotto il cappuccio ormai troppo piccolo per lui. Il tessuto era talmente vecchio da aver assorbito, negli anni, l’accogliente sentore dell’erba fresca dei campi che i genitori coltivavano, del grano appena raccolto, delle mele mature, era pregno di tutto ciò che lui considerava casa, per questo si mise ad urlare quando i tre Filosofi lo circondarono e glielo strapparono di dosso insieme alla fine casacca che ancora odorava di arrosto e sidro, lasciandolo a petto nudo. Gridava pietà, prometteva di sottomettersi ai loro voleri, si sarebbe volentieri piegato a fare lo schiavo a corte se lo avessero desiderato, avrebbe pulito le stalle dei cavalli e le luride stanze dei cortigiani di basso grado, avrebbe lucidato scarpe e lavato biancheria con le sue stesse innocenti lacrime se solo glielo avessero chiesto, tutto pur di non morire ammazzato nel bel mezzo della foresta. Nessuno pareva stare ad ascoltarlo, due dei tre individui lo presero per le braccia e lo fecero malamente mettere in ginocchio, il terzo era in piedi dietro di lui pronto ad afferrarlo nel caso fosse riuscito, in qualche assurdo modo, a liberarsi. Il quarto, il capo, che fino a quel momento era rimasto leggermente in disparte, si avvicinò allora al ragazzo, che continuava invano ad urlare ed a dimenarsi, per studiarlo. Yongbok poteva sentire fissi, pesanti come macigni, gli occhi dell’uomo gravare sulle proprie spalle, scivolare tra le pieghe della sua pelle, fare il solletico ai pori e violare la carne sotto di essi, scavando fino spolpare le ossa da ogni singola fibra che costituiva il suo corpo. Si sentiva nudo sotto quello sguardo, nudo, solo, ad affogare nel proprio pianto con la sola forza delle proprie inutili grida. Le bestie coprivano ogni rumore, al villaggio lo avrebbero scambiato per un cinghiale ferito, umile preda di un lupo temerario. Dopo qualche secondo smise anche di dibattere le braccia, la morsa dei due sconosciuti su di esse era troppo stretta, quasi gli mancava il fiato e le mani, per la scarsa circolazione, già gli formicolavano. Domandò – pregò – che lo riportassero indietro, se avevano dato del denaro in cambio ai genitori li avrebbe ripagati in qualche modo, ed era già pronto a vedere l’alta sagoma che gli stava di fronte estrarre il crudele coltello da sotto l’ampia tunica, puntargliela alla gola e premere proprio lì dove la carne era soffice ed ancora, per poco, innocente.
Invece, con immenso sollievo e sbalordimento del giovane, a pochi passi da lui, il Filosofo si tolse il cappuccio e si chinò di fronte a lui, prostrandosi ai suoi piedi. A terra, gli occhi chiusi, la barba grigia ora visibile che sfiorava il terreno e la bocca che sporgeva verso le ginocchia del giovane per poterle baciare, tutto ciò a cui Yongbok sembrava di assistere era lo strisciare di un verme. Rimase in silenzio, pietrificato, per un paio di secondi, poi, reagendo d’istinto, sollevò di scatto una gamba e scaraventò indietro il vecchio sotto lo sguardo esterrefatto degli altri. I due Filosofi che lo tenevano per le braccia fecero per scaraventarlo a terra e bloccarlo, bocconi, con le mani dietro la schiena, ma la voce roca del vecchio si levò rantolante prima che potessero muovere un solo muscolo: “Lasciatelo!”
L’anziano Capo si prese qualche interminabile secondo per recuperare fiato e riprendersi dal lancinante dolore che Yongbok gli aveva procurato (il ragazzo pensò di avergli colpito il naso o, almeno, un occhio), per poi riavvicinarsi al suo prigioniero ed inchinarsi nuovamente di fronte a lui, questa volta con meno fervore ed una sorta di teso timore reverenziale nei modi: “Mi perdoni, mio signore…”
Yongbok, appena comprese che quell’epiteto era diretto a lui, non poté fare altro che adirarsi maggiormente. Puntò il peso sulle ginocchia e, tentando di darsi abbastanza slancio con esse, cercò di gettarsi in avanti per sputare contro il Filosofo.
“È uno scherzo?! Riportatemi indietro! Riportatemi a casa adesso!” il tono frustrato di Yongbok faceva a pugni con l’aria minacciosa che avrebbe tanto voluto sfoggiare. Sentiva agitarsi in lui sentimenti del tutto contrastanti, aveva allo stesso tempo voglia di urlare, di piangere, di fare a botte con quegli esseri tanto forti e tanto gracili e di rannicchiarsi a terra e supplicare che, piuttosto, lo lasciassero lì ad aspettare di essere divorato dai lupi dinnanzi agli occhi divertiti degli elfi e delle driadi. Avrebbe fatto a pugni anche con questi ultimi, poi li avrebbe pregati di riportarlo indietro dagli stessi genitori che lo avevano venduto. Mangiava lacrime su lacrime, e se prima non riusciva ad esprimersi a causa della paura, ora la voce non ne voleva sapere di uscire se non sotto forma di straziante grido d’aiuto. I due Filosofi che lo tenevano per le braccia furono costretti a rafforzare la presa, il terzo gli stringeva le mani e i piedi da dietro la schiena. Ancora una volta, nessuno dei tre gli rispose. Il quarto, il Capo, per la terza volta raggiunse il ragazzo e, senza alcun ulteriore preambolo, appoggiò con sacro ardore una mano sul petto del ragazzo, proprio sopra il cuore, e tre dita sulla fronte, premendo forte sia sul primo che sulla seconda. Recitò a labbra strette qualche parola in un astruso dialetto, fine e secco alle orecchie del giovane, abituato agli aspri e burberi accenti delle compagne, e per un istante parve non accadere nulla. Un’atmosfera irreale regnava sovrana e schiacciava, lugubre, i cuori dei cinque uomini; solo in quell’unico, e ultimo, momento di pace Yongbok si rese conto di non riuscire più avvertire né gli alti ululati degli animali della foresta, né il frinire dei grilli tardivi, lo scroscio rassicurante del venticello tra le foglie o le risate dei folletti nascosti tra i fiori selvatici ed i cespugli di more. Non riusciva a percepire nemmeno i propri pensieri. Ogni persona, ogni essere, ogni albero, o filo d’erba, o roccia inanimata, iniziava a liquefarsi, le sue stesse mani si sgretolavano ed ogni singolo atomo danzava libero nel gelido respiro della notte, le dita dei piedi prendevano ad allungarsi sempre di più, ecco che scavavano nel terreno e salutavano i lombrichi indaffarati, i vermiciattoli luridi di argilla, bussavano alle case delle talpe assonate e davano la buonanotte ai loro intrepidi cuccioli, solleticavano i fragili embrioni della terra, incoraggiavano ogni singolo filo d’erba a crescere alto, rigoglioso, a nutrirsi degli ultimi, avvolgenti, generosi raggi di sole di fine estate. Metteva radici, i piedi erano ormai solido, genuino legno di faggio, ed il profumo delle due floreali caviglie attirava a sé gli insetti riuniti in religioso silenzio al cospetto del loro Dio, pregando il loro Signore. Si infilavano tra le sue gambe, reclamavano il calore del dio e ne pretendevano la carne soffice e materna. Le anche sottili erano fonte inesauribile di latte, ed ecco che giunsero ad abbeverarsi lucertole, lepri, piccoli cerbiatti sotto lo sguardo fiero dei genitori che osservavano a distanza intessendo le lodi della nuova divinità, piangendo di gioia e di orgoglio. I loro figli sarebbero cresciuti sani, avevano tastato e bevuto latte dal grembo di madre natura. Gli uccelli accorsero per ultimi e contemplarono il petto del giovane, soffice grano appena raccolto del colore delle stelle. Yongbok li vedeva planare verso di sé, bucargli i polmoni con il becco affilato e sfrecciare via, soddisfatti, verso la luce. Volse allora anche lui gli occhi alla luce e volò via con i colibrì, con i gabbiani, con i pettirossi, con le aquile possenti, si immerse nel sole, lasciò che gli bruciasse la pelle, i capelli, gli occhi, le labbra soffici, e lo ringraziò con la devozione che il figlio deve al Padre. Prese il viso del sole tra le mani e si sporse a baciarlo, e lo baciò con così tanta passione che finì per deglutirlo, e rise allora alla sensazione di solletico che i raggi del Padre gli provocavano trastullando giocosamente le pareti del suo stomaco. Venne allora la luna, gli chiese dove fosse il Padre e Yongbok si fuse con lei. Le baciò il capo, sollevò il suo corpo minuto e lo ingoiò a sua volta. Si sporse quindi verso il cielo, scoppiò in lacrime perché aveva dovuto uccidere sia il padre che la madre, ma poi sorrise ed iniziò a salire gli ampi gradini che lo avrebbero condotto verso di esso. Toccò il cielo, pensò che fosse freddo, disse allora alle stelle di splendere di più e scese di nuovo in terra, dove tutti gli animali del mondo aspettavano la sua benedizione. Uno ad uno li benedisse ed entrò in piena comunione con ognuno di essi, baciò le formiche, baciò i bruchi, baciò gli elefanti, e vide allora, in fondo all’interminabile fila, le driadi, gli elfi, i troll, i folletti, le fate, i satiri inchinarsi di fronte a lui. Corse loro incontrò e li abbracciò, ricordando allora di quando loro erano lì ad assistere, impotenti, mentre lui aveva avuto paura. Pianse di gioia, il mondo bevve avido dalle sue lacrime e visse, e per cento anni almeno avrebbe riccamente vissuto. Yongbok si chiese di che cosa potesse aver avuto paura. Era morto, era rinato, mancava un’ultima cosa, ci avrebbe pensato il vecchio.
Scorse infine gli uomini, ultimo dilemma della natura, miglior creazione e peggior incubo del mondo, e andò loro incontro con fare deciso, sciogliendosi in un mare di amore per avvolgerli meglio nel proprio abbraccio fraterno. Yongbok era vecchio quanto lo era la terra a cui dava la vita, eppure bruciava di passione per quegli esseri che fino a poco prima appartenevano alla sua stesse specie. Si inchinò di fronte all’anziano Filosofo e lo guardò con occhi raggianti.
“Di che cosa avevi paura?” domandò il grinzoso Capo.
“Non lo so,” rise Yongbok, mentre delicati cespugli di erica facevano a gara a chi per primo sarebbe riuscito ad infilarsi nel ripiego caldo delle ginocchia del ragazzo “mi dispiace, questa storia ormai l’ho sentita così tante volte”
Affinché nostra Madre Terra fiorisca/Felicità, ogni cent’anni, appassisca” il vecchio sorrise bonariamente, citando i versi della profezia “Lee Yongbok, tu rinasci oggi per il bene del mondo, per il bene dell’uomo, per il bene della Nazione e di coloro che ami ed ha sempre amato. Lee Yongbok, oggi rinasci vecchio come il mondo, rinasci con la consapevolezza che regnerai cent’anni e saranno cent’anni di prosperità. Rinasci per noi,” si mise allora in ginocchio “rinasci come dio buono e giusto e noi ti venereremo.”
Yongbok raccolse in sé l’animo degli alberi, sentì il legno sui denti, l’erba bucargli le viscere, i versi degli animali iniziarono subito dopo a riverberargli in gola. Con voce bassa, distorta, ma calda ed avvolgente, il viso ed i capelli che spendevano dell’etereo colore della luce, comandò: “Dimmi chi sono.”
Il vecchio deglutì e con il viso rigato da lacrime di gioia, in un palpito sospirò: “Lee Yongbok oggi rinasci vecchio come il mondo, e rinasci con il nome di Fonte della Felicità.”
Il ragazzo aprì gli occhi – da quando li aveva chiusi? –, respirò a fondo polvere di stelle, e all’improvviso era di nuovo immerso del buio della notte autunnale, circondato dai quattro Filosofi. Si prese un momento per respirare, volse gli occhi al cielo e salutò sua Madre, la luna, e solo al quel punto, con un misuratissimo ed elegante inchino, si presentò ai quattro uomini sbalorditi.
“Io sono la Fonte della Felicità,” sorrise, e solo grazie a quel tenero sorriso la notte parve d’improvviso risplendere. Un ronzio di delicate, molli, lucciole avvolse la radura. I capelli biondi del giovane risplendettero e, come al suo solito, non riuscì a resistere alla tentazione di pettinarsi indietro quel ciuffo che mai aveva intenzione di stare come avrebbe dovuto.
“Io… Io sono Felix.”

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Capitolo 2
*** secondo ***


Changbin imprecò come poco si conveniva ad un appartenente dell’Ordine regale dei Filosofi quando, sfrecciando fuori dalla propria stanza, inciampò nella tunica violacea e finì naso a terra, a mezzo centimetro di distanza da uno scalino che gli sarebbe costato l’ennesima litigata con il Saggio per ottenere il permesso di sottoporsi ad un altro incantesimo ricostruttivo, già il secondo quel mese (durante tutto l’anno aveva perso il conto). Era un promettente novizio, e allo stesso tempo aveva la stoffa per essere il più sgangherato Filosofo che l’Ordine avesse mai ammesso tra le sue schiere di maghi, sciamani e alchimisti. Non c’era da stupirsi che il Saggio che si occupava di gestire la Casa di cui faceva parte lo avesse di nuovo mandato a chiamare nel suo ufficio. Il ragazzo sapeva che più tardi fosse arrivato e più frustrante sarebbe stata la punizione che il vecchio gli avrebbe inflitto, e a giudicare da ciò che aveva combinato quella mattina giocando con le arti illusorie (perché non poteva far credere a quello sbruffone di Seungmin che una Tarantola magmatica dell’Est di dimensioni colossali lo volesse mangiare se questi, per primo, aveva iniziato a dargli fastidio?) avrebbe dovuto sbrigarsi. Tentò di ignorare le lancinanti fitte di dolore che trafiggevano il suo povero malconcio naso e, in pochi minuti, si presentò ansante di fronte alla porta dell’anziano. Si concesse un paio di secondi per rimettersi in ordine, prendere fiato, risistemare la tunica dai bordi già irreparabilmente sgualciti e recitare una breve preghiera di scongiuro contro la cattiva sorte perché, in quei casi, la prudenza non era mai troppa. Si fece coraggio e, senza bussare, entrò impacciatamente nell’ufficio con un ampio, raffazzonato, inchino e si presentò con un semplice: “Eccomi!”
Visitava quell’ufficio minimo una volta a settimana, ormai l’anziano sapeva perfettamente che lui si chiamava Seo Changbin, che aveva ventun anni, provava un’astrusa ed ossessiva passione per le Tarantole magmatiche dell’Est e che a lungo andare, nonostante il suo talento, avrebbe finito per farsi espellere dall’Ordine a solo un anno dal suo diploma come Filosofo a tutti gli effetti. Changbin trascorreva solitamente il quarto d’ora successivo ad ammirare le impolverate reliquie esposte nello studio, preferendo cimentarsi nel tentare di leggere ogni singola targhetta placcata d’oro che decorava piedistalli ed ampolle con nome ed utilità di ciò che custodivano piuttosto che sorbirsi per l’ennesima volta l’interminabile predica del Saggio a proposito della stoicissima morale della loro Casa e del comportamento da tenere nei riguardi di qualsiasi confratello, senza alcuna esclusione (e ciò, purtroppo, comprendeva anche Seungmin). Solo durante gli ultimi cinque minuti si faceva attento, era il temuto momento in cui avrebbe scoperto la sua punizione. Quella volta l’aveva combinata grossa, ma non era il guaio peggiore in cui si era cacciato. Una volta per esempio la Tarantola l’aveva evocata davvero, un enorme esemplare femmina che adesso abitava con loro nelle stalle dei cavalli e che, dopo settimane di panico generale, era riuscita a conquistarsi il soprannome affettuoso di Miss Binnie. Questo perché il Saggio aveva obbligato Changbin a prendersene cura e tutti gli altri novizi avevano iniziato a scherzare sul fatto che fossero anime gemelle, il ragazzo aveva subito ritenuto che fosse davvero molto divertente e il giorno dopo fece saltare in aria il laboratorio di alchimia per ripicca. “Bei tempi” pensò Changbin sospirando, prima di accorgersi che quella volta insieme al Saggio figurava nell’ufficio una spessa silhouette avvolta da voluminosi strati di tessuto, la sagoma di un uomo poco più alto di lui, ma decisamente più muscoloso e robusto. Si prese un secondo per osservarlo meglio, cercò insegne stampate, vessilli o spille che riconducessero a stemmi reali, religiosi o civili, ma non ne trovò – l’unico particolare degno di nota consisteva in un vistoso spallaccio ferreo sul quale figurava una minacciosa testa di lupo – e si mise allora sull’attenti, domandandosi chi fosse davvero l’altro ragazzo. Appena era entrato si era voltato verso di lui sfoggiando un sorriso solido ed affabile, che strideva se messo a paragone con i capelli ricci e sbarazzini che gli ricadevano arroganti, dello stesso smorto giallo del sole all’alba, sulla fronte decisa. Aveva tratti particolari, nessuna cicatrice (non era un mercenario, quindi?), ma pareva lo stesso, forse dagli occhi stanchi e crudeli, che avesse assistito, nella sua vita, a molto più di tutto ciò che Changbin potesse immaginare, e ciò gli metteva i brividi. Si fidava del suo istinto – era grazie ad esso che nessuno aveva ancora osato cacciarlo da quella Casa! –, ed il suo istinto gli stava urlando a squarciagola: “Idiota di un Changbin, guarda che sorrisetto da stronzo ha quel…”
“… Chan.”
Changbin nemmeno si era reso conto che il Saggio aveva già cominciato a tartassarlo. Si chiese che cosa volesse e, preso in contropiede, mormorò al vecchio uno sfacciato ‘Eh?!’ in risposta. Quest’ultimo sospirò affranto e si rivolse allo sconosciuto con espressione mortificata: “Perdonalo, pensava di essere venuto qui per aver mandato in infermeria un altro novizio stamattina, non è abituato a sentirsi chiamare per questioni davvero così serie. Changbin?”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, ma preferì non replicare alla frecciatina del vecchio: “Sì?”
“Changbin, dicevo, questo ragazzo che vedi si chiama Bang Chan e fa parte della squadra di soldati scelti a protezione della famiglia reale nella Capitale. È venuto fin qui apposta per te.”
Il Saggio tinse uno dei suoi migliori sorrisi con una nota di melensa bonarietà ed impose con lo sguardo al suo novizio di sedersi accanto a dove già era sistemata la guardia reale, proseguendo infine con un filo di voluto e teatrale mistero nella voce: “Ovviamente conosci la storia del nostro Paese, vero Changbin?”
L’interpellato scrollò le spalle ed annuì, lasciando che il vecchio proseguisse: “Ecco, come sai la nostra Nazione negli ultimi cento anni ha goduto di benessere e prosperità, la popolazione è cresciuta, la terra ha ricominciato a generare frutti in abbondanza per ogni famiglia del regno, la medicina è migliorata e le persone sono più robuste, tutte vivono a lungo. Si mormora di un’anziana signora del Sud che quest’anno debba compiere la bellezza di novantanove anni! E tutto questo, ovviamente, grazie alla Fonte della Felicità.”
Changbin storse il naso, chiedendosi tra sé e sé se non potesse arrivare subito dritto al punto senza perdersi in inutili smancerie: “Sì, la Fonte della Felicità che ogni cento anni si rinnova. Conosco la profezia a memoria, il fiorire, l’appassire e quelle cose lì.”
Se il Saggio non lo aveva chiamato per il disastro con Seungmin allora preferiva terminare quell’incontro il prima possibile e tornare ad esercitarsi con i cerchi alchemici o con le tecniche erboristiche, o anche fare un giro alle stalle a salutare Miss Binnie.
“Esatto.” grugnì il vecchio con tono indispettito, non amava essere interrotto “Come forse avrai sentito, è giunta notizia che, circa una settimana fa, il Cantastorie si sia espresso. Ha annunciato che tra un mese esatto i cento anni scadranno.”
Non appena il nome del Cantastorie fu pronunciato Changbin scattò sulla sedia e rizzò d’improvviso la schiena, concentrando finalmente tutta la sua attenzione sulla questione che il Saggio stava lentamente snocciolando. Nel Paese vi erano cittadini comuni, Filosofi, soldati e cortigiani, e poi vi era lui, il Cantastorie, l’Oracolo, il Profeta, il Veggente, il Vate. Aveva così tanti anni che si diceva che nemmeno ricordasse il suo nome di battesimo, per questo gli epiteti si sprecavano, ne possedeva uno per ogni storia in cui figurava. Era un uomo dalla personalità tanto ambigua e multiforme che molti dubitavano anche che fosse umano. Per Changbin poteva anche essere l’incarnazione terrena di un mostro delle tenebre venuto dall’aldilà, negli ultimi venticinque anni aveva sempre servito il popolo più di quanto lo facesse il suo stesso re e questo gli bastava per nutrire un sentimento di profondo rispetto nei suoi confronti.
“Qual è stata la sua profezia questa volta?”
Fu il soldato, Chan, a prendere la parola con una certa fretta, rivolgendosi direttamente al novizio: “Il Cantastorie ha parlato in modo schietto. I cento anni dalla nascita della Fonte della Felicità sono arrivati al termine ed è giunto il momento che un altro ragazzo o un’altra ragazza prenda il suo posto. Sono anni che voi Filosofi siete impegnati nella ricerca della nuova Fonte, ma non è di questo il motivo per cui sono qui. Le ricerche proseguono bene, a quanto alcuni dicono, e i Filosofi sono abbastanza certi di essere giunti alla soluzione della nuova profezia. Quello che riguarda me, e che, di conseguenza, riguarda anche te, è la seconda parte del lavoro. Consultando i registri mensili inviati dalle varie Case alla Capitale, risulta che tu sia un novizio abbastanza capace, non è così?”
Changbin si limitò ad annuire, il tono secco e supponente che la guardia aveva utilizzato nel pronunciare quell’ultima frase lo infastidiva, lo trattava con le stesse maniere e lo stesso finto riguardo che avrebbe riservato ad un bambinetto idiota. Eppure quanti anni poteva avere in più di lui? Due, tre al massimo?
“Bene. Ho discusso per un po’ con il Saggio e, alla fine, abbiamo stipulato un accordo. Attualmente la mia missione è quella di tornare alla Capitale e partire con l’attuale Fonte per dirigermi ad Est, verso la catena vulcanica. Allo scadere dei cento anni, affinché la nuova Fonte possa sorgere e prendere il posto di quella vecchia, quest’ultima deve essere restituita alla Natura che l’ha generata. Il modo più semplice per farlo è scortarla fino ai vulcani dell’est e gettare il suo corpo nel Cratere dell’Anima. È lì che tutte le Fonti venute in passato si sono esaurite. Deve essere fatto entro un mese, entro lo scadere ufficiale dei cent’anni concordati. Ovviamente, affinché il rito vada a buon fine, c’è bisogno che un Filosofo o un novizio moderi e gestisca tutta la procedura. Il mio compito è solamente quello di fare da guardia del corpo. Vorrei che tu venissi con me, Seo Changbin.”
La prima cosa che Changbin colse, dopo lo stupore iniziale derivato da quell’insolita proposta, furono gli occhi colmi di speranza che illuminavano il viso pallido e rugosamente arzigogolato del vecchio Saggio, che probabilmente non vedeva l’ora di disfarsi di lui. Il novizio pensò che, comunque, il sentimento fosse reciproco. Prese un respiro profondo, aggrottò le sopracciglia e attaccò d’impeto lo sconosciuto: “Quindi, in pratica, tu vorresti che ti accompagnassi ad ammazzare la Fonte della Felicità.”
“La Fonte della Felicità ha la bellezza di centovent’anni, se entrò un mese non si esaurisce” – e qui, Changbin pensò che se Chan avesse osato pronunciare ancora una volta la parola “esaurire” al posto di “morire” gli avrebbe tirato una scarpa in faccia – “la Natura inizierà a reclamarla da sola, e ciò potrebbe significare terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni ed il cielo solo sa che altro. Ed il corpo del ragazzo in cui è rinchiusa, comunque, non potrà durare ancora a lungo. Allo scadere dei cento anni comincerà probabilmente a decadere e a decomporsi prima ancora che possa morire.”
Changbin sbuffò e, tanto per dar fastidio al soldato, insinuò: “Anche facendola tutta a piedi, il Cratere dista al massimo due settimane di cammino dalla Capitale, perché correre fin qui tanto in fretta?”
“Perché è una missione insidiosa,” il tono di Chan si era fatto serio, una sottile vena di urgenza spiccava sul tenore livido della voce dell’uomo e Changbin comprese che, nonostante il suo atteggiamento altero, aveva davvero bisogno di aiuto “perché potresti non accettare… e poi perché ho sentito il Cantastorie mentre elargiva la sua profezia. Era spaventato, e mi chiedo quale minaccia possa terrorizzare tanto un uomo che ha vissuto tanto quanto la terra su cui camminiamo. Ho bisogno del tuo aiuto, Changbin, il viaggio non è pesante ed il rito non è complesso, ma deve essere fatto adesso. Hai un’ora per pensarci, poi lascerò questa Casa e raggiungerò il prossimo candidato.”
Del novizio si poteva sicuramente dire che fosse una testa calda e, talvolta, un imbranato privo di senso pratico, ma di certo non era un idiota. Era arrogante almeno quanto immaginava lo fosse Chan (per questo motivo gli era stato subito antipatico?) ed una richiesta di aiuto tanto diretta non poteva che solleticare il suo ego in maniera piacevolmente interessante. Poco sforzo, grande gloria, lo avrebbero ricordato negli anni come “colui-che-uccise-la-Fonte-esausta” o, molto meglio (ci teneva particolarmente a mantenere la sua rinomata immagine di novizio oscuro, re dei bui bassifondi della biblioteca filosofica), “Ammazza-Felicità”. E poi vi era una piccola porzione di lui che insisteva per dare una mano al soldato per pura, limpida generosità. Il ragazzo sospirò ed abbassò lo sguardo, scuotendo poi il capo con fare falsamente menefreghista. Forse, in fondo al suo cuore, qualcosa davvero lo aveva colpito e lo inquietava, ed era consapevole che, se non fosse andato in fondo a quella storia personalmente, non ci avrebbe più dormito la notte.
“Non ce n’è bisogno, partirò con te.”
Chan sembrò soddisfatto, sollevò l’angolo sinistro delle labbra in un mezzo sorriso e gli diede una pacca sulla spalla: “Vado a sellare i cavalli. Prepara una borsa con dentro solo l’indispensabile per stare via due o tre settimane. Partiamo tra un’ora, per i primi di settembre sarai di nuovo a casa.”
Fece un inchino veloce al Saggio e si congedò rapidamente, lasciando Changbin in balia del vecchio.
“Immagino di poter andare anche io adesso, no?” suggerì il ragazzo scrollando le spalle, già sul punto di alzarsi a sua volta per sgattaiolare via il prima possibile. Era uno sbruffone, ma avrebbe mille volte scelto di partire all’avventura con Chan il-soldatino-di-latta piuttosto che restare un minuto di più rinchiuso nelle pareti di quell’ufficio.
“Sono contento che tu sia voluto partire, Changbin” ammise, di contro, il vecchio, ancora tutto pimpante per la gioia.
“Che vuole che le dica, lo faccio solo per Miss Binnie.” Il novizio si mise in piedi e infilò le mani nelle tasche dell’ampia tunica “Credo che al mio ritorno sarà felice di ricevere notizie dai suoi parenti dell’Est. Magari dirò loro di spedirle una cartolina ogni tanto.”
Il vecchio allargò il sorriso sdentato e non rispose, dentro di sé già pregustava il dolce sapore della tanto agognata imminente vacanza, era troppo euforico per permettersi di rovinarsi l’umore ad un’ora dalla partenza.
 
 
Il vigoroso stallone nero di Chan faticava a stare dietro agli allegri saltelli del ragno di Changbin, arrancava in mezzo ai boschi perdendo costantemente di vista il gigantesco animale, nonostante il rosso bruno della sua corazza e le ben note dimensioni.
Sì, Changbin aveva insistito per portarsi dietro la sua cara Miss Binnie; temeva che, se l’avesse lasciata sola, gli altri novizi – soprattutto quello spaccone di Seungmin – le avrebbero dato fastidio. Non era preoccupato del fatto che lei potesse nuocere loro, in fondo era un’animale di profonda personalità e possedeva un gigantesco cuore raffinato ed affettuoso al tempo stesso, ma piuttosto il contrario. Non c’era da stupirsi che il Saggio l’avesse lasciato fare senza problemi. Si accingeva presumibilmente a trascorrere le tre settimane migliori della sua vita, il novizio si chiese se non si sarebbe forse annoiato senza avere qualcuno contro cui sbraitare tutto il giorno. Aveva raccattato una borsa con qualche cambio, un paio di pergamene per studiare il rito funebre che avrebbe dovuto svolgere e pochi altri effetti personali, per Miss Binnie portare in groppa lui ed i suoi miseri bagagli non sarebbe stato affatto uno sforzo. Ma non aveva tenuto conto che la Tarantola nei boschi, e nei sentieri sterrati o dissestati in generale, sapeva muoversi molto meglio rispetto al cavallo del soldato, che continuava immancabilmente a perdere terreno e a costringere Changbin a fermarsi per aspettarlo. Alla terza sosta non programmata, Changbin caricò le borse di Chan su Miss Binnie e, mentre il cavallo si dissetava ad un ruscello lì vicino, cercò per la prima volta di fare conversazione con il soldato: “Non sei molto contento di dover fare questo viaggetto con me, vero?”
“Piacere mio, mi chiamo Bang Chan, ho ventitré anni e vengo dalle terre del Sud. Tutto bene per ora, sono contento che tu me l’abbia chiesto, spero che anche tu stia bene” ribatté sarcastica la guardia.
“Attenzione che tutta quell’ironia non ti stia sullo stomaco, mi raccomando” replicò allora l’altro a mezza voce, alzando gli occhi al cielo.
“Che c’è, se provo a ferire il tuo misero orgoglio poi dici alla tua Tarantola di farmi arrosto?”
Chan scosse il capo e raggiunse il suo cavallo al ruscello, iniziando ad accarezzarne il lucido manto corvino, per poi osservare in un sospiro: “Sono ore che corre per stare dietro al tuo ragno, è sfinito. Avrei voluto raggiungere il prossimo villaggio prima di cena, ma per oggi è meglio accamparci qui. Almeno saremo vicini all’acqua. Ho delle provviste avanzate, possiamo dividerle.”
Changbin annuì e, senza troppo sforzo, seguendo i suggerimenti dell’altro, lo aiutò ad accendere un fuoco e a montare una veloce tenda accanto ad esso.
“Comunque anche io vengo dal Sud, tu di che parte sei?”
“Oh, adesso vuoi fare conversazione quindi? Sono qui per lavorare, non per fare amicizia.”
Changbin lo canzonò: “Siamo permalosi, eh?”
Il grugnito minaccioso che ne seguì da parte dell’altro contribuì a farlo stare zitto per un po’. Alla fine si arrese e, prima di mettersi a dormire (Chan si era aggiudicato a testa o croce il primo turno di guardia), osò domandare al soldato imitando il tono da automa inanimato che l’altro amava utilizzare per dargli ordini: “Domani pomeriggio quindi arriveremo alla Capitale?”
“Sì. Conosceremo la fonte ed alloggeremo per una notte a palazzo in modo da permettere ai cavalli e alla tua Tarantola di riprendersi, poi partiremo il mattino seguente all’alba.”
“Se aveste scelto un novizio della Capitale sareste potuti partire giorni fa visto che avevate così tanta fretta, perché scegliere proprio me? Eri serio quando, nell’ufficio del Saggio, hai detto di aver bisogno di me?”
“Lascia perdere.” Chan sembrò rabbuiarsi momentaneamente “Ai novizi della Capitale vengono assegnate mansioni ben più importanti di questa. Dopo qualche ricerca sarà semplicemente spuntato il tuo nome e avranno pensato che fossi il candidato migliore, tutto qui. Adesso dormi.”
Changbin sorrise sotto i baffi, gli piaceva giocare a provocare quel pezzo di legno di Chan (e lo conosceva da meno di un giorno): “E va bene, adesso mi metterò a dormire e ti priverò dell’immenso divertimento di giocare a raccontarci i nostri segreti come farebbero due migliori amich-”
In men che non si dica Chan estrasse un coltello dallo stivale e lo puntò alla gola di Changbin: “Che cosa non hai capito della parola ‘dormi’?”
Il novizio si ritrasse indietro e brontolò un mesto “Touché”, per poi stringersi nel mantello ed appoggiarsi a Miss Binnie, lasciandosi cullare infine dal delicato tepore che la corazza lavica dell’animale emanava finché, ancora mugugnando, non si addormentò.
 
-
 
Il giorno seguente, come promesso, Changbin evitò con cautela di chiacchierare con Chan soldatino-di-latta, e, dal canto proprio, quest’ultimo si impegno a condurre il novizio il più in fretta possibile a palazzo.
Vennero accolti con una certa calma, Changbin cercò di non mettersi a ridacchiare vedendo il piede di Chan picchiettare rumorosamente sul liscio pavimento marmoreo della saletta in cui un servitore li aveva gentilmente invitati ad attendere di essere ricevuti. Era convinto che sarebbe stato lui quello più eccitato dei due per l’incontro con la Fonte della Felicità, aveva trascorso anni su anni malamente piegato su libri ricolmi di polvere e muffa a studiare miti, leggende e ricerche sul suo conto tentando in tutti i modi di placare la sete di conoscenza che lo aveva spinto ad entrare nella Casa, eppure nell’ansiosa fretta che denunciava il piede ballerino del soldato il minore poteva scorgere un filo di pura e riservata, innocente curiosità. Changbin immaginò che, anche per una guardia del suo calibro, fosse raro avere l’onore di incontrare una divinità terrena. La sfera del potere civile restava sempre ben separata da quella spirituale, se i soldati giocavano a prepararsi alla guerra sfoggiando le loro targhette platinate, i Filosofi come lui si destreggiavano nelle arti dell’anima, nello studio e, per chi lo desiderava, nella preghiera. Nonostante ciò, nemmeno Changbin avrebbe mai sperato di incontrare dal vivo l’essere grazie al quale da un secolo a quella parte la loro Nazione continuava a risplendere.
Dopo interminabili minuti di imbarazzante attesa (la figura di Chan che, chiuso nel suo spesso mantello nonostante fosse pieno agosto, continuava a camminare in circolo scandendo il tempo con il logorante ritmo di un eterno passo di marcia intimoriva vagamente Changbin) un grido acuto si levò in uno dei corridoi o delle stanze adiacenti: “E va bene, e va bene, sto andando! Ma la prossima volta vi occupate voi delle mucche scomparse del contadino Kim! La prossima volta le fate voi le udienze! E poi i due che mi aspettano mi stanno solo portando a morire, avrò ben diritto di prendermela con comodo!”
Una furia bionda spalancò la porta della stanza in cui, almeno da un’ora, il soldato ed il novizio aspettavano, facendola poco garbatamente sbattere contro il delicatissimo muro rivestito di fine carta da parati. Chan e Changbin si voltarono all’unisono verso il ragazzetto smilzo che si era teatralmente palesato al loro cospetto, rimanendo entrambi letteralmente estasiati quando, con passetti dolci e andatura sofficemente dinoccolata – al novizio parve che stesse saltellando su una nuvola – iniziò a venire verso di loro e sfoggiò un gigantesco, luminosissimo, sorriso: “Ciao, voi dovete essere Seo Changbin e Bang Chan! Scusate se vi ho fatti aspettare, ma ultimamente sto aiutando il re con le udienze e c’era questo contadino che continuava a raccontarmi delle mucche che ha perso al pascolo, io ho cercato di spiegargli che non potevo farci nulla e che probabilmente le hanno divorate i lupi, ma lui non voleva sentire ragioni e allora ci ho messo veramente un sacco ad ascoltare tutti gli altri dopo di lui, e quando ho finito mi ero già completamente scordato di voi, perdonatemi! Mi perdonate, vero? Quanto avete aspettato? Ma ve l’hanno portato il the con i biscottini per fare merenda, vi hanno lasciato fare il bagno?! Santo cielo, perché vi hanno accolti così male, è ovvio che non abbiano avuto la decenza di offrirvi nemmeno un grissino! Guardate quanto siete sciupati, sembra che non mangiate da una settimana, chiederò di anticipare la cena stasera! Dovete rifocillarvi prima che partiamo. Tra l’altro, domattina all’alba giusto? E posso provvedere a qualcosa?”
Ecco, sia Chan che Changbin che il nuovo arrivato percepirono quello sconclusionato discorso in tre modi completamente diversi. Mentre blaterava, il povero piccolo biondo continuava a ripetersi di tacere e di concludere quella tortura con un semplicissimo: “Io comunque sono Felix, la Fonte della Felicità!”, ma ormai, completamente nel panico, non riusciva a tenere a freno la lingua. Erano anni che due ragazzi della sua età – o, almeno, della sua apparente età ­– non venivano a palazzo apposta per trascorrere un po’ di tempo con lui, men che meno per intraprendere insieme un viaggio di due settimane e non stava più nella pelle. Poco importava che il tutto si sarebbe concluso con la sua morte, dopotutto aveva già vissuto la bellezza di centovent’anni, gli pareva abbastanza per il suo secco corpicino privo di forme. Voleva fare amicizia, ma perse le speranze appena scorse le espressioni allibite dei due di fronte a lui, come se stesse vomitando un mare di scemenze.
‘Felix, avanti, sei in grado di non fare la figura dell’idiota per una buon volta?’ si domandò il ragazzo, chiudendosi lentamente in un imbarazzatissimo sorriso di circostanza dopo aver chiesto al soldato e al novizio se avessero bisogno di incipriarsi il naso.
Preoccupazioni totalmente vane, comunque. Chan stava squadrando la Fonte della Felicità con occhi talmente spalancati che Changbin, accanto a lui, pensava che stesse per collassare a terra in preda ad un attacco di cuore. Il soldato si era totalmente perso al primo rapidissimo ‘Scusate’ che Felix, nella sua gorgogliante raffica di parole mezze mangiucchiate per l’ansia di aver fatto un’ora di ritardo, aveva masticato in mezzo a qualche astrusamente sibillino ragionamento a proposito, forse, di contadini scomparsi e lupi che pretendevano di ricevere the e biscotti a merenda. Piuttosto che ascoltarlo cincischiare, si prese i cinque minuti successivi per mettere in ordine i pensieri che affollavano la sua testa e scrutare il modo impacciato in cui l’altro si muoveva tentando a tutti i costi di giustificarsi.
Si sentiva arrabbiato e preso in giro da quella figurina dall’aria spaesata per l’imperdonabile ritardo? Certo che sì.
Lo sarebbe rimasto ancora a lungo? Decisamente no.
In qualche modo l’aspetto della Felicità lo rassicurava, da quando gli era stata assegnata l’ingrata missione di ucciderla non aveva fatto altro che riflettere sul viso con cui avrebbe dovuto condividere quel viaggio. Si vedeva già, il mattino seguente, chiudere la fila e seguire i capelli d’oro del giovane. Avevano un colore particolare, a Chan faceva venire in mente quello del pane appena sfornato, completamente diverso dall’orribile giallo smorto che adornava in tutto il suo tremendo trionfo il suo capo riccioluto. In qualsiasi caso, il solo timido sorriso di Felix per il soldato bastava e avanzava per decidere che avrebbe provato a rendergli la via per il patibolo decisamente più dolce di quanto aveva inizialmente intenzione di fare (sempre che Changbin non si mettesse in mezzo).
Il novizio, intanto, stava cercando di contare tutte le lentiggini che figuravano sul viso della Felicità. Trenta? Quaranta? Come avrebbe fatto ad esserne sicuro se il ragazzo continuava a gesticolare come un forsennato? Mucche e contadini non gli interessavano, aveva solo voglia di mettere qualcosa sotto i denti – quella mattina aveva saltato la colazione per poter cedere qualche galletta a Miss Binnie – ma prima doveva fare i conti con quell’inaspettato dilemma. Non aveva mai visto lentiggini sul viso di nessuno dalle sue parti fino a quel momento e, istintivamente, appena Felix si era precipitato nella saletta di attesa, si era domandato se ci fosse una qualche legge matematica a regolarne la comparsa sulla pelle. In quel momento propendeva per una soluzione di tipo aureo, la stessa che dettava il numero dei petali dei fiori, ma chissà che i valori esponenziali non potessero aiutarlo a svelare l’arcano.
Fu proprio Changbin, comunque, a togliere Felix d’impiccio e a rispondere prontamente alla sua ultima domanda, solo per mostrarsi attento e non essere immediatamente beccato a vaneggiare di fronte all’essere più potente della terra: “Sì, grazie, dov’è il bagno? La sto tenendo da stamattina, a pranzo non ci siamo fermati.”
Pensò di meritarsi il coppino che Chan gli mollò sulla nuca subito dopo, ma era un prezzo equo per assistere alla risata in cui Felix esplose subito dopo averlo sentito parlare.

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Capitolo 3
*** terzo ***


Come concordato, Chan, Changbin e Felix partirono all’alba del giorno seguente. Il primo si era svegliato in piena notte per completare i preparativi, racimolare le ultime provviste e controllare per l’ennesima volta di non aver abbandonato nulla nella stanza in cui lui e il novizio si erano sistemati, ma nonostante ciò pareva fresco ed attivo come se durante la notte non avesse fatto altro che dormire. Changbin era abituato a svegliarsi presto, ma combatteva strenuamente contro l’abbiocco che la pesante colazione offerta a palazzo sotto preciso ordine di Felix gli stava procurando. L’amorevole calduccio che emanava la corazza di Miss Binnie, poi, non contribuiva di certo a tenerlo sveglio e presente. Era lui che apriva il sentiero, ma Chan dovette più volte riprenderlo affinché non sbagliassero strada. Felix, che cavalcava al centro, semplicemente aveva rinunciato a tenere gli occhi aperti e dormiva beatamente – ovviamente dopo aver garbatamente chiesto allo stallone bianco di tenerlo in equilibrio in groppa – con le braccia aggrappate al collo della cavalcatura.
Chan non poté non rimanerci vagamente deluso. Stava scortando una sorta di divinità della natura e questa… dormiva? Avrebbe sempre dormito durante quel viaggio? Si domandò che cosa avrebbe raccontato ai suoi nipoti quando lo avrebbero implorato di narrare loro le sue grandi gesta di gioventù, dicendo la verità ed ammettendo che Felix aveva avuto – forse – intenzione di trascorrere tutto il viaggio dormicchiando di sicuro lo avrebbero preso in giro.
Solo diverse ore più tardi, quando il sole picchiava dritto sulle loro teste, il soldato vide la schiena di Felix rizzarsi lentamente e le mani del piccolo dio posarsi sui fianchi per sgranchire i muscoli doloranti. Osservò con cura fin troppo meticolosa per lui le braccia del ragazzino (aveva centovent’anni, ma l’aspetto era tale, quindi poteva dargli quel soprannome?) levarsi poi leggiadre verso l’alto per stiracchiarsi, seguite da alcuni rochi lamenti di approvazione ed un greve sbadiglio.
“Scusatemi, sono sveglio…” borbottò Felix cercando di sistemarsi il ciuffo sbarazzino che gli adornava il capo “Mi dispiace non essere troppo di compagnia, ho fatto le ore piccole parlando con qualche lucciola stanotte…”
Chan intervenne subito con tono gentile e misurato: “Non ti preoccupare, abbiamo tutto il tempo per conoscerci meglio, tra un’ora faremo sosta per mangiare e…-”
Una risata proveniente dalla testa del gruppetto interruppe le parole di Chan: “Ohibò! Quindi l’intrepido messer Lancillotto rifiuta brutalmente l’amicizia di un misero filosofetto, ma cerca di entrare nelle grazie della Fonte della Felicità! Chan, sappi che questo è opportunismo e io mi sento tradito!”
Chan roteò gli occhi e sbuffò sonoramente: “Changbin, non stavo parlando con te, torna ad amoreggiare con il tuo ragnetto.”
“È una ragnetta, prego. Guarda che Miss Binnie su queste cose è molto suscettibile!” intonò Changbin con voce solenne mentre faceva i grattini sul capo alla Tarantola.
Felix ridacchiò sonnacchiosamente allo scambio di battute dei due, per poi ammettere rivolto al novizio: “Miss Binnie è un esemplare davvero maestoso, è raro che le femmine diventino così grandi… L’hai cresciuta tu?”
“No, a dire il vero mi è capitato di evocarla mentre mi esercitavo con gli incantesimi di dislocazione nella Casa da cui provengo.”
“Oh certo, come se non lo avessi fatto apposta!” questa volta fu il turno del soldato di interrompere Changbin “Felix, sappi che il nostro caro Filosofo in erba è una gran zucca vuota e si diverte a prendere di mira gli altri novizi indifesi. La Tarantola l’ha evocata per-”
“Per vendicarmi di quegli incapaci dei miei confratelli che continuavano a rovinarmi le pozioni mentre bollivano! Felix, non crederai davvero a quello che dice il soldatino di latta?!”
“Beh, per il bene del mio rito funebre spero proprio che tu non sia come dice Chan!”
Changbin venne colpito dalla leggerezza con cui la Felicità accennò alla sua morte. Non osò chiedere nulla al ragazzo dietro di lui, ma si domandò quanto davvero quest’ultimo fosse tranquillo o meno riguardo l’argomento. A sentirlo chiacchierare sembrava quasi che si aspettasse di essere accompagnato a fare una scampagnata tra amici, forse non aveva capito che, per morire, avrebbe dovuto gettarsi come sacrificio umano in un vulcano attivo. Meglio così, trascorrere due settimane con una Fonte della Felicità giù di morale sarebbe stato probabilmente snervante e controproducente.
Chan si fece avanti subito dopo, esclamando con lo stesso tono compiacente con cui si parla ai parenti di un moribondo: “Ya, potremmo non pensare a queste cose? Tanto mancano ancora due settimane!”
“Guarda che non sono dispiaciuto che mi portiate a morire.” anche se era di nuovo girato di schiena, Changbin poteva letteralmente avvertire il tepore del furbo arco in cui le labbra di Felix si erano incurvate mentre rispondeva, forse anche consapevolmente, alla sua domanda “Mi siete simpatici, lo sento che siete brave persone. E, beh, intendo che lo sento davvero, me lo dice il mio istinto. Non mi dispiacerà passare i miei ultimi giorni con voi. E poi ho la bellezza di centoventi anni! Ne ho avuto fin troppo di tempo per elaborare questo momento!”
Felix fece un gesto vago con una mano e liquidò con un’inaspettata nonchalance il discorso, cambiando poi totalmente argomento: “Tra l’altro, volete sapere di che parlavo ieri notte con le lucciole? È una storia davvero strana, non pensavo che le lucciole fossero così tanto chiacchierone!”
‘Logorroico’ venne spontaneo pensare a Changbin appena l’altro si lanciò in una tanto dettagliata quanto poco avvincente cronaca rosa sugli affaires d’amour dei piccoli insetti notturni ‘Simpatico, alla mano, ma terribilmente logorroico’.
Talmente logorroico che non riusciva a spiegarsi perché, invece, Chan stesse palesemente pendendo dalle sue labbra. Probabilmente, come lui aveva un debole per le Tarantole magmatiche dell’Est, anche il soldato nascondeva un’inverosimile passione per le lucciole. I vaneggiamenti del ragazzo, comunque, proseguirono fino all’ora di pranzo ed anche oltre, tanto che Changbin finì per rimpiangere la mezza giornata di spesso silenzio imbarazzato che aveva trascorso con Chan arrivando alla Capitale. Era da quando si era svegliato che continuava a mitragliarli di raffiche di parole e discorsi sconnessi, tanto che il novizio finì per sdraiarsi incurante sulla corazza della Tarantola ed ascoltare assorto il ritmico suono del magma che ribolliva all’interno di essa. Era il cuore di Miss Binnie, non appena avrebbe smesso di gorgogliare la sua amica se ne sarebbe andata. Si diceva che le Tarantole della sua specie, una volta morte, si tramutassero a lungo andare in roccia lavica, la stessa roccia di cui i figli ed i nipoti usufruivano per costruire solidi nidi.
“Changbin? Changbin!”
Il novizio si sentì chiamare ed immediatamente si tirò nuovamente su a sedere, per poi voltarsi verso gli altri due: “Mh?”
Chan sollevò un sopracciglio, ma la sua espressione era meno stupita di quanto volesse far credere: “Changbin, ci stavi ascoltando?”
“No, stavo dando qualche attenzione a Miss Binnie, ti dispiace? Vuoi che ne dia anche un po’ a te, Chan?” replicò ridacchiando Changbin, per poi aggiungere non appena il viso del soldato si piegò in una smorfia contrariata “Ma lo sai che scherzo, perché devi sempre essere così permaloso?!”
“Stavamo solo parlando dei viaggi che mi fanno fare periodicamente per benedire le città. Purtroppo l’ultimo non è stata proprio una gita di piacere, ecco… Dicevo a Chan che sono andato al Nord per visitare quel paesino vicino a cui hanno trovato quel plotone di soldati massacrati dai lupi.” cercò di mediare immediatamente Felix.
Changbin si illuminò immediatamente alla notizia, ricordando perfettamente i particolari della tragedia: “Oh sì, mi ricordo… Quando è successo, tre settimane fa? Chissà quanti lupi erano per ridurre in quel modo dodici uomini armati…”
Scosse il capo, per poi continuare: “Non è che puoi fare uno scongiuro contro i lupi anche per noi, Felix? Io non ho problemi, ma Miss Binnie… Beh, tende ad agitarsi un po’ quando ne vede uno in giro.”
“Mi spiace, non sono proprio esperto di incantesimi e formule magiche,” Felix si strinse nelle spalle “il mio potere funziona per emanazione, per usarlo basta volerlo e si diffonde nella misura giusta tutto intorno a me. È come se io stesso fossi la benedizione, era semplicemente questo l’intento di mio padre, il dio Sole, e di mia madre, la Luna, quando decisero di stipulare il patto con gli uomini nella notte dei tempi per aiutarli nella loro vita terrena.”
“Parli del grande mito, vero? Quello secondo cui il Sole, la Luna e tutti gli uomini erano fratelli e sorelle” mormorò Chan, decisamente più insicuro su quel terreno. Miti, fiabe, canti e liriche non erano il suo pane quotidiano.
“Sì, Chan” gli sorrise cordialmente l’altro ragazzo, gli occhi color nocciola che, improvvisamente, fremevano e luccicavano d’eccitazione “Il Sole, la Luna e gli uomini erano tutti figli del Cielo, il dio che vegliava placidamente sul nostro mondo. Il Cielo regolava le costanti dispute tra terre e mari, tra pesci ed uccelli, tra mammiferi, rettili ed anfibi, tra ninfe, driadi e naiadi, fate ed elfi, diretti discendenti delle classi animali. Un giorno uno dei figli del Cielo scese sulla Terra, ne raccolse i frutti e li portò ai fratelli e alle sorelle, che li spartirono tra tutti e ne bevvero il succo. Inizialmente il sapore dolce e rozzo del frutto non riscontrava i gusti raffinati degli uomini, ma ben presto, avidi di tastare e di vantarsi di aver colto la rara prelibatezza, cominciarono a cibarsene regolarmente. Il loro organismo si adattò alle condizioni di vita terrene, tanti, sempre di più, scelsero di non tornare più dal padre, abbandonandolo nella solitudine della notte. Solo la Luna ed il Sole restarono con lui, ma il Cielo non aveva dimenticato alcuno dei suoi figli. Era un padre mite e misericordioso, avrebbe perdonato presto il loro tradimento. Il Sole e la Luna, insieme a lui, ebbero pietà dei fratelli e delle sorelle e scelsero, a turno, uno di giorno e l’altra durante la notte, di vegliare su di loro. Ma dall’alto del Cielo non riuscivano a proteggere coloro che amavano, si unirono così in matrimonio e generarono la Felicità, benedizione che, sotto forma di uomo o donna, avrebbe permesso alla nuova specie di uomini di nascere in un mondo pacifico in cui i loro figli non avrebbero conosciuto avarizia o invidia. Gli uomini che la accolsero appena giunta sulla terra furono i primi Filosofi.”
Changbin conosceva a memoria quella leggenda, ma dovette ammettere che riascoltarla immerso nella natura, mentre il dolce passo di Miss Binnie lo cullava su per il sentiero tortuoso, narrata dalla voce della Felicità stessa faceva tutto un altro effetto rispetto a leggerla sul sussidiario di Storia commentata da un Filosofo qualsiasi responsabile della formazione iniziale delle matricole. Il timbro della voce di Felix era basso e pastoso, si adattava bene alla sonnolenza del primo pomeriggio estivo, avvolgeva gli ascoltatori con un particolare, delicatissimo, impatto. Chan soprattutto, non abituato a quel genere di racconti, ne rimase colpito. Fissava Felix con un certo timore ed un profondo rispetto, come se avesse realizzato solo in quel momento che il ragazzo aveva fino a quell’istante parlato niente meno che della sua stessa vita. Il Sole era suo padre, la Luna era sua madre e per lui non era un semplice mito, ma la pura, folle, realtà.
“Non guardatemi così, avanti!” Felix aveva sbirciato avanti verso Changbin, per poi voltarsi indietro a guardare Chan, e aveva sbuffato notando un’espressione persa ed assorta nei loro occhi, sintomo, in verità, di quanto fosse riuscito a colpirli “Lo so che non sono bravo a raccontare le storie, ma stavolta pensavo di essere andato almeno benino… Giuro che mi sono impegnato!”
Non lasciò loro nemmeno il tempo di replicare che riprese a parlare: “Avevo un cugino che sapeva raccontare le migliori storie dei miei tempi! Tenzoni di guerra e guerre per amore soprattutto, ma la mia preferita, chissà perché, era proprio il mito della Nazione… Come lo recitava Jisung non era in grado di farlo nessun altro. Sapete… sapete quando ci sono tutti gli accenti al loro posto? Quando l’intonazione è quella giusta e si riesce a creare l’atmosfera perfetta? Avrei tanto voluto avere anche io questo dono naturale che aveva Jisung per il canto, l’interpretazione, per la musica…”
Il pomeriggio trascorse tranquillo, Chan e Changbin, mollemente coccolati dall’interminabile chiacchiericcio del piccolo dio, si ritrovarono improvvisamente, senza quasi accorgersene, al villaggio in cui il primo aveva intenzione di trascorrere la notte. Cenarono fuori dalle basse mura di cinta, entrando solo a sera inoltrata per non dare troppo nell’occhio, prendendosi il tempo per suggerire qualche nascondiglio a Miss Binnie, che non sarebbe entrata in città con loro. Una volta dentro si sistemarono in una locanda, con l’intenzione di ripartire subito il mattino successivo.
“Partiamo di nuovo all’alba?” domandò Felix a Chan.
“Sì, se riusciamo anche leggermente prima visto che dobbiamo tornare indietro a recuperare la Tarantola.”
Sia Chan che Changbin poterono giurare di aver scorto il terzo ragazzo raggiungere mesto mesto il terrazzo della camera che avevano pagato per la notte, prima che si mettesse a letto, e guardare dispiaciuto, con tanto di broncio appena accennato, un paio di lucciole che volteggiavano in aria con fare stizzito.

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Capitolo 4
*** quarto ***


La sera precedente aveva rinunciato alla sua quotidiana sessione di pettegolezzi con le lucciole del posto – in cento anni aveva capito che erano animaletti veramente maliziosi a volte – per non dover di nuovo dormire a cavallo, eppure il risveglio di Felix non fu dei migliori nemmeno quella mattina. Changbin, con una certa, poco apprezzata, rudezza, lo aveva letteralmente scaraventato giù dal letto senza alcuna spiegazione e lui, allora, si era tirato su e si era di nuovo infilato brontolando sotto le coperte per ripicca, tirandosele fin sopra i capelli.
Nel mentre, il novizio stava rocambolescamente tentando di evitare le manate che un tanto irascibile quanto assonnato Chan cercava di rifilargli borbottando con evidente stizza dei rochi: “Ma che fai, Changbin?! Non è ancora ora di partire, lasciaci riposare!”
“Chan, non fare l’idiota e ascoltami.”
Changbin trasudava urgenza da tutti i pori, snocciolava esortazioni con tono frettoloso, mezzo mangiucchiando le parole, e alla fine non ci vollero più di un paio di minuti prima che il soldato captasse tutta l’impellenza dell’altro ragazzo.
Abbassò anch’egli la voce e, con una certa freddezza, preparandosi al peggio, si fece avanti: “Che cos’è successo, Changbin?”
Il novizio si prese un istante per respirare, per poi sputare fuori in un sol sospiro: “Durante il mio turno di veglia ho sentito il proprietario che parlava con qualcuno di sotto, diceva che hanno trovato tre soldati morti appena fuori dalle mura del villaggio, dove inizia la boscaglia. Tutti e tre sbranati da un branco di lupi, esattamente come quelli di cui parlavate ieri tu e Felix.”
Al sentirsi nominare, il piccolo dio, con un lieve sbuffo di disapprovazione, fece lentamente calare le lenzuola giù dal viso e sbirciò i due che, in piedi uno di fronte all’altro, discutevano sul da farsi.
“Ho paura per Miss Binnie, Chan. E se la trovassero? Dobbiamo prepararci e ripartire immediatamente, se la vedono potrebbero pensare che sia stata lei a fare a brandelli i soldati, e se scoprono che è la mia Tarantola siamo fregati!”
“Prima di fasciarci la testa, per caso hai sentito se sapevano in che punto preciso hanno trovato i corpi?” Chan teneva lo sguardo incatenato a quello di Changbin, provando a tranquillizzarlo “Magari erano lontani dal ragno, e poi l’hai detto tu che è un animale intelligente. Se si accorgesse che le stanno troppo addosso proverebbe a nascondersi. Però, Changbin, capisci che non possiamo semplicemente scappare via correndo o penseranno di sicuro che abbiamo qualcosa a che fare con l’accaduto.”
Chan attese che Changbin, benché con un certo timore recondito a scuotergli le ossa, annuisse, per poi concludere: “Attenderemo l’alba come concordato, scenderemo senza fretta per la colazione e ci comporteremo come se non ne sapessimo nulla. Esattamente come avevamo deciso.”
Il soldato diede una pacca sulla spalla al novizio per tentare di tirarlo su di morale. Non gli stava simpatico e avevano trascorso gli ultimi tre giorni a punzecchiarsi a vicenda, ma aveva bisogno che collaborasse e che non si facesse prendere dal panico. Si avvicinò poi al giaciglio di Felix e lo scollò gentilmente per una spalla: “Felix, ho visto che eri sveglio. Hai sentito?”
Felix si stropicciò un occhio e si sforzò di rivolgergli un poco energico segno d’assenso.
“Tu dormi ancora mezz’ora, ti svegliamo per colazione”
Il piccolo dio si voltò allora dall’altro lato e, in men che non si dicesse, tornò a dormire tranquillo.
Nella mezz’ora che seguì Chan e Changbin si preoccuparono di preparare i bagagli e di discutere del piano di fuga, studiandolo in modo da dare il meno possibile nell’occhio. Il soldato era abbastanza fiducioso: “Questo villaggio è una sorta di crocevia, sia i mercanti che vogliono andare a Nord che quelli diretti ad Est devono per forza passare di qui, quindi non credo sia anormale vedere tre sconosciuti lasciare la città appena dopo l’alba.”
Changbin si preoccupò poi di mettere in piedi Felix – questa volta con un po’ più di riguardo – e si diressero al piano sottostante per la colazione ed il saldo del conto. Non ci volle molto prima che qualche passante occasionale chiedesse loro se fossero già venuti a conoscenza della tremenda notizia.
“Ci sono i corpi in piazza.”
“Il sacerdote ha detto di lasciarli lì, sta venendo a benedirli.”
“È uno spettacolo raccapricciante.”
“Ci sono dei bambini che guardano, dannazione, pensate ai bambini e toglieteli di mezzo!”
Mugolii disperati si accavallavano a brontolii indignati, a preghiere sussurrate, a rotti sospiri carichi di violenta collera. Felix si guardò intorno spaesato, era agosto ed aveva freddo. Quel clima emotivo lo disturbava, essendo la reincarnazione della Felicità il solo pensiero di doversene andare in fretta e furia senza poter aiutare quella gente – che era anche la sua gente – lo atterriva. Quando venne il momento di pagare lasciò due monete d’argento in più alla moglie del proprietario, ringraziandola per l’ospitalità nonostante il gran trambusto della mattinata.
Changbin aveva fretta di uscire dalla cittadina, tentava a tutti i costi di stare calmo, ma la sua irruenza in quel frangente non si stava rivelando un vero pregio. Se Chan non lo avesse obbligato a stare al suo passo avrebbe finito per correre semplicemente via. Inoltre, per uscire dalla città con il percorso più breve, avrebbero dovuto attraversare la pizza principale, quella in cui erano esposti i cadaveri sbrindellati, o ciò che ne rimaneva, dei tre soldati morti, ed il novizio non era entusiasta di godersi una scena tanto atroce. Non gli era mai piaciuto il sangue, si impressionava facilmente di fronte a scene del genere e avrebbe di gran lunga preferito tagliare dritto senza soffermarsi in alcun modo sul posto. Felix, a quanto pareva, roso dai sensi di colpa, non era della stessa idea. Non appena furono sulla piazzetta non poterono non notare il folto capannello di gente raccolto attorno ai cadaveri massacrati. Molti mormoravano, si chiedevano dove fosse il sacerdote che aveva promesso di somministrare ai corpi l’estrema unzione, ormai la puzza di marcio della carne in decomposizione iniziava ad essere insopportabile, talmente acre che anche il piccolo dio, inizialmente, non distinse, in mezzo ai sussurri sconvolti del pubblico pettegolo, l’acre, aguzzo, pianto di alcuni. Quando il primo gemito sommesso giunse alle sue orecchie si voltò di scatto, mollò frettolosamente a Changbin le briglie del cavallo che stava scortando a piedi e, con uno scatto ferino, si fece largo tra la folla prima che Chan potesse riacciuffarlo. Seguì il sentore delle lacrime salate, più pungente del putrido, e si trovò di fronte alla schiena curva di una donna, china a terra su uno dei corpi mentre un uomo teneva le mani sulle sue spalle e le domandava, con voce rotta, di mettersi in piedi e di allontanarsi. Aggrappato ai pantaloni dell’uomo, un bambino di pochi anni fissava il corpo esanime con occhi sgranati. Fu più forte di lui, corse verso la famigliola in lutto e si inginocchiò di fronte alla donna: “Signora… signora, per favore, si alzi!”
Le prese il viso tra le mani, ma non fece in tempo a dire altro che il marito lo spinse improvvisamente indietro con un minaccioso: “Non toccare mia moglie!”
L’uomo gli intimò di non avvicinarsi: “Chi diavolo sei? Che cosa vuoi da noi?! Lasciaci piangere in pace la morte di nostro figlio!”
Felix guardò l’uomo sconvolto e immediatamente si disse dispiaciuto, provando a spiegare che non aveva alcuna malevola intenzione. Provò di nuovo a farsi avanti, ma Changbin, che nel mentre lo aveva faticosamente raggiunto, lo trattenne per una spalla e gli intimò di andare, ma il piccolo dio scosse il capo e si liberò dalla sua stretta, per poi annunciare con immane decisione: “Sono un sacerdote. Voglio dare degna sepoltura a queste persone.”
L’espressione sul volto dell’uomo cambiò, fece un breve inchino e domandò perdono, ma Felix fece segno di dissenso e lo abbracciò senza aggiungere altro. Si prese un paio di minuti per rimettere, senza alcun ribrezzo, i cadaveri in ordine. A mani nude lavò con l’acqua della sua borraccia i visi martoriati dei morti e su ognuno dei loro petti cosparse un pugnetto di terra. Si rivolse alla famiglia con occhi colmi di empatico dolore e mormorò in un singulto un tenero “Mi dispiace…” per poi aggiungere: “Avevate ragione, sedetevi pure accanto a lui. Sono sicuro che ne sarebbe felice.”
E mentre le insinuazioni della gente lì intorno – “Ma non è troppo giovane per essere un sacerdote?” “Forse è un apprendista, ma gli apprendisti di solito non sono legati ai loro Maestri?” – si mischiavano alle grida sorde di un Changbin letteralmente fuori di sé – “Felix, dannazione, che cosa hai intenzione di fare?!” – Felix si alzò in piedi e si mise di fronte alle tre salme. Posò con movimenti misurati le scarpe e rimase a piedi nudi, la pelle delle piante solleticata dalla tiepida carezza del lastricato e dei fili d’erba che, coraggiosi, sbucavano tra una placca e l’altra. Sgranchì con dolcezza le dita e chiuse gli occhi: “Voglio recitare una preghiera… Come si chiamavano i soldati?”
“Non sappiamo i nomi degli altri due, appartenevano alla divisione delle guardie reali, ma mio figlio si chiamava Hajoon” rispose la donna tra le lacrime, cercando, di fronte al piccolo dio, di darsi un contegno.
“Allora pregherò per Hajoon e per i suoi compagni caduti.”
Felix sorrise con pura tenerezza, raccolse le mani al petto e sussurrò tra sé qualche parola incomprensibile, in una lingua vecchia come la terra che lo aveva accolto appena cento anni prima. Sollevò una mano, la fece passare tra i capelli per pettinare il ciuffo biondo, tornò a concentrarsi e, per un minuto, la cerimonia sembrò procedere normalmente. Coloro che assistevano sembravano piano piano aver placato gli animi inquieti, per poi tornare a mormorare sottovoce non appena Felix si sedette a terra a gambe incrociate, cominciando a recitare una lenta poesia.
 
“Prego perché la terra custodisca
Le vostre membra d’argento
La vostra pelle di carta
I vostri denti di corteccia
I vostri muscoli ferrei
Le vostre ossa di argilla”
 
Changbin, che fino a quel momento aveva cercato di distogliere Felix dal pasticcio in cui si era infilato mentre provava a non farsi prendere dal disgusto alla vista della carne maciullata esposta di fronte al piccolo dio, si ritrovò invece immerso in una bolla di improvvisa serenità. Ascoltava attento le parole del ragazzo; non era una preghiera conosciuta, non si sarebbe stupito se l’altro, dopo, avesse ammesso di averla composta sul momento, e si ritrovò allora a zittire tutti coloro che, accanto a lui, ancora protestavano per l’arrivo del giovane ‘sacerdote’.
 
“Prego perché la terra accetti
I vostri occhi acquei
Le labbra di zucchero
Il cuore pesante di coraggio, d’oro zecchino”
 
Felix allungò una delle braccia verso il capo di Hajoon e gli accarezzò i capelli impiastricciati di sangue rappreso.
 
“Prego perché la terra vi accolga
Fratelli di mio Padre
Fratelli di mia Madre
Non perirete
Sarete alberi
Sarete oceano
Sarete brezza
E sarete voi nel ricordo dei vostri cari
Vivi per sempre”
 
Felix poggiò la mano sul capo degli altri due soldati, e la terra si sgretolò sotto di loro. Le lastre di pietra, passaggio sicuro per i carri e le carrozze, tremolarono e si disintegrarono sotto gli occhi esterrefatti del popolo raccolto. Fini gemme esplosero in aria e si liquefecero in un soave turbine di dolce nettare e limpida acqua, linfa vitale danzava finemente come benefica pioggerellina sulla terra arida, che rabbrividiva, avida e fremente, sotto la soffice frescura della Benedizione della Felicità. I sassolini, la sabbia, il terriccio facevano le fusa ai piedi di Felix, giocherellavano a solleticarne le candide piante, le fragili caviglie, non abituate ai lunghi viaggi. I fili d’erba, i fiori che esplodevano intorno a lui crebbero fin sulle ginocchia, si contendevano il privilegio di accarezzarlo, di stringerlo il più forte possibile, volevano che il piccolo dio fosse uno di loro. Felix ascoltò la loro richiesta e sorrise, domandò al Padre dentro di sé di farlo crescere come fiore ed il Padre, commosso, lo investì con la sua luce e lo fece sbocciare. Ecco che anche lui, come la terra, assorbiva la vita più pura e si chiudeva in un turgido, piccolissimo seme. Godette del calore della Terra, si fece coccolare, in un batter d’occhio fu di nuovo fuori sotto gli occhi vigili del Sole. Pregò, lo ringraziò, si inchinò a lui mentre cresceva a dismisura e la pelle si ispessiva fino a tramutarsi in tenera corteccia di umile ciliegio. Rise al cielo, ma non osò ridere troppo, non osò trattenersi eccessivamente con chi non aveva davvero bisogno di lui, ed ecco che si sentiva già vecchio, ecco che le sue interiora marcivano in putrido malsano nerume. Si contorse, si tenne lo stomaco e vomitò se stesso fino a svenire, fino a quando non vide se stesso fuori se stesso e non poté non salutarlo. Lo prese tra le mani, era un minuscolo, gracile, ma tenace se stesso e gli sarebbe piaciuto poterlo custodire ancora un po’ dentro di sé. Ma il suo potere era per le persone, che cosa mai avrebbe potuto farsene la gente di una Fonte della Felicità che negava il proprio potere agli uomini? Era uomo per gli uomini, era Felicità per gli dei, era sorgente di vita per entrambi. Il seme che teneva in mano brillava di pura, innocente, pulsante vita. Allungò le mani sui tre corpi martoriati ed appoggiò il seme sul petto di quello centrale, nel medesimo punto in cui aveva lasciato cadere la sabbia poco prima.
 
Vivi per sempre.
 
La carne morta si riscosse, il piccolo dio impose le mani su di essa e chiese ai fiori di allentare la presa. Li condusse fino ai cadaveri, domandò loro di prendersi cura dei valorosi soldati morti per mano della natura, e se la natura aveva commesso il misfatto la natura avrebbe compensato la loro scomparsa. Simboli, immagini, chissà che cosa le persone stavano pensando ora di lui; Felix quasi non le sentiva, tesseva la bara dei guerrieri con la precisione del ragno e la dolcezza della farfalla. Se solo avesse appena appena sollevato il piccolo mento impertinente non avrebbe mancato di assistere alle lacrime di un Changbin immobile, scosso dall’emozione.
In poco tempo, o almeno così fu per Felix, delle tre salme non rimase che una lieve collina su cui cresceva a vista d’occhio un fresco ciliegio. L’acqua ne rimpolpò le radici, il nettare si adagiò sulle piccole foglie novelle per nutrirle e farle ingrassare finché l’albero non smise di maturare. Rigido nel suo tronco, Felix appoggiò una mano su di esso e riconobbe il fragile se stesso che aveva donato agli uomini.
 
“Vivi per sempre.”
 
Terminò la preghiera in un sospirò e tornò a vedere il mondo con gli occhi dell’uomo, si guardò intorno e si commosse nel notare che tutti coloro che avevano assistito alla preghiera erano in lacrime, chi singhiozzava sommessamente, chi lasciava semplicemente che le lacrime colassero, chi a stento tratteneva i singulti. Avrebbe voluto correre da loro, liberare il loro cuore dall’emozione e dalla paura, ma non aveva ancora finito. Raggiunse la famiglia del soldato caduto e con braccia tremanti prese in braccio il bambino, gli baciò il capo e lo fece addormentare, poi lo restituì alla madre con un delicato sussurro: “Quando si sveglierà non ricorderà di aver visto il corpo del fratello. Saprà che non c’è più, saprà di avermi visto e saprà com’è morto, non dovrete spiegargli nulla.”
Fece un cenno al maestoso ciliegio che si era lasciato alle spalle: “È un regalo per voi, la benedizione di tutta la città, da parte della Felicità che si inchina di fronte a voi tutti e vi chiede perdono…”
Il ragazzo si inginocchiò di fronte alla famiglia e al popolo con la solennità di un re guerriero, e, così come il popolo fa con il suo re, venne allora acclamato. Il gruppo si gettò su di lui e Felix si ritrovò coperto di lodi e di ringraziamenti, le lacrime di cordoglio tramutate in pianti di indicibile gioia. Lo misero in piedi e, riconoscendolo infine, lo sollevarono sulle loro teste per inneggiare alla benedizione appena ricevuta.
 
Solo un paio di figure restarono in disparte, lontane dal clamore della folla che intonava con sacra gloria il solenne nome del dio. Changbin si sentiva svuotato, traballava sui piedi infermi, avvolto nella tunica purpurea dei Filosofi pareva un esile fuscello che il vento umido dell’Est avrebbe facilmente potuto trascinare via senza nemmeno accorgersene. Non se ne era reso conto subito, il soldato era rimasto molto più indietro rispetto a lui che aveva assistito al miracolo dalla prima fila, ma ai suoi piedi Chan, rannicchiato su se stesso, tentava a tutti i costi di smettere di versare fiotti di lacrime. Il novizio vegliò su di lui, gli si sedette accanto e, senza alcuna intonazione di giudizio nella voce, lo rassicurò: “Sono solo suggestioni, Chan… Solo suggestioni…”
 


Il capo della piccola cittadina invitò Felix a rimanere come ospite all’interno del borgo per un paio di giorni, in modo che il popolo potesse esprimere la gratitudine che provava nei suoi confronti offrendogli almeno un piccolo banchetto in suo onore, ed il piccolo dio non se lo fece ripetere. Ammise che il posto gli piaceva, si sarebbe fermato volentieri un giorno in più per gustare i saporiti manicaretti che le donne avevano intenzione di preparare per lui. Ridacchiando, confessò che non vedeva l’ora di poter nuovamente assaporare il piccante dei peperoncini che coltivavano in quei luoghi, gli stessi in cui avevano vissuto, decine di anni prima, anche l’uomo e la donna che lo avevano concepito.
E mentre il piccolo dio si divertiva ad esplorare i meandri del grande villaggio, Chan, nero di rabbia, ridefiniva con Changbin le modalità del loro viaggio.
“Perdiamo due giorni di marcia.” ricalcò, stizzito, la guardia.
“Già, ma siamo partiti due settimane in anticipo, no?” Changbin tentava di farlo ragionare e di mantenere la calma “Entro metà settembre Felix morirà, forse è giusto che si prenda un momento per sé. E… beh, restando qui sta solo tenendo fede al motivo per cui di fatto esiste, no?”
“Ciò non toglie che avrebbe dovuto consultare anche noi due prima di prendere una decisione tanto affrettata.”
La mattinata era stata un totale disastro. Changbin non aveva smesso di tremare fino all’ora di pranzo, Chan aveva continuato a piangere ininterrottamente ancora per un paio d’ore dopo la benedizione. Il novizio lo aveva rassicurato del fatto che fosse semplicemente un effetto collaterale, la tempesta emotiva a cui Felix li aveva sottoposti poche ore prima non era altro che la dimostrazione di quanto ancora fosse potente nonostante le sue facoltà sovrannaturali si stessero piano piano esaurendo. Spiegò al soldato che non tutti erano sensibili allo stesso modo ai poteri benefici del piccolo dio, Chan a quanto pare lo era parecchio, ma non necessariamente doveva essere un difetto od un impedimento, anzi, era fortunato ad essere in grado di sperimentare un tale livello di catarsi interiore. Changbin intendeva dire che il suo animo sarebbe semplicemente rimasto più puro degli altri, ma la guardia, palesemente infastidita dalla soffocante sensazione di fragile impotenza che lo stava segnando, non ne volle più sapere nulla. Sentiva la pulsante necessità di tenere le mani occupate, così si unì a coloro che stavano adibendo la piazza per il banchetto all’aperto che stavano organizzando in fretta e furia per il giorno seguente. Portò tavoli, spostò sedie, contribuì anche ad appendere variopinte ghirlande di fiori sugli edifici che si affacciavano sullo spiazzo, e solo quando, a fine giornata, lo ringraziarono e gli comunicarono che poteva tornare alla locanda a riposarsi si sentì più leggero.
Changbin, invece, non appena stette meglio, quatto quatto sgusciò via dalle mura della città e finalmente raggiunse Miss Binnie. Non aveva intenzione di trattenersi troppo dall’animale, voleva assicurarsi che stesse bene, che fosse riuscita a mangiare almeno qualcosa – il novizio sapeva fin troppo bene che boschi e foreste non corrispondevano in alcun modo all’habitat naturale di una Tarantola magmatica, ma sperava che, con un po’ di aiuto, Miss Binnie sarebbe riuscita a cavarsela ancora per un altro giorno – e, soprattutto, che il suo nascondiglio non fosse stato scoperto o violato. La sua Tarantola non avrebbe mai fatto del male ad una mosca, dopo anni trascorsi a contatto con gli umani aveva imparato quando e di chi fidarsi, e non rappresentava quindi una minaccia. Era Changbin quello che non si fidava mai di nessuno, per questo, spesso, al di fuori della Casa, preferiva tenerla nascosta. Sorrise commosso appena l’animale, avvertendo il suo odore, gli corse incontro e, acchiappatolo con i denti per la tunica, se lo portò in groppa ed iniziò a saltellare in circolo, dimostrandogli, allo stesso tempo, quanto gli fosse mancato e tutta la perplessità che aveva provato non vedendolo arrivare quella mattina. E alla fine Changbin non resistette e trascorse il pomeriggio a giocare con lei, finché, quando già il sole aveva iniziato a calare, vennero interrotti dal richiamo di una ruvida e graffiante voce che il novizio, ormai, conosceva bene.
“Ehi, ecco dove vi eravate cacciati! Stanno servendo la cena, sono venuto a dirtelo, Changbin!”
Felix camminava deciso, ancora a piedi scalzi da quella mattina, facendosi strada con la sicurezza di un re all’interno della fitta boscaglia. Il tono smeraldo scuro del fogliame, venne in mente a Changbin, metteva in risalto lo splendore dell’abbronzatura, l’oro caldo dei capelli e delle lentiggini. Pensò che forse l’effetto collaterale del rito di quella mattinata non era ancora del tutto svanito, si sentiva profondamente in soggezione, ora, di fronte al dio. Adesso che aveva assistito dal vero alla prorompente forza dei suoi poteri avrebbe dovuto forse inchinarsi, costruirgli un altare e venerarlo finché non lo avrebbe portato a morire? Appena lo aveva conosciuto lo aveva giudicato come un semplice principino viziato e, talvolta, infantile, ma in quel momento poteva avvertire su di sé il peso dei cent’anni di regno che Felix portava su di sé con valore e fiera vanità. Non era umano, se ne accorse sol quel momento, rapito dalle languide carezze con cui i fili d’erba lambivano le sue esili caviglie, dalle danze del venticello estivo che gli sollevava i leggeri vestiti e gli solleticava l’addome piatto, latteo, quasi bambinesco. Era un essere etereo, Changbin pensò, in trance, se avesse anche solamente osato sfiorarlo si sarebbe immediatamente dissolto in finissima polvere d’argento.
Si prese un momento per risistemarsi, scese dalla groppa di Miss Binnie e, dopo qualche secondo, si schiarì la voce, che, nonostante gli sforzi, risultò vagamente tremula: “Grazie, Felix. Saluto Miss Binnie e vengo subito in là con te.”
“Abbiamo ancora qualche minuto di tempo a dire il vero… Sono venuto un po’ prima perché volevo vedere anche io come stava Miss Binnie.” il tono di voce del dio si addolcì, Changbin sospirò di sollievo non appena quella spessa atmosfera impastata di reverenziale timore e vivace trepidazione si dissolse e vide in Felix il ragazzo che gli era stato affidato due giorni prima. Sorrise alla Tarantola e le fece cenno con il capo di andare verso il giovane, che ne accolse volentieri il muso tra le molli braccia. Ancora una volta, il novizio non poté fare a meno di stupirsi di come un fisico in apparenza tanto fragile potesse gestire una tale magnificente potenza. Forse era proprio per quel motivo, l’inevitabile ed irreparabile corruzione del corpo ospite, che ogni cento anni era necessario rinnovare la Fonte. Mentre Felix giocherellava – e… parlava? Changbin immaginava che il dio riuscisse a comunicare anche con Miss Binnie visto che poteva farlo con le lucciole – il novizio si sedette tranquillo a terra attendendo con sguardo vigile che decidesse quando incamminarsi sulla via del ritorno.
“Ya, come mai mi fissi con quello sguardo truce?!” Felix lo riprese con accento scherzoso mentre ancora faceva i grattini sotto la gola alla Tarantola “Hai paura che Miss Binnie si innamori di me adesso?”
Changbin sorrise sotto i baffi ed alzò gli occhi al cielo: “Beh, come sei il mio dio sei anche il suo. È ovvio che, se mai ne avesse l’occasione, coglierebbe l’attimo per provarci con te. Miss Binnie è una gran signora, lo sa perfettamente come si rimorchia un bel ragazzino umano.”
Questa volta fu il turno dell’altro di annegare un fine riso in un teatrale sbuffo: “Guarda che ero serio! Miss Binnie è magnifico animale e non smetterò di ripeterlo.”
“Guarda che non c’è il caso di illuminarmi sulle tue preferenze, Felix, se siete innamorati io vi do la mia benedizione, ma voglio rimanerci fuori da questa storia! Approvare la zoofilia non è la tra le mie priorità al momento, ecco.”
Il piccolo dio gli si avvicinò scuotendo il capo e si sedette sull’erba accanto a lui scoppiando in una breve risata: “E dai… Non essere così geloso del nostro amore, guarda che vorrò bene anche a te. Sarai il suocero burbero che mi straccerà sempre a carte durante le feste di famiglia, ti piace?”
“Ovvio che non mi piace, non voglio davvero essere tuo suocero!” Changbin schiaffò di getto la propria fronte, per poi esplodere anche lui in una piccola risata “Però sai che ci vedo a giocare a carte insieme? E sì, mi dispiace per te, ma ti straccerei di sicuro.”
Felix gli rivolse un sorriso a trentadue denti prima di incalzare: “Davvero ci vedi a giocare a carte durante le feste?”
“Beh, perché non potrebbe essere? Sarebbe carino…”
Changbin realizzò che Felix sarebbe morto nel giro di un mese solo quando quest’ultimo non replicò al suo ‘Sarebbe carino’ – nel quale, tanto per la cronaca, aveva immesso buona parte del suo coraggio (non era per niente abituato ad esprimere in modo tanto diretto i suoi sentimenti) – con un ‘Anche a me piacerebbe davvero tanto, ricordiamocene!’, ma con un mesto, fragile quanto la sua magra costituzione: “Sono contento che ti renda felice quest’idea…”
Forse accorgendosi dell’imbarazzo nato dalla natura del discorso, proprio il piccolo dio si fece avanti per togliere entrambi d’impiccio: “Comunque mi dispiace per stamattina, ho visto che tu e Chan eravate distrutti dopo la preghiera… Mi dispiace di non essere riuscito a chiedervi scusa prima, ecco. Il capo della città mi ha tenuto occupato praticamente tutto il giorno…”
Changbin percepì un velo di impaccio nelle sue parole e non riuscì, in quel frangente, a non trovarlo grazioso: “Non ti preoccupare, lo so io e lo sai bene anche tu che è solo l’effetto collaterale della catarsi. Sia io che Chan stiamo molto meglio ora, e anche tutti i cittadini che si sono trovati nelle nostre stesse condizioni.”
Il novizio fece una pausa, prese un respiro profondo e, affievolendo leggermente il tono di voce, confessò: “Mi è piaciuto davvero tanto il gesto che hai fatto oggi per quella famiglia. Probabilmente non scopriremo mai chi erano gli altri due soldati, ma… ma li hai fatti diventare simbolo della rinascita insieme al loro concittadino. Per me ha significato unione, mi ha fatto emozionare davvero...”
Changbin non conosceva nemmeno il motivo per cui davvero stava ammettendo tutto ciò di fronte all’altro, si chiese se fosse giusto rendere Felix così tanto partecipe della sua vita, se fosse legittimo affezionarglisi se una qualsiasi amicizia tra loro sarebbe stata segnata dall’atrocità di una data di scadenza. Pensò che forse anche Chan stava combattendo contro gli stessi dubbi che avevano iniziato, in quell’istante, ad affliggerlo.
“Sai che avevo paura?”
Changbin aggrottò le sopracciglia, quello fu il segnale per l’altro affinché si spiegasse: “Avevo paura che vedere il figlio maggiore morto trasformato in un albero non sarebbe stata la cosa migliore per quella famiglia, che una volta visto l’esito della mia preghiera mi implorassero di farlo tornare umano. Io avrei dovuto dirgli che non potevo, sai? Ci ho provato tante volte, ma ricreare o creare dal nulla un essere umano è faccenda che riguarda solo mio nonno, il Cielo.”
Un’idea balenò nella mente del novizio, Se lui si confida con me perché io non dovrei farlo con lui?
“Invece hai fatto bene, il tuo sesto senso non ti ha ingannato. Non lo ha mai fatto, in fondo, no?”
Felix sorrise teneramente e, con un po’ di falsa modestia celata tra le pieghe degli occhi, scosse il capo.
Continuarono a chiacchierare tranquillamente fin quando, almeno mezz’ora più tardi, non tornarono al borgo. Si scusarono per il ritardo e saltarono parte della cena – con tanto di rimprovero da parte di Chan –, ma Changbin poteva ora chiaramente avvertire quel senso di sospirato benessere che si vociferava si sperimentasse dopo un profondo contatto con la Felicità.

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Capitolo 5
*** quinto ***


Finirono per fermarsi ben tre giorni al villaggio.
Durante il secondo giorno banchettarono in piazza. Felix era stato costretto a sedere accanto alle autorità del borgo, il capo, il generale della guardia cittadina ed il sacerdote, al tavolo che avevano sistemato, un po’ rialzato rispetto agli altri allestiti esclusivamente per i civili, proprio di fronte al rigoglioso ciliegio che aveva regalato al popolo. Chan e Changbin, invece, avevano preso posto in una delle lunghe tavolate riservate ai popolani, infilandosi scioccamente nel mezzo, tanto che, per tutta la durata del pranzo – che si protrasse fino a pomeriggio inoltrato – lamentarono la troppa vicinanza a cui i festaioli abitanti del posto, gesticolando e spintonandosi scherzosamente a vicenda, li costringevano. Chan era talmente frustrato dalla stretta situazione che iniziò a bere sidro per far passare il tempo, e infine, rivolto al compagno, mugugnò con un’espressione che a Changbin parve a metà tra lo stizzito ed il deluso: “Perché non potevamo sederci con Felix anche noi? Avrei avuto qualcuno con cui chiacchierare almeno.”
Changbin sollevò un sopracciglio e, senza prendersela troppo, ribatté: “Questa cosa che preferisci lui a me non l’ho ancora capita e non mi va giù, comunque.”
Voltò allora il viso verso quello del piccolo dio e, appoggiandolo sul palmo di una mano con fare annoiato, ammise: “Però lui sembra divertirsi parecchio. Guarda, anche lui è una bella spugna come te.”
Detto ciò si girò di scatto verso Chan e gli rubò il bicchiere: “Tu basta, non serve che domattina soffra i postumi anche tu.”
Felix invece i sintomi dei postumi li avrebbe sentiti eccome, il capo della piccola città continuava a versargli generosamente da bere e, con tono remissivamente mellifluo, lo invitava a bere e a mangiare a sazietà, dicendosi disposto a continuare i festeggiamenti anche fino al mattino successivo se lui lo avesse desiderato. Di certo poteva essere una mossa da semplice opportunista, forse in quel modo poteva pensare di conquistare privilegi per il territorio su cui governava, ma di certo non era compito di Felix indagare aspetti tanto perversi dell’animo umano. Sorrise e fece finta di nulla, godendo delle amabili conversazioni in cui l’autorità lo trascinò per tutta la durata del pasto. Discorsi allegri o racconti di caccia per lo più; quando i camerieri iniziarono a servire, a metà pomeriggio, il sidro di scarsa qualità, allora passò alle vecchie avventure amorose vissute in gioventù e alle soporifere lagne sui capricci della moglie con cui condivideva il letto da oltre trent’anni. Solo ad un certo punto, mentre servivano la seconda portata di carne, Felix si trovò ad ascoltare qualcosa che davvero solleticò la sua curiosità.
“Sai, Felix… Forse è un caso che tu ti trovassi qui, forse il gesto che hai compiuto ieri per tutti noi è stato fortuito, l’avresti fatto per chissà quanti altri villaggi, però ci tenevo ancora adesso a ringraziarti per il tempo che ci hai dedicato. Questo per noi è un giorno storico, se altre piccole cittadine oggi celebrano la morte, noi siamo riusciti a vedere la rinascita.”
Intervenne allora il generale: “Non è novità che, ultimamente, giungano lettere e telegrammi da altri villaggi vicini che riportano la scomparsa o il ritrovamento di corpi all’interno delle foreste. Sono soprattutto guardie appartenenti a organi di pattuglia divorate da animali selvatici, subito avevamo pensato che si trattassero di assassini addestrati, ma i segni dei morsi sono troppo evidenti per proseguire su quella pista. Probabilmente stiamo assistendo ad una qualche migrazione di branchi stagionale. I Filosofi che si sono occupati della questione, almeno, hanno suggerito quest’ipotesi.”
Felix pensò che fosse importante, si sarebbe dovuto ricordare di ripetere quelle stesse parole ai due compagni di viaggio. Mentre il capo villaggio tornava a dilettarsi in uno dei suoi comicamente sconclusionati monologhi, il piccolo dio, mangiucchiando a fatica le ultime portate, si prese un momento per cercarli tra la folla. Con sorpresa, notò che Chan era impegnato in una briosa danza popolare insieme ad una raggiante ragazzetta del posto. Lei, almeno, sembrava conoscere i passi a memoria e, fluida e languida, ballava con sicurezza attorno al soldato, mentre quest’ultimo si muoveva a scatti e, con la finezza di un Elefante alato dell’Isola Dormiente, muoveva braccia e gambe in modo pressoché casuale, tentando di imitare le mosse della partner. Sorrideva in modo stentato, del tutto in imbarazzo con la ragazza, tentando il più possibile di non mostrarsi troppo insicuro dopo le rapide occhiate rivolte ai propri piedi, come se cercasse di dominarli attraverso la forza del pensiero. Si compiacque per un momento dello spettacolo, ridacchiando bonariamente dell’amico, per poi decidere di toglierlo d’impiccio. Utilizzò una minima briciola dei suoi poteri per attirare la sua attenzione e fece in modo che Chan lo guardasse negli occhi. Fissò il contatto per un secondo, gli sorrise storto, con una punta di gelosia, e gli infuse allora la poca forza necessaria per confessare alla ragazza che non gli interessava. Gli fece l’occhiolino e lo liberò dall’incantesimo, e subito dopo lo vide allontanarsi con successo dalla fanciulla e tornare al tavolo a cui era seduto anche Changbin.
Quando quest’ultimo, dopo nemmeno una decina di minuti che era riuscito a liberarsi del soldato, vide Chan ritornare gloriosamente accanto a lui, sbuffò e, interrompendo le effimere chiacchiere in cui si era lanciato assieme ai compagni di tavolata, lamentò ironicamente: “Ma poverina, l’hai già scaricata?! Ci ho messo tanto a trovarne una disposta a ballare con te!”
Chan non si degnò di rispondergli. Immerso nel rustico clamore della festa, dondolava il capo a destra e a sinistra, seguendo il coinvolgente ritmo della musica, gli occhi ancora fissi oltre la pista da ballo, nella direzione in cui Felix, ormai, rideva a crepapelle completamente ubriaco.
 
-
 
Il terzo giorno Felix lo trascorse a vomitare, così Chan e Changbin ne approfittarono per dare una mano a ritirare avanzi e rifiuti rimasti in piazza dopo il banchetto.
“Quanti villaggi dobbiamo ancora attraversare? Non abbiamo il tempo di fermarci quattro giorni in ogni posto che attraversiamo…”
Chan sbadigliò, massaggiandosi il capo – non era messo male quanto il piccolo dio, ma non aveva potuto evitare un leggero e fastidiosissimo mal di testa: “Ci ho pensato, il fatto è che non possiamo evitarli tutti. Per tirare dritto fino al Cratere dovremmo fare provvista per le prossime due settimane e ci servirebbe almeno un cavallo in più, ma non abbiamo il denaro necessario per permetterci tutto ciò. Per non parlare del fatto che avere una tenda non sarebbe male, se dovesse iniziare a grandinare. È stato un agosto buono fino ad ora, ma lo sai che gli ultimi giorni a cavallo di settembre…”
Changbin lo sapeva perfettamente, a settembre cominciava la stagione delle piogge. Non era detto che il tempo non li accompagnasse, se erano fortunati la perturbazione, come la maggior parte degli anni, avrebbe colpito maggiormente il Sud del paese senza quasi sfiorarne l’Est ed il Nord, ma non era mai consigliabile mettersi in viaggio con il rischio di restare bloccati a causa di qualche tardivo ciclone tropicale proveniente dall’oceano, anche per questo motivo la loro intenzione iniziale era quella di ritornare per i primi del mese.
“Non possiamo permetterci altri ritardi.”
“Mai più ritardi.”
Eppure c’era qualcosa che disturbava entrambi nella spietata freddezza con cui concordarono l’uno con l’altro sulla questione ‘tabella di marcia’, e quel qualcosa appariva pareva chiaro tanto al novizio quanto al soldato che portasse il curioso nome di Felix. Dopo la faccenda di due giorni prima tutti e due avevano compreso quanto, in fondo, ‘Felix’ e ‘la Fonte della Felicità’ fossero due entità separate. Felix era il ragazzetto smilzo che di notte sgusciava sul terrazzo della locanda per spettegolare con le lucciole, la Fonte della Felicità era un dio benevolo e terribile nella sua forza creatrice, vecchio amico del mondo che con il mondo stesso si sarebbe rinnovato fino alla fine dei tempi per il bene degli uomini e del pianeta. Uccidere la Fonte era compito ingrato, ma non complesso. E inconsciamente si posero entrambi la stessa domanda, erano pronti, però, a portare alla morte anche Felix?
Con il cuore greve di conscia ansia, si separarono a metà pomeriggio. Changbin voleva andare a controllare che Miss Binnie stesse bene, Chan aveva annunciato di voler cogliere l’occasione per allenarsi con la spada. Tornarono entrambi alla locanda in tempo per la cena, raggiungendo Felix in camera che, ancora sdraiato a pancia in giù con il capo nascosto sotto il cuscino, si dimenava drammaticamente sul suo letto lagnandosi dell’atroce mal di testa che gli perforava le tempie da quella mattina.
“Mi spiace Felix, se avessi qui il mio infusore ti preparerei qualche medicina, ma per stavolta dovrai sopportare.” ridacchiò Changbin, rifilandogli un breve colpetto su una spalla “È il prezzo da pagare per esserti divertito tanto con il capo della città ieri.”
“Continuava a versarmi da bere, non volevo andasse sprecato…” mugugnò con voce strascicata il piccolo dio.
“Questa è la scusa peggiore che un mezzo alcolista come te possa inventarsi” intervenne Chan.
Felix, ferito nell’orgoglio, scattò subito seduto per esclamare: “Tanto per la cronaca, mi raccontava cose di sua moglie che non avrei mai voluto sentire! Pensavo che bere qualcosa in più mi avrebbe aiutato a dimenticare quelle brutte immagini!”
“Adesso sei in piedi” lo canzonò di nuovo il novizio “passato il mal di testa?”
Al che Felix, allora, si rigettò di nuovo giù sul letto borbottando tra sé e sé: “Non avete rispetto di me e del mio mal di testa…”
Brontolò sonoramente alle risa degli altri due, per poi, d’un tratto, farsi serio ed annunciare con un’urgenza non da poco, come se si fosse ricordato solo in quel momento di un importante particolare: “In tutta la giornata mi ha detto una sola cosa che poteva interessarci comunque, e credo sia giusto riferirvela prima di dimenticarmene.”
In poche frasi riassunse quindi ciò che il generale aveva confessato il giorno prima a pranzo a proposito delle varie scomparse e ritrovamenti delle guardie sparse in ricognizione nella foresta.
“Davvero i Filosofi dicono che sia a causa di una migrazione?”
“Non mi pare che sia il punto focale del discorso” replicò Chan alla domanda di Changbin con una vena di forte preoccupazione nella voce “Più che altro, buona parte della tratta che dobbiamo seguire noi passa nei boschi. Se ci imbattiamo in uno di questi branchi che facciamo?”
“Io vi posso proteggere, non è un problema. Non attaccherebbero mai la loro Fonte della Felicità, mi riconoscono come uno di loro.” sospirò allora il piccolo dio “Dovrei provare a parlare con qualcuno di loro… nessuna specie mi ha avvertito di queste migrazioni, in genere lo fanno.”
“Per me non sono migrazioni,” rincarò Changbin “siamo fuori stagione; i branchi di lupi, soprattutto, sono veramente precisi quando si parla di spostare la tana. In questi mesi i cuccioli sarebbero troppo piccoli per affrontare un viaggio tale. L’unico motivo per cui dovrebbero azzardare uno spostamento tale potrebbe essere la distruzione totale della tana, ma come è possibile allora che ci siano così tanti branchi sparsi in giro per le foreste? Come è possibile che davvero tutti i loro nidi siano stati devastati a tal punto da costringerli a migrare?”
Chan sembrò valutare l’obiezione del novizio. Gli sarebbe piaciuto approfondire la questione, si chiese se Changbin avesse in mente qualcosa – suonava parecchio strano che i corpi rinvenuti fossero quasi solo ed esclusivamente appartenenti a soldati – ma allo stesso tempo era consapevole di avere una missione specifica, e indagare su guardie morte o scomparse non poteva rientrare nelle sue priorità. Tutto ciò di cui doveva preoccuparsi era portare Felix e Changbin sani e salvi fin sul Cratere dell’Anima e lasciare che il novizio compisse il rito funebre del dio, più che su lupi, orsi e cinghiali doveva concentrarsi sulle bande di ladri e truffatori che, con o senza Fonte della Felicità, non ci avrebbero messo molto ad aggredirli se avessero tenuto la guardia abbassata. Lo fece presente a Changbin con una durezza che non avrebbe voluto davvero mostrare e lo zittì. Soldati e Filosofi, questa era la differenza tra le due vocazioni. I primi agivano dove gli altri cercavano congetture, e Chan non sopportava la lingua lunga e la mancanza di senso pratico che li contraddistingueva. Non ce l’aveva davvero con il compagno di viaggio, semplicemente sapeva che il proprio carattere stoico e riservato non poteva collimare con la personalità tagliente e particolare del novizio. Era da quando, cinque giorni prima, Felix si era unito al gruppo, che aveva l’impressione di doverlo trattare più come un rivale che come un amico.
“Sentiranno l’arrivo della stagione delle piogge. Aspettiamoci un tifone con i fiocchi quest’anno.”
Con queste parole il soldato chiuse l’argomento ed annunciò che il mattino successivo sarebbero ripartiti all’alba.

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Capitolo 6
*** sesto ***


Changbin non era troppo abituato a fare attività fisica, se da essa si escludevano specialità tipiche dei Filosofi come ‘passare la notte chinato sui libri senza lamentarsi del mal di schiena’ o ‘trattenere gli sbadigli durante le lezioni di formazione’. Poteva affermare di essere un mago in entrambi, e, a dispetto di quello che ogni comune individuo dotato di buon senso avrebbe potuto pensare, il novizio era fermamente convinto che il primo dei due fosse la sfida meno dura da affrontare. Quando i suoi confratelli gli domandavano come facesse ad essere tanto bravo in entrambe le arti, Changbin era solito rispondere: “Anni di arduo allenamento hanno finalmente dato i loro frutti”. E, in più, gli toccava portare ogni giorno Miss Binnie a spasso, ostica impresa soprattutto durante le prime settimane di convivenza forzata. Mettersi a fianco della Tarantola e portarla a fare un giro sulle montagne lì accanto poteva essere considerato il massimo dello sforzo possibile per il novizio, tante volte, quando l’animale si arrampicava per diletto su alcune pareti rocciose, si limitava a tenerlo d’occhio la lontano, senza prendere in considerazione nemmeno per un secondo l’idea di seguirlo nella sua scalata. Per questo motivo, quando intorno a mezzogiorno Miss Binnie tentò, in modo apparentemente del tutto casuale, di scrollarselo di dosso e di deviare brutalmente il percorso verso un dissestato sentiero laterale, Changbin fece veramente fatica a non perdere l’equilibrio e a restare aggrappato alla corazza dell’animale, che, evidentemente infastidito e stizzito, cominciava letteralmente a ribollire. Changbin sentiva il magma nel cuore di Miss Binnie gorgogliare e borbottare allo stesso ritmo del battito del proprio, il sangue gli pulsava nelle vene, le mani e le braccia bruciavano a causa del contatto con la pietra bollente del guscio e tremavano sotto l’istinto di staccarsi e lasciarsi cadere tra la fitta boscaglia, in uno spinoso labirinto di rovi, cespugli e serpenti. Il novizio strinse i denti, intimò all’animale di fermarsi in un sordo grido di puro terrore, e solo quando la Tarantola emise un acuto stridio di diniego in risposta, si accorse della grassa bestia che li stava inseguendo. Un’enorme massa scura si muoveva agile e scattante nell’intricata trama di nodose radici e pungente fogliame, completamente a suo agio nel percorso ad ostacoli a misura di lupo su cui invece Miss Binnie goffamente inciampava e ruzzolava tirandosi dietro Changbin che, ormai a corto di energie, le spesse maniche della tunica da novizio orribilmente consumate e gli occhi che lacrimavano per il calore emanato dal corpo della Tarantola, era sul punto di cedere. Tutto quel saltare in alto e in basso lo nauseava, massacrava i suoi fini muscoli da uomo di scienza, il fumo che inevitabilmente inalava gli dava alla testa e confondeva i suoi sensi già corrotti e sballottati dalla rocambolesca corsa in cui Miss Binnie – a questo punto, intuì Changbin, spaventata dall’enorme lupo che li inseguiva – si era inavvertitamente lanciata. Se fossero rimasti con Felix il problema non si sarebbe posto, il piccolo dio aveva chiaramente stabilito che poteva imporre la sua volontà sugli animali che lo circondavano e avrebbe fatto in modo di cacciare la belva impazzita senza conseguenze ulteriori. Si chiese, nel panico, se per caso avessero invaso il suo territorio, la spiegazione più plausibile di quell’attacco era comunque quella che il lupo si fosse spaventato a causa dell’imponenza estranea di Miss Binnie. Sentì all’improvviso un urlo provenire alle sue spalle, Chan a cavallo incespicava dietro al lupo, probabilmente nell’intento di aiutarlo. Changbin, sull’orlo di svenire per la paura, riuscì a trovare la forza di voltare il capo verso il compagno e, nella foga, notò che teneva le briglie strette in una mano, mentre l’altra, sollevata in aria, prendeva la mira e si accingeva a trafiggere il lupo con un affilato coltello da lancio.
Non servì, in una frazione di secondo il lupo collassò a terra mugolando. Lamentò dolore per un paio di secondi, per poi accartocciarsi, in un ultimo, agonico, inquietante spasmo, su se stesso. Miss Binnie, avvertendo di non essere più in pericolo, riuscì a calmarsi e, dopo alcuni attimi di titubanza, si decise a fermarsi, lasciando che Changbin rotolasse giù dal suo guscio roccioso e si lasciasse cadere sul fitto tappeto erboso. Il novizio, esausto e completamente scombussolato, si trattenne dal vomitare quel poco che aveva mangiato a colazione, restò sdraiato a terra qualche secondo, scombinato dalla botta che il tonfo gli aveva causato e dal capogiro della corsa. In pochi secondi sentì il trotto di un cavallo raggiungerlo e Chan accanto a lui che, prendendolo per le spalle, gli chiedeva se stava bene. Changbin chiuse gli occhi, si prese il viso tra le mani e, sollevando le braccia che ancora bruciavano per le ustioni ricevute, domandò un minuto per riprendersi. Chan si sedette accanto a lui e, con calma, gli tolse di dosso la spessa tunica di novizio per esaminare la condizione delle mani e delle braccia del compagno di viaggio. Per tutto il tempo, Changbin aveva avuto l’accortezza di non appoggiare le mani direttamente sulla corazza della Tarantola, ma di utilizzare le maniche della tunica per ripararsi minimamente dal calore diretto, quindi Chan, con un sospiro di sollievo, dopo qualche istante, annunciò: “Lo spessore della giacca ti ha salvato la pelle, letteralmente dico. Le ustioni sono solo superficiali, anche se credo che siano parecchio estese. Riesci a camminare?”
Changbin annuì semplicemente in risposta e, con l’aiuto del biondo, si mise in piedi barcollando. Si voltò indietro verso Miss Binnie che, fattasi piccola piccola, gli domandava scusa con gli occhi. Sospirò e, benché fosse infastidito dal suo comportamento, alla fine le sorrise e le sia avvicinò per accarezzarle il muso: “Non preoccuparti, ti sei spaventata…”
Mentre tranquillizzava l’animale, però, scorse un rapido scatto con la coda dell’occhio. Una figurina sottile vestita di caldo smeraldo era graziosamente planata accanto alle spoglie del grosso lupo che li aveva rincorsi. Changbin ne seguì i dolci movimenti con lo sguardo, la vide inchinarsi con umile rispetto di fronte alla maestosa bestia e poi inginocchiarsi proprio accanto al cadavere, incassando la testa tra le spalle e congiungendo le mani come per chiudersi in una fitta, disperata, preghiera. Solo dopo qualche istante il novizio riuscì a mettere a fuoco l’arco e la faretra che sporgevano dalla linea soffice della schiena dello sconosciuto, e nello stesso momento si accorse della lunga asta lignea che sporgeva crudelmente dalla carne senza vita dell’animale. Voltò il capo verso Chan in una muta richiesta, il soldato annuì e, aiutandolo a mettere in fila i primi passi tra le basse sterpaglie, si fece avanti con lui verso l’eterea silhouette. Da lontano non si poteva distinguere bene, ma avvicinandosi Changbin si stupì dell’innaturale colore bluastro che i folti capelli del piccolo uomo riflettevano. Era un blu pieno, gli venne da pensare, dello stesso tono dei nontiscordardime. Si fermarono a pochi passi di distanza, il tipetto era ancora impegnato nella sua preghiera, sofferentemente chinato fin quasi a baciare la carcassa dell’animale morto. Il novizio lo sentì emettere un lievissimo singhiozzo quando, in ultimo, afferrò la freccia conficcata nel corpo e la sfilò dalle carni già turgide. Si sforzò di concentrarsi sul suo viso, ne seguì lentamente i tratti affilati e l’espressione invece incredibilmente tenera, che nella sua delicatezza faceva a pugni con l’asprezza dei lineamenti da volpe che terminavano in bellezza sull’acuta, raffinata, punta delle orecchie. Ecco spiegata l’eleganza nei suoi modi, Chan e Changbin erano di fronte ad un elfo.
Quando l’elfo si alzò in piedi Chan si affrettò a piegarsi in un breve inchino, fermandolo mentre già stava per scappare via: “Grazie per averci salvato!”
L’elfo sollevò lo sguardo verso di loro, mettendo in mostra per la prima volta le splendide iridi del colore del ghiaccio, senza vergognarsi delle guance scavate dall’amarezza delle lacrime piante per la morte dell’animale: “Ho ucciso un alfa. Aveva una compagna, anche dei cuccioli probabilmente, ma ho dovuto ucciderlo perché non riuscivo a mettermi in contatto con lui. Noi elfi possiamo comprendere le emozioni degli animali che vivono con noi, lui aveva così paura di voi…”
Il piccolo elfo si rabbuiò, stringendosi nella leggera mantella verdognola che gli copriva le spalle, per poi continuare: “E non capisco perché… Non siete i primi a cui succede, lui non è il primo lupo che sono costretto ad uccidere, ma voi… Voi pellegrini viaggiate insieme al mio dio, Felix, la Fonte della Felicità. Non avrebbe dovuto attaccarvi. Tutti gli animali hanno rispetto del dio Felice.”
Changbin rabbrividì, avvertiva nel tono dell’elfo un’indicibile pena, angoscia e tremenda afflizione per quell’animale che, lo sapeva, lo aveva appreso durante una delle tante lezioni di biologia e zoologia alla Casa, l’altro molto probabilmente considerava alla stregua di un fratello. Si schiarì la voce e, tentando di non mostrarsi troppo dolorante per le leggere ferite riportate, annunciò in tono di cordoglio: “Ci dispiace per quello che è successo, probabilmente abbiamo invaso la tana del suo branco senza nemmeno accorgercene. Libereremo il sentiero il più in fretta possibile in modo da non disturbarvi oltre.”
“Viaggiamo con una Tarantola magmatica dell’Est, probabilmente la sua presenza lo ha allarmato a tal punto da indurlo ad attaccarci” intervenne Chan, seguendo la scia di pietose giustificazioni messe in fila dal novizio.
L’elfo, in risposta, scosse il capo, mormorando con tono frustrato: “Non capite, l’alfa non era in sé…”
Si avvicinò poi di punto in bianco a Changbin, scavalcando leggiadro la carcassa, per osservare più da vicino tutto il tratto di pelle che era rimasto ustionato: “Sarei un pessimo elfo se, dopo aver ucciso un lupo tanto splendido, ti lasciassi andare via con queste ferite. Non sono gravi, potresti curarle da solo, ma scommetto che viaggiando le faresti infettare nel giro di un paio di giorni.”
L’elfo accennò ad un sorriso mentre, con dolce sicurezza, proponeva: “Fermatevi un paio di giorni al mio villaggio, non è lontano. Oggi ero di vedetta, ecco perché vi stavo tenendo d’occhio. Avrei potuto intervenire prima, se non avessi voluto aspettare non saresti ridotto in questo stato.”
Chan provò a rifiutare la proposta del piccoletto, avevano appena ristabilito una nuova tabella di marcia e non potevano permettersi di accumulare altro ritardo, ma le misere condizioni di Changbin lo obbligarono a desistere. Assieme all’elfo, che nel mentre si era presentato come Yang Jeongin, raggiunsero Felix e proseguirono verso il villaggio del primo, e nessuno di loro, in fondo, una volta giunti a destinazione circa venti minuti dopo, se ne pentì, nemmeno Chan.
“Spero che nessuno di voi soffra di vertigini…” ridacchiò Jeongin con voce melodiosa e decisamente più tranquilla appena prima di voltare il capo verso le altissime fronde degli alberi e gridare nella sua soave lingua un qualche segnale che solamente Felix parve comprendere. Changbin vide il piccolo dio sorridere all’improvviso, come avesse finalmente riconosciuto il luogo in cui l’elfo li stava trascinando. Non ebbe comunque il tempo di domandargli spiegazioni che un fascio di luce lo colpì in pieno volto. Per un momento coprì gli occhi con il dorso di una mano, ma appena comprese che cosa stava succedendo non poté fare a meno di spalancarli di nuovo per godersi lo spettacolo. Un gorgogliante rumore metallico accompagnava la danza dei raggi di luce riflessa che parevano provenire dal fitto, fresco, fogliame; ingranaggi, rotelle, impalcature di ferro e legno vibravano e scricchiolavano immersi nei rassicuranti suoni della natura mentre, come in una magia, ampie pareti di fogliame si aprivano per rivelare, al di sopra di esse, un’intricata rete di corde e liane intrecciate che saltavano da un tronco ad un altro, collegando ogni albero presente lì intorno.
“Specchi…” sussurrò Changbin incredulo, mentre Felix, al suo fianco, si apriva in un sorriso gigantesco. Chan fu l’ultimo ad accorgersi dell’inganno, l’ultimo a riconoscere, come meravigliose, luccicanti gemme incastonate nella roccia più dura, tutte le casupole arroccate l’una accanto all’altra sopra i solidi intrecci formati dai rami degli alberi secolari che dominavano quel tratto di bosco. Gli specchi riflettevano il verde delle foglie, dei cespugli, dell’erba fine e celavano alla perfezione le brulicanti attività della città sopra di essi.
Jeongin sorrise nel vederli tutti e tre tanto stupefatti, e pronunciò allora nella sua lingua il nome del villaggio: “Tillvah. Nella lingua degli elfi significa letteralmente ‘Colei che sale, colei che cresce, colei che prospera’.”
L’elfo chiese che mandassero giù una carrucola per poterli, pochi per volta, sollevare e far giungere al villaggio e, mentre uno per uno attendevano il loro turno, Felix non riuscì a trattenersi dall’esclamare: “Non credevo che sarei mai riuscito a visitare questo posto! Tanti animali me ne parlavano, ma… ma…”
Scosse il capo, incapace di pronunciare, gli occhi sgranati e giganteschi, in profonda adorazione, una sola parola in più.
Jeongin non mancò di dimostrare il suo stupore per l’inaspettato interessamento del suo dio e gli promise di condurlo, ovviamente dopo pranzo e dopo aver portato Changbin a farsi curare le ferite, in uno speciale tour appositamente per lui. Se ciò che attirava Felix, e un po’ anche il povero Chan, che fino a quel momento aveva sempre vissuto in piccole capanne ben assestate al terreno, era la capacità degli abitanti di muoversi in modo tanto fluido e naturale in mezzo ad un ambiente così ostico, Changbin, al contrario, non riusciva a staccare gli occhi dalla vera e propria meccanica su cui l’intera struttura, racchiusa in modo sensazionale all’interno della natura tutta intorno, incredibilmente in spettacolare armonia ed equilibrio con essa, era basata. Gli specchi, che nel mentre, dopo che anche Miss Binnie fu invitata a montare sulla carrucola, si erano richiusi, erano assicurati ai rami più bassi degli alberi mediante funi metalliche, e parevano della stessa maglia di quelle che, bianche, lucenti sotto il sole di fine agosto, adornavano come possenti ragnatele i tetti e le fondamenta di ogni piccola dimora. Più tardi comprese che servivano appunto come sicura, in modo da legare ognuno di questi ultimi in maniera più salda alla corteccia dell’albero che li ospitava. Avvertiva un chiarissimo tic toc di ingranaggi, ma erano talmente ben nascosti che non riusciva a distinguerli nelle fitte forme del fogliame. Ciò che poteva però scorgere erano invece vari tubuli che si immettevano, scattanti, di forma spezzata, in ognuna delle casette, collegandole l’una alle altre in una fitta rete meccanica. Il novizio non seppe dire a che cosa servissero, considerava la Casa di cui faceva parte una delle più avanzate in fatto di studi scientifici, e invece eccolo lì a guardare quel piccolo sperduto villaggio di elfi con gli occhi del neofita, del bambino che, per la prima volta, vede l’acqua iniziare a fare le bolle non appena raggiunge in temperatura il centesimo grado. Era talmente incantato da quel paradiso di scienza che Chan dovette letteralmente trascinarlo di peso fino all’infermeria brontolando: “Vedi cosa mi tocca fare a viaggiare con un filosofetto del genere…”
Jeongin li accompagnò fino ad una delle tante capanne che recavano sul tetto l’intricato simbolo della medicina e, dopo aver chiacchierato serenamente con una delle infermiere presenti – anch’ella sfoggiava minute orecchie a punta – sbirciò al di là della tenda che divideva la sala d’aspetto dall’ambulatorio. Mutando però tutto d’un tratto tono di voce, esplose in uno disordinato: “Jinnie?! Che ci fai tu qui oggi? Non ti avevo detto di restare a casa a riposarti?”
Dall’interno una voce altrettanto carezzevole replicò in un moto di evidente stizza: “Sì, mamma, non ti preoccupare, l’ho fatto il riposino pomeridiano.”
Jeongin sparì dietro la tenda che nascondeva il cosiddetto ‘Jinnie’: “Hyunjin, dico sul serio! Sono giorni che non dormi per finire quel tuo maledettissimo coso! Il turno in infermeria te lo potevi davvero risparmiare, ecco.”
I tre ascoltavano perplessi la conversazione; Felix, innocentemente, o forse tentando di sfoggiare l’umorismo da nonno che un po’ lo contraddistingueva, domandò agli altri due come facesse Jeongin ad essere madre di un ragazzo evidentemente più grande di lui – o, almeno, così dalla voce gli sembrava – se era maschio. Come risultato ottenne un’occhiataccia strabiliata ed un paio di espressioni del tutto sbigottite. Il piccolo dio, chiudendosi in un piccolo broncio, volle convincersi del fatto che non risposero al suo finemente ironico quesito perché Jeongin saltò di nuovo fuori dalla tenda all’improvviso per invitarli ad entrare nell’ambulatorio.
“Felix, Chan, Changbin” sospirò l’elfo facendo accomodare quest’ultimo su una branda al centro dello stanzino “vi presento Hwang Hyunjin, mio fratello.”
Avvolto da un camice di un bianco asettico, Hyunjin attendeva con calma irreale l’arrivo dei tre pazienti. Changbin, seduto proprio di fronte a lui, si persuase immediatamente che fosse di una bellezza ultraterrena, rasente il divino, se poteva anche solamente osare pensare una cosa del genere proprio a pochi passi da Felix. Se gli avessero mai chiesto chi, tra Felix e Hyunjin, a prima vista poteva assomigliare maggiormente all’idea comune di Fonte della Felicità, avrebbe sicuramente scelto il secondo. Morbidi e folti capelli del colore del sole al mattino ricadevano mollemente sulle spalle larghe e toniche, rilucevano dei riflessi rosati del legno ed incorniciavano un visetto dai tratti affilati, come quelli di Jeongin, ma meno rudi. Gli angoloidi dei suoi lineamenti si adagiavano e vibravano a seconda delle sue espressioni in maniera del tutto estranea a quella della selvaticità degli elfi, ma la volitività negli occhi dal crudo taglio rispecchiava quella di un’aquila cacciatrice. Le orecchie, appuntite come quelle del fratellino, sembravano però non lasciare dubbi, come anche la chiarezza eterea delle lucenti iridi. Quando la nobile creatura gli domandò di spogliarsi della tunica, il novizio si sentì parecchio a disagio.
“Il vostro cognome è diverso…” fece notare, in modo che Jeongin tornasse a parlare con il suo tono, minuto dopo minuto, progressivamente più allegro.
“Beh, non siamo davvero fratelli di sangue” Jeongin abboccò all’amo “Io sono un elfo puro, Hyunjin invece è elfo solo da parte di padre intanto. Il villaggio in cui è nato lo ha ripudiato come ibrido quando era un neonato, sua madre, umana, lo ha dovuto abbandonare nel bosco per non venire cacciata anche lei e, dopo un po’, i miei genitori lo hanno trovato e hanno deciso di adottarlo. Un po’ meno di un anno dopo sono nato io. Hyunjin c’è sempre stato, ecco perché lo considero mio fratello.”
Hyunjin, intento a tastare con mano delicatissima le ustioni di Changbin, ridacchiò: “Grazie per aver riassunto in modo così puntuale e preciso la mia tragica infanzia, Innie.”
“Nessun problema!” l’elfo scattò sull’attenti e, con tono solenne, lo prese in giro “È sempre un piacere, caro fratello. Sono sempre disponibile”
“Oh, fidati, non avevo dubbi a riguardo” ridacchiò Hyunjin con la stessa ironia, per poi rivolgersi ai tre ospiti “Perdonate mio fratello, è un piccolo elfo impertinente e tante volte parla a sproposito.”
Si voltò verso il banco sterile su cui teneva i piccoli strumenti di pronto soccorso ed i farmaci, prese un piccolo barattolo di forma cilindrica e ne intinse la mano all’interno, estraendo una buona quantità di una pomata biancastra dall’odore vagamente floreale con l’intenzione di cospargere con essa il corpo del paziente: “Allora, che cosa vi porta ad esplorare questi boschi? Siete mercanti?”
“Ya, piantala, Jinnie! Sono puliti, ho già controllato io per benino!” sbottò di nuovo Jeongin, sbattendo un piede a terra “Ti sembro così idiota da portare qui da noi le persone che voglio derubare?!”
“Di sicuro sei idiota ad ammettere in modo così spudorato che cosa fa la nostra gente per vivere” il biondo roteò gli occhi e si rivolse allora con un sorriso nervoso agli altri tre “Come ho detto prima, tante volte parla a sproposito…”
Troppo tardi, il secco riflesso della lama scoperta dello spadone di Chan aveva chiaramente raffreddato l’atmosfera gioviale che i due fratelli avevano creato con i loro teatrali battibecchi: “Siete un villaggio di banditi quindi” insinuò.
“Banditi, ladri, contraffattori, spacciatori…” Hyunjin continuava tranquillo a spalmare la pomata sulle ferite di Changbin. Il novizio, dopo la confessione del medico, avrebbe tanto voluto spostarsi, ma gli era difficile rinunciare alla frescura che il rimedio applicato sulle ustioni gli provocava.
“… la nostra gente, umani, elfi, folletti, fate, riesce a sopravvivere solo in minima parte razziando i mercanti che attraversano la foresta.” l’elfo terminò la frase del fratello maggiore con una vena di orgoglio nella voce, e così il biondo riprese a ruota “I viveri non ci mancano, viviamo di quello che la foresta ci offre e poco più, e quel minimo che serve per rafforzarci, grano, farina, pane, lo barattiamo con qualche villaggio vicino al posto dei nostri marchingegni.”
“Rubate materie prime, giusto?” azzeccò Felix con un sorriso disteso “Metallo, vetro, cristalli, meglio se già grezzamente lavorati. Si vede dal vetro soprattutto, sapete? Riflette gli stessi colori del palazzo di Almia, la Capitale del Sud. Lì hanno un ottimo metodo di soffiatura.”
“Ho avuto la fortuna di assistervi, mi ritengo un meccanico provetto, ma la tecnica artigiana che tramandano ad Almia è davvero spettacolare. Essere presi a bottega da uno degli artisti del Sud è il sogno di ogni meccanico del mio paese.”
“Quindi, ricapitolando…” si intromise Chan, di nuovo, con un’espressione perplessa “Rubate ai mercanti per avere gratis tutta la materia prima che necessitate per mandare avanti la vostra città meccanica sugli alberi?”
“Abitate in un laboratorio vivente!” Changbin parve riscuotersi tutto d’un tratto, aiutato dal sollievo portato dalla miracolosa pomata di Hyunjin “Fantastico! È semplicemente fantastico! Gli unici luoghi in cui la Capitale permette legalmente la ricerca sono le Case; voi invece lo fate qui, nascosti dal resto del mondo, con quel poco che riuscite a racimolare dalle carovane di commercianti, e siete addirittura molto più avanzati di noi!”
“Beh, se voi Filosofi ammetteste elfi, fate e folletti nei vostri ranghi scommetto che la vostra ricerca progredirebbe molto più speditamente, sapete?” lo provocò Jeongin, forse punto sul vivo, con un sorrisetto.
“La nostra tecnica non consta differenze sostanziali da quella utilizzata da voi Filosofi, è il modo di approcciarci al mondo che ci circonda che è differente.” spiegò allora Hyunjin “Noi cerchiamo di inserirci all’interno del nostro ambiente, di comprenderlo e di creare in esso, e con esso, senza prevaricare, delle zone di comfort in cui poter vivere al meglio. La nostra tecnologia copia la natura, ne fa omaggio e la ringrazia per averci accolti, e gli elfi e le altre specie ci aiutano a studiarla al meglio data la profonda connessione che condividono con essa. La ragnatela che permette alla capanna di restare attaccata al tronco, per esempio? Finissimo ferro niveo dal Nord. Io stesso ho contribuito ad idearne la maglia.”
“Jinnie è un meccanico strabiliante, Changbin!” l’elfo aveva notato il modo in cui il novizio pendeva dalle labbra del fratello maggiore, gli occhi ardenti dal desiderio di saperne di più “In questo periodo fa alcuni turni qui in infermeria per sostituire un altro medico, ma se oggi pomeriggio ha tempo, sempre che voi abbiate intenzione di fermarvi per la notte, potrebbe mostrarti qualcuna delle nostre invenzioni migliori.”
Changbin era sul punto di accettare, ma un’occhiataccia da parte di Chan lo trattenne dal palesare tutto il suo entusiasmo per l’idea: “Beh… A dire il vero…”
Voleva proporre di rimandare la visita a quando lui e Chan sarebbero stati già sulla via del ritorno per la Capitale, ma Felix intervenne per primo: “Avanti, Chan, un giorno di ritardo in più o in meno non ci cambia la vita, siamo ancora decisamente in anticipo! E poi così oggi Changbin si può riposare, non hai visto quanto era pallido prima?”
Changbin sorrise istintivamente al piccolo dio, ringraziandolo con lo sguardo per essersi abbassato a fare gli occhi dolci al soldato dato che, alla fine, senza nemmeno troppo sforzo, cedette ed acconsentì a trascorrere il resto della giornata alla città sugli alberi.
Hyunjin terminò in fretta di medicare il novizio, acconsentendo quindi a mostrargli i magazzini subito dopo pranzo, a turno terminato. Jeongin avrebbe preparato qualcosa di buono da mangiare per tutti e, in seguito, avrebbe invece accompagnato Felix nel tour del villaggio. All’elfo sarebbe piaciuto che Chan lo seguisse a sua volta – rimanere da solo con la Fonte della Felicità, allo stesso momento, lo eccitava e lo mandava in paranoia – ma il soldato, ancora vagamente infastidito dai continui cambi di rotta, decretò invece che si sarebbe fatto calare nuovamente a terra per allenarsi con la spada.
Jeongin, senza farsi vedere, gli fece la linguaccia.

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Dal prossimo capitolo la storia entrerà finalmente nel vivo :)
Se per adesso vi piace, non esitate a lasciare una recensione con i vostri pareri, mi farebbe davvero molto piacere!

 
-moganoix

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Capitolo 7
*** settimo ***


“Lo vedi quella specie di bulbo di vetro appeso al soffitto?” domandò Hyunjin ad un Changbin che, estasiato, vagava per uno dei tanti piccoli magazzini del villaggio.
“Oh, sì, ho notato che ce l’avete in casa anche tu Jeongin! Che dispositivo è, a che cosa serve?”
Il biondo ridacchiò alla perspicacia del novizio e, senza indugiare oltre, premette un grosso pulsante sulla parete. Il bulbo si illuminò all’istante di una calda, benché, in apparenza, fioca luce giallastra, esplodendo inaspettatamente di fronte agli occhi avidi di conoscenza di Changbin che, ipnotizzato dal miracolo luminoso, tese istintivamente una mano verso il soffitto, tentando di sfiorare almeno con la punta delle dita il vetro iridescente.
“Se fossi in te non lo farei, il vetro tende a scaldarsi in fretta. Vuoi bruciarti anche le dita?” lo riprese maternamente il più alto prima di premere di nuovo lo stesso bottone, interrompendo la magia.
“Che cos’è?” le labbra di Changbin tremavano “Fisica? Chimica? Alchimia?”
Hyunjin prese uno sgabello e, prima di ribattere, sganciò con attenzione il bulbo vitreo dalla sua sede sul soffitto, per poi porgerlo al novizio: “Vivendo tra gli alberi non possiamo rischiare di appiccare incendi illuminando il villaggio con candele o semplici torce, una singola svista può portarci alla rovina. Le creature non umane, soprattutto, non amano il fuoco. Avevamo bisogno di un modo nuovo per illuminare e fornire energia al villaggio e, dopo anni, abbiamo prodotto questo.”
Hyunjin fece un cenno al bulbo: “Ci siamo chiesti come facessero le lucciole a brillare, se ci fosse qualcosa di chimico al loro interno che permettesse loro di sviluppare quel tipo di luce nel loro addome, e alla fine abbiamo scoperto che ciò che consente loro di portare a compimento la reazione è il movimento di una sorta di fluido, un fluido che crediamo sia presente, in maniera più o meno estesa, all’interno di tutti gli organismi, viventi e non, presenti su questo pianeta. In alcuni metalli ce n’è molto, abbiamo sperimentato con essi finché non siamo stati in grado di maneggiarlo.”
Hyunjin si voltò ed indicò un grande e complesso macchinario presente alle sue spalle, composto da due alte vasche collegate tra loro mediante svariati tubuli ed elettrodi: “È con quello che riusciamo a gestire il fluido. Ce ne sono diversi sparsi per tutto il villaggio, richiedono molta manutenzione e si logorano velocemente, ma con gli accorgimenti giusti ci permettono di non appiccare incendi con il fuoco. Dobbiamo solo ricordarci di isolare tutto con l’argilla o la cera.”
Changbin non si sprecò in apprezzamenti vari, continuò a tempestare Hyunjin di domande fino allo stremo, saltando di magazzino in magazzino finché il biondo non lo pregò, a sera inoltrata, con tono drammatico, di piantarla e di starsene un po’ zitto. Changbin si ritrovò a tornare verso la casupola dei due fratelli ancora profondamente insoddisfatto, chiedendosi quale fosse la ragione di dargli così tanti spunti se, alla fine, non poteva avere il tempo materiale di approfondire nulla di tutto ciò che Hyunjin gli aveva rivelato. Una volta dentro casa, con teatrale esasperazione, l’ibrido si arrese a mostrargli alcuni dei suoi disegni preparatori per tutte le invenzioni che aveva costruito o aveva intenzione, prima o poi, di mettere a punto. Mentre il più alto preparava la cena, il novizio sfogliava le pergamene con ansia febbrile, malinconicamente conscio di non capirci assolutamente nulla. Anche se il biondo gli aveva imposto il silenzio, alla fine, posando lo sguardo sull’ultima delle creazioni dell’altro, non riuscì a trattenersi: “E questo a che serve?”
Sospirando con tono melodrammatico, esausto, Hyunjin si voltò verso il foglio e, gesticolando con delle carote in mano, spiegò: “Quella è l’ultima delle invenzioni a cui sto lavorando, è ancora in fase di progettazione, ma in questi giorni credo di star arrivando a buoni risultati. Voglio costruire un amplificatore, servirà a comprendere meglio i versi degli animali nei boschi… Ultimamente, come ben hai visto, c’è qualcosa di strano in loro, nemmeno mio fratello e la sua specie riescono a comunicarci come facevano fino a poche settimane fa. Forse se riesco ad analizzare meglio il loro modo di esprimersi capirò che cosa c’è che non va. È come se qualcosa li disturbasse…”
“Ho sentito che i Filosofi della Capitale sostengono che siano semplici migrazioni, ma non è una teoria che mi convince.”
“Migrazioni in massa di lupi, orsi e cinghiali proprio nel momento in cui le femmine devono accudire i cuccioli e sta per cominciare la fase di preparazione al letargo? Changbin, sai anche tu che non è possibile. O, almeno, non in questi numeri. Sono determinato a scoprire che cosa ci sta dietro, e se vuoi, una volta che sarai di ritorno, potrai aiutarmi nella ricerca.”
Il novizio sorrise complice, come a sottolineare il fatto che sarebbe comunque tornato a prescindere per una lunga visita di cortesia: “Nel tempo che ci rimane proverò per conto mio ad indagare con Felix. Lui dovrà pur sentire qualcosa!”
 
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Il piccolo dio, intanto, aveva trascorso un paio di ore insieme a Jeongin ad arrampicarsi da un ramo all’altro del villaggio – il quale, aveva scoperto, si estendeva in altezza molto più di quanto effettivamente potesse immaginare – per poi venire brutalmente abbandonato dallo stesso che, sbadatamente, aveva ricordato di essere di nuovo ‘di vedetta’, ovvero toccava ancora a lui tenere d’occhio le carovane dei mercanti per ripulirli senza pietà. Scusandosi, l’elfo si offrì di accompagnarlo da Changbin e Hyunjin prima di schizzare via tra le fronde degli alberi, ma Felix, che nei suoi centoventi anni di vita di fisica e chimica aveva solo compreso che erano materie che non facevano per nulla al caso suo, preferì seguirlo di nuovo al di là degli specchi protettivi per scendere a terra e raggiungere Chan nel suo allenamento. Non che nell’uso della spada fosse tanto più in gamba che nel calcolare e misurare dosi e velocità di reazione, forse l’ultima volta che gli avevano lasciato impugnare un’arma era stato trent’anni prima, all’epoca in cui il Cantastorie era giunto alla Capitale, e di certo assomigliava di più ad un piccolo pugnale da signora che allo spadone a due mani di Chan, ma almeno avrebbe potuto tenere compagnia al soldato senza sentirsi il terzo incomodo. A terra, poi, al massimo si sarebbe divertito a giocare a nascondino con qualche farfalla o a preparare deliziose tortine a base di lombrico per i passeri di passaggio, e chissà che Chan non si offrisse di scavare con lui per trovare qualche vermicello alla fine.
Aveva notato quanto il soldato sembrasse giù di corda per aver perso un altro giorno di viaggio e, se da una parte il suo lato umano si chiedeva perché avesse tanta fretta di farlo fuori, dall’altra quello ascetico e divino lo riportava alla realtà e gli faceva presente, uno dopo l’altro, tutti i motivi per cui ritardare ancora avrebbe presumibilmente portato a conseguenze catastrofiche; questo, almeno, era il parere dei Filosofi di corte alla Capitale. Capiva quanto Chan tenesse al suo lavoro, lo conosceva da poco più di una settimana e, in fondo, gli piaceva. Changbin era di certo un personaggio, testardo e concentrato su nient’altro che fosse il suo piccolo mondo fatto di ampolline, incantesimi di dubbia riuscita e pericolosi cerchi alchemici, dolce in fondo, ma ancora distaccato in superficie. Chan era quello che, invece, nel gruppo doveva preoccuparsi di vegliare su tutti loro. Nella maggior parte dei casi recava sul viso la maschera del padre burbero, della guardia inflessibile ed inarrestabile, ma Felix sapeva che celava in sé il peso di una dolce sensibilità materna. Proteggeva il mondo con la spada ed il proprio fragile cuore con la menzogna di un fine velo che faceva calare sugli occhi ogni volta che doveva combattere. Il piccolo dio sentiva di essere intrigato dalla dualità della sua figura, si domandava che cosa potesse nascondersi dietro all’ebano delle sue iridi, dietro alla rabbia con cui, in maniera crudelmente meccanica e precisa, menava fendenti in aria in una piccola radura poco lontano da Tillvah. Non ci mise molto a trovarlo, gli era bastato percorrere al contrario la strada su cui diversi piccoli animaletti boschivi spaventati filavano spediti ed allarmati. In fondo all’impervia via aveva trovato la lama tagliente che Chan portava sempre assicurata alle spalle, e nascosto dietro di essa, grondante di sudore, il soldato che valutava con occhio di falco la sua prossima immaginaria vittima. Felix si schivò di lato, uno scarto dell’iride di Chan verso di lui gli fece comprendere che la guardia lo aveva notato, e lasciò così che portasse a compimento la sua performance. I capelli biondo pallido dell’amico rilucevano di un bagliore biancastro sotto il sole cocente di fine agosto, i riccioli esplodevano in aria ad ogni movimento; alcuni, incollandosi talvolta al viso a causa del sudore, gli pungevano gli occhi, facendolo sbuffare e digrignare minacciosamente i denti. Aveva levato la spessa cotta di pelle e fatto i risvolti all’ampia camicia, più indietro giacevano, gelosamente custoditi dalla ruvida radice di uno dei tanti anziani alberi della foresta, il mantello ed il complicato spallaccio con la testa di lupo che aveva subito impressionato il piccolo dio. Era il simbolo delle Guardie reali, scomodo in battaglia ma utile a pompare l’orgoglio dei superficiali. Chan non era uno di questi, Felix lo vedeva lucidare con cura in lupo bianco ogni sera prima di andare a dormire, subito dopo aver ricontrollato per l’ennesima volta la tratta del loro viaggio ed aver calcolato e ricalcolato il numero dei giorni di cammino rimasti e subito prima che si prendesse un momento per far cadere il drappo di durezza con cui celava il suo vero volto, desse uno sguardo a Changbin, che dormiva sempre, ed un altro, molto più timido, a lui. Timido. Timido non era davvero l’aggettivo più adatto a descrivere i muscoli pieni del soldato che si tendevano sotto l’arduo sforzo di sorreggere lo spadone. Le mani ferme stringevano l’impugnatura metallica con presa sicura, fisse attorno all’asta fredda di un metallo aspro e spietato, e non lasciavano che il peso massiccio del ferro le vincesse. Le vene pulsavano al ritmo degli affondi, delle finte schivate, degli ampi salti che il soldato infilava uno dopo l’altro, e gridavano vittoria con la carica della belva feroce, ma nessun attacco, nessuno stacco poteva davvero dirsi casuale. Felix pensò che stesse danzando un danza terribile ed affascinante allo stesso momento, seguiva le linee delle vene che esplodevano sulle braccia tese nello sforzo e finiva irrimediabilmente a fissare il petto contratto, mezzo nascosto dalla camicia, di Chan, i cui occhi schizzavano rapidi a destra e a sinistra nell’atto di individuare i nemici alla sua portata. Le gambe flettevano e sostenevano armonicamente le mosse più astruse, i polpacci stretti negli stivali ribollivano di adrenalina, la stessa adrenalina che scorreva fino al viso corrugato, segnato indicibilmente da una solennità che incuteva profondo rispetto e metteva in rigida soggezione.
Felix lo era, in soggezione, e per un momento si sentì piccolo, umano, avvertì il proprio cuore battere come faceva quando aveva soltanto vent’anni, seguendo la frigida, fascinosa, melodia dei sibili che lo spadone emetteva squarciando l’aria.
Deglutì a vuoto, gli mancava il respiro e non si era accorto di non essere riuscito a staccare gli occhi da lui nemmeno per un misero secondo durante tutta la sequenza. Quando Chan portò a segno l’ultimo fendente ed abbandonò lo spadone a terra, gli venne spontaneo correre immediatamente verso di lui e domandare con una certa ansia, le mani che tremavano dall’entusiasmo e dal bisogno: “Chan, posso provare anche io? Insegnami, per favore!”
Chan, madido ed ansante, aggrottò le sopracciglia, piegando il viso in un’espressione a metà tra il sorpreso ed il perplesso. Il piccolo dio lasciò che riprendesse a respirare in maniera corretta prima di sporgersi ancora verso di lui e ripetere la domanda.
“Ma tu non dovresti portare gioia e prosperità in giro? Che ci vuoi fare con un’arma del genere?” fu la lapidaria risposta del soldato, accompagnata da una lieve scrollata di spalle.
“Ya, lo so, ma non ho mai imparato e sento che è un’esperienza che voglio fare.”
Piccola bugia, voleva semplicemente danzare con lui, la spada era un di più con cui avrebbe dovuto avere per forza a che fare se non voleva farsi dire di no.
Le sopracciglia di Chan parvero incurvarsi ancora di più: “Ma riesci almeno a sollevarla?”
Le braccine esili del piccolo dio gridavano in modo abbastanza lampante ‘No!’, ma egli, sfoggiando un bello sguardo fiero, rispose invece: “E che ci vuole?”
Si chinò e strinse le mani sull’impugnatura, tirando la lama su da terra. Fece poi per sollevarla di slancio, ma, come previsto, tutto ciò che derivò dallo sforzo di Felix fu un improvviso: “Ahia! Ahia, la mia schiena!”
Chan fu svelto a prendergli lo spadone di mano prima che lo facesse cadere e si affettasse accidentalmente i piedi, per scoppiare in una grassa risata di fronte alla faccia contrariata e dolorante dell’altro.
Felix subito si imbronciò e tentò di lamentarsi con un debole: “Piantala di prendermi in giro!”, ma poi, vedendo che il soldato non accennava a smettere, si rilassò di nuovo e, piano piano, iniziò a ridere anche lui.
“Guarda che comunque non sono io ad essere magro, sei tu che sei troppo muscoloso!” provò a ribattere ancora, ma ottenne in risposta solamente una scossa del capo ed un’altra risata a stento trattenuta. Chan sollevò una mano, la ripulì dal sudore sfregandola velocemente contro i pantaloni e la portò fino al capo di Felix per scompigliargli piano i capelli.
“Non è che sei magro, è che sei vecchio”
Felix, non appena Chan proferì quelle parole, spalancò la bocca e sgranò gli occhi. Per un momento smise di schiamazzare, non si sentì che un grillo frinire in lontananza prima che scoppiasse di nuovo e si mettesse a strillare a più non posso: “Bang Chan, scappa che se ti prendo ti seppellisco vivo!”
Caricò verso il soldato con l’intenzione di gettarlo a terra e dimostrargli di essere un vero uomo virile e forzuto come lui si vantava evidentemente di essere, ma Chan schivò abilmente sogghignando, e fu Felix a cadere di faccia. Il soldato scappò via ridendo, e Felix non ci mise molto a rimettersi in piedi, sebbene inciampando un paio di volte nei suoi stessi stivali, e a sfrecciare verso di lui con l’intenzione di placcarlo. Se qualcuno li avesse visti da fuori avrebbe sicuramente pensato che fossero due idioti, rifletté il piccolo dio, eppure non poteva non ammettere che la versione ‘idiota’ di Chan era particolarmente affabile. Anche adesso stavano danzando, una danza decisamente più goffa ed infantile di quella in cui la guardia da sola si era cimentata appena prima, ma era incredibilmente divertente, ed il piccolo dio sapeva – sentiva – che anche per il biondo era lo stesso. Si chiese che bisogno avesse di mostrarsi tanto disaccato con lui e Changbin, di allontanarsi da loro il più possibile quando ne aveva la possibilità – spesso, durante i pasti, Chan annunciava che si sarebbe allenato e nessuno lo vedeva più per almeno un’ora –, se chiaramente la sua vera natura era… questa. Un sorriso enorme stampato in viso coronava l’ilarità da cui la sua spessa figura era invasa, la spensieratezza, la leggerezza che chiaramente cercava di ritrovare a tutti i costi. Nessun soldato poteva vantare un animo nobile e leggero allo stesso tempo, Felix fu felice di aver aiutato Chan a riscoprire quel lato di sé, almeno per pochi minuti prima che la guardia decidesse, per scherzo, di fermarsi sul posto all’improvviso e lasciare che egli andasse rovinosamente a sbattere contro la sua schiena. Felix non riuscì a frenare in tempo la sua corsa ed andò a finire con il capo dritto contro le toniche spalle dell’altro, ribalzando poi indietro e rovinando di nuovo seduto tra l’erba alta e i dente di leone. Chan si voltò verso di lui e gli si inginocchiò accanto con un’ultima risata, sospirando, per poi tornare ad appoggiare una mano sul suo capo: “Beh, mi sa che ti ho preso io.”
Felix abbassò teatralmente lo sguardo e si mise a braccia conserte per imitare la voce tipica degli anziani: “Sei solo un giovinastro che non ha più rispetto delle vecchie autorità!”
“Lo spadone sono io che riesco a sollevarlo, direi che l’autorità ce l’ho io, Lix”
Felix sorrise leggermente imbarazzato per il soprannome usato dall’amico, ma non era il momento di farsi venire in mente idee strane sul compagno di viaggio. Piegò il sorriso in un piccolo ghigno e, con un leggero scarto del capo, indicò ad una farfalla che volava lì vicino con un nutrito gruppo di sue simili di posarsi sulla punta del naso di Chan. Il soldato non se lo aspettava, ridacchiò di nuovo appena si ritrovò l’animaletto di fronte e gongolò: “Anche la farfalla preferisce un giovinastro come me ad un vecchietto decrepito come te, Lix!”
Felix si unì alla risata di Chan, poi, senza lasciare il tempo a Chan di accorgersene, ordinò alle altre farfalle di attaccare tutte insieme il viso del soldato, che esplose in un gridolino spaventato. Lo lasciò a dimenarsi per alcuni secondi, poi ringraziò gli insetti e, tentando di non mettersi di nuovo a ridere, gli fece il verso: “Il grande uomo con lo spadone pesantissimo ha paura di qualche farfallina!”
“Ya, bravo, vendicati pure con i tuoi poteri magici!” brontolò Chan, ricomponendosi.
“Oh, non dirmi che adesso ti sei offeso però!”
Felix si tirò su e porse una mano all’amico: “Pace?”
Chan si ritrovò ad annuire sospirando, stringendogli volentieri la mano: “Pace.”
Il piccolo dio addolcì allora lo sguardo e, senza mollare a presa, lo aiutò a rimettersi in piedi: “Comunque dicevo sul serio prima! Voglio che mi insegni a maneggiare bene un’arma, e se non sarà la tua spada allora potresti farmi provare il tuo pugnale!”
Il volto di Chan tornò ad oscurarsi un minimo. Si domandò perché l’altro desiderasse tanto imparare da lui i rudimenti del combattimento, e, soprattutto, se non avesse mai davvero toccato un’arma prima di quel momento. Forse voleva davvero solamente togliersi uno sfizio, forse l’aveva davvero trovato bravo e gli era venuta voglia di cimentarsi, pur consapevole di non avere il tempo necessario per diventare un maestro in quell’arte, e chi era lui per negargli una delle sue ultime volontà?
Levò il lungo pugnale che sporgeva dallo stivale sinistro e lo porse allora al piccolo dio: “E va bene, proviamoci.”
Felix afferrò l’impugnatura del lungo coltello con accortezza, come se non volesse rovinarne il manico finemente cesellato. A vederlo era una piccola opera d’artigianato, in un museo di provincia avrebbe certamente ricoperto il ruolo di attrazione principale, ma proprio la sua bellezza faceva alquanto dubitare, in prima battuta, dell’effettiva funzionalità in battaglia della lama. In mano pareva fin troppo, relativamente, leggera anche per uno con la costituzione fisica di Felix. La fece prudentemente roteare tra le dita e, con una certa attenzione, mormorò incerto: “Sembra così fragile… Eppure allo stesso tempo è veramente ben bilanciato.”
“Lo è. L’ho forgiato io da solo, sai? Sia l’impugnatura che la lama sono di ferro niveo, lo stesso che tiene Tillvah appesa ai tronchi d’albero. Quando decidono di accogliere la tua richiesta di entrare nelle Guardie reali allora ti mandano al Nord, e lì devi progettare un pugnale. Il lupo, che rappresenta il gruppo e la forza, e il pugnale, la segretezza ed il silenzio, sono i nostri simboli. Ognuno di noi ne possiede uno, quindi fai attenzione quando maneggi il mio. Ci tengo, chiaro?”
Il piccolo dio annuì immediatamente, colpito dalla storia dell’amico. Ammise di non conoscere tale tradizione, probabilmente perché solitamente bazzicava maggiormente attorno ai Filosofi che ai soldati di ogni genere e rango.
“Se il lupo ci tiene uniti, il pugnale è invece il nostro segno distintivo. Ogni volta che uno di noi muore in battaglia o in missione, prima del corpo siamo tenuti a recuperare il pugnale, che verrà incastonato nella lapide in sua memoria.”
“Non è triste?” obiettò allora il piccolo dio.
“No, almeno non per me. Per quanto mi riguarda, ho preso parte a diverse missioni, ed in ognuna di esse qualcuno è finito ucciso. Ribelli, dissidenti, per ogni, seppur misera, rivolta almeno un prigioniero finiva nelle carceri della Capitale. Non credo di essere una bella persona, Lix, però tutto il bello che poteva esserci in me all’inizio l’ho di certo incastonato in questo coltello. Forse l’impugnatura sembra troppo articolata, forse la lama è troppo lunga, però mi rappresenta a perfezione per come vorrei essere e per come vorrei che mi ricordassero.”
Felix tremò, non era più tanto sicuro di voler tenere tra le mani un oggetto così prezioso, si morse il labbro inferiore e, stringendosi nelle spalle, porse il pugnale al biondo. Prima che potesse aggiungere qualcosa, Chan avvolse le sue mani con le proprie, grandi, calde, e rifiutò l’offerta: “Guarda che fragile non lo è per niente. Puoi maneggiarlo come ti pare, di certo non si spezzerà per i fendenti di un vecchietto come te.”
Felix riprese allora la lama con sé ed alzò gli occhi al cielo: “Guarda che non ti conviene prendermi in giro mentre ho il tuo pugnale in mano!”
“Beh, hai detto di non sapere come usarlo tanto, no? La cosa più probabile che possa capitare è che tu ti faccia male da solo.”
Felix rimise il broncio, ma si fece attento non appena Chan, recuperato un ramoscello al limitare della radura, cominciò a mostrargli le prime semplici mosse.
“Forse ti aspettavi che partissimo dagli affondi, a dire il vero prima di imparare ad attaccare è necessario capire come difendersi e, soprattutto, saper schivare i fendenti dell’avversario. O, beh, degli avversari. Credo che il pugnale sia un’arma abbastanza versatile. Per uno come te, più veloce che forzuto, è una scelta consigliabile rispetto ad una spada o ad una lancia, che sono meno maneggevoli.”
Chan, per qualche motivo, stabilì inconsciamente che gli avrebbe parlato come se avesse avuto ancora davanti la vita intera. Voleva trattarlo come un allievo più piccolo, come un fratellino poco più giovane che ancora lo ammirava, non come un dio centenario da immolare per il bene del Paese.
“Vedi, per schivare devi fare così” e qui allora gli mostrava prima con il ramoscello la posizione corretta, per poi correre a correggere postura e movimento appoggiando le mani sulle sue braccia e sulle sue spalle. Notò per la prima volta che aveva qualche lentiggine anche su di esse, e si sorprese a pensare che gli donassero. Risaltavano sulla pelle abbronzata, davano un tocco di terreno all’aura celestiale di cui la silhouette di Felix era pregna. Continuava a chiamarlo per soprannome, non si ricordava se l’avesse già fatto prima, ma all’altro non pareva dare fastidio e forse era troppo tardi per tornare indietro. ‘Lix’ poteva forse sembrare troppo affettuoso, ma Chan ormai sapeva di essersi già davvero affezionato all’altro. Aveva vissuto cent’anni in più di lui, aveva assistito imperturbabile, sempre giovane, allo scorrere degli anni, alla morte delle vecchie generazioni, ed era innocente. Invidiava il sorriso puro con cui tentava di replicare la crudeltà dei letali movimenti che gli mostrava, il suo ridacchiare gioioso ogni volta che riceveva complimenti.
In poco tempo si spinse ad indicargli, finalmente, qualche attacco, e dovette rimproverarlo per il troppo entusiasmo: “Non colpire mai con tutta la tua forza se stai combattendo contro più avversari. Che succede se poi la lama sta incastrata nel petto di qualcuno per esempio? Se vuoi rallentare gli avversari mira agli occhi o al viso in generale, se vuoi uccidere velocemente taglia loro la gola.”
Il sorriso candido con cui Felix annuiva lo destabilizzava, per lui era tutto un gioco e, in una normale situazione, tutto ciò lo avrebbe fatto imbestialire. Con il piccolo dio non poteva fare a meno, invece, di ricambiare i suoi sorrisi. Ogni minimo, inutile, impercettibile errore era una misera scusante per avvicinarglisi, per toccare le sue braccia molli. Si vergognò quando scoprì che i capelli odoravano di muschio, che la pelle sapeva di incantevole selvatico. Procurò un ramo anche a lui e gli chiese di combattere contro di sé, assecondò il desiderio del dio di danzare insieme e non comprese quanto l’altro ne fosse, in cuor suo, contento. Alla fine lo gettò di nuovo scherzosamente a terra e, in preda ad un istinto altrettanto animalesco, tra gli ansiti della lotta, si sporse verso il suo viso per baciarlo sulla fronte. Felix aveva gli occhi chiusi, respirava affannosamente, non ebbe alcuna reazione, allora Chan raccolse più dolcemente il suo viso con le mani e fece congiungere castamente le loro labbra, il rossore dell’imbarazzo fortunatamente nascosto dalla tenue luce cremisi del tardo tramonto.
Si separò dal viso dell’altro troppo presto perché Felix potesse effettivamente ricambiare, ma ingenuamente era convinto che il piccolo dio gli avrebbe sorriso come quando, poco prima, gli aveva insegnato come sgozzare un nemico, e che, con le mani minute ed il suo soffice tocco, avrebbe di nuovo reclamato il peso delle sue labbra sulle proprie. Quando socchiuse gli occhi, a pochi centimetri dal suo viso, l’espressione di Felix non poté fare altro che inorridirlo. Il piccolo dio guardava altrove, evitava di incrociare la traiettoria del suo sguardo e, con un certo disagio, aveva puntato le sue mani contro il suo petto, domandandogli implicitamente di schivarsi e di lasciargli il suo spazio. Chan si scostò immediatamente, comprendendo di aver esagerato. Preso in contropiede, non appena vide Felix mettersi seduto e spostarsi un pochino più lontano da lui si fece prendere dallo sconforto. Abbassò le spalle, istintivamente calò il ciuffo di riccioli biondi sul viso e desiderò, mai come in quel momento, di sparire all’istante, mangiato vivo dalla vergogna. L’imbarazzo gli rosicchiava avidamente le ossa, ogni secondo di brutale silenzio pungeva la sua pelle e gli intimava di nascondersi, di non farsi più vedere perché, in un attimo di gentile follia, aveva osato desiderare la Felicità.
A stento riuscì a sputare un rapidissimo, rotto: “Mi dispiace…”
Si sarebbe almeno aspettato che Felix scuotesse il capo e provasse a rincuorarlo, ma l’amico incassò la testa fra le spalle e, forse ancora più intimidito di lui, borbottò: “Chan, mi stai portando a morire…”
Bel modo di riportarlo alla realtà dopo un pomeriggio fantastico, pensò il soldato.
“… Non credo che sia giusto darti delle speranze.” concluse Felix “Lasciami perdere.”
Chan, atterrito, annuì mestamente: “Mi dispiace… Ci penso da quando mi hai visto ballare con quella ragazza alla festa qualche giorno fa… Mi dispiace…”
“Ci conosciamo da poco, capita a tutti ogni tanto di prendersi una sbandata. Ci metterai poco a dimenticarti di me una volta che Changbin avrà completato il rito al Cratere.”
Chan non riuscì nemmeno ad essere arrabbiato per il fatto che Felix avesse definito tutto quello una ‘sbandata’. Vide l’altro alzarsi in piedi, questa volta il piccolo dio gli diede le spalle e non lo aiutò a fare lo stesso, e la consapevolezza lo tramortì ancora di più. Recuperò lo spadone e lo assicurò alla schiena, rimise a posto il pugnale, riallacciò la cotta di pelle al busto e con essa rimise al loro posto il mantello e lo spallaccio.
Avvolti da un greve silenzio, i due si diressero di nuovo verso Tillvah. Tutto ciò che Felix fu ancora in grado di pronunciare fu un gutturale mormorio: “Seguimi, Jeongin mi ha detto che avrebbe lasciato una scala per noi con cui arrampicarci.”
Chan emise un sospiro, lo avrebbe seguito in capo al mondo se Lix glielo avesse chiesto.

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Capitolo 8
*** ottavo ***


“Oh quindi è questo quello a cui si riferiva Jeongin quando parlava dell’invenzione di Hyunjin!” esclamò Felix con ammirazione rivolto a Changbin, che se ne stava tranquillamente sdraiato sul dorso di Miss Binnie, la quale trotterellava allegra appena davanti al cavallo del piccolo dio. Felix, in groppa ad esso, ascoltava affascinato il novizio che chiacchierava a proposito di quanto Hyunjin avesse cambiato la sua vita di scienziato e ricercatore in un solo pomeriggio.
“Sì, ha detto che vuole costruire questo amplificatore per capire se gli elfi, a frequenze più alte o più basse, sono in grado di capire che cosa non va negli animali ascoltandone il verso! È geniale, vero? Tu pensi che possa funzionare?”
“Ya, sono ciò che di più lontano da uno scienziato possa esistere sulla faccia del pianeta, però… Però come idea mi sembra buona, no? È normale nel mondo animale, così come tra gli uomini, adottare linguaggi differenti per comunicare vari stati d’animo o particolari messaggi. Se riusciranno a scovare il problema la prossima Fonte potrà risolverlo!”
Changbin si fece leggermente scuro in viso a quell’affermazione. Non glielo dimostrava con gli stessi occhi adoranti di Chan, ma doveva ammettere di essersi affezionato in egual maniera al piccolo dio. Chiunque lo avrebbe fatto; in fondo, la spumeggiante personalità dell’amico era difficile da ignorare e finiva, prima o poi, per contagiare chiunque gli stesse intorno. Giorno dopo giorno, l’idea di non solo dovergli dire addio, ma anche di essere stato scelto per recitare il suo rito funebre, gli andava sempre meno a genio. Con Felix poteva stare ore, durante le loro marce, a discorrere di alchimia e scienza e di quanto gli mancasse già, in fondo, trascorrere nottate clandestine nei laboratori della Casa. Aspettava sempre che tutti i suoi confratelli raggiungessero gli spogli dormitori in cui alloggiavano i novizi e che cadessero, uno dopo l’altro, sazi della lauta cena che ogni sera veniva servita, tra le braccia della languida dea Sonno. Doveva fare particolarmente attenzione a Kim Seungmin, non era raro che, non trovandolo accucciato nel suo giaciglio, si divertisse a fare la spia e ad interrompere i suoi pericolosi esperimenti notturni – i quali, tra l’altro, spesso lo facevano finire in infermeria. Ma poteva fermarsi? Più che un mestiere al quale si preparava, quella del Filosofo era per lui una limpida vocazione, e quando ne parlava con Felix quest’ultimo non mancava di ripetergli quanto lo ammirasse – e invidiasse – per tutta la passione che metteva in essa. Changbin a quel punto era solito imbarazzarsi, si chiedeva che cosa mai avesse da invidiare la Fonte della Felicità ad un semplice novizio come lui, e anche in quel momento, mentre esponeva un lungo e barbosamente tecnico monologo sulle scoperte di Hyunjin e del villaggio sospeso di Tillvah – da cui erano partiti poco meno di due ore prima, dopo che i due fratelli gli avevano procurato una giacca nuova per il viaggio, rigorosamente viola come la tunica da apprendista ormai a pezzi dopo l’incidente con il lupo e Miss Binnie – non poté non andare momentaneamente in crisi quando incontrò lo sguardo attento e sinceramente ammaliato dell’altro. In ultimo, nella retroguardia, sfilava Chan, che non si risparmiò di rivolgergli una dura occhiataccia affinché stesse zitto una buona volta. Il novizio rabbrividì. I misteri della natura, della flora, della fauna e della loro sostanza lo intrigavano, ma era dalla sera prima che l’unico rompicapo su cui si stava scervellando era il motivo della nervosità del soldato. Lui e Felix erano tornati a casa di Jeongin e Hyunjin giusto in tempo per mangiare con una pesante aria addosso ed un palpabile muro di tensione a separarli. Chan in particolare aveva consumato lo stretto indispensabile, per poi annunciare che sarebbe tornato fuori. Jeongin aveva domandato innocentemente che cosa fosse successo e perché la guardia fosse tanto furente. Se il novizio stesso e il piccolo dio, per un motivo o per l’altro, evitarono di rispondere, Hyunjin mormorò invece con una certa dolcezza, facendo vibrare piano le lunghe orecchie da elfo: “Ascolta meglio, Innie. Non è arrabbiato, è deluso.”
Jeongin si voltò verso il fratello, per poi puntare immediatamente lo sguardo verso Felix, il quale, accartocciato su se stesso, fissava inespressivo il piatto ancora pieno a metà.  Anche Changbin aveva teso le orecchie, le curve morbide di esse captavano tanto senso di colpa quanto gli angoli affilati di quelle del giovane elfo.
Non aveva domandato a nessuno dei due compagni di viaggio che cosa fosse realmente accaduto, sembravano troppo in imbarazzo per volerne davvero parlare, così aveva cominciato uno delle sue interminabili prediche da studentello perfettino, tentando almeno di far distrarre colui a cui, tra i due, teneva di più.
Si sentì realizzato quando, dopo essere stato zittito da Chan, Felix lo esortò a continuare: “Ma quindi che cosa studiate di preciso alla tua Casa?”
“La branca più importante in assoluto è quella della zoologia. Essendo la Casa posta in una sorta di isola climatica in cui spesso fa caldo e c’è bel tempo, oltre a concentrarci sulla fauna del posto spesso ci occupiamo anche di specie rare provenienti dal Sud. Abbiamo recinti e gabbie apposite per ogni taglia, per questo mi hanno fatto tenere Miss Binnie dopo che l’ho evocata. In genere sono animali feriti o che, in qualche modo, necessitano di cure e attenzioni prima di tornare liberi in natura. Nel mentre che si riprendono ne approfittiamo per esaminare i loro comportamenti, sia quando sono in gruppo, che in coppia, che da soli. Il laboratorio di biologia è il più grande della regione. La mia non è una Casa così conosciuta, ma contribuisce in grande misura al problema della convivenza pacifica tra uomo e animale.”
Il novizio fece una breve pausa. Era evidente per il suo curioso interlocutore che fosse preoccupato per la situazione che invece stavano vivendo in quel momento a causa delle migrazioni dei branchi. Tentò di rincuorarlo assicurandogli che i suoi confratelli stessero facendo del loro meglio per risolvere il garbuglio, Changbin, sebbene sconfortato, annuì.
“E poi…” volle continuare “Beh, poi ci sono anche laboratori più piccoli. Per esempio quello di alchimia, o quello di meccanica…”
Elencò minuziosamente ogni particolare delle ricerche che stavano conducendo. Era materiale segreto, non sarebbe dovuto essere divulgato con tanta sfacciata naturalezza, ma era anche vero che la maggior parte degli esperimenti più audaci rivelava alla fine risultati fallimentari, se non completi disastri, per non parlare del fatto che a Chan non interessava per nulla tutto ciò di cui stava brillantemente chiacchierando, mentre Felix, anche se fosse riuscito a comprendere effettivamente qualcosa del mare di parole con cui il novizio lo stava inondando, non sarebbe, per ovvi motivi, riuscito a raccontarlo a nessuno.
“I miei animali preferiti sono gli artropodi” ammise Changbin con un sorrisetto, accarezzando il guscio massiccio di Miss Binnie “Non si era capito, vero?”
Felix gli aveva sorriso ed aveva gorgheggiato con una strana soavità: “Io amo alla follia le lucciole.”
Il novizio poté chiaramente avvertire il lungo sospiro di Chan nelle retrovie. Deluso, aveva detto Hyunjin. Non gli serviva l’intuito da alchimista pazzo per comprendere che la delusione del giorno precedente si stava lentamente, inesorabilmente, tramutando in una nera forma di crudele tristezza. Avvertiva attorno a lui un’aura scura, possente, misteriosa. Probabilmente chiudersi in un silenzio tombale e lanciare occhiatacce anche ai poveri scoiattoli che si godevano gli ultimi giorni d’estate era il suo modo di sfogarsi nelle sue ‘giornate no’, eppure quegli occhi ricolmi di risentimento con cui ogni tanto sferzava la figura esile del piccolo dio, proprio di fronte a lui, non poteva non inquietarlo. Alla fine smise davvero di parlare, il discorso andò via via scemando quando gli venne la malsana idea di iniziare a dilungarsi sul galateo di corteggiamento dei Castori cremisi dell’Ovest: “Non è uno studio che ho fatto io, lo giuro! Posso al massimo essermi concentrato sulla cova delle uova di una Libellula di mare!”
La limpida risata di Felix gli aveva fatto capire che, oltre ad essere ora di pranzo, forse era anche giunto il momento di piantarla con le stupidaggini. Era trascorsa mezza giornata e aveva già quasi terminato l’acqua contenuta nella propria borraccia a forza di discorrere praticamente a vuoto.
Non appena trovarono una piccola sorgente si accamparono per il breve pasto che avrebbero consumato, fecero rifocillare gli animali e, mentre questi ultimi si riposavano, come di consueto il soldato annunciò che sarebbe andato a fare un giro per conto suo.
 
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Changbin, quando ben due ore dopo la scura silhouette di Chan era tornata a stagliarsi sul fresco verde della foresta, non poté fare altro che arrabbiarsi con la guardia. Aveva trascorso tutto quel tempo da solo con Felix a chiacchierare di botanica e di impollinazione (o, almeno, di quello lui disquisiva amabilmente, con un solo moderato ed elegante accenno di superbia, mentre il piccolo dio gli ripeteva a manetta che i suoi fiori preferiti di solito erano quelli di colore giallo), e di certo aveva come sempre apprezzato quei preziosi minuti in cui poteva godersi appieno la compagnia dell’altro, come se fosse il suo migliore amico e non una sorta di condannato a morte, ma allo stesso tempo non riusciva a levarsi dalla testa quanto invece Chan fosse incoerente nel farli partire tanto presto la mattina per poi abbandonarli in mezzo ai boschi e sparire chissà dove. Il suo compito era quello di proteggere lui e Felix, di guidarli attraverso le intricate trame delle foreste, di dettare il passo e scandire i tempi di marcia e di riposo. Era vero che, soprattutto a causa del dio stesso, non erano riusciti fin dall’inizio a seguire il calendario, perdendo giorni preziosi, ma se lo avevano fatto era per motivazioni più che valide. Changbin si chiese quali fossero le ragioni di Chan per i suoi quotidiani allontanamenti, e lo domandò infine allo stesso soldato, che replicò con una semplice scrollata di spalle mentre già prendeva in mano le briglie del proprio cavallo e si preparava a montargli in groppa con un unico agile salto.
“Sei stato via due ore a fare solo tu sai cosa e adesso mi rispondi con una scrollata di spalle?! Chan, sei tu il primo che si lamenta che perdiamo tempo, che avevi da fare in mezzo alla foresta di tanto urgente?!”
In tutta risposta, la guardia alzò gli occhi al cielo e sbuffò, lasciando il povero novizio a bocca aperta, come a suggerirgli che quel “Vado ad allenarmi” che aveva mangiucchiato e sputato appena prima di pranzo avrebbe dovuto bastargli.
Changbin osò invece ribellarsi: “Non puoi fare perennemente come ti pare! Guarda un po’, adesso anche io voglio fermarmi qui, in questa radura c’è la luce ottimale per scovare e studiare le popolazioni di formiche! Perché tu puoi sparire senza dare spiegazioni e noi dobbiamo starcene da soli ad aspettarti? Perché tutti i giorni stai via sempre di più? Chan, la tua unica missione dovrebbe essere quella di guardare le spalle a me e a Fe-!”
La lama lucida del niveo coltello di Chan sul suo collo bastò per farlo tacere. Chan lo aveva sguainato in una frazione di secondo e, in altrettanto tempo, l’aveva puntata contro la pallida pelle dell’altro. Il novizio restò un paio di secondi in silenzio, tremolando appena, molto più di quanto Chan avesse effettivamente sperato. Alla fine, comunque, la lingua lunga di Changbin ebbe la meglio e, digrignando i denti, schernì l’avversario: “Non mi sembra affatto ‘proteggere’ questo. Lo reciterai tu il rito, Bang?”
“Piantatela.”
Un ordine, occhi solenni nella loro innocente malinconia, la bocca ripiegata in una sottile e tesissima linea. Changbin e Chan ammisero di non aver mai visto il dio più serio di quanto lo era in quel momento.
“Changbin, non facciamone una questione di stato e continuiamo la marcia. Se Chan si permette di fare pause più lunghe è perché ha calcolato bene il calendario. Chan, smetti di prendertela con lui. Non ti ha fatto nulla, sai benissimo anche tu con chi essere arrabbiato e con chi sfogarti, se lo desideri tanto.”
Il piccolo dio voltò le spalle ad entrambi e raggiunse allora il suo cavallo, ricominciando a seguire il sentiero che stavano percorrendo.
Chan sospirò e, chiudendosi silenziosamente in se stesso, accartocciando le spalle, lo rincorse trotterellando mentre rinfoderava il pugnale. Changbin, ancora scosso, si unì per ultimo alla piccola processione, restando in coda fino a sera. Non si parlarono per il resto della giornata, anche se Chan non si fosse messo in mezzo tra Changbin e Felix probabilmente né il primo né il secondo avrebbero aperto bocca. Per il novizio era ovvio ormai che fosse successo qualcosa tra i due compagni di viaggio, nonostante non sapesse spiegarsi né come né di che genere siccome sembravano essere sempre andati più che d’accordo. Aveva anche provato, durante il pomeriggio, ad accennare l’argomento a Felix, ma il piccolo dio aveva prontamente sviato l’argomento fingendo di non cogliere le sue allusioni, e alla fine vi aveva rinunciato. Dopo la breve – ed intensa – litigata con il soldato aveva di certo compreso che doveva essere qualcosa di grave in cui non volevano che si immischiasse.
Continuò a rimuginarci su fino a sera tarda, tanto che l’insipida cena, servita fredda, gli rimase sullo stomaco. Provò a sdraiarsi al caldo contro il duro guscio di Miss Binnie, ma la sensazione di nausea e stordimento non accennava a diminuire, annunciò quindi che si sarebbe allontanato di qualche metro per provare a vomitare. Felix, che stava facendo il solletico ad una delle sue lucciole, gli rivolse uno sguardo ansioso. Il novizio si inoltrò con passo pesante all’interno della boscaglia, allontanandosi dal sentiero traballando mentre si teneva il ventre dolorante con le mani e mormorava a denti stretti sottili e macchinose imprecazioni da Filosofo (“Per l’amor del perossido d’idrogeno!”). Camminò per una ventina di metri, si appoggiò infine alla radice sporgente di un albero, messosi carponi, iniziò a tossire, stringendo la presa allo stomaco. Senza remore, fece per infilarsi due dita in gola, ma non ebbe modo di sollevare la mano che qualcosa di umido e caldo gli era scivolato accanto e aveva cominciato, ansante, ad annusarlo. Changbin perse un battito, serrò istintivamente gli occhi e, inevitabilmente, iniziò a tremare come una foglia. Sapeva di non dovere paura, o almeno di non doverla mostrare, o l’animale l’avrebbe certamente fiutata, ma non era mai stato faccia con un lupo senza le ferree sbarre dei recinti e delle gabbie della Casa a dividerlo da esso. Cercò di fare respiri profondi, istintivamente si voltò verso la belva e, gli occhi sbarrati che imploravano pietà e le bocca spalancata in un grido sordo, tentò lentamente, con movimenti piuttosto impacciati, di indietreggiare per tornare alla radura in cui aveva lasciato da soli Felix e Chan. L’animale lo seguiva, continuava a stargli addosso e ad annusarlo, che avvertisse il sentore sulfureo di Miss Binnie sui suoi vestiti? Il novizio non ne distingueva i contorni, era troppo buio e c’era comunque troppa poca distanza tra loro per riuscire a tracciarne la sagoma. La belva lo stava praticamente sovrastando, se non faceva attenzione a muoversi le avrebbe sicuramente sfiorato il ventre o i fianchi, e chissà che reazione avrebbe scatenato in essa. Il taglio gelido dello sguardo lo pietrificava, il terrore gli sgretolava le ossa e liquefaceva i suoi muscoli. Un braccio cedette, finì schiena a terra, ferendosi una mano, già ustionata, con la ghiaia del terreno. Non fece in tempo a vedere il lupo spalancare le crudeli fauci contro di sé, il fioco luccichio del sangue rappreso sulle punte dei lunghi canini fu abbastanza per indurre il novizio a tentare la sorte; afferrò con decisione una manciata di sassi e terra e lo gettò, più rapido di quanto si potesse aspettare, negli occhi del lupo e, prima che questo potesse azzannarlo per difendersi, scivolò via dalla sua inquietante morsa. Non fece in tempo ad alzarsi in piedi che il capo e lo stomaco ricominciarono a strillare pietà, ma non ebbe il tempo di dare loro ascolto. Quattro, cinque, forse sei lupi si preparavano ad attaccarlo. Uno di loro ululò, gli altri scattarono avanti, ma Changbin ormai correva già. Non seppe orientarsi, avrebbe voluto scappare nella direzione di Felix e Chan e finì, invece, per inoltrarsi ancora di più nella fitta boscaglia. I rami dei cespugli gli sferzavano le braccia, si impigliavano nel ruvido tessuto della giacca e lo trattenevano indietro mentre gli animali, ben più agili, schizzavano a velocità incalcolabile verso di lui, volando leggiadri sui lussureggianti cuscini smerlando della notte. Se il novizio affondava nelle pozzanghere, i lupi sfruttavano la scivolosità del fango per accelerare e lanciarsi ringhiando nel tremendo inseguimento, tendevano i muscoli per spingersi sempre di più verso la preda per poterne violentare la pelle candida, malaticcia, abbronzata del fievole sole delle lampade ad olio di uno sterile laboratorio. Changbin non riusciva a credere di essere di nuovo in una situazione del genere, il giorno prima aveva almeno avuto Miss Binnie ad aiutarlo nella fuga, ma a quell’ora, in cui la fredda luce della luna riusciva solo in parte a penetrare la formosa coltre di verde perenne, anche la sua amica si sarebbe trovata in difficoltà. Abituate ad avere a che fare con i colori sgargianti della lava e del paesaggio vulcanico, le Tarantole Magmatiche dell’Est non avevano mai avuto necessità di sviluppare una, seppur minima, visione notturna. Miss Binnie era più sensibile alle tonalità calde piuttosto che a quelle fredde, obbligarla a soccorrerlo sarebbe equivalso a firmare una condanna a morte per lei. Sperò solo che Felix avesse sentito gli ululati, che fosse venuto a cercarlo, che avesse trovato la giacca che era stato costretto a levarsi durante la corsa e che stesse tentando a tutti i costi di frenare il branco di cacciatori che lo stava braccando. Gli mancava il respiro, sentiva di essere ad un passo dal collasso totale, e le bestie non accennavano a voler interrompere il suo supplizio. Per poco non si sfracellò a tutta velocità contro un albero, gli sobbalzò lo stomaco per la sorpresa, si vomitò addosso e scoppiò in lacrime mentre le prime grida di aiuto gli scoppiavano in gola e straziavano l’aria, incrinando con una nota di crudo, acuminato panico il fiero ululato dei suoi carnefici. Non ce l’avrebbe fatta, perdeva terreno ad ogni scatto, invano proseguiva a zig zag o tentava di scartare lateralmente all’improvviso, o anche di ripararsi negli angusti anfratti degli alberi deceduti. Conoscevano il suo odore, lo avrebbero ricordato finché non sarebbero morti a loro volta. Non ce l’avrebbe fatta, era esausto e le sue gambe a stento erano ancora in grado di reggerlo in piedi. Aveva perso uno stivale, era ricoperto di vomito, l’ustione era ormai presumibilmente infetta e, con molta probabilità, aveva una caviglia rotta per le troppe volte che gli era capitato di inciampare e di ruzzolare a terra. Cadde un’ultima volta, sbatté di petto contro la corteccia rugosa di un albero e si fracassò ai suoi piedi, completamente distrutto, tremante, pronto ad accettare la sua fine. Non riusciva a respirare, la botta lo aveva bloccato a tal punto da costringerlo ansimante al suolo. Avrebbe almeno voluto chiudersi a bozzolo, ultimo disperato tentativo di avere salva la vita, ma il terrore e l’adrenalina lo bloccavano.
Inerte, indifeso, lurido, madido di sudore, non sentì nemmeno la voce di Chan che, in lontananza, lo chiamava mentre cercava di raggiungerlo facendosi vigorosamente largo a piedi con lo spadone. Non appena Changbin riuscì a metterlo a fuoco non poté che gioire dell’arrivo inaspettato, per un attimo aveva dubitato di lui, della sua lealtà alla missione, era convinto che lo avrebbe lasciato morire a causa dei continui litigi e delle incomprensioni. Era la seconda volta in due giorni che correva a salvargli la vita, si sarebbe sentito davvero debitore se il soldato fosse riuscito a sbaragliare da solo tutti i lupi. Changbin non se ne era reso conto, ma lungo tutto il tragitto altre bestie feroci avevano iniziato a seguirlo: cinghiali, vipere… Solo quando finalmente Chan gli spuntò di fronte e prese a menare fendenti contro di essi il novizio riuscì a distinguere l’enorme figura che si faceva largo tra gli alberi, molto più silenziosa di quello che ci si potrebbe immaginare. Un colossale esemplare di Orso corvino delle Selve prese la rincorsa, si fece strada nell’ombra ed assalì la guardia alle spalle prima che Changbin potesse anche solo pensare di avvertire il compagno. Il grido gli si soffocò in gola, esplodendo raucamente nei pochi secondi successivi sotto l’attacco di uno dei lupi che, benché ferito e forse in fin di vita – fiotti di sangue sprizzavano ad intermittenza da un largo squarcio aperto su un fianco –, non aveva rinunciato alla tentazione di affondare le zanne aguzze nelle sue già martoriate carni più e più volte. Si era preso una delle cosce, aveva sentito chiaramente la pelle squarciarsi e l’osso della gamba fratturarsi orribilmente; in un colpo di petto, sbloccandosi, aveva dato voce a tutto il dolore che le unghie ed i denti della belva gli provocavano. Indistintamente avvertì, con le lacrime agli occhi, Chan chiamarlo con un urlo mentre l’arroganza del torvo ringhio del maestoso orso si imponeva sopra di lui per zittirlo. Il soldato era decisamente più veloce dell’avversario, sebbene ovviamente meno potente. Schivò gli attacchi, raggiunse il novizio e staccò con un colpo la testa del lupo che aveva vessato la gamba di Changbin, parandosi di fronte a lui. Anche lui era ferito, ma di certo non quanto il compagno. I tagli che riportava erano per lo più superficiali, o, comunque, di certo non in punti che non gli avrebbero permesso di continuare a combattere. Sollevò per l’ennesima volta lo spadone a due mani contro l’orso, che nel mentre stava di nuovo caricando verso di lui insieme al resto dei lupi e degli altri animali. Cominciava a comprendere perché Changbin non fosse assolutamente convinto della teoria delle migrazioni, non era possibile che lupi, orsi, cinghiali e serpi si coalizzassero direttamente contro di loro. Si chiese dove fosse finito Felix, si erano separati per trovare prima il novizio, ma a quell’ora il piccolo dio, dopo tutte le grida, gli strepiti e i gemiti acuti delle belve morenti avrebbe dovuto sentirli e raggiungerli per terminare l’eccidio con i suoi poteri. Cominciava ad essere stanco, vedere poco o quasi nulla gli dava sui nervi e non gli permetteva di combattere con la stessa precisione del campo di battaglia. In più, tutti gli animali erano più bassi di lui, a parte l’orso, cosa che lo metteva in difficoltà nel prendere la mira e nel ponderare la forza dei colpi. I graffi di quest’ultimo erano poderosi, la sua spada sembrava quasi rimbalzare invece contro la spessa corazza di pelo e pelle squamata. Cadde in ginocchio per la prima volta, si ritrovò a calpestare il sangue misto rigurgito di Changbin, scattò di nuovo in piedi, fu abbattuto ancora. Aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno che Felix chiamasse a raccolta gli animali e lo odiò per non essere lì.
Un aiuto, comunque, non tardò ancora molto ad arrivare. Frecce argentee schizzarono terribili proprio accanto a Chan e Changbin. Jeongin, in piedi sul ramo più basso dell’albero a cui era appoggiato il novizio, teneva l’arco ben stretto in mano, la corda tesa tra le dita precise e letali, la faretra ricolma di dardi. A Chan venne da sorridere, lo ringraziò con un’espressione di puro sollievo stampata in viso; Jeongin, dal canto suo, non rideva affatto. Aveva le sopracciglia corrucciare, la giovane fronte orribilmente corrugata, gli occhi attenti ed affilati che sapeva non l’avrebbero tradito concentrati sui fratelli che avrebbe ucciso. L’elfo aveva addosso il viso dell’adulto che sarebbe diventato, quel genere di volto che nessuno avrebbe ancora voluto vedergli addosso fino almeno al compimento dei diciotto anni. Con voce opaca, scevra di tutto l’entusiasmo che non aveva mai mancato di dimostrare durante la loro breve sosta a Tillvah, scandì semplici ordini rivolti a Chan: “Prendi Changbin, recuperate i cavalli e scappate verso nord, galoppando velocemente arriverete in meno di un’ora ad un villaggio che lo curerà. Qui mi occupo io di loro. Fate attenzione.”
Non era una domanda, Chan non aveva tempo di replicare o di provare a fare l’eroe sostenendo di volersi ancora battere. Jeongin era un ottimo arciere, se la sarebbe cavata, se fossero stati troppi sarebbe semplicemente scappato salendo sugli alberi. Mimò tremolante un “Grazie” con le labbra, afferrò il corpo di Changbin come indicatogli e scappò via tirandoselo dietro arrancando.
Non si voltò più indietro a guardare Jeongin saltare nella mischia, non vide mai l’elfo atterrare con le sue frecce la deviazione delle sue stesse sorelle, dei suoi stessi fratelli. Era fermamente convinto che ce l’avrebbe fatta, che avrebbe fatto valere quel corpicino minuto da ragazzino acerbo che ancora gli permetteva di sgusciare via da qualunque problema, insidia od ostacolo. Se la sarebbe cavata anche quella volta, lo avrebbe raccontato di nuovo a lui e a Changbin con quel sorriso quadrato che lo contraddistingueva, carico di soddisfazione, fiero di essere il vero ed unico salvatore dei suoi amici.
Solo dopo settimane avrebbe scoperto che tutto ciò che avrebbe fatto ritorno tra le braccia di Hyunjin sarebbero state proprio quelle frecce, l’arco ed i vestiti stracciati, completamente impiastricciati di sangue.

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Capitolo 9
*** nono ***


TW: violenza abbastanza esplicita. Se siete sensibili a questo argomento non leggete.
(Ho avuto alcuni lettori di prova e nessuno si è sconvolto, ma, nel caso, sappiate che non è un capitolo leggero).


Kim Seungmin, un nome una garanzia, come si è soliti suggerire. Tale cognome poteva vantare vasto utilizzo presso l’intera Nazione, ma una sola potente famiglia faceva capolino nei pensieri di ognuno quando si sentiva solennemente annunciare: “Arrivano i Kim!”, quella del promettente novizio. Avvocati, giudici, uomini di politica, i Kim vantavano affiliati sparsi in tutto l’astruso diagramma governativo su cui si reggeva l’intera regione. Il nobile capostipite, colui che davvero aveva fatto la fortuna della famiglia, il bisnonno di Seungmin, era stato a lungo primo consigliere del sovrano prima di ritirarsi a vita privata insieme alla moglie, così come aveva fatto suo padre e il padre di suo padre. La madre di Seungmin, giovane sposa prescelta da un ramo di nobili decaduti, si aspettava che anche lui seguisse le orme del nonno e compensasse, un giorno, il vuoto lasciato dalla morte prematura del marito in battaglia, e non aveva inizialmente visto di buon occhio la scelta del figlio di trasferirsi, invece, a studiare in una Casa per intraprendere la lunga carriera di Filosofo. Non ci era poi voluto molto per convincerla, i primi rapporti sul suo rendimento giunti alla Capitale parlavano di lui come di una sorta di piccolo genio, poteva tranquillamente essere considerato il migliore del suo anno. O, almeno, uno dei migliori.
Seungmin non ci mise molto ad imparare a considerare Seo Changbin la sua nemesi, l’avversario che, alla fine dei giochi, avrebbe dovuto sconfiggere per entrare a tutti gli effetti tra le grazie della pretenziosa madre. I voti di Changbin non erano forse eccellenti come i suoi, ma potevano dirsi straordinariamente buoni per una tale testa calda che preferiva sfruttare il tempo prezioso in cui lui era dedito allo studio per divertirsi con la Tarantola magmatica che aveva evocato per scherzo. Lo invidiava, possedevano esattamente la stessa passione, lo stesso rendimento, pari intelligenza, ma Changbin aveva talento, predisposizione. Se a lui servivano intere giornate di approfondimento, al confratello bastavano poche ore di pratica per portare a termine compiti che avrebbero messo in difficoltà qualsiasi novizio della loro età. Seungmin non poteva permettersi di essergli secondo, o la madre avrebbe ricominciato a spingere per un suo ingresso in politica. Amava ciò che faceva, adorava immergersi nel caloroso sentore di antico, ricercare informazioni perdute in pergamene mezzo mangiucchiate dai topi, decriptare codici, risolvere quesiti di fisica spiccia per trovare soluzioni immediate a problemi reali. Spesso costruiva gingilli e giocattoli per i novizi più giovani o per gli animali domestici con cui convivevano, e non era raro che, alle richieste dei minori di fermarsi un po’ con loro, rispondesse con un cenno affermativo. Il fatto che Changbin continuasse a mettersi nei guai era a suo favore e di certo mettergli ogni tanto i bastoni tra le ruote non era complesso. Una qualità che di certo lo distingueva dall’altro era la precisione, in cui invece il confratello, spesso ansioso di arrivare alle conclusioni, non brillava. Per Seungmin non era sbagliato giocare sporco se era per il proprio futuro.
Eppure non aveva potuto che sentirsi sconfitto di fronte alla notizia che aveva appreso poco più di una settimana prima. Changbin avrebbe scortato la Fonte della Felicità fino al Cratere dell’Anima e recitato il suo rito funebre, missione di vitale importanza che, di certo, avrebbe fatto schizzare la considerazione che il Saggio aveva di lui alle stelle. Se durante i primi giorni senza l’avversario aveva continuato a rimuginare sull’occasione sfumata, non ci era però voluto molto affinché gli altri confratelli gli facessero notare che, senza Changbin, avrebbe potuto finalmente concentrarsi in pace sui suoi studi per almeno un paio di settimane. Seungmin non era stato un singolo giorno senza trovarsi di fronte la brutta faccia triangolare del rivale e, in quelle giornate di fine agosto, quasi sperava che decidesse di fermarsi alla Capitale e non facesse più ritorno alla Casa. I verdi prati della valle in cui la sua paradisiaca abitazione era situata avevano assunto una colorazione quasi più grassa, l’erba odorava di rigoglioso, succoso, verde, talmente acceso da fare quasi a pugni con il rosa ed il violetto dei fiori di montagna o il dolcissimo e rinfrescante rosso delle mele. L’aria lo rifocillava, portava con sé buone nuove, lavava via ogni fonte di stress, ogni malanno, ogni brutto pensiero.
In quelle due settimane, Kim Seungmin avrebbe voluto godersi finalmente la serena vita di qualsiasi novizio, e ci sarebbe riuscito se una notte uno strepito allucinato non avesse squarciato l’atmosfera sonnolenta che aleggiava nel dormitorio che condivideva con gli altri novizi del suo anno: “La Casa brucia! Brucia tutto!”
Ci mise un momento a processare ciò che stava accadendo, e a constatare dalle pallide ed assonnate espressioni sui visi dei confratelli, non era l’unico che faceva fatica a comprendere. Bruciare? Che cosa davvero stava andando a fuoco? Aveva la mente annebbiata, non si rendeva conto che una fitta coltre di fumo proveniente dai laboratori, poco distanti, aveva già invaso la camerata e gli impediva di respirare correttamente. Aveva gli occhi che lacrimavano, tossiva sommessamente, tentava quindi di muoversi, di sfregarsi il viso per riprendersi, ma le braccia ricadevano inerti sul materasso, incapaci di obbedire ai suoi deboli comandi. Pensò che sarebbe stato meglio restare lì, tornare a dormire, qualcun altro avrebbe risolto il problema al posto suo per una volta, e quando due forti braccia avvolsero malamente il suo fine e curvo busto osò addirittura lamentarsi e tentare di stringere tra le dita le lenzuola umide, pregne di veleno. Voci indistinte si affacciavano alla finestra della sua mente, ma era come se i vetri fossero appannati, discerneva appena, nella languidezza del fatale torpore, parole sconnesse.
“Portali… poco tempo… lontano… Saggio… laboratorio…”
Chi lo aveva strappato dalla docile carezza del suo letto non era di certo un gentiluomo, lo stava trascinando giù per l’alto edificio a mo’ di sacco di patate, una volta gli fece anche sbattere il capo contro un muro svoltando troppo in fretta. Non ci mise poi molto, comunque, ad abbandonarlo fuori dalla costruzione e a lasciarlo con un'altra figura, più magra, più bassa, forse quella di una donna. Lo mise in piedi, urlò alle sue orecchie di correre e lo spinse con la forza di un leone in una direzione qualsiasi. Seungmin lo fece, scappò via rantolando, inciampando, schiantandosi spesso contro i muri roventi delle costruzioni finché non fu abbastanza lontano da potersi permettere di ruzzolare a terra e gettarsi in mezzo a quell’erba meravigliosa che, ormai, puzzava solamente di fumo. Si appoggiò gemendo contro un albero, tossì, si colpì il viso più volte cercando di riprendere in fretta il controllo del proprio corpo e delle proprie facoltà mentali. Si ritrovò ad annusare il proprio sangue e scoprì solo in quel momento di avere le braccia ricoperte di fini taglietti e scorticature a causa delle numerose cadute. Deglutì a fatica mentre si ripeteva che non doveva andare nel panico, ma lasciò comunque sfuggire uno strillo acuto quando avvertì distintamente una sensazione di viscido e sinuoso stringersi attorno alle sue gambe, avvinghiarsi per un secondo ad esse e scivolare via velocemente come era arrivata. Si stropicciò gli occhi, fissò il serpente schizzare via nella direzione da cui era arrivato ed emise una dolorosa esclamazione di sorpresa nel rendersi conto, ormai di nuovo lucido, che la Casa, il rifugio che lo aveva ospitato per tutta la sua adolescenza, era davvero in fiamme. Perse un battito, si concesse un solo minuto di riposo, il cuore che batteva più forte ogni volta che il fuoco deglutiva una nuova ala dell’edificio, poi, sebbene ancora traballante ed incerto, convinse i piedi a sorreggerlo, le gambe a compiere il primo passo verso l’inferno. Poteva ora sentire chiaramente l’aroma tossico del miasma che aveva respirato, se non lo avessero recuperato in fretta dalla stanza in cui dormiva sarebbe certamente morto avvelenato o soffocato. Le fiamme danzavano sfoggiando un insano color giallognolo, suggerendo con vanità l’orribile sorgente della tragedia: il laboratorio di alchimia. Se fluidi e acidi non venivano riposti nei loro contenitori appositi non era tanto impensabile far scoppiare un incendio di quelle dimensioni, tenendo in conto anche che la maggior parte delle strutture era in legno. Ciò che non comprendeva era perché i Filosofi più esperti non riuscissero ad estinguerlo. Non era di certo la prima volta che qualcosa andava storto e si era obbligati ad utilizzare le formule di dislocazione per domare il tutto. Non appena il respiro glielo permise, coprendosi il viso, tornò ad avvicinarsi barcollando al gruppo di edifici, ma, quando fu di nuovo nella mischia, di primo acchito non poté credere a ciò che stava accadendo. Le grida di panico dei Filosofi quasi coprivano gli strepiti delle fiamme che, avidamente avvinghiate alle forme martoriate del legno, facevano crollare i tetti delle costruzioni, lo scalpiccio dei loro stivali si confondeva con il raspare violento degli zoccoli dei cinghiali sulla ghiaia, con i sibili delle lunghe, letali serpi. Ve n’erano ovunque, sui muri, a terra, pareva piovessero dal cielo. Scivolavano fuori da anfratti mai visti, si facevano strada rapide e mortali all’interno della caotica folla e mietevano le loro molli, succulente prede. Uomini, donne, ragazzi, Seungmin ne vedeva cadere a terra a decine, uno dopo l’altro, soffocati dai fumi tossici, irrigiditi dalla tossina delle vipere o sbaragliati a terra dalla fierezza delle enormi scrofe che, cieche di rabbia, si gettavano tra le fiamme e distruggevano pareti, muri portanti, sradicavano pietre d’angolo e facevano cadere travi addosso a quei coraggiosi che ancora tentavano di introdursi all’interno delle mura per recuperare i corpi inanimati dei suoi confratelli. Solo in quel momento una voce, in fondo alla sua coscienza, gli suggerì di muoversi. Restare impalato nel bel mezzo della piazzola principale lo avrebbe certamente condotto ad una fine infelice, e in più sarebbe solamente stato d’intralcio per quei pochi che ancora erano in grado di combattere. Lentamente riacquistava sensibilità agli arti, riusciva ormai a muovere le dita a suo piacimento, ma non sapeva per quanto tempo ancora ne avrebbe avuto la possibilità. Scacciò il vivido desiderio di darsela nuovamente a gambe, fregò gli occhi, cominciò ad inoltrarsi tra le rovine in fiamme e domandò al primo Filosofo che incontrò in che modo potesse rendersi utile. Gli dissero di portare in salvo il Saggio, fece quindi marcia indietro e cercò nervosamente le stanze dell’anziano capo. Nessuno si preoccupò di impedirgli di gettarsi di nuovo nell’edificio, di un novizio minuto come lui, ormai, non importava più nulla a nessuno. La piazza, i vialetti fioriti erano disseminati di corpi rantolanti, gli occhi sprangati, le mani ancora gettate in aria nel tentativo di riscostruire un misero incantesimo, un cerchio alchemico, o forse, semplicemente, di difendersi per scampare alle rugose braccia del crudo destino. La puzza di cadavere dava il mal di testa tanta era la sua prepotenza. Capitò che una delle tante serpi provasse a morderlo, Seungmin riuscì a staccarsela di dosso appena in tempo, sfrecciando il più rapidamente possibile, con le mani a coprirsi tremolanti il capo, verso lo studio del Saggio. Non gli fu arduo sfondare la porta, ormai mezzo mangiata dall’incendio, ma avrebbe preferito non vedere mai lo spettacolo che lo attendeva all’interno. Il corpo del Saggio, steso al centro della piccola sala, era solo l’umile e dinamica cerniera di una quadro ben più grande di lui. Altri Filosofi ed altri novizi erano già corsi a soccorrerlo, e tutti avevano fatto la sua stessa fine. Le mani ed i piedi che andavano a fuoco mentre un nido di grosse vipere si divertiva a profanare le loro bocche ed i loro ventri, guizzavano tra le labbra secche e sgusciavano fuori dai loro stomaci, bucando la soffice pelle, degustando con elegante crudeltà il sapore del loro acido sangue e del grasso che sfrigolava a contatto con il torrido calore che toglieva il respiro. Seungmin si sentì svenire, si chinò a terra per vomitare la cena che aveva consumato appena poche ore prima, per poi scappare via, completamente fuori di sé. Non si domandò che cosa stesse succedendo, non gli interessava saperlo, non interessava più a nessuno saperlo. Forse erano stati gli animali a provocare l’incendio, forse qualcuno aveva evocato gli animali che avevano provocato l’incendio, non era più importante. Uscendo dall’edificio contò cadaveri che prima non aveva notato, puzzavano di fresco e gli davano il voltastomaco. Non voleva nemmeno sapere come facesse ad essere ancora in vita, prima o poi probabilmente qualche cinghiale gli sarebbe corso incontro ed avrebbe posto fine alle sue pene scaraventandolo a terra con una sola testata ben assestata. Ricominciava a non avvertire più le dita, le braccia formicolavano e minacciavano di abbandonarlo da un momento all’altro. I tagli ed i graffi su di esse, infettati dalle polveri tossiche, erano l’unica cosa che, crepitando, gli facevano capire di essere ancora in vita. Capitombolò più volte, stracciò la tunica, investì nella sua precipitosa fuga altri che correvano disperati esattamente come lui, lo stesso luccichio di terrore a squarciare gli occhi di tutti. Calpestava serpenti con gli stivali, braccia e gambe già sfatte, ricoperte di vermi e formiche che pregavano al fausto banchetto, intralciavano il suo nevrotico disperarsi. Si sorprese a gridare aiuto quando la sua intenzione era quella di aiutare, comprese allora di non essere altro che un misero studente, non avrebbe saputo concludere nulla di buono se ci fosse stato lui al posto dei suoi confratelli maggiori. Li vedeva tutti stesi a terra, gonfi a causa del veleno, dei colpi subiti, intossicati orribilmente per salvare chi, come lui, non poteva di certo portare onore al nome della Casa. Si lasciò andare ad un pianto disperato, fermò la corsa e si abbandonò anche lui al richiamo della terra morente. Scorgeva appena nuovi sinistri figuri fare la comparsa sulla scena, branchi di lupi, orsi, giovani fiere che sicuramente non gli avrebbero lasciato scampo. Forse una di esse si avvicinò davvero a lui, chiuse per un momento gli occhi e quando li riaprì si ritrovò con la tunica sporca di caldo e saporito sangue che scorreva a fiotti. Volse debolmente il capo a destra e a sinistra e gli mancò il respiro quando notò finalmente che parte del suo braccio sinistro era decisamente troppo lontana dal resto del corpo per potervi ancora appartenere. Sollevò incerto la spalla corrispondente per guardare il moncone insanguinato, scagliò un grido; la belva, ancora troppo vicina a lui, intenta a caricare di nuovo, tornò sorpresa sui suoi passi e si inoltrò insieme alle altre nel vivo dell’incendio.
Seungmin arrivò a pensare che sarebbe davvero stato meglio rimanere lì e lasciarsi morire. Si chiese che cosa ne fosse degli altri confratelli, se qualcuno davvero fosse riuscito a fuggire e, magari, a portare con sé il frutto di alcuni dei loro esprimenti più promettenti. Iniziava ad avere le allucinazioni; ricordò, con un improvviso, angosciante, caotico riso, il viso della madre, quello del nonno morto quando lui era un bambino, ed il modo in cui si era opposto alle tradizioni di famiglia. Ricordò Changbin, si diede delle stupido per averlo sempre voluto rincorrere invece di lasciarsi andare e godere serenamente della tranquillità che la Casa gli aveva finalmente potuto offrire nell’ultima settimana e mezza. Passò quindi agli amici, ai pomeriggi chiuso tra la polvere della biblioteca o nella rusticità del laboratorio, ed infine rivide i confratelli minori con cui giocava. Il più grande aveva appena sedici anni, il minore la bellezza di dieci. Vagheggiò su di loro, si domandò se fossero vivi, si interrogò sul perché nessuno avesse pensato a loro invece di preoccuparsi del vecchio Saggio. Sarebbe stato quello il suo compito, la sua ultima missione. Il suo ultimo desiderio prima di morire era quello di trovare i ragazzini ed assicurarsi che fossero in salvo.
Vacillando, dopo secondi che gli parvero eterni, si rimise in piedi e, stringendo forte il braccio monco con la mano restante, ciondolò fin fuori dal gruppo di edifici. Se, come era successo con lui, i Filosofi li avevano indirizzati verso la prateria aperta, allora dovevano essere da qualche parte verso il luogo in cui tenevano le recinzioni degli animali. Senza più perdersi d’animo, infilando un passo dopo l’altro, percorse però solo parte della distanza che si era prefisso di coprire. Perse i sensi a metà strada, e sarebbe affogato nel suo stesso sangue se coloro che lui per primo stava cercando non lo avessero trovato in tempo.
 
-
 
Seungmin si risvegliò verso l’alba, circondato da una decina di coppie di occhietti stanchi e lucidi di pianto.
“Lasciatelo respirare, toglietevi di mezzo!”
Una voce acuta che lui conosceva bene si fece largo tra i mormorii confusi e scansò via gli sguardi indiscreti.
“Seungmin, ti sei svegliato! Come ti senti?!”
Mok, così si chiamava il ragazzo di quindici anni che lo stava interpellando. Corrugò le sopracciglia, tentò di rispondergli, ma la bocca non collaborava e gli permetteva di emettere solamente grugniti indistinti.
“Non importa, non importa!” si corresse Mok “Siamo nelle stalle, Seungmin, ma non possiamo permetterci di rimanere ancora qui a lungo. Dobbiamo entrare nei boschi, se stiamo sugli alberi nessun lupo o cinghiale potrà attaccarci. Aspettiamo qualche minuto che tu ti riprenda dallo svenimento e poi ti aiutiamo a metterti in piedi, dobbiamo trovare alla svelta qualcuno che ti aiuti con quel braccio, ha già fatto infezione anche se siamo riusciti a fermare l’emorragia. Hai la febbre, ma noi ti aiuteremo, non ti preoccupare. Abbiamo perso Danbi e Hyunki, ti aiuteremo anche per loro.”
Mok non era il più grande del gruppo, ma era di certo il più sveglio. Era entrato da poco alla Casa, eppure già da subito aveva imparato a farsi rispettare. Possedeva un’intelligenza creativa tutta sua, spesso faceva a gara con lui a chi inventava il gioco più divertente. Seungmin, istintivamente, sorrise e, stringendo appena gli occhi, annuì debolmente. Non pensò di essere mai stato più felice di quando riuscì a scorgere il minore sorridere a sua volta.
Ci impiegò più del previsto a prepararsi, la febbre gli causava forti attacchi di vomito ed improvvisi capogiri e nemmeno con la robusta stampella che i ragazzi gli avevano preventivamente costruito alla bell’e meglio era in grado di sorreggersi. Quando finalmente le gambe decisero di collaborare fu lui il primo a spingere affinché tenessero un passo spedito. Corsero fuori dalle stalle, i più piccoli stretti tra loro in groppa ai pochissimi cavalli a disposizione, diretti speditamente verso la foresta. Seungmin ne conosceva bene gli anfratti, sapeva in quale direzione guidarli per trovare rifugio, a poca distanza dalla Casa, in mezzo ad una vasta radura, era situato infatti il villaggio da cui essa si riforniva di cibo e vestiari. Avrebbero certamente trovato un medico disponibile a disinfettare e cauterizzare la ferita del novizio. Continuarono a camminare per parecchie ore, ogni tanto i piccoli davano il cambio al più grande in modo che potesse riposarsi – la ferita aveva lentamente ripreso a sanguinare, il laccio emostatico che gli avevano applicato doveva essere stretto e, inutile dirlo, il moncone, svanito il torpore indotto dai fumi tossici della notte, aveva iniziato a dolere immensamente, tanto che a stento riusciva a restare in posizione completamente eretta. Dopo ore e ore, quando avrebbero già dovuto essere arrivati a destinazione da troppo tempo, Seungmin riprese ad avere le allucinazioni. Si avvicinava ai cespugli, sentiva frinire le cavallette ed esclamava con un sorriso rotto e voce strascicata: “Danbi, piccola, come canti bene oggi! Sei felice per qualcosa? Ti hanno dato un buon voto a lezione?”
Accarezzava la sommità del tozzo arbusto, come se effettivamente stesse scompigliando i capelli della bambina, e poi proseguiva avanti sereno. Mok, benché estremamente preoccupato, cercò di rincuorare gli altri sussurrando loro che almeno pareva contento. Spesso doveva spronarlo, Seungmin sembrava aver completamente dimenticato la meta, già da tempo si erano accorti che ai bivi indicava di andare a destra o a sinistra in maniera totalmente casuale. Più di una volta Mok si rese conto di essersi mosso in cerchio in una zona della foresta che, però, ancora non conosceva. Erano probabilmente estremamente distanti sia dalle rovine della Casa che dal villaggio e Seungmin non voleva collaborare. A notte inoltrata si trovò a considerare l’idea di lasciarlo indietro. Il moncone pulsava, la carne incancreniva lentamente e non ci sarebbe voluto molto prima che l’infezione raggiungesse il cuore. Senza Seungmin avrebbero potuto proseguire più velocemente, per lui ormai non poteva esserci più nulla da fare.
“Ha la febbre troppo alta, non si renderà nemmeno conto di essere sul punto di morire” suggerì qualcuno.
Mok non avrebbe voluto dargli ragione, ma la salute dei più piccoli – nessuno di essi aveva riportato gravi ferite, ma soffrivano la fame e la sete – era decisamente più importante in quel momento di quella del confratello maggiore.
“Teniamolo con noi ancora un giorno, glielo dobbiamo. Se continuerà a peggiorare allora lo lasceremo indietro come dite voi” concluse incerto.
Stabilirono di dormire sugli alberi, in modo che le belve non potessero raggiugerli. Intrecciarono tra loro tuniche e camicie fino a formare una corda abbastanza robusta con cui issare Seungmin su uno dei rami più bassi e, infine, stabilirono dei turni di guardia per tenerlo d’occhio. Attorno alla mezzanotte i più piccoli iniziarono a lamentarsi della puzza di putrefazione proveniente dal braccio del maggiore, quattro ore più tardi erano tutti svegli a causa delle urla di dolore di quest’ultimo. Anche Mok, abituato a mostrarsi forte e determinato, tremava di terrore recondito. Non voleva che i più piccoli vedessero il loro amato confratello morire in quelle condizioni e prese allora la sua decisione: il giorno dopo gli altri sarebbero ripartiti sotto la guida di Soohyun, una novizia di un anno più grande di lui, mentre lui sarebbe rimasto a vegliare il corpo di Seungmin per poi raggiungerli in direzione della Capitale.
Era convinto che, comunque, non sarebbe rimasto troppo indietro rispetto al gruppo, ma Seungmin era forgiato di una tempra straordinariamente forte. Nessuno avrebbe mai potuto recuperare quei brandelli di braccio e la parte della spalla ormai secchi e maciullati dalla cancrena, ma la pelle del petto, benché pallida, rifletteva ancora una vena di timida rosea vitalità. Inconsciamente combatteva, ed in questo riconosceva ancora il fratello che amava. Non si aspettava, però, che sarebbe stato invece proprio il gruppo a tornare, la notte seguente, nella sua direzione, seguito da un piccolo drappello di esseri stranamente a loro agio a muoversi tra le fitte fronde degli alberi. Uno di questi, vestito di un lungo mantello, si separò dagli altri e schizzò nella loro direzione. Mok, istintivamente, si mise in posizione di difesa di fronte al corpo rantolate di Seungmin.
“Tranquillo!” l’individuo si tolse il cappuccio, liberando una chioma di lunghi capelli biondi ed un paio di fini orecchie a punta “Tranquillo… Mi chiamo Hyunjin, sono per metà elfo. Io e i miei compagni siamo qui per salvare il vostro amico. Abbiamo i minuti contati, forse non è troppo tardi.”

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Capitolo 10
*** decimo ***


Seungmin, a quanto gli venne riferito, si risvegliò solamente un paio di giorni più tardi, rigidamente supino su uno spoglio giaciglio raffazzonato con rametti, foglie e muschio. Sbatté debolmente le ciglia, a malapena riusciva ad aprire gli occhi, due stanche fessure che tentavano ora di discernere, tra i grumi pastosi di luce ed ombra che si affollavano prepotenti nella sua mente, le sagome famigliari appartenenti a qualcuno dei suoi ragazzi. Non era importante dove si trovasse, né chi l’avesse conciato in quel modo o quanto tempo fosse stato privo di sensi, il primo pensiero dopo aver ripreso conoscenza fu rivolto a Mok e agli altri che, suo malgrado, nonostante fosse corso da loro per aiutarli, avevano avuto la pazienza ed il coraggio di soccorrerlo. Dopo qualche minuto si rese conto che, spossatezza a parte, si sentiva davvero particolarmente bene. Sbadigliò piano, strizzò gli occhi, sollevò una mano per andare a massaggiarsi piano la fronte mentre con l’altra tirava leggermente più in basso il mantello scuro che gli avevano messo a mo’ di coperta.
L’altra.
Seungmin non aveva dei ricordi precisi degli ultimi giorni, nemmeno era ancora in grado di comprendere in quale momento della giornata si trovasse o quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che era stato sveglio, ma di certo non aveva dimenticato il grezzo muso dell’orribile belva che gli aveva staccato parte del braccio sinistro durante il grande incendio. Eppure era abbastanza certo di avere ben due mani a sua disposizione, due mani che rispondevano alla sua volontà e seguivano docili i movimenti che aveva intenzione di compiere, una calda e famigliare, l’altra pesante, scricchiolante, ma funzionale e sufficientemente precisa. Le sollevò entrambe in aria, avvertì chiaramente la spalla sinistra tirare e tendere più del dovuto, ma la sua unica preoccupazione era, in quel momento, comprendere perché l’arto corrispondente paresse brillare di luce propria.
“Ehi, tiralo giù!”
Seungmin si voltò di scatto verso la provenienza della voce, sentendosi immediatamente colto in fallo. Un secondo più tardi, un ragazzo alto e biondo si chinò accanto a lui e, con una certa impensabile delicatezza, gli fece riporre le braccia lungo i fianchi. Scorse la sua opaca figura voltarsi indietro e lamentarsi con tono stizzito: “Ve lo lascio per dieci minuti e non mi dite nulla quando si sveglia?! Vi avevo detto di controllarlo!”
Il novizio si morse un labbro e allungò con timore la mano destra fino a toccare il ginocchio, puntellato a terra, dello sconosciuto: “Mi sono appena svegliato, sto bene…”
L’altro sbuffò: “Beh, sei sotto oppio e ti ho impiantato un braccio metallico, ma tutto sommato poteva anche andarti peggio.”
Seungmin lo sentì sospirare. Avrebbe voluto domandargli che cosa esattamente intendesse con ‘braccio metallico’ o ‘sotto oppio’, ma era ancora troppo debole per richiedere spiegazioni.
“Dove sono i ragazzi?” esordì allora.
“I novizi che erano con te dici? Stanno bene, un paio dei nostri li stanno scortando verso la Capitale.”
Seungmin ne fu istintivamente sollevato. In condizioni normali non si sarebbe mai fidato del primo sconosciuto incontrato in mezzo alla foresta, avrebbe potuto trattarsi di qualche bandito o di un truffatore, ma quel particolare estraneo, a quanto pareva, si stava prendendo la briga di occuparsi di lui e doveva almeno provare ad essergli riconoscente. Nonostante ciò, il biondo parve comprendere all’istante i suoi pensieri e, con un movimento fugace, raccolse indietro le prime ciocche di capelli che gli ricadevano armoniosamente in fronte e le fissò con un sottile laccio di colore bruno. Svelò così le lunghe orecchie affusolate e, sbuffando, ricominciò: “È almeno la quindicesima volta che mi presento nel giro di due giorni, quindi vedi di ricordartene.”
Seungmin annuì distrattamente, incantato invece dall’elegante linea delle orecchie dell’altro. Non aveva mai visto un elfo, e non aveva mai nemmeno osato sperare di potersi avvicinare tanto ad uno di loro. Non era inusuale che da piccolo gli narrassero mitici racconti su quelle schive creature, ed era cresciuto essendone profondamente affascinato e, allo stesso tempo, intimorito.
“Mi chiamo Hyunjin, sono un ibrido, per metà umano e per metà elfo. Io e i miei compagni proveniamo da Tillvah, la Città Sospesa, che è stata distrutta pochi giorni fa a causa di una massiccia ed improvvisa invasione di insetti e roditori.”
Hyunjin prese un respiro profondo; Seungmin, nonostante i suoi sensi fossero ottenebrati dall’oppio, poteva letteralmente tastare con mano il dolore che le frasi, mezzo sussurrate, che l’altro scandiva con la malinconica cadenza di una nenia trasudavano.
“Tillvah era un villaggio situato sulle fronde più alte degli alberi. Le termiti hanno iniziato a rodere il legno delle case, le zanzare, le mosche ed i tafani ci hanno obbligati a lasciare il villaggio per tentare una fuga a piedi sulla terraferma, ma lì ci aspettavano lupi, orsi… Il resto della storia credo sia identica alla tua. Io e tutte le altre persone che vedi qui accampate siamo parte dei sopravvissuti.”
Seungmin sollevò leggermente il capo per guardarsi istintivamente intorno, mugugnando mestamente: “Anche voi non siete rimasti in molti.”
“Non siamo un popolo di guerrieri. Elfi, folletti, fate, troll, umani… Ci aiutiamo a vicenda, studiamo la natura, cerchiamo un modo per vivere bene insieme e ci nascondiamo dal mondo che ci ha rigettati per primo. Di tutte le nostre ricerche, come quelle della tua Casa e di tutte quelle che sono state rase al suolo questa notte, non è rimasto nulla se non qualche inutile briciola. È stata una fortuna per te che io abbia preso il braccio.”
Seungmin storse gli occhi tentando di guardare la bitorzoluta protesi. Ora riusciva a vederla bene nella sua interezza, le fredde placche metalliche si estendevano fino alla spalla.
“Io… Io non ho mai visto una cosa del genere, però… però grazie, ecco.”
A Hyunjin non sfuggì tuttavia la perplessità che lentamente andava dilagando negli occhi del novizio. Prima che potesse inondarlo di domande si fece dunque avanti: “Abbiamo dovuto rimuovere parte del braccio rimanente o la cancrena ti avrebbe ucciso. Mi dispiace.”
Seungmin annuì rassegnato: “Dai sempre spiegazioni in modo così diretto?”
Hyunjin parve rabbuiarsi di colpo. Solo dopo diversi secondi, alzandosi da terra, mugugnò a denti stretti: “È solo un brutto periodo.”
“Chi hai perso?” Seungmin riconobbe facilmente la maschera del lutto velare gli occhi affilati dell’ibrido.
“Non ti dico altro se il mio modo di parlare ti infastidisce” replicò l’altro scrollando le spalle con teatrale stizza.
Prima di allontanarsi concluse: “Il braccio è ancora in collaudo, se evitassi di muoverlo e lasciassi che i nervi ed i tendini si abituino ti passerebbe prima la febbre e potremmo ripartire prima. Adesso torna a dormire.”
Seungmin stava evidentemente meglio di quanto Hyunjin potesse aspettarsi, trovò addirittura le energie per sporgersi verso di lui e fargli le boccacce.
 
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Hyunjin fece trascorrere solo altri tre giorni prima di lasciare che il novizio si rimettesse in piedi. Pensava di lasciare che si riposasse ancora per minimo una settimana, ma Seungmin, con il suo chiacchiericcio continuo, le tartassanti domande sui miracolosi rimedi curativi di antica tradizione elfica e la sua ossessiva – e, in quel frangente, pericolosamente odiosa – tendenza a gesticolare terribilmente, evidentemente non era dello stesso parere.
“Come avete fatto a salvarmi?”
“Come siete riusciti ad operarmi senza sterilizzare gli strumenti?”
“Come avete capito che non era troppo tardi?”
“Mi insegnate, per favore?”
Queste, e almeno una quindicina di altre domande simili, costituivano la sveglia di Hyunjin, il quale, dando drammaticamente di matto ogni mattina, minacciava di donarlo in pasto agli avvoltoi. Ma Seungmin era serio, se ne intendeva abbastanza di medicina, forse anche più di Changbin, e non si spiegava in che modo quel gruppo tanto disparato di persone fosse riuscito a tenerlo in vita e, in più a sostituire il suo braccio con una protesi metallica in grado di replicare in maniera quasi sempre abbastanza precisa i movimenti di un arto organico. Cercava di mantenere un atteggiamento entusiastico e spesso, durante la giornata, si chiudeva in meditazione per alcuni minuti, desiderava ardentemente poter svelare l’arcano della sua miracolosa guarigione e non l’avrebbe certamente fatto standosene fermo e zitto come l’ibrido, esasperato, gli intimava. Dopo un solo giorno era stato chiaro che, finché avrebbero viaggiato insieme, Seungmin e Hyunjin avrebbero fatto a gara a chi aveva la testa più dura, il primo voglioso di immergersi nel mondo che l’altro, restio, imprigionato nella morsa ferrea dell’evidente perdita che aveva subito – il novizio non era ancora a scucirgli di chi si trattasse –, si ostinava a precludergli. Non poteva fare altro, quindi, che continuare a minare la sua pazienza e diventare talmente tanto noioso da ricevere la risposta affermativa che tanto bramava.
Fu Hyunjin a non dargli soddisfazioni a questo punto, il “Ma tutti voi novizi siete sempre così rompiscatole?!” che spiccicò con il solito tono seccato era decisamente differente rispetto allo scocciato “E va bene!” che si aspettava, anche magari seguito da qualche colorito insulto in elfico (o elfese?).
“Ya, lo so, Mok può essere veramente logorroico quando vuole, per non parlare di Jinwoo! Quel piccoletto è iperattivo anche nel parlare!”
“Ma che Mok e Jinwoo, io parlo di quell’altro della tua età che ho incontrato la settimana scorsa.”
E qui Hyunjin aveva storto il naso prima di scandire il nome che avrebbe completamente rovinato l’umore di Seungmin: “Changbin”
Il novizio si corrucciò all’istante: “Oh. Era insieme al soldato e alla Fonte, giusto?”
“Io e Jeongin li abbiamo ospitati a casa nostra per una notte, nulla di che.”
Hyunjin parve accorgersi troppo tardi di ciò che aveva appena detto, l’altro, felice di poter cambiare argomento, con sguardo curioso si era issato sui gomiti e aveva posto la fatidica domanda, per poi pentirsene immediatamente non appena notò il primo rabbuiarsi: “Chi è Jeongin?”
L’ibrido distolse lo sguardo e fece, come al solito, per andarsene, ma il novizio, ignorando il divieto di utilizzare il nuovo arto senza supervisione dello stesso Hyunjin, sollevò di scatto il braccio sinistro e afferrò i larghi pantaloni dell’altro: “Okay, mi arrendo, possiamo parlare di Changbin se proprio ne senti il disperato bisogno.”
“Senti, lasciami in pace. Sei capace a startene zitto o devo infilarti uno scoiattolo in gola?!” strattonò la gamba, ma il novizio non era intenzionato a lasciarlo scappare quella volta.
“Non ci provare, ormai ho una stretta ferrea. Letteralmente intendo.”
Hyunjin lo fissava con la bocca semi spalancata, gli occhi leggermente più schiusi del solito a coronare un’iconica espressione di elegante ed sdegnato stupore: “Oh beh, grazie per essere sempre così simpatico. Giorno dopo giorno collabori attivamente a convincermi che abbandonarti qui in mezzo al nulla sarebbe dannatamente la scelta migliore!”
“E poi sono io quello prolisso, eh? Potevi semplicemente mandarmi a quel paese. Come si dice ‘Vai a quel paese’ in elfese?”
Hyunjin schiaffò la mano destra sulla propria fronte: “Seungmin, non sono in vena.”
Il novizio gli rispose liberandolo dalla stretta e sorridendogli angelicamente mentre lo salutava con la mano metallica: “Nemmeno io, da quasi una settimana ormai!”
Quando l’ibrido iniziò nervosamente a massaggiarsi la fronte con il pollice e l’indice e appoggiò stizzosamente una mano su un fianco Seungmin seppe che era tempo di piantarla. Sospirò e, barcollando, per la prima volta, si mise incerto in piedi. Gli girava vagamente la testa, nulla che non potesse sopportare; compì un passo verso il più alto, allungò la mano destra verso una delle sue spalle per reggersi meglio.
“Jeongin era… un tuo parente? Tuo padre, tuo cugino… Oppure che ne so, il tuo fidanzato?”
“Certo, e immagino che Changbin sia il tuo migliore amico.”
“Diciamo che se dobbiamo cascare in argomento ‘Changbin’ pur di farti finalmente sfogare allora cercherò di non iniziare ad imprecare.”
Hyunjin sospirò, era consapevole del fatto che, sebbene la situazione in cui si trovavano risultasse ancora piuttosto precaria, necessitasse – maledetto il suo mezzo sangue umano – di dare sfogo, almeno in parte, al dolore e alla nausea che provava a causa della morte del fratello. Non era però certo di volerlo fare proprio con Seungmin; il novizio era una persona decisamente ripetitiva e se ne infischiava di tutte le raccomandazioni che ogni giorno era costretto a dettargli solo per sentirsi rispondere: “Sì, sì, lo so, però guarda qui che forza, adesso ho dei muscoli di ferro senza allenarmi.”
Alché Hyunjin non poteva che borbottare alzando gli occhi al cielo: “Oh santo paramecio, ti prego, quello è acciaio.”
Seungmin non avrebbe colto la sua ironia, si sarebbe messo comodo e, aguzzando lo sguardo, avrebbe domandato con fomentata arguzia: “Che cosa significa ‘paramecio’. Da dove si estrae questo ‘acciaio’?”
Changbin, almeno, avrebbe avuto la decenza di ridere del suo sarcasmo prima di tempestarlo di quesiti che, a lui, parevano del tutto elementari. Il suo ego, comunque, era troppo grande per non fargli provare, ad ogni domanda, una lieve sensazione di gustosa soddisfazione. Sapeva di essere bravo, forse non un genio – come tutti tendevano ad etichettarlo –, e provava sempre un certo piacere nel darsi vanto di tutto ciò che conosceva. Ogni volta ci cascava e finiva per lanciarsi in lunghi monologhi a cui Seungmin assisteva con sguardo adorante. L’ammirazione del novizio lo appagava, aveva bisogno di sentirsi utile a qualcosa ed i suoi perché, per quanto banali, lo aiutavano a distrarsi.
Gli piacevano, in fondo, le domande di Seungmin, ed amava anche fare il difficile, ma poté giurare che, quando il più basso gli chiese di Jeongin, non volle risultare tanto schivo appositamente.
“Era mio fratello.”
Gli raccontò velocemente della sua situazione famigliare, spiegò quale ruolo ricopriva Jeongin nella fitta rete sociale di Tillvah, poi narrò di come, di lui, non avessero più trovato nulla se non brandelli dei suoi abiti ed il sangue rappreso ad imbrattare orribilmente il suolo. Seungmin si accorse che aveva un modo particolare di piangere, sebbene fosse per metà umano tendeva ad abbassare e a scuotere le orecchie alla maniera degli elfi.
“Era di guardia quella sera, Felix, Chan e Changbin se ne erano andati quella mattina stessa e lui si era fatto cambiare di turno appositamente per poterli controllare in caso avessero bisogno di aiuto. Già il giorno precedente un animale li aveva attaccati e la Tarantola di Changbin lo aveva ferito nella fuga, Jeongin voleva solo assicurarsi che il loro viaggio proseguisse per il verso giusto stavolta. Sarebbe dovuto tornare appena dopo l’ora di cena, volevo andare a cercarlo, ma appena è calato il sole siamo stati invasi dagli insetti. Pensavo…”
Hyunjin fece una pausa, posò delicatamente una mano sul viso a nascondere gli occhi e lasciò che le finissime punte delle orecchie vibrassero in un muto singhiozzo.
“Voglio dire, ce l’aveva sempre fatta, perché questa volta non sarebbe dovuto tornare? Abbiamo ritrovato i suoi resti solo all’alba, ore e ore dopo la fine dell’attacco.”
Seungmin sfoggiava ora una curiosità del tutto differente, l’ibrido si sentì ascoltato per una volta, e non solo a causa delle sue conoscenze, ma di ciò che il suo cuore da petulante maestrina poteva offrire.
“Hyunjin?” lo chiamò il più basso “Non lo so, forse dovrei abbracciarti…”
Il novizio non riuscì a far guizzare un dolceamaro sorriso sul suo volto mentre scrollava mestamente di nuovo la spalla sinistra: “… Ma ho davvero paura che la mia stretta sia troppo fredda.”
 
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Altri sfollati si imbatterono nel loro accampamento di fortuna, e Seungmin si rese conto che la sua Casa non era stata l’unica ad essere attaccata nelle nottate precedenti. Decine di altri Filosofi, giorno dopo giorno, facevano la loro comparsa, distrutti e affamati, sui vari sentieri in mezzo alla foresta, e Hyunjin e gli altri sopravvissuti di Tillvah contribuivano ad indicare loro la strada giusta per arrivare alla Capitale, a cui desideravano chiedere rifugio.
“Non lasceranno mai che si stabiliscano tutti all’interno delle mura della Capitale, sono troppi per poterli gestire, anche la reggia è grande, ma non potrebbe mai ospitarli tutti quanti.” L’ibrido si dimostrava scettico, e Seungmin non era di parere tanto differente questa volta. Era perfettamente consapevole dell’assenza di un vero e proprio piano di accettazione e raccoglimento in situazioni simili (chi avrebbe mai potuto prevedere un disastro del genere, dopotutto?).
Molti Filosofi e novizi decidevano di unirsi a loro, ma tanti di essi riportavano ferite gravi e non erano in grado di sopportare la fatica del viaggio, benché le giornate a piedi che li separavano dal centro del Paese non fossero molte. Molti di Tillvah cominciavano a lamentarsi, erano i primi a professare il diritto di accoglienza, ma alcuni parevano ormai dimenticare che anch’essi erano stati cacciati dalle loro abitazioni e non vedevano l’ora di poter riprendere il cammino per ricevere gli aiuti necessari. Allo stesso tempo, non era giusto che si fossero presi cura di Seungmin senza alcuna remora e rifiutassero ora di prestare le loro avanzate conoscenze mediche a favore anche di qualcun altro.
“Sono uno dei più inesperti in campo medico,” avanzò una sera Hyunjin “posso partire da solo e richiedere alla Capitale degli uomini in modo che vengano a riprendervi con delle carrozze. Seungmin non ha più bisogno di me, se la ferita si infetta di nuovo sapete come trattarla.”
“Oppure potrei partire con te.” Seungmin aveva parlato con convinzione, moriva letteralmente dalla voglia di rivedere i suoi ragazzi, il verde dei boschi aveva iniziato a dargli la nausea “Voglio rivedere Mok e gli altri. E poi ti rendi conto anche tu che, dopo tutto questo casino, percorrere il bosco da soli è la scelta meno saggia.”
Hyunjin replicò con una semplice occhiataccia e Seungmin si sentì in dovere di specificare ulteriormente: “Intendo dire che sarebbe un suicidio bello e buono, Hyunjin.”
Purtroppo per l’ibrido, gli altri membri della comunità finirono per dare ragione al novizio che, soddisfatto della sua piccola vittoria, quella notte si addormentò accanto al suo nuovo, ufficialmente, compagno di viaggio.
“Non ti preoccupare, non sarò un peso! Ho una tempra d’acciaio!”
“Seungmin, vaffanc-” uno dei ragazzini più giovani mugolò nel sonno e, spaventandolo a morte, fece riscuotere Hyunjin “- cuore! Seungmin, vaffancuore!”



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Menzione d'onore al mio prof di grafica che dice davvero 'vaffancuore' per non far imparare le parolacce al figlio piccolo :>

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Capitolo 11
*** undicesimo ***


Changbin si risvegliò di colpo a causa di un lancinante dolore alla gamba destra, esordendo con una colorita imprecazione rivolta a quei pochi raggi di luce pomeridiana che, nonostante le scure tende a celare la grande finestra presente a lato del letto su cui era adagiato, riuscivano ancora a pizzicargli le palpebre.
Uno strillo acuto, ciliegina sulla torta, contribuì rocambolescamente a destarlo completamente: “Scusami! Scusami, scusami, scusami! Mi hanno spiegato come fare, ma sono stato troppo grossolano!”
Il novizio sollevò una mano e si stropicciò entrambi gli occhi, sibilando sofferente ancora una volta, per poi riuscire a mettere finalmente a fuoco la figura di Felix, il quale teneva strette tra le mani alcune bende incrostate di sangue. Scosse semplicemente il capo in risposta alle scuse del piccolo dio, vedere le fasciature ridotte in quella maniera aveva fatto in modo che la sua mente venisse invasa dai ricordi della notte precedente. Strizzò gli occhi, strinse i pugni, e domandò infine al compagno di viaggio: “E Chan?”
Era la prima volta che Changbin dimostrava davvero un certo interesse per la salute del maggiore. Ricordava perfettamente come il soldato si era battuto per lui solo poche ore prima, gliela doveva un minimo di preoccupazione. Contorcendosi ancora per il dolore, costrinse Felix ad aiutarlo a tirarsi su in posizione seduta.
“Davvero Felix, dov’è Chan adesso?”
Il piccolo dio abbassò lo sguardo, pareva volesse evitare la domanda, ma lo sguardo stanco del novizio non gli lasciava scampo: “Sta bene, è acciaccato, ha riportato alcune ferite superficiali, ma niente di grave. Tu invece hai una gamba rotta, adesso ti stavo disinfettando la sutura, dovresti rimetterti a-”
“Felix.” Changbin lo richiamò serio, con tono perentorio, tanto che il piccolo dio, per la sorpresa, quasi scattò giù dalla sedia su cui si stava appoggiando.
“Io… Io non so dove sia adesso, Changbin. Ha detto che andava ad allenarsi come al solito, io ho cercato di ribadire che avrebbe dovuto riposarsi dopo l’ultima nottata, ma…” scosse il capo, come a suggerire che non ci fosse stato verso di convincerlo.
Solo a quel punto il novizio notò le fasciature sulle braccia dell’altro, i capelli malamente gettati indietro, lucidi di sudore, le gambe che tremolavano, l’aria estenuata che lo faceva davvero sembrare vecchio di cent’anni.
“Mi dispiace... Davvero, non volevo aggredirti in questo modo, avevo solo paura che…” la reticenza fu abbastanza eloquente, non si sarebbe stupito troppo se uno di loro tre non ce l’avesse fatta.
“Anche tu pensi che sia colpa mia?”
Le parole di Felix, tremule, stentate, emise in un repentino ed inatteso singhiozzo, colpirono Changbin dritte al petto. Il piccolo dio cominciò a lacrimare, prima piano piano, tentando invano di darsi un evidente contegno, probabilmente frenato dalle responsabilità e dalle condizioni del suo particolare status di divinità, per poi arrendersi alla sua parte umana ed abbandonarsi ad un pianto disperato, interrotto solamente da frequenti singhiozzi e violenti scossoni che minacciavano di farlo cadere a terra.
“Mi… Mi dispiace così tanto, ci ho messo troppo a mettere in salvo Miss Binnie, era fuori di sé, continuava a…” Felix prese ad asciugarsi il viso per sbaglio con le bende impiastricciate di sangue e, accorgendosi troppo tardi dell’errore, spese un paio di minuti a lavare via lo sporco con le maniche strappate della propria ampia tunica “Continuava a… A cercare di scappare. Voleva cercare te, Changbin… E… E poi vi sentivo combattere, cercavo di raggiungervi, ma… Ma mi hanno attaccato tanti di quegli animali!”
Il tono di voce di Felix saliva progressivamente, aveva iniziato traballante, ma ora le sue parole erano un tutt’uno con le lacrime che sgorgavano prepotenti dai suoi occhi sgargianti: “Non… Non volevo lasciarvi lì da soli… Potevo proteggervi entrambi, non ho fatto in tempo… Mi dispiace così tanto…”
Piegato dall’ombra nera della vergogna, Felix si accartocciò su di sé, tirò su le ginocchia e se le strinse al petto con le braccia, appoggiando poi la fronte sulle prime mentre continuava la sua straziante cantilena: “Mi dispiace così… Così tanto…”
Changbin, sebbene, in fondo al cuore, non potesse non dare un minimo ragione alla guardia, non riuscì a non lasciarsi intenerire dalle scuse sincere e dal pianto sommesso dell’altro. Sorrise debolmente a quest’ultimo, allungò una mano verso il suo capo e gli scompigliò lentamente i capelli, con la delicatezza che riservava solo alle ampolline di finissimo vetro che maneggiava nei laboratori della casa: “E a me dispiace di non aver chiesto come stavi tu invece, Felix.”
Il piccolo dio tirò su con il naso, mai prima fu parso in maniera tanto evidente al novizio quanto di umano ci fosse in lui; in quel momento non vi era nulla di sacro o celestiale nella sottilissima sagoma del biondo, sembrava solamente… minuto. Changbin inclinò il capo di lato e, mentre Felix si lanciava in un altro dei suoi eternamente sconnessi monologhi su quanto stesse male per ciò che aveva lasciato che accadesse a lui e a Chan, si prese finalmente un istante per guardarlo. Per tutto il tempo che avevano trascorso viaggiando insieme non aveva mai davvero fatto caso al colorito abbronzato della sua pelle e a quanto adesso, invece, risultasse smunta per l’agitazione, l’ansia, la spossatezza. Gli era capitato di sorprendersi a contare il numero delle lentiggini presenti su una o sull’altra guancia – ogni tanto provava a collegare ogni singola macchiolina e a creare astruse opere d’arte con esse –, oppure aveva studiato il movimento oscillante che suo strambo ciuffo biondiccio assumeva quando era a cavallo e veniva scompigliato dalla brezza di fine estate per ricavarne stime di inutili leggi fisiche, ma non si era mai davvero accorto che, per prima cosa, Felix era davvero un ragazzo come lui. Poteva fingere di stare bene dopo il litigio con Chan, continuare a sorridere come si sarebbe convenuto ad una buona Fonte della Felicità, ma non aveva mai avuto il coraggio di reprimere del tutto la sua umanità. Aveva delle necessità probabilmente, soffriva delle stesse cose che facevano stare male lui, non gli sarebbe parso strano che odiasse magari un cibo, magari anche una determinata persona. Non era infallibile, non era vecchio, non aveva esperienza. Gli eterni vent’anni lo stringevano nella loro dolce morsa e lo forzavano ad un’immatura e straziante curiosità. Qualche anno in più lo avrebbero reso meno impulsivo, lo avrebbero aiutato a ragionare sulla situazione, gli avrebbero permesso di gestire al meglio la delicata questione esplosa tra lui ed il loro compagno di viaggio. Si chiese chi fosse Felix prima di diventare la Fonte della Felicità, era probabile possedesse un nome diverso, dei progetti, dei sogni che era stato costretto a chiudere in un cassetto di cui aveva già gettato via la chiave. Aveva rinunciato alla sua vita – Ricordava ancora la sua vita di prima? Ricordava ancora i suoi veri vent’anni? Ricordava il suo vero nome? – eppure era stato in grado di non perdere se stesso nell’eternità. La curiosità, l’entusiasmo, l’empatia lo avevano salvato nonostante tutto ciò che di orribile aveva dovuto probabilmente sopportare nel corso degli anni.
Per questo motivo Changbin gli sorrise di nuovo, con più fervore, nonostante il dolore che i punti applicati sulla coscia gli provocavano lo facesse quasi piangere, e si sforzò di voltarsi meglio verso di lui e di allungare entrambe le braccia per sollevare gentilmente il suo viso già completamente arrossato dal pianto: “Felix, hai fatto tutto quello che potevi. Stiamo bene tutti e tre, no? Non devi preoccuparti per quello che dice Chan. Forse è vero, un aiuto da parte tua avrebbe fatto comodo, ma… Ma ce l’abbiamo fatta alla fine. E ti ringrazio davvero di esserti occupato di Miss Binnie, è la mia migliore amica e non mi sarei perdonato se le fosse successo qualcosa. A Chan passerà, è semplicemente preoccupato perché sono di nuovo riuscito a mettermi nei guai…”
Changbin ridacchiò e, con tono dolce e tocco leggero, asciugò velocemente le sue lacrime: “… Per colpa mia saremo bloccati qui per qualche giorno, dovrà rifare di nuovo tutta la tabella di marcia! Meno male che siamo partiti in anticipo, mh?”
Felix scosse il capo e, ripresosi un minimo dai violenti singhiozzi che fino a quel momento lo avevano scosso, replicò: “Non potevi saperne nulla, non è affatto colpa tua, Changbin! Dovevo immaginarlo… Ho abbassato la guardia e…”
“Felix, sto bene, davvero.” Il novizio lo squadrò risoluto “In pochi giorni la ferita sarà almeno in parte rimarginata, ci spiegheranno come disinfettarla e potremo ripartire e fare come se nulla fosse successo.”
Changbin gli prese una mano prima di concludere: “D’accordo?”
Felix si ritrovò ad annuire lentamente, mesto mesto, ancora tutto stropicciato a causa delle lacrime: “Però… Chan…”
“Andrà tutto bene anche per lui, te lo prometto. Io e lui non andiamo davvero così d’accordo, ma… ma potrei provare a parlarci lo stesso. Suvvia, non sarà così antipatico da prendersela con uno tutto malaticcio come me!”
A Felix scappò un sottilissimo sorriso, ed infine scosse il capo: “Non è arrabbiato con me solo per ieri sera, Changbin.”
“Me ne vuoi parlare?” forse Changbin avrebbe fatto meglio ad essere tanto diretto anche il giorno precedente.
“Non ne ho molta voglia, e comunque credo che a lui dispiacerebbe se ti dicessi che cosa è successo.”
Il novizio annuì di malavoglia, se il piccolo dio gli avesse svelato l’intrigo forse avrebbe potuto aiutarlo, ma non poteva nemmeno costringerlo data l’evidente gravità dell’affare: “Mi dici allora dove siamo finiti?”
Felix sollevò allora il viso e, dopo un ultimo singhiozzo, parve iniziare a ricomporsi. La voce era ancora tremula ed insicura, alcune volte assumeva un tono greve difficile da decifrare, ma Changbin, intenerito, non lo interruppe. Il biondo gli raccontò di come la notte precedente, nel suo disperato tentativo di raggiungerli con Miss Binnie e con i cavalli, fosse finito per perdersi e per imbattersi in loro solo molto più tardi, quasi per caso, per merito della stessa Tarantola, la quale era riuscita a fiutare il sentore del proprio padrone. Chan aveva assicurato Changbin alla schiena dell’animale e si era catapultato sul proprio destriero, guidandoli in fretta e furia a quello stesso villaggio, nel quale, riconoscendolo come Fonte della Felicità, avevano acconsentito a prestare immediato soccorso a tutti e tre nonostante l’orario folle. Alcuni medici avevano operato sul novizio, mentre gli infermieri semplici si erano occupati di disinfettare le lesioni del soldato. Dopo un primo intervento avevano constatato che le ferite alla gamba del primo erano molto meno gravi di quanto ci si sarebbe potuto attendere dalla quantità di sangue che continuava a colare, il femore era spezzato, ma potevano riparare al resto con delle semplici, benché dolorose, lunghe suture. In quel momento Changbin si trovava in una delle tante camere di ospedale della minuscola cittadina, Chan era sistemato in quella a fianco, ma si era fatto dimettere già prima di pranzo, convinto, malgrado le lamentele dei dottori, di non aver bisogno di ulteriore riposo.
“Tu dormivi, non voleva svegliarti, quindi ha preferito scappare per andare ad allenarsi come fa sempre piuttosto di rimanere qui con me.”
Felix aveva concluso con un sorriso tirato, un po’ Changbin lo compativa. Lui e Chan erano le persone con cui avrebbe condiviso l’epico momento della sua dipartita, gli ultimi istanti prima di ritornare umano ed abbandonarsi al caloroso abbraccio del Sonno, ed in qualche modo aveva rovinato tutto. Era stato coraggioso a volersi impegnare nell’instaurare un rapporto di amicizia con entrambi pur sapendo di avere i minuti contati, ma aveva messo in conto la possibilità di perdere tutto senza che gli rimanesse il tempo di rimettere insieme i cocci?
“Beh, prima o poi dovrà per forza tornare. Vedremo se possiamo farlo ragionare insieme. Piuttosto, adesso che sono sveglio perché non provi a riposarti anche tu? Le conosco quelle occhiaie, sono le stesse che mi vengono quando passo la notte in biblioteca a studiare. Immagino che tu non sia riuscito a dormire.”
Scosso ancora da un lievissimo singulto, il piccolo dio non poté che annuire. Non aveva riportato danni gravi, ma lo spavento di aver perduto sia Changbin che Chan lo aveva quasi fatto morire davvero.
“Prima devo finire di medicarti però. Mi sono fatto spiegare come fare, visto che almeno in parte è colpa mia voglio provare a rimediare così se non altro.”
Felix si sporse allora a recuperare un panno pulito e dell’alcol disinfettante, appoggiati su un comodino di legno posto accanto alla testiera del letto, per poi alzarsi in piedi e riprendere il lavoro che aveva cominciato prima che l’altro si svegliasse di soprassalto.
“Non… Non la puoi far guarire con i tuoi poteri?”
Se c’era una cosa di cui Changbin era curioso, quella era proprio la natura della magia del dio. Non vi erano scritti chiari in proposito, nemmeno la ristretta classe dei Religiosi, criptica ed elitaria branca di radice Filosofica che si occupava dei misteri del sovrannaturale, riusciva ad esprimere con correttezza e coerenza da dove giungessero.
“Beh… Alcune Fonti sono state in grado di farlo, ma è un dono raro e, se lo si possiede, è difficile da controllare. Io sono un dio minore, la percentuale di sangue umano che scorre in me è troppo alta per poterlo fare.”
Felix si morse un labbro e si interruppe per qualche secondo concentrandosi invece sulla ferita, riprese solo quando ebbe finito di disinfettarla.
“Vedi… Come Fonte della Felicità il mio compito è quello di aiutare l’essere umano, e per farlo mi è utile essere parte della razza a cui appartiene. Prendermi cura della vegetazione, degli animali, degli elfi, delle ninfe e dei troll non è complicato, il Cielo aveva già programmato che abitassero queste terre, ma, come ti avevo raccontato, non è così per gli umani. Gli uomini sono di stirpe divina, voi siete i lontani discendenti dei fratelli di mio padre e di mia madre, il Sole e la Luna, e non fate parte della Natura, di cui io sono il vero protettore. Posso curare un folletto o una fata, ma non sono in grado di fare lo stesso per quelli come te, Changbin. Se sfortunatamente lo fossi significherebbe che in me è stato infuso più icore divina di quanta ne necessitassi e sarei troppo distante da tutti voi. Desidererei riunirmi al Cielo e tornare a danzare con i miei genitori, e porterei la natura con me. Potrei essere in grado di curarvi, ma mi rifiuterei di farlo. È… è un discorso davvero difficile…”
Changbin non era in grado di stabilire se avesse compreso appieno o meno il discorso dell’altro. Vedere un ragazzetto distrutto emanare tali grevi sentenze lo fece sentire insignificante. Smise anche di lamentarsi del pungente fastidio alla gamba, il peso che portava Felix sulle sue spalle era probabilmente cento volte più doloroso.
 
-
 
Changbin e Felix trascorsero insieme quasi tutta la restante giornata. L’ultimo aveva assecondato in parte la richiesta del novizio e, dopo essersi ritirato nella stanza a sua disposizione per provare a dormire, era tornato da lui nel giro di un quarto d’ora sostenendo che non riuscisse a prendere sonno sapendolo ancora tanto malmesso da solo nella sua camera – gli aveva anche ricordato che, oltre alla gamba, doveva preoccuparsi dell’ustione provocatagli per sbaglio da Miss Binnie – e che quindi avrebbe sonnecchiato un po’ restando lì con lui nella sua stanza. Detto fatto, si era seduto sulla scomoda seggiola che aveva lasciato accanto al letto e aveva appoggiato i gomiti ai piedi del giaciglio del moro. Adagiata la testa su questi ultimi, passarono – contò Changbin – circa due secondi e mezzo prima che cominciasse a russare. Il novizio sorrise timidamente, quasi temendo di svegliarlo anche solo con il minimo movimento delle labbra, e senza accorgersene trascorse la maggior parte del pomeriggio a fare ciò che sapeva fare meglio: studiarlo.
Il soggetto – comunemente denominato Felix – presentava esternamente forme di natura inequivocabilmente umana, nonostante la ben provata appartenenza alla razza dei semidei, o dèi minori. Possedeva un paio di braccia, un paio di gambe ed un paio di occhi, aveva tutte e venti le dita ed un solo piccolo naso ricoperto, in maniera simile alle guance, alla base del collo e alla parte superiore delle spalle, da piccole lentiggini di vario colore e misura. Il colorito della pelle piuttosto abbronzato, sintomo della sua probabile appartenenza a qualche piccola etnia dell’est, completava, assieme al caloroso biondo dei capelli, la lista dei suoi segni particolari. La corporatura era esile, ma flessuosa e di buona tempra, i muscoli, appena accennati, scavavano molli gole che appena si intravedevano sotto gli abiti, adatti solamente al periodo estivo-autunnale, di indubitabile fattura borghese.
Changbin focalizzò nella sua mente l’immagine di una circonferenza e prese allora a confrontarla con le forme del minore. Stimava che il contorno del capo del soggetto, visto di profilo, fosse esattamente i cinque settimi della circonferenza su cui stava ragionando e che aveva assunto come unità di misura. Soddisfatto del calcolo, passò alla curva delineata dall’unirsi del collo e delle spalle – tre ottavi di una circonferenza di raggio dimezzato – e poi tornò su per soffermarsi ancora sulle sue guance – un terzo di un cerchio di diametro di un quarto minore rispetto all’unità –, sulla punta del naso e sulle dolci colline (definizione non così professionale) delle labbra. Scese di nuovo lungo la gola, e scivolando lungo le braccia scoprì quanto appuntiti fossero i suoi gomiti, per poi frenare la sua corsa una volta toccata l’ultima falange. Stava già per schizzare su al petto, ma si obbligò a controllare minuziosamente le unghie – quelle della mano non dominante, la sinistra, erano tutte più lunghe – e le pieghe nelle piccole mani. Issò lo sguardo sui fianchi morbidi (se il pelo di un animale veniva descritto il più delle volte come tale, perché la vita di Felix non poteva esserlo?) e giunse fino al cuore.
Inclinò il capo di lato e, sospirando, pensò che nessuna circonferenza esistente avrebbe mai potuto racchiudere la grandezza del cuore di Felix.
Quasi non si accorse che Chan era rientrato, appena prima dell’ora di cena, dal suo intensivo allenamento, e che, fisso sulla soglia della porta della sua camera, riponeva a sua volta il triste sguardo sul piccolo dio ancora addormentato. Gli occhi di Changbin, socchiusi, abituati alla penombra della stanza, rilucevano inconsciamente dello stesso bagliore di quelli del soldato, ma nessuno dei due parve notarlo. Quando il novizio si rese conto della presenza di quest’ultimo virò di scatto il capo, come quando da bambino lo sorprendevano a rubare cucchiaiate di marmellata di albipesche dalla credenza, e, preso alla sprovvista, poggiò semplicemente un indice di fronte alle labbra per chiedergli di non fare rumore. Chan scosse il capo e tornò per un momento a guardare Felix, per poi voltarsi ancora verso il novizio che cercava a tutti i costi di richiamare la sua attenzione.
‘Come stai?’ mimò Changbin con le labbra.
La guardia si indicò le varie fasciature presenti sul corpo, sulle braccia e sui fianchi in particolare, per poi scrollare le spalle e replicare allo stesso modo dell’altro: ‘Ho sopportato di peggio, tu come stai?’
‘Meglio, mi dispiace di essermi di nuovo messo nei guai. Grazie per avermi salvato, Chan’
Changbin gli sorrise piano, ringraziarlo era il minimo che potesse fare nelle sue condizioni. Probabilmente non sarebbero mai stati amici, appartenevano a due mondi completamente differenti ed avevano modi di approcciarsi alla realtà inconciliabili tra di loro, ma si sarebbe fatto in quattro per ricambiare tutti i debiti nei suoi confronti.
 
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Quella di stare sveglio di notte per vegliare sul novizio divenne presto un’abitudine per Felix. Changbin era ovviamente stabile, ma, se volevano che guarisse in fretta, la ferita necessitava di cure continue, ed il piccolo dio era ben felice di dare una mano ai già indaffarati infermieri del piccolo sanatorio. In poco tempo aveva compreso come cambiare i vari bendaggi senza causare troppo dolore al suo paziente e come disinfettare in modo delicato ed allo stesso tempo efficace la brutta lesione. Ogni tanto scappava in mezzo ai boschi alla ricerca di erbe lenitive che, a sua detta, secondo le antiche tradizioni elfiche, erano letteralmente miracolose per la cicatrizzazione. Changbin si fidava, era particolarmente curioso di scoprire le varie proprietà benefiche di pianticelle che comunemente alla Casa, nell’ancora striminzito dipartimento di erboristeria, avrebbero classificato come ottimo pasto per capre e pecore.
“Vedi, c’è questo tipo di cardo parecchio comune da queste parti che, se usato nel modo giusto, è in grado di far disinfiammare la tua ferita. Prima però lo si deve far essiccare per bene al sole, e poi…”
Era bello per Changbin che le posizioni si fossero invertite, lui umile allievo e Felix buffo insegnante che, forse troppe volte, si concentrava su aspetti del tutto ‘poco scientifici’ della questione che si prefiggeva di trattare. Il piccolo dio era capace di portare avanti da solo intere conversazioni a proposito della tinta della corteccia di un determinato albero o sul grado di ispidezza del pelo di svariati animali del Nord, e Changbin semplicemente amava ascoltarlo. La spicciola filosofia dei ragionamenti del biondo lo faceva sorridere, capitava spesso che cominciasse a leggere un piccolo manuale di alchimia che aveva avuto l’accortezza di portarsi dietro per il viaggio e che finisse straordinariamente per abbandonarlo sul comodino, rapito dai più svariati ed assurdi suggerimenti.
“Secondo te perché i girasoli seguono il sole?”
“Perché per crescere hanno bisogno di ricevere molta luce suppongo.”
“Quindi più si girano verso il sole e più crescono?”
“Può darsi.”
“E se lo facessero perché vogliono raggiungerlo? E se ognuno di essi credesse che il sole è un altro gigantesco girasole e volessero arrivare al giardino in cui è piantato?”
“Beh, tu lo sai se, nel profondo, il sole è davvero un girasole oppure no?”
“Potrebbe essere un’enorme lucciola!”
Changbin rideva e scuoteva allora il capo, bene o male Felix non mancava mai di citare le sue amate lucciole. Di solito era con esse che chiudevano i loro atipici discorsi. Chan non ne faceva mai parte, quando capitava che vi assistesse trascorreva il tempo ad alzare gli occhi al cielo e a sospirare, nonostante il novizio tentasse spesso di inserirlo nella chiacchierata. Preferiva comunque non sprecare tempo, si teneva in allenamento, si informava sulla salute di Changbin e valutava giorno per giorno il percorso migliore per portare il loro viaggio a compimento. Sia lui che il novizio avevano provato a discuterne con i medici, ma su un’unica cosa erano stati del tutto irremovibili: la data di dimissione di quest’ultimo. Non volevano far trascorrere meno di una settimana, anche se Changbin, in mancanza di Filosofi curatori che lo avrebbero sottoposto a vari incantesimi ricostruttivi (non facevano miracoli, ma acceleravano semplicemente, non senza svariati effetti collaterali, la ricrescita dei tessuti), avrebbe fatto meglio a mettersi comodo e attendere che trascorressero almeno altre tre settimane prima di potersi rimettere in piedi.
Ogni singola giornata scorreva placida addosso ai tre, Chan sembrava non tollerare più la presenza di Felix, mentre quest’ultimo pareva sempre sul punto di scoppiare in lacrime quando capitava che si trovassero nella stessa camera. Changbin, ancora ignaro del motivo che tanto li tormentava, provava a far distrarre il piccolo dio con i loro momenti di astrusa filosofia e Chan mostrandosi interessato a tutto l’abnorme lavoro che stava facendo nella riprogrammazione del lungo tragitto che ancora dovevano compiere, ma era chiaro che, giorno dopo giorno, la sua preoccupazione aumentava.
Felix era solito riposare di pomeriggio nella sua stanza, malamente seduto sulla solita seggiola lignea con il capo appoggiato ai piedi del materasso del novizio e, al sesto giorno di permanenza, Changbin osò finalmente proporgli: “Sdraiati qui vicino a me, il letto è abbastanza grande per starci in due.”
Felix non se lo fece ripetere e, silenziosamente, quasi si stesse preparando per compiere un elegante e raffinato rito sacro, scivolò sdraiato accanto a lui, posizionandosi dal lato opposto alla ferita in modo da non urtarla per sbaglio, e adagiò il capo ad una delle sue spalle. Da quell’istante, al novizio parve di cadere in una dimensione sospesa, il momento gli sembrò eterno ed eternamente racchiuso in un’opaca bolla di perenne dolcezza, e non poté dolersene, e nemmeno voleva farlo. Neppure quando il piccolo dio chiamò il suo nome e sussurrò ad un suo orecchio con le labbra e le guance già bagnate da nuove vergognose lacrime il motivo per cui Chan voleva evitarlo, a Changbin passò per la testa di allontanarlo da sé.
“Chan mi ha baciato, ma io l’ho rifiutato.”
“Perché lo hai fatto?”
Un solo battito scandì il tempo del cuore di Changbin quando Felix rispose.
“Perché forse mi piace già qualcun altro.”
E al novizio non restò che tirare ad indovinare: “È una lucciola, vero?”

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Capitolo 12
*** dodicesimo ***


Felix si addormentò poco dopo ridacchiando, provato dall’ennesima notte insonne, e Changbin, per ringraziarlo di tutte le cure che gli riservava, gli permise quindi di accucciarsi delicatamente a sé. Evidentemente non era convenevole per una figura di tale spicco mostrare un lato tanto tenero ed appiccicaticcio, il novizio aveva sempre sentito parlare di lui come di una figura tanto calorosa e cordiale quanto incredibilmente – pareva un assurdo ossimoro – riservata, e proprio per questo motivo non si era stupito troppo quando gli aveva rivelato quei minimi particolari sul litigio tra lui e Chan. Improvvisamente tutto si era fatto più chiaro, forse non comprendeva appieno il dolore del maggiore nello stare accanto al piccolo dio dopo essere stato respinto – non aveva mai avuto una relazione di quel genere con qualcuno –, ma era in grado di immaginare perfettamente la pena che il soldato dovesse provare nel sapere che, entro due settimane al massimo, non ci sarebbe più stato alcun Felix da contemplare.
Eppure Felix, in quel momento, era proprio lì con lui; si muoveva piano piano, leggermente a scatti, scosso dolcemente dai languori del profondo sonno che lo aveva inghiottito, e non si era fatto problemi ad appoggiare il capo su una sua spalla per nascondere il viso nell’incavo del suo collo o a domandargli, appena prima che Morfeo lo rapisse, se non gli recasse troppo disturbo sollevare appena appena la mano destra per posarla sulla propria schiena, anche solamente finché non si sarebbe accorto che ormai non era più vigile. Changbin era in dovere di ringraziarlo, appunto, e lo aveva stretto a sé con la poca forza che era riuscito a recuperare in quella settimana scarsa.
“Dormi pure quanto vuoi, Felix.”
Sussurrava quelle stesse parole ogni giorno da ben sei giorni, ma solo quella volta – forse a causa dell’imbarazzato sorriso che aveva placidamente sagomato le labbra dell’altro – gli parve che si fossero tinte di uno strano tono dolciastro, un retrogusto che ancora non sapeva se poteva andargli davvero a genio. Per tutta la sua, seppur breve, vita non si era mai occupato di instaurare veri e propria rapporti di amicizia con coetanei o altri confratelli, sosteneva di non averne bisogno e si nascondeva di fronte ad un ghigno di scherno quando gli capitava di assistere ad uno dei tanti giochi che Seungmin, alla Casa, inventava per i novizi più piccoli. Certe volte diventava malinconico, correva da Miss Binnie e godeva del tepore materno del suo spesso torace, ricordando allora di non avere il tempo materiale per potersi far amare dagli altri – per sentirsi amato dagli altri – se la sua aspirazione era quella di dedicare la sua misera esistenza al nobile scopo della ricerca. Eppure nelle ultime due settimane non aveva fatto altro che studiare un’unica pergamena, quella su cui era vergato in lingua antica il rito funebre con cui la vita di ogni singola Fonte della Felicità si concludeva, ed un libriccino di alchimia spicciola che lo dilettava nei rari momenti di noia. Aveva quasi paura di perdere il ritmo; nel medesimo lasso di tempo, se fosse rimasto alla Casa, avrebbe già ideato come minimo una decina di esperimenti differenti, di cui almeno nove sapeva già che sarebbero falliti. Se però anche l’ultimo avesse lasciato acceso un lieve barlume di speranza nella positività del risultato, non sarebbe comunque servito a nulla. Ormai era a conoscenza dell’esistenza di Tillvah, dove erano avanti anni luce rispetto a lui ed al ristretto mondo del sapere tradizionale – Hyunjin parlava molto più volentieri di fisica che di alchimia! – ed esserne brutalmente conscio talvolta non lo lasciava nemmeno dormire, lacerava subdolamente il molle tessuto della sua mente e, una volta giunto all’osso, lo etichettava come ‘inutile’ o ‘dimenticabile’. Stava per compiere probabilmente una delle imprese più importanti che potessero essere assegnate ad un qualsiasi novizio e che di certo avrebbero fatto schizzare alle stelle la sua popolarità di futuro Filosofo, eppure era convinto di essere ad un punto morto della sua carriera.
E poi, però, c’era Felix.
Se la sua vocazione vacillava sotto la dura consapevolezza di avere ancora tanto da apprendere, sembrava che il suo cuore, libero dalle catene del raziocinio, dovesse invece d’un tratto esplodere per prepararsi ad abbracciare finalmente la realtà circostante. Voltava spesso lo sguardo fuori dalla finestra mentre leggeva, molto distrattamente, il suo piccolo manuale, e al tramonto, appena prima di accendere la candela sul comodino, si permetteva di pensare che il colore arancio-rosato del cielo lo facesse sentire incredibilmente bene. Ma non osava indagare la natura di quei sentimenti, temeva ingenuamente che, se li avesse demoliti e dissezionati come faceva con i cadaveri, avrebbero perso tutta la loro incantevole integrità.
Al sesto giorno era ormai convinto che, se mai avesse dovuto suggerire un colore per dipingere gli abbracci di Felix, allora sarebbe stato lo stesso avvolgente, esuberante arancione di cui si imbrattavano i boschi nell’ora in cui la notte salutava il giorno.
 
-
 
Felix si svegliò appena in tempo per veder tornare Chan e, di comune accordo, sia lui che Changbin non accennarono al maggiore del pomeriggio trascorso insieme. Non che di solito il soldato si preoccupasse di indagare su come impiegassero il loro tempo comunque, soprattutto in quegli ultimi due giorni era stato occupato a raccattare e a sistemare tutto il necessario per l’imminente partenza e non aveva particolarmente voglia di mettersi a fare conversazione durate l’ora di cena. Raccontò velocemente che si era di nuovo informato sulla salute del novizio e aveva concordato con i medici di attendere ancora tutto il settimo giorno, per poi partire all’alba dell’ottavo. Concluse con tono duro, forse più stizzito di quanto effettivamente desiderasse: “Siamo in ritardo di due settimane e non abbiamo completato nemmeno un quarto del tragitto. Da questo momento in poi taglieremo le soste e, se sarà necessario, mangeremo marciando.”
Changbin non poté che sentirsi profondamente in colpa, era talmente schiacciato dalla consapevolezza di essere lui la causa di quell’immenso ritardo che ogni umile ‘Scusami’ gli si incastrava, spinoso, in gola. Vide Felix annuire e lo imitò, e non appena Chan si ritirò nella sua camera pensò che forse non era così male aver rubato tutto quel tempo, se era servito per farsi il suo primo vero amico.
Felix lo aiutò a mettersi di nuovo ben sdraiato a letto, per poi afferrare la propria seggiola e trascinarla fin davanti alla finestra presente alla destra di Changbin. Vi si appollaiò sopra a gambe incrociate e cominciò a guardare fuori con espressione assorta, attendendo probabilmente l’avvento di qualcuna delle sue amiche lucciole per godersi la sua rituale oretta serale di pettegolezzi e frivole chiacchiere.
“Stanotte è davvero sereno, le stelle si vedono benissimo, sai Changbin?”
Il piccolo dio, dopo interi minuti di silenzio, si era allora voltato verso di lui ed aveva continuato: “Le vedi anche se sei lì sdraiato?”
“Non molto, a dire il vero…” la bassezza del materasso rispetto al livello del davanzale non permetteva al novizio di ammirare che un solo angusto scorcio della meraviglia che Felix andava proclamando.
Il piccolo dio parve alquanto deluso e dispiaciuto dalla scoperta: “… Ah no?”
Si girò restio verso un paio di lucciole che, intanto, lo avevano raggiunto e avevano cominciato a svolazzare attorno al suo capo: “Peccato…”
Changbin, per una sera, non seguì l’ordine dei medici e non si mise a dormire presto. Forse non riusciva a scorgere il cielo stellato, ma in compenso poteva bearsi della visione di Felix che, completamente preso dai suoi futili discorsi, giocherellava con i suoi insetti preferiti. Senza nemmeno pensarci troppo confessò, colto da un improvviso attacco di nostalgia: “Felix, mi manca Miss Binnie. Sono già sei giorni che non la vedo, chissà come sta.”
Il piccolo dio parve più colpito da quell’ammissione di quanto il novizio si sarebbe mai potuto aspettare, tanto che pensò addirittura di averlo offeso (sebbene non concepisse in quale modo fosse possibile) visto che il mattino seguente, non appena si svegliò, Felix scattò in piedi e, mugugnando un incomprensibile: “Vado a fare un giro fuori per sgranchirmi la schiena”, lasciò per la prima volta Changbin da solo nella sua stanza. Anche Chan, che passava solitamente per portargli la colazione, si mostrò sorpreso nel non notare la figura dinoccolata del loro compagno di viaggio gironzolare per la stanza entusiasta del suo nuovo lavoro da infermiere. Scambiarono un paio di parole, Chan si sedette accanto a lui e gli domandò come si sentiva, e in risposta il novizio esibì le cicatrici della bruciatura e la grossa fasciatura che ancora avvolgeva stretta la sua gamba destra assieme ad una rigida stecca di legno. Il soldato annuì lentamente, ringraziò per la prima volta che Miss Binnie fosse con loro e che lui non dovesse quindi viaggiare a cavallo, e gli mostrò allora come anche le sue ferite fossero piano piano in via di guarigione.
Non avevano mai parlato così tanto da quando Felix si era unito al loro gruppo, ogni dichiarazione era palesemente tirata per i capelli, eppure Chan pareva non volersi arrendere al silenzio assoluto che, ad ogni sillaba, minacciava di inghiottire l’intero discorso. Changbin si domandò se non avesse per caso voglia di sfogarsi, se anche Chan, coraggioso, duro ed intrepido, non stesse cedendo sotto il peso del dolore che lo stava mangiando, e poté giurare di aver scorto un lume di imbarazzo negli anfratti del suo sguardo. Mise da parte l’antagonismo e lo ascoltò a lungo, provò implicitamente ad esortarlo e, allo stesso tempo, gli lasciò i suoi spazi, ma probabilmente non fu abbastanza per il biondo, il quale, dopo un’ora scarsa di chiacchiere stentate ed irrilevanti, semplicemente si issò ritto e se ne andò impettito.
Changbin rimase solo per l’intera mattinata, anche a pranzo si presentò solo il soldato, il quale colse l’occasione per scherzare sul compagno mancante: “Strano che Felix non ci sia, a pranzo mangia sempre il doppio di noi.”
Changbin sorrise piano notando la preoccupazione che Chan tentava di nascondere infilzando brutalmente i pezzettini di carne e verdura con le bacchette: “Avrà trovato un cinghiale e se lo sarà mangiato tutto da solo.”
Anche a cena ebbe luogo una conversazione simile. Era tanto che Changbin non trascorreva un intero pomeriggio completamente solo, l’idea inizialmente non gli dispiaceva e riteneva che fosse l’ideale per fare pratica con quei pochi incantesimi che gli era consentito conoscere, ma dopo poche decine di minuti gli era parso chiaro di avere la testa completamente altrove. Era bizzarro che non riuscisse a concentrarsi, solitamente quando capitava era perché c’entrava Miss Binnie (una volta le era venuto il mal di stomaco e continuava a vomitare riccioli di lava che spaventavano i cavalli!), eppure, vergognosamente, era costretto ad ammettere che per una volta i suoi pensieri erano totalmente dirottati verso la sagoma più molle e decisamente meno rovente del piccolo dio. Era Chan quello che svaniva all’improvviso, non vi avrebbe rivolto troppa attenzione, ma con Felix non era mai accaduto e, pessimista di natura, continuava a pensare che fosse di nuovo incappato in qualche guaio. Con molta probabilità stava rincorrendo una farfalla arcobaleno insieme a qualche vecchia driade solitaria, oppure si divertiva ad imparare a memoria tutti i nomi che qualche improbabile coppietta di pesciolini in un ruscello sperduto aveva affibbiato ai loro piccoli appena nati, ma dopo gli eventi dell’ultimo periodo Changbin non riusciva a dare per scontato che stesse bene. Pregò un’infermiera fino allo sfinimento affinché lo aiutasse a mettersi seduto sulla seggiola che Felix la sera precedente aveva lasciato accanto alla finestra sperando di poterne scorgere la solare silhouette gironzolare allegra in mezzo al borgo, ma trascorsero ore prima che il piccolo dio tornasse davvero all’ospedale. Ne mancavano giusto un paio alla mezzanotte – Chan, fremente d’ansia, stava già affilando il pugnale con l’intenzione di andare a cercarlo – quando Felix, luminoso e frizzante come al solito si fece largo nella stanza del novizio e cominciò a seppellirli con una miriade di rotti farfugli per chiedere il loro perdono.
“Mi dispiace! Mi dispiace davvero, mi sono fermato troppo al villaggio e ho perso la cognizione del tempo! Non vi ho nemmeno detto nulla prima di uscire, volevo tornare per pranzo e cena, ma il capo delle guardie mi ha invitato a mangiare con lui e la sua famiglia, e poi non ho avuto un momento libero fino ad ora!”
Chan sospirò e scosse il capo, incapace di prendersela ancora con lui. Scivolò stanco fuori dalla camera mugugnando uno stretto ‘Buona notte’ e raggiunse il proprio giaciglio nel vano accanto. Felix gli sorrise in modo tirato, e richiuse la porta dietro di sé una volta che l’altro fu uscito.
“Ti giuro, Changbin, non ne potevo più!” lamentò il piccolo dio “Quell’uomo è una vera rottura, non so come abbiano fatto ad eleggerlo capitano!”
Changbin, finalmente più tranquillo nel vederlo sano e salvo, si concesse una piccola risata: “Almeno hai mangiato bene a casa sua?”
“Sì, molto bene, anche se sua moglie è parecchio avara con le porzioni. Stavo pensando di rubare qualche biscotto per merenda, ma poi se mi avessero scoperto che figura ci avrei fatto?!”
Il novizio scosse il capo divertito e lasciò cadere l’argomento, puntualizzando invece: “Chan era preoccupato.”
Felix intanto gli si era avvicinato e aveva provveduto a liberarlo del lenzuolo, scoprendo, come ogni giorno ed ogni notte ad intervalli periodici, la malconcia ferita del moro.
“Solo Chan era preoccupato?” poteva sembrare una battuta di spirito, ironia spiccia per alleggerire l’atmosfera, ma l’espressione del piccolo dio era più che seria mentre, lentamente, con mano ormai esperta, andava a rimuovere le bende sporche. Changbin lo guardava attentamente lavorare, si concentrava sulle sue frenetiche mani, sul modo in cui queste ultime seguivano in modo estremamente preciso gli impercettibili movimenti degli occhi, quasi si dimenticò di rispondere.
“No, non solo Chan. Mi sei mancato oggi.”
Forse Changbin si pentì di quella confessione nel medesimo istante in cui la sentì sfuggire dalle sue stesse labbra. Era un tipo inequivocabilmente chiuso, si faceva gli affari suoi, non aveva tempo per coltivare relazioni di alcun genere e ne soffriva parecchio, ma aveva imparato con il tempo a non darlo a vedere. Sapeva misurare ogni parola con il contagocce, non si sbilanciava in nulla, prendeva a stento posizione su argomenti che non lo riguardavano, sperava che la sua vita potesse, in fondo, realizzarsi e terminare con lo stesso equilibrio delle formule alchemiche di cui si occupava con i suoi confratelli. Tra carbonio e zinco non c’era mai stato spazio che per il sarcasmo e la parola tagliente, ed ora, invece, si sentiva crollare sotto il peso di una mancanza con la quale aveva fatto i conti anni prima, appena ammesso tra i ranghi della sua Casa.
‘Mi sei mancato’ suonava di ignobile, imperdonabile, disperazione, sentimento del quale scorse il piccolo dio compiacersi. Il biondo aveva sorriso con una delicatezza di cui anche le coraggiose primule, ambasciatrici della timida primavera, erano prive. Forse non era la più adatta delle metafore, Felix pareva risplendere quella notte, la pelle lentigginosa scrostava dalle pareti i più infidi anfratti di oscurità mentre gli occhi, posandosi attenti sui lembi frastagliati della ferita, scaldavano con il loro tenero color cioccolato l’aria della stanza. Per essere i primi di settembre faceva freddo, significava che la stagione delle piogge stava avanzando velocemente e probabilmente avrebbero dovuto portare a termine il loro viaggio sotto lo scroscio incessante di un perenne temporale, ma a Changbin non interessava, a Felix non interessava. Il primo era concentrato sulle cure del secondo, il secondo si sentiva sciogliere per l’ammissione del primo.
“Changbin…” Felix parlava con tono cadenzato, la voce leggermente bassa ed arrocchita per evitare di disturbare chi riposava nelle stanze loro adiacenti. Il novizio non se ne accorse, ma alla finestra avevano fatto capolino un trio di giocose lucciole.
“Changbin, a dire il vero non sono sempre stato a casa del capo delle guardie. Stamattina sono uscito presto perché volevo cercare Miss Binnie e controllare che fosse in forma, ecco. Ieri hai detto che ti mancava, quindi in pratica ho passato tutto il giorno con lei.”
Il novizio si riscosse, distolse finalmente lo sguardo dalle sue mani, impegnate ancora nel disinfettare la sutura e a coprirla con nuovi bendaggi, e lo puntò timorosamente sul suo viso, e restò veramente di stucco quando scorse in Felix lo stesso strano senso di recondita e calorosa timidezza che si stava poco a poco annidando al centro del suo cuore. Sarebbe volentieri scattato in piedi, lo avrebbe preso per le spalle nella foga del momento e gli avrebbe domandato con ansia come stesse, se avesse mangiato, se si fosse presa cura di se stessa e se qualche altro animale le avesse dato fastidio, eppure rimase fermo come uno stoccafisso, occhi sgranati e bocca mezzo spalancata, a fissare il compagno di viaggio mentre si rendeva conto che era la prima volta che qualcuno faceva gratuitamente qualcosa per lui. Non gli restò allora che mormorare un fievole ‘Grazie…’, poco convinto, impacciato – Changbin non era abituato a ringraziare, di solito era più bravo ad imprecare –, e poi, dopo qualche istante, un altro, scandendolo meglio, graffiando con i denti ogni sillaba affinché giungesse sincero alle orecchie di Felix e facesse breccia nelle sue emozioni. Il piccolo dio scosse semplicemente il capo e pettinò indietro con una mano il ciuffo di capelli che continuava a ricadergli sugli occhi. Ripose al loro posto bende e disinfettante con una certa eleganza, e, con la stessa irreale grazia, si sedette poi accanto a lui sul materasso, alla sua destra.
“L’ho fatto volentieri, Changbin. Mi dispiace di averti lasciato solo tutto il giorno, ma anche lei aveva bisogno di vedere qualcuno.” il piccolo dio si interruppe per fargli l’occhiolino “Le ho detto che domani mattina all’alba saremmo tornati da lei e saremmo ripartiti per l’Est e poi abbiamo parlato soprattutto di te.”
Changbin si spostò leggermente a sinistra, in modo che l’altro potesse stare più comodo: “Di me?”
“Beh, era preoccupatissima dopo averti visto perdere tanto sangue! Mi ha detto che voleva seguirci al villaggio, ma aveva paura che gli uomini le avrebbero fatto del male, quindi è rimasta nascosta come le avevamo raccomandato. A parte lo spavento però sta bene, Changbin, è una Tarantola forte!”
Il piccolo dio deglutì piano, attese un secondo prima di concludere: “Le ho detto che ti assomiglia.”
“Anche io sono una Tarantola forte?”
“Cielo, smettila, Changbin, sto solo cercando di essere carino!” rise il biondo.
Changbin rise allora con lui in maniera assurdamente complice: “Guarda che se avete spettegolato su di me puoi dirmelo tranquillamente, non c’è il caso di riempirmi di complimenti per indorare la pillola.”
“Effettivamente Miss Binnie potrebbe avermi raccontato di quella volta che ti sei rasato a zero le sopracciglia sbagliando una pozione, e anche di quando invece hai lasciato i recinti delle scuderie aperti e hai perso metà dei cavalli della Casa.”
L’espressione esterrefatta ed ineguagliabilmente imbarazzata del novizio valse, per Felix, più di qualsiasi incredulo e sbigottito ‘Cosa?!’ o ‘Per l’amor di tutte le provette, non l’ha fatto davvero!’. Gli occhi di Changbin guizzavano fuori dalle orbite, mentre le guance leggermente incavate delineavano buffamente un arzigogolato groviglio di contrastanti emozioni assieme alle labbra tese in una muta promessa di glaciale ed infantile vendetta. Il piccolo dio si sporse verso di lui e mise le mani avanti: “Ehi, poi però si è fatta perdonare!”
Non lasciò nemmeno il tempo al compagno di viaggio di aggrottare interrogativamente le sopracciglia che sgusciò sdraiato accanto a lui: “Ti ha lasciato un messaggio, avrebbe voluto che te lo consegnassi io, ma poi abbiamo avuto un’idea migliore.”
Felix allungò il braccio verso la piccola candela appoggiata sul comodino e ne estinse la fiamma con un soffio secco, per poi risistemarsi a fianco dell’amico – entrambi avevano la schiena adagiata alla testiera del letto – con il capo ripiegato sulla sua spalla.
L’atmosfera si fece leggiadra, sognante, il leggero profumo che i capelli di Felix trasudavano intorpidiva i sensi di un disorientato Changbin mentre, una dopo l’altra, in fila, maree di lucciole facevano capolino dalla finestra ancora aperta e cominciavano a svolazzare giocosamente per la camera.
Un’unica parola fu ancora pronunciata, overture dei sensi, ed il resto fu euforia e pace: “Guarda.”
 
-
 
V’era un mostro nel cuore di Changbin, e pronunciare il nome del mostro lo atterriva.
Ogni qual volta il novizio si ritirava in meditazione vedeva in se stesso due grandi scalinate. La prima, quella a sinistra, si elevava nella sua possanza marmorea ritta verso il cielo. Ogni gradino, ricoperto da una morbida guida dell’amato color porpora, invitava alla faticosa salita verso il regno della mente, quello a cui il moro tendeva, irrimediabilmente attratto dal pallido, rassicurante, famigliare splendore di un esitante quarto di luna dissolto nella primissima rosata luce dell’alba. Giorno dopo giorno intraprendeva quel cammino e sognava di arrivare a sfiorarne con la punta delle dita la ruvida forma e di portarne con sé un piccolo campione, così da poter scoprire di quale materiale fosse forgiato il pensiero, e si lasciava alle spalle la seconda strada, quella posta a destra, che conduceva invece verso la solida terra dei sentimenti. Desiderava la spiritualità, la libertà dell’aria, sperava un giorno di svegliarsi ed accorgersi di essersi dissolto tra le nubi del cielo, e rideva di gioia quando qualcuno, che fosse il vecchio Saggio della Casa, Seungmin oppure Chan, gli faceva notare che viveva perennemente con la testa tra le nuvole, rideva di loro che non riuscivano a liberarsi dalle infide grinfie delle loro stesse emozioni.
In quel momento era sospeso tra le due gradinate, poteva correre spedito su per quella a sinistra, oppure, per una volta, valutare di imboccare gli scabri scalini dell’altra strada ed incontrare il mostro che albergava in fondo ad essi. Lui gli sarebbe venuto incontro e avrebbe sguainato le zanne lucide di sangue, ma avrebbe risposto al dubbio che d’un tratto aveva cominciato ad assillarlo: “Fa più male vivere ripudiando o accogliendo i propri sentimenti?”
Piccolo ed ingenuo, era profondamente convinto che il vorticoso ritmo della libertà più pura fosse scandito dalla cadenzata danza dell’Assenza. Assenza di dolore, assenza di emozioni, assenza di rimorsi, assenza di legami. Di una sola cosa non poteva liberarsi, della sua stessa vita, e la vita lo aveva allora abbandonato al rimpianto. Non rimpiangeva di essersi inserito tanto presto tra i ranghi della Casa, ma lamentava di non essere in grado di dissociare famiglia e passione, per l’una avrebbe sicuramente trascurato l’altra e viceversa. Teneva il rimpianto rinchiuso sotto chiave nel suo cuore, ed il grande mostro era il suo arguto, sanguinolento carceriere.
Il dolore del vuoto, pensava Changbin, finiva per sferzarlo come minuscole frattaglie di finissima etere che, infrangendosi al suo passaggio, si conficcavano senza sforzo nella sua pelle morbida. Il richiamo di sangue fresco scatenava la belva, la sentiva grugnire ed ululare con rabbia disperata dal fondo del tetro abisso nel quale mai osava avventurarsi.
Quella sera necessitava risposte, non ricercava il docile fastidio di una placida atarassia, ma qualcosa che forse – se ne rendeva conto in quel momento – aveva perso da tempo: se stesso. Changbin infilò dunque il primo passo in discesa, i neri gradini bruciavano affamati, lagnavano orgogliosi di essere finalmente riusciti ad attrarre la difficile preda nella loro scricchiolante trappola d’ebano e si divertivano a variare inclinazione in modo da vederlo sdrucciolare verso il basso più rapidamente. Una viscida mano afferrò una delle sue caviglie, lo fece cadere rovinosamente cadere a terra e cominciò a trascinarlo giù con sé, totalmente incurante del fatto che il novizio sbattesse il capo sull’acuminato spigolo di ogni gradino. Gli parve di perdere conoscenza, riacquistò le sue facoltà mentali solo una volta ritrovatosi a terra, completamente immerso in un buio pastoso di cui poteva persino avvertire il sapore di gelido piombo. Gli occhi acuminati del mostro non smettevano di fissarlo, Changbin non ci mise molto a metterli a fuoco, freddamente scarlatti tra gli appiccicosi schizzi color pece di cui il suo mondo era costituito; probabilmente stavano valutando quanto terrore incutergli ancora prima di permettere alle larghe fauci di ingoiarlo in un sol boccone.
“Lo sai che cosa devi fare per avere la tua risposta,” gorgogliò invece la belva, schizzando saliva a destra e a manca mentre sgranocchiava ogni mugolante sillaba “pronuncia il mio nome, Changbin.”
Al novizio si seccò la gola, si raggomitolò a terra su se stesso e scosse il capo, incapace di tornare indietro nel tempo a quando, ancora, il mostro era suo amico.
Quest’ultimo guaì con stizza: “Lo sai che è l’unico modo, Changbin, prima che Rimpianto ti divori!”
Le braccia tozze del mostro tornarono ad aggrovigliarsi attorno alle sue caviglie, risalivano sulle sue ginocchia, Changbin provò a scrollarselo di dosso prima che arrivasse ai fianchi e alle braccia, ma prima che potesse accorgersene era già sulle sue guance e premeva con le unghie nella carne quasi a farlo sanguinare.
“Non puoi lasciarmi morire davvero.”
Changbin si sentiva soffocare, era ovvio che avrebbe giustiziato senza remore un mostro di cui nemmeno conosceva il vero volto, ma prima che potesse comunicargli la sua risposta un grumo di luce si fece strada all’interno delle nere cavità del suo cuore. Svolazzava liberamente in cerchio per tutto il minuscolo vano, semplicemente incantevole, anche il mostro, scricchiolante di catene, voltò il viso verso di esso e ne rimase estasiato. Tese una mano verso di esso, ma non ci fu bisogno di catturarlo. Il grumo si avvicinò a lui, appollaiandosi per un momento sulla punta del suo naso prima che migliaia di altri luminosi puntini, identici a lui, facessero breccia nella stanza per schiarirne le impolverate pareti. Changbin si perse a guardare le lucciole che volteggiavano sopra le loro teste, e solamente dopo una buona manciata di secondi si rese conto che il mostro non era nient’altro che una magra, effimera, versione di se stesso. I capelli tagliati troppo lunghi erano ancora unti dal buio, le membra, sciolta l’oscurità che le stringeva, si erano rivelate fragili come cristalli, dilaniate fino all’osso dalla fame e dall’invidia.
Changbin provò pena per lui, si impietosì di fronte alla piccolezza dell’Amore che era in grado di provare, quel poco che donava per la maggior parte a Miss Binnie, la sua unica amica, la migliore che potesse desiderare e colei che ogni volta gli ricordava che il Changbin tormentato era il migliore dei Changbin possibili.
 
-
 
“Guarda, Changbin” Felix lo riportò alla realtà, sfregò il viso contro la sua spalla sinistra e si appropriò del suo braccio destro per stringerlo a mo’ di pupazzo “Miss Binnie ha chiesto alle lucciole di farti vedere quanto le manchi e quanto ti vuole bene.”
Non c’era il caso che il piccolo dio gli ricordasse di non distogliere lo sguardo dallo spettacolo di luci che si agitava gioiosamente tra le pareti della camera creando mistiche, mute, delicatissime sonorità ed armonie di verde e giallo acceso. Changbin ne era stato rapito dal primo istante in cui aveva compreso quale fosse la trovata di Felix e della sua Tarantola, tanto più che il piccolo dio gli aveva fatto capire di aver speso l’intera giornata appositamente per mettere a punto quella sorpresa. Non si accorse di aver lentamente spalancato la bocca finché Felix non portò una mano sotto il suo mento per fargliela di nuovo serrare: “Finirai per ingoiare una delle mie lucciole così…”
Changbin rispose con un sorriso ancora pregno di incredulità, dolcemente a disagio in quella che per lui era una situazione più che nuova, e, chiudendo solo allora gli occhi della mente, liberò il braccio che il biondo teneva in ostaggio e lo fece intrufolare sotto la sua schiena per avvolgere il suo finissimo busto e stringerlo in un dolce abbraccio. Felix batté volentieri il viso contro il petto dell’altro, meno tonico e prestante di quello di Chan forse, ma più accogliente, curioso quanto lo era Changbin. All’inizio era convinto che fosse il solito riservatissimo Filosofo in erba abituato per giuramento a tenersi per sé ogni segreto, invece si era rivelato incredibilmente loquace, ironico, tagliente al punto giusto, entusiasta quasi quanto lui se il discorso verteva su un argomento di cui si diceva profondo conoscitore. Sotto un certo punto di vista, Changbin non si accorgeva di essere estremamente vanitoso (e permaloso, quando gli veniva fatto notare di aver sbagliato) se si parlava di studio e sapere accademico, ma quel suo fare da sapientone non lo irrigidiva affatto, anzi, spesso lo rendeva adorabilmente buffo.
Ma Changbin non era un sapientone, o, almeno, non lo era soltanto. La meraviglia lo accecava, lo pungeva e, tenendolo con il fiato sospeso, in quel momento, faceva sfrigolare via ogni corazza, liberando un tenero cuore di marmellata.
Entrambi, stretti l’uno all’altro, finirono per immergersi in un lento fiume di travolgente splendore. Cullati dalle onde leggere, colarono a picco e si fusero con la schiuma che l’acqua formava infrangendosi contro gli scogli e gli argini. Né mani, né gambe, né corpi, né occhi a legarli, tutto ciò che permetteva loro di non perdersi in se stessi era la volontà di essere insieme. Changbin non se ne accorse, ma in un attimo – forse passarono ore, fosse solo minime frazioni di secondo – Felix gli scivolò in braccio e prese ad accarezzargli le guance con entrambe le mani. Non avvertiva il suo peso, ogni pensiero, ogni parola, ogni respiro era liquido e volteggiava in un soffocante mare di bellezza. Il novizio guardava assorto gli occhi del piccolo dio, si accorse che, riflesse nelle iridi scure, si faceva strada di tanto in tanto il tenue riflesso del lampeggiare di qualche lucciola che si intrometteva tra di loro e avvertì l’impetuoso desiderio di poterne accarezzare gli angoli, per poi scendere sugli zigomi e tracciare – ora per davvero, con la punta di un indice – tutte quelle astruse figure mitologiche che prendevano forma quando si collegava ogni lentiggine con quella accanto. Felix parve leggerlo nel pensiero, afferrò con delicatezza una delle sue mani e la fece appoggiare sul proprio viso, per poi strofinare quest’ultimo sul palmo con la stessa proverbiale gentilezza.
“Hai paura?” chiese uno all’altro, per poi rispondere a turno.
“Ho paura di amare, forse non è normale.”
“Io ho paura di morire, se ci pensi è la stessa cosa. Vivere senza amare significa morire, vivere senza morire ti fa perdere la capacità di amare.”
Condannati alla tortura di un’improrogabile data di scadenza, scelsero infine, abbracciati dalla fausta benedizione delle lucciole, di accettare il compromesso della vita. Changbin accolse il dolore, Felix si abbandonò al sentimento, e nessuno dei due si scostò quando le loro labbra finirono casualmente le une sopra a quelle dell’altro e le loro vesti, strette, imperlate di sudore, si sciolsero e caddero inspiegabilmente sul pavimento di soffice legno. Non v’era vergogna, scrutarono l’uno nell’animo dell’altro con rispettabile timidezza, e Felix, inginocchiato a cavalcioni su di lui, rassicurò Changbin che non avrebbe dovuto sforzare la gamba ancora malridotta siccome avrebbe condotto lui le danze, se glielo avesse permesso. Il moro non era di certo nella posizione di opporsi, fatto il primo passo ormai non poteva che continuare ad affondare nella carne dell’altro. Poggiava le labbra nell’incavo del suo collo, un attimo prima lo riempiva di teneri baci e quello dopo giocava a mordicchiarne la pelle che sapeva di fresco, di selvatico, di lontano, e poi domandava con espressione disperata di poterne avere ancora, mai sazio e completamente disinibito. Non gli era mai successo di perdere il controllo in quella maniera, solo in quel momento Changbin si rese conto quanto di se stesso avesse effettivamente represso in tutti quegli anni. Ad ogni bacio ringraziava Felix, ne cantava scherzosamente le lodi, lo innalzava a suo salvatore solo per sentire ancora una volta, prima che fosse troppo tardi, la risatina imbarazzata dell’altro.
Piano piano, una ad una com’erano arrivate, le lucciole cominciarono a dirigersi di nuovo verso l’esterno, donando agli amanti il privilegio della notte più profonda. A Changbin subito quasi dispiacque, non era riuscito a vedere le stelle la sera prima e Felix gli aveva confezionato un pezzo cielo personale, forse avrebbe dovuto goderselo ancora un po’.
“Non ti basto io?” mugugnò ironicamente il biondo ad un suo orecchio, avvolgendogli il busto con le gambe.
Changbin rise di gusto, liberando il cuore da ogni sporca catena, forse svegliò qualcuno, ma non se ne preoccupò. Nessuno si accorse di loro, tranne chi, forse, non avrebbero mai voluto che assistesse a quell’intima scena. Chan, in piedi dietro la porta appena socchiusa, tratteneva a stento i singhiozzi.

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Capitolo 13
*** tredicesimo ***


“Come stai?”
“Se dico ‘Oh mio dio’ davanti a te risulto troppo blasfemo?”
Felix, accoccolato al petto di Changbin, nascosto fin poco più su dell’ombelico dal fine lenzuolo del letto di quest’ultimo, si coprì il viso per nascondere una dolce risata: “Prima lo hai già fatto un paio di volte senza accorgertene, una terza non mi sconvolgerà.”
Fu il turno del moro di aprirsi in un ilare sorriso: “E tu come stai?”
“Decisamente ‘Oh mio dio’, Changbin” lo prese in giro l’altro, che non riuscì a non farsi cogliere dall’imbarazzo.
Felix rincarò allora, sfregando il viso contro il suo petto e lasciando su di esso una breve scia di baci: “L’avevi mai fatto prima?”
Il più basso sospirò e lasciò scivolare languidamente una mano dalla sua schiena fin sul suo capo per pettinargli il ciuffo, più in disordine del solito: “No, tu?”
“Beh…” indugiò, già più timido, il piccolo dio “Ho fatto tante cose in cento anni.”
“Ad esempio?” Changbin guardava il compagno con occhi estatici, non avevano mai discusso del passato di Felix e, d’un tratto, pareva essere invece tutto ciò che aveva bisogno ed intenzione di conoscere.
La risposta dell’altro, comunque, lo stupì. Si aspettava uno dei suoi tipici – adorabili – interminabili e sconclusionati monologhi, invece, dopo un momento di timore, il biondo ammise: “Ad esempio tante volte mi è capitato di avere paura.”
Forse non era la piega che Changbin avrebbe voluto che quel discorso prendesse, per una volta si sarebbe tranquillamente accontentato di qualche frivola chiacchiera – oh mio dio! –, ma Felix gli aveva rivelato quanto in verità gli costasse aprirsi davvero con gli altri su che cosa significasse l’eterna giovinezza e non aveva intenzione di frenarlo in quel momento. Lo avvolse più stretto con le proprie braccia, si girò meglio con il viso verso di lui e lo incalzò: “Davvero hai avuto paura?”
“Sì, Changbin…” Felix si strinse meglio al suo petto, con affetto quasi morboso “Avevo paura di morire, il mio lato umano mi impediva di non essere terrorizzato, ma non aspettavo che accadesse perché per una volta sarei stato io a salutare per primo le persone a cui voglio bene. Quando ho scoperto che ad accompagnarmi al Cratere sarebbero stati due ragazzi più o meno della mia età scoppiavo di gioia perché sapevo che ci avrei fatto amicizia. Alla fine con Chan ho rovinato tutto, e con te… Beh, adesso che siamo insieme vorrei solo averti conosciuto prima, vorrei rubare altro tempo.”
“Non contare i giorni, Felix,” il moro non era abituato a quel tipo di conversazione, di solito non sapeva come cavarsene fuori e finiva sempre per impelagarsi in una vergognosa banalità, ma quella volta le parole sgorgarono fuori da sole “Conta tutto ciò che di bello possiamo ancora fare insieme nel tempo che ci resta. È sempre così, quando non vuoi che qualcosa accada il tempo scorre sempre troppo velocemente, ma quando invece non vedi l’ora che questo qualcosa succeda i minuti sembrano non passare mai.”
Changbin si interruppe un secondo per sporgersi verso il suo capo e baciargli la fronte aggrottata, sciogliendo i brutti nodi della classica espressione che Felix assumeva quando era in procinto di piangere: “So che ad Est coltivano spesso campi di girasoli, pensa a quando li attraverseremo per esempio.”
“Lo so che anche tu sei preoccupato tanto, Changbin.” mugolò il biondo con voce affranta “Queste cose le avverto.”
Changbin non si scoraggiò e fece in modo che l’altro ragazzo lo guardasse allora dritto negli occhi: “Hai sempre pensato che la tua morte sarebbe stata il tuo grande momento di gloria, vero? Avresti trionfato come potente e generosa Fonte della Felicità e, allo stesso tempo, non avresti dovuto versare lacrime per coloro a cui hai voluto bene perché sarebbero stati questi ultimi a piangere per te. Avrebbero scritto la tua storia in versi e in prosa, e io l’avrei studiata e all’ultimo compito di Storia prima dell’esame finale mi sarei probabilmente dimenticato la tua data di nascita o il nome di tuo cugino. Quello che voglio dire, Felix, è che non devi lasciare che uno come me rovini l’attimo su cui mediti da tutta la vita.”
“E se avessi fantasticato così tanto sulla mia morte perché non pensavo che, dopo centoventi lunghi anni, sarei ancora riuscito a sentirmi vivo?”
Felix si tirò su con le braccia e si voltò verso di lui, appoggiandosi al materasso con i gomiti: “Perché adesso mi sento così dannatamente vivo, Changbin, così… vivo…”
Non lasciò che il novizio replicasse, si chinò su di lui per baciarne le labbra ancora gonfie e, prima che si addormentassero entrambi, stremati, gli confessò che ormai non poteva che considerarlo la sua linfa vitale.
 
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Si destarono pochi minuti prima che Chan facesse irruzione in camera per svegliarli, il tempo necessario affinché potessero rivestirsi con calma per fare sì che il maggiore non sospettasse di ciò che avevano condiviso quella notte. Non avevano parlato del soldato, Felix era ancora parecchio a disagio riguardo l’argomento, ma al novizio bastava sapere che il piccolo dio lo aveva respinto per poter stare con lui. Per una volta qualcuno preferiva la sua restia compagnia rispetto alla devozione di altri e non vi avrebbe rinunciato facilmente. Se solo il piccolo dio non fosse stato tanto rigido di fronte alla gelida indifferenza con la quale Chan li aveva accolti quella mattina si sarebbe fatto avanti e avrebbe confessato l’ardito segreto. Era quasi sul punto di afferrare la mano di Felix per tentare di infondergli un po’ di coraggio, ma il biondo lo guardò con occhi intimoriti, domandandogli, non senza imbarazzo, di aspettare che Chan non potesse vederli. Changbin acconsentì silenziosamente e gli sorrise, e alla guardia non sfuggì affatto la chimica dei loro sguardi. Non li aveva interrotti quella notte, non aveva voluto vedere tutto ciò che era successo e preferiva non soffermarsi troppo con il pensiero su quel poco a cui invece aveva assistito, ma non poteva negare di aver trascorso una notte da incubo. Odiava il fatto di essere tanto sensibile di fronte a certi avvenimenti, odiava risultare così suscettibile quando desiderava solamente fare finta di nulla e odiava, ancora, non poter esplodere di rabbia per via della buona riuscita della missione. Non si sentiva in grado di vederli insieme, non voleva accettarlo dopo le parole che Felix, disgustato dall’affetto che gli aveva offerto, gli aveva sputato in faccia, ma non poteva disertare per una questione che i suoi superiori avrebbero semplicemente etichettato come ‘frivola ed insignificante’. Gli toccava rifarsi al tremendo stereotipo del buon soldato che segue gli ordini senza porre domande. Per sua fortuna, e per sfortuna dei due intimi compagni di viaggio, rimanere zitto e, allo stesso tempo, mettere in soggezione chi lo urtava erano due buone qualità che sapeva ben sfruttare a suo vantaggio. Quando si rimisero in cammino scelse, per la prima volta, di aprire la marcia e di stare in avanguardia con il proprio stallone, lasciando Changbin, assicurato con un laccio morbido al guscio di Miss Binnie, accodato in fondo, in modo che Felix, che non era un gran cavallerizzo, dovesse per forza voltarsi verso di lui (cosa che non era in grado di fare per troppo tempo senza perdere il controllo sul suo animale e rischiare di ruzzolare a terra) per chiacchierare con lui. La guardia dettava un passo veloce, avevano accumulato fin troppi giorni di ritardo per un viaggio tanto breve, lui e Changbin a quell’ora sarebbero già dovuti essere quasi di ritorno alla Capitale.
Erano i primi di settembre ed un certo frescolino, inoltre, preannunciava un’intensa stagione delle piogge che Chan si augurava giungesse il più tardi possibile. Anche in questo caso la fortuna non fu dalla sua parte, attorno al quarto dì del mese una sottile pioggerellina cominciò a far loro compagnia sia di giorno che di notte, per poi tramutarsi in pesante diluvio a partire dalla sera del quinto. Furono costretti a fermarsi in un altro villaggio per una notte in attesa di acquistare dei mantelli più pesanti per Changbin e Felix, che, prevedendo un viaggio di andata di sole due settimane, non avevano portato con loro altro che leggeri abiti adatti al periodo estivo. Quelle due settimane divennero l’ammontare delle giornate di ritardo, ma, nonostante ciò, vi era altro che preoccupava ormai Chan molto di più. Nonostante le fasciature e le cure di Felix, il freddo e la forte umidità avevano fatto sì che le ferite di Changbin si infettassero nuovamente e non ci volle molto prima che il novizio, scoraggiato, ma incapace di mentire a causa del pungente dolore, iniziasse a lamentare nuovi sintomi di febbre. Non avevano il tempo di fermarsi un giorno in più per permettergli di riprendersi, così Chan non poté che legarlo più stretto in groppa alla sua Tarantola e sperare che il tepore del cuore di quest’ultima e del mantello di ruvido e scadente tessuto che si erano procurati gli permettesse di contenere i danni dell’infezione.
Avrebbe voluto scappare via; quando, ogni sera ed ogni giorno all’ora di pranzo, Felix si preoccupava, con infinita premura, di slegare Changbin per farlo scendere a terra e permettergli di mangiare insieme a loro sentiva montare un viscido senso di nausea che non lo abbandonava finché non si rimettevano in marcia. Sapeva che era invidia, non faceva fatica ad ammetterlo a se stesso dopo aver notato quanto, trascorsi i primi due giorni e mezzo, gli altri due cominciarono ad essere schifosamente ovvi. Non discorrevano più come prima, trascorrevano la maggior parte del tempo in silenzio, ma avevano trovato un modo ben più efficace di comunicare. La tensione affettiva che aleggiava tra gli sguardi che l’uno rivolgeva all’altro gravava palpabilmente anche sulle spalle del soldato, non esserne quantomeno vagamente geloso sarebbe significato possedere il dono di una felice apatia. Ma quella era solo la punta dell’iceberg, vi era molto che Chan invidiava a Changbin oltre alla stabile connessione che ormai lo legava al piccolo dio, come il fatto che avessero lo stesso modo di pensare e, di conseguenza, sapesse sempre che cosa dire per sollevare il morale ad un Felix che, volubile a causa dei continui temporali, talvolta assumeva un atteggiamento malinconico. Spesso, durante le pause, li scorgeva allontanarsi per qualche minuto – Felix sorreggeva Changbin come poteva – per intrecciare le loro mani e, ogni tanto, anche le loro labbra di nascosto, come se volessero farlo sembrare un innocuo incidente. Stavano inoltre svegli fino a tardi la notte, unico momento in cui si sentivano davvero autorizzati a chiudersi in loro stessi per godere della fresca confidenza che ormai li univa. Changbin stava troppo male per poter esplorare ancora violente sensazioni come l’ultima serata trascorsa in ospedale – non che a Chan dispiacesse dopotutto – ma Felix aveva subito provveduto a ricercare una maniera efficace per occupare il poco tempo che rimaneva loro, e al soldato, forse, dava ancora più fastidio di qualche insulsa effusione scambiata in segreto con adolescenziale impaccio. Il piccolo dio si era messo in testa di voler insegnare a Changbin a parlare con le lucciole. Ne aveva solo sussurrato il motivo, ma la guardia era riuscita comunque a comprendere a grandi linee il significato del particolare dono che il novizio stava per ricevere: “Voglio che tu conservi qualcosa di mio dopo che sarò morto.”
Ogni sera, per qualche decina di minuti, si chiudevano sotto un unico mantello e, protetti dalla pioggia scrosciante grazie alla fitta fronda di qualche albero di fortuna, giocavano insieme a spettegolare con una manciata di insetti luminescenti mentre Chan, troppo orgoglioso per domandare di potersi unire a loro, si permetteva solamente di invidiarli ad alcuni metri di distanza finché il moro, esausto, tante volte febbricitante, non crollava stremato. Si avvicinava allora ai due con la freddezza di una delle macchine di Hyunjin e, gracchiando controvoglia un roco ‘Buona notte’, prendeva Changbin in braccio e lo faceva sdraiare accanto a Miss Binnie in modo che stesse al caldo. La Tarantola lo metteva a disagio, l’addome, nel punto più alto, arrivava a sovrastarlo di parecchi centimetri, per non parlare poi dell’astruso ed incredibilmente umano modo che possedeva di leggere i sentimenti delle persone che la circondavano. Il moro non mentiva quando affermava che era un animale intelligente, di sicuro più intelligente del padrone visto che, almeno lei, con gli otto lucidi occhi che le adornavano il muso, pareva in fondo comprenderlo e compatirlo almeno un po’. Chan prese allora la strana abitudine di lasciarle una carezza sul capo appena prima di mettersi a dormire, gli sembrava di sfogare la rabbia almeno un po’ con quel gesto, e anche il ragno pareva apprezzare parecchio dato che negli ultimi giorni Changbin aveva qualcun altro su cui fantasticare o proiettare tutta la sua attenzione. Notando un giorno il suo comportamento, il novizio aveva sorriso e aveva innocentemente sospirato: “Finalmente andate d’accordo…”
Oh mio dio!’ avrebbe voluto urlargli il biondo in risposta ‘Non riesco nemmeno ad essere arrabbiato con te se ti congratuli anche per aver fatto amicizia con la tua stupida Tarantola!’
Chan sapeva che Felix considerava Changbin l’emblema della curiosità, la verità era che, secondo il suo modesto parere, il novizio non si contraddistingueva che per la sua evidente e sconsiderata ingenuità. Era convinto di non fargli del male tenendolo all’oscuro della relazione con il piccolo dio, spesso si sforzava di venirgli incontro e di renderlo partecipe di un qualsiasi discorso per fingere che fosse tornato tutto alla normalità, ma il maggiore era troppo occupato a scovare la maniera per imparare ad avercela con lui e finiva sempre per ricorrere ad un tattico silenzio. Mano a mano che proseguivano con il viaggio si accorgeva sempre di più di quanto lo sguardo di Changbin assomigliasse al proprio quando si rivolgeva all’amato, comprese quindi che ciò che più lo turbava della sua assurda posizione non era il fatto di essere stato respinto, ma il modo in cui Felix lo aveva fatto. Le parole di Felix lo avevano tormentato per notti intere dopo che aveva provato a baciarlo, tutt’ora si dilettavano a rosicchiargli il cuore. Changbin era uguale a lui, inconsapevole marionetta nell’effimero gioco del dio morente.
 
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Dopo una settimana di viaggio, attorno al nono giorno di settembre, il novizio deluse però le sue aspettative e gli diede finalmente un valido motivo per essere furioso con lui. Chan volle credere che stesse delirando per la febbre, ma non appena appurò che, invece, per una volta il malanno gli stava dando tregua quasi non gli saltò al collo per strangolarlo. Forte dell’arrogante spavalderia di cui lui stesso aveva accusato il soldato tre settimane prima, quando era giunto alla Casa per proporgli la missione, Changbin, stringendo con occhi infuocati la mano di Felix, si era fatto avanti barcollando pericolosamente e aveva stabilito: “Salveremo Felix, Chan. Non lo lasceremo morire così.”
La guardia, allora, non riuscì più a trattenersi: “Oh mio dio, Changbin!”

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Capitolo 14
*** quattordicesimo ***


Felix e Changbin erano riusciti ad avere la meglio sulla malinconia finché, nonostante la pioggia scrosciante, il primo aveva potuto godere della vista dei ridenti campi di girasoli, ma tutto precipitò quando i svettanti profili delle fumose cime dei vulcani dell'Est cominciarono a fare capolino all'orizzonte. Era l'ottavo giorno di settembre ed il cielo, particolarmente scuro, lasciava facilmente intuire che sarebbe trascorsa un'altra lenta giornata di combattimenti contro il fango ed il freddo umido della bruma. Nonostante la nebbia, il tono crudo e minaccioso della pietra lavica in lontananza non lasciava dubbi: avrebbero raggiunto i piedi del Cratere dell'Anima entro la sera del giorno successivo.

Il primo a capitolare, forse per il dolore fisico delle ferite che non accennavano a migliorare e nonostante i bei discorsi propinati al piccolo dio, fu proprio il novizio. La sera dell'ottavo giorno, dopo che Chan si fu addormentato, si trascinò accanto a Felix e, imitandone la tenera abitudine, appoggiò il capo su una delle sue spalle. Il biondo allora sporse il viso verso la fronte dell'altro e ne baciò la pelle stanca. In fondo aspettava il momento in cui uno dei due avrebbe ceduto, eppure era convinto che non sarebbe stato il moro a lasciarsi andare per primo. Lo strinse a sé non appena avvertì che l'amante stava per mettersi a piangere e adagiò le labbra sulle sue quando lo sentì ammettere tutto d'un fiato, oppresso dalla pura, tremenda, tristezza: "Non voglio che tu vada."

Felix avrebbe voluto rispondergli qualcosa di francamente illuminante, una di quelle mezze frasette che, se sussurrate al chiaro di luna nel momento propizio, assumevano quegli ispiranti significati con cui Changbin spesso amava esprimersi, eppure nemmeno la sua vasta esperienza di dio minore gli permise di non risultare imbarazzatamente disperato nel concordare con voce tenue: "Neanche io voglio andare, Changbin."

Restarono in silenzio per un po', rannicchiati sotto lo stesso spesso mantello che li riparava dalla sottile pioggerellina con la quale avevano imparato a convivere, ma infine il novizio decise di rompere di nuovo la torpida calma di cui l'atmosfera era pregna: "Avanti, dillo... Lo so che c'è un 'ma'."

"Ma non posso fermarmi qui con te, la profezia è piuttosto chiara e secondo le previsioni di tutte le generazioni di Filosofi del passato il prezzo della mia eventuale vita non sarà basso. Non immagini nemmeno che cosa tu significhi per me, Changbin, ma ho una missione da portare a termine."

"Non ci credo che tutte le generazioni di Filosofi di cui parli non abbiano mai provato a tenere in vita nessuno dei tuoi predecessori." obiettò il moro con rassegnata stizza "Deve esserci un modo per evitare il rito."

Felix sorrise con compassione, mesto e, in fondo, anche lusingato dal fatto di sapere di essere tanto speciale per il compagno di viaggio: "Il rito non può essere evitato o morirò invano, lo sai no? Allo scadere del tempo la Natura vorrà riprendersi il proprio dio per trasmetterne i poteri al nuovo incaricato, la formula che hai imparato serve a non lasciare che il mio potere venga disperso completamente, così come quella che cento anni fa altri Filosofi mi hanno recitato il giorno del mio compleanno è servita a fare sì che il potere della Fonte venisse incanalato correttamente nel corpo. Le Fonti della Felicità che, per qualche motivo, riescono a raggiungere i pieni poteri senza che vengano sottoposte ad alcun cerimoniale sono spesso fuori controllo. L'involucro umano è solitamente troppo debole per contenere tale energia incontrollata al suo interno, muore o impazzisce dopo pochi mesi. Se il rito viene svolto correttamente, invece, il processo di usura del tramite rallenta visibilmente. Io ormai però sono un guscio consumato, il mio corpo ha raggiunto i centovent'anni e non ha più l'energia necessaria per continuare a rigenerarsi."

Changbin lo ascoltava sempre più atterrito. Conosceva perfettamente quelle nozioni, facevano parte del programma di Storia dell'Alchimia del secondo anno e venivano ribadite più e più volte anche nei corsi successivi, ma sperava che sentirle dalla bocca del ragazzo che, suo malgrado, lo aveva posto di fronte ad un interrogativo – amore o morte? – che non sapeva gestire lo avrebbe in qualche modo rassicurato. Se Felix avesse continuato a ripetergli che era giusto che si lasciasse morire forse avrebbe superato il trauma più in fretta. Eppure, nonostante gli sforzi del biondo di convincerlo che non era possibile evitare la sua morte, i fini marchingegni che mettevano in moto il cervello del novizio si attivarono proprio a sentire la parola 'rigenerazione'.

A bruciapelo, senza quasi farlo nemmeno concludere, stabilì con vibrante, estatica serietà: "Se il problema è solamente il corpo allora forse c'è un modo per non lasciare che tu muoia."

-

"Oh mio dio, Changbin!"

"Chan, almeno fai il favore di ascoltarmi per una volta!"

Chan, paonazzo in viso, tremò visibilmente nell'udire la richiesta del novizio: "Changbin, non ne voglio sapere nulla, abbiamo un compito e va portato a termine!"

Il soldato guardava con profonda rabbia le mani intrecciate dei due compagni di viaggio. Finalmente avevano deciso di venire allo scoperto, non avrebbero comunque potuto nascondere più nulla di fronte alla decisione di Changbin di salvare il suo mezzo fidanzato da un destino scritto da migliaia di anni.

"Parli ancora come tre settimane fa, non te ne importa davvero nulla di Felix?! Non mi va di continuare a sentirti dire che 'La Fonte si è esaurita' o che 'Abbiamo una missione da compiere', hai mai pensato ad altro che non fosse seguire gli ordini in vita tua?!"

La guardia avrebbe voluto ribattere qualcosa come 'Molto più di quanto tu possa immaginare, idiota', ma non era del suo passato inequivocabilmente ignobile che voleva discutere in quel momento: "Quello esperto di profezie sei tu, ma io ne so comunque abbastanza per essere consapevole del fatto che non ucciderlo porterebbe a conseguenze ter-"

"Le hai mai viste queste conseguenze di cui parli, Chan?" Changbin sfoggiava occhi infuocati, splendenti di una sicurezza che Chan non avrebbe mai pensato riponesse in quel corpo mite e dalle ascetiche apparenze "Qualcuno, una qualsiasi tra le milioni di persone che popolano questa terra, ha mai davvero provato che facendo vivere una Fonte della Felicità il mondo andrà in rovina? La profezia è datata, conosciamo formule ed incantesimi che migliaia di anni fa solo le più antiche popolazioni di Elfi erano in grado di controllare, perché non dovremmo almeno fare un tentativo?"

Chan si sentì colto in fallo. La determinazione del minore lo destabilizzava e tornava ad infiammare i cocci dei sentimenti che ancora provava per il piccolo individuo che, tremolante sotto il suo largo mantello, sbirciava con il viso da sotto il cappuccio e lo implorava con gli occhi color nocciola di ascoltare ciò che il novizio aveva da dire. Avrebbe potuto tenere testa a Changbin per giorni, non ne era spaventato, ma non fu in grado di reggere lo sguardo già speranzoso che Felix gli stava timidamente rivolgendo.

Infine, dunque, il soldato rizzò guardingo le spalle e, dando un'ultima occhiata di scorcio al profilo dei vulcani ormai vicino, grugnì: "Ci metti tanto?"

Changbin scosse il capo e partì in quarta con la sua spiegazione: "Il problema di Felix non sta nei suoi poteri, il rito a cui i Filosofi lo hanno sottoposto cento anni fa lo ha reso in grado di contenere l'energia del dio fino a tempo indeterminato, e ciò significa che l'unico motivo per cui la data di scadenza è fissata tra sei giorni esatti è che il corpo di Felix avrà ben centovent'anni in tutto. È una cifra folle, se andassimo ad analizzare le cellule da cui il suo organismo è composto non ci spiegheremmo perché sia ancora in vita, eppure lo è, Chan! Adesso lo è, tra sei giorni, secondo la profezia, il suo corpo comincerà invece a decadere ed in breve morirà. Ma se riuscissimo a far rigenerare ogni singola cellula del suo organismo in tempo--"

Chan sbiancò a quell'affermazione, dovette interromperlo non appena comprese quale malato gioco avesse in mente il novizio: "Tu vuoi... Vuoi fargli un incantesimo per ringiovanirlo dall'interno?"

"Detto molto malamente... Sì." Changbin si affrettò a riprendere le fila del discorso "Felix conosce l'incantesimo, è parecchio complesso e non sono sicuro di avere abbastanza energie per svolgerlo, ma voglio provarci, Chan. Capisci, lo scoglio da superare è solo fisico! Il dio che abita in lui non verrà minimamente toccato dalla morte del suo corpo, se Felix dovesse morire cambierà semplicemente involucro e si insedierà nella prossima Fonte. Ma se allora non devo lavorare con lo spirito e posso concentrarmi solo sulla carne forse posso risolvere la situazione. Felix è una delle Fonti migliori che la Nazione abbia mai avuto, lo sai anche tu che ha sempre fatto molto per noi, se c'è un modo per salvarlo voglio tentare!"

Fu un bel discorso fino a quel momento, ma Changbin si tradì quando andò a stringere ancora la mano del piccolo dio accanto a lui. Chan, capendo al volo di avere nuovamente il coltello dalla parte del manico, sorrise allora con fare sardonico, schernendo il minore con un nuovo stridulo mugugno: "Smettila di fare l'eroe, Changbin. Se vuoi salvarlo è solo per puro egoismo, ammettilo."

Il novizio pensava ormai di averlo convinto, non c'era motivo di non ascoltarlo se non il millenario terrore che i mistici Filosofi della Capitale continuavano pedissequamente a propinare nei confronti della tonante profezia. 'Affinché nostra Madre Terra fiorisca/Felicità, ogni cent'anni, appassisca', per Changbin era un verso superato, sapeva che ogni oracolo conteneva una soluzione e lui era ormai convinto di aver finalmente trovato quella adatta alla loro situazione. Eppure si sentì gelare quando Chan, con occhi ricolmi d'ira a stento trattenuta, i muscoli già gonfi di vile disprezzo, lo accusò di egoismo. Viveva perennemente nel mondo delle nuvole, ormai ne era consapevole, ma ciò non significava che fosse stupido. Sapeva perfettamente dove Chan voleva andare a parare, e di certo non riguardava il nobile scopo che si era prefissato. Provare dei sentimenti per il piccolo dio aveva di certo influito sulla sua decisione di salvarlo, ma non aveva accettato di imparare un incantesimo tanto complesso solo per meri fini del tutto personali. Il secolo di Felix, obiettivamente, era stato davvero uno dei più splendenti che il loro paese avesse mai attraversato, non c'era alcuna ragione per non tentare di prolungarlo ancora di qualche decennio. Che il fatto si allineasse con i suoi interessi personali era di secondaria importanza, Changbin era un ventenne che aveva appena scoperto l'amore, ma era anche – quasi, almeno – un Filosofo, e la sua vocazione lo portava a scegliere il bene del mondo prima del proprio. Quando Chan insinuò che fosse egoista nel tentare di salvare la Fonte della Felicità, Changbin non poté quindi che indispettirsi. Strinse maggiormente la mano di Felix e, improvvisamente protettivo, lo fece rintanare dietro la propria schiena, rizzandosi per bene, nonostante il lancinante dolore alla gamba, di fronte al soldato: "Se il mio è solo egoismo allora il motivo per cui non vuoi salvare Felix credo che sia gelosia, Chan."

Il piccolo dio spalancò gli occhi all'affermazione del moro e subito scattò in avanti per tentare di porre fine sul nascere alla discussione, ma il novizio ebbe la forza di spingerlo di nuovo indietro.

"Non c'è il caso di alzare la voce, vi prego!" guaì lamentosamente Felix, stringendo tra le mani il grezzo tessuto del fradicio mantello di Changbin, provando a farlo ragionare a parole e di trattenerlo indietro con sé. Guardava l'amante con occhi sgranati, zeppi di terrore: "Changbin... Changbin, non importa... Chan ha ragione, non dovremmo andare contro natura..."

"Felix, tu sei letteralmente il dio della natura. E comunque io e Chan non stiamo discutendo di questo." Changbin lanciò un'occhiataccia il soldato. Non era il tipo che si lasciava trascinare in un qualsiasi litigio di natura sentimentale, ma la guardia, evidentemente più passionale di lui, non gli lasciava altra scelta.

"Ah no? E sentiamo, di che cosa vorresti discutere?" lo prese in giro il maggiore con il solito sorrisetto di scherno stampato in viso.

"Piantala di fare il bambino, se hai qualcosa da dirmi fallo e basta, Chan. Finiamo in fretta questa conversazione e raggiungiamo il vulcano." Changbin vacillava visibilmente, ma la rabbia lo aiutava restare in piedi.

"Dico solo che siete stati tanto amici fin dall'inizio, ma ti è importato di salvarlo solo, chissà perché, da quando è finito nel tuo dannatissimo letto. Che ti ha fatto di tanto speciale per convincerti a lasciarlo in vita, eh?"

Changbin non poté che dirsi spiazzato dalle affermazioni del soldato. Non solo aveva la conferma che Chan sospettasse di loro già da tempo, ma anche che quella sera in ospedale aveva avuto modo di assistere alla compromettente scena. Non riuscì a replicare immediatamente, i dolci dettagli della nottata cominciarono a bombardargli la testa, opponendosi con prepotente insistenza alle forti, tremendamente errate, insinuazioni del soldato. Abbassò lo sguardo per un secondo, del tutto sconvolto, la testa che gli scoppiava. Non era amico di Chan, ma viaggiare al suo fianco per tre settimane aveva fatto sì che sviluppasse una certa ammirazione per la sua dedita e potente figura. Essere etichettato come un pervertito da colui che ormai, in fondo, considerava una specie di modello, non poteva che suscitare in lui un senso di abnorme ribrezzo. Avrebbe voluto semplicemente andarsene, Chan non meritava una risposta da parte sua, ma di colpo sentì un corpicino accoccolarsi contro di lui e stringerlo a sé. Felix si era fatto largo sotto il suo mantello e lo aveva abbracciato proprio di fronte a Chan. Il suo tepore, il rigido sentore di selvatico dei suoi capelli lo fecero calmare, gli diedero coraggio. Forse il piccolo dio stava utilizzando una parte dei propri poteri su di lui, ma non gli importava. Anche quello era un modo per dimostrargli il suo profondo affetto e per annunciare a Chan quanto, in verità, si sbagliasse. Changbin fece un respiro profondo, infossò per un momento il volto nel ciuffo biondo dell'amante, poi, con sguardo tagliente, tornò ad affrontare Chan: "Effettivamente Felix ha fatto davvero qualcosa di speciale per me. Mi ha dimostrato quanto stupido fossi a lasciare da parte me stesso ed i sentimenti che provo per il mondo per esempio. Ma che cosa te ne parlo a fare? Sei solo invidioso, Chan. È per questo che Felix ti ha rifiutato."

Se Chan aveva ammesso di sapere dell'ospedale tanto valeva che anche lui si facesse avanti con la faccenda del bacio a Tillvah.

"Gliel'hai raccontato quindi." Chan scosse il capo, rivolgendosi direttamente al piccolo dio "Pensavo che prima di parlarne con lui avresti almeno provato a risolvere con me, invece sei troppo codardo."

La guardia sputava velenosamente ogni parola, ormai mangiato dall'invidia più pura. Changbin voleva salvare Felix non solo per il suo tornaconto, ma forse, in fondo, a Chan non stava bene che lo facesse perché così anche lui avrebbe sofferto una volta vista sfumare la sua felicità. Entrambi, comunque, combattevano schiavi sotto il dominio dei due sentimenti più umani del mondo: amore e invidia. Felix lo sentiva, era nervoso, avrebbe potuto utilizzare i suoi poteri per calmarli, ma ricordava come aveva reagito Chan la prima volta, quando aveva celebrato il funerale dei tre soldati morti nel primo villaggio in cui si erano imbattuti all'inizio del loro viaggio, avrebbe finito comunque per distruggerlo emotivamente. Non rispose alle sue provocazioni, strinse di nuovo una delle mani di Changbin e si accoccolò maggiormente a lui: "Chan, non è una mia colpa il fatto di non ricambiare i tuoi sentimenti. Ti chiedo scusa per non essere stato subito sincero con te, avrei potuto trattarti in maniera migliore, ma... ma penso che ora tu stia esagerando."

Il novizio e il piccolo dio si voltarono e fecero per riprendere il cammino, ponendo finalmente fine al teatrino, ma Chan voleva a tutti costi essere l'indiscusso protagonista della scena. Rivendicò la battuta finale e per la seconda volta li sconvolse: "Me ne vado. Vi ho portato fino ai piedi del vulcano, tutto quello che dovete fare è salire finché non arrivate al Cratere. La mia missione è terminata, posso tornare alla Capitale."

Nonostante il pericolo della scalata dovuto ai grossi nidi, Felix avrebbe potuto garantirne la sicurezza tenendo a bada le Tarantole con le sue facoltà sovrannaturali. Il problema sussisteva sul ritorno, se l'incantesimo non fosse riuscito, Changbin, ferito, avrebbe dovuto tornare da solo. Nessuno però si preoccupò di puntualizzarlo, il clima generale era troppo teso per azzardare un'ulteriore replica.

Solo Changbin, alla fine, si voltò verso il soldato che stava già per far fare retro marcia al proprio cavallo. Esitò un secondo, Felix tentò di trascinarlo verso Miss Binnie, impotente spettatrice della rottura, ma alla fine non riuscì a mantenere ancora la maschera del cattivo. Quei panni gli stavano decisamente stretti, aveva bisogno di andarsene con un gesto simbolico che lo avrebbe aiutato a sentirsi a posto con la propria coscienza.

"Chan!" il novizio richiamò allora l'attenzione del soldato, che lo perforò con lo sguardo. Guardò per un momento la Tarantola accanto a lui e le accarezzò il muso, poi concluse: "Torna alla Capitale con Miss Binnie, adesso andate d'accordo, no? Se i lupi dovessero attaccarti lei ti sarà di aiuto, e poi arriverai in città anche più in fretta. Quando torneremo indietro verrò a riprenderla lì."

Prima che Chan potesse replicare, l'animale gli si affiancò e si abbassò in modo che il soldato potesse salirgli in groppa, mugolando con tono basso per intimargli di fare in fretta. Chan serrò le labbra in una linea sottile, ma alla fine fece un cenno di assenso a Changbin e fece per allontanarsi con lei, lasciandogli in cambio il suo forte stallone. Anche lui dopo pochi metri, però, scelse di fermarsi e di voltarsi indietro un'ultima volta. Sollevò una gamba, estrasse dallo stivale il proprio pugnale, quello con cui aveva lasciato esercitare Felix quando erano a Tillvah, e lo lanciò verso di loro in modo che atterrasse ai loro piedi. Se si fossero trovati in pericolo almeno avrebbero avuto un'arma con loro. Dopodiché riprese il cammino e, dopo qualche minuto, si disperse nella nebbia. Il novizio stette per qualche minuto a guardarlo andare via, internamente distrutto. Sapeva quanto Felix tenesse alla sua amicizia, alla fine non era riuscito a salvarla. Fu proprio il biondo, dopo aver raccolto il preziosissimo coltello – ricordava bene il significato che Chan vi attribuiva –, a correre in suo soccorso. Lo resse con le braccia, gli stampò un bacio sulle labbra per rassicurarlo: "Changbin, non devi preoccuparti..."

La colpevolezza di cui l'espressione di Changbin era intrisa denunciava che non ci sarebbe riuscito. Trascorse gli ultimi giorni di scalata con gli stessi occhi vacui e confusi, domandandosi fino alla fine, fin quando il Cratere dell'Anima non li abbracciò con il suo antico, estatico calore, quale effettivamente fosse stato il suo ruolo nel viaggio che presto avrebbe concluso con Felix.

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Capitolo 15
*** quindicesimo ***


“Hyunjin, ma tu pensi che il mio nome sia carino?”
L’ibrido era abituato a sentirsi porre domande astruse, ma doveva ammettere che quella appena proferita da Seungmin aveva la capacità di farlo allibire più del solito.
“Scusa, in che senso ‘carino’?” sollevò appena un sopracciglio, come a volerlo rendere ancora più partecipe della propria confusione.
“Beh!” gorgheggiò il novizio con convinzione “Adesso che ho un braccio di ferro sono praticamente diventato uno di quei brutti ceffi leggendari di magna ed illustre potenza di cui si narra nelle favole popolari! Se un giorno qualcuno dovesse scambiarmi per uno di loro, come posso presentarmi con un nome carino come ‘Seungmin’? Mi serve un nome da duro come ‘Pugno d’acciaio’ o ‘Ombra lucente’!”
“Sai cosa? Io opto per ‘Testa di latta’ invece.”
Hyunjin scrollò le spalle ed accelerò il passo di marcia, soddisfatto di aver rimbeccato il compagno di viaggio a dovere. Era grato del fatto che avesse accettato in fretta l’idea di essere ormai diventato un mezzo automa, ma Seungmin sembrava davvero troppo entusiasta del suo nuovo giocattolino. Trascorreva sia le ore di marcia che quelle di riposo ad osservarlo e rigirarlo per benino, tentando ogni volta di indovinarne la composizione e la fattura, mentre l’ibrido era alla costante ricerca di un paio di grammi di cera da poter usare per fabbricarsi due spessi tappi per le orecchie. Era consapevole del fatto che parlare di qualsiasi cosa fosse il metodo di Seungmin per elaborare il dolore delle perdite subite, ma avrebbe potuto dargli tregua almeno di notte. Non camminavano da molti giorni, ma erano già entrambi stremati dalle ore di sonno perdute – continuare a sognare gli incendi e gli attacchi di più di una settimana prima non poteva essere una scusa per compromettere la loro missione. Avevano trovato un nascondiglio sicuro in cui sistemare i feriti di cui la gente di Tillvah si prendeva cura, ma questi ultimi non avrebbero retto ancora a lungo in una situazione tanto precaria, quindi, se volevano chiamare aiuto in fretta, non potevano permettersi di abbandonarsi all’angoscia.
Seungmin parlava di continuo per coprire l’assordante rumore dei pensieri di entrambi, un solo malinconico sguardo da parte dell’altro e sarebbe finito per scoppiare di nuovo in lacrime dal nulla. L’unico motivo per cui non era disperato per il proprio braccio era perché era la cosa meno cara che aveva perso. Le immagini della Casa in fiamme bruciavano vivide nella sua testa, corrodendogli l’anima. Non era stato in grado di fare niente per la sua vera casa, e adesso stava andando a chiedere aiuto a quella a cui invece aveva praticamente voltato le spalle anni prima, imponendo la sua vocazione sugli studi legali che la madre aveva programmato per lui. Se lui e Hyunjin fossero riusciti a giungere fino alla Capitale e a richiedere un’udienza al re per metterlo al corrente degli attacchi degli animali era probabile che si sarebbe imbattuto anche nella madre stessa, che da tempo si era trasferita a corte in quanto consigliera del sovrano. Aveva rimandato a lungo l’incontro, ma se aveva insistito per far parte della spedizione insieme a Hyunjin era anche perché sapeva, proprio per la presenza della sua famiglia a palazzo, che, giocando bene le proprie carte, avrebbero avuto una possibilità in più di essere ascoltati. Ciò che incuriosiva il novizio, piuttosto, era perché Hyunjin avesse deciso di mettersi in viaggio. Diceva di essere un medico mediocre, eppure era quello che se la cavava meglio con le protesi e i più veloci interventi di chirurgia. Un giorno, l’ultimo prima di entrare finalmente nei territori della Capitale, mentre pranzavano con bacche e piccola frutta selvatica che avevano raccolto, si decise a chiederglielo. Rilassò il viso, lasciò che la greve serietà che gli piaceva sfoggiare durante le lezioni di alchimia prendesse finalmente il posto del solare sorriso di cui aveva presto, ultimamente, imparato a vantarsi.
“Hyunjin, io sono in viaggio per ritrovare Mok e tutti gli altri miei confratelli, ma tu… Tu vuoi arrivare alla Capitale perché ti senti in colpa per tuo fratello, vero?”
Hyunjin avrebbe voluto prenderlo in giro come al solito, ormai era di routine, ma nell’incontrare lo sguardo dell’altro non poté, per una volta, che reagire con un semplice cenno del capo. Annuì piano piano, accartocciandosi leggermente su di sé, e scelse miracolosamente di non nascondere la pena che lo tormentava sotto lo strambo atteggiamento da diva con cui si proteggeva.
“Jeongin è sempre stato quello coraggioso tra noi due, sai? A Tillvah ero io quello a ricevere i complimenti tra noi due perché ero più intelligente. Eppure quando siamo dovuti scappare ho pensato prima a me stesso che a lui o ai nostri genitori, e non mi pare che sia un comportamento da persone intelligenti. Jeongin avrebbe rischiato la vita pur di cercarmi se fosse stato al mio posto.”
“E adesso vuoi provare ad essere coraggioso come lui, vero? È un bel modo di ricordarlo, davvero.”
Seungmin si strinse le ginocchia al petto e provò nel mentre a prendere un piccolo lampontillo con la mano d’acciaio, esercitando la sua precisione: “E l’essere scappato in fondo non ti ha reso peggiore, Hyunjin. Forse non hai salvato la tua famiglia, ma hai fatto la differenza per tante altre persone grazie alle tue conoscenza di medicina. Hai salvato me, Hyunjin, e lo so che il sollievo per avermi strappato alla morte non è abbastanza per compensare il dolore dell’uccisione di Jeongin, ma… Ma per me, invece, ha davvero fatto la differenza. Ero dato per spacciato e tu ci hai comunque creduto anche se non mi conoscevi nemmeno. I miei stessi confratelli non lo hanno fatto.”
Il novizio sorrise delicatamente tra sé e sé, internamente contento anche per essere riuscito ad afferrare la bacca che puntava da qualche minuto tra l’indice e il medio: “Mi hai addirittura regalato una protesi metallica e mi stai insegnando ad usarla.”
Allungò lentamente l’altra mano verso quelle dell’ibrido e ne raccolse una, facendo in modo che ne rivolgesse il palmo verso l’alto, e allora concluse appoggiando su di esso il lampontillo: “E non smetterò mai di essertene grato.”
Quando si ritrasse al proprio posto notò che Hyunjin non lo stava guardando, cercava inutilmente di sistemarsi i lunghi capelli in modo da non mostrare i fremiti che scuotevano le sue orecchie affusolate. Seungmin lo sapeva, era così che gli elfi piangevano, lo lasciò sfogare per qualche minuto e, dopo aver impacciatamente rimesso nelle bisacce i resti del loro pranzo, semplicemente riprese in silenzio il cammino.
 
-
 
Quando giunsero alla Capitale, il giorno successivo, di certo non si aspettavano di trovarvi decine di altri Filosofi giunti lì per il loro medesimo motivo. Le autorità della città avevano stabilito che alloggiassero in tendoni provvisori situati appena dentro le mura, ma ben presto il campo profughi si era riempito e i cittadini si erano trovati a dover accogliere i nuovi arrivati nelle loro case senza alcun compenso che non fosse l’immensa gratitudine degli sfollati. Seungmin e Hyunjin fecero qualche ricerca in giro, domandarono a diversi novizi e Filosofi il motivo per cui si fossero radunati tutti in quel luogo e la risposta fu la medesima, tremenda, in tutti i casi: “Hanno distrutto la nostra Casa. Non sapevamo dove altro andare.”
Fino a quel momento Seungmin era convinto del fatto che gli attacchi avessero riguardato solo la zona in cui era situata la sua Casa, non si aspettava che, invece, essi fossero avvenuti su scala nazionale. La Capitale pareva letteralmente in crisi, i cittadini sembravano addirittura più stravolti degli stessi Filosofi a causa dei continui arrivi. Hyunjin, dopo aver assodato che non c’era speranza per loro di ricevere udienza in fretta, scattò nervosamente indietro, convinto a dare subito forfait e a tornare indietro per dare una mano alla propria gente con i feriti.
“Ti arrendi già?!” Seungmin, al contrario, era ben intenzionato a restare e a far valere le loro intenzioni. Doveva anche cercare Mok e gli altri, non poteva stare dietro alle lamentele del biondo: “Avevi detto di voler essere coraggioso, Hyunjin! Ormai siamo qui, almeno proviamoci!”
“Ci saranno giorni di coda per le udienze, li hai sentiti anche tu! Sono tutti qui per il nostro stesso motivo, quindi tanto vale tornare indietro e fare qualcosa di utile piuttosto che restare qui a girarci i pollici!”
Hyunjin, per quanto Seungmin odiasse quella prospettiva, aveva ragione. Non potevano perdere giorni preziosi, ma non potevano nemmeno tornare a mani vuote sapendo quanto la gente di Tillvah sperasse nella riuscita della loro missione. Indugiò un solo secondo, poi decise finalmente di scoprire il suo asso nella manica: “Mia madre fa parte del consiglio del re. Non ci parlo da anni, non andiamo d’accordo, ma posso provare a convincerla a farci incontrare il re.”
L’ibrido non perse tempo, trascinò il novizio nei meandri della città e rischiò più volte di far impigliare il braccio metallico in qualche bassa bancarella del florido mercato cittadino, e quando, finalmente, furono di fronte all’ingresso della solida reggia, come Seungmin si aspettava, vennero immediatamente cacciati dalle guardie con un preventivo: “Il re sta già organizzando le udienze, dalla prossima settimana ogni Casa in ordine alfabetico verrà attentamente ascoltata ad aiutata.”
Tentarono più volte a spiegare i motivi della loro urgenza, ma nessuno pareva farci caso. Ogni guardia ripeteva meccanicamente la stessa scusante e li invitava così a ritornare al loro rifugio, alla loro tenda o alla famiglia da cui erano ospitati.
“Testa di latta, ti tirerei un cacciavite sui denti, di’ che la gran signora consigliera è tua madre a facci entrare!”
“Genio, se mi tiri un cacciavite sui denti come faccio poi a parlare?” replicò mugugnando l’altro. Come se non ci stesse provando, poi, a far valere il suo lignaggio. Erano quei caproni dei soldati che non si degnavano nemmeno di prestargli ascolto.
All’ennesimo tentativo, e all’ennesima cacciata, una voce femminile interruppe però la solita lagnosa tiritera.
“Sono ore che mi dicono che qualcuno sta cercando di entrare a palazzo, ma di certo non pensavo proprio che fossi tu, Seungmin.”
Il novizio, intento a litigare con la guardia mostrandole fieramente il braccio metallico e quanto duro potesse picchiare con esso, si interruppe a metà di un’importante dichiarazione non appena udì l’inconfondibile voce della madre: “Io sono Braccio di Ferro e tu adesso farai entrare me e--… Madre?!”
Il soldato, palesemente basito da quel cambio di tono, non si accorse immediatamente dell’alta, austera figura che troneggiava glacialmente dietro di lui. Non appena si voltò indietro si piegò in un profondo inchino e salutò formalmente: “Consigliera Lee Minji, voi conoscete questi due individui?”
La madre di Seungmin sollevò un sopracciglio: “Il novizio è mio figlio, l’elfo non lo conosco. Puoi lasciarli entrare, garantisco io per entrambi per il momento. Ascolterò velocemente le loro ragioni e, se non saranno degni di udienza, mi occuperò personalmente di far lasciare loro il palazzo.”
 
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La madre di Seungmin li condusse a passo svelto in una delle stanze del palazzo e quasi non lasciò loro il tempo di accomodarsi che prese a tartassare il figlio: “Sei vivo quindi.”
Scrutò per un momento la protesi metallica, aggrottando la fronte: “Vivo in parte, almeno. Sapevo che se fossi sopravvissuto all’eccidio saresti tornato qui.”
Il novizio si sedette di fronte a lei e sollevò un sopracciglio con fare perplesso: “Quindi mi stai dicendo che mi stavi aspettando perché eri preoccupata per me?”
Sospirò e scosse il capo, rendendosi immediatamente conto dell’assurdità della domanda: “Se sono vivo, comunque, è solo grazie a Hyunjin. Più che per me, è per lui che siamo venuti qui.”
Seungmin alzò lo sguardo nella direzione dell’amico, che nel mentre si era sistemato accanto a lui, come a suggerirgli di iniziare ad esplicare le ragioni del loro viaggio. Hyunjin, cogliendo immediatamente l’occasione che attendeva da giorni, cominciò quindi ad esporre il discorso che si era preparato: “Provengo dalla Città Sospesa di Tillvah, anch’essa è andata distrutta nella stessa notte in cui le Case sono state bruciate ed i filosofi massacrati. Molta della mia gente non ce l’ha fatta, e chi, come me, è riuscito a sopravvivere, non ha potuto fare altro che scappare nei boschi. Qui, per puro caso, abbiamo incontrato Seungmin e diversi gruppi di Filosofi provenienti da altre Case. Molti erano feriti o in fin di vita, ma siamo riusciti a salvarne diversi grazie alle tecniche di antica medicina elfica, che attinge per la maggior parte all’energia radiata dalla natura stessa. Allestendo un campo di fortuna per assistere i malati, però, la mia gente ha rinunciato a mettersi in salvo. Sono ancora nascosti là fuori e temono che verranno presto nuovamente attaccati dagli animali, senza contare che non hanno riserve di cibo e acqua. Sono stremati, hanno bisogno che qualcuno corra in loro soccorso per scortarli fino a qui.”
Lee Minji ascoltò attentamente ogni singola parola del discorso di Hyunjin, annuiva elegantemente di tanto in tanto, illudendo l’oratore di averla quasi conquistata. Alla fine, guardando il ragazzo negli occhi, con la gelida maschera dell’austero politico che era costretta a recare sul volto, strinse le labbra e, scuotendo il capo, professò: “Io e gli abitanti della Capitale ringraziamo te e la tua gente per aver prestato un importante servizio di carità nei confronti dei Filosofi della nostra Nazione. Provvederemo il prima possibile a recapitare aiuto ove ci segnalerai.”
Hyunjin, che prima pareva tanto deciso ad imporre le sue ragioni e ad ottenere un aiuto immediato, forse schiacciato dagli alti soffitti pacchianamente decorati del palazzo reale, forse in soggezione di fronte alla glaciale compostezza della consigliera, fu sul punto di ringraziare ad accettare, ma Seungmin fu più veloce. Aveva vissuto in quell’ambiente a lungo e sapeva sempre, ormai, che cosa aspettarsi dalle vili promesse della madre.
“Serve aiuto immediato, madre. Ormai sono quasi due settimane che gli abitanti di Tillvah si occupano dei miei confratelli, sono stremati. Ordina di far partire subito un plotone.”
“Seungmin,” Lee Minji assottigliò gli occhi e fulminò il figlio con lo sguardo “Ho detto ‘il prima possibile’, chiaro? In questo momento non abbiamo le risorse necessarie per effettuare operazioni di recupero e, inoltre, non siete di certo i primi ad avanzare richieste del genere. Per essere messi in lista è necessario che prenotiate un’udienza la prossima settimana, al massimo posso farvi il favore di mettervi tra le prime dieci.”
Il novizio spalancò gli occhi, francamente sconvolto dalla mortale tranquillità del genitore: “Tutto… tutto qui? Davvero?! Avresti potuto dirci queste cose anche prima che entrassimo a palazzo, madre!”
Lee Minji deglutì, chiuse per un momento gli occhi, ma non si lasciò impressionare dal temperamento del figlio: “Non ti ho insegnato io ad essere tanto irrispettoso nei miei confronti, Seungmin, ma devo dire che mi fa piacere vedere un po’ di grinta sul tuo viso. Fino ad ora ho sempre creduto che fossi bravo solamente a studiare e a ripetere inutili nozioni.”
Era una provocazione, Seungmin sapeva perfettamente quanto la madre si vantasse a corte dei suoi eccellenti risultati scolastici, ma in quel momento non aveva tempo di stare al suo gioco. Purtroppo conosceva fin troppo bene il carattere calcolatore della madre e, se non le avesse intimato di arrivare subito al punto, avrebbe probabilmente continuato a prenderlo in giro parecchio a lungo. D’altronde essere consigliera del re era un lavoro noioso, se non poteva sfogarsi sul figlio come avrebbe potuto sopportarlo?
“Madre, perché ci hai fatti entrare a palazzo se sapevi già che avresti ignorato le richieste di Hyunjin? Hai detto che mi stavi aspettando, e lo so che non è perché eri preoccupata per me. Vuoi chiedermi qualcosa.”
La consigliera sorrise appena, soddisfatta: “Perspicace e dritto al punto, eh? Mi sarebbe piaciuto discorrere un po’ con te del nostro sgangherato rapporto famigliare, ma devo convenire che il tempo stringe. Mi duole ammettere di aver bisogno di aiuto.”
Hyunjin, che intanto ascoltava attentamente ogni passaggio, intervenne all’improvviso, percependo nell’intonazione della voce della donna una certa urgenza: “Seungmin, ascoltiamola. C’è un motivo per cui non può mandare subito rinforzi.”
“Anche l’elfo può vantare una certa arguzia, eh? Hai iniziato a sceglierti meglio gli amici vedo.” Lee Minji scosse il capo e cambiò immediatamente discorso “Ha ragione, non posso mandare rinforzi nei territori fuori la Capitale perché nell’ultimo periodo abbiamo riscontrato problemi già all’interno della città stessa. Non parlo di rivolte vere e proprie, si tratta più che altro di strane resistenze da parte dei Filosofi che abitano a palazzo. In apparenza non sembra essere cambiato nulla, durante il giorno adempiono ai loro doveri come hanno sempre fatto, ma ultimamente alcune guardie hanno riportato movimenti sospetti durante la notte. Non ho ancora espresso il mio parere agli altri membri del consiglio, ma ritengo che questi ritrovi notturni siano legati in qualche modo alla ricerca della nuova Fonte della Felicità. Siamo all’undicesimo giorno di settembre e non abbiamo più avuto notizie né delle pattuglie incaricate di scortare qui il nuovo tramite né del novizio e del soldato che dovevano estinguere il vecchio. Inoltre, il Cantastorie pare parecchio irrequieto ultimamente. Il punto è che serve qualcuno che, quindi, conosca bene il mondo dei Filosofi, riesca di conseguenza ad infiltrarsi ad una delle loro assemblee segrete e si assicuri che tutto ciò che stanno architettando è per il bene della Nazione, come hanno sempre dichiarato. Non posso fidarmi dei Filosofi di questa città, ma tu saresti perfetto, Seungmin, nessuno potrebbe riconoscerti e, facendo finta di essere nuovo tra i ranghi cittadini, potresti indagare senza riscontrare particolari difficoltà. Speravo che fossi vivo e che venissi qui per questa ragione. Prometto che farò in modo di prestare soccorso ai tuoi confratelli e alla gente di Tillvah se tu per primo mi aiuterai.”
Era un compromesso amaro, avrebbero potuto volerci giorni prima di ottenere informazioni utili, ma era comunque il miglior patto a cui la madre si sarebbe piegata. Seungmin si voltò indeciso verso Hyunjin, sapeva che il biondo non avrebbe voluto immischiarsi in faccende tanto spinose come gli intricati affaracci di corte – tradimenti, garbugli, pettegolezzi, mezze verità, mezze eresie – e fu quindi sul punto di abbassare lo sguardo e chiarire che, anche quella volta, non aveva intenzione di obbedire. Se la madre gli aveva domandato così urgentemente di andare tanto allo sbaraglio significava che la situazione era delicata, ma lui e Hyunjin avevano già altri problemi che gravavano sulle loro spalle e non si sentiva in grado di sopportarne ancora per quel momento. Il trauma dell’incendio lo destabilizzava tuttora, aveva molto altro a cui pensare e le faccende che riguardavano la Fonte della Felicità non lo interessavano affatto. Per questo motivo si stupì nel sentire all’improvviso la voce di Hyunjin scandire al suo posto: “Accettiamo. Se è l’unico modo affinché la mia gente riceva soccorso allora aiuterò anche io Seungmin nelle indagini.”
Lee Minji, in risposta, sollevò un angolo delle labbra in un soddisfatto sorriso.

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Curiosità non richiesta: se volete avere un'idea di a chi mi sono ispirata per creare il personaggio di Lee Minji (almeno per l'aspetto esteriore ahah) aprite l'immagine a questo link https://lh3.googleusercontent.com/shAfbecrK73VenGgcg4B-8uApdKvhzdWGUFR_z-0indnwf5IvGTSq9oPgy0_bjlhAF828V5_fafzLjBj_VpdWF8Uxl7KUS0gmA=s0

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Capitolo 16
*** sedicesimo ***


La consigliera nascose Seungmin e Hyunjin a palazzo in modo che i Filosofi non sospettassero dell’incursione che aveva programmato per il giorno successivo. Procurò ad entrambi una lunga tunica – raccomandò a Hyunjin di tenere sempre il cappuccio in testa affinché nascondesse le lunghe orecchie – che recava il ricamo dello stemma della Casa della Capitale e li istruì su che cosa dire e fare durante l’assemblea a cui si sarebbero intrufolati. Nemmeno Lee Minji sapeva che cosa aspettarsi da quest’ultima, ma, nonostante l’aspetto rigido ed autoritario, possedeva una fervida immaginazione. Era stata in grado di prevedere parecchi scenari possibili e di programmare conseguenti vie di fuga sicure, aveva persino fornito loro carte e documenti falsi in modo che potessero provare la loro identità nel caso avessero notato la loro presenza. Seungmin, dolce nei tratti del viso e riflessivo nei modi, sarebbe passato per un iniziato – un novizio che era stato investito della carica di Filosofo da meno di un anno – proveniente dall’Est, mentre Hyunjin, alto, irruento e di fine intelletto, sarebbe appartenuto ad una delle poche Case situate nel Nord. Entrambi, giunti alla Capitale per studi, per caso si erano imbattuti in uno dei ritrovi seguendo sbadatamente uno dei loro confratelli maggiori, ma volevano saperne di più riguardo a quello che stava succedendo. Seungmin, interrogato dalla madre su ogni singola minuzia che aveva pianificato, si sentiva più nervoso di quando, anni prima, si era sottoposto al primo esame di Letteratura in Lingua Antica. Hyunjin, dal canto suo, non vedeva invece l’ora di portare a termine la missione per ricevere gli aiuti in cui sperava. La consigliera finì per ammonire entrambi, il primo per il troppo timore ed il secondo per l’eccessiva frettolosità.
“Comunque, se si parla di precisione siete proprio identici” borbottò l’ibrido al novizio quando fu sicuro che la donna non potesse udirli.
“Beh, forse è l’unico pregio che ho ereditato da lei” Seungmin, preoccupato per la serata, scrollò le spalle “Precisi come un bisturi. Un bisturi di acciaio.”
“Testa di latta, i bisturi sono fatti di ossidiana.”
Seungmin gli fece il verso, accompagnato anche da qualche smorfia: “Risparmia la tua linguaccia tagliente per domani sera piuttosto.”
 
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Linguaccia tagliente o meno, la sera del blitz tutta la rigida preparazione impartita dalla consigliera parve inizialmente non servire assolutamente a nulla. Come era stato loro insegnato, si erano infiltrati nella stanza del palazzo in cui avvenivano solitamente le riunioni dei Filosofi. Non era nemmeno stato troppo difficile entrare, il novizio che sorvegliava sonnacchiosamente l’ingresso domandò i loro nomi e la loro provenienza e, senza nemmeno controllare i loro documenti di riconoscimento, lasciò svogliatamente che passassero e si avventurassero nei mistici meandri della più barbosa e stucchevole delle conferenze a cui Seungmin avesse mai assistito. In quel momento si ricordò perché aveva scelto di essere preso come novizio in una sperduta Casa dell’Est, odiava infatti i boriosi Saggi capi della Grande Casa situata alla Capitale. Li conosceva per fama e aveva sempre cercato di tenersene lontano; uno di essi, il Saggio del Sud, era proprio l’oratore che stava intrattenendo il sonnolento pubblico con una vana e vagheggiante disquisizione a proposito di un probabile movimento elicoidale del pianeta su cui vivevano. Hyunjin storse immediatamente il naso e, senza farsi sentire dal resto della folta platea, borbottò: “Che idiozie, il pianeta si muove attorno al sole con traiettoria ellittica.”
Seungmin, sorpreso, sgranò gli occhi ed esclamò sottovoce: “Attorno al sole? Non è il sole che gira attorno a noi?”
Hyunjin non poté che battersi il viso con un mano, mormorando: “Santi padri della scienza, aiutatemi voi.”
Il novizio lo guardò perplesso, per poi ricominciare ad ascoltare pigramente il discorso del Saggio. Notò che altri due di loro erano seduti in prima fila, i Saggi dell’Ovest e del Nord. Mancava all’appello solo quello dell’Est, si ripromise di farci caso nell’evenienza che anche quest’ultimo si fosse presentato. Per fortuna dell’ibrido, comunque, la tortura terminò solamente dopo una mezz’oretta – il Saggio del Sud era famoso per la sua arrogante loquacità e prolissità – poi tutti i partecipanti furono invitati a servirsi al piccolo buffet allestito in fondo al salone prima dell’inizio dell’intervento successivo.
“Dividiamoci.” propose Seungmin “I Filosofi di qui sono dei chiacchieroni, non farai fatica ad attaccare bottone con qualcuno anche se non conosci l’ambiente.”
Hyunjin, pur di poter scappare il prima possibile da quella riunione, accettò di buon grado gorgogliando tra sé e sé: “Questo posto è un insulto alla mia intelligenza.”
L’ibrido si avvicinò quindi al tavolo da buffet e recuperò un piattino su cui poggiare un paio di tartine guarnite con olive e salsa ed un piccolo pezzo di focaccia. Fece finta di gustare il cibo per un paio di minuti, bevve due dita di sidro sebbene quello che distillavano a Tillvah fosse incredibilmente più buono e, infine, dopo essersi perfettamente inserito nella calca, abbordò una delle novizie lì presenti. Non che fosse particolarmente interessato a lei nello specifico ovviamente, ma sapeva di esercitare un certo fascino sul genere femminile e, in una situazione simile, ciò non avrebbe potuto che aiutarlo ad arrivare al suo scopo.
“Buona sera, scusami, ti disturbo?” la chiamò Hyunjin con un luminoso – falsissimo – sorriso stampato in viso, attendendo che ella gli prestasse attenzione.
“Buona sera anche a te, non mi disturbi.” la novizia inclinò il capo di lato “Hai bisogno di aiuto? Per caso ci conosciamo?”
“No, non credo di averti mai visto” ridacchiò l’ibrido con finto imbarazzo “Però sì, volevo solo farti una domanda.”
La novizia, disponibile, annuì con gentilezza: “Chiedimi pure quello che vuoi, sei nuovo, vero?”
Hyunjin fece di sì con il capo, come a ringraziarla di avergli tolto la vergogna di dover ammettere di non avere esperienza né dimestichezza con quel posto: “Sì esatto, vengo dal Nord e mi sono trasferito oggi qui alla Capitale per terminare il ciclo di studi. Mentre esploravo il palazzo ho notato che molti di voi confratelli e consorelle vi stavate radunando qui e vi ho seguiti…”
“Non preoccuparti.” il sorriso della novizia sfiorava quasi le orecchie tanto che era smagliante “Queste riunioni sono ad ingresso libero. I nostri Saggi a turno ogni settimana scelgono un tema e preparano per noi delle lezioni serali facoltative. Essendo che possono parteciparvi novizi e Filosofi di qualsiasi ordine e grado, è un modo per sentirci più uniti in tutta la nostra grande comunità e, inoltre, per approfondire particolari aspetti a cui siamo interessati. Serve soprattutto a noi novizi per capire quale percorso di specializzazione vorremmo intraprendere quando saremo iniziati.”
Hyunjin accennò allora un breve inchino: “Grazie per avermi dedicato parte del tuo tempo, ho capito. Ecco perché la lezione mi sembrava tanto complessa, per un momento ho avuto timore di essermi intrufolato in un raduno di specializzandi avanzati.”
La novizia mantenne l’allegro sorriso e, con il medesimo tono di voce, rimarcò: “No, le lezioni sono rivolte a tutti. E figurati, se hai bisogno puoi chiedermi tranquillamente.”
Detto ciò, la novizia lo salutò e si voltò verso il gruppo di confratelli con cui stava parlottando. Hyunjin allora corse dall’altra parte del tavolo e, come se nulla fosse successo, richiamò un altro novizio e gli pose la stessa domanda che aveva fatto alla ragazza di prima.
“Non preoccuparti.” Il novizio gli sorrise timidamente, ma in modo egualmente gentile “queste riunioni sono ad ingresso libero. I nostri Saggi a turno ogni settimana scelgono un tema e…”
Hyunjin ascoltò con attenzione tutto il discorso che ne seguì e ringraziò il novizio con altrettanta cordialità. Dentro la sua testa, invece, si stava scatenando il caos. Prima di correre a conclusioni affrettate, però, agganciò un altro paio di Filosofi in erba e domandò loro le stesse identiche cose, solo per poi correre da Seungmin per potergli annunciare affannosamente: “Seungmin, questo che hanno inscenato è tutto un teatrino, sono stati tutti—!”
“—imboccati?” lo precedette il compagno di viaggio “Anche a te hanno risposto tutti allo stesso modo, vero? Parola più, parola meno, il contenuto ed il modo di esporre sono sempre stati gli stessi. Mia madre aveva ragione a preoccuparsi, il vero raduno è altrove.”
“Bene, se è altrove troviamolo!” Hyunjin stava già per precipitarsi fuori dalla saletta prima che i tre Saggi cominciassero un nuovo noiosissimo intervento.
“No, Hyunjin, non capisci che è una trappola? Si sono messi tutti d’accordo, sono tutti complici, e con questa strategia, se già qualcuno sospettasse di loro e si intrufolasse qui, crederebbe semplicemente che la vera assemblea sia da un’altra parte. La cercherebbe, ma non la troverebbe, e tutti i sospetti cadrebbero per mancanza di prove.”
“Io… Okay, è strano per me dire una cosa del genere, ma non ti sto seguendo, Seungmin.”
“Parlo del mio campo, Hyunjin, la magia.” Seungmin fece una pausa ed indicò velocemente uno dei tanti novizi lì presenti alla riunione “Osservalo bene.”
Hyunjin fissò la figura mostratagli dal moro con attenzione e, d’un tratto, la vide sfrigolare, come se un lungo brivido avesse percorso per un solo istante tutto il suo corpo.
“Incantesimi di dislocazione. Sai di che cosa parlo?”
L’ibrido scosse il capo fremendo e attese che il più basso si spiegasse.
“Vi sono tre tipi di incantesimi che i Filosofi studiano, quelli di traccia, di ricostruzione e di dislocazione. Ognuno di essi può solamente essere legato e, di conseguenza, controllare una delle tre essenze del mondo. Rispettivamente, in ordine, il Tempo, la Materia e lo Spazio. I primi vengono utilizzati solitamente per rilevare ed esaminare tracce magiche, i secondi, in medicina, per aiutare i tessuti a ricrescere dopo una brutta ferita riutilizzando le risorse del corpo stesso, i terzi, invece, permettono di separare parte della propria volontà dal corpo per raggiungere un altro luogo di natura astratta o spirituale, e vengono usati spesso in forma leggera nella meditazione. Non è consentito modificare gli incantesimi affinché riguardino più di un’essenza. Magie del genere vengono definite Proibite dai Saggi. Tanto per farti capire, non è possibile attuare un vero e proprio teletrasporto in quanto un incantesimo del genere pretenderebbe di dominare sia lo Spazio che la Materia. Fortunatamente sono incantesimi difficili da praticare. L’unico che conosco che ne è stato in grado è Changbin, nessuno sa come abbia fatto, ma ha evocato completamente da solo una Tarantola Magmatica dell’Est. Stava per essere espulso per questo motivo.”
Hyunjin aveva la testa che gli scoppiava, tutte quelle informazione così poco scientifiche gli fondevano il cervello, ma non aveva il tempo necessario per cercare di chiarire tutti i suoi dubbi, quindi si limitò a riprendere incerto il discorso: “Quindi tu pensi che tutte queste persone stiano usando un incantesimo di dislocazione. E te ne sei accorto solo vedendo quella specie di strano brivido che mi hai fatto vedere.”
“Conosco bene la sensazione di essere sparati fuori dal proprio corpo per raggiungere un'altra realtà, anche io uso questi metodi per meditare, ed i primi due secondi non sono del tutto piacevoli. Dall’esterno, sembra proprio che il corpo sia scosso da un brivido.”
“Tutte queste persone sono mentalmente nello stesso identico luogo, un posto completamente diverso da questo e che, di per sé, non esiste né nel palazzo né in nessun angolo della Capitale?”
“Né in nessun angolo del mondo, piuttosto. Però non penso che tutte queste persone siano in grado di attuare un incantesimo del genere e di raggiungere esattamente lo stesso luogo. C’è qualcuno che, restando qui presente, riesce ad indirizzarli.”
“I tre Saggi intendi, vero?” Hyunjin cominciava a sospettare di essersi infilato in una questione molto più grande di lui e si chiese se non avrebbe fatto meglio a restare nascosto con la sua gente per aiutarla con i feriti.
“I tre Saggi.” concordò Seungmin “E scommetto che il quarto, quello dell’Est, li aspetta tutti dall’altra parte.”
“Ma se è così come facciamo a raggiungerli?” l’ibrido, frustrato dal non poter essere d’aiuto, iniziò a disperarsi.
“Basta attendere.” Il moro lo rassicurò con un breve sorriso “Ci sono talmente tante persone qui che dubito che siamo gli unici nuovi. Prima o poi attueranno l’incantesimo anche su di noi e ci accoglieranno nella loro base segreta. Allora dovremo assecondarli in tutto, non fare errori, essere convincenti. Se sospettano di noi potrebbero non farci ritornare più indietro e la nostra coscienza ne risulterebbe compromessa a vita.”
Seungmin assottigliò lo sguardo, sorrise sghembo, e Hyunjin seppe in quel preciso istante di adorare l’espressione che si era dipinta sul suo viso.
“Te la senti?”
Hyunjin non rispose, non si sarebbe opposto a prescindere allo sguardo fiero e deciso con cui Seungmin lo stava guardando, lo stesso con cui la consigliera li aveva accolti la sera precedente.
 
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L’ibrido ed il novizio subirono altre tre ore di supplizio prima di essere finalmente trasportati, come predetto dal secondo, all’interno del luogo creato appositamente per i ritrovi segreti dei Filosofi. Come Seungmin aveva anticipato, il viaggio non fu piacevole per Hyunjin e, una volta giunto – o, almeno, una volta che la sua parte senziente era giunta – a destinazione sentì subito montare un forte senso di nausea. Il moro attese che si riprendesse con un sorrisetto: “Fa strano sapere di avere la nausea anche se adesso il tuo corpo è altrove, vero?”
Hyunjin annuì lentamente, appoggiandosi per un momento ad uno dei muri della piccola anticamera in cui erano stati ribaltati: “Sembra tutto davvero così reale…”
“Lo è” ammise Seungmin “Esiste nella tua mente e tu, in questo momento, sei fatto della medesima materia di cui sono fatti i tuoi stessi sogni. Tante volte quello che immaginiamo sembra molto più vero di quello che concretamente esiste.”
Si diressero poi verso l’unica porta su cui l’anticamera era rivolta, altri Filosofi e novizi stavano entrando in fila ordinata uno per uno, restando a circa un metro e mezzo di distanza l’uno dall’altro. Un secondo confratello, posto al lato sinistro della porta, uno ad uno poneva loro una domanda. Hyunjin, forte delle sue fini capacità sensoriali derivate dal suo lignaggio elfico, tese immediatamente le orecchie, per poi confermare i dubbi del compagno di viaggio: “Serve una parola d’ordine per entrare.”
“Riesci a sentirla?”
Hyunjin si concentrò, fissò le labbra del Filosofo che stava per varcare la porta, infine giunse ad una conclusione: “È Lingua Antica. Quando lui ti chiederà ‘Eiiui?’ tu dovrai rispondere ‘Daimoneie’. Mettiamoci in fila adesso.”
Hyunjin passò per primo, accolto dall’ombra della misteriosa porta, Seungmin andò per secondo e procedettero entrambi senza intoppi, riuscendo finalmente ad accedere alla mistica assemblea. Essa era tenuta in una sorta di vasto tempio sotterraneo, le pareti color smeraldo riflettevano tinte che, alla luce del sole, avrebbero di certo toccato le vivaci vibrazioni dei toni della prima, grassa erbetta primaverile, ma che a contatto con l’umido dell’ambiente circostante non facevano altro che brillare di un tetro, artificiale bagliore. Sullo sfondo verdognolo si stagliava il brulicare di decine di cappucci porpora e violacei, animati novizi e Filosofi impegnati nelle più svariate attività: chi si districava tra centinaia di pergamene dall’antica parvenza, chi era impegnato in focose discussioni, chi, ancora, dipingeva la volta del grande salone con articolati ghiribizzi. La maggior parte delle persone lì presenti, comunque, se non stava svolgendo una precisa mansione, era radunata attorno ad un’unica figura, la quale, da lontano, illuminata di sghembo dalla fioca luce artificiale delle candele, assumeva nel suo autoritario dar ordini un’aura cupa, sinistra, che metteva i brividi.
“Hyunjin, è lui” Seungmin si calò a sua volta il cappuccio sul viso e indicò a Hyunjin con un cenno del capo l’alta silhouette del coordinatore “Il Saggio dell’Est. Avevo ragione a dire che l’avremmo trovato qui.”
“Secondo te che posto è questo?”
“È un tempio, Hyunjin. Stanno finendo di costruirlo, hanno quasi tolto tutte le impalcature, vedi?”
Il novizio sollevò lo sguardo al soffitto per ammirare il dipinto che stava per essere portato a termine: “Giada e serpentino verde, con inserti di marmo nero a tratti e intonaco sulla volta affinché la si possa dipingere. Decisamente troppo pacchiano per i miei gusti, non userei questi colori nemmeno per arredare l’antro di una strega che ha vinto alla lotteria di paese.”
“Riesci a fare la testa di latta anche in una situazione come questa?” lo rimproverò Hyunjin, i nervi a fior di pelle.
“Ma non ero io quello nervoso?” sogghignò il moro, prima di avventurarsi nella navata centrale del tempio e confondersi assieme a tutti i suoi confratelli, seguito a ruota dall’ibrido che, di certo, non aveva la minima intenzione di perdersi in un luogo tanto inquietante.
“Seungmin, per quanto tempo resteremo qui?”
“Il tempo necessario per scovare abbastanza informazioni da portare a mia madre. Possiamo infilarci in qualche gruppetto ed ascoltare parte delle loro conversazioni. Non dovremmo risultare troppo sospetti, qui c’è talmente tanta gente che nessuno si ricorderà di noi se teniamo il cappuccio.”
“Avremmo dovuto fasciare il braccio metallico allora. Con quello sei facilmente individuabile.”
“Terrò la mano nascosta in tasca o nella manica.”
Percorsero parte del freddo pavimento e, con il cuore in gola, si aggregarono ad un gruppetto nella parte centrale del tempio che, in piedi attorno ad un grande tavolo di legno, discutevano a proposito di alcuni libri poggiati su quest’ultimo.
“Avete reperito tutti i volumi che mancavano?” scandì uno di loro.
“Ci abbiamo messo un po’, ma tutti gli incantesimi che servivano sono trascritti in queste pagine.”
“Li catalogheremo immediatamente assieme agli altri che avete reperito nei giorni scorsi.”
“A palazzo sospettano?”
“No, fratello, il bibliotecario non ha ancora scoperto nulla. Cataloga e ricontrolla la lista dei Proibiti ogni mercoledì ed ogni sabato pomeriggio, ma per quei giorni ormai Eiiui sarà tornato e noi completeremo con lui la nostra missione.”
A Seungmin gelò il sangue nelle vene nel riconoscere in quei tomi scuri i libri Proibiti della biblioteca reale, quelli a cui solo il bibliotecario poteva accedere. Senza farsi vedere, occhi sgranati e bocca semi spalancata, tirò un lembo di una manica di Hyunjin per attirare la sua attenzione: “Ti ricordi il discorso che abbiamo fatto prima sugli incantesimi? Ecco, quei libri contengono i Proibiti, Hyunjin.”
Il moro trascinò via l’altro e tornò a camminare per la lunga navata, facendosi strada in mezzo alla calca.
“E che ci fanno qui quei libri allora?”
“Qualcuno di quei Filosofi deve averli rubati alla biblioteca e deve essere riuscito a trasmutare la conoscenza che vi ha trovato all’interno in questo luogo. Sono dei deviati, Hyunjin…”
Più si guardava intorno, più Seungmin riprendeva a sudare freddo. Tutte quelle persone, giovani e vecchi, erano, in fondo, parte della sua famiglia, era per questo che ci si rivolgeva gli uni agli altri con l’appellativo di ‘confratello’ o ‘consorella’. Eppure quei fratelli e quelle sorelle lo stavano tradendo, infrangendo senza pudore il codice della magia stipulato millenni prima e venerando tale Eiiui.
“Chi è Eiiui?”
“Non ne ho idea, e ho paura che chiedendo qui in giro capirebbero che siamo infiltrati.”
Il novizio voltò lo sguardo verso il capannello di gente raccolto attorno al Saggio dell’Est: “L’unico modo per capire che cosa stanno architettando i Filosofi della Capitale è arrivare al loro capo forse, no?”
Hyunjin lo prese per mano e, anticipandolo, raggiunse con lui il gruppo di adepti radunati in fondo alla navata principale, proprio di fronte al grande altare di marmo nero.
“… Mi rivolgo in particolare a chi accogliamo qui per la prima volta,” cominciò, con voce calda e tonante, il Saggio dell’Est “comprendo il vostro timore poiché io stesso, anni orsono, quando mio padre mi raccontò della leggenda di Eiiui, ne rimasi pietrificato. Non volevo credere che un essere di tanta rara bellezza e forza avrebbe governato sul nostro popolo con immane magnanimità e generosità. Eppure è reale! Non sappiamo in quale corpo risorgerà, non sappiamo ancora quale sarà il suo volto, ma ormai la data è prossima! E noi dovremo essere qui, pronti per accoglierlo al meglio. Abbiamo gli incantesimi necessari per spazzare via chiunque intralci il nostro cammino e finalmente, dopo anni di attesa, avremo sul trono del regno un degno signore. Soppianteremo il nuovo re per il bene della Nazione, daremo al popolo un sovrano degno di esso, che lo rispetti, lo ascolti e lo guidi nel modo più giusto verso un futuro di serenità e stabilità.”
In quel momento alcune deboli luci si accesero sopra il capo del Saggio, che interruppe immediatamente il discorso. Sollevò lo sguardo verso di esse e si aprì in un maniacale sorriso, per poi gridare: “Eiiui è con noi anche stasera, consorelle e confratelli! Accorrete all’altare e pregate con me l’unico degli dei del cielo!”
Seungmin e Hyunjin, già tramortiti dall’agghiacciante arringa del Saggio – come avrebbe fatto il moro a spiegare alla madre che i Filosofi erano in combutta per mettere in atto un colpo di stato? – vennero letteralmente travolti da un feroce ressa di tuniche violacee che, messe improvvisamente da parte le loro mansioni, si erano precipitate tutte insieme verso il loro capo. Alcuni si inchinavano a terra bocconi, altri restavano semplicemente seduti, altri, i più zelanti, si lasciavano cadere in ginocchio di fronte alla luce messaggera del divino. L’ibrido e il novizio, ancora sconvolti, non poterono fare altro che imitarne i gesti. Entrambi non erano religiosi, ma, estremamente timorosi di essere scoperti a quel punto della missione, congiunsero le mani ed abbassarono lo sguardo alla fredda pietra del lucido pavimento, rabbrividendo di terrore non appena il Saggio, anch’egli, ora, inginocchiato di fronte alle luci di Eiiui, riprese a parlare con tono mormorante, seghettato, ricolmo di rispettoso timore: “Ti ringraziamo, Eiiui, per essere accorso da noi anche questa notte. Illumina la nostra via con la luce delle tue gesta, guidaci verso la giustizia, permettici di adorarti, di prestarti aiuto per creare il mondo che tu desideri e che noi desideriamo con te. Siamo figli tuoi, e ancora i figli dei nostri figli ti seguiranno come noi abbiamo fatto cent’anni prima di loro e ti saranno devoti. Il tuo mondo non cambierà, non sprofonderà nell’odio e nella guerra perché i sacrifici di oggi saranno i boccioli del domani più roseo. Permettimi, Eiiui, di parlare con i tuoi messaggeri e di pregare con essi in tuo nome, affinché coraggio e fortezza si infondano negli animi di chi ancora non ha capito di amarti…”
Le luci volteggiarono sul capo del Saggio per qualche secondo, per poi allontanarsi dal giovane uomo. Scavalcarono l’altare e raggiunsero la parete dietro di esso. Né Hyunjin né Seungmin ci avevano fatto caso, ma essa era nella parte centrale ricoperta da uno spesso telo di colore livido.
“I messaggeri hanno accolto la nostra preghiera, consorelle e confratelli!”
Dopo quei lunghi attimi di silenzio tombale, lo squillo del gaudioso tono del Saggio prese in contropiede Seungmin, che sollevò lo sguardo verso la lugubre scena e, se possibile, spalancò ancora di più le palpebre non appena si accorse di un minuscolo particolare che, nella fretta, era sfuggito ad entrambi: “Hyunjin, ma quelle non sono lucciole?”
L’ibrido puntò allora gli occhi nella stessa direzione: “Sì… Sì, sono lucciole, che strano…”
Seungmin pareva confuso quanto lui, ma il quesito che lo affliggeva in quel momento era un altro. Lee Minji aveva detto loro che sospettava stessero conducendo varie ricerche illegali sulla Fonte della Felicità, ma non vedeva alcun nesso logico tra il rinnovo di quest’ultima ed il colpo di stato in nome di un’entità sovrannaturale di dubbia affidabilità. Prima che potesse porre la questione a Seungmin, comunque, la risposta venne a galla sola.
“Preghiamo di fronte al vero volto del nostro dio! Preghiamo di fronte al vero volto di Eiiui!” tuonò il Saggio prima di scattare in piedi, animato da una malsana euforia, e strappare il telo dalla parete, rivelando sotto di esso il gigantesco ritratto un giovane dai capelli del colore del sole estivo a mezzogiorno e la pelle tempestata da miriadi di scure lentiggini. Hyunjin, l’orrore negli occhi, un violento brivido nel cuore, non poté non riconoscerlo. In fondo lo aveva anche ospitato a casa sua, gli aveva preparato la cena, Jeongin si era offerto di fargli fare un tour in mezzo alle case sospese di Tillvah. Raccolse da terra una delle mani di Seungmin e la strinse nella propria. Forse era quella di metallo, ma non gli importava, anche il freddo dell’acciaio era più caloroso del rigido gelo in cui bruscamente si sentiva annegare. Lo mormorò appena, ma tanto sapeva che Seungmin aveva già capito: “Felix”.
 
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Il novizio, a differenza di Hyunjin, nonostante per un periodo avesse vissuto a palazzo, aveva sempre e solo visto Felix da lontano, ma le sue gesta non gli erano mai passate inosservate. Aveva terminato guerre, fatto instaurare amicizie fra popoli avversi, guarito terreni morenti, conseguentemente rimpolpato economicamente la Nazione, e per tutti aveva finito per essere una sorta di mito, una delle Fonti della Felicità che, con i loro poteri e capacità, più aveva contribuito al bene del Paese. Sapere che il suo viso era quello che si nascondeva sotto il nome dell’idolo Eiiui, oltre che immensamente confuso, lo lasciò con un senso di profonda amarezza che gli stritolava il cuore. Avrebbe voluto gridare a Hyunjin di scappare via, ma qualcuno gli mise all’improvviso le mani addosso, bloccandolo faccia a terra e mani dietro la schiena, lo stesso per il compagno di viaggio.
“Che cosa succede laggiù?!” inveì gracchiando imbestialito il Saggio dell’Est.
Il Filosofo che teneva bloccato Hyunjin echeggiò con tono visibilmente sconvolto: “Ha osato pronunciare il vero nome di Eiiui, Saggio! E inoltre lui e il suo compagno fissavano i messaggeri durante la preghiera!”
Hyunjin tentò di divincolarsi, ma così facendo il cappuccio della tunica scivolò via dal suo capo, rivelando le lunghe e fini orecchie da elfo nello stesso istante in cui i confratelli si accorsero del braccio d’acciaio di Seungmin.
“Sono impostori, sono impostori!” denunciò allora qualcuno urlando, e allora fu il caos.
Miriadi di corpi violacei si gettarono contemporaneamente su di loro per sollevarli, strappare loro le tuniche di dosso, graffiare la loro pelle, ferire con calci, pugni, gomitate, ogni singolo centimetro di pelle a cui riuscivano ad accedere. Non vi era verso di controllarli, il loro dio era stato smascherato, il loro piano era trapelato e orecchie profane avevano osato ascoltare la loro preghiera, l’istante in cui ogni singolo confratello ed ogni singola consorella gettavano via la propria paura e si affidavano, nudi nel mare della speranza, alle promesse di un nobile dio che aveva giurato loro di governare per cent’anni, e poi per altri cent’anni, e per cent’anni ancora, fino alla fine dei tempi. Nessuno avrebbe dovuto disturbarli fino al giorno del giudizio, il quindicesimo del mese di settembre, quando Eiiui sarebbe risorto dalle ceneri di se stesso.
Hyunjin e Seungmin, invece, di speranza non ne avevano più. Gonfi di lividi ed ecchimosi, ormai non possedevano più la forza di muoversi. Sarebbero rimasti intrappolati in quel tetro antro per l’eternità, incapaci di tornare indietro in tempo per ricongiungersi con il loro corpo che, nel mondo reale, avrebbe continuato ad invecchiare senza che nessuno sospettasse alcunché. Svennero dopo qualche minuto, esausti, doloranti entrambi, le ossa distrutte da capo a piedi, i muscoli pulsanti a causa delle profonde contusioni, eppure nel mondo dei sogni avvertirono un certo sollievo. Vennero spogliati completamente delle sudice tuniche, ma nessuno dei due faceva caso alla nudità dell’altro. Prima, avvolti dalla soffocante stretta del buio, erano ormai pronti a dissolversi in un oceano di oblio e disperazione, ma ora un chiarore leggero si stava aprendo di fronte a loro, come una saggia falena che, svolazzando impacciatamente verso la luce, scacciava con il frettoloso battito d’ali ogni lembo di tenebra. Entrambi furono allora illuminati dal calore di un prematuro bagliore, godettero della sensazione di torpore in cui esso li fece sprofondare e mugugnarono storditi quando un’immagine li investì prepotentemente, accecandoli. Era il ricordo di un bambino dai capelli color nocciola, nessuno dei due lo avrebbe riconosciuto se non fosse stato per le evidenti lentiggini che coronavano i suoi rotondi zigomi. Il bambino crebbe, prima giocava ad acchiapparello con gli amichetti, ora lo faceva con le amichette e gli amichetti lo applaudivano di nascosto. Seguirono passo passo la sua vita, ed in breve ebbe vent’anni e venne catapultato, lui ed il suo nuovo ciuffo biondo iperico, nei meandri di un palazzo in cui avrebbe potuto alloggiare comodamente ogni abitante del suo villaggio. Ci mise un po’ ad ambientarsi, diverse persone si offrirono di aiutarlo e lui accettò di buon grado, stringendo amicizie che non sarebbero durate solo perché era lui quello che avrebbe finito per durare troppo. Ed intanto diventava più forte, e più forte allora la gente lo acclamava e lo pretendeva. Solo il popolo, nella sua mutevole varietà, lo avrebbe amato ed accompagnato fino alla morte, e allora gli giurò in segreto fedeltà e fiducia. Raccolse i rappresentati del popolo che desiderava, i Filosofi accettarono di buon grado e ne fece i suoi seguaci. Creò un culto, ricreò se stesso, creò l’incantesimo che gli avrebbe permesso di vivere per sempre in modo da mantenere la promessa che aveva fatto alla gente e si avviò con due vittime verso il Cratere in cui la sua Anima sarebbe morta e sarebbe tornata, e avrebbe ricominciato il viaggio con nuovo volto e stesso nome: Felix, Eiiui, eiiuidaimoneie ovvero la Felicità in Lingua Antica. Due figurine accartocciate ne seguivano adoranti il cammino, le sue vittime, Seo Changbin e Bang Chan, e altre due invece, del tutto simili, si scioglievano all’interno del velenoso ambiente del palazzo reale. L’immagine si ingrandì inaspettatamente, fino a quando quelle due ultime piccole sagome non li inghiottirono e tornarono, per un solo secondo, a sprofondare nel buio.
Seungmin si svegliò di colpo, tirandosi su all’improvviso, come quando gli capitava di destarsi, sudato ed agitato, dopo un brutto incubo. Si guardò intorno tremolando come una foglia, del tutto scosso da ciò che ricordava perfettamente di aver subito. Accanto a lui, con gli occhi cerchiati di nero e le labbra contratte per contenere gli ansiti del faticoso ritorno, Hyunjin lo fissava con sguardo perso, tramortito. Ancora stringeva la sua mano: “Finalmente sei sveglio…”
L’incantesimo di dislocazione era stato annullato ed erano ritornati nei loro corpi, di questo Seungmin era certo, ciò che gli sfuggiva era come fosse stato possibile. C’erano diversi motivi per cui i quattro Saggi della Capitale avevano raggiunto quella carica, carisma, influenza, conoscenza e, di certo, forza e padronanza delle arti magiche ed alchemiche. Nessuno era in grado di batterli sul campo, nessun essere umano tranne uno, almeno. Il novizio si accorse della presenza del Cantastorie, e della madre accanto a lui, solo dopo qualche secondo, nello stesso istante in cui realizzò di non essere più nella finta sede delle riunioni dei suoi confratelli (poteva ancora definirli tali?).
“Seungmin, sei sveglio?!” Lee Minji non era una madre provetta, aveva sempre lasciato che Seungmin si crescesse da solo, monitorando su di lui da lontano, eppure ciò non significava che non gli volesse bene. C’era pur sempre una ragione per cui amava vantarsi di lui e dei suoi risultati con gli altri membri del consiglio, e non era il far ricadere su di lei gli elogi per un’educazione tanto eccellente. Anche in quel momento, quando il Cantastorie si era presentato di fronte alla porta della sua camera con i corpi esanimi dei due giovani svenuti ed aveva compreso di aver gettato il figlio in una trappola mortale, si era sentita fiera di essere madre di Kim Seungmin. Non aveva domandato al vecchio come avesse fatto a trovarli e a portarli con sé, sapeva che il Cantastorie non avrebbe risposto. Il Cantastorie rispondeva solo alla domande più importanti, e quando lo faceva sembrava invecchiare di cent’anni ad ogni parola, o, almeno, ad ogni immagine. Molti dicevano che fosse nato muto, Lee Minji credeva semplicemente che avesse trovato un modo migliore per comunicare. Il Cantastorie parlava attraverso i sogni, e stava facendo esattamente questo con Hyunjin e Seungmin mostrando loro finalmente tutta la verità.
“Mamma!” la chiamò il figlio, ancora visibilmente scosso dalla paura. Era tanto che non sentiva quell’appellativo al posto del solito formalissimo ‘Madre’.
“Mamma…” Seungmin diede uno sguardo a Hyunjin, poi tornò a guardarla dritto negli occhi: “Non ci sono buone notizie. Io e Hyunjin dobbiamo spiegarti in fretta un po’ di cose.”

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Capitolo 17
*** diciassettesimo ***


Il vero nome del Cantastorie non era il Cantastorie, eppure come appellativo gli era sempre piaciuto nonostante non fosse in grado, almeno in senso letterale, di cantare alcuna storia. Ve n’erano molti come lui nella Nazione, tantissimi che ogni giorno accorrevano a palazzo armati di lira e determinazione che, con gli occhi infuocati da giovane passione, tentavano di impressionare i poeti di corte con i loro rozzi versi pregni di un’aura tutt’altro che liricheggiante. Niente pathos, troppa enfasi, declamavano ogni frase con la vana speranza di fama immediata celata negli occhi. E forse il Cantastorie poteva essere muto, ma sapeva bene come distinguere un bravo aedo da un vile chiacchierone. Lui stesso in gioventù aveva avuto la fortuna di appartenere alla cerchia dei primi – essere modesto non era mai stato nei suoi piani – quando ancora la sua meravigliosa voce non gli era stata strappata e le uniche storie che cantava erano le epiche gesta di cavalieri innamorati, giullari di corte, dame d’immane bellezza, bellicosi re e spiriti guerrieri. Gli era capitato di viaggiare molto in passato, soprattutto quando aveva vent’anni, e oltre ad essere esperto di musica e di rime aveva una passione per il sidro, tanto che cercava sempre, quando possibile, di procurarsene un paio di buone bottiglie da condividere con i famigliari alle feste in campagna. Ognuno dei suoi parenti aveva degli occhi differenti, ed anche se ormai era l’unico rimasto ricordava perfettamente la lucentezza di ognuno di loro. Suo padre riluceva di bontà, sua madre di gentilezza, sua sorella di astuzia, suo fratello di dolcezza. Voleva bene a tutti in egual maniera, molto più che a se stesso, e non era un caso che le sue esibizioni migliori fossero sempre quelle che dedicava a tutti loro, agli zii ed ai suoi cugini. Aveva perso la voce nello stesso momento in cui, decenni prima, anche l’ultimo dei suoi famigliari era scomparso, ed ora non cantava più canzoni d’amore perduto e ritrovato, ma narrava con il cuore storie accadute, visioni, profezie, incubi notturni, sogni ad occhi aperti. Si trovava a corte quando l’incidente accadde, i Filosofi della Capitale lo additarono immediatamente come Vate, quell’unico individuo in grado di scovare il nuovo tramite per la Fonte della Felicità. Eppure nessun Vate era mai stato privo dell’utilizzo della parola, lui era decisamente qualcosa di diverso. Non dormiva mai, non gli era necessario, si nutriva solo per pura golosità, il resto del tempo vagabondava senza sosta per le stanze del palazzo reale. Poteva sembrare folle, ma era in grado di guardare, con i suoi occhi mezzo mangiucchiati dalla cataratta e dalla congiuntivite, fin oltre le mura del gigantesco edificio, fin oltre i confini della Capitale, oltre ancora le frontiere dell’intero universo. Conosceva terre inesplorate, mondi onirici ed oniricheggianti, luoghi utopici, valli in cui il pensiero di molti finiva spesso per incagliarsi, fondali in cui la forma si perdeva e la pelle si squagliava in un gelo pungente o in un torrido calore, ma si rese conto ben presto di non poter condividere la sua idilliaca esperienza con alcun umano o elfo o fata. Con gli anni, isolato in se stesso, aveva appreso come ergersi al di sopra del pensiero di chi gli stava intorno, esplorava senza remore le menti di coloro che si dicevano suoi amici solo perché a conoscenza delle sue immani capacità sovrannaturali. Erano poche le persone di cui poteva fidarsi ciecamente, ed una di queste era Lee Minji.
Non appena, la sera dell’undicesimo giorno di settembre, Seungmin e Hyunjin avevano varcato i cancelli del palazzo reale, aveva immediatamente scandagliato le loro menti e si era sorpreso nel riconoscere nel grintoso novizio il timidissimo figlio della consigliera. Si ricordava di quando era bambino e lo scrutava dal basso con occhioni da cucciolo ricolmi della curiosità tipica dell’infanzia, ora era di molto più alto di lui. Li aveva seguiti con il pensiero fino al giorno seguente, quando si erano intrufolati alla falsa assemblea dei Filosofi e, a notte fonda, erano stati trasportati al tempio di Felix con un incantesimo di dislocazione, e alla fine, colpito dal loro coraggio, era stato capace di recuperare i loro corpi dalla sala riunioni e di riportare indietro le loro anime martoriate. Sapeva perfettamente a che cosa sarebbero potuti andare incontro, confidava in loro, ma non si era arrabbiato quando li aveva visti fallire. Dopo tutto lo sforzo compiuto, meritavano, infine, di sapere a quale pazzia il mondo stava andando incontro. Si era finalmente fatto avanti, aveva compiuto ciò che sua Madre gli ripeteva di non fare mai, aveva interferito nel mondo degli uomini. Ma, nonostante la sua natura di semidio, il suo universo prediletto era proprio quest’ultimo, e non poteva lasciare che venisse distrutto, anche se ne avrebbe pagato le conseguenze. Seungmin aveva perso il suo braccio, Hyunjin suo fratello, entrambi la loro rispettiva casa, ed ora era il suo turno. Aspettò interminabili minuti che si riprendessero dallo sconvolgimento del viaggio virtuale a cui li aveva costretti, per poi lasciarli nelle braccia di Lee Minji e sparire ancora. C’era un’altra persona che doveva incontrare, ma era lontana, ci avrebbe messo ore per raggiungerla anche con il suo robusto esemplare di Drago dorato delle Paludi, uno degli animali più veloci del pianeta. Non avvertì che si sarebbe assentato, nessuno si sarebbe comunque sognato di fermarlo. Si diresse a passo svelto, per quanto la sua corporatura esile e ricurva gli permetteva, verso le scuderie e partì immediatamente, nel cuore della notte, diretto ad Est. Entro il tramonto del giorno successivo doveva incontrare Bang Chan e convincerlo a salvare Seo Changbin.
 
-
 
Chan aveva promesso a se stesso di tornarsene alla svelta alla Capitale, avere Miss Binnie con sé fruttava parecchio a suo vantaggio data la sua incredibile resistenza e velocità, di gran lunga superiori a quelle di un normale cavallo. Essendo da solo poteva scandire il ritmo di marcia che preferiva e, anche con la pioggia che continuava a battere insistentemente, prevedeva di intraprendere un viaggio di ritorno non più lungo di una settimana. Certo, il primo giorno era stato complicato imparare a cavalcare la Tarantola senza finire per scottarsi inavvertitamente, ma una volta scoperto il trucco l’unica cosa che gli era rimasta da fare era mettersi comodo e preoccuparsi di non ruzzolare giù dal guscio dei punti della foresta più scoscesi. Nonostante i buoni propositi, però, fin da subito il viaggio venne rallentato da una zavorra inaspettata: il suo cuore. Dall’esatto momento in cui aveva abbandonato Changbin e Felix ai piedi del vulcano aveva iniziato ad essere scosso da strani brividi. Si ripeteva che era per la rabbia e per la forte gelosia nei confronti dei due, per il modo in cui lo avevano trattato e in cui si era sentito tradito, eppure non riusciva a convincersene del tutto. Il dodicesimo giorno di settembre aveva rotto i rapporti con i due compagni di viaggio, il tredicesimo era ancora nascosto in mezzo ai rigogliosi frutteti poco lontano dai vulcani, dando la colpa alla spessa nebbia che gli impediva di proseguire in sicurezza. Il quattordicesimo giorno, ancora avvolto dalla spessa coltre, lo trascorse accoccolato contro il petto di Miss Binnie, senza bere o mangiare, concedendosi un privilegio che mai poteva permettersi: dormì ininterrottamente fino a sera.
Fece un sogno molto particolare. Non poteva definirlo ‘strano’, in fondo non accadde nulla di assurdamente irragionevole, sembrava solo fin troppo vivido.
Si trovava al limite di una piccola prateria, al centro della quale campeggiava il tetto rosso di una grossa casa di campagna. Era probabilmente pomeriggio inoltrato, faceva ancora caldo, ma il sole aveva già iniziato la sua lenta discesa verso l’orizzonte e gli avvolgenti toni del tramonto di tarda primavera cominciavano ad imbrattare il folto prato in cui due bambini giocavano ad acchiapparello. Non ci prestò troppa attenzione, si avventurò nella radura, deciso a comprendere in quale luogo fosse stato trasportato. Era difficile a dirsi, non riconosceva nemmeno lo stile architettonico della fattoria. Nella sua rigogliosa semplicità, tutto l’insieme di costruzioni lasciava un forte retrogusto di antico, come se all’improvviso il mondo fosse regredito di cent’anni. Abitazioni del genere si potevano ammirare solo nei vecchi dipinti agresti. Si guardava attorno ammirato, pensò che avrebbe vissuto volentieri in un luogo del genere, lontano dal mondo, sopravvivendo solo con le sue forze, e non si accorse che uno dei due bambini, completamente concentrato nello scappare dall’amico che lo rincorreva ridendo, venne a sbattere contro le sue gambe e ruzzolò a terra con un tonfo sordo.
“Yongbokie, fai attenzione al signore!”
Signore?
L’amico di ‘Yongbokie’, un piccoletto dai modi svelti con le guance piene e lucidi capelli nero pece, corse in soccorso di quest’ultimo, uno smilzo bimbo di circa sei anni abbronzato e ricoperto di scure lentiggini. Il soldato, preso in contropiede, si abbassò velocemente e rimise velocemente ‘Yongbokie’ in piedi: “Scusami, ero sovrappensiero e non ho visto che venivi da questa parte o mi sarei spostato.”
Il piccolo scosse il capo, tenendo gli occhioni rivolti verso il basso vergognandosi non poco di aver importunato uno sconosciuto a causa del suo proverbiale impaccio: “È… È colpa mia, avrei dovuto guardare dove andavo, ma per una volta volevo far vedere a Jisung che sono più veloce di lui. Ti ho fatto male, signore?”
Jisung. Non poteva dare un volto a quel nome, ma di certo non gli era affatto sconosciuto. Felix, durante il mese di viaggio, aveva raccontato moltissimi aneddoti a proposito del cugino trovatore con cui aveva praticamente vissuto fino ai suoi vent’anni. Non ci mise molto a fare due più due, scrutò meglio il viso di ‘Yongbokie’ e quasi non si commosse nel riconoscere nel viso sincero del preoccupato bambino i lineamenti del ragazzo che gli aveva spezzato il cuore. I suoi capelli ora erano avevano assunto la luminosità dei raggi del sole, le lentiggini spiccavano di più sulla cute leggermente meno colorita, eppure gli occhi erano rimasti gli stessi, ricolmi della medesima adorabile innocenza.
“Signore…?” lo richiamò il piccolo Felix, visto che Chan pareva essersi incantato a fissarlo.
“Tutto bene” si affrettò allora a replicare velocemente la guardia, accennando un piccolo sorriso “la cosa importante è che quello a non esserti fatto male sia tu.”
Non si trattenne. Appoggiò la mano sul suo capo e gli scompigliò i capelli. Era il primo vero contatto che aveva con lui da quando lo aveva baciato a Tillvah e, a dirla tutta, si sentiva vagamente a disagio a causa dell’abissale differenza di età. Avrebbe potuto essere suo fratello maggiore in quell’istante.
“Forza, Bokie, torniamo a casa! La zia ci sta chiamando per la cena!” Jisung richiamò il cugino e scappò con lui verso il porticato della casa dove, la notava solo ora, una donna aveva appena finito di apparecchiare una povera tavola per diverse persone.
“E così, i tuoi sentimenti per lui non cambiano nemmeno nei tuoi sogni.” gracchiò con tono assorto una voce dietro di lui, facendo voltare di scatto il soldato che ancora scrutava con una certa amara e nostalgica tristezza Felix sgambettare via da lui per raccogliersi con i suoi famigliari, i quali, uno ad uno, prendevano lentamente posto a tavola sotto il porticato. Chan andò istintivamente a lambire lo stivale, non ricordando di non avere più con sé il suo prezioso pugnale, solo per poi voltarsi e trovare dietro di sé l’arzigogolata, rugosa silhouette del Cantastorie. Si ricompose immediatamente, schiarì la voce, accennò un veloce inchino, domandando scusa per essere stato irrispettoso. Sentì il Cantastorie ridere con lentezza, alla maniera di chi è troppo vecchio per prestare ancora attenzione a certe inutili formalità, e Chan se ne stupì. Avvertiva il riecheggiare della raggrinzita voce dell’anziano tutto intorno a sé, eppure la sua bocca era perfettamente sigillata, immobilmente distesa in una curva mezzo discendente, trascinata verso il basso dal greve fardello degli anni che le vizze spalle sostenevano. Solo i suoi occhi, seminascosti da spesse croste ed evidenti verruche, parevano vispi nonostante l’evidente avanzamento della cecità. Possedevano una certa vitalità intrinseca, custodivano gelosamente il segreto di una vita pura e, allo stesso tempo, il calore dell’abbraccio di una morte prossima, bramata, che però pareva voler tardare ancora a giungere. Il soldato era intimorito dalla piccola, ed allo stesso tempo solenne, figura dell’uomo di fronte a lui, avrebbe voluto domandargli che cosa significasse quella frase – sentimenti? Sogni? – e anche come mai avesse deciso di mettersi in contatto con un’inutile mezza guardia come lui.
“Quelle che vedi sono memorie, i primi ricordi del ragazzo che nell’ultimo mese hai amato.” snocciolò la voce incorporea, gli occhi del Cantastorie si fecero improvvisamente dolci, comprensivi “In questo momento stai dormendo, Chan, eri stremato e sono corso qui per approfittare dell’ospitalità della tua mente. Ho fatto male? Possiamo parlare per un po’?”
Chan annuì immediatamente, non poteva ancora comprendere le sue intenzioni, ma aveva sviluppato un certo sesto senso per i guai e, nonostante l’atmosfera da sogno e la gentilezza di cui la figura del vecchio era rivestita, non si aspettava di certo un discorso tranquillo con tanto di the e biscottini. Deglutì a secco, avvertendo una sorta di ansia cominciare a percorrerlo quando il Cantastorie gli chiese di sedersi di fronte a lui sull’erba, tra i papaveri, le margherite ed i dente di leone.
“Felix è sempre stato un bambino vivace, nonostante siano passati più di cento anni non ha mai perso questa sua caratteristica, vero?”
Chan scosse il capo, vagamente imbarazzato: “Credo che sia la persona migliore che io abbia mai conosciuto.”
“Questo perché lui voleva che tu e tutto il suo popolo pensasse questo, Chan” lo sorprese l’anziano “Felix si è sempre ispirato alla giovialità di Yongbok, ammirava la sua spensieratezza, e voleva che, come Fonte della Felicità, anche tutti noi pensassimo che non sarebbe mai cambiato. Dopo anni e anni, anche lui, però, si è reso conto che quella non poteva che essere una facciata.”
Chan scattò sull’attenti. Si sarebbe aspettato un rimprovero per non aver adempito alla sua missione ed un richiamo per aver bellamente disobbedito ai suoi superiori per futili questioni di cuore, non una dubbia chiacchierata a proposito del ragazzo che, in quel momento, sentiva solo il bisogno di dimenticare.
“Anche Felix, piano piano, nonostante tentasse in tutti i modi di nasconderli anche a se stesso, si è reso conto di essere pieno di difetti. Appena era stato investito della carica di Fonte della Felicità era stato avvertito, avrebbe donato al popolo anni di lucentezza e prosperità e, allo stesso tempo, avrebbe sacrificato la sua vita per loro. I suoi sogni, i suoi traguardi, le sue ambizioni – di quelle ne aveva molte – ed anche, ovviamente, tutti i suoi affetti. Adorava la prospettiva di aiutare il mondo in una nuova rinascita, ma odiava – e chi lo biasimerebbe – perdere ogni singola persona che amava. Ha sempre avuto la testa di un ventenne. Era responsabile con le sue intricate mansioni, ma appena aveva un momento libero giocava spesso ad innamorarsi. Rammenta perfettamente ogni singola anima che, per breve o lungo tempo, ha amato, ed i suoi ricordi, lentamente, hanno iniziato a corrodergli l’anima.”
“Io…” Chan iniziava seriamente ad avere paura, si domandava che razza di favole stesse inventando il vecchio e non era sicuro di volerlo ancora stare a sentire “Io non capisco dove vogliate arrivare con questo. Felix ha sempre ammesso tranquillamente di aspettare il momento della sua morte, e con il vostro racconto non posso che comprendere questo suo modo di pensare.”
“Vedi Chan,” il Cantastorie pareva volerlo riprendere con la severa dolcezza di un padre “tutte le Fonti, prima o poi, finiscono per desiderare di morire. È la loro condanna, sono i capostipiti e gli ultimi ad andarsene della loro generazione, e questa consapevolezza implica la degenerazione della loro incancellabile metà di natura umana. Il corpo e la mente si deteriorano dopo cento anni, ma nessuna Fonte è mai impazzita allo stesso modo in cui l’ha fatto Felix. Forse ti ha detto di voler morire, la verità è che brama la vita da anni perché si è reso conto troppo tardi che l’unico amore della sua vita è, e sarebbe sempre stato, il suo popolo. Ha fatto tanto per lui e, ad un certo punto, ha capito di poter fare ancora di più. Avrebbe potuto restare per sempre qui a prendersi cura di lui, come una sorta di Madre.”
“Ma questo non è possibile, la profezia…-” intervenne incerto il soldato
“La profezia può essere facilmente raggirata se viene impedito il ritrovamento del nuovo tramite, e questo per un semidio non è un compito complicato.”
Il Cantastorie chiuse gli occhi e, in un vortice di polline e grano, la scena cambiò. Ora Chan era seduto sulla fredda pietra del pavimento della biblioteca reale e accanto a lui, evidentemente ignari della sua presenza, Felix ed un paio di giovani Filosofi rovistavano velocemente in mezzo ad alcuni libri.
“Felix, guarda questo incantesimo!” esclamò d’un tratto uno di loro.
Felix gli si avvicinò svelto e gli rubò il libro di mano, rischiando, tra l’altro, di rovinare la splendida fattura delle fini pagine già ingiallite dallo scorrere dei secoli.
“Non è una formula della giovinezza” sbottò il secondo Filosofo sbirciando il contenuto dell’incantesimo.
“Già, non era quello che cercavamo, ma leggi il procedimento.” lo precedette l’altro “Non vedi che è molto più semplice? Non si tratta nemmeno di un Proibito, almeno in senso tecnico. È la strada che dovremmo tentare.”
Felix pareva perplesso: “Al posto di ringiovanire il mio corpo… sostituirlo? Come fa ad essere meno complicato?”
“Basta lavorare con lo spirito senza chiamare in causa la materia, e quindi l’alchimia. Certo, non si può dire che sia concettualmente semplice da immaginare, ma dislocare un’anima da un corpo ad un altro, almeno con questa formula, richiede molta meno fatica, e molta meno pratica, di quanta ne servirebbe per convincere ogni singola cellula del tuo corpo a tornare indietro nel tempo. L’unica clausola, a quanto si legge, è che il rito venga completato nell’esatto momento della morte, in modo che l’anima sia più facilmente raggiungibile.”
Chan poteva leggere negli occhi di Felix il dolore che egli provava di fronte alle temibili braccia dell’orrenda morte che lo aspettava, e di certo, poi, comprendeva l’invidia che in quel momento lo stava rosicchiando dall’interno come una delle insaziabili tarme che si nascondevano nelle fessure dei robusti scaffali della biblioteca. La gelosia di Felix era rivolta a tutti coloro che potevano ancora bearsi dei privilegi dello scorrere del tempo, la propria, di natura ben più terrena, a… a Changbin.
“L’incantesimo è più efficace” continuò allora il Filosofo “se il soggetto che riceverà l’anima è fisicamente debole ed emotivamente vicino al donatore, in modo che il corpo e lo spirito non pongano alcuna resistenza ad essa e le permettano di insediarsi con più comodità.”
Changbin.
Changbin e Felix.
“Changbin!”
Il soldato non capiva assolutamente nulla di magia, alchimia, mitologia e leggende, ma era esperto di trappole, e quella in cui lui e Changbin erano caduti era quella meglio architettata a cui avesse mai potuto assistere.
Il legno chiaro crollò, vibrò sui Filosofi, la voce del Cantastorie ricominciò a risuonare viva, potente, all’interno dell’immensa sala da lettura, scandendo un’ingloriosa, vile, gelida verità: “Felix vi ha ingannati entrambi, Chan.”
Gli scaffali collassarono su loro stessi, il pavimento, crepandosi, risucchiò ogni prezioso volume in una voragine di nero sconforto, e Chan, gridando, tentava inutilmente di non scivolare nel baratro tenendosi alle gambe di uno dei tanti pesantissimi tavoli lì presenti. Fu la voragine a venire da lui, il buio lo soffocò e si sentì letteralmente morire, costernato, sgomento, demoralizzato. Si schiantò al suolo, di nuovo in mezzo all’erba del medesimo praticello in cui si era risvegliato subito dopo essersi messo a dormire. In lontananza, Jisung ed il piccolo Yongbok correvano in cerchio attorno alla tavola ormai vuota cercando di attirare l’attenzione dei rispettivi genitori. Tossì, necessitò di un momento per riprendersi e, solo quando fu in grado di rimettersi seduto di fronte a lui, il Cantastorie riprese: “Chan, tu sai perfettamente per quale motivo ti hanno trascinato questa missione, giusto? Devi riscattare il tuo peccato. Ma c’è un motivo per cui i Filosofi della Capitale hanno scelto Changbin. È l’unico, novizio o Filosofo che sia, che è stato in grado nell’ultimo secolo di portare a compimento un incantesimo Proibito.”
“È una garanzia, mi stai dicendo questo?” la guardia sperava veramente che il vecchio smentisse tutto ciò che ormai era convinto di aver compreso.
“Garanzia ed assicurazione. Felix non si è mai mosso in maniera del tutto casuale, anche senza le sue facoltà sovrannaturali è un astuto diplomatico. Grazie alle ricerche dei suoi Filosofi ha scovato l’incantesimo per attuare una reincarnazione, ma non ha mai abbandonato l’idea originale del ringiovanimento. Se la persona prescelta avesse fallito, avrebbe potuto domandarle di tentare ancora quest’altra via.”
“E Felix ha scelto Changbin. È Changbin quello in cui Felix vuole reincarnarsi, ha fatto sì di allontanarmi in modo che non potessi fermarlo.” rimarcò allora Chan, tremolando appena. Dire che era destabilizzato era decisamente riduttivo, le mezze parole del Cantastorie non gli permettevano di arrivare a concepire fino in fondo ogni singola nera sfumatura del pasticcio in cui era coinvolto.
“Chan, adesso che hai scrutato nei ricordi della Fonte e ti sei convinto della sua natura ascoltami bene. Non ho più molto tempo.” il Cantastorie fece una breve pausa e, infine, prese a spiegare velocemente “Felix non è il dio della Natura, men che meno della Felicità. Felix è la Natura, è la Felicità e, in sostanza, questo fa di lui, per gli uomini, il dio della Stabilità. Il suo unico compito nel mondo è quello di fare sì che ognuna delle specie presenti non prevarichi l’una sull’altra, animali e vegetali, creando un’armonia di fondo che, ad esempio, cozza profondamente con la concezione di inarrestabile progresso che i Filosofi professano. Ogni Fonte è il simbolo di una nuova generazione, ed una nuova generazione porta idee ed ideali che superano quelli delle ere precedenti e permettono la dinamica sopravvivenza della specie umana. Il vero motivo per cui una Fonte non può regnare per più di un secolo è che condannerebbe il suo intero popolo alla schiavitù di una vita dettata da princìpi ormai obsoleti, finché, alla fine, non comincerebbe ad involvere e a deteriorarsi. Gli uomini posseggono sangue divino, sono scesi volontariamente in terra eppure, con la loro proverbiale curiosità, tendono spesso con lo sguardo verso i loro fratelli in Cielo. Sono una specie di rara fattura, tutto ciò che chiedono è di poter esplorare all’infinito il suolo che abitano. La Fonte della Felicità nasce affinché possa accompagnarli in questa ricerca, dare loro il ritmo, impedire che la natura stessa si ribelli contro di loro che, pur non essendo suoi figli, le hanno domandato ospitalità. Tutto questo Felix, in cento anni, non l’ha compreso davvero. È egoisticamente convinto che l’unico scopo della sua vita sia sacrificare se stesso ed ora spera di ricompensare il suo popolo, che tanto l’ha acclamato, donando ciò che di se stesso ancora è integro: la propria sete di potere, di approvazione e, soprattutto, di amore.”
Il Cantastorie tossì, fece una pausa, strofinò debolmente gli occhi, e Chan comprese allora che stava piangendo. Non glielo fece notare, non si offrì di aiutarlo, anche lui, in fondo, completamente atterrito da quelle rivelazioni, aveva iniziato ben presto a lacrimare copiosamente, capendo in quale guaio avesse abbandonato Changbin.
“Ormai conoscerai bene come funzionano i poteri della Fonte della Felicità.” ricominciò con tono sommesso il vecchio “Le sue capacità si chiamano Emanazioni e agiscono sull’energia, come l’alchimia governa la materia e gli incantesimi lo spirito. Solo un dio è in grado di controllare l’energia, e con essa può gestire l’ambito di sua competenza. Nel caso di Felix, la natura e chi la abita, i fenomeni naturali e, infine, ciò che di più terreno alberga nella mente umana: i sentimenti, le emozioni, l’irrazionalità. Da qui viene il nome di Fonte della Felicità. Il suo lato divino, ovviamente, gli è tornato molto utile per mettere in atto il suo piano. Ha ridotto a zero le possibilità di trovare il nuovo tramite umano abbattendo ogni singola spedizione militare manovrando da lontano gli spostamenti di lupi, cinghiali, orsi e, con lo stesso sistema, ha distrutto tutti i centri, Tillvah e le Case dei Filosofi, in cui viene attuata ricerca scientifica ed umanistica per evitare che l’uomo stesso progredisse e finisse per rinnegarlo. Nel mentre, a palazzo, i quattro Saggi della Capitale preparavano il suo ritorno ed organizzavano per lui un colpo di stato. Vogliono che sia re, dio, sovrano assoluto dell’intera Nazione. Ma il compito più complicato stava a lui. Aveva intenzione fin dall’inizio di manovrare Changbin in modo da indurlo a credere di essere innamorato di lui, ma non credo che si aspettasse che anche tu cadessi nella sua trappola. Ha saputo sfruttare i reali sentimenti che provi nei suoi confronti per allontanarti senza destare sospetti.”
 
-
 
Due parole guizzarono nella mente di Chan non appena il Cantastorie terminò il suo destabilizzante racconto, ‘chiaro’ e ‘idiota’.
Era tutto così chiaro!
Changbin, ti sei fatto abbindolare come un idiota!
Chan, anche tu sei chiaramente un idiota!
Tutto improvvisamente acquisì un senso, gli attacchi degli animali nel bosco ai danni dei soli militari, il fatto che Changbin fosse sempre l’unico dei tre a farsi male seriamente ed il fatto che Felix insistesse tanto nel prendersi cura di lui. Finché era rimasto in ospedale la ferita alla gamba non gli aveva dato problemi, da quando si erano rimessi in marcia, nonostante le raccomandazioni dei medici, si era di nuovo immediatamente infettata. Domandò quindi della distruzione di Tillvah e delle Case, da quando lui, Felix e Changbin si erano inoltrati nel territorio più selvaggio dell’Est non avevano avuto altro contatto umano che quel poco riservato loro da caritatevoli contadini sperduti ai piedi della catena vulcanica, e non aveva quindi assolutamente idea di che cosa stesse accadendo all’interno della Nazione. Dopo un breve riassunto, apprese che Jeongin si era sacrificato per salvarli e che Hyunjin si trovava in quel momento alla Capitale.
Pianse come un vero idiota, ma il Cantastorie non lo giudicò. Anche lui era nato come uomo, aveva viaggiato e conosceva bene quanto dolore potesse causare lo scoprire che una persona cara è completamente differente da quella che si era sempre immaginato di conoscere. Lasciò sfogare il soldato, dopo tutte le disavventure che aveva passato si meritava quei pochi minuti di pace, e si sorprese nel notare che l’altro, invece, nonostante il profondo turbamento, desiderava ancora arrivare a comprendere ogni cosa sino in fondo.
“Come fate a sapere tutto questo? Perché, se eravate a conoscenza del piano di Felix, non vi siete fatto avanti prima? Voi chi siete?” chiese ancora singhiozzando.
“Nel momento in cui Felix e quei due Filosofi scoprirono la pergamena io ero presente. Ero un vecchio aedo alla ricerca di un luogo dove ritirarmi in pensione e avevo pensato di fare visita a palazzo ad un parente. Felix mi scoprì e comprese che sapevo ogni cosa, quindi mi denunciò alle guardie facendomi passare per un assalitore. Finii nelle segrete, mi accusarono di tentato omicidio ai danni della Fonte della Felicità e venni condannato a morte.”
La voce del vecchio tremò, il suo corpo venne scosso da un lungo brivido, sembrava che stesse di nuovo piangendo. Il ricordo di quei giorni lo perseguitava ormai da anni, era stato in quel momento che aveva capito di aver perso l’ultimo dei suoi famigliari e, dopo poche ore, avrebbe dovuto dire addio anche alla sua amata voce.
“Mi iniettarono del veleno nel braccio senza nemmeno portarmi a processo. Felix aveva manipolato le guardie affinché non mi fosse permesso di difendermi in alcun modo. Il veleno ci avrebbe messo un po’ a darmi la morte, ed in quelle ore di agonia feci un sogno. Una donna dai lunghi capelli neri vestita di bianco mi proponeva un patto. Avrebbe salvato la mia vita, ma io avrei piegato la mia voce ai suoi desideri. Imparai subito a chiamarla Madre, ma ci impiegai diverso tempo a comprendere che, in verità, ella altri non era che la Dea Sonno. Curò l’avvelenamento, fece di me il suo portavoce e mi trasformò in un veggente, quella stessa notte elargii la profezia che avrebbe permesso ai Filosofi di tutta la Nazione di cercare il nuovo tramite della Fonte. Fu l’ultima volta che parlai, in seguito la Madre mi rubò la voce perché diceva che il Sonno, la Morte, non poteva avere voce in capitolo nel mondo dei vivi. Anche ora, Chan, parlando con te io sto interferendo con un universo a cui non appartengo più da almeno trent’anni. Sapevo che la Dea mi avrebbe concesso un solo sgarro, ho preferito sfruttare la mia occasione al momento giusto.”
Chan scosse il capo con orrore, il Cantastorie non era altri che la controparte ultraterrena di Felix, e dopo quello che aveva appreso su quest’ultimo si chiese se poteva davvero fidarsi di lui. Non aveva comunque molta scelta, se Changbin era in pericolo doveva correre in suo aiuto.
“Quando ti sveglierai, prendi il mio drago, Chan.” lo sentì ancora mormorare.
Intanto, tutto intorno a lui, la natura ingialliva, i fiori sbocciavano e marcivano assieme all’erba già putrescente, mentre una lunga notte allungava i suoi morbidi tentacoli a sfiorare l’orizzonte. Il soldato comprese che il sogno stava per avviarsi verso la conclusione, il Cantastorie stesso, con gli occhi che esprimevano una rara, sollevata, soddisfazione, sembrava confondersi con i tossici vapori emanati dall’organico incancrenito. Si risvegliò di soprassalto dopo una manciata di secondi e, tirandosi su di colpo, sbatté con la fronte contro la corazza ruvida di Miss Binnie. Quasi non si spaventò a morte notando, accanto a sé, il corpo esanime del Cantastorie. Avrebbe gradito un paio di minuti per riprendersi dall’estenuante viaggio, ma subito si getto su di lui per verificare le sue funzioni vitali. Il cuore batteva lentamente, il respiro era fioco, ma ancora presente, gli ultimi sentori di vita mal si adattavano alla sua esilissima carcassa che dimostrava almeno cinquecento anni, molti di più di quanto si ricordava palesasse appena un mese prima. Forse era quello che intendeva con ‘la Dea mi avrebbe concesso un solo sgarro’, Sonno, sentendosi tradita (addirittura due volte, ma Chan ancora non lo sapeva), aveva letteralmente intenzione di lasciare che si disintegrasse.
“Gli ho chiesto chi era e non mi ha detto il suo nome…” ragionò Chan a voce alta mentre, velocemente, deciso a raggiungere il Cratere dell’Anima in tempo per fermare Felix, sollevava il corpo dell’anziano morente e lo saldava stretto al dorso di Miss Binnie con un paio di corde. Sopra di lui, in volo, stridette con angoscia la silhouette del drago di cui gli aveva parlato il Cantastorie. Era dai tempi dell’accademia militare che non ne cavalcava uno, di certo non si aspettava di dover riuscire a governare una delle specie più veloci e letali della Nazione. Scosse il capo, gli fece segno di scendere ed accorre in loro aiuto, avrebbe potuto afferrare Miss Binnie con le zampe posteriori durante il volo.
“Chissà se, visto quant’è vecchio, ancora se lo ricorda il suo vero nome…”
Il Cantastorie lo ricordava bene il suo nome, non era così vecchio come tutti credevano, aveva appena centovent’anni in fondo. Se Chan fosse stato più concentrato avrebbe udito il vento autunnale sibilare in un’unica straziante melodia: “Han Jisung sta morendo, Han Jisung sta morendo!”

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Capitolo 18
*** diciottesimo ***


Fu una fortuna per Felix e Changbin che piovesse così tanto da obbligare la maggior parte delle Tarantole magmatiche che dimoravano su quei ripidi pendii a restare nascoste all’interno delle loro tane sotterranee. Certamente la Fonte della Felicità non avrebbe avuto difficoltà a tenerle alla larga dalla sua personale fonte di vita, ovvero l’ignaro novizio che, legato al nervoso stallone che Chan gli aveva lasciato in cambio di Miss Binnie, continuava a lagnarsi di quanto dolore gli procurasse la sua gamba infetta, ma in quel modo avrebbe evitato che Changbin si prendesse un altro bello spavento. Lo aveva sottoposto a fin troppi inseguimenti, gli avrebbe regalato degli ultimi giorni quantomeno dignitosi, per quanto potesse essere dignitoso vederlo febbricitante in groppa ad un cavallo che, pur bello e prestante che fosse, ogni volta cercava di sbalzarlo via mentre combatteva contro il fango e la scivolosa ghiaia dell’angusto sentiero. Era divertente, aveva lo stesso identico carattere del padrone.
Contarono i giorni, sarebbero dovuti arrivare in cima giusto la quindicesima mattina di settembre, in tempo per organizzare e svolgere il rito entro mezzogiorno, tenendo in considerazione che ogni due ore facevano almeno una decina di minuti di pausa per permettere al novizio di sgranchirsi e di lavare la ferita direttamente sotto la pioggia. Felix si complimentò da solo, non avrebbe potuto gestire quel viaggio in modo migliore. Spesso si sorprendeva a fissare il fisico di Changbin, benché in parte maciullato ed infetto, anche sotto lo spesso mantello infradiciato era possibile scorgerne i brevi angoli che ne delineavano la forma compatta. Era veramente basso – lui gli aveva raccontato che era uno degli effetti collaterali dei tanti incantesimi ricostruttivi ai quali si era dovuto sottoporre in seguito ai suoi fallimenti in laboratorio – ma possedeva un viso particolare, affilato, che di certo avrebbe contribuito a fargli sviluppare quell’aura di potenza fisica che le sue ossa magroline, i capelli biondi e le delicate lentiggini gli avevano sempre precluso.
Spesso Changbin si voltava verso di lui e lo scrutava a sua volta, convinto di conoscere quali pensieri d’amore frullassero nella testa dell’altro, per poi rivolgergli un sorriso tanto delicato quanto ignaro. Felix in fondo gli voleva davvero bene, tanto bene quanto ne si vuole ad un animale domestico, ma non lo considerava di certo l’amore della sua vita. Gli piaceva la sua compagnia, giocare con lui era stato divertente, ma ora era tempo di lasciarlo andare. Proprio come un animaletto da compagnia, Changbin avrebbe dato inconsapevolmente la vita per lui, e di conseguenza per tutto il loro popolo. Doveva prendersi cura anche di lui, il novizio in fondo faceva parte di quella società che lo avrebbe idolatrato, ma allo stesso tempo doveva ricordargli il suo compito. Se c’era davvero una cosa in cui Changbin e Felix erano simili, quella era l’aver sempre saputo, in fondo, di essere destinati a grandi cose. Il moro lo aveva confidato al biondo: era l’unico in grado di svolgere certi complicati – utilissimi – incantesimi, avrebbe certamente avuto un futuro importante. Ogni volta che il piccolo dio lo sentiva pronunciare quelle parole sorrideva ed annuiva con entusiasmo, contento che all’altro, inconsciamente, piacesse la prospettiva di vita che aveva scelto per lui: “Sono certo che ce la farai, Binnie…”
 
-
 
“Sono certo che ce la farai, Binnie!”
Glielo ripeté ancora una volta quando il novizio si ritrovò a compiere l’ultimo passo verso il cratere del vulcano, appena un’ora prima di mezzogiorno, e poi un’altra quando, trascinando la gamba malata, mise a soqquadro ognuna delle sue povere bisacce per cercare ogni strumento utile all’incantesimo. Non che in fondo quest’ultimo necessitasse di chissà quale marchingegno, ciò che importava davvero era la preparazione fisica e mentale dell’alchimista che doveva eseguire la dislocazione, ed il piccolo dio sapeva di aver preparato Changbin abbastanza a lungo. Non appena il novizio finì di montare il piccolo altare e di disegnare il cerchio alchemico di cui credeva di avere bisogno, il biondo corse verso di lui per abbracciarlo stretto.
“Bin, ho paura…”
Changbin, ormai assuefatto a quei fatali riti d’amore, lo strinse debolmente a sé e cominciò a cullarlo con la stessa delicatezza con cui alla Casa maneggiava il mercurio: “Ormai siamo qui, ce la faremo insieme, mh? Non è una formula semplice, ma sono certo di potercela fare. Entro due settimane torneremo entrambi alla Capitale. Te lo ricordi che mi avevi promesso una partita a carte quando eravamo alla città dei tre soldati morti? Guarda che io ci conto.”
Felix ridacchiò, sfregò il viso contro la sua spalla e gli prese il volto tra le piccole mani per dargli un bacio sulle labbra. Sfoggiò quindi quel tono di voce che piaceva sempre a tutti, quello dolce ed armonico nonostante la profondità, quello con cui aveva fatto innamorare il moro: “Solo una? Farai bene a tenere in conto anche tutte le rivincite che so già che mi chiederai.”
Aggiunse al fondo una leggera risatina, allungò nuovamente il viso verso di lui e fece sfregare tra loro le punte dei loro nasi. Erano due comportamenti che di solito le persone amavano, doveva assicurarsi che l’amore di Changbin non venisse meno proprio in quell’istante. Gli concesse qualche altro minuto di gentile intimità, sembrava che il fatto di poterlo ancora sfiorare lo rassicurasse, per poi domandargli quasi con melensa tenerezza: “Iniziamo?”
Changbin annuì e, completamente infatuato dalla bellezza del semidio, non perse altro tempo. Ripercorse ancora una volta passo dopo passo tutte le fasi dell’incantesimo – tanto era ammaliato dalla bionda figura accanto a lui che nemmeno era in grado di rendersi conto che le parole che stava per pronunciare nemmeno appartenevano ad un rito alchemico, anzi, tutto il contrario – e ricontrollò l’altare un’ultima volta, per poi permettere a Felix di sedersi a gambe incrociate di fronte ad esso. Il novizio sarebbe rimasto in piedi ed avrebbe imposto le mani sul suo capo mentre pronunciava il lungo testo. L’altarino nel mezzo lo avrebbe aiutato a gestire la dispersione di energia, catalizzandola al suo interno nel caso qualcosa fosse andato storto, in modo da non generare effetti collaterali sull’ambiente attorno a loro. Le prime brevissime frasi scorsero lente e tremolanti lungo la gola del timoroso novizio, le aveva provate e riprovate più volte – erano un miscuglio di Lingua Antica degli elfi e vecchio dialetto del Nord – temeva di sbagliare pronuncia e di mandare a monte, così, l’intero rituale. Anche le sue mani, appoggiate sul docile capo del semidio, tendevano a scivolare a causa della pioggia scrosciante e dell’agitazione, a ritmo con l’adrenalina che gli scorreva nelle vene. Non poteva ancora credere di aver quasi concluso quel viaggio, di essere finalmente giunto al suo momento di gloria. Per tutto il tragitto era solo comparso come debole figurina accanto a Chan e Felix, che con il loro proverbiale litigio avevano riempito di tensione le ultime settimane. Finalmente si sarebbe reso utile anche lui, non solo prestando fede alla sua vocazione, ma aiutando l’intera Nazione facendole riavere la sua amata Fonte (e conquistandosi il diritto di stare con quest’ultima). Gli provocava un certo brivido di soddisfazione il sapere che lui era l’unico in grado di salvare la persona che amava, si sentiva speciale per lui. Un po’ gongolava sapendo che Chan non avrebbe potuto fare lo stesso per Felix, il suo orrendo spadone non era altro che metafora di morte e distruzione, ciò che lui professava con i suoi riti era il mistero della vita, era ovvio perché il piccolo dio avesse scelto lui tra loro due. Ecco che allora quell’astrusa situazione si trasformava improvvisamente in un momento così intimo che Changbin sperò di non rimuoverlo mai dalla sua memoria, era contento che Chan non fosse con loro, era contento di poter condividere quell’istante di mistica pienezza con il solo che avrebbe mai amato. Si immerse nell’incantesimo, ma non appena cominciò a rilassarsi qualcosa andò immancabilmente storto. Non per colpa sua ovviamente, la postura era impeccabile, la pronuncia perfetta, ma qualcosa di estraneo lo disturbava, un rumore ben distinto che sorpassava stridulo il confortante scroscio della pioggia.
Una voce chiamava insistentemente il suo nome, una voce conosciuta: anch’essa, fino a pochi giorni prima, riempiva le sue giornate.
“Changbin, santo cielo, piantala immediatamente di fare qualsiasi cosa tu stia facendo!”
Changbin volse lo sguardo verso la possente figura di Chan, strizzò gli occhi e pensò con incredulità che non si sarebbe mai aspettato di vederlo tanto presto, tanto infuriato e, soprattutto, in piedi sul dorso di un enorme drago dorato che sembrava desiderare solamente vederli finire tutti arrosto.
 
-
 
Il Cantastorie l’aveva fatta semplice, ‘Vedi quell’esemplare meraviglioso di Drago dorato delle Paludi? È il mio drago, salici sopra, anche se è una delle creature più spaventose e pericolose dell’intera Nazione stai sicuro che è innocuo e andrete d’accordo, anche lui vuole salvare Changbin!’, o almeno era così che Chan aveva interpretato quel provvidenziale ‘Prendi il mio drago’. Inizialmente, come con qualsiasi essere vivente, aveva finito per discuterci insieme, per poi minacciare di prenderlo direttamente a pugni se avesse rifiutato di muoversi. Fu provvidenziale anche la presenza di Miss Binnie, se il vecchio drago aveva infine deciso di ascoltarlo era solo merito suo. La verità era che non voleva abbandonare il suo padrone, così Chan gli propose di legare il Cantastorie sul dorso della Tarantola e di afferrare quest’ultima con le zampe in volo, in modo da non lasciare nessuno indietro, e di appoggiarli poi appena sotto il cratere, quasi al termine della scalata, per fare sì che il vecchio fosse protetto.
Una volta in cima aveva scorto appena in tempo Changbin imporre mani sul capo di Felix e, accorgendosi di non essere arrivato troppo tardi, aveva cominciato a gridare il nome del novizio a squarciagola mentre il drago planava e lo calava in fretta a terra con una rocambolesca discesa. Scattò immediatamente giù dalla groppa dell’animale e, senza esitare, guizzò verso il moro, che lo fissava con occhi sgranati, allucinati, ricolmi di terrore e, allo stesso tempo, vuoti di ogni minuscolo vivido segno di quell’insopportabile personalità che purtroppo il cielo gli aveva affibbiato. Felix lo stava già prosciugando, ma lui non sembrava affatto accorgersene, anzi, nella sua confusa ed incostante, ormai traslucida, presenza, appariva orribilmente felice. Gli venne in mente solo allora che forse nemmeno a Changbin piaceva davvero essere Changbin, forse nemmeno a Changbin sarebbe piaciuto Changbin, se non fosse stato Changbin. Forse anche Changbin, dall’alto della sua ingenua, infantilmente curiosa intelligenza, odiava se stesso a tal punto da cadere come un idiota nella trappola di Felix solo perché poteva garantirgli pace, una stabilità che ora bramava e che fino ad allora non era mai stata, invece, nelle sue corde. Vedere per la prima volta quel viso pallido ed ancora più scarno del solito lo sbigottì, si chiese se, in fondo, lo avesse mai davvero guardato.
“Changbin…”
“Oh, sei qui anche tu…” Changbin non si degnò nemmeno di prestargli attenzione, fece scivolare per un secondo gli occhi stanchi sulla lunga silhouette del drago, per poi tornare a rivolgerli a Felix, che intanto guardava tutta la scena con espressione allibita ed incredula. Il soldato si impose di tenerlo sott’occhio, aveva paura ad avvicinarglisi troppo, temeva che il semidio potesse prendere controllo dei suoi sentimenti come aveva fatto con il novizio.
“Changbin, ti prego, ragiona… Non ti rendi conto che tutto questo…” Chan azzardò comunque un passo verso di lui, doveva raccontargli tutto il più in fretta possibile e sperare che l’altro si fidasse di lui più di quanto si fidasse di Felix “… è sbagliato? Felix ti sta ingannando, Changbin! Vuole vivere a tue spese, non gli importa affatto di te!”
Chan si immaginò al posto di Changbin, se quest’ultimo avesse osato interrompere un momento tanto delicato non lo avrebbe nemmeno lasciato parlare, anzi, si sarebbe infuriato a tal punto da non esitare a sguainare il suo pesante spadone per farlo letteralmente a fettine. Intrappolato tra le viscide spire di un amore anemico, l’ultima cosa di cui si sarebbe preoccupato sarebbe stato uccidere per la fonte di quello stesso sentimento che lo annebbiava, che lo avrebbe portato ad essere l’ombra di se stesso. Forse era stato fortunato ad essere stato rifiutato, non avrebbe voluto pagare le conseguenze di due settimane di affetto fittizio, non in quella maniera tanto atroce. Il Changbin che, suo malgrado, aveva imparato a conoscere sarebbe corso verso di lui e gli avrebbe chiesto di Miss Binnie, per poi schizzare verso il drago e cimentarsi in uno dei suoi gloriosi sproloqui finché qualcuno non lo avesse minacciato di tagliargli la lingua e di gettarla in pasto ai Corvi-balena.
Come previsto, il novizio scosse invece le spalle, ignorandolo con espressione stizzita. Chan era solamente geloso, Felix glielo aveva ripetuto diverse volte in quei giorni, avrebbero semplicemente dovuto dimenticarlo perché aveva fatto molto male ad entrambi.
“Che genere di male?” aveva osato domandargli una sera. Felix era parso infastidito, ma poi gli aveva preso il viso e lo aveva baciato, e lui come al solito si era sentito lo stomaco pieno di lucciole e gli aveva ceduto un’altra parte di sé, la consapevolezza, la dignità, senza nemmeno saperlo.
Il suo stomaco ora era perennemente pieno di lucciole, gli bastava guardare Felix per un momento per avvertire il loro vorticoso svolazzare. Felix lo illuminava dall’interno, aveva da sempre cercato quel bagliore che avrebbe medicato il suo animo nomade ed ora che lo aveva trovato non lo avrebbe lasciato andare per nessun motivo al mondo.
Era convinto di voler portare a termine l’incantesimo, eppure Chan gli dava incredibilmente fastidio, continuava a chiamare il suo nome con una disperazione tale che finì quasi per credere che dovesse dirgli qualcosa di importante. Voltò appena il viso verso di lui, si dispiacque di vederlo tanto ansioso ed agitato, ma si chiese se non potesse aspettare un momento prima di farsi avanti. Era un rito complesso, aveva davvero bisogno di concentrarsi. Felix gli prese le mani e le riportò sul proprio capo con tranquillità, per poi mormorare: “Non preoccuparti, Binnie, andrai benissimo… Guarda solo me, non fare caso a Chan. È solamente geloso di quello che siamo, non te lo ricordi?”
Il novizio annuì piano, accarezzò i suoi capelli, chiuse gli occhi e riprese a recitare le parole del sortilegio, per venire però immediatamente scosso da un ultimo grido di Chan: “Ho parlato con il Cantastorie, Changbin! Gli ho parlato e mi ha detto di salvarti!”
Se c’era un particolare personaggio a cui Changbin poteva dire di ispirarsi, quello era certamente il Cantastorie. Era una figura che lo incuriosiva davvero, tutti lo etichettavano come semplice Vate, ma, a parer suo, il fatto che il suo unico modo di comunicare fosse mediante i sogni lo rendeva un individuo unico nel suo genere, un essere benedetto dal divino, una creatura che avrebbe voluto rispettosamente avvicinare e studiare per esaminare fino in fondo la natura delle sue incredibili facoltà. Nonostante la veneranda età, gli evidenti acciacchi e l’incapacità di emettere qualunque tipo di suono, il mitico personaggio era famoso per prendere attivamente parte alla vita politica della Nazione, presenziando spesso come uditore alle riunioni del Gran Consiglio di palazzo, ma rimanendone distaccato, una volontà sopra le parti da interpellare in caso di reale necessità. Un eremita indomabile, questo Changbin aveva sempre desiderato essere, ma con Felix avrebbe vissuto a corte e sarebbe stato irrimediabilmente legato a lui. Aggrottò improvvisamente le sopracciglia, scosse il capo, si massaggiò delicatamente le tempie. Tutto d’un tratto si sentiva agitato, lo stomaco minacciava di ritorcersi su se stesso mentre sulla schiena goccioloni di pioggia si mischiavano a sudori freddi. Aveva la testa pesante, con grande sforzo fu in grado di voltarla verso il soldato e si accorse di non riuscire a mettere a fuoco la scura sagoma di quest’ultimo. Strizzò gli occhi, completò uno stanco passo verso di lui: “Che cosa succede?”
Chan non si lasciò sfuggire quell’occasione e, battendo i denti per l’ansia, sillabò con visibile urgenza: “Felix ti ha ingannato, ti ha insegnato un incantesimo diverso da quello con cui pensavi di salvarlo! Vuole semplicemente rinascere dentro di te, e non gli importa se tu dovrai morire per fare spazio a lui! È lui che ha sempre architettato tutto in modo da rallentarci, lui che ordinava agli animali di migrare per attaccare in gruppo i soldati in modo che non riuscissero a scovare il nuovo tramite, lui che indirettamente ti procurava quelle ferite e fingeva di curarti per… per farti innamorare di lui… L’unico motivo per cui ha scelto te per accompagnarlo fin qui è perché gli servivi…”
Il novizio fissava Chan con espressione smarrita. Ad ogni parola che il maggiore pronunciava finiva per credere che si fosse inventato tutto di sana pianta solo per convincerlo a portare a termine la missione originale ed uccidere Felix, che intanto lo aveva raggiunto per avvolgerlo da dietro con le sue braccia magre. Avrebbe voluto tornare immediatamente all’incantesimo per porre fine a quella sceneggiata, ma lo sguardo del soldato lo frenava. Si odiavano a vicenda, non gli si sarebbe mai rivolto in quel modo se davvero avesse voluto mentirgli. Raccolse quel misero grumo di forza di volontà che ancora gli rimaneva e staccò il piccolo dio da sé, compiendo un altro passo verso la guardia: “…Il Cantastorie ti ha detto questo?”
“Il Cantastorie mi ha mostrato tutto ciò che io e te abbiamo sempre ignorato, Changbin… La tua Casa, Tillvah… Non esistono più, Felix ha distrutto ogni cosa che potesse impedirgli di fare un colpo di stato. Ha ucciso anche Jeongin… Ha corrotto i Filosofi della Capitale e li guidava a distanza mentre viaggiava con noi, in modo che non potessimo sospettare di lui. In questo momento la città probabilmente è sotto attacco! Non ho tempo di spiegarti tutti i dettagli, ma devi fidarti di me” Chan avanzò ancora verso il novizio, deciso a strapparlo dai vincoli mentali a cui il silenzioso semidio lo aveva costretto.
“Ti prego, Changbin… Per una sola dannatissima volta ascoltami, Felix ti sta manipol-”
“Certo, come no” il novizio pareva aver riacquistato parte del suo vigore, ma era evidente che fosse ancora sotto l’influenza del semidio. Era furioso, Chan stava decisamente esagerando con quella storia, probabilmente lo credeva un idiota. Si voltò vero Felix, rimasto un metro più indietro di lui, e lo raggiunse barcollando, prendendolo poi per le spalle e scuotendolo delicatamente: “Come puoi lasciare che ti insulti in questo modo? Ti ha conosciuto anche lui, tu non potresti mai fare tutto ciò!”
La terra intanto cominciò a tremare, un sordo brontolio si armonizzò al lamentoso ticchettare della pioggia e al rombo dei tuoni, che da poco avevano cominciato ad essere accompagnati da diversi agghiaccianti lampi. Il vulcano, a poco a poco, cominciava a risvegliarsi dal suo lungo sonno e Changbin avvertì dentro di sé lo stesso violento sussulto del suolo quando vide Felix rimanere a capo basso di fronte alle sue domande, senza emettere alcun suono. Il novizio si voltò allo verso Chan e gridò ancora: “Come può aver mosso branchi interi di animali a distanza?! Come può aver ucciso Jeongin o distrutto Tillvah o la mia Casa se è sempre stato con noi?! È forte, ma nessuna Fonte è mai riuscita in un’impresa tale, Chan! Quello che dici non ha alcun senso, te ne rendi conto?”
Ecco, rifletté Chan, Changbin stava iniziando a rendersi conto che tutto ciò che era accaduto durante il loro viaggio non poteva essere solamente il frutto di sfortunate coincidenze. La maniera del tutto scomposta in cui strillava e si agitava denunciava quanto confuso dovesse sentirsi in quell’attimo. Sospirò e lo guardò con calma, in fondo lui aveva reagito allo stesso modo, e Changbin conosceva solo una minima parte di tutto ciò che il Cantastorie gli aveva rivelato.
“Changbin, riflettici bene…” lo riprese “… aveva dei messaggeri, sono sempre stati sotto i nostri occhi.”
Il soldato la vide la consapevolezza balenare e colmare le perle nere del novizio, nuovamente fulgide, profonde tanto quanto il senso di colpa che lo stava letteralmente inondando. Aveva finalmente compreso il trucco, faticava ad ammetterlo a se stesso, si vergognava della propria stupidità, tanto che, nel guardare il piccolo dio dietro di lui, sussultò più di una volta nel singhiozzare lentamente: “Le lucciole…”
Felix sollevò lo sguardo verso di lui, il vulcano gorgheggiò e sprizzò i primi bollenti lapilli, come se volesse sottrarsi con un labile lamento dalla glaciale furia del semidio. Lo avevano scoperto, qualcuno che gli era stato molto caro alla fine aveva fatto la spia, ma non era importante. Inclinò il capo di lato e, come aveva sempre avuto l’abitudine di fare, si passò una mano fra i capelli, che rilucettero di un’audace vibrazione argentea, eterea, perdendo tutto il caldo tono color dei raggi del sole. Sul viso aveva dipinto un ghigno sottile, raggelante, mentre con tutta la naturalezza del mondo commentava la scena con uno sprezzante e sarcastico: “Ops…”

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Capitolo 19
*** diciannovesimo ***


A Changbin avevano presto insegnato, durante i suoi primi anni da novizio, che l’uomo è composto da tre elementi fondamentali: la Materia, ovvero il corpo fisico, lo Spirito o Anima, ovvero il compendio di intelletto e sentimenti, e l’Energia, il motore immobile dello Spirito. Lui stesso, in seguito, pur essendo più ferrato sull’alchimia, ovvero sulla manipolazione della Materia, spesso aveva tentato di indagare a fondo il proprio Spirito nella speranza di trovarvi la chiave che gli permettesse di aprire la porta del mondo e, quando aveva iniziato a conoscere meglio Felix, si era illuso di esservi finalmente riuscito. Pensava di essere giunto in capo al mistero grazie al quale la Terra si reggeva in piedi, l’interrogativo la cui risposta semplicemente era ‘Istinto di sopravvivenza’, o, ancora meglio ‘Amore’.
Lo stesso Amore che non aveva mai provato in vita sua, ma da cui era stato violentemente invaso quando Felix aveva incastrato per la prima volta il viso nel suo petto, l’unico sentimento che, anche in quel momento, sotto una pioggia di avide scintille e famelici lapilli, non osava soccombere nemmeno al terrore e alla brutale consapevolezza di essere stato ingannato. Era come se avesse preso vita, le lucciole che gli invadevano lo stomaco si erano trasformate in terrificanti mostri che tentavano di divorarlo dall’interno, prima gli bucavano il ventre, deglutivano le sue stesse viscere, vomitavano sul suo cuore martoriato quelle tossiche scorie ormai avvelenate dall’ossessione di cui erano lo sporco simbolo. Cercavano di fargli distogliere lo sguardo dal viso disperato di Chan che aveva appena terminato di parlare, volevano che guardasse ancora Felix, il suo amante e, forse, il suo amato. L’Amore, le lucciole, entrambi lo inducevano a raggiungerlo, volevano arrivare ad infestare anche il suo cervello per fargli dimenticare l’ammissione di colpa del piccolo dio.
Una breve lingua di fuoco schizzò fuori dalla bocca del vulcano, si infranse con uno rumoroso sfrigolio sul lungo mantello del novizio, abradendo uno dei lembi. Changbin voltò un momento lo sguardo verso il basso per cercare l’origine dello schioppo e Chan, che aveva fretta di terminare quel teatrino, approfittò del fatto che sembrasse uscito dal suo stato di trance per correre verso di lui e trascinarlo via con sé, ma il piccolo dio fu più rapido. Estrasse da sotto il lungo manto il pugnale che il soldato gli aveva lasciato per difendersi, agguantò Changbin da dietro e glielo puntò dritto alla gola, per poi esordire con un gelido: “Chan, so che pensi che Changbin mi serve e non avrei mai il coraggio di ucciderlo, ma sai… piuttosto che morire per mano tua preferisco gettarmi nel vulcano da solo.”
Il piccolo dio gli rivolse un sorriso di scherno prima di continuare: “E poi… Ti rendi conto che se muoio senza che Changbin abbia recitato la mia orazione funebre non avrete più una Fonte della Felicità, vero? Tutta la mia energia divina verrà dispersa per sempre. Oh, e, per favore, metti giù quel gingillo.”
Non appena Changbin, immobile tra le braccia di Felix, troppo spaesato per provare davvero a dimenarsi e a liberarsi dalla sua stretta, era stato preso in ostaggio, Chan aveva estratto lo spadone dal fodero sulla sua schiena. Non lo avrebbe mai posato, lo teneva ben ritto in posizione di attacco e, nonostante le provocazioni dell’altro e malgrado questi si divertisse a scalfirne la tremula, morbidissima, pelle della gola del novizio, rimase fermo, pronto per sferrare la propria offensiva.
“Come se fosse possibile! Tu stesso hai impedito che i soldati trovassero la nuova Fonte!” gridò con disprezzo.
“Come se fosse una cosa così impressionante” lo schernì il semidio, rinvigorendo la presa sul novizio inerme “Non sai per quante volte la Fonte è rimasta sopita o è andata perduta, quante volte i Filosofi della Capitale hanno inventato di averla trovata per accontentare il popolo? Anzi, nel corso dei secoli forse sono state scoperte meno della metà delle vere Fonti della Felicità. Gli altri erano fantocci manovrati dai rispettivi quattro Saggi, semplici ragazzi strappati alle loro famiglie quando ancora giacevano inermi in fasce e cresciuti con il solo scopo di esercitare la bontà, la gentilezza e la misericordia. Se hanno fatto dei miracoli, non erano altro che rari incantesimi. I Saggi pregavano ogni notte che al popolo bastasse un po’ vile oratoria per convincerli di trovarsi di fronte al loro amato dio!”
Felix era su di giri, nulla della sua espressione da vipera, occhi spalancati, ghigno piegato in una stretta curva di inquietante tormento, ricordava il dolce sorriso con cui li aveva accolti quando lui e Changbin erano giunti alla Capitale per iniziare quel viaggio con lui. Lo avevano scoperto, ma non era chissà che problema finché poteva ancora governare le menti del soldato e del novizio. Changbin stava lottando strenuamente dentro di sé, ma era ancora sotto il suo controllo, desideroso, in fondo, di potersi immergere ancora nell’abbraccio di quel tipo di amore che non avrebbe mai potuto provare in vita sua. Chan invece, lo sapeva perfettamente, non avrebbe mai avuto il coraggio di attaccarlo davvero. Era bravo a sbraitare e a fare paura con quei suoi occhi infernali, ma anche lui, come il moro, non era in grado di tenergli testa. Non aveva bisogno di prendere il controllo del suo cuore, ci pensavano già i suoi reali sentimenti a renderlo fin troppo vulnerabile.
“Non importa che cosa facciano i Filosofi a corte! Tu hai comunque azzerato la possibilità di trovare la Fonte e hai ucciso decine di soldati! Gli stessi soldati che hai seppellito un mese fa!” Chan cominciò a gesticolare visibilmente “Quello che vuoi fare è una pazzia, non stai salvando il tuo popolo, lo hai sacrificato!”
In tutta risposta, senza nemmeno scomporsi, il semidio lacerò superficialmente la gola del novizio, che sussultò tra le sue braccia, incapace di ribellarsi a quella tortura: “Sì, ho dovuto sacrificare qualcuno per la salvezza di tanti, Chan… Ma perché andare alla ricerca di altri tramiti se sai perfettamente che qui ci sono già io, io che sono forte e perfettamente capace di gestire i miei poteri! Lo sai quanto ci vuole almeno per imparare davvero? Almeno… Almeno un dannato decennio! Io invece lo so già fare, non c’è bisogno che qualcun altro venga dopo di me e ricominci tutto da capo! La gente mi ama già, lo hai visto anche tu come ci hanno accolti in ogni villaggio o città che abbiamo visitato! Perché dovrebbero mai volere qualcun altro al di fuori di me e soltanto me?!”
Non soltanto le brucianti parole di Felix sortirono l’effetto di una profonda stilettata, lo stesso vulcano parve seguirne l’angoscioso climax ed esplose in una miriade di mortali schizzi di lava, da cui il soldato fu costretto a ripararsi con lo spadone. Il terreno aveva preso a traballare ancora di più, profonde crepe andavano a formarsi tra la roccia, e da esse si poteva già ben vedere il rosso acceso del magma bollente che gorgogliava allegro sotto di loro. Non restavano molti minuti, Chan continuava a calcolare quanto tempo sarebbe servito per recuperare Changbin – possibilmente evitando di farlo secco nel frattempo – per poi riuscire a gettare Felix nel cratere e andare incontro al Cantastorie, che aveva lasciato legato al carapace di Miss Binnie e, anche nella migliore delle prospettive – quella in cui Felix si arrendeva spontaneamente ad una sua ultima richiesta di farla finita –, si rendeva conto che avrebbe potuto benissimo fare testamento seduta stante, appollaiarsi sbuffando con le gambe a penzoloni sul cratere e attendere in pace che un mare di lava gli mangiasse le ossa e gli sbriciolasse anche l’anima. Non vedeva vie di fuga se non Changbin, avrebbe potuto tentare il tutto per tutto e gettarsi davvero contro Felix, sperando che quest’ultimo, troppo convinto che non avrebbe mai osato attaccarlo, non riuscisse a contrattaccare in tempo, ma se c’era qualcuno che poteva davvero salvare la situazione quello era solo il novizio che, con espressione attonita, lo squadrava fisso con occhi ricolmi di vergognosa afflizione. Avrebbe potuto risolvere tutto con un incantesimo soltanto, quell’orazione funebre che gli aveva sentito pronunciare tante volte durante la marcia, ma di certo il soldato non voleva fare affidamento sulla possibilità che si sarebbe improvvisamente ridestato all’ultimo secondo come un degno eroe da poema cavalleresco. Doveva agire lui per primo, forse allora lo avrebbe imitato. Serrò i denti, strinse la presa con entrambe le mani sull’elsa dello spadone e caricò il suo attacco, fece quindi un passo indietro, prese una brevissima rincorsa e scattò in avanti pronto a colpire il semidio dritto alla testa.
Non gli parve di inciampare, né di essere colpito da un grosso lapillo o qualcosa di simile, ma si ritrovò a terra nel giro di nemmeno un secondo, ancora terribilmente lontano dal suo obiettivo, che incombeva ora dall’alto su di lui. Avvertiva le membra appesantirsi, come se fossero state di carta, sotto la pioggia incessante, il sangue scorreva lento e già le estremità delle dita cominciavano a formicolare in un’ultima ribellione prima di incancrenirsi. Aveva scordato che, sebbene fossero ridotti al minimo, Felix possedeva ancora il potere di controllare almeno due persone nello stesso momento. Fino a solamente un anno prima sarebbe stato in grado di fermare addirittura la stessa eruzione vulcanica. Aveva provato a sfidare un semidio nonostante fosse soltanto un mezzo soldato alla ricerca di una maniera per chiudere i propri conti in sospeso, e stava finendo come avrebbe dovuto finire sin dall’inizio, sin da quando, giunto al Nord per completare l’apprendistato come cadetto, aveva osato macchiarsi del peccato più grande di tutti. Era sempre stato bravo ad andare avanti, gli suggerivano spesso di credere in se stesso, ma ora, fradicio, con i lapilli che gli ghermivano la schiena ed il suolo bollente che gli cuoceva lo stomaco, arrendersi non sembrava una scelta così infelice o poco saggia. Volse in ultimo lo sguardo a Changbin, che lo stava scrutando a sua volta, pallidissimo in viso. Sorrise tra sé e sé ripensando che l’unico vero motivo per cui non erano mai riusciti ad andare d’accordo era quell’essere divino che li stava uccidendo.
Forse proprio quell’ultimo sorriso fece scattare qualcosa nella testa di Changbin, il quale, sebbene indifeso, voltò senza pensarci il viso verso il semidio e, con le lacrime agli occhi, mormorò: “Il popolo vuole qualcun altro perché sei egoista, Felix…”
Nonostante la lama del pugnale premesse ancora contro la sua gola, sollevò una mano per stropicciarsi gli occhi: “Mi sembra di aver dormito per così tanto… Eppure insieme alla natura mi sono svegliato anche io…”
Sospirò, avvertiva chiaramente gli ingranaggi nella sua testa scrostarsi e combattere contro lo spesso strato di ruggine che li stava corrodendo: “Felix, non ti rendi conto di dove siamo? Non vedi che è la natura stessa che ti reclama? Il vulcano…” poggiò quindi lo sguardo sulla lava che, lenta, assumeva astruse sagome vermiforme, formava serpi incandescenti, poi insetti, piccoli mammiferi, pesci che fluttuavano in aria e andavano a schiantarsi sul mantello del piccolo dio con l’intento di trascinarlo via con loro “… Il vulcano vuole che tu vada. Ho sempre pensato che avrei dovuto spingerti io, invece guarda che spettacolo…”
E, se non fosse stato per il tonfo con cui Felix lo scaraventò a terra, o per la lama con cui lo stava ormai pugnalando, o per le grida del semidio, Changbin si sarebbe davvero goduto lo spettacolo. Le lingue di fuoco rilucevano e sfrigolavano a contatto con le gocce di pioggia mentre fuoriuscivano dal ventre del vulcano interi branchi di lupi, orsi, cinghiali, cerbiatti, famigliole di coniglietti, farfalle luminescenti, falchi, delfini e delicati pesci rossi. Un’intera foresta, un intero mare di fuoco lambiva il corpo del folle semidio che, troppo orgoglioso per abbandonarsi alla terrificante idea della propria morte, continuava a sbraitare e ad accanirsi sul corpo martoriato del novizio. Anche lui era debole, non riusciva a penetrare a fondo il petto di Changbin come avrebbe desiderato, e, dalle stesse labbra con cui una volta si era addirittura sforzato di pronunciare un autentico ‘Ti amo’, ora non poteva che far fuoriuscire serie infinite di mezzo singhiozzati: “Inutile… Sei stato inutile… Sei una persona inutile, Changbin…”
Changbin gli sorrise teneramente in risposta: “Tu invece no, Felix.”
Avrebbe potuto dargli una spinta e il biondo sarebbe caduto indietro, ma voleva attendere il gran momento di Felix che moriva, quell’istante in cui probabilmente anche per lui sarebbe finito tutto. Non desiderava più dargli una lunga vita, ma forse – era davvero troppo buono – poteva dargli una morte serena sacrificando anche se stesso. Lo vedeva invecchiare velocemente, la pelle si sgretolava rapida a contatto con il ribollire della lava, ma non si aspettava che il vulcano avrebbe avuto la meglio su di lui tanto presto.
Felix era a cavalcioni sul corpo di Changbin quando una grossa sagoma lo investì all’improvviso, impedendogli di arrecare ulteriore danno al novizio che, ancora convinto di stare per morire, non appena aveva sentito il corpo del piccolo dio venir sbalzato via si era chiuso su se stesso per la paura. Solo quando avvertì il roboante verso di Miss Binnie osò posare di nuovo lo sguardo sulla scena. Chan rantolava in un angolo, ancora soggetto al potere del semidio, mentre su quest’ultimo incombeva invece la Tarantola che teneva a bordo nient’altri che il Cantastorie. Fu un attimo, non riuscì nemmeno a realizzarlo immediatamente, non ebbe neanche il tempo di chiamare il nome dell’animale che l’anziano Veggente, moribondo, ancora legato stretto al guscio dell’animale, con un breve scarto di un mano, indicò a Miss Binnie di gettarsi ancora sul semidio. La Tarantola, fiera nella sua ardente gioventù, si voltò ancora per un solo istante verso Changbin e grugnì – era sempre stato il suo modo di salutarlo quando, alla sera, il novizio era costretto a lasciarla sola nel suo recinto – per poi puntare Felix e, senza dargli il tempo di reagire all’attacco, lanciarsi direttamente su di lui. Ne afferrò il corpo magro, già mezzo consumato dalle fiamme, con le zanne affilate e, guardando in faccia la morte, con la Morte sulle spalle, si gettò assieme a lui all’interno del Cratere.
Fu allora che Changbin terminò di mettere in ordine i pensieri, dimenticò se stesso, scordò il dolore e si rese conto di tutti coloro che, assieme a lui, combattevano per sopravvivere e, a volte, al contrario di lui, avevano il coraggio di essere generosi. Scattò dritto verso la bocca del vulcano e, a pieni polmoni, gridò il nome del suo vero primo amore: “Miss Binnie! MISS BINNIE!”
Il drago dorato planò a sua volta all’interno del gigantesco Cratere e, prima che fosse troppo tardi, recuperò il minuto corpo del suo padrone, il Cantastorie, per poi schizzare via in volo, eppure nemmeno a questo Changbin riuscì a prestare attenzione. Tremolava visibilmente, aveva la gola impastata, lo stomaco sottosopra, ma la sua testa era finalmente ritornata al suo caotico ordine naturale fatto di perché, e non di risposte fittizie. Sapeva che Miss Binnie si era sacrificata per lui affinché potesse portare a compimento la sua missione, e perché, in fondo, nessuno dei suoi confratelli avrebbe davvero potuto prendersi cura di lei al meglio se lui non fosse sopravvissuto. Piantò le mani nel terreno incandescente e, in un soffio, pronunciò le parole del rito funebre:
 
“… E, Cielo, ci diedi
Terra come rifugio
Acqua per nutrirci
Aria, cagione di vita
Così infine, nel Fuoco
Fortuna ti consacriamo
Nel Fuoco, Fortuna nostra,
Ricordaci.”
 
Sperò con tutto il cuore che non fosse troppo tardi, pregò a fondo, la ripeté più e più volte tra le lacrime, finché non si rese conto che la pelle non gli bruciava più a causa delle continue scintille. I branchi di lava si stavano ritirando all’interno del cuore del mondo, l’eruzione andava placandosi e la pioggia benevola rabboniva gli ultimi incendi.
Changbin aveva il fiatone, ma ogni volta che cercava di prendere aria per calmarsi finiva per strangolarsi con il fatale mix di pioggia e acri lacrime, e forse solo per puro caso posò lo sguardo su Chan che, libero anche lui dai vincoli del potere del semidio, ora singhiozzava sommessamente chiuso in posizione fetale. Il novizio si rese conto che piangeva per Felix, entrambi quel giorno avevano perso qualcuno di importante e non lo avrebbero mai riavuto indietro. Cominciò a sentirsi terribilmente in colpa per poi esplodere nell’istante in cui il soldato puntò gli occhi stremati nei suoi.
“Mi dispiace!” gridò allora “Mi dispiace tanto, Chan! Te l’ho ammazzato!”

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Capitolo 20
*** ventesimo ***


Hyunjin, abituato com’era ai placidi ritmi dell’ambiente naturale, faceva fatica a stare al passo con Lee Minji e Seungmin. Forse non avevano la stessa competenze tecnica e scientifica, ma in quanto ad organizzazione madre e figlio non possedevano rivali. Da quando il Cantastorie aveva parlato, la consigliera aveva presto pianificato in segreto una rapida riunione con il generale capo delle guardie, con i consiglieri che non facevano parte della Casa e con il Re e la Regina, dei quali necessitava immediatamente l’autorizzazione per procedere ad un contrattacco e smontare sul nascere la rivolta. Seungmin e Hyunjin avevano potuto assistere in disparte alla piccola assemblea, in modo da poter riferire i dettagli dell’operazione che li aveva coinvolti. Il tutto si era svolto nella sala da tè del palazzo reale, con tanto di bevande calde, biscotti e vari pasticcini, scelta alquanto stupida per l’ibrido, o almeno così la pensava finché Seungmin non gli rivelò che i vari attori della discussione avrebbero parlato tramite un linguaggio in codice, affinché a domestici e spie sembrasse una normalissima chiacchierata tra vecchi amici. Fu da quel momento in poi che Hyunjin cominciò a sentirsi letteralmente perso ed escluso. Ricordava alcuni dei termini concordati in precedenza, Seungmin glieli aveva velocemente elencati, ma era palese quanto lui fosse molto più avvezzo a tali singolarità. Annuiva praticamente ad ogni sillaba, comprendeva fonemi in lingue straniere che a lui erano completamente sconosciuti, rideva a battute che non avevano senso e, solo più tardi, gli ricordò che quella mezza risata tiepida e composta era la maniera con cui avrebbe dovuto dimostrarsi favorevole alle varie proposte. Seungmin si dimostrò comunque paziente con lui e, gongolando un po’ – era, per la prima volta, lui a dovergli insegnare qualcosa di nuovo! – non appena Lee Minji li lasciò andare nella stanza che nel frattempo aveva fatto preparare per loro, si dimostrò volenteroso di riassumere tutti i punti della lunga conversazione.
“In che modo pensano di fermare l’assalto quindi?” gli domandò una volta che furono soli.
“Fisicamente intendi?” replicò l’altro “Beh, se ne occuperà il generale. Il problema, più che altro, è come faremo a fermarli a livello… Come posso dire? Mentale? Diciamo mentale…”
“Comincerai di nuovo con i tuoi meravigliosi sproloqui su alchimia e incantesimi?” Hyunjin roteò gli occhi.
Seungmin sorrise sotto i baffi: “Sì e no a dire il vero. Lascia che ti spieghi… Mia madre è convinta che, se i Filosofi si affidassero solamente alla forza bruta, probabilmente partirebbero già in svantaggio. Certo, alcuni si allenano con spade o pugnali, ma non sono soldati di formazione. Nonostante il loro numero, non riuscirebbero mai a piegare interi plotoni di guardie reali. È ovvio che utilizzeranno degli incantesimi e, molto probabilmente, saranno dello stesso tipo con cui sono riusciti a teletrasportare il nostro spirito all’interno di quel tempio. Gli altri non sarebbero molto utili durante un attacco, ma i Dislocatori contribuirebbero a rallentarci e, se non fossimo più in grado di uscire da quel tempio, a bloccarci del tutto nel giro di un tempo relativamente troppo breve per studiare un contrattacco.”
Forse Hyunjin non riusciva a capirci nulla di messaggi cifrati o burocrazia a corte, men che meno dei machiavellici piani di Lee Minji, ma era abbastanza sveglio da comprendere dove risiedesse il vero e proprio problema: “Quindi dobbiamo distruggere il tempio, giusto?”
“Esattamente, il tempio è il loro luogo di ritrovo, la loro base, se questa non esistesse più non avrebbero una fortezza in cui segregarci e, anche se dovessero scagliare l’incantesimo, saremmo liberi di tornare ai nostri corpi in qualunque momento.”
“Ma per distruggerlo definitivamente è necessario attaccarlo dall’interno, no?”
“E non solo…” sospirò con un sorriso tirato il castano “Per riuscire ad infrangere un tale incantesimo è necessario che più Filosofi si alleino. Io forse potrei tornare in quel luogo provando a collegarmi mentalmente alla frequenza della traccia magica residua nella mia testa, ma non avrò mai la forza di trasportare con me altri Filosofi, e da solo fare a pezzi quel tempio sarebbe un suicidio.”
Hyunjin non provò nemmeno ad ascoltare tutto ciò che Seungmin pronunciò in seguito alla parola ‘frequenza’. Finalmente era giunto a capo del dilemma e, sebbene arrivasse leggermente in ritardo, poteva dare anche lui il suo fortunato contributo alla missione: “Gli incantesimi hanno una frequenza?! Perché non lo hai detto subito, Seungmin?! Ti rendi conto che abbiamo migliaia di Filosofi accampati in periferia? Se tu riesci a ritrovare la frequenza giusta io posso amplificarla in modo che loro la copino e ti raggiungano da soli laggiù! O lassù… non so come chiamarlo… Comunque ho già costruito un oggetto del genere, amplificava i versi degli animali, ma più o meno dovrebbe funzionare lo stesso!”
“Intanto, per tutto il ferro di Monte Titano,” gesticolò il novizio con la propria protesi “calmati! Non ho capito proprio niente di quello che vuoi fare. Fai come mi dicevano al primo anno quando ero in ansia, parla lentamente e scandisci bene le parole, ecco!”
Hyunjin roteò gli occhi con un verso di disapprovazione e gettò teatralmente indietro i lunghi capelli: “Tua madre. Mi serve tua madre.”
“Guarda che non è un modo cortese per dirmi che mia madre ti attizza.” Seungmin sbuffò rumorosamente ed incrociò le braccia al petto “Forza, piantala di fare la diva e dimmi che cos’hai in mente.”
“Negli ultimi giorni in cui ero a Tillvah, appena prima che venisse distrutta, stavo costruendo un altro aggeggio oltre alla tua protesi” riprese allora l’ibrido con concitazione “Era un amplificatore, volevo capire che cosa agitasse gli animali e, visto che gli elfi riescono a comprendere perfettamente i loro versi, questo strumento doveva servire ad alzarne il volume per ascoltarli meglio. Il suono, in quando prodotto di una vibrazione, possiede una frequenza, e tu prima hai parlato di frequenza della traccia magica. Se il suono può essere amplificato, potrebbe esserlo anche l’incantesimo, no? Tu potresti dislocare te stesso, io amplificherei l’incantesimo e tutti i Filosofi fuori città, connettendosi alla tua stessa frequenza, potrebbero imitarti e, quindi seguirti da soli fino al tempio. A quel punto non saresti più solo e potresti distruggere il tempio.”
Hyunjin si aspettava una risposta entusiasta, era convinto che avrebbe funzionato e, in fondo, per il momento non avevano altre idee – e comunque Seungmin si era sempre dimostrato più che elettrizzato da tutte le idee che gli proponeva, cosa che, in fondo, provvedeva a nutrire abbondantemente il suo ego – invece il castano replicò con un serio aggrottare di sopracciglia e due occhi preoccupati: “E sei sicuro al cento percento che questo tuo marchingegno funzionerà?”
“Beh, no, non ho mai praticato le arti magiche, quindi--”
“A mia madre servono certezze, Hyunjin, mancano due giorni alla metà di settembre. In una notte puoi costruire questo arnese? In una giornata massimo riusciremo a spiegare a tutti i Filosofi che cosa sta accadendo? E se non accettassero? E se la traccia amplificata non fosse abbastanza per permettere loro di collegarsi con me? Ci sono migliaia di incognite!”
Hyunjin gli si avvicinò e lo prese quindi per le spalle: “Hai ragione, è un rischio, ma abbiamo alternative? Smettiamo di arrovellarci e, visto che la mia, per essere modesti, è un’ottima idea, mettiamoci al lavoro.”
Seungmin non era mai stato bravo a fare i conti con l’agitazione e lo stress, si passò una mano sul viso – quella meccanica, purtroppo, rischiando di cavarsi un occhio – e, con ben poca decisione, annuì in risposta al biondo.
Hyunjin sospirò e, con forse fin troppo impaccio, si sporse verso di lui per avvolgere il suo busto in un nauseatissimo abbraccio: “E dai… Non eri tu quello che voleva farsi chiamare ‘Pugno d’Acciaio’, il terribile guerriero umanoide che non ha pietà per nessuno?”
Tanto per non fargli mancare nulla, picchiettò dolcemente con visibile imbarazzo la sua schiena – lo aveva imparato da Jeongin – con tanto di tiratissimo sorriso di convenienza. A Seungmin, comunque, parve bastare. Non ricambiò l’abbraccio, ma chiuse gli occhi per un momento e si appoggiò a lui. Fece dondolare leggermente la protesi, come se stesse valutando il suo colpo di genio, e, infine, borbottò con un lungo sospiro: “Metteremo a ferro e fuoco quell’orribile tempio…
 
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Lee Minji, ben più volitiva del riflessivo figlio, accolse in fretta la proposta dell’ibrido. Non aveva modi altrettanto rapidi per mettere in atto il contrattacco e, se affidarsi al genio di un ragazzetto di origine elfica era la loro unica speranza, allora lo avrebbe lasciato fare. Lei stessa quella notte lo accompagnò nei vasti laboratori della Casa e gli permise di giocherellare con ognuno degli arnesi e dei materiali in essi custoditi. Seungmin ed un piccolissimo plotone di guardie li seguivano e, quando l’ibrido finì di raccogliere ogni singolo pezzo che aveva in programma di assemblare, come ordine dato dalla madre, uscirono velocemente da palazzo e si addentrarono nella città, fino a giungere alla periferia, nella quale erano radunati i profughi. Per ognuno dei piccoli accampamenti fecero scegliere un solo rappresentante e, dopo alcune ore, verso le quattro del mattino, li radunarono tutti in uno dei tendoni per chiedere aiuto spiegare loro l’azzardato piano. Seungmin specificò che chiunque li avesse aiutati avrebbe guadagnato sostentamenti economici per la ricostruzione della rispettiva Casa, la consigliera stessa lo aveva promesso. Ripeté più volte quanto sarebbe stato pericoloso, chi non se la fosse sentita non sarebbe stato perseguitato o additato, ma era importante che molti partecipassero all’azione in modo da renderla più rapida ed efficace. La loro forza sarebbe stato il numero, avevano giusto un giorno per prepararsi all’azione. Consegnò diversi cartigli su cui aveva annotato a penna in bella grafia gli incantesimi che sarebbero serviti loro per mettersi in contatto con lui, il primo, di Traccia, per identificare la traccia della propria magia mediante l’amplificatore, il secondo, di Dislocazione, per aggrapparsi alla scia e raggiungerlo.
Non aveva tempo per assicurarsi che lo seguissero davvero, cercava di mettere quanta più concitazione possibile nelle proprie parole per far comprendere loro quanto grave fosse la situazione, per prenderli di pancia e trascinarli in quella follia. Per ultimo, prese con sé un paio di giovani Filosofi affinché aiutassero Hyunjin con l’assemblaggio dell’amplificatore. Lo stesso ibrido glielo aveva chiesto, benché con un po’ di vergogna. Si era ripromesso in passato di portare a termine le proprie costruzioni da solo, ma in quel contesto aveva l’obbligo morale di mettere una museruola all’orgoglio ed agire per il bene della Nazione intera.
Mentre tornava indietro Seungmin si chiedeva come facesse l’amico a rimanere tanto lucido, lui a stento era riuscito a non far tremare la voce nel parlare con i suoi stessi confratelli.
 
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Nonostante la crescente inquietudine, le ore trascorsero fin troppo velocemente per i gusti di entrambi.
Hyunjin era stato chiuso in una saletta nascosta con i due Filosofi fino alla tarda sera del quattordicesimo giorno di settembre, non aveva praticamente toccato cibo né fatto pause di alcun tipo – e lo stesso trattamento lo avevano dovuto subire i suoi aiutanti, costretti a lavorare ai suoi assurdi ritmi. Seungmin non lo immaginava, ma potersi di nuovo mettere a giocherellare con i suoi amati cacciaviti e bulloni non era altro che la maniera più logica per lui di sublimare l’agitazione che aveva in corpo. In fondo l’idea era stata sua e la buona riuscita del piano dipendeva in primis da lui. Gingillarsi con cavi, attrezzi, lastre di metallo era più un passatempo che un lavoro a tempo pieno, ma solo perché lo faceva per se stesso, al massimo per la propria piccola cittadina, questa era invece la prima volta che creava qualcosa per, letteralmente, tutti coloro che lo avevano rifiutato quando lui era appena neonato.
Seungmin gli avrebbe volentieri dato una mano, ma trascorse le ore rimanenti prima dell’attacco a meditare, ricercando nella sua testa quella traccia che Hyunjin dava per scontato sarebbe stato in grado di registrare. Con l’ansia alle stelle, però, nemmeno riusciva a concentrarsi sui propri pensieri. Quando la madre, all’ora stabilita, lo venne a chiamare dovette attardarsi un attimo in bagno, colto da un improvviso senso di forte nausea che gli stringeva lo stomaco.
“Ci sei riuscito?” a trovare la frequenza giusta, intendeva la madre, la frequenza di quella debole vibrazione che lo spirito provocava nell’aria quando veniva manipolato.
Seungmin avrebbe voluto avere almeno la forza di mentire, di dirle di sì, avrebbe voluto mostrarle quella grinta per cui lei lo aveva elogiato al suo rocambolesco avvento a corte, invece non poté fare altro che ammettere il proprio indicibile fallimento. Per la seconda volta accettò un abbraccio – prima che la madre si trasformasse di nuovo nell’arcigna consigliera si assicurò di inspirare il suo odore, molto probabilmente non ne avrebbe più avuto la possibilità per diversi anni conoscendola – e si trattenne appena dallo scoppiare in un pianto nervoso. Lee Minji indugiò per qualche secondo sul capo del figlio, per poi abbandonare la propria mano ad un’ampia carezza fino alla schiena del ragazzo che ora, tremolante, cercava istintivamente il suo grembo nonostante lei a lungo lo avesse rifiutato. Non era il momento adatto, però, per chiedergli perdono. Gli sollevò il mento, fece in modo che la guardasse e mormorò ancora: “Hyunjin ti aspetta in cima alla torre nord. Prendi una sciarpa, fai in fretta.”
Lo aiutò a rimettersi in piedi e lo guardò uscire in corridoio, per poi schizzare verso l’ala nord del palazzo e dirigersi verso le scale che l’avrebbero portato fin sulla torre, e pensò che fosse più forte di quanto non avesse immaginato quando lo aveva abbandonato in quella Casa sperduta nell’Est.
Seungmin corse a perdifiato su per la rampa scoscesa, era di certo il nervosismo quello che snocciolava uno dopo l’altro ogni erto gradino, fino a condurlo da Hyunjin che, solo, pallidissimo, lo attendeva con il meraviglioso strumento che aveva progettato, una sorta di grossa tuba con una bocca enorme che dava sulla città ed una pesante base metallica per tenerla in piedi. Il biondo gli sorrise tirato: “Oh, eccoti…”
Seungmin non ricambiò il sorriso, scosse semplicemente il capo, come ad annunciare anche a lui la propria sconfitta. Con Hyunjin era più difficile, lui per primo aveva dubitato del suo piano ed ora stava andando in frantumi per colpa sua, non di qualche errore di calcolo dell’ibrido.
Hyunjin, dal canto suo, conosceva Seungmin bene abbastanza per capire che gli serviva forse solamente una spinta in più. Gli fece cenno di venire verso di lui e di sederglisi accanto, proprio dietro al macchinario. Il castano lo assecondò e, stringendosi nella sciarpa che sua madre gli aveva impacciatamente attorcigliato alla gola, non riuscì a fare altro che mormorare un lento: “Mi dispiace…”
“Perché?” Hyunjin si voltò verso di lui con espressione stremata, aveva anche lasciato da parte il suo sorrisetto sfrontato “Nah, scherzavo, non mi interessa. Piuttosto, dimmi un po’…”
L’ibrido sollevò lo sguardo al cielo ed indicò tutta la volta celeste con un vago gesto di una mano: “Dimmi un po’, quale stella ti piace di più?”
Seungmin esplose in una risata strozzata, carica di tensione: “Ma non ero io l’addetto alle domande strane tra noi due?”
“E non ero io quello cinico che deve smontartele tutte le volte?” Hyunjin gli diede un leggero schiaffo dietro la nuca “Rispondi e basta, dai…”
Seungmin sbuffò e, dopo qualche secondo, indicò una delle stelle più sfavillanti: “Quella…?”
“Ma sei convinto oppure no?!” lo rimbeccò il biondo.
Seungmin sporse allora meglio la mano – quella superstite – e indicò meglio la stella: “Sì, sì, quella! Quella luminosa!”
Hyunjin incrociò le braccia al petto e lo fissò malamente per un paio di secondi, per poi constatare: “Bene allora, prendiamo quella. Quella stella è mio fratello, lo sai? E adesso ti sta guardando e… E tifa per te, Seungmin. Tifa per noi che ce l’abbiamo fatta. Lui ha avuto la morte da eroe che non voleva e non si aspettava, ma noi, adesso, possiamo vivere anche per lui. Ci stai?”
Hyunjin, chiaramente, non era bravo con i discorsi motivazionali – e dire che, questa volta, si era anche preparato... – ma riuscì a finire, nemmeno lui seppe come, in bellezza: “Avevi detto che avremmo messo quel dannato tempio a ferro e fuoco, no?”
Scivolò di fronte a lui e prese una delle sue mani nelle proprie: “E allora fallo, Testa di Latta!”
Seungmin sgranò gli occhi, erano giorni che il biondo non lo chiamava in quel modo: “Testa di Latta a chi, scusa?!”
Hyunjin gli aveva afferrato una mano anche quando erano al tempio, appena prima che i Filosofi della Capitale tentassero di ucciderli, se lo ricordò in quel momento e, riuscendo solo a pensare: “Adesso ti faccio vedere che cosa sa fare questa Testa di Latta!”, chiuse gli occhi, ricambiò la stretta e, di getto, liberò la mente. Forse non era così sano, ma ciò da cui traeva la sua forza era lo spirito di competizione, quello che inizialmente provava nei confronti di Changbin ed ora dello stesso Hyunjin che, al posto di tanti bei gesti, aveva capito di doverlo semplicemente provocare. Avrebbe dovuto migliorare, non poteva continuare a vivere solamente perché sentiva il bisogno di dimostrare qualcosa agli altri, ma per un’ultima volta sarebbe andato bene. Si chiuse in se stesso, recitò il testo del primo incantesimo nella sua testa e, dopo un paio di tentativi, cominciò a scorgere al proprio interno quella nera presenza che per ore e ore aveva giocato a nascondino tra i pensieri che avevano offuscato la sua mente. Vi si gettò in mezzo, tossicchiò a causa della consistenza fumosa, per un momento se ne sentì soffocato, ma niente lo avrebbe atterrito maggiormente del viso deluso di Hyunjin che, quasi sicuramente – o forse no – avrebbe cominciato ad etichettarlo come Rifiuto Arrugginito.
Chiuse la traccia dentro di sé, la registrò nella memoria, sperò che bastasse per risalire alle giuste coordinate e, senza nemmeno avvertire Hyunjin che stava per cominciare, si lanciò in un sogno lucido. Scandì ad alta voce le parole dell’incantesimo e si lasciò invadere dalla debole scia della magia con cui lo avevano soggiogato, chiuse gli occhi che davano sul mondo e spalancò lo sguardo del mago che in lui, spesso sopito, dimorava. Fu come risalire una spessa fune a mani nude, forse gli striminziti muscoli che l’abitudine di sollevare tomi in biblioteca gli aveva miracolosamente concesso non erano l’ideale per issarsi velocemente, ma con una buona dose di fatica – e l’aiuto del braccio meccanico – giunse infine, in un sospirato riecheggio dell’anima, fino alla spaventosa anticamera del tempio. Sperò con tutto il cuore di leggere nelle animule lì in attesa con lui uno sguardo amico, complice, di ricevere un segnale che gli dimostrasse che non era solo tra le nutrite schiere dei Filosofi della Capitale, ma ad attenderlo vi era solamente il medesimo inesorabile incedere che lo avrebbe spinto a capo basso fino all’entrata vera e propria. Non poteva negare che gli mancasse Hyunjin, ma portarlo con sé sarebbe significato costringerlo ad un suicidio quasi certo, anche perché, appena entrato all’interno del tempio, molti dei suoi stessi confratelli lo riconobbero come uno dei traditori che aveva osato spiare, appena qualche giorno prima, la preghiera di Eiiui.
Gli furono addosso in un secondo, probabilmente avevano previsto che avrebbe tentato nuovamente di intrufolarsi nel loro covo di torbida giada. Seungmin tentò di contrattaccare, sua madre gli aveva spiegato le basi della difesa personale in quegli ultimi giorni, ma già faticava con un solo avversario, dieci Filosofi non ci avrebbero messo poi molto a sovrastarlo. Non si lasciò sfuggire l’occasione di sfoggiare l’arto metallico, lo spinse con prepotenza contro il viso degli avversari mentre gridava per farsi forza con tono che, almeno nelle sue remote intenzioni, avrebbe dovuto essere minaccioso: “Io sono Pugno d’Acciaio, nessuno di voi potrà battermi!”
Era l’unica maniera per costringersi a rialzarsi pur sotto gli incessanti colpi degli avversari, sebbene con il respiro mozzato a causa delle botte che riceveva sulla schiena, sebbene già sanguinante e con lo stomaco attorcigliato: “Io… Io sono Pugno d’Acciaio!”
Ed era il solo modo in cui i suoi alleati lo avrebbero distinto dalla massa informe di tuniche viola infervorate.
“Io… Io… Io sono… Pungo d’Acciaio…”
“Abbiamo capito, Seungmin! Non riesci nemmeno a tenere testa per cinque minuti a dieci topini di biblioteca?! Potevi aspettarci fuori!”
Il castano si sarebbe aspettato un salvataggio in extremis da parte di vecchi Filosofi temprati dal rigido clima delle montagne del Nord, o di nerboruti uomini provenienti dal caldo Sud, non di certo che ad aprire il fastoso corteo ci fossero proprio i ragazzi che lo avevano soccorso dopo l’incendio della Casa, con Mok, inutile a dirlo, in prima fila che, forte della sconsiderazione tipica dei suoi quindici anni, già pregustava il momento in cui si sarebbe gettato nella mischia. Dietro di lui, una schiera infinita di bellicosi Filosofi di tutte le età, uomini, donne, ragazzi pronti a prendersi la loro vendetta verso tutti quei confratelli che avevano distrutto senza motivo apparente la loro Casa. Era giunto il momento di riscatto per tutti loro e, senza esitare, avevano accolto la proposta di quel giovane novizio che li invitava ad insorgere verso quei capi che li avevano ingannati. Dalla parte opposta, i quattro Saggi ed i loro seguaci, i ‘topini di biblioteca’, che già si preparavano alla carica. Erano stati presi di sorpresa quando, inizialmente, erano loro che avevano intenzione di tendere una trappola a tutta la corte, ma non era una situazione disperata, bastava stringere i ranghi, serrare i denti, sgranchire le mani e preparare gli incantesimi. Da quel momento in poi tutto ciò che Seungmin vide fu il caos più totale. Aveva assistito ad uno spaccato di guerra quando la sua Casa aveva ceduto sotto la potenza dell’incendio, ma quello che stava accadendo era peggio sotto molti aspetti. Non possedevano insegne, non c’era modo di distinguere un amico da un nemico. Aveva sempre pensato che, nonostante le diverse inclinazioni e specializzazioni delle varie Case, potessero definirsi tutti confratelli. Quel particolare violetto che li contraddistingueva dalle tonalità bluastre dei soldati e dal rosso sangue dei Sacerdoti avrebbe dovuto unirli sotto l’unico obiettivo di perseguire un progresso attivo, invece che dividerli perché alcuni di loro avevano preferito un altro dio oltre la Scienza del Conoscere. Era una battaglia di ideali, i suoi compagni che si gettavano contro le spesse pareti con riti e magie, gli altri che, professando il culto dell’omicidio, scagliavano malefici alle loro spalle per abbatterli come pedine. Polvere nero-verdastra si intrufolava tra le palpebre e graffiava gli occhi, per poi appiccicarsi alla gola e rendere ogni respiro un’infima tortura. Molti, tra cui Seungmin stesso, ripresosi, cominciarono a contrattaccare, prima direttamente con pugni, calci, lanciando oggetti, preziosi ed antichissimi libri che, nel tripudio della follia, apparivano solamente ormai come orpelli di cui disfarsi. Qualcuno, per primo, lanciò un rito alchemico. Ancora una volta esplose una fiammata che divorò decine di volti, amici e nemici, scrostò i dipinti sulla volta e migliaia di frammenti di calce ed intonaco piovvero dal soffitto, investendo altre tuniche. Forse una di essi apparteneva ad uno dei quattro boriosi Saggi, ma ormai non importava più. Nel fuoco era iniziata ogni sventura, nel fuoco, allo stesso modo, Seungmin l’avrebbe fatta terminare. Saggi, novizi, Filosofi, tutti i traditori dovevano assaggiare il sapore del dolore che lui aveva provato perdendo il proprio braccio, la stessa pena che avevano inflitto a Hyunjin strappandogli brutalmente suo fratello, l’angoscia che teneva svegli da giorni entrambi e tutti coloro che in quel momento combattevano con lui quella tremenda guerra civile. Se inizialmente il loro proposito era giustificabile, ora, in quel groviglio immenso di braccia, ginocchia, gole tagliate, tutti parevano piegarsi all’unica divinità che mai avrebbero pensato di servire, l’Insania, la Pazzia, la Paura. Tre volti dello stesso mostro che incombeva su tutti loro e, con il rombo acuto del suo verso, faceva tremare le pareti. Si nutriva del fuoco, lo vomitava sul soffitto e lo faceva sciogliere come ghiaccio al sole. Le pareti si spaccavano sotto l’ordine della disperazione, l’altare cadeva in pezzi, il meraviglioso ritratto di Eiiui crollava sconfitto tra le ceneri dell’impero che i suoi seguaci non erano riusciti a difendere nel momento più delicato.
Nessuna lucciola sarebbe riuscita a portare in tempo a Felix la notizia di quel disastro, nessun messaggero lo avrebbe raggiunto. La folle realtà con cui avrebbe riscritto il futuro sarebbe stata distrutta a momenti. Non restavano Felicità, né Speranza, né Gioia o Misericordia, tutto il mondo si sarebbe piegato alla dolcezza della crudeltà perché, per primo, un dio aveva osato tradire gli uomini. Seungmin, i Filosofi, chiunque fosse sopravvissuto avrebbe continuato la propria vita un po’ cresciuto, disilluso, portando sulla pelle i segni indelebili della lunga notte in cui l’uomo aveva scelto di voltare finalmente le spalle a Madre e Padre che dimoravano in Cielo, lo stesso Cielo che splendeva azzurro di lacrime di commozione oltre le fiamme, intriso della veritiera luce delle stelle.
 
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Tutto ciò che vide Seungmin prima di rinvenire furono quelle stelle, e le stesse stelle splendevano placide imponendosi, leggiadre, tra le ultime luci del giorno quando riaprì gli occhi e si ritrovò tra le braccia di Hyunjin.
“Hai dormito un giorno intero…”
Probabilmente Hyunjin gli disse tante altre cose, captò a distanza – e non seppe dire in seguito se fosse un sogno o meno – un labile ‘Sei il mio migliore amico’, ma non gli diede l’importanza che avrebbe meritato. Aveva aperto gli occhi alla tragedia, era stato causa di quella tragedia e, anche lui, ora, aveva le mani sporche di sangue. La tragedia, infine, gli venne incontro e cominciò a cullarlo come stava facendo Hyunjin in quel momento. Solo allora si rese davvero conto di essere vivo, di poter respirare, parlare, muoversi, gli era stata lasciata la possibilità di esistere e d’ora in poi l’avrebbe sfruttata. Scoppiò in lacrime, nemmeno sapeva se avesse vinto o meno, si abbandonò al dramma del suo benvenuto dell’età adulta e, tra un paio di singhiozzi, per la prima volta osò tornare se stesso e, così, realizzare: “Hyunjin, ma… Ma io ho davvero un braccio di metallo…”

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Questo è il terzultimo capitolo :)

 
-moganoix

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Capitolo 21
*** ventunesimo ***


Changbin non la smetteva più di strillare.
Subito dopo aver ucciso Felix aveva subito il forte contraccolpo derivante dall’essere stato sotto il suo controllo. Esattamente come era successo a Chan nella città dei tre soldati morti, nel suo cuore ora non albergavano altro che confusione, stress, ansia, come se avesse appena superato una situazione particolarmente drammatica. In fondo era esattamente così, aveva perso la sua migliore amica per colpa del ragazzo che credeva di amare.
Una settimana più tardi, Chan glielo domandò: “Che cosa provi ora nei confronti di Felix?”
Il moro aveva scosso lentamente il capo e, con quel sentimento di vivida vergogna con cui aveva preso a rivolgersi al soldato, aveva chiesto un momento soltanto per pensarci. Una settimana era troppo poco per elaborare lo shock, sebbene ne fossero capitate di cose in quei giorni.
Subito dopo aver posto fine all’eruzione vulcanica sia il novizio che la guardia avevano trascorso diversi minuti, forse ore, a fissare il vuoto lasciato tra loro dalla solare presenza del semidio. Necessitavano di tempo per realizzare tutto ciò che era accaduto in quei pochi minuti, e solo più tardi, a pomeriggio inoltrato, quando già avevano faticosamente intrapreso il percorso in discesa, uno dei due scoppiò in lacrime, per essere poi seguito a ruota dall’altro. Era l’unico modo che possedevano per essere vicini l’uno all’altro e poco importava che non andassero d’accordo; reduci entrambi da una perdita che aveva straziato loro il cuore, necessitavano di una spalla su cui fare affidamento. Changbin gridava a squarciagola, gridava anche per dare voce alle urla di Chan che, sopraffatto dai singhiozzi, non riusciva a disincastrarle dalla sua stessa gola. Non si parlarono, quel disperato ‘Te l’ho ammazzato’ che il moro aveva vomitato a mo’ di scusa riecheggiava infausto tra loro. Changbin aveva ucciso Felix perché lo aveva ingannato, non perché doveva essere fatto; Chan sperava che lo uccidesse perché quello era lo scopo della missione, ma voleva che rimanesse in vita in nome del sentimento che a lui lo legava.
Dopo qualche giorno di lenta cavalcata – Changbin era ferito gravemente, ma non vi erano villaggi abbastanza vicini a cui domandare aiuto – finalmente la fortuna girò a loro favore. Da palazzo un giovane domatore di Draghi li stava raggiungendo in volo con due dei suoi migliori esemplari, uno su cui avrebbero volato lui ed il novizio e l’altro apposta per Chan. Disse di chiamarsi Yunho, e presentò in seguito anche i draghi. In quattro giorni e mezzo di volo furono alla Capitale e, una volta a terra, spedirono entrambi in infermeria per curare le rispettive ferite. Se a Chan sarebbe bastato solo un po’ di riposo e, magari, qualche bacca importata dall’Isola Dormiente per riuscire a prendere sonno senza imbattersi in spiacevoli incubi, per Changbin la convalescenza si prospettava decisamente più lunga e faticosa. Fu una fortuna che Hyunjin, venuto a sapere del suo ritorno, spodestasse in un secondo i boriosi dottori di corte e si offrisse con provvidenziale arroganza di curarlo personalmente. Fu meno lieto invece di rivedere colui con cui l’ibrido aveva stretto amicizia.
“Oh, quindi ha perso un braccio.”
“Ma ne ho guadagnato uno cui posso staccarti la lingua in un secondo, Binnie.”
Certo, Changbin non andava d’accordo nemmeno con Seungmin, ma ritornare a quegli scambi di infantili battutacce lo faceva sentire un po’ di più a casa propria. Dopo essere tornati alla Capitale diversi Filosofi lo avevano accolto e gli avevano specificatamente spiegato, passo dopo passo, con estrema cautela, tutto ciò che era successo mentre lui si stava addentrando nella secca pianura dell’Est. Aveva così compreso che cosa gli aveva rivelato Chan quando era giunto in volo sul Cratere dell’Anima, e proprio il soldato, assieme a Hyunjin, gli confermò ancora la morte di Jeongin. Messa da parte la gelosia, dopo qualche giorno riuscì anche ad avvicinare Seungmin.
“Sembri molto indaffarato…” gli fece notare quando l’altro, un freddo pomeriggio, si addentrò timidamente nella stanzetta dalle pareti bianco asettico che gli avevano assegnato all’interno dell’ambulatorio.
“Non te l’hanno detto?” Seungmin continuava a guardare uno strano apparecchio ticchettante che aveva legato al polso, un regalo di Hyunjin “Il Re ci ha proposto di anticipare il diploma, ad entrambi intendo. Ha consultato vari Saggi superstiti e, vedendo i nostri voti ed il modo in cui abbiamo gestito tutta questa… beh, tutta questa faccenda, ha scelto di dare a tutti noi una ricompensa. Hyunjin è stato riammesso in città, non sarà più considerato un esiliato, al soldato che ti accompagnava sono state restituite le insegne, mentre a noi due permetteranno di diventare finalmente Filosofi a tutti gli effetti. Sono indaffarato perché la cerimonia sarà tra pochissimi giorni e--”
Changbin lo interruppe con una domanda appena sussurrata: “Tu che cos’hai fatto?”
Il castano si accigliò, infastidito che l’altro non l’avesse lasciato portare a termine il discorso: “Io? Per la Nazione intendi? Beh, sono riuscito, con alcuni incantesimi, ad intrufolarmi nel covo dei Filosofi e, con l’aiuto di molti dei profughi nella mia stessa situazione, l’ho distrutto in modo da debellare la loro organizzazione. I confratelli della Capitale si era trasformati in dei fanatici, avresti dovuto veder--”
“Io non mi diplomo.”
“La pianti di interrompermi?!” brontolò stizzito Seungmin “E che cosa significa che non ti diplomi?”
“Significa che tu meriti di diplomarti, io invece non ancora. Tutto ciò che ho fatto è stato lasciare che Felix mi abbindolasse, nemmeno lo avrei davvero ucciso se il Cantastorie non fosse intervenuto. A proposito, lo hanno trovato? Mi hanno detto che sia lui che il suo drago sono spariti.”
Changbin era totalmente in pace con se stesso nell’affermare che non sarebbe ancora diventato Filosofo a tutti gli effetti. Aveva tanto di se stesso da migliorare, tanto ancora da imparare, e di certo non avrebbe bruciato le tappe. Quella, in fondo, non era la sua carriera, ma la sua vocazione, ed aveva intenzione di sfruttare appieno ogni giorno che gli rimaneva per studiare il mondo di cui faceva parte. In quei giorni era giunto ad una conclusione, se voleva sentirsi parte integrante di quest’ultimo allora gli sarebbe toccato inglobarlo dentro di sé. Avrebbe viaggiato da solo, vissuto da nomade eremita per un po’, permettendosi di lavorare sulla propria introspezione. Quando lo disse all’altro novizio lo vide sbiancare, sollevò quindi un braccio e gli diede una pacca su una spalla: “Tu sei stato bravo, Seungmin. Corri a finire i preparativi, verrò a vedere la cerimonia.”
Volle sapere più nel dettaglio che cosa fosse successo il quindicesimo giorno di settembre, toccò allora a Seungmin prendere coraggio ed aprirsi anche con lui. Gli narrò di come avesse salvato la Nazione dagli intrighi dei quattro Saggi e, allo stesso tempo, di quanto si fosse sentito svuotato in quel momento. In quell’istante aveva dimenticato che la magia non potesse essere utilizzata per fare del male, e così avevano fatto anche i suoi alleati. In quell’eterna quindicesima giornata di settembre, l’intero Ordine dei Filosofi aveva ceduto sotto il greve peso dei suoi stessi ideali e, schiacciato dall’umana necessità di non perire per mano fraterna, alla fine era stato privato della sua stessa anima. Serviva una rinascita, e il Re desiderava che essa partisse proprio dai due novizi, entrambi simboli di arguzia e forza di volontà.
Changbin, quando il confratello gli riportò queste parole, si mise a ridere: “Sono stato pugnalato, mangiato e plagiato solo per diventare simbolo di arguzia e forza di volontà?”
“Lascia perdere” concordò, per una volta, Seungmin gettando in aria con espressione visibilmente annoiata il braccio metallico per stiracchiarsi “Se alla mia cerimonia oserà fare un discorso tanto pieno di inutile retorica giuro che prendo il diploma e riparto seduta stante per l’Est.”
“Pensavo che avresti seguito Hyunjin, non vuole ricostruire Tillvah?”
Hyunjin e Seungmin avevano ben altro in mente. Forti dell’aiuto reciproco dei confratelli del secondo e dei concittadini superstiti del primo, già dal momento stesso in cui Seungmin aveva rotto l’incantesimo, quando ancora si trovavano sulla torre, entrambi avvolti dalla lunga sciarpa del novizio, avevano preso in considerazione l’idea di ricostruire un’unica cittadella in cui unire entrambi i gruppi. Tutto ciò, ovviamente, Changbin non poteva saperlo, o avrebbe certamente insistito per mettersi in mezzo e fare tutto come gli pareva. Alla sua domanda, quindi, Seungmin si limitò a scrollare le spalle e a fare un gesto vago con una mano: “Vedrò. Comunque ci penso io a dire a mia madre che tu rifiuti il diploma. Meglio per me in fondo, sarò finalmente al centro dell’attenzione.”
Changbin alzò gli occhi al cielo: “Ed ecco che ricominci… Non potevi rimanere simpatico ancora per quei trenta secondi che ti servono per salutarmi?”
Seungmin, con un sorrisetto furbastro, gli mostrò il pugno metallico: “Non provocarmi, adesso ce l’ho io il coltello dalla parte del manico.”
 
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Per ultimo, il giorno prima della cerimonia, si prese un po’ di tempo per parlare con Chan. Non era la prima volta che succedeva, la guardia si era assunta la responsabilità di riferirgli come sul Cratere, mentre Felix, completamente fuori controllo, infieriva su di lui con il pugnale, in un attimo il Cantastorie, che aveva lasciato morente assieme a Miss Binnie, fosse piombato su di lui con la Tarantola per porre fine a quella pazzia. Ora invece aveva paura di ciò che si sarebbero detti, chiacchierare con Seungmin non gli aveva provocato lo stesso visibile disagio, forse perché non odiava il castano, mentre sarebbe stato scorretto non ammettere di aver provato profondo risentimento nei confronti della guardia in alcuni momenti. Quando il biondo si sedette rigidamente accanto al letto su cui riposava poté avvertire la sua pelle sfrigolare a causa dello stesso tipo di ansia. Certamente, sarebbe stata una conversazione breve. Chan non amava discorrere e lui non era in vena di tergiversare in frivole inutilità. Fu un dialogo sospeso, quasi surreale, quello che venne a crearsi, forse perché, per la prima volta, evitarono di prendersi in giro a vicenda o di linciarsi con gli occhi.
“Come stai?”
“Un po’ acciaccato, ho preso il raffreddore a forza di viaggiare sotto la pioggia. Tu?”
“Faccio fatica a respirare con tutte queste bende, ma sono stato davvero tanto fortunato.”
Erano seguiti attimi di lungo silenzio, un muro di palpabile imbarazzo stava per tornare a dividerli, ma furono veloci, questa volta, a scavalcarlo con mirabile destrezza. Changbin non aveva mai potuto assistere a opere teatrali o allo spettacolo di qualche aedo itinerante, non era molto aggiornato sull’universo mondano della sua contemporaneità, ma gli era capitato per puro caso di sfogliare libriccini che narravano struggenti storie d’amore nelle quali, dopo la rottura del primo fidanzamento, uno dei due amanti suggeriva all’altro: “Ricominciamo.”
“Ricominciamo” sussurrò anche lui a Chan – non in senso romantico, sia chiaro – e si stupì quando il soldato gli rispose di sì.
“Io sono Seo Changbin, provengo dal Sud.” pronunciò allora il moro senza sorridere né arrossire, come avrebbero fatto invece le protagoniste di quei raccontini “Sono un novizio e presto terminerò il mio ciclo di studi per diventare Filosofo”
“Io sono Bang Chan, anche io vengo dal Sud.” il biondo si avvicinò allora a lui e piegò solo leggermente gli angoli delle labbra verso l’alto “Faccio parte della Guardia Reale scelta a protezione dei sovrani. O, almeno, ne faccio parte ufficialmente solo da pochi giorni. Ho commesso un grave sbaglio durante il mio periodo di apprendistato e ho intrapreso il viaggio con te per ordine dei miei superiori. Volevano assicurarsi che fossi davvero degno di militare nella loro squadra. Sono stato in carcere per qualche mese prima di raggiungerti alla tua Casa.”
Chan non aveva mai raccontato tutto ciò a Changbin, e forse nemmeno a Felix nonostante fosse disposto ad aprirgli il cuore. Ancora non si fidava, ora invece era consapevole che sarebbe stato inutile fingere ancora di fronte al novizio. Su quel Cratere si erano messi a nudo uno di fronte all’altro, esattamente come aveva fatto Hyunjin per primo di fronte a Seungmin nel raccontargli di suo fratello ed il castano nello scoprire, ed accettare, i propri difetti e le imperfezioni di tutto ciò in cui aveva sempre creduto. Anche loro avevano bisogno di una rinascita, e potevano ottenerla solamente riponendo fiducia uno nell’altro.
“Che cosa farai una volta che ti sarai ripreso?”
“Voglio tornare a viaggiare, per questo ho rifiutato il diploma anticipato. Da Filosofo non avrei avuto tutta la libertà di cui ho bisogno in questo momento. E tu, Chan?”
“Ho un amico al Nord, vorrei raggiungerlo il prima possibile. Credo che partirò la prossima primavera, ad inizio marzo. Non posso prendermi subito una licenza appena ammesso nell’Ordine! Non che in fondo mi dispiaccia, preferirei evitare di trascorrere un altro inverno tra i ghiacciai…”
Fu allora che, inaspettata, giunse quella domanda che raggelò completamente la tiepida atmosfera: “Changbin, che cosa provi ora nei confronti di Felix?”
Changbin raggelò, abbassò lo sguardo, gli parve di rispondere dopo millenni di acute riflessioni. Voleva trovare una scusa per giustificarsi, ma alla fine fu sincero e diede voce al cuore: “Vuoto. Nulla. Non sento assolutamente nulla.”
L’amore che aveva provato per il semidio non era che il frutto malsano di un vile incantesimo che lo avrebbe portato alla morte. Ma morte e amore non erano, in fondo, due facce della stessa medaglia? L’unico con cui aveva osato ragionarci era proprio Felix e, per la bontà della sua indagine, il suo buon senso da scienziato gli imponeva di non ritenere più affidabili le conclusioni a cui erano giunti insieme. L’amore era quello che provava Chan, che a differenza sua soffriva visibilmente per la perdita del loro compagno di viaggio, lo stesso amore che lo aveva reso invidioso e, allo stesso modo, lo aveva distrutto nel momento in cui il novizio gli aveva annunciato la sua morte con quel tragico ‘Te l’ho ammazzato!’. Si domandò se, allora, il vero viso dell’amore non fosse altro che l’invidia. Lui, comunque, dopo che la magia era stata infranta, non sentiva di certo né l’uno né l’altra.

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Penultimo capitolo :))
-moganoix

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Capitolo 22
*** ventiduesimo ***


Asfissia.
Asfissia fu il suo primo pensiero: un puro, spontaneo, semplice desiderio di respirare che si infrangeva contro quel sapore terroso che gli inondava la bocca e le narici. Cercava di comprendere in quale strano luogo si trovasse, ma più spalancava gli occhi e meno sembrava riuscire a vederci. Secondo dopo secondo, il desiderio di prendere aria aumentava, si faceva più subdolo, gli stringeva i polmoni in una morsa tanto dolorosa da fargli scoppiare il petto. Tentò allora di muovere le braccia e le gambe – da qualche parte sarebbe pur andato se si fosse sforzato, pensò – e si dimenò con tutta la forza che i suoi muscoli riuscivano a cacciare fuori. Qualcosa gli feriva le dita, il palmo delle mani, qualcosa di duro e spigoloso gli colpì un avambraccio e comprese che dovesse trattarsi di un sasso. Si domandò se, dunque, si trovasse sotto terra, ma gli fu difficile rispondersi senza porsi altre impossibili questioni.
Come aveva fatto ad addormentarsi sotto terra?
Lo avevano sepolto vivo?
Da quanto si trovava lì sotto?
Forse si trovava in missione – era pur sempre una Guardia Reale, gli capitava spesso di viaggiare – e una frana lo aveva travolto. Aveva quindi perso la memoria? Forse sì, forse no. Propendeva per il no. Ricordava perfettamente ciò che era successo appena prima di addormentarsi. Era in ricognizione con due compagni, tali Hajoon e Jihyun, e, durante la notte, si erano imbattuti in un folto branco di lupi. Se in seguito si era messo a dormire significava che dovevano averli sconfitti.
A corto di ossigeno, cominciò a sferrare pugni verso l’alto e a dimenarsi con violenza. Fece forza sui reni e, con un secco colpo, tirò su le ginocchia. Nonostante la fatica, però, sentiva già la coscienza venir meno. Desiderava solamente respirare, arrivare in superficie per prendere un po’ d’aria per dare ristoro ai polmoni, per poi rimettersi a dormire lì sotto, se qualcuno desiderava che lo facesse. Prima che svenisse di nuovo, però, assistette ad uno strano fenomeno. Non si seppe spiegare perché, ma decine di insetti, vermi, addirittura alcune talpe, cominciarono a circondarlo e a salire e strisciare fin sopra di lui per scavare al posto suo. Ne riconobbe il viscido passo, dunque era davvero sottoterra.
In poco tempo gli animali scavarono una galleria verso l’alto larga abbastanza affinché passasse un po’ di quell’aria che tanto gli mancava. Gettò il viso verso la galleria ed inspirò a lungo più volte, senza lamentarsi dei sassolini che ogni tanto gli scivolavano sul viso e gli rigavano le guance.
Luce.
Dopo che si rifocillò di aria, si accorse di non essere molto lontano dalla superfice, vedeva, chiarissima, la luce del sole attutita da spesse nuvole che promettevano pioggia a catinelle. Era strano che fosse nuvoloso ad agosto, forse quell’anno la stagione delle piogge aveva anticipato. Infilò le braccia nello stretto cunicolo. Non arrivava fino in cima, anzi, mancavano ancora diversi centimetri prima di riuscire a tastare il terreno in superfice, ma evidentemente qualcuno lo sentì. Diversi cani, tutti insieme, cominciarono a mugolare mentre continuavano il lavoro degli insetti e delle talpe, tanto che ben presto il cunicolo fu abbastanza comodo da potervisi issare. Prese lo slancio, ebbe quasi la sensazione che la terra stessa lo aiutasse a prendere la rincorsa, tanto che balzò fuori in un attimo.
Fu costretto a chiudere gli occhi. Doveva aver dormito veramente a lungo; sebbene molto debole, la poca luce gli ghermiva rabbiosamente gli occhi color pece. Li strofinò leggermente con i dorsi delle mani e si accartocciò su se stesso. Si sentiva incredibilmente nudo. Era agosto, a quanto ricordava, i vestiti da guardia, il mantello e lo spallaccio con la testa di lupo in particolare, non avrebbero dovuto essere tanto comodi. Respirò ancora, si massaggiò il viso con le mani e, solamente dopo diversi secondi, si convinse a spalancare di nuovo le palpebre. Lo accolse un astruso spettacolo: un folto capannello di gente lo osservava con espressione generalmente sconcertata, mezzo affranta mezzo turbata, e borbottava tra sé e sé apparentemente indicandolo con indici accusatori. Si allarmò per un secondo, forse quegli individui lo avevano sepolto vivo come punizione? Allora doveva aver sicuramente perso la memoria. Indicò se stesso con immane dispiacere, non voleva recar alcun disturbo a quelle persone. Smise anche di accarezzare i cani e le talpe che, nel mentre, si erano accoccolati, docili e mansueti, ai suoi piedi.
Si accorse dopo qualche secondo che dietro di sé, meravigliosamente imponente, stava la carcassa di un vecchio albero dal tronco maestoso. Sebbene fosse evidentemente secco, qualcosa del legno lo attirava morbosamente.
“Ha ucciso l’albero della Fonte… Ma chi è?!” sentì mormorare qualcuno tra la folla nello stesso istante in cui appoggiò la propria mano sulla rigida corteccia dai toni ormai grigiastri.
‘L’ho ucciso? Ecco perché non sembro stare loro molto simpatico…’ ragionò il ragazzo. Ma forse poteva rimediare. Lasciò una lunga carezza sul tronco, sorrise appena nel vederlo di colpo rifiorire. Il legno, dalle radici sino ai rami più alti, riacquistò per magia il tono caldo del tipico marroncino estivo e, come se fosse ancora primavera, gemme e poi fiori di color pastello sbucavano naturalmente tre le fronde già verdi e rigogliose. Era un miracolo – un contadino fece cadere il poderoso tridente con cui aveva intenzione di colpire il ragazzo dai capelli corvini che la terra aveva appena vomitato – e la guardia non era così sicura di essere sempre stata in grado di compierne. Forse aveva davvero perso la memoria, ma non era chissà che problema. Aveva un villaggio intero disposto a raccontargli ciò che si era perso. Sorrise all’albero, lo accarezzò ancora e lo ringraziò di aver recuperato la sua nobile vitalità, per poi voltarsi quindi verso i paesani e domandare con voce ancora roca ed impastata: “Oggi è il diciottesimo giorno di agosto, vero? Per quanto tempo ho dormito?”
Molti ebbero timore di lui, molti si inginocchiarono, una sola donna, seguita probabilmente dal marito e dal figlio piccolo, osò rispondergli: “Tu eri uno dei nuovi compagni di mio figlio, Hajoon… Tu… Tu eri morto…”
 
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Il giorno in cui si risvegliò, dunque, era il quindicesimo del mese di settembre. Era convinto che niente, a parte l’apprendere di essere morto e di essere poi stato riportato in vita, avrebbe potuto sconvolgere maggiormente quella giornata. Ebbene, siccome – è una sorta di legge non scritta – le sfortune non giungono mai da sole, la sera del giorno seguente, mentre ancora riposava a casa del suo, ancora, defunto compagno d’armi – la madre aveva tanto insistito ed egli non se l’era sentita di rifiutare – trovò un grosso drago dorato a volteggiare al di sopra del proprio tetto. Di certo aveva già creato un profondo sconvolgimento all’interno del tranquillo vivacchiare della cittadina, molti vecchi non avevano retto il colpo di veder risorgere un morto e, colti da improvvisi malori, avevano intasato ambulatori ed infermerie, non poteva addirittura attirare un enorme lucertolone soltanto la sera seguente. Sospirando si mise gli stivali e, stringendosi nella camicia da notte che gli avevano prestato, scese dal letto e corse in strada per cacciarlo via.
‘Santo cielo, ascoltami!’ lamentò internamente il giovane, ma il drago, a differenza di altri piccoli animali con  cui aveva interagito nelle ultime ore, pareva indifferente ai suoi ordini. Sospirando, allora, si recò verso la grande piazza su cui stava l’albero a cui aveva ridato vita e chiese al rettile di seguirlo, in modo che non atterrasse in pieno centro abitato. Quando il drago fu a terra si precipitò verso di esso per accarezzarne il muso solenne. Lo sentì addirittura ridacchiare quando gli fece anche i grattini tra le rigide scaglie e ripulì rapidamente i suoi lunghi baffi da quelli che sembrano a tutti gli effetti resti di lava rappresa. Si teneva una zampa, una di quelle anteriori, la sinistra, probabilmente era ferito, per questo lo aveva cercato e voleva a tutti i costi comunicare con lui. Era ciò che di più naturale potesse scegliere di fare, in fondo. Se qualcuno necessitava di aiuto lui non si sarebbe posto problemi a soccorrerlo, era per questo che aveva deciso di entrare nel corpo delle Guardie. Dopo i convenevoli corse allora verso la zampa che pareva dolergli tanto, ma quando fu accanto ad essa comprese che non era quest’ultima a necessitare di cure, bensì il piccolo uomo dal volto incartapecorito che essa stringeva quasi morbosamente. Chiese allora al drago di appoggiare il corpo dell’uomo al suolo e, solo in quell’istante, si rese conto che si trattava dell’anziano Cantastorie. Vivendo a palazzo aveva avuto l’occasione di incrociarlo un paio di volte, questo lo ricordava bene, era impossibile dimenticarne la ricurva schiena che, un tempo aveva pensato, chissà quali misteri celava o era costretta a sostenere. Non aveva di certo una bella cera, parte del corpo era completamente ustionata – c’entrava forse la lava rappresa che incrostava le squame del drago? – ma non era il danno maggiore. Mise una mano sul suo cuore ed una sulla sua fronte e comprese. Era come se qualcosa dall’interno lo stesse letteralmente, con la lentezza di una saggia Tartaruga Purpurea, divorando, costringendolo ad uno stato di inesorabile e perpetua agonia. Forse aveva degli incubi, se ne dispiacque tanto che si chinò su di lui e pregò affinché cessassero. In seguito rigenerò la pelle bruciata e lasciò per ultima la parte più complessa. Poteva certamente interrompere momentaneamente il processo di autodistruzione, ma non bloccarlo totalmente. Prese in braccio il vecchio, pesava circa quanto un bel mazzafrusto di buona fattura, forse le spesse vesti che indossava servivano per celare il suo corpicino ossuto ed acciaccato, e lo condusse fin sotto l’albero in fiore. Si sedette ai suoi piedi, incuneandosi tra le spesse radici, e si tenne il vecchio in grembo. Era suo compito provare almeno a salvarlo, e non c’era altro modo di farlo se non restargli vicino e provare a conoscerlo. Il drago, a sua volta, si accucciò accanto a lui e si addormentò profondamente. Avvolti dal freddo accogliente delle notti di fine estate, sotto una fitta, leggerissima, pioggerellina che benediva la terra e lavava via il marcio di chi la abitava, una solitaria falena che recava ali bianche consacrate al coraggio si poggiò sulle labbra del giovane.
 
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Restarono in quella stessa posizione per giorni, il giovane dai capelli color pece ancora avvolto nella fradicia camicia da notte, il Cantastorie, il drago e la falena. Sembravano un quadretto famigliare, oppure un’iconica pietà da sigillare nella memoria e venerare con intimo riguardo. Era una scena estatica, a chiunque capitasse di passare lì davanti toccava inginocchiarsi, ringraziare, e quel punto il giovane sorrideva e lo congedava. Mercanti, cittadini, pellegrini appena di passaggio, ognuno di loro ammirava con mistica paura e sublime curiosità il respiro dell’anziano.
“L’ho legato al mio ciclo vitale, ma purtroppo non è che una soluzione temporanea…” sospirava però affranto il ragazzo. Doveva riportarlo alla Capitale, forse lì qualcuno sapeva che cosa gli fosse successo e lui avrebbe potuto curare quel male che voleva a tutti i costi portarlo alla morte. Una notte, così, scivolò rapidamente nella casa della signora che lo aveva ospitato la prima notte e recuperò i propri vestiti, per poi raggiungere nuovamente il Cantastorie ed il drago.
Partì in volo con loro e in poche ore raggiunse la fiera silhouette della grande città. Ne sorvolò in cerchio le alte residenze del centro, per poi passare oltre e giungere, finalmente, a palazzo. Volse lo sguardo al cielo, probabilmente mancava qualche decina di minuti a mezzogiorno. Chiese infine al gigantesco animale di planare in modo che potesse scendere a terra, lo ringraziò ancora e prese quindi con sé l’anziano.
In quella settimana aveva scoperto di poter fare innumerevoli miracoli che prima non sapeva di poter compiere, la pioggia sanava, il sole non distruggeva, ad ogni singolo passo che compieva la natura si svegliava e, vigorosa, verde di vita, sbocciava come a cucire un maestoso strascico erboso. Un corteo di sonnolenti uccelli, rondini, passeri, corvi, gazze, persino un’aquila, si univa al suo divino incedere, vari insetti si lanciavano in virtuose acrobazie aeree per annunciare la sua venuta. Infine gli stessi cavalli delle guardie, giunte per caricare contro lo spaventoso gruppo di intrusi, si piegarono alla sua regale, celeste possanza. Il giovane poggiò con la sua solita eterea delicatezza una mano sul legno del portone che lo avrebbe condotto nell’atrio principale e, non appena lo stesso legno se ne accorse, cominciò, emozionato, a rifiorire. Tornò indietro nel tempio, piegò le assi del gigantesco portone e le fuse finché non plasmò un grosso grumo ripieno di inestimabile vita, e da questo nacquero altre piante, fiori, e dai fiori vennero fuori falene, farfalle, morbide api. Intonarono un canto, lo stesso canto che fu il preludio dello sconcerto, del tormento, dell’era in cui a dominare non sarebbe stato altro che la Morte.
Sciami interi di falene piombarono nell’invaso principale del palazzo, dietro di loro una nera figura che procedeva spedita verso il centro del salone mentre dai suoi piedi nasceva tutto ciò che di vita era composto, che di vita si nutriva, che di vita si inebriava. Le persone all’interno del salone, agghindate al meglio per presenziare alla cerimonia di diploma di Seungmin, raggelate, fissavano l’intruso con timore reverenziale. Chan, Changbin, Hyunjin non facevano eccezione.
“Chi sei?” domandò uno dei tre.
Il ragazzo sollevò il greve sguardo sull’intera sala, si inchinò davanti a quello che sapeva essere il suo amato popolo, poggiò il corpo del Cantastorie a terra e, con tono fermo ed irreale, muovendo appena le labbra, scandì: “Io sono Lee Minho.”
Aria. Luce. Un respiro, un momento di buio, il battito d’ali di una bianca falena che sferzava l’aria con la sua onirica irrealtà.
“Io sono la Fonte della Felicità.”


FINE


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Fireflies giunge così al termine... più o meno. Il vero epilogo della storia di Changbin e Chan che accompagnano Felix al Cratere e di quella di Seungmin e Hyunjin che smantellano la setta dei Filosofi si trova nel capitolo 21, il senso del personaggio di Minho si troverà invece in una ff complementare a questa che penso di pubblicare ad aprile (l'ho già scritta, ma devo revisionarla prima di metterla online). Questa nuova ff si chiamerà Moths e avrà otto capitoli, i protagonisti saranno Minho e Jisung e tanti altri che non spoilero u_u
Nell'attesa penso che inserirò qui ancora un capitolo "bonus" in cui metterò di disegni che ho fatto di ognuno dei protagonisti, lì probabilmente dirò quando ho intenzione di pubblicare Moths :)
Inoltre, ringrazio chi ha letto, chi leggerà, chi ha recensito e chi recensirà. I vostri commenti sono davvero preziosi per me <3
-moganoix
 

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Capitolo 23
*** BONUS + sequel ***


Come promesso, droppo qui gli sketch che avevo fatto dei personaggi più importanti della storia (no, non assomigliano assolutamente agli skz perdonatemi ahah)


Partiamo da Felix, che qui era ancora in versione carina e coccolosa :)


Lo scemo del magico trio, Changbin


E qui invece lo sfigatello, Chan :(


Hyunjin, il mio prefe eheh



Rip Jeongin :(((


Seungmin, il mio personaggio prefe di tutta Fireflies (anche se l'ho disegnato male t.t)


Jisung (che comunque trovo più carino in versione nonnino)


E, ultimo ma non per importanza perchè è il mio bias, Minho :D (probabilmente l'unico che ci assomiglia almeno un po')


Questo è Felix alla fine della ff, quando sono tutti sul vulcano



E questa è per chi sperava nella ChanLix :)


IMPORTANTE:

Nell'ultimo capitolo della storia avevo accennato ad un sequel, Moths, che avrei pubblicato durante questo mese, anche se non avrei saputo quando di preciso. Ebbene, nonostante come storia mi soddisfi meno di Fireflies (e sia anche molto diversa da quest'ultima) ho deciso di pubblicarla verso la metà della prossima settimana. Mi farebbe molto piacere se la leggeste! Grazie in anticipo se lo farete :D

Questa sarà la sinossi:
"Minho, giunto finalmente al palazzo della Capitale in groppa al drago di Jisung e accompagnato dallo stesso Cantastorie morente, sembra adattarsi bene ai ritmi della corte, non gli piace farsi notare.
O, almeno, questo è quello che pensava Changbin prima di finire quasi ammazzato a causa della nuova Fonte della Felicità. Ha proprio l'impressione di avere un enorme deja vu..."

 
-moganoix

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